L’Apocalisse di Pirandello

Di Antonio Sichera.

Ma qual è la verità della vita, per questo Pirandello così cupo e travagliato? È ancora quella del ‘primo tempo’ della sua scrittura: è la verità del corpo. È il tradimento del corpo il vulnus ultimo del moderno e della sua arte immersa nel turbinio della pubblicazione e del rumore mediatico, ridotta ad una mera finzione.

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L’Apocalisse di Pirandello
Jacopo Palma il Giovane, I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1581-1582.  

L’Apocalisse di Pirandello

da Italianisti.it

Quello di Pirandello con l’Apocalisse è un lungo commercio che comincia sin dalle novelle giovanili. È chiaro infatti che l’agrigentino rimase sin dall’inizio molto colpito da questo testo biblico ad alto tasso simbolico, denso di figure e di miti. Il culmine di questo contatto pirandelliano con il libro di Giovanni viene certamente raggiunto con la scrittura di Suo marito, il terzo romanzo del Nostro, costruito integralmente su uno spartito apocalittico. Appoggiandosi ad alcuni passi decisivi dell’ultimo libro della Bibbia Pirandello esprime in maniera fascinosa il proprio giudizio sull’arte e sulla storia, in una cornice metafisica intrigante e per certi versi inquietante.

La predicazione apocalittica

Da più di trent’anni – se fissiamo come terminus a quo il 1989, anno dell’uscita dell’Officina segreta di Pirandello di Umberto Artioli è ormai venuto alla luce in maniera sempre più chiara il costante, strutturale commercio pirandelliano con la Bibbia e con la grande letteratura giudaico-cristiana. È impossibile qui ripercorrerne le tappe. Quel che ci interessa rilevare in questa sede è che all’appello dei testi biblici compulsati dall’agrigentino non manca l’Apocalisse, il libro che secondo il canone dei cristiani chiude il Nuovo Testamento e dunque la Bibbia nel suo complesso. Si tratta di una frequentazione antica, di cui vale la pena far riemergere almeno due episodi.

Il primo è quello della novella del 1905 – Allegri! – ripubblicata nel 1928 con un altro titolo, Guardando una stampa, in una versione chiaramente depotenziata e per certi versi quasi disinvestita dall’autore rispetto al testo uscito di più di vent’anni prima. Si tratta di un racconto dalla lingua fiorita, con una patina arcaizzante, ad alto tasso di letterarietà, nel quale alla difficoltà linguistica si abbina una non lieve asperità ermeneutica, a motivo della singolarità della storia. Mettendo da parte ogni intento di analisi puntuale, fissiamo qualche paletto. Diciamo intanto che in Allegri! – un testo il cui titolo è certamente debitore nei confronti della parola rivelativa pronunciata, l’anno prima, dall’uomo ubriaco nei riguardi di Mattia Pascal/Adriano Meis durante la ‘notte degli incontri’, a Roma («Allegro!»), parola di cui il Mattia risorto si ricorderà – [in Allegri!] si racconta la storia di tre mendicanti (Brogio, il Rosso e Marco), di cui due ciechi (Brogio e Marco) e uno zoppo (il Rosso, in verità zoppo per finta o forse ormai per abitudine), che si avventurano in cerca di elemosine nei borghi del loro territorio pieni di villeggianti. Sono figure già di per sé di matrice biblica ed evangelica, se si pensa ai due ciechi di Gerico, che in Mt 20, 29-34 chiedono a Gesù la guarigione gridando in mezzo alla folla; all’insegnamento gesuano sulla guida reciproca, richiamato nella novella dalla scena in cui i due ciechi, abbandonati momentaneamente dall’unico vedente del gruppo, si prendono per mano e si fanno da scorta a vicenda («Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due nel fosso?», Lc 6, 39); all’abbinamento della cecità e della zoppìa (ciechi e zoppi sono destinatari privilegiati della liberazione di Jahvé in Isaia 35, 5-6: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo») e del banchetto escatologico in Lc 14, 20 («Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi»); senza dire che ciechi e zoppi sono parte integrate della folla che segue dovunque Gesù e che proprio la loro guarigione viene indicata ai discepoli di Giovanni Battista come segno dell’ identificazione messianica di Gesù in Lc 7, 22 («Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano»). A questa matrice evangelica si sovrappongono nel testo altri riferimenti letterari: Brogio e il Rosso sono per certi versi il Gatto e la Volpe di Collodi, che adescano Marco, un antifrastico Pinocchio-Cristo (sembra un «Cristo di cera», afferma il Rosso, indispettito tra l’altro perché Marco non vuole condividere in alcun modo il furto della gallina da lui perpetrato alla stregua della «volpe»), segno esplicito questo di una corretta, precoce lettura cristologica del Pinocchio da parte di Pirandello; né può sfuggire il riferimento al ciclo di Edipo, reso chiaro sia dalla ricerca di un bambino che accompagni Marco, sia dalla sua natura di cieco veggente affine a quella del Tiresia sofocleo.

E grazie al riferimento a Tiresia siamo giunti a uno snodo decisivo. Brogio e soprattutto il Rosso fanno di tutto per assoldare Marco – che si chiama Janni di cognome –, perché Marco è «il Poeta», un predicatore «capace di commuovere e d’atterrire con le sue visioni apocalittiche», fondate sulla conoscenza del «vangelo di san Giovanni» e sullo studio infantile della «bibbia», tanto da venir considerato dal Rosso quasi un «prete». Marco è insomma – dal cognome (Janni, su cui tra l’altro potrebbe agire una contaminazione con il «Giovanni detto Marco» di Atti 12, 22; 12, 25; 15, 37) al testo preferito (il quarto vangelo), dalle visioni (apocalittiche e da poietes) alla fama di ‘presbitero’ (tale era considerato il Giovanni di Patmos) – controfigura dell’autore dell’ultimo libro della Bibbia (almeno secondo la tradizione, ormai smentita dagli esegeti). Marco Janni è dunque un predicatore apocalittico. E che cosa annuncia ai villeggianti, icona consolidata delle donne e degli uomini moderni (si pensi ai villeggianti di Dal naso al cielo)? Marco annuncia loro la realtà della condizione moderna, dell’esistenza degli uomini caduti: «Tutti ciechi!» grida, «Tutti ciechi!». Che significa: tutti convinti dell’effettività delle cose per come appaiono ai sensi (le «apparenze», appunto), senza alcuna consapevolezza che l’autentico fondo del reale, quello che Marco chiama «verità» o «sostanza», ci sfugge irrimediabilmente, soprattutto di fronte al mistero grande della morte, espressione ultima del «vuoto» in cui siamo immersi («Siamo nel vuoto»). Ora, il contenuto del verbo di Marco Janni è (seppur con una forte carica eterodossa) chiaramente schopenhaueriano, di quello Schopenhauer che nel Mondo come volontà e rappresentazione rilegge la tradizione moderna, e Kant in particolar modo, sottraendo all’Erscheinung, al «fenomeno», ogni valore gnoseologico e riducendolo a pura «Apparenza», a un inganno dei sensi, a cui si contrappone la verità noumenica celata dietro il «velo di Maja»: e Marco è cieco per questo, per dire una inaccessibilità radicale e insanabile, diversa da quella in fin dei conti superabile, grazie al corpo, teorizzata dal suo ‘maestro’ Schopenhauer. Le immagini e il linguaggio della sua predicazione sono quelle dell’Apocalisse biblica. Come a dire: la nostra condizione moderna di caduti è apocalittica: «Il cavallo, il cavallo, – fece allora Marco, enfaticamente. Il cavallo della morte! Il cavallo di san Giovanni… Viene, galoppa, tremate…». Si tratta di un riferimento puntuale ad Apocalisse 6. È il passo in cui l’Agnello spezza i sette sigilli del Libro, dove è nascosto il senso della storia e dei suoi avvenimenti futuri. Ad ogni sigillo è legato un evento, simboleggiato dalla visione di un cavallo e di un cavaliere. I primi quattro annunziano sventura. Il quarto, in particolare: «Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: “Vieni”. Ed ecco mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno» (Ap 6, 7-8). È il cavallo di Marco, che in preda alla febbre (ovvero in una situazione favorevole alla visionarietà) svela al proprio uditorio e ai suoi due compagni il destino infero e mortale sospeso sui gaudenti della nova aetas. 

Il giudizio apocalittico 

Di lì a qualche anno, Pirandello tornerà sull’Apocalisse per rappresentare concretamente quel giudizio preconizzato nella novella. Lo farà nelle pagine di Suo marito, il controverso romanzo uscito nel 1911 per i tipi di Quattrini. Nell’incipit di Suo marito lo scrittore siciliano, con la sua ideale macchina da presa, zuma su uno dei personaggi secondari del libro, Attilio Raceni, effeminato organizzatore di eventi letterari, ripreso sulle strade di Roma, nel pieno di una protesta operaia, mentre si reca dalla sua compagna di imprese Dora Barmis:

Attilio Raceni s’avviò di fretta, contrariato. […] Ora ci voleva anche la canaglia che reclamava per le vie di Roma qualche nuovo diritto; e santo Dio, s’era d’aprile e faceva un tempo stupendo: il fervido tepore del primo sole inebriava! […] Nel dispetto rabbioso per tutta quella feccia dell’umanità che non voleva starsi quieta, sorse improvvisamente ad Attilio Raceni il proposito disperato di attraversare a furia di gomiti la piazza. […] Tutt’a un tratto, dal mezzo della piazza: – Pè pè pèèèè. / La tromba. Il primo squillo. […] D’improvviso, senza saper come, Attilio Raceni, soffocato, pesto, boccheggiante come un pesce, si ritrovò rimbalzato al Foro Traiano in mezzo alla folla fuggiasca e delirante. Gli sembrò che la Colonna vacillasse. […] Rimbombò tremenda nella piazza una scarica di fucili. E Attilio Raceni, tra la folla impazzita dal terrore, si trovò perduto in mezzo alla cavalleria sopravvenuta di corsa, chi sa donde, forse dalla Pilotta. […] Ah bestie, bestie, bestie, come si rizzavano trionfanti sulle zampe posteriori, urlando e annaspando, per ghermir l’offa dei ciarlatani! / Quell’immagine gli piacque, e si confortò alquanto. Ma quando guardandosi le mani… oh Dio, le carte che aveva prese con sé, uscendo di casa? La lista degli invitati… le adesioni? […] di coloro che avevano aderito o che si erano scusati di non poter partecipare al banchetto? […] Piaceva a Dora Barmis far sapere a tutti ch’era poverissima […] Attilio Raceni la trovò nel salottino […] – Povero Attilio! Povero Attilio! – gli disse, dopo aver tanto riso al racconto dell’ingrata avventura […]. Il banchetto? – poi disse. Ma proprio mentre i miei fratelli proletari reclamano… […] dalla via s’intesero gli squilli di parecchi giornalai: / – Terza edizione! Quattro morti e venti feritiiii!… Lo scontro con la truppaaa! L’assalto a Piazza Braschiii! L’eccidio di Piazza Navonaaa! / Attilio Raceni si staccò, pallido, dal bacio: – Sentite? Quattro morti… Ma perdio! non hanno proprio da fare costoro? E ci potevo essere anch’io là in mezzo…[1]

[1] Luigi Pirandello,, Suo marito, in Id., Tutti i romanzi, I, a cura di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1973, 589-603.

Roma messa in ginocchio dalle proteste proletarie assume qui i caratteri della Babilonia (ovvero la Roma imperiale) dell’Apocalisse giovannea. Si compie il giudizio sulla nuova Babilonia, su questo luogo di ingiustizia patente, nel quale la logica del primato dell’economico schiaccia la vita di tanti e rappresenta il vero ‘peccato’ del moderno imperante. La tromba che suona più volte richiama gli squilli delle sette trombe del Giudizio (Ap 8); la folla sterminata equivale alla «moltitudine immensa» di Ap 7, 9; il vacillare della Colonna Traiana rimanda al progressivo crollo di «Babilonia la grande» (Ap 17-18), con il relativo lessico bestiale; la cavalleria che attacca i manifestanti è l’erede degradata delle «truppe di cavalleria» di Ap 9, 13-19, che uccidono un terzo dell’umanità con fuoco, fumo e zolfo; il terrore della folla agli spari dei fucili richiama le grida di bestemmia degli uomini colpiti dalla quarta coppa dell’ira di Dio, che li brucia col fuoco (Ap 16, 8-9: è la scena richiamata da Marco Janni), mentre il sole inebriante potrebbe far pensare alla luce dell’Agnello (Ap 21, 23). Quel che è certo, e che colpisce profondamente il lettore, è che questa apocalisse rinnovata e degradata non presenta in nessun modo dei risvolti salvifici. La caduta di Babilonia nel libro di Giovanni era il compimento di un giudizio di salvezza per gli eletti e per quelli che da questo potere tremendo e senza scrupoli erano stati calpestati, violati, uccisi. Nell’apocalisse di Suo marito non c’è scampo e non c’è salus. La modernità mostra qui il proprio volto deietto e irredimibile. Il banchetto letterario organizzato da Dora e Attilio è la riproposizione antifrastica del banchetto escatologico, del banchetto finale, apocalittico, del banchetto dei salvati insomma. Si tratta infatti di un’eucaristia sfigurata, in cui la finzione moderna si manifesta al suo massimo grado. Non salvezza degli eletti ma estrema epiphaneia dell’inconsistenza del moderno e del suo folle sogno imperiale (non per nulla la sua sede è il Castello di Costantino, sepolcreto e non dimora regale), fuga insensata dalla verità della vita.

Ma qual è la verità della vita, per questo Pirandello così cupo e travagliato? È ancora quella del ‘primo tempo’ della sua scrittura: è la verità del corpo. È il tradimento del corpo il vulnus ultimo del moderno e della sua arte immersa nel turbinio della pubblicazione e del rumore mediatico, ridotta ad una mera finzione. Non si tratta però solo di una semplice riduzione alla fictio. C’è un livello ancora più profondo, e riguarda l’antagonismo – su cui si regge tutto il romanzo – tra il corpo dell’opera, il corpo spirituale dell’arte più fulgida, e il corpo di carne di Rirì, il figlio di Silvia e Giustino. Perché il corpo in spirito viva il corpo di carne deve morire. L’arte non può avere riguardi né rappresentare una via di redenzione per la consistenza materica e vitale dei corpi. Non può sottrarli alla morte e quindi li ignora, costruendo la propria vicenda a partire dalla loro estinzione, dal loro abbandono all’abisso del nulla. Per questo alla fine di Suo marito l’apocalisse ritorna:

– E ’l giudisi? Douva t’ l’as ’l giudisi, martuf? / Il bimbo, a cavalcioni sulle gambe di nonno Prever, lo guardava con occhioni intenti e ridenti, frenandosi: poi subito alzava una manina e si toccava la fronte. / – Bel e sì. / – L’è nen vera! – gli gridava allora il vecchione afferrandogli con le grosse mani e fingendo di volergli strappar la pancina: – T’ l’as anvece sì, sì, sì… E il bimbo, a questo scherzo tante volte ripetuto, si buttava via dalle risa. / La nonna, allo scatto di quelle fresche ingenue risa infantili, si voltava a guardare la riccioluta testina rovesciata del nipotino. Non rideva troppo? E c’era una maledetta mosca che ronzava, così urtante, malaugurosa, nella camera. [2]

[2] Luigi Pirandello, Suo marito, 830-831.

La corrispondenza di questo esordio con Apocalisse è minuziosa: all’inizio del settimo capitolo di Suo marito un «vecchione» annunzia l’avvento del giudizio, così come in Apocalisse, allo squillo della settima tromba, i «ventiquattro vegliardi» proclamano davanti al trono di Dio che «è giunta l’ora della tua ira, / il tempo di giudicare i morti» (Ap 11, 18). Ma non solo. Al centro del giudizio apocalittico c’è il sacrificio dell’Agnello, che cambia le sorti della storia e dona la vittoria ai giusti. Anche nel romanzo l’evento decisivo del «giudisi» sarà la fine di Rirì, l’innocente vittima sacrificale, l’agnello immolato di una storia che non verrà però mutata dalla sua morte. Sia Giustino che Silvia ne prescinderanno. Vittorino, pur annoverato nella schiera degli Ecce Homo (i segnali sono chiari: si pensi alla fronte, alla testina rovesciata quali spazi corporei del giudizio di morte), non provocherà lo scioglimento finale della visione di Patmos. Perché questo accadesse un padre, una madre avrebbero dovuto prendersi di Rirì, riconoscere in lui un principio di vita originario, ascoltare l’appello del corpo bambino al sentimento e alla relazione. Ma ciò che era accaduto nel mondo di Mattia Pascal, nel mondo dell’arte mirabile e angosciosa dei moderni appare ormai strutturalmente impossibile.

Antonio Sichera
Settembre 2021

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