Che noia i bei tempi che furono

Ritorniamo a riflettere a distanza di qualche mese sulle grandi polemiche che ha suscitato nel mondo della scuola il saggio di Paola Mastrocola e Luca Ridolfi, Il danno scolastico

Trovo francamente insopportabili alcuni passaggi del libro di Paola Mastrocola e Luca Ridolfi, Il danno scolastico, pubblicato qualche mese fa dalla casa editrice La nave di Teseo. Ad esempio quando gli autori – per brevità, non distinguo se l’uno o l’altro – tessono l’elogio sperticato del valore delle parafrasi (la trasposizione in prosa, nella lingua di oggi, di un antico testo poetico scritto nell’italiano che si usava qualche secolo fa): sembra proprio che la traduzione de L’Iliade curata da Vincenzo Monti nel 1810 sia insostituibile nel processo educativo degli studenti. Oppure quando se la prendono con l’istituzione nel 1962 della scuola media unica, una delle poche riforme di cui tutti possono andare fieri, e che invece Mastrocola e Ridolfi vedono come l’inizio dell’opera di demolizione del sistema scolastico italiano. Bontà loro che, quando si chiedono se la scuola degli anni ’60 fosse “classista”, rispondono: “Forse sì, almeno un po’”. Risulta in generale fastidioso lo straripante rimpianto per i bei tempi che furono. Dopo aver raccomandato nell’introduzione e nelle conclusioni che il libro non venga letto “come una proposta di ritorno alla scuola e all’università del passato” perché un simile orientamento sarebbe “stupido, inconcludente, e anche impossibile”, in realtà gli autori non riescono a nascondere una grande nostalgia per l’università degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso dove ancora si potevano incontrare veri Maestri e, ancor prima, per una scuola media che negli alunni generava come stati d’animo prevalenti “l’allerta permanente” per le interrogazioni e i controlli da parte del professore, assieme al “sentimento della vergogna” per qualche risposta clamorosamente sbagliata. Le tesi del libro possono essere raccolte in tre affermazioni. La prima denuncia il grave abbassamento degli standard dell’istruzione fatto registrare, secondo gli autori, dal sistema educativo italiano negli ultimi cinquant’anni attraverso una scuola facile e di bassa qualità. Si è cominciato con la scuola media unica. Poi è toccato alle superiori, a un esame di maturità “divenuto più facile di quanto mai fosse stato prima” e, sempre alla fine degli anni Sessanta, alla legge per cui “chiunque, qualsiasi diploma di scuola secondaria avesse ottenuto, poteva accedere a qualsiasi facoltà universitaria, anche lontanissima dagli studi fatti precedentemente”. All’università, per “fare un deciso passo avanti nell’opera di abbassamento del livello ci voleva qualcosa in più: un’idea, una riforma, un campione capace di imporre l’una e l’altra. L’idea, la riforma e il campione arrivarono tutti e tre insieme, come i tre moschettieri, alla fine degli anni Novanta. Si chiamavano: diritto al successo formativo, 3 + 2, Luigi Berlinguer”. In particolare, con l’idea del diritto al successo formativo, “si poneva una pietra tombale su un’idea che era stata centrale in tutta l’epoca della vecchia scuola (…) l’idea che lo studio fosse un dovere, e che la conquista del titolo non fosse un diritto, bensì la giusta ricompensa del dovere compiuto”. L’abbassamento del livello degli studi ha danneggiato i ceti popolari e rafforzato i privilegi dei ricchi. È la seconda tesi del libro: “Abbassare il livello culturale dello studio non è democratico, anzi, è il contrario: è il gesto più antidemocratico e classista! Favorisce i ricchi e i privilegiati, che possono non studiare”. Il modello matematico applicato ai dati Istat mostra, secondo Mastrocola e Ridolfi, che la scuola senza qualità è una macchina che genera disuguaglianza: “A parità di altre condizioni, una scuola indulgente e di bassa qualità riduce le chances di successo, ma soprattutto – qui sta il punto cruciale – una cattiva istruzione amplifica il vantaggio dei ceti alti nei confronti dei ceti bassi”. Infine, ecco l’individuazione di chi ha voluto o perlomeno permesso tutto questo: “È la cultura progressista che si è battuta per la democratizzazione della scuola; è la cultura progressista che ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come “diritto al successo formativo”; è la cultura progressista che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, o semplicemente erano contrari a rilasciare falsi attestati”. Sebbene il volume sia di piacevole lettura, presenta un’impostazione culturale quanto meno discutibile e, oltretutto, non fa riferimento mai all’insegnamento della matematica (salvo un fugace accenno al libro di Lucio Russo Segmenti e bastoncini). Tratta però problemi seri, snodi culturali su cui la scuola e la cultura progressista (per continuare a usare l’espressione che campeggia in copertina) dovrebbero posizionarsi, senza girarci troppo attorno e senza retorica. Ignorarli per il solo fatto che vengono rilanciati “da destra” non è una buona scelta. Prendiamo pure come punto di riferimento la scuola di qualche decennio fa. Quella di oggi ha dovuto cambiare perché è cambiata la società nella quale opera. Si è ampliata la platea cui la scuola si rivolge; è decaduto il ruolo di altre agenzie educative (gli oratori, le parrocchie, le associazioni giovanili legate ai partiti, il servizio militare per chi magari credeva nella sua utilità educativa). Alla scuola si chiede di più e altro rispetto a quanto succedeva cinquant’anni anni fa. C’è stata la rivoluzione digitale che ha accreditato l’idea che tutto sia facile e immediato; ci si può arrangiare da soli senza alcun periodo di apprendistato e di elaborazione personale e senza neppure bisogno dell’autorità di un intermediario come il professore. Di fronte a tutto questo, la scuola ha cercato di adeguarsi, sospinta proprio da quei professori e intellettuali progressisti con i quali se la prendono Mastrocola e Ridolfi. La loro azione, oltre a svecchiare il sistema educativo, lo ha anche ripulito da qualche atteggiamento imbarazzante e squalificante di troppo. È vero, ma non ha anche innescato un processo che è andato al di là delle intenzioni? Ecco qui di seguito alcune delle domande, a mio avviso cruciali, per le quali Prisma sarebbe lieta di ospitare contributi e risposte. Sono domande che hanno in comune il riconoscimento dell’importante stagione delle riforme, l’impressione che non siano state adeguatamente finanziate e che su di loro siano intervenute altre tendenze presenti nella società italiana e last but not least il suggerimento implicito che bisogna trovare un nuovo equilibrio. Non è il disastro di cui parla Il danno scolastico. Ma qualcosa bisogna fare. E con urgenza. Le riforme hanno preso atto che gli studenti sono cambiati e hanno giustamente sottolineato l’importanza dell’inclusione, della socializzazione, di una partecipazione attiva al percorso educativo soprattutto nei suoi primi anni. Ma in questo modo non hanno trascurato i contenuti? A scuola, naturalmente, si continua a insegnare italiano, matematica, scienze, storia ecc. ma sembra che inclusione e socializzazione siano gli obiettivi e l’istruzione semplicemente il mezzo per raggiungerli. L’insegnamento non è più questione di quel che si trasmette, ma anzitutto di come lo si fa. Si scopre allora che, per raggiungere i “nuovi” obiettivi, ci sono tanti modi diversi: le materie diventano tutte uguali tra di loro – non c’è più una gerarchia per cui qualcuna è più importante delle altre – e con ulteriore slittamento possono pure essere sostituite da altri canali formativi: i progetti, le attività extra scolastiche. È cambiata la centralità presente nella scuola e tornano in mente le ironiche parole che il sociologo inglese Frank Furedi dedicava in Che fine hanno fatto gli intellettuali ai musei trasformati in luoghi di aggregazione e di divertimento interattivo: una strepitosa caffetteria con un bel museo intorno! È stato giusto insistere sulla minore distanza che deve intercorrere tra vita reale e vita scolastica e sul fatto che lo studente non deve avvertire il tempo passato a scuola come del tutto separato rispetto alle proprie esperienze e al territorio in cui vive. Ma questo processo, nei suoi esiti meno controllati, non ha portato a trascurare l’obiettivo di inserire esperienze e soggettività in un quadro consapevole e via via più coerente? Non ha tolto importanza allo studio individuale? È banale ricordare che la scuola è “tante cose” ma anche e soprattutto studio? A scuola non si boccia più o, perlomeno, si boccia molto meno di quanto accadeva nel passato. La tendenza ha riguardato in modo particolare gli insegnanti di matematica, ai quali era “delegata” buona parte della selezione scolastica. Giusto o sbagliato che fosse. Sulla docimologia e i sistemi di valutazione si possono consultare biblioteche intere, così come esiste una serie sterminata di aneddoti da parte dei professori che ricordano come, durante gli scrutini, le loro insufficienze (anche gravi) vengano cambiate di segno da presidi preoccupati dai ricorsi dei genitori. Mi limito a chiedere: siamo contenti che “vadano avanti” anche i ragazzi che non se lo meritano, espressione svogliata e viziata delle classi sociali più pigre, responsabili in classe di un abbassamento della tensione educativa perché tanto sanno di poter contare, adesso e in futuro, su sostanziosi aiuti extrascolastici? Siamo contenti che la selezione sia affidata interamente al mondo del lavoro? Per promuovere tutti, la scuola deve risultare più facile e il facilismo non è un fenomeno solo scolastico: senza scomodare la parola austerità che a qualcuno fa venire l’orticaria, siamo contenti che nella mentalità collettiva instauratasi nella società italiana siano state oscurate parole ed espressioni quali studio, complessità dei problemi, valutazione dello sforzo fatto, riconoscimento della fatica? È importante continuare ad aumentare le percentuali delle ragazze e dei ragazzi che raggiungono il diploma di scuola media superiore. Ma non potremmo approfittare del fatto che siamo riusciti a “convincerli” a stare a scuola fino a 18 anni per sollecitare un loro maggior impegno? Di nuovo sui contenuti: perché rassegnarsi al fatto che l’ampliamento della platea comporti una diminuzione della qualità? Per certi versi, è inevitabile – e bisogna dirlo – ma per altri occorre introdurre dei correttivi che riescano a contenere il più possibile il prezzo che abbiamo deciso di pagare. Guardando al futuro, non al passato! Sempre Furedi ricorda che “nel periodo post bellico l’universalizzazione dell’accesso alle cure mediche attraverso l’istituzione del Servizio sanitario nazionale non ha significato trasformare l’ospedale in un centro di primo soccorso”! Una scuola che non sfrutta l’occasione di incontrare tutti i ragazzi (o quasi) fino a 18 anni è una scuola ingiusta. In una delle sue conferenze stampa, l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi sottolineava ad esempio che mandare o meno i ragazzi a scuola (in occasione della pandemia) era una questione di giustizia sociale. La scuola è importante: esaspera o diminuisce le disuguaglianze! I contenuti del nostro insegnamento hanno a che fare con la giustizia sociale.

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