Annoiarsi, annoiare

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Se proprio doveste scegliere tra un anno schifoso al lavoro o annoiarvi durante le vacanze, per cosa optereste? Peraltro, una delle ragioni che potrebbero rendere schifoso il tempo lavorativo è proprio essersi annoiati durante. Ma se sfogare pubblicamente il malumore della noia lavorativa è reso naturale dal carattere rivendicativo della lamentela (colpa del datore di lavoro, dei clienti, dello stato), la noia del tempo libero è una dolorosa ammissione intima e autocolpevolizzante, che si tende a non confessare. Eppure vorremmo che si annoiassero i nostri bambini. O meglio, mille volte abbiamo letto, annuendo con la testa, che il tourbillon di intrattenimenti tecnologici sta sottraendo alle ultime generazioni la capacità (o la possibilità) di annoiarsi, dalla quale ricaverebbero invece l’attitudine a intrattenersi da soli, irrobustendo lo spazio creativo. La tesi, in realtà, sarebbe aborrita da un intero filone della psicologia che, al contrario, nella noia intravede una paralisi della creatività; d’altronde se così non fosse dovremmo sorprenderci che gli inventori più fertili o gli artisti più prolifici non vengano da Alcatraz o San Quintino. E tuttavia una solida corrente psicoanalitica contrappone che la mente non è affatto abulica nel momento della noia, e che invece manifesta una forma di tensione ed eccitazione.

Per venire a capo dell’arcano, il primo scoglio è che la noia non è affatto semplice da definire. Partendo dal comune presupposto che, come minimo in un uomo adulto, si tratti di una cosa spiacevole, Bernanos ne dette una convincente descrizione in termini simbolici e percettivi: “È una specie di polvere. Andate e venite senza vederla, la respirate, la mangiate, la bevete, è così sottile, così tenue che sotto i denti non scricchiola nemmeno. Ma basta che vi fermiate un secondo, ecco che vi copre il viso, le mani. Dovete agitarvi continuamente per scuotere questa pioggia di cenere. Perciò il mondo s’agita molto”. Non ne ricaviamo però nulla sotto il profilo causale. Un piccolo passo avanti, in tal senso, lo compie Alberto Moravia: “Una forma di insufficienza della realtà” scrisse nel romanzo che ne portava il nome, ed è un buon punto di partenza; analogamente il sociologo Martin Doehleman la qualifica “una povertà di vissuto”. Resta tuttavia da disinnescare il rischio di fare riferimento a due malesseri differenti, e il miglior dissipatore dell’equivoco è stato Fernando Pessoa, distinguendo fra la noia e il tedio: noia significa non avere nulla da fare, tedio significa pensare che non valga la pena di fare nulla. Questa seconda forma di (in)sofferenza viene chiamata anche noia esistenziale (che con la formula “scontento esistenziale” Petrarca aveva già intuito, ed è la medesima “noia metafisica” di Jankelevitch) e consiste in un disaccordo profondo con la vita e con sé stessi, che può coincidere con lo spleen, la depressione o analoga deriva melanconica. Per lo più in questa sede vorrei occuparmi della prima forma, più pura e specifica, e cioè delle circostanze in cui, senza nessun apparente pregiudizio nichilista, una persona impegnata in un’attività sbadiglia reiteratamente o manifesta una metaforica discesa scrotale (cioè: che palle). Vedremo però che separarle totalmente può essere un’altra forma di errore.

Se ci sforziamo di ricostruire per categorie le situazioni che generano noia possiamo ricondurle a tre:

  1. Una sproporzione di tempo.
  2. Voler essere altrove, o fare altro.
  3. Un’assenza notevole di relazione con l’attività.

Quanto alla prima, ci annoia qualcosa che dura più di quanto troveremmo appropriato. In questi casi la noia s’insinua come rottura: il racconto che ci sta facendo una persona di una sua vicenda o un film che scorre sullo schermo, che magari ci parevano avvincenti, quando diventano prolissi, divaganti e ripetitivi ci trasportano nello stato mentale opposto.

Nella seconda la noia è pura frustrazione perché veniamo sottratti a quel che ci interesserebbe fare. Per lo studente che è atteso dall’innamorata gli ultimi minuti di lezione sono più noiosamente letali dell’ora e cinquanta che li ha preceduti, perché l’alternativa agognata è adesso alla portata. Ma non c’è bisogno che l’oggetto del desiderio sia dietro l’angolo, e neppure che esista materialmente. Ci si può annoiare del lavoro in ufficio perché si è convinti di possedere tutti i requisiti per esibirsi come cantante nei più grandi teatri d’opera, e la noia scaturire dal continuo confronto tra i piani diversi, la conclusione del dossier e l’applauso del loggione, la collega competitiva e l’Alceste votata al sacrificio amoroso.

Nella terza, semplicemente, ci sentiamo proiettati in un contesto che non ci appartiene – l’illetterato costretto ad attendere in una libreria o il bibliofilo maniacale sperso con lo zaino vuoto in mezzo alle distese di grano – o che ci appartiene in modo non gratificante – la catena di montaggio o il timbro d’inchiostro mille volte intinto nel tampone, il rimprovero genitoriale nell’età della contestazione o la marcia militare durante il periodo di leva, la fila all’ufficio postale o l’ennesima eguale spiegazione all’ennesima eguale lamentela dell’utente.

Tempo e frustrazione (congiunti nella specifica frustrazione di stare sprecando il proprio tempo) sono la costante di queste tre situazioni.

Sulla base di questa triplice casistica possiamo intanto spiegare come mai, anziché sopirsi in una calma piatta, la corteccia cerebrale, e più specificamente la formazione reticolare mesencefalica, sia attivissima durante la noia: giustamente lo psicologo Francesco Tiberi – autore 40 anni fa del dotto La spirale della noia – spiega che il cervello reagisce per polemica. Può trattarsi di una reazione a una forma di disagio (così la pensa Tiberi) o piuttosto rappresentare una tensione contemporaneamente distruttiva (basta, non ne posso più) ma ancor di più costruttiva (pensa se potessi stare a fare quest’altra cosa). Chi si annoia non si dimentica dell’orologio, come accadrebbe se fosse sopraffatto dall’inedia, ma lo consulta continuamente, perché ha in testa un progetto, fosse pure un work in progress che comincia con la liberazione dall’attività noiosa.

Si propone sovente un collegamento tra la noia e la ripetizione. Maupassant ne era ossessionato: dichiarò di aver lasciato Parigi per la noia che gli aveva procurato la Torre Eiffel la quale, oltre a sbucare nel cielo da ogni angolo della città, con le sue riproduzioni intasava le vetrine, “incubo inevitabile e straziante”.  Maupassant invidiava chi era capace di sopportare la monotonia della vita, coloro che “hanno la forza di manifestare ogni giorno gli stessi bisogni, con gli stessi gesti, intorno agli stessi mobili, sotto lo stesso cielo, per le stesse vie dove incontrano gli stessi personaggi e gli stessi animali. Fortunati quelli che non percepiscono con profondo disgusto che niente cambia, niente passa e tutto stanca” (ma qui sconfiniamo nel campo della noia esistenziale). Personalmente rimango stupito dalla refrattarietà alla noia dei moderni tennisti, il cui calendario agonistico è programmato in modo da riprodurre le medesime trasferte ogni anno nello stesso periodo, e a Nadal non viene a noia di vincere per quattordici volte lo stesso torneo (per giunta il tennis presenta un basso grado di varietà delle giocate).

Secondo Robert Nisbet la noia indotta dalla monotonia svolge un ruolo contro la malvagità. Il sociologo cita come esempio la caccia alle streghe, alla quale non si sarebbe abiurato per ragioni morali ma per noia, poiché “quando hai visto un rogo li hai visti tutti”. Anche nella ripetizione annoia la sproporzione del tempo: cambia solo il parametro, che non è la singola durata ma il numero di volte. Non di rado, tuttavia, pensare che qualcosa si stia ripetendo significa solo possedere limitata profondità o scarsa competenza, essere incapace di cogliere le differenze. La ripetizione, poi, porta sempre qualcosa di nuovo, cioè la ripetizione stessa. E infine, una buona vita consiste probabilmente nell’equilibrio tra l’accumulo di alcune esperienze diverse e il rassicurante ripetersi di altre, tendenzialmente le più significative. Semmai è vero che quando ci accostiamo con entusiasmo a qualcosa pregustandola come novità, scoprire che copia, replica o troppo somiglia al già sperimentato innesca frustrazione e precoce noia.

La noia ha un sicuro antenato nell’acedia della antichità (più nota biblicamente come accidia) che acquista una certa rilevanza con il cristianesimo monastico originario e l’assenza assoluta di stimoli provocata dal deserto (Cassiano fu il primo ad intuire che il lavoro manuale potesse curarla meglio dell’automortificazione della carne). Per quanto concerne la sua forma moderna, Lars Svendsen (l’autore di un’intrigante e ricca di citazioni Filosofia della noia) ne attribuisce la colpevole invenzione al romanticismo e a quel suo trasognato non sapere cosa volere, salvo una generica pienezza di vita. Più sovente, la noia viene qualificata un lusso che può permettersi chi ha i mezzi per divertirsi, e si annoia quando non ha modo di farlo, insomma un lascito dell’urbanizzazione (in realtà già Pascal supponeva un legame perverso tra noia e divertimento, però usava quest’ultimo termine nell’accezione assai ampia di tutto ciò che non era starsene da solo in una stanza). Però la noia non ha il suo contrario nel divertimento: rannicchiarsi nella trincea in attesa dell’imminente sfondamento nemico non è uno spasso ma è improbabile che il militare in attesa si annoi. Milan Kundera ha scritto che la noia si è moltiplicata da quando nessuno si identifica più con il suo mestiere, e la vera passione è semmai l’indifferenza verso il lavoro svolto: ciononostante, rimane difficile empatizzare con la “nevrosi domenicale” di cui ha scritto Ferenczi e che consiste nell’annoiarsi solo nei giorni festivi, forse per la proiezione regressiva nella propria infanzia, quando i sani impulsi infantili venivano repressi dai genitori (questa era l’opinione dello psicoanalista Otto Fenichel, che però scriveva nel 1934); forse, all’inverso, per la frustrante difficoltà nel far rivivere le condizioni di quell’epoca edenica; o forse proprio perché quell’essere umano, nella sua interezza, è stato sequestrato dallo scopo lavorativo. O infine, a causa di un’aspettativa così enorme da rimanere sempre insoddisfatta, come da traccia leopardiana. È possibile che l’obbligo sociale di divertirsi diventi troppo stressante per realizzarsi davvero; e che il crescente eccesso di offerta, nel campo dell’intrattenimento, abbia moltiplicato la vacuità del desiderio. Meno abbiamo il tempo di desiderare, più risulta evidente che il desiderio non è rivolto veramente a un oggetto, e il possesso dell’oggetto bramato coincide immediatamente con la noia (fino a che un nuovo desiderio non riattiva la spirale). La noia quindi non è matematicamente una sottrazione bensì un’addizione: desiderio di un oggetto più il suo possesso.

Una volta era di gran moda sostenere che certi atteggiamenti criminali fossero partoriti dalla noia. Perché negli anni novanta gli adolescenti cominciarono a tirare i sassi dai cavalcavia? Per noia, of course. La provincia è stata spesso accusata di stufare con la monotonia i suoi abitanti sino al punto di orientarli a forme distorte di compensazione. Il collegamento tra noia e violenza – benché conti sull’avallo di Sigmund Freud – mi è sempre parso una tesi bislacca, salvo che non lo rapportiamo alla difficoltà di dare un significato alla propria vita e il conseguente tedio esistenziale. Un analogo collegamento viene proposto con il tasso di suicidi, specie con riferimento all’Europa del Nord. Ma davvero la noia ammazza? Piuttosto finisce sempre per annoiarsi chi considera il tempo come qualcosa da ammazzare, cioè non sa cosa farsene e lo impiega nel modo intellettualmente più sbrigativo. Il tempo da riempire chiede di renderlo vivo, non di essere ammazzato.

Ci sono dei casi in cui dovremmo apprezzare la noia? Non esattamente, ma certo dovremmo essere disposti a farcene carico quando conduce a un risultato che ci è utile oppure prendiamo a cuore. Tutti gli apprendistati – si pensi al percorso per imparare una lingua straniera; o anche per formarsi seriamente un’opinione – richiedono applicazione metodica, la formula linguistica più gentile per definire la noia e più suggestiva per occultarla: essa genera anzi una sorta di agonismo della noia, al punto che finisce per trasformarsi in un divertimento, soprattutto per i temperamenti ossessivi

Anche a prescindere dall’ipotetica funzionalità, non essere in grado di reggere mai la noia è una serie menomazione. Tra l’altro, è difficile che in un qualsiasi fenomeno non sia possibile trovare un risvolto interessante, che abbia assonanza con un proprio interesse: Moravia, da critico cinematografico, escludeva di potersi annoiare. “Quando la trama è proprio brutta mi dico: vediamo come se le è cavata il regista”. La capacità di immaginazione consente poi brillanti trasfigurazioni della realtà che ci sta apparendo noiosa (e in effetti è in quella dote che i bambini sono maestri, ed è loro che dovremmo imitare); o in alternativa si può esasperare il dato reale sino a denudarlo in una contabilità: Ernst Junger, nell’ospedale di guerra, si affaccendava a enumerare le ferite riportate. Per quanto la noia sia legata ad aspettative, interessi e stati motivazionali personali, è difficile dire se sia sempre più deprimente vedere qualcuno che si annoia piuttosto che qualche altro che non si annoia, e anzi si diverte, con certi intrattenimenti beoti condivisi da milioni di persone.

Se ci spostiamo sul piano del tedio esistenziale, invece, chi ne viene assalito dovrebbe sentirsi di fronte a sé stesso in obbligo di cambiare qualcosa nella sua vita, o almeno scendere nelle profondità del malessere. Lo psicologo Tardieu ha scritto che in questi casi la noia è un segnale, che funziona in modo identico al dolore. Può accadere, al contrario, che costui scacci via la questione come una mosca fastidiosa, anche quando gliela pone (ad esempio) il partner che condivide quello stesso disagio, e che messo alle strette replichi (ribaltando la prospettiva): “Ma piantala con questi discorsi, che noia!”.

Non annoiarsi è una vicenda interiore che riguarda noi soli, non annoiare dovrebbe essere l’ottavo comandamento. Se nell’annoiarsi il cardine è in una sproporzione di tempo, nell’annoiare lo squilibrio più diffuso è una sproporzione dell’io. Chi annoia è incapace di secernere dalla ghiandola del suo vissuto ciò che è meritevole di esser messo in comune, ed erutta sul prossimo un magma narrativo indistinto, servendosi di lui come uno sfiatatoio. C’è però anche un annoiare che non è frutto di cattiva volontà: è che i pensieri tirano disordinatamente da tutte le parti o si atrofizzano nella lentezza dell’eloquio. L’ansia di annoiare è tipica del relatore, ed esiste una vasta schiera di manuali che dettano le regole per scampare questo rischio, spesso dando a loro volta cattivo esempio, e assicurano che chiunque possa diventare Cicerone (al quale pure, a un certo punto, scappava la mano). È vero che esiste una messe di espedienti retorici, posturali e linguistici estremamente efficaci per tenere viva l’attenzione altrui (è un tema che tratterò prossimamente), ma è già un grande passo avanti rendersi conto che il cuore di una lezione o una conferenza, la sua stessa finalità, non è l’oratore che la tratta ma sono i partecipanti che l’ascoltano, e impostare il discorso partendo da questa prospettiva: che, a pensarci, è un’ottima cornice di ogni etica della comunicazione, ma disgraziatamente anche il principio della sua manipolazione. La maggioranza delle persone considera ormai come normale che l’assenza di noia sia il discrimine, non solo dell’applauso a teatro, ma anche del voto elettorale, a prescindere dalla ragionevolezza dei contenuti. La ragione, in effetti, è quasi sempre noiosa; specularmente, Leopardi ha scritto che la noia è ragionevole, e coincide abitualmente con la verità.

In uno delle sue tante digressioni giocose, Kierkergaard sostiene che Dio stesso si annoiava, e solo questo lo indusse a popolare l’universo. E subito gliene vennero rogne, perché Adamo annoiandosi a sua volta pretese la creazione di Eva. La noia di Dio divenne la dotazione della vita umana, che Schopenhauer descrisse a sua volta “oscillante come un pendolo tra la noia e il dolore”. Nietzsche, in un raro impeto d’ottimismo, la considerò “bonaccia dell’anima”, almeno per le menti creative nelle pause d’intervallo. Una stanza piena di gente che si annoia si carica di una tensione superiore che se si stessero prendendo a botte. Ma una noia che ci assale in un contesto dove tutti paiono in preda alla letizia di galleggiare sopra la superficialità ci rende ancora più cupi, e smaniosi di esplodere gridando: “No, non ho detto gioia. Ma noia, noia, noia!”.

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Dalla democrazia di Atene a quella del web, un atto di accusa verso un regime politico che non riesce più a risollevarsi e mantenere le sue promesse. Una revisione radicale dei concetti di libertà, eguaglianza e giustizia, contro ogni ipocrisia, per salvare l’ideale della democrazia mediante una serie di soluzioni rivoluzionarie senza passare per la rivoluzione. Un tentativo di riconciliare i cittadini e gli stati (entrambi oggi assai lacunosi) nel segno di una nuova democrazia partecipativa responsabile.

Intervista audio

Di |2024-04-06T09:14:15+01:0022 Luglio 2022|4, Motori di ricerca interiore|

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