Il Gusto

La vita segreta delle galline (allevate senza crudeltà)

La vita segreta delle galline (allevate senza crudeltà)
Un caso virtuoso quello sull'azienda comasca Principe di Fino. Ed è uno degli episodi di un lungo racconto di un'Italia fatta di etica ambientale e attenzione al benessere animale
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E' un saggio, ma si legge come un romanzo, o meglio, come una raccolta di racconti. Storie di agricoltori e produttori grandi e piccoli dell'agroalimentare italiano, e del lavoro che fanno ogni giorno per produrre cibo nel rispetto dell’ambiente, dei lavoratori e degli animali. "Nati sostenibili: Storie dalla campagna italiana tra scienza e coscienza" (pp. 240 – 29,90 euro) è il volume pubblicato da Rizzoli con la collaborazione di Cortilia e curato da Sara Porro, che ha come co-autori i giornalisti gastronomici Giorgia Cannarella, Sonia Gioia e Luca Iaccarino, supportati dal divulgatore scientifico Ruggero Rollini. Le royalties saranno devolute alla Fondazione Umberto Veronesi. Di seguito uno dei capitoli del volume, scritto da Sara Porro.

L'intelligenza della gallina


"Come invecchiano le galline [...] sono in pochi a saperlo: l’industria sopprime le ovaiole in genere intorno all’anno d’età, mentre quelle di Principe di Fino arrivano ai quattro anni di vita: “Il mio veterinario dice che grazie a me si sta guadagnando una specializzazione in geriatria avicola” mi dice Diana, sorridendo. Nell’allevamento intensivo le galline ovaiole sono tra gli animali da reddito con la vita più miserevole: breve, abbiamo già detto, ma non è tutto. Fino a pochi anni fa, l’allevamento in batteria prevedeva di stipare le galline in gabbie grandi quanto un foglio A4, in capannoni dalle luci sempre accese per convincerle di trovarsi in un’estate infinita, così che non smettessero mai di produrre uova. Dal 1° gennaio 2012 l’allevamento in batteria è stato messo fuorilegge in tutta l’Unione Europea, ma la normativa consente di concentrare 13 galline per metro quadrato nelle gabbie. Non che le cose vadano molto meglio “a terra”, termine che molti marchi della GDO utilizzano in modo piuttosto spregiudicato, nemmeno indicasse chissà quale libertà. Invece le galline sono costrette in spazi estremamente ridotti, in una convivenza forzata con troppi esemplari che le rende aggressive: infatti la prassi è “debeccare” i pulcini delle galline ovaiole, così che non possano ferirsi a vicenda.

“Quando ho cominciato, tutti mi dicevano che le galline vanno d’accordo solo con quelle con cui sono cresciute, e che è impossibile inserire nuove galline in un pollaio. E invece queste sono le giovani, appena arrivate, e guarda” dice Diana indicandomi un gruppo di galline, sedute sugli scalini del pollaio come spettatori sugli spalti, pacificamente assorte nella contemplazione di una delle prime giornate tiepide della stagione.

 

Allevamento “a terra”, dunque, non vuol dire all’aperto. Ma la certificazione bio, almeno quella? “Insomma” mi spiega Diana. “Perché le uova possano essere biologiche, la legge prevede che le galline abbiano accesso a uno spazio esterno per un numero minimo di mesi all’anno. In molti però aggirano la questione: per i primi mesi le tengono chiuse nel pollaio – come è consentito – e poi aprono una porticina. Le galline però sono animali abitudinari, se non l’hanno mai fatto prima, a quel punto esiteranno ad avventurarsi fuori; e quindi vivranno tutta la vita rinchiuse, comunque". Cosa cambia in un allevamento estensivo? Per cominciare, il sapore dell’uovo. “L’uovo buono non ha odore d’uovo” esclama lapidaria Diana, e lì per lì non capisco cosa intenda; ma poi mi viene in mente che è la stessa cosa che si dice del pesce fresco: non deve avere odore di pesce. Chiaro, no? Dev’essere una di quelle cose, come gli attacchi di panico e gli orgasmi, che è difficile da descrivere ma molto facile da riconoscere; tant’è vero che nel giro di pochi anni queste uova sono passate dall’essere invendibili perché troppo costose all’attirare una domanda dieci volte superiore all’offerta. E adesso? “Adesso basta” mi dice Diana sorridendo. “Cioè: di progetti ne abbiamo tanti, ma non aggiungeremo altri pollai oltre ai due già previsti". 

Oggi l’allevamento di Principe di Fino occupa due ettari di terreno: al momento ci sono tre pollai, ciascuno con il suo giardino, altri due sono in costruzione: 2500 galline, che diventeranno 4500, su tre ettari e mezzo di campo. "È giusto così, per almeno due ragioni. La prima è che sono convinta che per lavorare con il nostro livello di attenzione sia indispensabile mantenere le piccole dimensioni. La seconda è che l’uovo è un ingrediente che va assolutamente acquistato da un produttore vicino a casa. Trovo assurdo il vezzo di alcuni grandi ristoranti di rifornirsi di uova dalla Francia. Piuttosto, vorrei creare un protocollo sulla base di tutto quello che abbiamo imparato in questi anni allevando le galline in modo così poco convenzionale, mettendo la conoscenza in comune con altri allevatori che vogliano intraprendere un percorso simile, senza essere costretti a ripetere tutte le prove e gli errori che abbiamo fatto nel nostro percorso. Un protocollo di lavoro che potrebbe diventare una certificazione di qualità delle uova e del benessere animale, utile per consolidare un mercato di persone disposte a spendere per un uovo due, tre volte tanto quello che costa in genere.” È un mercato, abbiamo visto, che esiste ed è in crescita. Tra i progetti per il prossimo futuro c’è produrre direttamente le galline ovaiole senza dover acquistare i pulcini, così da evitare la mutilazione del becco. Per farlo è tuttavia indispensabile disporre del macello, perché – è la statistica, baby – un uovo su due di quelli che si schiudono sarà un maschio, che Diana alleverà per la carne. Per rendere migliore, e meno cruenta, la vita degli animali che alleva è necessario portarsi, come dire, la morte in casa.

Come è spesso capitato nei miei incontri con gli allevatori durante le ricerche per questo libro, anche in questo caso percepisco la distanza tra quello che la media delle persone crede di sapere degli allevamenti e ciò che avviene realmente: come i vegetariani che chiedono uova “non fecondate”, per evitare di mangiare un embrione. Nessuna delle uova di Principe di Fino però lo è: nel pollaio ci sono solo femmine. “Il puntino di sangue che a volte si trova nelle uova non è l’embrione, ma un piccolo coagulo dovuto alla rottura dei capillari mentre l’uovo si forma dentro la gallina” mi spiega. Questo chiarimento basta a rasserenare molti acquirenti, che quindi – immagino – devono essere poco informati della strettissima parentela che lega uova e macellazione: nell’industria, la prassi è che alla schiusa i pulcini maschi vengano eliminati soffocandoli o triturandoli vivi.

Perché non allevarli per la carne? Perché le specie ovaiole sono state selezionate per la loro determinazione nel deporre uova – anche dieci volte superiore rispetto a una gallina selvatica – mentre i polli che mangiamo in genere appartengono a un’altra razza. Come mi ha raccontato Silvio Greco, biologo marino e docente di Controllo delle produzioni agroalimentari e di Sostenibilità ambientale presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, sono ibridi creati a partire dalla gallina Cornish, che ha il petto molto sviluppato: “In natura a un pollo servono sei mesi per arrivare a quella che consideriamo una taglia commerciale, troppi per l’industria. Così li stipiamo in capannoni con le luci artificiali sempre accese: il loro imprinting genetico li spinge a mangiare per tutte le ore di luce, e arrivano a pesare tre o quattro chili nel giro di 36 giorni, quando vengono macellati”.

Insomma, i pulcini maschi delle galline ovaiole sono inutili nella creazione, almeno in quella – un po’ distopica – degli allevamenti. Le alternative, per fortuna, esistono e, a dimostrazione del fatto che non bisogna eccedere con le nostalgie dell’arcadia, vengono da nuove tecnologie. Il procedimento si chiama in-ovo sexing: un test che consente di individuare il sesso dell’embrione nell’uovo. In Germania e in Francia il divieto di uccidere i pulcini maschi è già stato sancito da una legge che entrerà in vigore nel 2022. Nel nostro Paese, in attesa di una legislazione specifica, si è schierata in questa direzione Assoavi – che oggi, con circa 400 associati, è la principale organizzazione della filiera dell’uovo – e alcune catene di supermercati hanno annunciato che venderanno solo uova cruelty-free. La prima tecnologia, implementata dalla società olandese-tedesca Seleggt già nel 2018, misura un marcatore biologico che identifica il sesso dell’embrione attraverso un piccolo foro nel guscio dell’uovo nove giorni dopo la fecondazione. Un’altra azienda tedesca, Agri  Advanced Technologies (AAT), utilizza invece la spettroscopia per determinare – già a partire dal quarto giorno dopo la fecondazione – il sesso dell’uovo, esaminato tramite una scansione. La ricerca si è mossa in tale direzione per ragioni di benessere animale, ma incidentalmente la produzione diventa anche più sostenibile: visto che solo le uova che contengono embrioni femmina continuano a rimanere negli incubatori dopo il risultato del test, si dimezza il consumo energetico legato a questa fase della produzione (inoltre, immagino che pure il macchinario tritura-pulcini abbia un consumo energetico, ma preferisco non soffermarmi su questo).