Il Venerdì

Santo Stefano: come liberare un carcere

Una vista panoramica del Panopticon durante i lavori di restauro nell’ex carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano (Lara Gallina / Ansa)
Una vista panoramica del Panopticon durante i lavori di restauro nell’ex carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano (Lara Gallina / Ansa) 
Lo costruirono i Borboni sull'isola di fronte a Ventotene: vi fu recluso anche Pertini, e in tanti ci lasciarono la pelle. Chiuso dal 1965, ora finalmente diventerà altro. Siamo stati a vedere come vanno i lavori
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Santo Stefano (Ventotene). L'ex carcere borbonico di Santo Stefano è un monstrum, una cosa meravigliosa uscita dalla fantasia di un re reazionario e un architetto progressista. Uno strano sogno di fine Settecento, in cui si agitano pulsioni umanitarie e punitive, principi illuministi e sanfedisti, utilitarismo e neoclassicismo. Un luogo di bellezza spirituale, dove le idee apollinee di rieducazione e redenzione hanno fatto i conti con la brutalità dei fatti umani. Il carcere appare come un'allucinazione sulla cima di Santo Stefano, uno scoglio di neanche ventotto ettari che guarda l'isola di Ventotene. Nel 1795 Ferdinando IV di Borbone ne affidò il progetto a un discepolo di Vanvitelli, Francesco Carpi, che lo realizzò secondo i principi del carcere ideale appena teorizzati da Jeremy Bentham: una struttura circolare dove un solo sorvegliante, al centro, può vedere tutti i detenuti. È il Panopticon, metafora psicopoliziesca di un potere onnisciente, dove l'astensione dal male dovrebbe sorgere dalla consapevolezza di essere costantemente osservati. Algebra morale inglese, di cui Carpi fornisce un'interpretazione borbonica: un anfiteatro a matroneo la cui pianta ricalca quella del teatro San Carlo di Napoli; e al centro del palcoscenico, invece della torre di sorveglianza, una cappella: non un secondino, ma Dio osserva i detenuti. E da ogni parte, il mare.

Il carcere visto dall'alto: sullo sfondo l'isola di Ventotene (Lara Gallina / Ansa)
Il carcere visto dall'alto: sullo sfondo l'isola di Ventotene  

Tanti patrioti, un manifesto

Pensato come bagno penale per criminali irriducibili, Santo Stefano cominciò ben presto a ospitare dissidenti politici. La prima ondata dopo la rivoluzione napoletana del 1799, le ultime col fascismo. Fino alla chiusura nel 1965. Oggi, approdando sull'isola da uomini liberi, possiamo dire che questo è il carcere più bello del mondo, per quanto possa essere bello un luogo di detenzione. Del suo destino si è discusso per anni, finché, nel 2016, il governo Renzi ha stanziato 70 milioni di fondi europei per un progetto di restauro e valorizzazione. Nel 2020, con la nomina di Silvia Costa a commissario straordinario, il progetto è partito davvero, e ora Santo Stefano è popolata da operai. Ma non ci si limiterà a musealizzare il sito: le ricchezze di questo luogo pretendono di più. Chi le ascolta, entra in stato confusionale. Qui nidifica il falco pellegrino e transita il capodoglio. Qui giacciono, sul fondale violetto, cinque navi romane. Qui sono stati imprigionati i patrioti del Risorgimento Settembrini padre e figlio, Giuseppe Poerio e Silvio Spaventa; briganti leggendari come Fra Diavolo, Carmine Crocco e Giuseppe Musolino; il regicida anarchico Gaetano Bresci; comunisti e padri costituenti quali Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Umberto Terracini. E, nella cella numero 36, anche un futuro presidente della Repubblica: Sandro Pertini. Intanto, dalla dirimpettaia Ventotene, cellula madre e luogo di confino, usciva clandestinamente il testo fondativo dell'Unione europea, oggi noto come Manifesto di Ventotene. Da qui l'idea di rendere questo luogo un polo multifunzionale, con un centro di studi europei sulla pena e una stazione di pratica ambientale, delle residenze d'artista e un ostello della gioventù. La domesticazione dell'isola, naturalmente, presenta alcune difficoltà. Sbarcarvi è tra le più rilevanti. Con mari agitati l'approdo è tecnicamente impossibile, o pericoloso, perché Santo Stefano non ha un pontile. E una prateria di posidonia oceanica pone vincoli ecologici alla sua costruzione.

Oggi bisogna saltare, e poi sperare che all'ora del ritorno non ci sia libeccio. Apprendo con una certa delusione che no, non è mai capitato che qualcuno abbia dovuto passare la notte qui. Almeno, non a memoria di Salvatore. Lui è da trent'anni il custode in pectore di Santo Stefano, la conosce palmo a palmo, ne ha ricostruito la storia quando ancora non c'erano pubblicazioni in materia e l'ha raccontata a gruppetti di visitatori, conducendoli in luoghi che ora, per motivi di sicurezza, non sono più visitabili. Le sue competenze non si fermano alla storia. Per esempio, sa che la roccia grigio-azzurra su cui abbiamo saltato si chiama riolite. Che Santo Stefano è più fertile di Ventotene, perché non si è formata per colata piroplastica, ma dal deposito di soffice cenere. Qui la terra non smette mai di fruttare: lentisco e mirto in autunno, cipollotti selvatici a gennaio, narcisi a maggio, iris a giugno, in estate la ginestra e i fiori di cardo.

Quando il detenuto, scrive Settembrini, sale al carcere per la "stradetta erta e scabra", è tramortito da questa bellezza: "I campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non dovrà più rivedere". Gli ergastolani meno resistenti, a quel tempo, difficilmente sopravvivevano più di un anno.

Migliaia di uomini sono sepolti qui, ma nel piccolo cimitero sono rimasti solo trentanove nomi. E li abbiamo, questi nomi, solo perché all'inizio degli anni Settanta è capitato qui Luigi Veronelli, scrittore, gastronomo e anarchico che si è preso la briga di decifrare i cartigli ancora leggibili sulle croci e annotare la posizione delle tombe. Lo racconta il giornalista Pier Vittorio Buffa, che è riuscito a ricostruire alcune delle storie dei dimenticati che riposano qui (Non volevo morire così, Nutrimenti). L'ergastolano Giovanni D'Andrea, per esempio, si è suicidato il 18 giugno 1909 gettandosi dalla loggia dell'ultimo piano: era entrato nel 1901 per un crimine che non aveva commesso; i suoi accusatori, presi dai rimorsi, lo avevano poi scagionato, ma il ministero di Giustizia tardava a riaprire il processo. Tra le cause di morte più frequenti c'era il cosiddetto "Sant'Antonio": una coperta addosso e poi giù legnate fino alla fine. Così è morto Gaetano Bresci, "suicidato" dalle guardie nel 1901. Altre storie tristi si potrebbero raccontare. La maggior parte finisce con un inventario - tot calze, tot mutande, una foto, 29 lire - e la lettera dei parenti che rinunciano all'eredità. Santo Stefano è un luogo che spezza i legami, non solo attraverso l'isolamento, ma perché rende sostanzialmente impossibili le visite dei familiari. Poi, nel 1952, arriva un nuovo direttore, Eugenio Perucatti, che alla prima riunione fa leggere ad alta voce il terzo comma dell'articolo 27 della neonata Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Sopralluogo delle celle al piano terra (Lara Gallina / Ansa)
Sopralluogo delle celle al piano terra  

Vecchierelli intontiti

Il carcere sembrava rimasto congelato al Settecento. Perucatti porta elettricità, fognature e acqua. Costruisce degli alloggi per i familiari dei detenuti e istituisce visite di 24 ore. Grazie al lavoro dei detenuti nascono orti e giardini bellissimi. Una sala musica e una sala conferenze. Un campo di bocce e un campo da calcio (il torneo classico è detenuti e guardie contro ventotenesi). Anche un cinema: e invita gli isolani a frequentarlo. La popolazione del carcere si mischia con quella dei liberi; i figli delle guardie crescono con gli ergastolani per casa. Non troppo sorprendentemente, nel 1960 Perucatti viene "promosso" a incombenze amministrativo-ministeriali. Cinque anni dopo, chiude il carcere di Santo Stefano. Il Corriere della Sera descrive lo sbarco degli ultimi ergastolani a Formia: "Vecchierelli, taluno mezzo sciancato, intontiti da decenni di galera"; molti hanno delle gabbie coperte da un panno bianco da cui sale un "cip cip". La storia ufficiale del carcere finisce qui. E, onestamente, Salvatore sembra stanco di raccontarla.

Sul Venerdì del 28 ottobre 2022