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  • Immagine del redattoreRiccardo Serventi Longhi

Lo Yoga è la vita stessa

Aggiornamento: 8 apr 2022

Le scritture indiane ci raccontano della battaglia tra Deva e Asura per ottenere il nettare dell'immortalità. Dove il gioco è quello di ogni giorno


Un’antica storia indiana racconta così: Ci fu un tempo in cui gli dei non erano eterni e per ottenere l’immortalità si riunirono e, per chiederne ragione, andarono al cospetto di Visnu, la divinità che sostiene la creazione. Egli rispose che questo sarebbe stato possibile, dopo essersi nutriti del nettare dell’immortalità, l’Amrita, che avrebbero ottenuto frullando l’oceano di latte senza sponde di prima dell’inizio. Il prezioso ingrediente sarebbe affiorato come il burro.


Ma come fare a frullare un oceano di latte? Non è mica una ciotola. Quanta forza ci sarebbe voluta... Colui che tutto sostiene consigliò così i Deva, le divinità del giorno, di allearsi con gli Asura, gli dei della notte. Questi accettarono a un patto: il risultato dell’opera compiuta sarebbe stato diviso fra le due fazioni. In certe situazioni c’è poco da trattare, e così i Deva, non contenti, accettarono decisi - ottenuto lo scopo - a occuparsi di questa faccenda.


L’impresa era ardua. Bisognava costruire un attrezzo immenso che potesse servire da frullatore per l’oceano. L’idea fu quella di utilizzare il monte Meru come frusta. Una volta estirpato e posto con la cima in basso (tipo trottola), Vasuki, il sacro re dei serpenti divenne la corda con cui poter far ruotare la montagna divina; così da una parte i Deva afferravano la coda, dall’altra gli Asura stringevano la testa, e iniziarono questo movimento cosmico. L’attrito del monte però era troppo forte e non emergeva nulla.


Visnu stesso, allora, prese le sembianze di Kurma la tartaruga e si pose sotto l’immensa montagna con il carapace in giù creando le condizioni per rendere libera la rotazione attraverso il tiraemolla della fune/serpente. Funzionò. Però, dopo 100 mila anni e più di impegno nulla ancora si vedeva, se non schiuma e fatica. A un certo punto, i due schieramenti non si ricordavano nemmeno più perché agissero in quel modo. Anche il re dei serpenti aveva perso il suo veleno nell’oceano: a forza di strizzarlo, ne era stato svuotato.


Ma mentre non c’era più memoria di uno scopo, qualcosa cominciò a emergere da quel caos. E vennero fuori tesori immaginabili, dalla bellezza all'abbondanza, dall’albero divino all’arco di Visnu e al vino; anche il veleno di Vasuki emerse per svanire evaporando. E finalmente affiorò l’Amrita. I Deva pensarono bene di fare incetta del nettare sacro e si garantirono l’immortalità, e lasciarono agli Asura il vino. Questi lo accolsero a braccia aperte e da questo episodio si dice che il vino, soddisfacendo i sensi, accende gli dei del buio e dell’ignoranza.


In questo famosissimo e breve dipinto leggendario viene raccontato lo Yoga. Quanta fatica e dedizione, ma che straordinario dono quando smetti di pensare a uno scopo da raggiungere, quando quasi lo dimentichi, ma agisci con tale intensità da divenire uno strumento sostenuto da forze che nei momenti più difficili ci mettono lo zampino e, attraverso infiniti mezzi, alleggeriscono il peso. Questo pensiero potrà sembrare folle per chi vive in una società come la nostra basata sul profitto a ogni costo e sul minimo sforzo per il massimo risultato, sempre alla ricerca della soddisfazione che quotidianamente diviene un miraggio che, tremolando come un’oasi nel deserto, svanisce quando ci si avvicina.


Uno dei più grandi Maestri spirituali indiani, Paramhansa Yogananda, di cui abbraccio gli insegnamenti, li chiamava «I desideri soddisfatti, ma mai appagati».

Cerchiamo la perfezione escludendo ciò che non ci corrisponde; come se in natura un albero scegliesse quali sassi avere accanto, o le nuvole rifiutassero di farsi attraversare dagli uccelli o dagli aerei. Come se il mare dicesse «no» ai polipi e «sì» alle cernie, «no» alle meduse e «sì» alle alghe. «No» alle tempeste e «sì» alla bonaccia. E le montagne? Come mai accolgono il gelo più rigido per donare dopo pochi mesi un’esplosione di colori?

Anche in noi stessi ci dipingiamo come gli altri vorremmo che fossimo, cercando, più o meno inconsapevolmente, di mascherarci.


In queste poche righe ritroviamo la necessità di una partecipazione dei poli opposti per poter rivelare a noi stessi l’Essenza, ciò che non è soggetto a mutamento e che, per questo, è immortale. In sanscrito è detto «Atman». Qualunque sia il significato etimologico, tuttora controverso, della parola «ātman», la sua più antica accezione è quella di «se stesso» in antitesi con ciò che se stesso non è, quindi «il proprio corpo, la propria persona, il proprio Io psico-fisico».


È l’annullamento della perfezione. Nella partecipazione al gioco, troviamo l’equilibrio delle polarità, che nel loro integrarsi donano il tesoro. Nonostante il veleno, anzi, grazie anche a ciò che di impuro lasciamo emergere e guardiamo negli occhi, come devono aver fatto gli Asura nell’osservare lo sguardo del serpente. Ci vediamo per quello che siamo. Solo così potremmo cambiare, se necessario. Perché tutto è un dono.


Tutto questo, dicevamo, certo può accadere per un’infinità di motivi, anche apparentemente casuali o, comunque, non legati all’argomento di cui (con non poca difficoltà e nel rispetto di tutti i grandi maestri, insegnanti, conoscitori ed esperti) mi accingo a condividerne un tratto di viaggio per poterci confrontare ed accompagnare: lo Yoga. Lo Yoga non è una disciplina “a sé”. Non è qualcosa che esula dalla quotidianità. Se ti capita di incontrarlo - e può accadere che sia lui a palesarsi di fronte quando meno te lo aspetti - e se ti affidi ai suoi più tradizionali principi, diverrà un ingrediente onnipresente così come l’acqua nel pianeta Terra. Lo yoga è la vita stessa.



La battaglia per l'Amrita in un bassorilievo ligneo.

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