Un’esotica carne verde

L’antropologa Isobel White (White I. – Los nativos viven bien – in: Kuper J. (a cura di) – La cocina de los antropòlogos – Barcelona, Tusquets, 1984) durante un suo soggiorno tra gli aborigeni australiani ha una strana esperienza che riferisce come segue.

Ricordo il caso di una coscia di circa cinque chilogrammi che iniziò ad appestare e a diventare completamente verde. Passavi lì accanto e cantava. Gridai a un uomo di buttarla via e lui rispose: “No, ce la porteremo nell’accampamento per mangiarla. É una cosa sopraffina.” Così fecero i nativi: misero la carne immersa nell’acqua corrente per due giorni e poi la arrostirono in un forno di terra (….). Una volta cotta la tirarono fuori, aveva un aspetto ottimo ed era profumata, per cui decisi di prenderne un pezzo. Era favolosa, tenera e saporita da far dimenticare che prima sembrava quasi putrefatta. Più tardi un amico veterinario mi disse che mangiare una bistecca che canta non è affatto pericoloso. La carne che inizia a putrefarsi, mi disse, ha solo dei batteri pericolosi e una volta diventata verde, non è più dannosa perché l’acqua e il fuoco distruggono gli ultimi bacilli e il cattivo odore.

Una conclusione, si può aggiungere, che ribadisce il ruolo della cucina, che lavando e cuocendo la carne verde la rende sicura e soprattutto buona e gustosa.

Colori delle carni

Molto si discute sul colore della carne, soprattutto di quelle rosse e bianche, ma quasi sempre si dimentica il verde e gli altri colori che la carne assume per la crescita di microrganismi e per il degrado dell’emoglobina del sangue. La degradazione con cambiamento di colore della carne non riguarda soltanto quella dei mammiferi ed è ben nota in tutto il mondo, anche agli aborigeni australiani. Era infatti presente anche nelle nostre tradizioni della cucina della caccia, quando le beccacce, come altri uccelli selvatici, non eviscerati, erano lasciati maturare per diverse settimane fino a quando il loro addome assumeva un colore verdastro. Le carni di questi animali erano portate in tavola dopo essere state abbondantemente e a lungo cucinate, in presenza di molte e diverse erbe aromatiche. In modo analogo, e secondo tradizione, erano cucinate le carni di animali carnivori, come le volpi, dopo che la loro carcassa era stata a lungo lavata, anche per una settimana, nell’acqua corrente di un ruscello di montagna e, anche queste carni erano sottoposte a intense e prolungate cotture.

Carni dai colori insoliti e iridescenti

La comparsa di macchie di colore grigiastro-verde e di una patina superficiale vischiosa sulle carni sta a indicare una moltiplicazione in superficie di batteri quasi sempre innocui o di scarso significato patologico, comunque risanata da un’intensa e prolungata cottura, ma spesso, se non di solito, di forte impatto psicologico. Con nome improprio, perché si potrebbe riferire anche a molte altre specie di carni patologiche, le carni con colori insoliti rientrano tra le carni ripugnanti che, pur non essendo quasi mai nocive, suscitano avversione per il loro aspetto innaturale.

Le carni verdi sono provocate soprattutto da funghi: sono verde-giallastre per l’Aspergillus glaucus, verde-turchiniccio per il Penicillium glaucum e verdastre (in terreno acido) e bruno-nerastre (in terreni neutri) per l’Aspergillus fumigatus. Le carni possono presentare chiazze rosso vivo perché coperte o infiltrate da colonie del Bacterium prodigiosum o divenire rossastre per l’Oidium aurantiacum. Le carni blu sono provocate dalla moltiplicazione di germi cianogeni. Invasioni d’altre muffe impartiscono alle carni colorazioni caratteristiche: bruno-nerastre per l’Aspergillus niger bianco-grigie per il Mucor mucedo e M. racemosus.

Le carni dei bovini, suini, polli e ritagli di pollo refrigerati, dopo la cottura, in particolari condizioni, possono diventare fosforescenti per lo sviluppo di fotobatteri. In questi episodi, dai campioni analizzati è sempre isolato P. phosphoreum. Nella maggior parte dei casi osservati, la luminescenza compare per la presenza concomitante di prodotti ittici nei frigoriferi, dai quali il microrganismo si diffonde per contaminazione crociata. L’innocuità dei fotobatteri è stata provata fin dal 1900 da E. Newton Harvey e relazionata nel volume intitolato “A history of luminescence from the earliest times until 1900”. Solo il Photobacterium damselae subsp. damselae, patogeno per i pesci, può provocare intossicazione istaminica quando si sviluppa in carne rossa di tonno, ma non di mammiferi o uccelli.

Diversa è la causa della iridescenza che a volte si osserva sulla superficie di taglio di preparazioni carnee, una manifestazione legata alla microstruttura delle fibre muscolari, che provocano naturalmente questa iridescenza. Si tratta di un evento fisico che riguarda la diffrazione della luce sulla superficie carnea, specie se magra. Questa iridescenza è legata a come sono tagliate le fette ed è più sviluppata quando un vasto gruppo di fibre muscolari sono tagliate nella stessa direzione, così che la luce possa colpire le fibre in modo obliquo.

Carni dai caratteri avversi

Tra le carni che provocano avversione vi sono quelle alterate da lesioni secondarie e traumatismi, invase da larve d’insetti quali le mosche, un tempo rimosse quando l’infestione era limitata e superficiale permettendo il consumo della carne. Soprattutto un tempo vi erano carni con odori o sapori sgraditi per cause diverse: alimenti (prodotti residuali della fabbricazione dell’olio, semi di canapa, residui di bietole, anice, assenzio, artemisia ecc.) e talune sostanze medicamentose oggi non più usate negli animali, se non in quelli d’allevamenti biologici (ammoniaca, canfora, trementina, camomilla, fenolo, iodoformio, assafetida ecc.).

Antropologia del colore delle carni e formaggi

Da un punto di vista antropologico e psicologico, il colore della carne rientra nel vastissimo ambito dell’antropologia alimentare che ha dimensioni molto diverse nelle singole culture. L’alimentazione, come qualsiasi altro aspetto della cultura, non è un fatto unilaterale e pertanto non è possibile abbordare qualsiasi tema – ad esempio il colore della carne – da un unico punto di vista. Un colore che è buono per una cultura, non è detto lo sia anche per un’altra! Un concetto da tenere sempre più presente nella società multiculturale nella quale siamo sempre più inseriti, come dimostra il caso dei formaggi e soprattutto un episodio similare a quello della carne verde degli aborigeni australiani.

Nel 1944 le truppe alleate sbarcano nel nord della Francia. Si narra che in Normandia un reparto di soldati americani conquista una fattoria dalle cui cantine emana un odore giudicato di putrefazione, tanto sgradevole da indurre a intervenire con i lanciafiamme. I giovani americani abituati al loro latte e a formaggi insapori non sanno di trovarsi in una delle più rinomate latterie che producono il celebre formaggio Pont-l’évêque e non conoscono il detto francese che il formaggio più puzza più è gustoso, che i formaggi più intensi a livello olfattivo sono anche quelli più saporiti e che la loro potenza aromatica risiede nella crosta. Nella classifica mondiale dei formaggi più profumati la Francia si è aggiudicata i primi dieci posti e la Normandia è orgogliosamente rappresentata dal Pont-l’évêque e dal Livarot, rispettivamente al secondo e ottavo posto. Che l’uso dei lanciafiamme in una latteria francese sia veramente accaduto o sia una leggenda metropolitana non toglie nulla al fatto che l’apprezzamento degli odori e aromi degli alimenti è soggettivo e che vi sia un apprezzamento sociale diverso da popolazione a popolazione, che cambia con il passare del tempo. È comunque certo che molti dei soldati americani impararono poi a gustare i formaggi francesi e che dopo mezzo secolo molti sono i formaggi erborinati statunitensi di colore verde e bleu.

Sia nel caso della carne verde che in quello dei formaggi della Normandia chi ha ragione? Quali sono i valori e i limiti della sicurezza alimentare come intesa oggi dalla nostra cultura tecnologica? Soprattutto nell’attuale società sempre più multiculturale non bisogna sottovalutare quello che l’antropologo Marvin Harris sostiene, capovolgendo l’affermazione dell’altro antropologo Claude Lévi-Strauss secondo il quale ci sono cibi buoni da pensare e cattivi da pensare, che in realtà questo dipende dal fatto che siano buoni o cattivi da mangiare, dato che il cibo deve nutrire lo stomaco collettivo prima di poter alimentare la mentalità collettiva.

Riformulando l’affermazione di Claude Lévi-Strauss, la questione può essere esposta anche nel seguente modo: il cibo nutre primariamente lo stomaco collettivo o la mentalità collettiva? Riconosciuta la duplice funzione vitale e simbolica del cibo non bisogna però dimenticare che alla base delle scelte alimentari della gente vi sono delle motivazioni di tipo pratico (sanitarie, di sicurezza, nutritive, ambientali e monetarie), che un cibo diventa buono da pensare se in partenza è sicuro e conveniente e che le ragioni di sicurezza e economiche precedono quelle simbolico-culturali. Non dimenticando infine il ruolo che la cucina ha nel garantire sicurezza, oltre che bontà, degli alimenti.

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.