Carceri: Antigone Sicilia, una battaglia contro l'isolamento. "La cella liscia, strumento di tortura"

Carceri: Antigone Sicilia, una battaglia contro l'isolamento. "La cella liscia, strumento di tortura"

di Katya Maugeri

Da punitivo, basato su torture e umiliazioni, a rieducativo. Nel corso degli anni si è evoluto così il sistema carcerario cercando di porre al centro del trattamento l’uomo, il detenuto, l’uomo attraverso strumenti utili per il suo – graduale –  recupero e reinserimento nella società. Perché, lo abbiamo detto più volte, la funzione principale della detenzione dovrebbe essere quella di correggere il comportamento di chi ha commesso il reato. E non certamente attraverso la punizione, ma riabilitandolo e integrandolo socialmente. Un percorso riabilitativo in cui non dovrebbero venir meno i diritti umani: il detenuto deve sì avere delle limitazioni necessarie per assicurare l’esecuzione della pena pur mantenendo la propria dignità. Si è, negli anni, sviluppata una coscienza dei diritti dei detenuti e della loro tutela, per cui il carcere non deve essere luogo di sopraffazione o di degradazione della personalità, ma luogo in cui persone scontano una pena legalmente inflitta. Ed è così che l’associazione Antigone che si occupa di tutelare i diritti delle persone che si trovano in carcere è sempre presente sul territorio per garantire un miglioramento della condizione umana del detenuto.

«Per moti addetti ai lavori, il carcere deve essere considerato una discarica sociale – ci spiega Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, durante la nostra intervista – perché chi entra in carcere è condannato a prescindere, molti dimenticano che tantissime sono le persone in attese di giudizio successivamente prosciolte, che vivono la terrificante esperienza di un carcere ingiusto. Il trattamento in carcere è solitamente disumano. Ci sono molte manifestazioni di facciate pubblicizzate ad arte come attività ludiche – continua Apprendi – di formazione all’interno del carcere che fanno bene, ma si tratta solo di una minoranza rispetto a ciò che realmente accade all’interno del carcere. Si dà una idea errata all’esterno: come se la reclusione fosse un’isola felice. Minimale, rispetto al numero di persone che invece in carcere non hanno la possibilità di lavorare o di svolgere attività e che devono seguire un “regime” pesante sia nel rapporto gerarchico tra colleghi detenuti che all’interno impongono regole».

La mancata umanità della pena è fortemente in contrasto con il rispetto della dignità umana e non può essere né ammessa né tollerata. La dignità di un uomo non può perdersi a seconda delle circostanze che la vita sottopone, o da comportamenti – anche sbagliati -, va tutelata.

Un detenuto trattato male, umiliato, che subisce abusi durante la carcerazione si sentirà vittima dello Stato. In questo modo si otterrà un percorso pericoloso di vittimizzazione di colui che invece ha infranto la legge. Il detenuto vessato, trattato male, umiliato, non comprenderà gli errori commessi, non metterà in discussione la propria storia, né vedrà mai come sbagli le proprie azioni, ma sposterà l’obiettivo verso lo Stato ritenendolo così unico colpevole delle scelte e della strada – illegale – intrapresa. Sentendosi, così, autorizzati a violare la legge. Nuovamente.
Un detenuto, invece, trattato con giustizia e umanità avrà e sarà un esempio di legalità. Una pena disumana aumenta inevitabilmente i tassi di recidiva.

L’orrore della “cella liscia”

«Noi, come associazione Antigone abbiamo intrapreso una battaglia contro l’isolamento. Un orrore disumano – spiega Apprendi – abbiamo riscontrato dati allarmanti: centinaia di casi ogni anno in tutta la Sicilia. L’ulteriore danno psicologico. In questa condizione, la funzione rieducativa manca assolutamente, quindi i detenuti sono “condannati a vita” a non ritrovare una normalità, con rischi di recidiva altissimi».

Si chiama “liscia” o “cella zero” perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso risulta anche deleterio visto che non sono mancati casi di suicidio proprio all’interno di queste celle. Lasciano scivolare del cibo freddo attraverso uno sportellino di metallo della porta della cella. È un trattamento che distrugge l’umanità dei carcerati, danneggia la loro salute mentale e rende più difficile la reintegrazione nella società dopo la loro uscita.

«In quella stanza liscia con le pareti vuote, la persona impazzisce. Solo una lampadina al centro della stanza e nulla più. Denudati e gettati dentro la cella. L’isolamento è una tortura – e il reato di tortura va condannato  – un trattamento inammissibile. La persona viene destabilizzata, lì si impazzisce, ho sentito le loro storie. Gente che si è sbattuta la testa contro il muro. Mi ricordo che durante un inverno chiesi come mai il ragazzo che si trovava nella cella di isolamento non avesse una coperta, mi fu risposto che avrebbe potuta chiederla al poliziotto di turno. Ragazzini completamente nudi, denudati di abiti e dignità».

Suicidi e libertà

La morte dei due bimbi a Rebibbia, lo scorso anno – lanciati dalle scale all’interno della sezione Nido del penitenziario – ripropone una questione mai risolta del tutto: è giusto, è opportuno, che le detenute con figli piccoli scontino la pena in carcere? Servirebbero delle soluzioni concrete che garantiscano l’espiazione della pena senza dover rinunciare al rapporto necessario, affettivo tra le mamme e i bambini. «Un gesto di dolore, paradossale. Li ha uccisi per liberarli. Sì, perché chi si uccide in carcere, crede di potersi liberare da un tormento quotidiano, dal pensiero che li vede detenuti senza scadenza, vogliono liberarsi da un incubo che non finirà mai. Gli ultimi tre episodi di suicidio al Pagliarelli sono avvenuti il giorno seguente del trasferimento dei detenuti in altri reparti: c’è sicuramente un problema di procedure. Un cambiamento drastico, da un giorno all’altro, sono persone che lasciamo il loro ambiente i loro compagni – che inevitabilmente ti eri fatto amico – per essere catapultato senza preavviso in un altro posto. Mi chiedo, questo passeggio avviene attraverso delle procedure chiare? Lo psicologo è intervenuto durante questo transito? Colloqui con l’assistente sociale durante il quale veniva spiegata la motivazione del trasferimento? È un caso che gli ultimi tre suicidi sono avvenuti dopo un trasferimento? Sono quesiti che andrebbero ben studiati. All’interno delle carceri servirebbe un ambiente più umano, con una maggiore apertura nell’uso delle telefonate, per esempio, per i detenuti non soggetti a censura che, per garantire un rapporto costante con i propri famigliari, potrebbero costituire un utilissimo strumento per prevenire gesti autolesivi. L’isolamento è sempre devastante per la psiche della persona».

La situazione delle carceri in Sicilia

«Persistono dei disagi causati dalle pessime condizioni strutturali delle carceri: ad Agrigento celle super affollate con 5/6 detenuti in pochissimi metri quadrati, in letti a castello dove se sta in piedi uno gli altri devono stare seduti per ottimizzare lo spazio. Serve ristrutturare le strutture, che risalgono per la maggior parte al secolo scorso. Una situazione devastante. Credo fortemente che il detenuto in cella, deve potersi sentire libero, anche di leggere un libro. In alcune carceri questi lavori sono già in atto, come all’Ucciardone, al Pagliarelli. Un passo verso l’umanità, si spera».

Fuori le sbarre troviamo una società non preparata, inconsapevole della realtà carceraria convinta ancora che i detenuti siano all’interno di un centro benessere, in un hotel a cinque stelle.

«Dobbiamo togliere la libertà e far scontare la pena, ma non la dignità. Quella deve sempre essere salvaguardata. Se uno viene condannato a vent’anni, perché un ulteriore accanimento? Non ha senso. Questo terremoto psicologico che avviene nelle teste delle persone è devastante. Il detenuto vive in una condizione di forte sofferenza se consideriamo il distacco dall’amore familiare, dai figli, il senso di colpa nei loro confronti. figli che, se piccoli, avvertono il distacco come un abbandono.  Sono dinamiche che andrebbero studiate, però nessuno vuole investire in questo perché il detenuto deve fare parte della discarica sociale, non sapendo il danno che c’è di ritorno: incattivirsi in carcere per poi tornare a delinquere. È un doppio danno per la società se non si riesce a rieducare il detenuto te lo ritrovi domani ancora più aggressivo».

Bisognerebbe trovare, quindi, delle soluzioni concrete e nuovi processi rieducativi. «Dare la possibilità di scontare la pena diversamente, bisogna svuotarli i carceri: chi sbaglia va condannato ma non si deve togliere la dignità, serve rieducare il detenuto. E non solo, occorre rieducare la società. Dopo le stragi è stato effettuato un egregio lavoro di legalità nelle scuole, ma sulle carceri il silenzio, disinformazione. È diventato un problema culturale. Noi non ci fermiamo, continuiamo. Siamo piccoli ma facciamo grandi battaglie. Ai ragazzini va insegnata il rispetto per la dignità dell’uomo, dalle scuole. Il problema chiaramente è anche legato alla politica, che dovrebbe dare linee guida e invece questo Governo sta dimostrando di essere ben lontano dal concetto stesso di accoglienza».

Servono piccoli passi intrapresi con più coscienza civile, meno pregiudizi e più umanità.

(ph: http://www.antigone.it/)

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