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Lunedì, 10 marzo 2014

Quando il comico provoca tristezza

astolfo

Comunque la si pensi in politica, la crisi grillina suscita un senso di tristezza. Ed è una tristezza che nasce dallo scarto stridente tra l’illusione della terra promessa e la frammentazione fratricida della diaspora ormai quotidiana. E’ una storia che ricorre e ritorna, una storia che ha riguardato tanti di quei partiti che il movimento di Grillo avversa, come forma e come organizzazione sin dall’inizio, contrapponendosi a tutti loro in nome di un’idea sorgente di democrazia diretta per cambiare alla radice il sistema. Ma mentre nella storia della maggior parte di questi partiti la parabola si misura in un arco di tempo medio e talvolta lungo, dentro il quale si formano ed emergono gruppi dirigenti, esperienze di partecipazione e di governo, comunità che producono una loro storia collettiva, qui ci troviamo di fronte al rischio di una cometa che non fa in tempo ad entrare in orbita e già ne può uscire, senza lasciare traccia.

Tutto del resto si gioca nel tempo ibrido della fretta e del presente, senza alcuna memoria critica del passato né la costruzione di una prospettiva di futuro. E’ un movimento nato a partire anche dalla nostra disattenzione, emerso improvvisamente solo per chi non si curava di ascoltare e leggere dentro il corpo sociale di un paese prima il disagio, poi l’indignazione, infine la rabbia e il rancore che la crisi ha portato a rapida maturazione come il frutto più evidente delle diseguaglianze e povertà da essa generate in una misura non più sostenibile. Ed è anche un movimento fiorito a lato di una politica distante e talvolta incurante o assente verso quel nuovo dolore sociale che stava velocemente segnando gran parte della nostra comunità di popolo.

Grillo ha interpretato per tempo un bisogno, un vuoto, un disagio, potente e latente, gli ha impresso il fragore dell’urlo e della dissacrazione, di ogni potere, di ogni presunta autorità, di ogni istituzione non più riconosciuta come tale. Ha forgiato per questo il linguaggio della crudità e dell’irriverenza, della sfida e del dileggio. E ha proposto, alla fine della sua stremata denuncia, un sogno. Indefinito, e però capace, per il solo fatto di immaginarlo, di riempire lo spazio e il tempo oltre questo presente depresso.

Qualcosa, in sé, di rivoluzionario, come è rivoluzionario ogni proposito di rovesciare un sistema contro il potere costituito e contro tutti i poteri operanti, di azzerare una storia, di cancellare ogni compatibilità o compromesso e immaginare, desiderare, un ordine nuovo delle cose. Se l’ha fatto, se ha potuto farlo, è anche perché la politica come spettacolo, come recita, come teatro di ogni miseria e denuncia di ogni sopruso ha preso da tempo il posto di una sfida democratica tesa al governo virtuoso dell’interesse collettivo.

Più che mettere in atto la costruzione dell’antipolitica, ha disvelato l’autoannientamento di una politica che si era da sola mutilata di una tradizione, di una cultura di riferimento, di una opzione indispensabile, per esistere in quanto politica, tra destra e sinistra, tra due alternative della storia sociale e politica di un paese, che viceversa si erano scolorite al punto di confondersi nella reciproca mediocrità, allontanandosi entrambe dalle proprie comunità e disperdendosi nell’esercizio di un potere che si riproduce puramente come casta intangibile.

L’estraneità al fatto di giocare dentro questo campo considerato infetto è divenuta rapidamente valore, e valore aggregante, identificante, valore attorno a cui edificare una comunità separata, per scelta e vocazione, per missione come esistenziale. La democrazia diretta, il suo mito vago e indefinito, aurorale, purificatore, è diventata la strada su cui far camminare, correre meglio, l’ansia di cambiamento, di sovvertimento, di un popolo che riconosceva il suo capo e come accade con tutti i capi in lui si identificava in maniera totale. Consegnandoli il plebiscito. Senza bisogno di mediazione, di regole condivise, di procedure dialettiche, di strutture intermedie, di pesi e contrappesi interni di un movimento che, anche per questa via, veleggiava leggero e irriverente nel volere la luna ed era ad un passo dall’ottenerla, sospinto dal feticcio della rete come unico strumento di relazione politica e sociale che decide.

A presentare il conto è arrivato ben presto il nocciolo duro, inevitabile da affrontare e da attraversare, del rapporto che sempre si pone tra una comunità, anche se del tutto autoreferenziale a sé stessa, e il singolo soggetto che ne fa parte in quanto elettore, militante, rappresentante di un’istituzione dove il confronto, il conflitto, il compromesso, l’alleanza, l’intesa, sono ingredienti necessariamente agenti, operanti, di uno spazio condiviso con gli altri, per quanto diversi e distanti. Prima di quel che chiamiamo dissenso, dissenso interno al movimento, vi è la soggettività libera e autonoma delle persone che lo compongono. E tra il fine comune, tra la missione condivisa e l’azione pratica dell’agire politico dentro uno spazio comune con altri, nessuna soggettività che lì dentro agisca può privarsi del proprio grado di autonomia e di libertà d’azione. Di più: essa è un valore per la stessa comunità che rappresenta, la può arricchire, proprio con l’esercizio della problematicità, della criticità, della differenza.

Essere in nome della comunità che si rappresenta del tutto estranei ad un sistema dato e al contempo interni ad esso nell’esercizio delle sue pratiche è semplicemente irrealizzabile, impossibile a darsi. Non averlo capito, non aver accettato la sfida di contemperare insieme la radicalità della propria proposta col passaggio necessario di un provvisorio compromesso, di una intesa su un punto condiviso se pur limitato del proprio programma, aver pensato di praticare il campo dell’avversario al solo scopo di esibire la purezza della propria intangibile identità, questo ha provocato, sta provocando il corto circuito del movimento grillino e ne disegna la prevedibile parabola. La cronaca dei fatti è più che nota, l’eco mediatico impietoso, quotidiano, il danno ripetuto.

Quando il dissenso è definito tradimento, l’espulsione e l’epurazione divengono pratiche affidate alla discrezione del capo, non si pesa e non si misura solamente lo stato interno di un movimento, libero di darsi queste pratiche militari proprie della categoria di guerra finché esiste, ma si precisa inequivocabile l’idea di democrazia e di società che esso prefigura qualora vincesse la sfida del governo del Paese. E’ stato troppo in fretta dimenticato un passaggio verificatosi solo pochi mesi e rivelatore forse più di ogni altro delle reali intenzioni della “missione civile”, ancor prima che politica, che il capo intende attribuire al suo movimento: la sconfessione di quei parlamentari che con il PD e SEL avevano votato per abrogare il reato di clandestinità.

“Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, presente in paesi molto più civili del nostro, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico”, così Grillo in quella circostanza. E’ l’idea del consenso per il consenso, di riprodurlo sino all’ottenimento del potere pieno e solitario, non quella di tramutarlo in miglioramento dell’esistente, tanto più su un tema così drammatico e doloroso. La realtà, tuttavia, procede sempre con la dialettica che non la fa mai apparire univoca, bensì articolata e mai come oggi complessa. E la dialettica primaria del movimento non è quella, pur grave e distruggente, in atto tra il capo e i dissidenti. Viene prima, ed è tale da interessare tutta la politica italiana se ancora una volta non sconta un ritardo come fu all’inizio di questa parabola, quella che porta a distinguere Grillo dagli eletti e dagli elettori del suo movimento. E’ la dialettica che intercorre tra il patetico delirio di un capo, il travaglio di chi è stato eletto, il bisogno e l’ansia di cambiamento dei milioni di elettori che ci hanno creduto. Per raccogliere una speranza e portarla su un terreno, quella di una nuova politica, entro cui possa compiersi.