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Tu non sai chi sono io: Intervista ad Alessandro Sortino per la docuserie di RaiPlay

Tu non sai chi sono io

Tu non sai chi sono io è la docuserie di RaiPlay che racconta, senza filtri, al mondo degli adulti le realtà che spesso ignorano sui giovani. Giunta alla sua seconda stagione, propone storie di giovani e di genitori e figli connessi con l’altrove. Ne abbiamo parlato con Alessandro Sortino, ideatore del programma.

Dal 14 gennaio RaiPlay propone in boxset la seconda stagione di Tu non sai chi sono io. Ideata da Alessandro Sortino con Arianna Ciampoli e scritta con Sabrina Bacalini, Tu non sai chi sono io accende i riflettori sui ragazzi della Generazione Z e li racconta agli adulti. Nati dopo il 2001, i giovani sono tutti nativi digitali e social addicted ma nascondono zone d’ombra di cui spesso è difficile parlare.

In Tu non sai chi sono io, la docuserie RaiPlay, i ragazzi si aprono e confidano, come mai prima, con madri, padri, nonni e maestri, per rivelarsi a pieno. Si tolgono un peso nel rivelare alle persone a cui sono più legati non solo le loro più forti emozioni ma anche vicende scomode e mascherate nell’indifferenza.

Il progetto, secondo chi scrive, merita attenzione per aprire uno squarcio unico nel mondo dei giovani, un mondo che l’opinione comune vuole spesso vacuo e spensierato. L’auspicio è che, tramite il successo su RaiPlay e il sì della direttrice Elena Capparelli nell’accettare il progetto, la Rai possa trovare il coraggio di trasferire Tu non sai chi sono io sulla generalista. Raggiungerebbe un pubblico più vasto che ha bisogno di capire e riflettere sulle persone del domani, sul nostro futuro, intavolando con loro un dialogo fino a oggi quasi impossibile.  

Rai 2, ad esempio, con i suoi titoli che raccontano di giovani, come Il collegio o Mare fuori, sarebbe la casa ideale: potrebbe con Tu non sai chi sono io accaparrarsi un seme utile a far germogliare un futuro basato sul dialogo e sulla comprensione tra generazioni e non solo sulla nostalgia.

Le storie di Tu non sai chi sono io

La seconda stagione di Tu non sai chi sono io, docuserie disponibile su RaiPlay dal 14 gennaio, racconta 10 storie diverse tra loro. Si tratta di dieci racconti e rivelazioni in cui i ragazzi in prima persona si aprono agli adulti a cui sono più legati.

Fra le tante storie c’è quella di Isabella cresciuta con una disabilità e costretta fin da piccola a difendersi dai bulli a scuola.  Poi c’è Valerio, ventunenne romano che lavora come cuoco ma insegue il sogno di diventare un rapper di successo ma la cui vita è segnata dall’arresto del padre.

E ascoltiamo ancora Carlotta che vive a Torino e ha deciso di aprire il suo cuore alla madre, con la quale ha un rapporto conflittuale che si è definitivamente incrinato quando la ragazza ha deciso di comunicare la propria omosessualità in famiglia. Ludovica invece ha solo 16 anni ma sente di essere nata in un corpo che non sente suo. Così ha cambiato sesso, affrontando da giovanissima un percorso di transizione di genere che l’ha portata a essere se stessa.

Per non dimenticare Noor, adolescente umbra la cui madre è originaria del Kirghizistan, la cui esistenza spensierata è stata annientata dalle conseguenze indirette della pandemia da CoVid.

I ragazzi di Tu non sai chi sono io

1/8
Anna
2/8
Big Mama
3/8
Carlotta
4/8
Isabella
5/8
Kekkobomba
6/8
Noor
7/8
Rimoldigno
8/8
Valerio
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Intervista ad Alessandro Sortino

Abbiamo parlato di Tu non sai chi sono io con Alessandro Sortino, ideatore della serie e giornalista noto per il suo passato da iena televisiva nel programma di Italia 1 prima e da conduttore di Nemo dopo.

Sortino, prima di ogni cosa, ha voluto specificare che, nonostante abbia ideato la docuserie, non se n’è occupato concretamente per un fatto anagrafico.

Il risultato non sarebbe stato lo stesso senza l’apporto del lavoro dei filmmaker che hanno filmato le storie, Riccardo Cremona, Francesco Medosi e Edoardo Anselmi (“amici e miei collaboratori dai tempi di Nemo, dotati dalla grande capacità di sparire, di essere lì senza essere lì”), e di Carmen Vogani, l’autrice ponte con il mondo giovanile (“divenuta una sorta di sorella maggiore per tutti i ragazzi”, allo stesso modo di Sabrina Bocalini).

Alessandro Sortino
Alessandro Sortino.
  • Alessandro, sei uno degli ideatori di Tu non sai chi sono io, la docuserie disponibile in boxset su RaiPlay. Da dove nasce l’idea?

Nasce dall’avere dei figli e dal rendermi conto che sono presenti ma contemporaneamente assenti. Sono all’interno di una loro comunità, costantemente con altri. Sono attratti da un altrove di cui tu, adulto, non hai consapevolezza. Siamo sempre vicini a loro ma finiamo per non sapere niente di loro. Mi è dunque venuto in mente di chiedere ai ragazzi di raccontarsi agli adulti. Ed è nata così la serie.

  • Tu non sai chi sono io ha uno dei suoi punti di forza nell’assenza di un giornalista o di un intervistatore altro in scena. Si lascia spazio ai giovani di raccontarsi e agli adulti di seguire il loro racconto senza possibilità di intervento.

Agli autori e ai filmmaker è stato chiesto di fare un passo indietro. Dovevano raccogliere le storie ma non influenzarle dal punto di vista del contenuto. Il loro compito era quello di organizzare le storie e non di modificarle. L’assenza è stata una scelta narrativa. I ragazzi sono spesso oggetto del racconto degli adulti ma non sono mai soggetto del racconto. Se lo sono, lo sono tra di loro o sui social, dove sono autori di un racconto diretto al loro mondo. È come se trovassero impossibile raccontarsi agli adulti.

Stanco di modalità in cui sono gli adulti a raccontare i giovani, a scrivere articoli sui giovani o a realizzare serie sui giovani, ho voluto che fossero loro stessi a raccontarsi agli adulti.

L’aspetto buffo, se vogliamo, è che i racconti hanno cambiato la vita delle persone che li hanno fatti. Ogni racconto ha permesso davvero ai genitori di scoprire il figlio. E davvero Tu non sai chi sono io è diventato un episodio della loro storia personale. Se ognuno di noi vedesse i figli raccontare la loro quotidianità, anche semplice, inevitabilmente vedrebbe il rapporto cambiare. Nel raccontarsi ci sarebbe uno sforzo di relazione che oggi non facciamo.

Tu non sai chi sono io è un racconto ma anche qualcosa che accade realmente. Lo spettatore vede succedere qualcosa: un genitore apprende aspetti che non sa della vita del figlio. E non per forza sono cose clamorose.

  • È il caso, ad esempio, della storia di Noor, l’adolescente umbra alle prese con le conseguenze che il CoVid ha avuto sui ragazzi della sua generazione.

Il racconto di Noor è uno di quelli che abbiamo voluto fortemente. Nel suo caso, abbiamo scelto una comitiva del centro Italia semplice, dove non ci sono rapper o influencer ma solo ragazzi semplici che ti raccontano come hanno vissuto la pandemia. Il valore della storia risiede proprio nella semplicità, nella non eccezionalità. Famiglie borghesi, nessun problema di tipo sociale. Ed è la normalità che permette di cogliere come i ragazzi abbiano vissuto la straordinarietà del periodo o cosa è successo nelle loro teste.

  • Le altre storie di Tu non sai chi sono io sono invece più complesse. Sembrano seguire un filo conduttore, ovvero l’inclusività e la diversità.

Da una parte, attraverso i social, i ragazzi sono da un lato protagonisti della loro comunicazione. E ciò rappresenta una rivoluzione. Se io avessi voluto scrivere una poesia, un romanzo, o girare un film a 18 anni, avrei dovuto trovare e convincere qualcuno che me lo facesse fare. Anche i giovani di oggi devono convincere qualcuno ma dopo aver convinto altri. Hanno grazie ai social la possibilità di mettersi in gioco senza mediazione. È una grandissima rivoluzione.

Dall’altra parte, invece, i social producono un effetto terribile. Sin da subito, i ragazzi si confrontano con il giudizio degli altri, si espongono al loro sguardo dal primo istante. Attenzione, non si tratta del giudizio di persone che conoscono ma quello di una comunità di persone che tendono a farti diventare il capro espiatorio dei loro problemi.

Il problema del bullismo, ad esempio, viene amplificato dai social, comunità più grandi e anonime di quella in cui si vive. Il capro espiatorio, un pericolo di vita o di morte che tutti gli uomini affrontano sempre dal momento che è il meccanismo di relazione principale della nostra società, nel loro caso diventa una questione concreta e prematura.

Il figo viene scelto come modello positivo e lo sfigato come negativo. La non esclusione e la difesa del diverso diventano una vera e propria ideologia, mettendo in moto una serie continua di processi di beatificazione, anche di se stessi, e di accettazione rispetto alla diversità. Isabella, la ragazza che nasce con una disabilità, trova nei social e nel rapporto con gli altri che non conosce il modo per accettare se stessa. La disabilità diventa così una caratteristica della sua identità.

Questo meccanismo mi affascina. Perché sono roscio: è una categoria di diversità non abbastanza raccontata. Qualunque bambino dai capelli rossi è sempre l’unico della sua scuola. Nel piccolo di questa diversità, ho avuto modo di sperimentare queste dinamiche. Nel piccolo, ovviamente.

  • Immagino ci sia stato un processo di selezione delle storie. Com’è avvenuto? Sono state le storie ad arrivare da te o le hai cercate?

A lavorare alle storie è stato un intero gruppo di persone. La docuserie è stata ideata da me e Arianna Ciampoli, mamma di un’adolescente: il suo ruolo è stato fondamentale. Da un lato, le abbiamo cercate noi. Abbiamo cercato soggetti che avessero qualcosa da dire e che avessero, ovviamente, voglia di dirla. Altre, invece, sono venute da sole. Com’è accaduto con la prima stagione, c’è stato un movimento bidirezionale.

Non è facile trovare dei ragazzi, non pagati, che siano disposti ad aprirsi in un progetto che produce un racconto della loro intimità. È chiaro che è più facile trovare un influencer, un artista o un cantante che sia disposto a farlo. È interessante, però, notare come questa cosa sia stata rivoluzionaria anche per gli influencer. Come dimostra una delle storie di Tu non sai chi sono io, Kekkobomba, l’influencer al centro, parla per la prima volta al padre della sua assenza, trovando il coraggio di farlo.

  • Cosa caratterizza Tu non sai chi sono io?

Ciò che caratterizza Tu non sai chi sono io è l’idea che non è vero che si può parlare solo tra generazioni. La generazione Z è segnata da un iper-esibizionismo e contemporaneamente da un’iper-chiusura. Il millennial o lo z è convinto che il boomer non riesca a capirlo, anche a causa del gap tecnologico che li separa. È convinto che non ci sia possibilità di interazione. E lo è di più quando si parla di dolore. C’è la convinzione che l’adulto non riesca a leggere il dolore che porta dentro. Tu non sai chi sono io serve a ridurre tale distanza.

Tu non sai chi sono io non è solo il racconto dei ragazzi della generazione Z ma anche il racconto dei loro genitori. Dalle storie, emergono genitori bellissimi, come quelli che si ritrovano a confrontarsi con la transessualità o l’omosessualità. Sono genitori che hanno mostrato una tenerezza, un’apertura incredibile. Anche quando hanno un pregiudizio iniziale, affrontano il viaggio insieme, nel caso di Carlotta e Ludovica, alle loro figlie in una maniera che mi ha commosso tantissimo. Mi ha commosso la loro umiltà, molto al di fuori delle categorie, ideologiche, che si usano normalmente per definire questi temi. Quando sei toccato dalla realtà non sei nell’ideologia, sei nell’umiltà della relazione.

Tu non sai chi sono io vuole anche essere un racconto della mia generazione. Di una generazione di figli che non sono mai diventati genitori abbastanza e che si trovano, perché cresciuti in famiglie che li hanno protetti, a fare il mestiere di genitori senza averne gli strumenti. Devono fare i conti con la rivoluzione digitale, un evento antropologico enorme che hanno dovuto affrontare. E lo hanno fatto nel modo più sbagliato possibile. Hanno dovuto cercare di non essere autoritari ma di essere autorevoli, credibili. Il racconto dei genitori è un po’ la cifra di questa seconda stagione. Li abbiamo, per scelta, fatti parlare di più. Abbiamo dato un po’ più di spazio agli adulti.

  • Gli adulti seguono il racconto dei ragazzi attraverso un tablet. Da un lato, è un mezzo per avvicinarli alla generazione z. Dall’altro lato, però, c’è il dubbio che il mezzo possa fungere da filtro, da televisione, e non possa essere percepito come diretto.

Era l’unico modo per i ragazzi di raccontarsi. Mi soccorrono gli studi classici per spiegarmi meglio. C’è una differenza tra il kronos e il kairos, il tempo comune, il tempo circolare, la ripetizione quotidiana delle cose in cui a poco a poco si comunica ma si sclerotizza nel non comunicare, e il tempo di Dio, il tempo della rivelazione. Dal punto di vista narrativo, il doversi raccontare porta a una necessità e una sincerità che non hai nel kronos. È vero che c’è la televisione ma proprio perché c’è la mediazione della telecamera che quella storia diventa sincera, con tutti i limiti del kairos. In un breve lasso di tempo, devi dire delle cose che siano sincere. È nell’evento che noi ci mettiamo in gioco. È nell’evento che facciamo un bilancio.

Noi citiamo il realismo. Il realismo è una scelta narrativa. Il reality è una scelta narrativa. Qualsiasi narrazione è sempre la sostituzione del tempo ordinario di chi ha ascolta con il tempo speciale dell’incontro con un altro che, in un tempo breve, ti racconta qualcosa che va al di là del tempo che il racconto occupa. Se chiedi a un ragazzo di uscire dal tempo comune e di entrare nel tempo della narrazione, è chiaro che deve rielaborare la sua storia. E, nell’elaborarla, qualcosa si perde, qualcosa si inventa, qualcosa si fraintende (anche di se stessi). Però, è bello che questa operazione sia fatta in direzione di persone con cui prima del programma pensavi di non poterti raccontare, che non ti avrebbero capito.

  • Avete incontrato i ragazzi prima delle riprese. Qual è stato l’approccio?

Abbiamo visto molti ragazzi, ovviamente più di quelli che abbiamo selezionato per le puntate. Alcuni li abbiamo scartati anche se interessanti. Non ci interessava la narrazione fine a se stessa ma una narrazione che avesse qualcosa di sorprendente per i genitori. Non raccontiamo solo una storia: raccontiamo una storia che abbia un elemento sorprendente per il genitore che lo ascolta.

La docuserie nella sua struttura, ricordiamo, è un racconto a qualcuno. L’aspetto “televisivo” è la realtà del racconto stesso. Guardando la serie, si vede qualcosa che accade e quello che accade è la reazione del genitore che ascolta il figlio. È tutto reale.

Il racconto dei ragazzi è sì reale ma controllato. Il pianto del genitore è incontrollato. È qualcosa che avviene e che non puoi determinare. Il racconto è “docu” ma l’ascolto è televisione, reality. Sono due generi mischiati assieme. Faccio televisione e so che il suo specifico è la confusione con la realtà, l’evento, qualcosa di irripetibile che sta avvenendo e a cui stai assistendo. Il Grande Fratello, la partita di calcio, il talk televisivo o X Factor, sono tutti generi in cui succede qualcosa che è reale, anche se indotto dal meccanismo che lo fa succedere.

In Tu non sai chi sono io c’è un racconto, autentico, e poi c’è la televisione, il genitore che ascolta. Ecco perché abbiamo dovuto trovare delle storie che generassero l’evento. Se il genitore sapesse tutto del figlio, non accadrebbe nulla. Ecco il motivo per cui anche alcune storie belle sono state scartate. Le storie dovevano presentare delle zone d’ombra, anche piccole, di cui il genitore non era a conoscenza.

  • Come avete poi proceduto?

Abbiamo parlato tantissimo con i ragazzi scelti, durante il provino ma anche attraverso i social. L'obiettivo era di tirar fuori da loro un linguaggio autentico e lo abbiamo fatto grazie allo strumento della lettera, un’idea di Carmen Mogani. Abbiamo chiesto loro di scrivere una lettera all’adulto a cui volevano rivolgersi. E da questa lettera partivamo per la costruzione del loro racconto. Spesso si trattava di lettere drammatiche, lunghe anche dieci pagine, che chiaramente non consegnavamo ai destinatari.

Dalla lettera ricavavamo le parole chiave, che in seguito spingevamo a usare nel racconto filmato, come se fossero una scaletta. Con i tempi brevi di realizzazione che avevamo, i ragazzi dovevano seguire delle linee per non perdersi nel racconto ma senza perdere autenticità. Uno dei problemi dei ragazzi della Generazione Z è che quando parlano in pubblico tendono a divenire super conservatori.

Sono bravissimi nell’usare il loro linguaggio nei testi ma non riescono a trasporre la loro autenticità e spontaneità in pubblico. Si comportano sempre come se leggessero le letture in chiesa. C’è stato quasi un lavoro maieutico nel restituire ai ragazzi le loro parole. Oltre a farci raccontare la lettera, li invitavamo poi a portarci in giro per farci vivere la loro quotidianità e per lasciarci incontrare le persone che incarnavano coloro a cui facevano riferimento nello scritto. Il tutto è stato poi montato e mostrato ai genitori.

Tutto ciò è avvenuto anche con l’aiuto dei social. Una delle idee di base è quella di fare entrare i genitori nei social dei figli.

  • Da spettatore non posso che chiedermi cosa è accaduto dopo il racconto, quando le telecamere si sono spente.

Dopo la prima edizione di Tu non sai chi sono io, un sacco di persone ci hanno detto: “Ci avete fatto risparmiare i soldi dello psicanalista”! I passi avanti fatti nei rapporti tra ragazzi e genitori sono stati tanti. Grazie al racconto, gli adulti hanno (ri)scoperto i loro figli. Il dopo ha inizio quando i ragazzi rivedono i loro genitori dopo il video.

Ci sono stati casi in cui i figli pensavano che i genitori non conoscessero i loro problemi. Ricordo la vicenda di Alba, ventiduenne anoressica convinta che la madre non si fosse accorta del suo stato. La madre, invece, se ne era accorta.

Altre volte, il genitore dopo aver scoperto il disagio che non aveva letto come nel caso di Noor, con il papà imprenditore che ha un’idea sua della vita, si rende conto quali siano i problemi reali del proprio figlio.

Ricomincia per tutti la relazione tra genitore e figlio su basi nuove: il non detto si è trasformato in detto, da cui ripartire.

  • L’ultima domanda è di rito: quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Mi piacerebbe fare un programma che racconti la realtà ma di cui i raccontatori siano i giovani. Un programma non sui giovani ma di giovani. Il mio sogno è quello di raccontare le elezioni al Quirinale con lo sguardo di un ventenne. Mi piacerebbe mandare dei ventenni al Quirinale e dire: “Cosa capite di questa cosa? Quanto vi riguarda?”. Ma non solo quello. Mi piacerebbe raccontare la famiglia, il divorzio o la nascita, visti dai ragazzi. Una volta che li ho obbligati a raccontare se stessi, li vorrei obbligare a raccontare noi.

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Alessandro Sortino.
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