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Lo sguardo sospeso

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Modus videndi

 

A volte di notte le sogno. Mi imbatto nelle fotografie che desidero fare. Le sogno mentre si formano e le riconosco, immagini coerenti col desiderio. Come trovare un tesoro, il luccicare improvviso, sul fondo, di una patella reale. La pagliuzza per il cercatore d’oro, l’antilope che appare ad Hemingway tra le verdi colline d’Africa. Prezioso, raro. Un piacere pieno e assoluto, un momento felice di adeguatezza tra l’io ed il contesto esterno.

La fotografia come forma espressiva non è un mestiere, non è un interesse né un affare, è un’urgenza che toglie il fiato.

Forse è proprio questo: la ricerca dell’istante in cui riconosciamo, sospesa in una momentanea configurazione delle cose, una manifestazione effimera di senso. E di bellezza.

Questione di sguardo.

Di chi questa ricerca compie e realizza, cogliendo ciò che è sottilmente implicito nelle cose al di là del puramente visibile. Mostrando il proprio modo di vedere, svelando indizi di sé.

Scegliere di fermarne l’immagine rende la cosa fotografata più vera del vero, una testimonianza della nostra esistenza attraverso ciò che abbiamo voluto conservare, un espediente contro lo sfuggirci della memoria e del tempo. Il meccanismo magico legato all’immagine non ha solo il potere di creare la memoria, ma interviene sulla realtà modificandone il senso e la percezione. Ciò che fotografiamo diviene più reale perché lo abbiamo guardato, la nostra attenzione lo ha estratto dalla totalità delle cose e salvato non solo dall’oblio ma dalla non esistenza, lo ha reso significativo scegliendolo.

Domani qualcuno guarderà queste immagini in un libro, una mostra o magari in uno di quei rari cartelloni pubblicitari capaci di eludere la consueta gretta volgarità.

E il desiderio espressivo dell’autore entrerà in contatto con quello di chi cerca intorno a sé qualcosa in cui riconoscersi ed esplora con la propria chiave di lettura possibili condivisioni. Un incontro indiretto. Affinità, senso di complicità nel modus videndi che si rapportano alla nostra esigenza di autorappresentarci per essere riconosciuti.

Questione di sguardi.

Il modo per dire, in modo che il detto corrisponda al suo autore. La cifra stilistica. Si può affidarla ad una evidenza formale, ad un trattamento creativo, ad un espediente di ripresa o di stampa. O, come in questo caso, ad una chiave visiva che passa al setaccio la realtà e utilizza il rigore compositivo per ricrearne il distillato, in risposta ad una personale esigenza esistenziale.

Rumore.

Silenzio. Fare silenzio.

Complessità, sovrapposizione, sovrabbondanza, confusione, omologazione.

Ordine. Fare ordine. Sgombrare il campo visivo, sfrondare, andare all’essenza. Cercarla con gli occhi, nell’inquadratura. Ricostruirla. Sottraendo ciò che è superfluo o plateale, che parla troppo per poter dire qualcosa, che è incongruente senza però acquistare una qualche qualità surreale, una qualche valenza pop. Eliminando elementi e presenze di troppo, che mascherano, offuscano, non fanno vedere.

Vedere e ascoltare. Come nella pratica zen, in cui ognuno può essere monaco vivendo la pienezza del mondo, trovare il proprio silenzio anche all’interno del rumore. Il vuoto risonante di armonia nel troppo pieno incoerente dominato dall’horror vacui senza regole.

Entriamo in silenziosa sintonia con le immagini raccolte in questo libro: essenziali, sì, composte per sottrazione, depurate da retoriche formali. Vediamo luoghi, persone, cose. Luoghi la cui determinazione geografica passa in secondo piano rispetto al loro manifestarsi come forme e tracce dell’abitare; uomini e donne che vanno o che sostano immersi nel loro quotidiano o colti nell’attitudine del viaggiatore; oggetti che ad essi alludono, momentanei sostituti.

Vediamo ricorrere un tema che ci appare intimamente congeniale al modus dell’autore: la soglia dove già si annusa l’altrove, dove finisce la terra e comincia il mare, sul margine tra il noto e il possibile. Dove i piani e le linee si distendono orizzontali e basterebbero a se stessi ma ancora si arricchiscono del rapporto con presenze umane solitarie, contrappunto esplicito alla vastità sottintesa. Dove strutture e manufatti cambiano valenza al paesaggio costruito e assumono un’identità propria, che alla città sfugge rimanendo sospesa e protesa come un trampolino mentale.

Dove, sulla massa liquida cangiante e mobile, il pensiero va e viene più veloce tra quello che siamo e ciò che potremmo o avremmo potuto essere, altrove.

Vediamo immagini lontane dal reportage, che non vogliono dire di un contesto fisico o sociale esaurendolo, definendolo esplicitamente. Al contrario, ci appaiono pervase da un senso di sospensione, sembrano creare intorno al soggetto una bolla di silenzio. Percepiamo la manifestazione di un senso sottinteso - non detto - del genius che abita un luogo stabilmente o per un attimo magico. Tranches del reale diventate significanti grazie allo sguardo di chi le ha colte e al modo in cui le ha isolate e salvate. Trasfigurate dalla fotografia, sono diventate autonome dal loro contesto quotidiano, un cristallo che vibra quasi impercettibilmente dell’essenza segreta, indicibile, degli spazi e delle cose.

                                                                                                  Patrizia Campanella

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