PsicologicaMente – Madre e figlia: un rapporto di amore e odio


“Guardo una foto di mia madre, era felice avrà avuto vent’anni […] la scruto per filo e per segno e ritrovo il mio stesso sguardo. E pensare a quante volte l’ho sentita lontana, e pensare a quante volte le avrei voluto parlare di me, chiederle almeno il perché dei lunghi ed ostili silenzi e di quella arbitraria indolenza” (Carmen Consoli – In bianco e nero).

Cari lettori, questa settimana mi lancio in un’ impresa piuttosto ardua, intendo affrontare la tematica
del rapporto madre-figlia.
Inutile dire che si tratta di uno degli argomenti più delicati e dolenti che esistano, il più discusso, il
più dibattuto, certamente tra i motivi più frequenti che sono all’origine dell’inizio di una terapia.
Ma tutto questo è ovvio, considerato che si parla di un rapporto primario, una delle forme d’affetto più forti cui si possa assistere.
La relazione tra madre e figlia inizia a instaurarsi sin dagli ultimi mesi prima della nascita, attraverso il timbro della voce, il battito del cuore, il contatto biochimico col cibo che la mamma ingerisce. Dopo la nascita, il tutto si trasforma in una vera e propria relazione simbiotica.
L’intesa speciale che si crea tra le due, bellissima ma anche molto difficile, si trasforma ed evolve nel tempo.
E’ meraviglioso e foriero di tanta positività vedere madre e figlia percorrere la vita l’una al fianco dell’altra e nel rispetto dei reciproci ruoli ma si tratta, in genere, di un rapporto che affronta fasi altalenanti, il tipico odi et amo catulliano, quindi facilmente accade che vi siano fasi di profonda ostilità tra la madre e la figlia così come momenti di profondo amore, è quasi fisiologico direi.
Il rapporto con la figlia piccola è sempre un rapporto di forte attaccamento e amore, la bambina tende a sviluppare un senso di grande dipendenza nei confronti della madre.
Si è parlato anche di accudimento invertito quando nel rapporto madre figlia i ruoli si invertono.
Questo accade quando le figlie iniziano a vedere la propria madre come amica e compagna, spesso in seguito ad un evento di forte difficoltà che la madre ha subito: un lutto, una separazione, un periodo di depressione …
È come se la figlia invertisse il proprio ruolo e iniziasse a comportarsi da madre nei confronti del proprio genitore, con veri e propri atteggiamenti di protezione e accudimento, che possono sfociare però in insoddisfazioni nella vita e in difficoltà relazionali.
Insomma, durante la crescita, il rapporto madre-figlia non è così semplice e spesso si instaura molto tardi, quando la figlia è già adulta, quando la figlia diventa madre a sua volta e inizia a capirla e ad apprezzarla veramente. Il rapporto simbiotico che si instaura nell’età adulta è dunque speciale e fortissimo.
Capita spesso, però, che il conflitto tra la madre e la figlia adulta non si esaurisca nell’adolescenza.
Questo accade perché quando si diventa madri si inizia a capire quello che, come figlia, non si ha mai ricevuto.
Ma quando è che il rapporto tra madri e figlie diventa pessimo e invalidante? Quando la madre si aspetta che la figlia sia diversa da quella che è, e fa di tutto pur di farglielo notare. Ciò accade perché spesso le madri proiettano sulle figlie i propri desideri inevasi ed a seguito dell’esperienza raggiunta pensano di sapere meglio di loro cosa è giusto e cosa è sbagliato e come ci si deve comportare nella vita.
Il vero problema sorge quando il rapporto diventa conflittuale perché i livelli si confondono o si verificano episodi di profonda acredine ed atti particolarmente lesivi l’una dell’altra.
In psicoanalisi talvolta si adopera il termine “ravage” (cioè “devastazione”) per descrivere il rapporto d’amore-odio che finisce per corrodere, talvolta per periodi estremamente lunghi, molte relazioni fra madri e figlie. Specialmente queste ultime si ritrovano a parlare di tali situazioni, con estremo dolore e rimpianto, in stanza di terapia.
Le madri coinvolte in simili relazioni disturbate, raramente si mettono in discussione o comunque il più delle volte ciò accade dopo molti, forse troppi, anni e purtroppo magari a seguito di episodi drammatici che le costringono a guardare al proprio operato in modo ormai critico.
Mi piacerebbe proseguire con una spiegazione dettagliata del fenomeno.
Si tratta di un argomento che la psicoanalisi si è preoccupata di analizzare approfonditamente, cercando di offrire una valida ragione al suo verificarsi e la quale si fonda, ancora oggi, sul modello freudiano.
Sulla scorta di quest’ultimo riferimento sembrerebbe che la bambina, riconosciuto l’“orrore della sua castrazione”, del suo essere mancante del fallo come parte del corpo, incolpa la madre, riconosce in lei la vera responsabile di tale carenza.
Non aver ricevuto o vedersi sottrarre qualcosa che ad altri è stata data sono rimproveri che molto spesso donne con un Edipo irrisolto rivolgono alla propria figura materna.
Può apparire strano ad un non addetto ai lavori ma tali recriminazioni sottendono la più generica accusa di non aver saputo dare alla propria figlia il fallo che, viceversa, un fratello ad esempio ha.
Nell’inconscio della figlia la madre resta sempre il suo primo oggetto d’amore, tuttavia, a volte può decidere di rivolgersi al padre ovvero, dopo aver ricevuto una delusione troppo grande dal genitore dello stesso sesso (solitamente ciò accade in seguito al manifestarsi di una sua debolezza, dell’assenza o dell’indisponibilità del genitore in questione), decide di retrocedere ad un attaccamento primordiale con il suddetto genitore, in questo caso si assiste ad una vera e propria regressione psichica.
Posta una situazione di tal genere accade che, al posto di un riconoscimento ed una valorizzazione dell’immagine a prescindere da ciò che si fa, arriva un biasimo, uno sguardo di deprezzamento.
Tutto questo sospinge la persona, madre o figlia che sia, verso la volontà di dover avere o fare qualcosa per guadagnarsi ammirazione e riconoscimento dell’altra, ciò in un’ottica competitiva e all’insegna della rivalità e della sfida.
In effetti quello che accade è che la figura materna viene interpretata come “colei che castra”, una figura che non intende donare, che tutto conserva per sé stessa, che contabilizza, che non regala mai gesti d’amore spontaneamente.
Si innesca in tal modo un avvicendarsi di liti, dissapori, tentativi di imporre l’ultima parola, bronci, vittimismi, pianti, aggressioni e tutto quanto utile ad essere strumentalizzato per creare una discussione.
Una simile circostanza si crea su un piano di esatta ed assoluta simmetria, ove entrambe le protagoniste reagiscono alla stessa maniera ai comportamenti dell’altra, senza contemplare la possibilità di discostarsi, delegare il problema ad altri o sintonizzarsi su altri piani d’azione.
Dunque possiamo affermare che inizialmente è la madre con la sua rigidità a scatenare un senso di ribellione nella figlia ma è poi quest’ultima a sostenere ed avallare con i suoi atteggiamenti di sfida, autocommiserazione e resistenza la mancanza di cui si lamenta e si duole.
A questo punto però verrebbe da chiedersi cosa induce molte madri ad assumere una simile posizione nei confronti delle figlie femmine. Beh, certamente esse mettono in atto quanto, in un certo senso, hanno a loro volta subito nel rapporto con le rispettive madri.
Ognuna si porta dietro gli strascichi di quanto ai propri tempi non è andato come doveva e che oltretutto non è mai stato riconosciuto come problema e questo l’ha portata a nutrire,
inconsciamente, una forma di vero e proprio odio ed un’invidia altrettanto latente verso la giovinezza della femminilità della figlia.
Questo ci aiuta a comprendere come il “sadismo” di alcune madri non va interpretato alla luce di un intenzionale desiderio di nuocere alla figlia, ma andrebbe piuttosto ricondotto ad una incapacità, immaturità in materia di amore.
E’ questo anche il motivo per il quale difficilmente le mamme decidono di intraprendere una terapia. Le mamme, generalmente, sono afflitte ed immerse nei conflitti familiari, spesso sono convinte di essere “nel giusto”, pertanto non si aprono grandi spazi dedicati all’autocritica o comunque alla volontà di mettersi in gioco e tentare di risolvere il conflitto.
Più facile invece è l’aggancio di chi è in posizione di figlia. Dal rammarico di avere una “madre mostro” si riesce, forse anche per la più giovane età, a passare con meno resistenze al chiedersi “perché si comporta così?”, ma soprattutto si giunge più facilmente al “cosa posso fare io per cambiare le cose?”, ci si sofferma con maggiore attenzione sul perché ci si ostini a reagire sempre allo stesso modo. E’ questa una maniera per attivare un circolo virtuoso che conduce da un lato alla rottura della circolarità chiusa su se stessa dei litigi e delle rivendicazioni, dall’altro anche a scoprire qualcosa in più sulla propria interiorità ma soprattutto su cosa vuole realmente dire essere donna.
Io credo che risanare un rapporto così fondamentale sia sempre importante e salutare, non farlo significa menomare la vita di almeno una delle due. Dal canto mio consiglio sempre, in entrambe le posizioni, di tentare un percorso di riabilitazione. Accettare l’una i limiti dell’altra, perdonare eventualmente se qualcosa di errato o poco consono è stato commesso in passato ed illuminare il proprio presente superando qualsiasi conflitto passato. Eh sì! perché il passato è sempre illuminato da un presente e da un futuro, quindi perpetrare nel presente conflitti e traumi del passato serve solo a procrastinare sofferenze che, invece, sarebbero superabili in un presente che lascia spazio al perdono ed alla comprensione reciproca.

Notazioni Bibliografiche:
– Transgenerazionalità e psicoterapie. Una rassegna di ipotesi ed esperienze, C. Bogliolo – Franco Angeli.
– Le realtà familiari, Diego Lasio – Giuffrè.
– La Grande Madre, Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, Erich Neumann
– Astrolabio.
– La psicologia del femminile, Erich Neumann – Astrolabio.