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AA.VV. - Racconti matematici - CTS Basilicata

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<strong>AA</strong>.<strong>VV</strong>.<br />

<strong>Racconti</strong> <strong>matematici</strong><br />

a cura di Claudio Bartocci<br />

© 2006 Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino


Indice<br />

Introduzione di Claudio Bartocci .............................................................................. 4<br />

Numeri<br />

Il libro di sabbia di Jorge Luis Borges .................................................................... 20<br />

Nove volte sette di Isaac Asimov ............................................................................. 23<br />

Quanto scommettiamo di Italo Calvino ................................................................... 31<br />

L’hotel straordinario<br />

o il milleunesimo viaggio di Ion il Tranquillo di Stanislaw Lem ....................... 37<br />

La trama celeste di Adolfio Bioy Casares............................................................... 43<br />

Eupompo diede lustro all’Arte mediante i Numeri di Aldous Huxley .................... 63<br />

Esame dell’opera di Herbert Quain di Jorge Luis Borges...................................... 70<br />

Spazi<br />

I sette messaggeri di Dino Buzzati .......................................................................... 75<br />

Continuità dei parchi di Julio Cortázar ................................................................... 78<br />

Geometria solida di Ian McEwan............................................................................ 79<br />

La quadratura del cerchio di O. Henry ................................................................... 91<br />

La Biblioteca Universale di Kurd Laßwitz.............................................................. 94<br />

Il conte di Montecristo di Italo Calvino................................................................. 101<br />

1......................................................................................................................................101<br />

2......................................................................................................................................102<br />

3......................................................................................................................................103<br />

4......................................................................................................................................103<br />

5......................................................................................................................................104<br />

6......................................................................................................................................105<br />

7......................................................................................................................................106<br />

8......................................................................................................................................106<br />

9......................................................................................................................................108<br />

La casa nuova di Robert Heinlein ......................................................................... 109<br />

Fuga di Daniele Del Giudice ................................................................................. 126<br />

Riflusso di José Saramago...................................................................................... 133<br />

Ragazzo di Dario Voltolini .................................................................................... 142<br />

Naturalmente di Fredric Brown............................................................................. 145<br />

Tennis, trigonometria e tornado di David Foster Wallace.................................... 146<br />

2


Pitagora di Umberto Eco....................................................................................... 161<br />

La morte di Archimede di Karel Čapek ................................................................. 166<br />

Paolo Uccello di Marcel Schwob .......................................................................... 168<br />

Un Hugo geometra di Raymond Queneau............................................................. 171<br />

John von Neumann (1903-1957) di Hans Magnus Enzensberger ......................... 173<br />

Breve ritratto di Alan Turing di Emmanuel Carrère ............................................. 175<br />

La macchina...................................................................................................................176<br />

Blechtley Park................................................................................................................178<br />

Il gioco dell’imitazione ..................................................................................................181<br />

L’uomo matematico<br />

L’uomo matematico di Robert Musil..................................................................... 187<br />

Nota bio-bibliografica............................................................................................ 190<br />

3


Introduzione<br />

di Claudio Bartocci<br />

Sauter à pieds joints sur ces calculs...<br />

ÉVARISTE GALOIS<br />

«Ogni audacia spirituale – osserva Robert Musil nel 1912 – poggia oggi sulle<br />

scienze esatte. Noi non impariamo da Goethe, Hebbel, Hölderlin, bensì da Mach,<br />

Lorentz, Einstein, Minkowski, da Couturat, Russell, Peano [...]. Il programma di ogni<br />

singola opera d’arte può essere questo: audacia matematica, dissolvimento della<br />

coscienza negli elementi, permutazione illimitata di questi elementi; tutto è in<br />

relazione con tutto, e da ciò trae sviluppo» 1 .<br />

Riferire il termine “audacia” alla matematica potrà forse sembrare una scelta poco<br />

appropriata a chi vede questa disciplina soltanto come un arido deserto di calcoli, in<br />

cui trovano poco o nessuno spazio ingredienti quali l’azzardo, l’inventiva, lo spirito di<br />

avventura, lo scarto da regole prefissate. Eppure non si tratta di una scelta casuale se<br />

Robert Musil la ribadisce, precisandone il senso, nel saggio L’uomo matematico<br />

pubblicato nel 1913 nella rivista Der lose Vogel: «La matematica è un’ostentazione di<br />

audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili. Anche i filologi si<br />

dedicano spesso ad attività nelle quali essi per primi non intravedono il minimo utile, e<br />

i collezionisti di francobolli o di cravatte ancora peggio. Ma questi sono passatempi<br />

inoffensivi, ben lontani dalle cose serie della vita. La matematica, invece, proprio in<br />

esse abbraccia alcune delle avventure più appassionanti e incisive dell’esistenza<br />

umana» 2 . Queste parole dell’autore de L’uomo senza qualità – che aveva alle spalle<br />

una solida preparazione scientifica e la coltivava con assiduità – non esprimono una<br />

trionfalistica quanto generica celebrazione delle «magnifiche sorti e progressive» della<br />

scienza, ma trovano giustificazione nello sviluppo straordinariamente rigoglioso della<br />

matematica nel corso della seconda metà del secolo XIX. Teorie innovative, scoperte<br />

fondamentali, concetti che sembrano cozzare contro il senso comune, anomalie,<br />

paradossi: idee e risultati che – a riprova della loro fecondità – lasciano una miriade di<br />

questioni aperte, che saranno sintetizzate da David Hilbert, nella sua relazione al<br />

secondo Congresso Internazionale dei Matematici, svoltosi a Parigi nell’agosto del<br />

1 R. Musil, Gesammelte Werke, edizione di A. Frisé, 9 Voll., Rowohlt, Reinbeck bei Hamburg 1978,<br />

vol. VIII, p. 1318 (citato da W. Schmidt-Dengler, Statistica e romanzo, in Anima ed esattezza.<br />

Letteratura e scienza nella cultura austriaca tra ’800 e ’900, a cura di R. Morello, Marietti, Casale<br />

Monferrato 1983, p. 288). (N.d.C.)<br />

2 In questo volume, p. 188. (N.d.C.)<br />

4


1900, in una lista di ventitré problemi, destinati a influenzare profondamente le linee<br />

di ricerca del secolo XX. «Una disciplina scientifica – commenta il matematico<br />

tedesco – è vitale soltanto fin quando offre una moltitudine di problemi; la scarsità di<br />

problemi prefigura l’estinzione, o la fine di uno sviluppo indipendente» 3 .<br />

Nonostante la sua quasi proverbiale astrusità (o forse proprio a ragione di questa), la<br />

matematica non ha cessato di esercitare, negli ultimi centocinquant’anni, un fascino<br />

forte, seppur talvolta sotterraneo, su quanti (artisti, musicisti, scrittori, filosofi) hanno<br />

osservato dall’esterno – con minore o maggiore competenza, con lo stupore del<br />

profano o l’ammirazione del cultore avvertito, comunque sia non con lo sguardo dello<br />

specialista – la sua prodigiosa ricchezza. Per quanto riguarda la letteratura, sensibili in<br />

modo particolare a questo fascino si sono dimostrati poeti, narratori, romanzieri che<br />

nulla accomuna l’uno all’altro, se non il fatto che nelle loro opere, con frequenza e in<br />

misura maggiore o minore, emergono idee o strutture matematiche, affiorano<br />

riferimenti ai numeri transfiniti o alle geometrie non euclidee, balenano metafore<br />

costruite su concetti tratti dall’algebra o dalla logica. Nella maggior parte dei casi – è<br />

bene chiarirlo fin da subito – si tratta di influssi non assimilati in maniera sistematica,<br />

né tanto meno sviluppati secondo un qualche programma didattico o divulgativo.<br />

«Niente è più fecondo, tutti i <strong>matematici</strong> lo sanno, – osserva André Weil nel breve<br />

saggio De la métaphysique aux mathématiques, – di quelle vaghe analogie, quegli<br />

oscuri riflessi che rimandano da una teoria all’altra, quelle furtive carezze, quelle<br />

discrepanze inesplicabili: niente dà un piacere più grande al ricercatore» 4 . Lo stesso si<br />

potrebbe dire dei rapporti tra letteratura e matematica: furtive carezze, corrispondenze<br />

incerte, echi, suggestioni, consonanze e dissonanze.<br />

Gli esempi non mancano. Lautréamont, nei Canti di Maldoror, celebra le<br />

«mathématiques sévères», e al contempo «saintes»: «Aritmetica! Algebra! Geometria!<br />

Grandiosa trinità! Luminoso triangolo! Colui che non vi ha conosciute è un insensato!<br />

Meriterebbe la prova dei massimi supplizi; poiché c’è cieco disprezzo nella sua<br />

ignorante noncuranza; ma colui che vi conosce e vi apprezza non vuole più nulla dei<br />

beni della terra; si accontenta dei vostri magici piaceri; e, sorretto dalle vostre ali<br />

oscure, non desidera più altro che di innalzarsi, con volo leggero, costruendo una<br />

spirale ascendente, verso la volta sferica dei cieli» 5 ; appassionato lettore di<br />

Lautréamont, e nel corso dei suoi studi di ingegneria all’Università di Roma allievo di<br />

studiosi quali F. Severi, L. Fantappiè e T. Levi-Civita, Leonardo Sinisgalli evocherà<br />

questa stessa meraviglia di fronte al mondo della matematica – «questo tempio<br />

tranquillo dalle ossa forti, questo miracolo di stabilità da cui è tuttora sorretta la nostra<br />

incorruttibile forma» 6 – nelle pagine di Furor mathematicus. Per il «poeta del rigore<br />

impassibile della mente» 7 , Paul Valéry, «les mathématiques, entre autres choses,<br />

enseignent l’acharnement contre les conséquences, et la rigueur de la route une fois<br />

3 J. Gray, The Hilbert Challenge, Oxford University Press, Oxford 2000, p. 241. (N.d.C.)<br />

4 A. Weil, De la métaphysique aux mathématiques, in Œuvres scientifiques/Collected papers,<br />

Springer, New York 1980, vol. II, p. 408. (N.d.C.)<br />

5 Lautréamont, Opere complete, Feltrinelli, Milano 1968, p. 103. (N.d.C.)<br />

6 L. Sinisgalli, Furor mathematicus, Mondadori, Milano 1950, p. 13. (N.d.C.)<br />

7 La definizione è di I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano 1988, p. 64. (N.d.C.)<br />

5


choisie arbitrairement» 8 : nella sterminata officina dei Cahiers, che abbracciano<br />

cinquant’anni di implacabile e solitario ragionare, centinaia e centinaia sono le<br />

osservazioni dedicate alle scienze matematiche («elles sont exercise, et comparables à<br />

la danse» 9 ) e – come per Musil – i modelli che suscitano ammirazione, rispetto e<br />

invidia non sono tanto i letterati o gli artisti, quanto Riemann, Poincaré, Enriques, Elie<br />

Cartan, Emile Borel, Hadamard, oppure le «fortes tétes de la physique», Planck,<br />

Einstein, Langevin, Lorentz 10 . Se già nei Turbamenti del giovane Törless la<br />

matematica è strumento privilegiato di indagine critica e, nello stesso tempo, metafora<br />

di un sapere altro, quasi un ponte senza arcate sospeso sull’abisso (come si legge nel<br />

celebre passo sulla strana «faccenda dei numeri immaginari» 11 ), è soprattutto<br />

attraverso il «disincantamento statistico» di Urlich il matematico che Musil, ne<br />

L’uomo senza qualità, tenta di ricomporre il dissidio tra «anima ed esattezza», di<br />

sanare la frattura tra Dichtung e Erkenntnis 12 ; anche nell’opera di Hermann Broch –<br />

autore diviso, come Musil, tra scienza e poesia – sono <strong>matematici</strong> sia il protagonista<br />

de L’incognita [Die unbekannte Größe] sia il personaggio di Zacharias negli<br />

Incolpevoli, il quale, insegnando ai suoi allievi che la matematica consiste soltanto in<br />

“esercizi” da risolvere 13 , distrugge così quell’“impulso problematico” che è il<br />

fondamento stesso della conoscenza matematica 14 . In «quella straordinaria e<br />

indefinibile zona dell’immaginazione da cui sono uscite le opere di Lewis Carroll, di<br />

Queneau, di Borges» 15 e – aggiungendo l’autore stesso della citazione appena<br />

riportata – di Calvino, i concetti della matematica possono essere un ausilio prezioso<br />

per scoprire, o inventare, le modalità possibili di un «nuovo rapporto tra la leggerezza<br />

fantomatica delle idee e la pesantezza del mondo» 16 ; in compagnia di Queneau e<br />

Calvino, intenti a esplorare le potenzialità della letteratura a partire dal principio della<br />

«contrainte» 17 , incontriamo gli allegri sodali dell’Oulipo – basterà citare François Le<br />

Lionnais, Harry Mathews, Jacques Roubaud, Georges Perec – che nei loro testi fanno<br />

uso copioso di strutture algebriche, numeriche e combinatoriche (per orchestrare<br />

l’iper-romanzo La vita istruzioni per l’uso, per esempio, Perec si serve di un<br />

8 P. Valéry, Cahiers, a cura di Judith Robinson-Valéry, voi. Il, Gallimard, Paris 1974, p. 780. [La<br />

matematica, tra le altre cose, insegna l’accanimento contro le conseguenze, e il rigore nel seguire la<br />

via che abbiamo arbitrariamente scelto]. (N.d.C.)<br />

9 Ibid., p. 788. [La matematica è un esercizio, e paragonabile alla danza]. (N.d.C.)<br />

10 Ibid., p. 855. (N.d.C.)<br />

11 R. Musil, I turbamenti del giovane Törless, a cura di B. Cetti Marinoni, Garzanti, Milano 1978, p.<br />

83. (N.d.C.)<br />

12 12 Cfr. L. Dahan-Gaida, Musil. Savoir et fiction, Presses Universitaires de Vincennes, Saint-Denis<br />

1994, p. 17. (N.d.C.)<br />

13 H. Broch, Gli incolpevoli, Einaudi, Torino 1981, p. 31. (N.d.C.)<br />

14 Cfr. H. Arendt, Prefazione a H. Broch, Poesia e conoscenza, Lerici, Milano 1965, p. 43. (N.d.C.)<br />

15 I. Calvino, Filosofia e letteratura, in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, vol. I,<br />

Mondadori, Milano 1995, p. 194. (N.d.C.)<br />

16 Ibid., p. 196. (N.d.C.)<br />

17 «Axiome: La contrainte est un principe non un moyen», precisa Jacques Roubaud (La<br />

Mathématique dans la méthode de Raymond Queneau, in Oulipo. Atlas de littérature potentielle,<br />

Gallimard, Paris 1988, p. 55). (N.d.C.)<br />

6


«biquadrato latino ortogonale di ordine 10» 18 ). Suggestioni o reminiscenze<br />

matematiche si possono infine ritrovare nelle opere di una variegata costellazione di<br />

scrittori del Novecento tra loro diversissimi, ma tutti più o meno gravemente<br />

contagiati dallo stesso virus: per citarne solo alcuni, Leo Perutz, Carlo Emilio Gadda,<br />

Max Frisch, Hans Magnus Enzensberger, Don DeLillo (pensiamo al romanzo Ratner’s<br />

star), David Foster Wallace, Apostolos Doxiadis.<br />

La succinta panoramica che abbiamo presentato potrebbe indurre a concludere che i<br />

rapporti tra letteratura e matematica siano limitati a una schiera per quanto eletta,<br />

tuttavia numericamente limitata di autori, e proprio per questa ragione, se non<br />

eccezionali, quantomeno incidentali. I testi raccolti nel presente volume – selezionati<br />

alquanto arbitrariamente sulla base dei soli criteri di appartenere al Novecento (con<br />

qualche libertà) e di possedere una loro autosufficienza narrativa – vorrebbero invece<br />

testimoniare a favore di una più profonda affinità tra queste due attività dell’intelletto<br />

umano, una prossimità quasi imposta dalle forze più vitali interne alla cultura della<br />

nostra epoca. Osserva Adorno, riferendosi ad un contesto più ampio: «[...] sebbene<br />

l’arte e la scienza si siano storicamente separate, sarebbe errato ipostatizzare la loro<br />

opposizione. Il disgusto per una anacronistica mescolanza non assolve una cultura<br />

organizzata in compartimenti stagni. Per quanto necessari, questi compartimenti<br />

sanciscono e istituzionalizzano anche la rinuncia alla verità nella sua interezza» 19 .<br />

Anche la letteratura e la matematica non sono altro che specchi in ciascuno dei quali la<br />

verità – o, per usare un’espressione meno impegnativa, la varietà dell’universo – si<br />

riflette solo in maniera parziale. Se le immaginiamo come due immense placche<br />

continentali, che lentamente derivano in un’ipotetica dinamica tettonica cozzando sia<br />

l’una contro l’altra, sia contro altre placche non meno massicce (la filosofia, le arti<br />

figurative, le scienze fisiche, ecc.), ecco che dovrebbe apparire evidente come le zone<br />

di contiguità, di incontro-scontro, di attrito e di contatto non siano diffuse, ma<br />

concentrate lungo certe faglie, aree in cui massima è l’attività tellurica e vulcanica.<br />

Soltanto cercando di individuare, seppur con inevitabile approssimazione, queste aree<br />

– che saranno modalità del pensiero, nodi concettuali, idee – potremo sperare di<br />

cogliere il senso profondo dei legami tra letteratura e matematica.<br />

Secondo un assunto tanto spesso ripetuto quanto debolmente argomentato, il<br />

pensiero matematico e l’attività linguistica sarebbero completamente separati. Al<br />

contrario, come sostiene Keith Devlin ne Il gene della matematica 20 tenendo conto<br />

delle recenti acquisizioni della neuropsicologia cognitiva e delle teorie<br />

sull’universalità delle strutture linguistiche, alla base dell’abilità di fare matematica,<br />

considerata alla luce della storia evolutiva di Homo sapiens, vi sono gli stessi<br />

meccanismi cerebrali preposti all’elaborazione del linguaggio. Detto altrimenti,<br />

18 I principali procedimenti <strong>matematici</strong> e combinatori impiegati in questo romanzo sono descritti da<br />

G. Perec nel testo Quatrefigures pour «Le vie mode d’emploi», in «L’Arc», LXXVI (1979), pp. 50-<br />

53. L’esistenza di un biquadrato latino di ordine 10 era stata dimostrata nel 1959 da R. C. Bose e S.S.<br />

Shrikhande. (N.d.C.)<br />

19 T.W. Adorno, Il saggio come forma, in Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979,<br />

p. II. (N.d.C.)<br />

20 K. Devlin, Il gene della matematica, Longanesi, Milano 2002. Vedi anche S. Dehaene, Il pallino<br />

della matematica, Mondadori, Milano 2000. (N.d.C.)<br />

7


intelligenza matematica e intelligenza linguistica sono due facce della stessa medaglia.<br />

Se accettiamo la tesi di Devlin, dobbiamo concludere che Roland Barthes non colga<br />

esattamente nel segno quando scrive che il linguaggio è l’«elemento [...] che divide<br />

più nettamente di ogni altra differenza» scienza e letteratura, perché nel primo caso<br />

rappresenta «solo uno strumento», mentre nel secondo «è l’essere della letteratura, il<br />

suo stesso mondo» 21 . Per la matematica il linguaggio non è un «comodo strumento» o<br />

una «lussuosa decorazione», né tantomeno qualcosa che esiste al di fuori di essa e in<br />

qualche modo la precede: all’opposto, vale proprio ciò che Barthes ritiene sia precipuo<br />

della letteratura, ovvero che il linguaggio è l’essere della matematica, il suo stesso<br />

mondo. Essendo entrambe, ovviamente in maniera diversa, «modi specializzati di<br />

usare la nostra predisposizione per il linguaggio» 22 , letteratura e matematica si trovano<br />

dunque a percorrere strade parallele e a dover affrontare problemi consimili.<br />

In primo luogo, entrambe sono attività di “finzione” che consistono principalmente<br />

nell’invenzione di mondi possibili. «Ogni poema ben inventato – osservava già a metà<br />

del ’700 Johann Jakob Breitinger – va letto come una storia in un altro mondo<br />

possibile», e Umberto Eco precisa: «La regola fondamentale per affrontare un testo<br />

narrativo è che il lettore accetti, tacitamente, un patto finzionale con l’autore, quello<br />

che Coleridge chiamava la “sospensione dell’incredulità”» 23 . A prima vista le cose<br />

sembrerebbero andare diversamente per la matematica: non è questa forse il campo in<br />

cui è bandita ogni libertà di invenzione, il regno della logica indefettibile? In realtà, è<br />

possibile argomentare a favore di una visione differente di questa disciplina: come<br />

scrive David Hilbert, «ogni teoria [matematica] è solo un telaio, uno schema di<br />

concetti unitamente alle loro mutue relazioni necessarie, e [...] gli elementi<br />

fondamentali possono venir pensati in modo arbitrario» 24 In questa prospettiva, la<br />

matematica, in quanto studio non di oggetti ma di relazioni tra oggetti (come<br />

suggerisce Poincaré), diventa dunque «le modèle de l’arbitraire» 25 : gli assiomi e le<br />

definizioni non sono iscritti ab æterno in qualche empireo ultramondano, ma sono il<br />

frutto di libere scelte non assoggettate a altro vincolo se non a quello della coerenza<br />

interna del sistema e, in particolare, non condizionate (se non accidentalmente) dalla<br />

«realtà» del mondo fisico. «Il fatto che in matematica si prenda tutto alla lettera –<br />

commenta Gian-Carlo Rota – rende questa disciplina tanto lontana dai bisogni dei<br />

fisici quanto potrebbe esserlo la storia del Mago di Oz» 26 . Non devono perciò stupire<br />

l’asserzione di Karl Weierstrass che «un matematico che non sia contemporaneamente<br />

21 R. Barthes, Dalla scienza alla letteratura, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, p. 6.<br />

(N.d.C.)<br />

22 L’espressione, riferita alla sola matematica, è di Devlin, Il gene cit., p. 11. (N.d.C.)<br />

23 U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994, p. 91. Vedi anche L.<br />

Dolezhel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Bompiani, Milano 1999, che riporta in esergo la<br />

frase di Breitinger citata. (N.d.C.)<br />

24 Lettera di Hilbert a Frege del 29 dicembre 1899 in G. Frege, Alle origini della nuova logica.<br />

Epistolario scientifico con Hilbert, Husserl, Peano, Russeil, Vallati e altri, a cura di C. Mangione,<br />

Boringhieri, Torino 1983, p. 52. (N.d.C.)<br />

25 Valéry, Cahiers cit., vol. II, p. 780. (N.d.C.)<br />

26 G.-C. Rota, The Lost Café, in Indiscrete Thoughts, a cura di F. Palombi, Birkhäuser, Boston-Basel-<br />

Berlin 1997, p. 73. (N.d.C.)<br />

8


anche un po’ poeta non sarà mai un matematico completo» 27 o il parallelo suggerito<br />

da Emile Boutroux tra l’attività del matematico e quella del romanziere 28 : «un<br />

matematico – scrive con un certo gusto dissacratorio Devlin – è una persona per la<br />

quale la matematica è una soap opera. [...] I “personaggi” della soap opera della<br />

matematica non sono persone ma, appunto, oggetti <strong>matematici</strong>: numeri, figure<br />

geometriche, gruppi, spazi topologici, eccetera. I fatti e le relazioni al centro<br />

dell’attenzione non sono nascite, morti, matrimoni, relazioni sentimentali e rapporti<br />

d’affari, ma fatti <strong>matematici</strong> e relazioni tra oggetti <strong>matematici</strong>. Qual è la relazione tra<br />

gli oggetti X e Y? Gli oggetti del tipo X hanno tutti la proprietà P? Quanti oggetti di<br />

tipo Z esistono?» 29 . In altre parole, le teorie matematiche costituiscono universi<br />

finzionali, i quali non sono fondamentalmente dissimili da quelli, altrettanto<br />

complessi 30 e articolati, dei grandi romanzi del Novecento, quali ad esempio la<br />

Ricerca del tempo perduto o l’Ulisse. In maniera speculare, capita che gli scrittori si<br />

lascino sedurre dalle rigorose architetture della matematica e si vincolino<br />

all’osservanza di regole strutturali, costrizioni formali, schemi narrativi: pensiamo non<br />

soltanto a quelle forme di romanzo praticate dai membri dell’Oulipo «che impongono<br />

alla materia tutte le virtù del Numero» (Queneau) 31 ma anche a racconti come La<br />

morte e la bussola di Borges che si sviluppano con la stessa cogenza di una<br />

dimostrazione matematica.<br />

In secondo luogo, riprendendo il paragone ispirato alla tettonica a zolle, se la faglia<br />

lungo la quale collidono matematica e letteratura si può identificare con l’attività<br />

finzionale del nostro cervello, le zone critiche in cui soprattutto si concentra l’energia<br />

di questo urto sono rappresentate da alcuni problemi fondamentali che più di altri<br />

mettono in luce la forza e la debolezza dell’immaginazione. Ogni classificazione, si<br />

sa, è tanto azzardata quanto incompleta. Ciò nonostante, ci arrischieremo a<br />

raggruppare questi problemi chiave in tre macrocategorie: l’infinito, lo spazio, la<br />

complessità.<br />

L’infinito.<br />

«C’è un concetto che corrompe e confonde tutti gli altri. Non parlo del Male il cui<br />

limitato impero è l’etica; parlo dell’Infinito» 32 . I famosi paradossi di Zenone d’Elea –<br />

la dicotomia, Achille, la freccia e lo stadio – già duemila e cinquecento anni fa<br />

mettevano in risalto il dirompente potenziale problematico di questo concetto. Quanti<br />

27 Citazione tratta da H.M. Enzensberger, Gli elisir della scienza, Einaudi, Torino 2004, p. 24.<br />

(N.d.C.)<br />

28 Il parallelo di Boutroux è riportato nel saggio di P. Zellini, Antinomie dell’atti-vita creatrice nella<br />

matematica del primo ’900, in Anima ed esattezza cit., pp. 55-56. (N.d.C.)<br />

29 Devlin, Il gene cit., pp. 306-7. (N.d.C.)<br />

30 Sulla nozione di complessità in letteratura vedi F. Moretti, Opere mondo, Einaudi, Torino 2003,<br />

cap. V, § 5 e cap. VIII, § 1. (N.d.C.)<br />

31 Citazione tratta da I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, in Saggi cit., vol. I, p). 1429.<br />

(N.d.C.)<br />

32 J.L. Borges, Metempsicosi della tartaruga, in Discussione, in Tutte le opere, a cura di Domenico<br />

Porzio, Mondadori, Milano 1985, vol. 1, p. 393 (traduzione leggermente modificata). (N.d.C.)<br />

9


sono i punti di una retta? Sono “indivisibili”? Com’è possibile il movimento?<br />

L’infinito esiste solo in potenza o anche in atto? I tentativi di trovare risposta a tali<br />

dilemmi, legati a doppio filo con altre grandi questioni che hanno segnato in<br />

profondità lo sviluppo del pensiero occidentale, quasi non si contano: da Aristotele ad<br />

Avicenna e Duns Scoto, da Thomas Bradwardine e Nicole Oresme a Galileo e<br />

Newton, da Leibniz e Berkeley a Bolzano e Dedekind. Lo scenario concettuale<br />

cambiò drasticamente nella seconda metà dell’Ottocento con la creazione della teoria<br />

degli insiemi da parte di Georg Cantor, il grande matematico nato a Pietroburgo nel<br />

1845 che finirà tristemente i suoi giorni in un ospedale psichiatrico nel 1918. Cantor<br />

diede definitivo diritto di cittadinanza al concetto di infinito attuale in matematica,<br />

costruendo una rigorosa teoria dei numeri cardinali transfiniti che cancellava con un<br />

solo colpo di spugna la cautelosa impostazione aristotelica, forte ancora, dopo oltre<br />

venti secoli, di molti agguerriti sostenitori. Uno dei più stupefacenti risultati di Cantor<br />

fu la scoperta che gli “infiniti” non sono tutti uguali, anzi costituiscono una<br />

successione a loro volta infinita. Il primo numero infinito (tecnicamente, si dovrebbe<br />

dire “cardinale transfinito”) è quello che conta tutti gli elementi dell’insieme dei<br />

numeri naturali, 1, 2, 3, 4,...; questo numero prende il nome di “aleph zero”. Il numero<br />

dei punti di una retta, che si possono identificare, come sappiamo dalla geometria<br />

analitica studiata a scuola, con i numeri reali, è anch’esso infinito e conta tutti i<br />

sottoinsiemi dell’insieme dei numeri naturali (questo fatto non è del tutto elementare).<br />

Con un’argomentazione ingegnosa, Cantor riuscì a dimostrare che questo cardinale<br />

transfinito è maggiore di aleph zero: nello stesso modo in cui 7 è maggiore di 3,<br />

perché se tentiamo di mettere in corrispondenza gli elementi di un insieme di elementi<br />

con quelli di un insieme di elementi ci avanza sempre qualcosa, i punti della retta, o<br />

più in generale di un qualsiasi insieme continuo, sono “di più” dei numeri naturali.<br />

L’Hotel straordinario 33 di Stanislaw Lem ha un numero di stanze pari ad aleph zero:<br />

sebbene sia già al completo, riesce ad accogliere non solo un qualsiasi numero finito<br />

di nuovi ospiti, ma anche l’infinita moltitudine (ma sempre di cardinalità aleph zero!)<br />

dei partecipanti al congresso interstellare dei filateletici. Perfino quando al direttore<br />

viene richiesto di trovare alloggio a tutti gli ospiti di un infinito numero di hotel<br />

similari – ciascuno dei quali con un numero infinito di ospiti – si riesce a non<br />

scontentare nessuno: la soluzione indicata dal presidente dell’Accademia di<br />

Matematica della galassia del Cigno ricalca il procedimento mediante il quale Cantor<br />

dimostra che l’insieme dei numeri razionali può essere posto in corrispondenza<br />

biunivoca con quello dei naturali, e che pertanto ha anch’esso cardinalità aleph zero 34 .<br />

Quante sono le pagine del “libro di sabbia” dell’omonimo racconto di Borges 35 ? Il<br />

volume non ha inizio né fine e la numerazione delle pagine sembra del tutto casuale:<br />

tuttavia, il numero delle pagine deve essere aleph zero, altrimenti non sarebbe<br />

nemmeno possibile sfogliarle una dopo l’altra.<br />

I paradossi di Zenone – forse per l’insolenza con cui il filosofo di Elea spregia il<br />

33 In questo volume, pp. 37. (N.d.C.)<br />

34 Con riferimento alle pp. 41-42, è sufficiente associare a ogni coppia (a,b) la frazione a/b: (1,1) →<br />

1/1, (1,2) → 1/2 e così via. (N.d.C.)<br />

35 In questo volume, pp. 19. (N.d.C.)<br />

10


senso comune, forse per l’inafferrabilità della nozione di continuo – aprono<br />

sull’infinito prospettive che disorientano e, nello stesso tempo, affascinano. Carlo<br />

Emilio Gadda, nel Primo libro delle favole, offre una virtuosistica parafrasi del<br />

paradosso di Achille (il Tachipo) e la tartaruga (la cheli); l’aporia della freccia ispira il<br />

racconto Ti con zero di Calvino, e nel Cimitero marino di Valéry si leggono i versi:<br />

«Crudel Zenone! Zenone Eleata! / M’hai trafitto con quella freccia alata / Che vibra,<br />

vola, e più non vola già!» 36 . Borges, che mostra una speciale predilezione per l’aporia<br />

di Achille, osserva: «Due idee – due ossessioni, per dir meglio – reggono l’opera di<br />

Franz Kafka. La subordinazione è la prima delle due, l’infinito la seconda. In quasi<br />

tutte le sue finzioni ci sono gerarchie e tali gerarchie sono infinite» 37 . Queste<br />

ossessioni (aggiunge Borges) si ritrovano, declinate in varie forme particolari, sia nei<br />

romanzi, sia in non pochi racconti (o frammenti di racconto), come ad esempio Un<br />

fatto d’ogni giorno e Un messaggio dell’imperatore 38 , il quale si sviluppa secondo la<br />

struttura del “rinvio infinito”. Lo stesso tema, e la stessa struttura, stanno alla base del<br />

racconto di Dino Buzzati I sette messageri 39 che possiamo leggere come un<br />

angoscioso avatar del paradosso di Achille: mentre Achille incalza la tartaruga e,<br />

benché mai la raggiunga, la distanza che li separa tende a zero, qui invece, sebbene i<br />

messaggeri raggiungano sempre il protagonista, la distanza che devono percorrere<br />

tende all’infinito, perché «non esiste [...] frontiera, almeno nel senso che noi siamo<br />

abituati a pensare» 40 . Detto in termini <strong>matematici</strong>, nel paradosso di Achille abbiamo a<br />

che fare con una serie infinita convergente, mentre nel racconto di Buzzati con una<br />

serie divergente: e «le serie divergenti – come ebbe a scrivere il grande matematico<br />

norvegese Niels Henrik Abel – sono un’invenzione del diavolo».<br />

Anche i numeri che, pur non essendo infiniti, sono tuttavia così smisuratamente<br />

grandi da eccedere l’immaginare umano hanno un loro fascino altrettanto perturbante.<br />

Nell’Arenario Archimede sviluppa una notazione per esprimere numeri che nel<br />

sistema decimale potrebbero avere fino a 80.000 milioni di milioni di cifre e se ne<br />

serve per esprimere il numero di granelli di sabbia necessari, secondo la sua<br />

concezione astronomica, a riempire la sfera dell’universo, dal centro del sole fino alle<br />

stelle fisse. Se si ammette che il mondo sia costituito da un insieme finito di atomi, si<br />

deve concludere che anche tutte le possibili combinazioni di questi atomi – che dànno<br />

luogo a tutto ciò che è accaduto e potrà mai accadere – sono in numero finito.<br />

Trascorso un tempo inconcepibilmente lungo, ma non infinito, le stesse combinazioni<br />

dovranno necessariamente ripetersi, forse non ciclicamente, ma comunque<br />

ripresentando scenari che già si sono verificati in qualche punto del passato.<br />

Sostituendo nei precedenti ragionamenti alla parola “atomo” la parola “lettera”, eccoci<br />

catturati nella memorabile metafora della biblioteca universale, resa celebre da<br />

36 P. Valéry, Il cimitero marino, traduzione it. Mario Tutino, Einaudi, Torino 1966, p. 21. (N.d.C.)<br />

37 J.L. Borges, Franz Kafka. «La metamorfosi», in Prologhi, in Tutte le opere cit., vol. II, p. 857. In<br />

Kafka e i suoi precursori si legge: «il mobile e la freccia e Achille sono i primi personaggi kafkiani<br />

della letteratura» (in Altre inquisizioni, in Tutte le opere cit., voi. I, p. 5007). (N.d.C.)<br />

38 Citiamo i titoli dall’edizione F. Kafka, <strong>Racconti</strong>, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1983.<br />

(N.d.C.)<br />

39 In questo volume, pp. 74. (N.d.C.)<br />

40 Ibid., p. 76. (N.d.C.)<br />

11


Borges. In un articolo pubblicato nella rivista Sur, qualche anno prima della raccolta<br />

Finzioni, lo scrittore argentino rende palese la genealogia della sua metafora: «Il<br />

capriccio o la fantasia o l’utopia della Biblioteca Totale ha certe caratteristiche, che<br />

non è difficile confondere con virtù. Desta meraviglia, in primo luogo, il lungo tempo<br />

impiegato dagli uomini per pensare questa idea. Certi esempi che Aristotele attribuisce<br />

a Democrito e a Leucippo la prefigurano con chiarezza, ma il suo tardo inventore è<br />

Gustav Theodor Fechner e il suo primo divulgatore è Kurd Laßwitz 41 . [...] Le sue<br />

connessioni sono illustri e molteplici: ha a che fare con l’atomismo e con l’analisi<br />

combinatoria, con la tipografia e con il caso. Nell’opera La gara con la tartaruga<br />

(Berlino, 1929), il dottor Theodor Wolff opina che sia una derivazione, o una parodia,<br />

della macchina mentale di Raimundo Lullo; aggiungerei che si tratta di un avatar<br />

tipografico di quella dottrina dell’Eterno Ritorno che, patrocinata dagli stoici o da<br />

Bianqui, dai pitagorici o da Nietzsche, ritorna eternamente» 42 . Tra i propri precursori<br />

Borges annovera anche Cicerone (citando un celebre passo del De natura deorum) e<br />

sopratutto Lewis Carroll, che nella seconda parte del “romanzo onirico” Sylvie and<br />

Bruno aveva pronosticato: «Verrà il giorno, se il mondo durerà abbastanza a lungo, –<br />

disse Arthur, – in cui ogni possibile melodia sarà stata composta, ogni possibile gioco<br />

di parole perpetrato, – Lady Muriel si torse le mani come una regina da tragedia, – e<br />

peggio ancora ogni possibile libro scritto. Poiché il numero delle parole è finito» 43 .<br />

Tra i successori di Borges potremmo invece menzionare Raymond Queneau, che in<br />

Cent mille milliards de poèmes ci ha offerto un esempio in miniatura di quella<br />

vertigine combinatorica che domina la biblioteca universale.<br />

Un’altra idea che gravita nell’orbita del concetto di infinito è quella di<br />

autoreferenzialità. Come un raggio di luce imprigionato tra due specchi paralleli viene<br />

riflesso avanti e indietro un’infinità di volte, così la mente umana rimane intrappolata<br />

nei paradossi originati da enunciati che affermano qualcosa su stessi o il cui contenuto<br />

implica un riferimento a se stessi (appunto, autoreferenziali). Il più antico di questi<br />

enunciati è l’antinomia del mentitore, attribuita dalla tradizione filosofica ad<br />

Epimenide di Creta, che possiamo formulare nella forma (dovuta a Eubulide) «questa<br />

proposizione non è vera»; tra i più celebri, il paradosso escogitato da Russell – la<br />

classe di tutte le classi che non contengono se stesse contiene o non contiene se stessa?<br />

– il quale costituì uno dei fattori scatenanti di quella crisi dei fondamenti nella<br />

matematica di inizio ’900 che mutò la concezione stessa della disciplina.<br />

L’autoreferenzialità, anche quando non è fonte di paradossi, spiazza il pensiero: basti<br />

pensare all’immagine del barone di Münchhausen che cerca di sfilarsi dai propri<br />

stivali sollevandosi per i capelli, alla litografia di Escher che mostra due mani nell’atto<br />

di disegnarsi a vicenda, o al breve e folgorante racconto di Julio Cortázar Continuità<br />

41 La biblioteca universale, in questo volume, pp. 97. A p. 133 l’autore commette un banale errore di<br />

aritmetica, che lasciamo al lettore il gusto di scoprire. (N.d.C.)<br />

42 J.L. Borges, La biblioteca total (1939), in Borges en «Sur» (1931-1980), Emecé, Buenos Aires<br />

1999, p. 24. (N.d.C.)<br />

43 L. Carroll, Sylvie and Bruno concluded, in The complete works of Lewis Carroll, a cura di<br />

Alexander Woolcott, The Modem Library, New York s.d., p. 595 [traduzione it. Garzanti, Milano<br />

1996]. (N.d.C.)<br />

12


dei parchi 44 . Il paradosso del mentitore subì ad opera di Kurt Gödel una<br />

singolarissima trasmutazione. In luogo dell’enunciato «questa proposizione non è<br />

vera», Gödel prese in considerazione l’enunciato «questa proposizione non è<br />

dimostrabile» e riuscì a dimostrare, nel 1930 – quando aveva appena 24 anni – che in<br />

un sistema assiomatico come l’aritmetica elementare si può costruire, in linguaggio<br />

matematico, un’espressione siffatta. Assunto che nell’aritmetica è impossibile<br />

dimostrare enunciati falsi, ne consegue che l’enunciato «questa proposizione non è<br />

dimostrabile» non può essere falso, perché altrimenti sarebbe dimostrabile e dunque<br />

vero. Deve allora essere vero, e pertanto non è dimostrabile. Al contrario di quel che<br />

accade per il paradosso di Epimenide, qui non c’è alcuna contraddizione, ma si è<br />

provato un teorema, per quanto sconcertante: esistono espressioni vere e non<br />

dimostrabili. Il risultato di Gödel e le sue implicazioni non soltanto infransero<br />

definitivamente quello che era stato il sogno di David Hilbert – ridurre la matematica<br />

a un sistema formale privo di contraddizioni dal quale è bandito ogni ignorabimus –<br />

ma rappresentarono il punto di partenza del lavoro di Alan Turing sui limiti intrinseci<br />

di ogni algoritmo 45 .<br />

Lo spazio.<br />

Nella seconda parte de I fratelli Karamazov Ivan spiega ad Alëša: «Ma ecco,<br />

tuttavia, che cosa occorre rilevare: posto che Dio esista, e che abbia realmente creato<br />

la terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e<br />

l’intelletto umano è stato creato idoneo a concepire soltanto uno spazio a tre<br />

dimensioni. Vi sono stati, invece, e vi sono geometri e filosofi, ed anzi tra i più grandi,<br />

i quali dubitano che tutta la natura, o più ampiamente, tutto l’universo, sia stato creato<br />

secondo la geometria euclidea, e s’avventurano perfino a supporre che due linee<br />

parallele, che secondo Euclide non possono a nessun patto incontrarsi sulla terra,<br />

potrebbero anche incontrarsi prima o poi nell’infinito» 46 . Tra le più grandi conquiste<br />

della matematica ottocentesca vi è, senza dubbio, l’invenzione delle geometrie non<br />

euclidee, la cui importanza non si coglie tanto nelle opere di János Bolyai e Nikolaj<br />

Ivanovič Lobačevskij – solitari e geniali precursori – quanto in quel profondo<br />

ripensamento del concetto stesso di spazio che, iniziato con Carl Friedrich Gauss,<br />

trova sviluppo nei risultati e nelle idee di <strong>matematici</strong> e scienziati quali Bernhard<br />

Riemann, Hermann Helmholtz, Felix Klein, Sophus Lie, Eugenio Beltrami, William<br />

K. Clifford, Henri Poincaré. Non solo sono immaginabili geometrie del piano diverse<br />

da quella descritta negli Elementi di Euclide, ma diventa possibile definire e studiare<br />

un’infinita varietà di spazi diversi – a un numero qualunque di dimensioni, curvi,<br />

limitati o illimitati, omogenei o non omogenei. I nuovi orizzonti <strong>matematici</strong> inducono<br />

gli scienziati a ripensare in prospettiva critica la tradizionale concezione dei rapporti<br />

tra geometria e fisica, così come era stata espressa, per esempio, da Kant. Nella<br />

Habilitationsvortrag per il conseguimento del titolo di Privatdozent, esposta nel 1854<br />

44 In questo volume, pp. 77. (N.d.C.)<br />

45 Vedi, in questo volume, E. Carrère, Breve ritratto di Alan Turing, pp. 176. (N.d.C.)<br />

46 F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione it. A. Villa, Einaudi, Torino 1949, p. 314. (N.d.C.)<br />

13


davanti alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Gottinga, alla presenza di Gauss,<br />

Riemann dichiara senza mezzi termini: «lo spazio [fisico] costituisce soltanto un caso<br />

particolare di grandezza triestesa. Ne consegue necessariamente che i teoremi della<br />

geometria non si possono derivare da concetti generali di grandezza, ma che quelle<br />

proprietà, grazie alle quali lo spazio si distingue da altre grandezze triestese pensabili,<br />

possono essere tratte soltanto dall’esperienza» 47 . La teoria della relatività generale<br />

elaborata da Einstein nel secondo decennio del ’900 – come riconosceva il suo stesso<br />

autore 48 – sarebbe inconcepibile senza l’arsenale di conoscenze teoriche messo a<br />

punto dalla geometria differenziale ottocentesca e, forse soprattutto, senza queste<br />

premesse epistemologiche.<br />

I nuovi universi finzionali creati dalla geometria modificano – senza voler<br />

ipotizzare influenze dirette, improbabili o quantomeno non documentate nella maggior<br />

parte dei casi, ma per un fenomeno di osmosi culturale – il modo stesso in cui si può<br />

parlare dello spazio. In Flatlandia (1882) il reverendo Edwin Abbott Abbott<br />

immagina (traendo forse ispirazione da un esempio di Helmholtz? 49 ) un tetro mondo<br />

bidimensionale, una sorta di ritratto impietosamente stilizzato della società vittoriana,<br />

i cui abitanti più illuminati pervengono tuttavia a intuire l’esistenza di dimensioni<br />

superiori. A partire dalla fine dell’Ottocento l’idea che il nostro universo<br />

tridimensionale sia solo la pallida proiezione di un’entità geometrica a quattro<br />

dimensioni ricorre in una moltitudine di opere letterarie (un’idea che acquista dunque<br />

popolarità anche indipendentemente dalla teoria della relatività di Einstein, che<br />

peraltro diventa largamente nota al di fuori degli ambienti scientifici soltanto dopo il<br />

1920). L’esistenza di una quarta dimensione temporale è (ovviamente) alla base del<br />

romanzo La macchina del tempo (1895) di Herbert Wells, e ispira a Proust la<br />

grandiosa immagine della chiesa di Combray descritta come «un edificio che<br />

occupava, per così dire, uno spazio a quattro dimensioni (la quarta era quella del<br />

Tempo) e che, dispiegando attraverso i secoli la sua navata, sembrava aver varcato e<br />

sconfitto, di campata in campata, di cappella in cappella, non solo qualche metro, ma<br />

epoche successive, dalle quali usciva in trionfo» 50 . L’esistenza, invece, di una quarta<br />

dimensione spaziale innesca e sostiene, per fare solo due esempi, il meccanismo<br />

narrativo dei racconti La casa nuova 51 di Robert Heinlein e Geometria solida 52 di Ian<br />

McEwan, che suggerisce il modo forse meno cruento e più inventivo di tutta la storia<br />

della letteratura per sbarazzarsi della propria moglie.<br />

Gli spazi non euclidei sensu stricto (cioè, spazi le cui caratteristiche metriche o<br />

topologiche non siano quelle dello spazio euclideo tridimensionale) fanno raramente –<br />

47 B. Riemann, Sulle ipotesi che stanno a fondamento della geometria e altri scritti scientifici e<br />

filosofici, a cura di R. Pettoello, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 4. (N.d.C.)<br />

48 Vedi A. Einstein, I fondamenti della teoria dalla relatività generale, in Opere scelte, a cura di<br />

Enrico Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 282. (N.d.C.)<br />

49 Vedi H. Helmholtz, Sull’origine e sul significato degli assiomi geometrici (1870), in Opere, a cura<br />

di Vincenzo Cappelletti, Utet, Torino 1967, pp. 504 sgg. (N.d.C.)<br />

50 M. Proust, La ricerca del tempo perduto, traduzione it. G. Raboni, Mondadori, Milano 1985, vol. I,<br />

p. 75. (N.d.C.)<br />

51 In questo volume, pp. 109. (N.d.C.)<br />

52 In questo volume, pp. 79. (N.d.C.)<br />

14


almeno a conoscenza di chi scrive – la loro comparsa in opere letterarie che non<br />

appartengano al genere della fantascienza (in questo caso, è la relatività generale a<br />

fornire una fonte di inesauribile ispirazione) 53 . Da un altro punto di vista, tuttavia, si<br />

potrebbe affermare che un buon numero di grandi romanzi del ’900 – vuoi per la loro<br />

struttura non lineare, vuoi per l’effetto dovuto alla moltiplicazione dei punti di vista,<br />

vuoi per il plurimo sovrapporsi e intersecarsi dei piani narrativi, vuoi per altre ragioni<br />

– siano intrinsecamente non euclidei. Georges Poulet osserva, per esempio, che<br />

«l’universo proustiano è un universo in pezzi, i cui pezzi contengono altri universi,<br />

anch’essi, a loro volta, in pezzi» 54 e Umberto Eco rileva che nel Processo di Kafka<br />

«dobbiamo accettare di muoverci in un mondo non euclideo, mobile ed elastico, come<br />

se abitassimo su un immenso chewing-gum che qualcuno sta masticando» 55 . Più<br />

tangibilmente appartenente a un universo geometrico assai meno regolare e più<br />

intricato di quello euclideo è la fortezza sull’isola d’If del racconto Il conte di<br />

Montecristo 56 di Calvino (Edmond Dantès tenta di rappresentarsi la propria prigione<br />

saldando «figure come facce d’un solido, poliedro o iperpoliedro», e iscrivendo<br />

«questi poliedri in sfere o in ipersfere» 57 ), come anche l’immagine del groviglio – lo<br />

«gnommero» – dei legami di concatenazione causale che Gadda ci offre nella<br />

Meditazione milanese: «L’ipotiposi della catena delle cause va emendata e guarita, se<br />

mai, con quella di una maglia o rete; ma non di una maglia a due dimensioni<br />

(superficie) o a tre dimensioni (spazio-maglia, catena spaziale, catena a tre<br />

dimensioni), sì di una maglia o rete a dimensioni infinite. Ogni anello o grumo o<br />

groviglio di relazioni è legato da infiniti filamenti a grumi o grovigli infiniti» 58 .<br />

La complessità.<br />

Che cos’è semplice e che cos’è complesso? Sebbene nel linguaggio comune i due<br />

termini “semplice” e “complesso” siano usati con disinvoltura, è assai difficile dare<br />

una risposta non ambigua e non eccessivamente vaga a questa domanda. Un<br />

“semplice” batterio è in realtà ben più complesso di qualsiasi macchina costruita da<br />

Homo sapiens; lo studio dell’evoluzione del sistema solare, benché le interazioni tra i<br />

pianeti siano rette dalla “semplice” legge di gravitazione di Newton, dà luogo a<br />

formidabili problemi <strong>matematici</strong>. Non è tanto il numero di parti in cui decidiamo<br />

53 Qualche sporadica eccezione, per lo più di carattere accidentale, non manca. Per esempio, nel<br />

racconto Ragazzo di Dario Voltolini (in questo volume, pp. 142) il fatto che per fare un pallone da<br />

calcio in cuoio sia necessario cucire insieme esagoni e pentagoni (e non solo esagoni) dipende dalle<br />

proprietà geometriche dei triangoli sulla superficie di sfera, la somma dei cui angoli interni è sempre<br />

maggiore della somma di due angoli retti. Al contrario, un piano euclideo – in quanto avente<br />

curvatura nulla – si può pavimentare con esagoni, ma non con esagoni e pentagoni. (N.d.C.)<br />

54 G. Poulet, L’espacepmustien, Gallimard, Paris 2982, p. 52 (traduzione it. Lo spazio di Proust,<br />

Guida, Napoli 1972). (N.d.C.)<br />

55 Eco, Sei passeggiate cit., p. 103. (N.d.C.)<br />

56 In questo volume, pp. 101. (N.d.C.)<br />

57 Ilbid., p. 104. (N.d.C.)<br />

58 C.E. Gadda, Meditazione milanese, in Scritti vari e postumi, a cura di Dante Isella, Garzanti,<br />

Milano 1993, p. 650. (N.d.C.)<br />

15


(sempre con un certo grado di arbitrarietà) di scomporre un dato sistema che<br />

determina il suo essere semplice o complesso, quanto soprattutto il modo in cui queste<br />

parti interagiscono tra loro e si organizzano. In termini generali, gli scienziati<br />

definiscono complesso un sistema il cui comportamento globale non si può dedurre in<br />

modo diretto dalle leggi che governano le singole parti che lo compongono; detto<br />

altrimenti, ciò che caratterizza la complessità è l’emergenza di proprietà<br />

macroscopiche che non si manifestano invece a livello dei suoi costituenti<br />

microscopici (i termini “macroscopico” e “microscopico” vanno qui intesi in senso<br />

relativo). Il cervello è un sistema complesso sia per la sua struttura, sia per sue<br />

funzioni, perché queste non si lasciano spiegare in termini delle leggi<br />

neurofisiologiche che regolano la scarica di un neurone 59 ; altri esempi di sistemi<br />

complessi – seppure meno complessi del cervello – sono il clima, il traffico aereo, un<br />

ecosistema come la foresta amazzonica, i mercati finanziari, il web, l’acqua che<br />

gorgoglia nello scarico del lavandino. Il grande fisico-matematico Pierre Simon de<br />

Laplace osservava nel suo Essai philosophique sur les probabilités: «Un’intelligenza<br />

che a un dato istante conoscesse tutte le forze che animano la natura nonché le<br />

posizioni e le velocità di tutti gli enti che la compongono, se questa intelligenza fosse<br />

abbastanza vasta per sottoporre ad analisi questi dati, potrebbe condensare in una<br />

singola formula tanto il movimento dei più grandi corpi dell’universo quanto quello<br />

degli atomi più leggeri; nulla sarebbe incerto per questa intelligenza, e il futuro, così<br />

come il passato sarebbero presenti davanti ai suoi occhi» 60 . La scienza della<br />

complessità, che ha lentamente preso forma durante tutto il corso del secolo scorso e<br />

abbraccia discipline tra loro molto diverse, dalla matematica alla biologia, costituisce<br />

un netto superamento del determinismo riduzionistico di stampo laplaciano. Da una<br />

parte, infatti, come insegna Poincaré, il caos si annida anche nei sistemi della<br />

meccanica classica 61 , il cui futuro – a causa della dipendenza critica dalle condizioni<br />

iniziali – non è affatto presente davanti ai nostri occhi, bensì sepolto in un groviglio<br />

indistricabile di calcoli che beffano qualsiasi pretesa di predicibilità. Dall’altra, come<br />

abbiamo visto, in un sistema possono emergere proprietà globali – di ordine o di<br />

disordine – che non appartengono alle sue parti.<br />

Nel racconto Quanto scommettiamo 62 Calvino porta alle estreme conseguenze il<br />

paradigma di Laplace per mettere a nudo la sua sostanziale inapplicabilità:<br />

nell’ammasso primordiale di «particelle che giravano, elettroni buttati in qua e in là<br />

come vien viene, e protoni su e giù ciascuno per suo conto» 63 devono essere iscritti e<br />

codificati non solo la futura formazione delle galassie, ma anche la direzione che<br />

sceglierà di prendere, uscendo di casa alle cinque e tre quarti del pomeriggio dell’8<br />

59 Vedi per esempio G. Edelman, Più grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della<br />

coscienza, Einaudi, Torino 2004. (N.d.C.)<br />

60 P.-S. Laplace, Essai philosophique sur les probabilités (texte de la 5ème édition, 1825), Christian<br />

Bourgois, Paris 1986, pp. 32-33. La «fantasia di Laplace» è esplicitamente menzionata da Borges ne<br />

La creazione e P.H. Gosse, in Altre inquisizioni, in Tutte le opere cit., vol. I, p. 930. (N.d.C.)<br />

61 Vedi il. Poincaré, Il caso, in Scienza e metodo, a cura di C. Bartocci, Einaudi, Torino 1997, pp. 53-<br />

76. (N.d.C.)<br />

62 In questo volume, pp. 31. (N.d.C.)<br />

63 Ibid., p. 23. (N.d.C.)<br />

16


febbraio 1926, a Santhià, la signorina Giuseppina Pensotti di anni ventidue. Il gioco di<br />

scommesse tra Qfwfq e il Decano (k)yK è una «sfida all’immenso caos del mondo<br />

senza senso» 64 , così come un’analoga sfida è rappresentata dal tentativo di Queneau di<br />

delineare, nel bel mezzo della disfatta francese del 1942, una “storia modello”, che al<br />

contrario della storia reale (una «scienza confusa») permetta di prevedere e di<br />

modificare gli avvenimenti 65 .<br />

«I diagrammi che io [Edmond Dantès] e Faria tracciamo sulle pareti della prigione<br />

assomigliano a quelli che Dumas verga sulle sue cartelle per fissare l’ordine delle<br />

varianti prescelte» 66 . Sussiste dunque un isomorfismo – suggerisce Calvino – tra la<br />

fortezza sull’isola d’If e lo smisurato ipertesto, «con le sue varianti e combinazioni di<br />

varianti nell’ordine di miliardi di miliardi» 67 , dal quale prenderà forma il romanzo del<br />

Conte di Montecristo: entrambi sono sistemi complessi, la cui struttura globale non è<br />

leggibile nella mera giustapposizione delle parti, ed entrambi sono una metafora<br />

dell’universo. In Elogio dell’ombra leggiamo versi che suonano quasi una chiosa a<br />

Calvino: «Non ci sarà sortita. Tu sei dentro / e la fortezza è pari all’universo / dove<br />

non è diritto o rovescio / né muro esterno né segreto centro» 68 , mentre ne Il giardino<br />

dei sentieri che si biforcano si narra di un libro e di un labirinto che sono in realtà la<br />

stessa cosa. Dal furore combinatorico scaturiscono la pluralità di mondi paralleli de La<br />

trama celeste 69 di Bioy Casares (che prende ispirazione da un’idea abbozzata da<br />

Louis Auguste Bianqui nell’opuscolo L’éternité par les astres) e la cascata di<br />

narrazioni che si ramificano nel passato del “romanzo regressivo” di Herbert Quain<br />

inventato da Borges 70 . Visioni ossessivamente geometriche dominano i racconti Fuga<br />

71 di Daniele Del Giudice, Tennis, trigonometria e tornado 72 di David Foster Wallace<br />

e Riflusso 73 di José Saramago. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare dalle apparenze.<br />

Nessuna formula o alchimia algebrica potrà mai racchiudere in sé la complessità del<br />

mondo – il sogno pitagorico di Eupompo di rappresentare «il Puro Numero, ovvero<br />

Dio e l’Universo» attraverso un disegno di piani che irradiano da un singolo punto 74 è<br />

solo il delirio di un folle; le simmetrie si infrangono, nell’ordine si nasconde il caos, le<br />

utopie geometriche, come il cimitero immaginato da Saramago, cadono in rovina.<br />

64 I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, in Saggi cit., vol. I, p. 1413. (N.d.C.)<br />

65 R. Queneau, Una storia modello, nota introduttiva di Ruggiero Romano, Fabbri, Milano 1966. È<br />

interessante osservare che Queneau identifica tra le sue fonti l’opera Leçons sur la théorie<br />

mathématique de la latte pour la vie (1931) del matematico Vito Volterra. (N.d.C.)<br />

66 I. Calvino, Il conte di Montecristo, in questo volume, p. 101. (N.d.C.)<br />

67 Ibid., p. 107. (N.d.C.)<br />

68 J.L. Borges, Labirinto, in Elogio dell’ombra, in Tutte le opere cit., vol. II, p. 279. In modo<br />

analogo, Calvino scrive che «la fortezza non ha punti privilegiati: ripete nello spazio e nel tempo<br />

sempre la stessa combinazione di figure» (Il conte di Montecristo, in questo volume, p. 101).<br />

(N.d.C.)<br />

69 In questo volume, pp 43. (N.d.C.)<br />

70 J.L. Borges, Esame dell’opera di Herbert Quain, in questo volume, p. 69. (N.d.C.)<br />

71 In questo volume, pp, 126. (N.d.C.)<br />

72 In questo volume, pp. 146. (N.d.C.)<br />

73 In questo volume, pp. 133. (N.d.C.)<br />

74 Vedi il racconto di Aldous Huxley, Eupompo diede lustro all’Arte tramite i Numeri, in questo<br />

volume, pp. 62. (N.d.C.)<br />

17


Forse letteratura e matematica non aspirano alla verità, ma alla bellezza. O<br />

quantomeno la ricerca della bellezza – di una certa forma di bellezza – è ciò che più<br />

segretamente le accomuna. Scrive Wisława Szymborska: «Non ho difficoltà ad<br />

immaginare un’antologia dei più bei frammenti della poesia mondiale in cui trovasse<br />

posto anche il teorema di Pitagora. Perché no? Lì c’è quella folgorazione che è<br />

connaturata alla grande poesia, e una forma sapientemente ridotta ai termini più<br />

indispensabili, e una grazia che non a tutti i poeti è stata concessa» 75 .<br />

75 W. Szymborska, Letture facoltative, Adelphi, Milano 2006, p. 209. (N.d.C.)<br />

18


Numeri<br />

19


Il libro di sabbia<br />

di Jorge Luis Borges<br />

thy rope of sands 76 ...<br />

GEORGE HERBERT (1593-1633)<br />

La linea è costituita da un numero infinito di punti; il piano, da un numero infinito<br />

di linee; il volume, da un numero infinito di piani; l’ipervolume, da un numero infinito<br />

di volumi... No, decisamente non è questo, more geometrico, il modo migliore di<br />

iniziare il mio racconto. È diventata ormai una convenzione affermare che ogni<br />

racconto fantastico è veridico; il mio, tuttavia, è veridico.<br />

Vivo solo, ad un quarto piano di calle Belgrano. Qualche mese fa, verso sera, sentii<br />

bussare alla porta. Aprii ed entrò uno sconosciuto. Era un uomo alto, dai lineamenti<br />

indistinti. Forse era la mia miopia a vederli così. Tutto il suo aspetto lasciava<br />

trasparire una dignitosa povertà. Era vestito di grigio e aveva in mano una valigia<br />

grigia. Intuii subito che era straniero. All’inizio mi parve vecchio, poi mi resi conto<br />

che ero stato tratto in inganno dai suoi radi capelli biondi, quasi bianchi, come quelli<br />

degli scandinavi. Nel corso della nostra conversazione, che non sarebbe durata<br />

neppure un’ora, seppi che veniva dalle Orcadi.<br />

Gli indicai una sedia. L’uomo tardò a parlare. Emanava un senso di malinconia,<br />

come me adesso.<br />

— Vendo Bibbie, — spiegò.<br />

Non senza pedanteria gli risposi:<br />

— In questa casa ci sono varie Bibbie inglesi, compresa la prima, quella di John<br />

Wiclif. Ho anche quella di Cipriano de Valer, quella di Lutero, che letterariamente è la<br />

peggiore, ed un esemplare della Vulgata latina. Come vede, non sono esattamente le<br />

Bibbie a mancarmi.<br />

Dopo un attimo di silenzio, ribatté:<br />

— Non vendo solo Bibbie. Posso mostrarle un libro sacro che forse le interesserà.<br />

L’ho acquistato ai confini di Bikaner.<br />

Lo tirò fuori dalla valigia e lo posò sul tavolo. Era un volume in ottavo, rilegato in<br />

tela. Senza dubbio era passato per molte mani. Lo esaminai; il suo peso insolito mi<br />

sorprese. Sul dorso c’era scritto Holy Writ e sotto Bombay.<br />

— Sarà dell’Ottocento, — osservai.<br />

— Non lo so. Non l’ho mai saputo, — fu la risposta.<br />

Lo aprii a caso. I caratteri mi erano sconosciuti. Le pagine, che mi parvero logore e<br />

76 “La tua fune di sabbia”, dalla poesia The Collar di George Herbert. (N.d.R.)<br />

20


povere dal punto di vista tipografico, erano stampate su due colonne come una Bibbia.<br />

Il testo era fitto e disposto in versetti. Negli angoli in alto comparivano cifre arabe.<br />

Attrasse la mia l’attenzione il fatto che la pagina pari portasse (mettiamo) il numero<br />

40.514 e quella dispari, successiva, il 999. La voltai: il verso aveva una numerazione a<br />

otto cifre. C’era anche una piccola illustrazione, come si usa nei dizionari: un’ancora<br />

disegnata a penna, come dalla mano goffa di un bambino.<br />

Fu allora che lo sconosciuto mi disse:<br />

— La guardi bene. Non la vedrà mai più.<br />

C’era una minaccia nell’affermazione, non nella voce.<br />

Guardai bene il punto esatto e chiusi il volume. Poi lo riaprii immediatamente.<br />

Cercai invano la figura dell’ancora, pagina dopo pagina. Per nascondere il mio<br />

sconcerto, gli chiesi:<br />

— Si tratta di una versione delle Scritture in qualche lingua indostanica, non è vero?<br />

— No, — rispose.<br />

Poi abbassò la voce come per confidarmi un segreto:<br />

— L’ho acquistato in un villaggio della pianura, in cambio di qualche rupia e della<br />

Bibbia. Il proprietario non sapeva leggere. Ho il sospetto che nel Libro dei Libri<br />

vedesse un amuleto. Apparteneva alla casta più bassa; la gente non poteva calpestare<br />

la sua ombra senza contaminarsi.<br />

Mi disse che il suo libro si chiamava Il libro di sabbia, perché né il libro né la<br />

sabbia hanno principio o fine.<br />

Mi invitò a cercare la prima pagina.<br />

Appoggiai la mano sinistra sul frontespizio e aprii il volume con il pollice quasi<br />

attaccato all’indice. Fu tutto inutile: tra il frontespizio e la mano c’erano sempre varie<br />

pagine. Era come se spuntassero dal libro.<br />

— Ora cerchi la fine.<br />

Fu un nuovo fallimento; riuscii a stento a balbettare con una voce che non era la<br />

mia:<br />

— Non può essere.<br />

Sempre sottovoce, il venditore di Bibbie mi disse:<br />

— Non può essere, ma è. Questo libro ha un numero di pagine esattamente infinito.<br />

Nessuna è la prima, nessuna l’ultima. Non so perché siano numerate in questo modo<br />

arbitrario. Forse per far capire che i termini di una serie infinita ammettono qualunque<br />

numero. Poi, come se pensasse a voce alta:<br />

— Se lo spazio è infinito, siamo in qualunque punto dello spazio. Se il tempo è<br />

infinito, siamo in qualunque punto del tempo.<br />

Le sue considerazioni mi irritarono. Gli chiesi:<br />

— Lei è religioso, non è vero?<br />

— Sì, sono presbiteriano. La mia coscienza è pulita. Sono sicuro di non aver<br />

imbrogliato l’indigeno quando gli ho dato la Parola del Signore in cambio del suo<br />

libro diabolico.<br />

Gli assicurai che non aveva nulla da rimproverarsi e gli chiesi se era di passaggio da<br />

queste parti. Mi rispose che pensava di rientrare in patria nel giro di qualche giorno.<br />

Seppi allora che era scozzese, delle isole Orcadi. Gli dissi che personalmente amavo<br />

molto la Scozia per via di Stevenson e Hume.<br />

21


— E di Robbie Burns, — mi corresse.<br />

Mentre parlavamo, continuavo a esplorare il libro infinito. Con finta indifferenza,<br />

gli chiesi:<br />

— Ha intenzione di offrire questo curioso esemplare al Museo Britannico?<br />

— No. Lo offro a lei, — ribatté e fissò una cifra elevata.<br />

Gli risposi, in tutta sincerità, che quella somma era inaccessibile per me e mi misi a<br />

riflettere. In pochi minuti il mio piano era ordito.<br />

— Le propongo uno scambio, — gli dissi. — Lei ha ottenuto questo volume per<br />

qualche rupia e per le Sacre Scritture; io le offro l’ammontare della mia pensione, che<br />

ho appena riscosso, e la Bibbia di Wiclif in caratteri gotici. L’ho ereditata dai miei<br />

genitori.<br />

— A black-letter Wiclif!, — mormorò.<br />

Andai in camera mia e gli portai il denaro e il libro. Sfogliò le pagine e studiò la<br />

copertina con fervore da bibliofio.<br />

— Affare fatto, — disse.<br />

Mi stupii che non contrattasse. Solo in seguito compresi che era entrato in casa mia<br />

deciso a vendere il libro. Mise via le banconote senza neppure contarle.<br />

Parlammo dell’India, delle Orcadi e degli jarls norvegesi che le avevano governate.<br />

Era notte quando l’uomo se ne andò. Non l’ho più visto, né ho mai saputo il suo nome.<br />

Pensai di mettere Il libro di sabbia nello spazio vuoto lasciato dal Wiclif, ma alla<br />

fine decisi di nasconderlo dietro alcuni volumi scompagnati delle Mille e una notte.<br />

Andai a letto e non dormii. Alle tre o alle quattro del mattino accesi la luce. Presi il<br />

libro impossibile e iniziai a sfogliarlo. Su una pagina vidi l’incisione di una maschera.<br />

Nell’angolo in alto c’era un numero, non ricordo quale, elevato alla nona potenza.<br />

Non mostrai il mio tesoro a nessuno. Alla gioia di possederlo si aggiunse il timore<br />

che me lo rubassero, e poi il sospetto che non fosse davvero infinito. Queste due<br />

preoccupazioni aggravarono la mia vecchia misantropia. Mi restavano alcuni amici;<br />

smisi di vederli. Prigioniero del libro, quasi non mettevo piede fuori di casa. Esaminai<br />

con una lente il dorso logoro e le copertine ed esclusi la possibilità di un qualche<br />

artificio. Mi resi conto che le piccole illustrazioni si trovavano a duemila pagine una<br />

dall’altra. Le annotai pian piano in una rubrica, che non tardai a riempire. Non si<br />

ripetevano mai. Di notte, nelle rare tregue che mi concedeva l’insonnia, sognavo il<br />

libro.<br />

L’estate declinava quando compresi che il libro era mostruoso. A nulla valse<br />

considerare che era non meno mostruoso di me, che lo percepivo con gli occhi e lo<br />

palpavo con dieci dita dotate di unghie. Sentii che era un oggetto da incubo, una cosa<br />

oscena che infamava e corrompeva la realtà.<br />

Pensai al fuoco, ma ebbi paura che la combustione di un libro infinito fosse<br />

altrettanto infinita e soffocasse il pianeta nel fumo. Ricordai di aver letto che il luogo<br />

migliore per nascondere una foglia è un bosco. Prima di andare in pensione lavoravo<br />

alla Biblioteca Nazionale, che ospita novecentomila volumi; so che a destra dell’atrio<br />

una scala curva scende nel seminterrato, dove sono i periodici e le mappe. Approfittai<br />

di una distrazione degli impiegati per abbandonare Il libro di sabbia su uno degli<br />

umidi scaffali. Cercai di non far caso a quale altezza né a quale distanza dalla porta.<br />

Mi sento un po’ sollevato, ma non voglio neppure passare per calle México.<br />

22


Nove volte sette<br />

di Isaac Asimov<br />

Jehan Shuman era abituato a trattare con gli uomini che da molti anni dirigevano lo<br />

sforzo bellico terrestre. Non era un militare, Shuman, ma a lui facevano capo tutti i<br />

laboratori di ricerche incaricati di progettare i cervelli elettronici e gli automi<br />

impiegati nel conflitto. Di conseguenza, i generali gli prestavano ascolto. E lo stavano<br />

a sentire perfino i capi delle commissioni parlamentari.<br />

C’erano due esemplari di entrambe queste specie nella saletta del Nuovo<br />

Pentagono. Il generale Weider aveva il volto bruciato dagli spazi e la bocca molto<br />

piccola, quasi sempre atteggiata in una smorfia. Il deputato Brant aveva guance tonde,<br />

lisce, e occhi chiari. Fumava tabacco denebiano con l’indifferenza di un uomo il cui<br />

patriottismo è notorio e che può quindi permettersi certe libertà.<br />

Shuman, alto, elegante, e Programmatore di prima classe, li affrontò senza<br />

esitazione.<br />

Disse: — Signori, questo è Myron Aub.<br />

— Sarebbe lui l’individuo dotato di speciali capacità, che avete scoperto per caso?<br />

— disse il deputato Brant, senza scomporsi.<br />

— Bene! — Con bonaria curiosità squadrò l’omettino calvo, con la testa a uovo.<br />

L’ometto reagì intrecciando nervosamente le dita. Non era mai stato a contatto di<br />

persone così importanti in vita sua. Era un Tecnico d’infimo rango, già abbastanza<br />

avanti negli anni, che dopo aver fallito tutte le prove di selezione destinate a<br />

individuare i cervelli umani meglio dotati, s’era ormai rassegnato da anni a un lavoro<br />

oscuro e monotono. Ma poi il Grande Programmatore aveva scoperto il suo hobby e<br />

l’aveva trascinato qui.<br />

Il generale Weider disse: — Questa atmosfera di mistero mi sembra puerile.<br />

— Un minuto di pazienza, — disse Shuman, — e vedrà che cambierà idea. Si tratta<br />

di una cosa che non va assolutamente divulgata... Aub! — Pronunziò il nome<br />

monosillabico come se fosse un comando militare, ma era un Primo Programmatore e<br />

parlava a un semplice Tecnico. — Aub! Quanto fa nove volte sette?<br />

Aub esitò un istante. I suoi occhi smorti ebbero un fioco lampo di ansietà. —<br />

Sessantatré, — disse.<br />

Il deputato Brant inarcò le sopracciglia. — È giusto?<br />

— Controlli lei stesso, onorevole.<br />

Il deputato trasse la sua calcolatrice tascabile, ne sfiorò con le dita due volte il<br />

bordo zigrinato, guardò il quadrante e la ripose in tasca. Disse: — E sarebbe questo il<br />

fenomeno che lei ci ha chiamati qui ad ammirare? Un illusionista?<br />

— Molto di più, onorevole. Aub ha mandato a memoria alcune operazioni e sa<br />

calcolare sulla carta.<br />

— Una calcolatrice di carta? — disse il generale. Sembrava deluso.<br />

23


— No generale, — disse Shuman, paziente. — Non è una calcolatrice di carta.<br />

Semplicemente un foglio di carta. Generale, vuol essere così gentile da proporre un<br />

numero qualsiasi?<br />

— Diciassette, — disse il generale.<br />

— E lei, onorevole?<br />

— Ventitré.<br />

— Bene! Aub, moltiplichi questi due numeri e faccia vedere a questi signori in che<br />

modo esegue l’operazione.<br />

— Sissignore, — disse Aub, chinando il capo. Trasse un taccuino da una tasca della<br />

camicia e una sottile matita da pittore dall’altra. La sua fronte era tutta aggrottata<br />

mentre tracciava faticosamente sulla carta dei piccoli segni.<br />

Il generale Weider lo interruppe in tono asciutto. — Mi faccia vedere.<br />

Aub gli porse il taccuino e Weider commentò: — Be’, sembra il numero diciassette.<br />

Il deputato Brant annuì e disse: — Proprio così, ma è chiaro che chiunque può<br />

copiare dei numeri da una calcolatrice. Io stesso, credo, sarei capace di disegnare un<br />

diciassette passabile, anche senza esercizio.<br />

— Se i signori non hanno nulla in contrario, Aub potrebbe continuare, —<br />

intervenne soavemente Shuman.<br />

Aub continuò, la mano un po’ tremante. Infine disse a bassa voce: — La risposta è<br />

trecentonovantuno.<br />

Il deputato Brant consultò una seconda volta la sua calcolatrice tascabile. — Perdio,<br />

è esatto. Come ha fatto a indovinare?<br />

— Non ha indovinato, onorevole, — disse Shuman. — Ha calcolato il risultato.<br />

L’ha fatto su questo foglietto di carta.<br />

— Storie, — disse il generale con impazienza. — Una calcolatrice è una cosa e dei<br />

segni sulla carta un’altra.<br />

— Spieghi lei, Aub, — disse Shuman.<br />

— Sissignore... Ecco, signori, io scrivo diciassette e subito sotto scrivo ventitré. Poi<br />

mi dico: sette volte tre...<br />

Il deputato lo interruppe pacatamente. — Attento, Aub, il problema è diciassette<br />

volte ventitré.<br />

— Sì, lo so, lo so, — si affrettò a spiegare il piccolo Tecnico, — ma io comincio col<br />

dire sette volte tre perché è così che funziona. Ora, sette volte tre fa ventuno.<br />

— E come lo sa lei? — chiese il deputato.<br />

— Me lo ricordo. Dà sempre ventuno sulla calcolatrice. L’ho controllato<br />

innumerevoli volte.<br />

— Questo non significa che lo darà sempre, però, — disse il deputato.<br />

— Forse no, — balbettò Aub. — Non sono un matematico. Ma vede, i miei risultati<br />

sono sempre esatti.<br />

— Vada avanti.<br />

— Sette volte tre fa ventuno, e io scrivo ventuno. Poi tre per uno fa tre, così io<br />

scrivo tre sotto il due di ventuno.<br />

— Perché sotto il due? — chiese il deputato Brant, secco.<br />

— Perché... — Aub lanciò un’occhiata implorante al suo superiore: — È difficile da<br />

spiegare.<br />

24


Shuman intervenne: — Direi che per il momento convenga accettare per buono il<br />

suo metodo e lasciare i particolari ai <strong>matematici</strong>.<br />

Brant si arrese.<br />

Aub proseguì: — Tre più due fa cinque, e perciò il ventuno diventa un cinquantuno.<br />

Ora, lasciamo stare per un momento questo numero e cominciamo da capo. Si<br />

moltiplica sette per due, che ci dà quattordici, e uno per due che ci dà due. Li<br />

scriviamo così e la somma ci dà trentaquattro. Ora se mettiamo il trentaquattro sotto il<br />

cinquantuno in questo modo, sommandoli otteniamo trecentonovantuno, che è il<br />

risultato finale.<br />

Vi fu un istante di silenzio e il generale Weider disse:<br />

— Non ci credo. È una bellissima filastrocca e tutto questo giochetto di numeri<br />

sommati e moltiplicati mi ha divertito molto, ma non ci credo. È troppo complicato<br />

per non essere una ciarlatanata.<br />

— Oh, no, signore, — disse Aub, tutto sudato. — Sembra complicato perché lei<br />

non è abituato al meccanismo. Ma in realtà le regole sono semplicissime e funzionano<br />

con qualsiasi numero.<br />

— Qualsiasi numero, eh? — disse il generale. — Allora vediamo. — Trasse di tasca<br />

la sua calcolatrice (un severo modello militare) e la toccò a caso. — Scriva sul suo<br />

taccuino cinque sette tre e otto. Cioè cinquemilasettecentotrentotto.<br />

— Sissignore, — disse Aub staccando un nuovo foglio di carta.<br />

— Ora, — toccò di nuovo a caso la calcolatrice, — sette due tre e nove.<br />

Settemiladuecentotrentanove.<br />

— Sissignore.<br />

— E adesso moltiplichi questi due numeri.<br />

— Ci vorrà un po’ di tempo, — balbettò Aub.<br />

— Non abbiamo fretta, — disse il generale.<br />

— Cominci pure Aub, — disse Shuman, tagliente.<br />

Aub cominciò a lavorare tutto chino. Staccò un secondo foglio di carta, poi un<br />

terzo. Finalmente il generale trasse di tasca l’orologio e lo considerò con impazienza.<br />

— Allora, ha finito coi suoi esercizi di magia?<br />

— Ci sono quasi arrivato, signore... Ecco il prodotto, signore. Quarantun milioni,<br />

cinquecentotrentasettemilatrecentottantadue. — Mostrò la cifra scarabocchiata in<br />

fondo all’ultimo foglio.<br />

Il generale Weider sorrise condiscendente. Premette il pulsante di moltiplicazione<br />

sulla sua calcolatrice e attese che il ronzio dei meccanismi tacesse. Poi guardò il<br />

quadrante della minuscola macchina e disse con voce rauca dallo stupore: — Grande<br />

Galassia, l’ha azzeccato in pieno.<br />

Il Presidente della Federazione Terrestre stentava ormai a mascherare, in pubblico,<br />

la tensione che lo rodeva e, in privato già permetteva che un’ombra di malinconia<br />

velasse i suoi lineamenti delicati, di uomo sensibilissimo. La guerra denebiana, dopo<br />

l’entusiasmo e l’unanime slancio dei primi anni, s’era rattrappita a un gioco inane di<br />

manovre e contromanovre. Sulla Terra lo scontento cresceva ogni giorno e cresceva<br />

forse anche su Deneb.<br />

25


E ora il deputato Brant, capo dell’importantissima Commissione Parlamentare<br />

sull’Organizzazione della Difesa, stava allegramente e placidamente dissipando la sua<br />

mezz’ora di colloquio in chiacchiere inutili.<br />

— Calcolare senza una calcolatrice, — osservò il presidente con impazienza, — è<br />

una contraddizione in termini.<br />

— Calcolare, — disse il deputato, — è soltanto un sistema per elaborare dei dati.<br />

Può farlo una macchina come può farlo il cervello umano. Permetta che le dia un<br />

esempio. — E, servendosi delle capacità da poco acquisite, prese a calcolare somme e<br />

prodotti finché il presidente suo malgrado sentì nascere un certo interesse.<br />

— E funziona sempre?<br />

— Infallibilmente, signor Presidente. Non sbaglia un colpo.<br />

— È difficile da imparare?<br />

— Mi ci è voluta una settimana per impadronirmi perfettamente del sistema. Ma<br />

immagino che lei...<br />

— Effettivamente, — disse il presidente, pensoso, — è un giochetto molto<br />

interessante. Ma a che cosa serve?<br />

— A che cosa serve un neonato, signor Presidente? Sul momento non serve a nulla,<br />

ma non vede che questo è il primo passo verso la liberazione dalle macchine?<br />

Consideri, signor Presidente, — il deputato si alzò e la sua voce profonda prese<br />

automaticamente le cadenze dei discorsi parlamentari, — che la guerra denebiana è<br />

una guerra di calcolatrici contro calcolatrici. Le calcolatrici nemiche formano uno<br />

scudo impenetrabile di contro-missili che fermano i nostri missili, e le nostre bloccano<br />

i loro nello stesso modo. Ogni volta che noi perfezioniamo le nostre calcolatrici, i<br />

Denebiani fanno lo stesso, e ormai da cinque anni si è creato un precario e inutile<br />

equilibrio di forze. Ora noi siamo in possesso di un metodo che ci permetterà di<br />

vincere le calcolatrici, di scavalcarle, di attraversarle. Potremo combinare la<br />

meccanica del calcolo automatico con il pensiero umano; avremo per così dire delle<br />

calcolatrici intelligenti; a miliardi. Non posso prevedere esattamente quali saranno le<br />

conseguenze; ma è chiaro che questa innovazione avrà una portata incalcolabile. E se<br />

Deneb ci arriva prima di noi, sarebbe una vera catastrofe.<br />

Con aria preoccupata il presidente disse: — Che cosa dovrei fare secondo lei?<br />

— Conceda il pieno appoggio del Governo a un piano segreto per lo sviluppo del<br />

calcolo umano. Lo chiami Progetto 63, se vuole. Io rispondo della mia commissione,<br />

ma avrò bisogno del sostegno del Governo.<br />

— Ma fin dove può arrivare il calcolo umano?<br />

— Non c’è limite. Secondo il Programmatore Shuman, che mi ha parlato per primo<br />

di questa scoperta...<br />

— Sì, ho sentito parlare di lui.<br />

— Bene, il dottor Shuman mi dice che in teoria tutto ciò che sa fare una calcolatrice<br />

lo può fare anche la mente umana. In sostanza la calcolatrice non fa altro che prendere<br />

un numero finito di dati ed eseguire con essi un numero finito di operazioni. La mente<br />

umana è perfettamente in grado di ripetere il procedimento.<br />

Il presidente rifletté per qualche istante. Infine disse:<br />

— Se lo dice Shuman, non ho motivo di dubitarne... Sarà verissimo. Almeno in<br />

teoria. Ma in pratica com’è possibile sapere in che modo lavora una calcolatrice?<br />

26


Brant sorrise affabilmente. — Le dirò, signor Presidente; gli ho fatto la stessa<br />

domanda. E sembra che un tempo le calcolatrici venissero progettate e disegnate<br />

direttamente dagli esseri umani. Si trattava naturalmente di macchine molto<br />

rudimentali, dato che ciò avveniva prima che si fosse affermato il principio, ben più<br />

razionale, di affidare alle stesse calcolatrici la progettazione di calcolatrici ancor più<br />

perfezionate.<br />

— Sì, sì. Continui.<br />

— Il Tecnico Aub aveva uno strano hobby: si divertiva a ricostruire queste<br />

macchine arcaiche e così facendo ebbe modo di studiare il loro funzionamento e<br />

scoprì che poteva imitarle. La moltiplicazione che ho eseguito poco fa è un’imitazione<br />

del funzionamento di una calcolatrice.<br />

— Straordinario!<br />

Il deputato tossì leggermente. — E c’è un’altra cosa che vorrei farle presente, signor<br />

Presidente... quanto più riusciremo a sviluppare e a estendere questo nostro progetto,<br />

con le sue infinite applicazioni, tanto maggiore sarà la percentuale di investimenti<br />

federali che potremo distogliere dalla produzione e dalla manutenzione delle<br />

calcolatrici. Via via che il cervello umano si sostituisce alla macchina, una parte<br />

crescente delle nostre energie o delle nostre risorse può essere dedicata a impieghi<br />

pacifici e in tal modo il peso della guerra sull’uomo comune andrà decrescendo<br />

progressivamente. Ed è inutile dire quanto un fatto simile favorisca il partito al potere.<br />

— Ah, — disse il presidente. — Capisco ciò che lei intende. Bene, si accomodi,<br />

onorevole, si accomodi. Ho bisogno di riflettere sulla sua proposta... Ma intanto, mi<br />

faccia ancora vedere quel trucchetto della moltiplicazione. Vediamo se riesco a capire<br />

come funziona.<br />

Il Programmatore Shuman non tentò di affrettare le cose. Loesser era un<br />

conservatore, un uomo molto legato alla tradizione e aveva per le calcolatrici la stessa<br />

passione che aveva animato suo padre e suo nonno prima di lui. Controllava tutta la<br />

rete di calcolatrici dell’Europa occidentale, e ottenere il suo pieno appoggio al<br />

Progetto 63 avrebbe rappresentato un passo avanti di notevole importanza.<br />

Ma Loesser esitava ancora. Disse: — Non vedo troppo di buon occhio quest’idea di<br />

mettere in secondo piano le calcolatrici. La mente umana è capricciosa. Una<br />

calcolatrice ci dà infallibilmente la stessa soluzione allo stesso problema, ogni volta.<br />

Chi ci garantisce che la mente umana sappia fare altrettanto?<br />

— La mente umana, Calcolatore Loesser, non fa che manipolare dei dati. E allora<br />

non ha importanza se a eseguire l’operazione è la mente umana o la macchina. L’una e<br />

l’altra sono semplicemente degli strumenti, dei mezzi.<br />

— D’accordo, d’accordo. Ho studiato a fondo la sua ingegnosa dimostrazione, e mi<br />

rendo conto che la mente è in grado di ripetere esattamente i procedimenti della<br />

macchina. Ma mi sembra lo stesso una cosa campata in aria. Anche ammettendo la<br />

validità della teoria, che ragioni abbiamo per credere che la teoria si possa applicare in<br />

pratica?<br />

— Ritengo che vi siano ragioni molto valide. Gli uomini non si sono sempre serviti<br />

delle calcolatrici. Gli abitanti delle caverne, con le loro triremi, le loro scuri di pietra e<br />

le loro ferrovie, non avevano calcolatrici.<br />

— E probabilmente non calcolavano nulla.<br />

27


— Lei sa bene che non è così. Perfino la costruzione di una strada ferrata o di una<br />

ziggurat richiedeva dei calcoli, sia pure elementari; e questi calcoli venivano<br />

evidentemente eseguiti senza macchine.<br />

— Lei intende dire che gli antichi calcolavano col metodo che lei mi ha dimostrato?<br />

— Probabilmente no. È un fatto che questo metodo (a proposito, noi l’abbiamo<br />

battezzato “grafitica”, dalla vecchia parola europea, “grafo”, cioè “scrivere”) deriva<br />

direttamente dalle calcolatrici, e dunque non può essere anteriore. Tuttavia i<br />

cavernicoli dovevano pur avere un loro metodo, no?<br />

— Arti perdute! Se lei mi vuoi parlare delle arti perdute...<br />

— No, no, io non sono un fanatico delle arti perdute, anche se non posso escludere<br />

che ce ne siano state. Dopo tutto, l’uomo mangiava grano anche prima<br />

dell’idroponica, e se i primitivi mangiavano grano dovevano per forza coltivarlo nel<br />

suolo. Che altro sistema potevano avere?<br />

— Non lo so, ma crederò nella coltura in terra quando vedrò del grano crescere<br />

direttamente dal suolo. E crederò che si possa ottenere il fuoco strofinando due<br />

schegge di pietra quando lo vedrò fare sotto i miei occhi.<br />

Shuman divenne suadente. — Comunque sia, torniamo alla grafitica. Secondo me,<br />

va considerata un aspetto del generale processo di eterealizzazione. Il trasporto<br />

mediante veicoli più o meno ingombranti sta cedendo il posto al trasferimento diretto.<br />

I mezzi di comunicazione tradizionali diventano sempre più maneggevoli ed efficienti.<br />

Provi per esempio a confrontare la sua calcolatrice tascabile con gli enormi cervelli<br />

elettronici di mille anni fa. Perché non dovremmo fare l’ultimo passo su questa via, ed<br />

eliminare completamente le calcolatrici? Andiamo, il Progetto 63 è già in corso di<br />

realizzazione; già si registrano notevoli progressi. Ma abbiamo bisogno del suo aiuto.<br />

Se il patriottismo non basta a farle prendere una decisione, consideri la prodigiosa<br />

avventura intellettuale che ci sta di fronte.<br />

Loesser disse in tono scettico: — Che progressi? Che potete fare oltre la<br />

moltiplicazione? Potete integrare una funzione trascendentale?<br />

— Col tempo arriveremo anche a questo. Durante il mese scorso ho imparato a<br />

eseguire le divisioni. Sono in grado di determinare con assoluta precisione quozienti<br />

interi e quozienti decimali.<br />

— Quozienti decimali? Con quanti decimali?<br />

Il Programmatore Shuman si sforzò di dare alla sua voce un tono indifferente. —<br />

Non ci sono limiti.<br />

Loesser lo guardò sbalordito. — Senza calcolatrice?<br />

— Mi ponga lei stesso un problema.<br />

— Provi a dividere ventisette per tredici. Con sei decimali.<br />

Cinque minuti dopo Shuman disse: — Due virgola zero sette sei nove due tre.<br />

Loesser controllò il risultato. — Ma è straordinario. Le moltiplicazioni non mi<br />

avevano impressionato gran che, perché insomma, comportano solo dei numeri interi,<br />

e avevo l’impressione che potesse trattarsi di un trucco. Ma i decimali...<br />

— E questo non è tutto. Stiamo lavorando in una direzione che fino a questo<br />

momento è ancora segretissima e che, a rigore, non dovrei rivelare a nessuno.<br />

Comunque... Stiamo per aprire una breccia nel fronte della radice quadrata.<br />

— La radice quadrata?<br />

28


— La cosa comporta naturalmente alcuni passaggi difficilissimi e ancora non<br />

disponiamo di tutti gli elementi, ma il Tecnico Aub, l’uomo che ha inventato la nuova<br />

scienza e che è dotato di una intuizione stupefacente, in questo campo, afferma di aver<br />

quasi risolto il problema. Ed è soltanto un Tecnico. Un uomo come lei, un matematico<br />

espertissimo e con un’intelligenza superiore, non dovrebbe trovare alcuna difficoltà.<br />

— Radici quadrate, — mormorò affascinato Loesser.<br />

— Anche cubiche. Allora, possiamo considerarla dei nostri?<br />

Loesser gli tese di scatto la mano. — D’accordo.<br />

Il generale Weider camminava avanti e indietro a un’estremità del lungo salone,<br />

rivolgendosi ai suoi ascoltatori con i modi di un insegnante severo che ha di fronte una<br />

classe indisciplinata. Al generale non faceva né caldo né freddo che il suo pubblico<br />

fosse composto dagli scienziati civili che dirigevano il Progetto 63. Egli era il<br />

supervisore, la massima autorità, e tale si considerava in ogni attimo della sua<br />

giornata.<br />

Disse: — Le radici quadrate sono una bellissima cosa. Personalmente, non sono<br />

capace ad estrarle e neppure capisco le operazioni relative, ma sono certamente una<br />

bellissima cosa. Tuttavia, il Governo non può permettere che il Progetto si perda<br />

appresso a quelli che alcuni di voi chiamano gli aspetti fondamentali del problema.<br />

Sarete liberi di giocare con la grafitica e adoperarla in tutti i modi che vorrete quando<br />

la guerra sarà finita; ma adesso abbiamo da risolvere dei problemi pratici della<br />

massima importanza.<br />

In un angolo il Tecnico Aub ascoltava con dolorosa attenzione. Non era più,<br />

naturalmente, un Tecnico; lo avevano sollevato dalle sue vecchie funzioni, e destinato<br />

al progetto, con un titolo altisonante e un lauto stipendio. Ma le differenze sociali<br />

restavano, e gli scienziati d’alto rango non avevano mai accondisceso ad ammetterlo<br />

nelle loro file su un piede di parità. Né, per rendere giustizia ad Aub, egli lo<br />

desiderava. Con loro si sentiva a disagio come loro con lui.<br />

Il generale diceva: — Il nostro obiettivo è semplice, signori; sostituire la<br />

calcolatrice. Un’astronave che può navigare nello spazio senza avere a bordo un<br />

cervello elettronico può essere costruita in un tempo inferiore di cinque volte, e con<br />

una spesa inferiore di dieci volte, a una nave munita di calcolatrice. Se potessimo<br />

eliminare le calcolatrici saremmo in condizione di costruire delle flotte cinque, dieci<br />

volte più numerose di quelle di Deneb. E al di là di questo primo grande passo, io<br />

intravedo qualcosa di ancor più rivoluzionario; un sogno, per ora; ma in futuro io vedo<br />

il missile guidato dall’uomo!<br />

Tra il pubblico si diffuse un lungo mormorio.<br />

Il generale proseguì. — Attualmente, la nostra più grave “strozzatura” è data dal<br />

fatto che i missili dispongono di una intelligenza limitata. La calcolatrice che li guida<br />

non può superare certe dimensioni e un certo peso, ed è per questo che trovandosi in<br />

una situazione imprevista, di fronte a un nuovo tipo di sbarramento anti-missili, i<br />

nostri apparecchi dànno risultati così mediocri. Pochissimi, come sapete, raggiungono<br />

gli obiettivi, e la guerra missilistica è ormai una continua elisione; infatti il nemico è<br />

fortunatamente nelle stesse condizioni nostre. Mentre un missile avente a bordo uno o<br />

29


due uomini, in grado di dirigere il volo mediante la grafitica, sarebbe molto più<br />

leggero, più mobile, più intelligente. Ci darebbe quel margine di superiorità che ci<br />

porterà alla vittoria. Inoltre, signori, le esigenze della guerra ci obbligano a tener<br />

presente anche un altro punto. Un uomo è uno strumento infinitamente più economico<br />

di una calcolatrice. I missili con equipaggio umano potrebbero essere lanciati in<br />

numero tale e in tali circostanze quali nessun generale sano di mente oserebbe mai<br />

prendere in considerazione se avesse a sua disposizione soltanto dei missili<br />

automatici...<br />

Disse ancora molte altre cose, ma il Tecnico Aub aveva sentito abbastanza.<br />

Nell’intimità della sua stanza, il Tecnico Aub passò molto tempo a correggere e<br />

ricorreggere la lettera che intendeva lasciare. Il testo definitivo, quando lo rilesse,<br />

suonava così:<br />

— Quando cominciai a studiare la scienza che oggi si chiama grafitica, la<br />

consideravo alla stregua di un passatempo privato. Non vedevo, in essa, altro che un<br />

divertimento stimolante, un esercizio mentale.<br />

«Quando il Progetto 63 venne istituito, io ritenevo che i miei superiori vedessero<br />

più lontano di me; che la grafitica potesse essere messa al servizio dell’umanità,<br />

potesse contribuire, per esempio, alla realizzazione di congegni veramente pratici per<br />

il trasporto individuale. Ma ora capisco che sarà usata solo per spargere morte e<br />

distruzione.<br />

«Non posso sopravvivere alla responsabilità di aver inventato la grafitica».<br />

Lentamente, diresse verso se stesso un depolarizzatore delle proteine e, senza<br />

provare alcun dolore, cadde istantaneamente fulminato.<br />

Erano tutti raccolti, sull’attenti, intorno alla tomba del piccolo Tecnico, mentre<br />

veniva reso omaggio alla grandezza della sua scoperta.<br />

Il Programmatore Shuman chinò solennemente il capo insieme agli altri, ma non era<br />

commosso. Il Tecnico aveva fatto la sua parte, e ormai non c’era più bisogno di lui.<br />

Certo, era stato lui a inventare la grafitica, ma ora che la nuova scienza aveva messo le<br />

ali, avrebbe continuato da sola, di trionfo in trionfo, fino al giorno in cui i missili<br />

avrebbero solcato gli spazi guidati dall’uomo. E oltre ancora.<br />

Nove volte sette, pensò Shuman con profonda contentezza, fa sessantatré, e non ho<br />

bisogno che me lo venga a dire una calcolatrice. La calcolatrice ce l’ho nella testa.<br />

E questo gli dava un senso di potenza davvero esaltante.<br />

30


Quanto scommettiamo<br />

di Italo Calvino<br />

La logica della cibernetica, applicata alla storia dell’universo, è sulla via di<br />

dimostrare come le Galassie, il Sistema solare, la Terra, la vita cellulare non<br />

potessero non nascere. Secondo la cibernetica, l’universo si forma attraverso una<br />

serie di “retroazioni” positive e negative, dapprima per la forza di gravità che<br />

concentra masse d’idrogeno nella nube primitiva, poi per la forza nucleare e la forza<br />

centrifuga che si equilibrano con la prima. Dal momento in cui il processo si mette in<br />

moto, esso non può che seguire la logica di queste “retroazioni” a catena.<br />

Sì, ma dapprincipio non lo si sapeva, – precisò Qfwfq, – ossia, uno poteva anche<br />

prevederlo, ma così, un po’ a naso, tirando a indovinare. Io, non per vantarmi, fin da<br />

principio scommisi che l’universo ci sarebbe stato, e l’azzeccai, e anche sul come<br />

sarebbe stato vinsi parecchie scommesse, col Decano (k)yK.<br />

Quando cominciammo a scommettere non c’era ancora niente che potesse far<br />

prevedere niente, tranne un po’ di particelle che giravano, elettroni buttati in qua e in<br />

là come vien viene, e protoni su e giù ciascuno per suo conto. Io non so cosa sento,<br />

come stesse per cambiare il tempo (in effetti s’era messo un po’ freddo) e dico: —<br />

Scommettiamo che oggi la va ad atomi?<br />

E il Decano (k)yK: — Ma fa’ il favore: atomi! Io scommetto di no, tutto quello che<br />

vuoi.<br />

E io: — Scommetteresti anche ix?<br />

E il Decano: — Ix elevato a enne!<br />

Non aveva finito di dirlo, e già attorno a ogni protone aveva preso a vorticare il suo<br />

elettrone, ronzando. Un’enorme nube d’idrogeno si stava condensando nello spazio.<br />

— Hai visto? Pieno d’atomi!<br />

— Atomi di quelli lì, pua’, bella roba! — faceva (k)yK, perché aveva la cattiva<br />

abitudine di mettersi a far storie, invece di riconoscere che la scommessa era perduta.<br />

Facevamo sempre delle scommesse, io e il Decano, perché non c’era proprio altro<br />

da fare, e anche perché l’unica prova che io ci fossi era il fatto che scommettevo con<br />

lui, e l’unica prova che ci fosse lui era il fatto che scommetteva con me.<br />

Scommettevamo sugli avvenimenti che sarebbero o non sarebbero avvenuti; la scelta<br />

era praticamente illimitata, dato che fino a quel momento non era avvenuto<br />

assolutamente niente. Ma siccome non c’era nemmeno modo d’immaginarsi come un<br />

avvenimento avrebbe potuto essere, lo designavamo in modo convenzionale:<br />

avvenimento A, avvenimento B, avvenimento C, eccetera, tanto per distinguerli.<br />

Ossia: dato che allora non esistevano alfabeti o altre serie di segni convenzionali,<br />

prima scommettevamo su come sarebbe potuta essere una serie di segni e poi<br />

accoppiavamo questi possibili segni a dei possibili avvenimenti, in modo da designare<br />

31


con sufficiente precisione faccende di cui non sapevamo un bel niente.<br />

Anche la posta delle scommesse non si sapeva cos’era perché non c’era niente che<br />

potesse far da posta, e quindi giocavamo sulla parola, tenendo il conto delle<br />

scommesse vinte da ciascuno, per fare la somma poi. Tutte operazioni molto difficili,<br />

dato che allora non esistevano numeri, e nemmeno avevamo il concetto di numero, per<br />

cominciare a contare, giacché non si riusciva a separare nulla da nulla.<br />

Questa situazione cominciò a cambiare quando nelle Protogalassie s’andarono<br />

condensando le Protostelle, e io capii subito come sarebbe andata a finire, con quella<br />

temperatura che cresceva cresceva, e dissi: — Ora s’accendono.<br />

— Balle! — fece il Decano.<br />

— Scommettiamo? — faccio io.<br />

— Quello che vuoi, — fa lui, e paf! il buio fu aperto da tanti palloni incandescenti<br />

che si dilatavano.<br />

— Eh, ma accendersi non vuol mica dire quello lì... —cominciava (k)yK, col solito<br />

suo sistema di spostare la questione sulle parole.<br />

Io allora avevo il mio, di sistema, per metterlo a tacere: — Ah sì? e allora cosa vuol<br />

dire, secondo te?<br />

Lui stava zitto: povero d’immaginazione com’era, appena una parola cominciava ad<br />

avere un significato, non riusciva a pensare che potesse averne un altro.<br />

Il Decano (k)yK, a starci insieme per un po’, era un tipo abbastanza noioso, privo di<br />

risorse, non aveva mai nulla da raccontare. Neanch’io, del resto, avrei potuto<br />

raccontare molto, dato che fatti degni d’esser raccontati non ne erano successi, o<br />

almeno così pareva a noi. L’unica era fare delle ipotesi, anzi: fare ipotesi sulla<br />

possibilità di fare ipotesi. Ora, nel fare ipotesi di ipotesi, io avevo più immaginazione<br />

del Decano, e questo era insieme un vantaggio e uno svantaggio, perché mi portava a<br />

fare scommesse più arrischiate, cosicché si può dire che le probabilità di vincita erano<br />

pari.<br />

In genere, io puntavo sulla possibilità che un dato avvenimento avvenisse, mentre il<br />

Decano scommetteva quasi sempre contro. Aveva un senso statico della realtà, (k)yK,<br />

se posso esprimermi in questo modo, dato che tra statico e dinamico allora non c’era<br />

la differenza che c’è adesso, o almeno bisognava stare attenti per coglierla, quella<br />

differenza.<br />

Per esempio, le stelle s’ingrossavano, e io: — Di quanto? — faccio. Cercavo di<br />

portare il pronostico sui numeri perché così lui trovava meno da discutere.<br />

A quel tempo, di numeri ce n’erano soltanto due: il numero e e il numero pi greco.<br />

Il Decano fa un calcolo ad occhio e croce, e risponde: — Cresce di e elevato a ti.<br />

Bravo furbo! Fin lì ci arrivavano tutti. Ma le cose non erano così semplici, io<br />

l’avevo capito. — Scommettiamo che si ferma, ad un certo punto.<br />

— Scommettiamo. E quand’è che dovrebbe fermarsi?<br />

E io, o la va o la spacca, gli sparo il mio pi greco. Andò. Il Decano ci restò di<br />

stucco.<br />

Da quel momento cominciammo a scommettere a base di e e di pi greco.<br />

— Pi greco! — gridava il Decano, in mezzo al buio sparso di bagliori. Invece era la<br />

volta che era e.<br />

Facevamo per divertirci, si capisce; perché come guadagno non ci sarebbe stato<br />

32


tornaconto. Quando cominciarono a formarsi gli elementi, prendemmo a valutare le<br />

puntate in atomi degli elementi più rari, e lì commisi un errore. Avevo visto che il più<br />

raro di tutti era il tecnezio, e presi a scommettere tecnezio, e a vincere, e a incassare:<br />

accumulai un capitale di tecnezio. Non avevo previsto che era un elemento instabile e<br />

se ne andava tutto in radiazioni: mi trovai a dover ricominciare da zero.<br />

Certo avevo anch’io i miei colpi sbagliati, ma poi riprendevo il vantaggio e potevo<br />

permettermi qualche pronostico arrischiato.<br />

— Ora viene fuori un isotopo del bismuto! — mi precipitavo a dire, guardando gli<br />

elementi appena nati scoppiettar fuori dal crogiolo d’una stella supernova. —<br />

Scommettiamo!<br />

Macché: era un atomo di polonio, sano sano.<br />

In questi casi (k)yK prendeva a sghignazzare, a sghignazzare, come se le sue<br />

vittorie fossero un gran merito, mentre era solo una mossa troppo arrischiata da parte<br />

mia che l’aveva favorito. Invece, più andavo avanti, più capivo il meccanismo, e di<br />

fronte ad ogni fenomeno nuovo, dopo qualche puntata un po’ a tentoni, calcolavo i<br />

miei pronostici a ragion veduta. La regola per cui una galassia si fissava a tanti milioni<br />

d’anni-luce da un’altra, né di più né di meno, arrivavo a capirlo sempre prima io di lui.<br />

Dopo un po’ diventava così facile che non ci provavo neppure più gusto.<br />

Così, dai dati di cui disponevo, provavo a dedurre mentalmente altri dati, e da questi<br />

altri ancora, finché non riuscivo a proporre eventualità che in apparenza non<br />

c’entravano per niente con quello di cui stavamo discutendo. E le buttavo lì, senza<br />

parere.<br />

Per esempio, stavamo facendo pronostici sulla curvatura delle spirali galattiche, e a<br />

un tratto io esco a dire:<br />

— Ora senti un po’, (k)yK, secondo te, gli Assiri la invaderanno, la Mesopotamia?<br />

Restò disorientato. — La... cosa? Quando?<br />

Calcolai in fretta e gli sparai una data, naturalmente non in anni e in secoli, perché<br />

allora le unità di misura del tempo non erano apprezzabili in grandezze di quel tipo, e<br />

per indicare una data precisa dovevamo ricorrere a formule così complicate che a<br />

scriverle avrebbero ricoperto una lavagna.<br />

— E come si fa a sapere...?<br />

— Veloce, (k)yK, la invadono o no? Per me, che la invadono; per te, che no. Ci<br />

stai? Dài, non tirarla in lungo.<br />

Eravamo ancora nel vuoto senza limiti, striato qua e là da qualche baffo d’idrogeno<br />

attorno ai vortici delle prime costellazioni. Ammetto che ci volevano deduzioni molto<br />

complicate per prevedere le pianure della Mesopotamia nereggianti di uomini e cavalli<br />

e frecce e trombe, ma non avendo altro da fare si poteva ben riuscirci.<br />

Invece, in questi casi il Decano puntava sempre sul no, e non perché pensasse che<br />

gli Assiri non ce l’avrebbero fatta, ma semplicemente perché escludeva che ci<br />

sarebbero mai stati Assiri e Mesopotamia e Terra e genere umano.<br />

Queste, s’intende, erano scommesse a più lunga scadenza delle altre; non come in<br />

certi casi, che il risultato si sapeva subito. — Vedi quel Sole lì che si forma con un<br />

ellissoide tutt’intorno? Veloce, prima che si formino i pianeti, di’ a che distanza<br />

saranno le orbite una dall’altra...<br />

Avevamo appena finito di dirlo ed ecco che nel giro d’otto o nove, che dico? di sei<br />

33


o sette centinaia di milioni d’anni, i pianeti si mettevano a girare ciascuno nella sua<br />

orbita, né più stretta né più larga.<br />

Molto maggior soddisfazione mi davano invece le scommesse che dovevamo tenere<br />

a mente per miliardi e miliardi d’anni, senza dimenticarci su cosa avevamo puntato e<br />

quanto, e nello stesso tempo ricordarci le scommesse a scadenza più prossima, e il<br />

numero (era cominciata l’epoca dei numeri interi, e questo complicava un po’ le cose)<br />

delle scommesse vinte dall’uno e dall’altro, l’ammontare delle poste (il mio vantaggio<br />

cresceva sempre: il Decano era indebitato fino al collo). E in aggiunta a tutto questo<br />

dovevo escogitare scommesse nuove, sempre più avanti nella catena delle deduzioni.<br />

— L’otto febbraio 1926, a Santhià, provincia di Vercelli, d’accordo?, in via<br />

Garibaldi, al numero 18, mi segui?, la signorina Giuseppina Pensotti, d’anni ventidue,<br />

esce di casa alle cinque e tre quarti del pomeriggio: prende a destra o a sinistra?<br />

— Eeeh... — faceva (k)yK.<br />

— Dài, veloce. Io dico che va a destra. — E attraverso le nebule di pulviscolo<br />

solcate dalle orbite delle costellazioni già vedevo salire la nebbietta della sera per le<br />

vie di Santhià, accendersi fioco un lampione che arrivava appena a segnare la linea del<br />

marciapiede nella neve, e illuminava per un momento l’ombra snella di Giuseppina<br />

Pensotti mentre voltava l’angolo dopo la pesa del Dazio, e si perdeva.<br />

Su quel che doveva capitare ai corpi celesti potevo smettere di fare nuove<br />

scommesse e aspettare tranquillamente d’intascare le puntate di (k)yK man mano che<br />

le mie previsioni s’avveravano. Ma la passione del gioco mi portava, d’ogni<br />

avvenimento possibile, a prevedere le serie interminabili di avvenimenti che ne<br />

conseguivano, fino ai più marginali e aleatori. Cominciai ad abbinare pronostici sui<br />

fatti più immediati e facilmente calcolabili con altri che richiedevano operazioni<br />

estremamente complesse. — Presto, vedi i pianeti come si condensano: di’ un po’ su<br />

quale si formerà un’atmosfera: Mercurio? Venere? Terra? Marte? Dài, deciditi; e poi,<br />

visto che ci sei, calcolami l’indice d’incremento demografico della penisola indiana<br />

durante la dominazione inglese. Cosa stai lì a pensarci tanto? Sbrigati.<br />

Avevo imboccato un canale, uno spiraglio, al di là del quale gli avvenimenti<br />

nereggiavano con moltiplicata densità, non c’era che da coglierli a manciate e gettarli<br />

in faccia al mio competitore che non ne aveva mai supposto l’esistenza. La volta che<br />

mi venne da lasciar cadere quasi distrattamente la domanda: — Arsenal-Real Madrid,<br />

in semifinale, Arsenal gioca in casa, chi vince? — in un attimo compresi che con<br />

questo che pareva un casuale accozzo di parole avevo toccato una riserva infinita di<br />

nuove combinazioni tra i segni di cui la realtà compatta e opaca e uniforme si sarebbe<br />

servita per travestire la sua monotonia, e forse la corsa verso il futuro, quella corsa che<br />

io per primo avevo previsto e auspicato, non tendeva ad altro attraverso il tempo e lo<br />

spazio che ad uno sbriciolarsi in alternative come queste, fino a dissolversi in una<br />

geometria d’invisibili triangoli e rimbalzi come il percorso del pallone tra le linee<br />

bianche del campo quali io cercavo d’immaginarmi tracciate in fondo al vortice<br />

luminoso del sistema planetario, decifrando i numeri segnati sul petto e la schiena di<br />

giocatori notturni irriconoscibili in lontananza.<br />

Ormai m’ero gettato in questa nuova area del possibile giocandoci tutte le mie<br />

vincite precedenti. Chi poteva fermarmi? La solita perplessa incredulità del Decano<br />

non serviva che a incitarmi a rischiare. Quando m’accorsi d’essermi cacciato in una<br />

34


trappola era tardi. Ebbi ancora la soddisfazione – magra soddisfazione, stavolta –<br />

d’essere il primo ad accorgermene: (k)yK non pareva rendersi conto che la fortuna<br />

s’era ormai girata dalla sua parte, ma io contavo le sue risate, un tempo rare e la cui<br />

frequenza ora aumentava, aumentava...<br />

— Qfwfq, hai visto che il Faraone Amenhotep IV non ha avuto figli maschi? Ho<br />

vinto io!<br />

— Qfwfq, hai visto che Pompeo non ce l’ha fatta, con Cesare? Lo dicevo!<br />

Eppure io i miei calcoli li avevo seguiti fino in fondo, non avevo trascurato nessuna<br />

componente. Anche avessi dovuto tornare da capo, avrei riscommesso come prima.<br />

— Qfwfq, sotto l’imperatore Giustiniano fu importato dalla Cina a Costantinopoli il<br />

baco da seta, non la polvere da sparo... O sono io che faccio confusione?<br />

— Ma no, hai vinto tu, hai vinto...<br />

Certo m’ero lasciato andare a far pronostici su avvenimenti sfuggenti, impalpabili, e<br />

ne avevo fatto molti, moltissimi, e adesso non potevo più tirarmi indietro, non potevo<br />

correggermi. E del resto, correggermi come? in base a che cosa?<br />

— Dunque, Balzac non fa suicidare Lucien de Rubempré alla fine delle Illusions<br />

perdues, — diceva il Decano, con una vocetta trionfante che gli era venuta da un po’<br />

di tempo in qua, — ma lo fa salvare da Carlos Herrera, alias Vautrin, sai?, quello che<br />

c’era già nel Père Goriot... Allora, Qfwfq, a quanto siamo?<br />

Il mio vantaggio calava. Avevo messo al sicuro le mie vincite, convertite in valuta<br />

pregiata, in una banca svizzera; ma dovevo ritirare continuamente grosse somme per<br />

far fronte alle perdite. Non che perdessi sempre. Qualche scommessa la vincevo<br />

ancora, magari grossa, ma le parti s’erano scambiate; quando vincevo non ero più<br />

sicuro che non fosse stato un caso, e che la volta dopo non mi toccasse una nuova<br />

smentita ai miei calcoli.<br />

Al punto in cui eravamo, ci erano necessari una biblioteca d’opere di consultazione,<br />

abbonamenti a riviste specializzate, oltre che un’attrezzatura di macchine calcolatrici<br />

per i nostri computi: il tutto, come sapete, ci è stato messo a disposizione da una<br />

Research Foundation, alla quale, stabilitici su questo pianeta, ci eravamo rivolti perché<br />

sovvenzionasse i nostri studi. Naturalmente, le scommesse figurano essere un<br />

innocente gioco tra noi e nessuno sospetta le grosse cifre che in esse sono coinvolte.<br />

Ufficialmente campiamo col nostro modesto mensile di ricercatori del Centro<br />

Previsioni Elettroniche, con in più, per (k)yK, l’indennità che gli comporta la carica di<br />

Decano, che è riuscito ad ottenere dalla Facoltà sempre con la sua aria di non muovere<br />

un dito. (La sua predilezione per la stasi s’è andata sempre aggravando, tanto che qui<br />

si è presentato nelle vesti d’un paralitico, su una poltrona a ruote). Questo titolo di<br />

Decano, sia detto per inciso, con l’anzianità non ci ha niente a che vedere, se no io ne<br />

avrei diritto almeno quanto lui, solo che io non ci tengo.<br />

Così siamo arrivati a questa situazione. Il Decano (k)yK, dal loggiato della sua<br />

palazzina, seduto nella poltrona a ruote, con le gambe ricoperte dalla coltre di giornali<br />

di tutto il mondo arrivati con la posta del mattino, grida da farsi sentire da una parte<br />

all’altra del campus:<br />

— Qfwfq, il trattato atomico tra Turchia e Giappone oggi non è stato firmato,<br />

neanche iniziate le trattative, hai visto? Qfwfq, l’uxoricida di Termini Imerese è stato<br />

condannato a tre anni, come dicevo io: non all’ergastolo!<br />

35


E sbandiera le pagine dei quotidiani, bianche e nere come lo spazio quando<br />

s’andavano formando le galassie, e gremite – come allora lo spazio – di corpuscoli<br />

isolati, circondati di vuoto, privi in sé di destinazione e di senso. E io penso a com’era<br />

bello allora, attraverso quel vuoto, tracciare rette e parabole, individuare il punto<br />

esatto, l’intersezione tra spazio e tempo in cui sarebbe scoccato l’avvenimento,<br />

incontestabile nello spicco del suo bagliore; mentre adesso gli avvenimenti vengono<br />

giù ininterrotti, come una colata di cemento, uno in colonna sull’altro, uno incastrato<br />

nell’altro, separati da titoli neri e incongrui, leggibili per più versi ma intrinsecamente<br />

illeggibili, una pasta d’avvenimenti senza forma né direzione, che circonda sommerge<br />

schiaccia ogni ragionamento.<br />

— Sai Qfwfq? Le quotazioni di chiusura oggi a Wall Street sono scese del 2%, non<br />

del 6! E di’, lo stabile costruito abusivamente sulla via Cassia è di dodici piani, non di<br />

nove! Nearco IV vince a Longchamps per due lunghezze. A quanto siamo, Qfwfq?<br />

36


L’hotel straordinario<br />

o il milleunesimo viaggio di Ion il Tranquillo<br />

di Stanislaw Lem<br />

Arrivai a casa piuttosto tardi – l’incontro al club Nebulosa di Andromeda si era<br />

trascinato ben oltre l’una. Fui tormentato tutta notte dagli incubi. Sognai di aver<br />

inghiottito un enorme Kurdl; poi sognai di essere tornato sul pianeta Durditov e di non<br />

riuscire a sfuggire a una di quelle terribili macchine che trasformano le persone in<br />

esagoni; poi... Di solito la gente sconsiglia di mischiare l’età e l’idromele. Una<br />

telefonata inattesa mi riportò alla realtà. Era il professor Tarantog, mio vecchio amico<br />

e compagno di viaggi interstellari.<br />

— Un problema urgente, mio caro Ion, — gli sentii dire. — Gli astronomi hanno<br />

scoperto uno strano oggetto nel cosmo: una misteriosa linea nera che unisce due<br />

galassie. Nessuno sa cosa stia succedendo. Persino i migliori telescopi e radiotelescopi<br />

piazzati sui razzi non bastano a dissipare il mistero. Tu sei la nostra ultima speranza.<br />

Vola subito verso la nebulosa ACD-1587.<br />

Il giorno dopo ritirai dal carrozziere il mio vecchio razzo fotonico e ci installai<br />

l’acceleratore temporale e il robot elettronico che conosce tutte le lingue del cosmo e<br />

tutte le storie sul viaggio interstellare (è garantito per intrattenermi per almeno cinque<br />

anni di viaggio). Quindi partii per occuparmi del caso in questione.<br />

Proprio quando il robot aveva esaurito la sua intera scorta di storie e aveva<br />

cominciato a ripetersi (non c’è niente di peggio di un robot elettronico che ripete una<br />

vecchia storia per la decima volta), la meta del mio viaggio apparve in lontananza. Le<br />

galassie che coprivano la linea misteriosa erano ora alle mie spalle, e davanti a me<br />

stava... l’hotel Cosmos. Qualche tempo prima avevo costruito un piccolo pianeta per<br />

alcuni esuli interstellari vagabondi, ma quelli lo avevano fatto a pezzi e si erano<br />

ritrovati di nuovo senza un rifugio. Allora avevano deciso di smettere di vagare per<br />

galassie sconosciute e avevano messo su un edificio grandioso: un hotel per tutti i<br />

viaggiatori del cosmo. Questo hotel si estendeva attraverso quasi tutte le galassie.<br />

Dico “quasi tutte” perché gli esuli smantellarono alcune galassie disabitate e rubarono<br />

qualche costellazione fuori mano da ognuna delle rimanenti.<br />

Comunque, costruendo l’hotel avevano fatto un lavoro meraviglioso. In ogni stanza<br />

c’erano rubinetti da cui scorreva plasma caldo o freddo. Se lo desideravi, potevi essere<br />

smembrato in atomi per la notte, e la mattina dopo il portiere ti avrebbe rimesso<br />

insieme.<br />

Cosa più importante, nell’hotel c’era un numero infinito di stanze. Gli esuli<br />

speravano che da quel momento in poi nessuno avrebbe più dovuto sentire la famosa<br />

frasetta irritante che li aveva afflitti nei loro vagabondaggi: «Non c’è più posto».<br />

Nonostante ciò, non ebbi fortuna. La prima cosa che attrasse la mia attenzione<br />

entrando nella hall fu un cartello: «I delegati del congresso di zoologia cosmica sono<br />

37


pregati di registrarsi al 127° piano».<br />

Siccome gli zoologi cosmici venivano da tutte le galassie, e di galassie ne esiste un<br />

numero infinito, saltò fuori che tutte le stanze erano occupate da partecipanti del<br />

congresso. Non c’era posto per me. Il conciérge tentò, è vero, di convincere qualche<br />

delegato a stringersi un po’, in modo che potessi dividere la stanza con uno di loro.<br />

Ma quando scoprii che uno dei potenziali compagni di stanza respirava fluorina e che<br />

un altro considerava normale una temperatura ambientale sugli 860°, rifiutai<br />

cortesemente questi “piacevoli” coinquilini.<br />

Per fortuna il direttore dell’hotel era stato un esule e ricordava il buon servigio che<br />

avevo reso a lui e ai suoi compagni. Avrebbe cercato personalmente una stanza per<br />

me. In fondo, passando la notte nello spazio interstellare uno poteva prendersi una<br />

polmonite. Dopo aver meditato un po’, il direttore si rivolse al conciérge e gli disse:<br />

— Mettilo nella stanza 1.<br />

— E dove metterò l’ospite della 1?<br />

— Mettilo nella 2. Sposta l’ospite della 2 nella 3, quello della nella 4 e così via.<br />

Fu solo in quel momento che cominciai ad apprezzare le qualità insolite dell’hotel.<br />

Se ci fosse stato solo un numero finito di stanze, l’ospite dell’ultima si sarebbe dovuto<br />

trasferire nello spazio interstellare. Ma siccome l’hotel aveva un numero infinito di<br />

stanze, c’era spazio per tutti, e io potei prendere possesso di una stanza senza privare<br />

alcun zoologo cosmico della sua.<br />

Il mattino dopo, non fui stupito di scoprire che mi si domandava di spostarmi nella<br />

stanza numero 1.000.000. Semplicemente, alcuni zoologi cosmici erano arrivati in<br />

ritardo dalla galassia VSK-3472, e si dovette trovare una stanza per altri 999 ospiti.<br />

Ma il terzo giorno del mio soggiorno nell’hotel, mentre stavo andando dal conciérge<br />

per pagare la mia stanza, vidi con disappunto che dal suo banco si estendeva una fila<br />

la cui fine scompariva da qualche parte nei pressi delle Nubi di Magellano. In<br />

quell’istante sentii una voce:<br />

— Scambio due francobolli della nebulosa di Andromeda per uno di Sino.<br />

— Chi ha il francobollo erpeano della cinquantasettesima èra cosmica?<br />

Confuso, mi rivolsi al conciérge:<br />

— Chi sono queste persone?<br />

— Questo è il congresso interstellare dei filatelici.<br />

— E ce ne sono molti?<br />

— Un insieme infinito: un rappresentante per ogni galassia.<br />

— Ma come farete a trovar loro una stanza? Dopotutto, gli zoologi cosmici non se<br />

ne vanno fino a domani...<br />

— Non lo so. Sto giusto andando a parlarne un momento con il direttore.<br />

Ad ogni modo, il problema questa volta si rivelò molto più difficile, e un momento<br />

si trasformò in un’ora. Alla fine il conciérge lasciò l’ufficio del direttore e cominciò a<br />

dare le sue disposizioni. Anzitutto chiese all’ospite della stanza 1 di spostarsi nella 2.<br />

Questo mi sembrò strano, perché sapevo per esperienza personale che uno<br />

spostamento del genere avrebbe liberato una sola stanza, mentre dovevamo trovare<br />

posto per nientemeno che un insieme infinito di filatelici. Ma il conciérge continuò a<br />

38


dare ordini:<br />

— Mettete l’ospite della 2 nella 4, quello della 4 nella 6, e in generale mettete<br />

l’ospite della stanza n nella stanza 2n.<br />

Ora il suo piano diventava chiaro: con questo sistema avrebbe liberato l’insieme<br />

infinito delle stanze dispari e sarebbe stato in grado di sistemarvi i filatelici. Così, alla<br />

fine i numeri pari si trovarono ad essere occupati dagli zoologi cosmici e i numeri<br />

dispari dai filatelici. (Non ho detto di me: dopo tre giorni di frequentazione ero in così<br />

buoni rapporti con gli zoologi cosmici che ero stato scelto come rappresentante<br />

onorario al loro congresso; perciò dovetti abbandonare la mia stanza insieme a tutti<br />

loro e spostarmi dal numero 1.000.000 al numero 2.000.000). Invece un mio amico<br />

filatelico che era 574esimo nella coda ottenne la stanza 1.147. In generale, il filatelico<br />

n-esimo nella coda ottenne il numero di stanza 2n – 1.<br />

Il giorno dopo la situazione delle stanze si semplificò: il congresso degli zoologici<br />

cosmici terminò e loro se ne tornarono a casa. Io mi trasferii dal direttore, che aveva<br />

una stanza vuota nel suo appartamento. Ma ciò che è bene per gli ospiti non sempre fa<br />

piacere alla direzione. Dopo alcuni giorni il mio generoso anfitrione si rattristò.<br />

— Qual è il problema? — gli chiesi.<br />

— Metà delle stanze sono vuote. Non raggiungeremo il preventivo di bilancio.<br />

Sinceramente, non ero proprio sicuro di quale preventivo intendesse; dopotutto, gli<br />

stavano pagando un numero infinito di stanze, ma lo stesso gli diedi questo consiglio:<br />

— Be’, perché non avvicina gli ospiti tra loro? Li sposti e riempirà tutte le stanze.<br />

Questo si rivelò facile da fare. I filatelici occupavano solo le stanze dispari: 1, 3, 5,<br />

7, 9 eccetera. Lasciammo stare l’ospite della 1, spostammo quello della 3 nella 2,<br />

quello della 5 nella 3, quello della 7 nella 4, eccetera. Alla fine le stanze erano di<br />

nuove tutte piene, e non era arrivato nemmeno un nuovo ospite.<br />

Ma questo non pose fine all’infelicità del direttore. Mi spiegarono che gli esuli non<br />

si erano accontentati di creare l’hotel Cosmos. Gli instancabili costruttori erano andati<br />

avanti e avevano fondato un insieme infinito di hotel, ognuno dei quali aveva infinite<br />

stanze. Per far ciò avevano smantellato così tante galassie che l’equilibrio<br />

intergalattico ne era stato sconvolto, cosa che poteva comportare serie conseguenze.<br />

Era stato quindi chiesto loro di chiudere tutti gli hotel eccetto il nostro, e di rimettere<br />

al suo posto il materiale usato. Ma era difficile eseguire quest’ordine, dal momento<br />

che tutti gli hotel (incluso il nostro) erano pieni. Al direttore era stato chiesto di<br />

spostare tutti gli ospiti da un numero infinito di hotel – ognuno dei quali con infiniti<br />

ospiti – a un unico hotel, che era già pieno!<br />

— Non ne posso più! — urlò il direttore. — Prima sistemo un ospite in un hotel al<br />

completo, poi altri 999.999 ospiti, poi un insieme infinito; e ora vogliono che nello<br />

stesso hotel trovi spazio per un ulteriore insieme infinito di insiemi infiniti di ospiti.<br />

No, l’hotel non è fatto di gomma; che li mettano dove gli pare.<br />

Ma un ordine è un ordine, e all’hotel avevano cinque giorni per prepararsi all’arrivo<br />

dei nuovi ospiti. Nessuno lavorò, in quei cinque giorni: tutti pensavano a come<br />

risolvere il problema. Fu bandita una gara: il premio era un tour di una delle galassie.<br />

Ma tutte le soluzioni avanzate vennero ritenute inattuabili. Poi un apprendista cuoco<br />

39


fece questa proposta: lasciare l’ospite della stanza 1 nel suo alloggio attuale, spostare<br />

l’ospite della 2 nella 1.001, quello della 3 nella 2.001 eccetera. Fatto ciò, mettere gli<br />

ospiti del secondo hotel nelle stanze 2, 1.002, 2.002 eccetera del nostro hotel, gli ospiti<br />

del terzo hotel nelle stanze 3, 1.003, 2.003, eccetera. Il progetto venne respinto, perché<br />

non era chiaro dove si dovessero alloggiare gli ospiti del milleunesimo hotel;<br />

dopotutto, quelli dei primi 1.000 hotel avrebbero già occupato tutte le stanze. Ci<br />

ricordammo in questa occasione che quando il Senato di Roma, nel suo servilismo, si<br />

era offerto di rinominare il mese di settembre “Tiberio” in onore dell’imperatore (ai<br />

mesi precedenti erano già stati dati i nomi di Giulio Cesare e Augusto), Tiberio aveva<br />

risposto causticamente: «E cosa offrirete al tredicesimo Cesare?»<br />

Il contabile dell’hotel propose una variante eccellente. Ci suggerì di fare uso delle<br />

proprietà della progressione geometrica per risistemare gli ospiti in questo modo:<br />

mettere quelli del primo hotel nelle stanze 2, 4, 8, 16, 32 eccetera (questi numeri<br />

formano una progressione geometrica in base 2). Gli ospiti del secondo hotel<br />

andavano messi nelle stanze 3, 9, 27, 81 eccetera (questi sono i membri della<br />

progressione geometrica in base 3). La sua proposta era di risistemare gli ospiti degli<br />

altri hotel in una maniera simile. Ma il direttore gli domandò:<br />

— E dovremmo usare la progressione in base 4 per il terzo hotel?<br />

— Naturalmente, — rispose il contabile.<br />

— Allora non otteniamo nulla: in fondo, nella stanza 4 abbiamo già un ospite del<br />

primo hotel. Dove metteremo la gente del terzo hotel?<br />

Venne il mio turno di parlare; all’Accademia Stellare non facevano studiare cinque<br />

anni di matematica per niente.<br />

— Usate i numeri primi. Mettete gli ospiti del primo hotel ai numeri 2, 4, 8, 16 ...<br />

quelli del secondo hotel nei numeri 3, 9, 27, 81 .... quelli del terzo nei numeri 5, 25,<br />

125, 625 ... quelli del quarto nei numeri 7, 49, 343...<br />

— E non succederà anche in questo caso che qualche stanza abbia due ospiti? —<br />

chiese il direttore.<br />

— No. In effetti, se si prendono due numeri primi, nessuna delle potenze intere<br />

positive di uno può equivalere a quelle dell’altro. Se p e q sono numeri primi, con<br />

p ≠ q, e m e n sono numeri naturali, allora p m ≠ q n .<br />

Il direttore diede ragione al mio metodo e trovò immediatamente una miglioria<br />

grazie alla quale bastavano solo i numeri primi 2 e 3. Propose cioè di mettere gli ospiti<br />

della stanza m-esima dell’hotel n-esimo nella stanza 2 m 3 n . Questo funziona perché se<br />

m ≠ p e n ≠ q, allora 2 m 3 n ≠ 2 p 3 q . Quindi nessuna stanza avrebbe avuto due occupanti.<br />

Questa proposta deliziò tutti. Era una soluzione al problema che avevamo supposto<br />

insolubile. Ma né il direttore né io vincemmo il premio; troppe stanze sarebbero<br />

rimaste vuote, se avessimo adottato la nostra soluzione (con la mia, le stanze come la<br />

6, la 10, la 12 e più in generale tutte le stanze che non era potenze di primi; con quella<br />

del direttore, tutte le stanze i cui numeri non potevano essere scritti nella forma 2 m 3 n ).<br />

La soluzione migliore fu proposta da uno dei filatelici, il presidente dell’Accademia di<br />

Matematica della galassia del Cigno, che suggerì di procedere a una tabulazione nelle<br />

cui righe comparisse il numero dell’hotel, e nelle colonne i numeri delle stanze. Per<br />

40


esempio, all’intersezione della riga 4 con la colonna 6 sarebbe comparsa la sesta<br />

stanza del quarto hotel. Ecco la tabella (in realtà, solo la parte superiore, perché<br />

scriverla per intero richiederebbe l’impiego di infinite righe e colonne).<br />

(1,1) (1,2) (1,3) (1,4) (1,5) ... (1,n) ...<br />

(2,1) (2,2) (2,3) (2,4) (2,5) ... (2,n) ...<br />

(3,1) (3,2) (3,3) (3,4) (3,5) ... (3,n) ...<br />

(4,1) (4,2) (4,3) (4,4) (4,5) ... (4,n) ...<br />

. .<br />

. .<br />

. .<br />

(5,1) (5,2) (5,3) (5,4) (5,5) ... (5,n) ...<br />

. .<br />

. .<br />

. .<br />

— E ora sistemate gli ospiti secondo i quadrati, — disse il matematico-filatelico.<br />

— Cosa? — Il direttore non capiva.<br />

— Secondo i quadrati. Nella stanza i mettete l’ospite di (1,1), cioè della prima<br />

stanza del primo hotel; nella 2 mettete l’ospite di (1,2), cioè della seconda stanza del<br />

primo hotel; nella 3 mettete l’ospite di (2,2), la seconda stanza del secondo hotel, e<br />

nella 4... l’ospite di (2,1), la prima stanza del secondo hotel. In questo modo avremo<br />

sistemato gli ospiti del quadrato in alto a sinistra con lato 2. Dopo di che mettete<br />

l’ospite di (1,3) nella stanza 5, di (2,3) nella stanza 6, di (3,3) nella 7, di (3,2) nella 8,<br />

di (3,1) nella 9. (Queste stanze riempiono il quadrato di lato 3). E continuiamo in<br />

questo modo:<br />

(1,1) (1,2) (1,3) (1,4) (1,5) ... (1,n) ...<br />

↓ ↓ ↓ ↓ ↓<br />

(2,1) ← (2,2) (2,3) (2,4) (2,5) ... (2,n) ...<br />

↓ ↓ ↓ ↓<br />

(3,1) ← (3,2) ← (3,3) (3,4) (3,5) ... (3,n) ...<br />

↓ ↓ ↓<br />

(4,1) ← (4,2) ← (4,3) ← (4,4) (4,5) ... (4,n) ...<br />

↓ ↓<br />

(5,1) ← (5,2) ← (5,3) ← (5,4) ← (5,5) ... (5,n) ...<br />

|<br />

|<br />

. | .<br />

41


. | .<br />

. | .<br />

↓<br />

(n,1) ← (n,2) ← (n,3) ← (n,4) ← (n,5) ← ... (n,n) ...<br />

. .<br />

. .<br />

. .<br />

— Ci sarà davvero spazio per tutti? — Il direttore era dubbioso.<br />

— Naturale. Dopotutto, secondo questo schema sistemiamo gli ospiti delle prime n<br />

stanze dei primi n hotel nelle prime n 2 stanze. Quindi, prima o poi ogni ospite riceverà<br />

una stanza. Per esempio, se consideriamo l’ospite della stanza 136 dell’hotel numero<br />

217, troviamo che lui riceverà una stanza al duecentodiciassettesimo passaggio.<br />

Possiamo anche calcolare facilmente quale stanza sarà: la numero 216 2 + 136. Più in<br />

generale, se l’ospite occupa la stanza n nell’hotel m, allora se n ≥ m occuperà la stanza<br />

numero (n – 1) 2 + m, e se n < m, la numero m 2 – n + 1.<br />

Il progetto avanzato fu riconosciuto come il migliore: tutti gli ospiti di tutti gli hotel<br />

avrebbero trovato posto nel nostro e nemmeno una stanza sarebbe rimasta vuota. Il<br />

matematico-filatelico ricevette il premio, un tour della galassia LCR-287.<br />

In onore del suo successo, il direttore organizzò un ricevimento al quale invitò tutti<br />

gli ospiti. Anche il ricevimento ebbe i suoi problemi. Gli occupanti delle stanze pari<br />

arrivarono in ritardo di mezz’ora, e quando comparvero si scoprì che tutte le sedie<br />

erano occupate, nonostante il nostro gentile anfitrione avesse organizzato le cose in<br />

modo che ci fosse una sedia per ogni ospite. Si dovette attendere che tutti si<br />

spostassero in nuovi posti per liberare la quantità necessaria di sedie (naturalmente,<br />

nella sala non venne portata nessuna sedia in più). Più tardi, quando iniziarono a<br />

servire il gelato agli ospiti, si scoprì che ogni ospite aveva due porzioni, nonostante il<br />

cuoco avesse di fatto preparato solo una porzione a testa. Spero che a questo punto il<br />

lettore sia in grado di immaginare da solo come questo possa essere successo.<br />

Alla fine del ricevimento salii nel mio razzo fotonico e partii per la Terra. Dovevo<br />

informare i cosmonauti terrestri del nuovo rifugio cosmico. Inoltre, volevo consultare<br />

alcuni importanti <strong>matematici</strong> e il mio amico professor Tarantog sulle proprietà degli<br />

insiemi infiniti.<br />

42


La trama celeste<br />

di Adolfio Bioy Casares<br />

Quando il capitano Ireneo Morris e il dottor Carlos Alberto Servian, medico<br />

omeopata, scomparvero da Buenos Aires, un 20 di dicembre, i giornali commentarono<br />

appena la notizia. Si disse che erano persone strane, gente complicata, e che una<br />

commissione stava indagando; si disse che la scarsa autonomia dell’aereo usato dai<br />

fuggiaschi consentiva di affermare che non potevano essere andati troppo lontano. In<br />

quei giorni ricevetti un pacco; conteneva: tre volumi in quarto (le opere complete del<br />

comunista Louis-Auguste Bianqui); un anello di scarso valore (un’acquamarina sul cui<br />

fondo si vedeva l’immagine di una dea dalla testa di cavallo); parecchie pagine scritte<br />

a macchina – Le avventure del capitano Morris – firmate C.A.S. Trascriverò quelle<br />

pagine.<br />

Le avventure del capitano Morris<br />

Questo racconto potrebbe cominciare con una qualche leggenda celtica che ci parli<br />

del viaggio di un eroe in un paese che si trova dall’altra parte di una fonte; o di<br />

un’inespugnabile prigione fatta di teneri rami, o di un anello che renda invisibile chi lo<br />

porti, o di una nuvola magica, o di una ragazza che piange nel fondo lontano di uno<br />

specchio tenuto in mano dal cavaliere destinato a salvarla, o della ricerca,<br />

interminabile e senza speranza, della tomba di re Artù.<br />

Potrebbe cominciare anche con la notizia, che io ho inteso con sorpresa e con<br />

indifferenza, secondo cui un tribunale militare accusava di tradimento il capitano<br />

Morris. O con la negazione dell’astronomia. O con una teoria su quei movimenti,<br />

chiamati pases, con cui si fanno apparire o scomparire gli spiriti.<br />

Tuttavia, io sceglierò un inizio meno stimolante; se non avrà i favori della magia,<br />

avrà quelli del metodo. Ciò non comporta un rifiuto del sovrannaturale; tanto meno il<br />

rifiuto delle allusioni o invocazioni del primo paragrafo.<br />

Mi chiamo Carlos Alberto Servian, e sono nato a Rauch; sono armeno. Da otto<br />

secoli il mio paese non esiste; ma lasciate che un armeno si accosti al suo albero<br />

genealogico: tutta la sua discendenza odierà i turchi. «Armeno una volta, armeno<br />

sempre». Siamo come una società segreta, come un clan, e sparsi per i continenti, il<br />

sangue indefinibile, occhi e naso che si ripetono, un modo di capire e godere la terra,<br />

certe abilità, certi raggiri, certe sregolatezze in cui ci riconosciamo, l’appassionata<br />

bellezza delle nostre donne, ci uniscono.<br />

Sono, per di più, scapolo e, come don Chisciotte, vivo (vivevo) con una nipote: una<br />

ragazza gradevole, giovane e dinamica. Vorrei aggiungere un altro aggettivo –<br />

tranquilla – ma devo confessare che negli ultimi tempi non lo ha meritato. Mia nipote<br />

43


si divertiva a fare lavori da segretaria e, poiché io non ho una segretaria, lei rispondeva<br />

al telefono, scriveva in bella copia e sistemava con un certo intuito le storie mediche e<br />

le sintomatologie che io annotavo sulla base delle dichiarazioni dei pazienti (la cui<br />

regola comune è il disordine) e organizzava il mio vasto archivio. Praticava un altro<br />

svago altrettanto innocente: venire al cinema con me nei pomeriggi di venerdì. Quel<br />

pomeriggio era venerdì.<br />

La porta si aprì. Un giovane militare entrò nell’ambulatorio.<br />

La mia segretaria si trovava a destra rispetto a me, in piedi, dietro la scrivania, e mi<br />

porgeva, impassibile, uno di quei grandi fogli su cui annoto i dati che mi forniscono i<br />

pazienti. Il giovane militare si presentò senza esitazioni – era il tenente Kramer – e<br />

dopo aver guardato insistentemente la mia segretaria domandò con voce sicura:<br />

— Posso parlare?<br />

Gli dissi di parlare. Continuò:<br />

— Il capitano Ireneo Morris vuole vederla. È tenuto prigioniero all’ospedale<br />

militare.<br />

Forse contagiato dalla marzialità del mio interlocutore, risposi:<br />

— Ai suoi ordini.<br />

— Quando andrà? — domandò Kramer.<br />

— Oggi stesso. Sempre che mi lascino entrare a quest’ora...<br />

— La lasceranno entrare, — dichiarò Kramer, e quasi immediatamente uscì.<br />

Guardai mia nipote. Era turbata. Intesi rabbia in lei e le domandai che cosa stesse<br />

succedendo. Mi rispose:<br />

— Sai chi è l’unica persona che ti interessa?<br />

Ebbi l’ingenuità di guardare nella direzione che mi indicava. Mi vidi nello specchio.<br />

Mia nipote uscì dalla stanza, correndo.<br />

Da qualche tempo era meno tranquilla. In più, aveva preso l’abitudine di chiamarmi<br />

egoista. Parte della colpa di ciò l’attribuisco al mio ex libris. Reca triplicemente<br />

inscritto – in greco, in latino e in spagnolo – il motto Conosci te stesso (non ho mai<br />

sospettato fin dove mi avrebbe portato quel motto) e mi riproduce mentre osservo,<br />

attraverso una lente, la mia immagine in uno specchio. Mia nipote ha incollato<br />

migliaia di questi ex libris in migliaia di volumi della mia versatile biblioteca. Ma c’è<br />

un altro motivo per questa fama di egoismo. Io sono sempre stato metodico, e noi<br />

uomini metodici, che siamo immersi in oscure occupazioni e trascuriamo i capricci<br />

delle donne, sembriamo pazzi, o sciocchi, o egoisti.<br />

Visitai due clienti e andai all’ospedale militare.<br />

Erano passate le sei quando arrivai al vecchio edificio di calle Pozos. Dopo<br />

un’attesa e un breve interrogatorio mi condussero nella stanza Occupata da Morris.<br />

Alla porta c’era una sentinella con la baionetta. Dentro, molto vicino alletto di Morris,<br />

due uomini che non mi salutarono giocavano a domino.<br />

Morris ed io ci conoscevamo da sempre; non siamo mai stati veri amici. Ho voluto<br />

molto bene a suo padre. Era un vecchio eccezionale, con la testa bianca, tonda, rasata,<br />

e gli occhi azzurri, eccessivamente duri e svegli; aveva un incontrollabile patriottismo<br />

gallese, un’irrefrenabile mania di raccontare leggende celtiche. Per molti anni (i più<br />

felici della mia vita), fu il mio professore. Tutti i pomeriggi studiavamo un po’, lui<br />

44


accontava e io ascoltavo le avventure dei mabinogion 77 , e poi ci rimettevamo in<br />

forze bevendo del mate con zucchero tostato. Ireneo si aggirava nei cortili; cacciava<br />

uccelli e topi, e con un temperino, un filo e un ago metteva assieme cadaveri<br />

eterogenei; il vecchio Morris diceva che Ireneo sarebbe diventato medico. Io sarei<br />

diventato inventore, perché avevo orrore degli esperimenti di Ireneo e perché una<br />

volta avevo disegnato un proiettile a molla, che avrebbe consentito i più invecchianti<br />

viaggi interplanetari, e un motore idraulico che, messo in moto, non si sarebbe mai<br />

fermato. Ireneo e io eravamo divisi da una reciproca indifferenza... Adesso, quando ci<br />

incontriamo, proviamo una grande gioia, un fiorire di nostalgie e di cordialità,<br />

ripetiamo un breve dialogo con allusioni alla nostra vecchia amicizia e, subito dopo,<br />

non sappiamo cosa dirci.<br />

Il paese del Galles, la tenace tradizione celtica, si erano spenti con suo padre. Ireneo<br />

è tranquillamente argentino, e ignora e disprezza allo stesso modo tutti gli stranieri.<br />

Perfino nell’aspetto è tipicamente argentino (alcuni lo hanno preso per sudamericano):<br />

piuttosto piccolo, delicato, con le ossa sottili, i capelli neri – molto pettinati, rilucenti –<br />

lo sguardo intelligente.<br />

Nel vedermi parve emozionato (io non l’avevo mai visto emozionato; neppure la<br />

sera che era morto il padre). Mi disse con voce chiara, quasi per farsi sentire da quelli<br />

che giocavano a domino:<br />

— Dammi la mano. Nei momenti difficili si conoscono gli amici.<br />

Mi sembrò che stesse esagerando. Morris continuò:<br />

— Dobbiamo parlare di molte cose, ma capirai che di fronte a un paio di<br />

circostanze come queste, — guardò con serietà i due uomini, — io preferisca stare<br />

zitto. Tra pochi giorni sarò a casa; allora sarà un piacere accoglierti.<br />

Credetti che quella frase equivalesse a un congedo. Morris aggiunse che se non<br />

avevo fretta mi sarei potuto trattenere un attimo.<br />

— Non vorrei dimenticare! — continuò. — Grazie per i libri.<br />

Mormorai qualcosa, confusamente. Non sapevo di quali libri mi stesse ringraziando.<br />

Parlò di incidenti aerei; smentì che vi fossero luoghi – El Palomar, a Buenos Aires,<br />

la Valle dei Re, in Egitto – da cui si irradiano correnti in grado di provocarne.<br />

Sulle sue labbra, «la Valle dei Re» mi parve incredibile. Probabilmente si accorse<br />

del mio stupore, perché spiegò:<br />

— Sono le teorie del prete Moreau. Altri dicono che ci manca la disciplina. È<br />

contraria alla peculiarità del nostro popolo, non so se mi segui. L’aspirazione<br />

dell’aviatore criollo è un aeroplano come Dio comanda. Se no, ricordati delle<br />

prodezze di Mira, con il Golondrina, un bidone di latta tenuto insieme con il fil di<br />

ferro.<br />

Gli domandai delle sue condizioni e del trattamento cui lo sottoponevano. Prima<br />

che rispondesse, fui io a parlare con voce ben alta, perché quelli che giocavano a<br />

domino sentissero:<br />

— Niente iniezioni. Non avvelenarti il sangue. Prendi un Depuratum 6 e poi<br />

un’Arnica 10.000. Sei un caso tipico da Arnica. Non dimenticare: dosi in-fi-ni-te-sima-li.<br />

77 Il Mabinogion è un gruppo di testi in prosa provenienti da manoscritti gallesi medievali. (N.d.R.)<br />

45


Uscii con la soddisfazione di aver ottenuto una piccola vittoria. Passarono tre<br />

settimane. In casa ci furono poche novità. Adesso, a ripensarci, potrei forse scoprire<br />

che mia nipote fu più attenta che mai, e meno cordiale. Secondo la nostra abitudine, i<br />

due venerdì successivi andammo al cinema; ma al terzo venerdì, quando entrai nella<br />

sua stanza, non c’era. Era uscita. Aveva dimenticato che quel pomeriggio saremmo<br />

dovuti andare al cinema!<br />

Poi mi arrivò un biglietto di Morris. Mi diceva che ormai era tornato a casa e che<br />

andassi a trovarlo un pomeriggio qualunque.<br />

Mi ricevette nello studio. Lo dico senza reticenze: Morris era migliorato. Ci sono<br />

fisici che tendono così invincibilmente all’equilibrio della salute che i peggiori veleni<br />

inventati dalla farmacopea allopatica non li intaccano.<br />

Entrando in quella stanza ebbi la sensazione di tornare indietro nel tempo; direi<br />

quasi che rimasi sorpreso di non trovare il vecchio Morris (morto dieci anni prima),<br />

elegante e benevolo, amministrare con calma gli impedimenta del mate. Non era<br />

cambiato niente. Nella biblioteca trovai gli stessi libri e gli stessi busti di Lloyd<br />

George e di William Morris che avevo rimirato nella mia gioventù; sul muro era<br />

appeso, come allora, l’orribile quadro della morte di un tale Griffith, un personaggio<br />

di leggenda.<br />

Senza indugi cercai di condurre Morris sulla conversazione che gli stava a cuore.<br />

Disse che doveva soltanto aggiungere alcuni particolari a ciò che mi aveva esposto<br />

nella sua lettera. Io non sapevo cosa dirgli; non avevo ricevuto alcuna lettera di Ireneo.<br />

Gli chiesi di raccontarmi tutto dall’inizio.<br />

Allora Ireneo Morris mi riferì la sua storia misteriosa. Fino al 23 giugno scorso era<br />

stato collaudatore degli aerei dell’esercito. Aveva sempre svolto questo incarico nella<br />

base di El Palomar; di recente lo avevano trasferito nella nuova fabbrica militare di<br />

Córdoba. Non aveva potuto andare fin lì.<br />

Mi diede la sua parola che lui, come collaudatore, era una persona importante.<br />

Aveva fatto più voli di prova di ogni altro collaudatore americano (del sud e del<br />

centro). La sua resistenza era straordinaria.<br />

Ne aveva ripetuti così tanti di quei voli di prova che, automaticamente,<br />

inevitabilmente, era giunto a ripeterne sempre uno uguale.<br />

Tirò fuori di tasca un libriccino e su un foglio bianco tracciò una serie di linee a zigzag;<br />

scrupolosamente vi annotò numeri (distanze, altezze, gradi di angoli); poi strappò<br />

il foglio e me ne fece omaggio. Mi affrettai a ringraziarlo. Dichiarò che io possedevo<br />

«lo schema classico dei suoi collaudi».<br />

Verso il 15 giugno gli avevano comunicato che in quei giorni avrebbe provato un<br />

nuovo Dewoitine – il 309 – monoposto, da combattimento. Si trattava di un<br />

apparecchio costruito su un brevetto francese dell’anno precedente e la prova si<br />

sarebbe svolta abbastanza in segreto. Morris se ne andò a casa, prese un taccuino di<br />

appunti – «come avevo fatto oggi» – disegnò lo schema – «lo stesso che io avevo in<br />

tasca».<br />

Poi si soffermò su come renderlo più complicato; quindi, «a questa stessa scrivania<br />

dove stavamo conversando amichevolmente», immaginò quelle aggiunte, le impresse<br />

nella sua memoria.<br />

Il 23 giugno, alba di una bella e terribile avventura, era un giorno grigio, piovoso.<br />

46


Quando Morris arrivò all’aeroporto, l’apparecchio era ancora nell’hangar. Dovette<br />

aspettare che lo tirassero fuori. Camminò, per non raffreddarsi; non ottenne altro che<br />

gli si inzuppassero i piedi. Finalmente apparve il Dewoitine. Era un monoplano ad ali<br />

basse, «niente di trascendentale, ti assicuro». Lo ispezionò sommariamente. Morris mi<br />

guardò negli occhi e a bassa voce mi comunicò: «Il sedile era stretto, notevolmente<br />

scomodo». Ricordò che l’indicatore del carburante segnava plein, e che sulle ali il<br />

Dewoitine non aveva nessuna insegna. Disse che fece un saluto con la mano, percorse<br />

circa cinquecento metri e decollò. Cominciò a eseguire quello che chiamava il suo<br />

«nuovo schema di collaudo».<br />

Era il collaudatore più resistente della Repubblica. Pura resistenza fisica, mi<br />

assicurò. Era disposto a raccontarmi la verità. Anche se non riusciva a crederlo,<br />

all’improvviso gli si annebbiò la vista. A quel punto Morris parlò molto; arrivò a<br />

esaltarsi. Da parte mia, confesso di aver seguito attentamente il racconto. Quando sentì<br />

che la vista gli si offuscava, ascoltò se stesso dire «Che vergogna, sto per perdere<br />

conoscenza», investì una vasta massa scura (forse una nuvola), ebbe una visione<br />

effimera e felice, come la visione di un paradiso luminoso... A malapena riuscì a<br />

governare l’aereo mentre toccava il campo di atterraggio.<br />

Tornò in sé. Era dolorosamente disteso su un letto bianco, in una stanza alta, dalle<br />

pareti bianchicce e spoglie. Un moscone si mise a ronzare; durante qualche secondo<br />

credette di essere addormentato per il riposo del pomeriggio, in campagna. Dopo<br />

seppe che era ferito; che era agli arresti; che era all’ospedale militare. Nulla di tutto<br />

ciò lo preoccupava troppo; tardò un momento prima di ricordare l’incidente; nel<br />

ricordarlo ebbe la prima sorpresa: non riusciva proprio a capire come avesse potuto<br />

perdere conoscenza. Eppure, non l’aveva perduta una sola volta... Di ciò parlerò più<br />

avanti.<br />

La persona che si trovava con lui era una donna. La guardò. Era un’infermiera.<br />

Parlò delle donne in generale. Si mostrò dogmatico, sgradevole. Disse che c’era un<br />

tipo di donna, e addirittura una donna determinata e unica, per l’animale che è<br />

nascosto in ogni uomo, e aggiunse qualcosa come che è una disgrazia trovarla, perché<br />

l’uomo comprende quanto sia decisiva per il suo destino e la tratta con timore e con<br />

rozzezza preparandosi un futuro d’ansia e di monotona frustrazione. Affermò che per<br />

l’uomo «come si deve», tra le altre donne non vi sono differenze notevoli, né pericoli.<br />

Gli domandai se l’infermiera corrispondesse al suo tipo. Mi rispose di no, e chiarì: «È<br />

una donna placida e materna, ma abbastanza bella».<br />

Continuò il suo racconto. Entrarono alcuni ufficiali (precisò i gradi gerarchici). Un<br />

soldato portò un tavolo, una sedia, una macchina da scrivere. Si sedette davanti alla<br />

macchina e scrisse in silenzio. Quando il soldato si fermò, un ufficiale interrogò<br />

Morris:<br />

— Il suo nome?<br />

Questa domanda non lo sorprese. Pensò: «Mere formalità». Disse il suo nome, ed<br />

ebbe il primo segno dell’inspiegabile complotto che lo avvolgeva. Tutti gli ufficiali<br />

risero. Non aveva mai pensato che il suo nome fosse ridicolo. Si adirò. Un altro<br />

ufficiale disse:<br />

— Poteva inventare qualcosa di credibile. — Ordinò al soldato della macchina: —<br />

Scriva, e basta.<br />

47


— Nazionalità?<br />

— Argentino, — affermò senza esitare.<br />

— Appartiene all’esercito?<br />

Si concesse un tocco d’ironia:<br />

— Sono io quello dell’incidente, e voi sembrate quelli che hanno preso la botta.<br />

Risero un po’ (tra loro, come se Morris fosse assente).<br />

Continuò:<br />

— Appartengo all’esercito, con il grado di capitano. Sono collaudatore di aeroplani.<br />

— Con base a Montevideo? — domandò sarcastico uno degli ufficiali.<br />

— Ad El Palomar, — rispose Morris.<br />

Diede il suo indirizzo: Bolívar 971. Gli ufficiali uscirono. Tornarono il giorno dopo,<br />

loro ed altri. Quando capì che dubitavano della sua nazionalità, o che fingevano di<br />

dubitare, avrebbe voluto alzarsi dal letto, picchiarli. La ferita e la leggera pressione<br />

dell’infermiera lo trattennero. Gli ufficiali tornarono il pomeriggio del giorno dopo, e<br />

la mattina del seguente. Faceva un caldo tremendo; tutto il corpo era indolenzito; mi<br />

confessò che avrebbe dichiarato qualunque cosa purché lo lasciassero in pace.<br />

Cosa si proponevano? Perché ignoravano chi fosse? Perché lo insultavano, perché<br />

fingevano che non fosse argentino? Era perplesso e furente. Una sera l’infermiera lo<br />

prese per mano e gli disse che non si difendeva con senno. Rispose che non doveva<br />

difendersi da nulla. Passò la notte sveglio, tra impeti di collera, momenti in cui era<br />

deciso ad affrontare la situazione in tutta tranquillità, e momenti in cui reagiva con<br />

violenza, durante i quali si rifiutava di «entrare in quel gioco assurdo». L’indomani<br />

volle chiedere scusa all’infermiera per il modo in cui l’aveva trattata; capiva che le sue<br />

intenzioni erano benevole, «e non è brutta, mi capisci»; ma siccome non sapeva<br />

chiedere scusa, le domandò irritato che cosa gli consigliasse. L’infermiera gli<br />

consigliò di chiamare qualche persona di responsabilità che chiarisse ogni cosa.<br />

Quando vennero gli ufficiali disse di essere amico del tenente Kramer e del tenente<br />

Viera, del capitano Faverio, dei tenenti colonnelli Mendizábal e Navarro.<br />

Alle cinque, insieme agli ufficiali, apparve il tenente Kramer, suo amico da sempre.<br />

Morris disse con vergogna che «dopo una simile emozione, l’uomo non è più lo<br />

stesso», e che nel vedere Kramer si sentì le lacrime agli occhi. Ammise di essersi<br />

levato a sedere sul letto e di aver aperto le braccia quando lo vide entrare. Gli gridò:<br />

— Vieni, fratello.<br />

Kramer si fermò e lo guardò senza emozione. Un ufficiale gli domandò:<br />

— Tenente Kramer, conosce quest’individuo?<br />

La voce era insidiosa. Morris dice che sperò – sperò che il tenente Kramer, con una<br />

spontanea esclamazione cordiale, rivelasse che il suo comportamento era solo parte di<br />

uno scherzo... Kramer rispose con troppo calore, come se temesse di non essere<br />

creduto:<br />

— Non l’ho mai visto. Parola mia, non l’ho mai visto.<br />

Gli credettero immediatamente, e la tensione che per alcuni secondi c’era stata fra<br />

loro scomparve. Si allontanarono. Morris sentì le risate degli ufficiali, e la risata<br />

sincera di Kramer, e la voce di un ufficiale che ripeteva: «Non mi sorprende,<br />

credetemi che non mi sorprende. È uno sfrontato!»<br />

Con Viera e con Mendizábal la scena si ripeté di nuovo nei punti essenziali. Fu più<br />

48


violenta. Un libro – uno dei libri che io gli avrei mandato – era sotto le lenzuola, a<br />

portata della sua mano, e raggiunse la faccia di Viera quando questi finse di non<br />

conoscerlo. Morris diede una descrizione dettagliata dell’episodio che non credo<br />

completamente vera. Chiarisco: non dubito del suo coraggio; bensì della sua velocità<br />

epigrammatica. Gli ufficiali ritennero che non fosse indispensabile convocare Faverio,<br />

che si trovava a Mendoza. Credette allora di avere un’ispirazione; pensò che se le<br />

minacce trasformavano in traditori i giovani, sarebbero fallite di fronte al generale<br />

Huet, vecchio amico di famiglia, che sempre era stato per lui come un padre.<br />

Gli risposero seccamente che non esisteva, che non era mai esistito un generale con<br />

un nome così nell’esercito argentino.<br />

Morris non aveva paura; forse se avesse conosciuto la paura si sarebbe difeso<br />

meglio. Fortunatamente, gli piacevano le donne, «e lei sa quanto amino ingrandire i<br />

pericoli e quanto siano astute». Nei giorni precedenti l’infermiera gli aveva preso la<br />

mano per convincerlo del pericolo che lo minacciava; adesso Morris la guardò negli<br />

occhi e le domandò il significato di quel complotto contro di lui. L’infermiera ripeté<br />

quel che aveva sentito: la sua affermazione che il 23 aveva collaudato il Dewoitine ad<br />

El Palomar era falsa; a El Palomar nessuno aveva collaudato aerei quel pomeriggio. Il<br />

Dewoitine era di un tipo adottato di recente dall’esercito argentino, ma la sua<br />

numerazione non corrispondeva a quella di nessun aereo dell’esercito argentino. «Mi<br />

credono una spia?», domandò incredulo. Sentì che si stava adirando di nuovo.<br />

Timidamente, l’infermiera rispose: «Credono che lei sia venuto da qualche paese<br />

fratello». Morris le giurò come argentino che era argentino, che non era una spia.<br />

Sembrò impressionata e continuò con lo stesso tono di voce: «L’uniforme è uguale<br />

alla nostra; ma hanno scoperto che le cuciture sono diverse». Aggiunse: «Un<br />

particolare imperdonabile». Morris capì che neanche lei gli credeva; si senti soffocare<br />

dalla rabbia e, per dissimulare, la baciò sulla bocca e l’abbracciò.<br />

Pochi giorni dopo l’infermiera gli comunicò: «È stato accertato che hai dato un<br />

indirizzo falso». Morris protestò inutilmente; la donna aveva le prove: la persona che<br />

abitava in quella casa era il signor Carlos Grimaldi. Nella mente di Morris<br />

s’intrecciarono le sensazioni del ricordo e dell’amnesia. Gli parve che quel nome fosse<br />

legato a qualche esperienza passata; non riuscì a definirla.<br />

L’infermiera gli assicurò che il suo caso aveva determinato la formazione di due<br />

gruppi contrapposti: quello di coloro che sostenevano che era straniero e quello di<br />

coloro che sostenevano che era argentino. Più precisamente: gli uni avrebbero voluto<br />

mandarlo all’estero in quanto spia; gli altri, fucilarlo in quanto traditore.<br />

— Con il tuo insistere sul fatto che sei argentino, — disse la donna, — aiuti quelli<br />

che chiedono la tua morte.<br />

Morris le confessò che aveva provato in patria «l’isolamento che sentono quelli che<br />

visitano altri paesi». Ma continuava a non aver paura di nulla.<br />

La donna pianse tanto che, alla fine, le promise di accettare ciò che gli avrebbe<br />

chiesto. «Anche se ti può sembrare ridicolo, mi piaceva vederla contenta», spiegò. La<br />

donna gli chiese di “riconoscere” che non era argentino. «Fosse stata un’altra donna,<br />

l’avrei picchiata. Le promisi di soddisfarla, senza alcuna intenzione di mantenere la<br />

promessa». Sollevò difficoltà:<br />

— Dico che sono del tal paese. Il giorno dopo rispondono da quel paese che la mia<br />

49


dichiarazione è falsa.<br />

— Non importa, — affermò l’infermiera. — Nessun paese riconoscerà mai di aver<br />

mandato in giro delle spie. Ma con quella dichiarazione e con qualche persona<br />

influente che io posso mettere in moto, forse potranno vincere i sostenitori dell’esilio,<br />

ammesso che non sia già troppo tardi.<br />

L’indomani un ufficiale andò a chiedergli una dichiarazione. Erano soli. L’uomo gli<br />

disse:<br />

— È un caso risolto. Nel giro di una settimana firmano la sentenza di morte.<br />

Morris mi spiegò:<br />

— Non mi restava più niente da perdere...<br />

«Per vedere cosa sarebbe successo», disse all’ufficiale:<br />

— Confesso che sono uruguayano.<br />

Spiegò: «Mi consolavo pensando che per me un uruguayano non è uno straniero».<br />

Nel pomeriggio fu l’infermiera a confessare: disse a Morris che era stato tutto uno<br />

stratagemma; che aveva temuto che non mantenesse la sua promessa; l’ufficiale era un<br />

amico e aveva ricevuto istruzioni per strappargli la confessione. Morris commentò:<br />

— Se fosse stata un’altra donna, l’avrei picchiata.<br />

La sua dichiarazione non era arrivata in tempo. La situazione peggiorava. Secondo<br />

l’infermiera, l’unica speranza era in un signore che lei conosceva e di cui non poteva<br />

rivelare l’identità. Questo signore voleva vederlo prima di intercedere a suo favore.<br />

L’infermiera gli disse francamente:<br />

— Temo che gli provocherai una cattiva impressione, ma quel signore ti vuole<br />

vedere. Per favore, non mostrarti intransigente. Magari è l’ultima speranza.<br />

— Non ti preoccupare. Lo riceverò, se viene.<br />

— Il signore non verrà.<br />

— Allora non c’è niente da fare, — rispose Morris, sollevato.<br />

L’infermiera proseguì:<br />

— La prima notte in cui ci saranno sentinelle di fiducia, andrai tu a trovarlo. Ormai<br />

stai bene. Andrai da solo.<br />

Si tolse un anello dall’anulare e glielo consegnò.<br />

Morris se lo infilò al mignolo. Era una pietra, un vetro o un brillante, con la testa di<br />

un cavallo sul fondo. Doveva portarlo con la pietra verso l’interno della mano, e le<br />

sentinelle lo avrebbero lasciato entrare e uscire come se non lo vedessero.<br />

L’infermiera gli diede le istruzioni. Sarebbe uscito a mezzanotte e mezzo e sarebbe<br />

dovuto tornare all’alba, prima delle tre e un quarto. L’infermiera gli scrisse su un<br />

pezzetto di canta l’indirizzo del signore.<br />

— Hai il pezzo di carta? — gli domandai.<br />

— Sì, credo di sì, — rispose Morris, e lo cercò nel portafoglio. Me lo porse<br />

controvoglia.<br />

Era un foglietto azzurro. L’indirizzo – Márquez 6890 – era scritto con una grafia<br />

femminile e sicura (del Sacré Cœur, dichiarò Morris, con inattesa erudizione).<br />

— Come si chiama l’infermiera? — domandai per semplice curiosità.<br />

Morris sembrava a disagio. Alla fine disse:<br />

— La chiamavano Idibal. Non so se è il nome o il cognome.<br />

Continuò il suo racconto:<br />

50


— Arrivò la notte fissata perla sortita. Idibal non si vide. Io non sapevo che fare. A<br />

mezzanotte e mezzo decisi di uscire.<br />

Gli sembrò inutile mostrare l’anello alla sentinella che stava sulla porta della sua<br />

stanza. L’uomo sollevò la baionetta. Morris mostrò l’anello; uscì liberamente. Si<br />

appiattì contro una porta: da lontano, in fondo al corridoio aveva visto un sergente.<br />

Poi, seguendo le indicazioni di Idibal, scese per una scala di servizio e arrivò alla porta<br />

sulla strada. Mostrò l’anello ed uscì.<br />

Prese un taxi. «Una di quelle Buick che, se non si fa bene attenzione, si potrebbe<br />

confondere con una Packard», chiarì inutilmente. Diede l’indirizzo segnato sul<br />

bigliettino. Procedettero per più di mezz’ora. Costeggiarono, passando per Juan B.<br />

Justo e Gaona, le officine del Ferro Carril Oeste e imboccarono una strada alberata<br />

verso il limitare della città. Dopo cinque o sei isolati si fermarono davanti a una chiesa<br />

che svettava, bianca nella notte, con le sue colonne e le sue cupole, sulle case basse<br />

del quartiere.<br />

Credette che vi fosse un errore. Guardò il numero sul biglietto: era quello della<br />

chiesa.<br />

— Dovevi aspettare fuori o dentro? — domandai.<br />

Disse che quel particolare non lo toccava. Entrò. Non vide nessuno. Gli domandai<br />

com’era la chiesa.<br />

— Uguale alle altre, — rispose.<br />

Dopo un po’ seppi che era rimasto vicino a una fontana con i pesci, in cui cadevano<br />

tre zampilli d’acqua.<br />

Comparve un prete di quelli che si vestono in borghese, come quelli dell’Esercito<br />

della Salvezza, e gli domandò se stesse cercando qualcuno. Disse di no. Il prete se ne<br />

andò; quasi subito passò di nuovo. Queste apparizioni si ripeterono tre o quattro volte.<br />

Morris assicurò che la curiosità del soggetto era sbalorditiva, e che già stava per<br />

apostrofarlo; ma che l’altro gli chiese se aveva “l’anello del convivio”.<br />

— L’anello di che?... — domandò Morris. E continuò a spiegarmi: «Immaginati,<br />

come poteva venirmi in mente che stava parlando dell’anello che mi aveva dato.<br />

Idibal?»<br />

L’uomo gli guardò le mani con sorprendente curiosità, e gli ordinò:<br />

— Mi mostri l’anello.<br />

Morris ebbe un movimento di rifiuto. Poi obbedì.<br />

L’uomo lo condusse in sagrestia e lo invitò a spiegare la faccenda. Ascoltò il<br />

racconto con cenni di assenso. Morris chiarisce: «Come una spiegazione più o meno<br />

abile, ma falsa; sicuro che non lo si voleva ingannare, che alla fine avrebbe ascoltato<br />

la mia confessione, la spiegazione vera».<br />

Quando si convinse che Morris non avrebbe parlato oltre, si irritò e volle<br />

concludere l’incontro. Disse che avrebbe tentato di fare qualcosa per lui.<br />

Uscito, Morris cercò calle Rivadavia. Si trovò di fronte a due torri che sembravano<br />

l’ingresso di un castello o di una città antica; erano l’ingresso di uno spazio vuoto che<br />

si schiudeva sull’oscurità. Ebbe l’impressione di trovarsi in una Buenos Aires<br />

sovrannaturale e certamente maligna. Camminò per alcuni isolati. Si stancò. Giunse a<br />

Rivadavia, prese un taxi, una Studebaker massiccia e sgangherata, e diede l’indirizzo<br />

di casa sua: Bolívar 971.<br />

51


Scese all’angolo tra Independencia e Bolívar. Camminò fino alla porta di casa. Non<br />

erano ancora le due del mattino. Aveva tempo.<br />

Volle infilare la chiave nella serratura. Non ci riuscì. Suonò il campanello. Non gli<br />

aprivano. Passarono dieci minuti. Si indignò perché la giovane domestica profittava<br />

della sua assenza – della sua disgrazia – per dormire fuori. Suonò il campanello con<br />

tutta la sua forza. Sentì rumori che sembravano venire da lontano; poi, una serie di<br />

colpi – uno secco, un altro lieve – ritmici, crescenti. Apparve, enorme nel buio, una<br />

figura umana.<br />

Morris indietreggiò fino alla parte meno illuminata dell’andito; riconobbe<br />

immediatamente quell’uomo insonnolito e furente ed ebbe l’impressione di essere lui<br />

quello che stava sognando. Si disse: «Sì, Grimaldi lo zoppo, Carlos Grimaldi». Adesso<br />

ricordava il nome. Adesso, incredibilmente, era di fronte all’inquilino che occupava la<br />

casa quando suo padre l’aveva comperata, più di quindici anni prima.<br />

Grimaldi esplose:<br />

— Cosa vuole?<br />

Morris ricordò l’astuta caparbietà dell’uomo per rimanere nella casa e l’infruttuoso<br />

indignarsi di suo padre, che diceva «Lo tirerò fuori con il carretto del Municipio», e<br />

gli mandava regali perché se n’andasse.<br />

— C’è la signorina Carmen Soares? — domandò Morris, per guadagnare tempo.<br />

Carmen Soares era la giovane domestica. Grimaldi bestemmiò, sbatté la porta,<br />

spense la luce. Nell’oscurità,<br />

Morris sentì allontanarsi i passi alterni; poi, in un tremare di vetri e di ferri, passò<br />

un tram; dopo di che si ristabilì il silenzio. Morris pensò trionfante: «Non mi ha<br />

riconosciuto».<br />

Provò vergogna, sorpresa, indignazione. Decise di buttare giù la porta a calci e di<br />

scacciare l’intruso. Come se fosse stato ubriaco, disse a voce alta: «Vado a presentare<br />

una denuncia al commissariato». Si domandò cosa significasse quell’offensiva<br />

molteplice e accerchiante che i suoi compagni avevano lanciato contro di lui. Decise<br />

di consultarmi.<br />

Se mi avesse trovato a casa, avrebbe avuto il tempo di spiegarmi i fatti. Salì su un<br />

taxi, «anche questo una Studebaker, ma in migliori condizioni del precedente», e<br />

ordinò allo chauffeur di portarlo al pasaje Owen. L’uomo non lo conosceva. Morris gli<br />

chiese in malo modo per che cosa davano gli esami. Se la prese con tutto: con la<br />

polizia, che permette che le nostre case siano invase da intrusi; con gli stranieri, che ci<br />

cambiano il paese e non imparano mai a guidare. Lo chauffeur gli propose di prendere<br />

un altro taxi. Morris gli ordinò di svoltare per Vélez Sársfield fino a incrociare i binari.<br />

Si fermarono al passaggio a livello; interminabili treni grigi facevano manovra.<br />

Morris gli ordinò di girare per Toll attorno alla stazione Solá. Scese all’angolo fra<br />

Australia e Luzuriaga. Lo chauffeur gli disse di pagare; che non poteva aspettarlo; che<br />

quel pasaje non esisteva. Non gli rispose. S’incamminò per Luzuriaga verso sud. Lo<br />

chauffeur lo segui con l’automobile, insultandolo. Morris pensò che se avessero<br />

incontrato una guardia notturna, l’autista e lui avrebbero dormito al commissariato.<br />

— Oltretutto, — gli dissi, — avrebbero scoperto che eri fuggito dall’ospedale.<br />

L’infermiera e quelli che ti avevano aiutato si sarebbero trovati nei pasticci.<br />

— Credimi, non ero in condizione di pensare a cose del genere, — rispose Morris e<br />

52


continuò a raccontare:<br />

«Camminò per un isolato e non trovò il pasaje. Camminò per un altro isolato, e<br />

ancora un altro. Lo chauffeur continuava a protestare; la voce era più bassa, il tono più<br />

sarcastico. Morris tornò sui propri passi. Girò in Alvarado: lì c’erano il parco Pereyra,<br />

calle Rochadale. Imboccò Rochadale. A metà dell’isolato, sulla destra, le case si<br />

dovevano interrompere e lasciare il posto al pasaje Owen. Morris sentì come<br />

l’anticipazione di una vertigine. Le case non si interruppero. Si trovò in calle<br />

Australia. Vide in alto, su un fondo di nuvole notturne, la cisterna della International,<br />

in Luzuriaga; di fronte ci doveva essere il pasaje Owen; non c’era.<br />

Guardò l’ora. Gli rimanevano appena venti minuti.<br />

Camminò rapidamente. Si fermò presto. Era, con i piedi immersi in un denso fango<br />

scivoloso, davanti a una lugubre serie di case uguali, smarrito. Volle tornare al parco<br />

Pereyra. Non lo trovò. Temeva che lo chauffeur avrebbe scoperto che si era perduto.<br />

Vide un uomo; gli domandò dove si trovasse il pasaje Owen. L’uomo non era della<br />

zona. Morris continuò a camminare, esasperato. Apparve un altro uomo. Morris si<br />

diresse verso di lui. Lo chauffeur scese dall’automobile e rapidamente si avvicinò.<br />

Morris e lo chauffeur gli domandarono quasi gridando se sapeva dove fosse il pasaje<br />

Owen. L’uomo sembrava spaventato, come se pensasse di essere aggredito. Rispose<br />

che non aveva mai sentito nominare quel pasaje; stava per dire qualcos’altro, ma<br />

Morris lo guardò con aria minacciosa.<br />

Erano le tre e un quarto. Morris disse allo chauffeur di portarlo all’incrocio tra<br />

Caseros ed Entre Ríos.<br />

Nell’ospedale c’era un’altra sentinella. Passò due o tre volte davanti alla porta,<br />

senza decidersi a entrare. Si convinse di tentare la sorte. Mostrò l’anello. La sentinella<br />

non lo fermò.<br />

L’infermiera riapparve alla fine del pomeriggio seguente. Gli disse:<br />

— L’impressione che hai suscitato nell’uomo della chiesa non è favorevole. Non ha<br />

potuto fare a meno di approvare la tua dissimulazione: è la sua eterna predica ai<br />

membri del convivio. Ma la tua mancanza di fiducia nella sua persona lo ha offeso.<br />

Dubitava seriamente che l’uomo si sarebbe veramente impegnato a favore di<br />

Morris.<br />

La situazione era peggiorata. Le speranze di farlo passare per straniero erano<br />

svanite. La sua vita correva un pericolo immediato.<br />

Scrisse una minuziosa relazione dei fatti e me la spedì. Dopo volle giustificarsi:<br />

disse che la preoccupazione della donna lo infastidiva. Forse anche lui cominciava a<br />

preoccuparsi.<br />

Idibal andò a trovare un’altra volta quell’uomo; ottenne, come favore personale<br />

verso di lei – «non verso quella spia disgustosa» – la promessa che «le migliori<br />

influenze sarebbero intervenute attivamente nella faccenda». Il piano consisteva nel<br />

costringere Morris a tentare una replica del fatto. Vale a dire, che gli avrebbero dato<br />

un aereo e gli avrebbero consentito di ripetere il collaudo che, secondo lui, aveva<br />

compiuto il giorno dell’incidente.<br />

Le migliori influenze prevalsero, ma l’aereo del collaudo sarebbe stato a due posti.<br />

Ciò rappresentava una difficoltà per la seconda parte del piano: la fuga di Morris in<br />

Uruguay. Morris disse che avrebbe saputo tenere a bada il suo accompagnatore. Le<br />

53


influenze insistettero affinché l’aereo fosse un monoplano identico a quello<br />

dell’incidente.<br />

Idibal, dopo una settimana in cui lo infastidì con speranze e ansie, arrivò raggiante e<br />

disse che era tutto sistemato. La data del collaudo era stata fissata per il venerdì<br />

successivo (mancavano cinque giorni). Avrebbe volato da solo.<br />

La donna lo guardò ansiosa e gli disse:<br />

— Ti aspetto nella Colonia. Quando sarai decollato, fila dritto in Uruguay. Lo<br />

prometti?<br />

Lo promise. Si rigirò nel letto e finse di dormire. Commentò: «Mi sembrava che<br />

stesse conducendomi per mano verso il matrimonio e questo mi indispettiva». Non<br />

sapeva che si stavano salutando per sempre.<br />

Poiché si era ristabilito, la mattina dopo lo portarono in caserma.<br />

— Furono giorni formidabili, quelli, — commentò. — Li ho passati in una stanza di<br />

due metri per due, bevendo mate e giocando ininterrottamente a truco con le<br />

sentinelle.<br />

— Ma se tu non giochi a truco, — gli dissi.<br />

Si trattò di un’improvvisa ispirazione. Naturalmente, non sapevo se giocasse o no.<br />

— Be’, un gioco di carte qualunque, — rispose senza scomporsi.<br />

Ero stupito. Avevo creduto che il caso, o le circostanze, avessero fatto di Morris un<br />

porteño archetipico; ma mai avrei potuto credere che fosse un cultore del colore<br />

locale. Proseguì:<br />

— Mi crederai uno stupido, ma io passavo le ore pensando a quella donna. Ero così<br />

pazzo che arrivai perfino a credere di averla dimenticata...<br />

Interpretai:<br />

— Cercavi di raffigurarti la sua faccia e non ci riuscivi?<br />

— Come hai fatto a indovinare? — non attese la mia risposta. Continuò a<br />

raccontare:<br />

«Una mattina piovosa lo portarono via su una vecchia Talbot, un double-phaéton. A<br />

El Palomar lo attendeva una comitiva di militari e di funzionari.<br />

— Forse per via della solennità, sembrava un duello, — disse Morris, — un duello<br />

o un’esecuzione.<br />

Due o tre meccanici aprirono l’hangar spinsero fuori un biplano Bristol, da caccia,<br />

«un serio concorrente del double-phaéton, credimi».<br />

Lo mise in moto. Vide che non c’era carburante neppure per dieci minuti di volo.<br />

Arrivare in Uruguay era impossibile. Ebbe un attimo di tristezza. Malinconicamente,<br />

si disse che forse sarebbe stato meglio morire che vivere da schiavo. Lo stratagemma<br />

era fallito. Mettersi in volo sarebbe stato inutile. Ebbe voglia di chiamare quella gente<br />

e di dire loro: «Signori, il gioco è finito». Per apatia lasciò che gli eventi seguissero il<br />

loro corso. Decise di eseguire ancora una volta il suo nuovo schema di collaudo.<br />

Percorse alcuni metri e poi decollò. Eseguì regolarmente la prima parte<br />

dell’esercizio, ma nell’iniziare le nuove operazioni di nuovo si sentì in preda alla<br />

vertigine, perse conoscenza, intese un lamento pieno di vergogna perché stava<br />

perdendo conoscenza. Sul campo d’atterraggio riuscì a raddrizzare l’aereo.<br />

Quando tornò in sé era dolorosamente disteso su un letto bianco, all’interno di una<br />

stanza alta, dalle pareti bianchicce e spoglie. Comprese che era ferito, che era<br />

54


prigioniero, che era all’ospedale militare. Si domandò se non fosse tutta<br />

un’allucinazione.<br />

Completai il suo pensiero:<br />

— Un’allucinazione che avevi nel momento di svegliarti.<br />

Seppe che la caduta era stata il 31 agosto. Perdette la nozione del tempo. Passarono<br />

tre o quattro giorni. Si rallegrò che Idibal fosse nella Colonia; questo nuovo incidente<br />

gli procurava vergogna; e poi, la donna gli avrebbe rimproverato di non aver planato a<br />

motore spento fino in Uruguay.<br />

Rifletté: «Quando saprà dell’incidente, tornerà. Bisognerà aspettare due o tre<br />

giorni».<br />

Lo curava una nuova infermiera. Trascorrevano i pomeriggi tenendosi per mano.<br />

Idibal non tornava. Morris cominciò a preoccuparsi. Una notte fu colto da una<br />

grande ansia. «Mi crederai matto, — mi disse. — Avevo voglia di vederla. Pensai che<br />

fosse tornata, che avesse saputo la storia dell’altra infermiera e che per questo non<br />

volesse più vedermi».<br />

Chiese ad un aiuto-infermiere di chiamare Idibal. L’uomo non tornava. Molto dopo<br />

(ma quella stessa notte; a Morris sembrò impossibile che una notte potesse durare così<br />

tanto) tornò; il capo gli aveva detto che nell’ospedale non lavorava nessuno che si<br />

chiamasse così. Morris gli chiese di controllare quando aveva lasciato il lavoro.<br />

L’aiuto-infermiere tornò all’alba e gli disse che il capo del personale era andato via.<br />

Sognava Idibal. Di giorno vedeva la sua immagine. Cominciò a sognare che non<br />

poteva più trovarla. Alla fine, non poteva più immaginarla né sognarla.<br />

Gli dissero che nessuna persona di nome Idibal lavorava né aveva lavorato<br />

nell’istituto.<br />

La nuova infermiera gli consigliò di leggere. Gli portarono i quotidiani. Neppure la<br />

rubrica «In margine allo sport e al turf» lo interessava. «Mi misi di malumore e chiesi<br />

i libri che mi avevi mandato». Gli risposero che nessuno gli aveva mandato dei libri.<br />

(Fui sul punto di commettere un’imprudenza; di ammettere cioè che non gli avevo<br />

spedito nulla).<br />

Pensò che avessero scoperto il piano di fuga e la partecipazione di Idibal; perciò<br />

Idibal non si faceva più vedere. Si guardò le mani: l’anello non c’era. Lo chiese. Gli<br />

dissero che era tardi, che l’amministratrice se n’era già andata. Passò una notte atroce<br />

e lunghissima, pensando che non gli avrebbero mai riportato l’anello.<br />

— Pensando — aggiunsi — che se non ti avessero restituito l’anello non sarebbe<br />

rimasta traccia di Idibal.<br />

— Non ho pensato a questo, — affermò onestamente.<br />

— Ma trascorsi la notte come uno squilibrato. L’indomani mi portarono l’anello.<br />

— Lo hai ancora? — gli domandai, con una tale incredulità che rimasi perplesso<br />

anch’io.<br />

— Sì, — rispose. — In un posto sicuro.<br />

Aprì un cassetto laterale della scrivania e tirò fuori l’anello. La pietra, di una vivida<br />

trasparenza, non brillava molto. Sul fondo c’era un altorilievo a colori: un busto<br />

umano, di donna, con la testa di cavallo. Ebbi il dubbio che si trattasse dell’immagine<br />

di qualche divinità antica.<br />

Le mie nozioni di gioielleria sono elementari; furono sufficienti, tuttavia, a scoprire<br />

55


che quell’anello era un pezzo di valore.<br />

La mattina dopo entrarono nella sua stanza due ufficiali con un soldato che portava<br />

un tavolino. Portò anche una sedia e una macchina da scrivere. Si sedette davanti alla<br />

macchina e cominciò a scrivere. Un ufficiale dettò: Ireneo Morris, argentino,<br />

Capitano, Esercito Argentino, Base di El Palomar.<br />

Gli parve naturale che sorvolassero sulla formalità di domandargli tutto questo. «In<br />

fin dei conti, era una seconda dichiarazione. Comunque, si notava qualche progresso:<br />

adesso accettavano che fosse argentino, capitano dell’esercito, con base a El<br />

Palomar». La saggezza durò poco. Gli domandarono quale fosse stato il suo indirizzo<br />

dopo il 23 giugno (data del primo collaudo); dove avesse lasciato il Dewoitine 304<br />

(«Il numero non era 304, — precisò Morris. — Era 309». Questo errore inutile lo<br />

stupì); da dove avesse tirato fuori quel vecchio Bristol. Quando disse che il Dewoitine<br />

doveva essere da quelle parti, dato che l’incidente del 23 si era verificato a El<br />

Palomar, e che dovevano sapere da dove veniva fuori il Bristol perché glielo avevano<br />

dato loro stessi per replicare il collaudo del 23, finsero di non credergli.<br />

Invece non fingevano più che fosse uno sconosciuto, e nemmeno che fosse una spia.<br />

Lo accusavano di essere stato in un altro paese dal 23 giugno. Lo accusavano –<br />

comprese con rinnovato furore – di aver venduto ad un altro paese un’arma segreta.<br />

L’inestricabile congiura andava avanti, ma gli accusatori avevano cambiato il piano<br />

d’attacco.<br />

Gesticolante e cordiale, apparve il tenente Viera. Morris lo insultò. Viera finse di<br />

essere molto sorpreso; alla fine dichiarò che avrebbero dovuto battersi.<br />

— Pensai che la situazione stesse migliorando, — disse. — I traditori assumevano<br />

di nuovo una faccia da amici.<br />

Lo andò a trovare il generale Huet. Anche Kramer gli fece visita. Morris era<br />

distratto e non ebbe il tempo di reagire. Kramer gli gridò: «Non credo a una sola<br />

parola delle accuse, fratello». Si abbracciarono, espansivi. «Un giorno o l’altro, —<br />

pensò Morris, — riuscirò a chiarire la faccenda». Chiese a Kramer che venisse a<br />

trovarmi.<br />

Mi azzardai a domandare:<br />

— Dimmi una cosa, Morris, ti ricordi quali libri ti ho mandato?<br />

— I titoli non li ricordo, — sentenziò gravemente. — Nella tua nota sono citati.<br />

Non gli avevo scritto alcuna nota.<br />

Lo aiutai ad andare in camera. Tirò fuori dal cassetto del comodino un foglio di<br />

carta (foglio di carta che non riconobbi). Me lo porse.<br />

La grafia sembrava una cattiva imitazione della mia. Le mie T e le mie E maiuscole<br />

sono simili a quelle stampate; queste erano corsive. Lessi:<br />

«Accuso ricevuta della gradita sua in data 16, che mi è arrivata con un certo ritardo,<br />

dovuto, senza dubbio, a uno sviante errore nell’indirizzo. Io non abito nel pasaje<br />

“Owen” ma in calle Miranda, nel quartiere Nazca. Le assicuro di aver letto la sua<br />

relazione con molto interesse. Per ora non posso venire a trovarla. Sono malato, ma mi<br />

curano solerti mani femminili, e in poco tempo mi sarò ripreso: allora avrò il piacere<br />

di incontrarla.<br />

«Le invio, in segno di comprensione, questi libri di Blanqui, e le raccomando la<br />

lettura, nel terzo volume, della poesia che comincia a pagina 281».<br />

56


Mi congedai da Morris. Gli promisi di tornare la settimana dopo. La questione mi<br />

interessava e mi lasciava perplesso. Non dubitavo della buona fede di Morris; ma io<br />

non gli avevo scritto quella lettera; io non gli avevo mai spedito libri; io non<br />

conoscevo le opere di Blanqui.<br />

Devo fare alcune osservazioni a proposito della «mia lettera»: 1) Il suo autore non<br />

dà del tu a Morris. Fortunatamente il mio amico si sente tanto distante, tanto<br />

disinteressato rispetto a ogni genere di scrittura che non si è accorto dello “scambio”<br />

di trattamento e non si è offeso con me. Io gli ho sempre dato del tu. 2) Giuro di non<br />

aver mai scritto la frase «Accuso ricevuta della gradita sua». 3) Quanto a mettere<br />

Owen tra virgolette, la cosa mi lascia perplesso e la propongo all’attenzione del<br />

lettore.<br />

La mia ignoranza delle opere di Blanqui è dovuta, forse, al programma di lettura.<br />

Sin da molto giovane ho compreso che per non lasciarsi travolgere dalla sconsiderata<br />

produzione di libri e per conquistare, seppure in apparenza, una cultura enciclopedica,<br />

era indispensabile seguire un programma inderogabile. Questo programma scandisce<br />

la mia vita: un’epoca è stata occupata dalla filosofia, un’altra dalla letteratura francese,<br />

un’altra dalle scienze naturali, un’altra dall’antica letteratura celtica e in particolare da<br />

quella del paese di Kimris (a causa dell’influenza del padre di Morris). La medicina si<br />

è intercalata a questo programma, senza mai interromperlo.<br />

Pochi giorni prima della visita del tenente Kramer nel mio ambulatorio, avevo<br />

concluso il settore delle scienze occulte. Mi avevano interessato soprattutto gli<br />

esorcismi, le apparizioni e le sparizioni. In rapporto a queste ultime ricorderò sempre<br />

il caso di Daniel Sludge Home, che, su richiesta della Society for Psychical Research,<br />

di Londra, e di fronte a un selezionato pubblico, provò i pases che si usano per<br />

provocare la sparizione di fantasmi e mori immediatamente. Quanto a quei nuovi Elia,<br />

che sarebbero scomparsi senza lasciare tracce né cadaveri, mi permetto di dubitare.<br />

Il “mistero” della lettera mi spinse a leggere le opere di Blanqui. Come prima cosa<br />

verificai che era nell’enciclopedia e che aveva scritto su temi politici. Me ne<br />

compiacqui: nel mio programma, accanto alle scienze occulte, si trovano la politica e<br />

la sociologia.<br />

Un giorno, all’alba, in calle Corrientes, in una libreria gestita da un vecchio<br />

evanescente, trovai un polveroso involto di libri rilegati in cuoio bruno, con titoli e<br />

filettature dorati: le opere complete di Blanqui. Le acquistai per quindici pesos.<br />

A pagina 281 della mia edizione non c’è nessuna poesia. Anche se non ho letto<br />

l’opera per intero, credo che il testo indicato sia L’Eternité par les Astres, un poema in<br />

prosa. Nella mia edizione comincia a pagina 307 del secondo volume. In quel poema o<br />

saggio ho trovato la spiegazione dell’avventura di Morris.<br />

Andai a Nazca; parlai con i commercianti della zona. Nei due isolati che<br />

compongono calle Miranda non vive nessuna persona con il mio nome.<br />

Andai a Márquez. Non esiste il numero 6890. Non ci sono chiese. C’era, quel<br />

pomeriggio, una luce poetica, con l’erba dei pascoli molto verde e gli alberi color lillà<br />

e trasparenti. Inoltre la strada non è vicina alle officine del Ferro Carril Oeste. È vicina<br />

al ponte della Nona.<br />

Andai alle officine del Ferro Carril Oeste. Fu difficile girarvi attorno per Juan B.<br />

Justo e Gaona. Domandai come uscire dall’altra parte delle officine. «Continui per via<br />

57


Rivadavia, — mi dissero, — fino a Cuzco. Poi attraversi i binari». Com’era<br />

prevedibile, lì non c’è nessuna calle Márquez. Quella che Morris chiama calle<br />

Márquez dev’essere Bynnon. È pur vero che né al numero 6890 né nel resto della<br />

strada vi sono chiese. Molto vicino, verso Cuzco, c’è San Cayetano; la cosa non ha<br />

importanza: San Cayetano non è la chiesa del racconto. Il fatto che non esistano chiese<br />

nella stessa calle Bynnon non infirma la mia ipotesi che la strada sia quella citata da<br />

Morris; ma questo lo vedremo dopo.<br />

Trovai anche le torri che il mio amico situa in un luogo spazioso e solitario: sono il<br />

portico del Club Atlético Vélez Sársfield, all’angolo tra Fragueiro e Barragán.<br />

Non ritenni necessaria una visita particolare al pasaje Owen: ci abito. Quando<br />

Morris si smarrì, ho il sospetto che si trovasse di fronte alle case ripetutamente uguali<br />

del quartiere operaio Monseñor Espinosa, con i piedi affondati nel bianco fango di<br />

calle Pedriel.<br />

Ritornai da Morris. Gli domandai se non fosse passato in una calle Amílcar, o<br />

Aníbal, nel suo viaggio notturno. Assicurò di non conoscere strade con un simile<br />

nome. Credette opportuno precisare:<br />

— Amílcar è una marca di automobili sport. Mi piacerebbe averne una.<br />

Gli domandai se nella chiesa in cui era stato vi fosse qualche simbolo accanto alla<br />

croce. Rimase in silenzio, guardandomi. Credeva che non stessi parlando seriamente.<br />

Alla fine mi domandò:<br />

— Come puoi pensare che mi sia soffermato su un particolare del genere?<br />

— Certo, certo... eppure sarebbe importante. Cerca di far mente locale. Cerca di<br />

ricordare se accanto alla croce non c’era qualche altra figura.<br />

— Forse, — sussurrò, — forse un...<br />

— Un trapezio? — suggerii.<br />

— Sì, un trapezio, — disse senza convinzione.<br />

— Semplice o attraversato da una linea?<br />

— È vero, — esclamò. — Come fai a saperlo? Sei stato in calle Márquez? Prima<br />

non mi ricordavo niente... All’improvviso ho avuto davanti agli occhi l’insieme: la<br />

croce e il trapezio. Un trapezio attraversato da una linea dalle punte ripiegate.<br />

Parlava animatamente.<br />

— E hai osservato qualche statua di santi?<br />

— Amico mio! — esclamò con impazienza repressa. — Non mi avevi chiesto di<br />

fare un inventario.<br />

Gli dissi di non inquietarsi. Quando si fu calmato, gli chiesi che mi mostrasse<br />

l’anello e mi ripetesse il nome dell’infermiera.<br />

Tornai a casa, contentissimo. Sentii rumori nella stanza di mia nipote; pensai che<br />

stesse mettendo in ordine le sue cose. Feci in modo che non si accorgesse della mia<br />

presenza. Non volevo essere interrotto. Presi il libro di Blanqui, me lo infilai sotto il<br />

braccio ed uscii in strada.<br />

Mi sedetti su una panchina del parco Pereyna. Lessi ancona una volta questo<br />

periodo:<br />

«Vi saranno infiniti mondi identici, infiniti mondi lievemente distinti, infiniti mondi<br />

differenti. Quel che adesso scrivo in questo fonte del Tono, l’ho scritto e lo scriverò<br />

per l’eternità, su un tavolo, su un pezzo di canta, in una cella, del tutto simili. In<br />

58


infiniti mondi la mia situazione sarà la stessa, ma forse vi saranno variazioni nella<br />

causa della mia prigionia o nell’eloquenza o nel tono delle mie pagine».<br />

Il 23 giugno Morris cadde con il suo Dewoitine nella Buenos Aires di un mondo<br />

quasi uguale a questo. Il periodo confuso che seguì l’incidente gli impedì di notare le<br />

prime differenze; per notare le altre sarebbero state necessarie una perspicacia e<br />

un’istruzione che io non avevo.<br />

Riprese il volo in un mattino grigio e piovoso; cadde in un giorno splendente di<br />

sole. Il moscone, nell’ospedale, suggerisce l’estate; il caldo tremendo che lo oppresse<br />

durante gli interrogatori lo conferma.<br />

Morris riporta nel suo racconto alcune curiose caratteristiche del mondo che visitò.<br />

Lì, ad esempio, manca il paese del Galles. Le strade con nome gallese non esistono in<br />

quella Buenos Aires. Bynnon si trasforma in Márquez, e Morris, attraverso i labirinti<br />

della notte e dell’offuscamento, cerca invano il pasaje Owen. Io, e Viera, e Kramer, e<br />

Mendizábal, e Faverio, esistiamo lì perché non siamo di origine gallese; il generale<br />

Huet e lo stesso Ireneo Morris, entrambi di discendenza gallese, non esistono (egli vi<br />

penetrò incidentalmente). Il Carlos Alberto Servian di laggiù, nella sua lettera, scrive<br />

tra virgolette la parola Owen perché gli sembra strana; per la stessa ragione, gli<br />

ufficiali risero allorché Morris disse il proprio nome.<br />

Infatti lì non sono mai esistiti i Morris, in Bolívar 971 continua ad abitare<br />

l’inamovibile Grimaldi.<br />

La relazione di Morris rivela, inoltre, che in quel mondo Cartagine non è<br />

scomparsa. Quando me ne sono reso conto ho fatto le mie sciocche domande su calle<br />

Aníbal e calle Amílcar.<br />

Qualcuno chiederà come mai, se non è scomparsa Cartagine, esiste la lingua<br />

spagnola. Dovrò ricordare che tra la vittoria e l’annientamento possono esservi gruppi<br />

intermedi?<br />

L’anello è una doppia prova a mia disposizione. È una prova del fatto che Morris<br />

sia stato nell’altro mondo: nessuno degli esperti che ho consultato ha saputo<br />

identificare la pietra. E una prova dell’esistenza (in quell’altro mondo) di Cartagine: il<br />

cavallo è un simbolo cartaginese. Chi non ha visto anelli uguali nel museo Lavigerie?<br />

Inoltre Idibal, o Iddibal, il nome dell’infermiera, è cartaginese; la fontana con i<br />

pesci rituali e il trapezio con la croce sono cartaginesi; infine vi sono i convivi o<br />

circuli, di memoria cartaginese e funesta quanto l’insaziabile Moloch...<br />

Ma torniamo alla riflessione. Mi domando se ho comprato le opere di Blanqui<br />

perché erano citate nella lettera che mi fece vedere Morris o perché le storie di questi<br />

due mondi sono parallele. Poiché lì il Galles non esiste, le leggende corrispondenti<br />

non hanno occupato una parte del programma di lettura; l’altro Carlos Alberto Servian<br />

ha potuto avvantaggiarsi; è potuto arrivare prima di me alle opere politiche.<br />

Sono orgoglioso di lui: con i pochi elementi di cui disponeva, ha chiarito la<br />

misteriosa apparizione di Morris; affinché a sua volta Morris potesse comprenderla,<br />

gli ha consigliato L’Eternité par les Astres. Mi stupisce, tuttavia, che si vanti di vivere<br />

nel quartiere Nazca e di non conoscere il pasaje Owen.<br />

Morris è stato in quell’altro mondo ed è tornato. Non ha fatto ricorso al mio<br />

proiettile a molla né agli altri veicoli che sono stati ideati per solcare l’incredibile<br />

astronomia. Come ha compiuto i suoi viaggi? Ho aperto il dizionario di Kent; sotto la<br />

59


voce pase ho letto: «Complicate serie di movimenti che si fanno con le mani,<br />

attraverso i quali si provocano apparizioni e sparizioni». Ho pensato che forse le mani<br />

non sono indispensabili; che i movimenti possono essere eseguiti con altri oggetti; ad<br />

esempio, con degli aerei.<br />

La mia teoria è che il «nuovo schema di collaudo» coincida con qualche pase. Le<br />

due volte che lo prova, Morris sviene e cambia mondo.<br />

Lì credettero che fosse una spia venuta da un paese confinante; qui spiegano la sua<br />

assenza accusandolo di una fuga all’estero, con l’intenzione di vendere un’arma<br />

segreta. Egli non capisce nulla e si crede vittima di un malvagio complotto.<br />

Quando tornai a casa trovai sulla scrivania un appunto di mia nipote. Mi<br />

comunicava di essere scappata con quel traditore pentito, il tenente Kramer.<br />

Aggiungeva questa crudeltà: «Ho la consolazione di sapere che non soffrirai molto<br />

perché non ti sei mai interessato a me». Aggiungeva poi questa raffinata crudeltà:<br />

«Kramer si interessa a me; sono felice».<br />

Fui colto da una grande prostrazione, non ricevetti più i miei malati e per venti<br />

giorni non uscii in strada. Pensai con una certa invidia a quel me stesso astrale, chiuso<br />

come me nella sua casa, ma curato da «solerti mani femminili». Credo di conoscere la<br />

loro intimità; credo di conoscere quelle mani.<br />

Feci visita a Morris. Cercai di parlargli di mia nipote (riesco a stento a non parlare<br />

incessantemènte di mia nipote). Mi domandò se era una ragazza materna. Gli dissi di<br />

no. Parlò dell’infermiera.<br />

Non è la possibilità di incontrarmi con una nuova versione di me stesso ciò che<br />

potrebbe spingermi a fare un viaggio in direzione di quell’altra Buenos Aires. L’idea<br />

di riprodurmi, secondo l’immagine del mio ex libris, o di conoscermi, secondo i suo<br />

motto, non mi lusinga. Mi lusinga, forse, l’idea di fare un’esperienza che l’altro<br />

Servian, nella sua fortuna, non ha acquisito.<br />

Ma questi sono problemi personali. La cosa più grave è la situazione di Morris, che<br />

mi preoccupa. Qui tutti lo conoscono e hanno voluto essere rispettosi con lui; ma<br />

siccome ha un modo di negare davvero monotono e la sua mancanza di fiducia<br />

esaspera i capi, la perdita dei gradi, se non addirittura la raffica della fucilazione, sarà<br />

il suo futuro.<br />

Se gli avessi chiesto l’anello che gli aveva dato l’infermiera me lo avrebbe negato.<br />

Refrattario alle idee generali, non avrebbe mai inteso il diritto dell’umanità su quella<br />

testimonianza dell’esistere di altri mondi. Devo ammettere, inoltre, che Morris aveva<br />

un forte attaccamento per quell’anello. Il mio modo di procedere offenderà la<br />

sensibilità di alcuni; la coscienza dell’umanista l’approva. Infine, mi è gradito<br />

segnalare un risultato insperato da quando ha perduto il suo anello. Morris si mostra<br />

più disposto ad ascoltare i miei piani di evasione.<br />

All’interno della società noi armeni formiamo un nucleo indistruttibile. Ho amicizie<br />

influenti. Morris potrà tentare di replicare il suo incidente, e io mi azzarderò ad<br />

accompagnarlo.<br />

C.A.S.<br />

Il racconto di Carlos Alberto Servian mi è sembrato inverosimile. Non ignoro<br />

l’antica leggenda del carro di Morgan: il passeggero dice dove vuole andare, e il carro<br />

60


ve lo porta; ma è una leggenda. Ammettiamo che per una casualità il capitano Ireneo<br />

Morris sia caduto nell’altro mondo; il fatto che torni a cadere in questo sarebbe un<br />

eccesso di casualità.<br />

Sin dall’inizio ho avuto quell’opinione. I fatti l’hanno confermata.<br />

Io e un gruppo di miei amici progettiamo e rinviamo, anno dopo anno, un viaggio<br />

alla frontiera dell’Uruguay con il Brasile. Poiché quest’anno non abbiamo potuto<br />

evitarlo, siamo partiti.<br />

Il 3 aprile facevamo colazione in una locanda in aperta campagna. Dopo avremmo<br />

visitato una fazenda interessantissima.<br />

Seguita da un polverone, arrivò un’interminabile Packard. Ne scese un ometto<br />

magro, dai capelli tirati all’indietro con la brillantina.<br />

— Dicono che fosse un capitano, — spiegò qualcuno. — Si chiama Morris.<br />

Non accompagnai i miei amici a visitare la fazenda. Morris mi raccontò avventure<br />

di contrabbandieri: sparatorie con la polizia, stratagemmi per ingannare la giustizia e<br />

per sbarazzarsi dei rivali, fuggiaschi che per traversare i fiumi si attaccavano alla coda<br />

dei cavalli, sbornie e donne...<br />

All’improvviso, come in uno svenimento, credetti di intravedere una soluzione.<br />

Indagai con Morris. Indagai con altri, quando Morris se ne andò.<br />

Raccolsi prove sul fatto che Morris era arrivato a metà giugno dell’anno scorso, e<br />

che molte volte era stato visto nella regione, tra l’inizio di settembre e la fine di<br />

dicembre. L’8 settembre partecipò a certe corse di cavalli, a Yaguardo; poi stette vari<br />

giorni a letto, a causa di una caduta da cavallo.<br />

Eppure, in quei giorni di settembre, il capitano Morris era ricoverato e imprigionato<br />

nell’ospedale militare, a Buenos Aires. Le autorità militari, i compagni d’arme, gli<br />

amici d’infanzia, il dottor Servian e l’attuale capitano Kramer, il generale Huet,<br />

vecchio amico di famiglia, lo testimoniano.<br />

La spiegazione è evidente.<br />

In diversi mondi quasi uguali, vari capitani Morris uscirono un giorno (qui il 23<br />

giugno) per collaudare aerei. Il nostro Morris fuggì in Uruguay o in Brasile. Un altro,<br />

che partì da un’altra Buenos Aires, fece alcuni pases con il suo aereo e si trovò nella<br />

Buenos Aires dell’altro mondo (dove non esisteva il Galles e dove esisteva Cartagine;<br />

dove attende Idibal). Quell’Ireneo Morris salì poi sul Bristol, fece di nuovo i pases e<br />

cadde in questa Buenos Aires. Poiché era identico all’altro Morris, persino i suoi<br />

compagni lo confusero. Ma non era lo stesso. Il nostro (quello che è in Brasile) prese<br />

il volo, il 23 giugno, con il Dewoitine 304; l’altro sapeva perfettamente di aver<br />

collaudato il Dewoitine 309. In seguito, con il dottor Servian come accompagnatore,<br />

prova di nuovo i pases e sparisce. Forse arriveranno a un altro mondo; è meno<br />

probabile che riescano a trovare la nipote di Servian e la cartaginese.<br />

Citare Bianqui per sostenere la teoria della pluralità dei mondi fu forse merito di<br />

Servian; io, più modesto, avrei proposto l’autorità di un classico; ad esempio:<br />

«secondo Democrito, vi è un’infinità di mondi tra i quali alcuni sono non soltanto<br />

simili ma perfettamente uguali» (Cicerone, Academica priora, II, 18). Oppure:<br />

«Eccoci qui, a Bauli, vicino a Pozzuoli; pensi che ora, in un numero infinito di luoghi<br />

esattamente uguali, vi saranno riunioni di persone con i nostri stessi nomi, cariche<br />

degli stessi onori, che siano passate attraverso le stesse circostanze, e per intelligenza,<br />

61


e per età, e per aspetto, identiche a noi, e che stiano discutendo questo stesso<br />

argomento?» (ibid., 40).<br />

I lettori abituati all’antico concetto di mondi planetari e sferici riterranno incredibili<br />

i viaggi tra Buenos Aires di mondi diversi. Si domanderanno perché i viaggiatori<br />

arrivano sempre a Buenos Aires e non in altre regioni, nei mari o nei deserti. L’unica<br />

risposta che posso dare a una domanda così lontana dalle mie competenze è che forse<br />

questi mondi sono come fasci di spazi e di tempi paralleli.<br />

62


Eupompo diede lustro all’Arte mediante i Numeri<br />

di Aldous Huxley<br />

— Ho fatto una scoperta, — disse Emberlin mentre entravo in camera sua.<br />

— Su che cosa? — chiesi.<br />

— Una scoperta, — rispose, — sulle scoperte. — Gli splendeva in viso una non<br />

celata soddisfazione; il discorso evidentemente era andato proprio com’egli aveva<br />

inteso che andasse. Aveva detto la sua frase e, ripetendola amorosamente – «una<br />

scoperta sulle scoperte» – mi sorrise benevolo, godendosi la mia espressione<br />

incuriosita; espressione che, debbo confessarlo, avevo esagerato apposta per fargli<br />

piacere. Perché Emberlin, sotto vari aspetti così infantile, godeva in modo speciale del<br />

fatto di incuriosire e sbalordire i suoi conoscenti; e questi piccoli trionfi, questo “far<br />

punti” rispetto agli altri era uno dei suoi più intensi piaceri. Io cercavo sempre di<br />

compiacerlo in tali debolezze quando potevo, perché metteva conto di godere dei<br />

favori di Emberlin. Essere ammesso ad ascoltare la conversazione ch’egli teneva post<br />

prandium, era davvero un privilegio. Non solo era egli stesso buon parlatore di<br />

consumata maestria, ma aveva anche il dono di stimolar gli altri a parlar bene. Era<br />

come un vino sottile che ubriacava giusto fino al punto di una ebbrezza degna di<br />

Meredith. In sua compagnia ci si sentiva sollevati fino alla sfera dei più agili ed eterei<br />

concetti; ci si rendeva improvvisamente conto ch’era accaduto una specie di miracolo,<br />

che non ci si trovava più in un tedioso mondo di cose male accozzate ma in un qualche<br />

luogo al disopra della cianfrusaglia, in un universo di cristallina perfezione, ricco di<br />

idee, dove tutto appariva informato, coerente, simmetrico. Ed era Emberlin che, simile<br />

a un dio, aveva il potere di creare tale nuovo e realissimo mondo. Lo fabbricava con le<br />

parole, codesto Eden di cristallo dove nessun rettile strisciante sulla propria pancia,<br />

divoratore di sporcizia quotidiana, sarebbe potuto entrare a disturbar l’armonia. Fin<br />

dai primi tempi in cui incontrai Emberlin presi ad avere uno spiccato rispetto per la<br />

magia e per tutte le formule dei suoi riti. Se con le parole Emberlin è in grado di creare<br />

per me un mondo nuovo ed è capace di liberare completamente il mio spirito dal<br />

dominio di quello vecchio, perché non potrebbe egli, o chiunque altro che avesse<br />

trovato le frasi adatte, esercitare grazie a queste un’influenza più diffusamente<br />

miracolosa sul mondo delle cose materiali? In realtà s’io confronto Emberlin e la<br />

comune e venale magia nera, a me pare che il più grande taumaturgo sia Emberlin. Ma<br />

lasciamo andare, sto divagando dal mio intento, ch’era quello di descrivere in qualche<br />

modo l’uomo che con tanta sicurezza m’aveva detto di aver fatto una scoperta sulle<br />

scoperte.<br />

E dunque, nel miglior senso della parola, Emberlin era un accademico. Per noi che<br />

lo conoscevamo le sue stanze erano un’oasi di vita raccolta segretamente, piantata nel<br />

cuore del deserto di Londra. Spirava da lui un’atmosfera che univa il fantastico spirito<br />

speculativo dello studente con la più sottile e addolcita eccentricità dei professori<br />

63


carichi d’incredibile vetustà e saggezza. Era immensamente erudito; ma in un modo<br />

assolutamente anti-enciclopedico; una miniera d’informazioni di poco conto, come<br />

dicevano di lui i suoi nemici. Scriveva abbastanza, ma, come Mallarmé, evitava di<br />

pubblicare, reputando tale pratica un «peccato di esibizionismo». Una volta, tuttavia,<br />

in pieno ardore di gioventù, qualche dozzina di anni fa, aveva pubblicato un volume di<br />

versi. Ora dedicava parecchio tempo a ricercare assiduamente copie di questo libro e a<br />

bruciarle. Ormai dev’essere rarissimo trovarne qualche esemplare. Il mio amico Cope<br />

ebbe la fortuna di trovarne per caso uno l’altro giorno: un libriccino blu che mi mostrò<br />

in grande segretezza. Non riesco a capire perché Emberlin desideri disperderne ogni<br />

traccia. Non c’è nulla di che vergognarsi in quel libro; direi anzi che alcuni versi sono<br />

belli, nel loro tono giovanile ed estatico. Ma sono certamente concepiti in uno stile<br />

diverso da quello della sua poesia d’oggi. È forse per questo ch’egli se ne mostra così<br />

implacabile nemico. Quello ch’egli scrive oggi limitandone la circolazione a<br />

manoscritti privatissimi, è assai strano. Confesso di preferire i suoi lavori giovanili; la<br />

qualità dura e tagliente di una di queste recenti poesie – la sola ch’io ricordi di quanto<br />

ha scritto ultimamente – non mi piace. È un sonetto su di una figura di donna in<br />

terracotta dipinta, trovata negli scavi di Cnosso:<br />

Ha gli occhi lustri che non batton ciglio<br />

e imperturbabilmente anche s’astiene<br />

dal riparar col minimo consiglio<br />

sporgenze che nessun laccio trattiene<br />

dove di Siria gli odorati vasi<br />

chiaman desio con lor stile di nardo.<br />

Bistrate sopracciglia sovra il fardo<br />

di guance rosse come bergamotto<br />

attestan chiaro che nessuno scotto<br />

d’inutile vergogna il giusto omaggio<br />

ritarderà della Ciprigna il motto<br />

della lasciva lode a lei dovuto.<br />

Oh, di già spenti soli volta al raggio! ...<br />

D’ignoti riti micenèa vestale! ...<br />

Purtroppo non ricordo nessuna delle poesie in francese di Emberlin. La sua strana<br />

musa si esprime molto meglio, credo, in quella lingua che nella sua propria.<br />

Tale è Emberlin; o tale, dovrei piuttosto dire, era, perché, come mi proponevo di<br />

dimostrare, egli non è più l’uomo che era quando mi sussurrava così<br />

confidenzialmente, nel farmi passare in camera sua, che aveva fatto una scoperta circa<br />

le scoperte.<br />

Aspettai pazientemente ch’egli avesse terminato il suo solito giochetto di<br />

intorbidare le acque; e poi, quando pareva il momento, gli chiesi di spiegarsi.<br />

Emberlin era pronto a dire il suo segreto.<br />

— E dunque, — cominciò, — ecco qui i fatti. Un preambolo noioso, temo, ma<br />

necessario. Anni fa, nel leggere per la prima volta le scoperte di Ben Jonson, quella<br />

sua strana annotazione «Eupompo diede lustro all’Arte mediante i Numeri» stuzzicò la<br />

mia curiosità. Anche tu devi essere rimasto impressionato da quella frase, tutti<br />

64


debbono averla notata; e tutti debbono aver notato che nessun commentatore vi dedica<br />

una parola. I commentatori usano questo sistema, i punti più ovvi sono spiegati e<br />

discussi ad libitum; i passi oscuri dei quali si amerebbe saper qualcosa, vengono saltati<br />

col silenzio della più pura ignoranza. «Eupompo diede lustro all’Arte mediante i<br />

Numeri»... la sconclusionata frase mi si ficcò in testa. Ci fu un tempo in cui mi<br />

perseguitò addirittura. La canticchiavo facendo il bagno, sull’aria di un inno. Suonava<br />

così, per quel che mi ricordo... — Ed egli proruppe in un canto: «Eupompo, Eupompo<br />

die’ lu-uustro...» e così avanti con tutte le necessarie ripetizioni, e gli stiracchiati alti e<br />

bassi con cui s’accompagnano le parodie.<br />

— Ti canto questo, — disse quando ebbe finito, — tanto per mostrarti come mi<br />

s’era ficcata nella mente quella tremenda frase. Per otto anni, più o meno, sono stato<br />

ossessionato da quelle irragionevoli parole. Ho cercato la voce Eupompus in tutti i<br />

possibili dizionari ed enciclopedie, naturalmente. Quanto ad esserci, c’è: artista<br />

alessandrino, eternato da un qualche miserevole scrittore in qualche anche più<br />

miserevole aneddoto, che al momento non ricordo; comunque niente a che vedere con<br />

il dar lustro all’arte per via dei numeri. Molto tempo fa smisi queste ricerche<br />

reputandole inutili; Eupompo restò per me una vaga e misteriosa figura, autore di un<br />

qualche anonimo libello, e benemerito di qualche contributo all’arte che praticava. La<br />

sua vita pareva avvolta d’impenetrabili tenebre. E poi ieri ho scoperto tutto, quanto<br />

alla sua persona, alla sua arte e ai suoi numeri. Una scoperta fatta per caso: ma poche<br />

cose mi hanno dato un piacere maggiore. Mi ci sono imbattuto, a caso come stavo<br />

dicendo, ieri, nel guardate un volume dello Zuylerius. Naturalmente non dello<br />

Zuylerius che conosciamo, — aggiunse in fretta, — altrimenti si sarebbe scoperto il<br />

nocciolo del segreto di Eupompo anni e anni fa.<br />

— Ma certo, — ripetei io, — non si trattava del solito Zuylerius.<br />

— Esattamente, — disse Emberlin pigliando per buona la mia sfacciataggine, —<br />

non era il ben noto Zuylerius il giovane, ma il vecchio, Henricus Zuylerius, figura<br />

assai meno nota, per quanto ingiustamente forse, di quella rinomatissima di suo figlio.<br />

Ma non è questo il momento di discutere i loro rispettivi meriti. Io ho scoperto,<br />

comunque, in un volume di dialoghi critici dello Zuylerius il vecchio, il riferimento al<br />

quale senza dubbio alludeva Jonson nella sua nota. (Si trattava, naturalmente, di una<br />

semplice noterella, non intesa mai per le stampe ma che i fiduciari testamentari di<br />

Jonson infilarono nel libro insieme con tutto il materiale postumo che poterono<br />

mettere insieme). «Eupompo diede lustro all’Arte mediante i Numeri»... Lo Zuylerius<br />

dà un assai circostanziato resoconto della cosa di cui si tratta. Avrà certo trovato le<br />

fonti in qualche scrittore ora perduto.<br />

Emberlin si fermò un momento, sovrappensiero. La perdita del lavoro di un<br />

qualsiasi scrittore antico gli dava il più acuto dolore. Sono propenso a ritenere ch’egli<br />

abbia scritto una versione dei libri dispersi di Petronio. Spero che un giorno mi sarà<br />

permesso di vedere quale concetto abbia Emberlin del Satyricon nel suo insieme. Egli<br />

sarebbe in grado, ne son certo, di rivendicare a Petronio il fatto suo; anche più che non<br />

meriti, forse.<br />

— Qual era la storia di Eupompo? — chiesi. — Son tutto orecchi.<br />

Emberlin tirò un lungo sospiro e seguitò.<br />

— La narrativa dello Zuylerius, — disse, — è molto nuda, ma, nell’insieme, lucida;<br />

65


e credo che dia i punti principali della storia. Te la darò con parole mie; è preferibile<br />

alla lettura del suo latino-olandese. Eupompo, dunque, era uno dei ritrattisti più illustri<br />

di Alessandria. Aveva una larga clientela, guadagnava immensamente. Per un ritratto<br />

dalla cintura in su ad olio le grandi cortigiane gli pagavano volentieri le loro entrate di<br />

un mese. Faceva il ritratto a grandi mercanti in cambio delle loro più preziose merci<br />

da paesi lontani. Potentati neri come il carbone percorrevano mille miglia dall’Etiopia<br />

per ottenere una adorna miniatura su di un qualche specialissimo pannello di avorio; e<br />

la pagavano con grossi carichi, a dorso di cammello, di spezie e d’oro. Eupompo<br />

ottenne, ancor giovane, fama, ricchezze e onori; pareva che una carriera senza<br />

confronti gli si parasse davanti. E poi, di colpo, rinunziò a tutto: rifiutò di dipingere<br />

anche un altro solo ritratto. Le porte del suo studio restarono chiuse. Invano i clienti,<br />

per quanto ricchi, per quanto eccezionali, cercavano di entrare: gli schiavi avevano i<br />

loro ordini; Eupompo non riceveva più altro che i suoi intimi.<br />

Emberlin si fermò un momento nel suo racconto.<br />

— E che stava facendo Eupompo? — chiesi.<br />

— Era, naturalmente, — disse Emberlin, — occupato a dare lustro all’Arte<br />

mediante i Numeri. E le cose, per quanto io riesca a capire lo Zuylerius, si svolsero<br />

così. Si era improvvisamente innamorato dei numeri, fino a non pensare ad altro,<br />

innamorato della semplice arte del contare. Il numero gli pareva l’unica realtà, la sola<br />

di cui la mente umana potesse esser certa. Contare era la sola cosa che meritasse di<br />

fare, perché era l’unica che si poteva esser certi di far bene. E così l’arte, per poter<br />

conservare il minimo valore, doveva allearsi con la realtà; doveva, cioè, possedere un<br />

fondamento numerico. Mise la sua idea in pratica nel dipingere il primo quadro<br />

secondo il nuovo stile. Era una tela gigantesca che copriva varie decine di metri<br />

quadrati, non dubito affatto che Eupompo ne sapesse l’area precisa fino all’ultimo<br />

centimetro, e su questa tela era rappresentato l’infinito oceano, coperto fin dove<br />

l’occhio poteva arrivare, in tutte le direzioni, da una infinità di cigni neri. Ve n’erano<br />

trentatremila di questi cigni neri; ciascuno, anche se non più grande di un puntino<br />

all’orizzonte, nitidamente illuminato. Nel mezzo dell’oceano v’era un’isola, sulla<br />

quale stava ritta una figura più o meno umana con tre occhi, tre braccia e tre gambe,<br />

tre mammelle e tre ombelichi. Nel cielo plumbeo tre soli stavano estinguendosi in toni<br />

bassi. Non v’era altro nel quadro; Zuylerius lo descrive esattamente. Eupompo<br />

impiegò nove mesi di duro lavoro, per dipingerlo. I pochi eletti che, una volta finito,<br />

ebbero il permesso di vederlo, lo dichiararono un capolavoro. Si raccolsero intorno a<br />

Eupompo formando una piccola scuola, e si chiamarono i Filaritmici. Restavano<br />

seduti per ore davanti a quella grande opera, a contemplare i cigni e a contarli;<br />

secondo i Filaritmici contare e contemplare erano la stessa cosa.<br />

— Il quadro che Eupompo dipinse in seguito, e che rappresentava un frutteto di<br />

alberi identici disposti in quinconce, fu considerato meno favorevole dai conoscitori. I<br />

suoi studi di folle furono, tuttavia, stimati assai più; in questi erano rappresentate<br />

masse di persone disposte in gruppi che imitavano esattamente il numero e la<br />

posizione che hanno le stelle nel formare alcune delle più famose costellazioni. E ci fu<br />

poi il suo celebre quadro dell’anfiteatro, che fece furore tra i Filaritmici. Anche di<br />

questo lo Zuylerius dà una descrizione particolareggiata. Si vedono file e file di seggi,<br />

tutti occupati da strane figure ciclopiche. Ciascuna fila accoglie più gente della fila<br />

66


sottostante e il numero cresce in una progressione complicata ma regolare. Tutte le<br />

figure sedute nell’anfiteatro posseggono un solo occhio, enorme e luminoso, piantato<br />

in mezzo alla fronte: e tutte queste migliaia di singoli occhi sono fissi, con terribile<br />

minaccioso sguardo inquisitivo, su una creatura come di nano pietosamente<br />

accovacciata nell’arena... Questa sola, nella moltitudine, ha due occhi.<br />

— Non so che cosa non darei per vedere quel quadro, — aggiunse Emberlin, dopo<br />

una pausa. — Il colore, sai; Zuylerius non ne fa alcun cenno, ma non so perché ho la<br />

certezza che il tono dominante deve essere stato un forte rosso mattone: un anfiteatro<br />

di granito rosso, con ivi un’assemblea di gente in vesti rosse, nitidamente disegnato<br />

contro un implacabile cielo azzurro.<br />

— Gli occhi sarebbero stati verdi, — suggerii.<br />

Emberlin chiuse gli occhi per meglio immaginare la scena, e poi accennò di sì con<br />

lentezza, dubitoso.<br />

— Fin qui, — riprese infine, — il resoconto dello Zuylerius è chiarissimo. Ma la<br />

sua descrizione dell’arte Filaritmica che seguì diviene estremamente oscura. Dubito<br />

ch’egli abbia capito di che cosa si trattasse. Ti esporrò il poco che sono riuscito a tirar<br />

fuori da quel caos. Pare che Eupompo si fosse stancato di dipingere unicamente<br />

quantità numeriche. Voleva ora rappresentare il Numero stesso. E allora concepì il<br />

piano di render visibile le idee fondamentali della vita valendosi di quei termini<br />

puramente numerici nei quali, secondo lui, queste debbono in ultima analisi risolversi.<br />

Lo Zuylerius parla vagamente di una figura di Eros che pare essere stata rappresentata<br />

da una serie di piani intersecati. Pare poi che la fantasia di Eupompo sia stata attratta<br />

da alcuni dei dialoghi di Socrate circa la natura delle idee generali, e che egli abbia<br />

fatto per questo una serie di illustrazioni nello stesso stile aritmogeometrico. E infine<br />

vi è la strana descrizione dell’ultimo quadro che Eupompo ha dipinto. Io ci capisco<br />

ben poco. Ma il soggetto dell’opera, per lo meno, viene dato con chiarezza; era una<br />

rappresentazione del Puro Numero, ovvero Dio e l’Universo, o comunque ti piaccia di<br />

chiamare quella piacevolmente inane concezione della totalità. Era una<br />

rappresentazione del cosmos visto, a quanto ho capito, attraverso una camera oscura<br />

piuttosto neo-platonica, assai chiaro e in piccola proporzione. Lo Zuylerius immagina<br />

un disegno di piani irradiati da un singolo punto luminoso. Suppongo che sia stato<br />

qualcosa di simile. In realtà, non ne dubito, il lavoro era un’adeguata rappresentazione<br />

in forma figurativa del concetto dell’uno nei molti, con tutti gli stadi intermedi di<br />

illuminazione fra la materia e la fons deitatis. Comunque è inutile speculare sul quadro<br />

come avrebbe dovuto apparire una volta finito. Il povero Eupompo, ormai vecchio, era<br />

ammattito prima di poterlo finire completamente e, dopo aver spacciato con una<br />

martellata in testa due dei suoi ammiratori filaritmici, si gettò dalla finestra e si ruppe<br />

l’osso del collo. Finì così che diede lustro, disgraziatamente in modo fugace, all’Arte<br />

mediante i Numeri.<br />

Emberlin si fermò. Seguitammo a fumar la pipa pensierosi, in silenzio; povero<br />

vecchio Eupompo!<br />

Questo accadeva quattro mesi fa, e oggi Emberlin è un assoluto e, per quanto se ne<br />

possa sapere, un impenitente filaritmico, un convinto eupompiano.<br />

67


Emberlin si era sempre compiaciuto di valersi delle idee trovate nei libri e di<br />

metterle in pratica. Egli era un tempo, per esempio, alchimista militante, e giunse ad<br />

acquistare una bella abilità nella Grande Arte. Studiò mnemonica con Giordano Bruno<br />

e con Raimondo Lullo e si costruì un modello della macchina per sillogismi di<br />

quest’ultimo, nella speranza di raggiungere quella conoscenza universale che<br />

l’illuminato Dottore garantiva a chi la avesse adoperata. Questa volta si tratta di<br />

eupompianismo, e la cosa l’ha conquistato in pieno. Gli ho mostrato tutti gli orribili<br />

moniti che ho potuto trovare nella storia. Ma inutilmente.<br />

C’è il pietoso esempio di Ben Jonson sotto la tirannia di un rito eupompico, intento<br />

a contare i pilastrini e le pietre del lastricato di Fleet Street. Lui lo sapeva meglio di<br />

tutti quanto era prossimo alla pazzia.<br />

Considero poi eupompiani tutti i giuocatori d’azzardo, tutti i calcolatori-prodigio,<br />

tutti gli interpreti delle profezie di Daniele o dell’Apocalisse; e anche i cavalli di<br />

Eiberfeld, più bravi di ogni altro eupompiano.<br />

E adesso ecco qui Emberlin che si accodava anche lui a questa setta di gente<br />

abnorme degradandosi fino al livello di animali che sanno far calcoli, di bambini e di<br />

uomini incapaci di ragionamento. Ben Jonson per lo meno era nato con un ramo<br />

dell’aberrazione eupompiana dentro di sé, Emberlin si sta dando da fare per<br />

acquistarla consciamente. Le mie suppliche, quelle di tutti i suoi amici, fino ad ora si<br />

sono mostrate inutili. Invano ripeto a Emberlin che il contare è la cosa più facile che vi<br />

sia al mondo, e che quando sono stanco il mio cervello, incapace di adattarsi a<br />

qualsiasi altro lavoro, non fa che contare e calcolare, come una macchina, come un<br />

cavallo di Elberfeld. Inutile fatica: Emberlin si limita a sorridere e mi mostra un<br />

qualche nuovo scherzo numerico che ha appena scoperto. Emberlin è ormai incapace<br />

di entrare in una stanza da bagno senza contare quante file di mattonelle vi sono dal<br />

pavimento al soffitto. Gli pare interessante il fatto che vi siano ventisei file di<br />

mattonelle nella sua stanza da baglio e trentadue nella mia, mentre tutte le latrine<br />

pubbliche di Holborn ne hanno un egual numero. Sa ora quanti passi separino un<br />

punto di Londra da un altro punto qualsiasi. Ho smesso di far passeggiate con lui. Mi<br />

avviene di accorgermi penosamente, dal suo aspetto preoccupato, ch’egli sta contando<br />

i suoi passi.<br />

Anche le sue serate sono divenute profondamente melanconiche; la conversazione,<br />

per bene che cominci, arriva sempre allo stesso disgustoso argomento. Non ci si può<br />

liberare dai numeri; Eupompo ci perseguita. Non è come se si fosse dei <strong>matematici</strong><br />

capaci di discutere su problemi di qualche interesse o valore. Nessuno di noi è un<br />

matematico, ed Emberlin meno degli altri. A lui piace parlare di argomenti quali il<br />

significato numerico della Trinità, l’immensa importanza del fatto che sia tre in uno,<br />

senza dimenticare l’importanza anche maggiore del suo essere uno in tre. Si diletta nel<br />

darci statistiche circa la rapidità della luce o circa il tempo che impiegano le unghie a<br />

crescere. Gli piace speculare sulla natura dei numeri dispari e di quelli pari. E non<br />

sembra rendersi conto del suo progressivo peggioramento. Trova la felicità in questo<br />

suo chiudersi in un’unica fissazione. È come se la sua intelligenza fosse ammalata di<br />

lebbra mentale.<br />

Fra un anno o due, dico a Emberlin, lui potrebbe anche essere capace di competere<br />

coi cavalli calcolatori sul loro stesso terreno. Avrà perduto ogni traccia della sua<br />

68


agione, ma sarà capace di estrarre radici cubiche a mente. Mi vien fatto di pensare<br />

che forse Eupompo non si uccise perché era pazzo ma, al contrario, perché era<br />

temporaneamente ragionevole. Da anni era pazzo e poi, improvvisamente, la facile<br />

beatitudine degli idioti s’era illuminata di un raggio di lucidità. Quel fugace lume gli<br />

mostrò l’abisso di imbecillità nel quale era piombato. Vide e comprese, e l’orrore, la<br />

tristissima assurdità del suo stato lo precipitarono nella disperazione. Vendicò<br />

Eupompo contro l’eupompismo, l’umanità contro i filaritmici. Mi fa gran piacere<br />

pensare che prima di morire liberò il mondo di due dei suoi sciagurati seguaci.<br />

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Esame dell’opera di Herbert Quain<br />

di Jorge Luis Borges<br />

Herbert Quain è morto a Roscommon; ho visto senza sorpresa che il Supplemento<br />

letterario del Times gli dedica appena una mezza collana di pietà necrologica, in cui<br />

non v’è epiteto laudativo che non sia corretto (o seriamente redarguito) da un<br />

avverbio. Lo Spectator, da parte sua, è certo meno laconico, e forse più cordiale, ma<br />

paragona il primo libro di Quain – The God of the Labyrinth – ad uno di Agata<br />

Christie, e gli altri a quelli di Gertrude Stein: accostamenti che nessuno giudicherà<br />

inevitabili, e che non avrebbero rallegrato il defunto. Questo, del resto, mai si credette<br />

geniale: neppure nelle notti peripatetiche di conversazione letteraria, in cui l’uomo che<br />

ha già fatto gemere i torchi gioca invariabilmente a fare il Monsieur Teste o il dottor<br />

Samuel Johnson... Avvertiva con tutta lucidità la condizione sperimentale dei propri<br />

libri: ammirevoli forse per originalità e per certo probo laconismo ma non per le virtù<br />

della passione. «Sono come le odi di Cowley», mi scrisse da Longford il 6 marzo<br />

1939. «Non appartengo all’arte, ma alla mera storia dell’arte». Non v’era, per lui,<br />

disciplina inferiore alla storia.<br />

Ho riferito un tratto di modestia di Herbert Quain: naturalmente, questa modestia<br />

non esaurisce tutto il suo pensiero. Flaubert ed Henry James ci hanno abituato a<br />

supporre che le opere d’arte siano infrequenti, e di esecuzione laboriosa; il secolo XVI<br />

(ricordiamo il Viaggio del Parnaso, ricordiamo il destino di Shakespeare) non<br />

condivideva questa sconsolata opinione. Né la condivideva Herbert Quain. Giudicava<br />

che la buona letteratura è piuttosto comune, e che non v’è quasi dialogo casuale,<br />

conversazione udita per la strada, che non la raggiunga. Giudicava anche che il fatto<br />

estetico non può prescindere da qualche elemento di stupore, e che stupirsi a memoria<br />

è difficile. Deplorava con sorridente sincerità «la servile ed ostinata conservazione» di<br />

libri preferiti... Non so se la sua vaga teoria si giustifichi; so che i suoi libri aspirano<br />

troppo alla sorpresa.<br />

Deploro di aver prestato ad una signora, irreversibilmente, il primo che pubblicò.<br />

Ho già detto che si tratta d’un romanzo poliziesco, The God of the Labyrinth; posso<br />

aggiungere che l’editore lo mise in vendita negli ultimi giorni del novembre 1933. Ai<br />

primi di dicembre dello stesso anno, le gradevoli e ardue involuzioni del Siamese Twin<br />

Mystery affaccendarono Londra e New York; io preferisco attribuire l’insuccesso del<br />

romanzo del nostro amico a questa coincidenza rovinosa. Nonché (voglio esser del<br />

tutto sincero) alla sua deficiente esecuzione ed alla vana e frigida pompa di certe<br />

descrizione del mare. A distanza di sette anni, m’è impossibile recuperare i dettagli<br />

dell’azione; ma eccone il piano generale, quale l’impoveriscono (quale lo purificano)<br />

le lacune della mia memoria. V’è un indecifrabile assassinio nelle pagine iniziali, una<br />

lenta discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime. Poi, risolto ormai<br />

l’enigma, v’è un paragrafo vasto e retrospettivo che contiene questa frase: «Tutti<br />

70


credettero che l’incontro dei due giocatori di scacchi fosse stato casuale». Questa frase<br />

lascia capire che la soluzione è erronea. Il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e<br />

scopre un’altra soluzione, la vera. Il lettore di questo libro singolare è più perspicace<br />

dei detective.<br />

Ancora più eterodosso è il “romanzo regressivo, ramificato” April March, la cui<br />

terza (ed unica) parte è del 1936. Nel giudicare questo romanzo dobbiamo ricordare<br />

che si tratta d’un gioco, e che l’autore non lo considerò mai diversamente.<br />

«Rivendico per quest’opera – l’udii affermare – i tratti essenziali di ogni gioco: la<br />

simmetria, le leggi arbitrarie, il tedio». Lo stesso titolo non è che un debole calenbour:<br />

non significa Marcia d’aprile, ma letteralmente Aprile marzo. Alcuni hanno avvertito<br />

in quelle pagine un’eco della dottrina di Dunne; la prefazione di Quain preferisce<br />

evocare il mondo alla rovescia di Bradley, in cui la morte precede la nascita e la ferita<br />

il colpo (Appearance and Reality, 1897, p. 215) 78 . I mondi che propone April March<br />

non sono regressivi: è regressiva la maniera di raccontarne la storia. Regressiva e<br />

ramificata, come ho già detto. L’opera comprende tredici capitoli. Il primo riferisce<br />

l’ambiguo dialogo di alcuni sconosciuti su una banchina. Il secondo riferisce gli<br />

avvenimenti della vigilia del primo. Il terzo, anch’esso retrogrado, riferisce gli<br />

avvenimenti di un’altra possibile vigilia del primo; il quarto, quelli di un’altra.<br />

Ciascuna di queste tre vigilie (che rigorosamente si escludono) si ramifica in altre tre,<br />

d’indole molto diversa. Il corpo dell’opera consta poi di nove racconti; ogni racconto,<br />

di tre lunghi capitoli (il primo capitolo, naturalmente, è comune a tutti i racconti). Di<br />

questi racconti, uno è di carattere simbolico; un altro, soprannaturale; un altro,<br />

poliziesco; un altro, psicologico; un altro, comunista; un altro, anticomunista;<br />

eccetera. Uno schema, forse, aiuterà a comprendere la struttura:<br />

z<br />

⎧<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎨<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎩<br />

y1<br />

y2<br />

y3<br />

⎧<br />

⎪<br />

⎨<br />

⎪<br />

⎩<br />

⎧<br />

⎪<br />

⎨<br />

⎪<br />

⎩<br />

⎧<br />

⎪<br />

⎨<br />

⎪<br />

⎩<br />

Può ripetersi di questa struttura ciò che disse Schopenauer delle dodici categorie<br />

78 Povera erudizione di Herbert Quain, povera pagina 215 di un libro del 1897. Un interlocutore del<br />

Politico di Platone aveva già descritto una regressione analoga: quella dei Figli della Terra, o<br />

Autoctoni, i quali sottoposti all’influsso della rotazione inversa del cosmo, passarono dalla<br />

vecchiezza alla maturità, dalla maturità all’infanzia, dall’infanzia alla sparizione e al nulla. Anche<br />

Teopompo, nella sua Filippica, parla di certi frutti boreali che provocano in chi li mangia lo stesso<br />

processo retrogrado... Più interessante immaginare un’inversione del Tempo: uno stato in cui ci<br />

ricorderemmo dell’avvenire e ignoreremmo, o appena presentiremmo, il passato, Cfr. il canto X<br />

dell’Inferno, verso 97-102, dove si paragona la visione profetica alla presbiopia. (N.d.A.)<br />

71<br />

x1<br />

x2<br />

x3<br />

x4<br />

x5<br />

x6<br />

x7<br />

x8<br />

x9


kantiane: che tutto sacrificano ad un furore simmetrico. Com’era prevedibile, alcuno<br />

dei nove racconti è indegno di Quain. Il migliore non è quello che immaginò<br />

originariamente, l’x4; è quello di natura fantastica, l’x9. Altri sono imbruttiti da<br />

scherzi insipidi e da pseudo-precisazioni inutili. Chi li leggesse nell’ordine<br />

cronologico (per esempio: x3, y1, z) perderebbe il sapore peculiare dello strano libro.<br />

Due racconti l’x7 e l’x8 – hanno poco valore di per sé, ma acquistano efficacia se<br />

giustapposti... Ricorderò anche che Quain, avendo già pubblicato April March, si pentì<br />

dell’ordine ternario e auspicò che, tra i suoi futuri imitatori, gli uomini scegliessero il<br />

binario<br />

z<br />

⎧<br />

⎪<br />

⎨<br />

⎪<br />

⎪<br />

⎩<br />

y1<br />

y2<br />

e i demiurghi e gli dèi: infinite storie, infinitamente ramificate.<br />

Molto diversa, ma anch’essa retrospettiva è la commedia eroica in due atti The<br />

Secret Mirror. Nelle opere di cui abbiamo parlato, la complessità formale aveva<br />

intorpidito l’immaginazione dell’autore; qui la sua evoluzione è più libera. Nel primo<br />

atto (che è anche il più lungo) siamo nella casa di campagna del generale Thrale,<br />

C.I.E., presso Melton Mowbray. L’invisibile centro della trama è Miss Ulrica Thrale,<br />

la figlia maggiore del generale. La intravediamo, attraverso alcuni passi del dialogo,<br />

amazzone ed altera; i giornali annunciano il suo fidanzamento con il duca di Rutland; i<br />

giornali smentiscono il fidanzamento. La venera un autore drammatico, Wilfred<br />

Quarles; la giovane gli ha concesso qualche volta un bacio distratto. I personaggi sono<br />

di vasta fortuna e di sangue antico; nobili, seppure veementi, gli affetti; il dialogo<br />

sembra vacillare tra la mera vaniloquenza di Bulwer-Lytton e gli epigrammi di Wilde<br />

o di Mr. Philip Guedalla. V’è un usignolo e una notte; v’è un dolore segreto su un<br />

terrazzo (quasi del tutto impercettibile, v’è qualche curiosa contraddizione, qualche<br />

dettaglio sordido). I personaggi del primo atto ricompaiono nel secondo, con altri<br />

nomi. L’“autore drammatico” Wilfred Quarles è un commissario di Liverpool; il suo<br />

vero nome, John William Quigley. Miss Thrale esiste; Quigley non l’ha vista mai, ma<br />

colleziona morbosamente ritratti suoi del “Tatler” e dello “Sketch”. Quigley è autore<br />

del primo atto. L’inverosimile, o improbabile, “casa di campagna” è la pensione<br />

giudeo-irlandese dove lui vive, trasfigurata e magnificata da lui... La trama dei due atti<br />

è parallela, ma nel secondo tutto è leggermente orribile, tutto è continuamente<br />

rimandato o frustrato. Quando The Secret Mirror fu rappresentato, la critica fece i<br />

nomi di Freud e di Julien Green. L’accenno al primo mi sembra del tutto<br />

ingiustificato. Comunque, si sparse la voce che The Secret Mirror fosse una<br />

commedia freudiana; questa interpretazione propizia (ed erronea) determinò il suo<br />

successo. Disgraziatamente, Quain aveva già quarant’anni, Era abituato all’insuccesso<br />

e non si rassegnava facilmente ad un cambiamento di regime. Decise di rifarsi. Verso<br />

la fine del 1939 pubblicò Statements: forse il più originale dei suoi libri, certo il meno<br />

lodato e il più segreto. Quain soleva ripetere che i lettori sono una specie ormai<br />

⎧<br />

⎨<br />

⎩<br />

72<br />

⎧<br />

⎨<br />

⎩<br />

x1<br />

x2<br />

x3<br />

x4


estinta. «Non v’è europeo – ragionava – che non sia uno scrittore, in potenza o in<br />

atto». Affermava anche che, tra le diverse felicità che può procurare la letteratura, la<br />

più alta è l’invenzione. Poiché non tutti sono capaci di questa felicità, molti dovranno<br />

contentarsi di simulacri. Per questi “imperfetti scrittori”, il cui numero è legione,<br />

Quain compose gli otto racconti del libro Statements. Ciascuno di essi prefigura o<br />

promette un buon argomento, volontariamente frustrato dall’autore. Uno – non il<br />

migliore – insinua due argomenti. Il lettore, distratto dalla propria vanità, crede di<br />

averli inventati. Dal terzo, The Rose of Yesterday, io commisi l’ingenuità di ricavare<br />

Le rovine circolari, che è una delle narrazioni del libro Il giardino dei sentieri che si<br />

biforcano.<br />

73


Spazi<br />

74


I sette messaggeri<br />

di Dino Buzzati<br />

Partito a esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi<br />

dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.<br />

Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati,<br />

esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla<br />

partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece<br />

ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che<br />

parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.<br />

Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di<br />

procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi<br />

stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe<br />

spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.<br />

Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si<br />

estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.<br />

Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i<br />

familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori<br />

della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire.<br />

Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter<br />

comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i<br />

sette migliori, che mi servissero da messaggeri.<br />

Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione. Con<br />

l’andar del tempo mi accorsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e sì che<br />

nessuno di essi è mai caduto malato, né è incappato nei briganti, né ha sfiancato le<br />

cavalcature. Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che<br />

difficilmente riuscirò mai a ricompensare.<br />

Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente<br />

progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio.<br />

Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera<br />

del secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe. La<br />

sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi il<br />

terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì<br />

Gregorio. Il primo non era ancora tornato.<br />

Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in<br />

una valle disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al<br />

previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli<br />

potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece<br />

aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di<br />

quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più.<br />

75


Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci<br />

raggiunse alla quindicesima; Gaio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno.<br />

Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per<br />

sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi.<br />

Allontanandoci sempre più dalla capitale, l’itinerario dei messi si faceva ogni volta<br />

più lungo. Dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei<br />

messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al<br />

campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della<br />

mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che<br />

io ne avessi alcuna notizia.<br />

Trascorsi che furono sei mesi – già avevamo varcato i monti Fasani – l’intervallo<br />

fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi. Essi mi recavano<br />

oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido<br />

per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava.<br />

Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti<br />

sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città<br />

lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la<br />

stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo,<br />

l’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo<br />

straniero.<br />

Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non<br />

erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti<br />

scoraggianti che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia<br />

partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti<br />

stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine<br />

intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose<br />

lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me<br />

insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire. Il mattino successivo, dopo una sola<br />

notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino, il messo partiva nella<br />

direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo<br />

apprestate.<br />

Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando<br />

è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da<br />

quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva<br />

fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte<br />

cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire.<br />

Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba.<br />

Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io<br />

continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere<br />

Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a<br />

sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai<br />

più rivedere.<br />

Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà<br />

inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel<br />

frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero<br />

76


entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di<br />

un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul<br />

giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto.<br />

Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta il mio ultimo saluto alla<br />

città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu<br />

anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono<br />

cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che<br />

mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano<br />

le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia<br />

patria. Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che<br />

mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non<br />

farebbe più in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che<br />

finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado<br />

convincendomi che non esiste frontiera.<br />

Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare.<br />

Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il<br />

passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad<br />

andare avanti, ignaro.<br />

Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno<br />

nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a<br />

precedermi, affiché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.<br />

Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più<br />

rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è<br />

l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.<br />

Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di<br />

giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile meta, nel cielo irraggi una<br />

luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i<br />

fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e<br />

l’aria rechi presagi che non so dire.<br />

Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne<br />

inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il<br />

campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla<br />

città lontanissima l’inutile mio messaggio.<br />

77


Continuità dei parchi<br />

di Julio Cortázar<br />

Aveva incominciato a leggere il romanzo alcuni giorni prima. Lo abbandonò per<br />

affari urgenti, tornò ad aprirlo mentre rientrava in treno al podere; si lasciava<br />

interessare lentamente dalla trama, dal disegno dei personaggi. Quella sera, dopo aver<br />

scritto una lettera al suo procuratore e aver discusso con il fattore una questione di<br />

mezzadria, tornò al libro nella tranquillità dello studio che si apriva sul parco di roveri.<br />

Sdraiato nella poltrona preferita, dando le spalle alla porta che lo avrebbe infastidito<br />

come una irritante possibilità d’intrusioni, lasciò che la mano sinistra carezzasse più<br />

volte il velluto verde e si mise a leggere gli ultimi capitoli. La sua memoria riteneva<br />

senza sforzo il nome e le immagini dei protagonisti; l’illusione romanzesca lo<br />

conquistò quasi subito. Godeva del piacere quasi perverso di staccarsi di riga in riga<br />

da ciò che lo attorniava, e di sentire al tempo stesso che la testa riposava<br />

comodamente sul velluto dell’alto schienale, che le sigarette erano sempre a portata di<br />

mano, che al di là delle vetrate danzava l’aria del crepuscolo sotto i roveri. Di parola<br />

in parola, assorto nel sordido dilemma degli eroi, lasciandosi andare verso le immagini<br />

che si componevano e acquistavano colore e movimento, fu testimone dell’ultimo<br />

incontro nella capanna sul monte. Prima entrava la donna, guardinga; adesso arrivava<br />

l’amante, la faccia ferita dalle sferzate di un ramo. Ammirevolmente lei tamponava il<br />

sangue con i suoi baci, ma lui rifiutava le carezze, non era venuto per ripetere le<br />

cerimonie di una segreta passione, protetta da un mondo di foglie secche e di sentieri<br />

furtivi. Il pugnale si intiepidiva contro il suo petto, e sotto pulsava acquattata la libertà.<br />

Un dialogo ansioso scorreva per le pagine come un ruscello di serpi, e si sentiva che<br />

tutto è deciso da sempre. Persino quelle carezze che avviluppavano il corpo<br />

dell’amante quasi volessero trattenerlo e dissuaderlo, disegnavano abominevolmente<br />

la figura di un altro corpo che era necessario distruggere. Niente era stato dimenticato:<br />

alibi, circostanze, possibili errori. A partire da quell’ora, a ciascun istante era<br />

minuziosamente fissato il suo impiego. Il duplice spietato riepilogo si interrompeva<br />

appena per permettere che una mano carezzasse una gota. Cominciava ad annottare.<br />

Senza neppure più guardarsi, legati strettamente al compito che li aspettava, si<br />

separarono sulla porta della capanna. Lei doveva proseguire per il sentiero che andava<br />

verso nord. Dal sentiero opposto lui si voltò un istante per vederla correre con i capelli<br />

sciolti. Corse anche lui, proteggendosi contro gli alberi e le siepi finché distinse nella<br />

bruma malva del crepuscolo il viale che conduceva alla casa. I cani non dovevano<br />

latrare, e non latrarono. Il fattore non doveva esserci a quell’ora, e non c’era. Salì i tre<br />

scalini del porticato ed entrò. Dal sangue che gli galoppava nelle orecchie gli<br />

giungevano le parole della donna: prima una sala turchina, poi una galleria, una scala<br />

con tappeto. Al piano superiore, due porte. Nessuno nella prima camera, nessuno nella<br />

seconda. La porta del salotto, e allora il pugnale in mano, la luce delle vetrate, l’alto<br />

schienale di una poltrona di velluto verde, la testa di un uomo nella poltrona che sta<br />

leggendo un romanzo.<br />

78


Geometria solida<br />

di Ian McEwan<br />

A Melton Mowbray, nel 1875, ad un’asta di articoli “curiosi e di valore” il mio<br />

bisnonno, in compagnia del suo amico M, fece un’offerta per il pene del capitano<br />

Nicholls, che morì nel 1873 nella prigione di Horsemonger. Era in un contenitore di<br />

vetro lungo dodici pollici e, come annotò il mio bisnonno nel suo diario quella notte,<br />

«in ottimo stato di conservazione». Era in vendita anche «l’innominata parte della<br />

defunta Lady Barrymore. Fu aggiudicata a Sam Sraels per cinquanta ghinee». Il mio<br />

bisnonno era attratto dall’idea di completare la coppia, e M lo dissuase. Questo fatto<br />

illustra perfettamente la loro amicizia. Il mio bisnonno, il teorico eccitabile, M l’uomo<br />

d’azione che sapeva quando era il caso di fare un’offerta a un’asta. Il mio bisnonno<br />

visse sessantanove anni. E per quarantacinque di questi, alla fine di ogni giornata,<br />

prima di andare a letto si sedeva a scrivere i suoi pensieri in un diario. Adesso questi<br />

diari sono sul mio tavolo, quarantacinque volumi rilegati in cuoio, e alla loro sinistra<br />

c’è il capitano Nicholls nel barattolo di vetro. Il mio bisnonno viveva dei proventi del<br />

brevetto di un’invenzione di suo padre, un tipo molto comodo di chiusura usata dai<br />

bustai fino allo scoppio della prima guerra mondiale. A mio bisnonno piacevano i<br />

pettegolezzi, i numeri e le teorie. Gli piaceva anche il tabacco, il buon porto, lo stufato<br />

di lepre e, in modo assai occasionale, l’oppio. Gli piaceva considerarsi un matematico,<br />

anche se non aveva mai lavorato né pubblicato un libro. Non aveva neanche mai<br />

viaggiato né visto il suo nome sul Times, nemmeno quando morì. Nel 1869 sposò<br />

Alice, unica figlia del reverendo Toby Shadwell, co-autore di un libro non molto<br />

considerato sui fiori selvatici in Inghilterra. Ritengo che mio bisnonno sia un ottimo<br />

diarista, e quando avrò finito di rivedere i diari e saranno stati pubblicati, sono certo<br />

che riceverà il riconoscimento dovutogli. Una volta ultimato il mio lavoro mi prenderò<br />

una lunga vacanza, viaggerò in qualche posto freddo, pulito e senza alberi, Islanda o la<br />

steppa russa. Una volta pensavo che alla fine di tutto questo avrei cercato, se possibile,<br />

di divorziare da mia moglie Maisie, ma ormai non ce n’è più bisogno.<br />

Spesso Maisie gridava nel sonno e dovevo svegliarla.<br />

— Abbracciami, — diceva. — Era un sogno orribile. L’ho già fatto una volta. Ero<br />

in un aeroplano che volava sul deserto. Ma non era proprio un deserto. Facevo volare<br />

l’aereo più basso e riuscivo a vedere migliaia di bambini ammucchiati, una vista che si<br />

estendeva sino all’orizzonte, ed erano tutti nudi e si arrampicavano uno sull’altro. Io<br />

avevo quasi finito il carburante e dovevo atterrare. Cercavo di trovare uno spazio,<br />

continuavo a volare e a volare in cerca di uno spazio...<br />

— Dormi adesso, — dissi sbadigliando. — Era solo un sogno.<br />

— No, — gridò lei: — Non devo dormire, non ancora.<br />

— Be’, io sì, — le dissi, — devo esser su presto domattina.<br />

Mi scosse una spalla. — Per piacere, non addormentarti subito, non lasciarmi così.<br />

79


— Sono nello stesso letto, — dissi, — non ti lascerò.<br />

— Non cambia niente, non lasciarmi sveglia... — Ma gli occhi mi si stavano già<br />

chiudendo.<br />

Ultimamente ho preso l’abitudine del mio bisnonno. Prima di andare a letto mi<br />

siedo per una mezz’ora a riflettere sulla mia giornata. Non ho ghiribizzi <strong>matematici</strong> o<br />

teorie sessuali da buttar giù. Scrivo soprattutto quello che ho detto a Maisie e quello<br />

che Maisie ha detto a me.<br />

Ogni tanto, per avere una privacy assoluta, mi chiudo in bagno, e mi siedo sul<br />

gabinetto, col taccuino sulle ginocchia. Oltre a me in bagno possono capitare un ragno<br />

o due. Si arrampicano sul grande tubo e si accovacciano perfettamente immobili sullo<br />

scintillante smalto bianco. Si chiederanno dove sono finiti. Dopo ore di quella<br />

posizione accovacciata tornano indietro, perplessi o forse contrariati di non averne<br />

appreso di più. Per quel che ne so, il mio bisnonno ha fatto un unico riferimento ai<br />

ragni. L’8 maggio 1906, scrisse: «Bismarck è un ragno».<br />

Durante il pomeriggio Maisie veniva a portarmi il tè e mi raccontava i suoi incubi.<br />

Di solito io stavo sfogliando vecchi giornali, compilavo indici, catalogavo argomenti,<br />

mettevo giù un volume, ne prendevo un altro. Maisie diceva di non star bene.<br />

Ultimamente se ne stava tutto il giorno seduta qua e là per la casa, leggiucchiando libri<br />

di psicologia e occultismo, e quasi tutte le notti faceva brutti sogni. Dopo quella volta<br />

che ci eravamo scambiati colpi materiali, appostandoci fuori del bagno per colpirci<br />

l’un l’altro con la stessa scarpa, non ho avuto più molta comprensione per lei. In parte<br />

il suo problema era la gelosia. Era molto gelosa... del diario in quarantacinque volumi<br />

di mio bisnonno, e della mia decisione ed energia nel revisionarlo. Lei non faceva<br />

niente. Stavo mettendo giù un volume e prendendone un altro quando Maisie entrò col<br />

tè.<br />

— Ti posso raccontare il mio sogno? — mi chiese. — Stavo volando con questo<br />

aereo sopra una specie di deserto...<br />

— Più tardi, Maisie, — dissi, — sono nel bel mezzo di una cosa.<br />

Dopo che se ne fu andata, fissai il muro di fronte al mio tavolo, pensando a M, che<br />

venne a chiacchierare e pranzare col mio bisnonno regolarmente per un periodo di<br />

quindici anni fino alla sua improvvisa e inspiegabile scomparsa una sera del 1898. M,<br />

chiunque fosse, era una specie di accademico, oltre che un uomo di azione. Per<br />

esempio la sera del agosto 1870, i due stanno discutendo sulle varie posizioni per fare<br />

l’amore, e M dice al mio bisnonno che la copulazione a posteriori è il modo più<br />

naturale, data la collocazione del clitoride, e dato che altri antropoidi prediligono<br />

questo metodo. Il mio bisnonno, che copulò circa mezza dozzina di volte in tutta la<br />

sua vita, e tutte con Alice durante il primo anno del loro matrimonio, si chiese ad alta<br />

voce quale fosse l’opinione della Chiesa, e subito M è in grado di dirgli che nel VII<br />

secolo il teologo Teodoro considerava la copulazione a posteriori un peccato dello<br />

stesso livello della masturbazione e perciò meritevole di quaranta penitenze. Più tardi,<br />

quella stessa sera, il mio bisnonno dimostrò matematicamente che il massimo numero<br />

di posizioni non può superare il numero primo diciassette. M si fece beffe di questo e<br />

gli disse che aveva visto una raccolta di disegni di Romano, un allievo di Raffaello, in<br />

cui erano illustrate ventiquattro posizioni. E, disse, aveva sentito parlare di un certo<br />

F.K. Foberg che ne aveva calcolate novanta. Quando mi ricordai del tè che Maisie mi<br />

80


aveva lasciato, ormai era freddo.<br />

Uno stadio importante nel deterioramento del nostro matrimonio fu raggiunto come<br />

segue. Ero seduto in bagno una sera, che trascrivevo una conversazione fra Maisie e<br />

me a proposito dei tarocchi, quando improvvisamente eccola là fuori che bussa a più<br />

riprese alla porta e gira nervosamente la maniglia.<br />

— Apri, — chiamò, — voglio entrare.<br />

Io le dissi: — Dovrai aspettare ancora qualche minuto. Ho quasi finito.<br />

— Fammi entrare subito, — urlò, — non stai usando il gabinetto.<br />

— Aspetta, — risposi, e scrissi ancora un paio di righe. Maisie si era messa a<br />

scalciare contro la porta.<br />

— Mi sono venute le mestruazioni, e devo prendere una cosa. — Ignorai le sue urla<br />

e finii il mio pezzo, che ritenevo di particolare importanza. Se l’avessi rimandato a più<br />

tardi, certi dettagli sarebbero andati perduti. Non proveniva più alcun rumore da<br />

Maisie adesso, e pensai che fosse andata in camera da letto. Ma quando aprii la porta<br />

me la trovai di fronte con una scarpa in mano. Mi colpì in testa col tacco aguzzo, e<br />

feci appena in tempo a spostarmi di poco su un lato. Il tacco mi finì su un orecchio e<br />

me lo tagliò malamente.<br />

— Ecco, — disse Maisie, girandomi attorno per entrare in bagno, — adesso<br />

sanguiniamo tutti e due, — e chiuse la porta sbattendola. Io raccolsi la scarpa e rimasi<br />

calmo e paziente dietro la porta, tenendo un fazzoletto sull’orecchio sanguinante.<br />

Maisie rimase nel bagno circa dieci minuti e quando uscì la beccai preciso e pulito in<br />

cima alla testa. Non le diedi il tempo di muoversi. Rimase perfettamente immobile per<br />

un attimo, guardandomi dritto negli occhi.<br />

— Verme, — ansimò, e se ne andò giù in cucina a medicarsi la testa lontano dal<br />

mio sguardo.<br />

Ieri durante la cena Maisie aveva affermato che un uomo rinchiuso in una cella con<br />

null’altro che un mazzo di tarocchi avrebbe avuto accesso a tutto lo scibile. Quel<br />

pomeriggio aveva provato a leggerli, e le carte erano ancora sparse sul pavimento.<br />

— Potrebbe ricavare il piano stradale di Valparaíso dalle carte? — le chiesi.<br />

— Non fare lo scemo, — rispose.<br />

— E potrebbero dirgli il modo migliore per avviare una lavanderia, o per fare<br />

un’omelette o un rene artificiale?<br />

— Hai una mente così ristretta, — si lamentò lei, — sei limitato, così prevedibile.<br />

— Potrebbe, — insistetti, — dirmi lui chi è M, o perché...<br />

— Queste cose non hanno alcuna importanza, — gridò, — non sono necessarie.<br />

— Eppure fanno parte del sapere. E lui potrebbe scoprirle?<br />

Esitò. — Sì, potrebbe.<br />

Sorrisi e non dissi nulla.<br />

— Cosa c’è di tanto buffo? — Scrollai le spalle e lei cominciò ad arrabbiarsi.<br />

Voleva essere smentita. — Perché fai tutte queste domande senza senso?<br />

Scrollai di nuovo le spalle. — Volevo solo sapere se intendevi dire proprio tutto.<br />

Maisie sbatté un pugno sul tavolo e urlò: — Vai al diavolo! Perché mi provochi<br />

sempre? Perché non dici qualcosa di concreto? — Al che entrambi ci rendemmo conto<br />

che eravamo arrivati al solito punto dove ci portavano tutte le nostre discussioni, e ci<br />

chiudemmo in un silenzio amaro.<br />

81


Il mio lavoro sui diari non può procedere finché non avrò chiarito il mistero che<br />

circonda M. Dopo essere andato a pranzo dal mio bisnonno per quindici anni e avergli<br />

fornito una quantità di materiale per le sue teorie, M semplicemente scompare dalle<br />

pagine del diario. Martedì 6 dicembre il mio bisnonno invitò M a pranzo per il sabato<br />

seguente, e sebbene M fosse venuto, il mio bisnonno nell’annotazione di quel giorno<br />

scrive soltanto: «M a pranzo». Tutte le altre volte la conversazione che si era svolta<br />

durante questi pasti è ampiamente riportata. M era stato a pranzo lunedì 5 dicembre, e<br />

avevano parlato di geometria, e tutte le annotazioni fatte durante il resto della<br />

settimana erano interamente dedicate a questo stesso argomento. Non v’è affatto<br />

alcuna traccia di antagonismo. Inoltre, il mio bisnonno aveva bisogno di M. M gli<br />

forniva il materiale, M era al corrente degli avvenimenti, conosceva bene Londra ed<br />

era stato parecchie volte sul continente. Sapeva tutto sul socialismo e su Darwin,<br />

aveva un conoscente nel movimento per il libero amore, un amico di James Hinton. M<br />

conosceva il mondo in un modo che il mio bisnonno, che aveva lasciato Melton<br />

Mowbray solo una volta in vita sua, per andare a Nottingham, non immaginava<br />

neanche. Anche da giovane il mio bisnonno preferiva teorizzare accanto al camino;<br />

tutto quello di cui aveva bisogno era il materiale fornitogli da M. Per esempio, una<br />

sera del giugno 1884 M, che era appena tornato da Londra raccontò al mio bisnonno<br />

che le strade della città erano insozzate e ostruite dal letame di cavallo. Ora proprio<br />

quella settimana il mio bisnonno aveva letto il saggio di Malthus intitolato Sul<br />

principio della popolazione, così quella notte annotò nel diario una pagina tutta<br />

eccitata su un pamphlet che aveva intenzione di scrivere e pubblicare. Si sarebbe<br />

dovuto chiamare De stercore equorum. L’opuscolo non fu mai pubblicato né<br />

probabilmente mai scritto, ma ci sono note dettagliate a questo riguardo nelle pagine<br />

del diario per le due settimane seguenti. Nel De stercore equorum (Sullo sterco di<br />

cavallo) egli presuppone una crescita geometrica della popolazione equina, e<br />

lavorando su dettagliate mappe stradali, prevede che col 1935 la metropoli sarà<br />

impraticabile. Per impraticabile intendeva dire uno spessore medio di un piede<br />

(compresso) in tutte le vie principali. Descrisse complessi esperimenti compiuti<br />

davanti alle sue stalle per stabilire la compressibilità dello sterco di cavallo, che riuscì<br />

a esprimere matematicamente. Naturalmente era pura teoria. I suoi risultati si<br />

basavano sull’ipotesi che lo sterco non sarebbe stato spazzato via nei prossimi<br />

cinquant’anni. Molto probabilmente fu M che dissuase il mio bisnonno da questo<br />

progetto.<br />

Un mattino, dopo una lunga notte buia e piena di incubi per Maisie, eravamo a letto,<br />

sdraiati fianco a fianco e io le dissi:<br />

— Cos’è che vuoi davvero? Perché non riprendi il tuo lavoro? Queste lunghe<br />

passeggiate, tutta questa analisi, sempre seduta in giro per la casa, le mattine passate a<br />

letto, i tarocchi, gli incubi... cos’è che vuoi?<br />

E lei: — Voglio raddrizzarmi la testa, — cosa che aveva già detto molte altre volte.<br />

— La tua testa, la tua mente, non è la cucina di un albergo, non puoi buttar fuori la<br />

roba come se fossero barattoli vecchi. Assomiglia più a un fiume che a un lago, un<br />

fiume che si muove e cambia continuamente. Non puoi raddrizzare un fiume.<br />

— Non ricominciamo, non sto cercando di raddrizzare un fiume, sto cercando di<br />

raddrizzare la mia testa.<br />

82


— Devi fare qualcosa, non puoi non fare mai niente. Perché non ricominci a<br />

lavorare? Quando lavoravi non avevi gli incubi. Quando lavoravi non eri mai così<br />

infelice.<br />

— Devo star lontana da tutte quelle cose per un po’, non sono più sicura del<br />

significato di niente.<br />

— Moda, è tutta una moda. Metafore di moda, letture di moda, disagi di moda. Che<br />

te ne importa di Jung, per esempio? Ne hai lette dodici pagine in un mese.<br />

— Non continuare, — supplicò, — sai che non porta a nulla.<br />

Ma io continuai.<br />

— Non sei mai stata in nessun posto, non hai mai fatto niente. Sei una ragazza<br />

simpatica senza neanche la fortuna di una infanzia infelice. Il tuo buddhismo<br />

sentimentale, questo misticismo da rigattiere, terapia all’incenso, astrologia da<br />

rivista... niente di tutto questo fa parte di te, niente di tutto questo l’hai svolto tu per<br />

conto tuo. Ci sei caduta dentro, sei caduta in una palude di intuizioni rispettabili. Non<br />

hai l’originalità o la passionalità per intuire qualcosa da sola al di là della tua<br />

infelicità. Perché ti riempi la mente con le mistiche banalità di altra gente e ti fai<br />

venire gli incubi? — Scesi dal letto, aprii le tende e cominciai a vestirmi.<br />

— Parli come se questo fosse un finto seminario, — disse Maisie, — perché cerchi<br />

di rendermi le cose più difficili? — L’autocommiserazione cominciò a gonfiarlesi<br />

dentro, ma lei la ricacciò indietro.<br />

— Quando parli mi sento accartocciare come un pezzo di carta.<br />

— Forse questo è un finto seminario, — dissi cupo. Maisie si tirò su e rimase seduta<br />

a guardarsi in grembo. Improvvisamente cambiò tono. Diede un colpetto al cuscino<br />

accanto a lei e disse dolcemente:<br />

— Vieni qui. Vieni a sederti qui. Voglio toccarti, voglio che tu mi tocchi... — Ma<br />

io, sospirando, stavo già andandomene in cucina.<br />

In cucina mi feci un caffè e me lo portai nello studio. Durante la mia notte di sonno<br />

interrotto mi era venuto in mente che una possibile chiave per la sparizione di M<br />

poteva essere trovata nelle pagine sulla geometria. Finora le avevo sempre saltate<br />

perché la matematica non mi interessa. Lunedì dicembre 1898, M e il mio bisnonno<br />

discussero la vescia piscis, che a quanto pare è il soggetto della prima proposizione di<br />

Euclide ed ha avuto una grande influenza sulle fondamenta di molti antichi edifici<br />

religiosi. Lessi attentamente il resoconto della conversazione, cercando di capirne<br />

meglio che potevo la parte geometrica. Poi, girando la pagina, trovai un lungo<br />

aneddoto che M raccontò al mio bisnonno quella sera stessa, quando venne portato il<br />

caffè e si accesero i sigari. Proprio mentre stavo cominciando a leggere entrò Maisie.<br />

— E tu allora, — disse, come se al nostro litigio non ci fosse stata un’ora di<br />

intervallo, — tutto quello che hai sono dei libri. Strisci sul passato come una mosca su<br />

uno stronzo.<br />

Naturalmente mi arrabbiai, ma sorrisi e dissi amabilmente: — Striscio? Be’, almeno<br />

mi muovo.<br />

— Non parli più con me, giochi con me come con un flipper, per fare punti.<br />

— Buongiorno, Amleto, — risposi, e aspettai pazientemente di sentire cos’altro<br />

avesse da dire. Ma lei non parlò più, se ne andò chiudendo dolcemente la porta dello<br />

studio.<br />

83


— Nel settembre 1870, — M cominciò a raccontare a mio bisnonno, — venni in<br />

possesso di certi documenti che non solo invalidano tutte le nostre nozioni<br />

fondamentali di geometria solida, ma minano alle fondamenta l’intero canone delle<br />

nostre leggi fisiche e ci obbligano a ridefinire il nostro posto nello schema della<br />

Natura. Queste dissertazioni superano per importanza i lavori di Marx e Darwin messi<br />

insieme. Mi furono affidate da un giovane matematico americano e sono opera di<br />

David Hunter, matematico anch’esso e scozzese. L’americano si chiamava Goodman.<br />

«Ero stato per molti anni un corrispondente di suo padre, a proposito delle sue<br />

ricerche sulla teoria ciclica delle mestruazioni che, cosa piuttosto incredibile, è ancora<br />

ampiamente screditata in questo paese. Incontrai il giovane Goodman a Vienna dove,<br />

insieme a Hunter e ad altri <strong>matematici</strong> provenienti da una dozzina di paesi,<br />

partecipava a una conferenza internazionale sulle matematiche. Goodman era pallido e<br />

notevolmente preoccupato quando lo incontrai, e aveva in programma di tornare in<br />

America il giorno dopo anche se la conferenza non era che a metà. Mi affidò le carte<br />

con l’istruzione di restituirle a David Hunter, se mai avessi appreso dove si trovasse. E<br />

poi, ma solo in seguito alle mie insistenze, mi raccontò quello a cui aveva assistito il<br />

terzo giorno del convegno. Le sedute cominciavano ogni mattino alle nove e trenta,<br />

con la lettura di una relazione cui facevano seguito le discussioni. Alle undici<br />

venivano portati i rinfreschi e la maggior parte dei <strong>matematici</strong> si alzavano<br />

abbandonando il lungo tavolo lucidissimo intorno a cui erano seduti, e passeggiavano<br />

nell’ampia sala elegante, impegnati in discussioni senza formalità con i colleghi. Gli<br />

incontri dovevano proseguire per due settimane, e in base ad accordi precedenti i più<br />

eminenti fra i <strong>matematici</strong> presenti avrebbero letto per primi le loro relazioni, seguiti da<br />

quelli un po’ meno eminenti e così via, in una gerarchia decrescente che, com’è<br />

consuetudine tra uomini molto intelligenti, causava occasionali ma intense gelosie.<br />

Hunter, per quanto fosse un matematico brillante, era giovane e virtualmente<br />

sconosciuto al di fuori della sua università, quella di Edimburgo. Si era iscritto per<br />

leggere una relazione sulla geometria solida che definiva della massima importanza, e<br />

siccome in questo pantheon era una persona di poco conto, la sua relazione era stata<br />

assegnata al penultimo giorno del convegno, quando ormai la maggior parte dei<br />

convenuti più importanti sarebbe già partita per i rispettivi paesi. Perciò la mattina del<br />

terzo giorno, quando ci fu l’interruzione per i rinfreschi, Hunter si alzò<br />

improvvisamente e si rivolse ai colleghi proprio mentre questi si disponevano a<br />

lasciare il tavolo. Era un uomo robusto e ispido e, per quanto giovane, aveva una certa<br />

imponenza fisica che ridusse il mormorio al silenzio assoluto.<br />

— Signori, — disse Hunter, — devo chiedervi di perdonarmi questa forma<br />

impropria d’indirizzo, ma ho da dirvi qualcosa di estrema importanza. Ho scoperto il<br />

piano senza superficie. — Circondato da sorrisi di scherno e gentili risate divertite,<br />

Hunter raccolse dal tavolo un grande foglio di carta bianca. Con un temperino incise<br />

sulla sua superficie un taglio lungo circa tre pollici e un po’ spostato su un lato. Poi lo<br />

piegò velocemente in modo complicato e, tenendo il foglio alto in modo che tutti lo<br />

vedessero, apparentemente fece passare un angolo attraverso l’incisione, e in quella il<br />

foglio sparì.<br />

— Osservate, signori, — disse Hunter, mostrando le mani vuote agli spettatori, — il<br />

piano senza superficie.<br />

84


Maisie entrò nella stanza, si era lavata e mandava un buon odore di sapone<br />

profumato. Entrò e si fermò dietro la mia sedia, mettendomi le mani sulle spalle.<br />

— Cosa leggi?<br />

— Soltanto delle pagine del diario che prima non avevo guardato. — Cominciò a<br />

massaggiarmi dolcemente la base del collo. L’avrei trovato rilassante se fosse stato<br />

ancora il primo anno del nostro matrimonio. Ma era il sesto, e la cosa generò in me<br />

una sorta di tensione che mi si propagò per tutta la spina dorsale. Maisie voleva<br />

qualcosa. Per frenarla appoggiai la mano destra sulla sua mano sinistra e,<br />

scambiandolo per un gesto affettuoso, lei si chinò a baciarmi dietro un orecchio. Il suo<br />

fiato sapeva di dentifricio e toast. Mi tirò per la spalla.<br />

— Andiamo in camera, — sussurrò, — sono quasi due settimane che non facciamo<br />

l’amore.<br />

— Lo so, — risposi, — sai com’è... col mio lavoro. — Non desideravo Maisie, né<br />

nessuna altra donna. L’unica cosa che volevo fare era girare la pagina successiva del<br />

diario del mio bisnonno. Maisie mi tolse le mani dalle spalle e restò accanto a me. Nel<br />

suo silenzio c’era una tale improvvisa ferocia che mi sentii teso come un centometrista<br />

ai blocchi di partenza. Si protese in avanti e prese il barattolo sigillato che conteneva il<br />

capitano Nicholls. Nel sollevano il pene ondeggiò come in sogno da una parte all’altra<br />

del vetro.<br />

— Sei così presuntuoso, — strillò Maisie, un attimo prima di scagliare il barattolo<br />

di vetro contro la parete di fronte al mio tavolo. Istintivamente mi coprii la faccia con<br />

le mani per proteggermi dalle schegge di vetro. Quando aprii gli occhi sentii la mia<br />

voce che diceva:<br />

— Perché l’hai fatto? Era del mio bisnonno. — In mezzo ai frammenti di vetro e ai<br />

fetidi effluvi di formaldeide c’era il capitano Nicholls, goffamente steso sulla<br />

copertina di cuoio di un volume del diario, grigio, molle e minaccioso, trasformato da<br />

una curiosità preziosa in una orrenda oscenità.<br />

— Che cosa tremenda hai fatto. Perché l’hai fatto? — le chiesi ancora.<br />

— Vado a fare una passeggiata, — rispose Maisie, e questa volta uscendo dalla<br />

stanza sbatté la porta. Per un po’ rimasi immobile sulla sedia. Maisie aveva distrutto<br />

un oggetto che per me aveva un grande valore. Era stato nello studio del mio bisnonno<br />

finché lui era vivo, e poi nel mio, congiungendo la mia vita alla sua. Mi raccolsi<br />

qualche scheggia di vetro dal grembo e fissai sul mio tavolo quella parte di un altro<br />

essere umano vissuto centosessant’anni prima. Lo guardai e pensai a tutti gli omuncoli<br />

che erano sciamati per la sua lunghezza. Pensai a tutti i posti dove era stato, Città del<br />

Capo, Boston, Gerusalemme, viaggiando nel fetido buio dei pantaloni di cuoio del<br />

capitano Nicholls, emergendone occasionalmente in un sole accecante per scaricarsi<br />

dell’orina in qualche affollato gabinetto pubblico. Pensai anche a tutte le cose che<br />

aveva toccato, tutte le molecole, le mani esploratorie del capitano Nicholls in qualche<br />

notte solitaria e incorrisposta in mare, le umide pareti delle fighe di ragazzine e<br />

vecchie puttane, le loro molecole devono esistere ancora oggi, un pulviscolo che soffia<br />

da Cheapside al Leicestershire. Chissà quanto sarebbe potuto durare nel suo recipiente<br />

di vetro. Cominciai a pulire. Presi la pattumiera in cucina. Scopai e tirai su tutto il<br />

vetro che trovai e asciugai via la formaldeide. Poi, tenendolo per un’estremità cercai di<br />

adagiare il capitano Nicholls su un foglio di giornale. Mi venne il voltastomaco<br />

85


mentre il prepuzio incominciò a staccarmisi fra le dita. Alla fine, a occhi chiusi, vi<br />

riuscii e dopo averlo accuratamente avvolto nel giornale, lo portai in giardino e lo<br />

seppellii sotto i gerani. Durante tutta questa operazione cercai di impedire che il<br />

risentimento verso Maisie mi riempisse la mente. Volevo continuar con la storia di M.<br />

Di nuovo seduto al mio tavolo, asciugai qualche macchia di formaldeide che aveva<br />

sgorbiato l’inchiostro, e proseguii nella lettura.<br />

— Per almeno un minuto la stanza divenne di ghiaccio, e a ogni secondo che<br />

passava sembrò ghiacciarsi di più. Il primo a parlare fu il professor Stanley Rose<br />

dell’università di Cambridge, che aveva molto da perdere dal piano senza superficie di<br />

Hunter. La sua reputazione, che era davvero molto solida, si fondava sui suoi Princìpi<br />

di geometria solida.<br />

— Come osate, signore. Come osate insultare la dignità di questa assemblea con un<br />

indegno trucco da prestigiatore. — E, sostenuto da un crescente mormorio di<br />

approvazione, aggiunse: — Dovreste vergognarvi, giovanotto, vergognarvi<br />

profondamente. — A questo punto la stanza eruppe come un vulcano. Con l’eccezione<br />

del giovane Goodman, e dei camerieri che erano ancora in piedi con i rinfreschi in<br />

mano, l’intera stanza si volse verso Hunter e diresse contro di lui un vocio di denunce<br />

senza senso, di invettive e minacce. Qualcuno in preda alla furia dava colpi sul tavolo,<br />

altri agitavano pugni minacciosi. Un signore tedesco molto delicato cadde sul<br />

pavimento, per un colpo apoplettico e dovette essere adagiato su una poltrona. E là se<br />

ne stava Hunter, fermo ed esteriormente impassibile, la testa lievemente piegata su un<br />

lato, le dita appena appoggiate sulla superficie del lungo tavolo lucido. Che l’indegno<br />

trucco da prestigiatore fosse stato seguito da un tale strepito dimostrava chiaramente la<br />

portata del disagio sotterraneo e Hunter senza dubbio apprezzava la cosa. Alzò una<br />

mano e tutti furono nuovamente silenziosi. Allora disse:<br />

— Signori, la vostra preoccupazione è comprensibile, e io vi darò un’altra prova, la<br />

prova definitiva. — Ciò detto, si sedette e si tolse le scarpe, si alzò e si tolse la giacca,<br />

e poi chiese un volontario che gli facesse da assistente, al che Goodman si fece avanti.<br />

Hunter si fece largo a grandi passi fra le persone assembrate attorno a lui e raggiunse<br />

un divanetto appoggiato contro una delle pareti, e mentre si sistemava lì sopra disse al<br />

perplesso Goodman che al suo ritorno in Inghilterra doveva portare con sé le carte di<br />

Hunter e tenerle fino a quando lui fosse venuto a ritirarle. Quando i <strong>matematici</strong> furono<br />

radunati attorno al divano, Hunter si girò a pancia in giù e unì le mani dietro la schiena<br />

in una strana posizione, in modo che le braccia formassero un cerchio. Chiese a<br />

Goodman di tenergli le braccia in quella posizione, e si girò su un fianco cominciando<br />

una serie di strenui movimenti a scatto che gli permisero di passare un piede attraverso<br />

il cerchio. Chiese al suo assistente di girarlo sull’altro fianco, rifece gli stessi<br />

movimenti e riuscì a far passare anche l’altro piede nel cerchio delle braccia, e nello<br />

stesso tempo piegò il tronco in un modo tale che riuscì a far passare la testa nel<br />

cerchio in direzione opposta a quella dei piedi. Con l’aiuto del suo assistente cominciò<br />

a far passare la testa e le gambe sempre più attraverso il cerchio delle braccia. Fu<br />

allora che l’intera assemblea, come un sol uomo, diede sfogo ad un unico gridolino di<br />

totale incredulità. Hunter cominciava a scomparire, e adesso le sue gambe e la testa<br />

passavano attraverso il cerchio con maggiore facilità, come se un potere invisibile le<br />

tirasse, ed ecco, era quasi scomparso. E adesso... era scomparso, scomparso del tutto,<br />

86


non ne rimaneva più niente.<br />

La storia di M mise il mio bisnonno in uno stato di eccitamento frenetico. Quella<br />

sera registrò nel diario come avesse tentato «di convincere il mio ospite a mandare a<br />

prendere quelle carte all’istante», anche se erano ormai le due del mattino. M,<br />

comunque, era più scettico riguardo a tutta la faccenda. — Gli americani, — disse al<br />

mio bisnonno, — spesso indulgono in storie fantastiche. — Ma acconsentì a portare i<br />

documenti il giorno seguente. Poi però andò a finire che M la sera dopo non pranzò<br />

con il mio bisnonno per via di un altro impegno, ma andò a trovarlo nel tardo<br />

pomeriggio con le carte. Prima di andarsene disse al mio bisnonno di averle lette e<br />

rilette molte volte e «che non se ne poteva cavar fuori nulla che avesse un costrutto».<br />

Allora non si rendeva conto di quanto stesse sottovalutando il mio bisnonno come<br />

matematico dilettante. Bevendo un bicchiere di sherry di fronte al camino, i due<br />

uomini si accordarono di pranzare insieme alla fine della settimana, di sabato. Durante<br />

i tre giorni seguenti il mio bisnonno smise a malapena di studiare i teoremi di Hunter<br />

per mangiare e dormire. Nel diario non si parla d’altro. Le pagine sono coperte di<br />

scarabocchi, diagrammi e simboli. Pare che Hunter avesse dovuto inventare una nuova<br />

serie di simboli, praticamente un nuovo linguaggio, per esprimere le sue idee. Alla<br />

fine del secondo giorno il mio bisnonno aveva cominciato a vedere una luce. In fondo<br />

a una pagina di sgorbi <strong>matematici</strong> scrisse: «La dimensionalità è una funzione della<br />

consapevolezza». Passando all’annotazione del giorno seguente lessi queste parole:<br />

«Mi è scomparso fra le mani». Aveva ricreato il piano senza superficie. E là, spiegate<br />

di fronte a me, c’erano passo dopo passo le istruzioni su come piegare il pezzo di<br />

carta. Passando alla pagina successiva, improvvisamente capii il mistero della<br />

scomparsa di M. Senza dubbio incoraggiato dal mio bisnonno, quella sera aveva preso<br />

parte a un esperimento scientifico, probabilmente in uno spirito di grande scetticismo.<br />

Infatti a questo punto il mio bisnonno aveva fatto una serie di piccoli disegni che<br />

illustravano quelle che a prima vista sembravano posizioni yoga. Erano chiaramente il<br />

segreto del numero di sparizione di Hunter.<br />

Le mani mi tremavano mentre liberavo uno spazio sulla mia scrivania. Scelsi un<br />

foglio di carta pulito e lo stesi di fronte a me. Andai in bagno a prendere una lametta.<br />

Frugai in un cassetto e trovai un vecchio compasso, feci la punta a una mina e gliela<br />

adattai. Cercai per tutta la casa finché non trovai un’accurata riga di acciaio usata una<br />

volta per montare i vetri di una finestra, e alla fine fui pronto. Prima di tutto dovevo<br />

tagliare il foglio nella giusta misura. Il pezzo di carta che Hunter aveva preso dal<br />

tavolo con aria tanto casuale, ovviamente doveva essere stato preparato prima con<br />

ogni cura. La lunghezza dei lati doveva esprimere un rapporto specifico. Usando il<br />

compasso trovai il centro del foglio e attraverso questo punto tracciai una linea<br />

parallela a uno dei lati e la continuai fino all’orlo. Poi costruii un rettangolo le cui<br />

misure avevano una determinata relazione con quelle dei lati del foglio. Il centro di<br />

questo rettangolo cadeva sulla linea in modo da sezionarla in base alla sezione aurea.<br />

Dalla cima di questo rettangolo disegnai archi intersecantisi, di raggi<br />

proporzionatamente specifici. L’operazione fu anche qui ripetuta all’estremità<br />

inferiore del rettangolo, e allorché i due punti di intersezione si congiungevano, avevo<br />

la linea di incisione. Poi cominciai a lavorare sulle linee da piegare. Ogni linea<br />

sembrava esprimere con la propria lunghezza, angolo di inclinazione e punto di<br />

87


intersezione con le altre, qualche misteriosa interna armonia di numeri. Mentre<br />

intersecavo archi, tracciavo linee e facevo pieghe, sentivo di stare mettendo<br />

ciecamente in atto un sistema della più alta e terrificante forma di sapere, la<br />

matematica dell’assoluto. Nel momento in cui feci la piega finale il pezzo di carta<br />

aveva la forma di un fiore geometrico con tre anelli concentrici disposti attorno<br />

all’incisione centrale. C’era qualcosa di così calmo e perfetto in questo disegno,<br />

qualcosa di così remoto e irresistibile che fissandolo mi sentii scivolare in un lieve<br />

stato di trance e la mia mente farsi chiara e inattiva. Scossi la testa e spostai lo<br />

sguardo. Adesso bisognava girare il fiore su se stesso e farlo passare attraverso<br />

l’incisione. Era questa un’operazione delicata, e adesso le mani mi tremavano di<br />

nuovo. Riuscii a calmarmi solo fissando il centro del disegno. Cominciai a spingere<br />

con i pollici i lati del fiore di carta verso il centro, e in quella sentii una specie di<br />

torpore avvolgermi la base del cranio. Spinsi ancora un po’, la carta per un istante si<br />

accese più bianca e poi diede l’impressione di sparire. Dico “diede l’impressione”<br />

perché dapprincipio io non capivo bene se me la sentivo ancora in mano ma non la<br />

vedevo, oppure se la vedevo ma non la sentivo in mano, oppure se ero io a intuirne la<br />

sparizione mentre le sue proprietà esteriori permanevano. Il torpore mi si era esteso<br />

per tutta la testa e le spalle. I miei sensi sembravano inadeguati ad afferrare quanto<br />

stava succedendo. «La dimensionalità è una funzione della consapevolezza», pensai.<br />

Unii le mani e in mezzo non c’era niente, ma neanche quando le riaprii senza trovarci<br />

niente dentro fui sicuro che il fiore di carta fosse completamente sparito. Restava<br />

un’impressione, un’immagine postuma non sulla retina ma nella stessa mente. E<br />

proprio allora la porta si aprì dietro di me e Maisie disse:<br />

— Cosa fai?<br />

Tornai come da un sogno alla mia stanza e al suo vago odore di formaldeide. Era<br />

passato chissà quanto tempo, ormai, dalla distruzione del capitano Nicholls, ma<br />

l’odore rivivificò il mio risentimento che si diffuse in me come il torpore. Maisie<br />

ristette abulica nel vano della porta, imbacuccata in un pesante cappotto e una sciarpa<br />

di lana.<br />

Sembrava lontanissima, e guardandola il mio risentimento confluì nell’abituale<br />

tedio del nostro matrimonio. Pensai, ma perché ha rotto quel barattolo? Perché voleva<br />

fare l’amore? Perché voleva un pene? Perché era gelosa del mio lavoro, e voleva<br />

distruggere la connessione che aveva con la vita del mio bisnonno?<br />

— Perché l’hai fatto? — dissi forte, senza volerlo. Maisie sbuffò. Quando aveva<br />

aperto la porta mi aveva visto curvo sul tavolo che fissavo le mie mani.<br />

— Sei stato seduto lì tutto il pomeriggio a pensare a quello? — Ridacchiò. — E che<br />

cosa ne hai fatto? Te lo sei succhiato via?<br />

— L’ho sepolto sotto i gerani.<br />

Entrò nella stanza per un tratto e disse in tono serio:<br />

— Me ne dispiace, davvero. L’ho fatto senza rendermene conto, mi perdoni? —<br />

Esitai, e poi, poiché la mia stanchezza si era trasformata in una decisione improvvisa,<br />

dissi:<br />

— Certo che ti perdono. Era solo un cazzo marinato, — e si rise insieme. Maisie mi<br />

si fece accanto e mi baciò e io le restituii il bacio aprendole le labbra con la lingua.<br />

— Hai fame? — chiese quando la facemmo finita coi baci. — Preparo qualcosa per<br />

88


cena?<br />

— Sì, mi farebbe piacere. — Maisie mi baciò sulla cima della testa e se ne andò,<br />

mentre io tornavo ai miei studi, deciso a essere per tutta la sera il più carino possibile<br />

con Maisie.<br />

Più tardi ci sedemmo in cucina a mangiare quello che Maisie aveva cucinato,<br />

ubriacandoci moderatamente con una bottiglia di vino. Ci fumammo uno spinello, il<br />

primo insieme da un sacco di tempo, Maisie mi raccontò che l’estate prossima sarebbe<br />

andata in Scozia a piantare alberi su incarico della Commissione forestale che le<br />

avrebbe dato un posto. E io raccontai a Maisie la conversazione che si era svolta fra il<br />

mio bisnonno ed M sulla posizione a posteriori, in cui il mio bisnonno aveva espresso<br />

l’opinione che non potessero esserci più di diciassette posizioni per fare l’amore. Si<br />

rise tutt’e due, e Maisie mi strinse una mano e il fare l’amore era là sospeso nell’aria<br />

nel tiepido tanfo della cucina. Poi ci mettemmo i cappotti e andammo a fare una<br />

passeggiata. La luna era quasi piena. Camminammo lungo la strada principale che<br />

passa davanti a casa nostra e poi girammo in una stradina di case tutte stipate insieme,<br />

ognuna col suo minuscolo e immacolato giardino antistante. Non parlammo molto ma<br />

ci si teneva per braccio e Maisie mi disse che era completamente fumata e felice.<br />

Giungemmo a un piccolo parco che era già chiuso e rimanemmo fuori dal cancello a<br />

guardare la luna attraverso i rami ormai quasi spogli. Giunti a casa Maisie si fece un<br />

bel bagno caldo mentre io restavo a leggiucchiare nel mio studio controllando qualche<br />

dettaglio. La nostra camera da letto è calda e confortevole, a suo modo lussuosa. Il<br />

letto è sette piedi per otto e l’ho fatto io stesso durante il primo anno del nostro<br />

matrimonio. Maisie ha tinto le lenzuola di un blu vivo e intenso e ha ricamato le<br />

federe. L’unica luce della stanza viene da una vecchia lampada di cartapecora che<br />

Maisie ha comperato da un venditore ambulante. Era da molto tempo che la camera da<br />

letto non mi interessava più. Ci sdraiammo vicini in un groviglio di lenzuola e coperte,<br />

Maisie tutta allungata, voluttuosa e assonnata dopo il bagno, e io appoggiato al<br />

gomito. Maisie disse sonnacchiosa:<br />

— Oggi pomeriggio ho passeggiato lungo il fiume, in questi giorni gli alberi sono<br />

stupendi, le querce, gli olmi... ci sono due faggi rossi circa un miglio oltre la<br />

passerella, dovresti vederli... ah, che bello. — L’avevo fatta adagiare pancia in giù e<br />

mentre parlava le carezzavo la schiena. — È pieno di more, le più grosse che io abbia<br />

mai visto, crescono lungo il sentiero, e anche bacche di sambuco. Quest’autunno<br />

voglio fare degli sciroppi. — Mi chinai su di lei e la baciai sulla nuca le misi le braccia<br />

dietro la schiena. Le piaceva essere maneggiata in quel modo e si sottomise volentieri.<br />

— E il fiume è proprio immoto, — continuò, — sai, gli alberi ci si specchiano dentro,<br />

le foglie cadono sulla sua superficie. Prima che sia inverno dovremmo andarci una<br />

volta insieme, sul fiume, fra le foglie. Ho trovato un posticino... non ci va nessuno...<br />

— Tenendo ferme le braccia di Maisie con una mano, le manovrai con l’altra le<br />

gambe per passarle nel cerchio. — Sono rimasta seduta là per mezz’ora senza<br />

muovermi, come un albero. Ho visto un topo d’acqua correre sull’altra riva, e molti<br />

tipi di anitre scendere e volare via dal fiume. Sentivo dei tonfi dal fiume, ma non<br />

sapevo cos’erano e ho visto due farfalle arancione, mi si sono quasi posate sulla mano.<br />

— Quando le misi le gambe a posto Maisie disse: — Posizione numero diciotto, — e<br />

ridemmo insieme piano. — Andiamoci domani, al fiume, — disse Maisie mentre io le<br />

89


spingevo attentamente la testa verso le braccia. — Piano, piano, fa male, — gridò<br />

improvvisamente, e cercò di lottare. Ma ormai era troppo tardi, la testa e le gambe<br />

erano al posto giusto nel cerchio delle sue braccia, e stavo spingendole una dopo<br />

l’altra.<br />

— Cosa succede? — gridò Maisie. Adesso la posizione dei suoi arti esprimeva la<br />

bellezza che mozza il fiato, la nobiltà della forma umana e, come col fiore di carta, la<br />

sua simmetria aveva un fascino magnetico. Sentii di nuovo arrivare lo stato di trance e<br />

quel torpore alla nuca. Mentre le facevo passare completamente la testa e le gambe,<br />

Maisie parve avvoltolarsi in se stessa come una calza. — O Dio, — sospirò, — che<br />

succede? — E la sua voce suonava già lontana. E poi era scomparsa... e non ancora<br />

scomparsa. La sua voce era minuscola, — Che succede? — e non rimase altro che<br />

l’eco della sua domanda sopra l’intenso blu delle lenzuola.<br />

90


La quadratura del cerchio<br />

di O. Henry<br />

A rischio di tediarvi, a codesto racconto di eventi rapidi e impetuosi io debbo<br />

preporre un discorso sulla geometria.<br />

I moti della natura vogliono essere circolari; rettilinei quelli dell’arte. Il naturale è<br />

rotondo, l’artificiale tutto angoli. L’uomo smarrito in mezzo alla neve suo malgrado<br />

descriverà camminando cerchi perfetti; i piedi del cittadino, snaturati da angoli retti di<br />

strade e pavimenti, sempre più lo allontanano da se stesso.<br />

I tondi occhi dell’infanzia sono emblema dell’innocenza; ma nella civetta, fattisi<br />

angusti e sottili, testimoniano l’usurpazione dell’artificio. La bocca diritta è il marchio<br />

dell’astuzia cocciuta; e chi non ha letto le più schiette liriche della natura sulle labbra<br />

che s’arrotondano al candido bacio?<br />

La bellezza è natura perfetta; la circolarità ne è il principale attributo. Osservate la<br />

luna piena, l’aurea palla incantatrice, le cupole degli splendidi templi, la tonda<br />

focaccia di sorbe, l’anello nuziale, la pista del circo, e il tondo scorrere dei prosit.<br />

Le linee rette provano invece che la natura è stata sviata. Immaginatevi un po’<br />

Venere col seno piatto!<br />

Quando cominciammo a muoverci lungo linee rette e far svolte ad angolo, la nostra<br />

natura cominciò a mutare. Di conseguenza, la natura più docile si prova a conformarsi<br />

alle più aspre esigenze dell’arte. Ne viene non di rado un singolare prodotto; ad<br />

esempio: un crisantemo da esposizione, un surrogato di whisky, un Missouri<br />

repubblicano, il cavolfiore al gratin, e un newyorkese.<br />

Fulmineamente si perde la natura in una grande città. La causa è geometrica, non<br />

morale. La linea retta delle strade, delle costruzioni, le leggi, le usanze angolari, i<br />

marciapiedi rettilinei, le regole implacabili, dure, deprimenti che ne regolano la<br />

condotta, anche gli svaghi e gli sport, tutto ciò è gelida sfida e irrisione della<br />

curvilinea natura.<br />

E pertanto può dirsi che la grande città ha mostrato di saper quadrare il cerchio. Può<br />

aggiungersi che codesta introduzione matematica precede la storia di una contesa del<br />

Kentucky, importata nella grande città, che ha l’abitudine di adattare ai propri angoli<br />

tutto quanto accoglie.<br />

Tra le famiglie Folwell e Harkness, nelle montagne del Cumberland, era sorta<br />

inimicizia. Prima vittima della guerra domestica fu un cane da opossum, di proprietà<br />

di Bill Harkness. Gli Harkness pareggiarono la dolorosa perdita stendendo il capo dei<br />

Folwell. La risposta dei Folwell non si fece attendere. Lubrificarono i fucili da<br />

scoiattoli, e diedero modo a Bill Harkness di seguire il suo cane in quella terra in cui<br />

gli opossum scendono dagli alberi senza un sol colpo di accetta.<br />

Per quarant’anni la contesa prosperò.<br />

I Folwell spararono agli Harkness, cogliendoli all’aratro, o per le finestre illuminate<br />

91


delle loro capanne, di ritorno da riunioni campestri, addormentati, in duello, ubriachi o<br />

meno, soli o in gruppi familiari, con o senza preavviso. Ugualmente vennero potati i<br />

rami dell’albero genealogico dei Folwell, come volevano e prescrivevano le tradizioni<br />

della loro terra.<br />

In breve, la potatura lasciò in vita un solo membro per ciascuna famiglia. E allora<br />

Cal Harkness, probabilmente considerando che la controversia rischiava di assumere<br />

un sapore sgradevolmente personale, subitamente tolse il disturbo al Cumberland,<br />

eludendo la mano vendicatrice di Sam, ultimo dei nemici Folwell.<br />

Passò un anno, e Sam Folwell apprese che il suo scampato nemico ereditario viveva<br />

nella città di New York. Sam rovesciò le grande vasca di ferro in cortile, ne grattò un<br />

po’ di fuliggine, la mescolò a strutto, e con quel miscuglio si lustrò le scarpe. Si mise<br />

indosso i suoi malfatti vestiti di butternut tinto di nero, un colletto bianco, una<br />

camicia, e riempì lo zaino di spartana lingerie. Tolse dai ganci il fucile da scoiattoli,<br />

ma lo depose con un sospiro. Per quanto il costume fosse etico e ragionevole nel suo<br />

Cumberland, forse New York avrebbe considerato con freddezza la sua pretesa di<br />

andare a caccia di scoiattoli tra i grattacieli di Broadway.<br />

Una Colt, antica ma fededegna, che egli trasse da un cassetto, parve proclamarsi<br />

l’arma perfetta per l’avventura e la vendetta metropolitana. Questa Sam mise nello<br />

zaino, assieme a un coltello da caccia in guaina di cuoio. Come si mise in cammino a<br />

dorso di mulo, diretto alla stazione ferroviaria, in pianura, l’ultimo dei Folwell si volse<br />

sulla sella, e salutò con cupo sguardo la piccola folla di candidi legni che, nel bosco di<br />

cedri, segnavano il cimitero dei Folwell.<br />

Sam Folwell arrivò a New York di notte. Vivendo e muovendosi ancora nei liberi<br />

cerchi della natura, non notò gli angoli formidabili, spietati, esagitati, fierissimi, della<br />

grande città, che nel buio attendevano di richiudersi sulla rotondità del suo cuore e del<br />

suo cervello, per modellarlo nella medesima forma di milioni di altre vittime così<br />

riplasmate. Una carrozza lo tolse al moto vorticoso, come spesso lo stesso Sam aveva<br />

tolto una noce da un mucchio di foglie autunnali sconvolte dal vento, e lo trasportò a<br />

un hotel commisurato ai suoi stivali e al suo zaino.<br />

La mattina successiva l’ultimo dei Folwell faceva la sua sortita nella città che dava<br />

ricetto all’ultimo degli Harkness. Una sottile cinghia di cuoio assicurò la Colt sotto la<br />

giacca; alle spalle, tra le clavicole, collocò il coltello da caccia, il cui manico arrivava<br />

a un pollice dal colletto. Questo solo sapeva: che Cal Harkness guidava un corriere da<br />

qualche parte di quella città, e che lui, Sam Folwell, era venuto per ucciderlo. E come<br />

toccò il marciapiede, gli occhi gli si iniettarono di sangue, e nel cuore entrò la furia<br />

della vendetta.<br />

Lo attrasse il frastuono delle strade centrali. S’era quasi aspettato di veder Cal<br />

venirgli incontro, in maniche di camicia, con in mano una frusta e una brocca, così<br />

come avrebbe visto a Frankfort o a Laurel City. Ma passò un’ora, e Cal non si fece<br />

vedere. Forse aspettava in agguato, per sparargli dalla soglia di una casa o da una<br />

finestra. Sam teneva d’occhio porte e finestre.<br />

Verso mezzogiorno la città, stanca di divertirsi con codesto suo topo, lo stritolò tra<br />

le sue linee rette. Sam Folwell stava fermo all’incrocio di due grandi, rettilinee arterie<br />

cittadine. Guardò in quattro direzioni, e vide il mondo espulso dalla sua orbita, e<br />

ridotto dallo spirito a combaciare esattamente con un piano fatto di rette e angoli. La<br />

92


vita si muoveva lungo binari fissi, esattamente incanalata, sistemata senza capricci e<br />

sconfinamenti. La radice della vita è cubica; l’esistenza si misura in metri quadrati. La<br />

gente gli fluiva accanto in file parallele; il frastuono atroce lo stordiva.<br />

Sam si appoggiò all’angolo retto di una costruzione di pietra. Migliaia di volti gli<br />

passavano accanto, e nessuno si volgeva a guardarlo. Lo afferrò un subitaneo e<br />

sciocco terrore: che fosse morto, ormai fantasma, e quelli non potessero vederlo. E<br />

allora la città lo ferì con la sua solitudine.<br />

Un signore si staccò da quella fiumana e gli si fermò accanto; attendeva la sua<br />

macchina. Sam gli si accostò furtivamente, e a gran voce, per dominare quel fragore,<br />

gli gridò nell’orecchio:<br />

— I maiali dei Rankins quest’anno pesano come e più dei nostri, ma dalle loro parti<br />

ci fanno delle ghiande grosse così, mentre da noi...<br />

Con gesto discreto, il signore grasso si allontanò, e comperò castagne arrosto per<br />

celare la sua agitazione.<br />

Sam avvertì il bisogno di una goccia di whisky.<br />

Dall’altra parte della strada ecco uomini che entrano ed escono da un locale, e fanno<br />

ondeggiare le mezze porte; si scorge a tratti un lucido banco, con tutte le sue bellune.<br />

Il vendicatore attraversò, cercò di entrare. Di nuovo, l’Arte aveva eliminato il<br />

consueto cerchio. La mano di Sam non incontrò la maniglia, scivolò invano su di una<br />

rettangolare piastra di metallo, sulla quercia levigata, senza trovare neppure quanto<br />

una capocchia di spillo su cui fermare le dita.<br />

Avvilito, rosso in volto, affranto, si allontanò dalla avara porta e sedette su un<br />

gradino. Uno sfollagente di duro legno gli sfiorò le costole.<br />

— Muoviti di qui, — disse la guardia, — qui ci sei già stato abbastanza.<br />

All’angolo successivo uno stridulo fischio risuonò all’orecchio di Sam. Si volse e<br />

vide un insolente di scura fronte che lo guatava corrucciato da dietro alle noccioline<br />

ammucchiate su una macchina fumante. Tentò di attraversare la strada. Una macchina<br />

immensa, che correva senza muli, con voce di toro e odore di lampada fumicosa, gli<br />

sibilò accanto raschiandogli un ginocchio. Un vetturino lo colpì con un mozzo, e gli<br />

spiegò che le parole cortesi servivano per altre occasioni. Un autista scampanò<br />

irosamente e, per una volta nella sua vita, diede manforte al vetturino. Una grossa<br />

signora con corpetto di seta cangiante gli infilò un gomito nella schiena e un pensoso<br />

strillone lo prese di mira con bucce di banana, mormorando:<br />

— Davvero non vorrei farlo, ma se qualcuno mi vede, lasci perdere!<br />

Cal Harkness, finita la sua giornata lavorativa, messo al riparo il carro, svoltò<br />

l’angolo retto dell’edificio che, come le gote dell’architetto, era modellato sul rasoio<br />

di sicurezza. Tra tutta quella gente frettolosa, il suo occhio colse, a pochi metri, il<br />

sopravvissuto sanguinario, implacabile nemico della sua stirpe.<br />

Si fermò, esitò un attimo, giacché era disarmato e sopraffatto dalla sorpresa. Ma<br />

subito l’aveva colto l’acuto occhio da montanaro di Sam Folwell. Vi fu un subitaneo<br />

sussulto, un ondeggiamento nel fiume dei passanti, e si udì la voce di Sam:<br />

— Ehilà, Cal! Sono proprio felice di vederti!<br />

E all’incrocio di Broadway, della Quinta, e della Ventitreesima Strada, i nemici<br />

implacabili si strinsero la mano.<br />

93


La Biblioteca Universale<br />

di Kurd Laßwitz<br />

— Vieni a sederti qui, Max, — disse il professor Wallhausen, — non c’è davvero<br />

nulla tra le mie carte per la tua rivista. Cosa posso offrirti, vino oppure birra?<br />

Max Burkel raggiunse il tavolo e sollevò le sopracciglia con circospezione. Poi<br />

lasciò cadere la figura forte e corpulenta su una poltrona e disse: — In realtà sono<br />

diventato astemio. Ma in viaggio... vedo che avete una squisita Kulmbacher. Ah, la<br />

ringrazio gentile signorina. No, non così pieno! Dunque, alla tua, vecchio compagno,<br />

cara amica! Prosit, signorina Biggen! È davvero bello essere di nuovo qui. Però, di’<br />

quel che vuoi, ma qualcosa mi dovrai pur scrivere.<br />

— In questo momento non ho idee. D’altra parte è già tanto il superfluo che si<br />

scrive e per giunta si pubblica...<br />

— Non c’è davvero bisogno di dirlo a un redattore vessato come il qui presente. Ma<br />

la vera domanda è: cosa si intende esattamente per superfluo? Autori e pubblico sono<br />

spesso in disaccordo al riguardo. E quelli come noi incappano sempre in ciò che la<br />

critica ritiene superfluo. Ad ogni modo sono felice — e si sfregò divertito le mani —<br />

che il mio assistente dovrà sudare per conto mio ancora tre settimane.<br />

— Mi meraviglia, — cominciò la moglie, — che tu riesca ancora a trovare cose<br />

nuove da pubblicare. Mi verrebbe da pensare che ormai si sia toccato quasi tutto<br />

quello che può essere espresso con le lettere.<br />

— Si direbbe così, signora, ma la mente umana è inesauribile.<br />

— Nel ripetersi, vuoi dire.<br />

— Grazie a Dio, sì! — rise Burkel. — Ma anche in fatto di idee nuove.<br />

— Ciononostante, — osservò il professore, — si potrebbe rappresentare in lettere<br />

tutto ciò che l’umanità potrà mai recepire, siano essi fatti storici, la comprensione<br />

scientifica, la forza poetica o perfino gli insegnamenti della saggezza. Sempre che,<br />

ovviamente, siano traducibili in parole. Dopotutto, i nostri libri trasmettono il sapere<br />

dell’umanità e conservano il tesoro accumulato grazie all’azione del pensiero. Ma le<br />

possibili combinazioni di un certo numero di lettere sono limitate. Quindi tutta la<br />

letteratura possibile deve essere stampabile in un numero finito di volumi.<br />

— Mio caro amico, parli ancora una volta più da matematico che da filosofo. Come<br />

può l’Inesauribile essere finito?<br />

— Se mi dài un istante, ti calcolo quanti volumi ci vorrebbero per comporre una<br />

Biblioteca Universale.<br />

— Il discorso diventa difficile, zio? — chiese Susanne Briggen.<br />

— Ma Suse, per una ragazza appena uscita dal collegio, non c’è niente di troppo<br />

complicato.<br />

— Grazie mille, zio. Ma te lo chiedo solo per sapere se devo andare a prendere il<br />

mio ricamo, così posso ragionarci meglio, sai.<br />

94


— Aha, furbetta, vuoi solamente sapere se ti annoierò con un lungo discorso. Non<br />

ci penso affatto. Potresti, però, darmi il foglio di carta e la matita che si trovano sulla<br />

scrivania?<br />

— Porta anche la tavola logaritmica, — aggiunse Burkel seccamente.<br />

— Per carità! — esclamò la moglie.<br />

— Non è necessaria, per niente necessaria, — dichiarò il professore. — E il tuo<br />

ricamo, non hai bisogno di ostentarlo, Suse.<br />

— Ecco un’occupazione più semplice, — disse la padrona di casa, e le porse una<br />

terrina contenente mele e noci.<br />

— Grazie, — rispose Susanne afferrando lo schiaccianoci. — Ora comincio con<br />

quelle più resistenti.<br />

— Ma adesso la prima parola va al nostro amico. Ti domando: volendo<br />

economizzare, se rinunciassimo a ogni abbellimento e scrivessimo per un lettore<br />

ipotetico che accetti di fronteggiare alcuni inconvenienti tipografici e sia interessato<br />

soltanto al significato...<br />

— Non esiste un lettore simile.<br />

— Ho detto “ipotetico”. Quanti caratteri distinti occorrerebbero per stampare una<br />

bella letteratura generica?<br />

— Be’, — disse Burkel, — potremmo limitarci alle maiuscole e minuscole<br />

dell’alfabeto latino, alla punteggiatura standard, alle cifre e non si deve dimenticare lo<br />

“spazio tipografico”.<br />

Susanne sollevò lo sguardo dalle noci con aria interrogativa.<br />

— È il carattere per indicare lo spazio, per mezzo del quale il compositore distanzia<br />

le parole l’una dall’altra e riempie le posizioni vuote. Non sarebbero tanti. Ma per le<br />

opere scientifiche, quella è un’altra storia. Voi <strong>matematici</strong>, specialmente, avete una<br />

quantità enorme di simboli.<br />

— È a questo che servono gli indici, numerini che vengono posti in alto o in basso<br />

alle lettere dell’alfabeto, come a 0 , a1, a 2 e così via. Per questo ci bastano una seconda e<br />

una terza serie di cifre da 0 a 9. Esse potrebbero essere usate per riprodurre<br />

convenzionalmente i suoni di determinate lingue straniere.<br />

— D’accordo. Voglio credere il tuo lettore ideale capace anche di ciò. Con simili<br />

condizioni, probabilmente, potremmo esprimere qualsiasi cosa in, diciamo, un<br />

centinaio di caratteri distinti.<br />

— Bene, bene. Ora, che dimensioni vogliamo che abbia un singolo volume?<br />

— Direi che un tema possa essere esaurito agilmente in cinquecento pagine di libro.<br />

Supponiamo che ci siano quaranta righe per pagina e cinquanta caratteri per riga<br />

(dove, naturalmente, sono inclusi gli spazi e i segni di punteggiatura): avremmo<br />

quaranta per cinquanta per cinquecento caratteri in ogni volume, il che fa... calcolalo<br />

tu.<br />

— Un milione, — disse il professore. — Quindi, se prendiamo i nostri cento<br />

caratteri e li ripetiamo in qualsiasi ordine abbastanza volte da riempire un volume che<br />

può contenerne un milione, otterremo un esemplare di letterature di qualche genere.<br />

Burkel diede una pacca sulla spalla dell’amico.<br />

— Sai cosa? Sottoscrivo la Biblioteca Universale. In questo modo avrei tutti i<br />

volumi futuri della rivista pronti e finiti per la stampa. Non dovrei più interessarmi di<br />

95


alcun articolo. Una cosa fantastica per l’editore: l’eliminazione dell’autore dal circuito<br />

letterario! La sostituzione dello scrittore con una pressa automatica! Un trionfo della<br />

tecnologia!<br />

— Come? — disse la signora Wallhausen. — Tutto in una biblioteca? Le opere<br />

complete di Goethe? La Bibbia? Gli scritti di tutti i filosofi mai vissuti?<br />

— Sì e con tutte le varianti di stesura su cui nessuno ha ancora ragionato. Ci<br />

troveresti anche gli scritti perduti di Tacito e Platone e le relative traduzioni. Di più, le<br />

opere complessive e future di entrambi noi, tutti i discorsi dimenticati o non ancora<br />

pronunciati di tutti i parlamenti, la versione ufficiale della Dichiarazione di Pace<br />

Universale, la storia delle guerre che ne sono seguite.<br />

— E l’orario nazionale dei treni, zio! — disse Susanne.<br />

— Non è il tuo libro preferito?<br />

— Certo, e tutti i tuoi temi di tedesco per la signorina Grazelau.<br />

— L’avessi avuto in collegio un libro così! Eppure penso si tratti di un volume...<br />

— Mi permetta, signorina Briggen, — intervenne Burkel, — Non dimentichi gli<br />

spazi. Anche un singolo verso potrebbe ottenere un tomo a se stante; il resto sarebbe<br />

vuoto. E potremmo avere anche le opere più lunghe, perché se non trovassero posto in<br />

un unico volume, potrebbero continuare in un altro.<br />

— Trovare qualcosa sarebbe una faticaccia! — disse la moglie.<br />

— E qui si presentano altre difficoltà — cominciò il professore compiaciuto,<br />

appoggiandosi comodamente alla poltrona e seguendo con lo sguardo il fumo del<br />

proprio sigaro. — Si potrebbe pensare che la ricerca sia semplificata dal fatto che la<br />

biblioteca dovrebbe contenere il proprio catalogo e indice.<br />

— Bene, allora.<br />

— Già, ma come lo troveresti? E una volta trovato un volume, non ti sarebbe<br />

d’aiuto, poiché oltre a quelli corretti, conterebbe anche tutti i titoli e le collocazioni<br />

sbagliate.<br />

— Accidenti, anche questo è vero!<br />

— Sì, ci sono alcune difficoltà. Prendiamo il primo volume della nostra biblioteca<br />

fra le mani, per esempio. La prima pagina è vuota, così la seconda, come lo sono tutte<br />

le cinquecento pagine che lo compongono.<br />

— Si tratta, sicuramente, del volume dove il carattere dello spazio è ripetuto un<br />

milione di volte.<br />

— Almeno non possono esserci contenute delle assurdità, — osservò la signora<br />

Wallhausen.<br />

— Magra consolazione. Ma passiamo al secondo. Anche questo è bianco, tutto<br />

bianco, fino all’ultima pagina, proprio al fondo, quando alla milionesima posizione<br />

troviamo una timida «a». Stessa cosa per il terzo volume, tranne che la «a» è<br />

anticipata di un posto. Quindi la «a» risale lentamente, posizione dopo posizione, per<br />

il primo milione di volumi, fino a quando non raggiunge il primo carattere alla pagina<br />

1, riga 1, del primo volume del secondo milione. Le cose continuano in questa<br />

maniera per i primi cento milioni di volumi, fino a quando ognuno dei cento caratteri<br />

si è fatto strada in solitudine dall’ultima alla prima posizione dei volumi. Un volume<br />

potrebbe contenere un milione di punti fermi, e un altro un milione di punti<br />

interrogativi.<br />

96


— Be’, — disse Burkel, — quelli dovrebbe essere facile riconoscerli e scartarli.<br />

— Può darsi, ma il peggio deve ancora venire. Succede quando trovi un volume che<br />

sembra avere senso. Diciamo che vuoi rinfrescarti la memoria su un passaggio del<br />

Faust di Goethe e riesci anche a rintracciare il volume con l’incipit giusto. Ma non<br />

appena avanzi con la lettura ti imbatti in un «bla bla bla» oppure un «aaaaaa»... oppure<br />

incontri una tavola logaritmica ma non sai se sia esatta o meno. Ricordati che la<br />

Biblioteca Universale contiene tutto quello che è corretto ma anche tutto quello che<br />

non lo è. Non puoi fidarti nemmeno dei titoli dei capitoli. Un volume potrebbe<br />

cominciare con le parole «Storia della Guerra dei Trent’Anni» e continuare: «Dopo<br />

che le nozze tra il principe Blücher e la regina di Dahomey furono celebrate alle<br />

Termopili»...<br />

— Zio, questo fa al caso mio! — esclamò Susanne divertita. — Potrei scriverli io i<br />

volumi, perché se c’è da fare confusione ho un gran talento. Sicuramente sarebbe<br />

contenuto l’inizio dell’Ifigenia, che una volta ho declamato: «Alla vostra ombra, cime<br />

vivaci, ubbidendo alla necessità, non al proprio istinto, voglio sedermi su questa panca<br />

di pietra». Se ciò venisse stampato, sarei giustificata. E ci troverei, quasi certamente,<br />

anche la lunga lettera che vi ho scritto e che, al momento di spedirla, scomparve. Mika<br />

ci aveva messo sopra i suoi libri di scuola. Oh sì! — si interruppe imbarazzata<br />

scostandosi un ciuffo ribelle dalla fronte. — La signorina Grazelau mi ha<br />

espressamente detto di evitare di fare pettegolezzi.<br />

— Sei del tutto giustificata, — la consolò lo zio. — Nella nostra biblioteca non ci<br />

sono solo tutte le lettere, ma anche i discorsi che hai tenuto o che terrai in futuro.<br />

— Preferisco che tu non la faccia, la biblioteca.<br />

— Non preoccuparti: ci sono libri firmati non solo con il tuo nome, ma anche con<br />

quello di Goethe, e di ogni altro nome del mondo. E trovi, poi, gli articoli firmati dal<br />

nostro amico, qui, contenenti tutti i possibili refusi, così tanti che una vita intera non<br />

basterebbe a farglieli scontare. Si trova un suo libro dove dopo ogni frase si dichiara<br />

che sono tutte scempiaggini, e un altro in cui dopo le stesse frasi si afferma che sono<br />

espressioni della più pura saggezza.<br />

— Basta così, — disse Burkel. — Lo sapevo non appena hai cominciato che si<br />

sarebbe trattato di una storia assurda. Non sottoscriverò la tua Biblioteca Universale,<br />

poiché è impossibile scindere il sensato dall’insensato, il vero dal falso. Se trovo<br />

milioni di volumi che dichiarano tutti di contenere la vera storia del Reich tedesco del<br />

ventesimo secolo e si contraddicono l’un l’altro, allora farò meglio a leggere le opere<br />

originali degli storici. Rinuncio.<br />

— Molto saggio! In caso contrario ti caricheresti sulle spalle un fardello<br />

impossibile. Però, non racconto frottole. Non ho mai affermato che avresti potuto far<br />

uso della Biblioteca Universale, ho solo detto che è possibile stabilire con esattezza<br />

quanti volumi sarebbero necessari per mettere su una Biblioteca Universale che<br />

contenesse ogni possibile letteratura, sia sensata che priva di senso.<br />

— Avanti, fa’ il calcolo, — disse la moglie. — Si vede benissimo che quel foglietto<br />

bianco non ti dà pace.<br />

— È molto semplice. Posso contare a mente. Tutto ciò che dobbiamo fare è<br />

comprendere con estrema chiarezza come questa biblioteca verrebbe prodotta. Per<br />

prima cosa scriviamo tutti e cento i nostri caratteri. Poi a ciascuno di essi aggiungiamo<br />

97


ogni altro carattere, in modo da avere cento gruppi di due caratteri ciascuno.<br />

Aggiungendo il terzo insieme di caratteri avremo 100 x 100 x 100 gruppi di tre<br />

caratteri ciascuno, e così via. Dato che abbiamo un milione di possibili posizioni per<br />

volume, il numero totale dei volumi è 100 elevato alla milionesima potenza. Ora,<br />

siccome 100 è il quadrato di 10, otteniamo la stessa cifra scrivendo un 10 con due<br />

milioni come esponente. Questo equivale semplicemente ad un 1 seguito da due<br />

milioni di zeri. Eccolo qua: 10 2.000.000 .<br />

Il professore considerò ciò che stava sulla carta.<br />

— Già, la fa semplice lei, — esclamò la moglie. — Perché invece non scrive il<br />

numero in forma estesa?<br />

— Non io. Mi ci vorrebbero almeno due settimane ininterrotte. Se quella cifra<br />

venisse stampata sarebbe lunga all’incirca quattro chilometri.<br />

— Accidenti! Come si chiama questo numero? — volle sapere Susanne.<br />

— Non ha nome. Non c’è nemmeno modo di sperare di afferrarlo: è talmente<br />

colossale, nonostante sia un numero finito...<br />

— E se lo esprimessimo in trilioni? — domandò Burkel.<br />

— Un trilione matematico è un numero piuttosto grande, un 1 seguito da 18 zeri.<br />

Ma se dovessi esprimere il numero dei nostri volumi in trilioni, verrebbe una cifra con<br />

1.999.982 zeri, invece che con 2.000.000. Non un grande aiuto. Una cifra è tanto<br />

inafferrabile quanto l’altra. Ma aspetta un secondo... — Il professore scribacchiò<br />

alcuni numeri sul foglio di carta.<br />

— Sapevo che saremmo giunti a questo. Ora si faranno i conti, — disse la signora<br />

Wallhausen.<br />

— Ecco fatto, — annunciò il marito. — Sono partito dal presupposto che ogni<br />

volume sia spesso due centimetri e che l’intera biblioteca sia disposta su una singola<br />

fila. Quanto pensate che risulterebbe lunga, questa fila?<br />

Susanne intervenne di getto: — Io lo so. Posso rispondere?<br />

— Avanti, Suse!<br />

— Il doppio in centimetri rispetto al numero dei volumi della Biblioteca.<br />

— Brava, brava, — esclamarono in coro. — Assolutamente corretto.<br />

— Sì, — disse il professore. — Ma ora osserviamo la cosa più da vicino. Voi sapete<br />

che la velocità della luce è di 300.000 chilometri al secondo, quindi in un anno<br />

all’incirca 10.000 miliardi di chilometri. Questo equivale a 1 trilione di centimetri. Se<br />

il nostro bibliotecario si potesse muovere alla velocità della luce, gli ci vorrebbero lo<br />

stesso due anni per superare un trilione di volumi. Andare da un capo all’altro della<br />

biblioteca alla velocità della luce richiederebbe il doppio in anni del numero di trilioni<br />

di volumi che sono nella biblioteca. È il numero che abbiamo visto prima, e penso che<br />

niente mostri con tanta chiarezza come sia impossibile afferrare il significato di questo<br />

10 2.000.000 , anche se, come ho ripetuto più volte, si tratta di un numero finito.<br />

Wallhausen fece per accantonare il foglio di carta, ma Burkel lo interruppe: — Se le<br />

signore mi concedono ancora un attimo, avrei un’ulteriore domanda da porre. Ho il<br />

sospetto che tu abbia immaginato una biblioteca per cui non c’è abbastanza spazio nel<br />

mondo intero.<br />

— Lo vediamo in un istante, — osservò il professore, e riprese a contare. Cominciò:<br />

— Partiamo dal presupposto che la tua biblioteca sia impacchettata in scatole da mille<br />

98


volumi, e che ciascuna scatola abbia una capacità di un metro cubo preciso. Tutto lo<br />

spazio, fino alle nebulose conosciute più lontane, non potrebbe contenere la Biblioteca<br />

Universale. In effetti, avresti bisogno di così tante volte quel volume di spazio che il<br />

numero di universi che riempiremmo avrebbe solo una sessantina di zeri in meno<br />

rispetto al numero dei volumi della biblioteca. Per quanto ci sforziamo di<br />

immaginarlo, non riusciremo mai ad avvicinarci a questo numero gigantesco.<br />

— Vedi, — disse Burkel, — avevo ragione. Si tratta di un numero infinito.<br />

— No. Se lo sottrai da se stesso ottieni 0. È un numero finito e concettualmente ben<br />

definito. La cosa sorprendente è solo una: noi possiamo scrivere con poche cifre il<br />

numero di volumi che conterrebbero ogni possibile letteratura, qualcosa che a prima<br />

vista sembra infinito. Ma se poi tentiamo di visualizzarlo, se per esempio cerchiamo di<br />

individuare uno specifico tomo della nostra Biblioteca, ci rendiamo conto di non<br />

riuscire ad afferrare un pensiero, per il resto molto chiaro e logico, sviluppato da noi<br />

stessi.<br />

Burkel annuì serio e dichiarò: — L’intelletto è infinitamente più grande della<br />

comprensione.<br />

— Cosa intende con queste parole enigmatiche? — chiese la moglie.<br />

— Intendo solo dire che la nostra capacità di pensare correttamente è infinitamente<br />

più grande di quanto riusciremo a riconoscere nell’esperienza. La logica è<br />

infinitamente più potente delle percezioni sensoriali.<br />

— E questa è anche la sua grandezza, — osservò Wallhausen. — I sensi mutano<br />

con il tempo, la logica è universale, indipendentemente dai tempi. E poiché questa<br />

logica non è nient’altro che il pensare dell’umanità stessa, così con questo bene senza<br />

tempo siamo partecipi delle immutabili leggi del Divino e della destinazione della<br />

potenza creatrice. Su ciò si basa il principio fondamentale della matematica.<br />

— Certo, — disse Burkel, — le leggi ci infondono fiducia nella verità. Ma<br />

possiamo utilizzarla solo se colmiamo la sua forma con l’esperienza, cioè quando<br />

riusciamo a trovare il volume della biblioteca di cui abbiamo bisogno.<br />

Wallhausen acconsentì e sua moglie accennò a voce bassa:<br />

Ché con gli dèi<br />

nessuno<br />

che sia uomo soltanto<br />

deve provarsi.<br />

S’egli s’alza e col capo,<br />

tocca le stelle,<br />

in nessun luogo allora<br />

poggian le incerte piante,<br />

ed egli è preda<br />

di nuvole e venti 79 .<br />

— Il grande Maestro ha colpito nel segno, — concluse il professore. — Tuttavia<br />

senza la legge della logica non ci sarebbe nulla di sicuro, che si sollevi verso le stelle e<br />

oltre le rocce. Solo, non dobbiamo lasciare il terreno sicuro dell’esperienza. Non<br />

79 J.W. Goethe, Cento poesie, Einaudi, Torino 1999. (N.d.T.)<br />

99


dobbiamo cercare nella Biblioteca Universale, il volume di cui abbiamo bisogno,<br />

poiché esso lo creiamo attraverso il nostro lavoro onesto, durevole e serio.<br />

— Il caso gioca, la ragione crea, — affermò Burkel, — ed è per questo motivo che<br />

domani mi metterai per iscritto quello con cui ci hai divertito oggi; in questo modo<br />

avrò un articolo da portar via per la mia rivista.<br />

— Posso farti questo piacere, — rise Wallhausen. — Ma sappilo: i tuoi lettori<br />

concluderanno che si tratta di un estratto da uno dei volumi superflui della Biblioteca<br />

Universale. Tu cosa vuoi, Suse?<br />

— Voglio creare qualcosa di ragionevole, — rispose con gravità. — Voglio<br />

colmare la forma con la sostanza.<br />

E riempì nuovamente i bicchieri.<br />

100


Il conte di Montecristo<br />

di Italo Calvino<br />

1<br />

Dalla mia cella, poco posso dire di com’è fatto questo castello d’If in cui mi trovo<br />

da tanti anni imprigionato. La finestrella a grata è in fondo a un cunicolo che fora lo<br />

spessore del muro: non inquadra nessuna vista; dalla luminosità più o meno intensa<br />

del cielo riconosco pressappoco le ore e le stagioni; ma non so se sotto s’apra il mare o<br />

gli spalti o uno dei cortili interni della fortezza. Il cunicolo si restringe a forma di<br />

tramoggia; per affacciarmi dovrei avanzare strisciando fin là in fondo; ho provato, è<br />

impossibile, anche a un uomo ridotto a una larva, come me. Lo sbocco forse è più<br />

lontano di quel che appare: la stima delle distanze è confusa dalla prospettiva a imbuto<br />

e dal contrasto della luce.<br />

Le mura sono talmente spesse che potrebbero contenere altre celle e scale e corpi di<br />

guardia e santabarbare; oppure la fortezza essere tutta muro, un solido pieno e<br />

compatto, con un uomo vivo seppellito nel mezzo. Le immagini che uno si fa stando<br />

rinchiuso si susseguono e non s’escludono a vicenda: la cella, la feritoia, i corridoi<br />

attraverso i quali il carceriere viene due volte al giorno con la zuppa e il pane<br />

potrebbero non essere altro che sottili pori in una roccia di consistenza spugnosa.<br />

Il mare lo si sente battere, specie le notti di tempesta: alle volte pare quasi che le<br />

onde si rompano qui contro la parete alla quale accosto l’orecchio; alle volte pare<br />

scavino dal basso, sotto gli scogli delle fondamenta, e la mia cella sia in cima alla<br />

torre più alta, e il rombo salga per la prigione, anch’esso prigioniero, come nella<br />

tromba di una conchiglia.<br />

Tendo l’orecchio: i suoni descrivono attorno a me forme e spazi variabili e<br />

sfrangiati. Dallo scalpiccio dei carcerieri cerco di stabilire il reticolo dei corridoi, le<br />

svolte, gli slarghi, i rettilinei interrotti dallo strisciare del fondo della marmitta alla<br />

soglia d’ogni cella e dal cigolio dei chiavistelli: arrivo solamente a fissare una<br />

successione di punti nel tempo, senza rispondenza nello spazio. Di notte i suoni<br />

arrivano più distinti, ma incerti nel segnare luoghi e distanze: da qualche parte rode un<br />

topo, geme un malato, la sirena d’un bastimento annuncia il suo ingresso nella rada di<br />

Marsiglia, e il badile dell’Abate Faria continua a scavare la sua via tra queste pietre.<br />

Non so quante volte l’Abate Faria abbia tentato l’evasione: ogni volta ha lavorato<br />

per mesi facendo leva sotto le lastre di pietra sbriciolando le connessure di cemento,<br />

perforando la roccia con rudimentali punteruoli; ma nel momento in cui l’ultimo colpo<br />

di piccone dovrebbe aprirgli il varco sulla scogliera, s’accorge d’essere sbucato in una<br />

cella ancora più interna di quella da cui era partito. Basta un piccolo errore nei calcoli,<br />

un lieve scarto nell’inclinazione della galleria ed egli s’inoltra nelle viscere della<br />

101


fortezza senza più modo di ritrovare la rotta. A ogni impresa fallita, ricomincia a<br />

correggere i disegni e le formule di cui ha istoriato le pareti della sua cella; torna a<br />

mettere a punto il suo arsenale di strumenti di fortuna; e riprende a raspare.<br />

2<br />

Al modo d’evadere ho pensato e penso molto anch’io; anzi, ho fatto tante<br />

supposizioni sulla topografia della fortezza, sulla via più breve e più sicura per<br />

raggiungere il bastione esterno e tuffarmi in mare, che non so più distinguere tra le<br />

mie congetture e i dati che si fondano sull’esperienza. Lavorando di ipotesi riesco alle<br />

volte a costruirmi un’immagine della fortezza talmente persuasiva e minuziosa da<br />

potermici muovere, a tutto mio agio col pensiero; mentre gli elementi che ricavo da<br />

ciò che vedo e ciò che sento sono disordinati, lacunosi e sempre più contraddittori.<br />

Nei primi tempi della mia prigionia, quando ancora i disperati atti di ribellione non<br />

m’avevano condotto a marcire segregato in questa cella, le corvé della vita carceraria<br />

m’hanno portato a salire e scendere scalinate e bastioni, ad attraversare androni e<br />

postierle del castello d’If; ma di tutte le immagini conservate nella memoria, che<br />

adesso continuo a scomporre e ricomporre nelle mie congetture, nessuna combacia<br />

con l’altra, nessuna m’aiuta a spiegare quale forma ha la fortezza e in che punto io mi<br />

trovo. Troppi pensieri m’arrovellavano allora – di come io Edmond Dantès, povero<br />

ma onesto marinaio, avessi potuto incappare nei rigori della giustizia e perdere d’un<br />

tratto la libertà – perché la mia attenzione potesse esercitarsi sulla disposizione dei<br />

luoghi.<br />

Il golfo di Marsiglia e i suoi isolotti mi sono stati familiari fin dalla fanciullezza; e a<br />

tutti gli imbarchi della mia non lunga vita di marinaio le partenze e gli arrivi hanno<br />

avuto questo sfondo; ma lo sguardo dei naviganti ogni volta che incontra la scura<br />

rocca d’If se n’allontana in uno scarto di paura. Così, quando mi portarono qui<br />

incatenato in una barca di gendarmi, e all’orizzonte si profilò questo scoglio e le sue<br />

mura, compresi la mia sorte e chinai il capo. Non vidi – io non ricordo – a quale molo<br />

la barca attraccò, quali gradini mi fecero salire, quale porta si chiuse alle mie spalle.<br />

Ora che, passati gli anni, ho smesso d’arrovellarmi sulla catena d’infamie e di<br />

fatalità che ha provocato la mia detenzione, una cosa ho compreso: che l’unico modo<br />

di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione.<br />

Se non sento il desiderio d’imitare Faria, è perché mi basta sapere che qualcuno sta<br />

cercando una via d’uscita per convincermi che una tale via esiste; o almeno, che ci si<br />

può porre il problema di cercarla. Così, il rumore di Faria che scava è diventato un<br />

complemento necessario alla concentrazione dei miei pensieri. Sento che Faria non è<br />

solo uno che tenta la propria fuga ma che è parte del mio progetto; e non perché io<br />

speri in una via di salvezza aperta da lui – ormai ha sbagliato tante volte che ho perso<br />

ogni fiducia nel suo intuito – ma perché le sole informazioni di cui dispongo sul luogo<br />

dove mi trovo mi sono date dalla successione dei suoi errori.<br />

102


3<br />

Le mura e i palchi di volta sono traforati in tutte le direzioni dal piccone dell’Abate,<br />

ma i suoi itinerari continuano ad avvolgersi su se stessi come in un gomitolo, e la mia<br />

cella continua ad essere attraversata da lui sempre seguendo una linea diversa. Il senso<br />

dell’orientamento è perso da tempo: Faria non riconosce più i punti cardinali, anzi<br />

neppure lo zenit e il nadir. Alle volte sento grattare il soffitto; cade una pioggia di<br />

calcinacci; s’apre una breccia; ne spunta la testa di Faria capovolta. Capovolta per me,<br />

non per lui; striscia fuori dalla sua galleria, cammina a testa in giù senza che nulla si<br />

scomponga nella sua persona: né i bianchi capelli, né la barba verde di muffa, né i<br />

brandelli di tela di sacco che ricoprono i suoi lombi macilenti. Percorre come una<br />

mosca il soffitto e le pareti; si ferma, conficca il piccone in un punto, s’apre un<br />

pertugio; scompare.<br />

Alle volte è appena sparito attraverso una parete che torna a spuntare dalla parete di<br />

fronte: ancora non ha ritirato di qua il calcagno che già s’affaccia di là la sua barba.<br />

Ricompare più stanco, scheletrico, invecchiato, come se fossero passati anni<br />

dall’ultima volta che l’ho visto.<br />

Alle volte invece s’è appena infilato nella galleria, e lo sento fare un verso aspirato<br />

come chi si prepara a un fragoroso starnuto: nei meandri della fortezza c’è freddo e<br />

umido; ma lo starnuto non arriva. Io aspetto; aspetto per una settimana, per un mese,<br />

per un anno; Faria non torna più; mi convinco che è morto. Tutt’a un tratto la parete di<br />

fronte trema come per un terremoto; dalla frana s’affaccia Faria terminando il suo<br />

starnuto.<br />

Tra noi scambiamo sempre meno parole; o continuiamo conversazioni che non<br />

ricordo d’aver mai cominciato. Ho capito che a Faria riesce difficile distinguere una<br />

cella dall’altra tra le tante che attraversa nei suoi percorsi sbagliati. Ogni cella<br />

contiene un pagliericcio, una brocca, un bugliolo, un uomo in piedi che guarda il cielo<br />

attraverso una stretta feritoia. Quando Faria sbuca da sottoterra, il prigioniero si volta:<br />

ha sempre lo stesso viso, la stessa voce, gli stessi pensieri. Il suo nome è lo stesso:<br />

Edmond Dantès. La fortezza non ha punti privilegiati: ripete nello spazio e nel tempo<br />

sempre la stessa combinazione di figure.<br />

4<br />

Ogni mia ipotesi di fuga, cerco d’immaginarla con Faria come protagonista. Non<br />

che io tenda a identificarmi con lui: Faria è un personaggio necessario perché io possa<br />

rappresentare alla mia mente l’evasione in una luce obiettiva, come non riuscirei a fare<br />

vivendola: dico, sognandola in prima persona. Ormai non so più se quello che sento<br />

scavare come una talpa è il vero Faria che apre brecce nelle mura della vera fortezza<br />

d’If o è l’ipotesi di un Faria alle prese d’una fortezza ipotetica. Il conto comunque<br />

torna lo stesso: è la fortezza quella che vince. È come se, nelle partite tra Faria e la<br />

fortezza, io spingessi tanto oltre la mia imparzialità da tenere per la fortezza contro di<br />

103


lui... no, adesso esagero: la partita non si svolge soltanto nella mia mente, ma tra due<br />

contendenti reali, indipendentemente da me; il mio sforzo è inteso a vederla con<br />

distacco, in una rappresentazione senza angoscia.<br />

Se riuscirò ad osservare fortezza e Abate da un punto di vista perfettamente<br />

equidistante, riuscirò a individuare non solo gli errori particolari che Faria compie<br />

volta per volta, ma anche l’errore di metodo in cui continua a incorrere e che io grazie<br />

alla mia corretta impostazione saprò evitare.<br />

Faria procede in questo modo: riscontra una difficoltà, studia una soluzione,<br />

esperimenta la soluzione, urta contro una nuova difficoltà, progetta una nuova<br />

soluzione, e così via. Per lui, una volta eliminati tutti i possibili errori e imprevidenze,<br />

l’evasione non può non riuscire: tutto sta nel progettare ed eseguire l’evasione<br />

perfetta.<br />

Io parto dal presupposto contrario: esiste una fortezza perfetta, dalla quale non si<br />

può evadere; solo se nella progettazione o costruzione della fortezza è stato commesso<br />

un errore o una dimenticanza l’evasione è possibile. Mentre Faria continua a smontare<br />

la fortezza sondando i punti deboli, io continuo a rimontarla congetturando barriere<br />

sempre più insormontabili.<br />

Le immagini che della fortezza ci facciamo Faria e io diventano sempre più diverse:<br />

Faria partito da una figura semplice la va complicando all’estremo per comprendere in<br />

essa ognuno dei singoli imprevisti che incontra nel suo cammino; io partendo dal<br />

disordine di questi dati, vedo in ogni ostacolo isolato l’indizio d’un sistema d’ostacoli,<br />

sviluppo ogni segmento in una figura regolare, saldo queste figure come facce d’un<br />

solido, poliedro o iperpoliedro, iscrivo questi poliedri in sfere o in ipersfere, e così più<br />

chiudo la forma della fortezza più la semplifico, definendola in un rapporto numerico<br />

o in una formula algebrica.<br />

Ma per pensare una fortezza così ho bisogno che l’Abate Faria non smetta di<br />

battersi contro frane di terriccio, chiavarde d’acciaio, scoli di fogna, garitte di<br />

sentinelle, salti nel vuoto, rientranze dei muri maestri, perché l’unico modo di<br />

rinforzare la fortezza pensata è mettere continuamente alla prova quella vera.<br />

5<br />

Dunque: ogni cella sembra separata dall’esterno solo dallo spessore d’una muraglia,<br />

ma Faria scavando scopre che in mezzo c’è sempre un’altra cella, e tra questa e<br />

l’esterno un’altra ancora. L’immagine che ne ricavo è questa: una fortezza che cresce<br />

intorno a noi, e più tempo vi restiamo rinchiusi più ci allontana dal fuori. L’Abate<br />

scava, scava, ma i muri aumentano di spessore, si moltiplicano le bertesche e i<br />

barbacani. Forse se riuscirà ad avanzare più svelto di quanto la fortezza non s’espanda,<br />

Faria a un certo punto si troverà fuori senz’accorgersene. Bisognerebbe invertire il<br />

rapporto tra le velocità in modo che la fortezza, contraendosi, espella l’Abate come<br />

una palla di cannone.<br />

104


Ma se la fortezza cresce con la velocità del tempo, per fuggire bisogna andare<br />

ancora più svelti, risalire il tempo. Il momento in cui mi ritroverei fuori sarebbe lo<br />

stesso momento in cui sono entrato qui: m’affaccio finalmente sul mare; e cosa vedo?<br />

una barca piena di gendarmi sta approdando a If; in mezzo c’è Edmond Dantès<br />

incatenato.<br />

Ecco che sono tornato a immaginare me stesso come protagonista dell’evasione, e<br />

subito ho messo in gioco non solo il mio avvenire ma il mio passato, i miei ricordi.<br />

Tutto quel che c’è di non chiaro nel rapporto tra un prigioniero innocente e la sua<br />

prigione continua a gettare ombra sulle immagini e sulle decisioni. Se la prigione è<br />

circondata dal mio fuori, quel fuori mi riporterebbe dentro ogni volta che uscissi a<br />

raggiungerlo: il fuori non è altro che il passato, è inutile tentare di fuggire.<br />

Devo pensare la prigione o come un luogo che è solo dentro se stesso, senza un<br />

fuori – cioè rinunciare a uscirne – o devo pensarla non come la mia prigione ma come<br />

un luogo senza relazione con me né all’interno né all’esterno, cioè studiare un<br />

percorso dal dentro al fuori che prescinda dal valore che “dentro” e “fuori” hanno<br />

acquistato nelle mie emozioni; che valga anche se al posto di “fuori” dico “dentro” e<br />

viceversa.<br />

6<br />

Se fuori c’è il passato, forse il futuro si concentra nel punto più interno dell’isola<br />

d’If, cioè la via d’uscita è una via verso il dentro. Nei graffiti di cui l’Abate Faria<br />

ricopre i muri, s’alternano due mappe dai contorni frastagliati, costellate di frecce e<br />

contrassegni: una dovrebbe essere la pianta d’If, l’altra d’un’isola dell’arcipelago<br />

toscano dov’è nascosto un tesoro: Montecristo.<br />

È appunto per cercare questo tesoro che l’Abate Faria vuole evadere. Per riuscire<br />

nel suo intento egli deve tracciare una linea che nella mappa dell’isola d’If lo porti<br />

dall’interno all’esterno e nella mappa dell’isola di Montecristo lo porti dall’esterno a<br />

quel punto più interno di tutti gli altri punti che è la grotta del tesoro. Tra un’isola da<br />

cui non si può uscire e un’isola in cui non si può entrare ci dev’essere un rapporto:<br />

perciò nei geroglifici di Faria le due mappe si sovrappongono fino a identificarsi.<br />

Mi è difficile ormai capire se Faria stia adesso scavando per tuffarsi nel mare aperto<br />

o per penetrare nella grotta piena d’oro. In un caso o nell’altro, a ben vedere, egli<br />

tende al medesimo punto d’arrivo: il luogo della molteplicità delle cose possibili. A<br />

volte io mi rappresento questa molteplicità concentrata in una risplendente spelonca<br />

sotterranea, a volte la vedo come un’esplosione che s’irradia. Il tesoro di Montecristo<br />

e la fuga da If sono due fasi d’uno stesso processo, forse successive forse periodiche<br />

come in una pulsazione.<br />

La ricerca del centro d’If-Montecristo non porta a risultati più sicuri della marcia<br />

verso la sua irraggiungibile circonferenza: in qualsiasi punto io mi trovi l’ipersfera<br />

s’allarga intorno a me in ogni direzione; il centro è dappertutto dove io sono; andare<br />

105


più profondo vuol dire scendere in me stesso. Scavi scavi e non fai che ripercorrere lo<br />

stesso cammino.<br />

7<br />

Una volta entrato in possesso del tesoro, Faria intende liberare l’Imperatore<br />

dall’Elba, dargli i mezzi per rimettersi alla testa del suo esercito... Il piano della fugaricerca<br />

nell’isola d’If-Montecristo non è dunque completo se non include anche la<br />

ricerca-fuga di Napoleone dall’isola dov’è confinato. Faria scava; penetra ancora una<br />

volta nella cella di Edmond Dantès; vede il prigioniero di schiena che guarda come al<br />

solito il cielo dalla feritoia; al rumore del piccone il prigioniero si volta: è Napoleone<br />

Bonaparte. Faria e Dantès-Napoleone scavano insieme una galleria nella fortezza. La<br />

mappa d’If-Montecristo-Elba è disegnata in modo che facendola ruotare di un certo<br />

numero di gradi si ottiene la mappa di Sant’Elena: la fuga si rovescia in un esilio<br />

senza ritorno.<br />

I confusi motivi per cui tanto Faria quanto Edmond Dantès sono stati imprigionati<br />

hanno, per vie diverse, a che vedere con le sorti della causa bonapartista.<br />

Quell’ipotetica figura geometrica che si chiama If-Montecristo coincide in alcuni suoi<br />

punti con un’altra figura che si chiama Elba-Sant’Elena. Vi sono punti del passato e<br />

del futuro in cui la storia napoleonica interviene nella nostra storia di poveri galeotti, e<br />

altri punti in cui io e Faria potremo o abbiamo potuto influire su un’eventuale rivincita<br />

dell’Impero.<br />

Queste intersezioni rendono ancor più complicato il calcolo delle previsioni; vi sono<br />

punti in cui la linea che uno di noi sta seguendo si biforca, si ramifica, s’apre a<br />

ventaglio; ogni ramo può incontrare rami che si dipartono da altre linee. Su un<br />

tracciato angoloso passa Faria scavando; e per pochi secondi non s’imbatte nei<br />

carriaggi e cannoni dell’Armata imperiale che riconquista la Francia.<br />

Procediamo nel buio; solo il torcersi su se stessi dei nostri itinerari ci avverte che<br />

qualcosa è cambiato negli itinerari altrui. Sia detto Waterloo il punto in cui il percorso<br />

dell’esercito di Wellington potrebbe incrociare il percorso di Napoleone; se le due<br />

linee s’incontrano, i segmenti al di là di quel punto sono tagliati fuori; nella mappa in<br />

cui Faria scava il suo tunnel, la proiezione dell’angolo in Waterloo lo obbliga a<br />

ritornare sui propri passi.<br />

8<br />

Le intersezioni tra le varie linee ipotetiche definiscono una serie di piani che si<br />

dispongono come le pagine di un manoscritto sulla scrivania d’un romanziere.<br />

Chiamiamo Alexandre Dumas lo scrittore che deve consegnare al più presto al suo<br />

editore un romanzo in dodici tomi intitolato Il conte di Montecristo. Il suo lavoro<br />

106


procede in questo modo: due aiutanti (Auguste Maquet e P.A. Fiorentino) sviluppano<br />

una per una le varie alternative che si dipartono da ogni singolo punto e forniscono a<br />

Dumas la trama di tutte le varianti possibili d’uno smisurato iper-romanzo; Dumas<br />

sceglie, scarta, ritaglia, incolla, interseca; se una soluzione ha la preferenza per fondati<br />

motivi ma esclude un episodio che gli farebbe comodo d’inserire, egli cerca di mettere<br />

insieme i tronconi di provenienza disparata, li congiunge con saldature<br />

approssimative, s’ingegna a stabilire un’apparente continuità tra segmenti di futuro<br />

che divergono. Il risultato finale sarà il romanzo Il conte di Montecristo da consegnare<br />

alla tipografia.<br />

I diagrammi che io e Faria tracciamo sulle pareti della prigione assomigliano a<br />

quelli che Dumas verga sulle sue cartelle per fissare l’ordine delle varianti prescelte.<br />

Un fascio di fogli può già passare alla stampa: contiene la Marsiglia della mia<br />

giovinezza; percorrendo le righe di fitta scrittura posso farmi largo sui moli del porto,<br />

risalire la Rue de la Canebière nel sole del mattino, raggiungere il villaggio dei<br />

Catalani inerpicato sulla collina, rivedere Mercedes... Un altro fascio di carte attende<br />

gli ultimi ritocchi: Dumas sta ancora mettendo a punto i capitoli della prigionia al<br />

castello d’If; Faria e io ci dibattiamo là dentro, lordi d’inchiostro, tra aggrovigliate<br />

correzioni... Sui margini della scrivania si ammucchiano le proposte di continuazione<br />

della vicenda che i due aiutanti vanno metodicamente compilando. In una d’esse,<br />

Dantès fugge dal carcere, trova il tesoro di Faria, si trasforma nel conte di Montecristo<br />

dal terreo viso impenetrabile, dedica la sua implacabile volontà e le sue sterminate<br />

ricchezze alla vendetta; e il machiavellico Villefort, l’avido Danglars, il bieco<br />

Caderousse pagano il fio delle loro nefandezze; così come per tanti anni tra queste<br />

mura avevo previsto nelle mie fantasticherie rabbiose, nelle mie smanie di rivincita.<br />

A fianco di questo, altri abbozzi di futuro sono disposti sul tavolo. Faria apre una<br />

breccia nella parete, penetra nello studio di Alexandre Dumas, getta uno sguardo<br />

imparziale e scevro di passione sulla distesa di passati e di presenti e di futuri – come<br />

non potrei fare io, io che cercherei di riconoscermi con tenerezza nel giovane Dantès<br />

appena promosso capitano, con pietà nel Dantès galeotto, con delirio di grandezza nel<br />

conte di Montecristo che fa il suo ingresso maestoso nei più alteri salotti di Parigi; io<br />

che con sgomento al posto di costoro ritroverei altrettanti estranei – prende un foglio<br />

qua un foglio là, muove come una scimmia le lunghe braccia pelose, cerca il capitolo<br />

dell’evasione, la pagina senza la quale tutte le possibili continuazioni del romanzo<br />

fuori della fortezza diventano impossibili. La fortezza concentrica If-Montecristoscrivania<br />

di Dumas contiene noi prigionieri, il tesoro, e l’iper-romanzo Montecristo<br />

con le sue varianti e combinazioni di varianti nell’ordine di miliardi di miliardi ma pur<br />

sempre in numero finito. A Faria sta a cuore una pagina tra le tante, e non dispera di<br />

trovarla; a me interessa veder crescere il cumulo dei fogli scartati, delle soluzioni di<br />

cui non c’è da tener conto, che già formano una serie di pile, un muro...<br />

Disponendo una dopo l’altra tutte le continuazioni che permettono d’allungare la<br />

storia, probabili o improbabili che siano, si ottiene la linea a zig-zag del Montecristo<br />

di Dumas; mentre collegando le circostanze che impediscono alla storia di continuare<br />

si disegna la spirale d’un romanzo in negativo, d’un Montecristo col segno meno. Una<br />

spirale può girare su se stessa verso il dentro o verso il fuori: se si avvita all’interno di<br />

se stessa, la storia si chiude senza sviluppo possibile; se si svolge in spire che si<br />

107


allargano potrebbe ad ogni giro includere un segmento del Montecristo col segno più,<br />

finendo per coincidere col romanzo che Dumas darà alle stampe, o magari per<br />

superarlo nella ricchezza delle occasioni fortunate. La differenza decisiva tra i due<br />

libri – tale da farli definire l’uno vero e l’altro falso anche se identici – starà tutta nel<br />

metodo. Per progettare un libro – o un’evasione – la prima cosa è sapere cosa<br />

escludere.<br />

9<br />

Così continuiamo a fare i conti con la fortezza, Faria sondando i punti deboli della<br />

muraglia e scontrandosi con nuove resistenze, io riflettendo sui suoi tentativi falliti per<br />

congetturare nuovi tracciati di muraglie da aggiungere alla pianta della mia fortezzacongettura.<br />

Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa<br />

fortezza pensata o sarà uguale alla vera – e in questo caso è certo che di qui non<br />

fuggiremo mai; ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui<br />

perché non potrebbe trovarsi altrove – o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora<br />

più impossibile che di qui – e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste:<br />

basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera per<br />

trovarla.<br />

108


La casa nuova<br />

di Robert Heinlein<br />

In tutto il mondo gli americani sono ritenuti dei pazzi.<br />

Ammettono solitamente che l’accusa non è infondata, ma indicano nella California<br />

il focolaio dell’infezione. I californiani sostengono che la loro cattiva fama deriva<br />

esclusivamente dalla condotta degli abitanti della Contea di Los Angeles. Gli angeleni<br />

ammettono, se si insiste, che l’accusa è giustificata, ma si affrettano a precisare:<br />

— È Hollywood. Non è colpa nostra; non siamo stati noi a volerlo; è Hollywood<br />

che ha continuato a crescere.<br />

La gente di Hollywood non se la prende; anzi se ne gloria. Se la cosa vi interessa, vi<br />

portano in macchina a Laurel Canyon «... dove abbiamo ricoverato i casi più violenti».<br />

I canyoniti – le donne dalle gambe abbronzate, gli uomini in pantaloni corti<br />

continuamente occupati a costruire e ricostruire le loro stravaganti abitazioni –<br />

considerano con una sfumatura di disprezzo le monotone creature che vivono in<br />

appartamenti, e celano in cuore la segreta certezza che loro, e loro soltanto, sanno<br />

come si debba vivere.<br />

Lookout Mountain Avenue è il nome di un canyon laterale che si dirama da Laurel<br />

Canyon. Gli altri canyoniti non amano che se ne parli; anche per loro ci sono dei<br />

limiti.<br />

Proprio in fondo a Lookout Mountain, al numero 8775, viveva Quintus Teal,<br />

architetto laureato.<br />

Anche l’architettura è differente nella California meridionale. Salsicciotti caldi sono<br />

in vendita in una costruzione eretta in forma di salsicciotto. I coni gelati provengono<br />

da un gigantesco cono gelato di stucco e grandi lettere al neon proclamano: «Bevete<br />

birra!» dai tetti di palazzi che sono senz’ombra di dubbio boccali di birra. Benzina,<br />

olio e carte stradali gratuite vengono fornite sotto le ali di aerei da trasporto di<br />

cemento, mentre l’albergo diurno autorizzato, ispezionato ogni ora per il vostro<br />

benessere, è situato nella cabina dell’aereo stesso. Tutte cose che possono stupire, o<br />

divertire, il turista, ma i residenti locali, che passeggiano a testa nuda al famoso sole<br />

californiano di mezzogiorno, le considerano naturalissime.<br />

Quintus Teal giudicava gli sforzi dei suoi colleghi architetti come pavidi, incerti e<br />

privi di autentica audacia.<br />

— Che cos’è una casa? — chiese Teal al suo amico Homer Bailey.<br />

— Be’... — ammise Bailey cautamente, — ... parlando in linea di massima, ho<br />

sempre ritenuto una casa uno strumento per tenere lontana la pioggia.<br />

— Sciocchezze! Non sei meglio degli altri.<br />

— Non ho detto che la mia definizione fosse completa...<br />

109


— Completa! Non è nemmeno nella giusta direzione. Con delle idee simili tanto<br />

varrebbe che ce ne stessimo ancora accoccolati in fondo alle caverne dei nostri più<br />

remoti antenati. Ma non te ne faccio una colpa, — continuò Teal, magnanimo, — non<br />

sei peggio dei vermiciattoli che frequentano la facoltà di architettura. Perfino i<br />

Moderni, tutto quello che hanno saputo fare è stato di abbandonare la Scuola stile<br />

Torta Nuziale in favore della Scuola stile Stazione di Servizio e Rifornimento, grattar<br />

via la panna montata per appiccicare sulle loro costruzioni un po’ di cromo, ma in<br />

fondo all’anima sono rimasti conservatori e tradizionalisti come un tribunale di<br />

contea. Neutra! Schindler! Che cos’hanno questi vagabondi? Che cos’ha Frank Lloyd<br />

Wright che io non abbia?<br />

— Incarichi e appalti, — rispose il suo amico succintamente.<br />

— Eh? Che hai detto? — Teal inciampò nel proprio flusso di parole, vacillò per un<br />

istante e si riprese. — Incarichi, appalti. Esatto. E perché? Perché io non penso una<br />

casa come a una caverna imbottita e tappezzata; concepisco la casa come una<br />

macchina d’abitazione, un processo vitale, una cosa viva, dinamica, che cambia<br />

secondo l’umore di chi vi abita, non un morto catafalco statico e ipertrofico. Ma<br />

perché dobbiamo lasciarci inceppare dalle concezioni congelate dei nostri avi?<br />

Qualunque idiota con una infarinatura di geometria descrittiva può disegnare una casa<br />

tradizionale. La geometria statica di Euclide è forse la sola matematica? Dobbiamo<br />

gettare completamente alle ortiche la teoria Picard-Vessiot? E dei sistemi modulari,<br />

che ne facciamo? Per non dir nulla di tutto ciò che ti suggerisce la stereochimica.<br />

Possibile che non ci sia posto in architettura per la trasformazione, la omomorfologia,<br />

le strutture azionali?<br />

— Che mi venga un colpo se lo so, — rispose Bailey. — Per me, è lo stesso che<br />

parlarmi della quarta dimensione.<br />

— E perché no? Perché dovremmo limitarci alla... Un momento! — S’interruppe<br />

per fissare il vuoto con aria assorta. — Homer, credo che tu abbia colpito nel segno. In<br />

fin dei conti, perché no? Pensa alla infinita ricchezza di articolazioni e rapporti<br />

esistente nelle quattro dimensioni. Che casa, che casa... — Rimase in silenzio,<br />

immobile, mentre i suoi pallidi occhi sporgenti ammiccavano meditabondi.<br />

Bailey gli scosse il braccio.<br />

— Svegliati, Teal. Di che accidente stai parlando, delle quattro dimensioni? La<br />

quarta dimensione è il tempo; non puoi piantar chiodi nel tempo.<br />

Teal rispose con un’alzata di spalle.<br />

— D’accordo, d’accordo. Il tempo è una quarta dimensione, ma io sto pensando a<br />

una quarta dimensione spaziale, come lunghezza, larghezza e spessore. Come<br />

economia di materiali e comodità di strutture non potresti trovare di meglio. Per non<br />

dir nulla del risparmio di terreno da costruzione: potresti costruire una casa di otto<br />

vani sul terreno normalmente occupato da una casa d’un solo vano. Come un<br />

tesseract...<br />

— Che cos’è un tesseract?<br />

— Non sei mai andato a scuola in vita tua? Un tesseract è un ipercubo, una figura<br />

quadrata a quattro dimensioni, così come un cubo lo è a tre e un quadrato a due. Ecco,<br />

ora ti faccio vedere. — Teal corse nella cucina del suo appartamento e tornò con una<br />

scatola di stuzzicadenti che sparse sul tavolo, spingendo da parte dei bicchieri e una<br />

110


ottiglia quasi vuota di gin olandese. — Mi occorre della plastilina. Ne avevo in casa<br />

un po’, la settimana scorsa. — Si mise a frugare in un cassetto della scrivania<br />

ingombra d’ogni sorta di cose, che occupava un angolo della sala da pranzo, e ritornò<br />

con un blocco di creta oleosa. — Ecco qua.<br />

— Che cosa vuoi fare?<br />

— Ora ti faccio vedere. — Rapidamente Teal si mise a staccare dei pezzi di creta<br />

dal blocco e li arrotolò fino a farne delle palline non più grandi di un pisello. Piantò<br />

uno stuzzicadenti in ognuna delle quattro palme e le agganciò insieme in modo da<br />

formare un quadrato. — Ecco fatto! Questo è un quadrato.<br />

— Lo vedo.<br />

— Un altro come questo, quattro altri stecchini e noi abbiamo un cubo. — Gli<br />

stecchini furono ora disposti in modo da formare una scatola quadrata, un cubo, con le<br />

pallottole di creta che tenevano insieme gli spigoli. — Ora noi facciamo un altro cubo<br />

esattamente uguale al primo, ed entrambi formeranno due lati del tesseract.<br />

Bailey si accinse ad aiutarlo nell’arrotolare le palme di creta per il secondo cubo,<br />

ma si lasciò distrarre dal tocco sensuale della docile argilla e si dette a lavorarla e a<br />

modellarla con le dita.<br />

— Guarda, — disse, alzando la mano che stringeva il frutto della sua fatica, una<br />

minuscola figuretta, — Gipsy Rose Lee.<br />

— Assomiglia di più a Gargantua; ti farebbe causa. Ora fa’ bene attenzione. Tu apri<br />

un angolo del primo cubo, agganci il secondo cubo a un angolo e poi chiudi l’angolo.<br />

Prendi poi altri otto stecchini e congiungi il fondo del primo cubo al fondo del<br />

secondo, di sghembo, e il disopra del primo al disopra del secondo, sempre allo stesso<br />

modo. — Cosa che fece rapidamente, continuando a parlare.<br />

— E questo che cosa dovrebbe essere? — domandò Bailey, sospettoso.<br />

— Questo è un tesseract, otto cubi che formano i lati di un ipercubo a quattro<br />

dimensioni.<br />

— Per me, ha soprattutto l’aria di una gabbia per conigli. E poi, lì hai soltanto due<br />

cubi. Dove sono gli altri sei?<br />

— Usa un po’ d’immaginazione, figliolo. Considera il disopra del primo cubo in<br />

rapporto al disopra del secondo: questo è il cubo numero tre. Quindi i due quadrati del<br />

fondo, poi la faccia anteriore di ogni cubo, la faccia posteriore, il lato destro, il lato<br />

sinistro, ed hai otto cubi. — Li indicò con la mano ad uno ad uno.<br />

— Sì, li vedo. Ma per me continuano a non essere dei cubi; sono dei... come si<br />

dice?... sono dei prismi. Non sono quadrati, ma sghembi.<br />

— È così che li vedi, in prospettiva. Se tu tracciassi il disegno di un cubo su un<br />

foglio di carta, i quadrati laterali sarebbero sghembi, non ti pare? È questa la<br />

prospettiva. Quando guardi una figura quadridimensionale su tre dimensioni, è<br />

naturale che appaia storta. Ma questi sono tutti cubi lo stesso.<br />

— Forse lo sono per te, tesoro, ma per me continuano a essere delle cose storte.<br />

Teal non tenne conto dell’obiezione e continuò:<br />

— Ora considera questa come l’ossatura di una casa di otto locali; abbiamo un vano<br />

a pianterreno, impianti igienici, elettrici, e garage. Abbiamo poi sei locali al primo<br />

piano, salotto, sala da pranzo, bagno, camere da letto e così via. E all’ultimo piano,<br />

completamente chiuso e con finestre ai quattro lati, c’è il tuo studio. Ecco! Che te ne<br />

111


pare?<br />

— Mi pare che la vasca da bagno penzoli giù dal soffitto del salotto. Queste camere<br />

sono aggrovigliate come una piovra.<br />

— Soltanto in prospettiva, ti dico, soltanto in prospettiva. Ecco, ora ricorrerò a un<br />

altro sistema perché tu possa vedere meglio. — Questa volta Teal fece un cubo di<br />

stecchini, quindi ne fece un secondo di mezzi stecchini e lo pose esattamente nel<br />

centro del primo attaccando gli spigoli del cubo piccolo a quello maggiore mediante<br />

brevi segmenti di stecchini. — Ora, il cubo maggiore è il tuo pianterreno, il cubo<br />

minore all’interno è il tuo studio all’ultimo piano. I sei cubi che li congiungono sono<br />

le altre camere di soggiorno. Vedi?<br />

Bailey esaminò attentamente la figura e scosse il capo:<br />

— Io continuo a vedere due cubi, soltanto il grande e il piccolo. Quelle altre sei<br />

cose mi sembrano piramidi, questa volta, invece di prismi, ma per me continuano a<br />

non essere cubi.<br />

— Lo so, lo so, tu le vedi in una prospettiva differente. Possibile che non te ne<br />

renda conto?<br />

— Forse. Ma quella camera nell’interno, là. È completamente circondata da quei<br />

cosi. Tu avevi detto che aveva finestre sui quattro lati.<br />

— Le ha, infatti, soltanto sembra che sia circondata. È questa la grande<br />

caratteristica di una casa a tesseract, esposizione completa all’esterno per ogni camera<br />

e nello stesso tempo ogni parete serve due camere e una casa di otto camere richiede<br />

soltanto una base d’una camera. È rivoluzionario.<br />

— È dire troppo poco. Tu sei completamente pazzo, Bud 80 ; non puoi costruire una<br />

casa di questo genere. La camera interna è all’interno e là rimane.<br />

Teal guardò l’amico con una specie di esasperazione soffocata.<br />

— Sono i tipi come te che costringono l’architettura a rimanere allo stato infantile.<br />

Quanti lati quadrati ha un cubo?<br />

— Sei.<br />

— Quanti di essi sono interni?<br />

— Diamine, nessuno, sono tutti esterni.<br />

— Benissimo. Ora ascolta bene: un tesseract ha otto lati cubici, tutti all’esterno.<br />

Ora guardami. Aprirò questo tesseract come tu potresti aprire una scatola cubica di<br />

cartone, fino a ridurla piatta. In tal modo sarai in grado di vedere tutt’e otto i cubi. —<br />

Lavorando rapidamente, costruì quattro cubi, ponendoli uno sull’altro in una torre<br />

vacillante. Poi appiccicò altri quattro cubi ai quattro lati liberi del secondo cubo della<br />

pila. La struttura barcollò un poco, ma resistette, otto cubi in una croce invertita, una<br />

doppia croce, dato che i quattro cubi aggiunti sporgevano in quattro direzioni. — Lo<br />

vedi ora? Poggia sulla camera a pianterreno, i sei cubi successivi sono le camere di<br />

abitazione, e questo è il tuo studio, proprio in cima.<br />

Bailey guardò la figura con minor diffidenza.<br />

— Questa, almeno, posso capirla. Dici che è un tesseract anche questo?<br />

— È un tesseract dispiegato in tre dimensioni. Per rimetterlo insieme devi ripiegare<br />

80 In realtà, il personaggio si chiama Quintus, come si vedrà più avanti. Bud è un modo gergale<br />

statunitense per indicare “amico”. (N.d.R.)<br />

112


il cubo più alto nel cubo in fondo, piegare verso l’interno questi cubi laterali fino a<br />

farli incontrare col cubo più alto e ci sei. Naturalmente, tutti questi ripiegamenti li fai<br />

attraverso una quarta dimensione; non storci nessuno dei cubi né li ripieghi uno dentro<br />

l’altro.<br />

Bailey osservò ancora la malferma struttura:<br />

— Stammi a sentire, — disse alla fine, — perché non lasci perdere l’idea di<br />

spiegare questa baracca nella quarta dimensione, non potresti farlo, del resto, e non<br />

costruisci una casa come questa?<br />

— Che cosa vuol dire, non potrei? È un semplice problema matematico...<br />

— Piano, amico. Sarà semplicissimo in matematica, ma non potrai mai ottenere per<br />

i tuoi progetti l’autorizzazione a costruire. Non c’è nessuna quarta dimensione;<br />

piantala. Mentre questa specie di casa... potrebbe avere i suoi vantaggi.<br />

Interdetto, Teal studiò il modello.<br />

— Uhm! Forse non hai tutti i torti. Potremmo avere lo stesso numero di vani e<br />

risparmiare la quantità corrispondente di terreno. Sì, e potremmo orientare quel piano<br />

cruciforme a nord-est, sud-ovest, e così via, in modo che ogni stanza sarebbe esposta<br />

al sole per tutta la giornata. Quell’asse longitudinale si presta ottimamente al<br />

riscaldamento centrale. Metteremo la sala da pranzo a nord-est e la cucina a sud-est,<br />

con grandi finestre in ogni camera. Ok, Homer, farò così! Dove vuoi che la costruisca?<br />

— Aspetta un momento! Non ho detto che dovevi costruirla per me...<br />

— Ma certo che la costruirò per te. Per chi altro dovrei costruirla? Tua moglie vuole<br />

una casa nuova; e avrà questa.<br />

— Ma mia moglie vuole una casa in stile georgiano...<br />

— L’ha detto così per dire. Le donne non sanno mai quello che vogliono.<br />

— Mia moglie lo sa.<br />

— Un’idea che qualche architetto sorpassato e codino le ha ficcato in testa. Tua<br />

moglie guida un’automobile ultimo modello no? Indossa abiti tagliati secondo<br />

l’ultimissima moda, perché dunque dovrebbe abitare in una casa stile Settecento?<br />

Questa casa sarà più che moderna; è avanti di anni nel futuro. Sarà la casa di cui tutta<br />

la città parlerà.<br />

— Bene... Gliene parlerò.<br />

— Neanche per sogno. Le farai una sorpresa. Bevi ancora un sorso.<br />

— Ad ogni modo, non possiamo decidere nulla per il momento. Mia moglie ed io<br />

andiamo in macchina a Bakersfield domani. La compagnia inaugura due nuovi pozzi<br />

laggiù.<br />

— Sciocchezze. È proprio l’occasione che cerchiamo. Sarà una magnifica sorpresa<br />

per lei, al ritorno. Basta che mi firmi un assegno adesso e le tue pene sono finite.<br />

— Non dovrei prendere una decisione così importante senza consultarla. Non sarà<br />

contenta di trovarsi di fronte al fatto compiuto.<br />

— Dico, chi porta i calzoni in casa tua?<br />

L’assegno fu firmato verso la metà della seconda bottiglia.<br />

Le cose si fanno alla svelta nella California meridionale. Le case normali vengono<br />

su nel giro di un mese. Sotto l’appassionato impulso di Teal la casa a tesseract salì<br />

113


apidissima al cielo in giorni più che in settimane, e il suo primo piano cruciforme<br />

venne ben presto a salutare i quattro angoli del mondo. L’architetto aveva avuto in un<br />

primo tempo qualche seccatura con gli ispettori del genio civile per quelle quattro<br />

stanze proiettate verso l’esterno, ma con l’uso di robuste travi maestre e di banconote<br />

in busta chiusa era riuscito a convincerli della solidità della sua costruzione.<br />

Come d’accordo, Teal arrivò in macchina davanti all’abitazione dei Bailey la<br />

mattina successiva al loro ritorno in città. Improvvisò un’arietta sul suo claxon a due<br />

note. Bailey sporse il capo dalla porta d’ingresso.<br />

— Perché non suoni il campanello?<br />

— Troppo lento, — rispose Teal giocondamente. — Sono un uomo d’azione, io. È<br />

pronta tua moglie? Oh, eccovi qua, signora Bailey! Bentornata, bentornata! Salite in<br />

macchina, ho una sorpresa per voi!<br />

— Tu conosci Teal, mia cara, — disse Bailey a disagio.<br />

La signora Bailey tirò su col naso:<br />

— Lo conosco. Andremo con la nostra macchina, Homer.<br />

— Benissimo, cara.<br />

— Buona idea, — approvò Teal. — È più potente della mia; arriveremo prima.<br />

Guiderò io, conosco la strada. — Tolse di mano a Bailey le chiavi, scivolò al volante e<br />

avviò il motore ancor prima che la signora Bailey avesse potuto raccogliere le proprie<br />

forze.<br />

— Non preoccupatevi minimamente del mio modo di guidare, — disse in tono<br />

rassicurante, volgendo il capo a guardar la signora e lanciando contemporaneamente la<br />

potente macchina per il viale, prima d’imboccare Sunset Boulevard; — è questione di<br />

forza e dominio dei propri nervi, un processo dinamico, esattamente il mio pane... Non<br />

ho mai avuto un incidente degno di questo nome.<br />

— Non ne avrete che uno solo, — disse la donna in tono acido. — Vi dispiacerebbe<br />

molto tenere gli occhi sulla strada?<br />

Egli cercò di spiegarle che un problema di traffico non era questione di occhi, bensì<br />

d’integrazione intuitiva di direzioni, velocità e probabilità, ma Bailey lo interruppe<br />

bruscamente:<br />

— Dov’è la casa, Quintus?<br />

— La casa? — ripeté la signora Bailey, sospettosamente. — Che cos’è questa<br />

faccenda della casa, Homer? Hai forse combinato qualche cosa senza dirmelo?<br />

Teal intervenne col suo miglior tono diplomatico:<br />

— Una casa, lo è di certo, signora Bailey. E che casa! È una sorpresa che un devoto<br />

marito ha voluto farvi. Aspettate solo di vederla e poi...<br />

— È quel che aspetto, infatti, — confermò la donna, tetra. — In che stile è?<br />

— Questa casa inizia un nuovo stile. È più recente della televisione, più nuova della<br />

settimana entrante. Bisogna vederla per apprezzarla. A proposito, — soggiunse in<br />

fretta, bloccando così ogni replica, — avete sentito il terremoto questa notte?<br />

— Il terremoto? Quale terremoto? Homer, c’è stato un terremoto?<br />

— Oh, una scossa molto leggera, — continuò Teal, — verso le due del mattino. Se<br />

non fossi stato sveglio, non me ne sarei nemmeno accorto.<br />

La signora Bailey rabbrividì:<br />

— Oh, questo terribile paese. Hai sentito, Homer? Avremmo potuto restare uccisi<br />

114


nei nostri letti senza neppure saperlo. Perché mi sono lasciata convincere da te a<br />

lasciare l’Iowa?<br />

— Ma, cara, — protestò il marito con aria infelice, — sei stata tu a voler venire in<br />

California; Des Moines non ti piaceva.<br />

— Questo non c’entra, — ribatté lei seccamente. — Sei un uomo; toccava a te<br />

prevedere queste cose. Dei terremoti!<br />

— Ma nella vostra nuova casa non avrete più nulla da temere, signora Bailey, —<br />

disse Teal. — È assolutamente a prova di terremoto; ogni parte è in perfetto equilibrio<br />

dinamico con ogni altra parte.<br />

— Speriamo. Dov’è questa benedetta casa?<br />

— Subito dopo la curva. Guardate, c’è il cartello.<br />

Un grande cartello a freccia, di quelli preferiti dai mediatori di terreni, proclamava<br />

in lettere che erano vistose anche per la California meridionale:<br />

LA CASA DEL FUTURO!<br />

Colossale! Stupefacente! Rivoluzionario!<br />

Così vivranno i vostri nipoti!<br />

Architetto, Q. Teal<br />

— Naturalmente, il cartello verrà tolto, — si affrettò a precisare Teal, notando<br />

l’espressione della donna, — appena avrete preso possesso della casa. — Superò la<br />

curva slittando e fermò la macchina con un grande stridere di freni davanti alla Casa<br />

del Futuro. — Voilà! — E li guardò per vedere la loro reazione.<br />

Bailey fissava la costruzione con aria incredula, la signora Bailey con palese<br />

avversione. Vedevano una semplice massa cubica, fornita di porte e finestre, ma con<br />

nessun’altra caratteristica architettonica, salvo delle decorazioni molto intricate.<br />

— Teal, — domandò Bailey con un filo di voce, — ma che cosa hai fatto?<br />

Teal distolse lo sguardo dai loro volti e vide finalmente la casa. L’assurda torre con<br />

le quattro camere sporgenti al primo piano non c’era più. Non restava traccia delle<br />

sette camere sopra il pianterreno. Non restava che la sola camera basata sulle<br />

fondamenta.<br />

— Per tutte le... — urlò. — Mi hanno derubato!<br />

E si mise a correre come un forsennato.<br />

Ma fu inutile. Sulla facciata o sul retro, era sempre la stessa storia: le altre sette<br />

camere erano scomparse, svanite completamente. Bailey lo raggiunse e lo prese per il<br />

braccio.<br />

— Spiegati. Come sarebbe a dire, t’hanno derubato? E perché t’è venuto in mente<br />

di costruire una cosa simile? Non era questo il patto.<br />

— Ma io non ho costruito questa roba. Ho costruito quanto avevamo deciso, una<br />

casa di otto camere a forma di tesseract dispiegato. Sono rimasto vittima di un<br />

sabotaggio, ecco che cosa è successo! Gelosia! Gli altri architetti della città non hanno<br />

avuto il coraggio di lasciarmi finire questo lavoro; sapevano che il confronto li<br />

avrebbe schiacciati.<br />

— Quando sei stato qui l’ultima volta?<br />

— Ieri pomeriggio.<br />

115


— E tutto era a posto?<br />

— Sì. I giardinieri stavano giusto finendo.<br />

Bailey si guardò intorno: fiori, arbusti, siepi, aiuole, tutto era intatto, impeccabile.<br />

— Non vedo come sette stanze abbiano potuto essere smantellate e trasportate via<br />

in una sola notte senza danneggiare il giardino.<br />

Anche Teal si guardò intorno.<br />

— Già. Non ci capisco nulla.<br />

La signora Bailey li raggiunse.<br />

— E allora? Mi avete lasciata a meditare un po’ da sola? Dato che siamo qui mi<br />

pare che potremmo dare un’occhiata alla casa, sebbene, te lo dico fin da ora, Homer,<br />

io non credo che mi piacerà.<br />

— Sì, andiamo a dare un’occhiata, — approvò Teal, e, tratta una chiave di tasca,<br />

aprì la porta d’ingresso. — Forse, possiamo trovare qualche indizio.<br />

L’anticamera era in ordine perfetto, le porte scorrevoli che la separavano dallo<br />

spazio riservato al garage erano aperte, e permettevano di vedere tutta quella parte<br />

della casa.<br />

— Qui tutto sembra a posto, — osservò Bailey. — Andiamo di sopra e cerchiamo<br />

di scoprire che cos’è successo. Dove sono le scale? Hanno rubato anche le scale<br />

adesso?<br />

— Ma no, — rispose Teal, — sta’ a vedere... — Premette un pulsante sotto quello<br />

della luce; nel soffitto un pannello si aperse e una rampa di scale si snodò, leggera ed<br />

elegante, calando silenziosamente verso di loro. Era tutta in plastica trasparente e<br />

argenteo duralluminio. Teal ebbe un guizzo, come un ragazzino che abbia eseguito<br />

con pieno successo un trucco con un mazzo di carte, mentre la signora Bailey si<br />

sgelava percettibilmente.<br />

Era davvero una cosa splendida.<br />

— Molto elegante, — ammise Bailey. — Però ha l’aria di non portarti da nessuna<br />

parte.<br />

— Ah, capisco, — disse Teal, che aveva seguito il suo sguardo. — Il coperchio si<br />

solleva automaticamente appena tocchi un certo gradino. La tromba delle scale è un<br />

anacronismo, ormai. Andiamo. — Come Teal aveva predetto, il coperchio della scala<br />

si ritrasse, consentendo loro di emergere in cima alla rampa, ma non, come si<br />

aspettavano, sul tetto dell’unica stanza della casa. Si trovarono ritti al centro di una<br />

delle cinque camere che formavano il primo piano del progetto originario.<br />

Per la prima volta in vita sua, Teal non seppe che cosa dire. Bailey, anch’egli senza<br />

parole, continuava a masticare il suo sigaro. Tutto era perfettamente in ordine. Dinanzi<br />

a loro, oltre la porta spalancata e il tramezzo trasparente, c’era la cucina, un complesso<br />

che andava al di là dei più sfrenati sogni d’uno chef, metalli leggeri, utilizzazione<br />

massima dello spazio, luci indirette, disposizione funzionale. Sulla sinistra, la sala da<br />

pranzo, convenzionale, ma graziosa e accogliente, attendeva gli ospiti, con tutti i<br />

mobili in schieramento di parata.<br />

Ancor prima di girare il capo Teal intuì che il salotto e il soggiorno avrebbero<br />

dimostrato la loro concreta e insieme impossibile esistenza.<br />

— Be’, riconosco che è molto bello, — approvò la signora Bailey — e la cucina è la<br />

cosa più originale che abbia mai vista, ma non avrei certo immaginato dall’esterno che<br />

116


questa casa avesse tanto spazio al primo piano. Naturalmente, qualche cambiamento<br />

bisognerà farlo. Quello stipo per esempio... se noi lo trasportassimo qui e mettessimo<br />

la cassapanca là...<br />

— Lascia stare per un momento, Matilda, — la interruppe bruscamente Bailey. —<br />

Tu come lo spieghi, Teal?<br />

— Ma Homer! La sola idea di...<br />

— Lascia stare, ti ho detto! Dunque, Teal?<br />

Il lungo corpo dinoccolato dell’architetto si agitò dalla testa ai piedi.<br />

— Preferirei non rispondere. Continuiamo a salire.<br />

— E in che modo?<br />

— Così. — Premette un altro bottone; una copia esatta della passerella che li aveva<br />

portati fin là dal pianterreno dava accesso al piano superiore. Salirono i gradini, con la<br />

signora Bailey che, in coda, recriminava, e si trovarono nella stanza da letto<br />

principale. Le tapparelle erano abbassate come quelle del piano inferiore, ma la<br />

morbida luce diffusa si accese automaticamente. Teal premette subito il pulsante che<br />

controllava un’altra rampa di scale e i tre si affrettarono a salire verso lo studio<br />

all’ultimo piano.<br />

— Senti, Teal, — propose Bailey, quand’ebbe ripreso fiato. — Perché non saliamo<br />

fino alla terrazza sopra questa stanza? Potremmo dare un’occhiata al paesaggio.<br />

— Ma certo, è una piattaforma-osservatorio. — Salirono una quarta rampa di scale,<br />

ma quando l’ultima botola si sollevò per consentir loro di uscire all’aria aperta, i tre si<br />

trovarono, non sul tetto, ma nella camera a pianterreno da cui avevano cominciato la<br />

visita.<br />

Homer Bailey divenne terreo.<br />

— Angeli del Cielo, — gridò, — questa casa è stregata. Andiamocene via subito.<br />

— Ed afferrata la moglie per un braccio, spalancò la porta e si lanciò fuori.<br />

Teal era troppo preoccupato per badare alla loro fuga. C’era una spiegazione a tutto<br />

questo, una spiegazione a cui non credeva. Ma fu costretto a interrompere le sue<br />

riflessioni da una serie di urli rochi provenienti da un punto imprecisato sopra la sua<br />

testa. Fece calare la scala e si precipitò al piano di sopra. Bailey, nella camera centrale,<br />

era chino sulla moglie, che aveva perduto i sensi. Teal si rese rapidamente conto della<br />

situazione, corse nel bar incorporato nel soggiorno e versò in un bicchiere tre dita di<br />

cognac, che, tornato, porse a Bailey:<br />

— Ecco, faglielo bere, le farà bene.<br />

Bailey bevve.<br />

— Ma era per tua moglie, — protestò Teal.<br />

— Non fare storie, — tagliò corto Bailey. — Vagliene a prendere un altro. — Teal<br />

ebbe la precauzione di berne uno egli stesso prima di tornare con la dose per la moglie<br />

del suo cliente. La trovò che cominciava ad aprire gli occhi.<br />

— Su, su, signora Bailey, — disse in tono carezzevole, — questo vi farà sentire<br />

meglio.<br />

— Io non tocco mai liquori, — protestò la donna, e bevve d’un fiato.<br />

— Ora ditemi che cos’è successo, — pregò Teal. — Credevo che ve ne foste andati<br />

tutt’e due.<br />

— Ma ce ne siamo andati... siamo usciti dalla porta d’ingresso, e ci siamo ritrovati<br />

117


qui nel soggiorno.<br />

— Ma che diavolo dici! Uhm...! Aspetta un minuto. — E Teal andò nel soggiorno.<br />

Là scoprì che la grande finestra panoramica in fondo alla stanza era spalancata. Vi si<br />

affacciò cautamente. E non vide il paesaggio californiano, ma l’interno della camera a<br />

pianterreno, o qualcosa che le somigliava in ogni particolare. Non disse nulla, ma<br />

tornò alla rampa di scale che aveva lasciato aperta e guardò in giù. La camera al<br />

pianterreno era sempre al suo posto. Chi sa come, riusciva a essere in due luoghi<br />

diversi contemporaneamente, e a livelli differenti.<br />

Ritornò nella stanza centrale, sedette di fronte a Bailey in una poltrona bassa e<br />

profonda e guardò l’amico di sulla punta sollevata delle ginocchia ossute.<br />

— Homer, — disse in tono drammatico, — lo sai che cosa è successo?<br />

— No, non lo so... ma se non lo scopro al più presto, ti garantisco che qualcosa<br />

succederà, e sarà una cosa molto spiacevole per te!<br />

— Homer, questa è la conferma delle mie teorie. Questa casa è un vero tesseract!<br />

— Ma di che sta parlando, Homer?<br />

— Un momento, Matilda... Senti, Teal, tutto questo è ridicolo. Non so che<br />

imbroglio hai combinato, ma io ne ho abbastanza: hai quasi fatto morire mia moglie<br />

dallo spavento e hai reso nervoso anche me. Voglio una cosa sola: andarmene di qua e<br />

non sapere più nulla delle tue trappole e dei tuoi stupidi scherzi.<br />

— Ti prego di parlare per te solo, Homer, — intervenne la signora Bailey. — Io non<br />

mi sono affatto spaventata; per un momento mi sono sentita come colta da una<br />

vertigine. È il cuore, lo sai: tutti in famiglia siamo delicati e impressionabili. Ora, a<br />

proposito di questo tesserat...tico, fatemi il favore di spiegarvi meglio, signor Teal.<br />

Parlate.<br />

Teal le spiegò come meglio poté, date le numerose interruzioni, la teoria in base alla<br />

quale era stata costruita la casa.<br />

— E ora, secondo il mio modesto parere, signora Bailey, — concluse, — questa<br />

casa, pur perfettamente stabile in tre dimensioni, non lo era nelle quattro dimensioni.<br />

Avevo costruito una casa a forma di tesseract dispiegato; le è successo qualche cosa,<br />

una specie di vibrazione o di strattone laterale, ed essa è ricaduta nella sua forma<br />

normale, si è ripiegata su se stessa. — Fece schioccare a un tratto le dita. — Ho<br />

capito! Il terremoto!<br />

Il terremoto?<br />

— Sì, sì, la lieve scossa di questa notte. Da un punto di vista quadridimensionale,<br />

questa casa era come un asse in bilico sull’orlo di un precipizio. Una piccola spinta ed<br />

è caduta, crollata lungo le sue articolazioni naturali, in una figura stabile a quattro<br />

dimensioni.<br />

— M’era parso di sentirvi vantare la straordinaria stabilità di questa casa.<br />

— È una casa stabilissima, nelle tre dimensioni.<br />

— Per me, — osservò Bailey in tono tagliente, — una casa che crolla al più lieve<br />

tremito non è stabile.<br />

— Ma guardati intorno! — protestò Teal. — Nulla è stato spostato, non s’è<br />

incrinato un solo pezzo della cristalliera. La rotazione attraverso una quarta<br />

dimensione non può influire su una figura a tre dimensioni più di quanto tu possa<br />

staccare le lettere di una pagina stampata. Se tu avessi dormito qui questa notte, non ti<br />

118


saresti nemmeno svegliato.<br />

— È proprio questo che mi fa paura. Incidentalmente, il tuo genio ti ha suggerito in<br />

che modo noi possiamo uscire da questa trappola criminosa?<br />

— Come? Oh, sì, certo, tu e la signora siete partiti per uscire e invece siete venuti a<br />

finire qui, è questo che vuoi dire? Ma sono certo che non ci sono vere difficoltà: se<br />

siamo entrati, possiamo anche uscire, non ti pare? Ora lasciami vedere. — S’era già<br />

alzato e correva giù per la scala mentre ancora parlava. Spalancò la porta d’ingresso,<br />

ne varcò la soglia, e si ritrovò davanti ai suoi amici, che lo fissavano attraverso tutta la<br />

lunghezza del salotto al primo piano. — Bene, a quanto pare qualche lieve difficoltà<br />

c’è, — ammise blandamente. — Ma si tratta di difficoltà puramente tecniche...<br />

possiamo sempre uscire da una finestra. — Scostò con uno strattone i lunghi<br />

drappeggi che ricoprivano le porte-finestre profondamente incassate in un parete<br />

laterale della sala. Si fermò di colpo.<br />

— Uhm-hm! — fece. — Ecco una cosa interessante, molto interessante!<br />

— Che cosa? — domandò Bailey, raggiungendolo.<br />

— Questa. — Invece di guardar fuori, la finestra dava direttamente sulla sala da<br />

pranzo. Bailey indietreggiò fino all’angolo dove il soggiorno e la sala da pranzo si<br />

congiungevano alla sala centrale formando un angolo di novanta gradi.<br />

— Ma non è possibile, — protestò, — quella finestra è almeno a cinque, forse sette<br />

metri dalla sala da pranzo.<br />

— Non in un tesseract, — gli ricordò Teal. — Guarda. — Aprì la finestra e passò<br />

oltre, voltandosi intanto a parlare di sopra la spalla.<br />

Dal punto di vista dei Bailey egli si limitò a scomparire. Ma non dal suo personale.<br />

Gli occorsero alcuni secondi per riprender fiato. Quindi, con grande cautela, si districò<br />

dal cespuglio di rose in cui s’era quasi indissolubilmente incastrato, e intanto giurava a<br />

se stesso che non avrebbe mai più ordinato in vita sua dei giardini che comprendessero<br />

piante spinose; poi si guardò intorno.<br />

Era uscito dalla casa. La massa cubica della camera a pianterreno sorgeva a pochi<br />

passi. Evidentemente, era caduto dal tetto.<br />

Girò di corsa l’angolo della casa, spalancò la porta d’ingresso e si precipitò su per le<br />

scale.<br />

— Homer! — gridò. — Signora Bailey! Ho trovato il modo di uscire!<br />

Bailey parve più seccato che compiaciuto di vederlo.<br />

— Che ti è successo?<br />

— Sono caduto verso l’esterno. Sono uscito dalla casa. E una cosa facilissima, basta<br />

passare da quelle porte-finestre. Ma attento alle rose: dovremo forse costruire un’altra<br />

scala.<br />

— E come sei rientrato?<br />

— Dalla porta d’ingresso.<br />

— E allora noi ce ne andremo per la stessa via. Vieni, cara. — Bailey si piantò il<br />

cappello in testa e cominciò a scendere impettito la scala, dando il braccio alla moglie.<br />

Teal li accolse nel soggiorno.<br />

— Avrei dovuto dirti che non bisognava fare così, — annunciò. — Ora, ecco<br />

quello, che dobbiamo fare. Secondo me, in una figura a quattro dimensioni un uomo<br />

tridimensionale ha due possibilità, ogni qual volta debba varcare una linea di<br />

119


congiunzione come una parete o una soglia. Ordinariamente, farà una svolta di<br />

novanta gradi attraverso la quarta dimensione, soltanto che con le sue tre dimensioni<br />

non se ne accorge. Guarda. — Passò dalla stessa porta-finestra da cui era caduto poco<br />

prima. L’attraversò e si ritrovò nella sala da pranzo, dove si fermò, continuando a<br />

parlare. — Questa volta ho guardato bene dove mettevo i piedi e sono arrivato dove<br />

volevo. — Rientrò nel soggiorno. — Poco fa non ho fatto attenzione, mi sono mosso<br />

attraverso lo spazio normale e sono caduto fuori di casa. Deve essere una questione di<br />

orientamento inconscio.<br />

— Non mi piacerebbe dover dipendere dall’orientamento inconscio quando apro la<br />

porta per il giornale del mattino.<br />

— Non avrai bisogno di pensarci; diverrà un fatto automatico. Ora, per uscire di<br />

casa... signora Bailey, se volete mettervi qui con le spalle alla finestra, e fare un salto<br />

all’indietro, sono sicuro che vi ritroverete in giardino.<br />

La faccia della signora Bailey espresse chiaramente l’opinione che ella aveva di<br />

Teal e delle sue idee.<br />

— Homer, — disse la donna con voce stridula, — hai intenzione di rimaner lì<br />

impalato permettendo a quest’uomo di proporre simili...<br />

— Ma, signora Bailey, — Teal cercò di spiegare, — possiamo assicurarvi ad una<br />

corda e calarvi giù con la stessa facilità di...<br />

— Piantala, Teal, — lo interruppe Bailey rudemente. — Dovremo trovare qualcosa<br />

di meglio. Né io né mia moglie siamo nati per fare i saltimbanchi.<br />

Teal rimase per qualche istante perplesso; seguì un breve silenzio. Bailey lo ruppe<br />

con un: — Hai sentito, Teal?<br />

— Sentito che cosa?<br />

— C’è qualcuno che parla. Credi che ci possa essere in casa qualcun altro, che<br />

magari voglia farci qualche scherzo?<br />

— Ma neanche per sogno. L’unica chiave, l’ho io.<br />

— Ma io ne sono sicura, — confermò la signora Bailey. — Li sento da quando<br />

siamo entrati qui. Diverse voci. Homer, non resisto più, è una cosa pazzesca. Fa’<br />

qualche cosa.<br />

— Su, su, signora Bailey, — la blandì Teal, — non vi agitate così. Non può esserci<br />

nessun altro in casa, ma andrò a fare una piccola ispezione. Tu, Homer, resta qui con<br />

tua moglie e tieni d’occhio le camere di questo piano. — Passò dal soggiorno nella<br />

camera a pianterreno e di là in cucina, e in camera da letto. Questo percorso lo riportò<br />

al soggiorno lungo un itinerario rettilineo, vale a dire che, camminando sempre diritto,<br />

era ritornato al punto da cui era mosso. — Non c’è nessuno, — riferì. — Ho aperto<br />

tutte le porte e le finestre, passando... tutte, meno questa. — Si avvicinò alla finestra di<br />

fronte a quella da cui era caduto poco prima e scostò le tende.<br />

Vide un uomo che gli voltava le spalle, quattro camere più in là. Teal spalancò di<br />

scatto la porta-finestra e vi si gettò a capofitto, urlando:<br />

— Eccolo là! Ferma, ferma, al ladro!<br />

L’intruso evidentemente lo udì; si mise a fuggire a precipizio. Teal si lanciò al suo<br />

inseguimento con uno scatto simultaneo delle membra indolenzite, attraverso salotto,<br />

cucina, sala da pranzo, soggiorno, una camera dopo l’altra; ma nonostante i suoi<br />

strenui sforzi, non riuscì a recuperare parte del vantaggio di quattro stanze che l’uomo<br />

120


aveva in partenza.<br />

Ad un tratto vide l’intruso scavalcare goffamente, ma senza esitazione, il basso<br />

davanzale di una porta-finestra, e perdere nella foga il cappello. Quando Teal giunse<br />

finalmente là dove il copricapo era caduto, si chinò a raccoglierlo, lieto di avere una<br />

scusa per fermarsi a riprendere un po’ di fiato. Tornò poi nel soggiorno...<br />

— Temo che mi sia sfuggito, — ammise. — Ad ogni modo, ecco qua il suo<br />

cappello, che forse ci permetterà di identificare il nostro amico.<br />

Bailey prese il cappello, lo esaminò attentamente, quindi con un grugnito lo piantò<br />

in testa a Teal. Gli calzava alla perfezione. L’architetto parve stupito, si tolse il<br />

cappello, lo osservò. Sulla striscia di pelle interna c’erano le iniziali «Q. T.». Era il<br />

suo.<br />

Lentamente, un barlume di comprensione illuminò il volto di Teal. Tornò davanti<br />

alla porta-finestra e spinse lo sguardo per la fuga di stanze attraverso le quali aveva<br />

inseguito lo sconosciuto. I coniugi Bailey lo videro agitare le braccia freneticamente.<br />

— Che stai facendo? — domandò Bailey.<br />

— Vieni a vedere.<br />

Marito e moglie lo raggiunsero e seguirono la direzione del suo sguardo. Quattro<br />

camere più in là, videro tre figure di spalle, due uomini e una donna. Il più alto e<br />

sottile dei due uomini agitava le braccia in un modo piuttosto buffo.<br />

La signora Bailey lanciò un urlo e svenne di nuovo.<br />

Qualche minuto dopo, quando la signora Bailey si fu riavuta e in certo qual modo<br />

ricomposta, Bailey e Teal fecero il punto della situazione.<br />

— Teal, — disse Bailey, — non perderò tempo a rimproverarti; le recriminazioni<br />

sono inutili e sono certo che tutto questo non lo hai voluto; ma spero che tu ti renda<br />

conto della gravità della situazione in cui ci troviamo. Come faremo a uscire di qua? A<br />

quanto sembra, dovremo rassegnarci a morir di fame; ogni camera porta soltanto in<br />

un’altra camera.<br />

— Oh, la situazione non è poi così tragica. Dopo tutto, sono già uscito una volta<br />

no?<br />

— Sì, ma non puoi farlo ancora... Hai già tentato.<br />

— Ad ogni modo, non abbiamo tentato in tutte le camere. C’è ancora lo studio<br />

all’ultimo piano.<br />

— Già, lo studio. Ci siamo passati quando siamo venuti per la prima volta e non ci<br />

siamo fermati. Pensi che si possa uscire dalle finestre?<br />

— Non farti troppe illusioni. Matematicamente, dovrebbe aprirsi sulle quattro<br />

camere laterali di questo piano. Ma non abbiamo mai alzato le tapparelle;<br />

bisognerebbe dare un’occhiata.<br />

— Male non potrà farcene, comunque. Cara, credo che sia meglio per te rimanere<br />

qui a riposare un po’...<br />

— Essere lasciata sola in questo orribile posto? Ah, no davvero! — E la donna si<br />

levò immediatamente dal divano dove era stata distesa fino a quel momento.<br />

Salirono la scala.<br />

— Questa è la camera interna, vero, Teal? — domandò Bailey, mentre<br />

attraversavano la stanza da letto principale e riprendevano a salire verso lo studio. —<br />

Voglio dire, quella che nel tuo diagramma era al centro del grande cubo,<br />

121


completamente circondata.<br />

— Esatto, — confermò Teal. Bene, diamole un’occhiata. Immagino che questa<br />

finestra debba dare sulla cucina. — Afferrò i cordoni delle tapparelle e li tirò con<br />

energia.<br />

La finestra non dava sulla cucina. Involontariamente si lasciarono cadere sul<br />

pavimento, aggrappandosi al tappeto per non sentirsi precipitare.<br />

— Chiudila! Chiudila! — gemette Bailey. Dominando solo in parte una primordiale<br />

paura atavica, Teal si trascinò verso la finestra e riuscì a far ricadere le tapparelle. La<br />

finestra guardava in giù, anziché in fuori, e da un’altezza terrificante.<br />

La signora Bailey era svenuta ancora una volta.<br />

Teal corse a prendere dell’altro cognac, mentre Bailey soffregava i polsi alla<br />

moglie. Quand’ella ebbe ripreso i sensi, Teal si avvicinò cautamente alla finestra e<br />

sollevò di un filo la tapparella. Irrigidendo le ginocchia, osservò la scena. Si volse<br />

verso Bailey:<br />

— Vieni a vedere, Homer. Vediamo se la riconosci.<br />

— Stai lontano da quella finestra, Homer Bailey!<br />

— Ti prego, Matilda, starò attento! — Bailey si accostò all’amico e guardò fuori.<br />

— Vedi laggiù? Quello è il Chrysler Building, non c’è dubbio. E laggiù si vede<br />

l’East River, e Brooklyn. — Guardavano lungo un lato verticale di un grattacielo<br />

altissimo. Quasi quattrocento metri sotto di loro si stendeva, perpendicolare alla<br />

finestra, una metropoli in miniatura, straordinariamente nitida e viva. — Da quel che<br />

posso capire, stiamo guardando in giù, lungo il fianco dell’Empire State Building, da<br />

un punto posto esattamente sopra la torre.<br />

— Che cos’è? Un miraggio?<br />

— Non direi, è troppo perfetto. Credo che lo spazio si sia ripiegato qui attraverso la<br />

quarta dimensione e noi stiamo guardando oltre la piega.<br />

— Vuoi dire che in realtà noi non vediamo New York?<br />

— No, è proprio New York che vediamo. Non so che cosa accadrebbe se<br />

scavalcassimo il davanzale di questa finestra, ma io almeno non ho alcuna voglia di<br />

provare. Ma che vista! Ragazzi, che vista stupenda! Proviamo dalle altre finestre.<br />

Si avvicinarono alla finestra vicina più cautamente, e fecero bene, ché quella che si<br />

offerse ai loro occhi era una vista ancor più sconcertante, più sconvolgente di quella<br />

che si dominava dall’altezza vertiginosa del grattacielo. Era un semplice paesaggio<br />

marino, oceano sconfinato e cielo azzurro... ma l’oceano era dove avrebbe dovuto<br />

essere il cielo e viceversa. Questa volta erano preparati, ma furono quasi sopraffatti<br />

dalla nausea alla vista di quelle onde che rotolavano alte sulle loro teste; e<br />

abbassarono subito la tapparella, evitando alla signora Bailey una nuova emozione.<br />

Teal guardò la terza finestra:<br />

— Proviamo anche questa, Homer?<br />

— Uhm! D’altra parte, non saremmo convinti, se non tentassimo. Ma vacci piano,<br />

mi raccomando.<br />

Teal alzò la tapparella di qualche centimetro. Non vide nulla, e allora l’alzò un po’<br />

di più: niente. Riprese ad alzarla, fino ad avere la finestra completamente sgombra.<br />

Guardarono fuori... nulla.<br />

Nulla, assolutamente nulla. Che colore ha il nulla? Non diciamo sciocchezze! Che<br />

122


forma ha? La forma è un attributo di qualcosa. Quel nulla non aveva né profondità né<br />

forma. Non era nemmeno nero. Era niente.<br />

Bailey masticò il sigaro che aveva in bocca:<br />

— Teal, che significa?<br />

Per la prima volta la disinvoltura di Teal venne meno.<br />

— Non saprei dire, Homer, non io so proprio... ma penso che quella finestra,<br />

bisognerebbe murarla. — Fissò per qualche istante la tapparella abbassata. — Forse,<br />

abbiamo guardato un punto dove lo spazio non esiste. Abbiamo guardato dietro un<br />

angolo quadridimensionale e dietro quell’angolo non c’era niente. — Si stropicciò gli<br />

occhi. — Che mal di testa m’è venuto.<br />

Attesero un po’ prima di affrontare la quarta finestra, Come una lettera non aperta,<br />

poteva anche portare cattive notizie. Il dubbio lasciava adito alla speranza. Finalmente<br />

la tensione giunse ad un punto intollerabile e Bailey tirò egli stesso la fettuccia della<br />

tapparella, sfidando le proteste della moglie.<br />

Andò meglio di quel che si aspettassero. Si stendeva dinanzi a loro, fino<br />

all’orizzonte, un paesaggio col lato destro sollevato, e a un livello tale che lo studio<br />

sembrava posto a pianterreno. Ma era un paesaggio nettamente ostile.<br />

Un sole torrido, implacabile, folgorava da un cielo color limone. La pianura<br />

sembrava riarsa, calcinata, negata alla vita. Ma c’era vita, strani alberi rachitici, che<br />

alzavano braccia nodose e contorte al cielo. Groppi di foglie aguzze crescevano sulle<br />

estremità esterne di quelle escrescenze deformi.<br />

— Santo Cielo, — ansimò Bailey, — ma che cos’è quella roba?<br />

Teal crollò il capo, gli occhi smarriti.<br />

— E che ne so?<br />

— Non ho mai visto nulla di simile sulla Terra. Si direbbe un altro pianeta... Marte,<br />

forse.<br />

— Non so. Ma, capisci, Homer, potrebbe anche essere peggio di quel che crediamo,<br />

peggio di un altro pianeta, voglio dire.<br />

— Come? Si può sapere che stai dicendo?<br />

— Ma sì, potrebbe essere completamente fuori del nostro spazio. Sono sicuro che<br />

quello non è affatto il nostro sole. È troppo luminoso.<br />

La signora Bailey s’era avvicinata timidamente e stava guardando la scena<br />

incredibile.<br />

— Homer, — disse con voce sommessa, timida, — quegli alberi sono orribili, mi<br />

fanno paura.<br />

Il marito le accarezzò una mano.<br />

Teal si mise a trafficare col nastro della tapparella.<br />

— Ma che fai? domandò Bailey.<br />

— Ho pensato che se mi sporgessi dalla finestra, potrei dare un’occhiata intorno e<br />

scoprire qualcosa di più.<br />

— E va bene, — brontolò Bailey. — Ma stai attento.<br />

— D’accordo. — Teal aprì appena la finestra e annusò. L’aria è normale, almeno.<br />

— Spalancò la finestra.<br />

La sua attenzione fu distolta dal piano che voleva mettere in esecuzione. Un tremito<br />

sgradevole, come un primo accenno di nausea, scosse l’intera struttura della casa, e si<br />

123


dileguò.<br />

— Terremoto! — dissero tutt’e tre insieme. La signora Bailey gettò le braccia al<br />

collo del marito.<br />

Teal trangugiò, si riprese e disse:<br />

— State tranquilla, signora Bailey. Questa casa è più che sicura. Lo sapete anche<br />

voi che dopo il moto sismico di questa notte delle scosse di assestamento sono<br />

inevitabili. — Era riuscito a improntare il suo volto a un’espressione di flemma<br />

scientifica, quando venne il secondo scossone. Più che di assestamento si sarebbe<br />

detto di demolizione, tanto fu violento e prolungato.<br />

In ogni californiano, di nascita o di adozione, c’è un riflesso primitivo<br />

profondamente radicato. Un terremoto suscita in lui un accesso istantaneo e cieco di<br />

claustrofobia che lo spinge a uscire di casa a qualsiasi costo! Per obbedire a questo<br />

istinto, i più altruistici boy-scout sono capaci di calpestare le loro venerabili nonne. È<br />

un fatto assodato che Bailey e Teal atterrarono in cima alla signora Bailey. Per cui è<br />

lecito ritenere che la donna sia stata la prima a saltare dalla finestra. L’ordine di<br />

precedenza non può essere attribuito ad un senso di cavalleria; si deve supporre che la<br />

signora si trovasse nella posizione migliore per gettarsi dalla finestra.<br />

Ricuperato un po’ di sangue freddo, riordinati alla meglio i pensieri, si<br />

stropicciarono gli occhi velati dalla sabbia. La loro prima sensazione fu di sollievo al<br />

duro e rassicurante contatto con il suolo desertico. Ma subito Bailey notò qualcosa che<br />

li fece balzare in piedi e impedì alla signora Bailey di dire tutto quello che già aveva<br />

sulle labbra.<br />

— Dov’è la casa?<br />

Era scomparsa. Non ne restava la minima traccia. Si trovavano tutti e tre al centro di<br />

quella piatta desolazione, il paesaggio che avevano veduto dalla finestra. Ma, oltre agli<br />

alberi deformi, torturati, non c’era nulla da vedere, se non quel cielo giallo e quel gran<br />

luminare sul capo, quel bagliore d’altoforno che era divenuto ormai quasi intollerabile.<br />

Bailey si guardò lentamente intorno, quindi si volse verso l’architetto:<br />

— Dunque, Teal? — con una voce che non presagiva nulla di buono.<br />

Teal si strinse nelle spalle, con un gesto impotente.<br />

— Vorrei capirci qualcosa. Vorrei sapere anch’io. Fossi almeno certo che ci<br />

troviamo sulla Terra...<br />

— Ad ogni modo, non possiamo rimanere qui. È la morte certa, se restiamo ancora<br />

un minuto. In che direzione dobbiamo andare?<br />

— Ogni direzione è buona. Orientiamoci col sole.<br />

Avevano arrancato per una distanza indeterminata quando la signora Bailey chiese<br />

di riposarsi. Si fermarono. Teal bisbigliò all’orecchio di Bailey:<br />

— Hai la minima idea?<br />

— No... no, nessuna. Di’, non senti nulla?<br />

Teal tese l’orecchio:<br />

— Forse... a meno che non sia la mia immaginazione.<br />

— Parrebbe il rumore di un’automobile. Ma sì, è un’automobile!<br />

Arrivarono all’autostrada in meno di cento metri. L’auto, quando arrivò, risultò<br />

essere un vecchio camioncino ansimante, guidato da un allevatore di bestiame.<br />

L’uomo, al loro cenno, fermò con un lungo stridere di freni.<br />

124


— Ci siamo smarriti. Potete prenderci a bordo?<br />

— Certo. Salite pure.<br />

— Dove siete diretto?<br />

— A Los Angeles.<br />

— A Los Angeles? Ma, dico, dove ci troviamo?<br />

— Diamine, siete nel cuore del Parco Nazionale degli alberi Yucca.<br />

Il ritorno fu più avvilente della ritirata da Mosca. I coniugi Bailey erano seduti<br />

davanti, a fianco del conducente, mentre Teal, sballottato nel cassone del camion,<br />

cercava di proteggersi il capo dal sole. Bailey indusse il bonario allevatore di bestiame<br />

a svoltare in direzione della casa a tesseract, non perché volesse rivederla, ma per<br />

ritrovare la sua macchina.<br />

Finalmente il coltivatore girò l’angolo e i tre si ritrovarono nel punto di dove erano<br />

partiti. Ma la casa non c’era più.<br />

Non c’era più nemmeno la camera a pianterreno. Era svanita. I Bailey, incuriositi<br />

loro malgrado, si misero a ispezionare le fondamenta insieme con Teal.<br />

— Sapresti spiegare quest’altra novità, Teal? — disse Bailey.<br />

— Credo che quell’ultima scossa di terremoto abbia fatto scivolare la casa in<br />

un’altra sezione dello spazio. Ora capisco che avrei dovuto ancorarla alle fondamenta.<br />

— Non solo questo avresti dovuto fare.<br />

— Be’, non mi sembra che sia il caso di prendersela tanto. La casa era assicurata, e<br />

abbiamo imparato un sacco di cose. Ci sono delle possibilità incredibili, amico mio,<br />

delle grandi possibilità! Per esempio, in questo momento mi è balenata una nuova<br />

idea, veramente rivoluzionaria, per una casa...<br />

Teal abbassò il capo in tempo. Era sempre stato un uomo d’azione.<br />

125


Fuga<br />

di Daniele Del Giudice<br />

Corre la notte Santino e tu corri con lei, la notte ti segue alle spalle, non voltarti a<br />

guardarla, non ne hai il tempo, e poi vedresti soltanto ’sto strunzo; chi poteva saperlo<br />

che era dei Pretannanze la moto, corri e scegli le strade alla cieca, meglio, sono le<br />

strade che scelgono te, una Yamaha piena di cromi, meraviglia di un motore così sotto<br />

il culo, ma gliel’hai mollata subito la moto bloccando la ruota di dietro e scivolando<br />

sul fianco, alla prima pistolettata l’hai sdraiata per terra senza nemmeno graffiarla,<br />

non avevi mai sentito sparare dal vero, ma si capiva subito che quelli erano spari, non<br />

castagnole né tricchitracche né saltarelli, a piedi ti allontani veloce, sei così piccolo<br />

che i piedi non toccano terra, voli sulle punte e la notte vola con te, e dietro a tutti,<br />

ultimo e urlante ’sto strunzo, è lì dietro che grida e che spara, ma che cacchio ti spari?<br />

Napoli è così grande, non puoi conoscerla tutta, non arriverai mai a conoscerla tutta<br />

nemmeno da vecchio se mai arriverai alla vecchiaia, ti tieni la milza che comincia a<br />

far male, salitelle e discese attorno alla vecchia Centrale del Latte, persone e famiglie<br />

ancora sospese ai banchi e ai cocomeri e alle lampade ad acetilene, nell’indormibile<br />

notte d’agosto.<br />

Poi strade più vuote, cerchi al passaggio finestre accese, portoni aperti, ma tutti i<br />

portoni finiscono in un androne chiuso o in un giro di scale con porte sbarrate, chi ti<br />

aprirebbe con gli spari alle spalle, appena sentono ’sto strunzo crepitante,<br />

revolverante, anche le finestre si spengono, buonanotte Santino la notte è tutta per te,<br />

solo per te, voce ’e notte, è la voce del tuo inseguitore che urla tanto t’acchiappo,<br />

tanto t’accoppo, arrancando. Ma la voce adesso arriva a onde, più debole e di colpo<br />

più forte, dev’essersi perso anche lui come te alla fine di questa rampa buia, una salita<br />

a gomito, isolata, lontana da tutto. Sei finito in una specie di poggiobo che guarda la<br />

notte, ti ritrovi senza uscita con un muro di cinta molto più alto a sinistra, ti pieghi<br />

tenendo le mani sui fianchi, altro che guardare la notte, meglio riprendere fiato e<br />

considerare le sporgenze e lesene alla base del muro, arrampicarsi subito. Resti seduto<br />

a cavalcioni della sommità pieno di paura, poi ti lasci cadere dentro, dove tutto risulta<br />

più basso e più buio che mai.<br />

Dove sei? Non puoi saperlo, Santino, questo è un posto che a Napoli non lo ricorda<br />

nessuno, meglio dimenticare, anche se sforzi gli occhi per vedere meglio vedi solo una<br />

piazza quadrata e le mura su ogni lato, un pavimento di pietra vesuviana, dello stesso<br />

piperno grigio contro cui ti sei già sbucciato il ginocchio cadendo, il piazzale è tutto<br />

vuoto e pulito fino alle mura che lo cingono geometricamente. Una piazza d’armi ma<br />

le armi non ci sono, la corte d’una villa ma la villa non c’è, c’è solo lo spiazzo, una<br />

scatola perfetta e sgombra, tu ci sei dentro e non si vedono uscite, e in fondo non ti<br />

converrebbe uscirne: paura di fuori se ’sto strunzo indovinasse la rampa, paura di<br />

dentro per il vuoto e la pressione del buio. Paura della luce che si accende in un muro<br />

126


da un arco, della figura che avanza chiedendo «e chi c’è?» La lampada, forse un neon<br />

portatile, basta perché tu non possa vedere chi lo tiene e si ferma a un passo da te.<br />

Riprendi la fuga, «e dove vai?» dice la lampada, verso i quattro cantoni e da ogni<br />

cantone torni indietro verso la luce, impugnata con la stessa intenzione d’offesa con la<br />

quale ’sto strunzo impugnava poco fa la pistola. Lampada o pistola alla fine ti arrendi.<br />

La luce ti percorre dalla testa ai piedi, «ma sei piccirillo!»; e siccome te ne stai<br />

immobile, terrorizzato e non parli, la lampada si gira verso se stessa, illumina un uomo<br />

con la camicia un po’ stretta, le maniche corte, anziano, minuto e non molto più alto di<br />

te.<br />

L’architetto fiorentino Ferdinando Fuga arrivò a Napoli nel regno di Carlo di<br />

Borbone, lì avrebbe lavorato per altri trent’anni fino alla morte, lì sarebbe stato un<br />

progettista “del futuro”, dedito soprattutto alle architetture sociali, un architetto di<br />

ragione. Il Re lo incaricò di un mastodonte per accogli ere la mole di indigenti che<br />

affollava la città, regium totius regni pauperum hospitium. La richiesta non era priva<br />

di finalità seconde, dare ordine e forma al nuovo flusso sociale del tempo, e<br />

soprattutto bilanciare presso il popolo l’enorme spesa investita per l’erigenda reggia<br />

di Caserta. Fuga volle corrispondere in tutto ai caratteri della commessa, ideò<br />

l’Albergo dei Poveri come un parallelepipedo, cinque corti in successione lineare<br />

interrotte da fabbriche a corpo triplo, e una chiesa al centro raccordata con bracci al<br />

rimanente. L’edificio piacque al Re e Fuga ebbe affidato un nuovo compito dal<br />

Reggente che gli succedette; sistemati i poveri da vivi, in un moderno e ragionevole<br />

ciclo assistenziale non si poteva trascurare il problema dei poveri da morti. Luogo<br />

prescelto le pendici della collina di Capodichino. Per quella destinazione a mezza<br />

costa Fuga inventò una macchina funebre meravigliosamente funzionale, risuonante<br />

del titolo di “Cimitero del Popolo”, ma da lui pensata durante il lavoro come<br />

“Trecentosessantasei fosse” e così conosciuta al tempo. Trecentosessantasei perché<br />

ogni quattro anni ce n’era uno, allora come ancora, bisestile.<br />

Tu stai qui dentro Santino, sul pavimento di pietra vesuviana; e come sei arrivato<br />

fin qua, chiede il custode appoggiando la lampada a terra, e come sei entrato, ho<br />

scavalcato il muro, e come hai fatto piccolo così, e non lo so, tutta colpa dei<br />

Pretannanze, colpa di ’sto strunzo che lì fuori mi vuole sparare, ma lo sai qui cosa<br />

c’è?, c’è casa vostra, no?, no, io sono il custode, questo è un cimitero, non si vede ma<br />

è un cimitero, e dove stanno le tombe?, e stanno tutte qua sotto. Inutile fare un balzo,<br />

Santino, e toglierti subito da dove sei, già ai passo successivo i tuoi piedi sono su<br />

un’altra sepoltura, invisibile. Ci stanno i morti qua sotto?, ci stavano, fenesta ca lucivi<br />

e mo non luci, la conosci la canzone?, parole e musica di ignoto, e quando la finestra<br />

dell’amata alla sera non s’accendeva più, l’amata se non possedeva proprio nulla<br />

arrivava qui, chiagneva sempre ca dormeva sola e mo dorme co li muorte<br />

accompagnata, e no tu non la conosci ’sta canzone, i morti non ci stanno più, qualcosa<br />

magari ci sarà rimasto, ma il cimitero è chiuso da più di un secolo. E quelli che ci<br />

stavano dove sono andati?, in mare, nei fiumi, nella terra, ogni fossa aveva al fondo<br />

una grata che colava all’aperto, ma neanche una lapide?, una croce?, neanche un<br />

nome?, e come no, ci sono i numeri, prima tu stavi sulla numero 80, che vuoi dire il 21<br />

di marzo, primo giorno di primavera, poi ti sei mosso di un passo, hai cambiato di fila<br />

e sei avanzato alla 98, cioè il giorno 8 di aprile, un giorno anonimo, un giorno come<br />

127


tutti gli altri. Come fai a capire, Santino, cos’è questa faccenda, i morti avevano i<br />

numeri?, no i numeri li avevano le fosse, risponde il custode, una fossa per ciascun<br />

giorno, trecentosessantacinque per tutto l’anno, più una per gli anni bisestili che di<br />

giorni ne hanno trecentosessantasei, ma tu come ti chiami?, Santino, bello, piccolo<br />

Sante, sì bello. Ma i numeri dove stanno, non si vedono subito, poi adesso è buio ma<br />

anche di giorno qui non si doveva vedere niente, uno spazio tutto uguale, un<br />

pavimento grigio perfetto, ben levigato, però se avvicino la lampada vedi che lì c’è<br />

scritto 117, lo vedi o non lo vedi?, lo vedo, e vedi il cerchio attorno al numero, c’è un<br />

po’ d’erba perché è tanto che non si apre più, quello è il tappo, era il coperchio, vedi i<br />

tre piccoli anelli, lì si agganciava l’argano e si tirava su, ogni giorno dell’anno era una<br />

tomba, ogni giorno una fossa, così via tutto l’anno, ogni anno dal 1° gennaio al 31<br />

dicembre, ciascuna tomba s’apriva all’alba e si chiudeva al tramonto, chi c’era c’era,<br />

chi non c’era non c’era, sigillata a calce sarebbe stata riaperta solo nello stesso giorno<br />

dell’anno successivo.<br />

Non è che hai capito proprio bene, Santino, ma ti fa paura lo stesso, meno paura<br />

comunque di ’sto strunzo da qualche parte lì fuori, il custode ti sembra meno<br />

pericoloso, non è detto, ma lo speri; quelli dell’anno dopo cadevano su quelli<br />

dell’anno prima? domandi, e sì, risponde il custode, però quelli dell’anno prima<br />

intanto se n’erano andati via, un po’, fluivano, e ciò che restava era così poco. Ogni<br />

anno riaprivi la stessa fossa, non potevi sbagliare, certo bisognava fare attenzione tra<br />

la fine di febbraio e il principio di marzo, non confondersi, se l’anno era bisestile<br />

andava usata la 366 e non la 60, i miei antenati l’hanno fatto per tanto tempo senza<br />

mai sbagliare, con scrupolo, con regolarità; secondo il calendario, quinta generazione,<br />

io sono la quinta generazione di custodi del cimitero, qui sono cresciuto, quand’ero<br />

come te correvo e giocavo sul piazzale, che corse e che giochi che mi sono fatto qui,<br />

percorrevo la diagonale, andavo dalla 19 alla 323, un anno in poche falcate dal 19<br />

gennaio al 19 novembre, al ritorno tornavo indietro nel tempo, da grande non ho più<br />

avuto niente da fare, e neanche mio padre ne ebbe, il cimitero, la macchina, s’era<br />

fermata.<br />

La corte in forma di quadrato sarà lastricata diagonalmente da conci rettangolari<br />

di pietra lavica grigia, e arredata da un solo elemento verticale al centro, un<br />

lampione in ghisa a tre fiamme collocato all’incrocio degli assi di simmetria su un<br />

basamento anch’ esso di piperno. Le mura perimetrali avranno lunghezza di ottanta<br />

metri per lato. Dalla tessitura diagonale della pavimentazione emergeranno appena,<br />

in corrispondenza degli incroci relativi all’immaginaria maglia ortogonale tracciata<br />

dalle linee partenti dal recinto di perimetrazione, emergeranno trecentosessanta<br />

pietre tombali a chiusura di altrettante bocche di fossa, ciascuna delle quali di forma<br />

quadrata, e di ottanta centimetri per lato, e numerata progressivamente a scalpello in<br />

cifre arabe, affiorando impercettibilmente al livello del calpestio. Altre sei pietre<br />

tombali saranno disposte sul pavimento dell’edificio coperto corrispondente all’atrio<br />

d’ingresso, dov’è anche la “Casa de li becchini”. In totale si otterrà il numero di<br />

trecentosessantasei pietre tombali, ciascuna delle quali sormonterà una sottostante<br />

camera verticale a pianta quadra, larga quattro metri su ogni lato e profonda dodici,<br />

interrotta a metri dieci da una griglia metallica a mo’ di filtro. Le fosse della corte<br />

saranno allineate in diciannove file, in numero di diciannove per ciascuna fila.<br />

128


Diciannove per diciannove trecentosessantuno, ma occorrerà sottrarre al risultato la<br />

fossa al centro degli assi di simmetria, dove si trova il lampione, e aggiungerla invece<br />

alle cinque nell’atrio chiuso, corrispondenti agli ultimi giorni dell’anno, le quali, con<br />

la sesta bisestile, riguadagneranno il numero pari.<br />

Lumi perpetui, perpetuo era il cimitero, dice il custode, crescevano i morti, le tombe<br />

restavano sempre quelle, a rotazione, un condominio, l’anno dopo con nuovi inquilini,<br />

lo munno è na rota, chi sa poi che vene, parole di Ambra, musica di Mercadante; ma<br />

cos’è, chi è che ti vuole sparare Santino?, io mi sono imprestato la moto e lui m’ha<br />

seguito, ’sto strunzo, e come fai a guidare la moto, faccio, faccio; non si spara ai<br />

ragazzini, ma tanto fin qui non arriva, stai tranquillo, nessuno sale quassù, nessuno lo<br />

conosce questo posto, e voi che ci state a fare allora, custodisco, va custodito anche se<br />

non funziona più, è un cimitero pur sempre anche se ha l’anima dell’almanacco, della<br />

tabella pitagorica, dell’abaco, che conti ci facevo io da ragazzo, e che avete fatto in<br />

tutti questi anni? studiavo la canzone napoletana, che cosa sennò?, c’era un panorama,<br />

ti affacciavi al portone e vedevi San Giorgio a Cremano, di là le isole, e tutte le cupole<br />

della città e il palazzo rosso di Capodimonte, dopo hanno costruito e non s’è visto più<br />

niente. Vuoi bere un po’ d’acqua, Santino?, sei tutto sudato.<br />

Tu guardi lo spiazzo e adesso ti sembra di capirlo meglio, di immaginarlo quanto<br />

meno, più lo immagini e più ti impressiona, e che c’è? chiede il custode facendoti luce<br />

nel camminare, c’è che ho paura, no, perché?, i morti non sono cattivi, questi poi<br />

erano morti poverelli, disperati, di loro non c’è rimasto più niente, o quasi niente qui<br />

sotto, si me faje lo musso stuorto me strafoco e doppo muorto vengo ’nzuonno a<br />

ncuità a ttè, parole di De Matteis, musica di Biscardi, però a me in tanti anni non è<br />

mai venuto a trovarmi nessuno la notte, anzi, sei tu il primo che viene a quest’ora, ma<br />

tu sei vivo; e i nomi che voi dite dopo che avete cantato chi sono?, e sono gli autori,<br />

ecco il rubinetto, e mentre il custode apre il rubinetto ti chiedi Santino come potrà mai<br />

essere quest’acqua, lo chiedi al custode, si può bere? eccome no, acqua buonissima, e<br />

si china prima di te alla bocchetta, ma tenendo la lampada lontano dal fiotto la<br />

lampada illumina così un traliccio e qualcosa più in basso, tu la vedi ed è un colpo,<br />

gridi, il grido rimbalza sui muri in ogni lato, e quella, quella che è?, non dicevate che<br />

non c’era più niente?, il custode solleva gli occhi appena, continuando a bere, la<br />

cassa? risponde, tirandosi su e asciugandosi col fazzoletto, e come ti turbi subito<br />

Santino, quella fu una magnanimità, un dono, stai tranquillo, adesso te la mostro, ma<br />

io non la voglio vedere, voglio andarmene dici, meglio il Pretannanze pensi, non devi<br />

avere paura, che uomo sei protesta il custode, vieni, è vuota, a me piena o vuota mi fa<br />

paura lo stesso, e intanto lo segui. Ecco la illumina, mi hai chiesto se quelli dell’anno<br />

dopo cadevano sopra a quelli dell’anno prima, sì, in effetti c’era il problema del tonfo,<br />

che magari non suonava bene all’orecchio di chi li accompagnava e gli voleva bene, a<br />

questo ci pensò la Baronessa, donna generosa, grande benefattrice, fu lei che regalò la<br />

cassa al cimitero, una cassa per ogni morto?, e no, mica poteva, chi potrebbe, no, una<br />

cassa per tutti, la stessa, una bella cassa di metallo con una leva per aprirla sul fondo,<br />

così la salma veniva calata nella cassa con l’argano e tutti gli onori, e quando arrivava<br />

giù la leva scattava da sola, il fondo si apriva e la cassa tornava su vuota, o dolce<br />

Napoli, tu sei l’impero dell’armonia, questa la devi conoscere per forza Santino,<br />

questa è Santa Lucia, una barcarola.<br />

129


Occorre dire che la piazza non era di facciata, una facciata distesa a terra, limpida<br />

copertura per ricondurre a compostezza la brutalità naturale di cunicoli e fenditure,<br />

l’architettura vera era nascosta sotto, invisibile e in profondità; non camere scavate<br />

dall’alto ma costruite dal basso nel colle di Latrecco, cioè di Lautrec, prodotte da una<br />

struttura muraria a maglia ortogonale, una sequenza inflessibile di diciannove<br />

gallerie parallele, concluse da una sola volta a botte a tutto sesto; ogni galleria,<br />

suddivisa in diciannove parti uguali da un topagno,formava così all’intervallo di<br />

quattro metri e venti altrettante fosse quadrate. Il meccanismo era tutto lì, supporto<br />

per la piazza e contenitore, casa, dove per le abitudini stesse dei residenti le<br />

fondamenta coincidevano con l’alloggio. A un occhio che guardasse da laggiù, il<br />

Cimitero del Popolo sarebbe apparso curiosamente sorretto dal Popolo.<br />

Il Pretannanze ha sentito il tuo grido, Santino, adesso è là fuori che fiuta qua e là<br />

attorno al muro, inoltre, facendosi via via più accosto ha orecchiato anche la barcarola<br />

del custode, inevitabile; cerca appigli per le mani e per i piedi, si arrampica fino<br />

all’orlo, da lì vede solo la luce ed è alla luce che spara. Rapido il custode nello<br />

spegnere la lampada, chi l’avrebbe detto, rapido nell’abbassarsi, e rapido anche nel<br />

sussurrare a fil di canto neh che so’ sti cannonate ca se sentono sparare?; tu<br />

accovacciato tra la cassa e il bagliore dello sparo, terrorizzato dici scusate, non potete<br />

trattenervi dalle canzoni almeno adesso?, e tratteniamoci, risponde il custode. Del<br />

resto, Santino, con la musica o senza il prezzo è lo stesso, il prezzo è ’sto strunzo che<br />

avanza incerto verso voi due tenendo a mente da dove veniva la luce.<br />

Un cimitero paleoilluminista, si dirà, dando la colpa ai limiti della ragione.<br />

Certamente metteva ordine ortogonalmente nel passato, cancellando ogni pretesa<br />

individuale; ma proprio in questo perseguire la modernità, senza volerlo, senza<br />

saperlo, corrispondeva a un sentimento pizi antico e primitivo, quando i morti erano<br />

comunità indistinta, corale, fertilità nel ciclo della terra, e come tale frequentati,<br />

festeggiati. Anche per il tempo raggiungeva l’opposto di quel che avrebbe voluto: la<br />

rotazione di cui la macchina era capace convertiva il tempo lineare del progresso nel<br />

tempo ciclico e ricorrente di un’epoca lontanissima, mitica. L’utopia è necessaria,per<br />

cosa lottare altrimenti, l’oggetto d’utopia è ricco, abbonda, contiene perfino il suo<br />

contrario, il suo fallimento, maggiore è la passione e la precisione nell’elaborare<br />

l’oggetto tanto più il risultato contraddice e sbeffeggia l’intento.<br />

E passo dopo passo, quando è a un passo da voi e a te salgono le lacrime agli occhi,<br />

fa un passo falso, inciampa sulla cassa, bestemmia e si squilibra, incontra un sostegno<br />

nell’argano, e nel sorreggersi la pistola gli cade, lontano da dove cade lui; il custode la<br />

illumina, tu la raccogli veloce, quanto pesa una pistola, ma tu e il custode siete già in<br />

piedi, mentre il Pretannanze, adesso in favore di luce, è ancora lì a terra e si interroga<br />

su che cosa lo abbia intralciato, ma che cazzo è ’sta cosa, che cazzo è ’sto posto?<br />

Perché non gli spari Santino, non ne sei ancora capace?, io la moto te l’ho ridata, dici,<br />

che vuoi, voglio che tutti capiscano che certe cose non si debbono fare, non sono<br />

permesse, risponde ’sto strunzo alzandosi, compreso quello che fai tu adesso con la<br />

pistola, dammela subito, e io che ne sapevo che apparteneva a voialtri la moto, dovevi<br />

saperlo, la legge non ammette ignoranza, cita dalla propria esperienza personale, io ti<br />

ho fatto danni o no, solo pochi metri ho fatto, senza un graffio. E mentre tu e il tuo<br />

inseguitore cavillate sull’aspetto legale della vicenda, tu con la pistola piegata in un<br />

130


modo che mai potresti colpirlo, lui incerto se il momento per saltarti addosso sia<br />

venuto, mentre disputate sulla norma e le sue violazioni, nel vecchio cimitero<br />

abbandonato di questa città di liberi pensatori, né tu né lui vi accorgete che la lampada<br />

non è più sostenuta da nessuno ma appoggiata lì a terra, da sola, chi la reggeva si è<br />

servito del buio e della disquisizione, ha fatto il giro dell’argano, ha tirato a sé il<br />

gancio oscillante dalla catena, lentamente, senza rumore, e adesso lo trattiene sul<br />

limite dell’oscillazione prendendo la mira come un balestriere o un bocciatore, punta<br />

alla parte più alta dell’ombra di spalle, nel controluce, debole però sufficiente. E<br />

quando ’sto strunzo ritiene di aver messo capo alle argomentazioni, quando giudica<br />

favorevole il procedere, insomma nell’istante in cui conclude: m’aggio scassato ’o<br />

cazzo, e sbotta fisicamente contro di te e tu gridi alzando la pistola, in quell’istante ti<br />

precede il gancio sospinto dal custode come un peso sui binari al luna-park, e tu<br />

sperimenti per la prima volta il mistero di un effetto senza causa apparente, l’effetto<br />

del Pretannanze che stramazza ribadendo... ’o cazzo.<br />

E che gioventù rumorosa dice il custode e piano piano torna alla luce, ti sei fatto<br />

male Santino?, no, non ti sei fatto male, però non riesci a raccapezzarti... ma l’ho<br />

ammazzato io? domandi, no dice il custode di nuovo con la lampada in mano, allora<br />

non è morto?, ce ne vuole, prima di essere morti, e si avvicina al corpo bocconi,<br />

illumina il sangue e il gancio che ancora dondola, a me pare morto; allora l’avete<br />

ammazzato voi?, e si è trattato di un caso dice il custode, una circostanza. Circostanza,<br />

rifletti; altro che circostanza, adesso voi due siete davvero nei guai, il custode più<br />

ancora di te, forse è per questo che non canta?, magari rimugina, e intanto ti toglie la<br />

pistola di mano; io stavo trattando, dici, non potevate aspettare? l’accordo non c’era,<br />

risponde il custode, c’era piuttosto la circostanza, il gancio era lì, ma voi lo sapete che<br />

se questo è morto e gli altri si accorgono che è morto qui da voi, vi ammazzano? e lo<br />

sapete che se non è morto v’ammazza lui? Certo che lo so, ci ho pensato, certo, già<br />

prima, ho pensato che potrebbe sistemarsi qui, posto ce n’è, ma come qui? domandi, il<br />

custode fa di conto, siamo o non siamo al 28 di agosto, anzi a quest’ora siamo già al<br />

29, può sistemarsi alla 241, volete metterlo dentro una tomba?, e dove sennò, che<br />

siamo dottori noi per stabilire se è morto o vivo, si presenta come morto, si presenta al<br />

cimitero, bisognerà seppellirlo. Ma voi non l’avete mai fatto, no, non l’ho fatto però so<br />

come si fa, tengo l’arte e la manera, songo strutto, saccio tutto, parole e musica di<br />

ignoto.<br />

E mentre il custode va verso l’argano e si sofferma appena sul Pretannanze, tu pensi<br />

che è meglio fuggire, fuggire adesso, fuggire subito, solo che il custode è chino a terra<br />

e ti chiama deluso, non possiamo metterlo in quella che gli spetta, dice, troppo<br />

lontana, le ruote dell’argano Sono piene di ruggine, non ce la faremo mai a spingerlo<br />

fin lì, dobbiamo metterlo in questa che gli è più vicina, la 301, peccato. Prende un<br />

cavo di ferro vicino alla cassa, lo passa nel gancio che pende dall’argano, non è che<br />

potresti darmi una mano Santino, in effetti c’è del lavoro da fare, tirare giù il gancio,<br />

passare il cavo ai tre anelli della pietra rotonda, mettere mano alla ruota dell’argano<br />

arrugginita anche quella, voi due lo fate senza guardarvi, ascoltando invece il lamento<br />

del meccanismo, lo scricchiolio della pietra che prima resiste poi si stappa con un<br />

risucchio di vento che a te mette i brividi, e comincia a salire ondeggiando. Il custode<br />

blocca la ruota dell’argano col dente di ferro; si piega sul Pretannanze, l’ajzammo mo<br />

131


da terra, tu p’a coda i p’a capezza, musica di Biscardi, parole di Migliorato, parole<br />

che voi due eseguite, ma quanto pesa ’sto strunzo dici, le gambe? più che alzarle le<br />

trascini sul piperno, del resto il tragitto è così breve, il custode è già sulla bocca di<br />

fossa, illumina l’interno, un silenzio, un profondo là sotto che a te fa orrore guardare,<br />

anche la testa del Pre tannanze è già nella bocca, acalate no poco, stentato è lo<br />

passaggio, antico motivo di Capri sussurra il custode, poi viene a darti una mano dalla<br />

tua parte, insieme gli sollevate le gambe, spingete il corpo a testa in giù verticale, a te<br />

pare che le gambe si muovano, suggestione Santino, è solo la gravità che adesso te le<br />

toglie di mano, però non è suggestione l’urlo che senti lungo tutta la fossa nella<br />

caduta, e nemmeno il fragore del tonfo con cui s’interrompe.<br />

Il Cimitero del Popolo restò aperto dal 1762 al 1890. I nomi di coloro che ne<br />

usufruirono furono riportati in libri mastri poi andati perduti. L’architetto Fuga, dopo<br />

l’Albergo dei Poveri e il Cimitero delle Trecentosessantasei forse, costruì un’ultima<br />

architettura sociale, i Granili nella via dei Portici, ottantasette celle rettangolari per<br />

l’accumulo del grano. Visse fino all’età di ottantatré anni.<br />

Ecco, Santino, ci voleva tanto, dice il custode togliendo il blocco alla ruota dentata<br />

dell’argano e calando la pietra; poi si china per collimarla con la bocca di fossa, e<br />

nella fessura, prima di chiuderla, lascia cadere la pistola: mettíte a mme, almeno<br />

muorta dormi vogl’io co chestorre, anche questa non la conosci Santino, questo è un<br />

bolero, Santino?... Ma dove sei finito? Santino?...<br />

Hai già scavalcato il muro, scendi la rampa, trattieni il passo allungato dalla<br />

pendenza. Chi potrebbe dire che ti sia accaduto qualcosa, o che tu abbia a che fare con<br />

quel che è accaduto, te ne vai verso le luci che terminano di netto nel bordo scuro del<br />

mare. Sei di nuovo nel rumore, sei nel caldo.<br />

132


Riflusso<br />

di José Saramago<br />

Prima, visto che tutto deve avere un inizio, anche se l’inizio è quel punto finale da<br />

cui non può separarsi, e dire che «non può» non significa dire che «non vuole» o «non<br />

deve», è il massimo dell’impotenza, perché se una tale separazione fosse possibile, è<br />

ben noto che tutto l’universo crollerebbe, giacché l’universo è una costruzione fragile<br />

che non sopporterebbe soluzioni di continuità – prima furono aperte le quattro strade.<br />

Quattro larghe strade squadrarono il paese, ciascuna partendo dal proprio punto<br />

cardinale, in linea retta o leggermente curva in obbedienza alla curvatura terrestre, e<br />

perciò il più rigorosamente possibile forando le montagne, separando le pianure e<br />

vincendo, in equilibrio su pilastri, i fiumi e le valli che talvolta contengono anche i<br />

fiumi. A cinque chilometri dal luogo in cui si sarebbero incrociate se questa fosse stata<br />

la volontà dei costruttori, o, per meglio dire, se questo fosse stato l’ordine che dalla<br />

regal persona a tempo debito avevano ricevuto, le strade si diramarono in una rete di<br />

vie ancora principali e poi secondarie, come grosse arterie che per proseguire<br />

dovettero trasformarsi in vene e capillari, in una rete che si trovò circoscritta in un<br />

quadrato perfetto, ovviamente di dieci chilometri per lato. Questo quadrato che,<br />

sempre all’inizio, fatta salva per identiche ragioni l’osservazione universale con cui<br />

esordisce questo racconto, aveva cominciato con l’essere costituito da quattro file di<br />

segnali disposti per terra, finì per diventare, quando le macchine che scavavano,<br />

lisciavano e pavimentavano le quattro strade spuntarono all’orizzonte, divenne in<br />

seguito un muro alto, quattro sipari in muratura che, lo si vide subito e già prima nei<br />

progetti lo si sapeva, avrebbero delimitato cento chilometri quadrati di terreno piano, o<br />

spianato, perché alcune operazioni di sbancamento si dovettero pur fare. Un terreno la<br />

cui scelta rispondeva alla primordiale necessità dell’equidistanza di quel luogo dalle<br />

frontiere, una giustizia relativa che, per fortuna, fu consolidata in seguito da una<br />

notevole quantità di calce che neppure i più ottimisti osavano prevedere nei loro<br />

progetti quando fu chiesta la loro opinione: tutto ciò finì per dare grande lustro alla<br />

regal persona, come fin dal primo momento si sarebbe dovuto prevedere se si fosse<br />

prestata più attenzione alla storia della dinastia. Tutti i suoi re avevano avuto sempre<br />

ragione, e gli altri molto di meno, come si fece scrivere ed è rimasto scritto. Un’opera<br />

del genere non si sarebbe potuta fare senza una forte volontà e senza il denaro che<br />

permette di avere volontà e speranza di soddisfarla, ragion per cui i forzieri del paese<br />

pagarono a testa i conti del gigantesco appalto, per il quale naturalmente a suo tempo<br />

era stato ordinato un tributo generale che colpì tutta la popolazione, non secondo il<br />

livello delle rendite di ciascun cittadino, ma in funzione e in ordine inverso alla<br />

speranza di vita, come fu spiegato che fosse giusto, e compreso da ognuno: quanto più<br />

avanti nell’età tanto più alta l’imposta.<br />

Molti furono gli eventi da segnalare in un’impresa di simile portata, molte le<br />

133


difficoltà, non poche le vittime tirate in ballo dopo la sepoltura, cadute dall’alto<br />

mentre gridavano invano per aria, o falciate all’improvviso da un’insolazione, o<br />

repentinamente congelate e rimaste lì per sempre, linfa, urina e sangue sulla fredda<br />

pietra. Tutte tirate in ballo. Ma l’espressione del genio, l’immortalità provvisoria,<br />

eccetto quella che, intrinseca, veniva assicurata al re per maggior tempo, toccò in sorte<br />

e merito al modesto impiegato secondo il quale non erano indispensabili i portoni che,<br />

in base al progetto originale, avrebbero dovuto chiudere le mura. Aveva ragione lui.<br />

Sarebbe stato assurdo costruire e montare dei portoni che dovessero rimanere sempre<br />

aperti, a tutte le ore del giorno e della notte. Grazie all’attento impiegato, un po’ di<br />

denaro fu risparmiato, la somma corrispondente a venti portoni, quattro principali e<br />

sedici secondari, distribuiti equamente nei quattro lati del quadrato e secondo una<br />

disposizione logica in ciascuno: il principale al centro e due su ogni parte del muro a<br />

esso laterale. Quindi non c’erano porte, ma delle aperture dove finivano le strade. Le<br />

mura non avevano bisogno dei portoni per reggersi in piedi: erano solide, larghe alla<br />

base fino all’altezza di tre metri e poi si assottigliavano a scala fino alla cima, a nove<br />

metri dal suolo. Inutile aggiungere che le strade laterali erano servite da diramazioni<br />

che defluivano dalla strada principale a una distanza conveniente. Come sarebbe<br />

inutile aggiungere che questo schema, geometricamente tanto semplice, era collegato,<br />

tramite opportuni raccordi, alla rete viaria generale del paese. Se tutto andava<br />

dappertutto, tutto sarebbe finito lì.<br />

La costruzione, quattro mura servite da quattro strade, era un cimitero. E questo<br />

cimitero sarebbe stato l’unico del paese. così era stato deciso dalla regal persona.<br />

Quando la suprema grandezza e la suprema sensibilità si combinano in un re, è<br />

possibile un cimitero unico. Grandi lo sono tutti i re, per definizione e per nascita: se<br />

qualcuno volesse non esserlo, lo desidererebbe invano (persino le eccezioni di altre<br />

dinastie, lo sono fra pari). Ma sensibili possono esserlo o meno, e non stiamo parlando<br />

qui di quella banale, plebea sensibilità che si esprime con una lacrima all’angolo<br />

dell’occhio o con un tremore irreprimibile del labbro, ma di ben altra sensibilità, che<br />

solo questa volta, e con questa intensità, si è verificata nella storia del paese, e non<br />

sappiamo ancora se addirittura del mondo: la sensibilità dovuta a incapacità di<br />

sopportare la morte o la semplice vista dei suoi apparati, dei suoi accessori e delle sue<br />

manifestazioni, sia il dolore dei parenti sia i segni commerciali del lutto. Così era<br />

questo re. Come tutti i re, e come del resto i presidenti, doveva viaggiare, visitare i<br />

suoi domini, accarezzare i bambini che il protocollo sceglieva in anticipo, accettare i<br />

fiori che la polizia segreta aveva prima controllato in cerca di veleno o di bombe,<br />

tagliare alcuni nastri dai colori solidi e atossici. Tutto questo e altro ancora il re lo<br />

faceva di buon grado. Ma in ogni viaggio soffriva mille pene: morte, dovunque morte,<br />

segnali di morte, la punta aguzza di un cipresso, l’abito nero di una vedova e, non di<br />

rado, dolore insopportabile, l’inatteso corteo funebre che il protocollo aveva ignorato<br />

imperdonabilmente o che, in ritardo o in anticipo, compariva nel momento più che mai<br />

rispettabile in cui il re stava passando o era sul punto di passare. Ogni volta il re, di<br />

ritorno angosciato al palazzo, credeva di morire lui. E fu perché aveva sofferto tanto<br />

per i dolori altrui e per il proprio personale patimento che un giorno, mentre stava<br />

riposando nel terrazzo più alto della reggia, vide in lontananza (giacché quel giorno<br />

l’atmosfera era limpida come non lo era mai stata in tutta la storia non solo di quella<br />

134


dinastia ma di tutta quella civiltà) lo splendore di quattro inconfondibili pareti bianche<br />

ed ebbe la banale idea che finì per diventare il cimitero unico, centrale e obbligatorio.<br />

Per un popolo che, nel corso di millenni, si era abituato a seppellirsi i morti<br />

praticamente davanti agli occhi e alle finestre, fu una rivoluzione terribile. Ma chi<br />

temeva una rivoluzione cominciò a temere il caos quando l’idea del re, con<br />

quell’andatura ampia e decisa che hanno le idee, tanto più se regali, andò oltre e arrivò<br />

fino a quello che i maldicenti definirono delirio: tutti i cimiteri del paese avrebbero<br />

dovuto essere svuotati di ossa e di resti, quale che fosse il loro grado di<br />

decomposizione, e tutto andava ficcato a caso in nuove casse che sarebbero state<br />

trasportate e sotterrate nel nuovo cimitero. All’ordine non sfuggivano neppure le regie<br />

polveri degli antenati del sovrano: si sarebbe costruito un nuovo pantheon, magari in<br />

uno stile ispirato alle antiche piramidi egizie, e lì, a suo tempo, quando la vita del<br />

paese fosse tornata all’antica e disponibile tranquillità, con tutti gli onori, procedendo<br />

lungo la strada principale a Nord fra ali rispettose di abitanti, sarebbero finite, quale<br />

ultima dimora, le venerande ossa di tutto quanto si fosse mai posto una corona in capo<br />

fin da colui che, per primo, aveva saputo dire, e convincere gli altri con le parole e la<br />

violenza: «voglio una corona per la mia testa, fatela». C’è chi afferma che tale<br />

egalitaria decisione fu ciò che maggiormente contribuì a placare gli animi di quanti si<br />

vedevano depredati della loro parte di morti. Naturalmente, deve pur avere avuto il<br />

suo peso quella tacita soddisfazione di quanti altri, invece, consideravano un dovere<br />

ben noioso le norme e le tradizioni che fanno dei morti, per la servitù che richiedono,<br />

esseri di transizione fra una non più vita e una non ancora vera e propria morte.<br />

All’improvviso, tutta la gente cominciò a pensare che l’idea del re fosse la migliore<br />

mai nata nella testa di qualcuno, che nessun popolo poteva onorarsi di avere un re del<br />

genere, e visto che il destino aveva deciso che un tale re nascesse e regnasse lì, al<br />

popolo spettava obbedirgli, a cuor contento, ma anche per conforto dei morti, non<br />

meno meritevoli. Nella storia dei popoli vi sono momenti di vera esultanza: questo<br />

momento lo fu, questo popolo lo ebbe.<br />

Concluso finalmente il cimitero, cominciò la grande operazione di<br />

disseppellimento. Nei primi tempi non fu facile: le migliaia di cimiteri esistenti, fra<br />

grandi, medi e piccoli, erano anch’essi delimitati da mura, e all’interno del loro<br />

perimetro, per così dire, bastava scavare fino alla profondità stabilita di tre metri per<br />

maggiore sicurezza e insaccare tutto, metri cubi e metri cubi di ossa, assi di legno<br />

marcite, corpi smembrati dalle scavatrici, e poi ficcare tutto in casse di varie<br />

dimensioni, dal neonato all’adulto ben robusto, riversando in ciascuna di esse una<br />

certa quantità di ossa o carne, anche alla rinfusa, magari due crani e quattro mani,<br />

magari una minutaglia di costole, magari un seno ancora sodo e un ventre flaccido,<br />

magari, infine, una semplice scheggia o il dente di Buddha o l’omoplata del santo, o<br />

ciò che del sangue di san Gennaro è rimasto nell’ampolla miracolosa. Si affermò il<br />

principio che ogni parte di un morto sarebbe stata un morto intero, e con ciò si<br />

allinearono i partecipanti nell’infinito funerale che da tutti gli angoli remoti del paese,<br />

dai villaggi, dai paesi e dalle città, si dirigeva scrupolosamente, lungo strade che si<br />

allargavano sempre più, fino alla rete viaria generale e da lì, tramite i raccordi<br />

appropriatamente costruiti, verso le strade che da allora in poi furono dette dei morti.<br />

All’inizio, come si è appena spiegato, non vi furono difficoltà. Ma poi a qualcuno<br />

135


venne in mente, a meno che il merito dell’idea non dovesse andare ancora al prezioso<br />

monarca del paese, che prima dell’obbligatoria disciplina dei cimiteri i morti erano<br />

stati sepolti un po’ dappertutto, sulle montagne e nelle valli, sui sagrati delle chiese,<br />

all’ombra degli alberi, sotto il pavimento delle stesse case in cui avevano vissuto,<br />

ovunque capitasse, solo un po’ più in profondità della profondità che raggiunge, per<br />

esempio, la punta dell’aratro. E per non dire delle guerre, delle grandi fosse con<br />

migliaia di cadaveri sparse dovunque in Asia e in Europa e in altri continenti, anche se<br />

forse con qualche morto in meno, visto che di guerre ce n’erano state naturalmente<br />

anche nel regno di questo re e quindi c’erano corpi sotterrati a casaccio. Fu un<br />

momento di grande perplessità, bisogna confessarlo. Lo stesso monarca, ammesso che<br />

fosse stata sua la nuova idea, non la tacque solo perché gli sarebbe stato impossibile.<br />

Si inviarono nuovi ordini e, visto che il paese non poteva essere messo sottosopra da<br />

un capo all’altro, com’erano stati messi sottosopra i cimiteri, dal re furono convocati i<br />

saggi per ascoltare dalla real persona l’ingiunzione: inventare al più presto qualche<br />

strumento capace di individuare la presenza di corpi o resti sotterrati, così come si<br />

erano inventati gli strumenti per trovare acqua o metalli. La questione era di una certa<br />

importanza, ammisero i saggi subito riuniti in seminario. Tre giorni passarono a<br />

discutere, e poi ciascuno si chiuse nel proprio laboratorio. Si riaprirono i forzieri dello<br />

stato e fu ordinato un nuovo versamento generale. Il problema finì per essere risolto,<br />

ma, come sempre in tali casi, non certo d’un sol colpo. Per fare un esempio, basti<br />

citare il caso di quel saggio che inventò uno strumento che emetteva un segnale<br />

luminoso e un segnale acustico quando incontrava qualche corpo, ma che aveva il<br />

difetto capitale di non distinguere fra corpi vivi e corpi morti. Il risultato fu che lo<br />

strumento, logicamente manovrato da gente viva, si comportava come un ossesso,<br />

stridendo e agitando lancette luminose, diviso fra tutte le sollecitazioni vive e morte<br />

che lo circondavano e, in conclusione, incapace di dare un’informazione sicura. Tutto<br />

il paese se la rise del disastrato uomo di scienza, ma lo onorò con elogi e premi<br />

quando lui stesso, mesi dopo, trovò la soluzione introducendo nell’apparecchio una<br />

specie di memoria o idea fissa: affinando l’udito si riusciva a percepire all’interno del<br />

meccanismo una voce che ripeteva senza sosta: «devo trovare solo corpi morti o resti,<br />

devo trovare solo corpi morti o resti, o resti, corpi morti, o resti, o resti...»<br />

Fortunatamente, anche così vi fu un errore, come si vedrà. Appena lo strumento<br />

entrò in funzione, si appurò subito che, adesso, non distingueva fra corpi umani e non<br />

umani, ma questo nuovo difetto, ed ecco il motivo per cui si è detto prima<br />

fortunatamente, si dimostrò essere un bene: quando il re comprese il pericolò a cui era<br />

sfuggito, rabbrividì. In realtà, qualunque tipo di morte è morte, anche quella non<br />

umana: non serve a niente sottrarre agli occhi la visione degli uomini morti, se<br />

continuano a morire i cani, i cavalli e gli uccelli. E tutto il resto, tranne forse gli<br />

insetti, che sono organici solo a metà (com’era convinzione ben salda della scienza del<br />

paese e del tempo). Allora fu ordinata la grande indagine, il ciclopico lavoro che durò<br />

per anni. Non rimase neppure un palmo di terra insondato, fino a quei luoghi a<br />

memoria d’uomo disabitati da sempre: non sfuggirono le più alte montagne; non<br />

sfuggì il fondo dei fiumi, dove furono ritrovati sotto il fango migliaia di annegati; e<br />

non sfuggì il segreto delle radici, talvolta intrecciate a quanto rimaneva di chi aveva<br />

cercato o cui era capitato di avere bisogno della linfa propria degli alberi. E non<br />

136


sfuggirono neppure le strade, che si dovettero scavare in molti punti e poi ricostruire.<br />

Infine il regno si vide liberato dalla morte. Il giorno in cui il re, con le proprie labbra e<br />

la propria voce, annunciò ufficialmente che il paese era ormai mondato della morte<br />

(parole sue) fu dichiarato festivo e festa nazionale. In giorni del genere è costume che<br />

muoia un certo numero di persone in più del normale, per disastri, aggressioni, ecc.,<br />

ma il servizio nazionale di vita (com’era stato denominato) si serviva di metodi<br />

moderni e rapidi: verificato il decesso, il corpo proseguiva immediatamente per la via<br />

più breve verso la grande strada dei morti, la quale, necessariamente, cominciò a<br />

essere considerata a tutti gli effetti terra di nessuno. Liberatosi così dei morti, il re era<br />

felice. Quanto al popolo, avrebbe dovuto abituarsi.<br />

La prima abitudine da recuperare sarebbe stata l’abitudine alla calma, quella calma<br />

della mortalità naturale che consente alle famiglie di passare indenni dai lutti per anni<br />

e anni, e talvolta svariati, nel caso in cui le suddette famiglie non siano numerose. Si<br />

può dire, senza esagerazione, che il periodo della traslazione fu un periodo di lutto<br />

nazionale, nel senso più rigoroso dell’espressione, una specie di lutto che proveniva da<br />

sottoterra. Sorridere, in quegli anni dolorosi, sarebbe stato, per chi avesse osato farlo,<br />

una degradazione morale: non è decoroso sorridere quando un parente, sia pure<br />

lontano, sia pure cugino di un cugino, viene riesumato dalla fossa, tutto intero o a<br />

brandelli, o ricade dall’alto, dal cestello della scavatrice, nella cassa nuova, un tanto a<br />

cassa, come se si riempissero stampi di torte o di mattoni. Dopo quel lunghissimo<br />

periodo in cui l’espressione fisionomica delle persone si era mantenuta abitualmente<br />

nella manifestazione di un nobile e sereno dolore, tornavano il sorriso, il riso, e<br />

persino la risata, o la battuta, o lo scherno, e prima l’ironia e l’umorismo, tornava tutto<br />

a riacquistare quanto di vitalistico e di celata lotta contro la morte possedeva.<br />

Ma la calma non era solo quella di uno spirito rientrato nei soliti binari dopo il<br />

grande impatto, era anche la tranquillità del corpo, perché a parole non si può<br />

esprimere ciò che rappresentò per la popolazione viva lo sforzo richiesto e per tanto<br />

tempo. Non furono solo le opere di edilizia, l’apertura di strade, di ponti, di tunnel, di<br />

viadotti; non fu solo la ricerca scientifica, di cui si è già data una pallida e parziale<br />

idea; fu anche l’industria del legname, dall’abbattimento degli alberi (foreste su<br />

foreste) al taglio delle assi, all’essiccamento con procedimenti accelerati, al montaggio<br />

di urne e casse per cui fu necessaria l’installazione di grandi attrezzature meccaniche<br />

per la produzione in serie; fu anche, come si è appena accennato, la riconversione<br />

temporanea dell’industria siderurgico-meccanica per soddisfare le richieste di<br />

apparecchiature e materiale vario, a cominciare dai chiodi e dai flessibili; furono i<br />

tessili, le passamanerie per rivestimenti e addobbi; fu l’industria dei marmi e delle<br />

pietre da taglio, che d’improvviso cominciò a sventrare a sua volta la terra per<br />

rispondere al bisogno di tante pietre tombali, di tanti capezzali scolpiti o semplici; e<br />

furono piccole attività quasi artigianali, come la creazione di iscrizioni in nero o in<br />

oro, quella della smaltatura fotografica, quella della lattoneria e del vetro, quella dei<br />

fiori artificiali, quella delle candele e dei ceri, ecc., ecc., ecc. Ma forse il maggior<br />

sforzo fu compiuto dall’industria dei trasporti, senza la quale peraltro nessuna parte<br />

dell’impresa avrebbe potuto essere portata avanti.<br />

Neanche questo sforzo si riuscirebbe a esprimere a parole, fin dal suo punto di<br />

origine, fin dall’industria dei camion e altri tipi di macchinari pesanti, a sua volta<br />

137


costretta a riconvertirsi, a modificare i piani di produzione, a organizzare nuove catene<br />

di montaggio, fino alla consegna delle casse nel nuovo cimitero: si provi a immaginare<br />

la complessità della pianificazione di orari integrati, i tempi di trasferimento e<br />

confluenza, il successivo inserimento delle file di autoveicoli in flussi<br />

progressivamente più sovraccarichi, il tutto in armonia con la normale circolazione dei<br />

vivi, sia nei giorni feriali che nei giorni festivi, sia per diletto che per dovere, e senza<br />

dimenticare le infrastrutture: ristoranti e locande lungo il percorso perché i camionisti<br />

potessero mangiare e dormire, piazzole di sosta per i grandi camion, qualche<br />

distrazione per alleviare le tensioni dello spirito e del corpo, linee telefoniche, posti di<br />

soccorso e assistenza, officine per riparazioni meccaniche ed elettriche, stazioni di<br />

rifornimento di benzina, olio, gasolio, pneumatici, pezzi di ricambio, ecc. Tutto ciò,<br />

come si può notare facilmente, a sua volta animava altre industrie in un circuito di<br />

reciproca vivificazione, generatrice di ricchezza, al punto che fu raggiunta, al livello<br />

più alto della curva di produzione, la piena occupazione. Naturalmente, a quel periodo<br />

seguì una depressione, che peraltro non sorprese nessuno, giacché era nelle previsioni<br />

degli esperti in economia. L’effetto negativo di questa depressione finì per essere<br />

ampiamente compensato, così come avevano previsto gli psicologi sociali,<br />

dall’irrepremibile desiderio di riposo che, raggiunto il punto di saturazione<br />

occupazionale, cominciò a manifestarsi tra la popolazione. Si entrava realmente nella<br />

normalità.<br />

Nel centro geometrico del paese, aperto ai quattro venti principali, si trova il<br />

cimitero. Assai meno di un quarto dei suoi cento chilometri quadrati fu occupato dai<br />

corpi traslati, e questo portò un gruppo di <strong>matematici</strong> a voler dimostrare, conti alla<br />

mano, che il terreno da utilizzare per le nuove inumazioni avrebbe dovuto essere<br />

molto maggiore, tenendo conto del numero probabile di morti dall’inizio del<br />

popolamento del paese e l’occupazione media di spazio per corpo, sia pur togliendo<br />

quelli che, essendo ormai cenere e polvere, non potevano più essere recuperati.<br />

L’enigma, ammesso che lo fosse realmente, rimase comunque a intrattenimento delle<br />

generazioni, come la quadratura del cerchio o la duplicazione del cubo, giacché i saggi<br />

cultori delle discipline connesse alla biologia dimostrarono davanti al re che in tutto il<br />

paese non era rimasto da riesumare un solo corpo degno di tal nome. Dopo avere<br />

riflettuto lungamente, fra la fiducia e lo scetticismo, il re emanò un decreto con cui la<br />

disputa si riteneva conclusa. Fu per lui un argomento decisivo il sollievo che cominciò<br />

a provare quando riprese i viaggi e le visite: se non vedeva la morte, evidentemente la<br />

morte non c’era più.<br />

Benché il piano iniziale obbedisse a criteri più razionali, l’occupazione del cimitero<br />

avvenne dalla periferia verso il centro. Prima vicino alle porte e rasente ai muri poi<br />

secondo una curva che cominciò con l’avvicinarsi alla radiale perfetta e con il tempo<br />

divenne cicloide, una fase peraltro anch’essa transitoria del cui futuro non spetta a<br />

questo racconto occuparsi. Ma tale sorta di cornice interna che si modellava lungo i<br />

muri, dai quali era separata, già durante il lavoro di traslazione si riflesse quasi<br />

simmetricamente in una corrispondente forma viva all’esterno delle mura. Non si era<br />

previsto che accadesse, ma vi fu comunque chi affermò che solo uno stupido non lo<br />

avrebbe immaginato.<br />

Il primo segnale, come una piccolissima spora da cui sarebbe nata una pianta, e da<br />

138


questa un cespuglio, e poi una macchia, e dopo una vera e propria foresta, fu<br />

un’improvvisata tenda per la vendita di bibite e bevande varie, accanto a una delle<br />

porte secondarie del muro a sud. Anche se ristorati via facendo, i camionisti<br />

apprezzarono di trovare lì un nuovo ristoro. In seguito, altri piccoli negozi di rami<br />

commerciali identici o affini si installarono presso quella porta e presso le altre, e chi<br />

li gestiva dovette necessariamente costruire lì le proprie case, dapprima rozze, alla<br />

meglio, poi con materiali più stabili, mattoni, pietre, tegole, destinati a restare e<br />

durare. Vale la pena osservare di sfuggita che fin da quelle prime costruzioni si<br />

distinsero, a) sottilmente, b) dalle vetrine, i tenori sociali, se è consentito dirlo, dei<br />

quattro lati del quadrato. Come tutti i paesi, anche questo non era uniformemente<br />

popolato; né i suoi abitanti, malgrado fosse grande la regal compiacenza, erano<br />

socialmente simili. C’erano ricchi e c’erano poveri, e la distribuzione degli uni e degli<br />

altri obbediva a ragioni universali: il povero attrae il ricco fino a una distanza efficace<br />

per quest’ultimo; a sua volta, il ricco attrae il povero, il che non significa che<br />

l’efficacia (denominatore costante del processo) agisca a favore del povero. Se per le<br />

ragioni valide per i vivi il cimitero, dopo la traslazione generale, cominciò a<br />

suddividersi all’interno in compartimenti, la stessa cosa cominciò a distinguersi<br />

all’esterno. Quasi non sarebbe necessario spiegare il motivo. Poiché la regione con più<br />

ricchi era la regione a Nord, quel lato del cimitero assunse, nel suo modo<br />

monumentale di occupare lo spazio, un’espressione sociale opposta, per esempio, a<br />

quella del lato sud, corrispondente proprio alla regione più misera. Lo stesso avveniva,<br />

in genere, per gli altri lati. A ciascuno il proprio simile. Anche se in maniera meno<br />

definita, l’esterno accompagnava l’interno. Per esempio i fiorai, che ben presto<br />

cominciarono a comparire ai quattro lati del quadrato, non vendevano tutti la stessa<br />

merce: c’erano quelli che esponevano e vendevano fiori preziosi, nati e cresciuti in<br />

giardini e serre dispendiose, mentre altri erano gente modesta che andava a raccogliere<br />

i fiori spontanei nei campi circostanti. E si dice fiori per indicare tutto il resto che vi si<br />

andò installando, com’era prevedibile, affermavano adesso gli impiegati sommersi di<br />

richieste e di reclami. Non si deve dimenticare che il cimitero aveva<br />

un’amministrazione complessa, un bilancio proprio, migliaia di becchini. Nei primi<br />

tempi, gli impiegati delle diverse categorie abitarono all’interno del quadrato, nella<br />

parte centrale, ben lontano dalla vista delle tombe. Ma ben presto nacquero i problemi<br />

della gerarchia, dei rifornimenti, delle scuole per i bambini, degli ospedali, delle<br />

maternità. Che cosa fare? Costruire una città dentro il cimitero? Sarebbe stato un<br />

ritorno all’origine, senza contare che con il passare degli anni la città e il cimitero si<br />

sarebbero invasi reciprocamente, con i sepolcri a penetrare negli spazi delle strade o a<br />

rappresentare i palazzi e le strade che si sarebbero insinuate fra i sepolcri in cerca di<br />

spazio per le case. Avrebbe voluto dire tornare all’antica promiscuità, ora aggravata<br />

dal fatto che le cose avvenivano entro un quadrato di dieci chilometri per lato con<br />

poche vie d’uscita all’esterno. Bisognò allora scegliere tra una città di vivi circondata<br />

da una città di morti oppure, unica alternativa, una città di morti circondata da quattro<br />

città di vivi. Quando la scelta fu formalizzata e, oltretutto, divenne chiaro che tutti<br />

coloro che seguivano i cortei funebri non sempre potevano fare immediatamente il<br />

viaggio di ritorno, spesso lungo e molto faticoso, sia per mancanza di forze sia perché<br />

non riuscivano a separarsi bruscamente dai loro cari, le quattro città esterne vissero un<br />

139


momento di urbanizzazione accelerata, e proprio perciò caotica. C’erano pensioni in<br />

ogni strada e di ogni categoria, alberghi a una, due, tre, quattro, cinque stelle e di<br />

lusso, bordelli a profusione, chiese di tutte le confessioni riconosciute legalmente e<br />

alcune clandestine, botteghe a carattere familiare e grandi magazzini, un’infinità di<br />

case, palazzi con uffici, delegazioni, sedi municipali varie. Seguirono i trasporti<br />

collettivi, il mantenimento dell’ordine, la circolazione forzata, il problema del traffico.<br />

E un certo grado di delinquenza. Un solo punto fermo si manteneva: tenere i morti<br />

fuori dalla vista dei vivi, e quindi nessun edificio poteva essere più alto di nove metri.<br />

Anche questo problema, però, finì per trovare soluzione in seguito, quando un<br />

fantasioso architetto inventò l’uovo di Colombo: muri più alti di nove metri per edifici<br />

più alti di nove metri.<br />

Con il passare del tempo, il muro del cimitero divenne irriconoscibile: invece della<br />

levigata uniformità iniziale che si prolungava per quaranta chilometri, si cominciò a<br />

vedere un dentellato irregolare, anch’esso variabile nell’intensità e nell’altezza, in<br />

base al lato del muro. Nessuno ha più memoria di quando fosse stato ritenuto<br />

conveniente far montare infine i portoni del cimitero. L’impiegato che aveva pensato<br />

di risparmiare questa spesa era morto e passato all’interno e non poteva più difendere<br />

la propria tesi un tempo buona, ma adesso insostenibile, come egli stesso non avrebbe<br />

potuto esimersi dal riconoscere: cominciavano a diffondersi storie di anime dell’aldilà,<br />

di fantasmi e apparizioni. Che cos’altro si poteva fare se non montare i portoni?<br />

Quattro grandi città si frapposero così fra il regno e il cimitero, ciascuna rivolta<br />

verso il proprio punto cardinale, quattro città inattese che cominciarono a chiamarsi<br />

Cimitero-Nord, Cimitero-Sud, Cimitero-Oriente, Cimitero-Occidente, ma che poi<br />

furono più benignamente battezzate e denominate, nell’ordine, Uno, Due, Tre e<br />

Quattro, giacché si erano rivelati inutili tutti i tentativi di attribuire loro nomi più<br />

poetici o commemorativi. Queste quattro città erano quattro barriere, quattro muraglie<br />

vive di cui il cimitero si circondava e con le quali si proteggeva. Il cimitero<br />

rappresentava cento chilometri quadrati di silenzio e solitudine quasi totali, circondati<br />

dal formicaio esterno dei vivi, da grida, da clacson, da risate, da frasi sconnesse, da<br />

rombi di motori, dall’incessante mormorio delle cellule. Arrivare al cimitero era<br />

diventata un’avventura. All’interno delle città, dopo tanti anni, nessuno riusciva a<br />

ricostruire il tracciato rettilineo delle antiche strade. Era facile dire dove<br />

probabilmente passavano un tempo: bastava mettersi in direzione del portone<br />

principale di ciascun lato. Ma, tranne alcune porzioni più grandi di pavimentazione<br />

riconoscibile, il resto si perdeva nella confusione degli edifici e delle strade, all’inizio<br />

improvvisate e poi sovrappostesi all’originario tracciato. Solo in aperta campagna la<br />

strada era ancora la strada dei morti.<br />

E poi accadde l’inevitabile, ma non si sa ancora in definitiva chi vi diede inizio e<br />

quando. Un’indagine sommaria, effettuata in seguito, accertò alcuni casi persino nella<br />

periferia esterna della Città Due, la più povera di tutte, quella rivolta a sud, come si è<br />

già detto: corpi seppelliti in piccoli giardini domestici, sotto i fiori vivi che si<br />

rinnovano a ogni primavera. Nello stesso periodo, come quelle grandi invenzioni che<br />

irrompono in più cervelli simultaneamente perché è arrivato il loro tempo e sono<br />

maturate, in luoghi poco abitati del regno alcune persone decisero, per tante, svariate e<br />

talvolta opposte ragioni, di seppellire i morti proprio lì accanto, dentro grotte, ai lati di<br />

140


sentieri nelle foreste o sul pendio riparato di un monte. Allora la sorveglianza era<br />

molto meno attiva e abbondavano gli impiegati che accettavano di farsi subornare. Il<br />

servizio generale di statistica informò che, secondo i registri ufficiali, si stava<br />

verificando un calo accentuato della mortalità il che all’inizio fu logicamente portato a<br />

credito della politica sanitaria del governo, sottoposta alla suprema autorità del re. Le<br />

quattro città del cimitero subirono le conseguenze del ridotto afflusso di morti. Certi<br />

commerci subirono danni, vi furono non pochi fallimenti, alcuni fraudolenti, e quando<br />

infine fu riconosciuto che la regal politica sanitaria, per quanto eccellente fosse, non<br />

era certo in grado di concedere l’immortalità, fu emanato un decreto rigidissimo per<br />

ricondurre le popolazioni all’obbedienza. Non servì a molto: dopo una breve fiammata<br />

di animazione, le città ristagnarono e decaddero. Lentamente, molto lentamente, il<br />

regno cominciò a ripopolarsi di morti. Il grande cimitero centrale si ridusse infine ad<br />

accogliere solo i cadaveri delle quattro città circostanti, sempre più abbandonate, più<br />

silenziose. A questo, però, il re non assistette.<br />

Era molto vecchio, il re. Un giorno, mentre si trovava nel terrazzo più alto della<br />

reggia, vide, pure con i suoi occhi molto stanchi, la punta acuta di un cipresso che<br />

svettava su quattro mura bianche, che magari poteva essere il segnale di un giardino, e<br />

forse lo era davvero, e non di morte. Ma vi sono cose che s’indovinano senza<br />

difficoltà soprattutto quando si è molto vecchi. Il re collegò nella sua mente le notizie<br />

e le voci, quello che gli dicevano e quello che gli nascondevano, e si rese conto che<br />

era arrivata l’ora di capire. Seguito da una guardia, come prescriveva il protocollo,<br />

scese nel parco del palazzo. Trascinando il mantello regale, proseguì lungo un filare di<br />

alberi che conduceva nel folto del bosco. Lì, presso una radura, si distese, si distese<br />

sulle foglie secche e così, disteso, fissò la guardia che si era inginocchiata e, prima di<br />

morire, disse: Qui.<br />

141


Ragazzo<br />

di Dario Voltolini<br />

C’era una volta un ragazzo che di mestiere recapitava le pizze a domicilio. La cosa<br />

era organizzata bene: telefonando a una specie di centralino si faceva l’ordinazione e,<br />

a seconda del domicilio, la pizzeria convenzionata più vicina cuoceva la pizza. A<br />

questo punto, il ragazzo la andava a prendere e, su di un motorino, la recapitava. Era<br />

vestito con una divisa amaranto, cappellino e tutto. Era basso di statura e<br />

rotondamente sovrappeso. Quando entrava nelle case, posata sul tavolo la scatola con<br />

la pizza, amava dare un’occhiata in giro e fare domande. Se entrava nella casa di un<br />

pittore, vedendo un quadro in preparazione domandava:<br />

— Cioè lei disegna?<br />

E poi cominciava a raccontare che anche lui, una volta, disegnava, ma cose diverse.<br />

Però non riusciva a spiegare bene che genere di cose – bisognava vederle – e quando il<br />

pittore lo congedava con una mancia, questa era un poco più ricca del solito, per<br />

esempio cinquemila lire. Tutte per lui. Non solo nel senso che la mancia uno se la<br />

tiene tutta per sé, ma anche perché normalmente la mancia era un semplice<br />

— Tieni il resto<br />

e allora dipendeva dalle volte, dal tipo di pizza, se c’erano o no le birre, cose<br />

congiunturali.<br />

Quando recapitava la pizza durante la trasmissione di una partita di calcio, sbirciava<br />

il televisore e domandava:<br />

— Cioè quanto sono?<br />

Anche lui, una volta, giocava. Però in porta.<br />

C’era una volta un bambino che non era capace di giocare a pallone e allora lo<br />

mettevano in porta, dove non era capace di parare. Pare che in Spagna parare sia una<br />

cosa molto ambita, hanno avuto Zamora e l’eco non si è mai spenta, così mettersi tra i<br />

pali è una promozione e non una bocciatura. Qui, al contrario, l’antroposociologo<br />

relazionale ha molte cose da dire sull’impatto che possono avere su una persona le<br />

dinamiche di gruppo che la costringono in porta a prendersi, quando va bene,<br />

pallonate agli occhiali.<br />

Mentre tornava a casa, però, era abbastanza contento. Saliva le scale annusando<br />

l’odore dei gatti. Prima di cenare leggeva un fumetto. A volte si distraeva, o meglio si<br />

incantava, fissando le piastrelle esagonali del pavimento. Fu spesso sul punto di<br />

chiedersi come mai un pavimento può essere composto di figure tutte esagonali,<br />

mentre invece un pallone di cuoio deve avere anche alcuni pentagoni. La domanda gli<br />

galleggiava nel cervello per qualche minuto, senza mai precipitare in un pensiero ben<br />

fatto, con tutte le parole a posto, quindi evaporava al minimo movimento.<br />

Nelle sere d’estate scendeva in strada a raggrupparsi con gli amici. Ogni tanto<br />

convinceva quello col motorino a lasciarglielo provare. In bici andava bene e quindi<br />

142


imparò subito, cosa che gli tornò utile quando, abbandonata la scuola<br />

— Cioè per lavorare<br />

riuscì, dopo anni di cui non ricorda più niente, a trovare quel posto da pony delle<br />

pizze.<br />

Andava ancora a scuola, ma erano gli ultimi spasmi di quella storia, quando una<br />

ragazza che portava fuori il cane cominciò a far parte del suo gruppo di amici, le sere<br />

d’estate e anche i pomeriggi. Lui uscendo dal portone si accorgeva subito della sua<br />

presenza, perché lei aveva capelli così chiari e un cane così nero e occhi così vuoti che<br />

sembravano bianchi e tutto quel biancore lui lo notava prima ancora di vederlo anche<br />

se lei aveva un vestito scuro lui vedeva un luogo bianco in mezzo al gruppo dei suoi<br />

amici e anche se lei era magra da morire gli pareva non un chiodo ma una sferica<br />

perla. Ancora anni dopo lei gli tornava in mente nei modi più strani e imprevisti,<br />

vedendo il giocatore argentino Caniggia, per esempio, o la luna. Se i loro sguardi si<br />

incrociavano, il vuoto di quelli di lei lo aspirava. Prese a liberarsi di quei momenti<br />

salendo spesso a casa e ritornando qualche minuto dopo in strada e mentre saliva le<br />

scale l’odore dei gatti gli pulsava nella testa e nelle mani e persino le losanghe<br />

colorate delle finestre sui pianerottoli lo accecavano di giallo di verde di rosso, ma<br />

quando ridiscendeva anche l’ambiente intorno si era un poco placato, non sentiva<br />

odori e le losanghe si erano attutite e restava solo un leggero senso tra glande e<br />

prepuzio.<br />

Ma non è possibile portare in giro pizze per tutta la vita, solo un grande poeta<br />

potrebbe farlo, uno di quelli per cui tutto il resto ha la medesima importanza, magari<br />

grande, ma diversa dalla poesia. Lui lo sapeva benissimo e lo spiegava a chi, dandogli<br />

la mancia, gli domandava notizie sul suo avvenire. Spiegava che quel lavoro andava<br />

bene, ma intanto arrotondava alla grande in altri modi<br />

— Cioè col lotto<br />

perché aveva trovato una specie di metodo, non diceva infallibile, però molto<br />

soddisfacente, e funzionava. Non solamente il lotto anche se le maggiori soddisfazioni<br />

gli venivano da lì: c’era tutto un giro di scommesse e di totoneri e a saperselo<br />

manovrare bene, senza eccessi ma senza tentennamenti, la vincita era sempre certa.<br />

Magari perdevi al lotto, ma recuperavi alle scommesse, insomma il bilancio era in<br />

attivo. Siccome è lo stesso ragionamento di chi, piccolo risparmiatore, gioca in borsa,<br />

molti stando a sentirlo provavano contemporaneamente un moto di simpatia e uno di<br />

repulsione, era simile e diverso, faceva come loro, ma non in banca, al bar.<br />

Era uno con un progetto. Non era andato a bottega da un gommista che l’avrebbe<br />

pagato meglio, perché solo potendosi spostare nei quartieri della città col motorino<br />

avrebbe tenuto tesa la fitta rete di contatti per il lotto e le scommesse complicate sul<br />

minuto in cui avrebbe segnato Schillaci e pareggiato Caniggia. Sbandava infilandosi<br />

in una rotaia – colpa di Caniggia – ma presto si riprendeva.<br />

Restava nel mondo della pizza a domicilio perché gli serviva. Quando avesse avuto<br />

soldi a sufficienza, si sarebbe comprato una cosa<br />

— Cioè un bar<br />

mettendosi in proprio, ma non finiva lì. Il bar della sua mente era un trampolino di<br />

143


attività, biliardo videogiochi scommesse; e probabilmente lui immaginava se stesso al<br />

piano di sopra perfezionare il metodo del lotto e poi scendere nel suo bar da una scala<br />

a chiocciola e nel retro del bar pavimentare un campo da calcetto e mettere su un<br />

centralino per servizio baristico a domicilio. Avrebbe dovuto assumere qualche pony.<br />

Questo pensiero lo fa fermare, a metà della sua scala a chiocciola, a riflettere. Dal<br />

basso salgono i rumori delle stecche sulle palle, i profumi delle piadine. Lui deve<br />

assumere un pony. C’è una geometria in questa cosa, un cerchio. Torna nel suo<br />

ufficio. Vuole girarselo per bene fra le dita questo pensiero. Si siede alla scrivania. Dai<br />

vetri colorati della finestra entra un mondo organizzato in losanghe. La apre, gli piace<br />

il vento in faccia, come quando faceva il pony.<br />

Pensa alla fatica fatta per far quadrare il cerchio della sua esistenza, di come possa<br />

dirsi soddisfatto per essere sul punto di riuscirci, ma non è esattamente questo. Torna a<br />

sedersi. Mette ordine sul piano di lavoro, accostando fogli e sottobicchieri, schedine e<br />

agende. E finalmente lo acchiappa, il pensiero. Il pensiero di come un pavimento<br />

possa essere fatto di soli esagoni e un pallone invece no. A meno che. A meno che,<br />

aspetta un po’, a meno che il pallone non sia enorme, come la madre terra, che può<br />

infatti essere pavimentata tutta di soli esagoni, perché se posso fare un pavimento<br />

posso farlo grande come pare a me. D’altra parte un pavimento così rotondo, posso<br />

farlo anche con qualche pentagono, come fosse un pallone. Sorride. Un problema, per<br />

risolverlo, bisogna che i suoi pezzi possiamo stiracchiarli, deve essere fatto di pezzi<br />

elastici e noi essere forti per tenderli, ma non basta questo, bisogna anche non<br />

smettere mai di tenderli, essere disposti a farlo sempre, se è il caso, fin dove non si sa,<br />

anzi, sì che si sa, oltre e oltre<br />

— Cioè all’infinito, — dice al pony che ha appena assunto. Il ragazzo lo guarda<br />

preoccupato.<br />

144


Naturalmente<br />

di Fredric Brown<br />

Henry Blodgett guardò l’orologio da polso: erano le due del mattino. Angosciato,<br />

chiuse di colpo il libro di testo sul quale aveva studiato e lasciò che la testa gli cadesse<br />

sulla scrivania. Non avrebbe mai superato l’esame del giorno seguente: più studiava la<br />

geometria, meno ci capiva qualcosa. La matematica in genere gli era sempre riuscita<br />

difficile, ma stava scoprendo che gli era addirittura impossibile capire la geometria.<br />

Se fosse stato bocciato, aveva chiuso con l’università: nei primi due anni era già<br />

stato bocciato in altri tre esami, e secondo il regolamento dell’università un’altra<br />

bocciatura avrebbe significato la sua automatica espulsione.<br />

Desiderava ardentemente la laurea, poiché gli sarebbe stata indispensabile nella<br />

carriera che si era scelto. Ormai, solo un miracolo poteva salvarlo.<br />

Si rizzò all’improvviso, colpito da un’idea: perché non tentare con la magia? Si era<br />

sempre interessato di occultismo. Sui libri aveva spesso letto le semplici istruzioni<br />

necessarie per evocare un demone e costringerlo a obbedire alla propria volontà. Fino<br />

ad allora l’aveva sempre considerata una cosa un po’ rischiosa, e quindi non ci aveva<br />

mai provato, ma quella era un’emergenza, e valeva la pena correre un piccolo rischio.<br />

Solo grazie alla magia nera avrebbe potuto diventare da un minuto all’altro un esperto<br />

in geometria.<br />

Prese dallo scaffale il miglior testo sulla magia nera, trovò la pagina che gli serviva<br />

e si rinfrescò la memoria leggendo le poche cose che avrebbe dovuto fare.<br />

Sgombrò con entusiasmo il pavimento spingendo i mobili contro i muri, tracciò col<br />

gesso un pentagono sul tappeto e vi entrò. Pronunciò poi gli incantesimi.<br />

Il demone era decisamente più orribile di quanto si aspettasse, ma raccolse il<br />

coraggio e cominciò ad esporre il proprio problema.<br />

— Non sono mai stato bravo in geometria... — cominciò.<br />

— L’avevo intuito, — disse con gioia sadica il demone.<br />

E con un sorriso di fiamma lo ghermì attraverso le linee di gesso dell’inutile<br />

esagono che Henry aveva disegnato per errore, invece del pentagono che l’avrebbe<br />

protetto.<br />

145


Tennis, trigonometria e tornado<br />

di David Foster Wallace<br />

Quando lasciai il mio distretto squadrato in mezzo alla campagna dell’Illinois per<br />

andare a frequentare l’università dove si era laureato mio padre fra i vivaci rilievi delle<br />

Berkshires nel Massachusetts occidentale, sviluppai un’improvvisa fissazione per la<br />

matematica. Comincio adesso a capirne il motivo. Per uno del Midwest, la matematica<br />

del college produce un’evocazione catartica della nostalgia di casa. Io ero cresciuto in<br />

mezzo a vettori, rette, rette che intersecano rette, griglie – e all’altezza dell’orizzonte,<br />

le ampie linee curve delle forze della natura, il bizzarro assetto topografico a spirale di<br />

un immenso lotto di terra stirata dalle glaciazioni, che si poggia e ruota su placche<br />

geologiche. L’area dietro e sotto queste grandi curve alla giunzione di terra e cielo ero<br />

in grado di disegnarla ad occhio molto prima di sapermi servire degli infinitesimali<br />

come aiuto e degli integrali come schema. La matematica in una scuola dell’Est<br />

collinoso era facile come svegliarsi la mattina: scomponeva i ricordi e li riportava alla<br />

luce. L’analisi matematica era abbastanza alla lettera, un gioco da ragazzi.<br />

Verso la fine della mia infanzia imparai a giocare a tennis sui campi di cemento di<br />

un piccolo parco pubblico ricavato da un pezzo di campagna che era stato azotato<br />

troppe volte per poter essere ancora coltivato. Si trovava nel mio paese, a Phio,<br />

nell’Illinois, una minuscola collezione di silos di granturco e case stile Levittown<br />

dell’epoca della guerra, in cui la gente del posto aveva poco altro da fare a parte<br />

vendere assicurazioni sul raccolto, fertilizzanti azotati ed erbicidi, e riscuotere le<br />

imposte di soggiorno dai giovani professori della vicina università di Champaign-<br />

Urbana, le cui schiere si gonfiarono abbastanza nel boom degli anni Sessanta da<br />

rendere ben chiaro il senso di non sequitur tipo “città dormitorio di campagna”.<br />

Fra i dodici e i quindici anni, io ero un quasi-campione di tennis nella categoria<br />

juniores. Mi feci le ossa sul campo lavorandomi i figli di avvocati e di dentisti ai<br />

piccoli tornei del Country Club di Champaign e Urbana e di lì a poco ammazzavo<br />

intere estati scarrozzato in macchina all’alba alla volta di vari tornei per tutto l’Illinois,<br />

l’Indiana, e l’Iowa. A quattordici anni arrivai al diciassettesimo posto nella classifica<br />

della Sezione Occidentale della United States Tennis Association (dove “occidentale”<br />

è l’antico e decrepito termine con cui l’USTA indica il Midwest: ancora più a ovest<br />

c’erano la Sezione del Sudovest, del Nordovest e del Nordovest Pacifico). Il mio flirt<br />

con l’eccellenza tennistica ebbe molto più a che fare con la zona dove prendevo<br />

lezioni e mi allenavo e con una strana propensione per la matematica intuitiva che con<br />

il talento atletico. Ero, anche per gli standard dell’agonismo juniores, quando ognuno<br />

non è che un bocciolo di potenziale puro, un giocatore di tennis piuttosto privo di<br />

talento. La mia visione di gioco andava bene, ma non ero né robusto né veloce, avevo<br />

146


un torace quasi concavo e dei polsi così sottili che li potevo stringere tra pollice e<br />

mignolo, e riuscivo a colpire una palla da tennis con una potenza o precisione non<br />

maggiore di quella di quasi tutte le ragazze della mia fascia d’età. Quello che sapevo<br />

fare, però, era “Giocare a Tutto Campo”. Questo era un tipico altruismo tennistico che<br />

poteva voler dire ogni genere di cose. Nel mio caso, significava che conoscevo i miei<br />

limiti e i limiti del posto in cui mi trovavo, e mi adattavo di conseguenza. Nelle<br />

condizioni esterne peggiori, io esprimevo il mio meglio.<br />

Ora, le condizioni esterne nell’Illinois centrale sono da un punto di vista<br />

matematico interessanti, e da un punto di vista tennistico terribili. La calura estiva e<br />

l’umidità da far sudare le pareti, la grottesca fertilità del suolo che fa crescere a viva<br />

forza erbe varie ed erbacce a foglia larga attraverso la superficie del campo da tennis, i<br />

moscerini che si nutrono di sudore e le zanzare che proliferano tra le zolle o nei canali<br />

ostruiti dalle alghe che in genere delimitano i campi, le partite notturne quasi<br />

impossibili perché falene e moscerini del letame attirati dalle luci al sodio formano<br />

una piccola galassia intorno a ogni fanale e tutta la superficie del campo illuminata è<br />

una vibrazione di piccole ombre spastiche.<br />

Ma più di tutto il vento. La variabile che più influisce sulle caratteristiche della vita<br />

all’aperto nell’Illinois centrale è il vento. Ci sono molte più barzellette locali di quante<br />

potrei mai ricordarmi sulle banderuole per il vento ammosciate e sui silos inclinati, più<br />

soprannomi locali per i vari tipi di vento di quanti ce ne siano in Lapponia per la neve.<br />

Il vento possiede una personalità, un (brutto) carattere e, indiscutibilmente, programmi<br />

ben precisi. Il vento soffia le foglie d’autunno in linee sinusoidali e archi di forza così<br />

regolari che potresti fotografarli per un libro di testo sulla regola di Cramer e i prodotti<br />

vettoriali delle curve tridimensionali. D’inverno modellava la neve in listelle<br />

abbaglianti che seppellivano le macchine bloccate e costringevano gli abitanti a<br />

spalare non solo i vialetti d’accesso, ma anche i lati delle case; la “tormenta”<br />

dell’Illinois centrale comincia soltanto quando la neve smette di cadere e inizia a<br />

soffiare il vento. La maggior parte della gente a Philo non si pettinava i capelli perché<br />

era fatica sprecata. Sopra le loro acconciature fresche di parrucchiere le signore<br />

portavano certi fazzolettoni di plastica legati sotto il mento ed era una cosa così usuale<br />

che io pensavo fossero indispensabili per una coiffure veramente di classe; sull’East<br />

Coast le ragazze che uscivano con i capelli sciolti e fluenti sulle spalle mi sembravano<br />

nude e indecenti. Vento, vento e poi ancora vento...<br />

La gente che conosco che viene da fuori sintetizza l’essenza del Midwest in vuota<br />

piattezza, landa sterile, campi di felci verdi o di stoppie corte e dure come la barba del<br />

pomeriggio, lievi gibbosità e declivi che rendono la topologia del posto un esercizio<br />

sadico di rilevamento di quadriche, un panorama dall’autostrada talmente monotono e<br />

arido da far uscire pazzi gli automobilisti. Quelli che vengono<br />

dall’Indiana/Wisconsin/Nord Illinois hanno un’idea del loro Midwest come<br />

agronomia, futures delle derrate agricole, spannocchiatura del granturco, ragazzini che<br />

strappano le erbacce dai campi di soia, berretti delle ditte di sementi, tipologie<br />

nordiche con pomi sulle guance, sidro e macellazione e tornei di football con banchi di<br />

foschia formati dal fiato che esce dai caschi. Ma nella strana sacca centrale composta<br />

da Champaign-Urbana, Rantoul Philo, Mahomet-Seymour, Mattoon, Farmer City e<br />

Tolono, il vento forma e deforma la vita del Midwest. Climaticamente, il nostro<br />

147


distretto si trova sulla parte orientale di una corrente ascendente di quella che una<br />

volta ho sentito chiamare da un meteorologo in tweed marrone una «anomalia<br />

termica». Qualcosa che aveva a che fare con le rotazioni verso sud di una sorta di<br />

matrimonio misto tra l’aria frizzante proveniente dai Grandi Laghi e l’umida robaccia<br />

del sud che viene dal Kentucky e dall’Arkansas, più una strana dose di assurdi zefiri<br />

dalla valle del Mississippi situata tre ore a ovest. Chicago chiama se stessa la Città del<br />

vento, ma Chicago, un unico grande frangivento, non è assolutamente a conoscenza di<br />

un autentico vento di tipo religioso. E i meteorologi non avevano niente da dire alle<br />

persone di Philo, che sapevano perfettamente che la cruda verità è che verso ovest, fra<br />

noi e le Montagne Rocciose, fondamentalmente non c’è altro che pianura, e che strani<br />

zefiri e aliti di vento si mescolano a brezze, raffiche, correnti d’aria calda e fredda, e<br />

qualunque altra cosa ci sia sopra il Nebraska e il Kansas, e si spostano verso est come<br />

torrenti che uniscono in un fiume, o come jet e schiere militari che si ammassano<br />

come valanghe e rombano in retromarcia sui trattori dei pionieri, diretti verso i nostri<br />

personalissimi culi indifesi. Il peggio era in primavera, la stagione del tennis per i<br />

ragazzi delle superiori, quando le reti restavano tese come bandiere orgogliose e una<br />

palla vagante poteva volare direttamente fino alla recinzione più a est e interrompere il<br />

gioco su molti campi vicini. Durante una brutta raffica capitava che alcuni di noi<br />

tirassero della corda e dicessero a Rob Lord, il nostro quinto uomo nei singolari, che<br />

era di una magrezza spettrale, che avremmo dovuto legarlo da qualche parte per<br />

evitare che diventasse un proiettile. L’autunno, che in genere era di gran lunga<br />

migliore della primavera, era un cupo muggito perenne e un pesante sbattere di<br />

continenti di foglie secche che venivano disposte lungo linee di forza – non avevo mai<br />

sentito un suono che somigliasse anche lontanamente a questo megaschiocco finché a<br />

diciannove anni, alla baia di Fundy nel New Brunswick, sentii per la prima volta<br />

un’onda di alta marea infrangersi e poi venire risucchiata su una spiaggia di ciottoli<br />

levigati. Le estati erano folli e piene di raffiche, ma poi, spesso verso agosto, di una<br />

calma mortale. Certi giorni d’agosto il vento semplicemente moriva, ma non era per<br />

niente un sollievo: il fatto che smettesse ci faceva impazzire. Ogni anno, ad agosto ci<br />

accorgevamo di nuovo di quanto il rumore del vento fosse diventato parte integrante<br />

della colonna sonora della vita di Philo. Il rumore del vento era diventato, per me,<br />

silenzio. Quando smetteva, rimanevo con il ronzio del sangue nella testa, e nelle<br />

orecchie la vibrazione di tutti quei peluzzi del timpano che tremavano come un<br />

ubriaco in astinenza. Ci vollero dei mesi, quando mi trasferii nel Massachusetts<br />

occidentale, prima che riuscissi a farmi una vera dormita nel sussurro del vento<br />

effeminato del New England.<br />

Per un osservatore medio che viene da fuori, l’Illinois sembra ideale per gli sport. Il<br />

terreno, visto dall’alto, fa pensare decisamente a una scacchiera: quadrati di una<br />

precisione maniacale di terra coltivata color grigio o color kaki, tutta tagliata e divisa<br />

da strade asfaltate diritte che sembrano fatte col filo a piombo (in genere in campagna,<br />

le strade sembrano ancora più ostacoli che vie d’accesso). D’inverno, il terreno ha<br />

sempre l’aspetto di piastrelle da bagno stile Mannington, quadrangoli bianchi dove è<br />

spoglio (neve), neri dove gli alberi e gli arbusti se ne sono liberati scuotendola nel<br />

vento. Dall’aereo, sembra sempre un Monopoli o un Life, o un labirinto per<br />

esperimenti sui topi; poi, al livello del suolo, le schiere di campi di granturco da<br />

148


foraggio o di soia, campi arati con solchi così dritti come soltanto un trattore Allis<br />

Chalincis e un sestante riescono a tracciare, sembrano divisi in corsie come le piste<br />

d’atletica o le piscine olimpioniche, segnate con linee tipo quelle di un campo da<br />

football come si deve, forniti di tutti gli angoli e i corridoi del tennis serio. La mia<br />

parte del Midwest sembra sempre disegnata in modo speciale, come se fosse stata<br />

progettata.<br />

I punti di forza del terreno sono anche le sue debolezze. Dato che la terra appare<br />

così regolare, chi progetta club e parchi raramente si preoccupa di spianarla prima di<br />

stendere l’asfalto per i campi da tennis. Di solito il risultato è una leggera inclinazione<br />

che noterà soltanto un giocatore che passi parecchio tempo sui campi. Poiché i campi<br />

da tennis sono, per evitare il sole negli occhi, sempre disposti nord-sud nel senso della<br />

lunghezza, e poiché la pianura, nell’Illinois centrale, prende a salire leggermente man<br />

mano che ci si sposta verso est, dalla parte dell’Indiana, verso la lieve cresta geologica<br />

che rispedisce i fiumi ripiegati su se stessi verso i propri affluenti da qualche parte<br />

nell’est di quello stato, a un destrimane rivolto a nord la metà del campo in cui gioca<br />

di dritto sembra in salita rispetto alla metà dove gioca di rovescio – ad un torneo a<br />

Richmond, Indiana, quasi al confine con l’Ohio, notai che la pendenza era al contrario.<br />

Lo stesso suolo che è così ricco di humus che bisogna pagare gli agricoltori perché<br />

distruggano i raccolti, per evitare la sovrapproduzione, inzeppa di stramonio, cardi e<br />

granturco selvatico i campi in terra, e spacca i campi in cemento con la pressione<br />

verso l’alto di erbacce a foglia larga i cui semi – della stirpe dei pionieri – non si fanno<br />

certo ostacolare da mezzo pollice di mastice e pietrisco. Cosicché tutti i campi da<br />

tennis, a parte quelli tenuti alla perfezione nelle zone più ricche dell’Illinois, sono di<br />

per sé piccoli paesaggi rurali, in cui ciuffi d’erba, spaccature, pozze formate da<br />

infiltrazioni d’acqua sul terreno sono parte integrante della situazione in cui si gioca.<br />

Le spaccature sembra sempre che partano dal lato del rettangolo di servizio e si<br />

muovano tortuosamente avanti e indietro verso la linea di servizio. Con l’erba<br />

cresciuta nelle fessure il nero delle crepe, soprattutto contro il verde bosco che a sua<br />

volta contrasta con il rosso mattone dello spazio oltre le linee a indicare che fin lì la<br />

palla è buona, dona ai campi da tennis lo strano aspetto di certe parti dell’Illinois<br />

ricche di fiumi, viste dall’alto e da lontano.<br />

Un campo da tennis, di 23,77 x 8,23 metri, visto da sopra somiglia, con i sottili<br />

rettangoli dei due corridoi che lo costeggiano in tutta la sua lunghezza, a una scatola di<br />

cartone coi lembi ripiegati all’infuori. La rete, alta 91,5 cm ai paletti, divide il campo a<br />

metà nel senso della larghezza; le linee di servizio a loro volta dividono ciascuna metà<br />

in fondo campo e zona sottorete, le due zone sottorete vengono divise in due rettangoli<br />

di servizio, di 6,4 x 4,11 metri, dalle linee che vanno dal centro della base della rete<br />

fino alle linee di servizio. La rigida esattezza delle divisioni e delle delimitazioni,<br />

unita al fatto che – a parte il vento e gli effetti più anomali – le palle possono viaggiare<br />

solo in linea retta, fa sì che il tennis da manuale non sia altro che geometria piana. È<br />

come giocare a biliardo con palle che non ne vogliono sapere di star ferme. È come<br />

giocare a scacchi correndo. Sta all’artiglieria e agli attacchi aerei come il football sta<br />

alla fanteria e alla guerra di trincea.<br />

149


Tecnicamente parlando, io avevo due doni sovrannaturali per compensare il non<br />

grande talento fisico. Facciamo pure tre. Il primo era che sudavo così tanto da sentirmi<br />

discretamente fresco con qualsiasi tipo di tempo. È vero che l’ipersudorazione ha i<br />

suoi pro e i suoi contro: non è che facesse propriamente miracoli per la mia vita<br />

sociale alle superiori, ma voleva dire che in una giornata di luglio con un’afa da bagno<br />

turco potevo giocare per ore senza il minimo cedimento, a condizione di bere acqua e<br />

mangiare roba salata tra una partita e l’altra. Verso il quarto game avevo sempre<br />

l’aspetto di un annegato, ma non venivo preso dai crampi né vomitavo, né svenivo, a<br />

differenza dei ragazzini tirati a lucido di Peoria, i cui capelli non perdevano neanche la<br />

riga fino a quando non gli si rovesciavano gli occhi all’indietro e stramazzavano in<br />

avanti sul cemento brillante di riverbero. Una dote ancora più grande era che mi<br />

trovavo totalmente a mio agio in mezzo alle linee rette. Neanche l’ombra della strana<br />

claustrofobia geometrica che dopo un po’ trasforma giovani e talentuosi juniores in<br />

insofferenti animali da zoo. Trovavo che mi sentivo al meglio fisicamente in mezzo a<br />

questa rete di angoli precisi, bisezioni acute, spigoli ben tagliati. Questo era il mio<br />

habitat. Phio, Illinois, è una griglia sghemba: nove strade che vanno da nord a sud<br />

contro sei strade che vanno da nord-est a sud-ovest, cinquantuno splendidi incroci<br />

obliqui (le tangenti degli angoli sulle intersezioni est-ovest si potevano calcolare<br />

integralmente in termini delle loro secanti!) intorno ai giardini della piazza centrale<br />

estesa su tre incroci, dove c’era un serbatoio con il becco puntato a nordovest verso<br />

Urbana, nonché un nativo del luogo pietrificato, uno caduto nella testa dello sbarco di<br />

Salerno, la cui mano di bronzo era puntata esattamente a nord. Verso la fine della<br />

mattinata, la statua del tizio di Salerno proiettava con il braccio un’ombra nera e tozza<br />

su un’erba tanto fitta da poterci giocare a golf; la sera il sole galvanizzava il suo<br />

profilo sinistro, e il braccio gettava un’ombra accusatoria verso destra, inclinata con lo<br />

stesso angolo di uno stecco in uno stagno. Al college durante un’esercitazione mi<br />

venne in mente all’improvviso che il differenziale tra direzione della mano puntata e<br />

arco di rotazione della sua ombra era del primo ordine. Comunque, buona parte dei<br />

miei ricordi d’infanzia – che siano poderi arati, o una mietitrice che fa la ronda avanti<br />

e indietro lungo la linea ferroviaria 104W, o, al tramonto, il gioco di ombre affilate sul<br />

campo di softball della Legion Hall – li potrei ricostruire su richiesta con un righello e<br />

un goniometro.<br />

Amavo la raffinata relazione delle linee rette più di ogni altro ragazzino con cui<br />

sono cresciuto. Penso che sia perché loro erano nativi di lì, mentre io mi ci ero<br />

trasferito quando ero piccolissimo da Ithaca, che era dove mio papà aveva preso il suo<br />

Ph.D. Perciò quel che avevo conosciuto, seppure nella maniera orizzontale e<br />

semiconsapevole di quando si è bambini, era qualcosa di diverso: le colline alte e i<br />

tortuosi sensi unici dell’interno dello stato di New York. Sono abbastanza sicuro che<br />

mantenni quella poltiglia informe di curve e dossi a fare da controluce laggiù in<br />

qualche anfratto lucertolesco del mio cervello, perché i bambini di Phio con cui<br />

giocavo e facevo la lotta, ragazzini che non conoscevano e non avevano conosciuto<br />

niente di diverso, non trovavano proprio nessuna traccia di assolutezza da fondazione<br />

utopistica nella disposizione planare dell’area cittadina, non ne apprezzavano per<br />

niente la precisione. (Senonché: come mai ritengo significativo che così tanti di loro<br />

siano finiti nell’esercito, a eseguire scattanti dietrofront in uniformi con pieghe<br />

150


affilatissime come rasoi?)<br />

A meno che voi non siate uno di quei rari mutanti virtuosi della forza bruta,<br />

troverete che il tennis agonistico, come il biliardo professionistico, richiede una mente<br />

geometrica, l’abilità di calcolare non soltanto le vostre angolazioni ma anche le<br />

angolazioni di risposta alle vostre angolazioni. Poiché la crescita delle possibilità di<br />

risposta è quadratica, siete costretti a pensare in anticipo a un numero n di colpi, dove<br />

n è una funzione iperbolica limitata dal seno della bravura dell’avversario e dal coseno<br />

del numero di colpi scambiati fino a quel momento (approssimativamente). Io lo<br />

sapevo fare. Quello che mi rese per un breve periodo un quasi-campione era la<br />

capacità di far rientrare nei miei calcoli anche le complicazioni differenziali del vento:<br />

riuscivo a pensare e giocare in base otto. Perché il vento imponeva delle traiettorie<br />

curve alle linee e trasformava il gioco in uno spazio a tre dimensioni. Il vento<br />

danneggiava pesantemente molti giocatori juniores dell’Illinois centrale nel periodo da<br />

aprile a luglio, quando avrebbe avuto bisogno di una bella dose di litio, dato che<br />

tendeva a soffiare in raffiche disordinate, a turbinare, a fare marcia indietro, a<br />

smorzarsi e poi riprendere, tirando, alle volte, in una direzione al livello del campo, e<br />

in una completamente diversa a tre metri sopra le nostre teste. Ci era richiesta una tale<br />

precisione mentale da cogliere per induzione i trend delle percentuali di rischio, delle<br />

spinte, degli angoli di ritorno – precisione sulla quale il nostro coach e gli altri<br />

allenatori non professionisti della città erano bravi a teorizzare astrattamente armati di<br />

gesso e lavagna, o, negli allenamenti, legando col filo da bucato la gamba di un allievo<br />

alla recinzione per limitare il suo arco di movimento, o posizionando cesti della<br />

biancheria nei vari angoli e facendoci tirar dentro una palla dopo l’altra, oppure<br />

disegnando a terra col nastro adesivo una specie di scatole cinesi all’interno dei<br />

rettangoli del campo per gli esercizi e gli scatti col vento contro e a favore – tutta<br />

questa preparazione teorica andava a farsi friggere quando le tue scarpe da tennis<br />

toccavano veramente il campo da gioco in un torneo. I tiri programmati al millimetro,<br />

i colpi più studiati spesso finivano semplicemente fuori campo, ecco qual era il<br />

prosaico problema di fondo. Il capriccio e l’ingiustizia di tutto questo faceva quasi<br />

uscire pazzi alcuni ragazzini, e nelle giornate veramente ventose, questi ragazzini, che<br />

avevano talento a palate, rischiavano di avere la loro prima furibonda crisi di nervi con<br />

lancio di racchetta più o meno verso il terzo game della partita, di cadere poi in una<br />

sorta di corna depressivo entro la fine del primo set, aspettandosi ormai con amarezza<br />

di venire fottuti dal vento, dalla rete, dal nastro, dal sole. Io, che ero stato<br />

affettuosamente ribattezzato Lumaca, perché ero una merda di lavativo negli<br />

allenamenti, individuavo la mia più grande dote tennistica in uno strano distacco<br />

robotico da qualsiasi avversità di vento e clima che non riuscissi a prevedere. Non vi<br />

dico quante partite di torneo ho vinto tra i dodici e quindici anni contro avversari più<br />

grandi, più veloci, più coordinati, o meglio allenati, semplicemente ribattendo palle<br />

centrali, senza alcuna fantasia, in mezzo a schizofreniche tempeste di vento, lasciando<br />

che l’altro ragazzino giocasse con più energia e più spavalderia, aspettando che un<br />

numero sufficiente dei suoi colpi ambiziosi, diretti vicino alle righe, curvassero o<br />

slittassero grazie al vento fuori dal campo verde e dalla striscia bianca, verso la cruda<br />

151


terra rossa che mi permetteva di realizzare un altro squallido punto. Non era uno<br />

spettacolo né carino né divertente, e anche col vento dell’Illinois non avrei mai potuto<br />

vincere partite intere in questo modo se alla fine l’avversario non avesse avuto la sua<br />

piccola crisi di nervi, schiacciato dalla palese ingiustizia di perdere con un pallettaro<br />

dal torace schiacciato, per colpa di quei merdosi campi da tennis di campagna e del<br />

vento maledetto che premiava l’automatismo prudente invece che l’energia e la<br />

spavalderia. Non ero un giocatore ben voluto, e c’erano tutte le ragioni. Ma dire che<br />

non usavo energia o immaginazione non era giusto. L’accettazione della realtà è una<br />

fonte di energia in se stessa, e ci vuole immaginazione perché a un giocatore piaccia il<br />

vento, e a me il vento piaceva; o meglio, sentivo quanto meno che il vento avesse il<br />

diritto fondamentale di essere lì, lo trovavo piuttosto interessante ed ero pronto a<br />

espandere le mie competenze di logistica per apprezzare il devastante effetto che una<br />

brezza intermittente e turbinante a 15-30 miglia all’ora da sud-ovest verso est avrebbe<br />

avuto sui miei elaborati calcoli su quanto aggressivamente rispondere al topspin di Joe<br />

Capelliperfetti diretto verso il mio angolo di rovescio.<br />

La combinazione, che si ha nell’Illinois, di campi butterati, nauseante umidità e<br />

vento, richiedeva e premiava un’accettazione quasi zen della realtà delle cose, in<br />

campo. Vincevo tantissimo. A dodici anni, cominciai a essere ammesso a tornei anche<br />

fuori da Philo, Champaign e Dainville. I miei genitori o quelli di Gil Antitoi, figlio di<br />

un professore di storia canadese di Urbana, mi portavano in macchina a manifestazioni<br />

come gli Open dell’Illinois centrale a Decatur, una cittadina costruita dalle industrie<br />

alimentari A.E. Staley, e in pratica di loro proprietà, che era talmente impregnata dal<br />

tanfo di granturco arrostito che c’erano ragazzini che giocavano con i bandana legati<br />

sopra bocca e naso come i Western Closed Qualifiers, al campus dell’Università<br />

dell’Illinois a Normal, come i McDonald’s Open Juniores nella vera città del<br />

granturco, a Galesburg, laggiù a ovest vicino al Mississippi, come gli Open degli Stati<br />

della Prateria a Pekin, centro di agenzie assicurative e patria del trattore Caterpillar,<br />

come gli Juniores del Midwest su terra rossa in un pretenzioso club privato a Peoria,<br />

nella zona residenziale che era la versione sbiadita di Scarsdale.<br />

Per le quattro estati successive ebbi modo di visitare una parte dello Stato molto<br />

maggiore di quanto sia normale o sano, quantunque gran parte di queste visite non<br />

fossero altro che visioni sfocate di viaggi e campi coltivati, nient’altro che scorgere tra<br />

un abbiocco e l’altro albe improvvise di un chiarore accecante al di sopra della linea<br />

tra cielo e campi (inoltre potevi vedere qualsiasi città verso cui eri diretto nell’attimo<br />

in cui appariva al di qua della curvatura terrestre, e l’unica parte di Proust che mi<br />

commuoveva davvero, al college, era la descrizione iniziale del rapporto di tipo<br />

geometrico che aveva il bambino con il lontano campanile della chiesa a Combray),<br />

che viaggiare sui sedili posteriori delle station wagon attraverso albe di sabati e<br />

tramonti di domeniche. Io facevo dei regolari miglioramenti; Antitoi, con l’aiuto sleale<br />

di una precoce pubertà, migliorava in maniera radicale.<br />

Quando avevamo più o meno quattordici anni, io e Gil Antitoi eravamo la crema<br />

dell’Illinois centrale, nella nostra fascia d’età, solitamente le teste di serie numero uno<br />

e numero due nei tornei locali, capaci di battere chiunque, tranne un paio, anche dei<br />

152


agazzini dei sobborghi di Chicago, che in genere dominavano, insieme a un<br />

contingente di Grosse Pointe, Missouri, le classifiche regionali della Sezione<br />

Occidentale. Quell’estate il miglior quattordicenne a livello nazionale fu un ragazzino<br />

di Chicago, Bruce Brescia (la cui passione per i cappellini da tennis bianchi flosci, i<br />

calzini corti con code di coniglietto sul calcagno e i vistosi pullover senza maniche a<br />

colori pastello era più che un indizio di certe inclinazioni che non mi sarebbero<br />

apparse chiare se non parecchi anni dopo), ma Brescia e il suo compagno, Mark Mees<br />

di Zancsville, Ohio, non si prendevano il disturbo di giocare se non nei Tornei del<br />

Midwest su terra rossa e in qualche manifestazione indoor nella contea di Cook,<br />

occupati com’erano a volarsene verso i Pacific Hardcourts a Vohtura, il Wimbledon<br />

Juniores e tutta quella roba lì. Giocai con Brescia solo una volta, nei quarti di un<br />

indoor al Rosemont Horizont nel 1977, e gli esiti non furono strepitosi. Un anno<br />

Antitoi effettivamente strappò un set a Mees nelle qualificazioni nazionali. Né Brescia<br />

né Mees diventarono mai professionisti; non so che ne è stato di loro passati i diciotto.<br />

Io e Antitoi spaziavamo esattamente sullo stesso territorio agonistico; lui era il mio<br />

amico, il mio nemico e la mia rovina. Sebbene avessi cominciato a giocare due anni<br />

prima di lui, lui era più robusto, più rapido e fondamentalmente più bravo di me già<br />

verso i tredici anni, e presto mi ritrovai a perdere contro di lui nelle finali di quasi tutti<br />

i tornei che giocavo. Il nostro aspetto fisico e il nostro approccio al gioco e in generale<br />

la nostra Gestalt erano così diverse che dal fino al ’77 ci fu tra noi una specie di<br />

rivalità epica. Io ero così preveggente, con le mie statistiche, la superficie, il sole, le<br />

raffiche di vento, e avevo raggiunto una tale serenità stoica che ero considerato una<br />

specie di sapiente della fisica, un piccolo stregone del vento e del caldo, ed ero in<br />

grado di giocare in pratica per sempre, rispedendo dall’altra parte tiri smorzati e pieni<br />

di effetti barocchi. Antitoi, uno privo di complicazioni in partenza, colpiva con tutta la<br />

sua forza qualsiasi cazzo di oggetto di forma rotonda che entrava nel suo territorio,<br />

mirando sempre a uno dei due angoli di fondocampo. Lui era un Picchiatore, io una<br />

Lumaca. Quando era “in palla”, cioè in giornata buona, con me ci puliva il campo.<br />

Quando non era al meglio (e io e David Saboe di Bloomington e Kirk Riehagen e<br />

Steve Cassil di Danville passavamo ore infinite in meditazioni e seminari su quali<br />

specifiche variabili di dieta, sonno, beghe sentimentali, viaggi in macchina, e persino<br />

colore dei calzini costituissero giorno per giorno i coefficienti dell’equazione<br />

dell’umore e del bioritmo di Antitoi), io e lui ci facevamo delle gran partite, autentiche<br />

maratone di fiatone. Di undici finali che giocammo nel 1974, ne vinsi due.<br />

Il tennis Juniores nel Midwest fu anche la mia iniziazione alla vera tristezza dell’età<br />

adulta. Io avevo sviluppato una sorta di hybris riguardo alla mia abilità taoistica di<br />

controllo attraverso il non-controllo. Avevo fondato una mia personale religione del<br />

vento. Mi piaceva persino andare in bicicletta. A Philo sono terribilmente poche le<br />

persone che vanno in bicicletta, ovviamente per colpa del vento, ma io avevo scoperto<br />

un modo di fare una specie di zigzag avanti e indietro contro le correnti violente,<br />

reggendomi qualche libro di grosso formato dilato a un angolo di 120° rispetto alla<br />

mia direzione di spinta – L’arte dell’ingegnere di Bayne e Pugh e Linguaggio della<br />

mano di Cheiro si dimostrarono le migliori superfici aerodinamiche – cosicché tramite<br />

l’immaginazione, l’energia e la serenità stoica riuscivo non solo a neutralizzare ma<br />

anche a sfruttare il violento vento in faccia per andare in bicicletta. Allo stesso modo,<br />

153


a tredici anni, avevo scoperto un modo non solo per adattarmi ma anche per impiegare<br />

in partita i forti venti estivi. Non facevo più soltanto tiri smorzati verso il centro del<br />

campo che mi dessero un margine sufficiente di errore e deviazione, ora ero capace di<br />

servirmi delle correnti più o meno allo stesso modo in cui un pitcher nel baseball usa<br />

lo sputo. Riuscivo a incanalare tiri curvi, che sarebbero finiti di gran lunga fuori,<br />

dentro folate trasversali che facevano cadere la palla appena dentro; avevo uno<br />

speciale servizio-a-vento che possedeva così tanto effetto che la palla diventava ovale<br />

in aria e descriveva una curva da sinistra a destra come un pattinatore provetto, per poi<br />

invertire il proprio arco sul rimbalzo. Avevo sviluppato un’intuizione automatica per<br />

quello che il vento avrebbe fatto con la palla analoga a quella che ha il guidatore di<br />

una macchina col cambio manuale quando inserisce le marce. Quando giocavo a<br />

tennis tra gli juniores, per un certo periodo ho sentito di essere un abitante del mondo<br />

fisico reale in un modo diverso dagli altri ragazzi. E mi sentii tradito intorno ai<br />

quattordici anni, quando molti di questi ragazzi scomposti ma risoluti diventarono di<br />

colpo alti e virili, con improvvise macchie di peli sulle cosce, baffetti sulle labbra e<br />

arterie grosse come funi sugli avambracci. L’estate dei miei quindici anni, i ragazzini<br />

che avevo sconfitto facilmente l’anno prima sembravano tutt’a un tratto imbattibili.<br />

Nel 1977 persi due semifinali, a Pekin e a Springfield, tornei in cui avevo battuto<br />

Antitoi nelle finali del ’76. Mio padre mi mise quasi in ginocchio, dopo la sconfitta di<br />

Springfield contro un certo ragazzino delle Quad Cities, quando disse, cercando di<br />

consolarmi, che era sembrato che su quel campo ci fosse un ragazzo contro un uomo.<br />

E anche gli altri ragazzi sentivano che c’era qualcosa in me che non andava, fiutavano<br />

che c’era una rottura in quello strano clima di distensione che c’era sempre stato tra<br />

me e gli elementi: la mia abilità nell’adattarmi all’ambiente esterno e a manipolarlo<br />

veniva minata alla base dal malfunzionamento di qualche orologio interno che non ero<br />

in grado di comprendere.<br />

Dico questo soprattutto perché gran parte della mia energia psichica comune a tutto<br />

il Midwest era permeata da un senso di crescita e fertilità. La prospettiva agronomica<br />

era evidente, dato che la base imponibile della mia intera area municipale dipendeva<br />

dai semi, dall’inseminazione, dall’altezza e dalla produzione. Qualcosa di<br />

quell’ossessivo pesare e misurare e programmare degli adulti, quel particolare calcolo<br />

di spinta e crescita, s’infiltrava attraverso cappellini e bandana dentro le nostre<br />

testoline di bambini, là fuori sui nostri cari campi da football, da baseball, da tennis.<br />

Nel 1977 io ero l’unico del mio gruppo di compagni di spogliatoio ad avere intatta la<br />

mia verginità. (Questo lo so per certo, ed è soltanto perché questi tizi oggi sono<br />

insegnanti, commercianti, assicuratori, con una famiglia e una reputazione da<br />

salvaguardare che non vi metterò a parte del modo in cui sono venuto a saperlo). Mi<br />

sentivo, mentre la mia pubertà tardava sempre di più a sbocciare, alienato non solo dal<br />

mio esile corpo recalcitrante e glabro, ma in un certo senso dall’intero insieme degli<br />

elementi esterni che mi ero abituato a considerare miei complici. Sapevo, in qualche<br />

modo, che la chiamata all’altezza e alla pelosità veniva da fuori, da qualunque cosa<br />

fosse, a parte gli erbicidi Monsanto e Dow, faceva crescere il granturco, andare in<br />

calore i maiali, addolcire il vento ogni primavera, e restava sospesa nell’aria insieme<br />

all’odore di letame dei campi di soia a nord, tra noi e Champaign. La mia vocazione<br />

stava venendo meno. Mi sentivo non chiamato. Cominciai a nutrire verso la natura (o<br />

154


qualunque idea astratta un bambino possa avere di essa) lo stesso tipo di risentimento<br />

che sapevo provava Steve Cassil quando un approccio ben calcolato lungo la linea di<br />

dritto veniva spazzato via da una violenta folata di vento, lo stesso che sapevo faceva<br />

soffrire Gil Antitoi quando il suo bel servizio di potenza (era l’unico ragazzino<br />

eccezionale venuto fuori dai campi lenti e pieni di erbacce della mia zona che giocava<br />

dall’inizio di serve and volley, e questo è il motivo per cui ottenne tutte quelle vittorie<br />

sul cemento veloce della West Coast quando andò a giocare per la Fullerton in<br />

California) veniva rovinato dal sole; era così alto, e così ostinato nell’adattare quel suo<br />

alto lancio da manuale alle condizioni del sole, che quando serviva dalla parte nord del<br />

campo in partite che si giocavano nel primo pomeriggio gli occhi gli si riempivano<br />

sempre di macchie viola, e per il resto del punto vagava qua e là scomposto e irritato.<br />

Questo all’epoca in cui di occhiali da sole in campo non si era mai sentito parlare.<br />

E insomma il punto è che cominciai a sentirmi come si erano sentiti loro.<br />

Cominciai, piano piano, a prendermela per la mia collocazione fisica all’interno del<br />

grande schema della natura, e questo amaro risentimento, una sorta di lento<br />

inaridimento, è una delle ragioni principali per cui dopo il 1977 non riuscii più a<br />

qualificarmi per i campionati locali, e perché nel 1980 finii col farcela a mala pena a<br />

entrare nella squadra di un college più piccolo delle scuole superiori di Urbana,<br />

mentre i ragazzini che avevo battuto e poi invidiato giocavano a tennis con le borse di<br />

studio delle università di Purdue, Fullerton, Michigan, Pepperdine, e persino – nel<br />

caso di Pete Bouton, che nel solo 1977 era cresciuto di quindici centimetri e di<br />

quaranta punti di Q.I. – per la venerata Univ. dell’Ill. di Urbana-Champaign.<br />

Alienazione-dal-Midwest-in-quanto-paradigma-della-fertilità può essere un<br />

concetto un tantino ipermetafisico, per non dire tendente all’autocommiserazione.<br />

Dopo tutto, questo era il periodo in cui scoprivo gli integrali definiti e le antiderivate e<br />

ad ogni modo vedevo la mia identità cambiare da quella di un coglioncello che fa<br />

sport a quella di un coglioncello che fa matematica. Ma è anche vero che la mia intera<br />

carriera tennistica nel Midwest maturò e declinò sotto l’egida del Principio di Peter.<br />

Nella mia zona e nei dintorni — dove i campi da tennis stavano in campagna e i<br />

budget erano bassi e le condizioni esterne così ostili che le zanzare sembravano<br />

trombe, le api tromboni, e il suono del vento era quello di un devastante incendio da<br />

allarme generale, e che eravamo costretti a cambiarci le magliette tra un game e l’altro<br />

e a usare caraffe d’acqua per toglierci dalle braccia e dalle spalle la pula dei campi<br />

portata dal vento, e a portarci dietro tavolette di sali minerali in tubetti colorati di<br />

caramelle Pez — io ero davvero un quasi-campione: sapevo Giocare a Tutto Campo;<br />

ero Nel Mio Elemento. Ma tutti i tornei più importanti, le manifestazioni per cui la<br />

mia eccellenza rurale era un lasciapassare, si giocavano in un mondo reale diverso:<br />

all’Arlington Tennis Center, dove si tenevano le Qualificazioni Nazionali Juniores per<br />

la nostra regione, la superficie dei campi veniva rifatta ogni primavera; il manto dei<br />

terreni di gioco di questi campi era di un verde così brillante che ti distraeva, la sua<br />

superficie così nuova e ruvida che ti distruggeva i piedi anche attraverso le scarpe, ed<br />

era così priva di fessure, pendenze, crepe o giunture da disorientarti completamente.<br />

Giocare su un campo perfetto per me era come camminare sulle acque senza terra in<br />

vista: non capivo mai dove mi trovavo esattamente. Nel 1976 il Torneo Juniores a<br />

inviti di Chicago si tenne al Bath and Tennis Club di Lincolnshire, la cui enorme<br />

155


conigliera di trentasei campi era racchiusa da tutti quei fastidiosi teloni di plastica<br />

verde attaccati a tutte le recinzioni, con piccole feritoie da arcieri all’altezza degli<br />

occhi per permettere una qualche parodia di pubblico. Questi teloni erano paraventi<br />

della Wind-B-Gone, brevettati da quei tizi della Cyclone Fence nel 1971. In effetti<br />

eliminavano davvero le più odiose di quelle raffiche sleali, ma sembravano anche<br />

impedire il ricambio dell’aria all’interno del campo: partecipare ai tornei a<br />

Lincolnschire era come giocare nel fondo di un pozzo. E sui pali dei riflettori, quando<br />

le partite dei tornei importanti del Midwest duravano fino alla notte, si accendevano<br />

festoni di luci blu insetticide: niente nuvole di moscerini intorno alla testa o ombre<br />

irregolari di falene da distinguere dalle traiettorie delle palle, ma uno sgradevolissimo<br />

rumore di sfrigolio elettrico di insetti a cui si dava il benservito sopra la vostra testa: e<br />

non starò qui a parlarvi dell’odore. Il punto è che, in un modo o nell’altro, io<br />

semplicemente non ero più lo stesso senza deformità cui adattarmi durante il gioco.<br />

Ora penso che il vento, gli insetti e le spaccature costituissero per me una sorta di<br />

confine interiore, la mia personalissima collezione di linee di riferimento. Una volta<br />

che arrivai a un certo livello di impianti da torneo, mi sentii handicappato perché non<br />

ero capace di adattarmi alla mancanza di difficoltà cui adattarmi. Se questa cosa ha un<br />

senso. Anche senza l’ostacolo dell’inquietudine adolescenziale e dell’alienazione dalla<br />

realtà fisica, la mia carriera tennistica nel Midwest si arrestò nel momento in cui vidi il<br />

mio primo telone antivento.<br />

Visto che stranamente ho ancora una gran voglia di parlare del tempo, lasciatemi<br />

dire che il mio distretto, e di fatto tutto l’Illinois centro-orientale, è fiero di far parte di<br />

quella zona che i meteorologi chiamano Fascia dei Tornado. L’incidenza dei tornado è<br />

del tutto sproporzionata rispetto alla media statistica. Io personalmente ne ho visti due<br />

a livello del suolo e cinque ad alta quota, che cercavano di compattarsi. I tornado in<br />

quota sono di un colore grigio-bianco, più simili a sconvolgimenti interni alle stesse<br />

nubi temporalesche che a qualcosa di separato o sporgente da queste. I tornado al<br />

suolo sono neri solo a causa delle tonnellate di terra che risucchiano e sollevano nel<br />

vortice. L’assurda frequenza dei tornado nella mia zona è, mi è stato detto, funzione<br />

delle stesse variabili che sono causa dei nostri venticelli in abiti civili: siamo una<br />

coordinata geografica dove fronti e masse d’aria convergono. Per la maggior parte dei<br />

giorni tra fine marzo e giugno ci sono delle Segnalazioni di Tornado da qualche parte<br />

nella zona di ricezione delle nostre tv locali (queste emittenti mettono un piccolo<br />

simbolo sullo schermo in alto a destra, ad esempio un binocolo a indicare “Livello di<br />

Guardia” e la Torre dei Tarocchi a indicare “Allarme”, o cose del genere. Il “Livello<br />

di Guardia” vuoi dire che ci sono tutte le condizioni adatte, e così via, e insomma,<br />

vabbé chi se ne frega. Soltanto nel caso dei più rari Allarmi, per cui si richiede un<br />

avvistamento confermato da parte di qualcuno in stato di decente sobrietà, partono le<br />

sirene della Protezione Civile. La sirena sul tetto della scuola di Philo aveva un tono e<br />

un ciclo di frequenza diversi da quella giù nella parte sud di Urbana, e le due spesso<br />

oscillavano intrecciandosi l’una sull’altra in una trenodia 81 terrificante. Quando<br />

81 Lamentela, piagnisteo. (N.d.R.)<br />

156


suonavano le sirene, le famiglie del posto scendevano nelle cantine piene di scatolame<br />

e conserve o nei rifugi antiatomici (non sto scherzando): le famiglie dei professori<br />

universitari, nelle loro casette prefabbricate tutte splendenti con i prati nuovi nuovi e<br />

le fondamenta fatte a solette piatte, se ne andavano con in mano tutti i portafortuna<br />

che gli riusciva di agguantare verso il punto perfettamente centrale del pianterreno,<br />

dopo aver aperto ogni finestra per evitare un’implosione da calo di pressione<br />

improvviso. Per la mia famiglia, il punto perfettamente centrale era un corridoio fra lo<br />

studio di mio padre e un ripostiglio per la biancheria, con la riproduzione di<br />

un’Annunciazione fiamminga su una parete, e sull’altra un sole azteco raggiante di<br />

bronzo appeso come una pesante ghigliottina; io cercavo sempre qualche manovra<br />

strategica per piazzare mia sorella sotto il sole raggiante.<br />

Se c’era un vero Allarme quando tu eri fuori e lontano da casa – mettiamo a un<br />

torneo di tennis in un parco pubblico dimenticato da Dio in qualche periferia cittadina<br />

lottizzata per uno sviluppo edilizio selvaggio – dovevi stenderti a pancia in giù<br />

nell’avvallamento più profondo che riuscissi a trovare. Poiché gli unici veri<br />

avvallamenti vicini a dove si svolgevano i tornei erano fossi di irrigazione e di<br />

drenaggio che delimitavano i campi coltivati, fossi schifosi pieni di conferva e<br />

insetticida, brulicanti di quelli che avevano tutta l’aria di convention di vipere<br />

velenose, e insomma fondamentalmente posti dove nessun uomo sano di mente si<br />

stenderebbe a pancia in giù per nessuna ragione al mondo, di fatto, quando ai tornei<br />

scattava l’Allarme, richiudevi semplicemente le tue racchette nei foderi e correvi a<br />

raggiungere i tuoi cari o anche soltanto qualcuno che ti stava simpatico e poi tutti<br />

quanti vi mettevate a girare in tondo cercando di non far vedere che stavate lì lì per<br />

perdere il controllo dello sfintere. Alle volte le madri tendevano a piangere e a<br />

stringere al seno le testoline dei bambini. (La signora Swearingen di Pekin godeva di<br />

grande popolarità perché stringeva anche teste di ragazzini sconosciuti al suo<br />

formidabile seno).<br />

Vi racconto dei tornado per ragioni strettamente inerenti all’argomento di questo<br />

saggio. Innanzitutto, erano davvero parte integrante dell’infanzia di un ragazzino del<br />

Midwest, perché io da bambino ne ero ossessionato e terrorizzato. I miei primissimi<br />

incubi, quelli in cui non compativano robot alti chilometri usciti da Lost in Space che<br />

brandivano enormi mazze da croquet (non fate domande), riguardavano sirene che<br />

urlavano e cieli di un bianco cadaverico, un sottile mostro all’orizzonte verso l’Iowa,<br />

che spuntava, più dinosauresco che fallico, dal cielo basso, sbattendo avanti e indietro<br />

con una tale furia da ripiegarsi quasi su se stesso, nel tentativo di mangiarsi la coda.<br />

Lanciando tutt’intorno fieno, polvere e sedie; non si avvicinava mai oltre la linea<br />

dell’orizzonte; non ce n’era bisogno.<br />

In pratica, per gli abitanti di Philo i Livelli di Guardia e gli Allarmi erano un po’<br />

come gridare «al lupo! al lupo!» Il fatto era che capitavano troppo spesso. I Livelli di<br />

Guardia, in particolare, erano considerati del tutto inutili, perché riuscivamo sempre a<br />

scorgere con grande anticipo le bufere provenienti da ovest. E quando arrivavano<br />

sopra, mettiamo, Decatur, uno poteva già fare una diagnosi essenziale della situazione<br />

dal colore e dall’altezza delle nuvole; più alti erano i nuvoloni a forma di incudine,<br />

maggiore era la possibilità di grandine e di Allarmi. Le nuvole nere come la pece<br />

erano segni più fausti rispetto a quelle grigie chiazzate di uno strano bianco<br />

157


madreperlaceo; più era breve l’intervallo tra la vista del lampo e il rumore del tuono,<br />

più veloce si stava muovendo la perturbazione; e più veloce si muoveva, peggio era:<br />

come la maggior parte delle cose che vogliono farti male, i temporali violenti sono di<br />

modi spicci e non amano perder tempo.<br />

So bene perché, anche crescendo, restavo ossessionato. I tornado, per me, erano una<br />

trasfigurazione. Come tutti i venti seri, erano il nostro piccolo segmento di puro asse<br />

cartesiano z, un’impennata rispetto alla monotonia euclidea di solchi, strade, assi e<br />

griglie. Studiammo i tornado al ginnasio: un fronte di alta pressione proveniente dal<br />

Canada procede in linea retta dai due Dakota verso il sudest; una massa di aria calda e<br />

umida si trascina dall’Arkansas verso il nord: il risultato non era un χ greco e neanche<br />

un Γ cartesiano, ma una cerchiatura del quadrato, un groviglio di vettori, un rivoltarsi<br />

di curve. Era una combinazione alchemica, leibniziana. I tornado erano, nella nostra<br />

parte dell’Illinois centrale, il punto senza dimensioni in cui le parallele si<br />

incontravano, vorticavano e schizzavano via. Senza alcuna logica. Le case non<br />

venivano spazzate in aria ma implodevano. I bordelli venivano risparmiati mentre per<br />

gli orfanotrofi lì accanto non c’era scampo. Bestiame morto veniva ritrovato a tre<br />

miglia dal proprio silos senza neanche un graffio addosso. I tornado erano onnipotenti<br />

e non obbedivano a nessuna legge. La forza senza legge non ha forma, ha solo un<br />

istinto e una durata. Io credo che da bambino, senza saperlo, già sapessi tutto questo.<br />

L’unica volta che sono stato sorpreso da quello che poteva essere un vero tornado è<br />

stato nel giugno del ’78 su un campo da tennis dell’Hessel Park, a Champaign, dove<br />

quel pomeriggio mi stavo allenando con Gil Antitoi. Anche se nei tornei ero un<br />

avversario spregevole e disprezzato, ero un compagno di allenamento molto ambito<br />

perché sapevo indirizzare le palle dovunque le volevi con la costanza idiota di una<br />

macchina. Quel giorno specifico era prevista pioggia verso l’ora di cena, e un paio di<br />

volte ci era sembrato di sentire gli echi smozzicati di un paio di sirene laggiù a ovest,<br />

verso Monticello, ma quella settimana io e Antitoi ci stavamo alienando con un zelo<br />

religioso ogni pomeriggio sul sintetico similterra di Hessel, cercando di prepararci per<br />

un bestiale torneo a inviti su terra battuta in quel di Chicago. Dove si mormorava che<br />

sia Brescia sia Mees si sarebbero fatti vedere. Stavamo facendo esercizi a farfalla – al<br />

passante incrociato rispondo con un dritto che se ne va lungolinea sul rovescio di<br />

Antitoi, lui riincrocia sul mio rovescio e io gliela rimando lungolinea sul suo dritto –<br />

quattro angoli di 45°, ma l’intersezione dei suoi tiri incrociati presi a sé forma una X,<br />

ovvero quattro angoli di 90°, o anche un crocifisso ruotato dello stesso quarto di giro<br />

di cui una svastica (che comprende 8 angoli di 90°) si trova ruotata su uno stendardo<br />

hitleriano. Questo era il genere di cose che mi passava per la testa quando mi allenavo.<br />

Hessel Park era pervaso dell’odore di formaggio proveniente dall’enorme stabilimento<br />

della Kraft all’estremità occidentale di Champaign e aveva splendidi, costosi, morbidi<br />

campi in Har-Tru di un color verde pino così intenso che le traiettorie delle palle<br />

fluorescenti ti restavano impresse sullo schermo visivo per qualche secondo in più del<br />

normale, ecco un motivo per cui gli angoli e i geroglifici degli esercizi a farfalla<br />

sembrano tanto importanti. Ma il nocciolo della questione qui è che le farfalle sono<br />

soprattutto un esercizio per tenersi in forma: a ogni colpo entrambi i giocatori devono<br />

spostarsi da un lato all’altro del campo, e una volta superati la fatica e il fiatone<br />

iniziali – supponendo che tu sia un ragazzino mostruosamente in forma, dal momento<br />

158


che passi un numero infinito e insensato di ore a saltare con la corda, o a fare giri di<br />

campo correndo all’indietro, o a fare esercizi a stella fra gli angoli opposti del campo,<br />

o scatti rettilinei avanti o indietro ogni mattina lungo i solchi perfetti dei campi di soia<br />

appena arati – una volta che superi lo sforzo e la fatica iniziali, se siete entrambi<br />

abbastanza bravi da limitare il numero di errori gratuiti che interrompono lo scambio,<br />

ti si apre dentro una specie di stato di fuga mentale in cui la tua concentrazione si<br />

restringe su un punto fisso, e perdi coscienza del tuo corpo e del fruscio leggero della<br />

tua scarpa che scivola (non puoi che scivolare alla fine di una corsa sull’Har-Tru) e di<br />

qualsiasi cosa al di fuori delle linee del campo e più o meno tutto quello che hai<br />

presente in quel momento è la palla colorata e il tracciato ottangolare a farfalla del suo<br />

percorso attraverso la superficie verde biliardo del campo. Eravamo alle prese con un<br />

palleggio davvero interminabile e avevo lasciato il pianeta, precipitando<br />

silenziosamente all’interno di me stesso, quando il campo, e la palla e il corso a far.<br />

falla sembrarono tutti gonfiarsi di luce, e brillare mentre la luce del giorno si spegneva<br />

di colpo nel cielo sopra le nostre teste. Nessuno di noi due aveva notato che da<br />

parecchi minuti non c’era più nessun vento a soffiarci il consueto terriccio negli occhi<br />

– brutto segno. Non c’era nessuna sirena. Più tardi, dissero che il sistema di allarmi<br />

della Prot. Civ. era fuori uso. Era il 6 giugno 1979. La temperatura dell’aria precipitò<br />

così in fretta che potevi sentire i peli che ti si rizzavano. Non c’erano tuoni e l’aria era<br />

immobile. Non saprei dire perché continuammo a giocare. Nessuno dei due disse<br />

niente. Non c’era nessuna sirena. Era mezzogiorno in punto: non c’era nessun altro sui<br />

campi. L’uomo alla guida della falciatrice laggiù, a est sul campo di softball stava<br />

ancora facendo avanti e indietro. Non c’erano avvallamenti tranne una fossa settica<br />

lungo il campo di granturco non ancora maturo, subito a ovest. Che avremmo potuto<br />

fare? L’aria odora sempre di erba falciata prima di un brutto temporale. Secondo me<br />

pensammo che alla peggio sarebbe piovuto, e che avremmo giocato finché non<br />

pioveva, e poi ci saremmo andati a sedere nella station wagon dei genitori di Antitoi.<br />

Mi ricordo però una bestemmia mentale – montavo corde di budello sulle mie<br />

racchette, corde che chiunque avesse un buon piazzamento nella classifica di Sezione<br />

riceveva gratis se permetteva al rappresentante della Wilson di disegnare sul piatto<br />

della racchetta una W con la vernice spray, così erano gratis, ma mi piaceva questa<br />

particolare incordatura su questa racchetta, le corde mi piacevano tese ma non<br />

tesissime, a 62 o 63 libbre su una pressa Proffite, e il budello diventa pastasciutta se si<br />

bagna, ma noi eravamo tutti e due nello stato di fuga mentale che l’esaurimento da<br />

ripetizione porta con sé, uno stato di fuga che, ho deciso, era quello di cui andavo in<br />

cerca per tutto il tempo che passavo a giocare a tennis, uno stato di fuga che associavo<br />

anch’esso con l’arare, il seminare, lo spannocchiare e lo spargere erbicidi facendo la<br />

spola avanti e indietro lungo linee perfette, su e giù, o a marce militari sull’asfalto<br />

liscio, uno stato ipnotico, monotono e insieme inebriante, che intontiva e al tempo<br />

stesso dava sensazioni squisite. Eravamo ragazzi, non sapevamo quando fermarci.<br />

Forse ce l’avevo con il mio corpo e volevo fargli del male, logorarlo. Poi l’intero<br />

campo di granturco alto fino alle ginocchia, che si stendeva a ovest lungo Kirby<br />

Avenue, tutt’un tratto si schiacciò in un’onda che veniva verso di noi come se sul<br />

campo stesse passando un enorme rullo compressore. Antitoi si spostò verso ovest per<br />

un incrocio di dritto e io vidi il granturco appiattirsi in grosse onde e gli aceri di un<br />

159


oschetto che costeggiava il fosso inclinarsi e puntare verso di noi. Non si vedeva<br />

nessun vortice, o si era appena materializzato per piombarci addosso, o non era un<br />

vero tornado. Le grosse, pesanti altalene del parco giochi attrezzato presero il volo,<br />

avvolgendosi nelle proprie catene tutt’intorno alla sbarra superiore; l’erba del prato si<br />

schiacciò come aveva fatto il campo. Tutto accadde così velocemente che non avevo<br />

mai visto nulla di simile: ripensate a quel vecchio film sulla bomba H di Bikini in cui<br />

si vede l’onda d’urto che dal mare viene contro la troupe che riprende la scena dalla<br />

nave. Tutto questo accadde molto velocemente ma in progressione graduale: campo,<br />

alberi, altalena, prato e poi la sensazione come di essere sollevati dal guantone più<br />

grosso del mondo, le reti improvvisamente e sessualmente dritte e tese, e mi sembra di<br />

ricordare di aver ribattuto una palla che non potevo minimamente controllare verso<br />

Antitoi, per poi guardarla curvare decisamente da ovest a est, e per qualche ragione di<br />

aver cercato di inseguire questa palla che avevo appena colpito, anche se certo non è<br />

possibile che io cercassi di inseguire una palla che avevo colpito, mi ricordo la spinta<br />

potente e gentile all’altezza delle mie cosce e la palla che curvava all’indietro verso di<br />

me, e di aver superato la palla, e averla colpita in volo sopra la rete ormai orizzontale,<br />

senza mai toccare coi piedi per terra per una quindicina di metri, un cartone animato, e<br />

poi ci furono paglia e schifezze nell’aria tutt’intorno, e sia io che Antitoi o volammo o<br />

fummo soffiati via caprioleggiando per quelli che giuro dovevano essere quindici<br />

metri fino alla recinzione del campo accanto, quella più a est, colpimmo la rete con<br />

tanta forza che quasi la buttammo giù, e quella restò inclinata a 45°. Antitoi ebbe il<br />

distacco di una retina e dovette portare quegli occhialoni protettivi fricchettoni alla<br />

Kareem Abdul-Jabbar per il resto dell’estate, e sulla rete rimasero due rientranze a<br />

forma di corpo umano come nei cartoni animati dove la faccia di uno lascia lo stampo<br />

sulla padella che l’ha colpito, due maschere da catcher fatte di rete, ed entrambi<br />

restammo con dei profondi segni quadrangolari lasciati dalla rete stampati sulla faccia,<br />

sul torace, e sul davanti delle gambe, mia sorella disse che parevamo due wafer, ma<br />

nessuno di noi si fece davvero male, e nessuna casa venne danneggiata: o quella cosa<br />

era semplicemente risalita senza alcun motivo subito dopo – lo fanno, non sottostanno<br />

a nessuna regola, non seguono nessuno schema, saltano su e giù secondo quella che<br />

potrebbe anche essere una vera e propria volontà – oppure non era un vero tornado. In<br />

seguito, il tennis di Antitoi continuò a migliorare, il mio no.<br />

160


Pitagora<br />

di Umberto Eco<br />

Il silenzio di un meriggio meridionale. Lontano, la risacca del mare. Cani che<br />

abbaiano. A tratti, uno zufolo di canna. Pitagora ha l’accento pigro e pacato di un<br />

intellettuale del Sud che stia bevendo acqua e anice.<br />

ECO Buongiorno Maestro.<br />

PITAGORA Salute e armonia a te.<br />

ECO Pitagora... Mi dà una certa emozione pronunciare questo nome, che fu sacro a<br />

molti, poiché Lei, Maestro, fu tenuto dai suoi discepoli in conto di divinità...<br />

PITAGORA Non a torto.<br />

ECO Vedo. Ragione di più... Dicevo: una certa emozione. Ma mi chiedo se per molti<br />

altri che ci ascoltano il suo nome non evochi soltanto memorie ingrate: la tavola<br />

pitagorica, il teorema di Pitagora...<br />

PITAGORA Perché ingrate? Si tratta di due piccole applicazioni, e mi turba quanto tu<br />

dici, che per molti la mia fama si sia identificata con questi artifici secondari. Ma<br />

anche in essi risplende l’armonia sublime del numero. Pensa alla tavola: una matrice<br />

elementare da cui puoi generare tutti gli sposalizi possibili tra numero e numero, dati<br />

una volta per tutte, senza tema di errore, perché la regola di questo quadrato magico è<br />

la stessa che regola l’armonia dell’universo, dal cerchio più ampio delle sfere celesti<br />

agli abissi dell’infinitamente piccolo.<br />

ECO La capisco, Maestro. Il suo pensiero è stato così semplice e limpido, che ancora<br />

oggi molti lo confondono con quattro banali regole di calcolo a uso dei geometri o dei<br />

contabili.<br />

PITAGORA Noto una sfumatura di disprezzo nel modo in cui dici “geometri” e<br />

“contabili”. Vi è forse occupazione più nobile di quella di coloro che misurano le<br />

mirabili simmetrie degli spazi o che moltiplicano, sottraggono, dividono e assommano<br />

i numeri?<br />

ECO No certo. Ma è che ai giorni nostri... Ma è difficile da spiegare, non so se Lei<br />

può cogliere... Mi chiedo anzi come non sia stupito di trovarsi qui, di fronte a me, a<br />

tanta distanza di tempo dai giorni in cui visse, in un mondo così<br />

incommensurabilmente diverso.<br />

PITAGORA Ti prego, uomo ingenuo! Tu stai parlando con Pitagora. Tu sai che la mia<br />

anima ha trasmigrato in molti corpi; tu sai che un tempo fui l’eroe Euforbo e che<br />

vedendo, secoli dopo, il mio scudo nel tempio di Apollo, lo riconobbi, e piansi. Il<br />

corpo, vedi, è come una tomba che trattiene il nostro spirito e lo sottopone a numerose<br />

schiavitù; ma in esse vi è il principio della purificazione purché tu sappia piegare<br />

questo corpo al silenzio, all’astinenza, alla pratica del sacrificio, così che la mente<br />

possa librarsi nelle delizie della contemplazione. E dopo che di corpo in corpo avrai<br />

terminato il tuo cammino di redenzione, potrai contemplare, come ora a me accade,<br />

161


l’armonia del cosmo, e l’ammirevole concatenarsi dei tempi, così che il tuo presente<br />

non mi è cagione di gran stupore, come non ne fu il passato, entrambi derivando dalla<br />

calibrata e molteplice danza dei cicli cosmici. Ai tempi miei ho visitato l’Egitto, dove<br />

vi appresi i misteri coltivati da quei sacerdoti, e la Persia, e le Gallie, e Creta. Come<br />

vuoi che mi stupisca e riesca nuovo il tuo mondo?<br />

ECO E dopo questi viaggi, all’età di quarant’anni, Lei emigrò sulle coste italiche, a<br />

Crotone. Eravamo nel sesto secolo avanti Cristo. E qui Lei fondò la sua scuola.<br />

Adorato dai suoi discepoli (dicevano persino che Lei, divino, avesse un femore d’oro),<br />

accettavano una disciplina rigidissima, e solo gli eletti erano ammessi alla conoscenza<br />

dei misteri superiori della sua dottrina. Una comunità di tipo monastico, diremmo<br />

oggi, che ha prodotto pensatori che han diffuso le sue teorie in tutto il mondo antico.<br />

Cosa insegnava, Maestro, ai più fidi tra i fidi, laggiù a Crotone?<br />

PITAGORA Il numero, sostanza di tutte le cose.<br />

ECO In che senso, sostanza?<br />

PITAGORA Avrai sentito parlare di quei primi filosofi naturali che cercarono la<br />

spiegazione dei fenomeni del mondo non nell’immagine mendace degli dèi, ma nel<br />

principio primo. Non erano sciocchi, avevano capito che conoscere significa trovare<br />

un unico principio che spieghi l’origine, il divenire e l’organizzarsi di tutte le cose<br />

esistenti. Solo che la loro mente era debole, la loro fantasia pesante, e cercarono<br />

questo principio primo negli elementi fisici, l’acqua, l’aria, il fuoco. Fui io che per<br />

primo compresi che il principio e la norma delle cose erano una sola forza, e questa<br />

forza era una forza matematica. Sono i princìpi <strong>matematici</strong> che regolano la vita<br />

dell’universo, che ne sono origine, legge, motivo di sussistenza e ragione di bellezza.<br />

Il numero è la sostanza delle cose.<br />

ECO Ma cosa significa questo. Che le cose sono numeri? O che le cose imitano i<br />

numeri? O che le cose sono regolate da numeri?<br />

PITAGORA Tu mi chiedi troppo. Alcuni hanno dovuto vivere all’ombra della mia<br />

verità per tutta una vita, per capire. E non sempre hanno capito. Al massimo hanno<br />

ripetuto. Dicevano, delle mie parole; «Autosè fa – Ipse dixit – Lo ha detto il Maestro,<br />

non si discute». E nell’obbedienza, nell’umiltà, nasceva la conoscenza. E tu vuoi che<br />

di colpo ti sveli la verità? Piuttosto, guarda questa figura.<br />

ECO La conosco... È la Tetraktys, il triangolo magico composto di punti. Tre lati, di<br />

quattro punti ciascuno, e un punto al centro, così che sembra anche composta di<br />

quattro file di punti, una di quattro, una di tre, una di due e una di uno.<br />

PITAGORA E in essa, se saprai capire, già ti sorride la verità del numero. Uno più due<br />

più tre più quattro uguale a dieci. Un punto al centro, origine di tutti gli altri. Quattro<br />

punti ai lati, quattro, il numero della perfezione, della forza, della giustizia e della<br />

solidità. Tre serie di quattro punti formano il triangolo equilatero, simbolo di<br />

eguaglianza perfetta. La somma dei punti dà dieci, e coi primi dieci numeri puoi<br />

esprimere tutti gli altri infiniti numeri che abitano nell’universo. E se guardi il<br />

triangolo dal vertice alla base, ecco che il numero dei punti ti mostra, alternati, il pari e<br />

il dispari. Il pari, simbolo dell’infinito, perché non potrai mai identificare in una linea<br />

di punti pari il punto che la divida in due parti uguali. Il dispari, dotato di un centro<br />

che separa due metà sempre uguali. E l’uno, infine, numero pari e dispari ad un tempo,<br />

origine sia dei numeri dispari che dei pari, che con la sua sola presenza può rendere<br />

162


pari il dispari e dispari il pari. Non vedi, uomo, in questo simbolo elementare, tutta la<br />

saggezza dell’universo, tutte le leggi matematiche che fanno il mondo?<br />

ECO Sì, in astratto... Ma gli oggetti fisici?<br />

PITAGORA E cosa sono gli oggetti fisici, da dove credi che traggano la loro<br />

consistenza se non da una diversa disposizione spaziale e numerica dei loro elementi<br />

infinitesimali? Se il fuoco serpeggia così rapido, e punge e penetra, è perché dalla<br />

generazione dei triangoli elementari si generano corpi solidi in forma di piramide, che<br />

appunto punge e penetra. Mentre gli altri elementi saranno formati da ottaedri,<br />

icosaedri e dodecaedri. E questi, che regolano la vita infinitesima del microcosmo,<br />

sono i princìpi del macrocosmo, che regolano il cammino delle sfere celesti e la<br />

rotazione dei pianeti.<br />

ECO Io capisco, Maestro, che Lei ha anticipato di secoli le intuizioni fondamentali<br />

della scienza moderna: non solo che il mondo può essere spiegato in termini<br />

<strong>matematici</strong>, ma che sia l’universo delle galassie che quello delle particelle<br />

subatomiche sono due aspetti di una stessa macchina, spiegabile in termini di calcolo.<br />

Ma proprio Lei, Maestro, che ha dato un tono così profondamente religioso alla sua<br />

comunità, non ha preveduto l’obiezione che ancora oggi qualcuno potrebbe farle: che,<br />

cioè, il numero spiega la struttura del mondo fisico ma non la vita... come dire...<br />

dell’anima, dello spirito. Ma cos’è allora l’anima di cui Lei parla, che trasmigra di<br />

corpo in corpo sino alla purificazione? Cosa sono la musica, che lei ha amato tanto,<br />

l’arte, la poesia?<br />

PITAGORA Sono numero. Numero. Che altro? Lo stesso numero che costituisce le<br />

piramidi del fuoco, lo stesso gioco di pari e dispari, finito e illimitato che regge la<br />

generazione delle grandezze matematiche. Ecco, qui ho sette bicchieri, di uguale<br />

formato; e ciascuno è riempito di acqua, ma in misura diversa. Ora io batto con questa<br />

verga di metallo su ciascun bicchiere, in serie... Senti? (Si ode una successione di<br />

suoni, non una scala diatonica, qualcosa di più simile a una scala cromatica, o la<br />

successione dei tasti neri sul pianoforte). Cos’è questa?<br />

ECO Sì... musica. Almeno, il principio della musica.<br />

PITAGORA E da cosa dipendono gli intervalli, e le differenze riconoscibili (e<br />

amabili) tra suoni, se non dalla misurabile quantità d’acqua in ciascun bicchiere? E<br />

vedi ora questa corda: lo sai, è il principio che permette il funzionamento di molti<br />

strumenti musicali. Se la premi a questo punto, rendendola più corta, ottieni un suono,<br />

se la premi più avanti, e l’accorci ancora, il suono sarà più acuto (si odono due suoni).<br />

Tu sai, ogni musico sa, che ogni minima differenza di suono può essere misurata<br />

rapportandola proporzionalmente all’estensione della corda. Una formula matematica<br />

regge la vita di ogni evento musicale.<br />

ECO Sì, ma io dicevo: e l’anima?<br />

PITAGORA Risponde alle leggi della musica, è un puro gioco di rapporti numerici.<br />

Ricordo una sera, a Taormina. Un giovane, avvinazzato, al colmo dell’ira, stava per<br />

sfondare la porta di una casa dove abitava una donna. Nessuno riusciva a trattenerlo.<br />

Sino a che io capii. Non tanto il vino lo eccitava, quanto la musica che i suonatori di<br />

tibia suonavano in modo frigio, che dispone all’eccitazione, e tende muscoli e nervi,<br />

per simpatia tra i numeri che regolano e l’uno e l’altro fenomeno. E io ordinai ai<br />

suonatori di passare al modo ipofrigio. E subito il giovane si calmò. D’altra parte noi<br />

163


stessi, nella scuola di Crotone, ci addormentavamo al suono di qualche calcolatissima<br />

cantilena, e poi al risveglio, per rifarci lucidi, ricorrevamo ad altre modulazioni. Ma tu<br />

lo sai, e lo sapeva tua mamma, quando eri infante, che ricorreva con grande saggezza<br />

alla nenia giusta per calmare le tue lacrime! Senza che avesse studiato essa sentiva, dal<br />

profondo della sua anima, i numeri che potevano ben disporre la tua, e li traduceva in<br />

musica! Non so cosa sia d’altro, per te, l’anima, e se sia qualcosa di più. E cosa<br />

ammiri nel tempio o nella statua se non la simmetria, l’ordine e la rispondenza di una<br />

parte a tutte le altre, e il ritmo, lo stesso che ami nella poesia?<br />

ECO Io credo che Lei abbia ragione, Maestro, e che sia molto più religioso il suo<br />

pensiero di quello di coloro che oppongono spirito e materia come se fossero due<br />

entità incommensurabili. Ma forse lei ha portato questa sua religione del numero<br />

troppo avanti. La sua dottrina astronomica, per esempio...<br />

PITAGORA Cosa vi è di errato nella mia dottrina astronomica? Intorno al fuoco<br />

centrale ruotano i dieci corpi celesti. Il cielo delle stelle fisse, Giove, Saturno,<br />

Mercurio, Venere, Marte, il Sole, la Luna, la Terra e l’Antiterra.<br />

ECO Appunto. La Sua dottrina astronomica è stata rivoluzionaria, ha anticipato<br />

quella copernicana, perché non riteneva che i pianeti ruotassero intorno alla Terra. Ma<br />

perché l’Antiterra, un corpo che nessuno ha mai visto?<br />

PITAGORA Ma perché solo così si raggiunge il numero perfetto di dieci!<br />

ECO Vede dunque che per amore di teoria, di perfezione matematica, Lei si è<br />

costruito un universo su misura, che non corrisponde alla verità dei fatti.<br />

PITAGORA Non corrisponde alla verità dei fatti? Cosa significa? La verità è la teoria<br />

matematica. Se la teoria matematica postula la presenza dell’Antiterra, l’Antiterra<br />

deve esistere, e peggio per noi che non siamo capaci di vederla. Forse che ai tuoi<br />

tempi non sono stati scoperti nuovi pianeti?<br />

ECO Certo. Urano, Plutone, e i satelliti di Giove...<br />

PITAGORA E come li hanno scoperti? Li hanno visti?<br />

ECO No, dapprima no. Dapprima, per verificare certe teorie astronomiche, per<br />

spiegare certe anomalie nel moto dei corpi celesti, si è dovuto presupporre che<br />

esistessero, poi si è andati a cercarli con strumenti sempre più raffinati e poi...<br />

PITAGORA Vedi dunque che è la teoria che ha fornito gli elementi per la verità, la<br />

fiducia nella legge matematica dell’universo, il postulato della regolarità dei<br />

fenomeni!<br />

ECO Lei ha ragione. Ma poi si è andati a verificare.<br />

PITAGORA E che bisogno c’era, se la fiducia nella regola eterna ti diceva già che<br />

dovevano esserci? Ma non avverti la bellezza di questa regola eterna del numero?<br />

Ogni pianeta girando a velocità diversa intorno al fuoco centrale produce un suono<br />

della gamma musicale, e tutti insieme generano un concerto dolcissimo, un’armonia<br />

che canta perennemente nell’universo.<br />

ECO Che noi non sentiamo.<br />

PITAGORA Certo, perché il nostro orecchio vi è abituato sin dalla nascita. Non hai<br />

mai fatto caso, nell’incanto di certe notti, al rumore del silenzio? Ma solo in momenti<br />

di grazia puoi udirlo.<br />

ECO Sì, ma se tutti i dieci pianeti producono ciascuno una nota della scala musicale,<br />

tutti insieme non fanno armonia, ma una dissonanza tremenda, come se io schiacciassi<br />

164


di colpo tutta la tastiera del pianoforte, come se pizzicassi tutte le corde di un’arpa in<br />

un solo istante...<br />

PITAGORA Ma la musica non è data dai suoni, bensì dai rapporti tra i suoni. Anche<br />

un sordo può godere la musica, purché la pensi, mentre chi la ascolta senza pensarla<br />

non la gode.<br />

ECO Ancora una volta questo disprezzo per il concreto!!!<br />

PITAGORA Ma del concreto io vedo l’anima matematica.<br />

ECO Sì ma l’adolescente di Taormina è stato calmato da una musica suonata, non<br />

dal pensiero matematico degli intervalli musicali.<br />

PITAGORA Era puro dialogo tra numeri, opposti che si integravano, tensioni che si<br />

componevano nell’armonia. Non era necessario che il ragazzo lo sapesse e lo capisse.<br />

Così doveva avvenire.<br />

ECO così doveva avvenire... Vede, Maestro, quello che le rimprovero è il suo<br />

ottimismo matematico. La sua fiducia in una sorta di fatalità armonica che regola il<br />

divenire dell’universo. Lei ha lasciato in eredità al nostro tempo grandi intuizioni<br />

scientifiche, ma al tempo stesso una terribile tentazione. La tentazione di contemplare<br />

una armonia astratta del tutto teorica, senza riuscire a tener conto della contraddizione,<br />

del dolore, di quelle vicende tutte terrestri in cui il numero fallisce e l’azione umana<br />

deve intervenire per ristabilire una legge, o per imporne una nuova. La storia della<br />

nostra scienza è fatta anche di calcoli sbagliati, e di esperimenti che hanno<br />

contraddetto i calcoli, e di calcoli che hanno rifatto i calcoli precedenti...<br />

PITAGORA Ma non siete mai riusciti a darmi torto.<br />

ECO Non lo so. Forse le si è dato ragione proprio quando le si dava torto, quando si<br />

sono negati i suoi numeri per cercare altri numeri...<br />

PITAGORA Sono sempre gli stessi. La regola sta al principio.<br />

ECO Ma trasporti questo atteggiamento nella vita sociale e politica. Cosa ne nasce?<br />

Una visione aristocratica e conservatrice. Non a caso Lei ha dovuto fuggire da<br />

Crotone, perché il partito democratico vedeva nella Sua scuola un centro di pensiero<br />

aristocratico e reazionario. Nella vostra fiducia nelle leggi eterne del mondo voi<br />

pitagorici non potevate comprendere la mutazione, non potevate intuire quello che<br />

dopo di voi ha intuito Eraclito, che tutto scorre, che non ci si bagna mai due volte<br />

nello stesso fiume, che la realtà nasce anche dal dolore, dalla lotta, che l’armonia è un<br />

punto d’arrivo, sempre provvisorio, ma guai a considerarla un punto di partenza,<br />

definitivo.<br />

PITAGORA Dunque non hai capito.<br />

ECO No Maestro, ho capito che lei ci ha offerto probabilmente solo uno dei volti<br />

della verità, e che ne esiste anche un altro, e che nella tensione tra queste due verità,<br />

quella che un nostro poeta ha chiamato la duplice battaglia dell’ordine e<br />

dell’avventura, in questo sta la nostra verità umana.<br />

PITAGORA Dunque non hai capito.<br />

ECO Sì, ho capito che la Sua funzione è stata di proporci la Sua verità, e di non<br />

dubitarne mai. La nostra è di metterla in dubbio, e di crederci, al tempo stesso.<br />

PITAGORA Dunque non hai capito.<br />

ECO Buongiorno Maestro. La ringrazio per avermi concesso quest’intervista.<br />

PITAGORA Non hai capito.<br />

165


La morte di Archimede<br />

di Karel Čapek<br />

È che la storia di Archimede non andò proprio così come è stato scritto; è vero sì<br />

che fu ucciso quando i romani presero Siracusa, ma non è esatto dire che entrò in casa<br />

sua un soldato romano per saccheggiarla e che Archimede, intento a disegnare una<br />

qualche costruzione geometrica, gli ringhiò con aria scontrosa: «Non mi rovinare i<br />

miei cerchi!» In primo luogo Archimede non era affatto un distratto professore che<br />

non sa quel che gli succede intorno; anzi, era per natura un autentico soldato, che<br />

aveva progettato per Siracusa delle valide macchine da guerra, destinate alla difesa<br />

della città; in secondo luogo poi, il soldatino romano non era affatto un predone<br />

ubriaco, ma il colto e ambizioso capitano di stato maggiore Lucius, che sapeva bene<br />

con chi aveva l’onore di parlare, e non era venuto per saccheggiare, ma sulla soglia<br />

fece il saluto militare e disse: «Salute a te, Archimede».<br />

Archimede alzò gli occhi dalla tavoletta di cera, sulla quale davvero stava<br />

disegnando qualcosa, e disse:<br />

— Che c’è?<br />

— Archimede, — fece Lucius, — noi sappiamo che senza le tue valide macchine da<br />

guerra Siracusa non avrebbe retto nemmeno un mese; invece abbiamo dovuto lottare<br />

due anni. Cosa credi, noi soldati ce ne intendiamo. Magnifiche macchine.<br />

Complimenti.<br />

Archimede fece un gesto con la mano. — Per favore, non sono niente di<br />

straordinario. Normali meccanismi da lancio... una specie di giochetto insomma.<br />

Scientificamente non ha grande importanza.<br />

— Ma militarmente sì, — osservò Lucius. — Ascolta, Archimede, sono venuto a<br />

chiederti di lavorare con noi.<br />

— Con chi?<br />

— Con noi romani. Devi pure sapere che Cartagine è in rovina. Perché aiutarli<br />

ancora! Ora daremo una bella lezione a Cartagine, vedrai. Sarebbe meglio che vi<br />

metteste con noi, voi tutti.<br />

— Perché? — borbottò Archimede, — casualmente noi siracusani siamo greci.<br />

Perché dovremmo venire con voi?<br />

— Perché vivete in Sicilia, e noi abbiamo bisogno della Sicilia.<br />

— E perché ne avete bisogno?<br />

— Perché vogliamo avere il dominio sul mar Mediterraneo.<br />

— Ma, — fece Archimede e guardò pensoso la sua tavoletta. — E perché lo volete?<br />

— Chi domina il mar Mediterraneo, — disse Lucius, — domina il mondo. Eppure è<br />

chiaro.<br />

— E che, dovete dominare il mondo?<br />

— Sì. La missione di Roma è di avere il dominio del mondo. E ti dico che lo avrà.<br />

— Forse, — disse Archimede mentre cancellava qualcosa dalla tavoletta di cera. —<br />

166


Ma non ve lo consiglierei, Lucius. Ascolta, dominare il mondo: questo vi porterà un<br />

giorno atroci lotte per difendervi. Non pensi all’inutile fatica che ve ne verrà?<br />

— Non importa; ma avremo un grande impero.<br />

— Un grande impero, — bofonchiò Archimede. — Se disegno un cerchio piccolo o<br />

uno grande, è sempre e solo un cerchio. Le frontiere ci sono sempre; non potrete mai<br />

non avere delle frontiere, Lucius. Pensi che un cerchio grande sia più perfetto di uno<br />

piccolo? Pensi di essere un miglior geometra se disegni un cerchio più grande?<br />

— Voi greci giocate sempre con le parole, — obiettò il capitano Lucius. — Allora<br />

vi dimostreremo che siamo nel giusto altrimenti.<br />

— Come?<br />

— Coi fatti. Per esempio, abbiamo preso la vostra Siracusa. Ergo Siracusa ci<br />

appartiene. È una prova chiara?<br />

— Sì, — disse Archimede grattandosi la testa con lo stilo. — Sì, avete preso<br />

Siracusa; solo che ormai Siracusa non è né sarà mai più quello che è stata fino ad oggi.<br />

Era una grande e gloriosa città, ragazzo; ora non sarà mai più grande. Peccato per<br />

Siracusa!<br />

— Invece Roma sarà grande. Roma deve essere la più forte di tutto il mondo.<br />

— Perché?<br />

— Per resistere. Più siamo forti, più avremo nemici. Per questo dobbiamo essere i<br />

più forti.<br />

— Per quanto riguarda la forza, — bofonchiò Archimede. — Io sono anche un po’<br />

fisico, Lucius, e ti dico qualcosa. La forza si applica.<br />

— Che significa?<br />

— È una specie di legge, Lucius. Una forza che agisce deve applicarsi. Quanto più<br />

sarete forti, tanto più consumerete per questo la vostra forza; e un giorno verrà il<br />

momento...<br />

— Che hai voluto dire?<br />

— Ma niente. Non sono un profeta, ragazzo; sono solo un fisico. La forza si<br />

applica. Di più non so.<br />

— Senti, Archimede, non vorresti lavorare con noi? Non hai idea di quali enormi<br />

possibilità ti si aprirebbero a Roma. Potresti costruire le migliori macchine da guerra<br />

del mondo...<br />

— Mi devi scusare, Lucius; sono un vecchio, ma vorrei ancora sviluppare un paio<br />

di mie idee... Come vedi, sto proprio disegnando qualcosa.<br />

— Archimede, non ti attira raggiungere con noi il dominio del mondo?... Perché<br />

non parli?<br />

— Scusa, — borbottò Archimede chino sulla sua tavoletta. — Cosa hai detto?<br />

— Che un uomo come te potrebbe raggiungere il dominio del mondo.<br />

— Hm, il dominio del mondo, — fece Archimede assorto. — Non arrabbiarti, ma<br />

ora ho qualcosa di più importante da fare. Sai, qualcosa di più durevole. Qualcosa che<br />

davvero rimarrà.<br />

— Che cos’è?<br />

— Attento, non mi cancellare i miei cerchi! È il metodo con cui si può calcolare<br />

l’area di un settore circolare.<br />

Più tardi fu tramandata la storia che il dotto Archimede perse la vita per caso.<br />

167


Paolo Uccello<br />

di Marcel Schwob<br />

Veramente si chiamava Paolo di Dono; ma i Fiorentini lo chiamarono Uccelli, o<br />

Paolo Uccelli, a causa del gran numero di uccelli raffigurati e di bestie dipinte che<br />

riempivano la sua casa, essendo egli troppo povero per nutrire degli animali o per<br />

procurarsi quelli che non conosceva. Si dice anche che a Padova eseguì un affresco dei<br />

quattro elementi, e che diede come attributo all’aria l’immagine del camaleonte. Ma<br />

non ne aveva mai visti, sicché rappresentò un cammello panciuto che ha la bocca<br />

spalancata. (Ora il camaleonte, spiega il Vasari, è simile a una piccola lucertola<br />

smilza, mentre il cammello è una grande bestia dinoccolata). Perché Uccello non si<br />

preoccupava affatto della realtà delle cose, ma della loro molteplicità e dell’infinito<br />

delle linee; e così fece campi blu, e città rosse, e cavalieri vestiti d’armature nere su<br />

cavalli d’ebano, dalla bocca infiammata, e lance dirette come raggi di luce verso tutti i<br />

punti del cielo. E aveva l’abitudine di disegnare dei mazzocchi, che sono dei cerchi di<br />

legno ricoperti di panno che si mettono sulla testa, in maniera che le pieghe della<br />

stoffa buttata indietro circondino tutto il viso. Uccello ne raffigurò alcuni a punta, altri<br />

quadrati, altri sfaccettati, disposti in piramidi e in coni, seguendo tutte le apparenze<br />

della prospettiva, cosicché trovava un mondo di combinazioni nelle pieghe del<br />

mazzocchio. E lo scultore Donatello gli diceva: «Ah! Paolo, tu lasci la sostanza per<br />

l’ombra! »<br />

Ma l’Uccello continuata la sua opera paziente, e raccoglieva i cerchi, e divideva gli<br />

angoli, ed esaminava tutte le creature in tutti i loro aspetti, e andava a chiedere<br />

l’interpretazione dei problemi d’Euclide al suo amico matematico Giovanni Manetti;<br />

poi si rinchiudeva e ricopriva le sue pergamene e i suoi legni con punti e curve. Si<br />

dedicò perpetuamente allo studio dell’architettura, e in questo si fece aiutare da<br />

Filippo Brunelleschi; ma non lo faceva affatto con l’intenzione di costruire. Si<br />

limitava a osservare le direzioni delle linee, dalle fondamenta sino ai cornicioni, e la<br />

convergenza delle rette nelle loro intersezioni, e in qual maniera le volte giravano<br />

sulle loro chiavi, e lo scorcio a ventaglio delle travi del soffitto che sembravano unirsi<br />

all’estremità delle lunghe sale. Raffigurava anche tutte le bestie e i loro movimenti, e i<br />

gesti degli uomini alfine di ridurli a linee semplici.<br />

In seguito, simile all’alchimista chino su miscugli di metalli e di organi a spiarne la<br />

fusione nel suo fornello per trovare l’oro, Uccello versava tutte le forme nel crogiolo<br />

delle forme. Le riuniva, e le combinava, e le fondeva, al fine di ottenere la loro<br />

trasmutazione nella forma semplice, dalla quale dipendono tutte le altre. Ecco perché<br />

Paolo Uccello visse come un alchimista in fondo alla sua piccola casa. Credette di<br />

poter mutare tutte le linee in un solo aspetto ideale. Volle concepire l’universo creato<br />

così come esso si rifletteva nell’occhio di Dio, che vede scaturire tutte le figure da un<br />

centro complesso. Intorno a lui vivevano Ghiberti, Della Robbia, Brunelleschi,<br />

168


Donatello, ognuno orgoglioso e maestro della propria arte, che beffavano il povero<br />

Uccello, e la sua follia della prospettiva, e lo compativano per la sua casa piena di<br />

ragni, vuota di provviste; ma Uccello era ancora più orgoglioso. A ogni nuova<br />

combinazione di linee, sperava di aver scoperto la modalità del creare. Non mirava<br />

all’imitazione, ma alla potenza nello sviluppare sovranamente tutte le cose, e la strana<br />

serie di cappucci con le pieghe gli sembrava più rivelatrice delle magnifiche figure di<br />

marmo del grande Donatello.<br />

Così viveva l’Uccello, e la sua testa pensosa era avvolta nella sua cappa; e non si<br />

accorgeva né di ciò che mangiava né di ciò che beveva, ma in tutto era uguale a un<br />

eremita. E così un giorno, in un prato, vicino a un cerchio di vecchie pietre affondate<br />

nell’erba, egli scorse una fanciulla che rideva, e aveva la testa cinta da una ghirlanda.<br />

Indossava una lunga veste delicata sostenuta alle reni da un nastro pallido, e i suoi<br />

movimenti erano morbidi come gli steli che piegava. Il suo nome era Selvaggia, ed<br />

ella sorrise a Uccello. Egli notò la flessione del suo sorriso. E quando lei lo guardò,<br />

egli vide tutte le piccole linee delle ciglia, e i circoli delle pupille, e la curva delle<br />

palpebre, e i sottili intrecci dei capelli, e nel suo pensiero fece descrivere alla<br />

ghirlanda che le cingeva la fronte una moltitudine di posizioni. Ma Selvaggia non<br />

seppe nulla di tutto questo, perché aveva soltanto tredici anni. Prese Uccello per la<br />

mano e lo amò. Era la figlia di un tintore di Firenze, e sua madre era morta. Un’altra<br />

donna era venuta nella casa, e aveva picchiato Selvaggia. Uccello la portò via con sé.<br />

Selvaggia rimaneva accovacciata tutto il giorno davanti al muro sul quale Uccello<br />

tracciava le forme universali. Non riuscì mai a capire perché egli preferisse osservare<br />

delle linee diritte e delle linee arcuate piuttosto che guardare il tenero volto che si<br />

volgeva verso di lui. La sera, quando Brunelleschi o Manetti venivano a studiare con<br />

Uccello, lei si addormentava, dopo la mezzanotte, ai piedi delle rette incrociate, nel<br />

cerchio d’ombra che si allargava sotto la lampada. Al mattino, si svegliava prima di<br />

Uccello, e si rallegrava perché era circondata da uccelli dipinti e da bestie colorate.<br />

Uccello disegnò le sue labbra, e i suoi occhi, e i suoi capelli, e le sue mani, e fissò tutti<br />

gli atteggiamenti del suo corpo; ma non fece mai il suo ritratto, così come facevano gli<br />

altri pittori che amavano una donna. Poiché l’Uccello non conosceva la gioia di<br />

limitarsi all’individuo; non ristava in un solo luogo: voleva planare, nel suo volo, al di<br />

sopra di tutti i luoghi. E le forme degli atteggiamenti di Selvaggia furono gettate nel<br />

crogiolo delle forme, insieme con tutti i movimenti delle bestie, e con le linee delle<br />

piante e delle pietre, e con i raggi della luce, e con le ondulazioni dei vapori terrestri e<br />

delle onde del mare. E senza ricordarsi di Selvaggia, Uccello sembrava rimanere<br />

eternamente chino sul crogiolo delle forme.<br />

Ma non c’era nulla da mangiare nella casa di Uccello. Selvaggia non osava dirlo a<br />

Donatello né agli altri. Ella tacque e morì. Uccello raffigurò l’irrigidirsi del suo corpo,<br />

e il congiungersi delle sue piccole mani magre, e la linea dei suoi poveri occhi chiusi.<br />

Non seppe che era morta, come non aveva saputo se era viva. Ma gettò queste nuove<br />

forme in mezzo a tutte quelle che aveva radunato.<br />

L’Uccello divenne vecchio, e nessuno capiva più i suoi quadri. Non vi vedevano<br />

che una confusione di curve. Non vi riconoscevano più né la terra, né le piante, né gli<br />

animali, né gli uomini. Da lunghi anni egli lavorava alla sua opera suprema, che<br />

nascondeva agli occhi di tutti. Essa avrebbe dovuto abbracciare tutte le sue ricerche, e<br />

169


ne era l’immagine, nella sua concezione. Era un san Tommaso incredulo, che mette il<br />

dito nella piaga del Cristo. Uccello terminò il suo quadro a ottant’anni. Fece venire<br />

Donatello, e lo scoprì religiosamente davanti a lui. E Donatello gridò: «O Paolo,<br />

ricopri il tuo quadro! » L’Uccello interrogò il grande scultore: ma questi non volle dire<br />

altro. Sicché Uccello capì di aver compiuto il miracolo. Ma Donatello non aveva visto<br />

che un garbuglio di linee.<br />

E qualche anno dopo, Paolo Uccello fu trovato morto di consunzione, sul suo<br />

pagliericcio. Il suo viso era splendente di rughe. I suoi occhi erano fissi sul mistero<br />

rivelato. Teneva nella mano strettamente rinchiusa un pezzetto rotondo di pergamena<br />

coperto di linee intrecciate che andavano dal centro alla circonferenza e che<br />

ritornavano dalla circonferenza al centro.<br />

170


Un Hugo geometra<br />

di Raymond Queneau<br />

Nel 1828, Abel Hugo, fratello maggiore di Victor, ebbe un figlio che, in seguito,<br />

divenne funzionario del Ministero dei Lavori pubblici. Léopold (così si chiamava<br />

questo figlio) sembra in un primo tempo essersi interessato alle antichità nazionali, in<br />

particolare ai problemi concernenti Alesia (come Colomb, l’illustre autore, sotto il<br />

nome di Christophe, del Savant Cosinus) e all’irritante enigma dei dodecaedri eseguiti<br />

in bronzo cavo traforato dell’epoca gallo-romana. J. de Saint-Venant, nel lavoro che<br />

ha pubblicato sull’argomento a Nevers nel 1907, sostiene che soltanto grazie alla<br />

«calorosa raccomandazione» dello zio, Léopold Hugo poté presentare i suoi lavori<br />

all’Accademia delle scienze, ma che quest’ultima non lo prese mai sul serio.<br />

Fin dal 1867 Léopold Hugo aveva scoperto i cristalloidi a direttrice circolare e nel<br />

1873 usciva il suo Essai sur la géométrie des cristalloides. Con quest’ultima parola<br />

Léopold Hugo designa dei solidi regolari di sua invenzione, ad eccezione (cosa che<br />

ignorava) dell’equidomoide a base quadrata già considerato da Archimede e da<br />

Viviani, e naturalmente ad eccezione anche della sfera che altro non è che un<br />

equidomoide a base circolare. Tra questi solidi, segnaliamo in particolare<br />

l’equitremoide il quale, con l’aggiunta di sabbia fine, serve in cucina a misurare il<br />

tempo necessario alla cottura delle uova à la coque.<br />

Come si è già segnalato prima, non sembra che i geometri del tempo abbiano preso<br />

in considerazione i lavori di Hugo. Nel 1875 scrive nell’Avvertenza alla sua Géométrie<br />

hugodomoidale, anhellénique, mais philosophique et architectonique: «Mi sono visto<br />

costretto ad accentuare al massimo l’originalità della forma nelle mie successive<br />

produzioni per imprimere, almeno a grandi linee, la mia piccola teoria nella memoria<br />

dei lettori. Continuerò a fare così anche in futuro, per tentare di abbreviare il periodo<br />

di noviziato che è costretta a superare ogni ardita novità (e nessuna è più ardita della<br />

teoria dell’Equidomoide, il domatore delle sfere [sphaerarum domitor]) prima di<br />

arrivare a una giusta notorietà, soprattutto quando l’innovazione ha la prerogativa di<br />

rimandare anche i più dotti a scuola perché riprende semplicemente le cose ab ovo».<br />

«La sfera, – scrive ancora, – non ha che da sgonfiarsi... o da rassegnarsi al ruolo di.<br />

Equidomoide limite». «La Scuola hugodomoidale è veramente la Scuola romantica<br />

della geometria».<br />

Nel 1877 pubblica La théorie hugodécimale ou la base scientifique et definitive de<br />

l’arithmo-logistique universelle, che contiene un’Enciclica supremolamasica,<br />

un’evocazione cinotibetana, la geometria panimmaginaria a 1/m dimensioni,<br />

l’aritmetica a 1/m cifre, un Decreto presidenziale ecumenico relativo alla base<br />

hugodefinitiva della numerazione decimale. «Nel mio isolamento di semplice filosofo,<br />

sarò costretto a usare le combinazioni più strane e a colpire l’attenzione del lettore con<br />

la stessa singolarità della mia esposizione».<br />

171


E annuncia (ma non sembra che nessuno di questi lavori sia mai stato pubblicato):<br />

Geometria druido-parisiensis nec non sinensis nova, Il potenziale hugoleopodico, La<br />

filosofia dei quaternioni hugo-stereometrici, Cosmografia ovhelitica, hugosofica e<br />

realiconforme.<br />

Gli si deve anche un progetto di “Palazzo della Scoperta” che chiamava il «Valhalla<br />

delle scienze pure e applicate» e che si sarebbe dovuto sistemare nel castello di Blois.<br />

Era anche scultore; espose il suo medaglione al Salon del 1874 e un marmo,<br />

Electryon, genio dell’elettricità terrestre al Salon del 1877.<br />

La Bibliothèque Nationale non possiede alcuna pubblicazione di Léopold Hugo<br />

posteriore a questa data, benché sia morto soltanto il 1° aprile 1 885.<br />

Spero che questo breve ragguaglio (tratto dai Paralipomeni ai Figli del limo)<br />

attirerà l’attenzione degli studiosi su questo autore. Bisognerà consultare gli Archivi<br />

del Ministero dei Lavori pubblici e dell’Accademia delle Scienze, i cataloghi del<br />

Salon, bisognerà mettere in chiaro la questione dei rapporti con suo zio (c’è<br />

un’allusione a Léopold nelle opere di Victor?); infine bisognerà determinare il valore<br />

dei suoi lavori di geometria e ritrovare le sue sculture.<br />

«Analista! Rendi omaggio alla verità, se no l’Equidomoide vendicatore verrà a<br />

pesare di notte sul tuo petto ansioso».<br />

172


John von Neumann<br />

(1903-1957)<br />

di Hans Magnus Enzensberger<br />

Doppio mento, faccia di lunapiena, camminando vacilla –<br />

un comico dev’essere<br />

o un rappresentante generale di moquette,<br />

un bonvivant membro del Rotary.<br />

Guai però se Jáncsi di Budapest<br />

incomincia a pensare!<br />

È inesorabile il tic-tic che gli fa nel cranio<br />

il suo morbido processore,<br />

uno sfarfallio gli attraversa la memoria,<br />

fulmineo sputa fuori equazioni babistiche.<br />

A Eichmann e Stalin ha dato scacco matto<br />

in tre mosse: Gottinga – Cherbourg,<br />

Cherbourg – New York, New York – Princeton.<br />

In prima classe ha lasciato la zona di pericolo di morte<br />

Gli bastava poco, quattr’ore di sonno,<br />

tanta panna sullo strudel al papavero<br />

e un po’ di conti correnti in Svizzera.<br />

Anche chi non ha mai sentito parlare di lui<br />

(e sono i più)<br />

col mouse in pugno aziona<br />

la sua algebra combinatoria.<br />

E per quanto concerne l’intelligenza artificiale:<br />

senza la sua oggi forse sarebbe<br />

ancora una trovatella senza dimora.<br />

Non conta se si tratta di una partita ai dadi<br />

o di un uragano,<br />

di automi fertili o tabelle del tirassegno,<br />

il gesso fra le dita fa fatica a stargli dietro,<br />

così veloce è la sua rete neuronale.<br />

Scarabocchia gli spazi di Hilbert, maniacale<br />

nello schizzare anelli e ideali. Senza limiti<br />

173


opera con operatori illimitati.<br />

La cosa principale: soluzioni eleganti<br />

per indurre il pianeta a danzare.<br />

Un vecchio bimbo prodigio, interfaccia col<br />

servizio segreto.<br />

Rombando atterrano gli elicotteri sul suo prato.<br />

«Fat man» su Nagasaki: matematica pura.<br />

La guerra come droga. Non ci può essere<br />

un’arma troppo grossa. Sempre di buon umore<br />

al lunch con gli ammiragli.<br />

In realtà era timido, e ci sono enigmi<br />

davanti ai quali la sua scatola nera fa cilecca.<br />

L’amore, ad esempio, la stupidità, la noia.<br />

Pessimismo = peccato contro la scienza.<br />

Energia in pillole, controllo del clima, eterna crescita!<br />

Trasformare l’Islanda in un paradiso tropicale:<br />

non c’è problema. Il resto è ciancia.<br />

Poi la gita aziendale su un’altra isola,<br />

in doppiopetto e occhiali affumicati: Bikini.<br />

«Operazione Bivio». Il test era riuscito.<br />

Dieci anni ci sono voluti al cancro da radiazioni<br />

per disinnescare le sue sinapsi.<br />

174


Breve ritratto di Alan Turing<br />

di Emmanuel Carrère<br />

L’8 giugno 1954, la domestica di Alan Turing scoprì il corpo del matematico<br />

riverso sul letto nella piccola casa della periferia di Manchester in cui viveva.<br />

L’inchiesta fu breve: si era avvelenato addentando una mela intinta nel cianuro 82 .<br />

Niente lasciava presagire questo suicidio. Turing era certamente un uomo ansioso e<br />

solitario; due anni prima aveva subìto una prova fisica e morale molto crudele e,<br />

stando alle poche persone che ne avevano una vaga idea, cercava di rinascere<br />

attraverso il suo lavoro scientifico. Ma alla vigilia della sua morte aveva prenotato il<br />

computer dell’Università di Manchester, uno degli unici due esemplari di quella<br />

specie esistenti al mondo che Turing aveva contribuito a realizzare e con cui passava<br />

due notti la settimana; aveva corso diverse ore per allenarsi alla mezza maratona cui il<br />

suo club avrebbe preso parte la settimana successiva, comperato due ingressi a teatro<br />

per sé e per un amico e lavato i piatti del suo ultimo pasto.<br />

Aveva quarantadue anni. Era un omone rude, trasandato, che indossava giacche di<br />

tweed bucate. La gente ci vedeva la perfetta incarnazione dello scienziato eccentrico,<br />

che ha la testa tra nuvole di equazioni e pulisce la lavagna con un lembo della camicia<br />

– immagine convenzionale che lui senz’altro alimentava, e che gli serviva da status<br />

sociale. Aveva fama di essere un matematico di talento, ma da tempo non produceva<br />

nulla che giustificasse tale reputazione. Metteva raramente piede nel suo ufficetto<br />

dell’università e si teneva a distanza dall’ambiente accademico – come da qualsiasi<br />

altro ambiente, del resto. Alle prime luci dell’alba, quando lasciava il suo computermastodonte,<br />

altri ricercatori del laboratorio gli subentravano, e talvolta, scaldandosi le<br />

mani con una tazza di tè, scambiava con loro qualche informazione tecnica, piccole<br />

ricette di programmazione che ciascuno elaborava per conto proprio. I suoi colleghi<br />

erano appena usciti dal letto, dalle braccia della moglie; lui invece aveva un colorito<br />

terreo, la sua barba ruvida e nera durante la notte era cresciuta, e i suoi occhi<br />

brillavano di stanchezza. Nessuno osava domandargli che cosa facesse, quale fosse<br />

l’oggetto delle sue ricerche. A quegli uomini entusiasti, pionieri di una scienza troppo<br />

giovane per avere un passato, Turing appariva come un fantasma uscito proprio da<br />

quel passato inesistente.<br />

La fama era arrivata in seguito a due articoli, di cui il più noto risaliva a vent’anni<br />

prima. I necrologi che i suoi colleghi pubblicarono sul Times e sulle riviste<br />

scientifiche facevano riferimento soltanto a quest’ultimo. In essi il defunto era<br />

presentato come un puro prodotto di Cambridge, distintosi negli anni Trenta per il suo<br />

contributo memorabile – anche se non quanto quello di Kurt Gödel – alla demolizione<br />

del programma di Hilbert, ovvero a uno di quei dibattiti sulla logica formale di fronte<br />

82 In omaggio ad Alan Turing, e alla sua opera, la società informatica Apple ha adottato il simbolo<br />

della mela morsa. (N.d.R.)<br />

175


ai quali i <strong>matematici</strong>, tolta una stretta cerchia di specialisti, tendono a fare spallucce,<br />

ritenendo che, quando non sfondano delle porte aperte, i formalisti, come pure i loro<br />

critici, inventano problemi che nella pratica non incontra mai nessuno (e la pratica,<br />

ovviamente, non è la vita umana, ma le cataste di lemmi che costituiscono il lavoro<br />

matematico).<br />

La macchina<br />

Di che cosa si occupa la matematica pura? Della verità. A che cosa serve? A<br />

produrre verità. È il suo unico fine e la sua unica giustificazione: produrre enunciati<br />

che non servono a nulla, che non fanno riferimento a niente di ciò che l’uomo incontra<br />

nel mondo fisico, ma che sono veri, vale a dire dimostrati. In un’epoca in cui la<br />

scienza opponeva al determinismo laplaciano inquietanti chimere come gatti al tempo<br />

stesso vivi e morti, fotoni che seguono due traiettorie distinte senza dividersi e<br />

fenomeni che esistono solo se c’è qualcuno a osservarli, quest’arrogante pretesa di<br />

dire, se non tutta, quantomeno nient’altro che la verità rischiava fortemente di vedersi<br />

frustrata. Da cui il programma difensivo concepito da Bertrand Russell e Alfred<br />

Whitehead prima, e David Hilbert poi: riunire tutti i princìpi validi del ragionamento<br />

matematico in un sistema unico da cui sarebbero derivate tutte le verità deducibili – o,<br />

più precisamente, dimostrare che un tale sistema può esistere.<br />

Nel 1928, dunque, Hilbert invitò i colleghi del mondo intero a concentrarsi su<br />

queste tre domande:<br />

1. La matematica è completa? i.e.: ogni enunciato che produce può essere<br />

dimostrato o confutato?<br />

2. La matematica è consistente? i.e.: è possibile dimostrare che l’enunciato 2 + 2 =<br />

5 non può e non potrà mai essere dimostrato attraverso una procedura valida?<br />

3. È decidibile? i.e.: dato un sistema assiomatico e una proposizione scelta<br />

arbitrariamente, esiste una procedura che consenta di determinare se tale<br />

proposizione sia [decidibile, vale a dire che possa essere dichiarata] vera o falsa<br />

all’interno del sistema?<br />

Hilbert, formulandole, credeva che rispondere affermativamente a queste tre<br />

domande fosse possibile, e anche in tempi piuttosto brevi. Confidava in un triplo sì per<br />

risanare definitivamente le fondamenta della matematica, insieme formale completo,<br />

consistente e decidibile, su cui poter contare. Allora sarebbero anche potuti crollare gli<br />

imperi, vacillare i saperi, e anche se l’umanità fosse mutata o scomparsa, o addirittura<br />

la formula dell’acqua avesse smesso di essere H2O, sarebbe sempre rimasto questo, un<br />

sistema che avrebbe detto la verità, incarnato la verità, anche se non fosse rimasto<br />

nessuno per conoscerla.<br />

Ma le cose andarono diversamente. Questo programma di purificazione formale<br />

aprì su abissi di incertezza e mise in luce una specie di nucleo ribelle, paradossale, che<br />

qualsiasi ragionamento matematico racchiude. L’evidenziazione di questo nucleo, una<br />

176


delle grandi scoperte di un’epoca in cui le grandi scoperte miravano a restringere o<br />

minare il campo della scienza, fu opera di Kurt Gödel, che con il suo famoso teorema<br />

dell’incompletezza, su cui sono state scritte intere biblioteche, dimostra con<br />

straordinaria eleganza come non ci si possa aspettare dai <strong>matematici</strong> che dicano la<br />

verità più di quanto facciano i cretesi, che si dichiarano essi stessi bugiardi.<br />

Tutto ciò accadeva nel 1931. Alan Turing aveva vent’anni. Era un timido<br />

spilungone mal lateralizzato e scoordinato, che si dedicava alla corsa di fondo nel<br />

tentativo di correggere la propria goffaggine (e forse anche di combattere la<br />

masturbazione). A Cambridge, dove studiava matematica, non frequentava le<br />

consorterie di esteti chic nella tradizione di Bloomsbury, ma se ne stava in disparte e<br />

scriveva alla madre – una corrispondenza che verteva principalmente sulla biancheria<br />

intima e sugli animali di peluche. A parte questo, avendo Gödel liquidato la questione<br />

della completezza, Turing decise di lavorare su quella della decidibilità. E non solo la<br />

smontò, infliggendo un ulteriore colpo all’ottimistico programma di Hilbert, ma<br />

casualmente s’imbatté in altro.<br />

In matematica esiste una quantità di affermazioni riguardanti dei numeri che, da<br />

secoli, nessuno ha mai saputo dimostrare o confutare (esempio canonico: l’ultimo<br />

teorema di Fermat). Turing si domandò se esistesse, o se si potesse immaginare una<br />

procedura meccanica che consentisse di farlo (poco importava quanto tempo ci<br />

sarebbe voluto: l’essenziale era dimostrare che tale dimostrazione poteva in qualche<br />

modo essere raggiunta). Quindi si domandò che cosa fosse di preciso una procedura<br />

meccanica, e approdò a una domanda che, al gotha dei <strong>matematici</strong> puri, poteva<br />

soltanto apparire incongrua: che cos’è una macchina?<br />

Sappiamo che cos’è uno strumento. Crediamo di sapere cosa sia un essere vivente.<br />

Ma una macchina? Per descriverla nel modo più piano, è un manufatto dotato di un<br />

numero finito di configurazioni che per ognuna di esse si comporta in modo<br />

assolutamente determinato, e che manipola dei simboli. Manipolare simboli<br />

conformemente a delle regole è un’attività priva di senso, diciamo pure non figurativa,<br />

che però descrive ciò che a un altro livello chiamiamo per esempio giocare a scacchi,<br />

tradurre (o comporre) poesie cinesi, cercare dei numeri primi, e forse persino (ma<br />

andiamo per ordine) sostenere una conversazione, seppur sconnessa. Queste attività si<br />

differenziano le une dalle altre grazie a delle regole. Perciò Turing ritenne inutile<br />

costruire macchine specializzate, capaci di giocare a scacchi, tradurre poesie cinesi e<br />

così via: il procedimento adeguato consisteva piuttosto nel definire, per ciascuna di<br />

queste attività, la tavola delle regole, per poi introdurla in una macchina universale<br />

che, avendone a disposizione il codice, sarebbe stata in grado di simulare qualsiasi<br />

macchina specializzata. Oggi i concetti di hardware e software sono ormai alla portata<br />

di tutti, e tutti dànno per scontata la superiorità del secondo; ma quando Turing la<br />

formulò, nel 1934, quest’idea era così nuova che nessuno – o quasi – la raccolse. I<br />

lettori del suo articolo si entusiasmarono per il risultato che Turing aveva perseguito in<br />

un primo tempo, ovvero la dimostrazione formale, paragödeliana, che nessuna<br />

macchina miracolosa avrebbe mai potuto risolvere tutti i problemi <strong>matematici</strong>; ma<br />

nemmeno si accorsero di quest’altro risultato, conseguito per così dire strada facendo<br />

e in risposta alle esigenze della dimostrazione stessa (infatti, perché la prova<br />

somministrata a Hilbert fosse valida, occorreva che la macchina ipotizzata fosse<br />

177


veramente universale, vale a dire impossibile da migliorare, anche teoricamente): la<br />

rigorosa definizione di ciò che questa macchina miracolosa sarebbe potuta essere,<br />

dando fondo a tutte le risorse della “macchinità” ed esprimendone l’essenza. Il nome<br />

“macchina di Turing” entrerà in uso soltanto più tardi, ma oggi – e verosimilmente<br />

anche in futuro – quest’idea platonica della macchina è designata così.<br />

Essendosi fatto un nome nel piccolo mondo della logica formale, il ventitreenne<br />

Turing trascorse due anni a Princeton, divenuta la Mecca dei <strong>matematici</strong> dacché ci si<br />

era trasferito Einstein. Alla fine di questo biennio, rifiutò l’ambìto posto di assistente<br />

di John von Neumann per ritornare a Cambridge, il luogo in cui tutto sommato si<br />

sentiva meno a disagio. Segui le lezioni di Wittgenstein sui fondamenti della<br />

matematica (e poiché era l’unico vero matematico della platea, Wittgestein gli<br />

addossava la responsabilità di tutto ciò che nella sua disciplina non tornava,<br />

chiamandolo a difenderla – compito che Turing assolveva di buon grado e con<br />

prosaicità). In quel periodo vide Biancaneve e i sette nani, appena uscito in sala, e i<br />

suoi amici raccontano con un certo stupore che per mesi canticchiò, con la sua voce<br />

sgradevolmente acuta, la canzone della strega che avvelena la mela. Imparò il gioco<br />

del go 83 . Infine, solo nel suo angolino e per pura curiosità intellettuale, si mise a<br />

lavorare sui sistemi di cifratura, cercando di determinare quello che sarebbe potuto<br />

essere il codice insieme più semplice, più universale e più inviolabile. Poi<br />

sopraggiunse la guerra, e nell’ambiente accademico persero le sue tracce.<br />

Blechtley Park<br />

In seguito, quando gli domandavano che cos’avesse fatto durante la guerra, Turing<br />

dava risposte evasive, e i più perspicaci erano indotti a pensare che avesse lavorato per<br />

l’Intelligence Service – naturalmente come scribacchino, o come piantone addetto ai<br />

sandwich: quale altro impiego si poteva immaginare, in seno all’esercito dell’ombra,<br />

per un logico distratto e immaturo? Più tardi ancora, vent’anni dopo la sua morte,<br />

trent’anni dopo la guerra, gli archivi furono resi pubblici e si seppe ciò che era stata<br />

l’operazione Ultra.<br />

Da quando Hitler era salito al potere, i servizi segreti britannici cercavano invano di<br />

penetrare il sistema di cifratura dei messaggi strategici tedeschi, basato su una<br />

macchina chiamata Enigma. Questa macchina consisteva in una semplice scatola<br />

contenente dei rotori e collegata a due macchine per scrivere. Il testo, battuto in chiaro<br />

su una delle due macchine, veniva ingarbugliato dai rotori che giravano dentro la<br />

scatola e usciva dall’altra macchina teoricamente indecifrabile. L’unico modo per<br />

decifrarlo era procedere in senso inverso, ovvero far girare i rotori al contrario. In sé<br />

questo dispositivo non aveva nulla di straordinario, e non era neppure segreto: in<br />

origine serviva a proteggere delle informazioni commerciali e poteva procurarselo<br />

chiunque, come ci si procura un antifurto di cui basta conoscere il codice. Perché,<br />

anche in questo caso, bastava conoscere il codice, vale a dire la posizione iniziale dei<br />

83 Gioco da tavolo asiatico molto complesso. (N.d.R.)<br />

178


otori dentro la scatola. Il numero astronomico di posizioni possibili e la frequenza<br />

con cui venivano modificate valevano a Enigma una tale reputazione di inviolabilità<br />

che il comando supremo del Reich aveva esteso l’utilizzo della macchina a tutte e tre<br />

le armi.<br />

Confrontati a questa sfida, che la minaccia di guerra rendeva sempre più impellente,<br />

da qualche tempo i funzionari della Government Code and Cyber School, fucina<br />

dipendente dal Foreign Office, andavano a pescare collaboratori in quel vivaio di<br />

scienziati chiamato Cambridge. Fu così che Alan Turing venne reclutato come<br />

decodificatore. In un primo tempo svolse un lavoro da consulente esterno e sembrava<br />

destinato a una placida vita di ricerca in logica formale e teoria dei numeri; ma poi<br />

scoppiò la guerra, la GC&CS fu trasferita in un edificio vittoriano di Blechtley Park –<br />

un paesino del Buckinghamshire – e per quattro anni Turing, alloggiato in un bed and<br />

breakfast dei dintorni, s’immerse nell’oscuro mondo dello spionaggio. All’inizio fu un<br />

po’ come essere a casa: a forza di sottrarre cervelli a Cambridge, i militari finivano col<br />

sentirsi di troppo in mezzo a quella banda di campioni di scacchi, logici e<br />

criptoanalisti che se ne fregavano della gerarchia, non nascondevano di considerare la<br />

guerra una sorta di dispensatrice di crediti di ricerca e in mensa si perdevano in<br />

interminabili quanto astruse questioni teoriche di cui non si poteva neanche dire con<br />

certezza che esulassero dal loro lavoro. Benché alle soglie della trentina, Turing<br />

conservava un’aria da adolescente ed era l’esatto contrario di un leader naturale. Ma<br />

l’incarico che gli avevano affidato era perfettamente in linea con i suoi pallini di<br />

sempre, ed è sotto la sua direzione che fu costruita la macchina anti-Enigma,<br />

battezzata la Bomba. Nell’aprile del 1940 la Bomba, perfettamente funzionante, fu<br />

installata in una cantina di Bletchley Park, dove erano stati riuniti tutti i terminali dei<br />

sistemi d’ascolto inglesi: tutto ciò che intercettavano i ripetitori radio sparsi per il<br />

mondo, passando da una parola d’ordine all’altra, andava a finire lì, in quella specie di<br />

enorme armadio che produceva calore e faceva un baccano infernale, e i cui circuiti<br />

ticchettanti esploravano i messaggi che gli venivano dati in pasto cercando, tra<br />

centinaia di migliaia di configurazioni diverse, di identificare quelle che presentavano<br />

qualche coerenza. Il domatore di questo mostro era un balordo invasato che portava<br />

un’enorme sveglia appesa alla cintura con un cordino e che nei corridoi spiegava a<br />

degli ufficiali infastiditi come faceva a evitare che gli cadesse la catena della bici:<br />

basta una semplice regolazione, assicurava, l’importante è sapere esattamente quando<br />

va fatta; e perciò aveva studiato da vicino la configurazione del proprio mezzo,<br />

determinata dalle relative posizioni di diversi ingranaggi che ruotavano<br />

autonomamente. Proprio come Enigma! Concludeva poi con la sua voce acuta,<br />

sforzandosi senza successo di scimmiottare il tono distaccato di Sherlock Holmes,<br />

quando aspetta che Watson batta le mani. È esattamente la stessa cosa!<br />

Ma Turing coglieva davvero la portata del proprio lavoro? Era consapevole di ciò<br />

che gli gravava sulle spalle? Mentre queste domande facevano rabbrividire i militari, i<br />

fatti parlavano: nel giro di qualche mese la Bomba era diventata l’oracolo di Blechtley<br />

Park, Bletchley Park l’oracolo dello stato maggiore e Alan Turing, in quanto medium<br />

capace di far parlare la Bomba, la chiave di volta del dispositivo di guerra britannico.<br />

Il problema principale era la velocità. All’inizio ci volevano quasi due settimane per<br />

decifrare un messaggio, che a quel punto non aveva più alcun valore. Ma l’équipe di<br />

179


Turing, fermamente sostenuta e quindi finanziata da Churchill – che da subito<br />

considerò Ultra l’operazione più decisiva della guerra – riuscì a ridurre il tempo<br />

necessario a pochi giorni, poi a un solo giorno e infine a qualche ora. Gli inglesi<br />

cominciarono a farsi un’idea precisa di ciò che avveniva in campo nemico e, all’inizio<br />

dell’estate 1941, si ebbero i primi risultati concreti: l’Inghilterra, che da un anno<br />

vedeva affondare i propri sottomarini uno dopo l’altro, diede l’avvio alla riconquista<br />

dei mari. Ogni volta che gli annunciavano una vittoria, o una scampata sconfitta,<br />

Turing doveva superare un primo moto d’incredulità: davvero ciò che cincischiava<br />

con i suoi diagrammi e le sue valvole, esattamente come con i pignoni della sua<br />

bicicletta, aveva un’incidenza sulla vita reale, su degli avvenimenti reali, che<br />

coinvolgevano milioni di uomini in carne e ossa? Dopodiché esultava come un<br />

ragazzino che vince a battaglia navale – e di fatto era proprio ciò che accadeva.<br />

Quando la Bomba ebbe raggiunto la sua velocità e dunque la sua efficienza<br />

massima insorse un altro problema, che non riguardava direttamente Turing, ma lo<br />

stato maggiore che Turing informava. Che fare di queste informazioni? Sventando<br />

sistematicamente i piani di cui si era a conoscenza non si rischiava di allarmare i<br />

tedeschi? Se sospettava di essere stato smascherato, il nemico avrebbe inevitabilmente<br />

modificato il sistema di cifratura, e il dispositivo Ultra sarebbe fallito. D’altra parte<br />

non si poteva lasciar affondare dei sottomarini solo per fugare il sospetto che li si<br />

sarebbe potuti salvare. Su un piano teorico era uno di quei dilemmi con cui i logici<br />

vanno a nozze: è meglio prosciugare una sorgente a forza di berci o morire di sete per<br />

preservarla? Sul piano pratico, lo stato maggiore si accorse con sorpresa che le azioni<br />

difensive, dapprima discrete, quindi sempre più spettacolari, non suscitavano alcuna<br />

reazione da parte di Enigma. I tedeschi, come si sarebbe scoperto in seguito,<br />

confidavano a tal punto nell’inviolabilità del loro sistema che preferivano attribuire le<br />

disfatte all’eccellenza delle spie britanniche, cui diedero accanitamente la caccia fino<br />

alla fine della guerra, senza mai immaginare neanche per un secondo che i loro<br />

messaggi strategici venissero quotidianamente decifrati, e che la loro posizione fosse<br />

quella di un giocatore di poker dietro cui è stato messo uno specchio.<br />

A partire dal 1943, l’uomo che, esplorando dei problemi di logica, aveva appeso<br />

questo specchio alle spalle dei tedeschi, a Bletchley Park perse progressivamente la<br />

sua importanza. Il laboratorio in cui lavorava, clandestino e periferico, era diventato<br />

una fabbrica della decifrazione che contava diecimila impiegati e sei copie della<br />

Bomba originale. Queste bombe macinavano ed elaboravano dati a tutto spiano; ora si<br />

trattava più che altro di farle rendere, di organizzare, di decidere – attività in cui il<br />

padre della Bomba certo non brillava. Turing diventò sempre meno assiduo, quindi<br />

ripiegò su Hanslope Park, un’altra unità dello spionaggio militare dove, senza sapere<br />

bene quale fosse il suo statuto, gli permisero di allestire un laboratorio in un<br />

capannone insalubre. Qui Turing si dedicò alla messa a punto di un sistema di<br />

cifratura della parola umana che battezzò Dalila. Il materiale di partenza era una<br />

registrazione di discorsi di Churchill che veniva ridotta a poltiglia sonora e riassumeva<br />

la sua forma originale dopo essere stata decifrata. I rari ufficiali cui confidò la sua<br />

invenzione non ne furono affatto convinti, quanto a Churchill, non ne seppe mai nulla.<br />

Pochissimi sapevano, all’infuori di Bletchley Park; e ormai anche chi sapeva doveva<br />

fare uno sforzo di memoria e di intelligenza per concludere che lo sbarco in<br />

180


Normandia, la vittoria ormai ineluttabile degli Alleati e quel tizio goffo e silenzioso<br />

che faceva l’Archimede Pitagorico nel suo capannone erano strettamente connessi.<br />

Dal canto suo, nei dieci anni di vita che gli restavano, Turing non ne fece parola. Sua<br />

madre, che per lui faceva sogni di gloria, dovette accontentarsi di ritagliare rari articoli<br />

di cui non capiva niente e che continuavano a menzionare il suo Alan come una<br />

speranza della logica formale, quest’antiquata disciplina che sapeva di anni Trenta.<br />

Forse Turing temeva che se avesse spiegato come, in un certo senso, aveva vinto la<br />

guerra, lo avrebbero preso per pazzo. O forse i suoi pensieri erano ormai rivolti<br />

altrove.<br />

Il gioco dell’imitazione<br />

Turing aveva vinto la guerra, ma perse la pace. Non essendo il tipo che coltiva<br />

amicizie interessate o che, come molti ex collaboratori di Ultra, si fa nominare in<br />

qualche comitato prestigioso, tornò alla vita borghese in veste di anonimo ricercatore<br />

all’università di Cambridge, poi di Manchester, dove era in corso un progetto per la<br />

realizzazione di un computer inglese, rivale del famoso ENIAC che l’équipe di Eckert<br />

e Mauchlay stava costruendo in America. Per i suoi contemporanei più illuminati, un<br />

computer era una macchina capace di addizioni e moltiplicazioni molto veloci – e<br />

tutto sommato la Bomba era questo; ma per Turing quest’applicazione, benché<br />

incontestabilmente utile, non era essenziale: ciò che a lui interessava era il sistema<br />

logico implicato. La macchina dei suoi sogni sarebbe stata in grado di applicare<br />

qualsiasi programma, e occorreva poter fabbricare programmi in grado di svolgere (o<br />

simulare, posto che ci sia una differenza) qualunque processo di cui si avesse<br />

conoscenza. A quanti affermavano sdegnosi che una macchina avrebbe sempre e<br />

soltanto potuto eseguire delle operazioni aritmetiche, rispondeva che non era neppure<br />

capace di questo, e non lo sarebbe mai stata: una macchina non sa fare di calcolo più<br />

di quanto non giochi a scacchi o non scriva poesie, ma il suo programma può<br />

consentirle di manipolare dei simboli formali di modo che sembrerà fare ciò che il<br />

linguaggio corrente indica con il nome delle suddette attività. Esattamente la stessa<br />

cosa, sosteneva Turing, può dirsi del cervello umano. Di qui la sua ambizione di<br />

“creare un cervello”.<br />

Un’idea, questa, che alla fine degli anni Quaranta era nell’aria. Ancora non si<br />

parlava di informatica, ma di cibernetica. Vescovi e filosofi dibattevano animatamente<br />

intorno all’idea rivoltante che una macchina creata dall’uomo potesse un giorno<br />

pensare come il proprio creatore. Ai nomi illustri di questa nuova scienza – Norbert<br />

Wiener, J.B.S. Haidane, John von Neumann – talvolta le persone meglio informate<br />

aggiungevano quello di Turing, oscuro precursore che non faceva parlare di sé dai<br />

tempi del suo famoso articolo del 1934. Adesso l’espressione “macchina di Turing”<br />

per designare l’essenza della “macchinità” aveva acquisito diritto di cittadinanza,<br />

anche se nelle pubblicazioni scientifiche si era arrivati a scriverla con una t minuscola<br />

– segno di consacrazione suprema o di oblio siderale. Come la prendesse il diretto<br />

interessato rimane un mistero, e probabilmente il suo biografo non ha torto quando<br />

181


dice che, ridotto al ruolo di marginale eccentrico, dopo la guerra Turing era diventato<br />

un «non-personaggio», il Trotzky della rivoluzione informatica.<br />

Collaborava, è vero, al programma di Manchester, ma i responsabili del laboratorio<br />

tenevano sempre meno in conto il suo parere (il software, prima di tutto il software!),<br />

e non trovarono di meglio che affidargli la redazione di un Manuale per l’uso e la<br />

composizione di programmi con routines, subroutines, sub-subroutines, ad esempio<br />

per scoprire grandi numeri primi (domanda: 2 elevato a 127 – 1 è un numero primo?<br />

Trovate la procedura più rapida per rispondere). Turing ripiegò dunque sulla teoria e,<br />

sottoforma di un articolo apparso sulla rivista Mind nel 1950, apportò il proprio<br />

contributo al dibattito sull’intelligenza artificiale che vedeva opporsi, allora come ora,<br />

il partito dei materialisti, persuasi che almeno in teoria tutte le operazioni della mente<br />

umana possano essere scomposte, e quindi riprodotte, e quello degli spiritualisti, i<br />

quali sostenevano che ci sarà sempre un residuo ribelle all’algoritmo – residuo che, a<br />

seconda del cenacolo, verrà chiamato spettro nella macchina coscienza riflessiva,<br />

paradosso dell’autoriferimento o semplicemente anima.<br />

Per vederci più chiaro e riscattare la questione da quella vaga enfasi che tanto<br />

piaceva ad un “profeta” come Wiener, Turing cominciò con l’inventariare le<br />

argomentazioni passate, presenti e future che negavano la possibilità di un’intelligenza<br />

artificiale: le macchine fanno soltanto ciò per cui sono state programmate, sono<br />

specializzate, non hanno gusti, capricci, emozioni, non possono né soffrire né amare le<br />

fragole con la panna e così via. Quindi, ritenendole tutte insufficienti, propose che per<br />

decidere se una macchina può pensare come un uomo ci si attenesse a un criterio<br />

unico, operazionista: è capace o non è capace di far credere a un uomo che pensa<br />

come lui?<br />

Il fenomeno della coscienza non può che essere osservato dall’interno. Io so che ne<br />

ho una, è anzi grazie a lei che lo so, ma per quanto riguarda voi, non c’è nulla che me<br />

lo provi. In compenso posso dire che emettete dei segnali, in particolare gestuali e<br />

verbali da cui, per analogia con i miei, deduco che pensate e sentite come me. Ora,<br />

disse Turing, ammettiamo che, in un vicino o lontano futuro, una macchina possa<br />

essere programmata in modo tale da emettere in risposta a determinati stimoli segnali<br />

ugualmente convincenti: non ci sarebbe motivo di negarle lo status di essere pensante.<br />

Posto questo criterio, Turing elaborò un test che – cosa piuttosto insolita – presentò<br />

in due tempi. Dapprima descrisse un gioco di società (non so se di sua invenzione)<br />

chiamato gioco dell’imitazione, che consiste nell’isolare in tre diverse stanze un<br />

uomo, una donna e un esaminatore – non importa di che sesso. Questo esaminatore<br />

comunica per iscritto con i due giocatori e bombarda entrambi di domande volte a<br />

stabilire chi è l’uomo e chi la donna. Ora, mentre quest’ultima risponde in tutta<br />

franchezza, rivelando quindi il proprio sesso senza ambiguità, l’uomo cerca di<br />

spacciarsi per la donna (e, beninteso, si è seriamente documentato sulle questioni<br />

tradizionalmente di competenza femminile: cucina, prezzo di collant e assorbenti<br />

igienici).<br />

Adesso, propose Turing, sostituiamo l’uomo con un computer e vediamo che cosa<br />

accade se l’obiettivo di quest’ultimo è di spacciarsi per l’essere umano, e dunque di<br />

squalificare quest’ultimo. Le domande possono spaziare dal sapore della crostata ai<br />

mirtilli ai ricordi d’infanzia alle preferenze erotiche o, al contrario, consistere in<br />

182


operazioni di calcolo che presumibilmente l’uomo dovrebbe svolgere più lentamente<br />

della macchina, e con esito peggiore. Sono ammesse domande di ogni tipo, anche le<br />

più intime e strampalate: i koan zen sono una classica tecnica di confusione. Dal canto<br />

loro, i candidati si dànno da fare per convincere l’esaminatore di essere umani, uno in<br />

assoluta buona fede, l’altro ricorrendo alle mille astuzie previste dal suo programma –<br />

vedi sbagliare deliberatamente l’estensione decimale di pi greco. Alla fine<br />

l’esaminatore emette il suo verdetto. Se si sbaglia, la macchina ha vinto. Allora,<br />

secondo Turing, si è costretti ad ammettere che pensa, e se lo spiritualista di turno<br />

insiste che non si tratta veramente di un pensiero umano non gli resta che dimostrarlo.<br />

E Turing può permettersi di ribadire che nessuno, uomo o macchina che sia, pensa<br />

veramente, esegue veramente operazioni matematiche, gioca veramente a scacchi; e<br />

forse, addirittura, nessuno prova veramente la dolcezza di una carezza: a livello di<br />

sistema formale tutti, uomini e macchine, manipolano simboli – e si dà il caso che<br />

questa manipolazione possa, a un altro livello, essere designata con il nome delle<br />

diverse attività menzionate.<br />

Alcune settimane dopo la pubblicazione di questo articolo, che nel mondo<br />

dell’intelligenza artificiale è tuttora considerato un testo di riferimento, all’autore<br />

accadde una cosa terribile, che con il gioco dell’imitazione ha qualche parentela.<br />

Turing era omosessuale. Per quanto lo riguardava, era sufficientemente libero da<br />

condizionamenti per non sentirsi in colpa, ma la società in cui viveva non era certo<br />

delle più libere. Costretto a nascondere la propria natura, a spacciarsi per ciò che non<br />

era, amava paragonarsi a un abitante del mondo dello specchio di Lewis Carroll, la cui<br />

percezione delle cose è rovesciata. Un giorno gli svaligiarono la casa. Con ogni<br />

probabilità era stato uno dei suoi amanti. Nella deposizione alla polizia Turing<br />

accennò a questo sospetto, e di conseguenza alla propria omosessualità, incorrendo<br />

così, inconsapevolmente, nella legge che vietava le relazioni contro natura anche tra<br />

adulti consenzienti (la stessa legge che, quasi sessant’anni prima, aveva valso una<br />

condanna a Oscar Wilde). Ci fu un processo, Turing fu giudicato colpevole e,<br />

sfuggendo per un pelo alla prigione, fu condannato a subire – ovviamente per il suo<br />

bene – una cura in cui diverse commissioni di legisti e medici dell’epoca confidavano<br />

per correggere i deviati. Per un anno gli furono dunque iniettati degli ormoni<br />

femminili che lo resero impotente, gli fecero crescere i seni, gli inibirono la crescita<br />

della barba e trasformarono la voce, già penosamente stridula. Turing sopportò il<br />

supplizio senza un lamento, riuscendo persino a scherzarci sopra e ad approfittarne per<br />

fare un outing quasi disinvolto con i colleghi e parte della famiglia. Trascorso un<br />

anno, purgata la pena, a poco a poco recuperò la sua integrità, e a tutti sembrò aver<br />

superato la prova con sconcertante coraggio. Intraprese una psicoanalisi (pur<br />

rifiutando di considerare l’omosessualità come una malattia da cui avrebbe dovuto<br />

guarire), lesse con passione Guerra e pace e Anna Karenina (lui che non leggeva mai<br />

narrativa) e, definitivamente tagliato fuori dall’università, ripose tutte le sue speranze<br />

di rinascita scientifica in una serie di ricerche da autodidatta sull’embriologia e la<br />

morfogenesi. In sostanza si domandava come avviene che gli esseri viventi conoscano<br />

e applichino il loro programma. Testava i suoi modelli sul computer, che gli<br />

permettevano di usare due notti la settimana senza sapere bene cosa ci facesse, ma<br />

anche a casa propria, seguendo dei protocolli estremamente personali. Casa sua si<br />

183


iempì di talee, di incubatrici e di acquari gorgoglianti.<br />

In alcune stanze regnava un caldo da serra, in altre si gelava. Coi suoi esperimenti<br />

di elettrolisi, Turing cercava di capire quali elementi puri fosse possibile isolare a<br />

partire da comuni detersivi. Sembrava il laboratorio dello scienziato pazzo in un Bmovie<br />

degli anni Cinquanta.<br />

Su questi esperimenti in stile piccolo chimico, che per uno scienziato di alta<br />

levatura appaiono piuttosto regressivi, è stato versato molto inchiostro, e di uno strano<br />

colore. Nel primo libro in cui, più di dieci anni fa, ho letto il nome di Alan Turing<br />

(un’opera divulgativa sull’intelligenza artificiale), si diceva che «fu trovato morto su<br />

un’isola deserta, avvelenato da una mela che aveva intinto nel cianuro». Confesso che<br />

nella mia infatuazione per Turing quest’isola così romanzesca all’epoca fece la sua<br />

parte; e quando, in un testo più serio, appresi che era semplicemente morto a casa sua,<br />

rimasi insieme deluso e intrigato: come aveva fatto il divulgatore ad approdare alla<br />

storia dell’isola? Ripensandoci ora, mi sembra che la cosa si spieghi con una lettura<br />

frettolosa delle fonti che menzionano quei famosi esperimenti chimici, effettuati in<br />

condizioni da isola deserta, senza altro materiale se non quello di cui dispongono i<br />

naufraghi ingegnosi dei romanzi di avventura. Si sarebbe ugualmente potuto dire che<br />

viveva nella periferia di Manchester solo e abbandonato alle sue risorse come su<br />

un’isola deserta. Infine, sempre a proposito di quei curiosi esperimenti, esiste un’altra<br />

tesi secondo cui Tuning vi si sarebbe dedicato per coprire il proprio suicidio, e lasciare<br />

alla madre la possibilità di credere a una morte accidentale. Che fosse o meno sua<br />

intenzione, lei ci credette davvero.<br />

Ai tempi in cui, sulla base del capitolo che ho appena citato, cominciai a<br />

interessarmi ad Alan Turing, esisteva su di lui un unico libro, difficile da trovare,<br />

scritto da una certa Sara Turing; e ricordo il turbamento che provai scoprendo che non<br />

era né sua figlia, né sua sorella – come avevo supposto in un primo tempo – bensì sua<br />

madre.<br />

Scrivere un libro, qualsiasi libro, richiede ciò che i giuristi chiamano «interesse ad<br />

agire», e Sara Turing ne aveva uno potente. Riusciva dolorosamente ad ammettere che<br />

suo figlio fosse morto, ma non che si fosse suicidato, e ancor meno che l’avesse fatto<br />

in seguito, se non a causa di una terribile prova fisica e morale, subita perché<br />

omosessuale. A più di settant’anni, la madre decise di scriverne la vita per assolverlo<br />

dal primo crimine e passare il secondo sotto silenzio. E lo fece affidandosi a un<br />

curioso metodo: anziché riunire i propri ricordi per ritrarre Alan Turing come lei, sua<br />

madre, l’aveva conosciuto, concepì l’ambizioso progetto di un’opera obiettiva,<br />

imparziale, che redasse in uno stile quanto più impersonale possibile con l’intento di<br />

fornire non una testimonianza, ma una biografia ufficiale. Nessuno, ai tempi in cui<br />

Sara Turing vi si dedicò, avrebbe avuto accesso a fonti sufficienti per portare a<br />

termine una simile impresa – e del resto nessun altro ne avrebbe visto la necessità. Ma,<br />

paradossalmente, nessuno era meno indicato di lei per intraprenderla.<br />

Volendo riassumere molto brevemente i tratti salienti della sua vita, diremmo che<br />

Alan Turing è stato: 1) un importante matematico e un pioniere dell’intelligenza<br />

artificiale; 2) una figura insieme centrale ed eccentrica della storia dello spionaggio<br />

durante la Seconda guerra mondiale; 3) un omosessuale martire. Queste tre sfere di<br />

attività hanno un unico punto in comune: i <strong>matematici</strong>, le spie e gli omosessuali<br />

184


(quantomeno in un paese dove le loro inclinazioni amorose sono punite dalla legge)<br />

costituiscono tre società segrete. E la vita di Turing si svolse all’interno di queste tre<br />

società, in maniera rigorosamente compartimentata. Degli uomini che frequentava<br />

nell’una, nessuno – o quasi – sapeva quale fosse il suo ruolo nelle altre. Tuttavia,<br />

ognuna di queste persone – logici, agenti segreti o amanti che fossero – con Alan<br />

Turing condivideva qualcosa, sapeva qualcosa di lui, avrebbe avuto qualcosa da dire<br />

in proposito. La sua prima biografa, viceversa, era forse l’unica persona che non aveva<br />

accesso ad alcuna delle sue tre esistenze, e che di lui non sapeva niente (se non del<br />

bambino che era stato, ma nel libro non ne parla quasi, pur continuando a ripetere che<br />

lo è rimasto per tutta la vita); il che fa della sua opera, per certi versi commovente, una<br />

specie di punto limite del genere.<br />

Nel 1959, quando apparve la sua prima biografia, il nome di Turing suscitò una<br />

certa risonanza, peraltro debole, soltanto all’interno della comunità matematica. Poi,<br />

nel corso degli anni Sessanta, l’intelligenza artificiale diventò un argomento popolare,<br />

e i libri divulgativi cominciarono a menzionarlo infiorando le inevitabili leggende<br />

sulla macchina e il test con una quantità di aneddoti, più o meno autentici, sul tema<br />

dello scienziato pazzo. E quando, verso la fine degli anni Settanta, gli archivi<br />

britannici sulla guerra furono resi pubblici, sull’avventura di Bletchley Park e sul<br />

contributo di Turing apparvero diverse testimonianze. Ciononostante erano pochi<br />

coloro che coltivavano curiosità sufficientemente varie per assemblare le tessere del<br />

puzzle e fissare l’importanza di questo sfuggente personaggio. È il merito di Andrew<br />

Hodges, che, matematico di professione e gay militante, aveva almeno due “interessi<br />

ad agire”, e nel 1984 pubblicò una stupenda biografia da cui proviene gran parte delle<br />

informazioni raccolte in questo articolo.<br />

(Proprio in quel periodo stavo progettando di scrivere un libro su Turing – progetto<br />

da cui la pubblicazione del monumento di Hodges mi fece desistere. Dieci anni più<br />

tardi, grazie a questa rivista, ho formulato un progetto più modesto: innanzitutto<br />

riassumere Hodges – cosa che ho fatto come meglio ho potuto – quindi interrogarmi<br />

sugli “interessi ad agire” che mi avevano spinto ad affrontare l’argomento. Ma questo<br />

magari sarà per un’altra volta, sotto un’altra forma).<br />

185


L’uomo matematico<br />

186


L’uomo matematico<br />

di Robert Musil<br />

Che alcuni grandi condottieri siano chiamati «<strong>matematici</strong> del campo di battaglia» è<br />

una delle molte assurdità che circolano sulla matematica, per ignoranza della sua<br />

natura. In verità, per non essere catastrofico, il calcolo logico dei generali non deve<br />

oltrepassare la sicura semplicità delle quattro operazioni. Se tutto a un tratto fosse<br />

necessario ricorrere a un procedimento deduttivo appena un po’ complicato, come la<br />

risoluzione di una semplice equazione differenziale, migliaia di uomini correrebbero<br />

ineluttabilmente incontro alla morte.<br />

Ciò non depone a sfavore dell’ingegno dei condottieri; ma depone certo a favore<br />

della peculiare natura della matematica. Si dice che essa sia un’estrema economia del<br />

pensiero, e anche questo è giusto. Ma il pensiero stesso è una cosa complicata e<br />

malsicura. Sarà anche nato come semplice risparmio biologico; ma da un pezzo,<br />

ormai, è diventato una passione per il risparmio piuttosto complessa, alla quale<br />

l’utilità differita interessa tanto poco quanto all’avaro l’indigenza, sulla quale pure,<br />

contraddittoriamente, indugia con voluttà.<br />

Un’operazione, a rigore, impossibile da portare a termine, come la somma di una<br />

serie infinita di addendi, la matematica consente di realizzarla, in circostanze<br />

favorevoli, in pochi istanti. Fino ai complicati calcoli logaritmici, e persino agli<br />

integrali, essa anzi la risolve addirittura con una macchina; oggi basta impostare le<br />

cifre del problema e girare una manovella, o qualcosa del genere. E così il tecnico<br />

ausiliario di una cattedra universitaria può annullare dei problemi che solo duecento<br />

anni fa il professore della materia avrebbe potuto risolvere soltanto andando a trovare<br />

il signor Newton a Londra o il signor Leibniz a Hannover. E anche di fronte ai<br />

compiti, naturalmente mille volte più numerosi, che non si possono ancora risolvere<br />

meccanicamente, la matematica si può definire una meravigliosa apparecchiatura<br />

spirituale fatta per pensare in anticipo tutti i casi possibili. E ci riesce.<br />

Non è un trionfo dell’organizzazione dello spirito? La vecchia strada maestra,<br />

battuta dalle intemperie ed esposta alle insidie dei malviventi, è stata sostituita da una<br />

linea ferroviaria con servizio di vagone letto. Gnoseologicamente parlando, è una bella<br />

economia.<br />

Ci si è domandati quanti di questi “casi possibili” vengano realmente utilizzati. Si è<br />

riflettuto sulle vite umane, il denaro, le ore creative, le ambizioni consumate nella<br />

storia di questo immane sistema di risparmio, su tutto ciò che anche oggi vi viene<br />

investito, ed è necessario già solo per non dimenticare i risultati raggiunti, e si è<br />

cercato di commisurare tutto questo all’utilità pratica che se ne trae. Ma questo<br />

apparato così gravoso e complesso si rivela economico nonostante tutto; si rivela,<br />

anzi, letteralmente incomparabile. Tutto il nostro progresso civile è nato con il suo<br />

aiuto, non esiste uno strumento paragonabile. Questo apparato soddisfa<br />

187


completamente i bisogni per i quali è sorto, con una prodigalità che è al di là di ogni<br />

critica, come tutti i fenomeni unici nel loro genere.<br />

Ma soltanto se, invece di guardare all’utilità esterna, consideriamo nella matematica<br />

stessa la proporzione fra le parti utilizzate e le parti non utilizzate scorgeremo l’altro<br />

volto, il volto autentico, di questa scienza. Il volto non finalizzato, ma antieconomico<br />

e passionale. All’uomo comune basta, più o meno, la matematica imparata alle<br />

elementari; all’ingegnere quel tanto da sapersi orizzontare fra gli elenchi di formule di<br />

un prontuario tecnico tascabile, cioè non gran che; persino il fisico lavora, di solito,<br />

con strumenti <strong>matematici</strong> poco differenziati. E se una volta o l’altra le loro esigenze<br />

aumentano, sono per lo più abbandonati a se stessi, perché al matematico questi lavori<br />

di adattamento interessano poco. Infatti gli specialisti di non pochi settori della<br />

matematica importanti dal punto di vista pratico spesso non sono dei <strong>matematici</strong>.<br />

Accanto a tali settori, però, si estendono zone smisurate che esistono soltanto per il<br />

matematico. Un immane intreccio di nervi si è raccolto attorno ai punti d’inserzione di<br />

pochi muscoli. Da qualche parte, là dentro, lavora, solo soletto, il matematico, e le sue<br />

finestre non dànno verso l’esterno ma sui locali attigui. Egli è uno specialista, perché<br />

nessun genio è più in grado di dominare l’insieme. Ed è convinto che il suo lavoro<br />

frutterà, presto o tardi, un vantaggio traducibile in termini pratici. Ma non è questo a<br />

spronarlo: egli serve la verità, vale a dire il proprio destino, non lo scopo di esso.<br />

L’effetto potrà essere mille volte economia; ma dal punto di vista immanente la sua è<br />

una dedizione totale, una passione.<br />

La matematica è un’ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi<br />

oggi ancora possibili. Anche i filologi si dedicano spesso ad attività nelle quali essi per<br />

primi non intravedono il minimo utile, e i collezionisti di francobolli o di cravatte<br />

ancora peggio. Ma questi sono passatempi inoffensivi, ben lontani dalle cose serie<br />

della vita. La matematica, invece, proprio in esse abbraccia alcune delle avventure più<br />

appassionanti e incisive dell’esistenza umana. Alleghiamo un piccolo esempio. Si può<br />

dire che in pratica tutta la nostra vita dipenda dai risultati di questa scienza, a essa<br />

ormai piuttosto indifferenti. Grazie alla matematica cuociamo il nostro pane,<br />

costruiamo le nostre case e facciamo andare avanti i nostri mezzi di locomozione.<br />

Prescindendo dai pochi mobili, dagli abiti e dalle calzature fatte a mano, nonché dai<br />

bambini, tutto ciò che abbiamo è ottenuto attraverso calcoli <strong>matematici</strong>. Tutto ciò che<br />

esiste intorno a noi, che si muove, corre o se ne sta immobile, non soltanto sarebbe<br />

incomprensibile senza la matematica ma è effettivamente nato dalla matematica, e ne<br />

è sostenuto nella realtà concreta della propria esistenza. I pionieri della matematica<br />

ricavarono da certi princìpi delle idee utilizzabili. Da quelle idee nacquero deduzioni,<br />

tipi di calcolo, risultati. I fisici ci misero su le mani e ne ricavarono nuovi risultati.<br />

Alla fine arrivarono i tecnici, accontentandosi spesso di questi risultati, ci fecero su dei<br />

nuovi calcoli e crearono le macchine. Ma a un tratto, quando ogni cosa era stata<br />

realizzata per il meglio, saltan su i <strong>matematici</strong> – quelli che si lambiccano il cervello<br />

più vicino alle fondamenta – e si accorgono che nelle basi di tutta la faccenda c’è<br />

qualcosa che non torna. Proprio così, i <strong>matematici</strong> guardarono giù al fondo e videro<br />

che tutto l’edificio è sospeso in aria. Eppure le macchine funzionano! Insomma, siamo<br />

costretti ad ammettere che la nostra esistenza è un pallido fantasma. Noi la viviamo,<br />

ma soltanto sulla base di un errore; senza di esso non esisterebbe. Solo il matematico,<br />

188


oggigiorno, può provare sensazioni così fantastiche.<br />

A questo scandalo intellettuale il matematico reagisce in modo esemplare: lo<br />

sopporta con orgogliosa fiducia nella diabolica pericolosità del proprio intelletto. E<br />

potrei addurre altri esempi, come quello dei fisici <strong>matematici</strong>, che a un tratto si<br />

accinsero con foga a negare l’esistenza dello spazio o del tempo. Ma non da sognatori<br />

e alla lontana, come, di tanto in tanto, si mettono a fare anche i filosofi (che tutti sono<br />

pronti a scusare, perché è il loro mestiere); macché: con argomenti che ti sbucano<br />

davanti all’improvviso come un’auto in corsa e hanno un aspetto terribilmente<br />

credibile. Tanto basta per capire che razza di gente sia.<br />

Noialtri dopo l’Illuminismo ci siamo persi di coraggio. È bastato un piccolo<br />

fallimento per farci voltare le spalle all’intelletto, e permettiamo a ogni esaltato<br />

zuccone di tacciare di vano razionalismo le aspirazioni di D’Alembert e di Diderot.<br />

Andiamo in visibilio per il sentimento e diamo addosso all’intelletto, dimenticando<br />

che il sentimento senza intelletto – fatte le debite eccezioni – è grasso come un<br />

ricciolo di burro. così abbiamo rovinato a tal punto la nostra letteratura che, dopo aver<br />

letto di seguito due romanzi tedeschi, dobbiamo risolvere un integrale per dimagrire.<br />

Non si ribatta che i <strong>matematici</strong>, fuori della loro materia, hanno solo idee banali,<br />

quando ne hanno, e che persino la loro logica li pianta in asso. Quello non è affar loro.<br />

Ma essi sanno fare nel proprio campo ciò che noi dovremmo fare nel nostro. Per<br />

questo la loro vita ha molto da insegnarci e può essere per noi un modello: i<br />

<strong>matematici</strong> sono un’analogia dell’uomo spirituale dell’avvenire.<br />

Se tra queste considerazioni semiserie sui <strong>matematici</strong> ha fatto capolino anche un po’<br />

di serietà, le frasi conclusive non sembreranno fuori luogo. La nostra epoca, ci si<br />

lagna, non ha una “cultura”. La frase può avere vari significati. Ma in fondo la<br />

“cultura” è sempre stata una forma di unità: creata dalla religione, da una forma<br />

sociale oppure dall’arte. Per la forma sociale siamo in troppi. E anche per la religione<br />

siamo in troppi (anche se qui questo giudizio può essere enunciato ma non<br />

dimostrato).<br />

Quanto all’arte, siamo la prima epoca della storia che sa non amare i suoi poeti.<br />

Eppure la nostra epoca possiede energie spirituali superiori a ogni altra, e in essa<br />

inoltre lo spirito è concorde e unitario come non era mai stato. È da sciocchi affermare<br />

che il perno di tutto ciò è soltanto un sapere: perché la nostra meta è già da un pezzo il<br />

pensare. Un pensiero che pretende di essere profondo, ardito, originale; ma che per ora<br />

si limita al piano esclusivamente razionale e scientifico. L’intelletto, però, si spande<br />

all'intorno, e appena tocca il sentimento, diventa spirito. È ai poeti che spetta fare<br />

questo passo. E per compierlo non hanno bisogno di imparare un metodo (come la<br />

psicologia – Dio ne scampi! – o roba del genere), ma solo di imparare a essere esigenti<br />

con se stessi. E invece i poeti non sanno che pesci pigliare, e si consolano imprecando.<br />

Ma anche se i loro contemporanei, da soli, non riescono a far diventare realtà umana il<br />

proprio livello di pensiero, essi avvertono tuttavia ciò che nei loro poeti è al di sotto<br />

del proprio livello di pensiero.<br />

189


Nota bio-bibliografica<br />

IS<strong>AA</strong>C ASIMOV (Smolensk 1920 - New York 1992) è stato tra i più celebri e<br />

prolifici scrittori di fantascienza del XX secolo. Oltre alle innumerevoli opere di<br />

divulgazione scientifica, è ricordato per la serie di romanzi della Fondazione e per il<br />

Ciclo dei Robot, in cui inventò e sviluppo le tre Leggi della Robotica. Il racconto<br />

incluso in questa raccolta [The Feeling of Power, 1958] è tratto da <strong>AA</strong>.<strong>VV</strong>., Le<br />

meraviglie del possibile, Einaudi, Torino 1992 (traduzione di Carlo Fruttero).<br />

ADOLFO BIOY CASARES (Buenos Aires 1914-1999) deve la fama all’impronta<br />

fantastico-surreale di gran parte della sua opera narrativa. Tra i titoli più celebri, il<br />

romanzo L’invenzione di Morel e le raccolte di racconti Il lato dell’ombra e altre<br />

storie fantastiche e Cronache di Bustos Domecq, quest’ultima scritta insieme<br />

all’amico di una vita Jorge Luis Borges. Il racconto incluso in questa raccolta [La<br />

trama celeste, 1948] è tratto da Un leone nel parco di Palermo, Einaudi, Torino 2005<br />

(traduzione di Glauco Felici).<br />

JORGE LUIS BORGES (Buenos Aires 1899 - Ginevra 1986) è stato poeta, narratore e<br />

saggista tra i più influenti del Novecento, nonostante la sua importanza sia stata<br />

riconosciuta universalmente piuttosto tardi. Tra le opere si ricordano i racconti di<br />

Finzioni e L’Aleph, il romanzo Evaristo Carriego, i saggi di Altre inquisizioni, la<br />

raccolta poetica Elogio dell’ombra. Il racconto incluso in questa raccolta è tratto da Il<br />

libro di sabbia, Adelphi, Milano 2004 (traduzione di Ilide Carmignani).<br />

FREDRIC BROWN (Cincinnati 1906-1972) ha pubblicato narrativa di genere giallo,<br />

poliziesco e fantascientifico caratterizzata dal gusto per il colpo di scena e da un<br />

umorismo al limite del paradosso. Tra le sue opere si ricorda il romanzo La statua che<br />

urla e il celeberrimo racconto La sentinella. Il testo incluso in questa raccolta<br />

[Naturally, 1954] è tratto da Tutti i racconti, II, Mondadori, Milano 1991 (traduzione<br />

di Giuseppe Lippi).<br />

DINO BUZZATI (Belluno 1906 - Milano 1972) ha lavorato a lungo come redattore<br />

e inviato di quotidiano, attività cui ha alternato quella di scrittore. Considerato il<br />

maggior autore fantastico del Novecento italiano, ha prodotto capolavori come Il<br />

deserto dei Tartari e Un amore. Il racconto incluso in questa raccolta [1942] è tratto<br />

da Sessanta racconti, Mondadori, Milano 2001.<br />

ITALO CALVINO (Santiago de Las Vegas 1923 - Siena 1985) è stato lo scrittore<br />

italiano più amato e tradotto del Novecento. Esordì giovanissimo con Il sentiero dei<br />

nidi di ragno, cui seguirono, negli interstizi dell’intensissimo lavoro editoriale, la<br />

trilogia I nostri antenati, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Le città invisibili e<br />

190


Palomar. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Romanzi e racconti, II,<br />

Mondadori, Milano 2005.<br />

KAREL ČAPEK (Malé Svatoňovice 1890 - Praga 1938) fu giornalista, drammaturgo<br />

e narratore tra i più attivi dell’anteguerra cèco. Autore del dramma Adamo il creatore<br />

e della trilogia di romanzi Hordubal, La meteora e Una vita comune, si deve a lui<br />

l’introduzione del termine “robot” nella cultura contemporanea. Il racconto incluso in<br />

questa raccolta è tratto da Il libro degli apocrifi, Editori Riuniti, Roma 1989<br />

(traduzione di Luisa De Nardis).<br />

EMMANUEL CARRÈRE (Parigi 1957) è saggista e romanziere tra i più importanti<br />

della scena francese contemporanea. Oltre ad una rivoluzionaria biografia di Philip K.<br />

Dick (Io sono vivo e voi siete morti), ha pubblicato i romanzi Baffi, La settimana<br />

bianca, L’avversario e il racconto-provocazione Facciamo un gioco. Il racconto<br />

incluso in questa raccolta è comparso nel maggio del 1995 sulla Revue de littérature<br />

générale (traduzione di Maurizia Balmelli).<br />

JULIO CORTÁZAR (Bruxelles 1914 - Parigi 1984) è tra i più amati scrittori<br />

argentini del Novecento. Tra le sue opere, marcate da un accentuato sperimentalismo<br />

formale e da un’originale visione del mondo, si ricordano soprattutto i romanzi Il<br />

gioco del mondo, Il viaggio premio, Un tale Lucas e le numerose raccolte di narrativa<br />

breve riunite, insieme al testo incluso in questa raccolta [Continuidad de los parques,<br />

1954], nel volume I racconti, Einaudi, Torino 1994 (traduzione di Flaviarosa Nicoletti<br />

Rossini).<br />

DANIELE DEL GIUDICE (Roma 1949), scrittore e critico tra i più importanti della<br />

sua generazione, ha pubblicato i romanzi Lo stadio di Wimbledon, Atlante occidentale<br />

e Staccando l’ombra da terra. Il racconto incluso in questa raccolta è tratto da Mania,<br />

Einaudi, Torino 1997.<br />

UMBERTO ECO (Alessandria 1932) è lo scrittore italiano più conosciuto nel mondo.<br />

Semiotico di fama, dal 1980 ha affiancato alla docenza universitaria e all’attività<br />

giornalistica anche la composizione di romanzi, tra cui i best-seller Il nome della rosa<br />

e Il pendolo di Foucault. Il racconto incluso in questa raccolta è tratto da <strong>AA</strong>.<strong>VV</strong>., Le<br />

interviste impossibili, Bompiani, Milano 1975.<br />

HANS MAGNUS ENZENSBERGER (Kaufbeuren 1929) è uno dei decani della<br />

letteratura tedesca contemporanea. Giornalista, docente universitario ma soprattutto<br />

poeta, ha pubblicato raccolte liriche (Difesa dei lupi, L’affondamento del Titanic),<br />

drammi (L’interrogatorio all’Avana), saggi (Confabulazione, La grande migrazione)<br />

e un fortunatissimo libro per bambini, Il mago della matematica. La poesia inclusa in<br />

questa raccolta è tratta da Più leggeri dell’aria, Einaudi, Torino 2001 (traduzione di<br />

Anna Maria Carpi).<br />

ROBERT HEINLEIN (Butler 1907 - Carmel 1988) ha pubblicato romanzi<br />

191


fantascientifici tra i più discussi del Novecento, a causa delle ambigue implicazioni<br />

politiche. I più famosi sono Il terrore della sesta luna, Fanteria dello spazio e<br />

Straniero in terra straniera. Il racconto incluso in questa raccolta [... And He Built a<br />

Crooked House, 1941] è tratto da Le meraviglie del possibile, Einaudi, Torino 1992<br />

(traduzione di Giorgio Monicelli).<br />

ALDOUS HUXLEY (Godalming 1894 - Hollywood 1963) fu autore di diversi libri di<br />

successo (Giallo cromo, Punto contro punto) prima di scrivere il romanzo antiutopico<br />

che gli ha dato fama mondiale: Il mondo nuovo. In seguito si interessò alla mistica<br />

orientale e ai limiti della coscienza razionale, pubblicando i saggi sperimentali<br />

Filosofia perenne e Le porte della percezione. Il racconto incluso in questa raccolta<br />

[Eupompo said splendor to the Art with the Numbers] è tratto da Tutti i racconti,<br />

Einaudi, Torino 1958 (a cura di Floriana Bossi, Luigi Barzini jr. ed Emilio Ceretti).<br />

KURD LAßWITZ (Breslau 1848 - Gotha 1910) fu filosofo, scienziato e scrittore.<br />

Ritenuto il padre della fantascienza tedesca in seguito alla pubblicazione nel 1897 del<br />

saggio-romanzo Auf Zwei Planeten (“Su due pianeti”), godette di larghissima fama in<br />

patria prima che le sue opere fossero bandite dal regime nazista perché troppo<br />

popolari. Postumi gli sono stati dedicati un cratere di Marte e un asteroide. Il racconto<br />

incluso in questa raccolta [Die Universalbibliothek, 1904] è tratto da <strong>AA</strong>.<strong>VV</strong>.,<br />

Fantasia Mathematica, Simon & Schuster, New York 1968 (traduzione di Fabiano<br />

Massimi).<br />

STANISLAW LEM (Leopoli 1921 - Cracovia 2006) è stato per molti il più grande<br />

autore di fantascienza mai vissuto. Tra i suoi romanzi, che sfoggiano una brillante<br />

padronanza delle materie scientifiche, si ricordano Ritorno dall’universo, Solaris,<br />

Golem XIV e Il pianeta del silenzio. Ha pubblicato inoltre raccolte di narrativa breve<br />

(Fiabe per robot) e i saggi Provocazione e Vuoto assoluto. Il racconto incluso in<br />

questa raccolta [The Extraordinary Hotel, 1968] è tratto da <strong>AA</strong>.<strong>VV</strong>., Imaginary<br />

Numbers, John Wiley & Sons, New York 1999 (traduzione di Fabiano Massimi).<br />

IAN MCEWAN (Aldershot 1948) ha pubblicato racconti e romanzi di crescente<br />

successo e importanza, giungendo ad essere considerato il miglior narratore inglese<br />

della sua generazione. Tra i titoli più importanti della sua produzione si ricordano<br />

Primo amore, ultimi riti, Il giardino di cemento, Cortesie per gli ospiti, Espiazione e<br />

Sabato. È inoltre autore di un amatissimo libro per ragazzi, L’inventore dei sogni. Il<br />

testo incluso in questa raccolta [Solid Geometry, 1975] è tratto da <strong>Racconti</strong>, Einaudi,<br />

Torino 1996 (traduzione di Stefania Bertola).<br />

ROBERT MUSIL (Klagenfurt 1880 - Ginevra 1942) è stato uno dei romanzieri più<br />

influenti del Novecento. Tra le sue opere figurano romanzi (I turbamenti del giovane<br />

Törless), novelle (Incontri, Tre donne) e commedie (I fanatici), ma è all’incompiuto<br />

L’uomo senza qualità che deve in massima parte la sua fama. Il testo che chiude<br />

questa raccolta [1913, pubblicato con lo pseudonimo di Mathias Rychtarschow] è<br />

tratto da Saggi e altri scritti, Einaudi, Torino 1995 (traduzione di Andrea Casalegno).<br />

192


O. HENRY, pseudonimo di WILLIAM SIDNEY PORTER (Greenboro 1862 - New York<br />

1910), divenne da autodidatta il più grande scrittore di racconti della sua epoca,<br />

baciato da un enorme successo di pubblico. Porta il suo nome il più prestigioso premio<br />

statunitense per la narrativa breve. Il racconto incluso in questa raccolta [Squaring the<br />

Cirlce, 1935] è pubblicato in Memorie di un cane giallo e altri racconti, Adelphi,<br />

Milano 1980 (a cura di Giorgio Manganelli).<br />

RAYMOND QUENEAU (Le Havre 1903 - Parigi 1976) fu matematico, poeta,<br />

saggista e romanziere centrale del Novecento francese. Dopo gli esordi surrealisti virò<br />

verso una letteratura di sperimentazione linguistica e strutturale. Fondatore<br />

dell’Oulipo insieme all’amico Perec, viene ricordato soprattutto per i romanzi Zazie<br />

nel metrò e I fiori blu, per i versi della Piccola cosmogonia portatile e per i celebri<br />

Esercizi di stile recati in italiano da Umberto Eco. Il racconto incluso in questa<br />

raccolta [1950] è tratto da Segni, cifre e lettere e altri saggi, Einaudi, Torino 1981<br />

(traduzione di Giovanni Bogliolo).<br />

JOSÉ SARAMAGO (Azhinaga 1922), premio Nobel per la letteratura, è il più<br />

grande narratore, poeta e drammaturgo portoghese vivente. Tra i titoli della sua nutrita<br />

produzione spiccano Le poesie possibili, il dramma La seconda vita di Francesco<br />

d’Assisi e i romanzi Memoriale del convento, L’anno della morte di Ricardo Reis, Il<br />

Vangelo secondo Gesù, Storia dell’assedio di Lisbona. Il racconto incluso in questa<br />

raccolta [Refluxo, 1978] è tratto da Oggetto quasi, Einaudi, Torino 1997 (traduzione di<br />

Rita Desti).<br />

MARCEL SCHWOB, pseudonimo di André Mayer (Parigi 1867-1905), fu eccellente<br />

traduttore dal latino e saggista. Profondamente interessato al Medioevo, dedicò ai suoi<br />

personaggi più curiosi il capolavoro Vite immaginarie (Adelphi, Milano 1972, a cura<br />

di Fleur Jaeggy), da cui è tratto il racconto incluso in questa raccolta [Paolo Uccello,<br />

peintre, 1896].<br />

DARIO VOLTOLINI (Torino 1959), scrittore tra i più originali della sua<br />

generazione, ha pubblicato numerosi libri di raffinata fattura e non facile<br />

classificazione, tra cui Un’intuizione metropolitana, Rincorse, io e Primaverile. Ha<br />

scritto inoltre libretti per opere musicali e collabora a diverse testate giornalistiche. Il<br />

racconto incluso in questa raccolta è tratto da Forme d’onda, Feltrinelli, Milano 1996.<br />

DAVID FOSTER WALLACE (Ithaca 1962) è considerato il più geniale scrittore<br />

statunitense della sua generazione. Dopo l’esordio virtuosistico di La scopa del<br />

sistema ha pubblicato saggi brevi (Una cosa divertente che non farò mai più), raccolte<br />

di racconti (Brevi interviste a uomini schifosi, Oblio) e il capolavoro Infinite Jest. Ha<br />

inoltre dedicato una biografia al matematico Georg Cantor (Tutto e di più. Storia<br />

compatta dell’infinito). Il testo incluso in questa raccolta [Tennis, Trigonometry,<br />

Tornadoes, 1997] è tratto da Tennis, TV, trigonometria e tornado, minimum fax,<br />

Roma 1999 (traduzione di Vincenzo Ostuni, Christian Raimo e Martina Testa).<br />

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