Una lingua che combatte - DSpace@Unipr
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA<br />
Facoltà di Lettere e Filosofia<br />
Coordinatore:<br />
Chiar.mo Prof. Rinaldo Rinaldi<br />
Tutor:<br />
Chiar.mo Prof. Paolo Briganti<br />
Dottorato di ricerca<br />
Il testo: tradizione, <strong>lingua</strong>, interpretazione<br />
XX ciclo<br />
<strong>Una</strong> <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> <strong>combatte</strong><br />
Tempo e utopia nell’opera di<br />
Penna, Caproni, Fortini e Sereni<br />
Anno Accademico 2008-2009<br />
Dottorando:<br />
Andrea Masetti
Ah <strong>che</strong> la <strong>lingua</strong> <strong>combatte</strong><br />
dove il niente duole<br />
(Franco Fortini)
a Elisa
Prima Parte<br />
INDICE<br />
1. Quattro percorsi poetici p. 9<br />
1.1. Le parole e le cose 12<br />
1.2. Fenomenologia del negativo e storicità 17<br />
1.3. Essere contro: reazioni con lo spazio e col tempo 26<br />
Seconda Parte<br />
2.1. Penna e Caproni: il tempo inquieto 39<br />
2.1.1. La «nostalgia del presente nel presente» 39<br />
2.1.2. Il confronto con la morte 50<br />
2.2. Sandro Penna: l’eros come utopia 59<br />
2.2.1. La dialettica del desiderio 60<br />
2.2.2. Il topos dell’incontro 64<br />
2.2.3. «Un altro mondo si dischiude» 71<br />
2.3. Giorgio Caproni: la «pena del futuro» 77<br />
2.3.1. <strong>Una</strong> calma disperazione. 79<br />
2.3.2. Il tempo come metafora 87<br />
2.3.3. Le parole della fine dell’uomo 91<br />
Terza Parte<br />
3.1. Franco Fortini: la poetica del non ancora 101<br />
3.1.1. Dalla «nostalgia di lunghissimo esilio» alla «poetica dell’avvento» 101<br />
3.1.2. L’eredità della scrittura 108<br />
3.1.3. La poetica del non ancora 113<br />
3.2. Vittorio Sereni: recensione e interpretazione della realtà 125<br />
3.2.1. «Il mio tempo s’accorda»: il primo libro di Sereni 125<br />
3.2.2. Recensione e interpretazione della realtà 134<br />
3.3. Fortini e Sereni: tra oltranza e reversibilità 155<br />
Quarta Parte<br />
4. <strong>Una</strong> <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> <strong>combatte</strong> dove il niente duole 177<br />
4.1. Il presente falso e vero 178<br />
Bibliografia 207
PRIMA PARTE<br />
7
1<br />
QUATTRO PERCORSI POETICI<br />
TRA MEMORIA E FUTURO<br />
Fare esperienza del pensiero poetico nel nostro tempo significa partecipare di<br />
un’imperfezione, uno slittamento della norma, un salto nel vuoto, una vertigine del<br />
senso e della parola, di fronte alla quale si sviluppano varie forme di resistenza,<br />
ideologica ed esistenziale. Questo studio intende entrare in contatto con alcuni risultati<br />
poetici, <strong>che</strong> potrebbero rappresentare diverse modalità di declinare questo sentimento<br />
necessario d’imperfezione, attraverso il dialogo fra le opere di alcuni autori <strong>che</strong> fanno<br />
parte della cosiddetta “terza generazione”, ovvero di quella generazione poetica nata<br />
attorno al 1910. Fa eccezione il solo Fortini, <strong>che</strong> non viene inserito né nella terza, né<br />
nella quarta generazione del modello di Oreste Macrí. È bene, allora, ricordare e fare<br />
nostre le parole di Giovanni Raboni, <strong>che</strong> a questo proposito sono illuminanti e dirimono<br />
ogni dubbio: «Non sono un appassionato di numerologia e non credo nemmeno <strong>che</strong> sia<br />
giusto leggere la storia della poesia soltanto e soprattutto come una storia di generazioni<br />
poeti<strong>che</strong>». 1 Quindi, per non rimanere ingabbiati nella rigidità del modello proposto da<br />
Oreste Macrí, si accetti qual<strong>che</strong> eccezione alla norma generazionale, qual<strong>che</strong> “scarto”<br />
tra gli anni precedenti il 1910 e quelli successivi il 1915: 1906, Penna; 1912, Caproni;<br />
1913, Sereni; 1917, Fortini.<br />
Nati entro i primi due decenni del Novecento, questi autori hanno conosciuto la<br />
propria giovinezza creativa tra la metà degli anni Trenta e quella degli anni Quaranta e<br />
soprattutto hanno visto tale giovinezza insidiata prima dall’ascesa del fascismo e poi dal<br />
dramma della guerra. Con Come un’allegoria (1936), Finzioni (1941) e poi con<br />
Cronistoria (1943) di Caproni, con Frontiera (1941) e Diario d’Algeria (1947) di<br />
Sereni, con le Poesie (1939) di Penna, o il Foglio di via (1946) di Fortini, ovvero<br />
nell’arco di un decennio, si apre una «linea di faglia», 2 per usare le parole di Raboni,<br />
un’incrinatura destinata a rendere evidente e urgente una riflessione sui temi del tempo,<br />
1 Giovanni Raboni, Prefazione a Gaetano Arcangeli, Solo se ombra, Milano, Libri S<strong>che</strong>iwiller, 1995, p. 7.<br />
2 Ivi, p. 9.<br />
9
della memoria e del futuro. Valga per tutti la nota immagine dell’Enea caproniano<br />
(immagine carica di risonanze): essi si muovono in un tempo ambiguo e indefinito,<br />
nell’attesa dell’evento, attesa <strong>che</strong> sarà la cifra concettuale e poetica del Sereni del<br />
Diario d’Algeria, ma an<strong>che</strong> delle atmosfere sospese di Sandro Penna, un tempo<br />
conflittuale (la guerra, prima reale poi metaforica, ma sempre dall’evidenza concreta),<br />
<strong>che</strong> li strappa al passato, al ricordo, e li getta in un presente da rifiutare, per poi<br />
proiettarli in un futuro oscuro e incerto:<br />
Dico Enea meno eroe <strong>che</strong> uomo, e per di più uomo posto al centro di<br />
un’azione suprema (la guerra) proprio nel momento della sua maggiore<br />
solitudine: quando non potendo più appoggiarsi alla tradizione, ossia al<br />
padre, <strong>che</strong> ormai cadente è lui ad avere necessità d’esser sostenuto,<br />
tantomeno può appoggiarsi alla speranza, all’avvenire: ossia all’ancor troppo<br />
piccolo figlio. 3<br />
Dietro alla figura di Enea possiamo intravedere un’intera generazione <strong>che</strong> fa i conti con<br />
il tempo, incarnando il destino di chi si trova a vivere simultaneamente passato e futuro<br />
nel presente del ricordo, della cronaca e della storia. Il poeta ha fatta propria, a titolo<br />
intellettuale e personale, una poetica dell’inappartenenza e della diversità, <strong>che</strong> lo porta<br />
al rifiuto di ogni sistema autoritario <strong>che</strong>, in quanto tale, si declina secondo le varie<br />
accezioni <strong>che</strong> assume la radice pater. La visione cristiana del Padre, con la sua gerarchia<br />
del bene e del male, del qui e dell’altrove, propone un ordine oppositivo ed esclusivo,<br />
così come il patrimonio della tradizione codificata e imposta e l’appartenenza nazionale<br />
(patria) spesso sembrano refrattari ad accogliere opposizioni e contraddizioni, o, quando<br />
ve ne siano, pronti a superarle attraverso violente rotture. Il rifiuto di un sistema così<br />
rigidamente gerarchizzato passa attraverso l’esperienza di una soggettività in dissidio<br />
col reale: la solitudine, la povertà e l’omosessualità di Penna, le sue incomprensioni col<br />
padre, <strong>che</strong> la famiglia lascia nel mezzo di un fallimento commerciale per trasferirsi a<br />
Roma, 4 dicono la ricerca di un’alternativa e di una diversità in cui si incarna il desiderio<br />
di fuga e di lontananza; l’invettiva e l’immagine del Dio-padre «morto o inesistente, ma,<br />
3 Giorgio Caproni, Noi, Enea, «La Fiera letteraria», 3 luglio 1949.<br />
4 Cfr. AA.VV., Sandro Penna appunti di vita, a cura di Elio Pecora, Milano, Electa, 1990, p. 51. E si legga an<strong>che</strong><br />
quanto scrive Elio Pecora in Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, Milano, Frassinelli, 1984, pp. 99-100: «Ai dissidi interni<br />
fra pensiero e azione, fra visione artistica e passione, s’aggiunsero a quel tempo gravi disaccordi con il padre <strong>che</strong>,<br />
dopo un’ennesima lite, arrivò a cacciarlo di casa e scrisse alla moglie addossando al figlio una serie di sbagli e di<br />
colpe. […] In quello stesso mese partì per Roma, andò ad abitare in via Caio Mario con la madre e con Elda e<br />
Beniamino».<br />
10
come il negativo, ineliminabile» 5 dell’ultimo Caproni e il senso di solitudine assoluto<br />
<strong>che</strong> ne deriva, <strong>che</strong> lo porta a sovvertire il rapporto generazionale rovesciandolo e<br />
trasformandosi nel figlio di suo figlio («Portami con te lontano / … lontano… / nel tuo<br />
futuro. / Diventa mio padre, portami / per mano…», A mio figlio Attilio Mauro…, in Il<br />
muro della terra); il tentativo di definire se stessi “rinominandosi” di Franco Fortini,<br />
nato Lattes, come se l’io volesse guardare se stesso dall’esterno, da una distanza <strong>che</strong><br />
permetta di vedere meglio e di capire <strong>che</strong> il rapporto col padre «implica, o simboleggia,<br />
il rapporto con la classe, con la realtà»; 6 il senso di colpa, l’insicurezza e l’assenza di<br />
Dio nelle pagine di Sereni, <strong>che</strong> innesta nel rapporto generazionale un’immagine di<br />
violenza (Sarà la noia, in Stella variabile), 7 per cui il vissuto individuale non è mai<br />
pacificato ma si scontra sempre con la colpa di fronte alla storia e all’umanità. Il rifiuto<br />
di modelli nazionalistici, religiosi, filiali e identitari genera un processo di lotta,<br />
condotto dal soggetto contro i princìpi <strong>che</strong> regolano la nostra società: religione,<br />
famiglia, capitalismo e nazionalismo.<br />
Nella figura di Enea, emblema della relazione figlio/padre, c’è un senso ulteriore e<br />
per così dire dialettico: egli rappresenta l’unione del passato, quindi della tradizione e<br />
dell’eredità da salvare, e del futuro, quindi della speranza e dell’attesa nella prospettiva<br />
utopica di una nuova città e civiltà da fondare. Enea non deve annullare il passato, ma<br />
riconoscere ciò <strong>che</strong> in esso può dare un senso al presente. Questo è un nodo centrale<br />
an<strong>che</strong> nell’opera di Fortini, <strong>che</strong> parla di un «indimostrabile legame e presenza di<br />
5 Franco Fortini, Oltre il valico, in Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 176.<br />
6 Così Fortini: «Bisogna saper guardare i propri genitori in faccia. […] Avere un rapporto non nevrotico con i<br />
padri è probabilmente molto difficile; ma esso implica, o simboleggia, il rapporto con la classe, con la realtà» (Franco<br />
Fortini, Difesa del cretino, in Verifica dei poteri, ora in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di<br />
Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori «i Meridiani», 2003, pp. 192-193). Romano<br />
Luperini parla di un «vuoto di una figura paterna verso cui egli manifesta un sentimento oscillante tra disprezzo e<br />
pietà. […] in Fortini c’è l’atteggiamento opposto rispetto a quello di chi è stato frustrato da un padre eccessivamente<br />
rispettato; c’è un sentimento di vergogna per lui, per il suo tremore, per la sua mancanza di compostezza e di calma,<br />
<strong>che</strong> lo fa arrossire […]. La negazione del padre (sino a rifiutarne il cognome, an<strong>che</strong> se in questa scelta un peso forse<br />
determinante l’ebbero ragioni razziali e religiose), […] l’adesione a una norma costante d’autorepressione e<br />
d’interdizione di ogni movimento incomposto o vitalistico sembrano essere necessarie premesse della poesia<br />
fortiniana. Ne deriva una volontà di superiorità, di distanziamento […] una tendenza a porsi in alto […] per vedere<br />
meglio e giudicare insieme presente passato futuro» (Romano Luperini, Il futuro di Fortini, Lecce, Manni, 2007, p.<br />
18). Dietro al cambio del nome dovevano comunque esserci ragioni prati<strong>che</strong>, vista la torbida epoca <strong>che</strong> nel 1938<br />
avrebbe portato alle leggi razziali, e ragioni religiose. In un’intervista Fortini afferma: «A diciotto anni ho conosciuto<br />
chi mi ha convertito: lo storico Giorgio Spini, valdese, <strong>che</strong> aveva un anno più di me. La mia formazione protestante<br />
nasce da lui: mi ha dato fortissimo il senso della storia, la necessità della concreta incarnazione, e ho letto i testi<br />
cristiani, insieme con Karl Barth e Kierkegaard» (intervista a Franco Fortini di Claudio Altarocca, «Tuttolibri»,<br />
supplemento de «La Stampa», 5 marzo 1994; ora in Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, Arezzo, Zona, 2007, p.<br />
129).<br />
7 Non direttamente rapporto figlio/padre, poiché la Laura di cui parla nella poesia è la nipote, figlia della sua<br />
primogenita Maria Teresa. Qui Sereni si vede quindi come padre “alla seconda”, ossia nonno.<br />
11
viventi, di passati e venturi» ovvero della «contemporaneità di tutti i viventi»: 8 la città<br />
<strong>che</strong> Enea deve fondare, l’ethos di questo legame tra chi è stato e chi sarà, è quella<br />
Gerusalemme <strong>che</strong> da Sant’Agostino arriva sino a Fortini, è un luogo della mente, di cui<br />
si coglie al contempo la luce e l’«inesistenza», i poli opposti tra cui si tende la<br />
riflessione poetica. 9<br />
Se l’esistenza è posta sotto assedio dal disastro incombente e dal nulla (l’incendio dal<br />
quale fugge Enea), il significato della poesia non è in funzione di ciò <strong>che</strong> viene<br />
rappresentato, ma di quella parte inesprimibile <strong>che</strong> alligna nella filigrana del reale e <strong>che</strong><br />
essa a tratti fa percepire. Nello stesso tempo non siamo proiettati in un altrove salvifico<br />
o verso una meta definitiva, il viaggio è sempre imperfetto e mai compiuto: tra il qui e<br />
l’altrove si preferisce quello spazio intermedio e contraddittorio, <strong>che</strong> è proprio della<br />
poesia, in cui si manifesta la tensione latente delle cose.<br />
1.1. Le parole e le cose<br />
Questo lavoro non vuole essere esaustivo di una generazione, o delineare una cultura<br />
poetica alternativa; intende piuttosto porsi come sguardo rivolto ad alcuni autori, <strong>che</strong><br />
hanno saputo variamente utilizzare la parola per esprimere e definire i concetti di esilio<br />
e di utopia, sia durante il periodo catastrofico del nazionalismo, della dittatura e della<br />
guerra, sia, dopo, durante il non meno oscuro, a tratti infernale, periodo di<br />
democratizzazione e sviluppo. 10 In risposta o reagendo a queste circostanze, essi non<br />
hanno evitato il confronto col reale, anzi tale componente è ben presente, spesso fatta<br />
reagire con una più onirica e visionaria. Ci sono oggetti e spazi ben definiti, c’è la<br />
storia, ma c’è an<strong>che</strong> un rovesciamento dei rapporti consueti con il reale: ci sono la<br />
distanza, la negazione, il silenzio, il corpo esposto nella sua folgorante e dolorosa<br />
8 Franco Fortini, Le mani di Radek, in Verifica dei poteri, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 124.<br />
9 Si legga la poesia di Fortini Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto, in Paesaggio con serpente.<br />
10 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Sviluppo e progresso, in Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2001 (1ª ed. 1975), p. 175-<br />
176: «La parola “sviluppo” ha oggi una rete di riferimenti <strong>che</strong> riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. […]<br />
È evidente: a volere lo sviluppo in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo” in Italia è<br />
questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali <strong>che</strong> producono beni superflui. I consumatori di<br />
beni superflui sono, da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo “sviluppo” (questo<br />
sviluppo). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali <strong>che</strong><br />
avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”». E ancora:<br />
«Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed<br />
economico».<br />
12
sensualità, oppure reso ombra di se stesso, fantasma e apparizione; c’è, infine, il<br />
pensiero del nulla, <strong>che</strong> dal corpo si trasmette alla parola stessa. La scelta è quella di una<br />
poesia <strong>che</strong> metta in stretta relazione l’io e il mondo, una poesia <strong>che</strong> porti a confrontarsi,<br />
pur con esperienze ed esiti assai differenti, con le trasformazioni di una società <strong>che</strong> si<br />
vuole a tutti i costi moderna, ma <strong>che</strong> in realtà nega ogni progresso civile (il «progresso<br />
come falso progresso» di cui parla Pasolini nelle Lettere luterane). Lontani da tale<br />
prospettiva di modernità questi autori manifestano un rapporto necessariamente<br />
contraddittorio con la storia: le loro poesie non solo esprimono l’angoscia per<br />
l’esperienza dello spaesamento, della lontananza e dell’esilio, ma, come una forza<br />
oppositiva, spingono questa esperienza storica e psicologica ai suoi limiti.<br />
Ricostruiscono e conferiscono una forma nuova all’identità individuale, contro la sua<br />
perdita o la sua dislocazione ad altri livelli di senso, come è avvenuto all’inizio del<br />
secolo, da una parte col futurismo, <strong>che</strong> si è fatto portavoce dell’iperbolico nazionalismo,<br />
e dall’altra, più tardi, con l’ermetismo, <strong>che</strong> ha reagito al nazionalismo con il<br />
ripiegamento individualistico di un io separato, di una <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> si allontanava da ogni<br />
relazione col mondo. Ciò di cui essi ci parlano non appartiene ad un’altra dimensione,<br />
ad un altro mondo, e an<strong>che</strong> quando ci siano apparizioni o fantasmi, an<strong>che</strong> quando ci si<br />
confronti direttamente con l’altro e l’altrove, essi non «si riferiscono a una storia<br />
differente dalla nostra». 11<br />
Caproni, Penna, Fortini e Sereni hanno esordito negli anni Trenta e Quaranta, in<br />
pieno periodo fascista e bellico, e successivamente hanno dovuto confrontarsi con la<br />
situazione venutasi a creare dopo la guerra. Si imponeva una profonda riflessione sul<br />
<strong>lingua</strong>ggio poetico e sulla sua evoluzione: occorreva mettere in discussione il rapporto<br />
tra le parole e le cose, tra soggetto e oggetto. Se da una parte si può parlare di<br />
dissoluzione di tali rapporti, dall’altra si tratta an<strong>che</strong> di trovare un punto di resistenza<br />
<strong>che</strong> non sia punto fermo ma snodo <strong>che</strong> predisponga ad una evoluzione. Sin dagli esordi<br />
nel clima ermetico, questi poeti manifestano un doloroso rapporto col reale, <strong>che</strong> passa<br />
attraverso il senso del tempo perduto della giovinezza, <strong>che</strong> solo Penna, forse, si illude di<br />
rivivere specchiandosi nelle molteplici immagini dei fanciulli. A prevalere è il senso del<br />
distacco, della fine e della distanza, an<strong>che</strong> fisica, da una terra <strong>che</strong> non gli appartiene più:<br />
il grande tema sereniano della prigionia diventa emblema di una condizione esistenziale<br />
11 Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, p. 38.<br />
13
di separazione e d’esclusione, il lago della terra natale è figura della successiva «lacuna<br />
del cuore» (Ritorno, in Gli strumenti umani). Nella Livorno natale di Caproni c’è una<br />
spazialità assediata dal vuoto, <strong>che</strong> la morte della madre e la guerra, rievocate nel Seme<br />
del piangere, svuoteranno: «nel nome / vuoto <strong>che</strong> si perdeva / nel vento», Batteva; «mia<br />
lacerata / tenda volata via / col suo fuoco e il suo Dio», Bibbia; «Il vento… È rimasto il<br />
vento», Dopo la notizia. Tuttavia, la «nostalgia di lunghissimo esilio non è mai<br />
impotente desiderio d’evasione», 12 il sentimento di estraneità e lontananza da un<br />
presente nel quale non ci si riconosce più, paradossalmente, genera una poetica a stretto<br />
contatto col reale, pronta a mettere in discussione il ruolo stesso <strong>che</strong> la parola può<br />
svolgere nell’inesausto rapporto con le cose, senza eluderlo, senza una metafisica<br />
autoreferenziale, ma sempre con lo sguardo rivolto al valore comunicativo della<br />
scrittura, «in una tensione comune ad afferrare e “recensire” le contraddizioni della<br />
realtà, a registrare il peso del passato per affrontare il presente, testimoniare dello stato<br />
di crisi del soggetto». 13 Sembrano appropriate le parole di Ermanno Krumm, quando<br />
scrive <strong>che</strong> «più <strong>che</strong> di comunicazione si dovrebbe parlare di contagio: una volontà di<br />
comunicazione <strong>che</strong>, nell’età della crisi della rappresentazione, non può muovere verso<br />
un mondo di dicibilità spiegata». 14 A questo contagio si sottrae, ancora una volta, solo<br />
l’opera di Penna, <strong>che</strong> eleggendo il mondo dei fanciulli quale spazio e tempo della vita,<br />
contro la morte e il tema novecentesco del nulla, può continuare a parlare. Garboli lo ha<br />
affermato chiaramente, sottolineando, an<strong>che</strong> da questo punto di vista, la sua diversità:<br />
Penna è stato, in questo secolo, il solo poeta italiano <strong>che</strong> abbia parlato a<br />
gola spiegata, dicendo chiaramente chi era e cosa voleva, in contrasto con la<br />
grande e vincente formula montaliana di negatività, e quindi a prezzo di un<br />
continuo accento di sfida e di una terribile infrazione sistematica <strong>che</strong> sarebbe<br />
riduttivo limitare al tema omosessuale. Si potrebbe definire l’opera di Penna,<br />
con una formula, come una “riflessione sul desiderio”. 15<br />
Il contagio del reale genera questo desiderio di dire altro, di cogliere quegli aspetti della<br />
realtà <strong>che</strong> aprono spiragli alla speranza. La necessità di una comunicabilità poetica <strong>che</strong><br />
12<br />
Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in «L’Unità», 14 luglio 1946, ora in Italo Calvino, Saggi, I, a<br />
cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, «i Meridiani», p. 1057.<br />
13<br />
Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, Lecce, Pensa<br />
MultiMedia, 2002, p. 23.<br />
14<br />
Ermanno Krumm, Lirica moderna e contemporanea, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 117.<br />
15<br />
Cesare Garboli, Penna Papers, nuova edizione ampliata, Milano, Garzanti, 1996 (1ª ed. 1984), p. 108. E si<br />
legga, sempre di Garboli, Penna, Montale e il desiderio, Milano, Mondadori, 1996, pp. XXIV-XXV: «Al “minimo di<br />
tollerabilità del vivere”, […] Penna aveva risposto con un’elaborazione, se così si può dire, tutta personale del<br />
desiderio».<br />
14
vada al fondo delle cose, non si risolve all’interno di una rivoluzione soltanto formale,<br />
così come non si fa portatrice di un messaggio piano, senza residui di senso, ma lascia<br />
intravedere una profondità oltre la superficie fisica del testo, un’oltranza inquieta, una<br />
dimensione del senso sempre tesa ad altro:<br />
Si capisce <strong>che</strong> questo è un «problema» d’origine quasi del tutto morale,<br />
etica: è l’urgenza, si sarebbe detto una volta, di nuove forme sotto la spinta<br />
irresistibile di contenuti nuovi. E invero i modi così consumatamente letterari<br />
[…] come potrebbero venire assunti, cioè essere imitati, da chi oggi tenta di<br />
risollevarsi da rovine divenute addirittura materiali? Oggi (in fondo gli<br />
«impossibili contenuti nuovi» non sono <strong>che</strong> questo: un modo nuovo di<br />
considerarsi nel mondo, uno spostamento del centro di gravitazione, e quindi<br />
un modo nuovo di riflettere in modi e forme nuove) vivere sui pinnacoli non<br />
giova più: non giova almeno in questo particolare momento d’emergenza. 16<br />
Se c’è chi ha preteso di superare l’ermetismo con lo scardinamento formale della<br />
norma poetica, e chi ha cercato di trasformarlo in una metafisica soggettiva e<br />
individualistica, questi autori, invece, pur seguendo strade diverse e complementari, sin<br />
dalle prime prove poeti<strong>che</strong> hanno scelto una parola <strong>che</strong> non scartasse il reale, non ne<br />
eludesse la presenza, ma <strong>che</strong> reagisse a contatto con esso:<br />
un ermetismo subito penetrato dalla vena diaristica e da una tensione<br />
conoscitiva <strong>che</strong> riesce […] a perimetrare la tendenza alla rarefazione, alla<br />
suggestione, tramite una spazialità controllata, una fisica, materica<br />
consistenza. Mondo interiore e mondo esterno rivelavano, in questa<br />
“contaminazione della narratività e della purezza” – la lettura è di<br />
Debenedetti – […] confini impercettibili e arbitrari. 17<br />
La <strong>lingua</strong> reagisce contro la retorica del regime fascista, prima, e poi contro le forme<br />
conformisti<strong>che</strong> e coercitive (della <strong>lingua</strong>, perché attraverso di essa si controlla il<br />
pensiero) venute dopo, nell’epoca della massificazione della cultura e della cosiddetta<br />
post-modernità. Nel senso d’emergenza gli scrittori scoprono una rinnovata possibilità<br />
comunicativa, in un’epoca in cui l’italiano è divenuto <strong>lingua</strong> nazionale e si è appiattito<br />
verso forme confermative di un potere istituito <strong>che</strong> nessuna neo-avanguardia ha saputo<br />
davvero scardinare:<br />
16 Giorgio Caproni, Poesia come disobbedienza, «Perseo», 20 ottobre 1948, ora in La scatola nera, prefazione di<br />
Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1996, p. 25.<br />
17 Niva Lorenzini, Il presente della poesia 1960-1990, Bologna, il Mulino, 1991, p. 71. E si legga an<strong>che</strong> Niva<br />
Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, il Mulino, 1999, p. 115: «Si misura qui il rapporto di<br />
dissolvenza soggetto-oggetto. […] Questa scrittura non evade verso la soggettività cifrata, le soluzioni misti<strong>che</strong>: la<br />
tensione è semmai verso un descrittivismo <strong>che</strong> riconquisti alla parola la fisicità».<br />
15
Poesia significa in primo luogo libertà. Libertà e disobbedienza di fronte<br />
ad ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona: di fronte ad<br />
ogni forma di irregimentazione o, peggio, di massificazione. La società in cui<br />
viviamo minaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del<br />
singolo: minaccia la distruzione totale del privato (della persona), per ridurre<br />
gli individui a una somma di «consumatori», ai quali – nell’imperante<br />
mercificazione an<strong>che</strong> di quelle <strong>che</strong> una volta venivano chiamate le<br />
aspirazioni spirituali – si vorrebbe imporre bisogni artificialmente creati per<br />
alimentare una macchina economica <strong>che</strong> trae a sé tutto il profitto, a pieno<br />
scapito d’ogni scelta interiore. Il poeta è il più deciso oppositore, per sua<br />
propria natura, di tale sistema. È il più strenuo difensore della singolarità,<br />
rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine. E per questo il sistema lo avversa,<br />
sia ignorandolo o fingendo d’ignorarlo, sia cercando di minimizzarne la<br />
figura con l’arma della sufficienza e dell’ironia. 18<br />
Il <strong>lingua</strong>ggio poetico deve, quindi, rispondere a un’esigenza etica ancor prima <strong>che</strong><br />
estetica. Il fine di tale <strong>lingua</strong>ggio è la rappresentazione di un mondo interiore ed<br />
esteriore, una fisicità della parola da opporre alla barbarie dei tempi. La concretezza<br />
leggera e luminosa di Penna, fatta di fanciulli, mare, scogli, stazioni e orinatoi (veri e<br />
propri emblemi di un’anima), quella di Caproni, sensuale e allo stesso tempo cruda e<br />
aspra, una fisica dei sensi 19 con cui si vorrebbe modellare l’ontologia e la psicologia del<br />
mondo, 20 la frontiera rappresentata dalla Luino della giovinezza di Sereni, così come la<br />
spazialità notturna, sospesa tra finito e infinito del primo Fortini, già proteso verso il<br />
futuro, fanno emergere una dimensione metaforica, il correlativo oggettivo di una<br />
situazione interiore, <strong>che</strong> presto lascia l’aura autobiografica, per diventare condizione<br />
collettiva e condivisa: 21<br />
Mi risveglio dal sonno, è una notte d’inverno,<br />
lontani sono i sogni, il libro è caduto,<br />
non vengono rumori sul vento della città.<br />
Guarda, mi dico, non è vero <strong>che</strong> siamo d’inverno,<br />
<strong>che</strong> sono morti gli amici e orrida cosa è vivere:<br />
vedrai domani alla prima luce ci desteremo<br />
18<br />
Giorgio Caproni, Sulla poesia, in La scatola nera, cit., p. 38. Caproni parla di «rovine invisibili», così come<br />
Pasolini di «macerie di valori»: «[…] non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra<br />
“macerie di valori”: “valori” umanistici e, quel <strong>che</strong> più importa, popolari» (Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane,<br />
Torino, Einaudi, 1976, p. 83).<br />
19<br />
Cfr. Andrea Cortellessa, La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma, Fazi,<br />
2006.<br />
20<br />
Cfr. Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 31: la poesia<br />
tende a «circoscrivere (an<strong>che</strong> a rischio dell’impoverimento e dell’autolimitazione della propria vena espressiva e<br />
ideale) un racconto poetico fatto di figure, di esperienze sensibili e psicologi<strong>che</strong>, entro un’economia formale e una<br />
precisione di <strong>lingua</strong>ggio».<br />
21<br />
E per avere un’idea del clima di quegli anni, si legga Franco Fortini, Dieci inverni, Bari, De Donato, 1973, p.<br />
30: «Erano inverni profondi, faticosi. Le rovine <strong>che</strong> avevamo intorno come allegoria di un riscatto possibile sparivano<br />
per dar luogo ad una città opulenta e meschina. […] Eppure bisognava impararne l’avvenire. Volevamo sperare di<br />
decifrarvi i destini personali e generali. Perché il mondo, come dice Schlegel, è e rimane la nostra unica spiegazione».<br />
16
a lavarci nei fontanili.<br />
(Franco Fortini, Le stagioni, in Poesia e errore)<br />
In questi pochi versi di Fortini sembra concentrarsi una semantica comune ai quattro<br />
autori presi in esame, ma portata qui ad un più alto grado di significazione. Possiamo<br />
allora isolarne alcuni elementi: il sonno e il sogno, l’immagine emblematica di un<br />
risveglio <strong>che</strong>, se da una parte fa pensare a Penna, dall’altra non si concede alla<br />
luminosità e alle rivelazioni tipi<strong>che</strong> del poeta perugino; ma an<strong>che</strong> la dimensione onirica<br />
come dimensione separata, momento di crisi dello sguardo <strong>che</strong> si rivolge al reale e nello<br />
stesso tempo scopre inedite intersezioni tra l’io e il mondo, tra le parole e le cose; poi ci<br />
sono elementi naturali dalla fisicità evidente, come i rumori, il vento, le stagioni, i<br />
fontanili, la «prima luce», le rovine e l’inverno, dal sapore così fortemente caproniano; e<br />
ancora, i morti e gli amici, <strong>che</strong> sembrano richiamare temi e valori <strong>che</strong> percorrono tutta<br />
l’opera di Sereni; sono figure decentrate, sospese, <strong>che</strong> partecipano di una condizione<br />
altra, di assenza o di inafferrabilità, come an<strong>che</strong> le «asparizioni» caproniane, o gli stessi<br />
fanciulli di Penna. A queste immagini fa da pendant una dimensione temporale tesa tra<br />
il presente e il futuro: i nervi scoperti della riflessione poetica <strong>che</strong> si snoda nel corso di<br />
tutto il secolo.<br />
1.2. Fenomenologia del negativo e storicità<br />
La presenza del negativo <strong>che</strong> attraversa il Novecento si innesta su una dimensione<br />
concreta e storica, in cui il confronto ineludibile è col passato e con la memoria. Nel<br />
momento in cui la propria esperienza individuale si scontra con quella collettiva, con<br />
quelli <strong>che</strong> Fortini chiama i «destini generali», il dolore del singolo diventa segno e<br />
figura di una sofferenza esistenziale <strong>che</strong> non riguarda più solo il passato, ma <strong>che</strong> si<br />
proietta an<strong>che</strong> nel futuro. 22<br />
Il fulcro attorno a cui ruota il discorso poetico è il presente, quindi il rapporto del<br />
soggetto con la realtà nella quale si trova a vivere e la problematizzazione del rapporto<br />
col futuro, cioè della poesia come progetto <strong>che</strong> si proietti oltre il tempo chiuso e vuoto<br />
22 Cfr. Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 38.<br />
17
dell’hic et nunc. La percezione fisica e sensuale della realtà, del mondo e della natura<br />
sembra realizzarsi sempre in ritardo rispetto all’evento, come in uno sfasamento<br />
temporale in cui l’esperienza si proietta subito nel ricordo di se stessa, in una sorta di<br />
«continua nostalgia del presente nel presente». 23 Sulle raccolte giovanili di questi autori<br />
aleggia l’ombra della morte, della fuggevolezza e precarietà dell’esistere. Così alla<br />
«Giovinezza vaga e sconvolta» (Mas<strong>che</strong>re del ’36, in Frontiera) di Sereni si potrebbero<br />
accostare alcuni versi di Caproni, <strong>che</strong> sono rivolti alla donna amata e perduta, ma an<strong>che</strong><br />
alla stessa giovinezza nel momento in cui ci si confronta con la morte:<br />
mentre senza un saluto,<br />
senza un cenno d’addio<br />
mi muore il giorno, e anch’io<br />
dentro il cuore m’abbuio,<br />
te ne sei andata<br />
(Giorgio Caproni, Mentre senza un saluto, in Finzioni)<br />
Della poesia di Penna si potranno ricordare alcuni esempi di una caducità <strong>che</strong> sta dietro<br />
l’apparente facilità e luminosità, e in cui si esprime un senso fisico di perdita e<br />
abbandono:<br />
Oh stelle in corsa<br />
l’amore della vita!<br />
Ma un’ansia i ridenti occhi<br />
già turba<br />
al fanciullo<br />
Ma effimero è alle cave<br />
Ansie il sole <strong>che</strong> ami.<br />
(Sandro Penna, Notte, sogno di sparse, in Poesie)<br />
(Sandro Penna, Cimitero in campagna, in Poesie)<br />
(Sandro Penna, Falsa primavera, in Poesie)<br />
An<strong>che</strong> nel primo Fortini riscontriamo movimenti analoghi, momenti avvertiti nella loro<br />
precaria sostanza temporale:<br />
Il vento <strong>che</strong> dall’alto<br />
23 Giorgio Caproni, «Poesie» di Sandro Penna, «La Fiera Letteraria», 8 settembre 1957, poi in La scatola nera,<br />
cit., p. 109.<br />
18
Affanna e serra in fitta ridda i gesti<br />
Umani e sperderà<br />
Come faville attimi gli anni, guerra<br />
Alla esile gioia nostra, a quella<br />
Ombra <strong>che</strong> a noi amore educa breve.<br />
(Franco Fortini, Di Maiano, in Foglio di via)<br />
La poetica pre-esistenziale 24 di Penna, si riverbera nel primo periodo di Sereni e<br />
Caproni, in quel «gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della<br />
labilità delle cose, della loro fuggevolezza» e nel «continuo avvertimento della<br />
presenza, in tutto, della morte», 25 <strong>che</strong> si può riscontrare an<strong>che</strong> nei versi di Fortini citati<br />
poco sopra. Non c’è un rapporto pacificato col reale, piuttosto una continua<br />
problematizzazione del ruolo <strong>che</strong> la parola poetica può avere nell’affrontare il mondo,<br />
nel momento in cui viene a urtare con la dimensione psichica. Se da una parte «la poesia<br />
è […] un mezzo atto a risvegliare l’emozione degli oggetti, dei sentimenti, delle<br />
passioni di cui an<strong>che</strong> il lettore ha memoria», 26 tuttavia il contenuto emozionale <strong>che</strong><br />
anima i versi deve fare i conti con quel sentimento di indicibilità <strong>che</strong> alberga proprio<br />
nella profondità psichica e <strong>che</strong> non porta ad un rapporto lineare col reale, ma a dei<br />
tentativi di avvicinamento, di rivisitazione di eventi ed emozioni già passate o sul punto<br />
di svanire. La parola dovrebbe dare vita alla pagina, ma si confronta inevitabilmente con<br />
una imperfezione del dire, una mancanza, una rottura nella continuità tra il prima e il<br />
dopo, <strong>che</strong> mette in crisi sul nascere la poetica dell’attimo sospeso e rubato al divenire<br />
inarrestabile degli eventi.<br />
Consideriamo quindi alcune raccolte di questi autori a cavallo tra gli anni Trenta e<br />
Quaranta: Come un’allegoria di Giorgio Caproni, del 1936; le Poesie di Sandro Penna,<br />
pubblicate da Parenti nel 1939 e <strong>che</strong> inizialmente dovevano intitolarsi Appunti; 27<br />
Frontiera di Sereni, del 1941, così come Finzioni di Giorgio Caproni e ricordiamo<br />
an<strong>che</strong> Foglio di via di Fortini, del 1946, <strong>che</strong> già dal titolo dichiara una condizione<br />
d’esilio e di separazione. Allegoria, frontiera, finzioni, appunti, sono parole <strong>che</strong> dicono<br />
24<br />
Fabio Moliterni (in Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 50), applica<br />
questa definizione alla poesia di Caproni e Sereni, ma mi sembra <strong>che</strong> essa possa essere applicata, ancor prima <strong>che</strong> a<br />
loro, a Penna.<br />
25<br />
Giorgio Caproni in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982 (1ª ed. Milano, Lerici,<br />
1965), p. 102.<br />
26<br />
Giorgio Caproni, Le poesie sono oggetti?, in «Mondo operaio», 26 marzo 1949.<br />
27<br />
Come scrive Roberto Deidier, L’officina di Penna, Milano, Archinto, 1997, p. 12: «Appunti è un titolo di cui<br />
Penna ha una consapevolezza molto precoce, fin dai primi invii delle sue poesie a Saba». Poi Penna utilizzerà<br />
Appunti come titolo per la sua seconda raccolta, pubblicata a Milano dalle edizioni della Meridiana nel 1950.<br />
19
il senso di un distacco, di una lontananza connaturata nel rapporto tra l’io e il mondo,<br />
tra l’individuo e il proprio tempo: ciò di cui questi titoli ci parlano è l’impossibilità di<br />
stabilire un rapporto diretto con la realtà, di fare conoscenza delle cose, poiché la parola<br />
non può definirle ma solo sfiorarle. In tutti questi libri si riscontra la percezione di un<br />
mondo fissato nel momento <strong>che</strong> precede la fine, o rappresentato nel momento<br />
immediatamente successivo a un evento.<br />
Lasciamo parlare per tutti Caproni:<br />
Sopra i monti spaziosi<br />
le po<strong>che</strong> case disperse<br />
invidiano il colore caldo<br />
della tua pelle, all’ora<br />
<strong>che</strong> fa nostra ancora per poco<br />
la terra.<br />
Vorrei per non saperti<br />
tanto precaria,<br />
[…]<br />
almeno un’ora<br />
sola la tua fiorita<br />
carne credere pietra<br />
ferma: statua cui vita<br />
non fa caduca il fuoco<br />
del sangue<br />
– e la demente<br />
fuga del tempo, e il lampo<br />
rapido <strong>che</strong> ci colora<br />
l’ora<br />
(Giorgio Caproni, Altri versi a Rina, in Ballo a Fontanigorda)<br />
(Giorgio Caproni, A una giovane sposa, in Ballo a Fontanigorda)<br />
La dimensione temporale si dà nella lacerazione tra io e storia, o tra io e morte, e tra il<br />
prima e il dopo. Il presente vuole essere trattenuto sul limite del baratro tra essere e non<br />
essere, cercando – come ha scritto Caproni – di «fare poesia ad occhi aperti e guardare<br />
in faccia la realtà fino a metterne in dubbio l’esistenza». 28 Questo rapporto contrastato<br />
sarà presente an<strong>che</strong> nelle raccolte successive, in cui si sviluppa il tema dell’«antistoria»:<br />
Calorosa ragazza<br />
28 Così Giorgio Caproni in un’intervista a «Il Sabato», 1984, ora in Giorgio Caproni, L’opera in versi, edizione<br />
critica a cura di Luca Zuliani, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei,<br />
Milano, Mondadori, «i Meridiani», 1998, p. 1058.<br />
20
<strong>che</strong> avanzi tra la verzura:<br />
i tuoi acri rossori<br />
son tenebra, non paura.<br />
Sono acuta ignoranza<br />
viva e provocatoria:<br />
son la veemente baldanza<br />
del sangue. L’antistoria.<br />
(Odor vestimentorum, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />
La realtà è messa in dubbio proprio dalla memoria, <strong>che</strong>, andando oltre la contingenza e<br />
intrecciando nuovi legami tra parole e cose, determina lo spazio della possibilità e della<br />
ripetizione:<br />
un richiamo istintivo e fisico, venato ora di estraneità e di nostalgia.<br />
L’invito involontario del sangue è sempre uguale, insiste su un nodo<br />
pungente di vitalità; la natura lo reinventa in eterno, lo offre come<br />
“antistoria”. 29<br />
Il presente quindi può avere due valenze: l’una assoluta, astorica, in cui si concentra il<br />
ricordo del passato, <strong>che</strong> conferisce un senso an<strong>che</strong> all’attesa del futuro; l’altra<br />
distruttiva, <strong>che</strong> esprime la distanza rispetto a un tempo irrecuperabile, irripetibile, per<br />
cui il presente diventa il momento del confronto con la fine, con la perdita. È una<br />
temporalità in stretto rapporto con la morte, <strong>che</strong> da emozione sospesa e indefinibile si fa<br />
condizione esistenziale, attraverso quella lacerazione costituita dall’ingresso della storia,<br />
<strong>che</strong> rimette in questione il rapporto tra le parole e i loro referenti. Si cerca allora «un<br />
significato sempre volto ad esprimere un qualcosa d’altro […] al di là del puro<br />
significato letterale o figurativo della parola», 30 per resistere alle tracce già evidenti di<br />
un male individuale e storico allo stesso tempo. Quanto a Fortini all’altezza della sua<br />
prima silloge (<strong>che</strong> raccoglie liri<strong>che</strong> composte tra il 1938 e il 1945) è «poeta della<br />
Resistenza» <strong>che</strong> manifesta «solidarietà col dolore degli uomini e di lotta contro questo<br />
dolore». 31 Possiamo già individuare i movimenti di una poesia a contatto con la storia,<br />
con l’esperienza della guerra e <strong>che</strong> sviluppa dialetticamente il tema bellico e della lotta<br />
come figura di una liberazione e di una rivoluzione maggiori. La nostalgia <strong>che</strong> percorre<br />
questi primi versi non porta Fortini a mitizzare un mondo o un tempo perduti o in<br />
29<br />
Adele Dei, Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992, p. 139.<br />
30<br />
Così Giorgio Caproni in un’intervista all’«Avanti!», 1965, ora in Giorgio Caproni, L’opera in versi, cit., p.<br />
1058.<br />
31<br />
Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., p. 1057.<br />
21
procinto di essere spazzati via dagli eventi tragici di quegli anni, piuttosto carica i versi<br />
di una profondità <strong>che</strong> è già interpretazione morale, sguardo aperto sul mondo, rivolto ad<br />
una «bianca disperazione» 32 <strong>che</strong> lascia intravedere quella «disperazione / calma e senza<br />
sgomento» di cui parlerà Caproni nel Congedo del viaggiatore cerimonioso e <strong>che</strong><br />
diventerà colonna portante del suo sistema ideologico e poetico:<br />
Anni per me di bianca e quasi forsennata disperazione, la quale proprio<br />
nell’importance formale della scrittura […] e quindi nell’anch’essa disperata<br />
tensione metrica […] forse cercava per via di paradosso, ma con lucida<br />
coscienza, e certo del tutto controcorrente […] un qualsiasi tetto all’intima<br />
dissoluzione non tanto della mia privata persona, ma di tutto un mondo<br />
d’istituzioni e di miti sopravvissuti e sbugiardati, e quindi di tutta una<br />
generazione d’uomini <strong>che</strong>, nata nella guerra e quasi interamente coperta – per<br />
la guerra – dai muraglioni ciechi della dittatura, nello sfacelo dell’ultimo<br />
conflitto mondiale, già in anticipo presentito e patito senza la possibilità o la<br />
capacità, se non in extremis, d’una ribellione attiva, doveva veder conclusa la<br />
propria (ironia d’un inno <strong>che</strong> voleva essere di vita) «giovinezza». 33<br />
Più <strong>che</strong> di disperazione si tratta forse di stoicismo, di saper accettare la<br />
vita e di saperla vivere degnamente al di fuori o al di sopra d’ogni illusione. 34<br />
Ma è an<strong>che</strong> quella «lenta morte senza disperazione» di una lirica di Penna, 35 ed è più in<br />
generale<br />
la prostrazione dell’uomo del Novecento, <strong>che</strong> uscendo da bugie e illusioni,<br />
pure patisce di quelle mancanze e, nel vuoto, s’aggira tristemente, perfino<br />
incapace di disperare. Perché disperazione è dolore pieno, incontrollato.<br />
Dunque negato a chi si aggira nel dubbio. 36<br />
Fortini, dal canto suo, non descrive il nulla ma vi si oppone; e questo già in Foglio di<br />
via, con immagini dall’immediata fisicità <strong>che</strong> alludono an<strong>che</strong> ad una dimensione altra,<br />
più profonda. Si confrontino i suoi versi con quelli degli altri autori:<br />
La fila lunga dei soldati<br />
è passata; sul prato è rimasto<br />
aspro l’odore dell’erba<br />
pestata – e l’eco<br />
32 Ivi, p. 1060.<br />
33 Così Caproni, nel preambolo a Il terzo libro e altre cose, Torino, Einaudi, 1968.<br />
34 Da un dattiloscritto di Giorgio Caproni ad Antonio Barbuto, in Antonio Barbuto, Giorgio Caproni. Il destino<br />
d’Enea, Roma, Ateneo & Bizzarri, 1980, p. 6.<br />
35 Com’è forte il rumore dell’alba!, in Sandro Penna, <strong>Una</strong> strana gioia di vivere, Milano, All’insegna del pesce<br />
d’oro, 1956.<br />
36 Così Elio Pecora, Premessa alla nuova edizione, in Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, Milano, Frassinelli, 2006,<br />
p. VI.<br />
22
d’un canto nell’aria serale.<br />
Ad occidente, nel fuoco<br />
bianco d’un astro, scompare<br />
l’ultima rondine. A poco<br />
a poco, sbiadisce il giorno<br />
(ricordo d’uomini e di giardini)<br />
nella memoria stanca della sera.<br />
La sera invade il calice leggero<br />
<strong>che</strong> tu accosti alle labbra.<br />
Diranno un giorno: – <strong>che</strong> amore<br />
fu quello… –, ma intanto<br />
come il cucù desolato dell’ora<br />
percossa da stanza a stanza<br />
dei giovani cade la danza,<br />
s’allunga l’ombra sul prato.<br />
E sempre io resto<br />
di qua dalla nube smemorata<br />
<strong>che</strong> chiude la tua dolce austerità.<br />
(Giorgio Caproni, Vespro, in Come un’allegoria)<br />
(Vittorio Sereni, La sera invade il calice leggero, in Frontiera)<br />
Ora <strong>che</strong> dai gelati alvei dei fiumi<br />
Ai pascoli deserti salirà<br />
Novembre e ai fumi ultimi delle bàite;<br />
Ora <strong>che</strong> il vespro eguali invetria i fuochi<br />
Degli astri e i lumi della nemica città<br />
[…]<br />
Viene inverno: una pena antica geme<br />
Dentro i macigni dei duomi potenti.<br />
Lattiginosa d’alba<br />
nasce sulle colline,<br />
balbettanti parole ancora<br />
infantili, la prima luce.<br />
La terra, con la sua faccia<br />
madida di sudore,<br />
apre assonnati occhi d’acqua<br />
alla notte <strong>che</strong> sbianca.<br />
(Gli uccelli sono sempre i primi<br />
pensieri del mondo)<br />
Mi avevano lasciato solo<br />
nella campagna, sotto<br />
(Franco Fortini, Di Maiano, in Foglio di via)<br />
(Giorgio Caproni, Prima luce, in Come un’allegoria)<br />
23
la pioggia fina, solo.<br />
Mi guardavano muti<br />
meravigliati<br />
i nudi pioppi: soffrivano<br />
della mia pena: pena<br />
di non saper chiaramente…<br />
E la terra bagnata<br />
e i neri altissimi monti<br />
tacevano vinti. Sembrava<br />
<strong>che</strong> un dio cattivo<br />
avesse con un sol gesto<br />
tutto pietrificato.<br />
E la pioggia lavava quelle pietre.<br />
Quanta limpida luce orna il colore<br />
Delle ombre del mondo. Ora conosco<br />
Perché mai dagli inverni ove a fatica<br />
Si levò questo esistere mio vivo<br />
M’è rimasto quel nome, <strong>che</strong> mi scrivo<br />
Su quest’aria d’aprile, o sola antica<br />
E perduta e oltre il pianto sempre cara<br />
Immagine d’amore mia compagna.<br />
(Sandro Penna, Mi avevano lasciato solo, in Poesie)<br />
(Franco Fortini, vice veris, in Foglio di via)<br />
In questi testi è forte il senso concreto di inquietudine, espresso attraverso immagini<br />
dalla fisicità vibrante, luci e ombre di un mondo sorpreso in un momento di passaggio<br />
<strong>che</strong> è an<strong>che</strong> perdita (l’alba e il tramonto ne sono chiari esempi). I testi sono intessuti di<br />
sensazioni dell’io lirico, <strong>che</strong> trasmettono un turbamento, un senso di vaghezza e<br />
sospensione, <strong>che</strong> vibrano nei tratti angosciati dei paesaggi, per cui il tono elegiaco è in<br />
stretto rapporto con la realtà, con luoghi concreti, pronti a entrare in urto con la storia:<br />
Forse da oggi soltanto<br />
avvertiremo l’impeto dell’ore<br />
a mezzo il nostro secolo volgenti,<br />
mentre al vento oscillano le lampade<br />
bisbiglia un portico in ombra<br />
e tu trasali al rombo<br />
degli autocarri <strong>che</strong> mordono la montagna.<br />
Ma salvo nelle voci degli addii<br />
sommesso presentiva il mare<br />
al passo dei notturni battaglioni.<br />
(Vittorio Sereni, Soldati a Urbino, in Frontiera)<br />
(Vittorio Sereni, Poesia militare, in Frontiera)<br />
24
Di notte il paese è frugato dai fari,<br />
lo borda un’insonnia di fuochi<br />
vaganti nella campagna,<br />
un fioco tumulto di lontane<br />
locomotive verso la frontiera.<br />
[…] E poi i sudori<br />
polverosi, le mani senza affetto<br />
e chiuse già nelle voci <strong>che</strong> fuori<br />
d’ogni numero intaccano il perfetto<br />
spazio di giugno, cadranno nel duro<br />
vuoto <strong>che</strong> lasci: un bianchissimo tuono<br />
di macerie, <strong>che</strong> crollano al futuro<br />
vento dei giorni – e al mio orecchio un frastuono<br />
dove si perde il tuo squillo più puro.<br />
(Vittorio Sereni, Inverno a Luino, in Frontiera)<br />
(Giorgio Caproni, Sonetti dell’anniversario, XIV, in Cronistoria)<br />
L’elegia costeggia la cronaca, il dato biografico diviene allegoria di una condizione<br />
universale, e il dolore individuale diviene esistenziale. L’io è già un «trapassante»,<br />
come dirà Sereni in Stella variabile, in un’esistenza <strong>che</strong> «non esiste», o <strong>che</strong> «inesistendo<br />
esiste» (In salita), e allora il momento poetico «trascende il dato di contingenza e<br />
prende il sapore di un evento ultratemporale, non extratemporale, ovvero di qualcosa<br />
<strong>che</strong> entra nell’eterno passando da una concreta dimensione storica»: 37<br />
Dunque nulla di nuovo da questa altezza<br />
Dove ancora un poco senza guardare si parla<br />
E nei capelli il vento cala la sera.<br />
Dunque nessun cammino per discendere<br />
Se non questo del nord dove il sole non tocca<br />
E sono d'acqua i rami degli alberi.<br />
Dunque fra poco senza parole la bocca.<br />
E questa sera saremo in fondo alla valle<br />
Dove le feste han spento tutte le lampade.<br />
Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.<br />
37 Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 50.<br />
25<br />
(Franco Fortini, Foglio di via)
1.3. Essere contro: reazioni con lo spazio e col tempo<br />
Il periodo più fecondo e ricco di suggestioni temati<strong>che</strong> e formali è quello intorno agli<br />
anni Sessanta e Settanta. Le raccolte pubblicate in questi decenni contengono poesie<br />
scritte durante la guerra fredda e <strong>che</strong> risentono della svolta del 1956: nel 1959 esce<br />
Poesia e errore di Franco Fortini, in quello stesso anno vede la luce an<strong>che</strong> Il seme del<br />
piangere di Caproni <strong>che</strong>, anziché riflettere sui destini generali, si chiude in una<br />
dimensione privata e intima; nel 1963 esce <strong>Una</strong> volta per sempre, titolo ricapitolativo di<br />
un’epoca o di una stagione umana, <strong>che</strong> si accosta ad una pronuncia ultimativa della<br />
parola poetica, già sull’orlo della postumità: 38 con questa raccolta Fortini ha in un<br />
qual<strong>che</strong> modo aperto un sentiero ricco di suggestioni e capace di toccare nel vivo i nervi<br />
scoperti della società e della storia; corrispondendo a questi sentimenti nel 1965 vedono<br />
la luce due raccolte capitali: il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre<br />
prosopopee di Caproni; mentre Sereni con Gli strumenti umani ci avrebbe lasciato la<br />
mappa più precisa e intensa delle angosce stori<strong>che</strong> maturate negli anni precedenti e<br />
acuite dall’estraneità ad un presente di sopraffazione. Ancora, nel 1973 viene pubblicato<br />
Questo muro di Fortini e poi nel 1975 Il muro della terra di Caproni; nel 1976<br />
Stranezze di Penna e nel 1979 la primissima edizione di Stella variabile di Sereni, poi<br />
ripubblicata da Garzanti nel 1981. Sono titoli in cui si manifesta quella crisi del<br />
<strong>lingua</strong>ggio <strong>che</strong> la neoavanguardia considera in quegli anni come la chiave di<br />
interpretazione della scrittura e della società. 39 Il rapporto problematico tra <strong>lingua</strong>ggio e<br />
realtà, tra conoscenza ed esperienza, anima le opere di questi poeti <strong>che</strong> restano tuttavia<br />
estranei alle ricer<strong>che</strong> avanguardisti<strong>che</strong>. Essi manifestano, secondo linee e scelte poeti<strong>che</strong><br />
diverse, un senso vivo e provocatorio di non appartenenza, uno spirito d’esilio <strong>che</strong> si<br />
rivela a più livelli: erranza e viandanza, <strong>che</strong> già dalle prime prove avevano assunto un<br />
38 Così Franco Fortini, Versi scelti 1939-1989, Torino, Einaudi, 1990, p. 445: «Il titolo di questa raccolta vorrebbe<br />
essere inteso tanto nel significato di “una volta per tutte”, cioè di dichiarazione e suggello, quanto in quello di<br />
irripetibilità, assolutezza e responsabilità del vissuto e compiuto».<br />
39 Cfr. Bernard Simeone, Préface, in Valerio Magrelli, Natures et signatures, Cognac, Le Temps qu’il fait, 1998,<br />
pp. 7-8: «En reproduisant, de façon mimétique et distanciée, les automatismes que la société de consommation avait<br />
induits au cœur du langage, en tentant de briser non seulement l’écriture poétique mais toute prétention à une<br />
cohérence factice entre image, rythme et son, la néo-avant-garde avait provoqué un séisme presque aussi violent dans<br />
le champ de la poésie que dans celui de la fiction […]. La crise majeure avait concerné l’acte même de nommer. […]<br />
La langue, privée de référents majeurs, devenait dispersion et vertige, de plus en plus grinçante, de plus en plus<br />
ludique, et, tout en disant la combattre, participait de la brutale perte de sens causée par la transformation du réel en<br />
un stock infini de marchandises. Tandis que la question de l’être était déjà masquée, […] la langue elle-même, se<br />
dégradant en chose, perdait le pouvoir de dire les autres objets, puisqu’elle ne disposait plus, par rapport à eux, d’un<br />
recul suffisant».<br />
26
carattere psicologico e agivano a livello della percezione della realtà; ma an<strong>che</strong> resa<br />
psicologica e storica di un altrove <strong>che</strong> è sospeso tra riconoscimento del nulla e apertura<br />
all’utopia, come pure alla riflessione sul concetto di impegno, ovvero sul ruolo<br />
dell’intellettuale nella società. In un’intervista <strong>che</strong> chiude l’antologia francese delle sue<br />
poesie Fortini riassume il rifiuto delle due principali posizioni di un’epoca:<br />
la première est l’illusion post-surréaliste (et de la néo-avant-garde<br />
italienne des années 60) selon laquelle dynamiter la syntaxe et altérer les<br />
structures du logos devrait être considéré comme un comportement<br />
révolutionnaire, la seconde se lit <strong>che</strong>z Adorno: la stendhalienne «promesse du<br />
bonheur» contenue dans l’œuvre artistique et poétique aurait en elle-même<br />
une valeur subversive par rapport aux ordres et aux valeurs constituées. […]<br />
Quand j’avais entre vingt et trente ans, la charge de haine, de passion et de<br />
désespoir induite par l’insertion violente de la chronique dans la biographie<br />
me cachait ce que je crois savoir aujourd’hui: la nature cérémonielle de tout<br />
acte langagier quand il est accueilli par l’institution poétique et littéraire, et la<br />
présence d’une composante conciliatrice inséparable de toute œuvre<br />
poétique, car elle mime dans son microcosme les articulations et les tensions<br />
du «réel». Une telle armature rhétorique n’est pas sans rappeler ce qu’a<br />
signifié <strong>che</strong>z Ungaretti la condition de «créature» face à la guerre et, <strong>che</strong>z<br />
Montale, celle de cette même «créature» face au «vide qui nous envahit».<br />
Mais, en bien comme en mal, la guerre de 39/45 n’était pas celle de 14/18 et<br />
le «vide» n’était pas celui d’une défaite existentielle dans le cadre du<br />
fascisme triomphant des années 20 et 30, mais plutôt celui d’un futur<br />
inauguré par les camps et la bombe. Le référent changeait avant le signifiant.<br />
Ce fut souvent le cas. Et pour finir, cette mutation altérait aussi le signifiant. 40<br />
Quindi rifiuto di uno sperimentalismo linguistico <strong>che</strong> rischiava di diventare superficiale<br />
formalismo, ma an<strong>che</strong> rifiuto dell’idea dell’arte come valore sovversivo in sé. Quando<br />
la poesia si ferma a pensare se stessa significa <strong>che</strong> fatica ad aprirsi una strada per<br />
incidere attivamente nella società, per questo la riflessione sul carattere manieristico<br />
della <strong>lingua</strong> e della forma poetica attraversa tutti e quattro gli autori presi in esame. Tale<br />
impasse viene da loro superata facendo reagire la cronaca, ossia la storia, all’interno<br />
della materia autobiografica, affinché l’essere e il vuoto <strong>che</strong> la circondano, possano<br />
instaurare nuovi rapporti tra significante e significato. Essi cercano di indagare quello<br />
spazio ormai ambiguo <strong>che</strong> sta tra soggetto e oggetto attraverso il medium della parola:<br />
una poesia <strong>che</strong> tanto più abita la dimensione esistenziale, quanto più si immerge<br />
nell’ontologia del negativo, dello spazio e del tempo inerti, ma <strong>che</strong>, allo stesso tempo,<br />
non indietreggia di fronte al difficile rapporto col mondo esterno, an<strong>che</strong> con quello<br />
40 Franco Fortini in «Donc sous peu sans mots la bou<strong>che</strong>» échanges Rémi Ro<strong>che</strong>/Franco Fortini, in Franco<br />
Fortini, Une fois pour toutes. Poésie 1938-1986, traduit par Jean-Charles Vegliante et Bernard Simeone, Lyon,<br />
Fédérop, 1986, p. 154.<br />
27
originario rappresentato dalla natura. Sarà un confuso sogno, saranno finzioni, sempre al<br />
limite, alla frontiera tra al di qua e al di là di questo muro, tuttavia la parola non<br />
rinuncia al rapporto con le cose, e continua a percorrere la strada della dicibilità del<br />
mondo, pur percependo l’illusione <strong>che</strong> si cela dietro di essa e dietro l’istanza stessa del<br />
soggetto:<br />
Credo <strong>che</strong> sia la disperazione ad essere “fredda”: ma non una<br />
disperazione patetica, bensì l’azzeramento consapevole delle speranze, <strong>che</strong> è<br />
proprio dello stoico. Lo sfacelo della storia <strong>che</strong> abbiamo vissuto non ammette<br />
riscatti di illusione, né la poesia è un rifugio o un’isola felice: anzi, è lo<br />
strumento forse più acuminato per esprimere un vuoto <strong>che</strong> non può certo<br />
essere colmato da istituzioni fatiscenti e artificiose. 41<br />
Se tra gli anni Trenta e Cinquanta il sentimento del tempo prevalente è quello della<br />
precarietà e dell’inafferrabilità, nelle raccolte successive si apre lo spazio per una<br />
riflessione più articolata sul concetto stesso di tempo, <strong>che</strong> viene percepito come vuoto,<br />
nulla, separazione, congedo, ma an<strong>che</strong> come un ente dinamico carico di potenzialità. Sin<br />
dalle sue prime prove Fortini pone i confini di quella <strong>che</strong> Marco Forti chiama<br />
«surrealtà», una tensione della parola poetica a forzare la realtà per non esserne<br />
subordinata, perché an<strong>che</strong> sul più «distrutto destino» si proietti la speranza nel futuro, e<br />
quanto più la parola poetica è espulsa, esclusa dal presente, tanto più la ricerca di valori<br />
condivisi si situi nel “non ancora”, nel “dopo” di una distanza non misurabile ma<br />
percepita come possibile destino collettivo. Nonostante ciò (ma an<strong>che</strong> in ragione di ciò)<br />
il presente non viene sacrificato al futuro, ad una progettualità sterile <strong>che</strong> impedisca di<br />
vivere pienamente la propria epoca, piuttosto è nel presente <strong>che</strong> vanno individuate le<br />
responsabilità, le colpe e, di conseguenza, la necessità di un impegno etico costante, non<br />
rinviabile. La speranza di un rivolgimento finale, forse solo postumo, di un agire<br />
culturale <strong>che</strong> si pone sempre “al di là”, deve confrontarsi in qualunque epoca con la<br />
realtà:<br />
la finzione è l’ultima speranza.<br />
[…]<br />
La storia – torni a spiegargli – è tutta la realtà.<br />
E invece non è vero.<br />
(Franco Fortini, La realtà, in L’ospite ingrato secondo)<br />
41 Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», intervista rilasciata a Stefano Giovanardi, «la Repubblica», 5<br />
gennaio 1984 (poi in «Galleria», XL, 2, maggio-agosto 1990, pp. 425-428).<br />
28
Fortini dichiara i limiti di un mondo in cui «si vedono le cose» (Molto chiare…, in<br />
Paesaggio con serpente), in cui l’ansia e il senso profondo di una impossibilità di<br />
partecipazione, di una mancanza deviano il discorso verso un’altra e più alta<br />
prospettiva, nella consapevolezza <strong>che</strong> le cose non sono tutto, così come «l’estate non è<br />
tutto» (Molto chiare…), perché, come ha scritto Luperini, «l’atto del vedere viene<br />
sdoppiato, scisso fra una realtà evidente (quella unidimensionale della vista sensibile) e<br />
una pluridimensionale oscuramente possibile». 42 Fortini non si lascia contaminare da<br />
impulsi millenaristici o dal fascino negativo del nichilismo, il suo sguardo può dare un<br />
senso alle cose, an<strong>che</strong> se questo senso cade in un altro tempo, in un’altra dimensione:<br />
«Il senso esiste / e lo conosceranno» (Primavera occidentale, in Paesaggio con<br />
serpente).<br />
In Sereni e in Caproni, c’è, al contrario, una «impossibilità di rinnovarsi», 43 derivante<br />
da un’esperienza <strong>che</strong> si compone di stratificazioni del passato <strong>che</strong> emergono nel<br />
presente in modo sofferto. Come ha scritto Niva Lorenzini: «poeta è appunto per Sereni<br />
chi, rivisitando, vorrebbe “vivere daccapo” l’emozione mentre deve limitarsi ogni volta<br />
a “riviverla”, interponendo una distanza tra sé e il paesaggio, i luoghi, gli oggetti, le<br />
memorie», 44 per cui il senso sta sempre in un al di là irraggiungibile, oltre quel<br />
caproniano muro della terra, <strong>che</strong> è metafora «dell’ottusa chiusura delle possibilità<br />
conoscitive umane di fronte alla fenomenologia del reale». 45 La memoria genera un<br />
movimento negativo di perdita e di esclusione dalla vita, di percezione del nulla e del<br />
male, <strong>che</strong> si insinuano nell’esperienza del presente: se lo spazio è strettamente legato al<br />
tempo, e il divenire è fatto di rotture e lacerazioni, di muri e frontiere invalicabili, il<br />
tempo stesso sancisce la lontananza e la separazione dell’io dal mondo. Caproni e<br />
Sereni dicono l’inesistente, attraverso una memoria <strong>che</strong> distorce e devia, «<strong>che</strong> estrania le<br />
coordinate dell’esperienza soggettiva» 46 nell’ambito di una visionarietà ambigua e<br />
42<br />
Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 55.<br />
43<br />
Pier Vincenzo Mengaldo, Iterazione e specularità in Sereni, in«Strumenti critici», VI, 17, febbraio 1972, poi in<br />
La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, poi, sempre con lo stesso<br />
titolo in Vittorio Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1995, p.<br />
LXV.<br />
44<br />
Così Niva Lorenzini, In margine a un “Diario intermittente”, in «Poeti<strong>che</strong>», numero monografico dedicato a<br />
Vittorio Sereni, 3/1999, p. 467.<br />
45<br />
Luigi Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, Genova, Costa & Nolan, 1990, p. 88.<br />
46<br />
Così Luca Lenzini nel Commento a Vittorio Sereni, Il grande amico. Poesie (1935-1981), introduzione di<br />
Gilberto Lonardi, Milano, Rizzoli, 2004, p. 225. Si legga an<strong>che</strong> Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di<br />
29
paradossale, <strong>che</strong> non si apre al futuro ma a una reversibilità prospettica <strong>che</strong> può<br />
trasmettere solo una conoscenza imperfetta:<br />
Ma la distorsione del tempo<br />
il corso della vita deviato su false piste<br />
l’emorragia dei giorni<br />
del varco del corrotto intendimento<br />
(Vittorio Sereni, Quei bambini <strong>che</strong> giocano, in Gli strumenti umani)<br />
Sono già morto e qui torno?<br />
O sono il solo vivo nella vivida e ferma<br />
nullità di un ricordo?<br />
(Vittorio Sereni, Di passaggio, in Gli strumenti umani)<br />
La poesia di Caproni e Sereni si trova sempre più spesso a rappresentare lo scacco<br />
dell’io rispetto al tempo, senza risolvere (o risolvendo dolorosamente e negativamente)<br />
il rapporto tra passato, presente e futuro. La precarietà del tempo diviene precarietà<br />
della percezione e sua rappresentazione nella poesia:<br />
Non vorrai dirmi <strong>che</strong> tu<br />
sei tu o <strong>che</strong> io sono io.<br />
Siamo passati come passano gli anni.<br />
Altro di noi non c’è qui <strong>che</strong> lo specimen<br />
anzi l’imago perpetuantesi<br />
a vuoto –<br />
e acque ci contemplano e vetrate,<br />
ci pensano al futuro: capofitti nel poi,<br />
postille sempre più fio<strong>che</strong><br />
multipli vaghi di noi quali saremo stati.<br />
(Vittorio Sereni, Altro posto di lavoro, in Stella variabile)<br />
A questa crisi aveva cercato di rispondere Caproni con Il seme del piangere, in cui al<br />
ricordo e alla memoria si sostituisce la finzione creatrice di un passato <strong>che</strong> preesiste<br />
all’io poetico e <strong>che</strong> non si sovrappone al presente, ma vi si sostituisce temporaneamente<br />
attraverso il dono miracoloso della riscrittura. La parola si fa emozione alternativa alla<br />
realtà propriamente detta, e reinventa se stessa insieme alla madre e alla città («Livorno,<br />
tutta invenzione», Né ombra né sospetto): l’utopia trova spazio nella libertà di una vita<br />
immaginaria <strong>che</strong> precede le rovine. Per salvare dalla catastrofe ciò <strong>che</strong> ha di più caro<br />
l’io capovolge la propria natura nella metamorfosi da figlio a fidanzato:<br />
Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 144: «La memoria non ha corrispondenze con il presente della propria<br />
biografia, in quanto non è “divinazione”, non è (più) il pensiero <strong>che</strong> apre la strada a ciò <strong>che</strong> deve venire».<br />
30
An<strong>che</strong> se io, così vecchio,<br />
non potrò darti mano,<br />
tu mórmorale all’orecchio<br />
(più lieve del mio sospiro,<br />
messole un braccio in giro<br />
alla vita) in un soffio<br />
ciò ch’io e il mio rimorso,<br />
pur parlassimo piano,<br />
non le potremmo mai dire<br />
senza vederla arrossire.<br />
Dille chi ti ha mandato:<br />
suo figlio, il suo fidanzato.<br />
D’altro non ti richiedo.<br />
Poi, va’ pure in congedo.<br />
(Giorgio Caproni, Ultima preghiera, in Il seme del piangere)<br />
Il fallimento è inevitabile e in quella dimensione fuori dal flusso temporale l’io non può<br />
trovare nessuna salvezza. Il tempo sospeso oltre i limiti della memoria, nell’incanto di<br />
una parola poetica creatrice, attraverso la fantasia e la finzione («sii magra e sii poesia /<br />
se vuoi essere vita», Battendo a macchina), si deve confrontare con il presente in cui si<br />
profilano le ombre luttuose del futuro. Il tempo perduto, <strong>che</strong> l’imperfetto indicativo<br />
sembrava aver recuperato e salvato dalla distruzione, viene sostituito da un presente <strong>che</strong><br />
rompe l’incanto <strong>che</strong> la fantasia poetica aveva permesso momentaneamente di sfiorare:<br />
Annina è nella tomba,<br />
Annina ormai è un’ombra.<br />
(Giorgio Caproni, Epilogo, in Il seme del piangere)<br />
Il presente è il tempo della morte, prima presentita poi subita come evento intimo (la<br />
scomparsa della madre) e collettivo (l’annunciarsi della guerra); è il tempo del transito<br />
verso un futuro, non solo incerto, ma negativo e senza speranza. Nel Congedo diventa<br />
chiara l’impossibilità di quel recupero e si sgretola l’illusione del ritorno:<br />
Sono stato là<br />
dove non si può tornare.<br />
Tutto è come fu. C’è il mare<br />
ancora, <strong>che</strong> pare penetrare<br />
l’asfalto (par trasparire<br />
- nel nero - dalle rose<br />
delle facciate), e ancora<br />
verde c’è l’Orologio, fermo<br />
- con Giano - sulla stessa ora.<br />
(Giorgio Caproni, Toba, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />
31
Italo Calvino ha parlato, a proposito di Caproni, di una poesia senza idillio: 47 il rapporto<br />
tra il tempo, la natura e l’uomo procede verso una negatività <strong>che</strong> non lascia spazio alla<br />
speranza. 48 Se in Come un’allegoria gli uccelli si confondevano con le stelle, quasi a<br />
dirne la medesima sostanza naturale e divina («il sangue ferveva / di meraviglia, a<br />
vedere / ogni uccello mutarsi in stella nel cielo», Ricordo), nel Seme del piangere<br />
vengono sostituiti dalla «tenebra d’un apparecchio» (Due appunti 2. Maggio, 1) <strong>che</strong><br />
porta la guerra, e in Res amissa lo sfaldamento ne farà «dispersi brandelli» di una<br />
divinità negativa (Alzando gli occhi). Così, ad esempio, in Träumerei, (Il franco<br />
cacciatore) ai segni vitali delle «musi<strong>che</strong> trasparenti / tra i fiori» e agli «spiazzi<br />
dell’infanzia» si alternano «Le trombe militari», «Gli spari», «la notte dura / […]<br />
dell’ossidiana», e, nell’articolazione complessa della poesia, la memoria idilliaca di<br />
Alcina va a cozzare con Hiroshima, mentre altri luoghi della disumanità (Dachau,<br />
Piazza Fontana) vengono evocati. L’unico riparo dall’insopportabile «rumore / della<br />
storia» (Albàro) tornerà ad essere la natura, l’«antistoria» di Odor vestimentorum, sola<br />
voce e tuttavia inquietante, sola presenza nel buio deserto del post-umano: «Ero solo.<br />
Andavo. / Seguivo una buia viottola. / Mi batteva il cuore. Ascoltavo / (non c’era altra<br />
voce) la nottola» (La nottola). L’orrore non è solo quello della fine incombente, ma è<br />
an<strong>che</strong> la sensazione <strong>che</strong> tutt’intorno si stia diffondendo il vuoto, come in un muto<br />
assedio, cancellando qualunque presenza umana, come se la realtà fosse già invasa dalla<br />
morte.<br />
Al contrario le liri<strong>che</strong> di Penna<br />
sembrano […] tutte risolte nel bisogno impellente di dire nella sua<br />
immediatezza l’esistenza, di rendere immobili le immagini, di fermare sulla<br />
carta e concentrare il vissuto in un punto […]. Per questo nella sua<br />
immanenza e imminenza il presente è pronto a tradursi nel passato […] della<br />
memoria, di ciò <strong>che</strong> è già stato. 49<br />
47 Italo Calvino, Nel cielo dei pipistrelli, in «la Repubblica», 19 dicembre 1980. Poi col titolo Il taciturno<br />
ciarliero, in AA.VV., Genova a Giorgio Caproni, a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, Genova, S. Marco dei<br />
Giustiniani, 1982. Ora, col titolo Il taciturno ciarliero (per Giorgio Caproni), in Italo Calvino, Saggi, cit., p. 1025.<br />
48 Cfr. Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 172: «in<br />
Caproni, come nelle frequenti liri<strong>che</strong> sereniane, l’interrogazione drammatica sul tempo dell’uomo è suscitata,<br />
generata dalle immagini (dalla presenza, dall’animarsi) della natura».<br />
49 Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, Roma, Avagliano Editore, 2007, pp. 65-66.<br />
32
La memoria, come ha detto Caproni, è generatrice di quelle emozioni <strong>che</strong> Penna rivive<br />
cogliendone la verginità e l’autenticità, come è dimostrato nel testo paradigmatico di<br />
tutto il suo percorso poetico:<br />
La vita… è ricordarsi di un risveglio<br />
triste in un treno all’alba: aver veduto<br />
fuori la luce incerta: aver sentito<br />
nel corpo rotto la malinconia<br />
vergine e aspra dell’aria pungente.<br />
(Sandro Penna, La vita… è ricordarsi di un risveglio, in Poesie)<br />
Mancando il senso della stratificazione, ogni volta l’esperienza si rinnova, si ripete,<br />
come non ci fossero né prima né dopo e la memoria diventa la sostanza positiva della<br />
vita stessa. 50 In Penna non troviamo figure antagonisti<strong>che</strong>, quei doppi dell’io <strong>che</strong><br />
portano il soggetto alla coscienza della negatività, ma l’io poetico cerca di accordarsi<br />
col tempo-fuori-dal-tempo dei fanciulli e dell’eros. Tuttavia non c’è una visione<br />
pacificata del reale, piuttosto la consapevolezza di voler reagire alla precarietà della<br />
condizione umana recuperando il potere antico <strong>che</strong> lega la parola poetica alla vita. <strong>Una</strong><br />
dimensione temporale affrancata dai limiti dell’ordinaria cronologia, aperta ad un<br />
tempo-mondo in cui il passato si inserisce in un ciclo eterno e naturale di cui la poesia è<br />
parte, riproducendolo nei suoi movimenti, non ignorando la storia, ma superandola in<br />
una dimensione – per dirla con Caproni – antistorica, <strong>che</strong> rompe con il tempo lineare<br />
prefigurando una possibilità diversa nel sogno o nella visione.<br />
Si è cercato di delineare alcuni nodi della lotta e del confronto col reale, col tempo e<br />
con la storia, <strong>che</strong> riemergono o <strong>che</strong> l’io rivive nell’ansia della ripetizione, della<br />
sospensione e poi del loro superamento, in cui si definiscono le relazioni dinami<strong>che</strong> tra<br />
soggetto e mondo, e <strong>che</strong>, di volta in volta, prendono i nomi di antistoria,<br />
contemporaneità, simultaneità, reversibilità. Il discorso sul soggetto si amplia se si<br />
prende in considerazione l’aspetto verbale della poesia, se si concentra l’attenzione sulle<br />
azioni e sui tempi. Rifiutando di ridurre la propria esistenza al qui ed ora, l’uso dei<br />
tempi verbali diventa metafora attraverso cui convogliare una visione del mondo, della<br />
storia e di sé. Il tempo presente e il futuro, in rapporto col passato, articolano diverse<br />
esperienze di separazione dalla realtà <strong>che</strong> è allo stesso tempo accettata e rifiutata,<br />
50 Ivi, pp. 65-69.<br />
33
vissuta e superata. Nei capitoli successivi si cer<strong>che</strong>rà di verificare e applicare le<br />
osservazioni sin qui fatte sulla difficoltà di vivere con continuità il rapporto tra passato<br />
presente e futuro. Il passato <strong>che</strong> ritorna può dare un senso al presente e al futuro, ma può<br />
an<strong>che</strong><br />
intensificare lo stato di crisi del presente, la radicale incapacità di condividere<br />
il mondo esterno. […] la perdita irrevocabile ma ancora da scontare di un<br />
mondo lontano, informa la stasi, la crisi del tempo presente, <strong>che</strong> diviene così<br />
un tempo malato, “in – esistente”. 51<br />
La rilevanza di tali tensioni temati<strong>che</strong> e ideologi<strong>che</strong> fa di Penna, Fortini, Caproni e<br />
Sereni, dei contemporanei, secondo la definizione di Giorgio Agamben:<br />
Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui<br />
<strong>che</strong> non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è<br />
perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso<br />
questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e<br />
afferrare il suo tempo. […] Contemporaneo è colui <strong>che</strong> tiene fisso lo sguardo<br />
nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. […] Contemporaneo<br />
non è soltanto colui <strong>che</strong>, percependo il buio del presente, ne afferra<br />
l’inesitabile luce; è an<strong>che</strong> colui <strong>che</strong>, dividendo e interpolando il tempo, è in<br />
grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi. 52<br />
Su questo terreno le loro esperienze, sebbene caratterizzate da pronunce e tratti stilistici<br />
diversi, sono complementari e possono essere confrontate, messe l’una accanto all’altra,<br />
per scorgerne le omologie, per lasciare emergere, dal contrasto, la rottura con il sistema<br />
di costruzione del soggetto.<br />
Siamo di fronte a quattro percorsi poetici <strong>che</strong> non danno certezze al lettore e<br />
all’interprete, piuttosto pongono dubbi e domandano di poter reagire con la realtà <strong>che</strong> ci<br />
circonda. Del resto non si può non sottolineare come un tratto distintivo di questi autori<br />
sia proprio l’aver attraversato il Novecento poetico italiano in solitudine e quasi<br />
volontaria emarginazione, senza lasciarsi ridurre a facili definizioni o a più o meno<br />
comode sistemazioni criti<strong>che</strong> e filosofi<strong>che</strong>, ad apparentamenti ed antologizzazioni<br />
troppo scontate. L’essersi sottratti alle scuole, alle correnti (l’ermetismo prima, il neo-<br />
realismo e la neo-avanguardia poi) fa di questi autori, al di là delle esperienze formali,<br />
stilisti<strong>che</strong> e concettuali, e oltre le sistemazioni generazionali, gli esempi più produttivi<br />
an<strong>che</strong> per la successiva poesia, quella a noi coeva.<br />
51 Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 126.<br />
52 Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 9; 13; 24.<br />
34
In tempi di modernismo e progresso a tutti i costi, la poesia di Penna è l’espressione<br />
di un mondo marginale, di un’Italia bassa e umile, senza però la pretesa pasoliniana di<br />
“educarla”.<br />
In Fortini la classicità è forzata da un incedere duro e tagliente del pensiero e delle<br />
parole, <strong>che</strong> si fanno portatrici degli ideali di lotta e cambiamento, lontani da ogni forma<br />
di compromesso. La poesia diventa lo spazio straniante e distanziante per affermare<br />
un’alternativa a questo sistema culturale, preferendo la diversità alla somiglianza:<br />
«Vorrei <strong>che</strong> a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di<br />
un rettile» scrive in Astuti come colombe. 53<br />
La poesia di Sereni muove da una forte istanza problematica e contraddittoria, <strong>che</strong> la<br />
sospende tra riconoscimento del vuoto e speranza. I luoghi sereniani sono lacunosi,<br />
come del resto la <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> procede per salti ed ellissi, ma la lacunosità e l’incedere<br />
ellittico sono i correlativi oggettivi dello spazio della poesia, sempre sospeso tra il<br />
silenzio e la creazione.<br />
Al contrario, quando la Storia fa la sua comparsa nella poesia di Caproni, essa<br />
determina un nichilismo totale e totalizzante, <strong>che</strong> non lascia spazio al principio speranza<br />
o ad alcuna forma di utopia.<br />
I concetti di tempo e di futuro vanno al di là di una singola vicenda esistenziale e si<br />
pongono come condizione stessa della poesia, un’esperienza di pena e di dolore, ma<br />
an<strong>che</strong> una speranza dalla quale può scaturire una possibilità in più. La poesia dal<br />
confronto con l’inadeguatezza degli eventi e delle ideologie si scopre contraddittoria e<br />
reagendo a contatto con l’utopia non può <strong>che</strong> manifestare uno status divergente, sospeso<br />
tra sparizione e rifiuto a lasciarsi esaurire dagli eventi. Così Caproni:<br />
Io sono un razionalista <strong>che</strong> pone limiti alla ragione, e cerco, cerco. Che<br />
cosa non lo so, ma so <strong>che</strong> il destino di qualsiasi ricerca è imbattersi nel<br />
“Muro della terra” oltre il quale si stendono i “luoghi non giurisdizionali”,<br />
dove la ragione non ha più vigore al pari di una legge fuori del territorio in<br />
cui vige. Questi confini esistono: sono i confini della scienza; è da lì <strong>che</strong><br />
comincia la ricerca poetica. Non so se aldilà ci sia qualcosa; sicuramente c’è<br />
l’inconoscibile. 54<br />
53 Franco Fortini, Astuti come colombe, in Verifica dei poteri, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 67.<br />
54 Giorgio Caproni, L’opera in versi, cit., p. 1537.<br />
35
Tra le pieghe della poesia si muove una inconoscibilità vitale: 55 è una dinamica<br />
dialettica, non una concordia discors ma un contrasto e un impedimento <strong>che</strong> stimolano<br />
l’intelletto, come i fanciulli, altrettanto inconoscibili, <strong>che</strong> animano le poesie di Penna e<br />
come il «progetto / sempre in divenire» di Sereni (Un posto di vacanza, VII, in Stella<br />
variabile). In Caproni l’inconoscibilità del reale apre all’antistoria, ad una dimensione<br />
alternativa, <strong>che</strong> poi, nell’ultima fase della sua produzione, genera gli aspetti più<br />
irrazionali e distanzianti con la decostruzione sintattica e con il vagare per terre di<br />
confine, in cui l’utopia è sostituita dall’atopia, ovvero dagli estremi spazi del transito, i<br />
non luoghi e i «luoghi non giurisdizionali». È an<strong>che</strong> l’inconoscibilità di ciò <strong>che</strong> deve<br />
ancora venire, del presente e dell’esserci: «Non so più chi sono», scrive Penna,<br />
«sapendo di non sapere» dice Sereni, e Fortini con il suo «nulla è sicuro, ma scrivi» ci<br />
offre uno sguardo disincantato sul mondo, allontanando una troppa ingenua fiducia in<br />
un utopismo <strong>che</strong> muova dalla promessa di conoscenza <strong>che</strong> sempre la parola poetica ha<br />
portato con sé e <strong>che</strong> il simbolismo prima e l’ermetismo poi sembravano riconfermare.<br />
In ogni caso, sia <strong>che</strong> questa riflessione porti verso lo slancio utopico, sia <strong>che</strong> ne riveli<br />
la sua impossibilità, la poesia rovescia la negatività e la passività in qualcosa di attivo:<br />
la parola agisce sul foglio bianco, lo sottrae ad un destino di silenzio, proponendo una<br />
diversa forma di vitalità, di conoscenza e di civiltà.<br />
55 E si legga an<strong>che</strong> quanto ha scritto Adele Dei, in Giorgio Caproni, cit., p. 161 : «E an<strong>che</strong> la Genova in salita è<br />
ristretta, contenuta dal suo entroterra ostile e sassoso come da una muraglia; come se solo in prossimità di un<br />
impedimento, di un limite respingente, si addensasse la maggiore ric<strong>che</strong>zza vitale».<br />
36
SECONDA PARTE<br />
37
2.1.<br />
PENNA E CAPRONI:<br />
IL TEMPO INQUIETO<br />
<strong>Una</strong> delle definizioni criti<strong>che</strong> più limpide della poesia di Sandro Penna è quella<br />
fornita da Giorgio Caproni, <strong>che</strong>, recensendo la raccolta garzantiana delle Poesie, 1 parlò<br />
di «una continua nostalgia del presente nel presente». Come spesso succede a un poeta<br />
<strong>che</strong> scriva di un altro poeta, parlando di Penna Caproni parlava an<strong>che</strong> di sé: «a proposito<br />
di non pochi poeti della cosiddetta Terza e forse an<strong>che</strong> della cosiddetta Quarta<br />
generazione, chi è senza peccato – chi non ha imparato qualcosa in fres<strong>che</strong>zza di<br />
rappresentazione visibile e sensibile da Sandro Penna – scagli la prima pietra». 2 Occorre<br />
tornare alle poesie del “primo tempo” del livornese, quelle <strong>che</strong> vanno da Come<br />
un’allegoria (1936) al “primo libro” Finzioni (1941), per osservare, come già di<br />
sfuggita aveva fatto Giuseppe Leonelli, <strong>che</strong> in questi versi «il tempo è il presente,<br />
sommosso da un passato per lo più recentissimo, fatto di sensazioni appena trascorse e<br />
ancora palpitanti nell’aria. Non c’è segno di futuro, ma c’è Penna». 3<br />
Potrebbe essere utile, allora, un percorso di lettura <strong>che</strong> accosti questi due autori, tra<br />
l’altro esordienti 4 nello stesso scorcio d’anni (l’uno nel ’36, l’altro nel ’39 con<br />
l’edizione Parenti), per coglierne meglio il “sentimento” del tempo, dietro al quale si<br />
cela una differente filosofia del <strong>lingua</strong>ggio.<br />
2.1.1. La «nostalgia del presente nel presente»<br />
Caproni, riferendosi all’atemporalità delle raccolte di Penna, aveva parlato di «un<br />
libro unico in un tempo unico». 5 Nella sua poetica sembra non ci sia evoluzione ed è<br />
1<br />
Sandro Penna, Poesie, Milano, Garzanti, 1957.<br />
2<br />
Giorgio Caproni, «Poesie» di Sandro Penna, «La Fiera Letteraria», 8 settembre 1957, poi in La scatola nera,<br />
cit., p. 109.<br />
3<br />
Giuseppe Leonelli, Giorgio Caproni. Storia di una poesia tra musica e retorica, Milano, Garzanti, 1997, p. 14.<br />
4<br />
Si intende l’esordio in volume, senza tenere conto delle precedenti uscite di singole poesie su riviste.<br />
5<br />
Giorgio Caproni, «Poesie» di Sandro Penna, ora in La scatola nera, cit., p. 109.<br />
39
difficile distinguerne le diverse stagioni: molte poesie pubblicate negli anni Settanta<br />
sono “ripescaggi” di testi scritti negli anni Venti-Quaranta, dimenticati nel cassetto, per<br />
così dire, e poi, in alcuni casi, postdatati. 6 An<strong>che</strong> in questo senso si può dire <strong>che</strong> la<br />
poesia di Penna non è soggetta ad una dinamica storica, ma brilla della sua<br />
inappartenenza al tempo, se è vero, come dice Garboli, <strong>che</strong> «è il solo poeta […] <strong>che</strong><br />
tratti le poesie come fossero dei quadri», dotandole di una vita propria non sottomessa<br />
alla ferrea logica della struttura del libro poetico, ma lasciandole vivere «isolatamente,<br />
separatamente». 7 Ciò <strong>che</strong> spicca dai suoi versi è l’impressione <strong>che</strong> il reale emerga da<br />
incontri fortuiti, da occasioni del tutto fugaci e istantanee, e da questo non-luogo furtivo<br />
il poeta guarda la realtà:<br />
Vuoi baciare il tuo bimbo <strong>che</strong> non vuole:<br />
ama guardare la vita, di fuori.<br />
Tu sei delusa allora, ma sorridi:<br />
non è l’angoscia della gelosia<br />
an<strong>che</strong> se già somiglia egli all’altr’uomo<br />
<strong>che</strong> per «guardare la vita, di fuori»<br />
ti ha lasciata così…<br />
(Sandro Penna, Donna in tram, in Croce e delizia)<br />
Il poeta si pone al di fuori della storia, ma si predispone an<strong>che</strong> ad un inesausto<br />
confronto con il tempo, <strong>che</strong> tuttavia non si conforma al contesto ermetico degli anni<br />
Trenta: accostandosi ad un realismo semplice e sensuale, arriva a recuperare l’idillio,<br />
salvo poi insinuare il dubbio e l’angoscia di uno sguardo <strong>che</strong> si scopre estraneo, <strong>che</strong> non<br />
sa partecipare veramente alle cose. La parola poetica richiama l’uomo alle sue radici, lo<br />
spinge a riflettere, a meditare, a guardare dentro l’anima. «La chiara superficie del suo<br />
<strong>lingua</strong>ggio fa trasparire o sospettare – da minime vibrazioni, lievi moti ondosi, e col<br />
profilo degli oggetti sfuggenti <strong>che</strong> porta alla luce – una profondità inquieta ed enorme»: 8<br />
6 Cfr. Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, cit., pp. 55-56: «la quartina di Penna [Addio fanciullo, entra<br />
nel buio ancora] era ancora nel cassetto nel 1976, quando Penna me la consegnò dattiloscritta per la stampa di<br />
Stranezze. Al tempo dei Penna papers, mi accorsi <strong>che</strong> era già stata pubblicata in un vecchio fascicolo di “Botteghe<br />
Oscure” del 1948. Penna se l’era dimenticata, e quando ritrovò in casa il cartiglio, la post-datò addirittura agli anni<br />
Sessanta – per la sua solita fissazione di apparire e di sentirsi giovane an<strong>che</strong> da vecchio». E si legga an<strong>che</strong> Andrea<br />
Zanzotto, Per Sandro Penna, in Scritti sulla letteratura. Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano,<br />
Mondadori, 2001: «Si è an<strong>che</strong> notato <strong>che</strong> nella poesia di Penna quasi non esiste una storia, né dei motivi, né delle<br />
forme; nei suoi componimenti, <strong>che</strong> è così difficile datare, gli anni trenta si sovrappongono agli anni settanta, ed è<br />
attenuata ogni traccia di angoscia derivata dal confronto con la mutazione storica e culturale».<br />
7 Cesare Garboli, Postfazione, in Sandro Penna, Stranezze, Milano, Garzanti, 1976, p. 132.<br />
8 Alfredo Giuliani, Le poesie di Sandro Penna, in Immagini e maniere, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 56. E ancora:<br />
«La grazia e l’angoscia <strong>che</strong> emanano dalla poesia di Penna provengono dal fatto <strong>che</strong> quel margine di canto in cui egli<br />
sopravvive a se stesso non affiora da una volontà di conoscenza […] né da uno stato mistico […], ma dalla<br />
percezione immediata di uno sdoppiamento: dal vedersi nella vita con gli occhi di una “<strong>che</strong>ta follia.”», p. 57.<br />
40
Fra la gioia dei grilli<br />
oscure fiaccole.<br />
E in alto le stelle.<br />
Al giovane cuore<br />
la riposata ridda<br />
delle solari<br />
gesta del giorno.<br />
Ma un’ansia i ridenti occhi<br />
già turba<br />
al fanciullo venuto<br />
per gioia con me.<br />
(Sandro Penna, Cimitero di campagna, in Poesie)<br />
Parlare ancora dell’ingenuità di Penna forse non paga più. In lui ogni cosa appare<br />
illuminata da una gioia <strong>che</strong> vorrebbe renderla preziosa e “perfetta”, un’affermazione<br />
assoluta del valore della vita. Ma dietro tale perfezione, anzi forse proprio in ragione di<br />
una eccessiva perfezione, affiorano solitudine e angoscia, e la vita è «uno strappo, una<br />
separazione, un esilio». 9 Il poeta è un osservatore da un mondo separato e da tale<br />
distanza viene a definire la propria diversità. Al distacco dall’ambiente famigliare<br />
reagisce invocando protezione nella natura, lontano dal consorzio degli uomini. La sua<br />
poesia si colloca in un tempo ideale e reale insieme, in cui il dolore prevale sulla gioia:<br />
Mi nasconda la notte e il dolce vento.<br />
Da casa mia cacciato e a te venuto<br />
mio romantico amico fiume lento.<br />
Guardo il cielo e le nuvole e le luci<br />
degli uomini laggiù così lontani<br />
sempre da me. Ed io non so chi voglio<br />
amare ormai se non il mio dolore.<br />
La luna si nasconde e poi riappare<br />
– lenta vicenda inutilmente mossa<br />
sovra il mio capo stanco di guardare.<br />
(Sandro Penna, Mi nasconda la notte e il dolce vento, in Poesie)<br />
Siamo all’interno di una dinamica di sospensione, in uno spazio a metà strada tra ciò<br />
<strong>che</strong> sta sopra e ciò <strong>che</strong> sta sotto, e il poeta si trova in questo luogo intermedio da cui<br />
osserva natura e uomini. Tutto passa sotto il suo sguardo, le vite e le stagioni, e solo gli<br />
9 Cesare Garboli, Prefazione, in Sandro Penna, Poesie, Milano, Garzanti, 1989, p. VIII, poi in Cesare Garboli,<br />
Penna papers, cit., p. 109 e in Penna, Montale e il desiderio, cit., p. 15.<br />
41
astri mantengono una loro fissità: «Le stelle sono immobili nel cielo», mentre «Fuggono<br />
i giorni lieti»; «Languiva la stagione pigramente»; «Passano i buoi pesanti con l’aratro»<br />
ma «Immobile nel sole la campagna»; «L’estate se ne andò senza rumore»; «Viene<br />
l’autunno sonnolento». La frequenza dell’uso dei verbi <strong>che</strong> indicano un passaggio e un<br />
cambiamento esprime evidentemente la viva percezione della fuggevolezza, pur<br />
nell’insistenza di ciò <strong>che</strong> resta immobile, di una vita <strong>che</strong> non muta e <strong>che</strong> trionfa sulla<br />
Storia. Al fondo dell’ispirazione poetica ci sarebbero dunque una frattura e una<br />
trasgressione, un senso di autoesclusione dal mondo <strong>che</strong> tuttavia convive con uno<br />
slancio “cosmico”:<br />
Passando sopra un ponte<br />
alto sull’imbrunire<br />
guardando l’orizzonte<br />
ti pare di svanire.<br />
Ma la campagna resta<br />
piena di cose vere<br />
e tante azzurre sfere<br />
non valgono una festa.<br />
(Sandro Penna, Passando sopra un ponte, in <strong>Una</strong> strana gioia di vivere)<br />
«Ogni accenno naturalistico […] si configura come un paradigma del cosmo: non è mai<br />
visto e descritto se non in funzione dell’assoluto […]. La vanità delle cose è uguale alla<br />
loro eternità. Dire ieri o dire oggi è l’identica cosa. Vedere il ripetersi previsto dei<br />
fenomeni è stupendo e insieme doloroso». 10 Così «la campagna resta / piena di cose<br />
vere» dice l’eterno ripetersi della natura contrapposto dolorosamente al “sogno” e alla<br />
“fantasia” di Penna, <strong>che</strong> da tale ciclicità è escluso e <strong>che</strong> per ciò tende a fuggire la<br />
ragione e la storia vivendo una moralità “segmentata” e mancante di coscienza.<br />
Nell’«aggravarsi fulmineo e fatale dell’ansia» 11 si ricade sempre all’interno di una<br />
«dialettica fra essere e divenire <strong>che</strong> interessa il mondo interiore del poeta» 12 e <strong>che</strong><br />
produce quella viva percezione del dolore <strong>che</strong> alberga nei suoi versi. Egli si sente parte<br />
di una vita istintuale, in cui a dare temporaneo sollievo al male di vivere intervengono i<br />
sensi, l’unico mezzo per rapportarsi con il mondo e con se stessi, an<strong>che</strong> se la sua è una<br />
registrazione del dato sensoriale, non ne è un’analisi. Penna infatti di fronte ai vari<br />
10<br />
Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, prefazione di Alberto Asor Rosa, Milano, Garzanti, 1994 (1ª ed.<br />
1960), pp. 433-434.<br />
11<br />
Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 435.<br />
12<br />
Così Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 15.<br />
42
fenomeni non ha reazioni, ma torna al grado zero della poesia, percependo i suoi oggetti<br />
in maniera volutamente immediata. Non si tratta di superficialità del sentire, piuttosto di<br />
un troppo sentire al quale l’io sopravvive soltanto diminuendolo, tramutandolo in<br />
languore, in una «dolce pena» (Porto con me la dolce pena. Erro, in Poesie inedite), o<br />
trasformandolo nella leggerezza luminosa <strong>che</strong> esorcizza la fine. Il presente di tante sue<br />
poesie realizza quindi una «partecipazione inquieta a una vita ai confini della<br />
moralità»: 13 nell’hic et nunc dell’evento non rimane spazio per la riflessione morale o<br />
per la rielaborazione della coscienza, ma solo per una vitalità al limite, o meglio al di là<br />
del bene e del male. Questa è la salvezza di cui la poesia ci fa dono. Nella mancanza di<br />
conflitti morali si realizza il tentativo di sottrarre alla morte l’eternità di un istante. Per<br />
questo nelle sue poesie prevale una memoria a breve termine <strong>che</strong>, sebbene sia «immersa<br />
nella temporalità», 14 non contempla la profondità storica, ma dà l’impressione <strong>che</strong> la<br />
scrittura poetica si componga di appunti presi per fissare l’attimo. 15 In realtà gli studi<br />
condotti sugli epistolari con Saba e Montale e sui manoscritti rinvenuti dopo la sua<br />
morte attestano un importante lavoro di rielaborazione e una fitta trama di varianti. 16 In<br />
diversi casi le poesie venivano scritte come per fermare il ricordo di sensazioni vissute<br />
mesi prima, 17 e la sovrapposizione di presente e passato, di esperienza e finzione<br />
poetica, determinava quella chiarezza e quella precisione attraverso cui un episodio<br />
opaco, perché banale e privo di significati, si illuminava di un tempo assoluto, trattenuto<br />
prima di perdersi nell’oblio della dimenticanza. An<strong>che</strong> il ripetersi sistematico di certi<br />
avverbi è una spia importante e controllata del modo di percepire il tempo. Le<br />
illuminazioni, gli improvvisi delle sue poesie sono còlti nel momento di massima<br />
13<br />
Anna Vaglio, Invito alla lettura di Penna, Milano, Mursia, 1996, p. 110.<br />
14<br />
Così Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 15.<br />
15<br />
Appunti è an<strong>che</strong> il titolo della seconda raccolta poetica di Penna, pubblicata a Milano dalle Edizioni della<br />
Meridiana nel 1950.<br />
16<br />
A questo proposito si vedano almeno: Eugenio Montale, Sandro Penna, Lettere e minute 1932-1938, a cura di<br />
Roberto Deidier, introduzione di Elio Pecora, Milano, Archinto, 1995; Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna 1929-<br />
1940, a cura di Roberto Deidier, Milano, Archinto, 1997; e in particolare Roberto Deidier, L’officina di Penna. Le<br />
poesie 1939. Storia e apparato critico, cit., pp. 13;14-15; 21; 23: «Gli inediti giovanili di Confuso sogno hanno<br />
invece dimostrato il lento sedimentarsi della scrittura penniana nel corso degli anni venti e i suoi precoci debiti<br />
europei, specie verso Hölderlin, Baudelaire, Rimbaud»; «se da un lato Penna accredita il mito della poesia spontanea,<br />
della scrittura miracolo, relegando nell’ombra quel lungo e denso processo di chiarificazione interiore attestato dalle<br />
carte e ricostruito dal biografo [Elio Pecora], La vita… è ricordarsi di un risveglio marca indiscutibilmente l’inizio di<br />
quella nuova consapevolezza espressiva di cui il volume del 1939 rende testimonianza»; «Considerando i diversi tipi<br />
di nastro e di caratteri con i quali Penna ricopia a macchina i suoi versi […] è possibile stabilire, con una certa<br />
approssimazione, almeno quattro fasi redazionali, rispondenti ad altrettante copiature, tra gli esordi e il 1937»; «Il<br />
gioco variantistico condotto da Penna nei confronti di Saba risulta ambiguo; po<strong>che</strong> sono le lezioni accolte».<br />
17<br />
Così Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. 104: «In dicembre, il giorno 8, come ripetendo e<br />
definitivamente fermando un momento dell’ultima estate, quando da Recanati era sceso alla stazione, scrisse i versi<br />
<strong>che</strong> intitolò “Estate”».<br />
43
sospensione tra l’essere e il non essere, come una durata <strong>che</strong> va esaurendosi e <strong>che</strong><br />
tuttavia si rinnova, una sensazione percepita nel suo protrarsi e lento svanire, <strong>che</strong> rinvia<br />
ad un altrove lirico e inquieto: «Nel sonno incerto sogno ancora un poco»; «Negli occhi<br />
ancora canta / il sole»; «La mattina di estate è ancora fresca»; «La mattina di ottobre è<br />
ancora buia». È una nostalgia dei sensi, <strong>che</strong> vorrebbero essere sottratti al trascorrere del<br />
tempo e posti in una dimensione se non di eternità, almeno di atemporalità. Tuttavia<br />
l’attimo stesso si configura come un momento ben preciso della dimensione<br />
cronologica: «Le temps est vivant et la vie est temporelle», 18 scrive Ba<strong>che</strong>lard, e se<br />
pensiamo a «La vita… è ricordarsi di un risveglio», non possiamo non considerare <strong>che</strong><br />
il ricordo, an<strong>che</strong> nella sua emergenza immediata, si inscrive nella dialettica del tempo<br />
come tappa fondamentale della coscienza e della conoscenza. L’attenzione è rivolta al<br />
momento del trapasso tra due dimensioni, da cui deriva quella vaghezza <strong>che</strong> accentua il<br />
senso di sospensione, di un’esperienza consueta e assoluta insieme. In Penna, come ha<br />
osservato Bernard Simeone, si nota «l’intime contradiction entre la brièveté de la forme<br />
et la lenteur de l’image»: 19 il tempo breve del frammento convive con un tempo<br />
sospeso, <strong>che</strong> non passa, o almeno con la finzione dell’eternità contrapposta alla vita<br />
reale. Il verbo all’imperfetto indica un’azione non ancora conclusa, un «evento, <strong>che</strong> con<br />
lievi modifi<strong>che</strong> somiglia ad altri consimili»: 20<br />
Sebbene il moto del sole<br />
fosse presente e vivo<br />
sembrava il tempo sostare<br />
eternamente.<br />
Indi salito in alto riposavo<br />
in silenzio. Intorno a me passava<br />
e ripassava una lenta figura.<br />
<strong>Una</strong> nuova figura <strong>che</strong> portava<br />
– intenta a un suo lavoro – quasi un chiaro<br />
saluto e dell’acqua <strong>che</strong> brillava.<br />
(Sandro Penna, Lavoro di pescatore, in Stranezze)<br />
(Sandro Penna, Indi salito in alto riposavo, in Poesie inedite)<br />
18 Gaston Ba<strong>che</strong>lard, La dialectique de la durée, Paris, PUF Presses Universitaires de France, 2006 (1ª ed. Paris,<br />
Boivin & Cie, 1936), p. 2. Al contrario Fausto Curi sostiene <strong>che</strong> «il tempo non ha nulla della «durata» bergsoniana,<br />
sia in quanto è contesto di attimi, e sia pure lunghi attimi, sia in quanto non è un tempo psichico, dal momento <strong>che</strong> a<br />
scandirlo sono eventi naturali, anzi, fisiologici, come, per esempio, la perdita del seme. Non, si badi, <strong>che</strong> la vita<br />
psichica sia assente, giacché il desiderio è prevalentemente lavoro psichico, immaginazione, memoria» (Fausto Curi,<br />
La poesia italiana nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 243).<br />
19 Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, «Paragone», 444, febbraio 1987, p. 83.<br />
20 Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, Bologna, Gedit Edizioni, 2004, p. 47.<br />
44
L’immagine finale del «chiaro / saluto» e dell’«acqua <strong>che</strong> brillava» si fa portatrice di<br />
un’apertura stilnovistica e petrar<strong>che</strong>sca, <strong>che</strong> sancisce il raggiungimento di una<br />
dimensione spazio-temporale alternativa. <strong>Una</strong> salita in montagna permette allo sguardo<br />
di aprirsi alla visione: la concretezza e il realismo della scena sono evidenti, ma l’io<br />
poetico li vivifica e permette loro di risignificarsi. Ancora una volta il verbo, sospeso al<br />
limite tra un verso e il successivo, indica un passaggio, un movimento <strong>che</strong> nel passato si<br />
ripete rinnovandosi («passava / e ripassava una lenta figura. / <strong>Una</strong> nuova figura»). Nella<br />
scelta del tempo Penna ricerca un senso d’incompiutezza, una sfumatura aspettuale<br />
imperfettiva, 21 propria an<strong>che</strong> del presente non risultativo, della forma impersonale e<br />
dell’infinito di tante sue poesie:<br />
La vita… è ricordarsi di un risveglio<br />
triste in un treno all’alba: aver veduto<br />
fuori la luce incerta: aver sentito<br />
nel corpo rotto la malinconia<br />
vergine e aspra dell’aria pungente.<br />
Ma ricordarsi la liberazione<br />
improvvisa è più dolce: a me vicino<br />
un marinaio giovane: l’azzurro<br />
e il bianco della sua divisa, e fuori<br />
un mare tutto fresco di colore.<br />
(Sandro Penna, La vita… è ricordarsi di un risveglio, in Poesie)<br />
Ecco an<strong>che</strong> l’importanza fondamentale dei punti di sospensione e degli enjambements,<br />
<strong>che</strong> con la loro «frastagliatura», 22 eppure senza arrivare ad una risemantizzazione del<br />
pensiero poetico, sono pronti a spezzare il ritmo, a frangere e vivificare l’andamento<br />
troppo pacato del discorso, a sospendere o mettere in evidenza (con funzione fàtica)<br />
alcune parole chiave, a dire l’indicibile. La poesia non nasce da una riflessione sulla<br />
vita, ma nasce dalla vita stessa, nel momento in cui questa ha perso la sua unità. Siamo<br />
di fronte ad una forma primitiva e originaria di proposizione, da cui deriva ogni altra<br />
proposizione logica:<br />
La troisième “personne” de l’indicatif présent du verbe être est le noyau<br />
irréductible et pur de l’expression. D’une expression dont Husserl disait […]<br />
21<br />
Cfr. Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica, diretto da Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi,<br />
1996, p. 91.<br />
22<br />
Gualtiero De Santi, Sandro Penna, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 17.<br />
45
qu’elle n’était pas primitivement un “s’exprimer”, mais d’entrée de jeu un<br />
“s’exprimer sur quelque chose”. 23<br />
La vita è determinata nel suo stesso essere-qualcosa in relazione ad altro. L’unità<br />
perduta si ricompone momentaneamente nello spazio poetico <strong>che</strong> individua le simmetrie<br />
tra l’io e il mondo, tra percezione e realtà. 24 La vita è il presente <strong>che</strong>, cercando di fissare<br />
in un punto un attimo còlto di sfuggita, diventa passato. 25 La vita è allora soprattutto<br />
ricordo, come recita il primo verso, cioè «aver veduto […] aver sentito»: la liberazione è<br />
sì improvvisa, ma il tempo non passa, si ripete, e un passato <strong>che</strong> ritorna è un passato <strong>che</strong><br />
non se ne è mai veramente andato, e <strong>che</strong> assume la qualità indefinibile del tempo<br />
pensato. 26 Si capisce allora <strong>che</strong> Caproni, come si accennava all’inizio, ha saputo<br />
cogliere l’essenza della poesia di Penna: «<strong>Una</strong> continua nostalgia del presente nel<br />
presente (quei due “ricordarsi” accoppiati e disgiunti dal “ma”; quel “marinaio giovane”<br />
<strong>che</strong> apre tutta un’infinita serie di armonici verso la fres<strong>che</strong>zza, ma non davvero per la<br />
via del simbolo) secondo quella formula […] <strong>che</strong> forse maggiormente potrebbe<br />
approssimarsi alla gioiosa malinconia di questo poeta: alla sua “pungente” (stimolante<br />
verso la vita) malinconia di sensi (una sottile, continua brezza o levitazione di<br />
figure)»: 27<br />
Nei vicoli notturni ove rimane<br />
un fanciullo superstite la mia<br />
vita si gonfia di malinconia.<br />
(Sandro Penna, Nei vicoli notturni ove rimane, in Poesie inedite)<br />
Malinconia d’amore, dove resta<br />
bianco il sorriso del fanciullo come<br />
un ultimo gabbiano alla tempesta.<br />
(Sandro Penna, Malinconia d’amore, dove resta, in Poesie inedite)<br />
23 Jacques Derrida, La voix et le phénomène, Paris, PUF, 2007 (1ª ed. 1967), p. 82.<br />
24 Cfr. Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 30: «Alla specularità delle<br />
due strofe, in un rudimentale abbozzo del “dentro” e del “fuori” di tante poesie penniane, contribuisce la simmetria<br />
delle equivalenze di segni <strong>che</strong> indicano la percezione dell’io <strong>che</strong> dice, vede, sente, ma an<strong>che</strong> si sente […] si<br />
percepisce, in relazione all’altro, vicino, <strong>che</strong> avvicina al mondo».<br />
25 Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 65: «Le poesie di Penna sembrano<br />
[…] tutte risolte nel bisogno impellente di dire nella sua immediatezza l’esistenza, di rendere immobili le immagini,<br />
di fermare sulla carta e concentrare il vissuto in un punto, in un pensiero, in un gesto: nell’attimo felice, carico di<br />
valori e risonanze affettive, emotive, eroti<strong>che</strong>. Per questo, nella sua immanenza e imminenza il presente è pronto a<br />
tradursi nel passato […] della memoria, di ciò <strong>che</strong> è già stato».<br />
26 Così Gaston Ba<strong>che</strong>lard, La dialectique de la durée, cit., p. 17: «Il y a donc, au-dessus du temps vécu, le temps<br />
pensé. […] On qualifie mal ce temps en disant qu’il est abstrait, car c’est dans ce temps que la pensée agit et prépare<br />
les concrétisations de l’Être».<br />
27 Giorgio Caproni, La scatola nera, cit., p. 110.<br />
46
Ecco la brevità e la lentezza di chi sta scrivendo di istanti <strong>che</strong> non vorrebbe si<br />
perdessero nel vento, il «come» a fare da spartiacque tra la situazione interiore e quella<br />
esteriore e a prolungare l’attesa per l’epifania finale dopo l’apertura luminosa del verso<br />
centrale. Parole sottratte alla loro precarietà, scritte su un vetro appannato, sul quale<br />
resta una traccia sottile, in controluce:<br />
Se dietro la finestra illuminata<br />
dorme un fanciullo, nella notte estiva,<br />
e sognerà…<br />
Passa veloce un treno<br />
e va lontano.<br />
Il mare è come prima.<br />
(Sandro Penna, Se dietro la finestra illuminata, in Poesie)<br />
Sono attimi rubati in maniera clandestina ad un presente senza prima né dopo, ma solo<br />
l’attualità di un treno in fuga, di un risveglio o di un sogno, per sottrarsi alla morte<br />
dell’indifferenza, all’abitudine di un mare sempre uguale a se stesso. Il tempo sospeso<br />
(«e sognerà…») è an<strong>che</strong> un tempo diviso e franto dal senso di una lontananza<br />
incolmabile, <strong>che</strong> fa addirittura sospettare <strong>che</strong> la vera emarginazione sia quella del<br />
fanciullo <strong>che</strong> dorme e sogna; ma è proprio in quel luogo separato, in quell’altrove, <strong>che</strong><br />
Penna vede la beatitudine, non nel mondo degli uomini e della natura indifferente. C’è il<br />
senso dello strappo, della mancanza, dell’incompiutezza di un piacere <strong>che</strong>, se si afferma<br />
negli istanti <strong>che</strong> l’autore fissa sulla pagina, allo stesso modo in essi si nega<br />
continuamente, nella frustrazione o nella consapevolezza dell’effimero. 28 Il presente è<br />
sempre ricordo, la vicinanza lontananza, la presenza di sé è an<strong>che</strong> negazione.<br />
L’osservazione non prevede la partecipazione all’azione o alla vita: la finestra è chiusa e<br />
la poesia si costituisce a partire dalla percezione di una segregazione voluta, una presa<br />
di distanza dal mondo e dalla storia. La separatezza contiene an<strong>che</strong> il senso di<br />
esclusione e superiorità dell’arte, <strong>che</strong>, in ragione di ciò, sa cogliere qualcosa <strong>che</strong> è oltre<br />
il reale, come il poeta sa vedere oltre la finestra chiusa. Lo sguardo dell’io si sviluppa<br />
dall’esterno verso l’interno, e non viceversa, come se in Penna non vi fosse unità di<br />
corpo e anima, ma, guardando dai vetri il sonno tranquillo del fanciullo, egli stesse<br />
28 Così Anna Vaglio, Invito alla lettura di Penna, cit., p. 113: «[…] Nel nostro secolo al poeta-profeta <strong>che</strong> dal<br />
proprio isolamento trae parole rivelatrici si sostituisce una figura di poeta <strong>che</strong> dichiara la propria inettitudine alle<br />
cose, la propria limitatezza di parole, il proprio “sonno”». Su questo piano di impotenza, lo ricorda an<strong>che</strong> Niva<br />
Lorenzini, si gioca l’antinovecentismo.<br />
47
guardando una parte di sé, e ciò comportasse la percezione dell’inappartenenza. 29 È un<br />
moto pendolare <strong>che</strong> procede dalla solitudine alla ricerca del contatto con l’altro, <strong>che</strong><br />
vivifica l’io lirico e lo rende vittima di una nevrosi, per cui alla fine è impossibile<br />
riconoscere se stessi:<br />
Ed io non mi ricordo più chi sono.<br />
Allora di morire mi dispiace.<br />
Di morire mi pare troppo ingiusto.<br />
An<strong>che</strong> se non ricordo più chi sono.<br />
(Sandro Penna, La festa verso l’imbrunire vado, in Il viaggiatore insonne)<br />
La «nostalgia del presente nel presente» di cui parlava Caproni, etimologicamente intesa<br />
come «dolore per il ritorno» (ma an<strong>che</strong> ritorno del dolore), è sofferenza per un presente<br />
effimero, nel quale l’io stesso perde la sua identità, e <strong>che</strong> è però l’unico tempo in cui ci è<br />
concesso vivere:<br />
Le stelle sono immobili nel cielo.<br />
L’ora d’estate è uguale a un’altra estate.<br />
Ma il fanciullo <strong>che</strong> avanti a te cammina<br />
se non lo chiami non sarà più quello…<br />
(Sandro Penna, Le stelle sono immobili nel cielo, in Poesie)<br />
Ciò <strong>che</strong> brucia non è soltanto la tensione erotica, ma l’estrema evidenza dell’istante, <strong>che</strong><br />
convive con la reiterazione di un desiderio sempre uguale a se stesso. Il presente è un<br />
momento <strong>che</strong> non si conclude, ma il tempo può essere misurato solo mentre passa 30 e la<br />
nostalgia quindi nasce dall’incapacità di partecipare direttamente e attivamente al corso<br />
della vita. È allora voyeurismo del presente, frutto di un senso di esclusione lacerante,<br />
teso tra essere e non essere. Penna vorrebbe abitare nel non-tempo, nel tempo <strong>che</strong> non-<br />
passa, perciò ha scelto lo spazio intermedio dell’istante, sospeso tra la trasgressione e la<br />
materia amorosa, sottratto all’inesorabile scorrere cronologico: «Infatti ogni fenomeno<br />
dell’eros, ogni sguardo, ogni atto, ogni desiderio […] sono depurati da ogni<br />
29 Mi sovviene, a questo punto, un passo del romanzo di Fortini, Giovanni e le mani, (Torino, Einaudi, 1972, p.<br />
70), in cui il protagonista, Giovanni Penna (e la scelta del nome non sarà forse casuale), dice: «una vera attenzione<br />
non so rivolgerla <strong>che</strong> al mio corpo […] e qual<strong>che</strong> volta se rimango così a guardare dai vetri i gesti della gente negli<br />
appartamenti (il lume <strong>che</strong> si accende e quello <strong>che</strong> si spegne), è come se guardassi una parte del mio corpo». In Fortini<br />
naturalmente la tematica è politica e sociale e viene a rappresentare «il tema dell’alienazione capitalistica» (Paolo<br />
Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p.54).<br />
30 A questo proposito si rimanda a Gilles Deleuze, Le bergsonisme, Paris, PUF Presses Universitaires de France,<br />
2007 (1ª ed. 1966), p. 54: «Le passé et le présent ne désignent pas deux moments successifs, mais deux éléments qui<br />
coexistent, l’un qui est le présent, et qui ne cesse de passer, l’autre, qui est le passé, et qui ne cesse pas d’être, mais<br />
par lequel tous les présents passent».<br />
48
determinazione temporale […]. Divengono prove: quasi fulgurazioni». 31 L’attimo, la<br />
«fulgurazione» in cui il tempo si contrae, al di là della progressione dalla gioia al<br />
dolore, ha la possibilità di ripetersi continuamente. In questo modo l’amore <strong>che</strong><br />
sospende il tempo e l’atto poetico <strong>che</strong> è fuori dal tempo si saldano al qui e ora<br />
dell’esistenza. 32 La poesia è viaggio e continuo ritorno. Il presente in questo senso<br />
vorrebbe significare, per Penna, l’immutabilità, e la parola, sempre pronunciata come se<br />
fosse l’ultima, non descrive e non narra nulla, ma vibra e coglie gli attimi. A ben vedere<br />
la poesia di Penna è immersa nella sostanza stessa del tempo, in cui si sviluppa il<br />
rapporto tra percezione e memoria, l’una rivolta alla dimensione fisica del reale, l’altra<br />
ad un soprassalto spirituale. 33 Non si tratta di proustiane rivelazioni, ma del rapporto<br />
dialettico interno alla dimensione temporale, la cui sintesi è data dal ricordo, <strong>che</strong> svela<br />
la vita nella duplice dimensione della perdita e del desiderio, dell’essere e del divenire.<br />
Si realizza in tal modo la solidarietà tra presente, passato e futuro:<br />
D’une part «le moment suivant contient toujours en sus du précédent le<br />
souvenir que celui-ci lui a laissé»; d’autre part, les deux moments se<br />
contractent ou se condensent l’un dans l’autre, puisque l’un n’a pas encore<br />
disparu quand l’autre paraît. […] le «présent» qui dure se divise à chaque<br />
«instant» en deux directions, l’une orientée et dilatée vers le passé, l’autre<br />
contractée, se contractant vers l’avenir. 34<br />
Poiché tutto è durata ed entra nel flusso di contrazione-dilatazione-ripetizione, l’io e il<br />
tempo recuperano quel monismo, <strong>che</strong> il Novecento aveva negato: la poesia consiste in<br />
una molteplicità <strong>che</strong> viene attualizzata nel ricordo, nel ripetersi dei moti del cuore e<br />
nella riscrittura, in cui trovano il loro spazio tempo ed eros, gli elementi simmetrici<br />
31 Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 448.<br />
32 Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, in Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., pp. 72-73: «Contano l’uso<br />
frequente dei verbi all’imperfetto dal valore affettivo […] e al presente indicativo – deittico, abituale ecc. –; le scarse<br />
specificazioni; l’altalenarsi delle formule; il concatenamento delle ripetizioni […]. Tali aspetti fanno sì <strong>che</strong> nel<br />
racconto singolativo penetri di fatto la dimensione iterativa. Con le sue eventuali estensioni, quest’ultima avvicina le<br />
prose alle poesie e ribadisce, nell’ambiguità degli statuti formali, il noto sentimento penniano di ciclicità e ripetizione<br />
dell’esperienza del bisogno naturale o desiderio, della vita. In quel sentimento il ricordo e le sue istanze possono<br />
prontamente, e an<strong>che</strong> leopardianamente, saldarsi al “qui e ora” dell’esistenza. Il tempo di Penna è ciclico e<br />
pendolare».<br />
33 Cfr. Gilles Deleuze, Le bergsonisme, cit., pp. 16-17: «C’est donc la mémoire qui fait que le corps est autre<br />
chose qu’instantané, et lui donne une durée dans le temps […]. Bref, la représentation en général se divise en deux<br />
directions […]: celle de la perception qui nous met d’emblée dans la matière, celle de la mémoire qui nous met<br />
d’emblée dans l’esprit».<br />
34 Gilles Deleuze, Le bergsonisme, cit., p. 46. E a p. 50: «C’est du présent qu’il faut dire à chaque instant déjà<br />
qu’il «était», et du passé, qu’il «est», qu’il est éternellement, de tout temps». Si legga an<strong>che</strong> Gaston Ba<strong>che</strong>lard, La<br />
dialectique de la durée, cit., p. 2: « Il a réservé une solidarité entre le passé et l’avenir, une viscosité de la durée, qui<br />
fait que le passé reste la substance du présent, ou, autrement dit, que l’instant présent n’est jamais que le phénomène<br />
du passé».<br />
49
della visione penniana del mondo, o, se si vuole, gli occhi diversi della percezione<br />
poetica.<br />
2.1.2. Il confronto con la morte<br />
La poesia di Giorgio Caproni può aggiungere a questo punto spunti interessanti alla<br />
riflessione; in particolare, quella delle sue prime raccolte appare legata ad una sensualità<br />
quasi primitiva e manifesta un rapporto diretto, per nulla contemplativo o languido, con<br />
le cose. Essa è fatta di vedere, udire, sentire, cioè di «un’acerba avidità giovenile»: 35<br />
Lattiginosa d’alba<br />
nasce sulle colline,<br />
balbettanti parole ancora<br />
infantili, la prima luce.<br />
La terra, con la sua faccia<br />
madida di sudore,<br />
apre assonnati occhi d’acqua<br />
alla notte <strong>che</strong> sbianca.<br />
(Gli uccelli sono sempre i primi<br />
pensieri del mondo).<br />
(Giorgio Caproni, Prima luce, in Come un’allegoria)<br />
E si notino i due verbi al presente (nasce – apre) posti a inizio verso, ma isolati dal<br />
soggetto: a dire la sempre nuova «allegoria della vita concepita soprattutto nei suoi<br />
bordi terminali, l’alba e la sera e nel reciproco trasmutarsi dell’una nell’altra». 36 Per<br />
questa via si manifesta una vitalità <strong>che</strong> sempre più appare velata d’amarezza, in<br />
continua lotta con le ombre e con la morte. Più avanti gli uccelli <strong>che</strong> qui paiono i soli,<br />
indisturbati, abitatori del cielo, oltre le stelle con le quali si confondono in metamorfosi<br />
ovidiana («il sangue ferveva / di meraviglia, a vedere / ogni uccello mutarsi in stella nel<br />
cielo», Ricordo), verranno sostituiti dalla «tenebra d’un apparecchio» (Due appunti 2.<br />
Maggio, 1, in Il seme del piangere) <strong>che</strong> porta la guerra: l’uomo, sostituendosi alla natura<br />
35<br />
Così Aldo Capasso nella prefazione a Come un’allegoria, ora in Giorgio Caproni, L’opera in versi, cit., p.<br />
1057.<br />
36<br />
Biancamaria Frabotta, Il tempo delle finzioni: il primo libro di Giorgio Caproni, «La rassegna della letteratura<br />
italiana», LXXXIX, 1, gennaio-aprile 1985, p. 41.<br />
50
con le macchine, nega ogni possibilità di un incontro pacifico. 37 Negli anni<br />
dell’ermetismo, cioè della poesia “irrelativa”, la relazione <strong>che</strong> ancora si cerca è quello<br />
tra l’io e la natura e il tempo è percepito come trascorrere del giorno e delle stagioni, da<br />
intendersi come «figurazione ridotta […] del tempo assoluto». 38 In queste poesie<br />
troviamo una grazia malinconica, un mondo quasi crepuscolare (dissolvenza: «da me<br />
segreta ormai / silenziosa t’appanni / come nella memoria», Dietro i vetri, in Come<br />
un’allegoria), <strong>che</strong> resistono al sentimento della morte (già nella dedica alla fidanzata<br />
perduta precocemente). È l’estrema evidenza dell’esserci in lotta col suo contrario. Il<br />
tempo è quello di sensazioni appena trascorse, di cui ancora trema l’aria, di presenze<br />
còlte prima di svanire:<br />
Quando più sguscia obliquo<br />
il sole su queste strade<br />
ogni cortile ha strane<br />
battaglie, con ingenue grida.<br />
Nel tocco delle campane<br />
c’è ancora qual<strong>che</strong> sapore<br />
del giubiloso soggiorno;<br />
ma se mi passa accanto<br />
un ragazzo, nel soffio<br />
della sua bocca sento<br />
quant’è labile il fiato<br />
del giorno.<br />
(Giorgio Caproni, Fine di giorno, in Come un’allegoria)<br />
La sera, come nota Adele Dei, 39 è ricordo del giorno, il vento, il fiato, il suono delle<br />
campane, possono prolungare un’apparizione e renderla presente ai sensi, ma sempre<br />
nella consapevolezza della sua precarietà. C’è il senso di una sospensione e di un’attesa<br />
<strong>che</strong> confinano con la morte: «Con un sorriso a fiore / di labbra, s’affaccia / alla solita<br />
attesa» (Immagine della sera, in Come un’allegoria).<br />
An<strong>che</strong> qui sarà opportuno osservare l’uso <strong>che</strong> viene fatto di avverbi e congiunzioni<br />
temporali. Così si nota un netto prevalere di ancora, mentre, ora, già: «nella mia bocca<br />
ancora / assopita»; «A quest’ora il sangue / del giorno infiamma ancora / la gota del<br />
37 «Insomma, Caproni non può essere ascritto alla poetica dell’innocenza sensuale e della grazia della povertà <strong>che</strong><br />
è una delle dimensioni principali della letteratura italiana del Novecento, tanto in poesia (Saba, Penna) quanto e ancor<br />
più in narrativa», Italo Calvino, Il taciturno ciarliero (per Giorgio Caproni), in Saggi, cit., pp. 1024-1025.<br />
38 Stefano Colangelo, Elementi della temporalità caproniana, in AA.VV., Il tempo e la poesia. Un quadro<br />
novecentesco, a cura di Elisabetta Graziosi, Bologna, CLUEB, 2008, p. 200: «ed è la scelta di questa figurazione e di<br />
questo paradigma […] a proporre un primo varco d’uscita dalla retorica ermetica: si potrebbe parlare, semplificando,<br />
di un “sentimento del giorno”, di un’esplicita e consapevole riduzione concreta del “sentimento del tempo”».<br />
39 Cfr. Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., p. 12.<br />
51
prato»; «Nel tocco delle campane / c’è ancora qual<strong>che</strong> sapore»; «Ma io sento ancora /<br />
fresco sulla mia pelle il vento»; «Mentre commuove / dei voli l’aria il giro»; «Mentre<br />
per la pastura / si sparge l’amaro aroma»; «Mentre la piana cede / al sonno»; «mentre<br />
s’oblia / nell’orizzonte d’erbe / il cuore»; «Ora è tempo <strong>che</strong> s’apra / ilare ai vostri lini /<br />
un colore»; «Già un sentore / d’estate […] / esala in un rossore». Questi trasmettono un<br />
senso di continuità dell’azione, di una sua durata, di un suo compiersi in un tempo<br />
effimero e irripetibile. Siamo in presenza di un carpe diem teso e modulato attraverso<br />
variazioni continue e un <strong>lingua</strong>ggio ansioso, instabile, claudicante. Caproni mette in<br />
versi «la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della<br />
labilità delle cose, della loro fuggevolezza»: 40<br />
(Voci e canzoni cancella<br />
la brezza: fra poco il fuoco<br />
si spenge. Ma io sento ancora<br />
fresco sulla mia pelle il vento<br />
d’una fanciulla passatami a fianco<br />
di corsa).<br />
(Giorgio Caproni, San Giovambattista, in Come un’allegoria)<br />
Nel primo Caproni c’è il senso dell’evento e dell’epifania, egli costruisce le sue<br />
poesie come miracoli di grazia fulminante, ed ecco Penna: la poesia di entrambi è fatta<br />
di cose presenti, di sensazioni concrete e istantanee; e si pensi an<strong>che</strong> all’uso del “ma”<br />
avversativo, visto an<strong>che</strong> poco sopra, pronto a rimettere in gioco l’io, a prolungare<br />
un’azione, un gesto, 41 o l’impiego della congiunzione coordinante “e”: «Ma io sento<br />
ancora / fresco sulla mia pelle il vento», San Giovambattista; «ma ride il sole / bianco<br />
sui prati di marzo», Marzo; «e cade / strano nella frescura un suono», Sei ricordo<br />
d’estate. Inoltre l’uso ricorrente dell’enjambement – <strong>che</strong> qui più <strong>che</strong> in Penna<br />
contribuisce a conferire inattese possibilità semanti<strong>che</strong> alle parole – spezzando il verso<br />
ne inarca il ritmo, generando uno squilibrio e uno scarto dovuti all’eccezionalità<br />
dell’evento. Rispetto a tanta poesia della negazione di quegli anni e del nostro tempo, in<br />
questi versi sembra di intravedere un tentativo di superamento del vuoto, c’è la<br />
sospensione del trasalimento, «una prova minuta di catarsi in atto, dinanzi al predetto<br />
male della materia». 42<br />
40 Giorgio Caproni in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 102.<br />
41 Cfr. Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 48.<br />
42 Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia, 1976, p. 337.<br />
52
Il tempo presente è però teso tra l’evento e la sua memoria, sospeso tra apparizioni e<br />
sparizioni <strong>che</strong> fanno già presagire le più tarde «asparizioni» del Conte di Kevenhüller. Il<br />
presente è già passato e il passato è ancora un po’ presente: 43<br />
Finita<br />
la leggera canzone,<br />
mentre senza un saluto,<br />
senza un cenno d’addio<br />
mi muore il giorno, e anch’io<br />
dentro il cuore m’abbuio,<br />
te ne sei andata, e il buio<br />
di te più non s’adorna<br />
(Giorgio Caproni, Mentre senza un saluto, in Finzioni)<br />
Estrema rarefazione e precarietà di una poesia <strong>che</strong> «deve sfiorare la realtà senza<br />
rappresentarla», 44 in cui il presente verbale toglie ai testi il peso del passato (e dunque<br />
della storia) o quello dell’attesa del futuro (il male della guerra, le cui nubi si addensano<br />
all’orizzonte), rendendoli estranei ad una «presa troppo umana». 45 È tuttavia ineluttabile<br />
il confronto più diretto con la morte, di cui l’addio e il buio diventano segni distintivi.<br />
Viene chiamato in causa Penna, come accade in un testo degli anni Cinquanta:<br />
Il rumore dell’alba com’è forte!<br />
Ma Penna dice altrimenti, e s’esprime<br />
più piano, senza il vento della morte<br />
<strong>che</strong> invece scuote certune mie rime.<br />
(Giorgio Caproni, Il rumore dell’alba com’è forte!, in Poesie disperse)<br />
In Penna il buio è una «variante oraria del tempo meteorologico», 46 e la morte, quando è<br />
presente, è per lo più uno stato d’animo, un’«ansia» <strong>che</strong>, senza apparente spiegazione,<br />
«i ridenti occhi / già turba / al fanciullo» amico del poeta (Cimitero di campagna).<br />
«Penna è insensibile alla Storia come evoluzione o processo» 47 e quando la presenza<br />
della morte si fa più evidente, essa viene esorcizzata attraverso la resurrezione offerta<br />
dalla ripetizione infinita delle cose:<br />
43<br />
Così Silvio Ramat: «[Caproni] è il poeta, non dimentichiamolo, della condensazione della storia in un sol punto<br />
– il presente – , e quindi del tradimento della legge diacronica. […] (Tra parentesi, saranno proprio i dati della storia<br />
esterna, più tardi – fra il ’43 e il ’47, nella serie Gli anni tedeschi –, a rappresentare in Caproni questo emergere in<br />
icona del male, questo suo tetro scatto, appunto, da latenza a evidenza.)» (Silvio Ramat, Storia della poesia italiana<br />
del Novecento, cit., p. 337).<br />
44<br />
Gaetano Mariani, Primo tempo di Giorgio Caproni, in AA.VV., Genova a Giorgio Caproni, cit., p. 12.<br />
45<br />
Ivi, p. 20.<br />
46<br />
Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, cit., p. 54.<br />
47<br />
Remo Pagnanelli, Studi critici. Poesia e poeti italiani del secondo Novecento, a cura di Daniela Mar<strong>che</strong>schi,<br />
Milano, Mursia, 1991, p. 12.<br />
53
Addio fanciullo, entra nel buio ancora.<br />
E questa è la mia strada, buio sul fiume.<br />
Fin <strong>che</strong> il mondo vorrà. Ma il nostro lume<br />
segreto si riaccende, ad ora ad ora.<br />
(Sandro Penna, Addio fanciullo, entra nel buio ancora, in Stranezze)<br />
Nel primo verso di questa poesia l’avverbio «ancora» dice un presente <strong>che</strong> ritorna, come<br />
pure, alla fine, il verbo «riaccende»: il buio e il lume sono destinati a ripetersi «Fin <strong>che</strong><br />
il mondo vorrà». Eros tende il tempo e allontana la morte, generando un desiderio<br />
inesausto, sempre rinnovabile e sempre rivolto a quei fanciulli eterni adolescenti nei<br />
quali non v’è traccia d’evoluzione. 48 In Caproni, invece, la morte conferisce dimensione<br />
al tempo, è coscienza del suo trascorrere, del passaggio dal poco al nulla. Questo<br />
sentimento si rafforza nel contrasto con la percezione del passato: di fronte ai<br />
trasalimenti dell’essere il tempo non è più ripetibilità, ma rottura. Si pensi ad esempio<br />
all’incipit di Ad Olga Franzoni (in Ballo a Fontanigorda): «Questo <strong>che</strong> in madreperla /<br />
di lacrime nei tuoi morenti / occhi si chiuse chiaro / paese». Qui il «si chiuse» porta a<br />
pensare <strong>che</strong> la morte abbia storicizzato l’evento, sottraendolo quindi alla finzione<br />
poetica e collocandolo nell’elegia, nel pianto. Il passato remoto, del resto, è il tempo<br />
degli eventi considerati fuori della loro durata e definitivamente conclusi. Per via di<br />
negazione si arriva ad affermare il valore relativo dell’attualità del ricordo, mettendo<br />
quindi in crisi il valore assoluto del presente. In questo Caproni vitale e sensuale c’è già<br />
Penna, si diceva, ma nello stesso tempo egli è oltre Penna. Questi sembra porre la<br />
trasgressione più a livello tematico <strong>che</strong> linguistico, e continuando a riflettere sul<br />
desiderio rimane prigioniero della sua ossessione. Penna è «poeta esclusivo d’amore»<br />
(Stranezze), an<strong>che</strong> se di un amore <strong>che</strong> è croce e delizia: «a tale monotematismo» scrive<br />
Mengaldo, «corrisponde puntualmente la perfetta unitarietà del <strong>lingua</strong>ggio, […] certo<br />
l’esempio di monolinguismo lirico più rigoroso e assoluto del nostro Novecento». 49<br />
Caproni, invece, riflettendo sulla storia, acquista coscienza dello sviluppo diacronico del<br />
<strong>lingua</strong>ggio, ossia della sua evoluzione come elemento critico e trasgressivo. Il<br />
<strong>lingua</strong>ggio, come luogo del sapere e del mostrasi della vita nel testo poetico, viene<br />
48 Ivi, p. 13: «Volendo di passaggio accennare a dei moventi psicologici è chiaro <strong>che</strong> la patente omosessualità di<br />
Penna e la sua fissazione allo stato anale determinano una non coscienza del tempo. Ormai è nozione comune <strong>che</strong><br />
l’Es sia atemporale e si spiega come per il poeta il desiderio dell’incontro sessuale nella sua concretezza […] sia il<br />
centro attorno a cui ruota tutta una vita. Non esiste e non può esistere nessuna evoluzione per la spinta pulsionale».<br />
49 Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 736.<br />
54
messo in discussione. In lui si sentono già i sintomi sintattici e semantici di certo<br />
scetticismo (l’allegoria, la finzione) 50 e di una progressiva nullificazione, <strong>che</strong> saranno<br />
propri della sua fase più matura, in cui «le temps vertigineux s’engouffre dans les failles<br />
d’une parole schisteuse et furtive, le poème l’étire ou le condense au fil d’un rapport<br />
angoissant au silence. Temps des perceptions vaines, des “asparitions” évanescentes, de<br />
la parole en exil». 51<br />
L’ambiguità di un presente «sommosso da un passato per lo più recentissimo» 52 e<br />
l’assenza di futuro, a dire la «condensazione della storia in un sol punto», 53 esprimono,<br />
con un procedimento inverso rispetto a Penna, la mutevolezza della vita, contro<br />
l’immutabilità di tutto ciò <strong>che</strong> è storia, ovvero evidenza del male, la «pace / finta<br />
dell’aria», la guerra, la morte e la fine delle finzioni giovanili:<br />
Sempre col batticuore,<br />
te rapita nell’ansia<br />
continua delle fugaci<br />
ore, tanto sbadata<br />
guardo mentre alla pace<br />
finta dell’aria affidi<br />
la tua risata […]<br />
(Giorgio Caproni, Batticuore, in Finzioni)<br />
e proiettano Caproni nell’evanescenza dello spazio poetico in cui «dolce è per un istante<br />
/ indugiare» sull’indicibile:<br />
E quanto mai<br />
dolce è per un istante<br />
indugiare allora sul tempo<br />
andato – sul giorno,<br />
in così varie e tante<br />
guerre, vinto oramai.<br />
(Giorgio Caproni, Pausa, in Ballo a Fontanigorda)<br />
An<strong>che</strong> in Penna il valore del presente scaturisce dal contrasto con la percezione del<br />
passato, ma con esiti ben diversi da quelli intravisti per Caproni. L’imperfetto e il<br />
50 Così Caproni in un’intervista: «L’artista in genere tende all’evasione, io invece ho cercato di fare poesia ad<br />
occhi aperti e guardare in faccia la realtà fino a metterne in dubbio l’esistenza», «Il Sabato», 1984, ora in Giorgio<br />
Caproni, L’opera in versi, cit., p. 1058. Da queste osservazioni emerge la continuità creativa di Caproni, nonostante<br />
gli esiti inquieti e vari del suo itinerario espressivo. Si delineerà un rapporto tra parole e oggetti (attraverso la<br />
percezione del tempo), <strong>che</strong> ha nelle prime poesie il suo seme, in quella prima fascinazione l’inizio della sua<br />
evoluzione.<br />
51 Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, cit., p. 83.<br />
52 Giuseppe Leonelli, Giorgio Caproni. Storia di una poesia tra musica e retorica, cit., p. 14.<br />
53 Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, cit., p. 337 (cfr. supra, nota 42).<br />
55
perfetto, «rare se pur significative infiltrazioni» 54 di tante sue poesie, pongono tra<br />
soggetto e oggetto un «diaframma memoriale», col quale si rende maggiormente<br />
visibile e percepibile il «trionfo dell’immobilità e permanenza della Vita sulla<br />
mutevolezza della Storia»: 55<br />
Il mio Amore era nudo<br />
in riva di un mare sonoro.<br />
Gli stavamo d’accanto<br />
– favorevoli e calmi –<br />
io e il tempo.<br />
Poi lo rubò una casa.<br />
Me lo macchiò un inchiostro. Io resto<br />
in riva di un mare sonoro.<br />
(Sandro Penna, Il mio Amore era nudo, in Poesie)<br />
All’«astoricità di fondo […] dissolta fra intermittenza e ripetizione» 56 si deve l’alleanza<br />
tra l’io e il tempo «favorevoli e calmi», mentre in Caproni il tempo è «andato» e il<br />
giorno è «in così varie e tante / guerre, vinto oramai». Il tempo non è messo in<br />
discussione solo come categoria filosofica e metafisica, ma come sistema di gesti e<br />
segni linguistici. In Caproni la percezione del tempo come momento predispone il<br />
<strong>lingua</strong>ggio poetico ad una evoluzione di fronte all’invasione della storia e della guerra,<br />
<strong>che</strong> costringeranno ad una progressiva riduzione della parola poetica, fino all’estrema<br />
evidenza della rima come residuale veicolo di senso («La terra. / La guerra. // La sorte. /<br />
La morte», Fatalità della rima, in Res amissa). In Penna la poesia risponde ad un «désir<br />
d’intemporalité», <strong>che</strong> sviluppa la coscienza stessa del tempo nel pre-sentimento<br />
dell’eternità, per cui «la chose vue est dérobée à sa précarité». 57 Ne consegue <strong>che</strong> an<strong>che</strong><br />
il <strong>lingua</strong>ggio si sottrae alle precarietà alla quale lo costringerebbe il concepirlo in<br />
evoluzione. La <strong>lingua</strong> di Penna è la <strong>lingua</strong> di chi sa (si pensi all’incipit della sua prima<br />
poesia: «La vita… è ricordarsi di un risveglio») e, volendo andare contro, o oltre, la<br />
storia, finisce per fissarsi in un’essenziale sentenziosità lirica. È la <strong>lingua</strong> di chi parla e<br />
dice la gioia e la sofferenza della vita senza impaccio, arrivando a definire ciò <strong>che</strong> per<br />
lui è la cosa più importante, il cuore dove l’essere raggiunge il suo limite e il limite<br />
definisce l’essere, mettendolo in discussione:<br />
54<br />
Alessandro Duranti, Penna 1939: <strong>che</strong> cosa è la vita?, «Paragone», 444, febbraio 1987, p. 78.<br />
55<br />
Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 737.<br />
56<br />
Ivi, p. 735.<br />
57<br />
Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, cit., p. 82.<br />
56
Felice chi è diverso<br />
essendo egli diverso.<br />
Ma guai a chi è diverso<br />
essendo egli comune.<br />
(Sandro Penna, Felice chi è diverso, in Appunti)<br />
57
2.2.<br />
SANDRO PENNA:<br />
L’EROS COME UTOPIA<br />
La parola poetica di Sandro Penna sceglie il corpo e il paesaggio come spazi<br />
privilegiati di una ricerca ontologica inesausta, <strong>che</strong> esalta la fisicità delle percezioni<br />
attraverso veloci illuminazioni. L’esistenza si confronta con l’alterità e la natura<br />
partecipa dei sentimenti dell’individuo, esteriorizzando i moti del cuore di un’identità<br />
tormentata:<br />
Mi guardavano muti<br />
meravigliati<br />
i nudi pioppi: soffrivano<br />
della mia pena: pena<br />
di non sapere chiaramente…<br />
(Mi avevano lasciato solo, in Poesie)<br />
La felicità e la meraviglia <strong>che</strong> derivano dalla contemplazione poetica sono minacciate<br />
dall’irruzione del negativo, abitate dal sentimento dell’effimero, <strong>che</strong> è in rapporto con la<br />
natura e <strong>che</strong> dà origine a un’utopia irrisolta, sfiorata dall’elegia. 1 Il piacere è minacciato<br />
da una pena <strong>che</strong> invade la pagina, per cui gioia e dolore sono la diastole e la sistole di<br />
un’esistenza perennemente in bilico. L’eros, sorgente di questo idillio elegiaco, è alla<br />
base della relazione <strong>che</strong> l’io instaura con l’altro da sé e col mistero «di non sapere<br />
chiaramente». È un movimento sospeso tra la fine e il divenire, <strong>che</strong> lascia intravedere<br />
intermittenti possibilità di salvezza, momenti in cui sembra di poter scorgere la pura<br />
gioia, resa nella concisione della forma epigrammatica in cui dialogano la ricerca di sé,<br />
la dimensione cosmica e l’esperienza erotica.<br />
Nel sublime antifrastico di queste poesie si manifesta il senso delle cose, emergono<br />
dettagli rivelatori <strong>che</strong> interrompono il percepire abituale e ogni situazione cessa di<br />
1 In questo spazio dimora la grande varietà d’accenti <strong>che</strong> compongono il monostilismo penniano, <strong>che</strong> può essere<br />
elegiaco e trattenuto, oppure ampio e sobrio, fino a raggiungere spunti prodigiosi.<br />
59
essere occasione, per assumere una profondità <strong>che</strong> si apre alle suggestioni dello<br />
straniamento e dello slittamento emotivo:<br />
Com’ero lieto sotto un albero in fiore.<br />
Credevo di soffrire ed ascoltavo<br />
i fanciulli voler baciare un cane.<br />
Rispondeva un guaito, – e una risata<br />
spavalda mi faceva ancor più triste.<br />
Tutto poi si perdeva nella luce<br />
ed il bacio mi stava ad ascoltare.<br />
(Com’ero lieto sotto un albero in fiore, in Croce e delizia)<br />
Penna traduce la realtà nella presenza vibrante e sconcertante di luoghi ed esistenze<br />
periferi<strong>che</strong>, apparentemente senza storia, senza un prima né un dopo, ma in cui<br />
convivono sofferenza e amore, l’una complementare all’altro. Tutto si perde nella luce<br />
di una dimensione primigenia non definibile se non attraverso un lieve e veloce segno<br />
poetico. Come ha scritto Alfonso Berardinelli, «Penna istituisce questo altrove, questa<br />
seconda realtà esente dalla realtà storica: una realtà di ore, di stagioni e di corpi, una<br />
natura sovranamente splendente e variabile». 2 L’accettazione di questo spazio scentrato,<br />
sospeso tra concretezza e astrazione, garantisce una sorta di inalterabilità rispetto alla<br />
crisi <strong>che</strong> caratterizza i nostri tempi politici e poetici.<br />
Nella naturale predisposizione alla marginalità esistenziale il sogno e l’infinito si<br />
trasformano in un altrove estatico e luminoso: nella prospettiva scorciata dei versi uno<br />
spazio imperfetto diventa assoluto, viene strappato all’incertezza del presente. Spetta al<br />
poeta il compito di recuperare questa realtà dimessa e anonima in una sorta di mappa<br />
mentale, l’atlante di una geografia interiore e intima, ma allo stesso tempo, a suo modo,<br />
religiosa e civile.<br />
2.2.1. La dialettica del desiderio<br />
In versi concisi e lapidari l’esprit de délicatesse di Penna fissa l’intensità dell’istante<br />
attraverso una percezione sensoriale e psichica <strong>che</strong> supera tutti i segni <strong>che</strong> circondano<br />
l’essere. An<strong>che</strong> la storia in quanto categoria umana e intellettuale viene messa da parte,<br />
2 Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino, Bollati Boringhieri,<br />
1994, p. 151.<br />
60
mentre il confronto è aperto col tempo, con le stagioni, le ore, i momenti <strong>che</strong> passano,<br />
gli attimi. Si potrebbe dire, prendendo in prestito le parole di Sereni, <strong>che</strong> Penna è<br />
«custode non di anni ma di attimi» in cui un gesto si assolutizza in evento. 3<br />
Si potrebbero ricordare le parole di Ermanno Krumm: «Basta un nulla […] perché in<br />
un attimo rivelatore si abbia l’epifania di un impossibile equilibrio, l’intuizione di<br />
qualcosa <strong>che</strong> si arresta nel flusso continuo del mondo […]. È un punto fermo in cui,<br />
però, qualcosa danza». 4 Qualcosa danza nelle parole di Penna: egli mette in scena degli<br />
oggetti concretissimi, <strong>che</strong>, inserendosi in un processo di intensificazione emozionale,<br />
rendono determinato e nitido il mondo psichico. Spetta al desiderio, elemento dinamico,<br />
il compito di collegare i due mondi, quello delle cose e quello della psi<strong>che</strong>: la poesia<br />
sembra trascendere i limiti, ma rimane sempre legata ai particolari fisici della natura, del<br />
corpo, del sesso e dello spirito, <strong>che</strong> rappresentano un territorio da esplorare<br />
infinitamente, per esprimere un piacere di cui occorre rinnovare la pronuncia. Così<br />
Penna crea il mito dell’altro – il fanciullo – oggetto e asse del suo desiderio: 5<br />
Esco dal mio lavoro tutto pieno<br />
di aride parole. Ma al cancello<br />
hanno posto gli dei per la mia gioia<br />
un fanciullo <strong>che</strong> gioca con la noia.<br />
(Esco dal mio lavoro tutto pieno, in Poesie)<br />
L’eros è come una musica contrappuntistica, <strong>che</strong> emana dagli dei e avvicina ad essi, ma<br />
allo stesso tempo la voluttà risolve solo parzialmente il contatto dell’io con l’alterità e<br />
conferma il dualismo insormontabile dell’essere, la sua incapacità di partecipare alla<br />
vita. In quanto oggetto di un desiderio mai risolto, mai compiuto, l’altro non coincide<br />
con l’io, ma rimane avvolto in un mistero <strong>che</strong> tuttavia ne custodisce an<strong>che</strong> la<br />
potenzialità: esso si adempie sotto l’egida della visione luminosa e irraggiungibile del<br />
fanciullo chiuso nel suo pudore o nella sua noia, un’immagine <strong>che</strong> lo sguardo non può<br />
profanare e <strong>che</strong> per questo è disponibile ad infiniti ritorni.<br />
3 Come ha scritto Elio Pecora nella poesia di Penna troviamo «la particella <strong>che</strong> accoglie in sé la vita e l’universo,<br />
l’attimo <strong>che</strong> chiude in sé ogni tempo» (Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. 72). E si legga an<strong>che</strong><br />
Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 15.<br />
4 Ermanno Krumm, Lirica moderna e contemporanea, cit., p. 134.<br />
5 Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., pp. 13-14: «In Penna la vita materiale<br />
è liberata da ogni valenza comica e grottesca, perché, semplicemente, il poeta l’accetta nella sua datità, al suo grado<br />
zero, e può in tal modo trasferirla in una dimensione altamente spirituale. Il fatto è <strong>che</strong> Penna non mescola mai corpo,<br />
mondo esterno, cose: il corpo dell’amato non cessa infatti di essere se stesso, qualcosa di definito nella sua bellezza e<br />
grazia, riflesso della immensa bellezza del mondo. Poeta della corporeità significa infatti poeta del tutto, ossia del<br />
corpo come carne, mente, spirito; come capacità di progettare, di slanciarsi verso il mondo e di ricordare».<br />
61
Non c’è conflitto e non c’è fusione, perciò non c’è conoscenza: la relazione con<br />
l’altro da sé, con il suo mistero, è relazione con ciò <strong>che</strong>, in un mondo in cui c’è tutto,<br />
non c’è mai. Tuttavia, proprio tale imperfezione fa emergere la contraddizione di<br />
un’istanza a venire, in cui si riproduce la coppia tempo-atemporalità, <strong>che</strong> tende<br />
continuamente la poetica dell’autore perugino, «sviluppando le correlazioni della sfera<br />
intuitiva tra percezione, memoria e immaginazione»: 6 in quanto attesa di qualcosa <strong>che</strong><br />
non si realizza nel presente il desiderio sposta il suo oggetto in una dimensione <strong>che</strong> non<br />
è di questo mondo, <strong>che</strong> non appartiene alla storia e alla nostra società. In questo senso il<br />
rapporto con l’altro potrebbe essere considerato fallimentare. Lo è nella misura in cui si<br />
intenda l’eros come possessione e conoscenza, ma esso non è niente di tutto ciò. 7 Se<br />
Penna da un parte non ignora i tempi storici in cui vive, riservandogli spazio nei propri<br />
taccuini, 8 dall’altra ne coglie la non vitalità, quasi, potremmo dire, la non dignità<br />
poetica: l’eros è altra cosa, partecipa di una natura divina <strong>che</strong> non ha a <strong>che</strong> fare con le<br />
categorie umane. Se noi potessimo possedere e conoscere l’altro, non sarebbe più altro,<br />
non sarebbe più mistero, ossia oggetto del desiderio. Possedere e conoscere sono invece<br />
sinonimi e attributi del potere. L’eros di Penna è al di fuori della società ed è contro la<br />
storia, in quanto ne rifiuta le logi<strong>che</strong> più comuni: la sua relazione con l’altro si basa sul<br />
non riconoscimento di leggi e regole prestabilite. 9<br />
6 Ivi, p. 14.<br />
7 L’eros di Penna è rinuncia e speranza <strong>che</strong> si rinnova. Così Alfonso Berardinelli: «Non c’è altra legge <strong>che</strong> quella<br />
dettata dagli alti e bassi dell’energia erotica e vitale, con le sue ierofanie della pienezza e della perdita, della presenza<br />
e dell’abbandono. […] Penna è aiutato in questo dalla sua religione della fisicità. Il corpo e la vita del corpo sono<br />
tutto ciò <strong>che</strong> Penna conosce dell’anima e dello spirito. […] Il mondo sociale è percepibile, ci offre la forma fisica<br />
determinata dei nostri oggetti d’amore. Il mondo storico è invece solo pensabile: non attraverso la memoria <strong>che</strong> il<br />
corpo ha di se stesso nel tempo, ma attraverso la memoria morale e ideologica. A questo secondo sistema della<br />
coscienza e della memoria [...] Penna ha rinunciato» (Alfonso Berardinelli, Penna o l’altrove, in AA.VV., Sandro<br />
Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, a cura di Francesca Bernardini Napoletano, Roma, Edizioni Fahrenheit 451, 2000, p.<br />
21). 8 Su questo tema si possono dare due letture. <strong>Una</strong> è quella di Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del<br />
Novecento, cit., p. 177: «Penna si mette fuori dalla storia, ignorandola. È an<strong>che</strong> lui un borghese, un piccolo borghese<br />
[…], ma vive e si regola, quindi si esprime poeticamente, come se fosse prosciolto, svincolato da qualsiasi classe<br />
sociale. Bisognerà spiegarci meglio: si vedrà <strong>che</strong> la giustificazione storica, l’esserci della storia, della poesia di Penna<br />
è tutto in quel come se. Anticipiamo la spiegazione, dicendo <strong>che</strong> quel come se, quel come essere fuori dalla storia, è<br />
già un prendere atto della storia, già un modo di esserne condizionato». L’altra lettura è quella di Daniela Mar<strong>che</strong>schi,<br />
Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., pp. 18-21: «È chiaro <strong>che</strong> Debenedetti pensa alla storia come un<br />
assoluto, come STORIA in breve, sede esemplare dell’agire umano; e da questo ha in lui origine l’idea sia del<br />
cronachismo sia dell’evasività presunta di Penna: due facce della stessa medaglia, cioè quella dell’esclusiva<br />
concentrazione del poeta sui minimi e massimi accadimenti privati dell’esistenza. Ma questi non sono meno “storici”<br />
an<strong>che</strong> se appartengono alla cronaca biografica, non per nulla spunto della moderna storiografia. […] In realtà, i<br />
taccuini o i diari di Penna mostrano lacerti d’attenzione alle vicende stori<strong>che</strong> <strong>che</strong> smentiscono la presunta sottrazione<br />
del poeta alla storia: si pensi, in particolare, alle pagine in cui Penna racconta della ritirata tedesca da Roma, riportate<br />
da Elio Pecora nel suo volume biografico».<br />
9 Si legga Alfonso Berardinelli, Penna o l’altrove, in AA.VV., Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, cit., p. 19:<br />
«In ognuno dei suoi versi si celebra l’assenza e l’irrilevanza di una storia <strong>che</strong> viene allontanata e messa da parte con il<br />
gesto indifferente di chi sta guardando altrove. Sovrana è l’indifferenza di Penna alle vicende del mondo storico.<br />
62
L’esperienza dell’io è collocata quindi in una lontananza <strong>che</strong> determina un rapporto<br />
diverso con la realtà. Solo nell’eros, segreto e misterioso, povero e vivo, Penna può<br />
collocare la possibilità di un altrove <strong>che</strong> è salvezza e perdizione contemporaneamente:<br />
La madre mi parlava dell’affitto.<br />
Io ero ad altra riva. Il mio alloggio<br />
era ormai in paradiso. Il paradiso<br />
altissimo e confuso, <strong>che</strong> ci porta<br />
a bere la cicuta…<br />
(Ero per la città fra le viuzze, in Poesie)<br />
Ci sono momenti in cui l’autore condensa la trascendenza in ciò <strong>che</strong> accade e la poesia<br />
diventa il luogo in cui una circostanza si assolutizza contro la minaccia del vuoto, senza<br />
tuttavia la scappatoia della verticalità. La realtà quotidiana può assumere i tratti di un<br />
paradiso in terra «fuori del quale abitano […] la precarietà e la morte», 10 tuttavia, poiché<br />
il desiderio non trova una compiuta realizzazione ma prelude ad uno smarrimento<br />
emotivo (qui il paradiso è «altissimo e confuso»), la distanza sembra essere la vera cifra<br />
di una poesia <strong>che</strong> partecipa di una doppia natura, positiva e negativa allo stesso tempo.<br />
La trasfigurazione del reale, mediata dalle immagini dei fanciulli, non porta soltanto ad<br />
una diversa misura delle cose, ma an<strong>che</strong> a saggiarne i limiti: Penna non sembra in grado<br />
di meditare sulla trascendenza, eventualmente può nominarla, sfiorarla, farla esistere per<br />
infiniti attimi sulla pagina, accanto all’immanenza <strong>che</strong> ci è toccata in sorte.<br />
Nel gesto distratto, nell’evento non realizzato ma solo atteso, si rivela una «nostalgia<br />
d’infinito» 11 <strong>che</strong> è sorgente del desiderio; al contrario, nell’atto compiuto il desiderio si<br />
consuma, eros scompare e dell’amore rimane solo un misero sesso, <strong>che</strong> non ha più nulla<br />
di divino, ma testimonia di un’esistenza spogliata della momentanea numinosità,<br />
lasciata a se stessa e al proprio esilio:<br />
Poi fu una cosa povera, avvilita,<br />
nascosta da una mano, il segno della vita.<br />
(Poi fu una cosa povera, avvilita, in Appunti)<br />
L’irradiante immobilità delle sue immagini è appena screziata dalle vicende di una cronologia <strong>che</strong> non è storica ma<br />
biologica».<br />
10 Così Elio Pecora, Premessa alla nuova edizione, in Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. XXIX.<br />
11 Roberto Deidier, L’estate se ne andò senza rumore, in AA.VV., La vita… è ricordarsi di un risveglio. Letture<br />
penniane. (Atti del convegno – Roma, 30 maggio 2007), a cura di John But<strong>che</strong>r e Magda Vigilante, Roma, Fermenti<br />
Editrice, 2007, p. 20.<br />
63
Costretta in questa contingenza, la pars costruens del sistema poetico penniano si<br />
capovolge, il sogno preannuncia la distruzione in cui si cerca di trovare sollievo dal<br />
peso di un desiderio troppo intenso, tuttavia immaginarne o sperarne la fine lo rende più<br />
forte:<br />
Come l’amante fugge l’altro amante<br />
solo perché non pesi troppo amore,<br />
così sogni un paese dove un vento<br />
gelido abbia distrutto ogni fanciullo.<br />
(Come l’amante fugge l’altro amante, in Confuso sogno)<br />
In ciò consiste la qualità più profonda e sapienziale della poesia, <strong>che</strong> si confronta<br />
simultaneamente con la gioia e con il dolore, con il finito e l’infinito, la realtà e la<br />
surrealtà immaginosa dell’eros, <strong>che</strong> impasta di sé un’utopia intermittente, fallimentare e<br />
tuttavia tenace e necessaria. 12 All’illusione si alterna la realtà per quello <strong>che</strong> è, alla<br />
solarità il lutto, e l’anima del poeta è «triste e / calma» (Andare nella vita, in Confuso<br />
sogno), consapevole del fatto <strong>che</strong> la bellezza e la felicità si trovano solo nella<br />
lontananza o nell’assenza, in un altrove <strong>che</strong> si schiude come una promessa:<br />
Esiste ancora al mondo la bellezza?<br />
Oh non intendo i lineamenti fini.<br />
Ma alla stazione carico di ebbrezza<br />
il giovane con gli occhi ai suoi lontani lidi.<br />
2.2.2. Il topos dell’incontro<br />
(Esiste ancora al mondo la bellezza?, in Confuso sogno)<br />
<strong>Una</strong> chiave d’accesso a questa poetica potrebbe essere il topos dell’incontro come<br />
base da cui si sviluppa, o verso cui procede la poesia, nel tentativo di ricostruire il<br />
rapporto tra alterità e realtà. I luoghi privilegiati degli incontri (e della trascendenza)<br />
sono gli orinatoi, le stazioni, i treni, i prati delle periferie cittadine, i sobborghi: sono<br />
luoghi marginali <strong>che</strong> assumono la valenza di un altrove <strong>che</strong> predispone<br />
etimologicamente all’avventura, cioè a ciò <strong>che</strong> deve venire, ai battiti e tic<strong>che</strong>ttii alterni<br />
12 Cfr. Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, cit., p. 23: «nella sua divinità, il mondo fanciullesco resta<br />
inossidabilmente disumano. I fanciulli trasformano l’esperienza del mondo; la trasfigurano; la rendono vivibile, ma<br />
non la cambiano. […] I ragazzini di Penna non salveranno mai il mondo, non essendoci nel mondo niente da<br />
salvare».<br />
64
dei sensi. L’attimo in questi casi è il momento in cui viene restituita la dimensione della<br />
totalità e dell’assolutezza a ciò <strong>che</strong> è incompleto e imperfetto. L’incontro prepara una<br />
svolta nella condizione dell’essere, <strong>che</strong> può così resistere al vuoto <strong>che</strong> gli si fa intorno: 13<br />
Ero per la città, fra le viuzze<br />
dell’amato sobborgo. E m’imbattevo<br />
in cari visi sconosciuti… E poi<br />
nella portineria dov’ero andato<br />
a cercare una camera ho trovato…<br />
Ho trovato una cosa gentile.<br />
(Ero per la città, fra le viuzze, in Poesie)<br />
I versi hanno le movenze di apparizioni, <strong>che</strong> da una parte offrono un appoggio e un<br />
sostegno al destino dell’io, e dall’altra manifestano la fuggevolezza <strong>che</strong> alberga nelle<br />
cose. Nell’incontro con l’altro Penna cerca il gesto umile e quotidiano, la sensualità<br />
carica di mistero degli adolescenti, in cui persino l’atto fisiologico può assumere un<br />
valore spirituale:<br />
Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri<br />
di quel fanciullo io pregherò il mio dio.<br />
Ma il mio dio se ne va in bicicletta<br />
o bagna il muro con disinvoltura.<br />
(Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri, in Poesie inedite)<br />
L’incontro è teso tra due poli: il «vuoto» del cielo e il «dio» pregato dal poeta, <strong>che</strong> «è a<br />
un tempo umano e animale; angelo terrestre non conosce peccato, non colpe né fini.<br />
[…] È l’uomo prima delle costrizioni sociali, della discesa nella scontentezza e nel<br />
compromesso». 14 Penna non ha altro dio e l’eros si conferma come esperienza della<br />
solitudine e della distanza (si noti l’uso del deittico «quel fanciullo»): la vera vita va<br />
cercata non qui ma altrove, più in là, in una increspatura dell’esistenza, in un incontro in<br />
cui si compia una minima rivoluzione intima e psicologica, <strong>che</strong> nel tratto solo accennato<br />
cela ciò <strong>che</strong> sta al di sotto del pensiero cosciente, qualcosa <strong>che</strong> resta dentro e determina<br />
un destino profondo. Il futuro ribadisce l’infrazione della norma: non più presenza, ma<br />
13 Cfr. Jacques Derrida, La voix et le phénomène, cit., p. 60: «la forme universelle de toute expérience (Erlebnis)<br />
et donc de toute vie, a toujours été et sera toujours le présent.il n’y a et il n’y aura jamais que du présent. L’être est<br />
présence ou modification de présence. Le rapport à la présence du présent comme forme ultime de l’être et de<br />
l’idéalité est le mouvement par lequel je transgresse l’existence empirique, la factualité, la contingence, la mondanité,<br />
etc.».<br />
14 Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. 94.<br />
65
distanza, perché solo nella lontananza si può cogliere il senso di un mistero. Separato<br />
dalla storia e dalla materialità, a cui fanno allusione ben diverse forme di liberazione o<br />
di abbandono («il mio dio se ne va in bicicletta / o bagna il muro con disinvoltura»),<br />
l’eros scaturisce da un desiderio rivolto al futuro («ma negli occhi neri / di quel<br />
fanciullo io pregherò il mio dio»), mentre il presente, ponendosi come intervallo tra il<br />
qui e l’altrove, è mancanza in cui la stessa possibilità del desiderio vacilla o si<br />
manifesta, ancora una volta, in un’immagine solo sognata:<br />
Non rivedrò il paese ove la sera<br />
cala alla lenta nebbia l’angelo del lavoro.<br />
La luce rivedrò, la luce d’oro<br />
ove brilla il fanciullo. E nella sera<br />
brillan, sognando, le sue gote accese.<br />
(Non rivedrò il paese ove la sera, in Poesie inedite)<br />
Il vedere è un ri-vedere, è novità e ripetizione allo stesso tempo, e il futuro introduce a<br />
una dimensione sottratta ad ogni forma di esperienza comune. La trasgressione della<br />
realtà è tesa tra negazione e affermazione («Non rivedrò il paese», «La luce rivedrò») e<br />
l’incontro col fanciullo è l’evento <strong>che</strong> può trasformare il destino: la contingenza lascia il<br />
posto alla «luce d’oro»; la realtà sensibile cede ai sensi e allo sguardo poetico, <strong>che</strong><br />
operano una trasformazione radicale del mondo. Questa condizione continuamente<br />
disponibile al cambiamento sembra liberare il corpo dai legacci mondani e l’eros<br />
prepara a qualcosa di nuovo, in cui allegria e vertigine si confondono. 15 Lo spazio<br />
indefinibile e immenso determinato dal gerundio «sognando» concentra in sé il senso<br />
della durata, ma an<strong>che</strong> di un altrove aperto ad infinite possibilità, in cui il pensiero<br />
diventa, anzi è, materia e fondamento di una nuova realtà. La «luce d’oro» e le «gote<br />
accese», sono allora i prodotti di un’immaginazione <strong>che</strong> rende possibile il movimento<br />
dalla condizione mortale a quella immortale.<br />
Il vero significato della poesia si realizza proprio nella dissimulazione di questo<br />
rapporto con la morte e «l’io, nel mezzo di questa dinamica circolare, rischia di<br />
confondere l’origine con la fine»: 16<br />
15 Così scrive Penna nel suo taccuino il 3 agosto del 1928: «e mi prende ancora una sanguinante malinconia per<br />
questa indipendenza assoluta di ogni cosa dalle altre del mondo, per questa impossibilità di comunioni perfette fra<br />
tutte le cose: fra due stati d’animo della stessa persona, fra due esseri <strong>che</strong>, amandosi, non si congiungeranno mai<br />
perfettamente e interamente», ora in Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. 66.<br />
16 Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 48.<br />
66
Mi adagio nel mattino<br />
di primavera. Sento<br />
nascere in me scomposte<br />
aurore. Io non so più<br />
se muoio oppure nasco.<br />
(Mi adagio nel mattino, in Giovanili ritrovate)<br />
La coppia vita-morte è alla base della dinamica utopica, e segna an<strong>che</strong> l’esaltazione<br />
dell’io teso tra questi opposti segni del desiderio. La morte non è più soltanto un vago<br />
sentimento, ma un momento chiave della tensione verso una possibile eternità, <strong>che</strong> «non<br />
è l’innalzamento sovraterreno, ma lo splendore della […] caducità». 17 Non si tratta più<br />
di trattenere un gesto o un evento prima <strong>che</strong> svanisca, quanto piuttosto di ri-dirlo<br />
proiettandolo al futuro. Il distacco e la morte sono, quindi, complementari all’incontro,<br />
anzi lo rendono possibile infinite volte:<br />
Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.<br />
Ma più belli di te ragazzi ancora<br />
dormiranno nel sole in riva al mare.<br />
Ma non saremo <strong>che</strong> noi stessi ancora.<br />
(Guardando un ragazzo dormire, in Stranezze)<br />
Il fanciullo è colui <strong>che</strong> «abita la dimensione del desiderio» e «rappresenta l’immagine<br />
ideale, sognata, dell’amore; l’altro da sé umanamente armonioso, ben lontano e<br />
anteriore all’omoerotismo». 18 Da una parte egli salva il poeta dal mondo degli adulti,<br />
rappresentando una dimensione alternativa alla realtà <strong>che</strong> si vuole normale; dall’altra è<br />
proprio sulla pelle chiara di questi giovani, <strong>che</strong> si distende più nettamente l’ombra del<br />
futuro. Tale consapevolezza apre però lo spazio infinito dell’ancora possibile, di un<br />
altrove luminoso e marino, in cui la vita continua, ciclicamente rinnovandosi (come nel<br />
ripetersi delle stagioni), riproducendosi come in un gioco di specchi <strong>che</strong> permette di<br />
eludere la fine. 19<br />
In questa prospettiva è fondamentale l’incontro dei corpi con la natura 20 (an<strong>che</strong> in<br />
chiave simbolica), in una sorta di rito panteista <strong>che</strong> celebra l’inesprimibile attraverso<br />
17 Così Italo Testa, Giustizia poetica, «Atelier», 50, XIII, giugno 2008, p. 141.<br />
18 Elio Pecora, Postfazione, in Sandro Penna, Confuso sogno, Milano, Garzanti, 1980, p. 140.<br />
19 Cfr. Magda Vigilante, Guardando un ragazzo dormire, in AA.VV., La vita… è ricordarsi di un risveglio.<br />
Letture penniane. (Atti del convegno – Roma, 30 maggio 2007), cit., pp. 34-35.<br />
20 Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 180: «La natura è, per un poeta come Penna, una<br />
patria dove l’uomo vive». E in un appunto del 1928 Penna scriveva: «Quando, stanchi di una lunga discussione con<br />
67
l’allontanamento dalla civiltà, in una dimensione in cui la parola scava in un abisso<br />
riportando alla luce i sensi:<br />
Sole senz’ombra su virili corpi<br />
abbandonati. Tace ogni virtù.<br />
Lenta l’anima affonda – con il mare –<br />
entro un lucente sonno. D’improvviso<br />
balzano – giovani isolotti – i sensi.<br />
Ma il peccato non esiste più.<br />
(Sole senz’ombra su virili corpi, in Poesie)<br />
L’immersione nella natura ha nella visione canicolare dei sensi il momento rivelatore di<br />
interne illuminazioni <strong>che</strong> si confrontano con i termini opposti di virtù e peccato. L’eros<br />
«non subisce le leggi della civiltà» 21 e partecipa di un’altra natura, non morale ma<br />
luminosa e divina, atemporale e in certo senso trascendente, ovvero lontana dalla<br />
materia autobiografica e dalla contingenza del momento. Sebbene l’incontro sia breve, e<br />
si concluda con un balzo dei sensi (ecco l’indizio, l’epifania solo allusa e sfiorata), esso<br />
lascia strascichi a livello psicologico. Nel silenzio rimane la sospensione onirica (il<br />
sonno è «lucente», perché presuppone il sogno), <strong>che</strong> è abbandono ad uno spazio autre<br />
da cui emergono i sensi come isole nel mare delle indistinte passioni in cui si concreta<br />
l’assoluto. 22<br />
All’assedio del nulla Penna contrappone un mondo fisico e nello stesso tempo<br />
psichico in cui l’esteriorità si risolve in interiorità:<br />
Il sole <strong>che</strong> ha brunito questo corpo<br />
di giovinetto cede la sua forza.<br />
stupide persone intellettuali, dove non si è stati compresi e si è presi per matti o stupidi, solo perché un poeta confessa<br />
il suo modo di pensare, oh allora ci si sente finalmente forti e la poesia ha bisogno di eroismo. E poi si va a<br />
conversare con la sola persona <strong>che</strong> ti comprende: la Natura» (ora in Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit.,<br />
p. 64). Elio Pecora aggiunge: «Nella natura si perdeva e allo stesso tempo si ritrovava; […] dimenticava le proprie<br />
attese e le angosce <strong>che</strong> lo attanagliavano, come se una norma misteriosa e inesorabile lo guidasse, lo comprendesse,<br />
ed era la norma <strong>che</strong> regolava l’infinita complessità dell’esistenza» (Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit.,<br />
p. 65).<br />
21 Così Elio Pecora, Premessa alla nuova edizione, in Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. XXIX.<br />
22 Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Nel sonno incerto sogno ancora un poco, in AA.VV., La vita… è ricordarsi di un<br />
risveglio. Letture penniane. cit., p. 11: «il “sogno” [ha] in Penna una connotazione positiva in quanto dolcezza futura<br />
dell’amore atteso e presenza del bisogno naturale di esso. Il “sogno” assume pertanto la valenza di una concreta<br />
funzione del corpo e rappresenta lo slancio verso la vita e nel tempo; mentre il “sonno” […] è il suo polo<br />
indispensabile. Infatti, alla maniera di Nietzs<strong>che</strong>, il “sonno” è ciò <strong>che</strong> consente all’essere umano di riacquistare le<br />
proprie virtù, fra cui, appunto, quella di sognare, di proiettarsi nel flusso di volta in volta lieto e malinconico<br />
dell’esistenza. […] Tuttavia, […] il sonno appare in Penna un piacevole abbandono alla vita delle passioni, il<br />
sussultare improvviso del corpo <strong>che</strong> impone le sue concrete ragioni […]. Sembra <strong>che</strong> Penna voglia qui dialogare con<br />
Leopardi per ribadire, all’opposto, <strong>che</strong> il “sonno” e il “sogno” sono comunque entro un a sorta di continuum vitale,<br />
sono un sentire sempre la vita e le sue istanze, non un interromperle».<br />
68
Ma resta al bacio tenue ancora<br />
il giovinetto immobile: già sogno…<br />
(Il sole <strong>che</strong> ha brunito questo corpo, in Poesie)<br />
Il sole qui «cede la sua forza», sta tramontando, e Penna coglie il momento in cui la sua<br />
luce e il suo calore affievoliscono nel passaggio dal giorno alla sera. La fisicità e<br />
divinità dell’astro si trasmettono alla figura del «giovinetto», mentre, nell’incertezza del<br />
transito, il deittico “questo” si occupa di rendere concreta ed essenziale la presenza del<br />
suo corpo «brunito» <strong>che</strong> ha assorbito il calore e la luce vitale del sole. Il secondo distico<br />
introduce il momento della durata, ben rappresentata dall’avverbio temporale “ancora”<br />
<strong>che</strong> trattiene il tepore del bacio prima <strong>che</strong> si dissolva e <strong>che</strong> apre lo spazio profondo e<br />
oscuro dell’io, dell’interiorità psichica, in cui il fanciullo è immobile come qualcosa di<br />
assoluto <strong>che</strong>, vinti il tempo e la Storia, non muta. Il secondo avverbio temporale “già”<br />
produce lo slittamento quasi improvviso dal piano della concretezza a quello della<br />
visione onirica, <strong>che</strong> i tre punti finali sospendono nell’indeterminatezza, nel non<br />
compiuto e dunque nel grumo assoluto di un’esperienza ar<strong>che</strong>tipica e primigenia <strong>che</strong> ha<br />
la sfumatura conturbante dell’infinito. I deittici e gli avverbi assolvono la doppia<br />
funzione di rendere concreta la determinazione spaziale e di segnare la distanza di chi<br />
guarda le cose senza parteciparvi, realizzando così il doloroso dissidio tra l’immanenza<br />
e la trascendenza attinta nel sogno. La poesia occupa lo spazio di questa divergenza:<br />
solo nell’eros, segreto e misterioso, povero e vivo, Penna può risolvere il qui nella<br />
possibilità di un altrove. Nello scarto tra parola e cosa prende forma l’utopia <strong>che</strong> rivela<br />
l’essere attraverso l’incontro misterioso tra corpo e cosmo:<br />
Ecco il fanciullo acquatico e felice.<br />
Ecco il fanciullo gravido di luce<br />
più limpido del verso <strong>che</strong> lo dice.<br />
Dolce stagione di silenzio e sole<br />
e questa festa di parole in me.<br />
(Ecco il fanciullo acquatico e felice, in Poesie inedite)<br />
L’universo qui evocato è un luogo mediterraneo in cui si uniscono la luce e il mare,<br />
emblemi assolutizzanti di un altrove contrapposto alla città e completamente libero da<br />
costrizioni, in cui il tempo si contrae per cantare la bellezza del corpo e rivelare la gioia<br />
dell’essere. «Ecco il fanciullo», scrive Penna: la sua è poesia della presenza, ma di un<br />
69
esserci <strong>che</strong> si confronta col pensiero della non-presenza, dell’esclusione. Il testo è<br />
basato su due isotopie: quella della vita <strong>che</strong> sboccia («il fanciullo acquatico e felice» e<br />
poi «gravido di luce») e quella della parola come essenza della vita stessa (il «verso <strong>che</strong><br />
lo dice» e poi il «silenzio» e infine la «festa di parole»). 23 Il segno poetico rinvia ad una<br />
realtà immateriale e attinge a una dimensione precedente la scrittura, in cui cerca le<br />
simmetrie naturali capaci di reggere e continuare il discorso. Piano onirico ed esistenza<br />
conscia si confondono «nella figurazione fra realistica, ipnotica e utopica del fanciullo»:<br />
il corpo è il luogo di collegamento tra ciò <strong>che</strong> si consuma e ciò <strong>che</strong> dura eterno, luogo<br />
della solitudine dell’uomo <strong>che</strong> tuttavia continua a cercare uno spiraglio, perché «la<br />
morte rappresenta l’ingiusta ipoteca della finitudine». 24 Ecco allora <strong>che</strong> manca una<br />
determinazione temporale se non l’immediatezza della visione, e la circostanza<br />
aneddotica sfuma in favore dell’astrazione: la vita <strong>che</strong> il poeta descrive appartiene ad<br />
una dimensione altra, perciò in questa poesia non ci sono verbi, non ci sono tempi<br />
verbali, non c’è il tempo. 25 Si giunge allora alla fusione dei tempi in una dimensione<br />
priva di conflitti, in cui tutto è còlto in una assolutezza <strong>che</strong> lo estrania da ogni umana<br />
collocazione: non c’è Proust, non c’è rivelazione del “tempo perduto”, 26 c’è invece la<br />
rappresentazione di un eterno presente in cui si accampano gli oggetti <strong>che</strong>, come in un<br />
gioco combinatorio, assumono l’evidenza di carte di tarocchi preziose e rivelatrici (il<br />
fanciullo, l’acqua, la luce, il sole e le parole). 27 Assistiamo ad una rappresentazione<br />
23<br />
Così Daniela Mar<strong>che</strong>schi in Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 28: «creatura limpida (pura e<br />
trasparente) <strong>che</strong> non sembra già più del mondo terrestre, si mostra “gravido di luce” cioè contiene in sé la luce.<br />
Quest’ultima appartiene al suo essere e, per tale ragione, si connette al “silenzio”, proprio dell’atemporalità<br />
dell’essere medesimo. Eppure si tratta di un silenzio <strong>che</strong> non annienta le parole, perché è nel misurarsi con l’oggettiva<br />
sostanza dell’altro, quale essa sia, <strong>che</strong> scaturiscono appunto queste. Dalla immaterialità della luce alla materialità dei<br />
suoni, dall’eterna grazia della primavera della vita alla presente (questa) realtà del poeta, la gioiosa “festa di parole”<br />
mette in risalto il mutuo, incessante scambio tra tutto quanto vive e sta nel cosmo, ovvero “la permanenza<br />
dell’intemporale nella temporalità” e viceversa».<br />
24<br />
Roberto Deidier, Penna tra Saba e Montale, in Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna, cit., pp. 101-103. E si<br />
legga an<strong>che</strong> Robero Deidier, L’officina di Penna, cit., p. 8: «La liricità di Penna, tuttavia, individua un singolare<br />
punto di fuga rispetto alla grande tradizione petrar<strong>che</strong>sca, al cui stile e registro sembra pienamente attingere. Nel<br />
“monolinguismo” <strong>che</strong> la caratterizzerebbe, infatti, subentra un livello di microstoria e di parziale “realismo” (ma solo<br />
sul piano lessicale), <strong>che</strong> instaura una tensione dialettica tra la descrizione e la trasfigurazione sognante».<br />
25<br />
Si legga an<strong>che</strong> quanto scrive Stefano Petrocchi in Il taccuino bianco di Sandro Penna, in AA.VV., Sandro<br />
Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, cit., p. 97: «La con-fusione progressiva di figure umane ed elementi naturali è<br />
condotta con i modi ellittici della frase nominale, dell’andamento paratattico e dell’analogia». Questo procedimento<br />
rende il senso di a-storicità del reale <strong>che</strong> è oggetto dell’attenzione di Penna e rende il senso separatezza <strong>che</strong><br />
caratterizzano la poesia e il poeta.<br />
26<br />
Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna fra poesia e prosa, in AA.VV., Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità,<br />
cit., p. 119.<br />
27<br />
Ivi, p. 102: «[…] Penna sottolinea il lieto impulso verso le cose, la risonanza interiore frutto dell’emozione<br />
della bellezza, piuttosto <strong>che</strong> il tripudio coloristico, ditirambico e panico, delle sensazioni. Non per nulla il “fanciullo<br />
acquatico”, creatura limpida <strong>che</strong> non sembra già più del mondo terrestre, si mostra “gravido di luce”, cioè contiene in<br />
sé la luce: quest’ultima appartiene al suo essere e, per tale ragione, si connette al “silenzio”, proprio dell’atemporalità<br />
dell’essere medesimo».<br />
70
dell’io come elemento o corpo cosmico, negazione dell’io sociale o aneddotico.<br />
L’incontro con il paesaggio e con i fanciulli rinvia alle origini stesse della vita, ovvero a<br />
quell’unità perduta tra uomo e natura <strong>che</strong> la poesia tenta di recuperare, ponendosi di<br />
fatto al di fuori della modernità alienata. L’oscillazione tra eros e civiltà dice la tensione<br />
verso un’altra realtà, verso una dimensione diversa dell’essere. Si tratta di una volontà<br />
di regressione verso un’animalità istintiva, <strong>che</strong> annulla l’umano, con i suoi limiti<br />
razionali e i suoi tabù, per lasciare spazio ad una divina libertà in cui la «mente»<br />
(l’interiorità profonda) e il mondo stanno in equilibrio e armoniosamente si riflettono<br />
l’una nell’altro:<br />
Animale lucente di sole:<br />
il mio cuore riluce di te.<br />
Animale di sole lucente:<br />
il mio cuore riluce e la mente.<br />
(Animale lucente di sole, in Confuso sogno)<br />
La poesia raggiunge la perfezione del cerchio, al cui centro sta Penna e la cui<br />
circonferenza è in ogni luogo, perché mobile e in continuo divenire: lo spazio della<br />
poesia è il raggio di tale circonferenza, un raggio sempre più spostato in avanti,<br />
all’inseguimento di un limite <strong>che</strong> diviene altro costantemente. La poesia, allora, si dà<br />
tutta nel percorrere in avanti e poi a ritroso questo spazio tra il qui e l’altrove, in cui<br />
l’incontro coi fanciulli e con la natura si configura come momento d’emergenza di<br />
un’interiorità magmatica, di tensioni <strong>che</strong> superano il motivo della testimonianza<br />
episodica e <strong>che</strong> vanno oltre il tempo stesso, aprendo a una dimensione carica di<br />
potenzialità.<br />
2.2.3. «Un altro mondo si dischiude»<br />
La capacità di Penna di percorrere il passato, il presente e il futuro, <strong>che</strong> riscontriamo<br />
in tanti suoi componimenti, è an<strong>che</strong> quella «mobilità in senso cronologico» 28 tipica dei<br />
suoi testi, per i quali il momento della stesura è difficilmente individuabile. Caproni,<br />
28 Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 72.<br />
71
come si è detto, aveva parlato di «un libro unico in un tempo unico» 29 e Raboni di «una<br />
sorta di atemporalità estatica, in un presente continuo <strong>che</strong> assomma in sé le dolcissime<br />
perfidie del passato e l’assillante letizia del futuro». 30 In questo suo essere al di là del<br />
tempo la forte componente realistica della poesia convive con un’altrettanto importante<br />
istanza immaginativa, <strong>che</strong> permette di andare oltre i limiti del semplice ricordo. Si ha<br />
l’impressione <strong>che</strong> tra le vicende biografi<strong>che</strong> e l’esperienza della scrittura ci sia un vero e<br />
proprio scarto, e <strong>che</strong> pertanto l’esistenza quotidiana abbia influenzato solo in minima<br />
parte i versi. Essi attingono a una dimensione superiore, in cui la figura emerge a dare<br />
consistenza plastica ad una rappresentazione inattuale e fortemente antiborghese. 31<br />
Penna guarda oltre la realtà, 32 rimettendo in causa il senso stesso <strong>che</strong> questa parola<br />
assume nei suoi testi: i versi non tracciano il contorno di semplici quadretti, ma<br />
agiscono nella rappresentazione di una vita sottratta alla neutralità. Il desiderio lascia<br />
emergere l’opposizione tra lo spazio del presente e la sua possibile modificazione in un<br />
paradiso erotico fuori dal tempo, <strong>che</strong> dal passato è giunto sino a noi e si rinnova:<br />
Ricomporre la mia malinconia<br />
vorrei. La nuova dolce religione mia.<br />
Ma se mi desto nella buia stanza<br />
esiterò a picchiare o luminoso<br />
mattino? Io non verrò alle calme<br />
corse nel verde antico ove si sgrana<br />
talvolta il sesso di un fanciullo e rossa<br />
più rossa è l’aria di primavera?<br />
(Ricomporre la mia malinconia, in Poesie inedite)<br />
29 Giorgio Caproni, «Poesie» di Sandro Penna, ora in La scatola nera, cit., p. 109.<br />
30 Giovanni Raboni, Perfezione di Penna, in La poesia <strong>che</strong> si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano.<br />
1959-2004, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, p. 156: «Non si tratta, vorrei <strong>che</strong> fosse chiaro, o<br />
non si tratta soltanto, di ragioni prati<strong>che</strong>, cioè dell’abitudine di Penna di non datare i propri versi per poi “arrendersi”<br />
di fronte alla difficoltà di attribuire loro una data; ma di qualcosa di più e di diverso, di più implicito e interno alla<br />
natura stessa della poesia penniana – di qualcosa <strong>che</strong> ha a <strong>che</strong> vedere molto da vicino con la sua grazia imponderabile<br />
e profonda, con il suo essere sempre misteriosamente, stupendamente altrove rispetto a qualsiasi tentativo di<br />
ricostruzione e classificazione. Essere sempre altrove equivale, io credo, a essere sempre presente: e an<strong>che</strong>, dunque, a<br />
essere naturalmente al di fuori del tempo. La non databilità delle poesie di Penna è, insomma, una circostanza meta<br />
filologica. Se an<strong>che</strong> si riuscisse, con le armi sempre più affilate della filologia, ad apporre (imporre) a ciascuna di<br />
esse una data, la loro atemporalità continuerebbe a vivere, clandestina e trionfante, negli spessori insondabili della<br />
loro trasparenza».<br />
31 Cfr. Remo Pagnanelli, Studi critici. Poesia e poeti italiani del secondo Novecento, cit., p. 27: «Il suo rigettare la<br />
politica a vantaggio della contemplazione della natura e dell’eros è paradossalmente iperideologica, perché la sua<br />
accertata “assenza di funzione” agisce con la scelta di un tempo interiore ossessivo-rurale, contro quello borghese,<br />
rettilineo e progressivo».<br />
32 Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 77: «Penna guarda<br />
costantemente dentro di sé e proietta il proprio desiderio fuori di sé (il “dentro” e il “fuori” di tante sue poesie)».<br />
72
L’io inventa e finge un altrove <strong>che</strong> è già qui attraverso l’incontro con presenze tangibili,<br />
ma <strong>che</strong> in definitiva sono chimerici prodotti della sua immaginazione, angeli e idoli di<br />
un mondo interiore dotato di una sua «risonanza sentimentale». 33 Per cenni e scorci si<br />
intravedono delle ipotesi di salvezza: il mondo esterno (il «luminoso / mattino»),<br />
contrasta con l’interiorità del poeta (la «buia stanza»), e tuttavia prefigura una vita<br />
diversa. 34 L’interrogazione è sospesa tra realtà e irrealtà, possibilità e impossibilità, luce<br />
e buio. Il dissidio interiore si manifesta nel contrasto tra il «chiuso libro» e la «vita<br />
lontana»: 35<br />
Dal chiuso libro adesso approdo a quella<br />
vita lontana. Ma qual è la vera<br />
non so.<br />
E non lo dice il nuovo sole.<br />
73<br />
(Finestra, in Poesie)<br />
Il «nuovo sole» non parla al poeta <strong>che</strong> osserva dall’alto, da una posizione separata dalla<br />
vita vera, perciò la sua luce in questo caso non scalda e non illumina la vita poetica, <strong>che</strong><br />
rimane sterile nel «chiuso libro». An<strong>che</strong> in Falsa primavera Penna affronta il tema della<br />
duplicità del reale, della sua verità e falsità appunto, e lo sviluppa nella<br />
contrapposizione tra un mondo luminoso e vivo e una dimensione di ansia e di vuoto,<br />
tra una esteriorità apparentemente positiva e una interiorità lacerata, tra una natura in cui<br />
«l’ora è ferma» e una dimensione psicologica su cui invece grava il dolore per ciò <strong>che</strong> è<br />
effimero:<br />
Placidi gatti amanti<br />
(sul prato l’ora è ferma)<br />
di vetri luccicanti.<br />
Goffamente beati,<br />
da odore di caserma<br />
si spogliano i soldati.<br />
33 Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 181.<br />
34 Così Cesare Garboli, Penna Papers, cit., p. 45: «Penna è il solo poeta del Novecento il quale abbia<br />
tranquillamente rifiutato, senza dare in escandescenze, la realtà ideologica, morale, politica, sociale, intellettuale del<br />
mondo in cui viviamo. Penna ha messo il mondo degli adulti «tra parentesi». Non lo ha contestato, ma lo ha rifiutato<br />
come un mondo insignificante, un po’ volgare, un po’ miserabile, fatto di ridicoli imbrogli e di vanità risapute. […]<br />
Alla «realtà» Penna antepose, fino alle estreme conseguenze, la sua parola tematica, «vita»; ed è stato il solo poeta<br />
del secolo a dirci con voce netta e chiara <strong>che</strong> per essere protagonisti della vita bisogna stare lontani dal traffico, da<br />
ogni traffico, e camminare sul marciapiedi».<br />
35 Ma si leggano an<strong>che</strong> altri passaggi: «E la pioggia lavava quelle pietre» (Mi avevano lasciato solo);<br />
«Vanamente rivivo / in questi cuori: oh assorte / lontananze» (Nell’alto arido eremo salmastri); «I bei capelli caduti<br />
tu hai / sugli occhi vivi in un mio firmamento / remoto» (Le nere scale della mia taverna); «La mano / di quell’uomo<br />
al lavoro / su la spiaggia lontana» (Mi portano lontano).
Ma effimero è alle cave<br />
ansie il sole <strong>che</strong> ami.<br />
Al vespro aspro, è grave<br />
il cielo ai secchi rami.<br />
74<br />
(Falsa primavera, in Poesie)<br />
Nell’ultima strofa l’io è assediato da presenze negative <strong>che</strong> oggettivano uno stato di<br />
interna disperazione, di identificazione dell’anima con qualcosa di arido e vuoto<br />
(«effimero è […] il sole»; «cave / ansie»; «vespro aspro»; «è grave / il cielo ai secchi<br />
rami»). 36 An<strong>che</strong> i pensieri sono vuoti, come sterili relitti incapaci di cogliere la<br />
profondità dell’amore. La positività risiede nella sensualità dei «gatti amanti» e dei<br />
«Goffamente beati […] soldati», in una realtà esterna e estranea all’io poetico, <strong>che</strong> non<br />
può parteciparvi direttamente, ma soltanto coglierne alcune tracce per una effimera<br />
salvezza.<br />
Il mondo si rivela, al contempo, «falso e vero»: falso, nell’esteriorità di una realtà<br />
lontana, in cui il cuore del poeta rimane vuoto e inappagato; vero, nella rilettura in<br />
chiave psichica di una vita <strong>che</strong> l’eros rende piena di aspettative. L’utopia di Penna si<br />
nutre di innocenza e di inquietudine allo stesso tempo, perché egli è consapevole del<br />
«vuoto incanto», sa <strong>che</strong> la poesia non può avere un carattere definitivo, ma proprio per<br />
questo può aprirsi allo spazio del possibile e del desiderio: 37<br />
[…] L’innocenza<br />
forse risalirà con la sua bicicletta<br />
la lenta strada, e poi vi sarà tolta<br />
d’un tratto dalla polvere di un camion.<br />
Quando poi schiarirà, cercate ancora<br />
sulla strada, o nel cuore, il vuoto incanto.<br />
Fingerà la natura un suo tramonto.<br />
E tutto vi parrà – ma non vi date<br />
sentimento di sorta – falso e vero.<br />
(Avete mai provato in un’aria serena, in Poesie inedite)<br />
36 Cfr. Francesca Bernardini Napoletano, Il gambo del fiore. Sandro Penna e la poesia italiana del Novecento, in<br />
AA.VV., Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, cit., p. 73. E si legga an<strong>che</strong> Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna fra<br />
poesia e prosa, in Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, cit., pp. 101-102: «Penna è poeta del desiderio <strong>che</strong> si<br />
mantiene costante apertura sul mondo, pur muovendo da una visione del vivere umano all’insegna di un sereno<br />
dissidio interiore (l’ossimoro è necessario), nella percezione dello scorrere inarrestabile del tempo dato a ognuno,<br />
dalla caducità delle cose e dalla fuggevolezza della felicità».<br />
37 Cfr. Cesare Garboli, Prefazione, in Sandro Penna, Poesie, cit., p. XII: «I ragazzini di Penna non salveranno mai<br />
il mondo, non essendoci nel mondo niente da salvare. C’è, a intermittenza, la divinità del desiderio. Questa è la vera<br />
trasgressione».
«Amore inventa e rischia» scrive poco oltre questi versi: la realtà è doppia, c’è qualcosa<br />
<strong>che</strong> cade al di là di ciò <strong>che</strong> normalmente percepiamo, c’è una dimensione più profonda<br />
(«segreto» è un termine <strong>che</strong> ricorre spesso nelle poesie di Penna), <strong>che</strong> smas<strong>che</strong>ra la<br />
falsità della realtà più superficiale, e Eros, il desiderio, deve tentare di fare esistere<br />
quest’altra realtà, deve inventare un altro mondo.<br />
Nella raccolta Stranezze sebbene al fanciullo «gravido di luce» si sostituisca l’«io<br />
buio, sul sedile, e vuoto» (Letteratura), ancora una volta è lasciato aperto uno spiraglio<br />
ad una possibilità futura:<br />
Non c’è più quella grazia fulminante<br />
ma il soffio di qualcosa <strong>che</strong> verrà.<br />
(Non c’è più quella grazia fulminante, in Stranezze)<br />
Penna si sente definitivamente «felice straniero in ogni luogo» (Il sole qui mi sembra<br />
così caldo), la lontananza (dei fanciulli, ormai «antichi») è ancora una volta speranza:<br />
Un altro mondo si dischiude: un sogno<br />
fanciulla mia beata sotto il sole<br />
medesimo (oh gli antichi<br />
e dorati fanciulli). Un lieve sogno<br />
la vita…<br />
Ricordati di me dio dell’amore.<br />
(Un altro mondo si dischiude: un sogno, in Stranezze)<br />
Alla fine del percorso il cerchio si chiude così come si era aperto: «la vita…» è attesa di<br />
un avvenimento, tensione verso un oltre <strong>che</strong> superi la mancanza e si confronti con il<br />
desiderio. Al «ricordarsi di un risveglio» si sostituisce il «ricordati di me», come se il<br />
poeta fosse già proiettato in una dimensione postuma e si fosse lasciato alle spalle<br />
questo mondo per andare verso «Un altro mondo», <strong>che</strong> è, ancora una volta e come<br />
sempre, sogno. 38<br />
Questo è il gioco <strong>che</strong> la finzione poetica mette in scena: l’io «straniero in ogni<br />
luogo» può trovare una sede nell’invenzione-rappresentazione dei sensi. Ogni testo è un<br />
38 Cfr. Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 76: «È chiaro <strong>che</strong> rispetto<br />
alla percezione del vuoto di tanta poesia del nostro tempo, Penna sostituisce la sospensione in una sorta di<br />
trasalimento dopo la corsa o attesa costante dell’avvenimento, <strong>che</strong> è una funzionale fase tensiva al di là della<br />
mancanza momentanea e verso l’oggetto-soggetto di questa poesia, cioè il fanciullo dio dell’amore. […] Il fanciullo<br />
[…] è proiezione del soggetto verso il continuo e rassicurante ripetersi in nuovi volti del medesimo desiderio<br />
amoroso. Non a caso i fanciulli di Penna hanno solo occhi, perché essi non sono persone fissate in un fotogramma:<br />
sono coloro <strong>che</strong> legano l’io al mondo possibile, non al mondo reale».<br />
75
tentativo di avvicinamento ad una realtà alternativa al tempo lineare dell’«effimero<br />
sole», verso quel limite in cui non c’è più il tempo, inteso come processo di evoluzione<br />
dalla natura alla storia, ma ci sono la natura, la fisicità, l’eros, in un insieme totale,<br />
simultaneo e circolare. In questo modo la scrittura à rebours di Penna può vincere la<br />
morte, o almeno può strappare al tempo quel poco <strong>che</strong> nelle poesie è detto: i versi<br />
riscrivono la vita, danno un’altra chance alla quotidianità umile e marginale dell’autore.<br />
Ne risulta un’immagine mentale di assoluta rêverie e speranza, 39 in cui gli oggetti, i<br />
paesaggi, i fanciulli escono dal loro tempo, per entrare in una dimensione sospensiva.<br />
Ciò <strong>che</strong> il desiderio fissa nella mente prende forma nel <strong>lingua</strong>ggio della poesia, <strong>che</strong> ne<br />
esprime l’essenza e la claritas, la luminosità, ma an<strong>che</strong> la fragilità e il vuoto intorno.<br />
39 Ancora Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna fra poesia e prosa, in AA.VV., Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa<br />
modernità, cit., p. 111: «in Penna è proprio la Natura, la potenza del suo essere corporalmente in atto, la presenza del<br />
desiderio e del piacere carnale a farsi tempo, perciò a divenire coscienza di esso nel ricordo. La natura assume su di<br />
sé la storia e non viceversa». E sempre di Daniela Mar<strong>che</strong>schi si legga an<strong>che</strong> Sandro Penna. Corpo, tempo e<br />
narratività, cit., p. 30: «Al “primitivo” Penna non sarebbe quindi interessata la dimensione ideologica, una<br />
rivisitazione razionale astratta della realtà, condotta secondo criteri prestabiliti, ma piuttosto abitare un preciso tipo di<br />
tempo, tutto speciale: quello ciclico e cosmico del corpo, della pendolarità senza scampo fra piacere e dolore,<br />
possesso e perdita ineluttabile della vita; e quello del ritorno del medesimo proprio del bisogno naturale o desiderio».<br />
76
2.3.<br />
GIORGIO CAPRONI:<br />
LA «PENA DEL FUTURO»<br />
Il pensiero del disastro attraversa come un fiume carsico l’opera di Giorgio Caproni,<br />
per affiorare secondo due direttive complementari: da una parte le poesie sono le<br />
macerie di un day after tanto grottesco quanto politicamente attuale, sono i prodotti<br />
residuali di un’apocalisse <strong>che</strong> non ammette palingenesi; dall’altra sono esse stesse lo<br />
strumento e l’origine della fine del mondo, percorrono «l’orlo del disastro», per dirla<br />
con Blanchot, in un instabile equilibrio tra ciò <strong>che</strong> è già avvenuto e ciò <strong>che</strong> deve ancora<br />
accadere:<br />
Noi siamo sull’orlo del disastro senza <strong>che</strong> lo si possa situare<br />
nell’avvenire: esso è piuttosto sempre già passato, e tuttavia ne siamo<br />
sull’orlo e sotto la minaccia, espressioni, queste, <strong>che</strong> impli<strong>che</strong>rebbero tutte<br />
l’avvenire se il disastro non fosse ciò <strong>che</strong> non viene. 1<br />
A partire dal Muro della terra e attraverso versi scabri ed essenziali tale pensiero dà<br />
forma a scenari di frontiera, a non-luoghi di perdizione e transito <strong>che</strong> tracciano i<br />
contorni di una «guerra / d’unghie» (Anch’io) condotta con la «coscienza del carattere<br />
erosivo del segno». 2 L’io è una presenza ambigua, <strong>che</strong> assume le forme più disparate e<br />
scava dentro di sé rinvenendo quegli oggetti destinati a diventare concretizzazioni della<br />
propria condizione esistenziale:<br />
Sono tornato là<br />
dove non ero mai stato.<br />
Nulla, da come non fu, è mutato.<br />
Sul tavolo (sull’incerato<br />
a quadretti) ammezzato<br />
ho ritrovato il bicchiere<br />
mai riempito. Tutto<br />
è ancora rimasto quale<br />
mai l’avevo lasciato.<br />
77<br />
(Ritorno, in Il muro della terra)<br />
1 Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990, p. 11, e prosegue «Non sarai tu a parlare; lascia<br />
parlare in te il disastro, non importa se attraverso l’oblio o il silenzio» e poi ancora «Altri si rapporta a me come se io<br />
fossi l’Altro e mi fa allora uscire dalla mia identità, opprimendomi sino all’annientamento, allontanandomi, sotto la<br />
pressione di un’infinita prossimità, dal privilegio di essere in prima persona».<br />
2 Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, p. 79.
In Ritorno il deittico “là” introduce la disarticolazione logico-spaziale di un io al quale<br />
non preesiste un passato o un luogo della memoria e di conseguenza è negata la<br />
salvezza del poter dire razionalmente la realtà. La poesia non può essere veggenza, ma<br />
solo rivelazione dell’evidenza negativa: il «bicchiere / mai riempito» è figura di quel<br />
vuoto <strong>che</strong> assedia la storia e <strong>che</strong> conduce all’annullamento di sé. Senza un diaframma<br />
tra lo sguardo e l’invenzione (finzione) poetica, tutto partecipa di una vita psichica <strong>che</strong><br />
ne potenzia il significato in una dimensione surreale e metafisica. 3 Il disastro è allora<br />
qualcosa <strong>che</strong> è già stato e <strong>che</strong> si ripete attraverso il nonsense di affermazioni e<br />
negazioni. Il nostos si capovolge nel suo contrario e gli oggetti simultaneamente reali e<br />
irreali annullano la visione del presente in uno sguardo <strong>che</strong> viene meno, in un<br />
mancamento su cui si proietta un futuro di macerie: 4<br />
Resteremo in pochi.<br />
Raccatteremo le pietre<br />
e ricominceremo.<br />
A voi,<br />
portare ora a finimento<br />
distruzione e abominio.<br />
Saremo nuovi.<br />
Non saremo noi.<br />
Saremo altri, e punto<br />
per punto riedifi<strong>che</strong>remo<br />
il guasto <strong>che</strong> ora imputiamo a voi.<br />
(Palingenesi, in Il franco cacciatore)<br />
La poesia di Caproni tende a ridurre il proprio peso moltiplicandosi in testi brevi,<br />
risolti in uno scatto, in un effetto paradossale o in una corsa verso la fine, come se ci<br />
permettesse di mettere un piede dentro all’anticamera dell’apocalisse:<br />
le bian<strong>che</strong> figure vane<br />
<strong>che</strong> vanno…<br />
… le articolazioni<br />
morte del loro passo…<br />
… È certo<br />
Inseguendo<br />
3<br />
Cfr. Giacinto Spagnoletti, Il cammino di Caproni, in Poesia italiana contemporanea, Milano, Spirali, 2003, pp.<br />
363-364.<br />
4<br />
Così EnricoTesta, Per interposta persona, cit., p. 81: «l’infinita ripetizione dell’uguale, <strong>che</strong>, se ridà vita a chi<br />
insegue la parola per proferirla, lo fa solo per avvolgerlo nuovamente nel suo vuoto».<br />
78
<strong>che</strong> allora l’introvabile appare<br />
nel suo scomparire.<br />
(Passeggiata, in Il Conte di Kevenhüller)<br />
I tre libri <strong>che</strong> egli mette insieme tra il 1975 e il 1986 si presentano come partiture fatte<br />
di brevi lettere poeti<strong>che</strong> inviate dal deserto. Si è perso ogni significato sicuro e<br />
definitivo del mondo, e il pensiero del disastro non si pone come glossa marginale ad<br />
altri temi, ma diventa materia stessa del fare poetico, o, meglio ancora, antimateria. La<br />
poesia va cercata tagliando, ferendo, delimitando, nullificando, negando, fino alle<br />
estreme conseguenze della Res amissa: la cosa o il bene perduto, <strong>che</strong> è la parola e la<br />
vita. Il disastro si definisce nell’avvicinamento a quel male esistenziale <strong>che</strong> la filosofia<br />
ha presentato come la morte di Dio, la fine della solidità e oggettività del mondo, del<br />
<strong>lingua</strong>ggio e della solidarietà civile. La ricerca si risolve nella cancellazione, la presenza<br />
nella sparizione:<br />
Ora dov’è, dov’è<br />
la bella compagnia<br />
d’allora – la gaia gente<br />
pronta a spartire il vino<br />
(il cuore) e l’amicizia?<br />
Io non vedo più niente.<br />
Solo scempio e nequizia.<br />
2.3.1. <strong>Una</strong> calma disperazione<br />
(Arietta di rimpianto, in Il Conte di Kevenhüller)<br />
Già dal 1956 Caproni dà forma ad un pensiero <strong>che</strong> sarà destinato a fare sentire la sua<br />
eco, secondo infinite variazioni, an<strong>che</strong> nei decenni successivi:<br />
l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena<br />
del futuro s’è aperta<br />
79<br />
(Sirena, in Il passaggio d’Enea)<br />
Chiusa ogni possibilità di uno sguardo positivo e conoscitivo, si delinea più<br />
precisamente il dolore dell’io poetico, come dolore esistenziale <strong>che</strong> riguarda il senso di<br />
un destino <strong>che</strong> non può essere cambiato. L’estrema consapevolezza viene raggiunta per
gradi successivi di approssimazione: a partire dal Seme del piangere, e sempre più<br />
insistentemente nelle altre raccolte, il tema della «pena / del futuro» e dell’impossibilità<br />
di ritorno si declina nella variante complementare della distanza, del distacco dai luoghi<br />
e dai tempi della vita. Si definisce così la diversità di un io <strong>che</strong> è altrove e in nessun<br />
luogo:<br />
Nell’ossa ho un’altra città<br />
<strong>che</strong> mi strugge. È là.<br />
L’ho perduta<br />
[…]<br />
Città<br />
cui nulla, nemmeno la morte<br />
– mai – mi ricondurrà.<br />
(Il gibbone, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />
La perdita e il dolore sono totalizzanti, e non è prevista nessuna possibilità di salvezza,<br />
soltanto il resoconto di un viaggio in un altrove in cui presente e passato si fondono<br />
senza speranza di futuro:<br />
Sono stato là<br />
dove non si può tornare.<br />
Tutto è come fu.<br />
(Toba, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />
La geografia di Caproni si definisce come lo spazio mentale del negativo e del nulla,<br />
come la mappa di un mondo capovolto in cui vengano indicati i luoghi del non-essere.<br />
Questa minacciosa apocalisse delinea una dimensione altra, al di fuori della realtà. Il<br />
muro della terra, la raccolta successiva al Congedo, si apre con una indicazione di<br />
confine, <strong>che</strong> prelude ad un trapasso:<br />
«Confine» diceva il cartello.<br />
Cercai la dogana. Non c’era.<br />
Non vidi, dietro il cancello,<br />
ombra di terra straniera.<br />
(Falsa indicazione, in Il muro della terra)<br />
L’altrove non è un luogo sconosciuto e straniero, perché è già qui, è già il presente <strong>che</strong><br />
abitiamo quotidianamente. Il <strong>lingua</strong>ggio non può indicare un senso <strong>che</strong> valga a dare una<br />
dimensione nuova al destino dell’uomo, non c’è indicazione sicura, c’è solo il niente<br />
dell’irrealtà in cui si capovolge il reale:<br />
80
Quando avrà raggiunto<br />
il luogo dov’è segnato<br />
l’albergo (è il migliore<br />
albergo esistente)<br />
vedrà <strong>che</strong> assolutamente<br />
lei non avrà trovato<br />
– vada tranquillo – niente.<br />
(Indicazione sicura, o bontà della guida, in Il franco cacciatore)<br />
La terribile verità racchiusa in questi pochi versi non conosce drammaticità, il mondo ha<br />
debellato il tragico per il grottesco e qui l’abbassamento di tono al colloquiale «vada<br />
tranquillo» ribadisce il carattere minore dell’apocalisse caproniana, generando un effetto<br />
straniante <strong>che</strong> ci pone in una dimensione inquietante. La vera paura nasce dalla<br />
consapevolezza <strong>che</strong> ogni emozione è tenuta sotto controllo, come se fosse narcotizzata<br />
da un boia sadico e premuroso allo stesso tempo. Allo straniamento contribuisce an<strong>che</strong><br />
l’uso del futuro anteriore, <strong>che</strong> genera il corto circuito di un “passato nel futuro” <strong>che</strong>,<br />
anticipando l’evento, elimina ogni possibilità di speranza e l’idea stessa di un<br />
rinnovamento dell’essere. Del resto si tratta di un viaggio di cui conosciamo già la meta,<br />
«il tono è di voce recitante <strong>che</strong>, ancora nel caldo delle cose, ne sancisce la distanza,<br />
ancora nella vita, ne traspone già gli esiti accecati di luce». 5<br />
Avvicinandosi al grado zero esistenziale, la disperazione calma di Caproni trova il<br />
suo punto culminante nell’attesa di una parola di cui viene dichiarata l’inesistenza:<br />
Non resta nemmeno il lutto,<br />
nel grigio, ad aspettar la sola<br />
(inesistente) parola.<br />
81<br />
(Tutto, in Il muro della terra)<br />
Prevale l’immagine del mondo come spazio mentale e metafisico. In questo modo si<br />
delineano i tratti di una ontologia <strong>che</strong> assume forme drammati<strong>che</strong> nella continua<br />
alternanza tra essere e non essere, <strong>che</strong> esplicita la sostanza nichilistica della<br />
Weltanschauung caproniana.<br />
Partendo dalla dissoluzione della giovanile nostalgia del presente, il lutto <strong>che</strong> invade<br />
i versi di Caproni prende forma nell’immobilità di una palude mortifera <strong>che</strong> tutto<br />
inghiotte e in cui sprofonda an<strong>che</strong> la storia:<br />
5 Marco Forti, Il Novecento in versi. Studi, indagini e ricer<strong>che</strong>, Milano, il Saggiatore, 2004, p. 141.
Di noi, testimoni del mondo,<br />
tutte andranno perdute<br />
le nostre testimonianze.<br />
Le vere come le false.<br />
La realtà come l’arte.<br />
Il mondo delle sembianze<br />
e della storia, egualmente<br />
porteremo con noi<br />
in fondo all’acqua, incerta<br />
e lucida, il cui velo nero<br />
nessuna idrometra più<br />
pattinerà – nessuna<br />
libellula sorvolerà<br />
nel deserto, intero.<br />
82<br />
(L’idrometra, in Il muro della terra)<br />
La crisi del valore della memoria-testimonianza come strumento etico e conoscitivo si<br />
ritrova an<strong>che</strong> nel Conte di Kevenhüller: «La storia è testimonianza morta. / E vale<br />
quanto una fantasia» (Corollario). È sancita così l’impossibilità di una “sublimazione”<br />
nell’autocompiacimento (e compatimento), di fronte ad una realtà appiattita<br />
nell’inautenticità:<br />
Lo sfacelo della storia <strong>che</strong> abbiamo vissuto non ammette riscatti di<br />
illusione, né la poesia è un rifugio o un’isola felice: anzi, è lo strumento forse<br />
più acuminato per esprimere un vuoto <strong>che</strong> non può certo essere colmato da<br />
istituzioni fatiscenti e artificiose. 6<br />
La fine della storia segna an<strong>che</strong> la fine dell’identità individuale e collettiva, <strong>che</strong> non<br />
trova più un legame col proprio passato (le radici) e non conosce lo slancio verso il<br />
futuro (la speranza):<br />
<strong>che</strong> cosa e chi siamo, noi,<br />
senza radici e senza<br />
speranza – senza<br />
alito di rigenerazione?<br />
(Su un vecchio appunto, in Il franco cacciatore)<br />
Il soggetto viene spossessato di ogni capacità cognitiva e di ogni sostanza, diluito in una<br />
dimensione impersonale: non può definire se stesso se non ponendo una domanda <strong>che</strong><br />
rimane senza risposta, o <strong>che</strong> contiene già in sé la consapevolezza della negatività.<br />
6 Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», cit., intervista rilasciata a Stefano Giovanardi. Si legga an<strong>che</strong><br />
Corollario in Il Conte di Kevenhüller: «[…] La storia è testimonianza morta. / E vale quanto una fantasia».
L’impossibilità di rigenerazione e cambiamento, l’annullamento della prospettiva<br />
utopica, viene ribadita con sempre maggiore convinzione: «Quello <strong>che</strong> è fatto, amici, / è<br />
fatto. Possiamo / riporre i ferri» (Finita l’opera, in Il muro della terra). La disillusione<br />
dichiara la condizione fuori centro dell’io, («non ho abitazione», «non ho ubicazione»),<br />
per cui non gli resta <strong>che</strong> «sparire» (Finita l’opera, in Il muro della terra). L’alternativa<br />
è «canticchiare […] per non disperare». Nasce un sentimento d’angoscia trattenuta, <strong>che</strong><br />
tuttavia ribadisce la contiguità della vita col nulla. L’ironia si mescola al nichilismo nel<br />
determinare la stoica accettazione di un destino <strong>che</strong> non conosce il montaliano «anello<br />
<strong>che</strong> non tiene», perché ogni varco è negato ed è carcere l’intero universo:<br />
Ah, «Quale folle danza»<br />
(mi misi a canticchiare,<br />
così, per non disperare<br />
nel buio) «è la Speranza»<br />
Senza sperar pertugio<br />
o<br />
elitropia.<br />
Sfondata ogni porta,<br />
abbattute le mura,<br />
è il cosiddetto Infinito<br />
la nostra vera clausura?<br />
83<br />
(Espérance, in Il muro della terra)<br />
(Plagio per la successiva, in Il muro della terra)<br />
(Tre interrogativi, senza data, 3, in Res amissa)<br />
A questo deserto della vita si contrappone la figura della moglie del poeta, alla quale<br />
è dedicata una poesia <strong>che</strong> termina con un’altra domanda, <strong>che</strong> lascia intravedere, pur<br />
nell’incertezza del tono interrogativo, l’unica realtà sottratta alla fine:<br />
Per lei,<br />
e solo grazie a lei, esiste<br />
dunque uno spiraglio ancora<br />
di qua d’ogni inerte speranza?...<br />
(Laudetta, in Il Conte di Kevenhüller)
I tre punti finali lasciano il discorso sospeso, senza una parola <strong>che</strong> dichiari una certezza<br />
positiva. La poesia si chiude senza risolvere dubbi e ansie: se an<strong>che</strong> si scorge «di qua»<br />
uno «spiraglio» negli affetti più intimi e personali, tuttavia la speranza rimane «inerte».<br />
Da questo silenzio senza risposte, dall’inerzia o assenza della speranza, emerge la<br />
volontà di Caproni di attenuare o addirittura eliminare i sentimenti troppo intensi, <strong>che</strong><br />
sbilancerebbero l’immobilità e l’assolutezza dell’angoscia: «Ma… non sperate paura»<br />
(Codicillo, in Il Conte di Kevenhüller). Priva delle passioni dell’anima la «disperazione<br />
/ calma e senza sgomento» (Congedo del viaggiatore cerimonioso) può attivare la<br />
«ricerca di un principio primo (e ultimo) del proprio essere». 7 L’io si confronta con<br />
versi in cui la situazione di abbandono sembra senza via di scampo, e in cui viene<br />
negata ogni possibilità di comunicazione con l’altro da sé:<br />
Sono partiti tutti.<br />
Hanno spento la luce,<br />
chiuso la porta, e tutti<br />
(tutti) se ne sono andati<br />
uno dopo l’altro.<br />
Piangeva,<br />
quasi. S’era<br />
coperta la faccia.<br />
Si premeva gli occhi.<br />
Aveva<br />
perso completamente,<br />
con la speranza, ogni traccia.<br />
Tutti<br />
se ne sono andati senza<br />
lasciare traccia.<br />
(Lasciando loco, in Il muro della terra)<br />
84<br />
(Il cercatore, in Il muro della terra)<br />
(Foglie, in Il franco cacciatore)<br />
La presa di coscienza di aver perso «ogni traccia» del senso e della realtà,<br />
contribuisce a fare slittare il discorso verso una terra di nessuno dove si riconosce nella<br />
perdita la sola verità possibile, nell’incertezza la sola certezza. Questo senso di estrema<br />
solitudine era già presente nelle numerose immagini dell’«uomo solo», <strong>che</strong> percorrono<br />
tutta l’opera poetica di Caproni, e <strong>che</strong> fanno pensare ad una figura umana sospesa tra<br />
7 Marco Forti, Tempi della poesia. Il Secondo Novecento da Montale a Porta, Milano, Mondadori, 1999, p. 120.
l’al di qua e l’al di là: «Io come sono solo sulla terra» (I lamenti, III, in Il passaggio<br />
d’Enea); «… perch’io, <strong>che</strong> nella notte abito solo» (Perch’io…, in Il seme del piangere);<br />
«… l’uomo <strong>che</strong> nel buio è solo» (Il bicchiere, in Congedo del viaggiatore cerimonioso<br />
& altre prosopopee). La parola si predispone all’incontro con quelle presenze silenziose<br />
<strong>che</strong> partecipano di una natura ambigua, a metà strada tra la vita e la morte. In Scalo dei<br />
fiorentini il passare in rassegna i morti, <strong>che</strong> non si muovono e non si voltano, diventa<br />
presa di coscienza <strong>che</strong> ogni comunicazione è negata e la separazione e la distanza<br />
coinvolgono sia l’io <strong>che</strong> la parola: 8<br />
I nomi si allontanavano<br />
vuoti. Rimbombavano<br />
sotto la volta. Li restituivano<br />
dall’altro capo – dall’Al di<br />
là – gli echi <strong>che</strong> io<br />
sentivo, vuoti, morire.<br />
[…]<br />
E poi, allontanandosi con rassegnazione:<br />
[…]<br />
Nessuno m’ha richiamato<br />
– nessuno – indietro.<br />
(Scalo dei fiorentini, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />
Tesa sul limite dell’evanescenza la poesia slitta progressivamente verso il vuoto<br />
dell’assenza e della negazione di ogni contatto salvifico. Tra gli attributi della morte<br />
riscontriamo quell’immobilità <strong>che</strong> era propria della Storia sin dai tempi delle prime<br />
raccolte, ma alla quale ora non si contrappone più la vita molteplice dei sensi:<br />
Un uomo solo,<br />
chiuso nella sua stanza.<br />
[…]<br />
Solo in una stanza vuota,<br />
a parlare. Ai morti.<br />
85<br />
(Condizione, in Il muro della terra)<br />
8 E così Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel Secondo Novecento, cit., p. 81: «Al<br />
movimento <strong>che</strong> scava verso il principio della parola corrisponde un movimento <strong>che</strong> si volge verso i margini e <strong>che</strong><br />
allarga progressivamente la sua azione: il momento in cui s’avverte la sordità, la non-risposta dei morti […] e in cui si<br />
scopre il dissolversi della propria voce nella parola».
Con una logica paradossale e corrosiva Caproni trova in questa dimensione di estrema<br />
solitudine una nuova forza, come dichiara nell’Intermezzo del Franco cacciatore:<br />
Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio.<br />
Ma v’è una stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio.<br />
Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera e trasparente (e<br />
tagliente) come l’ossidiana. L’allegria <strong>che</strong> essa può dare è indicibile. È<br />
l’adito – troncata netta ogni speranza – a tutte le libertà possibili. Compresa<br />
quella (la serpe <strong>che</strong> si morde la coda) di credere in Dio, pur sapendo –<br />
definitivamente – <strong>che</strong> Dio non c’è e non esiste.<br />
L’io partecipa, stoicamente, allo svolgersi di un destino annichilente, in cui la<br />
«disperazione calma» e la «straziata allegria» non sono più in contraddizione, ma<br />
partecipano della medesima assenza di regole: 9<br />
Moriamo con noncuranza.<br />
Liberi. D’ogni speranza.<br />
86<br />
(Coda, in Il franco cacciatore)<br />
L’assenza della speranza può diventare paradossale possibilità di libertà, accettazione di<br />
una condizione <strong>che</strong> trae la sua forza dall’estrema spoliazione:<br />
Saremo,<br />
an<strong>che</strong> più forti<br />
e liberi.<br />
Come i morti.<br />
(Detrminazione, in Il franco cacciatore)<br />
In Res amissa la sentenziosità non lascia spazio all’ambiguità di un giudizio morale o di<br />
un’incertezza etica, afferma invece una verità definitiva e tagliente:<br />
I vivi<br />
– tutti – si sono arresi.<br />
[…]<br />
I vivi hanno ceduto ai morti.<br />
(Gelo, in Res amissa)<br />
A differenza di quanto accade in Sereni o in Fortini, in cui il tema del dialogo coi morti<br />
acquista un significato particolare nell’uso del verbo al futuro («parleranno» scrive<br />
9 Cfr. Philippe Di Meo, Vers les lieux non juridictionnels, postface à Giorgio Caproni, Le Franc-Tireur, traduit<br />
par Philippe Di Meo, Seyssel, Champ Vallon, 1989, p. 161.
Sereni, e Fortini aggiunge: «Di noi […] parleranno»), 10 per Caproni, i morti «non<br />
parlano» (Un niente, in Il conte di Kevenhüller) e non parleranno. Essi rappresentano il<br />
nodo non risolto del reale, perciò non aprono ad una dimensione alternativa, non<br />
promettono un al di là di riscatto.<br />
2.3.2. Il tempo come metafora<br />
La poesia è caratterizzata da una sfasatura prospettica, un rovesciamento del campo<br />
della significazione e della logica del discorso, per cui la speranza nasce proprio dalla<br />
mancanza di ogni speranza, dall’aspettarsi tutto qui e ora: «O qui, / e ora, / o… / nulla»<br />
(Determinazione, in Il franco cacciatore). Non si può sperare nulla (o meglio, non si<br />
può sperare <strong>che</strong> il nulla), perché la meta estrema è già qui e quindi l’unica certezza è<br />
tautologica: «Lei non potrà mai arrivare, / mi creda, dov’è già arrivato» (Apostrofe a un<br />
impaziente d’imbarco, in Il franco cacciatore). Il tempo è una barriera <strong>che</strong> impedisce di<br />
andare oltre e <strong>che</strong> contiene tutto:<br />
Tutto è qui e ora.<br />
Tutto<br />
è già storia lontana.<br />
87<br />
(Saint-Honoré, in Erba francese)<br />
Anziché indicare il normale svolgimento di una parabola temporale l’uso verbale<br />
procede verso il ripiegamento, la negazione di una possibilità alternativa. Il nonsense<br />
trasforma il tempo oggettivo e lineare in un tempo astratto e la progressione spaziale<br />
diventa moto circolare <strong>che</strong> riguarda il destino ineluttabile dell’uomo: 11<br />
Non tremare. Insieme,<br />
presto Ritorneremo<br />
nel nostro nulla – nel nulla<br />
(insieme) Rimoriremo.<br />
(Su un’eco (stravolta) della Traviata, in Il muro della terra)<br />
10 A questo proposito si rimanda al capitolo 3.3. Le due citazioni sono tratte rispettivamente da: Vittorio Sereni,<br />
La spiaggia (Gli strumenti umani) e Franco Fortini, Gli ospiti (Questo muro).<br />
11 Cfr. Philippe Di Meo, Vers les lieux non juridictionnels, in Giorgio Caproni, Le franc tireur, cit., pp. 157-158.
Il ritorno si rivela per quello <strong>che</strong> è veramente, cioè morte, e il futuro viene piegato ad<br />
indicare un’azione ripetitiva, <strong>che</strong> riproduce se stessa senza introdurre alcuna sfumatura<br />
di speranza. Si procede verso una dimensione spazio-temporale stridente e<br />
contraddittoria, o più semplicemente impossibile: come se le poesie fossero sabbie<br />
mobili ogni movimento non fa <strong>che</strong> avvicinare alla fine, al punto in cui ogni nostro<br />
slancio ci allontana sempre di più dalla conoscenza razionale del mondo. A differenza<br />
del barone di Münchhausen, l’io non riesce a riemergere dalla palude tirandosi per i<br />
capelli, lasciando intravedere minimi particolari, intermittenti possibilità di salvezza.<br />
Ciò <strong>che</strong> ci è concesso è solo il dissidio interiore <strong>che</strong> procede per antitesi, opposizioni e<br />
vertigini, «nella continua reversibilità di funzioni, nella coincidenza di io e non io». 12<br />
Reversibilità è an<strong>che</strong> il titolo di una sezione del Franco cacciatore, in cui i normali<br />
rapporti dell’essere con le coordinate spazio-temporali vengono stravolti, il futuro non<br />
apre prospettive nuove, non muta nulla:<br />
Pronto sabré quién soy.<br />
(Borges)<br />
Presto sarò chi sono.<br />
(Io)<br />
88<br />
(Sfarfallone, in Il franco cacciatore)<br />
Caproni distorce il «sabré» (saprò) di Borges, in un’affermazione non di conoscenza,<br />
ma di esistenza paradossale, <strong>che</strong> esclude il mutamento e non ammette nessuna reale<br />
palingenesi. L’io cade vittima di un continuo gioco di specchi, di contrari <strong>che</strong><br />
convivono e <strong>che</strong>, sempre secondo il principio della reversibilità, si scambiano le parti,<br />
come nella grottesca affermazione di rinnovamento «Saremo nuovi. / Non saremo noi. /<br />
Saremo altri», <strong>che</strong> in realtà non prelude a nessun mutamento positivo, ma alla<br />
12 Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., pp. 170-173: «Intorno all’ossimoro primario (esistere-non esistere; io-non io),<br />
altri se ne ramificano a catena, seguendo i motivi più profondi: le antinomie fuori-dentro, luce-buio, la perdita delle<br />
certezze spazio-temporali (tornare dove non si è mai stati, arrivare al punto di partenza). […] Nella continua<br />
reversibilità di funzioni, nella coincidenza di io e non io <strong>che</strong> caratterizzano Il muro della terra, si viene chiamati ai<br />
compiti più inaspettati e difficoltosi, si scambiano in continuazione le parti; ciascun ruolo istituzionale si riflette e si<br />
ripercuote sull’altro, soggetto e oggetto si confondono». Si legga an<strong>che</strong> Niva Lorenzini, Il presente della poesia.<br />
1960-1990, cit., p. 88: «Questo è il punto: il problema vero con cui Caproni comincia a confrontarsi è l’impossibilità<br />
di conservare un <strong>lingua</strong>ggio del soggetto (l’interscambiabilità io-noi-voi non ne è <strong>che</strong> un sintomo) contrapposto, ma<br />
in conseguenza di ciò appunto riconoscibile, a un oggetto inteso come alterità linguistica, realtà separata, esterna. <strong>Una</strong><br />
realtà irriducibilmente diversa, ma <strong>che</strong> si poteva riprodurre, traducendola in comportamento verbale. Da questo<br />
momento in avanti la fiducia nel potere rappresentativo del segno è invece irrimediabilmente compromessa dal<br />
carattere reversibile dei ruoli (interno-esterno, movimento-stasi, esserci-scomparire): lo sguardo, l’occhio, si separano<br />
dalla coscienza della percezione, al punto <strong>che</strong> non si saprà più indicare un’area semantica definita né per la presenza<br />
né per l’assenza, nella dispersione frantumata di voci sempre più inconsistenti ed effimere».
ipetizione del disastro: «e punto / per punto riedifi<strong>che</strong>remo / il guasto <strong>che</strong> ora<br />
imputiamo a voi» (Palingenesi, in Il franco cacciatore).<br />
Caproni dichiara una propria conoscenza (negativa) dei fatti, parla da un altrove <strong>che</strong><br />
non ammette speranza. Il futuro è lo spazio mentale in cui si proiettano un presente e un<br />
passato in cui tutto ormai è stato deciso. La reversibilità dei tempi fa sì <strong>che</strong> questi si<br />
alternino come in un elettrocardiogramma, sino a giungere all’identità di passato e<br />
futuro, senza <strong>che</strong> sia possibile un ordine cronologico. <strong>Una</strong> funzione interessante di<br />
rovesciamento temporale viene affidata al condizionale con valore di “futuro nel<br />
passato”: «Sapevo <strong>che</strong> non ci sarebbe stato / nessuno ad aspettarmi» (Palo, in Il muro<br />
della terra). In casi come questi siamo di fronte alla vera natura del futuro di Caproni,<br />
cioè al futuro <strong>che</strong> in realtà è un passato:<br />
Il presente si perde<br />
già nel futuro.<br />
Il futuro<br />
è già tempo passato.<br />
89<br />
(In corsa, in Erba francese)<br />
In questa «situazione di tipo ossimorico», <strong>che</strong> «simula (con estrema libertà, ovviamente,<br />
e con un ampio margine di variazioni interne) la figura del chiasmo», 13 si realizza il<br />
cortocircuito tra l’io e il tempo. 14 Essendo il passato ciò <strong>che</strong> è concluso, è come dire <strong>che</strong><br />
il futuro stesso si è già compiuto e non resta <strong>che</strong> attendere il «colpo fulminante» <strong>che</strong><br />
ucciderà (e <strong>che</strong> ha già ucciso) l’io:<br />
Sedetti fuori dell’osteria,<br />
al limite della foresta.<br />
Aspettai invano. Ore e ore.<br />
Nessun predace in cresta<br />
apparve alla Malinconia.<br />
Aspettai ancora. Altre ore.<br />
Pensai, in straziata allegria,<br />
al colpo fulminante<br />
del franco cacciatore.<br />
(Antefatto, in Il franco cacciatore)<br />
L’io sempre più spesso cade vittima di inganni ottici, di trappole della sintassi e della<br />
logica <strong>che</strong> si basano su continue rotture e incoerenze narrative e temporali, per cui «i<br />
13 Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, cit., pp. 86-87.<br />
14 Cfr. Philippe Di Meo, Vers les lieux non juridictionnels, in Giorgio Caproni, Le franc tireur, cit., p. 160: «si<br />
l’éspace est aussi indéterminé qu’infini, le temps capronien est irreversibile».
segni verbali sono non gli strumenti del riconoscimento o della conoscenza, ma le tracce<br />
di uno smarrimento». 15 Se il tempo è a tutti gli effetti la metafora del rapporto<br />
fallimentare tra l’io e il mondo, nei Versicoli del controcaproni troviamo un’altra<br />
immagine del futuro, <strong>che</strong> viene rappresentato come un muro, un limite invalicabile:<br />
Batte profondo un tamburo.<br />
Sono arrivato al muro<br />
<strong>che</strong> vien detto futuro?<br />
(Futuro, in Versicoli del controcaproni)<br />
La barriera nega la speranza e la possibilità di un progetto. In Res amissa l’unica<br />
oltranza alternativa al “qui e ora” viene ricondotta al tema cardine della morte<br />
estremizzato nell’immagine «dell’oltremorte» (Quattro appunti, 2, in Res amissa), o di<br />
un al di là e di una distanza <strong>che</strong> non sono definibili se non per via di paradosso:<br />
Ormai superato nel vuoto<br />
il più futuro futuro,<br />
già ho stanza nel trapassato<br />
più trapassato e remoto?<br />
(Due tempi dell’indicativo, in Res amissa)<br />
«E quel “già”, <strong>che</strong> percorre a lungo l’ultima poesia di Caproni, si prospetta ora quale<br />
determinante avverbio di indicazione della collocazione postuma dell’autore. […] Il<br />
punto estremo di chi già da tempo è frequentatore degli orizzonti estremi è nel sentirsi<br />
postumo al proprio essere postumo». 16 L’andare nel tempo contro il tempo rimanda a<br />
quello <strong>che</strong> Franco Rella ha definito come «il sapere della caducità»:<br />
Tale sapere non si limita a esibire la fine del <strong>lingua</strong>ggio della ragione<br />
classica, a rimpiangere o a predicare la fine dei suoi fondamenti, ma proprio<br />
con questa crisi si misura, attraverso una nuova rappresentazione del reale,<br />
attraverso nuove formazioni di senso, attraverso un nuovo rapporto del<br />
soggetto con sé e con il mondo. 17<br />
Siamo agli antipodi della condizione dichiarata da Heidegger, secondo cui il<br />
<strong>lingua</strong>ggio è la casa dell’essere e la dimora dell’uomo: 18 l’uomo vive una condizione di<br />
15 Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, cit., p. 83.<br />
16 Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, Genova, il melangolo, 1998, pp. 225-226.<br />
17 Franco Rella, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 138.<br />
18 Martin Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Milano, Adelphi, 1995, p. 31: «L’essenza dell’agire, invece, è il<br />
portare a compimento (Vollbringen). Portare a compimento significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua<br />
essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere. […] Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug)<br />
90
spaesamento, tanto più accentuato quanto più inserito all’interno di una “normale<br />
anormalità”.<br />
Entrato nel cono d’ombra del non-essere, il <strong>lingua</strong>ggio è ridotto a pura logica<br />
formale, non riesce a ristabilire un rapporto ordinato col reale, non ammette possibilità<br />
di senso per ciò <strong>che</strong> si presenta come caos e disordine, ma si afferma come il luogo<br />
privilegiato dell’altrove. Linguaggio e tempo diventano, allora, metafore di un mondo<br />
privo di leggi e di riferimenti: «Il tempo, <strong>che</strong> nell’immagine del progresso sembrava<br />
scorrere “liscio come un filo attraverso le dita”, si presenta ora come una fune<br />
sfilacciata» 19 e la poesia si spinge ai limiti estremi di una razionalità <strong>che</strong> registra il<br />
disfacimento della società.<br />
2.3.3. Le parole della fine dell’uomo<br />
Parallelamente agli sviluppi metafisici e astratti Caproni sviluppa an<strong>che</strong> una<br />
riflessione sull’inquinamento <strong>che</strong> affligge il <strong>lingua</strong>ggio. La poesia per questo autore è<br />
un atto di libertà e disobbedienza, <strong>che</strong> si realizza soltanto quando la parola dell’io<br />
diventa voce del noi, quando la parola soggettiva si avvicina alle cose, dichiarandone la<br />
concomitanza col nulla ma an<strong>che</strong> mettendo il pensiero filosofico a più diretto contatto<br />
con temati<strong>che</strong> sociali e civili.<br />
Lettore di Kierkegaard, egli è consapevole <strong>che</strong> «l’uomo è una macchina di parole, e<br />
nulla impedisce <strong>che</strong> impari a memoria una litania filosofica come una confessione di<br />
fede o un credo politico». 20 Il pessimismo nei confronti della società moderna<br />
(conseguenza an<strong>che</strong> della crisi dell’intellettuale, <strong>che</strong> si vede negato ogni ruolo) tuttavia<br />
non ha mai come esito la fuga nell’ideale dell’arte, ma si configura come tentativo di<br />
giungere ad un confronto diretto col mondo, attraverso l’invettiva e l’allegoria. Se la<br />
poesia è abitata dal vuoto e dalle atrocità della storia stessa, si tratta di cercare di<br />
lavorare con le parole (an<strong>che</strong> quelle più logore) per generare pensiero e civiltà, senza<br />
lasciarci morire nel cimitero dell’abitudine:<br />
dell’essere all’essenza dell’uomo. […] nel pensiero l’essere perviene al <strong>lingua</strong>ggio. Il <strong>lingua</strong>ggio è la casa dell’essere.<br />
Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora».<br />
19 Franco Rella, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, cit., p. 139.<br />
20 Sören Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Milano, Fratelli Bocca, 1941, p. 64.<br />
91
Ogni rivoluzione genera una civiltà contro la quale, per la sua stessa<br />
salvezza, cioè perché tale civiltà non si esaurisca nell’estrema consunzione<br />
letteraria o, in una parola, nell’imitazione, è a un certo punto nuovamente<br />
necessario ribellarsi. 21<br />
In queste parole dell’immediato dopoguerra sono contenute una tensione al<br />
cambiamento e una speranza <strong>che</strong> negli anni successivi vengono meno, come si è visto<br />
precedentemente, perché progressivamente la poesia scopre il senso della perdita e dello<br />
spaesamento: perdita della madre, delle città amate, della fede, dei valori nei quali il<br />
poeta stesso aveva creduto e di quegli ideali di rinnovamento <strong>che</strong> dopo la Resistenza<br />
vengono soffocati nel monocolore democristiano. Prevale, allora, il senso di solitudine,<br />
l’impossibilità di comunicare, la rottura di ogni unione tra l’uomo e lo spazio-tempo in<br />
cui vive.<br />
Prima <strong>che</strong> ricerca estetica, è posizione etica: solo così il poeta trova la spinta per<br />
continuare, nonostante lo choc, la ricerca di un’adesione critica al presente. Caproni<br />
diviene descrittore di una realtà stravolta dalle «rovine invisibili» dell’epoca postbellica,<br />
in cui le parole toccano i nervi sensibili dell’esistenza mondana senza porsi al di sopra o<br />
al di là della vita quotidiana. La poesia è, invece, un nuovo occhio <strong>che</strong> si apre e<br />
modifica la vista degli altri occhi:<br />
Oggi (in fondo gli «impossibili contenuti nuovi» non sono <strong>che</strong> questo: un<br />
modo nuovo di considerarsi nel mondo, uno spostamento del centro di<br />
gravitazione, e quindi un modo nuovo di riflettere in modi e forme nuove)<br />
vivere sui pinnacoli non giova più: non giova almeno in questo particolare<br />
momento d’emergenza. 22<br />
Caproni, prima su un versante intimista, con Il seme del piangere, poi passando<br />
dall’io all’uomo con il Congedo del viaggiatore cerimonioso, inventa una retorica in<br />
aperta opposizione al multiforme vitalismo della metropoli, in cui «gli uomini non<br />
hanno più tempo né luogo per piangere» 23 e l’uomo “solo” è lo scandalo della civiltà<br />
collettiva. Il poeta cerca di allontanarsi e di abbandonare quella realtà <strong>che</strong> si impone<br />
come “normale” e <strong>che</strong> obbliga le masse a farsi accettare come tale. I temi e le immagini<br />
del passato, estremi baluardi contro la dissoluzione, vengono assaliti dal germe del<br />
disfacimento e stravolti dall’irrazionalismo logico, dalla sfasatura spazio-temporale:<br />
21<br />
Giorgio Caproni, Poesia come disobbedienza, «Perseo», 20 ottobre 1948, poi in La scatola nera, cit., p. 24.<br />
22<br />
Ivi, p. 25.<br />
23<br />
Giorgio Caproni, Né tempo né luogo, «La Fiera Letteraria», 9 novembre 1958.<br />
92
Essere in disarmonia<br />
con l’epoca (andare<br />
contro i tempi a favore<br />
del tempo) è una nostra mania.<br />
Crediamo nell’anacronismo.<br />
Nel fulmine. Non nell’avvenirismo.<br />
93<br />
(A certuni, in Res amissa)<br />
C’è, insomma, la coscienza di un’opposizione radicale e il rifiuto di uno stato di cose<br />
<strong>che</strong> non può più considerarsi fatale, ma <strong>che</strong> è, invece, fondato su precise colpe di pochi,<br />
interessatissimi al condizionamento dei molti:<br />
Coi mezzi attuali di propaganda, non ci vuol molto a un “partito di<br />
massa” per creare una “massa”. Cioè un agglomerato di gente <strong>che</strong> la pensa<br />
tutta allo stesso modo, senza persone realmente capaci di pensare in proprio.<br />
E a questo modo i partiti di massa non fan <strong>che</strong> ripetere la chiesa, con la<br />
differenza <strong>che</strong> alla giustificazione d’un premio ultraterreno, al crescete e<br />
moltiplicate, sostituiscono il miraggio d’un premio terreno: un aspirapolvere,<br />
un frigorifero, una macchina, una casa, una villeggiatura (campa cavallo) per<br />
tutti. 24<br />
In questa direzione si sviluppano i vari alter ego del poeta, le allegorie attraverso cui<br />
egli addita le colpe e le discrepanze di una società <strong>che</strong> si vorrebbe democratica e sana.<br />
Sono figure o voci di “esuli”, di “fuggitivi”, le cui parole si stagliano contro l’ottusa<br />
animosità di chi ha «la testa sulle spalle» e «i piedi per terra», come dice il preticello del<br />
Lamento o boria, frequente bersaglio polemico del Caproni pubblicista:<br />
Contro la comoda società del benessere d’oggi, tutta tesa ai beni<br />
elettrodomestici, al carrierismo ecc., facendosi puntello, magari, d’un Dio nel<br />
quale, in fondo all’animo, non crede più. Il “bisogno di Dio” del preticello è<br />
soprattutto bisogno d’un poco di giustizia, di un poco di “luce”, di un poco di<br />
“anima” in tanta massa condizionata dai potenti mezzi di diffusione (e di<br />
educazione alla rovescia) oggi esistenti. 25<br />
Negli anni Sessanta inizia uno scoperto j’accuse rivolto alla società, e seppure i fatti<br />
da cui nasce questa critica non siano mai esplicitamente detti, ma soltanto suggeriti, è<br />
chiaro il giudizio e la condanna di tutto un sistema di istituzioni (religiose, morali,<br />
politi<strong>che</strong>, sociali etc.) <strong>che</strong>, ormai svuotate di ogni contenuto e giustificazione, sono<br />
mantenute in vita e sopravvivono soltanto come strumento di salvaguardia di interessi<br />
non confessabili:<br />
24 Giorgio Caproni, Politica e cultura, «Critica d’oggi», 12-13, settembre-novembre 1962.<br />
25 Giorgio Caproni in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 109.
La mia “sfiducia” non è sfiducia assoluta nell’uomo, ma nella società così<br />
com’è andata conformandosi. La religione e le ideologie scricchiolano e si<br />
conservano in piedi o con la forza o per ipocrisia. 26<br />
Il preticello è la figura più emblematica di questa sfiducia, rappresenta una poesia<br />
<strong>che</strong> non può proporre soluzioni nuove, ma <strong>che</strong> vuole testimoniare una piccola lezione di<br />
decenza contro l’irreligione dell’avere, in un mondo <strong>che</strong> sembra aver perduto il vero<br />
senso della solidarietà, del sostegno umano e spirituale. La sua speranza è per un Dio<br />
<strong>che</strong> deve venire, una deità mancante nel presente e sposata nel futuro:<br />
prego (e in ciò consiste<br />
– unica! – la mia conquista)<br />
non, come accomoda dire<br />
al mondo, perché Dio esiste:<br />
ma, come uso soffrire<br />
io, perché Dio esista.<br />
(Lamento (o boria) del preticello deriso, in Congedo…)<br />
La tensione verso un Dio <strong>che</strong> si sa bene <strong>che</strong> non c’è e <strong>che</strong> tuttavia si vuole <strong>che</strong> ci sia è<br />
un segno di quella resistenza della poesia contro l’inferno della quotidianità, <strong>che</strong> con la<br />
forza ottusa delle cose umilia ogni slancio nell’orizzontalità del tempo storico. 27<br />
Occorre prendere una posizione continuando caparbiamente a pregare un Dio da far<br />
esistere, per contrapporlo all’inaccettabile disumanità di un mondo <strong>che</strong> trova nel<br />
guadagno l’unico scopo della vita e nella violenza l’unico mezzo:<br />
Ho spesso avuto desiderio di Dio, come giustizia, remunerazione,<br />
garanzia. Ma è stato un desiderio sempre insoddisfatto. Dio, se c’è, è un dio<br />
serpente, un dio <strong>che</strong> non remunera, non redime. 28<br />
Ma non basta emendarsi nell’understatement, non è questo un modo per lavarsi le<br />
mani. Caproni nel Muro della terra patisce la sciagura storica an<strong>che</strong> nell’angoscia del<br />
26 Ibidem.<br />
27 Vengono in mente le parole con cui Calvino concludeva Le città invisibili: «L’inferno dei viventi non è<br />
qualcosa <strong>che</strong> sarà; se ce n’è uno, è quello <strong>che</strong> è già qui, l’inferno <strong>che</strong> abitiamo tutti i giorni, <strong>che</strong> formiamo stando<br />
insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino<br />
al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper<br />
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Italo Calvino, Le città<br />
invisibili, in Romanzi e racconti, vol. 2, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno<br />
Falcetto, Milano, Mondadori «i Meridiani»,1995, pp. 497-498).<br />
28 Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», cit., intervista rilasciata a Stefano Giovanardi. Ma si legga an<strong>che</strong><br />
Divagazioni sul tradurre, in La scatola nera, cit., pp. 59-66, dove Caproni parla della poesia di André Frénaud: «Il<br />
suo religioso ateismo, ma soprattutto il suo stoicismo (a volte ironico, a volte addirittura sarcastico) nel rincorrere in<br />
moto perpetuo, come i suoi Re Magi la Stella, una speranza già negata sul nascere e comunque sempre fuggitiva, in<br />
una maratona resa ancor più spossante dalla coscienza <strong>che</strong> la Stella, appunto, è irraggiungibile, e <strong>che</strong> – come afferma<br />
uno dei tre Re nella chiusa del poème – insensato è per l’uomo, ma proprio per questo irresistibile, il richiamo:<br />
“Siamo persi… Ci han dato false informazioni. / Fin dall’inizio del viaggio. / Non ce n’era strada. Non ce n’è,<br />
luce…”».<br />
94
suo incombere («le rovine invisibili» del dopoguerra, la guerra fredda), oltre <strong>che</strong> nel suo<br />
avverarsi. L’invivibilità storica del presente ci pone a diretto contatto con quel «muro»<br />
<strong>che</strong> è il più fisico simbolo del Male: i dati di riferimento riaffiorano, ma, parallelamente,<br />
essi sono intensificati dall’apporto di un senso <strong>che</strong> travalica la contingenza e li dispone<br />
a essere colmati da ulteriori significazioni.<br />
Le poesie di Acciaio, come ha sottolineato Surdich, 29 «si sincronizzano con<br />
l’occasione bellica e ne riproducono alcune fasi, ma si distanziano in modo reciso dalla<br />
circostanza ponendo al di là e al di fuori di essa il loro significato più profondo. […] La<br />
riassunzione delle esperienze della guerra quale argomento di poesia nel primo scorcio<br />
degli anni Settanta non si giustifica affatto nei termini di un condizionamento<br />
retrospettivo e memoriale», ma come presa di coscienza ed evoluzione di un nucleo<br />
tematico volto a definire l’essere (se mai è possibile definirlo) nonostante il premere<br />
dell’amletico non essere. «La guerra / penetrata nell’ossa» e la notte dura dei coltelli,<br />
degli scisti, dell’ossidiana 30 non sono rimovibili, ma perennemente incombono, e con<br />
esse la rima, «sostanza stessa del discorso in versi», 31 <strong>che</strong>, con un crescendo<br />
drammatico nelle ultime raccolte, viene tesa fino all’orrore scarno, imperfetto e perfido<br />
di Alcina-Hiroshima («Sogna Alcina… // Hiroshima…», Träumerei in Il franco<br />
cacciatore). In contrasto con le città amate, Livorno e Genova ariose e vitali, Hiroshima<br />
è la città del disastro per antonomasia, ferita aperta della coscienza collettiva. In una<br />
dimensione onirica perturbante emergono an<strong>che</strong> altri luoghi della disumanità, come<br />
Dachau, emblema dell’annullamento della vita e dell’uomo.<br />
Se la storia è condotta a questi esiti da uno scelus continuamente perpetrato, l’esserci<br />
allora è poca cosa: è quel “poco” 32 <strong>che</strong> resta, per cercare un parallelo visivo, nelle<br />
sculture di Alberto Giacometti, in cui l’uomo, ridotto ad una sagoma filiforme (quasi un<br />
incrocio uomo-idrometra-libellula) a cui rimangono aderenti pochi residui di materia,<br />
misura coi suoi passi e le sue ombre la lastra nera su cui si trova. Non è più l’uomo <strong>che</strong><br />
fa lo spazio, è lo spazio <strong>che</strong> disfà l’uomo. Questo spazio inquinato corrode, come una<br />
pioggia acida, le presenze <strong>che</strong> lo abitano, <strong>che</strong> vengono colpite da parole-sassate <strong>che</strong> le<br />
29 Luigi Surdich, Le idee e la poesia, cit., p. 175.<br />
30 Dunque non più la rima-rondine di Litania (Il passaggio d’Enea), non più rime chiare e neppure “ingenue” e<br />
sensuali, bensì impure e taglienti reificazioni dell’Unheimli<strong>che</strong> caproniano.<br />
31 Gian Luigi Beccaria, L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1975, p. 30.<br />
32 Cfr. Italo Calvino, Il taciturno ciarliero (per Giorgio Caproni), in Saggi, cit., p. 1027:«Il nulla, grande tema<br />
della poesia e della filosofia contemporanee, ha una sua enfasi, una sua magniloquenza in cui è facile cadere. […] Ma<br />
le sue riuscite maggiori sono quando il senso del vuoto scaturisce da quello spazio fitto di persone e di discorsi <strong>che</strong> è<br />
il nostro “poco” quotidiano».<br />
95
snaturano. An<strong>che</strong> di quelle più salvifi<strong>che</strong> è rimasto poco, esse hanno perduto il loro<br />
télos originario, e non possono resistere al mutamento della loro stessa sostanza (ci<br />
troviamo di fronte ai vari effetti della «frana della ragione»). Così dopo la “teo-alogia”<br />
del Muro, la teologia illogica della negazione e dell’invettiva contro Dio, Caproni<br />
giunge a raffigurare un Cristo piangente, chiuso nel «cesso», una misera «statua di<br />
gesso» (Telemessa in Il franco cacciatore). L’immagine rende Dio ancora più lontano<br />
dai bisogni dell’uomo, ancor più inconoscibile e irriconoscibile, vera e propria icona<br />
negativa in cui si annulla ogni valore messianico e utopico.<br />
Se ogni grazia è Res amissa, se ogni speranza nel futuro, in una rivoluzione <strong>che</strong> sia<br />
generatrice di civiltà, è perduta, è a causa di una vita fasulla, svenduta al denaro e<br />
inquinata dal potere e dalla retorica di un <strong>lingua</strong>ggio impoverito e mistificatorio.<br />
Assistiamo dunque esterrefatti allo Show, una parata di falliti «Arrampichini. /<br />
Arrivisti.», <strong>che</strong> «In nome del Popolo / arraffano» e, sordi al monito del preticello,<br />
«Investono / all’estero, mentre “auspicano” / (Dio quanto auspicano!) / pace e<br />
giustizia». Torna la vis polemica delle raccolte precedenti, contro l’irreligione dell’avere<br />
<strong>che</strong> soffoca l’essere, contro coloro <strong>che</strong> «Han la testa sul collo, / dicon loro. Di pollo. / I<br />
piedi sulla terra. / Lavoran per la pace / preparando la guerra» (Lorsignori), «Loro, / i<br />
veri seviziatori / della Giustizia in nome / (sempre, sempre in nome!) / del Dollaro e<br />
dell’Oro» (Show). Il disastro ecologico dell’idrometra qui si spoglia di ogni metafisica,<br />
e gravati dal peso della colpa sprofondiamo an<strong>che</strong> noi nella melma di un «paese<br />
guasto», in cui la testimonianza del poeta è destinata a rimanere inascoltata: «Non<br />
uccidete il mare, / la libellula, il vento. / […] E chi per profitto vile / fulmina un pesce,<br />
un fiume, / non fatelo cavaliere / del lavoro» (Versicoli quasi ecologici).<br />
Parlando di una natura <strong>che</strong> subisce le nostre colpe egli intende soprattutto<br />
sottolineare il dramma civile dell’uomo moderno: l’inquinamento del <strong>lingua</strong>ggio è, in<br />
ultima analisi, inquinamento del mondo. Il poeta preleva le parole dai circuiti<br />
dell’informazione di massa e ce le presenta logore e sfatte. Frasi fatte <strong>che</strong> a furia d’esser<br />
ripetute, spesso a sproposito, trapassano nell’inconscio senza passare per la coscienza<br />
(«Eccidio o massacro / son nomi. (Così come il Sacro)», Attualità). Siamo a diretto<br />
contatto con la loro violenza, ci confrontiamo con la loro rinascita e il continuo declino.<br />
Le parole non possono più aggiungere un senso alle cose, non possono interpretarle, ma<br />
96
soltanto nominarle per un breve tempo prima di essere dimenticate. La fine del<br />
<strong>lingua</strong>ggio come mezzo di conoscenza e testimonianza è la fine del mondo:<br />
Non restano testimonianze.<br />
Grande <strong>che</strong> sia o meschino<br />
quanto s’è fatto o detto<br />
non dura più di nebbia al mattino.<br />
97<br />
(Su frase fatta, in Res amissa)
TERZA PARTE<br />
99
100
3.1.<br />
FRANCO FORTINI:<br />
LA POETICA DEL NON ANCORA<br />
Nel saggio intitolato Utopia e disincanto, Claudio Magris pone l’accento<br />
sull’importanza della resistenza della letteratura e dell’uomo in generale, contro le<br />
nuove forme di totalitarismo “soft” nate dalla fine dei totalitarismi del passato, <strong>che</strong> si<br />
basano sulle «gelatinose ideologie deboli, promosse dal potere delle comunicazioni». 1<br />
La difesa da simili forme di controllo mediatico si deve basare sul valore della memoria<br />
storica (sempre più insidiata dal revisionismo) e sul «rifiuto del falso realismo, <strong>che</strong><br />
scambia la facciata della realtà per la realtà intera e, privo di ogni senso religioso<br />
dell’eterno, assolutizza il presente e non crede <strong>che</strong> esso possa cambiare». 2<br />
L’utopia di chi crede ancora nella necessità di cambiare il mondo e riscattarlo, non<br />
può però sopravvivere a se stessa e deve, secondo Magris, entrare in contatto con il suo<br />
contrario, il disincanto, <strong>che</strong> «corregge l’utopia, rafforza il suo elemento fondamentale,<br />
la speranza». 3 Lo slancio, di per sé positivo e progressivo, nasce da una condizione di<br />
mancanza, di assenza e di lontananza, da quella <strong>che</strong> Magris definisce come la<br />
«lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli» 4 e <strong>che</strong> già Ernst Bloch aveva<br />
identificato come vero e proprio principio spirituale dell’utopia, nel saggio intitolato<br />
Principio speranza.<br />
3.1.1 Dalla «nostalgia di lunghissimo esilio» alla «poetica dell’avvento»<br />
In un articolo apparso su «L’Unità» nel 1946 Calvino ha scritto a proposito di Foglio<br />
di via di Fortini:<br />
Poeta della resistenza fin dalle più anti<strong>che</strong> liri<strong>che</strong> della raccolta (<strong>che</strong><br />
comprende il suo lavoro dal ’38 al ’45) in cui la sua solitudine di giovane<br />
1<br />
Claudio Magris, Utopia e disincanto, Milano, Garzanti, 2001, p. 10.<br />
2<br />
Ibidem.<br />
3<br />
Claudio Magris, Utopia e disincanto, cit., p. 14.<br />
4 Ibidem.<br />
101
ebreo nel paese ostile non smorza la sua voce in un interiore rovello, ma la<br />
schiude in un forte canto <strong>che</strong> è pur lirica ed elegia, ma già poesia civile […].<br />
Poesia della resistenza perché la sua vena di tristezza non è mai abbandono o<br />
rinuncia, la sua nostalgia di lunghissimo esilio non è mai impotente desiderio<br />
d’evasione, ma l’una e l’altra si maturano in un virile, consapevole impegno<br />
di vita e di lotta. La voce di Fortini è alta e gelida. 5<br />
In questo articolo, appassionato e carico d’affetto, Calvino coglie il tratto secco e<br />
raffinato di versi in cui «ogni parola è pagata con un brivido», da cui emerge una<br />
volontà di essere nella storia <strong>che</strong> va di pari passo con l’attività intellettuale e<br />
resistenziale. 6 Tuttavia lo slancio positivo si confronta necessariamente con una pars<br />
destruens <strong>che</strong> non lascia nulla intatto, e procede dal vertice abbagliante del sole verso la<br />
notte, sino a calare nella profondità dell’io:<br />
E il sole si distrugge<br />
Lungo le torri della città nemica<br />
Verso la notte d’ansia<br />
Quando nei volti vili della città nemica<br />
Leggo la morte seconda,<br />
E tutto, an<strong>che</strong> il ricordare, è invano<br />
102<br />
(La città nemica, in Foglio di via)<br />
Il ricordo è inutile nel tempo nemico; non c’è idillio, ma sospensione e attesa. Il<br />
presente è allora pena e conflitto, e Fortini vive una condizione d’esilio in patria,<br />
riconoscendo nell’Italia la propria «necessaria prigione»:<br />
Ora m’accorgo d’amarti<br />
Italia, di salutarti<br />
Necessaria prigione.<br />
Non per le vie dolenti, per le città<br />
Rigate come visi umani<br />
Non per la cenere di passione<br />
Delle chiese, non per la voce<br />
Dei tuoi libri lontani<br />
Ma per queste parole<br />
Tessute di plebi, <strong>che</strong> battono<br />
A martello nella mente,<br />
Per questa pena presente<br />
Che in te m’avvolge straniero.<br />
Per questa mia <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> dico<br />
A gravi uomini ardenti avvenire<br />
5 Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., p. 1057.<br />
6 Nel 1944 Fortini partecipò alla Resistenza in Valdossola.
Liberi in fermo dolore compagni.<br />
Ora non basta nemmeno morire<br />
Per quel tuo vano nome antico.<br />
103<br />
(Italia 1942, in Foglio di via)<br />
Contro la prigionia nell’Italia invasa dai nazisti e sottomessa alla dittatura fascista si<br />
deve necessariamente lottare; non in nome di valori quali la storia, la religione e la<br />
cultura, ma per ridare dignità ai popoli, affinché le «plebi» possano diventare «uomini<br />
ardenti». Se da una parte la prospettiva tende ad aprirsi all’avvenire, tuttavia ancora non<br />
risolve in modo deciso il nodo tra il qui e l’altrove. Perciò «fra essere e non essere», si<br />
preferisce quello spazio intermedio in cui si manifesta la tensione latente delle cose, in<br />
cui l’esistenza, <strong>che</strong> «esita» a definirsi, è «figura» carica di potenzialità per il futuro, ma<br />
è an<strong>che</strong> «prigioniera in se stessa», grumo di vita <strong>che</strong> preme per superare la distanza:<br />
Ma qui dove fra essere e non essere esita<br />
Prigioniera in se stessa una nostra figura,<br />
Tu liberata porti la giustizia sicura<br />
Che i vivi conosce e i morti.<br />
(A un’operaia milanese, in Foglio di via)<br />
La «nostalgia di lunghissimo esilio», di cui parla Calvino, è presa di coscienza di un<br />
sentimento ineludibile di distacco, implicito già nel titolo Foglio di via: una poetica <strong>che</strong><br />
esprime «il ricordo di antichissime terre e stagioni», 7 ma <strong>che</strong> è, allo stesso tempo,<br />
rivolta al futuro, attraverso un discorso carico di contatti e tensioni tra natura e storia. 8<br />
Foglio di via è emblematico di quella <strong>che</strong> Thomas E. Peterson ha definito una «poetics<br />
of “advent”»: 9<br />
E questo è il sonno, edera nera, nostra<br />
Corona: presto saremo beati<br />
In una madre inesistente, schiuse<br />
Nel buio le labbra sfinite, sepolti.<br />
E quel <strong>che</strong> odi poi, non sai se ascolti<br />
Da vie di neve in fuga un canto o un vento,<br />
7 Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., pp. 1058-1059.<br />
8 Cfr. Thomas E. Peterson, The Ethical Muse of Franco Fortini, University Press of Florida (UPF), 1997, p. 4:<br />
«In Fortini’s practice the poetic utterance has a dual orientation – towards an immediate object and towards a general<br />
interlocutor, often in the future. […] The former is concrete and referential, while the latter is abstract and subjective.<br />
[…] Fortini insists on context and values: the virtue of the oppressed, the villainy of the oppressor, and the hope for<br />
those in the future».<br />
9 Thomas E. Peterson, The Ethical Muse of Franco Fortini, cit., p. 12: «His own poetics of “advent” projects a<br />
future of greater hope and fortune than the present. Thus the details of present perceptions are willfully obscured so<br />
as to emphasize their clarity when viewed from the perspective of generality and the future».
O è in te e dilaga e parla la sorgente<br />
Cupa tua, l’onda vaga tua del niente.<br />
(E questo è il sonno, in Foglio di via)<br />
Sin dal suo primo libro Fortini prende le distanze da quel «Novecento figurativo degli<br />
anni Trenta, di soave e coscientemente falso primitivismo, di fres<strong>che</strong>zza di colori», 10<br />
<strong>che</strong> egli riconosce nella poesia di Penna, ma <strong>che</strong> è la cifra stilistica an<strong>che</strong> del primo<br />
Caproni e in parte del primo Sereni. Fortini si confronta da subito con una parola <strong>che</strong><br />
confina col nulla, una parola <strong>che</strong> «non è, né deve essere mai, la cosa». 11 La guerra ha<br />
contribuito a radicare e diffondere la percezione di una doppia realtà, <strong>che</strong> lo sguardo<br />
non può risolvere in una visione sicura ed unitaria: «edera nera»/«nostra corona»;<br />
«beati»/«sepolti»; «quel <strong>che</strong> odi»/«non sai se ascolti»; «un canto»/«un vento»;<br />
«sorgente cupa»/«onda vaga tua del niente». 12 Il procedere per coppie antiteti<strong>che</strong>, per<br />
scissioni e disgiunzioni, trasmette il senso di una poesia fondata sulla praesentia<br />
discors 13 <strong>che</strong>, culminando nella coppia-rima «sorgente/niente», designa una forza<br />
originaria interna all’io dalla quale sgorga la parola e in cui si condensa un surplus di<br />
sofferenza. Come la pena della lontananza patita nel Coro di deportati attraverso la<br />
ripetizione salmodiante di veri e propri versetti <strong>che</strong> ribadiscono l’inconciliabilità tra il<br />
pensiero e la realtà esterna:<br />
Vorremmo tornare a guardare<br />
Carezzare il trifoglio dei prati<br />
Gli stipiti della casa nuova<br />
Piangere di pietà<br />
Dove passò nostra madre<br />
Invece saremo lontani.<br />
[…]<br />
E quando saremo tornati<br />
L’erba pazza sarà nei cortili<br />
E il fiato dei morti nell’aria.<br />
10<br />
Franco Fortini, Breve secondo Novecento, in Saggi ed epigrammi, cit., p. 1167.<br />
11<br />
Franco Fortini, Prefazione 1967 a Foglio di via (Torino, Einaudi, 1967), poi in <strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie<br />
1938-1973, Torino, Einaudi, 1978, p. 362.<br />
12<br />
Cfr. Marina Polacco, Fortini e i destini generali. Lirica e «grande politica» fino a Composita solvantur,<br />
«Allegoria», 21-22, anno VIII, 1996, p. 46: «La contraddizione della poesia si articola nello stesso spazio della<br />
contraddittorietà del reale».<br />
13<br />
La dialettica non è concordia discors, non c’è pacificazione nel processo dialettico, e nemmeno equilibrio, essa<br />
è piuttosto tensione delle forze in atto, dinamica simultanea degli opposti. Berardinelli, tramite Brecht, definisce la<br />
dialettica come «la dottrina dell’unità degli opposti e della duplicità di ciò <strong>che</strong> appare unitario» (Alfonso Berardinelli,<br />
Franco Fortini, Firenze, La Nuova Italia, «il castoro», 1973, p. 153).<br />
104
Le rughe sopra le mani<br />
La ruggine sopra i badili<br />
E ancora saremo lontani.<br />
Saremo ancora lontani<br />
Dal viso <strong>che</strong> in sogno ci accoglie<br />
Qui stanchi d’odio e d’amore.<br />
[…]<br />
105<br />
(Coro di deportati, in Foglio di via)<br />
Lo sguardo del poeta è doppio, perché da una parte si rivolge ad una realtà orizzontale,<br />
fatta di cose concrete (erba, fiato, rughe, ruggine), <strong>che</strong> condensano in materia organica il<br />
senso del trascorrere del tempo, dall’altra emerge una tensione, dialetticamente opposta,<br />
a fuggire questa materialità. Solo nel sonno si trova accoglienza, nel «viso <strong>che</strong> in sogno<br />
ci accoglie» si scorge la traccia di un immaginario ermetico dalla evidente semplicità<br />
simbolica, ma <strong>che</strong> il deittico («qui stanchi») smorza, marcandone la distanza. C’è il<br />
senso della lontananza, ma mai dell’isolamento esistenziale, o della fuga in una<br />
dimensione altra, astratta e fuori dal tempo. La riappacificazione dei contrasti in una<br />
dimensione onirica è un’illusione, poiché la vita non è pace e quiete indistinta, è fatta<br />
invece «d’odio e d’amore», elementi contrari in perenne lotta, <strong>che</strong> generano «un’ansia<br />
di liberazione <strong>che</strong> è già figura del futuro». 14 Un futuro <strong>che</strong> è tempo, è relazione del<br />
soggetto con l’altro da sé e con il presente: 15<br />
[…]<br />
Ma verranno nuove le mani<br />
Come vengono nuove le foglie<br />
Ora ai nostri campi lontani.<br />
Ma la gemma s’aprirà<br />
E la fonte parlerà come una volta.<br />
Splenderai pietra sepolta<br />
Nostro antico cuore umano<br />
S<strong>che</strong>ggia cruda legge nuda<br />
All’occhio del cielo lontano.<br />
(Coro di deportati, in Foglio di via)<br />
14 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 19.<br />
15 Cfr. Emmanuel Levinas, Le temps et l’autre, Paris, Presse Universitaire de France (PUF), 1983 (1ª ed.<br />
Montpellier, Fata Morgana, 1979), p. 17: «le temps n’est pas le fait d’un sujet isolé et seul […] il est la relation même<br />
du sujet avec autrui». E a p. 68: «l’avenir de l’événement n’est pas encore le temps. Car cet avenir qui n’est à<br />
personne, cet avenir que l’homme ne peut pas assumer, pour devenir un élément du temps doit tout de même entrer<br />
en relation avec le présent».
Le due avversative introducono ad un sentimento di speranza <strong>che</strong> produce il<br />
«movimento dialettico della storia verso il futuro»; 16 esse rappresentano la possibilità di<br />
una nuova vita, e contemporaneamente sanciscono la definitiva distanza dell’«antico<br />
cuore umano» dal «cielo lontano», in una sorta di verticalità negata. Con questo doppio<br />
movimento l’avvenimento si inserisce in una prospettiva di cambiamento <strong>che</strong> annulla il<br />
presente stesso nell’urto con un altro tempo: la poesia non vuole trattenere al di qua<br />
della fine, né evocare una stagione perduta, intende piuttosto andare oltre il presente, per<br />
affermare un’esistenza <strong>che</strong> è rinnovamento e visione. La «sorgente / cupa» qui si<br />
trasforma in una fonte <strong>che</strong> «parlerà», l’«edera nera» si muta in una gemma pronta a<br />
schiudersi in una rinnovata possibilità di fioritura. E troviamo an<strong>che</strong> uno dei primi<br />
esempi di quelle mineralizzazioni <strong>che</strong> si caricano di destino, preannuncio di futuro,<br />
segni cristallini di speranza: la «pietra sepolta» <strong>che</strong> splenderà diventa l’emblema di una<br />
liberazione <strong>che</strong> non ha nulla di metafisico, ma fa diretto riferimento al destino di un<br />
popolo inaridito dalla dittatura, cupa e soffocante come edera. 17 La pietra-antico cuore-<br />
poesia rimane viva, an<strong>che</strong> se sepolta, in attesa di una vita nuova, come la «rosa sepolta»<br />
<strong>che</strong> «odora eterna», figura anch’essa di un destino <strong>che</strong> la contingenza storica non può<br />
annientare:<br />
Discenderanno i cavalieri di grigi mantelli<br />
sui prati senza colore, accennando. E di noi<br />
dietro quel trotto senza suono per le valli<br />
d’esilio irrevocabili, seguiranno le immagini.<br />
Ma il più distrutto destino è libertà.<br />
Odora eterna la rosa sepolta.<br />
106<br />
(La rosa sepolta, in Foglio di via)<br />
Questi cavalieri apocalittici, <strong>che</strong> possono ricordare il «buio graffito delle acqueforti di<br />
Dürer», 18 calano su un mondo già ingrigito e senza colore, una waste land fortiniana <strong>che</strong><br />
anticipa di gran lunga i lugubri e scarni paesaggi caproniani. Le «valli / d’esilio<br />
irrevocabili» sono ciò <strong>che</strong> resta dopo la catastrofe e ciò <strong>che</strong> ci aspetta nell’immediato<br />
futuro, sono i fantasmi di un «distrutto destino» <strong>che</strong> riguarda tutti, ma <strong>che</strong> preserva tra le<br />
16 Giulio Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Torino, Einaudi, 1996, p. 102.<br />
17 Si legga quanto scrive Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 19: «Altre volte ancora lo stesso minerale<br />
in cui la poesia si essicca può essere garanzia di futuro, l’autorepressione trovare una possibilità di risarcimento<br />
capovolgendo la devitalizzazione in capacità di sopravvivere e di mordere».<br />
18 Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., p. 1058.
macerie la possibilità di un futuro, la libertà come il profumo eterno della «rosa<br />
sepolta»: dalla compresenza degli opposti può nascere una conoscenza più profonda di<br />
sé e del mondo. 19<br />
La dinamica dei contrari <strong>che</strong> Fortini ha inaugurato con Foglio di via, percorre an<strong>che</strong><br />
la sua successiva produzione. Il tempo presente dichiara una realtà divergente, basata su<br />
coppie antiteti<strong>che</strong> e drammati<strong>che</strong>, <strong>che</strong> strutturano la poesia come una continua lotta:<br />
Mi risveglio dal sonno, è una notte d’inverno,<br />
lontani sono i sogni, il libro è caduto,<br />
non vengono rumori sul vento della città.<br />
Guarda, mi dico, non è vero <strong>che</strong> siamo d’inverno,<br />
<strong>che</strong> sono morti gli amici e orrida cosa è vivere:<br />
vedrai domani alla prima luce ci desteremo<br />
a lavarci nei fontanili.<br />
107<br />
(Le stagioni, IV, in Poesia e errore)<br />
Il realismo convive, secondo la lezione di Lukács, con l’elemento utopico 20 e il presente<br />
immerso nell’immobilità del gelo invernale diviene risveglio carico d’attesa, momento<br />
in cui la verità esita tra due opposte realtà. Da una parte l’andamento paratattico e la<br />
sec<strong>che</strong>zza delle coordinate ci trasmettono delle affermazioni <strong>che</strong> apparentemente non<br />
possono essere smentite («è una notte d’inverno, / lontani sono i sogni, il libro è caduto,<br />
/ non vengono rumori»), dall’altra c’è il tentativo di capovolgerle e di allontanarsene<br />
(«Guarda, mi dico, non è vero <strong>che</strong> siamo d’inverno, / <strong>che</strong> sono morti gli amici e orrida<br />
cosa è vivere»). In questo cambio di direzione, quasi una brusca sterzata, sta tutto il<br />
senso della poesia: agli astratti e vaghi sogni, al libro caduto, al silenzio e al vento <strong>che</strong><br />
percorrono la città, <strong>che</strong> sono emblemi di morte e abbandono, si sostituiscono gli amici,<br />
l’alba e i fontanili, <strong>che</strong> restituiscono un’immagine di vita possibile. Questo rifiuto della<br />
negatività storica confina con una lacerazione esistenziale a cui nel penultimo verso si<br />
accosta il verbo al futuro, <strong>che</strong> produce straniamento e speranza: attraverso uno<br />
slittamento lo sguardo contempla la realtà cercando di anticiparne le trasformazioni, di<br />
spezzare la catena con cui la storia imprigiona il desiderio. Anzi, la storia stessa deve<br />
cessare d’essere un continuum, per realizzare, tramite rotture e salti, il cambiamento. 21<br />
19 Si legga Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 19: «Al gelo o alla neve o al sasso si contrappone spesso<br />
un emblema di felicità, di leggerezza o di liberazione: ad esempio l’immagine della rosa. An<strong>che</strong> qui motivi ideologici<br />
e psicologici si intrecciano strettamente. La rosa è la rivoluzione e il desiderio inconscio».<br />
20 Cfr. Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 57.<br />
21 Franco Fortini, Verifica di poteri, in Saggi ed epigrammi, cit., p. 125: «La nozione di storia come durata e<br />
intermittenza, come alternanza di quantitativo e qualitativo, come rifiuto della continuità, è finalismo, prospettivismo,
Infatti notiamo <strong>che</strong>, pur coniugando il verbo al futuro («vedrai»), Fortini introduce una<br />
regressione verso una realtà prebellica e preindustriale, in cui, come ha sottolineato<br />
Walter Siti, «l’attesa del futuro non contrasta col recupero del passato», 22 ma intravede<br />
in questa doppia dinamica lo spiraglio per la resurrezione di cui è emblema l’immagine<br />
sacrale del lavaggio purificatorio nell’acqua dei fontanili.<br />
3.1.2. L’eredità della scrittura<br />
Secondo Fortini la poesia «non agisce direttamente sulla realtà», 23 ed «è per<br />
definizione discorso indiretto, discorso intransitivo», 24 perciò deve necessariamente<br />
essere inattuale, guardare al passato e proiettarsi verso il futuro se vuole dare un senso<br />
all’attualità stessa. Questa consapevolezza trova espressione in uno dei suoi testi più<br />
importanti, Traducendo Brecht, pubblicato in <strong>Una</strong> volta per sempre, in cui prevale uno<br />
sguardo negativo sul futuro <strong>che</strong> si riflette an<strong>che</strong> sulla condizione stessa della scrittura e<br />
sul ruolo dell’intellettuale: alla poesia spetta il compito di dire questa negatività, di<br />
confrontasi col vuoto e con l’errore. Non ci può essere nessuna speranza di mutamento<br />
per chi si accontenta dell’attualità e vive in una società pacificata e inerte, ancora<br />
profondamente ingiusta:<br />
Un grande temporale<br />
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato<br />
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.<br />
Fissavo versi di cemento e di vetro<br />
dov’erano grida e piaghe murate e membra<br />
an<strong>che</strong> di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando<br />
prepara la fine della storia a noi nota». Si rimanda an<strong>che</strong> a Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 118: «Per<br />
questo rivoluzione e comunismo non sono un puro al di là, un ineffabile rovesciamento. Il comunismo è il punto in<br />
cui tutte le contraddizioni della società borghese cominciano a saltare e a risolversi». Così Pier Vincenzo Mengaldo,<br />
Per Franco Fortini, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 257: «si può<br />
dire <strong>che</strong> il disancoramento delle idee comuniste dalla loro cattiva realizzazione storica comportò in lui e in pochi altri<br />
di sentire le prime con più forza, e certamente con una venatura, nel bene e nel male, più utopica». E si legga an<strong>che</strong><br />
quanto scrive Elisa Gambaro: «È del resto lo stesso movimento dialettico per cui la poesia è insieme affermazione e<br />
negazione, vergogna e valore, a sottintendere la nozione di un tempo frammentato. Per Fortini, l’opacità del presente<br />
alienato contiene in sé tutto ciò <strong>che</strong> è morto e insieme anela, per bagliori, all’utopia futura» (Elisa Gambaro, Fortini<br />
poeta, in AA.VV., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, a cura di Paolo Giovannetti, Milano,<br />
Edizioni Punto Rosso, 2004, p. 62).<br />
22 Walter Siti, Il tarlo, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia, a cura di Carlo<br />
Fini, Padova, Liviana Editrice, 1980, p. 180. E si legga an<strong>che</strong> Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 67: «Al<br />
centro c’è un rapporto tra un regredire e un procedere, una tensione di forze in contrasto, il segno di una compresenza<br />
di stasi e movimento».<br />
23 Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 129.<br />
24 Ivi, p. 130.<br />
108
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,<br />
ascoltavo morire la parola d’un poeta o mutarsi<br />
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi<br />
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli<br />
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso<br />
credo di non sapere più di chi è la colpa.<br />
[…]<br />
(Traducendo Brecht, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />
A differenza di Brecht, <strong>che</strong> scriveva in un’Europa sottomessa al nazismo e alla guerra,<br />
per Fortini la parola poetica non è un progetto realizzabile, perché storicamente e<br />
ideologicamente la colpa non è più concepibile come un elemento esterno, ma ha<br />
assediato e preso possesso dell’io. 25 Se il temporale <strong>che</strong> si abbatte sui tetti rappresenta la<br />
forza viva della natura, la «pagina secca» fa pensare all’aridità di un deserto <strong>che</strong> si è<br />
trasferito all’interno del poeta e <strong>che</strong> alberga nelle sue parole, <strong>che</strong> non si fanno più voce:<br />
i «versi di cemento e di vetro» sono la metafora della doppia natura della poesia, <strong>che</strong><br />
rappresenta la durezza e l’asprezza, ma an<strong>che</strong> la fragilità della parola <strong>che</strong> prende le<br />
distanze dagli «oppressori tranquilli». L’antitesi non agisce solo tra presente e futuro,<br />
ma è parte del presente stesso e della parola: al centro sta l’immagine di<br />
disappropriazione <strong>che</strong> invade la <strong>lingua</strong>, per cui si ascolta «morire / la parola d’un poeta<br />
o mutarsi / in altra, non per noi più, voce» (<strong>che</strong> anticipa la «<strong>lingua</strong> non più sua» di<br />
Molto chiare si vedono le cose, in Composita solvantur). La crisi della parola diventa<br />
emblema di una soggettività lacerata e precaria, <strong>che</strong> sembra smarrire la coscienza di sé,<br />
dichiarando il proprio disorientamento («credo di non sapere più di chi è la colpa»).<br />
Alla visione della società <strong>che</strong> emergeva da Foglio di via, in cui «gli uomini gli<br />
apparivano divisi in vittime e carnefici, oppressori e oppressi, ricchi e poveri: non in<br />
classi», 26 si sostituisce una prospettiva più complessa e carica di tensioni. Dopo gli<br />
ideali condivisi della Resistenza, quando un progetto collettivo sembrava possibile, ora<br />
Fortini si trova a vivere in una società statica, <strong>che</strong> al cambiamento ha preferito la<br />
ripetizione di gesti meccanici, e dove la contrapposizione di classe e la lotta politica<br />
sono state soffocate dal totalitarismo soft dei consumi. Tuttavia egli non si piega<br />
all’«odio cortese» degli oppressori, e rivolge la sua critica contro coloro <strong>che</strong> «credono di<br />
non sapere», <strong>che</strong> credono di non avere responsabilità, <strong>che</strong> si accontentano e sono<br />
25 Si potrebbero ricordare a questo proposito gli ultimi due versi di In una casa vuota di Vittorio Sereni: «Oggi si<br />
è – e si è comunque male, / parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti». Per l’analisi tematica di questo<br />
componimento si rimanda al capitolo successivo.<br />
26 Franco Fortini, Prefazione 1967 a Foglio di via in <strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie 1938-1973, cit., p. 359.<br />
109
tranquilli sebbene oppressi. La scrittura, lungi dal conciliare il soggetto col mondo, si<br />
tramuta in odio e l’unico valore <strong>che</strong> può affermare è il proprio limite, poiché «non muta<br />
nulla» nell’immediato, ma può resistere proprio in quanto inattuale, cioè consapevole di<br />
essere impraticabile nel presente e inconciliabile con la logica del potere:<br />
[…]<br />
Scrivi, mi dico, odia<br />
chi con dolcezza guida al niente.<br />
Gli uomini e le donne <strong>che</strong> con te si accompagnano<br />
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici<br />
scrivi an<strong>che</strong> il tuo nome. Il temporale<br />
è sparito con enfasi. La natura<br />
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia<br />
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.<br />
(Traducendo Brecht, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />
La condizione dell’io confina con la negazione di sé e del proprio ruolo, perché solo<br />
sacrificando se stessi e la propria funzione, dichiarando il non-valore della scrittura, si<br />
può sperare di «salvare una nozione di poesia»: 27<br />
La poesia non vale<br />
l’incanto non ha forza<br />
quando tornerà il tempo<br />
uccidetemi allora.<br />
Ho letto Lenin e Marx<br />
non temo la rivoluzione<br />
ma è troppo tardi per me;<br />
almeno queste parole<br />
servissero dopo di me<br />
alla gioia di chi viva<br />
senza più il nostro orgoglio.<br />
(Quel giovane tedesco, in Poesia e errore)<br />
Il futuro assume valore e orienta l’attività poetica solo se si congiunge al tema del<br />
destino di chi verrà dopo. Alla prospettiva di cambiamento immediato <strong>che</strong> apparteneva<br />
agli ideali della Resistenza, si sostituisce la delusione e il rinvio del movimento<br />
evolutivo ad un tempo indefinito, ad un futuro <strong>che</strong> investe il «presente disperato» 28 con<br />
la forza della «speranza acuta dentro la notte» (Une ta<strong>che</strong> de sang intellectuel, in Poesia<br />
e errore). Al senso della fine si accosta, per via dialettica, una dichiarazione di oltranza<br />
27 Marco Forti, Tempi della poesia. Il Secondo Novecento da Montale a Porta, cit., p. 211.<br />
28 Cfr. Marina Polacco, Fortini e i destini generali. Lirica e «grande politica» fino a Composita solvantur, cit., p.<br />
44: «Spezzata la contiguità tra presente e futuro su cui si reggeva Foglio di via, il poeta perde ogni possibilità di<br />
inveramento immediato nella storia collettiva».<br />
110
<strong>che</strong> oppone sempre più tenacemente il «canto vero» al «sonno fondo». La poesia non<br />
può essere per il presente, ma solo «per altre pupille avvenire»:<br />
dichiara <strong>che</strong> il canto vero<br />
è oltre il tuo sonno fondo<br />
e i vertici bianchi del mondo<br />
per altre pupille avvenire.<br />
Scrivi <strong>che</strong> i veri uomini amici<br />
parlano oltre i tuoi giorni <strong>che</strong> presto<br />
saranno disfatti. E già li attendi. E questo<br />
solo ancora è il tuo onore.<br />
111<br />
(Arte poetica, in Poesia e errore)<br />
Se la poesia vuole avere un valore rivoluzionario e servire a chi viene dopo di noi deve<br />
rinunciare al proprio orgoglio, deve essere come<br />
quello <strong>che</strong> è messo da parte, <strong>che</strong> si è tolto di mezzo, <strong>che</strong> sta fuori della<br />
strada, e a cui non può accadere più nulla di importante se non di mettersi in<br />
mezzo e costringere gli altri a tenerne conto. 29<br />
Soltanto non contando nulla, ma tuttavia mettendosi in mezzo, costringendo a riflettere<br />
sulla distanza e la diversità <strong>che</strong> la distingue dalla realtà, essa può ritrovare il suo vero<br />
valore, la sua vera coscienza rivoluzionaria, <strong>che</strong> devono però essere indagati e messi in<br />
discussione:<br />
il rivoluzionario è come Lenin <strong>che</strong>, secondo quanto racconta Gor’kij,<br />
diceva, ascoltando Beethoven: «Non posso ascoltare questa musica sublime,<br />
perché è impossibile per me pensare <strong>che</strong> gli uomini <strong>che</strong> hanno saputo creare<br />
questa meraviglia possano al tempo stesso vivere nell’inferno in cui vivono.<br />
Forse un giorno sarà possibile ascoltare Beethoven». Effettivamente è vero:<br />
non è possibile, per chi voglia certe determinate cose dagli uomini e per gli<br />
uomini, non è possibile ascoltare la voce dell’arte e della poesia. 30<br />
Questo pensiero può essere fatto reagire con la riflessione di Adorno, secondo cui<br />
scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie: Fortini è consapevole <strong>che</strong> nel<br />
presente la sua poesia non può fare nulla per intervenire a favore degli oppressi e<br />
tuttavia continua a scrivere; ciò <strong>che</strong> muta è la forma di impegno <strong>che</strong> la sua scrittura<br />
mette in gioco. Se in Foglio di via, come aveva detto Calvino, c’era «un virile,<br />
29 Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 136.<br />
30 Ivi, p. 131.
consapevole impegno di vita e di lotta», 31 progressivamente questo impegno cambia col<br />
cambiare della realtà sociale e storica:<br />
Potrei sotto il capo dei corpi riversi<br />
posare un mio fitto volume di versi?<br />
Non credo. Cessiamo la mesta ironia.<br />
Mettiamo una maglia. Che il sole va via.<br />
(Lontano lontano…, in Composita solvantur)<br />
Cosa rimane dunque da fare al poeta? Stabilire, pur in un’ottica sempre più ristretta, lo<br />
spazio d’azione della poesia: nonostante la «storia tremenda» (Le radici, in <strong>Una</strong> volta<br />
per sempre), Fortini non si arrende all’interdizione di Adorno, ma sa riconoscere «una<br />
gerarchia di valori», 32 e soprattutto sottrae la poesia alle forme imposte dalla classe<br />
dominante, <strong>che</strong> la costringerebbero ad essere letteratura, ovvero espressione estetica,<br />
cortese strumento di sottomissione. Non a caso egli vuole diminuire l’«elemento lirico<br />
aggettivale», 33 cercando di rendere i propri versi “sgradevoli” (an<strong>che</strong> attraverso quello<br />
stile da canzonetta metastasiana <strong>che</strong> caratterizza l’ultima raccolta): la poesia può<br />
esistere nel momento in cui il suo valore (<strong>che</strong> da rivoluzionario diventa<br />
progressivamente testamentario) rimane nascosto, invisibile, ma trasmissibile alle<br />
generazioni future, come la «rosa sepolta», o la rosa <strong>che</strong> esita «dentro il sasso» (In una<br />
strada di Firenze, in <strong>Una</strong> volta per sempre) o come altri elementi residuali in cui si<br />
nasconde un surplus di significato. La rosa trova scampo proprio perché nascosta, così<br />
come «le piccole piante» di un’altra poesia trovano protezione «tra le carte» (Le piccole<br />
piante…, in Composita solvantur). Le parole <strong>che</strong> pure sembrano inutili e <strong>che</strong> pare non<br />
vogliano altro <strong>che</strong> sparire diventano il nascondiglio per proteggere, conservare e<br />
tramandare le ultime «verità» del poeta:<br />
Ma voi <strong>che</strong> altro di più non volete<br />
se non sparire<br />
e disfarvi, fermatevi.<br />
[…]<br />
Proteggete le nostre verità.<br />
(«E questo è il sonno», in Composita solvantur)<br />
31 Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., p. 1057.<br />
32 Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 132.<br />
33 Ivi, p. 134.<br />
112
La stasi come morte ma an<strong>che</strong> come opposizione alla dissoluzione si propone come<br />
elemento interpretativo, assolutamente reversibile. La figura della parola inerte, o <strong>che</strong>,<br />
al contrario, si muove, sottolinea la lotta tra punti di vista differenti, lo scontro tra la vita<br />
e la morte, tra il reale e l’utopico; ma è an<strong>che</strong> l’eredità intellettuale come qualcosa <strong>che</strong><br />
avanza e si tramanda.<br />
3.1.3. La poetica del non ancora<br />
Se proteggere le verità significa an<strong>che</strong> nasconderle, allora la poesia ha il compito di<br />
celare la loro potenzialità dietro una forma <strong>che</strong> finge di essere altro: con l’allegoria si<br />
creano due livelli di lettura, di cui il secondo è un contenuto di verità sociale, storica e<br />
politica sedimentato sotto gli strati del primo. 34 Questo principio regola tutto il pensiero<br />
di Fortini e si trova espresso nel saggio Astuti come colombe: «Farsi candidi come volpi<br />
e astuti come colombe. Confondere le piste, le identità. Avvelenare i pozzi». 35 Il<br />
travestimento poetico non deve allietare il lettore, ma generare in lui repulsione, non<br />
deve nascondere le contraddizioni, ma renderle più evidenti:<br />
Vorrei <strong>che</strong> a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come<br />
al viscido di un rettile. 36<br />
È un concetto talmente importante da ritornare a più riprese negli scritti o nelle<br />
interviste:<br />
vorrei veramente poter scrivere “in un bos<strong>che</strong>tto trova’ pastorella”, cioè<br />
cose <strong>che</strong> apparentemente non avessero nessun rapporto, nemmeno indiretto,<br />
con la mia ideologia. 37<br />
Come ha scritto Mengaldo, Fortini è un «poeta sempre politico, nel senso migliore,<br />
an<strong>che</strong> quando parla di alberi e di nidi»: 38<br />
34<br />
Si legga, tra gli altri, Romano Luperini, Controtempo, Napoli, Liguori Editore, 1999, p. 95: «Dati questi<br />
presupposti, qual è il metodo di lettura <strong>che</strong> Fortini propone? Lo definirei con un doppio movimento: storicizzare e<br />
attualizzare; o, meglio, storicizzare il testo in un passato puntuale per proiettarne il valore nel futuro. […] L’unica<br />
attualizzazione lecita di un testo è quella <strong>che</strong> considera il suo “adempimento” (uso a bella posta questa parola<br />
fortiniana a forte contenuto religioso). In tale prospettiva, a veder bene, i due movimenti sono uno solo: la<br />
storicizzazione, la messa a nudo del “contenuto di fatto”, è di per sé già premessa alla rivelazione del “contenuto di<br />
verità”, <strong>che</strong> a questo punto si presenta come adempimento del testo».<br />
35<br />
Franco Fortini, Astuti come colombe, in Verifica dei poteri, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 67.<br />
36<br />
Ibidem.<br />
37<br />
Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 138.<br />
113
Al limite, uno potrebbe parlare di rose e nuvole invece <strong>che</strong> di Intifada e,<br />
nondimeno, introdurre nelle forme sintatti<strong>che</strong> o scelte lessicali qualcosa <strong>che</strong><br />
ferisca l’ordine più gravemente di un appello all’insurrezione. 39<br />
Questo atteggiamento, politico prima <strong>che</strong> poetico, trova conferma nell’uso di un<br />
<strong>lingua</strong>ggio manieristico e stilizzato, <strong>che</strong> produce una sfasatura, un «rapporto<br />
decisamente straniato della poesia alla realtà», 40 di una <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> non si vuole attuale,<br />
perché non vuole compromettersi coi meccanismi del presente. 41 Questo era an<strong>che</strong> il<br />
merito <strong>che</strong> Fortini riconosceva all’avanguardia, cioè di «aver richiamato alla memoria<br />
[…] il grande valore del montaggio, del collaggio, e quindi del falsetto: <strong>che</strong> è un valore<br />
essenziale». 42 Non ne condivideva invece lo sperimentalismo, 43 la tendenza a mutuare i<br />
termini e il lessico della quotidianità e della tecnica, per riprodurre in modo mimetico<br />
gli automatismi <strong>che</strong> la società dei consumi aveva portato nel cuore del <strong>lingua</strong>ggio e <strong>che</strong><br />
Fortini accusava di «soggettivismo e, specularmente, di resa alla falsa oggettività dei<br />
reali». 44 Contro la falsificazione egli poneva la finzione:<br />
38 Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 831.<br />
39 Franco Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, p. 113.<br />
40 Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 830.<br />
41 Giovanni Raboni, La poesia <strong>che</strong> si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano – 1959-2004, cit., p.<br />
196: «È una <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> si vuole «morta» nella misura in cui rifugge […] da qualsiasi forma di collaborazione o<br />
complicità con lo stato di cose esistente. Porsi, formalmente, dalla parte della tradizione (non esclusa una parte<br />
cospicua della tradizione novecentesca, dall’eredità vociana – Rèbora, Jahier – sino alla lezione quasi fraterna dei<br />
quasi coetanei Luzi e Sereni) contro ogni forma di sperimentalismo e ogni progetto di «attualità» significa, per<br />
Fortini, guardare al di sopra del presente verso un’ideale traiettoria <strong>che</strong> congiunga la dignità del passato e la dignità di<br />
un futuro negato ma non impossibile».<br />
42 Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p.138. Questa idea del falsetto trova poi<br />
una sua più completa realizzazione in Composita solvantur, in cui il contenuto politico viene riversato all’interno di<br />
forme iperletterarie <strong>che</strong> generano una stridente ironia. Il falsetto diventa «nota acuta» (Se volessi un’altra volta…) <strong>che</strong><br />
dichiara ancora una volta l’impossibilità e il dolore della parola, ma an<strong>che</strong> la sua realizzazione nonostante tutto.<br />
43 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 17: «La forma, infatti, è an<strong>che</strong> realtà di presente e peso di passato;<br />
non solo anticipazione di un nuovo assetto sociale, è an<strong>che</strong> attributo della classe dominante. Per questo, i versi di<br />
Fortini esprimono un tentativo permanente di esorcizzare la forma, riducendola a maniera, essiccandola in retorica,<br />
mortificando ogni sua vitalità, ripudiando qualunque tentazione avanguardistica o sperimentale».<br />
44 Così Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 830. Ma si legga an<strong>che</strong> un’intervista<br />
rilasciata al critico francese Rémi Ro<strong>che</strong>, nella quale Fortini, riprendendo un suo scritto del 1960, dice <strong>che</strong>:<br />
«L’interrogation sur la possibilité de commettre présentement une erreur de méthode critique, poétique et finalement<br />
de vie, ne fait qu’une avec celle portant sur la possibilité d’une erreur de méthode quand nous voulons «transformer<br />
le monde». La résistance au «monde», que nous estimons héroïque, semble par instants (d’une façon horrible) être un<br />
refus infantile de l’aride vérité. La déception déchaine des passions autopunitives. […] «À la fin, qu’attends-tu de<br />
nous?» nous disent souvent les plus généreux. Et nous n’osons pas répondre comme nous devrions: «la grandeur»,<br />
c'est-à-dire «vérité». La page et l’intention critiques, d’abord dirigées vers l’objet, le public, le discours vérifiable<br />
(dit-on) dérivent bientôt vers le journal et la confession. […] Et nous en arrivons bientôt aux mémoires dans le<br />
manuscrit, à l’outre-tombe dans la bouteille, à ce qui est le plus détestable: ces limbes où les anciens ennemis confus<br />
sourient, moqueurs ou repentants, aux vieux camarades. Il ne reste que l’espérance, à vrai dire non infondée, que<br />
quelques-unes de nos lettres de prisonnier, griffonnées au dos des plans d’opérations ayant échoué ou de projets de<br />
fortification détruites, témoignent, si elles sont lues des deux côtés de la feuille, d’une vérité objective qu’on<br />
n’espérait pas posséder, sinon en rêve» (Franco Fortini in «Donc sous peu sans mots la bou<strong>che</strong>» échanges Rémi<br />
Ro<strong>che</strong>/Franco Fortini, in Franco Fortini, Une fois pour toutes. Poésie 1938-1986, cit., p. 153).<br />
114
La città di cui sto parlando non esiste,<br />
è un’idea della ragione e della volontà.<br />
Nella speranza di essere compreso<br />
la chiamo con un nome sconosciuto.<br />
I suoi viali si aprono nel vuoto.<br />
[…]<br />
(La realtà, in L’ospite ingrato secondo)<br />
L’andamento nominale rende l’idea di una sintassi sussultoria, come se la poesia stessa<br />
fosse protesa sul vuoto, in procinto di scivolare. Il discorso si fa instabile, «quasi a<br />
segnalare l’assenza (la perdita) di una logica articolata secondo le gerarchie del<br />
pensiero»: 45 la frattura tra pensiero e mondo è ormai irrimediabile, ragione e volontà<br />
parlano di qualcosa <strong>che</strong> non esiste, perché è venuta meno definitivamente la possibilità<br />
di collegare i due piani, quello delle parole e quello della realtà. La città <strong>che</strong> «non<br />
esiste» è utopia, non luogo, spazio <strong>che</strong> si apre ad una serie di possibilità <strong>che</strong> si<br />
oppongono alla Storia e alla realtà propriamente intesa. È un atto di insurrezione contro<br />
questa realtà, come il «giglio di Saron» dalla «lucente […] inesistenza» (Per l’ultimo<br />
dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto, in Paesaggio con serpente). Tale poetica era stata<br />
formulata negli anni Sessanta in alcuni testi teorici in cui scriveva <strong>che</strong> «Deve essere<br />
combattuta qualsiasi forma di vita apparente cioè di mimesi» 46 e <strong>che</strong> «come scrittore –<br />
almeno nella misura in cui mi sia dato di comunicare ad un pubblico – mi dico di voler<br />
apparire il più astratto». 47 Astrazione dunque: le immagini poeti<strong>che</strong> «si susseguono<br />
secondo la loro vicinanza al sapere assoluto, e non secondo l’ideale estetico della<br />
coincidenza della forma sensibile e l’idea». 48 La poesia si definisce come resistenza ad<br />
una realtà <strong>che</strong> non manifesta tensioni rivoluzionarie e <strong>che</strong> imprigiona in atti meccanici<br />
senza prospettiva di futuro:<br />
191.<br />
[…]<br />
Le dattilografe mettono la copertina sulla contabile.<br />
I gatti si occupano dei fatti loro.<br />
Nel garage puliscono carburatori. Questa<br />
è la realtà. Se lasci cadere un giornale<br />
esso volteggia e raggiunge le ortensie.<br />
Non vuoi abbandonare la sintassi.<br />
La finzione è l’ultima speranza.<br />
[…]<br />
45 Alberto Asor Rosa, Un altro Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1999, p. 363.<br />
46 FrancoFortini, Poetica in nuce, in L’ospite ingrato primo, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 963.<br />
47 Franco Fortini, Astuti come colombe, cit., p. 67.<br />
48 Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, Milano, Marcos y Marcos, 2002, p.<br />
115
La storia – torni a spiegargli – è tutta la realtà.<br />
E invece non è vero.<br />
Parli per farti coraggio.<br />
[…]<br />
Il dovere di Schiller è di resistere.<br />
Dante si ostina su una rima difficile.<br />
Ecco perché gli amici sono divenuti nomi.<br />
Ecco perché nei sogni vedi solo carri di morti.<br />
Ecco perché puoi dire «Torino» ma non esiste<br />
nessuna città con questo nome<br />
e an<strong>che</strong> esistesse non te ne importa.<br />
Parli al plurale solo per ammonire<br />
i figli a non inciampare nei gradini. Tutto è<br />
tremendo ma non ancora irrimediabile.<br />
(La realtà, in L’ospite ingrato secondo)<br />
Per Fortini «la finzione è l’ultima speranza», in quanto pone un’altra realtà,<br />
un’alternativa <strong>che</strong> accentua la contraddizione: il conflitto è necessario al cambiamento e<br />
apre verso una «surrealtà», come la chiama Marco Forti, <strong>che</strong> «a una materia carica<br />
d’impegno civile, impediva di decadere nella pura illustrazione, nella subordinazione ad<br />
“altro”, attribuendole tutta la sua necessaria forza espressiva». 49 Lontana dai modi del<br />
neorealismo, la poesia «rifiuta le forme più ingenue di “impegno” per un precoce senso<br />
della oggettività, astrazione intellettuale e distanza mediatrice del prodotto letterario». 50<br />
La dinamica dialettica dei versi di Fortini struttura la mancata coincidenza tra forma e<br />
contenuto come lotta contro la «vita apparente», e un’altra verità si definisce come<br />
qualcosa di positivo e negativo allo stesso tempo:<br />
Ma riconosci questo inizio. Da grotte, fontane,<br />
i contrari respirano immobili.<br />
Dove si schiude una rosa decade una rosa<br />
e uno è il tempo ma è di due verità.<br />
Vieni al gelo e al gran caldo. Qui osa<br />
sul limite esitare. Aprirà<br />
i rami, le trame penetra.<br />
(La poesia delle rose, 2, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />
All’interno di un tempo unitario le verità restano due, dichiarano la loro inconciliabilità.<br />
Tuttavia proprio in ragione della stessa dinamica dialettica, all’inconciliabilità fa seguito<br />
l’unità degli opposti, <strong>che</strong> partecipa della frammentarietà:<br />
49 Marco Forti, Tempi della poesia, cit., p. 211. E così Pier Vincenzo Mengaldo, in Poeti italiani del Novecento,<br />
cit., p. 829: «per la sua poesia conteranno specialmente, fra le esperienze straniere, quella del surrealismo e ancor più<br />
Brecht, di cui egli è il più diretto erede in Italia».<br />
50 Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 829.<br />
116
Il desiderio e la separazione<br />
non ci saranno più. Chi siamo stati<br />
sapremo e senza dolore. Già verso di noi<br />
quel <strong>che</strong> vi parve favola viene e sarà,<br />
figli di questo secolo, ironie.<br />
Noi dal sogno usciremo per esistere<br />
in una sola verità.<br />
(La poesia delle rose, 4, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />
L’interezza, l’unità tra parole e cose sembra realizzarsi in modo schizofrenico,<br />
l’allegoria dà senso e ordine a ciò <strong>che</strong> non ha un senso e un ordine, ma il risultato non<br />
porta ad un equilibrio: la reductio ad unum significa in realtà compresenza degli<br />
opposti, rappresentazione del molteplice in cui si cela la verità di cui noi cogliamo solo<br />
una «favola», un’immagine imperfetta e parziale, <strong>che</strong> attende il compimento. In questo<br />
modo, unendo la parte razionale (ideologica) e quella emotiva (psicologica) Fortini<br />
arriva a dire cos’è una rosa (rivoluzione e desiderio), senza lasciarsi chiudere nella<br />
prigione del negativo <strong>che</strong> ritroviamo, invece, nell’ultimo Caproni:<br />
Buttate pure via<br />
ogni opera in versi o in prosa.<br />
Nessuno è mai riuscito a dire<br />
cos’è, nella sua essenza, una rosa.<br />
(Giorgio Caproni, Concessione, in Res amissa)<br />
Mentre Caproni dichiara la supremazia dell’essenza indicibile della rosa e si concentra<br />
sulla negatività del valore poietico del <strong>lingua</strong>ggio, a Fortini la rosa interessa proprio in<br />
ragione di questa indicibilità, ovvero nella sua possibilità d’essere altro da quello <strong>che</strong><br />
appare, di essere forma <strong>che</strong> racchiude un contenuto ideologico e psichico profondo,<br />
nascosto tra i suoi petali e pronto a rivelarsi:<br />
Quando da qui si guarda l’età del passato<br />
veramente diventa possibile l’amore.<br />
Mai così belli i visi e veri i pensieri<br />
come quando stiamo per separarci, amici.<br />
Esercizio della ragione e sentimento<br />
sono due cose e vivacemente si legano<br />
come la rosa è forma di mente e stupore.<br />
(Ultime sulle rose, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />
117
La rosa è una vita nascosta e marginale di intelletto ed emozione, è una verità profonda,<br />
<strong>che</strong> nasce dallo sguardo sul passato ed esprime «una possibilità di fioritura o di<br />
speranza». 51 Da una parte la norma, la razionalità <strong>che</strong> tutto controlla, dall’altra il<br />
sentimento, l’emozione della rosa-poesia, <strong>che</strong> può capovolgere il disastro del mondo nel<br />
segno del cambiamento. 52 Accanto alle rose fortiniane bisognerebbe leggere l’immagine<br />
della bambina con la rosa in mano <strong>che</strong> troviamo nelle Poesie della fine del mondo di<br />
Antonio Delfini, 53 pubblicate nel 1961, ovvero due anni prima dell’uscita di <strong>Una</strong> volta<br />
per sempre:<br />
Siamo la prima squadra: ci guida una bambina.<br />
Saremo la seconda, la terza, la quarta squadra:<br />
sarà il riscatto contro il maschilismo cristiano.<br />
La nostra bambina è senza croce. Tiene in mano<br />
una rosa infiammata di odio e di amore.<br />
(Noi minacciamo di fare la guerra, in Poesie della fine del mondo)<br />
Il rapporto contraddittorio e doloroso tra individuo e storia può essere superato solo con<br />
gli opposti sentimenti di cui è portatrice la poesia, qui rappresentata dalla rosa della<br />
bambina, «infiammata di odio e di amore», brandita come una spada, come a dire <strong>che</strong> la<br />
poesia è l’unica arma per vendicare ideali e dolori della Storia ed è an<strong>che</strong>,<br />
dialetticamente, possibilità di rigenerazione. Odio ed amore sono gli estremi dell’agire<br />
etico e poetico di Fortini, nell’antitetico rapporto tra scrittura e non scrittura da cui<br />
siamo partiti: 54<br />
In ira contro siepi di spade cerco una piccola poesia.<br />
Non lamentarsi. Chino il capo. Non si può scrivere più.<br />
118<br />
(Dopo una strage, in Questo muro)<br />
Se si scrive, è per nominare i nemici e per accusare se stessi come aveva fatto in<br />
Traducendo Brecht, secondo una volontà autopunitiva, intesa come mezzo di<br />
distanziamento per giudicare meglio sé e il presente, e farlo reagire con la storia. 55<br />
51 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 19.<br />
52 Franco Fortini, Napoleoni, Supplemento «Carte», 30, in «il manifesto», 5 agosto 1990, ora in Saggi ed<br />
epigrammi, cit., pp. 1673-1674: «il riconoscimento di un altro nel medesimo […] la latenza di quello in questo; di<br />
alcunché di futuro […] dà ragione del presente e del passato. È la nozione di Figura quale Auerbach ebbe a<br />
identificare per l’età romanico-gotica e in Dante. Essa s’accompagna, si lega, alla inseparabilità di apparenza e di<br />
sostanza. È fondamento di ogni dover essere an<strong>che</strong> politico».<br />
53 Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo, Milano, Feltrinelli, 1961.<br />
54 La coppia odio e amore l’avevamo trovata già in Foglio di via, nella poesia Coro di deportati.<br />
55 Cfr. Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., pp. 18 e 24.
Fortini continua a disseminare nella propria Arte poetica ulteriori tracce di dissoluzione<br />
e perdita: a «la poesia non vale / l’incanto non ha forza» si aggiungono i «giorni <strong>che</strong><br />
presto / saranno disfatti» (Arte poetica, in Poesia e errore), <strong>che</strong> troveranno la loro<br />
sintesi nel titolo dell’ultima raccolta, Composita solvantur. La scrittura continua a<br />
dichiarare un carattere di autolimitazione vitale, sino a porsi in un «esilio quasi<br />
metafisico», 56 da cui giunge una parola straniata <strong>che</strong> sacrifica il presente e la presenza di<br />
sé nella dialettica dei tempi dentro al tempo:<br />
Il verbo al presente porta tutto il mondo.<br />
Mi chiedo dove sono i popoli scomparsi.<br />
Il fattorino vestito di grigio in cortile mi dice<br />
<strong>che</strong> alcuni stanno nascosti sotto il primo sottoscala.<br />
Ho portato con me sotto il primo sottoscala<br />
le ceneri di Alessandro, il pianto di Ra<strong>che</strong>le.<br />
Il verbo al presente mi permette di scomparire.<br />
Il fattorino non vede più dove sono scomparso.<br />
(Il falso vecchio, IV, in Questo muro)<br />
Nel presente si realizza la compenetrazione col passato e la scomparsa dell’io <strong>che</strong> si<br />
scioglie nel magma della totalità dei tempi, perché il presente dell’oggi è il passato di<br />
domani e «Il futuro, cioè il presente di domani, è continuità-dissoluzione del presente di<br />
ieri, cioè del passato». 57 A questo punto il rapporto io-mondo, soggetto-oggetto, si<br />
realizza come disgregazione di ogni attuale presente, <strong>che</strong> trova fondamento nel passato<br />
e <strong>che</strong> solo nella fine troverà un nuovo inizio:<br />
Guardo le acque e le canne<br />
di un braccio di fiume e il sole<br />
dentro l’acqua.<br />
Guardavo, ero ma sono.<br />
La melma si asciuga fra le radici.<br />
Il mio verbo è al presente.<br />
Questo mondo residuo d’incendi<br />
vuole esistere.<br />
Insetti tendono<br />
trappole lunghe millenni.<br />
Le effimere sfumano. Si sfanno<br />
impresse nel dolce vento d’Arcadia.<br />
[…]<br />
Confido alle canne false eterne<br />
la grande strategia da Yenan allo Hopei.<br />
Seguo il segno <strong>che</strong> una mano armata incide<br />
56 Marco Forti, Tempi della poesia, cit., p. 212.<br />
57 Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 76.<br />
119
sulla scorza del pino<br />
e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile.<br />
120<br />
(Il presente, in Questo muro)<br />
La sec<strong>che</strong>zza paratattica condensa la parola in vere e proprie «unità molecolari», 58 il<br />
<strong>lingua</strong>ggio epigrafico, il verbo al presente (poi virato al futuro, nel finale), sono<br />
elementi <strong>che</strong> indicano uno sguardo totalizzante, <strong>che</strong> procede per scatti ellittici e<br />
repentine evoluzioni. Attraverso «il montaggio di eventi tratti da contesti eterogenei fra<br />
loro (la vita, la storia naturale, la storia sociale) e accostati in modo <strong>che</strong> rimandino alla<br />
totalità <strong>che</strong> li include», 59 Fortini coglie la compresenza del tempo lungo e dell’esistenza<br />
fenomenica, e lascia parlare il «paradosso della simultanea realtà della durata e degli<br />
intervalli». 60 La parola poetica è un’urna <strong>che</strong> racchiude eventi ed esistenze, come in<br />
certe rocce restano le stratificazioni a testimoniare il succedersi cosmico del tempo. Nel<br />
mutamento e nel passaggio da un’epoca a un’altra gli elementi cronologici si<br />
«tendono», «sfumano», «si sfanno». Quella <strong>che</strong> ci parla, attraverso le discendenze, i<br />
fossili e l’evoluzione è la memoria del mondo. Antico è ciò <strong>che</strong> dal passato è giunto<br />
sino a noi; la natura è un segno <strong>che</strong> significa attraverso le mutazioni e le metamorfosi di<br />
forme <strong>che</strong>, come le parti di un organismo, sono allo stesso tempo semplici e complesse:<br />
siamo continuamente alle prese con un universo materiale, <strong>che</strong> contemporaneamente ha<br />
una sua durata nella coscienza. La finzione permette di superare la memoria individuale<br />
e di allargare l’orizzonte degli eventi dall’Arcadia <strong>che</strong> può essere solo immaginata, alla<br />
rivoluzione maoista in Cina, fino all’immagine finale dell’ambra <strong>che</strong> conserverà la<br />
poesia come un fossile preistorico, ma <strong>che</strong> è an<strong>che</strong> l’emblema di una poesia-minerale,<br />
una poesia-memoria, <strong>che</strong> lascerà trasparire, come un cristallo, una dimensione<br />
lontanissima, <strong>che</strong> supera il rapporto contingente io/mondo in una visione complessiva<br />
della storia e del tempo. Rivoluzione e utopia convivono con la conservazione, così<br />
come il passato convive col futuro. La memoria e l’invenzione poetica generano quella<br />
profondità di vedute <strong>che</strong> sola può inserire la vita del singolo all’interno di un ciclo di<br />
vite fatto di rotture e lacerazioni, fatto dunque an<strong>che</strong> di morte, ma soprattutto di un<br />
legame e una responsabilità nei confronti di chi ci succederà, <strong>che</strong> ci rende parte di una<br />
58 Ivi, p. 156.<br />
59 Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 196.<br />
60 Franco Fortini, Verifica di poteri, in Saggi ed epigrammi, cit., p. 126.
totalità, e perciò disponibili al futuro: 61 individui, umanità e natura si rafforzano<br />
nell’immagine <strong>che</strong> contiene, a dispetto di ogni dissoluzione, «l’intelletto delle erbe e il<br />
nostro» (Qualcuno è fermo…, in Composita solvantur). In questo rapporto dialettico tra<br />
i tempi e i viventi, la coscienza della morte diventa misura e guida delle azioni<br />
dell’uomo, e ci dovrebbe infondere un maggiore senso di giustizia e responsabilità,<br />
divenendo la base per ogni atto <strong>che</strong> abbia un valore morale.<br />
Il discorso poetico è politico e linguistico allo stesso tempo, riconosce la complessità<br />
dei legami tra la vita e la morte <strong>che</strong> animano la realtà e predispongono l’io al confronto<br />
con «l’ombra del paesaggio» (Primavera occidentale, in Paesaggio con serpente): lo<br />
sguardo non può essere frontale, piuttosto laterale e pronto al mancamento, consapevole<br />
<strong>che</strong> nel buio e nell’ombra si rivelano le cose. 62 L’essenza sta in ciò <strong>che</strong> non si vede, in<br />
ciò <strong>che</strong> appartiene alla profondità psichica e filosofica, cioè poetica. Il poeta-osservatore<br />
è immerso nella luce del mondo, e deve cercare di fare emergere l’essenza al di là delle<br />
ombre:<br />
Vorrei <strong>che</strong> i vostri occhi potessero vedere<br />
questo cielo sereno <strong>che</strong> si è aperto,<br />
la calma delle tegole, la dedizione<br />
del rivo d’acqua <strong>che</strong> si scalda.<br />
La parola è questa: esiste la primavera,<br />
la perfezione congiunta all’imperfetto.<br />
Il fianco della barca asciutta beve<br />
l’olio della vernice, il ragno trotta.<br />
Diremo più tardi quello <strong>che</strong> deve essere detto.<br />
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,<br />
i lampi della magnolia.<br />
(I lampi della magnolia, in Paesaggio con serpente)<br />
La perfezione della primavera è «congiunta all’imperfetto» e si confonde con la<br />
negatività dell’ombra. A I lampi della magnolia segue Il temporale:<br />
È la bufera<br />
<strong>che</strong> s’annunzia. Stasera<br />
saranno lampi e fulmini, il gran crollo<br />
degli elementi; e dentro l’aria nera<br />
vacilleranno i culmini dei tetti<br />
61 Cfr. Emmanuel Levinas, Le temps et l’autre, cit., p. 64: «l’avenir c’est ce qui n’est pas saisi […]. L’avenir c’est<br />
l’autre. La relation avec l’avenir, c’est la relation même avec l’autre».<br />
62 Cfr. Elisa Gambaro, Fortini poeta, in AA.VV., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, cit.,<br />
p. 66: «il paesaggio assume valenze allegori<strong>che</strong> particolarmente accentuate, configurandosi alternativamente come<br />
armonia utopica o come insensatezza».<br />
121
e correranno i letti<br />
risa, grida, spaventi.<br />
Voleranno le tegole nell’orto<br />
e le schiume sul mare.<br />
[…]<br />
Domani pace avrà riavuto tutto.<br />
Quieta l’onda e al suo luogo,<br />
molle la spiaggia e pura,<br />
ardita la natura<br />
e ilare, il deserto<br />
di bar<strong>che</strong> l’orizzonte,<br />
aguzzo il sole alle socchiuse ciglia.<br />
Vivida meraviglia,<br />
chiara lassù la luna.<br />
E andremo per le rive<br />
a cogliere tra fredde bave linda<br />
e bruna una conchiglia.<br />
(Il temporale, in Paesaggio con serpente)<br />
Luce ed ombra, bene e male, amore e odio, fanno parte dello stesso mondo, della stessa<br />
realtà, anzi, sono la realtà. 63 La natura, ancora una volta, diventa allegoria dei destini<br />
generali, la primavera è il momento della transizione e del cambiamento, del risveglio<br />
ad una nuova vita an<strong>che</strong> attraverso il temporale; e la conchiglia, <strong>che</strong> il poeta raccoglie<br />
dopo la tempesta, è residuo e maceria di una vita <strong>che</strong> non è più, ma è an<strong>che</strong> l’eredità (il<br />
testimone) <strong>che</strong> il mare del tempo ha scagliato alle nostre rive: ciò <strong>che</strong> ha un passato<br />
viene raccolto da chi ha un futuro, la tradizione può così avere una prospettiva e dare un<br />
senso al presente. Con la sua natura residuale, la conchiglia è il correlativo oggettivo<br />
della nostra umana condizione: tesa tra la vita e la morte, essa raccoglie in sé «l’eco di<br />
intere civiltà» 64 in transito verso un futuro <strong>che</strong> è prodotto di una «mobile speranza» (La<br />
partenza, in <strong>Una</strong> volta per sempre) e non semplicemente prolungamento del presente.<br />
«Pensarci al futuro», come scrive Sereni, significa per Fortini fare reagire tempo<br />
individuale e storia. 65 Quanto più la poesia mostra dei dati concreti, sensibili, <strong>che</strong> quasi<br />
alludono alla superficie visibile delle cose, tanto più lo sguardo si apre alla profondità,<br />
all’indagine del tempo e del senso della realtà. Le metafore del lampo-fiore e della<br />
stessa conchiglia stanno a significare l’incompiutezza della parola <strong>che</strong> si proietta nel<br />
63 Come ha sottolineato Romano Luperini «la contraddizione vuole essere oggettiva, non soggettiva: attraversa<br />
dall’alto al basso non l’anima dell’io poetico ma tutto quanto l’universo» (Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit.,<br />
p. 70).<br />
64 Eraldo Affinati, Introduzione, in Silvio D’Arzo, Contea inglese, Palermo, Sellerio editore, 1987, p. 16.<br />
65 Così Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 57: «a tale intersecazione, a tale scontro-confronto, Fortini<br />
non può rinunciare perché non può rinunciare a una storia, a scommettere su un destino».<br />
122
futuro, e <strong>che</strong> riconosce nel presente quelle illuminazioni <strong>che</strong> sono già prefigurazione del<br />
riscatto, <strong>che</strong> non è ancora, ma di cui noi possiamo cogliere le tracce.<br />
123
124
3.2.<br />
VITTORIO SERENI:<br />
RECENSIONE E INTERPRETAZIONE DELLA REALTÀ<br />
3.2.1. «Il mio tempo s’accorda»: il primo libro di Sereni<br />
La Frontiera della raccolta d’esordio di Sereni indica quella linea geografica <strong>che</strong><br />
separa l’Italia dalla Svizzera, 1 ma an<strong>che</strong> lo spazio limite tra al di qua e al di là; è quindi<br />
un luogo fisico e uno spazio della mente, linea d’ombra <strong>che</strong> segna la fine della<br />
giovinezza, e <strong>che</strong> separa il mondo dei vivi da quello dei morti, la pace dalla guerra (su<br />
cui si staglierà il chiaro-scuro tra essere e non essere del Diario d’Algeria 2 ) e ancora, in<br />
senso più ampio e astratto, rappresenta una condizione storica ed esistenziale. 3 La<br />
frontiera può essere, allora, an<strong>che</strong> la linea lungo la quale i rapporti tra interiorità e realtà<br />
devono essere rinegoziati, 4 in cui il tempo diventa attesa e apprendimento di nuovi<br />
significati. 5 Su questo intreccio di motivi e suggestioni si innesta il tema cardine della<br />
memoria: 6<br />
1<br />
Franco Buffoni, «Coi miei soli mezzi». La poesia di Vittorio Sereni, in AA.VV., Sentieri poetici del Novecento, a<br />
cura di Giuliano Ladolfi, Novara, Interlinea, 2000, pp. 66-67: «Si tratta della “frontiera” <strong>che</strong> esclude l’ultima parte<br />
del Lago Maggiore tra Ascona e Locarno, appartenente alla Confederazione Elvetica, dall’Italia, e in quel periodo si<br />
trattava di una frontiera molto controllata. Tale limite rappresenta una realtà molto precisa, un taglio, una ferita<br />
invisibile, più profonda perché l’acqua del lago la rimargina e la riapre continuamente e le motovedette la percorrono.<br />
Il termine “frontiera”, però assume an<strong>che</strong> una valenza ideologica: siamo alla fine degli anni trenta, il fascismo sta<br />
applicando le leggi razziali e la Svizzera per molti cittadini rappresenta il mondo libero».<br />
2<br />
Così Giovanni Raboni nella Prefazione a Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, Torino, Einaudi, 1998, p. VII: «un<br />
libro <strong>che</strong> come pochi altri conferma la vocazione inscritta nel proprio titolo e più di qualsiasi altro sta pateticamente e<br />
prodigiosamente in bilico fra due tempi effettivi e insieme interiori – la guerra e la pace, anzi una guerra <strong>che</strong> non per<br />
tutti (non per Sereni) è riuscita ad essere guerra e una pace <strong>che</strong> non a tutti (non a Sereni) è mai potuta sembrare<br />
davvero e fino in fondo una pace».<br />
3<br />
Peter Robinson, nella sua Introduction a The selected poetry and prose of Vittorio Sereni, (edited and translated<br />
by Peter Robinson and Marcus Perryman, with an introduction by Peter Robinson, Chicago, The University Press of<br />
Chicago, 2006, p. 4), ricorda an<strong>che</strong> l’opera di W. H. Auden e Christopher Isherwood, On the Frontier (London, Faber<br />
and Faber, 1938).<br />
4<br />
Cfr. Peter Robinson, Introduction a The selected poetry and prose of Vittorio Sereni, cit., p. 4: «It is in the<br />
nature of a frontier both to focus tension and to be on the periphery. A frontier also marks the point where an<br />
“elsewhere” beckons and threatens. It can equally be the line across which fidelity to the poet’s inner impulse and<br />
fidelity to the object of vision must be negotiated».<br />
5<br />
A questo proposito si legga Piero Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Milano, Bruno<br />
Mondadori, 1997, pp. XIV-XVII e pp. 3-28.<br />
6<br />
Come ha notato Dante Isella «la fertilità della memoria, la sua verità richiede […], <strong>che</strong> il passato non sia un<br />
deposito morto, un album di ricordi, bensì una presenza attiva. La sua cristallizzazione è la non-vita: dell’uomo,<br />
innanzi tutto, e della sua poesia» (Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, Milano, Rosellina Archinto, 1991, p. 24).<br />
125
Il rapporto col mio paese è reso vitale dai ricordi e da una continua<br />
interrogazione <strong>che</strong> porta a scavare più a fondo la realtà dell’origine <strong>che</strong><br />
affonda radici in questo angolo della Lombardia, passato a suo tempo sotto il<br />
nome di Frontiera, dal titolo della mia prima raccolta di poesie. Quando parlo<br />
di frontiera non penso soltanto a una barriera geografica, ma alla chiusura<br />
dell’Italia rispetto all’Europa, la parte di mondo <strong>che</strong> ci era più vicina e <strong>che</strong> ci<br />
sembrava tanto lontana. 7<br />
Mentre le poesie scritte tra il 1935 e il 1938 «si reggono su una sintassi scarna e<br />
paratattica», <strong>che</strong> «non può esprimere rapporti logici complicati, neppure quelli di<br />
successione temporale o argomentativa», 8 quelle successive al 1938 alla registrazione<br />
impressionistica di dati poetici ed emotivi affiancano il presentimento del futuro a<br />
partire da alcuni dati concreti come il «passo dei notturni battaglioni» (Poesia militare).<br />
Per questo, nell’indice della prima edizione, alcune poesie riportano una doppia<br />
datazione 1938-1940, 9 come a sottolineare un lungo periodo di gestazione e<br />
elaborazione, <strong>che</strong> passa attraverso «due anni di silenzio e di smarrimento» 10 e «la<br />
possibilità di tornare sul già fatto, di correggerlo, di emendarlo, di romperlo e di<br />
rifarlo». 11 Come ha scritto Sereni in una lettera del 1940:<br />
Tutto ciò <strong>che</strong> ho fatto in questi tempi è una specie di rapsodia di parole<br />
casualmente spuntate in altri tempi. 12<br />
Gli oggetti e i luoghi nel tempo sono gli elementi fondanti della prima stagione poetica<br />
sereniana, <strong>che</strong> ha nel ricordo il suo punto di partenza, e nell’immagine della frontiera il<br />
correlativo oggettivo di una relazione variabile. Frontiera si fonda sulla percezione<br />
della lontananza spaziale e temporale «senza lirici commenti e senza intenzione di sensi<br />
nascosti», come ha scritto Sereni stesso, ma attraverso «termini concreti il più<br />
possibile» 13 in cui si ridefinisce il rapporto con l’altro da sé, 14 e si possono rappresentare<br />
le pene e le gioie umane: 15<br />
7 Così Sereni in Paola Lucarini, Intervista a Vittorio Sereni, «Firme nostre», settembre 1982, ora in Vittorio<br />
Sereni, Poesie, cit., p. 295.<br />
8 Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 123.<br />
9 Si tratta di Settembre; Paese e In me il tuo ricordo.<br />
10 Così Sereni in una lettera a Giancarlo Vigorelli datata 30 novembre 1940, ora in Dante Isella, Giornale di<br />
“Frontiera”, cit., p. 48.<br />
11 Così Sereni in una lettera a Giancarlo Vigorelli datata 5 dicembre 1940, ora in Dante Isella, Giornale di<br />
“Frontiera”, cit., p. 44.<br />
12 Così Sereni in una lettera a Giancarlo Vigorelli datata 20 novembre 1940, ora in Dante Isella, Giornale di<br />
“Frontiera”, cit., p. 44.<br />
13 Così Vittorio Sereni in una lettera a Luciano Anceschi del 1935, ora in Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 291.<br />
14 Cfr. Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, cit., pp. 469-470.<br />
15 Un io <strong>che</strong> viene, fino all’ultima raccolta, deviato dolorosamente verso altro: «Che altro? / Vorrei essere altro.<br />
Vorrei essere te» (A parma con A. B., I, in Stella variabile), tracciando «tra i soprassalti contraddittori dell’“orrore<br />
126
Io in poesia sono per le “cose”; non mi piace dire “io”, preferisco dire:<br />
“loro”. […] Con tutti i pericoli <strong>che</strong> ne derivano: notazioni, magari<br />
impressionismi, non risolti: “loro” ma soltanto “loro” senza <strong>che</strong> ci sia dentro<br />
“io”. […] Ancora io non ho chiara a me stesso una mia pena (o una mia<br />
gioia) d’uomo; so <strong>che</strong> c’è e per ora basta. Quando avrò trovato una radice a<br />
questo mio senso oggettivo, di questo mio amore per “loro”, io avrò<br />
cominciato a trovare me stesso e forse la poesia. A patto però […] <strong>che</strong> io non<br />
perda niente del mio guardare, senza accentuazioni polemi<strong>che</strong>, in ogni<br />
direzione; <strong>che</strong> io abbia ancora il coraggio di parlare di semafori e di feltri<br />
verdi (per ora può parere un preziosismo e niente più): necessità delle scorie<br />
(v. Eastburne) e dialettica. 16<br />
Attraverso la «necessità di scorie […] e dialettica» Sereni manifesta un’esigenza<br />
conoscitiva <strong>che</strong> percorre tutta la sua produzione poetica e <strong>che</strong> lo sospende tra nichilismo<br />
e speranza:<br />
Le cose, nonostante tutto, nascondono sempre una promessa: nel senso<br />
<strong>che</strong> si avverte sempre una possibilità diversa, un altro modo di vita, qualcosa<br />
di più pieno. C’è in esse un’attuazione <strong>che</strong> viene costantemente delusa e <strong>che</strong><br />
costantemente risorge, una potenzialità contraddetta o disdetta e tuttavia<br />
ritornante. 17<br />
All’altezza di Frontiera la dimensione oggettiva prende forma nella relazione <strong>che</strong><br />
l’io intrattiene col mondo e <strong>che</strong> lo porta a immergersi in esso, a farsi quasi cronista dei<br />
momenti del giorno e del succedersi delle stagioni. 18 Il tempo stesso si manifesta in<br />
questa relazione e la conoscenza deriva dall’osservazione dei dati sensibili <strong>che</strong><br />
diventano parola: «a ritmi di gocce / il mio tempo si accorda» (Concerto in giardino). È<br />
il contatto con gli elementi naturali quali l’acqua, il vento, lo spazio, la terra, l’aria, la<br />
luce, <strong>che</strong> determina la sostanza stessa di questi versi, <strong>che</strong> ancora tengono ai margini la<br />
guerra imminente, di cui però giunge già l’eco: «il tuono ti fingeva gli orrori / di una<br />
guerra lontana» (Immagine); «bambini in guerra sulle aiole» (Concerto in giardino).<br />
Tuttavia nonostante questi flash anticipatori di un drammatico prossimo futuro, in<br />
della fine” (A parma con A. B.) e della “recidiva speranza” (Autostrada della Cisa), un processo di svuotamento<br />
dell’io, <strong>che</strong>, se respinge l’idea cristiana della trascendenza, lambisce però una sorta di mistica laica e razionalistica»<br />
(Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, cit., p. 70), <strong>che</strong> trova il suo momento<br />
iniziale in Frontiera.<br />
16 Così Vittorio Sereni in una lettera a Giancarlo Vigorelli datata 1937, in Giancarlo Vigorelli, Carte d’identità,<br />
Milano, Camunia, 1989, pp. 210-211. Poi in Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 34.<br />
17 Così Sereni nell’intervista a Gian Carlo Ferretti Questo scrivere così vacuo così vitale. Conversazione con<br />
Vittorio Sereni sul presente e sul passato, sul suo lavoro, in «Rinascita», n. 42, 24 ottobre 1980, p. 40. Ora in Vittorio<br />
Sereni, La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, introduzione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori,<br />
1998, p. 462.<br />
18 Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 18: «non si tratta di un’oggettualità in presa diretta, […] il<br />
“diario” non va inteso come registrazione di una realtà immediata e in divenire, ma al contrario come fedele<br />
registrazione di una memoria riservata, sollecitante nel corso del tempo e sollecitata quale indizio di una verità<br />
intensamente luminosa».<br />
127
Frontiera la materia poetica ed esistenziale si risolve all’interno di un tempo naturale<br />
più <strong>che</strong> storico, in cui i sensi sono gli «elementi “portanti” (in senso architettonico) del<br />
proprio mondo interiore». 19 Il tempo di questa prima raccolta è, come si è detto, quello<br />
delle stagioni, delle ore del giorno e dei fenomeni naturali <strong>che</strong> lo connotano. Lo<br />
testimoniano anzitutto i titoli dei componimenti: Nebbia, Settembre, Inverno a Luino, 3<br />
Dicembre, Temporale a Salsomaggiore, Un’altra estate, per fare solo alcuni esempi.<br />
Così, la poesia d’apertura di Frontiera inizialmente doveva intitolarsi Lontananze, 20<br />
mentre successivamente è divenuta Inverno, con un evidente scarto a favore della realtà,<br />
piuttosto <strong>che</strong> di una suggestione simbolica. Siamo di fronte ad una scelta <strong>che</strong> manifesta<br />
la preferenza per un termine concreto, meno evocativo o allusivo, più legato al<br />
trascorrere di un tempo sensibile, di una stagione <strong>che</strong> è emblema della fine; un tempo<br />
reso attraverso un’atmosfera sospesa tra luci e ombre, tra chiarezza e nebbie, comunque<br />
invaso dal senso ineludibile della morte:<br />
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .<br />
ma se ti volgi e guardi<br />
nubi nel grigio<br />
esprimono le fonti dietro te,<br />
le montagne nel ghiaccio s’inazzurrano.<br />
Opaca un’onda mormorò<br />
chiamandoti: ma ferma – ora<br />
nel ghiaccio s’increspò<br />
poi <strong>che</strong> ti volgi<br />
e guardi<br />
la svelata bellezza dell’inverno.<br />
Armoniosi aspetti sorgono<br />
in fissità, nel gelo: ed hai<br />
un gesto vago<br />
come di fronte a chi ti sorridesse<br />
di sotto un lago di calma,<br />
mentre ulula il tuo battello lontano<br />
laggiù, dove s’addensano le nebbie.<br />
128<br />
(Inverno, in Frontiera)<br />
La poesia si apre con dei punti di sospensione, <strong>che</strong> trasmettono il senso di una parola<br />
mancante o parziale, dicono un discorso <strong>che</strong> viene meno, mentre l’avversativa posta ad<br />
incipit del testo sembra concentrare in sé un invito, l’attesa di una «possibilità<br />
diversa», 21 quella <strong>che</strong> Ramat ha definito come la «speranza dell’evento»: 22 una<br />
19 Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 18.<br />
20 Cfr. Dante Isella, Apparato critico, in Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 295.<br />
21 Cfr. supra nota 17.
preghiera affinché un gesto si compia. La distanza e lo spaesamento, vengono ribaditi<br />
nel corso della prima strofa dal continuo alternarsi del verbo al presente e al passato<br />
remoto e poi, nell’ultimo verso, dal deittico «laggiù» (di cui era già un segnale il<br />
precedente «di sotto»), <strong>che</strong>, nella sua forza ed evidenza, introduce una importante<br />
verticalizzazione dello spazio. Le coordinate sono semplificate nella dinamica alto e<br />
basso, carica di significati simbolici, mentre le tracce temporali rimangono sospese: la<br />
frontiera si estende an<strong>che</strong> in verticale e non c’è modo di colmare il vuoto. La speranza<br />
riposta nell’attesa di un evento si rivela illusoria, «una potenzialità contraddetta o<br />
disdetta», 23 e il viaggio si configura come transito nelle «nebbie» di un tempo e di uno<br />
spazio incerti e sospesi. Prima <strong>che</strong> la guerra e la prigionia gli rendano manifesta una<br />
condizione d’esilio, lo scetticismo di Sereni percorre sotterraneamente questa prima<br />
raccolta, in cui l’accordo col tempo sensibile è turbato dal senso concreto della fine e<br />
della perdita, <strong>che</strong> proiettano sui versi l’ombra di una distanza irrimediabile. Lo sguardo<br />
è doppio, si rivolge al passato e si confronta costantemente con la fine imminente.<br />
Come spiega Sereni stesso, la «morte può essere morale e fisica, distanza e oblio, a<br />
piacere. Col senso […] di qualcosa <strong>che</strong> irrimediabilmente è perduto». 24<br />
Sereni vorrebbe ricondurre la vicenda esistenziale ad un tempo ciclico (quello delle<br />
stagioni), <strong>che</strong> permetterebbe allo sguardo di penetrare la corazza della morte, nella<br />
prospettiva del ritorno della primavera e dell’estate. Tuttavia all’accordarsi del tempo ai<br />
ritmi della natura segue la consapevolezza <strong>che</strong> il nostro è un «trepido vivere nei morti»<br />
(Strada di Creva), <strong>che</strong> rende la sintesi delle due dimensioni inscindibili nella poetica di<br />
Sereni. C’è un rapporto dialettico tra la volontà di inserirsi all’interno di un ciclo di<br />
rinnovamento naturale, e, all’opposto, il ritorno ad un orizzonte di morte:<br />
Questo trepido vivere nei morti.<br />
Ma dove ci conduce questo cielo<br />
<strong>che</strong> azzurro sempre più azzurro si spalanca<br />
ove, a guardarli, ai lontani<br />
paesi decade ogni colore.<br />
Tu sai <strong>che</strong> la strada se discende<br />
ci protende altri prati, altri paesi,<br />
altre vele sui laghi:<br />
il vento ancora<br />
turba i golfi, li oscura.<br />
22<br />
Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, cit., p. 470.<br />
23<br />
Cfr. supra nota 17.<br />
24<br />
Così Sereni in una lettera a Vigorelli, ora in Giancarlo Vigorelli, Carte d’identità, cit., p. 208, poi in Dante<br />
Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 33.<br />
129
Si rientra d’un passo nell’inverno.<br />
E nei tetri abituri si rientra,<br />
a un convito d’ospiti leggiadri<br />
si riattizzano i fuochi moribondi.<br />
E nei bicchieri muoiono altri giorni.<br />
Salvaci allora dai notturni orrori<br />
dei lumi nelle case silenziose.<br />
130<br />
(Strada di Creva, II, in Frontiera)<br />
In un altro testo egli scrive <strong>che</strong> «nella morte già certa / cammineremo con più coraggio»<br />
(Settembre), convinzione <strong>che</strong> negli ultimi suoi versi diventa un invito (o una preghiera,<br />
come il «Salvaci allora dai notturni orrori»): «passiamola questa soglia una volta di più»<br />
(Altro compleanno, in Stella variabile), in cui si ribadisce un inevitabile destino di<br />
transito, ancora una volta sospeso su una linea di frontiera, e insieme la volontà di<br />
proiettarsi coraggiosamente nel futuro, nonostante la consapevolezza della precarietà<br />
della vita. 25 Proprio la condizione di transitante produce una più «piena fusione tra sé e<br />
il mondo sensibile», 26 un’immersione dell’io nelle cose, <strong>che</strong> permette di giungere ad<br />
una realtà profonda in cui gli elementi naturali e i termini temporali vengono a indicare<br />
una condizione psicologica ed esistenziale tesa tra il divenire e il vuoto, <strong>che</strong> si<br />
svilupperà ulteriormente negli anni successivi. Così, se guardiamo oltre l’inverno-<br />
lontananza della prima poesia, scorgeremo un significativo rimando a questa situazione<br />
esistenziale in Un ritorno (Gli strumenti umani), in cui al «lago di calma» si sostituisce<br />
una «lacuna del cuore», a ribadire un’assenza spaziale e temporale da luoghi di cui l’io è<br />
stato disappropriato. Il ritorno come perpetuazione psichica di un vuoto <strong>che</strong> coesiste con<br />
l’esserci si ritrova an<strong>che</strong> in Stella variabile, in cui il «ritorno d’estate» è succedersi<br />
ripetitivo e rassicurante della stagione più emblematica per Sereni, ma an<strong>che</strong> rivelazione<br />
«Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità» del «colore del vuoto» (Autostrada<br />
della Cisa).<br />
In Frontiera la perdita e la distanza messe a fuoco nell’immagine della morte o del<br />
passare delle stagioni, influenza an<strong>che</strong> l’uso dei tempi verbali; particolarmente<br />
significativa è l’alternanza del presente al futuro. Si prenda come esempio la poesia<br />
25 Così Maria Laura Baffoni Licata, Stella variabile di Vittorio Sereni: alternanza ossimorica di luci e ombre,<br />
«Italica», vol. 62, n. 2, 1985, p. 128: «Alla base dell’ispirazione di questa poesia, dunque, c’è, a mio parere, una<br />
dialettica esistenziale centrata su una metafora ossimorica; si tratta di una solarità, di una prospettiva di vita<br />
illuminante ed illuminata, <strong>che</strong> confina, attraverso una miriade di stati intermedi, col suo contrario, con l’ombra cioè,<br />
col non-esistere, con la morte».<br />
26 Vittorio Sereni, Dovuto a Montale, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 144.
Inverno a Luino, in cui la realtà è osservata dal punto di vista della fine, attraverso un<br />
tempo presente <strong>che</strong> fa calare sulle cose un’ansia trattenuta, come per una sofferenza <strong>che</strong><br />
si intravede eterna, un’impossibilità di partecipazione alla vita <strong>che</strong> fa presagire la futura<br />
“dannazione” storica del Diario d’Algeria:<br />
Ti distendi e respiri nei colori.<br />
Nel golfo irrequieto,<br />
nei cumoli di carbone irti al sole<br />
sfavilla e s’abbandona<br />
l’estremità del borgo.<br />
Colgo il tuo cuore<br />
se nell’alto silenzio mi commuove<br />
un bisbiglio di gente per le strade.<br />
Morto in tramonti nebbiosi d’altri cieli<br />
sopravvivo alle tue sere celesti,<br />
[…]<br />
Fuggirò quando il vento<br />
investirà le tue rive;<br />
sa la gente del porto quant’è vana<br />
la difesa dei limpidi giorni.<br />
131<br />
(Inverno a Luino, in Frontiera)<br />
In un brano de Gli immediati dintorni intitolato Dovuto a Montale, Sereni descrive lo<br />
stato emotivo da cui è nata la poesia <strong>che</strong> aveva in Luino il luogo d’elezione:<br />
Vivevo uno di quei momenti di completezza, di piena fusione tra sé e il<br />
mondo sensibile, grazie e di fronte ai quali lo spirito si appaga di se stesso,<br />
rifiuta i contorni, sdegna ogni soccorso specie di parole. […] Certe<br />
sensazioni, certi momenti ne inanellano altri di altra natura, originari di altro<br />
tempo, altro luogo, fino a confondersi in un’unica sostanza […]. Non c’era a<br />
quel tempo distinzione in me tra impulsi poetici e sussulti emotivi. Non a<br />
esclusione ma a inclusione di quelli, le mie ore erano scandite da questi. […]<br />
Ma io allora ero giovane e alquanto svagato, più sensibile alle impressioni<br />
dirette <strong>che</strong> non alla meditazione. 27<br />
C’è insomma il senso di un poeta fisico, come si diceva prima, attento a cogliere e a<br />
fissare le impressioni delle ore del giorno, i dettagli fenomenici tanto quanto gli scarti<br />
an<strong>che</strong> minimi della luce, a cui si aggiunge una predisposizione psicologica <strong>che</strong> «rifiuta i<br />
contorni» del paesaggio, cioè rifiuta quelle «costruzioni culturali» 28 <strong>che</strong> mettono un<br />
limite ai pensieri. Tuttavia «è vana / la difesa dei limpidi giorni» e l’idillio viene<br />
rovesciato nel suo contrario: il «golfo [è] irrequieto», i «cumoli di carbone [sono] irti al<br />
27 Ivi, pp. 144-147.<br />
28 Piero Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, cit., p. 28.
sole». La finzione poetica non riesce a fare della frontiera uno spazio protettivo, ed essa<br />
diviene il luogo di un conflitto incombente:<br />
La finestra ti reggeva nella sera<br />
alta sulle canzoni della strada.<br />
Così nel buio degli anni indecisi<br />
resterai… - frequente<br />
il tuono ti fingeva gli orrori<br />
d’una guerra lontana.<br />
132<br />
(Immagine, in Frontiera)<br />
La dimensione psichica è sempre velata dall’ansia di una vita in perdita, evocata e<br />
trattenuta nella percezione dello scivolamento del tempo verso una vicina catastrofe. La<br />
sospensione tra al di qua e al di là assume su di sé la morte, la fine «già certa». Il tempo<br />
fisico e naturale è determinato da aggettivi <strong>che</strong> lo caratterizzano in un duplice senso. Da<br />
una parte c’è luminosità e chiarore: «la svelata bellezza dell’inverno» (Inverno); «un<br />
giusto sereno» (Ritorno); «nel lume di primavera» (Azalee nella pioggia); l’«ora dolce<br />
dei bastioni» (Soldati a Urbino). Dall’altra è un tempo vago e randagio, il «tempo<br />
d’acqua <strong>che</strong> torna, / randagio» (Terre rosse), <strong>che</strong> sembra un abisso in cui perdersi, come<br />
l’inquietante «ora fonda» di Dicono le ortensie. Esso risente di uno sconvolgimento <strong>che</strong><br />
non è solo esteriore, e <strong>che</strong> riflette la dolente e precaria condizione esistenziale, come in<br />
un’«amara estate» (Compleanno), o in «una dubbiosa e brulicante estate» (Settembre),<br />
<strong>che</strong> diventa poi «lunga e furente estate» (Un’altra estate), <strong>che</strong> richiama a sua volta la<br />
«giovinezza vaga e sconvolta» del poeta (Mas<strong>che</strong>re del ’36), e <strong>che</strong> diventa infine<br />
«giovinezza <strong>che</strong> non trova scampo» (Compleanno).<br />
Il sole, come sorgente di calore e di vita, è fonte di una luce precaria, debole e<br />
incerta: «S’illumina a uno svolto un effimero sole» (Nebbia). Alla luce si<br />
sovrappongono le ombre e nel tempo naturale della poesia si innesta un movimento<br />
contraddittorio, <strong>che</strong> dice un rapporto non saldo, non rassicurante col reale: «Morto in<br />
tramonti nebbiosi d’altri cieli / sopravvivo» (Inverno a Luino). L’estate stessa viene<br />
turbata da «un brivido sottile», e il cambiamento si riflette sull’uomo, su quei «volti già<br />
ridenti / ora presaghi» di un futuro incerto e misterioso:<br />
Lunga furente estate.<br />
La solca ora un brivido sottile<br />
alle foci del Tresa<br />
sì <strong>che</strong> alcuno ne trema<br />
dei volti già ridenti,
ora presaghi.<br />
Ma tutto quanto non soggiacque all’afa<br />
s’appunta al volo<br />
degli uccelli lentissimi del largo<br />
avventurati negli oscuri golfi<br />
di un’Italia infinita.<br />
133<br />
(Un’altra estate, in Frontiera)<br />
Il tempo risente di questa particolare qualità “sensibile” della poesia, si fa volubile e<br />
sonoro, può brillare nella qualità concreta di un avverbio, oppure restare qualcosa di<br />
sospeso, rivolto ad un precario avvenire: «Non saremo <strong>che</strong> un suono / di volubili ore»<br />
(Strada di Zenna). 29 L’idillio <strong>che</strong> sembra a tratti caratterizzare i versi del primo libro di<br />
Sereni è «effimero, instabile e minacciato da mutamenti repentini»; 30 si leggono versi<br />
<strong>che</strong> sembrano fotogrammi minimi di una vita colta tra un passato assai recente e il<br />
momento presente, individuato dal deittico temporale “ora”:<br />
fu vostra la grazia dell’aria<br />
nel lume di primavera. Ora si turba<br />
lo splendido fervore.<br />
(Azalee nella pioggia, in Frontiera)<br />
La parola poetica viene proiettata in un futuro indistinto, come in un desiderio di<br />
oltranza, <strong>che</strong> viene disatteso dal riemergere di un tempo su cui aleggia l’ombra della<br />
morte:<br />
Ci desteremo sul lago a un’infinita<br />
navigazione. Ma ora<br />
nell’estate impaziente<br />
s’allontana la morte.<br />
(Strada di Zenna, in Frontiera)<br />
Altrove l’uso dell’avverbio “già” è sintomo di un presente percorso da repentini<br />
slittamenti <strong>che</strong> ne riducono la durata, e ne anticipano la fine:<br />
Già l’òlea fragrante nei giardini<br />
d’amarezza ci punge: il lago un poco<br />
si ritira da noi, scopre una spiaggia<br />
29 <strong>Una</strong> profezia «carica di sognante propensione all’astratto: come esige, almeno su un suo decoroso versante, la<br />
generazione cui non cessa d’appartenere il giovane Sereni, benché “periferico” e restio a far gruppo con qualsivoglia<br />
tendenza o sezione di “scuola”» (così Silvio Ramat, Un poeta sulla strada di Zenna: due liri<strong>che</strong> di Vittorio Sereni,<br />
«Italica», vol. 62, n. 3, 1985, p. 254).<br />
30 Luca Lenzini, Commento, in Vittorio Sereni, Il grande amico, cit., p. 195.
d’aride cose,<br />
di remi infranti, di reti strappate.<br />
E il vento <strong>che</strong> illumina le vigne<br />
già volge ai giorni fermi queste plaghe<br />
da una dubbiosa brulicante estate.<br />
134<br />
(Settembre, in Frontiera)<br />
La frontiera è lo spazio dello spaesamento, in cui la continuità temporale si incrina,<br />
lasciando intravedere un interstizio, una discontinuità tra l’essere e la realtà: la<br />
«spiaggia / d’aride cose» significa l’inaridirsi di un mondo <strong>che</strong> non può essere salvato.<br />
In questo primo Sereni non c’è ancora la Storia, c’è però la memoria, <strong>che</strong> lascia su tutto<br />
una patina quasi elegiaca, di rimpianto per una stagione della vita <strong>che</strong> non potrà più<br />
tornare, e <strong>che</strong> a tratti l’innesto del futuro scarta, in uno squilibrio, in una prospettiva<br />
sghemba, come un sussulto <strong>che</strong> sta alla parola poetica registrare.<br />
3.2.2. Recensione e interpretazione della realtà<br />
Il tema della conoscenza nella poesia di Vittorio Sereni tende a formarsi al di là della<br />
pagina scritta, a contatto con un pensiero magmatico: come scaturendo da un grumo<br />
originario di vita, i segni poetici conferiscono al pensiero e alle immagini lo sbalzo luce-<br />
ombra di una nuova ed inquieta traccia semantica.<br />
Nella Frontiera esistenziale della prima raccolta poetica di Sereni, l’esigenza della<br />
verità e della conoscenza è garantita dalla relazione tra l’io e il mondo e da<br />
un’osservazione fenomenica attenta ai dati sensibili. Il contatto con gli elementi naturali<br />
determina la sostanza stessa di questi versi, <strong>che</strong> ancora tengono ai margini la Storia. 31<br />
Nelle raccolte successive, invece, l’istanza conoscitiva trae origine dall’esperienza<br />
cruciale della prigionia e della guerra, trascendendo il vissuto biografico nella duplice<br />
direzione (linea tesa e spirale) dell’interiorità e della scrittura, dell’immaginazione e del<br />
31 Così Giovanni Raboni, Prefazione a Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, cit., p. VIII: «basta aguzzare un po’ la<br />
vista, spingersi con un po’ più di sagacia e d’ardimento sotto la liscia superficie dei testi per accorgersi <strong>che</strong><br />
quell’ansia teneramente malinconica, quel vasto, struggente trepidare, quell’attesa di un “tacito evento” il cui fascino<br />
e il cui strazio derivano in qual<strong>che</strong> misura dalla sua stessa indicibilità sono già, se non storia, intrinsecamente diario;<br />
ma perché non storia, in fondo, se solo ci si decida ad ammettere, come a me sembra intimamente inevitabile, <strong>che</strong><br />
oltre alla storia di ciò <strong>che</strong> succede esiste an<strong>che</strong> la storia di ciò <strong>che</strong> non succede, <strong>che</strong> non può ancora e forse non potrà<br />
mai succedere, la storia […] di una generazione senza drammi, senza sofferenze e senza speranze <strong>che</strong> aspetta,<br />
ignorandolo ma in qual<strong>che</strong> modo presentendolo, di conquistare in un dramma futuro il diritto di soffrire e di<br />
sperare?».
vissuto storico. La conoscenza poetica è conoscenza dell’uomo, come somma<br />
dell’oggetto storico e del soggetto, 32 e si definisce nell’esigenza di scoprire il senso<br />
della contemporaneità, di indagarne le pieghe più profonde, i nodi psicologici <strong>che</strong> la<br />
caratterizzano:<br />
È una reazione <strong>che</strong> si svolge in una certa parte della mente, <strong>che</strong> si avverte<br />
in un determinato momento dell’esistenza, è la risposta ad una provocazione<br />
<strong>che</strong> viene dall’esistenza e <strong>che</strong> consiste nel rendere conto di quel tanto di<br />
strano, di misterioso o di motivato, <strong>che</strong> in quel momento ha preso tutta la<br />
nostra attenzione e <strong>che</strong> ci porta a interrogare quella determinata intuizione, a<br />
svilupparla, a portarla fino in fondo, a vedere quali altri aspetti dell’esistenza<br />
coinvolge. 33<br />
La scrittura poetica deve «dire fino in fondo, portare fino al massimo espressivo» 34 la<br />
circostanza da cui essa scaturisce. 35 Il poeta rifiuta il carattere predeterminato della<br />
parola, <strong>che</strong> la chiuderebbe in una concezione logicista e utilitaria: essa deve reagire con<br />
la realtà, per diventare uno strumento dinamico di interpretazione. Nel saggio Il nome di<br />
poeta, Sereni scrive:<br />
Sembra oggi inevitabile <strong>che</strong> la libertà creativa debba essere condizionata,<br />
prima ancora <strong>che</strong> a una lunga «recensione della realtà», a un preliminare<br />
dibattito sull’interpretazione della medesima. 36<br />
L’interpretazione della realtà è contenuta nella natura stessa del fare poesia. La<br />
conoscenza dei realia avviene «per gradi, per momenti successivi» 37 alla prima<br />
impressione e alla prima emozione, e attraverso l’intervento dell’immaginazione il<br />
pensiero si concretizza:<br />
32 Si pensi a Henri-Irénée Marrou, La conoscenza storica, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 205: «La storia è nello<br />
stesso tempo percezione dell’oggetto e avventura spirituale del soggetto conoscente. Essa insomma, si risolve nel<br />
rapporto <strong>che</strong> si stabilisce tra due piani della realtà umana: quello del Passato, ovviamente, ma an<strong>che</strong> quello costituito<br />
dal presente storico, <strong>che</strong> pensa e si muove nella sua prospettiva esistenziale, con il suo orientamento, la sua<br />
sensibilità, le sue attitudini e, ancora, i suoi limiti, le sue chiusure».<br />
33 Vittorio Sereni in AA.VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, con due interventi di Cesare Segre e Lucia<br />
Lumbelli, Parma, Prati<strong>che</strong> Editrice, 1981, pp. 42-43.<br />
34 Ivi, p. 43.<br />
35 La circostanza si accompagna alla concisione, all’essenzialità del dato e dei mezzi espressivi. Si legga ad<br />
esempio quanto scrive Parronchi in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-<br />
1982), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, lettera<br />
XXV, p. 86: «In te […] sento, nelle tue cose migliori, l’estrema economia dei mezzi, per cui nulla appare nel<br />
componimento <strong>che</strong> non sia essenziale. […] Per Leopardi invece, e spesso per Hölderlin, e quasi sempre per Eliot, la<br />
poesia è diffusione in cui beninteso non c’è posto per nulla di superfluo, ma in cui la concisione, il puro equilibrio,<br />
continuamente si trasgredisce».<br />
36 Vittorio Sereni, Il nome di poeta, in Gli immediati dintorni, poi in La tentazione della prosa, cit., pp. 53-54.<br />
37 Vittorio Sereni in AA.VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, cit., p. 43.<br />
135
Ritornando all’immagine della provocazione <strong>che</strong> viene dall’esistenza,<br />
alcuni reagiscono immediatamente e scrivono, mentre a me, in generale,<br />
questo non succede perché ho bisogno di una lunga elaborazione per<br />
approfondire o dilatare quel fatto particolare <strong>che</strong> mi ha indotto a scrivere,<br />
coinvolgendo altri fatti o altri aspetti dell’esistenza <strong>che</strong> costituiscono la<br />
giustificazione ultima dello scrivere. 38<br />
In questo modo il poeta, con dantesco verbo, ficca lo viso a fondo, dalla recensione del<br />
reale arriva alla sua interpretazione:<br />
Succede persino questo, <strong>che</strong> di colpo un fatto dell’esistenza, un<br />
determinato momento, un fatto davanti al quale vi trovate improvvisamente,<br />
getti una luce retrospettiva su quello <strong>che</strong> era una cosa oscura e lo illumini. 39<br />
La poesia si conferma dunque quale momento di comunicazione ed illuminazione tra<br />
dimensioni e luoghi intermittenti, tesa a colmare la distanza tra essere e non essere,<br />
evento personale e storia, afasia e parola. La parola poetica «comunicativa e<br />
interrogativa» 40 non è contemplazione intellettualistica, ma gesto, nel senso più fisico<br />
del termine, inteso a definire un percorso della coscienza:<br />
Il fine, se c’è, dipende dall’intensità di questa comunicazione, da quel<br />
tanto per cui quella comunicazione può colpire nell’intimo di qualcuno e<br />
quindi agire; il fine è negli altri, non è in me <strong>che</strong> scrivo. Il fine nasce da una<br />
constatazione a posteriori, quando uno riesce a trovare analogie e<br />
concordanze tra cose da lui lette tanti anni prima ed aspetti della sua<br />
esperienza presente. Il fine, in sostanza, è quello di parlare, cioè fare in modo<br />
<strong>che</strong> quello <strong>che</strong> si dice parli agli altri in modi diversi a seconda dei tempi. 41<br />
Attraverso il gesto poetico si può giungere a una visione più completa e responsabile di<br />
sé e delle cose del mondo. La poesia non è il fine di questo processo conoscitivo: essa è,<br />
piuttosto, il mezzo attraverso cui il mondo (o meglio, la nostra esperienza del mondo) si<br />
rende intelligibile a noi stessi. 42 La poesia fa emergere una realtà profonda dalla realtà<br />
quotidiana, attraverso delle illuminazioni <strong>che</strong> non hanno nulla di orfico, ma sono come<br />
una nuova consapevolezza, nata dall’incontro, nella parola poetica, di un nostro io<br />
38 Ibidem.<br />
39 Ivi, p. 54.<br />
40 Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, p. 16.<br />
41 Vittorio Sereni in AA.VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, cit., pp. 56-57.<br />
42 Si legga Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, cit., p. 16: «C’è da un lato la<br />
tendenza di chi si richiama a un filone orfico-sapienziale e attraverso la poesia intende affermare niente meno <strong>che</strong> una<br />
verità in qual<strong>che</strong> modo trascendentale […]. Dall’altro c’è quella di coloro <strong>che</strong> praticano invece una poesia<br />
esistenziale, e si accontentano di partecipare un’esperienza».<br />
136
passato con il nostro io presente, dall’interazione tra realtà, pensiero e parola. 43 Questa<br />
poesia non è la semplice conferma del mondo in cui ci troviamo, ma ne progetta uno<br />
diverso:<br />
– non una storia mia o di altri<br />
non un amore nemmeno una poesia<br />
ma un progetto<br />
sempre in divenire sempre<br />
«in fieri» di cui essere parte<br />
per una volta senza umiltà né orgoglio<br />
sapendo di non sapere.<br />
(Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />
Il senso stesso della transitorietà è alla base di ogni forma di conoscenza, scientifica,<br />
storica e an<strong>che</strong> poetica. Come nota Gian Carlo Ferretti, 44 la poesia di Sereni, il suo farsi<br />
concreta e attuale, nasce da questo nodo di contraddizioni, di esigenze contrastanti e<br />
tuttavia coesistenti:<br />
Tale poetica provvisoria […] auspi<strong>che</strong>rebbe […] una poesia<br />
eminentemente inventiva <strong>che</strong> nascesse dall’elaborazione dei dati emotivi,<br />
ideologici, raziocinanti eccetera e producesse situazioni e materiali diversi da<br />
quello di partenza o in cui questi entrassero come ingrediente magari<br />
invisibile e impercepibile… 45<br />
I poli entro cui si muove l’articolata riflessione di Sereni sono esperienza e invenzione.<br />
La nostra esperienza del mondo è fatta di cose e di vuoti tra le cose, 46 <strong>che</strong> la poesia<br />
cerca di colmare, dando forma ed espressione ad una visione unitaria di emozioni e<br />
pensieri, <strong>che</strong> prima unitari non erano. I fatti esterni, le circostanze della vita, vengono<br />
rielaborati dal pensiero poetico, <strong>che</strong> riesce a cogliere quei nessi normalmente invisibili,<br />
43<br />
A questo proposito si legga Ezio Raimondi, Letteratura, Bologna, Clueb, 2000, p. 16: «Oggi non vi sono dubbi<br />
<strong>che</strong> se per la letteratura si deve parlare di realismo, necessariamente esso passa e si costruisce attraverso la realtà<br />
propria della parola, sovvertendo le vecchie ipotesi mimeti<strong>che</strong> per includere l’atto stesso del rappresentare, con la sua<br />
energia di trasformazione e di deformazione, all’interno dello spazio rappresentato. E può essere allora <strong>che</strong> nello<br />
scrutare il reale la parola sappia scorgervi an<strong>che</strong> ciò <strong>che</strong> è più nascosto, di là dai significati apparenti di relazioni<br />
ancora provvisorie verso significati più profondi, sino ad attingere l’apertura al futuro, la tensione problematica<br />
segreta <strong>che</strong> affluisce e si sedimenta an<strong>che</strong> nel nostro confronto con il presente, in ciò <strong>che</strong> diciamo del nostro io nella<br />
sua dimensione sia individuale <strong>che</strong> collettiva».<br />
44<br />
Cfr. Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, Milano, il<br />
Saggiatore / Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1999, pp. 132-134. Mi sembra doveroso ricordare il<br />
contributo di Gian Carlo Ferretti, in particolare per quanto riguarda il capitolo Un’idea di poesia, pp. 130-145.<br />
45<br />
Vittorio Sereni, Scritture private con Fortini e con Giudici, a cura di Zeno Birolli, Bocca di Magra, Capannina,<br />
1995, pp. 34-35.<br />
46<br />
Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2005 (1ª ed. Milano, Il<br />
saggiatore, 1965), p. 50.<br />
137
ma già presenti in noi e nelle cose. 47 Il poeta non inventa niente, non si abbandona ad<br />
una fantasia <strong>che</strong> allontani dalla realtà. 48 Non è la poesia <strong>che</strong> conferisce senso al mondo,<br />
creandone uno fittizio, perché l’atto poetico non è anteriore alla percezione, esso è,<br />
invece, «percezione di realtà <strong>che</strong> fermenta e prolifera», 49 mezzo attraverso cui la<br />
percezione del mondo ci porta alla comprensione: 50<br />
Ci sono momenti della nostra esistenza <strong>che</strong> non danno pace fino a quando<br />
restano informi e an<strong>che</strong> in questo, almeno in parte, è per me il significato<br />
dello scrivere versi. 51<br />
Esistono cose <strong>che</strong> mi hanno impressionato in un senso o nell’altro e<br />
dunque tutte, possibilmente, vanno scritte. Non ho una cosa da affermare in<br />
assoluto, una mia «verità» da trasmettere. Ho dei conti da saldare con<br />
l’esperienza. 52<br />
Sono uno scrittore <strong>che</strong> parte da una base autobiografica. In generale, se io<br />
ho visto, ascoltato, vissuto per esperienza diretta una cosa, ci sono probabilità<br />
<strong>che</strong> questo dia dei frutti di poesia, diciamo così. Se questa cosa io non l’ho<br />
vissuta nella sua origine diretta, immediata, sul suo spunto autobiografico,<br />
per averla constatata, percepita attraverso i sensi e l’emotività, è<br />
difficilissimo <strong>che</strong> io ci possa scrivere qual<strong>che</strong> cosa sopra. 53<br />
47 Così Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 51: «[…] proprio perché percepiamo un<br />
insieme come cosa, l’atteggiamento analitico può in seguito discernervi somiglianze o contiguità. Ciò non significa<br />
solo <strong>che</strong>, senza la percezione del tutto, noi non penseremmo a notare la somiglianza o la contiguità dei suoi elementi,<br />
ma letteralmente <strong>che</strong> questi non farebbero parte del medesimo mondo e <strong>che</strong> quelle non esisterebbero affatto».<br />
48 Egli arriva per questa via a percorrere lo spazio di un disagio <strong>che</strong> da individuale si fa esistenziale, ovvero<br />
collettivo: «[L’esperienza] non consiste tanto di singoli eventi esattamente fissati nel ricordo quanto di dati<br />
accumulati, spesso inconsapevoli, <strong>che</strong> confluiscono nella memoria. […] Dove c’è esperienza nel senso proprio del<br />
termine, determinati contenuti del passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con quelli del passato<br />
collettivo» (Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi,<br />
1962, pp. 91, 93).<br />
49 Vittorio Sereni, Dovuto a Montale, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 149.<br />
50 Si veda Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, cit., pp. 316-317: «Seppure in<br />
senso diverso da Montale, an<strong>che</strong> Sereni avrebbe potuto dire di sé <strong>che</strong> non inventava nulla. La sua poesia nasceva a<br />
stretto contatto coi fatti e fenomeni, esterni e più spesso interni, incessanti, incessantemente ruminati […]. Ciò vuol<br />
dire, contro la moderna superbia della poesia […] <strong>che</strong> i fatti e dunque la vita, avevano un valore e una dignità in sé<br />
<strong>che</strong> si trasferivano per riverbero e impregnazione su quelli della poesia, e non viceversa. Sereni era l’antitesi del poeta<br />
orfico; era un poeta esistenziale».<br />
51 Vittorio Sereni, Poesie, cit., pp. 585-586.<br />
52 Vittorio Sereni, <strong>Una</strong> vicenda amicale: lettere di Vittorio Sereni, a cura di Giancarlo Buzzi, «Concertino», a. 1,<br />
n. 1, giugno 1992, p. 43. Si legga an<strong>che</strong> Un posto di vacanza, V: «“Ho un lungo conto aperto” gli rispondo. / “Un<br />
conto aperto? di parole?”. “Spero non di sole parole”».<br />
53 Vittorio Sereni, dichiarazione a Gian Carlo Ferretti, «Rinascita», a. 30, n. 15, 13 aprile 1973, p. 32 ora in Gian<br />
Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, cit., p. 132. Ma si legga an<strong>che</strong><br />
quanto scrive Vittorio Sereni in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982),<br />
cit., lettera 24, p. 65: «Per il resto, oggi, non c’è più niente, né Luino, né l’Africa, né la guerra. Il <strong>che</strong> vuol dire <strong>che</strong> ho<br />
sempre avuto bisogno – e questo è male – di cercare la poesia fuori di me»; lettera 27, p. 74: «Scrivo sempre a<br />
distanza di anni senza mai prescindere da una lunga memoria»; e an<strong>che</strong> Vittorio Sereni nell’intervista a Anna Del Bo<br />
Boffino, Il terzo occhio del poeta, «Amica», 28 settembre 1982, p. 156, ora in Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 582: «In<br />
senso positivo ciò significa necessità di maturazione di un motivo; in senso negativo, lentezza, pigrizia, impotenza,<br />
remora psicologica, paura. In ogni caso quell’aspetto dell’“impegno” per cui la poesia o lo scrivere hanno un peso<br />
nella misura in cui concorrono al formarsi della storia mi è totalmente estraneo».<br />
138
Da queste premesse si attua il superamento dell’autobiografismo insito nella scrittura<br />
lirica in rapporto con gli eventi della contemporaneità, per esprimere piuttosto i<br />
«fermenti segreti <strong>che</strong> tali eventi o l’esclusione da tali eventi possono far maturare nella<br />
coscienza (come la sofferta non-partecipazione alla lotta di liberazione, imposta dalla<br />
prigionia)», 54 perché «proprio nello scoprirsi incapaci di spiegarsi la tragedia e di<br />
parteciparvi» 55 sta il senso della parola poetica: essa indaga le ragioni più profonde della<br />
realtà, i nodi rimasti irrisolti, le sfumature dell’io, <strong>che</strong> altrimenti non emergerebbero.<br />
Così Sereni spiega questo procedimento:<br />
Esiste per me questo problema: rifarmi alla prima emozione e restituirla, e<br />
più ancora elaborarla, spremerne il senso e la riserva di altre energie, <strong>che</strong> essa<br />
includeva ma <strong>che</strong> all’inizio non erano state nemmeno supposte. […] I miei<br />
versi riflettono la sedimentazione, l’acquisizione di altri motivi,<br />
l’arricchimento e la dilatazione rispetto alla prima configurazione emotiva, e,<br />
parallelamente, il sopraggiungere di esperienze diverse, umane e culturali. 56<br />
Due campi di forza agiscono nelle poesie, nel tentativo di superare la divaricazione tra<br />
l’occasione poetica e la scrittura vera e propria (<strong>che</strong> in alcuni casi è rielaborazione<br />
attraverso stesure e varianti successive). Come scrive Massimo Grillandi, le «immagini<br />
poeti<strong>che</strong>, al di là del dato esistenziale, tendevano a fuggire per la tangente di una<br />
indeterminatezza piacevole alla lettura, ma non garante di un risultato definitivo. E<br />
allora Sereni le ha accortamente fermate, sul punto emotivo di svanire, con il fissatore<br />
della cronaca, <strong>che</strong> non è tanto precisazione di un dato “vero” quanto aggancio, sensibile<br />
ancoraggio, a una realtà sensibile <strong>che</strong> resta, e deve restare, strumento di comprensione<br />
in poesia». 57<br />
Nel Diario d’Algeria Sereni rielabora la vicenda centrale della propria vita, per<br />
accentuarne le possibilità conoscitive: storia, realtà ed esperienza si articolano nel<br />
tentativo di superare la dimensione puramente privata, intima e individuale, per<br />
diventare voce corale. 58 Il tormento del poeta è il tormento di una generazione «morta<br />
54 Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, cit., p. 135.<br />
55 Vittorio Sereni, <strong>Una</strong> vicenda amicale: lettere di Vittorio Sereni, cit., p. 43.<br />
56 Vittorio Sereni in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., pp. 121-122.<br />
57 Massimo Grillandi, Sereni, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 46.<br />
58 Cfr. Giovanni Raboni, Prefazione a Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, cit., p. X: «più della storia, come dice<br />
Debenedetti, più della realtà come a un certo punto mi è parso di poter ipotizzare, a entrare con il Diario nella poesia<br />
di Sereni potrebbe essere, più precisamente, l’esperienza – l’esperienza nella specie emblematica e traumatica di fine<br />
della giovinezza, del suo limpido, incantevole, sogno d’attesa». E si legga an<strong>che</strong> Bernard Simeone, Vacuité,<br />
réticence, in Vittorio Sereni, Les instruments humains précédé de Journal d’Algérie, traduit par Philippe Renard et<br />
Bernard Simeone, préface de Bernard Simeone, postface de Philippe Renard, Paris, Verdier, 1991, p. 8: «La captivité<br />
139
alla guerra e alla pace» (Non sa più nulla, è alto sulle ali), su cui agisce un senso di<br />
distacco, di sradicamento, <strong>che</strong> sarà centrale nel quadro esistenziale del dopoguerra e<br />
dagli anni Sessanta in avanti:<br />
Cominciavi a vivere con pienezza, uscito una buona volta dallo<br />
sbalordimento giovanile. Venne la guerra e rovinò ogni cosa. Ti pareva di<br />
spiegare così la crisi <strong>che</strong> colse te e alcuni tuoi coetanei dopo il ’45, di ritorno<br />
dalla guerra e dalla segregazione (e dall’esserti sentito escluso dalla<br />
Liberazione, privato della sua lotta come di un’esperienza <strong>che</strong> ti è mancata<br />
lasciandoti incompleto per sempre). 59<br />
Nella Nota alla prima edizione de Gli immediati dintorni, Giacomo Debenedetti<br />
sottolinea due punti <strong>che</strong> ci riportano al problema centrale dal quale siamo partiti: «Nella<br />
storia della poesia di Sereni ci sono grumi di vita, <strong>che</strong> hanno preteso tutto il necessario,<br />
fisiologico tempo di soluzione per poi, da quella fluidità sostanziosa, disponibile a tutte<br />
le assimilazioni organi<strong>che</strong>, arrivare a cristallizzarsi liricamente. […] Più esplicitamente<br />
<strong>che</strong> la poesia, il diario verifica l’ipotesi, da Sereni proposta insieme e contestata, “<strong>che</strong> la<br />
cosa da dire sia in fondo o un momento o un luogo della propria esperienza (esistenza)<br />
da salvare”». 60 Le ragioni della poesia di Sereni vanno cercate, insomma, in quei<br />
«grumi di vita» <strong>che</strong> rimangono come sostanza magmatica al di sotto della crosta lirica, a<br />
sua volta mai ferma, mai determinata in una forma fissa e assoluta (o assolutizzante),<br />
ma sempre in movimento, in quella <strong>che</strong> Parronchi ha definito una «costante difesa dal<br />
presente nel presente». 61 Viene spontaneo a questo punto ritornare alla Nota <strong>che</strong> Sereni<br />
aux portes du désert, entre des murailles d’air et de sable, est une figure indélébile de vacuité, qui se transforme vite<br />
en métaphore de toute condition individuelle ou collective».<br />
59<br />
Vittorio Sereni, Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 59. Tra gli altri, Giancarlo<br />
Vigorelli sottolinea come la solitudine e la separazione derivate dall’esperienza mancata della Resistenza, dalla<br />
consapevolezza <strong>che</strong> quel periodo è definitivamente perduto senza essere stato vissuto, diano a Sereni la certezza di<br />
essere un escluso: «Tutto era cambiato sotto gli occhi di noi <strong>che</strong> eravamo pur stati testimoni, e in parte partecipi, del<br />
travolgimento, del capovolgimento, e Vittorio non nascondeva primamente a se stesso, alla sua coscienza, alla sua<br />
faccia, d’essere dovuto rientrare in patria a cose fatte. Ma in realtà da fare: ed a lui pareva di avere scarso diritto a<br />
quel “da fare”, non essendo stato presente, pur senza sua colpa, all’atto del primo “fare”» (Giancarlo Vigorelli, Carte<br />
d’identità, cit., p. 198). Si legga an<strong>che</strong> una lettera ad Alessandro Parronchi, in cui Sereni scrive: «Mai come ora ho<br />
avuto il senso del tempo sperperato, degli anni regalati agli altri». Ora in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio<br />
Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 17, p. 41. Ma sul concetto del tempo sperperato Sereni torna in<br />
più momenti dell’epistolario, sino a quello «specchio del tempo sperperato» <strong>che</strong> troviamo nell’ultima poesia di Stella<br />
variabile: «Ho cinque duri anni di disamore e di dispersione sulle spalle» (lettera 24, p. 64); «Ma questi sono stati<br />
giorni di spreco del poco di vivo <strong>che</strong> rimane ancora in me» (lettera 36, p. 109); «Io finisco l’anno con un po’<br />
d’influenza in corpo e una cresciuta insofferenza per il tempo <strong>che</strong> si perde» (lettera 111, p. 285).<br />
60<br />
Giacomo Debenedetti, Nota alla prima edizione, in Vittorio Sereni, Gli immediati dintorni, ora in La tentazione<br />
della prosa, cit., pp. 6-7.<br />
61<br />
Così Alessandro Parronchi in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-<br />
1982), cit., lettera CVII, p. 301: «Caro Vittorio, ho avuto Gli immediati dintorni, e l’ho letto con molta<br />
partecipazione. Non è la tua storia – quella è nel tuo libro di poesie – ma un controcanto sottile alla tua storia, dove<br />
sento un’attenzione sempre tesa, un occhio vigilante sull’oggi in modo esasperato. […] Ma questa tua posizione di<br />
costante difesa dal presente nel presente mi pare sempre la migliore condizione alla poesia». E Vittorio Sereni,<br />
140
scrisse per l’edizione del Diario d’Algeria del 1947, <strong>che</strong> ha il valore di una vera e<br />
propria dichiarazione di poetica:<br />
Le singole date vanno comunque riferite, là dove appaiono, alle<br />
circostanze <strong>che</strong> originarono i versi e non al tempo dell’effettiva stesura. 62<br />
Il tempo <strong>che</strong> passa tra l’esperienza e la sua realizzazione lirica, lungi dall’essere un<br />
silenzio vuoto di accadimenti, si dimostra il tempo più vero della poesia, <strong>che</strong> si<br />
definisce come annotazione del dato biografico e insieme come sua dilatazione a valore<br />
esistenziale, <strong>che</strong> permette di sottrarlo ai limiti della contingenza. 63 Il <strong>lingua</strong>ggio tende ad<br />
inarcarsi su tonalità cupe, opprimenti atmosfere in cui si traducono i dettagli<br />
dell’esperienza: «Inquieto nella tradotta / […] / mi tendo alle tue luci sinistre», «un<br />
volto solo / <strong>che</strong> per sempre si chiude» (Città di notte, in Diario d’Algeria); «Io non so<br />
come sempre / un disperato murmure m’opprima», «E non è fiore in te <strong>che</strong> non<br />
m’esprima / il male <strong>che</strong> presto lo morde», «alla tua gioia / sono cieco ed inerme». Fino a<br />
giungere a toni espressionistici, <strong>che</strong> deformano la realtà in uno straziato paesaggio<br />
dell’anima: «E l’ombra dorata trabocca nel rogo serale, / l’amore sui volti s’imbestia»;<br />
per poi concludere: «fugge oltre i borghi il tempo irreparabile / della nostra viltà»<br />
(Diario Bolognese, in Diario d’Algeria), in cui bisognerà notare <strong>che</strong> l’ultimo verso è<br />
un’aggiunta successiva alla prima stesura, <strong>che</strong> precisa il più vago e “fatale” «disperato<br />
murmure» del secondo verso, come a ribadire il tempo necessario della rielaborazione,<br />
rispondendo all’amico: «Quello <strong>che</strong> mi dici del libro e della posizione di difesa “dal presente nel presente” mi sembra<br />
davvero esatto, mette al posto giusto certe impennate apparenti – <strong>che</strong> possono trovare facili consensi e altrettanto<br />
facili dissensi in un’aria sostanzialemente estranea a quella in cui pensi di essere» (Un tacito mistero. Il carteggio<br />
Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 123, p. 301).<br />
62 Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, Firenze, Vallecchi, 1947, p. 45. Ora in Poesie, cit., p. 417. All’altezza degli<br />
Strumenti umani, Sereni scrive una Nota <strong>che</strong> chiarisce ancora di più questo suo procedere, <strong>che</strong> potrebbe essere esteso,<br />
à rebours, an<strong>che</strong> a Frontiera e allo stesso Diario d’Algeria: «Per i singoli componimenti una datazione più rigorosa<br />
risulterebbe tutto sommato arbitraria. Sarebbe possibile, se mai, per ciascuno di essi stabilire una data di «partenza» e<br />
una di «arrivo»: nel qual caso però alcune «partenze» rischierebbero di figurare come anteriori persino al ’45. Un<br />
margine così largo di tempo non implica in alcun modo fasi di lavorazione protratte al segno dell’incontentabilità o<br />
del rigore dal punto di vista strettamente stilistico, bensì una serie di modifi<strong>che</strong> e aggiunte, di deviazioni e<br />
articolazioni successive, dilatazioni e rarefazioni offerte o suggerite, quando non imposte, dall’esistenza, dal caso,<br />
dalla disposizione dell’ora […]. Si dà quindi per inteso <strong>che</strong> là dove un riferimento temporale accompagna<br />
esplicitamente un testo, quel riferimento indica, senza eccezioni, una «partenza» o una fase e non rappresenta mai una<br />
data di composizione» (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, Torino, Einaudi, 1965, p. 95, poi in Poesie, cit., p. 469.<br />
Questa Nota è in parte citata an<strong>che</strong> da Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 17).<br />
63 Alessandro Parronchi, a proposito del Diario d’Algeria, parla di «quella grazia di consistere in pochi momenti,<br />
sottratti al tempo, di vita piena» e distingue le due direzioni verso cui si muove il Diario: «indietro la limpidità di<br />
tanti paesaggi attraversati, parte vissuti parte sognati – in avanti il ricollegarsi dell’anima col suo centro intimo», da<br />
cui risulta <strong>che</strong> «il tessuto della poesia non resta fisso, non trova quei calchi mnemonici <strong>che</strong> danno un tono scadente –<br />
così spesso – alla poesia di Montale; ma an<strong>che</strong> dov’è preciso e unito, ha l’essenza del variabile, di ciò <strong>che</strong> ogni volta<br />
sorprende». Ora in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera<br />
XXVI, p. 89; lettera XXXI, p. 100; lettera XXXVI, p. 119.<br />
141
per dare profondità emotiva ed intellettuale non solo all’esperienza, ma al pensiero e<br />
all’andamento lirico stesso. 64 Il «tempo irreparabile / della nostra viltà» suona, allora,<br />
come un a parte, una voce fuori campo, <strong>che</strong> risponde ad un desiderio di maggiore<br />
chiarezza e determinazione storico-etica, «un “fuori testo” <strong>che</strong>, a causa di un postumo<br />
desiderio di verità, altera la percezione poetica della temporalità, <strong>che</strong> da fatale<br />
trascorrere diviene “epoca” connotabile con il giudizio». 65 A distanza di anni Sereni<br />
introduce una variante, non per motivi di purezza linguistica, ma per la necessità di dare<br />
un’interpretazione morale: è l’interiorità della coscienza (storica, civile e umana), <strong>che</strong> si<br />
impone sull’esteriorità del dato biografico puro e semplice. Si giunge per questa via ad<br />
un sentimento del tempo <strong>che</strong> non è intemporalità, ma coesistenza di diversi piani<br />
temporali in un evento psichico <strong>che</strong> risente della lezione occidentale, <strong>che</strong> da<br />
Sant’Agostino giunge, attraverso Bergson, sino a Proust. La prigionia, con il suo tempo<br />
dell’attesa («luoghi di esilio e di attesa» 66 li chiama Sereni), un tempo sospeso e<br />
circolare in cui presente passato e futuro sono indistinguibili, è in contrasto con il tempo<br />
dell’azione nella storia, e introduce lo spazio ambiguo della perdita di sé e della<br />
«consapevolezza <strong>che</strong> oltre la Frontiera (termine inteso in senso geografico, politico ed<br />
esistenziale) esiste un’altra possibilità di vita, un altro poter-essere sul quale fondare il<br />
progettare, caratteristica dell’essere umano»: 67<br />
La giovinezza è tutta nella luce<br />
d’una città al tramonto<br />
dove straziato ed esule ogni suono<br />
si spicca dal brusio.<br />
E tu mia vita salvati se puoi<br />
serba te stessa al futuro<br />
passante e quelle parvenze sui ponti<br />
nel baleno dei fari.<br />
(Periferia 1940, in Diario d’Algeria)<br />
La coscienza stra-ordinaria della distanza va di pari passo con la percezione di un<br />
mutamento interiore, <strong>che</strong> produce «un senso dell’essere […] come manifestazione tale<br />
64 Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 426: «Scritta in Algeria nel ’44, ma lo spunto è bolognese, del ’42. esclusa dal<br />
Diario, è poi stata pubblicata (nel ’48?) nell’Indicatore Partigiano e nel Progresso. L’ultimo verso suonava così:<br />
“fugge oltre i borghi un tempo irreparabile”. La correzione è molto recente».<br />
65 Fulvio Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, Milano, Guerini e Associati, 1992, p. 107.<br />
66 Vittorio Sereni, Male del reticolato, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 20.<br />
67 Giuliano Ladolfi, Vittorio Sereni. Il “prigioniero”, Borgomanero, Edizioni Atelier, 2003, p. 14.<br />
142
da mettere fuori gioco la coscienza ordinaria». 68 Il poeta guarda le cose <strong>che</strong> ha davanti a<br />
sé (si pensi an<strong>che</strong> alla partita di calcio tra prigionieri in Rinascono la valentia), ma<br />
guarda soprattutto dentro di sé. Può valere come esempio l’incipit di Troppo il tempo ha<br />
tardato, in cui la grazia e, perché no, il languore lirico di sapore petrar<strong>che</strong>sco della<br />
«pena degli anni giovani», sono attenuati e bilanciati dalla volontà di riportare<br />
l’attenzione a dati sensibili e fisici: la «città», i «sobborghi», la «curva d’un viale», i<br />
«papaveri», con un dinamismo centrifugo, <strong>che</strong> dal centro della vita cittadina sembra<br />
condurci all’esterno. Ci sono tratti dal sapore spiccatamente cromatico-affettivo, quasi<br />
impressionistico, e altri invece <strong>che</strong>, innestandosi su questi, condensano la trama<br />
esistenziale della poesia, con una continua oscillazione fra trasfigurazione psicologica e<br />
concretezza del reale: «Illividiva la città nel vento», «riflessi beati», «tic<strong>che</strong>ttio<br />
meditabondo», «indolenza di sobborghi chiari», «un occhio lustro», «ombre leggere»,<br />
«svaniva / in tristezza la curva d’un viale», «ruote fuggite», «cinerea estate». Questa<br />
doppia natura della parola salva il poeta dal risolvere la propria esistenza nell’hic et<br />
nunc della prigionia, <strong>che</strong> per Sereni è attesa, incompiuta realizzazione di sé, <strong>che</strong> soltanto<br />
nel tempo potrà trovare una più piena significazione. 69 Oltre i limiti della scrittura<br />
autobiografica, il lavoro poetico si compone di due parti distinte ma complementari, <strong>che</strong><br />
sono le «sollecitazioni intime» e le «sollecitazioni esterne»:<br />
Può accadere, a chi sia impegnato in un lavoro, <strong>che</strong> certe sollecitazioni<br />
intime vengano improvvisamente a coincidere con sollecitazioni esterne,<br />
sulla natura, sul senso e sull’indirizzo di quel lavoro; <strong>che</strong> an<strong>che</strong> qui ci si senta<br />
chiamati in causa perché qual<strong>che</strong> dato della propria esperienza sembra<br />
intonarsi ai dati di un’esperienza più generale. […] La guerra, <strong>che</strong> è stata di<br />
tutti, e forse an<strong>che</strong> più il dopoguerra, hanno non operato, ma favorito<br />
qualcosa di analogo all’interno della poesia e dei poeti. 70<br />
Benjamin, nelle sue Tesi di filosofia della storia, scrive <strong>che</strong> «la storia è oggetto di<br />
una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di<br />
“attualità”», 71 cioè il tempo della storia è discontinuo e ciò permette <strong>che</strong> il passato<br />
faccia capolino nel presente superando i limiti della memoria individuale, verso una<br />
68 Marcello Ciccuto, Letteratura e arte, in AA.VV., Storia della letteratura italiana, XI, Il Novecento. Scenari di<br />
fine secolo, a cura di Nino Borsellino e Lucio Felici, Milano, Garzanti, 2001, p. 413.<br />
69 Si legga an<strong>che</strong> Fulvio Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, cit., p. 102: «l’occasione,<br />
nella poetica di Sereni, si compone nel tempo in un composto lavorio della memoria, come progressiva<br />
valorizzazione del ricordo attraverso una sua semantizzazione».<br />
70 Vittorio Sereni, Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 29.<br />
71 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 83.<br />
143
dimensione collettiva. 72 Nella fase più matura della produzione sereniana, e in<br />
particolare in Stella variabile, il mondo dei referenti appare sempre più alienato e<br />
alienante, come un mistero <strong>che</strong> il rapporto tra circostanza (esperienza) e testo (forma)<br />
non riesce a risolvere. 73 Ci viene nuovamente in aiuto Benjamin, <strong>che</strong> parla di «una<br />
costellazione carica di tensioni» 74 in cui passato e presente sono riorganizzati<br />
programmaticamente per costruire uno spazio poetico in cui si dà una nuova<br />
rappresentazione del mondo, all’interno di una temporalità soggettiva e collettiva allo<br />
stesso tempo. In questo senso per Sereni l’esperienza poetica può caricarsi di una<br />
tensione di natura conoscitiva. 75 la guerra e il dopoguerra hanno sicuramente agito «nel<br />
cuore della vita individuale e collettiva». 76 Di Stella variabile, egli dichiara:<br />
dovrebbe esprimere quella compresenza di impotenza e potenzialità, la<br />
mia difficoltà a capire il mondo in cui viviamo e al tempo stesso l’impulso a<br />
cercarvi nuovi e nascosti significati, la coscienza di una condizione dimidiata<br />
e infelice e l’ipotesi di una vita diversa, tanto vaga e sfuggente oggi quanto<br />
pronta a riproporsi ogni volta <strong>che</strong> se ne sappiano cogliere gli indizi e le tracce<br />
umane. 77<br />
Da questo punto di vista è significativo il componimento In una casa vuota, in cui<br />
Sereni mette in scena forze contrastanti, le une vòlte a depistare, e le altre a conferire<br />
concretezza e profondità al testo, per indagare davvero la natura e le ragioni del male:<br />
72 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in La tradizione del Novecento. Quarta serie,<br />
Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 223: «Il culto sereniano della memoria non lo è solo della memoria personale,<br />
ma an<strong>che</strong> di quella <strong>che</strong> possiamo chiamare memoria storica, soprattutto di una storia – lo sanno i lettori del poeta –<br />
<strong>che</strong> ha il suo fulcro nell’orrore nazista e nella Resistenza, gli eventi <strong>che</strong> egli ha mancato sentendo sempre questo<br />
appuntamento fallito come colpa».<br />
73 Per Sereni la raccolta aveva un carattere definitivo. Si legga quanto scrive in una lettera ad Alessandro<br />
Parronchi, in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 132, p.<br />
313: «Ho l’impressione <strong>che</strong> di versi non ne scriverò più (forse perché sento sempre meno naturale l’esercizio?)».<br />
Sereni qui riprende un pensiero già contenuto in Gli strumenti umani, nella lirica I versi: «Se ne scrivono solo in<br />
negativo / dentro un nero di anni / come pagando un fastidioso debito / <strong>che</strong> era vecchio di anni. / No, non è più felice<br />
l’esercizio». Garboli aveva definito questo Sereni un «tardo ideologo dei versi in negativo» (Cesare Garboli,<br />
Falbalas, Milano, Garzanti, 1990, p. 222). Tuttavia proprio in questi versi Sereni esprime le ragioni profonde della<br />
sua poetica e di quell’ansia intellettuale ed esistenziale <strong>che</strong> lo aveva portato al Diario d’Algeria e <strong>che</strong> lo porterà,<br />
naturaliter, a Stella variabile. Insomma si tratta di una negatività <strong>che</strong> preesiste ai versi stessi e <strong>che</strong>, in nuce, albergava<br />
an<strong>che</strong> nelle prime prove di Frontiera, an<strong>che</strong> se a quell’altezza rimaneva nascosta e come travestita dalla luce e dai<br />
colori del luogo nativo.<br />
74 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 85. E in<br />
Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Torino, Einaudi, 1976, p. 31: «Quello <strong>che</strong> prima […] era uno<br />
spazio di tempo privo di tensione, è diventato un campo di forze».<br />
75 A questo proposito si legga Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, cit.,<br />
p. 49: «Parlando, con la più sottile delle discrezioni, d’altro e d’altri, Sereni, in un breve articolo del ’57, chiariva<br />
come il suo lavoro di poeta fosse guidato, tra soprassalti e continui ripensamenti, dall’”ansia” del confronto con<br />
“l’immagine di noi e del nostro tempo”». Questo motivo viene definito da Testa «storico e psicologico», perché<br />
«privilegia, nella lettura dei testi altrui e nella composizione dei propri, i segni legati al senso della contemporaneità e<br />
i loro rapporti con l’essere individuale».<br />
76 Vittorio Sereni, Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 29.<br />
77 Così Vittorio Sereni in un’intervista a cura di Gian Carlo Ferretti, in «Rinascita», a. 37, n. 42, 24 ottobre 1980,<br />
p. 40, ora in Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, cit., p. 132.<br />
144
Si ravvivassero mai. Sembrano ravvivarsi<br />
di stanza in stanza, non si ravvivano<br />
veramente mai in questa aria di pioggia. Si è<br />
ravvivata – io veggente di colpo nella lenta schiarita –<br />
una ressa là fuori di margherite e ranuncoli.<br />
Purché si avesse.<br />
Purché si avesse una storia comunque<br />
– E intanto Monaco di prima mattina sui giornali<br />
ah meno male: c’era stato un accordo –<br />
purché si avesse una storia squisita tra le svasti<strong>che</strong><br />
sotto la pioggia un settembre.<br />
Oggi si è – e si è comunque male,<br />
parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti. 78<br />
(In una casa vuota, in Stella variabile)<br />
Il secco andamento nominale e la ripetitività di certi sintagmi, ripetuti in modo<br />
formulare o con leggere variazioni, producono un effetto di moltiplicazione e di<br />
progressiva precisazione di una situazione <strong>che</strong> si sviluppa contemporaneamente sotto<br />
diverse prospettive, con una sorta di balbettio in cui è possibile riconoscere quella<br />
tecnica già individuata da Montale per Gli strumenti umani: «<strong>Una</strong> poesia così fatta, <strong>che</strong><br />
dovrebbe logicamente tendere al mutismo, è pur costretta a parlare. Lo fa con un<br />
procedimento accumulativo, inglobando e stratificando paesaggi e fatti reali, private<br />
inquietudini e minimi eventi quotidiani». 79 Non a caso Garboli parla di cubismo: 80 si ha<br />
la netta sensazione di un oggetto accostato da prospettive spaziali e temporali diverse e<br />
complementari, tutte presenti nello stesso tempo di scrittura.<br />
Il movimento poetico di In una casa vuota ha origine e si sviluppa come transito,<br />
come passaggio da una situazione iniziale, indeterminata, ad una finale, dotata di una<br />
forza evocativa e conoscitiva straordinaria, in cui il soggetto stesso si scinde: l’impulso<br />
poetico si sposta dal si impersonale («Si ravvivassero mai», «Purché si avesse»), ad un<br />
io («io veggente di colpo») e poi ad un tu («parte del male tu stesso»), in cui scorgiamo<br />
una prima persona, <strong>che</strong> è diventata altro da sé. È definitiva conoscenza, ma an<strong>che</strong><br />
78 Di questa poesia si conoscono due differenti stesure: la prima, pubblicata in «Comma», nel 1968; la seconda è<br />
invece la stesura confluita in Stella Variabile, pubblicata nel 1981 (e a quest’ultima si è fatto riferimento). In merito<br />
occorre ricordare almeno i due fondamentali commenti di Cesare Garboli: In una casa vuota. Commento, «Comma»,<br />
Prospettive di Cultura-Letteratura, a. IV (1968), n. 4, p. 32 e September in the rain, in Cesare Garboli, Falbalas, cit.,<br />
p. 211.<br />
79 Eugenio Montale, Strumenti umani, in Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 331.<br />
80 Cfr. Cesare Garboli, In una casa vuota. Commento, cit., p. 32: «La relazione col Tutto è in lui un punto<br />
d’arrivo: il poeta mira a organizzare i suoi frammenti sparsi, i suoi brividi, in una costruzione <strong>che</strong> potrebbe definirsi<br />
“cubista”».<br />
145
iconoscimento, dentro di sé, di un male storico e assoluto, calato nella vita di tutti i<br />
giorni (come poi accadrà in Sarà la noia).<br />
Nella prima strofa tale movimento appare caratterizzato dall’esitazione, dal dubbio,<br />
dalla sospensione, dall’opposizione dei significati: un continuo andirivieni, un avanti e<br />
indietro tra affermazioni e negazioni, <strong>che</strong> genera una sorta di illusione prospettica al<br />
limite tra realtà ed eventualità, proiettata verso una nuova consapevolezza di sé. 81 Per<br />
Sereni la poesia è una «battaglia di immagini», 82 e questo testo ne è un esempio: esso è<br />
costellato da una serie di elementi ipotetici <strong>che</strong> dicono una realtà incerta, tenuti insieme<br />
da una fitta rete di riprese e ripetizioni («Si ravvivassero», «sembrano ravvivarsi», «non<br />
si ravvivano», «si è ravvivata»; «Purché si avesse», «Purché si avesse una storia<br />
comunque», «Purché si avesse una storia squisita»), come se l’autore cercasse di<br />
riempire il vuoto dichiarato nel titolo attraverso l’eco delle sue parole, <strong>che</strong> stabiliscono<br />
un rapporto diretto tra io e natura («io veggente di colpo nella lenta schiarita») e poi tra<br />
natura e storia (l’«aria di pioggia» e la «lenta schiarita» da una parte, la «storia squisita<br />
tra le svasti<strong>che</strong>» dall’altra): il minimo fenomeno naturale (l’«aria di pioggia»), una vaga<br />
minaccia climatica, si trasforma successivamente in disastro storico e psicologico. In<br />
questo gioco di specchi e di contrari si inserisce an<strong>che</strong> la «ressa […] di margherite e<br />
ranuncoli»: i fiori rappresentano sia la possibilità di rigenerazione della natura, sia tutti<br />
quegli ideali e dolori, di cui la storia è piena e <strong>che</strong> sembrano per un attimo illuminare la<br />
realtà interiore. Margherite e ranuncoli non sono però lì a suggerire una possibile<br />
evasione verso uno sfondo ideale di campagna e di chiare, fres<strong>che</strong> e dolci acque: sono<br />
«là fuori», mentre il poeta si trova all’interno della casa vuota. In questa spazialità<br />
irrisolta, abbozzata nei termini estremi di esterno e interno, si concentra tutto il dolore<br />
esistenziale per la separazione, il disaccordo tra ciò <strong>che</strong> si è e la possibilità di un destino<br />
diverso (il «Si ravvivassero» dell’incipit, o il «Purché si avesse»).<br />
81 Così scrive Mengaldo in La spiaggia di Vittorio Sereni, in AA.VV., Come leggere la poesia italiana del<br />
Novecento, a cura di Stefano Carrai e Francesco Zambon, Milano, Neri Pozza, 1997, p. 90: «[…] si può dire <strong>che</strong><br />
viaggi e transiti (an<strong>che</strong> mentali) sono in Sereni di due tipi fondamentali: quello chiuso, <strong>che</strong> non muta la situazione di<br />
partenza o anzi ad essa torna dichiaratamente, formalizzandosi come “aggiramento” (termine ben sereniano) […] e<br />
quello aperto, <strong>che</strong> si risolve per modulazione verso altra tonalità, in un luogo <strong>che</strong> può negare quello di partenza».<br />
An<strong>che</strong> in questa poesia sembra potersi applicare l’osservazione di Mengaldo. Il poeta guarda all’esterno della casa<br />
vuota, ma se all’inizio scorgeva «margherite e ranuncoli», nel finale, «tornino o no sole e prato coperti», c’è il<br />
riconoscimento del «male» esistenziale.<br />
82 Vittorio Sereni, Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 29:<br />
«Se l’idea di poesia <strong>che</strong> ogni poeta porta con sé fosse raffigurabile in uno specchio, noi vedremmo quello specchio<br />
assumere di volta in volta tutti i colori possibili, riflettere non una immagine ma una battaglia di immagini».<br />
146
Nella seconda strofa il vissuto individuale partecipa di una più ampia dimensione<br />
storica, <strong>che</strong> collega direttamente un difficile passato con un altrettanto complicato<br />
presente. «Un improvviso inciso prosastico, d’impronta, per così dire,<br />
“generazionale”», 83 come lo definisce Garboli, introduce il ricordo della conferenza di<br />
Monaco del settembre 1938. 84 La storia entra nella poesia di Sereni<br />
contemporaneamente al manifestarsi della quotidianità, attraverso un sistema di<br />
stratificazioni e di corrispondenze. Il discorso interiore del poeta si pone comunque ai<br />
margini di questa storia, ribadisce la lontananza rispetto agli eventi: i fatti di Monaco<br />
sono ricordati attraverso un’immagine scipita («e intanto Monaco di prima mattina sui<br />
giornali»). La storia viene abbassata ad una quotidianità stanca, trita, banale, di cui è<br />
emblema il mas<strong>che</strong>ramento prosastico del male per mezzo di una stridente colloquialità<br />
(«ah meno male» 85 ). Questo avvilimento investe tutta la realtà, e si rispecchia an<strong>che</strong><br />
nell’andamento nominale, <strong>che</strong> riduce a vera e propria didascalia teatrale l’indicazione<br />
meteorologica e stagionale <strong>che</strong> chiude la seconda strofa («sotto la pioggia un<br />
settembre»). L’uso dell’articolo indeterminativo («un settembre») porta con più forza il<br />
lettore nel presente, prescindendo dal dato storico determinato: le «svasti<strong>che</strong> dei tempi<br />
torbidi» (così recita la prima stesura), non sono solo quelle del ’38, ma tutte quelle altre<br />
svasti<strong>che</strong> <strong>che</strong> sono apparse dopo, nel silenzio, nell’inconsapevolezza collettiva o nella<br />
tacita accettazione del male.<br />
Nel distico <strong>che</strong> chiude e sigilla la poesia, si passa dall’indeterminatezza dell’iniziale<br />
«Si ravvivassero mai» e poi dell’ipotetico «Purché si avesse», alla perentorietà<br />
asseverativa dell’«Oggi si è – e si è comunque male, / parte del male tu stesso». Il male<br />
di cui qui si parla è un radicale e profondo male d’esistere calato nella sua concreta<br />
quotidianità, una realtà psicologica e gnoseologica rivelata o svelata al poeta, <strong>che</strong> alla<br />
83 Cesare Garboli, In una casa vuota. Commento, cit., p. 32.<br />
84 A questo proposito si potrebbe an<strong>che</strong> ricordare una lettera di Sereni a Parronchi, in cui gli elementi del passato<br />
si confondono con un presente di preoccupazioni: «Qui spira una brutta aria; un’aria tipo 1938 (di un 1938 visto da<br />
uno <strong>che</strong> allora non capiva di camminare lungo l’abisso e <strong>che</strong> ha il raccapriccio quando pensa <strong>che</strong> ci camminava e non<br />
se ne accorgeva)». Ora in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit.,<br />
lettera 71, p. 206.<br />
85 Si può ricordare Nel vero anno zero (Gli strumenti umani), in cui si sviluppava il tema della ferocia delle<br />
«nuove belve», cioè di coloro <strong>che</strong> ignorano il passato e <strong>che</strong> sviliscono e annullano la memoria nella superficialità<br />
frutto del disinteresse: «Meno male lui disse, il più festante: <strong>che</strong> meno male c’erano tutti. / Tutti alle Case dei Sassoni<br />
– rifacendo la conta. / Mai stato in Sachsenhausen? Mai stato. / A mangiare ginocchio di porco? Mai stato. / Ma certo,<br />
alle case dei Sassoni. / Alle Case dei Sassoni, in Sachsenhausen, cosa c’è di strano? / Ma quante Sachsenhausen in<br />
Germania, quante case. / Dei Sassoni, dice rassicurante / caso mai svicolasse tra le nebbie / un’ombra di recluso nel<br />
suo gabbano. / No non c’ero mai stato in Sachsenhausen. // E gli altri allora – mi legge nel pensiero – / quegli altri<br />
carponi fuori da Stalingrado / mummie di già soldati / dentro quel sole di sciagura fermo / sui loro anni aquilonari…<br />
dopo tanti anni / non è la stessa cosa? // Tutto ingoiano le nuove belve, tutto – / si mangiano cuore e memoria queste<br />
belve onnivore. / A balzi nel chiaro di luna s’infilano in un night».<br />
147
memoria alterna i dati ambientali, al vuoto, comodo travestimento metafisico e<br />
filosofico, il male di una storia sbagliata e di una società <strong>che</strong> non sembra imparare nulla<br />
dai suoi errori. Il senso di colpa conduce ad un doloroso j’accuse <strong>che</strong> il poeta rivolge a<br />
se stesso, mentre si accorge <strong>che</strong> le sorti dell’uomo sono escluse dai movimenti naturali<br />
(«tornino o no sole e prato coperti»). Con tali parole si precisa definitivamente la<br />
distanza già marcata all’inizio con la «ressa là fuori di margherite e ranuncoli» (corsivo<br />
nostro).<br />
La scrittura di Sereni si configura come vera e propria scrittura del disastro, per<br />
citare Blanchot: 86 Stella variabile guida il poeta e il lettore verso la conoscenza di un<br />
negativo <strong>che</strong> alberga nell’io e nelle cose. Un poeta <strong>che</strong> sente come imminente la morte,<br />
<strong>che</strong> vive continui sensi di colpa, manie suicide (si pensi a Paura prima e Paura<br />
seconda), e l’emergere di stralci di storia, brandelli del proprio passato, <strong>che</strong> la nevrosi<br />
interpreta come emblemi dell’esistenza e del tempo presente.<br />
Dopo In una casa vuota, an<strong>che</strong> in Sarà la noia la banalità del male è percepita<br />
drammaticamente in un interno familiare. Nella casa (luogo interno e chiuso, sospeso<br />
nell’attesa), siamo al limite di uno spazio umano e abitabile. Il <strong>lingua</strong>ggio emerge dalla<br />
lontananza per esistere come momento di decentramento dell’io e di ricomposizione di<br />
un tessuto esistenziale lacerato dalle violenze della guerra, vissuta come prigionia e ora<br />
come memoria dei crimini nazisti. Lo spazio <strong>che</strong> la poesia apre nel tempo permette di<br />
rielaborare uno stato di cose <strong>che</strong> da soggettive si fanno oggettive e contingenti, per<br />
esprimere un valore morale collettivo. Alla base di ogni rapporto si pone il conflitto, <strong>che</strong><br />
è interno al <strong>lingua</strong>ggio stesso e <strong>che</strong> permette al poeta di annientare i concetti della realtà,<br />
per fare emergere un’alterità profonda e inquieta:<br />
Sarà la noia<br />
dei giorni lunghi e torridi<br />
ma oggi la piccola<br />
Laura è fastidiosa proprio.<br />
Smettila – dico – se no…<br />
con repressa ferocia<br />
torcendole piano il braccino.<br />
Non mi fai male non mi fai<br />
male, mi sfida in cantilena<br />
guardandomi da sotto in su<br />
petulante ma già<br />
86 Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, cit.<br />
148
in punta di lacrime,<br />
non piango nemmeno vedi.<br />
Vedo. Ma è l’angelo<br />
nero dello sterminio<br />
quello <strong>che</strong> adesso vedo<br />
lucente nelle sue bardature<br />
di morte<br />
e a lui rivolto in estasi<br />
il bambinetto ebreo<br />
invitandolo al gioco<br />
del massacro.<br />
149<br />
(Sarà la noia, in Stella variabile)<br />
In questa poesia vediamo ripetersi il meccanismo, già precedentemente osservato, di un<br />
fatto quotidiano e totalmente marginale <strong>che</strong> diventa il punto in cui si concentra una<br />
riflessione sul senso della storia e del male:<br />
La guerra oggi è dappertutto, in un certo senso. […] Invece di esplosione<br />
si potrebbe parlare di implosione, cioè di qual<strong>che</strong> cosa <strong>che</strong> avviene all’interno<br />
di noi stessi, nell’ambito apparentemente pacifico nel quale viviamo e <strong>che</strong> si<br />
esprime in forme di violenza <strong>che</strong> non sono quelle della guerra. 87<br />
Si passa dalla rappresentazione delle cose alla loro interpretazione, attraverso un<br />
correlativo psichico <strong>che</strong> affonda le radici in un passato <strong>che</strong> non è stato completamente<br />
superato, e <strong>che</strong> riemerge, come un fantasma, come una dichiarazione di esistenza più<br />
forte dell’esistenza stessa. La situazione familiare, tesa tra la noia e l’irritazione, di un<br />
padre infastidito dai piccoli dispetti della figlia, ben presto si trasforma in altro.<br />
L’essenzialità e la banalità della situazione iniziale accentuano, per contrasto, il senso<br />
storico di un male latente nelle cose e nei gesti di tutti i giorni. Il presente si conferma<br />
come durata di un’esperienza <strong>che</strong> non ha più nulla di autobiografico, ma in cui permane<br />
l’emozione <strong>che</strong> le cose hanno provocato nell’io. 88 Si genera così uno slittamento<br />
87 Vittorio Sereni in AA.VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, cit., p. 51.<br />
88 L’esperienza della durata è concretamente corroborata attraverso una proliferazione dei gerundi e delle forme<br />
aggettivali del participio presente: «torcendole», «guardandomi», «invitandolo», «petulante», «lucente». Così Maria<br />
Laura Baffoni Licata, Stella variabile di Vittorio Sereni: alternanza ossimorica di luci e ombre, cit., p. 133: «Questa<br />
tendenza del verso ad allungarsi è an<strong>che</strong> messa in evidenza, da un punto di vista più propriamente grammaticale, da<br />
una decisa inclinazione all’uso di gerundi quali: “triturando”, “mordendo”, “indugiando”, “parendo”, “cercando”,<br />
“svoltando”, e di participi presenti: “osservante”, “trascorrente”, “cangiante”, “sventolante”, “reiteranti”, “vocianti”,<br />
– di modi verbali,cioè, <strong>che</strong>, promuovendo una durata nel tempo, vengono a corroborare l’aspetto paratattico del<br />
verso». Ma si legga an<strong>che</strong> Maria Antonietta Grignani, La linea metafisica nella poesia italiana del Novecento: esiti di<br />
fine millennio, in AA.VV., «Vaghe stelle dell’Orsa…». L’«io» e il «tu» nella lirica italiana, a cura di Francesco Bruni,<br />
Venezia, Marsilio, 2005, p. 352: «Mi sembra <strong>che</strong> oggi si sia ridotta, rispetto al grande modello montaliano, l’intensità<br />
e la forza con cui vengono pronunciate le presenze nominali <strong>che</strong> rinviano agli oggetti, mentre è il sistema verbale a<br />
dominare, in inarcature e forzature rilevanti perfino in poeti, come Sereni, alieni dalla deformazione linguistica. Il<br />
verbo cede spesso alle proprie forme nominali (infinito, ma soprattutto participi e gerundi); i futuri, magari anteriori,
emotivo, un soprassalto o un trauma accentuato dal contrasto, <strong>che</strong> il lettore stesso<br />
percepisce, tra il presente e i fatti <strong>che</strong> la memoria involontaria fa riemergere. Il<br />
«bambinetto ebreo» è qui un duplicato della figlia di Sereni, uno dei tanti fantasmi <strong>che</strong><br />
abitano la sua mente. Il «gioco / del massacro» dal passato è giunto sino a noi e ha<br />
assunto una forma <strong>che</strong> lo dissimula. La memoria qui non è legata ad un paesaggio o ad<br />
un volto, è legata a un gesto senza storia, il gesto del sopruso e della violenza del più<br />
forte sul più debole: non si tratta del ricordo di una violenza passata, perché quel gesto<br />
apparentemente innocuo è lo stesso del passato <strong>che</strong> ritorna. Ma un passato <strong>che</strong> ritorna è<br />
un passato <strong>che</strong> non se n’è mai veramente andato: dopo il superamento<br />
dell’autobiografismo assistiamo all’abolizione della stessa memoria. Sembra ritornare la<br />
lezione fenomenologica di Merleau-Ponty, secondo cui «Percepire non è esperire una<br />
moltitudine di impressioni <strong>che</strong> condurrebbero con sé ricordi capaci di completarle.<br />
Bensì veder scaturire da una costellazione di dati un senso immanente, senza il quale<br />
nessun appello ai ricordi è possibile. Ricordare non è ricondurre sotto lo sguardo della<br />
coscienza un quadro del passato a sé stante, ma tuffarsi nell’orizzonte del passato e<br />
svilupparne a poco a poco le prospettive racchiuse finché le esperienze <strong>che</strong> esso<br />
riassume siano come vissute di nuovo al loro posto temporale. Percepire non è<br />
ricordare». 89<br />
L’intersezione dei piani già evocata per il Diario d’Algeria, l’idea della poesia come<br />
percezione della realtà, <strong>che</strong> abbiamo precedentemente messo in relazione con le<br />
riflessioni di Merleau-Ponty, richiamano la «costellazione carica di tensioni» di cui<br />
parla Benjamin: ora si può davvero realizzare un più compiuto concetto di storia, <strong>che</strong><br />
risente, forse, della lettura dello stesso Benjamin, secondo cui «Lo storicismo postula<br />
un’immagine “eterna” del passato, il materialista storico un’esperienza unica con<br />
esso». 90 Per questo Sereni non procede attraverso l’uso di un tempo passato, bensì<br />
attraverso un presente, reso fulminante dall’uso dell’avverbio «adesso» con funzione di<br />
deittico temporale, indicante un’azione durativa nel presente: «Vedo. Ma è l’angelo /<br />
nero dello sterminio / quello <strong>che</strong> adesso vedo». È l’immagine di una crisi, il lampo di<br />
una nevrosi installata nella coscienza. Il concetto di Jetztzeit (attualità), espresso da<br />
alludono alla sensazione <strong>che</strong> il presente, luogo a partire dal quale normalemente si forma l’idea di futuro, sia già<br />
passato».<br />
89 Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 58.<br />
90 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 84.<br />
150
Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia, emerge dalla «continuità della storia» 91<br />
per realizzare compiutamente il passaggio dalla recensione della realtà alla sua<br />
interpretazione. 92<br />
Da questi flash, <strong>che</strong> rileggono l’esperienza soggettiva nel suo reagire all’interno della<br />
forma poetica, nasce una particolare visione delle cose («io veggente di colpo» scrive In<br />
una casa vuota, e poi «adesso vedo» in Sarà la noia): una visione <strong>che</strong> sembra<br />
realizzarsi attraverso un cannocchiale rovesciato, <strong>che</strong> tutto distanzia. Il passato,<br />
emergendo nel presente, inevitabilmente crea una distanza, anziché colmarla. 93 Il poeta<br />
guarda lontano, ma guarda soprattutto da lontano («là» è il deittico spaziale <strong>che</strong> marca<br />
la distanza). La visione entra nel turbine delle affermazioni e negazioni <strong>che</strong> determinano<br />
un approccio instabile col reale, <strong>che</strong> si confonde col sogno e con l’ossessione («nuove<br />
ombre mi inquietano <strong>che</strong> intravedendo non vedo», Lavori in corso, I). Se la poesia è il<br />
luogo dell’apocalisse, della rivelazione, lo è all’interno di una fenomenologia del<br />
negativo, <strong>che</strong> mette in discussione le cose e la struttura stessa del testo, il soggetto e<br />
l’oggetto. Si arriva a minare i fondamenti stessi dell’essere e del tempo:<br />
Non vorrai dirmi <strong>che</strong> tu<br />
sei tu o <strong>che</strong> io sono io.<br />
Siamo passati come passano gli anni.<br />
Altro di noi non c’è qui <strong>che</strong> lo specimen<br />
anzi l’imago perpetuantesi<br />
a vuoto –<br />
e acque ci contemplano e vetrate,<br />
ci pensano al futuro: capofitti nel poi,<br />
postille sempre più fio<strong>che</strong><br />
91 Ivi, p. 83. Si legga a questo proposito an<strong>che</strong> Laura Barile, Il passato <strong>che</strong> non passa. Le «poeti<strong>che</strong> provvisorie»<br />
di Vittorio Sereni, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 191-200.<br />
92 Cfr. Walter Benjamin, Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, cit., p. 28: «un evento vissuto è<br />
finito, o perlomeno è chiuso nella sola sfera dell’esperienza vissuta, mentre un evento ricordato è senza limiti, poiché<br />
è solo la chiave per tutto ciò <strong>che</strong> è avvenuto prima e dopo di esso».<br />
93 Si legga quanto scrive Franco Rella, Dall’esilio. La creazione artistica come testimonianza, Milano, Feltrinelli,<br />
2004, p. 94: «Non si può ricomporre il passato infranto in un ordine. […] Il problema non è ricomporre il passato, ma<br />
redimerlo. Tale redenzione secondo Benjamin è possibile solo nell’istante, nell’ora, in cui un frammento di ciò <strong>che</strong><br />
viviamo si intrama con un frammento del passato, e nella tensione <strong>che</strong> si apre tra loro, nella loro differenza, si<br />
sprigiona il senso dell’ora e dell’allora. L’attimo si carica così di tempo fino a scoppiare, e diventa storia. Benjamin<br />
chiama questo attimo l’ora della conoscibilità. Ma noi sappiamo <strong>che</strong> proprio dell’attimo non è possibile fare storia».<br />
Gli attimi di Sereni non sono emblemi di riscatto e salvezza e quando in Un posto di vacanza IV scrive <strong>che</strong> è<br />
«custode non di anni ma di attimi», indica l’impossibilità di leggere e interpretare la vita come una totalità omogenea<br />
cronologicamente e razionalmente interpretabile, ma piuttosto come un succedersi di eventi, <strong>che</strong> hanno abitato in noi,<br />
ma <strong>che</strong> ora sono già altrove. Non c’è ordine, ma discontinuità e contraddizione. Da Nietzs<strong>che</strong> in poi i tentativi di<br />
percepire il senso della discontinuità della storia sono numerosi, e si potrebbero citare Benjamin stesso, o Foucault, e<br />
Sereni percepisce il senso doloroso di questa vita <strong>che</strong> non è più storicizzabile, non è più possibile raccontarla, ma<br />
soltanto scriverla: «Non scriverò questa storia – mi ripeto, se mai / una storia c’era da raccontare» (Un posto di<br />
vacanza II): «Avendo scritto: non scriverò questa storia debbo essermi illuso di avere una storia da raccontare.<br />
Invece era un modo per dire <strong>che</strong> avevo una poesia da scrivere e <strong>che</strong>, potendo, avrei continuato a scriverla. Il<br />
corrispondente dell’altra riva doveva essersi offeso, non mi esortava più alle storie. […] Ho detto: è la fine di tutte le<br />
storie, forse della storia stessa» (Vittorio Sereni, Poesie, cit., pp. 742-743).<br />
151
multipli vaghi di noi quali saremo stati.<br />
(Altro posto di lavoro, in Stella variabile)<br />
Il punto di vista qui si concentra sulla percezione di un cambiamento, <strong>che</strong> ha reso l’io<br />
qualcosa di incerto dal punto di vista dell’esserci: «specimen», «imago», «postille<br />
sempre più fio<strong>che</strong>», «multipli vaghi», la cui esistenza è complicata dall’uso del futuro<br />
anteriore, un futuro <strong>che</strong> in qual<strong>che</strong> modo è già passato, e <strong>che</strong> mette in crisi la dialettica<br />
tra essere e non essere, tra ciò <strong>che</strong> è stato e ciò <strong>che</strong> non è ancora.<br />
È an<strong>che</strong> uno sguardo proiettato su un’«altra riva», è l’ipotesi di una poesia <strong>che</strong><br />
«allacci nome a cosa». In Un posto di vacanza la visione ricade nel gioco di<br />
affermazioni e negazioni, tentativi sempre sull’orlo del fallimento; lo sguardo, mezzo<br />
privilegiato di conoscenza del mondo, conosce la sconfitta, quando la vista è ingannata,<br />
per così dire, da effetti ottici <strong>che</strong> danno origine ad una prospettiva falsata, sghemba,<br />
imperfetta. Il poemetto è percorso da continui richiami allo sguardo, alla visione, <strong>che</strong> si<br />
confonde col sogno e l’allucinazione, con una sovrapposizione di immagini, di voci, di<br />
suggestioni, <strong>che</strong> rendono il senso del caos, della frantumazione e della precarietà di ogni<br />
possibilità conoscitiva:<br />
Pensavo, niente di peggio di una cosa<br />
scritta <strong>che</strong> abbia lo scrivente per eroe, dico lo scrivente come tale,<br />
e i fatti suoi le cose sue di scrivente come azione.<br />
Non c’è indizio più chiaro di prossima vergogna:<br />
uno osservante sé mentre si scrive<br />
e poi scrivente di questo suo osservarsi.<br />
(Un posto di vacanza, V, in Stella variabile)<br />
La vista rischia di perdere peso, capacità speculativa, rischia di diventare voyeurismo,<br />
sguardo privo di una qualsiasi valenza conoscitiva: «Sarei io dunque il superstite<br />
voyeur, uno scalpore» e «l’occhio intento / all’attraversamento» non può più allacciare<br />
nome a cosa, come aveva ipotizzato, perché «ombre», «colori», «attimi» sono «freddati<br />
nel nome <strong>che</strong> non è / la cosa ma la imita soltanto». La parola poetica non deve<br />
determinare logicamente la realtà, come tenta di fare il <strong>lingua</strong>ggio filosofico, ma<br />
spogliarsi di ogni pretesa descrittiva e dare forma ad una realtà altra, da cui scaturisca<br />
una nuova coscienza. 94 Parlare della realtà non vuol dire riprodurla in modo mimetico:<br />
94 Occorre ridefinire il valore dell’imitazione, nel rapporto tra soggetto e realtà. Parlando della pittura di Franco<br />
Francese Sereni scrive: «“imitare” – termine altrimenti sospetto – significa dunque “collocarsi accanto”: assecondare<br />
152
superati i limiti dell’io, la conoscenza per via poetica deve guardare oltre i semplici<br />
fenomeni, pena il cadere vittima di un gioco di specchi, <strong>che</strong> confonde la realtà. La<br />
struttura della materia è complessa, come dinamico e brulicante di vita è l’universo, e lo<br />
sguardo del poeta, se vuole andare in profondità, deve affrontare la realtà da più punti<br />
prospettici, cogliendone il carattere mutevole:<br />
Un sasso, ci spiegano,<br />
non è così semplice come pare.<br />
Tanto meno un fiore.<br />
L’uno dirama in sé una cattedrale.<br />
L’altro un paradiso in terra.<br />
Svetta su entrambi un Himalaya<br />
di vite in movimento.<br />
(Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />
Nel testo <strong>che</strong> rappresenta la summa della poetica sereniana, un catalogo della sua<br />
esistenza e della sua scrittura, viene messo in crisi il presupposto classico della<br />
conoscenza e dell’arte.<br />
Sereni prende definitivamente le distanze dai vincoli della mimesi del reale: la res<br />
cogitans (il soggetto) non descrive soltanto, ma interpreta la res extensa (l’oggetto),<br />
secondo una prospettiva storica e non astorica. Egli porta a compimento un percorso <strong>che</strong><br />
aveva intrapreso a partire da Gli strumenti umani:<br />
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte.<br />
Nemmeno io volevo questo <strong>che</strong> volevo ben altro.<br />
Si fanno versi per scrollare un peso<br />
e passare al seguente. Ma c’è sempre<br />
qual<strong>che</strong> peso di troppo, non c’è mai<br />
alcun verso <strong>che</strong> basti<br />
153<br />
(I versi, in Gli strumenti umani)<br />
La conoscenza si lega, da questo momento in poi, a un «progetto / sempre in<br />
divenire», mai compiutamente realizzato, <strong>che</strong> va oltre l’orizzonte stesso della poesia,<br />
perché ormai lo sguardo rivela i suoi limiti, il suo relativismo, le sue contraddizioni.<br />
Contro le lusinghe di una poetica autoreferenziale e vana, uno «specchio ora uniforme e<br />
la natura per come viene a noi e ci si manifesta, […] non imporre dall’esterno una forma al fenomeno e nemmeno<br />
subirla (copiarla) dal fenomeno, ma lasciare <strong>che</strong> questo agisca, condividerlo e interpretarlo, cioè restituirlo dopo<br />
averne organizzato le trasformazioni in noi» (Vittorio Sereni, Franco Francese. La bestia addosso, Milano,<br />
All’insegna del pesce d’oro, 1976, pp. 7-8). Non copiare, dunque, ma «collocarsi accanto» alla realtà per interpretarla<br />
è lo scopo della poesia dello stesso Sereni.
immemore», la parola di Sereni si pone in relazione con il futuro, con l’utopia e con la<br />
condizione dell’uomo in un tempo di incertezze e crisi:<br />
Ne fu colto<br />
il disegno profondo<br />
nel punto dove si fa più palese<br />
– non una storia mia o di altri<br />
non un amore nemmeno una poesia<br />
ma un progetto<br />
sempre in divenire sempre<br />
«in fieri» di cui essere parte<br />
per una volta senza umiltà né orgoglio<br />
sapendo di non sapere.<br />
(Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />
Nel poemetto (uno dei punti più avanzati di speculazione poetica), il rapporto con la<br />
realtà è regolato da geografie variabili e prospettive mentali incrinate, all’interno di un<br />
sistema di segni sospesi tra la minaccia e lo spaesamento. Il poeta cammina sul rovescio<br />
della medaglia, vive ai bordi di una realtà composita e instabile: <strong>che</strong> è come dire <strong>che</strong><br />
vive sul rovescio della poesia, immerso in una congerie di frammenti e s<strong>che</strong>gge di voci,<br />
immagini, pensieri fissati sulla pagina, <strong>che</strong> già cedono al buio. Allo stesso tempo ne<br />
accetta i rischi e i limiti, per raggiungere una profondità <strong>che</strong> si pone come una<br />
possibilità futura, mai compiuta. Il «disegno profondo» è, allora, un «progetto» di<br />
conoscenza, <strong>che</strong> non può essere conoscenza in sé («Amare non sempre è conoscere»),<br />
perché per Sereni c’è sempre un al di là, un oltre, un altrove dell’io e del mondo in cui il<br />
potenziale psichico del gesto poetico continua a battere il terreno, inseguendo una<br />
traccia «oltre il paesaggio». 95<br />
95 Cfr. Vittorio Sereni, Infatuazioni, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 132: «Ma è<br />
come la montagna di Cézanne: astratta nella sua ripetuta presenza, indicibilmente viva nel suo arioso riproporsi. […]<br />
Solo adesso comprendo <strong>che</strong> come un viso mi era stato preannuncio, portatore, segnacolo di un paesaggio, così è di<br />
questo rispetto ad altro <strong>che</strong> incomincio a intravedere. Ben oltre il paesaggio».<br />
154
3.3.<br />
FORTINI E SERENI:<br />
TRA OLTRANZA E REVERSIBILITÀ<br />
Nella prefazione all’edizione francese di Stella variabile, Fortini sostiene <strong>che</strong> Sereni<br />
«dice due verità», una «psicologica e storica» <strong>che</strong> testimonia degli avvenimenti della<br />
vita del poeta e dell’Italia, l’altra, invece, <strong>che</strong> «annuncia un al di là della poesia», una<br />
dimensione in cui «trionfa la morte». 1 Fortini sembra leggere e interpretare Sereni<br />
attraverso alcuni versi <strong>che</strong> riassumono lo snodo centrale della propria poetica. È<br />
immediato dunque il rimando a «uno è il tempo ma è di due verità» (La poesia delle<br />
rose, 2, in <strong>Una</strong> volta per sempre), <strong>che</strong> si trova a reagire con quanto aveva già messo in<br />
evidenza in Il tarlo:<br />
Voce minima promessa<br />
invisibile verità<br />
scricchiolío dell’alto tempo<br />
quanta calma sugli occhi lavati.<br />
Confidenza della fine<br />
per udirti quanto silenzio.<br />
(Franco Fortini, Il tarlo, in Poesia e errore)<br />
<strong>Una</strong> verità giace in superficie, l’altra invece è un’«invisibile verità», <strong>che</strong> proviene dal<br />
silenzio di un «alto tempo», e diventa «confidenza della fine». Fortini delinea così un<br />
sistema di segni in rapporto con il passato e con il futuro sino al loro limite estremo, <strong>che</strong><br />
preannuncia un nuovo inizio. 2 A questo proposito, proprio Sereni individua un tratto<br />
1 Si legga Franco Fortini, La plage et la sibylle. Une lecture de Sereni, in Vittorio Sereni, Étoile variable, traduit<br />
de l’italien par Philippe Renard et Bernard Simeone, préface de Franco Fortini, Paris, Verdier, 1987, pp. 7-8:<br />
«Comme toute vraie poésie, celle de Sereni dit deux vérités. La première psychologique et historique, édifie un<br />
protagoniste, un réseau de rapports, une fabula. La seconde dit quelque chose qui dépasse l’organisme littéraire,<br />
organe de sa phonation. Dans sa première vérité, la voix que nous nommons Sereni témoigne d’événements profonds<br />
et de tensions tout au long d’un demi-siècle d’histoire d’une nation tragique, l’Italie, mal comprise par l’Europe […].<br />
Dans sa seconde vérité, au contraire, sous des apparences urbaines et quotidiennes, elle annonce un au-delà de la<br />
poésie: dans cette voix – pas du tout étrange, voire “normale” – triomphe la mort. Contrairement à son contemporain<br />
Luzi ou à son cadet Zanzotto, Sereni n’assigne à la poésie aucune mission salvatrice». Si veda an<strong>che</strong> Franco Fortini,<br />
Verso il valico, in Nuovi saggi italiani, cit., pp. 170-178.<br />
2 E così Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 119: «Il passato può essere distrutto e superato solo nella<br />
misura in cui se ne sia distrutto e superato, in quel lungo processo <strong>che</strong> è una rivoluzione, il dominio sociale, in tutte le<br />
sue forme». La rivoluzione (o, meglio, la speranza della rivoluzione) è dunque un processo <strong>che</strong> genera una rottura, un<br />
crollo, come il lento ma costante lavoro del tarlo.<br />
155
fondamentale della poetica fortiniana nell’«ascensionalità», 3 ma egli, a differenza di<br />
quest’ultimo, non scorge nella morte un’ottimistica prospettiva di futuro: il presente per<br />
Sereni «è sentito come ripetizione e commemorazione del passato», 4 e lo slancio verso<br />
l’oltre della poesia avviene nell’estrema difficoltà e problematicità esistenziali di chi<br />
non scorge una meta sicura, pur continuando a cercare «un’altra possibilità di vita, un<br />
altro poter essere sul quale fondare il progettare, caratteristica dell’essere umano». 5 In<br />
Fortini, invece, c’è il senso di una «attesa di morte <strong>che</strong> tuttavia è an<strong>che</strong> proiezione nel<br />
futuro, un futuro <strong>che</strong> può collegarsi al passato, non solo personale, e inverarne, sia pure<br />
tragicamente, la “speranza”». 6 La possibilità di un avvenire convive con qualcosa di<br />
tragico, per cui l’al di là non si sviluppa positivisticamente come necessaria<br />
continuazione del presente, ma si configura come rottura del sistema individuale e<br />
sociale, e l’altra verità sorge dalle scorie di una realtà sofferente.<br />
Le due strade sono complementari: «in Sereni l’auto-distruzione è totale, non<br />
dialettica», c’è un’assolutezza psicologica <strong>che</strong> neutralizza la prospettiva del domani in<br />
una serie di «illusioni volontarie e nean<strong>che</strong> troppo credute», 7 mentre quella di Fortini «è<br />
una distruzione <strong>che</strong> conserva» 8 e <strong>che</strong> si proietta in una prospettiva <strong>che</strong> fa rientrare il<br />
futuro in un meccanismo di morte-rigenerazione, in cui si può realizzare la rivoluzione,<br />
cioè il cambiamento:<br />
Come ci siamo allontanati.<br />
Che cosa tetra e bella.<br />
<strong>Una</strong> volta mi dicesti <strong>che</strong> ero un destino.<br />
Ma siamo due destini.<br />
Uno condanna l’altro.<br />
Uno giustifica l’altro.<br />
Ma chi sarà a condannare<br />
o a giustificare<br />
noi due?<br />
(Franco Fortini, A Vittorio Sereni, in Questo muro)<br />
3 Vittorio Sereni, Un destino, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia, cit., p.<br />
167.<br />
4 Pier Vincenzo Mengaldo, Divagazioni in forma di lettera, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e<br />
testimonianze sulla sua poesia, cit., p. 138.<br />
5 Giuliano Ladolfi, Vittorio Sereni. Il “prigioniero”, cit., p. 14.<br />
6 Pier Vincenzo Mengaldo, Divagazioni in forma di lettera, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e<br />
testimonianze sulla sua poesia, cit., p. 138.<br />
7 Franco Fortini, Ancora per Vittorio Sereni, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 206. E aggiunge: «An<strong>che</strong> da questo<br />
punto di vista è notevole l’assenza, in Sereni, di tracce visibili di Marx e di Freud e di qualsiasi eredità cristiana. […]<br />
Mi chiedo se i suoi così insistiti processi di iterazione e di specularità,ossia di duplicazione dell’io, non siano il<br />
correlativo retorico di una dimensione temporale sentita e vissuta sempre più come circolare. Il “rimando” rende<br />
“perfetto il cerchio”, non c’è più differenza vera fra lo jeri e il domani».<br />
8 Pier Vincenzo Mengaldo, Divagazioni in forma di lettera, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e<br />
testimonianze sulla sua poesia, cit., p. 148.<br />
156
Come i «due destini», an<strong>che</strong> le «due verità» si condannano e giustificano l’una con<br />
l’altra. Più <strong>che</strong> di speranza si dovrebbe quindi parlare di un’ipotesi di speranza, <strong>che</strong> non<br />
deriva da una verità, ma procede verso la verità, 9 annuncia un al di là e tuttavia non si<br />
apre a possibilità falsamente ottimisti<strong>che</strong>. 10<br />
Ecco allora <strong>che</strong> per Sereni l’ottica del futuro appare specularmente rovesciata nel<br />
ritorno, secondo una tendenza a «vivere nel “prima” e così testimoniando del nostro<br />
orribile “dopo”». 11 Ciò trova nel dato biografico il punto di partenza di un discorso<br />
vòlto «a riprodurre momenti, a reimmetter[s]i in situazioni trascorse al fine di dar loro<br />
un seguito». 12 A partire dal dopoguerra e da Gli strumenti umani l’indagine poetica di<br />
Sereni si lega maggiormente alla ricognizione di luoghi <strong>che</strong> fanno parte ormai della sua<br />
coscienza storica, <strong>che</strong> egli cerca di interrogare per coglierne una vibrazione di senso da<br />
opporre alla precarietà del presente, vissuto come scempio e separazione. Si conferma la<br />
«reciprocità di una persona e del paesaggio <strong>che</strong> l’accompagna», 13 come accadeva già in<br />
Frontiera, ma ora senza sintonia, e con il senso di una ferita profonda <strong>che</strong> si riapre. Il<br />
tempo lavora sottraendo e levando, sgretolando e diminuendo e l’autore si trova ad<br />
essere «monco […] della parte <strong>che</strong> […] teneva riuniti luogo e persona», per questo egli<br />
va «in direzione opposta». 14 Lo sguardo si rivolge al passato, ai luoghi e alle atmosfere<br />
della giovinezza di Frontiera, e poi al presente, sul quale agisce ancora il trauma<br />
dell’esclusione storica del Diario, con una «sorprendente continuità-fedeltà alle proprie<br />
ragioni anteriori»: 15<br />
Ora ogni fronda è muta<br />
compatto il guscio d’oblio<br />
perfetto il cerchio.<br />
(Vittorio Sereni, Solo vera è l’estate e questa sua, in Diario d’Algeria)<br />
9 Cfr. Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, Roma, Fazi, 2006, p. 28.<br />
10 Si legga ad esempio un passo della prefazione a Insistenze: «Il lettore non man<strong>che</strong>rà di notare quante volte<br />
questi scritti si concludano su di un gesto di “oltre”, in qual<strong>che</strong> modo ottimistico o ortativo. Vorrei non si sospettasse<br />
qual<strong>che</strong> idiota “se ieri è andata male, domani andrà meglio”: vita e storia non giocano gironi di ritorno. E nean<strong>che</strong> vi<br />
si leggesse uno dei consueti processi di rivalsa apocalittica o di “nobiltà morale” <strong>che</strong> sono propri degli sconfitti.<br />
Quelle conclusioni vorrebbero invece mostrarsi, come ipotesi e interrogativi. Coloro <strong>che</strong>, per tale ottimismo, mi<br />
accuseranno di incoscienza, mostrando a dito le fosse e i tormenti dei nostri anni, non sanno (o io non ho saputo dirlo)<br />
in vetta a quanto pessimismo biologico e storico ho dovuto salire per riproporre queste insistenze» (Franco Fortini,<br />
Insistenze, Garzanti, Milano, 1985, p. 10).<br />
11 Franco Fortini, Oltre il paesaggio, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 182.<br />
12 Vittorio Sereni, Dovuto a Montale, in Gli immediati dintorni; ora in La tentazione della prosa, cit., p. 148.<br />
13 Franco Fortini, Oltre il paesaggio, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 183.<br />
14 Vittorio Sereni, Infatuazioni, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 132.<br />
15 Massimo Grillandi, Sereni, cit., p. 67.<br />
157
La poesia di Sereni ha origine da questa distanza e dalla ricerca di un contatto <strong>che</strong> viene<br />
a mancare. Tuttavia questi temi dall’evidente valenza simbolica sono sempre<br />
strettamente legati ad una realtà concreta e al contempo sentimentale, «un universo<br />
perpetuamente in conflitto, alle prese con la propria subliminarità». 16 Sereni non può,<br />
citando Ungaretti, «ardere d’inconsapevolezza» e la parola <strong>che</strong> «cerca e tenta e ancora si<br />
rassegna» (Finestra) è l’espressione di un io cambiato, il cui sguardo sulla natura<br />
produce una speranza già risolta in disperazione. A nulla vale chiedere all’amore di<br />
restare saldo e di non cedere, all’amicizia di difenderci:<br />
La splendida la delirante pioggia s’è quietata,<br />
con le rade ci bacia ultime stille.<br />
Ritornati all’aperto<br />
amore m’è accanto e amicizia.<br />
E quello, <strong>che</strong> fino a poco fa quasi implorava,<br />
dall’abbuiato portico brusìo<br />
romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:<br />
volti non mutati saranno, risaputi,<br />
di vecchia aria in essi oggi rappresa.<br />
An<strong>che</strong> i nostri, fra quelli, di una volta?<br />
Dunque ti prego non voltarti amore<br />
e tu resta e difendici amicizia.<br />
(Vittorio Sereni, Anni dopo, in Gli strumenti umani)<br />
L’andamento e la scelta lessicale dell’incipit sembrano spostare la datazione della lirica,<br />
come se si trattasse di una sorta di remake post-dannunziano o neocrepuscolare, come se<br />
le cose da Frontiera a qui non fossero cambiate. Sereni pare rievocare le parole <strong>che</strong><br />
chiudevano la presentazione delle Poesie del 1942, in cui affidava il libro «alla cordiale<br />
memoria degli amici», ma ora, nell’invocazione finale, amore e amicizia vengono<br />
personificati nel tentativo di renderli assoluti, di sottrarli alla contingenza del momento<br />
storico, o an<strong>che</strong> alla precarietà della memoria <strong>che</strong> si trova a fare i conti col passato.<br />
An<strong>che</strong> lo stile partecipa della confusione di chi, tornato all’aperto dopo il delirio della<br />
guerra, deve recuperare il tempo perduto degli anni in cui non ha veramente vissuto e,<br />
nell’emergenza memoriale di una vita precedente il conflitto e di volti una volta<br />
conosciuti, invoca al proprio fianco amicizia e amore, <strong>che</strong> garantiscano l’accordo<br />
dell’essere con la realtà. Tuttavia, come in una moderna versione del mito di Orfeo, la<br />
salvezza è precaria, si risolve in inutile preghiera, in una tensione discorsiva alla quale è<br />
16 Così Massimo Grillandi, Sereni, cit., p. 12.<br />
158
affidata la traduzione dell’inquietudine: «Dunque ti prego non voltarti amore / e tu resta<br />
a difenderci amicizia», ma amore e amicizia sono già abbandono, mentre dal passato<br />
emergono presenze non ben identificate, volti tra i quali l’io riconosce an<strong>che</strong> se stesso,<br />
con un gioco di specchi <strong>che</strong> lascia filtrare nel discorso poetico una prospettiva falsata e<br />
ambigua. Il rimanere abbarbicato ai segni del passato e del presente, non produce le<br />
allegorie cari<strong>che</strong> di promesse <strong>che</strong> troviamo in Fortini, ma permette di scovare gli angoli<br />
in cui ancora si arrotola la vita. La precarietà dell’esistenza è declinata secondo la<br />
minima speranza <strong>che</strong> i piccoli eventi quotidiani e le cose della storia superino la fragilità<br />
dell’effimero attraverso la poesia, sino a giungere ad esiti se non universali (o generali,<br />
come per Fortini) almeno esistenziali. Qui amore e amicizia sono gli strumenti umani di<br />
cui l’autore si serve per ristabilire un legame concreto con le forze elementari <strong>che</strong> danno<br />
un senso alla vita e <strong>che</strong> sono già minacciate dal pericolo di scivolare nello squilibrio e<br />
nel vuoto degli anni lontani. Si fa evidente lo smarrimento dell’io di fronte a rapporti<br />
<strong>che</strong> anni dopo appaiono cambiati di senso, a causa dello stravolgimento sociale e<br />
ideologico <strong>che</strong> l’intellettuale sperimenta nella realtà industriale neocapitalistica. Se il<br />
passato è irrecuperabile, il percorso esistenziale si confronta con l’angoscia calma di<br />
«una pena senza pianto», 17 mentre la gioia appare «staccata da tutto», 18 insufficiente a<br />
proporsi come strumento utile ad una qualsiasi trasformazione sociale, in un mondo<br />
bruciato da una noia <strong>che</strong> lascia solo le ceneri della speranza:<br />
Che aspetto io qui girandomi per casa,<br />
<strong>che</strong> s’alzi un qual<strong>che</strong> vento<br />
di novità a muovermi la penna<br />
e m’apra a una speranza?<br />
Nasce invece una pena senza pianto<br />
né oggetto, <strong>che</strong> una luce<br />
per sé di verità da sé presume<br />
– e appena è un bianco giorno e mite di fine inverno.<br />
Che spero io più smarrito tra le cose.<br />
Troppe ceneri sparge attorno a sé la noia,<br />
la gioia quando c’è basta a sé sola.<br />
(Vittorio Sereni, Le ceneri, in Gli strumenti umani)<br />
17<br />
Altra variante, nello stesso giro d’anni, della «disperazione / calma, senza sgomento» (Congedo del viaggiatore<br />
cerimonioso) di Caproni.<br />
18<br />
Andrea Zanzotto, Per Vittorio Sereni, in Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., p. 52.<br />
159
La gioia e la spensieratezza giovanili non bastano: del passato non conta più la<br />
dimensione sentimentale, ma la distanza e la lontananza. 19 Il principio speranza è da<br />
cercarsi in una dimensione scentrata, o addirittura viene sostituito dalla Scoperta<br />
dell’odio, in cui il fuoco purificatore è l’unico mezzo <strong>che</strong> permette di discernere il bene<br />
dal male. L’io non può risolvere il rapporto tra sé e l’altro con la gioia e con l’amore,<br />
perché «la gioia quando c’è basta a sé sola» (Le ceneri) e «l’inveterato errore» è stato<br />
«credere <strong>che</strong> d’altro non vi fosse acquisto <strong>che</strong> d’amore» (Scoperta dell’odio). I tempi<br />
non sono più aperti ad un confronto su valori positivi e quindi l’autore, con un evidente<br />
ammiccamento a Fortini, «Insiste <strong>che</strong> conta più della speranza l’ira / e più dell’ira la<br />
chiarezza» (<strong>Una</strong> visita in fabbrica). Non c’è spazio per l’idillio, il paesaggio ha perduto<br />
la sua capacità evocativa, il suo potenziale rappresentativo della profondità psichica ed è<br />
ridotto a «un bianco giorno e mite di fine inverno» (Le ceneri). Per vedere chiaramente<br />
sembra necessario prendere congedo dal mondo e immergersi in una dimensione <strong>che</strong><br />
esiste «fuori dallo sguardo immediato» (A un compagno d’infanzia, II), per sviluppare<br />
una nuova «disposizione verso la realtà», 20 in cui le cose «rivivranno / con altro suono e<br />
senso» (A un compagno d’infanzia, I). Così nell’ultimo testo della raccolta, La spiaggia,<br />
alla presenza si sostituisce l’assenza, all’amore la morte, al silenzio la parola proiettata<br />
al futuro:<br />
Sono andati via tutti –<br />
blaterava la voce dentro il ricevitore.<br />
E poi, saputa: - Non torneranno più -.<br />
Ma oggi<br />
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato<br />
quelle toppe solari... Segnali<br />
di loro <strong>che</strong> partiti non erano affatto?<br />
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.<br />
I morti non è quel <strong>che</strong> di giorno<br />
in giorno va sprecato, ma quelle<br />
toppe d’inesistenza, calce o cenere<br />
pronte a farsi movimento e luce.<br />
Non<br />
dubitare, – mi investe con la sua forza il mare –<br />
parleranno.<br />
(Vittorio Sereni, La spiaggia in Gli strumenti umani)<br />
19 Cfr. Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 153.<br />
20 Ivi, p.158.<br />
160
Nella dinamica del contrasto tra elementi opposti, al «Sono andati via tutti» e al «Non<br />
torneranno più» 21 si alterna il «loro <strong>che</strong> partiti non erano affatto»; alle «toppe solari» le<br />
«toppe d’inesistenza, calce o cenere» e subito dopo «movimento e luce»; al «zitti quelli<br />
al tuo voltarti» la voce del mare <strong>che</strong> promette: «parleranno». Fortini aveva inteso queste<br />
immagini «come parti latenti della realtà storico-sociale», ma an<strong>che</strong> «parti della<br />
esperienza del soggetto-autore […] ammutolito dalla fine di ogni mandato sociale». 22<br />
Alcuni anni prima Pasolini aveva scritto «ma io non sono morto, e parlerò» (A uno<br />
spirito, in La religione del mio tempo), stabilendo il ruolo <strong>che</strong> l’io poetico doveva avere<br />
all’interno della società come principale fautore dell’azione civile opposta alla cultura<br />
della morte. 23 La prospettiva in Sereni è notevolmente cambiata, perché l’io con la sua<br />
parola non può sperare di forzare la realtà, ma soltanto cercare un rapporto diverso con<br />
essa: anziché stabilire la fine delle esistenze individuali, i morti attendono una rinascita,<br />
una possibilità di esistenza. 24 Solo uscendo da sé e legando il proprio destino a quello<br />
dei trapassati si può ancora sperare di resistere alla fine. La poesia si nutre di<br />
contraddizioni e dissonanze: il discorso si svolge all’interno di un meccanismo di<br />
decostruzione del reale, <strong>che</strong> dal concreto («questo tratto di spiaggia») scivola verso<br />
l’astrazione di una condizione mentale inquieta e “altra” (le «toppe solari», le «toppe<br />
d’inesistenza» 25 ), in cui alla iniziale voce blaterante dentro un ricevitore si oppone la<br />
parola forte del mare, <strong>che</strong> invita a «Non / dubitare» e a continuare a coltivare la<br />
speranza. Da una parte emerge una realtà minacciata da una alterità incombente, <strong>che</strong><br />
21 Si possono a questo proposito ricordare alcune poesie di Giorgio Caproni, in cui la situazione di abbandono<br />
sembra senza via di scampo, e in cui viene negata ogni possibilità di comunicazione con l’altro da sé, o con i morti:<br />
«Nessuno m’ha richiamato / – nessuno - indietro» (Scalo dei fiorentini, in Congedo del viaggiatore cerimonioso &<br />
altre prosopopee); «Sono partiti tutti. / Hanno spento la luce, / chiuso la porta, e tutti / (tutti) se ne sono andati / uno<br />
dopo l’altro. / […] / – di tanti – non c’è più nessuno / col quale amorosamente / poter altercare?» (Lasciando Loco, in<br />
Il muro della terra).<br />
22 Franco Fortini, Ancora per Vittorio Sereni, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 205.<br />
23 Cfr. Nicoletta Diasio, «Il bel paese dove il no suona». L’invective à l’Italie dans trois poèmes de Pasolini,<br />
Sereni et Caproni, in AA.VV., L’invective. Histoire, formes, stratégies, actes du colloque international des 24 et 25<br />
novembre 2005, a cura di Agnès Morini, Saint-Étienne, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2006, p. 301:<br />
«face à l’omniprésence de la mort, d’une culture de la mort, "io non sono morto", dit le poète, "e parlerò"».<br />
24 Cfr. Franco Fortini, La plage et la sibylle, cit., p. 12: «Ce sont les morts […] qui proposent à nouveau comme<br />
valeur et devoir absolus l’identité nue des choses […]. Ainsi, la foi irrationnelle en l’intransitivité des existences<br />
individuelles confère à une valeur négative une valeur absolue. Toutefois, cette position semble depassée dans le<br />
dernier poème du recueil, «La plage» […]. Ce sont les jours qui sont partis, les événements, les hommes en apparence<br />
disparus mais qui attendent de renaître; […]. Les parties de la réalité qui n’ont pas jusqu’alors pleinement existé, […]<br />
sont dès maintenant appelées à une existence».<br />
25 Sono immagini <strong>che</strong> sembrano richiamare le bruciature e le ustioni delle opere di Alberto Burri, immagini di<br />
lacerazioni a metà strada tra essere e non essere, tra dimessa condizione esistenziale e sublime rivelatore.<br />
161
contro ogni logica parla e si muove, dall’altra è proprio questa alterità fuori fuoco e<br />
fuori senso <strong>che</strong> sembra proporre la sola parola positiva, proiettata al futuro. 26<br />
In Stella variabile la decostruzione del reale si traduce in scomposizione dei piani<br />
spazio-temporali. La realtà e le categorie <strong>che</strong> la inquadrano vengono rovesciate e risolte<br />
in un’ambigua compresenza di esistenza e inesistenza, mentre l’io poetico si definisce<br />
come «trapassante» e concentra in sé un sentimento straniante di non appartenenza:<br />
«Insomma l’esistenza non esiste»<br />
(l’altro: «leggi certi poeti,<br />
ti diranno<br />
<strong>che</strong> inesistendo esiste»).<br />
Scollinava quel buffo dialogo più giù<br />
di un viottolo o due<br />
alla volta del mare.<br />
Fanno di questi discorsi<br />
nell’ora <strong>che</strong> canicola di brutto<br />
i ragazzi Cioè? – mi dicevo<br />
scarpinando per quelle petraie –.<br />
Proprio non ha senso<br />
se non per certi trapassanti amari<br />
quando si stampano per sempre in loro<br />
interi pezzi di natura<br />
gelandosi nelle pupille.<br />
Ma ero<br />
io il trapassante, ero io,<br />
perplesso non propriamente amaro.<br />
(Vittorio Sereni, In salita, in Stella variabile)<br />
Nella dimensione perturbante <strong>che</strong> ne deriva si radicalizza la lotta contro il nulla, <strong>che</strong> in<br />
Autostrada della Cisa assume i tratti del rito del passaggio della soglia spazio-<br />
temporale. La poesia procede «di là dal valico», sul terreno ambiguo ed ellittico di<br />
«quell’altra vita», <strong>che</strong> è data dallo stratificarsi dei tempi nel tempo lungo della memoria,<br />
<strong>che</strong> si pone come l’unica verità e preannuncia, nella simultaneità e convertibilità delle<br />
epo<strong>che</strong> stori<strong>che</strong>, il «raggiungimento, in un domani non lontano, di una propria “città del<br />
sole”»: 27<br />
26 Cfr. Franco Fortini, Di Sereni, in Saggi italiani, e ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 645: «Chi «parlerà»? Non<br />
soltanto il poeta […]. Ma già parlano i distanti, i lontani, gli avvenire. In una certa misura: i vendicatori». E si legga<br />
an<strong>che</strong> Mengaldo, Da una prigione, in Giudizi di valore, Torino, Einaudi, 1999, p. 121: «Geloso della propria<br />
individualità, Sereni sa però <strong>che</strong> questa non esiste se non modellata e offesa dalla società in cui vive: a questa oppone<br />
non tanto i viventi quanto i morti e l’utopia: sono i morti <strong>che</strong> «parleranno», ultima parola di La spiaggia, la grande<br />
poesia <strong>che</strong> chiude la raccolta». Da questa parola finale emerge una «volontà eroica, patetica e ingenua, di continuare a<br />
riproporre i valori in un contesto <strong>che</strong> li rende paradossali e li smentisce. […] L’io della Spiaggia continua invece a<br />
vedere i “segnali” an<strong>che</strong> quando la “voce saputa” <strong>che</strong> “blatera nel ricevitore” sembra negarne l’esistenza» (Guido<br />
Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p.178).<br />
27 Così Maria Laura Baffoni Licata, Stella variabile di Vittorio Sereni: alternanza ossimorica di luci e ombre, cit.,<br />
p. 134.<br />
162
Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –<br />
sappilo <strong>che</strong> non finisce qui,<br />
di momento in momento credici a quell’altra vita,<br />
di costa in costa aspettala e verrà<br />
come di là dal valico un ritorno d’estate.<br />
Parla così la recidiva speranza, morde<br />
in un’anguria la polpa dell’estate,<br />
vede laggiù quegli alberi perpetuare<br />
ognuno in sé la sua ninfa<br />
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi<br />
nella piana assetata il palpito di un lago<br />
fare di Mantova una Tenochtitlán.<br />
(Vittorio Sereni, Autostrada della Cisa, in Stella variabile)<br />
Questa Tenochtitlán è il «paese nuovo», in cui «cominciare ex novo», di cui parlava in<br />
Pantomima terrestre (Gli strumenti umani), dove i lampi e il temporale si opponevano<br />
all’«insensatezza estiva», <strong>che</strong>, col suo tempo statico e abbagliato, anticipava i «miraggi»<br />
e il «colore del vuoto» di Autostrada della Cisa. Ciò <strong>che</strong> è passato oltre i limiti del<br />
tempo sarà per Sereni materia viva di conoscenza, saranno le «toppe solari», i «segnali»<br />
di cui parlava in La spiaggia:<br />
Sono segnali di luce, ma di una luce tutta interna, anzi di una realtà prima<br />
ignota <strong>che</strong> s’illumina dall’interno di sé, mediante un proprio specifico<br />
<strong>lingua</strong>ggio <strong>che</strong> l’artista ha percepito. […] In questa serie di vere e proprie<br />
apparizioni e rivelazioni, <strong>che</strong> hanno dietro e non fuori di sé una fonte<br />
luminosa, nel loro screziarsi, raggrumarsi, distendersi in strati, in superfici<br />
assolate e calme, oppure in striature tormentate e intermittenti, cogliamo lo<br />
sviluppo di una metamorfosi spontanea della materia in eloquio. 28<br />
I «segnali di luce», e le «superfici assolate» calme e tormentate allo stesso tempo, si<br />
ritrovano an<strong>che</strong> in Altro compleanno:<br />
A fine luglio quando<br />
da sotto le pergole di un bar di San Siro<br />
tra cancellate e fornici si intravede<br />
un qual<strong>che</strong> spicchio dello stadio assolato<br />
quando trasecola il gran catino vuoto<br />
a specchio del tempo sperperato e pare<br />
<strong>che</strong> proprio lì venga a morire un anno<br />
e non si sa <strong>che</strong> altro un altro anno prepari<br />
passiamola questa soglia una volta di più<br />
sol <strong>che</strong> regga a quei marosi di città il tuo cuore<br />
e un’ardesia propaghi il colore dell’estate.<br />
(Vittorio Sereni, Altro compleanno, in Stella variabile)<br />
28 Vittorio Sereni, Morlotti e un viaggio, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 120.<br />
163
Sereni assume come definitiva l’incertezza dell’esistere, e la consapevolezza del non-<br />
sapere («e non si sa <strong>che</strong> altro un altro anno prepari»). L’autore parla da un tempo<br />
liminare e compiuto («fine luglio», ma an<strong>che</strong> il compleanno del titolo), in cui la luce<br />
assoluta del sole restituisce l’essenza delle cose, rendendole oggetti psichici speculari al<br />
«tempo sperperato»: così il «colore del vuoto» (Autostrada della Cisa) qui si<br />
concretizza nell’immagine del «gran catino vuoto» di San Siro, <strong>che</strong>, a sua volta,<br />
reagisce con il «colore dell’estate». Alle forme immerse nel tempo della storia si oppone<br />
la stasi dell’opera senza tempo: 29 la poesia è un movimento vitale <strong>che</strong> non si compie in<br />
un’unica direzione o in un unico momento, ma <strong>che</strong> ci accompagna per tutta la nostra<br />
esistenza e <strong>che</strong> ci svela a tratti la verità latente delle cose. 30 Il poeta-osservatore deve<br />
cercare di fare emergere l’essenza al di là della luce e delle ombre, <strong>che</strong>, definendo lo<br />
spazio tridimensionale, sanciscono l’inevitabile distanza tra le parti, tra ciò <strong>che</strong> è al di<br />
qua e ciò <strong>che</strong> è al di là. L’immagine cresce emotivamente e il senso si moltiplica,<br />
eludendo la scissione fra io e realtà: «trasecola» indica un al di là del tempo e dello<br />
spazio, ovvero il passaggio verso un altro mondo. Si arriva progressivamente alla<br />
significazione assoluta di versi <strong>che</strong> concretizzano l’accettazione di un transito obbligato<br />
(«passiamola questa soglia una volta di più»). L’intravedere dell’autore è consapevole<br />
<strong>che</strong> il vero sguardo è quello <strong>che</strong> va oltre la superficie e sa cogliere il “contenuto<br />
rappresentativo” delle cose, la loro profondità psichica e filosofica, cioè poetica: lo<br />
stadio di San Siro, per intenderci, non è ciò <strong>che</strong> si vede, ma l’emozione <strong>che</strong>, fissata nella<br />
29 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit.,<br />
p. 237: «è in Stella Variabile <strong>che</strong> il nichilismo del poeta, giunto allo stadio terminale, finisce per distruggere né più né<br />
meno <strong>che</strong> l’articolazione del tempo, e la speranza in un futuro diverso dal presente <strong>che</strong> risarcisca almeno i venturi, se<br />
non più noi stessi».<br />
30 A questo proposito appare significativo il fatto <strong>che</strong> le parole di Altro compleanno siano in certo qual modo il<br />
risultato di riflessioni <strong>che</strong> Sereni aveva elaborato già nel lontano 1946, in una lettera a Alessandro Parronchi, in cui<br />
evocando l’anno trascorso dal suo ritorno dalla prigionia scrive: «Ma questi sono stati giorni di spreco del poco di<br />
vivo <strong>che</strong> rimane ancora in me. Davvero quest’appendice burocratica alle peripezie militari non ci voleva ed è stato un<br />
altro anno sciupato, con prospettive non troppo liete per il prossimo […]. In queste condizioni […] non so proprio <strong>che</strong><br />
cosa possa uno combinare di buono. E dire <strong>che</strong> la voglia di vivere e di godere, se non atro, esplode a tratti<br />
pericolosamente in me dopo aver sonnecchiato per circa tutto un anno dopo il ritorno. Ora ho davanti l’estate con lo<br />
sgomento <strong>che</strong> sempre m’è nato con lei e una specie di volontà distruttiva e febbrile» (Vittorio Sereni, Un tacito<br />
mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 36, p. 109). E in un’altra lettera<br />
scrive: «Ho cercato di reagire leggendo, terrorizzato dall’inoltrarsi della stagione verso quel punto <strong>che</strong> rappresenta la<br />
mia morte annuale e <strong>che</strong> coincide di solito col tempo di chiusura delle scuole e della partenza per le vacanze.<br />
Nemmeno quest’anno so bene dove andare a finire […]. I pochi momenti in cui mi sono illuso di fare qualcosa con la<br />
fede di farlo e di arrivare fino in fondo senza sfiducia, si sono spenti istantaneamente. E ancora una volta mi vedo<br />
ridotto in quell’annullamento <strong>che</strong> in altri periodi mi ha permesso di tornare alla poesia» (Vittorio Sereni, Un tacito<br />
mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 72, p. 209).<br />
164
mente, riemerge in luce e colore. 31 Ritornano quelle Infatuazioni, <strong>che</strong> chiudono Gli<br />
immediati dintorni:<br />
Ma è come la montagna di Cézanne: astratta nella sua ripetuta presenza,<br />
indicibilmente viva nel suo arioso riproporsi. Il grembo di una medesima<br />
vallata mi si apre nuovo e diverso, un già noto pendìo è assolato di futuro.<br />
Solo adesso comprendo <strong>che</strong> come un viso mi era stato preannuncio,<br />
portatore, segnacolo di un paesaggio, così è di questo rispetto ad altro <strong>che</strong><br />
incomincio a intravedere. Ben oltre il paesaggio. 32<br />
Questa «ripetuta presenza» tende ad un’estrema e stordente visione della fine del<br />
tempo 33 in cui la prospettiva storica viene fissata in un eliotiano still point. Non può<br />
sfuggire il contrasto tra questa idea e il concetto stesso di futuro, <strong>che</strong> presuppone la<br />
diacronia; ma siamo, come sempre, all’interno di un sistema ellittico e contraddittorio,<br />
in cui ciò <strong>che</strong> «si apre nuovo e diverso», ciò <strong>che</strong> appare «assolato di futuro», è «il<br />
grembo di una medesima vallata», «un già noto pendìo». La soglia va passata non una<br />
volta per sempre (per riprendere il titolo fortiniano), ma «una volta di più»: il tempo è<br />
ritorno, è ripetizione, e Sereni, <strong>che</strong> già in Gli strumenti umani si sentiva «espulso dal<br />
futuro» (Pietà ingiusta), è an<strong>che</strong> estraneo ad una visione organica del passato, e non può<br />
fare altro <strong>che</strong> essere «custode non di anni ma di attimi» (Un posto di vacanza, in Stella<br />
variabile). 34 Nessuna certezza, né <strong>che</strong> ci si volga all’indietro, né <strong>che</strong> si guardi in avanti<br />
(traguardare e intravedere sono verbi sereniani assai significativi). In questo modo si<br />
determina quell’essere oltre il tempo <strong>che</strong> è un essere fuori dal tempo, un’esclusione:<br />
Dove sarà con chi starà il sorriso<br />
<strong>che</strong> se mi tocca sembra<br />
sapere tutto di me<br />
passato futuro ma ignora il presente<br />
se tento di dirgli quali acque<br />
per me diventa tra palmizi dune<br />
e sponde smeraldine<br />
– e lo ribalta su uno ieri<br />
di incantamenti scorie fumo<br />
31 L’esistere è sospeso tra una possibilità futura e il nulla, <strong>che</strong> come la luce accecante, sembra cancellare il tempo<br />
realizzando «le sentiment d’une solitude définitive et de l’immersion dans le Grand Vide […]. Ici, l’être et le néant<br />
coexistent sans dialectique, et ils concourent à supprimer l’historie» (Franco Fortini, La plage et la sibylle, cit., pp.<br />
16-17).<br />
32 Vittorio Sereni, Infatuazioni, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 132.<br />
33 Si legga an<strong>che</strong> quanto scrive Franco Fortini in La plage et la sibylle, cit., p. 15.<br />
34 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit.,<br />
p. 223: «la durata è rotta o dagli eventi stessi o dall’incertezza dell’io, o invece si cristallizza, impedendo mobilità e<br />
scorrevolezza». E a p. 225: «La ripetizione in Sereni è un fenomeno bivalente, anzi contraddittorio. Perché per un<br />
verso realizza o indica l’appagante, anzi costruttiva continuità di sé con sé medesimo, ma per l’altro la frustrante<br />
impossibilità del mutamento, psicologicamente la prigionia nella coazione a ripetere (non senza connotati<br />
masochistici)».<br />
165
o lo rimanda a un domani<br />
<strong>che</strong> non m’apparterrà<br />
e di tutt’altro se gli parlo parla?<br />
(Vittorio Sereni, Traducevo Char, VII, in Stella variabile)<br />
Il tempo frantumato è una contemporaneità fatta di lacerti <strong>che</strong> si rimandano<br />
vicendevolmente, si ripetono senza <strong>che</strong> li si possa risolvere nell’unità di una visione<br />
sicura del presente. Considerato in prospettiva lo sguardo di Sereni abbraccia una<br />
doppia temporalità: una <strong>che</strong> fa emergere la poesia dal tempo storico e <strong>che</strong> si risolve in<br />
non-appartenenza e in non-essere, l’altra <strong>che</strong> va invece contro il tempo e contro la storia<br />
(«sol <strong>che</strong> regga a quei marosi di città il tuo cuore» in Altro compleanno) e <strong>che</strong> ipotizza<br />
un’altra dimensione dell’essere. Sono due punti di vista complementari, come le due<br />
interpretazioni <strong>che</strong> se ne possono dare: una è quella di Mengaldo, secondo cui «i nessi<br />
fra passato e futuro sono rovesciati o resi immobili, e nell’immobilizzarsi del tempo il<br />
futuro si riduce a puro s<strong>che</strong>rmo bianco senza nessuna connotazione salvifica o<br />
utopica»; 35 la seconda è quella di Fortini, <strong>che</strong> invece legge l’immobilizzarsi del tempo<br />
sereniano come realizzazione «della resurrezione per ritorno alla origine», 36 tema <strong>che</strong><br />
egli stesso sviluppa in un testo della sua ultima raccolta, in cui, tra l’altro, ritroviamo il<br />
tema del compiersi del tempo, ovvero del compleanno:<br />
Quella <strong>che</strong>.<br />
È ritornata questa notte in sogno.<br />
Uno dei miei compivo ultimi anni.<br />
«Sono, - le chiesi, - vicino a morire?»<br />
Sorrise come allora.<br />
«Di te so, - mi rispose, - tutto. Lascia<br />
quel brutto impermeabile scuro.<br />
Ritornerai com’eri».<br />
(Franco Fortini, Quella <strong>che</strong>…, in Composita solvantur)<br />
A questo punto la poesia deve confrontarsi con la domanda posta da Harald Weinrich:<br />
«È allora possibile definire il futur […] come la forma temporale di un’epoca <strong>che</strong> deve<br />
ancora arrivare? E i tempi verbali sono davvero “forme del tempo reale”?». 37<br />
Tracciando una divaricazione tra il «tempo sperperato» della prigionia, la sensazione di<br />
35<br />
Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., p.<br />
237.<br />
36<br />
Franco Fortini, Oltre il paesaggio, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 184.<br />
37<br />
Harald Weinrich, Tempus. Le funzioni del tempo nel testo, Bologna, il Mulino, 2004, p. 88.<br />
166
non poter appartenere a nessun futuro e la sospensione canicolare del presente, Sereni<br />
determina una visione del tempo in cui la linearità, espressa attraverso le date <strong>che</strong> si<br />
succedono, convive simultaneamente con i ritorni e le reiterazioni, per cui il tempo si<br />
definisce come qualcosa <strong>che</strong> ci si porta dentro, in cui la storia si confonde con i<br />
movimenti distruttivi della contemporaneità e l’una e gli altri si annullano.<br />
Dal canto suo Fortini reagisce ad una dimensione senza scampo, sviluppando un<br />
rapporto tra passato e futuro <strong>che</strong> libera dalla fissità del presente:<br />
I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari.<br />
La sola cosa <strong>che</strong> importa è<br />
il movimento reale <strong>che</strong> abolisce<br />
lo stato di cose presente.<br />
Tutto è diventato gravemente oscuro.<br />
Nulla <strong>che</strong> prima non sia perduto ci serve.<br />
La verità cade fuori dalla coscienza.<br />
Non sapremo mai se avremo avuto ragione.<br />
Ma guarda come già stendono le loro stuoie<br />
attraverso la tua stanza.<br />
Come distribuiscono le loro masserizie,<br />
come spartiscono il loro bene, come<br />
fra poco mangeranno la nostra verità!<br />
Di noi spiriti curiosi in ascolto<br />
prima del sonno parleranno.<br />
(Franco Fortini, Gli ospiti, in Questo muro)<br />
Il testo oppone «il movimento reale» allo «stato di cose presente», ad una verità <strong>che</strong><br />
«cade fuori della coscienza» si sostituisce l’osservazione diretta dei gesti degli ospiti,<br />
<strong>che</strong> «mangeranno la nostra verità». Fortini sembra proporre una prospettiva ben diversa<br />
rispetto a quella di Sereni: 38 quest’ultimo conclude La spiaggia con un vago<br />
«parleranno», <strong>che</strong> lascia aperto lo spazio del dubbio e dell’incertezza conoscitiva (di<br />
cosa parleranno? Di chi? Quale conoscenza o quale verità si esprimerà in quelle<br />
parole?), mentre Fortini dice chiaramente «Di noi […] parleranno», indicando in tal<br />
modo la resistenza di una parola <strong>che</strong> sopravvivrà al destino di morte, definendosi come<br />
eredità trasmissibile ai posteri. 39 In Sereni prevale un clima di attesa, in Fortini il tono si<br />
38 Così Pier Vincenzo Mengaldo, Per Franco Fortini, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., p. 308:<br />
«Fortini mira precisamente a correggere l’ottica nichilista di Sereni in nome della speranza storica: il superamento di<br />
noi da parte dei venturi non ci annulla e condanna e basta, ma an<strong>che</strong> ci adempie».<br />
39 Si legga an<strong>che</strong> quanto scrive Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, cit., p.<br />
84: «an<strong>che</strong> qui la forza della poesia è inseparabile dalla sua invalidità presente, dalla misura in apparenza circoscritta<br />
e diminuita dello sguardo del poeta. Il presente è non a caso la categoria temporale più debole in Fortini, in quanto in<br />
termini di pienezza e vera realtà il presente non è. Non è abbastanza, almeno. L’immobilità e la finitudine<br />
167
fa oracolare. Per abolire «lo stato di cose presente» l’autore deve porsi in una<br />
dimensione <strong>che</strong> sia già al di fuori, tra gli «spiriti curiosi in ascolto», da cui guardare alla<br />
vita con la sicurezza di chi ha rotto i legami con la norma e può vedere le cose libero dai<br />
condizionamenti della società. In questo senso si può interpretare la differenza<br />
linguistica tra il parlato estremamente colloquiale e abbassato di tono <strong>che</strong> troviamo in<br />
La spiaggia di Sereni e la <strong>lingua</strong> dalla «fermezza classica» 40 della poesia di Fortini, <strong>che</strong><br />
vuole affermare delle verità «prima del sonno» della ragione. Lo sguardo si volge ai<br />
limiti stessi della parola poetica, agli ostacoli <strong>che</strong> essa incontra nel suo cammino: «Tutto<br />
è diventato gravemente oscuro», e «La verità cade fuori dalla coscienza», quindi «Non<br />
sapremo se avremo avuto ragione». Al presente si sostituisce il futuro anteriore, un<br />
futuro <strong>che</strong> in qual<strong>che</strong> modo è già stato, e <strong>che</strong> complica la dialettica tra ciò <strong>che</strong> è già e il<br />
non ancora. Attraverso una dimensione sfaccettata si anticipa un tempo diverso, in cui<br />
convivono il prima e il dopo, il passato, certo, ma an<strong>che</strong> il “futuro del futuro”, il “dopo<br />
futuro”, perché anch’esso è solo una tappa di un processo <strong>che</strong> non si esaurisce. Sottratta<br />
dunque alle forme più rigide del tempo e dell’essere <strong>che</strong> ingabbiano il reale, ridotta a<br />
puro pensiero, la scrittura stessa si rivela in tale necessaria spoliazione: 41 «Nulla <strong>che</strong><br />
prima non sia perduto ci serve», scrive Fortini, indicando nella disappropriazione<br />
l’unica via per osservare la realtà senza infingimenti. Egli sembra volersi soprattutto<br />
liberare dalla percezione dei sensi, per attingere a una dimensione di pensiero e<br />
intelletto assoluti, <strong>che</strong> possano resistere a quel «Tutto» <strong>che</strong> è «divenuto gravemente<br />
oscuro». Il centro della poesia, an<strong>che</strong> a livello formale, è costituito dall’avversativa «Ma<br />
guarda», <strong>che</strong> lungi dall’introdurre nel dominio della vista, apre lo spazio della visione di<br />
dell’orizzonte immediato sono però la premessa di un movimento di natura diversa». Mi sovvengono, per contrasto<br />
alcuni versi dell’Idrometra di Giorgio Caproni, in cui si esprime un massimo grado di sfiducia nel futuro: «Di noi,<br />
testimoni del mondo, / tutte andranno perdute / le nostre testimonianze». L’atteggiamento di Fortini manifesta invece<br />
un intento testamentario, <strong>che</strong> è stato così descritto da Giovanni Raboni: «per non avallare il presente, <strong>che</strong> gli ripugna<br />
(e dunque, fra l’altro, per non accettare di rivolgersi, come tutti i poeti moderni, soltanto a se stesso), Fortini<br />
immagina (vuole immaginare) di rivolgersi ai posteri, <strong>che</strong>, in un futuro liberato, leggeranno i suoi versi. È chiaro <strong>che</strong><br />
il futuro grammaticale è solo un sintomo – una spia appunto – di questa volontà. Fortini, in un certo senso, diventa<br />
egli stesso quei posteri; ne prefigura e ne adotta il punto di vista; ne simula il distacco, il raccapriccio, l’ironica<br />
comprensione, la fredda pietà» (Giovanni Raboni, La poesia <strong>che</strong> si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico<br />
italiano 1959-2004, cit., p. 259).<br />
40 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 16: «il classicismo è assunto […] non come innocenza o evasione<br />
o ricerca di purezza, ma, tutt’al contrario, per far stridere passato e presente e per tale via ellitticamente parlare del<br />
futuro». E si legga an<strong>che</strong> Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., pp. 199-<br />
202. 41 Cfr. Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, cit., p. 85: «Credo <strong>che</strong> fosse per<br />
lui il modo di osservare il precetto del suo amato Kafka, secondo cui per scrivere è prima necessario perdere tutto. E<br />
appunto qui, nell’assenza di una diretta relazione sensibile con la realtà circostante nella solitudine di chi non<br />
possiede più nulla per sé, va trovata la percezione originaria delle cose da parte di Fortini. <strong>Una</strong> percezione del<br />
pensiero, dunque, piuttosto <strong>che</strong> dei sensi».<br />
168
ciò <strong>che</strong> avverrà, ma <strong>che</strong> è già realtà agli occhi della mente di Fortini, <strong>che</strong> osserva da una<br />
dimensione altra della storia, e supera i limiti del reale (inteso come insieme di<br />
percezioni sensibili). 42 Il significato non è limitato alla contemporaneità della scrittura,<br />
ma si rivolge soprattutto a chi prenderà il nostro posto («già stendono le loro stuoie /<br />
attraverso la tua stanza»), a chi stabilirà nuove regole, forse an<strong>che</strong> una nuova<br />
concezione del bene e del male («distribuiscono le loro masserizie», «spartiscono il loro<br />
bene»): a tutti coloro <strong>che</strong> verranno dopo di noi la «nostra verità» si offrirà come cibo e<br />
nutrimento.<br />
Nella contemplazione delle sorti dell’uomo tutto tende verso un punto limite in cui il<br />
presente è figura del futuro, ma simultaneamente lo sguardo si immerge nella profondità<br />
storica e mitica di un tempo lontanissimo. In questo processo dinamico dei tempi dentro<br />
al tempo gioca un ruolo centrale quel meccanismo poetico, <strong>che</strong> Mandel’štam chiamava<br />
reversibilità o retrovertibilità, per cui, come in un ciclo continuo, il passato produce i<br />
suoi effetti sul presente e questo sul futuro. Per Fortini la reversibilità si sviluppa in<br />
senso etico e politico, poiché «ognuno di noi è composto di morti e di venturi, dunque<br />
attraversato da una corresponsabilità universale», 43 in cui «la scala di valori per la quale<br />
si agisce nel presente trova la sua legittimità»: 44<br />
Anassagora giunse ad Atene<br />
<strong>che</strong> aveva da poco passati i trent’anni.<br />
Era amico d’Euripide e Pericle.<br />
Parlava di meteore e arcobaleni.<br />
Ne resta memoria nei libri.<br />
Si ascolti però quel <strong>che</strong> ora va detto.<br />
An<strong>che</strong> la grandissima Unione Sovietica e la Cina<br />
esistono, o l’Africa; e le radio<br />
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per<br />
noi <strong>che</strong> poco da vivere ci resta,<br />
<strong>che</strong> cosa sono l’Asia immensa, il tuono<br />
dei popoli e i meravigliosi nomi<br />
degli eventi, se non figure, simboli<br />
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure<br />
– si ascolti ancora – i desideri immutabili<br />
dolorosi <strong>che</strong> mordono il cuore nei sonni<br />
42 Si potrebbe parlare di insofferenza nei confronti della realtà (Cfr. Giovanni Raboni, La poesia <strong>che</strong> si fa.<br />
Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004, cit., p. 258). Si legga an<strong>che</strong> Roberto Galaverni, Il poeta è<br />
un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, cit., p. 86: «Fortini vede il qui soltanto in relazione al là, l’adesso in<br />
relazione al poi, il nunc al tunc, come un eretico di una religione della storia. A suo modo vede doppio, stravede per<br />
eccesso di pensiero».<br />
43 Franco Fortini, Di tutti a tutti, in L’ospite ingrato secondo, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 1073. Ma si<br />
legga an<strong>che</strong> Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Roma, Editori Riuniti, 1991,<br />
p. 45.<br />
44 Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 16.<br />
169
e del poco da vivere <strong>che</strong> resta<br />
fanno strazio felice, <strong>che</strong> cosa sono<br />
se non figure, simboli, voci,<br />
dei popoli <strong>che</strong> mutano e si inseguono,<br />
degli uomini <strong>che</strong> furono e <strong>che</strong> in noi<br />
sono fin d’ora? E così vive ancora,<br />
parlando con Euripide e con Pericle<br />
di arcobaleni e meteore, il filosofo<br />
sparito e una sera d’estate<br />
ansioso fra capre e capanne di schiavi<br />
entra ad Atene Anassagora.<br />
(Franco Fortini, Reversibilità, in Poesie inedite)<br />
Il pensiero di Fortini procede elencando fatti <strong>che</strong> si susseguono senza nessi immediati e<br />
tuttavia come se non si potesse evitare di metterli in relazione tra loro. In realtà il<br />
legame emerge progressivamente, ed è una causalità <strong>che</strong> procede per scatti e riprese,<br />
<strong>che</strong> va oltre la vita apparente e affonda le radici nella profondità del tempo lungo della<br />
storia, permettendo all’uomo di pervenire alla riflessione e alla conoscenza di sé. Ne<br />
nasce una distorsione prospettica da cui deriva un incedere nel cammino della<br />
conoscenza per colpi secchi, come le scosse di assestamento <strong>che</strong> dopo un terremoto<br />
ripristinano una situazione di equilibrio e stabilità, o <strong>che</strong>, spezzando una roccia, rivelano<br />
un fossile antico e nuovo allo stesso tempo. Un evento tellurico, una caduta, un crollo,<br />
<strong>che</strong> non tolgono significato al mondo, ma ne scoprono uno nascosto e dimenticato, <strong>che</strong><br />
andrà letto, o ri-letto, e poi interpretato. Gli echi del passato <strong>che</strong> emergono dal processo<br />
poetico fanno sì <strong>che</strong> il massimo di distanza contenga e comprenda in sé il massimo di<br />
vicinanza: l’autore mette in collegamento piani temporali apparentemente irrelati,<br />
mostrandoci qualcosa di nuovo e inaspettato, ma nello stesso tempo individuando<br />
qualcosa di antico <strong>che</strong> è giunto sino a noi, illuminandone la significazione originaria.<br />
Contro ogni forma di continuum e di linearità cronologica, il passato «vive ancora», e<br />
parlarne significa parlare del presente e del futuro, secondo il principio della<br />
sincronicità delle dimensioni temporali. 45 A questo proposito è significativo <strong>che</strong> il testo<br />
si apra al tempo passato («Anassagora giunse ad Atene»), e si chiuda sulla stessa<br />
immagine coniugata al presente («entra ad Atene Anassagora»). L’evento <strong>che</strong> fa da<br />
cornice è emblema di un tempo lontanissimo di cui non restano <strong>che</strong> deboli tracce, ma<br />
45 Si legga Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 61: «quando gli eventi sembrano smentire ogni speranza<br />
di destino o di “storia”, Fortini reagisce con un movimento <strong>che</strong> è, insieme, di resistenza e di innalzamento. E infatti<br />
più gli fanno attorno il vuoto, più la sua voce acquista vigore, e la sua difesa del passato e della memoria diventa<br />
annuncio solitario di futuro».<br />
170
tale lontananza alla fine della poesia viene superata: «Il verbo al presente porta tutto il<br />
mondo», «Il verbo al presente mi permette di scomparire» aveva scritto in Il falso<br />
vecchio, IV (in Questo muro). Il tempo di Reversibilità è un tempo circolare e<br />
infinitamente percorribile; è il tempo-serpente <strong>che</strong> si morde la coda, è la possibilità <strong>che</strong><br />
le cose tornino com’erano per diventare altro. 46 Non solo: in questa poesia Fortini<br />
rappresenta soprattutto il legame «fra la singola vita e l’intera storia umana – intesa sia<br />
come somma degli eventi passati <strong>che</strong> come stato di cose presente», ovvero egli colma<br />
quel vuoto <strong>che</strong> normalmente separa l’io e il mondo, ma an<strong>che</strong> la società e la storia,<br />
attraverso «l’esperienza dei livelli di realtà <strong>che</strong> trascendono la vita privata». 47 La<br />
Reversibilità è allora slancio etico di compenetrazione dei destini individuali e generali.<br />
Ciò non fa venire meno il carattere di «irrepetibilità, assolutezza e responsabilità del<br />
vissuto e compiuto», cioè dell’agire individuale, <strong>che</strong>, anzi, scopre in questa dimensione<br />
una responsabilità collettiva «ultratemporale», 48 <strong>che</strong> si manifesta in ciascuno di noi una<br />
volta per sempre. 49<br />
Il rapporto tra l’io e il mondo si configura non solo come legame nel tempo tra i<br />
presenti e i venturi, ma an<strong>che</strong> tra individui appartenenti a classi biologi<strong>che</strong> diverse,<br />
ovvero tra uomo e natura. Il testo con cui si apre la prima sezione di Composita<br />
solvantur ripropone e conferma questo tipo di riflessione:<br />
Qualcuno è fermo, lontano, riparte, dove<br />
la strada svolta nel bosco tra pietre e siepi.<br />
Poi rieccolo, tra le vigne, più lontano. Non vede<br />
o, se vede, non conosce più.<br />
Che sera<br />
senz’ombre, erbe, la vostra. Enorme è l’albero<br />
in aria, su chi va…<br />
E mai non era nostra<br />
la schiuma dello stagno<br />
o il ruvido lentischio, nulla avevamo compreso,<br />
non il sentiero, non il paese chiuso<br />
dove non c’era anima viva<br />
e tocca invano ai selci il passo<br />
46 Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 206: «La poesia parte dal<br />
passato, attraversa il presente e ritorna al passato. Il passato è ciò <strong>che</strong> “sparito”, come viene detto di Anassagora al v.<br />
25 – quella parte della vita <strong>che</strong> il presente non vede e di cui conserva memoria nei libri». Per un’analisi dettagliata dei<br />
contenuti e della struttura del testo si veda il capitolo La totalità e i desideri, pp. 205-215.<br />
47 Ivi, p. 208.<br />
48 Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 50: «il sapore complessivo trascende il dato di contingenza e<br />
prende il sapore di un evento ultratemporale, non extratemporale, ovvero di qualcosa <strong>che</strong> entra nell’eterno passando<br />
da una concreta dimensione storica».<br />
49 Franco Fortini, <strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie 1938-1973, cit., p. 367: «Il titolo di questa raccolta vorrebbe<br />
essere inteso tanto nel significato di “una volta per tutte”, cioè di dichiarazione e suggello, quanto in quello di<br />
irrepetibilità, assolutezza e responsabilità del vissuto e compiuto».<br />
171
del segnato da Dio.<br />
Fra poco sarà buio, sarà l’urlío<br />
d’aria, dei cani alla catena e<br />
delle piccole fiere le veloci<br />
le disperate imprese.<br />
Ma prima di rispondere di no,<br />
ecco, guardiamo ancora, vi prego, i prati<br />
dove in pianto eravamo passati,<br />
le vigne e di alti nidi immenso l’albero!<br />
E fedeli chiediamo di portare<br />
un’altra volta ancora<br />
ai mormorii della fedele mezzanotte<br />
l’intelletto delle erbe e il nostro.<br />
(Franco Fortini, Qualcuno è fermo…, in Composita solvantur)<br />
Nella prima strofa al tempo presente si alterna il passato, il momento del ricordo viene<br />
introdotto da tre punti di sospensione esattamente a metà strofa, come se le due parti<br />
fossero speculari, come se nella prima un io già postumo osservasse una scena <strong>che</strong> ha a<br />
<strong>che</strong> fare con la propria esperienza passata e riconoscesse in questa i segni di<br />
un’esistenza comune. Presente e passato si confrontano sul terreno della negatività, <strong>che</strong><br />
sembra assumere tratti simili al décor dei versi dell’ultimo Caproni: il «paese chiuso /<br />
dove non c’era anima viva» potrebbe essere scambiato per uno dei «luoghi non<br />
giurisdizionali» menzionati nell’Ultimo borgo del Franco cacciatore, <strong>che</strong> prefigurano<br />
un paesaggio di morte o <strong>che</strong> sono già morte calata nella vita. Tuttavia, la seconda strofa<br />
reagisce a questa situazione di stallo quasi con un sobbalzo, uno scotimento: mentre<br />
nella prima il passaggio dal presente al passato avveniva con la sospensione creata dai<br />
tre punti, ora lo stacco è netto, il balzo nel futuro è evidenziato graficamente dallo<br />
spazio bianco, <strong>che</strong> implica un momento di rottura con cui il futuro si inserisce<br />
bruscamente nella dinamica temporale del testo. Il verbo al futuro preannuncia segni di<br />
morte e sofferenza («Fra poco sarà buio, sarà l’urlío»), le immagini evocano scene di<br />
violenza (il vento, il latrato «dei cani alla catena» le «disperate imprese» delle «piccole<br />
fiere»): è un mondo sconvolto da una bufera notturna, quasi una «bufera infernale <strong>che</strong><br />
mai non resta». An<strong>che</strong> questa seconda strofa è mossa da una dinamica interna articolata<br />
in una struttura ben precisa, <strong>che</strong> può essere scomposta in tre scene, ognuna di quattro<br />
versi. Della prima si è già detto. Ad essa fa seguito una avversativa («Ma prima di<br />
rispondere di no, / ecco, guardiamo ancora, vi prego, i prati»), <strong>che</strong> sposta il discorso al<br />
presente e mette al centro della scena (ma di fatto dell’intera strofa) il «guardiamo<br />
172
ancora», <strong>che</strong> reitera l’azione dello sguardo e capovolge il «Non vede / o, se vede» della<br />
strofa precedente. An<strong>che</strong> il paesaggio <strong>che</strong> viene rievocato è in stretto riferimento con gli<br />
elementi menzionati all’inizio del testo: qui i prati là le erbe, poi le vigne e il grande<br />
albero. La poesia ritorna sui suoi passi, ripercorrendo sentieri già battuti, ma per<br />
scorgervi ora un significato ulteriore, prima taciuto, o ignorato. Si apre così la terza e<br />
ultima parte: gli ultimi quattro versi sono al tempo presente e sembrano una preghiera<br />
(«E fedeli chiediamo») per avvicinarci alla natura, per non esaurire la nostra esistenza<br />
nella scissione o nella negazione. Mentre nella prima strofa prevalevano gli avverbi<br />
“più” e “mai”, <strong>che</strong> rendevano assolute le negazioni («non conosce più» e «mai non<br />
era»), in questa l’avverbio “ancora” indica la possibilità di un ripetersi positivo, di una<br />
durata <strong>che</strong> si predispone a varcare la soglia del tempo umano sino a farlo coincidere con<br />
uno più ampio. Fortini congiunge elementi lontani tra loro, diverse dimensioni<br />
temporali e biologi<strong>che</strong> di cui si colgono le connessioni, 50 riconducendo i differenti piani<br />
ad un ordine organico in cui, dialetticamente, ogni parte è an<strong>che</strong> in correlazione con le<br />
altre. È significativo <strong>che</strong> la fedeltà sia un attributo comune all’uomo e alla natura (la<br />
«fedele mezzanotte»), con una personificazione <strong>che</strong> procede sino all’immagine finale, in<br />
cui la scissione si compone definitivamente in quell’unità <strong>che</strong> contiene «l’intelletto delle<br />
erbe e il nostro».<br />
Nei versi di Sereni il conflitto tra il soggetto e la realtà si risolve in una dinamica<br />
interna all’io <strong>che</strong> non approda ad una «scelta ideologica», ma si proietta<br />
psicologicamente sui referenti, tanto <strong>che</strong> si potrebbe parlare di oggetti psichici (come lo<br />
stadio di San Siro), <strong>che</strong> catalizzano la storia in un’essenza complessa e assoluta. 51 Nel<br />
percorso fortiniano, invece, il conflitto genera un’utopia <strong>che</strong> si apre ad una dimensione<br />
storica e biologica <strong>che</strong> presuppone una netta scelta etica e politica. In Fortini la<br />
reversibilità converge nel progettare un doppio percorso «A fonte e a foce!» (Il mulino<br />
della Foresta Nera, in <strong>Una</strong> volta per sempre), <strong>che</strong> è linea retta e spirale, una tensione<br />
50 Così Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 209: «La separazione,<br />
<strong>che</strong> solo un rovesciamento dello stato di cose presente può abolire nella realtà, viene scoperta e superata dal pensiero,<br />
<strong>che</strong> ricompone la totalità e mostra l’immagine vera del mondo, cogliendo le connessioni <strong>che</strong> sfuggono alla cecità<br />
dell’esperienza quotidiana».<br />
51 Per Sereni non è la «scelta ideologica» (Un sogno, in Gli strumenti umani), ma la poesia l’unico strumento in<br />
grado di registrare le variazioni morali e sociali del tempo, di darne un’interpretazione: «Sereni ha recepito<br />
soprattutto il richiamo al valore dell’esperienza vissuta: posto di fronte all’esigenza di maturare, di fare una scelta<br />
ideologica e avere un programma, Sereni oppose al rigore della ragione dialettica, <strong>che</strong> accusava di rigida astrattezza,<br />
la concretezza elastica dell’Erlebnis, e vide, nelle ideologie <strong>che</strong> proliferavano in quegli anni, delle forzature nei<br />
confronti della realtà, dei tentativi di appiattire riduttivamente le sfumature e le differenze» (Guido Mazzoni, Forma e<br />
solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p.157).<br />
173
verso un oltre <strong>che</strong> sintetizza nella dimensione intellettuale l’elemento cronologico e<br />
quello biologico. Parlare della natura è come parlare di se stessi, ma an<strong>che</strong> del mondo in<br />
generale; parlare di sé è come parlare di tutta l’umanità.<br />
174
QUARTA PARTE<br />
175
176
4<br />
UNA LINGUA CHE COMBATTE<br />
DOVE IL NIENTE DUOLE<br />
Ci sono versi <strong>che</strong> resistono all’opacità e all’imbarbarimento, a quella <strong>che</strong> Caproni<br />
chiamava bêtise («Al fuoco della bêtise, preferiamo / battere – invisibilmente – i denti»,<br />
La piccola cordigliera, o: i transfughi in Il Conte di Kevenhüller), e ci consegnano<br />
un’immagine limpida e assoluta del poeta, <strong>che</strong> sfiora il limite per descriverlo, viverlo e<br />
tramandarlo. Penna, Caproni, Fortini e Sereni nell’ultima stagione della loro vita si<br />
trovano ad intraprendere percorsi poetici in diretta relazione con la condizione<br />
dell’uomo in un tempo di incertezza e crisi.<br />
Le Stranezze e poi il Confuso sogno di Penna, gli anni Ottanta di Caproni, fino alla<br />
vertigine postuma di Res amissa, il Sereni di Stella variabile, o la strenua resistenza alla<br />
dispersione del Fortini di Paesaggio con serpente e poi di Composita solvantur – tutte<br />
raccolte dai titoli significativi di un rapporto instabile e disarmonico con la realtà – ci<br />
sottopongono alla prova della condizione ultima della letteratura.<br />
Se, come dice Gottfried Benn, la poesia è l’impronta digitale del poeta, essa pone<br />
non solo un problema linguistico, ma an<strong>che</strong> di ricerca e verifica dei valori su cui fondare<br />
il nostro essere nel mondo, nel punto in cui si manifesta l’impossibilità di esistenze<br />
ormai fuori tempo, in lotta contro la falsificazione del reale. In questo senso l’esperienza<br />
del poeta è trasgressione (etimologicamente: andare oltre, passare al di là):<br />
un gesto <strong>che</strong> concerne il limite; […] è il gesto <strong>che</strong> riconduce ognuna di<br />
queste esistenze ed ognuno di questi valori ai propri limiti, e quindi al Limite<br />
in cui si compie la decisione ontologica. 1<br />
Un percorso attraverso le ultime raccolte (in limine, ma an<strong>che</strong> postume) 2 di questi<br />
quattro autori permette di affrontare il problema del soggetto come «ente dinamico in<br />
1 Mi<strong>che</strong>l Foucault, Prefazione alla trasgressione in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 2004 (1ª ed. 1971), pp.<br />
58-60.<br />
2<br />
Per quanto riguarda la vicenda editoriale di Res amissa di Caproni curata da Giorgio Agamben, si rimanda a<br />
Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., pp. 181-232. Per quanto riguarda invece la controversa<br />
edizione di Confuso sogno di Penna, curato da Elio Pecora, si legga Antonio Girardi, Cinque storie stilisti<strong>che</strong>. Saba,<br />
Penna, Bertolucci, Caproni, Sereni, Genova, Marietti, 1987, pp. 49-65.<br />
177
mutamento continuo, con il bisogno di essere scandagliato e interpretato […] nello<br />
spazio reattivo dei rapporti sociali, là dove l’individuo si forma e si definisce a contatto<br />
con altri individui». 3 In questo spazio paradossale ma oggettivabile, la parola viene<br />
ritrovata, recuperata al rapporto tra esperienza individuale e storica, tra io e natura, in<br />
nome di una strenua fedeltà al valore critico della poesia: come scrive Blanchot,<br />
l’esperienza è «contatto con l’essere, rinnovamento di se stessi a contatto con l’essere», 4<br />
il <strong>che</strong> significa <strong>che</strong> la prova dell’essere – e dell’esserci – risulta determinante. Al<br />
contempo la parola poetica scarta ogni nostro tentativo di definizione del reale e la sua<br />
apparizione modifica il campo sul quale ci si trova ad agire e gli aggiunge significato<br />
attraverso la finzione, nelle due varianti dell’utopia e del vuoto.<br />
Per fronteggiare la tabula rasa del mondo, si deve affrontare il problema del rapporto<br />
e della frontiera tra soggetto e oggetto, parola e cosa. Il tema della frontiera e del limite<br />
<strong>che</strong> non può essere superato, ma in cui si è già, del passaggio da un’epoca a un’altra, e<br />
dalla vita alla morte, radicalizza il rapporto con l’alterità e si unisce alla necessità di una<br />
coscienza critica del presente, da contrapporre al deserto e alla pianificazione<br />
industriale, o, alla maniera di Jünger, allo «spettacolo offerto dalla civiltà e dai suoi<br />
rapporti svuotati di senso». 5 Del resto, come suggeriscono an<strong>che</strong> i titoli stessi delle<br />
raccolte, il presente è anzitutto privazione e vertigine del senso e della parola.<br />
4.1. Il presente falso e vero<br />
In una lettera a Franco Fortini del 22 ottobre 1962 Sereni parla di un «crescente<br />
sospetto circa la capacità della poesia di comunicare e di interessare», al quale segue un<br />
altro dubbio doloroso, «<strong>che</strong> uno sforzo come il mio – scrive Sereni – rimanga sterile,<br />
privo di vera forza comunicativa, schiacciato com’è tra una poesia di argomenti e una<br />
poesia nata dal paradosso dell’informale come unica forma possibile». 6 Sereni coglie i<br />
rischi e le possibilità di una poesia <strong>che</strong>, abbandonata la mimesi del reale, rimane sospesa<br />
tra la comunicazione di un contenuto oggettivo di verità e conoscenza, e la perdita di<br />
questo contenuto nel venir meno del contatto tra le parole e le cose, nello sgretolarsi del<br />
3 Ezio Raimondi, Letteratura, cit., p. 36.<br />
4 Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975, p. 69.<br />
5 Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Milano, Adelphi, 1990, p. 85.<br />
6 Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 594.<br />
178
apporto tra il soggetto e l’altro da sé: così «il tu / falsovero dei poeti» (Niccolò in Stella<br />
variabile) diventa l’emblema di una divaricazione nel rapporto tra l’io e il mondo, come<br />
aveva dichiarato an<strong>che</strong> Penna:<br />
E tutto vi parrà – ma non vi date<br />
sentimento di sorta – falso e vero.<br />
(Sandro Penna, Avete mai provato in un’aria serena…, in Poesie)<br />
I sentieri si biforcano e si possono imboccare due strade: una è quella dell’assurdo,<br />
dell’io rivolto contro se stesso, <strong>che</strong> rinuncia al logos, alla parola come veicolo di<br />
conoscenza razionale. La poesia scopre nell’a-logicità, una possibilità nuova per parlare<br />
del disumano. Il poeta non rinuncia ad interpretare la realtà, an<strong>che</strong> se essa appare priva<br />
di senso, e, se un senso si intravede, esso è propriamente un non-senso. L’altra via è<br />
invece quella più luminosa di un’apertura utopica, complementare alla fenomenologia<br />
del negativo.<br />
Nel panorama poetico italiano del ventesimo secolo il poeta forse più direttamente<br />
comunicativo e il meno propenso a cedere al negativo, Sandro Penna, svetta nel suo<br />
luminoso isolamento. Di proposito è il più arretrato, quello <strong>che</strong> rifiuta di immergersi nel<br />
magma del presente e <strong>che</strong> ha meno rapporti con il tempo in cui vive. Le poesie di Penna<br />
rimandano ad un tempo alternativo alla realtà, quello della ripetitività, del ricordo, di ciò<br />
<strong>che</strong> non muta ma <strong>che</strong> ritorna: proprio la possibilità <strong>che</strong> l’evento amoroso si riproduca<br />
infinitamente uguale riempie di sé l’attesa del futuro. Il “realismo” di Penna ha dunque<br />
pochi rapporti con l’imitazione del reale, poiché la realtà è sempre in tensione col<br />
passato, si delinea nel ricordo di momenti di cui ancora si trovano tracce nel presente e<br />
<strong>che</strong> l’autore tenta di sottrarre alla perdita e di dotare di un significato ulteriore,<br />
soprattutto in quel surrogato <strong>che</strong> è il sogno:<br />
Il caldo, il freddo, delle sale d’aspetto.<br />
Il mondo mi pareva un chiaro sogno,<br />
la vita d’ogni giorno una leggenda.<br />
(Sandro Penna, Il caldo, il freddo, delle sale d’aspetto, in Stranezze)<br />
E mi pareva<br />
– la luce d’oro era finita – in sogno<br />
di te cadere, mio confuso amore.<br />
(Sandro Penna, Era il paese della luce d’oro, in Confuso sogno)<br />
179
Il sogno è sospensione, ma è an<strong>che</strong> il sostituto della realtà: «Un altro mondo si<br />
dischiude: un sogno» recita l’incipit dell’ultima poesia di Stranezze; è lo spazio del<br />
desiderio <strong>che</strong> permette di raggiungere ciò <strong>che</strong> nella veglia sembra inattingibile, o di<br />
recuperare ciò <strong>che</strong> sembra perduto. Se la «luce d’oro» è finita, il sogno è la possibilità di<br />
ricominciare ciò <strong>che</strong> è stato interrotto, è un nuovo inizio. La dinamica onirica si riflette<br />
an<strong>che</strong> nella percezione di due realtà, una diurna e una notturna:<br />
Oh nella notte il cane<br />
<strong>che</strong> abbaia di lontano.<br />
Di giorno è solo il cane<br />
<strong>che</strong> ti lecca la mano.<br />
(Sandro Penna, Oh nella notte il cane, in Appunti)<br />
Ma è an<strong>che</strong> la distinzione tra una realtà «<strong>che</strong> non sa» (la città, il mondo severo degli<br />
adulti) e una (il fanciullo e il poeta) <strong>che</strong> invece partecipa di una bellezza sovraumana:<br />
Fanciullo tutte queste tue bellezze<br />
in questa cameretta mia borghese<br />
fra la città severa <strong>che</strong> non sa<br />
niente di tutte queste tue bellezze.<br />
(Sandro Penna, Fanciullo tutte queste tue bellezze, in Croce e delizia)<br />
In questo modo nella poesia è possibile una vita nuova e diversa, <strong>che</strong> integra la vita<br />
imperfetta della veglia, 7 o <strong>che</strong> prolunga nell’attesa i piaceri dei sensi:<br />
Trasalire dei sensi – con le vele,<br />
fuori, nel vento? – Io sogno ancora un poco<br />
(Sandro Penna, Nel sonno incerto sogno ancora un poco, in Poesie)<br />
Contro le sofferenze l’io trova salvezza e protezione nella durata dell’evento onirico,<br />
<strong>che</strong> trattiene su una soglia liminare, tra un mondo interiore, profondo, e un mondo<br />
esterno, abbozzato con tratti delicatamente superficiali, <strong>che</strong> sfiorano il vuoto da cui ha<br />
7 Si legga an<strong>che</strong> Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, Tempo e Narratività, cit., pp. 57-60: «Allora, il<br />
“sogno” è an<strong>che</strong> il presente del bisogno naturale o desiderio, come il “ricordarsi di un risveglio” è il ‘presente’ del<br />
bisogno naturale o desiderio passato: si tratta in realtà di due facce della stessa medaglia. […] Si tratta quindi del<br />
sonno <strong>che</strong> consente all’uomo, con spirito libero e libero cuore, di proiettarsi verso una vita e una cultura nuova. […]<br />
La “realtà non vince il sogno” – tanto per ricordare il Betocchi del 1932 –, perché il sogno ne è parte viva».<br />
180
origine la poesia, fermando il senso prima <strong>che</strong> scompaia. 8 Al contrario, dopo<br />
l’esperienza del Seme del piangere, in cui ancora la parola tentava di trattenere la vita<br />
(«sii poesia / se vuoi essere vita», Battendo a macchina), Caproni fonda l’estrema<br />
allegoria dell’esistenza proprio sulla Res amissa («perduta / è la parola stessa / nella sua<br />
stessa distanza», Imitazione, in Versicoli del controcaproni). Alla perdita non<br />
corrisponde alcuna speranza di salvezza o di senso nel momento onirico. Ciò <strong>che</strong> del<br />
sogno emerge è la logica ambigua <strong>che</strong> struttura i rapporti con la realtà. Il <strong>lingua</strong>ggio di<br />
Caproni rivela le bruciature e le cicatrici delle cose, quello di Penna sembra avvolgerle<br />
in una membrana protettiva composta di genericità e tensione all’assoluto, <strong>che</strong> le isola<br />
dal presente permettendogli di ignorarlo. Non c’è coincidenza tra soggetto e oggetto,<br />
quindi il tempo, sottomesso alla forza della soggettività, varca la soglia di un infinito<br />
<strong>che</strong> non è divenire ma ripetizione, mettendo in contatto l’io con una dimensione <strong>che</strong>, pur<br />
sottraendosi alla fine e proponendosi come leopardiano trampolino della finzione<br />
poetica, cela in sé una solitudine estrema: 9<br />
La mia poesia lancerà la sua forza<br />
a perdersi nell’infinito<br />
(Sandro Penna, La mia poesia non sarà, in Giovanili ritrovate)<br />
È evidente la distanza <strong>che</strong> separa Penna dagli altri autori. Egli sembra voler evitare di<br />
pensare alla propria condizione nel presente e dunque non si lascia tradurre in termini di<br />
modernità, non si vuole adeguare alla storia e alla società, non pensa a fare emergere il<br />
dissidio e nemmeno esprime il desiderio di un cambiamento. L’essere di Penna è una<br />
radicale alterità <strong>che</strong> ignora l’attualità. Se Sereni e Caproni calano il dissidio all’interno<br />
dell’io, per Penna esso resta all’esterno, non dentro, ma fuori, nel rapporto tra la sua<br />
poesia e il mondo, perciò non altera il suo fare poetico. La parola continua ad avere<br />
significato, continua a nominare le cose, senza subire cambiamenti radicali nel corso<br />
degli anni. La resa subitanea del dato sentimentale e psicologico in rapporto<br />
all’ambiente si rispecchia infatti, oltre <strong>che</strong> nella brevitas epigrammatica, nel<br />
8 Cfr. Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, in Sandro Penna, Une ardente solitude, traduit de<br />
l’italien et présenté par Bernard Simeone, Giromagny, La Différence, 1989, pp. 7-8: «la page s’emplit d’une poèsie<br />
inlassablement occupée à caresser ce vide de l’espace et du temps où le poète reconnaît le moteur (en negatif) de<br />
l’écoulement lyrique. […] il ne s’agit en aucun cas de notations furtives ou, comme on a pu parfois le prétendre,<br />
d’instantanés dérobés de façon quasi clandestine, avec la fausse culpabilité d’un pédophile tout à fait avoué. Si rapt il<br />
y a, […] naît d’une volonté d’arra<strong>che</strong>r au non-sens (plus encore que à la mort) l’éternité d’un instant».<br />
9 Ivi, p. 8: «Le temps n’est pas pour lui union du sujet et de la chose: il est épreuve d’une subjectivité vécue face<br />
au monde qui s’offre et se dérobe à la fois».<br />
181
monostilismo e nel monotematismo <strong>che</strong> forse sono una delle spie più luminose del<br />
particolare rapporto <strong>che</strong> Penna instaura tra pensiero e mondo. Nel breve giro di pochi<br />
versi la descrizione convive con una estrema resa astratta di una realtà scomposta in<br />
forma e colore, nel segno di una generale vaghezza (bellezza e indeterminatezza), quasi<br />
si trattasse di un acquarello di Kandinsky:<br />
Traversare un paese… e lì vedere<br />
<strong>che</strong>ti fanciulli ridestarsi a un soffio<br />
di musica e danzare. S’allontana<br />
forma o colore: un sogno. […]<br />
(Sandro Penna, Traversare un paese… e lì vedere, in Croce e delizia)<br />
An<strong>che</strong> «la poesia fortiniana segue un andamento tutto sommato unitario», <strong>che</strong> «non<br />
altera alcuni presupposti fondanti», differenziandosi da quella di Caproni e Sereni, «<strong>che</strong><br />
hanno percorso itinerari molto più accidentati, ricchi di svolte, di fratture, di mutamenti<br />
di registro o silenzi». 10 Questo tratto si concilia con la tensione alla totalità propria di<br />
Fortini, <strong>che</strong> pur partendo dal vissuto individuale, non si limita alla prospettiva<br />
esistenziale-biografica, ma cerca di abbracciare il mondo e il tempo. In ragione di ciò<br />
egli non riconosce all’immediatezza, tipica invece di Penna, un valore conoscitivo: 11 per<br />
Fortini la conoscenza è mediata da modelli culturali e ideologici <strong>che</strong> la collocano nella<br />
profondità del tempo e della storia. Il discorso risulta ancora più evidente se<br />
l’immediatezza di Penna viene messa in relazione an<strong>che</strong> con la sua scarsa propensione<br />
per l’attività metapoetica e critica o per l’autocommento, <strong>che</strong> invece Fortini, Sereni e<br />
Caproni integrano nello stesso fare poetico, con effetti di ampliamento e tensione del<br />
significato. 12 Così, per Sereni l’immediatezza creativa è «condizionata […] a un<br />
preliminare dibattito sull’interpretazione» 13 della realtà. Per il poeta umbro, al contrario,<br />
allontanarsi dalla realtà, ignorandone l’approccio analitico interpretativo, è il solo modo<br />
per rappresentare la vita e i suoi slanci. Il suo <strong>lingua</strong>ggio è ripiegato su se stesso, non si<br />
apre alla totalità, ma si impone come totalità. Fortini, dal canto suo, «accoppia il rigore<br />
10<br />
Elisa Gambaro, Fortini poeta, in AA.VV., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, cit., p. 58.<br />
Per un confronto tra Penna e Fortini si legga in particolare Cesare Garboli, Le poesie parallele, in AA.VV., Per<br />
Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia, cit., pp. 81-86.<br />
11<br />
Cfr. Elisa Gambaro, Fortini poeta, in AA.VV., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, cit.,<br />
p. 58: «la resa immediata del reale è illusoria, poiché misconosce <strong>che</strong> non si dà verità se non nell’ordine di una<br />
totalità necessariamente mediata».<br />
12<br />
Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Divagazioni in forma di lettera, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e<br />
testimonianze sulla sua poesia, cit., p.144.<br />
13<br />
Vittorio Sereni, Il nome di poeta, in Gli immediati dintorni, poi in La tentazione della prosa, cit., pp. 53-54.<br />
182
logico alla confusione, e fa della sua capacità di pensiero un mare impraticabile e<br />
infido», 14 allontanandosi decisamente da ogni forma di immediatezza. Il <strong>lingua</strong>ggio<br />
poetico di Fortini si articola in uno «stile da traduzione», 15 ovvero si fa trascrizione di<br />
un testo preesistente (la realtà come insieme di segni), <strong>che</strong> viene sottoposto ad una<br />
attività critica e analitica. 16 Anzitutto egli procede verso la «derealizzazione», 17 ovvero<br />
«una condizione di straniamento rispetto al reale», come spiega Lenzini, <strong>che</strong> evidenzia<br />
«la crisi del rapporto io/mondo: lo spogliarsi di senso del mondo di fronte all’io»: 18<br />
Molto chiare si vedono le cose.<br />
Puoi contare ogni foglia dei platani.<br />
Lungo il parco di settembre<br />
l’autobus già ne porta via qualcuna.<br />
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,<br />
il lavoro imperfetto e l’ansia<br />
le mattine, le attese e le piogge.<br />
Lo sguardo è là ma non vede una storia<br />
di sé o di altri. Non sa più chi sia<br />
l’ostinato <strong>che</strong> a notte annera carte<br />
coi segni di una <strong>lingua</strong> non più sua<br />
e replica il suo errore.<br />
(Franco Fortini, Molto chiare…, in Paesaggio con serpente)<br />
In contrasto con quanto annunciato nella prima strofa, nella seconda emerge l’estraneità<br />
tra l’io e il mondo, separati da uno sguardo, <strong>che</strong> «non vede una storia / di sé o di altri»,<br />
poiché il presente sembra composto di eventi sempre uguali («Ad uno ad uno tornano<br />
gli ultimi mesi»). Questa condizione annichilente si riflette nella scrittura <strong>che</strong> diventa<br />
un’attività notturna e confusa. L’io si trova ad utilizzare «una <strong>lingua</strong> non più sua»,<br />
quindi una <strong>lingua</strong> straniera, una <strong>lingua</strong> altra, approdando così all’unica vera forma di<br />
scrittura, <strong>che</strong> dichiara l’errore di chi crede <strong>che</strong> le cose si vedano chiaramente e <strong>che</strong> siano<br />
14<br />
Cesare Garboli, Le poesie parallele, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua<br />
poesia, cit., p. 83.<br />
15<br />
Franco Fortini, Foglio di via. Prefazione 1967, ora in <strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie 1938-1973, cit., p. 359.<br />
16<br />
Cfr. Giovanni Raboni, Qual<strong>che</strong> ipotesi su Fortini traduttore di poesia, «Allegoria», 21-22, anno VIII, 1996, p.<br />
177: «Se è vero […] <strong>che</strong> per Fortini il testo originale è un oggetto <strong>che</strong> chiede di essere conosciuto criticamente prima<br />
– oppure nell’atto stesso – di descriverlo o ritrarlo con altre parole, è altrettanto vero <strong>che</strong> una priorità analoga si<br />
manifesta e agisce, di regola, nel suo lavoro poetico in prima persona, dove le parti di realtà coinvolte nella singola<br />
metafora o nell’intera struttura vengono idealmente e tendenzialmente sottoposte, prima <strong>che</strong> il coinvolgimento abbia<br />
(possa avere) luogo, a un non meno approfondito e, se così si può dire, spietato trattamento analitico-conoscitivo». Si<br />
legga an<strong>che</strong> quanto scrive lo stesso Fortini a proposito della sua traduzione del Faust: «Non mi sono proposto una<br />
traduzione <strong>che</strong> avesse vita indipendente dall’originale. Ho voluto <strong>che</strong> il lettore avvertisse il rinvio continuo ad un<br />
testo anteriore, il sapore di traduzione, il suo farsi» (Franco Fortini, Introduzione a J. W. Goethe, Faust, introduzione,<br />
traduzione con testo a fronte e note a cura di Franco Fortini, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 1970, p. XII).<br />
17<br />
Franco Fortini, Metrica e biografia, «Quaderni piacentini», 2, XX, 1981, p. 111.<br />
18<br />
Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Lecce, Piero Manni, 1999, p. 62.<br />
183
“il vero”, pronto per essere scritto o detto. Tale errore non dipende solo dalla realtà<br />
esterna con la sua apparente semplicità, ma alberga sin dentro l’io, se non è guidato da<br />
una coscienza dialettica. Quando ciò avviene, lo straniamento e l’errore si trasformano<br />
in allegoria, permettendo finalmente di giungere ad una realtà ulteriore:<br />
La forza di luglio era grande.<br />
Quando è passata, è passata l’estate.<br />
Però l’estate non è tutto.<br />
(Franco Fortini, Molto chiare…, in Paesaggio con serpente)<br />
Se le cose non si vedono chiaramente e la realtà esterna non è tutto, è perché c’è una<br />
«realtà <strong>che</strong> giace al fondo» (come avrebbe detto Saba). Così come la traduzione non può<br />
ridursi ad una imitazione del testo originario, an<strong>che</strong> la poesia non produce un double<br />
della realtà, ma si volge alla percezione di un nuovo oggetto, <strong>che</strong> supera la superficie<br />
semantica del reale e ne intende il senso profondo. Attraverso la parola Fortini cerca di<br />
tradurre il mondo, ma esso, come si trattasse di un guanto <strong>che</strong> venga rovesciato, rivela<br />
una trama interna, il suo contrario, qualcosa di invisibile eppure conosciuto: dopo aver<br />
raggiunto «il nero muro», ossia il solido nulla dell’età contemporanea, <strong>che</strong> è «ferro aria<br />
tempo» (Questo muro), alla fine «la <strong>lingua</strong> <strong>combatte</strong> / dove il niente duole» (E vorreste<br />
non parlassero, in L’ospite ingrato). Alla fuga nel pathos della bellezza, <strong>che</strong> segna i<br />
versi di Penna, e da cui an<strong>che</strong> quelli di Fortini sembrano a tratti lasciarsi tentare, si<br />
contrappone il sangue sparso. L’idillio uomo-natura già intaccato dai «versi di cemento<br />
e di vetro» di Traducendo Brecht (<strong>Una</strong> volta per sempre), è spezzato dalla presenza<br />
totale della violenza. <strong>Una</strong> negatività <strong>che</strong> ha da sempre fatto parte della vita quotidiana e<br />
della storia, <strong>che</strong> nega la pietas, mentre la natura è indifferente all’orrore:<br />
Stanotte un qual<strong>che</strong> animale<br />
ha ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle<br />
<strong>che</strong> illumina un bel sole<br />
ha lasciato uno sgorbio sanguinoso<br />
[…]<br />
Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.<br />
E non è vero.<br />
Il piccolo animale sanguinario<br />
ha morso nel veleno<br />
e ora cieco di luce<br />
stride e <strong>combatte</strong> e implora dagli spini pietà.<br />
(Franco Fortini, Stanotte, in Composita solvantur)<br />
184
La realtà è doppia e ambigua: da una parte «un bel sole» e «Vedo il mare, è celeste,<br />
lietissime le vele», con un andamento e una scelta lessicale <strong>che</strong> ricordano da vicino la<br />
poesia di Penna, ma la vista dell’idillio giunge tardiva e non può illudere, perché è già<br />
stata alterata da una realtà notturna e oscura <strong>che</strong> nasconde l’orrore storico: 19 tutto<br />
partecipa di una doppia sostanza, <strong>che</strong> non si esaurisce nell’hic et nunc di una deriva<br />
nichilista, e neppure nella pacificazione degli opposti, ma tende a manifestare la sua<br />
complessità. Si deve tendere a «un senso diverso / <strong>che</strong> può darsi all’identico», attraverso<br />
una parola <strong>che</strong> resta «ferma dentro il verso» e «insieme vola via»:<br />
E io <strong>che</strong> scrivo<br />
so ch’è un senso diverso<br />
<strong>che</strong> può darsi all’identico<br />
so <strong>che</strong> qui ferma dentro il verso resta<br />
la parola <strong>che</strong> senti o leggi<br />
e insieme vola via<br />
dove tu non sei più, dove neppure<br />
pensi di poter giungere, cominciano<br />
altre montagne, invece, pianure ansiose, fiumi<br />
(Franco Fortini, Altra arte poetica, in Poesia e errore)<br />
Lenzini ha scritto: «il vero c’è, ma non questo», c’è «una verità ulteriore da opporre alla<br />
non-verità del reale»; 20 bisognerebbe dire piuttosto: uno è il vero («identico»<br />
etimologicamente significa <strong>che</strong> forma una stessa cosa con un’altra), ma è «di due<br />
verità» (La poesia delle rose, II, in <strong>Una</strong> volta per sempre), quella solare e quella<br />
notturna, il qui e l’altrove. Non bisogna assolutizzare le opposizioni, ma prendere atto<br />
<strong>che</strong> ci sono due realtà <strong>che</strong> sono complementari e <strong>che</strong> concorrono a determinare un vero<br />
<strong>che</strong> supera entrambe. Per Fortini il mondo è vero, ciò <strong>che</strong> cambia e falsifica il nostro<br />
rapporto con esso è il modo di leggerlo e di tradurlo: se la lettura è parziale, la<br />
traduzione produrrà un’immagine illusoria; se è globale potrà procedere verso quella<br />
verità ulteriore di cui parla Lenzini. E poiché la realtà non manifesta prospettive<br />
19 Così Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 69: «Insomma, due realtà: quella del sole, delle vele e del<br />
mare; e quella, opposta, del fiele, della durezza amara e sanguinaria, della crudeltà. <strong>Una</strong>, si direbbe, apparente;<br />
sostanziale l’altra». E, ancora, a p. 71: «“La storia in tutto quanto ha, fin dall’inizio, di inopportuno, di doloroso, di<br />
sbagliato si configura in un volto – anzi: nel teschio di un morto” (Benjamin). O nel morso di un “piccolo animale<br />
sanguinario”» (la citazione riportata da Luperini, è tratta da Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino,<br />
Einaudi, 1971, p. 174). E poi prosegue: «L’idea della fatalità ma an<strong>che</strong> della irrimediabilità del male si accompagna a<br />
quella di una responsabilità storica e di una necessaria punizione: a entrare in circolo – e non solo, ovviamente, nel<br />
sangue della “bestiola” e poi dopo il contagio, in quello dell’”animale” – è il veleno di un inquinamento <strong>che</strong> tutti ci<br />
riguarda». Per un commento a questa poesia si legga an<strong>che</strong> Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte<br />
di lettura, cit., pp. 202-211.<br />
20 Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., pp. 210-211.<br />
185
ivoluzionarie e la parola può mutarsi in «fede stravolta, o ira, o grido» (Al di là della<br />
speranza, in Poesia e errore), allora «la finzione è l’ultima speranza» (La realtà, in<br />
Paesaggio con serpente), e in Composita solvantur dichiara più volte l’errore, la<br />
sfasatura rispetto ad una lettura piana della realtà: «(Nulla era vero. Voi tutto dovrete<br />
inventare)» (Considero errore…, in Composita solvantur), <strong>che</strong> ricorda Penna e se ne<br />
distanzia («Amore inventa e rischia. / L’inventare / a voi solo conviene», Avete mai<br />
provato in un’aria serena…, in Poesie). L’oggetto, in altri termini, non è un assoluto<br />
intuibile e rappresentabile: ciò <strong>che</strong> può essere intuito e rappresentato per Penna è la<br />
«dolce mischia» dei sensi, mentre per Fortini la poesia può essere solo ricerca di valori<br />
(«Il dovere di Schiller è di resistere», La realtà, in Paesaggio con serpente), <strong>che</strong> non<br />
albergano nelle cose in sé, ma nella loro meta («Tutto è / tremendo ma non ancora<br />
irrimediabile», La realtà, in Paesaggio con serpente). An<strong>che</strong> Fortini trova nel sogno lo<br />
spazio per ridefinire il rapporto col reale, ma con esiti <strong>che</strong> esprimono una sicurezza<br />
acquisita e non perplessità o sospensione. Nel sogno le cose composte si dissolveranno,<br />
come recita il titolo della sua ultima raccolta, 21 <strong>che</strong> vuole an<strong>che</strong> dire <strong>che</strong> si romperanno i<br />
legami con questo mondo, tutto si capovolgerà, si trasformerà e muterà:<br />
Quella <strong>che</strong>.<br />
È ritornata questa notte in sogno.<br />
Uno dei miei compivo ultimi anni.<br />
«Sono, - le chiesi, - vicino a morire?»<br />
Sorrise come allora.<br />
«Di te so, - mi rispose, - tutto. Lascia<br />
quel brutto impermeabile scuro.<br />
Ritornerai com’eri».<br />
(Franco Fortini, Quella <strong>che</strong>…, in Composita solvantur)<br />
La figura femminile apparsa in sogno, come una nuova Beatrice dantesca, conosce tutto<br />
e preannuncia il cambiamento. Il ritorno all’origine è, dialetticamente, possibilità futura<br />
e, come la morte, predispone al ritrovamento di sé e al passaggio verso qualcosa d’altro.<br />
La «derealizzazione» significa negazione della mimesi del reale, interferenza tra realtà e<br />
surrealtà, <strong>che</strong> ha nella dialettica un modello di rappresentazione <strong>che</strong> riesce a produrre un<br />
senso contro il non-senso del nichilismo: è strumento di conoscenza, ma allo stesso<br />
21 Cosi Fortini, nelle Note <strong>che</strong> chiudono la raccolta, spiega il significato del titolo: Composita solvantur è il<br />
«comando e l’augurio [affinché] si dissolva quanto è composto, il disordine succeda all’ordine (ma an<strong>che</strong>, com’era<br />
nel vetusto precetto al<strong>che</strong>mico, si dia l’inverso)» (Franco Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 85).<br />
186
tempo an<strong>che</strong> conoscenza in sé. Essa mostra la relazione tra le parti e delle parti col tutto,<br />
offre la possibilità di scorgere «contraddizioni e identità» (Sonetto dei sette cinesi, in<br />
L’ospite ingrato) <strong>che</strong> si oppongono al nulla. Questo rapporto straniato col reale rimanda<br />
al problema ontologico. Il pensiero del non-esistere può essere paradossalmente il punto<br />
di partenza per una poetica <strong>che</strong> lotta «in modi trasversali» 22 contro la tensione verso il<br />
nulla e il non-sense:<br />
Qui stiamo a udire la sentenza. E non<br />
ci sarà, lo sappiamo, una sentenza.<br />
A uno a uno siamo in noi giù volti.<br />
Quanto sei bella, giglio di Saron,<br />
Gerusalemme <strong>che</strong> ci avrai raccolti.<br />
Quanto lucente la tua inesistenza.<br />
(Franco Fortini, Per l’ultimo dell’anno 1975…, in Paesaggio con serpente)<br />
Come nota Luca Lenzini, «i versi fortiniani insistono sul separarsi, sullo straniarsi e<br />
allontanarsi dell’io, non sull’incontro o sulla sintonia tra esistenze distinte ma<br />
fraterne». 23 Tuttavia è dalla lontananza, dalla inesistenza <strong>che</strong> comprende e completa<br />
l’esistere, <strong>che</strong> il pensiero può diventare non solo presa di coscienza, ma an<strong>che</strong><br />
sovvertimento del vuoto, attraverso un rapporto profondo con la natura, prima della<br />
dissoluzione. La natura prova su di sé gli effetti della derealizzazione e conosce perciò<br />
una dimensione sfaccettata. An<strong>che</strong> in questo caso, sulla via indicata da Garboli, il<br />
confronto con Penna può chiarire la posizione di Fortini. In Penna la natura registra i<br />
movimenti emotivi dell’io e diventa il referente della sua diversità, oggettivazione<br />
dell’altro e dell’alterità, in contrasto con un mondo <strong>che</strong> dopo il fascismo stava<br />
conoscendo lo sviluppo economico e industriale. La dimensione poetica di Penna<br />
rimanda a una realtà preindustriale, fatta di stazioni, di strade sterrate e polverose, ma<br />
soprattutto di scogli e di mare, paesaggi <strong>che</strong> risentono della consistenza e del colore<br />
dell’aria, «filtrati dallo stato d’animo dell’io lirico» e delineati «tra percezioni oggettive<br />
e figurazioni fantasti<strong>che</strong>». 24 In Fortini la natura, sebbene mantenga i caratteri di alterità,<br />
convive con questo mondo, ne fa parte e allo stesso tempo tenta di sopravvivergli e di<br />
22 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 73.<br />
23 Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini, cit., p. 185. An<strong>che</strong> secondo Enrico Testa la poesia di Fortini «riduce<br />
[…] ogni pretesa di onnicomprensiva risoluzione di quanto – ed è sempre di più – cade di là dai suoi confini; e adotta<br />
come prospettiva nei riguardi del reale e della sua assediante mole, quella della distanza» (Enrico Testa, Dopo la<br />
lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi, 2005, p. 78).<br />
24 Antonio Girardi, Cinque storie stilisti<strong>che</strong>. Saba, Penna, Bertolucci, Caproni, Sereni, cit., pp. 60-61.<br />
187
esistergli, ma difende an<strong>che</strong> da una realtà <strong>che</strong> nasconde un concentrato distruttivo<br />
totalizzante. Il rapporto tra io e natura si propone di interpretare il presente, non di<br />
ignorarlo o negarlo. 25 In una poesia del 1984 (La prossima abolizione della natura), poi<br />
inclusa, con altro titolo, in Composita solvantur, è lei a fornire ancora al poeta<br />
protezione e difesa contro l’assedio del vuoto, proponendosi come un mondo di ideali<br />
sfinito e vinto (come le utopie), ma in qual<strong>che</strong> modo salvifico:<br />
Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono:<br />
«Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi.<br />
Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,<br />
rami e radici fra le carte avranno scampo».<br />
Ho detto di sì a quella loro domanda<br />
e il gregge di foglie ora è qui <strong>che</strong> mi guarda.<br />
Con le foreste riposerò e le erbe sfinite,<br />
vinte innumerabili armate <strong>che</strong> mi difendono.<br />
(Franco Fortini, Le piccole piante…, in Composita solvantur)<br />
Sebbene in questi versi si celi un sentimento semplice di appartenenza, di «solidarietà<br />
reciproca tra passati, presenti e futuri, e tra ordini e classi biologi<strong>che</strong> ed esistenziali», 26<br />
il problema rimane: una volta fattane esperienza, il limite mette in discussione il nostro<br />
stesso essere nel mondo, ai confini del nulla. Il desiderio di coincidenza si svolge in una<br />
doppia dinamica di fissione e fusione, composizione e dissoluzione, per cui accanto al<br />
carattere onnicomprensivo della natura, si pone, in maniera problematica, la bi-logica<br />
ambigua e sfuggente del rapporto tra l’io e il mondo, nel riflesso <strong>che</strong> ci definisce e ci<br />
sgomenta. 27 Allo stesso tempo le piante, come «allegoria dell’alterità», 28 segnano sì la<br />
distanza, ma an<strong>che</strong> la prossimità di tutto ciò <strong>che</strong> non rimane irrelato e <strong>che</strong> acquista un<br />
significato nell’uomo e per l’uomo. Questo pensiero può trovare il suo giusto<br />
completamento se consideriamo altre immagini <strong>che</strong> esemplificano la lotta contro la<br />
cancellazione totale (l’abolizione, appunto): in <strong>Una</strong> facile allegoria (Poesia e errore) il<br />
«pezzo di legno secco», è «calore futuro, disgregata vivezza», perché scalderà l’uomo<br />
nei mesi invernali. Il tempo grande dell’evoluzione, sebbene appaia come un tempo<br />
25 Tale prospettiva va dialetticamente integrata con quanto scrive Mengaldo: «la natura stessa, <strong>che</strong> occupa sempre<br />
più la poesia del Fortini anziano, non è tanto un’antistoria quanto, a guardar bene, un antipresente» (Pier Vincenzo<br />
Mengaldo, Per Franco Fortini, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., p. 265).<br />
26 Così Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 121.<br />
27 Così Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 97: «quel <strong>che</strong> conta è <strong>che</strong><br />
manca la volontà d’immedesimazione romantica con la natura: la natura resta “altra” in Fortini; il bosco è<br />
definitivamente lontano».<br />
28 Ibidem.<br />
188
infinito, non aspira a negare la morte, anzi, nell’ossimoro «disgregata vivezza» si<br />
concentra tutto il senso: la materia si disgrega e si rigenera in continuazione e di questo<br />
ciclo entra a far parte an<strong>che</strong> l’uomo, <strong>che</strong> partecipa della stessa sostanza («diverremo<br />
realtà compatte leggere, arderemo»). 29 Nell’allegoria io e mondo sono interagenti, il<br />
destino individuale e quello generale possono essere compresi solo se considerati parte<br />
di uno stesso sistema. La parola è contemporaneamente elemento fisico e psicologico, é<br />
logos del libro della natura, <strong>che</strong> «tutta tramuterà questa sostanza», ma è an<strong>che</strong> la poesia,<br />
<strong>che</strong> cambia la sostanza del reale rendendolo interpretabile (è il senso primo<br />
dell’allegoria), è dunque la «sillaba luminosa» (in contrasto con la «<strong>lingua</strong> non più sua»<br />
di chi «annera carte»), in cui si rispecchia la molteplicità e la complementarità delle<br />
esistenze. 30 In Un’altra allegoria (Questo muro) si riprende l’idea del ciclo inesauribile,<br />
<strong>che</strong> lega il destino dell’uomo a quello della natura, nella doppia immagine del «ramo<br />
ebete già primaverile» e del «ramo, <strong>che</strong> morì». Lo snodo centrale della comprensione<br />
sta nel doppio movimento della mente <strong>che</strong> «nega e ragiona» per trovare la verità: il<br />
destino del ramo racchiude in sé il senso ultimo di tutte le cose, ovvero è figura della<br />
totalità a cui costantemente guarda il pensiero di Fortini. Il giovane ramo è ebete perché<br />
non è cosciente della relazione <strong>che</strong> lega il suo destino a quello del ramo morto, mentre<br />
quest’ultimo sa <strong>che</strong> «è un vivace saluto l’addio», perché c’è una continuità tra la sua<br />
morte e il nuovo ramo germogliato con la primavera. Ecco allora <strong>che</strong> Le piccole piante,<br />
le piante giovani (altra figura dell’erede, cioè del venturo), esprimo la consapevolezza<br />
<strong>che</strong> un tale sapere custodisce la salvezza; sapere e salvezza <strong>che</strong> si raggiungono solo «tra<br />
le carte», ossia nella poesia <strong>che</strong> ragiona dialetticamente per negazioni e<br />
contrapposizioni: solo considerando l’essenza generale mediata da una forma<br />
particolare si può cogliere il nesso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.<br />
Nel pensiero <strong>che</strong> diventa parola ciò <strong>che</strong> è complesso si fa dicibile e rappresentabile<br />
attraverso forme semplici, il senso del mondo può schiudersi in una rosa, o in un ramo.<br />
Anziché assistere ad un moltiplicarsi degli emblemi della divisione e dell’annullamento<br />
di ogni rapporto positivo, Fortini guarda alla complementarità tra l’io e il mondo: l’uno<br />
29 Come ha scritto Lenzini «la poesia trova il suo senso nella fine, così come il “pezzo di legno” nel fuoco» (Luca<br />
Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 113).<br />
30 E secondo Fortini bisognerà «evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia di credere <strong>che</strong><br />
l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. […] Un al di là dell’uomo può essere solo un al di là<br />
dell’uomo presente, non quello della specie. […] Fino al punto di saper leggere e interpretare nel libro del nostro<br />
medesimo corpo tutto quel <strong>che</strong> gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo, le tracce del passaggio della<br />
specie umana sopra una terra <strong>che</strong> non lascerà traccia» (Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, cit., p. 42).<br />
189
è parte dell’altro, il singolo è parte del tutto e di conseguenza, superando le immagini<br />
allegori<strong>che</strong>, l’agire individuale non può sottrarsi alla responsabilità verso chi ci ha<br />
preceduti (da cui il valore della memoria) e nei confronti di chi verrà dopo di noi (il<br />
valore dell’etica), ma an<strong>che</strong> nei confronti di chi vive come noi nel presente (il valore<br />
della morale).<br />
Su questo piano si innesta una differenza fondamentale con un poeta come Penna,<br />
<strong>che</strong> non assegna alcun peso a questi valori (del resto si parla sempre della sua<br />
leggerezza): ciò <strong>che</strong> scrive non passa attraverso un filtro memoriale o morale. 31 Quindi<br />
nei suoi testi non si trova la distanza dell’allegoria, ma l’assolutezza dell’esperienza<br />
fisica, in cui gli emblemi di vita e di morte si confondono e rimangono indicibili:<br />
Domina morte in me.<br />
Un vivace fanciullo<br />
mi turba, o chiaro mare:<br />
segreti inesorabili.<br />
(Sandro Penna, Domina morte in me, in Confuso sogno)<br />
La scrittura di Penna, almeno nella finzione poetica, si presenta, o vorrebbe presentarsi,<br />
come un appunto, an<strong>che</strong> se il vissuto di cui parlano i suoi versi poco ha a <strong>che</strong> fare con<br />
l’esperienza diretta del mondo, piuttosto è una vita sognata <strong>che</strong> astrae dal reale per<br />
rendere l’assolutezza del simbolo erotico, <strong>che</strong> si offre come unica vera realtà. Se Fortini<br />
ricerca le immagini <strong>che</strong> procedano verso una conoscenza condivisa, Penna impone un<br />
punto di vista individuale, <strong>che</strong> esclude l’alterità, intesa come un tu o una realtà <strong>che</strong><br />
vivano indipendentemente dall’immagine sognata: l’io impone la propria esperienza<br />
psicologica del reale, ignorando la relazione fortiniana tra destini individuali e generali.<br />
Poiché la psicologia di Penna è «di primo grado», 32 cioè si esprime in un’emotività<br />
essenziale, fatta di gioia e dolore, ne risulta una poesia <strong>che</strong> non nega e non ragiona, ma<br />
<strong>che</strong> rappresenta il mondo e la natura attraverso null’altro <strong>che</strong> i sensi, senza la<br />
31 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 433: «Contestiamo anzitutto in Penna la mancanza di una<br />
componente metafisica, sia pur estremamente labile: e contestiamo soprattutto la mancanza di una sua misura<br />
morale». E si legga an<strong>che</strong> la prefazione di Dominique Fernandez in Sandro Penna, Une étrange joie de vivre,<br />
Montpellier, Fata Morgana, 1979, p. 4: «Dire l’interdit: tels furent la gloire et le tourment de ce poète. Mais attention:<br />
aucune culpabilité, ni religieuse ni morale, n’a jamais pesé sur lui. Il était de la race des seigneurs, non de celle des<br />
esclaves. Ce serait de méprendre complètement que de le croire en lutte avec lui-même et aux prises avec les affres de<br />
l’auto-répression».<br />
32 Cesare Garboli, Le poesie parallele, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua<br />
poesia, cit., p. 83.<br />
190
mediazione di modelli ideologici (fatto salvo <strong>che</strong> la mancanza di ideologie può<br />
diventare a sua volta una ideologia). 33 Come ha notato Garboli, Penna «è arreso alla<br />
fatalità», 34 lascia <strong>che</strong> su tutto si posi l’ombra del dio dell’amore, <strong>che</strong> regola la vita<br />
dell’universo come un meccanismo perfetto, del quale l’autore stesso è parte e <strong>che</strong><br />
descrive con leggerezza, senza metterne in discussione i fini. Questo comporta la non<br />
applicazione di una volontà etica alla realtà sociale e storica, 35 per cui essa è ridotta ai<br />
suoi termini essenziali, astratti dalla contingenza, disponibili ad un continuo ritorno,<br />
sottomessi alle regole dell’eros e della psi<strong>che</strong>.<br />
Quello <strong>che</strong> per Penna è il ritorno dell’identico <strong>che</strong> ignora la fine, per Fortini, come si<br />
è visto, è in relazione costante con essa e con il cambiamento. 36 Lo stesso «rapporto tra<br />
presente e futuro […] non è nell’ordine della continuità, bensì in quello<br />
dell’opposizione e della discontinuità», 37 come si può riscontrare nell’andamento<br />
ellittico di molti suoi testi, in cui si alternano presente e futuro senza la mediazione di<br />
quei verbi «<strong>che</strong>, tradizionalmente, hanno il compito di legare il Prima e il Dopo». 38 Per<br />
Fortini indagare l’alterità, guardare i meccanismi antichi di una realtà apparentemente<br />
lontana da quella umana, non è un modo per distanziarsi dal presente, ma per occuparsi<br />
dell’oggi e della nostra condizione. Se poi ci rivolgiamo a Sereni, sin dal Diario<br />
d’Algeria riscontriamo nel passato <strong>che</strong> ritorna non un intarsio nostalgico, di rimpianto<br />
per un tempo perduto, ma una s<strong>che</strong>ggia <strong>che</strong> si innesta nel presente e lo modifica, in<br />
quanto portato dell’esperienza storica. Per non parlare della modificazione introdotta<br />
dall’ingresso della storia nella poesia di Caproni, forse l’autore <strong>che</strong> ne subisce<br />
33<br />
Focalizzando l’attenzione sulla finzione poetica non è sembrato opportuno ripercorrere le questioni delle<br />
occorrenze intertestuali e delle fonti letterarie <strong>che</strong> si ritrovano stratificate nelle liri<strong>che</strong> di Penna (Leopardi, Nietzs<strong>che</strong>,<br />
Rimbaud, Baudelaire, D’Annunzio, Montale, Saba, tra gli altri), già in parte indagati da Roberto Deidier, Cesare<br />
Garboli, Daniela Mar<strong>che</strong>schi. An<strong>che</strong> Antonio Girardi aveva sottolineato il ruolo della finzione nella poetica penniana:<br />
«Ma se questo è il modo in cui Penna approda a una piana luminosa maniera, il suo “fiore senza gambo visibile” non<br />
ci sembra più nato ex nihilo. Pare nato, al contrario, da una raffinatissima, inavvertibile fusione di moduli formali<br />
eterogenei. Allora, come spiegare la sensazione di spontaneità <strong>che</strong> ci trasmette? Le tracce testuali di un’aggiornata<br />
cultura letteraria tendono a smentirla. E non dovremo sulla sua esistenza oggettiva se teniamo a mente – con Schiller,<br />
con gli Schlegel, col Leopardi dello Zibaldone, ben noto al poeta – <strong>che</strong> la poesia “ingenua” o di “immaginazione” è<br />
negata ai moderni. Penna poteva darci solo una splendida finzione di <strong>lingua</strong> spontanea; com’è un sogno la grazia<br />
incontaminata e la libertà del suo microcosmo amoroso» (Antonio Girardi, Cinque storie stilisti<strong>che</strong>. Saba, Penna,<br />
Bertolucci, Caproni, Sereni, cit., p. 62).<br />
34<br />
Cesare Garboli, Le poesie parallele, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua<br />
poesia, cit., p. 83.<br />
35<br />
Ivi, p. 84: «Della società e della storia, ha rifiutato il bene come il male, il giusto come l’ingiusto. […] Alla<br />
realtà Penna ha sempre anteposto, fino all’estrema conseguenza, la sua parola-tema, la “vita”; ed è stato il solo poeta<br />
contemporaneo a dirci <strong>che</strong> per essere protagonisti della vita bisogna stare lontano dalla realtà».<br />
36<br />
Sempre secondo Luca Lenzini la poesia di Fortini è «una costellazione di immagini e concetti […] collegata<br />
all’idea della Fine» (Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 86).<br />
37<br />
Ivi, p. 83.<br />
38 Ivi, p. 82.<br />
191
maggiormente i contraccolpi a livello formale e contenutistico. La frizione tra passato e<br />
presente, tra la storia e la vita, produce una forte discontinuità an<strong>che</strong> nel tessuto logico<br />
del discorso.<br />
An<strong>che</strong> per Caproni la riflessione sulla traduzione si riflette nella scrittura poetica tout<br />
court: tradurre non è un’operazione meramente tecnica, e in questo senso si scontra con<br />
l’«assoluta intraducibilità» della poesia, <strong>che</strong> non si lascia «ridurre in termini logici». 39<br />
Per l’autore livornese tradurre significa portare alla luce delle sollecitazioni interne, «dei<br />
bouts d’existence»: 40 insomma, capovolgendo Fortini, nulla deve essere inventato, ma la<br />
parola poetica si configura come segno residuale di un testo originale, il palinsesto da<br />
cui fare emergere ciò <strong>che</strong> noi leggiamo sulla pagina. Scrittura e traduzione trovano il<br />
loro punto di coincidenza nel segno della perdita: la Res amissa da cui parte una ricerca<br />
del bene perduto nel tentativo di riappropriarsene. Questa ricerca si confronta con<br />
l’impossibilità di recuperare ciò <strong>che</strong> è venuto a mancare, quindi la realtà delle parole<br />
non coincide con quella delle cose. A questo punto non solo la poesia non è traducibile,<br />
ma non è nean<strong>che</strong> scrivibile, per cui nominare significa nullificare:<br />
Nel ’46-’47 dissi appunto <strong>che</strong> le parole dissolvono l’oggetto, come<br />
Blanchot poi nel ’53 disse <strong>che</strong> il nome vanifica la cosa. La letteratura crea<br />
una seconda realtà <strong>che</strong> nasconde la prima. […] C’era insomma questa<br />
ossessione di poter afferrare il reale, <strong>che</strong> poi rimane inafferrabile. Ormai sono<br />
arrivato alla convinzione ferma <strong>che</strong> proprio l’irrealtà è il vero reale. 41<br />
Allora nascono quelle allegorie di un io <strong>che</strong> cerca di far fronte alla frammentarietà della<br />
realtà ma non si riconosce più. Il presente di una Waste land percorsa da lampi e<br />
fantasmi, frutto, an<strong>che</strong>, della catastrofe ecologica, alberga nei versi di Caproni a partire<br />
almeno dal teatro apocalittico del Muro della terra, in cui si assiste ad una progressiva<br />
riduzione del soggetto, fino al non-personaggio dell’Idrometra, ossia alla<br />
disumanizzazione come ridefinizione del tipo di verità verso la quale può tendere la<br />
poesia:<br />
Il mondo delle sembianze<br />
39<br />
Giorgio Caproni, <strong>Una</strong> straziata allegria, intervista rilasciata a Domenico Astengo, «Corriere del Ticino»,11<br />
febbraio 1989.<br />
40<br />
Cfr. Giorgio Caproni, Divagazioni sul tradurre, in La scatola nera, cit., p. 62: «Ogni poeta vero […] più <strong>che</strong><br />
inventare scopre, desta e mette in luce in noi dei bouts d’existence. E così an<strong>che</strong> nell’atto della traduzione – non<br />
sembri un paradosso – chi scopre non è il traduttore, ma il poeta <strong>che</strong> vien tradotto, il quale, investendo il traduttore<br />
del suo potere, suscita in lui, e in lui rende diurno, ciò <strong>che</strong> già era in lui ma dormiente, notturno, e quindi ignorato».<br />
41<br />
Giorgio Caproni, «Antologia», intervista radiofonica del 17 gennaio 1988, ora in Daniela Baroncini, Caproni e<br />
la poesia del nulla, Pisa, Pacini, 2002, p. 191.<br />
192
e della storia, egualmente<br />
porteremo con noi<br />
in fondo all’acqua.<br />
(Giorgio Caproni, L’idrometra, in Il muro della terra)<br />
L’io, inteso come soggetto storico, può rappresentarsi solo attraverso una metamorfosi,<br />
<strong>che</strong> lo conduce all’isolamento, alla frantumazione, all’effimero. Di conseguenza an<strong>che</strong><br />
l’evento storico in quanto tale (ad esempio la guerra) si spoglia del suo spessore<br />
temporale per diventare emblema esistenziale declinato secondo i diversi significati <strong>che</strong><br />
assume l’allegoria <strong>che</strong> lo sostituisce (ad esempio la metafora della caccia). Spesso in<br />
questo contesto di realtà irreale i versi sono mossi da una logica illogica, <strong>che</strong> va a fondo,<br />
penetra il dubbio e lo fa esplodere nella sua ambigua allusività:<br />
L’ho seguito.<br />
Non era lui.<br />
L’ho visto.<br />
Ero io.<br />
L’ho lasciato andare.<br />
Incerto,<br />
ha preso il viottolo erboso.<br />
Con un balzo è sparito<br />
(ero io, non lui)<br />
nel fitto degli alberi, bui.<br />
(Giorgio Caproni, Rinunzia, in Il Conte di Kevenhüller)<br />
L’andamento è paratattico, i punti interrompono i singoli versi come sull’orlo di uno<br />
sfinimento esistenziale, nel segno di un dettato poetico <strong>che</strong> fatica a essere portato a<br />
termine. Con un procedimento <strong>che</strong> caratterizza tutta l’ultima fase della sua produzione<br />
poetica, Caproni introduce una figura sfuggente, in uno spazio ambiguo e indefinito, se<br />
non per l’emergere di pochi riferimenti emblematici (il «viottolo erboso», gli «alberi<br />
bui»), <strong>che</strong> rimandano ad un altrove «astorico e fiabesco», in cui «passato e futuro<br />
coincidono e si annullano, addensati in un tempo indifferente». 42 Le cose sono isolate ed<br />
estraniate, sono solo simulacri <strong>che</strong> mantengono, al massimo, un ricordo della loro<br />
42 Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., pp. 207 e 195.<br />
193
funzione, restando come relitti dopo la distruzione. Si moltiplicano le immagini<br />
residuali dell’«uomo ombra» e dei «brandelli di Dio»:<br />
Nessun’acqua stellare<br />
sull’incaglio del nero.<br />
Nessun soffio d’ali.<br />
Che cosa può mai acquistare<br />
cadenza, fra i simulacri<br />
d’alberi (di cattedrali?),<br />
se an<strong>che</strong> l’uomo ombra è fumo<br />
nel fumo – asparizione?<br />
In aria tutto un brulichio<br />
di punti neri…<br />
Lettere stracciate?...<br />
(Giorgio Caproni, Controcanto in Il Conte di Kevenhüller)<br />
Uccelli?...<br />
O – forse –<br />
soltanto dispersi brandelli<br />
(gli ultimi) di Dio?...<br />
(Giorgio Caproni, Alzando gli occhi, in Res amissa)<br />
Ciò <strong>che</strong> può essere tracciato è il segno <strong>che</strong> ne resta, un segno incompiuto e indiretto, ma<br />
an<strong>che</strong> estremo. Si definisce così l’unica forma di utopia possibile per Caproni, quella di<br />
scrivere «poesie di una sola parola»; 43 il <strong>che</strong> non ha tuttavia i caratteri<br />
dell’immediatezza, bensì quelli dell’ansia analitica e psicologica. La parola tradotta,<br />
cioè proveniente dall’altrove (da un «codice disperso» secondo il Sereni di Un posto di<br />
vacanza) si pone per Caproni come realtà <strong>che</strong> la poesia non definisce, ma “agisce” sul<br />
foglio, portandone alla luce la fragilità ma an<strong>che</strong> l’estrema negatività dell’evidenza: 44<br />
La Bestia <strong>che</strong> ti vivifica e uccide…<br />
……<br />
Io solo, con un nodo in gola,<br />
43 Si legga Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», intervista rilasciata a Stefano Giovanardi, cit., p. 426: «Il<br />
mio ideale sarebbe di scrivere poesie di una sola parola».<br />
44 Cfr. Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., p. 255: «E così come, diversamente da quanto<br />
accadeva nella poesia ermetica, ove la parola era fatta accampare, isolata e assoluta, nella sua valenza rivelativa<br />
dell’arcano e dell’ineffabile, nell’ultima stagione della sua poesia, la parola di Caproni, vacillante al limite del<br />
precipizio (quelle parole nel bianco, in attesa di rima, an<strong>che</strong> imperfetta, o di una assonanza cui aggrapparsi), è fatta<br />
vivere come una forza e un assoluto pur nella sua precarietà e nella sua esilità».<br />
194
sapevo. È dietro la Parola.<br />
(Giorgio Caproni, Io solo, in Il Conte di Kevenhüller)<br />
La parola <strong>che</strong> esaurisce se stessa, da un lato, ma <strong>che</strong>, dall’altro, continua a vibrare<br />
nell’inesauribile variazione dei temi ricorrenti, si compone di contraddizioni,<br />
riconoscimenti e allontanamenti, coincidenze e separazioni, ricer<strong>che</strong> e sparizioni, <strong>che</strong> si<br />
perpetuano, semplicemente cambiando forma. Si concretizza a livello quasi figurativo<br />
l’abbandono di ogni forma metrica, rimpiazzata da una strutturazione informale <strong>che</strong><br />
procede per frantumazioni, in cui il rapporto tra l’io e la realtà o è assente o viene<br />
ridotto ad un gioco di specchi:<br />
Quello <strong>che</strong> tu, mio vecchio,<br />
scorgi oltre frontiera<br />
è quanto è qua.<br />
La barriera<br />
– non te ne accorgi? – è uno specchio.<br />
(Giorgio Caproni, La barriera, in Res amissa)<br />
Lo spazio è frontiera, limite invalicabile, barriera-specchio, <strong>che</strong> segna la separazione,<br />
l’impossibilità della speranza. L’immagine riflessa, lungi dal trasformarsi in visione<br />
dell’interiorità, diventa abdicazione dell’io. La <strong>lingua</strong> non è più logos, ma luogo di<br />
menzogna e ambiguità, doppiezza <strong>che</strong> dimezza, <strong>che</strong>, contrariamente a quanto ci si<br />
aspetterebbe, anziché favorire la comprensione di una realtà condivisa, ha come effetto<br />
quello di produrre un vuoto di senso, l’incapacità di andare in profondità. Sereni rompe<br />
lo «specchio ora uniforme e immemore» dell’imitazione e cerca una verità ulteriore, una<br />
possibilità di interpretazione; Caproni vede in questo specchio una barriera invalicabile,<br />
<strong>che</strong> cambia l’oltre nel «quanto è qua». Non c’è apertura al futuro, perché se guardare<br />
avanti è in realtà un vedere ciò <strong>che</strong> sta alle nostre spalle, ogni approdo è un ritorno, la<br />
ricerca una perdita, l’inseguito è l’inseguitore, il qui è già altrove, e il vero problema è<br />
quello ontologico:<br />
Il Nulla, spiegano,<br />
è il «non essere».<br />
E allora,<br />
come può, allora,<br />
«essere» il «non essere»?<br />
(Giorgio Caproni, Pierineria, in Res amissa)<br />
195
Se la logica della dialettica fortiniana tende alla totalità, al tutto, l’illogica del paradosso<br />
caproniano tende al nulla, al vuoto, all’irrealtà, <strong>che</strong> riempiono lo spazio della parola<br />
perduta: il <strong>lingua</strong>ggio non solo li dice, ma li traduce, ovvero si struttura come se fosse<br />
esso stesso quel vuoto, quel nulla, quell’irrealtà. In tal modo Caproni estremizza il<br />
problema della precarietà del rapporto tra parole e cose. La parola, ha scritto Adele Dei,<br />
è «incommensurabilmente lontana dalla cosa, o si dirama in voci lievi e spettrali, […] o<br />
scatta come una tagliola e immobilizza», 45 lasciando emergere an<strong>che</strong> la distanza con il<br />
soggetto: «Il nome non è la persona // Il nome è la larva» (Il nome, in Il Conte di<br />
Kevenhüller). Mentre Fortini si appropria della maniera e dell’allegoria per potenziare le<br />
possibilità di traduzione/interpretazione della realtà, Caproni – come ha detto Agamben<br />
– approda ad una «disappropriata maniera», 46 <strong>che</strong> non annuncia, ma descrive il<br />
disfacimento come realtà in atto, e oppone alla rivoluzione una involuzione della<br />
persona e della parola a larva. 47 Involuzione <strong>che</strong> al nulla non risponde con la strenua<br />
difesa di un destino generale, e nemmeno con l’antistoria, ma con una realtà intima e<br />
inattuale, <strong>che</strong> nell’affetto privato (l’amore per la moglie) trova l’unico spazio di<br />
resistenza e di senso: 48<br />
Senza di te un albero<br />
non sarebbe più un albero.<br />
Nulla senza di te<br />
sarebbe quello <strong>che</strong> è.<br />
(Giorgio Caproni, A Rina, in Il Conte di Kevenhüller)<br />
La disappropriazione procede su più livelli: sul piano stilistico i testi si sfarinano come<br />
oggetti fragilissimi, con un armamentario retorico limitato ad alcuni strumenti essenziali<br />
quali l’iterazione, l’allitterazione, l’anafora, la rima, <strong>che</strong> strutturano un <strong>lingua</strong>ggio<br />
estremamente ridotto e una minima volontà di significazione. Dal punto di vista dei<br />
contenuti si nota di conseguenza una decisa abdicazione dalla profondità e dalla<br />
complessità, in un sistema di pensiero <strong>che</strong> tende alla semplificazione estrema. <strong>Una</strong><br />
45<br />
Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., p. 251.<br />
46<br />
Questo il titolo dato da Giorgio Agamben alla prefazione contenuta in Giorgio Caproni, Res amissa, Milano,<br />
Garzanti, 1991, pp. 5-26.<br />
47<br />
Così Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., p. 252: «In questo mondo offuscato, <strong>che</strong> è forse il riflesso di una realtà<br />
già morta, si muovono spettri senza consistenza […]; sono ombre senza corpo, come se uno specchio continuasse per<br />
inerzia a rimandare le immagini di una corporeità dissolta».<br />
48<br />
E a questo proposito si legga Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., pp. 206-207.<br />
196
situazione interiore si trasfigura in rosa e rima, minimi segni di esistenza e di verità <strong>che</strong><br />
si stagliano contro una realtà esterna negativa:<br />
Ah rosa sempre in cima<br />
ai miei pensieri…<br />
(Piove.<br />
C’è il sole.<br />
Mia Rina…<br />
I monti sono neri.<br />
Restano neri<br />
se non li accendi tu, mia Rosa…)<br />
Mia rosa sempre in cima<br />
ai miei pensieri…<br />
Mia rima<br />
sempre in me battente…<br />
Fonda e dolce…<br />
Quasi<br />
– in me – flautoclarinescente…<br />
(Giorgio Caproni, Per l’onomastico di Rina, battezzata Rosa, in Res amissa)<br />
Poiché la dimensione privata si confonde con lo stesso scrivere versi, essa diventa an<strong>che</strong><br />
l’unica misura interpretativa del mondo esterno, fuori dalla quale nulla ha un senso,<br />
nulla ha colore e vita:<br />
Niente più volontà<br />
e rappresentazione, senza<br />
la tua (an<strong>che</strong> occulta) presenza.<br />
Se il mondo prende colore<br />
e vita, lo devo a te, amore…<br />
(Giorgio Caproni, A Rina, I, in Res amissa)<br />
(Giorgio Caproni, A Rina, II, in Res amissa)<br />
I punti sospensivi introducono all’attesa, e sospendono la dizione su una soglia <strong>che</strong><br />
divide mondo interno ed esterno, infine sollevano la voce poetica dalla realtà ad una<br />
dimensione non definita e non definibile. Il contatto tra parole e cose è parziale, resta<br />
una zona di non dicibilità. Altrove questa semplificazione intesse la pars destruens del<br />
197
versificare caproniano, <strong>che</strong> si immerge nella negatività con uno sguardo disilluso, con<br />
una «<strong>lingua</strong> piana e diretta» <strong>che</strong> «rinuncia ad ogni alone poetico, ad ogni oscurità»: 49<br />
– C’è più libertà<br />
in carcere o in città?<br />
– Non ce n’è, libertà.<br />
È carcere l’intera città.<br />
(Giorgio Caproni, Domanda e risposta, in Res amissa)<br />
Se nei casi precedenti la <strong>lingua</strong>, pur ridotta a elemento residuale, tendeva ad avvicinare<br />
l’io, il <strong>lingua</strong>ggio e la realtà, cercando un minimo punto di contatto e di riconoscimento<br />
nella dimensione privata, nei versicoli e nelle invettive si impone la distanza tra l’io, le<br />
parole e le cose, perché tra il destino individuale e quello storico non solo non c’è<br />
contatto, ma prevale lo sdegno, l’ira, il ribrezzo. 50 In questi casi più <strong>che</strong> di<br />
semplificazione si dovrebbe parlare di degradazione e disgregazione di un <strong>lingua</strong>ggio<br />
<strong>che</strong> rivela la negatività e il disordine del mondo. Fuori dalla microstoria della Rosa-<br />
Rina, la macrostoria precipita verso un’apocalisse ecologica, <strong>che</strong>, già anticipata<br />
nell’Idrometra, giunge qui al suo massimo compimento:<br />
Ha soffiato via tutto.<br />
Ha fatto piazza pulita.<br />
Dov’è passato, ha distrutto<br />
fin l’ultimo germe di vita.<br />
(Giorgio Caproni, Tifone, in Res amissa)<br />
Alle spalle sia di Fortini sia di Caproni sta il Sereni di Un posto di vacanza, disilluso<br />
negli ideali intellettuali, ormai «freddati nel nome <strong>che</strong> non è / la cosa ma la imita<br />
soltanto», sente il rischio del distacco dalla realtà come il consolidarsi di una condizione<br />
di «sonnambuli / tra esseri vivi discendenti / su un fiume di impercepiti nonnulla recanti<br />
in sé la catastrofe». Il rapporto tra parola e realtà si delinea come un instabile<br />
attraversamento di «sec<strong>che</strong> e fondali, tra riaccensioni e amnesie» <strong>che</strong> rendono evidente<br />
la non coincidenza di nomi e cose, e tuttavia consolidano il loro ruolo nel determinare<br />
l’Erlebnis come momento della conoscenza. Gli scambi, le simmetrie e le divergenze tra<br />
49 Giorgio Manacorda, Congedo senza cerimonie, «Repubblica-Mercurio», 19 gennaio 1991, ora in Luigi<br />
Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., p. 207.<br />
50 Si legga Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., p. 211: «Caproni poeta civile, <strong>che</strong> è tanto<br />
più poeta civile quanto più riesce a prendere le distanze da un ravvicinato e cronachistico rapporto con la storia». E si<br />
legga an<strong>che</strong> Giorgio Agamben, Idea della prosa, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 77.<br />
198
questi tre autori si infittiscono: il «codice disperso» e la «controparola» di Un posto di<br />
vacanza sono i semi di quella crisi del <strong>lingua</strong>ggio <strong>che</strong> produce la «<strong>lingua</strong> non più sua»<br />
di Fortini e la «disappropriata maniera» dell’ultimo Caproni, mentre la «lucente<br />
inesistenza» dell’utopia fortiniana si contrappone alle luci «lontane immotivate<br />
immobili» <strong>che</strong> negano l’ipotesi di una meta salvifica:<br />
da un codice disperso è la mia controparola.<br />
Non passerà la barriera di tenebra e di vento.<br />
Non passerà il richiamo già increspato d’inverno<br />
a un introvabile<br />
traghettatore.<br />
Così lontane immotivate immobili<br />
di là da questo a<strong>che</strong>ronte<br />
non provano nulla non chiamano me<br />
né altri quelle luci.<br />
Occorre rovesciare la prospettiva:<br />
(Vittorio Sereni, Un posto di vacanza, II, in Stella variabile)<br />
Ne fu colto<br />
il disegno profondo<br />
nel punto dove si fa più palese<br />
- non una storia mia o di altri<br />
non un amore nemmeno una poesia<br />
ma un progetto<br />
sempre in divenire sempre<br />
«in fieri» di cui essere parte<br />
per una volta senza umiltà né orgoglio<br />
sapendo di non sapere.<br />
Sul rovescio dell’estate.<br />
Nei giorni di sole di un dicembre.<br />
(Vittorio Sereni, Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />
Sereni procede «sul rovescio dell’estate», come se la realtà fosse scritta su un foglio di<br />
cui considera contemporaneamente il recto e il verso («sul rovescio dell’estate la chiave<br />
dell’estate», Un posto di vacanza, I). Ampliando la metafora, utilizzata an<strong>che</strong> da Fortini<br />
per parlare di sé, si potrebbe dire <strong>che</strong> mentre quest’ultimo coglie la duplicità dialettica<br />
del presente in una lettura <strong>che</strong> procede oltre il recto e il verso del foglio, per cui «l’estate<br />
non è tutto» dice <strong>che</strong> il senso è da cercare in un’altra realtà e <strong>che</strong> il rovescio del presente<br />
è il futuro, Sereni per dare un senso al «colore del vuoto» (Autostrada della Cisa, in<br />
Stella variabile), legge dietro al foglio e considera la realtà da un punto di vista<br />
memoriale («Nei giorni di sole di un dicembre»). La conoscenza nasce da «un senso<br />
199
diverso», come aveva scritto Fortini, da dare all’esperienza, an<strong>che</strong> se la Weltanschauung<br />
<strong>che</strong> ne deriva sembra suggerire <strong>che</strong> su tutto si diffonda il vuoto. La dimensione<br />
memoriale è allora quel «codice disperso», <strong>che</strong> produce i suoi effetti sulla parola<br />
capovolgendola in «controparola» <strong>che</strong> deve resistere all’oblio:<br />
Ma tu specchio ora uniforme e immemore<br />
pronto per nuovi fumi<br />
di sterpaglia nei campi per nuove luci<br />
di notte dalla piana per gente<br />
<strong>che</strong> sgorghi nuova da Carrara o da Luni<br />
tu davvero dimenticami, non lusingarmi più.<br />
(Vittorio Sereni, Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />
Il discorso metapoetico vuole opporre alla lusinga dello «specchio ora uniforme e<br />
immemore» una diversa conoscenza, ossia all’imitazione del reale la sua traduzione: i<br />
bouts d’existence di cui parlava Caproni sono per Sereni quei «momenti della nostra<br />
esistenza <strong>che</strong> non danno pace fino a quando restano informi». 51 Scrivere significa allora<br />
tradurre in forma quei momenti, «il solo modo di leggerli, ovvero di leggerli più a<br />
fondo». 52 Sereni capovolge il punto di vista di Caproni, poiché per lui non solo le parole<br />
sono in stretto rapporto con l’esperienza, ma questa a sua volta assume significato nel<br />
momento in cui prende forma nel <strong>lingua</strong>ggio: per Sereni l’esperienza ha un primato di<br />
verità rispetto alla parola, per cui «i nomi si ritirano dietro le cose» (Niccolò, in Stella<br />
variabile), mentre per Caproni «Le parole. Già. / Dissolvono l’oggetto» (Le parole, in<br />
Res amissa) e per Fortini, lo si è visto, l’oggetto «non è tutto» così come «l’estate non è<br />
tutto» 53 (Molto chiare si vedono le cose, in Paesaggio con serpente), cioè il mondo dei<br />
referenti si carica di una potenzialità alternativa. Nel Sereni di Stella variabile non c’è<br />
dissoluzione e non c’è superamento: il rapporto parole/cose è straniato e violento e si<br />
svolge su macerie riedificate con materiali taglienti, minacciosi e silenziosamente<br />
aggressivi. L’autore aveva già dichiarato la propria incertezza, sostenendo <strong>che</strong> di versi<br />
51 Vittorio Sereni, Poesie, cit., pp. 585-586.<br />
52 Vittorio Sereni, Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1981, p. VIII. E continua:<br />
«Traducendo non tanto ci si appropria, non tanto si fa prorpio il testo altrui, quanto invece è l’altrui testo ad assorbire<br />
una zona sin lì incerta della nostra sensibilitàe a illuminarla». Questo rapporto di scambio generatore di conoscenza si<br />
estende an<strong>che</strong> alla relazione tra scrittura ed esperienza.<br />
53 Il conflitto reso da negazioni del tipo «l’estate non è tutto», o an<strong>che</strong> «E invece non è vero» (La realtà, in<br />
L’ospite ingrato), «E non è vero» (Stanotte, in Composita solvantur), o dalle forme avversative del tipo «ero ma<br />
sono» (Il presente, in Questo muro), rappresenta in forma coagulata «il carattere utopico della negazione» (Luca<br />
Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 226), <strong>che</strong> è in diretta relazione con la poetica<br />
della reversibilità e del non ancora.<br />
200
«se ne scrivono ancora», ma «se ne scrivono solo in negativo» (I versi, in Gli strumenti<br />
umani). Il dubbio sul valore della parola poetica diventa dubbio sulla propria identità di<br />
uomo <strong>che</strong> non riesce, nonostante tutto, a trovare un equilibrio. Mentre Caproni dichiara<br />
in modo essenziale e assoluto il raggiungimento di un punto di non ritorno e Fortini con<br />
altrettanta sicurezza profetizza la svolta e la metamorfosi, Sereni opta per un incedere<br />
allucinato <strong>che</strong>, non trovando un’identità salda, cerca nel contrario e nella negazione di<br />
sé una conferma della propria presenza. La logica onirica invade la realtà e le categorie<br />
umane <strong>che</strong> la inquadrano vengono rovesciate e risolte in perplessità. Il sogno diventa un<br />
mezzo per dare forma all’informe instabilità del rapporto dell’io col reale, nel momento<br />
in cui questi si scopre «trapassante»: «Ma ero / io il trapassante, ero io, / perplesso non<br />
propriamente amaro» (In salita, in Stella variabile). Da una simile condizione ha<br />
origine un sentimento straniante di paura, un Uneimli<strong>che</strong> <strong>che</strong> non è spavento, quanto<br />
piuttosto enigmatico e ambiguo smarrimento di sé nel disordine di rapporti cambiati di<br />
senso. In questa dimensione perturbante si radicalizza la lotta contro il nulla, <strong>che</strong><br />
diventa vera e propria lotta contro se stessi:<br />
Niente ha di spavento<br />
la voce <strong>che</strong> chiama me<br />
proprio me<br />
dalla strada sotto casa<br />
in un’ora di notte:<br />
è un breve risveglio di vento,<br />
una pioggia fuggiasca.<br />
Nel dire il mio nome non enumera<br />
i miei torti, non mi rinfaccia il passato.<br />
Con dolcezza (Vittorio,<br />
Vittorio) mi disarma, arma<br />
contro me stesso me.<br />
(Vittorio Sereni, Paura seconda, in Stella variabile)<br />
Sereni vive il rapporto col mondo alla luce di un passato <strong>che</strong> è insieme colpa e<br />
illuminazione: un tempo solo apparentemente perduto, ma <strong>che</strong> determina il presente<br />
an<strong>che</strong> attraverso la riemergenza onirica. Il tentativo di rapportarsi con la realtà è però<br />
rovesciato da geografie variabili, prospettive mentali incrinate da un sistema di segni e<br />
simboli sospesi tra la minaccia e lo spaesamento: 54<br />
54 Cfr. Renato Nisticò, Nostalgia di presenze. La poesia di Sereni verso la prosa, Lecce, Piero Manni, 1998, p.<br />
140: «Il soggetto sembra saggiare la spazialità geografica […] prima di rinunciare per sempre allo spazio puntiforme<br />
dell’io lirico».<br />
201
Dovrò cambiare geografie e topografie.<br />
Non vuole saperne,<br />
mi rinnega in effigie, rifiuta<br />
lo specchio di me (di noi) <strong>che</strong> le tendo.<br />
[…]<br />
E dopo tutto<br />
ho pozzi in me abbastanza profondi<br />
per gettarvi an<strong>che</strong> questo.<br />
Ecco <strong>che</strong> adesso nevica…<br />
Ma io, mia signora, non mi appello al candore della neve<br />
alla sua pace di selva<br />
conclusiva<br />
[…]<br />
Sono per questa – notturna, immaginosa – neve di marzo<br />
plurisensa<br />
[…]<br />
Per il suo turbine il suo tumulto<br />
<strong>che</strong> scompone la notte e ricompone<br />
laminandola di peltri acciai leggeri argenti.<br />
(Vittorio Sereni, Addio Lugano bella, in Stella variabile)<br />
La parola registra la crisi della percezione del reale («mi rinnega in effigie, rifiuta / lo<br />
specchio di me»), l’io scivola in una dimensione onirica e visionaria, in una profondità<br />
inquieta in cui prende corpo la lotta contro il nulla: alla lusinga offerta dal «candore<br />
della neve» con la sua «pace di selva / conclusiva» si oppone la «– notturna,<br />
immaginosa – neve di marzo» con «il suo turbine il suo tumulto» <strong>che</strong> è dissoluzione ma<br />
an<strong>che</strong> possibilità di ricomposizione e di rinnovamento del senso. In questo contesto non<br />
si pone un problema di esistenza o inesistenza delle parole nelle cose e viceversa, o<br />
dell’annullamento delle une nelle altre sotto il segno dell’irrealtà. Per Sereni si tratta di<br />
cercare di stabilire in <strong>che</strong> rapporto sono le parole e le cose. Qui a garantire questo<br />
rapporto vi è una visionarietà <strong>che</strong> ha le sue radici nell’evento memoriale <strong>che</strong> la parola<br />
traduce in forma poetica. È il modo trovato da Sereni per non cadere vittima di un<br />
nichilismo assoluto e assolutizzante:<br />
Ne vanno alteri i gentiluomini nottambuli<br />
scesi con me per la strada<br />
da un quadro<br />
visto una volta, perso<br />
di vista, rincorso tra altrui reminiscenze<br />
o soltanto sognato.<br />
(Vittorio Sereni, Addio Lugano bella, in Stella variabile)<br />
Immaginiamo, dunque, i fantasmi con cui il vuoto si misura, presenze <strong>che</strong> affiorano<br />
da un altrove indistinto, senza poter essere definite, se non per via di negazione. Sono<br />
202
elementi in mutazione, travestimenti di una condizione <strong>che</strong> non è più rinviabile. Sono<br />
luoghi della mente, segnali d’allarme, <strong>che</strong> generano uno spostamento della percezione.<br />
Caproni, Fortini e Sereni vanno oltre la bidimensionalità <strong>che</strong> caratterizza la poesia di<br />
Penna, indagano aspetti psicologici oscuri, ambigui e contraddittori. Penna, come si è<br />
visto, lascia <strong>che</strong> ciò <strong>che</strong> riemerge dal passato si ripresenti tale e quale, senza <strong>che</strong> venga<br />
modificato da un modello interpretativo, <strong>che</strong> lo calerebbe in una dimensione temporale,<br />
ossia in un contesto evolutivo. Il tempo di Penna è un presente sottratto al continuum<br />
storico, è un tempo <strong>che</strong> non passa e si ripete, per sottrarre l’io alla precarietà. In questo<br />
si avvicina a Fortini, alle sue immagini di fossili, all’ambra o alla rosa <strong>che</strong> esita dentro<br />
al sasso, <strong>che</strong> rivelano un’ansia temporale comune a entrambi. Tuttavia l’approccio di<br />
Fortini è segnato dall’ideologia, <strong>che</strong> si rapporta sempre con la storia di chi è venuto<br />
prima e di chi verrà poi, si relaziona sempre col tempo e non con il desiderio di<br />
atemporalità. 55 Sereni, dal canto suo, riesce a guardare oltre la linearità del tempo: il<br />
presente non è una tabula rasa, e l’esperienza <strong>che</strong> ne facciamo viene modificata da ciò<br />
<strong>che</strong> riemerge dal passato. Il tempo di Sereni è un tempo <strong>che</strong> passa ma <strong>che</strong> ritorna.<br />
Caproni si avvicina a Sereni, in quanto la memoria lungi dal determinare una via di<br />
salvezza, lascia intravedere il vuoto e la disarmonia. Tuttavia, l’idea stessa di un tempo<br />
percorribile in due direzioni opposte, <strong>che</strong> abbiano nel presente il loro punto d’incontro,<br />
è qualcosa in cui non crede veramente. Passato e presente sono inconciliabili e non c’è<br />
slancio verso il futuro. La linearità storica fa del passato qualcosa <strong>che</strong> non torna, o <strong>che</strong><br />
torna a tratti, attraverso epifanie <strong>che</strong> ribadiscono il senso della fine e non aprono uno<br />
spiraglio salvifico (si pensi a quanto accade nel Seme del piangere, sul cui “fallimento”<br />
Caproni costruisce l’edificio della sua poesia successiva). La poesia di Fortini, infine, si<br />
compone di tensioni contrastanti <strong>che</strong> possono mettere il lettore di fronte alla condizione<br />
dell’uomo nella storia, dove «Ci sono solo io e tutti gli altri / a metà del non esistere»<br />
(Raniero, in Paesaggio con serpente), come dire <strong>che</strong> siamo in una dimensione sospesa,<br />
in cui an<strong>che</strong> il non essere è parziale e se un senso c’è, deve essere ancora detto<br />
(«Diremo più tardi quello <strong>che</strong> deve essere detto», I lampi della magnolia, in Paesaggio<br />
55 Cfr. Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, in Sandro Penna, Une ardente solitude, cit., p. 11: «La<br />
chose vue est dérobée à sa précarité et inscrite dans l’ambre. En cela, Penna se rappro<strong>che</strong>, de façon surprenante, d’un<br />
autre poète italien contemporain: Franco Fortini. La hantise de la fossilisation qui fige mais aussi protège, les images<br />
répétitives de visages vus dans un mur, de roses hésitant au cœur du roc et d’insectes pris dans le carbone révèlent,<br />
<strong>che</strong>z ce poète de l’engagement et de l’exigence éthique qu’est Fortini, une obsession temporelle parfois pro<strong>che</strong> de<br />
celle de Penna, mais qui motive un rapport passionnel à l’idéologie bien éloigné du désir d’atemporalité de l’auteur<br />
de Croix et délice».<br />
203
con serpente). Non bisogna arrendersi al nichilismo, bisogna, invece, scrivere: «Ecco<br />
scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso / <strong>che</strong> non dica in nota acuta: “Più non<br />
posso”» (Se volessi un’altra volta…, in Composita solvantur). Come vent’anni prima in<br />
Traducendo Brecht («Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente»), an<strong>che</strong><br />
ora il poeta guarda al vuoto della separatezza, ma an<strong>che</strong> ad una possibilità <strong>che</strong> non<br />
esaurisca la poesia nel cupio dissolvi. Occorre guardare alle dichiarazioni di poetica, per<br />
cogliere appieno il processo evolutivo in cui il dolore e la sofferenza di uomini, animali<br />
e piante, si trasformano dialetticamente nell’oltre della speranza:<br />
La prima cosa <strong>che</strong> io cerco è il Regnum Dei, cioè un modo diverso di<br />
essere degli uomini. Un’antropologia abbastanza lucida da non cadere<br />
nell’ottimismo cretino. Il combattimento per il comunismo è già il<br />
comunismo, il comunismo in cammino – un altro non esiste – è un percorso<br />
<strong>che</strong> passa attraverso errori e violenze e comporta <strong>che</strong> uomini siano usati come<br />
mezzi per un fine – siamo contro Kant – <strong>che</strong> nulla garantisce. Dixi et servavi<br />
animam meam. Più in là di questo… porto la spada. 56<br />
Si noti la distanza <strong>che</strong> separa la ricerca fortiniana del Regnum Dei inteso come<br />
alternativa al mondo attuale, dalla tematica del Deus absconditus e poi della Res amissa<br />
di Caproni, <strong>che</strong> di volta in volta si declinano nelle forme dell’assenza e del silenzio della<br />
Parola, ovvero del bene e della Grazia definitivamente perduti. La poesia di Fortini<br />
porta la spada nel mondo per <strong>combatte</strong>re la realtà e mutarla in altro, an<strong>che</strong> se il conflitto<br />
è permanente e non si risolve definitivamente, ma assume un senso proprio nel suo<br />
stesso divenire. In Penna invece c’è già qualcosa del Regnum Dei, ovvero «un modo<br />
diverso di essere degli uomini»: i suoi testi pongono il soggetto già oltre il varco, in uno<br />
spazio luminoso in cui la distanza con la storia è massima, minima quella col divino; si<br />
tratta beninteso di una «deità in fustagno e tascapane» come aveva scritto Montale<br />
(Divinità in incognito, in Satura), ma <strong>che</strong> ci dice <strong>che</strong> nonostante tutto c’è ancora una<br />
possibilità di salvezza. Se, come ha scritto Jaccottet, «la poésie est donc ce chant que<br />
l’on ne saisit pas, cet espace où l’on ne peut demeurer», 57 un’ipotesi di salvezza si<br />
56 Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati<br />
Boringhieri, 2003, p. 701. Si legga an<strong>che</strong> la voce Comunismo in Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci,<br />
cit., p. 41: «Il combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori<br />
non dimostrabili) <strong>che</strong> il maggior numero di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna. Unico<br />
progresso, ma reale, è e sarà un luogo di contraddizione più alto e visibile, capace di promuovere i poteri e le qualità<br />
di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria<br />
tenda ad estinguere quello scontro nella sua forma presente e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di<br />
progresso lineare e senza conflitti».<br />
57 Philippe Jaccottet, La promenade sous les arbres, Lausanne, La bibliothèque des arts, 1996, p. 148.<br />
204
sviluppa attraverso quei minimi movimenti di sospensione del tempo e della dicibilità in<br />
una dimensione autre, <strong>che</strong> predispone a mutamenti imprevisti e stranianti.<br />
205
206
BIBLIOGRAFIA<br />
OPERE POETICHE E SCRITTI TEORICI DEI SINGOLI AUTORI<br />
SPECIALMENTE CONSIDERATI<br />
GIORGIO CAPRONI<br />
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Noi, Enea, «La Fiera Letteraria», 3 luglio 1949.<br />
Né tempo né luogo, «La Fiera Letteraria», 9 novembre 1958.<br />
Politica e cultura, «Critica d’oggi», 12-13, settembre-novembre 1962.<br />
Il terzo libro e altre cose, Torino, Einaudi, 1968.<br />
Luoghi della mia vita e notizie della mia poesia, «La Rassegna della Letteratura<br />
Italiana», LXXXV, 3, settembre - dicembre, 1981.<br />
Su e giù come un minatore, «I ferri del mestiere», supplemento al n. 295 del 15<br />
dicembre 1989 de «l’Unità».<br />
Res amissa, a cura e con prefazione di Giorgio Agamben, Milano, Garzanti, 1991.<br />
La scatola nera, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1996.<br />
L’opera in versi, edizione critica a cura di Luca Zuliani, introduzione di Pier<br />
Vincenzo Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei, Milano, Mondadori,<br />
«i Meridiani», 1998.<br />
Quaderno di traduzioni, a cura di Enrico Testa, prefazione di Pier Vincenzo<br />
Mengaldo, Torino, Einaudi, 1998.<br />
FRANCO FORTINI<br />
Ventiquattro voci per un dizionario di lettere. Breve guida al buon uso dell’alfabeto,<br />
Milano, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, 1968.<br />
Introduzione a J. W. Goethe, Faust, introduzione, traduzione con testo a fronte e note<br />
a cura di Franco Fortini, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 1970.<br />
Giovanni e le mani, Torino, Einaudi, 1972.<br />
Dieci inverni, Bari, De Donato, 1973.<br />
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Poesie scelte (1938-1973), a cura e con una introduzione di Pier Vincenzo<br />
Mengaldo, Milano, Oscar Mondadori, 1974.<br />
<strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie 1938-1973, Torino, Einaudi, 1978.<br />
Metrica e biografia, in «Quaderni piacentini», 2, XX, 1981.<br />
Paesaggio con serpente, Torino, Einaudi, 1984.<br />
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Nuovi saggi Italiani, Milano, Garzanti, 1987.<br />
Versi primi e distanti 1937-1957, con un’acquaforte di Franco Fortini, Milano,<br />
All’insegna del pesce d’oro, 1987.<br />
1991.<br />
Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990.<br />
Versi scelti 1939-1989, Torino, Einaudi, 1990.<br />
Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Roma, Editori Riuniti,<br />
Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993.<br />
Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994.<br />
Poesie inedite, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Torino, Einaudi, 1997.<br />
Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini e uno scritto<br />
di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori «i Meridiani», 2003.<br />
Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valentina Tinacci, introduzione<br />
di Romano Luperini, Macerata, Quodlibet, 2006.<br />
VITTORIO SERENI<br />
1995.<br />
Poesie (1935-1965), introduzione di Lanfranco Caretti, Milano, Mondadori, 1973.<br />
Franco Francese. La bestia addosso, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1976.<br />
Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1981.<br />
Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, «i Meridiani»,<br />
Diario d’Algeria, con una prefazione di Giovanni Raboni, Torino, Einaudi, 1998.<br />
La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, introduzione di Giovanni Raboni,<br />
Milano, Mondadori, 1998.<br />
Il grande amico. Poesie (1935-1981), introduzione di Gilberto Lonardi e commento<br />
di Luca Lenzini, Milano, Rizzoli, 2004.<br />
208
La casa nella poesia, presentazione di Pier Vincenzo Mengaldo, tavole di Enrico<br />
Della Torre, Parma, MUP Editore, 2005.<br />
SANDRO PENNA<br />
Poesie, Milano, Garzanti, 1957.<br />
Un po’ di febbre, risvolto di copertina di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1973.<br />
Stranezze, con una postfazione di Cesare Garboli, Milano, Garzanti, 1976.<br />
Confuso sogno, a cura e con una postfazione di Elio Pecora, Milano, Garzanti, 1980.<br />
Poesie, con una prefazione di Cesare Garboli, Milano, Garzanti, 1989.<br />
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Bertolucci, Sereni, Zanzotto, Porta, Conte, Cucchi, Sulla poesia. Conversazioni nelle<br />
scuole, con due interventi di Cesare Segre e Lucia Lumbelli, Parma, Prati<strong>che</strong> Editrice,<br />
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Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982.<br />
Giorgio Caproni, “Era così bello parlare”. Conversazioni radiofoni<strong>che</strong> con Giorgio<br />
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Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati,<br />
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Giorgio Grieco, Non esiste, ma nella disperazione l’ho sempre cercato (intervista a<br />
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Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), a<br />
cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano,<br />
Feltrinelli, 2004.<br />
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Bernard Simeone, Paris, Maurice Nadeau, 1986.<br />
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Bernard Simeone, suivi de «Donc sous peu sans mots la bou<strong>che</strong>», échanges Rémi Ro<strong>che</strong><br />
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VITTORIO SERENI<br />
Étoile variable, traduit de l’italien par Philippe Renard et Bernard Simeone, préface<br />
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Les instruments humains précédé de Journal d’Algérie, traduit par Philippe Renard<br />
et Bernard Simeone, préface de Bernard Simeone, postface de Philippe Renard, Paris,<br />
Verdier, 1991.<br />
The selected poetry and prose of Vittorio Sereni, edited and translated by Peter<br />
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SANDRO PENNA<br />
Une étrange joie de vivre, traduction de Dominique Frernandez et Jean-Noël<br />
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Roberto Orlando, La vita contraria. Sul Novecento di Giorgio Caproni, Lecce,<br />
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