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Una lingua che combatte - DSpace@Unipr

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA<br />

Facoltà di Lettere e Filosofia<br />

Coordinatore:<br />

Chiar.mo Prof. Rinaldo Rinaldi<br />

Tutor:<br />

Chiar.mo Prof. Paolo Briganti<br />

Dottorato di ricerca<br />

Il testo: tradizione, <strong>lingua</strong>, interpretazione<br />

XX ciclo<br />

<strong>Una</strong> <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> <strong>combatte</strong><br />

Tempo e utopia nell’opera di<br />

Penna, Caproni, Fortini e Sereni<br />

Anno Accademico 2008-2009<br />

Dottorando:<br />

Andrea Masetti


Ah <strong>che</strong> la <strong>lingua</strong> <strong>combatte</strong><br />

dove il niente duole<br />

(Franco Fortini)


a Elisa


Prima Parte<br />

INDICE<br />

1. Quattro percorsi poetici p. 9<br />

1.1. Le parole e le cose 12<br />

1.2. Fenomenologia del negativo e storicità 17<br />

1.3. Essere contro: reazioni con lo spazio e col tempo 26<br />

Seconda Parte<br />

2.1. Penna e Caproni: il tempo inquieto 39<br />

2.1.1. La «nostalgia del presente nel presente» 39<br />

2.1.2. Il confronto con la morte 50<br />

2.2. Sandro Penna: l’eros come utopia 59<br />

2.2.1. La dialettica del desiderio 60<br />

2.2.2. Il topos dell’incontro 64<br />

2.2.3. «Un altro mondo si dischiude» 71<br />

2.3. Giorgio Caproni: la «pena del futuro» 77<br />

2.3.1. <strong>Una</strong> calma disperazione. 79<br />

2.3.2. Il tempo come metafora 87<br />

2.3.3. Le parole della fine dell’uomo 91<br />

Terza Parte<br />

3.1. Franco Fortini: la poetica del non ancora 101<br />

3.1.1. Dalla «nostalgia di lunghissimo esilio» alla «poetica dell’avvento» 101<br />

3.1.2. L’eredità della scrittura 108<br />

3.1.3. La poetica del non ancora 113<br />

3.2. Vittorio Sereni: recensione e interpretazione della realtà 125<br />

3.2.1. «Il mio tempo s’accorda»: il primo libro di Sereni 125<br />

3.2.2. Recensione e interpretazione della realtà 134<br />

3.3. Fortini e Sereni: tra oltranza e reversibilità 155<br />

Quarta Parte<br />

4. <strong>Una</strong> <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> <strong>combatte</strong> dove il niente duole 177<br />

4.1. Il presente falso e vero 178<br />

Bibliografia 207


PRIMA PARTE<br />

7


1<br />

QUATTRO PERCORSI POETICI<br />

TRA MEMORIA E FUTURO<br />

Fare esperienza del pensiero poetico nel nostro tempo significa partecipare di<br />

un’imperfezione, uno slittamento della norma, un salto nel vuoto, una vertigine del<br />

senso e della parola, di fronte alla quale si sviluppano varie forme di resistenza,<br />

ideologica ed esistenziale. Questo studio intende entrare in contatto con alcuni risultati<br />

poetici, <strong>che</strong> potrebbero rappresentare diverse modalità di declinare questo sentimento<br />

necessario d’imperfezione, attraverso il dialogo fra le opere di alcuni autori <strong>che</strong> fanno<br />

parte della cosiddetta “terza generazione”, ovvero di quella generazione poetica nata<br />

attorno al 1910. Fa eccezione il solo Fortini, <strong>che</strong> non viene inserito né nella terza, né<br />

nella quarta generazione del modello di Oreste Macrí. È bene, allora, ricordare e fare<br />

nostre le parole di Giovanni Raboni, <strong>che</strong> a questo proposito sono illuminanti e dirimono<br />

ogni dubbio: «Non sono un appassionato di numerologia e non credo nemmeno <strong>che</strong> sia<br />

giusto leggere la storia della poesia soltanto e soprattutto come una storia di generazioni<br />

poeti<strong>che</strong>». 1 Quindi, per non rimanere ingabbiati nella rigidità del modello proposto da<br />

Oreste Macrí, si accetti qual<strong>che</strong> eccezione alla norma generazionale, qual<strong>che</strong> “scarto”<br />

tra gli anni precedenti il 1910 e quelli successivi il 1915: 1906, Penna; 1912, Caproni;<br />

1913, Sereni; 1917, Fortini.<br />

Nati entro i primi due decenni del Novecento, questi autori hanno conosciuto la<br />

propria giovinezza creativa tra la metà degli anni Trenta e quella degli anni Quaranta e<br />

soprattutto hanno visto tale giovinezza insidiata prima dall’ascesa del fascismo e poi dal<br />

dramma della guerra. Con Come un’allegoria (1936), Finzioni (1941) e poi con<br />

Cronistoria (1943) di Caproni, con Frontiera (1941) e Diario d’Algeria (1947) di<br />

Sereni, con le Poesie (1939) di Penna, o il Foglio di via (1946) di Fortini, ovvero<br />

nell’arco di un decennio, si apre una «linea di faglia», 2 per usare le parole di Raboni,<br />

un’incrinatura destinata a rendere evidente e urgente una riflessione sui temi del tempo,<br />

1 Giovanni Raboni, Prefazione a Gaetano Arcangeli, Solo se ombra, Milano, Libri S<strong>che</strong>iwiller, 1995, p. 7.<br />

2 Ivi, p. 9.<br />

9


della memoria e del futuro. Valga per tutti la nota immagine dell’Enea caproniano<br />

(immagine carica di risonanze): essi si muovono in un tempo ambiguo e indefinito,<br />

nell’attesa dell’evento, attesa <strong>che</strong> sarà la cifra concettuale e poetica del Sereni del<br />

Diario d’Algeria, ma an<strong>che</strong> delle atmosfere sospese di Sandro Penna, un tempo<br />

conflittuale (la guerra, prima reale poi metaforica, ma sempre dall’evidenza concreta),<br />

<strong>che</strong> li strappa al passato, al ricordo, e li getta in un presente da rifiutare, per poi<br />

proiettarli in un futuro oscuro e incerto:<br />

Dico Enea meno eroe <strong>che</strong> uomo, e per di più uomo posto al centro di<br />

un’azione suprema (la guerra) proprio nel momento della sua maggiore<br />

solitudine: quando non potendo più appoggiarsi alla tradizione, ossia al<br />

padre, <strong>che</strong> ormai cadente è lui ad avere necessità d’esser sostenuto,<br />

tantomeno può appoggiarsi alla speranza, all’avvenire: ossia all’ancor troppo<br />

piccolo figlio. 3<br />

Dietro alla figura di Enea possiamo intravedere un’intera generazione <strong>che</strong> fa i conti con<br />

il tempo, incarnando il destino di chi si trova a vivere simultaneamente passato e futuro<br />

nel presente del ricordo, della cronaca e della storia. Il poeta ha fatta propria, a titolo<br />

intellettuale e personale, una poetica dell’inappartenenza e della diversità, <strong>che</strong> lo porta<br />

al rifiuto di ogni sistema autoritario <strong>che</strong>, in quanto tale, si declina secondo le varie<br />

accezioni <strong>che</strong> assume la radice pater. La visione cristiana del Padre, con la sua gerarchia<br />

del bene e del male, del qui e dell’altrove, propone un ordine oppositivo ed esclusivo,<br />

così come il patrimonio della tradizione codificata e imposta e l’appartenenza nazionale<br />

(patria) spesso sembrano refrattari ad accogliere opposizioni e contraddizioni, o, quando<br />

ve ne siano, pronti a superarle attraverso violente rotture. Il rifiuto di un sistema così<br />

rigidamente gerarchizzato passa attraverso l’esperienza di una soggettività in dissidio<br />

col reale: la solitudine, la povertà e l’omosessualità di Penna, le sue incomprensioni col<br />

padre, <strong>che</strong> la famiglia lascia nel mezzo di un fallimento commerciale per trasferirsi a<br />

Roma, 4 dicono la ricerca di un’alternativa e di una diversità in cui si incarna il desiderio<br />

di fuga e di lontananza; l’invettiva e l’immagine del Dio-padre «morto o inesistente, ma,<br />

3 Giorgio Caproni, Noi, Enea, «La Fiera letteraria», 3 luglio 1949.<br />

4 Cfr. AA.VV., Sandro Penna appunti di vita, a cura di Elio Pecora, Milano, Electa, 1990, p. 51. E si legga an<strong>che</strong><br />

quanto scrive Elio Pecora in Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, Milano, Frassinelli, 1984, pp. 99-100: «Ai dissidi interni<br />

fra pensiero e azione, fra visione artistica e passione, s’aggiunsero a quel tempo gravi disaccordi con il padre <strong>che</strong>,<br />

dopo un’ennesima lite, arrivò a cacciarlo di casa e scrisse alla moglie addossando al figlio una serie di sbagli e di<br />

colpe. […] In quello stesso mese partì per Roma, andò ad abitare in via Caio Mario con la madre e con Elda e<br />

Beniamino».<br />

10


come il negativo, ineliminabile» 5 dell’ultimo Caproni e il senso di solitudine assoluto<br />

<strong>che</strong> ne deriva, <strong>che</strong> lo porta a sovvertire il rapporto generazionale rovesciandolo e<br />

trasformandosi nel figlio di suo figlio («Portami con te lontano / … lontano… / nel tuo<br />

futuro. / Diventa mio padre, portami / per mano…», A mio figlio Attilio Mauro…, in Il<br />

muro della terra); il tentativo di definire se stessi “rinominandosi” di Franco Fortini,<br />

nato Lattes, come se l’io volesse guardare se stesso dall’esterno, da una distanza <strong>che</strong><br />

permetta di vedere meglio e di capire <strong>che</strong> il rapporto col padre «implica, o simboleggia,<br />

il rapporto con la classe, con la realtà»; 6 il senso di colpa, l’insicurezza e l’assenza di<br />

Dio nelle pagine di Sereni, <strong>che</strong> innesta nel rapporto generazionale un’immagine di<br />

violenza (Sarà la noia, in Stella variabile), 7 per cui il vissuto individuale non è mai<br />

pacificato ma si scontra sempre con la colpa di fronte alla storia e all’umanità. Il rifiuto<br />

di modelli nazionalistici, religiosi, filiali e identitari genera un processo di lotta,<br />

condotto dal soggetto contro i princìpi <strong>che</strong> regolano la nostra società: religione,<br />

famiglia, capitalismo e nazionalismo.<br />

Nella figura di Enea, emblema della relazione figlio/padre, c’è un senso ulteriore e<br />

per così dire dialettico: egli rappresenta l’unione del passato, quindi della tradizione e<br />

dell’eredità da salvare, e del futuro, quindi della speranza e dell’attesa nella prospettiva<br />

utopica di una nuova città e civiltà da fondare. Enea non deve annullare il passato, ma<br />

riconoscere ciò <strong>che</strong> in esso può dare un senso al presente. Questo è un nodo centrale<br />

an<strong>che</strong> nell’opera di Fortini, <strong>che</strong> parla di un «indimostrabile legame e presenza di<br />

5 Franco Fortini, Oltre il valico, in Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 176.<br />

6 Così Fortini: «Bisogna saper guardare i propri genitori in faccia. […] Avere un rapporto non nevrotico con i<br />

padri è probabilmente molto difficile; ma esso implica, o simboleggia, il rapporto con la classe, con la realtà» (Franco<br />

Fortini, Difesa del cretino, in Verifica dei poteri, ora in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di<br />

Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori «i Meridiani», 2003, pp. 192-193). Romano<br />

Luperini parla di un «vuoto di una figura paterna verso cui egli manifesta un sentimento oscillante tra disprezzo e<br />

pietà. […] in Fortini c’è l’atteggiamento opposto rispetto a quello di chi è stato frustrato da un padre eccessivamente<br />

rispettato; c’è un sentimento di vergogna per lui, per il suo tremore, per la sua mancanza di compostezza e di calma,<br />

<strong>che</strong> lo fa arrossire […]. La negazione del padre (sino a rifiutarne il cognome, an<strong>che</strong> se in questa scelta un peso forse<br />

determinante l’ebbero ragioni razziali e religiose), […] l’adesione a una norma costante d’autorepressione e<br />

d’interdizione di ogni movimento incomposto o vitalistico sembrano essere necessarie premesse della poesia<br />

fortiniana. Ne deriva una volontà di superiorità, di distanziamento […] una tendenza a porsi in alto […] per vedere<br />

meglio e giudicare insieme presente passato futuro» (Romano Luperini, Il futuro di Fortini, Lecce, Manni, 2007, p.<br />

18). Dietro al cambio del nome dovevano comunque esserci ragioni prati<strong>che</strong>, vista la torbida epoca <strong>che</strong> nel 1938<br />

avrebbe portato alle leggi razziali, e ragioni religiose. In un’intervista Fortini afferma: «A diciotto anni ho conosciuto<br />

chi mi ha convertito: lo storico Giorgio Spini, valdese, <strong>che</strong> aveva un anno più di me. La mia formazione protestante<br />

nasce da lui: mi ha dato fortissimo il senso della storia, la necessità della concreta incarnazione, e ho letto i testi<br />

cristiani, insieme con Karl Barth e Kierkegaard» (intervista a Franco Fortini di Claudio Altarocca, «Tuttolibri»,<br />

supplemento de «La Stampa», 5 marzo 1994; ora in Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, Arezzo, Zona, 2007, p.<br />

129).<br />

7 Non direttamente rapporto figlio/padre, poiché la Laura di cui parla nella poesia è la nipote, figlia della sua<br />

primogenita Maria Teresa. Qui Sereni si vede quindi come padre “alla seconda”, ossia nonno.<br />

11


viventi, di passati e venturi» ovvero della «contemporaneità di tutti i viventi»: 8 la città<br />

<strong>che</strong> Enea deve fondare, l’ethos di questo legame tra chi è stato e chi sarà, è quella<br />

Gerusalemme <strong>che</strong> da Sant’Agostino arriva sino a Fortini, è un luogo della mente, di cui<br />

si coglie al contempo la luce e l’«inesistenza», i poli opposti tra cui si tende la<br />

riflessione poetica. 9<br />

Se l’esistenza è posta sotto assedio dal disastro incombente e dal nulla (l’incendio dal<br />

quale fugge Enea), il significato della poesia non è in funzione di ciò <strong>che</strong> viene<br />

rappresentato, ma di quella parte inesprimibile <strong>che</strong> alligna nella filigrana del reale e <strong>che</strong><br />

essa a tratti fa percepire. Nello stesso tempo non siamo proiettati in un altrove salvifico<br />

o verso una meta definitiva, il viaggio è sempre imperfetto e mai compiuto: tra il qui e<br />

l’altrove si preferisce quello spazio intermedio e contraddittorio, <strong>che</strong> è proprio della<br />

poesia, in cui si manifesta la tensione latente delle cose.<br />

1.1. Le parole e le cose<br />

Questo lavoro non vuole essere esaustivo di una generazione, o delineare una cultura<br />

poetica alternativa; intende piuttosto porsi come sguardo rivolto ad alcuni autori, <strong>che</strong><br />

hanno saputo variamente utilizzare la parola per esprimere e definire i concetti di esilio<br />

e di utopia, sia durante il periodo catastrofico del nazionalismo, della dittatura e della<br />

guerra, sia, dopo, durante il non meno oscuro, a tratti infernale, periodo di<br />

democratizzazione e sviluppo. 10 In risposta o reagendo a queste circostanze, essi non<br />

hanno evitato il confronto col reale, anzi tale componente è ben presente, spesso fatta<br />

reagire con una più onirica e visionaria. Ci sono oggetti e spazi ben definiti, c’è la<br />

storia, ma c’è an<strong>che</strong> un rovesciamento dei rapporti consueti con il reale: ci sono la<br />

distanza, la negazione, il silenzio, il corpo esposto nella sua folgorante e dolorosa<br />

8 Franco Fortini, Le mani di Radek, in Verifica dei poteri, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 124.<br />

9 Si legga la poesia di Fortini Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto, in Paesaggio con serpente.<br />

10 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Sviluppo e progresso, in Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2001 (1ª ed. 1975), p. 175-<br />

176: «La parola “sviluppo” ha oggi una rete di riferimenti <strong>che</strong> riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. […]<br />

È evidente: a volere lo sviluppo in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo” in Italia è<br />

questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali <strong>che</strong> producono beni superflui. I consumatori di<br />

beni superflui sono, da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo “sviluppo” (questo<br />

sviluppo). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali <strong>che</strong><br />

avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”». E ancora:<br />

«Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed<br />

economico».<br />

12


sensualità, oppure reso ombra di se stesso, fantasma e apparizione; c’è, infine, il<br />

pensiero del nulla, <strong>che</strong> dal corpo si trasmette alla parola stessa. La scelta è quella di una<br />

poesia <strong>che</strong> metta in stretta relazione l’io e il mondo, una poesia <strong>che</strong> porti a confrontarsi,<br />

pur con esperienze ed esiti assai differenti, con le trasformazioni di una società <strong>che</strong> si<br />

vuole a tutti i costi moderna, ma <strong>che</strong> in realtà nega ogni progresso civile (il «progresso<br />

come falso progresso» di cui parla Pasolini nelle Lettere luterane). Lontani da tale<br />

prospettiva di modernità questi autori manifestano un rapporto necessariamente<br />

contraddittorio con la storia: le loro poesie non solo esprimono l’angoscia per<br />

l’esperienza dello spaesamento, della lontananza e dell’esilio, ma, come una forza<br />

oppositiva, spingono questa esperienza storica e psicologica ai suoi limiti.<br />

Ricostruiscono e conferiscono una forma nuova all’identità individuale, contro la sua<br />

perdita o la sua dislocazione ad altri livelli di senso, come è avvenuto all’inizio del<br />

secolo, da una parte col futurismo, <strong>che</strong> si è fatto portavoce dell’iperbolico nazionalismo,<br />

e dall’altra, più tardi, con l’ermetismo, <strong>che</strong> ha reagito al nazionalismo con il<br />

ripiegamento individualistico di un io separato, di una <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> si allontanava da ogni<br />

relazione col mondo. Ciò di cui essi ci parlano non appartiene ad un’altra dimensione,<br />

ad un altro mondo, e an<strong>che</strong> quando ci siano apparizioni o fantasmi, an<strong>che</strong> quando ci si<br />

confronti direttamente con l’altro e l’altrove, essi non «si riferiscono a una storia<br />

differente dalla nostra». 11<br />

Caproni, Penna, Fortini e Sereni hanno esordito negli anni Trenta e Quaranta, in<br />

pieno periodo fascista e bellico, e successivamente hanno dovuto confrontarsi con la<br />

situazione venutasi a creare dopo la guerra. Si imponeva una profonda riflessione sul<br />

<strong>lingua</strong>ggio poetico e sulla sua evoluzione: occorreva mettere in discussione il rapporto<br />

tra le parole e le cose, tra soggetto e oggetto. Se da una parte si può parlare di<br />

dissoluzione di tali rapporti, dall’altra si tratta an<strong>che</strong> di trovare un punto di resistenza<br />

<strong>che</strong> non sia punto fermo ma snodo <strong>che</strong> predisponga ad una evoluzione. Sin dagli esordi<br />

nel clima ermetico, questi poeti manifestano un doloroso rapporto col reale, <strong>che</strong> passa<br />

attraverso il senso del tempo perduto della giovinezza, <strong>che</strong> solo Penna, forse, si illude di<br />

rivivere specchiandosi nelle molteplici immagini dei fanciulli. A prevalere è il senso del<br />

distacco, della fine e della distanza, an<strong>che</strong> fisica, da una terra <strong>che</strong> non gli appartiene più:<br />

il grande tema sereniano della prigionia diventa emblema di una condizione esistenziale<br />

11 Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, p. 38.<br />

13


di separazione e d’esclusione, il lago della terra natale è figura della successiva «lacuna<br />

del cuore» (Ritorno, in Gli strumenti umani). Nella Livorno natale di Caproni c’è una<br />

spazialità assediata dal vuoto, <strong>che</strong> la morte della madre e la guerra, rievocate nel Seme<br />

del piangere, svuoteranno: «nel nome / vuoto <strong>che</strong> si perdeva / nel vento», Batteva; «mia<br />

lacerata / tenda volata via / col suo fuoco e il suo Dio», Bibbia; «Il vento… È rimasto il<br />

vento», Dopo la notizia. Tuttavia, la «nostalgia di lunghissimo esilio non è mai<br />

impotente desiderio d’evasione», 12 il sentimento di estraneità e lontananza da un<br />

presente nel quale non ci si riconosce più, paradossalmente, genera una poetica a stretto<br />

contatto col reale, pronta a mettere in discussione il ruolo stesso <strong>che</strong> la parola può<br />

svolgere nell’inesausto rapporto con le cose, senza eluderlo, senza una metafisica<br />

autoreferenziale, ma sempre con lo sguardo rivolto al valore comunicativo della<br />

scrittura, «in una tensione comune ad afferrare e “recensire” le contraddizioni della<br />

realtà, a registrare il peso del passato per affrontare il presente, testimoniare dello stato<br />

di crisi del soggetto». 13 Sembrano appropriate le parole di Ermanno Krumm, quando<br />

scrive <strong>che</strong> «più <strong>che</strong> di comunicazione si dovrebbe parlare di contagio: una volontà di<br />

comunicazione <strong>che</strong>, nell’età della crisi della rappresentazione, non può muovere verso<br />

un mondo di dicibilità spiegata». 14 A questo contagio si sottrae, ancora una volta, solo<br />

l’opera di Penna, <strong>che</strong> eleggendo il mondo dei fanciulli quale spazio e tempo della vita,<br />

contro la morte e il tema novecentesco del nulla, può continuare a parlare. Garboli lo ha<br />

affermato chiaramente, sottolineando, an<strong>che</strong> da questo punto di vista, la sua diversità:<br />

Penna è stato, in questo secolo, il solo poeta italiano <strong>che</strong> abbia parlato a<br />

gola spiegata, dicendo chiaramente chi era e cosa voleva, in contrasto con la<br />

grande e vincente formula montaliana di negatività, e quindi a prezzo di un<br />

continuo accento di sfida e di una terribile infrazione sistematica <strong>che</strong> sarebbe<br />

riduttivo limitare al tema omosessuale. Si potrebbe definire l’opera di Penna,<br />

con una formula, come una “riflessione sul desiderio”. 15<br />

Il contagio del reale genera questo desiderio di dire altro, di cogliere quegli aspetti della<br />

realtà <strong>che</strong> aprono spiragli alla speranza. La necessità di una comunicabilità poetica <strong>che</strong><br />

12<br />

Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in «L’Unità», 14 luglio 1946, ora in Italo Calvino, Saggi, I, a<br />

cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, «i Meridiani», p. 1057.<br />

13<br />

Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, Lecce, Pensa<br />

MultiMedia, 2002, p. 23.<br />

14<br />

Ermanno Krumm, Lirica moderna e contemporanea, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 117.<br />

15<br />

Cesare Garboli, Penna Papers, nuova edizione ampliata, Milano, Garzanti, 1996 (1ª ed. 1984), p. 108. E si<br />

legga, sempre di Garboli, Penna, Montale e il desiderio, Milano, Mondadori, 1996, pp. XXIV-XXV: «Al “minimo di<br />

tollerabilità del vivere”, […] Penna aveva risposto con un’elaborazione, se così si può dire, tutta personale del<br />

desiderio».<br />

14


vada al fondo delle cose, non si risolve all’interno di una rivoluzione soltanto formale,<br />

così come non si fa portatrice di un messaggio piano, senza residui di senso, ma lascia<br />

intravedere una profondità oltre la superficie fisica del testo, un’oltranza inquieta, una<br />

dimensione del senso sempre tesa ad altro:<br />

Si capisce <strong>che</strong> questo è un «problema» d’origine quasi del tutto morale,<br />

etica: è l’urgenza, si sarebbe detto una volta, di nuove forme sotto la spinta<br />

irresistibile di contenuti nuovi. E invero i modi così consumatamente letterari<br />

[…] come potrebbero venire assunti, cioè essere imitati, da chi oggi tenta di<br />

risollevarsi da rovine divenute addirittura materiali? Oggi (in fondo gli<br />

«impossibili contenuti nuovi» non sono <strong>che</strong> questo: un modo nuovo di<br />

considerarsi nel mondo, uno spostamento del centro di gravitazione, e quindi<br />

un modo nuovo di riflettere in modi e forme nuove) vivere sui pinnacoli non<br />

giova più: non giova almeno in questo particolare momento d’emergenza. 16<br />

Se c’è chi ha preteso di superare l’ermetismo con lo scardinamento formale della<br />

norma poetica, e chi ha cercato di trasformarlo in una metafisica soggettiva e<br />

individualistica, questi autori, invece, pur seguendo strade diverse e complementari, sin<br />

dalle prime prove poeti<strong>che</strong> hanno scelto una parola <strong>che</strong> non scartasse il reale, non ne<br />

eludesse la presenza, ma <strong>che</strong> reagisse a contatto con esso:<br />

un ermetismo subito penetrato dalla vena diaristica e da una tensione<br />

conoscitiva <strong>che</strong> riesce […] a perimetrare la tendenza alla rarefazione, alla<br />

suggestione, tramite una spazialità controllata, una fisica, materica<br />

consistenza. Mondo interiore e mondo esterno rivelavano, in questa<br />

“contaminazione della narratività e della purezza” – la lettura è di<br />

Debenedetti – […] confini impercettibili e arbitrari. 17<br />

La <strong>lingua</strong> reagisce contro la retorica del regime fascista, prima, e poi contro le forme<br />

conformisti<strong>che</strong> e coercitive (della <strong>lingua</strong>, perché attraverso di essa si controlla il<br />

pensiero) venute dopo, nell’epoca della massificazione della cultura e della cosiddetta<br />

post-modernità. Nel senso d’emergenza gli scrittori scoprono una rinnovata possibilità<br />

comunicativa, in un’epoca in cui l’italiano è divenuto <strong>lingua</strong> nazionale e si è appiattito<br />

verso forme confermative di un potere istituito <strong>che</strong> nessuna neo-avanguardia ha saputo<br />

davvero scardinare:<br />

16 Giorgio Caproni, Poesia come disobbedienza, «Perseo», 20 ottobre 1948, ora in La scatola nera, prefazione di<br />

Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1996, p. 25.<br />

17 Niva Lorenzini, Il presente della poesia 1960-1990, Bologna, il Mulino, 1991, p. 71. E si legga an<strong>che</strong> Niva<br />

Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, il Mulino, 1999, p. 115: «Si misura qui il rapporto di<br />

dissolvenza soggetto-oggetto. […] Questa scrittura non evade verso la soggettività cifrata, le soluzioni misti<strong>che</strong>: la<br />

tensione è semmai verso un descrittivismo <strong>che</strong> riconquisti alla parola la fisicità».<br />

15


Poesia significa in primo luogo libertà. Libertà e disobbedienza di fronte<br />

ad ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona: di fronte ad<br />

ogni forma di irregimentazione o, peggio, di massificazione. La società in cui<br />

viviamo minaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del<br />

singolo: minaccia la distruzione totale del privato (della persona), per ridurre<br />

gli individui a una somma di «consumatori», ai quali – nell’imperante<br />

mercificazione an<strong>che</strong> di quelle <strong>che</strong> una volta venivano chiamate le<br />

aspirazioni spirituali – si vorrebbe imporre bisogni artificialmente creati per<br />

alimentare una macchina economica <strong>che</strong> trae a sé tutto il profitto, a pieno<br />

scapito d’ogni scelta interiore. Il poeta è il più deciso oppositore, per sua<br />

propria natura, di tale sistema. È il più strenuo difensore della singolarità,<br />

rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine. E per questo il sistema lo avversa,<br />

sia ignorandolo o fingendo d’ignorarlo, sia cercando di minimizzarne la<br />

figura con l’arma della sufficienza e dell’ironia. 18<br />

Il <strong>lingua</strong>ggio poetico deve, quindi, rispondere a un’esigenza etica ancor prima <strong>che</strong><br />

estetica. Il fine di tale <strong>lingua</strong>ggio è la rappresentazione di un mondo interiore ed<br />

esteriore, una fisicità della parola da opporre alla barbarie dei tempi. La concretezza<br />

leggera e luminosa di Penna, fatta di fanciulli, mare, scogli, stazioni e orinatoi (veri e<br />

propri emblemi di un’anima), quella di Caproni, sensuale e allo stesso tempo cruda e<br />

aspra, una fisica dei sensi 19 con cui si vorrebbe modellare l’ontologia e la psicologia del<br />

mondo, 20 la frontiera rappresentata dalla Luino della giovinezza di Sereni, così come la<br />

spazialità notturna, sospesa tra finito e infinito del primo Fortini, già proteso verso il<br />

futuro, fanno emergere una dimensione metaforica, il correlativo oggettivo di una<br />

situazione interiore, <strong>che</strong> presto lascia l’aura autobiografica, per diventare condizione<br />

collettiva e condivisa: 21<br />

Mi risveglio dal sonno, è una notte d’inverno,<br />

lontani sono i sogni, il libro è caduto,<br />

non vengono rumori sul vento della città.<br />

Guarda, mi dico, non è vero <strong>che</strong> siamo d’inverno,<br />

<strong>che</strong> sono morti gli amici e orrida cosa è vivere:<br />

vedrai domani alla prima luce ci desteremo<br />

18<br />

Giorgio Caproni, Sulla poesia, in La scatola nera, cit., p. 38. Caproni parla di «rovine invisibili», così come<br />

Pasolini di «macerie di valori»: «[…] non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra<br />

“macerie di valori”: “valori” umanistici e, quel <strong>che</strong> più importa, popolari» (Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane,<br />

Torino, Einaudi, 1976, p. 83).<br />

19<br />

Cfr. Andrea Cortellessa, La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma, Fazi,<br />

2006.<br />

20<br />

Cfr. Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 31: la poesia<br />

tende a «circoscrivere (an<strong>che</strong> a rischio dell’impoverimento e dell’autolimitazione della propria vena espressiva e<br />

ideale) un racconto poetico fatto di figure, di esperienze sensibili e psicologi<strong>che</strong>, entro un’economia formale e una<br />

precisione di <strong>lingua</strong>ggio».<br />

21<br />

E per avere un’idea del clima di quegli anni, si legga Franco Fortini, Dieci inverni, Bari, De Donato, 1973, p.<br />

30: «Erano inverni profondi, faticosi. Le rovine <strong>che</strong> avevamo intorno come allegoria di un riscatto possibile sparivano<br />

per dar luogo ad una città opulenta e meschina. […] Eppure bisognava impararne l’avvenire. Volevamo sperare di<br />

decifrarvi i destini personali e generali. Perché il mondo, come dice Schlegel, è e rimane la nostra unica spiegazione».<br />

16


a lavarci nei fontanili.<br />

(Franco Fortini, Le stagioni, in Poesia e errore)<br />

In questi pochi versi di Fortini sembra concentrarsi una semantica comune ai quattro<br />

autori presi in esame, ma portata qui ad un più alto grado di significazione. Possiamo<br />

allora isolarne alcuni elementi: il sonno e il sogno, l’immagine emblematica di un<br />

risveglio <strong>che</strong>, se da una parte fa pensare a Penna, dall’altra non si concede alla<br />

luminosità e alle rivelazioni tipi<strong>che</strong> del poeta perugino; ma an<strong>che</strong> la dimensione onirica<br />

come dimensione separata, momento di crisi dello sguardo <strong>che</strong> si rivolge al reale e nello<br />

stesso tempo scopre inedite intersezioni tra l’io e il mondo, tra le parole e le cose; poi ci<br />

sono elementi naturali dalla fisicità evidente, come i rumori, il vento, le stagioni, i<br />

fontanili, la «prima luce», le rovine e l’inverno, dal sapore così fortemente caproniano; e<br />

ancora, i morti e gli amici, <strong>che</strong> sembrano richiamare temi e valori <strong>che</strong> percorrono tutta<br />

l’opera di Sereni; sono figure decentrate, sospese, <strong>che</strong> partecipano di una condizione<br />

altra, di assenza o di inafferrabilità, come an<strong>che</strong> le «asparizioni» caproniane, o gli stessi<br />

fanciulli di Penna. A queste immagini fa da pendant una dimensione temporale tesa tra<br />

il presente e il futuro: i nervi scoperti della riflessione poetica <strong>che</strong> si snoda nel corso di<br />

tutto il secolo.<br />

1.2. Fenomenologia del negativo e storicità<br />

La presenza del negativo <strong>che</strong> attraversa il Novecento si innesta su una dimensione<br />

concreta e storica, in cui il confronto ineludibile è col passato e con la memoria. Nel<br />

momento in cui la propria esperienza individuale si scontra con quella collettiva, con<br />

quelli <strong>che</strong> Fortini chiama i «destini generali», il dolore del singolo diventa segno e<br />

figura di una sofferenza esistenziale <strong>che</strong> non riguarda più solo il passato, ma <strong>che</strong> si<br />

proietta an<strong>che</strong> nel futuro. 22<br />

Il fulcro attorno a cui ruota il discorso poetico è il presente, quindi il rapporto del<br />

soggetto con la realtà nella quale si trova a vivere e la problematizzazione del rapporto<br />

col futuro, cioè della poesia come progetto <strong>che</strong> si proietti oltre il tempo chiuso e vuoto<br />

22 Cfr. Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 38.<br />

17


dell’hic et nunc. La percezione fisica e sensuale della realtà, del mondo e della natura<br />

sembra realizzarsi sempre in ritardo rispetto all’evento, come in uno sfasamento<br />

temporale in cui l’esperienza si proietta subito nel ricordo di se stessa, in una sorta di<br />

«continua nostalgia del presente nel presente». 23 Sulle raccolte giovanili di questi autori<br />

aleggia l’ombra della morte, della fuggevolezza e precarietà dell’esistere. Così alla<br />

«Giovinezza vaga e sconvolta» (Mas<strong>che</strong>re del ’36, in Frontiera) di Sereni si potrebbero<br />

accostare alcuni versi di Caproni, <strong>che</strong> sono rivolti alla donna amata e perduta, ma an<strong>che</strong><br />

alla stessa giovinezza nel momento in cui ci si confronta con la morte:<br />

mentre senza un saluto,<br />

senza un cenno d’addio<br />

mi muore il giorno, e anch’io<br />

dentro il cuore m’abbuio,<br />

te ne sei andata<br />

(Giorgio Caproni, Mentre senza un saluto, in Finzioni)<br />

Della poesia di Penna si potranno ricordare alcuni esempi di una caducità <strong>che</strong> sta dietro<br />

l’apparente facilità e luminosità, e in cui si esprime un senso fisico di perdita e<br />

abbandono:<br />

Oh stelle in corsa<br />

l’amore della vita!<br />

Ma un’ansia i ridenti occhi<br />

già turba<br />

al fanciullo<br />

Ma effimero è alle cave<br />

Ansie il sole <strong>che</strong> ami.<br />

(Sandro Penna, Notte, sogno di sparse, in Poesie)<br />

(Sandro Penna, Cimitero in campagna, in Poesie)<br />

(Sandro Penna, Falsa primavera, in Poesie)<br />

An<strong>che</strong> nel primo Fortini riscontriamo movimenti analoghi, momenti avvertiti nella loro<br />

precaria sostanza temporale:<br />

Il vento <strong>che</strong> dall’alto<br />

23 Giorgio Caproni, «Poesie» di Sandro Penna, «La Fiera Letteraria», 8 settembre 1957, poi in La scatola nera,<br />

cit., p. 109.<br />

18


Affanna e serra in fitta ridda i gesti<br />

Umani e sperderà<br />

Come faville attimi gli anni, guerra<br />

Alla esile gioia nostra, a quella<br />

Ombra <strong>che</strong> a noi amore educa breve.<br />

(Franco Fortini, Di Maiano, in Foglio di via)<br />

La poetica pre-esistenziale 24 di Penna, si riverbera nel primo periodo di Sereni e<br />

Caproni, in quel «gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della<br />

labilità delle cose, della loro fuggevolezza» e nel «continuo avvertimento della<br />

presenza, in tutto, della morte», 25 <strong>che</strong> si può riscontrare an<strong>che</strong> nei versi di Fortini citati<br />

poco sopra. Non c’è un rapporto pacificato col reale, piuttosto una continua<br />

problematizzazione del ruolo <strong>che</strong> la parola poetica può avere nell’affrontare il mondo,<br />

nel momento in cui viene a urtare con la dimensione psichica. Se da una parte «la poesia<br />

è […] un mezzo atto a risvegliare l’emozione degli oggetti, dei sentimenti, delle<br />

passioni di cui an<strong>che</strong> il lettore ha memoria», 26 tuttavia il contenuto emozionale <strong>che</strong><br />

anima i versi deve fare i conti con quel sentimento di indicibilità <strong>che</strong> alberga proprio<br />

nella profondità psichica e <strong>che</strong> non porta ad un rapporto lineare col reale, ma a dei<br />

tentativi di avvicinamento, di rivisitazione di eventi ed emozioni già passate o sul punto<br />

di svanire. La parola dovrebbe dare vita alla pagina, ma si confronta inevitabilmente con<br />

una imperfezione del dire, una mancanza, una rottura nella continuità tra il prima e il<br />

dopo, <strong>che</strong> mette in crisi sul nascere la poetica dell’attimo sospeso e rubato al divenire<br />

inarrestabile degli eventi.<br />

Consideriamo quindi alcune raccolte di questi autori a cavallo tra gli anni Trenta e<br />

Quaranta: Come un’allegoria di Giorgio Caproni, del 1936; le Poesie di Sandro Penna,<br />

pubblicate da Parenti nel 1939 e <strong>che</strong> inizialmente dovevano intitolarsi Appunti; 27<br />

Frontiera di Sereni, del 1941, così come Finzioni di Giorgio Caproni e ricordiamo<br />

an<strong>che</strong> Foglio di via di Fortini, del 1946, <strong>che</strong> già dal titolo dichiara una condizione<br />

d’esilio e di separazione. Allegoria, frontiera, finzioni, appunti, sono parole <strong>che</strong> dicono<br />

24<br />

Fabio Moliterni (in Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 50), applica<br />

questa definizione alla poesia di Caproni e Sereni, ma mi sembra <strong>che</strong> essa possa essere applicata, ancor prima <strong>che</strong> a<br />

loro, a Penna.<br />

25<br />

Giorgio Caproni in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982 (1ª ed. Milano, Lerici,<br />

1965), p. 102.<br />

26<br />

Giorgio Caproni, Le poesie sono oggetti?, in «Mondo operaio», 26 marzo 1949.<br />

27<br />

Come scrive Roberto Deidier, L’officina di Penna, Milano, Archinto, 1997, p. 12: «Appunti è un titolo di cui<br />

Penna ha una consapevolezza molto precoce, fin dai primi invii delle sue poesie a Saba». Poi Penna utilizzerà<br />

Appunti come titolo per la sua seconda raccolta, pubblicata a Milano dalle edizioni della Meridiana nel 1950.<br />

19


il senso di un distacco, di una lontananza connaturata nel rapporto tra l’io e il mondo,<br />

tra l’individuo e il proprio tempo: ciò di cui questi titoli ci parlano è l’impossibilità di<br />

stabilire un rapporto diretto con la realtà, di fare conoscenza delle cose, poiché la parola<br />

non può definirle ma solo sfiorarle. In tutti questi libri si riscontra la percezione di un<br />

mondo fissato nel momento <strong>che</strong> precede la fine, o rappresentato nel momento<br />

immediatamente successivo a un evento.<br />

Lasciamo parlare per tutti Caproni:<br />

Sopra i monti spaziosi<br />

le po<strong>che</strong> case disperse<br />

invidiano il colore caldo<br />

della tua pelle, all’ora<br />

<strong>che</strong> fa nostra ancora per poco<br />

la terra.<br />

Vorrei per non saperti<br />

tanto precaria,<br />

[…]<br />

almeno un’ora<br />

sola la tua fiorita<br />

carne credere pietra<br />

ferma: statua cui vita<br />

non fa caduca il fuoco<br />

del sangue<br />

– e la demente<br />

fuga del tempo, e il lampo<br />

rapido <strong>che</strong> ci colora<br />

l’ora<br />

(Giorgio Caproni, Altri versi a Rina, in Ballo a Fontanigorda)<br />

(Giorgio Caproni, A una giovane sposa, in Ballo a Fontanigorda)<br />

La dimensione temporale si dà nella lacerazione tra io e storia, o tra io e morte, e tra il<br />

prima e il dopo. Il presente vuole essere trattenuto sul limite del baratro tra essere e non<br />

essere, cercando – come ha scritto Caproni – di «fare poesia ad occhi aperti e guardare<br />

in faccia la realtà fino a metterne in dubbio l’esistenza». 28 Questo rapporto contrastato<br />

sarà presente an<strong>che</strong> nelle raccolte successive, in cui si sviluppa il tema dell’«antistoria»:<br />

Calorosa ragazza<br />

28 Così Giorgio Caproni in un’intervista a «Il Sabato», 1984, ora in Giorgio Caproni, L’opera in versi, edizione<br />

critica a cura di Luca Zuliani, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei,<br />

Milano, Mondadori, «i Meridiani», 1998, p. 1058.<br />

20


<strong>che</strong> avanzi tra la verzura:<br />

i tuoi acri rossori<br />

son tenebra, non paura.<br />

Sono acuta ignoranza<br />

viva e provocatoria:<br />

son la veemente baldanza<br />

del sangue. L’antistoria.<br />

(Odor vestimentorum, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />

La realtà è messa in dubbio proprio dalla memoria, <strong>che</strong>, andando oltre la contingenza e<br />

intrecciando nuovi legami tra parole e cose, determina lo spazio della possibilità e della<br />

ripetizione:<br />

un richiamo istintivo e fisico, venato ora di estraneità e di nostalgia.<br />

L’invito involontario del sangue è sempre uguale, insiste su un nodo<br />

pungente di vitalità; la natura lo reinventa in eterno, lo offre come<br />

“antistoria”. 29<br />

Il presente quindi può avere due valenze: l’una assoluta, astorica, in cui si concentra il<br />

ricordo del passato, <strong>che</strong> conferisce un senso an<strong>che</strong> all’attesa del futuro; l’altra<br />

distruttiva, <strong>che</strong> esprime la distanza rispetto a un tempo irrecuperabile, irripetibile, per<br />

cui il presente diventa il momento del confronto con la fine, con la perdita. È una<br />

temporalità in stretto rapporto con la morte, <strong>che</strong> da emozione sospesa e indefinibile si fa<br />

condizione esistenziale, attraverso quella lacerazione costituita dall’ingresso della storia,<br />

<strong>che</strong> rimette in questione il rapporto tra le parole e i loro referenti. Si cerca allora «un<br />

significato sempre volto ad esprimere un qualcosa d’altro […] al di là del puro<br />

significato letterale o figurativo della parola», 30 per resistere alle tracce già evidenti di<br />

un male individuale e storico allo stesso tempo. Quanto a Fortini all’altezza della sua<br />

prima silloge (<strong>che</strong> raccoglie liri<strong>che</strong> composte tra il 1938 e il 1945) è «poeta della<br />

Resistenza» <strong>che</strong> manifesta «solidarietà col dolore degli uomini e di lotta contro questo<br />

dolore». 31 Possiamo già individuare i movimenti di una poesia a contatto con la storia,<br />

con l’esperienza della guerra e <strong>che</strong> sviluppa dialetticamente il tema bellico e della lotta<br />

come figura di una liberazione e di una rivoluzione maggiori. La nostalgia <strong>che</strong> percorre<br />

questi primi versi non porta Fortini a mitizzare un mondo o un tempo perduti o in<br />

29<br />

Adele Dei, Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992, p. 139.<br />

30<br />

Così Giorgio Caproni in un’intervista all’«Avanti!», 1965, ora in Giorgio Caproni, L’opera in versi, cit., p.<br />

1058.<br />

31<br />

Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., p. 1057.<br />

21


procinto di essere spazzati via dagli eventi tragici di quegli anni, piuttosto carica i versi<br />

di una profondità <strong>che</strong> è già interpretazione morale, sguardo aperto sul mondo, rivolto ad<br />

una «bianca disperazione» 32 <strong>che</strong> lascia intravedere quella «disperazione / calma e senza<br />

sgomento» di cui parlerà Caproni nel Congedo del viaggiatore cerimonioso e <strong>che</strong><br />

diventerà colonna portante del suo sistema ideologico e poetico:<br />

Anni per me di bianca e quasi forsennata disperazione, la quale proprio<br />

nell’importance formale della scrittura […] e quindi nell’anch’essa disperata<br />

tensione metrica […] forse cercava per via di paradosso, ma con lucida<br />

coscienza, e certo del tutto controcorrente […] un qualsiasi tetto all’intima<br />

dissoluzione non tanto della mia privata persona, ma di tutto un mondo<br />

d’istituzioni e di miti sopravvissuti e sbugiardati, e quindi di tutta una<br />

generazione d’uomini <strong>che</strong>, nata nella guerra e quasi interamente coperta – per<br />

la guerra – dai muraglioni ciechi della dittatura, nello sfacelo dell’ultimo<br />

conflitto mondiale, già in anticipo presentito e patito senza la possibilità o la<br />

capacità, se non in extremis, d’una ribellione attiva, doveva veder conclusa la<br />

propria (ironia d’un inno <strong>che</strong> voleva essere di vita) «giovinezza». 33<br />

Più <strong>che</strong> di disperazione si tratta forse di stoicismo, di saper accettare la<br />

vita e di saperla vivere degnamente al di fuori o al di sopra d’ogni illusione. 34<br />

Ma è an<strong>che</strong> quella «lenta morte senza disperazione» di una lirica di Penna, 35 ed è più in<br />

generale<br />

la prostrazione dell’uomo del Novecento, <strong>che</strong> uscendo da bugie e illusioni,<br />

pure patisce di quelle mancanze e, nel vuoto, s’aggira tristemente, perfino<br />

incapace di disperare. Perché disperazione è dolore pieno, incontrollato.<br />

Dunque negato a chi si aggira nel dubbio. 36<br />

Fortini, dal canto suo, non descrive il nulla ma vi si oppone; e questo già in Foglio di<br />

via, con immagini dall’immediata fisicità <strong>che</strong> alludono an<strong>che</strong> ad una dimensione altra,<br />

più profonda. Si confrontino i suoi versi con quelli degli altri autori:<br />

La fila lunga dei soldati<br />

è passata; sul prato è rimasto<br />

aspro l’odore dell’erba<br />

pestata – e l’eco<br />

32 Ivi, p. 1060.<br />

33 Così Caproni, nel preambolo a Il terzo libro e altre cose, Torino, Einaudi, 1968.<br />

34 Da un dattiloscritto di Giorgio Caproni ad Antonio Barbuto, in Antonio Barbuto, Giorgio Caproni. Il destino<br />

d’Enea, Roma, Ateneo & Bizzarri, 1980, p. 6.<br />

35 Com’è forte il rumore dell’alba!, in Sandro Penna, <strong>Una</strong> strana gioia di vivere, Milano, All’insegna del pesce<br />

d’oro, 1956.<br />

36 Così Elio Pecora, Premessa alla nuova edizione, in Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, Milano, Frassinelli, 2006,<br />

p. VI.<br />

22


d’un canto nell’aria serale.<br />

Ad occidente, nel fuoco<br />

bianco d’un astro, scompare<br />

l’ultima rondine. A poco<br />

a poco, sbiadisce il giorno<br />

(ricordo d’uomini e di giardini)<br />

nella memoria stanca della sera.<br />

La sera invade il calice leggero<br />

<strong>che</strong> tu accosti alle labbra.<br />

Diranno un giorno: – <strong>che</strong> amore<br />

fu quello… –, ma intanto<br />

come il cucù desolato dell’ora<br />

percossa da stanza a stanza<br />

dei giovani cade la danza,<br />

s’allunga l’ombra sul prato.<br />

E sempre io resto<br />

di qua dalla nube smemorata<br />

<strong>che</strong> chiude la tua dolce austerità.<br />

(Giorgio Caproni, Vespro, in Come un’allegoria)<br />

(Vittorio Sereni, La sera invade il calice leggero, in Frontiera)<br />

Ora <strong>che</strong> dai gelati alvei dei fiumi<br />

Ai pascoli deserti salirà<br />

Novembre e ai fumi ultimi delle bàite;<br />

Ora <strong>che</strong> il vespro eguali invetria i fuochi<br />

Degli astri e i lumi della nemica città<br />

[…]<br />

Viene inverno: una pena antica geme<br />

Dentro i macigni dei duomi potenti.<br />

Lattiginosa d’alba<br />

nasce sulle colline,<br />

balbettanti parole ancora<br />

infantili, la prima luce.<br />

La terra, con la sua faccia<br />

madida di sudore,<br />

apre assonnati occhi d’acqua<br />

alla notte <strong>che</strong> sbianca.<br />

(Gli uccelli sono sempre i primi<br />

pensieri del mondo)<br />

Mi avevano lasciato solo<br />

nella campagna, sotto<br />

(Franco Fortini, Di Maiano, in Foglio di via)<br />

(Giorgio Caproni, Prima luce, in Come un’allegoria)<br />

23


la pioggia fina, solo.<br />

Mi guardavano muti<br />

meravigliati<br />

i nudi pioppi: soffrivano<br />

della mia pena: pena<br />

di non saper chiaramente…<br />

E la terra bagnata<br />

e i neri altissimi monti<br />

tacevano vinti. Sembrava<br />

<strong>che</strong> un dio cattivo<br />

avesse con un sol gesto<br />

tutto pietrificato.<br />

E la pioggia lavava quelle pietre.<br />

Quanta limpida luce orna il colore<br />

Delle ombre del mondo. Ora conosco<br />

Perché mai dagli inverni ove a fatica<br />

Si levò questo esistere mio vivo<br />

M’è rimasto quel nome, <strong>che</strong> mi scrivo<br />

Su quest’aria d’aprile, o sola antica<br />

E perduta e oltre il pianto sempre cara<br />

Immagine d’amore mia compagna.<br />

(Sandro Penna, Mi avevano lasciato solo, in Poesie)<br />

(Franco Fortini, vice veris, in Foglio di via)<br />

In questi testi è forte il senso concreto di inquietudine, espresso attraverso immagini<br />

dalla fisicità vibrante, luci e ombre di un mondo sorpreso in un momento di passaggio<br />

<strong>che</strong> è an<strong>che</strong> perdita (l’alba e il tramonto ne sono chiari esempi). I testi sono intessuti di<br />

sensazioni dell’io lirico, <strong>che</strong> trasmettono un turbamento, un senso di vaghezza e<br />

sospensione, <strong>che</strong> vibrano nei tratti angosciati dei paesaggi, per cui il tono elegiaco è in<br />

stretto rapporto con la realtà, con luoghi concreti, pronti a entrare in urto con la storia:<br />

Forse da oggi soltanto<br />

avvertiremo l’impeto dell’ore<br />

a mezzo il nostro secolo volgenti,<br />

mentre al vento oscillano le lampade<br />

bisbiglia un portico in ombra<br />

e tu trasali al rombo<br />

degli autocarri <strong>che</strong> mordono la montagna.<br />

Ma salvo nelle voci degli addii<br />

sommesso presentiva il mare<br />

al passo dei notturni battaglioni.<br />

(Vittorio Sereni, Soldati a Urbino, in Frontiera)<br />

(Vittorio Sereni, Poesia militare, in Frontiera)<br />

24


Di notte il paese è frugato dai fari,<br />

lo borda un’insonnia di fuochi<br />

vaganti nella campagna,<br />

un fioco tumulto di lontane<br />

locomotive verso la frontiera.<br />

[…] E poi i sudori<br />

polverosi, le mani senza affetto<br />

e chiuse già nelle voci <strong>che</strong> fuori<br />

d’ogni numero intaccano il perfetto<br />

spazio di giugno, cadranno nel duro<br />

vuoto <strong>che</strong> lasci: un bianchissimo tuono<br />

di macerie, <strong>che</strong> crollano al futuro<br />

vento dei giorni – e al mio orecchio un frastuono<br />

dove si perde il tuo squillo più puro.<br />

(Vittorio Sereni, Inverno a Luino, in Frontiera)<br />

(Giorgio Caproni, Sonetti dell’anniversario, XIV, in Cronistoria)<br />

L’elegia costeggia la cronaca, il dato biografico diviene allegoria di una condizione<br />

universale, e il dolore individuale diviene esistenziale. L’io è già un «trapassante»,<br />

come dirà Sereni in Stella variabile, in un’esistenza <strong>che</strong> «non esiste», o <strong>che</strong> «inesistendo<br />

esiste» (In salita), e allora il momento poetico «trascende il dato di contingenza e<br />

prende il sapore di un evento ultratemporale, non extratemporale, ovvero di qualcosa<br />

<strong>che</strong> entra nell’eterno passando da una concreta dimensione storica»: 37<br />

Dunque nulla di nuovo da questa altezza<br />

Dove ancora un poco senza guardare si parla<br />

E nei capelli il vento cala la sera.<br />

Dunque nessun cammino per discendere<br />

Se non questo del nord dove il sole non tocca<br />

E sono d'acqua i rami degli alberi.<br />

Dunque fra poco senza parole la bocca.<br />

E questa sera saremo in fondo alla valle<br />

Dove le feste han spento tutte le lampade.<br />

Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.<br />

37 Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 50.<br />

25<br />

(Franco Fortini, Foglio di via)


1.3. Essere contro: reazioni con lo spazio e col tempo<br />

Il periodo più fecondo e ricco di suggestioni temati<strong>che</strong> e formali è quello intorno agli<br />

anni Sessanta e Settanta. Le raccolte pubblicate in questi decenni contengono poesie<br />

scritte durante la guerra fredda e <strong>che</strong> risentono della svolta del 1956: nel 1959 esce<br />

Poesia e errore di Franco Fortini, in quello stesso anno vede la luce an<strong>che</strong> Il seme del<br />

piangere di Caproni <strong>che</strong>, anziché riflettere sui destini generali, si chiude in una<br />

dimensione privata e intima; nel 1963 esce <strong>Una</strong> volta per sempre, titolo ricapitolativo di<br />

un’epoca o di una stagione umana, <strong>che</strong> si accosta ad una pronuncia ultimativa della<br />

parola poetica, già sull’orlo della postumità: 38 con questa raccolta Fortini ha in un<br />

qual<strong>che</strong> modo aperto un sentiero ricco di suggestioni e capace di toccare nel vivo i nervi<br />

scoperti della società e della storia; corrispondendo a questi sentimenti nel 1965 vedono<br />

la luce due raccolte capitali: il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre<br />

prosopopee di Caproni; mentre Sereni con Gli strumenti umani ci avrebbe lasciato la<br />

mappa più precisa e intensa delle angosce stori<strong>che</strong> maturate negli anni precedenti e<br />

acuite dall’estraneità ad un presente di sopraffazione. Ancora, nel 1973 viene pubblicato<br />

Questo muro di Fortini e poi nel 1975 Il muro della terra di Caproni; nel 1976<br />

Stranezze di Penna e nel 1979 la primissima edizione di Stella variabile di Sereni, poi<br />

ripubblicata da Garzanti nel 1981. Sono titoli in cui si manifesta quella crisi del<br />

<strong>lingua</strong>ggio <strong>che</strong> la neoavanguardia considera in quegli anni come la chiave di<br />

interpretazione della scrittura e della società. 39 Il rapporto problematico tra <strong>lingua</strong>ggio e<br />

realtà, tra conoscenza ed esperienza, anima le opere di questi poeti <strong>che</strong> restano tuttavia<br />

estranei alle ricer<strong>che</strong> avanguardisti<strong>che</strong>. Essi manifestano, secondo linee e scelte poeti<strong>che</strong><br />

diverse, un senso vivo e provocatorio di non appartenenza, uno spirito d’esilio <strong>che</strong> si<br />

rivela a più livelli: erranza e viandanza, <strong>che</strong> già dalle prime prove avevano assunto un<br />

38 Così Franco Fortini, Versi scelti 1939-1989, Torino, Einaudi, 1990, p. 445: «Il titolo di questa raccolta vorrebbe<br />

essere inteso tanto nel significato di “una volta per tutte”, cioè di dichiarazione e suggello, quanto in quello di<br />

irripetibilità, assolutezza e responsabilità del vissuto e compiuto».<br />

39 Cfr. Bernard Simeone, Préface, in Valerio Magrelli, Natures et signatures, Cognac, Le Temps qu’il fait, 1998,<br />

pp. 7-8: «En reproduisant, de façon mimétique et distanciée, les automatismes que la société de consommation avait<br />

induits au cœur du langage, en tentant de briser non seulement l’écriture poétique mais toute prétention à une<br />

cohérence factice entre image, rythme et son, la néo-avant-garde avait provoqué un séisme presque aussi violent dans<br />

le champ de la poésie que dans celui de la fiction […]. La crise majeure avait concerné l’acte même de nommer. […]<br />

La langue, privée de référents majeurs, devenait dispersion et vertige, de plus en plus grinçante, de plus en plus<br />

ludique, et, tout en disant la combattre, participait de la brutale perte de sens causée par la transformation du réel en<br />

un stock infini de marchandises. Tandis que la question de l’être était déjà masquée, […] la langue elle-même, se<br />

dégradant en chose, perdait le pouvoir de dire les autres objets, puisqu’elle ne disposait plus, par rapport à eux, d’un<br />

recul suffisant».<br />

26


carattere psicologico e agivano a livello della percezione della realtà; ma an<strong>che</strong> resa<br />

psicologica e storica di un altrove <strong>che</strong> è sospeso tra riconoscimento del nulla e apertura<br />

all’utopia, come pure alla riflessione sul concetto di impegno, ovvero sul ruolo<br />

dell’intellettuale nella società. In un’intervista <strong>che</strong> chiude l’antologia francese delle sue<br />

poesie Fortini riassume il rifiuto delle due principali posizioni di un’epoca:<br />

la première est l’illusion post-surréaliste (et de la néo-avant-garde<br />

italienne des années 60) selon laquelle dynamiter la syntaxe et altérer les<br />

structures du logos devrait être considéré comme un comportement<br />

révolutionnaire, la seconde se lit <strong>che</strong>z Adorno: la stendhalienne «promesse du<br />

bonheur» contenue dans l’œuvre artistique et poétique aurait en elle-même<br />

une valeur subversive par rapport aux ordres et aux valeurs constituées. […]<br />

Quand j’avais entre vingt et trente ans, la charge de haine, de passion et de<br />

désespoir induite par l’insertion violente de la chronique dans la biographie<br />

me cachait ce que je crois savoir aujourd’hui: la nature cérémonielle de tout<br />

acte langagier quand il est accueilli par l’institution poétique et littéraire, et la<br />

présence d’une composante conciliatrice inséparable de toute œuvre<br />

poétique, car elle mime dans son microcosme les articulations et les tensions<br />

du «réel». Une telle armature rhétorique n’est pas sans rappeler ce qu’a<br />

signifié <strong>che</strong>z Ungaretti la condition de «créature» face à la guerre et, <strong>che</strong>z<br />

Montale, celle de cette même «créature» face au «vide qui nous envahit».<br />

Mais, en bien comme en mal, la guerre de 39/45 n’était pas celle de 14/18 et<br />

le «vide» n’était pas celui d’une défaite existentielle dans le cadre du<br />

fascisme triomphant des années 20 et 30, mais plutôt celui d’un futur<br />

inauguré par les camps et la bombe. Le référent changeait avant le signifiant.<br />

Ce fut souvent le cas. Et pour finir, cette mutation altérait aussi le signifiant. 40<br />

Quindi rifiuto di uno sperimentalismo linguistico <strong>che</strong> rischiava di diventare superficiale<br />

formalismo, ma an<strong>che</strong> rifiuto dell’idea dell’arte come valore sovversivo in sé. Quando<br />

la poesia si ferma a pensare se stessa significa <strong>che</strong> fatica ad aprirsi una strada per<br />

incidere attivamente nella società, per questo la riflessione sul carattere manieristico<br />

della <strong>lingua</strong> e della forma poetica attraversa tutti e quattro gli autori presi in esame. Tale<br />

impasse viene da loro superata facendo reagire la cronaca, ossia la storia, all’interno<br />

della materia autobiografica, affinché l’essere e il vuoto <strong>che</strong> la circondano, possano<br />

instaurare nuovi rapporti tra significante e significato. Essi cercano di indagare quello<br />

spazio ormai ambiguo <strong>che</strong> sta tra soggetto e oggetto attraverso il medium della parola:<br />

una poesia <strong>che</strong> tanto più abita la dimensione esistenziale, quanto più si immerge<br />

nell’ontologia del negativo, dello spazio e del tempo inerti, ma <strong>che</strong>, allo stesso tempo,<br />

non indietreggia di fronte al difficile rapporto col mondo esterno, an<strong>che</strong> con quello<br />

40 Franco Fortini in «Donc sous peu sans mots la bou<strong>che</strong>» échanges Rémi Ro<strong>che</strong>/Franco Fortini, in Franco<br />

Fortini, Une fois pour toutes. Poésie 1938-1986, traduit par Jean-Charles Vegliante et Bernard Simeone, Lyon,<br />

Fédérop, 1986, p. 154.<br />

27


originario rappresentato dalla natura. Sarà un confuso sogno, saranno finzioni, sempre al<br />

limite, alla frontiera tra al di qua e al di là di questo muro, tuttavia la parola non<br />

rinuncia al rapporto con le cose, e continua a percorrere la strada della dicibilità del<br />

mondo, pur percependo l’illusione <strong>che</strong> si cela dietro di essa e dietro l’istanza stessa del<br />

soggetto:<br />

Credo <strong>che</strong> sia la disperazione ad essere “fredda”: ma non una<br />

disperazione patetica, bensì l’azzeramento consapevole delle speranze, <strong>che</strong> è<br />

proprio dello stoico. Lo sfacelo della storia <strong>che</strong> abbiamo vissuto non ammette<br />

riscatti di illusione, né la poesia è un rifugio o un’isola felice: anzi, è lo<br />

strumento forse più acuminato per esprimere un vuoto <strong>che</strong> non può certo<br />

essere colmato da istituzioni fatiscenti e artificiose. 41<br />

Se tra gli anni Trenta e Cinquanta il sentimento del tempo prevalente è quello della<br />

precarietà e dell’inafferrabilità, nelle raccolte successive si apre lo spazio per una<br />

riflessione più articolata sul concetto stesso di tempo, <strong>che</strong> viene percepito come vuoto,<br />

nulla, separazione, congedo, ma an<strong>che</strong> come un ente dinamico carico di potenzialità. Sin<br />

dalle sue prime prove Fortini pone i confini di quella <strong>che</strong> Marco Forti chiama<br />

«surrealtà», una tensione della parola poetica a forzare la realtà per non esserne<br />

subordinata, perché an<strong>che</strong> sul più «distrutto destino» si proietti la speranza nel futuro, e<br />

quanto più la parola poetica è espulsa, esclusa dal presente, tanto più la ricerca di valori<br />

condivisi si situi nel “non ancora”, nel “dopo” di una distanza non misurabile ma<br />

percepita come possibile destino collettivo. Nonostante ciò (ma an<strong>che</strong> in ragione di ciò)<br />

il presente non viene sacrificato al futuro, ad una progettualità sterile <strong>che</strong> impedisca di<br />

vivere pienamente la propria epoca, piuttosto è nel presente <strong>che</strong> vanno individuate le<br />

responsabilità, le colpe e, di conseguenza, la necessità di un impegno etico costante, non<br />

rinviabile. La speranza di un rivolgimento finale, forse solo postumo, di un agire<br />

culturale <strong>che</strong> si pone sempre “al di là”, deve confrontarsi in qualunque epoca con la<br />

realtà:<br />

la finzione è l’ultima speranza.<br />

[…]<br />

La storia – torni a spiegargli – è tutta la realtà.<br />

E invece non è vero.<br />

(Franco Fortini, La realtà, in L’ospite ingrato secondo)<br />

41 Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», intervista rilasciata a Stefano Giovanardi, «la Repubblica», 5<br />

gennaio 1984 (poi in «Galleria», XL, 2, maggio-agosto 1990, pp. 425-428).<br />

28


Fortini dichiara i limiti di un mondo in cui «si vedono le cose» (Molto chiare…, in<br />

Paesaggio con serpente), in cui l’ansia e il senso profondo di una impossibilità di<br />

partecipazione, di una mancanza deviano il discorso verso un’altra e più alta<br />

prospettiva, nella consapevolezza <strong>che</strong> le cose non sono tutto, così come «l’estate non è<br />

tutto» (Molto chiare…), perché, come ha scritto Luperini, «l’atto del vedere viene<br />

sdoppiato, scisso fra una realtà evidente (quella unidimensionale della vista sensibile) e<br />

una pluridimensionale oscuramente possibile». 42 Fortini non si lascia contaminare da<br />

impulsi millenaristici o dal fascino negativo del nichilismo, il suo sguardo può dare un<br />

senso alle cose, an<strong>che</strong> se questo senso cade in un altro tempo, in un’altra dimensione:<br />

«Il senso esiste / e lo conosceranno» (Primavera occidentale, in Paesaggio con<br />

serpente).<br />

In Sereni e in Caproni, c’è, al contrario, una «impossibilità di rinnovarsi», 43 derivante<br />

da un’esperienza <strong>che</strong> si compone di stratificazioni del passato <strong>che</strong> emergono nel<br />

presente in modo sofferto. Come ha scritto Niva Lorenzini: «poeta è appunto per Sereni<br />

chi, rivisitando, vorrebbe “vivere daccapo” l’emozione mentre deve limitarsi ogni volta<br />

a “riviverla”, interponendo una distanza tra sé e il paesaggio, i luoghi, gli oggetti, le<br />

memorie», 44 per cui il senso sta sempre in un al di là irraggiungibile, oltre quel<br />

caproniano muro della terra, <strong>che</strong> è metafora «dell’ottusa chiusura delle possibilità<br />

conoscitive umane di fronte alla fenomenologia del reale». 45 La memoria genera un<br />

movimento negativo di perdita e di esclusione dalla vita, di percezione del nulla e del<br />

male, <strong>che</strong> si insinuano nell’esperienza del presente: se lo spazio è strettamente legato al<br />

tempo, e il divenire è fatto di rotture e lacerazioni, di muri e frontiere invalicabili, il<br />

tempo stesso sancisce la lontananza e la separazione dell’io dal mondo. Caproni e<br />

Sereni dicono l’inesistente, attraverso una memoria <strong>che</strong> distorce e devia, «<strong>che</strong> estrania le<br />

coordinate dell’esperienza soggettiva» 46 nell’ambito di una visionarietà ambigua e<br />

42<br />

Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 55.<br />

43<br />

Pier Vincenzo Mengaldo, Iterazione e specularità in Sereni, in«Strumenti critici», VI, 17, febbraio 1972, poi in<br />

La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, poi, sempre con lo stesso<br />

titolo in Vittorio Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1995, p.<br />

LXV.<br />

44<br />

Così Niva Lorenzini, In margine a un “Diario intermittente”, in «Poeti<strong>che</strong>», numero monografico dedicato a<br />

Vittorio Sereni, 3/1999, p. 467.<br />

45<br />

Luigi Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, Genova, Costa & Nolan, 1990, p. 88.<br />

46<br />

Così Luca Lenzini nel Commento a Vittorio Sereni, Il grande amico. Poesie (1935-1981), introduzione di<br />

Gilberto Lonardi, Milano, Rizzoli, 2004, p. 225. Si legga an<strong>che</strong> Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di<br />

29


paradossale, <strong>che</strong> non si apre al futuro ma a una reversibilità prospettica <strong>che</strong> può<br />

trasmettere solo una conoscenza imperfetta:<br />

Ma la distorsione del tempo<br />

il corso della vita deviato su false piste<br />

l’emorragia dei giorni<br />

del varco del corrotto intendimento<br />

(Vittorio Sereni, Quei bambini <strong>che</strong> giocano, in Gli strumenti umani)<br />

Sono già morto e qui torno?<br />

O sono il solo vivo nella vivida e ferma<br />

nullità di un ricordo?<br />

(Vittorio Sereni, Di passaggio, in Gli strumenti umani)<br />

La poesia di Caproni e Sereni si trova sempre più spesso a rappresentare lo scacco<br />

dell’io rispetto al tempo, senza risolvere (o risolvendo dolorosamente e negativamente)<br />

il rapporto tra passato, presente e futuro. La precarietà del tempo diviene precarietà<br />

della percezione e sua rappresentazione nella poesia:<br />

Non vorrai dirmi <strong>che</strong> tu<br />

sei tu o <strong>che</strong> io sono io.<br />

Siamo passati come passano gli anni.<br />

Altro di noi non c’è qui <strong>che</strong> lo specimen<br />

anzi l’imago perpetuantesi<br />

a vuoto –<br />

e acque ci contemplano e vetrate,<br />

ci pensano al futuro: capofitti nel poi,<br />

postille sempre più fio<strong>che</strong><br />

multipli vaghi di noi quali saremo stati.<br />

(Vittorio Sereni, Altro posto di lavoro, in Stella variabile)<br />

A questa crisi aveva cercato di rispondere Caproni con Il seme del piangere, in cui al<br />

ricordo e alla memoria si sostituisce la finzione creatrice di un passato <strong>che</strong> preesiste<br />

all’io poetico e <strong>che</strong> non si sovrappone al presente, ma vi si sostituisce temporaneamente<br />

attraverso il dono miracoloso della riscrittura. La parola si fa emozione alternativa alla<br />

realtà propriamente detta, e reinventa se stessa insieme alla madre e alla città («Livorno,<br />

tutta invenzione», Né ombra né sospetto): l’utopia trova spazio nella libertà di una vita<br />

immaginaria <strong>che</strong> precede le rovine. Per salvare dalla catastrofe ciò <strong>che</strong> ha di più caro<br />

l’io capovolge la propria natura nella metamorfosi da figlio a fidanzato:<br />

Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 144: «La memoria non ha corrispondenze con il presente della propria<br />

biografia, in quanto non è “divinazione”, non è (più) il pensiero <strong>che</strong> apre la strada a ciò <strong>che</strong> deve venire».<br />

30


An<strong>che</strong> se io, così vecchio,<br />

non potrò darti mano,<br />

tu mórmorale all’orecchio<br />

(più lieve del mio sospiro,<br />

messole un braccio in giro<br />

alla vita) in un soffio<br />

ciò ch’io e il mio rimorso,<br />

pur parlassimo piano,<br />

non le potremmo mai dire<br />

senza vederla arrossire.<br />

Dille chi ti ha mandato:<br />

suo figlio, il suo fidanzato.<br />

D’altro non ti richiedo.<br />

Poi, va’ pure in congedo.<br />

(Giorgio Caproni, Ultima preghiera, in Il seme del piangere)<br />

Il fallimento è inevitabile e in quella dimensione fuori dal flusso temporale l’io non può<br />

trovare nessuna salvezza. Il tempo sospeso oltre i limiti della memoria, nell’incanto di<br />

una parola poetica creatrice, attraverso la fantasia e la finzione («sii magra e sii poesia /<br />

se vuoi essere vita», Battendo a macchina), si deve confrontare con il presente in cui si<br />

profilano le ombre luttuose del futuro. Il tempo perduto, <strong>che</strong> l’imperfetto indicativo<br />

sembrava aver recuperato e salvato dalla distruzione, viene sostituito da un presente <strong>che</strong><br />

rompe l’incanto <strong>che</strong> la fantasia poetica aveva permesso momentaneamente di sfiorare:<br />

Annina è nella tomba,<br />

Annina ormai è un’ombra.<br />

(Giorgio Caproni, Epilogo, in Il seme del piangere)<br />

Il presente è il tempo della morte, prima presentita poi subita come evento intimo (la<br />

scomparsa della madre) e collettivo (l’annunciarsi della guerra); è il tempo del transito<br />

verso un futuro, non solo incerto, ma negativo e senza speranza. Nel Congedo diventa<br />

chiara l’impossibilità di quel recupero e si sgretola l’illusione del ritorno:<br />

Sono stato là<br />

dove non si può tornare.<br />

Tutto è come fu. C’è il mare<br />

ancora, <strong>che</strong> pare penetrare<br />

l’asfalto (par trasparire<br />

- nel nero - dalle rose<br />

delle facciate), e ancora<br />

verde c’è l’Orologio, fermo<br />

- con Giano - sulla stessa ora.<br />

(Giorgio Caproni, Toba, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />

31


Italo Calvino ha parlato, a proposito di Caproni, di una poesia senza idillio: 47 il rapporto<br />

tra il tempo, la natura e l’uomo procede verso una negatività <strong>che</strong> non lascia spazio alla<br />

speranza. 48 Se in Come un’allegoria gli uccelli si confondevano con le stelle, quasi a<br />

dirne la medesima sostanza naturale e divina («il sangue ferveva / di meraviglia, a<br />

vedere / ogni uccello mutarsi in stella nel cielo», Ricordo), nel Seme del piangere<br />

vengono sostituiti dalla «tenebra d’un apparecchio» (Due appunti 2. Maggio, 1) <strong>che</strong><br />

porta la guerra, e in Res amissa lo sfaldamento ne farà «dispersi brandelli» di una<br />

divinità negativa (Alzando gli occhi). Così, ad esempio, in Träumerei, (Il franco<br />

cacciatore) ai segni vitali delle «musi<strong>che</strong> trasparenti / tra i fiori» e agli «spiazzi<br />

dell’infanzia» si alternano «Le trombe militari», «Gli spari», «la notte dura / […]<br />

dell’ossidiana», e, nell’articolazione complessa della poesia, la memoria idilliaca di<br />

Alcina va a cozzare con Hiroshima, mentre altri luoghi della disumanità (Dachau,<br />

Piazza Fontana) vengono evocati. L’unico riparo dall’insopportabile «rumore / della<br />

storia» (Albàro) tornerà ad essere la natura, l’«antistoria» di Odor vestimentorum, sola<br />

voce e tuttavia inquietante, sola presenza nel buio deserto del post-umano: «Ero solo.<br />

Andavo. / Seguivo una buia viottola. / Mi batteva il cuore. Ascoltavo / (non c’era altra<br />

voce) la nottola» (La nottola). L’orrore non è solo quello della fine incombente, ma è<br />

an<strong>che</strong> la sensazione <strong>che</strong> tutt’intorno si stia diffondendo il vuoto, come in un muto<br />

assedio, cancellando qualunque presenza umana, come se la realtà fosse già invasa dalla<br />

morte.<br />

Al contrario le liri<strong>che</strong> di Penna<br />

sembrano […] tutte risolte nel bisogno impellente di dire nella sua<br />

immediatezza l’esistenza, di rendere immobili le immagini, di fermare sulla<br />

carta e concentrare il vissuto in un punto […]. Per questo nella sua<br />

immanenza e imminenza il presente è pronto a tradursi nel passato […] della<br />

memoria, di ciò <strong>che</strong> è già stato. 49<br />

47 Italo Calvino, Nel cielo dei pipistrelli, in «la Repubblica», 19 dicembre 1980. Poi col titolo Il taciturno<br />

ciarliero, in AA.VV., Genova a Giorgio Caproni, a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, Genova, S. Marco dei<br />

Giustiniani, 1982. Ora, col titolo Il taciturno ciarliero (per Giorgio Caproni), in Italo Calvino, Saggi, cit., p. 1025.<br />

48 Cfr. Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 172: «in<br />

Caproni, come nelle frequenti liri<strong>che</strong> sereniane, l’interrogazione drammatica sul tempo dell’uomo è suscitata,<br />

generata dalle immagini (dalla presenza, dall’animarsi) della natura».<br />

49 Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, Roma, Avagliano Editore, 2007, pp. 65-66.<br />

32


La memoria, come ha detto Caproni, è generatrice di quelle emozioni <strong>che</strong> Penna rivive<br />

cogliendone la verginità e l’autenticità, come è dimostrato nel testo paradigmatico di<br />

tutto il suo percorso poetico:<br />

La vita… è ricordarsi di un risveglio<br />

triste in un treno all’alba: aver veduto<br />

fuori la luce incerta: aver sentito<br />

nel corpo rotto la malinconia<br />

vergine e aspra dell’aria pungente.<br />

(Sandro Penna, La vita… è ricordarsi di un risveglio, in Poesie)<br />

Mancando il senso della stratificazione, ogni volta l’esperienza si rinnova, si ripete,<br />

come non ci fossero né prima né dopo e la memoria diventa la sostanza positiva della<br />

vita stessa. 50 In Penna non troviamo figure antagonisti<strong>che</strong>, quei doppi dell’io <strong>che</strong><br />

portano il soggetto alla coscienza della negatività, ma l’io poetico cerca di accordarsi<br />

col tempo-fuori-dal-tempo dei fanciulli e dell’eros. Tuttavia non c’è una visione<br />

pacificata del reale, piuttosto la consapevolezza di voler reagire alla precarietà della<br />

condizione umana recuperando il potere antico <strong>che</strong> lega la parola poetica alla vita. <strong>Una</strong><br />

dimensione temporale affrancata dai limiti dell’ordinaria cronologia, aperta ad un<br />

tempo-mondo in cui il passato si inserisce in un ciclo eterno e naturale di cui la poesia è<br />

parte, riproducendolo nei suoi movimenti, non ignorando la storia, ma superandola in<br />

una dimensione – per dirla con Caproni – antistorica, <strong>che</strong> rompe con il tempo lineare<br />

prefigurando una possibilità diversa nel sogno o nella visione.<br />

Si è cercato di delineare alcuni nodi della lotta e del confronto col reale, col tempo e<br />

con la storia, <strong>che</strong> riemergono o <strong>che</strong> l’io rivive nell’ansia della ripetizione, della<br />

sospensione e poi del loro superamento, in cui si definiscono le relazioni dinami<strong>che</strong> tra<br />

soggetto e mondo, e <strong>che</strong>, di volta in volta, prendono i nomi di antistoria,<br />

contemporaneità, simultaneità, reversibilità. Il discorso sul soggetto si amplia se si<br />

prende in considerazione l’aspetto verbale della poesia, se si concentra l’attenzione sulle<br />

azioni e sui tempi. Rifiutando di ridurre la propria esistenza al qui ed ora, l’uso dei<br />

tempi verbali diventa metafora attraverso cui convogliare una visione del mondo, della<br />

storia e di sé. Il tempo presente e il futuro, in rapporto col passato, articolano diverse<br />

esperienze di separazione dalla realtà <strong>che</strong> è allo stesso tempo accettata e rifiutata,<br />

50 Ivi, pp. 65-69.<br />

33


vissuta e superata. Nei capitoli successivi si cer<strong>che</strong>rà di verificare e applicare le<br />

osservazioni sin qui fatte sulla difficoltà di vivere con continuità il rapporto tra passato<br />

presente e futuro. Il passato <strong>che</strong> ritorna può dare un senso al presente e al futuro, ma può<br />

an<strong>che</strong><br />

intensificare lo stato di crisi del presente, la radicale incapacità di condividere<br />

il mondo esterno. […] la perdita irrevocabile ma ancora da scontare di un<br />

mondo lontano, informa la stasi, la crisi del tempo presente, <strong>che</strong> diviene così<br />

un tempo malato, “in – esistente”. 51<br />

La rilevanza di tali tensioni temati<strong>che</strong> e ideologi<strong>che</strong> fa di Penna, Fortini, Caproni e<br />

Sereni, dei contemporanei, secondo la definizione di Giorgio Agamben:<br />

Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui<br />

<strong>che</strong> non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è<br />

perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso<br />

questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e<br />

afferrare il suo tempo. […] Contemporaneo è colui <strong>che</strong> tiene fisso lo sguardo<br />

nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. […] Contemporaneo<br />

non è soltanto colui <strong>che</strong>, percependo il buio del presente, ne afferra<br />

l’inesitabile luce; è an<strong>che</strong> colui <strong>che</strong>, dividendo e interpolando il tempo, è in<br />

grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi. 52<br />

Su questo terreno le loro esperienze, sebbene caratterizzate da pronunce e tratti stilistici<br />

diversi, sono complementari e possono essere confrontate, messe l’una accanto all’altra,<br />

per scorgerne le omologie, per lasciare emergere, dal contrasto, la rottura con il sistema<br />

di costruzione del soggetto.<br />

Siamo di fronte a quattro percorsi poetici <strong>che</strong> non danno certezze al lettore e<br />

all’interprete, piuttosto pongono dubbi e domandano di poter reagire con la realtà <strong>che</strong> ci<br />

circonda. Del resto non si può non sottolineare come un tratto distintivo di questi autori<br />

sia proprio l’aver attraversato il Novecento poetico italiano in solitudine e quasi<br />

volontaria emarginazione, senza lasciarsi ridurre a facili definizioni o a più o meno<br />

comode sistemazioni criti<strong>che</strong> e filosofi<strong>che</strong>, ad apparentamenti ed antologizzazioni<br />

troppo scontate. L’essersi sottratti alle scuole, alle correnti (l’ermetismo prima, il neo-<br />

realismo e la neo-avanguardia poi) fa di questi autori, al di là delle esperienze formali,<br />

stilisti<strong>che</strong> e concettuali, e oltre le sistemazioni generazionali, gli esempi più produttivi<br />

an<strong>che</strong> per la successiva poesia, quella a noi coeva.<br />

51 Fabio Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 126.<br />

52 Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 9; 13; 24.<br />

34


In tempi di modernismo e progresso a tutti i costi, la poesia di Penna è l’espressione<br />

di un mondo marginale, di un’Italia bassa e umile, senza però la pretesa pasoliniana di<br />

“educarla”.<br />

In Fortini la classicità è forzata da un incedere duro e tagliente del pensiero e delle<br />

parole, <strong>che</strong> si fanno portatrici degli ideali di lotta e cambiamento, lontani da ogni forma<br />

di compromesso. La poesia diventa lo spazio straniante e distanziante per affermare<br />

un’alternativa a questo sistema culturale, preferendo la diversità alla somiglianza:<br />

«Vorrei <strong>che</strong> a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di<br />

un rettile» scrive in Astuti come colombe. 53<br />

La poesia di Sereni muove da una forte istanza problematica e contraddittoria, <strong>che</strong> la<br />

sospende tra riconoscimento del vuoto e speranza. I luoghi sereniani sono lacunosi,<br />

come del resto la <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> procede per salti ed ellissi, ma la lacunosità e l’incedere<br />

ellittico sono i correlativi oggettivi dello spazio della poesia, sempre sospeso tra il<br />

silenzio e la creazione.<br />

Al contrario, quando la Storia fa la sua comparsa nella poesia di Caproni, essa<br />

determina un nichilismo totale e totalizzante, <strong>che</strong> non lascia spazio al principio speranza<br />

o ad alcuna forma di utopia.<br />

I concetti di tempo e di futuro vanno al di là di una singola vicenda esistenziale e si<br />

pongono come condizione stessa della poesia, un’esperienza di pena e di dolore, ma<br />

an<strong>che</strong> una speranza dalla quale può scaturire una possibilità in più. La poesia dal<br />

confronto con l’inadeguatezza degli eventi e delle ideologie si scopre contraddittoria e<br />

reagendo a contatto con l’utopia non può <strong>che</strong> manifestare uno status divergente, sospeso<br />

tra sparizione e rifiuto a lasciarsi esaurire dagli eventi. Così Caproni:<br />

Io sono un razionalista <strong>che</strong> pone limiti alla ragione, e cerco, cerco. Che<br />

cosa non lo so, ma so <strong>che</strong> il destino di qualsiasi ricerca è imbattersi nel<br />

“Muro della terra” oltre il quale si stendono i “luoghi non giurisdizionali”,<br />

dove la ragione non ha più vigore al pari di una legge fuori del territorio in<br />

cui vige. Questi confini esistono: sono i confini della scienza; è da lì <strong>che</strong><br />

comincia la ricerca poetica. Non so se aldilà ci sia qualcosa; sicuramente c’è<br />

l’inconoscibile. 54<br />

53 Franco Fortini, Astuti come colombe, in Verifica dei poteri, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 67.<br />

54 Giorgio Caproni, L’opera in versi, cit., p. 1537.<br />

35


Tra le pieghe della poesia si muove una inconoscibilità vitale: 55 è una dinamica<br />

dialettica, non una concordia discors ma un contrasto e un impedimento <strong>che</strong> stimolano<br />

l’intelletto, come i fanciulli, altrettanto inconoscibili, <strong>che</strong> animano le poesie di Penna e<br />

come il «progetto / sempre in divenire» di Sereni (Un posto di vacanza, VII, in Stella<br />

variabile). In Caproni l’inconoscibilità del reale apre all’antistoria, ad una dimensione<br />

alternativa, <strong>che</strong> poi, nell’ultima fase della sua produzione, genera gli aspetti più<br />

irrazionali e distanzianti con la decostruzione sintattica e con il vagare per terre di<br />

confine, in cui l’utopia è sostituita dall’atopia, ovvero dagli estremi spazi del transito, i<br />

non luoghi e i «luoghi non giurisdizionali». È an<strong>che</strong> l’inconoscibilità di ciò <strong>che</strong> deve<br />

ancora venire, del presente e dell’esserci: «Non so più chi sono», scrive Penna,<br />

«sapendo di non sapere» dice Sereni, e Fortini con il suo «nulla è sicuro, ma scrivi» ci<br />

offre uno sguardo disincantato sul mondo, allontanando una troppa ingenua fiducia in<br />

un utopismo <strong>che</strong> muova dalla promessa di conoscenza <strong>che</strong> sempre la parola poetica ha<br />

portato con sé e <strong>che</strong> il simbolismo prima e l’ermetismo poi sembravano riconfermare.<br />

In ogni caso, sia <strong>che</strong> questa riflessione porti verso lo slancio utopico, sia <strong>che</strong> ne riveli<br />

la sua impossibilità, la poesia rovescia la negatività e la passività in qualcosa di attivo:<br />

la parola agisce sul foglio bianco, lo sottrae ad un destino di silenzio, proponendo una<br />

diversa forma di vitalità, di conoscenza e di civiltà.<br />

55 E si legga an<strong>che</strong> quanto ha scritto Adele Dei, in Giorgio Caproni, cit., p. 161 : «E an<strong>che</strong> la Genova in salita è<br />

ristretta, contenuta dal suo entroterra ostile e sassoso come da una muraglia; come se solo in prossimità di un<br />

impedimento, di un limite respingente, si addensasse la maggiore ric<strong>che</strong>zza vitale».<br />

36


SECONDA PARTE<br />

37


2.1.<br />

PENNA E CAPRONI:<br />

IL TEMPO INQUIETO<br />

<strong>Una</strong> delle definizioni criti<strong>che</strong> più limpide della poesia di Sandro Penna è quella<br />

fornita da Giorgio Caproni, <strong>che</strong>, recensendo la raccolta garzantiana delle Poesie, 1 parlò<br />

di «una continua nostalgia del presente nel presente». Come spesso succede a un poeta<br />

<strong>che</strong> scriva di un altro poeta, parlando di Penna Caproni parlava an<strong>che</strong> di sé: «a proposito<br />

di non pochi poeti della cosiddetta Terza e forse an<strong>che</strong> della cosiddetta Quarta<br />

generazione, chi è senza peccato – chi non ha imparato qualcosa in fres<strong>che</strong>zza di<br />

rappresentazione visibile e sensibile da Sandro Penna – scagli la prima pietra». 2 Occorre<br />

tornare alle poesie del “primo tempo” del livornese, quelle <strong>che</strong> vanno da Come<br />

un’allegoria (1936) al “primo libro” Finzioni (1941), per osservare, come già di<br />

sfuggita aveva fatto Giuseppe Leonelli, <strong>che</strong> in questi versi «il tempo è il presente,<br />

sommosso da un passato per lo più recentissimo, fatto di sensazioni appena trascorse e<br />

ancora palpitanti nell’aria. Non c’è segno di futuro, ma c’è Penna». 3<br />

Potrebbe essere utile, allora, un percorso di lettura <strong>che</strong> accosti questi due autori, tra<br />

l’altro esordienti 4 nello stesso scorcio d’anni (l’uno nel ’36, l’altro nel ’39 con<br />

l’edizione Parenti), per coglierne meglio il “sentimento” del tempo, dietro al quale si<br />

cela una differente filosofia del <strong>lingua</strong>ggio.<br />

2.1.1. La «nostalgia del presente nel presente»<br />

Caproni, riferendosi all’atemporalità delle raccolte di Penna, aveva parlato di «un<br />

libro unico in un tempo unico». 5 Nella sua poetica sembra non ci sia evoluzione ed è<br />

1<br />

Sandro Penna, Poesie, Milano, Garzanti, 1957.<br />

2<br />

Giorgio Caproni, «Poesie» di Sandro Penna, «La Fiera Letteraria», 8 settembre 1957, poi in La scatola nera,<br />

cit., p. 109.<br />

3<br />

Giuseppe Leonelli, Giorgio Caproni. Storia di una poesia tra musica e retorica, Milano, Garzanti, 1997, p. 14.<br />

4<br />

Si intende l’esordio in volume, senza tenere conto delle precedenti uscite di singole poesie su riviste.<br />

5<br />

Giorgio Caproni, «Poesie» di Sandro Penna, ora in La scatola nera, cit., p. 109.<br />

39


difficile distinguerne le diverse stagioni: molte poesie pubblicate negli anni Settanta<br />

sono “ripescaggi” di testi scritti negli anni Venti-Quaranta, dimenticati nel cassetto, per<br />

così dire, e poi, in alcuni casi, postdatati. 6 An<strong>che</strong> in questo senso si può dire <strong>che</strong> la<br />

poesia di Penna non è soggetta ad una dinamica storica, ma brilla della sua<br />

inappartenenza al tempo, se è vero, come dice Garboli, <strong>che</strong> «è il solo poeta […] <strong>che</strong><br />

tratti le poesie come fossero dei quadri», dotandole di una vita propria non sottomessa<br />

alla ferrea logica della struttura del libro poetico, ma lasciandole vivere «isolatamente,<br />

separatamente». 7 Ciò <strong>che</strong> spicca dai suoi versi è l’impressione <strong>che</strong> il reale emerga da<br />

incontri fortuiti, da occasioni del tutto fugaci e istantanee, e da questo non-luogo furtivo<br />

il poeta guarda la realtà:<br />

Vuoi baciare il tuo bimbo <strong>che</strong> non vuole:<br />

ama guardare la vita, di fuori.<br />

Tu sei delusa allora, ma sorridi:<br />

non è l’angoscia della gelosia<br />

an<strong>che</strong> se già somiglia egli all’altr’uomo<br />

<strong>che</strong> per «guardare la vita, di fuori»<br />

ti ha lasciata così…<br />

(Sandro Penna, Donna in tram, in Croce e delizia)<br />

Il poeta si pone al di fuori della storia, ma si predispone an<strong>che</strong> ad un inesausto<br />

confronto con il tempo, <strong>che</strong> tuttavia non si conforma al contesto ermetico degli anni<br />

Trenta: accostandosi ad un realismo semplice e sensuale, arriva a recuperare l’idillio,<br />

salvo poi insinuare il dubbio e l’angoscia di uno sguardo <strong>che</strong> si scopre estraneo, <strong>che</strong> non<br />

sa partecipare veramente alle cose. La parola poetica richiama l’uomo alle sue radici, lo<br />

spinge a riflettere, a meditare, a guardare dentro l’anima. «La chiara superficie del suo<br />

<strong>lingua</strong>ggio fa trasparire o sospettare – da minime vibrazioni, lievi moti ondosi, e col<br />

profilo degli oggetti sfuggenti <strong>che</strong> porta alla luce – una profondità inquieta ed enorme»: 8<br />

6 Cfr. Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, cit., pp. 55-56: «la quartina di Penna [Addio fanciullo, entra<br />

nel buio ancora] era ancora nel cassetto nel 1976, quando Penna me la consegnò dattiloscritta per la stampa di<br />

Stranezze. Al tempo dei Penna papers, mi accorsi <strong>che</strong> era già stata pubblicata in un vecchio fascicolo di “Botteghe<br />

Oscure” del 1948. Penna se l’era dimenticata, e quando ritrovò in casa il cartiglio, la post-datò addirittura agli anni<br />

Sessanta – per la sua solita fissazione di apparire e di sentirsi giovane an<strong>che</strong> da vecchio». E si legga an<strong>che</strong> Andrea<br />

Zanzotto, Per Sandro Penna, in Scritti sulla letteratura. Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano,<br />

Mondadori, 2001: «Si è an<strong>che</strong> notato <strong>che</strong> nella poesia di Penna quasi non esiste una storia, né dei motivi, né delle<br />

forme; nei suoi componimenti, <strong>che</strong> è così difficile datare, gli anni trenta si sovrappongono agli anni settanta, ed è<br />

attenuata ogni traccia di angoscia derivata dal confronto con la mutazione storica e culturale».<br />

7 Cesare Garboli, Postfazione, in Sandro Penna, Stranezze, Milano, Garzanti, 1976, p. 132.<br />

8 Alfredo Giuliani, Le poesie di Sandro Penna, in Immagini e maniere, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 56. E ancora:<br />

«La grazia e l’angoscia <strong>che</strong> emanano dalla poesia di Penna provengono dal fatto <strong>che</strong> quel margine di canto in cui egli<br />

sopravvive a se stesso non affiora da una volontà di conoscenza […] né da uno stato mistico […], ma dalla<br />

percezione immediata di uno sdoppiamento: dal vedersi nella vita con gli occhi di una “<strong>che</strong>ta follia.”», p. 57.<br />

40


Fra la gioia dei grilli<br />

oscure fiaccole.<br />

E in alto le stelle.<br />

Al giovane cuore<br />

la riposata ridda<br />

delle solari<br />

gesta del giorno.<br />

Ma un’ansia i ridenti occhi<br />

già turba<br />

al fanciullo venuto<br />

per gioia con me.<br />

(Sandro Penna, Cimitero di campagna, in Poesie)<br />

Parlare ancora dell’ingenuità di Penna forse non paga più. In lui ogni cosa appare<br />

illuminata da una gioia <strong>che</strong> vorrebbe renderla preziosa e “perfetta”, un’affermazione<br />

assoluta del valore della vita. Ma dietro tale perfezione, anzi forse proprio in ragione di<br />

una eccessiva perfezione, affiorano solitudine e angoscia, e la vita è «uno strappo, una<br />

separazione, un esilio». 9 Il poeta è un osservatore da un mondo separato e da tale<br />

distanza viene a definire la propria diversità. Al distacco dall’ambiente famigliare<br />

reagisce invocando protezione nella natura, lontano dal consorzio degli uomini. La sua<br />

poesia si colloca in un tempo ideale e reale insieme, in cui il dolore prevale sulla gioia:<br />

Mi nasconda la notte e il dolce vento.<br />

Da casa mia cacciato e a te venuto<br />

mio romantico amico fiume lento.<br />

Guardo il cielo e le nuvole e le luci<br />

degli uomini laggiù così lontani<br />

sempre da me. Ed io non so chi voglio<br />

amare ormai se non il mio dolore.<br />

La luna si nasconde e poi riappare<br />

– lenta vicenda inutilmente mossa<br />

sovra il mio capo stanco di guardare.<br />

(Sandro Penna, Mi nasconda la notte e il dolce vento, in Poesie)<br />

Siamo all’interno di una dinamica di sospensione, in uno spazio a metà strada tra ciò<br />

<strong>che</strong> sta sopra e ciò <strong>che</strong> sta sotto, e il poeta si trova in questo luogo intermedio da cui<br />

osserva natura e uomini. Tutto passa sotto il suo sguardo, le vite e le stagioni, e solo gli<br />

9 Cesare Garboli, Prefazione, in Sandro Penna, Poesie, Milano, Garzanti, 1989, p. VIII, poi in Cesare Garboli,<br />

Penna papers, cit., p. 109 e in Penna, Montale e il desiderio, cit., p. 15.<br />

41


astri mantengono una loro fissità: «Le stelle sono immobili nel cielo», mentre «Fuggono<br />

i giorni lieti»; «Languiva la stagione pigramente»; «Passano i buoi pesanti con l’aratro»<br />

ma «Immobile nel sole la campagna»; «L’estate se ne andò senza rumore»; «Viene<br />

l’autunno sonnolento». La frequenza dell’uso dei verbi <strong>che</strong> indicano un passaggio e un<br />

cambiamento esprime evidentemente la viva percezione della fuggevolezza, pur<br />

nell’insistenza di ciò <strong>che</strong> resta immobile, di una vita <strong>che</strong> non muta e <strong>che</strong> trionfa sulla<br />

Storia. Al fondo dell’ispirazione poetica ci sarebbero dunque una frattura e una<br />

trasgressione, un senso di autoesclusione dal mondo <strong>che</strong> tuttavia convive con uno<br />

slancio “cosmico”:<br />

Passando sopra un ponte<br />

alto sull’imbrunire<br />

guardando l’orizzonte<br />

ti pare di svanire.<br />

Ma la campagna resta<br />

piena di cose vere<br />

e tante azzurre sfere<br />

non valgono una festa.<br />

(Sandro Penna, Passando sopra un ponte, in <strong>Una</strong> strana gioia di vivere)<br />

«Ogni accenno naturalistico […] si configura come un paradigma del cosmo: non è mai<br />

visto e descritto se non in funzione dell’assoluto […]. La vanità delle cose è uguale alla<br />

loro eternità. Dire ieri o dire oggi è l’identica cosa. Vedere il ripetersi previsto dei<br />

fenomeni è stupendo e insieme doloroso». 10 Così «la campagna resta / piena di cose<br />

vere» dice l’eterno ripetersi della natura contrapposto dolorosamente al “sogno” e alla<br />

“fantasia” di Penna, <strong>che</strong> da tale ciclicità è escluso e <strong>che</strong> per ciò tende a fuggire la<br />

ragione e la storia vivendo una moralità “segmentata” e mancante di coscienza.<br />

Nell’«aggravarsi fulmineo e fatale dell’ansia» 11 si ricade sempre all’interno di una<br />

«dialettica fra essere e divenire <strong>che</strong> interessa il mondo interiore del poeta» 12 e <strong>che</strong><br />

produce quella viva percezione del dolore <strong>che</strong> alberga nei suoi versi. Egli si sente parte<br />

di una vita istintuale, in cui a dare temporaneo sollievo al male di vivere intervengono i<br />

sensi, l’unico mezzo per rapportarsi con il mondo e con se stessi, an<strong>che</strong> se la sua è una<br />

registrazione del dato sensoriale, non ne è un’analisi. Penna infatti di fronte ai vari<br />

10<br />

Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, prefazione di Alberto Asor Rosa, Milano, Garzanti, 1994 (1ª ed.<br />

1960), pp. 433-434.<br />

11<br />

Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 435.<br />

12<br />

Così Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 15.<br />

42


fenomeni non ha reazioni, ma torna al grado zero della poesia, percependo i suoi oggetti<br />

in maniera volutamente immediata. Non si tratta di superficialità del sentire, piuttosto di<br />

un troppo sentire al quale l’io sopravvive soltanto diminuendolo, tramutandolo in<br />

languore, in una «dolce pena» (Porto con me la dolce pena. Erro, in Poesie inedite), o<br />

trasformandolo nella leggerezza luminosa <strong>che</strong> esorcizza la fine. Il presente di tante sue<br />

poesie realizza quindi una «partecipazione inquieta a una vita ai confini della<br />

moralità»: 13 nell’hic et nunc dell’evento non rimane spazio per la riflessione morale o<br />

per la rielaborazione della coscienza, ma solo per una vitalità al limite, o meglio al di là<br />

del bene e del male. Questa è la salvezza di cui la poesia ci fa dono. Nella mancanza di<br />

conflitti morali si realizza il tentativo di sottrarre alla morte l’eternità di un istante. Per<br />

questo nelle sue poesie prevale una memoria a breve termine <strong>che</strong>, sebbene sia «immersa<br />

nella temporalità», 14 non contempla la profondità storica, ma dà l’impressione <strong>che</strong> la<br />

scrittura poetica si componga di appunti presi per fissare l’attimo. 15 In realtà gli studi<br />

condotti sugli epistolari con Saba e Montale e sui manoscritti rinvenuti dopo la sua<br />

morte attestano un importante lavoro di rielaborazione e una fitta trama di varianti. 16 In<br />

diversi casi le poesie venivano scritte come per fermare il ricordo di sensazioni vissute<br />

mesi prima, 17 e la sovrapposizione di presente e passato, di esperienza e finzione<br />

poetica, determinava quella chiarezza e quella precisione attraverso cui un episodio<br />

opaco, perché banale e privo di significati, si illuminava di un tempo assoluto, trattenuto<br />

prima di perdersi nell’oblio della dimenticanza. An<strong>che</strong> il ripetersi sistematico di certi<br />

avverbi è una spia importante e controllata del modo di percepire il tempo. Le<br />

illuminazioni, gli improvvisi delle sue poesie sono còlti nel momento di massima<br />

13<br />

Anna Vaglio, Invito alla lettura di Penna, Milano, Mursia, 1996, p. 110.<br />

14<br />

Così Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 15.<br />

15<br />

Appunti è an<strong>che</strong> il titolo della seconda raccolta poetica di Penna, pubblicata a Milano dalle Edizioni della<br />

Meridiana nel 1950.<br />

16<br />

A questo proposito si vedano almeno: Eugenio Montale, Sandro Penna, Lettere e minute 1932-1938, a cura di<br />

Roberto Deidier, introduzione di Elio Pecora, Milano, Archinto, 1995; Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna 1929-<br />

1940, a cura di Roberto Deidier, Milano, Archinto, 1997; e in particolare Roberto Deidier, L’officina di Penna. Le<br />

poesie 1939. Storia e apparato critico, cit., pp. 13;14-15; 21; 23: «Gli inediti giovanili di Confuso sogno hanno<br />

invece dimostrato il lento sedimentarsi della scrittura penniana nel corso degli anni venti e i suoi precoci debiti<br />

europei, specie verso Hölderlin, Baudelaire, Rimbaud»; «se da un lato Penna accredita il mito della poesia spontanea,<br />

della scrittura miracolo, relegando nell’ombra quel lungo e denso processo di chiarificazione interiore attestato dalle<br />

carte e ricostruito dal biografo [Elio Pecora], La vita… è ricordarsi di un risveglio marca indiscutibilmente l’inizio di<br />

quella nuova consapevolezza espressiva di cui il volume del 1939 rende testimonianza»; «Considerando i diversi tipi<br />

di nastro e di caratteri con i quali Penna ricopia a macchina i suoi versi […] è possibile stabilire, con una certa<br />

approssimazione, almeno quattro fasi redazionali, rispondenti ad altrettante copiature, tra gli esordi e il 1937»; «Il<br />

gioco variantistico condotto da Penna nei confronti di Saba risulta ambiguo; po<strong>che</strong> sono le lezioni accolte».<br />

17<br />

Così Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. 104: «In dicembre, il giorno 8, come ripetendo e<br />

definitivamente fermando un momento dell’ultima estate, quando da Recanati era sceso alla stazione, scrisse i versi<br />

<strong>che</strong> intitolò “Estate”».<br />

43


sospensione tra l’essere e il non essere, come una durata <strong>che</strong> va esaurendosi e <strong>che</strong><br />

tuttavia si rinnova, una sensazione percepita nel suo protrarsi e lento svanire, <strong>che</strong> rinvia<br />

ad un altrove lirico e inquieto: «Nel sonno incerto sogno ancora un poco»; «Negli occhi<br />

ancora canta / il sole»; «La mattina di estate è ancora fresca»; «La mattina di ottobre è<br />

ancora buia». È una nostalgia dei sensi, <strong>che</strong> vorrebbero essere sottratti al trascorrere del<br />

tempo e posti in una dimensione se non di eternità, almeno di atemporalità. Tuttavia<br />

l’attimo stesso si configura come un momento ben preciso della dimensione<br />

cronologica: «Le temps est vivant et la vie est temporelle», 18 scrive Ba<strong>che</strong>lard, e se<br />

pensiamo a «La vita… è ricordarsi di un risveglio», non possiamo non considerare <strong>che</strong><br />

il ricordo, an<strong>che</strong> nella sua emergenza immediata, si inscrive nella dialettica del tempo<br />

come tappa fondamentale della coscienza e della conoscenza. L’attenzione è rivolta al<br />

momento del trapasso tra due dimensioni, da cui deriva quella vaghezza <strong>che</strong> accentua il<br />

senso di sospensione, di un’esperienza consueta e assoluta insieme. In Penna, come ha<br />

osservato Bernard Simeone, si nota «l’intime contradiction entre la brièveté de la forme<br />

et la lenteur de l’image»: 19 il tempo breve del frammento convive con un tempo<br />

sospeso, <strong>che</strong> non passa, o almeno con la finzione dell’eternità contrapposta alla vita<br />

reale. Il verbo all’imperfetto indica un’azione non ancora conclusa, un «evento, <strong>che</strong> con<br />

lievi modifi<strong>che</strong> somiglia ad altri consimili»: 20<br />

Sebbene il moto del sole<br />

fosse presente e vivo<br />

sembrava il tempo sostare<br />

eternamente.<br />

Indi salito in alto riposavo<br />

in silenzio. Intorno a me passava<br />

e ripassava una lenta figura.<br />

<strong>Una</strong> nuova figura <strong>che</strong> portava<br />

– intenta a un suo lavoro – quasi un chiaro<br />

saluto e dell’acqua <strong>che</strong> brillava.<br />

(Sandro Penna, Lavoro di pescatore, in Stranezze)<br />

(Sandro Penna, Indi salito in alto riposavo, in Poesie inedite)<br />

18 Gaston Ba<strong>che</strong>lard, La dialectique de la durée, Paris, PUF Presses Universitaires de France, 2006 (1ª ed. Paris,<br />

Boivin & Cie, 1936), p. 2. Al contrario Fausto Curi sostiene <strong>che</strong> «il tempo non ha nulla della «durata» bergsoniana,<br />

sia in quanto è contesto di attimi, e sia pure lunghi attimi, sia in quanto non è un tempo psichico, dal momento <strong>che</strong> a<br />

scandirlo sono eventi naturali, anzi, fisiologici, come, per esempio, la perdita del seme. Non, si badi, <strong>che</strong> la vita<br />

psichica sia assente, giacché il desiderio è prevalentemente lavoro psichico, immaginazione, memoria» (Fausto Curi,<br />

La poesia italiana nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 243).<br />

19 Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, «Paragone», 444, febbraio 1987, p. 83.<br />

20 Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, Bologna, Gedit Edizioni, 2004, p. 47.<br />

44


L’immagine finale del «chiaro / saluto» e dell’«acqua <strong>che</strong> brillava» si fa portatrice di<br />

un’apertura stilnovistica e petrar<strong>che</strong>sca, <strong>che</strong> sancisce il raggiungimento di una<br />

dimensione spazio-temporale alternativa. <strong>Una</strong> salita in montagna permette allo sguardo<br />

di aprirsi alla visione: la concretezza e il realismo della scena sono evidenti, ma l’io<br />

poetico li vivifica e permette loro di risignificarsi. Ancora una volta il verbo, sospeso al<br />

limite tra un verso e il successivo, indica un passaggio, un movimento <strong>che</strong> nel passato si<br />

ripete rinnovandosi («passava / e ripassava una lenta figura. / <strong>Una</strong> nuova figura»). Nella<br />

scelta del tempo Penna ricerca un senso d’incompiutezza, una sfumatura aspettuale<br />

imperfettiva, 21 propria an<strong>che</strong> del presente non risultativo, della forma impersonale e<br />

dell’infinito di tante sue poesie:<br />

La vita… è ricordarsi di un risveglio<br />

triste in un treno all’alba: aver veduto<br />

fuori la luce incerta: aver sentito<br />

nel corpo rotto la malinconia<br />

vergine e aspra dell’aria pungente.<br />

Ma ricordarsi la liberazione<br />

improvvisa è più dolce: a me vicino<br />

un marinaio giovane: l’azzurro<br />

e il bianco della sua divisa, e fuori<br />

un mare tutto fresco di colore.<br />

(Sandro Penna, La vita… è ricordarsi di un risveglio, in Poesie)<br />

Ecco an<strong>che</strong> l’importanza fondamentale dei punti di sospensione e degli enjambements,<br />

<strong>che</strong> con la loro «frastagliatura», 22 eppure senza arrivare ad una risemantizzazione del<br />

pensiero poetico, sono pronti a spezzare il ritmo, a frangere e vivificare l’andamento<br />

troppo pacato del discorso, a sospendere o mettere in evidenza (con funzione fàtica)<br />

alcune parole chiave, a dire l’indicibile. La poesia non nasce da una riflessione sulla<br />

vita, ma nasce dalla vita stessa, nel momento in cui questa ha perso la sua unità. Siamo<br />

di fronte ad una forma primitiva e originaria di proposizione, da cui deriva ogni altra<br />

proposizione logica:<br />

La troisième “personne” de l’indicatif présent du verbe être est le noyau<br />

irréductible et pur de l’expression. D’une expression dont Husserl disait […]<br />

21<br />

Cfr. Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica, diretto da Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi,<br />

1996, p. 91.<br />

22<br />

Gualtiero De Santi, Sandro Penna, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 17.<br />

45


qu’elle n’était pas primitivement un “s’exprimer”, mais d’entrée de jeu un<br />

“s’exprimer sur quelque chose”. 23<br />

La vita è determinata nel suo stesso essere-qualcosa in relazione ad altro. L’unità<br />

perduta si ricompone momentaneamente nello spazio poetico <strong>che</strong> individua le simmetrie<br />

tra l’io e il mondo, tra percezione e realtà. 24 La vita è il presente <strong>che</strong>, cercando di fissare<br />

in un punto un attimo còlto di sfuggita, diventa passato. 25 La vita è allora soprattutto<br />

ricordo, come recita il primo verso, cioè «aver veduto […] aver sentito»: la liberazione è<br />

sì improvvisa, ma il tempo non passa, si ripete, e un passato <strong>che</strong> ritorna è un passato <strong>che</strong><br />

non se ne è mai veramente andato, e <strong>che</strong> assume la qualità indefinibile del tempo<br />

pensato. 26 Si capisce allora <strong>che</strong> Caproni, come si accennava all’inizio, ha saputo<br />

cogliere l’essenza della poesia di Penna: «<strong>Una</strong> continua nostalgia del presente nel<br />

presente (quei due “ricordarsi” accoppiati e disgiunti dal “ma”; quel “marinaio giovane”<br />

<strong>che</strong> apre tutta un’infinita serie di armonici verso la fres<strong>che</strong>zza, ma non davvero per la<br />

via del simbolo) secondo quella formula […] <strong>che</strong> forse maggiormente potrebbe<br />

approssimarsi alla gioiosa malinconia di questo poeta: alla sua “pungente” (stimolante<br />

verso la vita) malinconia di sensi (una sottile, continua brezza o levitazione di<br />

figure)»: 27<br />

Nei vicoli notturni ove rimane<br />

un fanciullo superstite la mia<br />

vita si gonfia di malinconia.<br />

(Sandro Penna, Nei vicoli notturni ove rimane, in Poesie inedite)<br />

Malinconia d’amore, dove resta<br />

bianco il sorriso del fanciullo come<br />

un ultimo gabbiano alla tempesta.<br />

(Sandro Penna, Malinconia d’amore, dove resta, in Poesie inedite)<br />

23 Jacques Derrida, La voix et le phénomène, Paris, PUF, 2007 (1ª ed. 1967), p. 82.<br />

24 Cfr. Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 30: «Alla specularità delle<br />

due strofe, in un rudimentale abbozzo del “dentro” e del “fuori” di tante poesie penniane, contribuisce la simmetria<br />

delle equivalenze di segni <strong>che</strong> indicano la percezione dell’io <strong>che</strong> dice, vede, sente, ma an<strong>che</strong> si sente […] si<br />

percepisce, in relazione all’altro, vicino, <strong>che</strong> avvicina al mondo».<br />

25 Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 65: «Le poesie di Penna sembrano<br />

[…] tutte risolte nel bisogno impellente di dire nella sua immediatezza l’esistenza, di rendere immobili le immagini,<br />

di fermare sulla carta e concentrare il vissuto in un punto, in un pensiero, in un gesto: nell’attimo felice, carico di<br />

valori e risonanze affettive, emotive, eroti<strong>che</strong>. Per questo, nella sua immanenza e imminenza il presente è pronto a<br />

tradursi nel passato […] della memoria, di ciò <strong>che</strong> è già stato».<br />

26 Così Gaston Ba<strong>che</strong>lard, La dialectique de la durée, cit., p. 17: «Il y a donc, au-dessus du temps vécu, le temps<br />

pensé. […] On qualifie mal ce temps en disant qu’il est abstrait, car c’est dans ce temps que la pensée agit et prépare<br />

les concrétisations de l’Être».<br />

27 Giorgio Caproni, La scatola nera, cit., p. 110.<br />

46


Ecco la brevità e la lentezza di chi sta scrivendo di istanti <strong>che</strong> non vorrebbe si<br />

perdessero nel vento, il «come» a fare da spartiacque tra la situazione interiore e quella<br />

esteriore e a prolungare l’attesa per l’epifania finale dopo l’apertura luminosa del verso<br />

centrale. Parole sottratte alla loro precarietà, scritte su un vetro appannato, sul quale<br />

resta una traccia sottile, in controluce:<br />

Se dietro la finestra illuminata<br />

dorme un fanciullo, nella notte estiva,<br />

e sognerà…<br />

Passa veloce un treno<br />

e va lontano.<br />

Il mare è come prima.<br />

(Sandro Penna, Se dietro la finestra illuminata, in Poesie)<br />

Sono attimi rubati in maniera clandestina ad un presente senza prima né dopo, ma solo<br />

l’attualità di un treno in fuga, di un risveglio o di un sogno, per sottrarsi alla morte<br />

dell’indifferenza, all’abitudine di un mare sempre uguale a se stesso. Il tempo sospeso<br />

(«e sognerà…») è an<strong>che</strong> un tempo diviso e franto dal senso di una lontananza<br />

incolmabile, <strong>che</strong> fa addirittura sospettare <strong>che</strong> la vera emarginazione sia quella del<br />

fanciullo <strong>che</strong> dorme e sogna; ma è proprio in quel luogo separato, in quell’altrove, <strong>che</strong><br />

Penna vede la beatitudine, non nel mondo degli uomini e della natura indifferente. C’è il<br />

senso dello strappo, della mancanza, dell’incompiutezza di un piacere <strong>che</strong>, se si afferma<br />

negli istanti <strong>che</strong> l’autore fissa sulla pagina, allo stesso modo in essi si nega<br />

continuamente, nella frustrazione o nella consapevolezza dell’effimero. 28 Il presente è<br />

sempre ricordo, la vicinanza lontananza, la presenza di sé è an<strong>che</strong> negazione.<br />

L’osservazione non prevede la partecipazione all’azione o alla vita: la finestra è chiusa e<br />

la poesia si costituisce a partire dalla percezione di una segregazione voluta, una presa<br />

di distanza dal mondo e dalla storia. La separatezza contiene an<strong>che</strong> il senso di<br />

esclusione e superiorità dell’arte, <strong>che</strong>, in ragione di ciò, sa cogliere qualcosa <strong>che</strong> è oltre<br />

il reale, come il poeta sa vedere oltre la finestra chiusa. Lo sguardo dell’io si sviluppa<br />

dall’esterno verso l’interno, e non viceversa, come se in Penna non vi fosse unità di<br />

corpo e anima, ma, guardando dai vetri il sonno tranquillo del fanciullo, egli stesse<br />

28 Così Anna Vaglio, Invito alla lettura di Penna, cit., p. 113: «[…] Nel nostro secolo al poeta-profeta <strong>che</strong> dal<br />

proprio isolamento trae parole rivelatrici si sostituisce una figura di poeta <strong>che</strong> dichiara la propria inettitudine alle<br />

cose, la propria limitatezza di parole, il proprio “sonno”». Su questo piano di impotenza, lo ricorda an<strong>che</strong> Niva<br />

Lorenzini, si gioca l’antinovecentismo.<br />

47


guardando una parte di sé, e ciò comportasse la percezione dell’inappartenenza. 29 È un<br />

moto pendolare <strong>che</strong> procede dalla solitudine alla ricerca del contatto con l’altro, <strong>che</strong><br />

vivifica l’io lirico e lo rende vittima di una nevrosi, per cui alla fine è impossibile<br />

riconoscere se stessi:<br />

Ed io non mi ricordo più chi sono.<br />

Allora di morire mi dispiace.<br />

Di morire mi pare troppo ingiusto.<br />

An<strong>che</strong> se non ricordo più chi sono.<br />

(Sandro Penna, La festa verso l’imbrunire vado, in Il viaggiatore insonne)<br />

La «nostalgia del presente nel presente» di cui parlava Caproni, etimologicamente intesa<br />

come «dolore per il ritorno» (ma an<strong>che</strong> ritorno del dolore), è sofferenza per un presente<br />

effimero, nel quale l’io stesso perde la sua identità, e <strong>che</strong> è però l’unico tempo in cui ci è<br />

concesso vivere:<br />

Le stelle sono immobili nel cielo.<br />

L’ora d’estate è uguale a un’altra estate.<br />

Ma il fanciullo <strong>che</strong> avanti a te cammina<br />

se non lo chiami non sarà più quello…<br />

(Sandro Penna, Le stelle sono immobili nel cielo, in Poesie)<br />

Ciò <strong>che</strong> brucia non è soltanto la tensione erotica, ma l’estrema evidenza dell’istante, <strong>che</strong><br />

convive con la reiterazione di un desiderio sempre uguale a se stesso. Il presente è un<br />

momento <strong>che</strong> non si conclude, ma il tempo può essere misurato solo mentre passa 30 e la<br />

nostalgia quindi nasce dall’incapacità di partecipare direttamente e attivamente al corso<br />

della vita. È allora voyeurismo del presente, frutto di un senso di esclusione lacerante,<br />

teso tra essere e non essere. Penna vorrebbe abitare nel non-tempo, nel tempo <strong>che</strong> non-<br />

passa, perciò ha scelto lo spazio intermedio dell’istante, sospeso tra la trasgressione e la<br />

materia amorosa, sottratto all’inesorabile scorrere cronologico: «Infatti ogni fenomeno<br />

dell’eros, ogni sguardo, ogni atto, ogni desiderio […] sono depurati da ogni<br />

29 Mi sovviene, a questo punto, un passo del romanzo di Fortini, Giovanni e le mani, (Torino, Einaudi, 1972, p.<br />

70), in cui il protagonista, Giovanni Penna (e la scelta del nome non sarà forse casuale), dice: «una vera attenzione<br />

non so rivolgerla <strong>che</strong> al mio corpo […] e qual<strong>che</strong> volta se rimango così a guardare dai vetri i gesti della gente negli<br />

appartamenti (il lume <strong>che</strong> si accende e quello <strong>che</strong> si spegne), è come se guardassi una parte del mio corpo». In Fortini<br />

naturalmente la tematica è politica e sociale e viene a rappresentare «il tema dell’alienazione capitalistica» (Paolo<br />

Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p.54).<br />

30 A questo proposito si rimanda a Gilles Deleuze, Le bergsonisme, Paris, PUF Presses Universitaires de France,<br />

2007 (1ª ed. 1966), p. 54: «Le passé et le présent ne désignent pas deux moments successifs, mais deux éléments qui<br />

coexistent, l’un qui est le présent, et qui ne cesse de passer, l’autre, qui est le passé, et qui ne cesse pas d’être, mais<br />

par lequel tous les présents passent».<br />

48


determinazione temporale […]. Divengono prove: quasi fulgurazioni». 31 L’attimo, la<br />

«fulgurazione» in cui il tempo si contrae, al di là della progressione dalla gioia al<br />

dolore, ha la possibilità di ripetersi continuamente. In questo modo l’amore <strong>che</strong><br />

sospende il tempo e l’atto poetico <strong>che</strong> è fuori dal tempo si saldano al qui e ora<br />

dell’esistenza. 32 La poesia è viaggio e continuo ritorno. Il presente in questo senso<br />

vorrebbe significare, per Penna, l’immutabilità, e la parola, sempre pronunciata come se<br />

fosse l’ultima, non descrive e non narra nulla, ma vibra e coglie gli attimi. A ben vedere<br />

la poesia di Penna è immersa nella sostanza stessa del tempo, in cui si sviluppa il<br />

rapporto tra percezione e memoria, l’una rivolta alla dimensione fisica del reale, l’altra<br />

ad un soprassalto spirituale. 33 Non si tratta di proustiane rivelazioni, ma del rapporto<br />

dialettico interno alla dimensione temporale, la cui sintesi è data dal ricordo, <strong>che</strong> svela<br />

la vita nella duplice dimensione della perdita e del desiderio, dell’essere e del divenire.<br />

Si realizza in tal modo la solidarietà tra presente, passato e futuro:<br />

D’une part «le moment suivant contient toujours en sus du précédent le<br />

souvenir que celui-ci lui a laissé»; d’autre part, les deux moments se<br />

contractent ou se condensent l’un dans l’autre, puisque l’un n’a pas encore<br />

disparu quand l’autre paraît. […] le «présent» qui dure se divise à chaque<br />

«instant» en deux directions, l’une orientée et dilatée vers le passé, l’autre<br />

contractée, se contractant vers l’avenir. 34<br />

Poiché tutto è durata ed entra nel flusso di contrazione-dilatazione-ripetizione, l’io e il<br />

tempo recuperano quel monismo, <strong>che</strong> il Novecento aveva negato: la poesia consiste in<br />

una molteplicità <strong>che</strong> viene attualizzata nel ricordo, nel ripetersi dei moti del cuore e<br />

nella riscrittura, in cui trovano il loro spazio tempo ed eros, gli elementi simmetrici<br />

31 Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 448.<br />

32 Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, in Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., pp. 72-73: «Contano l’uso<br />

frequente dei verbi all’imperfetto dal valore affettivo […] e al presente indicativo – deittico, abituale ecc. –; le scarse<br />

specificazioni; l’altalenarsi delle formule; il concatenamento delle ripetizioni […]. Tali aspetti fanno sì <strong>che</strong> nel<br />

racconto singolativo penetri di fatto la dimensione iterativa. Con le sue eventuali estensioni, quest’ultima avvicina le<br />

prose alle poesie e ribadisce, nell’ambiguità degli statuti formali, il noto sentimento penniano di ciclicità e ripetizione<br />

dell’esperienza del bisogno naturale o desiderio, della vita. In quel sentimento il ricordo e le sue istanze possono<br />

prontamente, e an<strong>che</strong> leopardianamente, saldarsi al “qui e ora” dell’esistenza. Il tempo di Penna è ciclico e<br />

pendolare».<br />

33 Cfr. Gilles Deleuze, Le bergsonisme, cit., pp. 16-17: «C’est donc la mémoire qui fait que le corps est autre<br />

chose qu’instantané, et lui donne une durée dans le temps […]. Bref, la représentation en général se divise en deux<br />

directions […]: celle de la perception qui nous met d’emblée dans la matière, celle de la mémoire qui nous met<br />

d’emblée dans l’esprit».<br />

34 Gilles Deleuze, Le bergsonisme, cit., p. 46. E a p. 50: «C’est du présent qu’il faut dire à chaque instant déjà<br />

qu’il «était», et du passé, qu’il «est», qu’il est éternellement, de tout temps». Si legga an<strong>che</strong> Gaston Ba<strong>che</strong>lard, La<br />

dialectique de la durée, cit., p. 2: « Il a réservé une solidarité entre le passé et l’avenir, une viscosité de la durée, qui<br />

fait que le passé reste la substance du présent, ou, autrement dit, que l’instant présent n’est jamais que le phénomène<br />

du passé».<br />

49


della visione penniana del mondo, o, se si vuole, gli occhi diversi della percezione<br />

poetica.<br />

2.1.2. Il confronto con la morte<br />

La poesia di Giorgio Caproni può aggiungere a questo punto spunti interessanti alla<br />

riflessione; in particolare, quella delle sue prime raccolte appare legata ad una sensualità<br />

quasi primitiva e manifesta un rapporto diretto, per nulla contemplativo o languido, con<br />

le cose. Essa è fatta di vedere, udire, sentire, cioè di «un’acerba avidità giovenile»: 35<br />

Lattiginosa d’alba<br />

nasce sulle colline,<br />

balbettanti parole ancora<br />

infantili, la prima luce.<br />

La terra, con la sua faccia<br />

madida di sudore,<br />

apre assonnati occhi d’acqua<br />

alla notte <strong>che</strong> sbianca.<br />

(Gli uccelli sono sempre i primi<br />

pensieri del mondo).<br />

(Giorgio Caproni, Prima luce, in Come un’allegoria)<br />

E si notino i due verbi al presente (nasce – apre) posti a inizio verso, ma isolati dal<br />

soggetto: a dire la sempre nuova «allegoria della vita concepita soprattutto nei suoi<br />

bordi terminali, l’alba e la sera e nel reciproco trasmutarsi dell’una nell’altra». 36 Per<br />

questa via si manifesta una vitalità <strong>che</strong> sempre più appare velata d’amarezza, in<br />

continua lotta con le ombre e con la morte. Più avanti gli uccelli <strong>che</strong> qui paiono i soli,<br />

indisturbati, abitatori del cielo, oltre le stelle con le quali si confondono in metamorfosi<br />

ovidiana («il sangue ferveva / di meraviglia, a vedere / ogni uccello mutarsi in stella nel<br />

cielo», Ricordo), verranno sostituiti dalla «tenebra d’un apparecchio» (Due appunti 2.<br />

Maggio, 1, in Il seme del piangere) <strong>che</strong> porta la guerra: l’uomo, sostituendosi alla natura<br />

35<br />

Così Aldo Capasso nella prefazione a Come un’allegoria, ora in Giorgio Caproni, L’opera in versi, cit., p.<br />

1057.<br />

36<br />

Biancamaria Frabotta, Il tempo delle finzioni: il primo libro di Giorgio Caproni, «La rassegna della letteratura<br />

italiana», LXXXIX, 1, gennaio-aprile 1985, p. 41.<br />

50


con le macchine, nega ogni possibilità di un incontro pacifico. 37 Negli anni<br />

dell’ermetismo, cioè della poesia “irrelativa”, la relazione <strong>che</strong> ancora si cerca è quello<br />

tra l’io e la natura e il tempo è percepito come trascorrere del giorno e delle stagioni, da<br />

intendersi come «figurazione ridotta […] del tempo assoluto». 38 In queste poesie<br />

troviamo una grazia malinconica, un mondo quasi crepuscolare (dissolvenza: «da me<br />

segreta ormai / silenziosa t’appanni / come nella memoria», Dietro i vetri, in Come<br />

un’allegoria), <strong>che</strong> resistono al sentimento della morte (già nella dedica alla fidanzata<br />

perduta precocemente). È l’estrema evidenza dell’esserci in lotta col suo contrario. Il<br />

tempo è quello di sensazioni appena trascorse, di cui ancora trema l’aria, di presenze<br />

còlte prima di svanire:<br />

Quando più sguscia obliquo<br />

il sole su queste strade<br />

ogni cortile ha strane<br />

battaglie, con ingenue grida.<br />

Nel tocco delle campane<br />

c’è ancora qual<strong>che</strong> sapore<br />

del giubiloso soggiorno;<br />

ma se mi passa accanto<br />

un ragazzo, nel soffio<br />

della sua bocca sento<br />

quant’è labile il fiato<br />

del giorno.<br />

(Giorgio Caproni, Fine di giorno, in Come un’allegoria)<br />

La sera, come nota Adele Dei, 39 è ricordo del giorno, il vento, il fiato, il suono delle<br />

campane, possono prolungare un’apparizione e renderla presente ai sensi, ma sempre<br />

nella consapevolezza della sua precarietà. C’è il senso di una sospensione e di un’attesa<br />

<strong>che</strong> confinano con la morte: «Con un sorriso a fiore / di labbra, s’affaccia / alla solita<br />

attesa» (Immagine della sera, in Come un’allegoria).<br />

An<strong>che</strong> qui sarà opportuno osservare l’uso <strong>che</strong> viene fatto di avverbi e congiunzioni<br />

temporali. Così si nota un netto prevalere di ancora, mentre, ora, già: «nella mia bocca<br />

ancora / assopita»; «A quest’ora il sangue / del giorno infiamma ancora / la gota del<br />

37 «Insomma, Caproni non può essere ascritto alla poetica dell’innocenza sensuale e della grazia della povertà <strong>che</strong><br />

è una delle dimensioni principali della letteratura italiana del Novecento, tanto in poesia (Saba, Penna) quanto e ancor<br />

più in narrativa», Italo Calvino, Il taciturno ciarliero (per Giorgio Caproni), in Saggi, cit., pp. 1024-1025.<br />

38 Stefano Colangelo, Elementi della temporalità caproniana, in AA.VV., Il tempo e la poesia. Un quadro<br />

novecentesco, a cura di Elisabetta Graziosi, Bologna, CLUEB, 2008, p. 200: «ed è la scelta di questa figurazione e di<br />

questo paradigma […] a proporre un primo varco d’uscita dalla retorica ermetica: si potrebbe parlare, semplificando,<br />

di un “sentimento del giorno”, di un’esplicita e consapevole riduzione concreta del “sentimento del tempo”».<br />

39 Cfr. Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., p. 12.<br />

51


prato»; «Nel tocco delle campane / c’è ancora qual<strong>che</strong> sapore»; «Ma io sento ancora /<br />

fresco sulla mia pelle il vento»; «Mentre commuove / dei voli l’aria il giro»; «Mentre<br />

per la pastura / si sparge l’amaro aroma»; «Mentre la piana cede / al sonno»; «mentre<br />

s’oblia / nell’orizzonte d’erbe / il cuore»; «Ora è tempo <strong>che</strong> s’apra / ilare ai vostri lini /<br />

un colore»; «Già un sentore / d’estate […] / esala in un rossore». Questi trasmettono un<br />

senso di continuità dell’azione, di una sua durata, di un suo compiersi in un tempo<br />

effimero e irripetibile. Siamo in presenza di un carpe diem teso e modulato attraverso<br />

variazioni continue e un <strong>lingua</strong>ggio ansioso, instabile, claudicante. Caproni mette in<br />

versi «la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della<br />

labilità delle cose, della loro fuggevolezza»: 40<br />

(Voci e canzoni cancella<br />

la brezza: fra poco il fuoco<br />

si spenge. Ma io sento ancora<br />

fresco sulla mia pelle il vento<br />

d’una fanciulla passatami a fianco<br />

di corsa).<br />

(Giorgio Caproni, San Giovambattista, in Come un’allegoria)<br />

Nel primo Caproni c’è il senso dell’evento e dell’epifania, egli costruisce le sue<br />

poesie come miracoli di grazia fulminante, ed ecco Penna: la poesia di entrambi è fatta<br />

di cose presenti, di sensazioni concrete e istantanee; e si pensi an<strong>che</strong> all’uso del “ma”<br />

avversativo, visto an<strong>che</strong> poco sopra, pronto a rimettere in gioco l’io, a prolungare<br />

un’azione, un gesto, 41 o l’impiego della congiunzione coordinante “e”: «Ma io sento<br />

ancora / fresco sulla mia pelle il vento», San Giovambattista; «ma ride il sole / bianco<br />

sui prati di marzo», Marzo; «e cade / strano nella frescura un suono», Sei ricordo<br />

d’estate. Inoltre l’uso ricorrente dell’enjambement – <strong>che</strong> qui più <strong>che</strong> in Penna<br />

contribuisce a conferire inattese possibilità semanti<strong>che</strong> alle parole – spezzando il verso<br />

ne inarca il ritmo, generando uno squilibrio e uno scarto dovuti all’eccezionalità<br />

dell’evento. Rispetto a tanta poesia della negazione di quegli anni e del nostro tempo, in<br />

questi versi sembra di intravedere un tentativo di superamento del vuoto, c’è la<br />

sospensione del trasalimento, «una prova minuta di catarsi in atto, dinanzi al predetto<br />

male della materia». 42<br />

40 Giorgio Caproni in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 102.<br />

41 Cfr. Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 48.<br />

42 Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia, 1976, p. 337.<br />

52


Il tempo presente è però teso tra l’evento e la sua memoria, sospeso tra apparizioni e<br />

sparizioni <strong>che</strong> fanno già presagire le più tarde «asparizioni» del Conte di Kevenhüller. Il<br />

presente è già passato e il passato è ancora un po’ presente: 43<br />

Finita<br />

la leggera canzone,<br />

mentre senza un saluto,<br />

senza un cenno d’addio<br />

mi muore il giorno, e anch’io<br />

dentro il cuore m’abbuio,<br />

te ne sei andata, e il buio<br />

di te più non s’adorna<br />

(Giorgio Caproni, Mentre senza un saluto, in Finzioni)<br />

Estrema rarefazione e precarietà di una poesia <strong>che</strong> «deve sfiorare la realtà senza<br />

rappresentarla», 44 in cui il presente verbale toglie ai testi il peso del passato (e dunque<br />

della storia) o quello dell’attesa del futuro (il male della guerra, le cui nubi si addensano<br />

all’orizzonte), rendendoli estranei ad una «presa troppo umana». 45 È tuttavia ineluttabile<br />

il confronto più diretto con la morte, di cui l’addio e il buio diventano segni distintivi.<br />

Viene chiamato in causa Penna, come accade in un testo degli anni Cinquanta:<br />

Il rumore dell’alba com’è forte!<br />

Ma Penna dice altrimenti, e s’esprime<br />

più piano, senza il vento della morte<br />

<strong>che</strong> invece scuote certune mie rime.<br />

(Giorgio Caproni, Il rumore dell’alba com’è forte!, in Poesie disperse)<br />

In Penna il buio è una «variante oraria del tempo meteorologico», 46 e la morte, quando è<br />

presente, è per lo più uno stato d’animo, un’«ansia» <strong>che</strong>, senza apparente spiegazione,<br />

«i ridenti occhi / già turba / al fanciullo» amico del poeta (Cimitero di campagna).<br />

«Penna è insensibile alla Storia come evoluzione o processo» 47 e quando la presenza<br />

della morte si fa più evidente, essa viene esorcizzata attraverso la resurrezione offerta<br />

dalla ripetizione infinita delle cose:<br />

43<br />

Così Silvio Ramat: «[Caproni] è il poeta, non dimentichiamolo, della condensazione della storia in un sol punto<br />

– il presente – , e quindi del tradimento della legge diacronica. […] (Tra parentesi, saranno proprio i dati della storia<br />

esterna, più tardi – fra il ’43 e il ’47, nella serie Gli anni tedeschi –, a rappresentare in Caproni questo emergere in<br />

icona del male, questo suo tetro scatto, appunto, da latenza a evidenza.)» (Silvio Ramat, Storia della poesia italiana<br />

del Novecento, cit., p. 337).<br />

44<br />

Gaetano Mariani, Primo tempo di Giorgio Caproni, in AA.VV., Genova a Giorgio Caproni, cit., p. 12.<br />

45<br />

Ivi, p. 20.<br />

46<br />

Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, cit., p. 54.<br />

47<br />

Remo Pagnanelli, Studi critici. Poesia e poeti italiani del secondo Novecento, a cura di Daniela Mar<strong>che</strong>schi,<br />

Milano, Mursia, 1991, p. 12.<br />

53


Addio fanciullo, entra nel buio ancora.<br />

E questa è la mia strada, buio sul fiume.<br />

Fin <strong>che</strong> il mondo vorrà. Ma il nostro lume<br />

segreto si riaccende, ad ora ad ora.<br />

(Sandro Penna, Addio fanciullo, entra nel buio ancora, in Stranezze)<br />

Nel primo verso di questa poesia l’avverbio «ancora» dice un presente <strong>che</strong> ritorna, come<br />

pure, alla fine, il verbo «riaccende»: il buio e il lume sono destinati a ripetersi «Fin <strong>che</strong><br />

il mondo vorrà». Eros tende il tempo e allontana la morte, generando un desiderio<br />

inesausto, sempre rinnovabile e sempre rivolto a quei fanciulli eterni adolescenti nei<br />

quali non v’è traccia d’evoluzione. 48 In Caproni, invece, la morte conferisce dimensione<br />

al tempo, è coscienza del suo trascorrere, del passaggio dal poco al nulla. Questo<br />

sentimento si rafforza nel contrasto con la percezione del passato: di fronte ai<br />

trasalimenti dell’essere il tempo non è più ripetibilità, ma rottura. Si pensi ad esempio<br />

all’incipit di Ad Olga Franzoni (in Ballo a Fontanigorda): «Questo <strong>che</strong> in madreperla /<br />

di lacrime nei tuoi morenti / occhi si chiuse chiaro / paese». Qui il «si chiuse» porta a<br />

pensare <strong>che</strong> la morte abbia storicizzato l’evento, sottraendolo quindi alla finzione<br />

poetica e collocandolo nell’elegia, nel pianto. Il passato remoto, del resto, è il tempo<br />

degli eventi considerati fuori della loro durata e definitivamente conclusi. Per via di<br />

negazione si arriva ad affermare il valore relativo dell’attualità del ricordo, mettendo<br />

quindi in crisi il valore assoluto del presente. In questo Caproni vitale e sensuale c’è già<br />

Penna, si diceva, ma nello stesso tempo egli è oltre Penna. Questi sembra porre la<br />

trasgressione più a livello tematico <strong>che</strong> linguistico, e continuando a riflettere sul<br />

desiderio rimane prigioniero della sua ossessione. Penna è «poeta esclusivo d’amore»<br />

(Stranezze), an<strong>che</strong> se di un amore <strong>che</strong> è croce e delizia: «a tale monotematismo» scrive<br />

Mengaldo, «corrisponde puntualmente la perfetta unitarietà del <strong>lingua</strong>ggio, […] certo<br />

l’esempio di monolinguismo lirico più rigoroso e assoluto del nostro Novecento». 49<br />

Caproni, invece, riflettendo sulla storia, acquista coscienza dello sviluppo diacronico del<br />

<strong>lingua</strong>ggio, ossia della sua evoluzione come elemento critico e trasgressivo. Il<br />

<strong>lingua</strong>ggio, come luogo del sapere e del mostrasi della vita nel testo poetico, viene<br />

48 Ivi, p. 13: «Volendo di passaggio accennare a dei moventi psicologici è chiaro <strong>che</strong> la patente omosessualità di<br />

Penna e la sua fissazione allo stato anale determinano una non coscienza del tempo. Ormai è nozione comune <strong>che</strong><br />

l’Es sia atemporale e si spiega come per il poeta il desiderio dell’incontro sessuale nella sua concretezza […] sia il<br />

centro attorno a cui ruota tutta una vita. Non esiste e non può esistere nessuna evoluzione per la spinta pulsionale».<br />

49 Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 736.<br />

54


messo in discussione. In lui si sentono già i sintomi sintattici e semantici di certo<br />

scetticismo (l’allegoria, la finzione) 50 e di una progressiva nullificazione, <strong>che</strong> saranno<br />

propri della sua fase più matura, in cui «le temps vertigineux s’engouffre dans les failles<br />

d’une parole schisteuse et furtive, le poème l’étire ou le condense au fil d’un rapport<br />

angoissant au silence. Temps des perceptions vaines, des “asparitions” évanescentes, de<br />

la parole en exil». 51<br />

L’ambiguità di un presente «sommosso da un passato per lo più recentissimo» 52 e<br />

l’assenza di futuro, a dire la «condensazione della storia in un sol punto», 53 esprimono,<br />

con un procedimento inverso rispetto a Penna, la mutevolezza della vita, contro<br />

l’immutabilità di tutto ciò <strong>che</strong> è storia, ovvero evidenza del male, la «pace / finta<br />

dell’aria», la guerra, la morte e la fine delle finzioni giovanili:<br />

Sempre col batticuore,<br />

te rapita nell’ansia<br />

continua delle fugaci<br />

ore, tanto sbadata<br />

guardo mentre alla pace<br />

finta dell’aria affidi<br />

la tua risata […]<br />

(Giorgio Caproni, Batticuore, in Finzioni)<br />

e proiettano Caproni nell’evanescenza dello spazio poetico in cui «dolce è per un istante<br />

/ indugiare» sull’indicibile:<br />

E quanto mai<br />

dolce è per un istante<br />

indugiare allora sul tempo<br />

andato – sul giorno,<br />

in così varie e tante<br />

guerre, vinto oramai.<br />

(Giorgio Caproni, Pausa, in Ballo a Fontanigorda)<br />

An<strong>che</strong> in Penna il valore del presente scaturisce dal contrasto con la percezione del<br />

passato, ma con esiti ben diversi da quelli intravisti per Caproni. L’imperfetto e il<br />

50 Così Caproni in un’intervista: «L’artista in genere tende all’evasione, io invece ho cercato di fare poesia ad<br />

occhi aperti e guardare in faccia la realtà fino a metterne in dubbio l’esistenza», «Il Sabato», 1984, ora in Giorgio<br />

Caproni, L’opera in versi, cit., p. 1058. Da queste osservazioni emerge la continuità creativa di Caproni, nonostante<br />

gli esiti inquieti e vari del suo itinerario espressivo. Si delineerà un rapporto tra parole e oggetti (attraverso la<br />

percezione del tempo), <strong>che</strong> ha nelle prime poesie il suo seme, in quella prima fascinazione l’inizio della sua<br />

evoluzione.<br />

51 Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, cit., p. 83.<br />

52 Giuseppe Leonelli, Giorgio Caproni. Storia di una poesia tra musica e retorica, cit., p. 14.<br />

53 Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, cit., p. 337 (cfr. supra, nota 42).<br />

55


perfetto, «rare se pur significative infiltrazioni» 54 di tante sue poesie, pongono tra<br />

soggetto e oggetto un «diaframma memoriale», col quale si rende maggiormente<br />

visibile e percepibile il «trionfo dell’immobilità e permanenza della Vita sulla<br />

mutevolezza della Storia»: 55<br />

Il mio Amore era nudo<br />

in riva di un mare sonoro.<br />

Gli stavamo d’accanto<br />

– favorevoli e calmi –<br />

io e il tempo.<br />

Poi lo rubò una casa.<br />

Me lo macchiò un inchiostro. Io resto<br />

in riva di un mare sonoro.<br />

(Sandro Penna, Il mio Amore era nudo, in Poesie)<br />

All’«astoricità di fondo […] dissolta fra intermittenza e ripetizione» 56 si deve l’alleanza<br />

tra l’io e il tempo «favorevoli e calmi», mentre in Caproni il tempo è «andato» e il<br />

giorno è «in così varie e tante / guerre, vinto oramai». Il tempo non è messo in<br />

discussione solo come categoria filosofica e metafisica, ma come sistema di gesti e<br />

segni linguistici. In Caproni la percezione del tempo come momento predispone il<br />

<strong>lingua</strong>ggio poetico ad una evoluzione di fronte all’invasione della storia e della guerra,<br />

<strong>che</strong> costringeranno ad una progressiva riduzione della parola poetica, fino all’estrema<br />

evidenza della rima come residuale veicolo di senso («La terra. / La guerra. // La sorte. /<br />

La morte», Fatalità della rima, in Res amissa). In Penna la poesia risponde ad un «désir<br />

d’intemporalité», <strong>che</strong> sviluppa la coscienza stessa del tempo nel pre-sentimento<br />

dell’eternità, per cui «la chose vue est dérobée à sa précarité». 57 Ne consegue <strong>che</strong> an<strong>che</strong><br />

il <strong>lingua</strong>ggio si sottrae alle precarietà alla quale lo costringerebbe il concepirlo in<br />

evoluzione. La <strong>lingua</strong> di Penna è la <strong>lingua</strong> di chi sa (si pensi all’incipit della sua prima<br />

poesia: «La vita… è ricordarsi di un risveglio») e, volendo andare contro, o oltre, la<br />

storia, finisce per fissarsi in un’essenziale sentenziosità lirica. È la <strong>lingua</strong> di chi parla e<br />

dice la gioia e la sofferenza della vita senza impaccio, arrivando a definire ciò <strong>che</strong> per<br />

lui è la cosa più importante, il cuore dove l’essere raggiunge il suo limite e il limite<br />

definisce l’essere, mettendolo in discussione:<br />

54<br />

Alessandro Duranti, Penna 1939: <strong>che</strong> cosa è la vita?, «Paragone», 444, febbraio 1987, p. 78.<br />

55<br />

Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 737.<br />

56<br />

Ivi, p. 735.<br />

57<br />

Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, cit., p. 82.<br />

56


Felice chi è diverso<br />

essendo egli diverso.<br />

Ma guai a chi è diverso<br />

essendo egli comune.<br />

(Sandro Penna, Felice chi è diverso, in Appunti)<br />

57


2.2.<br />

SANDRO PENNA:<br />

L’EROS COME UTOPIA<br />

La parola poetica di Sandro Penna sceglie il corpo e il paesaggio come spazi<br />

privilegiati di una ricerca ontologica inesausta, <strong>che</strong> esalta la fisicità delle percezioni<br />

attraverso veloci illuminazioni. L’esistenza si confronta con l’alterità e la natura<br />

partecipa dei sentimenti dell’individuo, esteriorizzando i moti del cuore di un’identità<br />

tormentata:<br />

Mi guardavano muti<br />

meravigliati<br />

i nudi pioppi: soffrivano<br />

della mia pena: pena<br />

di non sapere chiaramente…<br />

(Mi avevano lasciato solo, in Poesie)<br />

La felicità e la meraviglia <strong>che</strong> derivano dalla contemplazione poetica sono minacciate<br />

dall’irruzione del negativo, abitate dal sentimento dell’effimero, <strong>che</strong> è in rapporto con la<br />

natura e <strong>che</strong> dà origine a un’utopia irrisolta, sfiorata dall’elegia. 1 Il piacere è minacciato<br />

da una pena <strong>che</strong> invade la pagina, per cui gioia e dolore sono la diastole e la sistole di<br />

un’esistenza perennemente in bilico. L’eros, sorgente di questo idillio elegiaco, è alla<br />

base della relazione <strong>che</strong> l’io instaura con l’altro da sé e col mistero «di non sapere<br />

chiaramente». È un movimento sospeso tra la fine e il divenire, <strong>che</strong> lascia intravedere<br />

intermittenti possibilità di salvezza, momenti in cui sembra di poter scorgere la pura<br />

gioia, resa nella concisione della forma epigrammatica in cui dialogano la ricerca di sé,<br />

la dimensione cosmica e l’esperienza erotica.<br />

Nel sublime antifrastico di queste poesie si manifesta il senso delle cose, emergono<br />

dettagli rivelatori <strong>che</strong> interrompono il percepire abituale e ogni situazione cessa di<br />

1 In questo spazio dimora la grande varietà d’accenti <strong>che</strong> compongono il monostilismo penniano, <strong>che</strong> può essere<br />

elegiaco e trattenuto, oppure ampio e sobrio, fino a raggiungere spunti prodigiosi.<br />

59


essere occasione, per assumere una profondità <strong>che</strong> si apre alle suggestioni dello<br />

straniamento e dello slittamento emotivo:<br />

Com’ero lieto sotto un albero in fiore.<br />

Credevo di soffrire ed ascoltavo<br />

i fanciulli voler baciare un cane.<br />

Rispondeva un guaito, – e una risata<br />

spavalda mi faceva ancor più triste.<br />

Tutto poi si perdeva nella luce<br />

ed il bacio mi stava ad ascoltare.<br />

(Com’ero lieto sotto un albero in fiore, in Croce e delizia)<br />

Penna traduce la realtà nella presenza vibrante e sconcertante di luoghi ed esistenze<br />

periferi<strong>che</strong>, apparentemente senza storia, senza un prima né un dopo, ma in cui<br />

convivono sofferenza e amore, l’una complementare all’altro. Tutto si perde nella luce<br />

di una dimensione primigenia non definibile se non attraverso un lieve e veloce segno<br />

poetico. Come ha scritto Alfonso Berardinelli, «Penna istituisce questo altrove, questa<br />

seconda realtà esente dalla realtà storica: una realtà di ore, di stagioni e di corpi, una<br />

natura sovranamente splendente e variabile». 2 L’accettazione di questo spazio scentrato,<br />

sospeso tra concretezza e astrazione, garantisce una sorta di inalterabilità rispetto alla<br />

crisi <strong>che</strong> caratterizza i nostri tempi politici e poetici.<br />

Nella naturale predisposizione alla marginalità esistenziale il sogno e l’infinito si<br />

trasformano in un altrove estatico e luminoso: nella prospettiva scorciata dei versi uno<br />

spazio imperfetto diventa assoluto, viene strappato all’incertezza del presente. Spetta al<br />

poeta il compito di recuperare questa realtà dimessa e anonima in una sorta di mappa<br />

mentale, l’atlante di una geografia interiore e intima, ma allo stesso tempo, a suo modo,<br />

religiosa e civile.<br />

2.2.1. La dialettica del desiderio<br />

In versi concisi e lapidari l’esprit de délicatesse di Penna fissa l’intensità dell’istante<br />

attraverso una percezione sensoriale e psichica <strong>che</strong> supera tutti i segni <strong>che</strong> circondano<br />

l’essere. An<strong>che</strong> la storia in quanto categoria umana e intellettuale viene messa da parte,<br />

2 Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino, Bollati Boringhieri,<br />

1994, p. 151.<br />

60


mentre il confronto è aperto col tempo, con le stagioni, le ore, i momenti <strong>che</strong> passano,<br />

gli attimi. Si potrebbe dire, prendendo in prestito le parole di Sereni, <strong>che</strong> Penna è<br />

«custode non di anni ma di attimi» in cui un gesto si assolutizza in evento. 3<br />

Si potrebbero ricordare le parole di Ermanno Krumm: «Basta un nulla […] perché in<br />

un attimo rivelatore si abbia l’epifania di un impossibile equilibrio, l’intuizione di<br />

qualcosa <strong>che</strong> si arresta nel flusso continuo del mondo […]. È un punto fermo in cui,<br />

però, qualcosa danza». 4 Qualcosa danza nelle parole di Penna: egli mette in scena degli<br />

oggetti concretissimi, <strong>che</strong>, inserendosi in un processo di intensificazione emozionale,<br />

rendono determinato e nitido il mondo psichico. Spetta al desiderio, elemento dinamico,<br />

il compito di collegare i due mondi, quello delle cose e quello della psi<strong>che</strong>: la poesia<br />

sembra trascendere i limiti, ma rimane sempre legata ai particolari fisici della natura, del<br />

corpo, del sesso e dello spirito, <strong>che</strong> rappresentano un territorio da esplorare<br />

infinitamente, per esprimere un piacere di cui occorre rinnovare la pronuncia. Così<br />

Penna crea il mito dell’altro – il fanciullo – oggetto e asse del suo desiderio: 5<br />

Esco dal mio lavoro tutto pieno<br />

di aride parole. Ma al cancello<br />

hanno posto gli dei per la mia gioia<br />

un fanciullo <strong>che</strong> gioca con la noia.<br />

(Esco dal mio lavoro tutto pieno, in Poesie)<br />

L’eros è come una musica contrappuntistica, <strong>che</strong> emana dagli dei e avvicina ad essi, ma<br />

allo stesso tempo la voluttà risolve solo parzialmente il contatto dell’io con l’alterità e<br />

conferma il dualismo insormontabile dell’essere, la sua incapacità di partecipare alla<br />

vita. In quanto oggetto di un desiderio mai risolto, mai compiuto, l’altro non coincide<br />

con l’io, ma rimane avvolto in un mistero <strong>che</strong> tuttavia ne custodisce an<strong>che</strong> la<br />

potenzialità: esso si adempie sotto l’egida della visione luminosa e irraggiungibile del<br />

fanciullo chiuso nel suo pudore o nella sua noia, un’immagine <strong>che</strong> lo sguardo non può<br />

profanare e <strong>che</strong> per questo è disponibile ad infiniti ritorni.<br />

3 Come ha scritto Elio Pecora nella poesia di Penna troviamo «la particella <strong>che</strong> accoglie in sé la vita e l’universo,<br />

l’attimo <strong>che</strong> chiude in sé ogni tempo» (Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. 72). E si legga an<strong>che</strong><br />

Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 15.<br />

4 Ermanno Krumm, Lirica moderna e contemporanea, cit., p. 134.<br />

5 Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., pp. 13-14: «In Penna la vita materiale<br />

è liberata da ogni valenza comica e grottesca, perché, semplicemente, il poeta l’accetta nella sua datità, al suo grado<br />

zero, e può in tal modo trasferirla in una dimensione altamente spirituale. Il fatto è <strong>che</strong> Penna non mescola mai corpo,<br />

mondo esterno, cose: il corpo dell’amato non cessa infatti di essere se stesso, qualcosa di definito nella sua bellezza e<br />

grazia, riflesso della immensa bellezza del mondo. Poeta della corporeità significa infatti poeta del tutto, ossia del<br />

corpo come carne, mente, spirito; come capacità di progettare, di slanciarsi verso il mondo e di ricordare».<br />

61


Non c’è conflitto e non c’è fusione, perciò non c’è conoscenza: la relazione con<br />

l’altro da sé, con il suo mistero, è relazione con ciò <strong>che</strong>, in un mondo in cui c’è tutto,<br />

non c’è mai. Tuttavia, proprio tale imperfezione fa emergere la contraddizione di<br />

un’istanza a venire, in cui si riproduce la coppia tempo-atemporalità, <strong>che</strong> tende<br />

continuamente la poetica dell’autore perugino, «sviluppando le correlazioni della sfera<br />

intuitiva tra percezione, memoria e immaginazione»: 6 in quanto attesa di qualcosa <strong>che</strong><br />

non si realizza nel presente il desiderio sposta il suo oggetto in una dimensione <strong>che</strong> non<br />

è di questo mondo, <strong>che</strong> non appartiene alla storia e alla nostra società. In questo senso il<br />

rapporto con l’altro potrebbe essere considerato fallimentare. Lo è nella misura in cui si<br />

intenda l’eros come possessione e conoscenza, ma esso non è niente di tutto ciò. 7 Se<br />

Penna da un parte non ignora i tempi storici in cui vive, riservandogli spazio nei propri<br />

taccuini, 8 dall’altra ne coglie la non vitalità, quasi, potremmo dire, la non dignità<br />

poetica: l’eros è altra cosa, partecipa di una natura divina <strong>che</strong> non ha a <strong>che</strong> fare con le<br />

categorie umane. Se noi potessimo possedere e conoscere l’altro, non sarebbe più altro,<br />

non sarebbe più mistero, ossia oggetto del desiderio. Possedere e conoscere sono invece<br />

sinonimi e attributi del potere. L’eros di Penna è al di fuori della società ed è contro la<br />

storia, in quanto ne rifiuta le logi<strong>che</strong> più comuni: la sua relazione con l’altro si basa sul<br />

non riconoscimento di leggi e regole prestabilite. 9<br />

6 Ivi, p. 14.<br />

7 L’eros di Penna è rinuncia e speranza <strong>che</strong> si rinnova. Così Alfonso Berardinelli: «Non c’è altra legge <strong>che</strong> quella<br />

dettata dagli alti e bassi dell’energia erotica e vitale, con le sue ierofanie della pienezza e della perdita, della presenza<br />

e dell’abbandono. […] Penna è aiutato in questo dalla sua religione della fisicità. Il corpo e la vita del corpo sono<br />

tutto ciò <strong>che</strong> Penna conosce dell’anima e dello spirito. […] Il mondo sociale è percepibile, ci offre la forma fisica<br />

determinata dei nostri oggetti d’amore. Il mondo storico è invece solo pensabile: non attraverso la memoria <strong>che</strong> il<br />

corpo ha di se stesso nel tempo, ma attraverso la memoria morale e ideologica. A questo secondo sistema della<br />

coscienza e della memoria [...] Penna ha rinunciato» (Alfonso Berardinelli, Penna o l’altrove, in AA.VV., Sandro<br />

Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, a cura di Francesca Bernardini Napoletano, Roma, Edizioni Fahrenheit 451, 2000, p.<br />

21). 8 Su questo tema si possono dare due letture. <strong>Una</strong> è quella di Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del<br />

Novecento, cit., p. 177: «Penna si mette fuori dalla storia, ignorandola. È an<strong>che</strong> lui un borghese, un piccolo borghese<br />

[…], ma vive e si regola, quindi si esprime poeticamente, come se fosse prosciolto, svincolato da qualsiasi classe<br />

sociale. Bisognerà spiegarci meglio: si vedrà <strong>che</strong> la giustificazione storica, l’esserci della storia, della poesia di Penna<br />

è tutto in quel come se. Anticipiamo la spiegazione, dicendo <strong>che</strong> quel come se, quel come essere fuori dalla storia, è<br />

già un prendere atto della storia, già un modo di esserne condizionato». L’altra lettura è quella di Daniela Mar<strong>che</strong>schi,<br />

Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., pp. 18-21: «È chiaro <strong>che</strong> Debenedetti pensa alla storia come un<br />

assoluto, come STORIA in breve, sede esemplare dell’agire umano; e da questo ha in lui origine l’idea sia del<br />

cronachismo sia dell’evasività presunta di Penna: due facce della stessa medaglia, cioè quella dell’esclusiva<br />

concentrazione del poeta sui minimi e massimi accadimenti privati dell’esistenza. Ma questi non sono meno “storici”<br />

an<strong>che</strong> se appartengono alla cronaca biografica, non per nulla spunto della moderna storiografia. […] In realtà, i<br />

taccuini o i diari di Penna mostrano lacerti d’attenzione alle vicende stori<strong>che</strong> <strong>che</strong> smentiscono la presunta sottrazione<br />

del poeta alla storia: si pensi, in particolare, alle pagine in cui Penna racconta della ritirata tedesca da Roma, riportate<br />

da Elio Pecora nel suo volume biografico».<br />

9 Si legga Alfonso Berardinelli, Penna o l’altrove, in AA.VV., Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, cit., p. 19:<br />

«In ognuno dei suoi versi si celebra l’assenza e l’irrilevanza di una storia <strong>che</strong> viene allontanata e messa da parte con il<br />

gesto indifferente di chi sta guardando altrove. Sovrana è l’indifferenza di Penna alle vicende del mondo storico.<br />

62


L’esperienza dell’io è collocata quindi in una lontananza <strong>che</strong> determina un rapporto<br />

diverso con la realtà. Solo nell’eros, segreto e misterioso, povero e vivo, Penna può<br />

collocare la possibilità di un altrove <strong>che</strong> è salvezza e perdizione contemporaneamente:<br />

La madre mi parlava dell’affitto.<br />

Io ero ad altra riva. Il mio alloggio<br />

era ormai in paradiso. Il paradiso<br />

altissimo e confuso, <strong>che</strong> ci porta<br />

a bere la cicuta…<br />

(Ero per la città fra le viuzze, in Poesie)<br />

Ci sono momenti in cui l’autore condensa la trascendenza in ciò <strong>che</strong> accade e la poesia<br />

diventa il luogo in cui una circostanza si assolutizza contro la minaccia del vuoto, senza<br />

tuttavia la scappatoia della verticalità. La realtà quotidiana può assumere i tratti di un<br />

paradiso in terra «fuori del quale abitano […] la precarietà e la morte», 10 tuttavia, poiché<br />

il desiderio non trova una compiuta realizzazione ma prelude ad uno smarrimento<br />

emotivo (qui il paradiso è «altissimo e confuso»), la distanza sembra essere la vera cifra<br />

di una poesia <strong>che</strong> partecipa di una doppia natura, positiva e negativa allo stesso tempo.<br />

La trasfigurazione del reale, mediata dalle immagini dei fanciulli, non porta soltanto ad<br />

una diversa misura delle cose, ma an<strong>che</strong> a saggiarne i limiti: Penna non sembra in grado<br />

di meditare sulla trascendenza, eventualmente può nominarla, sfiorarla, farla esistere per<br />

infiniti attimi sulla pagina, accanto all’immanenza <strong>che</strong> ci è toccata in sorte.<br />

Nel gesto distratto, nell’evento non realizzato ma solo atteso, si rivela una «nostalgia<br />

d’infinito» 11 <strong>che</strong> è sorgente del desiderio; al contrario, nell’atto compiuto il desiderio si<br />

consuma, eros scompare e dell’amore rimane solo un misero sesso, <strong>che</strong> non ha più nulla<br />

di divino, ma testimonia di un’esistenza spogliata della momentanea numinosità,<br />

lasciata a se stessa e al proprio esilio:<br />

Poi fu una cosa povera, avvilita,<br />

nascosta da una mano, il segno della vita.<br />

(Poi fu una cosa povera, avvilita, in Appunti)<br />

L’irradiante immobilità delle sue immagini è appena screziata dalle vicende di una cronologia <strong>che</strong> non è storica ma<br />

biologica».<br />

10 Così Elio Pecora, Premessa alla nuova edizione, in Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. XXIX.<br />

11 Roberto Deidier, L’estate se ne andò senza rumore, in AA.VV., La vita… è ricordarsi di un risveglio. Letture<br />

penniane. (Atti del convegno – Roma, 30 maggio 2007), a cura di John But<strong>che</strong>r e Magda Vigilante, Roma, Fermenti<br />

Editrice, 2007, p. 20.<br />

63


Costretta in questa contingenza, la pars costruens del sistema poetico penniano si<br />

capovolge, il sogno preannuncia la distruzione in cui si cerca di trovare sollievo dal<br />

peso di un desiderio troppo intenso, tuttavia immaginarne o sperarne la fine lo rende più<br />

forte:<br />

Come l’amante fugge l’altro amante<br />

solo perché non pesi troppo amore,<br />

così sogni un paese dove un vento<br />

gelido abbia distrutto ogni fanciullo.<br />

(Come l’amante fugge l’altro amante, in Confuso sogno)<br />

In ciò consiste la qualità più profonda e sapienziale della poesia, <strong>che</strong> si confronta<br />

simultaneamente con la gioia e con il dolore, con il finito e l’infinito, la realtà e la<br />

surrealtà immaginosa dell’eros, <strong>che</strong> impasta di sé un’utopia intermittente, fallimentare e<br />

tuttavia tenace e necessaria. 12 All’illusione si alterna la realtà per quello <strong>che</strong> è, alla<br />

solarità il lutto, e l’anima del poeta è «triste e / calma» (Andare nella vita, in Confuso<br />

sogno), consapevole del fatto <strong>che</strong> la bellezza e la felicità si trovano solo nella<br />

lontananza o nell’assenza, in un altrove <strong>che</strong> si schiude come una promessa:<br />

Esiste ancora al mondo la bellezza?<br />

Oh non intendo i lineamenti fini.<br />

Ma alla stazione carico di ebbrezza<br />

il giovane con gli occhi ai suoi lontani lidi.<br />

2.2.2. Il topos dell’incontro<br />

(Esiste ancora al mondo la bellezza?, in Confuso sogno)<br />

<strong>Una</strong> chiave d’accesso a questa poetica potrebbe essere il topos dell’incontro come<br />

base da cui si sviluppa, o verso cui procede la poesia, nel tentativo di ricostruire il<br />

rapporto tra alterità e realtà. I luoghi privilegiati degli incontri (e della trascendenza)<br />

sono gli orinatoi, le stazioni, i treni, i prati delle periferie cittadine, i sobborghi: sono<br />

luoghi marginali <strong>che</strong> assumono la valenza di un altrove <strong>che</strong> predispone<br />

etimologicamente all’avventura, cioè a ciò <strong>che</strong> deve venire, ai battiti e tic<strong>che</strong>ttii alterni<br />

12 Cfr. Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, cit., p. 23: «nella sua divinità, il mondo fanciullesco resta<br />

inossidabilmente disumano. I fanciulli trasformano l’esperienza del mondo; la trasfigurano; la rendono vivibile, ma<br />

non la cambiano. […] I ragazzini di Penna non salveranno mai il mondo, non essendoci nel mondo niente da<br />

salvare».<br />

64


dei sensi. L’attimo in questi casi è il momento in cui viene restituita la dimensione della<br />

totalità e dell’assolutezza a ciò <strong>che</strong> è incompleto e imperfetto. L’incontro prepara una<br />

svolta nella condizione dell’essere, <strong>che</strong> può così resistere al vuoto <strong>che</strong> gli si fa intorno: 13<br />

Ero per la città, fra le viuzze<br />

dell’amato sobborgo. E m’imbattevo<br />

in cari visi sconosciuti… E poi<br />

nella portineria dov’ero andato<br />

a cercare una camera ho trovato…<br />

Ho trovato una cosa gentile.<br />

(Ero per la città, fra le viuzze, in Poesie)<br />

I versi hanno le movenze di apparizioni, <strong>che</strong> da una parte offrono un appoggio e un<br />

sostegno al destino dell’io, e dall’altra manifestano la fuggevolezza <strong>che</strong> alberga nelle<br />

cose. Nell’incontro con l’altro Penna cerca il gesto umile e quotidiano, la sensualità<br />

carica di mistero degli adolescenti, in cui persino l’atto fisiologico può assumere un<br />

valore spirituale:<br />

Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri<br />

di quel fanciullo io pregherò il mio dio.<br />

Ma il mio dio se ne va in bicicletta<br />

o bagna il muro con disinvoltura.<br />

(Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri, in Poesie inedite)<br />

L’incontro è teso tra due poli: il «vuoto» del cielo e il «dio» pregato dal poeta, <strong>che</strong> «è a<br />

un tempo umano e animale; angelo terrestre non conosce peccato, non colpe né fini.<br />

[…] È l’uomo prima delle costrizioni sociali, della discesa nella scontentezza e nel<br />

compromesso». 14 Penna non ha altro dio e l’eros si conferma come esperienza della<br />

solitudine e della distanza (si noti l’uso del deittico «quel fanciullo»): la vera vita va<br />

cercata non qui ma altrove, più in là, in una increspatura dell’esistenza, in un incontro in<br />

cui si compia una minima rivoluzione intima e psicologica, <strong>che</strong> nel tratto solo accennato<br />

cela ciò <strong>che</strong> sta al di sotto del pensiero cosciente, qualcosa <strong>che</strong> resta dentro e determina<br />

un destino profondo. Il futuro ribadisce l’infrazione della norma: non più presenza, ma<br />

13 Cfr. Jacques Derrida, La voix et le phénomène, cit., p. 60: «la forme universelle de toute expérience (Erlebnis)<br />

et donc de toute vie, a toujours été et sera toujours le présent.il n’y a et il n’y aura jamais que du présent. L’être est<br />

présence ou modification de présence. Le rapport à la présence du présent comme forme ultime de l’être et de<br />

l’idéalité est le mouvement par lequel je transgresse l’existence empirique, la factualité, la contingence, la mondanité,<br />

etc.».<br />

14 Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. 94.<br />

65


distanza, perché solo nella lontananza si può cogliere il senso di un mistero. Separato<br />

dalla storia e dalla materialità, a cui fanno allusione ben diverse forme di liberazione o<br />

di abbandono («il mio dio se ne va in bicicletta / o bagna il muro con disinvoltura»),<br />

l’eros scaturisce da un desiderio rivolto al futuro («ma negli occhi neri / di quel<br />

fanciullo io pregherò il mio dio»), mentre il presente, ponendosi come intervallo tra il<br />

qui e l’altrove, è mancanza in cui la stessa possibilità del desiderio vacilla o si<br />

manifesta, ancora una volta, in un’immagine solo sognata:<br />

Non rivedrò il paese ove la sera<br />

cala alla lenta nebbia l’angelo del lavoro.<br />

La luce rivedrò, la luce d’oro<br />

ove brilla il fanciullo. E nella sera<br />

brillan, sognando, le sue gote accese.<br />

(Non rivedrò il paese ove la sera, in Poesie inedite)<br />

Il vedere è un ri-vedere, è novità e ripetizione allo stesso tempo, e il futuro introduce a<br />

una dimensione sottratta ad ogni forma di esperienza comune. La trasgressione della<br />

realtà è tesa tra negazione e affermazione («Non rivedrò il paese», «La luce rivedrò») e<br />

l’incontro col fanciullo è l’evento <strong>che</strong> può trasformare il destino: la contingenza lascia il<br />

posto alla «luce d’oro»; la realtà sensibile cede ai sensi e allo sguardo poetico, <strong>che</strong><br />

operano una trasformazione radicale del mondo. Questa condizione continuamente<br />

disponibile al cambiamento sembra liberare il corpo dai legacci mondani e l’eros<br />

prepara a qualcosa di nuovo, in cui allegria e vertigine si confondono. 15 Lo spazio<br />

indefinibile e immenso determinato dal gerundio «sognando» concentra in sé il senso<br />

della durata, ma an<strong>che</strong> di un altrove aperto ad infinite possibilità, in cui il pensiero<br />

diventa, anzi è, materia e fondamento di una nuova realtà. La «luce d’oro» e le «gote<br />

accese», sono allora i prodotti di un’immaginazione <strong>che</strong> rende possibile il movimento<br />

dalla condizione mortale a quella immortale.<br />

Il vero significato della poesia si realizza proprio nella dissimulazione di questo<br />

rapporto con la morte e «l’io, nel mezzo di questa dinamica circolare, rischia di<br />

confondere l’origine con la fine»: 16<br />

15 Così scrive Penna nel suo taccuino il 3 agosto del 1928: «e mi prende ancora una sanguinante malinconia per<br />

questa indipendenza assoluta di ogni cosa dalle altre del mondo, per questa impossibilità di comunioni perfette fra<br />

tutte le cose: fra due stati d’animo della stessa persona, fra due esseri <strong>che</strong>, amandosi, non si congiungeranno mai<br />

perfettamente e interamente», ora in Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. 66.<br />

16 Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 48.<br />

66


Mi adagio nel mattino<br />

di primavera. Sento<br />

nascere in me scomposte<br />

aurore. Io non so più<br />

se muoio oppure nasco.<br />

(Mi adagio nel mattino, in Giovanili ritrovate)<br />

La coppia vita-morte è alla base della dinamica utopica, e segna an<strong>che</strong> l’esaltazione<br />

dell’io teso tra questi opposti segni del desiderio. La morte non è più soltanto un vago<br />

sentimento, ma un momento chiave della tensione verso una possibile eternità, <strong>che</strong> «non<br />

è l’innalzamento sovraterreno, ma lo splendore della […] caducità». 17 Non si tratta più<br />

di trattenere un gesto o un evento prima <strong>che</strong> svanisca, quanto piuttosto di ri-dirlo<br />

proiettandolo al futuro. Il distacco e la morte sono, quindi, complementari all’incontro,<br />

anzi lo rendono possibile infinite volte:<br />

Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.<br />

Ma più belli di te ragazzi ancora<br />

dormiranno nel sole in riva al mare.<br />

Ma non saremo <strong>che</strong> noi stessi ancora.<br />

(Guardando un ragazzo dormire, in Stranezze)<br />

Il fanciullo è colui <strong>che</strong> «abita la dimensione del desiderio» e «rappresenta l’immagine<br />

ideale, sognata, dell’amore; l’altro da sé umanamente armonioso, ben lontano e<br />

anteriore all’omoerotismo». 18 Da una parte egli salva il poeta dal mondo degli adulti,<br />

rappresentando una dimensione alternativa alla realtà <strong>che</strong> si vuole normale; dall’altra è<br />

proprio sulla pelle chiara di questi giovani, <strong>che</strong> si distende più nettamente l’ombra del<br />

futuro. Tale consapevolezza apre però lo spazio infinito dell’ancora possibile, di un<br />

altrove luminoso e marino, in cui la vita continua, ciclicamente rinnovandosi (come nel<br />

ripetersi delle stagioni), riproducendosi come in un gioco di specchi <strong>che</strong> permette di<br />

eludere la fine. 19<br />

In questa prospettiva è fondamentale l’incontro dei corpi con la natura 20 (an<strong>che</strong> in<br />

chiave simbolica), in una sorta di rito panteista <strong>che</strong> celebra l’inesprimibile attraverso<br />

17 Così Italo Testa, Giustizia poetica, «Atelier», 50, XIII, giugno 2008, p. 141.<br />

18 Elio Pecora, Postfazione, in Sandro Penna, Confuso sogno, Milano, Garzanti, 1980, p. 140.<br />

19 Cfr. Magda Vigilante, Guardando un ragazzo dormire, in AA.VV., La vita… è ricordarsi di un risveglio.<br />

Letture penniane. (Atti del convegno – Roma, 30 maggio 2007), cit., pp. 34-35.<br />

20 Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 180: «La natura è, per un poeta come Penna, una<br />

patria dove l’uomo vive». E in un appunto del 1928 Penna scriveva: «Quando, stanchi di una lunga discussione con<br />

67


l’allontanamento dalla civiltà, in una dimensione in cui la parola scava in un abisso<br />

riportando alla luce i sensi:<br />

Sole senz’ombra su virili corpi<br />

abbandonati. Tace ogni virtù.<br />

Lenta l’anima affonda – con il mare –<br />

entro un lucente sonno. D’improvviso<br />

balzano – giovani isolotti – i sensi.<br />

Ma il peccato non esiste più.<br />

(Sole senz’ombra su virili corpi, in Poesie)<br />

L’immersione nella natura ha nella visione canicolare dei sensi il momento rivelatore di<br />

interne illuminazioni <strong>che</strong> si confrontano con i termini opposti di virtù e peccato. L’eros<br />

«non subisce le leggi della civiltà» 21 e partecipa di un’altra natura, non morale ma<br />

luminosa e divina, atemporale e in certo senso trascendente, ovvero lontana dalla<br />

materia autobiografica e dalla contingenza del momento. Sebbene l’incontro sia breve, e<br />

si concluda con un balzo dei sensi (ecco l’indizio, l’epifania solo allusa e sfiorata), esso<br />

lascia strascichi a livello psicologico. Nel silenzio rimane la sospensione onirica (il<br />

sonno è «lucente», perché presuppone il sogno), <strong>che</strong> è abbandono ad uno spazio autre<br />

da cui emergono i sensi come isole nel mare delle indistinte passioni in cui si concreta<br />

l’assoluto. 22<br />

All’assedio del nulla Penna contrappone un mondo fisico e nello stesso tempo<br />

psichico in cui l’esteriorità si risolve in interiorità:<br />

Il sole <strong>che</strong> ha brunito questo corpo<br />

di giovinetto cede la sua forza.<br />

stupide persone intellettuali, dove non si è stati compresi e si è presi per matti o stupidi, solo perché un poeta confessa<br />

il suo modo di pensare, oh allora ci si sente finalmente forti e la poesia ha bisogno di eroismo. E poi si va a<br />

conversare con la sola persona <strong>che</strong> ti comprende: la Natura» (ora in Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit.,<br />

p. 64). Elio Pecora aggiunge: «Nella natura si perdeva e allo stesso tempo si ritrovava; […] dimenticava le proprie<br />

attese e le angosce <strong>che</strong> lo attanagliavano, come se una norma misteriosa e inesorabile lo guidasse, lo comprendesse,<br />

ed era la norma <strong>che</strong> regolava l’infinita complessità dell’esistenza» (Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit.,<br />

p. 65).<br />

21 Così Elio Pecora, Premessa alla nuova edizione, in Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, cit., p. XXIX.<br />

22 Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Nel sonno incerto sogno ancora un poco, in AA.VV., La vita… è ricordarsi di un<br />

risveglio. Letture penniane. cit., p. 11: «il “sogno” [ha] in Penna una connotazione positiva in quanto dolcezza futura<br />

dell’amore atteso e presenza del bisogno naturale di esso. Il “sogno” assume pertanto la valenza di una concreta<br />

funzione del corpo e rappresenta lo slancio verso la vita e nel tempo; mentre il “sonno” […] è il suo polo<br />

indispensabile. Infatti, alla maniera di Nietzs<strong>che</strong>, il “sonno” è ciò <strong>che</strong> consente all’essere umano di riacquistare le<br />

proprie virtù, fra cui, appunto, quella di sognare, di proiettarsi nel flusso di volta in volta lieto e malinconico<br />

dell’esistenza. […] Tuttavia, […] il sonno appare in Penna un piacevole abbandono alla vita delle passioni, il<br />

sussultare improvviso del corpo <strong>che</strong> impone le sue concrete ragioni […]. Sembra <strong>che</strong> Penna voglia qui dialogare con<br />

Leopardi per ribadire, all’opposto, <strong>che</strong> il “sonno” e il “sogno” sono comunque entro un a sorta di continuum vitale,<br />

sono un sentire sempre la vita e le sue istanze, non un interromperle».<br />

68


Ma resta al bacio tenue ancora<br />

il giovinetto immobile: già sogno…<br />

(Il sole <strong>che</strong> ha brunito questo corpo, in Poesie)<br />

Il sole qui «cede la sua forza», sta tramontando, e Penna coglie il momento in cui la sua<br />

luce e il suo calore affievoliscono nel passaggio dal giorno alla sera. La fisicità e<br />

divinità dell’astro si trasmettono alla figura del «giovinetto», mentre, nell’incertezza del<br />

transito, il deittico “questo” si occupa di rendere concreta ed essenziale la presenza del<br />

suo corpo «brunito» <strong>che</strong> ha assorbito il calore e la luce vitale del sole. Il secondo distico<br />

introduce il momento della durata, ben rappresentata dall’avverbio temporale “ancora”<br />

<strong>che</strong> trattiene il tepore del bacio prima <strong>che</strong> si dissolva e <strong>che</strong> apre lo spazio profondo e<br />

oscuro dell’io, dell’interiorità psichica, in cui il fanciullo è immobile come qualcosa di<br />

assoluto <strong>che</strong>, vinti il tempo e la Storia, non muta. Il secondo avverbio temporale “già”<br />

produce lo slittamento quasi improvviso dal piano della concretezza a quello della<br />

visione onirica, <strong>che</strong> i tre punti finali sospendono nell’indeterminatezza, nel non<br />

compiuto e dunque nel grumo assoluto di un’esperienza ar<strong>che</strong>tipica e primigenia <strong>che</strong> ha<br />

la sfumatura conturbante dell’infinito. I deittici e gli avverbi assolvono la doppia<br />

funzione di rendere concreta la determinazione spaziale e di segnare la distanza di chi<br />

guarda le cose senza parteciparvi, realizzando così il doloroso dissidio tra l’immanenza<br />

e la trascendenza attinta nel sogno. La poesia occupa lo spazio di questa divergenza:<br />

solo nell’eros, segreto e misterioso, povero e vivo, Penna può risolvere il qui nella<br />

possibilità di un altrove. Nello scarto tra parola e cosa prende forma l’utopia <strong>che</strong> rivela<br />

l’essere attraverso l’incontro misterioso tra corpo e cosmo:<br />

Ecco il fanciullo acquatico e felice.<br />

Ecco il fanciullo gravido di luce<br />

più limpido del verso <strong>che</strong> lo dice.<br />

Dolce stagione di silenzio e sole<br />

e questa festa di parole in me.<br />

(Ecco il fanciullo acquatico e felice, in Poesie inedite)<br />

L’universo qui evocato è un luogo mediterraneo in cui si uniscono la luce e il mare,<br />

emblemi assolutizzanti di un altrove contrapposto alla città e completamente libero da<br />

costrizioni, in cui il tempo si contrae per cantare la bellezza del corpo e rivelare la gioia<br />

dell’essere. «Ecco il fanciullo», scrive Penna: la sua è poesia della presenza, ma di un<br />

69


esserci <strong>che</strong> si confronta col pensiero della non-presenza, dell’esclusione. Il testo è<br />

basato su due isotopie: quella della vita <strong>che</strong> sboccia («il fanciullo acquatico e felice» e<br />

poi «gravido di luce») e quella della parola come essenza della vita stessa (il «verso <strong>che</strong><br />

lo dice» e poi il «silenzio» e infine la «festa di parole»). 23 Il segno poetico rinvia ad una<br />

realtà immateriale e attinge a una dimensione precedente la scrittura, in cui cerca le<br />

simmetrie naturali capaci di reggere e continuare il discorso. Piano onirico ed esistenza<br />

conscia si confondono «nella figurazione fra realistica, ipnotica e utopica del fanciullo»:<br />

il corpo è il luogo di collegamento tra ciò <strong>che</strong> si consuma e ciò <strong>che</strong> dura eterno, luogo<br />

della solitudine dell’uomo <strong>che</strong> tuttavia continua a cercare uno spiraglio, perché «la<br />

morte rappresenta l’ingiusta ipoteca della finitudine». 24 Ecco allora <strong>che</strong> manca una<br />

determinazione temporale se non l’immediatezza della visione, e la circostanza<br />

aneddotica sfuma in favore dell’astrazione: la vita <strong>che</strong> il poeta descrive appartiene ad<br />

una dimensione altra, perciò in questa poesia non ci sono verbi, non ci sono tempi<br />

verbali, non c’è il tempo. 25 Si giunge allora alla fusione dei tempi in una dimensione<br />

priva di conflitti, in cui tutto è còlto in una assolutezza <strong>che</strong> lo estrania da ogni umana<br />

collocazione: non c’è Proust, non c’è rivelazione del “tempo perduto”, 26 c’è invece la<br />

rappresentazione di un eterno presente in cui si accampano gli oggetti <strong>che</strong>, come in un<br />

gioco combinatorio, assumono l’evidenza di carte di tarocchi preziose e rivelatrici (il<br />

fanciullo, l’acqua, la luce, il sole e le parole). 27 Assistiamo ad una rappresentazione<br />

23<br />

Così Daniela Mar<strong>che</strong>schi in Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 28: «creatura limpida (pura e<br />

trasparente) <strong>che</strong> non sembra già più del mondo terrestre, si mostra “gravido di luce” cioè contiene in sé la luce.<br />

Quest’ultima appartiene al suo essere e, per tale ragione, si connette al “silenzio”, proprio dell’atemporalità<br />

dell’essere medesimo. Eppure si tratta di un silenzio <strong>che</strong> non annienta le parole, perché è nel misurarsi con l’oggettiva<br />

sostanza dell’altro, quale essa sia, <strong>che</strong> scaturiscono appunto queste. Dalla immaterialità della luce alla materialità dei<br />

suoni, dall’eterna grazia della primavera della vita alla presente (questa) realtà del poeta, la gioiosa “festa di parole”<br />

mette in risalto il mutuo, incessante scambio tra tutto quanto vive e sta nel cosmo, ovvero “la permanenza<br />

dell’intemporale nella temporalità” e viceversa».<br />

24<br />

Roberto Deidier, Penna tra Saba e Montale, in Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna, cit., pp. 101-103. E si<br />

legga an<strong>che</strong> Robero Deidier, L’officina di Penna, cit., p. 8: «La liricità di Penna, tuttavia, individua un singolare<br />

punto di fuga rispetto alla grande tradizione petrar<strong>che</strong>sca, al cui stile e registro sembra pienamente attingere. Nel<br />

“monolinguismo” <strong>che</strong> la caratterizzerebbe, infatti, subentra un livello di microstoria e di parziale “realismo” (ma solo<br />

sul piano lessicale), <strong>che</strong> instaura una tensione dialettica tra la descrizione e la trasfigurazione sognante».<br />

25<br />

Si legga an<strong>che</strong> quanto scrive Stefano Petrocchi in Il taccuino bianco di Sandro Penna, in AA.VV., Sandro<br />

Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, cit., p. 97: «La con-fusione progressiva di figure umane ed elementi naturali è<br />

condotta con i modi ellittici della frase nominale, dell’andamento paratattico e dell’analogia». Questo procedimento<br />

rende il senso di a-storicità del reale <strong>che</strong> è oggetto dell’attenzione di Penna e rende il senso separatezza <strong>che</strong><br />

caratterizzano la poesia e il poeta.<br />

26<br />

Cfr. Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna fra poesia e prosa, in AA.VV., Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità,<br />

cit., p. 119.<br />

27<br />

Ivi, p. 102: «[…] Penna sottolinea il lieto impulso verso le cose, la risonanza interiore frutto dell’emozione<br />

della bellezza, piuttosto <strong>che</strong> il tripudio coloristico, ditirambico e panico, delle sensazioni. Non per nulla il “fanciullo<br />

acquatico”, creatura limpida <strong>che</strong> non sembra già più del mondo terrestre, si mostra “gravido di luce”, cioè contiene in<br />

sé la luce: quest’ultima appartiene al suo essere e, per tale ragione, si connette al “silenzio”, proprio dell’atemporalità<br />

dell’essere medesimo».<br />

70


dell’io come elemento o corpo cosmico, negazione dell’io sociale o aneddotico.<br />

L’incontro con il paesaggio e con i fanciulli rinvia alle origini stesse della vita, ovvero a<br />

quell’unità perduta tra uomo e natura <strong>che</strong> la poesia tenta di recuperare, ponendosi di<br />

fatto al di fuori della modernità alienata. L’oscillazione tra eros e civiltà dice la tensione<br />

verso un’altra realtà, verso una dimensione diversa dell’essere. Si tratta di una volontà<br />

di regressione verso un’animalità istintiva, <strong>che</strong> annulla l’umano, con i suoi limiti<br />

razionali e i suoi tabù, per lasciare spazio ad una divina libertà in cui la «mente»<br />

(l’interiorità profonda) e il mondo stanno in equilibrio e armoniosamente si riflettono<br />

l’una nell’altro:<br />

Animale lucente di sole:<br />

il mio cuore riluce di te.<br />

Animale di sole lucente:<br />

il mio cuore riluce e la mente.<br />

(Animale lucente di sole, in Confuso sogno)<br />

La poesia raggiunge la perfezione del cerchio, al cui centro sta Penna e la cui<br />

circonferenza è in ogni luogo, perché mobile e in continuo divenire: lo spazio della<br />

poesia è il raggio di tale circonferenza, un raggio sempre più spostato in avanti,<br />

all’inseguimento di un limite <strong>che</strong> diviene altro costantemente. La poesia, allora, si dà<br />

tutta nel percorrere in avanti e poi a ritroso questo spazio tra il qui e l’altrove, in cui<br />

l’incontro coi fanciulli e con la natura si configura come momento d’emergenza di<br />

un’interiorità magmatica, di tensioni <strong>che</strong> superano il motivo della testimonianza<br />

episodica e <strong>che</strong> vanno oltre il tempo stesso, aprendo a una dimensione carica di<br />

potenzialità.<br />

2.2.3. «Un altro mondo si dischiude»<br />

La capacità di Penna di percorrere il passato, il presente e il futuro, <strong>che</strong> riscontriamo<br />

in tanti suoi componimenti, è an<strong>che</strong> quella «mobilità in senso cronologico» 28 tipica dei<br />

suoi testi, per i quali il momento della stesura è difficilmente individuabile. Caproni,<br />

28 Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 72.<br />

71


come si è detto, aveva parlato di «un libro unico in un tempo unico» 29 e Raboni di «una<br />

sorta di atemporalità estatica, in un presente continuo <strong>che</strong> assomma in sé le dolcissime<br />

perfidie del passato e l’assillante letizia del futuro». 30 In questo suo essere al di là del<br />

tempo la forte componente realistica della poesia convive con un’altrettanto importante<br />

istanza immaginativa, <strong>che</strong> permette di andare oltre i limiti del semplice ricordo. Si ha<br />

l’impressione <strong>che</strong> tra le vicende biografi<strong>che</strong> e l’esperienza della scrittura ci sia un vero e<br />

proprio scarto, e <strong>che</strong> pertanto l’esistenza quotidiana abbia influenzato solo in minima<br />

parte i versi. Essi attingono a una dimensione superiore, in cui la figura emerge a dare<br />

consistenza plastica ad una rappresentazione inattuale e fortemente antiborghese. 31<br />

Penna guarda oltre la realtà, 32 rimettendo in causa il senso stesso <strong>che</strong> questa parola<br />

assume nei suoi testi: i versi non tracciano il contorno di semplici quadretti, ma<br />

agiscono nella rappresentazione di una vita sottratta alla neutralità. Il desiderio lascia<br />

emergere l’opposizione tra lo spazio del presente e la sua possibile modificazione in un<br />

paradiso erotico fuori dal tempo, <strong>che</strong> dal passato è giunto sino a noi e si rinnova:<br />

Ricomporre la mia malinconia<br />

vorrei. La nuova dolce religione mia.<br />

Ma se mi desto nella buia stanza<br />

esiterò a picchiare o luminoso<br />

mattino? Io non verrò alle calme<br />

corse nel verde antico ove si sgrana<br />

talvolta il sesso di un fanciullo e rossa<br />

più rossa è l’aria di primavera?<br />

(Ricomporre la mia malinconia, in Poesie inedite)<br />

29 Giorgio Caproni, «Poesie» di Sandro Penna, ora in La scatola nera, cit., p. 109.<br />

30 Giovanni Raboni, Perfezione di Penna, in La poesia <strong>che</strong> si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano.<br />

1959-2004, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, p. 156: «Non si tratta, vorrei <strong>che</strong> fosse chiaro, o<br />

non si tratta soltanto, di ragioni prati<strong>che</strong>, cioè dell’abitudine di Penna di non datare i propri versi per poi “arrendersi”<br />

di fronte alla difficoltà di attribuire loro una data; ma di qualcosa di più e di diverso, di più implicito e interno alla<br />

natura stessa della poesia penniana – di qualcosa <strong>che</strong> ha a <strong>che</strong> vedere molto da vicino con la sua grazia imponderabile<br />

e profonda, con il suo essere sempre misteriosamente, stupendamente altrove rispetto a qualsiasi tentativo di<br />

ricostruzione e classificazione. Essere sempre altrove equivale, io credo, a essere sempre presente: e an<strong>che</strong>, dunque, a<br />

essere naturalmente al di fuori del tempo. La non databilità delle poesie di Penna è, insomma, una circostanza meta<br />

filologica. Se an<strong>che</strong> si riuscisse, con le armi sempre più affilate della filologia, ad apporre (imporre) a ciascuna di<br />

esse una data, la loro atemporalità continuerebbe a vivere, clandestina e trionfante, negli spessori insondabili della<br />

loro trasparenza».<br />

31 Cfr. Remo Pagnanelli, Studi critici. Poesia e poeti italiani del secondo Novecento, cit., p. 27: «Il suo rigettare la<br />

politica a vantaggio della contemplazione della natura e dell’eros è paradossalmente iperideologica, perché la sua<br />

accertata “assenza di funzione” agisce con la scelta di un tempo interiore ossessivo-rurale, contro quello borghese,<br />

rettilineo e progressivo».<br />

32 Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 77: «Penna guarda<br />

costantemente dentro di sé e proietta il proprio desiderio fuori di sé (il “dentro” e il “fuori” di tante sue poesie)».<br />

72


L’io inventa e finge un altrove <strong>che</strong> è già qui attraverso l’incontro con presenze tangibili,<br />

ma <strong>che</strong> in definitiva sono chimerici prodotti della sua immaginazione, angeli e idoli di<br />

un mondo interiore dotato di una sua «risonanza sentimentale». 33 Per cenni e scorci si<br />

intravedono delle ipotesi di salvezza: il mondo esterno (il «luminoso / mattino»),<br />

contrasta con l’interiorità del poeta (la «buia stanza»), e tuttavia prefigura una vita<br />

diversa. 34 L’interrogazione è sospesa tra realtà e irrealtà, possibilità e impossibilità, luce<br />

e buio. Il dissidio interiore si manifesta nel contrasto tra il «chiuso libro» e la «vita<br />

lontana»: 35<br />

Dal chiuso libro adesso approdo a quella<br />

vita lontana. Ma qual è la vera<br />

non so.<br />

E non lo dice il nuovo sole.<br />

73<br />

(Finestra, in Poesie)<br />

Il «nuovo sole» non parla al poeta <strong>che</strong> osserva dall’alto, da una posizione separata dalla<br />

vita vera, perciò la sua luce in questo caso non scalda e non illumina la vita poetica, <strong>che</strong><br />

rimane sterile nel «chiuso libro». An<strong>che</strong> in Falsa primavera Penna affronta il tema della<br />

duplicità del reale, della sua verità e falsità appunto, e lo sviluppa nella<br />

contrapposizione tra un mondo luminoso e vivo e una dimensione di ansia e di vuoto,<br />

tra una esteriorità apparentemente positiva e una interiorità lacerata, tra una natura in cui<br />

«l’ora è ferma» e una dimensione psicologica su cui invece grava il dolore per ciò <strong>che</strong> è<br />

effimero:<br />

Placidi gatti amanti<br />

(sul prato l’ora è ferma)<br />

di vetri luccicanti.<br />

Goffamente beati,<br />

da odore di caserma<br />

si spogliano i soldati.<br />

33 Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 181.<br />

34 Così Cesare Garboli, Penna Papers, cit., p. 45: «Penna è il solo poeta del Novecento il quale abbia<br />

tranquillamente rifiutato, senza dare in escandescenze, la realtà ideologica, morale, politica, sociale, intellettuale del<br />

mondo in cui viviamo. Penna ha messo il mondo degli adulti «tra parentesi». Non lo ha contestato, ma lo ha rifiutato<br />

come un mondo insignificante, un po’ volgare, un po’ miserabile, fatto di ridicoli imbrogli e di vanità risapute. […]<br />

Alla «realtà» Penna antepose, fino alle estreme conseguenze, la sua parola tematica, «vita»; ed è stato il solo poeta<br />

del secolo a dirci con voce netta e chiara <strong>che</strong> per essere protagonisti della vita bisogna stare lontani dal traffico, da<br />

ogni traffico, e camminare sul marciapiedi».<br />

35 Ma si leggano an<strong>che</strong> altri passaggi: «E la pioggia lavava quelle pietre» (Mi avevano lasciato solo);<br />

«Vanamente rivivo / in questi cuori: oh assorte / lontananze» (Nell’alto arido eremo salmastri); «I bei capelli caduti<br />

tu hai / sugli occhi vivi in un mio firmamento / remoto» (Le nere scale della mia taverna); «La mano / di quell’uomo<br />

al lavoro / su la spiaggia lontana» (Mi portano lontano).


Ma effimero è alle cave<br />

ansie il sole <strong>che</strong> ami.<br />

Al vespro aspro, è grave<br />

il cielo ai secchi rami.<br />

74<br />

(Falsa primavera, in Poesie)<br />

Nell’ultima strofa l’io è assediato da presenze negative <strong>che</strong> oggettivano uno stato di<br />

interna disperazione, di identificazione dell’anima con qualcosa di arido e vuoto<br />

(«effimero è […] il sole»; «cave / ansie»; «vespro aspro»; «è grave / il cielo ai secchi<br />

rami»). 36 An<strong>che</strong> i pensieri sono vuoti, come sterili relitti incapaci di cogliere la<br />

profondità dell’amore. La positività risiede nella sensualità dei «gatti amanti» e dei<br />

«Goffamente beati […] soldati», in una realtà esterna e estranea all’io poetico, <strong>che</strong> non<br />

può parteciparvi direttamente, ma soltanto coglierne alcune tracce per una effimera<br />

salvezza.<br />

Il mondo si rivela, al contempo, «falso e vero»: falso, nell’esteriorità di una realtà<br />

lontana, in cui il cuore del poeta rimane vuoto e inappagato; vero, nella rilettura in<br />

chiave psichica di una vita <strong>che</strong> l’eros rende piena di aspettative. L’utopia di Penna si<br />

nutre di innocenza e di inquietudine allo stesso tempo, perché egli è consapevole del<br />

«vuoto incanto», sa <strong>che</strong> la poesia non può avere un carattere definitivo, ma proprio per<br />

questo può aprirsi allo spazio del possibile e del desiderio: 37<br />

[…] L’innocenza<br />

forse risalirà con la sua bicicletta<br />

la lenta strada, e poi vi sarà tolta<br />

d’un tratto dalla polvere di un camion.<br />

Quando poi schiarirà, cercate ancora<br />

sulla strada, o nel cuore, il vuoto incanto.<br />

Fingerà la natura un suo tramonto.<br />

E tutto vi parrà – ma non vi date<br />

sentimento di sorta – falso e vero.<br />

(Avete mai provato in un’aria serena, in Poesie inedite)<br />

36 Cfr. Francesca Bernardini Napoletano, Il gambo del fiore. Sandro Penna e la poesia italiana del Novecento, in<br />

AA.VV., Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, cit., p. 73. E si legga an<strong>che</strong> Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna fra<br />

poesia e prosa, in Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa modernità, cit., pp. 101-102: «Penna è poeta del desiderio <strong>che</strong> si<br />

mantiene costante apertura sul mondo, pur muovendo da una visione del vivere umano all’insegna di un sereno<br />

dissidio interiore (l’ossimoro è necessario), nella percezione dello scorrere inarrestabile del tempo dato a ognuno,<br />

dalla caducità delle cose e dalla fuggevolezza della felicità».<br />

37 Cfr. Cesare Garboli, Prefazione, in Sandro Penna, Poesie, cit., p. XII: «I ragazzini di Penna non salveranno mai<br />

il mondo, non essendoci nel mondo niente da salvare. C’è, a intermittenza, la divinità del desiderio. Questa è la vera<br />

trasgressione».


«Amore inventa e rischia» scrive poco oltre questi versi: la realtà è doppia, c’è qualcosa<br />

<strong>che</strong> cade al di là di ciò <strong>che</strong> normalmente percepiamo, c’è una dimensione più profonda<br />

(«segreto» è un termine <strong>che</strong> ricorre spesso nelle poesie di Penna), <strong>che</strong> smas<strong>che</strong>ra la<br />

falsità della realtà più superficiale, e Eros, il desiderio, deve tentare di fare esistere<br />

quest’altra realtà, deve inventare un altro mondo.<br />

Nella raccolta Stranezze sebbene al fanciullo «gravido di luce» si sostituisca l’«io<br />

buio, sul sedile, e vuoto» (Letteratura), ancora una volta è lasciato aperto uno spiraglio<br />

ad una possibilità futura:<br />

Non c’è più quella grazia fulminante<br />

ma il soffio di qualcosa <strong>che</strong> verrà.<br />

(Non c’è più quella grazia fulminante, in Stranezze)<br />

Penna si sente definitivamente «felice straniero in ogni luogo» (Il sole qui mi sembra<br />

così caldo), la lontananza (dei fanciulli, ormai «antichi») è ancora una volta speranza:<br />

Un altro mondo si dischiude: un sogno<br />

fanciulla mia beata sotto il sole<br />

medesimo (oh gli antichi<br />

e dorati fanciulli). Un lieve sogno<br />

la vita…<br />

Ricordati di me dio dell’amore.<br />

(Un altro mondo si dischiude: un sogno, in Stranezze)<br />

Alla fine del percorso il cerchio si chiude così come si era aperto: «la vita…» è attesa di<br />

un avvenimento, tensione verso un oltre <strong>che</strong> superi la mancanza e si confronti con il<br />

desiderio. Al «ricordarsi di un risveglio» si sostituisce il «ricordati di me», come se il<br />

poeta fosse già proiettato in una dimensione postuma e si fosse lasciato alle spalle<br />

questo mondo per andare verso «Un altro mondo», <strong>che</strong> è, ancora una volta e come<br />

sempre, sogno. 38<br />

Questo è il gioco <strong>che</strong> la finzione poetica mette in scena: l’io «straniero in ogni<br />

luogo» può trovare una sede nell’invenzione-rappresentazione dei sensi. Ogni testo è un<br />

38 Cfr. Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, cit., p. 76: «È chiaro <strong>che</strong> rispetto<br />

alla percezione del vuoto di tanta poesia del nostro tempo, Penna sostituisce la sospensione in una sorta di<br />

trasalimento dopo la corsa o attesa costante dell’avvenimento, <strong>che</strong> è una funzionale fase tensiva al di là della<br />

mancanza momentanea e verso l’oggetto-soggetto di questa poesia, cioè il fanciullo dio dell’amore. […] Il fanciullo<br />

[…] è proiezione del soggetto verso il continuo e rassicurante ripetersi in nuovi volti del medesimo desiderio<br />

amoroso. Non a caso i fanciulli di Penna hanno solo occhi, perché essi non sono persone fissate in un fotogramma:<br />

sono coloro <strong>che</strong> legano l’io al mondo possibile, non al mondo reale».<br />

75


tentativo di avvicinamento ad una realtà alternativa al tempo lineare dell’«effimero<br />

sole», verso quel limite in cui non c’è più il tempo, inteso come processo di evoluzione<br />

dalla natura alla storia, ma ci sono la natura, la fisicità, l’eros, in un insieme totale,<br />

simultaneo e circolare. In questo modo la scrittura à rebours di Penna può vincere la<br />

morte, o almeno può strappare al tempo quel poco <strong>che</strong> nelle poesie è detto: i versi<br />

riscrivono la vita, danno un’altra chance alla quotidianità umile e marginale dell’autore.<br />

Ne risulta un’immagine mentale di assoluta rêverie e speranza, 39 in cui gli oggetti, i<br />

paesaggi, i fanciulli escono dal loro tempo, per entrare in una dimensione sospensiva.<br />

Ciò <strong>che</strong> il desiderio fissa nella mente prende forma nel <strong>lingua</strong>ggio della poesia, <strong>che</strong> ne<br />

esprime l’essenza e la claritas, la luminosità, ma an<strong>che</strong> la fragilità e il vuoto intorno.<br />

39 Ancora Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna fra poesia e prosa, in AA.VV., Sandro Penna. <strong>Una</strong> diversa<br />

modernità, cit., p. 111: «in Penna è proprio la Natura, la potenza del suo essere corporalmente in atto, la presenza del<br />

desiderio e del piacere carnale a farsi tempo, perciò a divenire coscienza di esso nel ricordo. La natura assume su di<br />

sé la storia e non viceversa». E sempre di Daniela Mar<strong>che</strong>schi si legga an<strong>che</strong> Sandro Penna. Corpo, tempo e<br />

narratività, cit., p. 30: «Al “primitivo” Penna non sarebbe quindi interessata la dimensione ideologica, una<br />

rivisitazione razionale astratta della realtà, condotta secondo criteri prestabiliti, ma piuttosto abitare un preciso tipo di<br />

tempo, tutto speciale: quello ciclico e cosmico del corpo, della pendolarità senza scampo fra piacere e dolore,<br />

possesso e perdita ineluttabile della vita; e quello del ritorno del medesimo proprio del bisogno naturale o desiderio».<br />

76


2.3.<br />

GIORGIO CAPRONI:<br />

LA «PENA DEL FUTURO»<br />

Il pensiero del disastro attraversa come un fiume carsico l’opera di Giorgio Caproni,<br />

per affiorare secondo due direttive complementari: da una parte le poesie sono le<br />

macerie di un day after tanto grottesco quanto politicamente attuale, sono i prodotti<br />

residuali di un’apocalisse <strong>che</strong> non ammette palingenesi; dall’altra sono esse stesse lo<br />

strumento e l’origine della fine del mondo, percorrono «l’orlo del disastro», per dirla<br />

con Blanchot, in un instabile equilibrio tra ciò <strong>che</strong> è già avvenuto e ciò <strong>che</strong> deve ancora<br />

accadere:<br />

Noi siamo sull’orlo del disastro senza <strong>che</strong> lo si possa situare<br />

nell’avvenire: esso è piuttosto sempre già passato, e tuttavia ne siamo<br />

sull’orlo e sotto la minaccia, espressioni, queste, <strong>che</strong> impli<strong>che</strong>rebbero tutte<br />

l’avvenire se il disastro non fosse ciò <strong>che</strong> non viene. 1<br />

A partire dal Muro della terra e attraverso versi scabri ed essenziali tale pensiero dà<br />

forma a scenari di frontiera, a non-luoghi di perdizione e transito <strong>che</strong> tracciano i<br />

contorni di una «guerra / d’unghie» (Anch’io) condotta con la «coscienza del carattere<br />

erosivo del segno». 2 L’io è una presenza ambigua, <strong>che</strong> assume le forme più disparate e<br />

scava dentro di sé rinvenendo quegli oggetti destinati a diventare concretizzazioni della<br />

propria condizione esistenziale:<br />

Sono tornato là<br />

dove non ero mai stato.<br />

Nulla, da come non fu, è mutato.<br />

Sul tavolo (sull’incerato<br />

a quadretti) ammezzato<br />

ho ritrovato il bicchiere<br />

mai riempito. Tutto<br />

è ancora rimasto quale<br />

mai l’avevo lasciato.<br />

77<br />

(Ritorno, in Il muro della terra)<br />

1 Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990, p. 11, e prosegue «Non sarai tu a parlare; lascia<br />

parlare in te il disastro, non importa se attraverso l’oblio o il silenzio» e poi ancora «Altri si rapporta a me come se io<br />

fossi l’Altro e mi fa allora uscire dalla mia identità, opprimendomi sino all’annientamento, allontanandomi, sotto la<br />

pressione di un’infinita prossimità, dal privilegio di essere in prima persona».<br />

2 Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, p. 79.


In Ritorno il deittico “là” introduce la disarticolazione logico-spaziale di un io al quale<br />

non preesiste un passato o un luogo della memoria e di conseguenza è negata la<br />

salvezza del poter dire razionalmente la realtà. La poesia non può essere veggenza, ma<br />

solo rivelazione dell’evidenza negativa: il «bicchiere / mai riempito» è figura di quel<br />

vuoto <strong>che</strong> assedia la storia e <strong>che</strong> conduce all’annullamento di sé. Senza un diaframma<br />

tra lo sguardo e l’invenzione (finzione) poetica, tutto partecipa di una vita psichica <strong>che</strong><br />

ne potenzia il significato in una dimensione surreale e metafisica. 3 Il disastro è allora<br />

qualcosa <strong>che</strong> è già stato e <strong>che</strong> si ripete attraverso il nonsense di affermazioni e<br />

negazioni. Il nostos si capovolge nel suo contrario e gli oggetti simultaneamente reali e<br />

irreali annullano la visione del presente in uno sguardo <strong>che</strong> viene meno, in un<br />

mancamento su cui si proietta un futuro di macerie: 4<br />

Resteremo in pochi.<br />

Raccatteremo le pietre<br />

e ricominceremo.<br />

A voi,<br />

portare ora a finimento<br />

distruzione e abominio.<br />

Saremo nuovi.<br />

Non saremo noi.<br />

Saremo altri, e punto<br />

per punto riedifi<strong>che</strong>remo<br />

il guasto <strong>che</strong> ora imputiamo a voi.<br />

(Palingenesi, in Il franco cacciatore)<br />

La poesia di Caproni tende a ridurre il proprio peso moltiplicandosi in testi brevi,<br />

risolti in uno scatto, in un effetto paradossale o in una corsa verso la fine, come se ci<br />

permettesse di mettere un piede dentro all’anticamera dell’apocalisse:<br />

le bian<strong>che</strong> figure vane<br />

<strong>che</strong> vanno…<br />

… le articolazioni<br />

morte del loro passo…<br />

… È certo<br />

Inseguendo<br />

3<br />

Cfr. Giacinto Spagnoletti, Il cammino di Caproni, in Poesia italiana contemporanea, Milano, Spirali, 2003, pp.<br />

363-364.<br />

4<br />

Così EnricoTesta, Per interposta persona, cit., p. 81: «l’infinita ripetizione dell’uguale, <strong>che</strong>, se ridà vita a chi<br />

insegue la parola per proferirla, lo fa solo per avvolgerlo nuovamente nel suo vuoto».<br />

78


<strong>che</strong> allora l’introvabile appare<br />

nel suo scomparire.<br />

(Passeggiata, in Il Conte di Kevenhüller)<br />

I tre libri <strong>che</strong> egli mette insieme tra il 1975 e il 1986 si presentano come partiture fatte<br />

di brevi lettere poeti<strong>che</strong> inviate dal deserto. Si è perso ogni significato sicuro e<br />

definitivo del mondo, e il pensiero del disastro non si pone come glossa marginale ad<br />

altri temi, ma diventa materia stessa del fare poetico, o, meglio ancora, antimateria. La<br />

poesia va cercata tagliando, ferendo, delimitando, nullificando, negando, fino alle<br />

estreme conseguenze della Res amissa: la cosa o il bene perduto, <strong>che</strong> è la parola e la<br />

vita. Il disastro si definisce nell’avvicinamento a quel male esistenziale <strong>che</strong> la filosofia<br />

ha presentato come la morte di Dio, la fine della solidità e oggettività del mondo, del<br />

<strong>lingua</strong>ggio e della solidarietà civile. La ricerca si risolve nella cancellazione, la presenza<br />

nella sparizione:<br />

Ora dov’è, dov’è<br />

la bella compagnia<br />

d’allora – la gaia gente<br />

pronta a spartire il vino<br />

(il cuore) e l’amicizia?<br />

Io non vedo più niente.<br />

Solo scempio e nequizia.<br />

2.3.1. <strong>Una</strong> calma disperazione<br />

(Arietta di rimpianto, in Il Conte di Kevenhüller)<br />

Già dal 1956 Caproni dà forma ad un pensiero <strong>che</strong> sarà destinato a fare sentire la sua<br />

eco, secondo infinite variazioni, an<strong>che</strong> nei decenni successivi:<br />

l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena<br />

del futuro s’è aperta<br />

79<br />

(Sirena, in Il passaggio d’Enea)<br />

Chiusa ogni possibilità di uno sguardo positivo e conoscitivo, si delinea più<br />

precisamente il dolore dell’io poetico, come dolore esistenziale <strong>che</strong> riguarda il senso di<br />

un destino <strong>che</strong> non può essere cambiato. L’estrema consapevolezza viene raggiunta per


gradi successivi di approssimazione: a partire dal Seme del piangere, e sempre più<br />

insistentemente nelle altre raccolte, il tema della «pena / del futuro» e dell’impossibilità<br />

di ritorno si declina nella variante complementare della distanza, del distacco dai luoghi<br />

e dai tempi della vita. Si definisce così la diversità di un io <strong>che</strong> è altrove e in nessun<br />

luogo:<br />

Nell’ossa ho un’altra città<br />

<strong>che</strong> mi strugge. È là.<br />

L’ho perduta<br />

[…]<br />

Città<br />

cui nulla, nemmeno la morte<br />

– mai – mi ricondurrà.<br />

(Il gibbone, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />

La perdita e il dolore sono totalizzanti, e non è prevista nessuna possibilità di salvezza,<br />

soltanto il resoconto di un viaggio in un altrove in cui presente e passato si fondono<br />

senza speranza di futuro:<br />

Sono stato là<br />

dove non si può tornare.<br />

Tutto è come fu.<br />

(Toba, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />

La geografia di Caproni si definisce come lo spazio mentale del negativo e del nulla,<br />

come la mappa di un mondo capovolto in cui vengano indicati i luoghi del non-essere.<br />

Questa minacciosa apocalisse delinea una dimensione altra, al di fuori della realtà. Il<br />

muro della terra, la raccolta successiva al Congedo, si apre con una indicazione di<br />

confine, <strong>che</strong> prelude ad un trapasso:<br />

«Confine» diceva il cartello.<br />

Cercai la dogana. Non c’era.<br />

Non vidi, dietro il cancello,<br />

ombra di terra straniera.<br />

(Falsa indicazione, in Il muro della terra)<br />

L’altrove non è un luogo sconosciuto e straniero, perché è già qui, è già il presente <strong>che</strong><br />

abitiamo quotidianamente. Il <strong>lingua</strong>ggio non può indicare un senso <strong>che</strong> valga a dare una<br />

dimensione nuova al destino dell’uomo, non c’è indicazione sicura, c’è solo il niente<br />

dell’irrealtà in cui si capovolge il reale:<br />

80


Quando avrà raggiunto<br />

il luogo dov’è segnato<br />

l’albergo (è il migliore<br />

albergo esistente)<br />

vedrà <strong>che</strong> assolutamente<br />

lei non avrà trovato<br />

– vada tranquillo – niente.<br />

(Indicazione sicura, o bontà della guida, in Il franco cacciatore)<br />

La terribile verità racchiusa in questi pochi versi non conosce drammaticità, il mondo ha<br />

debellato il tragico per il grottesco e qui l’abbassamento di tono al colloquiale «vada<br />

tranquillo» ribadisce il carattere minore dell’apocalisse caproniana, generando un effetto<br />

straniante <strong>che</strong> ci pone in una dimensione inquietante. La vera paura nasce dalla<br />

consapevolezza <strong>che</strong> ogni emozione è tenuta sotto controllo, come se fosse narcotizzata<br />

da un boia sadico e premuroso allo stesso tempo. Allo straniamento contribuisce an<strong>che</strong><br />

l’uso del futuro anteriore, <strong>che</strong> genera il corto circuito di un “passato nel futuro” <strong>che</strong>,<br />

anticipando l’evento, elimina ogni possibilità di speranza e l’idea stessa di un<br />

rinnovamento dell’essere. Del resto si tratta di un viaggio di cui conosciamo già la meta,<br />

«il tono è di voce recitante <strong>che</strong>, ancora nel caldo delle cose, ne sancisce la distanza,<br />

ancora nella vita, ne traspone già gli esiti accecati di luce». 5<br />

Avvicinandosi al grado zero esistenziale, la disperazione calma di Caproni trova il<br />

suo punto culminante nell’attesa di una parola di cui viene dichiarata l’inesistenza:<br />

Non resta nemmeno il lutto,<br />

nel grigio, ad aspettar la sola<br />

(inesistente) parola.<br />

81<br />

(Tutto, in Il muro della terra)<br />

Prevale l’immagine del mondo come spazio mentale e metafisico. In questo modo si<br />

delineano i tratti di una ontologia <strong>che</strong> assume forme drammati<strong>che</strong> nella continua<br />

alternanza tra essere e non essere, <strong>che</strong> esplicita la sostanza nichilistica della<br />

Weltanschauung caproniana.<br />

Partendo dalla dissoluzione della giovanile nostalgia del presente, il lutto <strong>che</strong> invade<br />

i versi di Caproni prende forma nell’immobilità di una palude mortifera <strong>che</strong> tutto<br />

inghiotte e in cui sprofonda an<strong>che</strong> la storia:<br />

5 Marco Forti, Il Novecento in versi. Studi, indagini e ricer<strong>che</strong>, Milano, il Saggiatore, 2004, p. 141.


Di noi, testimoni del mondo,<br />

tutte andranno perdute<br />

le nostre testimonianze.<br />

Le vere come le false.<br />

La realtà come l’arte.<br />

Il mondo delle sembianze<br />

e della storia, egualmente<br />

porteremo con noi<br />

in fondo all’acqua, incerta<br />

e lucida, il cui velo nero<br />

nessuna idrometra più<br />

pattinerà – nessuna<br />

libellula sorvolerà<br />

nel deserto, intero.<br />

82<br />

(L’idrometra, in Il muro della terra)<br />

La crisi del valore della memoria-testimonianza come strumento etico e conoscitivo si<br />

ritrova an<strong>che</strong> nel Conte di Kevenhüller: «La storia è testimonianza morta. / E vale<br />

quanto una fantasia» (Corollario). È sancita così l’impossibilità di una “sublimazione”<br />

nell’autocompiacimento (e compatimento), di fronte ad una realtà appiattita<br />

nell’inautenticità:<br />

Lo sfacelo della storia <strong>che</strong> abbiamo vissuto non ammette riscatti di<br />

illusione, né la poesia è un rifugio o un’isola felice: anzi, è lo strumento forse<br />

più acuminato per esprimere un vuoto <strong>che</strong> non può certo essere colmato da<br />

istituzioni fatiscenti e artificiose. 6<br />

La fine della storia segna an<strong>che</strong> la fine dell’identità individuale e collettiva, <strong>che</strong> non<br />

trova più un legame col proprio passato (le radici) e non conosce lo slancio verso il<br />

futuro (la speranza):<br />

<strong>che</strong> cosa e chi siamo, noi,<br />

senza radici e senza<br />

speranza – senza<br />

alito di rigenerazione?<br />

(Su un vecchio appunto, in Il franco cacciatore)<br />

Il soggetto viene spossessato di ogni capacità cognitiva e di ogni sostanza, diluito in una<br />

dimensione impersonale: non può definire se stesso se non ponendo una domanda <strong>che</strong><br />

rimane senza risposta, o <strong>che</strong> contiene già in sé la consapevolezza della negatività.<br />

6 Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», cit., intervista rilasciata a Stefano Giovanardi. Si legga an<strong>che</strong><br />

Corollario in Il Conte di Kevenhüller: «[…] La storia è testimonianza morta. / E vale quanto una fantasia».


L’impossibilità di rigenerazione e cambiamento, l’annullamento della prospettiva<br />

utopica, viene ribadita con sempre maggiore convinzione: «Quello <strong>che</strong> è fatto, amici, / è<br />

fatto. Possiamo / riporre i ferri» (Finita l’opera, in Il muro della terra). La disillusione<br />

dichiara la condizione fuori centro dell’io, («non ho abitazione», «non ho ubicazione»),<br />

per cui non gli resta <strong>che</strong> «sparire» (Finita l’opera, in Il muro della terra). L’alternativa<br />

è «canticchiare […] per non disperare». Nasce un sentimento d’angoscia trattenuta, <strong>che</strong><br />

tuttavia ribadisce la contiguità della vita col nulla. L’ironia si mescola al nichilismo nel<br />

determinare la stoica accettazione di un destino <strong>che</strong> non conosce il montaliano «anello<br />

<strong>che</strong> non tiene», perché ogni varco è negato ed è carcere l’intero universo:<br />

Ah, «Quale folle danza»<br />

(mi misi a canticchiare,<br />

così, per non disperare<br />

nel buio) «è la Speranza»<br />

Senza sperar pertugio<br />

o<br />

elitropia.<br />

Sfondata ogni porta,<br />

abbattute le mura,<br />

è il cosiddetto Infinito<br />

la nostra vera clausura?<br />

83<br />

(Espérance, in Il muro della terra)<br />

(Plagio per la successiva, in Il muro della terra)<br />

(Tre interrogativi, senza data, 3, in Res amissa)<br />

A questo deserto della vita si contrappone la figura della moglie del poeta, alla quale<br />

è dedicata una poesia <strong>che</strong> termina con un’altra domanda, <strong>che</strong> lascia intravedere, pur<br />

nell’incertezza del tono interrogativo, l’unica realtà sottratta alla fine:<br />

Per lei,<br />

e solo grazie a lei, esiste<br />

dunque uno spiraglio ancora<br />

di qua d’ogni inerte speranza?...<br />

(Laudetta, in Il Conte di Kevenhüller)


I tre punti finali lasciano il discorso sospeso, senza una parola <strong>che</strong> dichiari una certezza<br />

positiva. La poesia si chiude senza risolvere dubbi e ansie: se an<strong>che</strong> si scorge «di qua»<br />

uno «spiraglio» negli affetti più intimi e personali, tuttavia la speranza rimane «inerte».<br />

Da questo silenzio senza risposte, dall’inerzia o assenza della speranza, emerge la<br />

volontà di Caproni di attenuare o addirittura eliminare i sentimenti troppo intensi, <strong>che</strong><br />

sbilancerebbero l’immobilità e l’assolutezza dell’angoscia: «Ma… non sperate paura»<br />

(Codicillo, in Il Conte di Kevenhüller). Priva delle passioni dell’anima la «disperazione<br />

/ calma e senza sgomento» (Congedo del viaggiatore cerimonioso) può attivare la<br />

«ricerca di un principio primo (e ultimo) del proprio essere». 7 L’io si confronta con<br />

versi in cui la situazione di abbandono sembra senza via di scampo, e in cui viene<br />

negata ogni possibilità di comunicazione con l’altro da sé:<br />

Sono partiti tutti.<br />

Hanno spento la luce,<br />

chiuso la porta, e tutti<br />

(tutti) se ne sono andati<br />

uno dopo l’altro.<br />

Piangeva,<br />

quasi. S’era<br />

coperta la faccia.<br />

Si premeva gli occhi.<br />

Aveva<br />

perso completamente,<br />

con la speranza, ogni traccia.<br />

Tutti<br />

se ne sono andati senza<br />

lasciare traccia.<br />

(Lasciando loco, in Il muro della terra)<br />

84<br />

(Il cercatore, in Il muro della terra)<br />

(Foglie, in Il franco cacciatore)<br />

La presa di coscienza di aver perso «ogni traccia» del senso e della realtà,<br />

contribuisce a fare slittare il discorso verso una terra di nessuno dove si riconosce nella<br />

perdita la sola verità possibile, nell’incertezza la sola certezza. Questo senso di estrema<br />

solitudine era già presente nelle numerose immagini dell’«uomo solo», <strong>che</strong> percorrono<br />

tutta l’opera poetica di Caproni, e <strong>che</strong> fanno pensare ad una figura umana sospesa tra<br />

7 Marco Forti, Tempi della poesia. Il Secondo Novecento da Montale a Porta, Milano, Mondadori, 1999, p. 120.


l’al di qua e l’al di là: «Io come sono solo sulla terra» (I lamenti, III, in Il passaggio<br />

d’Enea); «… perch’io, <strong>che</strong> nella notte abito solo» (Perch’io…, in Il seme del piangere);<br />

«… l’uomo <strong>che</strong> nel buio è solo» (Il bicchiere, in Congedo del viaggiatore cerimonioso<br />

& altre prosopopee). La parola si predispone all’incontro con quelle presenze silenziose<br />

<strong>che</strong> partecipano di una natura ambigua, a metà strada tra la vita e la morte. In Scalo dei<br />

fiorentini il passare in rassegna i morti, <strong>che</strong> non si muovono e non si voltano, diventa<br />

presa di coscienza <strong>che</strong> ogni comunicazione è negata e la separazione e la distanza<br />

coinvolgono sia l’io <strong>che</strong> la parola: 8<br />

I nomi si allontanavano<br />

vuoti. Rimbombavano<br />

sotto la volta. Li restituivano<br />

dall’altro capo – dall’Al di<br />

là – gli echi <strong>che</strong> io<br />

sentivo, vuoti, morire.<br />

[…]<br />

E poi, allontanandosi con rassegnazione:<br />

[…]<br />

Nessuno m’ha richiamato<br />

– nessuno – indietro.<br />

(Scalo dei fiorentini, in Congedo del viaggiatore cerimonioso)<br />

Tesa sul limite dell’evanescenza la poesia slitta progressivamente verso il vuoto<br />

dell’assenza e della negazione di ogni contatto salvifico. Tra gli attributi della morte<br />

riscontriamo quell’immobilità <strong>che</strong> era propria della Storia sin dai tempi delle prime<br />

raccolte, ma alla quale ora non si contrappone più la vita molteplice dei sensi:<br />

Un uomo solo,<br />

chiuso nella sua stanza.<br />

[…]<br />

Solo in una stanza vuota,<br />

a parlare. Ai morti.<br />

85<br />

(Condizione, in Il muro della terra)<br />

8 E così Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel Secondo Novecento, cit., p. 81: «Al<br />

movimento <strong>che</strong> scava verso il principio della parola corrisponde un movimento <strong>che</strong> si volge verso i margini e <strong>che</strong><br />

allarga progressivamente la sua azione: il momento in cui s’avverte la sordità, la non-risposta dei morti […] e in cui si<br />

scopre il dissolversi della propria voce nella parola».


Con una logica paradossale e corrosiva Caproni trova in questa dimensione di estrema<br />

solitudine una nuova forza, come dichiara nell’Intermezzo del Franco cacciatore:<br />

Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio.<br />

Ma v’è una stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio.<br />

Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera e trasparente (e<br />

tagliente) come l’ossidiana. L’allegria <strong>che</strong> essa può dare è indicibile. È<br />

l’adito – troncata netta ogni speranza – a tutte le libertà possibili. Compresa<br />

quella (la serpe <strong>che</strong> si morde la coda) di credere in Dio, pur sapendo –<br />

definitivamente – <strong>che</strong> Dio non c’è e non esiste.<br />

L’io partecipa, stoicamente, allo svolgersi di un destino annichilente, in cui la<br />

«disperazione calma» e la «straziata allegria» non sono più in contraddizione, ma<br />

partecipano della medesima assenza di regole: 9<br />

Moriamo con noncuranza.<br />

Liberi. D’ogni speranza.<br />

86<br />

(Coda, in Il franco cacciatore)<br />

L’assenza della speranza può diventare paradossale possibilità di libertà, accettazione di<br />

una condizione <strong>che</strong> trae la sua forza dall’estrema spoliazione:<br />

Saremo,<br />

an<strong>che</strong> più forti<br />

e liberi.<br />

Come i morti.<br />

(Detrminazione, in Il franco cacciatore)<br />

In Res amissa la sentenziosità non lascia spazio all’ambiguità di un giudizio morale o di<br />

un’incertezza etica, afferma invece una verità definitiva e tagliente:<br />

I vivi<br />

– tutti – si sono arresi.<br />

[…]<br />

I vivi hanno ceduto ai morti.<br />

(Gelo, in Res amissa)<br />

A differenza di quanto accade in Sereni o in Fortini, in cui il tema del dialogo coi morti<br />

acquista un significato particolare nell’uso del verbo al futuro («parleranno» scrive<br />

9 Cfr. Philippe Di Meo, Vers les lieux non juridictionnels, postface à Giorgio Caproni, Le Franc-Tireur, traduit<br />

par Philippe Di Meo, Seyssel, Champ Vallon, 1989, p. 161.


Sereni, e Fortini aggiunge: «Di noi […] parleranno»), 10 per Caproni, i morti «non<br />

parlano» (Un niente, in Il conte di Kevenhüller) e non parleranno. Essi rappresentano il<br />

nodo non risolto del reale, perciò non aprono ad una dimensione alternativa, non<br />

promettono un al di là di riscatto.<br />

2.3.2. Il tempo come metafora<br />

La poesia è caratterizzata da una sfasatura prospettica, un rovesciamento del campo<br />

della significazione e della logica del discorso, per cui la speranza nasce proprio dalla<br />

mancanza di ogni speranza, dall’aspettarsi tutto qui e ora: «O qui, / e ora, / o… / nulla»<br />

(Determinazione, in Il franco cacciatore). Non si può sperare nulla (o meglio, non si<br />

può sperare <strong>che</strong> il nulla), perché la meta estrema è già qui e quindi l’unica certezza è<br />

tautologica: «Lei non potrà mai arrivare, / mi creda, dov’è già arrivato» (Apostrofe a un<br />

impaziente d’imbarco, in Il franco cacciatore). Il tempo è una barriera <strong>che</strong> impedisce di<br />

andare oltre e <strong>che</strong> contiene tutto:<br />

Tutto è qui e ora.<br />

Tutto<br />

è già storia lontana.<br />

87<br />

(Saint-Honoré, in Erba francese)<br />

Anziché indicare il normale svolgimento di una parabola temporale l’uso verbale<br />

procede verso il ripiegamento, la negazione di una possibilità alternativa. Il nonsense<br />

trasforma il tempo oggettivo e lineare in un tempo astratto e la progressione spaziale<br />

diventa moto circolare <strong>che</strong> riguarda il destino ineluttabile dell’uomo: 11<br />

Non tremare. Insieme,<br />

presto Ritorneremo<br />

nel nostro nulla – nel nulla<br />

(insieme) Rimoriremo.<br />

(Su un’eco (stravolta) della Traviata, in Il muro della terra)<br />

10 A questo proposito si rimanda al capitolo 3.3. Le due citazioni sono tratte rispettivamente da: Vittorio Sereni,<br />

La spiaggia (Gli strumenti umani) e Franco Fortini, Gli ospiti (Questo muro).<br />

11 Cfr. Philippe Di Meo, Vers les lieux non juridictionnels, in Giorgio Caproni, Le franc tireur, cit., pp. 157-158.


Il ritorno si rivela per quello <strong>che</strong> è veramente, cioè morte, e il futuro viene piegato ad<br />

indicare un’azione ripetitiva, <strong>che</strong> riproduce se stessa senza introdurre alcuna sfumatura<br />

di speranza. Si procede verso una dimensione spazio-temporale stridente e<br />

contraddittoria, o più semplicemente impossibile: come se le poesie fossero sabbie<br />

mobili ogni movimento non fa <strong>che</strong> avvicinare alla fine, al punto in cui ogni nostro<br />

slancio ci allontana sempre di più dalla conoscenza razionale del mondo. A differenza<br />

del barone di Münchhausen, l’io non riesce a riemergere dalla palude tirandosi per i<br />

capelli, lasciando intravedere minimi particolari, intermittenti possibilità di salvezza.<br />

Ciò <strong>che</strong> ci è concesso è solo il dissidio interiore <strong>che</strong> procede per antitesi, opposizioni e<br />

vertigini, «nella continua reversibilità di funzioni, nella coincidenza di io e non io». 12<br />

Reversibilità è an<strong>che</strong> il titolo di una sezione del Franco cacciatore, in cui i normali<br />

rapporti dell’essere con le coordinate spazio-temporali vengono stravolti, il futuro non<br />

apre prospettive nuove, non muta nulla:<br />

Pronto sabré quién soy.<br />

(Borges)<br />

Presto sarò chi sono.<br />

(Io)<br />

88<br />

(Sfarfallone, in Il franco cacciatore)<br />

Caproni distorce il «sabré» (saprò) di Borges, in un’affermazione non di conoscenza,<br />

ma di esistenza paradossale, <strong>che</strong> esclude il mutamento e non ammette nessuna reale<br />

palingenesi. L’io cade vittima di un continuo gioco di specchi, di contrari <strong>che</strong><br />

convivono e <strong>che</strong>, sempre secondo il principio della reversibilità, si scambiano le parti,<br />

come nella grottesca affermazione di rinnovamento «Saremo nuovi. / Non saremo noi. /<br />

Saremo altri», <strong>che</strong> in realtà non prelude a nessun mutamento positivo, ma alla<br />

12 Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., pp. 170-173: «Intorno all’ossimoro primario (esistere-non esistere; io-non io),<br />

altri se ne ramificano a catena, seguendo i motivi più profondi: le antinomie fuori-dentro, luce-buio, la perdita delle<br />

certezze spazio-temporali (tornare dove non si è mai stati, arrivare al punto di partenza). […] Nella continua<br />

reversibilità di funzioni, nella coincidenza di io e non io <strong>che</strong> caratterizzano Il muro della terra, si viene chiamati ai<br />

compiti più inaspettati e difficoltosi, si scambiano in continuazione le parti; ciascun ruolo istituzionale si riflette e si<br />

ripercuote sull’altro, soggetto e oggetto si confondono». Si legga an<strong>che</strong> Niva Lorenzini, Il presente della poesia.<br />

1960-1990, cit., p. 88: «Questo è il punto: il problema vero con cui Caproni comincia a confrontarsi è l’impossibilità<br />

di conservare un <strong>lingua</strong>ggio del soggetto (l’interscambiabilità io-noi-voi non ne è <strong>che</strong> un sintomo) contrapposto, ma<br />

in conseguenza di ciò appunto riconoscibile, a un oggetto inteso come alterità linguistica, realtà separata, esterna. <strong>Una</strong><br />

realtà irriducibilmente diversa, ma <strong>che</strong> si poteva riprodurre, traducendola in comportamento verbale. Da questo<br />

momento in avanti la fiducia nel potere rappresentativo del segno è invece irrimediabilmente compromessa dal<br />

carattere reversibile dei ruoli (interno-esterno, movimento-stasi, esserci-scomparire): lo sguardo, l’occhio, si separano<br />

dalla coscienza della percezione, al punto <strong>che</strong> non si saprà più indicare un’area semantica definita né per la presenza<br />

né per l’assenza, nella dispersione frantumata di voci sempre più inconsistenti ed effimere».


ipetizione del disastro: «e punto / per punto riedifi<strong>che</strong>remo / il guasto <strong>che</strong> ora<br />

imputiamo a voi» (Palingenesi, in Il franco cacciatore).<br />

Caproni dichiara una propria conoscenza (negativa) dei fatti, parla da un altrove <strong>che</strong><br />

non ammette speranza. Il futuro è lo spazio mentale in cui si proiettano un presente e un<br />

passato in cui tutto ormai è stato deciso. La reversibilità dei tempi fa sì <strong>che</strong> questi si<br />

alternino come in un elettrocardiogramma, sino a giungere all’identità di passato e<br />

futuro, senza <strong>che</strong> sia possibile un ordine cronologico. <strong>Una</strong> funzione interessante di<br />

rovesciamento temporale viene affidata al condizionale con valore di “futuro nel<br />

passato”: «Sapevo <strong>che</strong> non ci sarebbe stato / nessuno ad aspettarmi» (Palo, in Il muro<br />

della terra). In casi come questi siamo di fronte alla vera natura del futuro di Caproni,<br />

cioè al futuro <strong>che</strong> in realtà è un passato:<br />

Il presente si perde<br />

già nel futuro.<br />

Il futuro<br />

è già tempo passato.<br />

89<br />

(In corsa, in Erba francese)<br />

In questa «situazione di tipo ossimorico», <strong>che</strong> «simula (con estrema libertà, ovviamente,<br />

e con un ampio margine di variazioni interne) la figura del chiasmo», 13 si realizza il<br />

cortocircuito tra l’io e il tempo. 14 Essendo il passato ciò <strong>che</strong> è concluso, è come dire <strong>che</strong><br />

il futuro stesso si è già compiuto e non resta <strong>che</strong> attendere il «colpo fulminante» <strong>che</strong><br />

ucciderà (e <strong>che</strong> ha già ucciso) l’io:<br />

Sedetti fuori dell’osteria,<br />

al limite della foresta.<br />

Aspettai invano. Ore e ore.<br />

Nessun predace in cresta<br />

apparve alla Malinconia.<br />

Aspettai ancora. Altre ore.<br />

Pensai, in straziata allegria,<br />

al colpo fulminante<br />

del franco cacciatore.<br />

(Antefatto, in Il franco cacciatore)<br />

L’io sempre più spesso cade vittima di inganni ottici, di trappole della sintassi e della<br />

logica <strong>che</strong> si basano su continue rotture e incoerenze narrative e temporali, per cui «i<br />

13 Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, cit., pp. 86-87.<br />

14 Cfr. Philippe Di Meo, Vers les lieux non juridictionnels, in Giorgio Caproni, Le franc tireur, cit., p. 160: «si<br />

l’éspace est aussi indéterminé qu’infini, le temps capronien est irreversibile».


segni verbali sono non gli strumenti del riconoscimento o della conoscenza, ma le tracce<br />

di uno smarrimento». 15 Se il tempo è a tutti gli effetti la metafora del rapporto<br />

fallimentare tra l’io e il mondo, nei Versicoli del controcaproni troviamo un’altra<br />

immagine del futuro, <strong>che</strong> viene rappresentato come un muro, un limite invalicabile:<br />

Batte profondo un tamburo.<br />

Sono arrivato al muro<br />

<strong>che</strong> vien detto futuro?<br />

(Futuro, in Versicoli del controcaproni)<br />

La barriera nega la speranza e la possibilità di un progetto. In Res amissa l’unica<br />

oltranza alternativa al “qui e ora” viene ricondotta al tema cardine della morte<br />

estremizzato nell’immagine «dell’oltremorte» (Quattro appunti, 2, in Res amissa), o di<br />

un al di là e di una distanza <strong>che</strong> non sono definibili se non per via di paradosso:<br />

Ormai superato nel vuoto<br />

il più futuro futuro,<br />

già ho stanza nel trapassato<br />

più trapassato e remoto?<br />

(Due tempi dell’indicativo, in Res amissa)<br />

«E quel “già”, <strong>che</strong> percorre a lungo l’ultima poesia di Caproni, si prospetta ora quale<br />

determinante avverbio di indicazione della collocazione postuma dell’autore. […] Il<br />

punto estremo di chi già da tempo è frequentatore degli orizzonti estremi è nel sentirsi<br />

postumo al proprio essere postumo». 16 L’andare nel tempo contro il tempo rimanda a<br />

quello <strong>che</strong> Franco Rella ha definito come «il sapere della caducità»:<br />

Tale sapere non si limita a esibire la fine del <strong>lingua</strong>ggio della ragione<br />

classica, a rimpiangere o a predicare la fine dei suoi fondamenti, ma proprio<br />

con questa crisi si misura, attraverso una nuova rappresentazione del reale,<br />

attraverso nuove formazioni di senso, attraverso un nuovo rapporto del<br />

soggetto con sé e con il mondo. 17<br />

Siamo agli antipodi della condizione dichiarata da Heidegger, secondo cui il<br />

<strong>lingua</strong>ggio è la casa dell’essere e la dimora dell’uomo: 18 l’uomo vive una condizione di<br />

15 Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, cit., p. 83.<br />

16 Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, Genova, il melangolo, 1998, pp. 225-226.<br />

17 Franco Rella, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 138.<br />

18 Martin Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Milano, Adelphi, 1995, p. 31: «L’essenza dell’agire, invece, è il<br />

portare a compimento (Vollbringen). Portare a compimento significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua<br />

essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere. […] Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug)<br />

90


spaesamento, tanto più accentuato quanto più inserito all’interno di una “normale<br />

anormalità”.<br />

Entrato nel cono d’ombra del non-essere, il <strong>lingua</strong>ggio è ridotto a pura logica<br />

formale, non riesce a ristabilire un rapporto ordinato col reale, non ammette possibilità<br />

di senso per ciò <strong>che</strong> si presenta come caos e disordine, ma si afferma come il luogo<br />

privilegiato dell’altrove. Linguaggio e tempo diventano, allora, metafore di un mondo<br />

privo di leggi e di riferimenti: «Il tempo, <strong>che</strong> nell’immagine del progresso sembrava<br />

scorrere “liscio come un filo attraverso le dita”, si presenta ora come una fune<br />

sfilacciata» 19 e la poesia si spinge ai limiti estremi di una razionalità <strong>che</strong> registra il<br />

disfacimento della società.<br />

2.3.3. Le parole della fine dell’uomo<br />

Parallelamente agli sviluppi metafisici e astratti Caproni sviluppa an<strong>che</strong> una<br />

riflessione sull’inquinamento <strong>che</strong> affligge il <strong>lingua</strong>ggio. La poesia per questo autore è<br />

un atto di libertà e disobbedienza, <strong>che</strong> si realizza soltanto quando la parola dell’io<br />

diventa voce del noi, quando la parola soggettiva si avvicina alle cose, dichiarandone la<br />

concomitanza col nulla ma an<strong>che</strong> mettendo il pensiero filosofico a più diretto contatto<br />

con temati<strong>che</strong> sociali e civili.<br />

Lettore di Kierkegaard, egli è consapevole <strong>che</strong> «l’uomo è una macchina di parole, e<br />

nulla impedisce <strong>che</strong> impari a memoria una litania filosofica come una confessione di<br />

fede o un credo politico». 20 Il pessimismo nei confronti della società moderna<br />

(conseguenza an<strong>che</strong> della crisi dell’intellettuale, <strong>che</strong> si vede negato ogni ruolo) tuttavia<br />

non ha mai come esito la fuga nell’ideale dell’arte, ma si configura come tentativo di<br />

giungere ad un confronto diretto col mondo, attraverso l’invettiva e l’allegoria. Se la<br />

poesia è abitata dal vuoto e dalle atrocità della storia stessa, si tratta di cercare di<br />

lavorare con le parole (an<strong>che</strong> quelle più logore) per generare pensiero e civiltà, senza<br />

lasciarci morire nel cimitero dell’abitudine:<br />

dell’essere all’essenza dell’uomo. […] nel pensiero l’essere perviene al <strong>lingua</strong>ggio. Il <strong>lingua</strong>ggio è la casa dell’essere.<br />

Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora».<br />

19 Franco Rella, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, cit., p. 139.<br />

20 Sören Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Milano, Fratelli Bocca, 1941, p. 64.<br />

91


Ogni rivoluzione genera una civiltà contro la quale, per la sua stessa<br />

salvezza, cioè perché tale civiltà non si esaurisca nell’estrema consunzione<br />

letteraria o, in una parola, nell’imitazione, è a un certo punto nuovamente<br />

necessario ribellarsi. 21<br />

In queste parole dell’immediato dopoguerra sono contenute una tensione al<br />

cambiamento e una speranza <strong>che</strong> negli anni successivi vengono meno, come si è visto<br />

precedentemente, perché progressivamente la poesia scopre il senso della perdita e dello<br />

spaesamento: perdita della madre, delle città amate, della fede, dei valori nei quali il<br />

poeta stesso aveva creduto e di quegli ideali di rinnovamento <strong>che</strong> dopo la Resistenza<br />

vengono soffocati nel monocolore democristiano. Prevale, allora, il senso di solitudine,<br />

l’impossibilità di comunicare, la rottura di ogni unione tra l’uomo e lo spazio-tempo in<br />

cui vive.<br />

Prima <strong>che</strong> ricerca estetica, è posizione etica: solo così il poeta trova la spinta per<br />

continuare, nonostante lo choc, la ricerca di un’adesione critica al presente. Caproni<br />

diviene descrittore di una realtà stravolta dalle «rovine invisibili» dell’epoca postbellica,<br />

in cui le parole toccano i nervi sensibili dell’esistenza mondana senza porsi al di sopra o<br />

al di là della vita quotidiana. La poesia è, invece, un nuovo occhio <strong>che</strong> si apre e<br />

modifica la vista degli altri occhi:<br />

Oggi (in fondo gli «impossibili contenuti nuovi» non sono <strong>che</strong> questo: un<br />

modo nuovo di considerarsi nel mondo, uno spostamento del centro di<br />

gravitazione, e quindi un modo nuovo di riflettere in modi e forme nuove)<br />

vivere sui pinnacoli non giova più: non giova almeno in questo particolare<br />

momento d’emergenza. 22<br />

Caproni, prima su un versante intimista, con Il seme del piangere, poi passando<br />

dall’io all’uomo con il Congedo del viaggiatore cerimonioso, inventa una retorica in<br />

aperta opposizione al multiforme vitalismo della metropoli, in cui «gli uomini non<br />

hanno più tempo né luogo per piangere» 23 e l’uomo “solo” è lo scandalo della civiltà<br />

collettiva. Il poeta cerca di allontanarsi e di abbandonare quella realtà <strong>che</strong> si impone<br />

come “normale” e <strong>che</strong> obbliga le masse a farsi accettare come tale. I temi e le immagini<br />

del passato, estremi baluardi contro la dissoluzione, vengono assaliti dal germe del<br />

disfacimento e stravolti dall’irrazionalismo logico, dalla sfasatura spazio-temporale:<br />

21<br />

Giorgio Caproni, Poesia come disobbedienza, «Perseo», 20 ottobre 1948, poi in La scatola nera, cit., p. 24.<br />

22<br />

Ivi, p. 25.<br />

23<br />

Giorgio Caproni, Né tempo né luogo, «La Fiera Letteraria», 9 novembre 1958.<br />

92


Essere in disarmonia<br />

con l’epoca (andare<br />

contro i tempi a favore<br />

del tempo) è una nostra mania.<br />

Crediamo nell’anacronismo.<br />

Nel fulmine. Non nell’avvenirismo.<br />

93<br />

(A certuni, in Res amissa)<br />

C’è, insomma, la coscienza di un’opposizione radicale e il rifiuto di uno stato di cose<br />

<strong>che</strong> non può più considerarsi fatale, ma <strong>che</strong> è, invece, fondato su precise colpe di pochi,<br />

interessatissimi al condizionamento dei molti:<br />

Coi mezzi attuali di propaganda, non ci vuol molto a un “partito di<br />

massa” per creare una “massa”. Cioè un agglomerato di gente <strong>che</strong> la pensa<br />

tutta allo stesso modo, senza persone realmente capaci di pensare in proprio.<br />

E a questo modo i partiti di massa non fan <strong>che</strong> ripetere la chiesa, con la<br />

differenza <strong>che</strong> alla giustificazione d’un premio ultraterreno, al crescete e<br />

moltiplicate, sostituiscono il miraggio d’un premio terreno: un aspirapolvere,<br />

un frigorifero, una macchina, una casa, una villeggiatura (campa cavallo) per<br />

tutti. 24<br />

In questa direzione si sviluppano i vari alter ego del poeta, le allegorie attraverso cui<br />

egli addita le colpe e le discrepanze di una società <strong>che</strong> si vorrebbe democratica e sana.<br />

Sono figure o voci di “esuli”, di “fuggitivi”, le cui parole si stagliano contro l’ottusa<br />

animosità di chi ha «la testa sulle spalle» e «i piedi per terra», come dice il preticello del<br />

Lamento o boria, frequente bersaglio polemico del Caproni pubblicista:<br />

Contro la comoda società del benessere d’oggi, tutta tesa ai beni<br />

elettrodomestici, al carrierismo ecc., facendosi puntello, magari, d’un Dio nel<br />

quale, in fondo all’animo, non crede più. Il “bisogno di Dio” del preticello è<br />

soprattutto bisogno d’un poco di giustizia, di un poco di “luce”, di un poco di<br />

“anima” in tanta massa condizionata dai potenti mezzi di diffusione (e di<br />

educazione alla rovescia) oggi esistenti. 25<br />

Negli anni Sessanta inizia uno scoperto j’accuse rivolto alla società, e seppure i fatti<br />

da cui nasce questa critica non siano mai esplicitamente detti, ma soltanto suggeriti, è<br />

chiaro il giudizio e la condanna di tutto un sistema di istituzioni (religiose, morali,<br />

politi<strong>che</strong>, sociali etc.) <strong>che</strong>, ormai svuotate di ogni contenuto e giustificazione, sono<br />

mantenute in vita e sopravvivono soltanto come strumento di salvaguardia di interessi<br />

non confessabili:<br />

24 Giorgio Caproni, Politica e cultura, «Critica d’oggi», 12-13, settembre-novembre 1962.<br />

25 Giorgio Caproni in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 109.


La mia “sfiducia” non è sfiducia assoluta nell’uomo, ma nella società così<br />

com’è andata conformandosi. La religione e le ideologie scricchiolano e si<br />

conservano in piedi o con la forza o per ipocrisia. 26<br />

Il preticello è la figura più emblematica di questa sfiducia, rappresenta una poesia<br />

<strong>che</strong> non può proporre soluzioni nuove, ma <strong>che</strong> vuole testimoniare una piccola lezione di<br />

decenza contro l’irreligione dell’avere, in un mondo <strong>che</strong> sembra aver perduto il vero<br />

senso della solidarietà, del sostegno umano e spirituale. La sua speranza è per un Dio<br />

<strong>che</strong> deve venire, una deità mancante nel presente e sposata nel futuro:<br />

prego (e in ciò consiste<br />

– unica! – la mia conquista)<br />

non, come accomoda dire<br />

al mondo, perché Dio esiste:<br />

ma, come uso soffrire<br />

io, perché Dio esista.<br />

(Lamento (o boria) del preticello deriso, in Congedo…)<br />

La tensione verso un Dio <strong>che</strong> si sa bene <strong>che</strong> non c’è e <strong>che</strong> tuttavia si vuole <strong>che</strong> ci sia è<br />

un segno di quella resistenza della poesia contro l’inferno della quotidianità, <strong>che</strong> con la<br />

forza ottusa delle cose umilia ogni slancio nell’orizzontalità del tempo storico. 27<br />

Occorre prendere una posizione continuando caparbiamente a pregare un Dio da far<br />

esistere, per contrapporlo all’inaccettabile disumanità di un mondo <strong>che</strong> trova nel<br />

guadagno l’unico scopo della vita e nella violenza l’unico mezzo:<br />

Ho spesso avuto desiderio di Dio, come giustizia, remunerazione,<br />

garanzia. Ma è stato un desiderio sempre insoddisfatto. Dio, se c’è, è un dio<br />

serpente, un dio <strong>che</strong> non remunera, non redime. 28<br />

Ma non basta emendarsi nell’understatement, non è questo un modo per lavarsi le<br />

mani. Caproni nel Muro della terra patisce la sciagura storica an<strong>che</strong> nell’angoscia del<br />

26 Ibidem.<br />

27 Vengono in mente le parole con cui Calvino concludeva Le città invisibili: «L’inferno dei viventi non è<br />

qualcosa <strong>che</strong> sarà; se ce n’è uno, è quello <strong>che</strong> è già qui, l’inferno <strong>che</strong> abitiamo tutti i giorni, <strong>che</strong> formiamo stando<br />

insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino<br />

al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper<br />

riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Italo Calvino, Le città<br />

invisibili, in Romanzi e racconti, vol. 2, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno<br />

Falcetto, Milano, Mondadori «i Meridiani»,1995, pp. 497-498).<br />

28 Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», cit., intervista rilasciata a Stefano Giovanardi. Ma si legga an<strong>che</strong><br />

Divagazioni sul tradurre, in La scatola nera, cit., pp. 59-66, dove Caproni parla della poesia di André Frénaud: «Il<br />

suo religioso ateismo, ma soprattutto il suo stoicismo (a volte ironico, a volte addirittura sarcastico) nel rincorrere in<br />

moto perpetuo, come i suoi Re Magi la Stella, una speranza già negata sul nascere e comunque sempre fuggitiva, in<br />

una maratona resa ancor più spossante dalla coscienza <strong>che</strong> la Stella, appunto, è irraggiungibile, e <strong>che</strong> – come afferma<br />

uno dei tre Re nella chiusa del poème – insensato è per l’uomo, ma proprio per questo irresistibile, il richiamo:<br />

“Siamo persi… Ci han dato false informazioni. / Fin dall’inizio del viaggio. / Non ce n’era strada. Non ce n’è,<br />

luce…”».<br />

94


suo incombere («le rovine invisibili» del dopoguerra, la guerra fredda), oltre <strong>che</strong> nel suo<br />

avverarsi. L’invivibilità storica del presente ci pone a diretto contatto con quel «muro»<br />

<strong>che</strong> è il più fisico simbolo del Male: i dati di riferimento riaffiorano, ma, parallelamente,<br />

essi sono intensificati dall’apporto di un senso <strong>che</strong> travalica la contingenza e li dispone<br />

a essere colmati da ulteriori significazioni.<br />

Le poesie di Acciaio, come ha sottolineato Surdich, 29 «si sincronizzano con<br />

l’occasione bellica e ne riproducono alcune fasi, ma si distanziano in modo reciso dalla<br />

circostanza ponendo al di là e al di fuori di essa il loro significato più profondo. […] La<br />

riassunzione delle esperienze della guerra quale argomento di poesia nel primo scorcio<br />

degli anni Settanta non si giustifica affatto nei termini di un condizionamento<br />

retrospettivo e memoriale», ma come presa di coscienza ed evoluzione di un nucleo<br />

tematico volto a definire l’essere (se mai è possibile definirlo) nonostante il premere<br />

dell’amletico non essere. «La guerra / penetrata nell’ossa» e la notte dura dei coltelli,<br />

degli scisti, dell’ossidiana 30 non sono rimovibili, ma perennemente incombono, e con<br />

esse la rima, «sostanza stessa del discorso in versi», 31 <strong>che</strong>, con un crescendo<br />

drammatico nelle ultime raccolte, viene tesa fino all’orrore scarno, imperfetto e perfido<br />

di Alcina-Hiroshima («Sogna Alcina… // Hiroshima…», Träumerei in Il franco<br />

cacciatore). In contrasto con le città amate, Livorno e Genova ariose e vitali, Hiroshima<br />

è la città del disastro per antonomasia, ferita aperta della coscienza collettiva. In una<br />

dimensione onirica perturbante emergono an<strong>che</strong> altri luoghi della disumanità, come<br />

Dachau, emblema dell’annullamento della vita e dell’uomo.<br />

Se la storia è condotta a questi esiti da uno scelus continuamente perpetrato, l’esserci<br />

allora è poca cosa: è quel “poco” 32 <strong>che</strong> resta, per cercare un parallelo visivo, nelle<br />

sculture di Alberto Giacometti, in cui l’uomo, ridotto ad una sagoma filiforme (quasi un<br />

incrocio uomo-idrometra-libellula) a cui rimangono aderenti pochi residui di materia,<br />

misura coi suoi passi e le sue ombre la lastra nera su cui si trova. Non è più l’uomo <strong>che</strong><br />

fa lo spazio, è lo spazio <strong>che</strong> disfà l’uomo. Questo spazio inquinato corrode, come una<br />

pioggia acida, le presenze <strong>che</strong> lo abitano, <strong>che</strong> vengono colpite da parole-sassate <strong>che</strong> le<br />

29 Luigi Surdich, Le idee e la poesia, cit., p. 175.<br />

30 Dunque non più la rima-rondine di Litania (Il passaggio d’Enea), non più rime chiare e neppure “ingenue” e<br />

sensuali, bensì impure e taglienti reificazioni dell’Unheimli<strong>che</strong> caproniano.<br />

31 Gian Luigi Beccaria, L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1975, p. 30.<br />

32 Cfr. Italo Calvino, Il taciturno ciarliero (per Giorgio Caproni), in Saggi, cit., p. 1027:«Il nulla, grande tema<br />

della poesia e della filosofia contemporanee, ha una sua enfasi, una sua magniloquenza in cui è facile cadere. […] Ma<br />

le sue riuscite maggiori sono quando il senso del vuoto scaturisce da quello spazio fitto di persone e di discorsi <strong>che</strong> è<br />

il nostro “poco” quotidiano».<br />

95


snaturano. An<strong>che</strong> di quelle più salvifi<strong>che</strong> è rimasto poco, esse hanno perduto il loro<br />

télos originario, e non possono resistere al mutamento della loro stessa sostanza (ci<br />

troviamo di fronte ai vari effetti della «frana della ragione»). Così dopo la “teo-alogia”<br />

del Muro, la teologia illogica della negazione e dell’invettiva contro Dio, Caproni<br />

giunge a raffigurare un Cristo piangente, chiuso nel «cesso», una misera «statua di<br />

gesso» (Telemessa in Il franco cacciatore). L’immagine rende Dio ancora più lontano<br />

dai bisogni dell’uomo, ancor più inconoscibile e irriconoscibile, vera e propria icona<br />

negativa in cui si annulla ogni valore messianico e utopico.<br />

Se ogni grazia è Res amissa, se ogni speranza nel futuro, in una rivoluzione <strong>che</strong> sia<br />

generatrice di civiltà, è perduta, è a causa di una vita fasulla, svenduta al denaro e<br />

inquinata dal potere e dalla retorica di un <strong>lingua</strong>ggio impoverito e mistificatorio.<br />

Assistiamo dunque esterrefatti allo Show, una parata di falliti «Arrampichini. /<br />

Arrivisti.», <strong>che</strong> «In nome del Popolo / arraffano» e, sordi al monito del preticello,<br />

«Investono / all’estero, mentre “auspicano” / (Dio quanto auspicano!) / pace e<br />

giustizia». Torna la vis polemica delle raccolte precedenti, contro l’irreligione dell’avere<br />

<strong>che</strong> soffoca l’essere, contro coloro <strong>che</strong> «Han la testa sul collo, / dicon loro. Di pollo. / I<br />

piedi sulla terra. / Lavoran per la pace / preparando la guerra» (Lorsignori), «Loro, / i<br />

veri seviziatori / della Giustizia in nome / (sempre, sempre in nome!) / del Dollaro e<br />

dell’Oro» (Show). Il disastro ecologico dell’idrometra qui si spoglia di ogni metafisica,<br />

e gravati dal peso della colpa sprofondiamo an<strong>che</strong> noi nella melma di un «paese<br />

guasto», in cui la testimonianza del poeta è destinata a rimanere inascoltata: «Non<br />

uccidete il mare, / la libellula, il vento. / […] E chi per profitto vile / fulmina un pesce,<br />

un fiume, / non fatelo cavaliere / del lavoro» (Versicoli quasi ecologici).<br />

Parlando di una natura <strong>che</strong> subisce le nostre colpe egli intende soprattutto<br />

sottolineare il dramma civile dell’uomo moderno: l’inquinamento del <strong>lingua</strong>ggio è, in<br />

ultima analisi, inquinamento del mondo. Il poeta preleva le parole dai circuiti<br />

dell’informazione di massa e ce le presenta logore e sfatte. Frasi fatte <strong>che</strong> a furia d’esser<br />

ripetute, spesso a sproposito, trapassano nell’inconscio senza passare per la coscienza<br />

(«Eccidio o massacro / son nomi. (Così come il Sacro)», Attualità). Siamo a diretto<br />

contatto con la loro violenza, ci confrontiamo con la loro rinascita e il continuo declino.<br />

Le parole non possono più aggiungere un senso alle cose, non possono interpretarle, ma<br />

96


soltanto nominarle per un breve tempo prima di essere dimenticate. La fine del<br />

<strong>lingua</strong>ggio come mezzo di conoscenza e testimonianza è la fine del mondo:<br />

Non restano testimonianze.<br />

Grande <strong>che</strong> sia o meschino<br />

quanto s’è fatto o detto<br />

non dura più di nebbia al mattino.<br />

97<br />

(Su frase fatta, in Res amissa)


TERZA PARTE<br />

99


100


3.1.<br />

FRANCO FORTINI:<br />

LA POETICA DEL NON ANCORA<br />

Nel saggio intitolato Utopia e disincanto, Claudio Magris pone l’accento<br />

sull’importanza della resistenza della letteratura e dell’uomo in generale, contro le<br />

nuove forme di totalitarismo “soft” nate dalla fine dei totalitarismi del passato, <strong>che</strong> si<br />

basano sulle «gelatinose ideologie deboli, promosse dal potere delle comunicazioni». 1<br />

La difesa da simili forme di controllo mediatico si deve basare sul valore della memoria<br />

storica (sempre più insidiata dal revisionismo) e sul «rifiuto del falso realismo, <strong>che</strong><br />

scambia la facciata della realtà per la realtà intera e, privo di ogni senso religioso<br />

dell’eterno, assolutizza il presente e non crede <strong>che</strong> esso possa cambiare». 2<br />

L’utopia di chi crede ancora nella necessità di cambiare il mondo e riscattarlo, non<br />

può però sopravvivere a se stessa e deve, secondo Magris, entrare in contatto con il suo<br />

contrario, il disincanto, <strong>che</strong> «corregge l’utopia, rafforza il suo elemento fondamentale,<br />

la speranza». 3 Lo slancio, di per sé positivo e progressivo, nasce da una condizione di<br />

mancanza, di assenza e di lontananza, da quella <strong>che</strong> Magris definisce come la<br />

«lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli» 4 e <strong>che</strong> già Ernst Bloch aveva<br />

identificato come vero e proprio principio spirituale dell’utopia, nel saggio intitolato<br />

Principio speranza.<br />

3.1.1 Dalla «nostalgia di lunghissimo esilio» alla «poetica dell’avvento»<br />

In un articolo apparso su «L’Unità» nel 1946 Calvino ha scritto a proposito di Foglio<br />

di via di Fortini:<br />

Poeta della resistenza fin dalle più anti<strong>che</strong> liri<strong>che</strong> della raccolta (<strong>che</strong><br />

comprende il suo lavoro dal ’38 al ’45) in cui la sua solitudine di giovane<br />

1<br />

Claudio Magris, Utopia e disincanto, Milano, Garzanti, 2001, p. 10.<br />

2<br />

Ibidem.<br />

3<br />

Claudio Magris, Utopia e disincanto, cit., p. 14.<br />

4 Ibidem.<br />

101


ebreo nel paese ostile non smorza la sua voce in un interiore rovello, ma la<br />

schiude in un forte canto <strong>che</strong> è pur lirica ed elegia, ma già poesia civile […].<br />

Poesia della resistenza perché la sua vena di tristezza non è mai abbandono o<br />

rinuncia, la sua nostalgia di lunghissimo esilio non è mai impotente desiderio<br />

d’evasione, ma l’una e l’altra si maturano in un virile, consapevole impegno<br />

di vita e di lotta. La voce di Fortini è alta e gelida. 5<br />

In questo articolo, appassionato e carico d’affetto, Calvino coglie il tratto secco e<br />

raffinato di versi in cui «ogni parola è pagata con un brivido», da cui emerge una<br />

volontà di essere nella storia <strong>che</strong> va di pari passo con l’attività intellettuale e<br />

resistenziale. 6 Tuttavia lo slancio positivo si confronta necessariamente con una pars<br />

destruens <strong>che</strong> non lascia nulla intatto, e procede dal vertice abbagliante del sole verso la<br />

notte, sino a calare nella profondità dell’io:<br />

E il sole si distrugge<br />

Lungo le torri della città nemica<br />

Verso la notte d’ansia<br />

Quando nei volti vili della città nemica<br />

Leggo la morte seconda,<br />

E tutto, an<strong>che</strong> il ricordare, è invano<br />

102<br />

(La città nemica, in Foglio di via)<br />

Il ricordo è inutile nel tempo nemico; non c’è idillio, ma sospensione e attesa. Il<br />

presente è allora pena e conflitto, e Fortini vive una condizione d’esilio in patria,<br />

riconoscendo nell’Italia la propria «necessaria prigione»:<br />

Ora m’accorgo d’amarti<br />

Italia, di salutarti<br />

Necessaria prigione.<br />

Non per le vie dolenti, per le città<br />

Rigate come visi umani<br />

Non per la cenere di passione<br />

Delle chiese, non per la voce<br />

Dei tuoi libri lontani<br />

Ma per queste parole<br />

Tessute di plebi, <strong>che</strong> battono<br />

A martello nella mente,<br />

Per questa pena presente<br />

Che in te m’avvolge straniero.<br />

Per questa mia <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> dico<br />

A gravi uomini ardenti avvenire<br />

5 Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., p. 1057.<br />

6 Nel 1944 Fortini partecipò alla Resistenza in Valdossola.


Liberi in fermo dolore compagni.<br />

Ora non basta nemmeno morire<br />

Per quel tuo vano nome antico.<br />

103<br />

(Italia 1942, in Foglio di via)<br />

Contro la prigionia nell’Italia invasa dai nazisti e sottomessa alla dittatura fascista si<br />

deve necessariamente lottare; non in nome di valori quali la storia, la religione e la<br />

cultura, ma per ridare dignità ai popoli, affinché le «plebi» possano diventare «uomini<br />

ardenti». Se da una parte la prospettiva tende ad aprirsi all’avvenire, tuttavia ancora non<br />

risolve in modo deciso il nodo tra il qui e l’altrove. Perciò «fra essere e non essere», si<br />

preferisce quello spazio intermedio in cui si manifesta la tensione latente delle cose, in<br />

cui l’esistenza, <strong>che</strong> «esita» a definirsi, è «figura» carica di potenzialità per il futuro, ma<br />

è an<strong>che</strong> «prigioniera in se stessa», grumo di vita <strong>che</strong> preme per superare la distanza:<br />

Ma qui dove fra essere e non essere esita<br />

Prigioniera in se stessa una nostra figura,<br />

Tu liberata porti la giustizia sicura<br />

Che i vivi conosce e i morti.<br />

(A un’operaia milanese, in Foglio di via)<br />

La «nostalgia di lunghissimo esilio», di cui parla Calvino, è presa di coscienza di un<br />

sentimento ineludibile di distacco, implicito già nel titolo Foglio di via: una poetica <strong>che</strong><br />

esprime «il ricordo di antichissime terre e stagioni», 7 ma <strong>che</strong> è, allo stesso tempo,<br />

rivolta al futuro, attraverso un discorso carico di contatti e tensioni tra natura e storia. 8<br />

Foglio di via è emblematico di quella <strong>che</strong> Thomas E. Peterson ha definito una «poetics<br />

of “advent”»: 9<br />

E questo è il sonno, edera nera, nostra<br />

Corona: presto saremo beati<br />

In una madre inesistente, schiuse<br />

Nel buio le labbra sfinite, sepolti.<br />

E quel <strong>che</strong> odi poi, non sai se ascolti<br />

Da vie di neve in fuga un canto o un vento,<br />

7 Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., pp. 1058-1059.<br />

8 Cfr. Thomas E. Peterson, The Ethical Muse of Franco Fortini, University Press of Florida (UPF), 1997, p. 4:<br />

«In Fortini’s practice the poetic utterance has a dual orientation – towards an immediate object and towards a general<br />

interlocutor, often in the future. […] The former is concrete and referential, while the latter is abstract and subjective.<br />

[…] Fortini insists on context and values: the virtue of the oppressed, the villainy of the oppressor, and the hope for<br />

those in the future».<br />

9 Thomas E. Peterson, The Ethical Muse of Franco Fortini, cit., p. 12: «His own poetics of “advent” projects a<br />

future of greater hope and fortune than the present. Thus the details of present perceptions are willfully obscured so<br />

as to emphasize their clarity when viewed from the perspective of generality and the future».


O è in te e dilaga e parla la sorgente<br />

Cupa tua, l’onda vaga tua del niente.<br />

(E questo è il sonno, in Foglio di via)<br />

Sin dal suo primo libro Fortini prende le distanze da quel «Novecento figurativo degli<br />

anni Trenta, di soave e coscientemente falso primitivismo, di fres<strong>che</strong>zza di colori», 10<br />

<strong>che</strong> egli riconosce nella poesia di Penna, ma <strong>che</strong> è la cifra stilistica an<strong>che</strong> del primo<br />

Caproni e in parte del primo Sereni. Fortini si confronta da subito con una parola <strong>che</strong><br />

confina col nulla, una parola <strong>che</strong> «non è, né deve essere mai, la cosa». 11 La guerra ha<br />

contribuito a radicare e diffondere la percezione di una doppia realtà, <strong>che</strong> lo sguardo<br />

non può risolvere in una visione sicura ed unitaria: «edera nera»/«nostra corona»;<br />

«beati»/«sepolti»; «quel <strong>che</strong> odi»/«non sai se ascolti»; «un canto»/«un vento»;<br />

«sorgente cupa»/«onda vaga tua del niente». 12 Il procedere per coppie antiteti<strong>che</strong>, per<br />

scissioni e disgiunzioni, trasmette il senso di una poesia fondata sulla praesentia<br />

discors 13 <strong>che</strong>, culminando nella coppia-rima «sorgente/niente», designa una forza<br />

originaria interna all’io dalla quale sgorga la parola e in cui si condensa un surplus di<br />

sofferenza. Come la pena della lontananza patita nel Coro di deportati attraverso la<br />

ripetizione salmodiante di veri e propri versetti <strong>che</strong> ribadiscono l’inconciliabilità tra il<br />

pensiero e la realtà esterna:<br />

Vorremmo tornare a guardare<br />

Carezzare il trifoglio dei prati<br />

Gli stipiti della casa nuova<br />

Piangere di pietà<br />

Dove passò nostra madre<br />

Invece saremo lontani.<br />

[…]<br />

E quando saremo tornati<br />

L’erba pazza sarà nei cortili<br />

E il fiato dei morti nell’aria.<br />

10<br />

Franco Fortini, Breve secondo Novecento, in Saggi ed epigrammi, cit., p. 1167.<br />

11<br />

Franco Fortini, Prefazione 1967 a Foglio di via (Torino, Einaudi, 1967), poi in <strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie<br />

1938-1973, Torino, Einaudi, 1978, p. 362.<br />

12<br />

Cfr. Marina Polacco, Fortini e i destini generali. Lirica e «grande politica» fino a Composita solvantur,<br />

«Allegoria», 21-22, anno VIII, 1996, p. 46: «La contraddizione della poesia si articola nello stesso spazio della<br />

contraddittorietà del reale».<br />

13<br />

La dialettica non è concordia discors, non c’è pacificazione nel processo dialettico, e nemmeno equilibrio, essa<br />

è piuttosto tensione delle forze in atto, dinamica simultanea degli opposti. Berardinelli, tramite Brecht, definisce la<br />

dialettica come «la dottrina dell’unità degli opposti e della duplicità di ciò <strong>che</strong> appare unitario» (Alfonso Berardinelli,<br />

Franco Fortini, Firenze, La Nuova Italia, «il castoro», 1973, p. 153).<br />

104


Le rughe sopra le mani<br />

La ruggine sopra i badili<br />

E ancora saremo lontani.<br />

Saremo ancora lontani<br />

Dal viso <strong>che</strong> in sogno ci accoglie<br />

Qui stanchi d’odio e d’amore.<br />

[…]<br />

105<br />

(Coro di deportati, in Foglio di via)<br />

Lo sguardo del poeta è doppio, perché da una parte si rivolge ad una realtà orizzontale,<br />

fatta di cose concrete (erba, fiato, rughe, ruggine), <strong>che</strong> condensano in materia organica il<br />

senso del trascorrere del tempo, dall’altra emerge una tensione, dialetticamente opposta,<br />

a fuggire questa materialità. Solo nel sonno si trova accoglienza, nel «viso <strong>che</strong> in sogno<br />

ci accoglie» si scorge la traccia di un immaginario ermetico dalla evidente semplicità<br />

simbolica, ma <strong>che</strong> il deittico («qui stanchi») smorza, marcandone la distanza. C’è il<br />

senso della lontananza, ma mai dell’isolamento esistenziale, o della fuga in una<br />

dimensione altra, astratta e fuori dal tempo. La riappacificazione dei contrasti in una<br />

dimensione onirica è un’illusione, poiché la vita non è pace e quiete indistinta, è fatta<br />

invece «d’odio e d’amore», elementi contrari in perenne lotta, <strong>che</strong> generano «un’ansia<br />

di liberazione <strong>che</strong> è già figura del futuro». 14 Un futuro <strong>che</strong> è tempo, è relazione del<br />

soggetto con l’altro da sé e con il presente: 15<br />

[…]<br />

Ma verranno nuove le mani<br />

Come vengono nuove le foglie<br />

Ora ai nostri campi lontani.<br />

Ma la gemma s’aprirà<br />

E la fonte parlerà come una volta.<br />

Splenderai pietra sepolta<br />

Nostro antico cuore umano<br />

S<strong>che</strong>ggia cruda legge nuda<br />

All’occhio del cielo lontano.<br />

(Coro di deportati, in Foglio di via)<br />

14 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 19.<br />

15 Cfr. Emmanuel Levinas, Le temps et l’autre, Paris, Presse Universitaire de France (PUF), 1983 (1ª ed.<br />

Montpellier, Fata Morgana, 1979), p. 17: «le temps n’est pas le fait d’un sujet isolé et seul […] il est la relation même<br />

du sujet avec autrui». E a p. 68: «l’avenir de l’événement n’est pas encore le temps. Car cet avenir qui n’est à<br />

personne, cet avenir que l’homme ne peut pas assumer, pour devenir un élément du temps doit tout de même entrer<br />

en relation avec le présent».


Le due avversative introducono ad un sentimento di speranza <strong>che</strong> produce il<br />

«movimento dialettico della storia verso il futuro»; 16 esse rappresentano la possibilità di<br />

una nuova vita, e contemporaneamente sanciscono la definitiva distanza dell’«antico<br />

cuore umano» dal «cielo lontano», in una sorta di verticalità negata. Con questo doppio<br />

movimento l’avvenimento si inserisce in una prospettiva di cambiamento <strong>che</strong> annulla il<br />

presente stesso nell’urto con un altro tempo: la poesia non vuole trattenere al di qua<br />

della fine, né evocare una stagione perduta, intende piuttosto andare oltre il presente, per<br />

affermare un’esistenza <strong>che</strong> è rinnovamento e visione. La «sorgente / cupa» qui si<br />

trasforma in una fonte <strong>che</strong> «parlerà», l’«edera nera» si muta in una gemma pronta a<br />

schiudersi in una rinnovata possibilità di fioritura. E troviamo an<strong>che</strong> uno dei primi<br />

esempi di quelle mineralizzazioni <strong>che</strong> si caricano di destino, preannuncio di futuro,<br />

segni cristallini di speranza: la «pietra sepolta» <strong>che</strong> splenderà diventa l’emblema di una<br />

liberazione <strong>che</strong> non ha nulla di metafisico, ma fa diretto riferimento al destino di un<br />

popolo inaridito dalla dittatura, cupa e soffocante come edera. 17 La pietra-antico cuore-<br />

poesia rimane viva, an<strong>che</strong> se sepolta, in attesa di una vita nuova, come la «rosa sepolta»<br />

<strong>che</strong> «odora eterna», figura anch’essa di un destino <strong>che</strong> la contingenza storica non può<br />

annientare:<br />

Discenderanno i cavalieri di grigi mantelli<br />

sui prati senza colore, accennando. E di noi<br />

dietro quel trotto senza suono per le valli<br />

d’esilio irrevocabili, seguiranno le immagini.<br />

Ma il più distrutto destino è libertà.<br />

Odora eterna la rosa sepolta.<br />

106<br />

(La rosa sepolta, in Foglio di via)<br />

Questi cavalieri apocalittici, <strong>che</strong> possono ricordare il «buio graffito delle acqueforti di<br />

Dürer», 18 calano su un mondo già ingrigito e senza colore, una waste land fortiniana <strong>che</strong><br />

anticipa di gran lunga i lugubri e scarni paesaggi caproniani. Le «valli / d’esilio<br />

irrevocabili» sono ciò <strong>che</strong> resta dopo la catastrofe e ciò <strong>che</strong> ci aspetta nell’immediato<br />

futuro, sono i fantasmi di un «distrutto destino» <strong>che</strong> riguarda tutti, ma <strong>che</strong> preserva tra le<br />

16 Giulio Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Torino, Einaudi, 1996, p. 102.<br />

17 Si legga quanto scrive Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 19: «Altre volte ancora lo stesso minerale<br />

in cui la poesia si essicca può essere garanzia di futuro, l’autorepressione trovare una possibilità di risarcimento<br />

capovolgendo la devitalizzazione in capacità di sopravvivere e di mordere».<br />

18 Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., p. 1058.


macerie la possibilità di un futuro, la libertà come il profumo eterno della «rosa<br />

sepolta»: dalla compresenza degli opposti può nascere una conoscenza più profonda di<br />

sé e del mondo. 19<br />

La dinamica dei contrari <strong>che</strong> Fortini ha inaugurato con Foglio di via, percorre an<strong>che</strong><br />

la sua successiva produzione. Il tempo presente dichiara una realtà divergente, basata su<br />

coppie antiteti<strong>che</strong> e drammati<strong>che</strong>, <strong>che</strong> strutturano la poesia come una continua lotta:<br />

Mi risveglio dal sonno, è una notte d’inverno,<br />

lontani sono i sogni, il libro è caduto,<br />

non vengono rumori sul vento della città.<br />

Guarda, mi dico, non è vero <strong>che</strong> siamo d’inverno,<br />

<strong>che</strong> sono morti gli amici e orrida cosa è vivere:<br />

vedrai domani alla prima luce ci desteremo<br />

a lavarci nei fontanili.<br />

107<br />

(Le stagioni, IV, in Poesia e errore)<br />

Il realismo convive, secondo la lezione di Lukács, con l’elemento utopico 20 e il presente<br />

immerso nell’immobilità del gelo invernale diviene risveglio carico d’attesa, momento<br />

in cui la verità esita tra due opposte realtà. Da una parte l’andamento paratattico e la<br />

sec<strong>che</strong>zza delle coordinate ci trasmettono delle affermazioni <strong>che</strong> apparentemente non<br />

possono essere smentite («è una notte d’inverno, / lontani sono i sogni, il libro è caduto,<br />

/ non vengono rumori»), dall’altra c’è il tentativo di capovolgerle e di allontanarsene<br />

(«Guarda, mi dico, non è vero <strong>che</strong> siamo d’inverno, / <strong>che</strong> sono morti gli amici e orrida<br />

cosa è vivere»). In questo cambio di direzione, quasi una brusca sterzata, sta tutto il<br />

senso della poesia: agli astratti e vaghi sogni, al libro caduto, al silenzio e al vento <strong>che</strong><br />

percorrono la città, <strong>che</strong> sono emblemi di morte e abbandono, si sostituiscono gli amici,<br />

l’alba e i fontanili, <strong>che</strong> restituiscono un’immagine di vita possibile. Questo rifiuto della<br />

negatività storica confina con una lacerazione esistenziale a cui nel penultimo verso si<br />

accosta il verbo al futuro, <strong>che</strong> produce straniamento e speranza: attraverso uno<br />

slittamento lo sguardo contempla la realtà cercando di anticiparne le trasformazioni, di<br />

spezzare la catena con cui la storia imprigiona il desiderio. Anzi, la storia stessa deve<br />

cessare d’essere un continuum, per realizzare, tramite rotture e salti, il cambiamento. 21<br />

19 Si legga Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 19: «Al gelo o alla neve o al sasso si contrappone spesso<br />

un emblema di felicità, di leggerezza o di liberazione: ad esempio l’immagine della rosa. An<strong>che</strong> qui motivi ideologici<br />

e psicologici si intrecciano strettamente. La rosa è la rivoluzione e il desiderio inconscio».<br />

20 Cfr. Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 57.<br />

21 Franco Fortini, Verifica di poteri, in Saggi ed epigrammi, cit., p. 125: «La nozione di storia come durata e<br />

intermittenza, come alternanza di quantitativo e qualitativo, come rifiuto della continuità, è finalismo, prospettivismo,


Infatti notiamo <strong>che</strong>, pur coniugando il verbo al futuro («vedrai»), Fortini introduce una<br />

regressione verso una realtà prebellica e preindustriale, in cui, come ha sottolineato<br />

Walter Siti, «l’attesa del futuro non contrasta col recupero del passato», 22 ma intravede<br />

in questa doppia dinamica lo spiraglio per la resurrezione di cui è emblema l’immagine<br />

sacrale del lavaggio purificatorio nell’acqua dei fontanili.<br />

3.1.2. L’eredità della scrittura<br />

Secondo Fortini la poesia «non agisce direttamente sulla realtà», 23 ed «è per<br />

definizione discorso indiretto, discorso intransitivo», 24 perciò deve necessariamente<br />

essere inattuale, guardare al passato e proiettarsi verso il futuro se vuole dare un senso<br />

all’attualità stessa. Questa consapevolezza trova espressione in uno dei suoi testi più<br />

importanti, Traducendo Brecht, pubblicato in <strong>Una</strong> volta per sempre, in cui prevale uno<br />

sguardo negativo sul futuro <strong>che</strong> si riflette an<strong>che</strong> sulla condizione stessa della scrittura e<br />

sul ruolo dell’intellettuale: alla poesia spetta il compito di dire questa negatività, di<br />

confrontasi col vuoto e con l’errore. Non ci può essere nessuna speranza di mutamento<br />

per chi si accontenta dell’attualità e vive in una società pacificata e inerte, ancora<br />

profondamente ingiusta:<br />

Un grande temporale<br />

per tutto il pomeriggio si è attorcigliato<br />

sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.<br />

Fissavo versi di cemento e di vetro<br />

dov’erano grida e piaghe murate e membra<br />

an<strong>che</strong> di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando<br />

prepara la fine della storia a noi nota». Si rimanda an<strong>che</strong> a Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 118: «Per<br />

questo rivoluzione e comunismo non sono un puro al di là, un ineffabile rovesciamento. Il comunismo è il punto in<br />

cui tutte le contraddizioni della società borghese cominciano a saltare e a risolversi». Così Pier Vincenzo Mengaldo,<br />

Per Franco Fortini, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 257: «si può<br />

dire <strong>che</strong> il disancoramento delle idee comuniste dalla loro cattiva realizzazione storica comportò in lui e in pochi altri<br />

di sentire le prime con più forza, e certamente con una venatura, nel bene e nel male, più utopica». E si legga an<strong>che</strong><br />

quanto scrive Elisa Gambaro: «È del resto lo stesso movimento dialettico per cui la poesia è insieme affermazione e<br />

negazione, vergogna e valore, a sottintendere la nozione di un tempo frammentato. Per Fortini, l’opacità del presente<br />

alienato contiene in sé tutto ciò <strong>che</strong> è morto e insieme anela, per bagliori, all’utopia futura» (Elisa Gambaro, Fortini<br />

poeta, in AA.VV., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, a cura di Paolo Giovannetti, Milano,<br />

Edizioni Punto Rosso, 2004, p. 62).<br />

22 Walter Siti, Il tarlo, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia, a cura di Carlo<br />

Fini, Padova, Liviana Editrice, 1980, p. 180. E si legga an<strong>che</strong> Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 67: «Al<br />

centro c’è un rapporto tra un regredire e un procedere, una tensione di forze in contrasto, il segno di una compresenza<br />

di stasi e movimento».<br />

23 Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 129.<br />

24 Ivi, p. 130.<br />

108


ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,<br />

ascoltavo morire la parola d’un poeta o mutarsi<br />

in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi<br />

sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli<br />

parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso<br />

credo di non sapere più di chi è la colpa.<br />

[…]<br />

(Traducendo Brecht, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />

A differenza di Brecht, <strong>che</strong> scriveva in un’Europa sottomessa al nazismo e alla guerra,<br />

per Fortini la parola poetica non è un progetto realizzabile, perché storicamente e<br />

ideologicamente la colpa non è più concepibile come un elemento esterno, ma ha<br />

assediato e preso possesso dell’io. 25 Se il temporale <strong>che</strong> si abbatte sui tetti rappresenta la<br />

forza viva della natura, la «pagina secca» fa pensare all’aridità di un deserto <strong>che</strong> si è<br />

trasferito all’interno del poeta e <strong>che</strong> alberga nelle sue parole, <strong>che</strong> non si fanno più voce:<br />

i «versi di cemento e di vetro» sono la metafora della doppia natura della poesia, <strong>che</strong><br />

rappresenta la durezza e l’asprezza, ma an<strong>che</strong> la fragilità della parola <strong>che</strong> prende le<br />

distanze dagli «oppressori tranquilli». L’antitesi non agisce solo tra presente e futuro,<br />

ma è parte del presente stesso e della parola: al centro sta l’immagine di<br />

disappropriazione <strong>che</strong> invade la <strong>lingua</strong>, per cui si ascolta «morire / la parola d’un poeta<br />

o mutarsi / in altra, non per noi più, voce» (<strong>che</strong> anticipa la «<strong>lingua</strong> non più sua» di<br />

Molto chiare si vedono le cose, in Composita solvantur). La crisi della parola diventa<br />

emblema di una soggettività lacerata e precaria, <strong>che</strong> sembra smarrire la coscienza di sé,<br />

dichiarando il proprio disorientamento («credo di non sapere più di chi è la colpa»).<br />

Alla visione della società <strong>che</strong> emergeva da Foglio di via, in cui «gli uomini gli<br />

apparivano divisi in vittime e carnefici, oppressori e oppressi, ricchi e poveri: non in<br />

classi», 26 si sostituisce una prospettiva più complessa e carica di tensioni. Dopo gli<br />

ideali condivisi della Resistenza, quando un progetto collettivo sembrava possibile, ora<br />

Fortini si trova a vivere in una società statica, <strong>che</strong> al cambiamento ha preferito la<br />

ripetizione di gesti meccanici, e dove la contrapposizione di classe e la lotta politica<br />

sono state soffocate dal totalitarismo soft dei consumi. Tuttavia egli non si piega<br />

all’«odio cortese» degli oppressori, e rivolge la sua critica contro coloro <strong>che</strong> «credono di<br />

non sapere», <strong>che</strong> credono di non avere responsabilità, <strong>che</strong> si accontentano e sono<br />

25 Si potrebbero ricordare a questo proposito gli ultimi due versi di In una casa vuota di Vittorio Sereni: «Oggi si<br />

è – e si è comunque male, / parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti». Per l’analisi tematica di questo<br />

componimento si rimanda al capitolo successivo.<br />

26 Franco Fortini, Prefazione 1967 a Foglio di via in <strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie 1938-1973, cit., p. 359.<br />

109


tranquilli sebbene oppressi. La scrittura, lungi dal conciliare il soggetto col mondo, si<br />

tramuta in odio e l’unico valore <strong>che</strong> può affermare è il proprio limite, poiché «non muta<br />

nulla» nell’immediato, ma può resistere proprio in quanto inattuale, cioè consapevole di<br />

essere impraticabile nel presente e inconciliabile con la logica del potere:<br />

[…]<br />

Scrivi, mi dico, odia<br />

chi con dolcezza guida al niente.<br />

Gli uomini e le donne <strong>che</strong> con te si accompagnano<br />

e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici<br />

scrivi an<strong>che</strong> il tuo nome. Il temporale<br />

è sparito con enfasi. La natura<br />

per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia<br />

non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.<br />

(Traducendo Brecht, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />

La condizione dell’io confina con la negazione di sé e del proprio ruolo, perché solo<br />

sacrificando se stessi e la propria funzione, dichiarando il non-valore della scrittura, si<br />

può sperare di «salvare una nozione di poesia»: 27<br />

La poesia non vale<br />

l’incanto non ha forza<br />

quando tornerà il tempo<br />

uccidetemi allora.<br />

Ho letto Lenin e Marx<br />

non temo la rivoluzione<br />

ma è troppo tardi per me;<br />

almeno queste parole<br />

servissero dopo di me<br />

alla gioia di chi viva<br />

senza più il nostro orgoglio.<br />

(Quel giovane tedesco, in Poesia e errore)<br />

Il futuro assume valore e orienta l’attività poetica solo se si congiunge al tema del<br />

destino di chi verrà dopo. Alla prospettiva di cambiamento immediato <strong>che</strong> apparteneva<br />

agli ideali della Resistenza, si sostituisce la delusione e il rinvio del movimento<br />

evolutivo ad un tempo indefinito, ad un futuro <strong>che</strong> investe il «presente disperato» 28 con<br />

la forza della «speranza acuta dentro la notte» (Une ta<strong>che</strong> de sang intellectuel, in Poesia<br />

e errore). Al senso della fine si accosta, per via dialettica, una dichiarazione di oltranza<br />

27 Marco Forti, Tempi della poesia. Il Secondo Novecento da Montale a Porta, cit., p. 211.<br />

28 Cfr. Marina Polacco, Fortini e i destini generali. Lirica e «grande politica» fino a Composita solvantur, cit., p.<br />

44: «Spezzata la contiguità tra presente e futuro su cui si reggeva Foglio di via, il poeta perde ogni possibilità di<br />

inveramento immediato nella storia collettiva».<br />

110


<strong>che</strong> oppone sempre più tenacemente il «canto vero» al «sonno fondo». La poesia non<br />

può essere per il presente, ma solo «per altre pupille avvenire»:<br />

dichiara <strong>che</strong> il canto vero<br />

è oltre il tuo sonno fondo<br />

e i vertici bianchi del mondo<br />

per altre pupille avvenire.<br />

Scrivi <strong>che</strong> i veri uomini amici<br />

parlano oltre i tuoi giorni <strong>che</strong> presto<br />

saranno disfatti. E già li attendi. E questo<br />

solo ancora è il tuo onore.<br />

111<br />

(Arte poetica, in Poesia e errore)<br />

Se la poesia vuole avere un valore rivoluzionario e servire a chi viene dopo di noi deve<br />

rinunciare al proprio orgoglio, deve essere come<br />

quello <strong>che</strong> è messo da parte, <strong>che</strong> si è tolto di mezzo, <strong>che</strong> sta fuori della<br />

strada, e a cui non può accadere più nulla di importante se non di mettersi in<br />

mezzo e costringere gli altri a tenerne conto. 29<br />

Soltanto non contando nulla, ma tuttavia mettendosi in mezzo, costringendo a riflettere<br />

sulla distanza e la diversità <strong>che</strong> la distingue dalla realtà, essa può ritrovare il suo vero<br />

valore, la sua vera coscienza rivoluzionaria, <strong>che</strong> devono però essere indagati e messi in<br />

discussione:<br />

il rivoluzionario è come Lenin <strong>che</strong>, secondo quanto racconta Gor’kij,<br />

diceva, ascoltando Beethoven: «Non posso ascoltare questa musica sublime,<br />

perché è impossibile per me pensare <strong>che</strong> gli uomini <strong>che</strong> hanno saputo creare<br />

questa meraviglia possano al tempo stesso vivere nell’inferno in cui vivono.<br />

Forse un giorno sarà possibile ascoltare Beethoven». Effettivamente è vero:<br />

non è possibile, per chi voglia certe determinate cose dagli uomini e per gli<br />

uomini, non è possibile ascoltare la voce dell’arte e della poesia. 30<br />

Questo pensiero può essere fatto reagire con la riflessione di Adorno, secondo cui<br />

scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie: Fortini è consapevole <strong>che</strong> nel<br />

presente la sua poesia non può fare nulla per intervenire a favore degli oppressi e<br />

tuttavia continua a scrivere; ciò <strong>che</strong> muta è la forma di impegno <strong>che</strong> la sua scrittura<br />

mette in gioco. Se in Foglio di via, come aveva detto Calvino, c’era «un virile,<br />

29 Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 136.<br />

30 Ivi, p. 131.


consapevole impegno di vita e di lotta», 31 progressivamente questo impegno cambia col<br />

cambiare della realtà sociale e storica:<br />

Potrei sotto il capo dei corpi riversi<br />

posare un mio fitto volume di versi?<br />

Non credo. Cessiamo la mesta ironia.<br />

Mettiamo una maglia. Che il sole va via.<br />

(Lontano lontano…, in Composita solvantur)<br />

Cosa rimane dunque da fare al poeta? Stabilire, pur in un’ottica sempre più ristretta, lo<br />

spazio d’azione della poesia: nonostante la «storia tremenda» (Le radici, in <strong>Una</strong> volta<br />

per sempre), Fortini non si arrende all’interdizione di Adorno, ma sa riconoscere «una<br />

gerarchia di valori», 32 e soprattutto sottrae la poesia alle forme imposte dalla classe<br />

dominante, <strong>che</strong> la costringerebbero ad essere letteratura, ovvero espressione estetica,<br />

cortese strumento di sottomissione. Non a caso egli vuole diminuire l’«elemento lirico<br />

aggettivale», 33 cercando di rendere i propri versi “sgradevoli” (an<strong>che</strong> attraverso quello<br />

stile da canzonetta metastasiana <strong>che</strong> caratterizza l’ultima raccolta): la poesia può<br />

esistere nel momento in cui il suo valore (<strong>che</strong> da rivoluzionario diventa<br />

progressivamente testamentario) rimane nascosto, invisibile, ma trasmissibile alle<br />

generazioni future, come la «rosa sepolta», o la rosa <strong>che</strong> esita «dentro il sasso» (In una<br />

strada di Firenze, in <strong>Una</strong> volta per sempre) o come altri elementi residuali in cui si<br />

nasconde un surplus di significato. La rosa trova scampo proprio perché nascosta, così<br />

come «le piccole piante» di un’altra poesia trovano protezione «tra le carte» (Le piccole<br />

piante…, in Composita solvantur). Le parole <strong>che</strong> pure sembrano inutili e <strong>che</strong> pare non<br />

vogliano altro <strong>che</strong> sparire diventano il nascondiglio per proteggere, conservare e<br />

tramandare le ultime «verità» del poeta:<br />

Ma voi <strong>che</strong> altro di più non volete<br />

se non sparire<br />

e disfarvi, fermatevi.<br />

[…]<br />

Proteggete le nostre verità.<br />

(«E questo è il sonno», in Composita solvantur)<br />

31 Italo Calvino, Foglio di via di Franco Fortini, in Saggi, cit., p. 1057.<br />

32 Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 132.<br />

33 Ivi, p. 134.<br />

112


La stasi come morte ma an<strong>che</strong> come opposizione alla dissoluzione si propone come<br />

elemento interpretativo, assolutamente reversibile. La figura della parola inerte, o <strong>che</strong>,<br />

al contrario, si muove, sottolinea la lotta tra punti di vista differenti, lo scontro tra la vita<br />

e la morte, tra il reale e l’utopico; ma è an<strong>che</strong> l’eredità intellettuale come qualcosa <strong>che</strong><br />

avanza e si tramanda.<br />

3.1.3. La poetica del non ancora<br />

Se proteggere le verità significa an<strong>che</strong> nasconderle, allora la poesia ha il compito di<br />

celare la loro potenzialità dietro una forma <strong>che</strong> finge di essere altro: con l’allegoria si<br />

creano due livelli di lettura, di cui il secondo è un contenuto di verità sociale, storica e<br />

politica sedimentato sotto gli strati del primo. 34 Questo principio regola tutto il pensiero<br />

di Fortini e si trova espresso nel saggio Astuti come colombe: «Farsi candidi come volpi<br />

e astuti come colombe. Confondere le piste, le identità. Avvelenare i pozzi». 35 Il<br />

travestimento poetico non deve allietare il lettore, ma generare in lui repulsione, non<br />

deve nascondere le contraddizioni, ma renderle più evidenti:<br />

Vorrei <strong>che</strong> a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come<br />

al viscido di un rettile. 36<br />

È un concetto talmente importante da ritornare a più riprese negli scritti o nelle<br />

interviste:<br />

vorrei veramente poter scrivere “in un bos<strong>che</strong>tto trova’ pastorella”, cioè<br />

cose <strong>che</strong> apparentemente non avessero nessun rapporto, nemmeno indiretto,<br />

con la mia ideologia. 37<br />

Come ha scritto Mengaldo, Fortini è un «poeta sempre politico, nel senso migliore,<br />

an<strong>che</strong> quando parla di alberi e di nidi»: 38<br />

34<br />

Si legga, tra gli altri, Romano Luperini, Controtempo, Napoli, Liguori Editore, 1999, p. 95: «Dati questi<br />

presupposti, qual è il metodo di lettura <strong>che</strong> Fortini propone? Lo definirei con un doppio movimento: storicizzare e<br />

attualizzare; o, meglio, storicizzare il testo in un passato puntuale per proiettarne il valore nel futuro. […] L’unica<br />

attualizzazione lecita di un testo è quella <strong>che</strong> considera il suo “adempimento” (uso a bella posta questa parola<br />

fortiniana a forte contenuto religioso). In tale prospettiva, a veder bene, i due movimenti sono uno solo: la<br />

storicizzazione, la messa a nudo del “contenuto di fatto”, è di per sé già premessa alla rivelazione del “contenuto di<br />

verità”, <strong>che</strong> a questo punto si presenta come adempimento del testo».<br />

35<br />

Franco Fortini, Astuti come colombe, in Verifica dei poteri, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 67.<br />

36<br />

Ibidem.<br />

37<br />

Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 138.<br />

113


Al limite, uno potrebbe parlare di rose e nuvole invece <strong>che</strong> di Intifada e,<br />

nondimeno, introdurre nelle forme sintatti<strong>che</strong> o scelte lessicali qualcosa <strong>che</strong><br />

ferisca l’ordine più gravemente di un appello all’insurrezione. 39<br />

Questo atteggiamento, politico prima <strong>che</strong> poetico, trova conferma nell’uso di un<br />

<strong>lingua</strong>ggio manieristico e stilizzato, <strong>che</strong> produce una sfasatura, un «rapporto<br />

decisamente straniato della poesia alla realtà», 40 di una <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> non si vuole attuale,<br />

perché non vuole compromettersi coi meccanismi del presente. 41 Questo era an<strong>che</strong> il<br />

merito <strong>che</strong> Fortini riconosceva all’avanguardia, cioè di «aver richiamato alla memoria<br />

[…] il grande valore del montaggio, del collaggio, e quindi del falsetto: <strong>che</strong> è un valore<br />

essenziale». 42 Non ne condivideva invece lo sperimentalismo, 43 la tendenza a mutuare i<br />

termini e il lessico della quotidianità e della tecnica, per riprodurre in modo mimetico<br />

gli automatismi <strong>che</strong> la società dei consumi aveva portato nel cuore del <strong>lingua</strong>ggio e <strong>che</strong><br />

Fortini accusava di «soggettivismo e, specularmente, di resa alla falsa oggettività dei<br />

reali». 44 Contro la falsificazione egli poneva la finzione:<br />

38 Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 831.<br />

39 Franco Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, p. 113.<br />

40 Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 830.<br />

41 Giovanni Raboni, La poesia <strong>che</strong> si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano – 1959-2004, cit., p.<br />

196: «È una <strong>lingua</strong> <strong>che</strong> si vuole «morta» nella misura in cui rifugge […] da qualsiasi forma di collaborazione o<br />

complicità con lo stato di cose esistente. Porsi, formalmente, dalla parte della tradizione (non esclusa una parte<br />

cospicua della tradizione novecentesca, dall’eredità vociana – Rèbora, Jahier – sino alla lezione quasi fraterna dei<br />

quasi coetanei Luzi e Sereni) contro ogni forma di sperimentalismo e ogni progetto di «attualità» significa, per<br />

Fortini, guardare al di sopra del presente verso un’ideale traiettoria <strong>che</strong> congiunga la dignità del passato e la dignità di<br />

un futuro negato ma non impossibile».<br />

42 Così Franco Fortini in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., p.138. Questa idea del falsetto trova poi<br />

una sua più completa realizzazione in Composita solvantur, in cui il contenuto politico viene riversato all’interno di<br />

forme iperletterarie <strong>che</strong> generano una stridente ironia. Il falsetto diventa «nota acuta» (Se volessi un’altra volta…) <strong>che</strong><br />

dichiara ancora una volta l’impossibilità e il dolore della parola, ma an<strong>che</strong> la sua realizzazione nonostante tutto.<br />

43 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 17: «La forma, infatti, è an<strong>che</strong> realtà di presente e peso di passato;<br />

non solo anticipazione di un nuovo assetto sociale, è an<strong>che</strong> attributo della classe dominante. Per questo, i versi di<br />

Fortini esprimono un tentativo permanente di esorcizzare la forma, riducendola a maniera, essiccandola in retorica,<br />

mortificando ogni sua vitalità, ripudiando qualunque tentazione avanguardistica o sperimentale».<br />

44 Così Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 830. Ma si legga an<strong>che</strong> un’intervista<br />

rilasciata al critico francese Rémi Ro<strong>che</strong>, nella quale Fortini, riprendendo un suo scritto del 1960, dice <strong>che</strong>:<br />

«L’interrogation sur la possibilité de commettre présentement une erreur de méthode critique, poétique et finalement<br />

de vie, ne fait qu’une avec celle portant sur la possibilité d’une erreur de méthode quand nous voulons «transformer<br />

le monde». La résistance au «monde», que nous estimons héroïque, semble par instants (d’une façon horrible) être un<br />

refus infantile de l’aride vérité. La déception déchaine des passions autopunitives. […] «À la fin, qu’attends-tu de<br />

nous?» nous disent souvent les plus généreux. Et nous n’osons pas répondre comme nous devrions: «la grandeur»,<br />

c'est-à-dire «vérité». La page et l’intention critiques, d’abord dirigées vers l’objet, le public, le discours vérifiable<br />

(dit-on) dérivent bientôt vers le journal et la confession. […] Et nous en arrivons bientôt aux mémoires dans le<br />

manuscrit, à l’outre-tombe dans la bouteille, à ce qui est le plus détestable: ces limbes où les anciens ennemis confus<br />

sourient, moqueurs ou repentants, aux vieux camarades. Il ne reste que l’espérance, à vrai dire non infondée, que<br />

quelques-unes de nos lettres de prisonnier, griffonnées au dos des plans d’opérations ayant échoué ou de projets de<br />

fortification détruites, témoignent, si elles sont lues des deux côtés de la feuille, d’une vérité objective qu’on<br />

n’espérait pas posséder, sinon en rêve» (Franco Fortini in «Donc sous peu sans mots la bou<strong>che</strong>» échanges Rémi<br />

Ro<strong>che</strong>/Franco Fortini, in Franco Fortini, Une fois pour toutes. Poésie 1938-1986, cit., p. 153).<br />

114


La città di cui sto parlando non esiste,<br />

è un’idea della ragione e della volontà.<br />

Nella speranza di essere compreso<br />

la chiamo con un nome sconosciuto.<br />

I suoi viali si aprono nel vuoto.<br />

[…]<br />

(La realtà, in L’ospite ingrato secondo)<br />

L’andamento nominale rende l’idea di una sintassi sussultoria, come se la poesia stessa<br />

fosse protesa sul vuoto, in procinto di scivolare. Il discorso si fa instabile, «quasi a<br />

segnalare l’assenza (la perdita) di una logica articolata secondo le gerarchie del<br />

pensiero»: 45 la frattura tra pensiero e mondo è ormai irrimediabile, ragione e volontà<br />

parlano di qualcosa <strong>che</strong> non esiste, perché è venuta meno definitivamente la possibilità<br />

di collegare i due piani, quello delle parole e quello della realtà. La città <strong>che</strong> «non<br />

esiste» è utopia, non luogo, spazio <strong>che</strong> si apre ad una serie di possibilità <strong>che</strong> si<br />

oppongono alla Storia e alla realtà propriamente intesa. È un atto di insurrezione contro<br />

questa realtà, come il «giglio di Saron» dalla «lucente […] inesistenza» (Per l’ultimo<br />

dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto, in Paesaggio con serpente). Tale poetica era stata<br />

formulata negli anni Sessanta in alcuni testi teorici in cui scriveva <strong>che</strong> «Deve essere<br />

combattuta qualsiasi forma di vita apparente cioè di mimesi» 46 e <strong>che</strong> «come scrittore –<br />

almeno nella misura in cui mi sia dato di comunicare ad un pubblico – mi dico di voler<br />

apparire il più astratto». 47 Astrazione dunque: le immagini poeti<strong>che</strong> «si susseguono<br />

secondo la loro vicinanza al sapere assoluto, e non secondo l’ideale estetico della<br />

coincidenza della forma sensibile e l’idea». 48 La poesia si definisce come resistenza ad<br />

una realtà <strong>che</strong> non manifesta tensioni rivoluzionarie e <strong>che</strong> imprigiona in atti meccanici<br />

senza prospettiva di futuro:<br />

191.<br />

[…]<br />

Le dattilografe mettono la copertina sulla contabile.<br />

I gatti si occupano dei fatti loro.<br />

Nel garage puliscono carburatori. Questa<br />

è la realtà. Se lasci cadere un giornale<br />

esso volteggia e raggiunge le ortensie.<br />

Non vuoi abbandonare la sintassi.<br />

La finzione è l’ultima speranza.<br />

[…]<br />

45 Alberto Asor Rosa, Un altro Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1999, p. 363.<br />

46 FrancoFortini, Poetica in nuce, in L’ospite ingrato primo, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 963.<br />

47 Franco Fortini, Astuti come colombe, cit., p. 67.<br />

48 Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, Milano, Marcos y Marcos, 2002, p.<br />

115


La storia – torni a spiegargli – è tutta la realtà.<br />

E invece non è vero.<br />

Parli per farti coraggio.<br />

[…]<br />

Il dovere di Schiller è di resistere.<br />

Dante si ostina su una rima difficile.<br />

Ecco perché gli amici sono divenuti nomi.<br />

Ecco perché nei sogni vedi solo carri di morti.<br />

Ecco perché puoi dire «Torino» ma non esiste<br />

nessuna città con questo nome<br />

e an<strong>che</strong> esistesse non te ne importa.<br />

Parli al plurale solo per ammonire<br />

i figli a non inciampare nei gradini. Tutto è<br />

tremendo ma non ancora irrimediabile.<br />

(La realtà, in L’ospite ingrato secondo)<br />

Per Fortini «la finzione è l’ultima speranza», in quanto pone un’altra realtà,<br />

un’alternativa <strong>che</strong> accentua la contraddizione: il conflitto è necessario al cambiamento e<br />

apre verso una «surrealtà», come la chiama Marco Forti, <strong>che</strong> «a una materia carica<br />

d’impegno civile, impediva di decadere nella pura illustrazione, nella subordinazione ad<br />

“altro”, attribuendole tutta la sua necessaria forza espressiva». 49 Lontana dai modi del<br />

neorealismo, la poesia «rifiuta le forme più ingenue di “impegno” per un precoce senso<br />

della oggettività, astrazione intellettuale e distanza mediatrice del prodotto letterario». 50<br />

La dinamica dialettica dei versi di Fortini struttura la mancata coincidenza tra forma e<br />

contenuto come lotta contro la «vita apparente», e un’altra verità si definisce come<br />

qualcosa di positivo e negativo allo stesso tempo:<br />

Ma riconosci questo inizio. Da grotte, fontane,<br />

i contrari respirano immobili.<br />

Dove si schiude una rosa decade una rosa<br />

e uno è il tempo ma è di due verità.<br />

Vieni al gelo e al gran caldo. Qui osa<br />

sul limite esitare. Aprirà<br />

i rami, le trame penetra.<br />

(La poesia delle rose, 2, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />

All’interno di un tempo unitario le verità restano due, dichiarano la loro inconciliabilità.<br />

Tuttavia proprio in ragione della stessa dinamica dialettica, all’inconciliabilità fa seguito<br />

l’unità degli opposti, <strong>che</strong> partecipa della frammentarietà:<br />

49 Marco Forti, Tempi della poesia, cit., p. 211. E così Pier Vincenzo Mengaldo, in Poeti italiani del Novecento,<br />

cit., p. 829: «per la sua poesia conteranno specialmente, fra le esperienze straniere, quella del surrealismo e ancor più<br />

Brecht, di cui egli è il più diretto erede in Italia».<br />

50 Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 829.<br />

116


Il desiderio e la separazione<br />

non ci saranno più. Chi siamo stati<br />

sapremo e senza dolore. Già verso di noi<br />

quel <strong>che</strong> vi parve favola viene e sarà,<br />

figli di questo secolo, ironie.<br />

Noi dal sogno usciremo per esistere<br />

in una sola verità.<br />

(La poesia delle rose, 4, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />

L’interezza, l’unità tra parole e cose sembra realizzarsi in modo schizofrenico,<br />

l’allegoria dà senso e ordine a ciò <strong>che</strong> non ha un senso e un ordine, ma il risultato non<br />

porta ad un equilibrio: la reductio ad unum significa in realtà compresenza degli<br />

opposti, rappresentazione del molteplice in cui si cela la verità di cui noi cogliamo solo<br />

una «favola», un’immagine imperfetta e parziale, <strong>che</strong> attende il compimento. In questo<br />

modo, unendo la parte razionale (ideologica) e quella emotiva (psicologica) Fortini<br />

arriva a dire cos’è una rosa (rivoluzione e desiderio), senza lasciarsi chiudere nella<br />

prigione del negativo <strong>che</strong> ritroviamo, invece, nell’ultimo Caproni:<br />

Buttate pure via<br />

ogni opera in versi o in prosa.<br />

Nessuno è mai riuscito a dire<br />

cos’è, nella sua essenza, una rosa.<br />

(Giorgio Caproni, Concessione, in Res amissa)<br />

Mentre Caproni dichiara la supremazia dell’essenza indicibile della rosa e si concentra<br />

sulla negatività del valore poietico del <strong>lingua</strong>ggio, a Fortini la rosa interessa proprio in<br />

ragione di questa indicibilità, ovvero nella sua possibilità d’essere altro da quello <strong>che</strong><br />

appare, di essere forma <strong>che</strong> racchiude un contenuto ideologico e psichico profondo,<br />

nascosto tra i suoi petali e pronto a rivelarsi:<br />

Quando da qui si guarda l’età del passato<br />

veramente diventa possibile l’amore.<br />

Mai così belli i visi e veri i pensieri<br />

come quando stiamo per separarci, amici.<br />

Esercizio della ragione e sentimento<br />

sono due cose e vivacemente si legano<br />

come la rosa è forma di mente e stupore.<br />

(Ultime sulle rose, in <strong>Una</strong> volta per sempre)<br />

117


La rosa è una vita nascosta e marginale di intelletto ed emozione, è una verità profonda,<br />

<strong>che</strong> nasce dallo sguardo sul passato ed esprime «una possibilità di fioritura o di<br />

speranza». 51 Da una parte la norma, la razionalità <strong>che</strong> tutto controlla, dall’altra il<br />

sentimento, l’emozione della rosa-poesia, <strong>che</strong> può capovolgere il disastro del mondo nel<br />

segno del cambiamento. 52 Accanto alle rose fortiniane bisognerebbe leggere l’immagine<br />

della bambina con la rosa in mano <strong>che</strong> troviamo nelle Poesie della fine del mondo di<br />

Antonio Delfini, 53 pubblicate nel 1961, ovvero due anni prima dell’uscita di <strong>Una</strong> volta<br />

per sempre:<br />

Siamo la prima squadra: ci guida una bambina.<br />

Saremo la seconda, la terza, la quarta squadra:<br />

sarà il riscatto contro il maschilismo cristiano.<br />

La nostra bambina è senza croce. Tiene in mano<br />

una rosa infiammata di odio e di amore.<br />

(Noi minacciamo di fare la guerra, in Poesie della fine del mondo)<br />

Il rapporto contraddittorio e doloroso tra individuo e storia può essere superato solo con<br />

gli opposti sentimenti di cui è portatrice la poesia, qui rappresentata dalla rosa della<br />

bambina, «infiammata di odio e di amore», brandita come una spada, come a dire <strong>che</strong> la<br />

poesia è l’unica arma per vendicare ideali e dolori della Storia ed è an<strong>che</strong>,<br />

dialetticamente, possibilità di rigenerazione. Odio ed amore sono gli estremi dell’agire<br />

etico e poetico di Fortini, nell’antitetico rapporto tra scrittura e non scrittura da cui<br />

siamo partiti: 54<br />

In ira contro siepi di spade cerco una piccola poesia.<br />

Non lamentarsi. Chino il capo. Non si può scrivere più.<br />

118<br />

(Dopo una strage, in Questo muro)<br />

Se si scrive, è per nominare i nemici e per accusare se stessi come aveva fatto in<br />

Traducendo Brecht, secondo una volontà autopunitiva, intesa come mezzo di<br />

distanziamento per giudicare meglio sé e il presente, e farlo reagire con la storia. 55<br />

51 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 19.<br />

52 Franco Fortini, Napoleoni, Supplemento «Carte», 30, in «il manifesto», 5 agosto 1990, ora in Saggi ed<br />

epigrammi, cit., pp. 1673-1674: «il riconoscimento di un altro nel medesimo […] la latenza di quello in questo; di<br />

alcunché di futuro […] dà ragione del presente e del passato. È la nozione di Figura quale Auerbach ebbe a<br />

identificare per l’età romanico-gotica e in Dante. Essa s’accompagna, si lega, alla inseparabilità di apparenza e di<br />

sostanza. È fondamento di ogni dover essere an<strong>che</strong> politico».<br />

53 Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo, Milano, Feltrinelli, 1961.<br />

54 La coppia odio e amore l’avevamo trovata già in Foglio di via, nella poesia Coro di deportati.<br />

55 Cfr. Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., pp. 18 e 24.


Fortini continua a disseminare nella propria Arte poetica ulteriori tracce di dissoluzione<br />

e perdita: a «la poesia non vale / l’incanto non ha forza» si aggiungono i «giorni <strong>che</strong><br />

presto / saranno disfatti» (Arte poetica, in Poesia e errore), <strong>che</strong> troveranno la loro<br />

sintesi nel titolo dell’ultima raccolta, Composita solvantur. La scrittura continua a<br />

dichiarare un carattere di autolimitazione vitale, sino a porsi in un «esilio quasi<br />

metafisico», 56 da cui giunge una parola straniata <strong>che</strong> sacrifica il presente e la presenza di<br />

sé nella dialettica dei tempi dentro al tempo:<br />

Il verbo al presente porta tutto il mondo.<br />

Mi chiedo dove sono i popoli scomparsi.<br />

Il fattorino vestito di grigio in cortile mi dice<br />

<strong>che</strong> alcuni stanno nascosti sotto il primo sottoscala.<br />

Ho portato con me sotto il primo sottoscala<br />

le ceneri di Alessandro, il pianto di Ra<strong>che</strong>le.<br />

Il verbo al presente mi permette di scomparire.<br />

Il fattorino non vede più dove sono scomparso.<br />

(Il falso vecchio, IV, in Questo muro)<br />

Nel presente si realizza la compenetrazione col passato e la scomparsa dell’io <strong>che</strong> si<br />

scioglie nel magma della totalità dei tempi, perché il presente dell’oggi è il passato di<br />

domani e «Il futuro, cioè il presente di domani, è continuità-dissoluzione del presente di<br />

ieri, cioè del passato». 57 A questo punto il rapporto io-mondo, soggetto-oggetto, si<br />

realizza come disgregazione di ogni attuale presente, <strong>che</strong> trova fondamento nel passato<br />

e <strong>che</strong> solo nella fine troverà un nuovo inizio:<br />

Guardo le acque e le canne<br />

di un braccio di fiume e il sole<br />

dentro l’acqua.<br />

Guardavo, ero ma sono.<br />

La melma si asciuga fra le radici.<br />

Il mio verbo è al presente.<br />

Questo mondo residuo d’incendi<br />

vuole esistere.<br />

Insetti tendono<br />

trappole lunghe millenni.<br />

Le effimere sfumano. Si sfanno<br />

impresse nel dolce vento d’Arcadia.<br />

[…]<br />

Confido alle canne false eterne<br />

la grande strategia da Yenan allo Hopei.<br />

Seguo il segno <strong>che</strong> una mano armata incide<br />

56 Marco Forti, Tempi della poesia, cit., p. 212.<br />

57 Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 76.<br />

119


sulla scorza del pino<br />

e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile.<br />

120<br />

(Il presente, in Questo muro)<br />

La sec<strong>che</strong>zza paratattica condensa la parola in vere e proprie «unità molecolari», 58 il<br />

<strong>lingua</strong>ggio epigrafico, il verbo al presente (poi virato al futuro, nel finale), sono<br />

elementi <strong>che</strong> indicano uno sguardo totalizzante, <strong>che</strong> procede per scatti ellittici e<br />

repentine evoluzioni. Attraverso «il montaggio di eventi tratti da contesti eterogenei fra<br />

loro (la vita, la storia naturale, la storia sociale) e accostati in modo <strong>che</strong> rimandino alla<br />

totalità <strong>che</strong> li include», 59 Fortini coglie la compresenza del tempo lungo e dell’esistenza<br />

fenomenica, e lascia parlare il «paradosso della simultanea realtà della durata e degli<br />

intervalli». 60 La parola poetica è un’urna <strong>che</strong> racchiude eventi ed esistenze, come in<br />

certe rocce restano le stratificazioni a testimoniare il succedersi cosmico del tempo. Nel<br />

mutamento e nel passaggio da un’epoca a un’altra gli elementi cronologici si<br />

«tendono», «sfumano», «si sfanno». Quella <strong>che</strong> ci parla, attraverso le discendenze, i<br />

fossili e l’evoluzione è la memoria del mondo. Antico è ciò <strong>che</strong> dal passato è giunto<br />

sino a noi; la natura è un segno <strong>che</strong> significa attraverso le mutazioni e le metamorfosi di<br />

forme <strong>che</strong>, come le parti di un organismo, sono allo stesso tempo semplici e complesse:<br />

siamo continuamente alle prese con un universo materiale, <strong>che</strong> contemporaneamente ha<br />

una sua durata nella coscienza. La finzione permette di superare la memoria individuale<br />

e di allargare l’orizzonte degli eventi dall’Arcadia <strong>che</strong> può essere solo immaginata, alla<br />

rivoluzione maoista in Cina, fino all’immagine finale dell’ambra <strong>che</strong> conserverà la<br />

poesia come un fossile preistorico, ma <strong>che</strong> è an<strong>che</strong> l’emblema di una poesia-minerale,<br />

una poesia-memoria, <strong>che</strong> lascerà trasparire, come un cristallo, una dimensione<br />

lontanissima, <strong>che</strong> supera il rapporto contingente io/mondo in una visione complessiva<br />

della storia e del tempo. Rivoluzione e utopia convivono con la conservazione, così<br />

come il passato convive col futuro. La memoria e l’invenzione poetica generano quella<br />

profondità di vedute <strong>che</strong> sola può inserire la vita del singolo all’interno di un ciclo di<br />

vite fatto di rotture e lacerazioni, fatto dunque an<strong>che</strong> di morte, ma soprattutto di un<br />

legame e una responsabilità nei confronti di chi ci succederà, <strong>che</strong> ci rende parte di una<br />

58 Ivi, p. 156.<br />

59 Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 196.<br />

60 Franco Fortini, Verifica di poteri, in Saggi ed epigrammi, cit., p. 126.


totalità, e perciò disponibili al futuro: 61 individui, umanità e natura si rafforzano<br />

nell’immagine <strong>che</strong> contiene, a dispetto di ogni dissoluzione, «l’intelletto delle erbe e il<br />

nostro» (Qualcuno è fermo…, in Composita solvantur). In questo rapporto dialettico tra<br />

i tempi e i viventi, la coscienza della morte diventa misura e guida delle azioni<br />

dell’uomo, e ci dovrebbe infondere un maggiore senso di giustizia e responsabilità,<br />

divenendo la base per ogni atto <strong>che</strong> abbia un valore morale.<br />

Il discorso poetico è politico e linguistico allo stesso tempo, riconosce la complessità<br />

dei legami tra la vita e la morte <strong>che</strong> animano la realtà e predispongono l’io al confronto<br />

con «l’ombra del paesaggio» (Primavera occidentale, in Paesaggio con serpente): lo<br />

sguardo non può essere frontale, piuttosto laterale e pronto al mancamento, consapevole<br />

<strong>che</strong> nel buio e nell’ombra si rivelano le cose. 62 L’essenza sta in ciò <strong>che</strong> non si vede, in<br />

ciò <strong>che</strong> appartiene alla profondità psichica e filosofica, cioè poetica. Il poeta-osservatore<br />

è immerso nella luce del mondo, e deve cercare di fare emergere l’essenza al di là delle<br />

ombre:<br />

Vorrei <strong>che</strong> i vostri occhi potessero vedere<br />

questo cielo sereno <strong>che</strong> si è aperto,<br />

la calma delle tegole, la dedizione<br />

del rivo d’acqua <strong>che</strong> si scalda.<br />

La parola è questa: esiste la primavera,<br />

la perfezione congiunta all’imperfetto.<br />

Il fianco della barca asciutta beve<br />

l’olio della vernice, il ragno trotta.<br />

Diremo più tardi quello <strong>che</strong> deve essere detto.<br />

Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,<br />

i lampi della magnolia.<br />

(I lampi della magnolia, in Paesaggio con serpente)<br />

La perfezione della primavera è «congiunta all’imperfetto» e si confonde con la<br />

negatività dell’ombra. A I lampi della magnolia segue Il temporale:<br />

È la bufera<br />

<strong>che</strong> s’annunzia. Stasera<br />

saranno lampi e fulmini, il gran crollo<br />

degli elementi; e dentro l’aria nera<br />

vacilleranno i culmini dei tetti<br />

61 Cfr. Emmanuel Levinas, Le temps et l’autre, cit., p. 64: «l’avenir c’est ce qui n’est pas saisi […]. L’avenir c’est<br />

l’autre. La relation avec l’avenir, c’est la relation même avec l’autre».<br />

62 Cfr. Elisa Gambaro, Fortini poeta, in AA.VV., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, cit.,<br />

p. 66: «il paesaggio assume valenze allegori<strong>che</strong> particolarmente accentuate, configurandosi alternativamente come<br />

armonia utopica o come insensatezza».<br />

121


e correranno i letti<br />

risa, grida, spaventi.<br />

Voleranno le tegole nell’orto<br />

e le schiume sul mare.<br />

[…]<br />

Domani pace avrà riavuto tutto.<br />

Quieta l’onda e al suo luogo,<br />

molle la spiaggia e pura,<br />

ardita la natura<br />

e ilare, il deserto<br />

di bar<strong>che</strong> l’orizzonte,<br />

aguzzo il sole alle socchiuse ciglia.<br />

Vivida meraviglia,<br />

chiara lassù la luna.<br />

E andremo per le rive<br />

a cogliere tra fredde bave linda<br />

e bruna una conchiglia.<br />

(Il temporale, in Paesaggio con serpente)<br />

Luce ed ombra, bene e male, amore e odio, fanno parte dello stesso mondo, della stessa<br />

realtà, anzi, sono la realtà. 63 La natura, ancora una volta, diventa allegoria dei destini<br />

generali, la primavera è il momento della transizione e del cambiamento, del risveglio<br />

ad una nuova vita an<strong>che</strong> attraverso il temporale; e la conchiglia, <strong>che</strong> il poeta raccoglie<br />

dopo la tempesta, è residuo e maceria di una vita <strong>che</strong> non è più, ma è an<strong>che</strong> l’eredità (il<br />

testimone) <strong>che</strong> il mare del tempo ha scagliato alle nostre rive: ciò <strong>che</strong> ha un passato<br />

viene raccolto da chi ha un futuro, la tradizione può così avere una prospettiva e dare un<br />

senso al presente. Con la sua natura residuale, la conchiglia è il correlativo oggettivo<br />

della nostra umana condizione: tesa tra la vita e la morte, essa raccoglie in sé «l’eco di<br />

intere civiltà» 64 in transito verso un futuro <strong>che</strong> è prodotto di una «mobile speranza» (La<br />

partenza, in <strong>Una</strong> volta per sempre) e non semplicemente prolungamento del presente.<br />

«Pensarci al futuro», come scrive Sereni, significa per Fortini fare reagire tempo<br />

individuale e storia. 65 Quanto più la poesia mostra dei dati concreti, sensibili, <strong>che</strong> quasi<br />

alludono alla superficie visibile delle cose, tanto più lo sguardo si apre alla profondità,<br />

all’indagine del tempo e del senso della realtà. Le metafore del lampo-fiore e della<br />

stessa conchiglia stanno a significare l’incompiutezza della parola <strong>che</strong> si proietta nel<br />

63 Come ha sottolineato Romano Luperini «la contraddizione vuole essere oggettiva, non soggettiva: attraversa<br />

dall’alto al basso non l’anima dell’io poetico ma tutto quanto l’universo» (Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit.,<br />

p. 70).<br />

64 Eraldo Affinati, Introduzione, in Silvio D’Arzo, Contea inglese, Palermo, Sellerio editore, 1987, p. 16.<br />

65 Così Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 57: «a tale intersecazione, a tale scontro-confronto, Fortini<br />

non può rinunciare perché non può rinunciare a una storia, a scommettere su un destino».<br />

122


futuro, e <strong>che</strong> riconosce nel presente quelle illuminazioni <strong>che</strong> sono già prefigurazione del<br />

riscatto, <strong>che</strong> non è ancora, ma di cui noi possiamo cogliere le tracce.<br />

123


124


3.2.<br />

VITTORIO SERENI:<br />

RECENSIONE E INTERPRETAZIONE DELLA REALTÀ<br />

3.2.1. «Il mio tempo s’accorda»: il primo libro di Sereni<br />

La Frontiera della raccolta d’esordio di Sereni indica quella linea geografica <strong>che</strong><br />

separa l’Italia dalla Svizzera, 1 ma an<strong>che</strong> lo spazio limite tra al di qua e al di là; è quindi<br />

un luogo fisico e uno spazio della mente, linea d’ombra <strong>che</strong> segna la fine della<br />

giovinezza, e <strong>che</strong> separa il mondo dei vivi da quello dei morti, la pace dalla guerra (su<br />

cui si staglierà il chiaro-scuro tra essere e non essere del Diario d’Algeria 2 ) e ancora, in<br />

senso più ampio e astratto, rappresenta una condizione storica ed esistenziale. 3 La<br />

frontiera può essere, allora, an<strong>che</strong> la linea lungo la quale i rapporti tra interiorità e realtà<br />

devono essere rinegoziati, 4 in cui il tempo diventa attesa e apprendimento di nuovi<br />

significati. 5 Su questo intreccio di motivi e suggestioni si innesta il tema cardine della<br />

memoria: 6<br />

1<br />

Franco Buffoni, «Coi miei soli mezzi». La poesia di Vittorio Sereni, in AA.VV., Sentieri poetici del Novecento, a<br />

cura di Giuliano Ladolfi, Novara, Interlinea, 2000, pp. 66-67: «Si tratta della “frontiera” <strong>che</strong> esclude l’ultima parte<br />

del Lago Maggiore tra Ascona e Locarno, appartenente alla Confederazione Elvetica, dall’Italia, e in quel periodo si<br />

trattava di una frontiera molto controllata. Tale limite rappresenta una realtà molto precisa, un taglio, una ferita<br />

invisibile, più profonda perché l’acqua del lago la rimargina e la riapre continuamente e le motovedette la percorrono.<br />

Il termine “frontiera”, però assume an<strong>che</strong> una valenza ideologica: siamo alla fine degli anni trenta, il fascismo sta<br />

applicando le leggi razziali e la Svizzera per molti cittadini rappresenta il mondo libero».<br />

2<br />

Così Giovanni Raboni nella Prefazione a Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, Torino, Einaudi, 1998, p. VII: «un<br />

libro <strong>che</strong> come pochi altri conferma la vocazione inscritta nel proprio titolo e più di qualsiasi altro sta pateticamente e<br />

prodigiosamente in bilico fra due tempi effettivi e insieme interiori – la guerra e la pace, anzi una guerra <strong>che</strong> non per<br />

tutti (non per Sereni) è riuscita ad essere guerra e una pace <strong>che</strong> non a tutti (non a Sereni) è mai potuta sembrare<br />

davvero e fino in fondo una pace».<br />

3<br />

Peter Robinson, nella sua Introduction a The selected poetry and prose of Vittorio Sereni, (edited and translated<br />

by Peter Robinson and Marcus Perryman, with an introduction by Peter Robinson, Chicago, The University Press of<br />

Chicago, 2006, p. 4), ricorda an<strong>che</strong> l’opera di W. H. Auden e Christopher Isherwood, On the Frontier (London, Faber<br />

and Faber, 1938).<br />

4<br />

Cfr. Peter Robinson, Introduction a The selected poetry and prose of Vittorio Sereni, cit., p. 4: «It is in the<br />

nature of a frontier both to focus tension and to be on the periphery. A frontier also marks the point where an<br />

“elsewhere” beckons and threatens. It can equally be the line across which fidelity to the poet’s inner impulse and<br />

fidelity to the object of vision must be negotiated».<br />

5<br />

A questo proposito si legga Piero Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Milano, Bruno<br />

Mondadori, 1997, pp. XIV-XVII e pp. 3-28.<br />

6<br />

Come ha notato Dante Isella «la fertilità della memoria, la sua verità richiede […], <strong>che</strong> il passato non sia un<br />

deposito morto, un album di ricordi, bensì una presenza attiva. La sua cristallizzazione è la non-vita: dell’uomo,<br />

innanzi tutto, e della sua poesia» (Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, Milano, Rosellina Archinto, 1991, p. 24).<br />

125


Il rapporto col mio paese è reso vitale dai ricordi e da una continua<br />

interrogazione <strong>che</strong> porta a scavare più a fondo la realtà dell’origine <strong>che</strong><br />

affonda radici in questo angolo della Lombardia, passato a suo tempo sotto il<br />

nome di Frontiera, dal titolo della mia prima raccolta di poesie. Quando parlo<br />

di frontiera non penso soltanto a una barriera geografica, ma alla chiusura<br />

dell’Italia rispetto all’Europa, la parte di mondo <strong>che</strong> ci era più vicina e <strong>che</strong> ci<br />

sembrava tanto lontana. 7<br />

Mentre le poesie scritte tra il 1935 e il 1938 «si reggono su una sintassi scarna e<br />

paratattica», <strong>che</strong> «non può esprimere rapporti logici complicati, neppure quelli di<br />

successione temporale o argomentativa», 8 quelle successive al 1938 alla registrazione<br />

impressionistica di dati poetici ed emotivi affiancano il presentimento del futuro a<br />

partire da alcuni dati concreti come il «passo dei notturni battaglioni» (Poesia militare).<br />

Per questo, nell’indice della prima edizione, alcune poesie riportano una doppia<br />

datazione 1938-1940, 9 come a sottolineare un lungo periodo di gestazione e<br />

elaborazione, <strong>che</strong> passa attraverso «due anni di silenzio e di smarrimento» 10 e «la<br />

possibilità di tornare sul già fatto, di correggerlo, di emendarlo, di romperlo e di<br />

rifarlo». 11 Come ha scritto Sereni in una lettera del 1940:<br />

Tutto ciò <strong>che</strong> ho fatto in questi tempi è una specie di rapsodia di parole<br />

casualmente spuntate in altri tempi. 12<br />

Gli oggetti e i luoghi nel tempo sono gli elementi fondanti della prima stagione poetica<br />

sereniana, <strong>che</strong> ha nel ricordo il suo punto di partenza, e nell’immagine della frontiera il<br />

correlativo oggettivo di una relazione variabile. Frontiera si fonda sulla percezione<br />

della lontananza spaziale e temporale «senza lirici commenti e senza intenzione di sensi<br />

nascosti», come ha scritto Sereni stesso, ma attraverso «termini concreti il più<br />

possibile» 13 in cui si ridefinisce il rapporto con l’altro da sé, 14 e si possono rappresentare<br />

le pene e le gioie umane: 15<br />

7 Così Sereni in Paola Lucarini, Intervista a Vittorio Sereni, «Firme nostre», settembre 1982, ora in Vittorio<br />

Sereni, Poesie, cit., p. 295.<br />

8 Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 123.<br />

9 Si tratta di Settembre; Paese e In me il tuo ricordo.<br />

10 Così Sereni in una lettera a Giancarlo Vigorelli datata 30 novembre 1940, ora in Dante Isella, Giornale di<br />

“Frontiera”, cit., p. 48.<br />

11 Così Sereni in una lettera a Giancarlo Vigorelli datata 5 dicembre 1940, ora in Dante Isella, Giornale di<br />

“Frontiera”, cit., p. 44.<br />

12 Così Sereni in una lettera a Giancarlo Vigorelli datata 20 novembre 1940, ora in Dante Isella, Giornale di<br />

“Frontiera”, cit., p. 44.<br />

13 Così Vittorio Sereni in una lettera a Luciano Anceschi del 1935, ora in Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 291.<br />

14 Cfr. Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, cit., pp. 469-470.<br />

15 Un io <strong>che</strong> viene, fino all’ultima raccolta, deviato dolorosamente verso altro: «Che altro? / Vorrei essere altro.<br />

Vorrei essere te» (A parma con A. B., I, in Stella variabile), tracciando «tra i soprassalti contraddittori dell’“orrore<br />

126


Io in poesia sono per le “cose”; non mi piace dire “io”, preferisco dire:<br />

“loro”. […] Con tutti i pericoli <strong>che</strong> ne derivano: notazioni, magari<br />

impressionismi, non risolti: “loro” ma soltanto “loro” senza <strong>che</strong> ci sia dentro<br />

“io”. […] Ancora io non ho chiara a me stesso una mia pena (o una mia<br />

gioia) d’uomo; so <strong>che</strong> c’è e per ora basta. Quando avrò trovato una radice a<br />

questo mio senso oggettivo, di questo mio amore per “loro”, io avrò<br />

cominciato a trovare me stesso e forse la poesia. A patto però […] <strong>che</strong> io non<br />

perda niente del mio guardare, senza accentuazioni polemi<strong>che</strong>, in ogni<br />

direzione; <strong>che</strong> io abbia ancora il coraggio di parlare di semafori e di feltri<br />

verdi (per ora può parere un preziosismo e niente più): necessità delle scorie<br />

(v. Eastburne) e dialettica. 16<br />

Attraverso la «necessità di scorie […] e dialettica» Sereni manifesta un’esigenza<br />

conoscitiva <strong>che</strong> percorre tutta la sua produzione poetica e <strong>che</strong> lo sospende tra nichilismo<br />

e speranza:<br />

Le cose, nonostante tutto, nascondono sempre una promessa: nel senso<br />

<strong>che</strong> si avverte sempre una possibilità diversa, un altro modo di vita, qualcosa<br />

di più pieno. C’è in esse un’attuazione <strong>che</strong> viene costantemente delusa e <strong>che</strong><br />

costantemente risorge, una potenzialità contraddetta o disdetta e tuttavia<br />

ritornante. 17<br />

All’altezza di Frontiera la dimensione oggettiva prende forma nella relazione <strong>che</strong><br />

l’io intrattiene col mondo e <strong>che</strong> lo porta a immergersi in esso, a farsi quasi cronista dei<br />

momenti del giorno e del succedersi delle stagioni. 18 Il tempo stesso si manifesta in<br />

questa relazione e la conoscenza deriva dall’osservazione dei dati sensibili <strong>che</strong><br />

diventano parola: «a ritmi di gocce / il mio tempo si accorda» (Concerto in giardino). È<br />

il contatto con gli elementi naturali quali l’acqua, il vento, lo spazio, la terra, l’aria, la<br />

luce, <strong>che</strong> determina la sostanza stessa di questi versi, <strong>che</strong> ancora tengono ai margini la<br />

guerra imminente, di cui però giunge già l’eco: «il tuono ti fingeva gli orrori / di una<br />

guerra lontana» (Immagine); «bambini in guerra sulle aiole» (Concerto in giardino).<br />

Tuttavia nonostante questi flash anticipatori di un drammatico prossimo futuro, in<br />

della fine” (A parma con A. B.) e della “recidiva speranza” (Autostrada della Cisa), un processo di svuotamento<br />

dell’io, <strong>che</strong>, se respinge l’idea cristiana della trascendenza, lambisce però una sorta di mistica laica e razionalistica»<br />

(Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, cit., p. 70), <strong>che</strong> trova il suo momento<br />

iniziale in Frontiera.<br />

16 Così Vittorio Sereni in una lettera a Giancarlo Vigorelli datata 1937, in Giancarlo Vigorelli, Carte d’identità,<br />

Milano, Camunia, 1989, pp. 210-211. Poi in Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 34.<br />

17 Così Sereni nell’intervista a Gian Carlo Ferretti Questo scrivere così vacuo così vitale. Conversazione con<br />

Vittorio Sereni sul presente e sul passato, sul suo lavoro, in «Rinascita», n. 42, 24 ottobre 1980, p. 40. Ora in Vittorio<br />

Sereni, La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, introduzione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori,<br />

1998, p. 462.<br />

18 Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 18: «non si tratta di un’oggettualità in presa diretta, […] il<br />

“diario” non va inteso come registrazione di una realtà immediata e in divenire, ma al contrario come fedele<br />

registrazione di una memoria riservata, sollecitante nel corso del tempo e sollecitata quale indizio di una verità<br />

intensamente luminosa».<br />

127


Frontiera la materia poetica ed esistenziale si risolve all’interno di un tempo naturale<br />

più <strong>che</strong> storico, in cui i sensi sono gli «elementi “portanti” (in senso architettonico) del<br />

proprio mondo interiore». 19 Il tempo di questa prima raccolta è, come si è detto, quello<br />

delle stagioni, delle ore del giorno e dei fenomeni naturali <strong>che</strong> lo connotano. Lo<br />

testimoniano anzitutto i titoli dei componimenti: Nebbia, Settembre, Inverno a Luino, 3<br />

Dicembre, Temporale a Salsomaggiore, Un’altra estate, per fare solo alcuni esempi.<br />

Così, la poesia d’apertura di Frontiera inizialmente doveva intitolarsi Lontananze, 20<br />

mentre successivamente è divenuta Inverno, con un evidente scarto a favore della realtà,<br />

piuttosto <strong>che</strong> di una suggestione simbolica. Siamo di fronte ad una scelta <strong>che</strong> manifesta<br />

la preferenza per un termine concreto, meno evocativo o allusivo, più legato al<br />

trascorrere di un tempo sensibile, di una stagione <strong>che</strong> è emblema della fine; un tempo<br />

reso attraverso un’atmosfera sospesa tra luci e ombre, tra chiarezza e nebbie, comunque<br />

invaso dal senso ineludibile della morte:<br />

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .<br />

ma se ti volgi e guardi<br />

nubi nel grigio<br />

esprimono le fonti dietro te,<br />

le montagne nel ghiaccio s’inazzurrano.<br />

Opaca un’onda mormorò<br />

chiamandoti: ma ferma – ora<br />

nel ghiaccio s’increspò<br />

poi <strong>che</strong> ti volgi<br />

e guardi<br />

la svelata bellezza dell’inverno.<br />

Armoniosi aspetti sorgono<br />

in fissità, nel gelo: ed hai<br />

un gesto vago<br />

come di fronte a chi ti sorridesse<br />

di sotto un lago di calma,<br />

mentre ulula il tuo battello lontano<br />

laggiù, dove s’addensano le nebbie.<br />

128<br />

(Inverno, in Frontiera)<br />

La poesia si apre con dei punti di sospensione, <strong>che</strong> trasmettono il senso di una parola<br />

mancante o parziale, dicono un discorso <strong>che</strong> viene meno, mentre l’avversativa posta ad<br />

incipit del testo sembra concentrare in sé un invito, l’attesa di una «possibilità<br />

diversa», 21 quella <strong>che</strong> Ramat ha definito come la «speranza dell’evento»: 22 una<br />

19 Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 18.<br />

20 Cfr. Dante Isella, Apparato critico, in Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 295.<br />

21 Cfr. supra nota 17.


preghiera affinché un gesto si compia. La distanza e lo spaesamento, vengono ribaditi<br />

nel corso della prima strofa dal continuo alternarsi del verbo al presente e al passato<br />

remoto e poi, nell’ultimo verso, dal deittico «laggiù» (di cui era già un segnale il<br />

precedente «di sotto»), <strong>che</strong>, nella sua forza ed evidenza, introduce una importante<br />

verticalizzazione dello spazio. Le coordinate sono semplificate nella dinamica alto e<br />

basso, carica di significati simbolici, mentre le tracce temporali rimangono sospese: la<br />

frontiera si estende an<strong>che</strong> in verticale e non c’è modo di colmare il vuoto. La speranza<br />

riposta nell’attesa di un evento si rivela illusoria, «una potenzialità contraddetta o<br />

disdetta», 23 e il viaggio si configura come transito nelle «nebbie» di un tempo e di uno<br />

spazio incerti e sospesi. Prima <strong>che</strong> la guerra e la prigionia gli rendano manifesta una<br />

condizione d’esilio, lo scetticismo di Sereni percorre sotterraneamente questa prima<br />

raccolta, in cui l’accordo col tempo sensibile è turbato dal senso concreto della fine e<br />

della perdita, <strong>che</strong> proiettano sui versi l’ombra di una distanza irrimediabile. Lo sguardo<br />

è doppio, si rivolge al passato e si confronta costantemente con la fine imminente.<br />

Come spiega Sereni stesso, la «morte può essere morale e fisica, distanza e oblio, a<br />

piacere. Col senso […] di qualcosa <strong>che</strong> irrimediabilmente è perduto». 24<br />

Sereni vorrebbe ricondurre la vicenda esistenziale ad un tempo ciclico (quello delle<br />

stagioni), <strong>che</strong> permetterebbe allo sguardo di penetrare la corazza della morte, nella<br />

prospettiva del ritorno della primavera e dell’estate. Tuttavia all’accordarsi del tempo ai<br />

ritmi della natura segue la consapevolezza <strong>che</strong> il nostro è un «trepido vivere nei morti»<br />

(Strada di Creva), <strong>che</strong> rende la sintesi delle due dimensioni inscindibili nella poetica di<br />

Sereni. C’è un rapporto dialettico tra la volontà di inserirsi all’interno di un ciclo di<br />

rinnovamento naturale, e, all’opposto, il ritorno ad un orizzonte di morte:<br />

Questo trepido vivere nei morti.<br />

Ma dove ci conduce questo cielo<br />

<strong>che</strong> azzurro sempre più azzurro si spalanca<br />

ove, a guardarli, ai lontani<br />

paesi decade ogni colore.<br />

Tu sai <strong>che</strong> la strada se discende<br />

ci protende altri prati, altri paesi,<br />

altre vele sui laghi:<br />

il vento ancora<br />

turba i golfi, li oscura.<br />

22<br />

Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, cit., p. 470.<br />

23<br />

Cfr. supra nota 17.<br />

24<br />

Così Sereni in una lettera a Vigorelli, ora in Giancarlo Vigorelli, Carte d’identità, cit., p. 208, poi in Dante<br />

Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 33.<br />

129


Si rientra d’un passo nell’inverno.<br />

E nei tetri abituri si rientra,<br />

a un convito d’ospiti leggiadri<br />

si riattizzano i fuochi moribondi.<br />

E nei bicchieri muoiono altri giorni.<br />

Salvaci allora dai notturni orrori<br />

dei lumi nelle case silenziose.<br />

130<br />

(Strada di Creva, II, in Frontiera)<br />

In un altro testo egli scrive <strong>che</strong> «nella morte già certa / cammineremo con più coraggio»<br />

(Settembre), convinzione <strong>che</strong> negli ultimi suoi versi diventa un invito (o una preghiera,<br />

come il «Salvaci allora dai notturni orrori»): «passiamola questa soglia una volta di più»<br />

(Altro compleanno, in Stella variabile), in cui si ribadisce un inevitabile destino di<br />

transito, ancora una volta sospeso su una linea di frontiera, e insieme la volontà di<br />

proiettarsi coraggiosamente nel futuro, nonostante la consapevolezza della precarietà<br />

della vita. 25 Proprio la condizione di transitante produce una più «piena fusione tra sé e<br />

il mondo sensibile», 26 un’immersione dell’io nelle cose, <strong>che</strong> permette di giungere ad<br />

una realtà profonda in cui gli elementi naturali e i termini temporali vengono a indicare<br />

una condizione psicologica ed esistenziale tesa tra il divenire e il vuoto, <strong>che</strong> si<br />

svilupperà ulteriormente negli anni successivi. Così, se guardiamo oltre l’inverno-<br />

lontananza della prima poesia, scorgeremo un significativo rimando a questa situazione<br />

esistenziale in Un ritorno (Gli strumenti umani), in cui al «lago di calma» si sostituisce<br />

una «lacuna del cuore», a ribadire un’assenza spaziale e temporale da luoghi di cui l’io è<br />

stato disappropriato. Il ritorno come perpetuazione psichica di un vuoto <strong>che</strong> coesiste con<br />

l’esserci si ritrova an<strong>che</strong> in Stella variabile, in cui il «ritorno d’estate» è succedersi<br />

ripetitivo e rassicurante della stagione più emblematica per Sereni, ma an<strong>che</strong> rivelazione<br />

«Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità» del «colore del vuoto» (Autostrada<br />

della Cisa).<br />

In Frontiera la perdita e la distanza messe a fuoco nell’immagine della morte o del<br />

passare delle stagioni, influenza an<strong>che</strong> l’uso dei tempi verbali; particolarmente<br />

significativa è l’alternanza del presente al futuro. Si prenda come esempio la poesia<br />

25 Così Maria Laura Baffoni Licata, Stella variabile di Vittorio Sereni: alternanza ossimorica di luci e ombre,<br />

«Italica», vol. 62, n. 2, 1985, p. 128: «Alla base dell’ispirazione di questa poesia, dunque, c’è, a mio parere, una<br />

dialettica esistenziale centrata su una metafora ossimorica; si tratta di una solarità, di una prospettiva di vita<br />

illuminante ed illuminata, <strong>che</strong> confina, attraverso una miriade di stati intermedi, col suo contrario, con l’ombra cioè,<br />

col non-esistere, con la morte».<br />

26 Vittorio Sereni, Dovuto a Montale, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 144.


Inverno a Luino, in cui la realtà è osservata dal punto di vista della fine, attraverso un<br />

tempo presente <strong>che</strong> fa calare sulle cose un’ansia trattenuta, come per una sofferenza <strong>che</strong><br />

si intravede eterna, un’impossibilità di partecipazione alla vita <strong>che</strong> fa presagire la futura<br />

“dannazione” storica del Diario d’Algeria:<br />

Ti distendi e respiri nei colori.<br />

Nel golfo irrequieto,<br />

nei cumoli di carbone irti al sole<br />

sfavilla e s’abbandona<br />

l’estremità del borgo.<br />

Colgo il tuo cuore<br />

se nell’alto silenzio mi commuove<br />

un bisbiglio di gente per le strade.<br />

Morto in tramonti nebbiosi d’altri cieli<br />

sopravvivo alle tue sere celesti,<br />

[…]<br />

Fuggirò quando il vento<br />

investirà le tue rive;<br />

sa la gente del porto quant’è vana<br />

la difesa dei limpidi giorni.<br />

131<br />

(Inverno a Luino, in Frontiera)<br />

In un brano de Gli immediati dintorni intitolato Dovuto a Montale, Sereni descrive lo<br />

stato emotivo da cui è nata la poesia <strong>che</strong> aveva in Luino il luogo d’elezione:<br />

Vivevo uno di quei momenti di completezza, di piena fusione tra sé e il<br />

mondo sensibile, grazie e di fronte ai quali lo spirito si appaga di se stesso,<br />

rifiuta i contorni, sdegna ogni soccorso specie di parole. […] Certe<br />

sensazioni, certi momenti ne inanellano altri di altra natura, originari di altro<br />

tempo, altro luogo, fino a confondersi in un’unica sostanza […]. Non c’era a<br />

quel tempo distinzione in me tra impulsi poetici e sussulti emotivi. Non a<br />

esclusione ma a inclusione di quelli, le mie ore erano scandite da questi. […]<br />

Ma io allora ero giovane e alquanto svagato, più sensibile alle impressioni<br />

dirette <strong>che</strong> non alla meditazione. 27<br />

C’è insomma il senso di un poeta fisico, come si diceva prima, attento a cogliere e a<br />

fissare le impressioni delle ore del giorno, i dettagli fenomenici tanto quanto gli scarti<br />

an<strong>che</strong> minimi della luce, a cui si aggiunge una predisposizione psicologica <strong>che</strong> «rifiuta i<br />

contorni» del paesaggio, cioè rifiuta quelle «costruzioni culturali» 28 <strong>che</strong> mettono un<br />

limite ai pensieri. Tuttavia «è vana / la difesa dei limpidi giorni» e l’idillio viene<br />

rovesciato nel suo contrario: il «golfo [è] irrequieto», i «cumoli di carbone [sono] irti al<br />

27 Ivi, pp. 144-147.<br />

28 Piero Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, cit., p. 28.


sole». La finzione poetica non riesce a fare della frontiera uno spazio protettivo, ed essa<br />

diviene il luogo di un conflitto incombente:<br />

La finestra ti reggeva nella sera<br />

alta sulle canzoni della strada.<br />

Così nel buio degli anni indecisi<br />

resterai… - frequente<br />

il tuono ti fingeva gli orrori<br />

d’una guerra lontana.<br />

132<br />

(Immagine, in Frontiera)<br />

La dimensione psichica è sempre velata dall’ansia di una vita in perdita, evocata e<br />

trattenuta nella percezione dello scivolamento del tempo verso una vicina catastrofe. La<br />

sospensione tra al di qua e al di là assume su di sé la morte, la fine «già certa». Il tempo<br />

fisico e naturale è determinato da aggettivi <strong>che</strong> lo caratterizzano in un duplice senso. Da<br />

una parte c’è luminosità e chiarore: «la svelata bellezza dell’inverno» (Inverno); «un<br />

giusto sereno» (Ritorno); «nel lume di primavera» (Azalee nella pioggia); l’«ora dolce<br />

dei bastioni» (Soldati a Urbino). Dall’altra è un tempo vago e randagio, il «tempo<br />

d’acqua <strong>che</strong> torna, / randagio» (Terre rosse), <strong>che</strong> sembra un abisso in cui perdersi, come<br />

l’inquietante «ora fonda» di Dicono le ortensie. Esso risente di uno sconvolgimento <strong>che</strong><br />

non è solo esteriore, e <strong>che</strong> riflette la dolente e precaria condizione esistenziale, come in<br />

un’«amara estate» (Compleanno), o in «una dubbiosa e brulicante estate» (Settembre),<br />

<strong>che</strong> diventa poi «lunga e furente estate» (Un’altra estate), <strong>che</strong> richiama a sua volta la<br />

«giovinezza vaga e sconvolta» del poeta (Mas<strong>che</strong>re del ’36), e <strong>che</strong> diventa infine<br />

«giovinezza <strong>che</strong> non trova scampo» (Compleanno).<br />

Il sole, come sorgente di calore e di vita, è fonte di una luce precaria, debole e<br />

incerta: «S’illumina a uno svolto un effimero sole» (Nebbia). Alla luce si<br />

sovrappongono le ombre e nel tempo naturale della poesia si innesta un movimento<br />

contraddittorio, <strong>che</strong> dice un rapporto non saldo, non rassicurante col reale: «Morto in<br />

tramonti nebbiosi d’altri cieli / sopravvivo» (Inverno a Luino). L’estate stessa viene<br />

turbata da «un brivido sottile», e il cambiamento si riflette sull’uomo, su quei «volti già<br />

ridenti / ora presaghi» di un futuro incerto e misterioso:<br />

Lunga furente estate.<br />

La solca ora un brivido sottile<br />

alle foci del Tresa<br />

sì <strong>che</strong> alcuno ne trema<br />

dei volti già ridenti,


ora presaghi.<br />

Ma tutto quanto non soggiacque all’afa<br />

s’appunta al volo<br />

degli uccelli lentissimi del largo<br />

avventurati negli oscuri golfi<br />

di un’Italia infinita.<br />

133<br />

(Un’altra estate, in Frontiera)<br />

Il tempo risente di questa particolare qualità “sensibile” della poesia, si fa volubile e<br />

sonoro, può brillare nella qualità concreta di un avverbio, oppure restare qualcosa di<br />

sospeso, rivolto ad un precario avvenire: «Non saremo <strong>che</strong> un suono / di volubili ore»<br />

(Strada di Zenna). 29 L’idillio <strong>che</strong> sembra a tratti caratterizzare i versi del primo libro di<br />

Sereni è «effimero, instabile e minacciato da mutamenti repentini»; 30 si leggono versi<br />

<strong>che</strong> sembrano fotogrammi minimi di una vita colta tra un passato assai recente e il<br />

momento presente, individuato dal deittico temporale “ora”:<br />

fu vostra la grazia dell’aria<br />

nel lume di primavera. Ora si turba<br />

lo splendido fervore.<br />

(Azalee nella pioggia, in Frontiera)<br />

La parola poetica viene proiettata in un futuro indistinto, come in un desiderio di<br />

oltranza, <strong>che</strong> viene disatteso dal riemergere di un tempo su cui aleggia l’ombra della<br />

morte:<br />

Ci desteremo sul lago a un’infinita<br />

navigazione. Ma ora<br />

nell’estate impaziente<br />

s’allontana la morte.<br />

(Strada di Zenna, in Frontiera)<br />

Altrove l’uso dell’avverbio “già” è sintomo di un presente percorso da repentini<br />

slittamenti <strong>che</strong> ne riducono la durata, e ne anticipano la fine:<br />

Già l’òlea fragrante nei giardini<br />

d’amarezza ci punge: il lago un poco<br />

si ritira da noi, scopre una spiaggia<br />

29 <strong>Una</strong> profezia «carica di sognante propensione all’astratto: come esige, almeno su un suo decoroso versante, la<br />

generazione cui non cessa d’appartenere il giovane Sereni, benché “periferico” e restio a far gruppo con qualsivoglia<br />

tendenza o sezione di “scuola”» (così Silvio Ramat, Un poeta sulla strada di Zenna: due liri<strong>che</strong> di Vittorio Sereni,<br />

«Italica», vol. 62, n. 3, 1985, p. 254).<br />

30 Luca Lenzini, Commento, in Vittorio Sereni, Il grande amico, cit., p. 195.


d’aride cose,<br />

di remi infranti, di reti strappate.<br />

E il vento <strong>che</strong> illumina le vigne<br />

già volge ai giorni fermi queste plaghe<br />

da una dubbiosa brulicante estate.<br />

134<br />

(Settembre, in Frontiera)<br />

La frontiera è lo spazio dello spaesamento, in cui la continuità temporale si incrina,<br />

lasciando intravedere un interstizio, una discontinuità tra l’essere e la realtà: la<br />

«spiaggia / d’aride cose» significa l’inaridirsi di un mondo <strong>che</strong> non può essere salvato.<br />

In questo primo Sereni non c’è ancora la Storia, c’è però la memoria, <strong>che</strong> lascia su tutto<br />

una patina quasi elegiaca, di rimpianto per una stagione della vita <strong>che</strong> non potrà più<br />

tornare, e <strong>che</strong> a tratti l’innesto del futuro scarta, in uno squilibrio, in una prospettiva<br />

sghemba, come un sussulto <strong>che</strong> sta alla parola poetica registrare.<br />

3.2.2. Recensione e interpretazione della realtà<br />

Il tema della conoscenza nella poesia di Vittorio Sereni tende a formarsi al di là della<br />

pagina scritta, a contatto con un pensiero magmatico: come scaturendo da un grumo<br />

originario di vita, i segni poetici conferiscono al pensiero e alle immagini lo sbalzo luce-<br />

ombra di una nuova ed inquieta traccia semantica.<br />

Nella Frontiera esistenziale della prima raccolta poetica di Sereni, l’esigenza della<br />

verità e della conoscenza è garantita dalla relazione tra l’io e il mondo e da<br />

un’osservazione fenomenica attenta ai dati sensibili. Il contatto con gli elementi naturali<br />

determina la sostanza stessa di questi versi, <strong>che</strong> ancora tengono ai margini la Storia. 31<br />

Nelle raccolte successive, invece, l’istanza conoscitiva trae origine dall’esperienza<br />

cruciale della prigionia e della guerra, trascendendo il vissuto biografico nella duplice<br />

direzione (linea tesa e spirale) dell’interiorità e della scrittura, dell’immaginazione e del<br />

31 Così Giovanni Raboni, Prefazione a Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, cit., p. VIII: «basta aguzzare un po’ la<br />

vista, spingersi con un po’ più di sagacia e d’ardimento sotto la liscia superficie dei testi per accorgersi <strong>che</strong><br />

quell’ansia teneramente malinconica, quel vasto, struggente trepidare, quell’attesa di un “tacito evento” il cui fascino<br />

e il cui strazio derivano in qual<strong>che</strong> misura dalla sua stessa indicibilità sono già, se non storia, intrinsecamente diario;<br />

ma perché non storia, in fondo, se solo ci si decida ad ammettere, come a me sembra intimamente inevitabile, <strong>che</strong><br />

oltre alla storia di ciò <strong>che</strong> succede esiste an<strong>che</strong> la storia di ciò <strong>che</strong> non succede, <strong>che</strong> non può ancora e forse non potrà<br />

mai succedere, la storia […] di una generazione senza drammi, senza sofferenze e senza speranze <strong>che</strong> aspetta,<br />

ignorandolo ma in qual<strong>che</strong> modo presentendolo, di conquistare in un dramma futuro il diritto di soffrire e di<br />

sperare?».


vissuto storico. La conoscenza poetica è conoscenza dell’uomo, come somma<br />

dell’oggetto storico e del soggetto, 32 e si definisce nell’esigenza di scoprire il senso<br />

della contemporaneità, di indagarne le pieghe più profonde, i nodi psicologici <strong>che</strong> la<br />

caratterizzano:<br />

È una reazione <strong>che</strong> si svolge in una certa parte della mente, <strong>che</strong> si avverte<br />

in un determinato momento dell’esistenza, è la risposta ad una provocazione<br />

<strong>che</strong> viene dall’esistenza e <strong>che</strong> consiste nel rendere conto di quel tanto di<br />

strano, di misterioso o di motivato, <strong>che</strong> in quel momento ha preso tutta la<br />

nostra attenzione e <strong>che</strong> ci porta a interrogare quella determinata intuizione, a<br />

svilupparla, a portarla fino in fondo, a vedere quali altri aspetti dell’esistenza<br />

coinvolge. 33<br />

La scrittura poetica deve «dire fino in fondo, portare fino al massimo espressivo» 34 la<br />

circostanza da cui essa scaturisce. 35 Il poeta rifiuta il carattere predeterminato della<br />

parola, <strong>che</strong> la chiuderebbe in una concezione logicista e utilitaria: essa deve reagire con<br />

la realtà, per diventare uno strumento dinamico di interpretazione. Nel saggio Il nome di<br />

poeta, Sereni scrive:<br />

Sembra oggi inevitabile <strong>che</strong> la libertà creativa debba essere condizionata,<br />

prima ancora <strong>che</strong> a una lunga «recensione della realtà», a un preliminare<br />

dibattito sull’interpretazione della medesima. 36<br />

L’interpretazione della realtà è contenuta nella natura stessa del fare poesia. La<br />

conoscenza dei realia avviene «per gradi, per momenti successivi» 37 alla prima<br />

impressione e alla prima emozione, e attraverso l’intervento dell’immaginazione il<br />

pensiero si concretizza:<br />

32 Si pensi a Henri-Irénée Marrou, La conoscenza storica, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 205: «La storia è nello<br />

stesso tempo percezione dell’oggetto e avventura spirituale del soggetto conoscente. Essa insomma, si risolve nel<br />

rapporto <strong>che</strong> si stabilisce tra due piani della realtà umana: quello del Passato, ovviamente, ma an<strong>che</strong> quello costituito<br />

dal presente storico, <strong>che</strong> pensa e si muove nella sua prospettiva esistenziale, con il suo orientamento, la sua<br />

sensibilità, le sue attitudini e, ancora, i suoi limiti, le sue chiusure».<br />

33 Vittorio Sereni in AA.VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, con due interventi di Cesare Segre e Lucia<br />

Lumbelli, Parma, Prati<strong>che</strong> Editrice, 1981, pp. 42-43.<br />

34 Ivi, p. 43.<br />

35 La circostanza si accompagna alla concisione, all’essenzialità del dato e dei mezzi espressivi. Si legga ad<br />

esempio quanto scrive Parronchi in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-<br />

1982), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, lettera<br />

XXV, p. 86: «In te […] sento, nelle tue cose migliori, l’estrema economia dei mezzi, per cui nulla appare nel<br />

componimento <strong>che</strong> non sia essenziale. […] Per Leopardi invece, e spesso per Hölderlin, e quasi sempre per Eliot, la<br />

poesia è diffusione in cui beninteso non c’è posto per nulla di superfluo, ma in cui la concisione, il puro equilibrio,<br />

continuamente si trasgredisce».<br />

36 Vittorio Sereni, Il nome di poeta, in Gli immediati dintorni, poi in La tentazione della prosa, cit., pp. 53-54.<br />

37 Vittorio Sereni in AA.VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, cit., p. 43.<br />

135


Ritornando all’immagine della provocazione <strong>che</strong> viene dall’esistenza,<br />

alcuni reagiscono immediatamente e scrivono, mentre a me, in generale,<br />

questo non succede perché ho bisogno di una lunga elaborazione per<br />

approfondire o dilatare quel fatto particolare <strong>che</strong> mi ha indotto a scrivere,<br />

coinvolgendo altri fatti o altri aspetti dell’esistenza <strong>che</strong> costituiscono la<br />

giustificazione ultima dello scrivere. 38<br />

In questo modo il poeta, con dantesco verbo, ficca lo viso a fondo, dalla recensione del<br />

reale arriva alla sua interpretazione:<br />

Succede persino questo, <strong>che</strong> di colpo un fatto dell’esistenza, un<br />

determinato momento, un fatto davanti al quale vi trovate improvvisamente,<br />

getti una luce retrospettiva su quello <strong>che</strong> era una cosa oscura e lo illumini. 39<br />

La poesia si conferma dunque quale momento di comunicazione ed illuminazione tra<br />

dimensioni e luoghi intermittenti, tesa a colmare la distanza tra essere e non essere,<br />

evento personale e storia, afasia e parola. La parola poetica «comunicativa e<br />

interrogativa» 40 non è contemplazione intellettualistica, ma gesto, nel senso più fisico<br />

del termine, inteso a definire un percorso della coscienza:<br />

Il fine, se c’è, dipende dall’intensità di questa comunicazione, da quel<br />

tanto per cui quella comunicazione può colpire nell’intimo di qualcuno e<br />

quindi agire; il fine è negli altri, non è in me <strong>che</strong> scrivo. Il fine nasce da una<br />

constatazione a posteriori, quando uno riesce a trovare analogie e<br />

concordanze tra cose da lui lette tanti anni prima ed aspetti della sua<br />

esperienza presente. Il fine, in sostanza, è quello di parlare, cioè fare in modo<br />

<strong>che</strong> quello <strong>che</strong> si dice parli agli altri in modi diversi a seconda dei tempi. 41<br />

Attraverso il gesto poetico si può giungere a una visione più completa e responsabile di<br />

sé e delle cose del mondo. La poesia non è il fine di questo processo conoscitivo: essa è,<br />

piuttosto, il mezzo attraverso cui il mondo (o meglio, la nostra esperienza del mondo) si<br />

rende intelligibile a noi stessi. 42 La poesia fa emergere una realtà profonda dalla realtà<br />

quotidiana, attraverso delle illuminazioni <strong>che</strong> non hanno nulla di orfico, ma sono come<br />

una nuova consapevolezza, nata dall’incontro, nella parola poetica, di un nostro io<br />

38 Ibidem.<br />

39 Ivi, p. 54.<br />

40 Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, p. 16.<br />

41 Vittorio Sereni in AA.VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, cit., pp. 56-57.<br />

42 Si legga Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, cit., p. 16: «C’è da un lato la<br />

tendenza di chi si richiama a un filone orfico-sapienziale e attraverso la poesia intende affermare niente meno <strong>che</strong> una<br />

verità in qual<strong>che</strong> modo trascendentale […]. Dall’altro c’è quella di coloro <strong>che</strong> praticano invece una poesia<br />

esistenziale, e si accontentano di partecipare un’esperienza».<br />

136


passato con il nostro io presente, dall’interazione tra realtà, pensiero e parola. 43 Questa<br />

poesia non è la semplice conferma del mondo in cui ci troviamo, ma ne progetta uno<br />

diverso:<br />

– non una storia mia o di altri<br />

non un amore nemmeno una poesia<br />

ma un progetto<br />

sempre in divenire sempre<br />

«in fieri» di cui essere parte<br />

per una volta senza umiltà né orgoglio<br />

sapendo di non sapere.<br />

(Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />

Il senso stesso della transitorietà è alla base di ogni forma di conoscenza, scientifica,<br />

storica e an<strong>che</strong> poetica. Come nota Gian Carlo Ferretti, 44 la poesia di Sereni, il suo farsi<br />

concreta e attuale, nasce da questo nodo di contraddizioni, di esigenze contrastanti e<br />

tuttavia coesistenti:<br />

Tale poetica provvisoria […] auspi<strong>che</strong>rebbe […] una poesia<br />

eminentemente inventiva <strong>che</strong> nascesse dall’elaborazione dei dati emotivi,<br />

ideologici, raziocinanti eccetera e producesse situazioni e materiali diversi da<br />

quello di partenza o in cui questi entrassero come ingrediente magari<br />

invisibile e impercepibile… 45<br />

I poli entro cui si muove l’articolata riflessione di Sereni sono esperienza e invenzione.<br />

La nostra esperienza del mondo è fatta di cose e di vuoti tra le cose, 46 <strong>che</strong> la poesia<br />

cerca di colmare, dando forma ed espressione ad una visione unitaria di emozioni e<br />

pensieri, <strong>che</strong> prima unitari non erano. I fatti esterni, le circostanze della vita, vengono<br />

rielaborati dal pensiero poetico, <strong>che</strong> riesce a cogliere quei nessi normalmente invisibili,<br />

43<br />

A questo proposito si legga Ezio Raimondi, Letteratura, Bologna, Clueb, 2000, p. 16: «Oggi non vi sono dubbi<br />

<strong>che</strong> se per la letteratura si deve parlare di realismo, necessariamente esso passa e si costruisce attraverso la realtà<br />

propria della parola, sovvertendo le vecchie ipotesi mimeti<strong>che</strong> per includere l’atto stesso del rappresentare, con la sua<br />

energia di trasformazione e di deformazione, all’interno dello spazio rappresentato. E può essere allora <strong>che</strong> nello<br />

scrutare il reale la parola sappia scorgervi an<strong>che</strong> ciò <strong>che</strong> è più nascosto, di là dai significati apparenti di relazioni<br />

ancora provvisorie verso significati più profondi, sino ad attingere l’apertura al futuro, la tensione problematica<br />

segreta <strong>che</strong> affluisce e si sedimenta an<strong>che</strong> nel nostro confronto con il presente, in ciò <strong>che</strong> diciamo del nostro io nella<br />

sua dimensione sia individuale <strong>che</strong> collettiva».<br />

44<br />

Cfr. Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, Milano, il<br />

Saggiatore / Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1999, pp. 132-134. Mi sembra doveroso ricordare il<br />

contributo di Gian Carlo Ferretti, in particolare per quanto riguarda il capitolo Un’idea di poesia, pp. 130-145.<br />

45<br />

Vittorio Sereni, Scritture private con Fortini e con Giudici, a cura di Zeno Birolli, Bocca di Magra, Capannina,<br />

1995, pp. 34-35.<br />

46<br />

Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2005 (1ª ed. Milano, Il<br />

saggiatore, 1965), p. 50.<br />

137


ma già presenti in noi e nelle cose. 47 Il poeta non inventa niente, non si abbandona ad<br />

una fantasia <strong>che</strong> allontani dalla realtà. 48 Non è la poesia <strong>che</strong> conferisce senso al mondo,<br />

creandone uno fittizio, perché l’atto poetico non è anteriore alla percezione, esso è,<br />

invece, «percezione di realtà <strong>che</strong> fermenta e prolifera», 49 mezzo attraverso cui la<br />

percezione del mondo ci porta alla comprensione: 50<br />

Ci sono momenti della nostra esistenza <strong>che</strong> non danno pace fino a quando<br />

restano informi e an<strong>che</strong> in questo, almeno in parte, è per me il significato<br />

dello scrivere versi. 51<br />

Esistono cose <strong>che</strong> mi hanno impressionato in un senso o nell’altro e<br />

dunque tutte, possibilmente, vanno scritte. Non ho una cosa da affermare in<br />

assoluto, una mia «verità» da trasmettere. Ho dei conti da saldare con<br />

l’esperienza. 52<br />

Sono uno scrittore <strong>che</strong> parte da una base autobiografica. In generale, se io<br />

ho visto, ascoltato, vissuto per esperienza diretta una cosa, ci sono probabilità<br />

<strong>che</strong> questo dia dei frutti di poesia, diciamo così. Se questa cosa io non l’ho<br />

vissuta nella sua origine diretta, immediata, sul suo spunto autobiografico,<br />

per averla constatata, percepita attraverso i sensi e l’emotività, è<br />

difficilissimo <strong>che</strong> io ci possa scrivere qual<strong>che</strong> cosa sopra. 53<br />

47 Così Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 51: «[…] proprio perché percepiamo un<br />

insieme come cosa, l’atteggiamento analitico può in seguito discernervi somiglianze o contiguità. Ciò non significa<br />

solo <strong>che</strong>, senza la percezione del tutto, noi non penseremmo a notare la somiglianza o la contiguità dei suoi elementi,<br />

ma letteralmente <strong>che</strong> questi non farebbero parte del medesimo mondo e <strong>che</strong> quelle non esisterebbero affatto».<br />

48 Egli arriva per questa via a percorrere lo spazio di un disagio <strong>che</strong> da individuale si fa esistenziale, ovvero<br />

collettivo: «[L’esperienza] non consiste tanto di singoli eventi esattamente fissati nel ricordo quanto di dati<br />

accumulati, spesso inconsapevoli, <strong>che</strong> confluiscono nella memoria. […] Dove c’è esperienza nel senso proprio del<br />

termine, determinati contenuti del passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con quelli del passato<br />

collettivo» (Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi,<br />

1962, pp. 91, 93).<br />

49 Vittorio Sereni, Dovuto a Montale, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 149.<br />

50 Si veda Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, cit., pp. 316-317: «Seppure in<br />

senso diverso da Montale, an<strong>che</strong> Sereni avrebbe potuto dire di sé <strong>che</strong> non inventava nulla. La sua poesia nasceva a<br />

stretto contatto coi fatti e fenomeni, esterni e più spesso interni, incessanti, incessantemente ruminati […]. Ciò vuol<br />

dire, contro la moderna superbia della poesia […] <strong>che</strong> i fatti e dunque la vita, avevano un valore e una dignità in sé<br />

<strong>che</strong> si trasferivano per riverbero e impregnazione su quelli della poesia, e non viceversa. Sereni era l’antitesi del poeta<br />

orfico; era un poeta esistenziale».<br />

51 Vittorio Sereni, Poesie, cit., pp. 585-586.<br />

52 Vittorio Sereni, <strong>Una</strong> vicenda amicale: lettere di Vittorio Sereni, a cura di Giancarlo Buzzi, «Concertino», a. 1,<br />

n. 1, giugno 1992, p. 43. Si legga an<strong>che</strong> Un posto di vacanza, V: «“Ho un lungo conto aperto” gli rispondo. / “Un<br />

conto aperto? di parole?”. “Spero non di sole parole”».<br />

53 Vittorio Sereni, dichiarazione a Gian Carlo Ferretti, «Rinascita», a. 30, n. 15, 13 aprile 1973, p. 32 ora in Gian<br />

Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, cit., p. 132. Ma si legga an<strong>che</strong><br />

quanto scrive Vittorio Sereni in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982),<br />

cit., lettera 24, p. 65: «Per il resto, oggi, non c’è più niente, né Luino, né l’Africa, né la guerra. Il <strong>che</strong> vuol dire <strong>che</strong> ho<br />

sempre avuto bisogno – e questo è male – di cercare la poesia fuori di me»; lettera 27, p. 74: «Scrivo sempre a<br />

distanza di anni senza mai prescindere da una lunga memoria»; e an<strong>che</strong> Vittorio Sereni nell’intervista a Anna Del Bo<br />

Boffino, Il terzo occhio del poeta, «Amica», 28 settembre 1982, p. 156, ora in Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 582: «In<br />

senso positivo ciò significa necessità di maturazione di un motivo; in senso negativo, lentezza, pigrizia, impotenza,<br />

remora psicologica, paura. In ogni caso quell’aspetto dell’“impegno” per cui la poesia o lo scrivere hanno un peso<br />

nella misura in cui concorrono al formarsi della storia mi è totalmente estraneo».<br />

138


Da queste premesse si attua il superamento dell’autobiografismo insito nella scrittura<br />

lirica in rapporto con gli eventi della contemporaneità, per esprimere piuttosto i<br />

«fermenti segreti <strong>che</strong> tali eventi o l’esclusione da tali eventi possono far maturare nella<br />

coscienza (come la sofferta non-partecipazione alla lotta di liberazione, imposta dalla<br />

prigionia)», 54 perché «proprio nello scoprirsi incapaci di spiegarsi la tragedia e di<br />

parteciparvi» 55 sta il senso della parola poetica: essa indaga le ragioni più profonde della<br />

realtà, i nodi rimasti irrisolti, le sfumature dell’io, <strong>che</strong> altrimenti non emergerebbero.<br />

Così Sereni spiega questo procedimento:<br />

Esiste per me questo problema: rifarmi alla prima emozione e restituirla, e<br />

più ancora elaborarla, spremerne il senso e la riserva di altre energie, <strong>che</strong> essa<br />

includeva ma <strong>che</strong> all’inizio non erano state nemmeno supposte. […] I miei<br />

versi riflettono la sedimentazione, l’acquisizione di altri motivi,<br />

l’arricchimento e la dilatazione rispetto alla prima configurazione emotiva, e,<br />

parallelamente, il sopraggiungere di esperienze diverse, umane e culturali. 56<br />

Due campi di forza agiscono nelle poesie, nel tentativo di superare la divaricazione tra<br />

l’occasione poetica e la scrittura vera e propria (<strong>che</strong> in alcuni casi è rielaborazione<br />

attraverso stesure e varianti successive). Come scrive Massimo Grillandi, le «immagini<br />

poeti<strong>che</strong>, al di là del dato esistenziale, tendevano a fuggire per la tangente di una<br />

indeterminatezza piacevole alla lettura, ma non garante di un risultato definitivo. E<br />

allora Sereni le ha accortamente fermate, sul punto emotivo di svanire, con il fissatore<br />

della cronaca, <strong>che</strong> non è tanto precisazione di un dato “vero” quanto aggancio, sensibile<br />

ancoraggio, a una realtà sensibile <strong>che</strong> resta, e deve restare, strumento di comprensione<br />

in poesia». 57<br />

Nel Diario d’Algeria Sereni rielabora la vicenda centrale della propria vita, per<br />

accentuarne le possibilità conoscitive: storia, realtà ed esperienza si articolano nel<br />

tentativo di superare la dimensione puramente privata, intima e individuale, per<br />

diventare voce corale. 58 Il tormento del poeta è il tormento di una generazione «morta<br />

54 Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, cit., p. 135.<br />

55 Vittorio Sereni, <strong>Una</strong> vicenda amicale: lettere di Vittorio Sereni, cit., p. 43.<br />

56 Vittorio Sereni in Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, cit., pp. 121-122.<br />

57 Massimo Grillandi, Sereni, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 46.<br />

58 Cfr. Giovanni Raboni, Prefazione a Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, cit., p. X: «più della storia, come dice<br />

Debenedetti, più della realtà come a un certo punto mi è parso di poter ipotizzare, a entrare con il Diario nella poesia<br />

di Sereni potrebbe essere, più precisamente, l’esperienza – l’esperienza nella specie emblematica e traumatica di fine<br />

della giovinezza, del suo limpido, incantevole, sogno d’attesa». E si legga an<strong>che</strong> Bernard Simeone, Vacuité,<br />

réticence, in Vittorio Sereni, Les instruments humains précédé de Journal d’Algérie, traduit par Philippe Renard et<br />

Bernard Simeone, préface de Bernard Simeone, postface de Philippe Renard, Paris, Verdier, 1991, p. 8: «La captivité<br />

139


alla guerra e alla pace» (Non sa più nulla, è alto sulle ali), su cui agisce un senso di<br />

distacco, di sradicamento, <strong>che</strong> sarà centrale nel quadro esistenziale del dopoguerra e<br />

dagli anni Sessanta in avanti:<br />

Cominciavi a vivere con pienezza, uscito una buona volta dallo<br />

sbalordimento giovanile. Venne la guerra e rovinò ogni cosa. Ti pareva di<br />

spiegare così la crisi <strong>che</strong> colse te e alcuni tuoi coetanei dopo il ’45, di ritorno<br />

dalla guerra e dalla segregazione (e dall’esserti sentito escluso dalla<br />

Liberazione, privato della sua lotta come di un’esperienza <strong>che</strong> ti è mancata<br />

lasciandoti incompleto per sempre). 59<br />

Nella Nota alla prima edizione de Gli immediati dintorni, Giacomo Debenedetti<br />

sottolinea due punti <strong>che</strong> ci riportano al problema centrale dal quale siamo partiti: «Nella<br />

storia della poesia di Sereni ci sono grumi di vita, <strong>che</strong> hanno preteso tutto il necessario,<br />

fisiologico tempo di soluzione per poi, da quella fluidità sostanziosa, disponibile a tutte<br />

le assimilazioni organi<strong>che</strong>, arrivare a cristallizzarsi liricamente. […] Più esplicitamente<br />

<strong>che</strong> la poesia, il diario verifica l’ipotesi, da Sereni proposta insieme e contestata, “<strong>che</strong> la<br />

cosa da dire sia in fondo o un momento o un luogo della propria esperienza (esistenza)<br />

da salvare”». 60 Le ragioni della poesia di Sereni vanno cercate, insomma, in quei<br />

«grumi di vita» <strong>che</strong> rimangono come sostanza magmatica al di sotto della crosta lirica, a<br />

sua volta mai ferma, mai determinata in una forma fissa e assoluta (o assolutizzante),<br />

ma sempre in movimento, in quella <strong>che</strong> Parronchi ha definito una «costante difesa dal<br />

presente nel presente». 61 Viene spontaneo a questo punto ritornare alla Nota <strong>che</strong> Sereni<br />

aux portes du désert, entre des murailles d’air et de sable, est une figure indélébile de vacuité, qui se transforme vite<br />

en métaphore de toute condition individuelle ou collective».<br />

59<br />

Vittorio Sereni, Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 59. Tra gli altri, Giancarlo<br />

Vigorelli sottolinea come la solitudine e la separazione derivate dall’esperienza mancata della Resistenza, dalla<br />

consapevolezza <strong>che</strong> quel periodo è definitivamente perduto senza essere stato vissuto, diano a Sereni la certezza di<br />

essere un escluso: «Tutto era cambiato sotto gli occhi di noi <strong>che</strong> eravamo pur stati testimoni, e in parte partecipi, del<br />

travolgimento, del capovolgimento, e Vittorio non nascondeva primamente a se stesso, alla sua coscienza, alla sua<br />

faccia, d’essere dovuto rientrare in patria a cose fatte. Ma in realtà da fare: ed a lui pareva di avere scarso diritto a<br />

quel “da fare”, non essendo stato presente, pur senza sua colpa, all’atto del primo “fare”» (Giancarlo Vigorelli, Carte<br />

d’identità, cit., p. 198). Si legga an<strong>che</strong> una lettera ad Alessandro Parronchi, in cui Sereni scrive: «Mai come ora ho<br />

avuto il senso del tempo sperperato, degli anni regalati agli altri». Ora in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio<br />

Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 17, p. 41. Ma sul concetto del tempo sperperato Sereni torna in<br />

più momenti dell’epistolario, sino a quello «specchio del tempo sperperato» <strong>che</strong> troviamo nell’ultima poesia di Stella<br />

variabile: «Ho cinque duri anni di disamore e di dispersione sulle spalle» (lettera 24, p. 64); «Ma questi sono stati<br />

giorni di spreco del poco di vivo <strong>che</strong> rimane ancora in me» (lettera 36, p. 109); «Io finisco l’anno con un po’<br />

d’influenza in corpo e una cresciuta insofferenza per il tempo <strong>che</strong> si perde» (lettera 111, p. 285).<br />

60<br />

Giacomo Debenedetti, Nota alla prima edizione, in Vittorio Sereni, Gli immediati dintorni, ora in La tentazione<br />

della prosa, cit., pp. 6-7.<br />

61<br />

Così Alessandro Parronchi in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-<br />

1982), cit., lettera CVII, p. 301: «Caro Vittorio, ho avuto Gli immediati dintorni, e l’ho letto con molta<br />

partecipazione. Non è la tua storia – quella è nel tuo libro di poesie – ma un controcanto sottile alla tua storia, dove<br />

sento un’attenzione sempre tesa, un occhio vigilante sull’oggi in modo esasperato. […] Ma questa tua posizione di<br />

costante difesa dal presente nel presente mi pare sempre la migliore condizione alla poesia». E Vittorio Sereni,<br />

140


scrisse per l’edizione del Diario d’Algeria del 1947, <strong>che</strong> ha il valore di una vera e<br />

propria dichiarazione di poetica:<br />

Le singole date vanno comunque riferite, là dove appaiono, alle<br />

circostanze <strong>che</strong> originarono i versi e non al tempo dell’effettiva stesura. 62<br />

Il tempo <strong>che</strong> passa tra l’esperienza e la sua realizzazione lirica, lungi dall’essere un<br />

silenzio vuoto di accadimenti, si dimostra il tempo più vero della poesia, <strong>che</strong> si<br />

definisce come annotazione del dato biografico e insieme come sua dilatazione a valore<br />

esistenziale, <strong>che</strong> permette di sottrarlo ai limiti della contingenza. 63 Il <strong>lingua</strong>ggio tende ad<br />

inarcarsi su tonalità cupe, opprimenti atmosfere in cui si traducono i dettagli<br />

dell’esperienza: «Inquieto nella tradotta / […] / mi tendo alle tue luci sinistre», «un<br />

volto solo / <strong>che</strong> per sempre si chiude» (Città di notte, in Diario d’Algeria); «Io non so<br />

come sempre / un disperato murmure m’opprima», «E non è fiore in te <strong>che</strong> non<br />

m’esprima / il male <strong>che</strong> presto lo morde», «alla tua gioia / sono cieco ed inerme». Fino a<br />

giungere a toni espressionistici, <strong>che</strong> deformano la realtà in uno straziato paesaggio<br />

dell’anima: «E l’ombra dorata trabocca nel rogo serale, / l’amore sui volti s’imbestia»;<br />

per poi concludere: «fugge oltre i borghi il tempo irreparabile / della nostra viltà»<br />

(Diario Bolognese, in Diario d’Algeria), in cui bisognerà notare <strong>che</strong> l’ultimo verso è<br />

un’aggiunta successiva alla prima stesura, <strong>che</strong> precisa il più vago e “fatale” «disperato<br />

murmure» del secondo verso, come a ribadire il tempo necessario della rielaborazione,<br />

rispondendo all’amico: «Quello <strong>che</strong> mi dici del libro e della posizione di difesa “dal presente nel presente” mi sembra<br />

davvero esatto, mette al posto giusto certe impennate apparenti – <strong>che</strong> possono trovare facili consensi e altrettanto<br />

facili dissensi in un’aria sostanzialemente estranea a quella in cui pensi di essere» (Un tacito mistero. Il carteggio<br />

Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 123, p. 301).<br />

62 Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, Firenze, Vallecchi, 1947, p. 45. Ora in Poesie, cit., p. 417. All’altezza degli<br />

Strumenti umani, Sereni scrive una Nota <strong>che</strong> chiarisce ancora di più questo suo procedere, <strong>che</strong> potrebbe essere esteso,<br />

à rebours, an<strong>che</strong> a Frontiera e allo stesso Diario d’Algeria: «Per i singoli componimenti una datazione più rigorosa<br />

risulterebbe tutto sommato arbitraria. Sarebbe possibile, se mai, per ciascuno di essi stabilire una data di «partenza» e<br />

una di «arrivo»: nel qual caso però alcune «partenze» rischierebbero di figurare come anteriori persino al ’45. Un<br />

margine così largo di tempo non implica in alcun modo fasi di lavorazione protratte al segno dell’incontentabilità o<br />

del rigore dal punto di vista strettamente stilistico, bensì una serie di modifi<strong>che</strong> e aggiunte, di deviazioni e<br />

articolazioni successive, dilatazioni e rarefazioni offerte o suggerite, quando non imposte, dall’esistenza, dal caso,<br />

dalla disposizione dell’ora […]. Si dà quindi per inteso <strong>che</strong> là dove un riferimento temporale accompagna<br />

esplicitamente un testo, quel riferimento indica, senza eccezioni, una «partenza» o una fase e non rappresenta mai una<br />

data di composizione» (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, Torino, Einaudi, 1965, p. 95, poi in Poesie, cit., p. 469.<br />

Questa Nota è in parte citata an<strong>che</strong> da Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, cit., p. 17).<br />

63 Alessandro Parronchi, a proposito del Diario d’Algeria, parla di «quella grazia di consistere in pochi momenti,<br />

sottratti al tempo, di vita piena» e distingue le due direzioni verso cui si muove il Diario: «indietro la limpidità di<br />

tanti paesaggi attraversati, parte vissuti parte sognati – in avanti il ricollegarsi dell’anima col suo centro intimo», da<br />

cui risulta <strong>che</strong> «il tessuto della poesia non resta fisso, non trova quei calchi mnemonici <strong>che</strong> danno un tono scadente –<br />

così spesso – alla poesia di Montale; ma an<strong>che</strong> dov’è preciso e unito, ha l’essenza del variabile, di ciò <strong>che</strong> ogni volta<br />

sorprende». Ora in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera<br />

XXVI, p. 89; lettera XXXI, p. 100; lettera XXXVI, p. 119.<br />

141


per dare profondità emotiva ed intellettuale non solo all’esperienza, ma al pensiero e<br />

all’andamento lirico stesso. 64 Il «tempo irreparabile / della nostra viltà» suona, allora,<br />

come un a parte, una voce fuori campo, <strong>che</strong> risponde ad un desiderio di maggiore<br />

chiarezza e determinazione storico-etica, «un “fuori testo” <strong>che</strong>, a causa di un postumo<br />

desiderio di verità, altera la percezione poetica della temporalità, <strong>che</strong> da fatale<br />

trascorrere diviene “epoca” connotabile con il giudizio». 65 A distanza di anni Sereni<br />

introduce una variante, non per motivi di purezza linguistica, ma per la necessità di dare<br />

un’interpretazione morale: è l’interiorità della coscienza (storica, civile e umana), <strong>che</strong> si<br />

impone sull’esteriorità del dato biografico puro e semplice. Si giunge per questa via ad<br />

un sentimento del tempo <strong>che</strong> non è intemporalità, ma coesistenza di diversi piani<br />

temporali in un evento psichico <strong>che</strong> risente della lezione occidentale, <strong>che</strong> da<br />

Sant’Agostino giunge, attraverso Bergson, sino a Proust. La prigionia, con il suo tempo<br />

dell’attesa («luoghi di esilio e di attesa» 66 li chiama Sereni), un tempo sospeso e<br />

circolare in cui presente passato e futuro sono indistinguibili, è in contrasto con il tempo<br />

dell’azione nella storia, e introduce lo spazio ambiguo della perdita di sé e della<br />

«consapevolezza <strong>che</strong> oltre la Frontiera (termine inteso in senso geografico, politico ed<br />

esistenziale) esiste un’altra possibilità di vita, un altro poter-essere sul quale fondare il<br />

progettare, caratteristica dell’essere umano»: 67<br />

La giovinezza è tutta nella luce<br />

d’una città al tramonto<br />

dove straziato ed esule ogni suono<br />

si spicca dal brusio.<br />

E tu mia vita salvati se puoi<br />

serba te stessa al futuro<br />

passante e quelle parvenze sui ponti<br />

nel baleno dei fari.<br />

(Periferia 1940, in Diario d’Algeria)<br />

La coscienza stra-ordinaria della distanza va di pari passo con la percezione di un<br />

mutamento interiore, <strong>che</strong> produce «un senso dell’essere […] come manifestazione tale<br />

64 Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 426: «Scritta in Algeria nel ’44, ma lo spunto è bolognese, del ’42. esclusa dal<br />

Diario, è poi stata pubblicata (nel ’48?) nell’Indicatore Partigiano e nel Progresso. L’ultimo verso suonava così:<br />

“fugge oltre i borghi un tempo irreparabile”. La correzione è molto recente».<br />

65 Fulvio Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, Milano, Guerini e Associati, 1992, p. 107.<br />

66 Vittorio Sereni, Male del reticolato, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 20.<br />

67 Giuliano Ladolfi, Vittorio Sereni. Il “prigioniero”, Borgomanero, Edizioni Atelier, 2003, p. 14.<br />

142


da mettere fuori gioco la coscienza ordinaria». 68 Il poeta guarda le cose <strong>che</strong> ha davanti a<br />

sé (si pensi an<strong>che</strong> alla partita di calcio tra prigionieri in Rinascono la valentia), ma<br />

guarda soprattutto dentro di sé. Può valere come esempio l’incipit di Troppo il tempo ha<br />

tardato, in cui la grazia e, perché no, il languore lirico di sapore petrar<strong>che</strong>sco della<br />

«pena degli anni giovani», sono attenuati e bilanciati dalla volontà di riportare<br />

l’attenzione a dati sensibili e fisici: la «città», i «sobborghi», la «curva d’un viale», i<br />

«papaveri», con un dinamismo centrifugo, <strong>che</strong> dal centro della vita cittadina sembra<br />

condurci all’esterno. Ci sono tratti dal sapore spiccatamente cromatico-affettivo, quasi<br />

impressionistico, e altri invece <strong>che</strong>, innestandosi su questi, condensano la trama<br />

esistenziale della poesia, con una continua oscillazione fra trasfigurazione psicologica e<br />

concretezza del reale: «Illividiva la città nel vento», «riflessi beati», «tic<strong>che</strong>ttio<br />

meditabondo», «indolenza di sobborghi chiari», «un occhio lustro», «ombre leggere»,<br />

«svaniva / in tristezza la curva d’un viale», «ruote fuggite», «cinerea estate». Questa<br />

doppia natura della parola salva il poeta dal risolvere la propria esistenza nell’hic et<br />

nunc della prigionia, <strong>che</strong> per Sereni è attesa, incompiuta realizzazione di sé, <strong>che</strong> soltanto<br />

nel tempo potrà trovare una più piena significazione. 69 Oltre i limiti della scrittura<br />

autobiografica, il lavoro poetico si compone di due parti distinte ma complementari, <strong>che</strong><br />

sono le «sollecitazioni intime» e le «sollecitazioni esterne»:<br />

Può accadere, a chi sia impegnato in un lavoro, <strong>che</strong> certe sollecitazioni<br />

intime vengano improvvisamente a coincidere con sollecitazioni esterne,<br />

sulla natura, sul senso e sull’indirizzo di quel lavoro; <strong>che</strong> an<strong>che</strong> qui ci si senta<br />

chiamati in causa perché qual<strong>che</strong> dato della propria esperienza sembra<br />

intonarsi ai dati di un’esperienza più generale. […] La guerra, <strong>che</strong> è stata di<br />

tutti, e forse an<strong>che</strong> più il dopoguerra, hanno non operato, ma favorito<br />

qualcosa di analogo all’interno della poesia e dei poeti. 70<br />

Benjamin, nelle sue Tesi di filosofia della storia, scrive <strong>che</strong> «la storia è oggetto di<br />

una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di<br />

“attualità”», 71 cioè il tempo della storia è discontinuo e ciò permette <strong>che</strong> il passato<br />

faccia capolino nel presente superando i limiti della memoria individuale, verso una<br />

68 Marcello Ciccuto, Letteratura e arte, in AA.VV., Storia della letteratura italiana, XI, Il Novecento. Scenari di<br />

fine secolo, a cura di Nino Borsellino e Lucio Felici, Milano, Garzanti, 2001, p. 413.<br />

69 Si legga an<strong>che</strong> Fulvio Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, cit., p. 102: «l’occasione,<br />

nella poetica di Sereni, si compone nel tempo in un composto lavorio della memoria, come progressiva<br />

valorizzazione del ricordo attraverso una sua semantizzazione».<br />

70 Vittorio Sereni, Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 29.<br />

71 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 83.<br />

143


dimensione collettiva. 72 Nella fase più matura della produzione sereniana, e in<br />

particolare in Stella variabile, il mondo dei referenti appare sempre più alienato e<br />

alienante, come un mistero <strong>che</strong> il rapporto tra circostanza (esperienza) e testo (forma)<br />

non riesce a risolvere. 73 Ci viene nuovamente in aiuto Benjamin, <strong>che</strong> parla di «una<br />

costellazione carica di tensioni» 74 in cui passato e presente sono riorganizzati<br />

programmaticamente per costruire uno spazio poetico in cui si dà una nuova<br />

rappresentazione del mondo, all’interno di una temporalità soggettiva e collettiva allo<br />

stesso tempo. In questo senso per Sereni l’esperienza poetica può caricarsi di una<br />

tensione di natura conoscitiva. 75 la guerra e il dopoguerra hanno sicuramente agito «nel<br />

cuore della vita individuale e collettiva». 76 Di Stella variabile, egli dichiara:<br />

dovrebbe esprimere quella compresenza di impotenza e potenzialità, la<br />

mia difficoltà a capire il mondo in cui viviamo e al tempo stesso l’impulso a<br />

cercarvi nuovi e nascosti significati, la coscienza di una condizione dimidiata<br />

e infelice e l’ipotesi di una vita diversa, tanto vaga e sfuggente oggi quanto<br />

pronta a riproporsi ogni volta <strong>che</strong> se ne sappiano cogliere gli indizi e le tracce<br />

umane. 77<br />

Da questo punto di vista è significativo il componimento In una casa vuota, in cui<br />

Sereni mette in scena forze contrastanti, le une vòlte a depistare, e le altre a conferire<br />

concretezza e profondità al testo, per indagare davvero la natura e le ragioni del male:<br />

72 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in La tradizione del Novecento. Quarta serie,<br />

Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 223: «Il culto sereniano della memoria non lo è solo della memoria personale,<br />

ma an<strong>che</strong> di quella <strong>che</strong> possiamo chiamare memoria storica, soprattutto di una storia – lo sanno i lettori del poeta –<br />

<strong>che</strong> ha il suo fulcro nell’orrore nazista e nella Resistenza, gli eventi <strong>che</strong> egli ha mancato sentendo sempre questo<br />

appuntamento fallito come colpa».<br />

73 Per Sereni la raccolta aveva un carattere definitivo. Si legga quanto scrive in una lettera ad Alessandro<br />

Parronchi, in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 132, p.<br />

313: «Ho l’impressione <strong>che</strong> di versi non ne scriverò più (forse perché sento sempre meno naturale l’esercizio?)».<br />

Sereni qui riprende un pensiero già contenuto in Gli strumenti umani, nella lirica I versi: «Se ne scrivono solo in<br />

negativo / dentro un nero di anni / come pagando un fastidioso debito / <strong>che</strong> era vecchio di anni. / No, non è più felice<br />

l’esercizio». Garboli aveva definito questo Sereni un «tardo ideologo dei versi in negativo» (Cesare Garboli,<br />

Falbalas, Milano, Garzanti, 1990, p. 222). Tuttavia proprio in questi versi Sereni esprime le ragioni profonde della<br />

sua poetica e di quell’ansia intellettuale ed esistenziale <strong>che</strong> lo aveva portato al Diario d’Algeria e <strong>che</strong> lo porterà,<br />

naturaliter, a Stella variabile. Insomma si tratta di una negatività <strong>che</strong> preesiste ai versi stessi e <strong>che</strong>, in nuce, albergava<br />

an<strong>che</strong> nelle prime prove di Frontiera, an<strong>che</strong> se a quell’altezza rimaneva nascosta e come travestita dalla luce e dai<br />

colori del luogo nativo.<br />

74 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 85. E in<br />

Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Torino, Einaudi, 1976, p. 31: «Quello <strong>che</strong> prima […] era uno<br />

spazio di tempo privo di tensione, è diventato un campo di forze».<br />

75 A questo proposito si legga Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, cit.,<br />

p. 49: «Parlando, con la più sottile delle discrezioni, d’altro e d’altri, Sereni, in un breve articolo del ’57, chiariva<br />

come il suo lavoro di poeta fosse guidato, tra soprassalti e continui ripensamenti, dall’”ansia” del confronto con<br />

“l’immagine di noi e del nostro tempo”». Questo motivo viene definito da Testa «storico e psicologico», perché<br />

«privilegia, nella lettura dei testi altrui e nella composizione dei propri, i segni legati al senso della contemporaneità e<br />

i loro rapporti con l’essere individuale».<br />

76 Vittorio Sereni, Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 29.<br />

77 Così Vittorio Sereni in un’intervista a cura di Gian Carlo Ferretti, in «Rinascita», a. 37, n. 42, 24 ottobre 1980,<br />

p. 40, ora in Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, cit., p. 132.<br />

144


Si ravvivassero mai. Sembrano ravvivarsi<br />

di stanza in stanza, non si ravvivano<br />

veramente mai in questa aria di pioggia. Si è<br />

ravvivata – io veggente di colpo nella lenta schiarita –<br />

una ressa là fuori di margherite e ranuncoli.<br />

Purché si avesse.<br />

Purché si avesse una storia comunque<br />

– E intanto Monaco di prima mattina sui giornali<br />

ah meno male: c’era stato un accordo –<br />

purché si avesse una storia squisita tra le svasti<strong>che</strong><br />

sotto la pioggia un settembre.<br />

Oggi si è – e si è comunque male,<br />

parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti. 78<br />

(In una casa vuota, in Stella variabile)<br />

Il secco andamento nominale e la ripetitività di certi sintagmi, ripetuti in modo<br />

formulare o con leggere variazioni, producono un effetto di moltiplicazione e di<br />

progressiva precisazione di una situazione <strong>che</strong> si sviluppa contemporaneamente sotto<br />

diverse prospettive, con una sorta di balbettio in cui è possibile riconoscere quella<br />

tecnica già individuata da Montale per Gli strumenti umani: «<strong>Una</strong> poesia così fatta, <strong>che</strong><br />

dovrebbe logicamente tendere al mutismo, è pur costretta a parlare. Lo fa con un<br />

procedimento accumulativo, inglobando e stratificando paesaggi e fatti reali, private<br />

inquietudini e minimi eventi quotidiani». 79 Non a caso Garboli parla di cubismo: 80 si ha<br />

la netta sensazione di un oggetto accostato da prospettive spaziali e temporali diverse e<br />

complementari, tutte presenti nello stesso tempo di scrittura.<br />

Il movimento poetico di In una casa vuota ha origine e si sviluppa come transito,<br />

come passaggio da una situazione iniziale, indeterminata, ad una finale, dotata di una<br />

forza evocativa e conoscitiva straordinaria, in cui il soggetto stesso si scinde: l’impulso<br />

poetico si sposta dal si impersonale («Si ravvivassero mai», «Purché si avesse»), ad un<br />

io («io veggente di colpo») e poi ad un tu («parte del male tu stesso»), in cui scorgiamo<br />

una prima persona, <strong>che</strong> è diventata altro da sé. È definitiva conoscenza, ma an<strong>che</strong><br />

78 Di questa poesia si conoscono due differenti stesure: la prima, pubblicata in «Comma», nel 1968; la seconda è<br />

invece la stesura confluita in Stella Variabile, pubblicata nel 1981 (e a quest’ultima si è fatto riferimento). In merito<br />

occorre ricordare almeno i due fondamentali commenti di Cesare Garboli: In una casa vuota. Commento, «Comma»,<br />

Prospettive di Cultura-Letteratura, a. IV (1968), n. 4, p. 32 e September in the rain, in Cesare Garboli, Falbalas, cit.,<br />

p. 211.<br />

79 Eugenio Montale, Strumenti umani, in Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 331.<br />

80 Cfr. Cesare Garboli, In una casa vuota. Commento, cit., p. 32: «La relazione col Tutto è in lui un punto<br />

d’arrivo: il poeta mira a organizzare i suoi frammenti sparsi, i suoi brividi, in una costruzione <strong>che</strong> potrebbe definirsi<br />

“cubista”».<br />

145


iconoscimento, dentro di sé, di un male storico e assoluto, calato nella vita di tutti i<br />

giorni (come poi accadrà in Sarà la noia).<br />

Nella prima strofa tale movimento appare caratterizzato dall’esitazione, dal dubbio,<br />

dalla sospensione, dall’opposizione dei significati: un continuo andirivieni, un avanti e<br />

indietro tra affermazioni e negazioni, <strong>che</strong> genera una sorta di illusione prospettica al<br />

limite tra realtà ed eventualità, proiettata verso una nuova consapevolezza di sé. 81 Per<br />

Sereni la poesia è una «battaglia di immagini», 82 e questo testo ne è un esempio: esso è<br />

costellato da una serie di elementi ipotetici <strong>che</strong> dicono una realtà incerta, tenuti insieme<br />

da una fitta rete di riprese e ripetizioni («Si ravvivassero», «sembrano ravvivarsi», «non<br />

si ravvivano», «si è ravvivata»; «Purché si avesse», «Purché si avesse una storia<br />

comunque», «Purché si avesse una storia squisita»), come se l’autore cercasse di<br />

riempire il vuoto dichiarato nel titolo attraverso l’eco delle sue parole, <strong>che</strong> stabiliscono<br />

un rapporto diretto tra io e natura («io veggente di colpo nella lenta schiarita») e poi tra<br />

natura e storia (l’«aria di pioggia» e la «lenta schiarita» da una parte, la «storia squisita<br />

tra le svasti<strong>che</strong>» dall’altra): il minimo fenomeno naturale (l’«aria di pioggia»), una vaga<br />

minaccia climatica, si trasforma successivamente in disastro storico e psicologico. In<br />

questo gioco di specchi e di contrari si inserisce an<strong>che</strong> la «ressa […] di margherite e<br />

ranuncoli»: i fiori rappresentano sia la possibilità di rigenerazione della natura, sia tutti<br />

quegli ideali e dolori, di cui la storia è piena e <strong>che</strong> sembrano per un attimo illuminare la<br />

realtà interiore. Margherite e ranuncoli non sono però lì a suggerire una possibile<br />

evasione verso uno sfondo ideale di campagna e di chiare, fres<strong>che</strong> e dolci acque: sono<br />

«là fuori», mentre il poeta si trova all’interno della casa vuota. In questa spazialità<br />

irrisolta, abbozzata nei termini estremi di esterno e interno, si concentra tutto il dolore<br />

esistenziale per la separazione, il disaccordo tra ciò <strong>che</strong> si è e la possibilità di un destino<br />

diverso (il «Si ravvivassero» dell’incipit, o il «Purché si avesse»).<br />

81 Così scrive Mengaldo in La spiaggia di Vittorio Sereni, in AA.VV., Come leggere la poesia italiana del<br />

Novecento, a cura di Stefano Carrai e Francesco Zambon, Milano, Neri Pozza, 1997, p. 90: «[…] si può dire <strong>che</strong><br />

viaggi e transiti (an<strong>che</strong> mentali) sono in Sereni di due tipi fondamentali: quello chiuso, <strong>che</strong> non muta la situazione di<br />

partenza o anzi ad essa torna dichiaratamente, formalizzandosi come “aggiramento” (termine ben sereniano) […] e<br />

quello aperto, <strong>che</strong> si risolve per modulazione verso altra tonalità, in un luogo <strong>che</strong> può negare quello di partenza».<br />

An<strong>che</strong> in questa poesia sembra potersi applicare l’osservazione di Mengaldo. Il poeta guarda all’esterno della casa<br />

vuota, ma se all’inizio scorgeva «margherite e ranuncoli», nel finale, «tornino o no sole e prato coperti», c’è il<br />

riconoscimento del «male» esistenziale.<br />

82 Vittorio Sereni, Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 29:<br />

«Se l’idea di poesia <strong>che</strong> ogni poeta porta con sé fosse raffigurabile in uno specchio, noi vedremmo quello specchio<br />

assumere di volta in volta tutti i colori possibili, riflettere non una immagine ma una battaglia di immagini».<br />

146


Nella seconda strofa il vissuto individuale partecipa di una più ampia dimensione<br />

storica, <strong>che</strong> collega direttamente un difficile passato con un altrettanto complicato<br />

presente. «Un improvviso inciso prosastico, d’impronta, per così dire,<br />

“generazionale”», 83 come lo definisce Garboli, introduce il ricordo della conferenza di<br />

Monaco del settembre 1938. 84 La storia entra nella poesia di Sereni<br />

contemporaneamente al manifestarsi della quotidianità, attraverso un sistema di<br />

stratificazioni e di corrispondenze. Il discorso interiore del poeta si pone comunque ai<br />

margini di questa storia, ribadisce la lontananza rispetto agli eventi: i fatti di Monaco<br />

sono ricordati attraverso un’immagine scipita («e intanto Monaco di prima mattina sui<br />

giornali»). La storia viene abbassata ad una quotidianità stanca, trita, banale, di cui è<br />

emblema il mas<strong>che</strong>ramento prosastico del male per mezzo di una stridente colloquialità<br />

(«ah meno male» 85 ). Questo avvilimento investe tutta la realtà, e si rispecchia an<strong>che</strong><br />

nell’andamento nominale, <strong>che</strong> riduce a vera e propria didascalia teatrale l’indicazione<br />

meteorologica e stagionale <strong>che</strong> chiude la seconda strofa («sotto la pioggia un<br />

settembre»). L’uso dell’articolo indeterminativo («un settembre») porta con più forza il<br />

lettore nel presente, prescindendo dal dato storico determinato: le «svasti<strong>che</strong> dei tempi<br />

torbidi» (così recita la prima stesura), non sono solo quelle del ’38, ma tutte quelle altre<br />

svasti<strong>che</strong> <strong>che</strong> sono apparse dopo, nel silenzio, nell’inconsapevolezza collettiva o nella<br />

tacita accettazione del male.<br />

Nel distico <strong>che</strong> chiude e sigilla la poesia, si passa dall’indeterminatezza dell’iniziale<br />

«Si ravvivassero mai» e poi dell’ipotetico «Purché si avesse», alla perentorietà<br />

asseverativa dell’«Oggi si è – e si è comunque male, / parte del male tu stesso». Il male<br />

di cui qui si parla è un radicale e profondo male d’esistere calato nella sua concreta<br />

quotidianità, una realtà psicologica e gnoseologica rivelata o svelata al poeta, <strong>che</strong> alla<br />

83 Cesare Garboli, In una casa vuota. Commento, cit., p. 32.<br />

84 A questo proposito si potrebbe an<strong>che</strong> ricordare una lettera di Sereni a Parronchi, in cui gli elementi del passato<br />

si confondono con un presente di preoccupazioni: «Qui spira una brutta aria; un’aria tipo 1938 (di un 1938 visto da<br />

uno <strong>che</strong> allora non capiva di camminare lungo l’abisso e <strong>che</strong> ha il raccapriccio quando pensa <strong>che</strong> ci camminava e non<br />

se ne accorgeva)». Ora in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit.,<br />

lettera 71, p. 206.<br />

85 Si può ricordare Nel vero anno zero (Gli strumenti umani), in cui si sviluppava il tema della ferocia delle<br />

«nuove belve», cioè di coloro <strong>che</strong> ignorano il passato e <strong>che</strong> sviliscono e annullano la memoria nella superficialità<br />

frutto del disinteresse: «Meno male lui disse, il più festante: <strong>che</strong> meno male c’erano tutti. / Tutti alle Case dei Sassoni<br />

– rifacendo la conta. / Mai stato in Sachsenhausen? Mai stato. / A mangiare ginocchio di porco? Mai stato. / Ma certo,<br />

alle case dei Sassoni. / Alle Case dei Sassoni, in Sachsenhausen, cosa c’è di strano? / Ma quante Sachsenhausen in<br />

Germania, quante case. / Dei Sassoni, dice rassicurante / caso mai svicolasse tra le nebbie / un’ombra di recluso nel<br />

suo gabbano. / No non c’ero mai stato in Sachsenhausen. // E gli altri allora – mi legge nel pensiero – / quegli altri<br />

carponi fuori da Stalingrado / mummie di già soldati / dentro quel sole di sciagura fermo / sui loro anni aquilonari…<br />

dopo tanti anni / non è la stessa cosa? // Tutto ingoiano le nuove belve, tutto – / si mangiano cuore e memoria queste<br />

belve onnivore. / A balzi nel chiaro di luna s’infilano in un night».<br />

147


memoria alterna i dati ambientali, al vuoto, comodo travestimento metafisico e<br />

filosofico, il male di una storia sbagliata e di una società <strong>che</strong> non sembra imparare nulla<br />

dai suoi errori. Il senso di colpa conduce ad un doloroso j’accuse <strong>che</strong> il poeta rivolge a<br />

se stesso, mentre si accorge <strong>che</strong> le sorti dell’uomo sono escluse dai movimenti naturali<br />

(«tornino o no sole e prato coperti»). Con tali parole si precisa definitivamente la<br />

distanza già marcata all’inizio con la «ressa là fuori di margherite e ranuncoli» (corsivo<br />

nostro).<br />

La scrittura di Sereni si configura come vera e propria scrittura del disastro, per<br />

citare Blanchot: 86 Stella variabile guida il poeta e il lettore verso la conoscenza di un<br />

negativo <strong>che</strong> alberga nell’io e nelle cose. Un poeta <strong>che</strong> sente come imminente la morte,<br />

<strong>che</strong> vive continui sensi di colpa, manie suicide (si pensi a Paura prima e Paura<br />

seconda), e l’emergere di stralci di storia, brandelli del proprio passato, <strong>che</strong> la nevrosi<br />

interpreta come emblemi dell’esistenza e del tempo presente.<br />

Dopo In una casa vuota, an<strong>che</strong> in Sarà la noia la banalità del male è percepita<br />

drammaticamente in un interno familiare. Nella casa (luogo interno e chiuso, sospeso<br />

nell’attesa), siamo al limite di uno spazio umano e abitabile. Il <strong>lingua</strong>ggio emerge dalla<br />

lontananza per esistere come momento di decentramento dell’io e di ricomposizione di<br />

un tessuto esistenziale lacerato dalle violenze della guerra, vissuta come prigionia e ora<br />

come memoria dei crimini nazisti. Lo spazio <strong>che</strong> la poesia apre nel tempo permette di<br />

rielaborare uno stato di cose <strong>che</strong> da soggettive si fanno oggettive e contingenti, per<br />

esprimere un valore morale collettivo. Alla base di ogni rapporto si pone il conflitto, <strong>che</strong><br />

è interno al <strong>lingua</strong>ggio stesso e <strong>che</strong> permette al poeta di annientare i concetti della realtà,<br />

per fare emergere un’alterità profonda e inquieta:<br />

Sarà la noia<br />

dei giorni lunghi e torridi<br />

ma oggi la piccola<br />

Laura è fastidiosa proprio.<br />

Smettila – dico – se no…<br />

con repressa ferocia<br />

torcendole piano il braccino.<br />

Non mi fai male non mi fai<br />

male, mi sfida in cantilena<br />

guardandomi da sotto in su<br />

petulante ma già<br />

86 Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, cit.<br />

148


in punta di lacrime,<br />

non piango nemmeno vedi.<br />

Vedo. Ma è l’angelo<br />

nero dello sterminio<br />

quello <strong>che</strong> adesso vedo<br />

lucente nelle sue bardature<br />

di morte<br />

e a lui rivolto in estasi<br />

il bambinetto ebreo<br />

invitandolo al gioco<br />

del massacro.<br />

149<br />

(Sarà la noia, in Stella variabile)<br />

In questa poesia vediamo ripetersi il meccanismo, già precedentemente osservato, di un<br />

fatto quotidiano e totalmente marginale <strong>che</strong> diventa il punto in cui si concentra una<br />

riflessione sul senso della storia e del male:<br />

La guerra oggi è dappertutto, in un certo senso. […] Invece di esplosione<br />

si potrebbe parlare di implosione, cioè di qual<strong>che</strong> cosa <strong>che</strong> avviene all’interno<br />

di noi stessi, nell’ambito apparentemente pacifico nel quale viviamo e <strong>che</strong> si<br />

esprime in forme di violenza <strong>che</strong> non sono quelle della guerra. 87<br />

Si passa dalla rappresentazione delle cose alla loro interpretazione, attraverso un<br />

correlativo psichico <strong>che</strong> affonda le radici in un passato <strong>che</strong> non è stato completamente<br />

superato, e <strong>che</strong> riemerge, come un fantasma, come una dichiarazione di esistenza più<br />

forte dell’esistenza stessa. La situazione familiare, tesa tra la noia e l’irritazione, di un<br />

padre infastidito dai piccoli dispetti della figlia, ben presto si trasforma in altro.<br />

L’essenzialità e la banalità della situazione iniziale accentuano, per contrasto, il senso<br />

storico di un male latente nelle cose e nei gesti di tutti i giorni. Il presente si conferma<br />

come durata di un’esperienza <strong>che</strong> non ha più nulla di autobiografico, ma in cui permane<br />

l’emozione <strong>che</strong> le cose hanno provocato nell’io. 88 Si genera così uno slittamento<br />

87 Vittorio Sereni in AA.VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, cit., p. 51.<br />

88 L’esperienza della durata è concretamente corroborata attraverso una proliferazione dei gerundi e delle forme<br />

aggettivali del participio presente: «torcendole», «guardandomi», «invitandolo», «petulante», «lucente». Così Maria<br />

Laura Baffoni Licata, Stella variabile di Vittorio Sereni: alternanza ossimorica di luci e ombre, cit., p. 133: «Questa<br />

tendenza del verso ad allungarsi è an<strong>che</strong> messa in evidenza, da un punto di vista più propriamente grammaticale, da<br />

una decisa inclinazione all’uso di gerundi quali: “triturando”, “mordendo”, “indugiando”, “parendo”, “cercando”,<br />

“svoltando”, e di participi presenti: “osservante”, “trascorrente”, “cangiante”, “sventolante”, “reiteranti”, “vocianti”,<br />

– di modi verbali,cioè, <strong>che</strong>, promuovendo una durata nel tempo, vengono a corroborare l’aspetto paratattico del<br />

verso». Ma si legga an<strong>che</strong> Maria Antonietta Grignani, La linea metafisica nella poesia italiana del Novecento: esiti di<br />

fine millennio, in AA.VV., «Vaghe stelle dell’Orsa…». L’«io» e il «tu» nella lirica italiana, a cura di Francesco Bruni,<br />

Venezia, Marsilio, 2005, p. 352: «Mi sembra <strong>che</strong> oggi si sia ridotta, rispetto al grande modello montaliano, l’intensità<br />

e la forza con cui vengono pronunciate le presenze nominali <strong>che</strong> rinviano agli oggetti, mentre è il sistema verbale a<br />

dominare, in inarcature e forzature rilevanti perfino in poeti, come Sereni, alieni dalla deformazione linguistica. Il<br />

verbo cede spesso alle proprie forme nominali (infinito, ma soprattutto participi e gerundi); i futuri, magari anteriori,


emotivo, un soprassalto o un trauma accentuato dal contrasto, <strong>che</strong> il lettore stesso<br />

percepisce, tra il presente e i fatti <strong>che</strong> la memoria involontaria fa riemergere. Il<br />

«bambinetto ebreo» è qui un duplicato della figlia di Sereni, uno dei tanti fantasmi <strong>che</strong><br />

abitano la sua mente. Il «gioco / del massacro» dal passato è giunto sino a noi e ha<br />

assunto una forma <strong>che</strong> lo dissimula. La memoria qui non è legata ad un paesaggio o ad<br />

un volto, è legata a un gesto senza storia, il gesto del sopruso e della violenza del più<br />

forte sul più debole: non si tratta del ricordo di una violenza passata, perché quel gesto<br />

apparentemente innocuo è lo stesso del passato <strong>che</strong> ritorna. Ma un passato <strong>che</strong> ritorna è<br />

un passato <strong>che</strong> non se n’è mai veramente andato: dopo il superamento<br />

dell’autobiografismo assistiamo all’abolizione della stessa memoria. Sembra ritornare la<br />

lezione fenomenologica di Merleau-Ponty, secondo cui «Percepire non è esperire una<br />

moltitudine di impressioni <strong>che</strong> condurrebbero con sé ricordi capaci di completarle.<br />

Bensì veder scaturire da una costellazione di dati un senso immanente, senza il quale<br />

nessun appello ai ricordi è possibile. Ricordare non è ricondurre sotto lo sguardo della<br />

coscienza un quadro del passato a sé stante, ma tuffarsi nell’orizzonte del passato e<br />

svilupparne a poco a poco le prospettive racchiuse finché le esperienze <strong>che</strong> esso<br />

riassume siano come vissute di nuovo al loro posto temporale. Percepire non è<br />

ricordare». 89<br />

L’intersezione dei piani già evocata per il Diario d’Algeria, l’idea della poesia come<br />

percezione della realtà, <strong>che</strong> abbiamo precedentemente messo in relazione con le<br />

riflessioni di Merleau-Ponty, richiamano la «costellazione carica di tensioni» di cui<br />

parla Benjamin: ora si può davvero realizzare un più compiuto concetto di storia, <strong>che</strong><br />

risente, forse, della lettura dello stesso Benjamin, secondo cui «Lo storicismo postula<br />

un’immagine “eterna” del passato, il materialista storico un’esperienza unica con<br />

esso». 90 Per questo Sereni non procede attraverso l’uso di un tempo passato, bensì<br />

attraverso un presente, reso fulminante dall’uso dell’avverbio «adesso» con funzione di<br />

deittico temporale, indicante un’azione durativa nel presente: «Vedo. Ma è l’angelo /<br />

nero dello sterminio / quello <strong>che</strong> adesso vedo». È l’immagine di una crisi, il lampo di<br />

una nevrosi installata nella coscienza. Il concetto di Jetztzeit (attualità), espresso da<br />

alludono alla sensazione <strong>che</strong> il presente, luogo a partire dal quale normalemente si forma l’idea di futuro, sia già<br />

passato».<br />

89 Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 58.<br />

90 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 84.<br />

150


Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia, emerge dalla «continuità della storia» 91<br />

per realizzare compiutamente il passaggio dalla recensione della realtà alla sua<br />

interpretazione. 92<br />

Da questi flash, <strong>che</strong> rileggono l’esperienza soggettiva nel suo reagire all’interno della<br />

forma poetica, nasce una particolare visione delle cose («io veggente di colpo» scrive In<br />

una casa vuota, e poi «adesso vedo» in Sarà la noia): una visione <strong>che</strong> sembra<br />

realizzarsi attraverso un cannocchiale rovesciato, <strong>che</strong> tutto distanzia. Il passato,<br />

emergendo nel presente, inevitabilmente crea una distanza, anziché colmarla. 93 Il poeta<br />

guarda lontano, ma guarda soprattutto da lontano («là» è il deittico spaziale <strong>che</strong> marca<br />

la distanza). La visione entra nel turbine delle affermazioni e negazioni <strong>che</strong> determinano<br />

un approccio instabile col reale, <strong>che</strong> si confonde col sogno e con l’ossessione («nuove<br />

ombre mi inquietano <strong>che</strong> intravedendo non vedo», Lavori in corso, I). Se la poesia è il<br />

luogo dell’apocalisse, della rivelazione, lo è all’interno di una fenomenologia del<br />

negativo, <strong>che</strong> mette in discussione le cose e la struttura stessa del testo, il soggetto e<br />

l’oggetto. Si arriva a minare i fondamenti stessi dell’essere e del tempo:<br />

Non vorrai dirmi <strong>che</strong> tu<br />

sei tu o <strong>che</strong> io sono io.<br />

Siamo passati come passano gli anni.<br />

Altro di noi non c’è qui <strong>che</strong> lo specimen<br />

anzi l’imago perpetuantesi<br />

a vuoto –<br />

e acque ci contemplano e vetrate,<br />

ci pensano al futuro: capofitti nel poi,<br />

postille sempre più fio<strong>che</strong><br />

91 Ivi, p. 83. Si legga a questo proposito an<strong>che</strong> Laura Barile, Il passato <strong>che</strong> non passa. Le «poeti<strong>che</strong> provvisorie»<br />

di Vittorio Sereni, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 191-200.<br />

92 Cfr. Walter Benjamin, Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, cit., p. 28: «un evento vissuto è<br />

finito, o perlomeno è chiuso nella sola sfera dell’esperienza vissuta, mentre un evento ricordato è senza limiti, poiché<br />

è solo la chiave per tutto ciò <strong>che</strong> è avvenuto prima e dopo di esso».<br />

93 Si legga quanto scrive Franco Rella, Dall’esilio. La creazione artistica come testimonianza, Milano, Feltrinelli,<br />

2004, p. 94: «Non si può ricomporre il passato infranto in un ordine. […] Il problema non è ricomporre il passato, ma<br />

redimerlo. Tale redenzione secondo Benjamin è possibile solo nell’istante, nell’ora, in cui un frammento di ciò <strong>che</strong><br />

viviamo si intrama con un frammento del passato, e nella tensione <strong>che</strong> si apre tra loro, nella loro differenza, si<br />

sprigiona il senso dell’ora e dell’allora. L’attimo si carica così di tempo fino a scoppiare, e diventa storia. Benjamin<br />

chiama questo attimo l’ora della conoscibilità. Ma noi sappiamo <strong>che</strong> proprio dell’attimo non è possibile fare storia».<br />

Gli attimi di Sereni non sono emblemi di riscatto e salvezza e quando in Un posto di vacanza IV scrive <strong>che</strong> è<br />

«custode non di anni ma di attimi», indica l’impossibilità di leggere e interpretare la vita come una totalità omogenea<br />

cronologicamente e razionalmente interpretabile, ma piuttosto come un succedersi di eventi, <strong>che</strong> hanno abitato in noi,<br />

ma <strong>che</strong> ora sono già altrove. Non c’è ordine, ma discontinuità e contraddizione. Da Nietzs<strong>che</strong> in poi i tentativi di<br />

percepire il senso della discontinuità della storia sono numerosi, e si potrebbero citare Benjamin stesso, o Foucault, e<br />

Sereni percepisce il senso doloroso di questa vita <strong>che</strong> non è più storicizzabile, non è più possibile raccontarla, ma<br />

soltanto scriverla: «Non scriverò questa storia – mi ripeto, se mai / una storia c’era da raccontare» (Un posto di<br />

vacanza II): «Avendo scritto: non scriverò questa storia debbo essermi illuso di avere una storia da raccontare.<br />

Invece era un modo per dire <strong>che</strong> avevo una poesia da scrivere e <strong>che</strong>, potendo, avrei continuato a scriverla. Il<br />

corrispondente dell’altra riva doveva essersi offeso, non mi esortava più alle storie. […] Ho detto: è la fine di tutte le<br />

storie, forse della storia stessa» (Vittorio Sereni, Poesie, cit., pp. 742-743).<br />

151


multipli vaghi di noi quali saremo stati.<br />

(Altro posto di lavoro, in Stella variabile)<br />

Il punto di vista qui si concentra sulla percezione di un cambiamento, <strong>che</strong> ha reso l’io<br />

qualcosa di incerto dal punto di vista dell’esserci: «specimen», «imago», «postille<br />

sempre più fio<strong>che</strong>», «multipli vaghi», la cui esistenza è complicata dall’uso del futuro<br />

anteriore, un futuro <strong>che</strong> in qual<strong>che</strong> modo è già passato, e <strong>che</strong> mette in crisi la dialettica<br />

tra essere e non essere, tra ciò <strong>che</strong> è stato e ciò <strong>che</strong> non è ancora.<br />

È an<strong>che</strong> uno sguardo proiettato su un’«altra riva», è l’ipotesi di una poesia <strong>che</strong><br />

«allacci nome a cosa». In Un posto di vacanza la visione ricade nel gioco di<br />

affermazioni e negazioni, tentativi sempre sull’orlo del fallimento; lo sguardo, mezzo<br />

privilegiato di conoscenza del mondo, conosce la sconfitta, quando la vista è ingannata,<br />

per così dire, da effetti ottici <strong>che</strong> danno origine ad una prospettiva falsata, sghemba,<br />

imperfetta. Il poemetto è percorso da continui richiami allo sguardo, alla visione, <strong>che</strong> si<br />

confonde col sogno e l’allucinazione, con una sovrapposizione di immagini, di voci, di<br />

suggestioni, <strong>che</strong> rendono il senso del caos, della frantumazione e della precarietà di ogni<br />

possibilità conoscitiva:<br />

Pensavo, niente di peggio di una cosa<br />

scritta <strong>che</strong> abbia lo scrivente per eroe, dico lo scrivente come tale,<br />

e i fatti suoi le cose sue di scrivente come azione.<br />

Non c’è indizio più chiaro di prossima vergogna:<br />

uno osservante sé mentre si scrive<br />

e poi scrivente di questo suo osservarsi.<br />

(Un posto di vacanza, V, in Stella variabile)<br />

La vista rischia di perdere peso, capacità speculativa, rischia di diventare voyeurismo,<br />

sguardo privo di una qualsiasi valenza conoscitiva: «Sarei io dunque il superstite<br />

voyeur, uno scalpore» e «l’occhio intento / all’attraversamento» non può più allacciare<br />

nome a cosa, come aveva ipotizzato, perché «ombre», «colori», «attimi» sono «freddati<br />

nel nome <strong>che</strong> non è / la cosa ma la imita soltanto». La parola poetica non deve<br />

determinare logicamente la realtà, come tenta di fare il <strong>lingua</strong>ggio filosofico, ma<br />

spogliarsi di ogni pretesa descrittiva e dare forma ad una realtà altra, da cui scaturisca<br />

una nuova coscienza. 94 Parlare della realtà non vuol dire riprodurla in modo mimetico:<br />

94 Occorre ridefinire il valore dell’imitazione, nel rapporto tra soggetto e realtà. Parlando della pittura di Franco<br />

Francese Sereni scrive: «“imitare” – termine altrimenti sospetto – significa dunque “collocarsi accanto”: assecondare<br />

152


superati i limiti dell’io, la conoscenza per via poetica deve guardare oltre i semplici<br />

fenomeni, pena il cadere vittima di un gioco di specchi, <strong>che</strong> confonde la realtà. La<br />

struttura della materia è complessa, come dinamico e brulicante di vita è l’universo, e lo<br />

sguardo del poeta, se vuole andare in profondità, deve affrontare la realtà da più punti<br />

prospettici, cogliendone il carattere mutevole:<br />

Un sasso, ci spiegano,<br />

non è così semplice come pare.<br />

Tanto meno un fiore.<br />

L’uno dirama in sé una cattedrale.<br />

L’altro un paradiso in terra.<br />

Svetta su entrambi un Himalaya<br />

di vite in movimento.<br />

(Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />

Nel testo <strong>che</strong> rappresenta la summa della poetica sereniana, un catalogo della sua<br />

esistenza e della sua scrittura, viene messo in crisi il presupposto classico della<br />

conoscenza e dell’arte.<br />

Sereni prende definitivamente le distanze dai vincoli della mimesi del reale: la res<br />

cogitans (il soggetto) non descrive soltanto, ma interpreta la res extensa (l’oggetto),<br />

secondo una prospettiva storica e non astorica. Egli porta a compimento un percorso <strong>che</strong><br />

aveva intrapreso a partire da Gli strumenti umani:<br />

Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte.<br />

Nemmeno io volevo questo <strong>che</strong> volevo ben altro.<br />

Si fanno versi per scrollare un peso<br />

e passare al seguente. Ma c’è sempre<br />

qual<strong>che</strong> peso di troppo, non c’è mai<br />

alcun verso <strong>che</strong> basti<br />

153<br />

(I versi, in Gli strumenti umani)<br />

La conoscenza si lega, da questo momento in poi, a un «progetto / sempre in<br />

divenire», mai compiutamente realizzato, <strong>che</strong> va oltre l’orizzonte stesso della poesia,<br />

perché ormai lo sguardo rivela i suoi limiti, il suo relativismo, le sue contraddizioni.<br />

Contro le lusinghe di una poetica autoreferenziale e vana, uno «specchio ora uniforme e<br />

la natura per come viene a noi e ci si manifesta, […] non imporre dall’esterno una forma al fenomeno e nemmeno<br />

subirla (copiarla) dal fenomeno, ma lasciare <strong>che</strong> questo agisca, condividerlo e interpretarlo, cioè restituirlo dopo<br />

averne organizzato le trasformazioni in noi» (Vittorio Sereni, Franco Francese. La bestia addosso, Milano,<br />

All’insegna del pesce d’oro, 1976, pp. 7-8). Non copiare, dunque, ma «collocarsi accanto» alla realtà per interpretarla<br />

è lo scopo della poesia dello stesso Sereni.


immemore», la parola di Sereni si pone in relazione con il futuro, con l’utopia e con la<br />

condizione dell’uomo in un tempo di incertezze e crisi:<br />

Ne fu colto<br />

il disegno profondo<br />

nel punto dove si fa più palese<br />

– non una storia mia o di altri<br />

non un amore nemmeno una poesia<br />

ma un progetto<br />

sempre in divenire sempre<br />

«in fieri» di cui essere parte<br />

per una volta senza umiltà né orgoglio<br />

sapendo di non sapere.<br />

(Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />

Nel poemetto (uno dei punti più avanzati di speculazione poetica), il rapporto con la<br />

realtà è regolato da geografie variabili e prospettive mentali incrinate, all’interno di un<br />

sistema di segni sospesi tra la minaccia e lo spaesamento. Il poeta cammina sul rovescio<br />

della medaglia, vive ai bordi di una realtà composita e instabile: <strong>che</strong> è come dire <strong>che</strong><br />

vive sul rovescio della poesia, immerso in una congerie di frammenti e s<strong>che</strong>gge di voci,<br />

immagini, pensieri fissati sulla pagina, <strong>che</strong> già cedono al buio. Allo stesso tempo ne<br />

accetta i rischi e i limiti, per raggiungere una profondità <strong>che</strong> si pone come una<br />

possibilità futura, mai compiuta. Il «disegno profondo» è, allora, un «progetto» di<br />

conoscenza, <strong>che</strong> non può essere conoscenza in sé («Amare non sempre è conoscere»),<br />

perché per Sereni c’è sempre un al di là, un oltre, un altrove dell’io e del mondo in cui il<br />

potenziale psichico del gesto poetico continua a battere il terreno, inseguendo una<br />

traccia «oltre il paesaggio». 95<br />

95 Cfr. Vittorio Sereni, Infatuazioni, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 132: «Ma è<br />

come la montagna di Cézanne: astratta nella sua ripetuta presenza, indicibilmente viva nel suo arioso riproporsi. […]<br />

Solo adesso comprendo <strong>che</strong> come un viso mi era stato preannuncio, portatore, segnacolo di un paesaggio, così è di<br />

questo rispetto ad altro <strong>che</strong> incomincio a intravedere. Ben oltre il paesaggio».<br />

154


3.3.<br />

FORTINI E SERENI:<br />

TRA OLTRANZA E REVERSIBILITÀ<br />

Nella prefazione all’edizione francese di Stella variabile, Fortini sostiene <strong>che</strong> Sereni<br />

«dice due verità», una «psicologica e storica» <strong>che</strong> testimonia degli avvenimenti della<br />

vita del poeta e dell’Italia, l’altra, invece, <strong>che</strong> «annuncia un al di là della poesia», una<br />

dimensione in cui «trionfa la morte». 1 Fortini sembra leggere e interpretare Sereni<br />

attraverso alcuni versi <strong>che</strong> riassumono lo snodo centrale della propria poetica. È<br />

immediato dunque il rimando a «uno è il tempo ma è di due verità» (La poesia delle<br />

rose, 2, in <strong>Una</strong> volta per sempre), <strong>che</strong> si trova a reagire con quanto aveva già messo in<br />

evidenza in Il tarlo:<br />

Voce minima promessa<br />

invisibile verità<br />

scricchiolío dell’alto tempo<br />

quanta calma sugli occhi lavati.<br />

Confidenza della fine<br />

per udirti quanto silenzio.<br />

(Franco Fortini, Il tarlo, in Poesia e errore)<br />

<strong>Una</strong> verità giace in superficie, l’altra invece è un’«invisibile verità», <strong>che</strong> proviene dal<br />

silenzio di un «alto tempo», e diventa «confidenza della fine». Fortini delinea così un<br />

sistema di segni in rapporto con il passato e con il futuro sino al loro limite estremo, <strong>che</strong><br />

preannuncia un nuovo inizio. 2 A questo proposito, proprio Sereni individua un tratto<br />

1 Si legga Franco Fortini, La plage et la sibylle. Une lecture de Sereni, in Vittorio Sereni, Étoile variable, traduit<br />

de l’italien par Philippe Renard et Bernard Simeone, préface de Franco Fortini, Paris, Verdier, 1987, pp. 7-8:<br />

«Comme toute vraie poésie, celle de Sereni dit deux vérités. La première psychologique et historique, édifie un<br />

protagoniste, un réseau de rapports, une fabula. La seconde dit quelque chose qui dépasse l’organisme littéraire,<br />

organe de sa phonation. Dans sa première vérité, la voix que nous nommons Sereni témoigne d’événements profonds<br />

et de tensions tout au long d’un demi-siècle d’histoire d’une nation tragique, l’Italie, mal comprise par l’Europe […].<br />

Dans sa seconde vérité, au contraire, sous des apparences urbaines et quotidiennes, elle annonce un au-delà de la<br />

poésie: dans cette voix – pas du tout étrange, voire “normale” – triomphe la mort. Contrairement à son contemporain<br />

Luzi ou à son cadet Zanzotto, Sereni n’assigne à la poésie aucune mission salvatrice». Si veda an<strong>che</strong> Franco Fortini,<br />

Verso il valico, in Nuovi saggi italiani, cit., pp. 170-178.<br />

2 E così Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, cit., p. 119: «Il passato può essere distrutto e superato solo nella<br />

misura in cui se ne sia distrutto e superato, in quel lungo processo <strong>che</strong> è una rivoluzione, il dominio sociale, in tutte le<br />

sue forme». La rivoluzione (o, meglio, la speranza della rivoluzione) è dunque un processo <strong>che</strong> genera una rottura, un<br />

crollo, come il lento ma costante lavoro del tarlo.<br />

155


fondamentale della poetica fortiniana nell’«ascensionalità», 3 ma egli, a differenza di<br />

quest’ultimo, non scorge nella morte un’ottimistica prospettiva di futuro: il presente per<br />

Sereni «è sentito come ripetizione e commemorazione del passato», 4 e lo slancio verso<br />

l’oltre della poesia avviene nell’estrema difficoltà e problematicità esistenziali di chi<br />

non scorge una meta sicura, pur continuando a cercare «un’altra possibilità di vita, un<br />

altro poter essere sul quale fondare il progettare, caratteristica dell’essere umano». 5 In<br />

Fortini, invece, c’è il senso di una «attesa di morte <strong>che</strong> tuttavia è an<strong>che</strong> proiezione nel<br />

futuro, un futuro <strong>che</strong> può collegarsi al passato, non solo personale, e inverarne, sia pure<br />

tragicamente, la “speranza”». 6 La possibilità di un avvenire convive con qualcosa di<br />

tragico, per cui l’al di là non si sviluppa positivisticamente come necessaria<br />

continuazione del presente, ma si configura come rottura del sistema individuale e<br />

sociale, e l’altra verità sorge dalle scorie di una realtà sofferente.<br />

Le due strade sono complementari: «in Sereni l’auto-distruzione è totale, non<br />

dialettica», c’è un’assolutezza psicologica <strong>che</strong> neutralizza la prospettiva del domani in<br />

una serie di «illusioni volontarie e nean<strong>che</strong> troppo credute», 7 mentre quella di Fortini «è<br />

una distruzione <strong>che</strong> conserva» 8 e <strong>che</strong> si proietta in una prospettiva <strong>che</strong> fa rientrare il<br />

futuro in un meccanismo di morte-rigenerazione, in cui si può realizzare la rivoluzione,<br />

cioè il cambiamento:<br />

Come ci siamo allontanati.<br />

Che cosa tetra e bella.<br />

<strong>Una</strong> volta mi dicesti <strong>che</strong> ero un destino.<br />

Ma siamo due destini.<br />

Uno condanna l’altro.<br />

Uno giustifica l’altro.<br />

Ma chi sarà a condannare<br />

o a giustificare<br />

noi due?<br />

(Franco Fortini, A Vittorio Sereni, in Questo muro)<br />

3 Vittorio Sereni, Un destino, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia, cit., p.<br />

167.<br />

4 Pier Vincenzo Mengaldo, Divagazioni in forma di lettera, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e<br />

testimonianze sulla sua poesia, cit., p. 138.<br />

5 Giuliano Ladolfi, Vittorio Sereni. Il “prigioniero”, cit., p. 14.<br />

6 Pier Vincenzo Mengaldo, Divagazioni in forma di lettera, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e<br />

testimonianze sulla sua poesia, cit., p. 138.<br />

7 Franco Fortini, Ancora per Vittorio Sereni, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 206. E aggiunge: «An<strong>che</strong> da questo<br />

punto di vista è notevole l’assenza, in Sereni, di tracce visibili di Marx e di Freud e di qualsiasi eredità cristiana. […]<br />

Mi chiedo se i suoi così insistiti processi di iterazione e di specularità,ossia di duplicazione dell’io, non siano il<br />

correlativo retorico di una dimensione temporale sentita e vissuta sempre più come circolare. Il “rimando” rende<br />

“perfetto il cerchio”, non c’è più differenza vera fra lo jeri e il domani».<br />

8 Pier Vincenzo Mengaldo, Divagazioni in forma di lettera, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e<br />

testimonianze sulla sua poesia, cit., p. 148.<br />

156


Come i «due destini», an<strong>che</strong> le «due verità» si condannano e giustificano l’una con<br />

l’altra. Più <strong>che</strong> di speranza si dovrebbe quindi parlare di un’ipotesi di speranza, <strong>che</strong> non<br />

deriva da una verità, ma procede verso la verità, 9 annuncia un al di là e tuttavia non si<br />

apre a possibilità falsamente ottimisti<strong>che</strong>. 10<br />

Ecco allora <strong>che</strong> per Sereni l’ottica del futuro appare specularmente rovesciata nel<br />

ritorno, secondo una tendenza a «vivere nel “prima” e così testimoniando del nostro<br />

orribile “dopo”». 11 Ciò trova nel dato biografico il punto di partenza di un discorso<br />

vòlto «a riprodurre momenti, a reimmetter[s]i in situazioni trascorse al fine di dar loro<br />

un seguito». 12 A partire dal dopoguerra e da Gli strumenti umani l’indagine poetica di<br />

Sereni si lega maggiormente alla ricognizione di luoghi <strong>che</strong> fanno parte ormai della sua<br />

coscienza storica, <strong>che</strong> egli cerca di interrogare per coglierne una vibrazione di senso da<br />

opporre alla precarietà del presente, vissuto come scempio e separazione. Si conferma la<br />

«reciprocità di una persona e del paesaggio <strong>che</strong> l’accompagna», 13 come accadeva già in<br />

Frontiera, ma ora senza sintonia, e con il senso di una ferita profonda <strong>che</strong> si riapre. Il<br />

tempo lavora sottraendo e levando, sgretolando e diminuendo e l’autore si trova ad<br />

essere «monco […] della parte <strong>che</strong> […] teneva riuniti luogo e persona», per questo egli<br />

va «in direzione opposta». 14 Lo sguardo si rivolge al passato, ai luoghi e alle atmosfere<br />

della giovinezza di Frontiera, e poi al presente, sul quale agisce ancora il trauma<br />

dell’esclusione storica del Diario, con una «sorprendente continuità-fedeltà alle proprie<br />

ragioni anteriori»: 15<br />

Ora ogni fronda è muta<br />

compatto il guscio d’oblio<br />

perfetto il cerchio.<br />

(Vittorio Sereni, Solo vera è l’estate e questa sua, in Diario d’Algeria)<br />

9 Cfr. Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, Roma, Fazi, 2006, p. 28.<br />

10 Si legga ad esempio un passo della prefazione a Insistenze: «Il lettore non man<strong>che</strong>rà di notare quante volte<br />

questi scritti si concludano su di un gesto di “oltre”, in qual<strong>che</strong> modo ottimistico o ortativo. Vorrei non si sospettasse<br />

qual<strong>che</strong> idiota “se ieri è andata male, domani andrà meglio”: vita e storia non giocano gironi di ritorno. E nean<strong>che</strong> vi<br />

si leggesse uno dei consueti processi di rivalsa apocalittica o di “nobiltà morale” <strong>che</strong> sono propri degli sconfitti.<br />

Quelle conclusioni vorrebbero invece mostrarsi, come ipotesi e interrogativi. Coloro <strong>che</strong>, per tale ottimismo, mi<br />

accuseranno di incoscienza, mostrando a dito le fosse e i tormenti dei nostri anni, non sanno (o io non ho saputo dirlo)<br />

in vetta a quanto pessimismo biologico e storico ho dovuto salire per riproporre queste insistenze» (Franco Fortini,<br />

Insistenze, Garzanti, Milano, 1985, p. 10).<br />

11 Franco Fortini, Oltre il paesaggio, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 182.<br />

12 Vittorio Sereni, Dovuto a Montale, in Gli immediati dintorni; ora in La tentazione della prosa, cit., p. 148.<br />

13 Franco Fortini, Oltre il paesaggio, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 183.<br />

14 Vittorio Sereni, Infatuazioni, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 132.<br />

15 Massimo Grillandi, Sereni, cit., p. 67.<br />

157


La poesia di Sereni ha origine da questa distanza e dalla ricerca di un contatto <strong>che</strong> viene<br />

a mancare. Tuttavia questi temi dall’evidente valenza simbolica sono sempre<br />

strettamente legati ad una realtà concreta e al contempo sentimentale, «un universo<br />

perpetuamente in conflitto, alle prese con la propria subliminarità». 16 Sereni non può,<br />

citando Ungaretti, «ardere d’inconsapevolezza» e la parola <strong>che</strong> «cerca e tenta e ancora si<br />

rassegna» (Finestra) è l’espressione di un io cambiato, il cui sguardo sulla natura<br />

produce una speranza già risolta in disperazione. A nulla vale chiedere all’amore di<br />

restare saldo e di non cedere, all’amicizia di difenderci:<br />

La splendida la delirante pioggia s’è quietata,<br />

con le rade ci bacia ultime stille.<br />

Ritornati all’aperto<br />

amore m’è accanto e amicizia.<br />

E quello, <strong>che</strong> fino a poco fa quasi implorava,<br />

dall’abbuiato portico brusìo<br />

romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:<br />

volti non mutati saranno, risaputi,<br />

di vecchia aria in essi oggi rappresa.<br />

An<strong>che</strong> i nostri, fra quelli, di una volta?<br />

Dunque ti prego non voltarti amore<br />

e tu resta e difendici amicizia.<br />

(Vittorio Sereni, Anni dopo, in Gli strumenti umani)<br />

L’andamento e la scelta lessicale dell’incipit sembrano spostare la datazione della lirica,<br />

come se si trattasse di una sorta di remake post-dannunziano o neocrepuscolare, come se<br />

le cose da Frontiera a qui non fossero cambiate. Sereni pare rievocare le parole <strong>che</strong><br />

chiudevano la presentazione delle Poesie del 1942, in cui affidava il libro «alla cordiale<br />

memoria degli amici», ma ora, nell’invocazione finale, amore e amicizia vengono<br />

personificati nel tentativo di renderli assoluti, di sottrarli alla contingenza del momento<br />

storico, o an<strong>che</strong> alla precarietà della memoria <strong>che</strong> si trova a fare i conti col passato.<br />

An<strong>che</strong> lo stile partecipa della confusione di chi, tornato all’aperto dopo il delirio della<br />

guerra, deve recuperare il tempo perduto degli anni in cui non ha veramente vissuto e,<br />

nell’emergenza memoriale di una vita precedente il conflitto e di volti una volta<br />

conosciuti, invoca al proprio fianco amicizia e amore, <strong>che</strong> garantiscano l’accordo<br />

dell’essere con la realtà. Tuttavia, come in una moderna versione del mito di Orfeo, la<br />

salvezza è precaria, si risolve in inutile preghiera, in una tensione discorsiva alla quale è<br />

16 Così Massimo Grillandi, Sereni, cit., p. 12.<br />

158


affidata la traduzione dell’inquietudine: «Dunque ti prego non voltarti amore / e tu resta<br />

a difenderci amicizia», ma amore e amicizia sono già abbandono, mentre dal passato<br />

emergono presenze non ben identificate, volti tra i quali l’io riconosce an<strong>che</strong> se stesso,<br />

con un gioco di specchi <strong>che</strong> lascia filtrare nel discorso poetico una prospettiva falsata e<br />

ambigua. Il rimanere abbarbicato ai segni del passato e del presente, non produce le<br />

allegorie cari<strong>che</strong> di promesse <strong>che</strong> troviamo in Fortini, ma permette di scovare gli angoli<br />

in cui ancora si arrotola la vita. La precarietà dell’esistenza è declinata secondo la<br />

minima speranza <strong>che</strong> i piccoli eventi quotidiani e le cose della storia superino la fragilità<br />

dell’effimero attraverso la poesia, sino a giungere ad esiti se non universali (o generali,<br />

come per Fortini) almeno esistenziali. Qui amore e amicizia sono gli strumenti umani di<br />

cui l’autore si serve per ristabilire un legame concreto con le forze elementari <strong>che</strong> danno<br />

un senso alla vita e <strong>che</strong> sono già minacciate dal pericolo di scivolare nello squilibrio e<br />

nel vuoto degli anni lontani. Si fa evidente lo smarrimento dell’io di fronte a rapporti<br />

<strong>che</strong> anni dopo appaiono cambiati di senso, a causa dello stravolgimento sociale e<br />

ideologico <strong>che</strong> l’intellettuale sperimenta nella realtà industriale neocapitalistica. Se il<br />

passato è irrecuperabile, il percorso esistenziale si confronta con l’angoscia calma di<br />

«una pena senza pianto», 17 mentre la gioia appare «staccata da tutto», 18 insufficiente a<br />

proporsi come strumento utile ad una qualsiasi trasformazione sociale, in un mondo<br />

bruciato da una noia <strong>che</strong> lascia solo le ceneri della speranza:<br />

Che aspetto io qui girandomi per casa,<br />

<strong>che</strong> s’alzi un qual<strong>che</strong> vento<br />

di novità a muovermi la penna<br />

e m’apra a una speranza?<br />

Nasce invece una pena senza pianto<br />

né oggetto, <strong>che</strong> una luce<br />

per sé di verità da sé presume<br />

– e appena è un bianco giorno e mite di fine inverno.<br />

Che spero io più smarrito tra le cose.<br />

Troppe ceneri sparge attorno a sé la noia,<br />

la gioia quando c’è basta a sé sola.<br />

(Vittorio Sereni, Le ceneri, in Gli strumenti umani)<br />

17<br />

Altra variante, nello stesso giro d’anni, della «disperazione / calma, senza sgomento» (Congedo del viaggiatore<br />

cerimonioso) di Caproni.<br />

18<br />

Andrea Zanzotto, Per Vittorio Sereni, in Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., p. 52.<br />

159


La gioia e la spensieratezza giovanili non bastano: del passato non conta più la<br />

dimensione sentimentale, ma la distanza e la lontananza. 19 Il principio speranza è da<br />

cercarsi in una dimensione scentrata, o addirittura viene sostituito dalla Scoperta<br />

dell’odio, in cui il fuoco purificatore è l’unico mezzo <strong>che</strong> permette di discernere il bene<br />

dal male. L’io non può risolvere il rapporto tra sé e l’altro con la gioia e con l’amore,<br />

perché «la gioia quando c’è basta a sé sola» (Le ceneri) e «l’inveterato errore» è stato<br />

«credere <strong>che</strong> d’altro non vi fosse acquisto <strong>che</strong> d’amore» (Scoperta dell’odio). I tempi<br />

non sono più aperti ad un confronto su valori positivi e quindi l’autore, con un evidente<br />

ammiccamento a Fortini, «Insiste <strong>che</strong> conta più della speranza l’ira / e più dell’ira la<br />

chiarezza» (<strong>Una</strong> visita in fabbrica). Non c’è spazio per l’idillio, il paesaggio ha perduto<br />

la sua capacità evocativa, il suo potenziale rappresentativo della profondità psichica ed è<br />

ridotto a «un bianco giorno e mite di fine inverno» (Le ceneri). Per vedere chiaramente<br />

sembra necessario prendere congedo dal mondo e immergersi in una dimensione <strong>che</strong><br />

esiste «fuori dallo sguardo immediato» (A un compagno d’infanzia, II), per sviluppare<br />

una nuova «disposizione verso la realtà», 20 in cui le cose «rivivranno / con altro suono e<br />

senso» (A un compagno d’infanzia, I). Così nell’ultimo testo della raccolta, La spiaggia,<br />

alla presenza si sostituisce l’assenza, all’amore la morte, al silenzio la parola proiettata<br />

al futuro:<br />

Sono andati via tutti –<br />

blaterava la voce dentro il ricevitore.<br />

E poi, saputa: - Non torneranno più -.<br />

Ma oggi<br />

su questo tratto di spiaggia mai prima visitato<br />

quelle toppe solari... Segnali<br />

di loro <strong>che</strong> partiti non erano affatto?<br />

E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.<br />

I morti non è quel <strong>che</strong> di giorno<br />

in giorno va sprecato, ma quelle<br />

toppe d’inesistenza, calce o cenere<br />

pronte a farsi movimento e luce.<br />

Non<br />

dubitare, – mi investe con la sua forza il mare –<br />

parleranno.<br />

(Vittorio Sereni, La spiaggia in Gli strumenti umani)<br />

19 Cfr. Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 153.<br />

20 Ivi, p.158.<br />

160


Nella dinamica del contrasto tra elementi opposti, al «Sono andati via tutti» e al «Non<br />

torneranno più» 21 si alterna il «loro <strong>che</strong> partiti non erano affatto»; alle «toppe solari» le<br />

«toppe d’inesistenza, calce o cenere» e subito dopo «movimento e luce»; al «zitti quelli<br />

al tuo voltarti» la voce del mare <strong>che</strong> promette: «parleranno». Fortini aveva inteso queste<br />

immagini «come parti latenti della realtà storico-sociale», ma an<strong>che</strong> «parti della<br />

esperienza del soggetto-autore […] ammutolito dalla fine di ogni mandato sociale». 22<br />

Alcuni anni prima Pasolini aveva scritto «ma io non sono morto, e parlerò» (A uno<br />

spirito, in La religione del mio tempo), stabilendo il ruolo <strong>che</strong> l’io poetico doveva avere<br />

all’interno della società come principale fautore dell’azione civile opposta alla cultura<br />

della morte. 23 La prospettiva in Sereni è notevolmente cambiata, perché l’io con la sua<br />

parola non può sperare di forzare la realtà, ma soltanto cercare un rapporto diverso con<br />

essa: anziché stabilire la fine delle esistenze individuali, i morti attendono una rinascita,<br />

una possibilità di esistenza. 24 Solo uscendo da sé e legando il proprio destino a quello<br />

dei trapassati si può ancora sperare di resistere alla fine. La poesia si nutre di<br />

contraddizioni e dissonanze: il discorso si svolge all’interno di un meccanismo di<br />

decostruzione del reale, <strong>che</strong> dal concreto («questo tratto di spiaggia») scivola verso<br />

l’astrazione di una condizione mentale inquieta e “altra” (le «toppe solari», le «toppe<br />

d’inesistenza» 25 ), in cui alla iniziale voce blaterante dentro un ricevitore si oppone la<br />

parola forte del mare, <strong>che</strong> invita a «Non / dubitare» e a continuare a coltivare la<br />

speranza. Da una parte emerge una realtà minacciata da una alterità incombente, <strong>che</strong><br />

21 Si possono a questo proposito ricordare alcune poesie di Giorgio Caproni, in cui la situazione di abbandono<br />

sembra senza via di scampo, e in cui viene negata ogni possibilità di comunicazione con l’altro da sé, o con i morti:<br />

«Nessuno m’ha richiamato / – nessuno - indietro» (Scalo dei fiorentini, in Congedo del viaggiatore cerimonioso &<br />

altre prosopopee); «Sono partiti tutti. / Hanno spento la luce, / chiuso la porta, e tutti / (tutti) se ne sono andati / uno<br />

dopo l’altro. / […] / – di tanti – non c’è più nessuno / col quale amorosamente / poter altercare?» (Lasciando Loco, in<br />

Il muro della terra).<br />

22 Franco Fortini, Ancora per Vittorio Sereni, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 205.<br />

23 Cfr. Nicoletta Diasio, «Il bel paese dove il no suona». L’invective à l’Italie dans trois poèmes de Pasolini,<br />

Sereni et Caproni, in AA.VV., L’invective. Histoire, formes, stratégies, actes du colloque international des 24 et 25<br />

novembre 2005, a cura di Agnès Morini, Saint-Étienne, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2006, p. 301:<br />

«face à l’omniprésence de la mort, d’une culture de la mort, "io non sono morto", dit le poète, "e parlerò"».<br />

24 Cfr. Franco Fortini, La plage et la sibylle, cit., p. 12: «Ce sont les morts […] qui proposent à nouveau comme<br />

valeur et devoir absolus l’identité nue des choses […]. Ainsi, la foi irrationnelle en l’intransitivité des existences<br />

individuelles confère à une valeur négative une valeur absolue. Toutefois, cette position semble depassée dans le<br />

dernier poème du recueil, «La plage» […]. Ce sont les jours qui sont partis, les événements, les hommes en apparence<br />

disparus mais qui attendent de renaître; […]. Les parties de la réalité qui n’ont pas jusqu’alors pleinement existé, […]<br />

sont dès maintenant appelées à une existence».<br />

25 Sono immagini <strong>che</strong> sembrano richiamare le bruciature e le ustioni delle opere di Alberto Burri, immagini di<br />

lacerazioni a metà strada tra essere e non essere, tra dimessa condizione esistenziale e sublime rivelatore.<br />

161


contro ogni logica parla e si muove, dall’altra è proprio questa alterità fuori fuoco e<br />

fuori senso <strong>che</strong> sembra proporre la sola parola positiva, proiettata al futuro. 26<br />

In Stella variabile la decostruzione del reale si traduce in scomposizione dei piani<br />

spazio-temporali. La realtà e le categorie <strong>che</strong> la inquadrano vengono rovesciate e risolte<br />

in un’ambigua compresenza di esistenza e inesistenza, mentre l’io poetico si definisce<br />

come «trapassante» e concentra in sé un sentimento straniante di non appartenenza:<br />

«Insomma l’esistenza non esiste»<br />

(l’altro: «leggi certi poeti,<br />

ti diranno<br />

<strong>che</strong> inesistendo esiste»).<br />

Scollinava quel buffo dialogo più giù<br />

di un viottolo o due<br />

alla volta del mare.<br />

Fanno di questi discorsi<br />

nell’ora <strong>che</strong> canicola di brutto<br />

i ragazzi Cioè? – mi dicevo<br />

scarpinando per quelle petraie –.<br />

Proprio non ha senso<br />

se non per certi trapassanti amari<br />

quando si stampano per sempre in loro<br />

interi pezzi di natura<br />

gelandosi nelle pupille.<br />

Ma ero<br />

io il trapassante, ero io,<br />

perplesso non propriamente amaro.<br />

(Vittorio Sereni, In salita, in Stella variabile)<br />

Nella dimensione perturbante <strong>che</strong> ne deriva si radicalizza la lotta contro il nulla, <strong>che</strong> in<br />

Autostrada della Cisa assume i tratti del rito del passaggio della soglia spazio-<br />

temporale. La poesia procede «di là dal valico», sul terreno ambiguo ed ellittico di<br />

«quell’altra vita», <strong>che</strong> è data dallo stratificarsi dei tempi nel tempo lungo della memoria,<br />

<strong>che</strong> si pone come l’unica verità e preannuncia, nella simultaneità e convertibilità delle<br />

epo<strong>che</strong> stori<strong>che</strong>, il «raggiungimento, in un domani non lontano, di una propria “città del<br />

sole”»: 27<br />

26 Cfr. Franco Fortini, Di Sereni, in Saggi italiani, e ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 645: «Chi «parlerà»? Non<br />

soltanto il poeta […]. Ma già parlano i distanti, i lontani, gli avvenire. In una certa misura: i vendicatori». E si legga<br />

an<strong>che</strong> Mengaldo, Da una prigione, in Giudizi di valore, Torino, Einaudi, 1999, p. 121: «Geloso della propria<br />

individualità, Sereni sa però <strong>che</strong> questa non esiste se non modellata e offesa dalla società in cui vive: a questa oppone<br />

non tanto i viventi quanto i morti e l’utopia: sono i morti <strong>che</strong> «parleranno», ultima parola di La spiaggia, la grande<br />

poesia <strong>che</strong> chiude la raccolta». Da questa parola finale emerge una «volontà eroica, patetica e ingenua, di continuare a<br />

riproporre i valori in un contesto <strong>che</strong> li rende paradossali e li smentisce. […] L’io della Spiaggia continua invece a<br />

vedere i “segnali” an<strong>che</strong> quando la “voce saputa” <strong>che</strong> “blatera nel ricevitore” sembra negarne l’esistenza» (Guido<br />

Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p.178).<br />

27 Così Maria Laura Baffoni Licata, Stella variabile di Vittorio Sereni: alternanza ossimorica di luci e ombre, cit.,<br />

p. 134.<br />

162


Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –<br />

sappilo <strong>che</strong> non finisce qui,<br />

di momento in momento credici a quell’altra vita,<br />

di costa in costa aspettala e verrà<br />

come di là dal valico un ritorno d’estate.<br />

Parla così la recidiva speranza, morde<br />

in un’anguria la polpa dell’estate,<br />

vede laggiù quegli alberi perpetuare<br />

ognuno in sé la sua ninfa<br />

e dietro la raggera degli echi e dei miraggi<br />

nella piana assetata il palpito di un lago<br />

fare di Mantova una Tenochtitlán.<br />

(Vittorio Sereni, Autostrada della Cisa, in Stella variabile)<br />

Questa Tenochtitlán è il «paese nuovo», in cui «cominciare ex novo», di cui parlava in<br />

Pantomima terrestre (Gli strumenti umani), dove i lampi e il temporale si opponevano<br />

all’«insensatezza estiva», <strong>che</strong>, col suo tempo statico e abbagliato, anticipava i «miraggi»<br />

e il «colore del vuoto» di Autostrada della Cisa. Ciò <strong>che</strong> è passato oltre i limiti del<br />

tempo sarà per Sereni materia viva di conoscenza, saranno le «toppe solari», i «segnali»<br />

di cui parlava in La spiaggia:<br />

Sono segnali di luce, ma di una luce tutta interna, anzi di una realtà prima<br />

ignota <strong>che</strong> s’illumina dall’interno di sé, mediante un proprio specifico<br />

<strong>lingua</strong>ggio <strong>che</strong> l’artista ha percepito. […] In questa serie di vere e proprie<br />

apparizioni e rivelazioni, <strong>che</strong> hanno dietro e non fuori di sé una fonte<br />

luminosa, nel loro screziarsi, raggrumarsi, distendersi in strati, in superfici<br />

assolate e calme, oppure in striature tormentate e intermittenti, cogliamo lo<br />

sviluppo di una metamorfosi spontanea della materia in eloquio. 28<br />

I «segnali di luce», e le «superfici assolate» calme e tormentate allo stesso tempo, si<br />

ritrovano an<strong>che</strong> in Altro compleanno:<br />

A fine luglio quando<br />

da sotto le pergole di un bar di San Siro<br />

tra cancellate e fornici si intravede<br />

un qual<strong>che</strong> spicchio dello stadio assolato<br />

quando trasecola il gran catino vuoto<br />

a specchio del tempo sperperato e pare<br />

<strong>che</strong> proprio lì venga a morire un anno<br />

e non si sa <strong>che</strong> altro un altro anno prepari<br />

passiamola questa soglia una volta di più<br />

sol <strong>che</strong> regga a quei marosi di città il tuo cuore<br />

e un’ardesia propaghi il colore dell’estate.<br />

(Vittorio Sereni, Altro compleanno, in Stella variabile)<br />

28 Vittorio Sereni, Morlotti e un viaggio, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 120.<br />

163


Sereni assume come definitiva l’incertezza dell’esistere, e la consapevolezza del non-<br />

sapere («e non si sa <strong>che</strong> altro un altro anno prepari»). L’autore parla da un tempo<br />

liminare e compiuto («fine luglio», ma an<strong>che</strong> il compleanno del titolo), in cui la luce<br />

assoluta del sole restituisce l’essenza delle cose, rendendole oggetti psichici speculari al<br />

«tempo sperperato»: così il «colore del vuoto» (Autostrada della Cisa) qui si<br />

concretizza nell’immagine del «gran catino vuoto» di San Siro, <strong>che</strong>, a sua volta,<br />

reagisce con il «colore dell’estate». Alle forme immerse nel tempo della storia si oppone<br />

la stasi dell’opera senza tempo: 29 la poesia è un movimento vitale <strong>che</strong> non si compie in<br />

un’unica direzione o in un unico momento, ma <strong>che</strong> ci accompagna per tutta la nostra<br />

esistenza e <strong>che</strong> ci svela a tratti la verità latente delle cose. 30 Il poeta-osservatore deve<br />

cercare di fare emergere l’essenza al di là della luce e delle ombre, <strong>che</strong>, definendo lo<br />

spazio tridimensionale, sanciscono l’inevitabile distanza tra le parti, tra ciò <strong>che</strong> è al di<br />

qua e ciò <strong>che</strong> è al di là. L’immagine cresce emotivamente e il senso si moltiplica,<br />

eludendo la scissione fra io e realtà: «trasecola» indica un al di là del tempo e dello<br />

spazio, ovvero il passaggio verso un altro mondo. Si arriva progressivamente alla<br />

significazione assoluta di versi <strong>che</strong> concretizzano l’accettazione di un transito obbligato<br />

(«passiamola questa soglia una volta di più»). L’intravedere dell’autore è consapevole<br />

<strong>che</strong> il vero sguardo è quello <strong>che</strong> va oltre la superficie e sa cogliere il “contenuto<br />

rappresentativo” delle cose, la loro profondità psichica e filosofica, cioè poetica: lo<br />

stadio di San Siro, per intenderci, non è ciò <strong>che</strong> si vede, ma l’emozione <strong>che</strong>, fissata nella<br />

29 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit.,<br />

p. 237: «è in Stella Variabile <strong>che</strong> il nichilismo del poeta, giunto allo stadio terminale, finisce per distruggere né più né<br />

meno <strong>che</strong> l’articolazione del tempo, e la speranza in un futuro diverso dal presente <strong>che</strong> risarcisca almeno i venturi, se<br />

non più noi stessi».<br />

30 A questo proposito appare significativo il fatto <strong>che</strong> le parole di Altro compleanno siano in certo qual modo il<br />

risultato di riflessioni <strong>che</strong> Sereni aveva elaborato già nel lontano 1946, in una lettera a Alessandro Parronchi, in cui<br />

evocando l’anno trascorso dal suo ritorno dalla prigionia scrive: «Ma questi sono stati giorni di spreco del poco di<br />

vivo <strong>che</strong> rimane ancora in me. Davvero quest’appendice burocratica alle peripezie militari non ci voleva ed è stato un<br />

altro anno sciupato, con prospettive non troppo liete per il prossimo […]. In queste condizioni […] non so proprio <strong>che</strong><br />

cosa possa uno combinare di buono. E dire <strong>che</strong> la voglia di vivere e di godere, se non atro, esplode a tratti<br />

pericolosamente in me dopo aver sonnecchiato per circa tutto un anno dopo il ritorno. Ora ho davanti l’estate con lo<br />

sgomento <strong>che</strong> sempre m’è nato con lei e una specie di volontà distruttiva e febbrile» (Vittorio Sereni, Un tacito<br />

mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 36, p. 109). E in un’altra lettera<br />

scrive: «Ho cercato di reagire leggendo, terrorizzato dall’inoltrarsi della stagione verso quel punto <strong>che</strong> rappresenta la<br />

mia morte annuale e <strong>che</strong> coincide di solito col tempo di chiusura delle scuole e della partenza per le vacanze.<br />

Nemmeno quest’anno so bene dove andare a finire […]. I pochi momenti in cui mi sono illuso di fare qualcosa con la<br />

fede di farlo e di arrivare fino in fondo senza sfiducia, si sono spenti istantaneamente. E ancora una volta mi vedo<br />

ridotto in quell’annullamento <strong>che</strong> in altri periodi mi ha permesso di tornare alla poesia» (Vittorio Sereni, Un tacito<br />

mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 72, p. 209).<br />

164


mente, riemerge in luce e colore. 31 Ritornano quelle Infatuazioni, <strong>che</strong> chiudono Gli<br />

immediati dintorni:<br />

Ma è come la montagna di Cézanne: astratta nella sua ripetuta presenza,<br />

indicibilmente viva nel suo arioso riproporsi. Il grembo di una medesima<br />

vallata mi si apre nuovo e diverso, un già noto pendìo è assolato di futuro.<br />

Solo adesso comprendo <strong>che</strong> come un viso mi era stato preannuncio,<br />

portatore, segnacolo di un paesaggio, così è di questo rispetto ad altro <strong>che</strong><br />

incomincio a intravedere. Ben oltre il paesaggio. 32<br />

Questa «ripetuta presenza» tende ad un’estrema e stordente visione della fine del<br />

tempo 33 in cui la prospettiva storica viene fissata in un eliotiano still point. Non può<br />

sfuggire il contrasto tra questa idea e il concetto stesso di futuro, <strong>che</strong> presuppone la<br />

diacronia; ma siamo, come sempre, all’interno di un sistema ellittico e contraddittorio,<br />

in cui ciò <strong>che</strong> «si apre nuovo e diverso», ciò <strong>che</strong> appare «assolato di futuro», è «il<br />

grembo di una medesima vallata», «un già noto pendìo». La soglia va passata non una<br />

volta per sempre (per riprendere il titolo fortiniano), ma «una volta di più»: il tempo è<br />

ritorno, è ripetizione, e Sereni, <strong>che</strong> già in Gli strumenti umani si sentiva «espulso dal<br />

futuro» (Pietà ingiusta), è an<strong>che</strong> estraneo ad una visione organica del passato, e non può<br />

fare altro <strong>che</strong> essere «custode non di anni ma di attimi» (Un posto di vacanza, in Stella<br />

variabile). 34 Nessuna certezza, né <strong>che</strong> ci si volga all’indietro, né <strong>che</strong> si guardi in avanti<br />

(traguardare e intravedere sono verbi sereniani assai significativi). In questo modo si<br />

determina quell’essere oltre il tempo <strong>che</strong> è un essere fuori dal tempo, un’esclusione:<br />

Dove sarà con chi starà il sorriso<br />

<strong>che</strong> se mi tocca sembra<br />

sapere tutto di me<br />

passato futuro ma ignora il presente<br />

se tento di dirgli quali acque<br />

per me diventa tra palmizi dune<br />

e sponde smeraldine<br />

– e lo ribalta su uno ieri<br />

di incantamenti scorie fumo<br />

31 L’esistere è sospeso tra una possibilità futura e il nulla, <strong>che</strong> come la luce accecante, sembra cancellare il tempo<br />

realizzando «le sentiment d’une solitude définitive et de l’immersion dans le Grand Vide […]. Ici, l’être et le néant<br />

coexistent sans dialectique, et ils concourent à supprimer l’historie» (Franco Fortini, La plage et la sibylle, cit., pp.<br />

16-17).<br />

32 Vittorio Sereni, Infatuazioni, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 132.<br />

33 Si legga an<strong>che</strong> quanto scrive Franco Fortini in La plage et la sibylle, cit., p. 15.<br />

34 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit.,<br />

p. 223: «la durata è rotta o dagli eventi stessi o dall’incertezza dell’io, o invece si cristallizza, impedendo mobilità e<br />

scorrevolezza». E a p. 225: «La ripetizione in Sereni è un fenomeno bivalente, anzi contraddittorio. Perché per un<br />

verso realizza o indica l’appagante, anzi costruttiva continuità di sé con sé medesimo, ma per l’altro la frustrante<br />

impossibilità del mutamento, psicologicamente la prigionia nella coazione a ripetere (non senza connotati<br />

masochistici)».<br />

165


o lo rimanda a un domani<br />

<strong>che</strong> non m’apparterrà<br />

e di tutt’altro se gli parlo parla?<br />

(Vittorio Sereni, Traducevo Char, VII, in Stella variabile)<br />

Il tempo frantumato è una contemporaneità fatta di lacerti <strong>che</strong> si rimandano<br />

vicendevolmente, si ripetono senza <strong>che</strong> li si possa risolvere nell’unità di una visione<br />

sicura del presente. Considerato in prospettiva lo sguardo di Sereni abbraccia una<br />

doppia temporalità: una <strong>che</strong> fa emergere la poesia dal tempo storico e <strong>che</strong> si risolve in<br />

non-appartenenza e in non-essere, l’altra <strong>che</strong> va invece contro il tempo e contro la storia<br />

(«sol <strong>che</strong> regga a quei marosi di città il tuo cuore» in Altro compleanno) e <strong>che</strong> ipotizza<br />

un’altra dimensione dell’essere. Sono due punti di vista complementari, come le due<br />

interpretazioni <strong>che</strong> se ne possono dare: una è quella di Mengaldo, secondo cui «i nessi<br />

fra passato e futuro sono rovesciati o resi immobili, e nell’immobilizzarsi del tempo il<br />

futuro si riduce a puro s<strong>che</strong>rmo bianco senza nessuna connotazione salvifica o<br />

utopica»; 35 la seconda è quella di Fortini, <strong>che</strong> invece legge l’immobilizzarsi del tempo<br />

sereniano come realizzazione «della resurrezione per ritorno alla origine», 36 tema <strong>che</strong><br />

egli stesso sviluppa in un testo della sua ultima raccolta, in cui, tra l’altro, ritroviamo il<br />

tema del compiersi del tempo, ovvero del compleanno:<br />

Quella <strong>che</strong>.<br />

È ritornata questa notte in sogno.<br />

Uno dei miei compivo ultimi anni.<br />

«Sono, - le chiesi, - vicino a morire?»<br />

Sorrise come allora.<br />

«Di te so, - mi rispose, - tutto. Lascia<br />

quel brutto impermeabile scuro.<br />

Ritornerai com’eri».<br />

(Franco Fortini, Quella <strong>che</strong>…, in Composita solvantur)<br />

A questo punto la poesia deve confrontarsi con la domanda posta da Harald Weinrich:<br />

«È allora possibile definire il futur […] come la forma temporale di un’epoca <strong>che</strong> deve<br />

ancora arrivare? E i tempi verbali sono davvero “forme del tempo reale”?». 37<br />

Tracciando una divaricazione tra il «tempo sperperato» della prigionia, la sensazione di<br />

35<br />

Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., p.<br />

237.<br />

36<br />

Franco Fortini, Oltre il paesaggio, in Nuovi saggi italiani, cit., p. 184.<br />

37<br />

Harald Weinrich, Tempus. Le funzioni del tempo nel testo, Bologna, il Mulino, 2004, p. 88.<br />

166


non poter appartenere a nessun futuro e la sospensione canicolare del presente, Sereni<br />

determina una visione del tempo in cui la linearità, espressa attraverso le date <strong>che</strong> si<br />

succedono, convive simultaneamente con i ritorni e le reiterazioni, per cui il tempo si<br />

definisce come qualcosa <strong>che</strong> ci si porta dentro, in cui la storia si confonde con i<br />

movimenti distruttivi della contemporaneità e l’una e gli altri si annullano.<br />

Dal canto suo Fortini reagisce ad una dimensione senza scampo, sviluppando un<br />

rapporto tra passato e futuro <strong>che</strong> libera dalla fissità del presente:<br />

I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari.<br />

La sola cosa <strong>che</strong> importa è<br />

il movimento reale <strong>che</strong> abolisce<br />

lo stato di cose presente.<br />

Tutto è diventato gravemente oscuro.<br />

Nulla <strong>che</strong> prima non sia perduto ci serve.<br />

La verità cade fuori dalla coscienza.<br />

Non sapremo mai se avremo avuto ragione.<br />

Ma guarda come già stendono le loro stuoie<br />

attraverso la tua stanza.<br />

Come distribuiscono le loro masserizie,<br />

come spartiscono il loro bene, come<br />

fra poco mangeranno la nostra verità!<br />

Di noi spiriti curiosi in ascolto<br />

prima del sonno parleranno.<br />

(Franco Fortini, Gli ospiti, in Questo muro)<br />

Il testo oppone «il movimento reale» allo «stato di cose presente», ad una verità <strong>che</strong><br />

«cade fuori della coscienza» si sostituisce l’osservazione diretta dei gesti degli ospiti,<br />

<strong>che</strong> «mangeranno la nostra verità». Fortini sembra proporre una prospettiva ben diversa<br />

rispetto a quella di Sereni: 38 quest’ultimo conclude La spiaggia con un vago<br />

«parleranno», <strong>che</strong> lascia aperto lo spazio del dubbio e dell’incertezza conoscitiva (di<br />

cosa parleranno? Di chi? Quale conoscenza o quale verità si esprimerà in quelle<br />

parole?), mentre Fortini dice chiaramente «Di noi […] parleranno», indicando in tal<br />

modo la resistenza di una parola <strong>che</strong> sopravvivrà al destino di morte, definendosi come<br />

eredità trasmissibile ai posteri. 39 In Sereni prevale un clima di attesa, in Fortini il tono si<br />

38 Così Pier Vincenzo Mengaldo, Per Franco Fortini, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., p. 308:<br />

«Fortini mira precisamente a correggere l’ottica nichilista di Sereni in nome della speranza storica: il superamento di<br />

noi da parte dei venturi non ci annulla e condanna e basta, ma an<strong>che</strong> ci adempie».<br />

39 Si legga an<strong>che</strong> quanto scrive Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, cit., p.<br />

84: «an<strong>che</strong> qui la forza della poesia è inseparabile dalla sua invalidità presente, dalla misura in apparenza circoscritta<br />

e diminuita dello sguardo del poeta. Il presente è non a caso la categoria temporale più debole in Fortini, in quanto in<br />

termini di pienezza e vera realtà il presente non è. Non è abbastanza, almeno. L’immobilità e la finitudine<br />

167


fa oracolare. Per abolire «lo stato di cose presente» l’autore deve porsi in una<br />

dimensione <strong>che</strong> sia già al di fuori, tra gli «spiriti curiosi in ascolto», da cui guardare alla<br />

vita con la sicurezza di chi ha rotto i legami con la norma e può vedere le cose libero dai<br />

condizionamenti della società. In questo senso si può interpretare la differenza<br />

linguistica tra il parlato estremamente colloquiale e abbassato di tono <strong>che</strong> troviamo in<br />

La spiaggia di Sereni e la <strong>lingua</strong> dalla «fermezza classica» 40 della poesia di Fortini, <strong>che</strong><br />

vuole affermare delle verità «prima del sonno» della ragione. Lo sguardo si volge ai<br />

limiti stessi della parola poetica, agli ostacoli <strong>che</strong> essa incontra nel suo cammino: «Tutto<br />

è diventato gravemente oscuro», e «La verità cade fuori dalla coscienza», quindi «Non<br />

sapremo se avremo avuto ragione». Al presente si sostituisce il futuro anteriore, un<br />

futuro <strong>che</strong> in qual<strong>che</strong> modo è già stato, e <strong>che</strong> complica la dialettica tra ciò <strong>che</strong> è già e il<br />

non ancora. Attraverso una dimensione sfaccettata si anticipa un tempo diverso, in cui<br />

convivono il prima e il dopo, il passato, certo, ma an<strong>che</strong> il “futuro del futuro”, il “dopo<br />

futuro”, perché anch’esso è solo una tappa di un processo <strong>che</strong> non si esaurisce. Sottratta<br />

dunque alle forme più rigide del tempo e dell’essere <strong>che</strong> ingabbiano il reale, ridotta a<br />

puro pensiero, la scrittura stessa si rivela in tale necessaria spoliazione: 41 «Nulla <strong>che</strong><br />

prima non sia perduto ci serve», scrive Fortini, indicando nella disappropriazione<br />

l’unica via per osservare la realtà senza infingimenti. Egli sembra volersi soprattutto<br />

liberare dalla percezione dei sensi, per attingere a una dimensione di pensiero e<br />

intelletto assoluti, <strong>che</strong> possano resistere a quel «Tutto» <strong>che</strong> è «divenuto gravemente<br />

oscuro». Il centro della poesia, an<strong>che</strong> a livello formale, è costituito dall’avversativa «Ma<br />

guarda», <strong>che</strong> lungi dall’introdurre nel dominio della vista, apre lo spazio della visione di<br />

dell’orizzonte immediato sono però la premessa di un movimento di natura diversa». Mi sovvengono, per contrasto<br />

alcuni versi dell’Idrometra di Giorgio Caproni, in cui si esprime un massimo grado di sfiducia nel futuro: «Di noi,<br />

testimoni del mondo, / tutte andranno perdute / le nostre testimonianze». L’atteggiamento di Fortini manifesta invece<br />

un intento testamentario, <strong>che</strong> è stato così descritto da Giovanni Raboni: «per non avallare il presente, <strong>che</strong> gli ripugna<br />

(e dunque, fra l’altro, per non accettare di rivolgersi, come tutti i poeti moderni, soltanto a se stesso), Fortini<br />

immagina (vuole immaginare) di rivolgersi ai posteri, <strong>che</strong>, in un futuro liberato, leggeranno i suoi versi. È chiaro <strong>che</strong><br />

il futuro grammaticale è solo un sintomo – una spia appunto – di questa volontà. Fortini, in un certo senso, diventa<br />

egli stesso quei posteri; ne prefigura e ne adotta il punto di vista; ne simula il distacco, il raccapriccio, l’ironica<br />

comprensione, la fredda pietà» (Giovanni Raboni, La poesia <strong>che</strong> si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico<br />

italiano 1959-2004, cit., p. 259).<br />

40 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 16: «il classicismo è assunto […] non come innocenza o evasione<br />

o ricerca di purezza, ma, tutt’al contrario, per far stridere passato e presente e per tale via ellitticamente parlare del<br />

futuro». E si legga an<strong>che</strong> Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., pp. 199-<br />

202. 41 Cfr. Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, cit., p. 85: «Credo <strong>che</strong> fosse per<br />

lui il modo di osservare il precetto del suo amato Kafka, secondo cui per scrivere è prima necessario perdere tutto. E<br />

appunto qui, nell’assenza di una diretta relazione sensibile con la realtà circostante nella solitudine di chi non<br />

possiede più nulla per sé, va trovata la percezione originaria delle cose da parte di Fortini. <strong>Una</strong> percezione del<br />

pensiero, dunque, piuttosto <strong>che</strong> dei sensi».<br />

168


ciò <strong>che</strong> avverrà, ma <strong>che</strong> è già realtà agli occhi della mente di Fortini, <strong>che</strong> osserva da una<br />

dimensione altra della storia, e supera i limiti del reale (inteso come insieme di<br />

percezioni sensibili). 42 Il significato non è limitato alla contemporaneità della scrittura,<br />

ma si rivolge soprattutto a chi prenderà il nostro posto («già stendono le loro stuoie /<br />

attraverso la tua stanza»), a chi stabilirà nuove regole, forse an<strong>che</strong> una nuova<br />

concezione del bene e del male («distribuiscono le loro masserizie», «spartiscono il loro<br />

bene»): a tutti coloro <strong>che</strong> verranno dopo di noi la «nostra verità» si offrirà come cibo e<br />

nutrimento.<br />

Nella contemplazione delle sorti dell’uomo tutto tende verso un punto limite in cui il<br />

presente è figura del futuro, ma simultaneamente lo sguardo si immerge nella profondità<br />

storica e mitica di un tempo lontanissimo. In questo processo dinamico dei tempi dentro<br />

al tempo gioca un ruolo centrale quel meccanismo poetico, <strong>che</strong> Mandel’štam chiamava<br />

reversibilità o retrovertibilità, per cui, come in un ciclo continuo, il passato produce i<br />

suoi effetti sul presente e questo sul futuro. Per Fortini la reversibilità si sviluppa in<br />

senso etico e politico, poiché «ognuno di noi è composto di morti e di venturi, dunque<br />

attraversato da una corresponsabilità universale», 43 in cui «la scala di valori per la quale<br />

si agisce nel presente trova la sua legittimità»: 44<br />

Anassagora giunse ad Atene<br />

<strong>che</strong> aveva da poco passati i trent’anni.<br />

Era amico d’Euripide e Pericle.<br />

Parlava di meteore e arcobaleni.<br />

Ne resta memoria nei libri.<br />

Si ascolti però quel <strong>che</strong> ora va detto.<br />

An<strong>che</strong> la grandissima Unione Sovietica e la Cina<br />

esistono, o l’Africa; e le radio<br />

ogni notte ne parlano. Ma per noi, per<br />

noi <strong>che</strong> poco da vivere ci resta,<br />

<strong>che</strong> cosa sono l’Asia immensa, il tuono<br />

dei popoli e i meravigliosi nomi<br />

degli eventi, se non figure, simboli<br />

dei desideri immutabili dolorosi? Eppure<br />

– si ascolti ancora – i desideri immutabili<br />

dolorosi <strong>che</strong> mordono il cuore nei sonni<br />

42 Si potrebbe parlare di insofferenza nei confronti della realtà (Cfr. Giovanni Raboni, La poesia <strong>che</strong> si fa.<br />

Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004, cit., p. 258). Si legga an<strong>che</strong> Roberto Galaverni, Il poeta è<br />

un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, cit., p. 86: «Fortini vede il qui soltanto in relazione al là, l’adesso in<br />

relazione al poi, il nunc al tunc, come un eretico di una religione della storia. A suo modo vede doppio, stravede per<br />

eccesso di pensiero».<br />

43 Franco Fortini, Di tutti a tutti, in L’ospite ingrato secondo, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 1073. Ma si<br />

legga an<strong>che</strong> Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Roma, Editori Riuniti, 1991,<br />

p. 45.<br />

44 Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 16.<br />

169


e del poco da vivere <strong>che</strong> resta<br />

fanno strazio felice, <strong>che</strong> cosa sono<br />

se non figure, simboli, voci,<br />

dei popoli <strong>che</strong> mutano e si inseguono,<br />

degli uomini <strong>che</strong> furono e <strong>che</strong> in noi<br />

sono fin d’ora? E così vive ancora,<br />

parlando con Euripide e con Pericle<br />

di arcobaleni e meteore, il filosofo<br />

sparito e una sera d’estate<br />

ansioso fra capre e capanne di schiavi<br />

entra ad Atene Anassagora.<br />

(Franco Fortini, Reversibilità, in Poesie inedite)<br />

Il pensiero di Fortini procede elencando fatti <strong>che</strong> si susseguono senza nessi immediati e<br />

tuttavia come se non si potesse evitare di metterli in relazione tra loro. In realtà il<br />

legame emerge progressivamente, ed è una causalità <strong>che</strong> procede per scatti e riprese,<br />

<strong>che</strong> va oltre la vita apparente e affonda le radici nella profondità del tempo lungo della<br />

storia, permettendo all’uomo di pervenire alla riflessione e alla conoscenza di sé. Ne<br />

nasce una distorsione prospettica da cui deriva un incedere nel cammino della<br />

conoscenza per colpi secchi, come le scosse di assestamento <strong>che</strong> dopo un terremoto<br />

ripristinano una situazione di equilibrio e stabilità, o <strong>che</strong>, spezzando una roccia, rivelano<br />

un fossile antico e nuovo allo stesso tempo. Un evento tellurico, una caduta, un crollo,<br />

<strong>che</strong> non tolgono significato al mondo, ma ne scoprono uno nascosto e dimenticato, <strong>che</strong><br />

andrà letto, o ri-letto, e poi interpretato. Gli echi del passato <strong>che</strong> emergono dal processo<br />

poetico fanno sì <strong>che</strong> il massimo di distanza contenga e comprenda in sé il massimo di<br />

vicinanza: l’autore mette in collegamento piani temporali apparentemente irrelati,<br />

mostrandoci qualcosa di nuovo e inaspettato, ma nello stesso tempo individuando<br />

qualcosa di antico <strong>che</strong> è giunto sino a noi, illuminandone la significazione originaria.<br />

Contro ogni forma di continuum e di linearità cronologica, il passato «vive ancora», e<br />

parlarne significa parlare del presente e del futuro, secondo il principio della<br />

sincronicità delle dimensioni temporali. 45 A questo proposito è significativo <strong>che</strong> il testo<br />

si apra al tempo passato («Anassagora giunse ad Atene»), e si chiuda sulla stessa<br />

immagine coniugata al presente («entra ad Atene Anassagora»). L’evento <strong>che</strong> fa da<br />

cornice è emblema di un tempo lontanissimo di cui non restano <strong>che</strong> deboli tracce, ma<br />

45 Si legga Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 61: «quando gli eventi sembrano smentire ogni speranza<br />

di destino o di “storia”, Fortini reagisce con un movimento <strong>che</strong> è, insieme, di resistenza e di innalzamento. E infatti<br />

più gli fanno attorno il vuoto, più la sua voce acquista vigore, e la sua difesa del passato e della memoria diventa<br />

annuncio solitario di futuro».<br />

170


tale lontananza alla fine della poesia viene superata: «Il verbo al presente porta tutto il<br />

mondo», «Il verbo al presente mi permette di scomparire» aveva scritto in Il falso<br />

vecchio, IV (in Questo muro). Il tempo di Reversibilità è un tempo circolare e<br />

infinitamente percorribile; è il tempo-serpente <strong>che</strong> si morde la coda, è la possibilità <strong>che</strong><br />

le cose tornino com’erano per diventare altro. 46 Non solo: in questa poesia Fortini<br />

rappresenta soprattutto il legame «fra la singola vita e l’intera storia umana – intesa sia<br />

come somma degli eventi passati <strong>che</strong> come stato di cose presente», ovvero egli colma<br />

quel vuoto <strong>che</strong> normalmente separa l’io e il mondo, ma an<strong>che</strong> la società e la storia,<br />

attraverso «l’esperienza dei livelli di realtà <strong>che</strong> trascendono la vita privata». 47 La<br />

Reversibilità è allora slancio etico di compenetrazione dei destini individuali e generali.<br />

Ciò non fa venire meno il carattere di «irrepetibilità, assolutezza e responsabilità del<br />

vissuto e compiuto», cioè dell’agire individuale, <strong>che</strong>, anzi, scopre in questa dimensione<br />

una responsabilità collettiva «ultratemporale», 48 <strong>che</strong> si manifesta in ciascuno di noi una<br />

volta per sempre. 49<br />

Il rapporto tra l’io e il mondo si configura non solo come legame nel tempo tra i<br />

presenti e i venturi, ma an<strong>che</strong> tra individui appartenenti a classi biologi<strong>che</strong> diverse,<br />

ovvero tra uomo e natura. Il testo con cui si apre la prima sezione di Composita<br />

solvantur ripropone e conferma questo tipo di riflessione:<br />

Qualcuno è fermo, lontano, riparte, dove<br />

la strada svolta nel bosco tra pietre e siepi.<br />

Poi rieccolo, tra le vigne, più lontano. Non vede<br />

o, se vede, non conosce più.<br />

Che sera<br />

senz’ombre, erbe, la vostra. Enorme è l’albero<br />

in aria, su chi va…<br />

E mai non era nostra<br />

la schiuma dello stagno<br />

o il ruvido lentischio, nulla avevamo compreso,<br />

non il sentiero, non il paese chiuso<br />

dove non c’era anima viva<br />

e tocca invano ai selci il passo<br />

46 Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 206: «La poesia parte dal<br />

passato, attraversa il presente e ritorna al passato. Il passato è ciò <strong>che</strong> “sparito”, come viene detto di Anassagora al v.<br />

25 – quella parte della vita <strong>che</strong> il presente non vede e di cui conserva memoria nei libri». Per un’analisi dettagliata dei<br />

contenuti e della struttura del testo si veda il capitolo La totalità e i desideri, pp. 205-215.<br />

47 Ivi, p. 208.<br />

48 Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 50: «il sapore complessivo trascende il dato di contingenza e<br />

prende il sapore di un evento ultratemporale, non extratemporale, ovvero di qualcosa <strong>che</strong> entra nell’eterno passando<br />

da una concreta dimensione storica».<br />

49 Franco Fortini, <strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie 1938-1973, cit., p. 367: «Il titolo di questa raccolta vorrebbe<br />

essere inteso tanto nel significato di “una volta per tutte”, cioè di dichiarazione e suggello, quanto in quello di<br />

irrepetibilità, assolutezza e responsabilità del vissuto e compiuto».<br />

171


del segnato da Dio.<br />

Fra poco sarà buio, sarà l’urlío<br />

d’aria, dei cani alla catena e<br />

delle piccole fiere le veloci<br />

le disperate imprese.<br />

Ma prima di rispondere di no,<br />

ecco, guardiamo ancora, vi prego, i prati<br />

dove in pianto eravamo passati,<br />

le vigne e di alti nidi immenso l’albero!<br />

E fedeli chiediamo di portare<br />

un’altra volta ancora<br />

ai mormorii della fedele mezzanotte<br />

l’intelletto delle erbe e il nostro.<br />

(Franco Fortini, Qualcuno è fermo…, in Composita solvantur)<br />

Nella prima strofa al tempo presente si alterna il passato, il momento del ricordo viene<br />

introdotto da tre punti di sospensione esattamente a metà strofa, come se le due parti<br />

fossero speculari, come se nella prima un io già postumo osservasse una scena <strong>che</strong> ha a<br />

<strong>che</strong> fare con la propria esperienza passata e riconoscesse in questa i segni di<br />

un’esistenza comune. Presente e passato si confrontano sul terreno della negatività, <strong>che</strong><br />

sembra assumere tratti simili al décor dei versi dell’ultimo Caproni: il «paese chiuso /<br />

dove non c’era anima viva» potrebbe essere scambiato per uno dei «luoghi non<br />

giurisdizionali» menzionati nell’Ultimo borgo del Franco cacciatore, <strong>che</strong> prefigurano<br />

un paesaggio di morte o <strong>che</strong> sono già morte calata nella vita. Tuttavia, la seconda strofa<br />

reagisce a questa situazione di stallo quasi con un sobbalzo, uno scotimento: mentre<br />

nella prima il passaggio dal presente al passato avveniva con la sospensione creata dai<br />

tre punti, ora lo stacco è netto, il balzo nel futuro è evidenziato graficamente dallo<br />

spazio bianco, <strong>che</strong> implica un momento di rottura con cui il futuro si inserisce<br />

bruscamente nella dinamica temporale del testo. Il verbo al futuro preannuncia segni di<br />

morte e sofferenza («Fra poco sarà buio, sarà l’urlío»), le immagini evocano scene di<br />

violenza (il vento, il latrato «dei cani alla catena» le «disperate imprese» delle «piccole<br />

fiere»): è un mondo sconvolto da una bufera notturna, quasi una «bufera infernale <strong>che</strong><br />

mai non resta». An<strong>che</strong> questa seconda strofa è mossa da una dinamica interna articolata<br />

in una struttura ben precisa, <strong>che</strong> può essere scomposta in tre scene, ognuna di quattro<br />

versi. Della prima si è già detto. Ad essa fa seguito una avversativa («Ma prima di<br />

rispondere di no, / ecco, guardiamo ancora, vi prego, i prati»), <strong>che</strong> sposta il discorso al<br />

presente e mette al centro della scena (ma di fatto dell’intera strofa) il «guardiamo<br />

172


ancora», <strong>che</strong> reitera l’azione dello sguardo e capovolge il «Non vede / o, se vede» della<br />

strofa precedente. An<strong>che</strong> il paesaggio <strong>che</strong> viene rievocato è in stretto riferimento con gli<br />

elementi menzionati all’inizio del testo: qui i prati là le erbe, poi le vigne e il grande<br />

albero. La poesia ritorna sui suoi passi, ripercorrendo sentieri già battuti, ma per<br />

scorgervi ora un significato ulteriore, prima taciuto, o ignorato. Si apre così la terza e<br />

ultima parte: gli ultimi quattro versi sono al tempo presente e sembrano una preghiera<br />

(«E fedeli chiediamo») per avvicinarci alla natura, per non esaurire la nostra esistenza<br />

nella scissione o nella negazione. Mentre nella prima strofa prevalevano gli avverbi<br />

“più” e “mai”, <strong>che</strong> rendevano assolute le negazioni («non conosce più» e «mai non<br />

era»), in questa l’avverbio “ancora” indica la possibilità di un ripetersi positivo, di una<br />

durata <strong>che</strong> si predispone a varcare la soglia del tempo umano sino a farlo coincidere con<br />

uno più ampio. Fortini congiunge elementi lontani tra loro, diverse dimensioni<br />

temporali e biologi<strong>che</strong> di cui si colgono le connessioni, 50 riconducendo i differenti piani<br />

ad un ordine organico in cui, dialetticamente, ogni parte è an<strong>che</strong> in correlazione con le<br />

altre. È significativo <strong>che</strong> la fedeltà sia un attributo comune all’uomo e alla natura (la<br />

«fedele mezzanotte»), con una personificazione <strong>che</strong> procede sino all’immagine finale, in<br />

cui la scissione si compone definitivamente in quell’unità <strong>che</strong> contiene «l’intelletto delle<br />

erbe e il nostro».<br />

Nei versi di Sereni il conflitto tra il soggetto e la realtà si risolve in una dinamica<br />

interna all’io <strong>che</strong> non approda ad una «scelta ideologica», ma si proietta<br />

psicologicamente sui referenti, tanto <strong>che</strong> si potrebbe parlare di oggetti psichici (come lo<br />

stadio di San Siro), <strong>che</strong> catalizzano la storia in un’essenza complessa e assoluta. 51 Nel<br />

percorso fortiniano, invece, il conflitto genera un’utopia <strong>che</strong> si apre ad una dimensione<br />

storica e biologica <strong>che</strong> presuppone una netta scelta etica e politica. In Fortini la<br />

reversibilità converge nel progettare un doppio percorso «A fonte e a foce!» (Il mulino<br />

della Foresta Nera, in <strong>Una</strong> volta per sempre), <strong>che</strong> è linea retta e spirale, una tensione<br />

50 Così Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 209: «La separazione,<br />

<strong>che</strong> solo un rovesciamento dello stato di cose presente può abolire nella realtà, viene scoperta e superata dal pensiero,<br />

<strong>che</strong> ricompone la totalità e mostra l’immagine vera del mondo, cogliendo le connessioni <strong>che</strong> sfuggono alla cecità<br />

dell’esperienza quotidiana».<br />

51 Per Sereni non è la «scelta ideologica» (Un sogno, in Gli strumenti umani), ma la poesia l’unico strumento in<br />

grado di registrare le variazioni morali e sociali del tempo, di darne un’interpretazione: «Sereni ha recepito<br />

soprattutto il richiamo al valore dell’esperienza vissuta: posto di fronte all’esigenza di maturare, di fare una scelta<br />

ideologica e avere un programma, Sereni oppose al rigore della ragione dialettica, <strong>che</strong> accusava di rigida astrattezza,<br />

la concretezza elastica dell’Erlebnis, e vide, nelle ideologie <strong>che</strong> proliferavano in quegli anni, delle forzature nei<br />

confronti della realtà, dei tentativi di appiattire riduttivamente le sfumature e le differenze» (Guido Mazzoni, Forma e<br />

solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., p.157).<br />

173


verso un oltre <strong>che</strong> sintetizza nella dimensione intellettuale l’elemento cronologico e<br />

quello biologico. Parlare della natura è come parlare di se stessi, ma an<strong>che</strong> del mondo in<br />

generale; parlare di sé è come parlare di tutta l’umanità.<br />

174


QUARTA PARTE<br />

175


176


4<br />

UNA LINGUA CHE COMBATTE<br />

DOVE IL NIENTE DUOLE<br />

Ci sono versi <strong>che</strong> resistono all’opacità e all’imbarbarimento, a quella <strong>che</strong> Caproni<br />

chiamava bêtise («Al fuoco della bêtise, preferiamo / battere – invisibilmente – i denti»,<br />

La piccola cordigliera, o: i transfughi in Il Conte di Kevenhüller), e ci consegnano<br />

un’immagine limpida e assoluta del poeta, <strong>che</strong> sfiora il limite per descriverlo, viverlo e<br />

tramandarlo. Penna, Caproni, Fortini e Sereni nell’ultima stagione della loro vita si<br />

trovano ad intraprendere percorsi poetici in diretta relazione con la condizione<br />

dell’uomo in un tempo di incertezza e crisi.<br />

Le Stranezze e poi il Confuso sogno di Penna, gli anni Ottanta di Caproni, fino alla<br />

vertigine postuma di Res amissa, il Sereni di Stella variabile, o la strenua resistenza alla<br />

dispersione del Fortini di Paesaggio con serpente e poi di Composita solvantur – tutte<br />

raccolte dai titoli significativi di un rapporto instabile e disarmonico con la realtà – ci<br />

sottopongono alla prova della condizione ultima della letteratura.<br />

Se, come dice Gottfried Benn, la poesia è l’impronta digitale del poeta, essa pone<br />

non solo un problema linguistico, ma an<strong>che</strong> di ricerca e verifica dei valori su cui fondare<br />

il nostro essere nel mondo, nel punto in cui si manifesta l’impossibilità di esistenze<br />

ormai fuori tempo, in lotta contro la falsificazione del reale. In questo senso l’esperienza<br />

del poeta è trasgressione (etimologicamente: andare oltre, passare al di là):<br />

un gesto <strong>che</strong> concerne il limite; […] è il gesto <strong>che</strong> riconduce ognuna di<br />

queste esistenze ed ognuno di questi valori ai propri limiti, e quindi al Limite<br />

in cui si compie la decisione ontologica. 1<br />

Un percorso attraverso le ultime raccolte (in limine, ma an<strong>che</strong> postume) 2 di questi<br />

quattro autori permette di affrontare il problema del soggetto come «ente dinamico in<br />

1 Mi<strong>che</strong>l Foucault, Prefazione alla trasgressione in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 2004 (1ª ed. 1971), pp.<br />

58-60.<br />

2<br />

Per quanto riguarda la vicenda editoriale di Res amissa di Caproni curata da Giorgio Agamben, si rimanda a<br />

Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., pp. 181-232. Per quanto riguarda invece la controversa<br />

edizione di Confuso sogno di Penna, curato da Elio Pecora, si legga Antonio Girardi, Cinque storie stilisti<strong>che</strong>. Saba,<br />

Penna, Bertolucci, Caproni, Sereni, Genova, Marietti, 1987, pp. 49-65.<br />

177


mutamento continuo, con il bisogno di essere scandagliato e interpretato […] nello<br />

spazio reattivo dei rapporti sociali, là dove l’individuo si forma e si definisce a contatto<br />

con altri individui». 3 In questo spazio paradossale ma oggettivabile, la parola viene<br />

ritrovata, recuperata al rapporto tra esperienza individuale e storica, tra io e natura, in<br />

nome di una strenua fedeltà al valore critico della poesia: come scrive Blanchot,<br />

l’esperienza è «contatto con l’essere, rinnovamento di se stessi a contatto con l’essere», 4<br />

il <strong>che</strong> significa <strong>che</strong> la prova dell’essere – e dell’esserci – risulta determinante. Al<br />

contempo la parola poetica scarta ogni nostro tentativo di definizione del reale e la sua<br />

apparizione modifica il campo sul quale ci si trova ad agire e gli aggiunge significato<br />

attraverso la finzione, nelle due varianti dell’utopia e del vuoto.<br />

Per fronteggiare la tabula rasa del mondo, si deve affrontare il problema del rapporto<br />

e della frontiera tra soggetto e oggetto, parola e cosa. Il tema della frontiera e del limite<br />

<strong>che</strong> non può essere superato, ma in cui si è già, del passaggio da un’epoca a un’altra, e<br />

dalla vita alla morte, radicalizza il rapporto con l’alterità e si unisce alla necessità di una<br />

coscienza critica del presente, da contrapporre al deserto e alla pianificazione<br />

industriale, o, alla maniera di Jünger, allo «spettacolo offerto dalla civiltà e dai suoi<br />

rapporti svuotati di senso». 5 Del resto, come suggeriscono an<strong>che</strong> i titoli stessi delle<br />

raccolte, il presente è anzitutto privazione e vertigine del senso e della parola.<br />

4.1. Il presente falso e vero<br />

In una lettera a Franco Fortini del 22 ottobre 1962 Sereni parla di un «crescente<br />

sospetto circa la capacità della poesia di comunicare e di interessare», al quale segue un<br />

altro dubbio doloroso, «<strong>che</strong> uno sforzo come il mio – scrive Sereni – rimanga sterile,<br />

privo di vera forza comunicativa, schiacciato com’è tra una poesia di argomenti e una<br />

poesia nata dal paradosso dell’informale come unica forma possibile». 6 Sereni coglie i<br />

rischi e le possibilità di una poesia <strong>che</strong>, abbandonata la mimesi del reale, rimane sospesa<br />

tra la comunicazione di un contenuto oggettivo di verità e conoscenza, e la perdita di<br />

questo contenuto nel venir meno del contatto tra le parole e le cose, nello sgretolarsi del<br />

3 Ezio Raimondi, Letteratura, cit., p. 36.<br />

4 Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975, p. 69.<br />

5 Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Milano, Adelphi, 1990, p. 85.<br />

6 Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. 594.<br />

178


apporto tra il soggetto e l’altro da sé: così «il tu / falsovero dei poeti» (Niccolò in Stella<br />

variabile) diventa l’emblema di una divaricazione nel rapporto tra l’io e il mondo, come<br />

aveva dichiarato an<strong>che</strong> Penna:<br />

E tutto vi parrà – ma non vi date<br />

sentimento di sorta – falso e vero.<br />

(Sandro Penna, Avete mai provato in un’aria serena…, in Poesie)<br />

I sentieri si biforcano e si possono imboccare due strade: una è quella dell’assurdo,<br />

dell’io rivolto contro se stesso, <strong>che</strong> rinuncia al logos, alla parola come veicolo di<br />

conoscenza razionale. La poesia scopre nell’a-logicità, una possibilità nuova per parlare<br />

del disumano. Il poeta non rinuncia ad interpretare la realtà, an<strong>che</strong> se essa appare priva<br />

di senso, e, se un senso si intravede, esso è propriamente un non-senso. L’altra via è<br />

invece quella più luminosa di un’apertura utopica, complementare alla fenomenologia<br />

del negativo.<br />

Nel panorama poetico italiano del ventesimo secolo il poeta forse più direttamente<br />

comunicativo e il meno propenso a cedere al negativo, Sandro Penna, svetta nel suo<br />

luminoso isolamento. Di proposito è il più arretrato, quello <strong>che</strong> rifiuta di immergersi nel<br />

magma del presente e <strong>che</strong> ha meno rapporti con il tempo in cui vive. Le poesie di Penna<br />

rimandano ad un tempo alternativo alla realtà, quello della ripetitività, del ricordo, di ciò<br />

<strong>che</strong> non muta ma <strong>che</strong> ritorna: proprio la possibilità <strong>che</strong> l’evento amoroso si riproduca<br />

infinitamente uguale riempie di sé l’attesa del futuro. Il “realismo” di Penna ha dunque<br />

pochi rapporti con l’imitazione del reale, poiché la realtà è sempre in tensione col<br />

passato, si delinea nel ricordo di momenti di cui ancora si trovano tracce nel presente e<br />

<strong>che</strong> l’autore tenta di sottrarre alla perdita e di dotare di un significato ulteriore,<br />

soprattutto in quel surrogato <strong>che</strong> è il sogno:<br />

Il caldo, il freddo, delle sale d’aspetto.<br />

Il mondo mi pareva un chiaro sogno,<br />

la vita d’ogni giorno una leggenda.<br />

(Sandro Penna, Il caldo, il freddo, delle sale d’aspetto, in Stranezze)<br />

E mi pareva<br />

– la luce d’oro era finita – in sogno<br />

di te cadere, mio confuso amore.<br />

(Sandro Penna, Era il paese della luce d’oro, in Confuso sogno)<br />

179


Il sogno è sospensione, ma è an<strong>che</strong> il sostituto della realtà: «Un altro mondo si<br />

dischiude: un sogno» recita l’incipit dell’ultima poesia di Stranezze; è lo spazio del<br />

desiderio <strong>che</strong> permette di raggiungere ciò <strong>che</strong> nella veglia sembra inattingibile, o di<br />

recuperare ciò <strong>che</strong> sembra perduto. Se la «luce d’oro» è finita, il sogno è la possibilità di<br />

ricominciare ciò <strong>che</strong> è stato interrotto, è un nuovo inizio. La dinamica onirica si riflette<br />

an<strong>che</strong> nella percezione di due realtà, una diurna e una notturna:<br />

Oh nella notte il cane<br />

<strong>che</strong> abbaia di lontano.<br />

Di giorno è solo il cane<br />

<strong>che</strong> ti lecca la mano.<br />

(Sandro Penna, Oh nella notte il cane, in Appunti)<br />

Ma è an<strong>che</strong> la distinzione tra una realtà «<strong>che</strong> non sa» (la città, il mondo severo degli<br />

adulti) e una (il fanciullo e il poeta) <strong>che</strong> invece partecipa di una bellezza sovraumana:<br />

Fanciullo tutte queste tue bellezze<br />

in questa cameretta mia borghese<br />

fra la città severa <strong>che</strong> non sa<br />

niente di tutte queste tue bellezze.<br />

(Sandro Penna, Fanciullo tutte queste tue bellezze, in Croce e delizia)<br />

In questo modo nella poesia è possibile una vita nuova e diversa, <strong>che</strong> integra la vita<br />

imperfetta della veglia, 7 o <strong>che</strong> prolunga nell’attesa i piaceri dei sensi:<br />

Trasalire dei sensi – con le vele,<br />

fuori, nel vento? – Io sogno ancora un poco<br />

(Sandro Penna, Nel sonno incerto sogno ancora un poco, in Poesie)<br />

Contro le sofferenze l’io trova salvezza e protezione nella durata dell’evento onirico,<br />

<strong>che</strong> trattiene su una soglia liminare, tra un mondo interiore, profondo, e un mondo<br />

esterno, abbozzato con tratti delicatamente superficiali, <strong>che</strong> sfiorano il vuoto da cui ha<br />

7 Si legga an<strong>che</strong> Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, Tempo e Narratività, cit., pp. 57-60: «Allora, il<br />

“sogno” è an<strong>che</strong> il presente del bisogno naturale o desiderio, come il “ricordarsi di un risveglio” è il ‘presente’ del<br />

bisogno naturale o desiderio passato: si tratta in realtà di due facce della stessa medaglia. […] Si tratta quindi del<br />

sonno <strong>che</strong> consente all’uomo, con spirito libero e libero cuore, di proiettarsi verso una vita e una cultura nuova. […]<br />

La “realtà non vince il sogno” – tanto per ricordare il Betocchi del 1932 –, perché il sogno ne è parte viva».<br />

180


origine la poesia, fermando il senso prima <strong>che</strong> scompaia. 8 Al contrario, dopo<br />

l’esperienza del Seme del piangere, in cui ancora la parola tentava di trattenere la vita<br />

(«sii poesia / se vuoi essere vita», Battendo a macchina), Caproni fonda l’estrema<br />

allegoria dell’esistenza proprio sulla Res amissa («perduta / è la parola stessa / nella sua<br />

stessa distanza», Imitazione, in Versicoli del controcaproni). Alla perdita non<br />

corrisponde alcuna speranza di salvezza o di senso nel momento onirico. Ciò <strong>che</strong> del<br />

sogno emerge è la logica ambigua <strong>che</strong> struttura i rapporti con la realtà. Il <strong>lingua</strong>ggio di<br />

Caproni rivela le bruciature e le cicatrici delle cose, quello di Penna sembra avvolgerle<br />

in una membrana protettiva composta di genericità e tensione all’assoluto, <strong>che</strong> le isola<br />

dal presente permettendogli di ignorarlo. Non c’è coincidenza tra soggetto e oggetto,<br />

quindi il tempo, sottomesso alla forza della soggettività, varca la soglia di un infinito<br />

<strong>che</strong> non è divenire ma ripetizione, mettendo in contatto l’io con una dimensione <strong>che</strong>, pur<br />

sottraendosi alla fine e proponendosi come leopardiano trampolino della finzione<br />

poetica, cela in sé una solitudine estrema: 9<br />

La mia poesia lancerà la sua forza<br />

a perdersi nell’infinito<br />

(Sandro Penna, La mia poesia non sarà, in Giovanili ritrovate)<br />

È evidente la distanza <strong>che</strong> separa Penna dagli altri autori. Egli sembra voler evitare di<br />

pensare alla propria condizione nel presente e dunque non si lascia tradurre in termini di<br />

modernità, non si vuole adeguare alla storia e alla società, non pensa a fare emergere il<br />

dissidio e nemmeno esprime il desiderio di un cambiamento. L’essere di Penna è una<br />

radicale alterità <strong>che</strong> ignora l’attualità. Se Sereni e Caproni calano il dissidio all’interno<br />

dell’io, per Penna esso resta all’esterno, non dentro, ma fuori, nel rapporto tra la sua<br />

poesia e il mondo, perciò non altera il suo fare poetico. La parola continua ad avere<br />

significato, continua a nominare le cose, senza subire cambiamenti radicali nel corso<br />

degli anni. La resa subitanea del dato sentimentale e psicologico in rapporto<br />

all’ambiente si rispecchia infatti, oltre <strong>che</strong> nella brevitas epigrammatica, nel<br />

8 Cfr. Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, in Sandro Penna, Une ardente solitude, traduit de<br />

l’italien et présenté par Bernard Simeone, Giromagny, La Différence, 1989, pp. 7-8: «la page s’emplit d’une poèsie<br />

inlassablement occupée à caresser ce vide de l’espace et du temps où le poète reconnaît le moteur (en negatif) de<br />

l’écoulement lyrique. […] il ne s’agit en aucun cas de notations furtives ou, comme on a pu parfois le prétendre,<br />

d’instantanés dérobés de façon quasi clandestine, avec la fausse culpabilité d’un pédophile tout à fait avoué. Si rapt il<br />

y a, […] naît d’une volonté d’arra<strong>che</strong>r au non-sens (plus encore que à la mort) l’éternité d’un instant».<br />

9 Ivi, p. 8: «Le temps n’est pas pour lui union du sujet et de la chose: il est épreuve d’une subjectivité vécue face<br />

au monde qui s’offre et se dérobe à la fois».<br />

181


monostilismo e nel monotematismo <strong>che</strong> forse sono una delle spie più luminose del<br />

particolare rapporto <strong>che</strong> Penna instaura tra pensiero e mondo. Nel breve giro di pochi<br />

versi la descrizione convive con una estrema resa astratta di una realtà scomposta in<br />

forma e colore, nel segno di una generale vaghezza (bellezza e indeterminatezza), quasi<br />

si trattasse di un acquarello di Kandinsky:<br />

Traversare un paese… e lì vedere<br />

<strong>che</strong>ti fanciulli ridestarsi a un soffio<br />

di musica e danzare. S’allontana<br />

forma o colore: un sogno. […]<br />

(Sandro Penna, Traversare un paese… e lì vedere, in Croce e delizia)<br />

An<strong>che</strong> «la poesia fortiniana segue un andamento tutto sommato unitario», <strong>che</strong> «non<br />

altera alcuni presupposti fondanti», differenziandosi da quella di Caproni e Sereni, «<strong>che</strong><br />

hanno percorso itinerari molto più accidentati, ricchi di svolte, di fratture, di mutamenti<br />

di registro o silenzi». 10 Questo tratto si concilia con la tensione alla totalità propria di<br />

Fortini, <strong>che</strong> pur partendo dal vissuto individuale, non si limita alla prospettiva<br />

esistenziale-biografica, ma cerca di abbracciare il mondo e il tempo. In ragione di ciò<br />

egli non riconosce all’immediatezza, tipica invece di Penna, un valore conoscitivo: 11 per<br />

Fortini la conoscenza è mediata da modelli culturali e ideologici <strong>che</strong> la collocano nella<br />

profondità del tempo e della storia. Il discorso risulta ancora più evidente se<br />

l’immediatezza di Penna viene messa in relazione an<strong>che</strong> con la sua scarsa propensione<br />

per l’attività metapoetica e critica o per l’autocommento, <strong>che</strong> invece Fortini, Sereni e<br />

Caproni integrano nello stesso fare poetico, con effetti di ampliamento e tensione del<br />

significato. 12 Così, per Sereni l’immediatezza creativa è «condizionata […] a un<br />

preliminare dibattito sull’interpretazione» 13 della realtà. Per il poeta umbro, al contrario,<br />

allontanarsi dalla realtà, ignorandone l’approccio analitico interpretativo, è il solo modo<br />

per rappresentare la vita e i suoi slanci. Il suo <strong>lingua</strong>ggio è ripiegato su se stesso, non si<br />

apre alla totalità, ma si impone come totalità. Fortini, dal canto suo, «accoppia il rigore<br />

10<br />

Elisa Gambaro, Fortini poeta, in AA.VV., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, cit., p. 58.<br />

Per un confronto tra Penna e Fortini si legga in particolare Cesare Garboli, Le poesie parallele, in AA.VV., Per<br />

Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia, cit., pp. 81-86.<br />

11<br />

Cfr. Elisa Gambaro, Fortini poeta, in AA.VV., «Se tu vorrai sapere…». Cinque lezioni su Franco Fortini, cit.,<br />

p. 58: «la resa immediata del reale è illusoria, poiché misconosce <strong>che</strong> non si dà verità se non nell’ordine di una<br />

totalità necessariamente mediata».<br />

12<br />

Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Divagazioni in forma di lettera, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e<br />

testimonianze sulla sua poesia, cit., p.144.<br />

13<br />

Vittorio Sereni, Il nome di poeta, in Gli immediati dintorni, poi in La tentazione della prosa, cit., pp. 53-54.<br />

182


logico alla confusione, e fa della sua capacità di pensiero un mare impraticabile e<br />

infido», 14 allontanandosi decisamente da ogni forma di immediatezza. Il <strong>lingua</strong>ggio<br />

poetico di Fortini si articola in uno «stile da traduzione», 15 ovvero si fa trascrizione di<br />

un testo preesistente (la realtà come insieme di segni), <strong>che</strong> viene sottoposto ad una<br />

attività critica e analitica. 16 Anzitutto egli procede verso la «derealizzazione», 17 ovvero<br />

«una condizione di straniamento rispetto al reale», come spiega Lenzini, <strong>che</strong> evidenzia<br />

«la crisi del rapporto io/mondo: lo spogliarsi di senso del mondo di fronte all’io»: 18<br />

Molto chiare si vedono le cose.<br />

Puoi contare ogni foglia dei platani.<br />

Lungo il parco di settembre<br />

l’autobus già ne porta via qualcuna.<br />

Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,<br />

il lavoro imperfetto e l’ansia<br />

le mattine, le attese e le piogge.<br />

Lo sguardo è là ma non vede una storia<br />

di sé o di altri. Non sa più chi sia<br />

l’ostinato <strong>che</strong> a notte annera carte<br />

coi segni di una <strong>lingua</strong> non più sua<br />

e replica il suo errore.<br />

(Franco Fortini, Molto chiare…, in Paesaggio con serpente)<br />

In contrasto con quanto annunciato nella prima strofa, nella seconda emerge l’estraneità<br />

tra l’io e il mondo, separati da uno sguardo, <strong>che</strong> «non vede una storia / di sé o di altri»,<br />

poiché il presente sembra composto di eventi sempre uguali («Ad uno ad uno tornano<br />

gli ultimi mesi»). Questa condizione annichilente si riflette nella scrittura <strong>che</strong> diventa<br />

un’attività notturna e confusa. L’io si trova ad utilizzare «una <strong>lingua</strong> non più sua»,<br />

quindi una <strong>lingua</strong> straniera, una <strong>lingua</strong> altra, approdando così all’unica vera forma di<br />

scrittura, <strong>che</strong> dichiara l’errore di chi crede <strong>che</strong> le cose si vedano chiaramente e <strong>che</strong> siano<br />

14<br />

Cesare Garboli, Le poesie parallele, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua<br />

poesia, cit., p. 83.<br />

15<br />

Franco Fortini, Foglio di via. Prefazione 1967, ora in <strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie 1938-1973, cit., p. 359.<br />

16<br />

Cfr. Giovanni Raboni, Qual<strong>che</strong> ipotesi su Fortini traduttore di poesia, «Allegoria», 21-22, anno VIII, 1996, p.<br />

177: «Se è vero […] <strong>che</strong> per Fortini il testo originale è un oggetto <strong>che</strong> chiede di essere conosciuto criticamente prima<br />

– oppure nell’atto stesso – di descriverlo o ritrarlo con altre parole, è altrettanto vero <strong>che</strong> una priorità analoga si<br />

manifesta e agisce, di regola, nel suo lavoro poetico in prima persona, dove le parti di realtà coinvolte nella singola<br />

metafora o nell’intera struttura vengono idealmente e tendenzialmente sottoposte, prima <strong>che</strong> il coinvolgimento abbia<br />

(possa avere) luogo, a un non meno approfondito e, se così si può dire, spietato trattamento analitico-conoscitivo». Si<br />

legga an<strong>che</strong> quanto scrive lo stesso Fortini a proposito della sua traduzione del Faust: «Non mi sono proposto una<br />

traduzione <strong>che</strong> avesse vita indipendente dall’originale. Ho voluto <strong>che</strong> il lettore avvertisse il rinvio continuo ad un<br />

testo anteriore, il sapore di traduzione, il suo farsi» (Franco Fortini, Introduzione a J. W. Goethe, Faust, introduzione,<br />

traduzione con testo a fronte e note a cura di Franco Fortini, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 1970, p. XII).<br />

17<br />

Franco Fortini, Metrica e biografia, «Quaderni piacentini», 2, XX, 1981, p. 111.<br />

18<br />

Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Lecce, Piero Manni, 1999, p. 62.<br />

183


“il vero”, pronto per essere scritto o detto. Tale errore non dipende solo dalla realtà<br />

esterna con la sua apparente semplicità, ma alberga sin dentro l’io, se non è guidato da<br />

una coscienza dialettica. Quando ciò avviene, lo straniamento e l’errore si trasformano<br />

in allegoria, permettendo finalmente di giungere ad una realtà ulteriore:<br />

La forza di luglio era grande.<br />

Quando è passata, è passata l’estate.<br />

Però l’estate non è tutto.<br />

(Franco Fortini, Molto chiare…, in Paesaggio con serpente)<br />

Se le cose non si vedono chiaramente e la realtà esterna non è tutto, è perché c’è una<br />

«realtà <strong>che</strong> giace al fondo» (come avrebbe detto Saba). Così come la traduzione non può<br />

ridursi ad una imitazione del testo originario, an<strong>che</strong> la poesia non produce un double<br />

della realtà, ma si volge alla percezione di un nuovo oggetto, <strong>che</strong> supera la superficie<br />

semantica del reale e ne intende il senso profondo. Attraverso la parola Fortini cerca di<br />

tradurre il mondo, ma esso, come si trattasse di un guanto <strong>che</strong> venga rovesciato, rivela<br />

una trama interna, il suo contrario, qualcosa di invisibile eppure conosciuto: dopo aver<br />

raggiunto «il nero muro», ossia il solido nulla dell’età contemporanea, <strong>che</strong> è «ferro aria<br />

tempo» (Questo muro), alla fine «la <strong>lingua</strong> <strong>combatte</strong> / dove il niente duole» (E vorreste<br />

non parlassero, in L’ospite ingrato). Alla fuga nel pathos della bellezza, <strong>che</strong> segna i<br />

versi di Penna, e da cui an<strong>che</strong> quelli di Fortini sembrano a tratti lasciarsi tentare, si<br />

contrappone il sangue sparso. L’idillio uomo-natura già intaccato dai «versi di cemento<br />

e di vetro» di Traducendo Brecht (<strong>Una</strong> volta per sempre), è spezzato dalla presenza<br />

totale della violenza. <strong>Una</strong> negatività <strong>che</strong> ha da sempre fatto parte della vita quotidiana e<br />

della storia, <strong>che</strong> nega la pietas, mentre la natura è indifferente all’orrore:<br />

Stanotte un qual<strong>che</strong> animale<br />

ha ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle<br />

<strong>che</strong> illumina un bel sole<br />

ha lasciato uno sgorbio sanguinoso<br />

[…]<br />

Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.<br />

E non è vero.<br />

Il piccolo animale sanguinario<br />

ha morso nel veleno<br />

e ora cieco di luce<br />

stride e <strong>combatte</strong> e implora dagli spini pietà.<br />

(Franco Fortini, Stanotte, in Composita solvantur)<br />

184


La realtà è doppia e ambigua: da una parte «un bel sole» e «Vedo il mare, è celeste,<br />

lietissime le vele», con un andamento e una scelta lessicale <strong>che</strong> ricordano da vicino la<br />

poesia di Penna, ma la vista dell’idillio giunge tardiva e non può illudere, perché è già<br />

stata alterata da una realtà notturna e oscura <strong>che</strong> nasconde l’orrore storico: 19 tutto<br />

partecipa di una doppia sostanza, <strong>che</strong> non si esaurisce nell’hic et nunc di una deriva<br />

nichilista, e neppure nella pacificazione degli opposti, ma tende a manifestare la sua<br />

complessità. Si deve tendere a «un senso diverso / <strong>che</strong> può darsi all’identico», attraverso<br />

una parola <strong>che</strong> resta «ferma dentro il verso» e «insieme vola via»:<br />

E io <strong>che</strong> scrivo<br />

so ch’è un senso diverso<br />

<strong>che</strong> può darsi all’identico<br />

so <strong>che</strong> qui ferma dentro il verso resta<br />

la parola <strong>che</strong> senti o leggi<br />

e insieme vola via<br />

dove tu non sei più, dove neppure<br />

pensi di poter giungere, cominciano<br />

altre montagne, invece, pianure ansiose, fiumi<br />

(Franco Fortini, Altra arte poetica, in Poesia e errore)<br />

Lenzini ha scritto: «il vero c’è, ma non questo», c’è «una verità ulteriore da opporre alla<br />

non-verità del reale»; 20 bisognerebbe dire piuttosto: uno è il vero («identico»<br />

etimologicamente significa <strong>che</strong> forma una stessa cosa con un’altra), ma è «di due<br />

verità» (La poesia delle rose, II, in <strong>Una</strong> volta per sempre), quella solare e quella<br />

notturna, il qui e l’altrove. Non bisogna assolutizzare le opposizioni, ma prendere atto<br />

<strong>che</strong> ci sono due realtà <strong>che</strong> sono complementari e <strong>che</strong> concorrono a determinare un vero<br />

<strong>che</strong> supera entrambe. Per Fortini il mondo è vero, ciò <strong>che</strong> cambia e falsifica il nostro<br />

rapporto con esso è il modo di leggerlo e di tradurlo: se la lettura è parziale, la<br />

traduzione produrrà un’immagine illusoria; se è globale potrà procedere verso quella<br />

verità ulteriore di cui parla Lenzini. E poiché la realtà non manifesta prospettive<br />

19 Così Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 69: «Insomma, due realtà: quella del sole, delle vele e del<br />

mare; e quella, opposta, del fiele, della durezza amara e sanguinaria, della crudeltà. <strong>Una</strong>, si direbbe, apparente;<br />

sostanziale l’altra». E, ancora, a p. 71: «“La storia in tutto quanto ha, fin dall’inizio, di inopportuno, di doloroso, di<br />

sbagliato si configura in un volto – anzi: nel teschio di un morto” (Benjamin). O nel morso di un “piccolo animale<br />

sanguinario”» (la citazione riportata da Luperini, è tratta da Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino,<br />

Einaudi, 1971, p. 174). E poi prosegue: «L’idea della fatalità ma an<strong>che</strong> della irrimediabilità del male si accompagna a<br />

quella di una responsabilità storica e di una necessaria punizione: a entrare in circolo – e non solo, ovviamente, nel<br />

sangue della “bestiola” e poi dopo il contagio, in quello dell’”animale” – è il veleno di un inquinamento <strong>che</strong> tutti ci<br />

riguarda». Per un commento a questa poesia si legga an<strong>che</strong> Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte<br />

di lettura, cit., pp. 202-211.<br />

20 Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., pp. 210-211.<br />

185


ivoluzionarie e la parola può mutarsi in «fede stravolta, o ira, o grido» (Al di là della<br />

speranza, in Poesia e errore), allora «la finzione è l’ultima speranza» (La realtà, in<br />

Paesaggio con serpente), e in Composita solvantur dichiara più volte l’errore, la<br />

sfasatura rispetto ad una lettura piana della realtà: «(Nulla era vero. Voi tutto dovrete<br />

inventare)» (Considero errore…, in Composita solvantur), <strong>che</strong> ricorda Penna e se ne<br />

distanzia («Amore inventa e rischia. / L’inventare / a voi solo conviene», Avete mai<br />

provato in un’aria serena…, in Poesie). L’oggetto, in altri termini, non è un assoluto<br />

intuibile e rappresentabile: ciò <strong>che</strong> può essere intuito e rappresentato per Penna è la<br />

«dolce mischia» dei sensi, mentre per Fortini la poesia può essere solo ricerca di valori<br />

(«Il dovere di Schiller è di resistere», La realtà, in Paesaggio con serpente), <strong>che</strong> non<br />

albergano nelle cose in sé, ma nella loro meta («Tutto è / tremendo ma non ancora<br />

irrimediabile», La realtà, in Paesaggio con serpente). An<strong>che</strong> Fortini trova nel sogno lo<br />

spazio per ridefinire il rapporto col reale, ma con esiti <strong>che</strong> esprimono una sicurezza<br />

acquisita e non perplessità o sospensione. Nel sogno le cose composte si dissolveranno,<br />

come recita il titolo della sua ultima raccolta, 21 <strong>che</strong> vuole an<strong>che</strong> dire <strong>che</strong> si romperanno i<br />

legami con questo mondo, tutto si capovolgerà, si trasformerà e muterà:<br />

Quella <strong>che</strong>.<br />

È ritornata questa notte in sogno.<br />

Uno dei miei compivo ultimi anni.<br />

«Sono, - le chiesi, - vicino a morire?»<br />

Sorrise come allora.<br />

«Di te so, - mi rispose, - tutto. Lascia<br />

quel brutto impermeabile scuro.<br />

Ritornerai com’eri».<br />

(Franco Fortini, Quella <strong>che</strong>…, in Composita solvantur)<br />

La figura femminile apparsa in sogno, come una nuova Beatrice dantesca, conosce tutto<br />

e preannuncia il cambiamento. Il ritorno all’origine è, dialetticamente, possibilità futura<br />

e, come la morte, predispone al ritrovamento di sé e al passaggio verso qualcosa d’altro.<br />

La «derealizzazione» significa negazione della mimesi del reale, interferenza tra realtà e<br />

surrealtà, <strong>che</strong> ha nella dialettica un modello di rappresentazione <strong>che</strong> riesce a produrre un<br />

senso contro il non-senso del nichilismo: è strumento di conoscenza, ma allo stesso<br />

21 Cosi Fortini, nelle Note <strong>che</strong> chiudono la raccolta, spiega il significato del titolo: Composita solvantur è il<br />

«comando e l’augurio [affinché] si dissolva quanto è composto, il disordine succeda all’ordine (ma an<strong>che</strong>, com’era<br />

nel vetusto precetto al<strong>che</strong>mico, si dia l’inverso)» (Franco Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 85).<br />

186


tempo an<strong>che</strong> conoscenza in sé. Essa mostra la relazione tra le parti e delle parti col tutto,<br />

offre la possibilità di scorgere «contraddizioni e identità» (Sonetto dei sette cinesi, in<br />

L’ospite ingrato) <strong>che</strong> si oppongono al nulla. Questo rapporto straniato col reale rimanda<br />

al problema ontologico. Il pensiero del non-esistere può essere paradossalmente il punto<br />

di partenza per una poetica <strong>che</strong> lotta «in modi trasversali» 22 contro la tensione verso il<br />

nulla e il non-sense:<br />

Qui stiamo a udire la sentenza. E non<br />

ci sarà, lo sappiamo, una sentenza.<br />

A uno a uno siamo in noi giù volti.<br />

Quanto sei bella, giglio di Saron,<br />

Gerusalemme <strong>che</strong> ci avrai raccolti.<br />

Quanto lucente la tua inesistenza.<br />

(Franco Fortini, Per l’ultimo dell’anno 1975…, in Paesaggio con serpente)<br />

Come nota Luca Lenzini, «i versi fortiniani insistono sul separarsi, sullo straniarsi e<br />

allontanarsi dell’io, non sull’incontro o sulla sintonia tra esistenze distinte ma<br />

fraterne». 23 Tuttavia è dalla lontananza, dalla inesistenza <strong>che</strong> comprende e completa<br />

l’esistere, <strong>che</strong> il pensiero può diventare non solo presa di coscienza, ma an<strong>che</strong><br />

sovvertimento del vuoto, attraverso un rapporto profondo con la natura, prima della<br />

dissoluzione. La natura prova su di sé gli effetti della derealizzazione e conosce perciò<br />

una dimensione sfaccettata. An<strong>che</strong> in questo caso, sulla via indicata da Garboli, il<br />

confronto con Penna può chiarire la posizione di Fortini. In Penna la natura registra i<br />

movimenti emotivi dell’io e diventa il referente della sua diversità, oggettivazione<br />

dell’altro e dell’alterità, in contrasto con un mondo <strong>che</strong> dopo il fascismo stava<br />

conoscendo lo sviluppo economico e industriale. La dimensione poetica di Penna<br />

rimanda a una realtà preindustriale, fatta di stazioni, di strade sterrate e polverose, ma<br />

soprattutto di scogli e di mare, paesaggi <strong>che</strong> risentono della consistenza e del colore<br />

dell’aria, «filtrati dallo stato d’animo dell’io lirico» e delineati «tra percezioni oggettive<br />

e figurazioni fantasti<strong>che</strong>». 24 In Fortini la natura, sebbene mantenga i caratteri di alterità,<br />

convive con questo mondo, ne fa parte e allo stesso tempo tenta di sopravvivergli e di<br />

22 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 73.<br />

23 Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini, cit., p. 185. An<strong>che</strong> secondo Enrico Testa la poesia di Fortini «riduce<br />

[…] ogni pretesa di onnicomprensiva risoluzione di quanto – ed è sempre di più – cade di là dai suoi confini; e adotta<br />

come prospettiva nei riguardi del reale e della sua assediante mole, quella della distanza» (Enrico Testa, Dopo la<br />

lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi, 2005, p. 78).<br />

24 Antonio Girardi, Cinque storie stilisti<strong>che</strong>. Saba, Penna, Bertolucci, Caproni, Sereni, cit., pp. 60-61.<br />

187


esistergli, ma difende an<strong>che</strong> da una realtà <strong>che</strong> nasconde un concentrato distruttivo<br />

totalizzante. Il rapporto tra io e natura si propone di interpretare il presente, non di<br />

ignorarlo o negarlo. 25 In una poesia del 1984 (La prossima abolizione della natura), poi<br />

inclusa, con altro titolo, in Composita solvantur, è lei a fornire ancora al poeta<br />

protezione e difesa contro l’assedio del vuoto, proponendosi come un mondo di ideali<br />

sfinito e vinto (come le utopie), ma in qual<strong>che</strong> modo salvifico:<br />

Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono:<br />

«Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi.<br />

Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,<br />

rami e radici fra le carte avranno scampo».<br />

Ho detto di sì a quella loro domanda<br />

e il gregge di foglie ora è qui <strong>che</strong> mi guarda.<br />

Con le foreste riposerò e le erbe sfinite,<br />

vinte innumerabili armate <strong>che</strong> mi difendono.<br />

(Franco Fortini, Le piccole piante…, in Composita solvantur)<br />

Sebbene in questi versi si celi un sentimento semplice di appartenenza, di «solidarietà<br />

reciproca tra passati, presenti e futuri, e tra ordini e classi biologi<strong>che</strong> ed esistenziali», 26<br />

il problema rimane: una volta fattane esperienza, il limite mette in discussione il nostro<br />

stesso essere nel mondo, ai confini del nulla. Il desiderio di coincidenza si svolge in una<br />

doppia dinamica di fissione e fusione, composizione e dissoluzione, per cui accanto al<br />

carattere onnicomprensivo della natura, si pone, in maniera problematica, la bi-logica<br />

ambigua e sfuggente del rapporto tra l’io e il mondo, nel riflesso <strong>che</strong> ci definisce e ci<br />

sgomenta. 27 Allo stesso tempo le piante, come «allegoria dell’alterità», 28 segnano sì la<br />

distanza, ma an<strong>che</strong> la prossimità di tutto ciò <strong>che</strong> non rimane irrelato e <strong>che</strong> acquista un<br />

significato nell’uomo e per l’uomo. Questo pensiero può trovare il suo giusto<br />

completamento se consideriamo altre immagini <strong>che</strong> esemplificano la lotta contro la<br />

cancellazione totale (l’abolizione, appunto): in <strong>Una</strong> facile allegoria (Poesia e errore) il<br />

«pezzo di legno secco», è «calore futuro, disgregata vivezza», perché scalderà l’uomo<br />

nei mesi invernali. Il tempo grande dell’evoluzione, sebbene appaia come un tempo<br />

25 Tale prospettiva va dialetticamente integrata con quanto scrive Mengaldo: «la natura stessa, <strong>che</strong> occupa sempre<br />

più la poesia del Fortini anziano, non è tanto un’antistoria quanto, a guardar bene, un antipresente» (Pier Vincenzo<br />

Mengaldo, Per Franco Fortini, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., p. 265).<br />

26 Così Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 121.<br />

27 Così Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 97: «quel <strong>che</strong> conta è <strong>che</strong><br />

manca la volontà d’immedesimazione romantica con la natura: la natura resta “altra” in Fortini; il bosco è<br />

definitivamente lontano».<br />

28 Ibidem.<br />

188


infinito, non aspira a negare la morte, anzi, nell’ossimoro «disgregata vivezza» si<br />

concentra tutto il senso: la materia si disgrega e si rigenera in continuazione e di questo<br />

ciclo entra a far parte an<strong>che</strong> l’uomo, <strong>che</strong> partecipa della stessa sostanza («diverremo<br />

realtà compatte leggere, arderemo»). 29 Nell’allegoria io e mondo sono interagenti, il<br />

destino individuale e quello generale possono essere compresi solo se considerati parte<br />

di uno stesso sistema. La parola è contemporaneamente elemento fisico e psicologico, é<br />

logos del libro della natura, <strong>che</strong> «tutta tramuterà questa sostanza», ma è an<strong>che</strong> la poesia,<br />

<strong>che</strong> cambia la sostanza del reale rendendolo interpretabile (è il senso primo<br />

dell’allegoria), è dunque la «sillaba luminosa» (in contrasto con la «<strong>lingua</strong> non più sua»<br />

di chi «annera carte»), in cui si rispecchia la molteplicità e la complementarità delle<br />

esistenze. 30 In Un’altra allegoria (Questo muro) si riprende l’idea del ciclo inesauribile,<br />

<strong>che</strong> lega il destino dell’uomo a quello della natura, nella doppia immagine del «ramo<br />

ebete già primaverile» e del «ramo, <strong>che</strong> morì». Lo snodo centrale della comprensione<br />

sta nel doppio movimento della mente <strong>che</strong> «nega e ragiona» per trovare la verità: il<br />

destino del ramo racchiude in sé il senso ultimo di tutte le cose, ovvero è figura della<br />

totalità a cui costantemente guarda il pensiero di Fortini. Il giovane ramo è ebete perché<br />

non è cosciente della relazione <strong>che</strong> lega il suo destino a quello del ramo morto, mentre<br />

quest’ultimo sa <strong>che</strong> «è un vivace saluto l’addio», perché c’è una continuità tra la sua<br />

morte e il nuovo ramo germogliato con la primavera. Ecco allora <strong>che</strong> Le piccole piante,<br />

le piante giovani (altra figura dell’erede, cioè del venturo), esprimo la consapevolezza<br />

<strong>che</strong> un tale sapere custodisce la salvezza; sapere e salvezza <strong>che</strong> si raggiungono solo «tra<br />

le carte», ossia nella poesia <strong>che</strong> ragiona dialetticamente per negazioni e<br />

contrapposizioni: solo considerando l’essenza generale mediata da una forma<br />

particolare si può cogliere il nesso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.<br />

Nel pensiero <strong>che</strong> diventa parola ciò <strong>che</strong> è complesso si fa dicibile e rappresentabile<br />

attraverso forme semplici, il senso del mondo può schiudersi in una rosa, o in un ramo.<br />

Anziché assistere ad un moltiplicarsi degli emblemi della divisione e dell’annullamento<br />

di ogni rapporto positivo, Fortini guarda alla complementarità tra l’io e il mondo: l’uno<br />

29 Come ha scritto Lenzini «la poesia trova il suo senso nella fine, così come il “pezzo di legno” nel fuoco» (Luca<br />

Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 113).<br />

30 E secondo Fortini bisognerà «evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia di credere <strong>che</strong><br />

l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. […] Un al di là dell’uomo può essere solo un al di là<br />

dell’uomo presente, non quello della specie. […] Fino al punto di saper leggere e interpretare nel libro del nostro<br />

medesimo corpo tutto quel <strong>che</strong> gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo, le tracce del passaggio della<br />

specie umana sopra una terra <strong>che</strong> non lascerà traccia» (Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, cit., p. 42).<br />

189


è parte dell’altro, il singolo è parte del tutto e di conseguenza, superando le immagini<br />

allegori<strong>che</strong>, l’agire individuale non può sottrarsi alla responsabilità verso chi ci ha<br />

preceduti (da cui il valore della memoria) e nei confronti di chi verrà dopo di noi (il<br />

valore dell’etica), ma an<strong>che</strong> nei confronti di chi vive come noi nel presente (il valore<br />

della morale).<br />

Su questo piano si innesta una differenza fondamentale con un poeta come Penna,<br />

<strong>che</strong> non assegna alcun peso a questi valori (del resto si parla sempre della sua<br />

leggerezza): ciò <strong>che</strong> scrive non passa attraverso un filtro memoriale o morale. 31 Quindi<br />

nei suoi testi non si trova la distanza dell’allegoria, ma l’assolutezza dell’esperienza<br />

fisica, in cui gli emblemi di vita e di morte si confondono e rimangono indicibili:<br />

Domina morte in me.<br />

Un vivace fanciullo<br />

mi turba, o chiaro mare:<br />

segreti inesorabili.<br />

(Sandro Penna, Domina morte in me, in Confuso sogno)<br />

La scrittura di Penna, almeno nella finzione poetica, si presenta, o vorrebbe presentarsi,<br />

come un appunto, an<strong>che</strong> se il vissuto di cui parlano i suoi versi poco ha a <strong>che</strong> fare con<br />

l’esperienza diretta del mondo, piuttosto è una vita sognata <strong>che</strong> astrae dal reale per<br />

rendere l’assolutezza del simbolo erotico, <strong>che</strong> si offre come unica vera realtà. Se Fortini<br />

ricerca le immagini <strong>che</strong> procedano verso una conoscenza condivisa, Penna impone un<br />

punto di vista individuale, <strong>che</strong> esclude l’alterità, intesa come un tu o una realtà <strong>che</strong><br />

vivano indipendentemente dall’immagine sognata: l’io impone la propria esperienza<br />

psicologica del reale, ignorando la relazione fortiniana tra destini individuali e generali.<br />

Poiché la psicologia di Penna è «di primo grado», 32 cioè si esprime in un’emotività<br />

essenziale, fatta di gioia e dolore, ne risulta una poesia <strong>che</strong> non nega e non ragiona, ma<br />

<strong>che</strong> rappresenta il mondo e la natura attraverso null’altro <strong>che</strong> i sensi, senza la<br />

31 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 433: «Contestiamo anzitutto in Penna la mancanza di una<br />

componente metafisica, sia pur estremamente labile: e contestiamo soprattutto la mancanza di una sua misura<br />

morale». E si legga an<strong>che</strong> la prefazione di Dominique Fernandez in Sandro Penna, Une étrange joie de vivre,<br />

Montpellier, Fata Morgana, 1979, p. 4: «Dire l’interdit: tels furent la gloire et le tourment de ce poète. Mais attention:<br />

aucune culpabilité, ni religieuse ni morale, n’a jamais pesé sur lui. Il était de la race des seigneurs, non de celle des<br />

esclaves. Ce serait de méprendre complètement que de le croire en lutte avec lui-même et aux prises avec les affres de<br />

l’auto-répression».<br />

32 Cesare Garboli, Le poesie parallele, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua<br />

poesia, cit., p. 83.<br />

190


mediazione di modelli ideologici (fatto salvo <strong>che</strong> la mancanza di ideologie può<br />

diventare a sua volta una ideologia). 33 Come ha notato Garboli, Penna «è arreso alla<br />

fatalità», 34 lascia <strong>che</strong> su tutto si posi l’ombra del dio dell’amore, <strong>che</strong> regola la vita<br />

dell’universo come un meccanismo perfetto, del quale l’autore stesso è parte e <strong>che</strong><br />

descrive con leggerezza, senza metterne in discussione i fini. Questo comporta la non<br />

applicazione di una volontà etica alla realtà sociale e storica, 35 per cui essa è ridotta ai<br />

suoi termini essenziali, astratti dalla contingenza, disponibili ad un continuo ritorno,<br />

sottomessi alle regole dell’eros e della psi<strong>che</strong>.<br />

Quello <strong>che</strong> per Penna è il ritorno dell’identico <strong>che</strong> ignora la fine, per Fortini, come si<br />

è visto, è in relazione costante con essa e con il cambiamento. 36 Lo stesso «rapporto tra<br />

presente e futuro […] non è nell’ordine della continuità, bensì in quello<br />

dell’opposizione e della discontinuità», 37 come si può riscontrare nell’andamento<br />

ellittico di molti suoi testi, in cui si alternano presente e futuro senza la mediazione di<br />

quei verbi «<strong>che</strong>, tradizionalmente, hanno il compito di legare il Prima e il Dopo». 38 Per<br />

Fortini indagare l’alterità, guardare i meccanismi antichi di una realtà apparentemente<br />

lontana da quella umana, non è un modo per distanziarsi dal presente, ma per occuparsi<br />

dell’oggi e della nostra condizione. Se poi ci rivolgiamo a Sereni, sin dal Diario<br />

d’Algeria riscontriamo nel passato <strong>che</strong> ritorna non un intarsio nostalgico, di rimpianto<br />

per un tempo perduto, ma una s<strong>che</strong>ggia <strong>che</strong> si innesta nel presente e lo modifica, in<br />

quanto portato dell’esperienza storica. Per non parlare della modificazione introdotta<br />

dall’ingresso della storia nella poesia di Caproni, forse l’autore <strong>che</strong> ne subisce<br />

33<br />

Focalizzando l’attenzione sulla finzione poetica non è sembrato opportuno ripercorrere le questioni delle<br />

occorrenze intertestuali e delle fonti letterarie <strong>che</strong> si ritrovano stratificate nelle liri<strong>che</strong> di Penna (Leopardi, Nietzs<strong>che</strong>,<br />

Rimbaud, Baudelaire, D’Annunzio, Montale, Saba, tra gli altri), già in parte indagati da Roberto Deidier, Cesare<br />

Garboli, Daniela Mar<strong>che</strong>schi. An<strong>che</strong> Antonio Girardi aveva sottolineato il ruolo della finzione nella poetica penniana:<br />

«Ma se questo è il modo in cui Penna approda a una piana luminosa maniera, il suo “fiore senza gambo visibile” non<br />

ci sembra più nato ex nihilo. Pare nato, al contrario, da una raffinatissima, inavvertibile fusione di moduli formali<br />

eterogenei. Allora, come spiegare la sensazione di spontaneità <strong>che</strong> ci trasmette? Le tracce testuali di un’aggiornata<br />

cultura letteraria tendono a smentirla. E non dovremo sulla sua esistenza oggettiva se teniamo a mente – con Schiller,<br />

con gli Schlegel, col Leopardi dello Zibaldone, ben noto al poeta – <strong>che</strong> la poesia “ingenua” o di “immaginazione” è<br />

negata ai moderni. Penna poteva darci solo una splendida finzione di <strong>lingua</strong> spontanea; com’è un sogno la grazia<br />

incontaminata e la libertà del suo microcosmo amoroso» (Antonio Girardi, Cinque storie stilisti<strong>che</strong>. Saba, Penna,<br />

Bertolucci, Caproni, Sereni, cit., p. 62).<br />

34<br />

Cesare Garboli, Le poesie parallele, in AA.VV., Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua<br />

poesia, cit., p. 83.<br />

35<br />

Ivi, p. 84: «Della società e della storia, ha rifiutato il bene come il male, il giusto come l’ingiusto. […] Alla<br />

realtà Penna ha sempre anteposto, fino all’estrema conseguenza, la sua parola-tema, la “vita”; ed è stato il solo poeta<br />

contemporaneo a dirci <strong>che</strong> per essere protagonisti della vita bisogna stare lontano dalla realtà».<br />

36<br />

Sempre secondo Luca Lenzini la poesia di Fortini è «una costellazione di immagini e concetti […] collegata<br />

all’idea della Fine» (Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 86).<br />

37<br />

Ivi, p. 83.<br />

38 Ivi, p. 82.<br />

191


maggiormente i contraccolpi a livello formale e contenutistico. La frizione tra passato e<br />

presente, tra la storia e la vita, produce una forte discontinuità an<strong>che</strong> nel tessuto logico<br />

del discorso.<br />

An<strong>che</strong> per Caproni la riflessione sulla traduzione si riflette nella scrittura poetica tout<br />

court: tradurre non è un’operazione meramente tecnica, e in questo senso si scontra con<br />

l’«assoluta intraducibilità» della poesia, <strong>che</strong> non si lascia «ridurre in termini logici». 39<br />

Per l’autore livornese tradurre significa portare alla luce delle sollecitazioni interne, «dei<br />

bouts d’existence»: 40 insomma, capovolgendo Fortini, nulla deve essere inventato, ma la<br />

parola poetica si configura come segno residuale di un testo originale, il palinsesto da<br />

cui fare emergere ciò <strong>che</strong> noi leggiamo sulla pagina. Scrittura e traduzione trovano il<br />

loro punto di coincidenza nel segno della perdita: la Res amissa da cui parte una ricerca<br />

del bene perduto nel tentativo di riappropriarsene. Questa ricerca si confronta con<br />

l’impossibilità di recuperare ciò <strong>che</strong> è venuto a mancare, quindi la realtà delle parole<br />

non coincide con quella delle cose. A questo punto non solo la poesia non è traducibile,<br />

ma non è nean<strong>che</strong> scrivibile, per cui nominare significa nullificare:<br />

Nel ’46-’47 dissi appunto <strong>che</strong> le parole dissolvono l’oggetto, come<br />

Blanchot poi nel ’53 disse <strong>che</strong> il nome vanifica la cosa. La letteratura crea<br />

una seconda realtà <strong>che</strong> nasconde la prima. […] C’era insomma questa<br />

ossessione di poter afferrare il reale, <strong>che</strong> poi rimane inafferrabile. Ormai sono<br />

arrivato alla convinzione ferma <strong>che</strong> proprio l’irrealtà è il vero reale. 41<br />

Allora nascono quelle allegorie di un io <strong>che</strong> cerca di far fronte alla frammentarietà della<br />

realtà ma non si riconosce più. Il presente di una Waste land percorsa da lampi e<br />

fantasmi, frutto, an<strong>che</strong>, della catastrofe ecologica, alberga nei versi di Caproni a partire<br />

almeno dal teatro apocalittico del Muro della terra, in cui si assiste ad una progressiva<br />

riduzione del soggetto, fino al non-personaggio dell’Idrometra, ossia alla<br />

disumanizzazione come ridefinizione del tipo di verità verso la quale può tendere la<br />

poesia:<br />

Il mondo delle sembianze<br />

39<br />

Giorgio Caproni, <strong>Una</strong> straziata allegria, intervista rilasciata a Domenico Astengo, «Corriere del Ticino»,11<br />

febbraio 1989.<br />

40<br />

Cfr. Giorgio Caproni, Divagazioni sul tradurre, in La scatola nera, cit., p. 62: «Ogni poeta vero […] più <strong>che</strong><br />

inventare scopre, desta e mette in luce in noi dei bouts d’existence. E così an<strong>che</strong> nell’atto della traduzione – non<br />

sembri un paradosso – chi scopre non è il traduttore, ma il poeta <strong>che</strong> vien tradotto, il quale, investendo il traduttore<br />

del suo potere, suscita in lui, e in lui rende diurno, ciò <strong>che</strong> già era in lui ma dormiente, notturno, e quindi ignorato».<br />

41<br />

Giorgio Caproni, «Antologia», intervista radiofonica del 17 gennaio 1988, ora in Daniela Baroncini, Caproni e<br />

la poesia del nulla, Pisa, Pacini, 2002, p. 191.<br />

192


e della storia, egualmente<br />

porteremo con noi<br />

in fondo all’acqua.<br />

(Giorgio Caproni, L’idrometra, in Il muro della terra)<br />

L’io, inteso come soggetto storico, può rappresentarsi solo attraverso una metamorfosi,<br />

<strong>che</strong> lo conduce all’isolamento, alla frantumazione, all’effimero. Di conseguenza an<strong>che</strong><br />

l’evento storico in quanto tale (ad esempio la guerra) si spoglia del suo spessore<br />

temporale per diventare emblema esistenziale declinato secondo i diversi significati <strong>che</strong><br />

assume l’allegoria <strong>che</strong> lo sostituisce (ad esempio la metafora della caccia). Spesso in<br />

questo contesto di realtà irreale i versi sono mossi da una logica illogica, <strong>che</strong> va a fondo,<br />

penetra il dubbio e lo fa esplodere nella sua ambigua allusività:<br />

L’ho seguito.<br />

Non era lui.<br />

L’ho visto.<br />

Ero io.<br />

L’ho lasciato andare.<br />

Incerto,<br />

ha preso il viottolo erboso.<br />

Con un balzo è sparito<br />

(ero io, non lui)<br />

nel fitto degli alberi, bui.<br />

(Giorgio Caproni, Rinunzia, in Il Conte di Kevenhüller)<br />

L’andamento è paratattico, i punti interrompono i singoli versi come sull’orlo di uno<br />

sfinimento esistenziale, nel segno di un dettato poetico <strong>che</strong> fatica a essere portato a<br />

termine. Con un procedimento <strong>che</strong> caratterizza tutta l’ultima fase della sua produzione<br />

poetica, Caproni introduce una figura sfuggente, in uno spazio ambiguo e indefinito, se<br />

non per l’emergere di pochi riferimenti emblematici (il «viottolo erboso», gli «alberi<br />

bui»), <strong>che</strong> rimandano ad un altrove «astorico e fiabesco», in cui «passato e futuro<br />

coincidono e si annullano, addensati in un tempo indifferente». 42 Le cose sono isolate ed<br />

estraniate, sono solo simulacri <strong>che</strong> mantengono, al massimo, un ricordo della loro<br />

42 Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., pp. 207 e 195.<br />

193


funzione, restando come relitti dopo la distruzione. Si moltiplicano le immagini<br />

residuali dell’«uomo ombra» e dei «brandelli di Dio»:<br />

Nessun’acqua stellare<br />

sull’incaglio del nero.<br />

Nessun soffio d’ali.<br />

Che cosa può mai acquistare<br />

cadenza, fra i simulacri<br />

d’alberi (di cattedrali?),<br />

se an<strong>che</strong> l’uomo ombra è fumo<br />

nel fumo – asparizione?<br />

In aria tutto un brulichio<br />

di punti neri…<br />

Lettere stracciate?...<br />

(Giorgio Caproni, Controcanto in Il Conte di Kevenhüller)<br />

Uccelli?...<br />

O – forse –<br />

soltanto dispersi brandelli<br />

(gli ultimi) di Dio?...<br />

(Giorgio Caproni, Alzando gli occhi, in Res amissa)<br />

Ciò <strong>che</strong> può essere tracciato è il segno <strong>che</strong> ne resta, un segno incompiuto e indiretto, ma<br />

an<strong>che</strong> estremo. Si definisce così l’unica forma di utopia possibile per Caproni, quella di<br />

scrivere «poesie di una sola parola»; 43 il <strong>che</strong> non ha tuttavia i caratteri<br />

dell’immediatezza, bensì quelli dell’ansia analitica e psicologica. La parola tradotta,<br />

cioè proveniente dall’altrove (da un «codice disperso» secondo il Sereni di Un posto di<br />

vacanza) si pone per Caproni come realtà <strong>che</strong> la poesia non definisce, ma “agisce” sul<br />

foglio, portandone alla luce la fragilità ma an<strong>che</strong> l’estrema negatività dell’evidenza: 44<br />

La Bestia <strong>che</strong> ti vivifica e uccide…<br />

……<br />

Io solo, con un nodo in gola,<br />

43 Si legga Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», intervista rilasciata a Stefano Giovanardi, cit., p. 426: «Il<br />

mio ideale sarebbe di scrivere poesie di una sola parola».<br />

44 Cfr. Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., p. 255: «E così come, diversamente da quanto<br />

accadeva nella poesia ermetica, ove la parola era fatta accampare, isolata e assoluta, nella sua valenza rivelativa<br />

dell’arcano e dell’ineffabile, nell’ultima stagione della sua poesia, la parola di Caproni, vacillante al limite del<br />

precipizio (quelle parole nel bianco, in attesa di rima, an<strong>che</strong> imperfetta, o di una assonanza cui aggrapparsi), è fatta<br />

vivere come una forza e un assoluto pur nella sua precarietà e nella sua esilità».<br />

194


sapevo. È dietro la Parola.<br />

(Giorgio Caproni, Io solo, in Il Conte di Kevenhüller)<br />

La parola <strong>che</strong> esaurisce se stessa, da un lato, ma <strong>che</strong>, dall’altro, continua a vibrare<br />

nell’inesauribile variazione dei temi ricorrenti, si compone di contraddizioni,<br />

riconoscimenti e allontanamenti, coincidenze e separazioni, ricer<strong>che</strong> e sparizioni, <strong>che</strong> si<br />

perpetuano, semplicemente cambiando forma. Si concretizza a livello quasi figurativo<br />

l’abbandono di ogni forma metrica, rimpiazzata da una strutturazione informale <strong>che</strong><br />

procede per frantumazioni, in cui il rapporto tra l’io e la realtà o è assente o viene<br />

ridotto ad un gioco di specchi:<br />

Quello <strong>che</strong> tu, mio vecchio,<br />

scorgi oltre frontiera<br />

è quanto è qua.<br />

La barriera<br />

– non te ne accorgi? – è uno specchio.<br />

(Giorgio Caproni, La barriera, in Res amissa)<br />

Lo spazio è frontiera, limite invalicabile, barriera-specchio, <strong>che</strong> segna la separazione,<br />

l’impossibilità della speranza. L’immagine riflessa, lungi dal trasformarsi in visione<br />

dell’interiorità, diventa abdicazione dell’io. La <strong>lingua</strong> non è più logos, ma luogo di<br />

menzogna e ambiguità, doppiezza <strong>che</strong> dimezza, <strong>che</strong>, contrariamente a quanto ci si<br />

aspetterebbe, anziché favorire la comprensione di una realtà condivisa, ha come effetto<br />

quello di produrre un vuoto di senso, l’incapacità di andare in profondità. Sereni rompe<br />

lo «specchio ora uniforme e immemore» dell’imitazione e cerca una verità ulteriore, una<br />

possibilità di interpretazione; Caproni vede in questo specchio una barriera invalicabile,<br />

<strong>che</strong> cambia l’oltre nel «quanto è qua». Non c’è apertura al futuro, perché se guardare<br />

avanti è in realtà un vedere ciò <strong>che</strong> sta alle nostre spalle, ogni approdo è un ritorno, la<br />

ricerca una perdita, l’inseguito è l’inseguitore, il qui è già altrove, e il vero problema è<br />

quello ontologico:<br />

Il Nulla, spiegano,<br />

è il «non essere».<br />

E allora,<br />

come può, allora,<br />

«essere» il «non essere»?<br />

(Giorgio Caproni, Pierineria, in Res amissa)<br />

195


Se la logica della dialettica fortiniana tende alla totalità, al tutto, l’illogica del paradosso<br />

caproniano tende al nulla, al vuoto, all’irrealtà, <strong>che</strong> riempiono lo spazio della parola<br />

perduta: il <strong>lingua</strong>ggio non solo li dice, ma li traduce, ovvero si struttura come se fosse<br />

esso stesso quel vuoto, quel nulla, quell’irrealtà. In tal modo Caproni estremizza il<br />

problema della precarietà del rapporto tra parole e cose. La parola, ha scritto Adele Dei,<br />

è «incommensurabilmente lontana dalla cosa, o si dirama in voci lievi e spettrali, […] o<br />

scatta come una tagliola e immobilizza», 45 lasciando emergere an<strong>che</strong> la distanza con il<br />

soggetto: «Il nome non è la persona // Il nome è la larva» (Il nome, in Il Conte di<br />

Kevenhüller). Mentre Fortini si appropria della maniera e dell’allegoria per potenziare le<br />

possibilità di traduzione/interpretazione della realtà, Caproni – come ha detto Agamben<br />

– approda ad una «disappropriata maniera», 46 <strong>che</strong> non annuncia, ma descrive il<br />

disfacimento come realtà in atto, e oppone alla rivoluzione una involuzione della<br />

persona e della parola a larva. 47 Involuzione <strong>che</strong> al nulla non risponde con la strenua<br />

difesa di un destino generale, e nemmeno con l’antistoria, ma con una realtà intima e<br />

inattuale, <strong>che</strong> nell’affetto privato (l’amore per la moglie) trova l’unico spazio di<br />

resistenza e di senso: 48<br />

Senza di te un albero<br />

non sarebbe più un albero.<br />

Nulla senza di te<br />

sarebbe quello <strong>che</strong> è.<br />

(Giorgio Caproni, A Rina, in Il Conte di Kevenhüller)<br />

La disappropriazione procede su più livelli: sul piano stilistico i testi si sfarinano come<br />

oggetti fragilissimi, con un armamentario retorico limitato ad alcuni strumenti essenziali<br />

quali l’iterazione, l’allitterazione, l’anafora, la rima, <strong>che</strong> strutturano un <strong>lingua</strong>ggio<br />

estremamente ridotto e una minima volontà di significazione. Dal punto di vista dei<br />

contenuti si nota di conseguenza una decisa abdicazione dalla profondità e dalla<br />

complessità, in un sistema di pensiero <strong>che</strong> tende alla semplificazione estrema. <strong>Una</strong><br />

45<br />

Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., p. 251.<br />

46<br />

Questo il titolo dato da Giorgio Agamben alla prefazione contenuta in Giorgio Caproni, Res amissa, Milano,<br />

Garzanti, 1991, pp. 5-26.<br />

47<br />

Così Adele Dei, Giorgio Caproni, cit., p. 252: «In questo mondo offuscato, <strong>che</strong> è forse il riflesso di una realtà<br />

già morta, si muovono spettri senza consistenza […]; sono ombre senza corpo, come se uno specchio continuasse per<br />

inerzia a rimandare le immagini di una corporeità dissolta».<br />

48<br />

E a questo proposito si legga Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., pp. 206-207.<br />

196


situazione interiore si trasfigura in rosa e rima, minimi segni di esistenza e di verità <strong>che</strong><br />

si stagliano contro una realtà esterna negativa:<br />

Ah rosa sempre in cima<br />

ai miei pensieri…<br />

(Piove.<br />

C’è il sole.<br />

Mia Rina…<br />

I monti sono neri.<br />

Restano neri<br />

se non li accendi tu, mia Rosa…)<br />

Mia rosa sempre in cima<br />

ai miei pensieri…<br />

Mia rima<br />

sempre in me battente…<br />

Fonda e dolce…<br />

Quasi<br />

– in me – flautoclarinescente…<br />

(Giorgio Caproni, Per l’onomastico di Rina, battezzata Rosa, in Res amissa)<br />

Poiché la dimensione privata si confonde con lo stesso scrivere versi, essa diventa an<strong>che</strong><br />

l’unica misura interpretativa del mondo esterno, fuori dalla quale nulla ha un senso,<br />

nulla ha colore e vita:<br />

Niente più volontà<br />

e rappresentazione, senza<br />

la tua (an<strong>che</strong> occulta) presenza.<br />

Se il mondo prende colore<br />

e vita, lo devo a te, amore…<br />

(Giorgio Caproni, A Rina, I, in Res amissa)<br />

(Giorgio Caproni, A Rina, II, in Res amissa)<br />

I punti sospensivi introducono all’attesa, e sospendono la dizione su una soglia <strong>che</strong><br />

divide mondo interno ed esterno, infine sollevano la voce poetica dalla realtà ad una<br />

dimensione non definita e non definibile. Il contatto tra parole e cose è parziale, resta<br />

una zona di non dicibilità. Altrove questa semplificazione intesse la pars destruens del<br />

197


versificare caproniano, <strong>che</strong> si immerge nella negatività con uno sguardo disilluso, con<br />

una «<strong>lingua</strong> piana e diretta» <strong>che</strong> «rinuncia ad ogni alone poetico, ad ogni oscurità»: 49<br />

– C’è più libertà<br />

in carcere o in città?<br />

– Non ce n’è, libertà.<br />

È carcere l’intera città.<br />

(Giorgio Caproni, Domanda e risposta, in Res amissa)<br />

Se nei casi precedenti la <strong>lingua</strong>, pur ridotta a elemento residuale, tendeva ad avvicinare<br />

l’io, il <strong>lingua</strong>ggio e la realtà, cercando un minimo punto di contatto e di riconoscimento<br />

nella dimensione privata, nei versicoli e nelle invettive si impone la distanza tra l’io, le<br />

parole e le cose, perché tra il destino individuale e quello storico non solo non c’è<br />

contatto, ma prevale lo sdegno, l’ira, il ribrezzo. 50 In questi casi più <strong>che</strong> di<br />

semplificazione si dovrebbe parlare di degradazione e disgregazione di un <strong>lingua</strong>ggio<br />

<strong>che</strong> rivela la negatività e il disordine del mondo. Fuori dalla microstoria della Rosa-<br />

Rina, la macrostoria precipita verso un’apocalisse ecologica, <strong>che</strong>, già anticipata<br />

nell’Idrometra, giunge qui al suo massimo compimento:<br />

Ha soffiato via tutto.<br />

Ha fatto piazza pulita.<br />

Dov’è passato, ha distrutto<br />

fin l’ultimo germe di vita.<br />

(Giorgio Caproni, Tifone, in Res amissa)<br />

Alle spalle sia di Fortini sia di Caproni sta il Sereni di Un posto di vacanza, disilluso<br />

negli ideali intellettuali, ormai «freddati nel nome <strong>che</strong> non è / la cosa ma la imita<br />

soltanto», sente il rischio del distacco dalla realtà come il consolidarsi di una condizione<br />

di «sonnambuli / tra esseri vivi discendenti / su un fiume di impercepiti nonnulla recanti<br />

in sé la catastrofe». Il rapporto tra parola e realtà si delinea come un instabile<br />

attraversamento di «sec<strong>che</strong> e fondali, tra riaccensioni e amnesie» <strong>che</strong> rendono evidente<br />

la non coincidenza di nomi e cose, e tuttavia consolidano il loro ruolo nel determinare<br />

l’Erlebnis come momento della conoscenza. Gli scambi, le simmetrie e le divergenze tra<br />

49 Giorgio Manacorda, Congedo senza cerimonie, «Repubblica-Mercurio», 19 gennaio 1991, ora in Luigi<br />

Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., p. 207.<br />

50 Si legga Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., p. 211: «Caproni poeta civile, <strong>che</strong> è tanto<br />

più poeta civile quanto più riesce a prendere le distanze da un ravvicinato e cronachistico rapporto con la storia». E si<br />

legga an<strong>che</strong> Giorgio Agamben, Idea della prosa, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 77.<br />

198


questi tre autori si infittiscono: il «codice disperso» e la «controparola» di Un posto di<br />

vacanza sono i semi di quella crisi del <strong>lingua</strong>ggio <strong>che</strong> produce la «<strong>lingua</strong> non più sua»<br />

di Fortini e la «disappropriata maniera» dell’ultimo Caproni, mentre la «lucente<br />

inesistenza» dell’utopia fortiniana si contrappone alle luci «lontane immotivate<br />

immobili» <strong>che</strong> negano l’ipotesi di una meta salvifica:<br />

da un codice disperso è la mia controparola.<br />

Non passerà la barriera di tenebra e di vento.<br />

Non passerà il richiamo già increspato d’inverno<br />

a un introvabile<br />

traghettatore.<br />

Così lontane immotivate immobili<br />

di là da questo a<strong>che</strong>ronte<br />

non provano nulla non chiamano me<br />

né altri quelle luci.<br />

Occorre rovesciare la prospettiva:<br />

(Vittorio Sereni, Un posto di vacanza, II, in Stella variabile)<br />

Ne fu colto<br />

il disegno profondo<br />

nel punto dove si fa più palese<br />

- non una storia mia o di altri<br />

non un amore nemmeno una poesia<br />

ma un progetto<br />

sempre in divenire sempre<br />

«in fieri» di cui essere parte<br />

per una volta senza umiltà né orgoglio<br />

sapendo di non sapere.<br />

Sul rovescio dell’estate.<br />

Nei giorni di sole di un dicembre.<br />

(Vittorio Sereni, Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />

Sereni procede «sul rovescio dell’estate», come se la realtà fosse scritta su un foglio di<br />

cui considera contemporaneamente il recto e il verso («sul rovescio dell’estate la chiave<br />

dell’estate», Un posto di vacanza, I). Ampliando la metafora, utilizzata an<strong>che</strong> da Fortini<br />

per parlare di sé, si potrebbe dire <strong>che</strong> mentre quest’ultimo coglie la duplicità dialettica<br />

del presente in una lettura <strong>che</strong> procede oltre il recto e il verso del foglio, per cui «l’estate<br />

non è tutto» dice <strong>che</strong> il senso è da cercare in un’altra realtà e <strong>che</strong> il rovescio del presente<br />

è il futuro, Sereni per dare un senso al «colore del vuoto» (Autostrada della Cisa, in<br />

Stella variabile), legge dietro al foglio e considera la realtà da un punto di vista<br />

memoriale («Nei giorni di sole di un dicembre»). La conoscenza nasce da «un senso<br />

199


diverso», come aveva scritto Fortini, da dare all’esperienza, an<strong>che</strong> se la Weltanschauung<br />

<strong>che</strong> ne deriva sembra suggerire <strong>che</strong> su tutto si diffonda il vuoto. La dimensione<br />

memoriale è allora quel «codice disperso», <strong>che</strong> produce i suoi effetti sulla parola<br />

capovolgendola in «controparola» <strong>che</strong> deve resistere all’oblio:<br />

Ma tu specchio ora uniforme e immemore<br />

pronto per nuovi fumi<br />

di sterpaglia nei campi per nuove luci<br />

di notte dalla piana per gente<br />

<strong>che</strong> sgorghi nuova da Carrara o da Luni<br />

tu davvero dimenticami, non lusingarmi più.<br />

(Vittorio Sereni, Un posto di vacanza, VII, in Stella variabile)<br />

Il discorso metapoetico vuole opporre alla lusinga dello «specchio ora uniforme e<br />

immemore» una diversa conoscenza, ossia all’imitazione del reale la sua traduzione: i<br />

bouts d’existence di cui parlava Caproni sono per Sereni quei «momenti della nostra<br />

esistenza <strong>che</strong> non danno pace fino a quando restano informi». 51 Scrivere significa allora<br />

tradurre in forma quei momenti, «il solo modo di leggerli, ovvero di leggerli più a<br />

fondo». 52 Sereni capovolge il punto di vista di Caproni, poiché per lui non solo le parole<br />

sono in stretto rapporto con l’esperienza, ma questa a sua volta assume significato nel<br />

momento in cui prende forma nel <strong>lingua</strong>ggio: per Sereni l’esperienza ha un primato di<br />

verità rispetto alla parola, per cui «i nomi si ritirano dietro le cose» (Niccolò, in Stella<br />

variabile), mentre per Caproni «Le parole. Già. / Dissolvono l’oggetto» (Le parole, in<br />

Res amissa) e per Fortini, lo si è visto, l’oggetto «non è tutto» così come «l’estate non è<br />

tutto» 53 (Molto chiare si vedono le cose, in Paesaggio con serpente), cioè il mondo dei<br />

referenti si carica di una potenzialità alternativa. Nel Sereni di Stella variabile non c’è<br />

dissoluzione e non c’è superamento: il rapporto parole/cose è straniato e violento e si<br />

svolge su macerie riedificate con materiali taglienti, minacciosi e silenziosamente<br />

aggressivi. L’autore aveva già dichiarato la propria incertezza, sostenendo <strong>che</strong> di versi<br />

51 Vittorio Sereni, Poesie, cit., pp. 585-586.<br />

52 Vittorio Sereni, Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1981, p. VIII. E continua:<br />

«Traducendo non tanto ci si appropria, non tanto si fa prorpio il testo altrui, quanto invece è l’altrui testo ad assorbire<br />

una zona sin lì incerta della nostra sensibilitàe a illuminarla». Questo rapporto di scambio generatore di conoscenza si<br />

estende an<strong>che</strong> alla relazione tra scrittura ed esperienza.<br />

53 Il conflitto reso da negazioni del tipo «l’estate non è tutto», o an<strong>che</strong> «E invece non è vero» (La realtà, in<br />

L’ospite ingrato), «E non è vero» (Stanotte, in Composita solvantur), o dalle forme avversative del tipo «ero ma<br />

sono» (Il presente, in Questo muro), rappresenta in forma coagulata «il carattere utopico della negazione» (Luca<br />

Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 226), <strong>che</strong> è in diretta relazione con la poetica<br />

della reversibilità e del non ancora.<br />

200


«se ne scrivono ancora», ma «se ne scrivono solo in negativo» (I versi, in Gli strumenti<br />

umani). Il dubbio sul valore della parola poetica diventa dubbio sulla propria identità di<br />

uomo <strong>che</strong> non riesce, nonostante tutto, a trovare un equilibrio. Mentre Caproni dichiara<br />

in modo essenziale e assoluto il raggiungimento di un punto di non ritorno e Fortini con<br />

altrettanta sicurezza profetizza la svolta e la metamorfosi, Sereni opta per un incedere<br />

allucinato <strong>che</strong>, non trovando un’identità salda, cerca nel contrario e nella negazione di<br />

sé una conferma della propria presenza. La logica onirica invade la realtà e le categorie<br />

umane <strong>che</strong> la inquadrano vengono rovesciate e risolte in perplessità. Il sogno diventa un<br />

mezzo per dare forma all’informe instabilità del rapporto dell’io col reale, nel momento<br />

in cui questi si scopre «trapassante»: «Ma ero / io il trapassante, ero io, / perplesso non<br />

propriamente amaro» (In salita, in Stella variabile). Da una simile condizione ha<br />

origine un sentimento straniante di paura, un Uneimli<strong>che</strong> <strong>che</strong> non è spavento, quanto<br />

piuttosto enigmatico e ambiguo smarrimento di sé nel disordine di rapporti cambiati di<br />

senso. In questa dimensione perturbante si radicalizza la lotta contro il nulla, <strong>che</strong><br />

diventa vera e propria lotta contro se stessi:<br />

Niente ha di spavento<br />

la voce <strong>che</strong> chiama me<br />

proprio me<br />

dalla strada sotto casa<br />

in un’ora di notte:<br />

è un breve risveglio di vento,<br />

una pioggia fuggiasca.<br />

Nel dire il mio nome non enumera<br />

i miei torti, non mi rinfaccia il passato.<br />

Con dolcezza (Vittorio,<br />

Vittorio) mi disarma, arma<br />

contro me stesso me.<br />

(Vittorio Sereni, Paura seconda, in Stella variabile)<br />

Sereni vive il rapporto col mondo alla luce di un passato <strong>che</strong> è insieme colpa e<br />

illuminazione: un tempo solo apparentemente perduto, ma <strong>che</strong> determina il presente<br />

an<strong>che</strong> attraverso la riemergenza onirica. Il tentativo di rapportarsi con la realtà è però<br />

rovesciato da geografie variabili, prospettive mentali incrinate da un sistema di segni e<br />

simboli sospesi tra la minaccia e lo spaesamento: 54<br />

54 Cfr. Renato Nisticò, Nostalgia di presenze. La poesia di Sereni verso la prosa, Lecce, Piero Manni, 1998, p.<br />

140: «Il soggetto sembra saggiare la spazialità geografica […] prima di rinunciare per sempre allo spazio puntiforme<br />

dell’io lirico».<br />

201


Dovrò cambiare geografie e topografie.<br />

Non vuole saperne,<br />

mi rinnega in effigie, rifiuta<br />

lo specchio di me (di noi) <strong>che</strong> le tendo.<br />

[…]<br />

E dopo tutto<br />

ho pozzi in me abbastanza profondi<br />

per gettarvi an<strong>che</strong> questo.<br />

Ecco <strong>che</strong> adesso nevica…<br />

Ma io, mia signora, non mi appello al candore della neve<br />

alla sua pace di selva<br />

conclusiva<br />

[…]<br />

Sono per questa – notturna, immaginosa – neve di marzo<br />

plurisensa<br />

[…]<br />

Per il suo turbine il suo tumulto<br />

<strong>che</strong> scompone la notte e ricompone<br />

laminandola di peltri acciai leggeri argenti.<br />

(Vittorio Sereni, Addio Lugano bella, in Stella variabile)<br />

La parola registra la crisi della percezione del reale («mi rinnega in effigie, rifiuta / lo<br />

specchio di me»), l’io scivola in una dimensione onirica e visionaria, in una profondità<br />

inquieta in cui prende corpo la lotta contro il nulla: alla lusinga offerta dal «candore<br />

della neve» con la sua «pace di selva / conclusiva» si oppone la «– notturna,<br />

immaginosa – neve di marzo» con «il suo turbine il suo tumulto» <strong>che</strong> è dissoluzione ma<br />

an<strong>che</strong> possibilità di ricomposizione e di rinnovamento del senso. In questo contesto non<br />

si pone un problema di esistenza o inesistenza delle parole nelle cose e viceversa, o<br />

dell’annullamento delle une nelle altre sotto il segno dell’irrealtà. Per Sereni si tratta di<br />

cercare di stabilire in <strong>che</strong> rapporto sono le parole e le cose. Qui a garantire questo<br />

rapporto vi è una visionarietà <strong>che</strong> ha le sue radici nell’evento memoriale <strong>che</strong> la parola<br />

traduce in forma poetica. È il modo trovato da Sereni per non cadere vittima di un<br />

nichilismo assoluto e assolutizzante:<br />

Ne vanno alteri i gentiluomini nottambuli<br />

scesi con me per la strada<br />

da un quadro<br />

visto una volta, perso<br />

di vista, rincorso tra altrui reminiscenze<br />

o soltanto sognato.<br />

(Vittorio Sereni, Addio Lugano bella, in Stella variabile)<br />

Immaginiamo, dunque, i fantasmi con cui il vuoto si misura, presenze <strong>che</strong> affiorano<br />

da un altrove indistinto, senza poter essere definite, se non per via di negazione. Sono<br />

202


elementi in mutazione, travestimenti di una condizione <strong>che</strong> non è più rinviabile. Sono<br />

luoghi della mente, segnali d’allarme, <strong>che</strong> generano uno spostamento della percezione.<br />

Caproni, Fortini e Sereni vanno oltre la bidimensionalità <strong>che</strong> caratterizza la poesia di<br />

Penna, indagano aspetti psicologici oscuri, ambigui e contraddittori. Penna, come si è<br />

visto, lascia <strong>che</strong> ciò <strong>che</strong> riemerge dal passato si ripresenti tale e quale, senza <strong>che</strong> venga<br />

modificato da un modello interpretativo, <strong>che</strong> lo calerebbe in una dimensione temporale,<br />

ossia in un contesto evolutivo. Il tempo di Penna è un presente sottratto al continuum<br />

storico, è un tempo <strong>che</strong> non passa e si ripete, per sottrarre l’io alla precarietà. In questo<br />

si avvicina a Fortini, alle sue immagini di fossili, all’ambra o alla rosa <strong>che</strong> esita dentro<br />

al sasso, <strong>che</strong> rivelano un’ansia temporale comune a entrambi. Tuttavia l’approccio di<br />

Fortini è segnato dall’ideologia, <strong>che</strong> si rapporta sempre con la storia di chi è venuto<br />

prima e di chi verrà poi, si relaziona sempre col tempo e non con il desiderio di<br />

atemporalità. 55 Sereni, dal canto suo, riesce a guardare oltre la linearità del tempo: il<br />

presente non è una tabula rasa, e l’esperienza <strong>che</strong> ne facciamo viene modificata da ciò<br />

<strong>che</strong> riemerge dal passato. Il tempo di Sereni è un tempo <strong>che</strong> passa ma <strong>che</strong> ritorna.<br />

Caproni si avvicina a Sereni, in quanto la memoria lungi dal determinare una via di<br />

salvezza, lascia intravedere il vuoto e la disarmonia. Tuttavia, l’idea stessa di un tempo<br />

percorribile in due direzioni opposte, <strong>che</strong> abbiano nel presente il loro punto d’incontro,<br />

è qualcosa in cui non crede veramente. Passato e presente sono inconciliabili e non c’è<br />

slancio verso il futuro. La linearità storica fa del passato qualcosa <strong>che</strong> non torna, o <strong>che</strong><br />

torna a tratti, attraverso epifanie <strong>che</strong> ribadiscono il senso della fine e non aprono uno<br />

spiraglio salvifico (si pensi a quanto accade nel Seme del piangere, sul cui “fallimento”<br />

Caproni costruisce l’edificio della sua poesia successiva). La poesia di Fortini, infine, si<br />

compone di tensioni contrastanti <strong>che</strong> possono mettere il lettore di fronte alla condizione<br />

dell’uomo nella storia, dove «Ci sono solo io e tutti gli altri / a metà del non esistere»<br />

(Raniero, in Paesaggio con serpente), come dire <strong>che</strong> siamo in una dimensione sospesa,<br />

in cui an<strong>che</strong> il non essere è parziale e se un senso c’è, deve essere ancora detto<br />

(«Diremo più tardi quello <strong>che</strong> deve essere detto», I lampi della magnolia, in Paesaggio<br />

55 Cfr. Bernard Simeone, Sandro Penna, le rapt immobile, in Sandro Penna, Une ardente solitude, cit., p. 11: «La<br />

chose vue est dérobée à sa précarité et inscrite dans l’ambre. En cela, Penna se rappro<strong>che</strong>, de façon surprenante, d’un<br />

autre poète italien contemporain: Franco Fortini. La hantise de la fossilisation qui fige mais aussi protège, les images<br />

répétitives de visages vus dans un mur, de roses hésitant au cœur du roc et d’insectes pris dans le carbone révèlent,<br />

<strong>che</strong>z ce poète de l’engagement et de l’exigence éthique qu’est Fortini, une obsession temporelle parfois pro<strong>che</strong> de<br />

celle de Penna, mais qui motive un rapport passionnel à l’idéologie bien éloigné du désir d’atemporalité de l’auteur<br />

de Croix et délice».<br />

203


con serpente). Non bisogna arrendersi al nichilismo, bisogna, invece, scrivere: «Ecco<br />

scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso / <strong>che</strong> non dica in nota acuta: “Più non<br />

posso”» (Se volessi un’altra volta…, in Composita solvantur). Come vent’anni prima in<br />

Traducendo Brecht («Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente»), an<strong>che</strong><br />

ora il poeta guarda al vuoto della separatezza, ma an<strong>che</strong> ad una possibilità <strong>che</strong> non<br />

esaurisca la poesia nel cupio dissolvi. Occorre guardare alle dichiarazioni di poetica, per<br />

cogliere appieno il processo evolutivo in cui il dolore e la sofferenza di uomini, animali<br />

e piante, si trasformano dialetticamente nell’oltre della speranza:<br />

La prima cosa <strong>che</strong> io cerco è il Regnum Dei, cioè un modo diverso di<br />

essere degli uomini. Un’antropologia abbastanza lucida da non cadere<br />

nell’ottimismo cretino. Il combattimento per il comunismo è già il<br />

comunismo, il comunismo in cammino – un altro non esiste – è un percorso<br />

<strong>che</strong> passa attraverso errori e violenze e comporta <strong>che</strong> uomini siano usati come<br />

mezzi per un fine – siamo contro Kant – <strong>che</strong> nulla garantisce. Dixi et servavi<br />

animam meam. Più in là di questo… porto la spada. 56<br />

Si noti la distanza <strong>che</strong> separa la ricerca fortiniana del Regnum Dei inteso come<br />

alternativa al mondo attuale, dalla tematica del Deus absconditus e poi della Res amissa<br />

di Caproni, <strong>che</strong> di volta in volta si declinano nelle forme dell’assenza e del silenzio della<br />

Parola, ovvero del bene e della Grazia definitivamente perduti. La poesia di Fortini<br />

porta la spada nel mondo per <strong>combatte</strong>re la realtà e mutarla in altro, an<strong>che</strong> se il conflitto<br />

è permanente e non si risolve definitivamente, ma assume un senso proprio nel suo<br />

stesso divenire. In Penna invece c’è già qualcosa del Regnum Dei, ovvero «un modo<br />

diverso di essere degli uomini»: i suoi testi pongono il soggetto già oltre il varco, in uno<br />

spazio luminoso in cui la distanza con la storia è massima, minima quella col divino; si<br />

tratta beninteso di una «deità in fustagno e tascapane» come aveva scritto Montale<br />

(Divinità in incognito, in Satura), ma <strong>che</strong> ci dice <strong>che</strong> nonostante tutto c’è ancora una<br />

possibilità di salvezza. Se, come ha scritto Jaccottet, «la poésie est donc ce chant que<br />

l’on ne saisit pas, cet espace où l’on ne peut demeurer», 57 un’ipotesi di salvezza si<br />

56 Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati<br />

Boringhieri, 2003, p. 701. Si legga an<strong>che</strong> la voce Comunismo in Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci,<br />

cit., p. 41: «Il combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori<br />

non dimostrabili) <strong>che</strong> il maggior numero di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna. Unico<br />

progresso, ma reale, è e sarà un luogo di contraddizione più alto e visibile, capace di promuovere i poteri e le qualità<br />

di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria<br />

tenda ad estinguere quello scontro nella sua forma presente e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di<br />

progresso lineare e senza conflitti».<br />

57 Philippe Jaccottet, La promenade sous les arbres, Lausanne, La bibliothèque des arts, 1996, p. 148.<br />

204


sviluppa attraverso quei minimi movimenti di sospensione del tempo e della dicibilità in<br />

una dimensione autre, <strong>che</strong> predispone a mutamenti imprevisti e stranianti.<br />

205


206


BIBLIOGRAFIA<br />

OPERE POETICHE E SCRITTI TEORICI DEI SINGOLI AUTORI<br />

SPECIALMENTE CONSIDERATI<br />

GIORGIO CAPRONI<br />

Le poesie sono oggetti?, «Mondo operaio», 26 marzo 1949.<br />

Noi, Enea, «La Fiera Letteraria», 3 luglio 1949.<br />

Né tempo né luogo, «La Fiera Letteraria», 9 novembre 1958.<br />

Politica e cultura, «Critica d’oggi», 12-13, settembre-novembre 1962.<br />

Il terzo libro e altre cose, Torino, Einaudi, 1968.<br />

Luoghi della mia vita e notizie della mia poesia, «La Rassegna della Letteratura<br />

Italiana», LXXXV, 3, settembre - dicembre, 1981.<br />

Su e giù come un minatore, «I ferri del mestiere», supplemento al n. 295 del 15<br />

dicembre 1989 de «l’Unità».<br />

Res amissa, a cura e con prefazione di Giorgio Agamben, Milano, Garzanti, 1991.<br />

La scatola nera, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1996.<br />

L’opera in versi, edizione critica a cura di Luca Zuliani, introduzione di Pier<br />

Vincenzo Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei, Milano, Mondadori,<br />

«i Meridiani», 1998.<br />

Quaderno di traduzioni, a cura di Enrico Testa, prefazione di Pier Vincenzo<br />

Mengaldo, Torino, Einaudi, 1998.<br />

FRANCO FORTINI<br />

Ventiquattro voci per un dizionario di lettere. Breve guida al buon uso dell’alfabeto,<br />

Milano, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, 1968.<br />

Introduzione a J. W. Goethe, Faust, introduzione, traduzione con testo a fronte e note<br />

a cura di Franco Fortini, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 1970.<br />

Giovanni e le mani, Torino, Einaudi, 1972.<br />

Dieci inverni, Bari, De Donato, 1973.<br />

207


Poesie scelte (1938-1973), a cura e con una introduzione di Pier Vincenzo<br />

Mengaldo, Milano, Oscar Mondadori, 1974.<br />

<strong>Una</strong> volta per sempre. Poesie 1938-1973, Torino, Einaudi, 1978.<br />

Metrica e biografia, in «Quaderni piacentini», 2, XX, 1981.<br />

Paesaggio con serpente, Torino, Einaudi, 1984.<br />

Insistenze, Garzanti, Milano, 1985.<br />

Nuovi saggi Italiani, Milano, Garzanti, 1987.<br />

Versi primi e distanti 1937-1957, con un’acquaforte di Franco Fortini, Milano,<br />

All’insegna del pesce d’oro, 1987.<br />

1991.<br />

Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990.<br />

Versi scelti 1939-1989, Torino, Einaudi, 1990.<br />

Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Roma, Editori Riuniti,<br />

Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993.<br />

Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994.<br />

Poesie inedite, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Torino, Einaudi, 1997.<br />

Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini e uno scritto<br />

di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori «i Meridiani», 2003.<br />

Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valentina Tinacci, introduzione<br />

di Romano Luperini, Macerata, Quodlibet, 2006.<br />

VITTORIO SERENI<br />

1995.<br />

Poesie (1935-1965), introduzione di Lanfranco Caretti, Milano, Mondadori, 1973.<br />

Franco Francese. La bestia addosso, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1976.<br />

Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1981.<br />

Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, «i Meridiani»,<br />

Diario d’Algeria, con una prefazione di Giovanni Raboni, Torino, Einaudi, 1998.<br />

La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, introduzione di Giovanni Raboni,<br />

Milano, Mondadori, 1998.<br />

Il grande amico. Poesie (1935-1981), introduzione di Gilberto Lonardi e commento<br />

di Luca Lenzini, Milano, Rizzoli, 2004.<br />

208


La casa nella poesia, presentazione di Pier Vincenzo Mengaldo, tavole di Enrico<br />

Della Torre, Parma, MUP Editore, 2005.<br />

SANDRO PENNA<br />

Poesie, Milano, Garzanti, 1957.<br />

Un po’ di febbre, risvolto di copertina di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1973.<br />

Stranezze, con una postfazione di Cesare Garboli, Milano, Garzanti, 1976.<br />

Confuso sogno, a cura e con una postfazione di Elio Pecora, Milano, Garzanti, 1980.<br />

Poesie, con una prefazione di Cesare Garboli, Milano, Garzanti, 1989.<br />

INTERVISTE<br />

Domenico Astengo, <strong>Una</strong> straziata allegria (intervista a Giorgio Caproni), «Corriere<br />

del Ticino»,11 febbraio 1989.<br />

Bertolucci, Sereni, Zanzotto, Porta, Conte, Cucchi, Sulla poesia. Conversazioni nelle<br />

scuole, con due interventi di Cesare Segre e Lucia Lumbelli, Parma, Prati<strong>che</strong> Editrice,<br />

1981.<br />

Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982.<br />

Giorgio Caproni, “Era così bello parlare”. Conversazioni radiofoni<strong>che</strong> con Giorgio<br />

Caproni, prefazione di Luigi Surdich, Genova, il melangolo, 2004.<br />

Cesare Cavalleri, Giorgio Caproni a colloquio con Cavalleri, «Studi cattolici», 272,<br />

ottobre 1983 (poi in «Cultura e libri», III 16-17, settembre-dicembre 1986).<br />

Anna Del Bo Boffino, Il terzo occhio del poeta (intervista a Vittorio Sereni), in<br />

«Amica», 28 settembre 1982.<br />

Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati,<br />

Torino, Bollati Boringhieri, 2003.<br />

Stefano Giovanardi, «Credo in un dio serpente» (intervista a Giorgio Caproni), «la<br />

Repubblica», 5 gennaio 1984.<br />

Giorgio Grieco, Non esiste, ma nella disperazione l’ho sempre cercato (intervista a<br />

Giorgio Caproni), «Gente», 13 gennaio 1984.<br />

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Jolanda Insana, Molti dottori nessun poeta nuovo. A colloquio con Giorgio Caproni,<br />

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Luperini, «Belfagor», XXXVII, n. 6, 30 novembre 1982.<br />

Mario Luzi, Giorgio Caproni, Carissimo Giorgio, carissimo Mario. Carteggio 1942-<br />

1989, Milano, S<strong>che</strong>iwiller, 2004.<br />

Eugenio Montale, Sandro Penna, Lettere e minute 1932-1938, a cura di Roberto<br />

Deidier, introduzione di Elio Pecora, Milano, Archinto, 1995.<br />

Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna 1929-1940, a cura di Roberto Deidier,<br />

Milano, Archinto, 1997.<br />

<strong>Una</strong> vicenda amicale: lettere di Vittorio Sereni, a cura di Giancarlo Buzzi,<br />

«Concertino», a. 1, n. 1, giugno 1992.<br />

Vittorio Sereni, Scritture private con Fortini e con Giudici, a cura di Zeno Birolli,<br />

Bocca di Magra, Capannina, 1995.<br />

Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), a<br />

cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano,<br />

Feltrinelli, 2004.<br />

TRADUZIONI IN LINGUA STRANIERA<br />

GIORGIO CAPRONI<br />

Le franc tireur, traduit par Philippe Di Meo, Seyssel, Champ Vallon, 1989.<br />

Le Comte de Kevenhüller, traduit de l’italien et préfacé par Philippe Renard et<br />

Bernard Simeone, Paris, Maurice Nadeau, 1986.<br />

The Wall of the Earth (1964-1975), translated from the Italian with an Introduction<br />

by Pasquale Verdicchio, Montreal, Guernica, 1992.<br />

210


FRANCO FORTINI<br />

Une fois pour toutes. Poésie 1938-1986, traduit par Jean-Charles Vegliante et<br />

Bernard Simeone, suivi de «Donc sous peu sans mots la bou<strong>che</strong>», échanges Rémi Ro<strong>che</strong><br />

et Franco Fortini, Lyon, Fédérop, 1986.<br />

VITTORIO SERENI<br />

Étoile variable, traduit de l’italien par Philippe Renard et Bernard Simeone, préface<br />

de Franco Fortini, Paris, Verdier, 1987.<br />

Les instruments humains précédé de Journal d’Algérie, traduit par Philippe Renard<br />

et Bernard Simeone, préface de Bernard Simeone, postface de Philippe Renard, Paris,<br />

Verdier, 1991.<br />

The selected poetry and prose of Vittorio Sereni, edited and translated by Peter<br />

Robinson and Marcus Perryman, with an introduction by Peter Robinson, Chicago, The<br />

University Press of Chicago, 2006.<br />

SANDRO PENNA<br />

Une étrange joie de vivre, traduction de Dominique Frernandez et Jean-Noël<br />

Schifano, Montpellier, Fata Morgana, 1979.<br />

Une ardente solitude, traduit de l’italien et présenté par Bernard Simeone,<br />

Giromagny, La Différence, 1989.<br />

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Laura Barile, Il passato <strong>che</strong> non passa. Le «poeti<strong>che</strong> provvisorie» di Vittorio Sereni,<br />

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Giovanna Cordibella, Di fronte al romanzo. Contaminazioni nella poesia di Vittorio<br />

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1993.<br />

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Romano Luperini, Il futuro di Fortini, Lecce, Manni, 2007.<br />

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Daniela Mar<strong>che</strong>schi, Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, Roma, Avagliano<br />

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Renato Nisticò, Nostalgia di presenze. La poesia di Sereni verso la prosa, Lecce,<br />

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Roberto Orlando, La vita contraria. Sul Novecento di Giorgio Caproni, Lecce,<br />

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Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, Milano, Frassinelli, 1984.<br />

Elio Pecora, Sandro Penna: una <strong>che</strong>ta follia, con una Premessa alla nuova edizione,<br />

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(UPF), 1997.<br />

Stefano Raimondi, La frontiera di Vittorio Sereni. <strong>Una</strong> vicenda poetica (1935-1941),<br />

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Raffaella Scarpa, Sintassi e respiro nei sonetti di Giorgio Caproni, Alessandria,<br />

Edizioni dell’Orso, 2004.<br />

Luigi Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, presentazione di Antonio Tabucchi,<br />

Genova, Costa & Nolan, 1990.<br />

Luigi Tassoni, L’angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, Bologna,<br />

Gedit Edizioni, 2004.<br />

Anna Vaglio, Invito alla lettura di Penna, Milano, Mursia, 1996.<br />

Gabriele Zani, Sereni e dintorni, Novi Ligure, Joker Edizioni, 2006.<br />

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Luciano Anceschi, Saggi di poetica e di poesia, Bologna, Massimiliano Boni editore,<br />

Alberto Asor Rosa, Un altro Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1999.<br />

Giorgio Bàrberi Squarotti, Poesia e narrativa del secondo Novecento, Milano,<br />

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Gian Luigi Beccaria, Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 1989.<br />

Alfonso Berardinelli, Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura<br />

contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1990.<br />

Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna,<br />

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Mauro Canova, Ultimi fantasmi e nuove cosmologie. Letture e proposte per Sereni,<br />

Zanzotto e Caproni, Firenze, Franco Cesati Editore, 2005.<br />

Maria Grazia Cherchi, Scompartimento per lettori taciturni. Articoli, ritratti,<br />

interviste, prefazione di Giovanni Giudici, introduzione di Piergiorgio Bellocchio, a<br />

cura di Roberto Rossi, Milano, Feltrinelli, 1997.<br />

Andrea Cortellessa, La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi,<br />

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