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quaderno n.3 - ars

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“SOTTO IL VELAME”<br />

Quaderni della Associazione Studi<br />

Danteschi e Tradizionali


Sommario<br />

Dante e i papi del suo tempo: un drammatico rapporto - Anna Rita Zara<br />

Gli angeli nella Divina Commedia - Renzo Guerci<br />

L’iconografia demoniaca in Dante - Massimo Centini<br />

Paesaggi nella Commedia - Andrea Maia<br />

L’ora di nascita di Cristo secondo Dante e il suo Medioevo - Giovangualberto Ceri<br />

L’iniziazione negli antichi misteri - Leonardo Sola<br />

Per una riscoperta dell’esegesi dantesca in Leon Daudet - Massimo Seriacopi e<br />

Maria Grazia Toti<br />

Un altro precursore della Commedia: S. Bernardo da Chiaravalle - Francesco Velardi<br />

Alagia Fieschi Malaspina nell’opera di Dante - Sergio Lora<br />

La Commedia come processo terapeutico - Roberto Rusca<br />

Saggio di bibliografia dantesca - Paolo Marrone


Anna Rita Zara<br />

Dante e i papi del suo tempo: un drammatico rapporto<br />

Il canto III ed il XIX dell’Inferno mostrano il risentimento ed il disprezzo di Dante<br />

verso una curia che ha ormai perduto le caratteristiche evangeliche: nel canto III<br />

compare il Papa “innominato”, che però i primi commentatori di Dante identificarono<br />

con Celestino V, nel canto XIX il Papa assente, Bonifacio VIII, non ancora defunto.<br />

Entrambi sono gli artefici e gli strumenti di eventi storici che sconvolgono la Chiesa,<br />

l’Europa e la vita del poeta costretto all’esilio.<br />

Loro epigono e mostruoso corruttore, l’inquietante presenza di Clemente V rivela la<br />

decadenza del Papato in tutta la sua drammaticità.<br />

Il III canto si apre con la descrizione della Porta dell’Inferno, un’epigrafe<br />

sconvolgente e terribile nella sua essenzialità:<br />

Per me si va ne la città dolente,<br />

per me si va ne l’etterno dolore,<br />

per me si va tra la perduta gente.<br />

Giustizia mosse il mio alto fattore;<br />

fecemi la divina podestate,<br />

la somma sapienza e ‘l primo amore<br />

Dinanzi a me non fuor cose create<br />

se non etterne, e io etterno duro.<br />

Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.”<br />

Il canto si conclude con il terremoto e con lo svenimento di Dante, con una forte<br />

sospensione drammatica:<br />

“...la buia campagna<br />

tremò sì forte, che de lo spavento<br />

la mente di sudore ancor mi bagna.<br />

La terra lagrimosa diede vento,<br />

che balenò una luce vermiglia<br />

la qual mi vinse ciascun sentimento;<br />

e caddi come l’uom cui sonno piglia.<br />

Nel mezzo del canto campeggia la visione tumultuosa di ombre dolenti che<br />

bestemmiano, di vili e di angeli neutrali, la ressa delle anime sulle rive d’Acheronte e


il nocchiero infernale.<br />

Nella zona dell’Antinferno, immerse nell’oscurità profonda, sono collocate le anime<br />

doloranti degli ignavi, di coloro che in vita si astennero dal partecipare a eventi che<br />

imponevano una scelta precisa, perché l’uomo non è solo responsabile di ciò che fa,<br />

ma anche di ciò che altri può fare con la sua astensione.<br />

Nella scena tumultuosa spicca “l’innominato”, come lo chiama il Sapegno, “che fece<br />

per viltade il gran rifiuto”:<br />

“Quivi sospiri, pianti e alti guai<br />

risonavan per l’aer sanza stelle,<br />

perch’io al cominciar ne lagrimai.<br />

Diverse lingue, orribili favelle,<br />

parole di dolore, accenti d’ira,<br />

voci alte e fioche, e suon di man con elle<br />

facevano un tumulto, il qual s’aggira<br />

sempre in quell’aura sanza tempo tinta,<br />

come la rena quando turbo spira.<br />

E io ch’avea d’error la testa cinta,<br />

dissi:-Maestro, che è quel ch’i’odo?<br />

e che gent’è che par nel duol sì vinta?-<br />

Ed elli a me:-Questo misero modo<br />

tegnon l’anime triste di coloro<br />

che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.<br />

Mischiate sono a quel cattivo coro<br />

de li angeli che non furon ribelli<br />

né fur fedeli a dio, ma per sé fuoro.<br />

Caccianli i ciel per non esser men belli,<br />

né lo profondo infero li riceve,<br />

ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli.-<br />

E io: -Maestro, che è tanto greve<br />

a lor che lamentar li fa sì forte?-<br />

Rispuose: -Dicerolti molto breve,<br />

Questi non hanno speranza di morte<br />

e la lor cieca vita è tanto bassa,<br />

ch’invidiosi son d’ogno altra sorter.<br />

Fama di loro il mondo essere non lassa;<br />

misericordia e giustizia li sdegna:<br />

non ragioniam di lor, ma guarda e passa-.<br />

E io, che riguardai,vidi una ‘nsegna<br />

che girando correva tanto ratta,<br />

che d’ogni posa mi parea indegna;<br />

e dietro le venìa sì lunga tratta


di gente, ch’i’ non averei creduto<br />

che morte tanta n’avesse disfatta.<br />

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,<br />

vidi e conobbi l’ombra di colui<br />

che fece per viltade il gran rifiuto.<br />

Chi è dunque l’innominato?<br />

La critica nel tempo ha accumulato una serie di interpretazioni, per dare un nome a un<br />

dannato che Dante non vuole nominare, non vuole rivelare. Molti commentatori sia<br />

antichi che contemporanei concordano nell’identificare il personaggio con Pietro da<br />

Morrone, il monaco che il 5 luglio 1294 fu eletto Papa con il nome di Celestino V e<br />

resse la Chiesa solo per cinque mesi, preferendo lasciare la carica per rifugi<strong>ars</strong>i nella<br />

solitudine dell’eremo. Al suo posto fu eletto il cardinale Pietro Benedetto Caetani che,<br />

anziché riformare la Chiesa, riaccese le lotte tra le varie fazioni politiche schierate o<br />

con gli Orsini o con i Colonna.<br />

Giovanni Villani nella “Cronica” racconta l’inganno teso dal cardinale Caetani<br />

all’ingenuo Papa, per indurlo a rinunciare alla carica.<br />

Gli antichi commentatori rifiutarono questa ipotesi, perché la vita di Pietro da<br />

Morrone fu esemplare e consacrata alla santità nel maggio del 1313, ma il Boccaccio,<br />

che era favorevole all’identificazione con Celestino V, controbatteva che quando<br />

Dante scrisse la Commedia, Pietro da Morrone non era stato ancora canonizzato.<br />

Altri nomi fatti in alternativa a quello di Celestino V sono: Esaù, Pilato e Giuliano<br />

l’Apostata; tuttavia essi sembrano meno plausibili, data la risonanza dell’abdicazione<br />

papale, avvenimento che non si era mai verificato prima.<br />

Per comprendere meglio il significato dell’elezione di un monaco eremita a Papa ed<br />

anche il rifiuto di rimanere Papa da parte del monaco eremita, conviene analizzare il<br />

retroscena politico di entrambi gli avvenimenti.<br />

Per due anni la cattedra pontificia era rimasta vacante a causa delle correnti, in cui si<br />

divideva la curia, e della contrapposizione che opponeva la curia alla nobiltà romana.<br />

Nel 1294 si giunse ad un compromesso con l’elezione del monaco eremita Pietro da<br />

Morrone, estraneo ai giochi politici.<br />

I minoriti lo salutarono con il nome di “Papa angelico”, entusiasti di un Papa che<br />

condivideva i loro ideali di vita religiosa.<br />

Celestino V, inesperto di politica, generò tra i cardinali il sospetto di fare il gioco del<br />

re di Napoli e di favorire eccessivamente i minoriti. Pressato da crescente ostilità e<br />

incapace di adatt<strong>ars</strong>i alle situazioni, annunziò le proprie dimissioni.<br />

Alla notizia che Celestino V lasciava il trono pontificio, il popolo napoletano, dai<br />

nobili al popolino, ai monaci, insorse per farlo recedere dalla decisione, ma fu tutto<br />

inutile: lasciò Roma e si mise in viaggio verso la Grecia. Mentre era sul punto<br />

d’imbarc<strong>ars</strong>i, fu raggiunto dagli emissari del nuovo Papa, Bonifacio VIII, che lo<br />

condussero al monastero di Fumone, dove in realtà fu tenuto prigioniero. Tentò di<br />

fuggire, ma fu ripreso e poco tempo dopo moriva, probabilmente assassinato.<br />

Si accesero nuove e più accanite dispute per impugnare la validità dell’elezione di


Bonifacio VIII: vi parteciparono tutti i luminari della teologia e della giurisprudenza<br />

del tempo e vi intervennero pesantemente anche il re di Francia e l’Università di<br />

Parigi ed il partito dei Colonna scese apertamente in lotta.<br />

Bonifacio VIII prese immediate e severe misure contro i minoriti e bandì una vera e<br />

propria crociata contro i Colonnesi.<br />

I primissimi commentatori della Commedia, essendo ancora calda la questione della<br />

rinuncia di Celestino V, pensarono logicamente che Dante intendesse indicare chi<br />

aveva lasciata la via aperta all’elezione di Bonifacio VIII con un’identificazione<br />

immediata e spontanea.<br />

Anche nel canto XXVII dell’Inferno la figura di Celestino V nonrisalta positivamente<br />

né per la santità né per il ruolo chiamato a svolgere. Dante si trova tra i consiglieri<br />

fraudolenti e si ferma a parlare con Guido da Montefeltro che, dopo un passato<br />

d’uomo d’armi e di astuto uomo politico, aveva deciso di convertirsi e di entrare<br />

nell’ordine di S.Francesco. Bonifacio VIII lo mandò a chiamare per chiedere il suo<br />

consiglio sul modo d’abbattere la resistenza di Palestrina, la roccaforte dei Colonnesi,<br />

e dissolse i suoi dubbi sul peccato che avrebbe commesso suggerendo un consiglio<br />

fraudolento che gli avrebbe permesso di prevalere sui nemici, assicurandogli che<br />

aveva il potere di assolverlo:<br />

- Lo ciel poss’io serrare e diserrare,<br />

come tu sai; però son due le chiavi<br />

che ‘l mio antecessor no ebbe care.-<br />

(I.XXVII-vv.103-105)<br />

L’allusione a Celestino V è ironica e venata di disprezzo e di sarcasmo. Nel corso del<br />

processo fatto a Bonifacio VIII post mortem per la canonizzazione di Celestino V,<br />

Dante non ritenne di esprimersi né sulla santità di Celestino V né sull’accusa mossa a<br />

Bonifacio VIII d’aver fatto assassinare il suo predecessore.<br />

D’altra parte il processo di canonizzazione non dovette comunque suscitare<br />

l’approvazione di Dante, in quanto, più che dettato da amor di giustizia e di verità, gli<br />

pareva un atto d’opportunismo politico; fu infatti voluto dal re di Francia Filippo il<br />

Bello, il “novo Pilato”:<br />

veggio il novo Pilato sì crudele,<br />

che ciò nol sazia, ma sanza decreto<br />

poprtar nel Tempio le cupide vele.<br />

(P.XX vv.91-93)<br />

La canonizzazione di Celestino V non fu quindi un atto di giustizia, ma la<br />

conseguenza dell’odio che il re di Francia nutriva contro di lui. Il fatto che esso fosse<br />

ratificato da Clemente V , che Dante disprezzava, doveva acuire la sua diffidenza. Il<br />

Papa infatti trasportò la sede da Roma ad Avignone, assolse i colpevoli dell’attentato<br />

di Anagni e soppresse l’ordine dei Templari; inoltre non aveva appoggiato


adeguatamente la candidatura di Arrigo VII di Lussemburgo alla corona imperiale.<br />

Nel canto XIX dell’Inferno, i cui protagonisti sono i Papi simoniaci, Dante presenta<br />

il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa del suo tempo.<br />

La terza bolgia è punteggiata da specie di pozzetti, da cui emergono le gambe dei<br />

dannati, che guizzano forsennatamente a causa delle fiamme che bruciano loro le<br />

piante dei piedi. Vi sono puniti i simoniaci, uomini di chiesa che fecero mercato delle<br />

cariche sacre e ridussero la curia a mero strumento di potere temporale.<br />

L’anima di Papa Niccolò III Orsini parla della propria rapacità:<br />

...e veramente fui figliol de l’orsa<br />

cupido sì per avanzar gli orsatti,<br />

che sì l’avere e qui mi misi in borsa.<br />

(I.XiX, vv.70-72)<br />

e di quella dei due Papi simoniaci che verranno dopo di lui, Bonifacio VIII e<br />

Clemente V:<br />

...Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio<br />

per lo qual non temesti tòrre a inganno<br />

la bella donna, e poi di farne strazio?<br />

(id. vv.55-57)<br />

...dopo di lui verrà di più laida opra,<br />

di ver’ ponente, un pastor sanza legge<br />

(id. vv83-84)<br />

In questo canto Dante sfoga la sua amarezza nei confronti della Chiesa del suo tempo,<br />

malata di nepotismo e di corruzione, che ha perduto i valori evangelici. Gli<br />

ecclesiastici e i Papi sono i diretti responsabili dei mali della Chiesa, che hanno<br />

mondanizzato e politicizzato, anziché circoscriverla nell’ambito spirituale e religioso<br />

che le è proprio.<br />

La donazione di Costantino, che Dante ritenne un fatto storicamente indiscutibile,<br />

demarca la linea tra il vero cristianesimo dell’età apostolica e il falso cristianesimo dei<br />

Papi simoniaci, che allargano il potere economico e politico della loro famiglia<br />

sfruttando la posizione raggiunta.<br />

L’elemento scatenante del canto è assente: Bonifacio Viii non è ancora morto, non<br />

occupa il posto che lo aspetta all’Inferno per aver scatenato odi e passioni<br />

contrapposte nei cittadini di Firenze e costretto Dante all’esilio.<br />

Il dibattito politico, morale e religioso sul Papati s’innesta sulle vicende biografiche e<br />

prende toni profetici: il poeta e la sua poesia diventano i giudici dei mali della società<br />

contemporanea.<br />

Il canto XIX si conclude con un’appassionata invettiva, con cui Dante sfoga la sua<br />

delusione e la sua indignazione:


- Deh, or mi dì: quanto tesoro volle<br />

Nostro Segnore in prima da san Pietro<br />

ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?<br />

Certo non chiese se non: - Viemmi retro_<br />

Né Pier né li altri tolsero a Matìa<br />

oro od argento, quando fu sortito<br />

al loco che perdé l’anima ria.<br />

(I. id. vv. 90-96)<br />

Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;<br />

e che altro è da voi a l’idolatre,<br />

se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?<br />

Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,<br />

non la tua conversion, ma quella dote<br />

che da te prese il primo ricco patre! -<br />

(I. id. vv.112-117)<br />

Dante rappresenta la corruzione della curia romana con la medesima immagine<br />

apocalittica usata dai valdesi e dai francescani. Il rinnovamento annunziato da Dante<br />

può verific<strong>ars</strong>i solo annullando la donazione di Costantino, solo così la Chiesa potrà<br />

riprendere la sua missione che è quella di indirizzare gli uomini alla vita eterna.<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

F.D’Ovidio, in Lecturae Dantis vol I, Sansoni, Firenze 1956<br />

A.Pagliaro, in L.D. vol.I, Le Monnier, Firenze 1966<br />

P.Brezzi, in L.D., vol.II, Le Monnier, Firenze 1968<br />

G.Petrocchi, in Inferno-Letture degli anni 1973-1976, Casa di Dante in Roma,<br />

Bonacci, Toma 1977<br />

G.Berardi, in Letteratura e critica, vol.II, Bulzoni, Roma, 1971-1979<br />

G.Petronio, Bonifacio VIII, un episodio della vita e dell’arte di Dante, Lucentia,<br />

Lucca 1950<br />

Enciclopedia dantesca, voci: Firenze e Bonifacio VIII<br />

G.H.Sabine, Storia delle dottrine politiche, Etas Libri, Milano 1978<br />

J.Touchard, Storia del pensiero politico, Etas Libri, Milano 1978<br />

C.H.Mcllwain, Il pensiero politico occidentale, Pozza, Vicenza, 1955<br />

R.W.A.J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, vol.III, Laterza, Bari 1908<br />

G.Petrocchi, Dante e Celestino V in Gli studi romani nel mondo vol.III, Roma,1936<br />

B.Nardi, Dante e Celestino V in Dal Convivio alla Commedia Ist.Stor.del Medio<br />

Evo, Roma 1960


Renzo Guerci<br />

Gli angeli nella Divina Commedia<br />

Gli angeli, o più esattamente le gerarchie angeliche, occupano nella visione<br />

cosmologica dantesca una posizione di rilievo. L’opera in cui ne viene esposto l’aspetto<br />

dottrinale è certamente il Convivio. Nel Trattato Secondo, allorché inizia ad affrontare gli<br />

argomenti trattati nella prima canzone “Voi che intendendo il terzo ciel movete”, Dante,<br />

dopo aver illustrato l’ordine gerarchico dei dieci cieli, dalla Luna all’Empireo, afferma: « E’<br />

adunque da sapere primamente che li movitori di quelli ( i cieli ) sono sustanze separate da<br />

materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano angeli ». E prosegue<br />

analizzando gli ordini angelici, secondo tre gerarchie, ciascun ordine attribuito ad un cielo,<br />

da quello della Luna sino al Primo Mobile. Vedremo come questa gerarchizzazione sarà<br />

ripresa nel Paradiso, con una rettifica circa il posizionamento dei Principati e dei Troni. E’<br />

ancora dal Convivio che noi sappiamo come le gerarchie angeliche siano in relazione con le<br />

tre persone della Trinità, quale sia il loro compito di diffusori tra gli uomini dei doni dello<br />

Spirito Santo nonché la loro funzione cosmogonica di creatori, o meglio di plasmatori, dei<br />

regni della natura, ad eccezione dell’uomo, direttamente creato, come gli angeli da Dio e<br />

pertanto, come questi, incorruttibile e come tale destinato alla resurrezione della carne ed alla<br />

vita eterna.<br />

Se nel Convivio gli angeli sono di fatto una categoria filosofica e simbolica, nella<br />

Divina Commedia essi appaiono come concrete presenze lungo il difficile percorso<br />

iniziatico di Dante e la loro apparizione, nelle tre cantiche, è connotata in modo strettamente<br />

coerente con l’ambiente.<br />

Nell’Inferno, comunque lo si voglia intendere, come regno del male e del peccato, o<br />

regno dei profani o espressione allegorica del mondo del divenire e della materia, gli angeli<br />

non sono presenti.<br />

O meglio in esso troviamo angeli che hanno perduto la loro originaria connotazione di<br />

perfezione spirituale. Dante in realtà, quando utilizza il termine ‘angelo’ nell’Inferno, lo fa<br />

associandolo quasi sempre ad un aggettivo che ne determini questo aspetto: angeli rei,<br />

angeli neri, neri cherubini.<br />

Il tema della ‘caduta’ degli angeli Dante lo aveva sinteticamente, ma potentemente,<br />

enunciato nel Convivio: nel secondo Trattato, quasi a margine della descrizione dei rapporti<br />

tra le gerarchie angeliche e le Tre Persone della Trinità, Dante annota: « E non è qui da<br />

tacere una parola. Dico che di tutti questi ordini si perderono alquanti tosto che furono<br />

creati, forse in numero de la decima parte; a la quale restaurare fu l’umana natura poi creata


». Affermazione quest’ultima che Dante ribadirà nel Purgatorio, nell’appello ai superbi: «<br />

non v’accorgete voi che noi siam vermi/ nati a formar l’angelica farfalla », concetto che se<br />

da un lato riecheggia S. Agostino, dall’altro si ricollega a tutta la tradizione gnostica, sino a<br />

Zoroastro ed ai manichei circa la funzione dell’uomo nel mondo creato ed al suo destino<br />

ultimo.<br />

Ai primi passi di Dante nell’antinferno incontriamo gli angeli cosiddetti neutrali.<br />

Posti insieme agli ignavi, essi sono coloro che, nell’atto di ribellione verso Dio, “non furon<br />

ribelli/ né fur fedeli a<br />

Dio , ma per sé fuoro”. Dante, per bocca del suo maestro Virgilio, ci dice che sono<br />

sdegnati sia dal cielo che dall’inferno e non ci fornisce alcuna altra loro descrizione:<br />

Ed elli a me: “Questo misero modo<br />

tegnon l’anime triste di coloro<br />

che visser senza infamia e senza lodo.<br />

Mischiate sono a quel cattivo coro<br />

de li angeli che non furon ribelli<br />

né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.<br />

Caccianli i ciel per non esser men belli,<br />

né lo profondo inferno li riceve,<br />

ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”.<br />

(Inferno, III 34-42 )<br />

Più oltre, dalle mura della città di Dite sino a Malebolge, Dante ci apre frequenti<br />

squarci in cui compaiono gli angeli neri, i diavoli: la loro descrizione è a larghi schizzi e ci<br />

richiama subito alla mente tutta una certa iconografia medievale. Le situazioni in cui essi<br />

compaiono e che Dante ci descrive sono improntate ad un, almeno apparente, realismo, con<br />

frequenti venature comiche e grottesche.<br />

Dicevamo che nell’Inferno non si incontrano angeli, se non quelli caduti, poiché<br />

riteniamo che il messo celeste che apre ai due viaggiatori le porte della città di Dite non sia<br />

un angelo. Sulla difficoltà ad identificare questo inviato con un angelo hanno ben scritto a<br />

suo tempo il Pascoli ed altri: la sua natura simbolica è peraltro ben evidenziata dai tratti con<br />

cui Dante descrive il suo arrivo.<br />

Il nostro personaggio giunge camminando sulle acque della palude Stige ed ai suoi passi<br />

fuggono le anime dannate e, cosa singolare per un angelo, rimuove dal volto, con la mano<br />

sinistra, l’aria caliginosa dell’inferno, da cui sembra però essere infastidito ( Dante per<br />

l’esattezza usa il termine ‘angoscia’). E quando giunge alle porte di Dite è pieno di<br />

disdegno ed anche questo poco si addice alla seraficità degli angeli che vedremo dalla<br />

seconda cantica in avanti. Viene alla mente, per contrasto, la serenità di Beatrice di fronte a<br />

Virgilio, affatto preoccupata dell’ambiente in cui è discesa, che non la può in alcun modo<br />

toccare né infastidire.<br />

Tuttavia tra i neri cherubini ce n’è uno cui Dante dedica una somma attenzione nel<br />

descrivercene i tratti. E’ Lucifero, meta ultima del percorso infernale, punto di svolta nel


percorso iniziatico. Entrati nella Giudecca, Dante e Virgilio si trovano di fronte il principe<br />

degli angeli caduti, la “creatura ch’ebbe il bel sembiante”, colui che, dirà Dante nel Paradiso<br />

“fu la somma d’ogne creatura”, ma che qui, al centro della terra, nel punto più lontano dal<br />

Principio, è adesso tanto brutto quanto allora fu bello.<br />

Quando noi fummo fatti tanto avante<br />

ch’al mio maestro piacque di mostrarmi<br />

la creatura ch’ebbe il bel sembiante,<br />

d’innanzi mi si tolse e fè restarmi,<br />

“Ecco Dite “ dicendo “ ed ecco il loco,<br />

ora convien che di fortezza t’armi”.<br />

La sua apparizione segna per Dante un momento assai importante e difficile nel percorso<br />

iniziatico: il poeta si rivolge al lettore ( come tante volte nei momenti in cui ritiene necessario<br />

richiamare la sua attenzione, per saper leggere ‘sotto il velame’) e lo prega, se ha “fior<br />

d’ingegno” di comprendere come egli non morì e non rimase vivo. La contraddizione dà il<br />

senso della morte mistica di Dante in quell’istante in cui ha di fronte - e dovrà andare oltre -<br />

il simbolo più significativo della separazione, del dualismo insito nel mondo del divenire.<br />

Egli non muore perché fisicamente vive e comincia anche ad essere vivo alla vita spirituale;<br />

ma nel contempo non rimane vivo poiché sta superando le contingenze della vita materiale<br />

verso la trascendenza.<br />

Com’io divenni allor gelato e fioco,<br />

nol dimandar, lettor, ch’io non lo scrivo,<br />

però ch’ogne parlar sarebbe poco.<br />

Io non mori’ e non rimasi vivo;<br />

pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,<br />

qual’io divenni, d’uno e d’altro privo.<br />

La successiva descrizione dell’”imperador del doloroso regno” è fortemente<br />

suggestiva e non manca di un apparente forte realismo, sotto cui è tuttavia facile scoprire<br />

tutto il discorso simbolico.<br />

Con meraviglia Dante vede che Lucifero ha tre facce, una di un rosso cupo, un’altra tra il<br />

bianco e il giallo ed una terza nerastra. Ai colori si possono accostare diversi significati: dal<br />

paragone in negativo con le prerogative della Divina Trinità ( odio, ignoranza ed impotenza,<br />

contrapposti a primo amore, somma sapienza e divina potestate ), ad un allegorico rovescio<br />

delle tre virtù teologali sino alla rappresentazione, seppure qui in valenza negativa,<br />

dell’opera alchemica.<br />

Oh quanto parve a me gran maraviglia<br />

quand’io vidi tre facce a quella testa!<br />

L’una dinanzi, e quella era vermiglia;<br />

l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa


sovresso ‘l mezzo di ciascuna spalla,<br />

e sé giugnieno al loco de la cresta:<br />

e la destra parea tra bianca e gialla;<br />

la sinistra a vedere era tal, quali<br />

vegnon di là onde il Nilo s’avvalla.<br />

Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,<br />

quanto si convenia a tanto uccello:<br />

vele di mar non vid’io mai cotali.<br />

Non avean penne, ma di vispistrello<br />

era lor modo; e quelle svolazzava,<br />

sì che tre venti si movean da ello:<br />

quindi Cocito tutto s’aggelava.<br />

Con sei occhi piangea, e per tre menti<br />

gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava.<br />

Da ogne bocca dirompea co’ denti<br />

un peccatore, a guisa di maciulla,<br />

sì che tre ne facea così dolenti.<br />

Dante ci dirà che i tre peccatori sono Bruto, Cassio e Giuda e quindi, passato il punto “al<br />

qual si traggon d’ogne parte i pesi”, i due pellegrini usciranno a riveder le stelle.<br />

Nel Purgatorio, luogo dove “l’umano spirito si purga/ e di salire al ciel diventa degno”,<br />

quindi anche regno degli iniziati ammessi ai primi misteri, delle diverse prove da superare<br />

per essere ammessi ai grandi misteri celesti, la presenza degli angeli è ovunque diffusa: essi<br />

sono il sostegno, la via, l’aiuto. E’ un angelo che Dante vede, per la prima volta, sulla<br />

spiaggia della montagna del Purgatorio, dopo l’incontro con Catone, l’angelo nocchiero che<br />

porta “con un vasello snelletto e leggero” le anime sino alla riva . La descrizione<br />

dell’angelo è tutta una apoteosi di luce e di bianco e, come avverrà sovente d’ora innanzi,<br />

Dante non riesce a sostenerne la vista.<br />

Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,<br />

per li grossi vapor Marte rosseggia<br />

giù nel ponente sovra ‘l suol marino,<br />

cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,<br />

un lume per lo mar venir sì ratto,<br />

che ‘l muover suo nessun volar pareggia.<br />

Da qual com’io un poco ebbi ritratto<br />

l’occhio per domandar lo duce mio,<br />

rividil più lucente e maggior fatto.<br />

Poi d’ogne lato ad esso m’appario<br />

un non sapeva che bianco, e di sotto<br />

a poco a poco un altro a lui uscio.


Lo mio maestro ancor non facea motto,<br />

mentre che i primi bianchi apparver ali;<br />

allor che ben conobbe il galeotto,<br />

gridò: “Fa, fa che le ginocchia cali.<br />

Ecco l’angel di Dio: piega le mani;<br />

omai vedrai di sì fatti officiali.<br />

Più oltre, nella valletta dei principi negligenti, due angeli con le spade di fuoco con la<br />

punta mozza, scenderanno a cacciare il serpente minaccioso.<br />

Io vidi quello essercito gentile<br />

tacito poscia riguardar in sùe,<br />

quasi aspettando, palido e umile;<br />

e vidi uscir de l’alto e scender giùe<br />

due angeli con due spade affocate,<br />

tronche e private de le punte sue.<br />

Verdi come fogliette pur mo nate<br />

erano in veste, che da verdi penne<br />

percosse traean dietro e ventilate.<br />

Un angelo è sulla porta del Purgatorio ad accogliere Dante e, nel lento percorso verso la<br />

cima, sarà un angelo di volta in volta ad indicare la via ed a cancellare sulla fronte del poeta i<br />

segni dei peccati. Ed ancora nel Paradiso Terrestre saranno angeli, testimoni, benevolenti<br />

verso il poeta, dei rimproveri prima e poi del perdono di Beatrice che aprirà a Dante le via<br />

del Paradiso.<br />

Un momento significativo, su cui è importante fermare l’attenzione, è quello in cui<br />

Dante si trova di fronte all’angelo che custodisce la porta del Purgatorio. Il momento è<br />

nuovamente una fase di passaggio, caratterizzato da eventi simbolici: Dante nella valletta dei<br />

principi si addormenta e verso l’alba, nel momento in cui la mente, più svincolata dal corpo<br />

e meno disturbata dai pensieri, “ a le sue vision quasi è divina”, sogna un’aquila d’oro che<br />

lo rapisce e lo trascina sino ad ardere in un fuoco celeste. Dante si sveglia di soprassalto e<br />

Virgilio lo conforta e scioglie il suo turbamento, spiegandogli che, mentre dormiva, è<br />

venuta Santa Lucia e lo ha trasportato nel luogo ove ora si trova, davanti alla porta del<br />

Purgatorio.<br />

E’ interessante notare alcune significative analogie: Dante si addormenta sulle rive di<br />

Acheronte e, risvegliatosi dal sonno, si trova al di là del fiume, nel primo cerchio infernale;<br />

qui è ancora il sonno che segna il passaggio : “tu sei ormai al Purgatorio giunto” gli dice<br />

Virgilio, al suo risveglio. E come qui, in un altro momento di passaggio, quello verso il<br />

Paradiso Terrestre e Beatrice, Dante dovrà nuovamente attraversare un muro di fuoco. Ed<br />

anche qui, come abbiamo visto di fronte a Lucifero, Dante si rivolge al lettore segnalandogli<br />

un superiore livello di dottrina e di conoscenza:<br />

...tu vedi ben com’io innalzo


la mia matera e però con più arte<br />

non ti meravigliar s’io la rincalzo<br />

Tre gradini immettono alla porta del Purgatorio, di marmo bianco, di terra nerastra e di<br />

rosso porfido: ancora una volta, come nell’incontro con Lucifero, ritroviamo la terna dei<br />

colori alchemici.<br />

Là ne venimmo; e lo scaglio primaio<br />

bianco marmo era sì pulito e terso,<br />

ch’io mi specchiai in esso qual io paio.<br />

Era il secondo tinto più che perso,<br />

d’una petrina ruvida e <strong>ars</strong>iccia,<br />

crepata per lo lungo di traverso.<br />

Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,<br />

porfido mi parea, sì fiammeggiante<br />

come sangue che fuor di vena spiccia.<br />

Passata la porta e salito al Paradiso Terrestre, scomparirà il nero della putrefazione e sarà<br />

sostituito, in una evoluzione verso la perfezione, dal verde del mercurio ( il bianco, verde e<br />

rosso che caratterizzano le vesti di Beatrice, a simboleggiare anche le tre virtù teologali ) e<br />

poi dalla purezza dell’oro, nei colori che caratterizzano il grifone, simbolo del Cristo.<br />

L’angelo apostrofa i pellegrini con delle chiare ‘parole di passo’ ( che volete voi? chi<br />

vi presenta? attenzione a quel che fate! ) ed al nome della ‘donna del ciel, di queste cose<br />

accorta’ li invita a salire.<br />

“Dite costinci: che volete voi?”,<br />

cominciò elli a dire, “ov’é la scorta?<br />

Guardate che il venir sù non vi nòi”.<br />

“Donna del ciel, di queste cose accorta”,<br />

rispuose ‘l mio maestro a lui, “pur dianzi<br />

ne disse: ‘andate là: quivi é la porta’ ”.<br />

“Ed ella i passi vostri in bene avanzi”,<br />

ricominciò il cortese portinaio;<br />

“venite dunque a’ nostri gradi innanzi”.<br />

L’angelo stesso è ritto in piedi su una pietra di diamante e quando Dante si inginocchia ai<br />

suoi piedi, incide con la sua spada le sette P che verranno progressivamente cancellate nella<br />

salita del monte. Infine trae dalla sua veste, che ha il color cenere della penitenza, due<br />

chiavi, una d’oro e una d’argento, entrambe donategli da S. Pietro. Entrambe le chiavi, dirà<br />

l’angelo, sono necessarie ad aprire la porta: più preziosa è quella d’oro, che rappresenta la<br />

potestà di conferire il crisma che permette di accedere ai grandi misteri, ma quella d’argento<br />

richiede più arte ed ingegno, ossia la sapienza per comprendere se il neofita è davvero<br />

pronto a ricevere tale crisma. Poi l’angelo apre la porta, naturalmente prima con la chiave


d’argento e poi con quella d’oro, con l’ultimo avvertimento, anch’esso denso di<br />

reminiscenze iniziatiche, che “di fuor torna chi indietro si guata”.<br />

Sovra questo tenea ambo le piante<br />

l’angel di Dio sedendo in su la soglia<br />

che mi sembiava pietra di diamante.<br />

Per li tre gradi sù di buona voglia<br />

mi trasse il duca mio, dicendo:”Chiedi<br />

umilemente che ‘l serrame scioglia”.<br />

Divoto mi gittai a’ santi piedi;<br />

misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,<br />

ma tre volte nel petto pria mi diedi.<br />

Sette P ne la fronte mi descrisse<br />

col punton de la spada, e “Fa che lavi,<br />

quando se’ dentro, queste piaghe “ disse.<br />

Cenere, o terra che secca si cavi,<br />

d’un color fora col suo vestimento;<br />

e di sotto da quel trasse due chiavi.<br />

L’una era d’oro e l’altra era d’argento;<br />

pria con la bianca e poscia con la gialla<br />

fece a la porta sì, ch’i’fui contento.<br />

“Quandunque l’una d’este chiavi falla,<br />

che non si volga dritta per la toppa”,<br />

diss’elli a noi “ non s’apre questa calla.<br />

Più cara é l’una; ma l’altra vuol troppa<br />

d’arte e d’ingegno avanti che diserri,<br />

perch’ella è quella che ‘l nodo digroppa.<br />

Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’erri<br />

anzi ad aprir ch’a tenerla serrata<br />

pur che la gente a’ piedi mi s’atterri”.<br />

Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,<br />

dicendo” Intrate; ma facciovi accorti<br />

che di fuor torna chi ‘n dietro si guata”.<br />

L’immersione nelle acque di Eunoè rende il poeta “puro e disposto a salire alle stelle”.<br />

Il Paradiso, che si apre con la visione dell’universo che promana da Dio e l’accenno<br />

all’esperienza dell’excessus mentis, è il regno dei perfetti, il luogo accessibile soltanto a<br />

coloro che per tempo rivolsero lo spirito al “pane degli angeli”, come avverte Dante<br />

all’inizio del secondo canto. Il passaggio ad un nuovo e superiore livello del cammino di<br />

perfezionamento avviene nuovamente attraverso l’esperienza del fuoco: con gli occhi fissi


in quelli di Beatrice Dante passa dentro la sfera del fuoco, qui avvertito non più come<br />

calore, ma come un intenso sfavillare di luce “ com’ferro che bogliente esce del foco”.<br />

Se il Purgatorio era caratterizzato da una ricorrente allegoria, indispensabile per chi si<br />

avvicina alla comprensione dei misteri, il Paradiso è il regno del simbolo, del superamento<br />

del dualismo, dell’unione con il principio. Qui non incontriamo più personalizzazioni di<br />

entità angeliche, se si esclude la figura dell’arcangelo Gabriele nell’incoronazione di Maria:<br />

qui gli angeli appaiono nel tripudio di luce e di canti dei cieli, nella loro profonda<br />

significanza di intermediari dell’amore divino.<br />

Già alla fine del secondo canto, dopo aver sciolto i dubbi di Dante circa le macchie<br />

lunari, Beatrice espone l’intera struttura della manifestazione universale, attraverso quella<br />

gerarchia dei cieli che Dante aveva già indicato nel Convivio, gerarchia che possiamo<br />

ritrovare in tutte le tradizioni e in tutte le cosmogonie e non soltanto occidentali. Dentro<br />

l’Empireo, il “ciel della divina pace”, che comprende tutto l’esistente ( o più precisamente<br />

l’intera possibilità universale ) prende moto un corpo che dà poi vita e movimento all’intero<br />

universo che noi conosciamo. E’ il primo mobile e più oltre Dante dirà come questo cielo<br />

“non ha altro dove/ che la mente divina”: è questo cielo a determinare il moto degli altri ed è<br />

in questo cielo che il tempo ha “le sue radici e ne li altri le sue fronde”. (v. Paradiso XXVII,<br />

109-120). Il cielo successivo è quello delle stelle fisse, le costellazioni ed ha il compito di<br />

distribuire le diverse essenze contenute potenzialmente nel primo mobile. Gli altri cieli, i<br />

sette cieli planetari, in funzione delle loro caratteristiche, che prendono dall’ottavo cielo,<br />

trasmettono le loro influenze “ a lor fini e lor semenze”. Questa, dice Beatrice, è la realtà dei<br />

cieli, la cui caratteristica è quella di ricevere dall’alto i doni e le facoltà spirituali e<br />

trasmetterle ai cieli sottostanti: questo è il compito delle gerarchie angeliche nei diversi cieli,<br />

in un processo perenne di amore verso Dio.<br />

Dentro dal ciel de la divina pace<br />

si gira un corpo ne la cui virtute<br />

l’esser di tutto suo contento giace.<br />

Lo ciel seguente, che ha molte vedute,<br />

quell’esser parte per diverse essenze,<br />

da lui distratte e da lui contenute.<br />

Li altri giron per varie differenze<br />

le distinzion che dentro da sé hanno<br />

dispongono a lor fini e lor semenze.<br />

Questi organi del mondo così vanno,<br />

come tu vedi omai, di grado in grado,<br />

che di sù prendono e di sotto fanno.<br />

Nel percorso di ascesa verso l’Empireo, Beatrice ritornerà sul tema dei cieli, per<br />

illustrare a Dante meglio le corrispondenze che intercorrono tra di loro e tra i cieli e Dio, per


sciogliere i suoi dubbi sull’atto di creazione degli angeli e del mondo, per parlargli della<br />

caduta di alcuni di loro e della successiva funzione di creazione della natura, del mondo<br />

sublunare e delle loro influenze su di esso.<br />

In tutto questo affresco è possibile ritrovare in Dante molte delle tematiche della filosofia e<br />

della teologia medioevale, ma anche profonde influenze della mistica araba, da Avicenna ad<br />

Al Ghazali, nonchè evidenti tracce di testi della tradizione gnostica, in particolare alcune<br />

delle Apocalissi gnostiche.<br />

Superato il cielo di Saturno e dopo aver risposto alle domande sulla fede, speranza e<br />

carità poste al poeta dai tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, Dante, salito al primo<br />

mobile, ha la visione dei nove cerchi angeli che ruotano velocissimi intorno a Dio, con un<br />

movimento che è tanto più veloce quanto maggiore è la vicinanza al punto luminoso che li<br />

attira con un atto d’amore.<br />

Forse cotanto quanto pare appresso<br />

a lo cigner la luce che ‘l dipigne<br />

quando ‘l vapor che ‘l porta più é spesso,<br />

distante intorno al punto un cerchio d’igne<br />

si girava sì ratto, ch’avria vinto<br />

quel moto che più tosto il mondo cigne,<br />

e questo era d’un altro circumcinto,<br />

e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto,<br />

dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.<br />

Sopra seguiva il settimo si sparto<br />

già di larghezza, che ‘l messo di Iuno<br />

intero a contenerlo sarebbe arto.<br />

Così l’ottavo e il nono e ciascheduno<br />

più tardo si movea, secondo ch’era<br />

in numero distante più da l’uno;<br />

e quello avea la fiamma più sincera<br />

cui men distava la favilla pura,<br />

credo, però che più di lei s’invera.<br />

La donna mia, che mi vedea in cura<br />

forte sospeso, disse: “ Da quel punto<br />

dipende il cielo e tutta la natura.<br />

Mira quel cerchio che più le è congiunto;<br />

e sappi che ‘l suo muovere é sì tosto<br />

per l’affocato amore ond’elli è punto”.<br />

La descrizione che Dante ne fornisce è strettamente attinente a quella di Dionigi Areopagita,<br />

che qui egli indica come la vera attendibile, rettificando quella del Convivio, in cui la<br />

posizione di Principati e Troni era stata invertita. In questo errore, ci dice Dante, era anche<br />

caduto Gregorio Magno, che, dopo la morte, salito al cielo, potè constatare la verità e rise di


se stesso. D’altra parte, aggiunge Dante, Dionigi non poteva errare dal momento che il<br />

mistero delle gerarchie angeliche, insieme ad altri misteri, gli era stato svelato dal suo<br />

maestro l’apostolo Paolo.<br />

Io sentiva osannar di coro in coro<br />

al punto fisso che li tiene a li ubi,<br />

e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.<br />

E quella che vedea i pensier dubi<br />

ne la mia mente, disse: “I cerchi primi<br />

t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.<br />

Così veloci seguono i suoi vimi,<br />

per somigli<strong>ars</strong>i al punto quanto ponno;<br />

e posson quanto a veder son sublimi.<br />

Quelli altri amori che intorno li vonno,<br />

si chiaman Troni del divino aspetto,<br />

per che il primo ternaro terminonno;<br />

e dei saper che tutti hanno diletto<br />

quanto la sua veduta si profonda<br />

nel vero in che si queta ogne intelletto.<br />

........................................................<br />

L’altro ternaro, che così germoglia<br />

in questa primavera sempiterna<br />

che notturno Arïete non dispoglia,<br />

perpetualemente ‘Osanna’ sberna<br />

con tre melode, che suonano in tree<br />

ordini di letizia onde s’interna.<br />

In essa gerarchia son l’altre dee:<br />

prima Dominazioni, e poi Virtudi;<br />

l’ordine terzo di Podestati ée.<br />

Poscia né due penultimi tripudi<br />

Principati e Arcangeli si girano;<br />

l’ultimo é tutto d’Angelici ludi.<br />

Questi ordini di sù tutti s’ammirano,<br />

e di giù vincon sì, che verso Dio<br />

tutti tirati sono e tutti tirano.<br />

E Dïonisio con tanto disio<br />

a contemplar questi ordini si mise,<br />

che li nomò e distinse com’io.<br />

Ma Gregorio da lui poi si divise;<br />

onde, sì tosto come li occhi aperse


in questo ciel, di sé medesmo rise.<br />

E se tanto secreto ver proferse<br />

mortale in terra, non voglio ch’ammiri:<br />

ché chi ‘l vide qua sù gliel discoperse<br />

con altro assai del ver di questi giri.<br />

Nel canto che segue Dante, per bocca di Beatrice descriverà il tempo, il luogo e il modo<br />

della creazione angelica, la ribellione di Lucifero e le facoltà degli angeli, trovando anche<br />

l’occasione per una invettiva sdegnata verso le vanità filosofiche che credono erroneamente<br />

di poter interpretare la realtà dei cieli, “si che là giù, non dormendo, si sogna/credendo e non<br />

credendo dicer vero”.<br />

Ma ormai, aggiunge Beatrice, Dante è in grado di<br />

contemplare da solo “l’eccelso e la larghezza de l’etterno valor” e, con la guida significativa<br />

di S. Bernardo e l’intercessione della Vergine Maria, Dante può attingere alla conoscenza<br />

suprema del Principio, alla ineffabile ed eterna luce divina.


’iconografia demoniaca in Dante<br />

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Massimo Centini


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Il mito della caccia selvaggia<br />

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Andrea Maia<br />

Paesaggi nella Commedia<br />

Nel poema dantesco lo sfondo del viaggio è descritto e presentato con attenzione<br />

realistica: il percorso dell'agens avviene in un mondo che, anche quando appare (specie al<br />

lettore di oggi) irreale o assurdo, è colto sempre con attenzione e delineato con la tipica<br />

tonalità dantesca, trattando l'ombre come cosa salda. Però, come ognuna delle tre cantiche<br />

assume tonalità e registri diversi e caratteristici (tensione, rude realismo ed uso sistematico<br />

del brau lengage per l'Inferno, sensibilità pittorico-musicale, armonica fusione e toni<br />

attenuati nel Purgatorio, tendenza al sublime e tensione espressiva nel Paradiso) così in<br />

ciascuna di esse il paesaggio è descritto in modi assai diversificati.<br />

Nella prima cantica l'ambiente è ostile al pellegrino come ai dannati: e coerentemente lo<br />

sfondo appare per lo più "innaturale" ed orribile, spesso componente e sostanza della<br />

punizione, sempre in netto contrasto con i paesaggi terrestri. Nella seconda cantica, così<br />

come l'esperienza delle anime, anche lo sfondo si rivela familiare, amichevole e consolatore:<br />

la vista della spiaggia, del mare, della montagna che si slancia nell'azzurro, il placido<br />

succedersi del dì e della notte mettono a suo agio il pellegrino, che ritrova un ritmo normale<br />

di vita, anche attraverso l'altern<strong>ars</strong>i della veglia e del sonno e la possibilità di osservare e<br />

contemplare con calma, nelle pause del cammino, ancora faticoso ma non più terribile, i<br />

luoghi nel graduale trascolorare della luce dall'alba al tramonto. La terza cantica è per<br />

definizione fuori dell'esperienza terrena, ed un vero e proprio "paesaggio" non esiste, al di<br />

là delle geometrie astratte dei cieli e dei disegni tramati dai movimenti e dalle disposizioni<br />

delle anime: ma il mondo terreno è ricuperato metaforicamente, e le similitudini del<br />

Paradiso sono spesso costituite da quadri naturali di straordinaria armonia e luminosità: la<br />

bellezza della terra diviene umbrifero prefazio della beatitudine eterna. Troviamo così prima<br />

l'innaturale e l'orrido, poi un placido mondo terreno del tutto simile a quello di serene<br />

giornate vissute qui da noi, infine la sublimazione e la perfezione della bellezza (che<br />

approda al suo simbolo supremo nella candida rosa dell'Empireo).<br />

Il regno del locus horridus<br />

La prima cantica si apre su un bosco, cioè su un paesaggio che nell'immaginario<br />

collettivo può assumere connotazioni contrastanti, che oscillano fra la paura (oscurità,<br />

smarrimento, presenza di animali pericolosi), come in questo caso, e la serenità edenica<br />

(come nel finale del Purgatorio). Nel canto I dell'Inferno lo sfondo paesistico è dunque<br />

costituito essenzialmente dalla selva oscura (v.2), che diviene poco dopo (v.59) la selva<br />

selvaggia ed aspra e forte. Paura ed angoscia sono i sentimenti prevalenti: e dalla selva<br />

usciranno la lonza, il leone, la lupa che, al di là del loro senso allegorico, rappresentano il<br />

logico completamento di un paesaggio ostile. Ma ci sarà, nell'inferno vero e proprio, una<br />

selva ancora più significativa per la nostra prospettiva di lettura, a dimostrare che Dante


nella prima cantica vuole delineare l'antinatura, il mondo privato di Dio, e quindi dell'ordine<br />

e della bellezza. La stessa figura retorica che introduce, nel canto XIII, il paesaggio del<br />

secondo girone del settimo cerchio (quello dei violenti contro se stessi e i propri beni) è<br />

significativa in questo senso: si tratta infatti della "privatio", costruita sul contrasto "non...<br />

ma..." ad indicare, coll'esplicito riferimento-esclusione di paesaggi terreni, la "innaturalità"<br />

del mondo infernale. Il passo è importante anche per l'evidente ricorso al brau lengage, che<br />

è anch'esso una spia dell'atteggiamento del poeta, e costituisce quasi la definizione teorica<br />

del locus horridus:<br />

Non fronda verde, ma di color fosco;<br />

non rami schietti, ma nodosi e involti;<br />

non pomi v'eran, ma stecchi con tosco...<br />

Mi sembra evidente che, per Dante, lo sfondo dell'inferno non è tanto la natura, quanto<br />

l'antinatura, così come il re del doloroso regno apparirà come una cupa antitesi e quasi una<br />

parodia di Dio e della Trinità.<br />

Nel bosco dei suicidi e dei dilapidatori il paesaggio si manifesta dunque come il<br />

"contrario" del paesaggio terreno, al quale si allude implicitamente, ma è un riferimento a<br />

luoghi incolti e selvaggi, alla Maremma, considerata quasi idillica nel confronto col bosco<br />

dei suicidi:<br />

Non han sì aspri sterpi né sì folti<br />

quelle fiere selvagge che in odio hanno<br />

tra Cecina e Corneto i luoghi colti.<br />

La foresta è abitata dalle Arpie, percorsa da una caccia tragica in cui gli uomini non<br />

sono cacciatori, ma cacciati, ed in essa, soprattutto, con crudele fantasia, in ognuno di quegli<br />

alberi contorti e dai frutti velenosi ci sono, trasformate in vegetali, le anime dei suicidi, che,<br />

avendo rinunciato al loro corpo, non lo riavranno più. Anzi, con macabra invenzione, nella<br />

prospettiva del dopo giudizio universale, la terribile innaturale foresta diverrà ancor più<br />

tragica e macabra, trasformandosi nella foresta degli impiccati. Le anime andranno, come le<br />

altre, a ricuperare le loro spoglie, ma non potranno rivestirsene:<br />

Qui le strascineremo, e per la mesta<br />

selva saranno i nostri corpi appesi,<br />

ciascuno al prun dell'ombra sua molesta.<br />

Mi pare che questa foresta, in cui poco dopo sovraggiungono le cagne nere scatenate<br />

(una delle metamorfosi demoniache più vivaci e fortemente espressionistiche della prima<br />

cantica) divenga quasi il simbolo e la sintesi della natura demoniaca, del paesaggio<br />

infernale.<br />

Ma tutta la prima cantica sviluppa la sua narrazione su sfondi cupi e drammatici: la<br />

prima impressione infernale, registrata nel canto III, subito dopo aver superato la porta dalla<br />

scritta paurosa, si basa sul frastuono e sull'oscurità:<br />

Quivi sospiri, pianti ed alti guai<br />

risonavan per l'aere sanza stelle,<br />

per ch'io al cominciar ne lagrimai.<br />

Diverse lingue, orribili favelle,<br />

parole di dolore, accenti d'ira,


voci alte e fioche, e suon di man con elle<br />

facevano un tumulto, il qual s'aggira<br />

sempre in quell'aura sanza tempo tinta,<br />

come la rena quando turbo spira.<br />

Subito dopo, in rapida sequenza, si profila lo scorcio del fiume infernale, sulla cui<br />

sponda si ammassano le anime (....la trista riviera d'Acheronte). Una eccezione è il nobile<br />

castello del Limbo, che costituisce una parentesi di serenità nell'angoscia: il prato di fresca<br />

verdura, il verde smalto su cui passeggiano, conversando soavemente, i saggi dell'antichità,<br />

risalta con evidenza proprio per la sua eccezionalità, per il contrasto con la cupezza e con il<br />

buio, interrotto e percorso solo dai lampi funesti di fuochi punitivi. Si inseriscono nel<br />

paesaggio negativo la bufera dei lussuriosi del canto V, la greve pioggia, mista di grandine<br />

e fango, dei golosi del canto VI, la giostra tra i sassi degli avari e prodighi, la palude<br />

fangosa degli accidiosi. Si tratta, fino al canto VIII, di paesaggi abnormi e paurosi, ma<br />

inseribili ancora nella tipologia di luoghi terreni (boschi, fiumi, paludi, tempeste di vento e<br />

di pioggia). Dalle mura della città di Dite in poi prevale invece quella "innaturalità" di cui si<br />

diceva: costruzioni ed architetture inusuali (mura di ferro arroventate, dighe gigantesche,<br />

tombe infuocate, fiumi di sangue, piogge di fuoco, foreste in cui gli alberi sono uomini...).<br />

Proprio l'aspetto delle costruzioni, delle architetture appare caratteristico della prima cantica,<br />

e Dante lascia il lettore nel dubbio su chi sia l'artefice delle crudeli (o giuste?) macchine di<br />

tortura. Nel canto XV, dopo aver paragonato gli argini del Flegetonte a dighe sul Brenta o<br />

nei Paesi Bassi, prosegue:<br />

a tale imagine eran fatti quelli,<br />

tutto che né sì alti né sì grossi,<br />

qual che si fosse, lo maestro felli.<br />

L'autore lascia il dubbio sul realizzatore, sul "maestro", demoniaco o divino o forse più<br />

probabilmente, esecutore diabolico obbligato a seguire un preciso disegno della giustizia<br />

divina. L'"ordigno" delle Malebolge, con la sua struttura geometrica, con i fossati ed i ponti,<br />

porta il segno di una lucida ingegneristica progettazione; ma all'interno di ogni fossa si<br />

riproduce la natura innaturale di cui si diceva: dalla strada a due corsie dei ruffiani e<br />

seduttori, al fondo di fogna degli adulatori, al terreno traforato di pozzi infuocati dei<br />

simoniaci, dalla pece bollente in cui continuano a pescare nel torbido i barattieri, al deserto<br />

sabbioso delle metamorfosi dei ladri fino al lazzaretto delle schifose malattie dei falsari... I<br />

paesaggi offrono un senso di antinatura, un mondo artificiale, senza cielo e senza luce,<br />

senza prati e senz'acqua, ove i fiumi sono di sangue bollente, come quello in cui sono<br />

immersi i violenti contro il prossimo; di sterco, come nel caso degli adulatori; di pece, come<br />

nella bolgia dei barattieri. Si giunge poi alla distesa ghiacciata del cerchio IX, custodita dai<br />

giganti ed abitata dai traditori, in cui il paesaggio livido ed immoto simboleggia l'assenza<br />

definitiva di qualsiasi residuo del fuoco della carità e rappresenta l'assoluto della<br />

disperazione. Il canto finale, con la narrazione della discesa lungo il fianco peloso di<br />

Lucifero (materia bruta) e l'inizio dell'ascesa dal centro della terra ove il traditore di Dio è<br />

stato scagliato in seguito alla sua ribellione, si chiude con il ritorno al paesaggio terreno,<br />

quasi ad anticipare gli sviluppi della seconda cantica. Una visione di cielo saluta l'emergere


dei viandanti:<br />

Dolce colore ...<br />

..e quindi uscimmo a riveder le stelle.<br />

La seconda cantica è quella dell'umanità ritrovata, la più umanamente terrena delle tre<br />

cantiche, la più dolce ed armoniosa. In consonanza con lo stato delle anime, analogo a<br />

quello dei vivi (esse sono in una condizione di sofferenza accettata e finalizzata, la<br />

condizione di chiunque sulla terra sia cosciente di sé e del proprio impegno) anche il<br />

paesaggio è del tutto simile a quello della terra, anzi "è" quello della terra, sia pure in una<br />

posizione di antipodi rispetto al mondo abitato dai viventi. Se le anime dell'inferno vivevano<br />

l'esperienza della disperazione assoluta e dell'odio reciproco, e trovavano attorno a sé una<br />

natura consona allo stato d'animo estremo e disumano, così le anime purganti, che<br />

realizzano gradualmente l'armonia con sé e con gli altri, si collocano su sfondi sereni.<br />

Montagna erta e mare, spiagge folte di giunchi, vallette amene ricche di fiori, come quella<br />

dei principi negligenti, sulla vetta la "divina foresta spessa e viva" dell'Eden e un cielo<br />

perennemente sereno, trascolorante dal pallore dell'alba, alla piena luce del meriggio, ai<br />

vividi colori del tramonto, alle notti gremite di stelle sconosciute: ecco i dati essenziali del<br />

paesaggio purgatoriale. Fin dall'inizio del primo canto è impostata la ricca sinfonia di questo<br />

tema, che ci rivela un poeta sensibile al "locus amoenus" e capace di finezze descrittive e di<br />

sfumature sensoriali impensabili nel cupo scultore delle statue infernali. L'alacre senso di<br />

rinnovamento e di resurrezione (siamo all'alba della Pasqua dell'anno di grazia 1300) trova<br />

immediato riscontro nello sfondo pittoricamente delineato:<br />

Dolce color d'oriental zaffiro,<br />

che s'accoglieva nel sereno aspetto<br />

del mezzo puro insino al primo giro,<br />

agli occhi miei ricominciò diletto...<br />

E' l'anticipazione della presenza e della funzione che la natura (non più nemica e<br />

matrigna come nell'Inferno) avrà nella seconda cantica; non più selve selvagge abitate da<br />

belve terribili, non più abissi oscuri e violente tempeste, ma cieli limpidi sospesi sul<br />

tremolar della marina: una montagna erta ma che invita ad un sano esercizio sportivo, la<br />

visione del sole che sale nel cielo (a sinistra di chi sia rivolto ad est, tanto per suscitare la<br />

curiosità dell'agens e consentire l'ampia digressione astronomico-geografica del IV canto).<br />

Un elemento caratteristico del paesaggio purgatoriale è l'indicazione del graduale scorrere<br />

del tempo: le giornate trascorse in purgatorio sono segnate da questo aspetto ed intervallate<br />

dalle notti e dai sogni dell'agens; anche il ritmo di vita appare analogo a quello della terra.<br />

Così, ad esempio, la prima giornata, dall'alba rigenerante sopra esaminata fino al tramonto<br />

avvertito con la sofferta nostalgia dell'esule, occupa i primi otto canti: alla fine del canto I<br />

ormai il sole vince le tenebre e sta per eliminare la rugiada con cui Virgilio laverà il volto<br />

dell'agens, per poi apparire nel cielo (canto II) ad illuminare la superficie marina percorsa<br />

dal vasello che, guidato dal luminoso angelico nocchiero, porta le anime sulla spiaggia; più


avanti, nel canto terzo, Dante teme di essere abbandonato quando non vede, accanto alla<br />

propria, l'ombra di Virgilio, e le anime degli scomunicati accorrono, stupiti per l'ombra<br />

causata dal vivo che li visita; nel canto IV, proprio da una pausa di riposo e di<br />

contemplazione del paesaggio (...Gli occhi prima drizzai ai bassi liti; / poscia li alzai al sole,<br />

ed ammirava / che da sinistra n'eravam colpiti...) nasce il dibattito scientifico-astronomico<br />

cui si accennava. Col canto VI si arriverà presso il tramonto, che giungerà, bloccando il<br />

percorso dei viandanti, nella valletta dei principi negligenti (canto VIII). Ma proprio qui si<br />

situerà un paesaggio ricco di effetti coloristici, che sembra ricolleg<strong>ars</strong>i al gusto di un Walter<br />

von del Vogelweide o di un Guinizzelli (poeti ovviamente ben presenti al nostro), un<br />

paesaggio che anticipa la bellezza della divina foresta spessa e viva della vetta della<br />

montagna:<br />

Oro e argento fine cocco biacca,<br />

indaco legno lucido sereno,<br />

fresco smeraldo in l'ora che si fiacca,<br />

dall'erba e dalli fior, dentr'a quel seno<br />

posti ciascun saria di color vinto,<br />

come dal suo maggiore è vinto il meno.<br />

Dopo l'ingresso nel purgatorio vero e proprio (canto IX), l'attenzione del narratore è<br />

focalizzata e quella del lettore indirizzata maggiormente sugli elementi della interiorità,<br />

dell'espiazione, della fraternità, che non sul paesaggio: la percezione "visiva" è concentrata<br />

sugli exempla o sull'osservazione delle pene: non mancano tocchi descrittivi come il livido<br />

color della petraia che fa da sfondo agli invidiosi accecati, o gli alberi dei golosi, o la visione<br />

di un cielo luminoso nella terza notte (canto XXVII), quando Dante si appresta al riposo tra<br />

Virgilio e Stazio, sulla scala infossata che porta alla cima:<br />

...vedea io le stelle<br />

di lor solere e più chiare e maggiori.<br />

Ma il trionfo del locus amoenus è la foresta del paradiso terrestre, chiara antitesi della<br />

selva infernale, quasi a segnare i due punti essenziali dell'itinerario dell'agens, quello iniziale<br />

del peccato e quello conclusivo della redenzione. Siamo nel canto XXVIII, e gli ultimi sei<br />

canti del Purgatorio saranno segnati dall'atmosfera di renovatio spirituale suggerita dalla<br />

freschezza del paesaggio della foresta, non più interpretata come luogo di oscurità o di<br />

paura, (come accadeva all’inizio dell’Inferno) ma come simbolo di raggiunta armonia, di<br />

sintonica e simbolica rispondenza tra uomo ed ambiente (il luogo ideale dei moderni<br />

ecologisti?). Dante, attento osservatore, ci indica anche, come è soltito fare, il modello<br />

terreno del suo luogo edenico: è la pineta di Classe (cfr. XXVIII, 20), nella quale il poeta<br />

passeggiava negli ultimi anni di vita, ospite onorato di Guido Novello da Polenta nella<br />

vicina Ravenna.<br />

La descrizione della foresta edenica è la dimostrazione della perfetta adattabilità della<br />

ispirazione dantesca alle tematiche più diverse: il poeta-scultore delle statuarie figure eroiche<br />

e tragiche, il disegnatore nervoso e drammatico dell'antinatura infernale, si trasforma nel<br />

pittore delicato e sensibile, attento alle sfumature ed ai colori, nel musico raffinato, capace di<br />

cogliere gli aspetti fonici con un senso dell'armonia eccezionale, senza peraltro rinunciare<br />

alla precisione ed al vigore che sono le sigle della sua musa. Dopo la sensazione tattile


iniziale (l'aura dolce che colpisce la fronte del poeta) e quella uditiva del canto degli uccelli<br />

che tiene bordone al brusio del soave vento, solo in una terza fase si arriva alla visione, cioè<br />

alla rappresentazione pittorica del paesaggio, tradizionalmente al primo posto, con un<br />

suggestivo effetto di gradualità, di passaggio dall'indistinto e dal labile al preciso e reale:<br />

quest'ultimo, il dato visivo, trova il sui compimento nella rappresentazione del ruscello<br />

limpido, scorrente fra l'erbe e nell'ombra. Credo che nella poesia italiana raramente si sia<br />

raggiunta una finezza di resa di un elemento naturale, una sensibilità per il paesaggio<br />

paragonabile a questa. Forse solo la canzone 126 del Petrarca, quella delle Chiare, fresche e<br />

dolci acque..., può reggere il paragone con questo luminoso, musicale e limpido passo del<br />

Purgatorio:<br />

Tutte l'acque che son di qua più monde,<br />

parrieno avere in sé mistura alcuno<br />

verso di quella, che nulla nasconde;<br />

avvegnachè si mova bruna bruna<br />

sotto l'ombra perpetua, che mai<br />

raggiar non lascia sole ivi, né luna.<br />

Nel paesaggio si inserisce con piena armonia e perfetta consonanza, secondo la<br />

tradizione cortese della poesia occitanica e del Minnesang, la immagine femminile di<br />

Matelda, donna angelicata tra i fiori, misteriosa, aggraziata e luminosa figura anticipatrice<br />

della Beata Beatrix che apparirà poco dopo al Fedele:<br />

... una donna soletta che sia gia<br />

cantando e scegliendo fior da fiore<br />

ond'era pinta tutta la sua via.<br />

Il paesaggio che conclude il Purgatorio rappresenta dunque la natura come appariva<br />

subito dopo la creazione, il paesaggio terreno ideale, il mondo come era prima che il peccato<br />

portasse sulla terra il caos, il disordine, ed è quasi la proiezione sull'esterno della serenità<br />

interiore raggiunta dalle anime ormai purificate, come il poeta dopo il bagno nel Lete e<br />

nell'Eunoè, ormai...<br />

puro e disposto a salire alle stelle.<br />

In forma di rosa<br />

Il mondo della terza cantica, senza luogo e senza tempo, di per sé non prevede aspetti<br />

paesaggistici, al di là delle astratte coreografie delle fiamme dei beati, ma, nel costante<br />

tentativo del poeta di significar per verba ciò che sta al di sopra delle esperienze umane, il<br />

paesaggio che gli uomini contemplano sulla terra (mari, montagne, cielo stellato) diviene<br />

metafota e simbolo, umbrifero prefazio dello splendore paradisiaco.<br />

Intanto occorrerà accennare al paesaggio che chiameremo "primario", cioè a quello che<br />

il poeta vede e sente direttamente; a partire dal cielo di Mercurio, e poi in modo sempre più<br />

calcolato e geometricamente definito, gli incontri sono incastonati in cerchi di danze, luci e


melodie. Il paesaggio "primario" consiste sopra tutto in questi sfondi di splendori danzanti e<br />

cantanti, fino alla scritta ed all'aquila (degne di un pubblicitario creativo moderno) del cielo<br />

di Giove. Di questo paesaggio fa parte anche una delle invenzioni più straordinarie di<br />

Dante, forse ispirategli dai rosoni delle cattedrali gotiche (quello di Chartres, probabilmente<br />

contemplato dal poeta, rappresenta proprio il trionfo dei beati in Paradiso): la CANDIDA<br />

ROSA, riferimento e sfondo costante degli ultimi canti (nel giallo della rosa sempiterna,<br />

XXX, 124; in forma dunque di candida rosa, XXXI, 1) consente al paesaggio paradisiaco<br />

di trovare la sua compiuta espressione; e se supponiamo (come il Contini ha<br />

persuasivamente sostenuto) che Dante quindicenne abbia tradotto il Roman de la rose e<br />

ricordiamo il significato erotico del fiore in quel contesto, ci rendiamo conto del lungo<br />

percorso e dell'evoluzione del poeta e della sua poesia. Più sovente però, come si diceva, il<br />

paesaggio (terreno e insieme sublimato dall'uso che il poeta ne fa) serve come similitudine,<br />

metafora, "umbrifero prefazio" della indicibile realtà celeste. Già nel Purgatorio c’erano<br />

similitudini di questo genere (e da una di esse - canti V, vv. 37-40 - ho ricavato il titolo di<br />

questa riflessione), ma nel Paradiso costituiscono una tecnica costante e caratteristica. Così<br />

troviamo spesso, nella terza cantica, aperture brevi ma straordinarie di paesaggi come<br />

trasfigurati e finalizzati ad aiutare il lettore a comprendere o almeno intuire aspetti della<br />

esperienza ultraterrena. Vediamo alcuni esempi significativi, distinguendoli in tre tipologie:<br />

a) paesaggi d'acqua;<br />

b) loci amoeni;<br />

c) visioni cosmiche e notturni.<br />

a) ... un mormorar di fiume...<br />

Già nel canto primo, come metafora del mondo finalizzato e guidato dalla Provvidenza, il<br />

poeta usa l'immagine dell'oceano, lo gran mar de l'essere (che poi torna nell'ultimo canto,<br />

con la similitudine di Nettuno contemplante con stupita ammirazione dal fondo l'ombra di<br />

Argo, la prima nave); ma è nel canto III che Dante utilizza in modo efficace e suggestivo<br />

immagini d'acqua, a far da cornice, sfumata e nitida insieme, alla apparizione e sparizione di<br />

Piccarda: l'anima appare infatti come specchiata in acque nitide e tranquille, per poi<br />

dilegu<strong>ars</strong>i come per acque cupe cosa grave; e raramente nell'opera, che pure conferisce<br />

all'acqua un significato salvifico e di purificazione e dà quindi ad essa grande importanza,<br />

un paesaggio, appena accennato, ha risonanze etico-spirituali così significative. Interessanti<br />

sono poi alcune similitudini che sottolineano il rapporto acqua-luce; cosi, II, 34 sgg., ad<br />

illustrare l'ingresso nel pallido lucore del cielo della luna:<br />

Per entro sé l'eterna margarita<br />

ne ricevette, com'acqua recepe<br />

raggio di luce permanendo unita ...<br />

o ancora (IX,114) la variante come raggio di sole in acqua mera. Accanto alla visione,<br />

appare anche la musica dell'acqua: quando all'inizio del canto XX, il poeta vuole esprimere<br />

il form<strong>ars</strong>i della voce nel collo dell'aquila (costituita dall'insieme delle anime del cielo di<br />

Giove) rievoca lo scrosciare di un corso d'acqua di montagna che scorre alimentato da una<br />

ricca sorgente: e dinanzi al lettore rapito da quel mormorar di torrente alpino si dipinge con


nitidezza un fresco paesaggio montano:<br />

... udir mi parve un mormorar di fiume<br />

che scende chiaro giù di pietra in pietra,<br />

mostrando l'ubertà del suo cacume.<br />

Il locus amoenus<br />

Nella terza cantica il locus amoenus assume la connotazione della primavera, già<br />

preannunciata sulla cima del purgatorio (Matelda coglie fiori nella divina foresta spessa e<br />

viva). Ciò accade soprattutto nel finale, ove la dolce stagione, coi limpidi ruscelli, i fiori e le<br />

api, si arricchisce di simbologie spirituali; ma già nel canto XXIII (che effettivamente<br />

anticipa le tematiche lirico-contemplative degli ultimi canti) nell'episodio del trionfo di<br />

Cristo, Dante utilizza una singolare suggestiva similitudine: le anime sotto la luce di Cristo,<br />

con originale invenzione, gli appaiono come fiori in un prato illuminato da un raggio di sole<br />

che trafigga un cielo nuvoloso:<br />

Come a raggio di sol che puro mei<br />

per fratta nube, già prato di fiori<br />

vider, coverti d'ombra, gli occhi miei,<br />

vid'io così più turba di splendori...<br />

Nel canto XXX, Dio, dopo essersi manifestato come un punto luminoso nel canto<br />

precedente, appare come un fiume di luce (sulla base di una serie di reminiscenze bibliche);<br />

e su questa immagine il poeta costruisce il suo quadro paradisiaco, collegato evidentemente<br />

al ricordo della estatica contemplazione d'una campagna primaverile punteggiata di fiori<br />

sotto l'operoso e fervido andirivieni delle api: i fiori sono i beati, le api gli angeli e Dio, con<br />

memorabile invezione di melodia pittrice, il "miro gurge" della luca. Ma solo la lettura<br />

diretta delle tre terzine (introdotte dal "vidi" che è la sigla di questo canto e la testimonianza<br />

di un residuo razionalismo che privilegia la concezione tomistica del paradiso come "visio<br />

Dei intellectualis", rispetto all'idea bonaventuriana della notte mistico-amorosa), può<br />

consentire di percepirne la tessitura e la ricchezza:<br />

E vidi lume in forma di rivera<br />

fulvido di fulgore, intra due rive<br />

dipinte di mirabil primavera.<br />

Di tal fiumana uscian faville vive,<br />

e d'ogni parte si mettean ne' fiori,<br />

quasi rubin che oro circumscrive.<br />

Poi, come inebriate da li odori,<br />

riprofondavan sé nel miro gurge;<br />

e s'una intrava, un'altra n'uscia fòri.<br />

L'immagine ritorna con toni simili di estasi incantata nel canto successivo, a descrivere<br />

la "plenitudine volante" degli angeli tra la candida rosa dei beati e Dio; e ancora gli angeli<br />

sono assimilati, nella costante fedeltà alla visione primaverile, ad una schiera d'api, che<br />

s'infiora.


c) Visioni cosmiche e notturni.<br />

La più celebre delle visioni cosmiche, che nel suo saggio Dante scrittore la poetessa<br />

francese J. Risset, ottima traduttrice del poema, considera quasi una prefigurazione di ciò<br />

che videro, nel 1969, i primi astronauti di ritorno dalla luna, è nel finale del canto XXII,<br />

quando Dante, dalla costellazione dei Gemelli, getta lo sguardo ai mondi sottostanti, fino<br />

alla terra, l'aiuola che ci fa tanto feroci. In realtà quella pagina ha una fonte lontana, nel VI<br />

libro della Repubblica di Cicerone, cioè il cosiddetto Somnium Scipionis, dove Scipione il<br />

giovane e l'Africano discutono della piccolezza della terra di fronte alla grandezza<br />

dell'universo: ma l'austero tema etico di Cicerone si trasfigura qui in suggestivo motivo<br />

poetico.<br />

Altre visioni di cielo entrano sotto forma di metafore, con l'osservatore posto sulla<br />

terra: un esempio è l'incipit del canto XXX, in cui il graduale scomparire dei cori angelici è<br />

paragonato allo spegnersi delle stelle nel cielo dell'alba: la perifrasi astronomica si svolge<br />

lenta, svariata d'ombre e di luci; lo sguardo del poeta conferisce al semplice fenomeno<br />

cosmico il senso della grandiosità e meraviglia che l'abitudine nasconde ai nostri occhi<br />

distratti. Ma il notturno più suggestivo è certamente quello del canto XXIII:<br />

Quale ne' plenilunii sereni<br />

Trivia ride tra le ninfe eterne<br />

che dipingon lo ciel per tutti i seni...<br />

ove l'impressione nasce più dalla musica che dal colore, come spesso avviene quando<br />

Dante tocca i temi dell'infinito: il palpitante spettacolo di un cielo gremito di stelle sembra<br />

concentrare l'immensità dello spazio cosmico nel breve giro di una miracolosa terzina; la<br />

capacità di sintesi, la brachilogia, doti caratteristiche del poeta, si manifestano pienamente in<br />

questo breve passo e ne fanno uno dei notturni più memorabili della poesia universale.<br />

Anche per questa tematica, dunque, il poeta fiorentino rivela da un lato la varietà e<br />

l'estensione della gamma espressiva di cui dispone, dall'altro la profonda aderenza alle<br />

tonalità prevalenti in ciascuna cantica e preannunziate all'inizio di esse: la terribilità paurosa<br />

della selva del I canto dell'Inferno, la freschezza di un mondo rinnovato e fervido nel<br />

Purgatorio, lo splendore della gloria di colui che tutto move dell'inizio del Paradiso<br />

costituiscono delle premesse ed indicazioni tematiche che Dante svilupperà sì con ricchezza<br />

di variazioni ma anche, come si è visto esaminando i paesaggi, con una sostanziale fedeltà.


Giovangualberto Ceri<br />

L'ora di nascita di Cristo secondo Dante e il suo Medioevo.<br />

Nel medioevo di Dante e in quello precedente, quindi nel mondo ebraico, arabo e cristiano<br />

dei suoi tempi, sarebbe stato impossibile immaginare la nascita di un re, di un profeta e a<br />

maggior ragione del Messia, senza teorizzare gli aspetti celesti che avrebbe dovuto avere il<br />

cielo per quel solenne momento e quindi senza indicare la loro ora di nascita. Da un aspetto<br />

del cielo, ivi compreso l'Ascendente, cioè il Segno ascendente in un dato istante ad est, noi<br />

possiamo infatti sempre ricavare l'ora in cui il cielo stesso ha un tale aspetto; come<br />

ovviamente anche dall'ora di quel tal giorno che aspetto aveva il cielo, se conosciamo il<br />

luogo. Di conseguenza se il Messia avesse dovuto nascere in una ben precisa regione e<br />

sotto una particolare congiunzione astrale, con tali elementi noi avremmo poi potuto ricavare<br />

certamente anche la sua ora di nascita. Ebbene siccome nel medioevo la nascita di Cristo<br />

sembra essere stata indicata seguendo proprio questa convinzione, sarà allora dopo aver<br />

ricercato quale congiunzione fosse presente in cielo, per loro, che potremmo poi ricavare<br />

anche l'ora della Sua nascita. A conferma di questo orientamento culturale faccio seguire<br />

due citazioni.<br />

Riferisce a questo proposito la Federici Vescovini nel suo ottimo commento a Pietro<br />

d'Abano, contemporaneo di Dante: " I dotti ebraici del Medioevo non avevano avuto grandi<br />

difficoltà a conciliare la visione astrologica con il Vecchio Testamento. Se si fa eccezione<br />

per qualche riserva espressa da Mosè Maimonide, altri come Saadiah, Messahalla, Abramo<br />

ibn Ezra, Abramo bar Hiyya,..., credono fermamente che la storia universale d'Israele sia<br />

scritta nelle stelle e nelle loro congiunzioni. L'èra dell'avvento del Messia dipende<br />

intimamente da questi fenomeni planetari. Così Abramo bar Hiyya stenderà un'opera<br />

famosissima fino al Rinascimento, il Liber revelatoris, in cui cerca di prevedere su basi<br />

astrologiche e bibliche il momento di questo grande evento, che sarebbe scandito da una<br />

grande congiunzione " ( Graziella Federici Vescovini, Il " Lucidator dibitabilium<br />

astronimiae " di Pietro d'Abano, Programma e 1+1, Padova 1988, p. 202 ).<br />

Scrive analogamente Dante in relazione a questo problema: " E incidentalmente è da toccare<br />

che, poi che esso cielo cominciò a girare, in migliore disposizione non fu che allora quando<br />

di là su discese Colui che l'ha fatto e che 'l governa; sì come ancora per virtù di loro arti li<br />

matematici ( astrologi ) possono ritrovare " ( Convivio, IV, V, 7 ).<br />

Di conseguenza non è partendo dalla mera conoscenza dell'ora che nel medioevo si sarebbe<br />

potuto indicare l'aspetto del cielo di nascita del Messia ma, al contrario, era dopo aver<br />

valutato quale solenne aspetto, o idonea congiunzione, esso avrebbe dovuto avere che poi si<br />

ricavava anche qual era la Sua ora di nascita. Diversamente si sarebbe infatti potuti incorrere<br />

in delle banalità, o usualità, o aspetti celesti non rispondenti ad un tale avvenimento: ed è<br />

seguendo questo concetto che cercheremo ora di ricavare l'ora di nascita di Gesù Cristo per<br />

Dante e il suo mondo.


Per noi moderni è tollerabile e comprensibile che ancora non si conosca, in base ai vangeli e<br />

alle cronache, l'ora di nascita di Cristo; non altrettanto però lo sarebbe stato per il medioevo<br />

di Dante, anche se per loro, diversamente da noi, era logico e naturale ricavarla dalle stelle.<br />

Se ciò è vero, a che ora Egli sarebbe dunque nato per sant'Alberto Magno, per san<br />

Francesco, per Dante, ecc. ? Inoltre che genere di particolari influssi, od eccelsa virtus,<br />

avrebbero emanato gli astri per quell'eccezionale momento ? Queste due domande possono<br />

per me ottenere una risposta soddisfacente solo se contornate da una serie di circostanze<br />

adeguate e appropriate. Devo perciò prendere qui le distanze da quei Cristiani che, nella<br />

nostra epoca, per non accreditare l'esistenza degli influssi astrali, soprattutto in quanto già<br />

negati dalla scienza moderna e positivista, hanno scelto di ignorare una delle componenti<br />

più fascinanti della nostra religione e della nostra civiltà: la componente astrologica della<br />

liturgia cristiana e della mitologia pagana, non priva, a mio giudizio, di una grande saggezza<br />

culturale.<br />

Prima di affrontare il problema dell'ora di nascita di Gesù Cristo dobbiamo evidenziare che<br />

per la Tradizione, ovvero per alcuni Padri della Chiesa e i suoi primi Dottori ( cfr. Giovan<br />

Battista Riccioli, Chronologiae Reformatae, Tomus Primus, Bologna 1669, lib. VIII, pp.<br />

298-370 ), le principali peculiarità simboliche della Santa Notte di Natale erano le seguenti.<br />

1a. - di cadere al Sol invictus, o Solstizio d'Inverno, ovvero di cadere il 25 Dicembre prima<br />

che il concilio di Nicea del 325 prendesse atto che il Solstizio d'Inverno, per il fenomeno<br />

della precessione degli equinozi, si era intanto spostato al 21 di detto mese ( cfr. A.<br />

Cappelli, Cronologia, Hoepli, Milano 1998, p.30 ).<br />

2a. - di cadere in Dies Solis, cioè di Domenica, giorno del Signore, come ribadisce anche<br />

Dante in chiusura della Questio de aqua et terra ( cap. XXIV ): per cui abbiamo che Cristo<br />

può essere nato soltanto; - o la Domenica 25 Dicembre del 1° anno dopo Cristo, come<br />

stabilisce anche il Calendario fiorentino; - o la Domenica del 7 dopo Cristo, o anno<br />

giuliano 45 dell'Era di Spagna, come indicano sant'Agostino ed altri, insieme al padre<br />

gesuita Giovan Battista Riccioli.<br />

3a. - di cadere con brillante in cielo Lucifero, Venere mattutina, Citerea, ovvero di cadere<br />

con la presenza in cielo della madre di Enea ( Virgilio, Eneide, I, 257-266; I, 314317; II,<br />

801-804 ), però ancor prima del suo sorgere all'orizzonte, come recita più volte anche la<br />

liturgia cristiana: " Tecum principium in die virtutis tuae: in splendoribus sanctorum, ex<br />

utero ANTE LUCIFERUM genui te " ( In nocte Nativitatis Domini ). Ma se Nostro<br />

Salvatore Gesù Cristo è nato prima che sorgesse Lucifero potrebbe voler dire anche che<br />

Egli è nato con Lucifero stesso sul suo Ascendente, poichè la Prima Casa, l'Ascendente, si<br />

estende da 5° sopra l'orizzonte a 25° sotto, iuxta sententiam Ptholomei ( Tetrabiblos, III,<br />

XI, 3 ).<br />

Possiamo dunque riepilogare che, per la Tradizione, il giorno della nascita di Gesù Cristo,<br />

del quale dovremo adesso stabilire l'ora, dovrà intanto corrispondere ad una Domenica 25<br />

Dicembre e con presente in cielo Venere mattutina prima ancora del suo sorgere<br />

all'orizzonte.<br />

Venere mattutina, ovvero Venere occidentale al Sole, Lucifero, quando si trova verso il<br />

massimo della sua elongazione, sorge intorno alle 04h.00'; di conseguenza abbiamo come<br />

tempo utile per la nascita di Cristo dalla mezzanotte, della notte precedente il sorgere del


Sole sul 25 Dicembre, alle 04h.00'. Orbene in questo campo di poco meno di quattro ore<br />

quale sarebbe il momento giusto ? Questo è il nostro problema. Io penso che questo<br />

momento dovesse essere conosciuto anche da san Francesco quando volle con il presepe<br />

dare all'avvenimento un più forte significato e ritengo, per intuizione, che esso non potesse<br />

corrispondere altro che al momento in cui nasceva all'orizzonte di Betlemme la Croce del<br />

sud: vedremo poi se da questa mia intuizione, cioè da una semplice ipotesi, potremmo<br />

passare anche al suo controllo scientifico. Intanto possiamo dire che nasceva Gesù mentre,<br />

contemporaneamente, nasceva all'orizzonte Crux, ovvero le quattro stelle, o luci sante, della<br />

Croce del sud su cui Lui verrà poi, da un punto di vista simbolico, crocifisso: oltre a<br />

doverlo essere, per l'Astrologia dantesca e medievale, anche realmente poichè non si poteva<br />

dare per essa alcun avvenimento celeste che non avesse poi il suo corrispettivo nel mondo<br />

umano e terrestre. Un "destino", quello di Gesù Cristo, ovviamente voluto, segnato dalla<br />

stella ( costellazione della Croce del sud ) congiunta col Suo Ascendente e, più<br />

precisamente, congiunta col primo angolo del cielo, al momento della Sua nascita e che<br />

viene ad aggiungersi alla presenza, alla "congiunzione", nel più vasto campo di 30°<br />

dell'Ascendente stesso, di Lucifero, di Citerea. Gli angoli del cielo sono infatti quattro: 1°<br />

Ascendente; 2° Medium Coeli; 3° Discendente; 4° Imo Coeli. Siccome l'Ascendente di una<br />

persona corrisponde, come ho già detto, alla sua testa, alla testa del nato, ecco che il Nato,<br />

Gesù Cristo, avrà per nascita la Sua testa sempre coronata dalle "quattro luci sante" ( Pur.,<br />

I, 37 ) di Crux. Orbene è stupefacente intanto constatare che il fenomeno prospettato risulti<br />

anche oggettivamente possibile: e non era affatto scontato, nè facile che lo potesse essere.<br />

Infatti sulle 24 ore che compongono la giornata, Crux si trova a poter sorgere proprio<br />

durante quelle quattro ore, dalle 00h. alle 04h., in cui esclusivamente Gesù Cristo, per la<br />

Tradizione, può essere nato. Le probabilità matematiche sono in questo caso pari ad una su<br />

sei. Un campo di 4 ore per la nascita di Cristo su una giornata di 24 ore, con la possibilità<br />

per Crux di poter sorgere all'orizzonte una sola volta, ha infatti la possibilità di verific<strong>ars</strong>i in<br />

sei occasioni ( 6 x 4 ore = 24 ore ). Procedendo nei calcoli vediamo che a Betlemme, tanto<br />

la Domenica 25 Dicembre del 1° d.C. che la Domenica 25 Dicembre del 7 d.C., Crux<br />

iniziava a sorgere alle 1h.10' circa e si trovava tutta sopra l'orizzonte alle 1h.50' circa: per cui<br />

ho ragionevolmente concluso che, in base alla congiunzione di Crux col primo angolo del<br />

cielo, l'ora di nascita di Cristo possa essere stimata fra le 01h.15' e le 01h.45' circa, mentre<br />

stava nevicando.<br />

Se però desideriamo vedere brillare sull'Ascendente di Cristo anche Lucifero, Citerea, già<br />

fatta uguale dai Cristiani del X secolo a Maria ( " Ave Maris Stella / Dei Mater alma /<br />

Atque semper Virgo / Felix coeli porta / ... " ), ebbene allora dovremmo escludere la<br />

Domenica 25 Dicembre del 1° anno d.C. (inizio dell'èra volgare per i Fiorentini ), in quanto<br />

Lucifero, in questo periodo, si trovava troppo vicina al Sole avendo una elongazione ovest<br />

residua di solo circa 6°: ciò che le impediva di essere, al momento obbligato della nascita di<br />

Crux all'orizzonte ( fra le 1h.10' e le 1h.50' ) già in Prima Casa, cioè già nel campo<br />

dell'Ascendente in maniera non troppo dissimile da Crux: distanza fra Venere e Crux pari a<br />

circa 70°. Se optiamo per la concomitanza dei due astri sull'Ascendente di Cristo non<br />

resterebbe allora altro che una sola possibilità: quella offerta dalla Domenica 25 Dicembre<br />

del 7 dopo Cristo, o anno 45 giuliano dell' èra di Spagna, come indica Giovan Battista


Riccioli rifacendosi a sant'Agostino e tanti altri Padri e Dottori della Chiesa ( cfr. Giovan<br />

Battista Riccioli, Chronologiae Reformatae, op. cit., lib. VIII, pp. 298-370 ). Un anno, il 7<br />

dopo Cristo, che da decine di lustri è scomp<strong>ars</strong>o dai testi, forse per il desiderio della Chiesa<br />

( p.e. dei PP. Maurini ) di potersi uniformare alla moda, ovvero alla ricerca storica moderna<br />

( cfr. A. Cappelli, Cronologia e Calendario Perpetuo, Hoepli, Milano 1988, p.8; Elia<br />

Millosevich, L'era volgare, Nuova Antologia, terza serie, vol. LIV, Roma 1894, pp.<br />

138-150 ): una scomp<strong>ars</strong>a che ha poi prodotto l'abbandono della ricerca simbolica tanto cara<br />

anche a Dante e che, a sua volta, ha finito per disincentivare lo studio del pensiero autentico<br />

del Poeta stesso.<br />

Dopo aver indicato la risoluzione del primo problema inerente il tempo cronologico, sarà<br />

però decisivo sofferm<strong>ars</strong>i anche sui suoi significati simbolici, ovvero sui contorni del tempo<br />

vissuto: quello che è deputata a scandire la liturgia cristiana la cui forza poetica sembra però<br />

in grado di confermare pienamente l'ipotesi cronologica avanzata.<br />

Il problema della caduta delle neve mentre Maria dava al mondo Gesù Cristo non è intanto<br />

per Dante di poca importanza e nemmeno un fenomeno pittoresco. Perchè ?<br />

Dobbiamo considerare che la neve non è identificabile per la sua bianchezza ma per il suo<br />

candore: in quanto la neve è per definizione candida, non bianca. Successivamente<br />

dobbiamo anche tener presente che la veste, il corpo, dei martiri è, per la liturgia e la<br />

tradizione, ugualmente identificabile per il suo candore. Recita il TE DEUM ( ovvero, "In<br />

Te Domine speravi" [ v. 31; cfr. Pur., XXX, 83 ] ): " Te Martyrum candidatus laudat<br />

exercitus " ( Te loda il candido esercito dei Martiri ). Tutto ciò che è candido non vuol<br />

dunque dire, in primo luogo, che è puro, ovvero senza mai aver conosciuto il peccato, come<br />

preferiscono insinuare gli insegnanti della dottrina cristiana procurando nei fedeli una sorta<br />

di castrazione psichica poichè, il "puro", si finisce per riferirlo soprattutto al peccato<br />

sessuale. Tutto ciò che è candido dovrà invece intendersi, in senso medievale, che si è già<br />

incamminato verso la ricerca della vera mèta: quella della verità in ogni campo. Tutto ciò che<br />

è candido ( " Manibus, oh, date lilia plenis ! ", Pur., XXX, 21 ), in definitiva sarà tale<br />

perchè chi ricerca la verità in ogni campo assai facilmente può essere condotto al martirio<br />

per l'insopportabilità della luce da lui fatta emergere in quanti si trovano ancora, rispetto ad<br />

essa, nelle tenebre: e non mi perito qui a fare i nomi, per esempio, di Giovanna d'Arco, di<br />

Cristoforo Colombo, di Galileo Galilei e, ovviamente, di Dante. Tutto ciò che è definibile<br />

dantianamente e cristianamente come candido vuol quindi dire: a) - che ha avuto accesso<br />

alla verità; b) - che perciò è andato incontro al martirio per aver dovuto proclamarla come,<br />

emblenaticamente, è successo a san Pietro apostolo per aver voluto seguire l'esempio di<br />

Gesù Cristo.<br />

Rilevato tutto ciò, siccome il cielo di Maria corrisponde al Cristallino, o Primo Mobile, o<br />

Nono cielo, se Dante quando approda a questo stesso cielo di Maria recita: " Sì come di<br />

vapor gelati fiocca / in giuso l'aere nostro, quando 'l corno / de la capra del ciel col sol si<br />

tocca, / in sù vid'io così l'etera addorno / f<strong>ars</strong>i e fioccar d'i vapor triunfanti / che fatto avien<br />

con noi quivi soggiorno " ( Par., XXVII, 67-72 ), dovrà intendersi:<br />

a) - che il Nono cielo è, e sarà, uniformemente ( v. 101 ) ed eternamente sempre uguale al<br />

momento in cui Maria partorì Gesù Cristo e che questo momento è da identificare in un 25<br />

dicembre in quanto Dante specifica " Sì come ... quando 'l corno de la capra del ciel col sol


si tocca ", volendo dire: sì come quando il Sole entra in Capricorno, ovvero sì come quando<br />

il Sole stesso è al Sol invictus o, ugualmente, sì come quando è il 25 Dicembre, giorno,<br />

appunto, del Santo Natale;<br />

b) - che nello stesso Nono cielo sta sempre nevicando poichè Dante recita:" ... così [ vid'io]<br />

l'etera addorno ( uniformemente, v. 101 ) / f<strong>ars</strong>i e fioccar d'i vapor triunfanti ... ".<br />

Arriviamo a questa conclusione seguendo questo ragionamento. Nel cielo Cristallino sta<br />

uniformemente ed eternamente nevicando per la semplice ragione che, probabilmente, nel<br />

solenne momento della Nascita di Cristo nevicava. Io ritengo che non possa essere che così<br />

per esclusione. Infatti: 1° - se il Cristallino è il cielo di Maria, l'aria che in esso si respira<br />

non potrà essere attinente che a Maria stessa; 2° - se l'evento più importante di cui Maria è<br />

stata lo strumento divino è proprio d'aver dato alla luce Colui che sarà la Luce del Mondo,<br />

che Salverà il Mondo, è logico e naturale che nel Cristallino si respiri quest'aria; 3° - se il<br />

Nono cielo rappresenta e simboleggia il momento in cui Maria ha dato alla luce Nostro<br />

Signore Salvatore Gesù Cristo e se qui, nel Cristallino, sta nevicando, è di tutta evidenza<br />

che anche la Domenica 25 Dicembre in cui Lei partorì Gesù non potesse altro che nevicare:<br />

un riscontro a cui i Dantisti mai avrebbero potuto giungere senza adeguate conoscenze<br />

astrologico-liturgiche. Trovo dunque ingenuo che oggi mi si dica che Dante avrebbe<br />

benissimo potuto immaginare che nel cielo Cristallino nevicasse anche senza pensare alla<br />

Santa Notte di Natale, come invece io immagino abbia pensato e per cui, questo mio<br />

accostamento sarebbe, per alcuni di loro, arbitrario.<br />

Se la neve è candida, tenuto presente il senso da Dante già attribuito al candore, ci sarà forse<br />

qualcuno che vorrà dire che il candore della nevicata di quella Notte Santa non fosse<br />

appropriato alla morte a cui andrà poi incontro il Nato ? E anche questo è un modo, per<br />

Dante, di far poesia: evidentemente attingendo alla liturgia cristiana: ma non perchè egli<br />

attinge alla liturgia cristiana i Dantisti si devono sentir autorizzati a pensare che la poesia sia<br />

assente, o un po' più carente.<br />

Detto ciò poniamo ora la nostra attenzione sul significato della nascita all'orizzonte di Crux<br />

nel momento in cui Gesù Cristo stava nascendo: ovvero poniamo ora la nostra attenzione<br />

sul genere di virtus esercitata da questa stessa costellazione la cui ubicazione celeste ci ha<br />

già permesso di stabilire l'ora di nascita del Nato.<br />

Dante sostiene che nessun uomo di natura umana è più degno di significare Dio di Catone<br />

l'Uticense: " E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone ? Certo<br />

nullo. " ( Convivio, IV, XXVIII, 15 ).<br />

Successivamente sostiene che Catone amò tanto la libertà che, nell'imminenza di perderla,<br />

preferì suicid<strong>ars</strong>i: " libertà va cercando, ch'è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta " ( Pur.,<br />

I, 71-72 ): anche perchè era stato esclusivamente attraverso questa stessa libertà che egli<br />

aveva potuto essere non un cittadino umano ma divino ( cfr. Convivio, IV, V, 12 ) e per<br />

cui, perdendola, avrebbe perso conseguentemente anche la deità, la nobiltà, la santità: e, da<br />

qui, il sorgere del suo diritto pagano al suicidio.<br />

Sostiene inoltre Dante che Catone amò la libertà non solo per se stesso ma anche per gli<br />

altri e in particolare quella di Marzia: " Marzia piacque tanto a li occhi miei / mentre ch'i fu'<br />

di là " diss'elli allora, / " che quante grazie volse da me, fei " ( Pur., I, 85-87 ).<br />

A questo punto penso non esista più alcun dubbio che Catone simboleggi, per Dante, la


libertà al fine di poter raggiungere la deità, o nobiltà, o santità. Infatti è questo il motivo per<br />

cui Catone sarà il sapiente e severo custode anche della risalita delle anime verso la<br />

sommità del Purgatorio e quindi verso la deità, mentre, in rapporto a Dante, sarà anche in<br />

grado di perentoriamente indicare qual è il rito a cui dovrà essere sottoposto per rendersi<br />

docile, permeabile, all'Opera della Grazia divina ( Pur., I, 94-99 ). Sostiene Dante che come<br />

il giunco è docile, morbido, flessibile, al moto ondoso delle acque che circondano la<br />

montagna del Purgatorio, così lui dovrà essere sottomesso, f<strong>ars</strong>i docile, all'Opera della<br />

Grazia divina. Il moto ondoso dell'acqua simboleggia la Grazia operante proveniente da<br />

Dio; il giunco schietto che asseconda il moto ondoso dell'acqua è invece la Grazia<br />

cooperante dell'essere umano rettamente intenzionato, ovvero quanto dovrà diventare<br />

pienamente attivo in Dante. L'intesa fra le due forme di Grazia, operante e cooperante, è<br />

quanto è necessario a condurre le anime alla deità e di cui Catone ha scienza. Tenuto<br />

presente che nel Purgatorio, alla partenza di questa lenta crescita, il "direttore d'orchestra" è,<br />

appunto, Catone, una qualche basilare importanza, nel contesto della salvezza, questo<br />

pagano la dovrà pur avere. Io ritengo che l'esegesi dantesca tradizionale non abbia, sotto<br />

questo profilo, potuto afferrare la figura di Catone perchè, anche in questo caso, le sono<br />

mancate le basi astrologiche e liturgico-cristiane.<br />

Orbene, siccome Dante pone Crux a coronare e qualificare la testa di Catone, " Li raggi de<br />

le quattro luci sante / fregiavan sì la sua faccia di lume, / ch'i 'l vedea come 'l sol fosse<br />

davante " ( Pur., I, 37-39 ), è di tutta evidenza che egli intende far dipendere le predette ed<br />

eccelse qualità di Catone dalla stessa "virtuosior" Croce del sud. Ma se Dante si permette<br />

poi di paragonare gli influssi di Crux a quelli del Sole ( " ch'i ìl vedea come 'l sol fosse<br />

davante " ), dopo averci fatto sapere che nessuna cosa sensibile di questo mondo è più<br />

degna di assomigliare a Dio del Sole stesso ( Convivio, III, XII, 7 ), è di tutta evidenza che<br />

egli finisce per riconosce anche a Crux di poter essere paragonata a Dio e quindi di poter<br />

presiedere alla Nascita di Dio, cioè del Figlio, la seconda Persona della Santissima Trinità.<br />

Mi sembra anzi di poter dire che Crux, per Dante, abbia qualcosa in più da aggiungere al<br />

senso di Luce del Mondo e di Luce della Coscienza che l'astrologia e Dante attribuiscono<br />

allo stesso Sole e che sappiamo risolversi nello stato ontologico di Comunione.<br />

Probabilmente Crux riguarderebbe allora la Confermazione di quanto è già proprio al Sole<br />

stesso e, perciò, essa sarebbe inerente al martirio. Orbene se la divinità a cui inclina Crux<br />

conduce al martirio e il martirio è identificabile col candore, il suicidio di Catone dovrebbe<br />

corrispondere allora per Dante ad un genere di martirio. Ma se così, la vesta "chiara" con<br />

cui un giorno Catone stesso salirà in Paradiso dovrà intendersi nel senso che il suo corpo<br />

sarà candido come quello dei martiri. Recita Dante: " Tu 'l sai, che non ti fu per lei ( per<br />

la libertà ) amara / in Utica la morte ( martirio ), ove lasciasti / la vesta ch'al gran dì ( per<br />

aver subito il martirio ) sarà sì chiara ( ovvero, per me, candida ) " ( Pur., I, 73-75 ).<br />

Per inciso, se il candore è il segno distintivo dei martiri, allora quando la Beatrice<br />

personaggio appare a Dante nel Paradiso terrestre con la testa coperta da un velo candido,<br />

potrebbe anche voler significare che la Beatrice persona forse subì in vita un qualche<br />

genere di martirio: " sovra candido vel cinta d'uliva / donna m'apparve ... " ( Pur., XXX,<br />

31-32 ). Io ipotizzo che il suo martirio consista nel dover essere andata in sposa a Simone<br />

de' Bardi quando invece amava Dante e perciò fu sposa contro la sua volontà ( ? ). E' ovvio


che anche l'appartenenza alla " candida rosa ..., la milizia santa che nel suo sangue Cristo<br />

fece sposa " ( Par., XXXI, 1-3 ), non potrà avvenire senza un qualche genere di martirio<br />

inerente la ricerca della verità in ogni campo: dico "in ogni campo" in quanto l'idea di<br />

verità è talmente forte e decisiva nella storia del genere umano che una qualche sorta di<br />

santità la dovrà pur sempre avere: tanto più poi per chi è vissuto sotto le cosmologie<br />

medievali.<br />

Ma se per Beatrice il martirio è ipotetico, per Dante è invece certo e consiste nell'aver<br />

dovuto subire l'esilio e la sentenza di condanna a morte. Se così fosse allora anche lo stesso<br />

Dante avrebbe dovuto avere la testa coronata da Crux, come già l'hanno coronata Catone, la<br />

prima gente con Adamo ( Pur., I, 22-27 ) e Gesù Cristo. Catone, con Crux, versa il proprio<br />

sangue per la propria libertà che era stata a lui indispensabile per raggiungere quel genere di<br />

deità già assaporata dai Consoli romani; Gesù Cristo, con Crux, versa il Suo preziosissimo<br />

sangue perchè il genere umano sia libero di seguirlo, di tentare di imitarlo; Dante, con Crux,<br />

subisce l'esilio per amore della libertà, in quanto rientrando a Firenze alle condizioni<br />

impostegli non si sarebbe sentito più libero, non più in grado di ricercare la propria deità, o<br />

nobiltà. Rientrando a Firenze alle condizione imposte egli avrebbe infatti avvalorato che, in<br />

generale, per un pezzo di pane, per delle comodità, si possa anche occultare, negare, la<br />

verità. In questo caso basterebbe la minaccia di dover andare " peregrino, quasi<br />

mendicando, mostrando contra ( nostra ) voglia la piaga de la fortuna, che suole<br />

ingiustamente al piagato molte volte essere imputata " ( Convivio, I, III, 4 ), per poter<br />

ridurre l'essere umano ad un burattino, a fargli fare ciò che si vuole. Orbene un essere<br />

umano così ridotto non sarebbe più nobile, non potrebbe più ricercare la deità. Se così<br />

stanno le cose, anche il Dante personaggio della Commedia, come ho già detto, dovrebbe<br />

necessariamente avere la testa coronata dalla Croce del sud. Se così risultasse<br />

oggettivamente io ritengo che tutto questo disegno, o impianto, dovrebbe allora essere dato<br />

per certo.<br />

Per accertare che Dante ha sull'Ascendente Crux, ovvero che ha la testa coronata da Crux,<br />

bisogna intanto conoscere il giorno di nascita del Dante personaggio della Commedia.<br />

Questo giorno, in base al c. XXII, vv.110-117, del Paradiso, corrisponde al Martedì 2<br />

Giugno 1265, come ho più volte dimostrato ( cfr. G. Ceri, Il segreto astrologico nella divina<br />

Commedia, a cura di Silvia Pierucci, San Benedetto-Pisa, Jupiter 1994, pp.46-54; G. Ceri e<br />

Roberto Tassi, Chiesa di Santa Margherita della Chiesa di Dante, ed. MIR, Montespertoli<br />

( Firenze ) 1996, pp.114-115, ecc. ). Successivamente bisognerà conoscere con esattezza il<br />

suo Ascendente e perciò la sua ora di nascita che si ricava dal c. XV, vv.49-60, dell'Inferno,<br />

ovvero dal suo dialogo con Brunetto Latini, "optimus astrologus". L'Ascendente<br />

corrisponde, come ho già dimostrato più volte, a 2°.58' circa nel segno dello Scorpione e<br />

perciò la sua ora di nascita corrisponderà alle 15h.39' circa del martedì 02/6/1265<br />

Orbene potrà essere controllato che all'epoca di Dante Crux, con Acrux ( alfa di Crux ) si<br />

trovava alla longitudine di 1°.37' nel segno dello Scorpione. Siccome l'Ascendente di Dante<br />

è a 2°.58' nel segno dello Scorpione è di tutta evidenza che Dante ha Crux in congiunzione<br />

col suo Ascendente poichè lo stato, l'aspetto, di congiunzione è valido fino a due gradi di<br />

distanza. Ma avendo il Poeta Crux sul suo Ascendente e rappresentando l'Ascendente<br />

stesso la testa del nato, è di tutta evidenza che egli avrà la testa coronata da Crux proprio


come Gesù Cristo, Adamo e Catone. Per inciso, la prima gente con Adamo scelsero l'esilio<br />

dal Paradiso terrestre ( come Dante da Firenze e Catone dal giogo di Cesare ), proprio per<br />

poter cercare anch'essi la deità: e a questo punto sappiamo che lo poterono fare in quanto<br />

poterono appell<strong>ars</strong>i alla libertà di scelta e, conseguentemente, accettarono, di generazione in<br />

generazione, di andare, similmente a Dante, "peregrin(i) quasi mendicando, per le parti<br />

quasi tutte a le quali questa ( nostra Terra ) si stende " ( Conv., I, III,4 ). Fu, è, una scelta<br />

che procurerà all'Umanità molto dolore: ma si tratta dell'Uomo alla ricerca della sua deità.<br />

Siccome il fenomeno della congiunzione di Crux con l'Ascendente di Dante non può<br />

essere, con evidenza, nè invalidato, nè apparire casuale, ecco che esso viene a confermare<br />

che anche Cristo è simbolicamente nato fra le 01h.15' e le 01.45' della Domenica 25<br />

Dicembre, o del 1° dopo Cristo stile odierno, o del 7 dopo Cristo stile odierno: proprio<br />

perchè solo nascendo entro questo campo Cristo stesso potrà avere la testa coronata da<br />

Crux.<br />

Se infatti Dante, al fine di qualificare peculiarmente Catone ( Pur., I, 34-39 ) e la prima<br />

gente con Adamo ( Pur., I, 22-27 ), e lui stesso ( Inf., XV, 49-60 ), pone sulle loro<br />

teste e sulla sua Crux, perchè a maggior ragione non dovrebbe porla anche sulla testa di<br />

Cristo ? Orbene:<br />

1° - se Crux simboleggia la ricerca della verità in ogni campo e il possibile martirio per<br />

averla proclamata;<br />

2° - se la storia della nostra civiltà si distingue, in particolare, per la ricerca della verità in<br />

ogni campo;<br />

3° - se la nostra civiltà può definirsi per tutto questo e a ragione occidentale;<br />

4° - ebbene allora è nel giusto il Filosofo francese Raymond Abellio quando sostiene:<br />

a) - che " L'Occident est partout où la conscience devient majeure " ( R. Abellio,<br />

Assomption de L'europe, Flammarion, Paris 1978, p. 33 );<br />

b) - e che " Gesù Cristo è il vero simbolo dell'Occidentalità compiuta del pensiero e del<br />

comportamento ": quindi Egli è il vessillo che un giorno vedremo sventolare sulle Torri<br />

della Novella Troia o, ugualmente, del Nuovo Paradiso Terrestre.


Leonardo Sola<br />

L’iniziazione negli antichi misteri<br />

Il Poeta tragico EURIPIDE, nel Prologo di una sua tragedia del V secolo a C., Le<br />

Baccanti, fa dire al dio Dioniso:<br />

Io sono venuto ora a questa terra<br />

dopo aver istituito i cori<br />

e ordinato le mie iniziazioni<br />

per essere agli uomini un dio presente.<br />

Beato chi, felice del favore divino,<br />

conosce i misteri divini,<br />

conduce una vita pura,<br />

celebra il tiaso nell’anima,<br />

baccheggia sui monti<br />

purificandosi con i sacri riti.


E il filosofo ARISTOTELE ne La Poetica (1499a), sostiene che l'origine del dramma<br />

greco del VI e V secolo a C, si può rintracciare nel culto del dio Diòniso (il Bacco della<br />

tradizione greco-romana). Ed il culto di Dioniso e le quattro feste che nel corso dell'anno<br />

erano a lui dedicate, derivavano od erano influenzate da forme religiose più o meno segrete,<br />

note complessivamente come i misteri di Dioniso.<br />

Dobbiamo dunque riconsiderare la complessa materia degli antichi misteri, ossia la natura<br />

e dimensione del sacro, nell'aspetto più intimo e segreto che nell'antichità in genere e nella<br />

Grecia arcaica e classica in particolare, caratterizzava l'istituzione dei Misteri<br />

dell'iniziazione.<br />

Prima però di affrontare l'analisi e l'approfondimento di questi temi è necessario fare<br />

alcune riflessioni sul termine "religione".<br />

Il fenomeno religioso si può presentare sotto molti aspetti che tuttavia possono essere<br />

raggruppati in due aree principali: 1) come manifestazioni esteriori e collettive di un culto<br />

pubblico, forma propria di qualsiasi religione istituzionalizzata; 2) come approccio<br />

personale, intimo o privato al divino, attraverso una partecipazione più diretta alla<br />

dimensione dell'Anima e dello Spirito. In quest'ultimo aspetto, soprattutto, si può dire che<br />

l'esperienza religiosa, del "sacro", sia nata addirittura con la comp<strong>ars</strong>a stessa dell'uomo sulla<br />

terra.<br />

Se consideriamo invece il fenomeno religioso in connessione con l'origine della nostra<br />

civiltà indoeuropea, possiamo osservare che almeno 3500 anni fa, la civiltà degli Arii, i<br />

"nobili", muovendosi a cavallo dalle steppe dell’Asia centrale, ha cominciato ad<br />

alimentare il flusso delle<br />

popolazioni indoeuropee verso sud e verso occidente. In questa preistoria di cui gli antichi<br />

sacri inni vedici in India, attorno al 1500 a C, segnano il termine, il mondo umano dei rishi -<br />

i poeti-veggenti ispiratori di tali inni - dei sacerdoti iniziati, degli eroi-guerrieri ed anche in<br />

parte dell'uomo comune, in apparenza non aveva soluzione di continuità col mondo divino.<br />

Le energie dello Spirito fluivano in gran parte in modo naturale e liberamente tra questi due<br />

poli e riempivano, vitalizzandolo beneficamente, lo spazio psichico dell'uomo - la sua anima<br />

- appagandone il desiderio di trascendenza.<br />

La dimensione, il mondo dell'anima e dello Spirito, ci è pervenuto soprattutto in forma di<br />

visione rivestita poeticamente, proprio attraverso gli inni vedici - i primi documenti scritti<br />

della civiltà Ariana a testimoniare di una tradizione orale forse millenaria che deve averli<br />

preceduti. Parallelamente, in Occidente, attraverso i poemi Omerici ed i miti Esioidei.<br />

Queste forme rappresentative sono soprattutto simboliche e costituiscono dei tentativi di<br />

descrivere le percezioni dei mondi interiori dell'Essere e di rapprentare stati di coscienza e<br />

funzioni di cui non si può parlare se non usando un linguaggio di simboli, fatto di allegorie<br />

e di similitudini.<br />

Veda è una parola che in sanscrito, la lingua degli Arii dell’India, significa conoscenza.<br />

Gli Inni che costituiscono i Veda, sono raccolte in versi di antichissime scritture sacre<br />

derivanti dalla contemplazione diretta di realtà sovrasensibili da parte di veggenti detti rishi.<br />

Un esempio dello straordinario livello di queste visioni interiori ci può essere offerto dal<br />

contenuto di due brevi testi della tradizione Aria. Il primo è un Inno facente parte della<br />

raccolta detta Rig Veda, chiamato Inno cosmogonico, risalente a più di tremila anni fa,


mentre il secondo testo è la Grande Invocazione Sacrificale a Surya e ad Agni, il Sole e il<br />

Fuoco Spirituali, presente in due Upanishads (Isa e Brihadaranyaka), la più antica delle<br />

quali (la Brihadaranyaka) risale almeno al 900 a C.<br />

Nè l’Essere nè il Non-Essere esistevano<br />

nè la Luce Radiante del Cielo,<br />

nè l’immensa volta celeste sopra di noi. Che cosa ricopriva il tutto?<br />

Per tutto proteggere? Per tutto celare?<br />

Era forse l’Abisso insondabile delle Acque?<br />

Non c’era morte eppure niente era immortale,<br />

nessun limite fra il giorno e la notte.<br />

L’Uno Solo respirava senza alito, di per Sè Stesso;<br />

dopo di Lui nient’altro c’era a seguirlo<br />

Le Tenebre regnavano tutto al principio era avvolto in un Velo.<br />

In una oscurità profonda Oceano senza luce<br />

il Germe che ancora dormiva nel suo involucro<br />

sbocciò, come Natura Una, dal suo proprio calore ardente.<br />

Chi conosce il mistero? Chi l’ha qui proclamato?<br />

Da dove, da dove viene questa multiforme creazione?<br />

Gli dèi stessi, più tardi vennero in esistenza.<br />

Chi sa donde è sorta quest’immensa creazione?<br />

Chi conosce Quello che origini le ha dato?<br />

Se la sua Volontà creò o rimase muta?<br />

Il più alto veggente nel più alto dei Cieli<br />

lo saprà ñ o forse non lo sa<br />

Spingendo la visione nell’Eternità<br />

Prima che il mondo fosse fondato,<br />

Tu eri. E quando la fiamma interiore<br />

brucierà la propria prigione e distruggerà la forma<br />

Tu sarai ancora, come eri prima.<br />

E non conoscerai cambiamento quando<br />

il Tempo non sarà più.<br />

O Pensiero Infinito, Divina Eternità.<br />

Il secondo Testo è là Grande Invocazione a Surya e ad Agni, il Sole e il Fuoco<br />

Spirituali, e contiene il profondo simbolismo mistico del Sacrificio Vedico, oggetto di<br />

meditazione e rivelazione per ogni vero chela o discepolo:<br />

Aham Brahma, aham yajnah, aham lokah<br />

Io sono Brahman, io sono il sacrificio, io sono il mondo<br />

(Brihadaranànyaka Upanishad, I,5 17)<br />

L’Invocazione p.d.. è presente con identico testo in due diverse Upanishads:la Brih. - V,


15, 1-3 e la Isha - 15-18. La traduzione che qui presentiamo è dovuta a ROBERTO<br />

FANTECHI.<br />

(Pusan)<br />

conformarci alla<br />

Figlio del<br />

Forma<br />

creature, e<br />

finisce in<br />

Te fu<br />

profondo<br />

Una maschera cela il Tuo Volto che è quello della Verità; toglila o Sole<br />

Datore di Vita, affinchè nella Visione di Te si compia il nostro<br />

Norma del Vero.<br />

O Datore di Vita e Veggente Unico, Signore dei mondi, divino Sole<br />

Creatore, diffondi i tuoi Raggi e raccogli il Tuo Splendore. Nella Tua<br />

più radiosa io vedo quel medesimo Spirito che è Tuo e di tutte le<br />

quello io sono.<br />

Il mio respiro si unisce all’Alito immortale, mentre questo mio corpo<br />

Cenere. OM. O Tu che sei il Sacrifico stesso, ricorda: ricorda quanto per<br />

Compiuto; ricorda, o Sacrificio, ricorda quanto per Te fu compiuto.<br />

O Fuoco, (Agni) o Dio che ogni mèta conosci,<br />

guidaci al bene per il retto cammino.<br />

Dalla colpa che ci allontana da Te, proteggi noi che Ti adoriamo nel più<br />

del nostro cuore.<br />

.<br />

Studiando, ma soprattutto meditando, queste e altre simili testimonianze, possiamo<br />

giungere alla convinzione che ci fu un periodo che precedette l’alba della storia della nostra<br />

civiltà - l' "età d'oro" di cui parlano i miti arcaici e le tradizioni - in cui la vita esteriore si<br />

fondeva, in una certa misura, con una ricca vita psichica, interiore, il "sogno" si continuava,<br />

per così dire nella veglia, la dimensione concreta, oggettiva, si univa naturalmente alla realtà<br />

astratta, soggettiva; "immanenzaî e trascendenza" erano un tutt’uno nella coscienza integrata<br />

(lokasamgrahah).<br />

Possiamo anche comprendere che lo sviluppo delle civiltà in senso sempre più materiale<br />

ed egolatrico (per usare un'efficace espressione di G MITOLA) ha creato e,<br />

progressivamente allargato, un solco tra questi due "mondi", solco che è diventato infine<br />

una vera e propria frattura nell'integrità e nell'unità della nostra coscienza.<br />

E questo solco è anche diventato l’abisso in cui - grazie allo sviluppo e al predominio<br />

quasi assoluto, almeno in Occidente, di una filosofia scientifica razionale e ragionevole - è<br />

stato progressivamente inghiottito il mondo immaginale della nostra anima, il continente<br />

perduto di quella facoltà che HENRY CORBIN considera una funzione noetica o cognitiva<br />

propria dell’anima, che ci permette di accedere ad una regione e realtà dell’Essere che senza


di essa ci resta chiusa ed interdetta e che ci pone in grado di penetrare nel mondo reale,<br />

nell’universo dell’Anima del Mondo (Corpo Spirituale e Terra Celeste, Milano 1986).<br />

Così, una spessa cortina d’oblio si è diffusa sulle nostre percezioni interiori, confinando<br />

sempre più l’anima nella ìprigione angusta dei sensiî, dell’encefalo e della memoria<br />

cerebrale.<br />

PLATONE, riferendo un insegnamento dei misteri orfici, diceva che l'Anima si trova<br />

come "prigioniera" nel "corpo". In questa condizione l’anima soffre, perchè porta con sè il<br />

ricordo inconscio o reminescenza del suo stato precedente di purezza, ed attende il momento<br />

della propria liberazione. E questo giorno verrà - ci assicurano le antiche scritture - quando<br />

"l'uccello che ora è muto riprenderà il suo canto" - come recita un anonimo poeta persiano -<br />

o quando Prometeo spezzerà le proprie catene e riconquisterà il mondo divino - come<br />

suggerisce il mito arcaico; o anche quando i frammenti sp<strong>ars</strong>i per il mondo del corpo<br />

mutilato del dio Osiride (il Salvatore Egizio) o di Dioniso-Zagreo (nell'analogo mito dei<br />

misteri orfici) saranno ricomposti per la sua resurrezione; o quando Demètra, la Dea Madre<br />

e Signora degli antichi misteri di Eleusi, ritroverà Persefone, la figlia rapita; o ancora,<br />

quando la "resurrezione" promessa ad ogni cristiano diverrà realtà vivente ed operante, per<br />

l'avvento del Christos ritornato...<br />

Il mito dell' anima prigioniera - nel "corpo" o in un "mondo di tenebra" ostile - e della sua<br />

liberazione o resurrezione quale entità immortale, in realtà è una allegoria che contiene<br />

diversi significati: cosmici ed umani, terrestri e celesti, fisiologici e psicologici. Analizzato<br />

in un senso psicologico, questo mito ci indica che l'oblio della dimensione spirituale che è<br />

presente nella nostra coscienza ordinaria, sarà un giorno fugato e la continuità tra i due piani<br />

o mondi sarà ristabilita: E questo, ci suggeriscono i miti misterici, accadrà - accade - quando<br />

noi stessi ricomporremo nella coscienza l'unità essenziale del nostro essere, l'identità<br />

dell'umano e del divino, superando le divisioni dell'io. In questo percorso ci viene in aiuto il<br />

"dio entro di noi", il Salvatore interiore, il nostro Sè reale. Il Sè non è una "persona" ma una<br />

PRESENZA in noi, benefica e universale. La Bhagavadgità, il famoso poema epicofilosofico<br />

Indù, parla di Krishna, il Sè, come dell’ ìAmico di tutte le creatureî.<br />

I miti antichi contengono la promessa - rivelata quale verità percepibile, agli iniziati<br />

durante i misteri - che la condizione mortale e di separazione e sofferenza dell'anima, non è<br />

uno stato eterno... non è un labirinto da cui non si esce più. E tuttavia questa condizione di<br />

alienazione era - ed è - presente nella maggior parte degli uomini, immersi nell'ignoranza e<br />

nell'oblio della dimensione divina, come i prigionieri della caverna nel mito che PLATONE<br />

riporta nella Repubblica: le anime voltano le spalle alla luce, osservano il riflesso delle<br />

ombre mutevoli sulle pareti, e le scambiano per realtà.<br />

Questa condizione di separazione dalla nostra radice spirituale, di "illusione", perdura da<br />

molto tempo; da secoli, forse da millenni, ed ha giustificato l'istituzione presso le grandi<br />

civiltà del passato dei sacri misteri e della pratica della iniziazione spirituale quale via<br />

maestra alla conoscenza di sè stessi, di Dio e alla liberazione finale dell'anima umana.<br />

Misteri ed iniziazione ... ecco due parole fondamentali, ineffabili nella loro essenza<br />

profonda, ma di cui tuttavia s’è detto, si dice e si è scritto molto, sovente a sproposito.<br />

Qual’è la loro reale natura ed in che cosa consisteva ñ e consiste - l'iniziazione?<br />

In primo luogo, possiamo dire che di queste antichissime istituzioni sacre vi è traccia in


tutte le civiltà (in India, in Persia, in Mesopotamia, in Egitto, in Palestina, nella Grecia<br />

classica, in Asia minore, etc., etc.) e che in origine e per diverso tempo furono stimolatrici<br />

delle più elevate capacità intellettuali e virtù morali, com'è confermato da tutti gli autori<br />

classici dell'antichità mediterranea, da PLATONE a CICERONE.<br />

CICERONE nelle Leggi ( II,14), afferma:<br />

Nulla è meglio di questi Misteri,<br />

per mezzo dei quali noi veniamo<br />

purificati e da una vita rozza e crudele<br />

siamo ricondotti alla benevolenza,<br />

alla santità, alla gentilezza e siamo<br />

resi mansueti.<br />

In secondo luogo, si deve rilevare che durante tutta l'antichità e presso tutti i popoli è<br />

esistita, accanto alla religione popolare ed ai suoi culti pubblici nei templi, una "religione" a<br />

carattere intimo, "privato", nel senso che era riservata a piccoli gruppi perlopiù connessi con<br />

le famiglie regnanti, a certi ordini sacerdotali e all'elite intellettuale, che governavano le varie<br />

nazioni. L'esempio più conosciuto è certamente quello dei Faraoni dell'antico Egitto, quei<br />

Re-iniziati che assumevano anche il grado di Supremo Sacerdote e di guide spirituali del<br />

loro popolo. Le grandi Piramidi, con le loro strane gallerie inclinate e orientate al sorgere del<br />

sole, i cunicoli sotterranei, le numerose false porte, le camere interne, i sarcofaghi vuoti,<br />

etc., in origine erano dei grandi templi ove venivano svolti i rituali simbolici dell'iniziazione<br />

ai Misteri di Osiride, a beneficio della famiglia reale; solo secondariamente e, in seguito, in<br />

modo esclusivo, serviranno quali tombe regali .<br />

Questi culti in origine ristretti a pochi e rigidamente controllati, passarono in seguito<br />

all’esterno in varie forme più o meno degradate, estendendosi via via, soprattutto nel mondo<br />

greco-romano e durante il periodo ellenistico, a strati sempre più ampi della popolazione.<br />

Parallelamente, venne meno il potere accentratore dei Re-Sacerdoti a beneficio della casta<br />

sacerdotale e così l'istituzione misterica in epoca già cristiana, in Grecia e a Roma, finì per<br />

estendersi a tutto il popolo. Tali culti, in origine profondamente sacri, divennero in ultimo<br />

veri e proprii riti e "feste" profane, controllati ed amministrati dall'autorità pubblica. Questo<br />

accadde prima in Egitto per i Misteri di Iside ed Osiride e da ultimo, in Grecia per i Misteri<br />

di Eleusi. E' evidente che in questo processo di vulgarizzazione, il carattere originario di<br />

conoscenza e di esperienza mistica connessa ai riti iniziatici, si trasformò profondamente,<br />

perdendo grado a grado, la sua sacralità e la sua funzione rigeneratrice. Nonostante ciò, sia i<br />

contenuti meramente formali dei riti, sia gli aspetti simbolici di quest'iniziazione ai Misteri,<br />

si sono conservati in qualche modo nel tempo e, in alcuni casi persino arricchiti di forme e<br />

di immagini.<br />

APULEIO di Madaura, nonostante la sua sincera inclinazione verso il misticismo,<br />

scriveva, nel II secolo d C, nel suo famoso poema letterario L’Asino d’Oro (o le<br />

Metamorfosii), un’amara satira contro l’ipocrisia e la corruzione di certi ordini formati da<br />

sacerdoti semiiniziati. Da lui apprendiamo anche che ai suoi giorni i Misteri erano divenuti<br />

così universali che persone di tutte le classi e condizioni, in ogni paese, uomini, donne e


perfino bambini, venivano tutti iniziati! L’iniziazione era divenuta tanto indispensabile<br />

quanto il battesimo per i cristiani e, come quest’ultimo è ora, essa era divenuta priva di<br />

significato spirituale, pura lettera morta ed una cerimonia esclusivamente formale.<br />

Nei Misteri, l'aspetto ritualistico e cerimoniale è sempre stato solo il lato "esteriore",<br />

exoterico. Da alcuni è stato indicato col termine di "misteri minori" ed è anche quello, di cui<br />

ovviamente sono rimaste nella storia tracce e testimonianze più abbondanti. E' questo<br />

l’aspetto dei misteri che è stato più profondamente frainteso dai Padri della Chiesa Cristiana<br />

che si sono scagliati con violenza contro i "misteri" in genere, per quanto la Chiesa stessa<br />

abbia adottato e adattato, gran parte dei riti, delle cerimonie, degli stessi abiti liturgici ed i<br />

simboli sia della religione popolare pagana che dei culti misterici.<br />

Il motivo dell'avversione dei Padri cristiani verso la religione misterica era soprattutto di<br />

natura politica. La la tradizione misterica, perfino nelle forme degradate assunte in ogni<br />

epoca, esercitava ancora un potente fascino sulle masse e sulla classe intellettuale ed era di<br />

stimolo all'indagine filosofica e alla ricerca interiore. I Misteri costituivano perciò un<br />

pericoloso concorrente - con i gruppi e i movimenti di pensiero che ad essi si<br />

riconducevano più o meno direttamente - per la nuova fede e il suo prossimo futuro. Solo<br />

così si spiega la violenza con cui CLEMENTE DI ALESSANDRIA e soprattutto<br />

TERTULLIANO si scagliano contro le istituzioni misteriche e le correnti gnostiche.<br />

Anche molti studiosi moderni e perfino contemporanei, ovviamente per motivi diversi<br />

(almeno si spera) da quelli che muovevano l'aspra polemica dei Padri cristiani, hanno<br />

frainteso completamente il significato di queste manifestazioni, identificandole con<br />

l'ignoranza, la superstizione e con l'impostura sacerdotale, descrivendole come empie<br />

cerimonie esteriori, atte solo a catturare l'immaginazione popolare e mantenere il controllo<br />

sulle masse. Era questa ad esempio l'opinione di LOBECK, un autorevole studioso del<br />

secolo XIX, riguardo ai misteri di Eleusi, che ha fatto scuola (e lo fa ancora.... cfr. Lobeck,<br />

Aglaophomus, 1829, citato dallo ZELLER ne La filosofia dei Greci nel suo sviluppo<br />

storico, ed. Zeller-Mondolfo, La Nuova Italia Editrice).<br />

Se quanto sostenuto da LOBECK e ripreso dallo ZELLER e da altri studiosi del pensiero<br />

greco, può essere condiviso in parte per qualche aspetto del culto misterico durante il<br />

periodo di piena decadenza e volgarizzazione della religione mistica, le accuse e le<br />

polemiche dei Padri Cristiani sono invece completamente false e pretestuose per quanto<br />

attiene al periodo delle origini della tradizione misterica e neppure sono accettabili in toto<br />

per la fase in cui iniziò a svilupp<strong>ars</strong>i il cristianesimo. Basti pensare che quasi tutti i grandi<br />

pensatori dell'antichità classica, del periodo ellenistico e dei primi secoli della nostra era,<br />

furono iniziati ai misteri, da ESCHILO, PITAGORA, PLATONE fino ai filosofi<br />

NEOPLATONICI (Ammonio Sacca, Porfirio, Giamblico, Proclo, per non citare che i più<br />

noti). E perfino i primi PADRI DELLA CHIESA, quali CLEMENTE ALESSANDRINO<br />

e ORIGENE furono, almeno parzialmente, iniziati nella tradizione misterica della propria<br />

epoca. Va ancor detto che, nonostante la decadenza e la "profanizzazione" dei Misteri, la<br />

loro tradizione interiore si è conservata nel tempo, come un esile ma indistruttibile filo e<br />

perciò la troviamo riapparire qua e là, alla radice di scuole e sette gnostiche, di<br />

movimenti filosofici e di pensiero e di<br />

pratiche ermetiche, di gruppi più o meno esoterici ed eterodossi, di confraternite mistiche


durante il medioevo e nei circoli rinascimentali, fino ai misteriosi Rosacroce del Seicento e<br />

ai primi massoni del Settecento.<br />

Quale era, se vi era, l'esperienza mistica e conoscitiva a cui conduceva l'iniziazione<br />

misterica? I Sacerdoti iniziati d'Egitto, della Mesopotamia e dell'Arabia, assieme ai più<br />

grandi saggi e filosofi della Grecia e dell'Occidente, hanno incluso sotto la denominazione<br />

di saggezza e scienza divina, tutta la conoscenza, poiche essi consideravano l'origine e il<br />

fondamento di ogni arte e scienza come divini nella loro essenza. PLATONE attribuiva ai<br />

Misteri un carattere di grande sacralità e perfino Clemente Alessandrino ha dichiarato che<br />

"le dottrine insegnate nei misteri Greci, contenevano in sè il termine di tutta la conoscenza<br />

umana."<br />

Iniziazione deriva dalla stessa radice del latino initium - al plurale initia - e che significa i<br />

"principi fondamentali", ossia i primi principi di qualsiasi scienza. La pratica dell'iniziazione<br />

nei misteri antichi era perciò promotrice di conoscenza, di bene e di virtù, secondo i più<br />

grandi filosofi greci e del mondo romano, i quali ritenevano unanimemente che i misteri<br />

fossero stati istituiti puri in origine e che si proponessero i più nobili fini e con i mezzi più<br />

degni. (cfr. THOMAS TAYLOR: Iamblichus on the Mysteries of the Egyptians,<br />

Chaldeans and Assyrians).<br />

Sebbene ai riti misterici, nel periodo della loro massima diffusione e celebrità, fosse<br />

permesso prender parte a persone di ambo i sessi e di tutte le classi sociali, come abbiamo<br />

appreso da APULEIO, ed anzi tale partecipazione fosse divenuta persino obbligatoria,<br />

pochissimi in realtà raggiungevano l'iniziazione finale e più elevata. Nei Misteri Eleusini ed<br />

in altri, i partecipanti erano infatti divisi in due classi: i neofiti ed i perfetti. Neofiti o misti<br />

erano detti tutte quelle persone che periodicamente venivano ammessi all'iniziazione<br />

preliminare: essa consisteva nella rappresentazione, in forma di dramma, di Dèmetra<br />

(Cerere) - l'anima - che discende agli Inferi (o nell'Ade). Quest'azione drammatica<br />

simboleggiava, tra l'altro, l'inevitabile destino di ciascuna anima individuale di restare unita<br />

per un certo tempo ad un "corpo" terreno. Ma solo al perfetto era dato di apprezzare ed<br />

apprendere in vita i Misteri del divino Elysium, la dimora celeste dei Beati (gli Dèi). E tale<br />

Elysium (cielo) equivale, pari pari, al nostro "Regno dei Cieli".<br />

La pretesa di SANT'AGOSTINO che le spiegazioni date dai filosofi neoplatonici<br />

riguardo ai misteri siano state da loro inventate è assurda. Le parti ed i "gradi"<br />

dell'iniziazione misterica, nel loro ordine autentico e successivo sono date da Platone stesso,<br />

anche se in modo più o meno esplicito.<br />

La ragione del fatto che in ogni epoca si sia conosciuto così poco dei Misteri<br />

dell'iniziazione è perlomeno duplice: la prima si trova nella punizione cui poteva essere<br />

soggetto chi rivelava anche la minima indiscrezione: l' empietà poteva essere punita con la<br />

condanna a morte; la seconda ragione si trova nelle difficoltà e nei pericoli che il candidato<br />

dell'epoca antica doveva affrontare e superare prima di essere divenuto un iniziato perfetto.<br />

In origine, qualsiasi tentativo di avvicin<strong>ars</strong>i ai Misteri, presso tutti i popoli, era sorvegliato<br />

con la stessa gelosa attenzione ed in tutte le nazioni poteva essere inflitta la pena di morte<br />

agli Iniziati di qualsiasi grado che divulgassero i segreti a loro affidati. Ciò si è verificato<br />

per i Misteri di Dioniso e per quelli Eleusini, tra i Magi Cladei e gli Ierofanti Egiziani,<br />

mentre in India da tempo immemorabile prevaleva la stessa regola (cfr. l'Agrushada


Parikshai, il Libro Indù sull'Iniziazione). Eschilo, il più grande dei tragici greci, era stato<br />

iniziato ai Misteri di Eleusi (il suo luogo di nascita) e fu accusato di aver rivelato, in qualche<br />

sua opera tragica, insegnamenti misterici relativi alla natura misterica di Zeus e al culto<br />

Prometeico in Attica. Dovette<br />

difendersi di fronte ad un tribunale pubblico e riuscì a stento a dimostrare la sua<br />

"innocenza". Fu questo forse uno dei motivi per cui Eschilo lasciò Atene.<br />

I vari gradi dei Misteri ci sono stati comunque rivelati, anche se in epoca tarda, dal<br />

filosofo neoplatonico PROCLO (412-485 d C), il maggior esponente della nuova scuola<br />

platonica di Atene. Nel IV Libro della sua Teologia Platonica PROCLO afferma:<br />

Il rito di purificazione - teletè - precede,<br />

nell'ordine, l'iniziazione - muesis; e l'iniziazione<br />

a sua volta precede l' epopteia o "rivelazione" finale...<br />

E cosa fosse questa rivelazione finale o epopteia è accennato da Platone stesso nel Fedro<br />

(64):<br />

Essendo iniziati in quei Misteri che è legitttimo<br />

chiamare i più benedetti di tutti ... fummo<br />

liberati dalle molestie dei mali che altrimenti ci avrebbero<br />

attesi in un tempo successivo. Similmente, in conseguenza<br />

di questa divina iniziazione diventammo spettatori di visioni<br />

complete, permanenti e benedette che si trovano in una pura luce.<br />

E' interessante notare che anche il già citato APULEIO DI MADAURA, alcuni secoli<br />

dopo, descriveva la sua iniziazione ai Misteri nella stessa maniera:<br />

Mi avvicinai ai confini della morte; e dopo<br />

aver varcato la soglia di Proserpina, ritornai,<br />

essendo passato attraverso tutti gli elementi ...<br />

Nelle profondità della notte vidi il sole brillare<br />

di una luce risplendente, insieme agli dèi inferiori<br />

e superiori, ed avvicinandomi a quelle essenze luminose<br />

offrii il tributo di una devota adorazione.<br />

(dalle Metamorfosi o L'asino d'oro)<br />

Come THOMAS TAYLOR giustamente osserva, da questi passi e simili, contenuti nelle<br />

opere degli iniziati, si può dedurre che "la parte più sublime dell'epopteia, della ìvisioneî ...<br />

consisteva nel contemplare gli stessi dèi - le Energie Archetipiche, ndr - rivestiti di una luce<br />

risplendente" (op. cit.). L'affermazione di PROCLO su questo soggetto mistico è<br />

inequivocabile: "in tutte le iniziazioni ed in tutti i Misteri, gli dèi esibiscono molte forme di<br />

sè stessi ed appaiono in fogge diverse e qualche volta invero, si rende visibile una luce<br />

informale; qualche volta questa luce assume l'aspetto di una forma umana e talvolta procede


in una forma differente". L'affermazione di Platone e la tarda testimonianza di Apuleio ci<br />

confermano che le visioni più elevate, quelle più veritiere, non si producevano - nè si<br />

producono - attraverso a degli estatici naturali e meno che mai attraverso dei "medium",<br />

come talvolta erroneamente si sostiene, ma per mezzo di una regolare disciplina di<br />

iniziazione graduale e mediante lo sviluppo controllato e consapevole di poteri psicospirituali.<br />

I mystae, gli iniziati, erano in questo modo portati in stretta unione con quelle<br />

Energie che Proclo chiama "nature mistiche", "dèi risplendenti"<br />

Il rito di "fasciare la testa e fissare le ghirlande" al capo dell'epopta dopo l’ottenimento<br />

della ìvisioneî, era il simbolo della raggiunta rivelazione finale... Ma quest'espressione non<br />

va presa alla lettera; essa ha un significato interiore cui accenna il neoplatonico<br />

GIAMBLICO descrivendo le sensazioni di PITAGORA dopo l'iniziazione quando<br />

afferma di essere stato "incoronato" dagli Dei<br />

alla cui presenza aveva bevuto "le acque della vita", la fonte della divina Sapienza.<br />

Dopodichè l'iniziato diventava uno Ierofante o Sacerdote dei Misteri, un Maestro<br />

Spirituale.<br />

TEONE DI SMIRNE (secondo la notizia riferita da Proclo) paragona opportunamente<br />

la disciplina filosofica ai riti mistici. "La filosofia" egli dice "potrebbe essere definita come<br />

l'iniziazione nei veri arcani e l'istruzione nei genuini misteri. Ci sono cinque gradi di questa<br />

iniziazione: I, la purificazione preventiva; II, l'ammissione a partecipare ai riti arcani; III, la<br />

rivelazione dell' epopteia e PLATONE definisce questa visione individuale diretta come la<br />

perfetta contemplazione delle cose che sono apprese intuitivamente, la contemplazione del<br />

Vero e delle Idee; IV, l'investitura e la consacrazione ñ l’atto rituale di fasciare il capo e<br />

recinderlo con corone e ghirlande, analogo all’autorità che l’iniziato riceveva dai suoi<br />

Istruttori e che gli dava il diritto di iniziare altri e di condurli alla stessa contemplazione. V,<br />

il risultato finale di tutte le precedenti fasi è l'amicizia e la comunione interiore con Dio ed il<br />

conseguimento di quella felicità perfetta che nasce dall'intimo colloquio con le essenze<br />

divine, che Platone chiama una ìassimilazione al Divinoî, per quanto è possibile agli esseri<br />

umani.<br />

I Padri Cristiani hanno sempre reclamato per se stessi e per i loro mistici e santi<br />

l'appellativo di "amico di Dio"... tuttavia essi hanno preso a prestito questa espressione,<br />

come molte altre, dal linguaggio tecnico dei templi pagani. Ad esempio, la storia della<br />

tentazione di Sant'Antonio nel deserto, per mezzo del demonio che gli appare in forma<br />

femminile, è una parodia sulle prove preliminari del neofita durante i mikra o i misteri<br />

minori di Agra, quei riti allegorici che rappresentavano Demètra alla ricerca della sua figlia<br />

Kore o Persefone e di Baubo la di lei fedele e gentile nutrice e servitrice, secondo il<br />

racconto dell’Inno Omerico a Demetra. Se durante gli aporrheta o "arcani preliminari" c'era<br />

qualche pratica che poteva offendere il pudore di un convertito cristiano, il loro simbolismo<br />

mistico era assolutamente sufficiente a liberare queste rappresentazioni da qualsiasi accusa<br />

di licenziosità. Il neoplatonico GIAMBLICO ci offre la spiegazione del loro lato<br />

èpeggiore’. "Esibizioni di tal sorta" egli dice "nei Misteri avevano lo scopo di rendere liberi<br />

dalle passioni licenziose, appagando la vista, ed allo stesso tempo, vincendo ogni cattivo<br />

pensiero per mezzo della maestosa religiosità con cui questi riti venivano celebrati" (T<br />

TAYLOR, Eleusinian and Bacchic Mysteries, cit.). Si resta comunque meravigliati


nell'osservare come CLEMENTE DI ALESSANDRIA, questo Padre erudito ed onesto,<br />

sconfessi i misteri Eleusini con bigotto rancore, definendoli indecenti e diabolici,<br />

quantunque fosse a conoscenza, essendo stato un neoplatonico (ad Alessandria d'Egitto,<br />

allievo della scuola di AMMONIO SACCA, soprannominato il theodidaktos, "l'istruito<br />

dagli dèi") che c'era un significato esoterico per i simboli exoterici.<br />

I misteri erano infatti divisi in due parti: i minori che si celebravano ad Agra (vicino ad<br />

Atene) ed i maggiori che si svolgevano ad Eleusi, all'interno del telesterion, il luogo del<br />

tempio adibito all'uopo. Qualsiasi fossero i riti a cui partecipavano i candidati all'iniziazione<br />

prima di passare ad una forma di istruzione superiore, per quanto mal comprese possano<br />

essere state le forme della kath<strong>ars</strong>is o "purificazione preliminare" nella quale i candidati<br />

erano sottoposti a molte prove di autocontrollo, e per quanto il loro aspetto meno importante<br />

- quello fisico - possa aver indotto alla loro denigrazione, è solo un pregiudizio malizioso<br />

che può condurre ad affermare che sotto questo significato esteriore - exoterico - non vi<br />

fosse un significato spirituale profondo - esoterico.<br />

I Misteri più profondi e solenni furono certamente quelli compiuti in Egitto dagli<br />

Ierofanti. I Misteri greci, quelli di Demetra e Dioniso (o di Cerere e Bacco) erano delle<br />

imitazioni di quelli<br />

egizi... Nelle allegorie misteriche erano simboleggiate la condizione dell'Anima e dello<br />

Spirito prima dell'esistenza materiale, la "caduta" dell'Anima nella vita terrena, caduta<br />

rappresentata come il viaggio agli Inferi, le sofferenze di questa vita nell'illusione e nel<br />

"corpo", la successiva purificazione dell'anima attraverso diverse "trasmigrazioni", infine il<br />

suo ritorno alla condizione di divina felicità, ossia la riunione in vita col proprio Dio o<br />

Spirito.<br />

Questa allegoria del mito misterico conosciuta come la discesa agli Inferi (o nell'Ade), è<br />

stata inserita nei racconti exoterici di ERCOLE e di TESEO che discendono nelle regioni<br />

infernali o nel ìlabirintoî, nel viaggio di ORFEO in tali regioni, ove trovò la propria via per<br />

mezzo del potere della propria lira, nel dio indù KRISHNA ed infine nel CRISTO che<br />

"discese all'inferno ed il terzo giorno risuscitò dalla morte". Ma essa è stata profondamente<br />

fraintesa e ha originato infiniti errori interpretativi. Inoltre fu resa irriconoscibile dagli<br />

adattatori non iniziati dei riti misterici, che la trasformarono in tal modo nei riti e nei dogmi<br />

della Chiesa. Ma, come dice PAOLO SANTARCANGELI (Il Libro dei Labirinti), ìi<br />

simboli essenziali dell’uomo e i miti antichi che li esprimono hanno una forza primigenia<br />

che è radicata nell’animo profondo e non cessano di occuparci e di commuoverci, pur<br />

quando il loro significato pare dimenticato e quando quei miti non hanno più la carica<br />

sacrale, l’energia religiosa che ne aveva accompagnato la nascitaî. Così come la discesa agli<br />

inferi, anche il labirinto è il simbolo di un percorso di liberazione dell’anima e la sua storia<br />

ìha attraversato integra un arco di tempo di più di tremila anniÖ da esso si scende nel regno<br />

del segreto, della disperazione, ma anche della purificazione e del ritrovamento di sè stessi e<br />

della libertà (ibidem).<br />

Il motto che potrebbe essere scritto all’ingresso del labirinto o anche degli Inferi, non è<br />

lasciate ogni speranza voi ch’entrate ma:<br />

Dalla tenebra alla Luce


Dalla morte all’Immortalità<br />

Noi siamo infatti sia il Minotauro che il vittorioso Teseo, l’eroe Solare. Anche a noi Eros<br />

ci ha fatto dono d’un lungo filo che ci condurrà fino al mostro e quando lo avremo vinto<br />

con la nostra spada lucente, quel filo ci farà tornare alla luce e lasceremo indietro<br />

nell’oscurità eterna, il corpo ormai immobile della (nostra) bestialità debellata (ibidem).<br />

Riguardo all’allegoria della discesa agli Inferi, astronomicamente essa simboleggia il sole<br />

durante il periodo dell'equinozio di autunno in cui abbandona le più elevate regioni del cielo<br />

- evento allegorizzato nella guerra con il dèmone delle tenebre che ha la meglio sulla nostra<br />

urbe luminosa. Si immaginò allora che il Sole subisse una morte temporanea e discendesse<br />

nelle regioni infernali. Misticamente la discesa agli Inferi simboleggia i riti di iniziazione<br />

nelle cripte del tempio che erano chiamate "il mondo sotterraneo". DIONISO, ERCOLE,<br />

TESEO, ORFEO, ASCLEPIO, e tutti gli altri visitatori della "cripta" discendevano tutti agli<br />

Inferi e riascendevano il terzo giorno, poichè erano stati iniziati ai Misteri Spirituali ed erano<br />

perciò divenuti costruttori del tempio sotterraneo (o interiore).<br />

Anche le parole indirizzate dal dio Hermes a Prometeo incatenato sulla nuda roccia del<br />

Caucaso - cioè legato dall'ignoranza al proprio corpo fisico e divorato perciò dagli avvoltoi<br />

delle sue stesse passioni, secondo una delle possibili interpretazioni del grande mito - si<br />

applicano ad ogni neofita durante le sue prove : "nè t'aspettar di tal sofferenze il fine prima<br />

che alcun tra gli dei non appaia a successor delle tue pene e non voglia scendere nel<br />

tenebroso Ade e nelle profondità del Tartaro", gli<br />

fa dire ESCHILO nel Prometeo Incatenato (III episodio).<br />

Queste parole sicuramente hanno più di un significato, facendo parte del linguaggio<br />

allegorico del Poeta-iniziato... Ma quello più immediato, letto con la chiave dei "misteri<br />

minori", cioè exotericamente - è che, fino a quando Prometeo, ossia l'Uomo, non troverà il<br />

"dio", cioè l'Iniziatore o Maestro (come il Virgilio di Dante) che vorrà discendere nelle<br />

cripte dell'iniziazione e camminare con lui attorno al Tartaro, l'avvoltoio delle passioni non<br />

cesserà di rodergli gli organi vitali. Ma uno dei sensi interiori di questa profonda allegoria è<br />

che fino a quando l'uomo non "troverà il Dio" cioè non permetterà la visita nella propria<br />

coscienza purificata al Maestro interiore - il suo "Dio" o Sè Spirituale - rimarrà incatenato<br />

alla "ruota del divenire", dell'esistenza e della sofferenza (come insegna il dharma<br />

buddhista).<br />

Nelle scene allegoriche dei riti misterici Eleusini, gli Inferi e il Tartaro rappresentavano le<br />

oscure regioni della cripta nelle quali il candidato, durante l'iniziazione, si supponeva che si<br />

liberasse per sempre (cat<strong>ars</strong>i) delle sue passioni negative, della lussuria, dell'egoismo, dell'<br />

"illusione di un sè separato". Da cui le allegorie narrate da OMERO, OVIDIO,VIRGILIO,<br />

etc., tutte però accettate alla lettera dalla maggioranza dei moderni studiosi... Il Flegetonte<br />

era il fiume infero in cui l'iniziando, immerso tre volte dallo Ierofante, veniva purificato,<br />

dopo di che le prove rituali erano superate ed un uomo nuovo stava per nascere a nuova vita<br />

e ciò si realizzava ritualmente quando usciva dagli Inferi nel terzo giorno, dopo aver<br />

abbandonato alla nera corrente il "vecchio uomo" peccatore - l'illusoria personalità - e<br />

rinasceva alla Luce, ossia la sua anima risorgeva quale una individualità immortale.<br />

Personaggi quali Issione, Tantalo, Sisifo, personificavano qualche passione umana. Ora, se


trasferiamo questi simboli e allegorie all'interno della nostra mente e della coscienza, il loro<br />

vero significato apparirà facilmente ....<br />

ESCHILO, quale iniziato ai Misteri Eleusini, impegnato dai suoi voti, non poteva certo<br />

dire di più... ma ARISTOFANE, meno pio e più audace, ha divulgato in parte i segreti del<br />

rituale misterico a tutti coloro che non sono accecati da preconcetti ne LeRane, la sua<br />

immortale satira, sulla discesa di ERCOLE agli Inferi. In essa troviamo tutti gli elementi del<br />

rito simbolico dell'iniziazione nella cripta: il coro dei "benedetti" (gli iniziati), i Campi Elisi e<br />

l'arrivo di Dioniso-Bacco (il dio-Ierofante) con Ercole, l'eroe, liberatore di Prometeo. Essi<br />

sono ricevuti alla luce delle torce, simboli della nuova vita e della resurrezione dalle tenebre<br />

dell'umana ignoranza alla luce della conoscenza spirituale - la Vita Eterna. Ogni parola della<br />

brillante satira mostra il senso interiore che il Poeta ha voluto trasmettere:<br />

Vegliate accendendo le torce ... poichè verrai<br />

agitandole nelle tue mani o Dioniso, stella<br />

fosforescente del rito notturno.<br />

ERODOTO, accenna con riverenza e venerazione al lago di Bacco (Dioniso) nei cui<br />

pressi ìessi (i Sacerdoti) compivano rappresentazioni notturne, riguardanti la vita del dio e le<br />

sue sofferenzeî. Nei sacrifici rituali di Mitra, durante l’iniziazione, il neofita simulava una<br />

morte preliminare, cui faceva seguito una scena che lo mostrava ìnato di nuovoî attraverso il<br />

rito del battesimo.<br />

Parlare di chiunque fosse "disceso agli Inferi o nell'Ade" equivaleva dunque,<br />

nell'antichità, a definirlo un iniziato completo, e questa discesa nel mondo oscuro,<br />

sotterraneo, rappresentava simbolicamente il viaggio interiore dell'anima, la sua<br />

purificazione, fino alla rigenerazione completa: la liberazione dall' illusione di un "io"<br />

separato, la riunione col Sè o il ritorno cosciente per l'anima alla originaria unità della<br />

condizione divina e il conseguimento di una individualità immortale.<br />

In origine, ai Misteri potevano essere ammessi solo coloro che erano stati appositamente<br />

preparati mediante uno speciale tirocinio. Il candidato prima di diventare un perfetto, cioè un<br />

Iniziato completo, doveva superare molte prove e difficoltà interiori, dimostrando di essere<br />

capace di padroneggiare la propria natura passionale, prima di essere degno della<br />

conoscenza che avrebbe ricevuto e idoneo alla ìcomunione finale con Dioî.<br />

Prima dell’inizio dei riti misterici di Dioniso, di Adone ed Eleusini, era obbligo una stretta<br />

osservanza del digiuno ed una rigida preparazione. Il neofita, come pure lo Ierofante, il<br />

Gran Sacerote del culto misterico, anche dopo aver partecipato ai riti misterici, si<br />

impegnavano ad osservare la continenza e a rimanere isolati in solitudine per un certo<br />

tempo.<br />

Nei Misteri di Eleusi i neofiti erano ammessi all’iniziazione preliminare dei ìmisteri<br />

minoriî, cioè alla rappresentazione drammatica di Cerere-Demestra (l’anima) che discende<br />

agli Inferi, e che rappresentava l’inevitabile destino di ogni anima di restare unita per un<br />

certo tempo ad un ìcorpoî terreno, materiale. L’oscura prospettiva per l’anima di trov<strong>ars</strong>i<br />

ìimprigionataî nella buia dimora di una forma imperfetta, era considerata da tutti i filosofi<br />

antichi come una ìpunizioneî.


Durante i Misteri di Eleusi, Demetra e Dioniso o Cerere e Bacco rappresentavano<br />

rispettivamente il pane o grano e il vino. Secondo la tradizione orfica Cerere-Demetra<br />

simboleggiava la Madre, il principio generativo femminile, l’Amore e la Sapienza, la ìsposaî<br />

del Padre Aether-Zeus, e Bacco-Dioniso, il Figlio di Zeus-Jupiter, era considerato la<br />

manifestazione di suo Padre, come nella tradizione misterica Egizia in cui Oro era<br />

considerato la manifestazione di suo Padre Osiride. In altre parole, Cerere e Bacco erano la<br />

personificazione della Sostanza e dello Spirito, i due Principi vivificatori nella natura, sulla<br />

terra e nell’uomoÖ Prima della rivelazione finale dei Misteri, lo Ierofante iniziatore,<br />

chiamato ìPadreî, offriva simbolicamente al candidato pane e vino che egli mangiava e<br />

beveva. Ciò voleva significare che lo Spirito, l’aspetto Padre, stava per generare ñ in una<br />

mistica unione con la Materia, il ìFiglioî nell’uomo, cioè la divina Sapienza del Sè stava per<br />

entrare in lui e prendere possesso della sua anima, attraverso la quale stava per rivelarglisi.<br />

Questo rito della comunione è stato adottato dalla Chiesa.<br />

Connessi all’iniziazione ai Misteri di Eleusi, c’erano delle grandi manifestazioni pubbliche<br />

o feste misteriche, come le Eleusinie, le Grandi Dionisiache, etc, rappresentazioni<br />

drammatiche compiute di fronte alle masse in cui le Verità Spirituali personificate erano<br />

adorate dalla moltitudine ciecamente. Solo gli alti Iniziati ñ gli epoptae, gli ìAmici di Dioî ñ<br />

ne comprendevano il linguaggio e il reale significato.<br />

I neofiti venivano sempre istruiti nei templi superiori, esterni; le istruzioni loro impartite<br />

costituivano le ultime vestigia di un’antica Sapienza spirituale ed erano insegnate in forma<br />

di rappresentazioni allegoriche, sotto la guida di Alti Iniziati. La conoscenza sull’evoluzione<br />

graduale del cosmo, dei mondi, della nostra terra, degli ìdeiî e degli uomini, era impartita in<br />

termini simbolici. Anche la scienza ìfisicaî, la medicina, le leggi del suono, la divinazione, la<br />

natura e le funzioni dell’Anima e dello Spirito, venivano insegnate con lo stesso sistema.<br />

Ma le istruzioni orali erano date agli iniziati solo nelle cripte sotterranee dei templi, in<br />

solenne raccoglimento e segreto. E chi rivelava le dottrine apprese nel segreto della cripta<br />

era considerato colpevole di empietà; accusa che se provata, come abbiamo visto, poteva<br />

essere punita con la condanna a morte.<br />

PROFANIZZAZIONE E DECADENZA DEI MISTERI<br />

Prima di cercare di dire qualcosa sulla decadenza dei Misteri dell'iniziazione ci sembra utile<br />

riassumere le principali idee fin qui esposte.<br />

(1) Durante tutta l'antichità e fino alla soppressione ex lege dei Misteri da parte degli<br />

Imperatori cristiani, accanto all'adorazione popolare delle forme della lettera morta e delle<br />

cerimonie pubbliche delle religioni pagane, ogni nazione aveva i suoi culti segreti conosciuti<br />

come i Misteri a cui in origine potevano essere ammessi solo coloro che erano stati<br />

preparati appositamente, mediante uno speciale tirocinio. La parola "mistero" è derivata dal<br />

verbo greco myo, "chiudere la bocca", e perciò ogni simbolo con essa connesso ha un<br />

profondo significato. Come affermano PLATONE e molti altri saggi e filosofi dell'antichità,<br />

i Misteri erano profondamente religiosi, morali ed apportatori di bene - e in origine e per<br />

lungo tempo hanno costituito una vera scuola di etica. Il candidato dell'epoca antica, prima<br />

di diventare un perfetto, cioè un Iniziato completo, doveva superare molte prove e difficoltà


interiori, dimostrando di essere capace di padroneggiare la propria natura passionale, prima<br />

di esser degno della conoscenza che avrebbe ricevuto e idoneo alla "comunione finale con<br />

Dio".<br />

(2) Prima dell'inizio, come anche al termine, delle orgie bacchiche, di Adone ed Eleusine,<br />

c'erano una stretta osservanza del digiuno, della continenza sessuale ed una rigida<br />

preparazione in solitudine, sia da parte del neofita che dello Ierofante. A proposito del<br />

termine orgia che ha assunto nel corso del tempo un senso sempre più dispregiativo,<br />

riportiamo quanto scrive ILEANA CHIRASSI COLOMBO, ricercatrice all’Università<br />

della Sapienza di Roma: "Nel documento letterario più antico che possediamo, l'Inno<br />

Omerico a Demetra, i Misteri Eleusini sono definiti "orgia", termine che indica<br />

esplicitamente i riti che la Dea insegnava, senza alcun specifico riferimento a quello che più<br />

tardi significherà il termine "ogiastico", cioè gli effetti eccitanti della musica del flauto e di<br />

strumenti a percussione, secondo il senso stretto che gli darà ARISTOTELE. Il termine<br />

denominativo verbale orgizio significa semplicemente "celebrare i riti" o "fare" (ed anche<br />

"lavorare", da orgas, un terreno - tra Atene e Megara - sacro alle due Dee - Demetra e<br />

Persefone). Esso compare anche nelle Baccanti di Euripide con un senso allusivo più<br />

preciso che trascende ormai il valore etimologico" (da I CHIRASSI- COLOMBO,<br />

Mysteria, in Storia e Dossier, nov. 1992).<br />

(3) Nei Misteri di Eleusi ed in altri, i partecipanti venivano sempre divisi in due classi: i<br />

neofiti ed i perfetti. I primi erano ammessi periodicamente all'iniziazione preliminare (misteri<br />

"minori"), cioè alla rappresentazione drammatica di Cerere-Demetra - l' anima - che<br />

discende agli Inferi (Ade). Durante i Misteri di Eleusi, Demetra e Dioniso o Cerere e<br />

Bacco, rappresentavano rispettivamente il pane e il vino, le personificazioni della Sostanza e<br />

dello Spirito, i due Aspetti della Vita nella natura, sulla terra e nell'uomo.<br />

(4) Durante le grandi manifestazioni pubbliche nel corso delle feste dei Misteri le Verità<br />

Spirituali personificate erano adorate dalla moltitudine ciecamente e solo gli alti Iniziati, gli<br />

"amici di Dio", comprendevano il loro reale significato.<br />

(5) Nei misteri minori i neofiti erano sempre istruiti nei templi esterni con insegnamenti<br />

dati in forma di rappresentazioni allegoriche: Le lezioni sulla cosmologia, sulla teogonia e<br />

sull’antropogenesi erano impartite in termini simbolici, così come la scienza fisica, la<br />

medicina, le leggi del suono, la divinazione, la natura e le funzioni dell'Anima e dello<br />

Spirito. Le istruzioni orali erano date agli iniziati solo nelle cripte sotterranee in solenne<br />

raccoglimento e segreto (Misteri Maggiori).<br />

(7) Chi rivelava le dottrine misteriche apprese nel segreto della cripta, era considerato<br />

colpevole di empietà e poteva essere condannato a morte.<br />

I Misteri erano universalmente diffusi. Quelli greci erano una copia di quelli Egizi. Ma<br />

in Egitto, già molti secoli prima dei Tolomei, l'abuso della sacra scienza impartita nei Misteri<br />

si era insinuato tra gli iniziati dei santuari. Conservati per età immemorabili in tutta la loro<br />

purezza, questi sacri e divini insegnamenti, a causa dell'ambizione personale e dell'egoismo,<br />

mai completamente debellati, si corrupero grado a grado. Il significato spirituale dei simboli<br />

fu troppo spesso dissacrato da interpretazioni indecenti e molto presto i Misteri Eleusini<br />

rimasero i solo puri e privi di adulterazioni ed innovazioni sacrileghe.<br />

Ai Misteri di Eleusi, celebrati in onore di Demetra, veniva iniziato il fior fiore intellettuale


della Grecia e dell'Asia Minore. ZOZIMO, nel suo Quarto Libro, afferma infatti che questi<br />

iniziati appartenevano a tutta l'umanità, mentre ARISTIDE definisce i Misteri come "il<br />

tempio comune della terra."<br />

E' per preservare qualche ricordo di questo "tempio" e per ricostruirlo se necessario, che<br />

alcuni tra gli Eletti Iniziati cominciarono a separ<strong>ars</strong>i dagli altri... Questo allontanamento fu<br />

compiuto dai loro più elevati Ierofanti in ogni secolo, fin dall'epoca in cui le sacre allegorie<br />

cominciarono a mostrare i primi segni della decadenza e della profanazione. Infatti anche i<br />

grandi riti Eleusini condivisero in ultimo lo stesso destino di tutti gli altri Misteri. La loro<br />

originaria eccellenza ed i loro scopi sono descritti, tra gli altri, dallo stesso CLEMENTE di<br />

ALESSANDRIA, che mostra come i Misteri Maggiori divulgassero il segreto ed il modo<br />

di formazione dell'universo, il suo divenire e le sue origini, il termine e la mèta finale della<br />

conoscenza umana, poichè in essi veniva mostrata agli iniziati, la Natura e tutte le cose come<br />

realmente sono. E tale è la gnosi secondo Pitagora. EPITTETO parla di queste istruzioni nei<br />

termini più elevati: "tutto quanto si svolge nel loro interno fu stabilito dai nostri maestri per<br />

l'istruzione dell'uomo e la correzione dei nostri costumi". E PLATONE nel Fedone, dice la<br />

stessa cosa... Lo scopo dei Misteri era di ricondurre l'anima alla sua primitiva purezza, ossia<br />

a quello stato di perfezione dal quale essa era "decaduta".<br />

Ma venne un giorno in cui anche i Misteri di Eleusi deviarono dalla loro purezza, nello<br />

stesso modo delle religioni exoteriche. Questa decadenza ebbe inizio quando lo Stato greco<br />

decise, su suggerimento di ARISTOGITONE (510 a C), di trasformare le Eleusinie in una<br />

costante e prolifica fonte di rendita. Fu votata infatti una legge con queste finalità. Secondo<br />

tale legge, nessuno poteva venire iniziato senza aver pagato una certa somma di denaro per<br />

questo privilegio.<br />

Il dono, che fino a quel tempo poteva essere ottenuto solo a prezzo di un incessante<br />

sforzo quasi sovrumano, rivolto verso la virtù e l'eccellenza, poteva ora essere comprato<br />

con molto oro ... I legislatori e perfino gli stessi sacerdoti, accettando questa dissacrazione,<br />

persero alla fine il loro passato rispetto per i Misteri profondi e questo fatto condusse ad<br />

un'ulteriore profanazione della scienza divina. Lo "strappo" fatto nel velo si allargò secolo<br />

dopo secolo, e più che mai il Supremo Ierofante, temendo la divulgazione finale e la<br />

distorsione dei più sacri segreti della natura, operò al fine di eliminare questi ultimi dal<br />

programma interiore riservando la conoscenza completa solo a pochissimi. Perciò, furono<br />

quelli che si separarono che presto divennero i soli custodi della divina eredità delle epoche.<br />

Sette secoli dopo troviamo APULEIO che, nonostante la sua sincera inclinazione verso il<br />

misticismo, scrive nel suo poema letteraro L' Asino d'Oro (o Le Metamorfosi) un'amara<br />

satira contro l'ipocrisia e la corruzione di certi ordini formati da sacerdoti semi-iniziati. E<br />

pure da lui che abbiamo appreso come ai suoi giorni (II secolo d C) i Misteri fossero<br />

divenuti così universali che persone di tutte le classi e condizioni in ogni paese, uomini,<br />

donne e bambini, venissero tutti iniziati! L'iniziazione era divenuta tanto indispensabile ai<br />

suoi giorni quanto il battesimo presso i cristiani e, come quest'ultimo è ora, essa divenne<br />

priva di significato, pura lettera morta ed una cerimonia esclusivamente formale. Poco<br />

tempo dopo, la nuova religione mise la sua pesante mano sui Misteri...<br />

Così gli epoptae, "coloro che vedono le cose come realmente sono", scomparvero uno ad<br />

uno, emigrando in regioni inaccessibili ai cristiani. I mystae (da mystes, cioè "velato"),


ossia "coloro che vedono le cose solo come esse appaiono", rimasero molto presto gli unici<br />

padroni della situazione ...<br />

I Misteri Eleusini tuttavia sopravvissero più a lungo di tutti gli altri. Mentre i culti segreti<br />

degli dèi minori, quali quelli dei Curates, dei Dactyli, il culto di Adone, dei Kabiri e persino<br />

quelli dell'Egitto, scomparvero completamente sotto le mani vendicatrici e crudeli degli<br />

Imperatori cristiani, i Misteri di Eleusi non potevano essere così semplicemente liquidati.<br />

Essi rappresentavano invero la religione dell'Umanità e rifulgevano ancora in tutto il loro<br />

splendore, se non nella loro primitiva purezza. Ci vorranno perciò diversi secoli per abolirli<br />

e non poterono essere completamente soppressi prima del 396 della nostra era .


Maria Grazia Toti Massimo Seriacopi<br />

Per la riscoperta della esegesi dantesca in Leon Daudet<br />

Parte prima: Vita, opere e pensiero di Léon Daudet.<br />

Cercare di delineare la personalità e l'opera di Lèon Daudet in poche cartelle non è un<br />

compito facile, in quanto l'eclettismo del pensiero e la vastità della sua produzione letteraria<br />

mal si addicono alla sintesi: infatti è sull'analisi, del mondo, degli altri e soprattutto di se<br />

stesso, che Daudet redige tomi su tomi per tentare di capire e far comprendere i complessi<br />

meccanismi dell'animo umano, riportando l'attenzione sui retaggi ereditari che condizionano<br />

le scelte e l'intera esistenza terrena dell'uomo.<br />

Léon Daudet nasce il 6 novembre 1867 a Parigi: Julia Allard, sua madre, ha 23 anni, ed è<br />

moglie, da quasi un anno, di Alphonse Daudet. è figlia dei coniugi Allard, facoltosi<br />

intellettuali che avevano creato un salotto letterario che vantava la presenza di scrittori e<br />

artisti di rilievo.<br />

Alphonse Daudet ha origini ben più umili della moglie, ma Parigi gli aveva dato<br />

l'opportunità di riscatt<strong>ars</strong>i dalla sofferta infanzia: infatti la sua bellezza da "giovane dio<br />

greco" (così veniva chiamato nei salotti parigini), ed il suo talento colpiscono l'Imperatrice<br />

Eugenia, che gli fa avere un posto come terzo segretario del Conte Morny. Questa nuova<br />

attività gli permetterà di impegn<strong>ars</strong>i maggiormente nella stesura di pièces teatrali, lasciando<br />

da parte le saltuarie collaborazioni con alcuni quotidiani dell'epoca.<br />

Le petit Chose, histoire d'un enfant pubblicato nel 1868, lettres de mon moulin del 1869, e<br />

la trilogia delle avventure di Tartarino di Tarascona del 1872, renderanno Alphonse Daudet<br />

uno scrittore di fama indiscussa.<br />

La biografia di Lèon Daudet, a partire dal periodo giovanile, fino al periodo dell'esilio, la<br />

sua carriera politica, così come la genesi delle sue opere, è facilmente ricostruibile grazie ai<br />

numerosi volumi di souvenirs, che egli ha redatto nel corso della sua vita; essi hanno il<br />

pregio di fornire un interessante spaccato non solo delle vicende personali di Daudet e della<br />

sua famiglia, ma anche dei personaggi più in vista del periodo e delle situazioni che li<br />

vedevano coinvolti.<br />

L'infanzia di Léon Daudet è fortemente caratterizzata dall'ambiente culturale che ruota<br />

intorno ai suoi genitori: i salotti letterari della madre vedono sfilare le Tout-Paris delle arti e<br />

della letteratura, ed anche i compagni di bohème di Alphonse, una volta superati i pregiudizi<br />

legati alle origini borghesi di Julia, fanno della maison Daudet un luogo di abituale ritrovo.<br />

La prima istruzione gli sarà data in casa, inizialmente dal padre; in seguito sarà assunto un<br />

precettore privato; il padre avrà cura di integrare le lezioni private, come anche il successivo<br />

percorso scolastico (presso il liceo Charlemagne), trasmettendogli il suo immenso amore<br />

per le opere di Montaigne e Rabelais, facendogli imparare intere pagine a memoria dei loro<br />

scritti, che Léon non dimenticherà.


Léon Daudet non perderà occasione di rimarcare il debito che lo lega ai due autori, per lui<br />

fondamentali. Spesso raffronterà la sua opera con quella di Rabelais, sentendo che la sua<br />

spiccata ironia ed il gusto per la satira e la polemica, affondano le radici nella sua opera.<br />

Grande rilievo avrà anche lo studio della letteratura latina e greca, con un'attenzione<br />

particolare per la lingua latina, che secondo lui è "ciò che fa il fondo -e la forma- delle lettere<br />

francesi".<br />

Il padre lo impegnerà altresì nello studio della lingua tedesca, che il figlio parla già ad 8<br />

anni; é un insegnamento impartito, non tanto per un desiderio di avvicinamento alla cultura<br />

germanica, quanto perché il giovane Léon possa conoscere il suo nemico, il popolo che ha<br />

umiliato la Francia.<br />

Il rendimento scolastico sarà ottimo: già in lui si manifesta uno spiccato senso della<br />

competizione, ed una intima determinazione a primeggiare, certo non estranea ad un'insita<br />

tensione verso la perfezione.<br />

Gli anni del liceo portano con sé profondi turbamenti emotivi, mettendo ancor più in luce<br />

l'animo inquieto di Daudet. Ne La Recherche du Beau parlerà del risveglio dei sensi e<br />

dell'importanza dell'amore; descrivendo minuziosamente la prima volta che è stato turbato<br />

eroticamente: la descriverà come un’esperienza sconvolgente per lui che, fino ad allora,<br />

aveva cercato il "bello" nei libri.<br />

L'eredità più ingombrante e tragica lasciata dal padre sarà quella della malattia: il brusco<br />

peggioramento della salute, già cagionevole, di Alphonse rivelerà la vera natura delle sua<br />

sofferenze, frutto di un'infezione sifilitica, che lo costringerà a continui ricoveri ed a<br />

soggiorni nelle stazioni termali, nel tentativo di trovare sollievo agli spasmi muscolari che<br />

spesso lo attanagliano. Sarà un duro colpo per lui: il suo amato padre potrebbe morire entro<br />

breve e comunque il tempo che gli resta lo trascorrerà tra dolori che si faranno sempre più<br />

atroci.<br />

Sentirà l'ombra della malattia su di sé, uno spettro che egli cercherà di esorcizzare negli<br />

studi sull'ereditarietà, soprattutto ne L'Hérédo, che avrà come sottotitolo Essai sur le drame<br />

intérieure, proprio a sottolineare la tragedia personale. Hérédo è un termine medico usato<br />

per indicare la sifilide ereditaria. Léon lo fa assurgere a concetto che descrive il peso<br />

dell'ereditarietà, che non è solo biologica ma è anche comportamentale. L'uscita di questo<br />

testo segna la fine di anni di dubbi e di timori sulla presenza del "male" in lui e soprattutto<br />

nei suoi figli.<br />

Per alcuni biografi è proprio la malattia del padre che lo spinge a intraprendere gli studi di<br />

medicina, lasciando indietro la passione per la letteratura: si iscriverà all' École de médecine<br />

di Parigi, e supererà il concorso di internato, passando così un periodo all' H...tel-Dieu, il<br />

maggiore ospedale di Parigi.<br />

Il carabin Léon Daudet, così si chiamavano gli studenti di medicina, si trova a frequentare<br />

una facoltà che in quel momento gode di una particolare considerazione. Gli studi sull'isteria<br />

del Prof. Charcot sono noti in tutta Europa. Molti sono gli studenti che si recano a Parigi<br />

per alcuni mesi per potere seguire le lezioni che Charcot ed i suoi assistenti tengono alla<br />

Salpêtrière. Basti pensare all'influenza che l'esperienza parigina ebbe su Sigmund Freud per<br />

rendersi conto della portata "rivoluzionaria" delle teorie sull'isteria proposte dal patologo<br />

francese. Daudet sarà insieme affascinato e disgustato dalla cour des miracles creatasi


intorno a quest'uomo che egli già conosce, data la sua amicizia con il figlio del grande<br />

medico; ne ammira la ferrea volontà di comprendere e curare le cause della sofferenza<br />

umana, ma prova un profondo disprezzo per quel modo di fare scienza che ha l'unico scopo<br />

di imporre il proprio sapere.<br />

Seguirà i corsi per otto anni; sceglierà una tesi che ha per tema proprio l'ereditarietà, ma non<br />

la porterà a termine. Abbandonerà gli studi medici nel 1891, per tornare alla sua vocazione<br />

letteraria, dedicandosi al giornalismo ed alla stesura di pamphlet e di altre opere di varia<br />

umanità. In quello stesso anno si sposerà con la nipote prediletta di Victor Hugo, Jeanne;<br />

dopo meno di 3 anni sono già separati. Si risposerà nel 1903 con Marthe Allard, sua cugina<br />

di primo grado, dalla quale avrà 3 figli.<br />

Daudet congederà i suoi studi medici scrivendo un romanzo, che uscirà nel 1904, Les<br />

Morticoles, "i medicastri", accesa parodia ispirata dalla permanenza alla Salpêtriere; tutti i<br />

personaggi sono ispirati a Charcot ed alla sua "corte", e nonostante gli pseudonimi usati<br />

sono perfettamente riconoscibili. Questo romanzo era stato preceduto dalla pubblicazione di<br />

due saggi filosofici di sc<strong>ars</strong>a importanza, e da L'Astre Noir, romanzo ispirato a Victor<br />

Hugo, che costituirà il pretesto finale per la separazione con la prima moglie.<br />

La carriera giornalistica culminerà nel 1908, quando con Maurras fonderà l'Action<br />

Française di cui sarà il direttore; d'ora in poi la sua partecipazione alle vicende politiche sarà<br />

sempre più intensa tanto che nel 1919 sarà eletto deputato.<br />

Con la sua produzione filosofica, Daudet tende a codificare un processo di perfezionamento<br />

dello spirito umano, che non tiene solo in considerazione la parte spirituale, ma anche la<br />

componente fisica; egli considera che le malattie del corpo e le malattie dell'anima siano<br />

originate da una stessa matrice dalla quale è necessario emancip<strong>ars</strong>i. In questo percorso di<br />

liberazione Dante, con la sua Commedia, gli è di sostegno in quanto indica il cammino<br />

verso la perfezione, un cammino post-mortem che ha il pregio di individuare le pene e le<br />

virtù della vita umana.<br />

La sua opera filosofica sarà composta inizialmente da una trilogia che comprende L'Hérédo,<br />

Le monde des images e le Rêve éveille; qualche anno dopo pubblicherà per Grasset il<br />

Courier des Pays Bas, durante il periodo dell'esilio in Belgio, e conclude il suo percorso<br />

psico-filosofico con Les Universaux, dove ipotizza che le epoche storiche siano influenzate<br />

da onde particolari, "universali" appunto, che indirizzano le scelte dei protagonisti di un<br />

periodo.<br />

Partendo dalla schiavitù ereditaria, che rappresenta il vincolo più profondo della natura<br />

umana, egli analizza e dà una spiegazione a tutte le ossessioni umane che provengono dagli<br />

hérédismes, dal vincolo congenito della famiglia. Ne l'Hérédo esplora questo universo<br />

ereditario, un "universo" propriamente detto, dato che egli costruisce una vera e propria<br />

cosmogonia interiore che ruota intorno al sole della personalità il soi, la parte originaria ed<br />

autentica dell'individuo.<br />

L'analisi interiore e la critica letteraria in Daudet vanno di pari passo, perchè una delle sue<br />

particolarità è data dal fatto che i suoi "casi clinici" sono spesso i protagonisti di romanzi:<br />

Amleto, Lady Macbeth, lo stesso Dante, rappresentano un "tipo psicologico" particolare,<br />

ma soprattutto incarnano una serie di atteggiamenti ereditari di cui liber<strong>ars</strong>i, perché<br />

responsabili della sua sofferenza.


Lo studio sull'ereditarietà andrà delineandosi ancor di più con il pales<strong>ars</strong>i de le monde des<br />

images: noi siamo perennemente abitati da immagini che sono strettamente legate al moi, la<br />

parte dominata dalla "continuità della famiglia". Oltre alle immagini verrà approfondita<br />

l'analisi del linguaggio, che già è stato protagonista di una complicata analisi ne l'Hérédo:<br />

infatti egli ricostruisce una grammatica ereditaria che attribuisce ad ogni parte della frase una<br />

derivazione atavica o propria del sé.<br />

Nel volume successivo analizzerà le immagini del "sogno sveglio": una sorta di semisonnambulismo<br />

di cui la componente atavica è responsabile; è proprio negli ultimi due<br />

capitoli di questo testo che egli identifica nella "ascensione meditativa dello spirito" la via<br />

regia della trascendenza dei vincoli ereditari, e del corpo. Lo scopo supremo è quello di<br />

"concepire" la figura del Redentore, una creazione interiore spirituale che apre le porte di<br />

ogni comprensione. Una delle tre vie regie verso la trascendenza è proprio la creazione<br />

letteraria e tutta la creazione artistica: le scorie ereditarie attraverso l'impulso della creazione<br />

divengono capolavori immortali, la Commedia ne è la massima dimostrazione.<br />

Daudet, come tanti degli autori dimenticati, appartiene a quel vastissimo ramo che Focault<br />

inscrive nella storia delle idee, sotto la denominazione di “archeologia del sapere”; si pone<br />

come una delle tante forme di “conoscenze imperfette”, che rimangono recluse nel loro<br />

tempo, non sopravvivendo al loro ideatore. Talvolta è proprio da queste forme dimenticate<br />

di scrittura, su questo "terreno friabile" che altri costruiscono opere che travalicano le<br />

epoche.<br />

Parte seconda: Sull'esegesi dantesca di Léon Daudet.<br />

All'interno della vasta opera di Léon Daudet è possibile rintracciare diversi riferimenti non<br />

tanto al testo, quanto alla valenza dei personaggi fondamentali della Commedia dantesca, e<br />

del "processo di preparazione" costituito da alcune delle poesie contenute nella Vita Nuova.<br />

Vale la pena di analizzare almeno qualcuna di queste interpretazioni, perché, inserite nel<br />

"sistema filosofico" e di lettura della realtà costruita da Daudet, si pongono, almeno in certa<br />

misura, in modo originale rispetto ad ogni precedente e contemporaneo sforzo esegetico<br />

dantesco.<br />

Quella che viene proposta è dunque una riflessione su di un'interpretazione non sistematica,<br />

ma anzi di un sistema facente parte, che si pone come una serie di spunti esegetici<br />

"extravaganti" rispetto alla critica "ufficiale", ma che pur offre interessanti stimoli e<br />

costituisce, in ogni caso, un tassello della storia secolare commento al poema dantesco<br />

ancora assolutamente non studiato.<br />

All'interno del volume L'Hérédo Daudet delinea uno dei concetti basilari del suo pensiero:<br />

la distinzione tra Moi e Soi.<br />

Denomina quindi Moi "l'insieme, fisico e morale, dell'individuo umano, che comprende gli<br />

apporti ereditari"; e Soi "l'essenza della personalità umana, liberata da questi apporti<br />

attraverso la loro eliminazione, il loro riequilibrio o la loro fusione, e costituisce un essere<br />

originale e nuovo, percepito come tale dalla coscienza".


Nel percorso che porta a stabilire i "fondamenti psicologici e<br />

fisiologici della responsabilità morale", Daudet individua all'interno di<br />

ogni persona, una volta ottenuta la libertà della coscienza e dell'arbitrio, il<br />

dovere di realizzare il "capolavoro" che ha in sé:<br />

Ogni uomo porta in sé la possibilità di un capolavoro, o più<br />

esattamente del capolavoro su questa terra: la fioritura della propria<br />

coscienza, al di fuori degli ostacoli congeniti. Il mezzo per raggiungere<br />

questo splendido risultato, è la volontà nello sforzo (op. cit., p. 8).<br />

Poiché la reazione alle componenti negative del proprio animo e la ricerca del personale<br />

equilibrio, che prevede la proiezione all'esterno degli elementi di dissidio e turbamento,<br />

viene stimolata da quella che Daudet definisce impulsion créatrice, e viene presa in analisi<br />

una delle forme più elevate risultanti da essa: la creazione letteraria.<br />

è infatti proprio attraverso la scrittura che molti grandi artisti, sostiene lo studioso francese,<br />

sono riusciti a liber<strong>ars</strong>i da quelle fonti di turbamento rappresentate dai loro "protagonisti<br />

psichici", trasferendo nell'opera letteraria e nei personaggi creati gli elementi ereditari del<br />

moi.<br />

Poeta principe del ricongiungimento e della chiara rivincita del soi viene riconosciuto essere<br />

proprio Dante; e se è vero che<br />

e che<br />

L'opera d'arte è spesso uno sforzo personale dell'individuo per<br />

liber<strong>ars</strong>i dalla folla di personaggi che lo ossessionano, presi a prestito<br />

dalla sua ascendenza,<br />

l'opera d'arte geniale e spontanea, più che un agglomerato di<br />

osservazioni, è un'emissione di questi ospiti interiori, collegati gli uni agli<br />

altri da circostanze più o meno plasmate, logicamente dedotte dai loro<br />

contrasti,<br />

il poeta fiorentino natione, non moribus viene riconosciuto come rappresentante eletto della<br />

attrazione del soi, di quella gravità morale che indietreggia senza sosta<br />

di fronte all'analisi, ma alla quale la ragione nel pieno delle sue forze può<br />

ridare chiarezza. La Divina Commedia [...] è un modo per scaric<strong>ars</strong>i<br />

completamente di tutti gli eredismi [termine coniato dall'autore per<br />

indicare il "peso" psico-genetico che ci hanno lasciato i nostri avi; una<br />

sorta di corrispettivo moderno del concetto medievale di "peccato<br />

originale", quindi] fecondati dall'istinto di genesi; tale atto lascia<br />

finalmente libero da costrizioni, a livello delle solitudini stellari, il soi<br />

dell'altissimo poeta e quello della sua Beatrice.


Pochi vengono riconosciuti gli "eletti" che impiegano il proprio tempo nell'analisi delle<br />

caratteristiche interiori; e le difficili leggi che regolano la loro comprensione, proprio per la<br />

loro componente di difficile razionalizzazione, "talvolta divengono fonte di ispirazione per il<br />

poeta, o suggeritrici di scoperte per il sapiente, ma anche apportatrici di gioia e di dolore,<br />

cioè motivo di movimento di un determinato pathos.<br />

Introducendo poi il concetto di "aspirazioni vaghe", Daudet sottolinea come questi elementi<br />

che costituiscono il "margine esterno del moi" siano spesso, con il loro senso di<br />

indeterminatezza, forieri di una condizione di schiavitù dell'uomo, poiché ne legano la<br />

coscienza: ne è un esempio la passione ideale, che si trasforma in ossessione<br />

(dantescamente: in travalicamento dell'aristotelico "giusto mezzo"), in quanto vago e privo<br />

di una finalità.<br />

Per sfuggire a questa condizione, è necessario che venga esercitato un costante controllo su<br />

se stessi, a cui è preposto proprio il soi, l'être original, l'essenza della personalità libera dagli<br />

hérédismes.<br />

E, ricorda Daudet, estrinsecazione prima del soi è proprio l'impulsion o initiative créatrice, il<br />

porsi cioè di una finalità che informi le "aspirazioni vaghe"; così inizia l'emancipazione della<br />

componente ereditaria: dirigersi verso un'azione "definita", com'è per il pellegrinaggio<br />

dantesco, fa sì che l'individuo sia mosso solo da "se stesso" (benché, medievalmente,<br />

rapportato ad una presenza infinita ed assoluta, quindi ultraterrena).<br />

Si ricorderà, a questo punto, che il termine della funzione di guida -ragione assunta da<br />

Virgilio, in vetta al Purgatorio (regno della piena riedificazione morale ed intellettiva), verrà<br />

siglato con queste parole rivolte a Dante dal poeta latino: «libero, dritto e sano è tuo<br />

arbitrio» (Purgatorio, XXVII 140).<br />

Viene giustamente sottolineato che<br />

l'elemento permette la distinzione fra aspirazioni vaghe e action<br />

définie, è l'equilibre par la raison, senza il quale ogni tipo di saggezza<br />

sarebbe impossibile, anzi inconcepibile. Questo equilibrio intellettuale e<br />

morale è proprio dell'essere umano: è solo attraverso la sua virtù che si<br />

sviluppa e si accresce. La ragione umana cerca l'equilibrio poiché è l'unica<br />

condizione di tranquillità interiore; tale ricerca parte dal soi, e ad esso<br />

ritorna [...].<br />

La sintesi degli elementi del soi si concretizza nel cosidetto "atto di fede", da deputare alle<br />

gerarchie politico-morali più alte, poiché il soi è sociale, e rifiuta l'anarchia, in quanto è<br />

portatore di istanze costruttrici e agglomeranti.<br />

Suo compito precipuo è quello di incanalare le ossessioni del moi, utilizzarle nello sviluppo<br />

delle capacità personali, altrimenti l’individuo è destinato alla disperazione ed alla mancanza<br />

di evoluzione, poichè l’unica preoccupazione del moi è di esaltare i difetti nel disprezzo<br />

delle proprie qualità, in quanto è sinonimo di dissociazione e dispersione; infatti Daudet<br />

afferma, a questo proposito:


Quando il moi prende passo sul soi, l'uomo spettatore prende passo<br />

sull'uomo che agisce, la statica sulla dinamica, la contemplazione sullo<br />

sforzo e l'aspirazione vaga sull'affermazione.<br />

Invece il perfezionamento del soi consegna all’individuo la “matrice della vita” ed un<br />

distacco razionale da se stesso che gli permetterà di perseguire qualsiasi scopo. Il soi<br />

disciplina i vari elementi interiori, instaura una gerarchia ben precisa che fa capo ad un<br />

ordine razionale, l'equilibre par raison appunto, che è in grado di utilizzare gli apporti<br />

ereditari al fine di realizzare “se stesso”.<br />

Nessuna opera letteraria, a buon titolo, viene riconosciuta così efficace come la Commedia<br />

per esemplificare l'applicazione di tali presupposti.<br />

All'interno del poema tutti gli hérédismes fecondati dall'istinto di genesi si liberano, e<br />

vengono esauriti, così da lasciare il soi del poeta e quello di Beatrice alla reciproca presenza,<br />

senza alcuna interferenza. Le fasi che compongono il poema seguono il percorso delle<br />

"torture congenite": nell'Inferno si ha quindi il dominio dell'istinto di genesi, nel Purgatorio<br />

ha invece luogo la lotta fra soi e moi; attraverso questa completa cat<strong>ars</strong>i egli ritrova la sua<br />

personalità originaria, liberamente agente. Nel poema dantesco è chiaramente rintracciabile<br />

la trama, che conduce alla totale espansione del soi vittorioso sul moi, “gravemente caricato<br />

fin dalla più tenera età”.<br />

Daudet definisce questo percorso interiore con il termine auto-psycographie, che è<br />

estensibile alla letteratura in generale, anche se questo caso è particolarmente esaustivo,<br />

poiché essa è sovente “un’immensa confessione”<br />

ora diretta, ora allusiva, dei mutamenti della coscienza umana tra le<br />

reazioni dei suoi due poli, il soi ed il moi; il primo , autoctono,<br />

intrasmissibile, imperituro; il secondo ereditario, trasmissibile e mortale .<br />

Attraverso la letteratura lo scrittore può liber<strong>ars</strong>i dagli hérédismes, tramandando ai posteri il<br />

giudizio che essi hanno dato di se stessi, ciò che di buono e malevolo sono stati in grado di<br />

trasmettere.<br />

Notava dunque lo studioso francese che ci si trova di fronte, col poema dantesco, al caso<br />

più pregnante di una purgazione completa, in itinere, della personalità inficiata dal peso<br />

dell'hérédisme; questo per mezzo di un'opera d'arte che<br />

corona l'apoteosi della personalità rinnovata e che può agire<br />

liberamente. La costruzione del poema, triplice in uno, si ricollega<br />

all'espansione del soi dantesco,<br />

e in effetti la coesione della Commedia, il suo equilibrio armonioso, segna la separazione di<br />

Dante dai propri hérédismes, lasciando<br />

ardere il suo soi riflesso del soi ardente della donna amata. Sono due<br />

"soli spirituali", che si completano e si confrontano.


Bastino questi pochi tratti delineati per comprendere almeno alcuni degli aspetti attraverso i<br />

quali Daudet affronta l'opera dantesca nel suo complesso e il suo confronto con il sépellegrino<br />

(composizione della funzione di autore-attore) e con le figure di Virgilio e<br />

Beatrice; si spera comunque che queste poche pagine possano servire come stimolo per<br />

l'approfondimento di quel "territorio inesplorato" che è costituito dalle osservazioni<br />

esegetiche dantesche sp<strong>ars</strong>e nell'opera di Léon Daudet.<br />

Note<br />

1. Riportiamo di seguito alcuni titoli delle pubblicazioni più interessanti di souvenirs<br />

pubblicati dall’autore:<br />

- Fantomes et vivant. Première sèries; Paris, Nouvelle Librairie Nationale, 1914<br />

- Souvenirs des milieux littèraires politiques artistiques et medicaux de 1908 à 1914,<br />

Paris,NLN, 1914<br />

- Devant la douleur, Paris, NLN, 1915<br />

- L’entre-deux-guerres. Troisième sèries, Paris, NLN, 1915<br />

- Salons et journaux, Paris, NLN, 1917<br />

- Au temps de Judas. Cinquième sèrie, Paris, NLN, 1020<br />

- Paris veçu. Quinzième èdition, Paris, Gallimard, 1927<br />

- Vingt-neuf mois d’exil, Paris, Grasset, 1930<br />

- Vers le roi. Sixième sèrie, Paris, Grasset, 1934<br />

- Quand vivait mon père. Souvenirs inédits sur Alphonse Daudet, Paris, Grasset, 1940<br />

2. Leon Daudet, La recherche sur beau, Paris, Grasset, 1032. In questo testo l’autore<br />

soprattutto prende in esame vari aspetti del bello; seguendo le suggestioni legate ai vari tipi di<br />

bellezza femminile giunge a descrivere alcune delle grandi opere della letteratura e delle arti,<br />

così da poter tracciare il percorso della propria sensibilità estetica e della sua personale<br />

‘ricerca del bello’.<br />

3. L. Daudet, L’Herèdo. ssai sur le drame intèrieur, Paris, NLN, 1018<br />

4. E’ curioso che un uomo così attento ai vincoli ereditari si sia unito in matrimonio con una<br />

persona che è figlia della sorella di Alphonse Daudet e del fratello di Julia Allard.<br />

5. Leon Daudet, Les morticoles, Paris, Charpentier et Fasquelle. Relativamente all’esperienza<br />

medicale è molto interessante il volume di souvenirs intitolato Devant la Douleur, cit., che<br />

contiene dei ritratti molto particolareggiati di Charcot, dei suoi colleghi e di quella che egli<br />

stesso definirà ‘tutta l’avventura della grande isteria’.<br />

6. Entrare nello specifico della carriera politica di Daudet comporterebbe un lavoro che non<br />

pertiene a questa sede, quindi rimandiamo coloro che fossero interessati alla consultazione<br />

dei seguenti testi:<br />

- R. Joseph, Les combats de Leon Daudet, Orleans, Essai, 1962<br />

- J.N. Marque, Leon Daudet, Paris, Fayard, 1971<br />

- E. Vatrè, Leon Daudet ou le libre reactionnaire, France Empire, 1988<br />

All’interno dei volumi è reperibile una nutrita bibliografia sia dell’autore che sull’autore<br />

relativamente alla sua attività politico-giornalistica.<br />

7. Nonostante nella sua opera ci siano spunti realmente interessanti egli è stato dimenticato<br />

per tutto ciò che concerneva il personaggio non politico, così sia la produzione filosofica che<br />

tutti i testi di critica letteraria non sono stati ristampati.<br />

8. L. Daudet, L’Heredo. Essai sur le drame interieur, cit.


9. L. Daudet, Le monde des images. Suite de L’heredo, Paris, N.L.N., 1919<br />

10.L. Daudet, Rêve éveille. Etude sur la profondeur de l’esprit.,P<strong>ars</strong>i, Grasset, 1926<br />

11.Saranno editi nel 1928 con i titoli: La Ronde de Nuit, Les Pelerins d’Emmaus,<br />

Melancholia e Les Horreurs de la Guerre. Alcune parti di queste pubblicazioni sono state<br />

riprese dall’autore e ricomposte diversamente così da farne risultare una nuova<br />

pubblicazione. Questi volumi trattano delle relazioni che intercorrono tra corpo e mente,<br />

sostenendo che tale legame può essere la causa di molte malattie. Su questa base si innesta il<br />

concetto di aura, che costituisce il trait-d’union tra le due componenti umane. Qui Daudet<br />

cerca di montare un sistema sulla percezione dell’aura che dovrebbe chiudere e comprendere<br />

ogni sfera creata con i testi precedenti.<br />

Malancholia è stato recentemente tradotto in italiano: Melancholia, Palermo, Ed. Novecento;<br />

1989<br />

12.L. Daudet, Les Universaux. Essai sur le mouvements et les figures des ideées et des<br />

passions humaines, Paris, Grasset, 1935<br />

13. L. Daudet, L’Heredo,cit; la distinzione è nel primo capitolo, Le Moi et le Soi. Analyse et<br />

Syntèse. Per comodità le citazioni saranno riportate tradotte in italiano.<br />

14. Le citazioni sono della p. 9 del volume in esame.<br />

15. Entrambe le citazioni sono da p. 78<br />

16. Op. cit. p. 226<br />

17. Maria Grazia Toti, Léon Daudet. Aura e Malincholia di un Heredo, tesi di laurea, p. 48<br />

18. M.G. Toti, cit., p. 51<br />

19. L. Daudet, op. cit., p. 36<br />

20. L. Daudet, op.cit., p. 227<br />

21. L. Daudet, op. cit., pp. 226-228<br />

Francesco Velardi<br />

Un altro precursore della Commedia: S. Bernardo di Chiaravalle<br />

“Le anime…hanno bisogno di figure, enigmi, similitudini corporee per f<strong>ars</strong>i un'idea delle<br />

cose invisibili e interiori da quelle visibili e esterne”. S. Bernardo di Chiaravalle, Sermoni<br />

diversi- VI,1.<br />

“Scendi dunque nell'inferno da vivo; percorri con gli occhi della mente le officine dei<br />

tormenti…”. S. Bernardo, Sermoni diversi-XLII,6.<br />

“Ma l'uomo che nel timore di Dio impara la sapienza raggiunge subito la metà dei suoi


giorni, e preso dal timore esclama: "Me ne vado alle porte degli inferi"”. S.Bernardo, Opere<br />

IV, Sermoni diversi, III,1, Città Nuova Ed.<br />

“… finchè non giunse colui che infranse le porte dell'Averno, il che attendevano con ansia<br />

coloro che nel mezzo del cammin della loro vita scesero fino alle porte degli Inferi. S.<br />

Bernardo, Opere II, Sentenza III-110, Città Nuova Ed., pag. 557<br />

In tutte le Mitologie e le Teogonie si possono rinvenire tracce della credenza in luoghi di<br />

pene e di ricompense, descritti in modo più o meno minuzioso, e variamente raffigurati a<br />

seconda delle dottrine religiose. La ricerca dei modelli e delle fonti dantesche ha reso<br />

familiare le discese all'Averno di Virgilio ed Omero, le descrizioni o i riferimenti<br />

all'oltretomba, effettuati per i motivi più disparati, di Apuleio, Orazio, Stazio, Lucano,<br />

Ovidio, Silio Italico, Claudiano, Valerio Flacco, Cicerone, Seneca, Giovenale; ha inoltre<br />

stimolato l'approfondimento dei rapporti intercorrenti fra la teologia e la filosofia del<br />

medioevo e i grandi miti di Platone, Macrobio e Plutarco. Col cristianesimo, i luoghi di<br />

pene e di ricompense ( Paradiso e Inferno in un primo tempo, Purgatorio e Limbo in<br />

seguito) cominciarono ad assumere i contorni della realtà: dai primi secoli dell'era cristiana<br />

a tutto il Medioevo si andarono accumulando un gran numero di descrizioni dell'Inferno e<br />

del Paradiso, all'inizio attribuite all'autorità di scrittori biblici, in seguito a quella di<br />

Taumaturghi e Visionari. Conosciamo le visioni dei primi secoli, in pratica delle brevi<br />

parabole morali, grazie al loro incorporamento nelle opere di santi o di dottori; tra il settimo<br />

e l'ottavo secolo, con la "Leggenda di Furseo" e la "Leggenda di tre monaci orientali",<br />

l'orizzonte cominciò ad allarg<strong>ars</strong>i, ed ebbe inizio la ricerca, estesa fino ai confini del mondo<br />

ma priva di precise determinazioni geografiche, del Paradiso Terrestre ( cf. Alessandro<br />

d'Ancona, I precursori di Dante, 1874) . Come diceva il Villari a pag. xxix<br />

dell'introduzione alle "Antiche leggende e tradizioni che illustrano la Divina<br />

Commedia" ( stampato a Pisa il 1865 e ristampato in edizione anastatica dall'editore Forni il<br />

1974), “Le visioni dell'altro mondo cominciano cogli apostoli e coll'Apocalisse, e si<br />

diffondono per tutto l'Oriente. Quelle di Saturo, di Perpetua, di Carpo, di Cristina, rapiti in<br />

estasi a contemplare le pene dell'inferno o le glorie del Paradiso, riempiono i primi secoli del<br />

cristianesimo. Nel vi secolo dell'era volgare, esse cominciano a divenire un genere<br />

permanente e persistente nella sacra letteratura…[ il Villari cita qui un dialogo di<br />

S.Gregorio Magno, la leggenda di Barlaam e Giosafatte, la Leggenda dei tre monaci, in cui<br />

compare S. Macario citato da Dante in Paradiso XXII,49]..Tutte queste leggende orientali,<br />

insieme con molte altre, passano colle crociate dall'Oriente in Occidente, dove mutano<br />

alquanto l'indole loro. In Oriente, infatti, predomina quasi unicamente la descrizione del<br />

Paradiso, mentre fra di noi i popoli germanici fanno subito incominciare la descrizione<br />

dell'inferno. Nell'ottavo secolo è già incominciata la descrizione delle valli infernali di<br />

ghiaccio e di fuoco; Beda è uno dei primi a parlarcene…Il purgatorio e il l'inferno sono<br />

dapprima confusi…Finalmente il paradiso, il purgatorio e l'inferno sono ben distinti e<br />

divisi. Questo lavoro va innanzi lentamente. Nel IX secolo la leggenda prende un<br />

maraviglioso sviluppo, perché nell'anno millesimo dell'era volgare s'aspettava la fine del<br />

mondo, e la credulità aveva largo campo a fantasticare. Ma il mondo non finisce, e la<br />

leggenda, per poco sospesa, riprende più rigogliosa il suo cammino nell'XI secolo. Se non


che essa ha allora una forma più letteraria ed artistica, meno religiosa. E' dipinta, scolpita,<br />

raccontata in verso ed in prosa, in latino e nelle lingue volgari; ma è assai più spesso<br />

narrazioni di fatti avvenuti a Santi da gran tempo morti, che storia di visioni avute da<br />

contemporanei. In questo periodo, l'Irlanda dimostra una singolare attività, producendo<br />

quelle che son forse le tre leggende più popolari del medio evo, e pigliano il nome appunto<br />

da tre irlandesi: S. Brandano, S. Patrizio, e Tundalo”; più oltre, il Villari cita la Visione di S.<br />

Paolo, la Aurea leggenda, Gioacchino da Fiore, la Leggenda di Virgilio Mago, e la Visione<br />

di frate Alberico.<br />

La Visione di Frate Alberico, monaco di Montecassino, riportata in un codice originale<br />

cassinese, fu occasione di varie dispute sulla originalità della Divina Commedia: “Egli ci<br />

narra come trovandosi, all'età di nove anni, nel castello de' suoi avi, chiamato dei Sette Frati,<br />

in Terra di Lavoro, cadde in uno sfinimento tale, che lo fece poi uscire de' sensi. Ebbe allora<br />

la visione. Una colomba, accostatasi a lui, lo sollevò da terra, pigliandolo pei capelli. E<br />

subito dopo, in compagnia di S.Pietro, che gli fu di guida, e di due angeli, cominciò il<br />

misterioso viaggio per l'inferno. Ivi troviamo le lacrime di sangue, i fiumi di pece ardente, i<br />

laghi di fuoco, le valli di gelo, i ponti da cui precipitano le anime dei peccatori, i cappucci di<br />

piombo, che ne incurvano le teste, e il gran Verme che ispira ed aspira le anime dei dannati,<br />

ridotte in faville…Il purgatorio e l'inferno sono ancora confusi; ma gli angioli e le anime dei<br />

beati sono distribuite negli astri, che Alberico percorre, accompagnato dalla sua guida.<br />

Questa gli parla a lungo della vita monastica,.. ed allude ad altri fatti e persone note ad<br />

Alberico. Percorrono insieme diverse regioni della terra [ visitano anche il Purgatorio dei<br />

"parvoli"], ove sono spettatori di nuovi tormenti e nuovi tormentati, che non si sa ben dire<br />

se sono descritti come fatti reali o allegorici…” ( Antiche leggende, pagg.xxxiv-xxxv)<br />

E' noto, grazie alla pubblicazione, il 1919, de La escatologia musulmana en la Divina<br />

Commedia dell'arabista Miguel Asin Palacios ( tradotta in italiano il 1994 come Dante e<br />

l'Islam), e a quella del Libro della scala di Maometto ( curato da Cerulli il 1949 e da<br />

Saccone il 1991), che anche la cultura islamica ha avuto la possibilità di influenzare la<br />

concezione della Commedia, anche se con l'avvertenza che la leggenda musulmana del<br />

viaggio notturno e dell'ascensione al cielo di Maometto presenta elementi comuni con le<br />

ascensioni giudaico- cristiane apocrife di Mosè, Enoc, Baruc e Isaia. Anche a proposito<br />

della concezione del "lumen gloriae", di plotiniana ascendenza, l'Asin Palacios sottolinea<br />

che “ è anche certo che lo stesso Aquinate confessa di essersi rivolto a cercare ispirazione,<br />

per document<strong>ars</strong>i su questo problema, non ai Santi Padri né ai teologi scolastici, ma ai<br />

filosofi musulmani: l'autorità di Al-Farabi, Avicenna, Ibn Bagiah e Averroè è da lui<br />

invocata quando si tratti di spiegare filosoficamente le modalità della visione beatifica”. Alle<br />

pagg. 245-259 Asin Palacios sintetizza i maggiori punti di contatto, veramente numerosi e<br />

non casuali, riscontrabili nelle opere di Dante e Ibn-Sarabi a proposito della loro concezione<br />

architettonica e del loro intento di simmetria materiale e morale, avendo egli notato ( op. cit.,<br />

pag. 241)che “ la concezione di Ibn 'Arabi e quella di Dante sono identiche sia nell'idea<br />

come nella loro estrinsecazione artistica. Quest'ultima, inoltre, mancava di precedenti nella<br />

letteratura cristiana medievale….”.<br />

Per il dotto arabista solo l'influsso di elementi estranei alla dottrina occidentale può spiegare<br />

il salto brusco nell'evoluzione del tema escatologico all'interno della letteratura cristiana


occidentale che separa le leggende posteriori al secolo XI ( “più ampie, più complete e<br />

precise nella topografia dell'oltretomba, più sistematiche nella classificazione dei premi e dei<br />

castighi”) da quelle dei secoli precedenti (“ ma prima del secolo XI tutte queste leggende<br />

monastiche sono tanto brevi, povere, disadorne e puerili, con descrizioni topografiche tanto<br />

imprecise, poco plastiche, con rappresentazioni della vita futura tanto banali, umili e persino<br />

grossolane, che non avrebbero potuto fungere da modelli per Dante, anche se questi le<br />

avesse conosciute tutte”).<br />

La Visione di Frate Alberico, che “da quando l'Abate Cancellieri ne pubblicò per la prima<br />

volta nel 1824 il testo latino”, venne considerata dai dantisti “come precorritrice e modello<br />

interessante per la genesi della Divina Commedia”, è composta, secondo l'Asin Palacios, da<br />

elementi che “hanno assai poco, o quasi niente, di peculiare e di proprio; in maggioranza<br />

sono identici o del tutto analoghi a quelli tradizionali delle altre leggende già studiate.<br />

Basterà dunque una sommaria presentazione affinchè il suo confronto con le fonti islamiche<br />

risulti concluso” ( Dante e l'Islam, pag. 285). Alessandro d'Ancona ( I precursori di<br />

Dante, 1874; ristampato anastaticamente dall'editore Forni il 1989) precisa, nella nota 2 di<br />

pag. 23, che essa è stata composta il 1127 “come si espone nel proemio che è fatto in nome<br />

di Alberico, e ove si danno i titoli di alcuni capitoli erroneamente interpolati nella leggenda”,<br />

laddove per il Villari ( Antiche leggende… pag. xxxiv) “il codice originale cassinese, che<br />

contiene la sua narrazione è scritto fra gli anni 1159 e 1181” . Il D'Ancona riporta quei<br />

particolari della visione che avevano fatta agitare “la questione se Dante avesse tolta la<br />

materia del suo poema da una Visione, quella di Frate Alberico, che venne diseppellita dagli<br />

archivj del cenobio cassinese. Ma è assai dubbio se codesta narrazione varcasse mai le<br />

soglie della badia benedettina, ove poi è quasi certo che Dante non ponesse mai il piede” ( I<br />

precursori di Dante, pagg. 63-67 e note). A pag. 66 il D'Ancona così conclude il suo<br />

riassunto della Leggenda: “ Dopo averlo rapito al primo cielo, donde gli espone l'ordine<br />

degli altri, s. Pietro mostra ad Alberico le cinquantuna regioni nelle quali è diviso il<br />

mondo…indi, messagli una carticella scritta in bocca, lo rimanda al suo chiostro,<br />

ingiungendogli di riferire le cose vedute, e di offrirgli ogni anno un cero benedetto, alto<br />

quanto la sua statura: e così puerilmente ha termine la Visione”.<br />

I regni oltremondani di S.Bernardo<br />

Come abbiamo visto, l'XI secolo separa visioni semplici e rozze da visioni più complesse e<br />

strutturate, non prive di descrizioni allegoriche: ma tutte vengono considerate come reali,<br />

siano esse frutto di sogni che di visioni estatiche.<br />

Negli stessi decenni della messa per iscritto della visione di Frate Alberico, anche Bernardo<br />

di Chiaravalle (1090-1153), l'ultimo dei Padri ma anche l'ultima guida di Dante, i cui<br />

sermoni sono considerati dalla critica tra i "best- sellers" dell'epoca a causa dell'elevato<br />

numero di manoscritti che li hanno tramandati, aveva affrontato la descrizione dei regni<br />

oltremondani, ma da una visuale completamente diversa. Diversi studiosi hanno sottolineato<br />

i molteplici apporti teologici esercitati dall'opera bernardiana sul pensiero dantesco: ma<br />

nessuno di essi, a mia conoscenza, ha richiamato l'attenzione sulla presenza, in essa, di


spunti che consentirebbero di considerare i regni oltremondani alla stregua dei cieli interiori<br />

di Platone e di Dante [ “…per cielo io intendo la scienza…” -Conv. II, xii,2]. Non<br />

sappiamo se Dante conosceva l'opera di Alberico, mentre è ben nota agli studiosi<br />

l'importanza del pensiero di S. Bernardo nell'economia della Commedia: ma l'influsso del<br />

Sermone XLII sul pensiero dantesco, se provato, imporrebbe una seria riflessione sui<br />

sensi allegorici della Commedia.<br />

Accenno appena al Sermone III (Sul cantico di Ezechia), già da altri ( cf. M. Aversano,<br />

Dante e S. Bernardo) messo in rapporto col primo verso della Commedia: il "mezzo del<br />

cammin di nostra vita" è adombrato anche nella Sentenza III-110 ( S. Bernardo, Opere II,<br />

Città Nuova Ed., pag. 557):“… finchè non giunse colui che infranse le porte dell'Averno, il<br />

che attendevano con ansia coloro che nel mezzo del cammin della loro vita scesero fino alle<br />

porte degli Inferi”. Il cammino si divide in tre periodi: da Adamo a Mosè; dal vaticinio dei<br />

profeti all'Avvento del Signore; dall'Avvento al Giudizio Universale. Il "cammin di nostra<br />

vita", di Dante e nostro ( corrispondenza cronologica e allegorica a parte), riguarda il terzo<br />

periodo.<br />

Di sfuggita, segnalo che un contenuto vagamente "purgatoriale" è contenuto nella sentenza<br />

III: “ Una volta imboccata tale porta [quella della superbia], se si intende procedere a<br />

diritto, si trova la prima porta presso la vanagloria, la seconda presso l'invidia, la terza<br />

presso l'ira, la quarta verso la tristezza, la quinta presso l'avarizia, la sesta presso la gola”. S.<br />

Bernardo, Opere II, Sentenza III-120, pag. 615.<br />

Bene conosciuti sono i Sermoni sull'Avvento, con i quali ci avviciniamo un poco di più<br />

all'assunto di questa ricerca. A proposito di essi, così commenta il Leclerc:<br />

“Il sermone per l'Avvento: "Sul triplice inferno" va ad aggiungersi ad altri sette sul<br />

medesimo tema che figurano nella grande collezione completa dei sermoni per l'anno<br />

liturgico…Il testo è stato ritrovato in dieci manoscritti che, a giudicare dal testo, dalla<br />

provenienza e dal carattere delle collezioni che contengono, presentano quelle garanzie di<br />

autenticità che si ha il diritto di aspett<strong>ars</strong>i dalla critica esterna: non soltanto il testo è<br />

trasmesso come opera di S. Bernardo, ma è riferito all'Avvento…Questo sermone è dunque<br />

autentico, e ha un suo interesse…Una sentenza sul triplice inferno, inserita in questo<br />

contesto ( <strong>n.3</strong>) ha fornito il titolo all'insieme…Il tutto termina, come quasi sempre in<br />

Bernardo, su una conclusione escatologica: egli ama contemplare la nostra gloria a venire<br />

( n.11)” ( dall'Introduzione di Jean Leclerc ai Sermoni vari- Opere di S. Bernardo, IV, Città<br />

Nuova Ed ).<br />

Sermoni vari- In avvento: tre tipi di inferno<br />

“1.Nel celebrare l'avvento del Signore riportiamo alla memoria…i desideri dei santi Padri,<br />

di coloro cioè ai quali Dio si è degnato rivelare per mezzo dello Spirito Santo la redenzione<br />

che il Figlio avrebbe operato con la sua incarnazione e morte per la salvezza degli uomini.<br />

Alcuni di loro, invero, prevedendo con Spirito profetico l'incarnazione di Cristo mentre<br />

erano ancora in questa vita, ci hanno lasciato nei loro scritti la gioia che questo suscitava nel<br />

loro cuore e l'ardore dei loro desideri; quanto poi fosse grande il loro desiderio quando,<br />

liberati dal corpo, giacendo negli inferi e nell'ombra di morte, aspettavano colui che solo era<br />

in grado di sciogliere il giogo della loro schiavitù, non è facile né immaginarlo né<br />

esprimerlo. Dai loro desideri dobbiamo dedurre, secondo il senso morale, con quanti


sospiri e con quanti desideri dobbiamo aspettare nel nostro corpo di morte, nell'inferno di<br />

queste tenebre, l'Avvento del nostro Redentore, attendere che venga di frequente a<br />

consolarci in questo carcere, e alla fine venga per farcene uscire. Si deve infatti sapere, a<br />

proposito dei Santi Padri, anzi di tutti gli uomini, che prima dell'avvento di Cristo tutti,<br />

fossero buoni o cattivi, scendevano all'inferno, anche se erano collocati in luoghi molto<br />

diversi secondo la diversità dei loro meriti, e questo a causa della prevaricazione del primo<br />

uomo, che per aver gustato il frutto proibito fu esiliato dal paradiso…”<br />

“3.E' stato dunque affermato che a causa del peccato originale prima dell'avvento di Cristo<br />

tutti scendevano nell'inferno. Ma allo stesso modo, e altrettanto veracemente, si può dire<br />

che sia prima sia dopo il suo avvento non c'è uomo che non sia disceso all'inferno prima di<br />

salire al cielo. C'è infatti un triplice inferno. Uno è l'inferno della consunzione, dove c'è un<br />

verme che non muore mai e un fuoco che non si spegne mai: in questo non c'è alcuna<br />

redenzione. Un altro è l'inferno della espiazione, destinato alle anime che devono purific<strong>ars</strong>i<br />

dopo la morte. Un terzo è l'inferno dell'afflizione, cioè la povertà volontaria, con la quale,<br />

rinunciando al mondo, dobbiamo affliggere le nostre anime per poter guarire, così da non<br />

passare dalla morte al giudizio, ma dalla morte alla vita… Chi dunque non si cura, mentre è<br />

ancora in questa vita, di scendere in questo inferno, scenderà certamente in uno degli altri<br />

due, dove troverà a fatica una salvezza o non ne troverà affatto. Il primo inferno è quello<br />

dell'esazione, perché vi si esige fino all'ultimo spicciolo….Nel secondo… anche se prima o<br />

poi è rimessa la pena, mai però si rimette la colpa, ma solo ci si purifica da ciò che è già<br />

stato rimesso… Il terzo [ inferno] è quello della remissione, e in questo, dato che è<br />

volontario, è chiaro che spesso si rimette sia la pena che la colpa….”.<br />

Come chiarisce la nota 2 di pag. 635, "la meditazione sul purgatorio ci deve caricare di<br />

compassione per i fratelli che là si trovano, e che si traduce in preghiera per la loro<br />

liberazione".<br />

In questo lungo sermone viene ricordato ai monaci, ai quali esso è riservato, che "gli uomini<br />

di piacere che dimorano nel mondo" "hanno qui il loro inferno", anche se non se ne<br />

accorgono "perché dormono, ubriachi come sono di quel vino che è l'amore letale per il<br />

mondo".<br />

Le considerazioni di S. Bernardo sui regni oltremondani si allontanano in modo vertiginoso<br />

da quelle dei suoi predecessori e dei suoi contemporanei nel sermone XLII dei Sermoni<br />

diversi, che verte su "i cinque affari e le cinque regioni".<br />

Il sermone XLII è quello che più rende giustizia al pensiero di Bernardo, che nella<br />

Commedia sembra essere molto più che l'ultima guida di Dante ( come sembrano suggerire<br />

i versi 103-111 di Paradiso XXXI). In esso l'anima viene paragonata alla "nave di un<br />

mercante che porta di lontano le provviste" ( Pr.31,14), nave che permette al mercante di<br />

attraversare le regioni del Signore dove si può trafficare sicuri.<br />

“ Cinque sono le tue regioni percorse dai tuoi mercanti per il loro commercio, dove cercano<br />

te i tuoi eletti, dove ti trovano i tuoi diletti. La prima è la regione della dissomiglianza.<br />

L’uomo, quella nobile creatura fabbricata nella regione della somiglianza, perché fatta a<br />

immagine di Dio, nella "prosperità non comprese" (Sal 48,13), e dalla somiglianza discese<br />

alla dissomiglianza. Grande dissomiglianza davvero tra paradiso e inferno, dall'angelo al<br />

giumento, da Dio al diavolo! Esecrabile conversione mutare la gloria in miseria, la vita con


la morte, la pace con la guerra in una perenne schiavitù….” (XLII-2).<br />

“ In questa regione della dissomiglianza, che cosa contratteremo, Signore Dio? Guarda<br />

come il genere umano da un capo all’altro del mondo frequenta le fiere; chi cerca di<br />

arricchirsi, chi aspira agli onori, chi si pasce di una dolcezza di una favorevole riputazione..<br />

Passi i mari, e ti apri, navigando, un altro mondo, vai, come dice il Saggio, fino a tre dita<br />

dalla morte; lasci la patria, abbandoni i parenti, non conosci i figli, ti strappi dal fianco della<br />

moglie, e, senza badare a sacrifici, cerchi per comprare, acquisti per perdere, perdi per<br />

dolertene…Che pazzia è questa, figli di Adamo, girare i mari, percorrere la terra, andare in<br />

capo al mondo, "in fatiche innumerevoli, in veglie prolungate, in frequenti digiuni, e spesso<br />

in pericolo di morte" ( 2 Cor. 11,23)?…” ( XLII-3). “La seconda regione è il paradiso<br />

claustrale…” (XLII-4).<br />

“ La terza regione è quella dell’espiazione. Tre sono i luoghi che vengono assegnate alle<br />

anime dei morti a seconda dei loro meriti: l’inferno, il purgatorio, il cielo. L’inferno per gli<br />

empi, il purgatorio per quelli che hanno da essere purificati, il cielo ai perfetti. Quelli che<br />

sono nell’inferno non possono essere liberati, perché nell’inferno non c’è redenzione.<br />

Quelli che sono in purgatorio aspettano la redenzione, ma prima devono subire i tormenti,<br />

sia con il calore del fuoco, sia col rigore del freddo o altro grave dolore. Quelli che sono in<br />

cielo sono pieni di gaudio alla vista di Dio, fratelli di Cristo nella natura, coeredi con lui<br />

nella gloria, a lui simili nella gioconda eternità. Poiché dunque i primi non meritano di<br />

essere liberati e i terzi non hanno bisogno di redenzione, resta che ci fermiamo a quelli di<br />

mezzo per compassione, ai quali fummo uniti per la natura umana. "Andrò" in questa<br />

regione, "e vedrò questo meraviglioso spettacolo" (Es.3.3), come il pio Padre abbandona i<br />

figli che devono essere glorificati nelle mani del tentatore, non perché li uccida, ma perché li<br />

purifichi non mosso dall’ira, ma dalla misericordia, non per la distruzione, ma per<br />

l’istruzione, perché non siano ormai più "vasi di collera pronti per la distruzione" (Rom.<br />

9,22), ma vasi di misericordia da lui predisposti alla gloria. Mi alzerò dunque per venire in<br />

loro aiuto: chiederò con gemiti, implorerò con sospiri, intercederò con preghiere, soddisferò<br />

con il singolare Sacrificio; chissà che il Signore "veda e giudichi" (Es. 5,21), e muti<br />

l’afflizione in requie, la miseria in gloria, il castigo in corona. Con questi buoni uffici puoi<br />

abbreviare la loro penitenza, mettere fine alla loro sofferenza, togliere la loro pena. Percorri<br />

dunque, anima fedele, chiunque tu sia, la regione dell’espiazione, e in questo mercato fa<br />

acquisto per te di sentimenti di compassione” ( XLII- 5).<br />

“ La quarta regione è la geenna. O regione dura e greve, regione da pavent<strong>ars</strong>i, regione da<br />

fuggirsi. Terra dell’oblio, terra d’afflizione, "terra di miserie, terra di tenebre e di disordine,<br />

terra di sempiterno orrore" (Gb 10,22)! Luogo mortifero, in cui v’è fuoco ardente, freddo<br />

rigidissimo, ove è il verme che non muore, fetore intollerabile, i martelli che percuotono<br />

( Pr. 19, 29), tenebre che si palpano, la vergogna dei peccati, i vincoli delle catene, i volti<br />

orribili dei demoni. Tremo tutto e inorridisco al pensiero di questa regione "e sono scosse<br />

tutte le mie ossa (Salmi,21,15). Come mai sei caduto, o Lucifero, figlio dell’ aurora? Eri<br />

coperto d’ogni pietra preziosa" (Ez,28,13); ora "sotto di te c’è uno strato di marciume" (Is.<br />

14,11). O Dio, quanta distanza tra l’indumento ornato di pietre preziose e l’essere coperto<br />

di vermi, tra le delizie del paradiso e il verme roditore dell'inferno! So che quel fuoco è stato<br />

preparato per il diavolo e per i suoi angeli e per gli uomini che gli somigliano, dove


moriranno senza morire e la loro fine sarà senza fine, e senza requie saranno tormentati.<br />

Scendi pertanto da vivo nell'Inferno: scorri con gli occhi della mente quei luoghi di<br />

tormenti, fuggi i delitti e i vizi per i quali sono periti i delinquenti e i viziosi. Concepisci<br />

odio per l’iniquità e amore per la legge del Signore, e da così temibili mercati riporta per te<br />

odio al peccato” (XLII-6).<br />

“La quinta regione è il paradiso superceleste. O beata regione delle virtù superne, nella<br />

quale i beati vedono faccia a faccia la beata Trinità, dove quelle sublimi schiere fanno eco<br />

alla lode sublime dei serafini cantando senza fine: "Santo, santo, santo il Signore Dio degli<br />

eserciti" (Is 6,3)! Luogo di delizie, ove i giusti bevono al torrente della voluttà; luogo di<br />

splendore, dove i giusti rifulgono come lo splendore del firmamento; luogo di letizia, dove<br />

"felicità perenne splenderà sul loro capo" (Is. 35,10); luogo d’abbondanza, dove nulla<br />

manca a coloro che vedono Dio; luogo di soavità dove il Signore si mostra buono verso<br />

tutti; luogo di pace, dove è in pace la sua dimora; luogo di meraviglia, dove sono le mirabili<br />

opere sue; luogo di sazietà, dove saremo saziati quando apparirà la sua gloria; luogo di<br />

visione, dove si vedrà la grande visione. O regione sublime, piena di ricchezze! Dalla valle<br />

di lacrime noi sospiriamo a te, dove splenderà sapienza senza ignoranza , memoria senza<br />

dimenticanza, intelligenza senza errore, ragione senza oscurità. Regione nella quale il<br />

Signore passerà servendo ai suoi eletti, vale a dire, si mostrerà tale quale è. Là vi sarà Dio<br />

tutto in tutti, dove tutte le cose mirabilmente ordinate daranno gloria al Creatore e<br />

formeranno la gioia della creatura. Corri pertanto, anima spirituale, con gli occhi dei<br />

desideri, per questa regione, e contempla il Re della gloria glorioso nella sua bellezza,<br />

stipato da legioni di angeli, ornato da schiere di santi, nell’atto di umiliare i superbi, di<br />

esaltare gli umili, di dannare i demoni, di redimere gli uomini, e dì: "Beati coloro che<br />

abitano la tua casa, Signore! Sempre cantano le tue lodi" (Sal 83, 5). Quando dunque avrai<br />

considerato con la mente questa fiera preziosa con mercanzie così meravigliose, fa la tua<br />

provvista di amore di Dio. Hai visto le regioni, hai osservato quello che vi si acquista, hai<br />

fatto i tuoi affari e sei felice. Commercia dunque fino a che venga il Signore tuo Dio, in<br />

modo da potergli dire: Signore, mi hai dato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnato in più<br />

altri cinque, e meriti di sentirti rispondere: "Entra nel gaudio del tuo Signore" (Mt 25,<br />

20.21), Sposo della Chiesa, che è benedetto nei secoli ( Rm 9,5). Amen” ( XLII-7).<br />

Anche il Sermone XII ( Di ciò che sta all'inizio, a metà, e alla fine della nostra vita) è vicino<br />

a questi argomenti.<br />

Il pensiero di frate Alberico e quello di S. Bernardo, pure se storicamente coevi, sono<br />

separati da un abisso spirituale; se ha un senso la ricerca delle fonti dantesche, forse è stata<br />

trascurata proprio quella che avrebbe consentito alla Commedia di attingere linfa da una<br />

sorgente profonda, vitale, ed estremamente attuale: se Dante ha preso ispirazione, per le sue<br />

immagini, dalle Visioni e dalle Leggende prima ricordate, da Bernardo, considerando il<br />

ruolo di cui è insignito nel Poema, potrebbe avere tratto la quintessenza spirituale della<br />

Commedia.


Sergio Lora<br />

Alegia Fieschi Malaspina nell’opera di Dante.<br />

Purtroppo le notizie pervenuteci dai vari commentatori storici, riferite a questa donna,<br />

sono poche e frammentarie, ma da alcuni di essi si possono riassumere note che ci<br />

permettono di tracciarne alcuni contorni, senza peraltro pretendere di disegnare un quadro<br />

esaustivo.<br />

Dante immortalò questa donna negli ultimi versi del XIX canto del purgatorio,<br />

quando nella quinta cornice, dove le anime degli avari giacciono bocconi a terra legate nelle<br />

mani e nei piedi, incontra l’ombra di Ottobono Gieschi che fu Papa col nome di Adriano V.<br />

Il Pontefice dopo aver rilevato al pellegrino la sua dignità di un tempo, confessa le<br />

proprie colpe, dichiarando però di essersi convertito subito dopo essere asceso alla cattedra<br />

di Pietro.<br />

Solo allora infatti comprese che nessun possesso terreno può placare la sete di<br />

conquista dell’uomo e che la vera felicità è data solo dai beni spirituali.<br />

Il poeta d fronte ad un tale Pontefice di sente rimordere la coscienza:<br />

….per vostra digitate<br />

mia coscienza dritto mi rimorse. V. 132<br />

e vorrebbe inginocchi<strong>ars</strong>i di fronte a lui.<br />

Ma il già superbo pontefice non lo consente più e i due protagonisti sembrano<br />

ricongiungersi in un’anima che il lettore attento non sente rivolti al solo Dante ma a tutti i<br />

popoli:<br />

<br />

rispose: non errar: conservo sono<br />

teco e con gli altri ad una protestate. V. 135<br />

Siamo tutti fratelli! Eleviamoci a Dio ed a Lui eleviamo gli altri con noi!<br />

Dopo queste parole il Pontefice licenzierebbe volentieri il poeta, vattene gli dice: “<br />

vattene ormai, segui tu la tua via come soldato della chiesa militante e lascia a me la mia<br />

parte nella chiesa purgante”.<br />

Siccome però il poeta gli si era offerto di ricordarlo tra i vivi, il pontefice ricerca nella<br />

sua memoria i volti dei parenti già tanto prediletti, ma non vede più che uomini travolti,<br />

sviati dalla folle ambizione della vita bugiarda.<br />

Ma ad un tratto, fra tutti quei mali esempi, in cui si riassume anche per noi l’antico<br />

stemma patrizio, rivede la diletta sembianza d’una santa nipote, le cui buone preghiere<br />

potranno accorciargli il tempio della sua permanenza in Purgatorio. Ed eccolo proferire il<br />

suo canto, che pur contenendo un bell’elogio per la buona nipote, lascia trasparire qualche<br />

riserva:<br />

Nipote ho io di là, c’ha nome Alagia V. 142<br />

buona da sé, purché la nostra casa<br />

non faccia di lei per esempio malvagia;


e questa sola m’è di là rimasa. V. 145<br />

Con sorprendente riposta intenzione Dante fa qui cadere il discorso su questa Alagia,<br />

la quale nel contesto poteva assai bene essere taciuta, ma questa intenzione è tanto più degna<br />

di nota, in quanto la nipote di Papa Adriano V, fu moglie di Morello Malaspina, marchese<br />

di Giovagallo.<br />

Questo Morello di :<br />

vapor di val di Magra (inferno XXIV, V. 145)<br />

che condusse tra il 1302 ed il 1306 una guerra contro Pistoia governata dai bianchi,<br />

che ebbe nella presa del castello di Serravalle (1302) ed in quella di Pistoia i suoi episodi<br />

più notevoli.<br />

Intorno ai rapporti di Dante con questa donna no possediamo altro sostegno che<br />

questo passo. Dal Federici però sappiano che il padre di lei Nicolò Fieschi, fratello di<br />

Ottobono, ebbe dalla moglie Leonetta molti figli, tra i quali il più famoso fu Luca, Cardinale<br />

diacono col titolo di Santa Maria in via Lata, che fu uno dei cardinali incaricato da Papa<br />

Clemente V di incoronare Imperatore a Roma, Arrigo VII di Lussemburgo.<br />

Di Dante sappiamo che dopo le prime esperienze d’esilio vissute tra i fuorusciti<br />

bianchi in Toscana, nella sua vana ricerca di una possibile via per poter tornare a Firenze, si<br />

decise sdegnosamente a “far parte per se stesso”.<br />

Questa coscienziosa decisione determinò l’esilio definitivo, da lui accettato ed<br />

affrontato con tutto quanto di amaro e di imprevisto che in sé contiene.<br />

Il suo primo rifugio fu Verona, dove la famiglia degli scaligeri lo accolse<br />

onorevolmente.<br />

Tra la famiglia Scaligera e i Malaspina esistevano dei rapporti di parentela e interessi di<br />

natura politica.<br />

è quindi lecito pensare che sulla base di questi rapporti, abbia preso consistenza tra gli<br />

scaligeri, l’idea di un incarico di fiducia da affidare a Dante presso i Malaspina.<br />

D’altra parte ai Malaspina non era certo sconosciuto il nome di Dante, non solo quale<br />

partecipe alla vita politica di Firenze, ma forse ancor più per la forma con ui egli era salito<br />

quale esponente di un gruppo iniziatore di una nuova scuola poetica già ben nota presso le<br />

corti Malaspiniane e principalmente presso quella di Franceschino di Mulazzo, per la<br />

protezione che questo accordava ai poeti esuli di Provenza e di Toscana.<br />

In base a queste considerazioni, acquista una logica spiegazione il primo dei due<br />

documenti ai quali è affidata la sicura testimonianza della permanenza di Dante in<br />

Lunigiana.<br />

Il primo documento riguarda l’atto di procura con il quale Franceschino Malaspina<br />

per sé e per i suoi fratelli Moruello di Giovagallo e Corradino di Villafranca, affidarono a<br />

Dante l’incarico di trattare la pace col Vescovo Conte di Luni, Antonio da Camilla.<br />

Questo atto, strumento giuridico necessario per la stesura del successivo trattato di<br />

pace, fu stipulato nella piazza del Calcandolo da Sarzana, la mattina del 6 ottobre 1306<br />

nell’ora prima “ante missam”, dal notaio ser Giovanni di Parente di Stupio.<br />

Il secondo documento, il vero e proprio atto di pace, venne redatto a Castelnuovo<br />

Magra dove il vescovo si era ritirato per sfuggire alle febbri della malaria. Lassù, la mattina


dello stesso giorno lo raggiunsero Dante, il notaio ed i testimoni che avevano presenziato<br />

all’atto di procura.<br />

Nella camera del palazzo vescovile, davanti a tutti i testimoni, la pace venne conclusa<br />

con il bacio scambiato tra Dante ed il Vescovo di Luni. Il bacio che chiuse la missione del<br />

poeta, suggellando lo scopo politico per il quale il poeta era stato chiamato in Lunigiana,<br />

ponendo così fine ad una lunga serie di contrasti e di violenze, dove quella terra e quelle<br />

genti erano stati straziati in più modi.<br />

A questa parte conclusiva ed ufficiale è da aggiungere tutto il periodo preparatorio<br />

dell’avvenimento dei cui modi e della cui durata non abbiamo documentazione, ma<br />

considerando la complessità degli interessi in giuoco e della lunga rivalità di può certamente<br />

dedurne che essa sicuramente non fu ne breve ne facile.<br />

Non è assurdo pensare che Dante per conoscere e meglio poter valutare le varie<br />

possibilità che questa trattativa gli offriva, si sia spostato ed abbia percorso vari itinerari nei<br />

castelli Malaspiniani sp<strong>ars</strong>i in terra ligure.<br />

Alagia Fieschi, consorte di Morello Malaspina, per concorde testimonianza dei<br />

commentatori e degli storici antichi, fu donna di grande bontà e di grande valore. Forse fu<br />

proprio lei che patrocinò l’ospitalità concessa dai Malaspina a Dante, proteggendolo e<br />

consolandolo in quel terribile momento di vita, quando dopo le guerre mugellane e l’infelice<br />

tentativo della Lastra, fuoriusciti fiorentini perdevano ogni speranza di ritornare in patria<br />

con la forza delle armi e più terribile risuonava da Firenze la conferma del bando per il<br />

poeta, che nei suoi versi citati cerca di ricompensare degnamente la sua generosa protettrice.<br />

Poiché Dante vi apprezzava la sua bontà e nello stesso tempo soggiunge un<br />

ammonimento contro i malvagi influssi della sua casa, sembra che egli abbia per donna<br />

Alagia provato un vivo sentimento.<br />

E quando può il poeta aver concepito una tale emozione se non in quel momento in<br />

cui godette dell’ospitalità dei Malaspina?<br />

L’opinione di molti studiosi è appunto quella che Alagia abbia procurato la<br />

conoscenza e la familiarità fra Dante e suo marito, ma purtroppo è soltanto un’ipotesi, ma di<br />

tale importanza che meriterebbe più attenzione, in quanto essa spiegherebbe, nel modo più<br />

semplice e più conveniente, l’omaggio esortivo che i poeta offre nei suoi versi alla nobile<br />

donna.<br />

Gli antichi commentatori di questo canto furono abbondanti di lodi per questa donna e<br />

uno di essi scrisse: .<br />

L’autore di questa nota fu ospite per molto tempo in Lunigiana nel castello di<br />

Giovagallo, presso Morello Malaspina e per questo conobbe Alagia e vide coi propri occhi<br />

che faceva dire messe ed orazioni per suo zio Ottobono.<br />

Dante conobbe Alagia giovanissima, nobile e cortese castellana e l’ammirò<br />

profondamente; secondo alcuni studiosi anzi, egli l’amò di un amore rispettoso e platonico.<br />

Più probabilmente fu l’ammirazione reverente di un uomo ormai maturo, per una<br />

giovane donna dai lineamenti delicati e dal carattere dolcissimo.<br />

Questa sua ammirazione traspare evidente nei versi messi in bocca allo zio, anche se<br />

al temo stesso questi gettano un’ombra scura sul casato dei Fieschi.<br />

Benvenuto da Imola avverte che Dante discorre con onestà e cautela, giacché afferma


che la nipote è buona, purché non imiti l’esempio delle altre persone di casa sua. Inoltre<br />

Benvenuto da Imola ne ricercò le ragioni tra le donne della famiglia accusandole di mali<br />

costumi. Ma anche gli uomini di quella casa dovevano essere per Dante cagione di mal<br />

esempio: lo stesso papa Innocenzo IV fu accusato di nepotismo e messer Percivalle del<br />

Fiesco, arcivescovo di Ravenna, lo troviamo nella Divina Commedia citato nel canto dei<br />

golosi e Luca Fieschi fratello di Alagia fu tra i cardinali che incoronarono Imperatore in<br />

Roma Arrigo VII, non senza il sospetto di essere degli inganni di Clemente V.<br />

Gli studiosi e i commentatori di Dante non escludono la possibilità che prima del<br />

bando di Firenze, il poeta abbia composto i primi canti del suo insuperato poema.<br />

A questo proposito il Boccaccia nel suo “Trattarello in laude di Dante” ci informa del<br />

fortunato ritrovamento a Firenze di un quadernetto contenente i primi sette canti<br />

dell’Inferno. Riconosciuta l’importanza del ritrovamento, gli interessati decisero di inviare<br />

quanto trovato a Morello Malaspina marchese di Giovigallo, presso il quale si trovava in<br />

quel momento ospite il poeta.<br />

I coniugi Malaspina apprezzarono il valore di quel frammento ed invitarono Dante a<br />

continuare l’opera.<br />

Il poeta riconoscendo il questo improvviso riapparire del suo lavoro, tralasciato da<br />

tempo e forse creduto perso, la volontà della provvidenza, acconsentì di continuarlo.<br />

Nello scritto del Boccaccio, Dante dice:>.<br />

C’è forse un po’ di fantasia in questo racconto del Boccaccia, ma anche il fiorentino<br />

Filippo Villani lo ripeté facendolo proprio.<br />

Ma mettendo insieme vari elementi storici e critici che a questo racconto possono dar<br />

credito e considerando anche alcuni passi di una significativa lettera, la cui datazione è<br />

assegnata al 1307, scritta dal Casentino dove Dante si era recato dopo la sua partenza dalla<br />

Lunigiana e indirizzata a Morello Malaspina, riteniamo che vi siano giustificati motivi per<br />

attribuire al fatto un certo fondo di verità. In questa lettera che è meglio conosciuta come la<br />

IV epistola, Dante denuncia il turbamento del suo animo per il divampare di una improvvisa<br />

passione amorosa; dove appare molto significativo l’accenno ai compiti da lui svolti presso<br />

i Mlaspina, soggiorno che sembra apparirgli come un’oasi di pace in cui il poeta poté<br />

coltivare quelle:>.<br />

Le meditazioni sia terrestri che celesti, cioè la materia stessa nella Divina Commedia,<br />

riproposta alla sua mente durante un soggiorno in cui il solo fortunato ritrovamento dei<br />

canti, ma anche il riposato spirito e le amichevoli ed autorevoli esortazioni lo avevano<br />

convinto a riprendere l’opera di cui altrimenti non si saprebbe quale sorte sarebbe toccata.<br />

Alagia Fieschi Malaspina a Genova


Alagia Fieschi rimase vedova di Moruello Malaspina tra gli anni 1313 e 1315. Il 13<br />

giugno del 1313, alcuni mercanti cremonesi e uno bergamasco, dichiararono che durante un<br />

loro transito in val di Trebbia in località “villa di Croce”, territorio di Moruello Malaspina,<br />

furono fermati e trattenuti dagli armigeri dei Malaspina, ma Mouccio di Giovagallo,<br />

famigliare di Moruello, prestò loro protezione e provvide a scortarli fino alle terre di<br />

Brusca, appartenente ai Fieschi, fratelli di Alagia.<br />

Alagia nel 1315 era vedova, come risulta da alcune indulgenze accordate da frate<br />

Berengario maestro dell’ordine dei p.p. predicatori, durante le celebrazioni del capitolo<br />

generale a Bologna. (Pergamene fondo Malaspina, l.c.; Gerini, Uomini illustri della<br />

Lunigiana, vol. II, p. 45).<br />

Morto il marito, Alagia passò dalla Lunigiana a Genova, dove andò a risiedere in<br />

una casa poco distante da Castelletto, abitazione di sua figlia già vedova di un Grimaldi,<br />

aiutandola ad educare i figli minorenni.<br />

Il 5 ottobre 1325, Giovanni di Vegio largiva ad Adalasia, vedova di Moruello Malaspina,<br />

procuratrice di sua sorella Giovanna, alcuni possessi in Lunigiana. La donazione è stipulata<br />

in Genova dal notaio Enrico de Carpena, nel palazzo di Manfredina, vedova di Alaone<br />

Grimaldi, posta a S. Francesco in “contrada berghinorum”, essendo presenti prete Giovanni<br />

di Giovagallo, cappellano della stessa Adalasia e Bastardo Malaspina. (Pergamene fondo<br />

Malaspina).<br />

Il 29 maggio del 1327, Fiesca figlia del fu Moruello Malaspina, erede istituita dal<br />

padre per lire 1000 di genovini, come dal testamento rogato dal notaio Pietro de Dalfinelli<br />

da Pontremoli, cede l’eredità alla madre Alagia.<br />

L’atto fu rogato nel castello di S. Miniato in casa di Ser Simone. (Pergamene fondo<br />

Mlaspina).<br />

Questa figlia aveva sposato Marcoaldo Guidi, conte di Dovadola, ed in seconde nozze<br />

Nicolò del Pecora, signore di Montepulciano.<br />

Il 20 marzo del 1328, Ugo del fu Francesco degli Enrighini di Pontremoli, dichiara<br />

d’aver ricevuto da Alagia, vedova di Moruello Malaspina 10 fiorini d’oro, che darà fra un<br />

anno in Genova.<br />

L’atto fu rogato dal notaio Opizzino detto Luparello del fu Paganino Lupi da<br />

Virgoletta, in Genova, di fronte la chiesa di San Siro, nella casa di Rizzardo Grimaldi e<br />

fratelli “in qua habitat domina Alaxia cum filiis et familia”, essendo presenti prete Giovanni<br />

da Giovagallo, Giovanni Pace da Sarzana e Guglielmuccio Petri di Brina.<br />

Il 12 gennaio del 1331 Federico e Valentino del fu Bernabò Cantello e Teodora<br />

moglie di Erminio Levaggi vendono al notaio Marco da Passano, procuratore di Alagia<br />

figlia del fu Nicolò Fieschi, otto luoghi nelle compere di S. Giorgio. L’atto fu rogato nella<br />

contrada di S. Francesco, in casa di Manfredina, figlia di detta Alagia e vedova di Arone<br />

Grimaldi.<br />

Il 1 luglio del 1331, Rogerio di Dovadola, conte palatino in Toscana, figlio del fu<br />

Salvatico, costituisce procuratore Gianne Maffei della società degli Spini di Firenze, col<br />

mandato di ricevere 1500 lire come rimanenza della dote spettante a Fiesca, figlia di Alagia<br />

Malaspina, sposa di suo figlio Marcoaldo.<br />

Il 1 giugno 1334, Guglielmo da Milano, procuratore del cardinale Luca Fieschi, cede


ad Alagia sua sorella, l’usufrutto di 2600 lire, che possiede in Genova nelle Compere del<br />

sale.<br />

Il 1 luglio 1335 Franceschina Magagnini da Lucca cede ad Alterixia (Alagia), vedova<br />

di Moruello Malaspina 250 lire, scritte nella Compera di S. Lorenzo. L’atto è rogato in<br />

Genova nella contrada di S. Donato dove abita Alterixia. L’altro atto che la riguarda è del 1<br />

febbraio 1343.<br />

Sotto questa data, Magnifica Domina Alaxia marchionissima Malaspina uxor qm.<br />

Magnifici viri domini Moruelis marchionis Malaspina costituisce procuratore Rainerio da<br />

Moneglia.<br />

L’atto fu rogato in Genova nella casa di detta Alaxia, posta in S. Donato.<br />

L’ultimo atto trovato di questa donna, è registrato in una nota del Branchi, e consiste<br />

in un codicillo testamentario del 19 aprile 1344, fatto a rogito del notaio Antonio de Castro<br />

a Genova dalla magnifica Alagia, per restituire alla figlia Fiesca quanto ne aveva ricevuto.<br />

I documenti raccolti in questo articolo sono stati tratti da A. Ferretto: Codice<br />

diplomatico delle relazioni fra la Liguria la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante.<br />

Di fronte alla vecchia chiesa prepositurale di S. Donato esiste la piazza omonima, che<br />

non mutò mai nome.<br />

Una casa con un vecchio portale di pietra di promontorio attrae l’attenzione, su per le<br />

scale, i capitelli, mascherati da un intonaco bianco di calce, lasciano intravedere la remota<br />

antichità dell’edificio.<br />

Chi poi indugia in fondo alla gradinata della chiesa, a sinistra, potrà scorgere una torre<br />

altissima.<br />

Casa e torre appartenevano alla famiglia Fieschi, questo si è saputo da un atto del 22<br />

marzo 1271 che ricorda la casa del Cardinale Ottobono Fieschi presso gli orti di S. Donato,<br />

ereditata dai fratelli Nicolò e Federico, in virtù del testamento dettato da Ottobono, non<br />

ancora Adriano V, il 28 settembre del 1275.<br />

Il 5 febbraio 1295 è nominata negli atti del notaio Corrado de Castello la casa di<br />

Nicolò Fieschi, posta in “Platea sancti Donati”.<br />

Infine s’ha chiara menzione della torre di S. Donato nel seguente passo del<br />

testamento, con cui Federico Fieschi, fratello di Nicolò e zio di Alagia, essendo in Sarzana<br />

moribondo, lascia eredi il 3 febbraio 1313 il fratello Nicolò di parecchi beni “Item legamus<br />

et iudicamus domino Nocolao de Flisco Lavanie et palatino Comiti frati nostro turrim<br />

nostram de Sancto Donato et omnes possessiones et iura de quibus, ecc.”. (Atto registrato il<br />

18 agosto del 1323 dal notaio Tomaso Casanova Reg. I, f. 130: Archivio di Stato di<br />

Genova).<br />

Questi documenti spiegano perché nella torre di S. Donato di proprietà dei Fieschi poi<br />

passata alla famiglia Grimaldi, trascorse la sua vecchiaia la buona Alagia.


Introduzione.<br />

Roberto Rusca<br />

La Commedia come processo psicoterapeutico


In questo studio intendo proporre la Commedia come un processo terapeutico che si<br />

prepara nell’Inferno e si sviluppa nel Purgatorio. A questo fine, mi sono servito di concetti<br />

tratti dalla filosofia di Kierkegaard, in quanto precursore della psicologia analitica<br />

esistenziale; dalla patologia psichiatrica; da principi comuni a tutte le psicoterapie o<br />

specifici, per esempio, alla terapia di gruppo o alle comunità terapeutiche. Sia chiaro che<br />

non intendo attribuire a D. idee impensabili alla sua epoca. Una lettura di D. basata su<br />

principi propri della psicopatologia e della psicoterapia si giustifica quando si considerino<br />

le analogie tra il processo catartico e soterico della esperienza religiosa e la cat<strong>ars</strong>i della<br />

psiche attraverso l’esperienza psicoterapeutica. Per il fine che mi sono proposto, ho<br />

ritenuto opportuno limitare questo lavoro a Inferno e Purgatorio. Se alcuni momenti della<br />

Commedia non si adattano facilmente alla presente interpretazione, non è solo perchè la<br />

Commedia non è un trattato di psicopatologia o di terapia, ma soprattutto perchè è prima di<br />

tutto un’ opera poetica alle cui esigenze è sottoposto anche il tema religioso.<br />

L’inferno come fase di preparazione.<br />

Dante all’età di trentacinque anni si ritrova nel mezzo di una crisi esistenziale (Inf I, 1-3),<br />

da cui non vede via d’uscita. La sua esperienza è la disperazione, amara che poco è più<br />

morte (Inf I, 7). Non è però una esperienza completamente negativa e D. ci dirà del ben<br />

ch’io vi trovai (Inf I, 8). E’ nel pensiero di Kierkegaard, cinque secoli dopo e, sia chiaro,<br />

indipendentemente da D., che ritroviamo una valutazione positiva della disperazione come<br />

momento fondamentale del progresso interiore: il filosofo danese, in Enten Eller, addirittura<br />

invita a disperare. L’esperienza dello smarrimento interiore si accompagna alla paura (Inf I,<br />

4). D. si è smarrito perchè pieno di sonno (Inf I, 11): è vissuto fino ad allora senza<br />

prendere piena coscienza della sua condizione, senza conoscere se stesso. La disperazione<br />

è, nel linguaggio di Kierkegaard, malattia mortale in D. è lo passo / che non lasciò già mai<br />

persona viva (Inf I, 26-27). Credere di poterne uscire da soli è mera illusione (Inf I,<br />

22-24). L’ostacolo maggiore all’attuazione di sè è identificabile nelle pulsioni istintuali, le<br />

tre fiere rappresentanti lussuria superbia e cupidigia. La pulsione istintuale che non cessa di<br />

f<strong>ars</strong>i sentire, è la bestia senza pace (Inf I, 58) che rende schiavi, impedisce la riflessione, la<br />

crescita interiore, la realizzazione di sè e rigetta nella disperazione, là dove èl sol tace (Inf I,<br />

60). Le tre fiere hanno come attributi la superficialità e la volubilità, (lonza leggiera e presta<br />

molto Inf I, 32), l’ira (rabbiosa fame Inf I, 47) e l’insaziabilità (di tutte brame/ carca nella<br />

sua magrezza). Il mondo è un loco selvaggio (Inf I, 99) in cui per lo più non vi è salvezza<br />

dalla disperazione: udirai le disperate strida (Inf I, 115).<br />

D. riconosce che la decisione di compiere il primo passo verso la guarigione è una scelta<br />

razionale. Virgilio è simbolo di tale scelta ma è anche aiuto esterno: è il terapista di D. .<br />

Come spesso avviene nella pratica clinica, la scelta razionale di rinnov<strong>ars</strong>i, di incominciare<br />

una terapia, incontra resistenze. D. cerca scuse per evitare di intraprendere il viaggio (Inf. II,<br />

10-36) ed è accusato di viltà da Virgilio (Inf II, 45-48). L’atto di volontà, la scelta razionale,<br />

non si attua senza uno stimolo emotivo e perciò pre-razionale. In D. questo a sua volta è<br />

indotto dall’atto d’amore che, nel contesto religioso, si manifesta in una azione a catena che<br />

comincia dalla Vergine Maria e arriva a D. attraverso Lucia, Beatrice e Virgilio (Inf II,


72-105). Tale amore è materno. La Vergine Maria è madre ìper eccellenza, Lucia è santa<br />

protettrice, Beatrice agisce come una madre che cerchi di recuperare un figliolo smarrito:<br />

materno appare anche il rimprovero che ella rivolge a D. nel Purgatorio (Purg XXXI,<br />

22-69). Virgilio stesso è paragonato a una madre in Inf XXIII, 38 e XXXI, 28 e 35. Per<br />

completezza si noti che Beatrice è figura materna anche nel Paradiso (Par I, 100-102).<br />

D. ora è pronto a entrare nella fase preparatoria della terapia che consiste nell’andare a<br />

conoscere la condizione di coloro i quali non hanno saputo o non hanno potuto cercare la<br />

salvezza. Perduta la ragione, il ben dell’intelletto (Inf III, 18), essi hanno perciò perduto la<br />

speranza. L’Inferno appare allora un regno della follia:<br />

Quivi sospiri, pianti e alti guai<br />

risonavan per l’aere sanza stelle,<br />

per ch’io al cominciar ne lagrimai.<br />

Diverse lingue, orribili favelle,<br />

parole di dolore, accenti d’ira,<br />

voci alte e fioche, e suon di man con elle<br />

facevano un tumulto(Inf III, 22-28)<br />

Anche se, propriamente, i versi sopracitati si riferiscono alla vasta moltitudine (Inf III, 55)<br />

degli ignavi, coloro che visser sanza infamia e sanza lodo (Inf III 35-36), si possono<br />

leggere come rappresentazione della condizione umana nell’inferno della follia. Nella<br />

condizione dell’ ignavo, invero, la follia propriamente detta è assente, ma è presente il<br />

tormento indotto dalla realtà esterna, realtà che egli subisce ma su cui non agisce. L’ignavo<br />

ha oltrepassato la porta su cui è scritto lasciate ogni speranza, voi ch’entrate (Inf III, 9): la<br />

sua inerzia lo priva della speranza perchè in quanto inerzia gli impedisce di cercare un<br />

cambiamento. Quello che lo differenzia dai dannati sulla riva dell’Acheronte, fiume del<br />

dolore, è la mancanza della disperazione. La disperazione implica azione. I disperati<br />

dell’Inferno sono imbevuti del loro male e agiscono ubbidendo al male che è in loro.<br />

L’ignavo non è schiavo della lussuria o dell’ira, non uccide, non trama frodi e tradimenti,<br />

non cerca di essere ciò che non è, perchè anche questo implica movimento, azione.<br />

L’ignavo non fa nulla. Il non avere speranza non costituisce un motivo di dolore psichico<br />

perchè dal suo punto di vista il fatto non sussiste. La sua vita scorrerebbe tranquilla se non<br />

dovesse continuamente difendersi dai continui fastidi quotidiani. Nei dannati che attendono<br />

la barca di Caronte, forza inarrestabile e implacabile, la disperazione è presente e si esprime<br />

con rabbia cieca e impotente (Inf III, 103-105). Lo spettacolo della perdizione ha effetto<br />

traumatico su D., fino allo svenimento.<br />

Al risveglio D. è davanti all’abisso, il baratro della mente che non conosce se stessa, pieno<br />

d’infiniti dolori e la cui esplorazione richiede l’aiuto esterno:<br />

Vero è che èn su la proda mi trovai<br />

della valle d’abisso dolorosa<br />

che truono accoglie d’infiniti guai.<br />

Oscura e profonda era e nebulosa<br />

tanto che per ficcar lo viso a fondo,<br />

io non vi discernea alcuna cosa


or discendiam qua giù nel cieco mondo<br />

cominciò il poeta tutto smorto:<br />

io sarò primo, e tu sarai secondo (Inf IV, 7-15).<br />

D. entra allora nel primo cerchio infernale, accolto da coloro che in quel limbo eran sospesi<br />

(Inf IV, 45). Il loro stato, che è anche quello di D., non è di depressione nè di ansia, ma di<br />

assenza di quiete interiore. E’ condizione esistenziale intrinseca alla natura umana, è pur<br />

sempre disperazione, di cui si è consapevoli, ma lontana dalla follia distruttiva che<br />

incontreremo più avanti. E’ forse soprattutto la malattia degli intellettuali, i poeti a cui D. si<br />

associa, che sembianza avean nè trista nè lieta (Inf IV, 84).<br />

L’inferno vero e proprio comincia con la rivelazione dei propri mali a Minosse: questa<br />

non è però la confessione del paziente al terapista, perchè ai mali non vi è rimedio.<br />

Minosse si limita a indirizzare gli infelici a questo o a quel ‘reparto’, a seconda della loro<br />

patologia, dove saranno confinati in eterno. Di fatto, scendendo nei cerchi infernali,<br />

incontriamo un vero campionario di psicopatologia, dai disturbi della personalità alla<br />

malattia mentale propriamente detta, finchè nelle ultime bolge dell’ottavo cerchio è<br />

addirittura la malattia fisica a dominare. Poiché non vi è rimedio al male, il folle rimane<br />

combattuto dalle sue forze contrarie ma senza via d’uscita, rappresentate con una delle<br />

molte immagini marine che ricorrono nell’Inferno:<br />

Io venni in luogo d’ogni luce muto,<br />

che mugghia come fa mar per tempesta,<br />

se da contrari venti è combattuto (Inf V, 28-30).<br />

A questo punto siamo pronti per incominciare la nostra visita guardando e ascoltando gli<br />

ammalati (Inf XXX, 71).<br />

Però prima di discendere nel secondo cerchio, dove incontreremo Paolo e Francesca, ci<br />

dobbiamo porre questa domanda: come è possibile che i medesimi vizi (lussuria, golosità,<br />

avarizia e prodigalità, iracondia e accidia), abbiano condotto alcuni alla pena eterna<br />

dell’Inferno e permesso ad altri di trovare una via di salvezza nel Purgatorio? Perché i<br />

condannati all’eterno tormento non sono stati capaci di redimersi? Perché non hanno cercato<br />

una terapia al loro male? Una considerazione ovvia, ma superficiale, ci farebbe concludere<br />

che un fattore esterno, un evento soterico, o un fattore interno, emotivo, abbia spinto i<br />

salvati a cercare la liberazione dal loro male. In realtà c’è una differenza qualitativa tra il<br />

male dei salvati e quello dei sommersi. Nei primi la lussuria o l’avarizia, sono difetti,<br />

macchie della loro personalità. I dannati sono invece, per così dire, imbevuti di tali vizi. La<br />

loro personalità ne è dominata perché tali vizi ne sono parte integrante, costitutiva e ne<br />

rappresentano il tratto fondamentale. La Francesca di D. è seduttrice fino in fondo e D.<br />

stesso è sedotto dalle sue parole fino a provare infinita pietà, forse riconoscendo in se<br />

stesso quel male che domina la personalità di Francesca. Il canto di Paolo e Francesca è il<br />

canto delle emozioni, cioè il sentire accompagnato a movimento, e tale movimento si<br />

manifesta nel turbine del vento, nel pianto e nella caduta di D.:<br />

Mentre che l’uno spirto questo disse,<br />

l’altro piangea, sì che di pietade


io venni men così com’io morisse;<br />

e caddi come corpo morto cade (Inf V, 139-142).<br />

Novi tormenti e novi tormentati (Inf VI, 4) si presentano nel terzo cerchio: la pena fisica,<br />

simbolo del tormento interiore, si accompagna al ricordo del mondo perduto che ora appare<br />

dolce: è il luogo che tenne in la vita serena (Inf VI, 51). Riferimenti nostalgici alla vita<br />

terrena ricorrono più volte nell’Inferno (mondo pulcro e aere dolce in Inf VII, 58 e 122;<br />

dolce lome in Inf X, 136; vita serena in Inf XV, 49-57; vita lieta in Inf XIX, 102): ciò che<br />

si è perduto è la capacità di vivere.<br />

Il cerchio dei golosi, il terzo, si apre con Cerbero, rappresentazione fisica dell’ingordigia e<br />

del suo potere distruttivo fisico e mentale: è creatura repellente, dalla barba unta e atra e il<br />

ventre largo (Inf VI, 16-17) che graffia gli spiriti scuoia e isquatra (Inf VI, 18). Qui non<br />

abbiamo bisogno di attribuire all’ingordigia un significato simbolico. Il dannato della<br />

gola è colui la cui vita si svolge attorno all’assunzione delle sostanze di cui si satura, siano<br />

esse cibo, alcol o droghe e tali sostanze sono al centro della sua esistenza, non lasciano<br />

spazio ad altro e comportano, in misura maggiore o minore, presto o tardi, la distruzione<br />

fisica e mentale. Gli avari e i prodighi del Canto VII, che fanno rotolare pesi spingendoli<br />

con il petto, sono i guerci della mente (Inf VII, 40), cioè non abbastanza consapevoli del<br />

loro male; gli uni sono incapaci di lasci<strong>ars</strong>i andare, gli altri sono dispersivi e per entrambi la<br />

vita è improduttiva, è un vano girare a vuoto. Negl’iracondi che<br />

si percotean non pur con mano<br />

ma con la testa e col petto e coi piedi<br />

troncandosi co’ denti a brano a brano<br />

(Inf VII, 112-114),<br />

l’ ira è prima di tutto rivolta verso se stessi, pervade la loro personalità, impedisce loro di<br />

liber<strong>ars</strong>i dal ìfangoî in cui sono immersi. Sommersi nel fango sono poi gli accidiosi: tristi<br />

fummo / nell’aere dolce (Inf VII, 120 121). Sono i depressi cronici, che D. Pone accanto<br />

agli iracondi: nelle personalità depressive troviamo rabbia soffocata, taciuta: quest’inno si<br />

gorgoglian nella strozza (Inf VII, 125).<br />

D. si è dunque messo sulla folle strada (Inf VIII, 91), che attraversa un campionario di<br />

umanità devastata, ma che anche è ìfolleî in quanto costringe alla riflessione e<br />

all’introspezione, al viaggio nella psiche che è pur sempre un’avventura a rischio e<br />

l’avventura incomincia all’ingresso della città di Dite (Inf IX). La salvezza di D. è<br />

minacciata dalle Erinni, da Medusa e dai diavoli. Qui il simbolismo si presta bene alla<br />

interpretazione della Commedia come processo catartico psicoterapeutico che d’altra parte<br />

presenta analogie con il processo di redenzione cristiana. Le mura della città di Dite si<br />

oppongono al viaggio di D. come le resistenze interiori al progresso della terapia; le Erinni<br />

sconvolgono la mente con sensi di colpa fino alla follia; Medusa pietrifica nelle proprie<br />

convinzioni e rende insensibili a qualsiasi tentativo terapeutico; i diavoli sono, per<br />

definizione etimologica, gli ingannatori, e ingannare se stessi è un modo per evitare<br />

l’esplorazione di sè, nella convinzione di non averne bisogno o di conoscersi già<br />

abbastanza: frode è dell’uom proprio male (Inf XI, 25-27). Ancora una volta la ragione


sembra insufficiente a oltrepassare tutti gli ostacoli e il viaggio di D., per poter proseguire,<br />

richiede l’intervento di un fattore esterno, qui rappresentato dal messo celeste. Eretico è<br />

chi non crede in alcuna forma di ìredenzioneî, o cat<strong>ars</strong>i. Tale è Farinata che, orgoglioso, si<br />

erge nella sua tomba infuocata come se avesse l’Inferno in gran dispetto. E’ una sfida al<br />

proprio tormento psichico di chi ostinatamente prosegue nella sua condizione: è il<br />

disperatamente voler essere se stesso di Kierkegaard. Il Farinata di D., che ha difeso<br />

Firenze a viso aperto dopo averla sconfitta sul campo, è uomo conscio del proprio valore,<br />

ha alta opinione di sè, identifica se stesso con il prototipo dell’eroe fiero e aderisce fino in<br />

fondo a questo Io in cui crede e che forse si è costruito per sè. Condivido l’opinione di<br />

Gentile sulla ìrigida brutale fierezza di Farinata indifferente e insensibile al dolore paterno<br />

del vicino Cavalcanteî. [G.Gentile, Studi su Dante, V, Il canto di Sordello, pag. 230,<br />

Sansoni Ed. 1965] .<br />

C’è una parte bestiale dell’uomo che può prevalere su quella umana e sottr<strong>ars</strong>i al controllo<br />

della ragione. L’aspetto bestiale dell’uomo è ben rappresentato sia nell’immagine degli<br />

omicidi immersi nel sangue, non uomini, ma belve spinte da ira folle e cieca cupidigia, sia<br />

dai loro guardiani, i Centauri, mezzo bestia e mezzo uomo (Inf XII).<br />

Il Canto XIII, ci porta nel girone dei suicidi, nel settimo cerchio. La sua potenza è tutta in<br />

un verso: uomini fummo e or siam fatti sterpi (Inf XIII, 37). Se nel canto precedente,<br />

l’istinto, prevalendo sulla ragione, disumanizza fino alla bestialità, qui la depressione<br />

disumanizza fino all’annichilimento totale: l’uomo è un corpo vuoto, uno straccio, una<br />

pianta scheletrica incapace di fruttificare. Non è tuttavia esente dal tormento delle<br />

mostruose arpie. Si pensi ai depressi che si sentono privi di energia, si trascinano da un<br />

luogo all’altro come gravati da un peso fisico, non trovano riposo, non si nutrono e<br />

perdono ogni interesse. Al tempo stesso sono tormentati da angoscia incessante, oppressi<br />

da ricordi spiacevoli che non lasciano spazio ad altri pensieri, torturati da smisurati sensi di<br />

colpa. Alcuni arrivano al delirio nichilistico e negano, per esempio, di avere il cuore o il<br />

sangue. Per chi l’osserva, il depresso è un’ombra di ciò che era prima della malattia e<br />

davvero sembra pascersi del proprio male sfogandolo di quando in quando in lacrime (Inf<br />

XIII, 101-108). Il Canto XIII si conclude con la corsa degli scialacquatori in fuga, che<br />

invano cercano di sottr<strong>ars</strong>i al morso delle cagne. E’ un’ immagine di ansia acuta,<br />

incontenibile e autodistruttiva ma anche rappresentazione dell’altra faccia della depressione,<br />

la mania, che comporta enorme spreco di energie in attività inutili e spesso pericolose e, in<br />

alcuni casi, porta, letteralmente, anche allo sperpero delle risorse finanziarie.<br />

Impotente ribellione contro la propria condizione, contro il proprio Io, contro i limiti della<br />

natura umana, è l’atteggiamento di Capaneo e dei bestemmiatori, per i quali inevitabilmente<br />

la vita è uno stillicidio di fuoco e la terra ìscotta sotto i piediî. D. accomuna il loro tormento<br />

a quello dei sodomiti, anch’essi, in fondo, ìribelliî contro natura. D. non ci lascia dubbi sulla<br />

sua pietà per quest’ultimi e sull’affetto per Brunetto Latini (Inf XV, 82-84). Qui non<br />

abbiamo la Francesca del Canto V che seduce D. ad aver pietà della sua lussuria, è piuttosto<br />

D. che spontaneamente dimostra sentimenti positivi verso coloro per i quali l’orientamento<br />

sessuale è diventato ingiusto tormento: si vede di giustizia orribil arte (Inf XIV, 6). D.,<br />

confrontandosi con le pulsioni omosessuali, teme di cedervi, di ìscott<strong>ars</strong>i:<br />

s’i fossi stato dal foco coperto


gittato mi sarei tra lor di sotto<br />

e credo che èl dottor l’avria sofferto;<br />

ma perch’io mi sarei bruciato e cotto,<br />

vinse paura la mia buona voglia<br />

che di loro abbracciar mi facea ghiotto (Inf XVI, 46-51).<br />

D. non potrebbe essere più esplicito. La terra che scotta sotto il piedi e lo stillicidio di fuoco<br />

sono anche allegoria del tormento dei sensi: in seguito, nell’ uscire dal girone della<br />

sodomia, D. si avvale, tra l’altro, di una corda con la quale, ci dice, intendeva prendere la<br />

lonza (Inf XVI, 106-108), cioè porre freno alla lussuria.. E’ difficile non vedere un simbolo<br />

sessuale nella coda aguzza di Gerione, ingannevole per la sua faccia d’ uom giusto (Inf<br />

XVII, 10), dalla cui minaccia lo libera Virgilio, cioè la ragione, che si frappone tra D. e la<br />

coda del mostro. Continuando la nostra discesa nella malattia dell’anima, incontriamo gli<br />

usurai e i simoniaci. La borsa appesa al collo degli usurai è diventata parte di loro stessi: il<br />

loro Io è tutto in quelle borse. E’ un Io rigido, chiuso al rapporto con il mondo: il suo ruolo<br />

è quello di accumulare danaro. Gli usurai di D. si identificano perciò con la propria attività.<br />

Poichè tale attività è tutto per loro, si ìpasconoî della loro condizione. Io irrigidito e<br />

identificato dalla sua attività circoscritta, è pure quello dei simoniaci, conficcati in fori della<br />

roccia, ìpaliî posti ìin borsaî (Inf XIX, 47 e 72). Nel canto degli indovini l’Io è stravolto.<br />

Volere veder troppo davante (Inf XX, 38), perdere consapevolezza di sè, dei limiti dell’Io, è<br />

entrare in un delirio maniacale, come le triste che lasciaron l’ago / la spola e èl fuso e<br />

fecersi èndivine (Inf XX, 121-122). L’Io psicotico stravolge l’uomo più del male fisico:<br />

Forse per forza già di parlasia<br />

Si travolse così alcun del tutto;<br />

Ma io nol vidi, nè credo che sia. (Inf XX, 16-18).<br />

Vi è angoscia in questa aberrazione dell’animo umano (Inf XX, 6), che suscita la pietà di<br />

D. fino al pianto (Inf XX, 25), pietà che non si manifesta neppure di fronte ai corpi<br />

maleodoranti e deformati dalle malattie fisiche (Inf XXIX e XXX). In un campionario di<br />

disturbi della personalità e di patologia psichica, non possono mancare le personalità<br />

antisociali e nei Canti XXI e XXII entriamo nel mondo della corruzione e della malavita, i<br />

cui valori sono astuzia e forza fisica. Qui, dove prevalgono l’inganno e la violenza, non c’è<br />

posto per la riflessione e per il ragionamento e non resta che la fuga.<br />

La disperazione ritorna nel Canto XXIII; è una forma di disperazione che, cinque secoli<br />

dopo, indipendentemente da D., sarà oggetto di studio di S. Kierkegaard: il peccato è<br />

disperatamente non voler essere se stesso (Kierkegaard S, La malattia mortale, parte<br />

seconda, A, Sansoni, 1973, pag 293). E’ il male degli ipocriti tristi (Inf XXIII, 92), stanchi<br />

sotto il peso dell’immagine che hanno costruito di sè in contrasto con la realtà interna. Se<br />

portiamo questa situazione alle estreme conseguenze (Inf XXIV e XXV), otteniamo un Io<br />

annientato nel continuo mutamento, che non si conosce, non ha identità, ora è bestiale, ora<br />

umano, ora si identifica con un altro Io. E’ due e nessun (Inf XXV, 77), dice D., e ci viene<br />

spontaneo aggiungere: è ìUno nessuno e centomilaî. L’acquisto di un altro Io, non risolve il<br />

problema, in quanto il nuovo Io è falso, non appartiene al soggetto e perciò non dura e si


dissolve in un'altra trasmutazione. Anche l’unione con l’altro può essere un modo di<br />

perdere se stessi ed è possibile vedere un cenno all’unione sessuale in Inf XXV, 55-57.<br />

Con il Canto XVI sembra di essere usciti, almeno per un momento e ad un esame<br />

superficiale, dalla malattia dell’anima. Qui l’argomento è l’impulso ad esplorare e<br />

l’esplorazione, rivolta alla conoscenza di sè o alla realtà esterna, come nel caso di Ulisse, è<br />

pur sempre un viaggio che non può avere termine. L’uomo in quanto tale, è limite alla<br />

conoscenza di se stesso e della realtà esterna. Questo non significa che debba abbandonare<br />

il viaggio. Il naufragio consiste piuttosto nel credere di aver raggiunto la meta. L’Ulisse di<br />

D. non ha molto in comune con l’Odisseo omerico. Quest’ultimo è un uomo sofferente,<br />

nostalgico della sua patria, che piange, dice Omero, ìcome piange una donnaî, nell’ascoltare<br />

il suo nome e le sue gesta cantate in terra straniera dove nessuno lo conosce. E’ un uomo<br />

indomabile che, perduti i compagni di viaggio, lotta contro le avversità per tornare alla sua<br />

terra e combatte contro i pretendenti al trono, per riconquistare la sua sposa e il suo regno.<br />

L’Ulisse di D. non ha neppure l’intenzione di tornare in patria e ci dice che, lasciata Circe:<br />

nè dolcezza di figlio, nè la pièta<br />

del vecchio padre, nè èl debito amore<br />

lo qual dovea Penelopè far lieta,<br />

vincer potero dentro a me l’ardore<br />

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,<br />

e delli vizi umani e del valore;<br />

ma misi me per l’alto mare aperto<br />

(Inf XXVI, 93-100).<br />

La dolcezza di figlio e la pietà del vecchio padre sono espressioni vuote di sentimento e<br />

l’amore per Penelope è ìdebitoî e perciò non sentito. E’ un uomo di una freddezza oserei<br />

dire psicopatologica Gli manca poi la riflessione su se stesso e si identifica con il suo atto,<br />

l’esplorare. Non è bestia, non vive come un bruto, certamente non è essere privo di<br />

identità, ma il suo Io è tutto nell’azione. Senza l’azione, non resta che il naufragio. Ulisse<br />

non può smettere di agire senza perdere se stesso. Il suo corpo e la sua mente hanno<br />

bisogno di essere in continuo movimento. Egli incontra la sua fine quando raggiunge<br />

l’ostacolo insuperabile, la montagna del Purgatorio. Più avanti vedremo come questa<br />

rappresenti la terapia, per la quale è necessaria una disponibilità e un’onestà, prima di tutto<br />

con se stessi, incompatibile con la personalità dell’Ulisse dantesco, il quale, non<br />

dimentichiamolo, è frodolento: si presenta a noi come il simbolo del ricercatore instancabile,<br />

crea il suo proprio mito di eroe positivo, ingannandoci sulla sua vera natura.<br />

L’inganno è un tema che, come si è visto, ricorre più volte nell’Inferno e raggiunge il suo<br />

culmine in Guido da Montefeltro (Inf XXVII) che inganna il prossimo ed è ingannato da<br />

Bonifacio e dallo stesso D. il quale gli lascia credere di essere egli stesso un dannato. Ma<br />

Guido inganna soprattutto se stesso e, come si è già osservato, l’autoinganno non permette<br />

scampo.<br />

Con il canto XXVIII dove i seminator di scandalo e di scisma (Inf XXVIII, 35) sono<br />

mutilati e divisi in due da colpi di spada, cadiamo in una patologia dell’Io ben più grave.<br />

Che cosa rappresenta il taglio? Per D. forse non più che la simbolica pena per coloro che


hanno fomentato discordia e divisioni tra gli uomini. Tuttavia, nell’ambito<br />

dell’interpretazione della Commedia che stiamo seguendo, si può vedere nella pena degli<br />

scismatici la rappresentazione del sè diviso. Il fatto che la divisione avvenga per<br />

intervento di un fattore esterno, qui rappresentato dal diavolo, suggerisce un’analogia con<br />

una comune osservazione nella pratica clinica: la malattia mentale è spesso scatenata, anche<br />

se non causata, da eventi esterni che agiscono su una mente vulnerabile. Gli individui colpiti<br />

sono due in uno e uno in due (Inf XXVIII, 125) e tra loro c’è chi dice espressamente<br />

partito porto il mio cerebro (Inf XXVIII, 140). E’ un’immagine che suggerisce<br />

disintegrazione delle funzioni dell’Io, cioè una patologia mentale per le cui caratteristiche lo<br />

psichiatra svizzero Bleuler coniò il termine ìschizofreniaî. D. ha pietà per questi infelici<br />

(Inf XXIX, 1-3), come già aveva avuto pietà per i lussuriosi, i suicidi, i sodomiti e gli<br />

indovini.<br />

Fin qui abbiamo incontrato le aberrazioni dello spirito, ma la decima bolgia del cerchio<br />

ottavo, è popolata da ammalati dalle marcite membra (Inf XXIX, 51), affetti da scabbia,<br />

deformati dall’ascite, tormentati dalla febbre. D. paragona le immagini che ci offre, a quelle<br />

delli spedali di Valdichiana (Inf XXIX, 44-45). Il mondo della malattia è il mondo gramo<br />

(Inf XXX, 59). Siamo passati dalla malattia spirituale a quella fisica, dalla patologia<br />

funzionale a quella organica. Nei falsificatori di persone ci aspetteremmo ancora una volta la<br />

disperazione di chi vuol essere ciò che non è, al punto di identific<strong>ars</strong>i con un altro. In realtà<br />

la furia cieca di Gianni Schicchi è disumana, bestiale, è rabbia demente, è patologia<br />

cerebrale. Più oltre, Nembrotte, anima confusa, si esprime con parole che non hanno senso<br />

tranne forse che per lui (Inf XXXI, 67): è un’afasia fluente nel linguaggio della neurologia.<br />

Con questa immagine si conclude il viaggio attraverso la malattia mentale e fisica<br />

cominciato con il malessere esistenziale del limbo, procedendo attraverso disturbi della<br />

personalità fino alla disintegrazione dell’Io e alla malattia fisica e cerebrale. Quel che segue,<br />

sembrerebbe non aggiungere nulla di nuovo alla patologia dell’Io. In realtà il canto del conte<br />

Ugolino (Inf XXXIII) ci fa partecipi di un trauma psichico senza pari, in cui si concentrano<br />

tutta l’angoscia e la disperazione possibili:<br />

e io sentii chiavar l’uscio di sotto<br />

all’orribile torre (Inf XXXIII, 46-47).<br />

Tale esperienza segna per sempre Ugolino, è all’origine della sua ira implacabile e del<br />

rodimento interiore, simboleggiati dal fiero pasto. Il dolore costante, insopprimibile<br />

diventa più intenso nel momento in cui Ugolino verbalizza la sua esperienza:<br />

tu vuoi ch’io rinnovelli<br />

disperato dolor che’l cor mi preme,<br />

già pur pensando, pria ch’io ne favelli.<br />

(Inf XXXIII, 4-6).<br />

Ugolino è dunque dannato non per una preesistente patologia di personalità o malattia<br />

mentale, ma per un trauma psichico di tale natura e intensità da non lasciare speranza di<br />

guarigione. Nell’episodio dantesco, questa patologia si manifesta attraverso due fasi. La<br />

prima si sviluppa nel doloroso carcere. In questa condizione di isolamento e di impotenza,


senza via d’uscita, Ugolino ritorce la sua aggressività naturale su se stesso: ambo le man<br />

per lo dolor mi morsi (Inf XXXIII, 58). L’autolesionismo, l’automutilazione è una risposta<br />

biologica, osservata anche nei primati in condizioni di isolamento protratto. E’ un<br />

comportamento riscontrato anche in molti adolescenti e adulti che, nell’infanzia, hanno<br />

subito ripetute violenze fisiche e spesso sessuali. Condizione comune a queste situazioni è<br />

l’impossibilità di sfuggirvi. L’individuo è in trappola e non c’è nessuno all’esterno con cui<br />

comunicare. Ugolino, in carcere, è disumanizzato, è bestia che morde se stessa. Sono i figli<br />

a far osservare al padre il suo cannibalismo, è uno di loro a chiedergli aiuto prima di<br />

morirgli davanti: i figli di Ugolino ci appaiono piuttosto come parte di lui stesso, oserei dire<br />

che sono la sua autocoscienza: io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso (Inf XXXIII<br />

55-56). Egli non si rivolge a loro, sono essi che parlano al padre e lo rendono consapevole<br />

della parte bestiale di sè, della morte imminente in uno stato di totale isolamento, finchè egli<br />

ci appare cieco, demente, guidato dall’istinto, ormai privo della ragione, quando ci dice:<br />

ond’io mi diedi,<br />

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,<br />

e due dì li chiamai poi che fur morti<br />

(Inf XXXIII,72-74).<br />

Nella fase successiva, l’atto bestiale, perciò detto fiero, trova il suo oggetto nell’arcivescovo<br />

Ruggieri. Immaginiamo per un momento un conte Ugolino che sia stato salvato in extremis<br />

dalla morte, dopo aver sofferto l’esperienza dell’isolamento, della fame, della debolezza<br />

fisica e mentale fino all’obnubilamento delle facoltà intellettive; immaginiamo tale ipotetico<br />

personaggio: ne avremo un uomo segnato per il resto della vita da tale esperienza, roso<br />

dalla persistenza della memoria traumatica, roso dall’insopprimibile desiderio di<br />

vendic<strong>ars</strong>i, ossessionato da impotenti fantasie aggressive; giorno dopo giorno i suoi denti<br />

vorrebbero pascersi della carne, anzi del cervello, del suo persecutore. Ecco che il nostro<br />

personaggio vivrebbe il resto dei suoi giorni nell’inferno del ricordo, incapace di serenità,<br />

disumanizzato, in un mondo che ora può apparirgli soltanto ostile, che può attraversare<br />

soltanto armato di rabbia sorda e con gli occhi torti.<br />

Il Purgatorio come terapia.<br />

Nell’Inferno abbiamo incontrato la ìmalattia mortaleî, la disperazione, l’angoscia. Abbiamo<br />

incontrato la follia e la malattia fisica, insanabili e vi siamo passati davanti indenni (Purg I,<br />

58-59) per esserne messi in guardia prima che sia troppo tardi (Purg XXXI). Ora siamo<br />

pronti a entrare nella grande comunità terapeutica del Purgatorio, per la nostra cat<strong>ars</strong>i<br />

(Purg I, 5), che comincia con un simbolico lavacro (Purg I, 94-95). Ma il Purgatorio è ben<br />

più di una comunità terapeutica, è la vita. Qui non abbiamo le creature mostruose<br />

dell’inferno, i personaggi deformati nelle mente o nel corpo, irrigiditi nella ripetizione di atti<br />

sempre uguali, abbruttiti nella figura, nei gesti, nelle parole. Nel Purgatorio c’è movimento,<br />

perchè c’è speranza e volontà di raggiungere un fine: perder tempo a chi più sa più spiace


(Purg III, 78) Nel Purgatorio abbiamo uomini solo fino a un certo punto corrotti dai loro<br />

vizi e con un Io sufficientemente integro da lasciare spazio ai cambiamenti e alla speranza.<br />

Abbiamo allora Casella, con la bella amicizia per D. e la sua musica, terapia all’ansia del<br />

Poeta (Purg II, 106-110); Manfredi, che ci ricorda la fallacità del giudizio umano e del<br />

bisogno dell’aiuto esterno nel processo catartico (Purg III, 145), aiuto che deve venire da<br />

persone sane, in grazia viva (Purg IV, 134); Belacqua, immortalato nella sua pigrizia. La<br />

vita è nei fatti di cronaca e di politica: si pensi a Iacopo del Cassero (Purg V), a la Pia (Purg<br />

V), a Bonconte da Montefeltro (Purg V), all’argomento politico nel canto di Sordello (Purg<br />

VI); la vita vera è anche nel gioco della zara che apre il Canto VI.<br />

Vi sono nel Purgatorio diversi riferimenti alla teologia cristiana che si prestano a paralleli<br />

con il linguaggio e i concetti della psicoterapia. Nel Canto IX D. deve salire tre gradini<br />

prima di raggiungere la porta del Purgatorio. Sono un’allegoria teologica che<br />

tradizionalmente simboleggia le tre parti della penitenza: contritio cordis, confessio oris,<br />

satisfactio operis. In un’allegoria del processo psicoterapeutico le tre parti consistono di:<br />

consapevolezza delle proprie difficoltà e ricerca della terapia, apertura al terapista, modifica<br />

del comportamento. Le due chiavi dell’angelo, d’oro e d’argento, rappresentanti l’autorità<br />

divina e la conoscenza del sacerdote per valutare le colpe prima d’assolverle, corrispondono<br />

all’autorità del terapista e alla sua preparazione tecnica. Il tornare indietro una volta<br />

incominciata la terapia comporta il fallimento della terapia, perciò: intrate, ma facciovi<br />

accorti / che di fuor torna chi èn dietro si guata (Purg IX, 130-131).<br />

L’insufficiente coscienza della propria condizione, potremmo dire l’insufficiente ìcoscienza<br />

di malattiaî, impedisce di cercare la cura, nella presunzione di riuscire a uscirne da sè:<br />

o superbi cristian , miseri lassi,<br />

che, della vista della mente infermi,<br />

fidanza avete ne’ retrosi passi (Purg X, 121-123).<br />

Nel Canto X, dove è punita la superbia, esempi di umiltà vengono proposti come modelli di<br />

comportamento, seguiti (Purg XII) da esempi di superbia punita e infine dagli effetti del<br />

trattamento: maestro, dì, qual cosa greve levata s’è da meÖ (XII, 118-119). E’ in fondo una<br />

forma di terapia cognitivo- comportamentale. I superbi sono gravati da pesi, simbolo della<br />

soma da cui ci si deve sgravare e per farlo occorre tempo e aiuto dall’esterno:<br />

vegna ver noi la pace del tuo regno,<br />

chè noi ad essa non potem da noi,<br />

s’ella non vien, con tutto nostro ingegno (Purg XI, 7-9).<br />

La rappresentazione simbolica del male dell’animo da cui ci si vuol liberare e la<br />

presentazione di modelli di comportamento positivi e negativi, è uno schema ripetuto nei<br />

gironi successivi del Purgatorio. Le pene, nel loro simbolismo, riflettono accuratamente<br />

la condizione d’animo di chi è affetto dai ìvizi capitaliî. Così c’è cecità nell’invidia, fumo<br />

acre nell’ira, un correre incessante nell’accidia, quasi espressione dell’agitazione interna che<br />

accompagna il depresso. La pena degli avari è qui, sulla terra, in quell’aderire tenacemente<br />

al pavimento, incapaci di volgersi a cose più alte: il loro animo è volto al suolo, come dice<br />

espressamente D. (Purg XIX, 73); sono ne’ piedi e nelle man legati e presi (Purg XIX,


124) perchè è l’avaro stesso a leg<strong>ars</strong>i alla materia, al possesso sterile. I golosi, dalla figura<br />

oscura e cava, palida nella faccia e tanto scema che dall' ossa la pelle s’informava (Purg<br />

XXIII, 24-24), condannati a una sorta di supplizio di Tantalo, sono un ritratto ante litteram<br />

della anoressia nervosa, di cui è caratteristica una costante preoccupazione con il cibo, fino<br />

al punto di stivarne grandi quantità senza però nutrirsene. Infine i lussuriosi ardono èn sete<br />

e èn foco, però a differenza dell’Inferno, dove sono trascinati incessantemente dalla<br />

passione, nel Purgatorio, cioè nella fase terapeutica, non agiscono lussuriosamente, non<br />

seducono come Francesca, ma ardono senza l’oggetto della libido e proprio per l’assenza<br />

dell’oggetto provano ìsete e focoî: l’impulso è presente, non soddisfatto, ma sublimato in<br />

un breve bacio (Purg XXVI, 32)<br />

Durante il processo terapeutico si acquisisce coscienza di sè, evento all’inizio non sempre<br />

piacevole, ma D. riconosce che tosto sarà ch’a veder queste cose non ti fia grave<br />

( Purg XV, 31-32). Il bene si diffonde e come specchio l’uno all’altro rende (Purg XV,<br />

75). Mi pare interessante osservare che coscienza di sè e consapevolezza della propria<br />

condizione esistenziale, cat<strong>ars</strong>i, apprendimento interpersonale, imitazione di modelli di vita e<br />

presenza di una guida, sono considerati fattori terapeutici nelle terapie di gruppo<br />

[I.D.Yalom, The theory and practice of group psychotherapy, 1985, Basic Books, New<br />

York]. Come spesso avviene in terapia, anche qui si passa attraverso fasi di amarezza:<br />

m’andava io per l’aere amaro e sozzo (Purg XVI, 13).<br />

Nel Canto XVI D. tratta il tema: necessità e libero arbitrio (Purg XVI, 67-81). In termini<br />

moderni, potremmo parlare di libertà e determinismo biologico. Il fatto che vi sia pur<br />

sempre possibilità di scelta nei limiti della struttura mentale imposta dalla natura, significa<br />

che l’individuo ha sempre un grado di responsabilità, tanto nella vita quanto nella terapia.<br />

Ne segue che il manifest<strong>ars</strong>i di una pulsione è necessità, ma il ritenerla è una scelta (Purg<br />

XVIII, 70-72). Il concetto di amore, distinto in naturale e d’animo (Purg XVII, 91-102),<br />

che si rifà al pensiero di Tommaso d’Aquino, è in fondo sovrapponibile al concetto<br />

psicoanalitico di libido. La pulsione naturale, in quanto tale, non è nè buona nè cattiva, è per<br />

così dire, energia. E’ l’Io, dotato di volontà e ragione, che può controllare e indirizzare tale<br />

energia, e all’Io appartiene l’amore ìd’animoî.<br />

Ho già accennato al Purgatorio come la vita vera ma anche come comunità terapeutica.<br />

Mantenendo questo paragone, osserviamo che la liberazione di un’anima dal Purgatorio<br />

(Purg XX) si accompagna a terremoto e canti: è un evento degno di nota e tale è pure la<br />

partenza di un membro dalla comunità terapeutica e, come nelle comunità terapeutiche, il<br />

Purgatorio libero è qui da ogni alterazione (Purg XXI, 43), non c’è posto per i mutamenti<br />

indotti dal caso. C’è inoltre una ìlista d’attesaî per entrarvi: l’antipurgatorio.<br />

Ritorniamo al girone dei lussuriosi: qui D. è ancora una volta attratto dai personaggi che lo<br />

popolano, e egli stesso dimostra propensione a godere con l’udito (Purg XXVI, 99) e con<br />

la vista (Purg XXVI, 103). Per andare oltre il girone dei lussuriosi D. deve attraversare il<br />

fuoco purificatore. Ma vi è sostanziale differenza tra questa fiamma e quella che avvolge i<br />

lussuriosi? In entrambi è tormento, anche se qui Virgilio chiarisce che può esser tormento<br />

ma non morte (Purg XXVII, 21), e l’esortazione ad andare oltre si accompagna ad un<br />

riferimento a Gerione, di cui abbiamo già discusso la minaccia sessuale: sovresso Gerion ti<br />

guidai salvo (Purg XXVII, 23), rassicura Virgilio. In altre parole, se prima è stata superata


la minaccia sessuale, qui si supera il tormento indotto dalla libido sessuale, conditio sine<br />

qua non per il raggiungimento di Beatrice. D. è ben consapevole del fatto che la pulsione<br />

sessuale può essere controllata ma non soppressa e riemerge in sogno rielaborata in<br />

simboli accettabili: è allora il pianeta Venere che di foco d’amor par sempre ardente (Purg<br />

XXVII, 96), già definito lo bel pianeta che d’amar conforta (Purg I, 19).<br />

All’entrata del paradiso terrestre abbiamo una immagine simmetrica a quella di apertura<br />

della prima Cantica: una foresta, ma non spaventosa (Purg XXVIII, 1-3), un ostacolo, il<br />

Lete, ma non minaccioso (Purg XXVIII, 25-27), al di là del quale non vi è un altro Virgilio,<br />

ma una bella donna, Matelda (Purg XXVIII, 55-60). Ricordiamo che Virgilio si è già<br />

congedato da D., il suo ruolo di terapista che si appella alla ragione, in quella che ho<br />

definito un qualcosa di simile a una terapia cognitivo-comportamentale, è terminato. E’ ora<br />

presenza muta accanto a D., è in certo qual modo il terapista che il paziente ìsi porta dentroî,<br />

quando le sedute sono terminate. Perchè dunque ci ritroviamo dentro una foresta per la<br />

seconda volta? D. non è smarrito, ha trovato una direzione, ha acquistato coscienza di se<br />

stesso, ha riconosciuto negli altri il proprio male. Durante tutto questo tempo ha vissuto, ha<br />

parlato di poesia e di politica, ha incontrato gente nuova e ritrovato persone del passato, ha<br />

ricostruito la sua storia personale e quella del mondo in cui è vissuto fino ad allora. D. però<br />

non è guarito, dovrà superare altri ostacoli, avrà bisogno ancora di aiuto. Lo si capisce da<br />

come reagisce alla vista di Matelda: è subito preso dal desiderio, frustrato, di andare oltre il<br />

fiume per raggiungerla. E’ vero che Matelda si presenta come donna gentile e onesta, ma<br />

ciò che D. osserva è: non credo che splendesse tanto lume / sotto le ciglia a Venere (Purg<br />

XXVIII, 64-65) e la vede come una ninfa (Purg XXIX, 4). In altre parole, Matelda si serve<br />

della sua grazia, del suo aspetto e del canto, non della sensualità, giocando però sulla<br />

pulsione sessuale di D., per sedurlo a intraprendere la seconda fase della terapia. Una volta<br />

eccitato il desiderio di D., Matelda gli da un messaggio molto chiaro: beati quorum tecta<br />

sunt peccata (Purg XXIX, 3), che è, in fondo, un invito a cur<strong>ars</strong>i. Di fatto il Lete, in quanto<br />

barriera, è freno all’impulso dell’istinto e più avanti è simbolo della liberazione dal ricordo<br />

della colpa, rappresenta cioè la cessazione del ìsentirsi in colpaî, al termine della terapia.<br />

Il Canto XXIX è ricco di allegorie religiose e sarebbe assurdo forzare i ìsette doni dello<br />

spirito santoî o le ìquattro virtù cardinaliî in uno presupposto schema terapeutico. Si<br />

potrebbe anzi dire che i ìsette doniî (sapienza intelletto consiglio fortezza scienza pietà e<br />

timor di Dio) e le ìvirtùî ( giustizia fortezza temperanza prudenza) rappresentano un modello<br />

ideale, e chi fosse in possesso di tali qualità non avrebbe bisogno di nessuna forma di<br />

terapia. Un commento invece meritano le ìtre virtù teologaliî, (carità speranza e fede),<br />

rappresentate come tre donne danzanti (Purg XXIX, 121-129), dove la danza è guidata<br />

alternativamente dalla fede e dalla carità e i cui colori (rosso verde e bianco) sono parte della<br />

veste di Beatrice (Purg XXX, 31-33). Mi sembra accettabile affermare che tali ìvirtùî<br />

devono essere possedute dal terapeuta, dato che non si vede come si possa offrire una<br />

terapia in cui non si crede, senza speranza che abbia effetto e senza un atteggiamento<br />

quantomeno positivo, ìcaritatevoleî nei confronti del paziente. Si noti che l’importanza della<br />

ìcaritàî in terapia è riconosciuta, per esempio, da C. Rogers [C.R.Rogers, Client centred<br />

psychotherapy, 1951, Houghton Mifflin, Boston ] che identifica nell’accettazione<br />

incondizionata del paziente un fattore fondamentale per il successo dela terapia. Inoltre due


di tali ìvirtùî, speranza e fede, sono presupposto per la terapia anche da parte del paziente,<br />

che non può intraprenderla senza fiducia nel terapista o speranza di miglioramento.<br />

Beatrice continua la funzione di terapeuta che era stata di Virgilio, ma la sua azione è<br />

qualitativamente differente. Con la sparizione di Virgilio passiamo dalla fase cognitiva, che<br />

si appella alla ragione, alla fase emotiva della terapia, in cui effettivamente fede e carità<br />

ìconducono la danzaî. Beatrice svolge il ruolo che non è stato possibile a Virgilio. L’atto<br />

salvifico è l’amore puro di Beatrice la quale, dopo il rimprovero a D., che lo scuote e gli fa<br />

provare infinita vergogna di se stesso, lo accoglie senza riserve.<br />

Al rimprovero di Beatrice a D., in cui si sostiene che sono la seduzione e la bellezza fisica a<br />

muovere l’uomo (Purg XXXI, 45 e 50), segue l’immagine del Grifone, tradizionalmente<br />

inteso come simbolo della natura umana e divina di Cristo, ma che possiamo interpretare<br />

come simbolo della parte istintiva e di quella razionale dell’uomo, la fera / ch’è sola<br />

persona in due nature (Purg XXXI, 80-81). E’ Beatrice, la donna capace di dirigere ed<br />

elevare con il suo amore, a tenere la fera sotto controllo.<br />

D. si ritrova poi tra le braccia di Matelda, immerso nel Lete, nel fonte battesimale, nell<br />

liquido amniotico: è la rinascita, è il riaprirsi al mondo con innocenza per poi lasci<strong>ars</strong>i<br />

andare ai mille disiri più che fiamma caldi (Purg XXXI, 118). Qui i ìdesiriî sono però volti<br />

a Beatrice, nei cui occhi si riflette il grifone come l’immagine di D. si era già riflessa nel<br />

Lete (Purg XXIX, 67-69). Qui D. è tutto contenuto nella donna. Oserei dire che il grifone<br />

è D. stesso, con la sua duplice natura istintiva e razionale e perciò riflesso anche negli occhi<br />

della donna che attraverso il rimprovero lo ha reso pienamente consapevole di sè. Il viaggio<br />

terapeutico di D. non finisce qui. L’allegoria cristiana del carro rappresentante la Chiesa,<br />

trainata da Cristo, il grifone (Canto XXXII) non ci preclude anche qui la una<br />

interpretazione alternativa. Se, come si è detto, il grifone è l’uomo nella sua duplice natura, è<br />

possibile vedere nel carro il bagaglio della sua esperienza. Il carro è poi legato a una pianta,<br />

simbolo di crescita, di sviluppo. Segue un evento esterno, la discesa dell’aquila, che agisce<br />

distruttivamente su tale potenziale di crescita dell’individuo e ferisce il carro, piegandolo<br />

come nave in fortuna (Purg XXXII, 116): D. è ancora un legno sanza vela e sanza governo<br />

(Convivio I, III, 5). Sul carro agiscono inoltre gli istinti e l’inganno, una volpe (Purg<br />

XXXII, 119: non è difficile vedere nel drago un atto di erotismo violento.<br />

Poi parve a me che la terra s’aprisse<br />

tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago<br />

che per lo carro su la coda fisse;<br />

e come vespa che ritragge l’ago,<br />

a sè traendo la coda maligna,<br />

trasse del fondo, e gissen vago vago (Purg XXXII, 130-135).<br />

Ciò che ne risulta è il vizio e la donna che siede sul carro non è la figura angelica della<br />

gioventù, ma la puttana, essa stessa schiava della violenza e del male che trascina lei e il<br />

carro per la selva.<br />

A questo punto non resta che liber<strong>ars</strong>i da tema e da vergogna (Purg XXXIII, 31), perchè il<br />

passato non è più (Purg XXXIII, 34-35). E’ un blocco mentale a ostacolare la<br />

comprensione (Purg XXXIII, 75-75), eventi e preoccupazioni possono offuscare la vista


(Purg XXXIII, 124-125). A Beatrice spetta il compito di aprire la mente di D., dopo il<br />

riconoscimento dell’errore, il perdono e la liberazione dal passato: il bagno nell’Eunoè<br />

rappresenta allora la disposizione positiva della mente.


Paolo Marrone<br />

Saggio di bibliografia dantesca<br />

Sulla scia e ad integrazione di quanto scritto da Donatello Viglongo prima su “Sotto il<br />

velame” n. 1, 1999 e poi sul “Quaderno” di “Sotto il velame”, n. 1, aprile 2000, riteniamo<br />

utile presentare ai cultori di un Dante non convenzionale una serie di studi e saggi che<br />

affrontano tematiche diverse da quelle accademiche, sia perché prospettano una<br />

interpretazione dell’opera dantesca in chiave apertamente esoterica, oppure eterodossa,<br />

alchemica, simbolico-mitologica, sia perché contengono affermazioni o ipotesi interpretative<br />

che vanno controcorrente rispetto alla critica ufficiale.<br />

Ci sembra ovvio affermare (ma è bene ribadirlo ugualmente) che nessuno si può<br />

avventurare in analisi particolareggiate e non, di stampo non convenzionale, senza fare i<br />

debiti conti con colore che hanno già indicato la strada da percorrere per giungere ad una<br />

“vera” conoscenza di Dante e della sua opera.<br />

Siamo convinti che sia più opportuno anzitutto scandagliare ulteriormente quanto hanno<br />

ipotizzato, in quasi due secoli di ricerca, coloro che ci hanno preceduto (e ci riferiamo in<br />

modo particolare agli studi di Ugo Foscolo, Gabriele Rossetti, Eugene Aroux, Giovanni<br />

Pascoli, Francesco Perez, Michelangelo Castani, Luigi Valli, Julius Evola, Alfonso Ricolfi,<br />

Miguel Asin Palacios, Mario Alessandrini, Margarete Lochbrunner, Robert L. John, fino ai<br />

più recenti Bruno Cerchio, Adriano Lanza, Primo Contro) e tentare poi di intraprendere<br />

strade del tutto nuove, evitando tuttavia di rimanere impelagati in problematiche troppo<br />

cervellotiche o paradossali. Ci rare che finora si sia proceduto in maniera isolata ed<br />

autonoma ciascuno per la propria sfera di conoscenza. Si tratterebbe ora di tirare le fila, di<br />

raccordare quanto di certo, di provato, di inconfutabile si conosce sul tema dell’esoterismo<br />

dantesco.<br />

In altri termini, ci sembra più pertinente procedere prima alla sistemazione di quanto già<br />

esistente (sul modello, per es., di quanto è stato fatto sul dantismo pascoliano da Giovanni<br />

Capecchi) e successivamente verso la costruzione di nuove ipotesi.<br />

Per questo riteniamo valida la necessità di cominciare a stilare una bibliografia sistematica<br />

ed organica (non dico completa, perché, come diceva B. Croce, esistono solo bibliografie<br />

più o meno ricche), possibilmente ragionata, di cui qui si offre un modesto e piccolissimo<br />

saggio, per avere una conoscenza il meno dispersiva possibile di tutto ciò che fino ad oggi è<br />

stato scritto sulle tematiche esoteriche dantesche.


Vari sono i criteri che si possono seguire nella compilazione di una bibliografia. I più<br />

seguiti sono quelli alfabetico e cronologico (o tutti e due contemporaneamente). Si è<br />

preferito, in questa circostanza, seguire quello alfabetico, perché risulta meno dispersivo e<br />

permette una più agevole ricerca degli Autori; ma per una bibliografia complessiva sarà<br />

forse più opportuno procedere secondo una sistemazione basata sull’ordine cronologico.<br />

AMBESI, ALBERTO CESARE La Vita di Dante. Il poeta che immaginò<br />

l’eterno. Peruzzo editore, Sesto San Giovanni (MI) 1988.<br />

- Contiene diversi spunti sulla eterodossia<br />

di Dante, che èè la stessa di “Fedeli d’Amore”, sulla base degli studi di Otto Rahn,<br />

Denis De Rougenont, Henri – Charles Puech, margarete Lochbrunner, Roberto L.<br />

John, Luigi Valli.<br />

AROUX, EUGENE Clef de la Comédie anti-catholique de Dante<br />

Alighieri, Ediz. Anktos, Carmagnola 1981.<br />

- Piccolo vocabolario di termini che<br />

riguardano Dante e la sua opera e che vengono illustrati secondo la simbologia dei<br />

“Fedeli d’Amore”.<br />

CAPECCHI, GIOVANNI Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli,<br />

con appendice di inediti (introduzione di M. BIONDI -Longo, Ravenna 1997.<br />

- Messa a punto dell’intera opera pascoliana<br />

su Dante, analizzata in tutte le sue fasi, fino alla definitiva interpretazione simbolicoesistenziale.<br />

L’autore segue passo passo l’itinerario dantesco del Pascoli, dai primi momenti in<br />

cui si generò nella sua mente il grande disegno interpretativo della “Commedia” fino<br />

alla composizione e alla pubblicazione dei suoi studi e all’impatto, spesso<br />

drammatico, con la critica ufficiale del tempo. E non solo i contemporanei<br />

risconobbero il valore degli studi pascoliani («gli studi danteschi del poeta di


Castelvecchio …. erano sconosciuti anche agli studiosi di Dante … che avevano<br />

preferito ignorarli piuttosto che affrontarli e discuterli criticamente», ma anche la<br />

critica d’oggi non ha cambiato affatto atteggiamento:«è il caso, innanzi tutto, di<br />

Giovanni Getto che, leggendo nel 1948 questi volumi solamente “in omaggio al<br />

nome del Pascoli poeta” finiva per rimanere continuamente deluso “dal susseguirsi<br />

opaco di queste interminabili pagine” ». ma nemmeno quei critici che hanno<br />

affrontato il dantismo pascoliano con maggiore simpatia sono riusciti a liber<strong>ars</strong>i da<br />

un certo senso di fastidio e di ripulsa. Perciò oggi, secondo il Capecchi, se vogliamo<br />

sentire il fascino del Pascoli dentista, dobbiamo cambiare l’angolo di visuale:<br />

«dobbiamo leggerla [l’opera del Pascoli] come una confessione, come una (seppure<br />

mirabilmente velata) autobiografia… Pascoli, con il pretesto di parlare della<br />

“Commedia”, parla di sé: si accinge a studiare il poema per comprendere la struttura<br />

morale dell’oltremondo dantesco… e si accorge progressivamente de la<br />

“Commedia” gli può offrire un pretesto per confess<strong>ars</strong>i». Il Capecchi, dopo aver<br />

notato varie corrispondenze tra i due poeti, evidenzia soprattutto quelle estetiche:«La<br />

“Commedia”, oltre a rappresentare il passaggio della vita attiva a quella<br />

contemplativa, raffigura anche il cammino che, grazie alla guida di Virgilio.<br />

“Studio”, conduce all’ “aste” (Matelda) e, successivamente, alla<br />

“Sapienza” (Beatrice). Il poema sacro, quindi, finisce per rappresentare anche quello<br />

che deve essere, secondo Dante e secondo Pascoli, il cammino che conduce alla<br />

“poesia”: non è sufficiente l’ “ingegno”… ma ci vuole anche lo “studio” degli autori<br />

del passato e delle loro poetiche per poter divenire poeti grandi e regolari».<br />

CATINELLA, GIACOMO Tetralogia Ermeneutica sul Grande Arcano della<br />

Natura, Editrice Miriamica, Bari 1991.<br />

- Contiene due saggi dedicati a Dante: “La<br />

Vita Nova di Dante” e “La prima cantica dell’Inferno dantesco”. Si tratta di analisi<br />

di tipo ermetico-esoterico, che tentano di chiarire significati oscuri e simbologie<br />

sulla base soprattutto di interpretazioni etimologiche di vari termini.<br />

CERULLI, ENRICO Il “Libro della Scala” e la questione delle<br />

fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città<br />

del Vaticano 1949.<br />

CERULLI, ENRICO Dante e l’Islam, in AA-VV., Oriente e<br />

Occidente nel Medio Evo, Accademia Nazionale dei Lineei, Roma 1957.


CERULLI, ENRICO Nuove ricerche sul Libro della scala e la<br />

conoscenza dell’Islam in Occidente. Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del<br />

Vaticano 1972.<br />

- Viene ricostruito il tragitto del testo del “Libro della Scala” dell’ambiente<br />

arabo-islamico alla Toscana e si ipotizza che Dante ne sia venuto a conoscenza,<br />

nell’ambito dei rapporti culturali tra Oriente musulmano ed Occidente. Dante ha<br />

attinto dal mondo islamico “non per conoscenza diretta delle traduzioni di filosofi<br />

arabi, bensì attraverso le loro citazioni negli scritti di S. Alberto Magno e S.<br />

Tommaso d’Aquino”. Rimane a livello di ipotesi il fatto di Dante abbia potuto<br />

conoscere direttamente il “Libro della Scala” nella traduzione di Bonaventura de<br />

Siena, oppure il fatto che il poeta sia stato spinto dal “Libro della Scala” a<br />

contrapporre alla visione musulmana dell’oltretomba la sua visione cristiana della<br />

vita ultraterrena.<br />

In ogni caso la concezione escatologica<br />

dantesca si presenta alimentata da una spiritualità diversa da quella dell’eventuale<br />

fonte.<br />

CONTRO, PRIMO Dante templare e alchimista, la pietra<br />

filosofale nella Divina Commedia. Inferno, Bastoni, Foggia 1998.<br />

- L’autore si aggiunge alla schiera di coloro<br />

che si sono cimentati nell’interpretazione della Divina Commedia in chiave<br />

esoterica, hanno trascurato di rif<strong>ars</strong>i all’astrologia, all’alchimia e alla tradizione<br />

sapienziale occidentale, tutte materie, invece, che costituiscono la struttura portante<br />

del Poema. Egli è convinto che la “Commedia” è sostanzialmente un’opera<br />

alchemica: “i simboli e le allegorie che si susseguono copiosi nella Divina<br />

Commedia sono simboli alchemici, che si ritrovano nelle opere notoriamente<br />

alchemiche di altri autori. Dante parla un linguaggio alchemico”. Tutto il saggio è<br />

strutturato come un commento alchemico ai singoli canti dell’ “Inferno”. Da notare<br />

che il nostro autore accetta l’interpretazione convenzionale riguardo all’anno del<br />

viaggio dantesco (8 aprile 1300).<br />

CORTI, MARIA La “Commedia” di Dante e l’oltretomba<br />

islamico, in “Belfagor”, n. 3, maggio 1995.<br />

- Si ipotizza una dipendenza strutturale della<br />

“Commedia” dal “Libro della Scala”, sulla scia delle indicazioni già fornite da Asin


Palacios e Cerulli. Viene presentata una serie di «esempi di situazioni strutturali del<br />

“Libro della Scala” che permettono a Dante di cre<strong>ars</strong>i un modello analogico, anche<br />

se sul piano della realizzazione artistica un abisso separerà la “Commedia” dal<br />

“Libro”, opera di livello abbastanza popolareggiante ma che forse attrasse dante per<br />

la variopinta ricchezza tipologica e figurale soprattutto dell’Inferno». Si conclude<br />

affermando che «è assai agevole provare che il modello strutturale per la<br />

“Commedia” viene direttamente dal “Libro” e la “Commedia” hanno in comune<br />

elementi per così dire costruttivi, architettonici dell’oltretomba e descrizioni di pene<br />

infernali assenti dal riassunto».<br />

CUSANI, EMMA Il grande viaggio nei mondi danteschi.<br />

Iniziazione ai Misteri Maggiori, Mediterranei, Roma 1993.<br />

- Lettura in chiave esoterica della<br />

“Commedia”, sostanzialmente conforme all’Esoterismo tradizionale. Il poema<br />

dantesco, si legge nel risvolto di copertina, deve essere sottratto «all’imprimatur<br />

della Chiesa cattolica e alla convenzionale e talvolta mummificante interpretazione<br />

degli Accademici». Dante vuole registrare «l’espandersi della Coscienza di un<br />

Discepolo – Iniziato sui Regni superfisici della Natura. Una iniziazione de nei<br />

Misteri Maggiori veniva impartita sempre e solo all’Equinozio di Primavera e che,<br />

all’epoca di Dante, coincise con i tre giorni del “Grande Viaggio” di Lui». Una<br />

efficace successione dell’opera della Cubani è stata fatta da Luciano Ferr<strong>ars</strong>i sul<br />

fascicolo n. 4, giugno 1998, di “Sotto il Velame”.<br />

DONATI, UMBERTO L’ermetismo in Dante, A. Signorelli, Roma<br />

1969.<br />

- Si tratta di una conferenza tenuta il 21<br />

settembre 1968 a Gualdo Tadino, durante la celebrazione annuale della “sagra di<br />

Dante”. Affronta alcuni punti controversi come quello della interpretazione del<br />

Veltro.<br />

Questo non è che il «libro nato da stracci<br />

pressati tra “feltro e feltro”, destinato a fissare, diffondere rapidamente e perpetuare<br />

nei secoli il pensiero umano col ritorno a una concezione spirituale dell’essere».<br />

Proposta questa originale interpretazione, l’autore prosegue: «Si potrebbe azzardare<br />

l’ipotesi che il “cinquecento dieci e cinque” voglia significare il numero<br />

approssimativo delle pagine preventivate da Dante per la prima stesura del poema».<br />

Dante, pertanto, avendo coscienza della grandezza del suo ingegno, occulta dietro<br />

l’immagine del Veltro la sua “Commedia”, che avrà lo scopo di distruggere la lupa,<br />

liberando per sempre gli uomini dai suoi poteri diabolici.


DOZON, MARTHE Le théme de la louve et del loups dans la<br />

« Divine Comédie » : échos d’un mythe étrusco-latin ?, in « Revue des études<br />

italiennes », n. 1, 1969.<br />

- L’analisi delle espressioni riguardanti la<br />

lupa nella “Divina Commedia” porta l’autrice ad evidenziare l’aspetto mitico di<br />

questo animale, risalente alla tradizione etrusco-latina. Non è più accettabile la<br />

tradizionale interpretazione allegorica della lupa dantesca, perché questa sarebbe per<br />

Dante un’immagine onirica, infernale, angosciosa e minacciosa. Dante potrebbe<br />

aver preso spunto dalla statua di bronzo della lupa che si trovava nel Laterano (oggi<br />

nel Campidoglio).<br />

DOZON, MARTHE Mythe et symbole dans la “Divine<br />

Comédie” Olsehki, Firenze 1991.<br />

- In quest’opera poderosa e ponderosa (ben<br />

642 pagine), frutto di lavoro scientifico, basato su una conoscenza profonda delle<br />

fonti classiche e dei miti antichi, l’autrice compie una analisi del poema dantesco<br />

sulla base dei risultati raggiunti dalla critica antropologica, dalla scuola junghiana e<br />

dagli storici del mito e delle religioni, nel tentativo d evidenziare i significati nascosti<br />

dei simboli e dei miti presenti nella “Commedia”. Il fatto che nell’opera dantesca<br />

abbiano notevole risalto questi simboli e questi miti condizionano il modo con cui il<br />

testo è stato accolto e letto. Fin dai primi versi il lettore acquista la convinzione e la<br />

coscienza di affrontare una narrazione cifrata. Da ciò derivano gli innumerevoli<br />

sforzi di decrittazione (décryptage) tentati a partire dal XIX sec. Da U. Foscolo, G.<br />

Rossetti, E. Aroux, G. Pascoli, L. Valli e R. Guénon, di cui non si contesta a priori<br />

la fondatezza (bien-fondé). Né taluni risultati. La Dozon conferma con la sua ricerca<br />

l’opinione già formulata da E.R. Curtis: «Dante – conclude la studiosa (la<br />

traduzione è nostra), è l’erede non solo della latinità classica, ma anche di altri filoni<br />

del pensiero antico, in particolar modo del neopitagorismo e del neoplatonismo, i cui<br />

schemi ed immagini erano passati attraverso i commenti di Servio all’”Eneide” e di<br />

Microbio al “Sogno d Scipione” e nei racconti filosofici di Marziano Capella e di<br />

Boezio. Ma Dante supera di gran lunga le precedenti narrazioni iniziatiche<br />

realizzando la sintesi dei temi della catabasi e dell’anabasi e proclamando il trionfo<br />

dell’Amore».


FERRUCCI, FRANCO Il poema del desiderio . poetica e passione<br />

in Dante, Leonardo, Milano 1990.<br />

- Studio d tipo convenzionale, che si propone di dimostrare che Dante, in<br />

contrasto con l’insegnamento della patristica cristiana, è riuscito a rappresentare, e<br />

quindi a definire, l’oggetto supremo del suo desiderio, cioè il mondo divino,<br />

stabilendo così la supremazia dell’arte sulla teologia. L’autore, tuttavia, non<br />

disdegna di citare critici non sempre ben accetti, come G. Rossetti, G, Pascoli e L.<br />

Valli. Significativa appare in una nota questa affermazione a proposito<br />

dell’interpretazione che si snoda da Rossetti a Valli: «Io credo che malgrado le<br />

ovvie esagerazioni della tesi (che fa dell’intero stilnovismo una sorta di massoneria<br />

templare) ci sia qualcosa di sensato in queste teorie. è chiaro che questi poeti<br />

stavano usando un linguaggio in parte cifrato e che la loro poesia era carica di<br />

allusioni simboliche; ma non è accettabile l’idea che l’intera figurazione amorosa sia<br />

per essi la “copertura” di un interesse politico ghibellino e antipapale».<br />

HEIN, JEAN Enigmaticità et messianisme dans la<br />

“Divine Comédie”, Olschki, Firenze 1992.<br />

- Complesso studio sulle espressioni<br />

enigmatiche, soprattutto di carattere profetico, presenti nella “Commedia”. Anche se<br />

l’autore si tiene lontano da ogni interpretazione esoterica, tuttavia l’analisi dei passi<br />

danteschi ritenuti enigmatici (soprattutto i versi legati alla figura del Veltro) appare<br />

veramente notevole e illuminante, permettendo al lettore di entrare nel mondo<br />

criptico della “Divina Commedia” e di conoscerne le ragioni profonde e gli scopi<br />

precipui. Secondo l’autore, c’è un “ordo” nella “Commedia” che rimane ancora da<br />

stabilire, mentre “la decrittazione allegorica del poema deve bas<strong>ars</strong>i su una<br />

decodificazione allegorica che è fondata in particolar modo sullo studio della<br />

letteratura patristica”.<br />

Il libro della scala di Maometto (traduzione<br />

di R. Rossi Testa, note al testo e postfazione di C. Saccone), SE, Milano 1991.<br />

- nel saggio che fa da postfazione all’opera,<br />

Carlo Saccone illustra i termini della questione delle fonti arabo-musulmane della<br />

“Commedia”, con continui riferimenti alle ricerche di M. Asin Palacios e di E.<br />

Cerulli.<br />

LALLEMENT, LOUIS Le sens symbolique de la Divine Comédie.<br />

I. Enfer, Guy Trédaniel – Editions de la Maismie, Paris 1984.


LALLEMENT, LOUIS Dante maître spiritual. Initiation au sens symbolique<br />

de la "Divine Comédie". II. Purgatoire, Guy Trédaniel – Editions de la Maisnie,<br />

Paris 1988.<br />

LALLEMENT, LOUIS Dante maître spiritual. Initiation au sens symbolique<br />

de la "Divine Comédie". III. Paradis, Guy Trédaniel – Editions de la Maisnie, Paris<br />

s.a.<br />

- I tre volumi costituiscono un commento integrale della “Commedia”<br />

dantesca, considerata come «l’opera di un Maestro che vi ha racchiuso, come in una<br />

cattedrale, tutta la scienza spirituale del Medio Evo». Ma aggiunge l’autore:<br />

«Sembra, d’altra parte, che Dante non abbia voluto soltanto fare della “Divina<br />

Commedia” una guida per la via cristiana della salvezza …. ma anche il messaggio<br />

… di una certa tradizione più o meno esoterica che sembra essere stata coltivata<br />

nell’ambiente della cavalleria». Il Lallement, tuttavia, non sembra convinto della<br />

giustezza di una interpretazione prettamente esoterica della “Commedia”, anche se<br />

ammette che il carattere convenzionale di alcuni componimenti stilnovistici potrebbe<br />

far pensare che i cosiddetti “Fedeli d’Amore” siano stati una specie di confraternita,<br />

della quale, però, non si sa nulla. Dopo aver citato a questo proposito studiosi come<br />

Aroux, Guénon, Valli, Pascoli e Rossetti, l’autore conclude affermando che la<br />

“Commedia” è un’opera profondamente cristiana, che si basa su una “gnosi<br />

ortodossa”, secondo l’espressione usata da Jean Danielou per indicare la tradizione<br />

segreta di cui viene riconosciuta l’esistenza nell’ambito del cristianesimo dei primi<br />

due secoli.<br />

LANZA, ADRIANO Dante e la gnosi. Esoterismo del “Convivio”, Edizioni<br />

Mediterranee, Roma 1990.<br />

- L’autore fa propria la convinzione che «nell’opera di Dante sia presente,<br />

anche se dissimulata una dottrina filosofico-religiosa eterdossa», che la critica<br />

convenzionale non ha voluto prendere in nessuna considerazione. Perciò egli,<br />

attraverso l’analisi del “Convivio”, dimostra che una approfondita conoscenza della<br />

gnosi, sulla scia degli studi di Henry Corbin, Hans Jonas e Henri-Charles Puech,<br />

potrà permettere «l’accesso al contenuto esoterico dell’opera dantesca, dalla “Vita<br />

Nuova” al “Convivio” alla “Commedia”. Gianfranco De Turris, nell’introduzione,<br />

afferma che è merito di Lanza averci presentato un Dante “gnostico” «con grande<br />

dovizia di prove testuali ed una enorme erudizione specialistica», mentre altri<br />

studiosi ci hanno offerto un Dante “eretico” o “alchimista” o “templare” o “fedele<br />

d’amore” o “teologo”. Sul volume di A. Lanza c’è un’ottima recensione di R.<br />

Guerci sul n. 0, ottobre 1994, di “Sotto il Velame”.


MANETTI, RENZO Desiderium Sapientiae. Simboli esoterici nella città antica. La<br />

Giuntina, Firenze 1996.<br />

- Non è uno studio specifico su Dante, ma contiene veri spunti assai<br />

interessanti sul carattere ermetico, alchemico ed in genere esoterico sulla sua opera e<br />

su quella degli stilnovisti, nonché su opere artistiche come il Campanile di Giotto,<br />

l’abbazia cistercense di San Galgano, la “Madonna del Porto” di Taddeo Gaddi, il<br />

Palazzo e al Fortezza dei Medici la “Primavera” e la “Nascita di Venere” di<br />

Botticelli. La simbologia di queste opere dimostra «il sincretismo spirituale presente<br />

nell’esoterismo delle tre grandi religioni monoteiste: l’Ebraismo, il Cristianesimo e<br />

l’Islam. Fra l’XI e il XV secolo questa comunanza di temi e di esperienze spirituali<br />

trovò espressione nel Sufismo islamico, nella Cabbalà ebraica, nell’Alchimia (l’Arte<br />

Regole), nell’improvviso nascere e fiorire del ciclo del Graal, nella mistica<br />

cistercensa e in quella dei Templari, che ebbero la regola scritta proprio da San<br />

Bernardo. La poesia del Dolce Stil Nuovo e di Dante si colloca nell’alveo di questa<br />

tradizione esoterica, che non si esaurì con il XIV secolo, ma trovò nell’Umanesimo<br />

di Ficino e Pico nuova linfa e nuovi motivi».<br />

MARINO, GUGLIELMO Esoterismo e Divina Commedia, Avatar, Como 1993.<br />

- Analisi in chiave esoterica della “Commedia” di Dante, considerato fedele<br />

d’amore, cataro e templare. Come si legge nell’ultima di copertina, il Marino «si<br />

vale della Divina Commedia come di un grande mantra mediante il quale indaga i<br />

meccanismi delle “cause prime”, individuando, attraverso gli effetti delle stesse, i<br />

momenti magni del Pensiero umano teologico-filosofico ma anche i più immediati<br />

bisogni etici-coscienziali di crescita dell’uomo». Scrive il Marino: «La Divina<br />

Commedia è un libro esoterico. Ciò che Dante descrive va oltre il viaggio della<br />

singola anima umana; spazia lungo tutti gli stati della coscienza attraversabili dal<br />

genere umano … Dante è un iniziato dalla Chiesa Albgese, è cataro e fedele<br />

d’amore … il poema dantesco è il più grande servizio dell’Uomo che il Medioevo<br />

ha donato all’Occidente dove non esisteva un poema dedicato all’eterno divenire<br />

dell’uomo». La “Commedia” è il nuovo libro dei Morti posseduto già dal Tibet e<br />

dall’antico Egitto, ma che la latinità pagana ancora non aveva prodotto.«Solo Dante<br />

… ci ha dato, sotto il velame “di li versi strani”, un grande capolavoro a tutt’oggi, in<br />

gran parte, ancora da conoscere».<br />

L’opera del marino è, in sostanza, un grande commento esoterico alla<br />

“Commedia”, dalla quale è possibile trarre continui insegnamenti per l’uomo che<br />

aspira alla conoscenza, perché Dante è il “Maestro di coloro che sanno”.


MAZZARELLA, ADRIANA Alla ricerca di Beatrice. Il viaggio di Dante e<br />

l’uomo moderno, Edizioni In/out, Milano 1991.<br />

- interpretazione psicoanalitica di tipo junghiano della “Commedia”, con<br />

riferimenti positivi a simbologia esoteriche ed iniziatiche. Il valore simbolico del<br />

viaggio di Dante è evidenziato nella prima parte del volume, mentre le successive tre<br />

parti analizzano ciascuna una cantica del poema. Lo scopo precipuo dell’autrice è<br />

quello di «avvinicinarci, per quanto è possibile, alla esperienza interiore del poeta»,<br />

ma, per realizzare ciò «bisogna saper ascoltare nel silenzio e nella meditazione».<br />

Secondo l’autrice,«è evidente che Dante compie il viaggio a imitazione della<br />

passione (notte nella selva), morte (i giorni nell’inferno) e resurrezione (salita ai<br />

cieli) di Cristo, come viaggio esemplare dei “misteri cristiani”».<br />

MINGUZZI, EDY L’enigma forte. Il codice occulto della Divina Commedia,<br />

ECIG, Genova 1988.<br />

- Interpretazione iniziatici-ermetica da parte di una studiosa accademica,<br />

glottologa dell’università degli Studi di Milano. L’autrice compie una analisi<br />

comparata fra l’itinerario della “commedia” e la legge del Magisterio ermeticoalchemico,<br />

svelando la struttura nascosta del poema dantesco. La Minguzzi<br />

suggerisce la necessità di modificare alcune corrispondenze, evidenziate già dal<br />

Pascoli e poi dal Valli, tra i cerchi infernali, i gironi del Purgatorio e i cieli del<br />

Paradiso. La struttura della “Commedia sarebbe basata sul sistema settenario di tipo<br />

ermetico-alchemico, contrassegnato dai significati archetipici dei sette pianeti.<br />

PARRI, WALTER e TERESA Anno del viaggio e giorno iniziale della<br />

Commedia, Olschki, Firenze 1956.<br />

- Leggiamo nel risvolto di copertina: «Dal presente lavoro viene confermato<br />

in modo assoluto il 1302 come anno del viaggio e con pari sicurezza escluso il<br />

1300. Il processo di definizione della data ha la caratteristica delle soluzioni esatte;<br />

ossia la convergenza di tutte le prove, cercate nei campi più vari, dalla storia al<br />

computo, dalla cronologia all’astronomia, verso la sola data 1301. convalidare<br />

l’anno 1301 significa rinunciare al Giubileo come sfondo mistico della Commedia<br />

… Dante stesso e non avvenimenti estranei alla Commedia, nobilita l’anno del<br />

Viaggio». Gli autori dimostrano in maniera scientifica e quindi inoppugnabile de


l’inizio del viaggio dantesco deve essere stabilito al 25 marzo 1301, in base ad una<br />

analisi particolareggiata di tutti gli accenni numerici, astronomici e cronologici<br />

interni ed esterni al poema dantesco. Inoltre gli autori precisano che, oltre al<br />

Boccaccio che appare un treccentunista mancato in quanto, pur giurando sull’anno<br />

1300 come inizio della “Commedia”, preannuncia nel suo commento un<br />

cambiamento d’opinione a proposito del canto XxI dell’ “Inferno”, cosa che<br />

sappiamo non avvenne essendosi il suo commento interrotto prima, altri cinque<br />

nomi si possono citare di coloro che difesero la data del 1301. Si tratta di Giusto<br />

GRION, “che l’anno della visione di Dante è il 1301, Foenis Editore, Udine 1865;<br />

G. Maria ZINELLI, “Discorso intorno allo spirito religioso di Dante”, pubblicato<br />

nel 1845 e citato dal GRION; Francesco ANGELITTI; Francesco CANTELI, “La<br />

conoscenza dei tempi nel viaggio dantesco, Stab. Tip. Nella Regia Università,<br />

Napoli 1900; Giovanni RIZZACASA D’ORSOGNA, “Urania e Clio”, s.e., s.l.,<br />

1901,1910. A questi nomi bisogna aggiungere, in tempi recenti, quello di<br />

Giovangualberto CERI, che ha ripreso e ribadito in maniera inoppugnabile la data<br />

del 1301 (ma ci sia concessa una domanda: perché il Ceri non cita mai il saggio di<br />

W. E T. PARRI?) nei due studi: “Il segreto astrologico nella Divina Commedia (a<br />

cura di s. Pierucci); diz. Upiter, Pisa 1994 e “Dante e l’astrologia”, Logia dei Lanzi,<br />

Firenze 1995, nonché in vari altri interventi, tra cui: “Astrologia dantesca”, in “Sotto<br />

il Velame” n° 4 giugno 1998; “Note sulla data di Morte di Guido Cavalcanti”, in<br />

“Sotto il Velame”, n. 1, 1999; “La precessione degli equinozi in Dante”, in<br />

Quaderni di Sotto il Velame” n. 1, aprile 2000.<br />

Walter e Terea Parri, oltre a dimostrare che l’anno del viaggio dantesco è il<br />

1301, dimostrano anche che la data di morte di Guido Cavalcanti è il 29 agosto<br />

1301, sulla base delle testimonianze di Giovanni Villani e Dino Compagni e di una<br />

analisi accurata della annotazione del registro mortuario di S. Reparata, eliminando<br />

così l’ostacolo più difficile da rigettare per l’accettazione del 1301 come data del<br />

viaggio della”Commedia”. Questa data viene ora ripresa dal Ceri, che, nell’ultimo<br />

articolo sopra citato, giustamente si lamenta che per le sue ricerche e “scoperte” non<br />

abbia ricevuto, né dalla “Società Dantesca Italiana – Gesellschaft nessun<br />

complimento o invito a discutere. La meraviglia, vogliamo puntualizzare, in questo<br />

caso è fuori luogo. La critica convenzionale continua a non accettare cambiamenti di<br />

rotta riguardo a Dante, evitando di discutere i problemi e non rigettando<br />

razionalmente e magari polemicamente le soluzioni, ma tappandosi le orecchie e<br />

chiudendo gli occhi, come quegli ecclesiastici che si rifiutavano di guardare nel<br />

cannocchiale di Galilei, considerandolo oggetto diabolico, perché metteva in<br />

discussione le loro certezze.<br />

SANTANGELO, GIORGIO La Beatrice “svelata” di Francesco Perez, in AA:VV:,<br />

Beatrice nello pera di Dante e nella memoria europea 1290 1990. Atti del Convegno<br />

Internazionale 10 – 14 dicembre 1990 (a cura di M. Picchio Simonelli), Edizioni


Caduno, Fiesole (FI) 1994.<br />

- Messa a punto sintetica ma efficace dell’opera di Francesco Perez, che<br />

viene inquadrata nell’ambito dello sviluppo della critica dantesca nel sec. XIX in<br />

Sicilia. Il Perez è seguace della tesi “ghibellina” promossa già dal Foscolo, ma<br />

«severo giudice delle idee del Rossetti cui rimproverò di aver voluto propugnare il<br />

preconcetto che Dante sentisse e pensasse come un libero “muratore” o come<br />

Voltaire, e di


- L’autore, sulla scia di alcuni studiosi considerati suoi predecessori (e cioè<br />

Luigi Valli, Emanuele Sella, Arnaldo Ferriguto e Rodolfo Benini), compie una<br />

indagine approfondita e minuziosa del poema dantesco su uno degli aspetti più<br />

trascurati «ma caratteristici del pensiero dell’Alighieri: la viva tradizione pitagorica,<br />

il simbolismo magico del numero, a cui è legata la costruzione geometrica della<br />

“Divina Commedia”».

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