HAPPY HOUR - La Repubblica
HAPPY HOUR - La Repubblica
HAPPY HOUR - La Repubblica
Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
<strong>HAPPY</strong> <strong>HOUR</strong>
Prima edizione: febbraio 2007<br />
© 2007 peQuod, Ancona<br />
www.pequodedizioni.it<br />
ISBN 978 88 6068 016 7
Elisabetta Liguori<br />
Il correttore<br />
Un giallo inutile<br />
peQuod
Per Ugo, la mia origine<br />
Per Ada, la mia perseveranza<br />
Per Fiore e Riccardo, la mia concentricità
I CAPITOLO<br />
“Forse un infarto, dottore”.<br />
“Le passo il procuratore. Arrivederci”.<br />
Il telefono squillava di continuo. Cercava conferme. Io<br />
guardavo Ietta, lui guardava me. Con le sopracciglia virgolettava<br />
e io rispondevo. Quella volta l’intestino mi arrivò dritto<br />
in gola, prossimo a una fitta tra orecchio e collo, fin dentro,<br />
ai denti; un freddo solido come una saracinesca di metallo, e<br />
mi venne da sorridere. Ecco il labirintico percorso della sorpresa.<br />
Meraviglioso: il mio primo cadavere.<br />
Prima di allora mi era capitato soltanto quello di una<br />
nonna novantenne e di una cugina con il cancro ai polmoni.<br />
Cadaveri composti, bianchi, con qualche sbuffo di merletto<br />
sotto le bocche appese, poco aperte. Comunque non per<br />
lavoro; mai per lavoro fino a quel giorno. Un cadavere in<br />
Procura era normale; sapevo che sarebbe arrivato, solo questione<br />
di tempo, come per ogni cosa che deve venire e viene,<br />
senza stupore. L’avevano ammazzato anche per me. Senza<br />
neppure aspettare tanto. Era accaduto in fretta, anzi, considerato<br />
che all’epoca ero ancora uditore. Il concorso in magistratura<br />
un anno prima e poi, con calma, l’uditorato di sei mesi in<br />
Procura con il dottor Ietta. Diritto e morti ammazzati. Morti<br />
ammazzati e procedura penale. Avevo studiato come un cane<br />
con la rabbia, per anni, andati via come olio. Alla fine della<br />
corsa avevo scelto quell’ufficio per attitudine. Cadaveri a<br />
5
parte. Mi sentivo sorprendentemente incline all’indagine,<br />
cinematograficamente incline. Ed anche incline al viaggio, a<br />
far valigie.<br />
Ormai sono trascorsi dieci anni da allora, da quel giorno.<br />
Alla prima notizia del morto, la Procura doveva essere sul<br />
posto; bisognava fare in fretta, muoversi velocemente, in macchina<br />
di solito, e andare. Il sostituto procuratore teneva alla<br />
mia presenza, per questo andai anch’io. Apriva le braccia a<br />
ciambella come farebbe una chioccia, il mio capo, e io mi infilavo<br />
dentro il cerchio della sua comprovata professionalità,<br />
fin troppo comodamente. Quel gesto rituale era il suo messaggio<br />
in codice. In quella occasione, in particolare, il capo<br />
m’invitò aggiungendoci un sorriso millepieghe e davanti alla<br />
gentilezza, non posso proprio evitarlo, io mi arrendo. Ha un<br />
suono raro, come l’argento di una campanella tintinnante che<br />
mi ricorda quando ero bambino e tutto mi tintinnava intorno.<br />
Sono legato alle tradizioni. Lo so che sono noioso, per<br />
alcuni sono davvero noioso; certe volte mi sento di cent’anni,<br />
portati con disinvoltura, ma cento! Cento soldatini di stagno,<br />
in fila, a ricordarmi chi sono diventato.<br />
Ad essere onesti, il capo mi sorrideva sempre e, a ogni sorriso,<br />
ripeteva di conoscere mio padre, e già questa affermazione,<br />
scoccata tempo addietro come un bacio, al momento delle<br />
presentazioni, mi aveva centrato. Segnato. E sì, caro, io conoscevo<br />
tuo padre… Sai quale novità! Non era l’unico. Quella<br />
del “conosco tuo padre” era una storia abusata. Dal portiere<br />
all’uomo politico: il mondo conosceva mio padre. Dopo quell’esordio<br />
banale, ogni volta che guardavo un po’ più a lungo<br />
la faccia del mio capo, evocavo la pipa fumante di mio padre.<br />
Inevitabile. Tutti magistrati noi, ma non tutti con pipa. Io non<br />
fumo. Il tabacco, però, è un mio pensiero fisso. Tradizioni e<br />
contraddizioni.<br />
Mi sorrideva di continuo il dottor Ietta; a pensarci bene,<br />
forse esagerava. Un tic nervoso? All’inizio rispondevo solerte<br />
alla cortesia, gravando, pur con scarsi risultati in termini di<br />
espressività, sulle rughe intorno agli occhi. Poi avevo preso a<br />
razionalizzare l’uso della mascella e dello zigomo.<br />
6
Risparmiavo, se potevo, tanto non ne valeva la pena: lo sforzo<br />
facciale non era ripagato da alcun risultato. Il dottor Ietta<br />
neppure ci faceva caso. Si concentrava piuttosto sul suo sorriso<br />
di risposta, come fosse un lavoro. Così, le mie allucinazioni<br />
da fumo passivo diradavano lentamente.<br />
Si avvolgeva di un linguaggio ricercato come fosse un<br />
pastrano di stoffa dura, ma nell’occhio conservava lo scatto<br />
imprevisto e rapido di un film d’animazione. Pragmatico con<br />
cappello floscio, indossato forse, la prima volta per necessità<br />
climatica, poi per coerenza. Basso e nero, con la riga in mezzo<br />
ai capelli lisci. Me lo ricordo bene il mio sostituto procuratore,<br />
con la fronte levigata che si allargava come un residuo<br />
d’onda sulla spiaggia.<br />
Aveva voluto essere il mio affidatario, aveva insistito,<br />
anche se con l’anzianità che aveva maturato se lo sarebbe<br />
potuto risparmiare. Invece. A pensarci bene, infatti, era una<br />
rogna; io ero una rogna. Prendi un tipo, giovane e inesperto,<br />
e gli trasmetti quello che sai, parte di quello che sai, se hai<br />
occasione più di quello che sai; tenti pavide deleghe piene<br />
d’ansia. Comunque sia, ogni gesto lo devi motivare, lo devi<br />
rallentare, commenti ogni scelta, la metti in discussione, ti<br />
ripeti; ti devi pure documentare per non fare brutta figura.<br />
Devi parlare e ascoltare. Devi bere un mare di caffè, non leggi<br />
più il giornale in silenzio, come sei abituato a fare da anni, ma<br />
ti senti costretto a commentarlo a voce alta. Devi trovare le<br />
parole, e mica è vero che ci sono parole per tutto e tutti. Devi<br />
fare uno sforzo. Rogne. Ma lui, niente, aveva voluto l’incarico,<br />
forse per quel fatto lì, che conosceva mio padre. Erano<br />
giovani entrambi all’epoca del loro primo incontro. <strong>La</strong> giovinezza<br />
certe volte ti frega per la sua meraviglia e per l’estrema<br />
rapidità. Mio padre, poi, è uno che non si fa dimenticare,<br />
comunque. Mio padre e la sua pipa. C’era chi l’aveva conosciuto<br />
durante il servizio miliare, chi era stato suo compagno<br />
d’università, centinaia i colleghi/magistrati/fratelli in giro per<br />
l’Italia, chi era stato suo vicino di casa, chi aveva ricevuto da<br />
lui una cortesia, chi un rifiuto, chi gli aveva curato il giardino<br />
e potato le aiuole. Con questa sua fissa del creare legami, lui<br />
e il territorio erano una cosa sola, soprattutto dopo che si era<br />
7
impegnato anche in politica. Lunga storia. Sembrava avesse<br />
vissuto più a lungo degli altri. Ma un padre immortale quando<br />
lo si rimpiange? Mitologico papà, che quando lo devo<br />
abbracciare, anche oggi, i gomiti mi navigano nell’aria timorosi<br />
per qualche secondo. Sempre.<br />
Quindi, diciamolo, era per responsabilità paterna se dieci<br />
anni fa mi ero trovato lì, dove e quando ammazzarono quell’uomo.<br />
“Il Corietti”, come lo chiamavano in città.<br />
Dopo dieci anni, vedo ancora le porte dell’ascensore che si<br />
aprono a strappi, sferragliando su di noi: io, il procuratore e<br />
tal Agrimi, l’autista, che restiamo immobili aspettando il via,<br />
finché il capo dice, autorevole: scendiamo a piedi. Lo diceva<br />
sempre. Lo disse anche quella volta lì. Nella pigra discesa<br />
delle gambe tra gli scalini, scappava spesso una parola in più,<br />
un chiarimento, un ricordo o il fiato più fine. Una rampa di<br />
scale scioglie la lingua, l’ascensore la irrigidisce. Non so perché.<br />
Deve essere una qualche questione legata al movimento<br />
fisico. Il capo voleva prendere le scale perché aveva voglia di<br />
parlare di cadaveri. Il primo cadavere per un magistrato è faccenda<br />
di cui si parla. Anche il secondo. Un cadavere non è<br />
mai uguale a un altro, e già questo può essere una spinta sufficiente<br />
alla chiacchiera. Il mio defunto è più morto del tuo.<br />
Confronti, sfide. Un cadavere può essere morto meglio di un<br />
altro, per ragioni più consistenti, più valide; non tutte le morti<br />
sono ugualmente interessanti, utili, fertili. I magistrati lo<br />
sanno. Quelli che fanno penale lo sanno. Solo i magistrati che<br />
fanno penale parlano di cadaveri. Tra questi, addirittura, ci<br />
sono alcuni fortunati che possono parlare di autopsie avendovi<br />
assistito; della tecnica, dell’incisione, del pathos dell’osservazione<br />
interna. Possono dire di aver rovesciato il calzino. È<br />
il massimo. Si parla per mesi del proprio primo cadavere, con<br />
dovizia, con metodo; si ragiona del sangue, del muco, dei<br />
frammenti d’ossa sparsi fuori pista. Lo fanno anche gli uditori,<br />
se capita.<br />
Così mi preparavo al mio film. Mi ripetevo: Dario<br />
Argento, se è tutto un frangersi di arterie, altrimenti Brian De<br />
Palma.<br />
8
Dunque si andava verso una morte ignota, mentre pioveva.<br />
In quasi tutti i thriller, al momento del crimine, piove.<br />
Prendi a caso, che ne so, la Cornwell. Un esempio per tutti.<br />
Una per dire. Piove sempre nei suoi libri e la pioggia, a cascate,<br />
si mescola al sangue. Piove poco meno giusto nei gialli<br />
all’italiana, spesso ambientati al sud. In Soriga c’è la pioggia,<br />
nera pioggia, è vero, ma i suoi gialli sono ambientati in un<br />
luogo imprecisato, che sembra il sud ma non è detto; non<br />
vale, quindi. <strong>La</strong> pioggia in quel caso è l’oggetto non l’aggettivo.<br />
In Camilleri c’è il sole. Ma la sua è la Sicilia del sogno<br />
ideale, e non c’entra la pioggia con la Sicilia.<br />
Nel mio caso: pioggia come per i migliori. Pioveva non per<br />
caso. Ché poi non è un dato statisticamente riscontrabile che<br />
si muoia di morte violenta solo sotto la pioggia. Con l’afa estiva,<br />
anzi, s’incentiva il numero dei crimini; cresce l’efferatezza<br />
con il termometro. Si muore di più sotto al sole, dall’alba al<br />
tramonto, ma se ne parla di meno. È letteratura minore. Sia<br />
come sia, quel giorno pioveva.<br />
L’ombrello lo portava l’Agrimi autista e ci andavamo sotto<br />
in tre: l’autista sul lato, porgeva rispettosamente la destra e<br />
riceveva in cambio scolature d’acqua gelida dritte nel bavero<br />
rialzato dell’impermeabile. Ci uniformavamo al passo del<br />
capo, da pendolo, che restava al centro del trio, continuando<br />
a dissertare di necrofilia. Poi in macchina, sedevamo sul sedile<br />
posteriore, dove riposava ogni mattina il quotidiano del<br />
giorno prima. Dimenticato. Letto appena un po’.<br />
Pioveva quel giorno e non era un dettaglio. In macchina<br />
guardavo il vetro schizzato e oltre la città acneica. Non era la<br />
mia città. Ero in un’altra città, diversa dalla mia. Me ne ricordavo<br />
ogni volta che non riuscivo a immaginare cosa mi aspettasse<br />
allo svoltare in un vicolo, ogni volta che sbagliavo strada,<br />
le volte in cui non ero in grado di dare indicazioni corrette<br />
a un passante in difficoltà, quando salivo in autobus ed ero<br />
in affanno circa la progressione delle fermate. Quando salivo<br />
in autobus, comunque, già quello era elemento di novità, ché<br />
dalle mie parti non si era soliti usare gli autobus; ammesso<br />
che ce ne fossero. Ero in lieve ansia anche quando per cena<br />
ordinavo una pizza d’asporto, o se non trovavo parcheggio;<br />
9
non sapendo come fare il furbo, in quale anfratto andare a<br />
imbucarmi.<br />
Era stata mia la scelta, però. Avevo voluto completare i<br />
miei 18 mesi complessivi di pratica in una città diversa dalla<br />
mia. Di questi, sei mesi con Ietta.<br />
Mio padre diceva che mi avrebbe fatto crescere. Lui ne era<br />
certo e io avevo scelto sulla base delle sue certezze. Avevo<br />
comprato cinque valigie nuove, le ricordo bene, di forma differente<br />
ma dello stesso colore. Dimensioni a crescere o a<br />
decrescere, come bambole russe. Bellissime, perché nuove.<br />
Vivevo in quella città, che non era la mia, dal lunedì al<br />
venerdì, giorno in cui tornavo a casa da mia moglie. Non avevamo<br />
figli e anche lei lavorava. Mi sentivo un fringuello sul<br />
davanzale.<br />
Avevo preso un appartamento in affitto, appartenuto a una<br />
coppia di coniugi anziani che si erano spenti, solidalmente,<br />
l’uno a breve distanza dall’altra, e poi gestito dall’unico figlio<br />
addolorato. Un appartamento carico di vecchie fotografie, di<br />
figurine attaccate da probabili nipoti sulle mattonelle fiorate<br />
della cucina, a un prezzo stracciato, ma che dovevo preservare<br />
intatto nel tempo, per contratto. Evidentemente, al proprietario<br />
ero apparso come un uomo sensibile a questo tipo<br />
di problematica. Un ottimo custode dei sentimenti altrui.<br />
Forse.<br />
Attenzione al mio olfatto da segugio. Quando dico incline<br />
all’indagine, non lo dico tanto per dire. Le inclinazione sono<br />
una cosa seria, secondo me. Infatti. Ogni stanza dell’appartamento<br />
preso in affitto, nonostante tenessi costantemente le<br />
finestre aperte, conservava ancora una fragranza intensa di<br />
lucido da scarpe. Saranno stati i mobili, i divani, le tovaglie<br />
ancora perfettamente piegate nel terzo cassetto della madia in<br />
tinello, forse una fissa di contenuto puramente estetico dell’anziano<br />
proprietario; chi lo sa. Non so, ma l’odore era prepotente.<br />
È per questo che per me i cadaveri, ancora oggi,<br />
hanno lo stesso odore di un paio di mocassini di pelle ben<br />
lustrati.<br />
Non era la mia città e dunque mi abituavo con caparbia<br />
lentezza. Nella mia città non pioveva così spesso e, per que-<br />
10
sto, l’uso dell’ombrello mi era estraneo. Del tutto. Se ne compravo<br />
uno, lo dimenticavo subito dopo l’acquisto nel primo<br />
bar da cui passavo e, soltanto se ero noto al titolare – se non<br />
io, magari mio padre – quello, cortese, me lo metteva da<br />
parte. Altrimenti, era perso per sempre. Soldi buttati.<br />
In realtà adesso le cose sono un po’ diverse: piove anche<br />
dalle mie parti e sono piuttosto turbato da questa novità.<br />
Inutile negarlo, circa dieci anni fa, nella mia città solo sputi<br />
d’acqua ogni tanto. Neve, poi, nemmeno a parlarne. Se nevicava<br />
ci faceva un fortunato servizio la tv locale, posta l’eccezionalità<br />
dell’evento. Figurarsi. Adesso, invece, è cambiato<br />
qualcosa nel clima. Sono onesto: è un fatto che mi frastorna.<br />
Nell’altra città, nell’altro mio luogo, quella del mio praticantato,<br />
quando il lunedì mattina presto mi mettevo alla guida<br />
per andare a lavorare, mi chiedevo sempre p i o v e r à ?, e solo<br />
dopo essermi risposto non lo so, mi accorgevo di non aver<br />
messo in macchina l’ombrello. Poi, di solito, pioveva. Adesso<br />
che piove anche nella mia città, una pioggia irata, imprevista,<br />
rapida come uno starnuto, non posso più fare le distinzioni e<br />
le similitudini che amavo fare, tra il prima e il dopo, tra il<br />
bello e il brutto, tra il mio e il loro. Si slabbrano i confini tra<br />
gli eventi, perdo il perno su cui far girare i giorni. Mi vedo<br />
costretto a rimisurare le distanze. Non credo mi piaccia.<br />
Non ero a casa mia, quindi era importante seguire i passi<br />
del dottor Ietta. In senso fisico. Contarli e passarli a memoria.<br />
Lui camminava indicando la strada giusta, io accanto.<br />
È chiaro: non conoscevo minimamente la zona in cui era<br />
avvenuto il fatto. Mi era anzi del tutto estranea, quasi ostile.<br />
Una situazione simile non solletica l’intuito di chi indaga,<br />
come si potrebbe credere, anzi, lo ammorba, lo intimidisce.<br />
Ma io ero pronto alle novità. Resistevo. Il territorio, i luoghi,<br />
sono fondamentali in un’indagine; quasi quanto il cadavere.<br />
Bisogna possederli per lavorarci sopra. Masticarli per trasformarli<br />
in altro, in appartenenza. Perfetto: io mi sentivo pronto<br />
a quell’impegno.<br />
<strong>La</strong> prima cosa che feci, arrivato sul posto, fu guardare, in<br />
un modo che quasi gli occhi non bastavano. C’era sangue<br />
11
dappertutto. Ma quale infarto? Una mattanza, uno splatter<br />
iperviolento, un’esagerazione; un massacro, con giusto qualche<br />
profilo mistico. Il cadavere, infatti, era stato ritrovato<br />
all’interno di una libreria di articoli sacri. Lo dissi al tipo del<br />
telefono ma quale infarto, scusa?, e quello rispose scherzavo,<br />
dottore, ma non so se era vero.<br />
Era buio al momento del nostro ingresso. Caliginosi cervelli<br />
in panne tra lampadine fulminate. Nessun riflettore sui<br />
nostri primi passi all’interno del teatro. Un palcoscenico<br />
prima dell’apertura del sipario. Lo stesso vapore da debutto.<br />
Entrando, ci si accorgeva che nella stanza c’era gente solo dall’odore<br />
dall’aria, e ad aver un buon naso.<br />
Naso e occhi da gufo, per cominciare.<br />
<strong>La</strong> città intanto si metteva in movimento con qualche bicicletta.<br />
Poche soltanto perché pioveva. Nel quasi buio.<br />
Saranno state le 9.10, almeno credo. Il negozio insisteva su<br />
una strada non aperta al traffico, ma c’erano un paio di vetture<br />
parcheggiate in divieto di sosta proprio davanti. Una strada<br />
centrale a tavelle lisce e riflettenti come strass: su un lato,<br />
a destra della libreria, una farmacia, a sinistra il grande portone<br />
che apriva sulla Curia vescovile. Avanzi di cappuccini<br />
oleosi nell’aria. All’interno della libreria, i caramba e il medico<br />
legale si muovevano come astronauti senza ossigeno, lesinando<br />
sui passi. Il corpo della vittima era quasi del tutto<br />
nascosto dal bancone per la vendita e, sul pavimento, dal<br />
punto in cui sbucava la testa, si allargava una macchia di sangue<br />
ampia come il mantello di Superman in volo. Trentotto<br />
coltellate inferte per lo più al busto, avremmo stabilito subito<br />
dopo, alle braccia e al volto, e forse, magari, anche un<br />
sopraggiunto infarto. Chissà se lo avrebbe confermato il<br />
medico, in omaggio al disarmante intuito dell’Arma. <strong>La</strong> dottoressa,<br />
il medico legale, era una giovane donna la cui colonna<br />
vertebrale ricordava vagamente un bisturi, e continuava a<br />
toccarsi la fronte con i guanti – poverino su e poverino giù –<br />
mentre, china, i capelli le ricadevano sul viso come la paglia<br />
di uno scopino nuovo.<br />
Una fiction, tutta plastica e effetti speciali, finché un carabiniere<br />
non mise il piede nel sangue. Squassò la forma perfet-<br />
12
ta del colore che sfugge e diventa un lago. Senza rispetto,<br />
impiastricciò il resto della stanza con le sue gulliveriane<br />
impronte, alterando la scena irreparabilmente. Chi se lo<br />
dimentica: quello continuava ad andarsene in giro imperterrito,<br />
infilandosi in ogni dove, senza mai guardarsi i piedi. A<br />
osservare con attenzione, anche sul bordo dei pantaloni neri,<br />
all’altezza della piega, perfetta e rigida quanto quella che lo<br />
stesso carabiniere si era autoprocurato in testa con un pettine<br />
a denti stretti e il gel, c’era uno sbaffo di sangue, quasi una<br />
passata di rossetto su un labbro livido. Come per infinite piccole<br />
altre ferite intorno alle prime, i suoi anfibi lanciavano<br />
schizzi, componevano bouquet di fiori rossi, petali strappati,<br />
fanghiglia che suonava di disgustosi ciak ciak. Così mi colse<br />
un conato davanti all’emoglobina violata. Chissà che avrebbe<br />
detto il capo. Ma non se ne era accorto nessuno, e io rimasi<br />
interi minuti a chiedermi se avessi dovuto segnalare lo scempio<br />
e cercare un bagno. Ora, a vedere questi qui, sembrava<br />
che la sacralità della scena del crimine, la scienza esatta dei<br />
luoghi, pagine e pagine di sudati manuali di criminologia, fossero<br />
solo mie fantasie da secchione. Cazzo facevano questi?<br />
Dove se ne andavano bel belli? Era normale tutta questa<br />
approssimazione? Lo scandalo mi rigurgitava in gola un acidulo<br />
misto di caffè e panna. Inorridivo, ma non dissi niente,<br />
non era mio il caso. Potevo tacere. Magari ero io a sbagliarmi;<br />
magari era quella la prassi: lo spiaccicamento creativo, estemporaneo.<br />
Che ne sapevo? Quindi, zitto. Tanto ero solo uno<br />
che stava facendo pratica e basta.<br />
Distolsi lo sguardo e buttai giù la saliva. Uno, due e tre.<br />
Nessuno si era accorto di nulla. Il negozio non aveva ancora<br />
aperto e l’omicidio si andava collocando temporalmente tra le<br />
7.45 e le 8.15 dello stesso giorno. Vicino al cadavere restava<br />
una ramazza e un po’ di lanugine polverosa rappresa in gomitoli.<br />
Nessuna effrazione, serrature nella norma. Neppure una<br />
cicca in quella lana, né altrove. Io faccio caso agli “arnesi da<br />
fumo”, l’ho detto, ma lì nemmeno una cicca. Certe volte le<br />
cicche aiutano, svolgono una funzione di tipo investigativo.<br />
Sono un evergreen. <strong>La</strong> cicca, il rossetto o la saliva. In compenso<br />
furono scattate molte fotografie.<br />
13
<strong>La</strong> dottoressa disse che si trattava di un uomo di circa cinquant’anni.<br />
Più alto della media, estremamente magro, nodoso.<br />
Si immaginò che potesse trattarsi dell’uomo delle pulizie.<br />
Magari non solo di quelle, comunque, al momento della<br />
morte, si stava certamente dedicando alle pulizie. Indossava,<br />
infatti, un grembiule plastificato verde. <strong>La</strong> pettorina tagliata<br />
in più punti non assorbiva il sangue: la stoffa idrorepellente<br />
lo aveva fatto scolare via, lungo il corpo, sul pavimento, in<br />
rivoli, cascatelle e rapide. Il succo era stato estratto dal corpo,<br />
trasformantosi in carta da regalo natalizia: rossa e crespa.<br />
Io ero in mezzo a quella gente con le mani nelle tasche del<br />
mio giaccone blu. Sì. Portavo un giaccone blu all’epoca, da<br />
vecchio lupo di mare. C’era stato il tempo del jeans, dopo<br />
quello del trench panna, dopo ancora il rigore del cappotto<br />
color cammello. Ogni anno la sua divisa. Quello che vivevo<br />
era l’anno del giaccone blu. Il blu delle attese. Nelle tasche<br />
mettevo le chiavi della macchina e ogni tanto le facevo scampanellare<br />
con le dita. Avevo gli occhi e le narici all’erta, ma<br />
con contegno. Un praticante è sempre in attesa di una<br />
domanda. E pure io aspettavo una domanda, una qualsiasi,<br />
un coinvolgimento professionale, anche minimo, da parte del<br />
capo, magari un quesito venuto fuori dalla bocca di uno dei<br />
militi presenti o del medico legale; non del morto, possibilmente.<br />
Ero pronto a una domanda, ma quelli quasi non respiravano,<br />
figuriamoci pronunciare una parola utile. L’unica<br />
cosa che sapevano fare era modificare di continuo lo stato dei<br />
luoghi. Ora là, ora qua; i quattro cantoni. Pareva il momento<br />
della tumulazione, più che della rivelazione. Regnava il silenzio,<br />
gli scatti di nervi e l’incertezza sotto il marmo, è chiaro,<br />
io mi aggiravo a testa bassa, elemosinando bisbigli. Mi svuotavo<br />
e mi riempivo come il collo argenteo di una tromba,<br />
senza suono. Mentre tutto cambiava. Che spreco d’intelletto<br />
umano!<br />
Preliminarmente c’era da cogliere la struttura dei diversi<br />
ambienti: vani, ripostigli, porte, finestre, serrature; non sapevo<br />
cosa era stato fatto dalle forze dell’ordine al momento<br />
della scoperta del cadavere. E cosa invece non era stato fatto.<br />
14
Una piantina ufficiale sarebbe stata propizia. Niente.<br />
Ma se ci fosse stata sarebbe stata più o meno così, se la<br />
memoria non mi inganna: si entrava da una porta non grande,<br />
sulla sinistra una vetrina si affacciava sulla strada, sulla<br />
destra, invece, un’esposizione di articoli per uso solo interno.<br />
<strong>La</strong> vetrina esterna esponeva libri tra candelieri d’argento e<br />
quadri d’epoca. Una Madonna con bambino lanciava riflessi<br />
dorati con enormi labbra meste. <strong>La</strong> vetrina interna, diversamente,<br />
era molto più grande. Nel buio intravedevo falene da<br />
collezione: paramenti sacri appesi con spilli alla parete felpata<br />
amaranto. In giro, negli angoli, tonache nere su manichini<br />
mozzati, con le gambe a girello. Ombre sinistre tra i calici<br />
d’oro. Dario Argento, di certo, avrebbe sbadigliato di quell’ovvietà<br />
scenografica. Dietro il bancone, una libreria contro<br />
il muro, da parete a parete, una ventina di mensole a giorno<br />
di legno decapè. Libri, appunto: una massa disomogenea per<br />
forme e colori. Non solo bibbie. Qualche contaminazione<br />
cromatica sfuggita dalla fantasia repressa delle edizioni<br />
Paoline.<br />
Il bancone per il pubblico era scostato sulla sinistra rispetto<br />
all’ingresso. Nell’angolo c’erano la cassa e il telefono. Sul<br />
fondo, una porta dava su altri due vani comunicanti tra loro:<br />
magazzini colmi di scatole di cartone e imballi voluminosi. A<br />
sorpresa, l’ambiente di sinistra aveva un’altra uscita: una<br />
porta più piccola. Seppi che comunicava proprio con la Curia<br />
lì accanto. Ad un passo da Dio.<br />
Porta aperta o porta chiusa? Non potevo toccare nulla.<br />
Guardare, solo guardare. Le impronte, per carità, le impronte!<br />
Non toccavo nulla, d’accordo, ma restava chiaro che nessuno<br />
si interessava davvero al tema delle porte. Neppure a<br />
quello. Malissimo, secondo me. Sarebbe stato fondamentale,<br />
a mio modesto avviso, parlare di porte. Se qualcuno entra in<br />
un certo ambiente, ammazza qualcuno ed esce, è vitale parlare<br />
di porte.<br />
Dopo il tour solitario, ritornai indietro. Segugio senza pratica.<br />
Uscii all’aperto: aveva smesso di piovere; una lamiera di<br />
cielo sfondava i pochi ombrelli distrattamente aperti nelle<br />
mani dei passanti e si schiantava sull’asfalto bagnato.<br />
15
Cicatrizzava in croste grigie. Foglie ovunque, forse venivano<br />
da lontano, ché non vedevo alberi. Forse più in là, alla fine<br />
della strada, c’erano alberi e vento. Il poliziotto che piantonava<br />
l’ingresso mi fece un cenno di cortesia. Qualche curioso<br />
allungava il mento verso di me, e per questo rientrai subito<br />
nella tana. Non prima però di aver dato una sbirciata al grande<br />
portone della Curia, lì a sinistra. Ancora chiuso.<br />
Gigantesca bocca serrata da ciclope che ha già concluso il<br />
pasto. Nessun movimento intorno. Sazietà. Feci cucù un paio<br />
di volte; neppure io riuscivo a star fermo. Giusto per fare,<br />
così.<br />
Dentro, intanto, si andava evidenziando una precisa necessità:<br />
rintracciare la proprietaria del negozio. Che era una<br />
donna l’avevamo accertato quasi subito. Dov’era? A quell’ora<br />
sarebbe dovuta essere in negozio. Chi si occupava delle<br />
vendite? Come mai non c’era ancora nessuno? Ammesso che<br />
si vendesse davvero qualcosa in quel posto scuro; ammesso<br />
che qualcuno davvero volesse informarsi circa l’arte di essere<br />
Dio.<br />
Ora, non è che io sia un tipo ansioso, né un perfezionista,<br />
ma in quel momento si era oggettivamente in una bolla d’inerzia.<br />
L’avrebbe intuito chiunque al mio posto. Non potevo<br />
sapere se tra i doveri di un magistrato ci fosse anche quello di<br />
far scoppiare certe bolle con una qualche puntuta iniziativa.<br />
No, non lo sapevo. Fingevo di saper cosa fare, ma non lo<br />
sapevo. Ietta, giustamente, faceva il suo mestiere, il medico<br />
legale faceva il suo mestiere, i caramba facevano il loro<br />
mestiere, pure il cadavere faceva il morto, restando immobile<br />
davanti a noi. Dall’insieme cosmico dei mestieri all’opera<br />
dipendeva il mio coinvolgimento nell’indagine. Ecco, più o<br />
meno così, per un praticante.<br />
Gli elementi per ricostruire il fatto dovevano pur essere da<br />
qualche parte. Chissà dove. Il tempo passava invano. Nessuna<br />
notizia circa lo stato delle porte, né delle luci. Si dice che i<br />
primi momenti siano fondamentali in un’indagine. Bene,<br />
quelli se ne andavano via. Ma non era colpa mia. In fondo, mi<br />
era richiesto solo d’imparare. Facile. Mi misi accanto al capo,<br />
spalla a spalla. Per imparare. Più gli stavo vicino, più avrei<br />
16
imparato. Lui non sorrideva più; prendeva appunti sull’agenda<br />
in pelle, ma io non ne decifravo la scrittura. Feci un breve,<br />
ma doveroso cenno alle storia delle porte, e lui mi osservò<br />
come si guarda il risvolto di copertina di un libro. Si soffermò<br />
sul dettaglio delle mie labbra in movimento, poi scrisse due<br />
righe in più sull’agenda. Tutto qui. Nessuna risposta.<br />
Sentivo il bisogno di un momento di sintesi. Ricapitolare,<br />
però, con quelle zampe di gallina zoppa sull’agenda del capo,<br />
sfido chiunque, non era un esercizio semplice. Dunque.<br />
Avevamo il nome della proprietaria fornito da un passante.<br />
L’ora del delitto. Si cercò il numero telefonico e l’indirizzo.<br />
Saranno stati presenti tre agenti e un maresciallo in tutto.<br />
Uno si dedicava alla stesura del verbale sotto la guida del<br />
capo Ietta, il secondo cercava l’imprecisabile nei cestini della<br />
carta straccia, il terzo dava una mano al medico legale e scattava<br />
foto con flash in pose forzatamente statiche; il maresciallo<br />
meditava, sfogliando l’elenco telefonico. Tra i libri non frugava<br />
nessuno, quasi non c’entrassero nulla con i fatti degli<br />
uomini. Questa era l’allegria della squadra omicidi.<br />
Ma non finiva mica così. No, ci sarebbero stati degli<br />
approfondimenti, interrogatori, confronti, equivoci, ripensamenti,<br />
e già intuivo quale sarebbe potuto essere il mio impegno<br />
lavorativo nei giorni successivi. A sentir loro, il bello<br />
doveva ancora venire. E menomale, pensavo io.<br />
S’intende, io mi sarei mostrato subito interessato, molto<br />
disponibile. È certo. Era un’occasione ghiotta per uno che fa<br />
pratica. Non mi sarei tirato indietro. Volevo dare di me<br />
un’immagine di estrema solidità, abnegazione. Appendermi<br />
al collo un cartello grande che distinguesse uomo da uomo. Il<br />
lavoro è importante per un individuo, ma ci sono modi e<br />
modi per lavorare. Volevo che la gente, guardandomi, potesse<br />
pensare un giorno: cavolo, questo è uno che lavora sul<br />
serio! Un praticante che non si risparmia. Magari avrei continuato<br />
a studiare, a inseguire il diritto che cammina. Non mi<br />
sarei fermato mai. Sì, così avrei fatto. Che progetto coraggioso<br />
era il mio! Sarei stato di granito fino alla vecchiaia, pensavo,<br />
ma con il cervello di spugna. E gli altri l’avrebbero capi-<br />
17
to, e sarebbe diventata quella la mia quotidianità, la mia<br />
immagine da difendere. Temerario progetto post-universitario.<br />
Ché l’accanimento universitario è un male incurabile, con<br />
metastasi ovunque. Quale sia l’origine di questo male, la<br />
causa primigenia, conta ben poco alla fine. <strong>La</strong>vorare, si deve<br />
lavorare per correggere la morte.<br />
Sì, però, allo stato delle cose, c’era solo da aspettare quello<br />
che i tecnici, quelli veri, quelli seri, altri da questi, avrebbero<br />
rilevato successivamente; sempre che se ne fossero create<br />
le condizioni. Aspettare. Uno che tocca la materia giustizia, sa<br />
che dovrà spesso aspettare, come per un treno in stazione.<br />
Che questo lavoro, ha molto a che fare con l’attesa.<br />
Gran bella sicurezza i tecnici! Tutto era approssimazione,<br />
ma i tecnici no, quelli non si toccano; guai a dubitarne. I<br />
nostri venivano da fuori, gli eletti erano i RIS di Genova, mi<br />
pare. Non venivano vestiti a festa, al contrario, e alla fine se<br />
ne andavano con valigie cariche di reperti da analizzare, infilati<br />
in piccole buste trasparenti come avanzi destinati al freezer.<br />
Con calma spedivano relazioni, dopo aver cercato i capi<br />
al telefono, per conversazioni interminabili. Non erano di<br />
quelli che salutavano con i tacchi. Quelli erano un’altra cosa.<br />
I RIS potevano permettersi i jeans. I tecnici avrebbero fornito<br />
piste e ganci in borghese. Da poco ci fanno fiction e film<br />
su questi tecnici, ma un tempo, agli inizi, erano soltanto delle<br />
ginocchiere sulle fragili articolazioni della magistratura, mica<br />
supereroi.<br />
Il nostro maresciallo, invece, grasso ventre, ricordava il<br />
Sergente Garzia in attesa di Zorro. Sedeva precario e sudaticcio<br />
in punta a una sediolina in legno, quasi sulla porta d’ingresso;<br />
sembrava prossimo alla fuga. Blaterava al telefono,<br />
nelle correnti d’aria, dando disposizioni concitate, menando<br />
schizzi di saliva a destra e a manca. Era rimasto lui l’ultimo<br />
avamposto della prassi.<br />
Il capo aveva chiesto agli altri uomini in divisa di affacciarsi<br />
in strada, proprio là davanti, sul marciapiede, a fare<br />
domande in giro, cercando di dare un volto al popolo che frequentava<br />
la zona abitualmente: amenità, pettegolezzi, consuetudini.<br />
E quelli si erano sparsi, sparpagliati come carte da<br />
18
gioco, in strada. Grazie a questa abile mossa si era saputo<br />
della proprietaria: una vedova con due figlie adolescenti.<br />
Domande in strada? Sembrò strano anche a me, ma la strada<br />
è fatta di voci e rifiuti. Quindi, domande in strada, bene, così<br />
che i militi sembravano formiche sull’asfalto a raccattare briciole.<br />
Dove era finita questa donna? Mentre si contavano i minuti<br />
vuoti, squillò il telefono poggiato sul bancone. Deus ex<br />
machina. Squillò solo una volta. Rispose il maresciallo.<br />
Fulmineo. Prese tempo e non fece parola di quanto stava<br />
accadendo o era accaduto. Il procuratore si accese in volto.<br />
Era lei. <strong>La</strong> vedova.<br />
“Con chi parlo, scusi?”<br />
“Buongiorno, lei chi è?”<br />
“Scusi, eh, scusi un attimo… Io con chi è che parlo? Chi è<br />
lei? Io non la conosco. Come mai risponde a questo numero?”<br />
“Mi dica lei. Con chi vuole parlare?”<br />
“Ehi, basta dico! Mi risponda: chi parla?”<br />
“No, guardi, dica prima lei chi è?”<br />
“Come dico io prima? <strong>La</strong> finiamo, eh? Ma che numero ho<br />
fatto? Scusi, è la libreria di via Cardone?”<br />
“Si, lei chi è?”<br />
“Ancora con questa storia del lei chi è? Ma che succede?<br />
Mi faccia parlare con il signor Corietti. Subito!!”<br />
“Non mi ha detto ancora chi è?”<br />
“È lei che si deve presentare, imbecille! Io sono la proprietaria<br />
del negozio. Impari l’educazione piuttosto!!”<br />
“Le spiego con calma. Mi dispiace, ma il signor Corietti<br />
non c’è, non si è sentito bene questa mattina. Dica pure a<br />
me”.<br />
“Non verrà in negozio? Dove si trova in questo momento?<br />
Dove… e il negozio? E io con chi sto parlando? Insomma!?”<br />
“Un attimo, le spiego tutto non calma, non si agiti. Lei<br />
parla con i carabinieri…”<br />
Non so bene cosa rispose la vedova, ma la voce del maresciallo<br />
si punteggiò di pause larghe come trappole per cinghiali.<br />
Ma veniamo alla ricostruzione dei fatti.<br />
19
Il negozio di solito apriva alle 9, ma proprio quel giorno la<br />
signora Florio, la proprietaria, aveva un appuntamento dal<br />
dentista fuori città; molto fuori città. Benché il suo fosse il<br />
primo appuntamento della giornata, il cavadenti di fiducia<br />
aveva evidentemente perso tempo e la signora era in ritardo.<br />
Telefonava per chiedere al morto di trattenersi in negozio più<br />
del previsto, fino al suo arrivo. Ma il morto era morto. Ah,<br />
certo, si sarebbe senza meno trattenuto più del previsto. E chi<br />
lo spostava da lì? <strong>La</strong> donna diceva di non sapere nulla di<br />
quanto era accaduto. Aveva alzato la voce davanti alle reticenze<br />
del suo scaltro interlocutore, come una cornacchia con le<br />
zampe legate, ma poi aveva abbassato la cresta. Era stata rintracciata.<br />
Bene. Ietta aveva ripreso a sorridere.<br />
Le dissero categoricamente di non muoversi dal luogo in<br />
cui si trovava, così che una pattuglia del posto, incaricata<br />
d’urgenza, potesse andare a interrogarla immediatamente.<br />
Funziona più o meno così. Se un sospettato, uno che per<br />
qualche ragione deve essere sentito nell’immediatezza del<br />
fatto, è lontano o dice di essere altrove, lo si blocca e si manda<br />
qualcuno sul posto; solo così si accerta la veridicità delle sue<br />
affermazioni. Sempre che ci rimanga davvero in quel posto, è<br />
ovvio. È nell’ interesse di tutti, ma a volte i sospettati, quelli a<br />
conoscenza dei fatti, non resistono: scappano, si volatilizzano,<br />
si spostano, e poi si spostano ancora, e sono guai. <strong>La</strong> paura a<br />
volte fa fare cose stupide e bisogna tenerne conto. Ho scoperto<br />
che in ogni indagine ci sono degli elementi di stupidità.<br />
Umanità: dovevamo tenerne conto. Dovevo far l’abitudine<br />
all’uomo e alla sua stupidità.<br />
D’accordo, posso essere preparato agli stupidi, ma non<br />
basta. Non ci sono solo stupidi sulla scacchiera. Ci sono<br />
anche assassini intelligenti, e anche quelli molto intelligenti,<br />
anche quelli più intelligenti di me, molto più di me.<br />
È forse più difficile comprendere il senso di mosse intelligenti?<br />
Credo che sia la stessa cosa, tutto sommato. Ci sono le<br />
une e ci sono le altre, e molte altre categorie nel mezzo.<br />
Umanità, dicevo. Io penso che gli assassini, in particolare, o<br />
sono pazzi o sono disperati; non si scappa. In ogni caso stu-<br />
20
pidi. È proprio difficile incontrare un genio con il sangue<br />
sulle mani. Secondo me. Hannibal the Cannibal è pura astrazione.<br />
I geni sono più richiesti in società, sono persone molto<br />
impegnate, che lavorano, pensano, producono; non hanno<br />
tempo da perdere ad ammazzare qualcuno. L’utilità li rende<br />
organici. Mentre gli altri, gli stupidi, si annoiano e quindi il<br />
tempo lo trovano. Statistica. In certe cose è utile pensare che<br />
ci sia una statistica da cui partire. I numeri aiutano silenziosamente.<br />
I numeri allentano la tensione. Io sono un uomo estremamente<br />
razionale. Anche adattabile, è vero. Non so se sono<br />
più razionale o più adattabile, a ben pensarci. Mi piace buttare<br />
l’occhio al precedente, al dato storico, e adattarmi a quello.<br />
Ragionarci. Questo sì. Ritornando agli assassini, non so<br />
dire se mi sia davvero così facile comprendere gli stupidi,<br />
come a volte sembra essere, forse, per vicinanza intellettiva,<br />
ma quel che è certo è che so adattarmi alle situazioni in cui mi<br />
imbatto. Sempre. Questa è una qualità per un pubblico ministero.<br />
Credo. Adattabilità e curiosità per i numeri. Anche i<br />
numeri, infatti. Ecco. L’omicidio poteva in qualche modo<br />
essere collegato ai numeri. <strong>La</strong> faccenda cominciava a incuriosirmi<br />
e se mi incuriosisco, di solito questo si rivela un dato<br />
positivo. Utile. Faccio tutto per curiosità. <strong>La</strong> curiosità è il<br />
mio motore. Curiosità e passione, che poi forse sono la<br />
medesima cosa. Numeri o no, se c’è passione è meglio. Mi<br />
incuriosivo, e più mi incuriosivo più mi appassionavo e, contestualmente,<br />
mi adattavo al clima del luogo. Tutto sommato<br />
un buon inizio.<br />
Il comando dei carabinieri fece sapere che la vedova era<br />
davvero dove diceva di essere. Lo confermò anche il dentista,<br />
che aveva insistito per farle persino un’accurata pulizia del<br />
tartaro ed emesso grassa fattura.<br />
Le figlie. Erano due e furono sentite entrambe. <strong>La</strong> più giovane<br />
frequentava il liceo, l’altra la facoltà di lettere.<br />
A casa delle due ragazze, che aspettavano la madre in<br />
vestaglia e maglietta, Ietta ci mandò due fidatissimi con delega,<br />
e leggemmo il verbale dopo circa due ore. Risultò decisamente<br />
più rapido dare voce alle figlie, che si trovavano in un<br />
21
quartiere sì periferico, ma non così lontano dalla via del centro<br />
in cui era avvenuto l’omicidio, piuttosto che acquisire le<br />
dichiarazioni della madre presso lo studio dentistico.<br />
Lessi anch’io il primo verbale, come mi chiese di fare il<br />
capo. Non volevo sembrare invadente, ma me lo chiese il<br />
capo e io lessi ogni parola con scrupolo. Verbali come quelli,<br />
sono sempre il frutto della collaborazione tra il chierichetto e<br />
il parroco. Mi spiego meglio: è il parroco, cioè il magistrato,<br />
che detta le regole per la stesura dei verbali, perché la verità<br />
ha la sua sintassi, proprio come ogni credo. Il chierichetto,<br />
cioè i carabinieri o chi per loro, devono celebrare il rito nelle<br />
sue giuste forme, collaborare, portare il calice e suonare il<br />
campanello. Se un elemento, un evento, un dettaglio, uno<br />
sguardo significativo, un inciampo, una titubanza, non viene<br />
adeguatamente incartata nel verbale, non entrerà mai nel processo.<br />
Sarà una verità che non esiste. Un’occasione sprecata.<br />
Il chierichetto è importante quanto il parroco, anche se il<br />
vestito è diverso.<br />
Il contenuto degli atti era piuttosto interessante. Le due<br />
ragazze conoscevano la vittima solo di vista, dicevano. Non<br />
erano attratte dall’attività commerciale della madre, attività<br />
che la stessa aveva ereditato dal nonno, un mezzo prete, come<br />
dicevano le due simpatiche nipotine. Prima, nei tre locali<br />
della libreria, le pulizie le faceva una vecchia nana, alta tre lattine<br />
al massimo, che poi aveva lasciato per ragioni di salute e<br />
così si era messo in mezzo il Corietti; non sapevano come.<br />
Parlavano di lui con astio. Sembrava spuntato dal nulla quest’intruso.<br />
Dalla nana al vatusso. <strong>La</strong> nana era stata a suo<br />
tempo sostenuta dalla Curia, mi ci gioco le palle; il Corietti<br />
vatusso chissà da chi. Ma del vatusso parlavano malvolentieri,<br />
chi lo conosceva quello?<br />
Il negozio andava bene, così pareva, ma sarebbe stato<br />
meglio trasformarlo in una birreria, dicevano. Quando era<br />
vivo il padre, per la loro mamma era più facile organizzare il<br />
tutto, ma da due anni era rimasta sola. Casa, negozio, contabilità.<br />
Una gran stanchezza dopo le 22, tutte le sante sere i<br />
soliti rituali, un’angoscia notturna che, simile a un’idrovora,<br />
sembrava staccare persino la carta da parati dai muri. <strong>La</strong><br />
22
vedova si faceva aiutare se poteva, ma non bastava mai; così<br />
era sempre incazzata e le figlie pure. Nessuna parola in più,<br />
solo biancheria usata nel cesto della roba da lavare.<br />
Abbandoni reciproci, poco prima della resa.<br />
Ora, non è che io avessi avuto esperienze dirette con figlie<br />
adolescenti, ma che le due non fossero in armonia con la<br />
madre era lampante. Il verbale, dattiloscritto senza una virgola,<br />
era lineare; non richiedeva particolari sforzi interpretativi.<br />
<strong>La</strong>mpante, ma non così inatteso. Dicono che sia normale,<br />
anzi. Tutte uguali le storie sull’adolescenza al femminile, sull’esigenza<br />
di cancellare una donna, la madre, per crearne<br />
un’altra, la figlia. Inconciliabili fino alla vecchiaia. Quelle due<br />
non sapevano quale fosse la sostanza di cui era composta la<br />
vita della madre, le difficoltà non erano condivise; la morte<br />
del padre, solo una circostanza. Un’indagine come quella in<br />
corso, inoltre, rappresentava per loro un ulteriore fastidio,<br />
niente di più. Le disgrazie non vengono mai da sole.<br />
Fin qui d’accordo, ma anche a voler leggere piano, quello<br />
appariva ugualmente un testo reticente. Un tavolo senza una<br />
gamba. Troppe poche virgole. Dicevano di non avere messo<br />
piede nel negozio della madre neppure una volta negli ultimi<br />
tre anni, di non ricordarne neppure la disposizione dei muri.<br />
Non volevano dir nulla del negozio, dei clienti, degli orari di<br />
lavoro, se l’attività fruttava o meno, se la madre aveva problemi<br />
economici, sui nomi dei fornitori. Dicevano di non sapere.<br />
Immaginavo due giovani facce lisce, devastate da smorfie<br />
asimmetriche e punti neri, con le spalle strette che vanno su e<br />
giù. I capelli, fitti e fermi, sulle teste piccole da cartone animato<br />
giapponese. Le gambe nervose. Quell’aria di chi ha ben<br />
altro per la testa, ed è ben consapevole del fatto che la sua<br />
noia massima e collosa è colpa di altri. <strong>La</strong> grande aveva i<br />
brufoli e un fidanzato all’università. <strong>La</strong> piccola aveva perso<br />
un anno a scuola, diceva che voleva fare l’alberghiero o in<br />
alternativa trovare un lavoro; non frequentava nemmeno la<br />
parrocchia sotto casa. No, non si respirava decisamente un<br />
clima mistico. Chi le aveva viste in faccia, raccontò che sbuffavano<br />
entrambe a ritmo binario. <strong>La</strong> piccolina aveva i capelli<br />
rasati, fitti ma non più di un paio di millimetri a proteggerle<br />
23
la scatola cranica come un prato; verdi, verdi i fragili bulbi, di<br />
un verde bandiera che sulla punta diventava fosforescente, e<br />
una piccola farfalla viola tatuata sulla nuca. Dissero che, per<br />
tutto il tempo, aveva tenuto le dita dietro la schiena, con le<br />
scapole a sporgere aguzze, due gote concave e fucsia da bambola<br />
di porcellana, e la farfalla tatuata in agitazione. Primo<br />
piano: un sorriso in playback sopra i denti, destinato all’interlocutore.<br />
Il verbale era lungo quattro pagine.<br />
Quando leggemmo i verbali eravamo ancora tutti disciolti<br />
nella penombra acida della libreria, e di diverso, rispetto al<br />
nostro arrivo sul posto, c’era soltanto il cadavere, successivamente<br />
coperto con un lenzuolo e tolto agli occhi. Eppure,<br />
erano trascorse alcune ore. Ci muovevamo come pesci di<br />
notte in un acquario. Eravamo più caldi e più lenti. Stupidi<br />
anche noi investigatori.<br />
<strong>La</strong> strada invece si era totalmente rinnovata. Imbellettata<br />
come una ballerina. Anche Ietta era venuto fuori a guardare<br />
coloro che eseguivano i suoi ordini, intervistando i passanti,<br />
senza microfono. Adesso, in strada, dopo la pioggia, erano<br />
spuntati banchetti di oggetti etnici proprio sul marciapiede di<br />
fronte, davanti ai nostri occhi da pipistrello; gattoni di caucciù<br />
acciambellati, giraffe con il collo di tek, batik stesi su teloni<br />
di plastica trasparente.<br />
“Hai visto i negretti, dimmi, hai visto? Ieri da quelli abbiamo<br />
preso una bella commedia americana appena uscita in<br />
sala. Non mi ricordo il titolo del tarocco, c’era quell’attore lì,<br />
quello bello che fa la pubblicità; sai quale, no? Quello! Mia<br />
moglie ci perde la testa, come si chiama? È lei che l’ha preso<br />
quel film, perché io, mai…”. Il capo fumava ed era impercettibilmente<br />
su di giri. Dieci anni fa. Non ricordo bene la tecnologia<br />
che ci abitava dieci anni fa. Videocassette. Senz’altro.<br />
Qualcosa già c’era e forse già mi stupiva.<br />
Ietta disse che avrei dovuto considerare una fortuna il fatto<br />
di essere da solo in città, perché ci sarebbero stati di certo<br />
degli orari di lavoro più pesanti nei prossimi giorni. Le mogli<br />
non sempre tollerano certi strascichi, disse il capo, e sulla<br />
parola moglie fece una pausa respirando e spingendo il collo<br />
24
indietro. Solo lavoro, molto lavoro? Nessun problema per<br />
me. Beato me. Beatissimo me.<br />
Qui la faccenda è grossa andava ripetendo, bucando con la<br />
penna le pagine dell’agenda. Ne era sorpreso. Ci sono casi<br />
che ti piacciono e altri che non ti piacciono. Casi ordinari e<br />
casi straordinari. Il nostro lavoro non è sempre uguale.<br />
Sul tardi un furgone metallizzato tirò il freno a mano proprio<br />
davanti al negozio. Ne scesero due tizi robusti con zuccotto<br />
di lana. Non erano infermieri; venivano dall’obitorio,<br />
credo, per portar via il cadavere. Non guardai il corpo che se<br />
ne andava; del resto, da quando era stato coperto, già non<br />
c’era più. Fecero in fretta, mentre la polizia teneva lontano i<br />
curiosi allargando le braccia. Il sangue rimase. Il sangue non<br />
si lava. Il medico legale, Madame Bisturi, era andata via molto<br />
prima. Si sarebbe interessata successivamente delle altre analisi<br />
sul corpo, aveva assicurato.<br />
Il cadavere di un uomo non resta a lungo; ha sempre fretta<br />
di scomparire, sia a causa di chi l’ha fatto fuori, sia per il<br />
pudore di chi lo guarda. C’è poco tempo, quindi, per guardare<br />
un cadavere, tanto quanto ce n’è per guardare davvero se<br />
stessi. L’idea della morte è un piccolo scalino non visto, un<br />
vuoto d’aria rapidissimo, il dislivello. Dura un secondo. Non<br />
è mai attuale, contemporanea, perché il corpo si trasforma<br />
subito, già nelle sfumature di colore, e la morte diventa immediatamente<br />
una cosa del passato. Per non parlare dei percorsi<br />
che fa il sangue quando finisce fuori. Fasi diverse. E l’odore,<br />
poi? No, l’odore nuovo arriva soltanto dopo, non è veloce<br />
come la morte.<br />
Quando ce ne andammo, aveva ripreso a piovigginare.<br />
Con minore rabbia, come a recuperare fiato dopo una corsa.<br />
Dovemmo scavalcare il perimetro critico segnato dalle strisce<br />
di plastica con le diagonali bianche e rosse, che sfregiavano la<br />
zona sotto sequestro. Qualcuno le scavalcò, altri passarono<br />
sotto. Questione di allenamento o di autostima.<br />
Per tutta la mattinata non avevo tolto il mio giaccone blu<br />
e, solo uscendo, mi accorsi che faceva freddo. L’autista, buon<br />
Agrimi, era ritornato a prenderci per portarci in ufficio. Ietta<br />
25
disse che andava a mangiare un boccone e poi si rimetteva al<br />
lavoro. Mi chiese se volevo assistere all’autopsia fissata per il<br />
giorno dopo. Mi piovevano gocce d’acqua sulle labbra.<br />
L’autopsia mi disse. Risposi di no, salvo poi pentirmene un<br />
istante dopo. Che cavolo di inettitudine! Mio padre non si<br />
sarebbe fatto scappare l’occasione. Se ci fosse stato lui, mi<br />
avrebbe detto: Nicola, non è questo il momento per dire di no,<br />
Nicola, non puoi tirarti indietro. Non puoi. Il rischio di vomitare<br />
non era una buona scusa per il primo rifiuto.<br />
Erano le 15.30, più o meno, non mi sbaglio, del primissimo<br />
giorno. Ci salutò anche l’Agrimi, che lasciava in garage la<br />
vettura d’ufficio e prendeva la sua Fiat. Allora dottore arrivederci,<br />
io vado, ho segnato lo straordinario, va bene, no?, due<br />
ore giuste giuste.<br />
26
II CAPITOLO<br />
<strong>La</strong> casa dava ad Otto un senso di solidità; era una<br />
sensazione come di una mano poggiata con fermezza<br />
sulle reni.<br />
Paula Fox<br />
“Allora, Nicola? L’hanno ammazzato, vero? Non è stata<br />
una morte accidentale!”<br />
“E no, certo che no. Vorrei vedere io! Trentotto coltellate!”<br />
“Una cosa di preti?”<br />
“Non possiamo dire ancora”.<br />
“Secondo me sì, i preti. È chiaro scusa: a quell’ora il negozio<br />
era chiuso e qualcuno è entrato dal retro, mentre la vittima<br />
spazzava in terra. Hai detto che c’era un passaggio interno<br />
tra la Curia e il negozio, no? Sono entrati da lì. Chi altri<br />
vuoi che frequenti una libreria come quella? Cosa vende?<br />
Bibbie rilegate in pelle umana? Dai, è un caso facile”.<br />
“Non è facile, Angela. Adesso così, al telefono, è chiaro!<br />
<strong>La</strong> fanno tutti facile a parole, appena si parla di ammazzamenti.<br />
Che fai? Parli come le signore in fila al supermercato?<br />
Anzi, ti dico di più, questa è una faccenda per la quale la<br />
Procura ci perde la faccia”.<br />
“Fosse una cosa americana mi diresti: non preoccuparti<br />
baby, lo prenderemo!”<br />
“Non ti preoccupare: lo prenderemo, baby!”<br />
“Meraviglioso!”<br />
“Ripeto? Baby, baby…”<br />
“Sublime”.<br />
“Di nuovo? Se vuoi… ?”<br />
“No, basta così”.<br />
27
“Già finito? Miseria, che rapidità”.<br />
“Sarà complicato gestire i rapporti con la Chiesa. Lo<br />
immagino, ci vorranno grandi doti diplomatiche. Brrr… Non<br />
vorrei essere al vostro posto. I preti sono tosti. Sono peggio<br />
dei magistrati. Scusa… Senti una cosa: ma la porta, quella<br />
interna, era aperta?”<br />
“Bella domanda. Sono lieto che almeno tu ti preoccupi<br />
delle porte. Il problema è che i carabinieri non saprebbero<br />
cosa rispondere a una domanda come questa. Ci pensi? Loro<br />
sono arrivati per primi sul posto, e non sanno niente di porte.<br />
Pazzesco! Sono arrivati lì per una segnalazione di un passante<br />
che aveva sentito degli strani rumori. Già questo, dico io,<br />
che cosa si intende per strani rumori, cioè? Sono arrivati e<br />
non si ricordano se la porta era chiusa a chiave o no, se dall’interno<br />
o dall’esterno. Sono venuti per cercare i rumori”.<br />
“Assurdo”.<br />
“Ecco, non si ricordano nemmeno se le luci, nei diversi<br />
ambienti, erano accese o spente. Quelli, saranno stati in cinque,<br />
arrivati a breve distanza gli uni dagli altri, sono entrati lì,<br />
hanno visto il cadavere e oooh, che spavento! Che orrore! E<br />
non ci hanno capito più nulla. Hanno cominciato ad aprire<br />
porte, chiudere porte, accendere luci, spegnere luci. A casaccio”.<br />
“Ma sono pazzi? Era il primo cadavere anche per loro?”<br />
“Non so io, e che ne so? Ma no, dai, non credo”.<br />
“Hanno toccato qualcosa?”<br />
“Sì, con i guanti però, attenti alle impronte, per carità.<br />
Eppure hanno inciso ugualmente sull’ambiente, hanno modificato<br />
lo stato dei luoghi, anche se non hanno lasciato<br />
impronte. Mica esistono solo i polpastrelli, dico io! Sì, buonasera,<br />
che credi, per quelli esistono solo le impronte, non<br />
sanno pensare ad altro che alle impronte. Altro che facile!”<br />
“Quindi?”<br />
“Niente. Hanno cominciato subito a fare errori. Ecco qui.<br />
E non se ne sono nemmeno accorti. Se facevi domande, facevano<br />
spallucce. E dire che noi della Procura ci siamo precipitati<br />
sul posto prima che fosse troppo tardi. E quelli già lì a far<br />
danni!”<br />
“E sei arrabbiato per questo?”<br />
28
“Non so. Dovrei secondo te?”<br />
“No, non credo”.<br />
“E infatti”.<br />
“Hai detto che un tipo ha sentito rumori?”<br />
“Sì, uno che passava. L’hanno pure interrogato: aveva sentito<br />
dei rumori strani provenire dal negozio. <strong>La</strong> serranda non<br />
era chiusa, ma dice di non aver visto niente. Nessuno che<br />
entrava, nessuno che usciva. Hanno tirato giù i suoi dati. Per<br />
sentirlo di nuovo. Non si sa mai. Sono fondamentali gli ultimi<br />
istanti prima del trapasso. O no? Dobbiamo interrogare<br />
un sacco di gente. Rumori dice quello, mica urla, no, dice<br />
testualmente rumori. Ma come sono i rumori, chiederei io?<br />
Sono tonfi, sono sedie spostate sul pavimento, sono oggetti<br />
che cadono e si rompono, o cadono ma non si rompono…”<br />
“L’hai sentito anche tu quello dei rumori strani?”<br />
“No, ma non conta; era uno di passaggio. Per lui bastavano<br />
i carabinieri”.<br />
“Perché non te l’hanno fatto sentire? Così cominciavi a<br />
fare qualcosa di serio”.<br />
“Bastano i carabinieri per quello lì, ti ho detto…”<br />
“Nessuno è entrato, nessuno è uscito. Hai visto che è questione<br />
di preti? I preti stavano già dentro”.<br />
“Quali preti?”<br />
“Non so: un prete”.<br />
“Ma quale prete?”<br />
“Nessun altro elemento?”<br />
“Per ora, nadadenada. Ti ho detto: quello delle pulizie, la<br />
proprietaria, le figlie. Basta. Hanno sentito i passanti, perché,<br />
è chiaro, si cerca qualcuno che frequenti abitualmente quella<br />
zona, quella strada, che possa aver visto qualcosa”.<br />
“Perché?”<br />
“Come perché? Per cominciare”.<br />
“C’è stata qualche dichiarazione interessante, come quella<br />
storia della vecchia”.<br />
“C’è una vecchia?”<br />
“Sì, una vecchia, ma ci servono ulteriori riscontri. Già da<br />
domani mattina. Per ora piedi di piombo, come avrebbe<br />
detto mio padre”.<br />
29
“Tuo padre non avrebbe detto così”.<br />
“E cosa avrebbe detto mio padre?”<br />
“Non questo. Non so. Tu tendi a modificare l’interpretazione<br />
della realtà a tuo favore”.<br />
“Cioè?”<br />
“<strong>La</strong>sciamo stare”.<br />
“Senti qui: la cosa è complessa, c’è poco da dire o fare. Ci<br />
sarà molto da lavorare questa volta, l’ha detto pure Ietta.<br />
Molto da lavorare. Quindi”.<br />
“Allora non torni venerdì? Ringraziamo sua eccellenza per<br />
questo. Del resto, se lavori lontano da casa lo dobbiamo agli<br />
amorevoli consigli di sua eccellenza Padre Nostro. Il tuo.<br />
Vorrà dire che lavoro anch’io il fine settimana. Resto in studio;<br />
non torno a casa nemmeno a mangiare. Tanto…”<br />
“Ne abbiamo parlato un mare di volte, credevo che avessimo<br />
trovato un’intesa, che avessi capito che era una mia esigenza.<br />
Che mio padre non c’entra un tubo”.<br />
“Ma dico io: non ti manca il tuo ambiente? Ma a chi<br />
appartieni davvero, tu?”<br />
“E chi ha detto che non mi manca?”<br />
“Faceva schifo il cadavere?”<br />
“Il cadavere non faceva propriamente schifo, era invadente,<br />
piuttosto. Cioè, ti spiego meglio: se c’è un corpo sul pavimento,<br />
non c’è nient’altro. Il corpo è dappertutto. Non è che<br />
poi il corpo, così come era, potesse raccontare molto dei fatti<br />
accaduti. Uno scempio. Troppe ferite, soprattutto sul volto,<br />
fanno pensare a una collera esplosa all’improvviso, al desiderio<br />
prepotente di cancellare qualcosa”.<br />
“Secondo te l’assassino doveva essere un tipo robusto, cioè<br />
uno con una buona dose di forza nella braccia?”<br />
“Un uomo. Magari due. Non si sa, non si sa niente. Non si<br />
può dire se è stato colto alle spalle, né se si è difeso. Se è rimasto<br />
dietro il bancone dove era o ci è finito in un estremo tentativo<br />
di salvarsi dalla furia dell’assassino. Tutto sommato un<br />
cadavere ridotto così fa abbastanza schifo”.<br />
“Residui organici sul corpo? Tipo sudore, saliva, altre fibre<br />
o moccio dal naso?”<br />
“A questo ci pensano i Ris”.<br />
30
“Ma come è possibile che in casi come questi non venga<br />
mai fuori?”<br />
“Chi, l’assassino?”<br />
“No, parlo dell’arma del delitto”.<br />
“Ah”.<br />
31
III CAPITOLO<br />
<strong>La</strong> storia della vecchia matta era venuta fuori per caso.<br />
Camminava sull’asfalto a un fiato dalle auto in corsa. Ciocche<br />
stoppose sfuggivano al giogo della crocchia; tende bianche e<br />
lunghe fino al mento. Si appoggiava all’ombrello semi aperto.<br />
Le pantofole nelle pozze d’acqua, a bere. Tremolante la linea<br />
segnata dai passi. In mano un mazzetto di immagini sacre raffiguranti<br />
il martirio di Santa Lucia, tenute insieme da un elastico.<br />
Da distribuire: una figurina, una parola; un’immagine,<br />
una moneta da cinquecento lire. I carabinieri la fermarono<br />
perché incuriositi dal suo accento siciliano ancora intatto,<br />
dalle grida insensate che emetteva rivolta ai cani randagi e dai<br />
santini che aveva in mano. Era indiscutibilmente fuori posto.<br />
L’equazione fu immediata: santini = libreria di articoli sacri.<br />
Furbastri, questi caramba. Alla vista delle forze dell’ordine, la<br />
vecchia agitò l’ombrello in aria. Io la vedevo attraverso i vetri,<br />
dall’interno del negozio, moltiplicata per quattro nell’angolo<br />
in alto a sinistra della vetrina, tra scheletrici raggi di sole e<br />
pizzi d’altare. Poco dopo l’incontro con noi, quelli della giustizia,<br />
come ci chiamò, lei cominciò a straparlare a voce alta<br />
di cose tipo gli occhi perfetti di Dio, vergini innocenti, inconsapevoli<br />
martiri. Era colta da ispirazione divina. Se avesse<br />
avuto tra le dita bitorzolute e raggianti un pennello, chissà<br />
che quadro! A mio avviso, al di là delle apparenze, quella, per<br />
lei, era stata una mattina come le altre, fino al nostro incontro.<br />
32<br />
O fondare lo Stato sulla verità non è altro che un<br />
bel sogno? Soltanto al cinico la risposta riesce facile.<br />
<strong>La</strong> società aperta dello stato costituzionale è<br />
consegnata al nesso “prova ed errore” proprio<br />
perché l’uomo stesso è un essere fallibile?<br />
Certamente: e tuttavia, lo Stato non si fonda forse<br />
su un minimo di verità, in altri termini, la sua tolleranza<br />
non ha forse certi limiti ultimi proprio perché<br />
non può esservi tolleranza senza una corrispondente<br />
pretesa di verità?<br />
Peter Haberle
Ma attenzione all’ombrello.<br />
Pioveva, quindi la vecchia aveva un ombrello. Normale,<br />
d’accordo, ma l’ombrello era sporco di sangue. Sulla punta,<br />
sotto la stoffa: macchie rossastre. C’erano delle macchie, lo<br />
vedemmo pressoché subito; che fosse sangue si determinò<br />
solo tempo dopo. Ma questa è storia successiva ed è meglio<br />
non divagare.<br />
Macchie, dunque, la cui origine era da accertare. Prima di<br />
parlare, la vecchia volle piazzare un santino anche al maresciallo.<br />
Ci teneva; non avrebbe detto una parola altrimenti. Se<br />
ne stava statuaria con la testa piegata di lato e l’occhio perso<br />
in uno sguardo nuvoloso, con la mano tesa, e ogni tanto dava<br />
al polso una spintarella in avanti, in sincronia con il movimento<br />
verso l’alto del mento spellato: ecco il santino, eccolo, ogni<br />
minuto che passava il sacro foglietto si faceva sempre più tremulo<br />
e si avvicinava alla faccia del maresciallo. Il pancione<br />
Garzia, sempre lui, sembrava spazientirsi. <strong>La</strong> fece sedere con<br />
tono fintamente categorico, mentre si infilava in tasca il santino<br />
stropicciato. Mai rifiutare un santino. Le monete, invece,<br />
le teneva nella tasca di dietro dei pantaloni, mettendo Dio e<br />
Cesare a stretto confronto, intorno al suo ampio girovita.<br />
<strong>La</strong> fecero entrare nell’oscurità della libreria, perché farla<br />
parlare con calma a quel punto era diventato importante.<br />
Aveva avuto ragione il capo: cercare passanti nel vociare<br />
distratto della strada si era rivelata una necessità. Arrivavano<br />
i primi risultati, infatti.<br />
Seduta all’interno del negozio, la vegliarda bizzarra si<br />
guardava intorno con le guance gonfie d’aria. Sulla pelle<br />
aveva una complessa geografia di vecchie efelidi e di chiazze<br />
rosse d’affanno e gelo.<br />
Mi avvicinai. Mi sembrava un atto semplice la gentilezza,<br />
ma non così tanto tintinnante.<br />
“Lei è un giudice? Così giovane? Giovane come Cristo.<br />
Un giudice che giudica. Paura non ce l’hai, giudice? Fai male,<br />
spaventati giudice, perché bisogna avere paura, sempre”.<br />
“Sì, ho paura, giuro. Ma lei signora ci deve aiutare”.<br />
<strong>La</strong> vecchia parlò proprio con me. Mi disse che era originaria<br />
di Palermo e che molti anni prima aveva seguito il marito<br />
33
lontano dalla sua isola. I pazzi e i criminali spesso sono meridionali.<br />
Ancora numeri. Forse in passato, adesso però assistiamo<br />
a una strana inversione di tendenza. Adesso non è più<br />
vero. Veniva dal sud, ma era diventata matta al nord. <strong>La</strong> pazzia<br />
era di natura meridionale? Non so. Un sospetto, il mio.<br />
Le primissime volte nella città del praticantato, io il sospetto<br />
l’avevo avuto. C’erano strade che avevano la consistenza di<br />
quelle tende plastificate che si mettono intorno alle docce a<br />
schermare la vista; quelle coi pesci rossi o le conchiglie, che<br />
catturano gli schizzi d’acqua, li trasformano in goccioloni e li<br />
lasciano scivolare lentamente. Opache, lasciano intuire senza<br />
fare vedere, velano il mondo sotto il getto, bollenti su un lato,<br />
gelide sull’altro. Isolano un corpo da un altro. Danno l’idea<br />
dell’altrove più segreto, lubrico, pericoloso. Parlare di nebbia<br />
non bastava in quella città: la tenda smorta attutiva persino i<br />
suoni, lo scroscio dell’acqua, la voce, la vita. Così. A vivere<br />
imbozzolati e lontani, il rischio di diventar matti c’è, eccome<br />
se c’è. Poi, dopo le 20, nessuno in strada: la gente faceva vita<br />
domestica, non circolava, si spegneva dopo una certa ora. Mi<br />
chiedevo: chi è solo che fa? Come si protegge da quel gelo<br />
vaporoso? Chi va a trovare un uomo solo, cosa riesce a guardare<br />
con maggiore nitidezza? Come si muove nell’opacità di<br />
una città cadavere? Faceva paura persino spostarsi da un isolato<br />
all’altro. Se l’aria non concede alternative al cittadino, già<br />
questa privazione si può trasformare in un’arma: o il cittadino<br />
esce e si ammazza, oppure esce e ammazza qualcuno. Uno<br />
a caso, un barbone, un commercialista, tanto, nella nebbia, la<br />
vittima non la si può nemmeno scegliere; un corpo è uguale<br />
all’altro, ha la stessa acquosità. Il rischio c’è. Dicevano che<br />
l’origine era da ricercarsi negli Anni di piombo, poi nell’arrivo<br />
degli extracomunitari. Ma sono balle. È la nebbia il<br />
movente.<br />
Anche il sole però alle volte può scaldare troppo.<br />
Lontano dalla pioggia, al coperto, il tempo lento raccontato<br />
dalla vecchia diventava biblico e imprudente, come quello<br />
delle leggende. Crederle non era facile, nella più insanabile di<br />
34
tutte le gazzarre possibili. Parlava di un maschio, del suo<br />
potere, delle sue colpe. Probabilmente parlava del marito,<br />
sepolto in qualche dove, in un qualche momento storico. Era<br />
stata abbandonata dai figli, maschi pure loro, in una stanza<br />
del centro, in un quartiere da riscontrare successivamente.<br />
Faceva pause sui suoi figli e si muoveva, allargava le braccia<br />
quasi che sotto le ascelle si nascondesse lo strazio dell’abbandono.<br />
Conosceva bene la signora Florio della libreria, ma<br />
quel giorno non l’aveva vista. Così si chiamava la proprietaria<br />
del negozio e ancor prima che la vecchia lo pronunciasse,<br />
quel nome, mi sembrava difficile da ricordare. Ostile.<br />
Del cadavere coperto dal lenzuolo, poco scostato in là<br />
rispetto alle sue centenarie ossa stantuffanti, non si accorse<br />
neppure, la matta.<br />
Dunque: ecco la folle. Si rassomigliano tutte alla fine, cambiano<br />
solo i colori. L’avevo detto io che non poteva mancare<br />
un folle in una storia così. Nell’indagine era comparso il<br />
primo delirio. L’aspettavo al varco come una moglie a cui<br />
sono noti i vizi del marito. Compare sempre un personaggio<br />
alieno in un giallo che si rispetti, uno fuori di testa. Era lei.<br />
Le chiesero subito dell’ombrello, prima di sequestrarlo.<br />
Quando glielo tolsero di mano, rimase a guardarsi il palmo<br />
improvvisamente vuoto, prima stupita, poi sconvolta. Dalla<br />
mano bagnata passò al polso, frugando disperata sotto la<br />
manica della giacca infeltrita, poi, risalendo, si tastò il gomito<br />
e la spalla e infine cominciò a piangere. Disse che poco prima<br />
era andata a prendere una medicina contro il mal di testa e<br />
che l’aveva appoggiato a scolare nel portaombrelli, posto in<br />
un angolo della farmacia adiacente. Si doveva essere sporcato<br />
lì. Diceva che l’ombrello era suo. <strong>La</strong> macchia, invece, non era<br />
di sua proprietà. L’ombrello è mio, mio, mio. Sì, d’accordo,<br />
ma cosa davvero appartiene a una donna tipo la vecchia?<br />
Perché mai uno stereotipo doc come lei dovrebbe entrare in<br />
un negozio, un lunedì senza pioggia, e acquistare un ombrello<br />
e uscire di casa il martedì successivo, portandoselo previdentemente<br />
dietro? Da quando le matte sono previdenti?<br />
Una mattina funesta segnata come tale dall’acqua? È la pioggia<br />
che inventa gli ombrelli, non viceversa. Forse non era suo,<br />
35
ma lei avrebbe voluto che lo fosse. Ad ogni buon conto l’ombrello<br />
esisteva: un ombrello affusolato, spazioso e serio. Non<br />
potevamo fare finta di nulla.<br />
Accennammo al cadavere, ma lei pensò a un fatto accaduto<br />
molto tempo prima. Chi è morto? Non vide il corpo.<br />
Perché è morto? Si piegò in due come tagliata all’altezza dei<br />
reni. Ma quando? C’era spazio tra noi e lei, imposto dal suo<br />
naso monolitico, puntuto e scuro come un pastello appena<br />
temperato, incondivisibile; lo spazio che agita l’universo.<br />
Poi le dicemmo che poteva andare, mentre ancora elaborava<br />
il lutto con l’ultima parola rimastale sotto la lingua,<br />
masticando, masticando, ruminava con movimenti circolari e<br />
tormentati della mandibola, come dovesse ingoiare una pillola<br />
contro il mal di cuore. Non le facemmo vedere il cadavere.<br />
E la storia della farmacia? Incredibile quella storia!<br />
L’ombrello e il mal di testa. Qualcosa non mi quadrava. I folli<br />
hanno mal di testa? E se sentono dolore, si decidono a curarlo<br />
in farmacia? Sì, forse, perché no, ma non mi quadrava lo<br />
stesso. Quella bianca vecchina, sdrucita di lana, non era affatto<br />
un punto chiaro. Il gesto dell’acquisto di un’aspirina è un<br />
gesto normale, un gesto banale, ma che in apparenza nulla ha<br />
a che fare con i santi. In qualche modo era deludente e per<br />
questo non voleva convincermi. Ora, l’ingresso plateale della<br />
vecchia nella vicenda, forse il suo farneticare immaginifico,<br />
mi avevano fatto pensare a chissà quali altri miracoli.<br />
D’accordo: mi ero montato la testa.<br />
Per di più la vecchia mi ricordava mia nonna, il che non<br />
era affatto piacevole. Non fisicamente, ma nello spirito, nell’ansia<br />
della lingua. Mi ricordava la madre di mio padre che,<br />
rimasta vedova, si era trasferita a casa nostra. Fornello, corridoio,<br />
poltrona, letto: il circuito obbligato. Quando la vita si<br />
riduce alla semplice geometria di una curva che unisce quattro<br />
punti. Mia nonna era morta a quasi cent’anni, e sì che l’aveva<br />
desiderata la grande torta con i due zeri, sfuggita per<br />
così poco! Avevo convissuto con lei tutta l’adolescenza, fino<br />
a che ero rimasto nella casa dei miei. Senza un capello in<br />
testa, ormai prossima alla morte, con il viso ceruleo schiaccia-<br />
36
to sul cuscino, faceva pensare a un panetto di burro scavato a<br />
cucchiate sui due lati. Lunare. Tutt’altro che terrestre per me.<br />
Liscia come Dorian Gray, ma molle. Mi ricordo soprattutto<br />
gli ultimi mesi, al massimo l’ultimo anno di vita durante il<br />
quale, già allettata, se intuiva l’ombra di un familiare affacciarsi<br />
sulla porta della sua stanza, iniziava il suo monologo<br />
disperato fatto di urli, biascichi, bava e parole scatarranti.<br />
Imprecava contro tutti, contro il decomporsi progressivo del<br />
suo corpo, mentre la bocca, la lingua, brandelli di neuroni, si<br />
ostinavano a rimanere attivi, a corrente alternata. Alcuni vecchi<br />
sono arrabbiati, senza pietà per quanti sopravvivono loro,<br />
e muoiono zuppi di veleno. Poi c’era quella sua ostinazione a<br />
conservare tutto. A mettere da parte. Le facevi un regalo, che<br />
ne so, per Natale, per il compleanno, e lei lo metteva via,<br />
senza nemmeno guardare di cosa si trattava. Cosa è? Una<br />
camicia da notte? Un paio di pantofole? Grazie e metteva via,<br />
con ancora la confezione, in un qualche buco senza fondo<br />
dell’armadio. Metteva via, per i tempi bui, per quando ci<br />
fosse stato bisogno. E se chiedevi perché, rispondeva che lei<br />
conosceva la fame e che la roba non andava sprecata. Nella<br />
fase più avanzata delle allucinazioni da letto, mia nonna mi<br />
guardava e credeva di vedere suo marito. Il primo giudice<br />
della dinastia arguta, schiantato da un infarto nel cuore della<br />
notte. Per questo con me era eccezionalmente gentile, solo<br />
con me, con gli occhietti gialli e gonfi da lucertola che le brillavano<br />
nel vedermi. Incontri ultraterreni. Giravo a largo, se<br />
potevo. Era difficile sostenere quella visione. Se mi vedeva,<br />
non vedeva me, ma mi attribuiva un ruolo pesantissimo; di<br />
prestigio, lo ammetto, considerato che preferiva me a mio<br />
padre per impersonare il consorte. Mi vedeva, si scusava e<br />
piangeva. Si scusava per non avermi riconosciuto subito.<br />
Parlava rivolgendosi a suo marito, anche se continuava a<br />
guardare me; menzionava episodi del passato: un anello di<br />
rubini mal ereditato, che una sua sorella rivendicava senza<br />
ragione, i fagioli in pignata che bruciavano sul fuoco; una<br />
festa da ballo con abiti scuri. Mi sommergeva di racconti<br />
sconnessi e vaghi. Mi faceva pure delle domande e io zitto.<br />
Poi taceva anche lei, chiudeva gli occhi e mescolava immagi-<br />
37
ni a visioni, insoddisfatta. Anche l’ultimo giorno, in tarda<br />
serata, mi vide e disse Arturo, quanto sei bello stasera! Mio<br />
nonno si chiamava Arturo e non era mai stato particolarmente<br />
bello. Neppure mia nonna, per la verità. Quando è morta<br />
qualcuno ha aperto il suo armadio e si è rovesciata sul pavimento<br />
una quantità indescrivibile di oggetti inutili e nuovissimi,<br />
conservati in cent’anni di parsimonia. Soprattutto rosari.<br />
Legno, vetro, gesso: grani di tutte le fatture. Abbiamo dato<br />
tutto alla Caritas.<br />
Dicevo. <strong>La</strong> vecchia chiacchierona, stranezze a parte, aveva<br />
ancora in tasca una scatola di Moment; mancavano tre pillole<br />
bianche, ma non c’era nessuno scontrino. Poteva averle<br />
comprate quella mattina stessa o venti giorni prima. Nulla<br />
provava nulla. Lei si rigirava tra le mani la piccola scatola con<br />
i bordi blu per farcela vedere; le sue dita erano come bastoncini<br />
per cibo cinese, orribili. Raccontava della faccenda del<br />
proprietario della farmacia accanto, originario della<br />
Giordania. Quello che le dava le caramelle all’orzo gratis,<br />
quando ci passava la mattina.<br />
Ma procediamo per gradi. I carabinieri stavano interrogando<br />
tutti i negozianti della zona che potessero riconoscere<br />
un viso, narrare un gesto utile all’indagine. A tappeto.<br />
Negozi, venditori ambulanti, il giornalaio, il fioraio, il panettiere,<br />
un paio di massaie che facevano la spesa, facce che<br />
apparivano abituali.<br />
In farmacia però ancora non ci erano entrati e fu la vecchia<br />
a parlare per prima dello straniero. Il proprietario era un<br />
baffone. Un classico, l’esotico col baffo mogano. Inconsueta<br />
invece una farmacia in Italia gestita da un giordano. <strong>La</strong> calotta<br />
cranica del Ietta arrossì di curiosità sotto i capelli.<br />
Andate a dare uno sguardo, subito.<br />
Vista la reazione del capo, andammo immediatamente in<br />
farmacia e la vecchia venne con noi. Accadde tutto in quelle<br />
poche ore di luce solare strizzate dall’evento.<br />
Prima della farmacia, la strada: eccola. Ogni volta che,<br />
dopo essermi trattenuto a lungo nel covo del ragno, venivo<br />
38
fuori, mi colpiva il riverbero della strada. Era successo più di<br />
una volta quello stesso giorno.<br />
L’ultimo movimento prima di chiudere la mattinata di<br />
lavoro fu la visita dal farmacista. Il cadavere se ne era andato,<br />
ormai. Perduto per sempre. Non so se diretto al policlinico o<br />
in obitorio, ma ormai era morto per davvero. Non era più tra<br />
noi. Amen. Rimanevano i luoghi e il pensiero di quella faccia<br />
di uomo stracciata in più punti, come un foglio di giornale.<br />
<strong>La</strong> comprensione dei fatti, il corpo e gli eventuali residui da<br />
rintracciare sullo stesso, avevano la consistenza dei cubetti di<br />
ghiaccio che si sciolgono velocemente dentro un bicchiere<br />
vuoto. Come l’acquetta sporca e zuccherata che resta sul<br />
fondo, dopo aver buttato in gola il resto. Fare presto, fare<br />
presto! Tanto il ghiaccio si scioglie comunque secondo i sui<br />
tempi imprescindibili.<br />
Il tempo continuava a scorrere. Comunque. D’accordo la<br />
farmacia, ma la strada, pure, non era un fatto da niente. Il crimine<br />
risente del luogo in cui avviene. L’assassinio mi faceva<br />
pensare a un colpo di mazza ferrata su una cristalliera con<br />
ninnoli di Boemia. Un evento imprevisto, quasi inaccettabile,<br />
considerata l’aura di sacralità che adornava il quartiere. Una<br />
bella strada, non un vicolo buio, teatro scontato per misfatti<br />
e nefandezze. No. Al contrario. Roba da ricchi. Qui anche l’asfalto<br />
era lucido. Sarà stata tutta la pioggia, ma la strada era<br />
più che specchiante; le massaie carine per forza, di quella<br />
media borghesia colta poco prima dell’estinzione ufficiale,<br />
con piccoli tacchetti lucidi nelle pozzanghere e bimbetti verso<br />
la scuola con zaini lucidi. Lucida l’incerata gialla dell’operatore<br />
ecologico che spazzava le rughe ai marciapiedi e raccattava<br />
incarti di ex pasticcini alla crema. Il sole rinveniva dal<br />
torpore ferrigno e colpiva lucide carrozzerie di auto, da poco<br />
uscite dalla concessionaria. Il cadavere grondante, e così poco<br />
lucido, era un affronto bello e buono a un luogo così elegante.<br />
Una novità.<br />
Del resto, se avevo scelto quella città e quel lavoro era per<br />
un bisogno di cambiamento. Non mi va di inventar storie sul<br />
punto; Angela sa bene come stanno le cose e ancora oggi ci fa<br />
39
dell’ironia facile, quando la nostra vita sembra rallentare e<br />
incatenarsi. Mi spiego. Era una forma difficilmente sopportabile<br />
d’infantilismo cronico il mio bisogno continuo di cambiamento,<br />
che solo da poco va allentando la sua morsa. Un tic<br />
che anche mia moglie Angela faticava a tollerare. Era espressione<br />
del mio fluire verso. Ho bisogno di seguire un movimento<br />
e di ricondurre il nuovo al vissuto, interpretandolo,<br />
giustificandolo. Non mi sopporto nella staticità. Tendo al<br />
movimento e mi muovo timoroso verso la perfezione, ammesso<br />
che sappia riconoscerla. Angela ne ha le palle piene. Non<br />
posso biasimarla: lo so che lei è terrorizzata dai possibili fuori<br />
pista, dal vagone impazzito che deraglia, dalle modifiche al<br />
canovaccio imposto. Io invece svicolo, inseguo, e poi riporto,<br />
come i cani, la pietra al padrone. Questo spostamento in<br />
avanti, o indietro, o di lato, scomposto e vago, comunque,<br />
non voleva dire buttare alle ortiche il passato, no, tutt’altro:<br />
cumulavo il vecchio al nuovo. Facendone nuove sintesi.<br />
Senza perdere nulla. Aggiungevo. Mi tenevo tonico. Sentivo<br />
l’esigenza di dirmi adesso è diverso. <strong>La</strong> fissità mi svuotava.<br />
L’orizzonte degli eventi che tutto ingoia, pure. Sintonizzavo<br />
l’interno in ebollizione, sull’esterno sconosciuto; correggevo<br />
il caos e così stavo meglio. Coglievo le diversità altrui, tutto,<br />
tutto il possibile, e lo portavo nel mio buco nero.<br />
Ossessionato dagli altri, quanto da me. Eppure, fare quelle<br />
valigie, che tanto amavo, nonostante tutto, mi costava fatica,<br />
un piccolo pungente dolore. E sì e no. Sì e no, sì e no. Troppo<br />
difficile soddisfarmi. Che uomo enorme ero, per quanto interessante,<br />
credo. Un uomo interessante. Sì. Comunque.<br />
Credo. Non era mai accaduto che rinunciassi. Mi sarei preso<br />
a sputi in faccia se fosse accaduto, e subito dopo avrei ricominciato,<br />
come un matto.<br />
Soprattutto dieci anni fa. Allora ero allo spasimo. Adesso<br />
forse va meglio: controllo gli eccessi del vizio di esserci. Ma in<br />
quegli anni godevo a pieno di una fretta scivolosa, la mettevo<br />
sotto i tacchi, convinto di regalarmi così un passo più fascinoso.<br />
Dunque dicevo, la strada. <strong>La</strong> strada dell’omicidio era<br />
nuova per me. Mi eccitava. I palazzi, alti, antichi, erano infil-<br />
40
zati dal sole che a tratti compariva, come una scatola colpita<br />
dall’alto, scoperchiata all’improvviso.<br />
Lungo quella strada, sullo stesso lato della libreria, c’era la<br />
farmacia. Attraente l’ingresso a vetri colorati. Il proprietario<br />
era di origini giordane, ma viveva in Italia ormai da anni. A<br />
parte il baffo scuro e l’occhio di tartaruga, non avrei mai<br />
detto che fosse straniero. Sì, forse qualcosa nell’accento, di<br />
vagamente languido, ma oramai c’è ovunque un tale mescolarsi<br />
di colori e suoni e voci, che non ci si fa caso; niente è<br />
veramente diverso ormai, tutto è decodificabile.<br />
Dieci anni fa lo straniero era più straniero.<br />
Lui accolse le divise con un certo affanno. Buongiorno. Un<br />
affanno reciproco. Buongiorno. Eravamo in quattro: io, due<br />
carabinieri e la vecchia. Cercammo subito il portaombrelli; ce<br />
lo indicò la vecchia, che si voleva fare parte diligente. Era nell’angolo<br />
vicino alla porta d’ingresso liberty, che ben si faceva<br />
sentire, din din, ad aprirla.<br />
Il portaombrelli? Analisi accurata. Attenzione. Il portaombrelli<br />
in ferro battuto color canna di fucile era pulito. Non<br />
solo pulito, cioè privo di macchie. No, era proprio lindo,<br />
lustro, tirato a nuovo. Quasi profumava per l’occasione. Una<br />
giornata di pioggia intensa e il portaombrelli era pulito. Non<br />
c’erano ombrelli a sgocciolare e questo era tutto sommato<br />
normale per il momento, visto che non c’era un solo cliente,<br />
ma non c’erano neppure residui d’altre scolature precedenti.<br />
Stranissimo. Come era possibile?<br />
Le cose erano due: o l’ombrello della vecchia si era macchiato<br />
a contatto con altro oggetto macchiato, contenuto nel<br />
portaombrelli, così come la stessa dichiarava, oppure lo stesso<br />
ombrello era già macchiato e, in questo caso, avrebbe<br />
dovuto di certo macchiare il fondo del portaombrelli. In<br />
entrambi i casi, il fondo del portaombrelli avrebbe dovuto<br />
essere macchiato. Era una questione di forti probabilità. Era<br />
ugualmente improbabile, mi pareva, che in farmacia non<br />
fosse entrato neppure un cliente nell’intera mattinata. A febbraio,<br />
pioggia, raffreddori. Le farmacie dovrebbero essere<br />
piene come le panetterie al mattino. Strano davvero. Il portaombrelli<br />
avrebbe dovuto essere quantomeno un po’ bagna-<br />
41
to. Invece il metallo rifletteva le nostre facce sconcertate.<br />
Chiedemmo conferma al giordano circa i racconti della vecchia,<br />
che dondolava curva ancora sulla porta.<br />
“Per la verità…”<br />
Il nero delle divise, il bianco del camice; il baffo, l’ombrello,<br />
i colori avulsi dei vetri.<br />
“Certo che conosco la signora, viene qui molto spesso.<br />
Anche solo per scambiare qualche parola. Alla signora piace<br />
parlare. Capisce: i vecchi in una grande città soffrono di solitudine.<br />
I vecchi, i poveri e gli extracomunitari sono quelli che<br />
soffrono di più. Noi spesso svolgiamo anche una funzione<br />
sociale. Mia moglie soprattutto, se aveva bisogno di aiuto, la<br />
signora si rivolgeva a mia moglie. Mia moglie è italiana. E<br />
cosa vuole che le dica? Come sempre. Mi pare. Una ventina<br />
di clienti nella mattinata. Non saprei; uno più, uno meno. Le<br />
pulizie del locale sono competenza di mia moglie, per carità.<br />
Io mi devo occupare di altro. Non mi chieda. C’è una ditta<br />
che fa lavori in tutta la zona, banche, uffici, bar, e una impiegata<br />
della stessa ditta viene anche qui, nelle prime ore della<br />
giornata. Sì, siamo soddisfatti; l’igiene è importante per una<br />
farmacia. È anche un fatto d’immagine, non crede? Hanno<br />
fatto le pulizie stamattina presto, credo, mi pare”.<br />
Ma dove era questa moglie così essenziale?<br />
<strong>La</strong> farmacia si presentava bene. Tutto ciliegio, anche le<br />
scaffalature. Intenso l’odore di cannella e melissa.<br />
Precisiamo: io non sono un tipo che frequenta le farmacie.<br />
Fortuna mia e di quanti frequento con assiduità. Mi curo con<br />
la forza del pensiero. Mi sento un po’ idiota a dirlo, ma è così.<br />
Ne parlo poco e solo su sollecitazione diretta. Le medicine, il<br />
bugiardino, le polveri, gli sciroppi e le effervescenze: un orrore<br />
che alla lunga ti altera il costrutto chimico. Non voglio<br />
averci niente a che fare con certa roba. Mi sforzo di tenermene<br />
lontano. Si tenga conto che, a mio avviso, quelle ignote<br />
malattie degenerative, di cui si può avere qualche notizia solo<br />
su internet o leggendo gli atti di qualche dimenticato convegno<br />
internazionale, o per le campagne annuali tipo telethon,<br />
quelle patologie chissà da quale nostro personale inverno<br />
42
provengono. Quella roba là, secondo me, ti travolge all’improvviso<br />
proprio a causa di un inconsapevole, anche lontano,<br />
abuso di farmaci. Per debolezza, lurida umana debolezza. Se<br />
posso, evito la pasticca. Nutro sotterraneo il dubbio di voler<br />
evitare l’uso del farmaco solo per il timore che scoprirne i<br />
vantaggi immediati possa lusingarmi. <strong>La</strong> via breve. Cerco di<br />
non pensarci. Preferisco ripetermi che la malattia non esiste;<br />
rinnego il sintomo, rifiuto il malessere. Questa è una delle mie<br />
sintesi del nuovo, e oggi spaccio questa fissa per forza di<br />
carattere. Finché dura.<br />
<strong>La</strong> verità è che mi fanno schifo le varie tipologie di malanni,<br />
le infinite variabili, soprattutto quelle degli altri, di quelli<br />
che si lamentano, sospirano, dicono ahimè tutto il santo giorno;<br />
considero tutta questa robaccia una colpa, in quanto<br />
potenzialmente evitabile con un po’ di sana prudenza e<br />
buona volontà. Mio padre, per esempio, non si ammala mai e<br />
se capita, a casa è festa grande.<br />
Non ero in grado di dire se la farmacia in questione era<br />
come tutte le altre o aveva qualcosa di esotico o sospetto. In<br />
realtà mi sembrava come tutte le altre. Non un luogo che<br />
sana, ma una qualunque rivendita di cartone e plastica colorata,<br />
atta ad ammonticchiare denaro. Tempio del lucro sulle<br />
altrui debolezze. Sì, ma non ero stato chiamato a fare comizi,<br />
io. Qui si parlava di omicidio e di imprecisati residui ematici.<br />
Ci voleva molto di più di un comizio a distrarci. <strong>La</strong> prima furtiva<br />
sbirciatina non era stata sufficiente. Salutammo il farmacista<br />
dopo quella veloce conversazione, in piedi, come comuni<br />
clienti; bisognava liberare la vecchia che si faceva sempre<br />
più curva e nervosa. Ci ripromettemmo di tornare nel pomeriggio,<br />
all’ora in cui era possibile incontrare anche la moglie.<br />
Ci serviva la moglie. Assolutamente la moglie.<br />
Il capo commentò brevemente il nostro lavoro: ritornare.<br />
Voleva vedere con i suoi occhi. <strong>La</strong> moglie era fondamentale.<br />
Uno che viene dalla Giordania non mette in piedi una farmacia<br />
in Italia se non ha una moglie italiana. <strong>La</strong> farmacia è una<br />
cosa di famiglia, diceva Ietta convinto. Ma perché? mi chiedevo<br />
io.<br />
43
Ci tornammo davvero. Nel pomeriggio il buio faceva<br />
dimenticare i cadaveri. <strong>La</strong> pioggia continuava a punzecchiare.<br />
Din din. Ci infilammo dentro la farmacia, dove non pioveva.<br />
Impersonavamo, come nei film americani, io il poliziotto<br />
buono, Ietta quello cattivo. C’era una donna alla cassa con un<br />
ciuffo di lacca. <strong>La</strong> moglie, fuor di dubbio. Piacente e costruita.<br />
Appena un po’ in soprappeso; anche il marito, del resto,<br />
fasciato come un karateca nel suo camice ben cinturato in<br />
vita. Entrambi cercavano di apparire rassicuranti, piacevoli,<br />
mettendo in mostra le otturazioni. Buonasera. Non c’era un<br />
cane neppure a quell’ora, tra le scaffalature di ciliegio. <strong>La</strong><br />
pioggia era un senso d’umido sui vestiti. Guardai il portaombrelli<br />
al solito posto, lasciando pigramente che fosse Ietta a<br />
presentarsi. Chiese subito del marito: ci teneva a vederlo in<br />
faccia; la faccia dell’uno accanto a quella dell’altra, dal primo<br />
all’ultimo pelo del baffone e della parruccona rigida di resina<br />
spray. Lui era nel retrobottega a lavorare e s’intravedeva la<br />
luce gialla di una lampadina proiettata sulla parete di fronte.<br />
Lo chiami, per favore.<br />
<strong>La</strong> donna tentava d’infilarsi la ciocca bionda, dura più di<br />
una pinna di baccalà, dietro l’orecchio mentre dava voce al<br />
marito, piegando remissiva il collo. Ad intervalli parlava di se<br />
stessa. Il marito, la moglie, la moglie, il marito.<br />
<strong>La</strong> donna lavorava presso l’ufficio comunale, nel centro<br />
esatto della città, come un nocciolo di un frutto indigesto. <strong>La</strong><br />
farmacia in passato era appartenuta alla sua famiglia; dopo la<br />
laurea in Italia del marito, aveva cominciato a gestirla lui. Lei<br />
ci stava poco a causa del suo altro lavoro. No, non c’era un<br />
attimo di tempo, nonostante non avessero figli. E da quando<br />
uno statale lavora così tanto? Se non la farmacia, di certo<br />
qualcos’altro rosicchiava le ore delle loro giornate.<br />
Con sullo sfondo il solito camice bianco del marito, la<br />
moglie inanellava aneddoti e quadretti naif di terre lontane,<br />
mentre io e Ietta la guardavamo con facce sostanzialmente<br />
diverse, che dovevano comunicare differenti emozioni.<br />
Comprensione e stronzaggine. Uno solleva il pelo, l’altro lo<br />
taglia: un rasoio bilama. Si fa così: il buono e il cattivo lavorano<br />
insieme per disorientare e indurre alla verità. Eravamo<br />
44
semplicemente perfetti in quel ruolo, mentre premevamo<br />
all’unisono su tasti differenti del cuore: la lusinga e la paura.<br />
Sì che non residuasse spazio per la fuga.<br />
Sia chiaro: io non sapevo nulla della Giordania.<br />
Notizie note:<br />
1) Quella storia ridicola, letta chissà dove, che nel Mar<br />
Morto un uomo può galleggiare da seduto per ore, come su<br />
una poltrona vibrante, tipo quelle che puoi acquistare in una<br />
qualsiasi televendita, grazie al sale di cui sarebbe ricchissima<br />
l’acqua di quel mare.<br />
2) Il conflitto mediorientale spalleggiato da qualcuno in<br />
zona, avvolto dalla striscia di Gaza come da una rigida sciarpa<br />
di fuoco, con Davide e Golia combattenti in Filistea mentre<br />
la Giordania restava a guardare, ad aspettare la fine.<br />
3) Scontati timori di radicate forme di collaborazione con<br />
il terrorismo internazionale, ma soprattutto oggi, che le twin<br />
towers sono scomparse dalle cartoline; dieci anni fa neppure<br />
quello. <strong>La</strong> Giordania all’inizio del secolo scorso faceva parte<br />
della Palestina. Oh, cavolo! <strong>La</strong> Palestina! Mi veniva in mente<br />
un arabo che dormiva accanto a una polveriera, come un<br />
pastore da presepio, la notte di Natale. Oppure un sultano<br />
ricchissimo con 20 donne e 20 cammelli. Favole e notti che<br />
non finiscono mai. <strong>La</strong> terra santa, le crociate, l’imperatore<br />
Costantino. Due immagini immediate? Il Santo Gral e la benzina<br />
da mettere in auto. <strong>La</strong> Palestina non è assolutamente una<br />
meta turistica. Non per tutte le tipologie di turisti, almeno. In<br />
compenso provoca un bel po’ di fantasie. <strong>La</strong> Palestina è un<br />
mistero illogico con radici antichissime. Un po’ come la<br />
Giordania, appunto. <strong>La</strong> mia immaginazione osava spingersi al<br />
massimo fino alla Turchia; forse all’Egitto, là, nei dintorni,<br />
chilometro più, chilometro meno. Informazioni gentilmente<br />
offerte dalle agenzie, in vista di viaggi da sogno, ancora mai<br />
realizzati. Ho viaggiato, ma non così tanto. Mio padre molto<br />
più di me, non c’è confronto; per lavoro e non solo. Lui conosce<br />
il mondo, afferma, e io non ho mai avuto motivo di dubitarne,<br />
posta la fermezza con cui lo dice. <strong>La</strong> spensieratezza<br />
ieratica di mio padre deriva forse anche dalle sue frequenti<br />
45
panoramiche turistiche, dai suoi rapidi giri di mappamondo<br />
con amorevoli accompagnatori. I viaggi di papà sono sempre<br />
stati un argomento ghiotto, ma difficile. Partiva spesso. C’era<br />
poco a casa. Noi di famiglia aspettavamo sempre il suo rientro<br />
all’aeroporto, con ghirlande di anemoni. Festosamente.<br />
Anche noi aspettavamo fiduciosi il nostro personale Santo<br />
Gral. Non sbagliava un colpo mio padre. L’atterraggio era<br />
sempre in perfetto orario. Quindi, noi di casa correvamo<br />
come indemoniati per fare presto, fare in fretta e farci trovare<br />
ad aspettarlo, come lui era certo avremmo fatto. Gli aerei<br />
degli altri a volte subivano ritardi; i suoi mai. Gli altri avevano<br />
anche solo dei dubbi a riguardo, lui mai. Nessun dubbio<br />
in generale. Eravamo noi di famiglia a dover vincere i nostri<br />
personali ritardi nel nome della sua fatale puntualità.<br />
Adattarci. Mia madre, io e qualcun’altro vicino a noi, sapevamo<br />
che i suoi voli toccavano terra sempre in perfetto orario.<br />
Curioso, ma vero. Non ci stupivamo quasi più. Quando scendeva<br />
dalla scaletta con i suoi completi grigio chiaro, perfettamente<br />
sbarbato e profumato, senza alcun segno di stanchezza<br />
o altre ovvietà, metteva un braccio intorno al collo del<br />
primo volto amico che gli si parava innanzi, e sorridente commentava:<br />
Perfetto. Chi dice che l’Alitalia non funziona? E se<br />
non era l’Alitalia, il succo della vicenda non cambiava. Un<br />
nuovo successo da uomo comune. Ma questi erano i viaggi di<br />
mio padre, non quelli degli uomini. Un orizzonte diverso e<br />
irraggiungibile. Altra storia. <strong>La</strong> Giordania del farmacista era<br />
meno misteriosa di quella di mio padre, tutto sommato.<br />
Un tipo come il nostro farmacista, che lascia il suo paese a<br />
vent’anni, però, che uomo è? Che storia ha vissuto? Con il<br />
corpo parla l’idioma dei mamelucchi, nonostante ciò, avendo<br />
fatto scelte molto tortuose, i suoi occhi e la sua bocca riescono<br />
a parlare ben più di una sola lingua. O è un tipo che, come<br />
me, ama le cose nuove, oppure è uno che ha avuto paura ed<br />
è scappato. Chissà quante volte ha avuto paura. Mi sono subito<br />
chiesto come ammazzano i giordani. In altri termini: hanno<br />
tecniche preferenziali, lame, scimitarre, fuoco, sputi? Mi si è<br />
parato innanzi il feroce saladino con le orbite iniettate di san-<br />
46
gue, e ne sono nate delle domande. È logico. Domande anche<br />
tecniche, alle volte. D’accordo, i luoghi comuni sono una prigione,<br />
chi lo nega?, ma certe volte la testa se ne va per i fatti<br />
suoi, e poi c’erano quelle trentotto coltellate, quasi tutte al<br />
volto, senza arma, senza pietà. Dicono che l’analisi della vittima<br />
sia utile alla comprensione del crimine. Dico io: trentotto<br />
colpi, una rosa di pallettoni in pieno viso non avrebbe fatto di<br />
meglio, sono una dichiarazione chiara! Era un cadavere che<br />
aveva parecchio da raccontare, quello del Corietti; una vittima<br />
che urlava vendetta al cospetto di Dio e procurava una<br />
persistente secchezza in gola. I luoghi comuni alleggerivano la<br />
tensione e, a quel punto, erano quasi una necessità<br />
Immaginavo una mano armata che si alzava e abbassava<br />
nella penombra urlante; e zac zac. Che rumore fa la lama che<br />
spacca le ossa? Quanta resistenza trova la mano? Quanta soddisfazione<br />
offre esattamente codesto tipo di attività?<br />
Aumenta la salivazione? Le mani sudano e scivola via lo strumento?<br />
Si produce un odore preciso nell’aria? Quale? Miele?<br />
Ho letto un libro una volta in cui si affermava che la carne<br />
cruda macellata ha l’odore del miele. Non so. So che nel frigo<br />
dopo due giorni puzza. Non è che sono pignolo, è che un<br />
assassino deve essere proprio determinato per accanirsi tanto<br />
contro una parete di carne umana, vibrante, accecata dalla<br />
paura e dal dolore.<br />
Turbato ero turbato. No, la Giordania non era affatto un<br />
pensiero rassicurante, ma in qualche modo ci forniva delle<br />
idee.<br />
Quello stesso pomeriggio, lungo la strada che ci avrebbe<br />
portato fino alla farmacia, il capo mi aveva raccontato l’esito<br />
dell’autopsia. Devastato. Aveva detto. <strong>La</strong> bocca gli si era storta<br />
verso destra bagnando lievemente di saliva il labbro inferiore,<br />
mentre con la mano tagliava in due l’aria segnando i<br />
confini di un ipotetico deserto. <strong>La</strong> scienza medica aveva<br />
garantito solo alcuni risultati certi: il numero dei colpi inferti<br />
e, poiché il cadavere era ancora caldo al momento del ritrovamento,<br />
si era potuto calcolare con una certa precisione l’orario<br />
della morte. Si era guardato poi nello stomaco: c’erano<br />
47
un caffè e un paio di biscotti secchi ancora da digerire. <strong>La</strong><br />
colazione di chi ha fretta. Nei locali della libreria, messi oramai<br />
sotto sequestro, erano stati successivamente individuati<br />
schizzi di sangue persino sul soffitto; una macchia a forma di<br />
ragnatela, di cui io non mi ero accorto. Violenza inarrestabile.<br />
Ietta diceva che se avessimo individuato in tempo accettabile<br />
un indiziato su cui concentrare lo sforzo investigativo,<br />
avremmo di sicuro potuto trovare dei residui ematici sugli<br />
abiti indossati dallo stesso al momento dell’assassinio.<br />
Avremmo dovuto cercare degli indumenti marchiati, quindi,<br />
ma subito!, porca la miseria, subitissimo, con assoluta urgenza.<br />
Il colpo mortale, uno degli ultimi inferti, era stato quello<br />
al collo. Un orecchio era stato quasi del tutto mozzato. Due<br />
ferite di striscio tra l’occhio e il naso avevano reso irriconoscibile<br />
il volto. Si pensava a una arma da taglio lunga almeno<br />
dieci centimetri e particolarmente affilata. Ma su questo nessuna<br />
certezza. Un tagliacarte? Un cult. Un tagliacarte in una<br />
libreria non può ritenersi fuori posto. Ci sarà stato un tagliacarte<br />
da qualche parte! Niente: non trovarono niente di simile<br />
tra le madonne in campana e i reliquiari. Devastato, diceva<br />
Ietta. Dalla sequenza erano stati tagliati i fotogrammi relativi<br />
alla lama lucente. Il saccheggio di un volto senza strumento.<br />
Senza lama. Eravamo rimasti senza lama. Mi s’incupiva persino<br />
la fantasia, diventava ossessiva.<br />
Ma i giordani sono gente cattiva, vendicativa? Mai capito<br />
bene se nel Corano c’è davvero qualcosa a proposito del<br />
Dente per Dente. Mai visto, prima di allora, un vero giordano.<br />
Mai letto il Corano. Non aveva senso aver paura in astratto,<br />
eppure ero attraversato da brividi d’ignoranza del tutto<br />
incontrollabili. L’ambientazione del delitto, la scenografia,<br />
l’emoglobina dispersa, facevano pensare a una vendetta; alla<br />
cattiveria sì, come categoria generale, ma provocata da qualcosa<br />
di veramente grosso. Non sono poi moltissimi gli esseri<br />
umani capaci davvero di vendetta. È più comodo dimenticare.<br />
Secondo me. Sì, ma forse non è una regola generale.<br />
Al nostro secondo incontro, accanto alla moglie, la voce<br />
del marito aveva acquistato un tono da brodino caldo. Era<br />
48
evidentemente preparato a un uditorio prevenuto nei suoi<br />
confronti. Deduttivo. Seduttivo. Raccontava delle difficoltà<br />
incontrate negli studi, della lingua italiana, grammaticalmente<br />
ostile, ma che aveva sempre amato, che, soprattutto grazie<br />
alla moglie, gli era entrata nel cuore. Voleva farci tenerezza il<br />
cicciobello musulmano. <strong>La</strong> sua donna non era araba: era italianissima.<br />
Ci teneva a sottolinearlo. Se, nonostante il Corano,<br />
si sceglie una donna italiana, ci deve essere una ragione; una<br />
certa inclinazione all’abbondanza, una certa attitudine alla<br />
disobbedienza.<br />
<strong>La</strong> donna italiana ancheggiava in pantacalze arancio.<br />
Mediocre icona del peccato. Dieci anni fa il genere pantacalze/aderente/al<br />
polpaccio spopolava; era una specie di bandiera<br />
per deretani disponibili. Lo si vedeva in giro a primavera,<br />
sotto giubbe troppo corte in vita. Ne vedo in giro ancora<br />
adesso ogni tanto e, se indossati fuori moda, colpiscono ancor<br />
più lo sguardo e l’immaginario. Fortemente evocativa, oggi<br />
mi torna in mente la suggestione di quella specie di grossa<br />
zucca appoggiata sulle anche, ostentata con orgoglio dalla<br />
moglie del farmacista. Mi torna in mente con la precisione dei<br />
bordi di un francobollo da collezione. Quanto il suo straniero,<br />
corpulento consorte, con le vocali allungate, così simili<br />
alla strada per Amman. Verso le notti di Sharazad.<br />
Non era giovanissima la sua donna. Oltre i quarantacinque,<br />
di sicuro. L’eloquio era tendenzialmente curato, salvo<br />
qualche lezioso scivolone che tendeva a esibire con un certo<br />
orgoglio, così come faceva con il fondoschiena. Era abituata<br />
a trattare con il pubblico e a imbonirlo. Il tutto era molto<br />
rotondo. Il capo chiese qualcosa circa la loro attività commerciale;<br />
notizie soprattutto sulla clientela. <strong>La</strong> donna aveva già<br />
detto di aver preferito fare altro nella vita. Lo riprecisò. Aveva<br />
conosciuto il marito in un’università del nord. Frequentavano<br />
entrambi farmacia. Con la sua famiglia d’origine lei non era<br />
mai andata d’accordo: litigi, incomprensioni, solite cose. <strong>La</strong><br />
scelta del matrimonio con un arabo ne era la vistosa dimostrazione.<br />
Ma era stata fortunata: lui era un gran marito; sì, ne era<br />
valsa la pena. Prima avevano convissuto, ma erano studenti,<br />
qualche anno in una mansarda. Per capire. Che romantiche-<br />
49
ia: l’uomo con la palpebra allungata alla Sharif e la fuggiasca<br />
rotonda, soli soletti, troppo vicini al cielo. Era la fine degli<br />
anni Settanta.<br />
“Non volevo fare scelte avventate…”<br />
Sposare l’extracomunitario all’epoca non era una scelta<br />
avventata, no, era la bomba atomica.<br />
“Quando lui si è laureato, io l’ho seguito e siamo diventati<br />
una vera famiglia. Poi c’era la questione della farmacia di<br />
mio padre. Si poteva ritornare a casa, ma non è che fosse una<br />
grande prospettiva. <strong>La</strong> gente ti guarda, fa domande. Ci abbiamo<br />
pensato a lungo prima di decidere. Poi papà è morto<br />
improvvisamente per un cancro alla prostata; nemmeno la<br />
mamma stava bene. E così adesso siamo qui…”<br />
Il marito sembrava essersi scrollato di dosso, come un cane<br />
bagnato, un intero patrimonio culturale. Possibile?<br />
Ci sono risposte che sembrano un pasto lasciato a metà. Il<br />
penultimo boccone rubato al cucchiaio. Non mi piaceva la<br />
situazione e, dall’osservazione attenta della fossetta sul mento<br />
del capo, potevo intuire che non era soddisfatto neppure lui.<br />
<strong>La</strong> fossetta si allagava in una smorfia d’insazietà, dinanzi<br />
all’innaturale metamorfosi del bacherozzo che si dichiarava<br />
italiano d’adozione, anche nell’anima. <strong>La</strong> moglie lo toccava di<br />
continuo, come fanno i gatti che pisciano negli angoli: gli toccava<br />
ora il gomito, ora la spalla, ora la nuca. Come dicesse: è<br />
mio.<br />
Fu per questa ragione che decidemmo di eseguire una giusta<br />
dose di intercettazioni telefoniche. Insomma, le chiacchiere<br />
non erano bastate in quel clima da favola e si era fatto tardi.<br />
Grazie al mio solito intuito da segugio, l’avevo capito subito<br />
che saremmo arrivati a quello. Non so come l’avevo capito,<br />
forse per una certa luce pomeridiana tra nuvole cariche e<br />
battiti d’ali d’uccelli al rientro, in stormi; per le pause del<br />
Ietta mentre mi riferiva alcuni elementi di dubbio. Per la coltre<br />
di foschi non detti, acquistati in confezione maxi in questa<br />
farmacia del centro. Per il tempo che passava e cancellava<br />
inesorabilmente le tracce che l’assassino doveva aver pur<br />
lasciato da qualche parte. Per la fretta. L’avevo intuito dai<br />
contrasti.<br />
50
Inoltre, c’era il fatto dell’ombrello stranamente macchiato<br />
e non c’erano più dubbi (l’avevamo accertato nello stesso<br />
pomeriggio, friggendo a puntino quelli del laboratorio):<br />
erano macchie di sangue, ma non erano dello stesso gruppo<br />
sanguigno della vittima, povero cristo. Per la verifica del<br />
DNA c’era invece da avere pazienza. Comunque, a quel<br />
punto, l’ombrello entrava a pieno titolo nell’indagine.<br />
L’ombrello e il nitore del suo portaombrelli.<br />
Il tempo passava, l’ho detto, e Ietta sembrava perdere a<br />
ogni minuto strati di cellule vitali.<br />
Aveva in mano solo un ombrello, pover’uomo!<br />
Le intercettazioni, c’è poco da fare, sono un ausilio fondamentale<br />
a un certo punto. A volte l’unico possibile. Subito, la<br />
sera stessa. Sarebbero risuonati nella notte, presso la sezione<br />
di polizia giudiziaria, i primi squilli, ottenute le autorizzazioni<br />
di rito. Perché non si può fare come ci pare; ci sono dei criteri<br />
di legge da seguire e il Ietta era uno preciso. Sempre.<br />
Intorno all’uso delle intercettazioni ci mangiavano in tanti,<br />
come da uno stesso piatto ricco, erano chiacchierate già da<br />
allora. Bisognava andarci cauti.<br />
Ma il reato era quello che era; le persone informate sui<br />
fatti, dalle prime sommarie informazioni, erano risultate<br />
sospette. Si stavano trasformando in indagati. In bocche cucite<br />
o ridondanti, tra loro in groviglio. Quindi, le intercettazioni<br />
erano uno strumento più che legittimo, timidezze burocratiche<br />
a parte.<br />
Inoltre, bisognava stare all’erta, poiché la stampa avrebbe<br />
reso da subito i fatti più torbidi. Soprattutto se fossimo finiti<br />
nelle mani delle donne della cronaca nera. Pietà! <strong>La</strong> stampa,<br />
sì, la stampa: schiere di pubbliciste agguerrite ci aspettavano<br />
al varco. Già il pomeriggio dopo la morte del tizio, c’era addirittura<br />
un trio di cronisti con la penna a scatto sotto il Palazzo<br />
di giustizia. Un commesso, incontrato fuori dal Tribunale per<br />
la pausa pranzo, m’aveva fatto segno, con il labbro inferiore<br />
pendulo, di fare il giro dall’altra parte per non restare sotto il<br />
loro assalto. Di qua, di qua, con un filo di voce, e io l’avevo<br />
seguito lungo la rampa di scale che dal garage portava ai piani<br />
51
alti, guardandomi di continuo alle spalle. Fu premuroso, mi<br />
ricordo. Brava persona.<br />
Se fossi uscito sul giornale avrei detto a mia moglie di comprarlo,<br />
ma i giornali non parlarono mai di me; non diventai<br />
famoso per quel primo caso. Sui giornali delle settimane a<br />
seguire campeggiavano Ietta e alcuni numeri civici della città.<br />
Avevo notato che le reti televisive locali, una volta individuati<br />
i luoghi del fatto criminoso, eseguite le prime riprese, continuavano<br />
a mandare sempre le stesse esigue immagini di<br />
repertorio, acquisite i primissimi giorni. Così, all’infinito, a<br />
ogni servizio. Il tempo si fermava; quasi s’impigliava nelle<br />
immagini. Sarebbero trascorse le stagioni, eppure, ogni volta<br />
che in futuro si sarebbe parlato di via Cardone, quella strada<br />
sarebbe apparsa immutata, così come era stata fermata in<br />
quella prima ripresa; stesse le nubi, stessa la luce sugli oggetti,<br />
immodificabili i cappotti marcianti, identici i rumori e i visi<br />
catturati casualmente. <strong>La</strong> fama dona immobilità. Un fatto<br />
locale, comunque. Non è che le reti nazionali si fossero interessate<br />
a noi. Al massimo un solo servizio a ridosso dei fatti.<br />
Meglio così, credo io. Ma chi erano i direttori Rai allora? Non<br />
ricordo. Gente seria, forse.<br />
<strong>La</strong> stampa può anche diventare un assillo; bisognava prepararsi<br />
per tempo alla sua furia ottenebrata, alla sua fame<br />
gialla. Di solito la gola profonda si nasconde tra le forze dell’ordine.<br />
Altro che feroce saladino! Un parente, un amico, e<br />
la notizia riservatissima se ne vola via. Non so come stanno<br />
davvero le cose, non sono giornalista io! Ma un fatto è certo:<br />
o le notizie sono pura fantasia, o viaggiano comode comode<br />
sulla bocca di qualcuno che vuol fare un piacere a qualcun<br />
altro, che a sua volta di certo ha un debito con un altro tizio<br />
e via discorrendo. Mio padre sì, lui sì che veniva bene in televisione;<br />
è sempre stato un bel mezzobusto. Ma io, con il faccione<br />
che mi ritrovo? È stato proprio in quel periodo che mi<br />
sono fatto crescere quest’accenno di pizzo, che porto ancora<br />
oggi sotto il labbro. Similcapra, dice Angela. Una capra un<br />
po’ più vecchia di quella che sono in realtà. Fa tanto saggio.<br />
Quando poi, dopo anni, ho provato per una volta, a tagliare<br />
52
quella barbetta, ho trovato sul mento delle cicatrici, dei segni<br />
che non conoscevo; ho trovato un mento cedevole e non più<br />
gli anni che ci avevo nascosto sotto.<br />
Le intercettazioni, comunque, sono la parte divertente del<br />
gioco; uno spasso. Da raccontare. Quelle intercettazioni, le<br />
nostre in particolare, furono un terremoto per tutti.<br />
53
IV CAPITOLO<br />
“Da quanti giorni?”<br />
“Da una settimana circa che sentiamo ogni parola. Tutto”.<br />
“Mi pareva, infatti… bello no? Ti stai divertendo, almeno?<br />
Ehi, è diventata una faccenda intricatissima, con tutti quei<br />
nomi noti che stanno venendo fuori. Mica ci credevo io. E<br />
adesso che fate, che dice il tuo capo? Chi l’avrebbe immaginata<br />
una scoperta così, eh? Una vera casa di tolleranza avete<br />
fatto saltar fuori. Non solo preti. E quella, l’organizzatrice<br />
dico, è bella quella?”<br />
“Fidati Angela: un cesso. Tutta lacca e culo. È lei che gestisce<br />
le relazioni, mentre l’arabo, il marito, cura il libro mastro<br />
e tiene l’agenda degli appuntamenti. C’è un giro d’affari pazzesco.<br />
Non è detto che non venga fuori anche l’ipotesi dell’usura.<br />
Per ora solo un giro di appuntamenti hard per donne<br />
ricche e compiacenti, alcune forse straniere irregolari, ma<br />
poche rispetto alle insospettabili nobildonne. Ci stanno in<br />
mezzo avvocati, commercialisti, artigiani, studenti. È un gran<br />
bazar. Guarda, siamo rimasti così, a bocca aperta”.<br />
“Soldi? Droga?”<br />
“Per ora non possiamo dire, ma chissà. Si divertono da<br />
matti quelli lì. Al sabato organizzano delle festicciole, in<br />
alberghi di lusso o in una villa sulla provinciale”.<br />
“E in Tribunale non si sapeva niente?”<br />
“Figurati! <strong>La</strong> sorella dell’organizzatrice ci lavora in<br />
Tribunale, conosce l’ambiente, mentre il marito fa il farmaci-<br />
54<br />
Credi che non sorgano impeti di sentimenti anche<br />
in me? Ma io non li lascio scatenare; io li afferro,<br />
li domo; li inchiodo. Hai visto le belve e il domatore<br />
nei serragli? Ma non credere: io, che pure<br />
sono il domatore, poi rido di me…<br />
Luigi Pirandello
sta. L’insospettabile esotico medicamentoso. Una specie di<br />
cura efficacissima, insomma. Da provare!”<br />
“Nicola, ma in che razza di ambiente sei finito?”<br />
“È così, Angela. Non ci credi?”<br />
“Non so”.<br />
“Non ci credi”.<br />
“Quando sei lì, mi sembra che tu non sia mai stato qui. Mi<br />
parli di cose che non conosco. I mariti di solito non lo fanno”.<br />
“Non ho capito niente, scusa”.<br />
“Non so, è stranissimo: quando sei lì mi sembra che tu sia<br />
un estraneo, che tu non abbia mai abitato nella nostra casa”.<br />
“E quando ritorno, invece?”<br />
“No, allora tutto ritorna normale. Chissà se capita a tutti,<br />
dico tra marito e moglie, se capita quando si vive in posti<br />
diversi, tu lì e io qui; un po’ più lontano dal centro di sé. Non<br />
so se è come incontrare qualcuno che non conosci o solo perdere<br />
la persona che conoscevi prima”.<br />
“Ma quando siamo insieme è tutto normale, hai detto, no?”<br />
“Più o meno. Minor abitudine. All’inizio, quando arrivi a<br />
casa, hai l’atteggiamento del lord inglese in visita in Italia,<br />
sembri a pensione da me. Gentilissimo. Tutto è buonissimo,<br />
tutto perfetto, grazie, scusa, si figuri, come è cortese, come è<br />
carina. Dopo un po’ finalmente ti rilassi e ricominci a rovistare<br />
nel frigo, a non chiudere la porta del bagno quando ci sei<br />
dentro, a buttare la spazzatura ossessivamente, anche vuota.<br />
Abbastanza ridicolo. Non può durare in eterno”.<br />
“Sono educato io”.<br />
“Sei in imbarazzo”.<br />
“No, affatto. E perché dovrei?”<br />
“Non so. Un eccesso d’impegno, forse”.<br />
“Vedremo”.<br />
“Va. Parliamo del morto. Nessuno parla più del morto,<br />
alla fine. Solo del morto, intendo”.<br />
“Per ora niente di chiaro”.<br />
“Ma io te l’avevo detto”.<br />
“Cosa mi avevi detto?”<br />
“Niente, niente…”<br />
“Cosa, scusa?”<br />
55
“E dai, niente. Lo sai”.<br />
“No, non capisco, cosa mi avevi detto? Di non venire a<br />
lavorare qui? Insomma, la solita solfa?”<br />
“Comunque la questione si fa interessante. Alla fine. È un<br />
territorio interessante quello su cui stai lavorando. Male che<br />
vada è stato interessante. Qui da noi è più moscio!”<br />
“Ma che c’entra questo, adesso? Non capisco. Sei nervosa.<br />
Allo studio come va?”<br />
“Come sempre: va. Solite difficoltà a strappare una pratica<br />
al grande avvocato. Non si vede un soldo. Totale accentramento.<br />
Quasi quasi mi dedico ai festini anch’io, che dici? E<br />
basta: sono senza appuntamenti, senza marito, senza figli; che<br />
ne dici? Ora vedi che ti combino”.<br />
“Mi manchi molto”.<br />
“E il morto? Allora? Parlano del morto quelli che state<br />
intercettando?”<br />
“L’abbiamo perso di vista, il morto. Presi da tutte quelle<br />
telefonate bollenti. Lo sai che pure il Presidente dell’Ordine<br />
degli Avvocati, pure lui… Ah, e che ne sai tu: ci credi che<br />
organizzavano pure viaggi in Thailandia? Ti giuro! Tutto<br />
regolare all’apparenza. <strong>La</strong> sezione civile del Tribunale doveva<br />
essere uno dei quartieri generali per la moglie del farmacista,<br />
che di suo lavorava altrove, per la precisione all’ufficio pratiche<br />
migratorie interne, e magari aveva il suo giro d’affari pure<br />
lì. Adesso ci dobbiamo andare cauti, perché si apre un nuovo<br />
troncone d’indagine, che non ci riguarderà più, passerà ad<br />
altri di sicuro. Sarà un processo mediatico di quelli veri; una<br />
bomba. Vedrai! Ma io fra sei mesi vado via. Figurati. Inutile<br />
farsi prendere troppo. A me preme il morto, il mio cadavere.<br />
E basta. Prima di andar via vorrei capirci qualcosa di più. E<br />
basta. Almeno quello”.<br />
“Il portaombrelli?”<br />
“Non ne hanno parlato proprio, nonostante noi glielo<br />
avessimo contestato. Gli abbiamo messo vicino pure la vecchia,<br />
per spaventarli, ma niente. <strong>La</strong> vecchia matta continuava<br />
a gridare come una civetta cieca: il sangue, il sangue!, e pregava<br />
in aramaico. Ma niente. Nelle telefonate neppure un<br />
accenno al fatto terribile dei giorni precedenti”.<br />
56
“Ma è molto strano, non credi? Perché non parlano dell’omicidio<br />
i farmacisti? E neppure dell’ombrello?”<br />
“Lo so. Non quadra. Però alle volte… che ne sai come<br />
sono fatti gli uomini. Questi due sembrano presi soltanto<br />
dalla loro fiorente attività secondaria!”<br />
“Ma che razza di Palazzo di giustizia è il tuo?”<br />
“Una fiera. C’è un magistrato, cinquant’anni, separato da<br />
un po’, con un figlio, credo grande, che se la fa con due<br />
donne e non si decide: una segretaria di trent’anni, una specie<br />
di trampoliere con le piume rosa, e una collega rampante,<br />
ma più matura. Ne parlano tutti, dal caffè alle fotocopie. Ci<br />
fanno su i centrini. Uno schifo. C’è puzza di scandalo pure<br />
al civile, nella sezione con i magistrati più anziani, ma quelli,<br />
a fine carriera, se ne sbattono. Così, i pochi che vogliono<br />
lavorare e basta, si trovano a disagio. Le donne, soprattutto,<br />
non mi far dire. In cortile ci sono fissi i giornalisti. Due giorni<br />
fa ne parlavano alcuni dipendenti in garage. Ho sentito<br />
t u t t o ” .<br />
“In garage? Si fa diritto penale pure in garage, tra le tracce<br />
di copertone?”<br />
“Si fa diritto dappertutto, se vuoi. In verità non posso parcheggiare<br />
in garage. Era un caso se mi trovavo lì. Non è previsto<br />
il parcheggio per gli uditori”.<br />
“E dove la metti la macchina nuova?”<br />
“Fuori, a pagamento. Certe volte dentro, ma poi resto<br />
bloccato perché non ho il telecomando per il cancello automatico.<br />
Resto per ore negli scantinati, finché non passa un<br />
cane qualunque e mi fa uscire. Certe volte la sera non passa<br />
un cane. E quindi. Passano giusto i magistrati soli, senza famiglia,<br />
quelli che si mangiano la fettina di vitello con insalata in<br />
osteria con i buoni pasto. Hai presente? Meglio non incontrarli<br />
quelli, mi deprimono”.<br />
“Sei pazzo. <strong>La</strong> macchina nuova fuori? Ma ti prego!”<br />
“Ma la metto in posti tranquilli. Giuro. A pagamento. Ti<br />
ho detto. Non la rubano se ci sono le strisce blu. E che devo<br />
fare scusa? Sono agli inizi; non ho peso nell’organizzazione<br />
generale. Normale, no? Anche se, devo dire, ormai cominciano<br />
a riconoscermi quelli della sorveglianza notturna. Dovresti<br />
57
vedere come mi salutano, buongiorno giudice, sì, mi salutano<br />
così, loro”.<br />
“Sì, buongiorno! Funzionare cosa? Ma che normale! Va!<br />
Sei scemo, sei. Devi farti dare il pass e basta. Non si discute.<br />
Tutte queste chiacchiere. Qui, per il fatto che vivi fuori, ci<br />
sono un mare di spese in più, e se ci metti pure il parcheggio<br />
comunale…”<br />
“I soldi bastano”.<br />
“Dici tu! Se arrotondo anch’io con un festino, però, è<br />
meglio. Magari il fine settimana che non torni; con le telefonate<br />
che devi ascoltare chissà quanto lavoro. Non torni, no?<br />
Immaginavo infatti. Non ci vedremo nemmeno questa settimana.<br />
Che dici prendo il treno e vengo io? Che fai, ridi?”<br />
“Vieni subito, che ti porto sulla provinciale”.<br />
“Poi mi racconti meglio, però. Mo’ ride ’sto scemo. Tutto,<br />
tutto mi devi raccontare. Altro che ridere. Ché da qui non si<br />
capisce niente”.<br />
“Non lo dire a me”.<br />
“Come lo spieghiamo il sangue sull’ombrello? Ti sembra<br />
un’assassina la vecchia?”<br />
“No, non credo. Stiamo per intercettare pure le sue telefonate.<br />
Da domani. Giacché la tipa, nonostante l’apparenza, ha<br />
una casettina tutta sua, piena di roba ammassata, e c’è pure il<br />
telefono. Non è una barbona come gli altri. I matti mica sono<br />
tutti uguali. Certo, non ci sta con la testa, è un fatto, ma c’ha<br />
i mezzi suoi. E potrebbero esserci dei nessi”.<br />
“Sai che ti dico? Forse l’ombrello non era della vecchia,<br />
forse l’aveva raccattato chissà dove. Magari l’ha lasciato in<br />
strada l’assassino. E perché no? O forse l’assassino l’ha lasciato<br />
in libreria e la vecchia è entrata un attimo dentro e l’ha trovato.<br />
Forse pioveva e aveva paura di bagnarsi. Forse non l’ha<br />
visto neppure il cadavere, o forse sì…”<br />
“Forse, forse, forse”.<br />
“Pensaci! Che dici di un ombrello quasi nuovo, o comunque<br />
ancora utilizzabile, buttato per terra, così, non si sa da<br />
chi, non si sa quando, sul marciapiede, nelle pozzanghere. Tu<br />
non te lo prenderesti? Io me lo prenderei. Magari l’acqua piovana<br />
ha lavato via ogni impronta digitale e non si può risalire<br />
58
al proprietario. L’acqua elimina le impronte? Io non lo so. Tu<br />
lo sai? L’assassino aveva visto che era macchiato di sangue e<br />
se ne è voluto liberare. Può essere, no? Forse è proprio quella<br />
l’arma del delitto. Come fai a escluderlo?”<br />
“Come no? Trentotto violentissime ombrellate. Ma va’!<br />
Diciamo cose serie, che è meglio”.<br />
“Magari l’ombrello era già in farmacia. <strong>La</strong> vecchia l’ha<br />
preso proprio lì”.<br />
“Allora vieni a trovarmi? Vieni sì o no? Ti puoi liberare?<br />
Oh, dico a te! Rispondi! Hai udienza lunedì? Nel caso, ti trattieni<br />
anche lunedì, così stiamo più tempo insieme. Bisogna<br />
venirsi incontro, lo sai che è così che bisogna fare”.<br />
“Senti un po’, ma cosa sapete della vittima? Che tipo era?”<br />
59
V CAPITOLO<br />
Siamo entrati nelle case della gente. Noi eravamo seduti a<br />
una scrivania, con intorno i tecnici della polizia giudiziaria,<br />
mentre gli altri vivevano, altrove, tra le loro cose, nel guscio<br />
dell’uovo, nella loro segretezza piena, intima, indifesa e rapida,<br />
violenta e vera, senza sapere. Ascoltavamo in cuffia voci<br />
rauche gracidare dalla cornetta. Uno stagno affollato, più che<br />
un gruppo di lavoro. Perché a quel punto era necessario lavorare<br />
in gruppo. Ietta, gran capo, con la mano a coppa sull’orecchio,<br />
percepiva scricchiolii sinistri e ronzii di zanzare, uniti<br />
a parole sconce e diventava una tigre. Più chiaro, per favore!<br />
Pretendeva che noi fossimo produttivi al massimo e magari<br />
più silenziosi. Rispettosi. Lo tormentava l’idea di sperperare<br />
pubblico denaro. Perché le intercettazioni telefoniche costano<br />
un pozzo. Il ministero spediva con cadenza mensile oscure<br />
circolari per fissare i criteri di acquisizione dei dati relativi<br />
al traffico telefonico dei privati: costi, criteri, modalità, autorizzazioni,<br />
limiti e contenuti tecnici. Un percorso a ostacoli.<br />
Stringere, stringere, stringere: era l’imperativo erariale. Già<br />
da allora. Se la necessità dell’intercettazione veniva avanzata<br />
in Procura, durante le indagini, ma l’accertamento lo autorizzava<br />
il tribunale, chi le pagava all’esito tutte le spese? Se ne<br />
parlava, si concionava su una opportunità o sull’altra, in<br />
ascensore, in ufficio, al bar. Pagate voi o paghiamo noi? Chi è<br />
più ricco tra i poveracci? E quanto si paga e perché si paga.<br />
Scuole diverse. Ragion per cui, si cercava di stringere all’osso,<br />
60<br />
…Per un turista l’intera esperienza di viaggiare per<br />
un paese che gli è estraneo viene immediatamente<br />
consegnata al passato. Già nel momento in cui i<br />
giorni trascorrono, ha la consapevolezza che quelli<br />
“sono stati” giorni trascorsi a Roma, e giri turistici,<br />
s o u v e n i r, fotografie, regali, ogni cosa è un atto di<br />
pura commemorazione. Anche quando il viaggiatore,<br />
di notte, giace sul letto sdraiato in attesa di<br />
addormentarsi, in quello stesso momento quelle<br />
sono diventate le notti che egli “trascorse” a Roma.<br />
John Cheever
ché non si raccontasse in giro che noi della Procura eravamo<br />
degli scialatori sconsiderati, posta la funesta situazione delle<br />
casse ministeriali che, sin da allora, stavano velocemente scivolando<br />
verso un impoverimento progressivo e inarrestabile.<br />
Con la criminalità organizzata si poteva fare, va bene, non<br />
c’era da discutere, per il 41 bis si intercettava sempre, ma<br />
negli altri casi si doveva valutare attentamente. E non è bello<br />
essere costretti a discernere. Chi la vuole la discrezionalità?<br />
Chi è che ci tiene tanto? Noi del diritto no di certo.<br />
Comunque intercettammo quelli che sembravano i maggiori<br />
indiziati. Osammo perché Ietta era convinto che il caso<br />
valesse la spesa, e lo raccontava pure in giro. Osammo e li<br />
lasciammo parlare sotto i denti. I maggiori indiziati per primi.<br />
Anche se per poco, senza esagerare. Fu uno spasso comunque.<br />
Che crepasse l’avarizia!<br />
<strong>La</strong> moglie del farmacista si faceva chiamare signora<br />
Bourtaki, ma quanti le parlavano al telefono sapevano bene<br />
chi era, dove abitava, dove lavorava. Gli interlocutori a volte<br />
erano uomini, a volte donne, ma sempre, dico sempre, sembravano<br />
grandi amici. Promettevano brindisi con quello<br />
buono, vino rosso dicevano, solo rosso, e c’era nelle voci<br />
un’unghia d’euforia feroce, che nemmeno il gracidare dello<br />
stagno riusciva a disperdere. <strong>La</strong> voce saliva di tono a ricordare<br />
la bionda, faccia puntuta da televisione, che c’era stata alla<br />
festa del mese prima, a ballare sul cubo. Facevano il nome di<br />
Tizio, persona fidata, presentato da Caio, che veniva piacevolmente<br />
accompagnato da Sempronio. E giù a gracidare.<br />
Tutto un brulicare di nomi senza cognomi, come piccoli<br />
vermi bianchi dentro la noce rinsecchita, rotto il guscio. Ma<br />
in ordine al denaro c’era silenzio. Le frasi si mozzavano sotto<br />
lo zefiro di una scure netta. Silenzio e ronzii. Impossibile<br />
quantificare la moneta. Impossibile capire, da quelle telefonate,<br />
se il giordano era buono o cattivo. Coloratissime le persone<br />
nell’intimità.<br />
Il capo quasi non aveva più la riga in mezzo alle bande<br />
avverse dei capelli, a forza di spazzare con le dieci dita tese sul<br />
cuoio capelluto, come un rastrello.<br />
61
Erano giorni che eravamo là, girando intorno al circuito<br />
interpretativo della legge, come lo chiamano i giuristi più<br />
nobili, tenendoci bassi e polverosi come in un go-kart. Dal<br />
sangue allo sperma, versati a fiumi. Ascoltare, ascoltare,<br />
ascoltare.<br />
<strong>La</strong> nostra attenzione si era spostata su questa storia dei<br />
festini più che altro per lo stupore. <strong>La</strong> polizia ridacchiava in<br />
capannelli nei corridoi, mentre noi cercavamo di darci un<br />
contegno, ma poi, all’uscita dagli uffici, temevamo la stampa<br />
più delle trombe e degli arcangeli nel giorno del giudizio universale.<br />
Comunque continuavo a non ricevere domande, neppure<br />
davanti alle bobine parlanti. Forse le facevano a Ietta, ma di<br />
certo non a me. E non ho mai saputo se tra i suoi colleghi ce<br />
ne fosse mai stato uno che gli invidiava il caso. Forse l’assenza<br />
di domande nasceva dall’invidia. Alle volte. Ma no, adesso<br />
che conosco l’ambiente posso permettermi di escluderlo con<br />
certezza. Non si invidia uno che ha troppo lavoro, poche idee<br />
e la faccia triste.<br />
Quel fine settimana, proprio quello delle rivelazioni orgiastiche<br />
a sorpresa, venne a trovarmi mia moglie. Come mi<br />
aveva promesso. Aveva tagliato i capelli, senza anticiparmelo<br />
al telefono. Già la prima immagine in stazione fu rivelatrice.<br />
Se una donna taglia all’improvviso i capelli è perché sta accadendo<br />
qualcosa. Più il capello a cui rinuncia è lungo e curato,<br />
più pesante è la trasformazione. Dicono. Non tagliano i<br />
capelli solo perché sono diventati lunghi, loro. Le donne non<br />
lo fanno, al massimo spuntano. Le forbici svolgono altre funzioni,<br />
che ben poco hanno a che fare con la comodità. A volte<br />
lo fanno prima che la novità in questione si palesi, perché<br />
sono ansiose, perché vogliono creare allarme o cercano di<br />
agevolare il corso degli eventi. Mi stabilizzano teorie consolidate<br />
come queste. Ci credo. Ci posso ragionare sopra, adattarle<br />
a me. Peccato che la seduta dal parrucchiere costi quasi<br />
quanto un collo di visone, altrimenti mia moglie, oh, chissà<br />
quante volte.<br />
Diciamo preliminarmente che Angela aveva preferito il<br />
62
treno all’aereo, perché fa snob, diceva, ma io sapevo che era<br />
soltanto per risparmiare. Nell’ultimo anno, quello del risparmio,<br />
era diventato un suo bisogno, non so se per colpa mia o,<br />
più probabilmente, per il senso di precarietà con cui era<br />
costretta a vivere la sua professione di avvocato. Se poteva<br />
risparmiava il centesimo e lo raccontava in giro con vanto.<br />
Braccino corto, insomma. Non ne ero infastidito, almeno non<br />
ancora. Lei risparmiava sulle creme per il viso, ma era bella;<br />
era pure giovane e quindi, grazie, il sacrificio non rilevava.<br />
Vediamo ai cinquanta, pensavo io. Risparmiava pure sul cibo,<br />
anzi sulla singola caloria, ma anche in quel caso la faccenda<br />
era più complessa. Era a dieta. Sempre. Tutta la settimana,<br />
escluso il sabato. Il sabato era giorno obeso, da santificare. <strong>La</strong><br />
domenica, invece, il programma era variabile: decideva la<br />
bilancia sulla base del computo del singolo etto. Se si era nei<br />
limiti imposti dalla paura, si mangiava, altrimenti digiuno<br />
ascetico davanti alla televisione. Sempre a dieta.<br />
Avevo conosciuto Angela al liceo, quando era troppo presto.<br />
Era amica dell’amica di un amico. Una faccia familiare,<br />
che aveva sempre altre cose da fare, che si muoveva lesta,<br />
troppo lesta. Poi c’eravamo rivisti a giurisprudenza, nel<br />
momento esatto in cui due individui sentono il bisogno di<br />
ritrovare facce note, dal significato noto. Fortuna. Ho confuso,<br />
direi sovrapposto, la faccia di Angela alla mia vita. È sempre<br />
stata bella, bella per tutti. Faticosa per me, tanto, soprattutto<br />
per l’uso spasmodico che fa delle parole, anche quando<br />
non parla, le pensa, le sceglie, le prepara, le colleziona, le<br />
ripudia e le sostituisce con altre. Ne è dipendente. A volte<br />
sostituiscono il suo cibo. A volte mi sorprendono, a volte no;<br />
sempre mi riempiono.<br />
Non ricordo di essere mai stato privo di Angela. Mai.<br />
Neppure lei di me. Siamo due figli unici e questo forse incide<br />
sulla nostra vita di coppia. Cioè, sulle nostre storie precedenti<br />
e i nostri corpi, la massa cerebrale e le parole che contengono.<br />
Molte delle mie parole, mi secca un po’ ammetterlo ma è<br />
così, erano in origine appartenute ad Angela. Lei è il mio<br />
calendario biologico. L’abecedario. Nello stesso momento, lei<br />
è pura fantasia e pensiero razionale. Così, molte delle cose<br />
63
che sono o faccio, vengono influenzate dalla sua presenza:<br />
una zona di pensiero di misura assoluta tendente all’infinito,<br />
screziata da fantasie da muratore instancabile, in continua<br />
costruzione, in costruzione necessaria.<br />
Dicevo del nostro regime alimentare dieci anni fa. Si faceva<br />
la spesa soltanto il venerdì sera: carrelli carichi che contenevano<br />
gli strumenti del godimento e quelli del sacrificio. Se<br />
c’era un invito al giovedì, si consumava un dramma. Si rifiutava<br />
di netto se l’invito non celava obblighi sociali o professionali.<br />
Se invece non si poteva evitare, la mia donna s’armava:<br />
prendeva un’insalata scondita e, ferita dai riflessi smorti<br />
della lattuga asciutta, restava nervosa per tutta la sera. Non<br />
tentava neppure di contrastare il malumore insorgente con<br />
meccanismi di raziocinio, perché lo considerava la giusta<br />
punizione. Anche per me.<br />
Ma era bella. Bella quanto la mia immaginazione desiderava<br />
per sentirsi paga. Ero io l’unico capace di non accorgersi<br />
di alcuni piccoli cambiamenti, di alcune assenze. Io, il marito.<br />
L’unico veramente cieco per forza. Ed era cieca pure lei,<br />
ché di sé vedeva solo quello che vedevo io.<br />
Quel venerdì mattina, in stazione, mi piaceva: indossava<br />
un completo giacca e pantalone, blu scuro, stretto da una cintura<br />
della stessa stoffa. Era l’insieme a spingermi a riflettere<br />
sul significato della vita a due, mentre lei, lusingata a sufficienza,<br />
diceva che la natura non aveva nessun merito e che<br />
tutto era frutto dell’impegno. Mi piacevano in particolare<br />
alcune cose: come si stropicciava i fianchi della giacca, il fatto<br />
che dondolava e faceva sempre segno di sì con la testa mentre<br />
parlava, il vezzo di allungarsi le dita di una mano con quelle<br />
dell’altra. Insomma, da una parte la settimana, dall’altra la<br />
sua coda di peccato e consolazione. Solo io conoscevo la consistenza<br />
specifica delle sue labbra e della salivazione intorno,<br />
quando faceva freddo o aveva fame, o si sentiva cattiva.<br />
Credo, solo io.<br />
Quindi aveva fame, ma era venerdì. Dovevo accoglierla<br />
con qualcosa di appropriato al venerdì: fibre, verdure bollite,<br />
proteine, carboidrati ma non dopo le 14. Se fosse stato sabato?<br />
Lei sarebbe stata di ottimo umore e qualunque locale<br />
64
avrebbe fatto al caso suo; dalla tavola calda al bar, al ristorante,<br />
purché seduti l’uno di fronte all’altro, a sperperare parole,<br />
senza spendere una fortuna. Ed avrebbe mangiato ogni briciola,<br />
con voracità animalesca; non sarebbe rimasta in silenzio<br />
con la mascella contratta per ore, ma avrebbe chiacchierato di<br />
nugelle. Mi piaceva il sabato e quel suo modo da ergastolano<br />
di affrontare le portate.<br />
Alle comprensibili obiezioni di quanti, anche casualmente,<br />
mangiavano accanto a lei, lei rispondeva che il suo non era un<br />
calcolo salutistico. Era l’unico modo a lei noto per assecondare<br />
l’altalena della sua anima. Io capivo, gli altri credo di no.<br />
Non riuscivo a pensare di dovermi preoccupare veramente<br />
per quest’inquietudine alimentare, perché lei sembrava così<br />
sicura di quello che faceva, così controllata, così follemente<br />
assurda. Poi, era sempre stato così. C’era l’abitudine a venirmi<br />
incontro. Lei era mia moglie. Io capivo, io arginavo, io<br />
resistevo. Io già sapevo.<br />
Però ai capelli così corti non ero preparato quel giorno.<br />
Si presentò con la frangetta dritta su quei due soliti occhi<br />
cangianti e la sciarpa colorata che s’appoggiava giusto nella<br />
fossa triangolare della nuca, dove i capelli finivano la loro<br />
corsa, come la punta di una freccia in un bersaglio. E qualcosa<br />
mancava.<br />
Avremmo fatto sesso quella sera. Avevo la piacevole sensazione<br />
che si lavorasse nella stessa direzione. È questo che<br />
rende l’amore significativo, credo io. <strong>La</strong> direzione. L’ho vista<br />
in stazione e ho pensato che avremmo fatto l’amore la sera<br />
stessa, ma non perché pensi solo a quello, ma perché non lo<br />
facevamo da due settimane. Sarebbe durato poco perché avevamo<br />
aspettato troppo. Comunque. Eravamo abituati a farlo<br />
con cadenza settimanale, anche se ne parlavamo con più frequenza.<br />
Perché una buona coppia parla del sesso. Questo ho<br />
sempre pensato. E noi ne parlavamo, e ci dicevamo che dovevamo<br />
parlarne, e parlandone scoprivano elementi nuovi; di<br />
conseguenza, convenivamo circa l’opportunità di parlarne<br />
ancora. Non che fossimo sempre d’accordo sull’argomento.<br />
L’importante era parlarne. Come in molte altre faccende, avevamo<br />
deciso di essere un minimo organizzati e così lo faceva-<br />
65
mo almeno una volta alla settimana. Parlandone. A volte si<br />
riusciva a farlo anche più spesso, mescolandolo al sonno e ai<br />
mezzi sogni, ma era sesso stanco, come diceva Angela.<br />
Quando c’è dietro una buona programmazione, invece, si<br />
può lavorare sul dettaglio: l’umore da modificare lentamente,<br />
il vestito, i profumi, le candele, le fantasie a seconda dei gusti.<br />
Credo. Mi prodigo per questo. Solo una volta Angela mi ha<br />
detto che fatica!, e ha aggiunto figlio mio; solo una volta e poi<br />
mai più, ma era sfinita quella volta. Non fa testo. Di solito sa<br />
cosa dire e cosa non dire: mandare a memoria quel certo<br />
decalogo è inevitabile in ogni prolungata convivenza.<br />
Quell’anno, a essere onesto, la lontananza aveva rinverdito la<br />
passione. Una cosa positiva. Lo chiedevo spesso ad Angela: è<br />
una cosa positiva secondo te? Lei rispondeva sì e basta, non<br />
argomentava, perché il sesso, si sa, è un argomento delicato,<br />
ma ancora non so quanto fosse davvero convinta. Comunque,<br />
non mi posso lamentare.<br />
Quel venerdì, dopo aver scambiato giusto due parole di<br />
benvenuto, ho avuto la certezza che non fosse occorsa una<br />
trasformazione, ma piuttosto che il nuovo taglio di capelli<br />
fosse dovuto al suo bisogno che qualcosa cambiasse. Che<br />
fosse una richiesta, con tanto di trabocchetto. Una bellezza<br />
intimidatrice. Se ne stava davanti a me, piena di aspettative,<br />
così affamata di novità da restare con le labbra lievemente<br />
schiuse. Aveva le mani screpolate per il cambio di clima e<br />
mise su un po’ di crema idratante, massaggiandole, insinuando<br />
la mousse bianca sotto la fede, al cospetto di un caffè rigorosamente<br />
amaro. Sentii l’odore vellutato della crema per le<br />
mani, lo stesso di altre volte, lo stesso di altre sere d’inverno,<br />
lo stesso dell’infilarsi sotto le lenzuola, lo stesso dopo avere<br />
spento la luce, lo stesso dei suoi piccoli movimenti nel letto al<br />
buio; odore che mi fece pensare subito a casa. Quando è buia,<br />
al rientro la sera, appena dopo aver aperto la porta d’ingresso,<br />
prima di toccare l’interruttore, quando parla ancora di<br />
quello che è avvenuto poco prima, racconta di te, proprio di<br />
te, ed è come sdoppiarsi e guardare il clone; guardarsi da dietro<br />
e riconoscersi subito. Mi riportò a quell’ideale di casa che<br />
la lontananza inventa o ingigantisce. Pensai che la mia donna,<br />
66
scientemente, stesse facendo di tutto per riportarmi da lei. E<br />
tra un giochetto e l’altro, mentre io svelavo il suo quiz facile<br />
facile, lei annientava i miei spazi di solitudine reinventata.<br />
Efficace come un vecchio killer.<br />
<strong>La</strong> mia casa in affitto la conosceva già. C’era già stata in<br />
precedenza, quando ero venuto per la prima volta, per<br />
ambientarmi in ufficio e a far pubblicità alla mia faccia fresca<br />
da praticante. Durante la serata, messo alle strette, le raccontai<br />
tutto quello che ancora non sapeva sul mio morto.<br />
Avevamo sentito qualcosa anche sulla linea telefonica della<br />
vecchia dei santini. Quella sì, che era stata veramente fulminata<br />
dalla paura del sangue. In una settimana avevamo intercettato<br />
otto telefonate disperate al suo medico di fiducia. <strong>La</strong><br />
vecchia era convinta di avere contratto l’aids. <strong>La</strong> scienza<br />
medica non l’aiutava. Unica certezza per lei: la punizione<br />
divina. <strong>La</strong> vicenda dell’ombrello insanguinato aveva assunto,<br />
infatti, connotati profetici. Il medico cercava di tagliar corto,<br />
ma la vecchia era una zecca indemoniata. Dottore, lei mi deve<br />
dire se ho l’aids e cosa posso fare. Al confidente involontario,<br />
che chiedeva spiegazioni sulla questione, lei rispondeva di<br />
non sapere, di non aver capito come erano andate le cose.<br />
Descriveva gli occhi del carabiniere che l’aveva interrogata e<br />
rimetteva l’anima nelle mani di Dio. Diceva che il sangue era<br />
finito sul suo ombrello non si sa come e che forse lei l’aveva<br />
toccato. Era sangue malato, infetto, sangue di peccatori.<br />
Faceva anche qualche smodato riferimento alla clientela del<br />
farmacista. Si contraddiceva, si ripeteva. Diceva che lì dentro<br />
era pieno di drogati e che il sangue doveva appartenere a uno<br />
di quei poveri senzadio. Entravano per pietire una siringa, l’aveva<br />
visti e sentiti; conosceva pure la panchina, poco distante,<br />
dove andavano a morire. Quindi quel sangue era malato e<br />
lei l’aveva toccato. Purtroppo. Una disgrazia per tutti. Ogni<br />
telefonata si chiudeva con un’imprecazione e un brusco click.<br />
Lei voleva fare subito le analisi; credeva di avere i giorni contati.<br />
Il medico esausto aveva finito per darle un appuntamento<br />
nel suo studio.<br />
Rividi la vecchia qualche giorno più tardi. Scendeva una<br />
67
scala interna al tribunale, passando dal terzo piano al secondo,<br />
in pantofole. Il cappotto sfiorava lo scalino appena più in<br />
alto come lo strascico liso di una sposa dimenticata a putrefarsi.<br />
Doveva essere stata poco prima da Ietta, che l’aveva<br />
lasciata andar via, senza nessuno che l’accompagnasse in quel<br />
labirinto di vicoli ciechi che è il Palazzo. Un santino le cadde<br />
dalla tasca e il rumore di carta che cade fu coperto dal suo<br />
passo da cavia in trappola. Davanti al finestrone del piano,<br />
incrostato dallo sterco dei piccioni, si fermò. Io invece fui ben<br />
felice di proseguire. Non ero il capo io.<br />
Crocicchi di tribunale. Mi trovavo spesso a camminare per<br />
quei vicoli, in cerca di una via di fuga o di una qualunque<br />
alternativa. Non sono luoghi che facilitano la maturazione del<br />
pensiero, piuttosto lo riducono, lo frenano. Per corridoi<br />
impervi e ingombri di fotocopiatrici e armadi, tra targhette<br />
scollate, acquistate e composte per benino con le loro letterine<br />
bianche e rimuovibili, destinate a individuare cancellieri<br />
ormai in pensione da decenni. Un dedalo mortale, salve<br />
poche regole salva vita, note solo a pochi fortunati. Quei<br />
palazzi, pur nelle logiche diversità urbane, si rassomigliano<br />
un po’ tutti. Regole così si possono imparare facilmente e<br />
sono universali.<br />
Attenzione: un corridoio di cancelleria si distingue da<br />
quelli di presidenza per l’ingombro di divani in pelle. Si<br />
tratta di pura segnaletica orizzontale o meglio trasversale. I<br />
divani non sono pensati per il personale amministrativo. Se<br />
c’è un divano di pelle, anche consunto, di quella pelle antica,<br />
quasi cuoio, che regge il tempo con dignità e magari una<br />
vecchia lampada con paralume di velluto rosso cardinale,<br />
allora si è in prossimità del magistrato capo dell’ufficio.<br />
Bene, perché qui si può godere della vista esclusiva di quattro<br />
leoni rampanti ai piedi di ogni armadio o delle scrivanie,<br />
e di un ascensore ormai di interesse storico, eppure ancora<br />
funzionante. Un miracolo della nostalgia. Se, invece, s’individua<br />
solo qualche poltrona, ma non un divano biposto,<br />
allora si è al piano dove soggiornano gli altri magistrati. Un<br />
paio di leoni rampanti si possono trovare anche lì, in via<br />
68
esiduale. L’unica zona munita di videocitofono e controlli<br />
virtuali è quella della Procura della <strong>Repubblica</strong>, peccato che<br />
spesso il citofono sia solo un monile prezioso appeso alla<br />
parete, esclusivo ma non funzionale, e la porta resti sempre<br />
aperta. A chi bussa, nessuno chiederà chi è e se qualcuno,<br />
per caso o progetto, nasconde uno o più ordigni sotto il<br />
braccio, invece di un fascicolo, nessuno ci troverà nulla da<br />
ridire. <strong>La</strong> guardiola rimanda auree luminescenti e miraggi<br />
da Sahara: non ci passano neppure quelli delle pulizie alla<br />
mattina. Diversamente, se s’inciampa in cassettiere, cestini<br />
gonfi di fogli appallottolati e bicchierini di carta, si è giunti<br />
in una cancelleria. Ad ogni snodo riposano almeno tre fotocopiatrici<br />
rigorosamente spente. Ultimo girone: l’ufficio del<br />
consegnatario economo. Qui troverete solo ammassi di<br />
mobilia in disuso e resti di personal computer Ibm, di vecchissima<br />
generazione. In genere a questo punto della corsa,<br />
si è quasi presso gli archivi, le stanze dei tecnici informatici,<br />
il garage e i suoi topi domestici. Quali esalazioni e con quali<br />
effetti siano costretti ad assorbire gli allocati resta ancora un<br />
m i s t e r o .<br />
Io avevo già appreso i trucchi del mestiere, benché residuassero<br />
ancora terre praticamente sconosciute, corridoi<br />
che non avevo percorso mai e forse mai avrei percorso.<br />
Chissà la vecchia in quale anfratto tra questi si era smarrita<br />
quel giorno.<br />
<strong>La</strong> vecchia si era persa, mentre la moglie del farmacista<br />
non avrebbe avuto di questi problemi. Per lei era diverso. Lei<br />
era dell’ambiente: andava a trovare di frequente la sorella nel<br />
suo ufficio al terzo piano del tribunale; conosceva persino le<br />
uscite di sicurezza da sfruttare per pause caffè allungate fino<br />
all’inverosimile. Non avrebbe avuto un ruolo ufficiale nelle<br />
nostre indagini, poiché non era presente in farmacia il giorno<br />
del delitto. Sì, avevamo verificato: la donna era a ronzare dietro<br />
il suo bancone per le relazioni con il pubblico, in<br />
Comune, dove lavorava ogni giorno dalle 8 alle 14; trentasei<br />
ore alla settimana. Il dirigente amministrativo confermò guardando<br />
il registro delle firme del personale. Pare che fosse<br />
69
molto ligia ai suoi doveri: mai un giorno d’assenza in più,<br />
rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo; oltremodo<br />
gentile, disponibile, efficiente, riservata.<br />
<strong>La</strong> sua restava comunque una posizione assolutamente privilegiata<br />
per tenere la situazione sotto controllo. Aveva conoscenze<br />
in tribunale utili a carpire notizie sullo stato della procedura<br />
che vedeva coinvolto il marito. Che ci fossero in giro<br />
individui che non potevano permettersi di dirle di no, ormai<br />
era chiaro. Il punto era che, né lei, né noi, eravamo ancora in<br />
grado di dire quanto il marito fosse coinvolto nella vicenda<br />
del nostro morto ammazzato. Magari la donna temeva di<br />
essere convocata in Procura da un momento all’altro, e invece,<br />
noi, burloni, convocammo il marito.<br />
Il marito per cogliere anche la moglie. Aprire un toast a<br />
metà e annusarne solo una fetta, per intuirne l’originario<br />
ripieno. Una cosa di questo tipo.<br />
Tanto altri, dopo, avrebbero fatto della procace impiegata<br />
ministeriale carne da macello in altre indagini. Forse. Per<br />
intanto la signora Bourtaki rimaneva vigile e rotonda. Mi<br />
compariva davanti all’improvviso e di continuo, ovunque. In<br />
tribunale, e non solo. Buongiorno dottore, e io rispondevo, ma<br />
la bocca mi si stirava stramba, sagomando una smorfia senza<br />
senso. Che ci faceva lì quella santa donna? Era sempre tra i<br />
piedi con il suo enorme deretano. Io, marmoreo, non rispondevo<br />
alle provocazioni. Avrà pensato che ero timido. Ma<br />
tanto non faceva differenza. Non ero il capo io.<br />
Così convocammo di nuovo l’uomo della Giordania,<br />
buono o cattivo che fosse.<br />
Era stato fisso in negozio la mattina del crimine. Non<br />
bastava. Volevamo sentire da lui se nel giorno dell’omicidio<br />
aveva visto tipi sospetti. Volevamo vederlo scomodamente<br />
seduto in una delle nostre scomode sedie in Procura. Ancora<br />
e ancora, volevamo porgli le medesime domande. Quali tipi<br />
sospetti? Quali? Come quali? È chiaro quali. Per esempio, tipi<br />
che sembravano far uso di sostanze stupefacenti, tipi sopra le<br />
righe, tipi che vanno di fretta, tipi che sembrano aver voglia<br />
di nascondersi, tipi con l’affanno, tipi lenti come lumache,<br />
70
tipi mai visti prima, facce che si ricordano o facce che si<br />
dimenticano. Insomma: tipi che ti danno una certa idea. Non<br />
so bene quale. Un’idea in qualche modo irregolare. Lo straniero<br />
aveva già detto che non ricordava niente di strano, ma<br />
volevamo che ci pensasse meglio e più a lungo. Dai, pensa,<br />
forza, parla. Qualcuno era entrato e non aveva detto buongiorno?<br />
Quella mattina aveva incontrato un tipo maleducato?<br />
Che ne so. Oppure uno che aveva detto buongiorno troppe<br />
volte? Un tipo gentile, lezioso, scontroso, un timido, un indeciso,<br />
un distratto, uno di poche parole o un chiacchierone.<br />
<strong>La</strong>rgo ai particolari. <strong>La</strong> memoria va stimolata, stanata, perseguitata,<br />
perché sputi fuori qualcosa. Fanno così gli investigatori,<br />
cavolo! Aveva visto uomini, donne, bambini, ragazzacci,<br />
magari preti? Bisognava riflettere. Quanti i soldi rimasti in<br />
cassa alla fine della giornata? Erano stati venduti oggetti poco<br />
richiesti, inconsueti: una sputacchiera d’argento, un alambicco<br />
di rame? Forza, concentrarsi, forza! Le domande piovevano<br />
come una batteria di proiettili.<br />
Bell’esempio di ritmo e jazz Ietta al lavoro. Ciononostante<br />
i risultati erano scarsi. Il farmacista balbettava e tirava fuori<br />
inutili interlocuzioni arabe da chissà quale bagaglio. Il colpo<br />
finale fu inferto quando il capo gli chiese di depositare la<br />
copia conforme del suo titolo di studio e della licenza all’esercizio<br />
della professione. Stoccata d’artista. I baffi tremarono.<br />
L’interrogato chiese subito un decaffeinato, che gli tirasse su<br />
le borse da sotto gli occhi, calate come il risvolto di una<br />
coperta sulla sua faccia forestiera.<br />
Passammo poi ad analizzare i rapporti esistenti tra il giordano<br />
e gli altri. Conosceva bene la proprietaria della libreria,<br />
non aveva difficoltà ad ammetterlo. Un giorno la figlia più<br />
piccola era caduta con il motorino all’angolo della strada e lui<br />
l’aveva medicata al gomito, su richiesta della madre. Solo un<br />
graffio. Erano corse da lui entrambe, madre e figlia, e lui<br />
aveva procurato loro del disinfettante e della garza adesiva.<br />
No, non erano stati necessari punti di sutura. Non si era fatto<br />
pagare. Il gentiluomo. <strong>La</strong> bambina aveva ringraziato, pulendosi<br />
il naso con il dorso della mano. Pareva strano a tutti noi<br />
che la vedova non avesse in negozio un armadietto del pron-<br />
71
to soccorso. Facemmo controllare. C’era, ma era vuoto. Vita<br />
difficile quella della vedova. Vita di lacune.<br />
Il ragazzo delle pulizie invece no, il giordano quello non lo<br />
conosceva. Facemmo notare che non era un ragazzo e lui<br />
ribadì: non lo conosco. Ma il capo non era convinto. Si vedeva<br />
chiaramente che non aveva voglia di mandare via il farmacista,<br />
che se lo sarebbe voluto tenere a lungo in stanza, a<br />
lisciargli il pelo fino a conquistarsi qualche elemento di conoscenza<br />
in più. Del resto, cosa avevamo per le mani al momento?<br />
Una vedova, una vecchia, un farmacista, una donna sferica<br />
e un morto di morte violentissima. Non molto.<br />
L’interrogatorio jazz durò circa tre ore, tra luci e ombre.<br />
Ebbe un ruolo non da poco la conoscenza della lingua, l’uso<br />
delle parole, la quantità e la qualità delle parole. Vuoi mettere<br />
Ietta con il giordano, per quanto riguarda l’uso del vocabolario<br />
della lingua italiana? Non c’era gara: è chiaro. Quello<br />
di Ietta era uno strapotere, era vincere facile. Alla fine, il<br />
mamelucco non lo ammise in modo netto, ma si capì che<br />
conosceva la vittima. Venne fuori che il farmacista conosceva<br />
bene gli orari delle pulizie in negozio e che, soprattutto, sapeva<br />
che lo sfortunato garzone di bottega non si occupava soltanto<br />
di tenere lindo il negozio, ma dava una mano. Sì, dava<br />
un’imprecisata mano alla vedova con figlie a carico. Non si<br />
riuscì a strappare niente di più.<br />
Come lo sapeva? Ci aveva parlato? Quando, quante volte,<br />
perché? Il farmacista s’inchinava e negava, negava e s’inchinava.<br />
Ma perché certi musulmani si inchinano tanto? Deve<br />
essere un fatto di liturgia del male oppure di teatro.<br />
Alla fine delle favole nemmeno una sigaretta. Erano ben<br />
poche le cicche ai nostri piedi, troppo poche per lo squallido<br />
noir che andavamo sviluppando. Avrei immaginato di camminare<br />
su un tappeto gommoso alla fine dell’interrogatorio. O<br />
nella nebbia. Macché. Mi sbagliavo.<br />
Quello del fumo, l’ho già detto, è un mio pensiero ricorrente,<br />
come anche quello delle medicine. Mi interrogo sul suicidio<br />
non violento alle volte, sulle sue trasformazioni. Il<br />
tempo trasformava i tabagisti e i loro ambienti, infatti.<br />
72
Nessuna nuvoletta intorno alla chioma nera pece del musulmano<br />
convertito. Ho pensato fosse strano, ma non l’ho detto.<br />
Del resto un farmacista non può fumare davanti alla clientela.<br />
Per coerenza, almeno, non dovrebbe. Questo, per di più,<br />
si dichiarava musulmano e salutista! Non beveva alcolici e<br />
non mangiava carne di maiale. Lui coltivava ben altro genere<br />
di passatempo e aveva preferito trascorrere le sue tre ore di<br />
agonia giudiziaria mordendosi le unghie.<br />
Sia chiaro: io sono molto attento ai dettagli. Riducono l’universo<br />
a uno spettro di significati accettabile anche per un<br />
uomo. L’insieme disarma. Di un soggetto guardo un piede, se<br />
capita, l’anello al dito, il bavero rialzato della giacca. Di rado<br />
l’insieme conta davvero qualcosa, come in una facciata di cattedrale<br />
barocca, ciò che svela è la minuzia. Mi accade anche<br />
con Angela, con il colore del suo rossetto.<br />
Quella volta lei si trattenne fino al lunedì sera; poi prese un<br />
treno della notte. Pendolarismo lo chiamano, e fa pensare a<br />
una inusitata patologia tendinea, una cosa che riguardi un<br />
piede o un ginocchio. In realtà rende bene l’idea del movimento<br />
oscillatorio che, dall’alto, ha netta la certezza della<br />
discesa e, dal basso, feroce quella della risalita. Stessa la partenza,<br />
stesso l’arrivo. Con continuità. Una noia mortale che<br />
finisce per cancellarti sia qui, che lì. Per esempio, se ti capita<br />
la Calabria per penzolare sullo stivale, sei un uomo morto. Va<br />
detto, i pendolari non sono tutti della stessa specie. Al<br />
momento i più tristi sono proprio i calabresi. C’è solo un pullman<br />
che trasporta frotte di studenti rassegnati all’isolamento<br />
come bovini in carri di legno. Prima nemmeno quello, quindi<br />
per i bovini calabresi quel rappresenta una conquista. Tra<br />
gli studenti qualche vecchia coppia che, dopo essere andata a<br />
trovare un figlio, tenta di tornare a casa e borbotta per tutto<br />
il viaggio in un calabrese arcaico, rabbioso, crespo. E poi ci<br />
sono questi loschi figuri che gestiscono il mezzo in regime di<br />
monopolio assoluto e fanno salire tutte le bestie che gli gira,<br />
a prescindere dal numero dei posti disponibili. Comprare il<br />
biglietto in anticipo in una qualche agenzia è una beffa per<br />
allocchi, ché al venerdì sera tutti i fuori sede vogliono torna-<br />
73
e a casa e ci tornano comunque. A qualunque costo. Del<br />
biglietto non frega a nessuno, si fa dove capita, come capita,<br />
se capita. <strong>La</strong> Calabria d’oggi li ha addestrati a costi altissimi e<br />
all’indifferenza. Scuola dura, ma efficace. Nessuna alternativa,<br />
nessun treno, nessuna speranza: una sola corsa. Sul pullman<br />
gli autisti, un paio, fanno scontrini ridicoli, piccoli e sottili<br />
come francobolli, e tutti salgono a bordo, comunque, ciascuno<br />
diretto verso il proprio inferno, che appare finalmente<br />
raggiungibile: centocinquanta uomini per sessanta posti, uno<br />
sull’altro, schiacciati sul pavimento, sugli scalini interni, le<br />
femmine sulle cosce isteriche del riccioluto brufoloso di<br />
turno, vicino di casa. Testa bassa: la polizia non deve vederli.<br />
Se il pullman riesce a decollare davvero, i ragazzi applaudono<br />
l’autista. Nessuna azione, nessun contributo personale volto<br />
alla costruzione di un qualche futuro prossimo, se non la<br />
magra soddisfazione del momento. Chi protesta è un nemico,<br />
un pazzo, un piantagrane. Gli altri se ne stanno a bordo per<br />
cinque ore gomito a gomito, gomito in bocca, ginocchia a<br />
ginocchia, ginocchio in bocca, schiamazzanti e incomprensibili,<br />
senza nessuna certezza circa la progressione delle fermate;<br />
gli autisti, infatti, fanno il percorso che gli pare e se non gli<br />
va più di guidare, fanno scendere tutti i passeggeri con i loro<br />
valigioni, per un ipotetico cambio del mezzo, anche in amara<br />
campagna, tra i lupi della Sila. Sono questi traumatizzati i<br />
futuri professionisti della Calabria da non abbandonare: ventenni<br />
che se ne stanno muti, purché si parta e si arrivi. Specie<br />
a Natale e Pasqua. E che vuoi fare e che vuoi dire. Il clima è<br />
quello della cecità mafiosa, che del Sessantotto ha fatto tanti<br />
piccoli falò da spiaggia, e giù a ridere. Quando ti abituano a<br />
tutto, l’orrore fa ridere a crepapelle. I profughi felici, innamorati<br />
persi dei loro carnefici, arrivano a Rossano Calabro in<br />
piena notte, si spera, si prega, mentre più di un padre aspetta<br />
il proprio figlio al buio, in macchina, con un plaid sulle<br />
gambe.<br />
Vivono più in fretta degli altri uomini, i pendolari, ecco il<br />
punto. Sono distratti. Portano pietre da un luogo a un altro<br />
come galeotti.<br />
74
I vani in affitto si svuotarono presto della mia Angela,<br />
lasciando qualche scolatura in fondo alla bottiglia di vino<br />
rosso, una spazzola sul bordo del lavandino, la copia del quotidiano<br />
mal stesa sulla poltrona, i bastoncini di crusca in una<br />
confezione trasparente, chiusa con un cordoncino di ferro<br />
filato intrecciato, nascosta in credenza.<br />
<strong>La</strong>sciò la sua eco. Da non credere, ma l’aggirarsi in una<br />
casa con la coscienza grave che altrove qualcuno è costretto a<br />
vivere senza di te, rimanda suoni sinistri, quasi che i pensieri,<br />
pensati troppe volte, restino intrappolati tra le mura domestiche<br />
e ritornino a formularsi in modo ossessivo, fino ad acquisire<br />
un suono autonomo. Da diventar matti, come cavalli, se<br />
già non lo si è.<br />
Particolari, dicevo. Condividevo la tecnica di Ietta: grattare<br />
la patina superiore dalla glassa che offusca e irrigidisce la<br />
memoria, partendo dal dettaglio e da quello ricostruire<br />
momenti, ore, intere giornate. Audace sempre; efficace soltanto<br />
a volte. È una tecnica d’indagine che ho appreso e riutilizzato<br />
in molte circostanze. Il ritmo fa la differenza e, onestamente,<br />
ho qualche difficoltà a riprodurre proprio quel<br />
ritmo specifico, quello e non un altro, quello del gran capo<br />
Ietta. Mi spiego meglio: all’interrogato non bisogna concedere<br />
respiro. Dice Ietta. Nemmeno per un solo istante. Una gragnola<br />
di interrogativi che gli aprano la testa a metà. Io invece<br />
non resisto: se il tipo sotto pressione chiede un bicchiere<br />
d’acqua, per esempio, non riesco a dire aspetta cocco mio, e<br />
proseguire. Io il bicchiere non glielo nego e nell’acqua annega<br />
la memoria del particolare, proprio quella che stava per<br />
emergere. Il mio, più che un buon jazz, è un valzer, sicuramente<br />
un ballo di coppia; spero di qualità discreta, ma pur<br />
sempre un valzer. Moderato, meno imprevisto. Più regole<br />
fisse. Di solito è sufficiente il mio valzer. D’accordo, può capitare<br />
la roccia, l’uomo che niente smuove, il bronzo, l’impenetrabile<br />
o l’assassino; può capitare è vero, ma sono eccezioni.<br />
Sul resto della materia umana si può lavorare con moderazione.<br />
Se uno non vuol nascondere nulla, perché dovrebbe fare<br />
resistenza? <strong>La</strong> resistenza, il più delle volte, non è un fatto con-<br />
75
sapevole e perciò ci si può lavorare. Può capitarti tra le mani<br />
l’assassino e allora sì che ci vuole la botta di jazz per spaccare<br />
in due il torrone di una personalità che cerca di tenere<br />
insieme i pezzi con tutte le sue forze. Ma da cosa lo riconosci<br />
un vero assassino? Come si interroga un assassino? Potrebbe<br />
essere addirittura più facile, considerato che in certi casi non<br />
c’è più nulla da rompere, tutto è già in frantumi. Ma poi,<br />
diciamolo, su mille individui da interrogare, quanti di questi<br />
sono assassini? E allora? A che serve tutta questa cagnara?<br />
Comunque sia, io ho rispetto per le pause degli altri e questo<br />
spesso mi frega. Mi ha addestrato mia moglie. Nella<br />
nostra danza, lei guida, io seguo, e sono un grande in questo.<br />
Mica tutti. Il nostro è un tango, un complicatissimo tango;<br />
volendo proseguire con la metafora: balli di coppia. Ho bisogno<br />
di una compagna. L’incarico lontano da casa fu un mio<br />
gioco di gambe imprevisto, una fantasia a cui lei non era preparata.<br />
E per questo la mia compagna inventò subito la sua<br />
variazione. L’ho detto, lei non tollera gli imprevisti, forse perché<br />
ha vissuto tutta la sua infanzia e parte dell’adolescenza in<br />
piedi su un cornicione, a sfidare folate casuali. I suoi genitori,<br />
perennemente prossimi a una separazione che non ha mai<br />
smesso di annunciarsi come la più cruenta vista nella storia<br />
dell’uomo, erano il vento; quei due burloni non le hanno mai<br />
svelato i loro piani, ammesso che ne avessero, l’hanno lasciata<br />
da sola ad aspettare la fine. Ma lei parla di rado di questo:<br />
il suo cornicione ventilato se lo tiene dentro.<br />
Ricordo bene il suo gioco quel venerdì. I suoi occhi, la<br />
sciarpa, quello che mettemmo in bocca e la sua richiesta di<br />
avere un figlio. <strong>La</strong> sua variazione.<br />
Ecco. Questo non era un dettaglio. Ne avevamo già parlato,<br />
in generale. Quanti figli vuoi, cosa faranno da grande,<br />
quali le scuole. Roba così. Ma prima era diverso. Era un<br />
discorso equilibrato, mentre si mette in tavola per due. Non<br />
una colpa da confessare. All’inizio sapevamo che far figli era<br />
una delle possibilità, avevamo la percezione del tempo e ci<br />
sentivamo ancora qualcosa che diventa, che può diventare,<br />
ma non è. Era molto diverso. Adesso si trattava di mettere<br />
76
davvero un nuovo peso sul braccio della bilancia e ricercare<br />
un nuovo equilibrio. Non era solo un fatto di ormoni primitivi<br />
da assecondare. Quando ne parlammo, sembrava scaduto<br />
il tempo a mia disposizione. Mi venivano in mette le bolle<br />
di chewingum e fiato, che scoppiano sulla faccia stranita e ti<br />
si appiccicano fino al mento. <strong>La</strong> mia sorpresa non sembrava<br />
contare molto per Angela. Era determinata: avrebbe smesso<br />
di prendere la pillola da un momento all’altro. Ecco, non<br />
sapevo far calcoli, ma l’avrebbe fatto.<br />
Quando quel fine settimana Angela venne a trovarmi,<br />
facemmo un buon sesso, pieno di dettagli: lei mise una cravatta<br />
nera, e per me le cravatte nere fanno sesso, io bruciai<br />
qualcosa nell’aria, ma non avendo con me l’attrezzatura adatta,<br />
usai il fornello a gas in cucina e prese fuoco l’intero pacchetto<br />
di bastoncini profumati; così che oggi non ricordo più<br />
che odore avesse quel momento e questo mi spiace. Facemmo<br />
sesso con una cravatta come piace a me e con un profumo<br />
qualsiasi come piace a lei. Fu di venerdì che mia moglie mi<br />
parlò dei figli che avremmo dovuto avere. Di questa necessità.<br />
Io avevo da lavorare, c’erano le indagini da chiudere; non è<br />
che avessi molto tempo da dedicare a certi progetti. Lo dissi<br />
e lei nemmeno mi rispose. Non era come le altre volte. Non<br />
rideva di me. Parlò per quasi un’ora di filato, quasi a voler<br />
dare un segno nuovo e segreto ai suoi desideri. Mi parlò, mi<br />
parlò, e le sue parole erano, a ogni ritorno, diverse. Tra le sue<br />
preferite ne erano comparse due nuove di zecca: episiotomia<br />
e placenta; le ripeteva di continuo usando fiumi di saliva. E<br />
poi, c’era il fatto che aveva tagliato i capelli. I capelli e le parole:<br />
non potevo non intendere. Non so bene se quello che voleva<br />
erano davvero dei figli o piuttosto rimanere incinta. Il suo<br />
sembrava uno spasimo fisico. Un sacco vuoto da riempire.<br />
Questa è la riprova: la curiosità muove il mondo. Dei figli<br />
non si sa nulla prima che nascano, ma di quello che cela veramente<br />
la biologica opportunità di riprodursi siamo tutti<br />
curiosi come scimmie. Accada quel che accada.<br />
77
VI CAPITOLO<br />
“Quindi c’è un legame”.<br />
“Un legame? Ecco. Sì. Probabilmente la vittima ha frequentato<br />
la farmacia. Dobbiamo sentire di nuovo la proprietaria<br />
della libreria a questo proposito”.<br />
“E pure i preti?”<br />
“Va bene, pure i preti. Chissà come uscirà Ietta da questo<br />
labirinto”.<br />
“Bella signora la moglie, non credi? Elegante”.<br />
“Chi? <strong>La</strong> moglie del capo? Non mi sembra; non mi piace<br />
il trucco che usa. Troppo viola”.<br />
“Io non mi trucco”.<br />
“Infatti”.<br />
“E se mi volessi truccare?”<br />
“Vedremo, magari poi mi piace. Stasera gioco”.<br />
“Stesso squadrone di mercoledì scorso?”<br />
“No, magistrati contro polizia penitenziaria questa volta”.<br />
“Comunque è tutta una questione di soldi”.<br />
“Cosa, il calcetto?”<br />
“No, ma quale calcetto. I soldi, se ce li hai sei più bella”.<br />
“Con la squadra degli avvocati il mese scorso abbiamo<br />
perso, ma abbiamo perso proprio male: quelli con noi fanno<br />
allenamento e non mi piace. Poi stasera manca Antonio, quello<br />
bravo, ti ricordi? Quello della cancelleria civile. Siamo di<br />
meno. Mancano le figure chiave. Non vale così. Quegli altri<br />
hanno tutti trent’anni, noi di media ci aggiriamo sui cinquan-<br />
78<br />
…Sono sicura che mio marito se ne è andato. Mi<br />
aveva avvertita. Non gli credevo. Lui mi aveva<br />
incoraggiata a fare questo pellegrinaggio. Doveva<br />
sapere che quella offesa mi avrebbe fatto riflettere<br />
meglio di qualsiasi discorso che lui mi avrebbe<br />
fatto. Scopro lo scacco e le mie lacrime non servono<br />
a niente.<br />
Tahar Ben Jelloun
ta. <strong>La</strong> prossima volta, se è così, resto a casa, ché non ne vale<br />
la pena”.<br />
“Attento ai crociati”.<br />
“No, non forzo più come un tempo. Lo sai. Anche se gli<br />
avvocati giocano sporco. Dopo che mi sono fregato i legamenti,<br />
rotto un dente, e la pallonata nella palle… Lo sai che<br />
giochiamo alle 22.30? Perché uno di noi deve prima mettere<br />
a letto i figli; due figli piccoli, entrambi a letto, altrimenti la moglie<br />
non lo fa uscire”.<br />
“Grande compromesso! Donna seria questa qui, che si fa<br />
rispettare. Beata lei. Ma come fa? Me la devi far conoscere.<br />
Chissà se lei l’ha fatta l’episiotomia, la fanno a tutte ormai, lo<br />
sai? <strong>La</strong> percentuale dei cesarei è spaventosamente aumentata<br />
negli ultimi anni. C’è da dire anche questo. Si è persa la naturalità<br />
del gesto per paura, per avarizia. Per esaltazione tecnica.<br />
Non è, a dire: valutiamo prima l’elasticità di tessuti, la<br />
posizione del feto, le alternative, non è che stanno a scegliere,<br />
a distinguere, non ti fanno un esame prima. Tagliano e basta,<br />
e lo stesso discorso vale per il taglietto da praticare prima dell’espulsione<br />
in un parto naturale. Che sia un cesareo o un<br />
parto naturale, loro tagliano, allargano, si ritagliano una spazio<br />
chirurgicamente certo, e basta. Per pigrizia. <strong>La</strong> fanno e<br />
basta. Dicono che si debba fare per sicurezza, ma secondo me<br />
lo fanno anche per pigrizia”.<br />
“E che ne so io? Che c’entra il parto con la follia? Una<br />
pazza e basta. All’ora in cui siamo costretti a giocare, c’è un’umidità<br />
che ti inzuppa. Io non capisco proprio dove sta la<br />
necessità…”<br />
“Ma dimmi una cosa: cosa ti piace del calcetto, veramente?”<br />
“L’equilibrio e la regola. Tranne che con gli avvocati. Per<br />
forza. Sono dei vandali quelli, lo giuro, e poi finisce che si<br />
prendono confidenza pure sul lavoro. Con loro viene meno<br />
sia la regola che l’equilibrio”.<br />
“Sembra una balla zen, l’equilibrio e la regola… Ma va!<br />
Non ci credo nemmeno per sbaglio”.<br />
“Vabbè, mi piace un dribbling rapidissimo, che ne so, un<br />
tiro al volo, il suono della palla che scheggia il palo e poi s’in-<br />
79
sacca, troppo bello! Mi fa sentire ancora capace. Piacere fisico,<br />
è questo alla fine. <strong>La</strong> circostanza casuale che procura un<br />
casuale piacere. Comunque, con gli avvocati è uno schifo e la<br />
magistratura è vecchia ormai”.<br />
“Vi vogliono cancellare dalla faccia della terra”.<br />
“E poi chi gli dà da mangiare?”<br />
“E chi è che ci mangia davvero con il lavoro di avvocato?”<br />
“Non parlo di avvocati come te, è ovvio! Parlo di quelli<br />
che guadagnano. Quelli veri”.<br />
“Grazie tante!”<br />
“Così non vai lontano. Non può essere un ripiego. Il lavoro.<br />
Ci vuole altro per te. Tutti abbiamo bisogno di qualcos’altro”.<br />
“Tipo?”<br />
“Ad una certa età il movimento è importante. Tu vai in<br />
palestra. Tre volte alla settimana, no?”<br />
“E secondo te la palestra può bastare?”<br />
“Che ne so”.<br />
“Adesso ci vado quattro volte. Ho tempo da perdere per<br />
ora, finché la mia vita non si decide a cambiare davvero. E tu<br />
invece. Perché non pensi al golf? Che costa molto di più, è<br />
vero, ma ti preserva i denti dalla furia dei colleghi. Che ne dici<br />
del golf? Eh? Pensaci. Torni venerdì? Magari andiamo al<br />
cinema. Devi scegliere tu il film, la settimana scorsa ho scelto<br />
io, ora tocca a te”.<br />
“Certo. Vengo. Abbiamo rallentato con le intercettazioni.<br />
Le indagini stanno subendo uno stop perché Ietta ha altre<br />
cose per la testa. Questioni di associazione, mi pare. Sta pensando<br />
a fare carriera. Tutto sommato, per lui il nostro è un<br />
lavoro come un altro. Non è come me: io non posso essere<br />
stanco. Ha diritto pure lui. Poveraccio. Si macina da giorni<br />
sulla stessa storia. Adesso ci vuole la svolta”.<br />
“Ma è un lavoro come un altro!”<br />
“Non credo”.<br />
“Che fai? Come quello della corte d’appello di Bari che<br />
l’hanno portato via con la forza e nella stanza c’aveva appeso<br />
il poster di Guevara, di Toro seduto e di Falcone? Se li guardava<br />
tutto il santo giorno. E magari ci parlava. Vuoi finire<br />
80
come quello? Sono persone con problemi, è chiaro. Cosa<br />
c’entra il lavoro che uno fa con quello che è? Bisogna cercare<br />
di separare. Di… scindere”.<br />
“Non so”.<br />
“E già. Non rientra tra i tuoi obiettivi. Sempre così. Se tu<br />
riconosci una cosa come importante, dai il massimo.<br />
Altrimenti semplicemente non esiste.<br />
“E quale dovrebbe essere l’obiettivo questa volta? Hai da<br />
suggerirmi qualcosa?”<br />
“Scindere”.<br />
“E cioè?”<br />
“Trovare altre forme. Scindere, appunto. L’anima per<br />
esempio, senza il resto”.<br />
“Scindere, sì, va bene, come vuoi. Adesso basta. Ti ho<br />
detto quello che abbiamo intuito del signor Corietti?”<br />
“Cioè?”<br />
“Ah. Non ti ho detto le novità?”<br />
“Che era gay? Sì, me l’hai detto. Il secondo colpo di scena.<br />
Prima il giro di prostitute snob organizzato dalla farmacista e<br />
poi, a sorpresa, le novità circa i gusti sessuali della vittima. Ma<br />
come l’avete scoperto? Ci siete arrivati rovistando nel suo<br />
appartamento? Giarrettiere, trucchi da donna, parrucconi?”<br />
“Era omosessuale, Angela, non un travestito”.<br />
“Questo muta il quadro. Subentra l’elemento passionale?”<br />
“Forse”.<br />
“Allora, cercate un altro uomo. Non credo che lo straniero<br />
possa… Non mi pare proprio il tipo, considerata l’oscura<br />
descrizione che mi hai fatto”.<br />
“E perché no?”<br />
“Già, perché no? Che dici se prendo appuntamento da un<br />
nutrizionista?”<br />
“Cosa?”<br />
“Niente. Un’idea del cavolo. <strong>La</strong>scia stare”.<br />
“Buono sarebbe trovare il compagno della vittima, perché<br />
è certo che ci fosse almeno un compagno fisso. Uno che frequentava<br />
abitualmente. Una figura nuova. Adesso o mai più.<br />
Per questa ragione, secondo me, può essere determinante la<br />
vedova, la proprietaria del negozio”.<br />
81
“<strong>La</strong> cosa si fa sempre più interessante. Cercate tra i frequentatori<br />
abituali del negozio”.<br />
“Oppure nel giro di amicizie della vittima”.<br />
“Sì, anche. Datevi una mossa, però. Sfruttatela questa<br />
improvvisa fortuna”.<br />
“<strong>La</strong> vedova ci ha fornito l’elenco completo dei suoi clienti,<br />
insieme al bilancio commerciale. Tutti preti o quasi: parroci<br />
della provincia e mamme di chierichetti con gli occhiali, a<br />
comprargli il vestitino. Bellini. C’era pure qualche catechista,<br />
che ci teneva a tenersi aggiornata e si comprava dei manuali<br />
con le illustrazioni”.<br />
“E che fate: sentite tutti i clienti?”<br />
“Ma sei pazza, e quando finiamo così? C’è un limite a<br />
tutto”.<br />
82
VII CAPITOLO<br />
Si può amare un monumento, un’architettura,<br />
un’istituzione come tale solo nell’esperienza a sua<br />
volta precaria della sua fragilità: essa non è sempre<br />
stata là, non sarà sempre là, è finita… Come amare<br />
altrimenti se non in questa finitezza? Da dove verrebbe<br />
altrimenti il diritto di amare, l’amore per il<br />
diritto?<br />
Jacques Derrida<br />
Facevo finta di essere io la vittima e immaginavo chi avrebbe<br />
voluto farmi del male. Molto male. Esercizi di empatia. Un<br />
indagatore si aiuta con visioni spontanee, con esercizi quotidiani,<br />
se non ha altro su cui lavorare. L’empatia è un esercizio<br />
possibile, comodo in quanto spontaneo, che si distingue dalla<br />
mera imitazione. Prima dei trent’anni il mio unico desiderio<br />
era diventare identico a quelli che più mi piacevano; dopo i<br />
trenta ho scoperto l’empatia, che è ben altra cosa, nel bene e<br />
nel male. È consonanza, orecchio musicale.<br />
Il Corietti in vita era stato un uomo molto riservato; in<br />
pochi sapevano qualcosa di lui. Eppure la signora Florio si<br />
fidava, tanto che non di rado capitava che lasciasse il negozio<br />
nelle sue mani. Molti clienti in passato avevano avuto modo<br />
di trattare direttamente con il Corietti, e ne ricordavano bene<br />
i modi bruscamente affettati, le mani affusolate che increspavano<br />
approssimativi pacchetti regalo, il suo rispondere al<br />
telefono con un eloquio flautato da cardellino in amore, usando<br />
verbi generosi. Dicevano. Prendeva appunti con scrittura<br />
affilata su piccoli notes, custoditi accanto al telefono; spesso<br />
fissava con la Curia vescovile appuntamenti, messe commemorative,<br />
stampe di locandine. <strong>La</strong> padrona si fidava davvero<br />
o erano solo voci? Chi poteva dirlo.<br />
Come quella volta che era andata dal dentista, il giorno del<br />
delitto. Sapeva bene che il Corietti l’avrebbe dovuta sostitui-<br />
83
e in negozio per più di qualche ora. Si fidava quindi, e questo<br />
poteva lasciar intuire una qualche intimità; anche se in<br />
realtà nulla escludeva che si fosse trattato di una necessità<br />
occasionale.<br />
Mentre il Corietti crepava, la signora Florio era seduta<br />
sotto il neon rotondo, su una sedia tipo sdraio, con l’imbottitura<br />
in pelle e i braccioli da stritolare nello strazio da trapano,<br />
con il cavadenti che non fiatava, neppure per mera pietà. E<br />
non sappiamo se era in pensiero per le sorti del suo negozio<br />
oppure no.<br />
Era stata lei stessa a dirci che il suo dentista era un tipo<br />
che parlava poco (al contrario di molte delle sue clienti,<br />
aveva aggiunto), solo il necessario, e si era perso tempo quella<br />
mattina non per chiacchiere da parrucchiere, non sia mai,<br />
ma a causa di un’altra paziente, arrivata in studio prima della<br />
vedova, quasi all’albeggiare, che lamentava un dolorino qui,<br />
un altro lì, mal di gola, mal di gengiva, mal di vivere; non trovava<br />
pace, insomma. E non si capiva cosa avesse questa santa<br />
donna, poiché tutti gli interventi tecnici d’emergenza nella<br />
sua bocca larga non avevano prodotto effetto alcuno. Il<br />
medico, uomo saggio, seppur taciturno, se la prendeva con<br />
se stesso, che distrattamente aveva anticipato alla cliente che<br />
la capsula da lui creata intorno al dente malato avrebbe<br />
potuto darle fastidio in futuro. Lo sapeva: mai parlare troppo<br />
con i clienti, ché può capitarti il soggetto apprensivo e sei<br />
finito.<br />
Per questa ragione non faceva commenti il dentista della<br />
signora Florio. Di solito. Le si era fratturato un dente, ormai<br />
in crisi da un po’, e lui niente, nessuna chiosa: cosa fare, come<br />
intervenire, cavarlo o dargli un’altra possibilità; niente. Aveva<br />
estratto il pezzo rotto dopo l’anestesia, davanti agli occhi supplicanti<br />
della paziente e poi, dopo una lunga pausa, un respiro<br />
cavernoso e un’aggiustatina alla montatura degli occhiali,<br />
aveva sussurrato: mezzo dente non serve a niente. Segnandone<br />
il destino. Il boia. Questa razza d’uomini di scienza, o non<br />
parla o parla troppo! Quel giorno non poté raccontare la storia<br />
del dentista al fidato Corietti, come avrebbe voluto, per<br />
sfogarsi quel tanto, come era sua abitudine. A sentir lei.<br />
84
Quello era già bello che crepato al momento della pronuncia<br />
della sentenza relativa al dente ammorbato.<br />
Ma parliamo della vittima. <strong>La</strong> sua famiglia non era del<br />
posto, gente del sud, nel senso più assolato, crudo, solitario,<br />
sordo del termine, con cui non aveva rapporti da più di venti<br />
anni. Gente che aveva trovato facile e opportuno cavarsi dalla<br />
memoria il diretto congiunto, proprio come una mola marcia.<br />
Mi sembrarono dei gran bastardi, così, di primo acchito.<br />
Anche del nucleo familiare del Corietti, leggemmo i verbali;<br />
niente di più. Non si erano mossi prima, non si mossero<br />
dopo. I Borboni. Anche in quel caso, una bella delega all’indagine<br />
fatta per iscritto ai carabinieri, verso il fondo dello<br />
Stivale, e il gioco era fatto. Gli accertamenti fatti sul posto e<br />
incartati dai carabinieri, con qualche linfa oscura nascosta<br />
nelle pieghe, tra una pagina e l’altra, arrivarono via fax. Dal<br />
sud al nord.<br />
Ma c’era una moglie però. Sì, la vittima era sposato.<br />
<strong>La</strong> vendetta delle mogli? Chissà.<br />
Per amor di verità, dico subito che io quella donna non<br />
l’ho compresa mai del tutto. Sarà per quel dialetto settentrionale,<br />
con cui impiastricciava le parole, come fosse stato vecchio<br />
mascara grumoso, soprattutto le frasi più partecipate;<br />
sarà per quegli occhiali da sole a specchio anni Novanta, sempre<br />
sulla faccia immota, tipo cornice appesa alla parete. Che<br />
strana la sorte: per contrappasso, la moglie del morto era un<br />
tipo mascolino, con certi muscoli rudi, tirati sotto la camicetta,<br />
da far invidia. Era molto più giovane del marito; una sorta<br />
di liquido gassoso sbatacchiato, piccola, gonfia e pronta a<br />
spruzzare. <strong>La</strong>vorava in una palestra, come era facilmente<br />
intuibile dall’osservazione delle vistose virtù muscolari.<br />
Faceva la buttafuori, ruvidamente, ma finiva per occuparsi di<br />
tutto: dalle pulizie alle registrazioni dei clienti, dalla vigilanza<br />
alla manutenzioni degli attrezzi. E si allenava da sola.<br />
Fu lei a farci il nome del compagno del Corietti, ma senza<br />
rendersene conto.<br />
Quando, dopo, le rivelammo come stavano davvero le<br />
cose, si chiuse in un silenzio bellicoso e duro.<br />
85
Credo che quella sia stata la prima volta in cui vidi una faccia<br />
diventare altro. Definitivamente. Non più brutta o disperata<br />
o sconvolta, rispetto al momento prima della notizia.<br />
Altro. Non una faccia, ma un quadro, una rappresentazione,<br />
un articolo di cronaca nera. Non so. Altro. Forse, più semplicemente,<br />
la faccia di una donna che cambia i suoi lineamenti<br />
e diventa un’altra donna. Per sempre. Due persone diverse.<br />
Due facce diverse. A causa di una rivelazione.<br />
Tra le frequentazioni più assidue del marito, aveva raccontato,<br />
c’era quella con un amico di vecchia data; un compagno<br />
del militare, per la precisione. Anche quest’amico aveva<br />
moglie e così capitava che uscissero in quattro, senza figli,<br />
magari al sabato. Andavano a mangiare qualcosa e a scambiare<br />
due parole, ma non troppo spesso comunque, che si tirava<br />
la cinghia e il soldo non bastava mai. Figurarsi ad aver figli. E<br />
chi ci pensava ai figli? Si sa: la palestra consentiva entrate<br />
variabili e il lavoro al negozio non era poi una grande sistemazione.<br />
C’era l’esigenza di arrotondare, se potevano, quando<br />
potevano, come potevano. Non avevano voglia d’accrescere i<br />
disagi, e per far figli bisognerebbe averne voglia; quantomeno<br />
si deve fare sesso almeno ogni tanto, perché possa capitare<br />
l’incidente. No, lui aveva voglia di far soldi e lei di far ginnastica.<br />
Quindi.<br />
Noi, magistrati all’erta, facevamo finta di comprendere le<br />
ragioni d’ansia della signora, palesate dal suo pettorale sospirante,<br />
ma, per me, quella donna parlava troppo poco della<br />
morte, della tragedia che le era capitata tra capo e collo,<br />
all’improvviso, in una giornata di pioggia. Non cercava assassini,<br />
così come invece avrebbe dovuto, per logica umana.<br />
Che li avesse già trovati di suo e volesse dimenticarli?<br />
Raccontava che il ragazzo era diventato uno di famiglia.<br />
Stava spesso da loro la sera, con o senza la moglie.<br />
Pensammo: forse quest’amico avrebbe potuto raccontarci<br />
qualcosa di più intimo sulla vita del Corietti. Bene. A quel<br />
punto sembravamo così vicini alla verità a qualche trappola<br />
segreta per topi scattata silenziosamente, grazie a una moglie<br />
androgina e glaciale. Finalmente un po’ di fortuna, e che diamine!<br />
Perché le intercettazioni telefoniche possono non<br />
86
astare; per quanto occasionalmente utili, forse necessarie.<br />
Alle volte bisogna guardarli in faccia certi uomini per capire.<br />
Alle intercettazioni, infatti, si ricorre soprattutto per casi di<br />
mafia: lì c’è la trama, l’umano intreccio. I telefoni aiutano a<br />
metter ordine, a ricostruire la cronologia degli eventi, a individuare<br />
luoghi, nomi, orari, legami, ma tra le auricolari, le<br />
pause e i bisbigli, possono perdersi le ragioni più profonde. Il<br />
senso. Negli omicidi, invece, contano pure le facce degli<br />
uomini. Il loro senso specifico. Stava forse nella faccia il<br />
segreto. No, Lombroso non c’entra. Anche se poi devo dire<br />
che, genetica o meno, è l’ambiente che dipinge le facce e<br />
Lombroso non era un fesso. Se una casa è sporca, sporca è la<br />
faccia che la abita. Poche chiacchiere: il corpo la fa da padrone;<br />
il corpo non sa mentire a lungo; il corpo parla tacendo. <strong>La</strong><br />
faccia, il luogo e la parola: la sacra triade. Che meraviglia per<br />
un praticante.<br />
Volevamo questa benedetta faccia, quindi. Il suo segreto.<br />
Già me la immaginavo: elementare, tipo foto segnaletica, ma,<br />
adesso che avevamo l’indirizzo dell’amico, era fatta.<br />
Potevamo farne un ingrandimento e metterlo in cornice.<br />
Perché una vita segreta ci doveva pur essere: una faccia, sì,<br />
pure due, con appresso un bel segreto succoso, qualcosa di<br />
caparbiamente celato sotto un’apparente serenità.<br />
Quella morte non poteva essere stata un errore. Al massimo<br />
un raptus, ma non un errore. Chi avrebbe potuto sostenere<br />
il contrario e apparire credibile?<br />
<strong>La</strong> faccia avrebbe spiegato, speravamo. Perché un uomo<br />
parla con un amico se ha un cruccio, se lo lascia sfuggire<br />
davanti a una birra o mentre aspetta che cominci la partita<br />
allo stadio. Ma il Corietti non andava allo stadio, tutt’altro, e<br />
la moglie non ne era per niente felice. Nessuna somiglianza a<br />
unirli. Ecco perché aveva bisogno di un amico il pover uomo.<br />
Diciamolo una buona volta: sono le affinità che uniscono. Sì,<br />
d’accordo, l’ esotico attrae, ma alla fine non si resta a lungo<br />
accanto a inspiegabili orecchie a punta simili a quelle di Spok.<br />
Io sono uomo di quelli: moglie e buoi. Almeno credo, non<br />
avendo avuto fino a oggi esperienze d’altro pianeta.<br />
Il Corietti non era solo. Menomale. Un amico c’era; non<br />
87
c’erano chiacchiere allo stadio, partitelle, d’accordo, forse<br />
neppure una birra ogni tanto, chi lo sa, ma almeno c’era una<br />
faccia che vagolava in casa come una scheggia, lasciando<br />
segni sui muri.<br />
Era quella la svolta nelle indagini che cercavamo da giorni.<br />
Se c’è un amico, ci devono essere per forza delle confidenze.<br />
A che servono gli amici altrimenti? Banale? Quando si<br />
fanno indagini di un certo tipo non ci si deve discostare dall’ovvio,<br />
sarebbe avventato. Esistono delle banalità utili a mettere<br />
in fila le idee come perline delle stesso colore. <strong>La</strong> psichiatria,<br />
per esempio, è scienza colma di ovvietà, o per lo meno di<br />
quelle che oggi ci sembrano tali, ma quale fatica riconoscerle.<br />
Si parte sempre da quelle, poi si vede.<br />
Però, quella del militare insieme, era una balla che i due<br />
amici concordemente avevano voluto raccontare alle rispettive<br />
mogli, al fine di giustificare la loro grande intimità. Non<br />
era mica così che si erano conosciuti i due uomini. Macché.<br />
Si erano incontrati, sorpresi e amati, grazie a un annuncio<br />
su di un giornale a tema specifico qualche anno prima, e a<br />
una casella postale anonima sempre piena di missive rosa.<br />
Tutto questo ce lo rivelò l’amico, successivamente.<br />
Le mogli non sapevano che erano amanti. Glielo raccontammo<br />
noi. Crudeli.<br />
Eppure le mogli dovrebbero avere un ruolo nel compiersi<br />
graduale di un’esistenza. È il mio caso, per esempio. Se<br />
dovessi pensare a un amico sarei in difficoltà, lo ammetto, ma<br />
mia moglie basterebbe. Lei racconterebbe di me ogni pulsazione<br />
senza sbagliarsi. È una fine narratrice.<br />
Amici, sì, qualcuno ma del passato, che il tempo ha truccato.<br />
Rapporti da rimettere in moto, impigriti, tanti ricordi, e<br />
qualche serena conoscenza più recente. Nata dal bisogno.<br />
Forse se avessimo dei figli, avremmo più amici. Come quelle<br />
coppie che s’incontrano ai giardinetti o davanti alle scuole, e<br />
si sentono parte di un meccanismo comune da oliare di continuo.<br />
Gli amici d’infanzia, invece. Accade che ci si renda conto<br />
che di ricordi simili ai propri, siano piene le vite di tutti, e<br />
88
questo li rende meno preziosi. Non so. Come le banconote,<br />
non hanno tutte lo stesso valore, ma sono della stessa razza.<br />
<strong>La</strong> storia dei grandi amici mi sembra una gran bufala. Tutti<br />
abbiamo almeno un amico. E quindi? Che bravura c’è? Chi<br />
ha detto che hanno più valore gli amici d’infanzia? Cretinate.<br />
Avevo un amico, per esempio, uno che adesso ha i baffi e<br />
quando l’ho rivisto per caso in banca, dove lavorava, ho pensato<br />
che strano, ha i baffi. Quello stupore ci ha reso lontani.<br />
Non ho pensato: ecco, come immaginavo si è fatto crescere i<br />
baffi, no, al contrario, ho pensato che era un fatto strano.<br />
L’amicizia troppo vecchia si carica di scelte non fatte o,<br />
comunque, diverse dalle proprie, perdute; di locuzioni non<br />
pronunciate, di fatti incomprensibili, di vecchiezza e, sotto<br />
questo peso, rallenta il passo. L’amicizia spesso è un abbaglio<br />
o una generalizzazione. Dopo, o si resta amici per stupore o<br />
per bisogno. Non si scappa. Forse, semplicemente, l’amicizia<br />
non esiste. Spesso manca il senso del possesso a coagularla, o<br />
ne avanza fin troppo a zavorrarla.<br />
Avevo un amico, un altro, un coetaneo con cui avevo diviso<br />
il pane ai tempi dell’università, ma era un tipo possessivo,<br />
con l’occhio allucinato di chi sospetta sempre un tradimento.<br />
Quando ho conosciuto mia moglie, lui ha avuto paura, la<br />
paura del primogenito la chiamo io, e così l’ho abbandonato<br />
in preda alle sue angosce. Non sono abbastanza generoso,<br />
non ci riesco. Devo pensare a me. <strong>La</strong>vorare su di me, per<br />
divenire un prodotto spendibile, interessante, utile. È un<br />
lavoro fatto anche nell’interesse degli altri, benevolo quindi.<br />
Ma molto impegnativo. Così, agli appuntamenti davo buca e<br />
facevo in modo che i reciproci impegni ci impedissero ogni<br />
incontro. Ho lasciato che accadesse e lui ha deciso di odiarmi.<br />
Liberissimo di farlo, ho pensato. Perché alcuni sono capaci:<br />
odiare a comando. Sanno farlo bene. Nonostante tutto,<br />
però, inspiegabilmente, mi mancava il suo sguardo ammirato,<br />
quel suo bisogno vacuo di assomigliarmi. Così, dopo anni,<br />
l’ho cercato. Per vanità e per astinenza. Mia moglie diceva<br />
che era una botta di insano egoismo la mia, e aveva ragione.<br />
È diventato un magistrato anche lui, anzi, per la precisione<br />
che mi contraddistingue, tengo a chiarire che la sua, iniziale,<br />
89
scelta professionale non era stata emulatoria. Lui, gran sgobbone,<br />
aveva preso servizio un anno prima e con un punteggio<br />
pure più alto del mio agli orali. Forse, come sempre, anche in<br />
quel caso, all’inizio ero stato io a imitare lui.<br />
Eravamo a una festa di capodanno – un avvocato rampante,<br />
con un villone di proprietà del padre, ha sempre dato serate<br />
mondane qui in città, in prossimità di quella che oggi è la<br />
tangenziale, su cui si affaccia la comunità più in vista, e ci passavamo<br />
anche noi ogni tanto, con un certo rossore in viso,<br />
ben dissimulato, ogni volta lamentandoci che ci fosse sempre<br />
la stessa gente, ma contando le presenze una per una, come<br />
candeline sulla torta, segnalando vistosamente le assenze,<br />
tutti con vestiti e acconciature nuove di zecca –, eravamo a<br />
questa festa, dunque, tra una folla coerente che s’allargava<br />
per il parco antistante, con il collo allungato all’inverosimile e<br />
qualche sigaretta in mano, che si sbriciolava in cenere elegante.<br />
Tutti con la stessa andatura dinoccolata e disinvolta, e lo<br />
stesso modo di ridere, tutti con una mano sulla spalla di un<br />
altro, a catturarlo, come in una specie di sirtaki.<br />
È stato lì che ho rivisto il mio vecchio amico. Parlava con<br />
una tizia.<br />
Mi è venuta voglia di riabbracciarlo. Incontrollabile è arrivata<br />
questa strana specie di nostalgia. <strong>La</strong> voglia di mettere<br />
anch’io la mia mano sulla spalla di un altro. Tutta colpa di<br />
quel mio solito desiderio di conciliazione, di sanatoria, desiderio<br />
fallimentare che mi trascino dietro come un mulo. L’ho<br />
fatto come l’avrei fatto se si fosse trattato di mio padre. L’ho<br />
toccato con le mani. Ho toccato quest’amico che non vedevo<br />
da anni. Mai toccare con le mani un altro essere umano, se<br />
non assolutamente necessario. È fuoco. Quando ho sentito i<br />
muscoli delle sue spalle irrigidirsi e lo sguardo accendersi in<br />
una visione onirica, già in quell’istante, ho capito che non era<br />
quello che volevo. Che avevo fatto un’enorme cazzata. L’ho<br />
abbracciato ed è ricominciato il tormento. Le sue telefonate<br />
hanno ripreso a mitragliare il mio orgoglio e solo di rado le<br />
mie reazioni erano sincere. Quello che c’era stato in mezzo,<br />
tra il prima e il dopo, aveva reso impossibile la comunicazione.<br />
Questo è l’amicizia: un recinto. Una lampadina soggetta a<br />
90
ipetuti cali di tensione. Ho cercato di spiegargli chi ero<br />
diventato, che ciò che lui ricordava non esisteva più; a volte<br />
lo facevo con autentico trasporto, mentre era quasi piacevole<br />
risentire la sua voce di un tempo pronunciare le solite menate.<br />
Ma lui ha preso a parlare di sé, ché del resto di me non<br />
sapeva un tubo. Ha intessuto in un baleno un vomitevole elogio<br />
della giovinezza, la sua, manco avessimo avuto ottanta<br />
anni. Andava ripetendo che dovevamo lasciar stare le rispettive<br />
mogli, che due uomini come noi avevano bisogno di stare<br />
un po’ da soli di tanto in tanto; di prendersi delle libertà. Di<br />
sospendere il ritmo. Certe cose le nostre donne non potevano<br />
capirle, diceva. Quali cose? Il ritmo, quale ritmo? Benvenuto<br />
il ritmo, uno qualunque, purché adatto al vivere, pensavo io.<br />
Cose di uomini, diceva lui. Evviva, pensavo io. Uomini, quali<br />
uomini?<br />
L’ho scaricato di nuovo appena ho potuto. Non nego che<br />
all’inizio lui abbia cercato di vendicarsi, facendo leva su certe<br />
mie riservatissime emozioni che gli erano note. Era convinto<br />
che avessi messo in moto tutto il meccanismo perverso del<br />
riavvicinamento a causa dello storico irrisolto rapporto con<br />
mio padre; che lo avessi usato come terapia. Anche lui come<br />
tanti conosceva mio padre. Per la stessa ragione, era certo che<br />
avessi ipotecato tutti i miei fine settimana di riposo, destinandoli<br />
in modo esclusivo a una moglie, per sentirmi migliore.<br />
Una moglie. Una? Come sarebbe a dire una? Furono le sue<br />
uniche affermazioni di un certo rilievo, prima dell’abbandono<br />
definitivo. Non era proprio un cretino, comunque.<br />
Chissà cosa avrebbe mai potuto raccontare di me questo<br />
vecchio amico, se un giorno qualcuno avesse deciso di farmi<br />
tacere per sempre con trentotto crudeli coltellate.<br />
L’ho rivisto qualche anno più tardi, quando cominciammo<br />
a frequentare giri diversi. Per Capodanno si usava andare<br />
nella villa, non più dell’avvocato, ma di un magistrato molto<br />
noto sul territorio. Ci andavano tutti. Per la verità, la villa dell’avvocato<br />
era più grande di quella del magistrato, ma ci<br />
andavano tutti, perché lo spazio fisico non ha importanza nel<br />
jet-set. I metri quadrati sono un piacere da parvenu. Ci<br />
andammo una volta anche noi. Con Angela volevamo vedere<br />
91
di che si trattava, dove stavano le differenze. Non di certo nel<br />
biglietto d’ingresso, che aveva più o meno lo stesso costo, non<br />
nel menù, che esalava più o meno gli stessi profumi robusti<br />
della tradizione locale. <strong>La</strong> differenza era data dal numero<br />
delle persone presenti – molto più frequentata la festa dell’avvocato,<br />
a causa del grande affollarsi del foro – e dal contenuto<br />
delle conversazioni. I magistrati, a differenza degli avvocati,<br />
parlano dei colleghi, parlano di sedi presso cui trasferirsi se<br />
l’anzianità di servizio lo consente; spesso si tratta di naufraghi<br />
giudiziari in attesa del prossimo bollettone, zattera ufficiale<br />
ma instabile, che trasporta domande di trasferimento, nuove<br />
assegnazioni, pensionamenti, rinunce e graduatorie. Di conseguenza,<br />
come è intuibile, l’anzianità ha un grosso rilievo tra<br />
i colleghi, quindi i magistrati parlano anche di anni di servizio.<br />
Sono racconti, mica verità. Teatro puro.<br />
Nelle feste dell’avvocato, anche oggi, c’è un maggiore<br />
investimento di denaro. Ragioni di rappresentanza, credo.<br />
Denaro produce denaro. Lo sanno anche quelli che non ce<br />
l’hanno.<br />
Ciò che conta è che la festa riesca bene e se ne parli a<br />
lungo. Quindi, se c’è la possibilità, che ne so, di far esplodere<br />
una schioppettata di palloncini colorati giunta la mezzanotte,<br />
o di fuochi d’artificio mirabolanti a forma di cigni<br />
avvinghiati tra loro, in segno benaugurale, lo si fa senz’altro,<br />
a qualunque costo. I soldi in qualche modo vengono fuori.<br />
Se, per esempio, è possibile chiamare un gruppo di rokkettari<br />
vestiti di metallo, lo si fa senza indugio, per tagliare le catene<br />
agli invitati che, spesso, sono di una certa età, eppure,<br />
davanti al revival, non sanno resistere e quasi si commuovono.<br />
E quindi che ballino i vegliardi, che si scatenino, via! E se<br />
gli viene un coccolone, peggio per loro: si riduce il numero, si<br />
allarga la dimensione della fetta di torta per quelli che sopravvivono.<br />
Alle feste dei magistrati, al contrario, niente effetti speciali.<br />
Apparente sobrietà. Ci sono invece tanti bravi bambinetti<br />
vestiti di velluto e organza. I figli. Qualcuno ha jeans con perline<br />
colorate ai bordi delle tasche griffate. Sembrano tutti<br />
uguali. Nel prezzo del biglietto si fa rientrare l’animazione,<br />
92
con annesso spettacolo di marionette, cucite in casa da studenti<br />
in cerca di occupazione. Bisogna pure animarli questi<br />
piccini vellutati! E amarli quanto basta, mentre producono<br />
quel loro baccano infernale. Ho ancora ben presente quelle<br />
urla disumane, vicine allo stridere dei gabbiani al porto quelle<br />
delle femminucce, simili alle stecche di tromboni gorgoglianti<br />
d’acqua quelle dei maschietti. Bambinetti a spintonarsi,<br />
a saltare con scarpe che sembrano ferrate, come fossero<br />
mille o più, spalmati fin sotto i piedi, sui tappeti, tra una porta<br />
e l’altra, a farti inciampare di continuo, a farti sentire in colpa<br />
per averli ammaccati un po’ camminandoci sopra senza volerlo.<br />
Almeno zittirli, davvero, con un pestone. Macché: così si<br />
riusciva soltanto a farli strepitare ancora di più. I figli.<br />
<strong>La</strong> sera in cui ci andammo, di diverso, oltre la prole, c’era<br />
pure che io ero meno rilassato: la giacca nuova, ben abbottonata,<br />
mi tirava in vita come una ciambella di gomma per i<br />
primi tuffi. Il nodo della cravatta troppo stretto. Mi abituavo<br />
alla professione, ma avevo ancora qualche imbarazzo con l’abito.<br />
Angela invece no, o almeno così mi sembrava: era elegante<br />
nel tubino, magra e nera, nata così, riflessa nei vetri<br />
smerigliati che separavano i diversi salottini pluridivanati. Lei<br />
non conosceva bene nessuno, ma di vista tutti, e la panoramica<br />
furtiva ed efficace sugli invitati presenti, faceva tanto rotocalco,<br />
senza alcun obbligo di socializzazione.<br />
Gli altri sembravano sempre meglio vestiti di me. Che strano,<br />
prima come adesso.<br />
Ogni volta che mi veniva presentato qualcuno, era di rigore<br />
puntualizzare: le presento il collega… ecco il collega… oh,<br />
che caro collega… lei è il collega?… le presento la moglie del<br />
collega… i figli del collega… Ci tengono i magistrati alla loro<br />
colleganza; è un fatto.<br />
Non ricordavo un nome neanche per sbaglio, ma in compenso<br />
avevo la garanzia assoluta che si trattasse di colleghi –<br />
questo sarebbe dovuto bastare – e che vestissero benissimo i<br />
loro fresco lana antracite. <strong>La</strong> cosa sembrava importante. Non<br />
per fare del razzismo, ma le donne in giro quella sera, che fossero<br />
colleghe o mogli di colleghi o affini, erano tutte un po’<br />
chiatte, (ma le affini, devo dirlo, meno chiatte delle altre), di<br />
93
certo più chiatte delle avvocatesse, senza dubbio, poco frivole<br />
o pedantemente frivole, e parlavano animatamente di<br />
democrazia, azione, tanto che la presenza sul posto di ciascuno<br />
poteva sembrare in qualche modo connessa all’integrarsi<br />
di una funzione sociale. I magistrati erano sposati per lo più<br />
con altri magistrati, conventicole coniugali, ed erano amici<br />
intimi di altri magistrati, solo tra loro avvenivano i contatti<br />
più profondi, il vero scambio di esperienze significative, ma<br />
non di certo sorprendenti. Scambi di codici umani per categorie.<br />
Tra loro si annusavano, toccavano, amavano, invecchiavano.<br />
Gli invitati, quindi, sembravano dare un senso socialmente<br />
e altamente rilevante al luogo, al tempo, alla mezzanotte<br />
che sopraggiungeva ignara. Nutrivano di bocconi nuovi<br />
una sorta d’ideologia presistente. Nutrire oltre che nutrirsi. O<br />
almeno così mi pareva, così vedevo la cosa, quasi che le giacche<br />
e le gonne e i décolleté si muovessero piano nella penombra<br />
delle sale per capire, per correggere, ordinare.<br />
Gli avvocati invece no, quelli si dislocavano senza doppi<br />
sensi, all’apparenza.<br />
Questo, però, accade fino a quando un avvocato non si<br />
trova in presenza di un magistrato. Ammettiamo che i due<br />
s’incontrino, per esempio. Se sono solo conoscenti, l’avvocato<br />
invidierà potere e ruolo e avrà modi riverenti, il magistrato<br />
invidierà i soldi dell’altro, se è uno dei pochi che ce l’ha<br />
fatta, e conserverà toni distaccati. Un classico delle relazioni<br />
umane, ieri, oggi, domani, credo. Cowboys contro Indiani. <strong>La</strong><br />
sede del bene o del male, dipende dal disegno, dalla regia,<br />
dall’occhio. In gruppo l’avvocato non svolge alcuna funzione,<br />
si diverte se può e stop. Il magistrato, nel branco, invece,<br />
sente di rappresentare la collettività, immagina che dietro la<br />
sua voce si celi quella di altri. Tutto questo perché non c’erano<br />
amici lì in mezzo, solo individui astratti e il loro immaginario.<br />
Si divertiva la mia donna, intanto. Grazie! Quando si<br />
andava in casa dell’avvocato, invece toccava ad Angela sentirsi<br />
sotto i riflettori. Un supplizio alternato, il nostro.<br />
Bisognava che, una volta per tutte, si decidesse con equità<br />
che non avremmo frequentato più questi ambienti: ormai il<br />
quadro della situazione ci era chiaro. Inutile fare i cani da<br />
94
salotto, ché ogni curiosità era stata ormai saziata. Si poteva<br />
provare a star da soli e dimostrare a noi stessi che eravamo<br />
davvero in grado di farlo, come andavamo sostenendo sin dai<br />
nostri primissimi incontri. Vederci fluire in materialità tra la<br />
gente.<br />
Quella sera alla villa del giudice, nella punta delle scarpe<br />
come un sasso, c’era anche quel mio vecchio amico d’università<br />
– avrà fatto di certo anche lui i suoi bravi calcoli su come<br />
fosse possibile spendere le proprie serate in città e fatto le sue<br />
scelte – ma non ci salutammo nemmeno. Amici. Gli amici a<br />
volte sanno di te solo quello che eri, e avanzano pretese infondate.<br />
Soprattutto i vecchi compagni d’armi.<br />
Ma il compagno del Corietti, quello di cui per prima ci<br />
parlò sua moglie, era più di un amico per lui. Lo capimmo<br />
solo più tardi, dopo averlo torchiato come una oliva. Venne<br />
da noi in Procura ed era triste, il ragazzo. Lo notai subito,<br />
perché di soggetti così profondamente tristi per quella morte<br />
violenta, fino ad allora, non ne avevamo visto neppure uno.<br />
Né la moglie, né i parenti, né la datrice di lavoro. Lui invece<br />
era triste. Una tristezza solida, dialogante pur nel suo silenzio.<br />
Si chiamava Alvaro Pace. <strong>La</strong> prima volta, posto davanti alle<br />
nostre domande, fece una ricostruzione confusa della sua<br />
amicizia con la vittima. Era molto più giovane dell’amico e<br />
per questo proprio non si comprendeva come avessero potuto<br />
conoscersi durante il servizio militare. Era una questione<br />
matematica. Non fu difficile sgamarlo. Mentiva, ma perché<br />
mentiva su questo dettaglio? Ergo: se mentiva su un punto,<br />
forse avrebbe mentito su altro. Era spuntata questa perla<br />
nera: un amico particolare. Era stata la moglie del Corietti a<br />
dire: tra Alvaro e Mario, mio marito, c’era un’amicizia particolare.<br />
Parole sue, non so quanto consapevoli. Poi dalla bocca<br />
di Alvaro erano arrivate altre informazioni, conferme.<br />
Ietta accese i motori, ancora una volta.<br />
Dunque: ricostruzione dei fatti. I due si vedevano almeno<br />
una volta a settimana. Si conoscevano da anni, dunque fortemente,<br />
necessariamente abitudinari. No, non era accaduto<br />
nulla di strano nell’ultimo periodo; nulla che preoccupasse<br />
95
l’amico. Corietti, a suo dire, lavorava come sempre, sembrava<br />
tranquillo. Nessuna strana lacerazione nelle pratiche quotidiane.<br />
Il Pace sosteneva di trovarsi in auto, da solo, la mattina<br />
dell’omicidio e all’ora x, come ogni mattina, diretto all’agenzia<br />
postale presso cui lavorava.<br />
Quel giorno, in particolare, si era svegliato tardi e presso<br />
l’agenzia confermarono il suo ritardo. Uno strano ritardo che<br />
non seppe motivare adeguatamente.<br />
Può capitare però, e non si condanna a morte una sveglia<br />
che funziona male.<br />
Un uomo se ne fuggiva via, tutto intero in un alito di voce,<br />
davanti alle nostre facce attonite, seppure percettibilmente<br />
soddisfatte. Il mento gli ballava e si ritraeva in cento pieghe,<br />
sentieri brevi e meati viola. <strong>La</strong> guance erano fosse profonde<br />
di couperose, la pelle si tendeva sugli zigomi, diventando<br />
liscia e grigiastra, quasi trasparente come la pancia di un tamburo.<br />
I pensieri si trasformavano in parole, e le parole in<br />
senso, con fatica, mentre nelle pause, nonostante lo sforzo, si<br />
formavano comunque vaste conche d’incredulità; la sua, la<br />
nostra. Senza alibi, senza testimoni, quasi senza palle ormai.<br />
Un uomo profondamente senza. Non buttava giù neppure un<br />
caffè. Rimaneva senza.<br />
Lo ascoltammo per tre volte, ogni volta con scuse differenti.<br />
Al terzo incontro si presentò con le gambe già molli e franò<br />
sulla sedia che gli avevamo preparato.<br />
Sputò fuori tutto quello che aveva taciuto fino ad allora.<br />
Aveva una relazione a sfondo sessuale con il Corietti.<br />
Semplicemente questo. L’aveva visto l’ultima volta proprio la<br />
notte prima della sua morte. L’aveva visto, ma non trattenuto.<br />
L’errore fatale. Il suo Mario. Ehi, finalmente qualcuno<br />
chiamava per nome il cadavere! Mario. Strano sentirlo anche<br />
per noi: come entrare in confidenza con la morte.<br />
Alvaro, il disperato, cercava di ricordare le sfumature della<br />
faccia del suo uomo quella sera, la sua ultima espressione, ed<br />
era uno sforzo apparentemente sincero che gli gonfiava le<br />
tempie e gli incartava gli occhi in piccoli, ridondanti ricami.<br />
Le mogli non erano al corrente di nulla, credeva lui.<br />
96
Ora, non è che io sia esperto in materia, al contrario, devo<br />
ammetterlo, l’argomento mi imbarazza non poco. È il retaggio<br />
del pallone, come lo chiamo io, per il fatto che, ai figli<br />
maschi, non si parla mai di certe possibilità, ma di altri argomenti,<br />
semmai, di forza fisica e coraggio virile, per paura che<br />
il demonio ascolti e prepari uno dei suoi scherzi. Se un uomo,<br />
per esempio, discute di omosessualità, parla di “checche” e<br />
magari, per colore, ci aggiunge sempre un ghigno scaramantico;<br />
soprattutto se ne parla con altri uomini. Il Pace sembrava<br />
terrorizzato all’idea che, una volta svelato il segreto, sua<br />
moglie dovesse entrare in questo suo mondo mistificato per<br />
anni, e farne un luogo reale. Perché le donne fanno germinare<br />
pensieri materiali, vessanti, tattili, e prendono l’omosessualità<br />
terribilmente sul serio, come tutto il resto; sì, questa è una<br />
cosa che fanno le donne e lo fanno, mi par ovvio, gli stessi<br />
omosessuali.<br />
Avrebbe voluto risparmiare sua moglie e il suo mondo di<br />
Swarowski.<br />
Costretto, raccontò il passato con urli di pianto che gli<br />
deformavano la faccia. Raccontò di quando la sera s’incontravano<br />
in quattro nel modesto appartamento della vittima e,<br />
mentre le mogli restavano amabilmente in soggiorno sul divano,<br />
a discutere di serie da venti ripetizioni di addominali laterali,<br />
gli uomini di casa si immergevano in una bolla privata di<br />
piacere gelatinoso, presso l’area solare del palazzo, tra antenne<br />
televisive e panni stesi. Era un sesso glaciale e veloce,<br />
umido di saliva, come il vento che tirava lì, in alto, in testa al<br />
condominio, da cui non potevano più astenersi. I primi<br />
approcci, le barbe che grattavano l’una contro l’altra, le gocce<br />
di sudore sul collo a perdere, i pertugi divelti, le rivelazioni,<br />
l’asprezza e il sollievo; il succo di ciascuno sul cornicione ad<br />
asciugare. Con uno dei due, il più intraprendente, il più bisognoso,<br />
che rovistava, tastava sempre più ansioso l’altro, sui<br />
fianchi ossuti, fin sulla patta, infilando le dita nelle tasche,<br />
sempre più dentro, premendo per vedere se l’altro desiderava,<br />
se era felice, se capiva.<br />
Per maschile imbarazzo, davanti a tutto questo, cercammo<br />
di rallentare il flusso strattonato della sua delazione, che<br />
97
andava crescendo, invitandolo a prendersi una pausa, magari<br />
un caffè. Anche nel rispetto dell’anima del defunto. Ma lui<br />
aveva la gola serrata e sazia, sembrava non poter smettere di<br />
raccontare; mai più smettere.<br />
Quella del caffè era una scusa, comunque. In realtà in<br />
Procura si è sempre alla ricerca del reperto biologico da utilizzare<br />
in processo, e una tazzina usata rivela il Dna di chi l’ha<br />
usata. Ottimo. Peccato che sul luogo del delitto non è che si<br />
fosse trovato molto. Il sangue versato a fiumi apparteneva soltanto<br />
alla vittima e poi, comunque, per ritenere chiusi gli<br />
accertamenti più complessi, forse, ci sarebbero voluti mesi.<br />
Campa cavallo! C’era l’ombrello, è vero, ma senza un indagato,<br />
le analisi dei Ris sull’ombrello o sul resto a che servivano?<br />
Che ce ne facevamo di quella specie di enorme Bartezzaghi<br />
lasciato a metà vicino alla tavoletta del water in una casa al<br />
mare? In pieno inverno? Inutile e desolato. Interrotto. Ietta,<br />
con i motori sempre accesi, sempre gli stessi motori, era<br />
uomo sprovvisto di pazienza; un ariete pronto a sfondare, ma<br />
senza pazienza. Sbuffava dietro la spalle del Pace. Tazzine<br />
niente. Niente cicche. Niente sperma. Solo lacrime da raccogliere.<br />
Con le lacrime, però, si perde tempo. Gli amanti, in<br />
genere, piangono. Che dovevamo fare: gli esami a tutti quelli<br />
che avevamo incontrato in quei giorni? Tutto il Foro ci si<br />
sarebbe rivoltato contro e non ne saremmo usciti indenni. <strong>La</strong><br />
lacrima non voleva dire nulla in sé. A suo avviso, la lacrima<br />
era solo letteratura e prescindeva dalle scelte sessuali. Non si<br />
commuoveva Ietta, manco per niente.<br />
Però io credo che il loro fosse amore, Mario più Alvaro,<br />
imbrigliati in attitudini sessuali sospese nel tempo. E il sesso<br />
c’entrava. O perlomeno non era solo il sesso il collante, secondo<br />
me. Per via del sesso, cambia tutto, pure l’amore. Perché<br />
l’identità sessuale è un magma in movimento. A volte, non<br />
sempre però, esplode, s’allarga, si trasforma, e altre volte no,<br />
resta fermo. Ci sono circostanze in cui si cristallizza, si cicatrizza<br />
come una ferita. Non evolve e non involve. Resta immobile:<br />
acerbo e nebbioso. Chimica inespressa, una formula ossessivamente<br />
ripetuta, ma non trasformata in esperienza.<br />
98
Per il gruppo in questione sembrava potersi parlare di<br />
intensa attività vulcanica, senza il timore di apparire esagerati.<br />
Dolorosa attività senza crescita. Molte le vittime, anche<br />
inconsapevoli. Tra loro c’era seduzione e violenza. Psiche e<br />
carne. Non autentica condivisione o scambio. Chi aveva in<br />
mano il potere e come lo usava? Durante i colloqui davanti<br />
alla faccia di Ietta, venne fuori roba bollente. Altra roba e<br />
diversa. Roba da vietare ai ragazzini.<br />
A pranzo presi fiato con il capo. Avevamo bisogno di<br />
masticare, così che il muscolo facciale desse il tempo alle sinapsi<br />
di farsi una telefonata. Pausa, una sana e meritata pausa.<br />
Scendemmo le scale verso un’uscita secondaria e in strada ci<br />
fermammo davanti alle strisce pedonali. Ietta lamentava un<br />
fastidio al ginocchio. Calcetto? Chiesi timidamente al mio<br />
maestro. Lui confermò, e ci tenne a precisare: colpa delle<br />
modalità di avvicinamento utilizzate dagli avvocati. Maestro!<br />
Anche lui. Prima del verde, mi volli fare un’idea più precisa.<br />
Siamo uomini noi: una massa compatta. Anche il capo giocava<br />
a calcetto per difendersi? Bene. <strong>La</strong> sua, come la mia del<br />
resto, era una stramba concezione dello sport in maturità:<br />
raccontiamo di farlo per mantenerci in salute, in realtà sappiamo<br />
benissimo che la forma fisica c’entra ben poco. Le vere<br />
motivazioni sono altrove; legate ai ricordi della parrocchia e<br />
dei cortili sterrati, ai no di certe madri apprensive, al tipo di<br />
lavoro che si è costretti a fare, alla volontà di mettere in gioco<br />
le energie residue, piuttosto che di preservarle, magari confrontandole<br />
senza misericordia con quelle dei propri simili.<br />
Al desiderio onesto di essere solo corpo, solo naso, solo<br />
gambe, solo torace, ogni tanto. È sogno. Utopia. Si è davvero,<br />
totalmente, semplicemente liberi, simili gli uni agli altri,<br />
ed enormemente fortunati quando si parla di calcio. Dura<br />
quel che dura.<br />
Ietta diceva che solo da morto avrebbe smesso di giocare a<br />
calcetto; avvocati a parte. Quelli pensano sempre di potersi<br />
prendere tutto, non guardano alle competenze specifiche,<br />
così come invece dovrebbero. Si buttano nella mischia a caso,<br />
diceva il gran capo, con insano orgoglio, come se il rischio<br />
99
delle contusioni multiple e il confronto con altre categorie<br />
professionali, gli regalasse ogni volta una sferzata di gaudio<br />
imprevisto.<br />
Ah, se avesse sentito Angela! Non era una questione di età,<br />
né di esperienza, quindi, ma di sfide. Il bisogno di Ietta era<br />
reale – reale quanto il mio – incontrollabile, e lo affermava<br />
senza esitare, pur continuando a pensare a sua moglie, sempre<br />
in onda come un televisore, ai consigli del suo psichiatra<br />
che l’avevano accompagnato, a pagamento, lungo uno strano<br />
momento di crisi. Chiaro: c’erano altre questioni nella sua<br />
vita. Ma non è che dicesse tutto. Benedetto uomo! Io, gongolavo<br />
per quella piccola confidenza sfuggita al serraglio, mentre<br />
lui, si vedeva che si censurava. Lo psichiatra, per esempio:<br />
quella era la prima volta che me ne parlava. Un giorno di<br />
maggior tranquillità, al contempo mi assicurava, mi avrebbe<br />
raccontato tutto e meglio, e quando lo diceva sembrava quasi<br />
una minaccia.<br />
Il calcio non è un affare improduttivo. Comunque.<br />
Produce nessi psichiatrici. L’eterogenesi dei fini. Per me,<br />
come per il mio capo. L’avrei detto ad Angela. Non me la<br />
sarei fatta sfuggire questa occasione.<br />
Sulla strada ci raggiunse il Sergente Garzia, il nemico di<br />
don Diego della Vega – non ricordo come si chiamasse in<br />
realtà il maresciallo, ma non fa niente –, era lui il carabiniere<br />
conosciuto sulla scena del delitto. Era lui il nemico della<br />
nostra pausa pranzo a contenuto adolescenziale e calcistico.<br />
Si era convinto, chissà perché, di doverci offrire il pranzo, per<br />
forza e, nonostante avessimo tentato di dissuaderlo in altre<br />
occasioni o di seminarlo, quella volta ci sorprese con il suo<br />
profilo rubicondo e il fiatone. Tortillas per tutti, pensai<br />
vedendolo.<br />
Carissimo, lo salutò Ietta, calcando sulla doppia esse come<br />
una biscia. Fastidioso. Tavola calda in via di svuotamento.<br />
Ietta parlava e noi ascoltavamo. Il ritmo delle parole di chi è<br />
in pausa è ben diverso da quello di chi interroga. Più morbido.<br />
Le parole si arrotavano sotto il rumore delle piccole forchette<br />
da dessert, dei tovagliolini di carta stropicciati, delle<br />
100
monetine che rotolavano sparse sui banconi, dei cucchiaini<br />
rimenati nelle tazzine da caffè. Il controritmo della siesta: una<br />
parola, una pausa, con la lingua tra i denti, frammenti di cibo,<br />
un’altra parola senza l’ultima vocale, monca, un boccone, il<br />
pezzo di un’altra parola quasi incomprensibile, e poi briciole.<br />
Granella di zucchero a finire.<br />
Per prima cosa chiedemmo notizie in ordine ai rilievi della<br />
scientifica ancora in corso. Così, giusto per dire qualcosa. Il<br />
maresciallo, affamato, prima si schiarì la voce, buttando giù<br />
l’acquolina eccedente che, spuma d’onda, gli imbiancava gli<br />
angoli della bocca; quindi disse che aveva saputo che non si<br />
era riusciti a tirare fuori neppure un’impronta utile. Tante,<br />
ma nessuna riconoscibile. Nessuno da inchiodare, quindi.<br />
Intercettiamo pure il Pace? Pure lui? Ietta era teso, instabile<br />
e senza appetito. Vediamo, non se ne può abusare, ma se è<br />
necessario è necessario… non so, c’è il sangue da considerare…<br />
vediamo.<br />
Comunque, non era stato ancora consegnato il carteggio<br />
ufficiale del Ris. Si sa: quella libreria era un posto da cui passava<br />
tanta gente, quindi tante manate dappertutto, ma aspettavano<br />
ugualmente i plichi ufficiali prima di dirsi delusi.<br />
Penso a quasi dieci anni fa, mica un mese. Il Ris non era<br />
quello che oggi è diventato, e l’acido desossiribonucleico era<br />
una cassaforte ad alta sicurezza contro gli scassi. Adesso quelli<br />
se la tirano, sono personaggi, ma allora erano fantasmi da<br />
laboratorio, studiavano sodo e leggevano riviste americane<br />
tradotte da altri.<br />
Intanto, la lasagna nel piatto si andava consumando e Ietta<br />
scrollava la bocca piena come un cavallo.<br />
Quasi pensava di scrivere un giallo su questa storia. Un<br />
magistrato a fine carriera, o semplicemente quando è stufo,<br />
scrive qualcosa. O un testo parauniversitario, oppure un giallo.<br />
Soprattutto un procuratore scrive un giallo. Tanto, a scrivere<br />
si può sempre imparare. Non si ha neppure bisogno di<br />
un assassino, non per forza. Basta una storia e una casa editrice.<br />
Anzi, basta la casa editrice.<br />
Era nell’aria e lì restava: la noia imposta dall’assenza di<br />
risultato. Non saremmo riusciti a ricavare da quest’indagine<br />
101
molto di più di quanto era già venuto fuori. Per questo era<br />
stanco il mio procuratore.<br />
Ogni tanto, ormai sempre più di rado, Ietta sentiva ancora<br />
il bisogno di ricapitolare. Un riflesso condizionato: al chiudersi<br />
di ogni giorno d’indagine, al calar della sera, si utilizzava<br />
la punta delle dita come a scuola.<br />
Primo: un tizio muore in una libreria.<br />
Secondo: la proprietaria del negozio sembra estranea ai<br />
fatti e ha un alibi.<br />
Terzo: il farmacista e la moglie, presso l’esercizio commerciale<br />
confinante con la libreria, sembrano estranei ai fatti e<br />
risultano molto impegnati in una fiorente attività secondaria<br />
e parallela.<br />
Quarto: nessuna prova neppure a carico della moglie della<br />
vittima, che risulta solo eccezionalmente antipatica.<br />
Quinto: compaiono l’amante omosessuale della vittima e<br />
sua moglie, sembrano sinceri e nessuna prova li inchioda.<br />
Sesto: l’amante non ha un alibi, ma neppure un movente.<br />
Settimo: l’inspiegabile ombrello macchiato, trovato tra le<br />
mani di una vecchia delirante, che si crede malata in fase terminale,<br />
ma che appare estranea ai fatti.<br />
Ottavo: aspettavamo i risultati delle analisi.<br />
Era trascorso troppo tempo tra questi esercizi scolastici,<br />
secondo Ietta. Tutto deve accadere nelle prime quarantotto<br />
ore, altrimenti non si cava un ragno dal buco. Invece.<br />
Neppure un indumento da analizzare. Neppure uno sputo di<br />
prova. Niente. Nessun miracolo in questa professione.<br />
<strong>La</strong> verità? Sulla luna. Pura astrologia.<br />
È vero, all’inizio, per puro caso, spazzando sotto il divano,<br />
avevamo potuto portare a galla una gran quantità di zozzerie<br />
inattese. Avevamo portato a casa degli indizi, ma era una circostanza<br />
non prevedibile, non organizzata. Fortuna.<br />
Avevamo tirato fuori prostituzione, omosessualità, un paio di<br />
figlie abbandonate. Era un risultato, lo ammetto, ma non<br />
quello sperato. Come finire per errore in un campo d’erba<br />
ben rasata, durante una partita giocata da altri. Non vale.<br />
102<br />
Si consideri: quello non era un caso come un altro per me.
Io stavo imparando. In quel mio inizio, Ietta mi era parso un<br />
modello facile da avvicinare, ma ugualmente interessante.<br />
Voler diventare come lui sembrava un buon progetto. Alla<br />
fine tutte le relazioni umane si rassomigliano: sono un mezzo<br />
di trasporto, più o meno veloce, più o meno costoso. Uno di<br />
noi voleva dire qualcosa, l’altro ascoltare e prendere appunti.<br />
Complementarietà. A volte ascoltava anche Ietta, se mi riusciva<br />
di dire qualcosa d’interessante, ma comunque, in via generale,<br />
possiamo affermare che lui parlava e agiva, mentre io<br />
ascoltavo e osservavo. Imparare era allora il mio progetto, e io<br />
sono uno che ci mette l’anima.<br />
Il capo però si era impantanato, quasi arreso, e questa no,<br />
non mi sembrava una grande lezione. Diamine: il morto non<br />
era il mio, è vero, ma ci tenevo lo stesso. Ietta era un maestro<br />
per me e non mi piaceva che tentasse d’insegnarmi ad arrendermi.<br />
Chi poteva escluderlo: pur se avessi tentato di non<br />
imparare, in questa circostanza specifica, poteva accadere che<br />
il messaggio passasse ugualmente, anche in modo subliminale,<br />
e mi sarei potuto ritrovare, dopo decenni, a pensare e vivere<br />
da magistrato disilluso e stanco, psichiatra dipendente,<br />
senza essermi coscientemente applicato per diventarlo. Non<br />
era questo il progetto iniziale. Dai Ietta, dimmi che cosa c’è che<br />
non va, dammi qualcosa di più vivace da ricordare, pensavo.<br />
Trovati una donna che ti tiri su, tanto la mia bocca resterà cucita<br />
con quella rompimaroni di tua moglie, m’immaginavo di gridargli.<br />
Se proprio non possiamo fare altro, buttiamoci sulla<br />
cocaina: vuoi che non giri pure un po’ di cocaina tra marchette<br />
e omosessuali? E dai! Sì, d’accordo, la solita roba, ma almeno!<br />
C’era da dargli la classica pacca. Invece lui, il maestro, si<br />
cimentava in una performance tra le peggiori.<br />
Perché in tutti i mestieri, come nel nostro, puoi anche limitarti<br />
a fare lo stretto indispensabile, a firmare quattro carte<br />
senza fantasia, in prestampato, non oltre l’orario d’ufficio, e<br />
pochi se ne accorgono. Oppure puoi sputarci sopra l’anima,<br />
creare qualcosa di utile, cui la lettera della legge aveva solo<br />
accennato. E non se ne accorge nessuno lo stesso.<br />
Ma per me, per il mio futuro professionale, faceva una<br />
103
ella differenza. Era importante stabilire sin da subito l’umore<br />
con cui andavano firmate queste benedette cartacce giudiziarie.<br />
Questo umore appreso agli esordi, avrebbe potuto marchiarmi<br />
per sempre.<br />
Firmare le carte. Mica niente. Faceva parte del debutto.<br />
Avevo osservato la firma del capo in calce alle pagine: un<br />
insetto senza ali, schiacciato da una suola. Agli uditori fanno<br />
un certo effetto le firme. Forse sin da subito, da quel primo<br />
dettaglio, avrei dovuto dubitare circa l’opportunità del<br />
modello che mi ero scelto. Ammesso che fossi stato davvero<br />
io a scegliere. Sapevamo bene entrambi che nessuno dei due<br />
aveva scelto un bel niente in quella sporca vicenda. Per dirla<br />
papale papale. Il lavoro, i figli, il sesso, sono molto spesso una<br />
casualità. Per inquietudine, dapprima facevo le prove sui fogli<br />
bianchi, non la mia firma in esteso, che poco conta, ma una<br />
sigla: la sigla è il potere della rapidità, dell’emergenza e dell’abitudine.<br />
L’esercizio nel quale non segue la riflessione, e per<br />
questo, gesto autentico e pericoloso. Due lettere da decidere<br />
a tavolino, che ti rassomiglino, che ti sintetizzino in modo<br />
autorevole, che ti identifichino indubitabilmente. Uniche,<br />
difficili da riprodurre. Oggi le mie due lettere sono diventate<br />
altre lettere, non le sento più, vanno giù da sole, come un<br />
colpo di tosse. Gli altri le riconoscono, io no. Inanello quantità<br />
incommensurabili di firme, il che dà il senso dell’uso che<br />
faccio del tempo a mia disposizione, senza aver più neppure<br />
la certezza che la noia si nasconda ancora in quello scippo.<br />
Uno come noi, uno come me, Ietta, uno come mio padre,<br />
non può dedicarsi mai solo a un caso con tutti i neuroni che<br />
possiede. Macché. C’è sempre dell’altro: udienze da rinviare,<br />
fascicoli da riempire, incontri inutili, errori da dimenticare,<br />
posta insulsa da leggere, codici da comprare, rivendicazioni<br />
sindacali da contemperare. Un cervello con la cassettiera<br />
costantemente aperta e disordinata. Una firma e sia va avanti,<br />
si chiude un cassetto, distribuendo diversamente uno spazio<br />
che non basta mai.<br />
Gestire adeguatamente il tempo e il controtempo è fondamentale.<br />
A saperlo fare. Ma se quello che è altro diventa trop-<br />
104
po? Il discernimento e la selezione dovrebbe essere una materia<br />
di studio al concorso, secondo me.<br />
Troppa roba al fuoco, diceva Ietta. Troppo. Troppo. Lui era<br />
uno di quelli che conosceva tutto l’affanno della parola<br />
TROPPO. E però tutta quella roba era divenuta di nostra<br />
proprietà. C’era. Non è che ci si può tirare indietro. O forse<br />
sì?<br />
Come la storia dell’amante omosessuale e degli altri suoi<br />
giochetti. Ci mancava una storia così. All’amante infatti,<br />
come se non bastasse, si erano aggiunte altre rivelazioni scottanti.<br />
Corietti era uno che sperimentava e lo faceva servendosi<br />
proprio del suo giovane, inesperto, amico. Due possibilità: o<br />
non aveva ancora deciso quali erano i suoi gusti sessuali o ci<br />
giocava per il gusto di farlo.<br />
Gli amanti frequentavano, infatti, anche un giro di prostitute,<br />
tre per la precisione, con turni differenti. Erano diventati<br />
clienti fissi. Forse gli organizzatori dei loro traffici. Si<br />
divertivano in gruppo e dal Corietti il ragazzo aveva imparato<br />
tutto quello che sapeva in materia.<br />
Le mogli ne dovevano restare fuori, come sempre. Era l’unica<br />
condizione imposta all’amico iniziatore e tiranno da<br />
parte dell’allievo innamorato. Preservare la moglie, lasciarsi<br />
un’alternativa. Per il Pace, forse, quello era l’unico modo per<br />
continuare a sentirsi pulito, quasi che il segreto rendesse ogni<br />
cosa più duttile, con minor danno per tutti.<br />
A quel punto c’era da sentire le tre prostitute, ma il capo,<br />
al solo pensiero, roteava le iridi scure come un pesce con<br />
l’amo in bocca. Se ne poteva fare a meno? Più proficuo, forse,<br />
continuare a rimestare nella rabbia e nello stupore delle<br />
mogli?<br />
È che fanno paura certe prostitute, certe donne molta<br />
paura. Che lingua parlano?<br />
<strong>La</strong> lasagna era finita. Nel piatto solo sordide svirgolate di<br />
sugo e segni di forchetta. Si stava facendo terribilmente tardi.<br />
Una pausa è una pausa, e tale deve restare; se dura troppo,<br />
rischia di incidere sul ritmo del lavoro, incrementare l’ulcera<br />
105
e vanificare l’attività di un’intera giornata. Salta il ticchettio<br />
del metronomo e buonanotte.<br />
Alla fine decidemmo per un’ambientale. Il Pace alimentava<br />
due fuochi distinti, ugualmente vitali? Bene. Avremmo<br />
chiamato il Pace insieme alla moglie, nascondendo un<br />
microfono nella stanza in cui li avremmo lasciati soli a duellare.<br />
Avremmo scoperto così la verità. Una trappola mortale.<br />
Come stavano le cose veramente? Il mio maestro mi stava<br />
insegnando a rinviare, nella vana speranza che i soggetti che<br />
avevamo a portata d’indagine divenissero spontaneamente<br />
più comprensibili, accessibili alla nostra pigrizia, al nostro<br />
strambo tedio; contestualmente mi addestrava a portare sulla<br />
mia spalla d’uomo che lavora, il peso di questa attesa. Non so<br />
se era una buona lezione. Era una lezione? Per la verità,<br />
aspettare non mi sembrava cosa da insegnare a un praticante,<br />
a un giovane praticante. Io ero già capace di aspettare, e lo<br />
stavo dimostrando egregiamente, dunque ripetevo mnemonicamente<br />
quanto già in mio possesso, come si fa dinanzi a una<br />
materia odiosa o un maestro antipatico. Mi sembrava da vecchi<br />
aspettare. Mi sembrava un pessimo vizio indotto dalla<br />
senilità. Anche se il tempo a disposizione di un vecchio è<br />
ridotto, o forse proprio per questa ragione, quelli hanno una<br />
maggiore attitudine all’attesa, alla quasi rassegnazione.<br />
Le prostitute, semmai dopo diceva Ietta, se era il caso, se<br />
era necessario, a ogni buon conto, dopo, sia per i giovani che<br />
per i vecchi. E io ritornavo nel mio appartamento in affitto la<br />
sera e facevo prove tecniche d’attesa: stavo sul divano, accendevo<br />
la tv, sfogliavo un codice. Per intere serate restavo a<br />
ripetere l’esercizio della pazienza per sei, sette ore, dalle 14<br />
alle 22, in totale solitudine, così che quando alla fine telefonavo<br />
ad Angela e dicevo pronto, aprendo bocca e dando fiato,<br />
mi accorgevo con disagio che fino ad allora avevo pronunciato<br />
solo un’altra parola altrettanto opportuna, vabbèvabbè, e<br />
l’avevo fatto a voce bassa, parlando tra me e me. Stavo imparando<br />
la lezione di Ietta? Stavo andando oltre quella mite<br />
arrendevolezza che già mi era propria? In sostanza la domanda<br />
da fare era: ero giovane o vecchio? Dieci anni fa. I miei<br />
106
maestri, i miei compagni, casuali, biologici, involontari o<br />
volontari, mio padre, Ietta, Angela, mi stavano rendendo giovane<br />
o vecchio?<br />
Ci sono sempre dei maestri. Spesso c’è di mezzo un padre.<br />
Ma non solo un padre. Certi maestri sono necessari, non lo<br />
discuto, ma erano stati bravi i miei? E io come ero stato? Ero<br />
vicino alla realizzazione del progetto? Sempre a fare tutte queste<br />
domande inutili, mi sembrava di sentirla la mia Angela, la<br />
quale, peraltro, pur senza rendersene conto s’interrogava<br />
anche lei. Non voleva forse essere felice? E allora i figli? E far<br />
benzina per andar per negozi? E inventare parole per raccontare<br />
cose nuove o per insabbiarle? E prendere uno stipendio<br />
e mettere magari qualcosa da parte? Non erano progetti questi?<br />
Eppure lei rideva di me dieci anni fa, e solo dopo dieci<br />
anni, oggi, ha smesso di ridere e messo su, tra le labbra, un<br />
ghigno strano. Non sopporta che si parli di domani. Nel caso<br />
qualcuno si permetta di farlo, si gira e va via.<br />
Il tutto fu organizzato per il giorno successivo e non fu<br />
facile, perché c’erano molte cose da fare e in quei giorni la<br />
segreteria era in agitazione per non ricordo quale problema.<br />
Figurarsi: c’era sempre qualche problema. Si lavora in perenne<br />
affanno nei nostri uffici, oggi come ieri, zigzagando tra le<br />
assemblee sindacali. Perché noi, attenzione, senza le segreterie,<br />
siamo niente. E le segreterie soffrono. Nessuno pensa a<br />
loro. È una catena. Gli amministrativi vanno coccolati, altrimenti<br />
sono guai: i fascicoli, per reazione allo scontento, prendono<br />
strade sconosciute, entrano in coma vigile, non si muovono<br />
più. Davanti a certe funzioni vitali azzerate, qualunque<br />
cosa accada, non si riuscirà mai a rintracciare il vero responsabile.<br />
Perché nessuno è mai veramente responsabile. È una<br />
catena a tanti anelli, appunto. Nessuno esiste senza l’altro.<br />
Anche a fare scenate davanti al capo ufficio, i procedimenti<br />
disciplinari sono pura fantascienza. Mai visto uno vero, portato<br />
a termine. Mai. Mai visto qualcuno in croce per davvero.<br />
Ad ogni modo, miracolosamente, l’ambientale riuscì a<br />
puntino. Nessuna macroscopica falla organizzativa.<br />
Riuscimmo a venirne a capo. Ci catapultammo con le orec-<br />
107
chie ben aperte sul privato dei due giovani e poi riascoltammo<br />
le registrazioni di sera, in un ufficio deserto e in una rigorosa<br />
penombra erariale.<br />
<strong>La</strong> moglie scoperchiò il pentolone sulla sozza storia del<br />
marito. Eravamo stati noi, senza troppi scrupoli, a indurla a<br />
scoperchiare quel pentolone. Vermi noi. Non avevamo nessuna<br />
certezza che il gruppo avesse avuto un ruolo nell’omicidio,<br />
eppure avevamo fatto scattare la tagliola. Eravamo dei vermi.<br />
Rassegnati, tristi, delusi, ma vermi. Comunque non ero il<br />
capo io, per fortuna.<br />
Descrizione doverosa. Sul nastro friggeva all’inizio un<br />
silenzio grasso. Le sedie stridevano sul pavimento, ché i due,<br />
l’uno davanti all’altro, non potevano stare fermi e si agitavano<br />
come scrofe nel recinto. Ad intervalli irregolari, lui pronunciava<br />
delle bestemmie piene di catarro. Lei piangeva.<br />
Forse piangeva; qualcosa di simile al pianto, non si poteva<br />
dire con certezza. Nel nastro qualche scoppio; non si capiva<br />
se singhiozzi o lemmi. Te ne devi andare. Ecco finalmente<br />
qualche parola comprensibile. Cantilene. Allitterazioni.<br />
Subito, te ne devi andare. Tu. Tu. Te ne vai adesso, tu. <strong>La</strong> fatica<br />
disumana delle locuzioni. Da casa te ne devi andare, adesso.<br />
Noi li avevamo lasciati a decomporsi. Noi che ascoltavamo,<br />
eravamo diventati gobbi e nani, per il piacere. Un godimento<br />
energico, folle all’inizio. Proprio come ci era accaduto<br />
davanti al cadavere.<br />
Che scialo: alla fine dell’ambientale, non c’era niente su<br />
quel nastro che non fosse lo spasimo genuino di chi si taglia<br />
in due e vede il cancro che si è già allargato dentro. Le infiltrazioni,<br />
le metastasi: ecco cosa avevamo colto.<br />
Venne fuori anche la faccenda degli incontri con le donnine.<br />
Avvenivano la domenica pomeriggio, mentre le mogli<br />
guardavano Domenica in. Uomini e donne, tutti insieme: tutta<br />
la concupiscenza cieca dell’universo.<br />
Furiosa la moglie! <strong>La</strong> rabbia, però, sembrava veder la luce<br />
giusto in quel momento; non sembrava aver avuto origine<br />
prima e altrove. L’orrendo assassinio restava, ancora una<br />
volta, fuori dalla questione, non riguardava il dolore dei pre-<br />
108
senti; al contrario, nelle loro frasi scomposte d’odio, il<br />
Corietti sembrava ancora più che vivo: era lui l’unico vero<br />
mostro e sembrava ancora poter far danni. Sembrava potesse<br />
ancora essere ucciso, ancora e di nuovo. I coniugi che si sfregiavano<br />
in solitudine, tiravano fuori bile e bava, parevano due<br />
ragazzini. Non due assassini. Sembrava di assistere a una festa<br />
a sorpresa, sconvolgente, alle battute finali di una partita estenuante,<br />
al calar del sole.<br />
Dopo circa un’ora di registrazione, mettemmo lo stop a<br />
tutti gli umori maligni che si drenavano davanti a noi. C’era<br />
da metter un argine. Determinati lo eravamo, è vero, ma non<br />
così crudeli, in fondo. Per me, del resto, era pur sempre la<br />
prima volta! Quando richiamammo la signora nella nostra<br />
stanza per farli smettere, lei volle rimanere in piedi. Se non è<br />
una cosa lunga, per favore… posso andare? Rovesciava il peso<br />
del corpo prima su una gamba, poi sull’altra, e cercava di<br />
concentrarsi sul mento di Ietta, senza successo, si distraeva di<br />
continuo e gli occhi sfuggivano verso il soffitto. Sembrava<br />
non avere capelli: una massa di pelo immobile e scura incollata<br />
sulla sua testa, che partiva dalle orecchie e si esauriva sul<br />
collo. Poche parole ancora per confermare che lei non ne<br />
sapeva nulla degli affari della vittima. Io non avevo capito. Mi<br />
aveva fatto fessa. Si appoggiò per qualche secondo con le<br />
mani a ventaglio sul bordo della scrivania del capo, per reggere<br />
il peso e la fiacchezza di quella nuova realtà.<br />
Andandosene, lasciò due guanti di sudore impressi sul<br />
legno.<br />
Lui, il Pace, rimase a lungo nell’altra stanza. Da solo. Non<br />
aveva altro luogo in cui recarsi. Nessuno in cui rimanere. Il<br />
sesso, le porcherie, pure le prostitute, ma niente applausi per<br />
l’ultima scena.<br />
Così era fatta. Avevamo sentito le mogli: prima la polveriera<br />
allenata, poi l’ingenua stupefatta. Alla fine della giornata,<br />
però, eravamo di nuovo poveri. Io e Ietta pallido.<br />
Nessun collegamento tra la vittima e la proprietaria del<br />
negozio. Niente tra la vittima e sua moglie. Niente tra la vittima<br />
e il suo amante, né tanto meno tra il morto e la moglie del-<br />
109
l’amante. Niente con il farmacista: l’arabo e la moglie si facevano<br />
altre storie, per conto loro. Niente di nuovo sulla vecchia<br />
dei santini che si voleva far ricoverare. Per le puttane era<br />
ancora da vedere. Puttane a destra e a manca. Punto. Meglio<br />
dormirci su.<br />
Il capo girò attorno alla scrivania, arrivando lì dove ero<br />
seduto io, lento lento. Si fermò solo un attimo con l’occhio<br />
liquido e lo fece galleggiare su una superficie indeterminata<br />
tra il calendario, quello ogni anno gentilmente offerto da una<br />
ditta di articoli di cancelleria, e la finestra buia. Due mezzi<br />
passi ancora e indossò l’impermeabile e un cappello largo e<br />
moscio, come carta bagnata. Piove ancora. E che schifo di<br />
città! Andiamo a casa. Basta. Peccato per il cappello che sembrava<br />
acquistato da poco.<br />
Avevo parcheggiato fuori e lui si offerse di accompagnarmi<br />
con il suo ombrello, tutto umido d’abitudine, fino alla mia<br />
macchina. Ietta aveva sempre tanta gente intorno, ma adesso<br />
era un tassello isolato. Più piccolo, senza i suoi girotondi d’inchini.<br />
Parlava con voce di mezzo tono più bassa.<br />
“Ho mille cose in testa. Forse non te ne ho mai parlato.<br />
Potrei? Non so se potrei. Se è il caso. Alla tua età. Sembri un<br />
tipo che comprende. Uno che ha tempo per pensare”.<br />
Aveva voglia di parlare, ma la pioggia faceva troppo rumore.<br />
“Forse domani ti racconterò di me, se avremo tempo o il<br />
tempo che avremo lo riconosceremo come tale”.<br />
Pure quello è un fatto d’intuito e solidarietà.<br />
“Ci sono udienze domani? Tu hai visto per caso lo statino<br />
d’udienza? Mi pare di sì. Mi devo guardare l’udienza di<br />
domani, quindi. E guarda come piove”.<br />
Pausa. Dopo, a indagine finita, anche dopo aver cambiato<br />
il mio affidatario, più volte negli anni, ho risentito il dottor<br />
Ietta. Il mio maestro. Di solito al telefono. No, lui non rassomigliava<br />
a mio padre. Nessuno rassomigliava a mio padre. Mi<br />
aveva parlato solo alla fine dei nostri giorni insieme: dello psichiatra<br />
esoso, degli anni di terapia che aveva portato avanti<br />
faticosamente e dei risultati di cui andava fiero. Era un maestro<br />
di vetro sottile, anche se non voleva che si raccontasse in<br />
110
giro. Il suo tallone vulnerabile era la famiglia. Eppure a soldi<br />
stava messo bene all’epoca. Non era per soldi che non riusciva<br />
a trovar pace, a provare “il piacere del divano”, come dico<br />
io; quello dell’abbandono serale in un grande grembo, che ti<br />
aiuta a star fermo.<br />
Mi aveva raccontato qualcosa del pensiero del suo psichiatra,<br />
ma con riserbo estremo. E io avevo ascoltato, senza dare<br />
i consigli che non avevo da dare. Rispetto a quella storia del<br />
“tu sei il mio maestro, io imparo”, se lui parlava del suo psichiatra,<br />
le poche volte in cui lo faceva, e lo faceva perché decideva<br />
di farlo e non era solo un inciampo, un cascare casuale<br />
in un discorso tra uomini, be’, insomma, se lo faceva, io lo<br />
ascoltavo, ma cercavo di non imparare. Di non memorizzare<br />
nulla di quella debolezza ritrosa. Non so se ci riuscivo. A<br />
volte non riuscivo a frenarmi in tempo e finiva che registravo<br />
lo stesso. E infatti oggi ricordo ogni cosa.<br />
Quella sera dall’interno della mia macchina, mentre mettevo<br />
in moto, l’ho visto ritornare sui suoi passi, dopo avermi<br />
salutato con un cenno dei suoi, con il braccio destro ad angolo<br />
retto e la mano pure, l’ho visto arrivare fino al gabbiotto<br />
della vigilanza con le pozzanghere sulle spalle, nonostante<br />
l’ombrello. Dal gabbiotto è uscito l’Agrimi autista, che lo<br />
aspettava da ore, e sono andati via insieme oscillando in sincrono,<br />
a destra e a sinistra, come tergicristalli in servizio. No,<br />
non come un metronomo, ma come un tergicristalli. Un<br />
magistrato e il suo autista hanno sempre un rapporto esclusivo,<br />
un ritmo solo loro.<br />
111
VIII CAPITOLO<br />
“Avete distrutto una famiglia. Così”<br />
“Era necessario. Mica siamo sadici, scusa. Era necessario e<br />
basta”.<br />
“Ci vediamo venerdì o ci sono problemi? Ho smesso di<br />
prendere la pillola da due settimane”.<br />
“Sì”.<br />
“E come lo sai?”<br />
“L’ho immaginato”.<br />
“C’è una mia amica che è rimasta incinta dopo tre giorni”.<br />
“Uhm”.<br />
“Un’altra invece non si era neppure accorta di esserlo, perché<br />
continuava ad avere il ciclo. Può succedere anche questo,<br />
pensa”.<br />
“Sì”.<br />
“Ho solo amiche che partoriscono, io”.<br />
“Sì”.<br />
“Mi fanno sentire un po’ malata”.<br />
“Mica lo sei”.<br />
“Neanche tu”.<br />
“E infatti”.<br />
“Due settimane sono tante, non credere. Può succedere in<br />
due settimane”.<br />
“E già”.<br />
“Hai cambiato idea circa la personalità dell’ammazzato?<br />
All’inizio ti faceva tenerezza. Adesso sei più duro”.<br />
112<br />
…Trader dice che è come nelle partite di tennis. Ti<br />
si fottono addirittura gli occhi. Dici che la palla è<br />
fuori perché desideri che sia fuori. Desideri a tal<br />
punto che sia fuori che la vedi fuori. Si nasce con<br />
un ordine del giorno – vincere, avere successo – e<br />
questo ti fotte gli occhi… Non mi serve per vincere.<br />
Non mi serve per avere successo.<br />
Martin Amis
“No, ma che c’entra? Potrebbe essere anche un omicidio<br />
a scopo passionale. Oppure altro. Non si capisce niente. È<br />
tutto uno sfascio. Scusa, che famiglia era quella del morto?<br />
Un teatrino? Tutto finto. Come si fa a lavorare dentro questo<br />
teatrino?”<br />
“Ah, la famiglia, quindi. Bene bello mio. Se avremo un<br />
figlio non potrai continuare a fare questa vita. Tu stesso parli<br />
di famiglia e poi… Io la voglio per davvero una famiglia”.<br />
“Vedremo quando accadrà. Io non escludo niente, ma la<br />
vita non va vista in modo fotografico”.<br />
“Cosa?”<br />
“Voglio dire che il tutto deve essere analizzato in modo<br />
dinamico. In movimento. Hai presente il movimento della<br />
vita, tu? Ecco. Adesso facciamo questa vita, d’accordo, ma<br />
domani potrebbe essere diverso. Questo voglio dire. Dico<br />
che la vita non deve essere vista in senso fotografico, hai capito?,<br />
dico non statico, ma dinamico; cinematografico insomma”.<br />
“Non cambia niente se non si vuole che cambi. Altro che<br />
cinema! Io intanto ho smesso di prendere la pillola. Ho fatto<br />
una cosa. C’era una cosa da fare e io l’ho fatta. Tanto per<br />
cominciare. Io ho fatto. Tu invece, cosa hai fatto? Per esempio.<br />
Io cambio. Davvero. Mica te. Perché questo cambiamento<br />
voglio partorirlo davvero. Ho fatto il primo passo e l’ho<br />
fatto io, mica tu. Gradirei più entusiasmo”.<br />
“Le cose nuove mi piacciono”.<br />
“Appunto. E allora?”<br />
“Sì”.<br />
“Tu dici così, ma poi…”<br />
“Non ti devi preoccupare di questo”.<br />
“Che hanno detto le prostitute?”<br />
“Le abbiamo fatte sentire dai carabinieri. Prima. Poi dopo<br />
vediamo”.<br />
“E che hanno detto ai carabinieri?”<br />
“Innanzitutto che loro non sono prostitute. Vivono insieme<br />
in un appartamento popolare, con la lampadina davanti<br />
alla porta d’ingresso, che se è accesa anche di giorno, dà il via<br />
libera al cliente. Ma dicono di non essere prostitute. Lo fanno<br />
113
per piacere. Ricevono solo qualche regalino ogni tanto e il<br />
Corietti era un buon amico. Il Pace era timido, il Corietti un<br />
buon amico. Dicono che erano molto diversi l’uno dall’altro,<br />
quei due. “Timido” dicono, quindi pochi regalini. Se il Pace<br />
era diverso dall’amico ammazzato, come dicono, allora l’ammazzato<br />
non era timido. Forse ha pestato i calli a qualcuno.<br />
Bisognerebbe approfondire”.<br />
“Sentirle di nuovo?”<br />
“Ecco”.<br />
“Ritornate sui preti, che è meglio! Non avete fatto parlare<br />
nemmeno un ecclesiastico! Le zoccole sì, ma i preti no, perché?<br />
Magari un cliente affezionato della libreria di articoli sacri,<br />
magari un imberbe giovinetto in clergyman, che ricordi vagamente<br />
il Pace, quantomeno fisicamente se non nel carattere”.<br />
“Anche le donnine erano giovanissime, se è per questo.<br />
Amava il frutto acerbo, dici tu. Chiamalo fesso. Avresti dovuto<br />
vedere, poco più che maggiorenni e certi incroci d’ossa<br />
intorno all’ombellico”.<br />
“Punti di contatto tra il giro di prostitute della vittima e<br />
quello del farmacista?”<br />
“Niente di certo. Erano due distinte tipologie di affari.<br />
Livelli di offerta differenti, diciamo. Ma quelle ricche se le<br />
stanno torchiando alla seconda sezione. A noi le poveracce”.<br />
“Che dicevi di queste tre allora? Straniere?”<br />
“No, italiane; con il fard a grumi. Sciupate. Me le immagino<br />
così. Hai fatto caso: le italiane sono più truccate, le giovani<br />
almeno, sono più truccate. Hai notato? Io ho notato.<br />
Strano che fossero italiane! Ietta adesso potrebbe tentare di<br />
ricostruire il giro, sempre che ci sia davvero un giro da ricostruire.<br />
Comunque un giro molto più modesto rispetto a<br />
quello della moglie del farmacista della Giordania”.<br />
“Come era cominciata?”<br />
“Anni fa, dicono, con una visita solitaria fatta dal Corietti.<br />
Una ricostruzione incerta. Da bambine. Ma magari, hanno<br />
ragione loro e non sono prostitute. Magari il Corietti non era il<br />
pappa, come uno potrebbe credere. Ietta ha messo una volante<br />
sotto casa, ma per ora non circola nessuno. Sono a lutto”.<br />
“Nessuno? Preti, musulmani, farmacisti, magistrati?”<br />
114
“Nessuno”.<br />
“E allora?”<br />
“Ho detto: bisognerebbe ricostruire il giro nei particolari,<br />
nomi, dati, luoghi. Ma Ietta, non so, non ha voglia”.<br />
“Senti, stavo pensando una cosa. Non c’entra niente, ma la<br />
stavo pensando. Considerata la scarsa soddisfazione professionale<br />
dell’ultimo anno, eh, come sai, solite beghe inestinguibili,<br />
lasciamo stare, allora dico: che ne diresti se cominciassi<br />
uno di quei corsi di preparazione al concorso per uditore giudiziario?<br />
Pure io? Nello studio sono arrivati degli stacchi di<br />
coscia che proprio non si tollerano, due nuovi collaboratori<br />
femmina, e chi gli sta dietro a questa concorrenza? Proprio<br />
non ho né voglia, né energia, di ricominciare di nuovo a sgomitare,<br />
no, non se ne parla, mi arrendo. E l’avvocato a dire<br />
bene, bene, più siamo meglio si lavora, e come no? Finirò per<br />
odiare la gente in generale, specie quella che vuole fare il mio<br />
stesso mestiere. Evviva Maria”.<br />
“…”<br />
“Non dici niente. Pensi che io sia troppo vecchia?”<br />
“No, certo che no! Si può fare. Anzi. Se vuoi mi informo<br />
tra i colleghi. In città c’è il famoso corso di coso, là, come si<br />
chiama?, accidenti, non ricordo il nome del magistrato che<br />
tiene il corso con un paio di colleghi. Due lezioni a settimana.<br />
È conciliabile con qualsiasi altra attività. Non è mica una cosa<br />
impossibile. Ma come cavolo si chiama quello? Proprio non<br />
riesco a ricordare. Faccio il mio nome?”<br />
“Sì, il tuo nome, ecco, fallo dai, visto che ci sei. Forse alla<br />
fine è uno stimolo. Anche la voglia di prendere il treno può<br />
essere una botta per me”.<br />
“Ci sono molti corsi simili in questo momento. Tutti si<br />
danno da fare. Ma bisogna scegliere il meglio, altrimenti non<br />
ha senso. Certo, ci avessi pensato prima…”<br />
“Se però nel frattempo tu mi metti incinta, io lascio perdere<br />
ogni cosa. Sai?”<br />
“Che vuol dire? E perché? Si può sempre conciliare, te<br />
l’ho detto”.<br />
“Sì, ma non so se a quel punto avrei ancora voglia di mettermi<br />
in gioco”.<br />
115
“Allora del concorso non ti frega! Che cavolo significa<br />
mettersi in gioco? Fare figli è mettersi in gioco?”<br />
“No, però ci sono anche altre cose. Ti ricordi come ero ciccia<br />
prima di cominciare a lavorare? Un metabolismo con le<br />
allucinazioni. Altro che saltapasto! L’inerzia di quel periodo<br />
mi terrorizza ancora. Non me lo sono mica inventato il cambiamento<br />
fisico che c’è stato dopo, era così evidente per tutti,<br />
lo dicevano tutti, persino io me ne accorgevo. Era un godimento<br />
miracoloso, una cosa che, guarda, non so come dire:<br />
era meravigliosa, superava qualsiasi verbalizzazione. Perché<br />
avevo smesso di annoiarmi. È chiaro! Sono un mostro di trasparenza,<br />
lo sai”.<br />
“Ma quando mai? Io di solito non capisco un tubo di queste<br />
faccende da donne. Tu sei trasparente solo se vuoi esserlo.<br />
Anche questa cosa dei capelli così corti, a sorpresa, per<br />
esempio”.<br />
“Non ti piaccio?”<br />
“Lo sai che devo riflettere. Comprendere con calma”.<br />
“Secoli, ti ci vogliono secoli figlio mio!”<br />
“Con calma. Non è solo un fatto estetico. Prima eri più in<br />
carne perché avevi bisogno di lavorare, di spezzare un ritmo<br />
alienante. Adesso sei magra perché hai bisogno di metterci in<br />
gioco. Mica è semplice. E poi io in genere preferisco le donne che<br />
lavorano”.<br />
“Sono diversa fisicamente. E quindi? Ma non si era detto<br />
che amavi le novità, scusa?”<br />
“Sì, ma che c’entra, ci sono dei limiti”.<br />
“Non è che per caso non ho più un aspetto rassicurante?”<br />
“Hai un aspetto nuovo”.<br />
“E quindi?”<br />
“Quindi? Niente: è una trasformazione che viene da dentro.<br />
Tu vuoi che gli altri vedano fuori quello che è successo<br />
dentro. Non è così? Ti soddisfa questa tesi? Sei contenta<br />
adesso? Lo sapevo. Io lo sapevo che ti piaceva. Il cibo,<br />
comunque, è importante. Non diciamo che quello che mangi<br />
non c’entra nulla! Quasi, quasi, smetto di mangiare anch’io”.<br />
“Ma io non ho smesso di mangiare. Sarebbe troppo facile<br />
così”.<br />
116
“Ah no?”<br />
“Ma sei scemo? Perché, io ho mai smesso di mangiare? Ti<br />
risulta che io abbia smesso? Allora non capisci davvero un<br />
accidente”.<br />
“Voglio dimagrire anch’io prima di diventare vecchio”.<br />
“Ma tu hai capito come mi sento? Vuoi una esemplificazione?<br />
Forse ti aiuterebbe? Una cosa romantica? Te la do.<br />
Conosci quei posti di villeggiatura che si svuotano a ottobre e<br />
tira un vento della madonna tra le cabine? Non c’è il sole, c’è<br />
un solo bar aperto che vende quattro giornali e basta. Così.<br />
Hai presente quegli stessi posti che cambiano d’inverno e gli<br />
unici esseri umani che trovi sono muratori pagati per piccole<br />
manutenzioni o i proprietari che, alla domenica, dopo<br />
Pasqua, vengono a parlare con le famiglie che vogliono affittare<br />
per la bella stagione, ma che poi non restano nemmeno<br />
un minuto in più in mezzo all’umido, nemmeno per imparare<br />
a conoscere il posto. Eh, così. Così mi sento. Puoi capire?”<br />
“Cioè?”<br />
“T’ho fatto un esempio. Hai capito?”<br />
“Più o meno”.<br />
“Meno male”.<br />
“Ma le stagioni cambiano, appunto”.<br />
“Eccome. Sì… Buonasera!”<br />
“Vedrai”.<br />
“Va bene, va. Comunque. Veniamo a noi. Di’: non avete<br />
percepito nulla di falso nelle dichiarazioni delle prostitute?<br />
Erano amiche hai detto. Magari si coprivano l’una con l’altra”.<br />
“Sembravano lievemente alterate. Ma poco”.<br />
“E la moglie del morto? Era lievemente alterata pure lei?”<br />
“Non so. Era diverso. Oh, queste sono idee di Ietta. Il caso<br />
è suo. Per quanto pure io…”<br />
“E la Curia? Quand’è che sfondate quel portone? Che<br />
cavolo aspettate? Un’enciclica che chiuda definitivamente la<br />
questione? Fatevi coraggio e cominciate subito. Agite invece<br />
di stare a rimuginare. Sempre lì a ponderare, a cercare altri<br />
significati, eh, che palle, siete voi a comportarvi come femmine!<br />
Almeno tu. Parlo di te, io. Altro che checche”.<br />
117
IX CAPITOLO<br />
Quei giorni, i giorni avevano le gambe. In Procura si continuava<br />
a lavorare e non solo al caso più ingombrante del<br />
mese. C’erano altri fascicoli in segreteria da macinare, di<br />
quelli facilmente riconoscibili tra gli altri per la loro copertina<br />
nuova: carta ancora poco utilizzata, minore il numero delle<br />
ditate al carboncino, minore il numero dei fogli da mettere in<br />
indice, ancora nessun odore, nessun errore materiale da correggere,<br />
nessuna orecchietta, nessun segno di spillatrice in<br />
alto a sinistra. Carta che può ancora sembrarti seta, che fruscia.<br />
Ietta diceva: dai uno sguardo tu e poi, a fine mattinata, se<br />
ne parla con calma e si decide. Il diritto non lo acchiappava più<br />
per niente, questa era la verità, inutile girarci intorno.<br />
Io, invece, portavo il codice nuovo in borsa, sforzandomi<br />
di rinnovare l’entusiasmo che conteneva, e ogni mattina cambiavo<br />
sedia per lavorare, perché il mio era ancora un praticantato<br />
e gli arredi me lo ricordavano di continuo. Osservavo le<br />
sedie che non possedevo, le scrivanie, gli armadi metallici con<br />
un certo distacco, mentre, a casa, sperimentavo ricette ardite contro<br />
la fame nervosa.<br />
Non è che la mia fosse vera cucina, nel senso del creativo<br />
mescolarsi d’ingredienti diversi, da portare a differenti gradi<br />
di cottura, con modalità variabili. Assolutamente no. Di rado<br />
accendevo il forno. Mia madre diceva sempre che il rapporto<br />
con il proprio forno deve essere intimo, ma non lo diceva a<br />
118<br />
…Dietro le loro domande stava il presupposto o<br />
era solo la sua immaginazione che lei fosse il tipo<br />
di persona logicamente e presumibilmente presente<br />
a un crimine del genere, come un incendiario<br />
ad un rogo altrui.<br />
Ian McEwan
me, al figlio maschio non aveva da insegnare certe cose, lo<br />
diceva in astratto, per lasciare un segno, credo, per esserci,<br />
senza aspettarsi conseguenze; così io, poiché in affitto, solo<br />
per puro caso avevo scoperto che manopola a destra = acceso,<br />
manopola a sinistra = spento. Nessun cameratismo, anzi<br />
una certa malcelata diffidenza.<br />
Il forno era escluso. Qualcosa in padella antiaderente, con<br />
poco olio, semmai, e molto al crudo. Cucina sana, sperimentale.<br />
<strong>La</strong> mia sperimentazione è di tipo sociale, che consiste nel<br />
ricercare prodotti tipici della terra in cui mi trovo, e nel chiedere<br />
benevoli chiarimenti, confidenze, segreti, a tutti i rivenditori<br />
di prodotti alimentari che incontro. Oggi come allora,<br />
cerco di farmi amare. Di fare tenerezza, che è poi il sentimento<br />
più utile in assoluto. Io sono uno di quelli che in salumeria<br />
chiede l’assaggino, che fa i complimenti al fornaio, che partecipa<br />
ai reumatismi da umidità mattutina del fruttivendolo e<br />
strizza l’occhio se riceve in omaggio gli odori per il brodo.<br />
Adoro la frase: le metto qualche gambo di prezzemolo e sedano,<br />
dottore, che non si sa mai . In genere, per tenerezza, raccontavo<br />
sempre – e racconto ancora, mentendo – di vivere da<br />
solo e che nessuno cucinava, o cucina per me. È così che mi<br />
faccio amare. Come un poveraccio buttato fuori da casa sua.<br />
Quanto tempo era trascorso tra il delitto e la serata di Chi<br />
l’ha visto? Non riesco a essere preciso, mi dispiace. Ad un<br />
certo punto indagare ci era parso insufficiente: le intercettazioni<br />
fiume, le testimonianze, le connessioni, gli atti da spulciare;<br />
ascoltare, rifletterci, masticarci su; la stampa da leggere<br />
ogni mattina. Le ferie da consumare prima di giugno. Le frasi<br />
dei colleghi in ascensore. Sembrava poco, sembrava normale, la<br />
chiamano routine.<br />
Ma arrivò la televisione.<br />
Per la verità, all’inizio, Ietta disse di no alle riprese televisive,<br />
non siamo qui per fare le star, ma dinanzi alle paralizzanti<br />
insistenze del grande comunicatore, inoculate attraverso un<br />
invisibile pungiglione, aveva finito per fornire tutte le informazioni<br />
richieste dagli autori del programma e dal regista,<br />
ripetendo alcuni amati concetti chiave, sempre gli stessi, che<br />
119
conoscevo bene anch’io ormai, da ribadire a ogni orecchio<br />
disponibile almeno per due volte, come avrebbe fatto un vecchio<br />
docente di latino in una scuola professionale. Concetti<br />
chiari, prevedibili, un bizzarro sermone domenicale, solo un<br />
po’ più breve. <strong>La</strong> conduttrice, una seria ai tempi, gli fece persino<br />
una telefonata, che lui apprezzò molto.<br />
Così mi disse ragazzo, guarda la televisione stasera.<br />
Diceva che quella trasmissione stava diventando un utile<br />
strumento istruttorio, è così, è così, ormai è inutile negarlo,<br />
sono più bravi di noi, hanno altri strumenti, sono più belli esteticamente,<br />
arrivano dappertutto, la gente li desidera, li capisce,<br />
ha bisogno di loro, si fida, vuoi mettere coi codici? E poi, visto<br />
come si erano messe le cose, non poteva essere dannoso.<br />
Bisognava prenderne atto: la realtà giudiziaria stava mutando<br />
sensibilmente.<br />
Ora di cena. Sigla. C’era proprio quella conduttrice bionda<br />
con gli occhiali, quella che conduceva con grande scienza<br />
alcuni anni fa. Quella con il naso a pallina che andava su.<br />
Come si chiamava? Primo piano. Io cenavo scomodamente<br />
con le ginocchia annodate sotto a un tavolino da tè, quello<br />
con tre spumeggianti trucioli di legno disegnati intorno alla<br />
circonferenza e sbotti di fantasia barocca sui tre piedi. Lo<br />
notavano tutti entrando. Era inappropriato un tavolo così<br />
nella scena austera e scura della mia vita a termine. <strong>La</strong> luce a<br />
risparmio energetico di una sola lampadina impiccata in alto,<br />
trasformava il tavolino in una luna piena arrogante, con qualche<br />
crosta di caffè sfuggita al Lisoform. Di certo ero lì al<br />
moneto della sigla, mangiavo una delle mie solite primizie da<br />
raccontare. Niente di estroso o di incontrollabile.<br />
Io mangio di tutto, salvo alcune controindicazioni alimentari<br />
di poco conto: niente alcolici, mai elementi rotondi, piccoli,<br />
rossi e con nocciolo. Perché rotolano, sfuggono, scoppiano<br />
in bocca, sporcano. I gusti sono gusti; chi cerca ragioni<br />
remote a certe abitudini è un fesso, secondo me. È così e basta.<br />
I pomodori, però, se a fette, li posso mangiare. Quelli sì.<br />
Mangio così e sono certo di risparmiare sulle medicine. Sono<br />
categorico su questo. I miei gusti li rispetto, li coltivo, li faccio<br />
120
maturare, li comunico a chi vuole condividerli con me. Cerco<br />
adepti come un giovane guru, ma solo quelli onestamente interessati<br />
a capire. Gli altri, fatti loro, che passino al Maloox.<br />
Non so ancora bene in quali termini, ma questa fissa ha a<br />
che fare con la mia adolescenza e con l’orologio, con il tempo<br />
che passa. C’è sempre di mezzo l’equivoco dell’adolescenza<br />
in casi come questi. Sento che è così anche per me. Ma non<br />
ho ricordi a riguardo ai quali addossare la responsabilità di<br />
certi vizi. Traumi. Incubi. Ospedali. Niente.<br />
Io mangio così: selezionando.<br />
Non è indifferente quello che si infila nella propria bocca.<br />
Alla fine lo stomaco mi offre le stesse lusinghe di una valigia<br />
da riempire. Non voglio metterci dentro di tutto e a caso.<br />
Tutto quello che posso, ma ragionandoci, secondo un progetto<br />
logico, con coerenza, senza rischi inutili. Non mi adatto al<br />
cibo, ma adatto il cibo a me. Da qualche anno pure la quantità<br />
di cibo da ingerire è diventato un monito. Scelgo e mastico<br />
piano e rallento l’alito ansiogeno del mio orologio da<br />
polso. E guardo la faccia di bronzo di Angela, dopo aver<br />
osservato a lungo quella mia d’anguria. Che avrà da guardarmi<br />
tanto? Te la raccomando Angela e le sue diete! Lei proprio<br />
non può permettersi commenti di nessun tipo. E lo so che<br />
gran fatica è, che il corpo non possa mai avere lo stesso peso<br />
specifico dell’anima e neppure le sue trasformazioni, né tanto<br />
meno la sua memoria. Questa cosa unisce gli uomini alle<br />
donne. Forse la cucina no, ma il corpo ci riguarda entrambi.<br />
Ci sono tante faccende in cui siamo diversi, opposti forse, ma<br />
non su questo. Secondo me questa storia del corpo che fatica<br />
a rispondere alle domande principali, ci unisce. Il cadavere<br />
del Corietti, per esempio, era una risposta al tempo che passa<br />
oscuro e poco vigile. Anzi, non la risposta, forse era la<br />
domanda. A pensarci meglio.<br />
Ad ogni modo andava in onda questo programma televisivo<br />
e io masticavo, cercando di contrastare il languore triste<br />
della sigla, il cui magone era intensificato dallo sfilare morente<br />
delle foto degli scomparsi, dei sommersi. Una sigla orribilmente<br />
mesta che piaceva molto. Solo musica, nessuno ci can-<br />
121
tava sopra, ché c’era poco da cantarci, del resto. Altri servizi<br />
prima, roba sotto sforzo, poi ecco apparire la foto del nostro<br />
morto. Come rivedere un parente, per me.<br />
<strong>La</strong> foto era quella della patente, che noi stessi avevamo già<br />
fatto circolare. Sempre quella: una faccia lunga e secca, ma<br />
ancora tutta intera, fornita dalla consorte incazzata.<br />
Breve ricostruzione dei fatti e poi l’accorato appello al pubblico.<br />
Di solito un discreto audience. Se qualcuno è al corrente di<br />
qualcosa che ritiene utile per le indagini in corso, telefoni in<br />
redazione. Carrellata sulle alacri telefoniste e stacco successivo<br />
sugli occhiali della bionda conduttrice. Era proprio brava.<br />
E finiva che la gente chiamava davvero, lusingata, indotta,<br />
sospinta dalla cura delle immagini, anche se aveva poco da<br />
dire. Chiamavano anche solo per allontanare i propri demoni.<br />
Tutto qui. Il tempo di una cena solitaria e morigerata; al<br />
massimo quindici viaggi di forchetta.<br />
Soltanto la mattina dopo, sul tardi, venimmo a sapere che<br />
qualcuno aveva telefonato davvero, ma non in diretta televisiva.<br />
Per prima una giovane donna, poi un uomo. Ma andiamo<br />
per ordine.<br />
<strong>La</strong> giovane donna. Aveva vuotato il sacco, come si dice, la<br />
coraggiosa pulzella. Aveva parlato in particolare di un monolocale<br />
affittatole da un prete, di uno sfratto brutale, di un<br />
cesso rotto e di un neonato. Per fortuna fornì tutti i dati e si<br />
dichiarò disponibile ad approfondire il suo sintetico fumetto<br />
in Procura. Potenza del mezzo. Ci avevamo guadagnato una<br />
donna giovane e pure ragazza madre. Io ero felice, forse<br />
anche Ietta. Venne con il figlio nel marsupio. Dalla grande<br />
tasca veniva fuori un cespo di peli castani, odorosi di Fissan.<br />
Il bimbo se ne stava appeso e pago come certi frutti d’estate,<br />
nel vapore che viene dalla terra. Bastavano le bretelle a reggere<br />
il peso di quel figlio appena nato, che faceva bruschi movimenti<br />
d’inconsapevole difesa. <strong>La</strong> madre non reggeva il marsupio<br />
con le mani, che teneva invece infilate in tasca, fiduciose.<br />
Il piccolo sembrava un serpente nel cesto: tentava di girare<br />
il capo quando sentiva un rumore, una voce, una penna<br />
122
che cadeva, una tastiera che titillava. Siccome era schiacciato<br />
sulla pancia della madre, non poteva né muoversi né guardarmi<br />
in faccia, così, restava incerto, in bilico. Apriva e chiudeva<br />
la bocca. Io lo potevo guardare, ma non in tutti i dettagli<br />
come avrei voluto. Volevo capire quanto erano piccoli a quella<br />
età; dove è possibile infilarli e con quale autonomia di<br />
movimento. I figli. Limitata, direi, veramente limitata.<br />
L’autonomia, intendo. I neonati si muovono poco, lo fanno a<br />
scatti. Non sentono il proprio corpo. <strong>La</strong> madre raccontò la<br />
sua storia, intervallando le parole a sibili da voliera indirizzati<br />
verso il figlio, segnali che per lui dovevano aver dentro lo<br />
zucchero di una caramella o la tranquillità di un carillon.<br />
Quel prete è un demonio; io lo devo far sapere a tutti.<br />
Parlava del suo locatore, che le era venuto in soccorso<br />
quando, un anno prima, era rimasta da sola e con la pancia,<br />
dandole un posto in cui rifugiarsi, per dormire, cucinare, ed<br />
essere sveglia al mattino presto, lavata e pettinata, per andare<br />
a lavorare, almeno finché non fosse nato il pupo. <strong>La</strong> legge,<br />
almeno un po’, tutela le madri. Sì, un po’, ma non abbastanza.<br />
Sì, c’è l’astensione obbligatoria, anche quella facoltativa,<br />
ma a quel punto lo stipendio quasi si azzera, gli assegni, l’assistenza,<br />
quegli studi sul licenziamento senza giusta causa, ma<br />
con un marito è meglio. Se non si faceva vedere al lavoro per<br />
troppo tempo, se si ammalava, la buttavano fuori o veniva<br />
trattata male e messa alle corde. Per lavorare ci vuole la casa,<br />
altrimenti va tutto in malora. Per essere di buon umore ci<br />
vuole una casa. Se non un uomo, almeno una casa. Ad avere<br />
un casa è tutto più facile, pure tenersi un figlio. Ma trovare<br />
casa era un disastro. Un vero disastro in città. Il lavoro è<br />
importante, scusate, non si scherza con il lavoro. Perché non è<br />
che una donna non è una donna per bene per il fatto di aver<br />
fatto un figlio da sola. Ma se non ha un posto in cui dormire…<br />
A lei era sempre piaciuto lavorare, fare una vita regolata;<br />
anche studiare. Continuare a studiare, magari, quando il<br />
pupo si fosse fatto grande e non c’era più da perdere la testa<br />
in pannolini. Lei aveva tutte le carte anche per trovare un<br />
lavoro migliore della segretaria. Belle speranze. Per primo il<br />
lavoro, poi la casa. Anzi, forse prima la casa.<br />
123
Lungo il discorso della pulzella in cerca di fiducia, fatto<br />
senza ingoiare saliva.<br />
<strong>La</strong> storia del prete era da raccontare meglio. Era in<br />
Procura per questo. Voleva dire, far sapere. Il prete era diventato<br />
un lupo, all’improvviso, senza motivo. Prima un angelo e<br />
poi un lupo. Le donne sono vendicative, non tanto per dire,<br />
e infatti lei voleva vendicarsi. Che lo scomunicassero al maiale!<br />
Prima il prete le aveva offerto un alloggio a costo di cortesia,<br />
dopo aveva mutato pensiero. Si era presentato a casa di<br />
sera tardi e aveva detto alla ragazza che doveva sloggiare subito,<br />
al massimo nel giro di una settimana, perché la casa serviva<br />
a lui. Nemmeno il segno della croce si era fatto; neppure<br />
una bugia aveva detto. Entrato in casa, sembrava voler far<br />
volar via i piccioni dalle gradinate, battendo le mani. Via, via!<br />
Ma siccome la giovane madre non se ne andava, lui era ritornato<br />
qualche giorno dopo, quando a casa non c’era nessuno,<br />
e aveva spaccato il cesso a colpi di martello, scheggiando le<br />
mattonelle in stile Vietri e facendo cadere lo specchio giù dal<br />
suo chiodo. Iella nera per sette anni, se non di più. Una cosa<br />
che non ti aspetti da un prete, che Dio non può approvare.<br />
Chissà quanti altri cessi aveva già spaccato questo prete. Dalla<br />
perizia con cui l’aveva sventrato non sembrava la sua prima<br />
volta. E dove lo trovava un altro monolocale? Costavano un<br />
occhio in città. Dopo la tempesta, la ragazza se ne era andata<br />
per qualche mese da un’amica. Quest’ultima però, dopo<br />
poco, si era rotta: non dormiva bene di notte per colpa del<br />
pupo e sbuffava. Non poteva durare.<br />
Quel prete fa proprio paura. Non è uno normale.<br />
<strong>La</strong> faccenda era poderosa. Il ritmo di Ietta, dinanzi al vagito<br />
animale dell’esserino in fasce, invece, era lo zero assoluto.<br />
Ascoltava, senza sapere come interagire. <strong>La</strong> creatura gli era<br />
stata imposta, inoculata. Non faceva domande, non si era<br />
dato una meta, non c’era la sua musica. D’accordo: non potevamo<br />
dire che la deposizione della signorina fosse particolarmente<br />
attinente alla nostra indagine. Però si sa che la giustizia<br />
fa spesso giri strani, e solo Ietta fingeva di non saperlo.<br />
Impigrito. Eravamo davanti a una deposizione vaginale, che<br />
veniva da dentro, una cosa che non capita di frequente.<br />
124
Spontanea. Galoppante. Ma lui non reagiva. <strong>La</strong> ragazza non<br />
conosceva il morto, né la libreria presso cui lavorava, né tanto<br />
meno il farmacista esotico. Tanto per chiarire. L’assassinio<br />
non aveva nulla a che fare con il pargolo. Anzi, la ragazza ci<br />
teneva a che apparisse chiaro, in un rigurgito neofemminista,<br />
che il figlio era suo e basta; non era lì per parlare di sesso o di<br />
padri naturali. Non era lì per suo figlio o per parlare di suo<br />
figlio. Né del morto. Aveva solo maturato una pessima opinione<br />
sul clero operante in città e la comunicava per dovere<br />
di buon cittadino, considerato che il clero sembrava aver<br />
avuto un qualche ruolo nel caso giudiziario in questione. <strong>La</strong><br />
televisione aveva detto: parlate, se sapete qualcosa. Allora lei<br />
aveva voluto parlare. Altrimenti a che serve la televisione?<br />
Parlava. D’accordo, la sua era soltanto un’opinione, valeva<br />
quel che valeva, come potevamo mettere in relazione il cesso<br />
con il morto, il sacerdote con l’uomo delle pulizie? Era fuori<br />
di dubbio però che l’immagine offerta era in contrasto con le<br />
icone sul tema, e arricchiva l’immaginario collettivo. Era uno<br />
strano prete questo qui. Un prete dovrebbe parlare a voce<br />
bassa e sorridere rassicurante, paziente, sotto veli di mistica<br />
sapienza. Non me lo vedevo proprio un prete, vestito di<br />
lungo, fare piazzate, imbracciare un martello e cesellare il<br />
water con la violenza di Mastro Lindo. Ma poi alla fine tutto<br />
è possibile quando si tratta degli uomini.<br />
Nonostante le incertezze, Ietta avrebbe comunque dovuto<br />
mostrare più interesse, secondo me. Più carattere. Del resto<br />
era un racconto avvincente. Il tipo di chiesa si era accanito sul<br />
suo stesso water. Domando io: perché un tizio rompe il water<br />
se è lui il proprietario? Una spiegazione: è incavolato nero. È<br />
molto nervoso. Oppure ha molta fretta. Deve buttar fuori<br />
dalla sua proprietà un’inquilina divenuta scomoda e, per farlo<br />
in tempi rapidi, decide di spaventarla a morte. Non esita a<br />
sacrificare il suo water pur di terrorizzarla. Non si preoccupa<br />
del modesto danno economico, forse perché è certo di assicurarsi<br />
con quel gesto ben altri guadagni. Non di certo il Regno<br />
dei Cieli. Ancor più semplice: rompendo il water, il tizio si<br />
assicura che l’inquilina andrà via. Non si può restare in una<br />
casa che non ha i servizi funzionanti, o per lo meno non vi si<br />
125
può restare a lungo. È questa l’unica spiegazione possibile, in<br />
fondo ovvia e, per questo, geniale.<br />
Chiedemmo come era cominciata la persecuzione. Disse<br />
che il sacerdote era sempre stato gentile con lei, fino a quando<br />
le aveva imposto di andar via. Gentile? Quanto gentile?<br />
Avevo chiesto io. No, gentile in modo normale, aveva risposto<br />
lei, nel modo in cui ti aspetti da un prete. <strong>La</strong> chiesa si deve<br />
interessare delle persone in difficoltà. Nessuno si stupisce di<br />
questo genere di generosità. Ma poi le cose erano cambiate in<br />
modo repentino e imprevisto. Lui non aveva intenzione di<br />
aspettare, di darle il tempo di trovare un’altra sistemazione.<br />
Nessun esercizio di carità aggiuntivo.<br />
Le aveva fatto staccare persino la luce. Lei aveva resistito.<br />
Aveva imparato a resistere. Con la luce del giorno era più facile:<br />
bastava spalancare la imposte. Dopo il sole, le ore scivolavano<br />
dentro una bottiglietta d’inchiostro scuro e non si vedeva<br />
nulla in casa. <strong>La</strong> luce solare consumava i luoghi. <strong>La</strong> sera arrivava<br />
quando in strada si coloravano gli aloni di gas intorno ai<br />
lampioni; era quello il segnale dell’angoscia. Lei li vedeva<br />
accendersi dal suo appartamento, ma erano lontani, alla fine<br />
della strada, proprio là dove s’apriva una piccola piazza ovale,<br />
troppo lontani per farle compagnia. Finché poteva se ne restava<br />
affacciata a vedere l’aria che cambiava colore. I negozi chiudevano<br />
quando lei serrava le due finestre, lasciando aperte le<br />
imposte e scostate le tende. Faceva freddo all’imbrunire. Più<br />
freddo. Di sera la ragazza stava al buio, mentre il sacro pupo<br />
dormiva come dentro la capanna. Non si poteva nemmeno<br />
leggere. Ciondolava a tastoni per quei pochi metri quadrati,<br />
percorsi lenti, con le mani sulle pareti per riconoscerne gli<br />
spigoli. Se ne restava in un silenzio catastrofico, schiacciata<br />
dal pianto del neonato, che ricordava il fragore delle martellate<br />
sul cesso. Distruttivo, irrimediabile. Senza elettricità, non<br />
funzionava neppure la lucina del frigorifero e tutto andava a<br />
male, soprattutto il latte artificiale liquido. Quello in polvere<br />
costava di più. Tutto puzzava nel buio. L’ultimo colore era<br />
quello della notte. Seppia. Di notte c’era quella luce orribile<br />
che le fasi lunari trasformano, condita con i rumori della strada.<br />
Come una spugna intrisa e gocciolante.<br />
126
Quel liquido scuro che avvisa gli insonni che è diventato<br />
troppo tardi per cercare ancora di dormire. Quella luce finta<br />
che non è mai la stessa, le cui sfumature di petrolio dipendono<br />
dalla pressione arteriosa di ciascuno e dal frastuono che<br />
fanno i camion della nettezza urbana, rovesciando i cassonetti.<br />
Il pupo, comunque, scovava la mamma anche nella penombra,<br />
senza alcuna fatica; lui sapeva sempre dove era l’origine,<br />
anche a occhi chiusi. Lei, invece, non trovava più un posto in<br />
cui nascondersi da quando c’era il pupo. Succede a certi genitori,<br />
pare. Scappare era inutile in quel buco.<br />
Per una notte intera era rimasta con la testa sotto le coperte,<br />
aspettando l’ora della poppata, con la sveglia in mano a<br />
guardare i riverberi fosforescenti dei numeri romani e delle<br />
lancette. Verdi come il digiuno. Non poteva continuare a<br />
vivere come un topo. Doveva trovare soldi e nuova sistemazione,<br />
per forza. Magari come le studentesse, quelle che dividono<br />
le spese. Magari un bilocale. Anche se le studentesse<br />
vogliono dormire di notte e di solito non hanno figli a cui<br />
badare e per i quali perdere il sonno. Di solito. Con dei buoni<br />
tappi per le orecchie si può risolvere il problema? Con un po’<br />
di comprensione, forse. Forse.<br />
Così la faccenda del buio durò solo un paio di giorni. Non<br />
sono una bestia, non mi potevo far trattare così. Ma della<br />
denuncia ho avuto paura, all’inizio. Adesso che il pupo è cresciuto,<br />
ho meno paura. Si voleva prendere la sua rivincita. Era<br />
giunto il suo tempo.<br />
Che impressione ne avevo avuto? Mi ero chiesto subito di<br />
chi era il figlio appeso al collo. È chiaro. Tutti al posto mio,<br />
credo. Tu vedi un bambino e ti chiedi di chi è: normale.<br />
Soprattutto se un figlio non ce l’hai, te lo chiedi. Un fidanzato,<br />
un incontro casuale, un cliente? Nato per sesso, amore o<br />
soldi? Lo dice anche Angela che sono scontato nei miei interrogativi.<br />
Non sembrava una che faceva sesso per soldi. Sembrava<br />
piuttosto volesse uscire da un buco, anche se questo, a ben<br />
pensarci, non significa che per farlo non si accettino dei soldi.<br />
Sembrava caduta in una trappola. In un’indagine come quel-<br />
127
la in corso, correvamo il rischio di vedere donne in vendita<br />
ovunque, anche dove non ce ne erano. Allucinazioni libidinose<br />
e tristi, per uomini indotti dalle circostanze a credersi o<br />
degli eroi o dei bastardi.<br />
Io non sono mai andato a prostitute; no, non conosco<br />
l’ambiente. Ci sono uomini che ci vanno; sempre la stessa o<br />
donne diverse ogni volta. E non è sempre un fatto di solitudine.<br />
<strong>La</strong> vicenda mi aveva fatto comprendere che ci sono bisogni<br />
che la vita non soddisfa naturalmente. Tutto, dall’amore<br />
alla mera deambulazione, ha a che fare con il bisogno. Il bisogno<br />
di mettere le mani nel fango, per esempio, di rovistarci<br />
dentro. Poi magari nasce un figlio e il fango lo devi ripulire<br />
per forza, che non si mescoli al latte materno, che non imbratti<br />
il ciuccio e la tutina. Un figlio, infatti, si porta dietro, insieme<br />
alla placenta, il bisogno di pulizia. Un bisogno improvviso<br />
, imprevisto, casuale ma incalzante. Così, un bisogno finisce<br />
per contrastare con un altro. Per questo, a mio avviso, la<br />
ragazza aveva voluto raccontare alla giustizia l’affronto subito.<br />
Per pulizia. Non sappiamo quali altri bisogni aveva tentato<br />
di soddisfare prima di mettere al mondo quel figlio. I bisogni<br />
sono cose volubili. Si dice che il parto si dimentichi in<br />
fretta, e che residui solo un vago disagio olfattivo. Che bisogni<br />
restituisce, quali cancella?<br />
Va bene, non lo dico per esperienza, no, non mi è ancora<br />
capitato. Niente figli. Bisogni a perdere, i nostri. Nonostante<br />
il desiderare, le tecniche, lo specialista con la erre moscia che<br />
avevamo scelto, che avevamo consultato più di una volta; i<br />
pensieri indotti. Nonostante tutto questo, non è ancora capitato.<br />
A tutt’oggi non è ancora capitato. Mi dicono che non sia<br />
il caso di preoccuparsi. Conservo le nostre analisi mediche su<br />
carta intestata in comodi raccoglitori numerati, per ogni evenienza.<br />
All’inizio Angela non faceva che parlarne. C’erano<br />
sempre almeno dieci parole attinenti che giravano per casa.<br />
Poi ha smesso. Le parole hanno smesso. Non c’è nulla di cui<br />
preoccuparsi.<br />
128<br />
Alla fine la ragazza parlò due ore di fila, mentre il capo non
sapeva se cercare il diabolico prete o desistere. Ci muovemmo<br />
come gatti, lesti per istinto, ma pigri dentro il cuore.<br />
Cercammo il prete.<br />
Don Oreste, si chiamava così l’immobiliarista cattolico.<br />
Non era un prete qualunque, dimenticato in qualche parrocchia<br />
di periferia. Faceva parte della Curia, lui. Un pezzo grosso.<br />
Pensammo di chiedere prima alla vedova della libreria e<br />
poi anche al farmacista se, per caso, lo conoscevano.<br />
<strong>La</strong> vedova se lo ricordava bene: era un cliente affezionato<br />
e gentile; un signore distinto, molto noto in città, un personaggio<br />
alto, lungo e talare. Il suo corpo affusolato ricordava<br />
quello della vittima. Al negozio veniva di rado di persona, ci<br />
mandava piuttosto un prete più giovane a sbrigar questioni<br />
per suo conto, o qualcun’altro che esordiva con il solito Don<br />
Oreste desidera. Parlando poi con doverosa deferenza dei<br />
desideri di qualcuno molto in alto, molto vicino a Dio. Il<br />
popolo della Curia era un popolo con una voce sola.<br />
Qualcuno, in qualche confessionale, desiderava qualcosa; gli<br />
altri erano d’accordo. Questo il quadro dipinto dalla vedova.<br />
Un popolo dai modi impostati ed efficaci: un gesto per ogni<br />
circostanza, noto ben prima di essere mosso. Codici rigidi e<br />
inequivocabili. Nessun movimento affidato al caso. Tra questi<br />
individui alati si poteva anche nascondere il polso che<br />
aveva vibrato l’ultimo colpo? Magari no, ma l’idea mi stuzzicava.<br />
Il giordano farmacista, invece, ricordava appena Don<br />
Oreste. Il nome dell’ecclesiastico di per sé non gli diceva<br />
nulla. Forse una descrizione fisica dettagliata poteva venire in<br />
soccorso alla memoria? Fornimmo quindi tutti i dettagli fisici,<br />
ripetendo ogni aggettivo almeno due volte. Don Oreste?<br />
Aveva gli occhiali? No, non aveva gli occhiali, ma aveva gli<br />
occhi. E che occhi! Non vecchio. Cinquanta, cinquantacinque.<br />
Bene in ossa, come una salda costruzione in pietra, scheletro<br />
possente che si muove al trillo di un telefono, che sa<br />
riconoscere trillo da trillo, e segue il ritmo obbligato ma suadente<br />
di un’avemaria. Sì, decisamente imponente, non grosso,<br />
ma incisivo. Niente ciccia, solo pietra. Pietra, pietra. Alto,<br />
alto, alto. Questa è una zona di preti, che vuole; ce ne sono<br />
129
tanti di preti! Mi dovete perdonare: sono io che non frequento<br />
molto… Io sono musulmano. Nessuna prebenda. Erano giorni<br />
che i carabinieri se ne andavano su e giù per via Cardone.<br />
Tra un dio e l’altro. Ritornarono anche dal farmacista, per<br />
mettere a verbale una nuova dichiarazione e l’atmosfera dello<br />
scritto, sintetico ed evocativo come certi voli di gabbiani sulle<br />
discariche a cielo aperto, ricordava un fine settimana trascorso<br />
a Istanbul.<br />
Per breve tempo sono stato anch’io presso altre fedi. Non<br />
sono poi così crudo.<br />
Ho ancora nella testa tutto di quel breve viaggio fatto in un<br />
marzo nebbioso con mia moglie. Istanbul è tagliata a metà dal<br />
mare: da una parte l’Europa, dall’altra Asia. Nel mezzo ci<br />
volano enormi gabbiani che portano iella, secondo me. Mia<br />
moglie prese l’influenza, infatti. Si riempì lo stomaco di<br />
Zerinol per tre giorni, trattandomi malissimo, addirittura<br />
riconoscendo in me l’unico, vero responsabile del suo fastidioso<br />
cerchio alla testa, in quanto ero l’uomo più accessibile,<br />
il più tollerante a disposizione in quei giorni da turista.<br />
Ci sono coppie che si servono dei malanni per comunicare.<br />
Ci sono quelle che ormai hanno smesso di parlare e solo<br />
davanti a una nuova patologia, a una nuova ricetta medica,<br />
ritrovano la libertà di una confidenza. Le malattie sono territori<br />
neutrali.<br />
C’erano mio zio e mia zia, da parte di madre, per esempio,<br />
che si odiavano a morte. Vivevano ancora insieme, ma rinnegandosi<br />
ogni istante come Pietro e il gallo nei Vangeli.<br />
Occupavano camere diverse e lontane, pur nello stesso<br />
appartamento. L’inferno lo si può immaginare così: un bilocale<br />
condiviso con la fonte diretta del proprio malessere psichico.<br />
Un lento infarto. Se si incontravano nel disimpegno,<br />
non si salutavano. Piegavano il collo e stringevano le labbra.<br />
C’erano solo due argomenti di cui riuscivano a parlare, senza<br />
scannarsi. Primo: l’artrosi cervicale di lui e relative siringhe di<br />
Artrosilene. Secondo: i noduli al seno di lei da operare, che<br />
dimoravano benignamente tra le enormi poppe di mia zia da<br />
decenni. Non riuscivano invece a parlare delle rispettive<br />
130
gastriti, perché il medico di famiglia, ancora e caparbiamente<br />
condiviso come l’appartamento, aveva osato ipotizzare un’origine<br />
nervosa del disturbo, che ciascuno, ovviamente, imputava<br />
a l l ’ a l t r o .<br />
Per me e Angela non potrà valere mai questo discorso.<br />
Sono certo. D’accordo, stiamo ancora facendo le analisi per<br />
accertare un’eventuale infertilità. Abbiamo ancora sporadici<br />
contatti con precise categorie di medici e piccoli ambulatori<br />
Ma che c’entra? Non lo facciamo perché ci procura piacere<br />
sentirci malati e indagabili. Smetteremo prima o poi, da sani<br />
o da sofferenti, smetteremo di sniffare acqua ossigenata e<br />
iodio. Non potrà durare ancora a lungo. Devo confessarlo,<br />
Angela adesso tiene i capelli lunghissimi, le arrivano quasi alle<br />
ginocchia e non li lega, li ostenta, dice che ha voglia di aspettare,<br />
per ora, così non taglia, non recide, non rinuncia. Non<br />
smette. Non si arrende a una nuova separazione. Ma è fatale:<br />
presto anche la sua pazienza isterica troverà pace, sono certo,<br />
e cesserà di tenere costantemente sotto controllo quel suo<br />
cielo composto da cristalli senza incastro.<br />
Sono solo capelli in fondo. I simboli sono un gioco; non<br />
voglio entrarci. Non voglio preoccuparmene troppo.<br />
Ritroverà le forbici un giorno o l’altro.<br />
Comunque, qualora dovesse accaderci di non essere più<br />
una coppia salda, così come sono solito intenderla, con i miei<br />
tic ottocenteschi, se dovesse accadere, infertilità a parte, non<br />
potremmo inventarci delle malattie per campare. Non saremmo<br />
capaci di ammalarci per stare meglio.<br />
Dicevo di Istanbul. Io continuavo a dirle che le medicine<br />
fanno male, ma lei non aveva intenzione di trascorrere l’intera<br />
vacanza in un letto d’albergo e si trascinava come una<br />
medusa a galla, lungo budelli che avrebbe dimenticato presto<br />
perché l’antipiretico in dosi massicce la ottenebrava. Rimase<br />
una Turchia triste e piovosa la nostra, in cui le vite degli uomini<br />
sembravano circolare anonime, dentro tram elettrici, come<br />
una qualunque altra circostanza senza valore. Senza quel<br />
valore che la diversità offre.<br />
I turchi che ricordo sono quelli che vendevano mercanzia<br />
piena di colori acidi nel Gran bazar e quelli che pregavano<br />
131
chini sui tappeti delle moschee. Rigorosamente senza scarpe.<br />
O pregavano, o si lavavano i piedi con abluzioni scrupolose,<br />
sotto lo scroscio modesto di antiche fontanelle, poste un po’<br />
ovunque, occultando le scarpe in buste di plastica occidentale<br />
da lasciare all’ingresso delle moschee. Perché sui tappeti, i<br />
fedeli ci mettono la faccia e non le scarpe.<br />
Nelle strade non c’era molta gente; al contrario, i tram<br />
erano pieni. Viaggiavano verso l’altro continente, come fosse<br />
normale, tutti con il braccio in alto a reggersi. <strong>La</strong> religione era<br />
nascosta dappertutto, come un grande orecchio a origliare<br />
sulla vita di ciascuno.<br />
Ho ancora nella mia libreria la guida con la copertina<br />
rossa, <strong>La</strong> turchia più bella, quella che spuntandomi fuori dalla<br />
tasca del giaccone, mi rendeva turista, e invitava gli autoctoni<br />
a seguirmi al fine di mollarmi un tappeto artigianale. Dentro<br />
la guida conservo ancora i biglietti d’ingresso di qualche<br />
monumento, quelli dell’aereo, qualche cartolina, un biglietto<br />
intestato dell’albergo che Angela mi aveva fatto trovare un<br />
pomeriggio, sul retro del quale aveva scritto Aspettami giù,<br />
dormo un paio d’ore e poi torniamo in giro. <strong>La</strong> mia Angela stava<br />
male, ma non riusciva a rinunciare. Anche per lei, come per<br />
me, non è facile accettare di non essere capace. Era sospesa.<br />
Non si parlava ancora di terrorismo internazionale a<br />
Istanbul. Il cielo era di un azzurro velato, ma pur sempre<br />
azzurro. Al tramonto diventava di un cobalto artificiale. Per<br />
chi ha visto l’iridescenza delle piastrelle Iznic, ferite dalla luce<br />
nella Moschea blu, quell’azzurro è materiale, concreto come<br />
un debito, non solo una supposizione rivolta in direzione<br />
della Mecca. Lo sciogliersi del pigmento, si appoggia come<br />
un residuo sui visi. Adesso ti raccontano altre storie. C’è bisogno<br />
di qualcosa che risarcisca questa gente e non basta la preghiera<br />
roteante dei dervisci a toglierli dalle spine. Così sembra<br />
a leggere i giornali. E quella strana crema? Incredibile<br />
trovare del metallo in quella crema nutriente. Non so che fine<br />
ha fatto quella crema per il corpo, che la mia Angela ha usato<br />
subito dopo il viaggio. L’avevamo sottratta all’albergo che ci<br />
ospitava, una dimora storica di categoria superiore, che destinava<br />
le camere migliori ai fumatori e poi, per salvarsi l’anima,<br />
132
offriva ai clienti carrettate di caramelle all’eucalipto, in coppe<br />
di silver, presso la portineria. Le cameriere, nel rifare la camera<br />
ogni mattina, lasciavano un paio di bottigliette di shampoo,<br />
balsamo e una strana cremina, in un cestino di paglia. In ogni<br />
buon albergo c’è questo servizio in più e tutti i clienti si portano<br />
in patria una buona scorta di queste bottigliette, come<br />
ricordino. Almeno credo. Angela dice che lo fanno tutti.<br />
Angela porta a casa qualunque cosa e sostiene che tutti lo facciano.<br />
Anche i magistrati si portavano via dagli alberghi che<br />
visitano qualche souvenir. Dice così. Altrimenti che viaggio è?<br />
Dice Angela. Comunque. Quella crema per il corpo, spalmata<br />
tra le mura di casa nostra, aveva l’odore della polvere da<br />
sparo.<br />
Tutto sommato, la trasmissione televisiva aveva funzionato.<br />
Erano venuti fuori dal nulla dei personaggi nuovi in una<br />
commedia dal plot panciuto. Grazie al palinsesto televisivo<br />
avevamo acquisito nuovi nomi: una donna, un prete, e poi<br />
anche un testimone oculare. Ecco l’altro colpo di scena. Non<br />
solo una donna e il suo bambino, quindi. Non solo un pretaccio<br />
dai modi oscuri, quindi. Di più. Gli occhi dei mass media<br />
erano su di noi. Benissimo.<br />
Il mio primo morto si meritava questo e altro, ma dovevo<br />
combattere con la stanchezza del capo, che continuava a lanciarmi<br />
i suoi segnali di resa. Le intercettazioni, inoltre, hanno<br />
un limite temporale da rispettare, per questo, dopo un mese<br />
circa, avevamo deciso di tappare la bocca pure alla vecchia e<br />
alla farmacia. Avevamo ascoltato fiumi di quotidianità. Nel<br />
buco del nulla più intimo. Le fisse della vecchia erano diventate<br />
insopportabili. Fine dei piagnistei. Adesso arrivavano i<br />
prelati; scoccava l’ora dei preti, in fila come grosse perle nere, ad<br />
agitare le acque, acque già torbide.<br />
Menomale che c’era la tv. Ed io che mi ero persino addormentato<br />
prima della fine della puntata la sera della diretta sul<br />
morto. Manco avessi avuto cent’anni, era stato fulminato dal<br />
più classico degli abbiocchi; un autentico ammazza palpebre.<br />
Quand’è che si comincia a diventare vecchi? Quando il sonno<br />
arriva presto? Eppure dicono che i vecchi dormono di meno,<br />
133
che siano le vittime predilette di quello stato d’impotenza che<br />
priva le immagini in onda di qualsiasi interesse, che le rende<br />
tutte uguali, ammesso che non lo siano oggettivamente, in cui<br />
il respiro si fa intermittente, sagomandosi sulla forma della<br />
poltrona e dei bozzi dei cuscini. <strong>La</strong> colla in bocca. Quando<br />
capita, perché capita, eccome se capita, saresti pronto a giurare<br />
che no, non è vero, eri sveglio, sentivi tutto quanto ti<br />
accadeva intorno. Ma è pura illusione. Avrebbero potuto violentarti<br />
la moglie nella stanza accanto, e tu avresti continuato<br />
quel ronfare da cane sazio, con tanto di bavetta agli angoli<br />
della bocca. E forse ti sarebbe rimasto in testa solo qualche<br />
suono, vago, magari un urlo lontano, una specie di sparo,<br />
mescolato a chissà quale sogno western. Lo ammetto con un<br />
briciolo di vergogna: dormivo mentre la ragazza era alle prese<br />
con la sua coscienza. E di quella trasmissione non mi ricordo<br />
quasi nulla.<br />
Non lo dissi mai al Ietta che mi ero addormentato e non<br />
avevo visto la fine della sua trasmissione. Non volevo che mi<br />
considerasse superficiale. Tenevo molto alla sua opinione e<br />
non solo perché avrebbe dovuto scrivere il parere sul mio<br />
lavoro di quei mesi, destinato al consiglio giudiziario, per la<br />
presa di funzioni. Non solo per questa ragione, lo giuro.<br />
Temevo il suo giudizio da uomo che lavora. I suoi collegamenti<br />
con mio padre. <strong>La</strong> questione dei maestri. <strong>La</strong> mia prima<br />
volta. Un giudizio, da qualsiasi parte promani, s’impasta<br />
come l’albume agli altri elementi, per diventare una massa<br />
unica, non più smembrabile. Lui mi osservava e io osservavo<br />
me stesso; erano sguardi circolari: questo ci rendeva inseparabili.<br />
Nasce così l’opinione di sé, credo. In parte da se stessi, in<br />
parte dal lavoro degli altri. Dal reciproco scrutarsi.<br />
Accade spesso che uno parli di te in pubblico, mentre<br />
ascoltano individui che neppure ti conoscono, ma che magari<br />
conoscerai in seguito, per chissà quali circostanze. Quelli si<br />
ricorderanno di quanto sentito sul tuo conto quel giorno, per<br />
caso, e l’opinione che si formeranno risentirà di quelle prime<br />
informazioni, neppure verificate, e quando, successivamente,<br />
134
questi stessi individui parleranno di te ad altri, le loro espressioni<br />
avranno lo stesso colore. Il gioco andrà avanti nel tempo<br />
e ogni accadimento sarà visto sempre alla luce di quelle poche<br />
parole iniziali, fino a quando, all’improvviso, arriveranno alle<br />
tue orecchie e tu, stordito, ti guarderai allo specchio e ti chiederai:<br />
ma io sono così? E se la giornata non è delle migliori<br />
magari ci crederai, crederai di essere così, e quelle primissime<br />
parole pronunciate frettolosamente da sconosciuti, finiranno<br />
dritte sulla tua lapide. Persino certi amori nascono su queste<br />
fondamenta di sabbia cangiante.<br />
Una volta, un professore all’università, diritto processuale<br />
penale, mi disse che riteneva che avessi preso sotto gamba la<br />
sua materia. Considerato il mio libretto pieno di blandizie,<br />
impegno e coerenza, disse che non era soddisfatto dei tempi<br />
delle mie risposte alle sue domande, dei miei toni, delle mie<br />
pause esageratamente lunghe; la sua era solo un’impressione,<br />
è evidente, ma mi attraversò per intero come fossi una galleria,<br />
lasciò tracce di fumo ovunque. Da allora, sto molto attento<br />
alle mie pause: le misuro. Da allora, qualunque cosa faccia,<br />
mi chiedo sempre se non stia per caso prendendo sotto<br />
gamba l’impegno richiestomi, e se qualcuno me lo fa notare<br />
divento una belva. Un esempio per tutti: la paternità. Quando<br />
il medico mi disse che non dovevo ritenermi infertile per il<br />
solo fatto di non aver avuto figli in dieci anni di tentativi, e<br />
dopo aver fatto trecento esami clinici, tutti costosissimi, tutti<br />
ugualmente non significativi – ché, fossi stato un metalmeccanico,<br />
avrei voluto vedere io che razza di speranza avrei potuto<br />
garantire a mia moglie e ai suoi capelli che crescevano a<br />
dismisura! –, esami pure dolorosi, alcuni dei quali ripetuti<br />
due volte per sicurezza, ecco, in quella occasione pensai che<br />
dieci anni erano una pausa quantomeno esagerata, che forse<br />
stavamo prendendo sottogamba la questione. Io e il medico,<br />
intendo.<br />
Idee sugli altri, idee su se stessi. Così nascono gli assassini?<br />
Si diceva che il nostro morto era stato un uomo gentile.<br />
Cortese. Anche quella era un’idea; gramigna nella testa di<br />
qualcuno. Un prato da potare. Chi l’aveva detto? Su cosa si<br />
135
fondava questa opinione? Era idea di coloro che l’avevano<br />
conosciuto davvero, o di quanti l’avevano soltanto sfiorato<br />
per un brevissimo istante, o di altri che, al massimo, avevano<br />
sentito parlare di lui? Era l’immagine proiettata da un amante,<br />
da un cliente, da un invidioso, o da un passante? Le indagini<br />
non si fanno con le idee, perlomeno, non solo con quelle.<br />
<strong>La</strong> verità sembrava un oggetto per pochi, come certe statue<br />
sacre sotto la loro antica campana di vetro. Bellissima e<br />
fragile.<br />
Quella riportata dalla ragazza in cerca di sistemazione, con<br />
un figlio sul groppone, per esempio, era una certa idea sul<br />
clero, avvalorata da alcuni episodi personali e spiacevoli. Un<br />
fatto di sensazioni, di buio dell’anima. Solo quello. Sotto il<br />
fuoco animoso delle sue dichiarazioni, la Procura che poteva<br />
fare? Aprire un fascicolo per violazione di domicilio e, con un<br />
po’ di partecipazione, aprirne uno per esercizio arbitrario<br />
delle proprie ragioni, a carico del prete luciferino. Stop. Una<br />
storia appetitosa per la televisione. O per uno che come me<br />
doveva impratichirsi. Un’ombra, non un’immagine reale.<br />
Niente di più. Ombre. Il bello delle ombre è che sono sì cose<br />
importanti, ma puoi anche far finta che non ci siano, senza<br />
che nessuno abbia qualcosa da ridire. Sono solo una parte del<br />
tutto. <strong>La</strong> verità è altro affare.<br />
<strong>La</strong> giustizia poi, che su questa verità doveva fondarsi, sembrava<br />
cosa ancora più estranea al momento: un premio<br />
impossibile. <strong>La</strong> giustizia è l’equilibrio tra le verità. Dopo un<br />
atto così violento come l’assassinio di un uomo, la cui vita<br />
sembrava legata a quella di così tanti altri soggetti e oggetti,<br />
poteva davvero credersi ricostituibile un qualche equilibrio?<br />
Belle domande mi facevo, e sì, ero un campione nel fare<br />
domande! E tra le opinioni della gente cercavo di fare rotta.<br />
Alla fine le storie di Chi l’ha visto erano tutte così: un fascio<br />
di opinioni. Buone per la nanna.<br />
Nonostante il testimone oculare.<br />
136
X CAPITOLO<br />
Tra tutte le mie menzogne, questa è la più divertente:<br />
quando ti ho detto che avevo voglia di rivedere<br />
la mia patria. Tu sbattevi le palpebre, intenerita,<br />
e ti schiarivi la voce per trovare parole comprensive<br />
e consolanti.<br />
…Era valsa la pena raccontarti quella storia.<br />
Agota Kristof<br />
“L’hai vista?”<br />
“Cosa?”<br />
“<strong>La</strong> trasmissione che ti ho chiesto di vedere. L’hai vista?”<br />
“Non mi piace quel programma. L’ho vista, sì. Contento?”<br />
“Hanno telefonato in tanti, sai?”<br />
“Chi?”<br />
“Una ragazza madre per parlare di un prete, e pure un<br />
testimone oculare, diciamo oculare. Uno che ha visto qualcosa<br />
e che era ben felice di aver visto qualcosa per poterlo raccontare<br />
in giro. Il problema è che neppure lui sa cosa ha visto<br />
veramente”.<br />
“Che ti dicevo? Tu non ti fidare mai di tua moglie, mi raccomando.<br />
Lo sapevo che venivano fuori i preti”.<br />
“Qui piove: la primavera non esiste”.<br />
“<strong>La</strong> ragazza di ‘Chi l’ha Visto’ l’ha visto davvero il prete<br />
assassino?”<br />
“No, ma che dici? Ha avuto solo una brutta questione con<br />
uno della Curia. Stiamo mettendo a confronto le sue dichiarazioni<br />
con quelle di altri personaggi e abbiamo sentito il<br />
prete. Sembra una brava persona, a vederlo dico, sembra;<br />
lento come una pianura. Ha parlato sempre lui. Ci ha fatto<br />
lezione sulla vita e sulla morte”.<br />
“E hai imparato qualcosa?”<br />
“Non credo”.<br />
“E la ragazza?”<br />
137
“Neppure lei”.<br />
“No, dicevo: cosa ha fatto la ragazza?”<br />
“Ha portato da noi il figlio appena nato, mentre il prete ha<br />
portato il suo messale o una cosa simile. Un libricino con la<br />
copertina nera e il segnalibro di stoffa color crema”.<br />
“E il figlio?”<br />
“Cosa?”<br />
“Come era il figlio?”<br />
“Che domanda è come era? Un bambino”.<br />
“Un maschio?”<br />
“Sì, Angela”.<br />
“Il prelato è uno che conta?”<br />
“Svolge incarichi amministrativi. Anzi, fa proprio parte<br />
dell’ufficio amministrativo. Ci devo fare un giro appena<br />
posso. Gestisce l’intero patrimonio della diocesi, ordina il<br />
culto divino, e poi… che altro fa?… poi, poi… l’ha detto<br />
lui… ecco! Provvede a un onesto sostentamento del clero e<br />
degli altri ministri, esercitando anche opere di apostolato e di<br />
carità. Al servizio dei poveri, insomma. Abbiamo verificato: è<br />
vero”.<br />
“Poveri come la ragazza madre o più poveri?”<br />
“In senso lato. Tutto questo, se accertato, non prova nulla,<br />
comunque. Una certa incoerenza al massimo. <strong>La</strong> fede come<br />
professione e non come vita, se vuoi. Ma poi?”<br />
“Ecco, appunto”.<br />
“Possiede un monolocale in zona, questo è documentato,<br />
ma non risultano contratti di locazione recenti. Tutto sulla<br />
parola. Pare che per stanare la donna dall’appartamento le<br />
abbia fracassato il bagno a colpi di martello”.<br />
“Interessante il martello! Come era questo martello?”<br />
“Dai racconti della donna, si potrebbe pensare a un martellone,<br />
ma anche a uno piccolo, perché no?, se usato con<br />
forza… Non è saltato fuori un martello particolare. Del resto,<br />
è pure normale che un uomo abbia in casa un martello, tra gli<br />
altri arnesi, e magari i chiodi, un paio di cacciaviti, in una cassetta<br />
degli attrezzi, che c’è di strano? E magari pure un<br />
ombrello”.<br />
“Anche se è un prete?”<br />
138
“Sì, perché? Non si bagnano i preti?”<br />
“L’arma del delitto”.<br />
“Ci vuole una lama! Cerchiamo una lama, non un martello.<br />
Non abbiamo fatto una perquisizione, e perché dovremmo?,<br />
per il martello? Ma dai!”<br />
“Ma dimmi una cosa: l’ombrello della vecchia, macchiato<br />
di sangue, di che tipo era? Scuro, triste, all’inglese, da persona<br />
seria? Oppure colorato, eccentrico, da vecchia pazza? Era<br />
scuro, non è vero? Innegabilmente intonato a un abito scuro.<br />
Come era vestito il prete quando l’avete incontrato? Di scuro,<br />
no? Quindi tutto quadra. L’ombrello macchiato di sangue ci<br />
riporta al prete”.<br />
“Se è per questo c’è pure una testimonianza oculare. Scura<br />
pure quella”.<br />
“Già, è vero. Dimmi, dimmi”.<br />
“Bella testimonianza! Eccome! Del tutto inutile”.<br />
“Cosa ha detto il testimone? Scommetto che ha visto un<br />
prete in zona la mattina della tragedia”.<br />
“Come hai fatto? Sei una volpe. Anche qui c’è da andar<br />
cauti, però. Le cose non stanno proprio così: sono state viste<br />
di sfuggita due figure alte e nere, due corvi giganti, svolazzare<br />
nei dintorni della vetrina. Solo questo. Erano figure colte<br />
con la coda dell’occhio, in movimento rapido. E se si trattasse<br />
di un difetto visivo del testimone, un gioco di luce? Se non<br />
fossero due preti, come si è facilmente indotti a credere dalle<br />
circostanze, ma due suore o due con l’impermeabile nero e<br />
l’ombrello?”<br />
“Ma non ci sono suore nella Curia, al contrario è pieno di<br />
preti”.<br />
“Ti sbagli, ci passano anche le suore, se è per questo. Ma<br />
per ora nessuno ha parlato di suore; lasciamo stare le suore.<br />
Del resto, le modalità dell’assassinio fanno pensare a un<br />
uomo, e pure a uno piuttosto robusto”.<br />
“Io conosco certe suore ciccione, che non ti dico. Robuste<br />
e capaci di tutto. Martelli, ombrelli, lame”.<br />
“<strong>La</strong>sciamo fuori le suore, ti spiace? Va bene?”<br />
“Il bambino piangeva?”<br />
“Quale bambino?”<br />
139
“Quello della ragazza che avete visto in Procura.<br />
Piangeva?”<br />
“No, stava con la madre, nel marsupio. Non piangeva per<br />
niente. Mica tutti i bambini piangono”.<br />
“Guarda che tutti piangono”.<br />
“E quindi? Questo bambino qui non piangeva”.<br />
“È importante il contatto fisico. Per questo non piangeva.<br />
Che impressione ti ha fatto?”<br />
“E che impressione mi doveva fare?”<br />
“Non saprei. Ti è piaciuto, per esempio? Era carino, tenero,<br />
rivoltante, che ne so. Ha mosso qualche corda dentro di<br />
te, si è svegliata la natura sopita? Parla, e che diamine!”<br />
“Niente urlo di Tarzan, se è questo che vuoi sapere. Era<br />
carino. Sembrava condizionare le parole della ragazza, quindi<br />
importante. Ah, sicuramente più vitale di Ietta, che invece<br />
attraversa un periodo di astenia. Dovresti vederlo: si esprime<br />
poco, sembra sempre sul punto di rovesciarti addosso i suoi<br />
segreti, i suoi problemi, ma poi si richiude nel silenzio”.<br />
“Come mai?”<br />
“Problemi con la moglie. Forse si separano”.<br />
“Proprio adesso? Come sono le mogli dei magistrati?”<br />
“Come tutte le mogli. Come te”.<br />
“E perché si separano proprio adesso?”<br />
“Oh, fai domande strane tu. Sì, adesso. Fatti loro”.<br />
“E il figlio?”<br />
“Il figlio resta”.<br />
“Suo figlio è ormai grande, non è vero?”<br />
“Sì, è grande. Avrà ormai i suoi progetti, la sua vita”.<br />
“Quindi Ietta ormai non conta più per lui”.<br />
“Non lo so. È sempre triste la fine di un progetto. Bisogna<br />
vedere come era prima che diventasse un adulto. Dipende”.<br />
“Ma perché adesso e non prima?”<br />
“E dai, ti ho detto che non lo so. Non me l’ha detto. Cose<br />
intime”.<br />
“E tu, di’, tu invece cosa gli hai detto di te? Di noi?”<br />
140
XI CAPITOLO<br />
…È un coltello che vedo qui davanti<br />
col manico verso la mia mano?<br />
Su fatti afferrare –<br />
non ti ho preso, ma ti vedo sempre!<br />
Sei insensibile al tatto, e non all’occhio,<br />
visione del destino?<br />
William Shakespeare<br />
A questo punto gli ultimi passaggi si fanno più confusi<br />
nella memoria.<br />
Un classico: dei libri letti spesso non ricordo la fine. Lo<br />
stesso per i film. Memorizzo la sensazione di fastidio o di piacere,<br />
ma niente di più. I particolari mi colpiscono nel momento<br />
in cui li incontro; dopo li cancello. Una memoria da orsetto<br />
lavatore. Ripulisco con immediatezza e faccio spazio.<br />
Anche della mia vita, dall’infanzia alla maturità, ricordo i<br />
momenti traumatici, il fulmine, ma non ciò che è seguito; non<br />
il tuono. Dovrei chiedere a un esperto perché nella mia<br />
memoria è tutto così confuso. Mi fanno rabbia quelli che<br />
ricordano la prima gita fuori porta con mamma e papà, il<br />
gusto del gelato. Quelli che ricordano le facce di tutti i compagni<br />
delle elementari. Preservo dalla bonifica giusto qualche<br />
odore, i colori delle cravatte, oh sì, le cravatte sì, ne vado<br />
pazzo. Anche i gatti che ho accidentalmente spiaccicato sull’asfalto<br />
con le mie ruote, quelli, pochi, li ricordo.<br />
Ora, per lo stesso meccanismo perverso, la storia del mio<br />
morto la ricordo perché la voglio ricordare, ma devo concentrarmi<br />
per ricostruire i fatti in ordine cronologico e dare un<br />
senso alle inquadrature che ho in testa.<br />
Il mio morto, dunque. <strong>La</strong> stampa locale ne parlava ormai<br />
con voce sempre più flebile, perché, diciamolo pure, non fregava<br />
più niente a nessuno. <strong>La</strong> stampa ha la memoria corta.<br />
Prima ti stanno alle calcagna, mastini bavosi, a succhiare il<br />
141
nettare direttamente dalla mammella più gonfia, mentre la<br />
fonte, per loro pigrizia, resta nel tempo sempre la stessa,<br />
sempre più asciutta, sempre più stanca e povera, quella di cui<br />
hanno dati certi sui loro pc, sempre la stessa mammella, pur<br />
di riportare pedissequamente una notizia qualunque, senza<br />
mai un’idea autonoma, un guizzo investigativo personale,<br />
un’analisi trasversale. Placata la fame, ti dimenticano. Non è<br />
bello. Parlava ancora di noi solo un giornaletto da due lire,<br />
che usciva il pomeriggio e per la distribuzione sul territorio<br />
assoldava truppe sfigate di studenti, da appostare sotto i<br />
semafori, a respirare smog. Più qualche extracomunitario fortunato.<br />
Gli assunti erano disposti a lanciarsi al volo dentro i<br />
finestrini degli automobilisti prossimi all’incrocio, pur di vendere<br />
una copia. Forse parlavano del nostro Corietti, in carenza<br />
di altro materiale. Il giornale riportava, nello spazio riservato<br />
alla cronaca, titoli in grassetto del tipo: Nuovo scandalo<br />
in via Cardone. <strong>La</strong> Procura indaga sulla Curia, oppure<br />
L’amante dell’uomo assassinato: intervista esclusiva; o peggio<br />
<strong>La</strong> Procura brancola nel buio. I segreti della città. Titoli d’altri<br />
tempi, da film in bianco e nero, come cibi ipercalorici, ma<br />
facili da cucinare. All’epoca denotavano un certo coraggio,<br />
devo ammetterlo. Ora quello stile assordante e pomposamente<br />
vacuo è la regola televisiva del pomeriggio. Dentro, le<br />
colonne riportavano robaccia ancora più triste dei titoloni<br />
stessi: lacrime di pubblicisti affamati da direttori cinici.<br />
Alcuni pezzi non erano male, però, certi ragazzetti alle prime<br />
armi avrebbero potuto scrivere romanzi rosa con un certo<br />
riscontro di pubblico, secondo me; tutto sommato erano<br />
penne audaci, romantiche, ma audaci. Nessun scheletro che<br />
parlasse sinceramente da un qualsivoglia armadio, comunque.<br />
Se sei morto ieri, domani sarai già qualcos’altro. <strong>La</strong> natura<br />
lo esige.<br />
L’unico cancro reale ancora in circolo, era il tormento vissuto<br />
dall’amante abbandonato.<br />
Infatti, arrivarono sull’argomento un paio di lettere anonime.<br />
Ne arrivano sempre in Procura. Il prodotto di vecchie<br />
macchine da scrivere a inchiostro blu, con le lettere storte. Ci<br />
sono ancora in giro quelle resistenti Olivetti; lo giuro: le ho<br />
142
viste con i miei occhi. Le missive raccontavano che il morto<br />
aveva avuto storie di sesso sudicio. Facevano nomi di luoghi<br />
o persone. Con malanimo. In una lettera si raccoglieva una<br />
protesta condominiale, conseguente a una lite furibonda,<br />
avvenuta proprio nell’appartamento del Pace tristo. Avevano<br />
tremato i vetri alle finestre, pareva. I condomini, pur non<br />
avendo trovato il coraggio di firmare la lettera, chiedevano un<br />
intervento urgente della questura. Quella dei condomini<br />
all’attacco è una specie di mania compulsivo ossessiva di<br />
gruppo. Insieme potrebbero uccidere. Sono bestie in cattività,<br />
che si scatenano per niente.<br />
Molte lettere parlavano delle prostitute, il giro povero, non<br />
quello nobile. Raccontavano di aver visto il morto, quando<br />
ancora era vivo, a casa delle donnine. Niente di nuovo per<br />
noi, a parte una certa esasperata cattiveria che, comunque,<br />
dopo un po’, non sorprende più nessuno. In alcuni casi collegavano<br />
una delle prostitute in questione a un giro malavitoso<br />
di un paese limitrofo, quello legato all’officina di un paesano<br />
che rimetteva sul mercato auto rubate, spedendole oltre oceano<br />
scomposte in pezzi di piccolo taglio. Verso la Bulgaria, di<br />
solito. Fascinazioni collettive. Al capo non andava di fare<br />
castelli in aria, non aveva testa. Per di più quello dell’officina<br />
già era noto in questura: un pesce piccolo, che aveva già detto<br />
tutto quello che c’era da dire; noioso come l’elenco telefonico.<br />
Erano ben altri i sorci da stanare.<br />
Del resto, è la verità: da quelle lettere non promanava la<br />
soluzione al nostro giallo borghese. Erano peggio dei titoli in<br />
grassetto. Quello che riuscivamo a percepire leggendole, era<br />
solo un gran ansimare alle nostre spalle, così, nell’oscurità<br />
condominiale, a volte a tradimento. <strong>La</strong> città aveva l’asma.<br />
Neppure i condomini si salvavano in questa aria malata.<br />
Neppure i preti quindi. Ma poi, dico io, non era la città che<br />
doveva darci una soluzione. Troppo facile altrimenti. Tanto<br />
meno noi potevamo credere davvero di entrare nella Curia o<br />
in un fumoso negozio di oggetti sacri, e trovarci dentro prove<br />
agiografiche. In fin dei conti sapevamo bene con chi avevamo<br />
a che fare, se pure ci piaceva far fantasie spinte su santi e<br />
demoni di tutte le etnie. Perlomeno, a me piaceva.<br />
143
Ci sono territori urbani che, come il mio d’origine, al sud,<br />
molto al sud, amano spettegolare a voce alta, sbraitano e<br />
gesticolano. Terre pazienti, ma rumorose. Che sembrano ingigantire<br />
le formiche. Altre invece bisbigliano.<br />
Per dirne una, avevo fatto amicizia con un tecnico giù al<br />
seminterrato, piani bassi, sotto il livello del mare, zone umide<br />
che il sole dimenticava quasi completamente, dentro perimetri<br />
fradici; luoghi smossi soltanto dal ritmo blues dello scalpiccio<br />
dei ratti. Mi aveva rimesso in forma un pc, quel ragazzone<br />
gentile, e ne ero sinceramente grato. Video scrittura,<br />
s’intende, niente di più impegnativo. <strong>La</strong> stampante ancora<br />
no, ci voleva più impegno e conoscenze nell’ambiente per<br />
ottenerne una, perché pareva che il ministero le avesse fornite<br />
in numero inferiore rispetto ai pc e al personale in servizio,<br />
ché non cessasse mai quel senso latente d’insoddisfazione, di<br />
instabilità e inettitudine che contraddistingueva noi della<br />
Giustizia. Poi c’era la carta, le cartucce, il toner: calibro<br />
pesante per l’erario. Costavano troppo. Niente stampa, quindi.<br />
Per i provvedimenti salvavo sul floppy e poi vagolavo per<br />
gli uffici in cerca di comprensione.<br />
Dicevo: avevo avvicinato questo giovane laureato in informatica.<br />
Parlava poco; più che altro faceva smorfie con gli<br />
zigomi, sbuffava, gli si appannavano gli occhiali per i vapori<br />
esalati dal lungo collo da cicogna in zone lacustri e sotterranee.<br />
Comunicava per locuzioni alfanumeriche. Ti m i d o ,<br />
lasciava intuire la vasta complessità interiore di un server, e lo<br />
sconforto di un bestia acquatica in una boccia. Un cubo di<br />
Rubik senza i colori. L’informatica negli uffici giudiziari è un<br />
lavoro che logora anche il fisico: togliere dalle dita nodose di<br />
un operatore quasi sessantenne la sua storica Bic e sostituirla<br />
con un mouse, è lavoro da titani; lo stesso trasportare monitor<br />
per le scale in attesa di certezze, tra le proteste generali, gli<br />
sgambetti, i cavi a intreccio tentacolare. Un posto granitico<br />
come un tribunale reagisce male alle innovazioni, alle trasformazioni,<br />
diffida sempre della modernità. E un computer<br />
ancora oggi, è da molti visto come cosa moderna, quindi pericolosa,<br />
per via della già citata secolare durata di certe carrie-<br />
144
e ministeriali, della loro immota certezza. Gli informatici,<br />
qunidi, o sono crudeli di natura o masochisti, per resistere. Il<br />
ragazzo era confuso, teso, sfiduciato. Davanti a un problema<br />
tecnico restava in silenzio: tanto, anche a parlarne, chi ne capirebbe<br />
qui dentro di informatica?<br />
Si parlava del più e del meno una mattina. Mi diceva che<br />
le lettere del tipo anonimo piovevano a catinelle in ufficio.<br />
Era il vomito della cittadinanza che si rovesciava sul Palazzo.<br />
Ma frequentemente provenivano dall’interno: la lettera faceva<br />
il volo basso e ronzante di una mosca stordita, dalla stanza<br />
n.10 a quella n.11, dalla scrivania della contabilità a quella,<br />
poco distante, del protocollo.<br />
Avevano scritto anche di lui: ignoti asserivano che si portava<br />
a casa i pezzi in esubero, che si era riempito l’appartamento<br />
di articoli di cancelleria appena comprati, in particolare,<br />
l’anonimo insinuava che il feticista avesse una passione per<br />
le penne a inchiostro liquido, che si masturbasse con una boccetta<br />
di china, che cadesse praticamente in trance alla vista di<br />
un tampone autoinchiostrato. Quelli, gli altri, i vecchi, le<br />
grandi bocche del tribunale, volevano gettar fango sulla sua<br />
immagine professionale, sull’inarrestabile futuro tecnologico<br />
degli uffici pubblici, di cui lui si faceva portatore, farlo apparire<br />
come un matto visionario, un maniaco. Si difendeva ripetendo<br />
che lui non faceva parte dell’organico, che lui era un<br />
esterno, e lavorava solo su chiamata, tentando di prendere le<br />
distanze da un universo ostile e reazionario.<br />
In verità, si raccontava che anni prima un segretario del<br />
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che faceva il programmatore<br />
a tempo perso, si fosse fatto trovare in casa un arsenale<br />
di portatili d’avanguardia, destinati al personale del tribunale.<br />
Calvo e modesto lo descrivono, ma pare fosse un genio<br />
del crimine. Nessuno si era accorto di nulla. Quindi c’era il<br />
precedente. Lo ripresero con le mani nel sacco grazie a una<br />
telecamera nascosta vicino la macchinetta del caffè. Lo buttarono<br />
fuori senza clamore e lui, sei mesi dopo, aprì un negozio<br />
di camicie da uomo su misura. Del resto, era sempre stato un<br />
tipo di buon gusto.<br />
145
Indagini. Tutte le indagini hanno un termine, l’ho detto. A<br />
prescindere dagli strumenti che si utilizzano, non si può<br />
andare avanti in una ricerca simile come per una malattia<br />
incurabile fino alla morte, oltre la morte. No. Ietta voleva<br />
chiudere il fascicolo e guarire; se non c’era un nome e qualcosa<br />
in cui credere, pazienza.<br />
Rimanevano gli ultimi tasselli del quadro astratto da incastrare<br />
da qualche parte: il prelato e il testimone oculare.<br />
Chiuse queste due finestre windows, Ietta avrebbe detto<br />
basta e forse consumato i giorni di ferie che residuavano. Se<br />
ne sarebbe andato in vacanza, mare, montagna, collina, lontano<br />
dalla fatica. Così.<br />
Gli ultimi passaggi si fanno più confusi tra i miei ricordi<br />
proprio perché vissuti frettolosamente. In affanno.<br />
Il prelato dunque. Importa che il prelato si fosse presentato<br />
quasi spontaneamente una mattina sul tardi? Secondo me<br />
importa. Fu un evento di una certa solennità che raccontai<br />
immediatamente ad Angela. Lei aspettava i preti, ne fu felice.<br />
<strong>La</strong> trasmissione era già andata in onda. Noi lo stavamo cercando,<br />
e lui ci precedette di poco.<br />
Passo felpato. Si sedette sulla stessa sedia che aveva già<br />
riscaldato la ragazza locataria, la delatrice, e la gonna talare gli<br />
si aprì come un campanaccio di bronzo brunito, con sotto il<br />
pendaglio dei piedi. Dong, dong, don Oreste. È tutto nei verbali.<br />
Non ho bisogno di inventare nulla per rendere il ricordo<br />
più largo e sonoro. Certi preti suonano da sé.<br />
Ma prego, prego. Ietta si dichiarò subito disponibile ad<br />
ascoltarlo. <strong>La</strong>voro, famiglia, vocazione. Ma soprattutto lavoro.<br />
<strong>La</strong> morte nominata solo di striscio. Più che altro la vita, sì,<br />
la vita. Agire ora, subito, non domani. Il Vescovo era sopra<br />
ogni pensiero, come il faro in punta alla costa più invisibile.<br />
Maneggiava denaro, non c’era dubbio. Dio l’aveva voluto<br />
oculato e sempre in pensiero per il futuro della sua Chiesa, e<br />
così lui era diventato. Dio e il vescovo: una ben riuscita forma<br />
di collaborazione. Era stato scelto, don Oreste, ne era consapevole<br />
e portava la sua croce. Attento alle esigenze crescenti<br />
della sua immensa famiglia cristiana, in particolare alle fami-<br />
146
glie, piccole umili e bisognose del suo territorio. Si produsse<br />
in un monologo avveduto, chiuso come un pugno, alla fine<br />
del quale ebbe inizio la musica del maestro Ietta. Cambio<br />
degli strumenti e delle voci.<br />
Sembrava avesse accordato i suoi strumenti al suono severo<br />
di un organo. Ne uscivano note conformate, dense, ma<br />
penetranti. Si fece raccontare di bilanci e collaboratori,<br />
minacciando visite inopportune ma necessarie, presso gli<br />
ambienti della Curia. Dal fascicolo tirò fuori l’elenco dei soggetti<br />
coinvolti nella vicenda. Vediamo, vediamo. Sfilarono<br />
come pezzi di cera, sotto luce fredda. Conosce tizio? Conosce<br />
Caio? E Sempronio, mai visto Sempronio? Come mai nostro<br />
caro don Oreste? Perché? E per come? Mi sembra strano.<br />
Cercò di forzare lo scrigno di Don Oreste. Ma con rispetto.<br />
Ietta era in forma quella mattina. Ci sono malattie dell’umore<br />
che hanno una variabilità cromatica veramente spiazzante,<br />
e lo stillare varianti di Ietta, gran fenice improvvisamente<br />
risorta, mi imponeva di prendere appunti e mettere da<br />
parte per i tempi bui.<br />
Dopo la prima batteria di colpi, Ietta fece il nome della<br />
ragazza e il prete sorrise. Che fece quel sant’uomo davanti a<br />
un enorme dito indice puntato sul suo portafogli? Sorrise. E<br />
Ietta? Pure. Grandi conoscitori di emozioni, entrambi. Gran<br />
bella gara!<br />
Il prete chinò il capo e in testa gli s’allargò una piazza svestita<br />
con cinque peli neri come sbandieratori nei giorni del<br />
palio. Fece un cenno di assoluzione. Anche lui con i miei stessi<br />
vizi: il pericolo del pessimismo e il desiderio del perdono, a<br />
braccetto. Ho fatto attenzione al fenomeno. Molti uomini di<br />
chiesa sono pessimisti, tanto quanto molti padri magistrati<br />
sono ottimisti, e non conta se credenti o no. Ne nascono reazioni<br />
simili tra figli e fedeli. Sono dati culturalmente contraddittori,<br />
ma antropologicamente riscontrabili. Qualcosa ci<br />
univa alla fine: il bisogno di compensare i limiti umani.<br />
Comprendo, comprendo la rabbia della poveretta. Non è<br />
facile la vita per certe ragazze. Aveva cercato di aiutarla, disse,<br />
finché era stato possibile; aveva parlato persino con la sua<br />
famiglia d’origine, dalla quale la giovane si era voluta allonta-<br />
147
nare. Eppure una ragazza come lei, nella sua situazione, aveva<br />
bisogno di un timone. Altrimenti avrebbe fatto una fine triste.<br />
<strong>La</strong> brutta china, la società, quelle storie lì, insomma. Una<br />
ragazza come lei non poteva camminare da sola. <strong>La</strong> Chiesa<br />
avrebbe potuto essere una guida, questo è vero, ma a volte<br />
può non bastare. Un padre, ci voleva un padre. Ecco cosa ci<br />
voleva. Un padre ottimista o uno pessimista? Questo non fu<br />
chiarito. Una ragazzina sola, con un figlio, mentre Dio è il<br />
solo a guardare. Non va bene, no, non va affatto bene! Meglio<br />
un padre. Un padre ottimista o uno pessimista?, continuavo<br />
a ripetermi. Non entrammo in dettagli. Intanto l’ecclesiastico<br />
sospirava, rivolto al cielo, mentre la sua voce assumeva un<br />
tono baritonale. Aveva sentito il dovere e cercato in tutti i<br />
modi di ricondurre la povera ragazza sola verso la sua casa.<br />
Non quella di Dio, però, né tanto meno quella dell’ecclesiastico<br />
facoltoso. Un’altra casa, possibilmente. Il baritono assumeva<br />
timbri vocali più sporchi e oscuri passando a parlare di<br />
immobili. Dei suoi immobili. Pattinò rapido sul tema case e<br />
passò ad altro. Neppure il miglior Ietta riuscì a trattenerlo.<br />
Parlammo della vittima. Brava persona il Corietti! Della<br />
sua vita privata il prelato non sapeva nulla. Lo conosceva solo<br />
di vista. Il libero arbitrio induce alla riservatezza. Però, brava<br />
persona lo stesso! Don Oreste era sempre stato a totale disposizione<br />
di quanti avessero avuto bisogno di lui. Ma il Corietti<br />
non aveva mai chiesto aiuto, vivendo liberamente la vita<br />
donatagli dal buon Dio. È dell’uomo errare, tra l’euforia e il<br />
terrore, tra la curiosità e il tremito. Sta in questo il bello.<br />
Brava persona il Corietti, dunque, persona riservata.<br />
Il male esiste. Siede accanto a nostro fratello e non cerca il<br />
perdono di Dio. E muoveva queste sue mani lunghe, don<br />
Oreste, risucchianti in vortici di dita bianche. Lui che con il<br />
male sapeva convivere, lui che era competente in materia,<br />
metteva ben in mostra queste sue mani sante. Le dita acrobatiche<br />
dello scalpellatore di cessi. Andavano verso il soffitto, in<br />
alto, sempre più in alto, poi, precipitavano inermi verso il<br />
pavimento, fino a tuffarsi in grembo al suo gonnellone nero.<br />
Il sacerdote parlante sembrava pronto a darlo il perdono,<br />
per delega. Perché il perdono spesso è una cosa facile, che dà<br />
148
uoni frutti, con poca fatica. Non sempre, ma a volte sì. Io ne<br />
sono certo. Per questo mi affascina. <strong>La</strong> vendetta affatica e<br />
non eleva neanche un po’, mentre il perdono nobilita. Beati<br />
coloro che possono davvero. Aveva ragione don Oreste, da<br />
un certo punto di vista: il perdono è necessario e salutare. Ma<br />
è anche un lusso. Del resto, vedevo come era in forma Don<br />
Oreste. Pulito, sano e sorridente. Più piacevole a vedersi di<br />
altri derelitti che tendono la mano fuori dalle chiese, per<br />
esempio; più bello pure di certi parroci poveri in canna con<br />
la tenda invece del cemento, per celebrarci dentro la messa.<br />
Forse la cura vitaminica dell’indulgenza funziona davvero.<br />
Costosa ma efficace. Bastava guardare il bel reverendo.<br />
Questa tipologia di perdono fa pensare a certi trattamenti<br />
completi e costosissimi al DiBi Center. Non per tutti.<br />
Sembrano facili ma costano sangue.<br />
Riflettendoci, era un vero dritto Don Oreste, anche per l’eleganza<br />
schiva e la leggerezza con cui posava la sua scarpa<br />
puntuta sui denari della Diocesi. E non solo della Diocesi.<br />
Senza lasciare impronte, ma rendendo gloria a Dio.<br />
Era così bello don Oreste che il jazz di Ietta, è un fatto d’orecchio,<br />
gradualmente s’intristiva sotto il peso della Bibbia.<br />
Perdono? Perdonare un assassino: non era quello che si<br />
dice il fine di un magistrato. Almeno credo. Io sono un magistrato<br />
e lo dovrei sapere se c’è un fine. Non è quello; lo giuro<br />
su mia moglie. Don Oreste parlava di perdono, Ietta no.<br />
Nessuno mi ha mai chiesto di perdonare, ne deduco che<br />
quello del perdono non è un bisogno sociale. Almeno non<br />
della grande maggioranza degli uomini. Ma la giustizia? È<br />
davvero un bisogno? Questa è una domanda che mi porta a<br />
mio padre, nei suoi pianeti. Quando glielo dissi, che volevo<br />
fare il giudice, fu lui a chiedermi perché. Non è stupido chiedere<br />
perché, è ambizioso. Mio padre è ambizioso, ambizioso<br />
e ottimista. Ed io vorrei essere capace di perdonarlo. Ma questa<br />
è un’altra storia.<br />
Un fine c’è in questo mestiere e non è sempre quello della<br />
giustizia, come ci raccontano. Non i soldi, non più.<br />
Piacerebbe a qualcuno crederlo, invece la questione è ben più<br />
149
sottile. Ormai un idraulico, un installatore di condizionatori,<br />
un falegname, guadagnano molto di più di quanto guadagni<br />
un magistrato con le sue scartoffie. Sono leggi economiche<br />
superiori. Bisogni forti da soddisfare. Mani artigiane che ci<br />
sovrastano. C’è però un avanzo di potere immaginario, legato<br />
alla parola, che residua e si morde la coda, rischiando di<br />
diventare ridicolo: è quello che blandisce. C’è un buco della<br />
serratura che si affaccia su grosse fette d’umanità, cogliendone<br />
frammenti golosi: ecco, quel buco può apparire come un<br />
privilegio. Un buco grande per pochi occhi. C’è che in strada<br />
al sud ti chiamano ancora signor giudice, con il capo pendulo,<br />
e a qualcuno piace. Si narra di uomini togati, nelle preture di<br />
provincia, che decine di anni fa si facevano fare la barba in<br />
udienza o misurare dal sarto completi gessati appena imbastiti,<br />
il tutto davanti a cancellieri, segretari, avvocati, tecnici adoranti,<br />
che manco il Re Sole con tanto di parruccone polveroso!<br />
Altri tempi. Ci sono però alcune donne che ancora oggi ci<br />
credono, e con molte di queste si può fare un sesso semplice<br />
e per questo gratificante. Seducente soprattutto per il seduttore.<br />
Pure. C’è il piacere di diventar parte di un gruppo; lo<br />
sfizio di essere come quel certo tizio lì, ma anche altro, anche<br />
diverso, e farsi notare come a Hollywood. Ho pensato: i magistrati<br />
sono come gli aviatori. Fanno scena, pur se non usano<br />
una divisa.<br />
Quindi posso affermare che il fine non è economico, come<br />
invece accade per la maggior parte degli attuali contesti<br />
umani, e se l’economia entra in questa faccenda instabile che<br />
è la giustizia, lo fa ancora soltanto indirettamente e non per<br />
tutti. C’è, in questo caparbio ambiente di giuristi, ancora un<br />
avanzo d’etica con cui confrontarsi. C’è la giustizia, infatti.<br />
Ecco. Infine c’è anche la giustizia.<br />
Qualcuno fa il giudice per applicare la legge alla lettera,<br />
ma non è una gran bella cosa, secondo me, anzi, è una forma<br />
inutile di orgoglio che di solito annoia e delude. Esistono<br />
fonti da applicare diverse dalla legge, realtà variegate di cui il<br />
giudice deve tener conto se vuol fare giustizia. Applicare la<br />
legge non è pura meccanica, ma piuttosto un momento creativo.<br />
150
Adattamento creativo, come quello della giraffa che nei<br />
secoli ha allungato il collo fino ai frutti più belli, sui rami più<br />
in alto. Non totalmente creativo; giusto un po’. Ecco perché<br />
qualcuno ritiene che il fine sia sì applicare, ma anche interpretare;<br />
ritrovare cioè lo spirito smarrito tra le parole della<br />
norma giuridica, per sentirsi più vicino a Dio. Una cosa ambiziosa,<br />
insomma, benché nobile.<br />
Non conta la giustizia in sé, quindi, ma il progetto e il suo<br />
percorso. Vale anche per me. Quello che mi salva è il progetto,<br />
considerato che ambizioso non lo sono mai veramente<br />
stato, e privo pure del coraggio per ammetterlo. Sono costantemente<br />
soggetto al ritmo imposto da una qualsivoglia programmazione,<br />
senza decidere nulla. Nel mio lavoro, in particolare,<br />
mi sento come arlecchino, servitore di due padroni<br />
esigenti: la legge e la realtà. L’intermediario tra i codici e la<br />
società, con la valigia gonfia di prodotti tecnologici, da vendere<br />
per forza, girando di porta in porta. Ecco come mi sento.<br />
Un venditore tipo della Folletto spa. È un gara anche quella.<br />
Spacciare per giustizia il proprio lavoro di piazzista, i propri<br />
limiti, le proprie domande. Un imbonitore della giustizia, che<br />
tenta di piazzarla tra la gente. Di renderla domestica.<br />
Diffonderla. Forse. Un mestiere bellissimo il mio, che va<br />
compreso. Assecondato.<br />
Un fascicolo processuale andrebbe guardato, nel suo insieme,<br />
attraverso quegli occhialini che negli anni Novanta ti<br />
davano all’ingresso dei cinema sperimentali: quelli di plastica<br />
dura e colorata che garantiscono la suggestione momentanea<br />
di una visione tridimensionale, pur gravandoti scomodamente<br />
sul naso. Diritti umani/legge/giustizia: un’analisi tridimensionale,<br />
appunto, come ho letto in un libro di un giurista che<br />
mi pare si chiamasse Zagrebelsky; sì, mi pare si chiamasse<br />
così. Mi era piaciuta l’immagine. L’ho conservata.<br />
Ci possono anche essere delle buone regole, ma se non ci<br />
sono uomini buoni a rispettarle che si fa? E poi, sono più<br />
importanti gli uomini o le regole? I singoli uomini? È per il<br />
singolo che si fa giustizia, ma la verità giudiziaria che ne consegue<br />
deve potersi raccontare a tutti. Quindi bisogna mettere<br />
in contatto il singolo con la massa. Difficile. <strong>La</strong> magistratura<br />
151
imane a rilevare ogni contraddizione, a prendere schiaffi in<br />
faccia, a vigilare sul coma.<br />
Per ora mi basta sapere quale è il mio ruolo, il progetto<br />
ultimo. Non dico sentirsi superman, ma ci tengo a sapere cosa<br />
mi aspetta. Per lavorarci su. I limiti sono una questione che<br />
mi interessa, per adeguarli al progetto, per correggerli se è il<br />
caso. In genere non sono io a scegliere il progetto, ma il progetto<br />
a scegliere me; poi, una volta che la scelta è stato fatta,<br />
però, non mi lascio tregua, vado dritto alla metà.<br />
<strong>La</strong> volta di Corietti eravamo partiti da tutto quel sangue<br />
e dal verminaio lì vicino. Mamma quanto sangue! Il sangue<br />
fa il rumore di uno schiaffo in faccia a un uomo distratto:<br />
chiede giustizia all’istante; non vendetta, ma giustizia, e la<br />
giustizia si nasconde nella composizione della contraddizione<br />
esistente tra norme e uomo. Ne abbiamo presi di sonori<br />
c e f f o n i .<br />
Il fine dunque. Il mio fine? Io volevo trovare l’assassino<br />
per dire che ne ero stato capace, per capire se si poteva davvero<br />
trovare questa benedetta composizione delle avverse esigenze.<br />
Una risposta diversa da dare a ogni diverso caso. Mi<br />
piace poter dire che sono stato capace; altrimenti sono<br />
costretto a starmene zitto. Non dico essere in grado di trovare<br />
ogni volta la risposta giusta, ma almeno, una volta, una<br />
volta almeno. Niente di più. Una volta soltanto. Era questo il<br />
mio fine. Avevo senso del dovere io! Mi piaceva crederlo e far<br />
sapere che possedevo l’anima del pubblico impiegato. Adoro<br />
i pubblici impiegati, così ciclici nei gesti. Hanno un modo<br />
esatto di essere. Non di certo il più naturale, eppure esatto.<br />
Che la fatica sia il segreto? Intendo: il sudore, le ore sulle<br />
carte fino a sfinirti la sera con gli occhi che bruciano e la<br />
mascella che s’incastra, la sensazione di aver ristrutturato la<br />
propria scrivania e di doverlo rifare ogni qual volta la stessa<br />
veda correzioni del suo assetto geografico, le rinunce che ti<br />
fanno sentire così puro, il sudore sì, proprio quello sul collo,<br />
sotto le ascelle, che ti svuota il cervello dopo l’investimento di<br />
ore del proprio tempo pericoloso. Questa è tecnica. Questa è<br />
giustizia: come la voce della mamma alla sera. Tecnica e<br />
cuore.<br />
152
Pure l’assassino, avrei voluto che intuisse che noi avevamo<br />
senso del dovere, che avevamo quello strano bisogno psichico<br />
di sudare, che per questo eravamo gente pericolosa, di cui<br />
avere un po’ di paura. Eccolo il fine, forse. Conquistare la<br />
capacità di fare un po’ di paura.<br />
Questa capacità forse incide sulla realtà, la modifica nel<br />
tempo, la rende accettabile.<br />
L’assassino, appunto. Se ci fosse stato qualcuno che l’avesse<br />
visto in faccia, allora tutto sarebbe stato diverso. Ovvio.<br />
Nessun problema in quel caso sulla strada della giustizia.<br />
Avremmo fatto festa.<br />
Avevamo per le mani un testimone oculare, è vero, ma era<br />
un bluff, una facezia da martedì grasso. L’esatto contrario di<br />
quello che ci si poteva aspettare. Un quarantenne, lunga<br />
basetta, con l’orologio fondo rosa, giacchino di pelle nera con<br />
zip ed elastico in vita, avvezzo a bere lunghi caffè in tazza<br />
fredda, sorseggiandoli con labbra carnose e lucide, ma fredde<br />
anch’esse, sul marciapiede. Un tipo da via Cardone. Bella<br />
strada quella. Un bell’uomo anche il testimone. Niente da<br />
dire.<br />
Mi incuriosiscono gli uomini belli perché sono bestie strane.<br />
L’astrazione della bellezza, come quella della verità, lancia<br />
bagliori ingannevoli, come certe torte ridondanti di panna o<br />
lucide di gelatina e frutta, che restano a decorare per mesi le<br />
stesse vetrine.<br />
Il tipo, labbra carnose, aveva telefonato anche lui in redazione:<br />
voleva parlare direttamente con il regista del programma,<br />
dopo aver adulato a lungo una delle centraliniste, che,<br />
chissà come mai, sono sempre donne. Era pronto a spargere<br />
autografi al vento. <strong>La</strong> centralinista non s’era fatta intortare e<br />
l’aveva mandato da noi. Venne in Procura che imbruniva,<br />
mentre io mangiavo un gelato. Dal suo passo saltellante e dal<br />
modo di tenere solo le dita in tasca, mentre il palmo delle<br />
mani fuori, e di masticare un cicca piccolissima con la punta<br />
dei denti raggianti, da queste cose dedussi che si aspettava di<br />
trovare un pubblico osannante pronto ad accoglierlo. Invece<br />
c’ero solo io. Fu una partita a due. Eravamo il principe azzur-<br />
153
o che guardava il ranocchio e il ranocchio che guardava il<br />
principe. Splendida gara. Potevo vincere, con un certo impegno.<br />
L’impegno è una rappresentazione mentale che conosco.<br />
Mi distrae dal rischio. È un trucco che uso spesso.<br />
Ero a mio agio, perché mangiare un gelato a stomaco<br />
vuoto mi ricordava casa mia. Mia moglie diceva che quello<br />
artigianale equivaleva a un pasto completo; lo diceva tirando<br />
un po’ dentro le guance, a scavarle lievemente, così da apparire<br />
categorica, ché di solito quelli con il viso rubicondo come<br />
me difficilmente appaiono autorevoli in materia cibo. Lei<br />
affermava con le parole questo principio generale, e con il<br />
resto del corpo ammiccava. Mi vedi, vedi come sono tonica,<br />
come sono bella: non puoi non credere a quello che dico.<br />
Dall’insieme veniva fuori miracolosamente la fatica e il risultato.<br />
Sono i miracoli della comunicazione e dell’estetica. Lei<br />
consigliava il gelato a pranzo, anche in inverno. Io mi corazzavo<br />
per resistere: solo panna e cioccolato, cioccolato da mordere<br />
in pezzi piccoli, mai più grandi della dimensione di un<br />
chicco di caffè, solo cioccolato fondente, che lascia l’accento<br />
sul labbro, difficile da nascondere. E solo di una certa marca.<br />
Quel pomeriggio la panna mi sgocciolava sulla mano da dare<br />
al quarantenne informato sui fatti, che mi si parò davanti. Il<br />
ranocchio baciato. Colpo di fulmine. L’estraneità del giacchino<br />
di pelle mi mise leggermente in difficoltà all’inizio, ma solo<br />
per poco.<br />
Quindi, dopo il prelato, venne il testimone oculare.<br />
L’uomo si mosse nell’avanzo del giorno con naturalezza,<br />
come certi cani addestrati che aspettano il cerchio attraverso<br />
cui saltare a collo dritto. Falcate lunghe, pelo lungo che sventola,<br />
e fruscio di jeans attillato che sfrigola. Gli uomini belli<br />
hanno i piedi grandi di solito. Io ho il 43; infondo, non sono<br />
messo così male. Ben piantato a terra, nonostante poi non sia<br />
così alto. Baricentro stabile. Ma i passi degli uomini belli,<br />
nonostante i piedoni, sembra che se li porti dietro la corrente,<br />
come carta o foglie secche senza peso. Si allargano sul territorio<br />
questi guerrieri, soprattutto se non hanno la fede al<br />
154
dito. Padroni dell’ossigeno. Non lo dico perché mi piacciono,<br />
non credo, lo dico perché sono curioso. E anche a causa di<br />
una lavatrice.<br />
Non voglio divagare, ma questa storia dell’uomo della<br />
lavatrice e di mio padre vale. Mi viene ancora da ridere.<br />
C’era non so quale ditta dotto casa che forniva assistenza<br />
agli elettrodomestici rotti, una specie di pronto soccorso, uno<br />
di quei posti in cui entri e trovi solo scaffalature, una sull’altra,<br />
mentre le facce dei pochi commessi compaiono tra un<br />
ripiano e l’altro. Così. Mio padre, se era necessario, faceva<br />
una telefonata e quelli mandavano qualcuno nel giro di poche<br />
ore. Un pomeriggio mia madre doveva uscire. Aveva detto<br />
vengono a riparare la lavatrice, state voi in casa. D’accordo,<br />
noi, io e mio padre; io studiavo, lui lavorava nella stanza<br />
accanto. Il ragazzone suona alla porta. Entra. Un marcantonio<br />
con la cintura piena di arnesi. Bello, dico, proprio bello.<br />
Non c’è che aggiungere. Bello. Se ne vanno in terrazza. Dopo<br />
un po’ sento la voce di mio padre scattare verso toni alti, fare<br />
una specie di curva, un’elisse spezzata da un colpo di forbice,<br />
inseguendo una qualche parola, e poi ritornare bassa, cupa<br />
come un trombone che chiude il pezzo; per ultimi arrivarono<br />
i suoi passi pesanti. Alzo la testa e vedo la sagoma del ragazzone<br />
bello che corre come l’aria in corridoio, apre la porta<br />
d’ingresso e si defila. Mio padre mi si avvicina lentamente,<br />
mentre si richiude la cerniera lampo dei pantaloni. Ha un<br />
riverbero rosso porpora dentro gli ochhi e sulla fronte, che è<br />
diventata più larga e liscia del solito; che abbia passato le<br />
mani nei capelli più volte, s’intuisce dalla piega anomala che<br />
hanno preso quelli davanti. Il ragazzone messo in fuga era il<br />
figlio del proprietario; non era il caso di dir niente al padre.<br />
Ma guarda tu che roba. Cose da pazzi. Basta, non si va più da<br />
questa gente, stop, non ne facciamo un dramma. I ragazzi sono<br />
così. Ho buttato un occhio in veranda: la lavatrice era in terra,<br />
piegata sul fianco, ferita; la cintura con gli attrezzi era stata<br />
dimenticata lì vicino. Mio padre l’ha raccontato a mia madre<br />
e lei non si è sorpresa affatto. Nessuno si stupiva di nulla<br />
quando si trattava di mio padre, della sua sconcertante capa-<br />
155
cità d’espugnare territori, di conquistare anche senza volerlo<br />
fare, di sedurre, fossero uomini o donne, animali d’ogni razza<br />
e attesa.<br />
Ma veniamo a noi. Quest’uomo bello si era presentato in<br />
Procura quasi spontaneamente, su consiglio della telefonista<br />
Rai, dunque. Da un paio di giorni c’era gente che andava,<br />
gente che veniva. Si presentò all’agente di polizia giudiziaria<br />
e questo lo scortò fino a me. In attesa che Ietta comparisse,<br />
lasciai che si presentasse. Dissi chi è lei, mi scusi? Sentii me<br />
stesso che dicevo chi è lei? Ero io che dicevo così. Sì, fantastico:<br />
chi è lei. Non so se mi spiego. Un metodo efficace per<br />
allontanare, pur fingendo di ridurre le distanze. Porsi la mia<br />
destra, appiccicaticcia di gelato.<br />
Era un rappresentante di commercio. Articoli sacri? No,<br />
cosmesi. Chiaro. Avrei dovuto intuirlo. Mani lisce, senza anelli;<br />
senza cicatrici. Io sedevo al posto del mio procuratore, la<br />
cui sedia ballava lievemente come un vecchio molare.<br />
Cominciavo a sentirmi al posto giusto e mi venivano fuori<br />
parole piene, che rassomigliavano a quelle che diceva il maestro.<br />
Ietta, contattato, aveva detto al telefono: Arrivo subito;<br />
tu comincia a tastare il terreno.<br />
L’ho detto: mi adatto facilmente all’ambiente. Mio padre<br />
sarebbe stato fiero di me. Fu continuando a pensare a mio<br />
padre che parlai al testimone, cercando di fargli comprendere<br />
a pieno il peso che le sue dichiarazioni spontanee avrebbero<br />
potuto avere sulla nostra paludosa indagine. Ma non usai<br />
l’aggettivo paludoso, lo pensai soltanto. Forse perché pensavo<br />
a mio padre, e perché tale pensiero mi si disegnava automaticamente<br />
sulla faccia, in smorfie asimmetriche, il giacchino di<br />
pelle sorrise. Tastavo il terreno. Dissi qualcos’altro per<br />
migliorare l’atmosfera, una di quelle parole tecniche che, per<br />
sintassi e logica, si appoggiavano bene le une alle altre.<br />
Appena un mese dall’inizio e già possedevo le parole che servivano.<br />
Ottimo. Ogni mestiere ha le sue parole, sempre le<br />
stesse che s’incontrano di nuovo ogni giorno, come un vicino<br />
di casa in ascensore. Vengono da sole in superficie. Bolle d’aria<br />
quasi solide. Le parole del posto fisso. Fa bene Angela a<br />
156
voler lavorare sulle parole, a volte sono capaci da sole di far<br />
giustizia nei confronti di chi le sa apprezzare.<br />
Accadde in quel momento: la vista di quella bella faccia<br />
interrogativa da rappresentante di commercio, la sedia girevole<br />
fin troppo usata, e pertanto più girevole di altre, la ruvidezza<br />
della copertina cartonata del fascicolo nelle mie mani,<br />
il codice gonfio, ma aperto alla pagina giusta, fu quello che mi<br />
fece sentire al centro del bersaglio.<br />
L’uomo frequentava da tempo la zona dell’omicidio. <strong>La</strong><br />
sua azienda di riferimento aveva la sede amministrativa proprio<br />
al civico tredici di via Cardone. Poco lontano dalla libreria<br />
della Florio, sua cliente, peraltro. Cipria compatta color<br />
deserto e copri occhiaie con sfumature di verde marziano per<br />
la vedova, ogni due mesi, di nota marca francese. Chissà perché<br />
le ciprie sono sempre francesi. Colpa di certe canzoni.<br />
Intorno alle 8 di ogni nuova giornata di lavoro l’uomo si<br />
buttava in quella strada, per un saluto all’imprenditore capo<br />
e un caffè. Chi non lo conosceva? Stava lì da anni ormai. <strong>La</strong><br />
mattina dell’omicidio era certo di aver visto qualcosa.<br />
Qualcosa? Qualcuno uscire dal negozio. Ma era distratto,<br />
purtroppo. Qualcuno. Pensava a quanti litri di benzina mettere<br />
in macchina prima di prendere il volo. Qualcuno?<br />
Sembravano due. Vestiti di nero. Alti. Quanto alti? Uomini o<br />
donne? Entravano? No, uscivano. Preti? Forse, non saprei.<br />
Aveva notato un ombrello. Ce n’erano tanti di ombrelli quella<br />
mattina. Forse. Solo sensazioni, immagini catturate di sbieco<br />
e appallottolate come messaggio inutile destinato al cestino.<br />
Pazienza: nessun reale colpo di fulmine tra noi. Solo un<br />
abbaglio.<br />
Intanto Ietta tardava, ma perché tardava? Non tornava in<br />
ufficio e fuori si faceva scuro. Il ticchettio del tempo, il solito<br />
timer, inserito chirurgicamente nei padiglioni auricolari,<br />
scandiva l’incertezza. C’era da far partire l’interrogatorio<br />
formale, subito; da far fruttare la risacca della memoria che<br />
ritorna, da me così crudamente sollecitata. Mi sono detto:<br />
forse non è il caso, non spetta a me, non da solo, ma magari<br />
viene fuori qualcosa e viene fuori proprio adesso e non un<br />
minuto più tardi. Anche qui era un fatto di voglie, sogni,<br />
157
isogni, come ci pare; ne soddisfi uno e ne viene fuori un<br />
altro. Alcuni ti rovinano la vita, altri non modificano di un<br />
capello. Ma a quella soddisfazione, duri anche un solo istante,<br />
tutto tende. Io, il mio gelato, il vento in strada, l’assenza<br />
di Ietta, l’armadio lessicale di Angela. Tutto mi metteva dell’umore<br />
giusto all’azione.<br />
Per fortuna sono uno di quei soggetti che sa organizzarsi.<br />
Avevo a portata di braccio la penna; se ne trovano così poche<br />
in giro, chissà perché, ma quella volta avevo con me la penna<br />
più scivolosa a disposizione dell’amministrazione. Una di<br />
quelle con la punta buona, che non catturava i concetti, ma li<br />
liberava. Che dove non arrivavo io, ci arrivava lei.<br />
Avevo e ho ancora oggi una palpabile fissa per le penne.<br />
Ne compravo pacchi scorta da ventiquattro. Sono la coda dei<br />
pensieri e io sono un uomo di penna. Elaboro solo se la scrittura<br />
viene liscia e odio dover grattare sulla carta in cerca di un<br />
fiato stilistico. I tratti isterici senza inchiostro non generano<br />
parole, sono la peggiore offesa alla propria creatività. Per<br />
carità! Non vengo da una famiglia di panificatori o di marmisti,<br />
io. Siamo carta noi, sì, siamo di carta. Sposati alle penne.<br />
Figurarsi poi in un momento come quello, in cui la carta<br />
aveva la possibilità di sostituirsi alla memoria anche solo per<br />
un’ora. Ci voleva una penna, assolutamente.<br />
Recuperai la mia e chiesi al bellone se avesse sentito per<br />
caso dei rumori provenire dal negozio a quell’ora della mattina.<br />
Presi la penna e anche uno di quei prestampati che avevo<br />
già preparato nell’angolo in alto a destra della scrivania. Il<br />
colpo in canna. Era lì. Chiesi se il negozio, sempre a quella<br />
certa ora, gli era sembrato chiuso o aperto. Chiesi se gli era<br />
parso buio all’interno. Chiesi pure perché stava sostando<br />
davanti al negozio in quel momento; se c’era qualcuno con<br />
lui, mentre passavano le due figure imprecisate, qualcuno<br />
che, come lui, aveva visto o non aveva visto.<br />
C’erano solo sagome nella sua memoria? Parlavano queste<br />
sagome nere? Se parlavano, cosa dicevano? Quali suoni, quali<br />
voci, quali versi.<br />
Sono stato letteralmente favoloso. C’era sulla porta il cancelliere.<br />
Quello anziano che vestiva maglie con scollo a V di<br />
158
lana sottile e marrone, che aveva appena finito di rileggere gli<br />
ultimi verbali di udienza della giornata e verificato se c’erano<br />
altri adempimenti, prima di tornarsene a casa da sua moglie.<br />
Selezionato le carte per il giorno dopo e riposte nelle apposite<br />
vaschette di plastica. Ci sono sempre raccoglitori ai lati di<br />
ogni scrivania, sui mobili ad ante scorrevoli, sui davanzali<br />
delle finestre, sui caloriferi, accanto al telefono. Quando<br />
prendi servizio in un ufficio amministrativo, il dirigente ti<br />
dota subito di un paio di quelle vaschette. Non sono uguali<br />
tra loro come potrebbe sembrare: ogni vaschetta svolge una<br />
differente funzione, solo chi le usa davvero non fa confusione;<br />
come accade per i figli omozigoti. Su ognuna di queste c’è<br />
una strisciolina di carta ricavata ritagliando con le forbici un<br />
foglio A4, su ogni strisciolina c’è scritto qualcosa: EVIDEN-<br />
ZA, ATTESA, FAX, UNEP, URGENZE, POSTA. Sono messaggi<br />
d’odio o d’amore per il collega o la collega. Sono il<br />
senso del giorno che verrà e del ciclo delle stagioni. Sono<br />
un’eredità. Il cancelliere in questione, allestito con rigore il<br />
suo futuro prossimo, stava spegnendo le luci delle stanze<br />
accanto alla sua e si era persino infilato la giacca. Gli feci<br />
segno di entrare. Rispose con due passi riverenti nella mia<br />
direzione; non poteva fare diversamente. Povero cristo:<br />
saranno state le diciotto e la sua onesta giornata di lavoro<br />
sarebbe dovuta terminare da un pezzo.<br />
A quel punto avevo il pubblico che desideravo e potevo esibirmi.<br />
Semplicemente favoloso.<br />
Per stimolare il mio testimone alla competizione, raccontai<br />
che qualcun’altro prima di lui aveva parlato di strani rumori<br />
giunti fin in strada quel giorno; rumori che avevano indotto<br />
questo stesso passante a chiamare i carabinieri. Rumori solo<br />
in parte coperti dalle gambe in movimento sul marciapiede,<br />
dalle pozzanghere che si svuotavano dalla pioggia, rovesciandola<br />
in altri buchi dell’asfalto; rumori forse essenziali, intuitivi,<br />
ma coperti dall’indolenza che il mattino si portava dietro.<br />
Quali rumori? Rumore di un corpo che cade, rumore di un<br />
corpo che si difende, di un corpo che sbatte, che lotta; di<br />
mani, braccia, bocche, di quante bocche? Volevo che lui<br />
capisse che questa storia delle sagome e di qualche rumorino<br />
159
non era poi chissà quale novità, che ci voleva dell’altro perché<br />
la città lo trasformasse in un eroe.<br />
Noi avevamo un disperato bisogno di qualcuno che fosse<br />
in grado di distinguere rumore da rumore. Sagoma da sagoma.<br />
Che andasse oltre. Oltre.<br />
Chiesi comunque notizia dei rumori al nostro testimone<br />
oculare, nel presupposto che se era stato in grado di usare gli<br />
occhi, forse aveva contestualmente attivato anche le orecchie.<br />
Un colpo di genio il mio, che smentiva tutte le scemenze precedenti.<br />
Ecco il mio ritmo che veniva alla luce. Ero così eccitato<br />
che sembravo mio padre. Ecco il mio modo.<br />
Che l’uomo bello mi abbia detto ben poco di utile quel<br />
giorno, non è quel che interessa. O meglio, quello che interessa<br />
me. Non fu il suo silenzio fascinoso, ma la mia performance.<br />
Ero molto preso da me e in quei trenta minuti, quaranta<br />
al massimo, le cose potevano essere considerate perfette,<br />
belle come quella faccia da testimone. In realtà, il mio morto,<br />
nonostante lo sforzo istruttorio, rimase più morto di prima e<br />
i due ectoplasma, immaginati o visti, vagolanti senza meta,<br />
non furono sufficienti a dargli degna sepoltura.<br />
Però ci fu un fatto interessante, decisamente interessante,<br />
che rivelai a Ietta la mattina successiva.<br />
Sì, perché Ietta poi non venne, a causa di un impegno<br />
sopravvenuto. Così disse. Mi dette fiducia. <strong>La</strong> mattina successiva,<br />
con semplicità, precisò che in seguito avremmo regolarizzato<br />
formalmente il carteggio da inserire nel fascicolo.<br />
Questioni di firme, di titolarità di penna, appunto. Minuzie.<br />
In cambio gli raccontai ogni cosa senza risparmio, e lui<br />
ascoltò con l’interesse morbido che hanno i buoni maestri<br />
quando hanno dormito bene e si sono svegliati in bonaccia.<br />
Raccontai che il prestante testimone, sotto il fuoco delle<br />
mie prime note personali, modulate in temeraria solitudine,<br />
mi aveva fatto capire di conoscere bene le figlie della signora<br />
Florio. Le figlie assenti, le figlie in contrasto. Proprio loro. Mi<br />
premeva che Ietta lo sapesse.<br />
Se le ricordava bene il mio capo quelle fanciulle. L’adone<br />
in vena di confidenze aveva detto che, soprattutto la più pic-<br />
160
cola, passava molto spesso dal negozio della madre, molto più<br />
spesso di quanto ci avesse raccontato. Ci restava a lungo.<br />
Molto a lungo. Stazionava per ore sulla porta d’ingresso, a<br />
reggere lo stipite, con il volto tuffato in nuvole basse, a cercare<br />
gente e mangiarsi le unghie, oppure seduta in cima a una<br />
scaletta di legno accostata alla libreria, con le ginocchia nude<br />
tra le braccia. A volte riceveva amici o amiche variopinti<br />
almeno quanto lei. Strano. Perché aveva mentito? Cosa voleva<br />
allontanare: la madre o l’attività della stessa? Persone o<br />
luoghi? Perché voleva tenerci lontani.<br />
Mi resi conto che in questa vicenda c’erano poche menzogne.<br />
O perlomeno noi eravamo stati in grado di scoprirne<br />
solo poche. Male, molto male. In campo penale le bugie servono.<br />
Dove c’è la bugia di solito s’annida la soluzione al giallo.<br />
Altrimenti come si fa? Che altro abbiamo da usare se non<br />
le menzogne? Non siamo abituati a lavorare con la verità, ma<br />
solo a desiderarla; non siamo capaci di usarla, capirla, metabolizzarla.<br />
<strong>La</strong> verità deve essere un punto lontano, lontanissimo,<br />
invisibile, non il pane di ogni giorno. Deve essere faticosa<br />
e lontana, specie se è da manipolare, da adattare. Da<br />
correggere. Che palle: qui erano stati tutti così fastidiosamente<br />
sinceri. Avevano pure trattenuto il dolore in nostra<br />
presenza per non disturbare troppo. Così sembrava.<br />
Avevamo solo qualche debole, ipotetico movente, e di solito,<br />
un movente da solo non fa un assassino. Pochissime bugie,<br />
giusto un paio e pure cedevoli. Come questa delle figlie, arrivata<br />
quando ormai ci eravamo arresi all’ordalia della sincerità<br />
e del dolore.<br />
<strong>La</strong> figlia era l’unica bugiarda, in uno contesto di luridi<br />
santi senza pudore. E allora? Potevamo appropriarci della<br />
ragazzina e delle sue bugie, farne uno strumento giudiziario?<br />
Potevamo mandare qualcuno davanti alla scuola della ragazzina,<br />
a far da mastino, la bocca bavosa e affamata, a ringhiare<br />
se qualcuno osava avvicinarsi all’esca? Mandare un investigatore,<br />
uno psicologo, una pedagogista, un mago, per sbirciare<br />
all’interno del suo diario segreto? Esposi le mie idee zoppicando,<br />
ma pieno di passione.<br />
Il mio capo appena sveglio, con ancora il cappotto sulle<br />
161
spalle e, dietro le spalle, il suo autista, il fedele Agrimi, mi<br />
ascoltava.<br />
E no, non mi toccare la ragazzina, ti prego, Nicola mio! <strong>La</strong><br />
farfalla viola tatuata, la stessa che svolazzava innocente nei<br />
primissimi verbali, aveva mosso le ali a sorpresa. Una farfalla<br />
che, invece di andare dritta a scuola con lo zainetto, si fermava<br />
in strada o al negozio, dentro la noia dei chierichetti a recitar<br />
novene? Detta così, la storia non era credibile. <strong>La</strong> mia idea<br />
non piacque a Ietta, è vero, ma secondo me era lui a sbagliare<br />
questa volta. Si doveva inventare una diversa spiegazione<br />
che allontanasse tutto il sangue che ancora avevamo negli<br />
occhi. Utilizzare queste nuove bugie. Succulente.<br />
Perché per me era fuori discussione che questa farfalla<br />
dovesse essere utilizzata nel processo, in qualche modo.<br />
Immediatamente. Se la ragazza frequentava il negozio, allora<br />
conosceva anche il Corietti. Se conosceva il Corietti, forse<br />
conosceva le stesse persone che conosceva lui. Non aveva<br />
negato di conoscerlo, è vero, ma aveva detto di averlo visto<br />
poche volte. Interrogata, aveva messo fuori quelle labbra tirate<br />
e dritte come uno stiletto orizzontale, quello che ti sbattono<br />
in faccia le ragazzine quando non hanno voglia. Era conosciuta<br />
anche dal giordano farmacista e, se conosceva lo straniero,<br />
forse conosceva anche la moglie dello straniero. Dico<br />
forse. E il loro giro. Conosceva le loro parabole di volo più<br />
usuali? Quelle più proibite? Voli, non novene. Dico voli.<br />
Potevamo escludere niente? No: le bugie a questo servono.<br />
Ad accendere le fantasie più ardite. A solleticare, e far sì che<br />
qualcuno si gratti. Finalmente.<br />
Rileggemmo le dichiarazioni della farfalla, due o tre volte,<br />
quasi in coro. Io e Ietta. Ietta e io. Venne fuori che la farfalla<br />
frequentava sempre la stessa palestra e, al sabato, la stessa<br />
discoteca. I suoi sembravano i percorsi di chi non ama le<br />
novità. Percorsi che stonavano con la sua immagine trasgressiva.<br />
Casa, scuola, negozio, palestra. Una volta a settimana la<br />
discoteca. E poi di nuovo casa, scuola, negozio, palestra.<br />
Dove stava la trasgressione? Poi si sa: i ragazzini fanno presto<br />
a dire trasgressione. Ci fermammo sull’idea della discoteca. Si<br />
trattava di una ragazzina. Anche la discoteca, dico io, cosa c’è<br />
162
di meno trasgressivo di una discoteca? Palle di Natale dello<br />
stesso colore allo stesso ramo sintetico. Non era il caso di stupirsi.<br />
Dimore identiche per soggetti simili. Non vedo in questo<br />
alcun deragliamento rispetto a un principio generale:<br />
spassarsela con poco impegno.<br />
Io odio ballare. Fatti miei. Mai potuto tollerare certi corpi<br />
sbattuti sullo scoglio e sconce membra strappate che fanno<br />
viaggi distonici intorno al tronco. Sono polipi, soltanto polipi<br />
prossimi alla morte. Nulla contro la fisica e le sue leggi in<br />
senso stretto, ma né la fisica, né tanto meno la musica, entrano<br />
in questo affare, solo apparentemente liberatorio. So di<br />
non essere all’altezza e di non potere in alcun modo apparire<br />
gradevole agli occhi; quindi, mi astengo con alterigia. Non è<br />
cosa per me, ballare. Quando si tratta di ammettere che non<br />
sono capace, non voglio testimoni.<br />
Ad ogni modo, ossessioni a parte, una volta è accaduta una<br />
vicenda davvero singolare, durante la festa di un collega, che<br />
aveva ottenuto il tanto atteso trasferimento. Un quarantenne<br />
dal cervello frizzante, che sognava il salto nella magistratura<br />
amministrativa e che leggeva riviste giuridiche dalla mattina<br />
alla sera, per sentirsi ancora in gara, dilapidando intere buste<br />
paga in abbonamenti annuali rinnovabili, non detraibili dalle<br />
tasse. Questo collega si era fatto tatuare un’aquila in un sito<br />
di pelle segreto, regolarmente coperto da giacca e cravatta in<br />
orario di servizio, e portava un girocollo d’argento con ciondoli<br />
sempre diversi, raffiguranti altre bestie. Tutta questa allegra<br />
ma reticente scompostezza, era dovuta al resistere di una<br />
fidanzata improbabile ormai da venti anni, donna ragno che<br />
parlava di se stessa in terza persona definendosi “creativa del<br />
bronzo”. In altre parole, faceva collanine, infilava perline,<br />
insomma, in una bottega color lavanda nel centro storico<br />
della città, tra candele profumate d’oppio. Il mio collega voleva<br />
salutare l’ufficio con un gesto di cui restasse memoria e<br />
scelse di ferirci le orecchie con una indimenticabile nottata<br />
disco, con l’ausilio di un gruppo locale, che pompava dal<br />
vivo. Non è accaduto molto tempo fa. È storia recente.<br />
All’inizio, tutto come al solito: camicia fresca e dopobarba,<br />
163
qualche stretta di mano, noia a mille, ma energica, sopra le<br />
righe, i tavoli con le tovaglie di raso e i fiori congelati al centro,<br />
la moglie di tizio, la compagna di caio, gente giovane sia<br />
chiaro, non cariatidi, salvo qualcuna; le collanine di bronzo<br />
ogni tanto a disturbare, i soliti confronti tra tizio, caio e sempronio;<br />
il procuratore che raccontava di altre serate simili e<br />
altri che parlavano di politica poco discosti. Angela aveva<br />
eletto la moglie di un amico con tre figli guida spirituale della<br />
serata, mentre l’umidità le stava arricciando i capelli. Dopo<br />
cena era previsto che si passasse in un altro ambiente, con i<br />
bicchieri ancora colmi in mano. Si doveva migrare per forza,<br />
ondeggiare con eleganza verso altre tovaglie; inutile fare resistenza.<br />
Lì, tre facce da musicisti, su un piccolo palco, ci aspettavano<br />
per attaccare la spina del basso. Erano decenni, lo<br />
giuro, interi decenni che non mollavo il freno, che non sperimentavo<br />
un ancheggio, uno svolazzo d’omero. Si chiama<br />
paura del ridicolo. Avessi avuto cinquanta anni, invece. Ero<br />
anticipatario. Ma hanno cominciato con le canzonette, mio<br />
malgrado; quelle che non ho mai ballato in passato, nemmeno<br />
quando avrei dovuto, nemmeno nei chiassosi, artificiali<br />
anni Ottanta. Certe canzonette, porca miseria, che se le risenti<br />
a tradimento, provocano la stessa esaltazione di una banconota<br />
ripescata per caso nella tasca di un paio di pantaloni<br />
dimenticati al cambio di stagione. Rimeni le dita nella fodera<br />
interna, tasti, tiri fuori, guardi. E sei un uomo euforico.<br />
Cominci ad accarezzare quella gentile banconota, che ha disegnato<br />
una piccola iperbole nella tua esistenza; ti senti ricco<br />
sfondato solo per aver infilato in quel buco le tue magiche<br />
dita. Cosa vuoi che conti se il pezzo è da dieci o da venti o da<br />
cento? Se è da cento è meglio, certo, ma l’effetto sarebbe<br />
comunque identico. Sì, mi rendo conto, è difficile che ci si<br />
dimentichi un pezzo da cento in tasca, ma facciamo conto che<br />
accada. È solo un esempio. L’effetto è dirompente. Ci sono<br />
ancora le canzonette, ci sono ancora io. Già questa sembra<br />
una coincidenza emozionante. Quello che non è stato fatto<br />
prima, può essere fatto adesso. Una nuova possibilità. Una<br />
nuova fertilità. Bella la parola fertilità. Anche a volersi fermare<br />
alle banconote.<br />
164
Ci siamo ancora tutti, io e la musica, il respiro del futuro.<br />
Grandioso. È ancora tutto possibile. Spendere, spendere<br />
subito. Spendere tutto.<br />
E ho ballato.<br />
Angela si è avvicinata a me e, nel fracasso, mi ha gridato<br />
nell’orecchio che, parlando con la madre plurima, si era sentita<br />
vecchia e in ritardo; anche tu, mica solo io, dico vecchi tutti<br />
e due, noi due. Aspetta, ho pensato, aspetta, moglie mia!<br />
Dammi tempo; ci vuole tempo per certe cose. Stavo ballando,<br />
mica noccioline. Ehi, ma mi hai visto? Hai visto che vado<br />
facendo? Va’, bella mia, va’, non mi interrompere ché sono concentrato.<br />
Rideva, non era affranta. Forse aveva bevuto qualcosa. Lei.<br />
Aveva delle gocce di perla in mezzo agli occhi, che si diluivano<br />
al fard con un effetto creta, mentre con le mani si reggeva<br />
il collo, quasi si fosse svegliata da poco. Il risveglio della musica.<br />
Poi cominciò a ballare vicino a me, così come ha sempre<br />
fatto da quando la conosco, muovendo appena i piedi, ma<br />
molto di più le mani e il busto, simile a una piovra smilza.<br />
Discreta, con occhi bassi e brevi sorrisi destinati ai volti noti<br />
sparsi in giro per la sala. Non si accorgeva che c’ero io vicino<br />
a lei? Quell’individuo che le si dimenava accanto, ero proprio<br />
io, l’uomo che aveva scelto.<br />
Invece di sedermi stanco, come in altre occasioni simili, mi<br />
aveva colto un nuovo delirio. A quella vista, un tipo che conoscevo<br />
appena mi ha preso per il braccio. Vieni. Quello non<br />
sapeva che io non ballavo per convinzione, ma per raptus, che<br />
avrei potuto irritarmi, credo, anche senza motivo. Non sapeva<br />
di essere in pericolo. Dove andiamo? Da quella parte.Ve n g o .<br />
Stavamo accalcati come insetti sullo zucchero. Mi ha portato<br />
in una vera mischia: un mare le cui onde subivano lo stesso<br />
movimento; ridicolo, ma non troppo. Un movimento al quale<br />
era inevitabile credere. <strong>La</strong> musica non era male.<br />
Devo aver preso a sudare fin dentro gli occhi, perché a un<br />
certo punto la realtà è diventata liquida, gelatinosa, il che<br />
consentiva alla mia respirazione ribollente, al limite dell’angina,<br />
di non prendere il sopravvento sulla musica. Non ho pensato,<br />
neppure per un attimo, di poter morire, no, ho pensato<br />
165
solo che sarebbe durato ancora per poco. Ho pensato che<br />
adesso il progetto era: resistere. Ho continuato a ballare,<br />
come in attesa di ordini superiori. Ho scoperto di ricordare<br />
passi pluriarticolati niente male. Ho sentito un fiato lunghissimo<br />
unirmi alla vita degli altri. È salito il volume anche dentro,<br />
sempre più su, sempre più forte. Ho verificato che anche<br />
il cuore è un muscolo e sa ballare. Mi sono sfinito i motoneuroni.<br />
Dopo dieci minuti di questo martello, invece di rallentare,<br />
sono diventato una furia. Sempre più bestiale, unito<br />
all’umanità tutta. Finalmente in armonia con l’universo. Mi<br />
sentivo in grado di formulare pensieri tipo non ho paura.<br />
Avere trenta anni non è una tragedia. Questo pensavo perso<br />
nei miei liquidi corporei.<br />
Poi ho preso a guardare quelli delle collanine, il gruppo<br />
alternativo che era al seguito della fidanzata del festeggiato.<br />
Erano vicinissimi a noi magistrati. Ci sfidavano con gli occhi<br />
e certe risatine di fiele. Erano loro i veri razzisti. Io ballavo<br />
meglio di loro. Quanti anni avranno avuto? Con tutti quei<br />
capelli? Venticinque? Ventisette? E allora? Che merito c’è?<br />
Guardate come ballo, collanine belle, venuto fuori indenne<br />
dagli anni Ottanta e con ancora questa energia. Guardate e<br />
imparate. Andavo su e giù sulle ginocchia, come fossero carrucole.<br />
Un conto è alzare le mani verso l’alto, usarle come<br />
bandiere e sventolare, gesto banale; altra cosa è giocare di<br />
ginocchia, scomparire alla vista inghiottito dal branco inferocito<br />
e poi avere la forza muscolare di riemergere, su e giù.<br />
Senza più nessuna vergogna. A destra e sinistra. Quando usi<br />
le ginocchia, e pure il bacino, vuol dire che oramai sei libero.<br />
Significa controllo del corpo. Controllo assoluto! Parlare di<br />
giovinezza a quel punto era riduttivo. <strong>La</strong> giovinezza non esiste.<br />
Esiste solo il desiderio. E il controllo del desiderio.<br />
All’ultimo, ho smesso addirittura di pensare. Mi sono tolto<br />
prima la cravatta, poi anche la giacca, infine le scarpe e sono<br />
salito su un tavolo. Ad un certo momento, una specie di<br />
capellone con un dolcevita nero si è avvicinato e, sghignazzando,<br />
mentre mi dimenavo, mi ha aperto la camicia con un<br />
colpo netto che ha fatto saltare via tutti i bottoni. Per questo<br />
l’ho legata in vita con un nodo Saint Tropez.<br />
166
E così che mi ha visto mia moglie, rientrando in sala dopo<br />
essere stata un po’ in veranda a guardare le vecchie stelle.<br />
Svettavo in cima al tavolo con intorno le mani osannanti di<br />
tutta la magistratura locale, collanine comprese, c’era pure<br />
qualcuno della cancelleria. Le ho fatto un cenno e lei ha letto<br />
il labiale: non sono ubriaco. L’unica persona in sala nei confronti<br />
della quale provavo una sottile vergogna, era proprio la<br />
mia Angela: per un paio di ore le era stato estraneo. Mi aveva<br />
smarrito. Non mi piace, perché non ci sono abituato; l’abitudine<br />
è un valore e fa parte del progetto. L’estraneità invece<br />
non fa parte di alcun progetto. D’accordo le novità, i cambiamenti,<br />
ma non amo far passi indietro. L’estraneità è un segnale<br />
di incostanza che mi mette in allarme.<br />
Siamo tornati a casa a notte fonda e anche quello era una<br />
novità per me. Non mi piace la notte perché mente. Di notte<br />
l’aria punge i vestiti, inganna le forme, ci sono rumori talmente<br />
morbidi e diffusi da non essere riconoscibili; di notte anche<br />
l’asfalto fa rumore, pur sembrando di gomma. In macchina<br />
lei continuava a scrutarmi, ma nascondeva gli sguardi, ne<br />
conteneva la durata e l’intensità. Ridacchiava. Toccava le cose<br />
in giro, gli oggetti di sempre, regolava la ventola del<br />
caldo/freddo e ridacchiava. Non ero ubriaco, ma lei rideva lo<br />
stesso. Dopo, ci fu chi parlò della mia prestazione per giorni,<br />
ma nessuno disse che mi ero reso ridicolo. Questo non fu rilevato<br />
da nessuno. Al contrario. Forse ero un ballerino accettabile,<br />
pur senza saperlo, anche senza esercizio; forse ero stato<br />
una rivelazione. Perché no? Del resto, accanto a me aveva<br />
ballato per ore anche un consigliere di Magistratura<br />
Indipendente con le tempie brizzolate ed era scattato l’agonismo<br />
di sempre. L’agonismo del calcio, l’agonismo delle bracciate<br />
stile libero al mare, l’agonismo della bella figura, della<br />
cravatta contro la collanina; l’agonismo del figlio unico di un<br />
grande padre. L’agonismo per forza. E su quel vegliardo<br />
avevo vinto facile.<br />
Una storia che credevo di aver dimenticato, questa qui,<br />
ma, cazzo, come suonavano bene quei tre musicisti. Era stata<br />
tutta colpa loro. E dei Village People. O degli Spandau. Forse.<br />
Ricordo una tromba. Una grande tromba. Manco fossero le<br />
167
sirene a cantare per me. Tutto cambia se di mezzo c’è una<br />
tromba. È raro trovare una buona tromba in giro. Quella sera<br />
c’era una tromba che evocava altre città. L’ A m e r i c a .<br />
L’improbabile America. Tutta colpa di quel suono tiepido che<br />
ti svuotava e ti riempiva d’altra umana sostanza, come una<br />
buca fatta nella sabbia a mani nude. Stracolma di necessarie<br />
bugie e nettare.<br />
Invece, per la nostra farfalla viola, era diverso: la discoteca,<br />
secondo me, era un fatto di abitudine e certezze. Non uno<br />
scarto improvviso in un vicolo cieco; piuttosto, la strada più<br />
facile. Quella di tutti. Quella percorsa da masnade di coetanei,<br />
con danni circoscrivibili. Certo, non potevo fare confronti<br />
utili, ero incompetente, ma restava l’obbligo morale di<br />
comprendere qualcosa di più circa le bugie della figlia della<br />
signora Florio.<br />
Ma non toccatemi la fanciulla. Il capo era platealmente<br />
infastidito dall’imprevista evoluzione dell’indagine. Non si<br />
poteva mettere una bambina sulla bocca della Procura senza<br />
altri elementi probatori. Lo diceva da padre. Calma, quando<br />
si parla di minori. Se in processo compaiono i minori, la procedura<br />
cambia registro. Per scongiurare danni aggiunti. Si<br />
voleva astenere. Si voleva tirare indietro.<br />
C’era stata pure un’altra lettera anonima, una delle tante,<br />
arrivata alcuni giorni prima, a cui non avevamo dato importanza<br />
lì per lì, ma che adesso ci dava i brividi. Attenti al porco<br />
con cui se la faceva il Corietti. Ci sono pure in mezzo i ragazzini.<br />
C’era scritto a penna. Piano con i ragazzini. Non si può<br />
sollevare un polverone, solo per ambizione.<br />
Se fosse stata mia figlia? Non ho figlie. In questa materia<br />
la riflessione libera non conta granché, stando a quanto si racconta<br />
in giro. Conta solo l’esperienza. Almeno, è questo che<br />
dicono i padri, orgogliosi del loro bagaglio di conoscenza specifica,<br />
e non credo che desiderino intenzionalmente affermare<br />
il falso. Perché mai dovrebbero mentire? Cosa c’è da<br />
nascondere sui figli? C’è da fidarsi. Ad ogni buon conto, se<br />
avessi prole o potessi comunque scegliere che tipo di prole<br />
168
avere, è una figlia che vorrei. L’ho detto ad Angela: vorrei una<br />
femmina. D’accordo, i figli. Cosa cambia un figlio quando<br />
c’è? S’apre un abisso tra chi sa e chi non sa. Ma potrò dire la<br />
mia anch’io, così da osservatore, o devo obbligatoriamente<br />
rimanere in silenzio e aspettare?<br />
Sembra che chi non ha figli non conti un tubo nella<br />
società. Che la mia sia una colpa anagrafica che non riesco a<br />
farmi perdonare.<br />
Angela non mi perdona, infatti. Angela non vuole farmi<br />
riflettere. Angela, credo, vuole solo aspettare e che anch’io<br />
aspetti: ha smesso da mesi di usare le sue solite parole propiziatorie.<br />
Tipo Utero (la più intuitiva), E p i s i o t o m i a,<br />
Gestazionale, Epoca anamnestica, Diametro parietale, Follicolo<br />
(perché ha un bel suono rotolante); parole così. Prima le<br />
masticava come chewingum. Di recente con le spalle fa cenni<br />
silenziosi d’incredulità. Ha messo il silenzio tra lei e la mia<br />
colpa.<br />
Dei figli si tende a salvaguardare il futuro, come se questo<br />
fosse una loro esclusiva. Il loro futuro sembra un dato certo,<br />
inattaccabile. Soltanto il loro. Del resto, cosa aveva fatto la<br />
signora Florio quando le avevamo chiesto della figlia? Aveva<br />
negato categoricamente, ribadito più e più volte, con toni crescenti,<br />
che sua figlia al negozio non ci veniva mai, che lei<br />
doveva pensare a studiare. A cosa doveva pensare quindi questa<br />
figlia? Al futuro, appunto! Non esiste altro per un genitore.<br />
Il presente non conta. Il futuro è una placenta sempre<br />
ricolma.<br />
Per la gente come me il futuro sembra un lusso, una sciocchezza.<br />
Una fantasia inutile. Dopo una certa età, il futuro si<br />
trasforma in un’ ipotesi; prima è un diritto, poi un’idea instabile.<br />
Ma se hai figli, un futuro per cui lavorare ti resta comunque;<br />
se non ce li hai, che fai, chi sei? Non hai futuro. Sei<br />
un’immagine destinata a oscurarsi gradualmente. No, così<br />
non va bene, non va affatto bene, secondo me. Devo dirlo ad<br />
Angela che così non va.<br />
Mia moglie pensa ancora alla sua placenta vuota? Ha<br />
maturato pensieri che ritiene inutile tradurre in parole. Ce ne<br />
169
stiamo ciascuno nel proprio disavanzo di tempo a far calcoli<br />
che equivalgono a zero, a cui nessuno aggiunge alcun riporto.<br />
Insomma, ce ne stiamo da mesi zitti, zitti sull’argomento.<br />
Estraneità. Temporanea, però, sì, assolutamente temporanea.<br />
Io credo. Devo solo organizzarmi. Sono certo si tratti solo di<br />
un problema di tipo organizzativo. Non ho dubbi. Non può<br />
che essere così. Certo, certissimo. Per lei deve essere come<br />
avere un borsone piccolo, ma estensibile, di pelle specchiante<br />
e cedevole, vitale, che potrebbe miracolosamente contenere<br />
il bagaglio necessario per qualsiasi tipo di viaggio. E non<br />
partire. Viaggi oltremodo avventurosi in testa, ma non partire.<br />
Sentirsi in ritardo e non partire. E dire che io mi consideravo<br />
un tecnico in fatto di valigie; come farle, come conservarle,<br />
come svuotarle. Ma non so come riempire la valigia<br />
della mia Angela; non so come gestire una mancata partenza<br />
o un rinvio. Per questo oggi gradirei molto sapere qualcosa di<br />
più in fatto di figli e valigie, così da elaborare una nuova strategia.<br />
Diventare un esperto, un nonpadre che ha un suo convincimento.<br />
Vorrei sapere esattamente perché desideriamo<br />
mettere al mondo figli. Fare un progetto a riguardo. Prima<br />
che diventi troppo tardi.<br />
L’omicidio del Corietti non mi è stato d’aiuto. Più o meno<br />
tutti desideriamo avere figli. Perché?, mi domando io. Lo<br />
desiderano di più le donne, dicono. Bene. Perché? Oggi vorrei<br />
averne uno anch’io, e anche se non sono una donna. Come<br />
mai? Per il mio solito desiderio di essere capace, di conoscere,<br />
di adattare la realtà a me stesso? Forse. Non sono stati i<br />
figli di qualcuno a far nascere questo bisogno. Non si tratta di<br />
semplice emulazione. Noi, i senza figli, rappresentiamo la<br />
degenerazione di un principio sociale, e siamo sempre di più,<br />
cresciamo numericamente in diretta esponenzialità con il<br />
nostro desiderare, e allora? Come mai questa stessa degenerazione<br />
non ci aiuta a capire qualcosa di più del principio<br />
stesso, come mai non ci avvicina alla verità? Deve essere per<br />
via di tutto questo silenzio. Di una certa vergogna. Di qualche<br />
depistaggio massmediatico.<br />
Dieci anni fa sentivo la necessità che, in quella immobile<br />
incertezza che vivevamo in coppia, qualcuno mi indicasse la<br />
170
soglia, che poi avrei fatto vedere anche ad Angela. Avrei usato<br />
un dito. Le avrei detto Fermati qui. Quella sei tu, siamo noi, e<br />
lei si sarebbe fermata, credo. L’avrei detto allora, lo direi<br />
anche adesso. Mi ci vorrebbe un maestro. Un altro. Ecco cosa<br />
ci vorrebbe. Un maestro in mancate partenze.<br />
Ora, è consequenziale il quesito: che diritto avevamo noi<br />
di infangare, cancellare il profumo innocente e sanguigno di<br />
una placenta altrui? Nessuno. Aveva ragione il mio amico<br />
Ietta, il cui psichiatra aveva trasformato in un gigante con i<br />
piedi d’argilla. Cosa potevamo scoprire al più? Che la fanciulla<br />
tatuata era un’assassina? Non credo proprio. Che conosceva<br />
l’assassino? Possibile. Che era lei, a quindici anni appena<br />
compiuti, con tanto di candeline rosa, l’origine del male?<br />
Non di certo l’istigatrice, se mai una vittima, e poi? Che<br />
avremmo fatto? L’avremmo consolata noi, da buoni padri?<br />
Avremmo assicurato protezione a lei e sua sorella? Bella balla<br />
il lieto fine.<br />
Non ero io il capo, per fortuna.<br />
Il capo aveva un figlio, peraltro, e parlava quindi da un<br />
punto di osservazione privilegiato. Il figlio però se lo teneva<br />
ben nascosto. Il suo era un controcanto appena percepibile.<br />
Ne parlava poco, per lasciarlo crescere tranquillo, diceva lui,<br />
ma in realtà era che non sapeva da quale punto della terra<br />
cantava suo figlio. Non sapeva come, dove e per chi. Non<br />
parlava di futuro, perché era di cattivo umore e scaramantico.<br />
Non credo che non parlare dei propri figli aiuti i genitori.<br />
Bisogna farlo, secondo me. È fondamentale creare delle<br />
pause e poi condividerle. Le pause tra una poppata e l’altra,<br />
tra un rimprovero e un bagnetto, tra un divieto e un regalo.<br />
Mi pare. Pause di riposo e riflessione. Pause d’altro. Le pause<br />
sono la parte più vera di noi, e quelle pause vanno riempite<br />
parlando di noi, dei nostri figli, se ci sono, di quello che<br />
insomma sta intorno alle pause. Invece Ietta taceva.<br />
Ci facevamo entrambi degli scrupoli pensando ai denti<br />
sporgenti e alla vestaglia informe di quella ragazzina sfiorita.<br />
Come era questa ragazzina?<br />
Mi era stata tatuata in testa così come era venuta fuori<br />
171
dalla descrizione fattane dai caramba la mattina dell’omicidio.<br />
Una ragazzina gracile, ma apparentemente robusta nello<br />
spirito. Una specie di uovo bollito. Col guscio dipinto a<br />
mano. Ad ogni modo, certi scrupoli non mi impedivano di<br />
sentirmi costantemente accanto l’afflato gelido di quel primo<br />
cadavere; un monito tetro. Figli ancora nessuno, ma cadaveri<br />
adesso sì. Possedevo un cadavere, anche quella era una degenerazione<br />
di un principio generale: la vita. Era quasi come<br />
avere il morto accanto nel letto, a ingombrarne la metà vuota,<br />
ogni notte.<br />
Mi sarebbe piaciuto spedire in busta chiusa al tribunale il<br />
nome di un assassino pronto per la condanna. E chiudere<br />
così. Sarebbe stato un grande inizio per me: condannare un<br />
uomo; magari raccontare in giro quale essere mostruoso avevamo<br />
incastrato. Il mio mostro, il peggiore di tutti, sfruttava i<br />
percorsi delle farfalle in volo. Che colpo sarebbe stato! Come<br />
mi sarei sentito leggero. Leggero e perdonato come certe mattine<br />
sotto gli occhi di Angela, al risveglio, di domenica. Solo<br />
lei mi guardava così, mi voleva, e sapeva chi ero; cosa guardava<br />
e cosa aveva già guardato coincidevano, e quella coincidenza<br />
mi nettava e mi toglieva peso. Avevamo qualche certezza.<br />
In fondo.<br />
Non posso farne a meno. Ho bisogno di un ricordo felice.<br />
Il mio futuro da solo non mi basta. Non ho placente gonfie,<br />
io.<br />
172
XII CAPITOLO<br />
Ad ogni modo, pur lasciando da parte il periodo<br />
prenatale, la mia lotta col padre mi sembra quanto<br />
mai varia e lunga da poter essere argomento di<br />
una storia…<br />
Giuseppe Berto<br />
“Ormai è troppo tardi, Angela”.<br />
“Che cavolo vuol dire: troppo tardi? Lo volete chiudere<br />
contro ignoti con tutti gli elementi che avete? Ma che roba,<br />
siete… delle pecore. Non si può così”.<br />
“Non abbiamo niente di veramente significativo. Solo elementi<br />
che… tra loro non…”<br />
“E allora? L’intuito dell’investigatore dov’è finito? E la<br />
bambina? E scusa, dai! Lo dovete fare almeno per lei”.<br />
“Appunto”.<br />
“Cosa appunto?”<br />
“Lo sai”.<br />
“Noi donne la vediamo in modo diverso. Noi donne la<br />
vogliamo davvero la verità. Non ci spaventa. È un pensiero<br />
che fa troppo schifo? Non cancellatelo. Non so, partite dalla<br />
discoteca, ecco, per esempio. Oppure chiedete alla madre o<br />
andate in palestra. C’era pure un’altra donna che frequentava<br />
la palestra con assiduità in questa storia, chi era? Sì, la moglie<br />
del morto. Mi pare. Non è vero che era lei? Ecco, fate qualcosa.<br />
Tipo questo”.<br />
“Sì, vero: la moglie del Corietti”.<br />
“Ecco”.<br />
“Ma guarda te. <strong>La</strong> palestra è proprio la stessa. Abbiamo<br />
fatto dei controlli. E quindi? Niente. È la palestra più attrezzata<br />
del quartiere; frequentata da un pozzo di gente. E quindi?<br />
Niente. Ci andavano la moglie della vittima, la moglie<br />
173
dell’amante e la figlia della proprietaria del negozio. E quind<br />
i ? ? ”<br />
“Pure il farmacista?”<br />
“Il musulmano non fa ginnastica”.<br />
“<strong>La</strong> moglie?”<br />
“Tanto meno. Devi vedere che fianchi. No, evidentemente<br />
la moglie preferisce un altro genere di movimento”.<br />
“E i preti?”<br />
“Smettila!”<br />
“Non deve essere facile crescere senza un padre. Non<br />
credi? Un po’ come quella ragazza, quella che è venuta da voi<br />
a parlare male della pretaglia locale. Quella lì. Anche quella è<br />
sola come un cane. No? Può servire un padre. Non si discute<br />
che può servire. Lo stesso dicasi per la figlia della Florio.<br />
Mi pare ovvio”.<br />
“Dipende dalle madri pure. Cioè, ci sono padri inutili<br />
quando le madri bastano. Ci sono madri che addirittura avanzano,<br />
se è per questo. Non mi far fare questi discorsi stupidi!”<br />
“Si resta sempre un po’ zoppi comunque, se non c’è un<br />
padre o qualcuno che ne rivesta il ruolo. Si zoppica. Vediamo,<br />
aveva un fidanzato? <strong>La</strong> ragazzina, intendo. Ce l’aveva o no<br />
una storiella? È normale avere una storiella a quell’età. Se<br />
non ce l’aveva vuol dire che c’era nell’aria qualcosa di strano.<br />
Secondo me. Trovate gli amici. Avete individuato amici pericolosi?<br />
Figure losche? E dai! Ma vi devo dire tutto io?”<br />
“Niente, solo compagni di scuola. I preti non li frequentava.<br />
C’era un gruppetto, due amiche fisse, nient’altro. Ah,<br />
dimenticavo, abbiamo risentito di nuovo il Pace. Per l’ennesima<br />
volta. Non ti dico lo strazio. Io, se Ietta lo convoca ancora,<br />
mi do malato”.<br />
“Quando è morto il padre della bambina con la farfalla?”<br />
“Circa sei anni fa”.<br />
“Gli anni peggiori in solitudine. E tu la vorresti una femmina?”<br />
“Piccola, però, me la devi fare piccola. Da come ne parli,<br />
sembra che mi vuoi portare a casa una diciottenne”.<br />
“Eh, ti piacerebbe eh? Magari come una di quelle utili<br />
anche a mandare avanti il tuo solitario appartamento”.<br />
174
“Come?”<br />
“Non hai detto che stai cercando una donna delle pulizie?”<br />
“Ah, sì, non ti ho detto che me ne ha trovata una la moglie<br />
di Ietta? Sì. Una signora che prima andava a casa loro. Adesso<br />
viene da me. Parla quanto una predica, ma è brava. È venuta<br />
già tre volte. Ha eliminato covoni di polvere. Viene la mattina:<br />
parla e lava tazze, cambia le lenzuola, lava quello che ho<br />
usato per giocare a calcio, spazza; le solite cose, insomma.<br />
Alza le persiane che, fosse per me, le lascerei sempre tirate<br />
giù, per non far fatica. Tanto piove e non c’è mai una sorpresa<br />
che sia una. Le lascio i soldi sul tavolo della cucina. Cerco<br />
di non rispondere alle domande che fa. Ma ne fa tante.<br />
Cavolo! Mi ha pure portato il vino che fa il marito in campagna.<br />
Che ne sa lei che non mi piace. Non mi andava di rifiutare”.<br />
“Diciotto, venti anni?”<br />
“Sessanta. Le ho fatto pure il duplicato delle chiavi di<br />
casa”.<br />
“Comunque dicevo un’altra cosa. Dicevo… Vorresti un<br />
maschio o una femmina?”<br />
“Non fa differenza”.<br />
“Non è vero”.<br />
“Una femmina, allora”.<br />
“Perché?”<br />
“Per esserne geloso”.<br />
“Perverso”.<br />
“Lo sai come sono. Non mi fare domande, allora”.<br />
“Io pensavo che volessi una femmina per non rischiare di<br />
riprodurre con un figlio maschio il tuo rapporto con papà”.<br />
“Perché? Che c’è di male nel rapporto con mio padre?”<br />
“Ah, sì? Te lo dico un’altra volta”.<br />
“A proposito: sabato siamo a pranzo da lui”.<br />
“Eccolo qui. Pranzo di famiglia? Lui sa qualcosa del caso<br />
che state portando avanti?”<br />
“No, non credo. Se tu non hai detto niente non lo sa; ché<br />
da me, è certo, non ha saputo niente”.<br />
“E ai nipotini? Qualcuno in famiglia ha mai accennato ai<br />
175
nipotini? O si parlerà solo di politica e di piante sempre verdi<br />
a casa tua?”<br />
“No, non gli ho raccontato niente. Perché non ho l’assassino.<br />
Che glielo dico a fare se non ho l’assassino? E lo stesso<br />
vale per i figli”.<br />
“Mamma mia, quanto sei figlio!”<br />
“Mi sembra di dovergli dei risultati. Solo questo”.<br />
“Che destino che ti sei scelto! Dovremmo frequentare di<br />
più gli amici. Per distrarti dai tuoi obblighi”.<br />
“Quali amici?”<br />
“Appunto, quali? Coppie, coppie di amici”.<br />
“Per fare cosa?”<br />
“Per frequentarsi”.<br />
“Dici?”<br />
“Dico, dico”.<br />
“E di che parliamo con questa gente?”<br />
“Di quello che facciamo. Magari ripeschiamo qualche vecchia<br />
conoscenza e la rinverdiamo”.<br />
“Ma poi diventa un legame…”<br />
“Perché adesso invece a cosa sei legato?”<br />
“A niente”.<br />
“Sì? Povero te”.<br />
“A te”.<br />
“Ecco. E al tuo bisogno di risultati certi”.<br />
“Dici? Gli amici? Dici? E se poi entriamo in competizione?<br />
E se cominciamo a confrontarci e a deprimerci? No, no.<br />
No”.<br />
“Cioè?”<br />
“<strong>La</strong> casa, i figli. Io ce l’ho, tu non ce l’hai… Le comitive,<br />
sai com’è, no?”<br />
“Sei pazzo”.<br />
“No, guarda: è sempre così tra amici”.<br />
“Ma che ne sai tu? Io mica voglio una comitiva. Parlo di<br />
persone, io. Con cui confrontarmi”.<br />
“Eh, che ne so, che ne so. Si fa presto a dire persone. Quali<br />
persone?”<br />
“Ti farebbe bene confrontarti, invece”.<br />
“Tu dici?”<br />
176
“Ma smettila! Senti un po’: la testimonianza oculare sembra<br />
interessante. Dovevate torchiare a dovere il tizio. Se quello<br />
è venuto a trovarvi è perché ha delle cose in testa, cose da<br />
buttare fuori. Non potete far finta di niente”.<br />
“Non faccio finta. Non lo faccio mai. Il superficiale è quello<br />
lì, mica io. Parlava di due lunghe figure nere. E basta. Che<br />
è come dire niente di niente. Come la paura e basta. E che ce<br />
ne facciamo di due ombre? Siamo pieni di idee, possibilità,<br />
opinioni, sensazioni. Tutta materia che non porta a nulla. <strong>La</strong><br />
verità secondo me è un’altra cosa”.<br />
“E cosa è la verità?”<br />
“È per quella che mi tormento”.<br />
“Magari se approfondite…”<br />
“Io ho approfondito. Senti, basta, eh?”<br />
“Una storia incerta di ragazzine e uomini neri? Questo è<br />
quello che credete di aver fatto venir fuori? Siete sicuri?”<br />
“Così”.<br />
“Raccontami meglio del Pace. È come se mancasse un collegamento.<br />
Non mi convince: ci deve essere qualcosa di più”.<br />
“Guarda, io proprio non so cosa dirti”.<br />
“Manca qualcosa. Ma, scusami, a te non sembra che in<br />
questa storia manchi qualcosa? Il lavoro è il tuo, per carità,<br />
non voglio dire niente, ma secondo me manca qualcosa”.<br />
“Ecco, infatti”.<br />
“Che palle! E poi perché dici sempre il Pace, oppure il<br />
Ietta. Il Tizio, il Caio. Sembri scemo. Perché parli così? Non<br />
ti riconosco…”<br />
“Cerco di comprendere il lessico di questa città”.<br />
“E ci riesci?”<br />
177
XIII CAPITOLO<br />
Alla fine mi ero convinto che nei luoghi, nello spazio fisico,<br />
nelle molecole, avremmo potuto rinvenire l’ultima illuminazione.<br />
L’ultima occasione.<br />
Era un giorno che tirava un vento folle, se non ricordo<br />
male. L’ultimo prima della rinuncia. <strong>La</strong> finestra senza tende<br />
nella stanza di Ietta si affacciava su un vicolo sottile e scuro<br />
come l’interno di una canna di fucile, tutto ugualmente grigio,<br />
più simile alla tromba di un ascensore piuttosto che a<br />
pezzi di cielo e muri e strada, sfiorati dall’aria umida che precipitava<br />
verso il basso. Negli angoli si ammassavano resse di<br />
foglie. Si sollevavano come risate stropicciate in mulinelli. Era<br />
un vento che rimaneva intrappolato nelle strade, senza altra<br />
via di fuga, suonava dentro uno strano clarino, facendo il<br />
verso delle civette. Strappava i cappotti dalle spalle. E i cappelli,<br />
se non trattenuti con le mani. Forse pioveva; non era<br />
facile capire se pioveva o no: in quella città era sempre tutto<br />
fradicio come dopo una spruzzata. Nel centro abitato, come<br />
in una sintetica location, andavi a sbattere ogni mattina contro<br />
sipari opachi che non erano vera pioggia, ma qualcosa di<br />
simile.<br />
E sopra ogni cosa il vento. Così rumoroso e scomodo, lo<br />
ricordo benissimo quella mattina, come un impiccio materiale<br />
ai pensieri.<br />
Ietta disse – e gli scappava il mento dalla faccia, parlando<br />
– che erano pronti gli esami del RIS. Avevano lavorato per<br />
178<br />
Enid sentì che niente poteva più uccidere le sue<br />
speranze, niente. Aveva 75 anni e intendeva cambiare<br />
alcune cose della sua vita.<br />
Jonathan Franzen
giorni sul luogo dell’omicidio, ma i risultati facevano piangere<br />
tutti, tecnici e curiosi. Ietta ci aveva dato una sguardo veloce,<br />
pagine e pagine, ma quello che contava era nelle ultime<br />
quattro righe.<br />
I luoghi. Dal luogo si sarebbe dovuta cogliere la psicologia<br />
dell’omicida. I suoi ultimi pensieri cavalcanti e scossi prima di<br />
impazzire; gli ultimi gesti. Invece. Perfetto, un silenzio perfetto<br />
era descritto in quelle quattro righe e non in modo sintetico.<br />
Cosa ci avevano raccontato i luoghi circa questa vicenda?<br />
Poco. <strong>La</strong> Libreria, via Cardone, la Farmacia, la Palestra, la<br />
Curia, la Casa d’appuntamento, la Procura. Più fondali, da<br />
sostituire di continuo per i frequenti cambi di scena.<br />
Sull’album sembrava mancare la figurina più importante. Ma<br />
quale era?<br />
Mancava qualcosa, assentiva la mia geniale Angela e, cavolo,<br />
anche a voler far finta di nulla, quella donna lì, benedetta<br />
lei, finiva sempre per aver ragione.<br />
Il dove è importante. Non per niente, io e mia moglie all’epoca,<br />
cercavamo casa. Volevamo acquistarla e cambiare il<br />
nostro dove. Borghesemente, diventare proprietari di un<br />
immobile a uso abitativo e darci in pasto all’ICI e ai suoi mille<br />
commercialisti. Nella nostra traversata matrimoniale avevamo<br />
abitato numerosi appartamenti. Niente di nostro: solo<br />
contratti di locazione soggetti alla volubilità Istat. Non che<br />
fosse vitale. I figli nascono ovunque. Infatti. Non era per i<br />
figli che volevamo comprare una casa; quella del nido, gli<br />
uccelli e le pagliuzze, è un’invenzione. Una delle tante in<br />
materia. Al contrario, semmai, volevamo figli per la stessa<br />
patologia per cui bramavamo un tetto: porre fine alla nostra<br />
austera precarietà. Eravamo formiche, solo formiche. Che<br />
fanno le formiche senza un formicaio? Dove le sistemano le<br />
loro molliche? Troppe molliche, comunque, tonnellate di<br />
molliche, da rimanerci schiacciati e ugualmente affamati. Ci<br />
eravamo appesantiti di rimasugli inutili, pur in assenza di<br />
scelte definitive. Nessuna delle nostre scelte lo era stata davvero<br />
fino ad allora. Io credo. Il provvisorio sedimentava senza<br />
pazienza qua e là. Angela, che si lamentava rumorosamente<br />
179
del disordine e della polvere, in verità non faceva nulla per<br />
cambiare la situazione. Tanto siamo qui ancora per poco, diceva,<br />
lanciandosi in pasto alle sue allergie. Era un precario<br />
dimorare di coppia, il nostro, enormemente stabile, ormai.<br />
Nonostante tutto, qualche anno fa, la casa l’abbiamo comprata<br />
davvero. In comunione dei beni, perché siamo scaramantici.<br />
Il trasloco delle nostre montagne di provvisorietà,<br />
però, ci è costato una fortuna.<br />
Angela mi aveva minacciato di morte se non avessi partecipato<br />
nel corpo quanto nello spirito alle grandi manovre. Ho<br />
sentito di mariti che sono usciti per andare al lavoro una mattina,<br />
e alla sera sono rientrati nel nuovo appartamento già in<br />
ordine. Storie di casalinghe anni Cinquanta. Noi invece traslocammo<br />
subito dopo un’estate gonfia di scirocco e sabbia,<br />
e io presi quattro giorni di ferie. Non fu un’impresa facile, ma<br />
rivelatrice. <strong>La</strong> cosa peggiore fu svuotare lo sgabuzzino. Se si<br />
tratta di una sistemazione abitativa provvisoria, lo si intuisce<br />
da come è tenuto lo sgabuzzino; se è tutto un rinviare, accatastare,<br />
un perdere e ritrovare, allora puoi essere certo di trovarti<br />
in una casa in affitto.<br />
<strong>La</strong> nostra casa oggi è soprattutto un corridoio. Una striscia<br />
su cui poggiano diversi stati d’animo, onde di diversa altezza,<br />
odori di arrosto o bagno schiuma; le voci del telegiornale o<br />
l’abbaiare del nostro cane. Una grossa testa bitorzoluta, di<br />
nervi e sangue, che cambia la parrucca. Solitudini diversificate<br />
solo dal passo.<br />
Era tanto tempo fa. Una sera, ormai il contratto con il venditore<br />
era stato perfezionato in ogni minuzia e si aspettava<br />
solo che fossero completati gli ultimi lavori di ristrutturazione<br />
per il nostro trasferimento, una sera, dicevo, Angela era<br />
andata a chiudere le finestre nella nuova casa perché sembrava<br />
dover scoppiare un temporale da un momento all’altro e<br />
non volevamo allagare tutto. Era stata sua l’idea, non mia. Era<br />
sempre preoccupata per lo stato della sua futura casa. Ci passava<br />
di continuo davanti in macchina, per vedere se era tutto<br />
regolare. Mi faceva fare gli appostamenti in incognito, con<br />
occhiali da sole e baffoni neri. Quella volta qualcosa andò<br />
180
storto: tornò a casa tardi che era un fantasma zuppo. Aveva i<br />
capelli incollati alla faccia e le dita che vibravano. Non so cosa<br />
avesse visto nella casa di nostra proprietà ancora vuota,<br />
entrando da sola nel buio, nel silenzio, in un tratto di tempo<br />
ancora inutilizzato. Parlava di odori che non c’erano, che<br />
mancavano, ed era scioccata da questa abnorme assenza d’odore.<br />
Le avevo detto che è pericoloso sottoporsi senza controllo<br />
a certe visioni future. Che troppo desiderare alla fine<br />
può essere dannoso. Ha risposto netta che non sarebbe mai<br />
andata a vivere lì. Che quel futuro notturno e umido non le<br />
interessava affatto, anzi, ne era terrorizzata. Quella era una<br />
gravidanza che non voleva. Adesso non mi va di far della facile<br />
psicoanalisi: la famiglia d’origine, infanzia, i traumi che<br />
restano incatenati ai luoghi, e ai luoghi che contengono altri<br />
luoghi come scatole cinesi. Ad ogni modo, abbiamo fatto il<br />
trasloco come previsto dopo qualche giorno dal temporale. E<br />
buonanotte.<br />
Non avevo bisogno di spiegare a Ietta il mio pensiero legato<br />
ai luoghi. Lui già lo conosceva; era anche lui un proprietario<br />
immobiliare. Era parte dell’universo composto da agenzie<br />
immobiliari, notai, banche, uffici catastali, negozi d’arredamento,<br />
armadi, donne delle pulizie e altri temporali. Per questo<br />
anche lui voleva tornare negli spazi fisici dell’indagine. Al<br />
più presto. Riandammo.<br />
Gli accertamenti tecnici avevano sintetizzato alcune chiavi<br />
di lettura.<br />
Le impronte. Una quantità imprecisata di impronte, oh<br />
quante, ma non ancora attribuibili ad alcuno. Niente sangue<br />
straniero. Nessun altro reperto. Nulla da approfondire tecnicamente<br />
con una superperizia, con superperiti per supermorti<br />
ammazzati. Deduzioni: il morto si era dissanguato, l’assassino<br />
invece era stato solo ferito. Era possibile, per quanto<br />
improbabile. Le impronte più recenti erano sul telefono, sul<br />
primo cassetto di un mobile in ciliegio che raccoglieva documenti<br />
contabili, e sulla cassa. Si trattava di impronte diverse<br />
tra loro, appartenenti ad almeno tre diversi individui. <strong>La</strong> circostanza<br />
poteva significare alcune cose:<br />
181
1) L’assassino non era solo, e questo, in qualche modo,<br />
confermava il miraggio delle due figure alte e nere in prossimità<br />
del negozio, sfuggite al racconto sonnolento del nostro<br />
unico testimone oculare.<br />
2) Più di una persona era passata dalla libreria quella mattina,<br />
ma questo non significava che si trattasse dell’assassino;<br />
le impronte potevano essere lì da giorni e quindi scarsamente<br />
interessanti.<br />
Bisognava vedere con i nostri occhi. Eravamo frastornati<br />
da vagoni di carta da leggere, mentre quello di cui anche noi<br />
avevamo davvero bisogno, era toccare gli oggetti. Di fare<br />
esperienza tattile. Ogni cassetto era stato vuotato e i documenti<br />
visionati pagina per pagina; tra questi erano stati trovati<br />
due scontrini della farmacia risalenti a un mese prima. Il<br />
telefono era muto dentro a un involucro di plastica. In pensione<br />
anche quello. Avevano fatto ordine. Gli altri, con noi.<br />
Attenzione: la mattina prima dell’omicidio nessuno aveva<br />
usato quel telefono. Tabulati lindi. L’ultima telefonata risaliva<br />
al pomeriggio precedente. Si trattava dello squillo della vittima<br />
al suo amico del cuore. Prima di quella, intorno all’ora di<br />
chiusura per il pranzo, era stata fatta una telefonata dalla proprietaria<br />
del negozio alle sue figlie. Lunga. Non c’era modo di<br />
conoscerne il contenuto purtroppo, e fissare l’apparecchio<br />
telefonico, nella speranza che parlasse, non serviva a nulla. In<br />
un angolo, sul fianco di un mobile in legno scuro con le ante<br />
serrate, nonostante la tempesta, c’era ancora un gancio a<br />
pressione; uno di quelli di plastica bianca che l’umido stacca<br />
inesorabile. A quel gancio restava appeso un grembiule nero,<br />
uno tipo bidello del libro Cuore. Forse l’indossava la vittima<br />
quando vestiva i panni da commesso, non però la mattina dell’omicidio.<br />
Non ce lo aveva indosso quella mattina.<br />
Curiosando nelle tasche, avevano beccato una bustina di un<br />
noto analgesico tutta stropicciata. Di certo già scaduta.<br />
Di nuovo. Ancora il mal di testa? Il filo rosso. Come per la<br />
vecchia pazza. Forse quel poveraccio soffriva di cefalea, considerato<br />
anche gli scontrini della farmacia, all’interno della<br />
quale chissà quante volte aveva messo piede. Il dolore era<br />
arrivato ben prima della morte. Il filo rosso era quel dolore<br />
182
specifico? Idea mica tanto originale, a dire il vero. Meglio<br />
quello, che nessun filo, però. Esistenze segnate dal mal di<br />
testa. Teste malate. Teste da curare. Che altro? Ricordai che<br />
anche la vecchia lamentava lo stesso problema, e chissà quante<br />
altre esistenze intorno a noi, obbligate alla somatizzazione<br />
della fatica e del disagio. L’uomo è proprio nato per soffrire!<br />
Alcuni uomini in particolare.<br />
Noi, dal canto nostro, dopo vagoni di carta, ci recammo<br />
sul posto. Dopo un giro nel puzzo marcio del negozio, che di<br />
sacro aveva ormai solo la considerazione del trapasso e la<br />
nebbia soffice dell’incomunicabilità, decidemmo di andare a<br />
fare un giro nei locali della Curia.<br />
Strano andarsene in giro in una tomba. Ti vengono in<br />
mente pensieri assurdi, e non puoi scambiarli con altri più<br />
azzurri. Il senso della vita, il senso della morte, filosofie di<br />
questa natura per uomini semplici. Pensieri che non riuscivo<br />
a trasformare in concetti o colori. Solo disgusto infecondo.<br />
Andammo, comunque.<br />
Avevamo deciso di arrivare alla Curia passando per il corridoio<br />
interno alla libreria. Più suggestivo, più vicino al crimine.<br />
Almeno così ci faceva piacere credere. Non c’erano cicche<br />
in terra sfuggite ai Ris, io guardavo anche per potermi prendere<br />
al soddisfazione di dire che quei ganzi si erano sbagliati,<br />
invece niente; non c’erano fogli di carta con confessioni<br />
nascoste in qualche anfratto e poi dimenticate. Peccato. <strong>La</strong><br />
luce era solo quella che filtrava dalle vetrine, poiché la corrente<br />
era stata staccata. Per il forte vento, le foglie secche sfuggite<br />
ai marciapiedi, si erano infilate negli angoli all’interno dei<br />
corridoi in composizioni d’arte povera. Provammo a percorrere<br />
il passaggio lentamente. Nessuna traccia di sangue;<br />
anche chinandomi a guardare più da vicino, niente. Sui muri<br />
solo il tempo e la muffa, ne conseguiva che, o l’assassino, uno<br />
o più di uno, non era passato attraverso quel budello umido<br />
e angusto, oppure era riuscito a non sanguinare proprio lì,<br />
grazie a una garza, un cerotto, forse un tampone acquistati in<br />
farmacia. C’era, infatti, una farmacia in zona per l’acquisto di<br />
certi articoli essenziali al crimine.<br />
Guardare era il vecchio metodo. Guardavamo per terra, ai<br />
183
lati, sul soffitto. Neppure un capello. Un assassino calvo o<br />
impomatato, con una cuffia in testa come un panettiere o con<br />
un cappello? I preti spesso hanno capelli di propilene, come<br />
quelli di Big Gim, incorporati alla scatola cranica, quasi fossero<br />
d’inchiostro. Il nostro Pace innamorato, invece, aveva<br />
una zazzera scura, sguisciante e umida, che segnava la linea<br />
curva delle orecchie e poi le vene del collo, fino a insinuarsi<br />
dentro il maglione. E il giordano poi? Sulla sua testa d’asfalto<br />
lucido, immobile, contenuta ai lati da una qualche pomata<br />
grassa, c’erano solo linee rette, regolari, rigide, larghe ma<br />
sicure; ci potevano circolare i tir.<br />
Per quanto ci si muovesse con lentezza, era come stare con<br />
entrambi i piedi nudi dentro un grosso bidet, mentre l’acqua<br />
scorreva verso la fogna. Veloce. Irriverente, ma inevitabile.<br />
C’era pendenza e ghiaccio, e noi, senza volontà, acceleravamo<br />
la fuga dei passi. Tenni per me l’ansia che ne scaturiva.<br />
Era un corridoio buio con alcune sedie di paglia poggiate<br />
contro il muro. Proseguimmo sempre più lesti, in fila indiana,<br />
scortati dai caramba. Di rado i caramba che incontri durante<br />
un’indagine, giorno dopo giorno, restano sempre gli stessi;<br />
questione di turni. A parte la divisa, che è invece sempre la<br />
stessa, le facce cambiano. Per il Sergente Garzia, c’era da fare<br />
però un discorso a parte, per la sua operosità sudaticcia, tanto<br />
di cappello. Quello, se poteva, c’era sempre. Chissà come<br />
davvero si chiamava quel cicisbeo sferico: proprio non me lo<br />
ricordo. Il maresciallo, dicevo, ci veniva a trovare di continuo,<br />
sospetto a causa di una sorta di rapimento professionale<br />
nei confronti dell’eloquio di Ietta capo e della sua mite rudezza.<br />
I caramba che il comando ci mandava di volta in volta,<br />
invece, erano diversi, ma sempre in due, proprio come nelle<br />
barzellette, pagati per seguirci ovunque. Soprattutto in quell’angusto<br />
passaggio segreto. Noi avanti, loro dietro.<br />
Alla fine del corridoio, una porta stretta e bassa, in stile<br />
fine ottocento, tra muri spessi un metro. Eccola. Chiusa.<br />
Tentativo fallito. Forse il varco era stato richiuso dall’interno<br />
dopo l’inizio delle indagini. Nessun problema. In Curia si<br />
arrivava comunque, volendo, anche senza appuntamento.<br />
C’era sempre l’ingresso principale da prendere in considera-<br />
184
zione. <strong>La</strong> grande porta che dava sulla strada principale.<br />
Tornammo indietro. Per la proprietà commutativa, i caramba<br />
davanti, noi dietro.<br />
Una volta fuori, di nuovo la strada.<br />
Attraversammo il grande portone di ferro, proprio mentre<br />
ne uscivano due monache vestite color avio, pronte a decollare,<br />
seguite da una decina di bimbetti a quadretti. Dieci cavallette<br />
e due giraffe. Dentro si sviluppava un cortile superiore a<br />
ogni sospetto, non immaginavamo tanto spazio, la superficie<br />
era enorme e cotonata ai lati dai riccioli gonfi di un portico<br />
romanico. Ad intermittenza, tra una colonna e l’altra, spuntava<br />
il lembo nero di qualche abito clericale, rapido.<br />
Sulla porta ci chiesero chi eravamo e citare la Procura funzionò<br />
da grimaldello.<br />
Chiedemmo di don Oreste, anche se non era lui che cercavamo.<br />
Avevamo bisogno di un nome. Qualsiasi nome, purché<br />
dell’ambiente. Facemmo un nome rotondo come si fa negli<br />
uffici pubblici, per evitare la fila. Non cercavamo l’uomo, ma il suo<br />
a b i t a r e .<br />
Guarda, guarda, non distrarti. Mi esortava il capo, sottovoce,<br />
con una faccia rischiarata da una giornata che sembrava<br />
stranamente primaverile. All’improvviso, dopo tutto quel<br />
vento. A sorprenderci, a renderci più lievi. Forse per il contrasto<br />
tra il cunicolo e il cielo, Ietta pareva un ragazzino in<br />
gita.<br />
Don Oreste ci accolse tra i suoi tendaggi vellutati, scivolando<br />
sul parquet, manco avesse ai piedi le pattine di lana<br />
della brava massaia. Guarda, oh, ragazzo, guarda, continuava a<br />
ripetere il capo. Gli arredi venivano da via Cardone, dal negozio<br />
maledetto, non c’era alcun dubbio: i quadri, i calici, i<br />
distributori d’ostie e indulgenze. Stile inconfondibile. Il<br />
luogo era vivo come un’ala di pollo nel suo consommé caldo.<br />
Fu il prelato a chiederci per primo notizie fresche sull’indagine.<br />
Premuroso, non c’è che dire. Parlò per primo, vestendo<br />
di porpora il nostro imbarazzo. Niente di nuovo signor giudice?<br />
Poi fece un commento carico di opportuna pietà circa<br />
le difficoltà del nostro mestiere. Un lungo, comodo, inutile<br />
commento, alla fine del quale, il cicerone si offrì come volon-<br />
185
tario per un giro a contenuto socio-culturale. Era come camminare<br />
sui cirri. Nessun rumore di corpi. Bello il posto e questo<br />
era importante. Per chi apprezza il genere. Se un luogo<br />
sceglie di essere piacevole c’è un motivo, c’è una necessità da<br />
soddisfare. Gesù è sempre stato fotogenico, per esempio. O<br />
perlomeno così è stato pensato, per piacere a molti. Sarebbe<br />
stato facile fare battute sul diavolo e l’acqua santa, ma Ietta<br />
continuava a guardare senza fermarsi, girando la testa di qua<br />
e di là come fanno i bambini. Non solo gli occhi, no, lui sbatteva<br />
la testa a destra e a manca. Avesse trovato la porta di uno<br />
sgabuzzino, anche la tenda di un confessionale, si sarebbe<br />
infilato dentro senza pensarci un secondo, a cavar ragni. Il<br />
segugio. Si teneva le mani volontariamente ammanettate dietro<br />
la schiena, tanto strette da sembrare gobbo per lo sforzo,<br />
e cercava, cercava. Cercava facce di poco conto, facce comuni<br />
di uomini o donne magari intravisti altrove; facce da libreria,<br />
facce da via Cardone. Chissà che cavolo cercava, benedetto<br />
uomo, ché tanto, gira e volta, s’incrociavano solo facce di<br />
chiesa, bastoni ricurvi, vecchiaie che resistevano perché battevano<br />
ancora le carte, lezioni nere come lavagne, da cui tutto<br />
deve essere subito lavato via. Messaggi statici. Sembravano<br />
cani, cani a muso basso. Anche noi sembravamo cani, di razza<br />
diversa però. Segugi. Eravamo perfetti; quasi della loro stessa<br />
altezza, nei diversi ruoli. Un canile silenzioso. Noi e loro. Così<br />
eravamo perché così volevamo essere; almeno per un ultimo<br />
giorno di caccia.<br />
Poi Ietta vide il gabbiotto del centralino. C’erano suoni,<br />
voci umane lì dentro. Fece una domanda al centralinista, che<br />
non era un prete. Quello disse che aveva parlato molte volte<br />
con il negozio accanto; aveva il numero in rubrica, infatti.<br />
Disse di aver parlato alcune volte anche con il Corietti, per<br />
esigenze della Curia; si ricordava benissimo il canto telefonico<br />
dell’usignolo.<br />
I centralinisti si ricordano le voci, è chiaro. Le figure circolanti<br />
nel covo dei preti potevano pure essere volutamente<br />
opache, ma le voci descritte dal centralinista erano vero cristallo.<br />
Meno male. Poi questo era pure uno di quei centralinisti<br />
ciechi che lavorano per particolari agevolazioni di legge. E<br />
186
pure fantasioso, nel suo dare al suono una valenza superiore.<br />
Quasi visionario, mi si passi l’aggettivo. Il massimo. Pensava<br />
fosse molto giovane questo povero Corietti, con quella sua<br />
voce soave, che ammaliava. Tra le sue visioni c’era l’idea di un<br />
puttino biondo che viveva nel suo stesso quartiere. L’avevano<br />
fatto secco al puttino, però, gli dicemmo. Non l’aveva mai<br />
conosciuto di persona; solo sentito più volte al telefono: un<br />
attimo di freschezza ogni volta, prima di passare la linea ad<br />
altri. Qui la Curia vescovile, uffici amministrativi, un attimo<br />
prego…<br />
Ma era un problema mettersi in contatto con quel negozio.<br />
<strong>La</strong> linea era sempre occupata, soprattutto nelle prime ore<br />
della giornata. Sempre occupata? Sì, sosteneva che fosse difficilissimo<br />
comunicare con la libreria per fare un ordine qualunque.<br />
Era il Corietti a usare così tanto il telefono? Ma con<br />
chi parlava il Corietti? Vita privata intensa, quindi.<br />
Deduzione ovvia: pochi clienti, ma tante telefonate. Eppure<br />
la mattina del delitto non c’era stata alcuna telefonata. Se era<br />
abitudine della vittima fare la telefonata del prolungato buongiorno<br />
al suo amato, come mai non l’aveva fatto quella mattina,<br />
prima di morire? L’ultima telefonata non si nega al condannato<br />
a morte. Non ne aveva avuto il tempo o, forse, il suo<br />
amato era venuto a trovarlo di persona? Non per risparmiare<br />
sulla bolletta, presumo. Forse aveva mentito il Pace. Forse.<br />
Cercammo di fissare nella memoria le lampade spente di<br />
quei corridoi, l’odore di cero sciolto, le sedie con la grande<br />
spalliera, i tappeti color topo, i divani glabri, duri come<br />
ammonizioni, la sala d’attesa come un festino di parrocchia,<br />
divenuto improvvisamente di portata internazionale, gli<br />
occhiali scuri del centralinista e il portiere di colore; la fontana<br />
asciutta sotto il portico al momento dei saluti, e andammo<br />
via. Non era stato vano lo sforzo, tant’è che ancora adesso ho<br />
tutto in mente.<br />
E comunque il lavoro è fatica. È bene saperlo. Forse per<br />
questo apparivo stanco al mio maestro, e guardandomi,<br />
anch’egli si stancava, per l’effetto specchio della didattica.<br />
Stanchi entrambi. In un primo momento avrei voluto essere<br />
187
fortemente collaborativo, ma invece, a tradimento, stranito<br />
dal nuovo, cominciavo a sentirmi terribilmente stanco. E non<br />
riuscivo a fingere di non esserlo. Anch’io come il mio amico<br />
Ietta. Le nostre due immagini si sovrapponevano e nessuna<br />
prendeva il sopravvento. Fiacche anche le idee. Le più originali,<br />
prima messe da parte, ora erano infilate in un sacco alla<br />
rinfusa. Ho presente i bussolotti di legno numerati per la<br />
tombola di Natale, stretti con un laccio nel sacchetto, da tirar<br />
fuori secondo la fortuna, a conferma dell’esistenza stessa<br />
della fortuna. Così. Ci sentivamo pure un po’ in colpa. Non<br />
so come mai. Forse, per natura, o magari per educazione,<br />
dopo una gita a casa di Dio, si ha sempre un po’ voglia di<br />
buone azioni. Di redimersi. Forse non vale per gli tutti gli<br />
uomini, forse vale solo per alcuni uomini, tipo quelli come<br />
me, abituati a godere della sicurezza di alcuni precisi modelli<br />
da imitare.<br />
Ecco: i modelli tradizionali cominciavano a scarseggiare.<br />
Pativo le differenze.<br />
Nella mia città, per esempio, nei luoghi assolati di sempre,<br />
avrei camminato per ore senza soffrire, come fanno i gatti,<br />
sulla punta di certi amichevoli precipizi, con quattro unghiate<br />
da rocciatore. Avrei rintracciato in qualcosa di certo il mio<br />
abituale scompiglio meridionale e messo ordine con soli due<br />
gesti, sempre gli stessi. Avrei scelto, tra le cogitazioni del<br />
momento, quella più sana, e sarebbe stata sovrana indiscussa<br />
tra le altre possibili; questa stessa avrebbe impartito ordini e<br />
tenuto tutti gli altri pensieri in fila, come soldati in rassegna.<br />
Sarei stato meglio.<br />
Fuori sede, invece, regnava un ordine superiore, cosmico<br />
e ignoto, difficile anche da riprodurre e mi veniva una gran<br />
voglia di sbadigliare. E di sbagliare. Mi trascinava altrove, mi<br />
distraeva, mi molestava. Non rintracciavo un codice. Colpa<br />
della città.<br />
C’era da dire, però, che pur nella sua rigida insipienza, la<br />
città che mi ospitava occasionalmente riusciva anche a divertirmi.<br />
L’amministrazione curava il verde, funzionava, sì funzionava,<br />
e io la sera sul tardi, a volte, me ne andavo per parchi, tra<br />
188
uccelli strani, cominciando a meditare sull’acquisto di un<br />
cane. Nel dopo cena solitario, neppure fosse stato un bicchierino<br />
d’amaro per digerire, mi passavo tra i denti l’idea sapida<br />
di un nuovo progetto. Senza troppe pretese. Avevo fatto amicizia<br />
con uomini barbuti con cane al seguito, rigorosamente in<br />
pensione. Era un’amicizia che avevo voluto, nata non spontaneamente,<br />
ma per caponaggine. Imparavo a riconoscere e<br />
apprezzare certe categorie nuove. Le barbe soprattutto. Gli<br />
uomini con la barba sono spesso uomini interessanti. Se fossi<br />
rimasto più a lungo in quei posti, chissà quante cose avrei<br />
messo in ordine, chissà. Peccato non abitasse in quella città<br />
novella, una persona veramente importante per me, a parte<br />
Ietta s’intende, ma Ietta era un passaggio e quindi di importanza<br />
limitata nel tempo. Se ti accade qualcosa di terribile o bellissimo<br />
è utile avere una persona importante a cui telefonare.<br />
Comunque, le barbe erano divertenti. I parchi della città<br />
erano pieni di uomini con la barba e cani.<br />
Anche Ietta aveva un cane. Se un magistrato non ha troppi<br />
fascicoli sul proprio ruolo, può anche occuparsi di un cane;<br />
a tratti di una moglie, per ripetizione di un figlio e di un cane,<br />
che comunque richiedono livelli di guardia diversificati.<br />
Funziona così: se un magistrato riesce a ricordare il cognome<br />
delle parti da chiamare nell’udienza del giorno dopo; se,<br />
in altre parole, riesce a ricordare, anche solo vagamente, l’oggetto<br />
delle cause messe al ruolo del giorno, allora vuol dire<br />
che ha ancora un minimo di speranza di fare davvero il suo<br />
mestiere. Che ha ancora in mano la gestione del suo tempo e<br />
può anche permettersi di comprare la palla di gomma al proprio<br />
cane, da usare la domenica mattina.<br />
Se i suoi fascicoli, invece, cominciano a diventare cataste<br />
anonime, solo numeri e date e polvere e articoli di legge, provocando<br />
angoscia e disgusto, ma nessun ricordo lucido, allora<br />
vuol dire che sta facendo il mestiere di un altro, qualcosa<br />
di più vicino all’attività di un contabile o di un archivista.<br />
Adesso, sono passati anni da quei tempi tra le palme che<br />
figliano nei giardini interclusi della mia sudicia città del sud,<br />
lavoro secondo questa seconda ipotesi. Carta e controversie a<br />
carrettate ogni mattina, dalle mie parti, oggi, e nessuno che<br />
189
sia soddisfatto. Questa è la sacrosanta verità, senza fronzoli di<br />
cortesia!<br />
Il cane, in memoria del passato, però, me lo sono comprato<br />
lo stesso, una volta tornato a lavorare nella mia città in<br />
ristrutturazione, con il permesso di mia moglie e della sua<br />
sopraggiunta allergia. Adesso sono i parchi del nord, con il<br />
loro sguardo lindo all’orizzonte, che mi mancano, e quegli<br />
alberi saldi, messi in perfetto ordine, che non hanno bisogno<br />
di far ombra.<br />
Dopo la visita pastorale, camminammo per qualche minuto<br />
sui marciapiedi che si inseguivano a breve distanza l’uno<br />
dall’altro, tagliati a fette dalle strisce pedonali e da quelle gialle<br />
dei parcheggi riservati e dalle griglie per le biciclette. Era<br />
pieno di ruote. Rigorosamente distinte l’une dalle altre. Dopo<br />
il vento, a sorpresa, una bava di sole. Agrimi, l’autista, ci camminava<br />
davanti e la sua ombra finalmente era ricomparsa per<br />
terra e sui muri che costeggiavamo. <strong>La</strong> scolorita sagoma di un<br />
autista solerte, prodotta da un astro insulso, si stagliava sopra<br />
di noi come quella di un gigante a tre teste, perdendo il confine<br />
sui bordi. Che strana ombra produce un sole affaticato.<br />
Ho fatto caso: le ombre hanno un significato per chi è abituato<br />
a tenere gli occhi bassi, per quanti, come me, fanno<br />
attenzione a non inciampare. Nella mia città natale non si<br />
usava il cappello fino a qualche anno fa. Anche con il sole. I<br />
cappelli li portavano soltanto le persone sopra i sessanta.<br />
Senza, quando qualcuno salutava un amico da lontano, si<br />
sporgeva in avanti, muoveva appena la mano e poi era<br />
costretto a metterla sugli occhi a visiera, per non essere scortese.<br />
Se era rivolto a oriente. Altrove ci sono abitudini differenti.<br />
Nella mia città l’unica cosa importante era scegliere con<br />
cura il lato della strada su cui passeggiare. Quando mi muovevo<br />
a piedi con Angela, lei intervallava i suoi pensieri a un<br />
rituale andiamo all’ombra. Perlomeno fino a qualche anno fa;<br />
adesso il cielo del sud si è come spostato altrove: lascia passare<br />
l’acqua come un secchio bucato.<br />
190
Hai fre t t a ? Mi chiese il capo. No, non avevo fretta. Sarei<br />
dovuto ritornare a casa solo nel tardo pomeriggio di quel<br />
venerdì, perché Angela mi aspettava per una sua visita dermatologica.<br />
Quali che fossero i miei impegni, voleva che<br />
fossi presente, che sentissi anch’io tutto quello che il medico<br />
aveva da dirle. Quello di fare fronte unico davanti alla medicina,<br />
era simile al suo bisogno che mi addormentassi sempre<br />
dopo di lei, che lei potesse sentirmi sempre vigile accanto a<br />
sé, all’erta. Per la medesima ansia i responsi medici dovevano<br />
essere ricevuti in compagnia, per condividere il panico, la<br />
sorpresa. Altrimenti a chi racconti che quel medico è un<br />
imbecille, e che andrai di corsa a consultarne un altro? In<br />
quei giorni, la tormentavano delle misteriose chiazze vinaccia<br />
intorno al naso, come un trucco circense, tipo il naso<br />
rosso a palla dei clown. Questa indesiderata begonia sbocciava<br />
soprattutto al risveglio, prima di ogni altro infingimento<br />
chimico. Per questo la mia Angela lasciava andare le dita<br />
senza guinzaglio sempre più spesso, i polpastrelli come biglie<br />
a rotolare, sempre in prossimità del viso in sospettosa attesa.<br />
Si nascondeva con le mani i lineamenti, se era in pubblico.<br />
Come gli sdentati che nascondono la bocca se hanno perso<br />
la dentiera, con le mani, con i capelli, con smorfie nuove, con<br />
sorrisi paralizzati.<br />
Non avevo fretta, diciamo che dovevo garantire la mia presenza<br />
a casa entro le 19. Avevo ancora un po’ di tempo.<br />
Finiamo il giro?<br />
Si era deciso finalmente: Ietta voleva andare a far visita alle<br />
prostitute, nella periferia polposa che dava cibo ai cani randagi.<br />
Il dessert. Facciamo presto, non ti pre o c c u p a re: solo un’occhiata e poi<br />
sei libero.<br />
In macchina si faceva prima. Era meglio muoversi in macchina.<br />
Noi non guidavamo; noi dietro. Tanto c’era Agrimi che<br />
usciva dal traffico come un treno da una galleria, pur restando<br />
spalmato sul coprisedile in rafia, che tiene fresco, nel suo<br />
veicolo abusato, senza segreti, rilassato, senza contrarre neppure<br />
un’unghia. Un ausiliario addetto all’autoveicolo non<br />
bada mai a quali pieghe anomale può prendere la giacca<br />
191
uona, pur restando seduto per ore. Al massimo allunga il<br />
collo come un pellicano se sente che tira. Parla guardando il<br />
cliente nello specchietto retrovisore. Ha spesso la cifosi e<br />
cammina a piedi con lo stesso dondolio accumulato nelle ore<br />
in cui è stato seduto in auto. Guida pianissimo per prassi, non<br />
rischia, non passa mai con il rosso e intervalla brevi parole e<br />
raucedine da silenzio, a veloci scalate di marcia. Non impreca.<br />
In verità, i conducenti dei veicoli di Stato non passano<br />
così tanto del loro prezioso tempo sul mezzo assegnato, come<br />
si potrebbe pensare. Alcuni fanno anche qualche fotocopia in<br />
ufficio, altri la mattina comprano i quotidiani al capo e poi li<br />
leggono, altri portano i figli del capo a scuola o la moglie del<br />
capo dal parrucchiere, oppure restano a guardare un vecchio<br />
televisore in bianco e nero nel gabbiotto destinato alla portineria,<br />
altri sono addetti ai fax urgenti, alle comunicazioni in<br />
genere, manco fossero piccioni viaggiatori.<br />
Ma Agrimi era un uomo speciale. Uno stradario ambulante<br />
che non sbagliava un colpo. Uno di cuore, che sembrava<br />
aver incollato la sua giacca lisa a quella sinistra del capo. Non<br />
lo perdeva di vista. Aveva conformato persino la sua andatura<br />
e modificato la convergenza. Ci portò lontano dall’incenso<br />
e dallo zolfo, dando gas verso la periferia, perché era lì che<br />
stavano le donne che cercavamo.<br />
Colse perfettamente l’umore da fuggiasco del suo capo, e<br />
quindi puntò alla meta come un rapace.<br />
Un bianco mantello di case basse fiancheggiava la campagna,<br />
mescolandosi al giallo dell’erba, già divenuta adusta e<br />
dura. Tra quelle abitazioni c’era la casa che cercavamo.<br />
Le donne ci accolsero su un divanetto fiorato. Erano solo<br />
in due, ma ad abitare l’appartamento erano in realtà in tre; la<br />
più giovane frequentava dei corsi di lingue per studenti lavoratori<br />
e non era in casa. Tanto le prostitute, solitamente,<br />
hanno impegni professionali più consistenti la sera. Poteva<br />
permettersi delle divagazioni nell’attesa del buio. È sempre<br />
stato così. Il sesso cerca la notte, credo io.<br />
Non parlammo di sospetti. Chiedemmo se avevano rivisto<br />
il Pace di recente. Risposero di no, senza mentire; del resto<br />
anche i nostri agenti, eclissati nel fango della campagna lava-<br />
192
ta dalle incessanti piogge, non l’avevano visto passare da<br />
quelle parti. Dopo il fattaccio, il Pace, infatti, per tristezza o<br />
per vergogna, non era più andato a trovare le sue amiche.<br />
Erano due donne diverse, unite dalla scelta dell’arredamento<br />
di casa. Il soggiorno in cui ci accolsero era povero, disseminati<br />
ovunque tappetini con intrecci di strisce colorate di<br />
stoffa, tipo nylon, a raccogliere briciole e scarpe. Una coppia<br />
di cardellini svernava in una gabbia aperta. Tanto non volano,<br />
stanno dentro e non volano; pure a volare via che possono trovare?<br />
Loro lo sanno che qui si sta bene. Abbastanza bene. Il più<br />
scontato tra i simbolismi per donne concrete.<br />
C’era una gran luce in casa. Invenzione assoluta dopo il<br />
grigio parrocchiale. Dalle finestre s’alzava un’onda di luminosità<br />
pomeridiana e polvere, non trattenuta dalle tende, che<br />
frangeva i vetri e stordiva i cardellini. Non erano truccate, ma<br />
avevano entrambe delle gran chiome variopinte, inconsapevoli<br />
cavie di estetisti del capello in vena di miracoli. Ai colori<br />
delle teste attecchiva tutta quella luce invadente e i bulbi<br />
diventavano gioielli tenuti insieme da fermagli improbabili:<br />
matite smozzicate, pinze a forma di pescecane con la bocca<br />
aperta, fiori di carta e mollette da bucato. Creatività a basso<br />
prezzo.<br />
Raccontarono che il Corietti, negli ultimi mesi, quelli<br />
prima di morire, si era fatto vedere ben poco. Parlando, dirigevano<br />
all’unisono il naso verso l’alto, in segno di orgoglioso<br />
disappunto, là dove si faceva più prepotente l’odore di cucinato<br />
proveniente dalla finestra accanto. Da qualche tempo<br />
aveva preso a diradare le sue visite. Non veniva, né da solo né<br />
in compagnia. Non veniva e basta. Chiesi se ritenevano che,<br />
in questo allontanamento, potesse aver avuto un ruolo il Pace<br />
e loro risposero di no: il ragazzo faceva solo quello che il<br />
Corietti gli diceva di fare. Secondo loro, il fidanzato non era<br />
un problema per nessuno. Aveva la volontà di un bebé. Sì,<br />
ogni tanto faceva qualche capriccio, era vero, ma erano affari<br />
che l’amante sapeva contenere facilmente e indirizzare a suo<br />
piacimento. Piccole gelosie, che non preoccupano nessuno.<br />
Secondo le ragazze il Corietti si era allontanato semplicemente<br />
per stanchezza, perché gli uomini si stancano prima o poi,<br />
193
e cercano altri giri di cui vantarsi. Gli uomini non hanno resistenza.<br />
Gli uomini.<br />
Ci sedemmo tutti intorno allo stesso tavolo, a guardare la<br />
tovaglia di plastica gialla, con stampe di papere e coccodrilli.<br />
I raggi di luce prepotente trapassavano la faccia delle due e ne<br />
rivelavano uno spessore differente. <strong>La</strong> più in carne aveva in<br />
volto una trama spessa come garza, con piccole punture di<br />
spillo, l’altra, invece, era livida e trasparente come velina.<br />
Notai sul terrazzino, oltre i vetri, uno stenditoio di plastica<br />
che sfoggiava pigramente alcune mutandine di pizzo rosa;<br />
notai lo stenditoio e contestualmente mi accorsi del mio involontario<br />
tentativo di sedurle. Facevo pause ammiccanti. Non<br />
troppo, un poco, ma era evidente che cercavo di conquistarle.<br />
Per rendere l’atmosfera in qualche modo più familiare.<br />
Ietta chiese da quanto tempo vivevano in quell’appartamento<br />
e come mai avessero scelto proprio quella sistemazione.<br />
Tre camere e servizi al terzo piano. Case popolari. Le scale<br />
d’accesso condominiali erano scoperte, così che la pioggia<br />
gonfiava gli scalini e li rendeva più scivolosi del sapone. <strong>La</strong><br />
casa era appartenuta a un’anziana signora in origine. Te la<br />
ricordi quella, prima che le venisse un colpo di notte, nel<br />
sonno? Diceva l’una all’altra.<br />
Andiamo per ordine. All’inizio, in quella casa ci viveva una<br />
signora con la sua badante. <strong>La</strong> badante, italianissima, presentata<br />
alla vecchia da una parente, era proprio la terza ragazza<br />
della casa, quella che non era presente alla nostra conversazione<br />
perché impegnata altrove. D o v rebbe essere qui a<br />
momenti, cosa cavolo combina quella non sappiamo. Era stata<br />
impegnata a badare all’anziana proprietaria per quasi tre<br />
anni, poi quella era schiattata e con lei era venuto meno il<br />
lavoro e la compagnia. Ma non la casa. Per fortuna c’era stato<br />
il testamento olografo a far da salvagente, documento con cui<br />
l’anziana, in guerra con il mondo, aveva lasciato tutto alla sua<br />
parrocchia. Spilli e avemarie. Tutto. Con una sola condizione<br />
che la Chiesa aveva rispettato: l’affittuaria dell’appartamento<br />
al terzo piano doveva rimanere la giovane badante dai capelli<br />
colorati. Quest’ultima aveva cercato delle amiche, e si erano<br />
ritrovate in tre ad abitare quei metri quadrati per una cifra<br />
194
simbolica, che veniva versata alla Curia ogni tre mesi. Da un<br />
paio di anni, non di più. Ancora la chiesa! <strong>La</strong> Curia e il mercato<br />
immobiliare: che strano, frequente accostamento.<br />
Corietti sapeva tutto; era al corrente anche del ruolo che<br />
aveva la Chiesa in questa società di mutuo affare. Conosceva<br />
l’ambiente, lui. <strong>La</strong> Chiesa quindi c’entrava, di striscio, forse,<br />
ma c’entrava anche in questo caso. L’arcaica storia della mela<br />
e del serpente. Roba trita e ritrita, per carità.<br />
<strong>La</strong> ragazza, ormai rimasta sola nella casa della vecchia,<br />
doveva pur trovare di che sfamarsi, trovare compagnia ai suoi<br />
inevitabili sogni (ché si sogna ovunque, in via Cardone come<br />
nei quartieri popolari) e qualcuno con cui dividere le spese.<br />
Erano arrivati, così, amiche e amanti di vario genere a soccorrerla.<br />
Naturalmente, scivolando dalle mutande di cotone a<br />
quelle di pizzo, sbattute dal vento dell’antica provincia clericale.<br />
Nel bel mezzo di spifferi da sermone, appena smorzati.<br />
Delle buone amiche posso essere comode quanto un materasso.<br />
Quindi le amiche, poi anche il resto. Un po’ di uomini.<br />
Non uno, ma tanti. I soldi, pure. Ben vengano soldi e amiche.<br />
E uomini.<br />
<strong>La</strong> ragazza si era data un cadenza armonica; un ordine<br />
mentale: tutte le mattine, tranne il giovedì, faceva la fisioterapista<br />
presso un centro di riabilitazione motoria (cinesi,<br />
magnetoterapia e qualche massaggio), il pomeriggio, solo i<br />
giorni pari, c’erano i corsi di lingue; il giovedì mattina, giorno<br />
libero, dal parrucchiere. Tutte le sere, tranne la domenica,<br />
marchette.<br />
Questo era l’ultimo luogo della nostra indagine: avevamo<br />
tre vani più servizi da visitare. Ad ogni volto di donna il suo<br />
giusto regno. <strong>La</strong> cucina era abitabile e sfogava i suoi odori sul<br />
piccolo balcone assolato. Nella stessa cucina abitabile c’eravamo<br />
fermati a chiacchierare, aspettando che si ricomponesse<br />
il trio muliebre. Il Corietti, quando era ancora in vita, veniva<br />
il venerdì sera e portava una vaschetta di gelato: nocciola e<br />
bacio, con le nocciole rigorosamente intere, introducendosi<br />
in casa con grandi falcate da ballerino e facendo battute ardite<br />
sulla necessità di una dose giornaliera di baci al velluto. A<br />
volte passava anche di domenica, ma senza gelato. Era diven-<br />
195
tato uno di famiglia, non un cliente, e portava con sé gente<br />
nuova e fidata. Non credere, dottore, abbiamo fatto tutto da<br />
sole; in sicurezza però, scegliendo noi, solo noi, quello che c’era<br />
da scegliere. Hai capito, dottore: scegliendo. Ce ne sono tanti<br />
che fanno i nostri stessi affari in questa città. Si lavora bene.<br />
Noi però non siamo mogli di avvocati, architetti, medici; non<br />
giochiamo, noi. Da noi ci vengono persone semplici, che hanno<br />
pure i bisogni loro. Ci sono giri diversi, lo sai dottore, andate a<br />
vedere la sera del venerdì al Grand Hotel del centro. Tra le due,<br />
quella più in carne e più ciarliera, sembrava la più arrabbiata.<br />
Capendolo, rivolsi i miei sorrisi più tecnici all’altra. Pensai<br />
pure che potesse arrivare persino a innamorarsi di me, e del<br />
mio stile di giovane investigatore retribuito dallo Stato, giovane<br />
uomo aperto, navigato, consapevole delle verità del vivere.<br />
Pensavo che se l’avessi conquistata, sarebbe stato più agevole<br />
l’accesso alla verità. Sì, so come vanno queste cose, chiaro, sì,<br />
chiaro.<br />
Non so dire per quale meccanismo quelle due donne me le<br />
sono immaginate nude, sedute in triade sul loro sofà, un’immagine<br />
di botticelliana mollezza. Non mi capita mica con<br />
tutte le donne che incontro, lo giuro. È durato solo un istante;<br />
poi il sofà è ritornato vuoto.<br />
Quindi, in altre parole: c‘erano due opzioni sessuali cittadine,<br />
e il Corietti si era trovato nel mezzo. Lui non aveva scelto<br />
il giro dell’arabo e della sua consorte, il giro dei professionisti<br />
Burberrys nei grandi alberghi. Non lo aveva scelto o<br />
forse era stato costretto a tenersene lontano, ad accontentarsi<br />
delle tre schampiste con le mutande di pizzo. Potevano<br />
essere stati proprio certi desideri ambiziosi, sorti al primo<br />
brizzolarsi delle tempie, a causarne la morte violenta. Oppure<br />
il suo affacciarsi sul mercato immobiliare, benevolmente<br />
gestito dai preti. Oppure l’aver creduto che fosse facile catturare<br />
farfalle col retino, come la vispa adolescente tatuata.<br />
Mutande, appartamenti o farfalle?<br />
I luoghi del piacere e del bisogno si erano allargati davanti<br />
alle nostre paranoie pomeridiane di fine indagine. Quelle<br />
ragazze variopinte facevano sembrare tutto orrendamente<br />
semplice. Una presenza, un gettone: semplice e interessante.<br />
196
Mi spiego meglio. Mi avevano colpito due cose essenzialmente:<br />
il sorriso schiaffeggiato solo da un lato dalla sorprendente<br />
canicola, e gli occhi vizzi tenuti aperti con difficoltà delle due<br />
amiche. <strong>La</strong> normalità che non mi aspettavo. Anche il modo<br />
con cui avevano parlato dell’amica, momentaneamente assente,<br />
era stato illuminante; avevano descritto la terza donna<br />
come si fa con il proprio vate, con semplicità maestosa.<br />
Amiche credo. <strong>La</strong> marchetta consente quindi amicizia? Non<br />
so davvero.<br />
Ora, che c’è di così atroce nella marchetta? Io non ci vedo<br />
nulla di male; così, detto in astratto, sempre che non si tratti,<br />
nel caso specifico, di mia moglie o mia figlia. Sempre che non<br />
si ravvisi costrizione o bieco sfruttamento. Tra il lecito e l’illecito:<br />
cosa sta nel mezzo? L’immorale? L’incerto? L’acritico?<br />
Questa amicizia tra donne non aveva in sé nulla di apparentemente<br />
violento o incerto. <strong>La</strong> casa pareva normale, la vita<br />
normale. Il sesso sembrava necessario. Del resto, il sesso<br />
risponde a un bisogno primario; i clienti non mancano mai.<br />
Perché non farne un bene di consumo? Funziona: per le prostitute,<br />
come per i conciatori di pelle per scarpe. Nessuno se<br />
ne va in giro scalzo, infatti.<br />
No, non ci trovo niente di male nel sesso a pagamento, se<br />
fatto per libera scelta. Libera per davvero. Questa sì che è la<br />
vera scommessa. <strong>La</strong> libertà quando si tratta di sesso. Ci crederei<br />
se potessi crederci. Anche solo per un attimo, ammettiamo<br />
che ci possa essere libertà per qualcuno. Bene, dico io!<br />
C’è davvero qualcuno che miracolosamente sceglie qualcosa<br />
a questo mondo, che lo fa davvero? Finalmente, dico io. I<br />
problemi, semmai, riguardano la giostra di cavalli scossi e<br />
schiumosi che girano intorno all’affare. Su quelli s’appunta il<br />
giudizio. Perché qualcuno si dovrebbe sentire offeso da questo<br />
talento? Chi lo offre o chi lo riceve? Chi lo sfrutta? Sono<br />
gli sfruttatori il problema, è chiaro. E la libertà.<br />
Io sono parte di una coppia: non posso rispondere, dunque.<br />
Ho altri regolamenti a cui attenermi.<br />
Diciamolo, nelle coppie è molto diverso. Le coppie non<br />
sono roba di corpi. Macché. In alcune c’è un preciso sinallag-<br />
197
ma che passa dritto per il sesso, ma va oltre. <strong>La</strong> coppia è un<br />
affare rischioso: essere in due nel tempo è come essere in<br />
tanti. Non uno solo, ma due, e poi mille, per i mille cambiamenti<br />
di una vita. Vuoi mettere la differenza? Vuoi mettere la<br />
dipendenza? Vuoi mettere l’immensità del molteplice che si<br />
moltiplica e confonde? Vuoi mettere? È la condivisione il<br />
vero ostacolo, i codici di condivisione sopra ogni altra cosa.<br />
Ci sono sempre clausole contrattuali, lunghissime clausole,<br />
spesso il portato genetico di altri contratti precedenti.<br />
Clausole spesso non note ai contraenti o, peggio, aggiunte a<br />
matita in calce senza avvertimento. Può funzionare? Non<br />
saprei. Ci vorrebbe più libertà, per tutti. Meno desideri inespressi<br />
e più libertà. Gran bella idea! Ma che con la coppia<br />
non c’entra nulla. Nella coppia non c’è libertà, ma destrezza.<br />
Quel piccolo appartamento imbevuto d’un forte odore di<br />
Mastrolindo, non faceva pensare a onde anomale di sperma<br />
agglutinato, vomitato sui cuscini con federa di lino o a mammelle<br />
addomesticate nel pianto, o a sangue verginale versato<br />
nella violenza. L’arredo era una dichiarazione d’intenti.<br />
Niente di così perverso o complicato. Normale, appunto.<br />
Non ne ho bisogno per ora, ma se mai dovessi averne, mi<br />
affaccerei alla porta di un appartamento come questo, chiedendo<br />
una prestazione. Non come un poeta maledetto, ma da<br />
pubblico impiegato. Con normalità. <strong>La</strong> normalità del gettone<br />
di presenza, come ho detto. Credo che lo farei, non fosse altro<br />
per capire. Dovessi averne bisogno un giorno.<br />
Per un uomo è più facile accettare cose di sesso come queste;<br />
che sia perché per tradizione secolare fruiamo della prestazione<br />
e quindi la riteniamo un diritto acquisito? Non so<br />
cosa ne penserebbe Angela, considerato che le donne spesso<br />
non comprendono le donne. Non credo che lei possa accettare<br />
l’idea del sesso a pagamento, veramente libero in un libero<br />
mercato. Suona falso come uno slogan elettorale. Mi crederebbe<br />
un romantico idiota. Non riuscirebbe mai a considerare<br />
il sesso una merce lieve e trasferibile. Non credo. Non crederebbe<br />
mai a una fantasia maschile come questa. Non mi<br />
crederebbe se pure le giurassi che è così. Magari ha ragione<br />
198
lei. Però non vale: lei s’illude di conoscere le donne per il solo<br />
fatto di esserlo, di avere uno specchio, ma non so quando<br />
possa averle davvero conosciute, le donne dico, dal momento<br />
che appena può, davanti a un essere del suo stesso sesso,<br />
scappa. Non ascolta, perché ritiene di aver già ascoltato. Poi,<br />
però, se qualcuno si azzarda a dire qualcosa sul tema, soprattutto<br />
se a sentenziare è un uomo, lei scatta come una molla;<br />
parte in quarta, il mio avvocato, nella difesa strenua delle<br />
meraviglie del gentil sesso, delle loro infinite risorse, dell’intelletto,<br />
dei crediti, delle grazie, dei sacrifici delle donne tutte.<br />
Investita del ruolo per nascita e storia. Senza riserve, spara<br />
con il bazuca, non si limita a una battutina di quieto disappunto,<br />
no, s’incazza davvero, urla e strepita, per essere certa<br />
di non dover tornare poi sull’argomento. Si premura di fare<br />
assoluta chiarezza sul punto scabroso una volta per tutte,<br />
come avesse compreso di essere stata investita, solo lei e non<br />
altre paladine, di questo compito ingrato: difendere tutte le<br />
donne del mondo. Spara forte, così che non ci sia contrattacco,<br />
ma solo sbalordimento. Spara una volta sola, per lei e per<br />
tutte le altre. Ma poiché una volta sola non le basta mai, dopo<br />
spara ancora.<br />
Poi, fatto il suo dovere, pretende che ogni altra donna taccia,<br />
che non rompano le balle le altre galline, mentre lei si<br />
riposa.<br />
Curioso fenomeno umano il neofemminismo.<br />
Angela non si trucca, non mette tacchi, niente profumi,<br />
niente perle al collo; non si accanisce contro la sua cellulite<br />
come fosse un parente odioso. Anzi, ne parla con rispetto.<br />
Certe volte non sembra nemmeno una donna. Però parla<br />
delle donne, se le capita. Ma così non vale. Crede di essere<br />
meglio delle altre, secondo me, e non è cosa buona. Credono<br />
tutte così, sotto sotto.<br />
Vale la pena che mi soffermi un attimo sul tema: le figlie<br />
d’Eva. <strong>La</strong> difficoltà non è nostra; è celata nei rapporti tra<br />
donne, sotterrata sotto le lenzuola materne. Gli uomini ne<br />
restano fuori, ai margini. Come se il mondo fosse ancora e<br />
sempre diviso in due fazioni avverse. Io la vedo così. Angela<br />
non è d’accordo. E poiché il mio progetto di vita generale<br />
199
comprende una grande attenzione agli ostacoli, meglio stare<br />
all’erta.<br />
Per fortuna tra uomini ogni relazione è più piana, niente<br />
onde, solo collegamenti diretti, immediati, giusto qualche tiro<br />
a sproposito, una specie di partita a ping-pong. Mentre invece<br />
per le donne, la vita è una ricetta strapiena di ingredienti,<br />
spesso da tenere segreti. Non sempre il risultato finale è piacevole<br />
al palato, ma deve restare un segreto. Non capisco perché,<br />
ma è così. Ho sentito donne rivelare ricette portentose<br />
per la preparazione di piatti esclusivi, tacendone in malafede<br />
un solo ingrediente fondamentale. Prendo le distanze da certi<br />
trucchi.<br />
Una coperta bollente, le donne, anche le più affascinanti.<br />
Asfissianti. Soprattutto quelle che non lavorano. Non potrei<br />
vivere accanto a una casalinga, per esempio. Quelle sono sempre<br />
in guerra con qualcuno, di solito altre donne parimenti<br />
armate. Stanno ritornando di moda, le casalinghe.<br />
Pericolosissime. Mi imbarazza il debito del loro mestolo, che<br />
smuove l’aria domestica. Dio ci tuteli dalle donne infelici,<br />
come da quelle troppo felici o che si credono tali, comunque.<br />
Dio ci salvi da tutte, compresa la vecchia pazza, la vedova<br />
proprietaria della libreria o la culona della farmacia, ma non<br />
da Angela; per forza: lei è un’altra storia.<br />
Con quegli occhi da nuvola rubati chissà dove. Il complimento<br />
non è mio, purtroppo, ma di un geometra. Questo<br />
gentleman in ciabatte se ne venne fuori con la frase da<br />
manuale mentre stava rifacendo i bagni della nostra nuova<br />
casa, dirigendone i lavori. Signora, dove li hai rubati quegli<br />
occhi? Aveva detto a mia moglie, appena sveglia, che faceva<br />
finta di niente. Con tutto il rispetto dottore, mi permetto, aveva<br />
detto a me, mentre bevevo un caffè amaro. Gli operai in casa<br />
sono un grosso problema, un’invasione primitiva. E primitivo<br />
sono anch’io.<br />
È facile parlare di crisi di coppia. Facile. Che ci vuole: crisi<br />
e sei libero. Una commedia americana, una sintesi per la tv.<br />
Ma finiamola!<br />
Non noi. Non io. Non Angela. <strong>La</strong> fortuna non c’entra. Io<br />
odio il concetto di Caso, che la gente debole utilizza a vanve-<br />
200
a per ammorbidire l’esito di certi voli verso il basso. <strong>La</strong><br />
Società? Macché. Balle. Qui si tratta di lavoro. E duro. O le<br />
cose uno le vuole o non le vuole. Altro che storie. Altro che<br />
giovinezza. Ecco. Gli occhi di mia moglie, da ladra: guai a<br />
guardarli troppo a lungo, guai a non guardarli troppo a lungo.<br />
È un fatto di tempi e misura. Bisogna farci la mano con<br />
Angela. Bisogna misurarsi con lei. È questo il mio lavoro,<br />
adesso. Non prendo nessun progetto sotto gamba. Sono<br />
andato troppo avanti per tornare indietro. Mi sono spinto<br />
troppo oltre per arrivare a capire, ora, che non siamo capaci.<br />
Noi, quelli della mia generazione intendo, incapaci. È di questa<br />
incapacità latente che dobbiamo aver paura. Da questa<br />
idea dobbiamo tenerci lontano.<br />
Non potevamo disturbare oltre la quieta siesta delle signorine.<br />
<strong>La</strong> lampadina sul prospetto frontale dell’immobile era<br />
spenta. Fredda con i suoi rivestimenti in metallo, se ne stava<br />
sulla porta d’ingresso, non si poteva non notarla anche se<br />
spenta. Aveva la stessa forza di un rumore improvviso. Ma noi<br />
non potevamo restare. Del resto tutto quel sole all’improvviso<br />
dopo le lastre di vetro plumbeo che riflettevano grigio, grigio,<br />
grigio, solo grigio, era sembrato giusto un regalo. Piccolo<br />
breve regalo per povera gente. Ci congedammo.<br />
Sentiamo di nuovo il Pace a questo punto, che dici? Un’altra<br />
volta soltanto e poi basta. Per forza. Le loro telefonate, l’eventuale<br />
incontro con la vittima la mattina del delitto, ma poi<br />
basta davvero.<br />
Il grande capo se ne volle andare; io non riuscii a far innamorare<br />
di me nessuna delle due graziose giovinette, credo.<br />
Quindi scendemmo rapidi le scale scoperte, dopo aver dato<br />
un ultimo sguardo ai quieti cardellini. Nessun messaggio per<br />
nessuno. Arrivammo in città in un fulmine. In tutta onestà,<br />
non era solo Agrimi a essere miracoloso; era una questione di<br />
strade. Le strade del nord sono diverse da quelle del sud.<br />
Parliamone allora. Delle strade del sud, intendo.<br />
Parliamone, perché nella vita di un individuo, di una città<br />
intera, le strade non sono cosa da niente. Le strade sono vita,<br />
201
oltre che strumento. Qui dove vivo ora, con mia moglie, per<br />
fortuna c’è il telefono, c’è il web, c’è un cavolo di fax, c’è pure<br />
la televisione, ma non ci sono strade percorribili in un tempo<br />
ragionevole; che non paia un viaggio alla Verne, insomma. I<br />
pendolari sono in agonia. Siamo carichi di assicurazioni sulla<br />
vita e lapidi di marmo con foto e rose finte sul ciglio delle<br />
provinciali, dopo calamitose curve a gomito. Le ultime curve<br />
prima dei saluti finali.<br />
Ieri, per dirne una, in un angolo di strada bianco di pietrisco,<br />
c’erano un paio di manifesti funebri con la scritta in grassetto<br />
al centro: CIAO DARIO. Poi uno striscione, poco più<br />
in là, riportava in stampatello l’estrema idiozia: NON CHIE-<br />
DIAMOCI PERCHÉ. No, chiediamocelo invece!<br />
Sembra un piano preciso e diabolico: tenerci lontani,<br />
tenerci immobili. Strade impossibili, dimenticate, raramente<br />
sfregiate da uomini in arancio, autostrade gratuite, con lavori<br />
sempre in corso, ma prive di segnaletica, un solo aeroporto,<br />
più simile a una pista per le biglie di vetro, con un solo volo<br />
e una sola compagnia a disposizione, a prezzi sbalorditivi.<br />
Solo il clima ci aiuta, o perlomeno ci aiutava in passato, ma<br />
nessuno se ne accorge quasi più, eccetto i rilevatori elettronici<br />
della velocità con i loro occhi cinici.<br />
Occhi, paletta e divisa: ecco l’unico rimedio consentito.<br />
Quelli sono degli aggeggi demoniaci. Li vedi sbucare all’improvviso<br />
dai cancelli di inquietanti ville private, i cui proprietari<br />
si vendono al nemico per chissà quali tornaconti.<br />
Emergono come mostri marini, da finti cespugli di ginestra,<br />
alla fine di rettilinei noiosissimi, che invogliano alla volata o al<br />
sonno, e costringono alla frenata fumante. Pericolosissima.<br />
Solo tra i guidatori residua ancora un briciolo di solidarietà,<br />
non di certo da parte dell’amministrazione pubblica, che<br />
invece pensa solo a riempire le casse con multe strepitose e<br />
che alla sicurezza costante del cittadino preferisce l’agguato<br />
occasionale, ben più redditizio.<br />
Tra automobilisti ci si avvisa a colpi di abbaglianti. Il resto<br />
è terrore e preghiera.<br />
Tutto appare ancor più difficile in estate. Ho fatto uno studio<br />
accurato sui vacanzieri immobilizzati. Ogni altro luogo è<br />
202
lontano da qui, per questo la lontananza ci atterrisce.<br />
Ammazzeresti pur di ridurre le distanze. Sulle strade non si<br />
sono più nemmeno le nigeriane, che si sono rotte di non<br />
veder passare un ombra d’uomo. Non viaggia più nessuno e<br />
chi lo fa (o per scappare o per lavoro o perché non è del<br />
posto), non può conservare di certo il pene eretto così a<br />
lungo. È un fatto chimico: lo stress ferisce gli ormoni; l’eternità<br />
li uccide. Non ho dubbi, qualcuno tenta deliberatamente<br />
di impedirci di comunicare, di riprodurci. Tenta l’isolamento.<br />
Ha paura di noi.<br />
Mi feci accompagnare a casa per poter ripartire subito<br />
dopo.<br />
Al rientro in ufficio, dopo aver trascorso un fine settimana<br />
lento come un lago, con la mia Angela, trovai che Ietta aveva<br />
già ascoltato il Pace, come aveva minacciato di fare in precedenza.<br />
Per l’ennesima volta, e tutto da solo.<br />
Mi fece leggere l’ultimo verbale. Le ultime domande, il<br />
fuoco incrociato rivolto a una larva d’uomo, ormai annientato<br />
dall’isolamento sociale, dal disprezzo muliebre e, non ultimo,<br />
dall’astinenza forzata, miravano a svelare definitivamente<br />
l’esistenza di eventuali legami tra il ragazzo e il farmacista<br />
(e l’ombrello, mio dio quell’ombrello!). O, eventalmente, tra<br />
il ragazzo e la Curia.<br />
Ietta voleva ritornare sul concetto “donnine”, giacché era<br />
una fatto fresco, e poi chiudere bottega. Così aveva proceduto.<br />
L’ultima spiaggia, l’ultimo conato investigativo del gran<br />
capo, ormai spossato dalla solitudine.<br />
Al chiudersi di una giornata di lavoro, il capo mi chiedeva<br />
Cosa fai stasera? Qualunque cosa rispondessi, faceva segno di<br />
sì con il mento, spingeva avanti il braccio destro a bloccarmi,<br />
l’altra mano ancora in tasca, come non fosse capace di sostenere<br />
tutta la verità e poi strizzava l’occhio in segno di complicità.<br />
Spossato ma non asciutto.<br />
Mi chiedeva spesso di fargli delle sintesi, di sostituirlo in questo.<br />
Sintesi delle parole su carta; sintesi delle impressioni del<br />
capo in cerca di salvezza. Dunque, vediamo cosa altro posso<br />
ricordare di quell’ultimo interrogatorio dell’amante.<br />
203
1) Il Pace conosceva il farmacista straniero perché tempo<br />
prima gli aveva consigliato un analgesico molto efficace contro<br />
il mal di testa di cui soffriva. Avevano fatto una lunga<br />
chiacchierata sul tema. Ed era così venuto fuori, anche questa<br />
volta, il mal di testa. Figurarsi. Una vera epidemia. Questo<br />
spiegava in parte la presenza di quella confezione nella tasca<br />
del grembiule della vittima. Era un rimedio al suo amore.<br />
Inspiegabile il ridondare dell’emicrania. Corna? Senso di<br />
colpa? Smemoratezza? Tutto il disprezzo del mondo a pesare<br />
più di un macigno sulla testa di qualcuno? Si amavano e si<br />
preoccupavano ciascuno della salute dell’altro, come è giusto<br />
che sia, e poi, è noto, l’emicrania non fa bene all’amore e va<br />
curata, ché non diventi una scusa. Quindi il giordano aveva<br />
allontanato il dolore, cioè aveva fatto solo il suo mestiere, perché<br />
qualcuno gli aveva chiesto aiuto. Il dolore era nelle cose<br />
e forse era enorme. Il farmacista aveva avuto a che fare con<br />
questo dolore terrifico, ma teneva la bocca chiusa.<br />
2) Il Pace diceva di non essere il proprietario dell’ombrello,<br />
né lui, né la vittima, forse la signora Florio, forse lei, aveva<br />
detto distrattamente.<br />
3) Il Pace escludeva categoricamente qualsiasi contatto<br />
con la chiesa. Era ateo, miscredente, bestemmiatore, uno<br />
sporco traditore, un imbecille, un vile, un immorale. Ne disse<br />
di tutti i colori, odiandosi profondamente, nel più contrito<br />
dei pentimenti.<br />
Nella città che mi ospitava credere in Dio non era necessario.<br />
A casa mia, invece, ci sono altre necessità e una di queste<br />
è ancora Dio. Cosa voglia dire essere credenti davanti a<br />
un omicidio, tuttavia, resta un enigma. Dalle mie parti impera<br />
Padre Pio: è lui la risorsa fondamentale, lui la soluzione;<br />
una necessità per molti. Il grande mediatore. Di recente ho<br />
ascoltato una cimice all’interno dell’autovettura di uno spacciatore<br />
che da mesi tenevo sotto controllo. L’uomo era appena<br />
passato indenne da un posto di blocco. Era in macchina<br />
con un collega dall’accento duro e metallico come un trapano<br />
e commentava la fortuna del momento. Quello è stato<br />
P a d re Pio. Lo diceva senz’ombra di dubbio. Era una vera<br />
204
professione di fede. Il mestiere non conta, quando si è uomini<br />
devoti.<br />
Il Pace aveva fatto mettere a verbale tutte le sue adolescenziali<br />
attese sul futuro, percepite in senso vago, come un sogno<br />
fatto dopo aver bevuto, eppure spaventosamente necessarie.<br />
Gli omosessuali sono gli unici che dopo i trentacinque anni<br />
possono permettersi di conservare la fresca ingenuità dell’adolescenza.<br />
Nessuno può farlo, se non loro. Oltre ogni sforzo<br />
fisico. <strong>La</strong> loro è un’adolescenza insidiosa perché permanente.<br />
Bellissima e truce. Bolla d’abbandono in cui un essere<br />
umano riesce ad amarsi, a preservarsi, a rendersi leggero, solo<br />
finché crede di essere il prediletto, l’indispensabile. Basta uno<br />
spillo, e diventa merda secca tra le altre. Il Pace cercava di<br />
continuare a desiderare qualcosa, nonostante tutto quello che<br />
era successo, ma non doveva essergli facile. E poi, se un<br />
pover’uomo non fa almeno quello, sperare cioè, allora è già<br />
bello che morto.<br />
Stava cercando un nuovo lavoro in una di quelle catene di<br />
supermercati, che facevano periodicamente selezione di personale.<br />
Metteva passi titubanti uno davanti all’altro. Per ora in<br />
prova tre mesi al banco latticini e poi chissà. Nell’agenzia<br />
postale presso cui aveva fatto vigilanza fino ad allora, per conto<br />
di una ditta privata, non era più ritornato da quel dì fatale.<br />
Dopo una settimana, l’avevano buttato fuori con una lettera<br />
per niente comprensiva, che il Pace aveva letto a salti, solo le<br />
prime dieci righe, e subito dopo dimenticato sul lavandino a<br />
raccogliere schizzi di dentifricio al fluoro. Era rimasta lì per<br />
giorni, senza che nessuno trovasse la forza d’archiviarla altrove.<br />
Doveva ricominciare. Anche il peggiore dei giorni vede il<br />
suo tramonto, diceva Shakespeare; lo aveva intuito anche lui<br />
in fondo alla sua notte, e quindi deve essere vero. Doveva<br />
ricominciare con le sue sole forze, sotto una gragnola di giudizi<br />
altrui.<br />
<strong>La</strong> solitudine gli si era poggiata addosso come fosse pellicola<br />
domopack: era ormai buono per il frigo. Il terrore e la<br />
sconfitta, confinati come un pipistrello che sbatte le ali, dentro<br />
la sua gola. Senza cibo; un palato privo di buon sapore. E<br />
205
un buio diverso che veniva dal basso, dai piedi, saliva svelto<br />
nella confusione, nel frastuono.<br />
Gli uomini socialmente condannati a rimaner soli,<br />
quand’anche ancora capaci di deboli attese, si riconoscono<br />
lontano un miglio; come tartarughe passano dall’acqua alla<br />
terra. Cominciano a non farsi la barba, a non lavarsi i capelli,<br />
mettono sempre la stessa maglietta, lo stesso guscio, anzi,<br />
probabilmente non lo tolgono mai, si lussano le spalle entrando<br />
e uscendo da coperte aggrovigliate, in letti su cui dormono<br />
un sonno leggero e pieno di buche profonde. Hanno tutti<br />
lo stesso odore di tappezzeria scollata, di carapace muschiato<br />
o brodo freddo, e questo marchio olfattivo, con il tempo,<br />
diventa sempre più invadente. Solo il pipistrello rinchiuso in<br />
gola può vederci chiaro. Se ne incontrano tanti in strada di<br />
uomini così. Dopo qualche mese, perdono anche la vergogna<br />
e chiedono sigarette in giro, mimandone il gesto con due dita<br />
davanti alla bocca.<br />
<strong>La</strong> quotidiana cefalea rimane tra le sopracciglia come una<br />
ruga. Fissa. Non è più una malattia, ma una qualità dell’essere.<br />
L’unica cosa certa.<br />
Eppure, ricordavo che il giorno del nostro primo incontro<br />
il Pace aveva la camicia sotto il maglione, il primo bottone<br />
sbottonato: quella piccolezza che sa ancora di dignità, di vita,<br />
appena sotto la giugulare, dove ancora batte, batte, batte il<br />
ritmo della normalità.<br />
Forse come Angela. Un po’ come Angela, oggi. Dio mio.<br />
Anche Angela da mesi cammina per casa come una lupa.<br />
Spettinata. Io lo sento che mi osserva; ci deve essere uno, uno<br />
solo, tra i suoi tanti pensieri, che la spinge verso il basso, che<br />
le serra le caviglie. E le incenerisce le parole prima che arrivino<br />
in superficie. Cerca qualcuno da acchiappare, che assomigli<br />
a un ladro, che abbia lo stesso tipo di colpe. Cerca qualcuno<br />
o qualcosa, non so. Come ai piedi di un albero enorme<br />
pieno di rami: scava scava scava, sotto le radici, per trovare<br />
l’origine della sua delusione.<br />
Due giorni fa camminava, si è fermata di botto, si è girata<br />
verso di me, che le guardavo le spalle come un guardiano, e<br />
206
ha detto: che guardi, non c’è niente di nuovo. Era Angela, non<br />
il Pace vedovo, no, era la mia Angela. Penso al Pace e a lei:<br />
queste due visioni inespressive, ma occorrenti, messe l’una<br />
dinanzi all’altra mi fanno aver paura della morte. Le mando<br />
via. Sfarfallano e si sollevano verso l’alto facilmente, come<br />
soffioni davanti a una finestra spalancata, senza peso. Angela<br />
poi ritorna, ed è la donna di un giorno diverso, quella degli<br />
inizi, quella nota a me, quella che voglio vedere. <strong>La</strong> sola faccia<br />
che sono capace di vedere, frutto di allucinazioni artistiche<br />
dovute alla giovinezza.<br />
A mio modesto avviso, quel ragazzo, innamorato e perso,<br />
che avrebbe dovuto essere tra i maggiori indiziati per omicidio,<br />
non sembrava affatto un assassino. Neanche lui.<br />
Nessun’altro più di lui, comunque. Perché pericolosi<br />
apparivano gli ambienti, certi modi di vivere e perdersi, i luoghi<br />
visitati, annusati in poche ore di vera riflessione, la loro<br />
indolenza, ma non gli uomini che li abitavano.<br />
Eppure, sul provvedimento conclusivo delle indagini, il<br />
sostituto procuratore ci doveva scrivere un nome, al più due<br />
nomi, e non la piazza centrale, il quartiere, magari la via arricchita<br />
dal numero civico. Persone, non oggetti. Non stati d’animo.<br />
Non si poteva punire la provincia e la sua vita sommersa.<br />
Non le opinioni, le ossessioni. Non le manie, le perversioni.<br />
Neppure le delusioni. Neppure il silenzio. Che inadeguatezza!<br />
Una vera mazzata per le abitudini di Ietta. E per il mio ossessivo<br />
bisogno di certezze.<br />
Un nuovo giorno deludente. C’era che, dopo la lusinga del<br />
sole del giorno prima, aveva ricominciato a piovere e Ietta<br />
doveva portare a spasso il suo cane, così come aveva raccomandato<br />
il veterinario durante l’ultima visita di controllo, al<br />
fine di preservarne, con un po’ di movimento, l’eleganza e lo<br />
scatto delle linee. Se si fosse separato dalla moglie, al capo<br />
sarebbe toccata, senza alcun dubbio, la piena responsabilità<br />
dell’animale e della sua forma fisica. Avrebbe ereditato il peso<br />
della bestia e la sua imperdonabile bellezza. Si stava preparando<br />
a quel momento, faceva pratica. Il Dalmata era sfuggito<br />
a Crudelia. Ora toccava a lui. Di quello poteva essere certo.<br />
207
Portarlo a zampettare nel fango, giorno dopo giorno, però,<br />
senza altre ragioni, se non la bellezza, non era per niente un<br />
pensiero allettante.<br />
Meglio scegliere un cane brutto, quindi. Quand’anche<br />
dovesse prendere chili in eccesso, per l’indolenza del padrone,<br />
o il pelo diventargli duro come quello di un cinghiale, a<br />
causa di inconsapevoli sviste alimentari, nessuno se ne accorgerebbe,<br />
nessun animalista si sentirebbe in pena. Più prudente<br />
organizzarsi in modo tale da aver poco da perdere.<br />
Nonostante ciò, anch’io ho preso per me un cane bellissimo<br />
e ne sono diventato schiavo amorevole. Anni dopo la<br />
morte del Corietti. Una bestia statuaria dai guaiti melodiosi e<br />
dall’intelligenza quasi umana. Pigrissimo ed elegante. Per<br />
anni non ho fatto che parlare del mio pastore tedesco.<br />
Assediati dai miei racconti, tutti fingevano interesse. Alcuni<br />
dicevano che lo stavo sostituendo al figlio che ancora non<br />
avevamo, ma non era questo il punto. Affermazione scontata,<br />
direi. Avete mai provato a far entrare nella vostra casa qualcosa<br />
di bello, di più bello di voi, di invincibilmente bello? E<br />
diventarne custode? Un cane, un quadro, una moglie, un<br />
padre, avete mai provato? <strong>La</strong> bellezza impone degli obblighi,<br />
sempre; i figli non c’entrano. O meglio, vale anche per i figli,<br />
è chiaro, ma sono realtà diverse. Ogni bellezza è unica a suo<br />
modo.<br />
Dopo il suo secondo compleanno, ho intrapreso una lunga<br />
e deludente ricerca della compagna ideale per l’accoppiamento.<br />
Avendo scelto un maschio per orgoglio, nessuna femmina<br />
risultava alla sua altezza. Del mio cane apprezzavo le pupille<br />
frenetiche, l’assolutezza degli sguardi. E l’alito, persino l’odore<br />
del suo alito appestante. Mi facevo lappare i piedi dalla sua<br />
lingua enormemente ruvida e poi li annusavo estasiato: odori,<br />
solo odori, non parole, perché c’era uno scambio, ma di una<br />
tale completezza, da non potersi esprimere verbalmente. <strong>La</strong><br />
bestia, per ricambiare, riempiva i divani di Angela di zampate.<br />
L’ho fatto accoppiare due volte e, in entrambi i casi, la<br />
femmina prescelta ha dato alla luce un solo esemplare, privandomi<br />
del piacere di dover decidere come sistemare i cuc-<br />
208
cioli. Davvero pigrissimo, il mio cane. Risparmiava le sue<br />
energie e amava surriscaldarsi le zampe davanti alle lingue<br />
tremule del camino. Voleva solo me. Si faceva mettere il guinzaglio<br />
per una passeggiata solo se ero io a infilarlo al suo<br />
collo, pelosa ciambella dai colori digradanti. Non aveva altri<br />
bisogni, se non me. Inglese nello stile anche quando faceva i<br />
capricci. <strong>La</strong> bellezza ti frega. Anche quando non è più per<br />
casa, continui a vederla, a desiderarla, a intuirla ovunque. Ed<br />
è comunque colpa tua quando se ne va, perché la bellezza<br />
non ha responsabilità. <strong>La</strong> bellezza è sempre innocente.<br />
Il mio cane si è spento serenamente, ormai prossimo alla<br />
vecchiaia, quando era ancora di una grazia disarmante. Si è<br />
spento di notte, pago di tutta la mia dedizione, con il muso<br />
piantato nella gramigna del giardino su cui aveva sempre vissuto.<br />
Il naso gli si è asciugato ed è morto. A guardarlo steso<br />
lateralmente, come nel sonno, sembrava dello stesso vigore di<br />
sempre. Seppellirlo con lapide e foto sarebbe stato più che<br />
giusto. Impossibile però. Nessuno si occupa di seppellire i<br />
cani, salvo che non siano morti in strada. Neppure a voler<br />
pagare: nessuno ti aiuta a scavare una fossa tanto profonda da<br />
cancellarne ogni memoria. Esistono surreali prescrizioni<br />
comunali a riguardo. Per questa ragione chiesi a un conoscente<br />
di far finta che fosse morto in strada, e farne un mucchietto<br />
di cenere. Ho scavato con entrambe le mani. Ho fatto da<br />
me. Persino Angela ha scavato un po’; lei che si era sempre<br />
dichiarata convinta che un cane non potesse sostituire un<br />
figlio. Infatti, dico io. Lui era un cane. Ma che vuol dire? È<br />
amore e nasce dal bisogno, proprio come tutti gli altri tipi di<br />
amore. Che cosa c’è di terribile o riprovevole in questo?<br />
Ietta voleva fare i suoi paragoni. Lui amava questi giochi<br />
mentali. Era uno di quei tipi che in spiaggia fanno il cruciverba.<br />
Ha un approccio scientifico. Non quanto me, è vero, però<br />
ha anche lui bisogno di certezze elementari. <strong>La</strong> giustizia è<br />
spesso costituita da piccole cose, piccoli risultati. Così comparò<br />
il Pace a un cane domestico, ed escluse la sua colpevolezza.<br />
Non si sa mai: a volte le similitudini risultano utili alle<br />
indagini.<br />
209
Il Pace, quindi, per Ietta, era simile a un cane di razza che,<br />
allontanato dal padrone, comincia a perdere il pelo a ciuffi.<br />
Non si ammazza un buon padrone, ma forse ci si libera di<br />
uno cattivo. Non so. Un cane non ammezzerebbe mai il suo<br />
padrone, il capo branco; fosse anche il demonio, lui non lo<br />
capirebbe. Che padrone era il Corietti? Quanto e come entrava<br />
l’amore in questo crimine? Quanto l’amore, il corpo, l’istinto,<br />
e quanto l’occhio intransigente delle quattro mura che<br />
circondavano la città? Non lo sapevamo.<br />
Ietta, quell’ultimo giorno di indagine ufficiale, lasciò<br />
prima del solito l’ufficio. Aveva quella faccia smarrita che<br />
lascia sfuggire pezzi di pensiero che si attaccano alle cose, alle<br />
finestre; frammenti che fanno credere a formulazioni logiche<br />
complesse, mentre sono solo il ripetersi ossessivo di una serie<br />
di fotogrammi insignificanti. <strong>La</strong> moglie crudele, il figlio taciturno,<br />
il cane che ingrassava, lo straordinario di Agrimi, la<br />
pioggia. Frammenti di Ietta. Andò via come fosse una forma<br />
di protesta, scese le scale quasi senza salutare, coi pensieri che<br />
premevano fin sotto le labbra e le assottigliavano di rabbia e<br />
forzo da contenimento.<br />
Uscì e, nonostante piovesse, portò al parco il suo Dalmata.<br />
Un fatto privato. Senza autista pertanto, ma con il suo cappello<br />
calcato forte sulla fronte. Il cappello in sé non pareva un<br />
fatto singolare. Tutti in strada avevano il cappello, ma nessuno,<br />
mi raccontò, aveva un Dalmata al guinzaglio quel giorno<br />
di pioggerella senza cura.<br />
210
XIV CAPITOLO<br />
…ed ecco perché non crederò mai più<br />
in nessuna delle cose che pensi,<br />
per non parlare di quelle che dici.<br />
Richard Yates<br />
“Stava malissimo. Ah, se lo vedevi, oh, dico: malissimo!”<br />
“Poveraccio”.<br />
“Dice Ietta che l’atteggiamento del ragazzo gli faceva pensare<br />
a quello di un cane”.<br />
“Niente di originale, mi pare. Non ha grande fantasia questo<br />
tuo giudice, mi pare”.<br />
“Però è vero”.<br />
“Sì, d’accordo. <strong>La</strong> solita storia del cane bastonato. Mi sembra<br />
un’immagine banale”.<br />
“Banale o no, è così. Cane per dire cane, così per schematizzare!”<br />
“Non hai detto che c’è pure quella storia della casa delle<br />
prostitute che appartiene alla chiesa? È un fatto curioso.<br />
Molto più interessante dei cani, mi pare. Che ci fa la chiesa<br />
con tutte queste proprietà? Quante case! E il giro di prostitute?<br />
Non ci vedi una contraddizione? Hai detto che avete fatto<br />
un giro in Curia, mi pare?”<br />
“In effetti è vero: ci sono troppe case in questa storia”.<br />
“E quindi?”<br />
“Quindi?”<br />
“Dico, quindi che fate?”<br />
“Abbiamo assunto informazioni da qualche personaggio secondario.<br />
Così. Magari venivano fuori fatti piccanti che il clero voleva<br />
tenere nascosti. Che ne sappiamo noi. Lo sappiamo? No. Ci abbiamo<br />
provato, ma non è servito a niente. Non sto neppure a dirti”.<br />
211
“Niente? <strong>La</strong> città in cui lavori è chiusa a chiave”.<br />
“Ma secondo te quale è la verità? Ti sei fatta un’idea?”<br />
“A chiave, a chiave”.<br />
“Ce l’hai un’ idea, sì o no?”<br />
“E le case? Non mi hai detto nulla delle case. Prima tu<br />
dimmi delle case, poi ti dico io”.<br />
“<strong>La</strong>scia perdere per un attimo”.<br />
“Ma è importante, invece”.<br />
“D’accordo, ma non ci sono elementi per ora; per le case<br />
intendo. Dammi la tua idea sull’omicidio piuttosto, dai!”<br />
“Ma non dici sempre che le opinioni non servono a niente?<br />
Secondo me, sono i preti i veri responsabili; e te l’ho detto<br />
sin dall’inizio. Ma a che serve con te?”<br />
“Perché hai quel tono?”<br />
“Quale tono?”<br />
“Hai qualcosa?”<br />
“Niente. Che vuoi?”<br />
“Perché hai quel tono?”<br />
“Di cosa cavolo parli adesso?”<br />
“Quel tono sbrigativo”.<br />
“Forse ho sonno. Ho sonno. È pure tardi, no? Telefoni<br />
sempre così tardi la sera. E comunque parlavo dei preti”.<br />
“Va bene, i preti, e il fine passionale dove lo metti?”<br />
“Bella però la storia tra la vittima e quel povero disgraziato!”<br />
“Bella? Non è mica detto che quello tra il morto e il Pace<br />
fosse amore. Si fa presto a dire amore. Magari era solo sesso<br />
e pure violento. Che ne sai?”<br />
“Il sesso è spesso violento”.<br />
“Non mi pare”.<br />
“Dici? Mah!”<br />
“Quindi l’amore non c’entra, secondo te”.<br />
“Non ho detto questo. Non ho parlato di amore, io. Siete<br />
voi che dovreste sapere come stanno le cose. Se è amore. E se<br />
era amore cosa cambia? Perché uno che ama non può uccidere?<br />
Tu che ne dici? Io credo che sia successo qualcosa di<br />
grave tra i due, qualcosa che non siete riusciti a scoprire per<br />
ora. Ma di molto, molto, molto grave”.<br />
212
“Chiaro: mica si ammazza per quisquiglie. Deve essere di<br />
sicuro un fatto grave”.<br />
“Alle volte…”<br />
“Sì, alle volte… Trentotto coltellate? Non dimenticare le<br />
modalità dell’omicidio, cara mia. Quelli sono gli unici fatti<br />
sicuri”.<br />
“…”<br />
“Che città di merda!”<br />
“<strong>La</strong> città? Queste cose accadono ovunque. Hai sentito, i<br />
giornali, quanti omicidi irrisolti? Che c’entra la città? In ogni<br />
caso, te la sei scelta tu, la città. Ma non mi fare dire sempre le<br />
stesse cose”.<br />
“Hanno trucidato un uomo e la gente qui ne parla quasi<br />
come di un accadimento quotidiano. Bell’ambiente! Ma io<br />
non lo sapevo, quando sono venuto qui, che era così. E, tra le<br />
altre cose, mi rode ancora il fatto dell’ombrello sporco di sangue.<br />
A te non ti rode?”<br />
“Che hanno detto di preciso le analisi?”<br />
“Niente DNA. Siamo senza. Non è stato identificato.<br />
Nessuna impronta sull’ombrello, e la moglie del Pace ha confermato<br />
che l’arnese non è loro. Potrebbe essere dell’assassino,<br />
ma non…”<br />
“Tu pensi che la soluzione stia nell’ombrello?”<br />
“Sai la cosa strana? Un rilievo ematico del piffero! Scusa,<br />
questo mago del crimine riesce a non lasciare un solo globulo<br />
rosso sul luogo del delitto, e poi intinge la punta del suo<br />
ombrello direttamente in un’arteria? Scusa, non ha senso. Se<br />
il sangue sull’ombrello non è del morto e non è di nessun’altro<br />
dei soggetti noti, allora di chi è? Come mai si trova sull’ombrello?<br />
Sia chiaro: non abbiamo il DNA di tutte le persone<br />
che abbiamo ascoltato. Non è che la Procura possa obbligare<br />
all’esame tutti quelli che passano. Abbiamo chiesto alla<br />
città, è vero. <strong>La</strong> città dice e non dice. E noi lì, a cercare di…”<br />
“Come dappertutto, credo”.<br />
“Forse”.<br />
“Perciò. Niente”.<br />
“Facciamo un’ipotesi di ricostruzione dei fatti. Proviamo,<br />
vuoi? Giochiamo. È un gioco, dai!”<br />
213
“Gioco?”<br />
“Gioca!”<br />
“Hai bisogno di me?”<br />
“Ho bisogno”.<br />
“Dunque: il Corietti è un uomo intelligente, troppo per il<br />
genere di vita che fa. Comincia a sentir serpeggiare intorno ai<br />
suoi fianchi un lieve, ma fastidioso senso di insoddisfazione.<br />
Frequentando le tre giovani e intraprendenti amiche di periferia,<br />
scopre l’esistenza di giri più importanti, che fanno soldi<br />
a palate, giri di signore bene che si tuffano in letti gonfi di<br />
banconote, e vorrebbe unirsi al gruppo. Non riesce a essere<br />
nient’altro che quello che è, e ci soffre. Non vuole più essere<br />
un frocio qualunque, con il suo grembiulino. Gli pesa terribilmente<br />
la marginalità in cui vive. Che fare? Non so come,<br />
scopre che alcuni personaggi appartenenti al clero guidano il<br />
ritmo della danza dionisiaca; sono burattinai che agiscono da<br />
qualche nuvoletta, lassù. Perde il controllo. Vuole agire.<br />
Vittima dei suoi stessi desideri. Però commette un errore.<br />
Tipo dice qualcosa di troppo, magari ne parla con le persone<br />
sbagliate, ricatta qualcuno, magari, e di conseguenza si abbatte<br />
su di lui la più furiosa delle ire divine. Un giorno che piove.<br />
L’assassino, probabilmente di fede cattolica, dopo aver eliminato<br />
lo scomodo testimone, scopre di essersi ferito mentre<br />
aveva in mano l’ombrello, che lo impicciava non poco, e così<br />
decide di liberarsene in strada, prima di riuscire a rintanarsi<br />
al coperto, forse sotto una tovaglia d’altare o forse altrove. Vai<br />
a sapere dove”.<br />
“Va bene, questa la prima”.<br />
“Altra ipotesi: il Corietti si innamora di un prete bello e<br />
aitante; medita con lui la fuga in Australia e l’abbandono dell’abito<br />
talare. Svelato il piano, il Pace si ingelosisce, si sente<br />
ferito a morte mentre è preda di una delle sue emicranie.<br />
Assassina brutalmente l’uomo che ama, magari non c’è premeditazione,<br />
succede per errore, si scaglia contro il suo amantepadrone<br />
senza controllo; lo fa praticamente a pezzi, uccide l’amante,<br />
cioè l’uomo che lo ha liberato dalla prigionia del pregiudizio<br />
sociale, magari facendosi aiutare da un complice, ma,<br />
nella fuga, dimentica l’ombrello sporco fuori dal negozio”.<br />
214
“Interessante”.<br />
“E se lo prende la vecchia”.<br />
“Cosa?”<br />
“L’ombrello”.<br />
“Uhm… l’ombrello, sì”.<br />
“Vieni venerdì?”<br />
“È il compleanno di papà”.<br />
“Evvai! Festeggiamenti di famiglia sul prato. E se non ci<br />
venissi? Se non vengo, tuo padre diventa una bestia e non ti<br />
parla per settimane. Con me non si altera perché sono una<br />
donna; è con te che si imbestialisce. Non è bella questa differenza?<br />
Tra me e te. Quindi festa di famiglia sul prato? Tanto<br />
per cambiare. Io non ci vengo questa volta”.<br />
“Non abbiamo altro da fare. Perché non si può, visto che<br />
non abbiamo altro da fare?”<br />
“E chi lo dice che non abbiamo altro? Si potrebbe tentare<br />
di fare un figlio. Per esempio. Ma bello mio, tu, proprio, eh?<br />
Niente? Sul letto si potrebbe, invece che sul prato di papà! Ci<br />
inventiamo una scusa, se non vuoi rendere pubblica la faccenda.<br />
A tuo padre faremo capire con diplomazia che dopo i<br />
trent’anni può pure capitare. Normale. Al limite, gli chiedi<br />
brutalmente: lo vuoi un nipotino? Allora zitto e collabora”.<br />
“Devo chiedergli quanto ci darà per l’acquisto di casa”.<br />
“Dobbiamo comprare casa?”<br />
“Prima o poi. L’avevamo detto, ti sei dimenticata?”<br />
“Io lavoro gratis e dovrei pensare a una casa? Non so da<br />
che parte del letto dovrò dormire nei prossimi dieci anni e<br />
dovrei pensare a comprare casa? Ma fammi il piacere!”<br />
“In che senso, il letto?”<br />
“Se ci sei tu, io dormo a destra, se non ci sei, dormo a sinistra.<br />
Non ti sei accorto?”<br />
“E cosa cambia?”<br />
“Cambia, bello, cambia. Viviamo realtà differenti, evidentemente”.<br />
“Avevamo detto che la casa è importante. Questo non è<br />
mai stato in discussione. Non mi pare proprio in discussione<br />
la casa”.<br />
“E dobbiamo chiedere un finanziamento proprio questo<br />
215
fine settimana? Non si può aspettare un mese? Un anno?”<br />
“Ma che c’entra? Intanto preparo il terreno”.<br />
“Un nipotino farebbe tutto da solo, senza il bisogno di<br />
feste sul prato. Cosa gli regaliamo a tuo padre? Se non gli<br />
possiamo regalare un nipotino, per ora, gli regaliamo una cravatta?<br />
Un bambino o una cravatta? <strong>La</strong> cravatta è decisamente<br />
meglio. Secondo me tu pensi che sia meglio una cravatta.<br />
Non è vero? Tanto, a lui piace farsi comprare i vestiti da coloro<br />
che lo venerano”.<br />
“A proposito: vorrei una giacca di pelle”.<br />
“E quindi?”<br />
“<strong>La</strong> devi scegliere tu. Regalami un fichissimo giubbino di<br />
pelle nera per quando ritornerò a lavorare a casa”.<br />
“Ma mi spieghi per favore cosa c’entra?”<br />
“Perché i vestiti li scelgono le donne. Ha ragione mio<br />
padre su questo punto. Ti misurano, te li mettono addosso e<br />
ti ammirano. Se l’abito lo sceglie una donna è più bello. Ti sta<br />
meglio. Non so come, ma è così”.<br />
“Sì, so scegliere i vestiti. Lo so fare”.<br />
“Infatti”.<br />
“Ma nudo è un’altra cosa”.<br />
“Ma intanto un giubbino di pelle lo voglio, lo stesso. Non<br />
mi freghi”.<br />
“Voglio fare una visita dal ginecologo, ché mi sento nervosa.<br />
Dobbiamo parlarne. Mi faccio vedere un’altra volta. Mi<br />
accompagni? Tu sai trattare con i medici. Come dici? Polso e<br />
cortesia? C’è il tempo, adesso”.<br />
“Allora posso dire a mio padre che andiamo?”<br />
“Sei morboso”.<br />
“Allora?”<br />
“Individua nuovi obiettivi, ti prego”.<br />
“Sì, ma andiamo da mio padre?”<br />
“Ti prego”.<br />
“Io ti prego”.<br />
“Solo se trovi l’assassino in tempo”.<br />
“Non credo. Guarda, non credo proprio. Polso e cortesia.<br />
Smettila di sfottere”.<br />
216
XV CAPITOLO<br />
…Ma non successe nulla. Il cielo non cade per<br />
così poco. Sarebbe caduto mi chiedo, se avessi<br />
reso a Kurtz la giustizia che gli spettava.<br />
…Ma non potevo. Non potevo dirglielo. Sarebbe<br />
stato troppo tenebroso – davvero troppo tenebroso…<br />
Joseph Conrad<br />
Adesso sono qui: davanti a un semaforo. Sul sedile del passeggero<br />
c’è un faldone. Se inclino verso destra, in basso lo<br />
specchietto retrovisore, posso vederlo svettare. Contiene ventisette<br />
fascicoli d’udienza, da preparare, il cui contenuto non<br />
ricordo per niente. Sono come brutti romanzetti. Mi pare ci<br />
sia, tra le altre, una questione legata a debiti contratti per<br />
gioco. E non sono neppure tutti quelli messi a ruolo per oggi.<br />
Rosso, il semaforo. È qui che penso a quel primo omicidio,<br />
dieci anni fa; a quella città e a quella giubba di pelle taglia 48,<br />
che connota sfarzosamente l’estetica di quegli anni. Penso,<br />
mentre ho i muscoli a riposo. Un piccione, che se ne sbatte<br />
del traffico, mi tuba tra le ruote e ho la certezza matematica<br />
che, pur sgommando, non lo ammezzerei. Penso, posto che il<br />
rosso dura un tempo infinito e vuoto. Metto la cintura di sicurezza<br />
– è pieno di vigili la mattina – che mi strattona la cravatta<br />
e mi lascia una strana secchezza in gola, oltre a un mattiniero<br />
e irrefrenabile bisogno di zuccheri.<br />
Penso a quando c’era Ietta con me.<br />
<strong>La</strong>voro molto più oggi di allora. E si tratta di un lavoro di<br />
stoffa grezza, che pizzica. Sembra un’altra vita. Un tempo<br />
prebellico di cui mi piace parlare; sì, mi piace un sacco, e più<br />
passa il tempo più mi piace. Un tempo verde, in cui anche<br />
Angela, come me, stava mettendo in piedi i pezzi di qualcosa<br />
che ancora non c’era e ci dedicava tempo e cervello. Ed era<br />
molto simile all’amore la sensazione di lavorare insieme verso<br />
217
una certa direzione. Era il tempo in cui si imparava a cucinare<br />
e si pensava davvero di poter scegliere cosa diventare. Una<br />
vita in prova, prima che incominciasse quella vera; quella in<br />
cui, quando suonava il postino, non portava solo bollette.<br />
Quell’intervallo temporale, quella specie di ricreazione con la<br />
merenda, con foto ricordo; senza i denti davanti come alle<br />
elementari. Il tempo in cui tutte le affermazioni sono ugualmente<br />
degne di rispetto; in cui ogni evento è riconducibile a<br />
uno schema commentabile. Intermezzo caduco in cui la verità<br />
c’è, ma si sta bucando la suola delle scarpe a forza di far su e<br />
giù. A furia di correggersi e sbagliare.<br />
In totale sincerità, nulla è mai stato così vicino alla verità<br />
per me, nulla mai più di quell’indagine sgangherata sull’omicidio<br />
del signor Corietti, appunto. Nulla.<br />
Precisamente la verità su quell’omicidio la sentii raccontare<br />
qualche giorno dopo la chiusura delle indagini, e non usciva<br />
dalla bocca del sostituto procuratore. No. Era un discorso<br />
biascicante e scazonte, cupo più di un testamento. Era la<br />
verità della vecchia dei santini.<br />
Cosa ne era stato della storia del Corietti? Alla fine avevamo<br />
chiuso contro ignoti.<br />
Archiviazione lucida, come la lama ripulita di un’arma. <strong>La</strong><br />
stessa lama che non avevamo trovato, che baluginava alla faccia<br />
nostra chissà dove e per chi. Avevamo messo il fascicolo al<br />
suo posto, tolti i mille post it gialli che ne appesantivano la<br />
copertina, e riposto in un armadio in ordine alfabetico.<br />
Finito.<br />
Noi avevamo chiuso, ma la vecchia era ancora in giro, pallottola<br />
vagante a beccare giusto me.<br />
Ci incontrammo. Come sempre, gli elementi scenici erano<br />
quelli dell’anticamera dell’inferno: ampia scalinata, strada<br />
laterale, strisce pedonali appena rifatte, cemento grigio,<br />
superfici verticali riflettenti, a volte catrame, a volte lastroni<br />
di vetro, vapori bollenti e sinistri cigolii che venivano fuori<br />
dalle grate di aerazione sull’asfalto. Il Palazzo di Giustizia.<br />
Eccola la vecchia venire avanti, piano. Comica, accelerata,<br />
bianco e nero. Memoria balorda la mia, che dei mesi di lavo-<br />
218
o in quel palazzo, mi lascia, come un marchio tra gli occhi, il<br />
movimento nautico di una vecchia pazza, che striscia lungo la<br />
strada con dietro il corteo di una gonna a balze, sporca.<br />
Io uscivo, mentre lei era già ai piedi della scalinata. Un<br />
tizio della sicurezza la teneva sotto controllo, con lo sguardo<br />
mobile e la bocca contratta dal freddo. Mi sono frapposto,<br />
interrompendo il raggio laser che passava dagli occhi della<br />
vecchia a quelli della guardia giurata, giusto per qualche<br />
secondo. Mi sono frapposto tra la verità del tipo, che faceva<br />
tediosamente il suo lavoro, e quella della vecchia, che blaterava<br />
qualcosa a voce alta, gesticolando.<br />
Non so come, ma finisco sempre in mezzo a questi traffici.<br />
Anzi, lo so perché: le parole attirano pure me. Se qualcuno<br />
dice qualcosa, io ascolto, sempre.<br />
Infatti. Mi feci più vicino anche per vedere se la donna,<br />
nella sua follia, riusciva a riconoscere il mio viso. Neppure mi<br />
guardò. Sfrecciavano le ventiquattrore scamosciate e le scarpe<br />
marroni sugli scalini. Sono veloci gli avvocati; se ti passano<br />
accanto fanno vento anche se non hanno udienza. Veloci<br />
sono i saluti con cenni di mano. Veloci i parcheggi. Veloci<br />
anche i verbali che scrivono in udienza. Alcuni. Lei niente.<br />
Non sembrava viva tra gli altri, eppure parlava. Sciorinava<br />
senza pubblico. Eccome se parlava, anche se lenta.<br />
Urlava che il sangue trovato sull’ombrello non era il suo.<br />
<strong>La</strong> giustizia non aveva fatto il suo corso. Il sangue, il sangue.<br />
Ancora e ancora la tragedia delle macchie, che avevano alterato<br />
la sua quotidiana percezione della realtà. Un segnale<br />
rosso di sangue ancora fresco, senza croste.<br />
Nessuno, nessun cane mi vuole vicino. Tutti, a suo credere,<br />
sapevano che era malata e, quel che è peggio, avevano scoperto<br />
che Dio esisteva. Con il suo sacrificio involontario, s’era<br />
smarrito il tradizionale piacere di un atto di fede, puro e<br />
cieco. Lei aveva fornito prove inconfutabili. In barba a<br />
Sant’Agostino, era lei la prova vivente dell’esistenza di Dio.<br />
<strong>La</strong> prova era l’ombrello. Semplicemente un ombrello. Tutti<br />
potevano finalmente credere senza fatica e averne giustamente<br />
paura.<br />
In strada, frenate stridule coprivano il gracidare della vec-<br />
219
chia. Voci che si accavallavano, dentro pezzi di conversazioni.<br />
Un vigile fischiava, bucando il corpo molle della donna<br />
con una scarica elettrica, tra strane pieghe e fasce muscolari<br />
evidentemente ancora in uso, per quanto sconosciute.<br />
Braccia, gambe, zoccoli. Lui fischiava e lei si agitava. Era<br />
come presa da tiranti. Aperta e tesa. Stava sopra lo strepito<br />
degli uccelli, sopra lo stridore di freni d’auto che tentavano di<br />
travolgere l’avvocatura o uno dei tanti magistrati scomodi.<br />
Stava sopra tutto e tutti. Cercava di galleggiare. Mentre il<br />
vigile, poco in là, vigilava su ogni cosa; non solo sull’incrocio.<br />
Camminava a scatti, inciampando ripetutamente nella sua<br />
stessa rovina. I tiranti tiravano in diverse direzioni.<br />
Io assistevo come davanti a una diretta televisiva.<br />
State lontani, se non volete morire. Guardate, già mi sono<br />
caduti tutti i denti, e domani mi cadranno le unghie e poi la<br />
pelle. State lontani ché sono infetta. È colpa di questa città di<br />
assassini. Questo Tribunale non serve a niente. Non ci può<br />
salvare.<br />
Non aveva santini tra le mani. Non più. Le mani erano<br />
vuote. Palmo in su a ricevere. L’ombrello aveva preso il posto<br />
dei santini e, dopo, il nulla il posto dell’ombrello.<br />
Distruggiamo questo edificio che non serve più. Dio ci ha<br />
puniti. Mettete una bomba o appiccate un incendio. Subito,<br />
subito.<br />
Non ricordo bene, ma se la vecchia, dalla sommità dei suoi<br />
anni già spesi e dal suo margine, conosceva la realtà dell’HIV,<br />
allora voleva dire che HIV c’era. C’era davvero. Erano quelli<br />
i tempi. L’Africa. E poi, da lontano, tutte le pesti si rassomigliano.<br />
Mentre assistevo al disfarsi di un corpo in preda a sanguinose<br />
invasioni di virus letali, me ne stavo zitto, con il piede<br />
destro su uno scalino e quello sinistro sullo scalino appena<br />
più in alto, statuario e ridicolo. Non faceva differenza alcuna<br />
che a pochi metri ci fosse il mio ufficio. Mi sentivo strano.<br />
Fuori posto. Strano e impreparato. Non c’era stata ancora<br />
alcuna duplicazione genetica. Ero ancora lo stesso identico<br />
uomo sia in ufficio che in famiglia. Quindi, il fatto che fossi<br />
vicino al mio ufficio, non mi rendeva più forte, non mi coraz-<br />
220
zava. Ero ancora un uomo e basta. Ero così a quei tempi:<br />
senza fantasie professionali. Quelle sono venute dopo.<br />
Gia, l’uomo pubblico dettò le sue leggi solo più tardi. Alla<br />
fine dell’uditorato, per la precisione. All’inizio ero io, sempre<br />
io e basta; imprescindibile. Ridicolo. Solo dopo qualche<br />
tempo mi accorsi degli altri. Del mio ruolo tra gli altri, intendo.<br />
Allora ho aguzzato i sensi.<br />
Quando entravano in aula alcuni colleghi, per esempio,<br />
suonava una musichetta tipo avvio delle trasmissione, un<br />
jingle autorevole con i titoli di testa, per fare chiarezza. Non<br />
sono stupido: l’avevo percepito che la suola di cuoio di alcuni<br />
colleghi, di buona fattura italiana (di buona fattura sia la<br />
suola che i colleghi), suonava rumorosamente sul pavimento,<br />
a volerlo. Sempre più rumorosamente. Il tip-tap del<br />
magistrato. Avevo notato che il fascicolo andava tenuto tra<br />
le mani secondo specifiche modalità: la presa energica di chi<br />
l’ha posseduto; di chi vuole conservalo, tutelarlo da assalti<br />
esterni. Il fascicolo, infatti, può essere posseduto carnalmente<br />
se si è all’altezza del suo contenuto e, dopo l’amplesso,<br />
diventa senza segreti. Posseduto, ma rispettato. Non<br />
sgualcito. Non solo. Non era soltanto un fatto di portamento<br />
e scarpe, ma che anche le guance dell’uomo pubblico<br />
andavano impostate, oltre che rasate. Magari profumate, ma<br />
senza esagerare; con odori percepibili al più dall’assistente<br />
in udienza, qualora si fosse posto vicino vicino al suo giudice.<br />
Ci sono magistrati al sapore di pino d’alta montagna,<br />
quelli al gusto di tabacco, quelli verdi al gusto di muschio e<br />
lavanda, quelli che sanno di fragola; in genere quest’ultimi<br />
hanno figli piccoli e un solo bagnoschiuma in casa. Altri<br />
che, invece, cambiano sempre profumazione e non si lasciano<br />
intrappolare. Lievi e impalpabili. Oppure quelli che mettono<br />
la polvere inodore, tipo talco mentolato, persino dentro<br />
le scarpe e intorno al calzino. Non si vogliono far catturare<br />
dai nasi.<br />
Avevo visto, annusato, scrutato e capito. Allora mi sono<br />
dato un look anch’io, che non rappresentava, non sia mai, un<br />
vero schieramento: niente a che vedere con la politica o con<br />
221
le scelte giudiziarie; niente di particolarmente eccentrico.<br />
L’ho fatto per serenità.<br />
Ho preso una cadenza linguistica asciutta e grave. Tra le<br />
altre possibili. Ho fabbricato qualcosa anch’io, ho messo in<br />
evidenza quello che c’era, così da sentir dire in ufficio: no, il<br />
dottore non porta le cravatte se non ha udienza, no il giudice<br />
non beve il caffè freddo, lui solo con ghiaccio e non dopo le<br />
15. Perché l’ostentazione garbata delle proprie manie o delle<br />
proprie passioni, non è reato, anzi, è necessaria, aiuta l’identificazione<br />
con il gruppo e, nello stesso tempo, l’emersione<br />
dallo stesso; è come il rinnovo della patente: obbligatorio e<br />
periodico. Far sapere da subito chi sei, è importante. <strong>La</strong> foto<br />
sulla patente, dai diciotto anni in su, è sempre la stessa. Si rinnova<br />
o si accerta l’immutata idoneità fisica, ma la foto resta<br />
quella originaria. Però la foto ci deve essere sempre: chiara,<br />
stentorea, nitida. Se sanno chi sono e si tranquillizzano, posso<br />
cambiare in silenzio, avevo pensato. Ne ho avute di conferme<br />
in questo senso.<br />
Ai tempi del Corietti, tutto ciò non mi era ancora così chiaro.<br />
Davanti alla vecchia matta, quindi, ben prima di aver scelto<br />
il mio modo, trattenevo la solita postura casuale. Ero incerto,<br />
perché incerti erano gli altri intorno. Come veniva, veniva.<br />
Rassomigliavo ora a tizio, ora a caio. Non avevo studiato il<br />
mio caso. Un praticante senza responsabilità e con identità in<br />
transito.<br />
Stavamo, la vecchia e io, nel traffico, che se ne fregava bellamente<br />
delle sue certezze e delle mie domande. Niente da<br />
aggiungere a questo. <strong>La</strong> vecchia credeva di essere malata e<br />
con lei il mondo, che mescolava ai fatti di chiesa e di Dio,<br />
quelli del sangue, del sesso e del malaffare. Credeva di essere<br />
stata scelta a caso tra i puri, per rappresentare in terra il martirio<br />
di tutte le anime innocenti. Ecco perché non portava più<br />
con sé le immagini dei santi, per la generale redenzione. Era<br />
un inutile peso ormai: era lei l’agnello sacrificale. Diventata,<br />
per investitura divina, l’icona del martirio, bestemmiava contro<br />
il marito e i figli che, abbandonandola, avevano creato il<br />
vuoto pneumatico in città. <strong>La</strong> città era diventata per lei come<br />
222
la pancia del lupo riempita di pietre e ricucita. Stava per<br />
andare a fondo. <strong>La</strong> sua malattia, enorme, visibile, obesa, vendicava<br />
il morto e svelava il male. Tutto il male esistente. Prima<br />
della fine.<br />
Non sentivo proprio ogni sua parola, a essere sincero.<br />
Troppi rumori differenti. <strong>La</strong> sua vocetta stridula dentro l’impazzimento<br />
del traffico dell’ora di punta, veniva rapinata<br />
delle parole migliori. <strong>La</strong> strada masticava l’avvincente sermone<br />
e restituiva ben poco. Non capivo un accidente, diciamolo,<br />
pur sforzandomi. I froci, i froci, berciava lei, ma nessuno si<br />
accorgeva di nulla.<br />
<strong>La</strong> città era avvezza alla follia. Benché quel momento fosse<br />
importante e in qualche modo irripetibile, benché quello strazio<br />
urlante fosse l’unica verità possibile, l’unica passata vicino<br />
a me, l’unica disponibile, proprio lì, ai miei piedi, e l’unica<br />
che in quei mesi di lavoro non fosse mai mutata, dal primo<br />
giorno all’ultimo, nessuno faceva silenzio. A parte me, s’intende.<br />
L’assurda Cassandra non sapeva che le indagini erano state<br />
chiuse davvero, comunque. Senza assassino. Provai l’impulso<br />
irrefrenabile, da bambino crudele, di dirle: basta, è tutto finito,<br />
fiato sprecato, chiudila quella boccaccia, tra un po’ non ne<br />
parlerà più nessuno, nessuno si ricorderà né di te, né di me, che<br />
vale? Dimentichiamo ogni cosa. Quello che è stato è stato e via<br />
dicendo. Ma non lo feci. No.<br />
Chissà che cosa avrebbe detto a quel punto, se l’avessi<br />
fatto. Mi avrebbe preso a morsi, magari. Ma ai pazzi non si<br />
dice mai la verità e io non so il perché. Forse perché non ne<br />
hanno bisogno.<br />
<strong>La</strong> follia dell’ira? Discutiamone. Mi arrabbiavo in passato,<br />
ma erano occasioni eccezionali, da raccontare. Solo in quelle<br />
rare circostanze mia moglie mi mentiva; in tutte le altre era ed<br />
è di una sincerità avventata e terapeutica, da far paura. Una<br />
terapia utile spesso solo a lei. Sincera come l’acqua, ma se mi<br />
fumava il cervello, allora, cambiava sguardo e aspettava che<br />
scampasse, divagando.<br />
Da tanto tempo non accade più. Quante volte mi sarà<br />
223
accaduto in tutto? Un paio, forse tre? Non di più. Adesso ho<br />
imparato delle tecniche specifiche di dilazione e spostamento<br />
della rabbia, roba mia. Segretissima.<br />
Però, ne avrei di ricordi sull’ira di mia moglie o su quella<br />
di mio padre. Loro ne hanno avute tante di esplosioni di questo<br />
genere. E anche adesso. Come a mettersi sulla faccia il<br />
fegato, mostrarlo mentre macera, e poi urla e strepiti, spettacolari,<br />
finché la voce si appanna e la saliva si prosciuga. E se<br />
c’è un piatto frangibile nei dintorni, peggio per lui.<br />
Diventano mostri, loro, ributtanti e banali mostri. In vetrina<br />
per farsi guardare. Possono farlo perché, tutto sommato, si<br />
amano tanto da poterlo tollerare. Lo sbrego degli altri sembra<br />
una cosa normale; vicenda da esseri umani, secondo vecchie<br />
regole, fatali. Persino bello da guardare, commovente come il<br />
circo. Lo possono fare perché sono certi che passerà, certi che<br />
finirà, certi di non diventare pazzi davvero. Altrimenti non lo<br />
farebbero e cercherebbero nascondigli o cure. Come faccio<br />
io.<br />
Quando è capitato a me, in passato, è sempre stata una faccenda<br />
cupa, oltre i confini. Me ne ricordo soltanto due di storie<br />
così. Oggi è diverso, dicevo, oggi me ne sto per i fatti miei:<br />
un po’ prevenuto, guardingo, con le fasce muscolari del collo<br />
in tensione perenne, quasi con una gruccia infilata sotto la<br />
camicia. Difficilmente mi rilasso, di rado sono attraversato da<br />
picchi verso l’alto o verso il basso. Panorama mediamente<br />
piatto, ma in allarme.<br />
Angela dice che, quando accade, mi trasformo fisicamente:<br />
occhi statici che sembrano sotto anestesia locale per intervento<br />
sulla retina, rigidità degli arti, sguardo velato, pupilla<br />
dilatata, senza più una ruga sulla faccia, praticamente ringiovanito,<br />
unghie viola smerigliato, tremito evidente, labbra<br />
bagnate e gonfie. Questa è stata la descrizione fatta da Angela<br />
per celebrare il mostro nero di quelle due incazzature storiche.<br />
<strong>La</strong> prima volta.<br />
Avevo appena preso a frequentare Angela con una certa<br />
assiduità, e si era andati sulla punta dello stivale a vedere il<br />
mare. Dalle mie parti, quando ti innamoravi, scivolavi verso il<br />
224
mare quasi senza accorgertene; la provinciale, senza tagliare<br />
per i paesi, ti si infilava sotto le ruote durante i primi approcci.<br />
Parlavi di te, ascoltavi e guidavi, e a volte, se la cosa stava<br />
andando bene, mettevi un’audiocassetta nello stereo estraibile,<br />
che poi eri costretto a portare in giro con te, grande come<br />
una scatola di Ore Liete; tenevi lo sterzo languidamente solo<br />
con la sinistra, mentre l’altra mano approcciava gradualmente,<br />
mostrando tutta la sua significativa urgenza. Si veniva<br />
richiamati da luoghi più luminosi e ventilati per dare sfoggio<br />
all’eloquio tenuto in caldo in inverno. Le parole venivano<br />
fuori facili, e pure i silenzi erano più pregni se guardavi fisso<br />
l’orizzonte grigioazzurro, fuso alla roccia. Tipo Spinoza: scogliera<br />
a perdifiato, con quei picchi di salite e discese da capogiro,<br />
che la letteratura ci ruba. È il Senso, è l’Eterno, è il<br />
Destino che lo impone. Eravamo saliti fino in cima con il fuoristrada<br />
prestatomi da un amico. Era voluto venire per forza<br />
pure lui, l’amico. Così eravamo andati.<br />
Spento il motore, con lo sguardo immerso nella grande<br />
tavolozza, presi gli zaini e raggiunto uno scoglio qualsiasi,<br />
scomodo e puntuto, i sandali avevano preso a spossarsi.<br />
Mentre la terra continuava a chiamarci. C’era da salire, da<br />
sgambettare come gallinelle, da indicare, descrivere, apprezzare,<br />
e noi, piegati in avanti per bilanciare il peso, parlavamo<br />
l’uno alle spalle dell’altro, intenti nella marcia in fila indiana.<br />
Angela, in quell’istante, rappresentava tutte le donne possibili:<br />
un concetto astruso di cui sapevo ancora poco. Era venuta<br />
insieme a me su quello scoglio aguzzo, non con l’amico e il<br />
suo fuoristrada; almeno così credevo. Ne conseguiva che<br />
tutte le smancerie nei confronti dell’amico, vuoi la mia acqua<br />
da bere? Conosci il posto? Che lavoro fai? erano totalmente<br />
superflue, oltre che impreviste. Mi pungeva principalmente<br />
che lei rimanesse leggermente indietro, a fiancheggiare l’amico<br />
nella salita; che mi guardasse poco e che poco ridesse delle<br />
mie battute a fiato mozzato. Feriva il mio amor proprio<br />
soprattutto il fatto che Angela non comprendesse. Che non<br />
guardasse l’orizzonte, ma altri particolari. Mentre parlavo,<br />
usavo un tono sempre più alto, quasi urlavo così che lei potesse<br />
sentire. Parlavo inutilmente, lei non sentiva, non capiva.<br />
225
Afono io o sorda lei. Mi infastidiva sudare così tanto, esibire<br />
quella corona scura nell’incavo delle ascelle. Bere e sudare,<br />
bere e poi di nuovo sudare, come un cammello, quel mezzo<br />
litro che il paesaggio riscaldava nello zaino. Ho sempre sudato<br />
molto nei momenti di particolare impegno. Liquidi fisiologici<br />
incomprensibili per la mia donna in prova. In più soffrivo<br />
fisicamente, davvero soffrivo: mi si sforacchiavano i piedi<br />
nelle ciabatte gommate. Era evidente: avevo scelto male le<br />
scarpe da indossare, e forse non solo quelle. Mi aspettavo di<br />
dare di più, davanti a quella che si annunciava come la donna<br />
della mia vita. Delusione. Il cielo non mi aiutava e Angela non<br />
mostrava la minima solidarietà nei miei confronti, anzi, cambiava<br />
idea ogni secondo, e le mie proposte, circa il senso da<br />
dare all’allegra scampagnata, non la entusiasmavano né poco,<br />
né punto.<br />
E allora: boom! Fuoco dagli occhi rivolto al cielo, proprio<br />
nell’angolo più ameno della costa, allorché il cielo sembrava<br />
un lenzuolo pulito. Un’ira panoramica che sconvolse Angela<br />
e, credo, la fece innamorare perdutamente di me. Una folgorazione<br />
che la fece saltare di un metro più in là. Leggendolo<br />
con il senno di poi, posso giudicare quello sdegno come un<br />
impulso egoistico dissennato, ma inspiegabilmente efficace.<br />
<strong>La</strong> seconda volta.<br />
Al cinema davano un film d’essai, come ogni martedì sera.<br />
Angela e io, da qualche mese, si faceva sul serio. Si andava al<br />
cinema per spaccare in due tronconi la settimana condivisa e<br />
renderla più elastica. Lei, laureatasi con anticipo, aveva<br />
cominciato a far pratica nello studio legale dell’avvocato che<br />
aveva rappresentato sua madre nella separazione da suo<br />
padre. Uno bravo, che le faceva fare copie dei verbali d’udienza<br />
e anticipare di tasca propria i diritti di cancelleria per<br />
i ricorsi da depositare. <strong>La</strong> separazione tra i suoi genitori era<br />
stata consensuale, ma sapientemente pilotata dall’avvocato.<br />
Lui la considerava un successo, tuttavia non ne parlava mai<br />
con Angela, la cui linea cerebrale irrequieta poteva considerarsene<br />
l’utile frutto. L’avvocato conservava il fascicolo<br />
materno in un suo cassetto inaccessibile, ché sono cose riservate.<br />
Aveva paura, quello, di scoprire i suoi trucchetti tecnici,<br />
226
almeno quanto Angela aveva paura di lasciarsi andare alla<br />
felicità, e poi magari essere costretta a confessarlo ai suoi<br />
genitori, che vivevano ancora in una statica penombra. Io,<br />
intanto, vittima di un’impazienza cronica, studiavo per il concorso<br />
in magistratura, prima ancora di avere discusso la tesi,<br />
e già compravo “Il posto”, “Il disoccupato”, “<strong>La</strong>voro oggi”.<br />
Sono sempre stato uno di quelli che anticipava i compiti del<br />
lunedì durante il fine settimana. Non so aspettare. Un bicchiere<br />
d’acqua lo bevo subito fino all’ultima goccia, anche se non<br />
ho sete in quel momento, perché, prima o poi, la sete verrà.<br />
Compravo i quotidiani locali, anche per vedere cosa davano<br />
al cinema il martedì.<br />
Il martedì, dicevo, c’era il cineforum. Angela, a dieta già da<br />
allora, cenava con una confezione media di popcorn, rigorosamente<br />
senza sale. Sciamavano cicalando studenti e post lauream<br />
impegnati in ottimistiche specializzazioni, verso le poltrone<br />
di velluto, a spettacolo già iniziato, nel buio della sala,<br />
tra le sagome scure. Noi con loro. Oramai, se si sovrapponevano<br />
le nostre mani sul bracciolo, non c’erano più né stupore<br />
né palpiti. Avevo elaborato le mie migliori fantasie riguardo<br />
il nostro rapporto, elaborato piani, cominciato a costruire<br />
quella sacrosanta intimità di chi divide la stessa cella. Mi piaceva<br />
un sacco. Eravamo intimi e capitava anche che, goduria<br />
somma, si trascorressero intere mezzore in silenzio. Poi, dopo<br />
il film, ti veniva voglia di chiedere come è stato?, ed era davvero<br />
importante saperlo.<br />
Quella sera avevo scelto il film giusto. Non avevo commesso<br />
errori. A lei piacevano le storie. D’accordo la fotografia, i<br />
piani, i sapienti campi lunghi e quelli corti, ma soprattutto<br />
cercava le storie, da raccontare il giorno dopo. Possibilmente<br />
storie intense, non brevi; anche tre ricche ore di pellicola. Se<br />
un po’ tristi, meglio, ché non si ridesse troppo in sala e a vanvera.<br />
Non erano tutti uguali i martedì, sondavo prima di scegliere<br />
il film, per capire se era una giornata da sanare con una<br />
lacrima o con una risata. Era da preferire comunque un regista<br />
italiano, magari di quelli giovani e con la barbetta da intellettuale;<br />
al limite un francese, mai un americano. Che un film<br />
non doveva servire a farle sospirare ecco, sono altrove, ma<br />
227
dove cavolo mi trovo e che ci faccio qui? Al contrario, il fine era<br />
riuscire a farle sussurrare siamo tutti nello stesso luogo, io<br />
sono proprio spiccicata alla protagonista del film. Quindi<br />
meglio un regista italiano, decisamente. Alla fine della serata<br />
quello che contava era che lei sentisse che quel regista le era<br />
stato amico e complice, avendo saputo spiegarmi adeguatamente<br />
chi era. Chi era Angela. Facendole fare anche bella<br />
figura. Il film le serviva per comunicare con me.<br />
Quella sera: lacrime.<br />
Con il suo avvocato, infatti, c’erano stati dei problemi, non<br />
ricordo, e lei doveva farmi capire quali e di chi era la responsabilità.<br />
Essendo anche un po’ raffreddata, voleva farmi capire<br />
che era giù di tono, senza dirmelo direttamente, per non<br />
sentirsi troppo fragile; in sintesi voleva che capissi da solo.<br />
Magari con una buona regia a sostenermi. Quindi meglio le<br />
lacrime, senza dubbio alcuno. Già pregustavo l’effetto morbido<br />
delle lacrime sull’umore di Angela, come una birra rossa<br />
media.<br />
A conferma del progressivo consolidarsi del rapporto, le<br />
osservavo i capelli che non aveva lavato; le ciocche ricadenti<br />
ai lati, in stille opache, come bollettini meteorologici. Che<br />
meraviglia riconoscerli al tatto marginalmente unti, come il<br />
tavolo su cui si mangia. Non aveva lavato i capelli per me.<br />
L’aveva fatto per completezza. Per tenerezza. Il lavoro di<br />
mesi, produceva finalmente i suoi guadagni. Di silenzio, relax<br />
e spazzola. Intimi, veramente intimi.<br />
Nell’anticamera, sui divani, mentre scorrevano i titoli di<br />
coda dello spettacolo precedente e si sentivano gli echi smorzati<br />
di una colonna sonora tristissima, che preannunciava<br />
cinematografiche catastrofi, incontrammo un mio vecchio<br />
compagno di scuola. Era quella la catastrofe preannunciata.<br />
<strong>La</strong> sua faccia abbronzata mi colpì come un pestone. Gaio,<br />
ilare, volle che gli presentassi Angela. Era avvenuto molte<br />
altre volte in passato, quando, anche con colpi bassi, era riuscito<br />
ad accaparrarsi l’attenzione delle donne che erano con<br />
me. Perché era un vanesio svuotato come un cofanetto<br />
Sperlari. Diventava avvocato, andava a lavorare in un grande<br />
studio associato nella capitale, diventava esperto di diritto<br />
228
commerciale, imparava l’inglese e lo spagnolo; tutto questo<br />
aveva raccontato ad Angela in due minuti, usando l’imperfetto,<br />
il verbo del divenire, della continuità, dell’inevitabilità.<br />
Come avesse ancora sedici anni, quel bastardo! <strong>La</strong> sua faccia<br />
era un tradimento che si ripeteva; uno slogan imposto violentemente<br />
al ritmo dei miei martedì sera, proprio quando tentavo<br />
di diventare adulto.<br />
Mi sono sentito di nuovo basso, e ci avevo messo anni per<br />
arrivare a non sentirmi più tale, nonostante la natura remasse<br />
contro. Mi sentivo basso e scomodo sul divano concavo del<br />
cinema. Quando l’avevo visto assaltarci, per tirarmi su da<br />
quel diavolo di un divano ammazza-fidanzati e reagire in un<br />
qualche modo, avevo annaspato per qualche secondo con i<br />
piedi nell’aria, cercando un appiglio qualunque, senza sapere<br />
chi tra i presenti poteva averlo notato. Basso. Non era colpa<br />
dei divani scomodi. Lo so. Mi sono sentito quello che ero:<br />
1,65, massimo 1,67; che non è certo 1,83 o 1,86. Ad un certo<br />
punto non si può più giocare con le emozioni o con le sviste<br />
ottiche. Io ero basso, lui alto: come a sedici anni. Come con<br />
tutte le ragazze dell’universo e con tutte le tipologie di futuro<br />
ipotizzabile. Niente di nuovo. Uno ci mette anni per elaborare<br />
fantasie diverse e poi basta un divano.<br />
Ma il peggio stava negli occhi di Angela. Il peggio era che<br />
Angela cedeva. Avevo lavorato per mesi perché lei alla fine<br />
giungesse a non lavarsi i capelli per me, perché li frenasse,<br />
così come erano, in cima alla testa con un laccio di vecchio<br />
cuoio nero. Eppure. Forse questo suo scivolamento imprevisto<br />
era dovuto all’ignoranza. Lei non sapeva chi era in realtà<br />
quell’uomo. Non sapeva quanto era crudele e pericoloso.<br />
D’accordo, ma si tratta di cose che non racconti a una donna,<br />
soprattutto all’inizio. Non è che quando decidi di frequentare<br />
una ragazza, l’avverti che, se vuole restarti accanto in serenità,<br />
può fare quello che vuole, tranne dare confidenza a Tizio<br />
o Caio, nome e cognome, non deve neppure guardarli in faccia,<br />
quelli, perché ti brucia; non è che le fai l’esame d’ammissione<br />
con l’elenco di tutte le cose da non fare o non dire. C’è<br />
un limite anche al desiderio di completezza all’interno di una<br />
coppia, e che diamine!<br />
229
Così, non avendo altra alternativa, mi sono trasformato di<br />
nuovo in una belva senza tana.<br />
Quella fin qui descritta non è solo gelosia, però. Potrebbe<br />
sembrare, lo ammetto, a una prima analisi; di certo un po’<br />
superficiale. Ma non è così. È restare fuori dalle cose che contano<br />
che non mi piace. Sentirmi incapace, lontano, incompreso,<br />
smarrito come un ombrello, appunto: proprio non lo tollero.<br />
Che mi si privi di quel poco di fortuna che mi sono sudato,<br />
mi fa imbestialire. Voglio esserci anch’io. Al meglio. Ho<br />
paura che non accada.<br />
Quello, il mio amico, parlava del regista del film, brillante<br />
come uno zircone. Quella, la mia donna, rideva. Sembrava ci<br />
fosse un’intesa. Per questo Angela, che di tutte le mie debolezze<br />
non era ancora a conoscenza, assistette alla mia seconda<br />
sfuriata, inerme, ma questa volta con minor sorpresa.<br />
Alla fine, credo, mi abbia ancora più profondamente<br />
amato, quasi fossi uno di quei suoi contorti film d’atmosfera,<br />
le cui immagini più forti ti restano nel cervello invecchiando,<br />
imbevendo ogni sinapsi, e ciò che ti capita dopo, richiama gli<br />
stessi fotogrammi, solo un po’ rallentati.<br />
Questi gli unici ricordi coscienti dell’ira. Sì, qualche successivo<br />
squilibro da bilancia inceppata, qualcosa di simile a<br />
un tic al labbro o al sopracciglio, ma non autentica rabbia.<br />
Non più. Per fortuna. Non sta bene dare spettacolo, pure se<br />
funziona.<br />
Quando e se avrò l’impressione che la passione di Angela<br />
subisca un rallentamento, in futuro, forse tirerò fuori dal mio<br />
archivio quegli storici occhi di brace e li rimetterò in attività<br />
per un’altra breve, fulminante replica d’autore.<br />
<strong>La</strong> vecchia, invece, era totalmente fuori. Era ben altra<br />
cosa. Non aveva altre dimensioni da abitare se non quella<br />
della follia, lontana come era anche dal suo quartiere abituale<br />
e in evidente disagio urbano, oltre che psichico. Era lì per<br />
denunciare la sua sofferenza, ma non sapeva dove conducessero<br />
le strade che percorreva. Non si può rivelare nulla se non<br />
si conosce un percorso da fare, rifare, indicare. Era uscita in<br />
strada senza le chiavi di casa. Autodistruttiva.<br />
Solo gli altri vecchi la notavano. Qualcuno tra questi,<br />
230
pochi, addirittura rallentava, con la busta della spesa in<br />
mano, o sollevava il cappello per capire. Per gli altri, invece,<br />
non esisteva. Soggiornava nel frastuono da città senza dar<br />
fastidio. <strong>La</strong> vecchiaia non fa parte della vita che si muove ed<br />
è più attenta alle piccole cose, se riesce a vederle. Solo i vecchi<br />
guardano i vecchi. Mi è capitato, al massimo, di notare<br />
qualche vecchio bacucco contemplare i giovani o gli adulti<br />
maturi, ma ancora belli da guardare. Mentre i giovani mai.<br />
Non guardano i vecchi. Ne sono anzi disgustati. Quelle palpebre<br />
ammollate come tende di vecchio teatro, quelle pelli<br />
come percorsi saltabeccanti di grilli, quelle bocche flosce,<br />
bucate, mancanti e crespe come portoni abbattuti, troppi peli<br />
bianchi e duri come avanzi di roghi. Veramente disgustosi.<br />
Un vecchio non ti disgusta solo se, per parentela o caso, riesci,<br />
guardandolo, a ricordare che faccia aveva cento anni<br />
prima. Hanno una loro estetica tutta commemorativa. Per<br />
questo i giovani non guardano i vecchi: non se li ricordano.<br />
Non ricordano loro e non hanno ancora cominciato a ricordare<br />
neppure se stessi. Si possono fabbricare volontariamente<br />
ricordi non ancora maturi? Forse, non so. C’è qualche caso<br />
particolare, lo fa qualche scellerato, l’amante di racconti dell’orrore;<br />
a volte, se necessario, lo fanno i fotografi di professione<br />
o gli scrittori, per dovere di cronaca, magari per venire<br />
incontro alla cronaca stessa, quando è troppo noiosa.<br />
<strong>La</strong> mia vecchia non era però una vecchia qualunque. <strong>La</strong><br />
mia vecchia pazza era stata scelta da Dio, quasi che Dio elegga<br />
tra i poveracci i suoi ambasciatori, per una forma di compensazione.<br />
Scelta per svelare il mistero dell’omicidio. Colpa<br />
mia forse: ho un’immaginazione romantica. Quella diceva che<br />
il sangue dell’assassino era entrato dentro di lei, il sangue dei<br />
froci, appunto. Dopo la sua morte, tutti avrebbero potuto<br />
conoscerne la vera identità, aprendole in due la pancia gonfia<br />
d’aria. Di quell’oceano di sconcezze, il traffico se ne trascinava<br />
lontano almeno la metà, e lei rimaneva come un burattino<br />
orrendo con i fili non ancora recisi. Sprecata.<br />
Era la prima volta che mi capitava. Normalmente, quando<br />
mi trovavo in quella zona, ero sempre preso da pensieri d’ufficio,<br />
dai miei casi, e nulla mi distraeva. Io, e il resto dell’uni-<br />
231
verso, ci facevamo ognuno i fatti nostri. In altre circostanze,<br />
se non mi fossi sentito in attesa, bisognoso di ricordi prima<br />
della partenza, forse, non l’avrei notata. Ma, quella mattina,<br />
avevamo messo a posto il fascicolo del Corietti: dattiloscritto,<br />
pubblicato, depositato, espulso. Era una mattina in cui dovevo<br />
ascoltare per scegliere. Era una mattina di bilanci, tonda<br />
ma deprimente, e la vecchia aveva un suo strambo megafono<br />
a risuonare tutto per me. Perciò la notai.<br />
Le indagini non avevano portato a nulla; alla fine avevamo<br />
deciso per una richiesta di archiviazione e nessun altro giudice,<br />
dopo di noi, avrebbe avuto qualcosa su cui decidere. Né<br />
avrebbe protestato di certo. Finiva così. L’elaborazione della<br />
nostra incertezza non era riuscita ad andare oltre quel pacco<br />
di cellulosa, salvata al macero.<br />
<strong>La</strong> colpa era delle regole, non nostra.<br />
Detto così sembrava fin troppo scontato. Ebbene sì, c’è un<br />
rigore giuridico, delle regole di gioco da rispettare, anche<br />
quando non si è compreso un tubo di tutta la faccenda; anzi<br />
soprattutto in questo caso. Le regole ci avevano impedito di<br />
arrivare alla verità. Ché di Verità si trattava. Di questo.<br />
Eravamo rimasti senza un’oscena verità o un’ufficiale menzogna.<br />
Le regole ci avevano buttato fuori dalla partita, perché<br />
non avevamo saputo farle fruttare. Anche se si sta perdendo,<br />
se si hanno in mano solo quattro carte da niente, le regole non<br />
possono essere infrante. Si gioca con pochi strumenti e la<br />
verità che intuisci, se la intuisci, la devi modellare, limare,<br />
adattare allo spazio ridotto offerto dalle regole processuali,<br />
senza violarle. Questa è la parte più difficile.<br />
Lo diceva anche il maestro Ietta, che forse non era stato<br />
proprio esplicito sul punto, ma la direzione dei suoi gesti, il<br />
senso che prendevano le sue spalle piegandosi, il bianco<br />
smunto della sua agenda, era di questo che parlava.<br />
Come era questo mestiere? Era un po’ come far entrare<br />
un’anguria in una buca da golf.<br />
Una questione di formine sulla spiaggia.<br />
Non so quali altri esempi fare, insomma, un gioco da bambini,<br />
sincero ma di fantasia.<br />
232
I fatti rappresentano la sabbia di grana fine, cioè una materia<br />
vasta, ma informe; la norma giuridica, invece, è rappresentata<br />
dalla formina da sovrapporre alla sabbia, per modellarla.<br />
Il numero dei granelli non è neppure confrontabile con quello<br />
delle formine a disposizione. Sono grandezze non equiparabili.<br />
Ne viene fuori la stella marina, la tartaruga, la torre<br />
merlata, una qualche verità giuridica visibile, tangibile, comprensibile,<br />
solo se sei stato bravo e attento. Sei hai bagnato la<br />
sabbia al punto giusto, né troppo né poco. Lo sanno anche i<br />
bambini. Esistono tonnellate di formine giuridiche, ma mai in<br />
numero sufficiente da contenere tutta la sabbia da cui siamo<br />
quotidianamente sommersi. Da lì l’umana fatica. Siamo nati<br />
per soffrire. Per misurare, contenere, compensare. Ci sono<br />
verità di tutti i tipi, se pure con lo stesso fine: bilanciare.<br />
Prove, ci voglio prove, ché la verità fantasticata non esiste<br />
in un processo. <strong>La</strong> formina senza la sabbia che vale? A far<br />
finta di stare sulla spiaggia a Natale? Inutile e fa freddo.<br />
<strong>La</strong> stessa vanità assilla la sabbia senza la formina. <strong>La</strong> sabbia<br />
non si trattiene: scorre e lascia tra le dita uno sgradevole<br />
prurito. Questo il gioco: senza prove si ritorna al VIA o si<br />
paga pegno.<br />
Restava questo buco. Enorme. <strong>La</strong> morte. Non ci entravano<br />
le nostre angurie, per quanto succose e vivaci; non ci<br />
entravano il sacerdote affarista, il farmacista ambiguo, l’amante<br />
addolorato e le donnine allegre, nemmeno le muscolose<br />
mogli ingannate, non entrava la commerciante sola e le sue<br />
bambine abbandonate. Non potevano infilarsi le ossessioni<br />
della ragazza sfrattata, né servivano le più astruse testimonianze<br />
oculari. Neppure l’ombrello. Frutta fuori misura,<br />
buona per essere urlata al mercato del venerdì.<br />
Per tutte queste ragioni notai la vecchia, quando la partita<br />
era già stata chiusa per rinuncia.<br />
<strong>La</strong> vecchia era quello che restava in cassa, fatti i conti di<br />
chiusura. Urlava. Sbraitava il danno aggiuntivo che non avevamo<br />
saputo limitare durante lo sforzo interpretativo della<br />
realtà. C’erano, in quel contesto giudiziario, errori accettati,<br />
ritardi consentiti, sprechi tollerati. Oltre questi, si elevava la<br />
233
pigrizia, il rimprovero, immoralità o, al peggio, la segnalazione<br />
al Consiglio Superiore della Magistratura. Quel surplus<br />
terrorizzava Ietta.<br />
Se la vecchia era andata fuori di testa era colpa nostra?<br />
Avevamo causato noi quel danno altrimenti evitabile? Ma no,<br />
che c’entravamo noi? <strong>La</strong> vecchia era già fuori di suo. Al più e<br />
senza volerlo, avevamo acuito una sintomatologia già esistente.<br />
Non eravamo una cura, noi, per nessuno, né ci aspettavamo<br />
di esserlo. Almeno credo. Qualche dubbio c’era, lo<br />
ammetto, e nel dubbio la notai. Poi rimasi devotamente ad<br />
ascoltare il suo bollettino di guerra. Ascoltando, la risarcivo<br />
comunque. Non si sa mai. Aggiravo qualche senso di colpa.<br />
Tutti condannati al contagio e alla morte, diceva lei.<br />
Creperemo per colpa dei giudici. Lei la prima, poi gli altri.<br />
E infatti, quando un bisogno vitale come quello della giustizia<br />
resta insoddisfatto, ti nasce in testa l’idea della morte.<br />
Non dico sciocchezze: è così che accade.<br />
Che me ne faccio io di questa stramba sagoma sulle scale,<br />
pensavo. A quel punto, quasi cadendo all’indietro, per il<br />
conato finale, la donna urlò che l’ombrello di Dio, quello che<br />
svelava il mistero, le era stato rubato dal giudice. Mi fece sobbalzare.<br />
Quale giudice? Quella parlava di me, la belva in abito da<br />
sera parlava proprio di me. Poi con le mani che si aprivano<br />
come rami senza frutti, tacque. Rimase immobile, come fulminata,<br />
così che il suo silenzio e il mio sguardo cominciarono<br />
a scazzottare. Ferma lei, presi a muovermi io, a far scivolare<br />
le scarpe a disagio, a strofinarne la suola ripulendola senza<br />
zerbino.<br />
Accadde in quel preciso momento. Accade un fatto strano<br />
e preciso.<br />
Sulle vene delle vecchie mani le si posò una farfalla viola.<br />
Compì una fantasia acrobatica sulla matassa sprimacciata dei<br />
capelli cenere e si posò. Niente di nuovo. <strong>La</strong> farfalla faceva<br />
quello che sapeva fare e, si sa, i rami secchi sono un ausilio al<br />
volo. Un trampolino di lancio sincero. Era solo una piccola<br />
farfalla viola che si posò. Niente di anomalo. Volava e si fermò,<br />
come tutte. Ma era viola. Non era di un altro colore: era viola.<br />
234
In fondo era maggio, un maggio orrendo, così che l’empireo<br />
della città cercava di dimenticarlo. Ogni cosa era indotta<br />
a disimparare il tempo, tranne le farfalle.<br />
E io che credevo che i tribunali fossero il posto giusto per<br />
certe faccende. Ed io che mi sentivo al sicuro là dentro. Forse<br />
dentro, ma non sulle scale. Sulle scale c’erano onde sonore di<br />
pura metafisica, in aperto contrasto con qualsivoglia verità materiale.<br />
Avevamo camminato in tondo, il buono e l’allievo, per<br />
mesi, ma era quello che eravamo chiamati a fare. Circuiti<br />
interpretativi. Almeno cento volte lo stesso percorso mentale.<br />
Non era stato un errore a frenarci, io credo. Era un’altra la<br />
spiegazione.<br />
Sono una persona ostinata: i tribunali, nonostante tutto,<br />
restano per me il posto della verità. Pensiamoci. Non ci sono<br />
altri posti di ricerca onesta e romantica. Secondo me. Non<br />
voglio fare pubblicità. Verità. Giustizia. Sofismi tecnico-giuridici.<br />
Sono roba soltanto nostra. Ma ci sono dei limiti, è chiaro.<br />
Un atto di violenza così efferato potrà essere mai essere<br />
ricondotto all’equilibrio originario, grazie alla parola di uomini<br />
in toga, dentro un’aula di tribunale? Forse no, ma dovevamo<br />
provarci. Cosa sono le aule d’udienza? Una specie di cannocchiale<br />
puntato, ma non sempre del tutto a fuoco. Non del<br />
tutto a fuoco, ma l’obiettivo resta utilizzare le parole e le azioni,<br />
creare nessi, mettere ordine. Lì dentro molto più che altrove.<br />
E non c’è altro posto simile, mi pare. Non in chiesa, non<br />
in casa, non nelle scuole, non in piazza; nelle piazze ci sono<br />
solo i piccioni a scacazzare su ogni superficie e le parole sono<br />
solo marmellata che fa croste.<br />
Nei tribunali è ancora diverso. I tribunali si portano ancora<br />
addosso alcune vistose stimmate, ma ci sono rimasti solo<br />
loro. Altrove nessuno si aspetta verità o giustizia; si hanno di<br />
queste pretese solo nei tribunali. L’ultima occasione per tanti.<br />
Si sappia una volta per tutte: le parole del diritto sembrano<br />
finte, ma è un’allucinazione acustica, un maquillage ben<br />
riuscito. Vengono messe in un certo ordine, aggiornate<br />
periodicamente, ripetute armonicamente, fatte tacere per<br />
decenni e poi ritirate fuori all’improvviso come un vecchio<br />
235
quadro sotto il crollo di un castello. Sono state pensate per<br />
far paura, per sembrare diverse dalle altre, perché controllino<br />
il caos o lo provochino. Ma sono vere, respirano. Noi<br />
non eravamo stati capaci di mettere ordine fra le parole<br />
u s a t e .<br />
Questa competizione che si serve della grammatica e del<br />
vocabolario, mi ricorda le paure più segrete di Angela e certe<br />
sue perversioni. Angela, infatti, mi racconta spesso delle volte<br />
che aspettava chiusa in camera che si esaurissero le parole a<br />
casa sua. Le parole degli altri.<br />
I suoi genitori se ne dicevano di tutti i colori, ma tra quelle<br />
comuni, c’erano due categorie di parole specifiche: quelle<br />
azzardate e quelle salutari; partorite entrambe dai bisbigli.<br />
Lei se ne stava a origliare, pregando a occhi strizzati che non<br />
venisse detta quella certa parola, non dirlo, non dirlo, sperava;<br />
non dite adesso quelle parole. Erano sempre quelle due o<br />
tre, quelle che scatenavano reazioni a catena, sempre le stesse:<br />
falsità, preconcetto, dipendenza, non erano parole univoche,<br />
avevano peso solo in un certo contesto, erano la sua soggettiva<br />
Hiroshima da divano. Altre volte supplicava dillo ora<br />
ti prego, dillo subito, e sperava che venissero pronunciate proprio<br />
quelle che placavano, che allontanavano altri suoni, che<br />
liberavano, tipo equivoco, logorio, pazienza. Non interessava<br />
la sostanza del pensiero, che pur rimaneva invariata, non<br />
potendo in alcun modo mutare la sua casa nelle sue pietre;<br />
per Angela contavano solo le parole da usare per controllare<br />
il dolore. Si mangiava le dita perché lei era l’unica in casa a<br />
saperle usare. Gli altri no, ne facevano un uso sconsiderato,<br />
crudele, mettevano le une contro le altre. Le parole non sono<br />
un fatto marginale, l’ho detto. Sono vive. Negli anni ha smesso<br />
di usare con i suoi famigliari parole tipo allegria, carnevale.<br />
Nasconde la gioia, le volte che ce l’ha tra le mani. Non la tollererebbero.<br />
Non voglio apparire catastrofico, per carità, la genetica<br />
paterna si ribellerebbe, ma questo è il lavoro che faccio: cercare<br />
la verità lavorando sulle parole della gente, e rendervi<br />
236
giustizia. Se non la trovo, ho fallito. Non si bara, tanto poi si<br />
finisce sui giornali. Nonostante la legge, il suo processo elefantiaco,<br />
non avevamo potuto usare né capire quali erano le<br />
parole giuste. Né usarle, né scriverle in sentenza. Perché,<br />
infatti, le parole giuste devono essere scritte, altrimenti non<br />
vale. Non basta la voce. Né basta un uomo solo. Un uomo da<br />
solo non ce la farebbe mai. Non un solo giudice, ma molti e<br />
diversi. E non solo giudici. C’è molto di più di un uomo in<br />
gara, lo giuro.<br />
Mi metto una giacca onesta per spingere su quest’acceleratore<br />
e alle volte mi stanco come un ciuco e mi si rivolta lo stomaco,<br />
ma è questo il mestiere che faccio. <strong>La</strong> giacca sembra<br />
nuova? È un inganno. Carta e corpi umani, come per i cartapestai.<br />
Se non è questo, che cosa è allora? Di per sé la legge<br />
scritta non serve a niente. È insufficiente, boriosa, impotente.<br />
Nelle stanze dei tribunali, dietro paranze d’alluminio, ci sono<br />
individui che vigilano su quest’insufficienza, controllano sui<br />
monitor il battito cardiaco lento e affaticato del legislatore. A<br />
volte ne dichiarano il decesso. Amen. A volte il recupero.<br />
Amen. Ci sono stanze più grandi di quelle dei praticanti che<br />
somigliano a reparti ospedalieri d’avanguardia, specializzati<br />
nella sperimentazione estrema. Ho sempre creduto che certi<br />
ambienti fossero quelli giusti per far trovare pace agli assassinati.<br />
Non ho ancora cambiato idea.<br />
Il mio è un diritto mite: né pessimista né ottimista. Il diritto<br />
dell’ostinazione e della fantasia. Il diritto del cartapestaio.<br />
Una discreta cartapesta. Discreta e netta. Nessuna altra stoffa.<br />
<strong>La</strong> mano, l’acqua, la carta di giornale stropicciato e vecchio,<br />
cauterizzano una ferita. E posso dirlo in giro.<br />
Anche adesso, per esempio, davanti a questo biblico<br />
semaforo rosso, ai piedi di un incrocio contorto come un<br />
pitone che dorme, frantumato in rivoli stradali laterali frequentatissimi,<br />
impicciato da autoarticolati che hanno perso la<br />
strada, con il verde che non scatta mai, anche adesso vado<br />
verso la verità o il suo desiderio. Magari poi in ascensore<br />
incontro un tipo che odio e mi distraggo, nuotando in un versamento<br />
improvviso di bile, assolutamente soggettivo, assolu-<br />
237
tamente di parte, spingendo la verità a perdersi in troppi desideri,<br />
e divento crudele e vuoto. Eppure resta il fatto che, dal<br />
lunedì al venerdì, vado verso la verità di tutti. Ricamo un<br />
vestito di carta addosso agli uomini, come si fa con i pupi di<br />
Natale a Napoli. E sono soggetto alla carta e ai suoi limiti. Per<br />
mestiere riempio i vuoti. Le buche.<br />
Si parla tanto di certezza della carta e del diritto. Ti dicono:<br />
la formina è questa, la sabbia è quella, mettiamo insieme<br />
i numeri, facciamo la somma, o dentro o fuori, nessun artificio,<br />
nessuna manualità.<br />
Certezza: ne sono piene le dottrine di questa certezza facile;<br />
la chiamano ancora così i colti, o i pigri. Certezza. Ma<br />
anche quelli, i puri, quando è il caso, esigono vestiti su misura.<br />
Dicono: noi non dobbiamo adattare la realtà alla forma.<br />
Rigidi, tutti d’un pezzo. Dobbiamo solo prendere le misure,<br />
non garantire risultati, dicono. Usare la legge così come è.<br />
Basta. Facile a dirsi.<br />
E allora, dunque, che ci faccio io oggi con il pensiero<br />
della vecchia che mi è rimasto in tasca? Non voglio restare<br />
per sempre ad attorcinarmi intorno a un metro rigido da<br />
geometra. Così addestro l’occhio e la bocca a quanto c’è da<br />
vedere e raccontare. E raccontando le cose, le comprendo<br />
m e g l i o .<br />
Consumo litri e litri di benzina e, se non posso evitarlo,<br />
ripenso a mio padre. Vado e cerco di scegliere un punto di<br />
vista, sperando di non cambiare idea troppo spesso.<br />
Cambiare idea? Sia chiaro: non sono mica stupido. Mi accorgo<br />
che tutto tende al cambiamento: io, la mia casa, Angela, i<br />
figli che ancora non ho, i codici, le mani della gente. Ecco<br />
perché mi piacciono i cambiamenti; è per preparami a questi<br />
esami che ho fatto pratica. Anche nei palazzi di giustizia le<br />
cose cambiano, lentamente ma cambiano. Anche le biblioteche<br />
dei Tribunali cambiano. Cambiano anche gli impianti di<br />
climatizzazione. Anche la durata delle udienze e le rivendicazioni<br />
sindacali cambiano. Le sedie dietro le scrivanie adesso<br />
sono ergonomiche e rispettano i reni dei dipendenti. Novità<br />
motivate. <strong>La</strong> vecchiaia dura a lungo perché comincia quando<br />
238
sei giovane, e ha tempo per cambiare; comincia ora, svegliarsi,<br />
presto svegliarsi! È già tutto cominciato, non sono ammessi<br />
ritardi!<br />
E se l’esistenza, come variazione stabile, deve essere una<br />
pena, mi sono scelto Angela da sposare e il matrimonio come<br />
misura sostitutiva. Ci tengo.<br />
Tuttavia, se potessi non cambiare mai, forse non cambierei.<br />
Se mi fosse dato scegliere. Minor fatica, minori rischi.<br />
Non ho fortuna io, forse la fortuna, come l’altezza, salta una<br />
generazione. Mio padre è più alto di me di almeno dieci centimetri.<br />
Infatti, non ho fortuna e non sono alto.<br />
Mi viene da dire che forse sarebbe più facile se nulla cambiasse<br />
mai; sì, magari potrei sostenere a lungo questo smodato<br />
elogio della pigrizia, in nome della coerenza, della forza di<br />
carattere o di altre scempiaggini simili. Potrei. Perché uno,<br />
quando è uomo, e ha sviluppato una certa abitudine alle<br />
parole, può sostenere quello che vuole, argomentarlo, ché<br />
poche sono le tesi davvero insostenibili. Io stesso a volte<br />
sostengo con ardore una tesi e il giorno dopo, candidamente,<br />
me ne dimentico, facendomi latore appassionato di altre voci,<br />
di altre posizioni, opposte alle prime, ma con rinnovato sincero<br />
entusiasmo. Non è che abbia davvero cambiato idea,<br />
piuttosto, un’idea non c’è mai stata; mi sono semplicemente<br />
dimenticato di quanto affermato poco prima.<br />
In realtà non è così importante affermare una cosa o non<br />
affermarla; mi andava e basta. Ero tra amici e mi andava così;<br />
in quel momento specifico Tizio mi era più simpatico di Caio<br />
e ne ho sposato la filosofia. Stop. Tesi. Antitesi. Che vale? Ma<br />
quale forza di carattere, quale coerenza, quale noiosa certezza!<br />
<strong>La</strong> realtà ci contraddice sempre.<br />
Il tempo passa. Non mi resta più neppure l’umore a cui<br />
aggrapparmi, come fosse una guida alpina di lunga esperienza.<br />
Il metabolismo non è più quello di una volta; i muscoli<br />
cedono e le cose cambiano. Persino Angela.<br />
È un fatto. Le cose cambiano perché devono cambiare,<br />
non si tratta di scegliere. L’immobilità non è né ragionevole<br />
né naturale. Poiché desidero che il mondo pensi di me che<br />
sono un uomo ragionevole, cerco di apprezzare le novità e<br />
239
cambiare idea senza dolore. Nonostante la pigrizia che certi<br />
giorni sale come nebbia.<br />
Perché il diritto non dovrebbe seguire la stessa altalena e<br />
ritmo?<br />
<strong>La</strong> fissità che certezza è? Resta, è giusto, il fatto triste che<br />
i numeri sono numeri e che quando hai fretta, troppi fascicoli<br />
sulla scrivania, troppi uomini tra le mani, finisci per imboccare<br />
la strada più facile: quella dei numeri, per la quale uno è<br />
sempre e solo uguale a uno. Non c’è nulla da spiegare o da<br />
capire. Ci vuole molto più impegno a sostenere che uno sia<br />
uguale a uno. Il corsivo costa più fatica, a lavorarci su. Per la<br />
matematica pura basta una firma in calce. Così le domande<br />
della gente ti restano sotto le scarpe o sopra lo zerbino di casa<br />
al rientro. Ma che certezza è la fissità dei numeri e dei calcolatori?<br />
<strong>La</strong> certezza della propria stanchezza o di un fallimento.<br />
Ecco cosa è.<br />
Io non so sbagliare. Mio padre non me lo ha insegnato.<br />
Non ho mai fatto pratica su questo segno grafico. Anche<br />
Ietta, dieci anni fa, pure lui, poveraccio, mica mi ha detto<br />
abbiamo sbagliato, così che capissi e imparassi. No, lui ha illustrato,<br />
giustificato, compensato. Sorriso. Tutto qui. Ma sono<br />
anni che sfoglio fascicoli, con poche foto dentro, e non posso<br />
proprio credere che sia tutto qui.<br />
Dieci anni fa l’anguria non è andata in buca, va bene, non<br />
avevamo niente per riempirci una misera buca da golf e dirci<br />
soddisfatti. Dieci anni fa non è accaduto, ma magari domani,<br />
chissà. Non mi arrendo.<br />
Guido un motore a lenta ripresa, che non è mio, ma che<br />
posso ancora imparare a usare. Ci sarà ancora qualcuno<br />
disposto a educarmi. <strong>La</strong> legge esiste, può, per il fatto di esistere.<br />
Il resto sembra destinato a venire e a salvarci prima o<br />
poi.<br />
Quando quella mattina mi arrivò sulla fronte l’assenza<br />
forte dell’ombrello della vecchia, mi venne voglia di tornarmene<br />
a casa.<br />
Quello urlato dalla vecchia era il primo rimprovero ufficiale<br />
che ricevevo sul lavoro. Il primo in assoluto. Fece piuttosto<br />
240
male. Un morto = il buio escatologico; non era un risultato<br />
utile. Zero punti. Reazione? Dopo il primo insuccesso, mi<br />
venne voglia di casa. Immediatamente, come accade ai bambini<br />
a scuola. Non era un desiderio intempestivo. Da lì a<br />
poco, infatti, avrei dovuto scegliere la sede della mia prima<br />
destinazione con funzioni piene. Posizione in graduatoria<br />
medio bassa, la mia, ma volevo tornare a casa a tutti i costi. Ai<br />
luoghi dell’identità. Avrei venduto mia madre pur di non<br />
dovermi sottoporre ad altre prove lontano da casa. Se non<br />
poteva essere proprio casa mia, che almeno fosse il più vicino<br />
possibile. Casa, casa, casa. Per la prima volta, dopo i consigli<br />
da avventuriero di mio padre. Casa.<br />
Non avrei mai voluto deludere mio padre, è vero. Il suo<br />
occhiale rosa lo rendeva più vulnerabile dinanzi l’altrui disagio.<br />
Se mi vedeva un po’ giù di tono, scuoteva la sua faccia<br />
piacente e rasata. Proprio non capisco cosa ti manchi. Hai tutto<br />
quello che serve a essere felice. Mica sbagliava, dal suo punto<br />
di vista. Gli era noto solo il meglio. Il mio unico modello di<br />
riferimento era il mio vanto e, in ugual misura, il mio terrore.<br />
Strana la vita. Da mio padre ero attratto per sangue, ma, nello<br />
stesso tempo, allontanato per indole. Lui era l’aereo atterrato<br />
morbidamente in orario, io quello che riscalda i motori in<br />
pista in una giornata perturbata. Scherzo del destino e della<br />
genetica: ero il topolino segretamente partorito dalla montagna.<br />
Io basso, lui alto. Lui la norma, io l’eccezione. Facevamo<br />
e facciamo – come dimenticarlo? – lo stesso mestiere e questo<br />
non aiuta. Magistrati. Angurie per entrambi. Non volevo<br />
tradire nessuno. In attesa di rivoluzionarie scoperte scientifiche<br />
in materia, continuavo a considerare le attenzioni generose<br />
di mio padre con avvedutezza e a osservarlo mentre continuava<br />
a vivere, dentro quella sua solita aura, senza nessuna<br />
percezione del tormento dell’universo intero. Pur cercando<br />
di tenermene a distanza di sicurezza, da quell’aura ero sfiorato,<br />
trafitto. Un topo all’ombra della sua montagna. Mai detto<br />
niente di tutto questo a mio padre; mai. Lo giuro su mia<br />
moglie che, invece, sa tutto.<br />
Era il possibile disinganno di mio padre a impensierirmi,<br />
non la sua allegria. Come è possibile? Il mondo non è perfetto<br />
241
come credevo? Ho fatto male i miei calcoli? Non posso crederci.<br />
Qualcuno ha sbagliato e questo qualcuno potrebbe essere il<br />
mio unico figlio. Ahimè! Avrebbe detto così.<br />
E se fosse diventato vecchio all’improvviso per colpa mia?<br />
Per la mia incapacità di intervenire, di gestire la realtà?<br />
Vedere un padre, l’essere più miracoloso che l’universo abbia<br />
creato, da sempre risplendente d’euforia e coraggio, ridurre<br />
la sua naturale quota di luminosità, è un grande dolore per un<br />
figlio.<br />
Però, io non ero come lui e, se non lo ero, allora dovevo<br />
essere qualcos’altro. Essere comunque. Magari senza arrecargli<br />
danno. Cambiare dignitosamente il quadro appeso nel<br />
salotto e scegliere altri soggetti accettabili. Buon marito, buon<br />
giudice, buon padre, buon uomo. Identità variabili.<br />
Contro questa inquietudine, tornare a casa poteva essere<br />
un toccasana. Anche se non ero come lui, tornare in patria<br />
sembrava perfetto. Il minor guasto.<br />
Portai Angela con me a Roma il giorno della grande scelta,<br />
giusto qualche mese dopo la scenata della vecchia dei santini.<br />
Lei interruppe, solo per tre giorni, il suo tessere quei cento<br />
metri di tela di protesta. Volo Itaca-Roma, con soggiorno in<br />
Hotel quattro stelle, a spese dello Stato. A Campo dei Fiori.<br />
Chi se lo dimentica? In aereo c’erano dei colleghi di Bolzano<br />
che imprecavano contro i numerosi uditori che scalavano le<br />
graduatorie, passando in vetta, falsando a tradimento i risultati<br />
degli orali, grazie ai punti aggiuntivi benignamente offerti<br />
da mogli e mariti inamovibili, figli bisognosi come pulcini,<br />
e patologie, le più svariate, di zii, cugini; nipoti, tutte circostanze<br />
ben tutelate dalla legge 104. Noi due, tra gli altri passeggeri,<br />
facevamo finta di essere in luna di miele e di fare altri<br />
mestieri; il veterinario e l’astronauta. Cercavamo di non tradirci<br />
con tecnicismi lessicali da giuristi in volo. Durante il<br />
viaggio, leggemmo narrativa d’evasione, per puro depistaggio.<br />
Era così che avveniva: si andava in un grande albergo,<br />
freddo e porcellanato come una cella frigorifera, che in genere<br />
ospitava congressi di portata internazionale, lì ci attende-<br />
242
vano un palco con la commissione schierata, una sala gremita<br />
di targhette nominative; microfoni, bottiglie di acqua minerale,<br />
fidanzate granfighe, qualche moglie, padri e madri orgogliosamente<br />
anziani, spalmati in sala o nei corridoi.<br />
Credo sia ancora così, magari è solo mutata la scelta dell’albergo<br />
ospitante. Mi sembra di rivedere tutto: scorrendo la<br />
graduatoria ufficiale, resa pubblica assieme ai posti da coprire,<br />
il presidente scandisce nome e cognome; per scongiurare<br />
imbarazzanti omonimie. Il nominato si affretta fino al palco,<br />
si arrampica lungo il microfono come un ramarro sul ramo e<br />
fa lo spelling, pronuncia piano la sede che ha scelto, o crede<br />
di aver scelto, per il suo futuro lavorativo. Fa la sua scelta<br />
infernale, perché definitiva, mentre nelle orecchie si porta<br />
ancora l’eco degli ultimi consigli; dell’ultimo corpo a corpo<br />
con le aspirazioni di famiglia, con i propri traumi infantili,<br />
con i ricordi di scuola guida, con l’allergia al polline, con la<br />
musica rock da ascoltare in macchina, col sorriso agognato da<br />
secoli dalla sua famiglia con altri sette fratelli disoccupati, fai<br />
i conti con l’ultimo documentario sulla Patagonia o sul lago<br />
Titicaca; con tutti i “dicono che”.<br />
Alla fine inventa una città che non esiste. Ridisegna lo stivale.<br />
Lo ripopola, meticciandone i dialetti. Così emerge la<br />
geografia della sua verità. Una nuova formina.<br />
Io non ero impreparato. Con Angela avevamo predisposto<br />
una nostra selezione di luoghi possibili, di città visibili e vivibili,<br />
per precauzione, e perché un amico con più esperienza<br />
ci aveva consigliato in questi termini. Avevamo litigato per<br />
giorni e comprato uno stradario. Le sedi fattibili erano trecentosessantasei,<br />
ma di queste solo dodici erano davvero<br />
desiderabili. <strong>La</strong> Sicilia era una di quest’ultime. Tutti i magistrati<br />
prima o poi pensano alla Sicilia. Anche quelli siciliani,<br />
perché gli schiamazzi del mito arrivano dappertutto con gli<br />
stessi decibel. I magistrati, se sono delusi, annoiati, eccentrici,<br />
pensano alla Sicilia. Si immaginano con una vanga in mano<br />
e la pistola nell’altra, furtivi nella notte, su strade asciutte, da<br />
un portone all’altro, in auto blindate, sagome irradianti ardimento.<br />
Accade, forse, solo perché non hanno ancora sentito<br />
parlare della vita in Calabria e delle sue strade. Comunque<br />
243
accade. <strong>La</strong> Sicilia dei pensieri è una sorta di assolata legione<br />
straniera, in bianco e nero, alla maniera dei film di Stanlio e<br />
Olio. Ora, io non ho mai desiderato cercare un’estranea<br />
verità insulare, no, mai pensato una cosa del genere; resta il<br />
fatto che ho ricevuto anch’io un paio di cartoline dalla Sicilia<br />
e le ho apprezzate. Il sud mi attrae per affinità. Se non fosse<br />
uscita fuori la carta del ritorno, la Sicilia sarebbe diventata<br />
vicinissima.<br />
Ad un certo punto, un viaggio vale l’altro. Se non poteva<br />
essere casa, ogni altra sede avrebbe imposto comunque un<br />
viaggio. Ma questo è un pensiero vecchio di dieci anni.<br />
All’inizio tutti i cambiamenti sembrano possibili, in quanto<br />
creduti brevi, transeunti. All’inizio si brama la mutazione<br />
genetica. Soltanto più tardi si comprende quanto può durare<br />
veramente il Viaggio. Potevo affrontare anche la Sicilia dieci<br />
anni fa. Così credevo io. Sarebbe stato un disastro ancora<br />
sanabile dieci anni fa. È questo che fa la giovinezza.<br />
<strong>La</strong> morte aveva avuto un merito comunque. Il Corietti era<br />
stato capace di mettermi il freno. Solo lui e solo in parte. Se<br />
non fosse stato per quella storia del Corietti pugnalato, chissà<br />
ora dove sarei; chissà davanti a quale semaforo. Ah, sì, è<br />
certo: chissà cosa avrei fatto io, se la vecchia non mi avesse<br />
messo paura.<br />
È stata solo colpa sua, colpa del senso di vuoto che lascia<br />
l’assenza di verità. Colpa delle vertigini. Se non avessi incontrato<br />
il sangue del Corietti, forse oggi sarei siciliano e perfetto.<br />
Angela può anche continuare a dire che non è vero, che<br />
sono io quello instabile, quello incerto, il parolaio, ma io so<br />
che è colpa della vecchia. Uno certe cose le sente. Dove sarei<br />
adesso? Angela non lo sa. Io sì.<br />
Viceversa, sono a pochi chilometri da casa. Per arrivare in<br />
ufficio, prendo l’auto dal garage, non un autobus, ma l’auto<br />
con l’impianto di condizionamento. Considerato che, nella<br />
mia città, non si possono aprire i finestrini in estate. Percorro<br />
dieci chilometri, scelgo uno tra i parcheggi a me riservati e<br />
salgo tre piani in ascensore. Ho tempo per pensare. Uno o<br />
due pensieri, non di più, e nemmeno troppo complessi.<br />
244
In fondo, accettare un lavoro in una città piuttosto che in<br />
un’altra, non è come fare una vacanza. Significa condannarsi<br />
a operare in modo schizofrenico. È stato meglio tornare,<br />
quindi. Giocare a golf con mazze, angurie e buche, ma in casa<br />
propria. Scegliendo un solo modo di essere e fallire.<br />
Una volta Angela mi disse che la parte migliore del viaggio<br />
è il ritorno. Lei è capace di queste sintesi. E quando ci riesce,<br />
sembra illuminarsi di luce divina. Meravigliosa e saggia.<br />
Crederle è salutare. Che parli di corpo e parole, che metta un<br />
confine tra la fantasia e la materia, non conta; crederle è<br />
necessario. Guardarla è quasi rigenerante.<br />
Sono ritornato come E.T., senza altri termini di paragone<br />
se non la testa di Angela, i suoi bulbi piliferi senza requie, il<br />
suo modo di formulare i pensieri a sezioni logiche molteplici,<br />
ma ben distaccate. Sono tornato e mi sono persino commosso.<br />
Con Angela che faceva il tifo, è chiaro, per me e per un<br />
ipotetico embrione.<br />
Sono tornato perché avevo capito pure un’altra questione:<br />
c’era stanchezza nell’aria, invece d’altri profumi casalinghi.<br />
S’allargava una crepa. Lo sentivo che c’era qualcosa che scricchiolava<br />
sotto le mie scarpe, diffondendo un suono infausto,<br />
se pure lontano. Era il suono che fanno i letti vuoti, cigolando<br />
sinistramente. Come quelli posati su soppalchi, che paiono<br />
stabili, di legno e metallo, ma gemono anche sotto un peso<br />
da niente. Sanno di tarlo. Angela diceva che le mancava il mio<br />
corpo, ma non in senso biblico: le mancava vedere il mio<br />
corpo che riempiva gli spazi di ordinaria quotidianità. Il<br />
bagno, il corridoio, la veranda, il letto. Vedermi muovere,<br />
deglutire, tagliarmi le unghie o leggere in bagno. Si stava<br />
organizzando per combattere questa assenza, cercando altre<br />
dimensioni che riempissero quegli spazi cavi. Si era appassionata<br />
alla narrativa America Anni Sessanta e annichiliva volontariamente<br />
ogni mio programma, cambiando idea di continuo.<br />
Il sabato, nel tepore delle coperte, lei era larga, sempre<br />
più larga, sgomitava. Aveva il sonno solitario delle vergini,<br />
reagiva al contatto, mugugnava sorpresa, allargava le gambe<br />
come il quattro di mazze. Dovevo spiegarmi, dire chi ero, per<br />
poterle toccare i fianchi. Poi, divenuta finalmente cosciente,<br />
245
sceglieva lei. Non lo aveva riempito d’altri uomini, non ancora,<br />
per fortuna, non ancora, ma quella lacuna di corpi e il<br />
bisogno di dare una misura alla sua vita senza di me, mi imbarazzava<br />
non poco. Era quello il suono che percepivo, una<br />
sorta di marameo alle mie spalle. Fastidioso e confuso. Come<br />
a essere in continuo ritardo sulla partitura. Per sentirlo con<br />
più chiarezza e magari azzerarlo, dovevo assolutamente prendere<br />
subito l’autostrada che, a fatica, mi avrebbe ricondotto a<br />
casa, nel mio mondo imperfetto. Mi immaginavo ad attendermi<br />
un abbraccio lungo, al sapore di mandarino, a Natale, una<br />
stretta di braccia che recasse l’eco di elementi remoti e primitivi.<br />
Che mescolasse pelle e sudore e sogni. Un abbraccio ibrido,<br />
ma riconoscibile. Un abbraccio che dicesse l’avevo detto<br />
io! Quello della conferma, del eccoti qui, guarda come sei<br />
diventato in tutto questo tempo. Volevo rendere conto di me a<br />
qualcuno. Dovevo tornare per riempire un abbraccio di quel<br />
poco di me.<br />
Nel microcosmo di casa mia, a maggio è già estate, a prescindere<br />
dalla moderna scienza meteorologica e dalle nuove<br />
divise dei colonnelli dell’aeronautica e, solo in nome di quest’assunto,<br />
le farfalle in volo, a maggio, sono molte di più di<br />
una. Si spostano a frotte. Dalle mie parti, l’estate è un ricordo<br />
vicinissimo: solo il freddo intenso aumenta le distanze tra una<br />
memoria e l’altra, ma dura un attimo. A maggio ci si spoglia.<br />
A casa mia, a maggio non vola bassa solo una farfalla, ma<br />
molte, moltissime, e appaiono quasi tutte uguali, a parte i<br />
colori; da non farci caso. Ovunque farfalle, proprio in quelle<br />
stesse ore del giorno in cui, in altre città, non è visibile nessun<br />
volo simile. Solo qui tante farfalle. A giugno, nell’afa, il numero<br />
si riduce di poco. In genere sulla sabbia, tra le dune e i gigli<br />
selvatici, puoi individuarle in coppia, bianche o gialle, in<br />
danza sincronica, vicine tra loro; le puoi vedere insinuarsi tra<br />
viso e viso, quando sulle spiagge, intorno all’ora di pranzo,<br />
arrivano le commesse a prendere il primo segno del costume<br />
intorno al collo. Le commesse dalle 14.30 alle 16.30; dopo si<br />
rientra al negozio. A luglio ci sono le falene, già più grigie, ma<br />
rapidissime e stupide, a coprire le luci troppo forti.<br />
246
Sono le farfalle a rendere una città diversa da un’altra.<br />
Ogni stagione diversa dall’altra, ogni ora diversa dall’altra.<br />
Nella città in cui avevo iniziato, avevo notato una sola farfalla,<br />
una soltanto in così tanti mesi; per questo aveva colpito<br />
il mio cuore. Una farfalla viola.<br />
Solo andando via mi ero reso conto di quanto fossi stato<br />
lontano dalla mia casa, dalla mia vita; quanto stessi dimenticando,<br />
perdendo. Una città non vale un’altra, così come una<br />
farfalla non è solo un insetto. Ho sempre amato i dettagli e le<br />
differenze, è vero, quelle stesse differenze che possono a volte<br />
colmare lo spazio immenso, spesso invisibile, che si frappone<br />
fra gli eventi importanti di una vita. Mi piace l’idea di essere<br />
un giudice entomologo.<br />
Sfido chiunque a negare quanto sia più facile riconoscere<br />
gli insetti in casa propria. Quella farfalla viola, quel tatuaggio<br />
sulla nuca di un’adolescente, mi è rimasto in testa. Quella è<br />
una differenza che forse non ho saputo cogliere in tempo.<br />
Non meno di quella della vecchia, che mi rimproverò aspramente<br />
e mi rimprovera ancora. Adesso che sono qui posso<br />
ricordare e distinguere le farfalle che volano nella nebbia, da<br />
quelle che bruciano al sole. Ma non posso fare nient’altro,<br />
ormai.<br />
E, per fortuna, ho anche perso sette chili. Sono più lieve<br />
anch’io. Non ho altro da compensare se non quella ciccia.<br />
Nessun altra fatica, nessun altro merito da riconoscere.<br />
Nient’altro, né io, né Angela.<br />
Chissà se ci è riuscito anche Ietta. Se ha recuperato angoli<br />
di volo libero o se ha appesantito la corsa. Se ha colto le differenze.<br />
Le scelte giudiziarie e quelle matrimoniali a scacchiera.<br />
Vorrei rivederlo prima o poi. Sette chili di inservibile e<br />
fuorviante leggerezza non sono mica pochi.<br />
Verde. All’improvviso l’incrocio è libero, per me e per il<br />
vigile di competenza, che agita i guanti bianchi nella mia direzione<br />
e pare avere ben più di dieci dita. Mi ero distratto, ma<br />
adesso, finalmente, posso andare.<br />
247
XVI CAPITOLO<br />
“Sai a cosa stavo pensando, Nicola?”<br />
“Cosa?”<br />
“Alla ragazza”.<br />
“Quale?”<br />
“<strong>La</strong> figlia, quella un po’ strana, con il tatuaggio strano; la<br />
figlia più piccola”.<br />
“Che ci pensi a fare? Tanto le indagini sono chiuse. Ci<br />
abbiamo lavorato un sacco. Adesso basta”.<br />
“No, dicevo così per dire. Che fa la ragazza?”<br />
“Si sono trasferite: madre e figlie”.<br />
“E tu sei stanco?”<br />
“Abbastanza. Non dovrei secondo te?”<br />
“Non è normale, però. Non tu, dico loro. Dopo anni, non<br />
è normale ricominciare; non ha mica vent’anni quella madre.<br />
Come campa con due figlie? Il lavoro, la scuola?”<br />
“C’è da dire che ha preso una bella travata la signora, mi<br />
pare. Con buone probabilità il negozio non rendeva più come<br />
prima. I cattolici a volte sono molto superstiziosi. Avrà perso<br />
chissà quanti clienti. Ha chiuso e basta. Se ne sono andate in<br />
un’altra città”.<br />
“Ma in fondo…”<br />
“Certo! Bella pubblicità per il negozio un morto ammazzato!<br />
Non credo che il fatturato, dopo il fattaccio, sia cresciuto<br />
per morbosità. Per quel tipo di commercio tutto dipende<br />
dai rapporti con la Curia. Magari, in un’altra città, una città<br />
248<br />
…“Penelope, svegliati cara figliola, per vedere<br />
cogli stessi tuoi occhi quello che ogni giorno desideri.<br />
Odisseo è arrivato ed è in casa.<br />
Anche se tardi, è tornato ed ha ucciso i proci superbi<br />
che la sua casa infestavano, ne mangiavano i beni.<br />
E opprimevano il figlio”.<br />
Omero
con un cuore meno marcio. Magari altrove c’era la disponibilità<br />
di un parente e ne hanno approfittato. Può essere, no?”<br />
“Forse la Chiesa l’ha punita”.<br />
“Non so. Secondo me non riusciva più a vivere nei luoghi<br />
di sempre. Tutto qui”.<br />
“Ma le ragazze a quella età non si vogliono trasferire”.<br />
“Come lo sai?”<br />
“Lo so. Sei tu che non sai niente dei giovani. Per te dovrebbero<br />
pulirsi le suole, per bene, prima di entrare in società!”<br />
“I giovani? Che cavolo vuol dire? Usa le parole quando<br />
hanno un significato preciso, per cortesia”.<br />
“Quelli molto più giovani di te, intendo dire”.<br />
“Gli adolescenti, quindi. Io questa ragazza non l’ho nemmeno<br />
vista in faccia, Ietta non ha voluto. Non voleva turbare né la<br />
ragazza, né la sua coscienza. Non sappiamo chi era veramente”.<br />
“Perché?”<br />
“Perché il capo non voleva rischiare di metterla in mezzo<br />
inutilmente e farle del male. Chiaro, no? Non siamo mica<br />
macchine. Non ha ancora deciso se segnalare la questione al<br />
tribunale per i minorenni. Non sa. Fatti suoi, ormai”.<br />
“Forse…”<br />
“Pure se…”<br />
“Cosa?”<br />
“Giovani è una bella parola”.<br />
“Sì, la usi poco”.<br />
“Lo sai, io questa ragazza non l’ho mai vista. Ho solo<br />
ascoltato le descrizioni di altri. Cosa ne so? Immagino solo<br />
che non poteva essere lei la causa di tutto”.<br />
“No? Perché non provate a leggere i diari?”<br />
“Non abbiamo pensato ai diari. <strong>La</strong> madre aveva un alibi di<br />
ferro. Non abbiamo sentito il bisogno di ricorrere ai diari”.<br />
“Non i diari della madre, ma quelli della figlia”.<br />
“E chi ti assicura che una quindicenne con i capelli verdi e<br />
i tatuaggi avesse un diario? Nessuno scrive più il diario. Ti<br />
risulta che il genere diario esista ancora?”<br />
“Secondo me, non avete battuto tutte le strade”.<br />
“Quali sarebbero queste ipotetiche strade?”<br />
“Il terzo luogo. Tu hai vissuto nel terzo luogo? Io ho vissuto<br />
249
nel mio terzo luogo, quello che custodiva tutti i miei segreti”.<br />
“Cioè? Da dove esce questa teoria?”<br />
“Il luogo in cui un adolescente è solo con se stesso; il terzo<br />
luogo, eh? Hai presente? Il giovane se ne sta solo con le regole<br />
che ha deciso autonomamente, insieme ai suoi simili, unico<br />
responsabile, unico giudice, che si confronta con se stesso.<br />
Ecco, si confronta. Non sai, eh?”<br />
“Il campetto della partita a calcio, per esempio?”<br />
“Perfetto! Quello! Non la scuola, non la famiglia, in cui le<br />
regole sono imposte. Parlo del luogo in cui si è da soli. Là,<br />
dovevate andare”.<br />
“Nel terzo luogo? Conosci l’indirizzo preciso?”<br />
“Dico sul serio”.<br />
“Quindi anche davanti alla tv”.<br />
“Anche”.<br />
“<strong>La</strong> discoteca?”<br />
“Non lo so, forse. Ci siete andati?”<br />
“Non proprio. Comunque io non mi sento affatto vecchio.<br />
Sia chiaro. Giusto per chiarire”.<br />
“Non avete fatto giustizia. Questo è il punto, caro mio”.<br />
“Ci penserà il tribunale per i minori. Il caso è chiuso per<br />
noi. Non è venuto fuori niente. Capita, no? Lo dici sempre<br />
anche tu, leggendo i giornali. Non è colpa mia. Qualcosa si è<br />
inceppato. Non siamo i primi, noi. E adesso deve essere per<br />
forza colpa nostra, ci deve essere per forza un capro… se non<br />
si è potuto… non si è potuto. E basta”.<br />
“Forse non sei entrato veramente dentro il caso. Non ti sei<br />
immedesimato abbastanza. Che ne so, forse dovevi sentirti<br />
l’assassinato; come se fossi lui”.<br />
“Se io fossi stato il Corietti, sarei rimasto vergine”.<br />
“Vedi? Avevo ragione. Nonostante l’esperienza maturata,<br />
non vi siete fatti investire a pieno dal caso. Avevate delle resistenze<br />
mentali”.<br />
“L’esperienza da sola non basta. Tutti parlano dell’esperienza<br />
come fosse chissà quale rimedio. Cazzate. Dipende dai<br />
casi. È come il tizio che, con gli occhi chiusi, tocca una zampa<br />
di elefante e pensa subito di essere in Africa. Mica è detto che<br />
si trovi davvero in Africa; mica è detto che aver fatto espe-<br />
250
ienza serva davvero a tirarti fuori dai guai. Mica che la pratica<br />
risolve tutto. E poi, io non ho mica finito… di far pratica”.<br />
“Però l’immedesimazione, la passione, aiuta”.<br />
“E che ne so io?”<br />
“Appunto”.<br />
“Niente più di così”.<br />
“Siete rimasti asettici”.<br />
“Eppure io mi sono sentito molto coinvolto in questo omicidio”.<br />
“Ma il morto non è stato sufficiente…”<br />
“Come?”<br />
“Non ti è servito, cioè”.<br />
“Doveva servirmi? E che, quello mica è morto per fare un<br />
favore a me”.<br />
“Be’, però, poteva essere una buona occasione per te, no?”<br />
“E perché?”<br />
“Per migliorare, no? Secondo me tu hai pensato che potesse<br />
esserlo e poi sei rimasto deluso. O no? Hai pensato: ecco<br />
questo è il mio risultato vero, concreto. Ma invece”.<br />
“Uffa!”<br />
“Sei nervoso”.<br />
“Comunque, te l’ho detto, il caso è chiuso e io me ne torno<br />
a casa. E non lo faccio per stanchezza”.<br />
“Lo fai perché hai paura dei froci? Ti fa paura la loro chiarezza?”<br />
“Angela, basta!”<br />
“Ehi, e che ho detto mai? Stavo scherzando”.<br />
“Torno e basta”.<br />
“Hai deciso?”<br />
“Sì, a casa credo di poter lavorare meglio, con una migliore<br />
percezione della realtà. Poi il codice da applicare, comunque,<br />
è sempre quello. Qui o là”.<br />
“L’hai detto a Ietta che te ne vai?”<br />
“Sì, ha risposto che lo aveva capito. È un po’ depresso, ma<br />
non è stupido. Non è depresso per colpa mia, comunque. Io<br />
non c’entro nulla. Ha detto che, secondo lui, questo non è il<br />
lavoro giusto per me, che io ho altri talenti da assecondare.<br />
Parlava così, in generale”.<br />
“Sì? Quali?”<br />
251
“Parlare, insegnare, ricercare; cose così. L’università, per<br />
esempio. Mi piace l’aspetto scientifico della realtà. Ietta dice<br />
che non posso sprecare queste attitudini. Così mi ha detto”.<br />
“Ti piace l’università?”<br />
“Mi piace. Perché non mi deve piacere?”<br />
“Ti piace farti notare, semmai. Come tuo padre”.<br />
“No, scusami, chiariamo: mi piace avere un ruolo, pur restando<br />
nell’ombra. Davvero, invece, tu credi che io voglia solo apparire?<br />
Davvero è questo che pensi, davvero? Non è possibile.<br />
Dimmi, dimmi. Ma se me ne sto sempre da parte; se non forzo<br />
mai la mano. Non è possibile! Questa me la devi spiegare”.<br />
“Calma”.<br />
“Eh, adesso te ne vieni fuori con questa storia”.<br />
“Non sei egocentrico, ma finisci per apparirlo; non so neppure<br />
come fai, ma è così. Parli di te, pensi a te, costruisci e smonti, c o m e<br />
se fossi un collaudatore Lego. Certe volte sei proprio strano!”<br />
“Strano?”<br />
“Hai bisogno di essere ovunque. Poi fai confusione,<br />
pasticci vari, e senti l’esigenza di ricucire”.<br />
“Ma ti piaccio così?”<br />
“Ho turbato la tua vanità, evviva!”<br />
“Ietta dice che faccio bene a tornare. Io lo vorrei capire se<br />
faccio bene. Tu cosa pensi?”<br />
“Attento. A casa è più difficile restare nell’ombra. Qui ti<br />
conoscono tutti, ti romperanno le scatole dalla mattina alla<br />
sera. Tutti ti chiederanno piaceri, ti supplicheranno di fare<br />
dichiarazioni a favore o contro qualcosa. Ci sono le vecchie<br />
amicizie da controllare, arginare. Io, pure, ti costringerò a<br />
riprodurti, e avrai così meno tempo per studiare e lavorare.<br />
Meglio i froci, tutto sommato”.<br />
“Tanto devo tornare per forza, altrimenti tu…”<br />
“L’hai capito, allora. È un business il nostro”.<br />
“Non sono un cretino”.<br />
“Allora non fare finta di avere una scelta, per cortesia.<br />
Comunque, in fondo, hai fatto una buona esperienza. Peccato,<br />
nessun atto di giustizia, ma tanti bei provvedimenti in stampone”.<br />
“Cavolo. Solo alcuni dei provvedimenti sono in prestampato<br />
e poi sono io a collazionarli, sempre”.<br />
252
“Che importa? Prestampati o no, hai creato qualcosa di<br />
tuo. Questo fa la differenza. Hai creato un tuo universo da<br />
esportare in moduli. Mica tutti! Hai chiesto ai tuoi colleghi se<br />
anche loro l’hanno fatto?”<br />
“Lo fanno tutti”.<br />
“E quindi?”<br />
“Quindi faccio bene a tornare?”<br />
“Certo, tanto ogni giudice che arriva in una nuova sede, i<br />
suoi bravi stamponi se li vuole creare da solo; mica si fida di<br />
quelli precostituiti da altri prima di lui. O sbaglio?”<br />
“Non sbagli”.<br />
“Conosco la magistratura, oramai. I miei polli. Che ci vuoi<br />
fare”.<br />
“Allora torno?”<br />
“Sì, anche se io ti darò il tormento”.<br />
“Non puoi approfittarti così di un povero uomo confuso;<br />
di un avversario praticamente a terra”.<br />
“Nessuna tregua. Siamo una società: lo sai o no?”<br />
“Comunque ho deciso. Anche se poi niente esclude che fra<br />
qualche anno mi ritorni la voglia di cambiare, che mi ritorni<br />
un attacco di noia e chieda il trasferimento. Tu allora mi<br />
seguirai e basta”.<br />
“Chi può sapere come sarà il nostro futuro. Chissà cosa<br />
saremo fra dieci anni”.<br />
“Non parlo di sfere magiche, ma di psicosi maschili”.<br />
“Sei un esperto in materia”.<br />
“Insomma, che faccio?”<br />
“Sei pedante. Ecco quello che sei. Pedante”.<br />
“Cioè?”<br />
“Guarda che se torni a lavorare lo scopriranno tutti; se ti<br />
esponi così, come stai facendo, lo capiranno tutti”.<br />
“Cosa capiranno?”<br />
“Quanto sei ossessionato da te stesso, dal concetto di fallibilità”.<br />
“Allora non torno?”<br />
“Ti devi sempre lasciare aperta una possibilità, eh? Devi<br />
sempre avere sotto controllo la rosa delle opzioni possibili?<br />
Non sai rinunciare, tu”.<br />
253
“Torno. Se però poi decido di partire, di nuovo e poi di<br />
nuovo, tu devi venire con me e non si discute”.<br />
“Partire?”<br />
“Altra sede, intendo. Per cambiare”.<br />
“Io, con un figlio? Ti sego le gambe semmai. Non è la città<br />
che mi fa cambiare. Io devo aspettare”.<br />
“Ti sbagli su questo”.<br />
“No, non mi sbaglio. Anche se non ho figli, non mi serve<br />
una città”.<br />
“E se mi viene voglia di ripartire?”<br />
“Resisti, ti controlli, come faccio io, come facciamo noi donne”.<br />
“Voi donne non vi controllate affatto”.<br />
“Noi donne?”<br />
“Non so, mi sembra così. Un fatto naturale”.<br />
“Noi donne? Troppo facile. <strong>La</strong> natura non esiste”.<br />
“E perché lo dici con questo astio? Io non ho mai distinto<br />
l’universo maschile da quello femminile. Lo sai che per me<br />
sono tutte cretinate”.<br />
“Bugiardo. L’hai fatto, l’hai fatto. Eccome se l’hai fatto, e<br />
lo fai ancora”.<br />
“D’accordo. Vedremo. Vorrà dire che in futuro mi prenderò<br />
delle pause, comunque, a conferma”.<br />
“Da chi?”<br />
“Da tutto”.<br />
“Vada per la pausa. Come vuoi. Ti farò credere che ti stai<br />
prendendo delle pause”.<br />
“Mi può bastare, per ora. Torno, quindi?”<br />
“Ancora con questa storia?? Non sei soddisfatto di te, di<br />
noi? Hai il tono di quello che si aspettava altro. Consolati<br />
pensando che la parte migliore di un viaggio è il ritorno”.<br />
“E chi lo dice?”<br />
“Io e qualcun altro”.<br />
“Qualcuno che sapeva come essere felici?”<br />
“Forse”.<br />
“Va bene, se lo dici tu, ci credo. Mi può bastare. Per ora.<br />
Torno”.<br />
“Sì, torna. Sapere dove ritornare è già qualcosa”.<br />
254
Ringraziamenti finali<br />
Diciamolo: questa pagina è un fatto d’uomini. Sono qui dopo una lunga camminata<br />
fatta in mezzo ai miei maschi letterari, ai miei maestri di tutte le età, di tutte<br />
le invenzioni. Erano secoli che volevo ringraziarli tutti, uno per uno. Non citerò i<br />
cognomi: ciascuno si riconoscerà, gli altri immagineranno.<br />
Questa storia mi è stata raccontata la prima volta una domenica d’inverno a<br />
pranzo da Alcide, da allora lui non ha mai più smesso di raccontarla, convinto che<br />
io da sola non potessi farlo in modo completo, e io non ho più smesso di ascoltarlo.<br />
Grazie a lui.<br />
Questa storia, divenuta un plot, l’ha letta per la prima volta Luigi e ha detto<br />
dai, provaci, prenditi il tempo che ti serve.<br />
Grazie a lui.<br />
Questa storia l’ha letta poi anche Michele e ha detto tu scriverai di certo qualcosa<br />
di buono, sei sulla strada giusta, io sono seriamente interessato alle cose che scrivi.<br />
Grazie a lui.<br />
Dopo ha letto Stefano e ha detto io ci farei un libro, non sarebbe un rischio, non<br />
cambierei una parola.<br />
Grazie a lui.<br />
Questa storia, insieme a molte altre, sono state lette qualche mese dopo da<br />
Livio e ha detto tu mi sorprendi sempre.<br />
Grazie a lui.<br />
Poi è stata la volta di Rossano il quale ha subito detto m a n d a re, mandare, non<br />
si discute: ti do un po’ di indirizzi, e poi ha cominciato a sfornare titoli a vagonate,<br />
primo tra questi quello più audace, più inquietante, divenuto poi quello definitivo.<br />
Grazie a lui.<br />
Mentirei però se dicessi che non ci sono state donne a guidare le sorti di questa<br />
vicenda. Senza le donne nulla nasce davvero, si sa. Grazie ai sogni senza limiti<br />
di mia madre Ada, grazie alla fiducia di Ornella quando era libraia, all’ispirazione<br />
nata dagli occhi parlanti di Caterina e all’entusiasmo concreto e stabile di Silvia.<br />
Ora che mi sono tolta la soddisfazione, metto il punto con autentica serenità.<br />
255
Stampa Arti Grafiche Stibu<br />
Urbania, febbraio 2007