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HAPPY HOUR - La Repubblica

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<strong>HAPPY</strong> <strong>HOUR</strong>


Prima edizione: febbraio 2007<br />

© 2007 peQuod, Ancona<br />

www.pequodedizioni.it<br />

ISBN 978 88 6068 016 7


Elisabetta Liguori<br />

Il correttore<br />

Un giallo inutile<br />

peQuod


Per Ugo, la mia origine<br />

Per Ada, la mia perseveranza<br />

Per Fiore e Riccardo, la mia concentricità


I CAPITOLO<br />

“Forse un infarto, dottore”.<br />

“Le passo il procuratore. Arrivederci”.<br />

Il telefono squillava di continuo. Cercava conferme. Io<br />

guardavo Ietta, lui guardava me. Con le sopracciglia virgolettava<br />

e io rispondevo. Quella volta l’intestino mi arrivò dritto<br />

in gola, prossimo a una fitta tra orecchio e collo, fin dentro,<br />

ai denti; un freddo solido come una saracinesca di metallo, e<br />

mi venne da sorridere. Ecco il labirintico percorso della sorpresa.<br />

Meraviglioso: il mio primo cadavere.<br />

Prima di allora mi era capitato soltanto quello di una<br />

nonna novantenne e di una cugina con il cancro ai polmoni.<br />

Cadaveri composti, bianchi, con qualche sbuffo di merletto<br />

sotto le bocche appese, poco aperte. Comunque non per<br />

lavoro; mai per lavoro fino a quel giorno. Un cadavere in<br />

Procura era normale; sapevo che sarebbe arrivato, solo questione<br />

di tempo, come per ogni cosa che deve venire e viene,<br />

senza stupore. L’avevano ammazzato anche per me. Senza<br />

neppure aspettare tanto. Era accaduto in fretta, anzi, considerato<br />

che all’epoca ero ancora uditore. Il concorso in magistratura<br />

un anno prima e poi, con calma, l’uditorato di sei mesi in<br />

Procura con il dottor Ietta. Diritto e morti ammazzati. Morti<br />

ammazzati e procedura penale. Avevo studiato come un cane<br />

con la rabbia, per anni, andati via come olio. Alla fine della<br />

corsa avevo scelto quell’ufficio per attitudine. Cadaveri a<br />

5


parte. Mi sentivo sorprendentemente incline all’indagine,<br />

cinematograficamente incline. Ed anche incline al viaggio, a<br />

far valigie.<br />

Ormai sono trascorsi dieci anni da allora, da quel giorno.<br />

Alla prima notizia del morto, la Procura doveva essere sul<br />

posto; bisognava fare in fretta, muoversi velocemente, in macchina<br />

di solito, e andare. Il sostituto procuratore teneva alla<br />

mia presenza, per questo andai anch’io. Apriva le braccia a<br />

ciambella come farebbe una chioccia, il mio capo, e io mi infilavo<br />

dentro il cerchio della sua comprovata professionalità,<br />

fin troppo comodamente. Quel gesto rituale era il suo messaggio<br />

in codice. In quella occasione, in particolare, il capo<br />

m’invitò aggiungendoci un sorriso millepieghe e davanti alla<br />

gentilezza, non posso proprio evitarlo, io mi arrendo. Ha un<br />

suono raro, come l’argento di una campanella tintinnante che<br />

mi ricorda quando ero bambino e tutto mi tintinnava intorno.<br />

Sono legato alle tradizioni. Lo so che sono noioso, per<br />

alcuni sono davvero noioso; certe volte mi sento di cent’anni,<br />

portati con disinvoltura, ma cento! Cento soldatini di stagno,<br />

in fila, a ricordarmi chi sono diventato.<br />

Ad essere onesti, il capo mi sorrideva sempre e, a ogni sorriso,<br />

ripeteva di conoscere mio padre, e già questa affermazione,<br />

scoccata tempo addietro come un bacio, al momento delle<br />

presentazioni, mi aveva centrato. Segnato. E sì, caro, io conoscevo<br />

tuo padre… Sai quale novità! Non era l’unico. Quella<br />

del “conosco tuo padre” era una storia abusata. Dal portiere<br />

all’uomo politico: il mondo conosceva mio padre. Dopo quell’esordio<br />

banale, ogni volta che guardavo un po’ più a lungo<br />

la faccia del mio capo, evocavo la pipa fumante di mio padre.<br />

Inevitabile. Tutti magistrati noi, ma non tutti con pipa. Io non<br />

fumo. Il tabacco, però, è un mio pensiero fisso. Tradizioni e<br />

contraddizioni.<br />

Mi sorrideva di continuo il dottor Ietta; a pensarci bene,<br />

forse esagerava. Un tic nervoso? All’inizio rispondevo solerte<br />

alla cortesia, gravando, pur con scarsi risultati in termini di<br />

espressività, sulle rughe intorno agli occhi. Poi avevo preso a<br />

razionalizzare l’uso della mascella e dello zigomo.<br />

6


Risparmiavo, se potevo, tanto non ne valeva la pena: lo sforzo<br />

facciale non era ripagato da alcun risultato. Il dottor Ietta<br />

neppure ci faceva caso. Si concentrava piuttosto sul suo sorriso<br />

di risposta, come fosse un lavoro. Così, le mie allucinazioni<br />

da fumo passivo diradavano lentamente.<br />

Si avvolgeva di un linguaggio ricercato come fosse un<br />

pastrano di stoffa dura, ma nell’occhio conservava lo scatto<br />

imprevisto e rapido di un film d’animazione. Pragmatico con<br />

cappello floscio, indossato forse, la prima volta per necessità<br />

climatica, poi per coerenza. Basso e nero, con la riga in mezzo<br />

ai capelli lisci. Me lo ricordo bene il mio sostituto procuratore,<br />

con la fronte levigata che si allargava come un residuo<br />

d’onda sulla spiaggia.<br />

Aveva voluto essere il mio affidatario, aveva insistito,<br />

anche se con l’anzianità che aveva maturato se lo sarebbe<br />

potuto risparmiare. Invece. A pensarci bene, infatti, era una<br />

rogna; io ero una rogna. Prendi un tipo, giovane e inesperto,<br />

e gli trasmetti quello che sai, parte di quello che sai, se hai<br />

occasione più di quello che sai; tenti pavide deleghe piene<br />

d’ansia. Comunque sia, ogni gesto lo devi motivare, lo devi<br />

rallentare, commenti ogni scelta, la metti in discussione, ti<br />

ripeti; ti devi pure documentare per non fare brutta figura.<br />

Devi parlare e ascoltare. Devi bere un mare di caffè, non leggi<br />

più il giornale in silenzio, come sei abituato a fare da anni, ma<br />

ti senti costretto a commentarlo a voce alta. Devi trovare le<br />

parole, e mica è vero che ci sono parole per tutto e tutti. Devi<br />

fare uno sforzo. Rogne. Ma lui, niente, aveva voluto l’incarico,<br />

forse per quel fatto lì, che conosceva mio padre. Erano<br />

giovani entrambi all’epoca del loro primo incontro. <strong>La</strong> giovinezza<br />

certe volte ti frega per la sua meraviglia e per l’estrema<br />

rapidità. Mio padre, poi, è uno che non si fa dimenticare,<br />

comunque. Mio padre e la sua pipa. C’era chi l’aveva conosciuto<br />

durante il servizio miliare, chi era stato suo compagno<br />

d’università, centinaia i colleghi/magistrati/fratelli in giro per<br />

l’Italia, chi era stato suo vicino di casa, chi aveva ricevuto da<br />

lui una cortesia, chi un rifiuto, chi gli aveva curato il giardino<br />

e potato le aiuole. Con questa sua fissa del creare legami, lui<br />

e il territorio erano una cosa sola, soprattutto dopo che si era<br />

7


impegnato anche in politica. Lunga storia. Sembrava avesse<br />

vissuto più a lungo degli altri. Ma un padre immortale quando<br />

lo si rimpiange? Mitologico papà, che quando lo devo<br />

abbracciare, anche oggi, i gomiti mi navigano nell’aria timorosi<br />

per qualche secondo. Sempre.<br />

Quindi, diciamolo, era per responsabilità paterna se dieci<br />

anni fa mi ero trovato lì, dove e quando ammazzarono quell’uomo.<br />

“Il Corietti”, come lo chiamavano in città.<br />

Dopo dieci anni, vedo ancora le porte dell’ascensore che si<br />

aprono a strappi, sferragliando su di noi: io, il procuratore e<br />

tal Agrimi, l’autista, che restiamo immobili aspettando il via,<br />

finché il capo dice, autorevole: scendiamo a piedi. Lo diceva<br />

sempre. Lo disse anche quella volta lì. Nella pigra discesa<br />

delle gambe tra gli scalini, scappava spesso una parola in più,<br />

un chiarimento, un ricordo o il fiato più fine. Una rampa di<br />

scale scioglie la lingua, l’ascensore la irrigidisce. Non so perché.<br />

Deve essere una qualche questione legata al movimento<br />

fisico. Il capo voleva prendere le scale perché aveva voglia di<br />

parlare di cadaveri. Il primo cadavere per un magistrato è faccenda<br />

di cui si parla. Anche il secondo. Un cadavere non è<br />

mai uguale a un altro, e già questo può essere una spinta sufficiente<br />

alla chiacchiera. Il mio defunto è più morto del tuo.<br />

Confronti, sfide. Un cadavere può essere morto meglio di un<br />

altro, per ragioni più consistenti, più valide; non tutte le morti<br />

sono ugualmente interessanti, utili, fertili. I magistrati lo<br />

sanno. Quelli che fanno penale lo sanno. Solo i magistrati che<br />

fanno penale parlano di cadaveri. Tra questi, addirittura, ci<br />

sono alcuni fortunati che possono parlare di autopsie avendovi<br />

assistito; della tecnica, dell’incisione, del pathos dell’osservazione<br />

interna. Possono dire di aver rovesciato il calzino. È<br />

il massimo. Si parla per mesi del proprio primo cadavere, con<br />

dovizia, con metodo; si ragiona del sangue, del muco, dei<br />

frammenti d’ossa sparsi fuori pista. Lo fanno anche gli uditori,<br />

se capita.<br />

Così mi preparavo al mio film. Mi ripetevo: Dario<br />

Argento, se è tutto un frangersi di arterie, altrimenti Brian De<br />

Palma.<br />

8


Dunque si andava verso una morte ignota, mentre pioveva.<br />

In quasi tutti i thriller, al momento del crimine, piove.<br />

Prendi a caso, che ne so, la Cornwell. Un esempio per tutti.<br />

Una per dire. Piove sempre nei suoi libri e la pioggia, a cascate,<br />

si mescola al sangue. Piove poco meno giusto nei gialli<br />

all’italiana, spesso ambientati al sud. In Soriga c’è la pioggia,<br />

nera pioggia, è vero, ma i suoi gialli sono ambientati in un<br />

luogo imprecisato, che sembra il sud ma non è detto; non<br />

vale, quindi. <strong>La</strong> pioggia in quel caso è l’oggetto non l’aggettivo.<br />

In Camilleri c’è il sole. Ma la sua è la Sicilia del sogno<br />

ideale, e non c’entra la pioggia con la Sicilia.<br />

Nel mio caso: pioggia come per i migliori. Pioveva non per<br />

caso. Ché poi non è un dato statisticamente riscontrabile che<br />

si muoia di morte violenta solo sotto la pioggia. Con l’afa estiva,<br />

anzi, s’incentiva il numero dei crimini; cresce l’efferatezza<br />

con il termometro. Si muore di più sotto al sole, dall’alba al<br />

tramonto, ma se ne parla di meno. È letteratura minore. Sia<br />

come sia, quel giorno pioveva.<br />

L’ombrello lo portava l’Agrimi autista e ci andavamo sotto<br />

in tre: l’autista sul lato, porgeva rispettosamente la destra e<br />

riceveva in cambio scolature d’acqua gelida dritte nel bavero<br />

rialzato dell’impermeabile. Ci uniformavamo al passo del<br />

capo, da pendolo, che restava al centro del trio, continuando<br />

a dissertare di necrofilia. Poi in macchina, sedevamo sul sedile<br />

posteriore, dove riposava ogni mattina il quotidiano del<br />

giorno prima. Dimenticato. Letto appena un po’.<br />

Pioveva quel giorno e non era un dettaglio. In macchina<br />

guardavo il vetro schizzato e oltre la città acneica. Non era la<br />

mia città. Ero in un’altra città, diversa dalla mia. Me ne ricordavo<br />

ogni volta che non riuscivo a immaginare cosa mi aspettasse<br />

allo svoltare in un vicolo, ogni volta che sbagliavo strada,<br />

le volte in cui non ero in grado di dare indicazioni corrette<br />

a un passante in difficoltà, quando salivo in autobus ed ero<br />

in affanno circa la progressione delle fermate. Quando salivo<br />

in autobus, comunque, già quello era elemento di novità, ché<br />

dalle mie parti non si era soliti usare gli autobus; ammesso<br />

che ce ne fossero. Ero in lieve ansia anche quando per cena<br />

ordinavo una pizza d’asporto, o se non trovavo parcheggio;<br />

9


non sapendo come fare il furbo, in quale anfratto andare a<br />

imbucarmi.<br />

Era stata mia la scelta, però. Avevo voluto completare i<br />

miei 18 mesi complessivi di pratica in una città diversa dalla<br />

mia. Di questi, sei mesi con Ietta.<br />

Mio padre diceva che mi avrebbe fatto crescere. Lui ne era<br />

certo e io avevo scelto sulla base delle sue certezze. Avevo<br />

comprato cinque valigie nuove, le ricordo bene, di forma differente<br />

ma dello stesso colore. Dimensioni a crescere o a<br />

decrescere, come bambole russe. Bellissime, perché nuove.<br />

Vivevo in quella città, che non era la mia, dal lunedì al<br />

venerdì, giorno in cui tornavo a casa da mia moglie. Non avevamo<br />

figli e anche lei lavorava. Mi sentivo un fringuello sul<br />

davanzale.<br />

Avevo preso un appartamento in affitto, appartenuto a una<br />

coppia di coniugi anziani che si erano spenti, solidalmente,<br />

l’uno a breve distanza dall’altra, e poi gestito dall’unico figlio<br />

addolorato. Un appartamento carico di vecchie fotografie, di<br />

figurine attaccate da probabili nipoti sulle mattonelle fiorate<br />

della cucina, a un prezzo stracciato, ma che dovevo preservare<br />

intatto nel tempo, per contratto. Evidentemente, al proprietario<br />

ero apparso come un uomo sensibile a questo tipo<br />

di problematica. Un ottimo custode dei sentimenti altrui.<br />

Forse.<br />

Attenzione al mio olfatto da segugio. Quando dico incline<br />

all’indagine, non lo dico tanto per dire. Le inclinazione sono<br />

una cosa seria, secondo me. Infatti. Ogni stanza dell’appartamento<br />

preso in affitto, nonostante tenessi costantemente le<br />

finestre aperte, conservava ancora una fragranza intensa di<br />

lucido da scarpe. Saranno stati i mobili, i divani, le tovaglie<br />

ancora perfettamente piegate nel terzo cassetto della madia in<br />

tinello, forse una fissa di contenuto puramente estetico dell’anziano<br />

proprietario; chi lo sa. Non so, ma l’odore era prepotente.<br />

È per questo che per me i cadaveri, ancora oggi,<br />

hanno lo stesso odore di un paio di mocassini di pelle ben<br />

lustrati.<br />

Non era la mia città e dunque mi abituavo con caparbia<br />

lentezza. Nella mia città non pioveva così spesso e, per que-<br />

10


sto, l’uso dell’ombrello mi era estraneo. Del tutto. Se ne compravo<br />

uno, lo dimenticavo subito dopo l’acquisto nel primo<br />

bar da cui passavo e, soltanto se ero noto al titolare – se non<br />

io, magari mio padre – quello, cortese, me lo metteva da<br />

parte. Altrimenti, era perso per sempre. Soldi buttati.<br />

In realtà adesso le cose sono un po’ diverse: piove anche<br />

dalle mie parti e sono piuttosto turbato da questa novità.<br />

Inutile negarlo, circa dieci anni fa, nella mia città solo sputi<br />

d’acqua ogni tanto. Neve, poi, nemmeno a parlarne. Se nevicava<br />

ci faceva un fortunato servizio la tv locale, posta l’eccezionalità<br />

dell’evento. Figurarsi. Adesso, invece, è cambiato<br />

qualcosa nel clima. Sono onesto: è un fatto che mi frastorna.<br />

Nell’altra città, nell’altro mio luogo, quella del mio praticantato,<br />

quando il lunedì mattina presto mi mettevo alla guida<br />

per andare a lavorare, mi chiedevo sempre p i o v e r à ?, e solo<br />

dopo essermi risposto non lo so, mi accorgevo di non aver<br />

messo in macchina l’ombrello. Poi, di solito, pioveva. Adesso<br />

che piove anche nella mia città, una pioggia irata, imprevista,<br />

rapida come uno starnuto, non posso più fare le distinzioni e<br />

le similitudini che amavo fare, tra il prima e il dopo, tra il<br />

bello e il brutto, tra il mio e il loro. Si slabbrano i confini tra<br />

gli eventi, perdo il perno su cui far girare i giorni. Mi vedo<br />

costretto a rimisurare le distanze. Non credo mi piaccia.<br />

Non ero a casa mia, quindi era importante seguire i passi<br />

del dottor Ietta. In senso fisico. Contarli e passarli a memoria.<br />

Lui camminava indicando la strada giusta, io accanto.<br />

È chiaro: non conoscevo minimamente la zona in cui era<br />

avvenuto il fatto. Mi era anzi del tutto estranea, quasi ostile.<br />

Una situazione simile non solletica l’intuito di chi indaga,<br />

come si potrebbe credere, anzi, lo ammorba, lo intimidisce.<br />

Ma io ero pronto alle novità. Resistevo. Il territorio, i luoghi,<br />

sono fondamentali in un’indagine; quasi quanto il cadavere.<br />

Bisogna possederli per lavorarci sopra. Masticarli per trasformarli<br />

in altro, in appartenenza. Perfetto: io mi sentivo pronto<br />

a quell’impegno.<br />

<strong>La</strong> prima cosa che feci, arrivato sul posto, fu guardare, in<br />

un modo che quasi gli occhi non bastavano. C’era sangue<br />

11


dappertutto. Ma quale infarto? Una mattanza, uno splatter<br />

iperviolento, un’esagerazione; un massacro, con giusto qualche<br />

profilo mistico. Il cadavere, infatti, era stato ritrovato<br />

all’interno di una libreria di articoli sacri. Lo dissi al tipo del<br />

telefono ma quale infarto, scusa?, e quello rispose scherzavo,<br />

dottore, ma non so se era vero.<br />

Era buio al momento del nostro ingresso. Caliginosi cervelli<br />

in panne tra lampadine fulminate. Nessun riflettore sui<br />

nostri primi passi all’interno del teatro. Un palcoscenico<br />

prima dell’apertura del sipario. Lo stesso vapore da debutto.<br />

Entrando, ci si accorgeva che nella stanza c’era gente solo dall’odore<br />

dall’aria, e ad aver un buon naso.<br />

Naso e occhi da gufo, per cominciare.<br />

<strong>La</strong> città intanto si metteva in movimento con qualche bicicletta.<br />

Poche soltanto perché pioveva. Nel quasi buio.<br />

Saranno state le 9.10, almeno credo. Il negozio insisteva su<br />

una strada non aperta al traffico, ma c’erano un paio di vetture<br />

parcheggiate in divieto di sosta proprio davanti. Una strada<br />

centrale a tavelle lisce e riflettenti come strass: su un lato,<br />

a destra della libreria, una farmacia, a sinistra il grande portone<br />

che apriva sulla Curia vescovile. Avanzi di cappuccini<br />

oleosi nell’aria. All’interno della libreria, i caramba e il medico<br />

legale si muovevano come astronauti senza ossigeno, lesinando<br />

sui passi. Il corpo della vittima era quasi del tutto<br />

nascosto dal bancone per la vendita e, sul pavimento, dal<br />

punto in cui sbucava la testa, si allargava una macchia di sangue<br />

ampia come il mantello di Superman in volo. Trentotto<br />

coltellate inferte per lo più al busto, avremmo stabilito subito<br />

dopo, alle braccia e al volto, e forse, magari, anche un<br />

sopraggiunto infarto. Chissà se lo avrebbe confermato il<br />

medico, in omaggio al disarmante intuito dell’Arma. <strong>La</strong> dottoressa,<br />

il medico legale, era una giovane donna la cui colonna<br />

vertebrale ricordava vagamente un bisturi, e continuava a<br />

toccarsi la fronte con i guanti – poverino su e poverino giù –<br />

mentre, china, i capelli le ricadevano sul viso come la paglia<br />

di uno scopino nuovo.<br />

Una fiction, tutta plastica e effetti speciali, finché un carabiniere<br />

non mise il piede nel sangue. Squassò la forma perfet-<br />

12


ta del colore che sfugge e diventa un lago. Senza rispetto,<br />

impiastricciò il resto della stanza con le sue gulliveriane<br />

impronte, alterando la scena irreparabilmente. Chi se lo<br />

dimentica: quello continuava ad andarsene in giro imperterrito,<br />

infilandosi in ogni dove, senza mai guardarsi i piedi. A<br />

osservare con attenzione, anche sul bordo dei pantaloni neri,<br />

all’altezza della piega, perfetta e rigida quanto quella che lo<br />

stesso carabiniere si era autoprocurato in testa con un pettine<br />

a denti stretti e il gel, c’era uno sbaffo di sangue, quasi una<br />

passata di rossetto su un labbro livido. Come per infinite piccole<br />

altre ferite intorno alle prime, i suoi anfibi lanciavano<br />

schizzi, componevano bouquet di fiori rossi, petali strappati,<br />

fanghiglia che suonava di disgustosi ciak ciak. Così mi colse<br />

un conato davanti all’emoglobina violata. Chissà che avrebbe<br />

detto il capo. Ma non se ne era accorto nessuno, e io rimasi<br />

interi minuti a chiedermi se avessi dovuto segnalare lo scempio<br />

e cercare un bagno. Ora, a vedere questi qui, sembrava<br />

che la sacralità della scena del crimine, la scienza esatta dei<br />

luoghi, pagine e pagine di sudati manuali di criminologia, fossero<br />

solo mie fantasie da secchione. Cazzo facevano questi?<br />

Dove se ne andavano bel belli? Era normale tutta questa<br />

approssimazione? Lo scandalo mi rigurgitava in gola un acidulo<br />

misto di caffè e panna. Inorridivo, ma non dissi niente,<br />

non era mio il caso. Potevo tacere. Magari ero io a sbagliarmi;<br />

magari era quella la prassi: lo spiaccicamento creativo, estemporaneo.<br />

Che ne sapevo? Quindi, zitto. Tanto ero solo uno<br />

che stava facendo pratica e basta.<br />

Distolsi lo sguardo e buttai giù la saliva. Uno, due e tre.<br />

Nessuno si era accorto di nulla. Il negozio non aveva ancora<br />

aperto e l’omicidio si andava collocando temporalmente tra le<br />

7.45 e le 8.15 dello stesso giorno. Vicino al cadavere restava<br />

una ramazza e un po’ di lanugine polverosa rappresa in gomitoli.<br />

Nessuna effrazione, serrature nella norma. Neppure una<br />

cicca in quella lana, né altrove. Io faccio caso agli “arnesi da<br />

fumo”, l’ho detto, ma lì nemmeno una cicca. Certe volte le<br />

cicche aiutano, svolgono una funzione di tipo investigativo.<br />

Sono un evergreen. <strong>La</strong> cicca, il rossetto o la saliva. In compenso<br />

furono scattate molte fotografie.<br />

13


<strong>La</strong> dottoressa disse che si trattava di un uomo di circa cinquant’anni.<br />

Più alto della media, estremamente magro, nodoso.<br />

Si immaginò che potesse trattarsi dell’uomo delle pulizie.<br />

Magari non solo di quelle, comunque, al momento della<br />

morte, si stava certamente dedicando alle pulizie. Indossava,<br />

infatti, un grembiule plastificato verde. <strong>La</strong> pettorina tagliata<br />

in più punti non assorbiva il sangue: la stoffa idrorepellente<br />

lo aveva fatto scolare via, lungo il corpo, sul pavimento, in<br />

rivoli, cascatelle e rapide. Il succo era stato estratto dal corpo,<br />

trasformantosi in carta da regalo natalizia: rossa e crespa.<br />

Io ero in mezzo a quella gente con le mani nelle tasche del<br />

mio giaccone blu. Sì. Portavo un giaccone blu all’epoca, da<br />

vecchio lupo di mare. C’era stato il tempo del jeans, dopo<br />

quello del trench panna, dopo ancora il rigore del cappotto<br />

color cammello. Ogni anno la sua divisa. Quello che vivevo<br />

era l’anno del giaccone blu. Il blu delle attese. Nelle tasche<br />

mettevo le chiavi della macchina e ogni tanto le facevo scampanellare<br />

con le dita. Avevo gli occhi e le narici all’erta, ma<br />

con contegno. Un praticante è sempre in attesa di una<br />

domanda. E pure io aspettavo una domanda, una qualsiasi,<br />

un coinvolgimento professionale, anche minimo, da parte del<br />

capo, magari un quesito venuto fuori dalla bocca di uno dei<br />

militi presenti o del medico legale; non del morto, possibilmente.<br />

Ero pronto a una domanda, ma quelli quasi non respiravano,<br />

figuriamoci pronunciare una parola utile. L’unica<br />

cosa che sapevano fare era modificare di continuo lo stato dei<br />

luoghi. Ora là, ora qua; i quattro cantoni. Pareva il momento<br />

della tumulazione, più che della rivelazione. Regnava il silenzio,<br />

gli scatti di nervi e l’incertezza sotto il marmo, è chiaro,<br />

io mi aggiravo a testa bassa, elemosinando bisbigli. Mi svuotavo<br />

e mi riempivo come il collo argenteo di una tromba,<br />

senza suono. Mentre tutto cambiava. Che spreco d’intelletto<br />

umano!<br />

Preliminarmente c’era da cogliere la struttura dei diversi<br />

ambienti: vani, ripostigli, porte, finestre, serrature; non sapevo<br />

cosa era stato fatto dalle forze dell’ordine al momento<br />

della scoperta del cadavere. E cosa invece non era stato fatto.<br />

14


Una piantina ufficiale sarebbe stata propizia. Niente.<br />

Ma se ci fosse stata sarebbe stata più o meno così, se la<br />

memoria non mi inganna: si entrava da una porta non grande,<br />

sulla sinistra una vetrina si affacciava sulla strada, sulla<br />

destra, invece, un’esposizione di articoli per uso solo interno.<br />

<strong>La</strong> vetrina esterna esponeva libri tra candelieri d’argento e<br />

quadri d’epoca. Una Madonna con bambino lanciava riflessi<br />

dorati con enormi labbra meste. <strong>La</strong> vetrina interna, diversamente,<br />

era molto più grande. Nel buio intravedevo falene da<br />

collezione: paramenti sacri appesi con spilli alla parete felpata<br />

amaranto. In giro, negli angoli, tonache nere su manichini<br />

mozzati, con le gambe a girello. Ombre sinistre tra i calici<br />

d’oro. Dario Argento, di certo, avrebbe sbadigliato di quell’ovvietà<br />

scenografica. Dietro il bancone, una libreria contro<br />

il muro, da parete a parete, una ventina di mensole a giorno<br />

di legno decapè. Libri, appunto: una massa disomogenea per<br />

forme e colori. Non solo bibbie. Qualche contaminazione<br />

cromatica sfuggita dalla fantasia repressa delle edizioni<br />

Paoline.<br />

Il bancone per il pubblico era scostato sulla sinistra rispetto<br />

all’ingresso. Nell’angolo c’erano la cassa e il telefono. Sul<br />

fondo, una porta dava su altri due vani comunicanti tra loro:<br />

magazzini colmi di scatole di cartone e imballi voluminosi. A<br />

sorpresa, l’ambiente di sinistra aveva un’altra uscita: una<br />

porta più piccola. Seppi che comunicava proprio con la Curia<br />

lì accanto. Ad un passo da Dio.<br />

Porta aperta o porta chiusa? Non potevo toccare nulla.<br />

Guardare, solo guardare. Le impronte, per carità, le impronte!<br />

Non toccavo nulla, d’accordo, ma restava chiaro che nessuno<br />

si interessava davvero al tema delle porte. Neppure a<br />

quello. Malissimo, secondo me. Sarebbe stato fondamentale,<br />

a mio modesto avviso, parlare di porte. Se qualcuno entra in<br />

un certo ambiente, ammazza qualcuno ed esce, è vitale parlare<br />

di porte.<br />

Dopo il tour solitario, ritornai indietro. Segugio senza pratica.<br />

Uscii all’aperto: aveva smesso di piovere; una lamiera di<br />

cielo sfondava i pochi ombrelli distrattamente aperti nelle<br />

mani dei passanti e si schiantava sull’asfalto bagnato.<br />

15


Cicatrizzava in croste grigie. Foglie ovunque, forse venivano<br />

da lontano, ché non vedevo alberi. Forse più in là, alla fine<br />

della strada, c’erano alberi e vento. Il poliziotto che piantonava<br />

l’ingresso mi fece un cenno di cortesia. Qualche curioso<br />

allungava il mento verso di me, e per questo rientrai subito<br />

nella tana. Non prima però di aver dato una sbirciata al grande<br />

portone della Curia, lì a sinistra. Ancora chiuso.<br />

Gigantesca bocca serrata da ciclope che ha già concluso il<br />

pasto. Nessun movimento intorno. Sazietà. Feci cucù un paio<br />

di volte; neppure io riuscivo a star fermo. Giusto per fare,<br />

così.<br />

Dentro, intanto, si andava evidenziando una precisa necessità:<br />

rintracciare la proprietaria del negozio. Che era una<br />

donna l’avevamo accertato quasi subito. Dov’era? A quell’ora<br />

sarebbe dovuta essere in negozio. Chi si occupava delle<br />

vendite? Come mai non c’era ancora nessuno? Ammesso che<br />

si vendesse davvero qualcosa in quel posto scuro; ammesso<br />

che qualcuno davvero volesse informarsi circa l’arte di essere<br />

Dio.<br />

Ora, non è che io sia un tipo ansioso, né un perfezionista,<br />

ma in quel momento si era oggettivamente in una bolla d’inerzia.<br />

L’avrebbe intuito chiunque al mio posto. Non potevo<br />

sapere se tra i doveri di un magistrato ci fosse anche quello di<br />

far scoppiare certe bolle con una qualche puntuta iniziativa.<br />

No, non lo sapevo. Fingevo di saper cosa fare, ma non lo<br />

sapevo. Ietta, giustamente, faceva il suo mestiere, il medico<br />

legale faceva il suo mestiere, i caramba facevano il loro<br />

mestiere, pure il cadavere faceva il morto, restando immobile<br />

davanti a noi. Dall’insieme cosmico dei mestieri all’opera<br />

dipendeva il mio coinvolgimento nell’indagine. Ecco, più o<br />

meno così, per un praticante.<br />

Gli elementi per ricostruire il fatto dovevano pur essere da<br />

qualche parte. Chissà dove. Il tempo passava invano. Nessuna<br />

notizia circa lo stato delle porte, né delle luci. Si dice che i<br />

primi momenti siano fondamentali in un’indagine. Bene,<br />

quelli se ne andavano via. Ma non era colpa mia. In fondo, mi<br />

era richiesto solo d’imparare. Facile. Mi misi accanto al capo,<br />

spalla a spalla. Per imparare. Più gli stavo vicino, più avrei<br />

16


imparato. Lui non sorrideva più; prendeva appunti sull’agenda<br />

in pelle, ma io non ne decifravo la scrittura. Feci un breve,<br />

ma doveroso cenno alle storia delle porte, e lui mi osservò<br />

come si guarda il risvolto di copertina di un libro. Si soffermò<br />

sul dettaglio delle mie labbra in movimento, poi scrisse due<br />

righe in più sull’agenda. Tutto qui. Nessuna risposta.<br />

Sentivo il bisogno di un momento di sintesi. Ricapitolare,<br />

però, con quelle zampe di gallina zoppa sull’agenda del capo,<br />

sfido chiunque, non era un esercizio semplice. Dunque.<br />

Avevamo il nome della proprietaria fornito da un passante.<br />

L’ora del delitto. Si cercò il numero telefonico e l’indirizzo.<br />

Saranno stati presenti tre agenti e un maresciallo in tutto.<br />

Uno si dedicava alla stesura del verbale sotto la guida del<br />

capo Ietta, il secondo cercava l’imprecisabile nei cestini della<br />

carta straccia, il terzo dava una mano al medico legale e scattava<br />

foto con flash in pose forzatamente statiche; il maresciallo<br />

meditava, sfogliando l’elenco telefonico. Tra i libri non frugava<br />

nessuno, quasi non c’entrassero nulla con i fatti degli<br />

uomini. Questa era l’allegria della squadra omicidi.<br />

Ma non finiva mica così. No, ci sarebbero stati degli<br />

approfondimenti, interrogatori, confronti, equivoci, ripensamenti,<br />

e già intuivo quale sarebbe potuto essere il mio impegno<br />

lavorativo nei giorni successivi. A sentir loro, il bello<br />

doveva ancora venire. E menomale, pensavo io.<br />

S’intende, io mi sarei mostrato subito interessato, molto<br />

disponibile. È certo. Era un’occasione ghiotta per uno che fa<br />

pratica. Non mi sarei tirato indietro. Volevo dare di me<br />

un’immagine di estrema solidità, abnegazione. Appendermi<br />

al collo un cartello grande che distinguesse uomo da uomo. Il<br />

lavoro è importante per un individuo, ma ci sono modi e<br />

modi per lavorare. Volevo che la gente, guardandomi, potesse<br />

pensare un giorno: cavolo, questo è uno che lavora sul<br />

serio! Un praticante che non si risparmia. Magari avrei continuato<br />

a studiare, a inseguire il diritto che cammina. Non mi<br />

sarei fermato mai. Sì, così avrei fatto. Che progetto coraggioso<br />

era il mio! Sarei stato di granito fino alla vecchiaia, pensavo,<br />

ma con il cervello di spugna. E gli altri l’avrebbero capi-<br />

17


to, e sarebbe diventata quella la mia quotidianità, la mia<br />

immagine da difendere. Temerario progetto post-universitario.<br />

Ché l’accanimento universitario è un male incurabile, con<br />

metastasi ovunque. Quale sia l’origine di questo male, la<br />

causa primigenia, conta ben poco alla fine. <strong>La</strong>vorare, si deve<br />

lavorare per correggere la morte.<br />

Sì, però, allo stato delle cose, c’era solo da aspettare quello<br />

che i tecnici, quelli veri, quelli seri, altri da questi, avrebbero<br />

rilevato successivamente; sempre che se ne fossero create<br />

le condizioni. Aspettare. Uno che tocca la materia giustizia, sa<br />

che dovrà spesso aspettare, come per un treno in stazione.<br />

Che questo lavoro, ha molto a che fare con l’attesa.<br />

Gran bella sicurezza i tecnici! Tutto era approssimazione,<br />

ma i tecnici no, quelli non si toccano; guai a dubitarne. I<br />

nostri venivano da fuori, gli eletti erano i RIS di Genova, mi<br />

pare. Non venivano vestiti a festa, al contrario, e alla fine se<br />

ne andavano con valigie cariche di reperti da analizzare, infilati<br />

in piccole buste trasparenti come avanzi destinati al freezer.<br />

Con calma spedivano relazioni, dopo aver cercato i capi<br />

al telefono, per conversazioni interminabili. Non erano di<br />

quelli che salutavano con i tacchi. Quelli erano un’altra cosa.<br />

I RIS potevano permettersi i jeans. I tecnici avrebbero fornito<br />

piste e ganci in borghese. Da poco ci fanno fiction e film<br />

su questi tecnici, ma un tempo, agli inizi, erano soltanto delle<br />

ginocchiere sulle fragili articolazioni della magistratura, mica<br />

supereroi.<br />

Il nostro maresciallo, invece, grasso ventre, ricordava il<br />

Sergente Garzia in attesa di Zorro. Sedeva precario e sudaticcio<br />

in punta a una sediolina in legno, quasi sulla porta d’ingresso;<br />

sembrava prossimo alla fuga. Blaterava al telefono,<br />

nelle correnti d’aria, dando disposizioni concitate, menando<br />

schizzi di saliva a destra e a manca. Era rimasto lui l’ultimo<br />

avamposto della prassi.<br />

Il capo aveva chiesto agli altri uomini in divisa di affacciarsi<br />

in strada, proprio là davanti, sul marciapiede, a fare<br />

domande in giro, cercando di dare un volto al popolo che frequentava<br />

la zona abitualmente: amenità, pettegolezzi, consuetudini.<br />

E quelli si erano sparsi, sparpagliati come carte da<br />

18


gioco, in strada. Grazie a questa abile mossa si era saputo<br />

della proprietaria: una vedova con due figlie adolescenti.<br />

Domande in strada? Sembrò strano anche a me, ma la strada<br />

è fatta di voci e rifiuti. Quindi, domande in strada, bene, così<br />

che i militi sembravano formiche sull’asfalto a raccattare briciole.<br />

Dove era finita questa donna? Mentre si contavano i minuti<br />

vuoti, squillò il telefono poggiato sul bancone. Deus ex<br />

machina. Squillò solo una volta. Rispose il maresciallo.<br />

Fulmineo. Prese tempo e non fece parola di quanto stava<br />

accadendo o era accaduto. Il procuratore si accese in volto.<br />

Era lei. <strong>La</strong> vedova.<br />

“Con chi parlo, scusi?”<br />

“Buongiorno, lei chi è?”<br />

“Scusi, eh, scusi un attimo… Io con chi è che parlo? Chi è<br />

lei? Io non la conosco. Come mai risponde a questo numero?”<br />

“Mi dica lei. Con chi vuole parlare?”<br />

“Ehi, basta dico! Mi risponda: chi parla?”<br />

“No, guardi, dica prima lei chi è?”<br />

“Come dico io prima? <strong>La</strong> finiamo, eh? Ma che numero ho<br />

fatto? Scusi, è la libreria di via Cardone?”<br />

“Si, lei chi è?”<br />

“Ancora con questa storia del lei chi è? Ma che succede?<br />

Mi faccia parlare con il signor Corietti. Subito!!”<br />

“Non mi ha detto ancora chi è?”<br />

“È lei che si deve presentare, imbecille! Io sono la proprietaria<br />

del negozio. Impari l’educazione piuttosto!!”<br />

“Le spiego con calma. Mi dispiace, ma il signor Corietti<br />

non c’è, non si è sentito bene questa mattina. Dica pure a<br />

me”.<br />

“Non verrà in negozio? Dove si trova in questo momento?<br />

Dove… e il negozio? E io con chi sto parlando? Insomma!?”<br />

“Un attimo, le spiego tutto non calma, non si agiti. Lei<br />

parla con i carabinieri…”<br />

Non so bene cosa rispose la vedova, ma la voce del maresciallo<br />

si punteggiò di pause larghe come trappole per cinghiali.<br />

Ma veniamo alla ricostruzione dei fatti.<br />

19


Il negozio di solito apriva alle 9, ma proprio quel giorno la<br />

signora Florio, la proprietaria, aveva un appuntamento dal<br />

dentista fuori città; molto fuori città. Benché il suo fosse il<br />

primo appuntamento della giornata, il cavadenti di fiducia<br />

aveva evidentemente perso tempo e la signora era in ritardo.<br />

Telefonava per chiedere al morto di trattenersi in negozio più<br />

del previsto, fino al suo arrivo. Ma il morto era morto. Ah,<br />

certo, si sarebbe senza meno trattenuto più del previsto. E chi<br />

lo spostava da lì? <strong>La</strong> donna diceva di non sapere nulla di<br />

quanto era accaduto. Aveva alzato la voce davanti alle reticenze<br />

del suo scaltro interlocutore, come una cornacchia con le<br />

zampe legate, ma poi aveva abbassato la cresta. Era stata rintracciata.<br />

Bene. Ietta aveva ripreso a sorridere.<br />

Le dissero categoricamente di non muoversi dal luogo in<br />

cui si trovava, così che una pattuglia del posto, incaricata<br />

d’urgenza, potesse andare a interrogarla immediatamente.<br />

Funziona più o meno così. Se un sospettato, uno che per<br />

qualche ragione deve essere sentito nell’immediatezza del<br />

fatto, è lontano o dice di essere altrove, lo si blocca e si manda<br />

qualcuno sul posto; solo così si accerta la veridicità delle sue<br />

affermazioni. Sempre che ci rimanga davvero in quel posto, è<br />

ovvio. È nell’ interesse di tutti, ma a volte i sospettati, quelli a<br />

conoscenza dei fatti, non resistono: scappano, si volatilizzano,<br />

si spostano, e poi si spostano ancora, e sono guai. <strong>La</strong> paura a<br />

volte fa fare cose stupide e bisogna tenerne conto. Ho scoperto<br />

che in ogni indagine ci sono degli elementi di stupidità.<br />

Umanità: dovevamo tenerne conto. Dovevo far l’abitudine<br />

all’uomo e alla sua stupidità.<br />

D’accordo, posso essere preparato agli stupidi, ma non<br />

basta. Non ci sono solo stupidi sulla scacchiera. Ci sono<br />

anche assassini intelligenti, e anche quelli molto intelligenti,<br />

anche quelli più intelligenti di me, molto più di me.<br />

È forse più difficile comprendere il senso di mosse intelligenti?<br />

Credo che sia la stessa cosa, tutto sommato. Ci sono le<br />

une e ci sono le altre, e molte altre categorie nel mezzo.<br />

Umanità, dicevo. Io penso che gli assassini, in particolare, o<br />

sono pazzi o sono disperati; non si scappa. In ogni caso stu-<br />

20


pidi. È proprio difficile incontrare un genio con il sangue<br />

sulle mani. Secondo me. Hannibal the Cannibal è pura astrazione.<br />

I geni sono più richiesti in società, sono persone molto<br />

impegnate, che lavorano, pensano, producono; non hanno<br />

tempo da perdere ad ammazzare qualcuno. L’utilità li rende<br />

organici. Mentre gli altri, gli stupidi, si annoiano e quindi il<br />

tempo lo trovano. Statistica. In certe cose è utile pensare che<br />

ci sia una statistica da cui partire. I numeri aiutano silenziosamente.<br />

I numeri allentano la tensione. Io sono un uomo estremamente<br />

razionale. Anche adattabile, è vero. Non so se sono<br />

più razionale o più adattabile, a ben pensarci. Mi piace buttare<br />

l’occhio al precedente, al dato storico, e adattarmi a quello.<br />

Ragionarci. Questo sì. Ritornando agli assassini, non so<br />

dire se mi sia davvero così facile comprendere gli stupidi,<br />

come a volte sembra essere, forse, per vicinanza intellettiva,<br />

ma quel che è certo è che so adattarmi alle situazioni in cui mi<br />

imbatto. Sempre. Questa è una qualità per un pubblico ministero.<br />

Credo. Adattabilità e curiosità per i numeri. Anche i<br />

numeri, infatti. Ecco. L’omicidio poteva in qualche modo<br />

essere collegato ai numeri. <strong>La</strong> faccenda cominciava a incuriosirmi<br />

e se mi incuriosisco, di solito questo si rivela un dato<br />

positivo. Utile. Faccio tutto per curiosità. <strong>La</strong> curiosità è il<br />

mio motore. Curiosità e passione, che poi forse sono la<br />

medesima cosa. Numeri o no, se c’è passione è meglio. Mi<br />

incuriosivo, e più mi incuriosivo più mi appassionavo e, contestualmente,<br />

mi adattavo al clima del luogo. Tutto sommato<br />

un buon inizio.<br />

Il comando dei carabinieri fece sapere che la vedova era<br />

davvero dove diceva di essere. Lo confermò anche il dentista,<br />

che aveva insistito per farle persino un’accurata pulizia del<br />

tartaro ed emesso grassa fattura.<br />

Le figlie. Erano due e furono sentite entrambe. <strong>La</strong> più giovane<br />

frequentava il liceo, l’altra la facoltà di lettere.<br />

A casa delle due ragazze, che aspettavano la madre in<br />

vestaglia e maglietta, Ietta ci mandò due fidatissimi con delega,<br />

e leggemmo il verbale dopo circa due ore. Risultò decisamente<br />

più rapido dare voce alle figlie, che si trovavano in un<br />

21


quartiere sì periferico, ma non così lontano dalla via del centro<br />

in cui era avvenuto l’omicidio, piuttosto che acquisire le<br />

dichiarazioni della madre presso lo studio dentistico.<br />

Lessi anch’io il primo verbale, come mi chiese di fare il<br />

capo. Non volevo sembrare invadente, ma me lo chiese il<br />

capo e io lessi ogni parola con scrupolo. Verbali come quelli,<br />

sono sempre il frutto della collaborazione tra il chierichetto e<br />

il parroco. Mi spiego meglio: è il parroco, cioè il magistrato,<br />

che detta le regole per la stesura dei verbali, perché la verità<br />

ha la sua sintassi, proprio come ogni credo. Il chierichetto,<br />

cioè i carabinieri o chi per loro, devono celebrare il rito nelle<br />

sue giuste forme, collaborare, portare il calice e suonare il<br />

campanello. Se un elemento, un evento, un dettaglio, uno<br />

sguardo significativo, un inciampo, una titubanza, non viene<br />

adeguatamente incartata nel verbale, non entrerà mai nel processo.<br />

Sarà una verità che non esiste. Un’occasione sprecata.<br />

Il chierichetto è importante quanto il parroco, anche se il<br />

vestito è diverso.<br />

Il contenuto degli atti era piuttosto interessante. Le due<br />

ragazze conoscevano la vittima solo di vista, dicevano. Non<br />

erano attratte dall’attività commerciale della madre, attività<br />

che la stessa aveva ereditato dal nonno, un mezzo prete, come<br />

dicevano le due simpatiche nipotine. Prima, nei tre locali<br />

della libreria, le pulizie le faceva una vecchia nana, alta tre lattine<br />

al massimo, che poi aveva lasciato per ragioni di salute e<br />

così si era messo in mezzo il Corietti; non sapevano come.<br />

Parlavano di lui con astio. Sembrava spuntato dal nulla quest’intruso.<br />

Dalla nana al vatusso. <strong>La</strong> nana era stata a suo<br />

tempo sostenuta dalla Curia, mi ci gioco le palle; il Corietti<br />

vatusso chissà da chi. Ma del vatusso parlavano malvolentieri,<br />

chi lo conosceva quello?<br />

Il negozio andava bene, così pareva, ma sarebbe stato<br />

meglio trasformarlo in una birreria, dicevano. Quando era<br />

vivo il padre, per la loro mamma era più facile organizzare il<br />

tutto, ma da due anni era rimasta sola. Casa, negozio, contabilità.<br />

Una gran stanchezza dopo le 22, tutte le sante sere i<br />

soliti rituali, un’angoscia notturna che, simile a un’idrovora,<br />

sembrava staccare persino la carta da parati dai muri. <strong>La</strong><br />

22


vedova si faceva aiutare se poteva, ma non bastava mai; così<br />

era sempre incazzata e le figlie pure. Nessuna parola in più,<br />

solo biancheria usata nel cesto della roba da lavare.<br />

Abbandoni reciproci, poco prima della resa.<br />

Ora, non è che io avessi avuto esperienze dirette con figlie<br />

adolescenti, ma che le due non fossero in armonia con la<br />

madre era lampante. Il verbale, dattiloscritto senza una virgola,<br />

era lineare; non richiedeva particolari sforzi interpretativi.<br />

<strong>La</strong>mpante, ma non così inatteso. Dicono che sia normale,<br />

anzi. Tutte uguali le storie sull’adolescenza al femminile, sull’esigenza<br />

di cancellare una donna, la madre, per crearne<br />

un’altra, la figlia. Inconciliabili fino alla vecchiaia. Quelle due<br />

non sapevano quale fosse la sostanza di cui era composta la<br />

vita della madre, le difficoltà non erano condivise; la morte<br />

del padre, solo una circostanza. Un’indagine come quella in<br />

corso, inoltre, rappresentava per loro un ulteriore fastidio,<br />

niente di più. Le disgrazie non vengono mai da sole.<br />

Fin qui d’accordo, ma anche a voler leggere piano, quello<br />

appariva ugualmente un testo reticente. Un tavolo senza una<br />

gamba. Troppe poche virgole. Dicevano di non avere messo<br />

piede nel negozio della madre neppure una volta negli ultimi<br />

tre anni, di non ricordarne neppure la disposizione dei muri.<br />

Non volevano dir nulla del negozio, dei clienti, degli orari di<br />

lavoro, se l’attività fruttava o meno, se la madre aveva problemi<br />

economici, sui nomi dei fornitori. Dicevano di non sapere.<br />

Immaginavo due giovani facce lisce, devastate da smorfie<br />

asimmetriche e punti neri, con le spalle strette che vanno su e<br />

giù. I capelli, fitti e fermi, sulle teste piccole da cartone animato<br />

giapponese. Le gambe nervose. Quell’aria di chi ha ben<br />

altro per la testa, ed è ben consapevole del fatto che la sua<br />

noia massima e collosa è colpa di altri. <strong>La</strong> grande aveva i<br />

brufoli e un fidanzato all’università. <strong>La</strong> piccola aveva perso<br />

un anno a scuola, diceva che voleva fare l’alberghiero o in<br />

alternativa trovare un lavoro; non frequentava nemmeno la<br />

parrocchia sotto casa. No, non si respirava decisamente un<br />

clima mistico. Chi le aveva viste in faccia, raccontò che sbuffavano<br />

entrambe a ritmo binario. <strong>La</strong> piccolina aveva i capelli<br />

rasati, fitti ma non più di un paio di millimetri a proteggerle<br />

23


la scatola cranica come un prato; verdi, verdi i fragili bulbi, di<br />

un verde bandiera che sulla punta diventava fosforescente, e<br />

una piccola farfalla viola tatuata sulla nuca. Dissero che, per<br />

tutto il tempo, aveva tenuto le dita dietro la schiena, con le<br />

scapole a sporgere aguzze, due gote concave e fucsia da bambola<br />

di porcellana, e la farfalla tatuata in agitazione. Primo<br />

piano: un sorriso in playback sopra i denti, destinato all’interlocutore.<br />

Il verbale era lungo quattro pagine.<br />

Quando leggemmo i verbali eravamo ancora tutti disciolti<br />

nella penombra acida della libreria, e di diverso, rispetto al<br />

nostro arrivo sul posto, c’era soltanto il cadavere, successivamente<br />

coperto con un lenzuolo e tolto agli occhi. Eppure,<br />

erano trascorse alcune ore. Ci muovevamo come pesci di<br />

notte in un acquario. Eravamo più caldi e più lenti. Stupidi<br />

anche noi investigatori.<br />

<strong>La</strong> strada invece si era totalmente rinnovata. Imbellettata<br />

come una ballerina. Anche Ietta era venuto fuori a guardare<br />

coloro che eseguivano i suoi ordini, intervistando i passanti,<br />

senza microfono. Adesso, in strada, dopo la pioggia, erano<br />

spuntati banchetti di oggetti etnici proprio sul marciapiede di<br />

fronte, davanti ai nostri occhi da pipistrello; gattoni di caucciù<br />

acciambellati, giraffe con il collo di tek, batik stesi su teloni<br />

di plastica trasparente.<br />

“Hai visto i negretti, dimmi, hai visto? Ieri da quelli abbiamo<br />

preso una bella commedia americana appena uscita in<br />

sala. Non mi ricordo il titolo del tarocco, c’era quell’attore lì,<br />

quello bello che fa la pubblicità; sai quale, no? Quello! Mia<br />

moglie ci perde la testa, come si chiama? È lei che l’ha preso<br />

quel film, perché io, mai…”. Il capo fumava ed era impercettibilmente<br />

su di giri. Dieci anni fa. Non ricordo bene la tecnologia<br />

che ci abitava dieci anni fa. Videocassette. Senz’altro.<br />

Qualcosa già c’era e forse già mi stupiva.<br />

Ietta disse che avrei dovuto considerare una fortuna il fatto<br />

di essere da solo in città, perché ci sarebbero stati di certo<br />

degli orari di lavoro più pesanti nei prossimi giorni. Le mogli<br />

non sempre tollerano certi strascichi, disse il capo, e sulla<br />

parola moglie fece una pausa respirando e spingendo il collo<br />

24


indietro. Solo lavoro, molto lavoro? Nessun problema per<br />

me. Beato me. Beatissimo me.<br />

Qui la faccenda è grossa andava ripetendo, bucando con la<br />

penna le pagine dell’agenda. Ne era sorpreso. Ci sono casi<br />

che ti piacciono e altri che non ti piacciono. Casi ordinari e<br />

casi straordinari. Il nostro lavoro non è sempre uguale.<br />

Sul tardi un furgone metallizzato tirò il freno a mano proprio<br />

davanti al negozio. Ne scesero due tizi robusti con zuccotto<br />

di lana. Non erano infermieri; venivano dall’obitorio,<br />

credo, per portar via il cadavere. Non guardai il corpo che se<br />

ne andava; del resto, da quando era stato coperto, già non<br />

c’era più. Fecero in fretta, mentre la polizia teneva lontano i<br />

curiosi allargando le braccia. Il sangue rimase. Il sangue non<br />

si lava. Il medico legale, Madame Bisturi, era andata via molto<br />

prima. Si sarebbe interessata successivamente delle altre analisi<br />

sul corpo, aveva assicurato.<br />

Il cadavere di un uomo non resta a lungo; ha sempre fretta<br />

di scomparire, sia a causa di chi l’ha fatto fuori, sia per il<br />

pudore di chi lo guarda. C’è poco tempo, quindi, per guardare<br />

un cadavere, tanto quanto ce n’è per guardare davvero se<br />

stessi. L’idea della morte è un piccolo scalino non visto, un<br />

vuoto d’aria rapidissimo, il dislivello. Dura un secondo. Non<br />

è mai attuale, contemporanea, perché il corpo si trasforma<br />

subito, già nelle sfumature di colore, e la morte diventa immediatamente<br />

una cosa del passato. Per non parlare dei percorsi<br />

che fa il sangue quando finisce fuori. Fasi diverse. E l’odore,<br />

poi? No, l’odore nuovo arriva soltanto dopo, non è veloce<br />

come la morte.<br />

Quando ce ne andammo, aveva ripreso a piovigginare.<br />

Con minore rabbia, come a recuperare fiato dopo una corsa.<br />

Dovemmo scavalcare il perimetro critico segnato dalle strisce<br />

di plastica con le diagonali bianche e rosse, che sfregiavano la<br />

zona sotto sequestro. Qualcuno le scavalcò, altri passarono<br />

sotto. Questione di allenamento o di autostima.<br />

Per tutta la mattinata non avevo tolto il mio giaccone blu<br />

e, solo uscendo, mi accorsi che faceva freddo. L’autista, buon<br />

Agrimi, era ritornato a prenderci per portarci in ufficio. Ietta<br />

25


disse che andava a mangiare un boccone e poi si rimetteva al<br />

lavoro. Mi chiese se volevo assistere all’autopsia fissata per il<br />

giorno dopo. Mi piovevano gocce d’acqua sulle labbra.<br />

L’autopsia mi disse. Risposi di no, salvo poi pentirmene un<br />

istante dopo. Che cavolo di inettitudine! Mio padre non si<br />

sarebbe fatto scappare l’occasione. Se ci fosse stato lui, mi<br />

avrebbe detto: Nicola, non è questo il momento per dire di no,<br />

Nicola, non puoi tirarti indietro. Non puoi. Il rischio di vomitare<br />

non era una buona scusa per il primo rifiuto.<br />

Erano le 15.30, più o meno, non mi sbaglio, del primissimo<br />

giorno. Ci salutò anche l’Agrimi, che lasciava in garage la<br />

vettura d’ufficio e prendeva la sua Fiat. Allora dottore arrivederci,<br />

io vado, ho segnato lo straordinario, va bene, no?, due<br />

ore giuste giuste.<br />

26


II CAPITOLO<br />

<strong>La</strong> casa dava ad Otto un senso di solidità; era una<br />

sensazione come di una mano poggiata con fermezza<br />

sulle reni.<br />

Paula Fox<br />

“Allora, Nicola? L’hanno ammazzato, vero? Non è stata<br />

una morte accidentale!”<br />

“E no, certo che no. Vorrei vedere io! Trentotto coltellate!”<br />

“Una cosa di preti?”<br />

“Non possiamo dire ancora”.<br />

“Secondo me sì, i preti. È chiaro scusa: a quell’ora il negozio<br />

era chiuso e qualcuno è entrato dal retro, mentre la vittima<br />

spazzava in terra. Hai detto che c’era un passaggio interno<br />

tra la Curia e il negozio, no? Sono entrati da lì. Chi altri<br />

vuoi che frequenti una libreria come quella? Cosa vende?<br />

Bibbie rilegate in pelle umana? Dai, è un caso facile”.<br />

“Non è facile, Angela. Adesso così, al telefono, è chiaro!<br />

<strong>La</strong> fanno tutti facile a parole, appena si parla di ammazzamenti.<br />

Che fai? Parli come le signore in fila al supermercato?<br />

Anzi, ti dico di più, questa è una faccenda per la quale la<br />

Procura ci perde la faccia”.<br />

“Fosse una cosa americana mi diresti: non preoccuparti<br />

baby, lo prenderemo!”<br />

“Non ti preoccupare: lo prenderemo, baby!”<br />

“Meraviglioso!”<br />

“Ripeto? Baby, baby…”<br />

“Sublime”.<br />

“Di nuovo? Se vuoi… ?”<br />

“No, basta così”.<br />

27


“Già finito? Miseria, che rapidità”.<br />

“Sarà complicato gestire i rapporti con la Chiesa. Lo<br />

immagino, ci vorranno grandi doti diplomatiche. Brrr… Non<br />

vorrei essere al vostro posto. I preti sono tosti. Sono peggio<br />

dei magistrati. Scusa… Senti una cosa: ma la porta, quella<br />

interna, era aperta?”<br />

“Bella domanda. Sono lieto che almeno tu ti preoccupi<br />

delle porte. Il problema è che i carabinieri non saprebbero<br />

cosa rispondere a una domanda come questa. Ci pensi? Loro<br />

sono arrivati per primi sul posto, e non sanno niente di porte.<br />

Pazzesco! Sono arrivati lì per una segnalazione di un passante<br />

che aveva sentito degli strani rumori. Già questo, dico io,<br />

che cosa si intende per strani rumori, cioè? Sono arrivati e<br />

non si ricordano se la porta era chiusa a chiave o no, se dall’interno<br />

o dall’esterno. Sono venuti per cercare i rumori”.<br />

“Assurdo”.<br />

“Ecco, non si ricordano nemmeno se le luci, nei diversi<br />

ambienti, erano accese o spente. Quelli, saranno stati in cinque,<br />

arrivati a breve distanza gli uni dagli altri, sono entrati lì,<br />

hanno visto il cadavere e oooh, che spavento! Che orrore! E<br />

non ci hanno capito più nulla. Hanno cominciato ad aprire<br />

porte, chiudere porte, accendere luci, spegnere luci. A casaccio”.<br />

“Ma sono pazzi? Era il primo cadavere anche per loro?”<br />

“Non so io, e che ne so? Ma no, dai, non credo”.<br />

“Hanno toccato qualcosa?”<br />

“Sì, con i guanti però, attenti alle impronte, per carità.<br />

Eppure hanno inciso ugualmente sull’ambiente, hanno modificato<br />

lo stato dei luoghi, anche se non hanno lasciato<br />

impronte. Mica esistono solo i polpastrelli, dico io! Sì, buonasera,<br />

che credi, per quelli esistono solo le impronte, non<br />

sanno pensare ad altro che alle impronte. Altro che facile!”<br />

“Quindi?”<br />

“Niente. Hanno cominciato subito a fare errori. Ecco qui.<br />

E non se ne sono nemmeno accorti. Se facevi domande, facevano<br />

spallucce. E dire che noi della Procura ci siamo precipitati<br />

sul posto prima che fosse troppo tardi. E quelli già lì a far<br />

danni!”<br />

“E sei arrabbiato per questo?”<br />

28


“Non so. Dovrei secondo te?”<br />

“No, non credo”.<br />

“E infatti”.<br />

“Hai detto che un tipo ha sentito rumori?”<br />

“Sì, uno che passava. L’hanno pure interrogato: aveva sentito<br />

dei rumori strani provenire dal negozio. <strong>La</strong> serranda non<br />

era chiusa, ma dice di non aver visto niente. Nessuno che<br />

entrava, nessuno che usciva. Hanno tirato giù i suoi dati. Per<br />

sentirlo di nuovo. Non si sa mai. Sono fondamentali gli ultimi<br />

istanti prima del trapasso. O no? Dobbiamo interrogare<br />

un sacco di gente. Rumori dice quello, mica urla, no, dice<br />

testualmente rumori. Ma come sono i rumori, chiederei io?<br />

Sono tonfi, sono sedie spostate sul pavimento, sono oggetti<br />

che cadono e si rompono, o cadono ma non si rompono…”<br />

“L’hai sentito anche tu quello dei rumori strani?”<br />

“No, ma non conta; era uno di passaggio. Per lui bastavano<br />

i carabinieri”.<br />

“Perché non te l’hanno fatto sentire? Così cominciavi a<br />

fare qualcosa di serio”.<br />

“Bastano i carabinieri per quello lì, ti ho detto…”<br />

“Nessuno è entrato, nessuno è uscito. Hai visto che è questione<br />

di preti? I preti stavano già dentro”.<br />

“Quali preti?”<br />

“Non so: un prete”.<br />

“Ma quale prete?”<br />

“Nessun altro elemento?”<br />

“Per ora, nadadenada. Ti ho detto: quello delle pulizie, la<br />

proprietaria, le figlie. Basta. Hanno sentito i passanti, perché,<br />

è chiaro, si cerca qualcuno che frequenti abitualmente quella<br />

zona, quella strada, che possa aver visto qualcosa”.<br />

“Perché?”<br />

“Come perché? Per cominciare”.<br />

“C’è stata qualche dichiarazione interessante, come quella<br />

storia della vecchia”.<br />

“C’è una vecchia?”<br />

“Sì, una vecchia, ma ci servono ulteriori riscontri. Già da<br />

domani mattina. Per ora piedi di piombo, come avrebbe<br />

detto mio padre”.<br />

29


“Tuo padre non avrebbe detto così”.<br />

“E cosa avrebbe detto mio padre?”<br />

“Non questo. Non so. Tu tendi a modificare l’interpretazione<br />

della realtà a tuo favore”.<br />

“Cioè?”<br />

“<strong>La</strong>sciamo stare”.<br />

“Senti qui: la cosa è complessa, c’è poco da dire o fare. Ci<br />

sarà molto da lavorare questa volta, l’ha detto pure Ietta.<br />

Molto da lavorare. Quindi”.<br />

“Allora non torni venerdì? Ringraziamo sua eccellenza per<br />

questo. Del resto, se lavori lontano da casa lo dobbiamo agli<br />

amorevoli consigli di sua eccellenza Padre Nostro. Il tuo.<br />

Vorrà dire che lavoro anch’io il fine settimana. Resto in studio;<br />

non torno a casa nemmeno a mangiare. Tanto…”<br />

“Ne abbiamo parlato un mare di volte, credevo che avessimo<br />

trovato un’intesa, che avessi capito che era una mia esigenza.<br />

Che mio padre non c’entra un tubo”.<br />

“Ma dico io: non ti manca il tuo ambiente? Ma a chi<br />

appartieni davvero, tu?”<br />

“E chi ha detto che non mi manca?”<br />

“Faceva schifo il cadavere?”<br />

“Il cadavere non faceva propriamente schifo, era invadente,<br />

piuttosto. Cioè, ti spiego meglio: se c’è un corpo sul pavimento,<br />

non c’è nient’altro. Il corpo è dappertutto. Non è che<br />

poi il corpo, così come era, potesse raccontare molto dei fatti<br />

accaduti. Uno scempio. Troppe ferite, soprattutto sul volto,<br />

fanno pensare a una collera esplosa all’improvviso, al desiderio<br />

prepotente di cancellare qualcosa”.<br />

“Secondo te l’assassino doveva essere un tipo robusto, cioè<br />

uno con una buona dose di forza nella braccia?”<br />

“Un uomo. Magari due. Non si sa, non si sa niente. Non si<br />

può dire se è stato colto alle spalle, né se si è difeso. Se è rimasto<br />

dietro il bancone dove era o ci è finito in un estremo tentativo<br />

di salvarsi dalla furia dell’assassino. Tutto sommato un<br />

cadavere ridotto così fa abbastanza schifo”.<br />

“Residui organici sul corpo? Tipo sudore, saliva, altre fibre<br />

o moccio dal naso?”<br />

“A questo ci pensano i Ris”.<br />

30


“Ma come è possibile che in casi come questi non venga<br />

mai fuori?”<br />

“Chi, l’assassino?”<br />

“No, parlo dell’arma del delitto”.<br />

“Ah”.<br />

31


III CAPITOLO<br />

<strong>La</strong> storia della vecchia matta era venuta fuori per caso.<br />

Camminava sull’asfalto a un fiato dalle auto in corsa. Ciocche<br />

stoppose sfuggivano al giogo della crocchia; tende bianche e<br />

lunghe fino al mento. Si appoggiava all’ombrello semi aperto.<br />

Le pantofole nelle pozze d’acqua, a bere. Tremolante la linea<br />

segnata dai passi. In mano un mazzetto di immagini sacre raffiguranti<br />

il martirio di Santa Lucia, tenute insieme da un elastico.<br />

Da distribuire: una figurina, una parola; un’immagine,<br />

una moneta da cinquecento lire. I carabinieri la fermarono<br />

perché incuriositi dal suo accento siciliano ancora intatto,<br />

dalle grida insensate che emetteva rivolta ai cani randagi e dai<br />

santini che aveva in mano. Era indiscutibilmente fuori posto.<br />

L’equazione fu immediata: santini = libreria di articoli sacri.<br />

Furbastri, questi caramba. Alla vista delle forze dell’ordine, la<br />

vecchia agitò l’ombrello in aria. Io la vedevo attraverso i vetri,<br />

dall’interno del negozio, moltiplicata per quattro nell’angolo<br />

in alto a sinistra della vetrina, tra scheletrici raggi di sole e<br />

pizzi d’altare. Poco dopo l’incontro con noi, quelli della giustizia,<br />

come ci chiamò, lei cominciò a straparlare a voce alta<br />

di cose tipo gli occhi perfetti di Dio, vergini innocenti, inconsapevoli<br />

martiri. Era colta da ispirazione divina. Se avesse<br />

avuto tra le dita bitorzolute e raggianti un pennello, chissà<br />

che quadro! A mio avviso, al di là delle apparenze, quella, per<br />

lei, era stata una mattina come le altre, fino al nostro incontro.<br />

32<br />

O fondare lo Stato sulla verità non è altro che un<br />

bel sogno? Soltanto al cinico la risposta riesce facile.<br />

<strong>La</strong> società aperta dello stato costituzionale è<br />

consegnata al nesso “prova ed errore” proprio<br />

perché l’uomo stesso è un essere fallibile?<br />

Certamente: e tuttavia, lo Stato non si fonda forse<br />

su un minimo di verità, in altri termini, la sua tolleranza<br />

non ha forse certi limiti ultimi proprio perché<br />

non può esservi tolleranza senza una corrispondente<br />

pretesa di verità?<br />

Peter Haberle


Ma attenzione all’ombrello.<br />

Pioveva, quindi la vecchia aveva un ombrello. Normale,<br />

d’accordo, ma l’ombrello era sporco di sangue. Sulla punta,<br />

sotto la stoffa: macchie rossastre. C’erano delle macchie, lo<br />

vedemmo pressoché subito; che fosse sangue si determinò<br />

solo tempo dopo. Ma questa è storia successiva ed è meglio<br />

non divagare.<br />

Macchie, dunque, la cui origine era da accertare. Prima di<br />

parlare, la vecchia volle piazzare un santino anche al maresciallo.<br />

Ci teneva; non avrebbe detto una parola altrimenti. Se<br />

ne stava statuaria con la testa piegata di lato e l’occhio perso<br />

in uno sguardo nuvoloso, con la mano tesa, e ogni tanto dava<br />

al polso una spintarella in avanti, in sincronia con il movimento<br />

verso l’alto del mento spellato: ecco il santino, eccolo, ogni<br />

minuto che passava il sacro foglietto si faceva sempre più tremulo<br />

e si avvicinava alla faccia del maresciallo. Il pancione<br />

Garzia, sempre lui, sembrava spazientirsi. <strong>La</strong> fece sedere con<br />

tono fintamente categorico, mentre si infilava in tasca il santino<br />

stropicciato. Mai rifiutare un santino. Le monete, invece,<br />

le teneva nella tasca di dietro dei pantaloni, mettendo Dio e<br />

Cesare a stretto confronto, intorno al suo ampio girovita.<br />

<strong>La</strong> fecero entrare nell’oscurità della libreria, perché farla<br />

parlare con calma a quel punto era diventato importante.<br />

Aveva avuto ragione il capo: cercare passanti nel vociare<br />

distratto della strada si era rivelata una necessità. Arrivavano<br />

i primi risultati, infatti.<br />

Seduta all’interno del negozio, la vegliarda bizzarra si<br />

guardava intorno con le guance gonfie d’aria. Sulla pelle<br />

aveva una complessa geografia di vecchie efelidi e di chiazze<br />

rosse d’affanno e gelo.<br />

Mi avvicinai. Mi sembrava un atto semplice la gentilezza,<br />

ma non così tanto tintinnante.<br />

“Lei è un giudice? Così giovane? Giovane come Cristo.<br />

Un giudice che giudica. Paura non ce l’hai, giudice? Fai male,<br />

spaventati giudice, perché bisogna avere paura, sempre”.<br />

“Sì, ho paura, giuro. Ma lei signora ci deve aiutare”.<br />

<strong>La</strong> vecchia parlò proprio con me. Mi disse che era originaria<br />

di Palermo e che molti anni prima aveva seguito il marito<br />

33


lontano dalla sua isola. I pazzi e i criminali spesso sono meridionali.<br />

Ancora numeri. Forse in passato, adesso però assistiamo<br />

a una strana inversione di tendenza. Adesso non è più<br />

vero. Veniva dal sud, ma era diventata matta al nord. <strong>La</strong> pazzia<br />

era di natura meridionale? Non so. Un sospetto, il mio.<br />

Le primissime volte nella città del praticantato, io il sospetto<br />

l’avevo avuto. C’erano strade che avevano la consistenza di<br />

quelle tende plastificate che si mettono intorno alle docce a<br />

schermare la vista; quelle coi pesci rossi o le conchiglie, che<br />

catturano gli schizzi d’acqua, li trasformano in goccioloni e li<br />

lasciano scivolare lentamente. Opache, lasciano intuire senza<br />

fare vedere, velano il mondo sotto il getto, bollenti su un lato,<br />

gelide sull’altro. Isolano un corpo da un altro. Danno l’idea<br />

dell’altrove più segreto, lubrico, pericoloso. Parlare di nebbia<br />

non bastava in quella città: la tenda smorta attutiva persino i<br />

suoni, lo scroscio dell’acqua, la voce, la vita. Così. A vivere<br />

imbozzolati e lontani, il rischio di diventar matti c’è, eccome<br />

se c’è. Poi, dopo le 20, nessuno in strada: la gente faceva vita<br />

domestica, non circolava, si spegneva dopo una certa ora. Mi<br />

chiedevo: chi è solo che fa? Come si protegge da quel gelo<br />

vaporoso? Chi va a trovare un uomo solo, cosa riesce a guardare<br />

con maggiore nitidezza? Come si muove nell’opacità di<br />

una città cadavere? Faceva paura persino spostarsi da un isolato<br />

all’altro. Se l’aria non concede alternative al cittadino, già<br />

questa privazione si può trasformare in un’arma: o il cittadino<br />

esce e si ammazza, oppure esce e ammazza qualcuno. Uno<br />

a caso, un barbone, un commercialista, tanto, nella nebbia, la<br />

vittima non la si può nemmeno scegliere; un corpo è uguale<br />

all’altro, ha la stessa acquosità. Il rischio c’è. Dicevano che<br />

l’origine era da ricercarsi negli Anni di piombo, poi nell’arrivo<br />

degli extracomunitari. Ma sono balle. È la nebbia il<br />

movente.<br />

Anche il sole però alle volte può scaldare troppo.<br />

Lontano dalla pioggia, al coperto, il tempo lento raccontato<br />

dalla vecchia diventava biblico e imprudente, come quello<br />

delle leggende. Crederle non era facile, nella più insanabile di<br />

34


tutte le gazzarre possibili. Parlava di un maschio, del suo<br />

potere, delle sue colpe. Probabilmente parlava del marito,<br />

sepolto in qualche dove, in un qualche momento storico. Era<br />

stata abbandonata dai figli, maschi pure loro, in una stanza<br />

del centro, in un quartiere da riscontrare successivamente.<br />

Faceva pause sui suoi figli e si muoveva, allargava le braccia<br />

quasi che sotto le ascelle si nascondesse lo strazio dell’abbandono.<br />

Conosceva bene la signora Florio della libreria, ma<br />

quel giorno non l’aveva vista. Così si chiamava la proprietaria<br />

del negozio e ancor prima che la vecchia lo pronunciasse,<br />

quel nome, mi sembrava difficile da ricordare. Ostile.<br />

Del cadavere coperto dal lenzuolo, poco scostato in là<br />

rispetto alle sue centenarie ossa stantuffanti, non si accorse<br />

neppure, la matta.<br />

Dunque: ecco la folle. Si rassomigliano tutte alla fine, cambiano<br />

solo i colori. L’avevo detto io che non poteva mancare<br />

un folle in una storia così. Nell’indagine era comparso il<br />

primo delirio. L’aspettavo al varco come una moglie a cui<br />

sono noti i vizi del marito. Compare sempre un personaggio<br />

alieno in un giallo che si rispetti, uno fuori di testa. Era lei.<br />

Le chiesero subito dell’ombrello, prima di sequestrarlo.<br />

Quando glielo tolsero di mano, rimase a guardarsi il palmo<br />

improvvisamente vuoto, prima stupita, poi sconvolta. Dalla<br />

mano bagnata passò al polso, frugando disperata sotto la<br />

manica della giacca infeltrita, poi, risalendo, si tastò il gomito<br />

e la spalla e infine cominciò a piangere. Disse che poco prima<br />

era andata a prendere una medicina contro il mal di testa e<br />

che l’aveva appoggiato a scolare nel portaombrelli, posto in<br />

un angolo della farmacia adiacente. Si doveva essere sporcato<br />

lì. Diceva che l’ombrello era suo. <strong>La</strong> macchia, invece, non era<br />

di sua proprietà. L’ombrello è mio, mio, mio. Sì, d’accordo,<br />

ma cosa davvero appartiene a una donna tipo la vecchia?<br />

Perché mai uno stereotipo doc come lei dovrebbe entrare in<br />

un negozio, un lunedì senza pioggia, e acquistare un ombrello<br />

e uscire di casa il martedì successivo, portandoselo previdentemente<br />

dietro? Da quando le matte sono previdenti?<br />

Una mattina funesta segnata come tale dall’acqua? È la pioggia<br />

che inventa gli ombrelli, non viceversa. Forse non era suo,<br />

35


ma lei avrebbe voluto che lo fosse. Ad ogni buon conto l’ombrello<br />

esisteva: un ombrello affusolato, spazioso e serio. Non<br />

potevamo fare finta di nulla.<br />

Accennammo al cadavere, ma lei pensò a un fatto accaduto<br />

molto tempo prima. Chi è morto? Non vide il corpo.<br />

Perché è morto? Si piegò in due come tagliata all’altezza dei<br />

reni. Ma quando? C’era spazio tra noi e lei, imposto dal suo<br />

naso monolitico, puntuto e scuro come un pastello appena<br />

temperato, incondivisibile; lo spazio che agita l’universo.<br />

Poi le dicemmo che poteva andare, mentre ancora elaborava<br />

il lutto con l’ultima parola rimastale sotto la lingua,<br />

masticando, masticando, ruminava con movimenti circolari e<br />

tormentati della mandibola, come dovesse ingoiare una pillola<br />

contro il mal di cuore. Non le facemmo vedere il cadavere.<br />

E la storia della farmacia? Incredibile quella storia!<br />

L’ombrello e il mal di testa. Qualcosa non mi quadrava. I folli<br />

hanno mal di testa? E se sentono dolore, si decidono a curarlo<br />

in farmacia? Sì, forse, perché no, ma non mi quadrava lo<br />

stesso. Quella bianca vecchina, sdrucita di lana, non era affatto<br />

un punto chiaro. Il gesto dell’acquisto di un’aspirina è un<br />

gesto normale, un gesto banale, ma che in apparenza nulla ha<br />

a che fare con i santi. In qualche modo era deludente e per<br />

questo non voleva convincermi. Ora, l’ingresso plateale della<br />

vecchia nella vicenda, forse il suo farneticare immaginifico,<br />

mi avevano fatto pensare a chissà quali altri miracoli.<br />

D’accordo: mi ero montato la testa.<br />

Per di più la vecchia mi ricordava mia nonna, il che non<br />

era affatto piacevole. Non fisicamente, ma nello spirito, nell’ansia<br />

della lingua. Mi ricordava la madre di mio padre che,<br />

rimasta vedova, si era trasferita a casa nostra. Fornello, corridoio,<br />

poltrona, letto: il circuito obbligato. Quando la vita si<br />

riduce alla semplice geometria di una curva che unisce quattro<br />

punti. Mia nonna era morta a quasi cent’anni, e sì che l’aveva<br />

desiderata la grande torta con i due zeri, sfuggita per<br />

così poco! Avevo convissuto con lei tutta l’adolescenza, fino<br />

a che ero rimasto nella casa dei miei. Senza un capello in<br />

testa, ormai prossima alla morte, con il viso ceruleo schiaccia-<br />

36


to sul cuscino, faceva pensare a un panetto di burro scavato a<br />

cucchiate sui due lati. Lunare. Tutt’altro che terrestre per me.<br />

Liscia come Dorian Gray, ma molle. Mi ricordo soprattutto<br />

gli ultimi mesi, al massimo l’ultimo anno di vita durante il<br />

quale, già allettata, se intuiva l’ombra di un familiare affacciarsi<br />

sulla porta della sua stanza, iniziava il suo monologo<br />

disperato fatto di urli, biascichi, bava e parole scatarranti.<br />

Imprecava contro tutti, contro il decomporsi progressivo del<br />

suo corpo, mentre la bocca, la lingua, brandelli di neuroni, si<br />

ostinavano a rimanere attivi, a corrente alternata. Alcuni vecchi<br />

sono arrabbiati, senza pietà per quanti sopravvivono loro,<br />

e muoiono zuppi di veleno. Poi c’era quella sua ostinazione a<br />

conservare tutto. A mettere da parte. Le facevi un regalo, che<br />

ne so, per Natale, per il compleanno, e lei lo metteva via,<br />

senza nemmeno guardare di cosa si trattava. Cosa è? Una<br />

camicia da notte? Un paio di pantofole? Grazie e metteva via,<br />

con ancora la confezione, in un qualche buco senza fondo<br />

dell’armadio. Metteva via, per i tempi bui, per quando ci<br />

fosse stato bisogno. E se chiedevi perché, rispondeva che lei<br />

conosceva la fame e che la roba non andava sprecata. Nella<br />

fase più avanzata delle allucinazioni da letto, mia nonna mi<br />

guardava e credeva di vedere suo marito. Il primo giudice<br />

della dinastia arguta, schiantato da un infarto nel cuore della<br />

notte. Per questo con me era eccezionalmente gentile, solo<br />

con me, con gli occhietti gialli e gonfi da lucertola che le brillavano<br />

nel vedermi. Incontri ultraterreni. Giravo a largo, se<br />

potevo. Era difficile sostenere quella visione. Se mi vedeva,<br />

non vedeva me, ma mi attribuiva un ruolo pesantissimo; di<br />

prestigio, lo ammetto, considerato che preferiva me a mio<br />

padre per impersonare il consorte. Mi vedeva, si scusava e<br />

piangeva. Si scusava per non avermi riconosciuto subito.<br />

Parlava rivolgendosi a suo marito, anche se continuava a<br />

guardare me; menzionava episodi del passato: un anello di<br />

rubini mal ereditato, che una sua sorella rivendicava senza<br />

ragione, i fagioli in pignata che bruciavano sul fuoco; una<br />

festa da ballo con abiti scuri. Mi sommergeva di racconti<br />

sconnessi e vaghi. Mi faceva pure delle domande e io zitto.<br />

Poi taceva anche lei, chiudeva gli occhi e mescolava immagi-<br />

37


ni a visioni, insoddisfatta. Anche l’ultimo giorno, in tarda<br />

serata, mi vide e disse Arturo, quanto sei bello stasera! Mio<br />

nonno si chiamava Arturo e non era mai stato particolarmente<br />

bello. Neppure mia nonna, per la verità. Quando è morta<br />

qualcuno ha aperto il suo armadio e si è rovesciata sul pavimento<br />

una quantità indescrivibile di oggetti inutili e nuovissimi,<br />

conservati in cent’anni di parsimonia. Soprattutto rosari.<br />

Legno, vetro, gesso: grani di tutte le fatture. Abbiamo dato<br />

tutto alla Caritas.<br />

Dicevo. <strong>La</strong> vecchia chiacchierona, stranezze a parte, aveva<br />

ancora in tasca una scatola di Moment; mancavano tre pillole<br />

bianche, ma non c’era nessuno scontrino. Poteva averle<br />

comprate quella mattina stessa o venti giorni prima. Nulla<br />

provava nulla. Lei si rigirava tra le mani la piccola scatola con<br />

i bordi blu per farcela vedere; le sue dita erano come bastoncini<br />

per cibo cinese, orribili. Raccontava della faccenda del<br />

proprietario della farmacia accanto, originario della<br />

Giordania. Quello che le dava le caramelle all’orzo gratis,<br />

quando ci passava la mattina.<br />

Ma procediamo per gradi. I carabinieri stavano interrogando<br />

tutti i negozianti della zona che potessero riconoscere<br />

un viso, narrare un gesto utile all’indagine. A tappeto.<br />

Negozi, venditori ambulanti, il giornalaio, il fioraio, il panettiere,<br />

un paio di massaie che facevano la spesa, facce che<br />

apparivano abituali.<br />

In farmacia però ancora non ci erano entrati e fu la vecchia<br />

a parlare per prima dello straniero. Il proprietario era un<br />

baffone. Un classico, l’esotico col baffo mogano. Inconsueta<br />

invece una farmacia in Italia gestita da un giordano. <strong>La</strong> calotta<br />

cranica del Ietta arrossì di curiosità sotto i capelli.<br />

Andate a dare uno sguardo, subito.<br />

Vista la reazione del capo, andammo immediatamente in<br />

farmacia e la vecchia venne con noi. Accadde tutto in quelle<br />

poche ore di luce solare strizzate dall’evento.<br />

Prima della farmacia, la strada: eccola. Ogni volta che,<br />

dopo essermi trattenuto a lungo nel covo del ragno, venivo<br />

38


fuori, mi colpiva il riverbero della strada. Era successo più di<br />

una volta quello stesso giorno.<br />

L’ultimo movimento prima di chiudere la mattinata di<br />

lavoro fu la visita dal farmacista. Il cadavere se ne era andato,<br />

ormai. Perduto per sempre. Non so se diretto al policlinico o<br />

in obitorio, ma ormai era morto per davvero. Non era più tra<br />

noi. Amen. Rimanevano i luoghi e il pensiero di quella faccia<br />

di uomo stracciata in più punti, come un foglio di giornale.<br />

<strong>La</strong> comprensione dei fatti, il corpo e gli eventuali residui da<br />

rintracciare sullo stesso, avevano la consistenza dei cubetti di<br />

ghiaccio che si sciolgono velocemente dentro un bicchiere<br />

vuoto. Come l’acquetta sporca e zuccherata che resta sul<br />

fondo, dopo aver buttato in gola il resto. Fare presto, fare<br />

presto! Tanto il ghiaccio si scioglie comunque secondo i sui<br />

tempi imprescindibili.<br />

Il tempo continuava a scorrere. Comunque. D’accordo la<br />

farmacia, ma la strada, pure, non era un fatto da niente. Il crimine<br />

risente del luogo in cui avviene. L’assassinio mi faceva<br />

pensare a un colpo di mazza ferrata su una cristalliera con<br />

ninnoli di Boemia. Un evento imprevisto, quasi inaccettabile,<br />

considerata l’aura di sacralità che adornava il quartiere. Una<br />

bella strada, non un vicolo buio, teatro scontato per misfatti<br />

e nefandezze. No. Al contrario. Roba da ricchi. Qui anche l’asfalto<br />

era lucido. Sarà stata tutta la pioggia, ma la strada era<br />

più che specchiante; le massaie carine per forza, di quella<br />

media borghesia colta poco prima dell’estinzione ufficiale,<br />

con piccoli tacchetti lucidi nelle pozzanghere e bimbetti verso<br />

la scuola con zaini lucidi. Lucida l’incerata gialla dell’operatore<br />

ecologico che spazzava le rughe ai marciapiedi e raccattava<br />

incarti di ex pasticcini alla crema. Il sole rinveniva dal<br />

torpore ferrigno e colpiva lucide carrozzerie di auto, da poco<br />

uscite dalla concessionaria. Il cadavere grondante, e così poco<br />

lucido, era un affronto bello e buono a un luogo così elegante.<br />

Una novità.<br />

Del resto, se avevo scelto quella città e quel lavoro era per<br />

un bisogno di cambiamento. Non mi va di inventar storie sul<br />

punto; Angela sa bene come stanno le cose e ancora oggi ci fa<br />

39


dell’ironia facile, quando la nostra vita sembra rallentare e<br />

incatenarsi. Mi spiego. Era una forma difficilmente sopportabile<br />

d’infantilismo cronico il mio bisogno continuo di cambiamento,<br />

che solo da poco va allentando la sua morsa. Un tic<br />

che anche mia moglie Angela faticava a tollerare. Era espressione<br />

del mio fluire verso. Ho bisogno di seguire un movimento<br />

e di ricondurre il nuovo al vissuto, interpretandolo,<br />

giustificandolo. Non mi sopporto nella staticità. Tendo al<br />

movimento e mi muovo timoroso verso la perfezione, ammesso<br />

che sappia riconoscerla. Angela ne ha le palle piene. Non<br />

posso biasimarla: lo so che lei è terrorizzata dai possibili fuori<br />

pista, dal vagone impazzito che deraglia, dalle modifiche al<br />

canovaccio imposto. Io invece svicolo, inseguo, e poi riporto,<br />

come i cani, la pietra al padrone. Questo spostamento in<br />

avanti, o indietro, o di lato, scomposto e vago, comunque,<br />

non voleva dire buttare alle ortiche il passato, no, tutt’altro:<br />

cumulavo il vecchio al nuovo. Facendone nuove sintesi.<br />

Senza perdere nulla. Aggiungevo. Mi tenevo tonico. Sentivo<br />

l’esigenza di dirmi adesso è diverso. <strong>La</strong> fissità mi svuotava.<br />

L’orizzonte degli eventi che tutto ingoia, pure. Sintonizzavo<br />

l’interno in ebollizione, sull’esterno sconosciuto; correggevo<br />

il caos e così stavo meglio. Coglievo le diversità altrui, tutto,<br />

tutto il possibile, e lo portavo nel mio buco nero.<br />

Ossessionato dagli altri, quanto da me. Eppure, fare quelle<br />

valigie, che tanto amavo, nonostante tutto, mi costava fatica,<br />

un piccolo pungente dolore. E sì e no. Sì e no, sì e no. Troppo<br />

difficile soddisfarmi. Che uomo enorme ero, per quanto interessante,<br />

credo. Un uomo interessante. Sì. Comunque.<br />

Credo. Non era mai accaduto che rinunciassi. Mi sarei preso<br />

a sputi in faccia se fosse accaduto, e subito dopo avrei ricominciato,<br />

come un matto.<br />

Soprattutto dieci anni fa. Allora ero allo spasimo. Adesso<br />

forse va meglio: controllo gli eccessi del vizio di esserci. Ma in<br />

quegli anni godevo a pieno di una fretta scivolosa, la mettevo<br />

sotto i tacchi, convinto di regalarmi così un passo più fascinoso.<br />

Dunque dicevo, la strada. <strong>La</strong> strada dell’omicidio era<br />

nuova per me. Mi eccitava. I palazzi, alti, antichi, erano infil-<br />

40


zati dal sole che a tratti compariva, come una scatola colpita<br />

dall’alto, scoperchiata all’improvviso.<br />

Lungo quella strada, sullo stesso lato della libreria, c’era la<br />

farmacia. Attraente l’ingresso a vetri colorati. Il proprietario<br />

era di origini giordane, ma viveva in Italia ormai da anni. A<br />

parte il baffo scuro e l’occhio di tartaruga, non avrei mai<br />

detto che fosse straniero. Sì, forse qualcosa nell’accento, di<br />

vagamente languido, ma oramai c’è ovunque un tale mescolarsi<br />

di colori e suoni e voci, che non ci si fa caso; niente è<br />

veramente diverso ormai, tutto è decodificabile.<br />

Dieci anni fa lo straniero era più straniero.<br />

Lui accolse le divise con un certo affanno. Buongiorno. Un<br />

affanno reciproco. Buongiorno. Eravamo in quattro: io, due<br />

carabinieri e la vecchia. Cercammo subito il portaombrelli; ce<br />

lo indicò la vecchia, che si voleva fare parte diligente. Era nell’angolo<br />

vicino alla porta d’ingresso liberty, che ben si faceva<br />

sentire, din din, ad aprirla.<br />

Il portaombrelli? Analisi accurata. Attenzione. Il portaombrelli<br />

in ferro battuto color canna di fucile era pulito. Non<br />

solo pulito, cioè privo di macchie. No, era proprio lindo,<br />

lustro, tirato a nuovo. Quasi profumava per l’occasione. Una<br />

giornata di pioggia intensa e il portaombrelli era pulito. Non<br />

c’erano ombrelli a sgocciolare e questo era tutto sommato<br />

normale per il momento, visto che non c’era un solo cliente,<br />

ma non c’erano neppure residui d’altre scolature precedenti.<br />

Stranissimo. Come era possibile?<br />

Le cose erano due: o l’ombrello della vecchia si era macchiato<br />

a contatto con altro oggetto macchiato, contenuto nel<br />

portaombrelli, così come la stessa dichiarava, oppure lo stesso<br />

ombrello era già macchiato e, in questo caso, avrebbe<br />

dovuto di certo macchiare il fondo del portaombrelli. In<br />

entrambi i casi, il fondo del portaombrelli avrebbe dovuto<br />

essere macchiato. Era una questione di forti probabilità. Era<br />

ugualmente improbabile, mi pareva, che in farmacia non<br />

fosse entrato neppure un cliente nell’intera mattinata. A febbraio,<br />

pioggia, raffreddori. Le farmacie dovrebbero essere<br />

piene come le panetterie al mattino. Strano davvero. Il portaombrelli<br />

avrebbe dovuto essere quantomeno un po’ bagna-<br />

41


to. Invece il metallo rifletteva le nostre facce sconcertate.<br />

Chiedemmo conferma al giordano circa i racconti della vecchia,<br />

che dondolava curva ancora sulla porta.<br />

“Per la verità…”<br />

Il nero delle divise, il bianco del camice; il baffo, l’ombrello,<br />

i colori avulsi dei vetri.<br />

“Certo che conosco la signora, viene qui molto spesso.<br />

Anche solo per scambiare qualche parola. Alla signora piace<br />

parlare. Capisce: i vecchi in una grande città soffrono di solitudine.<br />

I vecchi, i poveri e gli extracomunitari sono quelli che<br />

soffrono di più. Noi spesso svolgiamo anche una funzione<br />

sociale. Mia moglie soprattutto, se aveva bisogno di aiuto, la<br />

signora si rivolgeva a mia moglie. Mia moglie è italiana. E<br />

cosa vuole che le dica? Come sempre. Mi pare. Una ventina<br />

di clienti nella mattinata. Non saprei; uno più, uno meno. Le<br />

pulizie del locale sono competenza di mia moglie, per carità.<br />

Io mi devo occupare di altro. Non mi chieda. C’è una ditta<br />

che fa lavori in tutta la zona, banche, uffici, bar, e una impiegata<br />

della stessa ditta viene anche qui, nelle prime ore della<br />

giornata. Sì, siamo soddisfatti; l’igiene è importante per una<br />

farmacia. È anche un fatto d’immagine, non crede? Hanno<br />

fatto le pulizie stamattina presto, credo, mi pare”.<br />

Ma dove era questa moglie così essenziale?<br />

<strong>La</strong> farmacia si presentava bene. Tutto ciliegio, anche le<br />

scaffalature. Intenso l’odore di cannella e melissa.<br />

Precisiamo: io non sono un tipo che frequenta le farmacie.<br />

Fortuna mia e di quanti frequento con assiduità. Mi curo con<br />

la forza del pensiero. Mi sento un po’ idiota a dirlo, ma è così.<br />

Ne parlo poco e solo su sollecitazione diretta. Le medicine, il<br />

bugiardino, le polveri, gli sciroppi e le effervescenze: un orrore<br />

che alla lunga ti altera il costrutto chimico. Non voglio<br />

averci niente a che fare con certa roba. Mi sforzo di tenermene<br />

lontano. Si tenga conto che, a mio avviso, quelle ignote<br />

malattie degenerative, di cui si può avere qualche notizia solo<br />

su internet o leggendo gli atti di qualche dimenticato convegno<br />

internazionale, o per le campagne annuali tipo telethon,<br />

quelle patologie chissà da quale nostro personale inverno<br />

42


provengono. Quella roba là, secondo me, ti travolge all’improvviso<br />

proprio a causa di un inconsapevole, anche lontano,<br />

abuso di farmaci. Per debolezza, lurida umana debolezza. Se<br />

posso, evito la pasticca. Nutro sotterraneo il dubbio di voler<br />

evitare l’uso del farmaco solo per il timore che scoprirne i<br />

vantaggi immediati possa lusingarmi. <strong>La</strong> via breve. Cerco di<br />

non pensarci. Preferisco ripetermi che la malattia non esiste;<br />

rinnego il sintomo, rifiuto il malessere. Questa è una delle mie<br />

sintesi del nuovo, e oggi spaccio questa fissa per forza di<br />

carattere. Finché dura.<br />

<strong>La</strong> verità è che mi fanno schifo le varie tipologie di malanni,<br />

le infinite variabili, soprattutto quelle degli altri, di quelli<br />

che si lamentano, sospirano, dicono ahimè tutto il santo giorno;<br />

considero tutta questa robaccia una colpa, in quanto<br />

potenzialmente evitabile con un po’ di sana prudenza e<br />

buona volontà. Mio padre, per esempio, non si ammala mai e<br />

se capita, a casa è festa grande.<br />

Non ero in grado di dire se la farmacia in questione era<br />

come tutte le altre o aveva qualcosa di esotico o sospetto. In<br />

realtà mi sembrava come tutte le altre. Non un luogo che<br />

sana, ma una qualunque rivendita di cartone e plastica colorata,<br />

atta ad ammonticchiare denaro. Tempio del lucro sulle<br />

altrui debolezze. Sì, ma non ero stato chiamato a fare comizi,<br />

io. Qui si parlava di omicidio e di imprecisati residui ematici.<br />

Ci voleva molto di più di un comizio a distrarci. <strong>La</strong> prima furtiva<br />

sbirciatina non era stata sufficiente. Salutammo il farmacista<br />

dopo quella veloce conversazione, in piedi, come comuni<br />

clienti; bisognava liberare la vecchia che si faceva sempre<br />

più curva e nervosa. Ci ripromettemmo di tornare nel pomeriggio,<br />

all’ora in cui era possibile incontrare anche la moglie.<br />

Ci serviva la moglie. Assolutamente la moglie.<br />

Il capo commentò brevemente il nostro lavoro: ritornare.<br />

Voleva vedere con i suoi occhi. <strong>La</strong> moglie era fondamentale.<br />

Uno che viene dalla Giordania non mette in piedi una farmacia<br />

in Italia se non ha una moglie italiana. <strong>La</strong> farmacia è una<br />

cosa di famiglia, diceva Ietta convinto. Ma perché? mi chiedevo<br />

io.<br />

43


Ci tornammo davvero. Nel pomeriggio il buio faceva<br />

dimenticare i cadaveri. <strong>La</strong> pioggia continuava a punzecchiare.<br />

Din din. Ci infilammo dentro la farmacia, dove non pioveva.<br />

Impersonavamo, come nei film americani, io il poliziotto<br />

buono, Ietta quello cattivo. C’era una donna alla cassa con un<br />

ciuffo di lacca. <strong>La</strong> moglie, fuor di dubbio. Piacente e costruita.<br />

Appena un po’ in soprappeso; anche il marito, del resto,<br />

fasciato come un karateca nel suo camice ben cinturato in<br />

vita. Entrambi cercavano di apparire rassicuranti, piacevoli,<br />

mettendo in mostra le otturazioni. Buonasera. Non c’era un<br />

cane neppure a quell’ora, tra le scaffalature di ciliegio. <strong>La</strong><br />

pioggia era un senso d’umido sui vestiti. Guardai il portaombrelli<br />

al solito posto, lasciando pigramente che fosse Ietta a<br />

presentarsi. Chiese subito del marito: ci teneva a vederlo in<br />

faccia; la faccia dell’uno accanto a quella dell’altra, dal primo<br />

all’ultimo pelo del baffone e della parruccona rigida di resina<br />

spray. Lui era nel retrobottega a lavorare e s’intravedeva la<br />

luce gialla di una lampadina proiettata sulla parete di fronte.<br />

Lo chiami, per favore.<br />

<strong>La</strong> donna tentava d’infilarsi la ciocca bionda, dura più di<br />

una pinna di baccalà, dietro l’orecchio mentre dava voce al<br />

marito, piegando remissiva il collo. Ad intervalli parlava di se<br />

stessa. Il marito, la moglie, la moglie, il marito.<br />

<strong>La</strong> donna lavorava presso l’ufficio comunale, nel centro<br />

esatto della città, come un nocciolo di un frutto indigesto. <strong>La</strong><br />

farmacia in passato era appartenuta alla sua famiglia; dopo la<br />

laurea in Italia del marito, aveva cominciato a gestirla lui. Lei<br />

ci stava poco a causa del suo altro lavoro. No, non c’era un<br />

attimo di tempo, nonostante non avessero figli. E da quando<br />

uno statale lavora così tanto? Se non la farmacia, di certo<br />

qualcos’altro rosicchiava le ore delle loro giornate.<br />

Con sullo sfondo il solito camice bianco del marito, la<br />

moglie inanellava aneddoti e quadretti naif di terre lontane,<br />

mentre io e Ietta la guardavamo con facce sostanzialmente<br />

diverse, che dovevano comunicare differenti emozioni.<br />

Comprensione e stronzaggine. Uno solleva il pelo, l’altro lo<br />

taglia: un rasoio bilama. Si fa così: il buono e il cattivo lavorano<br />

insieme per disorientare e indurre alla verità. Eravamo<br />

44


semplicemente perfetti in quel ruolo, mentre premevamo<br />

all’unisono su tasti differenti del cuore: la lusinga e la paura.<br />

Sì che non residuasse spazio per la fuga.<br />

Sia chiaro: io non sapevo nulla della Giordania.<br />

Notizie note:<br />

1) Quella storia ridicola, letta chissà dove, che nel Mar<br />

Morto un uomo può galleggiare da seduto per ore, come su<br />

una poltrona vibrante, tipo quelle che puoi acquistare in una<br />

qualsiasi televendita, grazie al sale di cui sarebbe ricchissima<br />

l’acqua di quel mare.<br />

2) Il conflitto mediorientale spalleggiato da qualcuno in<br />

zona, avvolto dalla striscia di Gaza come da una rigida sciarpa<br />

di fuoco, con Davide e Golia combattenti in Filistea mentre<br />

la Giordania restava a guardare, ad aspettare la fine.<br />

3) Scontati timori di radicate forme di collaborazione con<br />

il terrorismo internazionale, ma soprattutto oggi, che le twin<br />

towers sono scomparse dalle cartoline; dieci anni fa neppure<br />

quello. <strong>La</strong> Giordania all’inizio del secolo scorso faceva parte<br />

della Palestina. Oh, cavolo! <strong>La</strong> Palestina! Mi veniva in mente<br />

un arabo che dormiva accanto a una polveriera, come un<br />

pastore da presepio, la notte di Natale. Oppure un sultano<br />

ricchissimo con 20 donne e 20 cammelli. Favole e notti che<br />

non finiscono mai. <strong>La</strong> terra santa, le crociate, l’imperatore<br />

Costantino. Due immagini immediate? Il Santo Gral e la benzina<br />

da mettere in auto. <strong>La</strong> Palestina non è assolutamente una<br />

meta turistica. Non per tutte le tipologie di turisti, almeno. In<br />

compenso provoca un bel po’ di fantasie. <strong>La</strong> Palestina è un<br />

mistero illogico con radici antichissime. Un po’ come la<br />

Giordania, appunto. <strong>La</strong> mia immaginazione osava spingersi al<br />

massimo fino alla Turchia; forse all’Egitto, là, nei dintorni,<br />

chilometro più, chilometro meno. Informazioni gentilmente<br />

offerte dalle agenzie, in vista di viaggi da sogno, ancora mai<br />

realizzati. Ho viaggiato, ma non così tanto. Mio padre molto<br />

più di me, non c’è confronto; per lavoro e non solo. Lui conosce<br />

il mondo, afferma, e io non ho mai avuto motivo di dubitarne,<br />

posta la fermezza con cui lo dice. <strong>La</strong> spensieratezza<br />

ieratica di mio padre deriva forse anche dalle sue frequenti<br />

45


panoramiche turistiche, dai suoi rapidi giri di mappamondo<br />

con amorevoli accompagnatori. I viaggi di papà sono sempre<br />

stati un argomento ghiotto, ma difficile. Partiva spesso. C’era<br />

poco a casa. Noi di famiglia aspettavamo sempre il suo rientro<br />

all’aeroporto, con ghirlande di anemoni. Festosamente.<br />

Anche noi aspettavamo fiduciosi il nostro personale Santo<br />

Gral. Non sbagliava un colpo mio padre. L’atterraggio era<br />

sempre in perfetto orario. Quindi, noi di casa correvamo<br />

come indemoniati per fare presto, fare in fretta e farci trovare<br />

ad aspettarlo, come lui era certo avremmo fatto. Gli aerei<br />

degli altri a volte subivano ritardi; i suoi mai. Gli altri avevano<br />

anche solo dei dubbi a riguardo, lui mai. Nessun dubbio<br />

in generale. Eravamo noi di famiglia a dover vincere i nostri<br />

personali ritardi nel nome della sua fatale puntualità.<br />

Adattarci. Mia madre, io e qualcun’altro vicino a noi, sapevamo<br />

che i suoi voli toccavano terra sempre in perfetto orario.<br />

Curioso, ma vero. Non ci stupivamo quasi più. Quando scendeva<br />

dalla scaletta con i suoi completi grigio chiaro, perfettamente<br />

sbarbato e profumato, senza alcun segno di stanchezza<br />

o altre ovvietà, metteva un braccio intorno al collo del<br />

primo volto amico che gli si parava innanzi, e sorridente commentava:<br />

Perfetto. Chi dice che l’Alitalia non funziona? E se<br />

non era l’Alitalia, il succo della vicenda non cambiava. Un<br />

nuovo successo da uomo comune. Ma questi erano i viaggi di<br />

mio padre, non quelli degli uomini. Un orizzonte diverso e<br />

irraggiungibile. Altra storia. <strong>La</strong> Giordania del farmacista era<br />

meno misteriosa di quella di mio padre, tutto sommato.<br />

Un tipo come il nostro farmacista, che lascia il suo paese a<br />

vent’anni, però, che uomo è? Che storia ha vissuto? Con il<br />

corpo parla l’idioma dei mamelucchi, nonostante ciò, avendo<br />

fatto scelte molto tortuose, i suoi occhi e la sua bocca riescono<br />

a parlare ben più di una sola lingua. O è un tipo che, come<br />

me, ama le cose nuove, oppure è uno che ha avuto paura ed<br />

è scappato. Chissà quante volte ha avuto paura. Mi sono subito<br />

chiesto come ammazzano i giordani. In altri termini: hanno<br />

tecniche preferenziali, lame, scimitarre, fuoco, sputi? Mi si è<br />

parato innanzi il feroce saladino con le orbite iniettate di san-<br />

46


gue, e ne sono nate delle domande. È logico. Domande anche<br />

tecniche, alle volte. D’accordo, i luoghi comuni sono una prigione,<br />

chi lo nega?, ma certe volte la testa se ne va per i fatti<br />

suoi, e poi c’erano quelle trentotto coltellate, quasi tutte al<br />

volto, senza arma, senza pietà. Dicono che l’analisi della vittima<br />

sia utile alla comprensione del crimine. Dico io: trentotto<br />

colpi, una rosa di pallettoni in pieno viso non avrebbe fatto di<br />

meglio, sono una dichiarazione chiara! Era un cadavere che<br />

aveva parecchio da raccontare, quello del Corietti; una vittima<br />

che urlava vendetta al cospetto di Dio e procurava una<br />

persistente secchezza in gola. I luoghi comuni alleggerivano la<br />

tensione e, a quel punto, erano quasi una necessità<br />

Immaginavo una mano armata che si alzava e abbassava<br />

nella penombra urlante; e zac zac. Che rumore fa la lama che<br />

spacca le ossa? Quanta resistenza trova la mano? Quanta soddisfazione<br />

offre esattamente codesto tipo di attività?<br />

Aumenta la salivazione? Le mani sudano e scivola via lo strumento?<br />

Si produce un odore preciso nell’aria? Quale? Miele?<br />

Ho letto un libro una volta in cui si affermava che la carne<br />

cruda macellata ha l’odore del miele. Non so. So che nel frigo<br />

dopo due giorni puzza. Non è che sono pignolo, è che un<br />

assassino deve essere proprio determinato per accanirsi tanto<br />

contro una parete di carne umana, vibrante, accecata dalla<br />

paura e dal dolore.<br />

Turbato ero turbato. No, la Giordania non era affatto un<br />

pensiero rassicurante, ma in qualche modo ci forniva delle<br />

idee.<br />

Quello stesso pomeriggio, lungo la strada che ci avrebbe<br />

portato fino alla farmacia, il capo mi aveva raccontato l’esito<br />

dell’autopsia. Devastato. Aveva detto. <strong>La</strong> bocca gli si era storta<br />

verso destra bagnando lievemente di saliva il labbro inferiore,<br />

mentre con la mano tagliava in due l’aria segnando i<br />

confini di un ipotetico deserto. <strong>La</strong> scienza medica aveva<br />

garantito solo alcuni risultati certi: il numero dei colpi inferti<br />

e, poiché il cadavere era ancora caldo al momento del ritrovamento,<br />

si era potuto calcolare con una certa precisione l’orario<br />

della morte. Si era guardato poi nello stomaco: c’erano<br />

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un caffè e un paio di biscotti secchi ancora da digerire. <strong>La</strong><br />

colazione di chi ha fretta. Nei locali della libreria, messi oramai<br />

sotto sequestro, erano stati successivamente individuati<br />

schizzi di sangue persino sul soffitto; una macchia a forma di<br />

ragnatela, di cui io non mi ero accorto. Violenza inarrestabile.<br />

Ietta diceva che se avessimo individuato in tempo accettabile<br />

un indiziato su cui concentrare lo sforzo investigativo,<br />

avremmo di sicuro potuto trovare dei residui ematici sugli<br />

abiti indossati dallo stesso al momento dell’assassinio.<br />

Avremmo dovuto cercare degli indumenti marchiati, quindi,<br />

ma subito!, porca la miseria, subitissimo, con assoluta urgenza.<br />

Il colpo mortale, uno degli ultimi inferti, era stato quello<br />

al collo. Un orecchio era stato quasi del tutto mozzato. Due<br />

ferite di striscio tra l’occhio e il naso avevano reso irriconoscibile<br />

il volto. Si pensava a una arma da taglio lunga almeno<br />

dieci centimetri e particolarmente affilata. Ma su questo nessuna<br />

certezza. Un tagliacarte? Un cult. Un tagliacarte in una<br />

libreria non può ritenersi fuori posto. Ci sarà stato un tagliacarte<br />

da qualche parte! Niente: non trovarono niente di simile<br />

tra le madonne in campana e i reliquiari. Devastato, diceva<br />

Ietta. Dalla sequenza erano stati tagliati i fotogrammi relativi<br />

alla lama lucente. Il saccheggio di un volto senza strumento.<br />

Senza lama. Eravamo rimasti senza lama. Mi s’incupiva persino<br />

la fantasia, diventava ossessiva.<br />

Ma i giordani sono gente cattiva, vendicativa? Mai capito<br />

bene se nel Corano c’è davvero qualcosa a proposito del<br />

Dente per Dente. Mai visto, prima di allora, un vero giordano.<br />

Mai letto il Corano. Non aveva senso aver paura in astratto,<br />

eppure ero attraversato da brividi d’ignoranza del tutto<br />

incontrollabili. L’ambientazione del delitto, la scenografia,<br />

l’emoglobina dispersa, facevano pensare a una vendetta; alla<br />

cattiveria sì, come categoria generale, ma provocata da qualcosa<br />

di veramente grosso. Non sono poi moltissimi gli esseri<br />

umani capaci davvero di vendetta. È più comodo dimenticare.<br />

Secondo me. Sì, ma forse non è una regola generale.<br />

Al nostro secondo incontro, accanto alla moglie, la voce<br />

del marito aveva acquistato un tono da brodino caldo. Era<br />

48


evidentemente preparato a un uditorio prevenuto nei suoi<br />

confronti. Deduttivo. Seduttivo. Raccontava delle difficoltà<br />

incontrate negli studi, della lingua italiana, grammaticalmente<br />

ostile, ma che aveva sempre amato, che, soprattutto grazie<br />

alla moglie, gli era entrata nel cuore. Voleva farci tenerezza il<br />

cicciobello musulmano. <strong>La</strong> sua donna non era araba: era italianissima.<br />

Ci teneva a sottolinearlo. Se, nonostante il Corano,<br />

si sceglie una donna italiana, ci deve essere una ragione; una<br />

certa inclinazione all’abbondanza, una certa attitudine alla<br />

disobbedienza.<br />

<strong>La</strong> donna italiana ancheggiava in pantacalze arancio.<br />

Mediocre icona del peccato. Dieci anni fa il genere pantacalze/aderente/al<br />

polpaccio spopolava; era una specie di bandiera<br />

per deretani disponibili. Lo si vedeva in giro a primavera,<br />

sotto giubbe troppo corte in vita. Ne vedo in giro ancora<br />

adesso ogni tanto e, se indossati fuori moda, colpiscono ancor<br />

più lo sguardo e l’immaginario. Fortemente evocativa, oggi<br />

mi torna in mente la suggestione di quella specie di grossa<br />

zucca appoggiata sulle anche, ostentata con orgoglio dalla<br />

moglie del farmacista. Mi torna in mente con la precisione dei<br />

bordi di un francobollo da collezione. Quanto il suo straniero,<br />

corpulento consorte, con le vocali allungate, così simili<br />

alla strada per Amman. Verso le notti di Sharazad.<br />

Non era giovanissima la sua donna. Oltre i quarantacinque,<br />

di sicuro. L’eloquio era tendenzialmente curato, salvo<br />

qualche lezioso scivolone che tendeva a esibire con un certo<br />

orgoglio, così come faceva con il fondoschiena. Era abituata<br />

a trattare con il pubblico e a imbonirlo. Il tutto era molto<br />

rotondo. Il capo chiese qualcosa circa la loro attività commerciale;<br />

notizie soprattutto sulla clientela. <strong>La</strong> donna aveva già<br />

detto di aver preferito fare altro nella vita. Lo riprecisò. Aveva<br />

conosciuto il marito in un’università del nord. Frequentavano<br />

entrambi farmacia. Con la sua famiglia d’origine lei non era<br />

mai andata d’accordo: litigi, incomprensioni, solite cose. <strong>La</strong><br />

scelta del matrimonio con un arabo ne era la vistosa dimostrazione.<br />

Ma era stata fortunata: lui era un gran marito; sì, ne era<br />

valsa la pena. Prima avevano convissuto, ma erano studenti,<br />

qualche anno in una mansarda. Per capire. Che romantiche-<br />

49


ia: l’uomo con la palpebra allungata alla Sharif e la fuggiasca<br />

rotonda, soli soletti, troppo vicini al cielo. Era la fine degli<br />

anni Settanta.<br />

“Non volevo fare scelte avventate…”<br />

Sposare l’extracomunitario all’epoca non era una scelta<br />

avventata, no, era la bomba atomica.<br />

“Quando lui si è laureato, io l’ho seguito e siamo diventati<br />

una vera famiglia. Poi c’era la questione della farmacia di<br />

mio padre. Si poteva ritornare a casa, ma non è che fosse una<br />

grande prospettiva. <strong>La</strong> gente ti guarda, fa domande. Ci abbiamo<br />

pensato a lungo prima di decidere. Poi papà è morto<br />

improvvisamente per un cancro alla prostata; nemmeno la<br />

mamma stava bene. E così adesso siamo qui…”<br />

Il marito sembrava essersi scrollato di dosso, come un cane<br />

bagnato, un intero patrimonio culturale. Possibile?<br />

Ci sono risposte che sembrano un pasto lasciato a metà. Il<br />

penultimo boccone rubato al cucchiaio. Non mi piaceva la<br />

situazione e, dall’osservazione attenta della fossetta sul mento<br />

del capo, potevo intuire che non era soddisfatto neppure lui.<br />

<strong>La</strong> fossetta si allagava in una smorfia d’insazietà, dinanzi<br />

all’innaturale metamorfosi del bacherozzo che si dichiarava<br />

italiano d’adozione, anche nell’anima. <strong>La</strong> moglie lo toccava di<br />

continuo, come fanno i gatti che pisciano negli angoli: gli toccava<br />

ora il gomito, ora la spalla, ora la nuca. Come dicesse: è<br />

mio.<br />

Fu per questa ragione che decidemmo di eseguire una giusta<br />

dose di intercettazioni telefoniche. Insomma, le chiacchiere<br />

non erano bastate in quel clima da favola e si era fatto tardi.<br />

Grazie al mio solito intuito da segugio, l’avevo capito subito<br />

che saremmo arrivati a quello. Non so come l’avevo capito,<br />

forse per una certa luce pomeridiana tra nuvole cariche e<br />

battiti d’ali d’uccelli al rientro, in stormi; per le pause del<br />

Ietta mentre mi riferiva alcuni elementi di dubbio. Per la coltre<br />

di foschi non detti, acquistati in confezione maxi in questa<br />

farmacia del centro. Per il tempo che passava e cancellava<br />

inesorabilmente le tracce che l’assassino doveva aver pur<br />

lasciato da qualche parte. Per la fretta. L’avevo intuito dai<br />

contrasti.<br />

50


Inoltre, c’era il fatto dell’ombrello stranamente macchiato<br />

e non c’erano più dubbi (l’avevamo accertato nello stesso<br />

pomeriggio, friggendo a puntino quelli del laboratorio):<br />

erano macchie di sangue, ma non erano dello stesso gruppo<br />

sanguigno della vittima, povero cristo. Per la verifica del<br />

DNA c’era invece da avere pazienza. Comunque, a quel<br />

punto, l’ombrello entrava a pieno titolo nell’indagine.<br />

L’ombrello e il nitore del suo portaombrelli.<br />

Il tempo passava, l’ho detto, e Ietta sembrava perdere a<br />

ogni minuto strati di cellule vitali.<br />

Aveva in mano solo un ombrello, pover’uomo!<br />

Le intercettazioni, c’è poco da fare, sono un ausilio fondamentale<br />

a un certo punto. A volte l’unico possibile. Subito, la<br />

sera stessa. Sarebbero risuonati nella notte, presso la sezione<br />

di polizia giudiziaria, i primi squilli, ottenute le autorizzazioni<br />

di rito. Perché non si può fare come ci pare; ci sono dei criteri<br />

di legge da seguire e il Ietta era uno preciso. Sempre.<br />

Intorno all’uso delle intercettazioni ci mangiavano in tanti,<br />

come da uno stesso piatto ricco, erano chiacchierate già da<br />

allora. Bisognava andarci cauti.<br />

Ma il reato era quello che era; le persone informate sui<br />

fatti, dalle prime sommarie informazioni, erano risultate<br />

sospette. Si stavano trasformando in indagati. In bocche cucite<br />

o ridondanti, tra loro in groviglio. Quindi, le intercettazioni<br />

erano uno strumento più che legittimo, timidezze burocratiche<br />

a parte.<br />

Inoltre, bisognava stare all’erta, poiché la stampa avrebbe<br />

reso da subito i fatti più torbidi. Soprattutto se fossimo finiti<br />

nelle mani delle donne della cronaca nera. Pietà! <strong>La</strong> stampa,<br />

sì, la stampa: schiere di pubbliciste agguerrite ci aspettavano<br />

al varco. Già il pomeriggio dopo la morte del tizio, c’era addirittura<br />

un trio di cronisti con la penna a scatto sotto il Palazzo<br />

di giustizia. Un commesso, incontrato fuori dal Tribunale per<br />

la pausa pranzo, m’aveva fatto segno, con il labbro inferiore<br />

pendulo, di fare il giro dall’altra parte per non restare sotto il<br />

loro assalto. Di qua, di qua, con un filo di voce, e io l’avevo<br />

seguito lungo la rampa di scale che dal garage portava ai piani<br />

51


alti, guardandomi di continuo alle spalle. Fu premuroso, mi<br />

ricordo. Brava persona.<br />

Se fossi uscito sul giornale avrei detto a mia moglie di comprarlo,<br />

ma i giornali non parlarono mai di me; non diventai<br />

famoso per quel primo caso. Sui giornali delle settimane a<br />

seguire campeggiavano Ietta e alcuni numeri civici della città.<br />

Avevo notato che le reti televisive locali, una volta individuati<br />

i luoghi del fatto criminoso, eseguite le prime riprese, continuavano<br />

a mandare sempre le stesse esigue immagini di<br />

repertorio, acquisite i primissimi giorni. Così, all’infinito, a<br />

ogni servizio. Il tempo si fermava; quasi s’impigliava nelle<br />

immagini. Sarebbero trascorse le stagioni, eppure, ogni volta<br />

che in futuro si sarebbe parlato di via Cardone, quella strada<br />

sarebbe apparsa immutata, così come era stata fermata in<br />

quella prima ripresa; stesse le nubi, stessa la luce sugli oggetti,<br />

immodificabili i cappotti marcianti, identici i rumori e i visi<br />

catturati casualmente. <strong>La</strong> fama dona immobilità. Un fatto<br />

locale, comunque. Non è che le reti nazionali si fossero interessate<br />

a noi. Al massimo un solo servizio a ridosso dei fatti.<br />

Meglio così, credo io. Ma chi erano i direttori Rai allora? Non<br />

ricordo. Gente seria, forse.<br />

<strong>La</strong> stampa può anche diventare un assillo; bisognava prepararsi<br />

per tempo alla sua furia ottenebrata, alla sua fame<br />

gialla. Di solito la gola profonda si nasconde tra le forze dell’ordine.<br />

Altro che feroce saladino! Un parente, un amico, e<br />

la notizia riservatissima se ne vola via. Non so come stanno<br />

davvero le cose, non sono giornalista io! Ma un fatto è certo:<br />

o le notizie sono pura fantasia, o viaggiano comode comode<br />

sulla bocca di qualcuno che vuol fare un piacere a qualcun<br />

altro, che a sua volta di certo ha un debito con un altro tizio<br />

e via discorrendo. Mio padre sì, lui sì che veniva bene in televisione;<br />

è sempre stato un bel mezzobusto. Ma io, con il faccione<br />

che mi ritrovo? È stato proprio in quel periodo che mi<br />

sono fatto crescere quest’accenno di pizzo, che porto ancora<br />

oggi sotto il labbro. Similcapra, dice Angela. Una capra un<br />

po’ più vecchia di quella che sono in realtà. Fa tanto saggio.<br />

Quando poi, dopo anni, ho provato per una volta, a tagliare<br />

52


quella barbetta, ho trovato sul mento delle cicatrici, dei segni<br />

che non conoscevo; ho trovato un mento cedevole e non più<br />

gli anni che ci avevo nascosto sotto.<br />

Le intercettazioni, comunque, sono la parte divertente del<br />

gioco; uno spasso. Da raccontare. Quelle intercettazioni, le<br />

nostre in particolare, furono un terremoto per tutti.<br />

53


IV CAPITOLO<br />

“Da quanti giorni?”<br />

“Da una settimana circa che sentiamo ogni parola. Tutto”.<br />

“Mi pareva, infatti… bello no? Ti stai divertendo, almeno?<br />

Ehi, è diventata una faccenda intricatissima, con tutti quei<br />

nomi noti che stanno venendo fuori. Mica ci credevo io. E<br />

adesso che fate, che dice il tuo capo? Chi l’avrebbe immaginata<br />

una scoperta così, eh? Una vera casa di tolleranza avete<br />

fatto saltar fuori. Non solo preti. E quella, l’organizzatrice<br />

dico, è bella quella?”<br />

“Fidati Angela: un cesso. Tutta lacca e culo. È lei che gestisce<br />

le relazioni, mentre l’arabo, il marito, cura il libro mastro<br />

e tiene l’agenda degli appuntamenti. C’è un giro d’affari pazzesco.<br />

Non è detto che non venga fuori anche l’ipotesi dell’usura.<br />

Per ora solo un giro di appuntamenti hard per donne<br />

ricche e compiacenti, alcune forse straniere irregolari, ma<br />

poche rispetto alle insospettabili nobildonne. Ci stanno in<br />

mezzo avvocati, commercialisti, artigiani, studenti. È un gran<br />

bazar. Guarda, siamo rimasti così, a bocca aperta”.<br />

“Soldi? Droga?”<br />

“Per ora non possiamo dire, ma chissà. Si divertono da<br />

matti quelli lì. Al sabato organizzano delle festicciole, in<br />

alberghi di lusso o in una villa sulla provinciale”.<br />

“E in Tribunale non si sapeva niente?”<br />

“Figurati! <strong>La</strong> sorella dell’organizzatrice ci lavora in<br />

Tribunale, conosce l’ambiente, mentre il marito fa il farmaci-<br />

54<br />

Credi che non sorgano impeti di sentimenti anche<br />

in me? Ma io non li lascio scatenare; io li afferro,<br />

li domo; li inchiodo. Hai visto le belve e il domatore<br />

nei serragli? Ma non credere: io, che pure<br />

sono il domatore, poi rido di me…<br />

Luigi Pirandello


sta. L’insospettabile esotico medicamentoso. Una specie di<br />

cura efficacissima, insomma. Da provare!”<br />

“Nicola, ma in che razza di ambiente sei finito?”<br />

“È così, Angela. Non ci credi?”<br />

“Non so”.<br />

“Non ci credi”.<br />

“Quando sei lì, mi sembra che tu non sia mai stato qui. Mi<br />

parli di cose che non conosco. I mariti di solito non lo fanno”.<br />

“Non ho capito niente, scusa”.<br />

“Non so, è stranissimo: quando sei lì mi sembra che tu sia<br />

un estraneo, che tu non abbia mai abitato nella nostra casa”.<br />

“E quando ritorno, invece?”<br />

“No, allora tutto ritorna normale. Chissà se capita a tutti,<br />

dico tra marito e moglie, se capita quando si vive in posti<br />

diversi, tu lì e io qui; un po’ più lontano dal centro di sé. Non<br />

so se è come incontrare qualcuno che non conosci o solo perdere<br />

la persona che conoscevi prima”.<br />

“Ma quando siamo insieme è tutto normale, hai detto, no?”<br />

“Più o meno. Minor abitudine. All’inizio, quando arrivi a<br />

casa, hai l’atteggiamento del lord inglese in visita in Italia,<br />

sembri a pensione da me. Gentilissimo. Tutto è buonissimo,<br />

tutto perfetto, grazie, scusa, si figuri, come è cortese, come è<br />

carina. Dopo un po’ finalmente ti rilassi e ricominci a rovistare<br />

nel frigo, a non chiudere la porta del bagno quando ci sei<br />

dentro, a buttare la spazzatura ossessivamente, anche vuota.<br />

Abbastanza ridicolo. Non può durare in eterno”.<br />

“Sono educato io”.<br />

“Sei in imbarazzo”.<br />

“No, affatto. E perché dovrei?”<br />

“Non so. Un eccesso d’impegno, forse”.<br />

“Vedremo”.<br />

“Va. Parliamo del morto. Nessuno parla più del morto,<br />

alla fine. Solo del morto, intendo”.<br />

“Per ora niente di chiaro”.<br />

“Ma io te l’avevo detto”.<br />

“Cosa mi avevi detto?”<br />

“Niente, niente…”<br />

“Cosa, scusa?”<br />

55


“E dai, niente. Lo sai”.<br />

“No, non capisco, cosa mi avevi detto? Di non venire a<br />

lavorare qui? Insomma, la solita solfa?”<br />

“Comunque la questione si fa interessante. Alla fine. È un<br />

territorio interessante quello su cui stai lavorando. Male che<br />

vada è stato interessante. Qui da noi è più moscio!”<br />

“Ma che c’entra questo, adesso? Non capisco. Sei nervosa.<br />

Allo studio come va?”<br />

“Come sempre: va. Solite difficoltà a strappare una pratica<br />

al grande avvocato. Non si vede un soldo. Totale accentramento.<br />

Quasi quasi mi dedico ai festini anch’io, che dici? E<br />

basta: sono senza appuntamenti, senza marito, senza figli; che<br />

ne dici? Ora vedi che ti combino”.<br />

“Mi manchi molto”.<br />

“E il morto? Allora? Parlano del morto quelli che state<br />

intercettando?”<br />

“L’abbiamo perso di vista, il morto. Presi da tutte quelle<br />

telefonate bollenti. Lo sai che pure il Presidente dell’Ordine<br />

degli Avvocati, pure lui… Ah, e che ne sai tu: ci credi che<br />

organizzavano pure viaggi in Thailandia? Ti giuro! Tutto<br />

regolare all’apparenza. <strong>La</strong> sezione civile del Tribunale doveva<br />

essere uno dei quartieri generali per la moglie del farmacista,<br />

che di suo lavorava altrove, per la precisione all’ufficio pratiche<br />

migratorie interne, e magari aveva il suo giro d’affari pure<br />

lì. Adesso ci dobbiamo andare cauti, perché si apre un nuovo<br />

troncone d’indagine, che non ci riguarderà più, passerà ad<br />

altri di sicuro. Sarà un processo mediatico di quelli veri; una<br />

bomba. Vedrai! Ma io fra sei mesi vado via. Figurati. Inutile<br />

farsi prendere troppo. A me preme il morto, il mio cadavere.<br />

E basta. Prima di andar via vorrei capirci qualcosa di più. E<br />

basta. Almeno quello”.<br />

“Il portaombrelli?”<br />

“Non ne hanno parlato proprio, nonostante noi glielo<br />

avessimo contestato. Gli abbiamo messo vicino pure la vecchia,<br />

per spaventarli, ma niente. <strong>La</strong> vecchia matta continuava<br />

a gridare come una civetta cieca: il sangue, il sangue!, e pregava<br />

in aramaico. Ma niente. Nelle telefonate neppure un<br />

accenno al fatto terribile dei giorni precedenti”.<br />

56


“Ma è molto strano, non credi? Perché non parlano dell’omicidio<br />

i farmacisti? E neppure dell’ombrello?”<br />

“Lo so. Non quadra. Però alle volte… che ne sai come<br />

sono fatti gli uomini. Questi due sembrano presi soltanto<br />

dalla loro fiorente attività secondaria!”<br />

“Ma che razza di Palazzo di giustizia è il tuo?”<br />

“Una fiera. C’è un magistrato, cinquant’anni, separato da<br />

un po’, con un figlio, credo grande, che se la fa con due<br />

donne e non si decide: una segretaria di trent’anni, una specie<br />

di trampoliere con le piume rosa, e una collega rampante,<br />

ma più matura. Ne parlano tutti, dal caffè alle fotocopie. Ci<br />

fanno su i centrini. Uno schifo. C’è puzza di scandalo pure<br />

al civile, nella sezione con i magistrati più anziani, ma quelli,<br />

a fine carriera, se ne sbattono. Così, i pochi che vogliono<br />

lavorare e basta, si trovano a disagio. Le donne, soprattutto,<br />

non mi far dire. In cortile ci sono fissi i giornalisti. Due giorni<br />

fa ne parlavano alcuni dipendenti in garage. Ho sentito<br />

t u t t o ” .<br />

“In garage? Si fa diritto penale pure in garage, tra le tracce<br />

di copertone?”<br />

“Si fa diritto dappertutto, se vuoi. In verità non posso parcheggiare<br />

in garage. Era un caso se mi trovavo lì. Non è previsto<br />

il parcheggio per gli uditori”.<br />

“E dove la metti la macchina nuova?”<br />

“Fuori, a pagamento. Certe volte dentro, ma poi resto<br />

bloccato perché non ho il telecomando per il cancello automatico.<br />

Resto per ore negli scantinati, finché non passa un<br />

cane qualunque e mi fa uscire. Certe volte la sera non passa<br />

un cane. E quindi. Passano giusto i magistrati soli, senza famiglia,<br />

quelli che si mangiano la fettina di vitello con insalata in<br />

osteria con i buoni pasto. Hai presente? Meglio non incontrarli<br />

quelli, mi deprimono”.<br />

“Sei pazzo. <strong>La</strong> macchina nuova fuori? Ma ti prego!”<br />

“Ma la metto in posti tranquilli. Giuro. A pagamento. Ti<br />

ho detto. Non la rubano se ci sono le strisce blu. E che devo<br />

fare scusa? Sono agli inizi; non ho peso nell’organizzazione<br />

generale. Normale, no? Anche se, devo dire, ormai cominciano<br />

a riconoscermi quelli della sorveglianza notturna. Dovresti<br />

57


vedere come mi salutano, buongiorno giudice, sì, mi salutano<br />

così, loro”.<br />

“Sì, buongiorno! Funzionare cosa? Ma che normale! Va!<br />

Sei scemo, sei. Devi farti dare il pass e basta. Non si discute.<br />

Tutte queste chiacchiere. Qui, per il fatto che vivi fuori, ci<br />

sono un mare di spese in più, e se ci metti pure il parcheggio<br />

comunale…”<br />

“I soldi bastano”.<br />

“Dici tu! Se arrotondo anch’io con un festino, però, è<br />

meglio. Magari il fine settimana che non torni; con le telefonate<br />

che devi ascoltare chissà quanto lavoro. Non torni, no?<br />

Immaginavo infatti. Non ci vedremo nemmeno questa settimana.<br />

Che dici prendo il treno e vengo io? Che fai, ridi?”<br />

“Vieni subito, che ti porto sulla provinciale”.<br />

“Poi mi racconti meglio, però. Mo’ ride ’sto scemo. Tutto,<br />

tutto mi devi raccontare. Altro che ridere. Ché da qui non si<br />

capisce niente”.<br />

“Non lo dire a me”.<br />

“Come lo spieghiamo il sangue sull’ombrello? Ti sembra<br />

un’assassina la vecchia?”<br />

“No, non credo. Stiamo per intercettare pure le sue telefonate.<br />

Da domani. Giacché la tipa, nonostante l’apparenza, ha<br />

una casettina tutta sua, piena di roba ammassata, e c’è pure il<br />

telefono. Non è una barbona come gli altri. I matti mica sono<br />

tutti uguali. Certo, non ci sta con la testa, è un fatto, ma c’ha<br />

i mezzi suoi. E potrebbero esserci dei nessi”.<br />

“Sai che ti dico? Forse l’ombrello non era della vecchia,<br />

forse l’aveva raccattato chissà dove. Magari l’ha lasciato in<br />

strada l’assassino. E perché no? O forse l’assassino l’ha lasciato<br />

in libreria e la vecchia è entrata un attimo dentro e l’ha trovato.<br />

Forse pioveva e aveva paura di bagnarsi. Forse non l’ha<br />

visto neppure il cadavere, o forse sì…”<br />

“Forse, forse, forse”.<br />

“Pensaci! Che dici di un ombrello quasi nuovo, o comunque<br />

ancora utilizzabile, buttato per terra, così, non si sa da<br />

chi, non si sa quando, sul marciapiede, nelle pozzanghere. Tu<br />

non te lo prenderesti? Io me lo prenderei. Magari l’acqua piovana<br />

ha lavato via ogni impronta digitale e non si può risalire<br />

58


al proprietario. L’acqua elimina le impronte? Io non lo so. Tu<br />

lo sai? L’assassino aveva visto che era macchiato di sangue e<br />

se ne è voluto liberare. Può essere, no? Forse è proprio quella<br />

l’arma del delitto. Come fai a escluderlo?”<br />

“Come no? Trentotto violentissime ombrellate. Ma va’!<br />

Diciamo cose serie, che è meglio”.<br />

“Magari l’ombrello era già in farmacia. <strong>La</strong> vecchia l’ha<br />

preso proprio lì”.<br />

“Allora vieni a trovarmi? Vieni sì o no? Ti puoi liberare?<br />

Oh, dico a te! Rispondi! Hai udienza lunedì? Nel caso, ti trattieni<br />

anche lunedì, così stiamo più tempo insieme. Bisogna<br />

venirsi incontro, lo sai che è così che bisogna fare”.<br />

“Senti un po’, ma cosa sapete della vittima? Che tipo era?”<br />

59


V CAPITOLO<br />

Siamo entrati nelle case della gente. Noi eravamo seduti a<br />

una scrivania, con intorno i tecnici della polizia giudiziaria,<br />

mentre gli altri vivevano, altrove, tra le loro cose, nel guscio<br />

dell’uovo, nella loro segretezza piena, intima, indifesa e rapida,<br />

violenta e vera, senza sapere. Ascoltavamo in cuffia voci<br />

rauche gracidare dalla cornetta. Uno stagno affollato, più che<br />

un gruppo di lavoro. Perché a quel punto era necessario lavorare<br />

in gruppo. Ietta, gran capo, con la mano a coppa sull’orecchio,<br />

percepiva scricchiolii sinistri e ronzii di zanzare, uniti<br />

a parole sconce e diventava una tigre. Più chiaro, per favore!<br />

Pretendeva che noi fossimo produttivi al massimo e magari<br />

più silenziosi. Rispettosi. Lo tormentava l’idea di sperperare<br />

pubblico denaro. Perché le intercettazioni telefoniche costano<br />

un pozzo. Il ministero spediva con cadenza mensile oscure<br />

circolari per fissare i criteri di acquisizione dei dati relativi<br />

al traffico telefonico dei privati: costi, criteri, modalità, autorizzazioni,<br />

limiti e contenuti tecnici. Un percorso a ostacoli.<br />

Stringere, stringere, stringere: era l’imperativo erariale. Già<br />

da allora. Se la necessità dell’intercettazione veniva avanzata<br />

in Procura, durante le indagini, ma l’accertamento lo autorizzava<br />

il tribunale, chi le pagava all’esito tutte le spese? Se ne<br />

parlava, si concionava su una opportunità o sull’altra, in<br />

ascensore, in ufficio, al bar. Pagate voi o paghiamo noi? Chi è<br />

più ricco tra i poveracci? E quanto si paga e perché si paga.<br />

Scuole diverse. Ragion per cui, si cercava di stringere all’osso,<br />

60<br />

…Per un turista l’intera esperienza di viaggiare per<br />

un paese che gli è estraneo viene immediatamente<br />

consegnata al passato. Già nel momento in cui i<br />

giorni trascorrono, ha la consapevolezza che quelli<br />

“sono stati” giorni trascorsi a Roma, e giri turistici,<br />

s o u v e n i r, fotografie, regali, ogni cosa è un atto di<br />

pura commemorazione. Anche quando il viaggiatore,<br />

di notte, giace sul letto sdraiato in attesa di<br />

addormentarsi, in quello stesso momento quelle<br />

sono diventate le notti che egli “trascorse” a Roma.<br />

John Cheever


ché non si raccontasse in giro che noi della Procura eravamo<br />

degli scialatori sconsiderati, posta la funesta situazione delle<br />

casse ministeriali che, sin da allora, stavano velocemente scivolando<br />

verso un impoverimento progressivo e inarrestabile.<br />

Con la criminalità organizzata si poteva fare, va bene, non<br />

c’era da discutere, per il 41 bis si intercettava sempre, ma<br />

negli altri casi si doveva valutare attentamente. E non è bello<br />

essere costretti a discernere. Chi la vuole la discrezionalità?<br />

Chi è che ci tiene tanto? Noi del diritto no di certo.<br />

Comunque intercettammo quelli che sembravano i maggiori<br />

indiziati. Osammo perché Ietta era convinto che il caso<br />

valesse la spesa, e lo raccontava pure in giro. Osammo e li<br />

lasciammo parlare sotto i denti. I maggiori indiziati per primi.<br />

Anche se per poco, senza esagerare. Fu uno spasso comunque.<br />

Che crepasse l’avarizia!<br />

<strong>La</strong> moglie del farmacista si faceva chiamare signora<br />

Bourtaki, ma quanti le parlavano al telefono sapevano bene<br />

chi era, dove abitava, dove lavorava. Gli interlocutori a volte<br />

erano uomini, a volte donne, ma sempre, dico sempre, sembravano<br />

grandi amici. Promettevano brindisi con quello<br />

buono, vino rosso dicevano, solo rosso, e c’era nelle voci<br />

un’unghia d’euforia feroce, che nemmeno il gracidare dello<br />

stagno riusciva a disperdere. <strong>La</strong> voce saliva di tono a ricordare<br />

la bionda, faccia puntuta da televisione, che c’era stata alla<br />

festa del mese prima, a ballare sul cubo. Facevano il nome di<br />

Tizio, persona fidata, presentato da Caio, che veniva piacevolmente<br />

accompagnato da Sempronio. E giù a gracidare.<br />

Tutto un brulicare di nomi senza cognomi, come piccoli<br />

vermi bianchi dentro la noce rinsecchita, rotto il guscio. Ma<br />

in ordine al denaro c’era silenzio. Le frasi si mozzavano sotto<br />

lo zefiro di una scure netta. Silenzio e ronzii. Impossibile<br />

quantificare la moneta. Impossibile capire, da quelle telefonate,<br />

se il giordano era buono o cattivo. Coloratissime le persone<br />

nell’intimità.<br />

Il capo quasi non aveva più la riga in mezzo alle bande<br />

avverse dei capelli, a forza di spazzare con le dieci dita tese sul<br />

cuoio capelluto, come un rastrello.<br />

61


Erano giorni che eravamo là, girando intorno al circuito<br />

interpretativo della legge, come lo chiamano i giuristi più<br />

nobili, tenendoci bassi e polverosi come in un go-kart. Dal<br />

sangue allo sperma, versati a fiumi. Ascoltare, ascoltare,<br />

ascoltare.<br />

<strong>La</strong> nostra attenzione si era spostata su questa storia dei<br />

festini più che altro per lo stupore. <strong>La</strong> polizia ridacchiava in<br />

capannelli nei corridoi, mentre noi cercavamo di darci un<br />

contegno, ma poi, all’uscita dagli uffici, temevamo la stampa<br />

più delle trombe e degli arcangeli nel giorno del giudizio universale.<br />

Comunque continuavo a non ricevere domande, neppure<br />

davanti alle bobine parlanti. Forse le facevano a Ietta, ma di<br />

certo non a me. E non ho mai saputo se tra i suoi colleghi ce<br />

ne fosse mai stato uno che gli invidiava il caso. Forse l’assenza<br />

di domande nasceva dall’invidia. Alle volte. Ma no, adesso<br />

che conosco l’ambiente posso permettermi di escluderlo con<br />

certezza. Non si invidia uno che ha troppo lavoro, poche idee<br />

e la faccia triste.<br />

Quel fine settimana, proprio quello delle rivelazioni orgiastiche<br />

a sorpresa, venne a trovarmi mia moglie. Come mi<br />

aveva promesso. Aveva tagliato i capelli, senza anticiparmelo<br />

al telefono. Già la prima immagine in stazione fu rivelatrice.<br />

Se una donna taglia all’improvviso i capelli è perché sta accadendo<br />

qualcosa. Più il capello a cui rinuncia è lungo e curato,<br />

più pesante è la trasformazione. Dicono. Non tagliano i<br />

capelli solo perché sono diventati lunghi, loro. Le donne non<br />

lo fanno, al massimo spuntano. Le forbici svolgono altre funzioni,<br />

che ben poco hanno a che fare con la comodità. A volte<br />

lo fanno prima che la novità in questione si palesi, perché<br />

sono ansiose, perché vogliono creare allarme o cercano di<br />

agevolare il corso degli eventi. Mi stabilizzano teorie consolidate<br />

come queste. Ci credo. Ci posso ragionare sopra, adattarle<br />

a me. Peccato che la seduta dal parrucchiere costi quasi<br />

quanto un collo di visone, altrimenti mia moglie, oh, chissà<br />

quante volte.<br />

Diciamo preliminarmente che Angela aveva preferito il<br />

62


treno all’aereo, perché fa snob, diceva, ma io sapevo che era<br />

soltanto per risparmiare. Nell’ultimo anno, quello del risparmio,<br />

era diventato un suo bisogno, non so se per colpa mia o,<br />

più probabilmente, per il senso di precarietà con cui era<br />

costretta a vivere la sua professione di avvocato. Se poteva<br />

risparmiava il centesimo e lo raccontava in giro con vanto.<br />

Braccino corto, insomma. Non ne ero infastidito, almeno non<br />

ancora. Lei risparmiava sulle creme per il viso, ma era bella;<br />

era pure giovane e quindi, grazie, il sacrificio non rilevava.<br />

Vediamo ai cinquanta, pensavo io. Risparmiava pure sul cibo,<br />

anzi sulla singola caloria, ma anche in quel caso la faccenda<br />

era più complessa. Era a dieta. Sempre. Tutta la settimana,<br />

escluso il sabato. Il sabato era giorno obeso, da santificare. <strong>La</strong><br />

domenica, invece, il programma era variabile: decideva la<br />

bilancia sulla base del computo del singolo etto. Se si era nei<br />

limiti imposti dalla paura, si mangiava, altrimenti digiuno<br />

ascetico davanti alla televisione. Sempre a dieta.<br />

Avevo conosciuto Angela al liceo, quando era troppo presto.<br />

Era amica dell’amica di un amico. Una faccia familiare,<br />

che aveva sempre altre cose da fare, che si muoveva lesta,<br />

troppo lesta. Poi c’eravamo rivisti a giurisprudenza, nel<br />

momento esatto in cui due individui sentono il bisogno di<br />

ritrovare facce note, dal significato noto. Fortuna. Ho confuso,<br />

direi sovrapposto, la faccia di Angela alla mia vita. È sempre<br />

stata bella, bella per tutti. Faticosa per me, tanto, soprattutto<br />

per l’uso spasmodico che fa delle parole, anche quando<br />

non parla, le pensa, le sceglie, le prepara, le colleziona, le<br />

ripudia e le sostituisce con altre. Ne è dipendente. A volte<br />

sostituiscono il suo cibo. A volte mi sorprendono, a volte no;<br />

sempre mi riempiono.<br />

Non ricordo di essere mai stato privo di Angela. Mai.<br />

Neppure lei di me. Siamo due figli unici e questo forse incide<br />

sulla nostra vita di coppia. Cioè, sulle nostre storie precedenti<br />

e i nostri corpi, la massa cerebrale e le parole che contengono.<br />

Molte delle mie parole, mi secca un po’ ammetterlo ma è<br />

così, erano in origine appartenute ad Angela. Lei è il mio<br />

calendario biologico. L’abecedario. Nello stesso momento, lei<br />

è pura fantasia e pensiero razionale. Così, molte delle cose<br />

63


che sono o faccio, vengono influenzate dalla sua presenza:<br />

una zona di pensiero di misura assoluta tendente all’infinito,<br />

screziata da fantasie da muratore instancabile, in continua<br />

costruzione, in costruzione necessaria.<br />

Dicevo del nostro regime alimentare dieci anni fa. Si faceva<br />

la spesa soltanto il venerdì sera: carrelli carichi che contenevano<br />

gli strumenti del godimento e quelli del sacrificio. Se<br />

c’era un invito al giovedì, si consumava un dramma. Si rifiutava<br />

di netto se l’invito non celava obblighi sociali o professionali.<br />

Se invece non si poteva evitare, la mia donna s’armava:<br />

prendeva un’insalata scondita e, ferita dai riflessi smorti<br />

della lattuga asciutta, restava nervosa per tutta la sera. Non<br />

tentava neppure di contrastare il malumore insorgente con<br />

meccanismi di raziocinio, perché lo considerava la giusta<br />

punizione. Anche per me.<br />

Ma era bella. Bella quanto la mia immaginazione desiderava<br />

per sentirsi paga. Ero io l’unico capace di non accorgersi<br />

di alcuni piccoli cambiamenti, di alcune assenze. Io, il marito.<br />

L’unico veramente cieco per forza. Ed era cieca pure lei,<br />

ché di sé vedeva solo quello che vedevo io.<br />

Quel venerdì mattina, in stazione, mi piaceva: indossava<br />

un completo giacca e pantalone, blu scuro, stretto da una cintura<br />

della stessa stoffa. Era l’insieme a spingermi a riflettere<br />

sul significato della vita a due, mentre lei, lusingata a sufficienza,<br />

diceva che la natura non aveva nessun merito e che<br />

tutto era frutto dell’impegno. Mi piacevano in particolare<br />

alcune cose: come si stropicciava i fianchi della giacca, il fatto<br />

che dondolava e faceva sempre segno di sì con la testa mentre<br />

parlava, il vezzo di allungarsi le dita di una mano con quelle<br />

dell’altra. Insomma, da una parte la settimana, dall’altra la<br />

sua coda di peccato e consolazione. Solo io conoscevo la consistenza<br />

specifica delle sue labbra e della salivazione intorno,<br />

quando faceva freddo o aveva fame, o si sentiva cattiva.<br />

Credo, solo io.<br />

Quindi aveva fame, ma era venerdì. Dovevo accoglierla<br />

con qualcosa di appropriato al venerdì: fibre, verdure bollite,<br />

proteine, carboidrati ma non dopo le 14. Se fosse stato sabato?<br />

Lei sarebbe stata di ottimo umore e qualunque locale<br />

64


avrebbe fatto al caso suo; dalla tavola calda al bar, al ristorante,<br />

purché seduti l’uno di fronte all’altro, a sperperare parole,<br />

senza spendere una fortuna. Ed avrebbe mangiato ogni briciola,<br />

con voracità animalesca; non sarebbe rimasta in silenzio<br />

con la mascella contratta per ore, ma avrebbe chiacchierato di<br />

nugelle. Mi piaceva il sabato e quel suo modo da ergastolano<br />

di affrontare le portate.<br />

Alle comprensibili obiezioni di quanti, anche casualmente,<br />

mangiavano accanto a lei, lei rispondeva che il suo non era un<br />

calcolo salutistico. Era l’unico modo a lei noto per assecondare<br />

l’altalena della sua anima. Io capivo, gli altri credo di no.<br />

Non riuscivo a pensare di dovermi preoccupare veramente<br />

per quest’inquietudine alimentare, perché lei sembrava così<br />

sicura di quello che faceva, così controllata, così follemente<br />

assurda. Poi, era sempre stato così. C’era l’abitudine a venirmi<br />

incontro. Lei era mia moglie. Io capivo, io arginavo, io<br />

resistevo. Io già sapevo.<br />

Però ai capelli così corti non ero preparato quel giorno.<br />

Si presentò con la frangetta dritta su quei due soliti occhi<br />

cangianti e la sciarpa colorata che s’appoggiava giusto nella<br />

fossa triangolare della nuca, dove i capelli finivano la loro<br />

corsa, come la punta di una freccia in un bersaglio. E qualcosa<br />

mancava.<br />

Avremmo fatto sesso quella sera. Avevo la piacevole sensazione<br />

che si lavorasse nella stessa direzione. È questo che<br />

rende l’amore significativo, credo io. <strong>La</strong> direzione. L’ho vista<br />

in stazione e ho pensato che avremmo fatto l’amore la sera<br />

stessa, ma non perché pensi solo a quello, ma perché non lo<br />

facevamo da due settimane. Sarebbe durato poco perché avevamo<br />

aspettato troppo. Comunque. Eravamo abituati a farlo<br />

con cadenza settimanale, anche se ne parlavamo con più frequenza.<br />

Perché una buona coppia parla del sesso. Questo ho<br />

sempre pensato. E noi ne parlavamo, e ci dicevamo che dovevamo<br />

parlarne, e parlandone scoprivano elementi nuovi; di<br />

conseguenza, convenivamo circa l’opportunità di parlarne<br />

ancora. Non che fossimo sempre d’accordo sull’argomento.<br />

L’importante era parlarne. Come in molte altre faccende, avevamo<br />

deciso di essere un minimo organizzati e così lo faceva-<br />

65


mo almeno una volta alla settimana. Parlandone. A volte si<br />

riusciva a farlo anche più spesso, mescolandolo al sonno e ai<br />

mezzi sogni, ma era sesso stanco, come diceva Angela.<br />

Quando c’è dietro una buona programmazione, invece, si<br />

può lavorare sul dettaglio: l’umore da modificare lentamente,<br />

il vestito, i profumi, le candele, le fantasie a seconda dei gusti.<br />

Credo. Mi prodigo per questo. Solo una volta Angela mi ha<br />

detto che fatica!, e ha aggiunto figlio mio; solo una volta e poi<br />

mai più, ma era sfinita quella volta. Non fa testo. Di solito sa<br />

cosa dire e cosa non dire: mandare a memoria quel certo<br />

decalogo è inevitabile in ogni prolungata convivenza.<br />

Quell’anno, a essere onesto, la lontananza aveva rinverdito la<br />

passione. Una cosa positiva. Lo chiedevo spesso ad Angela: è<br />

una cosa positiva secondo te? Lei rispondeva sì e basta, non<br />

argomentava, perché il sesso, si sa, è un argomento delicato,<br />

ma ancora non so quanto fosse davvero convinta. Comunque,<br />

non mi posso lamentare.<br />

Quel venerdì, dopo aver scambiato giusto due parole di<br />

benvenuto, ho avuto la certezza che non fosse occorsa una<br />

trasformazione, ma piuttosto che il nuovo taglio di capelli<br />

fosse dovuto al suo bisogno che qualcosa cambiasse. Che<br />

fosse una richiesta, con tanto di trabocchetto. Una bellezza<br />

intimidatrice. Se ne stava davanti a me, piena di aspettative,<br />

così affamata di novità da restare con le labbra lievemente<br />

schiuse. Aveva le mani screpolate per il cambio di clima e<br />

mise su un po’ di crema idratante, massaggiandole, insinuando<br />

la mousse bianca sotto la fede, al cospetto di un caffè rigorosamente<br />

amaro. Sentii l’odore vellutato della crema per le<br />

mani, lo stesso di altre volte, lo stesso di altre sere d’inverno,<br />

lo stesso dell’infilarsi sotto le lenzuola, lo stesso dopo avere<br />

spento la luce, lo stesso dei suoi piccoli movimenti nel letto al<br />

buio; odore che mi fece pensare subito a casa. Quando è buia,<br />

al rientro la sera, appena dopo aver aperto la porta d’ingresso,<br />

prima di toccare l’interruttore, quando parla ancora di<br />

quello che è avvenuto poco prima, racconta di te, proprio di<br />

te, ed è come sdoppiarsi e guardare il clone; guardarsi da dietro<br />

e riconoscersi subito. Mi riportò a quell’ideale di casa che<br />

la lontananza inventa o ingigantisce. Pensai che la mia donna,<br />

66


scientemente, stesse facendo di tutto per riportarmi da lei. E<br />

tra un giochetto e l’altro, mentre io svelavo il suo quiz facile<br />

facile, lei annientava i miei spazi di solitudine reinventata.<br />

Efficace come un vecchio killer.<br />

<strong>La</strong> mia casa in affitto la conosceva già. C’era già stata in<br />

precedenza, quando ero venuto per la prima volta, per<br />

ambientarmi in ufficio e a far pubblicità alla mia faccia fresca<br />

da praticante. Durante la serata, messo alle strette, le raccontai<br />

tutto quello che ancora non sapeva sul mio morto.<br />

Avevamo sentito qualcosa anche sulla linea telefonica della<br />

vecchia dei santini. Quella sì, che era stata veramente fulminata<br />

dalla paura del sangue. In una settimana avevamo intercettato<br />

otto telefonate disperate al suo medico di fiducia. <strong>La</strong><br />

vecchia era convinta di avere contratto l’aids. <strong>La</strong> scienza<br />

medica non l’aiutava. Unica certezza per lei: la punizione<br />

divina. <strong>La</strong> vicenda dell’ombrello insanguinato aveva assunto,<br />

infatti, connotati profetici. Il medico cercava di tagliar corto,<br />

ma la vecchia era una zecca indemoniata. Dottore, lei mi deve<br />

dire se ho l’aids e cosa posso fare. Al confidente involontario,<br />

che chiedeva spiegazioni sulla questione, lei rispondeva di<br />

non sapere, di non aver capito come erano andate le cose.<br />

Descriveva gli occhi del carabiniere che l’aveva interrogata e<br />

rimetteva l’anima nelle mani di Dio. Diceva che il sangue era<br />

finito sul suo ombrello non si sa come e che forse lei l’aveva<br />

toccato. Era sangue malato, infetto, sangue di peccatori.<br />

Faceva anche qualche smodato riferimento alla clientela del<br />

farmacista. Si contraddiceva, si ripeteva. Diceva che lì dentro<br />

era pieno di drogati e che il sangue doveva appartenere a uno<br />

di quei poveri senzadio. Entravano per pietire una siringa, l’aveva<br />

visti e sentiti; conosceva pure la panchina, poco distante,<br />

dove andavano a morire. Quindi quel sangue era malato e<br />

lei l’aveva toccato. Purtroppo. Una disgrazia per tutti. Ogni<br />

telefonata si chiudeva con un’imprecazione e un brusco click.<br />

Lei voleva fare subito le analisi; credeva di avere i giorni contati.<br />

Il medico esausto aveva finito per darle un appuntamento<br />

nel suo studio.<br />

Rividi la vecchia qualche giorno più tardi. Scendeva una<br />

67


scala interna al tribunale, passando dal terzo piano al secondo,<br />

in pantofole. Il cappotto sfiorava lo scalino appena più in<br />

alto come lo strascico liso di una sposa dimenticata a putrefarsi.<br />

Doveva essere stata poco prima da Ietta, che l’aveva<br />

lasciata andar via, senza nessuno che l’accompagnasse in quel<br />

labirinto di vicoli ciechi che è il Palazzo. Un santino le cadde<br />

dalla tasca e il rumore di carta che cade fu coperto dal suo<br />

passo da cavia in trappola. Davanti al finestrone del piano,<br />

incrostato dallo sterco dei piccioni, si fermò. Io invece fui ben<br />

felice di proseguire. Non ero il capo io.<br />

Crocicchi di tribunale. Mi trovavo spesso a camminare per<br />

quei vicoli, in cerca di una via di fuga o di una qualunque<br />

alternativa. Non sono luoghi che facilitano la maturazione del<br />

pensiero, piuttosto lo riducono, lo frenano. Per corridoi<br />

impervi e ingombri di fotocopiatrici e armadi, tra targhette<br />

scollate, acquistate e composte per benino con le loro letterine<br />

bianche e rimuovibili, destinate a individuare cancellieri<br />

ormai in pensione da decenni. Un dedalo mortale, salve<br />

poche regole salva vita, note solo a pochi fortunati. Quei<br />

palazzi, pur nelle logiche diversità urbane, si rassomigliano<br />

un po’ tutti. Regole così si possono imparare facilmente e<br />

sono universali.<br />

Attenzione: un corridoio di cancelleria si distingue da<br />

quelli di presidenza per l’ingombro di divani in pelle. Si<br />

tratta di pura segnaletica orizzontale o meglio trasversale. I<br />

divani non sono pensati per il personale amministrativo. Se<br />

c’è un divano di pelle, anche consunto, di quella pelle antica,<br />

quasi cuoio, che regge il tempo con dignità e magari una<br />

vecchia lampada con paralume di velluto rosso cardinale,<br />

allora si è in prossimità del magistrato capo dell’ufficio.<br />

Bene, perché qui si può godere della vista esclusiva di quattro<br />

leoni rampanti ai piedi di ogni armadio o delle scrivanie,<br />

e di un ascensore ormai di interesse storico, eppure ancora<br />

funzionante. Un miracolo della nostalgia. Se, invece, s’individua<br />

solo qualche poltrona, ma non un divano biposto,<br />

allora si è al piano dove soggiornano gli altri magistrati. Un<br />

paio di leoni rampanti si possono trovare anche lì, in via<br />

68


esiduale. L’unica zona munita di videocitofono e controlli<br />

virtuali è quella della Procura della <strong>Repubblica</strong>, peccato che<br />

spesso il citofono sia solo un monile prezioso appeso alla<br />

parete, esclusivo ma non funzionale, e la porta resti sempre<br />

aperta. A chi bussa, nessuno chiederà chi è e se qualcuno,<br />

per caso o progetto, nasconde uno o più ordigni sotto il<br />

braccio, invece di un fascicolo, nessuno ci troverà nulla da<br />

ridire. <strong>La</strong> guardiola rimanda auree luminescenti e miraggi<br />

da Sahara: non ci passano neppure quelli delle pulizie alla<br />

mattina. Diversamente, se s’inciampa in cassettiere, cestini<br />

gonfi di fogli appallottolati e bicchierini di carta, si è giunti<br />

in una cancelleria. Ad ogni snodo riposano almeno tre fotocopiatrici<br />

rigorosamente spente. Ultimo girone: l’ufficio del<br />

consegnatario economo. Qui troverete solo ammassi di<br />

mobilia in disuso e resti di personal computer Ibm, di vecchissima<br />

generazione. In genere a questo punto della corsa,<br />

si è quasi presso gli archivi, le stanze dei tecnici informatici,<br />

il garage e i suoi topi domestici. Quali esalazioni e con quali<br />

effetti siano costretti ad assorbire gli allocati resta ancora un<br />

m i s t e r o .<br />

Io avevo già appreso i trucchi del mestiere, benché residuassero<br />

ancora terre praticamente sconosciute, corridoi<br />

che non avevo percorso mai e forse mai avrei percorso.<br />

Chissà la vecchia in quale anfratto tra questi si era smarrita<br />

quel giorno.<br />

<strong>La</strong> vecchia si era persa, mentre la moglie del farmacista<br />

non avrebbe avuto di questi problemi. Per lei era diverso. Lei<br />

era dell’ambiente: andava a trovare di frequente la sorella nel<br />

suo ufficio al terzo piano del tribunale; conosceva persino le<br />

uscite di sicurezza da sfruttare per pause caffè allungate fino<br />

all’inverosimile. Non avrebbe avuto un ruolo ufficiale nelle<br />

nostre indagini, poiché non era presente in farmacia il giorno<br />

del delitto. Sì, avevamo verificato: la donna era a ronzare dietro<br />

il suo bancone per le relazioni con il pubblico, in<br />

Comune, dove lavorava ogni giorno dalle 8 alle 14; trentasei<br />

ore alla settimana. Il dirigente amministrativo confermò guardando<br />

il registro delle firme del personale. Pare che fosse<br />

69


molto ligia ai suoi doveri: mai un giorno d’assenza in più,<br />

rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo; oltremodo<br />

gentile, disponibile, efficiente, riservata.<br />

<strong>La</strong> sua restava comunque una posizione assolutamente privilegiata<br />

per tenere la situazione sotto controllo. Aveva conoscenze<br />

in tribunale utili a carpire notizie sullo stato della procedura<br />

che vedeva coinvolto il marito. Che ci fossero in giro<br />

individui che non potevano permettersi di dirle di no, ormai<br />

era chiaro. Il punto era che, né lei, né noi, eravamo ancora in<br />

grado di dire quanto il marito fosse coinvolto nella vicenda<br />

del nostro morto ammazzato. Magari la donna temeva di<br />

essere convocata in Procura da un momento all’altro, e invece,<br />

noi, burloni, convocammo il marito.<br />

Il marito per cogliere anche la moglie. Aprire un toast a<br />

metà e annusarne solo una fetta, per intuirne l’originario<br />

ripieno. Una cosa di questo tipo.<br />

Tanto altri, dopo, avrebbero fatto della procace impiegata<br />

ministeriale carne da macello in altre indagini. Forse. Per<br />

intanto la signora Bourtaki rimaneva vigile e rotonda. Mi<br />

compariva davanti all’improvviso e di continuo, ovunque. In<br />

tribunale, e non solo. Buongiorno dottore, e io rispondevo, ma<br />

la bocca mi si stirava stramba, sagomando una smorfia senza<br />

senso. Che ci faceva lì quella santa donna? Era sempre tra i<br />

piedi con il suo enorme deretano. Io, marmoreo, non rispondevo<br />

alle provocazioni. Avrà pensato che ero timido. Ma<br />

tanto non faceva differenza. Non ero il capo io.<br />

Così convocammo di nuovo l’uomo della Giordania,<br />

buono o cattivo che fosse.<br />

Era stato fisso in negozio la mattina del crimine. Non<br />

bastava. Volevamo sentire da lui se nel giorno dell’omicidio<br />

aveva visto tipi sospetti. Volevamo vederlo scomodamente<br />

seduto in una delle nostre scomode sedie in Procura. Ancora<br />

e ancora, volevamo porgli le medesime domande. Quali tipi<br />

sospetti? Quali? Come quali? È chiaro quali. Per esempio, tipi<br />

che sembravano far uso di sostanze stupefacenti, tipi sopra le<br />

righe, tipi che vanno di fretta, tipi che sembrano aver voglia<br />

di nascondersi, tipi con l’affanno, tipi lenti come lumache,<br />

70


tipi mai visti prima, facce che si ricordano o facce che si<br />

dimenticano. Insomma: tipi che ti danno una certa idea. Non<br />

so bene quale. Un’idea in qualche modo irregolare. Lo straniero<br />

aveva già detto che non ricordava niente di strano, ma<br />

volevamo che ci pensasse meglio e più a lungo. Dai, pensa,<br />

forza, parla. Qualcuno era entrato e non aveva detto buongiorno?<br />

Quella mattina aveva incontrato un tipo maleducato?<br />

Che ne so. Oppure uno che aveva detto buongiorno troppe<br />

volte? Un tipo gentile, lezioso, scontroso, un timido, un indeciso,<br />

un distratto, uno di poche parole o un chiacchierone.<br />

<strong>La</strong>rgo ai particolari. <strong>La</strong> memoria va stimolata, stanata, perseguitata,<br />

perché sputi fuori qualcosa. Fanno così gli investigatori,<br />

cavolo! Aveva visto uomini, donne, bambini, ragazzacci,<br />

magari preti? Bisognava riflettere. Quanti i soldi rimasti in<br />

cassa alla fine della giornata? Erano stati venduti oggetti poco<br />

richiesti, inconsueti: una sputacchiera d’argento, un alambicco<br />

di rame? Forza, concentrarsi, forza! Le domande piovevano<br />

come una batteria di proiettili.<br />

Bell’esempio di ritmo e jazz Ietta al lavoro. Ciononostante<br />

i risultati erano scarsi. Il farmacista balbettava e tirava fuori<br />

inutili interlocuzioni arabe da chissà quale bagaglio. Il colpo<br />

finale fu inferto quando il capo gli chiese di depositare la<br />

copia conforme del suo titolo di studio e della licenza all’esercizio<br />

della professione. Stoccata d’artista. I baffi tremarono.<br />

L’interrogato chiese subito un decaffeinato, che gli tirasse su<br />

le borse da sotto gli occhi, calate come il risvolto di una<br />

coperta sulla sua faccia forestiera.<br />

Passammo poi ad analizzare i rapporti esistenti tra il giordano<br />

e gli altri. Conosceva bene la proprietaria della libreria,<br />

non aveva difficoltà ad ammetterlo. Un giorno la figlia più<br />

piccola era caduta con il motorino all’angolo della strada e lui<br />

l’aveva medicata al gomito, su richiesta della madre. Solo un<br />

graffio. Erano corse da lui entrambe, madre e figlia, e lui<br />

aveva procurato loro del disinfettante e della garza adesiva.<br />

No, non erano stati necessari punti di sutura. Non si era fatto<br />

pagare. Il gentiluomo. <strong>La</strong> bambina aveva ringraziato, pulendosi<br />

il naso con il dorso della mano. Pareva strano a tutti noi<br />

che la vedova non avesse in negozio un armadietto del pron-<br />

71


to soccorso. Facemmo controllare. C’era, ma era vuoto. Vita<br />

difficile quella della vedova. Vita di lacune.<br />

Il ragazzo delle pulizie invece no, il giordano quello non lo<br />

conosceva. Facemmo notare che non era un ragazzo e lui<br />

ribadì: non lo conosco. Ma il capo non era convinto. Si vedeva<br />

chiaramente che non aveva voglia di mandare via il farmacista,<br />

che se lo sarebbe voluto tenere a lungo in stanza, a<br />

lisciargli il pelo fino a conquistarsi qualche elemento di conoscenza<br />

in più. Del resto, cosa avevamo per le mani al momento?<br />

Una vedova, una vecchia, un farmacista, una donna sferica<br />

e un morto di morte violentissima. Non molto.<br />

L’interrogatorio jazz durò circa tre ore, tra luci e ombre.<br />

Ebbe un ruolo non da poco la conoscenza della lingua, l’uso<br />

delle parole, la quantità e la qualità delle parole. Vuoi mettere<br />

Ietta con il giordano, per quanto riguarda l’uso del vocabolario<br />

della lingua italiana? Non c’era gara: è chiaro. Quello<br />

di Ietta era uno strapotere, era vincere facile. Alla fine, il<br />

mamelucco non lo ammise in modo netto, ma si capì che<br />

conosceva la vittima. Venne fuori che il farmacista conosceva<br />

bene gli orari delle pulizie in negozio e che, soprattutto, sapeva<br />

che lo sfortunato garzone di bottega non si occupava soltanto<br />

di tenere lindo il negozio, ma dava una mano. Sì, dava<br />

un’imprecisata mano alla vedova con figlie a carico. Non si<br />

riuscì a strappare niente di più.<br />

Come lo sapeva? Ci aveva parlato? Quando, quante volte,<br />

perché? Il farmacista s’inchinava e negava, negava e s’inchinava.<br />

Ma perché certi musulmani si inchinano tanto? Deve<br />

essere un fatto di liturgia del male oppure di teatro.<br />

Alla fine delle favole nemmeno una sigaretta. Erano ben<br />

poche le cicche ai nostri piedi, troppo poche per lo squallido<br />

noir che andavamo sviluppando. Avrei immaginato di camminare<br />

su un tappeto gommoso alla fine dell’interrogatorio. O<br />

nella nebbia. Macché. Mi sbagliavo.<br />

Quello del fumo, l’ho già detto, è un mio pensiero ricorrente,<br />

come anche quello delle medicine. Mi interrogo sul suicidio<br />

non violento alle volte, sulle sue trasformazioni. Il<br />

tempo trasformava i tabagisti e i loro ambienti, infatti.<br />

72


Nessuna nuvoletta intorno alla chioma nera pece del musulmano<br />

convertito. Ho pensato fosse strano, ma non l’ho detto.<br />

Del resto un farmacista non può fumare davanti alla clientela.<br />

Per coerenza, almeno, non dovrebbe. Questo, per di più,<br />

si dichiarava musulmano e salutista! Non beveva alcolici e<br />

non mangiava carne di maiale. Lui coltivava ben altro genere<br />

di passatempo e aveva preferito trascorrere le sue tre ore di<br />

agonia giudiziaria mordendosi le unghie.<br />

Sia chiaro: io sono molto attento ai dettagli. Riducono l’universo<br />

a uno spettro di significati accettabile anche per un<br />

uomo. L’insieme disarma. Di un soggetto guardo un piede, se<br />

capita, l’anello al dito, il bavero rialzato della giacca. Di rado<br />

l’insieme conta davvero qualcosa, come in una facciata di cattedrale<br />

barocca, ciò che svela è la minuzia. Mi accade anche<br />

con Angela, con il colore del suo rossetto.<br />

Quella volta lei si trattenne fino al lunedì sera; poi prese un<br />

treno della notte. Pendolarismo lo chiamano, e fa pensare a<br />

una inusitata patologia tendinea, una cosa che riguardi un<br />

piede o un ginocchio. In realtà rende bene l’idea del movimento<br />

oscillatorio che, dall’alto, ha netta la certezza della<br />

discesa e, dal basso, feroce quella della risalita. Stessa la partenza,<br />

stesso l’arrivo. Con continuità. Una noia mortale che<br />

finisce per cancellarti sia qui, che lì. Per esempio, se ti capita<br />

la Calabria per penzolare sullo stivale, sei un uomo morto. Va<br />

detto, i pendolari non sono tutti della stessa specie. Al<br />

momento i più tristi sono proprio i calabresi. C’è solo un pullman<br />

che trasporta frotte di studenti rassegnati all’isolamento<br />

come bovini in carri di legno. Prima nemmeno quello, quindi<br />

per i bovini calabresi quel rappresenta una conquista. Tra<br />

gli studenti qualche vecchia coppia che, dopo essere andata a<br />

trovare un figlio, tenta di tornare a casa e borbotta per tutto<br />

il viaggio in un calabrese arcaico, rabbioso, crespo. E poi ci<br />

sono questi loschi figuri che gestiscono il mezzo in regime di<br />

monopolio assoluto e fanno salire tutte le bestie che gli gira,<br />

a prescindere dal numero dei posti disponibili. Comprare il<br />

biglietto in anticipo in una qualche agenzia è una beffa per<br />

allocchi, ché al venerdì sera tutti i fuori sede vogliono torna-<br />

73


e a casa e ci tornano comunque. A qualunque costo. Del<br />

biglietto non frega a nessuno, si fa dove capita, come capita,<br />

se capita. <strong>La</strong> Calabria d’oggi li ha addestrati a costi altissimi e<br />

all’indifferenza. Scuola dura, ma efficace. Nessuna alternativa,<br />

nessun treno, nessuna speranza: una sola corsa. Sul pullman<br />

gli autisti, un paio, fanno scontrini ridicoli, piccoli e sottili<br />

come francobolli, e tutti salgono a bordo, comunque, ciascuno<br />

diretto verso il proprio inferno, che appare finalmente<br />

raggiungibile: centocinquanta uomini per sessanta posti, uno<br />

sull’altro, schiacciati sul pavimento, sugli scalini interni, le<br />

femmine sulle cosce isteriche del riccioluto brufoloso di<br />

turno, vicino di casa. Testa bassa: la polizia non deve vederli.<br />

Se il pullman riesce a decollare davvero, i ragazzi applaudono<br />

l’autista. Nessuna azione, nessun contributo personale volto<br />

alla costruzione di un qualche futuro prossimo, se non la<br />

magra soddisfazione del momento. Chi protesta è un nemico,<br />

un pazzo, un piantagrane. Gli altri se ne stanno a bordo per<br />

cinque ore gomito a gomito, gomito in bocca, ginocchia a<br />

ginocchia, ginocchio in bocca, schiamazzanti e incomprensibili,<br />

senza nessuna certezza circa la progressione delle fermate;<br />

gli autisti, infatti, fanno il percorso che gli pare e se non gli<br />

va più di guidare, fanno scendere tutti i passeggeri con i loro<br />

valigioni, per un ipotetico cambio del mezzo, anche in amara<br />

campagna, tra i lupi della Sila. Sono questi traumatizzati i<br />

futuri professionisti della Calabria da non abbandonare: ventenni<br />

che se ne stanno muti, purché si parta e si arrivi. Specie<br />

a Natale e Pasqua. E che vuoi fare e che vuoi dire. Il clima è<br />

quello della cecità mafiosa, che del Sessantotto ha fatto tanti<br />

piccoli falò da spiaggia, e giù a ridere. Quando ti abituano a<br />

tutto, l’orrore fa ridere a crepapelle. I profughi felici, innamorati<br />

persi dei loro carnefici, arrivano a Rossano Calabro in<br />

piena notte, si spera, si prega, mentre più di un padre aspetta<br />

il proprio figlio al buio, in macchina, con un plaid sulle<br />

gambe.<br />

Vivono più in fretta degli altri uomini, i pendolari, ecco il<br />

punto. Sono distratti. Portano pietre da un luogo a un altro<br />

come galeotti.<br />

74


I vani in affitto si svuotarono presto della mia Angela,<br />

lasciando qualche scolatura in fondo alla bottiglia di vino<br />

rosso, una spazzola sul bordo del lavandino, la copia del quotidiano<br />

mal stesa sulla poltrona, i bastoncini di crusca in una<br />

confezione trasparente, chiusa con un cordoncino di ferro<br />

filato intrecciato, nascosta in credenza.<br />

<strong>La</strong>sciò la sua eco. Da non credere, ma l’aggirarsi in una<br />

casa con la coscienza grave che altrove qualcuno è costretto a<br />

vivere senza di te, rimanda suoni sinistri, quasi che i pensieri,<br />

pensati troppe volte, restino intrappolati tra le mura domestiche<br />

e ritornino a formularsi in modo ossessivo, fino ad acquisire<br />

un suono autonomo. Da diventar matti, come cavalli, se<br />

già non lo si è.<br />

Particolari, dicevo. Condividevo la tecnica di Ietta: grattare<br />

la patina superiore dalla glassa che offusca e irrigidisce la<br />

memoria, partendo dal dettaglio e da quello ricostruire<br />

momenti, ore, intere giornate. Audace sempre; efficace soltanto<br />

a volte. È una tecnica d’indagine che ho appreso e riutilizzato<br />

in molte circostanze. Il ritmo fa la differenza e, onestamente,<br />

ho qualche difficoltà a riprodurre proprio quel<br />

ritmo specifico, quello e non un altro, quello del gran capo<br />

Ietta. Mi spiego meglio: all’interrogato non bisogna concedere<br />

respiro. Dice Ietta. Nemmeno per un solo istante. Una gragnola<br />

di interrogativi che gli aprano la testa a metà. Io invece<br />

non resisto: se il tipo sotto pressione chiede un bicchiere<br />

d’acqua, per esempio, non riesco a dire aspetta cocco mio, e<br />

proseguire. Io il bicchiere non glielo nego e nell’acqua annega<br />

la memoria del particolare, proprio quella che stava per<br />

emergere. Il mio, più che un buon jazz, è un valzer, sicuramente<br />

un ballo di coppia; spero di qualità discreta, ma pur<br />

sempre un valzer. Moderato, meno imprevisto. Più regole<br />

fisse. Di solito è sufficiente il mio valzer. D’accordo, può capitare<br />

la roccia, l’uomo che niente smuove, il bronzo, l’impenetrabile<br />

o l’assassino; può capitare è vero, ma sono eccezioni.<br />

Sul resto della materia umana si può lavorare con moderazione.<br />

Se uno non vuol nascondere nulla, perché dovrebbe fare<br />

resistenza? <strong>La</strong> resistenza, il più delle volte, non è un fatto con-<br />

75


sapevole e perciò ci si può lavorare. Può capitarti tra le mani<br />

l’assassino e allora sì che ci vuole la botta di jazz per spaccare<br />

in due il torrone di una personalità che cerca di tenere<br />

insieme i pezzi con tutte le sue forze. Ma da cosa lo riconosci<br />

un vero assassino? Come si interroga un assassino? Potrebbe<br />

essere addirittura più facile, considerato che in certi casi non<br />

c’è più nulla da rompere, tutto è già in frantumi. Ma poi,<br />

diciamolo, su mille individui da interrogare, quanti di questi<br />

sono assassini? E allora? A che serve tutta questa cagnara?<br />

Comunque sia, io ho rispetto per le pause degli altri e questo<br />

spesso mi frega. Mi ha addestrato mia moglie. Nella<br />

nostra danza, lei guida, io seguo, e sono un grande in questo.<br />

Mica tutti. Il nostro è un tango, un complicatissimo tango;<br />

volendo proseguire con la metafora: balli di coppia. Ho bisogno<br />

di una compagna. L’incarico lontano da casa fu un mio<br />

gioco di gambe imprevisto, una fantasia a cui lei non era preparata.<br />

E per questo la mia compagna inventò subito la sua<br />

variazione. L’ho detto, lei non tollera gli imprevisti, forse perché<br />

ha vissuto tutta la sua infanzia e parte dell’adolescenza in<br />

piedi su un cornicione, a sfidare folate casuali. I suoi genitori,<br />

perennemente prossimi a una separazione che non ha mai<br />

smesso di annunciarsi come la più cruenta vista nella storia<br />

dell’uomo, erano il vento; quei due burloni non le hanno mai<br />

svelato i loro piani, ammesso che ne avessero, l’hanno lasciata<br />

da sola ad aspettare la fine. Ma lei parla di rado di questo:<br />

il suo cornicione ventilato se lo tiene dentro.<br />

Ricordo bene il suo gioco quel venerdì. I suoi occhi, la<br />

sciarpa, quello che mettemmo in bocca e la sua richiesta di<br />

avere un figlio. <strong>La</strong> sua variazione.<br />

Ecco. Questo non era un dettaglio. Ne avevamo già parlato,<br />

in generale. Quanti figli vuoi, cosa faranno da grande,<br />

quali le scuole. Roba così. Ma prima era diverso. Era un<br />

discorso equilibrato, mentre si mette in tavola per due. Non<br />

una colpa da confessare. All’inizio sapevamo che far figli era<br />

una delle possibilità, avevamo la percezione del tempo e ci<br />

sentivamo ancora qualcosa che diventa, che può diventare,<br />

ma non è. Era molto diverso. Adesso si trattava di mettere<br />

76


davvero un nuovo peso sul braccio della bilancia e ricercare<br />

un nuovo equilibrio. Non era solo un fatto di ormoni primitivi<br />

da assecondare. Quando ne parlammo, sembrava scaduto<br />

il tempo a mia disposizione. Mi venivano in mette le bolle<br />

di chewingum e fiato, che scoppiano sulla faccia stranita e ti<br />

si appiccicano fino al mento. <strong>La</strong> mia sorpresa non sembrava<br />

contare molto per Angela. Era determinata: avrebbe smesso<br />

di prendere la pillola da un momento all’altro. Ecco, non<br />

sapevo far calcoli, ma l’avrebbe fatto.<br />

Quando quel fine settimana Angela venne a trovarmi,<br />

facemmo un buon sesso, pieno di dettagli: lei mise una cravatta<br />

nera, e per me le cravatte nere fanno sesso, io bruciai<br />

qualcosa nell’aria, ma non avendo con me l’attrezzatura adatta,<br />

usai il fornello a gas in cucina e prese fuoco l’intero pacchetto<br />

di bastoncini profumati; così che oggi non ricordo più<br />

che odore avesse quel momento e questo mi spiace. Facemmo<br />

sesso con una cravatta come piace a me e con un profumo<br />

qualsiasi come piace a lei. Fu di venerdì che mia moglie mi<br />

parlò dei figli che avremmo dovuto avere. Di questa necessità.<br />

Io avevo da lavorare, c’erano le indagini da chiudere; non è<br />

che avessi molto tempo da dedicare a certi progetti. Lo dissi<br />

e lei nemmeno mi rispose. Non era come le altre volte. Non<br />

rideva di me. Parlò per quasi un’ora di filato, quasi a voler<br />

dare un segno nuovo e segreto ai suoi desideri. Mi parlò, mi<br />

parlò, e le sue parole erano, a ogni ritorno, diverse. Tra le sue<br />

preferite ne erano comparse due nuove di zecca: episiotomia<br />

e placenta; le ripeteva di continuo usando fiumi di saliva. E<br />

poi, c’era il fatto che aveva tagliato i capelli. I capelli e le parole:<br />

non potevo non intendere. Non so bene se quello che voleva<br />

erano davvero dei figli o piuttosto rimanere incinta. Il suo<br />

sembrava uno spasimo fisico. Un sacco vuoto da riempire.<br />

Questa è la riprova: la curiosità muove il mondo. Dei figli<br />

non si sa nulla prima che nascano, ma di quello che cela veramente<br />

la biologica opportunità di riprodursi siamo tutti<br />

curiosi come scimmie. Accada quel che accada.<br />

77


VI CAPITOLO<br />

“Quindi c’è un legame”.<br />

“Un legame? Ecco. Sì. Probabilmente la vittima ha frequentato<br />

la farmacia. Dobbiamo sentire di nuovo la proprietaria<br />

della libreria a questo proposito”.<br />

“E pure i preti?”<br />

“Va bene, pure i preti. Chissà come uscirà Ietta da questo<br />

labirinto”.<br />

“Bella signora la moglie, non credi? Elegante”.<br />

“Chi? <strong>La</strong> moglie del capo? Non mi sembra; non mi piace<br />

il trucco che usa. Troppo viola”.<br />

“Io non mi trucco”.<br />

“Infatti”.<br />

“E se mi volessi truccare?”<br />

“Vedremo, magari poi mi piace. Stasera gioco”.<br />

“Stesso squadrone di mercoledì scorso?”<br />

“No, magistrati contro polizia penitenziaria questa volta”.<br />

“Comunque è tutta una questione di soldi”.<br />

“Cosa, il calcetto?”<br />

“No, ma quale calcetto. I soldi, se ce li hai sei più bella”.<br />

“Con la squadra degli avvocati il mese scorso abbiamo<br />

perso, ma abbiamo perso proprio male: quelli con noi fanno<br />

allenamento e non mi piace. Poi stasera manca Antonio, quello<br />

bravo, ti ricordi? Quello della cancelleria civile. Siamo di<br />

meno. Mancano le figure chiave. Non vale così. Quegli altri<br />

hanno tutti trent’anni, noi di media ci aggiriamo sui cinquan-<br />

78<br />

…Sono sicura che mio marito se ne è andato. Mi<br />

aveva avvertita. Non gli credevo. Lui mi aveva<br />

incoraggiata a fare questo pellegrinaggio. Doveva<br />

sapere che quella offesa mi avrebbe fatto riflettere<br />

meglio di qualsiasi discorso che lui mi avrebbe<br />

fatto. Scopro lo scacco e le mie lacrime non servono<br />

a niente.<br />

Tahar Ben Jelloun


ta. <strong>La</strong> prossima volta, se è così, resto a casa, ché non ne vale<br />

la pena”.<br />

“Attento ai crociati”.<br />

“No, non forzo più come un tempo. Lo sai. Anche se gli<br />

avvocati giocano sporco. Dopo che mi sono fregato i legamenti,<br />

rotto un dente, e la pallonata nella palle… Lo sai che<br />

giochiamo alle 22.30? Perché uno di noi deve prima mettere<br />

a letto i figli; due figli piccoli, entrambi a letto, altrimenti la moglie<br />

non lo fa uscire”.<br />

“Grande compromesso! Donna seria questa qui, che si fa<br />

rispettare. Beata lei. Ma come fa? Me la devi far conoscere.<br />

Chissà se lei l’ha fatta l’episiotomia, la fanno a tutte ormai, lo<br />

sai? <strong>La</strong> percentuale dei cesarei è spaventosamente aumentata<br />

negli ultimi anni. C’è da dire anche questo. Si è persa la naturalità<br />

del gesto per paura, per avarizia. Per esaltazione tecnica.<br />

Non è, a dire: valutiamo prima l’elasticità di tessuti, la<br />

posizione del feto, le alternative, non è che stanno a scegliere,<br />

a distinguere, non ti fanno un esame prima. Tagliano e basta,<br />

e lo stesso discorso vale per il taglietto da praticare prima dell’espulsione<br />

in un parto naturale. Che sia un cesareo o un<br />

parto naturale, loro tagliano, allargano, si ritagliano una spazio<br />

chirurgicamente certo, e basta. Per pigrizia. <strong>La</strong> fanno e<br />

basta. Dicono che si debba fare per sicurezza, ma secondo me<br />

lo fanno anche per pigrizia”.<br />

“E che ne so io? Che c’entra il parto con la follia? Una<br />

pazza e basta. All’ora in cui siamo costretti a giocare, c’è un’umidità<br />

che ti inzuppa. Io non capisco proprio dove sta la<br />

necessità…”<br />

“Ma dimmi una cosa: cosa ti piace del calcetto, veramente?”<br />

“L’equilibrio e la regola. Tranne che con gli avvocati. Per<br />

forza. Sono dei vandali quelli, lo giuro, e poi finisce che si<br />

prendono confidenza pure sul lavoro. Con loro viene meno<br />

sia la regola che l’equilibrio”.<br />

“Sembra una balla zen, l’equilibrio e la regola… Ma va!<br />

Non ci credo nemmeno per sbaglio”.<br />

“Vabbè, mi piace un dribbling rapidissimo, che ne so, un<br />

tiro al volo, il suono della palla che scheggia il palo e poi s’in-<br />

79


sacca, troppo bello! Mi fa sentire ancora capace. Piacere fisico,<br />

è questo alla fine. <strong>La</strong> circostanza casuale che procura un<br />

casuale piacere. Comunque, con gli avvocati è uno schifo e la<br />

magistratura è vecchia ormai”.<br />

“Vi vogliono cancellare dalla faccia della terra”.<br />

“E poi chi gli dà da mangiare?”<br />

“E chi è che ci mangia davvero con il lavoro di avvocato?”<br />

“Non parlo di avvocati come te, è ovvio! Parlo di quelli<br />

che guadagnano. Quelli veri”.<br />

“Grazie tante!”<br />

“Così non vai lontano. Non può essere un ripiego. Il lavoro.<br />

Ci vuole altro per te. Tutti abbiamo bisogno di qualcos’altro”.<br />

“Tipo?”<br />

“Ad una certa età il movimento è importante. Tu vai in<br />

palestra. Tre volte alla settimana, no?”<br />

“E secondo te la palestra può bastare?”<br />

“Che ne so”.<br />

“Adesso ci vado quattro volte. Ho tempo da perdere per<br />

ora, finché la mia vita non si decide a cambiare davvero. E tu<br />

invece. Perché non pensi al golf? Che costa molto di più, è<br />

vero, ma ti preserva i denti dalla furia dei colleghi. Che ne dici<br />

del golf? Eh? Pensaci. Torni venerdì? Magari andiamo al<br />

cinema. Devi scegliere tu il film, la settimana scorsa ho scelto<br />

io, ora tocca a te”.<br />

“Certo. Vengo. Abbiamo rallentato con le intercettazioni.<br />

Le indagini stanno subendo uno stop perché Ietta ha altre<br />

cose per la testa. Questioni di associazione, mi pare. Sta pensando<br />

a fare carriera. Tutto sommato, per lui il nostro è un<br />

lavoro come un altro. Non è come me: io non posso essere<br />

stanco. Ha diritto pure lui. Poveraccio. Si macina da giorni<br />

sulla stessa storia. Adesso ci vuole la svolta”.<br />

“Ma è un lavoro come un altro!”<br />

“Non credo”.<br />

“Che fai? Come quello della corte d’appello di Bari che<br />

l’hanno portato via con la forza e nella stanza c’aveva appeso<br />

il poster di Guevara, di Toro seduto e di Falcone? Se li guardava<br />

tutto il santo giorno. E magari ci parlava. Vuoi finire<br />

80


come quello? Sono persone con problemi, è chiaro. Cosa<br />

c’entra il lavoro che uno fa con quello che è? Bisogna cercare<br />

di separare. Di… scindere”.<br />

“Non so”.<br />

“E già. Non rientra tra i tuoi obiettivi. Sempre così. Se tu<br />

riconosci una cosa come importante, dai il massimo.<br />

Altrimenti semplicemente non esiste.<br />

“E quale dovrebbe essere l’obiettivo questa volta? Hai da<br />

suggerirmi qualcosa?”<br />

“Scindere”.<br />

“E cioè?”<br />

“Trovare altre forme. Scindere, appunto. L’anima per<br />

esempio, senza il resto”.<br />

“Scindere, sì, va bene, come vuoi. Adesso basta. Ti ho<br />

detto quello che abbiamo intuito del signor Corietti?”<br />

“Cioè?”<br />

“Ah. Non ti ho detto le novità?”<br />

“Che era gay? Sì, me l’hai detto. Il secondo colpo di scena.<br />

Prima il giro di prostitute snob organizzato dalla farmacista e<br />

poi, a sorpresa, le novità circa i gusti sessuali della vittima. Ma<br />

come l’avete scoperto? Ci siete arrivati rovistando nel suo<br />

appartamento? Giarrettiere, trucchi da donna, parrucconi?”<br />

“Era omosessuale, Angela, non un travestito”.<br />

“Questo muta il quadro. Subentra l’elemento passionale?”<br />

“Forse”.<br />

“Allora, cercate un altro uomo. Non credo che lo straniero<br />

possa… Non mi pare proprio il tipo, considerata l’oscura<br />

descrizione che mi hai fatto”.<br />

“E perché no?”<br />

“Già, perché no? Che dici se prendo appuntamento da un<br />

nutrizionista?”<br />

“Cosa?”<br />

“Niente. Un’idea del cavolo. <strong>La</strong>scia stare”.<br />

“Buono sarebbe trovare il compagno della vittima, perché<br />

è certo che ci fosse almeno un compagno fisso. Uno che frequentava<br />

abitualmente. Una figura nuova. Adesso o mai più.<br />

Per questa ragione, secondo me, può essere determinante la<br />

vedova, la proprietaria del negozio”.<br />

81


“<strong>La</strong> cosa si fa sempre più interessante. Cercate tra i frequentatori<br />

abituali del negozio”.<br />

“Oppure nel giro di amicizie della vittima”.<br />

“Sì, anche. Datevi una mossa, però. Sfruttatela questa<br />

improvvisa fortuna”.<br />

“<strong>La</strong> vedova ci ha fornito l’elenco completo dei suoi clienti,<br />

insieme al bilancio commerciale. Tutti preti o quasi: parroci<br />

della provincia e mamme di chierichetti con gli occhiali, a<br />

comprargli il vestitino. Bellini. C’era pure qualche catechista,<br />

che ci teneva a tenersi aggiornata e si comprava dei manuali<br />

con le illustrazioni”.<br />

“E che fate: sentite tutti i clienti?”<br />

“Ma sei pazza, e quando finiamo così? C’è un limite a<br />

tutto”.<br />

82


VII CAPITOLO<br />

Si può amare un monumento, un’architettura,<br />

un’istituzione come tale solo nell’esperienza a sua<br />

volta precaria della sua fragilità: essa non è sempre<br />

stata là, non sarà sempre là, è finita… Come amare<br />

altrimenti se non in questa finitezza? Da dove verrebbe<br />

altrimenti il diritto di amare, l’amore per il<br />

diritto?<br />

Jacques Derrida<br />

Facevo finta di essere io la vittima e immaginavo chi avrebbe<br />

voluto farmi del male. Molto male. Esercizi di empatia. Un<br />

indagatore si aiuta con visioni spontanee, con esercizi quotidiani,<br />

se non ha altro su cui lavorare. L’empatia è un esercizio<br />

possibile, comodo in quanto spontaneo, che si distingue dalla<br />

mera imitazione. Prima dei trent’anni il mio unico desiderio<br />

era diventare identico a quelli che più mi piacevano; dopo i<br />

trenta ho scoperto l’empatia, che è ben altra cosa, nel bene e<br />

nel male. È consonanza, orecchio musicale.<br />

Il Corietti in vita era stato un uomo molto riservato; in<br />

pochi sapevano qualcosa di lui. Eppure la signora Florio si<br />

fidava, tanto che non di rado capitava che lasciasse il negozio<br />

nelle sue mani. Molti clienti in passato avevano avuto modo<br />

di trattare direttamente con il Corietti, e ne ricordavano bene<br />

i modi bruscamente affettati, le mani affusolate che increspavano<br />

approssimativi pacchetti regalo, il suo rispondere al<br />

telefono con un eloquio flautato da cardellino in amore, usando<br />

verbi generosi. Dicevano. Prendeva appunti con scrittura<br />

affilata su piccoli notes, custoditi accanto al telefono; spesso<br />

fissava con la Curia vescovile appuntamenti, messe commemorative,<br />

stampe di locandine. <strong>La</strong> padrona si fidava davvero<br />

o erano solo voci? Chi poteva dirlo.<br />

Come quella volta che era andata dal dentista, il giorno del<br />

delitto. Sapeva bene che il Corietti l’avrebbe dovuta sostitui-<br />

83


e in negozio per più di qualche ora. Si fidava quindi, e questo<br />

poteva lasciar intuire una qualche intimità; anche se in<br />

realtà nulla escludeva che si fosse trattato di una necessità<br />

occasionale.<br />

Mentre il Corietti crepava, la signora Florio era seduta<br />

sotto il neon rotondo, su una sedia tipo sdraio, con l’imbottitura<br />

in pelle e i braccioli da stritolare nello strazio da trapano,<br />

con il cavadenti che non fiatava, neppure per mera pietà. E<br />

non sappiamo se era in pensiero per le sorti del suo negozio<br />

oppure no.<br />

Era stata lei stessa a dirci che il suo dentista era un tipo<br />

che parlava poco (al contrario di molte delle sue clienti,<br />

aveva aggiunto), solo il necessario, e si era perso tempo quella<br />

mattina non per chiacchiere da parrucchiere, non sia mai,<br />

ma a causa di un’altra paziente, arrivata in studio prima della<br />

vedova, quasi all’albeggiare, che lamentava un dolorino qui,<br />

un altro lì, mal di gola, mal di gengiva, mal di vivere; non trovava<br />

pace, insomma. E non si capiva cosa avesse questa santa<br />

donna, poiché tutti gli interventi tecnici d’emergenza nella<br />

sua bocca larga non avevano prodotto effetto alcuno. Il<br />

medico, uomo saggio, seppur taciturno, se la prendeva con<br />

se stesso, che distrattamente aveva anticipato alla cliente che<br />

la capsula da lui creata intorno al dente malato avrebbe<br />

potuto darle fastidio in futuro. Lo sapeva: mai parlare troppo<br />

con i clienti, ché può capitarti il soggetto apprensivo e sei<br />

finito.<br />

Per questa ragione non faceva commenti il dentista della<br />

signora Florio. Di solito. Le si era fratturato un dente, ormai<br />

in crisi da un po’, e lui niente, nessuna chiosa: cosa fare, come<br />

intervenire, cavarlo o dargli un’altra possibilità; niente. Aveva<br />

estratto il pezzo rotto dopo l’anestesia, davanti agli occhi supplicanti<br />

della paziente e poi, dopo una lunga pausa, un respiro<br />

cavernoso e un’aggiustatina alla montatura degli occhiali,<br />

aveva sussurrato: mezzo dente non serve a niente. Segnandone<br />

il destino. Il boia. Questa razza d’uomini di scienza, o non<br />

parla o parla troppo! Quel giorno non poté raccontare la storia<br />

del dentista al fidato Corietti, come avrebbe voluto, per<br />

sfogarsi quel tanto, come era sua abitudine. A sentir lei.<br />

84


Quello era già bello che crepato al momento della pronuncia<br />

della sentenza relativa al dente ammorbato.<br />

Ma parliamo della vittima. <strong>La</strong> sua famiglia non era del<br />

posto, gente del sud, nel senso più assolato, crudo, solitario,<br />

sordo del termine, con cui non aveva rapporti da più di venti<br />

anni. Gente che aveva trovato facile e opportuno cavarsi dalla<br />

memoria il diretto congiunto, proprio come una mola marcia.<br />

Mi sembrarono dei gran bastardi, così, di primo acchito.<br />

Anche del nucleo familiare del Corietti, leggemmo i verbali;<br />

niente di più. Non si erano mossi prima, non si mossero<br />

dopo. I Borboni. Anche in quel caso, una bella delega all’indagine<br />

fatta per iscritto ai carabinieri, verso il fondo dello<br />

Stivale, e il gioco era fatto. Gli accertamenti fatti sul posto e<br />

incartati dai carabinieri, con qualche linfa oscura nascosta<br />

nelle pieghe, tra una pagina e l’altra, arrivarono via fax. Dal<br />

sud al nord.<br />

Ma c’era una moglie però. Sì, la vittima era sposato.<br />

<strong>La</strong> vendetta delle mogli? Chissà.<br />

Per amor di verità, dico subito che io quella donna non<br />

l’ho compresa mai del tutto. Sarà per quel dialetto settentrionale,<br />

con cui impiastricciava le parole, come fosse stato vecchio<br />

mascara grumoso, soprattutto le frasi più partecipate;<br />

sarà per quegli occhiali da sole a specchio anni Novanta, sempre<br />

sulla faccia immota, tipo cornice appesa alla parete. Che<br />

strana la sorte: per contrappasso, la moglie del morto era un<br />

tipo mascolino, con certi muscoli rudi, tirati sotto la camicetta,<br />

da far invidia. Era molto più giovane del marito; una sorta<br />

di liquido gassoso sbatacchiato, piccola, gonfia e pronta a<br />

spruzzare. <strong>La</strong>vorava in una palestra, come era facilmente<br />

intuibile dall’osservazione delle vistose virtù muscolari.<br />

Faceva la buttafuori, ruvidamente, ma finiva per occuparsi di<br />

tutto: dalle pulizie alle registrazioni dei clienti, dalla vigilanza<br />

alla manutenzioni degli attrezzi. E si allenava da sola.<br />

Fu lei a farci il nome del compagno del Corietti, ma senza<br />

rendersene conto.<br />

Quando, dopo, le rivelammo come stavano davvero le<br />

cose, si chiuse in un silenzio bellicoso e duro.<br />

85


Credo che quella sia stata la prima volta in cui vidi una faccia<br />

diventare altro. Definitivamente. Non più brutta o disperata<br />

o sconvolta, rispetto al momento prima della notizia.<br />

Altro. Non una faccia, ma un quadro, una rappresentazione,<br />

un articolo di cronaca nera. Non so. Altro. Forse, più semplicemente,<br />

la faccia di una donna che cambia i suoi lineamenti<br />

e diventa un’altra donna. Per sempre. Due persone diverse.<br />

Due facce diverse. A causa di una rivelazione.<br />

Tra le frequentazioni più assidue del marito, aveva raccontato,<br />

c’era quella con un amico di vecchia data; un compagno<br />

del militare, per la precisione. Anche quest’amico aveva<br />

moglie e così capitava che uscissero in quattro, senza figli,<br />

magari al sabato. Andavano a mangiare qualcosa e a scambiare<br />

due parole, ma non troppo spesso comunque, che si tirava<br />

la cinghia e il soldo non bastava mai. Figurarsi ad aver figli. E<br />

chi ci pensava ai figli? Si sa: la palestra consentiva entrate<br />

variabili e il lavoro al negozio non era poi una grande sistemazione.<br />

C’era l’esigenza di arrotondare, se potevano, quando<br />

potevano, come potevano. Non avevano voglia d’accrescere i<br />

disagi, e per far figli bisognerebbe averne voglia; quantomeno<br />

si deve fare sesso almeno ogni tanto, perché possa capitare<br />

l’incidente. No, lui aveva voglia di far soldi e lei di far ginnastica.<br />

Quindi.<br />

Noi, magistrati all’erta, facevamo finta di comprendere le<br />

ragioni d’ansia della signora, palesate dal suo pettorale sospirante,<br />

ma, per me, quella donna parlava troppo poco della<br />

morte, della tragedia che le era capitata tra capo e collo,<br />

all’improvviso, in una giornata di pioggia. Non cercava assassini,<br />

così come invece avrebbe dovuto, per logica umana.<br />

Che li avesse già trovati di suo e volesse dimenticarli?<br />

Raccontava che il ragazzo era diventato uno di famiglia.<br />

Stava spesso da loro la sera, con o senza la moglie.<br />

Pensammo: forse quest’amico avrebbe potuto raccontarci<br />

qualcosa di più intimo sulla vita del Corietti. Bene. A quel<br />

punto sembravamo così vicini alla verità a qualche trappola<br />

segreta per topi scattata silenziosamente, grazie a una moglie<br />

androgina e glaciale. Finalmente un po’ di fortuna, e che diamine!<br />

Perché le intercettazioni telefoniche possono non<br />

86


astare; per quanto occasionalmente utili, forse necessarie.<br />

Alle volte bisogna guardarli in faccia certi uomini per capire.<br />

Alle intercettazioni, infatti, si ricorre soprattutto per casi di<br />

mafia: lì c’è la trama, l’umano intreccio. I telefoni aiutano a<br />

metter ordine, a ricostruire la cronologia degli eventi, a individuare<br />

luoghi, nomi, orari, legami, ma tra le auricolari, le<br />

pause e i bisbigli, possono perdersi le ragioni più profonde. Il<br />

senso. Negli omicidi, invece, contano pure le facce degli<br />

uomini. Il loro senso specifico. Stava forse nella faccia il<br />

segreto. No, Lombroso non c’entra. Anche se poi devo dire<br />

che, genetica o meno, è l’ambiente che dipinge le facce e<br />

Lombroso non era un fesso. Se una casa è sporca, sporca è la<br />

faccia che la abita. Poche chiacchiere: il corpo la fa da padrone;<br />

il corpo non sa mentire a lungo; il corpo parla tacendo. <strong>La</strong><br />

faccia, il luogo e la parola: la sacra triade. Che meraviglia per<br />

un praticante.<br />

Volevamo questa benedetta faccia, quindi. Il suo segreto.<br />

Già me la immaginavo: elementare, tipo foto segnaletica, ma,<br />

adesso che avevamo l’indirizzo dell’amico, era fatta.<br />

Potevamo farne un ingrandimento e metterlo in cornice.<br />

Perché una vita segreta ci doveva pur essere: una faccia, sì,<br />

pure due, con appresso un bel segreto succoso, qualcosa di<br />

caparbiamente celato sotto un’apparente serenità.<br />

Quella morte non poteva essere stata un errore. Al massimo<br />

un raptus, ma non un errore. Chi avrebbe potuto sostenere<br />

il contrario e apparire credibile?<br />

<strong>La</strong> faccia avrebbe spiegato, speravamo. Perché un uomo<br />

parla con un amico se ha un cruccio, se lo lascia sfuggire<br />

davanti a una birra o mentre aspetta che cominci la partita<br />

allo stadio. Ma il Corietti non andava allo stadio, tutt’altro, e<br />

la moglie non ne era per niente felice. Nessuna somiglianza a<br />

unirli. Ecco perché aveva bisogno di un amico il pover uomo.<br />

Diciamolo una buona volta: sono le affinità che uniscono. Sì,<br />

d’accordo, l’ esotico attrae, ma alla fine non si resta a lungo<br />

accanto a inspiegabili orecchie a punta simili a quelle di Spok.<br />

Io sono uomo di quelli: moglie e buoi. Almeno credo, non<br />

avendo avuto fino a oggi esperienze d’altro pianeta.<br />

Il Corietti non era solo. Menomale. Un amico c’era; non<br />

87


c’erano chiacchiere allo stadio, partitelle, d’accordo, forse<br />

neppure una birra ogni tanto, chi lo sa, ma almeno c’era una<br />

faccia che vagolava in casa come una scheggia, lasciando<br />

segni sui muri.<br />

Era quella la svolta nelle indagini che cercavamo da giorni.<br />

Se c’è un amico, ci devono essere per forza delle confidenze.<br />

A che servono gli amici altrimenti? Banale? Quando si<br />

fanno indagini di un certo tipo non ci si deve discostare dall’ovvio,<br />

sarebbe avventato. Esistono delle banalità utili a mettere<br />

in fila le idee come perline delle stesso colore. <strong>La</strong> psichiatria,<br />

per esempio, è scienza colma di ovvietà, o per lo meno di<br />

quelle che oggi ci sembrano tali, ma quale fatica riconoscerle.<br />

Si parte sempre da quelle, poi si vede.<br />

Però, quella del militare insieme, era una balla che i due<br />

amici concordemente avevano voluto raccontare alle rispettive<br />

mogli, al fine di giustificare la loro grande intimità. Non<br />

era mica così che si erano conosciuti i due uomini. Macché.<br />

Si erano incontrati, sorpresi e amati, grazie a un annuncio<br />

su di un giornale a tema specifico qualche anno prima, e a<br />

una casella postale anonima sempre piena di missive rosa.<br />

Tutto questo ce lo rivelò l’amico, successivamente.<br />

Le mogli non sapevano che erano amanti. Glielo raccontammo<br />

noi. Crudeli.<br />

Eppure le mogli dovrebbero avere un ruolo nel compiersi<br />

graduale di un’esistenza. È il mio caso, per esempio. Se<br />

dovessi pensare a un amico sarei in difficoltà, lo ammetto, ma<br />

mia moglie basterebbe. Lei racconterebbe di me ogni pulsazione<br />

senza sbagliarsi. È una fine narratrice.<br />

Amici, sì, qualcuno ma del passato, che il tempo ha truccato.<br />

Rapporti da rimettere in moto, impigriti, tanti ricordi, e<br />

qualche serena conoscenza più recente. Nata dal bisogno.<br />

Forse se avessimo dei figli, avremmo più amici. Come quelle<br />

coppie che s’incontrano ai giardinetti o davanti alle scuole, e<br />

si sentono parte di un meccanismo comune da oliare di continuo.<br />

Gli amici d’infanzia, invece. Accade che ci si renda conto<br />

che di ricordi simili ai propri, siano piene le vite di tutti, e<br />

88


questo li rende meno preziosi. Non so. Come le banconote,<br />

non hanno tutte lo stesso valore, ma sono della stessa razza.<br />

<strong>La</strong> storia dei grandi amici mi sembra una gran bufala. Tutti<br />

abbiamo almeno un amico. E quindi? Che bravura c’è? Chi<br />

ha detto che hanno più valore gli amici d’infanzia? Cretinate.<br />

Avevo un amico, per esempio, uno che adesso ha i baffi e<br />

quando l’ho rivisto per caso in banca, dove lavorava, ho pensato<br />

che strano, ha i baffi. Quello stupore ci ha reso lontani.<br />

Non ho pensato: ecco, come immaginavo si è fatto crescere i<br />

baffi, no, al contrario, ho pensato che era un fatto strano.<br />

L’amicizia troppo vecchia si carica di scelte non fatte o,<br />

comunque, diverse dalle proprie, perdute; di locuzioni non<br />

pronunciate, di fatti incomprensibili, di vecchiezza e, sotto<br />

questo peso, rallenta il passo. L’amicizia spesso è un abbaglio<br />

o una generalizzazione. Dopo, o si resta amici per stupore o<br />

per bisogno. Non si scappa. Forse, semplicemente, l’amicizia<br />

non esiste. Spesso manca il senso del possesso a coagularla, o<br />

ne avanza fin troppo a zavorrarla.<br />

Avevo un amico, un altro, un coetaneo con cui avevo diviso<br />

il pane ai tempi dell’università, ma era un tipo possessivo,<br />

con l’occhio allucinato di chi sospetta sempre un tradimento.<br />

Quando ho conosciuto mia moglie, lui ha avuto paura, la<br />

paura del primogenito la chiamo io, e così l’ho abbandonato<br />

in preda alle sue angosce. Non sono abbastanza generoso,<br />

non ci riesco. Devo pensare a me. <strong>La</strong>vorare su di me, per<br />

divenire un prodotto spendibile, interessante, utile. È un<br />

lavoro fatto anche nell’interesse degli altri, benevolo quindi.<br />

Ma molto impegnativo. Così, agli appuntamenti davo buca e<br />

facevo in modo che i reciproci impegni ci impedissero ogni<br />

incontro. Ho lasciato che accadesse e lui ha deciso di odiarmi.<br />

Liberissimo di farlo, ho pensato. Perché alcuni sono capaci:<br />

odiare a comando. Sanno farlo bene. Nonostante tutto,<br />

però, inspiegabilmente, mi mancava il suo sguardo ammirato,<br />

quel suo bisogno vacuo di assomigliarmi. Così, dopo anni,<br />

l’ho cercato. Per vanità e per astinenza. Mia moglie diceva<br />

che era una botta di insano egoismo la mia, e aveva ragione.<br />

È diventato un magistrato anche lui, anzi, per la precisione<br />

che mi contraddistingue, tengo a chiarire che la sua, iniziale,<br />

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scelta professionale non era stata emulatoria. Lui, gran sgobbone,<br />

aveva preso servizio un anno prima e con un punteggio<br />

pure più alto del mio agli orali. Forse, come sempre, anche in<br />

quel caso, all’inizio ero stato io a imitare lui.<br />

Eravamo a una festa di capodanno – un avvocato rampante,<br />

con un villone di proprietà del padre, ha sempre dato serate<br />

mondane qui in città, in prossimità di quella che oggi è la<br />

tangenziale, su cui si affaccia la comunità più in vista, e ci passavamo<br />

anche noi ogni tanto, con un certo rossore in viso,<br />

ben dissimulato, ogni volta lamentandoci che ci fosse sempre<br />

la stessa gente, ma contando le presenze una per una, come<br />

candeline sulla torta, segnalando vistosamente le assenze,<br />

tutti con vestiti e acconciature nuove di zecca –, eravamo a<br />

questa festa, dunque, tra una folla coerente che s’allargava<br />

per il parco antistante, con il collo allungato all’inverosimile e<br />

qualche sigaretta in mano, che si sbriciolava in cenere elegante.<br />

Tutti con la stessa andatura dinoccolata e disinvolta, e lo<br />

stesso modo di ridere, tutti con una mano sulla spalla di un<br />

altro, a catturarlo, come in una specie di sirtaki.<br />

È stato lì che ho rivisto il mio vecchio amico. Parlava con<br />

una tizia.<br />

Mi è venuta voglia di riabbracciarlo. Incontrollabile è arrivata<br />

questa strana specie di nostalgia. <strong>La</strong> voglia di mettere<br />

anch’io la mia mano sulla spalla di un altro. Tutta colpa di<br />

quel mio solito desiderio di conciliazione, di sanatoria, desiderio<br />

fallimentare che mi trascino dietro come un mulo. L’ho<br />

fatto come l’avrei fatto se si fosse trattato di mio padre. L’ho<br />

toccato con le mani. Ho toccato quest’amico che non vedevo<br />

da anni. Mai toccare con le mani un altro essere umano, se<br />

non assolutamente necessario. È fuoco. Quando ho sentito i<br />

muscoli delle sue spalle irrigidirsi e lo sguardo accendersi in<br />

una visione onirica, già in quell’istante, ho capito che non era<br />

quello che volevo. Che avevo fatto un’enorme cazzata. L’ho<br />

abbracciato ed è ricominciato il tormento. Le sue telefonate<br />

hanno ripreso a mitragliare il mio orgoglio e solo di rado le<br />

mie reazioni erano sincere. Quello che c’era stato in mezzo,<br />

tra il prima e il dopo, aveva reso impossibile la comunicazione.<br />

Questo è l’amicizia: un recinto. Una lampadina soggetta a<br />

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ipetuti cali di tensione. Ho cercato di spiegargli chi ero<br />

diventato, che ciò che lui ricordava non esisteva più; a volte<br />

lo facevo con autentico trasporto, mentre era quasi piacevole<br />

risentire la sua voce di un tempo pronunciare le solite menate.<br />

Ma lui ha preso a parlare di sé, ché del resto di me non<br />

sapeva un tubo. Ha intessuto in un baleno un vomitevole elogio<br />

della giovinezza, la sua, manco avessimo avuto ottanta<br />

anni. Andava ripetendo che dovevamo lasciar stare le rispettive<br />

mogli, che due uomini come noi avevano bisogno di stare<br />

un po’ da soli di tanto in tanto; di prendersi delle libertà. Di<br />

sospendere il ritmo. Certe cose le nostre donne non potevano<br />

capirle, diceva. Quali cose? Il ritmo, quale ritmo? Benvenuto<br />

il ritmo, uno qualunque, purché adatto al vivere, pensavo io.<br />

Cose di uomini, diceva lui. Evviva, pensavo io. Uomini, quali<br />

uomini?<br />

L’ho scaricato di nuovo appena ho potuto. Non nego che<br />

all’inizio lui abbia cercato di vendicarsi, facendo leva su certe<br />

mie riservatissime emozioni che gli erano note. Era convinto<br />

che avessi messo in moto tutto il meccanismo perverso del<br />

riavvicinamento a causa dello storico irrisolto rapporto con<br />

mio padre; che lo avessi usato come terapia. Anche lui come<br />

tanti conosceva mio padre. Per la stessa ragione, era certo che<br />

avessi ipotecato tutti i miei fine settimana di riposo, destinandoli<br />

in modo esclusivo a una moglie, per sentirmi migliore.<br />

Una moglie. Una? Come sarebbe a dire una? Furono le sue<br />

uniche affermazioni di un certo rilievo, prima dell’abbandono<br />

definitivo. Non era proprio un cretino, comunque.<br />

Chissà cosa avrebbe mai potuto raccontare di me questo<br />

vecchio amico, se un giorno qualcuno avesse deciso di farmi<br />

tacere per sempre con trentotto crudeli coltellate.<br />

L’ho rivisto qualche anno più tardi, quando cominciammo<br />

a frequentare giri diversi. Per Capodanno si usava andare<br />

nella villa, non più dell’avvocato, ma di un magistrato molto<br />

noto sul territorio. Ci andavano tutti. Per la verità, la villa dell’avvocato<br />

era più grande di quella del magistrato, ma ci<br />

andavano tutti, perché lo spazio fisico non ha importanza nel<br />

jet-set. I metri quadrati sono un piacere da parvenu. Ci<br />

andammo una volta anche noi. Con Angela volevamo vedere<br />

91


di che si trattava, dove stavano le differenze. Non di certo nel<br />

biglietto d’ingresso, che aveva più o meno lo stesso costo, non<br />

nel menù, che esalava più o meno gli stessi profumi robusti<br />

della tradizione locale. <strong>La</strong> differenza era data dal numero<br />

delle persone presenti – molto più frequentata la festa dell’avvocato,<br />

a causa del grande affollarsi del foro – e dal contenuto<br />

delle conversazioni. I magistrati, a differenza degli avvocati,<br />

parlano dei colleghi, parlano di sedi presso cui trasferirsi se<br />

l’anzianità di servizio lo consente; spesso si tratta di naufraghi<br />

giudiziari in attesa del prossimo bollettone, zattera ufficiale<br />

ma instabile, che trasporta domande di trasferimento, nuove<br />

assegnazioni, pensionamenti, rinunce e graduatorie. Di conseguenza,<br />

come è intuibile, l’anzianità ha un grosso rilievo tra<br />

i colleghi, quindi i magistrati parlano anche di anni di servizio.<br />

Sono racconti, mica verità. Teatro puro.<br />

Nelle feste dell’avvocato, anche oggi, c’è un maggiore<br />

investimento di denaro. Ragioni di rappresentanza, credo.<br />

Denaro produce denaro. Lo sanno anche quelli che non ce<br />

l’hanno.<br />

Ciò che conta è che la festa riesca bene e se ne parli a<br />

lungo. Quindi, se c’è la possibilità, che ne so, di far esplodere<br />

una schioppettata di palloncini colorati giunta la mezzanotte,<br />

o di fuochi d’artificio mirabolanti a forma di cigni<br />

avvinghiati tra loro, in segno benaugurale, lo si fa senz’altro,<br />

a qualunque costo. I soldi in qualche modo vengono fuori.<br />

Se, per esempio, è possibile chiamare un gruppo di rokkettari<br />

vestiti di metallo, lo si fa senza indugio, per tagliare le catene<br />

agli invitati che, spesso, sono di una certa età, eppure,<br />

davanti al revival, non sanno resistere e quasi si commuovono.<br />

E quindi che ballino i vegliardi, che si scatenino, via! E se<br />

gli viene un coccolone, peggio per loro: si riduce il numero, si<br />

allarga la dimensione della fetta di torta per quelli che sopravvivono.<br />

Alle feste dei magistrati, al contrario, niente effetti speciali.<br />

Apparente sobrietà. Ci sono invece tanti bravi bambinetti<br />

vestiti di velluto e organza. I figli. Qualcuno ha jeans con perline<br />

colorate ai bordi delle tasche griffate. Sembrano tutti<br />

uguali. Nel prezzo del biglietto si fa rientrare l’animazione,<br />

92


con annesso spettacolo di marionette, cucite in casa da studenti<br />

in cerca di occupazione. Bisogna pure animarli questi<br />

piccini vellutati! E amarli quanto basta, mentre producono<br />

quel loro baccano infernale. Ho ancora ben presente quelle<br />

urla disumane, vicine allo stridere dei gabbiani al porto quelle<br />

delle femminucce, simili alle stecche di tromboni gorgoglianti<br />

d’acqua quelle dei maschietti. Bambinetti a spintonarsi,<br />

a saltare con scarpe che sembrano ferrate, come fossero<br />

mille o più, spalmati fin sotto i piedi, sui tappeti, tra una porta<br />

e l’altra, a farti inciampare di continuo, a farti sentire in colpa<br />

per averli ammaccati un po’ camminandoci sopra senza volerlo.<br />

Almeno zittirli, davvero, con un pestone. Macché: così si<br />

riusciva soltanto a farli strepitare ancora di più. I figli.<br />

<strong>La</strong> sera in cui ci andammo, di diverso, oltre la prole, c’era<br />

pure che io ero meno rilassato: la giacca nuova, ben abbottonata,<br />

mi tirava in vita come una ciambella di gomma per i<br />

primi tuffi. Il nodo della cravatta troppo stretto. Mi abituavo<br />

alla professione, ma avevo ancora qualche imbarazzo con l’abito.<br />

Angela invece no, o almeno così mi sembrava: era elegante<br />

nel tubino, magra e nera, nata così, riflessa nei vetri<br />

smerigliati che separavano i diversi salottini pluridivanati. Lei<br />

non conosceva bene nessuno, ma di vista tutti, e la panoramica<br />

furtiva ed efficace sugli invitati presenti, faceva tanto rotocalco,<br />

senza alcun obbligo di socializzazione.<br />

Gli altri sembravano sempre meglio vestiti di me. Che strano,<br />

prima come adesso.<br />

Ogni volta che mi veniva presentato qualcuno, era di rigore<br />

puntualizzare: le presento il collega… ecco il collega… oh,<br />

che caro collega… lei è il collega?… le presento la moglie del<br />

collega… i figli del collega… Ci tengono i magistrati alla loro<br />

colleganza; è un fatto.<br />

Non ricordavo un nome neanche per sbaglio, ma in compenso<br />

avevo la garanzia assoluta che si trattasse di colleghi –<br />

questo sarebbe dovuto bastare – e che vestissero benissimo i<br />

loro fresco lana antracite. <strong>La</strong> cosa sembrava importante. Non<br />

per fare del razzismo, ma le donne in giro quella sera, che fossero<br />

colleghe o mogli di colleghi o affini, erano tutte un po’<br />

chiatte, (ma le affini, devo dirlo, meno chiatte delle altre), di<br />

93


certo più chiatte delle avvocatesse, senza dubbio, poco frivole<br />

o pedantemente frivole, e parlavano animatamente di<br />

democrazia, azione, tanto che la presenza sul posto di ciascuno<br />

poteva sembrare in qualche modo connessa all’integrarsi<br />

di una funzione sociale. I magistrati erano sposati per lo più<br />

con altri magistrati, conventicole coniugali, ed erano amici<br />

intimi di altri magistrati, solo tra loro avvenivano i contatti<br />

più profondi, il vero scambio di esperienze significative, ma<br />

non di certo sorprendenti. Scambi di codici umani per categorie.<br />

Tra loro si annusavano, toccavano, amavano, invecchiavano.<br />

Gli invitati, quindi, sembravano dare un senso socialmente<br />

e altamente rilevante al luogo, al tempo, alla mezzanotte<br />

che sopraggiungeva ignara. Nutrivano di bocconi nuovi<br />

una sorta d’ideologia presistente. Nutrire oltre che nutrirsi. O<br />

almeno così mi pareva, così vedevo la cosa, quasi che le giacche<br />

e le gonne e i décolleté si muovessero piano nella penombra<br />

delle sale per capire, per correggere, ordinare.<br />

Gli avvocati invece no, quelli si dislocavano senza doppi<br />

sensi, all’apparenza.<br />

Questo, però, accade fino a quando un avvocato non si<br />

trova in presenza di un magistrato. Ammettiamo che i due<br />

s’incontrino, per esempio. Se sono solo conoscenti, l’avvocato<br />

invidierà potere e ruolo e avrà modi riverenti, il magistrato<br />

invidierà i soldi dell’altro, se è uno dei pochi che ce l’ha<br />

fatta, e conserverà toni distaccati. Un classico delle relazioni<br />

umane, ieri, oggi, domani, credo. Cowboys contro Indiani. <strong>La</strong><br />

sede del bene o del male, dipende dal disegno, dalla regia,<br />

dall’occhio. In gruppo l’avvocato non svolge alcuna funzione,<br />

si diverte se può e stop. Il magistrato, nel branco, invece,<br />

sente di rappresentare la collettività, immagina che dietro la<br />

sua voce si celi quella di altri. Tutto questo perché non c’erano<br />

amici lì in mezzo, solo individui astratti e il loro immaginario.<br />

Si divertiva la mia donna, intanto. Grazie! Quando si<br />

andava in casa dell’avvocato, invece toccava ad Angela sentirsi<br />

sotto i riflettori. Un supplizio alternato, il nostro.<br />

Bisognava che, una volta per tutte, si decidesse con equità<br />

che non avremmo frequentato più questi ambienti: ormai il<br />

quadro della situazione ci era chiaro. Inutile fare i cani da<br />

94


salotto, ché ogni curiosità era stata ormai saziata. Si poteva<br />

provare a star da soli e dimostrare a noi stessi che eravamo<br />

davvero in grado di farlo, come andavamo sostenendo sin dai<br />

nostri primissimi incontri. Vederci fluire in materialità tra la<br />

gente.<br />

Quella sera alla villa del giudice, nella punta delle scarpe<br />

come un sasso, c’era anche quel mio vecchio amico d’università<br />

– avrà fatto di certo anche lui i suoi bravi calcoli su come<br />

fosse possibile spendere le proprie serate in città e fatto le sue<br />

scelte – ma non ci salutammo nemmeno. Amici. Gli amici a<br />

volte sanno di te solo quello che eri, e avanzano pretese infondate.<br />

Soprattutto i vecchi compagni d’armi.<br />

Ma il compagno del Corietti, quello di cui per prima ci<br />

parlò sua moglie, era più di un amico per lui. Lo capimmo<br />

solo più tardi, dopo averlo torchiato come una oliva. Venne<br />

da noi in Procura ed era triste, il ragazzo. Lo notai subito,<br />

perché di soggetti così profondamente tristi per quella morte<br />

violenta, fino ad allora, non ne avevamo visto neppure uno.<br />

Né la moglie, né i parenti, né la datrice di lavoro. Lui invece<br />

era triste. Una tristezza solida, dialogante pur nel suo silenzio.<br />

Si chiamava Alvaro Pace. <strong>La</strong> prima volta, posto davanti alle<br />

nostre domande, fece una ricostruzione confusa della sua<br />

amicizia con la vittima. Era molto più giovane dell’amico e<br />

per questo proprio non si comprendeva come avessero potuto<br />

conoscersi durante il servizio militare. Era una questione<br />

matematica. Non fu difficile sgamarlo. Mentiva, ma perché<br />

mentiva su questo dettaglio? Ergo: se mentiva su un punto,<br />

forse avrebbe mentito su altro. Era spuntata questa perla<br />

nera: un amico particolare. Era stata la moglie del Corietti a<br />

dire: tra Alvaro e Mario, mio marito, c’era un’amicizia particolare.<br />

Parole sue, non so quanto consapevoli. Poi dalla bocca<br />

di Alvaro erano arrivate altre informazioni, conferme.<br />

Ietta accese i motori, ancora una volta.<br />

Dunque: ricostruzione dei fatti. I due si vedevano almeno<br />

una volta a settimana. Si conoscevano da anni, dunque fortemente,<br />

necessariamente abitudinari. No, non era accaduto<br />

nulla di strano nell’ultimo periodo; nulla che preoccupasse<br />

95


l’amico. Corietti, a suo dire, lavorava come sempre, sembrava<br />

tranquillo. Nessuna strana lacerazione nelle pratiche quotidiane.<br />

Il Pace sosteneva di trovarsi in auto, da solo, la mattina<br />

dell’omicidio e all’ora x, come ogni mattina, diretto all’agenzia<br />

postale presso cui lavorava.<br />

Quel giorno, in particolare, si era svegliato tardi e presso<br />

l’agenzia confermarono il suo ritardo. Uno strano ritardo che<br />

non seppe motivare adeguatamente.<br />

Può capitare però, e non si condanna a morte una sveglia<br />

che funziona male.<br />

Un uomo se ne fuggiva via, tutto intero in un alito di voce,<br />

davanti alle nostre facce attonite, seppure percettibilmente<br />

soddisfatte. Il mento gli ballava e si ritraeva in cento pieghe,<br />

sentieri brevi e meati viola. <strong>La</strong> guance erano fosse profonde<br />

di couperose, la pelle si tendeva sugli zigomi, diventando<br />

liscia e grigiastra, quasi trasparente come la pancia di un tamburo.<br />

I pensieri si trasformavano in parole, e le parole in<br />

senso, con fatica, mentre nelle pause, nonostante lo sforzo, si<br />

formavano comunque vaste conche d’incredulità; la sua, la<br />

nostra. Senza alibi, senza testimoni, quasi senza palle ormai.<br />

Un uomo profondamente senza. Non buttava giù neppure un<br />

caffè. Rimaneva senza.<br />

Lo ascoltammo per tre volte, ogni volta con scuse differenti.<br />

Al terzo incontro si presentò con le gambe già molli e franò<br />

sulla sedia che gli avevamo preparato.<br />

Sputò fuori tutto quello che aveva taciuto fino ad allora.<br />

Aveva una relazione a sfondo sessuale con il Corietti.<br />

Semplicemente questo. L’aveva visto l’ultima volta proprio la<br />

notte prima della sua morte. L’aveva visto, ma non trattenuto.<br />

L’errore fatale. Il suo Mario. Ehi, finalmente qualcuno<br />

chiamava per nome il cadavere! Mario. Strano sentirlo anche<br />

per noi: come entrare in confidenza con la morte.<br />

Alvaro, il disperato, cercava di ricordare le sfumature della<br />

faccia del suo uomo quella sera, la sua ultima espressione, ed<br />

era uno sforzo apparentemente sincero che gli gonfiava le<br />

tempie e gli incartava gli occhi in piccoli, ridondanti ricami.<br />

Le mogli non erano al corrente di nulla, credeva lui.<br />

96


Ora, non è che io sia esperto in materia, al contrario, devo<br />

ammetterlo, l’argomento mi imbarazza non poco. È il retaggio<br />

del pallone, come lo chiamo io, per il fatto che, ai figli<br />

maschi, non si parla mai di certe possibilità, ma di altri argomenti,<br />

semmai, di forza fisica e coraggio virile, per paura che<br />

il demonio ascolti e prepari uno dei suoi scherzi. Se un uomo,<br />

per esempio, discute di omosessualità, parla di “checche” e<br />

magari, per colore, ci aggiunge sempre un ghigno scaramantico;<br />

soprattutto se ne parla con altri uomini. Il Pace sembrava<br />

terrorizzato all’idea che, una volta svelato il segreto, sua<br />

moglie dovesse entrare in questo suo mondo mistificato per<br />

anni, e farne un luogo reale. Perché le donne fanno germinare<br />

pensieri materiali, vessanti, tattili, e prendono l’omosessualità<br />

terribilmente sul serio, come tutto il resto; sì, questa è una<br />

cosa che fanno le donne e lo fanno, mi par ovvio, gli stessi<br />

omosessuali.<br />

Avrebbe voluto risparmiare sua moglie e il suo mondo di<br />

Swarowski.<br />

Costretto, raccontò il passato con urli di pianto che gli<br />

deformavano la faccia. Raccontò di quando la sera s’incontravano<br />

in quattro nel modesto appartamento della vittima e,<br />

mentre le mogli restavano amabilmente in soggiorno sul divano,<br />

a discutere di serie da venti ripetizioni di addominali laterali,<br />

gli uomini di casa si immergevano in una bolla privata di<br />

piacere gelatinoso, presso l’area solare del palazzo, tra antenne<br />

televisive e panni stesi. Era un sesso glaciale e veloce,<br />

umido di saliva, come il vento che tirava lì, in alto, in testa al<br />

condominio, da cui non potevano più astenersi. I primi<br />

approcci, le barbe che grattavano l’una contro l’altra, le gocce<br />

di sudore sul collo a perdere, i pertugi divelti, le rivelazioni,<br />

l’asprezza e il sollievo; il succo di ciascuno sul cornicione ad<br />

asciugare. Con uno dei due, il più intraprendente, il più bisognoso,<br />

che rovistava, tastava sempre più ansioso l’altro, sui<br />

fianchi ossuti, fin sulla patta, infilando le dita nelle tasche,<br />

sempre più dentro, premendo per vedere se l’altro desiderava,<br />

se era felice, se capiva.<br />

Per maschile imbarazzo, davanti a tutto questo, cercammo<br />

di rallentare il flusso strattonato della sua delazione, che<br />

97


andava crescendo, invitandolo a prendersi una pausa, magari<br />

un caffè. Anche nel rispetto dell’anima del defunto. Ma lui<br />

aveva la gola serrata e sazia, sembrava non poter smettere di<br />

raccontare; mai più smettere.<br />

Quella del caffè era una scusa, comunque. In realtà in<br />

Procura si è sempre alla ricerca del reperto biologico da utilizzare<br />

in processo, e una tazzina usata rivela il Dna di chi l’ha<br />

usata. Ottimo. Peccato che sul luogo del delitto non è che si<br />

fosse trovato molto. Il sangue versato a fiumi apparteneva soltanto<br />

alla vittima e poi, comunque, per ritenere chiusi gli<br />

accertamenti più complessi, forse, ci sarebbero voluti mesi.<br />

Campa cavallo! C’era l’ombrello, è vero, ma senza un indagato,<br />

le analisi dei Ris sull’ombrello o sul resto a che servivano?<br />

Che ce ne facevamo di quella specie di enorme Bartezzaghi<br />

lasciato a metà vicino alla tavoletta del water in una casa al<br />

mare? In pieno inverno? Inutile e desolato. Interrotto. Ietta,<br />

con i motori sempre accesi, sempre gli stessi motori, era<br />

uomo sprovvisto di pazienza; un ariete pronto a sfondare, ma<br />

senza pazienza. Sbuffava dietro la spalle del Pace. Tazzine<br />

niente. Niente cicche. Niente sperma. Solo lacrime da raccogliere.<br />

Con le lacrime, però, si perde tempo. Gli amanti, in<br />

genere, piangono. Che dovevamo fare: gli esami a tutti quelli<br />

che avevamo incontrato in quei giorni? Tutto il Foro ci si<br />

sarebbe rivoltato contro e non ne saremmo usciti indenni. <strong>La</strong><br />

lacrima non voleva dire nulla in sé. A suo avviso, la lacrima<br />

era solo letteratura e prescindeva dalle scelte sessuali. Non si<br />

commuoveva Ietta, manco per niente.<br />

Però io credo che il loro fosse amore, Mario più Alvaro,<br />

imbrigliati in attitudini sessuali sospese nel tempo. E il sesso<br />

c’entrava. O perlomeno non era solo il sesso il collante, secondo<br />

me. Per via del sesso, cambia tutto, pure l’amore. Perché<br />

l’identità sessuale è un magma in movimento. A volte, non<br />

sempre però, esplode, s’allarga, si trasforma, e altre volte no,<br />

resta fermo. Ci sono circostanze in cui si cristallizza, si cicatrizza<br />

come una ferita. Non evolve e non involve. Resta immobile:<br />

acerbo e nebbioso. Chimica inespressa, una formula ossessivamente<br />

ripetuta, ma non trasformata in esperienza.<br />

98


Per il gruppo in questione sembrava potersi parlare di<br />

intensa attività vulcanica, senza il timore di apparire esagerati.<br />

Dolorosa attività senza crescita. Molte le vittime, anche<br />

inconsapevoli. Tra loro c’era seduzione e violenza. Psiche e<br />

carne. Non autentica condivisione o scambio. Chi aveva in<br />

mano il potere e come lo usava? Durante i colloqui davanti<br />

alla faccia di Ietta, venne fuori roba bollente. Altra roba e<br />

diversa. Roba da vietare ai ragazzini.<br />

A pranzo presi fiato con il capo. Avevamo bisogno di<br />

masticare, così che il muscolo facciale desse il tempo alle sinapsi<br />

di farsi una telefonata. Pausa, una sana e meritata pausa.<br />

Scendemmo le scale verso un’uscita secondaria e in strada ci<br />

fermammo davanti alle strisce pedonali. Ietta lamentava un<br />

fastidio al ginocchio. Calcetto? Chiesi timidamente al mio<br />

maestro. Lui confermò, e ci tenne a precisare: colpa delle<br />

modalità di avvicinamento utilizzate dagli avvocati. Maestro!<br />

Anche lui. Prima del verde, mi volli fare un’idea più precisa.<br />

Siamo uomini noi: una massa compatta. Anche il capo giocava<br />

a calcetto per difendersi? Bene. <strong>La</strong> sua, come la mia del<br />

resto, era una stramba concezione dello sport in maturità:<br />

raccontiamo di farlo per mantenerci in salute, in realtà sappiamo<br />

benissimo che la forma fisica c’entra ben poco. Le vere<br />

motivazioni sono altrove; legate ai ricordi della parrocchia e<br />

dei cortili sterrati, ai no di certe madri apprensive, al tipo di<br />

lavoro che si è costretti a fare, alla volontà di mettere in gioco<br />

le energie residue, piuttosto che di preservarle, magari confrontandole<br />

senza misericordia con quelle dei propri simili.<br />

Al desiderio onesto di essere solo corpo, solo naso, solo<br />

gambe, solo torace, ogni tanto. È sogno. Utopia. Si è davvero,<br />

totalmente, semplicemente liberi, simili gli uni agli altri,<br />

ed enormemente fortunati quando si parla di calcio. Dura<br />

quel che dura.<br />

Ietta diceva che solo da morto avrebbe smesso di giocare a<br />

calcetto; avvocati a parte. Quelli pensano sempre di potersi<br />

prendere tutto, non guardano alle competenze specifiche,<br />

così come invece dovrebbero. Si buttano nella mischia a caso,<br />

diceva il gran capo, con insano orgoglio, come se il rischio<br />

99


delle contusioni multiple e il confronto con altre categorie<br />

professionali, gli regalasse ogni volta una sferzata di gaudio<br />

imprevisto.<br />

Ah, se avesse sentito Angela! Non era una questione di età,<br />

né di esperienza, quindi, ma di sfide. Il bisogno di Ietta era<br />

reale – reale quanto il mio – incontrollabile, e lo affermava<br />

senza esitare, pur continuando a pensare a sua moglie, sempre<br />

in onda come un televisore, ai consigli del suo psichiatra<br />

che l’avevano accompagnato, a pagamento, lungo uno strano<br />

momento di crisi. Chiaro: c’erano altre questioni nella sua<br />

vita. Ma non è che dicesse tutto. Benedetto uomo! Io, gongolavo<br />

per quella piccola confidenza sfuggita al serraglio, mentre<br />

lui, si vedeva che si censurava. Lo psichiatra, per esempio:<br />

quella era la prima volta che me ne parlava. Un giorno di<br />

maggior tranquillità, al contempo mi assicurava, mi avrebbe<br />

raccontato tutto e meglio, e quando lo diceva sembrava quasi<br />

una minaccia.<br />

Il calcio non è un affare improduttivo. Comunque.<br />

Produce nessi psichiatrici. L’eterogenesi dei fini. Per me,<br />

come per il mio capo. L’avrei detto ad Angela. Non me la<br />

sarei fatta sfuggire questa occasione.<br />

Sulla strada ci raggiunse il Sergente Garzia, il nemico di<br />

don Diego della Vega – non ricordo come si chiamasse in<br />

realtà il maresciallo, ma non fa niente –, era lui il carabiniere<br />

conosciuto sulla scena del delitto. Era lui il nemico della<br />

nostra pausa pranzo a contenuto adolescenziale e calcistico.<br />

Si era convinto, chissà perché, di doverci offrire il pranzo, per<br />

forza e, nonostante avessimo tentato di dissuaderlo in altre<br />

occasioni o di seminarlo, quella volta ci sorprese con il suo<br />

profilo rubicondo e il fiatone. Tortillas per tutti, pensai<br />

vedendolo.<br />

Carissimo, lo salutò Ietta, calcando sulla doppia esse come<br />

una biscia. Fastidioso. Tavola calda in via di svuotamento.<br />

Ietta parlava e noi ascoltavamo. Il ritmo delle parole di chi è<br />

in pausa è ben diverso da quello di chi interroga. Più morbido.<br />

Le parole si arrotavano sotto il rumore delle piccole forchette<br />

da dessert, dei tovagliolini di carta stropicciati, delle<br />

100


monetine che rotolavano sparse sui banconi, dei cucchiaini<br />

rimenati nelle tazzine da caffè. Il controritmo della siesta: una<br />

parola, una pausa, con la lingua tra i denti, frammenti di cibo,<br />

un’altra parola senza l’ultima vocale, monca, un boccone, il<br />

pezzo di un’altra parola quasi incomprensibile, e poi briciole.<br />

Granella di zucchero a finire.<br />

Per prima cosa chiedemmo notizie in ordine ai rilievi della<br />

scientifica ancora in corso. Così, giusto per dire qualcosa. Il<br />

maresciallo, affamato, prima si schiarì la voce, buttando giù<br />

l’acquolina eccedente che, spuma d’onda, gli imbiancava gli<br />

angoli della bocca; quindi disse che aveva saputo che non si<br />

era riusciti a tirare fuori neppure un’impronta utile. Tante,<br />

ma nessuna riconoscibile. Nessuno da inchiodare, quindi.<br />

Intercettiamo pure il Pace? Pure lui? Ietta era teso, instabile<br />

e senza appetito. Vediamo, non se ne può abusare, ma se è<br />

necessario è necessario… non so, c’è il sangue da considerare…<br />

vediamo.<br />

Comunque, non era stato ancora consegnato il carteggio<br />

ufficiale del Ris. Si sa: quella libreria era un posto da cui passava<br />

tanta gente, quindi tante manate dappertutto, ma aspettavano<br />

ugualmente i plichi ufficiali prima di dirsi delusi.<br />

Penso a quasi dieci anni fa, mica un mese. Il Ris non era<br />

quello che oggi è diventato, e l’acido desossiribonucleico era<br />

una cassaforte ad alta sicurezza contro gli scassi. Adesso quelli<br />

se la tirano, sono personaggi, ma allora erano fantasmi da<br />

laboratorio, studiavano sodo e leggevano riviste americane<br />

tradotte da altri.<br />

Intanto, la lasagna nel piatto si andava consumando e Ietta<br />

scrollava la bocca piena come un cavallo.<br />

Quasi pensava di scrivere un giallo su questa storia. Un<br />

magistrato a fine carriera, o semplicemente quando è stufo,<br />

scrive qualcosa. O un testo parauniversitario, oppure un giallo.<br />

Soprattutto un procuratore scrive un giallo. Tanto, a scrivere<br />

si può sempre imparare. Non si ha neppure bisogno di<br />

un assassino, non per forza. Basta una storia e una casa editrice.<br />

Anzi, basta la casa editrice.<br />

Era nell’aria e lì restava: la noia imposta dall’assenza di<br />

risultato. Non saremmo riusciti a ricavare da quest’indagine<br />

101


molto di più di quanto era già venuto fuori. Per questo era<br />

stanco il mio procuratore.<br />

Ogni tanto, ormai sempre più di rado, Ietta sentiva ancora<br />

il bisogno di ricapitolare. Un riflesso condizionato: al chiudersi<br />

di ogni giorno d’indagine, al calar della sera, si utilizzava<br />

la punta delle dita come a scuola.<br />

Primo: un tizio muore in una libreria.<br />

Secondo: la proprietaria del negozio sembra estranea ai<br />

fatti e ha un alibi.<br />

Terzo: il farmacista e la moglie, presso l’esercizio commerciale<br />

confinante con la libreria, sembrano estranei ai fatti e<br />

risultano molto impegnati in una fiorente attività secondaria<br />

e parallela.<br />

Quarto: nessuna prova neppure a carico della moglie della<br />

vittima, che risulta solo eccezionalmente antipatica.<br />

Quinto: compaiono l’amante omosessuale della vittima e<br />

sua moglie, sembrano sinceri e nessuna prova li inchioda.<br />

Sesto: l’amante non ha un alibi, ma neppure un movente.<br />

Settimo: l’inspiegabile ombrello macchiato, trovato tra le<br />

mani di una vecchia delirante, che si crede malata in fase terminale,<br />

ma che appare estranea ai fatti.<br />

Ottavo: aspettavamo i risultati delle analisi.<br />

Era trascorso troppo tempo tra questi esercizi scolastici,<br />

secondo Ietta. Tutto deve accadere nelle prime quarantotto<br />

ore, altrimenti non si cava un ragno dal buco. Invece.<br />

Neppure un indumento da analizzare. Neppure uno sputo di<br />

prova. Niente. Nessun miracolo in questa professione.<br />

<strong>La</strong> verità? Sulla luna. Pura astrologia.<br />

È vero, all’inizio, per puro caso, spazzando sotto il divano,<br />

avevamo potuto portare a galla una gran quantità di zozzerie<br />

inattese. Avevamo portato a casa degli indizi, ma era una circostanza<br />

non prevedibile, non organizzata. Fortuna.<br />

Avevamo tirato fuori prostituzione, omosessualità, un paio di<br />

figlie abbandonate. Era un risultato, lo ammetto, ma non<br />

quello sperato. Come finire per errore in un campo d’erba<br />

ben rasata, durante una partita giocata da altri. Non vale.<br />

102<br />

Si consideri: quello non era un caso come un altro per me.


Io stavo imparando. In quel mio inizio, Ietta mi era parso un<br />

modello facile da avvicinare, ma ugualmente interessante.<br />

Voler diventare come lui sembrava un buon progetto. Alla<br />

fine tutte le relazioni umane si rassomigliano: sono un mezzo<br />

di trasporto, più o meno veloce, più o meno costoso. Uno di<br />

noi voleva dire qualcosa, l’altro ascoltare e prendere appunti.<br />

Complementarietà. A volte ascoltava anche Ietta, se mi riusciva<br />

di dire qualcosa d’interessante, ma comunque, in via generale,<br />

possiamo affermare che lui parlava e agiva, mentre io<br />

ascoltavo e osservavo. Imparare era allora il mio progetto, e io<br />

sono uno che ci mette l’anima.<br />

Il capo però si era impantanato, quasi arreso, e questa no,<br />

non mi sembrava una grande lezione. Diamine: il morto non<br />

era il mio, è vero, ma ci tenevo lo stesso. Ietta era un maestro<br />

per me e non mi piaceva che tentasse d’insegnarmi ad arrendermi.<br />

Chi poteva escluderlo: pur se avessi tentato di non<br />

imparare, in questa circostanza specifica, poteva accadere che<br />

il messaggio passasse ugualmente, anche in modo subliminale,<br />

e mi sarei potuto ritrovare, dopo decenni, a pensare e vivere<br />

da magistrato disilluso e stanco, psichiatra dipendente,<br />

senza essermi coscientemente applicato per diventarlo. Non<br />

era questo il progetto iniziale. Dai Ietta, dimmi che cosa c’è che<br />

non va, dammi qualcosa di più vivace da ricordare, pensavo.<br />

Trovati una donna che ti tiri su, tanto la mia bocca resterà cucita<br />

con quella rompimaroni di tua moglie, m’immaginavo di gridargli.<br />

Se proprio non possiamo fare altro, buttiamoci sulla<br />

cocaina: vuoi che non giri pure un po’ di cocaina tra marchette<br />

e omosessuali? E dai! Sì, d’accordo, la solita roba, ma almeno!<br />

C’era da dargli la classica pacca. Invece lui, il maestro, si<br />

cimentava in una performance tra le peggiori.<br />

Perché in tutti i mestieri, come nel nostro, puoi anche limitarti<br />

a fare lo stretto indispensabile, a firmare quattro carte<br />

senza fantasia, in prestampato, non oltre l’orario d’ufficio, e<br />

pochi se ne accorgono. Oppure puoi sputarci sopra l’anima,<br />

creare qualcosa di utile, cui la lettera della legge aveva solo<br />

accennato. E non se ne accorge nessuno lo stesso.<br />

Ma per me, per il mio futuro professionale, faceva una<br />

103


ella differenza. Era importante stabilire sin da subito l’umore<br />

con cui andavano firmate queste benedette cartacce giudiziarie.<br />

Questo umore appreso agli esordi, avrebbe potuto marchiarmi<br />

per sempre.<br />

Firmare le carte. Mica niente. Faceva parte del debutto.<br />

Avevo osservato la firma del capo in calce alle pagine: un<br />

insetto senza ali, schiacciato da una suola. Agli uditori fanno<br />

un certo effetto le firme. Forse sin da subito, da quel primo<br />

dettaglio, avrei dovuto dubitare circa l’opportunità del<br />

modello che mi ero scelto. Ammesso che fossi stato davvero<br />

io a scegliere. Sapevamo bene entrambi che nessuno dei due<br />

aveva scelto un bel niente in quella sporca vicenda. Per dirla<br />

papale papale. Il lavoro, i figli, il sesso, sono molto spesso una<br />

casualità. Per inquietudine, dapprima facevo le prove sui fogli<br />

bianchi, non la mia firma in esteso, che poco conta, ma una<br />

sigla: la sigla è il potere della rapidità, dell’emergenza e dell’abitudine.<br />

L’esercizio nel quale non segue la riflessione, e per<br />

questo, gesto autentico e pericoloso. Due lettere da decidere<br />

a tavolino, che ti rassomiglino, che ti sintetizzino in modo<br />

autorevole, che ti identifichino indubitabilmente. Uniche,<br />

difficili da riprodurre. Oggi le mie due lettere sono diventate<br />

altre lettere, non le sento più, vanno giù da sole, come un<br />

colpo di tosse. Gli altri le riconoscono, io no. Inanello quantità<br />

incommensurabili di firme, il che dà il senso dell’uso che<br />

faccio del tempo a mia disposizione, senza aver più neppure<br />

la certezza che la noia si nasconda ancora in quello scippo.<br />

Uno come noi, uno come me, Ietta, uno come mio padre,<br />

non può dedicarsi mai solo a un caso con tutti i neuroni che<br />

possiede. Macché. C’è sempre dell’altro: udienze da rinviare,<br />

fascicoli da riempire, incontri inutili, errori da dimenticare,<br />

posta insulsa da leggere, codici da comprare, rivendicazioni<br />

sindacali da contemperare. Un cervello con la cassettiera<br />

costantemente aperta e disordinata. Una firma e sia va avanti,<br />

si chiude un cassetto, distribuendo diversamente uno spazio<br />

che non basta mai.<br />

Gestire adeguatamente il tempo e il controtempo è fondamentale.<br />

A saperlo fare. Ma se quello che è altro diventa trop-<br />

104


po? Il discernimento e la selezione dovrebbe essere una materia<br />

di studio al concorso, secondo me.<br />

Troppa roba al fuoco, diceva Ietta. Troppo. Troppo. Lui era<br />

uno di quelli che conosceva tutto l’affanno della parola<br />

TROPPO. E però tutta quella roba era divenuta di nostra<br />

proprietà. C’era. Non è che ci si può tirare indietro. O forse<br />

sì?<br />

Come la storia dell’amante omosessuale e degli altri suoi<br />

giochetti. Ci mancava una storia così. All’amante infatti,<br />

come se non bastasse, si erano aggiunte altre rivelazioni scottanti.<br />

Corietti era uno che sperimentava e lo faceva servendosi<br />

proprio del suo giovane, inesperto, amico. Due possibilità: o<br />

non aveva ancora deciso quali erano i suoi gusti sessuali o ci<br />

giocava per il gusto di farlo.<br />

Gli amanti frequentavano, infatti, anche un giro di prostitute,<br />

tre per la precisione, con turni differenti. Erano diventati<br />

clienti fissi. Forse gli organizzatori dei loro traffici. Si<br />

divertivano in gruppo e dal Corietti il ragazzo aveva imparato<br />

tutto quello che sapeva in materia.<br />

Le mogli ne dovevano restare fuori, come sempre. Era l’unica<br />

condizione imposta all’amico iniziatore e tiranno da<br />

parte dell’allievo innamorato. Preservare la moglie, lasciarsi<br />

un’alternativa. Per il Pace, forse, quello era l’unico modo per<br />

continuare a sentirsi pulito, quasi che il segreto rendesse ogni<br />

cosa più duttile, con minor danno per tutti.<br />

A quel punto c’era da sentire le tre prostitute, ma il capo,<br />

al solo pensiero, roteava le iridi scure come un pesce con<br />

l’amo in bocca. Se ne poteva fare a meno? Più proficuo, forse,<br />

continuare a rimestare nella rabbia e nello stupore delle<br />

mogli?<br />

È che fanno paura certe prostitute, certe donne molta<br />

paura. Che lingua parlano?<br />

<strong>La</strong> lasagna era finita. Nel piatto solo sordide svirgolate di<br />

sugo e segni di forchetta. Si stava facendo terribilmente tardi.<br />

Una pausa è una pausa, e tale deve restare; se dura troppo,<br />

rischia di incidere sul ritmo del lavoro, incrementare l’ulcera<br />

105


e vanificare l’attività di un’intera giornata. Salta il ticchettio<br />

del metronomo e buonanotte.<br />

Alla fine decidemmo per un’ambientale. Il Pace alimentava<br />

due fuochi distinti, ugualmente vitali? Bene. Avremmo<br />

chiamato il Pace insieme alla moglie, nascondendo un<br />

microfono nella stanza in cui li avremmo lasciati soli a duellare.<br />

Avremmo scoperto così la verità. Una trappola mortale.<br />

Come stavano le cose veramente? Il mio maestro mi stava<br />

insegnando a rinviare, nella vana speranza che i soggetti che<br />

avevamo a portata d’indagine divenissero spontaneamente<br />

più comprensibili, accessibili alla nostra pigrizia, al nostro<br />

strambo tedio; contestualmente mi addestrava a portare sulla<br />

mia spalla d’uomo che lavora, il peso di questa attesa. Non so<br />

se era una buona lezione. Era una lezione? Per la verità,<br />

aspettare non mi sembrava cosa da insegnare a un praticante,<br />

a un giovane praticante. Io ero già capace di aspettare, e lo<br />

stavo dimostrando egregiamente, dunque ripetevo mnemonicamente<br />

quanto già in mio possesso, come si fa dinanzi a una<br />

materia odiosa o un maestro antipatico. Mi sembrava da vecchi<br />

aspettare. Mi sembrava un pessimo vizio indotto dalla<br />

senilità. Anche se il tempo a disposizione di un vecchio è<br />

ridotto, o forse proprio per questa ragione, quelli hanno una<br />

maggiore attitudine all’attesa, alla quasi rassegnazione.<br />

Le prostitute, semmai dopo diceva Ietta, se era il caso, se<br />

era necessario, a ogni buon conto, dopo, sia per i giovani che<br />

per i vecchi. E io ritornavo nel mio appartamento in affitto la<br />

sera e facevo prove tecniche d’attesa: stavo sul divano, accendevo<br />

la tv, sfogliavo un codice. Per intere serate restavo a<br />

ripetere l’esercizio della pazienza per sei, sette ore, dalle 14<br />

alle 22, in totale solitudine, così che quando alla fine telefonavo<br />

ad Angela e dicevo pronto, aprendo bocca e dando fiato,<br />

mi accorgevo con disagio che fino ad allora avevo pronunciato<br />

solo un’altra parola altrettanto opportuna, vabbèvabbè, e<br />

l’avevo fatto a voce bassa, parlando tra me e me. Stavo imparando<br />

la lezione di Ietta? Stavo andando oltre quella mite<br />

arrendevolezza che già mi era propria? In sostanza la domanda<br />

da fare era: ero giovane o vecchio? Dieci anni fa. I miei<br />

106


maestri, i miei compagni, casuali, biologici, involontari o<br />

volontari, mio padre, Ietta, Angela, mi stavano rendendo giovane<br />

o vecchio?<br />

Ci sono sempre dei maestri. Spesso c’è di mezzo un padre.<br />

Ma non solo un padre. Certi maestri sono necessari, non lo<br />

discuto, ma erano stati bravi i miei? E io come ero stato? Ero<br />

vicino alla realizzazione del progetto? Sempre a fare tutte queste<br />

domande inutili, mi sembrava di sentirla la mia Angela, la<br />

quale, peraltro, pur senza rendersene conto s’interrogava<br />

anche lei. Non voleva forse essere felice? E allora i figli? E far<br />

benzina per andar per negozi? E inventare parole per raccontare<br />

cose nuove o per insabbiarle? E prendere uno stipendio<br />

e mettere magari qualcosa da parte? Non erano progetti questi?<br />

Eppure lei rideva di me dieci anni fa, e solo dopo dieci<br />

anni, oggi, ha smesso di ridere e messo su, tra le labbra, un<br />

ghigno strano. Non sopporta che si parli di domani. Nel caso<br />

qualcuno si permetta di farlo, si gira e va via.<br />

Il tutto fu organizzato per il giorno successivo e non fu<br />

facile, perché c’erano molte cose da fare e in quei giorni la<br />

segreteria era in agitazione per non ricordo quale problema.<br />

Figurarsi: c’era sempre qualche problema. Si lavora in perenne<br />

affanno nei nostri uffici, oggi come ieri, zigzagando tra le<br />

assemblee sindacali. Perché noi, attenzione, senza le segreterie,<br />

siamo niente. E le segreterie soffrono. Nessuno pensa a<br />

loro. È una catena. Gli amministrativi vanno coccolati, altrimenti<br />

sono guai: i fascicoli, per reazione allo scontento, prendono<br />

strade sconosciute, entrano in coma vigile, non si muovono<br />

più. Davanti a certe funzioni vitali azzerate, qualunque<br />

cosa accada, non si riuscirà mai a rintracciare il vero responsabile.<br />

Perché nessuno è mai veramente responsabile. È una<br />

catena a tanti anelli, appunto. Nessuno esiste senza l’altro.<br />

Anche a fare scenate davanti al capo ufficio, i procedimenti<br />

disciplinari sono pura fantascienza. Mai visto uno vero, portato<br />

a termine. Mai. Mai visto qualcuno in croce per davvero.<br />

Ad ogni modo, miracolosamente, l’ambientale riuscì a<br />

puntino. Nessuna macroscopica falla organizzativa.<br />

Riuscimmo a venirne a capo. Ci catapultammo con le orec-<br />

107


chie ben aperte sul privato dei due giovani e poi riascoltammo<br />

le registrazioni di sera, in un ufficio deserto e in una rigorosa<br />

penombra erariale.<br />

<strong>La</strong> moglie scoperchiò il pentolone sulla sozza storia del<br />

marito. Eravamo stati noi, senza troppi scrupoli, a indurla a<br />

scoperchiare quel pentolone. Vermi noi. Non avevamo nessuna<br />

certezza che il gruppo avesse avuto un ruolo nell’omicidio,<br />

eppure avevamo fatto scattare la tagliola. Eravamo dei vermi.<br />

Rassegnati, tristi, delusi, ma vermi. Comunque non ero il<br />

capo io, per fortuna.<br />

Descrizione doverosa. Sul nastro friggeva all’inizio un<br />

silenzio grasso. Le sedie stridevano sul pavimento, ché i due,<br />

l’uno davanti all’altro, non potevano stare fermi e si agitavano<br />

come scrofe nel recinto. Ad intervalli irregolari, lui pronunciava<br />

delle bestemmie piene di catarro. Lei piangeva.<br />

Forse piangeva; qualcosa di simile al pianto, non si poteva<br />

dire con certezza. Nel nastro qualche scoppio; non si capiva<br />

se singhiozzi o lemmi. Te ne devi andare. Ecco finalmente<br />

qualche parola comprensibile. Cantilene. Allitterazioni.<br />

Subito, te ne devi andare. Tu. Tu. Te ne vai adesso, tu. <strong>La</strong> fatica<br />

disumana delle locuzioni. Da casa te ne devi andare, adesso.<br />

Noi li avevamo lasciati a decomporsi. Noi che ascoltavamo,<br />

eravamo diventati gobbi e nani, per il piacere. Un godimento<br />

energico, folle all’inizio. Proprio come ci era accaduto<br />

davanti al cadavere.<br />

Che scialo: alla fine dell’ambientale, non c’era niente su<br />

quel nastro che non fosse lo spasimo genuino di chi si taglia<br />

in due e vede il cancro che si è già allargato dentro. Le infiltrazioni,<br />

le metastasi: ecco cosa avevamo colto.<br />

Venne fuori anche la faccenda degli incontri con le donnine.<br />

Avvenivano la domenica pomeriggio, mentre le mogli<br />

guardavano Domenica in. Uomini e donne, tutti insieme: tutta<br />

la concupiscenza cieca dell’universo.<br />

Furiosa la moglie! <strong>La</strong> rabbia, però, sembrava veder la luce<br />

giusto in quel momento; non sembrava aver avuto origine<br />

prima e altrove. L’orrendo assassinio restava, ancora una<br />

volta, fuori dalla questione, non riguardava il dolore dei pre-<br />

108


senti; al contrario, nelle loro frasi scomposte d’odio, il<br />

Corietti sembrava ancora più che vivo: era lui l’unico vero<br />

mostro e sembrava ancora poter far danni. Sembrava potesse<br />

ancora essere ucciso, ancora e di nuovo. I coniugi che si sfregiavano<br />

in solitudine, tiravano fuori bile e bava, parevano due<br />

ragazzini. Non due assassini. Sembrava di assistere a una festa<br />

a sorpresa, sconvolgente, alle battute finali di una partita estenuante,<br />

al calar del sole.<br />

Dopo circa un’ora di registrazione, mettemmo lo stop a<br />

tutti gli umori maligni che si drenavano davanti a noi. C’era<br />

da metter un argine. Determinati lo eravamo, è vero, ma non<br />

così crudeli, in fondo. Per me, del resto, era pur sempre la<br />

prima volta! Quando richiamammo la signora nella nostra<br />

stanza per farli smettere, lei volle rimanere in piedi. Se non è<br />

una cosa lunga, per favore… posso andare? Rovesciava il peso<br />

del corpo prima su una gamba, poi sull’altra, e cercava di<br />

concentrarsi sul mento di Ietta, senza successo, si distraeva di<br />

continuo e gli occhi sfuggivano verso il soffitto. Sembrava<br />

non avere capelli: una massa di pelo immobile e scura incollata<br />

sulla sua testa, che partiva dalle orecchie e si esauriva sul<br />

collo. Poche parole ancora per confermare che lei non ne<br />

sapeva nulla degli affari della vittima. Io non avevo capito. Mi<br />

aveva fatto fessa. Si appoggiò per qualche secondo con le<br />

mani a ventaglio sul bordo della scrivania del capo, per reggere<br />

il peso e la fiacchezza di quella nuova realtà.<br />

Andandosene, lasciò due guanti di sudore impressi sul<br />

legno.<br />

Lui, il Pace, rimase a lungo nell’altra stanza. Da solo. Non<br />

aveva altro luogo in cui recarsi. Nessuno in cui rimanere. Il<br />

sesso, le porcherie, pure le prostitute, ma niente applausi per<br />

l’ultima scena.<br />

Così era fatta. Avevamo sentito le mogli: prima la polveriera<br />

allenata, poi l’ingenua stupefatta. Alla fine della giornata,<br />

però, eravamo di nuovo poveri. Io e Ietta pallido.<br />

Nessun collegamento tra la vittima e la proprietaria del<br />

negozio. Niente tra la vittima e sua moglie. Niente tra la vittima<br />

e il suo amante, né tanto meno tra il morto e la moglie del-<br />

109


l’amante. Niente con il farmacista: l’arabo e la moglie si facevano<br />

altre storie, per conto loro. Niente di nuovo sulla vecchia<br />

dei santini che si voleva far ricoverare. Per le puttane era<br />

ancora da vedere. Puttane a destra e a manca. Punto. Meglio<br />

dormirci su.<br />

Il capo girò attorno alla scrivania, arrivando lì dove ero<br />

seduto io, lento lento. Si fermò solo un attimo con l’occhio<br />

liquido e lo fece galleggiare su una superficie indeterminata<br />

tra il calendario, quello ogni anno gentilmente offerto da una<br />

ditta di articoli di cancelleria, e la finestra buia. Due mezzi<br />

passi ancora e indossò l’impermeabile e un cappello largo e<br />

moscio, come carta bagnata. Piove ancora. E che schifo di<br />

città! Andiamo a casa. Basta. Peccato per il cappello che sembrava<br />

acquistato da poco.<br />

Avevo parcheggiato fuori e lui si offerse di accompagnarmi<br />

con il suo ombrello, tutto umido d’abitudine, fino alla mia<br />

macchina. Ietta aveva sempre tanta gente intorno, ma adesso<br />

era un tassello isolato. Più piccolo, senza i suoi girotondi d’inchini.<br />

Parlava con voce di mezzo tono più bassa.<br />

“Ho mille cose in testa. Forse non te ne ho mai parlato.<br />

Potrei? Non so se potrei. Se è il caso. Alla tua età. Sembri un<br />

tipo che comprende. Uno che ha tempo per pensare”.<br />

Aveva voglia di parlare, ma la pioggia faceva troppo rumore.<br />

“Forse domani ti racconterò di me, se avremo tempo o il<br />

tempo che avremo lo riconosceremo come tale”.<br />

Pure quello è un fatto d’intuito e solidarietà.<br />

“Ci sono udienze domani? Tu hai visto per caso lo statino<br />

d’udienza? Mi pare di sì. Mi devo guardare l’udienza di<br />

domani, quindi. E guarda come piove”.<br />

Pausa. Dopo, a indagine finita, anche dopo aver cambiato<br />

il mio affidatario, più volte negli anni, ho risentito il dottor<br />

Ietta. Il mio maestro. Di solito al telefono. No, lui non rassomigliava<br />

a mio padre. Nessuno rassomigliava a mio padre. Mi<br />

aveva parlato solo alla fine dei nostri giorni insieme: dello psichiatra<br />

esoso, degli anni di terapia che aveva portato avanti<br />

faticosamente e dei risultati di cui andava fiero. Era un maestro<br />

di vetro sottile, anche se non voleva che si raccontasse in<br />

110


giro. Il suo tallone vulnerabile era la famiglia. Eppure a soldi<br />

stava messo bene all’epoca. Non era per soldi che non riusciva<br />

a trovar pace, a provare “il piacere del divano”, come dico<br />

io; quello dell’abbandono serale in un grande grembo, che ti<br />

aiuta a star fermo.<br />

Mi aveva raccontato qualcosa del pensiero del suo psichiatra,<br />

ma con riserbo estremo. E io avevo ascoltato, senza dare<br />

i consigli che non avevo da dare. Rispetto a quella storia del<br />

“tu sei il mio maestro, io imparo”, se lui parlava del suo psichiatra,<br />

le poche volte in cui lo faceva, e lo faceva perché decideva<br />

di farlo e non era solo un inciampo, un cascare casuale<br />

in un discorso tra uomini, be’, insomma, se lo faceva, io lo<br />

ascoltavo, ma cercavo di non imparare. Di non memorizzare<br />

nulla di quella debolezza ritrosa. Non so se ci riuscivo. A<br />

volte non riuscivo a frenarmi in tempo e finiva che registravo<br />

lo stesso. E infatti oggi ricordo ogni cosa.<br />

Quella sera dall’interno della mia macchina, mentre mettevo<br />

in moto, l’ho visto ritornare sui suoi passi, dopo avermi<br />

salutato con un cenno dei suoi, con il braccio destro ad angolo<br />

retto e la mano pure, l’ho visto arrivare fino al gabbiotto<br />

della vigilanza con le pozzanghere sulle spalle, nonostante<br />

l’ombrello. Dal gabbiotto è uscito l’Agrimi autista, che lo<br />

aspettava da ore, e sono andati via insieme oscillando in sincrono,<br />

a destra e a sinistra, come tergicristalli in servizio. No,<br />

non come un metronomo, ma come un tergicristalli. Un<br />

magistrato e il suo autista hanno sempre un rapporto esclusivo,<br />

un ritmo solo loro.<br />

111


VIII CAPITOLO<br />

“Avete distrutto una famiglia. Così”<br />

“Era necessario. Mica siamo sadici, scusa. Era necessario e<br />

basta”.<br />

“Ci vediamo venerdì o ci sono problemi? Ho smesso di<br />

prendere la pillola da due settimane”.<br />

“Sì”.<br />

“E come lo sai?”<br />

“L’ho immaginato”.<br />

“C’è una mia amica che è rimasta incinta dopo tre giorni”.<br />

“Uhm”.<br />

“Un’altra invece non si era neppure accorta di esserlo, perché<br />

continuava ad avere il ciclo. Può succedere anche questo,<br />

pensa”.<br />

“Sì”.<br />

“Ho solo amiche che partoriscono, io”.<br />

“Sì”.<br />

“Mi fanno sentire un po’ malata”.<br />

“Mica lo sei”.<br />

“Neanche tu”.<br />

“E infatti”.<br />

“Due settimane sono tante, non credere. Può succedere in<br />

due settimane”.<br />

“E già”.<br />

“Hai cambiato idea circa la personalità dell’ammazzato?<br />

All’inizio ti faceva tenerezza. Adesso sei più duro”.<br />

112<br />

…Trader dice che è come nelle partite di tennis. Ti<br />

si fottono addirittura gli occhi. Dici che la palla è<br />

fuori perché desideri che sia fuori. Desideri a tal<br />

punto che sia fuori che la vedi fuori. Si nasce con<br />

un ordine del giorno – vincere, avere successo – e<br />

questo ti fotte gli occhi… Non mi serve per vincere.<br />

Non mi serve per avere successo.<br />

Martin Amis


“No, ma che c’entra? Potrebbe essere anche un omicidio<br />

a scopo passionale. Oppure altro. Non si capisce niente. È<br />

tutto uno sfascio. Scusa, che famiglia era quella del morto?<br />

Un teatrino? Tutto finto. Come si fa a lavorare dentro questo<br />

teatrino?”<br />

“Ah, la famiglia, quindi. Bene bello mio. Se avremo un<br />

figlio non potrai continuare a fare questa vita. Tu stesso parli<br />

di famiglia e poi… Io la voglio per davvero una famiglia”.<br />

“Vedremo quando accadrà. Io non escludo niente, ma la<br />

vita non va vista in modo fotografico”.<br />

“Cosa?”<br />

“Voglio dire che il tutto deve essere analizzato in modo<br />

dinamico. In movimento. Hai presente il movimento della<br />

vita, tu? Ecco. Adesso facciamo questa vita, d’accordo, ma<br />

domani potrebbe essere diverso. Questo voglio dire. Dico<br />

che la vita non deve essere vista in senso fotografico, hai capito?,<br />

dico non statico, ma dinamico; cinematografico insomma”.<br />

“Non cambia niente se non si vuole che cambi. Altro che<br />

cinema! Io intanto ho smesso di prendere la pillola. Ho fatto<br />

una cosa. C’era una cosa da fare e io l’ho fatta. Tanto per<br />

cominciare. Io ho fatto. Tu invece, cosa hai fatto? Per esempio.<br />

Io cambio. Davvero. Mica te. Perché questo cambiamento<br />

voglio partorirlo davvero. Ho fatto il primo passo e l’ho<br />

fatto io, mica tu. Gradirei più entusiasmo”.<br />

“Le cose nuove mi piacciono”.<br />

“Appunto. E allora?”<br />

“Sì”.<br />

“Tu dici così, ma poi…”<br />

“Non ti devi preoccupare di questo”.<br />

“Che hanno detto le prostitute?”<br />

“Le abbiamo fatte sentire dai carabinieri. Prima. Poi dopo<br />

vediamo”.<br />

“E che hanno detto ai carabinieri?”<br />

“Innanzitutto che loro non sono prostitute. Vivono insieme<br />

in un appartamento popolare, con la lampadina davanti<br />

alla porta d’ingresso, che se è accesa anche di giorno, dà il via<br />

libera al cliente. Ma dicono di non essere prostitute. Lo fanno<br />

113


per piacere. Ricevono solo qualche regalino ogni tanto e il<br />

Corietti era un buon amico. Il Pace era timido, il Corietti un<br />

buon amico. Dicono che erano molto diversi l’uno dall’altro,<br />

quei due. “Timido” dicono, quindi pochi regalini. Se il Pace<br />

era diverso dall’amico ammazzato, come dicono, allora l’ammazzato<br />

non era timido. Forse ha pestato i calli a qualcuno.<br />

Bisognerebbe approfondire”.<br />

“Sentirle di nuovo?”<br />

“Ecco”.<br />

“Ritornate sui preti, che è meglio! Non avete fatto parlare<br />

nemmeno un ecclesiastico! Le zoccole sì, ma i preti no, perché?<br />

Magari un cliente affezionato della libreria di articoli sacri,<br />

magari un imberbe giovinetto in clergyman, che ricordi vagamente<br />

il Pace, quantomeno fisicamente se non nel carattere”.<br />

“Anche le donnine erano giovanissime, se è per questo.<br />

Amava il frutto acerbo, dici tu. Chiamalo fesso. Avresti dovuto<br />

vedere, poco più che maggiorenni e certi incroci d’ossa<br />

intorno all’ombellico”.<br />

“Punti di contatto tra il giro di prostitute della vittima e<br />

quello del farmacista?”<br />

“Niente di certo. Erano due distinte tipologie di affari.<br />

Livelli di offerta differenti, diciamo. Ma quelle ricche se le<br />

stanno torchiando alla seconda sezione. A noi le poveracce”.<br />

“Che dicevi di queste tre allora? Straniere?”<br />

“No, italiane; con il fard a grumi. Sciupate. Me le immagino<br />

così. Hai fatto caso: le italiane sono più truccate, le giovani<br />

almeno, sono più truccate. Hai notato? Io ho notato.<br />

Strano che fossero italiane! Ietta adesso potrebbe tentare di<br />

ricostruire il giro, sempre che ci sia davvero un giro da ricostruire.<br />

Comunque un giro molto più modesto rispetto a<br />

quello della moglie del farmacista della Giordania”.<br />

“Come era cominciata?”<br />

“Anni fa, dicono, con una visita solitaria fatta dal Corietti.<br />

Una ricostruzione incerta. Da bambine. Ma magari, hanno<br />

ragione loro e non sono prostitute. Magari il Corietti non era il<br />

pappa, come uno potrebbe credere. Ietta ha messo una volante<br />

sotto casa, ma per ora non circola nessuno. Sono a lutto”.<br />

“Nessuno? Preti, musulmani, farmacisti, magistrati?”<br />

114


“Nessuno”.<br />

“E allora?”<br />

“Ho detto: bisognerebbe ricostruire il giro nei particolari,<br />

nomi, dati, luoghi. Ma Ietta, non so, non ha voglia”.<br />

“Senti, stavo pensando una cosa. Non c’entra niente, ma la<br />

stavo pensando. Considerata la scarsa soddisfazione professionale<br />

dell’ultimo anno, eh, come sai, solite beghe inestinguibili,<br />

lasciamo stare, allora dico: che ne diresti se cominciassi<br />

uno di quei corsi di preparazione al concorso per uditore giudiziario?<br />

Pure io? Nello studio sono arrivati degli stacchi di<br />

coscia che proprio non si tollerano, due nuovi collaboratori<br />

femmina, e chi gli sta dietro a questa concorrenza? Proprio<br />

non ho né voglia, né energia, di ricominciare di nuovo a sgomitare,<br />

no, non se ne parla, mi arrendo. E l’avvocato a dire<br />

bene, bene, più siamo meglio si lavora, e come no? Finirò per<br />

odiare la gente in generale, specie quella che vuole fare il mio<br />

stesso mestiere. Evviva Maria”.<br />

“…”<br />

“Non dici niente. Pensi che io sia troppo vecchia?”<br />

“No, certo che no! Si può fare. Anzi. Se vuoi mi informo<br />

tra i colleghi. In città c’è il famoso corso di coso, là, come si<br />

chiama?, accidenti, non ricordo il nome del magistrato che<br />

tiene il corso con un paio di colleghi. Due lezioni a settimana.<br />

È conciliabile con qualsiasi altra attività. Non è mica una cosa<br />

impossibile. Ma come cavolo si chiama quello? Proprio non<br />

riesco a ricordare. Faccio il mio nome?”<br />

“Sì, il tuo nome, ecco, fallo dai, visto che ci sei. Forse alla<br />

fine è uno stimolo. Anche la voglia di prendere il treno può<br />

essere una botta per me”.<br />

“Ci sono molti corsi simili in questo momento. Tutti si<br />

danno da fare. Ma bisogna scegliere il meglio, altrimenti non<br />

ha senso. Certo, ci avessi pensato prima…”<br />

“Se però nel frattempo tu mi metti incinta, io lascio perdere<br />

ogni cosa. Sai?”<br />

“Che vuol dire? E perché? Si può sempre conciliare, te<br />

l’ho detto”.<br />

“Sì, ma non so se a quel punto avrei ancora voglia di mettermi<br />

in gioco”.<br />

115


“Allora del concorso non ti frega! Che cavolo significa<br />

mettersi in gioco? Fare figli è mettersi in gioco?”<br />

“No, però ci sono anche altre cose. Ti ricordi come ero ciccia<br />

prima di cominciare a lavorare? Un metabolismo con le<br />

allucinazioni. Altro che saltapasto! L’inerzia di quel periodo<br />

mi terrorizza ancora. Non me lo sono mica inventato il cambiamento<br />

fisico che c’è stato dopo, era così evidente per tutti,<br />

lo dicevano tutti, persino io me ne accorgevo. Era un godimento<br />

miracoloso, una cosa che, guarda, non so come dire:<br />

era meravigliosa, superava qualsiasi verbalizzazione. Perché<br />

avevo smesso di annoiarmi. È chiaro! Sono un mostro di trasparenza,<br />

lo sai”.<br />

“Ma quando mai? Io di solito non capisco un tubo di queste<br />

faccende da donne. Tu sei trasparente solo se vuoi esserlo.<br />

Anche questa cosa dei capelli così corti, a sorpresa, per<br />

esempio”.<br />

“Non ti piaccio?”<br />

“Lo sai che devo riflettere. Comprendere con calma”.<br />

“Secoli, ti ci vogliono secoli figlio mio!”<br />

“Con calma. Non è solo un fatto estetico. Prima eri più in<br />

carne perché avevi bisogno di lavorare, di spezzare un ritmo<br />

alienante. Adesso sei magra perché hai bisogno di metterci in<br />

gioco. Mica è semplice. E poi io in genere preferisco le donne che<br />

lavorano”.<br />

“Sono diversa fisicamente. E quindi? Ma non si era detto<br />

che amavi le novità, scusa?”<br />

“Sì, ma che c’entra, ci sono dei limiti”.<br />

“Non è che per caso non ho più un aspetto rassicurante?”<br />

“Hai un aspetto nuovo”.<br />

“E quindi?”<br />

“Quindi? Niente: è una trasformazione che viene da dentro.<br />

Tu vuoi che gli altri vedano fuori quello che è successo<br />

dentro. Non è così? Ti soddisfa questa tesi? Sei contenta<br />

adesso? Lo sapevo. Io lo sapevo che ti piaceva. Il cibo,<br />

comunque, è importante. Non diciamo che quello che mangi<br />

non c’entra nulla! Quasi, quasi, smetto di mangiare anch’io”.<br />

“Ma io non ho smesso di mangiare. Sarebbe troppo facile<br />

così”.<br />

116


“Ah no?”<br />

“Ma sei scemo? Perché, io ho mai smesso di mangiare? Ti<br />

risulta che io abbia smesso? Allora non capisci davvero un<br />

accidente”.<br />

“Voglio dimagrire anch’io prima di diventare vecchio”.<br />

“Ma tu hai capito come mi sento? Vuoi una esemplificazione?<br />

Forse ti aiuterebbe? Una cosa romantica? Te la do.<br />

Conosci quei posti di villeggiatura che si svuotano a ottobre e<br />

tira un vento della madonna tra le cabine? Non c’è il sole, c’è<br />

un solo bar aperto che vende quattro giornali e basta. Così.<br />

Hai presente quegli stessi posti che cambiano d’inverno e gli<br />

unici esseri umani che trovi sono muratori pagati per piccole<br />

manutenzioni o i proprietari che, alla domenica, dopo<br />

Pasqua, vengono a parlare con le famiglie che vogliono affittare<br />

per la bella stagione, ma che poi non restano nemmeno<br />

un minuto in più in mezzo all’umido, nemmeno per imparare<br />

a conoscere il posto. Eh, così. Così mi sento. Puoi capire?”<br />

“Cioè?”<br />

“T’ho fatto un esempio. Hai capito?”<br />

“Più o meno”.<br />

“Meno male”.<br />

“Ma le stagioni cambiano, appunto”.<br />

“Eccome. Sì… Buonasera!”<br />

“Vedrai”.<br />

“Va bene, va. Comunque. Veniamo a noi. Di’: non avete<br />

percepito nulla di falso nelle dichiarazioni delle prostitute?<br />

Erano amiche hai detto. Magari si coprivano l’una con l’altra”.<br />

“Sembravano lievemente alterate. Ma poco”.<br />

“E la moglie del morto? Era lievemente alterata pure lei?”<br />

“Non so. Era diverso. Oh, queste sono idee di Ietta. Il caso<br />

è suo. Per quanto pure io…”<br />

“E la Curia? Quand’è che sfondate quel portone? Che<br />

cavolo aspettate? Un’enciclica che chiuda definitivamente la<br />

questione? Fatevi coraggio e cominciate subito. Agite invece<br />

di stare a rimuginare. Sempre lì a ponderare, a cercare altri<br />

significati, eh, che palle, siete voi a comportarvi come femmine!<br />

Almeno tu. Parlo di te, io. Altro che checche”.<br />

117


IX CAPITOLO<br />

Quei giorni, i giorni avevano le gambe. In Procura si continuava<br />

a lavorare e non solo al caso più ingombrante del<br />

mese. C’erano altri fascicoli in segreteria da macinare, di<br />

quelli facilmente riconoscibili tra gli altri per la loro copertina<br />

nuova: carta ancora poco utilizzata, minore il numero delle<br />

ditate al carboncino, minore il numero dei fogli da mettere in<br />

indice, ancora nessun odore, nessun errore materiale da correggere,<br />

nessuna orecchietta, nessun segno di spillatrice in<br />

alto a sinistra. Carta che può ancora sembrarti seta, che fruscia.<br />

Ietta diceva: dai uno sguardo tu e poi, a fine mattinata, se<br />

ne parla con calma e si decide. Il diritto non lo acchiappava più<br />

per niente, questa era la verità, inutile girarci intorno.<br />

Io, invece, portavo il codice nuovo in borsa, sforzandomi<br />

di rinnovare l’entusiasmo che conteneva, e ogni mattina cambiavo<br />

sedia per lavorare, perché il mio era ancora un praticantato<br />

e gli arredi me lo ricordavano di continuo. Osservavo le<br />

sedie che non possedevo, le scrivanie, gli armadi metallici con<br />

un certo distacco, mentre, a casa, sperimentavo ricette ardite contro<br />

la fame nervosa.<br />

Non è che la mia fosse vera cucina, nel senso del creativo<br />

mescolarsi d’ingredienti diversi, da portare a differenti gradi<br />

di cottura, con modalità variabili. Assolutamente no. Di rado<br />

accendevo il forno. Mia madre diceva sempre che il rapporto<br />

con il proprio forno deve essere intimo, ma non lo diceva a<br />

118<br />

…Dietro le loro domande stava il presupposto o<br />

era solo la sua immaginazione che lei fosse il tipo<br />

di persona logicamente e presumibilmente presente<br />

a un crimine del genere, come un incendiario<br />

ad un rogo altrui.<br />

Ian McEwan


me, al figlio maschio non aveva da insegnare certe cose, lo<br />

diceva in astratto, per lasciare un segno, credo, per esserci,<br />

senza aspettarsi conseguenze; così io, poiché in affitto, solo<br />

per puro caso avevo scoperto che manopola a destra = acceso,<br />

manopola a sinistra = spento. Nessun cameratismo, anzi<br />

una certa malcelata diffidenza.<br />

Il forno era escluso. Qualcosa in padella antiaderente, con<br />

poco olio, semmai, e molto al crudo. Cucina sana, sperimentale.<br />

<strong>La</strong> mia sperimentazione è di tipo sociale, che consiste nel<br />

ricercare prodotti tipici della terra in cui mi trovo, e nel chiedere<br />

benevoli chiarimenti, confidenze, segreti, a tutti i rivenditori<br />

di prodotti alimentari che incontro. Oggi come allora,<br />

cerco di farmi amare. Di fare tenerezza, che è poi il sentimento<br />

più utile in assoluto. Io sono uno di quelli che in salumeria<br />

chiede l’assaggino, che fa i complimenti al fornaio, che partecipa<br />

ai reumatismi da umidità mattutina del fruttivendolo e<br />

strizza l’occhio se riceve in omaggio gli odori per il brodo.<br />

Adoro la frase: le metto qualche gambo di prezzemolo e sedano,<br />

dottore, che non si sa mai . In genere, per tenerezza, raccontavo<br />

sempre – e racconto ancora, mentendo – di vivere da<br />

solo e che nessuno cucinava, o cucina per me. È così che mi<br />

faccio amare. Come un poveraccio buttato fuori da casa sua.<br />

Quanto tempo era trascorso tra il delitto e la serata di Chi<br />

l’ha visto? Non riesco a essere preciso, mi dispiace. Ad un<br />

certo punto indagare ci era parso insufficiente: le intercettazioni<br />

fiume, le testimonianze, le connessioni, gli atti da spulciare;<br />

ascoltare, rifletterci, masticarci su; la stampa da leggere<br />

ogni mattina. Le ferie da consumare prima di giugno. Le frasi<br />

dei colleghi in ascensore. Sembrava poco, sembrava normale, la<br />

chiamano routine.<br />

Ma arrivò la televisione.<br />

Per la verità, all’inizio, Ietta disse di no alle riprese televisive,<br />

non siamo qui per fare le star, ma dinanzi alle paralizzanti<br />

insistenze del grande comunicatore, inoculate attraverso un<br />

invisibile pungiglione, aveva finito per fornire tutte le informazioni<br />

richieste dagli autori del programma e dal regista,<br />

ripetendo alcuni amati concetti chiave, sempre gli stessi, che<br />

119


conoscevo bene anch’io ormai, da ribadire a ogni orecchio<br />

disponibile almeno per due volte, come avrebbe fatto un vecchio<br />

docente di latino in una scuola professionale. Concetti<br />

chiari, prevedibili, un bizzarro sermone domenicale, solo un<br />

po’ più breve. <strong>La</strong> conduttrice, una seria ai tempi, gli fece persino<br />

una telefonata, che lui apprezzò molto.<br />

Così mi disse ragazzo, guarda la televisione stasera.<br />

Diceva che quella trasmissione stava diventando un utile<br />

strumento istruttorio, è così, è così, ormai è inutile negarlo,<br />

sono più bravi di noi, hanno altri strumenti, sono più belli esteticamente,<br />

arrivano dappertutto, la gente li desidera, li capisce,<br />

ha bisogno di loro, si fida, vuoi mettere coi codici? E poi, visto<br />

come si erano messe le cose, non poteva essere dannoso.<br />

Bisognava prenderne atto: la realtà giudiziaria stava mutando<br />

sensibilmente.<br />

Ora di cena. Sigla. C’era proprio quella conduttrice bionda<br />

con gli occhiali, quella che conduceva con grande scienza<br />

alcuni anni fa. Quella con il naso a pallina che andava su.<br />

Come si chiamava? Primo piano. Io cenavo scomodamente<br />

con le ginocchia annodate sotto a un tavolino da tè, quello<br />

con tre spumeggianti trucioli di legno disegnati intorno alla<br />

circonferenza e sbotti di fantasia barocca sui tre piedi. Lo<br />

notavano tutti entrando. Era inappropriato un tavolo così<br />

nella scena austera e scura della mia vita a termine. <strong>La</strong> luce a<br />

risparmio energetico di una sola lampadina impiccata in alto,<br />

trasformava il tavolino in una luna piena arrogante, con qualche<br />

crosta di caffè sfuggita al Lisoform. Di certo ero lì al<br />

moneto della sigla, mangiavo una delle mie solite primizie da<br />

raccontare. Niente di estroso o di incontrollabile.<br />

Io mangio di tutto, salvo alcune controindicazioni alimentari<br />

di poco conto: niente alcolici, mai elementi rotondi, piccoli,<br />

rossi e con nocciolo. Perché rotolano, sfuggono, scoppiano<br />

in bocca, sporcano. I gusti sono gusti; chi cerca ragioni<br />

remote a certe abitudini è un fesso, secondo me. È così e basta.<br />

I pomodori, però, se a fette, li posso mangiare. Quelli sì.<br />

Mangio così e sono certo di risparmiare sulle medicine. Sono<br />

categorico su questo. I miei gusti li rispetto, li coltivo, li faccio<br />

120


maturare, li comunico a chi vuole condividerli con me. Cerco<br />

adepti come un giovane guru, ma solo quelli onestamente interessati<br />

a capire. Gli altri, fatti loro, che passino al Maloox.<br />

Non so ancora bene in quali termini, ma questa fissa ha a<br />

che fare con la mia adolescenza e con l’orologio, con il tempo<br />

che passa. C’è sempre di mezzo l’equivoco dell’adolescenza<br />

in casi come questi. Sento che è così anche per me. Ma non<br />

ho ricordi a riguardo ai quali addossare la responsabilità di<br />

certi vizi. Traumi. Incubi. Ospedali. Niente.<br />

Io mangio così: selezionando.<br />

Non è indifferente quello che si infila nella propria bocca.<br />

Alla fine lo stomaco mi offre le stesse lusinghe di una valigia<br />

da riempire. Non voglio metterci dentro di tutto e a caso.<br />

Tutto quello che posso, ma ragionandoci, secondo un progetto<br />

logico, con coerenza, senza rischi inutili. Non mi adatto al<br />

cibo, ma adatto il cibo a me. Da qualche anno pure la quantità<br />

di cibo da ingerire è diventato un monito. Scelgo e mastico<br />

piano e rallento l’alito ansiogeno del mio orologio da<br />

polso. E guardo la faccia di bronzo di Angela, dopo aver<br />

osservato a lungo quella mia d’anguria. Che avrà da guardarmi<br />

tanto? Te la raccomando Angela e le sue diete! Lei proprio<br />

non può permettersi commenti di nessun tipo. E lo so che<br />

gran fatica è, che il corpo non possa mai avere lo stesso peso<br />

specifico dell’anima e neppure le sue trasformazioni, né tanto<br />

meno la sua memoria. Questa cosa unisce gli uomini alle<br />

donne. Forse la cucina no, ma il corpo ci riguarda entrambi.<br />

Ci sono tante faccende in cui siamo diversi, opposti forse, ma<br />

non su questo. Secondo me questa storia del corpo che fatica<br />

a rispondere alle domande principali, ci unisce. Il cadavere<br />

del Corietti, per esempio, era una risposta al tempo che passa<br />

oscuro e poco vigile. Anzi, non la risposta, forse era la<br />

domanda. A pensarci meglio.<br />

Ad ogni modo andava in onda questo programma televisivo<br />

e io masticavo, cercando di contrastare il languore triste<br />

della sigla, il cui magone era intensificato dallo sfilare morente<br />

delle foto degli scomparsi, dei sommersi. Una sigla orribilmente<br />

mesta che piaceva molto. Solo musica, nessuno ci can-<br />

121


tava sopra, ché c’era poco da cantarci, del resto. Altri servizi<br />

prima, roba sotto sforzo, poi ecco apparire la foto del nostro<br />

morto. Come rivedere un parente, per me.<br />

<strong>La</strong> foto era quella della patente, che noi stessi avevamo già<br />

fatto circolare. Sempre quella: una faccia lunga e secca, ma<br />

ancora tutta intera, fornita dalla consorte incazzata.<br />

Breve ricostruzione dei fatti e poi l’accorato appello al pubblico.<br />

Di solito un discreto audience. Se qualcuno è al corrente di<br />

qualcosa che ritiene utile per le indagini in corso, telefoni in<br />

redazione. Carrellata sulle alacri telefoniste e stacco successivo<br />

sugli occhiali della bionda conduttrice. Era proprio brava.<br />

E finiva che la gente chiamava davvero, lusingata, indotta,<br />

sospinta dalla cura delle immagini, anche se aveva poco da<br />

dire. Chiamavano anche solo per allontanare i propri demoni.<br />

Tutto qui. Il tempo di una cena solitaria e morigerata; al<br />

massimo quindici viaggi di forchetta.<br />

Soltanto la mattina dopo, sul tardi, venimmo a sapere che<br />

qualcuno aveva telefonato davvero, ma non in diretta televisiva.<br />

Per prima una giovane donna, poi un uomo. Ma andiamo<br />

per ordine.<br />

<strong>La</strong> giovane donna. Aveva vuotato il sacco, come si dice, la<br />

coraggiosa pulzella. Aveva parlato in particolare di un monolocale<br />

affittatole da un prete, di uno sfratto brutale, di un<br />

cesso rotto e di un neonato. Per fortuna fornì tutti i dati e si<br />

dichiarò disponibile ad approfondire il suo sintetico fumetto<br />

in Procura. Potenza del mezzo. Ci avevamo guadagnato una<br />

donna giovane e pure ragazza madre. Io ero felice, forse<br />

anche Ietta. Venne con il figlio nel marsupio. Dalla grande<br />

tasca veniva fuori un cespo di peli castani, odorosi di Fissan.<br />

Il bimbo se ne stava appeso e pago come certi frutti d’estate,<br />

nel vapore che viene dalla terra. Bastavano le bretelle a reggere<br />

il peso di quel figlio appena nato, che faceva bruschi movimenti<br />

d’inconsapevole difesa. <strong>La</strong> madre non reggeva il marsupio<br />

con le mani, che teneva invece infilate in tasca, fiduciose.<br />

Il piccolo sembrava un serpente nel cesto: tentava di girare<br />

il capo quando sentiva un rumore, una voce, una penna<br />

122


che cadeva, una tastiera che titillava. Siccome era schiacciato<br />

sulla pancia della madre, non poteva né muoversi né guardarmi<br />

in faccia, così, restava incerto, in bilico. Apriva e chiudeva<br />

la bocca. Io lo potevo guardare, ma non in tutti i dettagli<br />

come avrei voluto. Volevo capire quanto erano piccoli a quella<br />

età; dove è possibile infilarli e con quale autonomia di<br />

movimento. I figli. Limitata, direi, veramente limitata.<br />

L’autonomia, intendo. I neonati si muovono poco, lo fanno a<br />

scatti. Non sentono il proprio corpo. <strong>La</strong> madre raccontò la<br />

sua storia, intervallando le parole a sibili da voliera indirizzati<br />

verso il figlio, segnali che per lui dovevano aver dentro lo<br />

zucchero di una caramella o la tranquillità di un carillon.<br />

Quel prete è un demonio; io lo devo far sapere a tutti.<br />

Parlava del suo locatore, che le era venuto in soccorso<br />

quando, un anno prima, era rimasta da sola e con la pancia,<br />

dandole un posto in cui rifugiarsi, per dormire, cucinare, ed<br />

essere sveglia al mattino presto, lavata e pettinata, per andare<br />

a lavorare, almeno finché non fosse nato il pupo. <strong>La</strong> legge,<br />

almeno un po’, tutela le madri. Sì, un po’, ma non abbastanza.<br />

Sì, c’è l’astensione obbligatoria, anche quella facoltativa,<br />

ma a quel punto lo stipendio quasi si azzera, gli assegni, l’assistenza,<br />

quegli studi sul licenziamento senza giusta causa, ma<br />

con un marito è meglio. Se non si faceva vedere al lavoro per<br />

troppo tempo, se si ammalava, la buttavano fuori o veniva<br />

trattata male e messa alle corde. Per lavorare ci vuole la casa,<br />

altrimenti va tutto in malora. Per essere di buon umore ci<br />

vuole una casa. Se non un uomo, almeno una casa. Ad avere<br />

un casa è tutto più facile, pure tenersi un figlio. Ma trovare<br />

casa era un disastro. Un vero disastro in città. Il lavoro è<br />

importante, scusate, non si scherza con il lavoro. Perché non è<br />

che una donna non è una donna per bene per il fatto di aver<br />

fatto un figlio da sola. Ma se non ha un posto in cui dormire…<br />

A lei era sempre piaciuto lavorare, fare una vita regolata;<br />

anche studiare. Continuare a studiare, magari, quando il<br />

pupo si fosse fatto grande e non c’era più da perdere la testa<br />

in pannolini. Lei aveva tutte le carte anche per trovare un<br />

lavoro migliore della segretaria. Belle speranze. Per primo il<br />

lavoro, poi la casa. Anzi, forse prima la casa.<br />

123


Lungo il discorso della pulzella in cerca di fiducia, fatto<br />

senza ingoiare saliva.<br />

<strong>La</strong> storia del prete era da raccontare meglio. Era in<br />

Procura per questo. Voleva dire, far sapere. Il prete era diventato<br />

un lupo, all’improvviso, senza motivo. Prima un angelo e<br />

poi un lupo. Le donne sono vendicative, non tanto per dire,<br />

e infatti lei voleva vendicarsi. Che lo scomunicassero al maiale!<br />

Prima il prete le aveva offerto un alloggio a costo di cortesia,<br />

dopo aveva mutato pensiero. Si era presentato a casa di<br />

sera tardi e aveva detto alla ragazza che doveva sloggiare subito,<br />

al massimo nel giro di una settimana, perché la casa serviva<br />

a lui. Nemmeno il segno della croce si era fatto; neppure<br />

una bugia aveva detto. Entrato in casa, sembrava voler far<br />

volar via i piccioni dalle gradinate, battendo le mani. Via, via!<br />

Ma siccome la giovane madre non se ne andava, lui era ritornato<br />

qualche giorno dopo, quando a casa non c’era nessuno,<br />

e aveva spaccato il cesso a colpi di martello, scheggiando le<br />

mattonelle in stile Vietri e facendo cadere lo specchio giù dal<br />

suo chiodo. Iella nera per sette anni, se non di più. Una cosa<br />

che non ti aspetti da un prete, che Dio non può approvare.<br />

Chissà quanti altri cessi aveva già spaccato questo prete. Dalla<br />

perizia con cui l’aveva sventrato non sembrava la sua prima<br />

volta. E dove lo trovava un altro monolocale? Costavano un<br />

occhio in città. Dopo la tempesta, la ragazza se ne era andata<br />

per qualche mese da un’amica. Quest’ultima però, dopo<br />

poco, si era rotta: non dormiva bene di notte per colpa del<br />

pupo e sbuffava. Non poteva durare.<br />

Quel prete fa proprio paura. Non è uno normale.<br />

<strong>La</strong> faccenda era poderosa. Il ritmo di Ietta, dinanzi al vagito<br />

animale dell’esserino in fasce, invece, era lo zero assoluto.<br />

Ascoltava, senza sapere come interagire. <strong>La</strong> creatura gli era<br />

stata imposta, inoculata. Non faceva domande, non si era<br />

dato una meta, non c’era la sua musica. D’accordo: non potevamo<br />

dire che la deposizione della signorina fosse particolarmente<br />

attinente alla nostra indagine. Però si sa che la giustizia<br />

fa spesso giri strani, e solo Ietta fingeva di non saperlo.<br />

Impigrito. Eravamo davanti a una deposizione vaginale, che<br />

veniva da dentro, una cosa che non capita di frequente.<br />

124


Spontanea. Galoppante. Ma lui non reagiva. <strong>La</strong> ragazza non<br />

conosceva il morto, né la libreria presso cui lavorava, né tanto<br />

meno il farmacista esotico. Tanto per chiarire. L’assassinio<br />

non aveva nulla a che fare con il pargolo. Anzi, la ragazza ci<br />

teneva a che apparisse chiaro, in un rigurgito neofemminista,<br />

che il figlio era suo e basta; non era lì per parlare di sesso o di<br />

padri naturali. Non era lì per suo figlio o per parlare di suo<br />

figlio. Né del morto. Aveva solo maturato una pessima opinione<br />

sul clero operante in città e la comunicava per dovere<br />

di buon cittadino, considerato che il clero sembrava aver<br />

avuto un qualche ruolo nel caso giudiziario in questione. <strong>La</strong><br />

televisione aveva detto: parlate, se sapete qualcosa. Allora lei<br />

aveva voluto parlare. Altrimenti a che serve la televisione?<br />

Parlava. D’accordo, la sua era soltanto un’opinione, valeva<br />

quel che valeva, come potevamo mettere in relazione il cesso<br />

con il morto, il sacerdote con l’uomo delle pulizie? Era fuori<br />

di dubbio però che l’immagine offerta era in contrasto con le<br />

icone sul tema, e arricchiva l’immaginario collettivo. Era uno<br />

strano prete questo qui. Un prete dovrebbe parlare a voce<br />

bassa e sorridere rassicurante, paziente, sotto veli di mistica<br />

sapienza. Non me lo vedevo proprio un prete, vestito di<br />

lungo, fare piazzate, imbracciare un martello e cesellare il<br />

water con la violenza di Mastro Lindo. Ma poi alla fine tutto<br />

è possibile quando si tratta degli uomini.<br />

Nonostante le incertezze, Ietta avrebbe comunque dovuto<br />

mostrare più interesse, secondo me. Più carattere. Del resto<br />

era un racconto avvincente. Il tipo di chiesa si era accanito sul<br />

suo stesso water. Domando io: perché un tizio rompe il water<br />

se è lui il proprietario? Una spiegazione: è incavolato nero. È<br />

molto nervoso. Oppure ha molta fretta. Deve buttar fuori<br />

dalla sua proprietà un’inquilina divenuta scomoda e, per farlo<br />

in tempi rapidi, decide di spaventarla a morte. Non esita a<br />

sacrificare il suo water pur di terrorizzarla. Non si preoccupa<br />

del modesto danno economico, forse perché è certo di assicurarsi<br />

con quel gesto ben altri guadagni. Non di certo il Regno<br />

dei Cieli. Ancor più semplice: rompendo il water, il tizio si<br />

assicura che l’inquilina andrà via. Non si può restare in una<br />

casa che non ha i servizi funzionanti, o per lo meno non vi si<br />

125


può restare a lungo. È questa l’unica spiegazione possibile, in<br />

fondo ovvia e, per questo, geniale.<br />

Chiedemmo come era cominciata la persecuzione. Disse<br />

che il sacerdote era sempre stato gentile con lei, fino a quando<br />

le aveva imposto di andar via. Gentile? Quanto gentile?<br />

Avevo chiesto io. No, gentile in modo normale, aveva risposto<br />

lei, nel modo in cui ti aspetti da un prete. <strong>La</strong> chiesa si deve<br />

interessare delle persone in difficoltà. Nessuno si stupisce di<br />

questo genere di generosità. Ma poi le cose erano cambiate in<br />

modo repentino e imprevisto. Lui non aveva intenzione di<br />

aspettare, di darle il tempo di trovare un’altra sistemazione.<br />

Nessun esercizio di carità aggiuntivo.<br />

Le aveva fatto staccare persino la luce. Lei aveva resistito.<br />

Aveva imparato a resistere. Con la luce del giorno era più facile:<br />

bastava spalancare la imposte. Dopo il sole, le ore scivolavano<br />

dentro una bottiglietta d’inchiostro scuro e non si vedeva<br />

nulla in casa. <strong>La</strong> luce solare consumava i luoghi. <strong>La</strong> sera arrivava<br />

quando in strada si coloravano gli aloni di gas intorno ai<br />

lampioni; era quello il segnale dell’angoscia. Lei li vedeva<br />

accendersi dal suo appartamento, ma erano lontani, alla fine<br />

della strada, proprio là dove s’apriva una piccola piazza ovale,<br />

troppo lontani per farle compagnia. Finché poteva se ne restava<br />

affacciata a vedere l’aria che cambiava colore. I negozi chiudevano<br />

quando lei serrava le due finestre, lasciando aperte le<br />

imposte e scostate le tende. Faceva freddo all’imbrunire. Più<br />

freddo. Di sera la ragazza stava al buio, mentre il sacro pupo<br />

dormiva come dentro la capanna. Non si poteva nemmeno<br />

leggere. Ciondolava a tastoni per quei pochi metri quadrati,<br />

percorsi lenti, con le mani sulle pareti per riconoscerne gli<br />

spigoli. Se ne restava in un silenzio catastrofico, schiacciata<br />

dal pianto del neonato, che ricordava il fragore delle martellate<br />

sul cesso. Distruttivo, irrimediabile. Senza elettricità, non<br />

funzionava neppure la lucina del frigorifero e tutto andava a<br />

male, soprattutto il latte artificiale liquido. Quello in polvere<br />

costava di più. Tutto puzzava nel buio. L’ultimo colore era<br />

quello della notte. Seppia. Di notte c’era quella luce orribile<br />

che le fasi lunari trasformano, condita con i rumori della strada.<br />

Come una spugna intrisa e gocciolante.<br />

126


Quel liquido scuro che avvisa gli insonni che è diventato<br />

troppo tardi per cercare ancora di dormire. Quella luce finta<br />

che non è mai la stessa, le cui sfumature di petrolio dipendono<br />

dalla pressione arteriosa di ciascuno e dal frastuono che<br />

fanno i camion della nettezza urbana, rovesciando i cassonetti.<br />

Il pupo, comunque, scovava la mamma anche nella penombra,<br />

senza alcuna fatica; lui sapeva sempre dove era l’origine,<br />

anche a occhi chiusi. Lei, invece, non trovava più un posto in<br />

cui nascondersi da quando c’era il pupo. Succede a certi genitori,<br />

pare. Scappare era inutile in quel buco.<br />

Per una notte intera era rimasta con la testa sotto le coperte,<br />

aspettando l’ora della poppata, con la sveglia in mano a<br />

guardare i riverberi fosforescenti dei numeri romani e delle<br />

lancette. Verdi come il digiuno. Non poteva continuare a<br />

vivere come un topo. Doveva trovare soldi e nuova sistemazione,<br />

per forza. Magari come le studentesse, quelle che dividono<br />

le spese. Magari un bilocale. Anche se le studentesse<br />

vogliono dormire di notte e di solito non hanno figli a cui<br />

badare e per i quali perdere il sonno. Di solito. Con dei buoni<br />

tappi per le orecchie si può risolvere il problema? Con un po’<br />

di comprensione, forse. Forse.<br />

Così la faccenda del buio durò solo un paio di giorni. Non<br />

sono una bestia, non mi potevo far trattare così. Ma della<br />

denuncia ho avuto paura, all’inizio. Adesso che il pupo è cresciuto,<br />

ho meno paura. Si voleva prendere la sua rivincita. Era<br />

giunto il suo tempo.<br />

Che impressione ne avevo avuto? Mi ero chiesto subito di<br />

chi era il figlio appeso al collo. È chiaro. Tutti al posto mio,<br />

credo. Tu vedi un bambino e ti chiedi di chi è: normale.<br />

Soprattutto se un figlio non ce l’hai, te lo chiedi. Un fidanzato,<br />

un incontro casuale, un cliente? Nato per sesso, amore o<br />

soldi? Lo dice anche Angela che sono scontato nei miei interrogativi.<br />

Non sembrava una che faceva sesso per soldi. Sembrava<br />

piuttosto volesse uscire da un buco, anche se questo, a ben<br />

pensarci, non significa che per farlo non si accettino dei soldi.<br />

Sembrava caduta in una trappola. In un’indagine come quel-<br />

127


la in corso, correvamo il rischio di vedere donne in vendita<br />

ovunque, anche dove non ce ne erano. Allucinazioni libidinose<br />

e tristi, per uomini indotti dalle circostanze a credersi o<br />

degli eroi o dei bastardi.<br />

Io non sono mai andato a prostitute; no, non conosco<br />

l’ambiente. Ci sono uomini che ci vanno; sempre la stessa o<br />

donne diverse ogni volta. E non è sempre un fatto di solitudine.<br />

<strong>La</strong> vicenda mi aveva fatto comprendere che ci sono bisogni<br />

che la vita non soddisfa naturalmente. Tutto, dall’amore<br />

alla mera deambulazione, ha a che fare con il bisogno. Il bisogno<br />

di mettere le mani nel fango, per esempio, di rovistarci<br />

dentro. Poi magari nasce un figlio e il fango lo devi ripulire<br />

per forza, che non si mescoli al latte materno, che non imbratti<br />

il ciuccio e la tutina. Un figlio, infatti, si porta dietro, insieme<br />

alla placenta, il bisogno di pulizia. Un bisogno improvviso<br />

, imprevisto, casuale ma incalzante. Così, un bisogno finisce<br />

per contrastare con un altro. Per questo, a mio avviso, la<br />

ragazza aveva voluto raccontare alla giustizia l’affronto subito.<br />

Per pulizia. Non sappiamo quali altri bisogni aveva tentato<br />

di soddisfare prima di mettere al mondo quel figlio. I bisogni<br />

sono cose volubili. Si dice che il parto si dimentichi in<br />

fretta, e che residui solo un vago disagio olfattivo. Che bisogni<br />

restituisce, quali cancella?<br />

Va bene, non lo dico per esperienza, no, non mi è ancora<br />

capitato. Niente figli. Bisogni a perdere, i nostri. Nonostante<br />

il desiderare, le tecniche, lo specialista con la erre moscia che<br />

avevamo scelto, che avevamo consultato più di una volta; i<br />

pensieri indotti. Nonostante tutto questo, non è ancora capitato.<br />

A tutt’oggi non è ancora capitato. Mi dicono che non sia<br />

il caso di preoccuparsi. Conservo le nostre analisi mediche su<br />

carta intestata in comodi raccoglitori numerati, per ogni evenienza.<br />

All’inizio Angela non faceva che parlarne. C’erano<br />

sempre almeno dieci parole attinenti che giravano per casa.<br />

Poi ha smesso. Le parole hanno smesso. Non c’è nulla di cui<br />

preoccuparsi.<br />

128<br />

Alla fine la ragazza parlò due ore di fila, mentre il capo non


sapeva se cercare il diabolico prete o desistere. Ci muovemmo<br />

come gatti, lesti per istinto, ma pigri dentro il cuore.<br />

Cercammo il prete.<br />

Don Oreste, si chiamava così l’immobiliarista cattolico.<br />

Non era un prete qualunque, dimenticato in qualche parrocchia<br />

di periferia. Faceva parte della Curia, lui. Un pezzo grosso.<br />

Pensammo di chiedere prima alla vedova della libreria e<br />

poi anche al farmacista se, per caso, lo conoscevano.<br />

<strong>La</strong> vedova se lo ricordava bene: era un cliente affezionato<br />

e gentile; un signore distinto, molto noto in città, un personaggio<br />

alto, lungo e talare. Il suo corpo affusolato ricordava<br />

quello della vittima. Al negozio veniva di rado di persona, ci<br />

mandava piuttosto un prete più giovane a sbrigar questioni<br />

per suo conto, o qualcun’altro che esordiva con il solito Don<br />

Oreste desidera. Parlando poi con doverosa deferenza dei<br />

desideri di qualcuno molto in alto, molto vicino a Dio. Il<br />

popolo della Curia era un popolo con una voce sola.<br />

Qualcuno, in qualche confessionale, desiderava qualcosa; gli<br />

altri erano d’accordo. Questo il quadro dipinto dalla vedova.<br />

Un popolo dai modi impostati ed efficaci: un gesto per ogni<br />

circostanza, noto ben prima di essere mosso. Codici rigidi e<br />

inequivocabili. Nessun movimento affidato al caso. Tra questi<br />

individui alati si poteva anche nascondere il polso che<br />

aveva vibrato l’ultimo colpo? Magari no, ma l’idea mi stuzzicava.<br />

Il giordano farmacista, invece, ricordava appena Don<br />

Oreste. Il nome dell’ecclesiastico di per sé non gli diceva<br />

nulla. Forse una descrizione fisica dettagliata poteva venire in<br />

soccorso alla memoria? Fornimmo quindi tutti i dettagli fisici,<br />

ripetendo ogni aggettivo almeno due volte. Don Oreste?<br />

Aveva gli occhiali? No, non aveva gli occhiali, ma aveva gli<br />

occhi. E che occhi! Non vecchio. Cinquanta, cinquantacinque.<br />

Bene in ossa, come una salda costruzione in pietra, scheletro<br />

possente che si muove al trillo di un telefono, che sa<br />

riconoscere trillo da trillo, e segue il ritmo obbligato ma suadente<br />

di un’avemaria. Sì, decisamente imponente, non grosso,<br />

ma incisivo. Niente ciccia, solo pietra. Pietra, pietra. Alto,<br />

alto, alto. Questa è una zona di preti, che vuole; ce ne sono<br />

129


tanti di preti! Mi dovete perdonare: sono io che non frequento<br />

molto… Io sono musulmano. Nessuna prebenda. Erano giorni<br />

che i carabinieri se ne andavano su e giù per via Cardone.<br />

Tra un dio e l’altro. Ritornarono anche dal farmacista, per<br />

mettere a verbale una nuova dichiarazione e l’atmosfera dello<br />

scritto, sintetico ed evocativo come certi voli di gabbiani sulle<br />

discariche a cielo aperto, ricordava un fine settimana trascorso<br />

a Istanbul.<br />

Per breve tempo sono stato anch’io presso altre fedi. Non<br />

sono poi così crudo.<br />

Ho ancora nella testa tutto di quel breve viaggio fatto in un<br />

marzo nebbioso con mia moglie. Istanbul è tagliata a metà dal<br />

mare: da una parte l’Europa, dall’altra Asia. Nel mezzo ci<br />

volano enormi gabbiani che portano iella, secondo me. Mia<br />

moglie prese l’influenza, infatti. Si riempì lo stomaco di<br />

Zerinol per tre giorni, trattandomi malissimo, addirittura<br />

riconoscendo in me l’unico, vero responsabile del suo fastidioso<br />

cerchio alla testa, in quanto ero l’uomo più accessibile,<br />

il più tollerante a disposizione in quei giorni da turista.<br />

Ci sono coppie che si servono dei malanni per comunicare.<br />

Ci sono quelle che ormai hanno smesso di parlare e solo<br />

davanti a una nuova patologia, a una nuova ricetta medica,<br />

ritrovano la libertà di una confidenza. Le malattie sono territori<br />

neutrali.<br />

C’erano mio zio e mia zia, da parte di madre, per esempio,<br />

che si odiavano a morte. Vivevano ancora insieme, ma rinnegandosi<br />

ogni istante come Pietro e il gallo nei Vangeli.<br />

Occupavano camere diverse e lontane, pur nello stesso<br />

appartamento. L’inferno lo si può immaginare così: un bilocale<br />

condiviso con la fonte diretta del proprio malessere psichico.<br />

Un lento infarto. Se si incontravano nel disimpegno,<br />

non si salutavano. Piegavano il collo e stringevano le labbra.<br />

C’erano solo due argomenti di cui riuscivano a parlare, senza<br />

scannarsi. Primo: l’artrosi cervicale di lui e relative siringhe di<br />

Artrosilene. Secondo: i noduli al seno di lei da operare, che<br />

dimoravano benignamente tra le enormi poppe di mia zia da<br />

decenni. Non riuscivano invece a parlare delle rispettive<br />

130


gastriti, perché il medico di famiglia, ancora e caparbiamente<br />

condiviso come l’appartamento, aveva osato ipotizzare un’origine<br />

nervosa del disturbo, che ciascuno, ovviamente, imputava<br />

a l l ’ a l t r o .<br />

Per me e Angela non potrà valere mai questo discorso.<br />

Sono certo. D’accordo, stiamo ancora facendo le analisi per<br />

accertare un’eventuale infertilità. Abbiamo ancora sporadici<br />

contatti con precise categorie di medici e piccoli ambulatori<br />

Ma che c’entra? Non lo facciamo perché ci procura piacere<br />

sentirci malati e indagabili. Smetteremo prima o poi, da sani<br />

o da sofferenti, smetteremo di sniffare acqua ossigenata e<br />

iodio. Non potrà durare ancora a lungo. Devo confessarlo,<br />

Angela adesso tiene i capelli lunghissimi, le arrivano quasi alle<br />

ginocchia e non li lega, li ostenta, dice che ha voglia di aspettare,<br />

per ora, così non taglia, non recide, non rinuncia. Non<br />

smette. Non si arrende a una nuova separazione. Ma è fatale:<br />

presto anche la sua pazienza isterica troverà pace, sono certo,<br />

e cesserà di tenere costantemente sotto controllo quel suo<br />

cielo composto da cristalli senza incastro.<br />

Sono solo capelli in fondo. I simboli sono un gioco; non<br />

voglio entrarci. Non voglio preoccuparmene troppo.<br />

Ritroverà le forbici un giorno o l’altro.<br />

Comunque, qualora dovesse accaderci di non essere più<br />

una coppia salda, così come sono solito intenderla, con i miei<br />

tic ottocenteschi, se dovesse accadere, infertilità a parte, non<br />

potremmo inventarci delle malattie per campare. Non saremmo<br />

capaci di ammalarci per stare meglio.<br />

Dicevo di Istanbul. Io continuavo a dirle che le medicine<br />

fanno male, ma lei non aveva intenzione di trascorrere l’intera<br />

vacanza in un letto d’albergo e si trascinava come una<br />

medusa a galla, lungo budelli che avrebbe dimenticato presto<br />

perché l’antipiretico in dosi massicce la ottenebrava. Rimase<br />

una Turchia triste e piovosa la nostra, in cui le vite degli uomini<br />

sembravano circolare anonime, dentro tram elettrici, come<br />

una qualunque altra circostanza senza valore. Senza quel<br />

valore che la diversità offre.<br />

I turchi che ricordo sono quelli che vendevano mercanzia<br />

piena di colori acidi nel Gran bazar e quelli che pregavano<br />

131


chini sui tappeti delle moschee. Rigorosamente senza scarpe.<br />

O pregavano, o si lavavano i piedi con abluzioni scrupolose,<br />

sotto lo scroscio modesto di antiche fontanelle, poste un po’<br />

ovunque, occultando le scarpe in buste di plastica occidentale<br />

da lasciare all’ingresso delle moschee. Perché sui tappeti, i<br />

fedeli ci mettono la faccia e non le scarpe.<br />

Nelle strade non c’era molta gente; al contrario, i tram<br />

erano pieni. Viaggiavano verso l’altro continente, come fosse<br />

normale, tutti con il braccio in alto a reggersi. <strong>La</strong> religione era<br />

nascosta dappertutto, come un grande orecchio a origliare<br />

sulla vita di ciascuno.<br />

Ho ancora nella mia libreria la guida con la copertina<br />

rossa, <strong>La</strong> turchia più bella, quella che spuntandomi fuori dalla<br />

tasca del giaccone, mi rendeva turista, e invitava gli autoctoni<br />

a seguirmi al fine di mollarmi un tappeto artigianale. Dentro<br />

la guida conservo ancora i biglietti d’ingresso di qualche<br />

monumento, quelli dell’aereo, qualche cartolina, un biglietto<br />

intestato dell’albergo che Angela mi aveva fatto trovare un<br />

pomeriggio, sul retro del quale aveva scritto Aspettami giù,<br />

dormo un paio d’ore e poi torniamo in giro. <strong>La</strong> mia Angela stava<br />

male, ma non riusciva a rinunciare. Anche per lei, come per<br />

me, non è facile accettare di non essere capace. Era sospesa.<br />

Non si parlava ancora di terrorismo internazionale a<br />

Istanbul. Il cielo era di un azzurro velato, ma pur sempre<br />

azzurro. Al tramonto diventava di un cobalto artificiale. Per<br />

chi ha visto l’iridescenza delle piastrelle Iznic, ferite dalla luce<br />

nella Moschea blu, quell’azzurro è materiale, concreto come<br />

un debito, non solo una supposizione rivolta in direzione<br />

della Mecca. Lo sciogliersi del pigmento, si appoggia come<br />

un residuo sui visi. Adesso ti raccontano altre storie. C’è bisogno<br />

di qualcosa che risarcisca questa gente e non basta la preghiera<br />

roteante dei dervisci a toglierli dalle spine. Così sembra<br />

a leggere i giornali. E quella strana crema? Incredibile<br />

trovare del metallo in quella crema nutriente. Non so che fine<br />

ha fatto quella crema per il corpo, che la mia Angela ha usato<br />

subito dopo il viaggio. L’avevamo sottratta all’albergo che ci<br />

ospitava, una dimora storica di categoria superiore, che destinava<br />

le camere migliori ai fumatori e poi, per salvarsi l’anima,<br />

132


offriva ai clienti carrettate di caramelle all’eucalipto, in coppe<br />

di silver, presso la portineria. Le cameriere, nel rifare la camera<br />

ogni mattina, lasciavano un paio di bottigliette di shampoo,<br />

balsamo e una strana cremina, in un cestino di paglia. In ogni<br />

buon albergo c’è questo servizio in più e tutti i clienti si portano<br />

in patria una buona scorta di queste bottigliette, come<br />

ricordino. Almeno credo. Angela dice che lo fanno tutti.<br />

Angela porta a casa qualunque cosa e sostiene che tutti lo facciano.<br />

Anche i magistrati si portavano via dagli alberghi che<br />

visitano qualche souvenir. Dice così. Altrimenti che viaggio è?<br />

Dice Angela. Comunque. Quella crema per il corpo, spalmata<br />

tra le mura di casa nostra, aveva l’odore della polvere da<br />

sparo.<br />

Tutto sommato, la trasmissione televisiva aveva funzionato.<br />

Erano venuti fuori dal nulla dei personaggi nuovi in una<br />

commedia dal plot panciuto. Grazie al palinsesto televisivo<br />

avevamo acquisito nuovi nomi: una donna, un prete, e poi<br />

anche un testimone oculare. Ecco l’altro colpo di scena. Non<br />

solo una donna e il suo bambino, quindi. Non solo un pretaccio<br />

dai modi oscuri, quindi. Di più. Gli occhi dei mass media<br />

erano su di noi. Benissimo.<br />

Il mio primo morto si meritava questo e altro, ma dovevo<br />

combattere con la stanchezza del capo, che continuava a lanciarmi<br />

i suoi segnali di resa. Le intercettazioni, inoltre, hanno<br />

un limite temporale da rispettare, per questo, dopo un mese<br />

circa, avevamo deciso di tappare la bocca pure alla vecchia e<br />

alla farmacia. Avevamo ascoltato fiumi di quotidianità. Nel<br />

buco del nulla più intimo. Le fisse della vecchia erano diventate<br />

insopportabili. Fine dei piagnistei. Adesso arrivavano i<br />

prelati; scoccava l’ora dei preti, in fila come grosse perle nere, ad<br />

agitare le acque, acque già torbide.<br />

Menomale che c’era la tv. Ed io che mi ero persino addormentato<br />

prima della fine della puntata la sera della diretta sul<br />

morto. Manco avessi avuto cent’anni, era stato fulminato dal<br />

più classico degli abbiocchi; un autentico ammazza palpebre.<br />

Quand’è che si comincia a diventare vecchi? Quando il sonno<br />

arriva presto? Eppure dicono che i vecchi dormono di meno,<br />

133


che siano le vittime predilette di quello stato d’impotenza che<br />

priva le immagini in onda di qualsiasi interesse, che le rende<br />

tutte uguali, ammesso che non lo siano oggettivamente, in cui<br />

il respiro si fa intermittente, sagomandosi sulla forma della<br />

poltrona e dei bozzi dei cuscini. <strong>La</strong> colla in bocca. Quando<br />

capita, perché capita, eccome se capita, saresti pronto a giurare<br />

che no, non è vero, eri sveglio, sentivi tutto quanto ti<br />

accadeva intorno. Ma è pura illusione. Avrebbero potuto violentarti<br />

la moglie nella stanza accanto, e tu avresti continuato<br />

quel ronfare da cane sazio, con tanto di bavetta agli angoli<br />

della bocca. E forse ti sarebbe rimasto in testa solo qualche<br />

suono, vago, magari un urlo lontano, una specie di sparo,<br />

mescolato a chissà quale sogno western. Lo ammetto con un<br />

briciolo di vergogna: dormivo mentre la ragazza era alle prese<br />

con la sua coscienza. E di quella trasmissione non mi ricordo<br />

quasi nulla.<br />

Non lo dissi mai al Ietta che mi ero addormentato e non<br />

avevo visto la fine della sua trasmissione. Non volevo che mi<br />

considerasse superficiale. Tenevo molto alla sua opinione e<br />

non solo perché avrebbe dovuto scrivere il parere sul mio<br />

lavoro di quei mesi, destinato al consiglio giudiziario, per la<br />

presa di funzioni. Non solo per questa ragione, lo giuro.<br />

Temevo il suo giudizio da uomo che lavora. I suoi collegamenti<br />

con mio padre. <strong>La</strong> questione dei maestri. <strong>La</strong> mia prima<br />

volta. Un giudizio, da qualsiasi parte promani, s’impasta<br />

come l’albume agli altri elementi, per diventare una massa<br />

unica, non più smembrabile. Lui mi osservava e io osservavo<br />

me stesso; erano sguardi circolari: questo ci rendeva inseparabili.<br />

Nasce così l’opinione di sé, credo. In parte da se stessi, in<br />

parte dal lavoro degli altri. Dal reciproco scrutarsi.<br />

Accade spesso che uno parli di te in pubblico, mentre<br />

ascoltano individui che neppure ti conoscono, ma che magari<br />

conoscerai in seguito, per chissà quali circostanze. Quelli si<br />

ricorderanno di quanto sentito sul tuo conto quel giorno, per<br />

caso, e l’opinione che si formeranno risentirà di quelle prime<br />

informazioni, neppure verificate, e quando, successivamente,<br />

134


questi stessi individui parleranno di te ad altri, le loro espressioni<br />

avranno lo stesso colore. Il gioco andrà avanti nel tempo<br />

e ogni accadimento sarà visto sempre alla luce di quelle poche<br />

parole iniziali, fino a quando, all’improvviso, arriveranno alle<br />

tue orecchie e tu, stordito, ti guarderai allo specchio e ti chiederai:<br />

ma io sono così? E se la giornata non è delle migliori<br />

magari ci crederai, crederai di essere così, e quelle primissime<br />

parole pronunciate frettolosamente da sconosciuti, finiranno<br />

dritte sulla tua lapide. Persino certi amori nascono su queste<br />

fondamenta di sabbia cangiante.<br />

Una volta, un professore all’università, diritto processuale<br />

penale, mi disse che riteneva che avessi preso sotto gamba la<br />

sua materia. Considerato il mio libretto pieno di blandizie,<br />

impegno e coerenza, disse che non era soddisfatto dei tempi<br />

delle mie risposte alle sue domande, dei miei toni, delle mie<br />

pause esageratamente lunghe; la sua era solo un’impressione,<br />

è evidente, ma mi attraversò per intero come fossi una galleria,<br />

lasciò tracce di fumo ovunque. Da allora, sto molto attento<br />

alle mie pause: le misuro. Da allora, qualunque cosa faccia,<br />

mi chiedo sempre se non stia per caso prendendo sotto<br />

gamba l’impegno richiestomi, e se qualcuno me lo fa notare<br />

divento una belva. Un esempio per tutti: la paternità. Quando<br />

il medico mi disse che non dovevo ritenermi infertile per il<br />

solo fatto di non aver avuto figli in dieci anni di tentativi, e<br />

dopo aver fatto trecento esami clinici, tutti costosissimi, tutti<br />

ugualmente non significativi – ché, fossi stato un metalmeccanico,<br />

avrei voluto vedere io che razza di speranza avrei potuto<br />

garantire a mia moglie e ai suoi capelli che crescevano a<br />

dismisura! –, esami pure dolorosi, alcuni dei quali ripetuti<br />

due volte per sicurezza, ecco, in quella occasione pensai che<br />

dieci anni erano una pausa quantomeno esagerata, che forse<br />

stavamo prendendo sottogamba la questione. Io e il medico,<br />

intendo.<br />

Idee sugli altri, idee su se stessi. Così nascono gli assassini?<br />

Si diceva che il nostro morto era stato un uomo gentile.<br />

Cortese. Anche quella era un’idea; gramigna nella testa di<br />

qualcuno. Un prato da potare. Chi l’aveva detto? Su cosa si<br />

135


fondava questa opinione? Era idea di coloro che l’avevano<br />

conosciuto davvero, o di quanti l’avevano soltanto sfiorato<br />

per un brevissimo istante, o di altri che, al massimo, avevano<br />

sentito parlare di lui? Era l’immagine proiettata da un amante,<br />

da un cliente, da un invidioso, o da un passante? Le indagini<br />

non si fanno con le idee, perlomeno, non solo con quelle.<br />

<strong>La</strong> verità sembrava un oggetto per pochi, come certe statue<br />

sacre sotto la loro antica campana di vetro. Bellissima e<br />

fragile.<br />

Quella riportata dalla ragazza in cerca di sistemazione, con<br />

un figlio sul groppone, per esempio, era una certa idea sul<br />

clero, avvalorata da alcuni episodi personali e spiacevoli. Un<br />

fatto di sensazioni, di buio dell’anima. Solo quello. Sotto il<br />

fuoco animoso delle sue dichiarazioni, la Procura che poteva<br />

fare? Aprire un fascicolo per violazione di domicilio e, con un<br />

po’ di partecipazione, aprirne uno per esercizio arbitrario<br />

delle proprie ragioni, a carico del prete luciferino. Stop. Una<br />

storia appetitosa per la televisione. O per uno che come me<br />

doveva impratichirsi. Un’ombra, non un’immagine reale.<br />

Niente di più. Ombre. Il bello delle ombre è che sono sì cose<br />

importanti, ma puoi anche far finta che non ci siano, senza<br />

che nessuno abbia qualcosa da ridire. Sono solo una parte del<br />

tutto. <strong>La</strong> verità è altro affare.<br />

<strong>La</strong> giustizia poi, che su questa verità doveva fondarsi, sembrava<br />

cosa ancora più estranea al momento: un premio<br />

impossibile. <strong>La</strong> giustizia è l’equilibrio tra le verità. Dopo un<br />

atto così violento come l’assassinio di un uomo, la cui vita<br />

sembrava legata a quella di così tanti altri soggetti e oggetti,<br />

poteva davvero credersi ricostituibile un qualche equilibrio?<br />

Belle domande mi facevo, e sì, ero un campione nel fare<br />

domande! E tra le opinioni della gente cercavo di fare rotta.<br />

Alla fine le storie di Chi l’ha visto erano tutte così: un fascio<br />

di opinioni. Buone per la nanna.<br />

Nonostante il testimone oculare.<br />

136


X CAPITOLO<br />

Tra tutte le mie menzogne, questa è la più divertente:<br />

quando ti ho detto che avevo voglia di rivedere<br />

la mia patria. Tu sbattevi le palpebre, intenerita,<br />

e ti schiarivi la voce per trovare parole comprensive<br />

e consolanti.<br />

…Era valsa la pena raccontarti quella storia.<br />

Agota Kristof<br />

“L’hai vista?”<br />

“Cosa?”<br />

“<strong>La</strong> trasmissione che ti ho chiesto di vedere. L’hai vista?”<br />

“Non mi piace quel programma. L’ho vista, sì. Contento?”<br />

“Hanno telefonato in tanti, sai?”<br />

“Chi?”<br />

“Una ragazza madre per parlare di un prete, e pure un<br />

testimone oculare, diciamo oculare. Uno che ha visto qualcosa<br />

e che era ben felice di aver visto qualcosa per poterlo raccontare<br />

in giro. Il problema è che neppure lui sa cosa ha visto<br />

veramente”.<br />

“Che ti dicevo? Tu non ti fidare mai di tua moglie, mi raccomando.<br />

Lo sapevo che venivano fuori i preti”.<br />

“Qui piove: la primavera non esiste”.<br />

“<strong>La</strong> ragazza di ‘Chi l’ha Visto’ l’ha visto davvero il prete<br />

assassino?”<br />

“No, ma che dici? Ha avuto solo una brutta questione con<br />

uno della Curia. Stiamo mettendo a confronto le sue dichiarazioni<br />

con quelle di altri personaggi e abbiamo sentito il<br />

prete. Sembra una brava persona, a vederlo dico, sembra;<br />

lento come una pianura. Ha parlato sempre lui. Ci ha fatto<br />

lezione sulla vita e sulla morte”.<br />

“E hai imparato qualcosa?”<br />

“Non credo”.<br />

“E la ragazza?”<br />

137


“Neppure lei”.<br />

“No, dicevo: cosa ha fatto la ragazza?”<br />

“Ha portato da noi il figlio appena nato, mentre il prete ha<br />

portato il suo messale o una cosa simile. Un libricino con la<br />

copertina nera e il segnalibro di stoffa color crema”.<br />

“E il figlio?”<br />

“Cosa?”<br />

“Come era il figlio?”<br />

“Che domanda è come era? Un bambino”.<br />

“Un maschio?”<br />

“Sì, Angela”.<br />

“Il prelato è uno che conta?”<br />

“Svolge incarichi amministrativi. Anzi, fa proprio parte<br />

dell’ufficio amministrativo. Ci devo fare un giro appena<br />

posso. Gestisce l’intero patrimonio della diocesi, ordina il<br />

culto divino, e poi… che altro fa?… poi, poi… l’ha detto<br />

lui… ecco! Provvede a un onesto sostentamento del clero e<br />

degli altri ministri, esercitando anche opere di apostolato e di<br />

carità. Al servizio dei poveri, insomma. Abbiamo verificato: è<br />

vero”.<br />

“Poveri come la ragazza madre o più poveri?”<br />

“In senso lato. Tutto questo, se accertato, non prova nulla,<br />

comunque. Una certa incoerenza al massimo. <strong>La</strong> fede come<br />

professione e non come vita, se vuoi. Ma poi?”<br />

“Ecco, appunto”.<br />

“Possiede un monolocale in zona, questo è documentato,<br />

ma non risultano contratti di locazione recenti. Tutto sulla<br />

parola. Pare che per stanare la donna dall’appartamento le<br />

abbia fracassato il bagno a colpi di martello”.<br />

“Interessante il martello! Come era questo martello?”<br />

“Dai racconti della donna, si potrebbe pensare a un martellone,<br />

ma anche a uno piccolo, perché no?, se usato con<br />

forza… Non è saltato fuori un martello particolare. Del resto,<br />

è pure normale che un uomo abbia in casa un martello, tra gli<br />

altri arnesi, e magari i chiodi, un paio di cacciaviti, in una cassetta<br />

degli attrezzi, che c’è di strano? E magari pure un<br />

ombrello”.<br />

“Anche se è un prete?”<br />

138


“Sì, perché? Non si bagnano i preti?”<br />

“L’arma del delitto”.<br />

“Ci vuole una lama! Cerchiamo una lama, non un martello.<br />

Non abbiamo fatto una perquisizione, e perché dovremmo?,<br />

per il martello? Ma dai!”<br />

“Ma dimmi una cosa: l’ombrello della vecchia, macchiato<br />

di sangue, di che tipo era? Scuro, triste, all’inglese, da persona<br />

seria? Oppure colorato, eccentrico, da vecchia pazza? Era<br />

scuro, non è vero? Innegabilmente intonato a un abito scuro.<br />

Come era vestito il prete quando l’avete incontrato? Di scuro,<br />

no? Quindi tutto quadra. L’ombrello macchiato di sangue ci<br />

riporta al prete”.<br />

“Se è per questo c’è pure una testimonianza oculare. Scura<br />

pure quella”.<br />

“Già, è vero. Dimmi, dimmi”.<br />

“Bella testimonianza! Eccome! Del tutto inutile”.<br />

“Cosa ha detto il testimone? Scommetto che ha visto un<br />

prete in zona la mattina della tragedia”.<br />

“Come hai fatto? Sei una volpe. Anche qui c’è da andar<br />

cauti, però. Le cose non stanno proprio così: sono state viste<br />

di sfuggita due figure alte e nere, due corvi giganti, svolazzare<br />

nei dintorni della vetrina. Solo questo. Erano figure colte<br />

con la coda dell’occhio, in movimento rapido. E se si trattasse<br />

di un difetto visivo del testimone, un gioco di luce? Se non<br />

fossero due preti, come si è facilmente indotti a credere dalle<br />

circostanze, ma due suore o due con l’impermeabile nero e<br />

l’ombrello?”<br />

“Ma non ci sono suore nella Curia, al contrario è pieno di<br />

preti”.<br />

“Ti sbagli, ci passano anche le suore, se è per questo. Ma<br />

per ora nessuno ha parlato di suore; lasciamo stare le suore.<br />

Del resto, le modalità dell’assassinio fanno pensare a un<br />

uomo, e pure a uno piuttosto robusto”.<br />

“Io conosco certe suore ciccione, che non ti dico. Robuste<br />

e capaci di tutto. Martelli, ombrelli, lame”.<br />

“<strong>La</strong>sciamo fuori le suore, ti spiace? Va bene?”<br />

“Il bambino piangeva?”<br />

“Quale bambino?”<br />

139


“Quello della ragazza che avete visto in Procura.<br />

Piangeva?”<br />

“No, stava con la madre, nel marsupio. Non piangeva per<br />

niente. Mica tutti i bambini piangono”.<br />

“Guarda che tutti piangono”.<br />

“E quindi? Questo bambino qui non piangeva”.<br />

“È importante il contatto fisico. Per questo non piangeva.<br />

Che impressione ti ha fatto?”<br />

“E che impressione mi doveva fare?”<br />

“Non saprei. Ti è piaciuto, per esempio? Era carino, tenero,<br />

rivoltante, che ne so. Ha mosso qualche corda dentro di<br />

te, si è svegliata la natura sopita? Parla, e che diamine!”<br />

“Niente urlo di Tarzan, se è questo che vuoi sapere. Era<br />

carino. Sembrava condizionare le parole della ragazza, quindi<br />

importante. Ah, sicuramente più vitale di Ietta, che invece<br />

attraversa un periodo di astenia. Dovresti vederlo: si esprime<br />

poco, sembra sempre sul punto di rovesciarti addosso i suoi<br />

segreti, i suoi problemi, ma poi si richiude nel silenzio”.<br />

“Come mai?”<br />

“Problemi con la moglie. Forse si separano”.<br />

“Proprio adesso? Come sono le mogli dei magistrati?”<br />

“Come tutte le mogli. Come te”.<br />

“E perché si separano proprio adesso?”<br />

“Oh, fai domande strane tu. Sì, adesso. Fatti loro”.<br />

“E il figlio?”<br />

“Il figlio resta”.<br />

“Suo figlio è ormai grande, non è vero?”<br />

“Sì, è grande. Avrà ormai i suoi progetti, la sua vita”.<br />

“Quindi Ietta ormai non conta più per lui”.<br />

“Non lo so. È sempre triste la fine di un progetto. Bisogna<br />

vedere come era prima che diventasse un adulto. Dipende”.<br />

“Ma perché adesso e non prima?”<br />

“E dai, ti ho detto che non lo so. Non me l’ha detto. Cose<br />

intime”.<br />

“E tu, di’, tu invece cosa gli hai detto di te? Di noi?”<br />

140


XI CAPITOLO<br />

…È un coltello che vedo qui davanti<br />

col manico verso la mia mano?<br />

Su fatti afferrare –<br />

non ti ho preso, ma ti vedo sempre!<br />

Sei insensibile al tatto, e non all’occhio,<br />

visione del destino?<br />

William Shakespeare<br />

A questo punto gli ultimi passaggi si fanno più confusi<br />

nella memoria.<br />

Un classico: dei libri letti spesso non ricordo la fine. Lo<br />

stesso per i film. Memorizzo la sensazione di fastidio o di piacere,<br />

ma niente di più. I particolari mi colpiscono nel momento<br />

in cui li incontro; dopo li cancello. Una memoria da orsetto<br />

lavatore. Ripulisco con immediatezza e faccio spazio.<br />

Anche della mia vita, dall’infanzia alla maturità, ricordo i<br />

momenti traumatici, il fulmine, ma non ciò che è seguito; non<br />

il tuono. Dovrei chiedere a un esperto perché nella mia<br />

memoria è tutto così confuso. Mi fanno rabbia quelli che<br />

ricordano la prima gita fuori porta con mamma e papà, il<br />

gusto del gelato. Quelli che ricordano le facce di tutti i compagni<br />

delle elementari. Preservo dalla bonifica giusto qualche<br />

odore, i colori delle cravatte, oh sì, le cravatte sì, ne vado<br />

pazzo. Anche i gatti che ho accidentalmente spiaccicato sull’asfalto<br />

con le mie ruote, quelli, pochi, li ricordo.<br />

Ora, per lo stesso meccanismo perverso, la storia del mio<br />

morto la ricordo perché la voglio ricordare, ma devo concentrarmi<br />

per ricostruire i fatti in ordine cronologico e dare un<br />

senso alle inquadrature che ho in testa.<br />

Il mio morto, dunque. <strong>La</strong> stampa locale ne parlava ormai<br />

con voce sempre più flebile, perché, diciamolo pure, non fregava<br />

più niente a nessuno. <strong>La</strong> stampa ha la memoria corta.<br />

Prima ti stanno alle calcagna, mastini bavosi, a succhiare il<br />

141


nettare direttamente dalla mammella più gonfia, mentre la<br />

fonte, per loro pigrizia, resta nel tempo sempre la stessa,<br />

sempre più asciutta, sempre più stanca e povera, quella di cui<br />

hanno dati certi sui loro pc, sempre la stessa mammella, pur<br />

di riportare pedissequamente una notizia qualunque, senza<br />

mai un’idea autonoma, un guizzo investigativo personale,<br />

un’analisi trasversale. Placata la fame, ti dimenticano. Non è<br />

bello. Parlava ancora di noi solo un giornaletto da due lire,<br />

che usciva il pomeriggio e per la distribuzione sul territorio<br />

assoldava truppe sfigate di studenti, da appostare sotto i<br />

semafori, a respirare smog. Più qualche extracomunitario fortunato.<br />

Gli assunti erano disposti a lanciarsi al volo dentro i<br />

finestrini degli automobilisti prossimi all’incrocio, pur di vendere<br />

una copia. Forse parlavano del nostro Corietti, in carenza<br />

di altro materiale. Il giornale riportava, nello spazio riservato<br />

alla cronaca, titoli in grassetto del tipo: Nuovo scandalo<br />

in via Cardone. <strong>La</strong> Procura indaga sulla Curia, oppure<br />

L’amante dell’uomo assassinato: intervista esclusiva; o peggio<br />

<strong>La</strong> Procura brancola nel buio. I segreti della città. Titoli d’altri<br />

tempi, da film in bianco e nero, come cibi ipercalorici, ma<br />

facili da cucinare. All’epoca denotavano un certo coraggio,<br />

devo ammetterlo. Ora quello stile assordante e pomposamente<br />

vacuo è la regola televisiva del pomeriggio. Dentro, le<br />

colonne riportavano robaccia ancora più triste dei titoloni<br />

stessi: lacrime di pubblicisti affamati da direttori cinici.<br />

Alcuni pezzi non erano male, però, certi ragazzetti alle prime<br />

armi avrebbero potuto scrivere romanzi rosa con un certo<br />

riscontro di pubblico, secondo me; tutto sommato erano<br />

penne audaci, romantiche, ma audaci. Nessun scheletro che<br />

parlasse sinceramente da un qualsivoglia armadio, comunque.<br />

Se sei morto ieri, domani sarai già qualcos’altro. <strong>La</strong> natura<br />

lo esige.<br />

L’unico cancro reale ancora in circolo, era il tormento vissuto<br />

dall’amante abbandonato.<br />

Infatti, arrivarono sull’argomento un paio di lettere anonime.<br />

Ne arrivano sempre in Procura. Il prodotto di vecchie<br />

macchine da scrivere a inchiostro blu, con le lettere storte. Ci<br />

sono ancora in giro quelle resistenti Olivetti; lo giuro: le ho<br />

142


viste con i miei occhi. Le missive raccontavano che il morto<br />

aveva avuto storie di sesso sudicio. Facevano nomi di luoghi<br />

o persone. Con malanimo. In una lettera si raccoglieva una<br />

protesta condominiale, conseguente a una lite furibonda,<br />

avvenuta proprio nell’appartamento del Pace tristo. Avevano<br />

tremato i vetri alle finestre, pareva. I condomini, pur non<br />

avendo trovato il coraggio di firmare la lettera, chiedevano un<br />

intervento urgente della questura. Quella dei condomini<br />

all’attacco è una specie di mania compulsivo ossessiva di<br />

gruppo. Insieme potrebbero uccidere. Sono bestie in cattività,<br />

che si scatenano per niente.<br />

Molte lettere parlavano delle prostitute, il giro povero, non<br />

quello nobile. Raccontavano di aver visto il morto, quando<br />

ancora era vivo, a casa delle donnine. Niente di nuovo per<br />

noi, a parte una certa esasperata cattiveria che, comunque,<br />

dopo un po’, non sorprende più nessuno. In alcuni casi collegavano<br />

una delle prostitute in questione a un giro malavitoso<br />

di un paese limitrofo, quello legato all’officina di un paesano<br />

che rimetteva sul mercato auto rubate, spedendole oltre oceano<br />

scomposte in pezzi di piccolo taglio. Verso la Bulgaria, di<br />

solito. Fascinazioni collettive. Al capo non andava di fare<br />

castelli in aria, non aveva testa. Per di più quello dell’officina<br />

già era noto in questura: un pesce piccolo, che aveva già detto<br />

tutto quello che c’era da dire; noioso come l’elenco telefonico.<br />

Erano ben altri i sorci da stanare.<br />

Del resto, è la verità: da quelle lettere non promanava la<br />

soluzione al nostro giallo borghese. Erano peggio dei titoli in<br />

grassetto. Quello che riuscivamo a percepire leggendole, era<br />

solo un gran ansimare alle nostre spalle, così, nell’oscurità<br />

condominiale, a volte a tradimento. <strong>La</strong> città aveva l’asma.<br />

Neppure i condomini si salvavano in questa aria malata.<br />

Neppure i preti quindi. Ma poi, dico io, non era la città che<br />

doveva darci una soluzione. Troppo facile altrimenti. Tanto<br />

meno noi potevamo credere davvero di entrare nella Curia o<br />

in un fumoso negozio di oggetti sacri, e trovarci dentro prove<br />

agiografiche. In fin dei conti sapevamo bene con chi avevamo<br />

a che fare, se pure ci piaceva far fantasie spinte su santi e<br />

demoni di tutte le etnie. Perlomeno, a me piaceva.<br />

143


Ci sono territori urbani che, come il mio d’origine, al sud,<br />

molto al sud, amano spettegolare a voce alta, sbraitano e<br />

gesticolano. Terre pazienti, ma rumorose. Che sembrano ingigantire<br />

le formiche. Altre invece bisbigliano.<br />

Per dirne una, avevo fatto amicizia con un tecnico giù al<br />

seminterrato, piani bassi, sotto il livello del mare, zone umide<br />

che il sole dimenticava quasi completamente, dentro perimetri<br />

fradici; luoghi smossi soltanto dal ritmo blues dello scalpiccio<br />

dei ratti. Mi aveva rimesso in forma un pc, quel ragazzone<br />

gentile, e ne ero sinceramente grato. Video scrittura,<br />

s’intende, niente di più impegnativo. <strong>La</strong> stampante ancora<br />

no, ci voleva più impegno e conoscenze nell’ambiente per<br />

ottenerne una, perché pareva che il ministero le avesse fornite<br />

in numero inferiore rispetto ai pc e al personale in servizio,<br />

ché non cessasse mai quel senso latente d’insoddisfazione, di<br />

instabilità e inettitudine che contraddistingueva noi della<br />

Giustizia. Poi c’era la carta, le cartucce, il toner: calibro<br />

pesante per l’erario. Costavano troppo. Niente stampa, quindi.<br />

Per i provvedimenti salvavo sul floppy e poi vagolavo per<br />

gli uffici in cerca di comprensione.<br />

Dicevo: avevo avvicinato questo giovane laureato in informatica.<br />

Parlava poco; più che altro faceva smorfie con gli<br />

zigomi, sbuffava, gli si appannavano gli occhiali per i vapori<br />

esalati dal lungo collo da cicogna in zone lacustri e sotterranee.<br />

Comunicava per locuzioni alfanumeriche. Ti m i d o ,<br />

lasciava intuire la vasta complessità interiore di un server, e lo<br />

sconforto di un bestia acquatica in una boccia. Un cubo di<br />

Rubik senza i colori. L’informatica negli uffici giudiziari è un<br />

lavoro che logora anche il fisico: togliere dalle dita nodose di<br />

un operatore quasi sessantenne la sua storica Bic e sostituirla<br />

con un mouse, è lavoro da titani; lo stesso trasportare monitor<br />

per le scale in attesa di certezze, tra le proteste generali, gli<br />

sgambetti, i cavi a intreccio tentacolare. Un posto granitico<br />

come un tribunale reagisce male alle innovazioni, alle trasformazioni,<br />

diffida sempre della modernità. E un computer<br />

ancora oggi, è da molti visto come cosa moderna, quindi pericolosa,<br />

per via della già citata secolare durata di certe carrie-<br />

144


e ministeriali, della loro immota certezza. Gli informatici,<br />

qunidi, o sono crudeli di natura o masochisti, per resistere. Il<br />

ragazzo era confuso, teso, sfiduciato. Davanti a un problema<br />

tecnico restava in silenzio: tanto, anche a parlarne, chi ne capirebbe<br />

qui dentro di informatica?<br />

Si parlava del più e del meno una mattina. Mi diceva che<br />

le lettere del tipo anonimo piovevano a catinelle in ufficio.<br />

Era il vomito della cittadinanza che si rovesciava sul Palazzo.<br />

Ma frequentemente provenivano dall’interno: la lettera faceva<br />

il volo basso e ronzante di una mosca stordita, dalla stanza<br />

n.10 a quella n.11, dalla scrivania della contabilità a quella,<br />

poco distante, del protocollo.<br />

Avevano scritto anche di lui: ignoti asserivano che si portava<br />

a casa i pezzi in esubero, che si era riempito l’appartamento<br />

di articoli di cancelleria appena comprati, in particolare,<br />

l’anonimo insinuava che il feticista avesse una passione per<br />

le penne a inchiostro liquido, che si masturbasse con una boccetta<br />

di china, che cadesse praticamente in trance alla vista di<br />

un tampone autoinchiostrato. Quelli, gli altri, i vecchi, le<br />

grandi bocche del tribunale, volevano gettar fango sulla sua<br />

immagine professionale, sull’inarrestabile futuro tecnologico<br />

degli uffici pubblici, di cui lui si faceva portatore, farlo apparire<br />

come un matto visionario, un maniaco. Si difendeva ripetendo<br />

che lui non faceva parte dell’organico, che lui era un<br />

esterno, e lavorava solo su chiamata, tentando di prendere le<br />

distanze da un universo ostile e reazionario.<br />

In verità, si raccontava che anni prima un segretario del<br />

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che faceva il programmatore<br />

a tempo perso, si fosse fatto trovare in casa un arsenale<br />

di portatili d’avanguardia, destinati al personale del tribunale.<br />

Calvo e modesto lo descrivono, ma pare fosse un genio<br />

del crimine. Nessuno si era accorto di nulla. Quindi c’era il<br />

precedente. Lo ripresero con le mani nel sacco grazie a una<br />

telecamera nascosta vicino la macchinetta del caffè. Lo buttarono<br />

fuori senza clamore e lui, sei mesi dopo, aprì un negozio<br />

di camicie da uomo su misura. Del resto, era sempre stato un<br />

tipo di buon gusto.<br />

145


Indagini. Tutte le indagini hanno un termine, l’ho detto. A<br />

prescindere dagli strumenti che si utilizzano, non si può<br />

andare avanti in una ricerca simile come per una malattia<br />

incurabile fino alla morte, oltre la morte. No. Ietta voleva<br />

chiudere il fascicolo e guarire; se non c’era un nome e qualcosa<br />

in cui credere, pazienza.<br />

Rimanevano gli ultimi tasselli del quadro astratto da incastrare<br />

da qualche parte: il prelato e il testimone oculare.<br />

Chiuse queste due finestre windows, Ietta avrebbe detto<br />

basta e forse consumato i giorni di ferie che residuavano. Se<br />

ne sarebbe andato in vacanza, mare, montagna, collina, lontano<br />

dalla fatica. Così.<br />

Gli ultimi passaggi si fanno più confusi tra i miei ricordi<br />

proprio perché vissuti frettolosamente. In affanno.<br />

Il prelato dunque. Importa che il prelato si fosse presentato<br />

quasi spontaneamente una mattina sul tardi? Secondo me<br />

importa. Fu un evento di una certa solennità che raccontai<br />

immediatamente ad Angela. Lei aspettava i preti, ne fu felice.<br />

<strong>La</strong> trasmissione era già andata in onda. Noi lo stavamo cercando,<br />

e lui ci precedette di poco.<br />

Passo felpato. Si sedette sulla stessa sedia che aveva già<br />

riscaldato la ragazza locataria, la delatrice, e la gonna talare gli<br />

si aprì come un campanaccio di bronzo brunito, con sotto il<br />

pendaglio dei piedi. Dong, dong, don Oreste. È tutto nei verbali.<br />

Non ho bisogno di inventare nulla per rendere il ricordo<br />

più largo e sonoro. Certi preti suonano da sé.<br />

Ma prego, prego. Ietta si dichiarò subito disponibile ad<br />

ascoltarlo. <strong>La</strong>voro, famiglia, vocazione. Ma soprattutto lavoro.<br />

<strong>La</strong> morte nominata solo di striscio. Più che altro la vita, sì,<br />

la vita. Agire ora, subito, non domani. Il Vescovo era sopra<br />

ogni pensiero, come il faro in punta alla costa più invisibile.<br />

Maneggiava denaro, non c’era dubbio. Dio l’aveva voluto<br />

oculato e sempre in pensiero per il futuro della sua Chiesa, e<br />

così lui era diventato. Dio e il vescovo: una ben riuscita forma<br />

di collaborazione. Era stato scelto, don Oreste, ne era consapevole<br />

e portava la sua croce. Attento alle esigenze crescenti<br />

della sua immensa famiglia cristiana, in particolare alle fami-<br />

146


glie, piccole umili e bisognose del suo territorio. Si produsse<br />

in un monologo avveduto, chiuso come un pugno, alla fine<br />

del quale ebbe inizio la musica del maestro Ietta. Cambio<br />

degli strumenti e delle voci.<br />

Sembrava avesse accordato i suoi strumenti al suono severo<br />

di un organo. Ne uscivano note conformate, dense, ma<br />

penetranti. Si fece raccontare di bilanci e collaboratori,<br />

minacciando visite inopportune ma necessarie, presso gli<br />

ambienti della Curia. Dal fascicolo tirò fuori l’elenco dei soggetti<br />

coinvolti nella vicenda. Vediamo, vediamo. Sfilarono<br />

come pezzi di cera, sotto luce fredda. Conosce tizio? Conosce<br />

Caio? E Sempronio, mai visto Sempronio? Come mai nostro<br />

caro don Oreste? Perché? E per come? Mi sembra strano.<br />

Cercò di forzare lo scrigno di Don Oreste. Ma con rispetto.<br />

Ietta era in forma quella mattina. Ci sono malattie dell’umore<br />

che hanno una variabilità cromatica veramente spiazzante,<br />

e lo stillare varianti di Ietta, gran fenice improvvisamente<br />

risorta, mi imponeva di prendere appunti e mettere da<br />

parte per i tempi bui.<br />

Dopo la prima batteria di colpi, Ietta fece il nome della<br />

ragazza e il prete sorrise. Che fece quel sant’uomo davanti a<br />

un enorme dito indice puntato sul suo portafogli? Sorrise. E<br />

Ietta? Pure. Grandi conoscitori di emozioni, entrambi. Gran<br />

bella gara!<br />

Il prete chinò il capo e in testa gli s’allargò una piazza svestita<br />

con cinque peli neri come sbandieratori nei giorni del<br />

palio. Fece un cenno di assoluzione. Anche lui con i miei stessi<br />

vizi: il pericolo del pessimismo e il desiderio del perdono, a<br />

braccetto. Ho fatto attenzione al fenomeno. Molti uomini di<br />

chiesa sono pessimisti, tanto quanto molti padri magistrati<br />

sono ottimisti, e non conta se credenti o no. Ne nascono reazioni<br />

simili tra figli e fedeli. Sono dati culturalmente contraddittori,<br />

ma antropologicamente riscontrabili. Qualcosa ci<br />

univa alla fine: il bisogno di compensare i limiti umani.<br />

Comprendo, comprendo la rabbia della poveretta. Non è<br />

facile la vita per certe ragazze. Aveva cercato di aiutarla, disse,<br />

finché era stato possibile; aveva parlato persino con la sua<br />

famiglia d’origine, dalla quale la giovane si era voluta allonta-<br />

147


nare. Eppure una ragazza come lei, nella sua situazione, aveva<br />

bisogno di un timone. Altrimenti avrebbe fatto una fine triste.<br />

<strong>La</strong> brutta china, la società, quelle storie lì, insomma. Una<br />

ragazza come lei non poteva camminare da sola. <strong>La</strong> Chiesa<br />

avrebbe potuto essere una guida, questo è vero, ma a volte<br />

può non bastare. Un padre, ci voleva un padre. Ecco cosa ci<br />

voleva. Un padre ottimista o uno pessimista? Questo non fu<br />

chiarito. Una ragazzina sola, con un figlio, mentre Dio è il<br />

solo a guardare. Non va bene, no, non va affatto bene! Meglio<br />

un padre. Un padre ottimista o uno pessimista?, continuavo<br />

a ripetermi. Non entrammo in dettagli. Intanto l’ecclesiastico<br />

sospirava, rivolto al cielo, mentre la sua voce assumeva un<br />

tono baritonale. Aveva sentito il dovere e cercato in tutti i<br />

modi di ricondurre la povera ragazza sola verso la sua casa.<br />

Non quella di Dio, però, né tanto meno quella dell’ecclesiastico<br />

facoltoso. Un’altra casa, possibilmente. Il baritono assumeva<br />

timbri vocali più sporchi e oscuri passando a parlare di<br />

immobili. Dei suoi immobili. Pattinò rapido sul tema case e<br />

passò ad altro. Neppure il miglior Ietta riuscì a trattenerlo.<br />

Parlammo della vittima. Brava persona il Corietti! Della<br />

sua vita privata il prelato non sapeva nulla. Lo conosceva solo<br />

di vista. Il libero arbitrio induce alla riservatezza. Però, brava<br />

persona lo stesso! Don Oreste era sempre stato a totale disposizione<br />

di quanti avessero avuto bisogno di lui. Ma il Corietti<br />

non aveva mai chiesto aiuto, vivendo liberamente la vita<br />

donatagli dal buon Dio. È dell’uomo errare, tra l’euforia e il<br />

terrore, tra la curiosità e il tremito. Sta in questo il bello.<br />

Brava persona il Corietti, dunque, persona riservata.<br />

Il male esiste. Siede accanto a nostro fratello e non cerca il<br />

perdono di Dio. E muoveva queste sue mani lunghe, don<br />

Oreste, risucchianti in vortici di dita bianche. Lui che con il<br />

male sapeva convivere, lui che era competente in materia,<br />

metteva ben in mostra queste sue mani sante. Le dita acrobatiche<br />

dello scalpellatore di cessi. Andavano verso il soffitto, in<br />

alto, sempre più in alto, poi, precipitavano inermi verso il<br />

pavimento, fino a tuffarsi in grembo al suo gonnellone nero.<br />

Il sacerdote parlante sembrava pronto a darlo il perdono,<br />

per delega. Perché il perdono spesso è una cosa facile, che dà<br />

148


uoni frutti, con poca fatica. Non sempre, ma a volte sì. Io ne<br />

sono certo. Per questo mi affascina. <strong>La</strong> vendetta affatica e<br />

non eleva neanche un po’, mentre il perdono nobilita. Beati<br />

coloro che possono davvero. Aveva ragione don Oreste, da<br />

un certo punto di vista: il perdono è necessario e salutare. Ma<br />

è anche un lusso. Del resto, vedevo come era in forma Don<br />

Oreste. Pulito, sano e sorridente. Più piacevole a vedersi di<br />

altri derelitti che tendono la mano fuori dalle chiese, per<br />

esempio; più bello pure di certi parroci poveri in canna con<br />

la tenda invece del cemento, per celebrarci dentro la messa.<br />

Forse la cura vitaminica dell’indulgenza funziona davvero.<br />

Costosa ma efficace. Bastava guardare il bel reverendo.<br />

Questa tipologia di perdono fa pensare a certi trattamenti<br />

completi e costosissimi al DiBi Center. Non per tutti.<br />

Sembrano facili ma costano sangue.<br />

Riflettendoci, era un vero dritto Don Oreste, anche per l’eleganza<br />

schiva e la leggerezza con cui posava la sua scarpa<br />

puntuta sui denari della Diocesi. E non solo della Diocesi.<br />

Senza lasciare impronte, ma rendendo gloria a Dio.<br />

Era così bello don Oreste che il jazz di Ietta, è un fatto d’orecchio,<br />

gradualmente s’intristiva sotto il peso della Bibbia.<br />

Perdono? Perdonare un assassino: non era quello che si<br />

dice il fine di un magistrato. Almeno credo. Io sono un magistrato<br />

e lo dovrei sapere se c’è un fine. Non è quello; lo giuro<br />

su mia moglie. Don Oreste parlava di perdono, Ietta no.<br />

Nessuno mi ha mai chiesto di perdonare, ne deduco che<br />

quello del perdono non è un bisogno sociale. Almeno non<br />

della grande maggioranza degli uomini. Ma la giustizia? È<br />

davvero un bisogno? Questa è una domanda che mi porta a<br />

mio padre, nei suoi pianeti. Quando glielo dissi, che volevo<br />

fare il giudice, fu lui a chiedermi perché. Non è stupido chiedere<br />

perché, è ambizioso. Mio padre è ambizioso, ambizioso<br />

e ottimista. Ed io vorrei essere capace di perdonarlo. Ma questa<br />

è un’altra storia.<br />

Un fine c’è in questo mestiere e non è sempre quello della<br />

giustizia, come ci raccontano. Non i soldi, non più.<br />

Piacerebbe a qualcuno crederlo, invece la questione è ben più<br />

149


sottile. Ormai un idraulico, un installatore di condizionatori,<br />

un falegname, guadagnano molto di più di quanto guadagni<br />

un magistrato con le sue scartoffie. Sono leggi economiche<br />

superiori. Bisogni forti da soddisfare. Mani artigiane che ci<br />

sovrastano. C’è però un avanzo di potere immaginario, legato<br />

alla parola, che residua e si morde la coda, rischiando di<br />

diventare ridicolo: è quello che blandisce. C’è un buco della<br />

serratura che si affaccia su grosse fette d’umanità, cogliendone<br />

frammenti golosi: ecco, quel buco può apparire come un<br />

privilegio. Un buco grande per pochi occhi. C’è che in strada<br />

al sud ti chiamano ancora signor giudice, con il capo pendulo,<br />

e a qualcuno piace. Si narra di uomini togati, nelle preture di<br />

provincia, che decine di anni fa si facevano fare la barba in<br />

udienza o misurare dal sarto completi gessati appena imbastiti,<br />

il tutto davanti a cancellieri, segretari, avvocati, tecnici adoranti,<br />

che manco il Re Sole con tanto di parruccone polveroso!<br />

Altri tempi. Ci sono però alcune donne che ancora oggi ci<br />

credono, e con molte di queste si può fare un sesso semplice<br />

e per questo gratificante. Seducente soprattutto per il seduttore.<br />

Pure. C’è il piacere di diventar parte di un gruppo; lo<br />

sfizio di essere come quel certo tizio lì, ma anche altro, anche<br />

diverso, e farsi notare come a Hollywood. Ho pensato: i magistrati<br />

sono come gli aviatori. Fanno scena, pur se non usano<br />

una divisa.<br />

Quindi posso affermare che il fine non è economico, come<br />

invece accade per la maggior parte degli attuali contesti<br />

umani, e se l’economia entra in questa faccenda instabile che<br />

è la giustizia, lo fa ancora soltanto indirettamente e non per<br />

tutti. C’è, in questo caparbio ambiente di giuristi, ancora un<br />

avanzo d’etica con cui confrontarsi. C’è la giustizia, infatti.<br />

Ecco. Infine c’è anche la giustizia.<br />

Qualcuno fa il giudice per applicare la legge alla lettera,<br />

ma non è una gran bella cosa, secondo me, anzi, è una forma<br />

inutile di orgoglio che di solito annoia e delude. Esistono<br />

fonti da applicare diverse dalla legge, realtà variegate di cui il<br />

giudice deve tener conto se vuol fare giustizia. Applicare la<br />

legge non è pura meccanica, ma piuttosto un momento creativo.<br />

150


Adattamento creativo, come quello della giraffa che nei<br />

secoli ha allungato il collo fino ai frutti più belli, sui rami più<br />

in alto. Non totalmente creativo; giusto un po’. Ecco perché<br />

qualcuno ritiene che il fine sia sì applicare, ma anche interpretare;<br />

ritrovare cioè lo spirito smarrito tra le parole della<br />

norma giuridica, per sentirsi più vicino a Dio. Una cosa ambiziosa,<br />

insomma, benché nobile.<br />

Non conta la giustizia in sé, quindi, ma il progetto e il suo<br />

percorso. Vale anche per me. Quello che mi salva è il progetto,<br />

considerato che ambizioso non lo sono mai veramente<br />

stato, e privo pure del coraggio per ammetterlo. Sono costantemente<br />

soggetto al ritmo imposto da una qualsivoglia programmazione,<br />

senza decidere nulla. Nel mio lavoro, in particolare,<br />

mi sento come arlecchino, servitore di due padroni<br />

esigenti: la legge e la realtà. L’intermediario tra i codici e la<br />

società, con la valigia gonfia di prodotti tecnologici, da vendere<br />

per forza, girando di porta in porta. Ecco come mi sento.<br />

Un venditore tipo della Folletto spa. È un gara anche quella.<br />

Spacciare per giustizia il proprio lavoro di piazzista, i propri<br />

limiti, le proprie domande. Un imbonitore della giustizia, che<br />

tenta di piazzarla tra la gente. Di renderla domestica.<br />

Diffonderla. Forse. Un mestiere bellissimo il mio, che va<br />

compreso. Assecondato.<br />

Un fascicolo processuale andrebbe guardato, nel suo insieme,<br />

attraverso quegli occhialini che negli anni Novanta ti<br />

davano all’ingresso dei cinema sperimentali: quelli di plastica<br />

dura e colorata che garantiscono la suggestione momentanea<br />

di una visione tridimensionale, pur gravandoti scomodamente<br />

sul naso. Diritti umani/legge/giustizia: un’analisi tridimensionale,<br />

appunto, come ho letto in un libro di un giurista che<br />

mi pare si chiamasse Zagrebelsky; sì, mi pare si chiamasse<br />

così. Mi era piaciuta l’immagine. L’ho conservata.<br />

Ci possono anche essere delle buone regole, ma se non ci<br />

sono uomini buoni a rispettarle che si fa? E poi, sono più<br />

importanti gli uomini o le regole? I singoli uomini? È per il<br />

singolo che si fa giustizia, ma la verità giudiziaria che ne consegue<br />

deve potersi raccontare a tutti. Quindi bisogna mettere<br />

in contatto il singolo con la massa. Difficile. <strong>La</strong> magistratura<br />

151


imane a rilevare ogni contraddizione, a prendere schiaffi in<br />

faccia, a vigilare sul coma.<br />

Per ora mi basta sapere quale è il mio ruolo, il progetto<br />

ultimo. Non dico sentirsi superman, ma ci tengo a sapere cosa<br />

mi aspetta. Per lavorarci su. I limiti sono una questione che<br />

mi interessa, per adeguarli al progetto, per correggerli se è il<br />

caso. In genere non sono io a scegliere il progetto, ma il progetto<br />

a scegliere me; poi, una volta che la scelta è stato fatta,<br />

però, non mi lascio tregua, vado dritto alla metà.<br />

<strong>La</strong> volta di Corietti eravamo partiti da tutto quel sangue<br />

e dal verminaio lì vicino. Mamma quanto sangue! Il sangue<br />

fa il rumore di uno schiaffo in faccia a un uomo distratto:<br />

chiede giustizia all’istante; non vendetta, ma giustizia, e la<br />

giustizia si nasconde nella composizione della contraddizione<br />

esistente tra norme e uomo. Ne abbiamo presi di sonori<br />

c e f f o n i .<br />

Il fine dunque. Il mio fine? Io volevo trovare l’assassino<br />

per dire che ne ero stato capace, per capire se si poteva davvero<br />

trovare questa benedetta composizione delle avverse esigenze.<br />

Una risposta diversa da dare a ogni diverso caso. Mi<br />

piace poter dire che sono stato capace; altrimenti sono<br />

costretto a starmene zitto. Non dico essere in grado di trovare<br />

ogni volta la risposta giusta, ma almeno, una volta, una<br />

volta almeno. Niente di più. Una volta soltanto. Era questo il<br />

mio fine. Avevo senso del dovere io! Mi piaceva crederlo e far<br />

sapere che possedevo l’anima del pubblico impiegato. Adoro<br />

i pubblici impiegati, così ciclici nei gesti. Hanno un modo<br />

esatto di essere. Non di certo il più naturale, eppure esatto.<br />

Che la fatica sia il segreto? Intendo: il sudore, le ore sulle<br />

carte fino a sfinirti la sera con gli occhi che bruciano e la<br />

mascella che s’incastra, la sensazione di aver ristrutturato la<br />

propria scrivania e di doverlo rifare ogni qual volta la stessa<br />

veda correzioni del suo assetto geografico, le rinunce che ti<br />

fanno sentire così puro, il sudore sì, proprio quello sul collo,<br />

sotto le ascelle, che ti svuota il cervello dopo l’investimento di<br />

ore del proprio tempo pericoloso. Questa è tecnica. Questa è<br />

giustizia: come la voce della mamma alla sera. Tecnica e<br />

cuore.<br />

152


Pure l’assassino, avrei voluto che intuisse che noi avevamo<br />

senso del dovere, che avevamo quello strano bisogno psichico<br />

di sudare, che per questo eravamo gente pericolosa, di cui<br />

avere un po’ di paura. Eccolo il fine, forse. Conquistare la<br />

capacità di fare un po’ di paura.<br />

Questa capacità forse incide sulla realtà, la modifica nel<br />

tempo, la rende accettabile.<br />

L’assassino, appunto. Se ci fosse stato qualcuno che l’avesse<br />

visto in faccia, allora tutto sarebbe stato diverso. Ovvio.<br />

Nessun problema in quel caso sulla strada della giustizia.<br />

Avremmo fatto festa.<br />

Avevamo per le mani un testimone oculare, è vero, ma era<br />

un bluff, una facezia da martedì grasso. L’esatto contrario di<br />

quello che ci si poteva aspettare. Un quarantenne, lunga<br />

basetta, con l’orologio fondo rosa, giacchino di pelle nera con<br />

zip ed elastico in vita, avvezzo a bere lunghi caffè in tazza<br />

fredda, sorseggiandoli con labbra carnose e lucide, ma fredde<br />

anch’esse, sul marciapiede. Un tipo da via Cardone. Bella<br />

strada quella. Un bell’uomo anche il testimone. Niente da<br />

dire.<br />

Mi incuriosiscono gli uomini belli perché sono bestie strane.<br />

L’astrazione della bellezza, come quella della verità, lancia<br />

bagliori ingannevoli, come certe torte ridondanti di panna o<br />

lucide di gelatina e frutta, che restano a decorare per mesi le<br />

stesse vetrine.<br />

Il tipo, labbra carnose, aveva telefonato anche lui in redazione:<br />

voleva parlare direttamente con il regista del programma,<br />

dopo aver adulato a lungo una delle centraliniste, che,<br />

chissà come mai, sono sempre donne. Era pronto a spargere<br />

autografi al vento. <strong>La</strong> centralinista non s’era fatta intortare e<br />

l’aveva mandato da noi. Venne in Procura che imbruniva,<br />

mentre io mangiavo un gelato. Dal suo passo saltellante e dal<br />

modo di tenere solo le dita in tasca, mentre il palmo delle<br />

mani fuori, e di masticare un cicca piccolissima con la punta<br />

dei denti raggianti, da queste cose dedussi che si aspettava di<br />

trovare un pubblico osannante pronto ad accoglierlo. Invece<br />

c’ero solo io. Fu una partita a due. Eravamo il principe azzur-<br />

153


o che guardava il ranocchio e il ranocchio che guardava il<br />

principe. Splendida gara. Potevo vincere, con un certo impegno.<br />

L’impegno è una rappresentazione mentale che conosco.<br />

Mi distrae dal rischio. È un trucco che uso spesso.<br />

Ero a mio agio, perché mangiare un gelato a stomaco<br />

vuoto mi ricordava casa mia. Mia moglie diceva che quello<br />

artigianale equivaleva a un pasto completo; lo diceva tirando<br />

un po’ dentro le guance, a scavarle lievemente, così da apparire<br />

categorica, ché di solito quelli con il viso rubicondo come<br />

me difficilmente appaiono autorevoli in materia cibo. Lei<br />

affermava con le parole questo principio generale, e con il<br />

resto del corpo ammiccava. Mi vedi, vedi come sono tonica,<br />

come sono bella: non puoi non credere a quello che dico.<br />

Dall’insieme veniva fuori miracolosamente la fatica e il risultato.<br />

Sono i miracoli della comunicazione e dell’estetica. Lei<br />

consigliava il gelato a pranzo, anche in inverno. Io mi corazzavo<br />

per resistere: solo panna e cioccolato, cioccolato da mordere<br />

in pezzi piccoli, mai più grandi della dimensione di un<br />

chicco di caffè, solo cioccolato fondente, che lascia l’accento<br />

sul labbro, difficile da nascondere. E solo di una certa marca.<br />

Quel pomeriggio la panna mi sgocciolava sulla mano da dare<br />

al quarantenne informato sui fatti, che mi si parò davanti. Il<br />

ranocchio baciato. Colpo di fulmine. L’estraneità del giacchino<br />

di pelle mi mise leggermente in difficoltà all’inizio, ma solo<br />

per poco.<br />

Quindi, dopo il prelato, venne il testimone oculare.<br />

L’uomo si mosse nell’avanzo del giorno con naturalezza,<br />

come certi cani addestrati che aspettano il cerchio attraverso<br />

cui saltare a collo dritto. Falcate lunghe, pelo lungo che sventola,<br />

e fruscio di jeans attillato che sfrigola. Gli uomini belli<br />

hanno i piedi grandi di solito. Io ho il 43; infondo, non sono<br />

messo così male. Ben piantato a terra, nonostante poi non sia<br />

così alto. Baricentro stabile. Ma i passi degli uomini belli,<br />

nonostante i piedoni, sembra che se li porti dietro la corrente,<br />

come carta o foglie secche senza peso. Si allargano sul territorio<br />

questi guerrieri, soprattutto se non hanno la fede al<br />

154


dito. Padroni dell’ossigeno. Non lo dico perché mi piacciono,<br />

non credo, lo dico perché sono curioso. E anche a causa di<br />

una lavatrice.<br />

Non voglio divagare, ma questa storia dell’uomo della<br />

lavatrice e di mio padre vale. Mi viene ancora da ridere.<br />

C’era non so quale ditta dotto casa che forniva assistenza<br />

agli elettrodomestici rotti, una specie di pronto soccorso, uno<br />

di quei posti in cui entri e trovi solo scaffalature, una sull’altra,<br />

mentre le facce dei pochi commessi compaiono tra un<br />

ripiano e l’altro. Così. Mio padre, se era necessario, faceva<br />

una telefonata e quelli mandavano qualcuno nel giro di poche<br />

ore. Un pomeriggio mia madre doveva uscire. Aveva detto<br />

vengono a riparare la lavatrice, state voi in casa. D’accordo,<br />

noi, io e mio padre; io studiavo, lui lavorava nella stanza<br />

accanto. Il ragazzone suona alla porta. Entra. Un marcantonio<br />

con la cintura piena di arnesi. Bello, dico, proprio bello.<br />

Non c’è che aggiungere. Bello. Se ne vanno in terrazza. Dopo<br />

un po’ sento la voce di mio padre scattare verso toni alti, fare<br />

una specie di curva, un’elisse spezzata da un colpo di forbice,<br />

inseguendo una qualche parola, e poi ritornare bassa, cupa<br />

come un trombone che chiude il pezzo; per ultimi arrivarono<br />

i suoi passi pesanti. Alzo la testa e vedo la sagoma del ragazzone<br />

bello che corre come l’aria in corridoio, apre la porta<br />

d’ingresso e si defila. Mio padre mi si avvicina lentamente,<br />

mentre si richiude la cerniera lampo dei pantaloni. Ha un<br />

riverbero rosso porpora dentro gli ochhi e sulla fronte, che è<br />

diventata più larga e liscia del solito; che abbia passato le<br />

mani nei capelli più volte, s’intuisce dalla piega anomala che<br />

hanno preso quelli davanti. Il ragazzone messo in fuga era il<br />

figlio del proprietario; non era il caso di dir niente al padre.<br />

Ma guarda tu che roba. Cose da pazzi. Basta, non si va più da<br />

questa gente, stop, non ne facciamo un dramma. I ragazzi sono<br />

così. Ho buttato un occhio in veranda: la lavatrice era in terra,<br />

piegata sul fianco, ferita; la cintura con gli attrezzi era stata<br />

dimenticata lì vicino. Mio padre l’ha raccontato a mia madre<br />

e lei non si è sorpresa affatto. Nessuno si stupiva di nulla<br />

quando si trattava di mio padre, della sua sconcertante capa-<br />

155


cità d’espugnare territori, di conquistare anche senza volerlo<br />

fare, di sedurre, fossero uomini o donne, animali d’ogni razza<br />

e attesa.<br />

Ma veniamo a noi. Quest’uomo bello si era presentato in<br />

Procura quasi spontaneamente, su consiglio della telefonista<br />

Rai, dunque. Da un paio di giorni c’era gente che andava,<br />

gente che veniva. Si presentò all’agente di polizia giudiziaria<br />

e questo lo scortò fino a me. In attesa che Ietta comparisse,<br />

lasciai che si presentasse. Dissi chi è lei, mi scusi? Sentii me<br />

stesso che dicevo chi è lei? Ero io che dicevo così. Sì, fantastico:<br />

chi è lei. Non so se mi spiego. Un metodo efficace per<br />

allontanare, pur fingendo di ridurre le distanze. Porsi la mia<br />

destra, appiccicaticcia di gelato.<br />

Era un rappresentante di commercio. Articoli sacri? No,<br />

cosmesi. Chiaro. Avrei dovuto intuirlo. Mani lisce, senza anelli;<br />

senza cicatrici. Io sedevo al posto del mio procuratore, la<br />

cui sedia ballava lievemente come un vecchio molare.<br />

Cominciavo a sentirmi al posto giusto e mi venivano fuori<br />

parole piene, che rassomigliavano a quelle che diceva il maestro.<br />

Ietta, contattato, aveva detto al telefono: Arrivo subito;<br />

tu comincia a tastare il terreno.<br />

L’ho detto: mi adatto facilmente all’ambiente. Mio padre<br />

sarebbe stato fiero di me. Fu continuando a pensare a mio<br />

padre che parlai al testimone, cercando di fargli comprendere<br />

a pieno il peso che le sue dichiarazioni spontanee avrebbero<br />

potuto avere sulla nostra paludosa indagine. Ma non usai<br />

l’aggettivo paludoso, lo pensai soltanto. Forse perché pensavo<br />

a mio padre, e perché tale pensiero mi si disegnava automaticamente<br />

sulla faccia, in smorfie asimmetriche, il giacchino di<br />

pelle sorrise. Tastavo il terreno. Dissi qualcos’altro per<br />

migliorare l’atmosfera, una di quelle parole tecniche che, per<br />

sintassi e logica, si appoggiavano bene le une alle altre.<br />

Appena un mese dall’inizio e già possedevo le parole che servivano.<br />

Ottimo. Ogni mestiere ha le sue parole, sempre le<br />

stesse che s’incontrano di nuovo ogni giorno, come un vicino<br />

di casa in ascensore. Vengono da sole in superficie. Bolle d’aria<br />

quasi solide. Le parole del posto fisso. Fa bene Angela a<br />

156


voler lavorare sulle parole, a volte sono capaci da sole di far<br />

giustizia nei confronti di chi le sa apprezzare.<br />

Accadde in quel momento: la vista di quella bella faccia<br />

interrogativa da rappresentante di commercio, la sedia girevole<br />

fin troppo usata, e pertanto più girevole di altre, la ruvidezza<br />

della copertina cartonata del fascicolo nelle mie mani,<br />

il codice gonfio, ma aperto alla pagina giusta, fu quello che mi<br />

fece sentire al centro del bersaglio.<br />

L’uomo frequentava da tempo la zona dell’omicidio. <strong>La</strong><br />

sua azienda di riferimento aveva la sede amministrativa proprio<br />

al civico tredici di via Cardone. Poco lontano dalla libreria<br />

della Florio, sua cliente, peraltro. Cipria compatta color<br />

deserto e copri occhiaie con sfumature di verde marziano per<br />

la vedova, ogni due mesi, di nota marca francese. Chissà perché<br />

le ciprie sono sempre francesi. Colpa di certe canzoni.<br />

Intorno alle 8 di ogni nuova giornata di lavoro l’uomo si<br />

buttava in quella strada, per un saluto all’imprenditore capo<br />

e un caffè. Chi non lo conosceva? Stava lì da anni ormai. <strong>La</strong><br />

mattina dell’omicidio era certo di aver visto qualcosa.<br />

Qualcosa? Qualcuno uscire dal negozio. Ma era distratto,<br />

purtroppo. Qualcuno. Pensava a quanti litri di benzina mettere<br />

in macchina prima di prendere il volo. Qualcuno?<br />

Sembravano due. Vestiti di nero. Alti. Quanto alti? Uomini o<br />

donne? Entravano? No, uscivano. Preti? Forse, non saprei.<br />

Aveva notato un ombrello. Ce n’erano tanti di ombrelli quella<br />

mattina. Forse. Solo sensazioni, immagini catturate di sbieco<br />

e appallottolate come messaggio inutile destinato al cestino.<br />

Pazienza: nessun reale colpo di fulmine tra noi. Solo un<br />

abbaglio.<br />

Intanto Ietta tardava, ma perché tardava? Non tornava in<br />

ufficio e fuori si faceva scuro. Il ticchettio del tempo, il solito<br />

timer, inserito chirurgicamente nei padiglioni auricolari,<br />

scandiva l’incertezza. C’era da far partire l’interrogatorio<br />

formale, subito; da far fruttare la risacca della memoria che<br />

ritorna, da me così crudamente sollecitata. Mi sono detto:<br />

forse non è il caso, non spetta a me, non da solo, ma magari<br />

viene fuori qualcosa e viene fuori proprio adesso e non un<br />

minuto più tardi. Anche qui era un fatto di voglie, sogni,<br />

157


isogni, come ci pare; ne soddisfi uno e ne viene fuori un<br />

altro. Alcuni ti rovinano la vita, altri non modificano di un<br />

capello. Ma a quella soddisfazione, duri anche un solo istante,<br />

tutto tende. Io, il mio gelato, il vento in strada, l’assenza<br />

di Ietta, l’armadio lessicale di Angela. Tutto mi metteva dell’umore<br />

giusto all’azione.<br />

Per fortuna sono uno di quei soggetti che sa organizzarsi.<br />

Avevo a portata di braccio la penna; se ne trovano così poche<br />

in giro, chissà perché, ma quella volta avevo con me la penna<br />

più scivolosa a disposizione dell’amministrazione. Una di<br />

quelle con la punta buona, che non catturava i concetti, ma li<br />

liberava. Che dove non arrivavo io, ci arrivava lei.<br />

Avevo e ho ancora oggi una palpabile fissa per le penne.<br />

Ne compravo pacchi scorta da ventiquattro. Sono la coda dei<br />

pensieri e io sono un uomo di penna. Elaboro solo se la scrittura<br />

viene liscia e odio dover grattare sulla carta in cerca di un<br />

fiato stilistico. I tratti isterici senza inchiostro non generano<br />

parole, sono la peggiore offesa alla propria creatività. Per<br />

carità! Non vengo da una famiglia di panificatori o di marmisti,<br />

io. Siamo carta noi, sì, siamo di carta. Sposati alle penne.<br />

Figurarsi poi in un momento come quello, in cui la carta<br />

aveva la possibilità di sostituirsi alla memoria anche solo per<br />

un’ora. Ci voleva una penna, assolutamente.<br />

Recuperai la mia e chiesi al bellone se avesse sentito per<br />

caso dei rumori provenire dal negozio a quell’ora della mattina.<br />

Presi la penna e anche uno di quei prestampati che avevo<br />

già preparato nell’angolo in alto a destra della scrivania. Il<br />

colpo in canna. Era lì. Chiesi se il negozio, sempre a quella<br />

certa ora, gli era sembrato chiuso o aperto. Chiesi se gli era<br />

parso buio all’interno. Chiesi pure perché stava sostando<br />

davanti al negozio in quel momento; se c’era qualcuno con<br />

lui, mentre passavano le due figure imprecisate, qualcuno<br />

che, come lui, aveva visto o non aveva visto.<br />

C’erano solo sagome nella sua memoria? Parlavano queste<br />

sagome nere? Se parlavano, cosa dicevano? Quali suoni, quali<br />

voci, quali versi.<br />

Sono stato letteralmente favoloso. C’era sulla porta il cancelliere.<br />

Quello anziano che vestiva maglie con scollo a V di<br />

158


lana sottile e marrone, che aveva appena finito di rileggere gli<br />

ultimi verbali di udienza della giornata e verificato se c’erano<br />

altri adempimenti, prima di tornarsene a casa da sua moglie.<br />

Selezionato le carte per il giorno dopo e riposte nelle apposite<br />

vaschette di plastica. Ci sono sempre raccoglitori ai lati di<br />

ogni scrivania, sui mobili ad ante scorrevoli, sui davanzali<br />

delle finestre, sui caloriferi, accanto al telefono. Quando<br />

prendi servizio in un ufficio amministrativo, il dirigente ti<br />

dota subito di un paio di quelle vaschette. Non sono uguali<br />

tra loro come potrebbe sembrare: ogni vaschetta svolge una<br />

differente funzione, solo chi le usa davvero non fa confusione;<br />

come accade per i figli omozigoti. Su ognuna di queste c’è<br />

una strisciolina di carta ricavata ritagliando con le forbici un<br />

foglio A4, su ogni strisciolina c’è scritto qualcosa: EVIDEN-<br />

ZA, ATTESA, FAX, UNEP, URGENZE, POSTA. Sono messaggi<br />

d’odio o d’amore per il collega o la collega. Sono il<br />

senso del giorno che verrà e del ciclo delle stagioni. Sono<br />

un’eredità. Il cancelliere in questione, allestito con rigore il<br />

suo futuro prossimo, stava spegnendo le luci delle stanze<br />

accanto alla sua e si era persino infilato la giacca. Gli feci<br />

segno di entrare. Rispose con due passi riverenti nella mia<br />

direzione; non poteva fare diversamente. Povero cristo:<br />

saranno state le diciotto e la sua onesta giornata di lavoro<br />

sarebbe dovuta terminare da un pezzo.<br />

A quel punto avevo il pubblico che desideravo e potevo esibirmi.<br />

Semplicemente favoloso.<br />

Per stimolare il mio testimone alla competizione, raccontai<br />

che qualcun’altro prima di lui aveva parlato di strani rumori<br />

giunti fin in strada quel giorno; rumori che avevano indotto<br />

questo stesso passante a chiamare i carabinieri. Rumori solo<br />

in parte coperti dalle gambe in movimento sul marciapiede,<br />

dalle pozzanghere che si svuotavano dalla pioggia, rovesciandola<br />

in altri buchi dell’asfalto; rumori forse essenziali, intuitivi,<br />

ma coperti dall’indolenza che il mattino si portava dietro.<br />

Quali rumori? Rumore di un corpo che cade, rumore di un<br />

corpo che si difende, di un corpo che sbatte, che lotta; di<br />

mani, braccia, bocche, di quante bocche? Volevo che lui<br />

capisse che questa storia delle sagome e di qualche rumorino<br />

159


non era poi chissà quale novità, che ci voleva dell’altro perché<br />

la città lo trasformasse in un eroe.<br />

Noi avevamo un disperato bisogno di qualcuno che fosse<br />

in grado di distinguere rumore da rumore. Sagoma da sagoma.<br />

Che andasse oltre. Oltre.<br />

Chiesi comunque notizia dei rumori al nostro testimone<br />

oculare, nel presupposto che se era stato in grado di usare gli<br />

occhi, forse aveva contestualmente attivato anche le orecchie.<br />

Un colpo di genio il mio, che smentiva tutte le scemenze precedenti.<br />

Ecco il mio ritmo che veniva alla luce. Ero così eccitato<br />

che sembravo mio padre. Ecco il mio modo.<br />

Che l’uomo bello mi abbia detto ben poco di utile quel<br />

giorno, non è quel che interessa. O meglio, quello che interessa<br />

me. Non fu il suo silenzio fascinoso, ma la mia performance.<br />

Ero molto preso da me e in quei trenta minuti, quaranta<br />

al massimo, le cose potevano essere considerate perfette,<br />

belle come quella faccia da testimone. In realtà, il mio morto,<br />

nonostante lo sforzo istruttorio, rimase più morto di prima e<br />

i due ectoplasma, immaginati o visti, vagolanti senza meta,<br />

non furono sufficienti a dargli degna sepoltura.<br />

Però ci fu un fatto interessante, decisamente interessante,<br />

che rivelai a Ietta la mattina successiva.<br />

Sì, perché Ietta poi non venne, a causa di un impegno<br />

sopravvenuto. Così disse. Mi dette fiducia. <strong>La</strong> mattina successiva,<br />

con semplicità, precisò che in seguito avremmo regolarizzato<br />

formalmente il carteggio da inserire nel fascicolo.<br />

Questioni di firme, di titolarità di penna, appunto. Minuzie.<br />

In cambio gli raccontai ogni cosa senza risparmio, e lui<br />

ascoltò con l’interesse morbido che hanno i buoni maestri<br />

quando hanno dormito bene e si sono svegliati in bonaccia.<br />

Raccontai che il prestante testimone, sotto il fuoco delle<br />

mie prime note personali, modulate in temeraria solitudine,<br />

mi aveva fatto capire di conoscere bene le figlie della signora<br />

Florio. Le figlie assenti, le figlie in contrasto. Proprio loro. Mi<br />

premeva che Ietta lo sapesse.<br />

Se le ricordava bene il mio capo quelle fanciulle. L’adone<br />

in vena di confidenze aveva detto che, soprattutto la più pic-<br />

160


cola, passava molto spesso dal negozio della madre, molto più<br />

spesso di quanto ci avesse raccontato. Ci restava a lungo.<br />

Molto a lungo. Stazionava per ore sulla porta d’ingresso, a<br />

reggere lo stipite, con il volto tuffato in nuvole basse, a cercare<br />

gente e mangiarsi le unghie, oppure seduta in cima a una<br />

scaletta di legno accostata alla libreria, con le ginocchia nude<br />

tra le braccia. A volte riceveva amici o amiche variopinti<br />

almeno quanto lei. Strano. Perché aveva mentito? Cosa voleva<br />

allontanare: la madre o l’attività della stessa? Persone o<br />

luoghi? Perché voleva tenerci lontani.<br />

Mi resi conto che in questa vicenda c’erano poche menzogne.<br />

O perlomeno noi eravamo stati in grado di scoprirne<br />

solo poche. Male, molto male. In campo penale le bugie servono.<br />

Dove c’è la bugia di solito s’annida la soluzione al giallo.<br />

Altrimenti come si fa? Che altro abbiamo da usare se non<br />

le menzogne? Non siamo abituati a lavorare con la verità, ma<br />

solo a desiderarla; non siamo capaci di usarla, capirla, metabolizzarla.<br />

<strong>La</strong> verità deve essere un punto lontano, lontanissimo,<br />

invisibile, non il pane di ogni giorno. Deve essere faticosa<br />

e lontana, specie se è da manipolare, da adattare. Da<br />

correggere. Che palle: qui erano stati tutti così fastidiosamente<br />

sinceri. Avevano pure trattenuto il dolore in nostra<br />

presenza per non disturbare troppo. Così sembrava.<br />

Avevamo solo qualche debole, ipotetico movente, e di solito,<br />

un movente da solo non fa un assassino. Pochissime bugie,<br />

giusto un paio e pure cedevoli. Come questa delle figlie, arrivata<br />

quando ormai ci eravamo arresi all’ordalia della sincerità<br />

e del dolore.<br />

<strong>La</strong> figlia era l’unica bugiarda, in uno contesto di luridi<br />

santi senza pudore. E allora? Potevamo appropriarci della<br />

ragazzina e delle sue bugie, farne uno strumento giudiziario?<br />

Potevamo mandare qualcuno davanti alla scuola della ragazzina,<br />

a far da mastino, la bocca bavosa e affamata, a ringhiare<br />

se qualcuno osava avvicinarsi all’esca? Mandare un investigatore,<br />

uno psicologo, una pedagogista, un mago, per sbirciare<br />

all’interno del suo diario segreto? Esposi le mie idee zoppicando,<br />

ma pieno di passione.<br />

Il mio capo appena sveglio, con ancora il cappotto sulle<br />

161


spalle e, dietro le spalle, il suo autista, il fedele Agrimi, mi<br />

ascoltava.<br />

E no, non mi toccare la ragazzina, ti prego, Nicola mio! <strong>La</strong><br />

farfalla viola tatuata, la stessa che svolazzava innocente nei<br />

primissimi verbali, aveva mosso le ali a sorpresa. Una farfalla<br />

che, invece di andare dritta a scuola con lo zainetto, si fermava<br />

in strada o al negozio, dentro la noia dei chierichetti a recitar<br />

novene? Detta così, la storia non era credibile. <strong>La</strong> mia idea<br />

non piacque a Ietta, è vero, ma secondo me era lui a sbagliare<br />

questa volta. Si doveva inventare una diversa spiegazione<br />

che allontanasse tutto il sangue che ancora avevamo negli<br />

occhi. Utilizzare queste nuove bugie. Succulente.<br />

Perché per me era fuori discussione che questa farfalla<br />

dovesse essere utilizzata nel processo, in qualche modo.<br />

Immediatamente. Se la ragazza frequentava il negozio, allora<br />

conosceva anche il Corietti. Se conosceva il Corietti, forse<br />

conosceva le stesse persone che conosceva lui. Non aveva<br />

negato di conoscerlo, è vero, ma aveva detto di averlo visto<br />

poche volte. Interrogata, aveva messo fuori quelle labbra tirate<br />

e dritte come uno stiletto orizzontale, quello che ti sbattono<br />

in faccia le ragazzine quando non hanno voglia. Era conosciuta<br />

anche dal giordano farmacista e, se conosceva lo straniero,<br />

forse conosceva anche la moglie dello straniero. Dico<br />

forse. E il loro giro. Conosceva le loro parabole di volo più<br />

usuali? Quelle più proibite? Voli, non novene. Dico voli.<br />

Potevamo escludere niente? No: le bugie a questo servono.<br />

Ad accendere le fantasie più ardite. A solleticare, e far sì che<br />

qualcuno si gratti. Finalmente.<br />

Rileggemmo le dichiarazioni della farfalla, due o tre volte,<br />

quasi in coro. Io e Ietta. Ietta e io. Venne fuori che la farfalla<br />

frequentava sempre la stessa palestra e, al sabato, la stessa<br />

discoteca. I suoi sembravano i percorsi di chi non ama le<br />

novità. Percorsi che stonavano con la sua immagine trasgressiva.<br />

Casa, scuola, negozio, palestra. Una volta a settimana la<br />

discoteca. E poi di nuovo casa, scuola, negozio, palestra.<br />

Dove stava la trasgressione? Poi si sa: i ragazzini fanno presto<br />

a dire trasgressione. Ci fermammo sull’idea della discoteca. Si<br />

trattava di una ragazzina. Anche la discoteca, dico io, cosa c’è<br />

162


di meno trasgressivo di una discoteca? Palle di Natale dello<br />

stesso colore allo stesso ramo sintetico. Non era il caso di stupirsi.<br />

Dimore identiche per soggetti simili. Non vedo in questo<br />

alcun deragliamento rispetto a un principio generale:<br />

spassarsela con poco impegno.<br />

Io odio ballare. Fatti miei. Mai potuto tollerare certi corpi<br />

sbattuti sullo scoglio e sconce membra strappate che fanno<br />

viaggi distonici intorno al tronco. Sono polipi, soltanto polipi<br />

prossimi alla morte. Nulla contro la fisica e le sue leggi in<br />

senso stretto, ma né la fisica, né tanto meno la musica, entrano<br />

in questo affare, solo apparentemente liberatorio. So di<br />

non essere all’altezza e di non potere in alcun modo apparire<br />

gradevole agli occhi; quindi, mi astengo con alterigia. Non è<br />

cosa per me, ballare. Quando si tratta di ammettere che non<br />

sono capace, non voglio testimoni.<br />

Ad ogni modo, ossessioni a parte, una volta è accaduta una<br />

vicenda davvero singolare, durante la festa di un collega, che<br />

aveva ottenuto il tanto atteso trasferimento. Un quarantenne<br />

dal cervello frizzante, che sognava il salto nella magistratura<br />

amministrativa e che leggeva riviste giuridiche dalla mattina<br />

alla sera, per sentirsi ancora in gara, dilapidando intere buste<br />

paga in abbonamenti annuali rinnovabili, non detraibili dalle<br />

tasse. Questo collega si era fatto tatuare un’aquila in un sito<br />

di pelle segreto, regolarmente coperto da giacca e cravatta in<br />

orario di servizio, e portava un girocollo d’argento con ciondoli<br />

sempre diversi, raffiguranti altre bestie. Tutta questa allegra<br />

ma reticente scompostezza, era dovuta al resistere di una<br />

fidanzata improbabile ormai da venti anni, donna ragno che<br />

parlava di se stessa in terza persona definendosi “creativa del<br />

bronzo”. In altre parole, faceva collanine, infilava perline,<br />

insomma, in una bottega color lavanda nel centro storico<br />

della città, tra candele profumate d’oppio. Il mio collega voleva<br />

salutare l’ufficio con un gesto di cui restasse memoria e<br />

scelse di ferirci le orecchie con una indimenticabile nottata<br />

disco, con l’ausilio di un gruppo locale, che pompava dal<br />

vivo. Non è accaduto molto tempo fa. È storia recente.<br />

All’inizio, tutto come al solito: camicia fresca e dopobarba,<br />

163


qualche stretta di mano, noia a mille, ma energica, sopra le<br />

righe, i tavoli con le tovaglie di raso e i fiori congelati al centro,<br />

la moglie di tizio, la compagna di caio, gente giovane sia<br />

chiaro, non cariatidi, salvo qualcuna; le collanine di bronzo<br />

ogni tanto a disturbare, i soliti confronti tra tizio, caio e sempronio;<br />

il procuratore che raccontava di altre serate simili e<br />

altri che parlavano di politica poco discosti. Angela aveva<br />

eletto la moglie di un amico con tre figli guida spirituale della<br />

serata, mentre l’umidità le stava arricciando i capelli. Dopo<br />

cena era previsto che si passasse in un altro ambiente, con i<br />

bicchieri ancora colmi in mano. Si doveva migrare per forza,<br />

ondeggiare con eleganza verso altre tovaglie; inutile fare resistenza.<br />

Lì, tre facce da musicisti, su un piccolo palco, ci aspettavano<br />

per attaccare la spina del basso. Erano decenni, lo<br />

giuro, interi decenni che non mollavo il freno, che non sperimentavo<br />

un ancheggio, uno svolazzo d’omero. Si chiama<br />

paura del ridicolo. Avessi avuto cinquanta anni, invece. Ero<br />

anticipatario. Ma hanno cominciato con le canzonette, mio<br />

malgrado; quelle che non ho mai ballato in passato, nemmeno<br />

quando avrei dovuto, nemmeno nei chiassosi, artificiali<br />

anni Ottanta. Certe canzonette, porca miseria, che se le risenti<br />

a tradimento, provocano la stessa esaltazione di una banconota<br />

ripescata per caso nella tasca di un paio di pantaloni<br />

dimenticati al cambio di stagione. Rimeni le dita nella fodera<br />

interna, tasti, tiri fuori, guardi. E sei un uomo euforico.<br />

Cominci ad accarezzare quella gentile banconota, che ha disegnato<br />

una piccola iperbole nella tua esistenza; ti senti ricco<br />

sfondato solo per aver infilato in quel buco le tue magiche<br />

dita. Cosa vuoi che conti se il pezzo è da dieci o da venti o da<br />

cento? Se è da cento è meglio, certo, ma l’effetto sarebbe<br />

comunque identico. Sì, mi rendo conto, è difficile che ci si<br />

dimentichi un pezzo da cento in tasca, ma facciamo conto che<br />

accada. È solo un esempio. L’effetto è dirompente. Ci sono<br />

ancora le canzonette, ci sono ancora io. Già questa sembra<br />

una coincidenza emozionante. Quello che non è stato fatto<br />

prima, può essere fatto adesso. Una nuova possibilità. Una<br />

nuova fertilità. Bella la parola fertilità. Anche a volersi fermare<br />

alle banconote.<br />

164


Ci siamo ancora tutti, io e la musica, il respiro del futuro.<br />

Grandioso. È ancora tutto possibile. Spendere, spendere<br />

subito. Spendere tutto.<br />

E ho ballato.<br />

Angela si è avvicinata a me e, nel fracasso, mi ha gridato<br />

nell’orecchio che, parlando con la madre plurima, si era sentita<br />

vecchia e in ritardo; anche tu, mica solo io, dico vecchi tutti<br />

e due, noi due. Aspetta, ho pensato, aspetta, moglie mia!<br />

Dammi tempo; ci vuole tempo per certe cose. Stavo ballando,<br />

mica noccioline. Ehi, ma mi hai visto? Hai visto che vado<br />

facendo? Va’, bella mia, va’, non mi interrompere ché sono concentrato.<br />

Rideva, non era affranta. Forse aveva bevuto qualcosa. Lei.<br />

Aveva delle gocce di perla in mezzo agli occhi, che si diluivano<br />

al fard con un effetto creta, mentre con le mani si reggeva<br />

il collo, quasi si fosse svegliata da poco. Il risveglio della musica.<br />

Poi cominciò a ballare vicino a me, così come ha sempre<br />

fatto da quando la conosco, muovendo appena i piedi, ma<br />

molto di più le mani e il busto, simile a una piovra smilza.<br />

Discreta, con occhi bassi e brevi sorrisi destinati ai volti noti<br />

sparsi in giro per la sala. Non si accorgeva che c’ero io vicino<br />

a lei? Quell’individuo che le si dimenava accanto, ero proprio<br />

io, l’uomo che aveva scelto.<br />

Invece di sedermi stanco, come in altre occasioni simili, mi<br />

aveva colto un nuovo delirio. A quella vista, un tipo che conoscevo<br />

appena mi ha preso per il braccio. Vieni. Quello non<br />

sapeva che io non ballavo per convinzione, ma per raptus, che<br />

avrei potuto irritarmi, credo, anche senza motivo. Non sapeva<br />

di essere in pericolo. Dove andiamo? Da quella parte.Ve n g o .<br />

Stavamo accalcati come insetti sullo zucchero. Mi ha portato<br />

in una vera mischia: un mare le cui onde subivano lo stesso<br />

movimento; ridicolo, ma non troppo. Un movimento al quale<br />

era inevitabile credere. <strong>La</strong> musica non era male.<br />

Devo aver preso a sudare fin dentro gli occhi, perché a un<br />

certo punto la realtà è diventata liquida, gelatinosa, il che<br />

consentiva alla mia respirazione ribollente, al limite dell’angina,<br />

di non prendere il sopravvento sulla musica. Non ho pensato,<br />

neppure per un attimo, di poter morire, no, ho pensato<br />

165


solo che sarebbe durato ancora per poco. Ho pensato che<br />

adesso il progetto era: resistere. Ho continuato a ballare,<br />

come in attesa di ordini superiori. Ho scoperto di ricordare<br />

passi pluriarticolati niente male. Ho sentito un fiato lunghissimo<br />

unirmi alla vita degli altri. È salito il volume anche dentro,<br />

sempre più su, sempre più forte. Ho verificato che anche<br />

il cuore è un muscolo e sa ballare. Mi sono sfinito i motoneuroni.<br />

Dopo dieci minuti di questo martello, invece di rallentare,<br />

sono diventato una furia. Sempre più bestiale, unito<br />

all’umanità tutta. Finalmente in armonia con l’universo. Mi<br />

sentivo in grado di formulare pensieri tipo non ho paura.<br />

Avere trenta anni non è una tragedia. Questo pensavo perso<br />

nei miei liquidi corporei.<br />

Poi ho preso a guardare quelli delle collanine, il gruppo<br />

alternativo che era al seguito della fidanzata del festeggiato.<br />

Erano vicinissimi a noi magistrati. Ci sfidavano con gli occhi<br />

e certe risatine di fiele. Erano loro i veri razzisti. Io ballavo<br />

meglio di loro. Quanti anni avranno avuto? Con tutti quei<br />

capelli? Venticinque? Ventisette? E allora? Che merito c’è?<br />

Guardate come ballo, collanine belle, venuto fuori indenne<br />

dagli anni Ottanta e con ancora questa energia. Guardate e<br />

imparate. Andavo su e giù sulle ginocchia, come fossero carrucole.<br />

Un conto è alzare le mani verso l’alto, usarle come<br />

bandiere e sventolare, gesto banale; altra cosa è giocare di<br />

ginocchia, scomparire alla vista inghiottito dal branco inferocito<br />

e poi avere la forza muscolare di riemergere, su e giù.<br />

Senza più nessuna vergogna. A destra e sinistra. Quando usi<br />

le ginocchia, e pure il bacino, vuol dire che oramai sei libero.<br />

Significa controllo del corpo. Controllo assoluto! Parlare di<br />

giovinezza a quel punto era riduttivo. <strong>La</strong> giovinezza non esiste.<br />

Esiste solo il desiderio. E il controllo del desiderio.<br />

All’ultimo, ho smesso addirittura di pensare. Mi sono tolto<br />

prima la cravatta, poi anche la giacca, infine le scarpe e sono<br />

salito su un tavolo. Ad un certo momento, una specie di<br />

capellone con un dolcevita nero si è avvicinato e, sghignazzando,<br />

mentre mi dimenavo, mi ha aperto la camicia con un<br />

colpo netto che ha fatto saltare via tutti i bottoni. Per questo<br />

l’ho legata in vita con un nodo Saint Tropez.<br />

166


E così che mi ha visto mia moglie, rientrando in sala dopo<br />

essere stata un po’ in veranda a guardare le vecchie stelle.<br />

Svettavo in cima al tavolo con intorno le mani osannanti di<br />

tutta la magistratura locale, collanine comprese, c’era pure<br />

qualcuno della cancelleria. Le ho fatto un cenno e lei ha letto<br />

il labiale: non sono ubriaco. L’unica persona in sala nei confronti<br />

della quale provavo una sottile vergogna, era proprio la<br />

mia Angela: per un paio di ore le era stato estraneo. Mi aveva<br />

smarrito. Non mi piace, perché non ci sono abituato; l’abitudine<br />

è un valore e fa parte del progetto. L’estraneità invece<br />

non fa parte di alcun progetto. D’accordo le novità, i cambiamenti,<br />

ma non amo far passi indietro. L’estraneità è un segnale<br />

di incostanza che mi mette in allarme.<br />

Siamo tornati a casa a notte fonda e anche quello era una<br />

novità per me. Non mi piace la notte perché mente. Di notte<br />

l’aria punge i vestiti, inganna le forme, ci sono rumori talmente<br />

morbidi e diffusi da non essere riconoscibili; di notte anche<br />

l’asfalto fa rumore, pur sembrando di gomma. In macchina<br />

lei continuava a scrutarmi, ma nascondeva gli sguardi, ne<br />

conteneva la durata e l’intensità. Ridacchiava. Toccava le cose<br />

in giro, gli oggetti di sempre, regolava la ventola del<br />

caldo/freddo e ridacchiava. Non ero ubriaco, ma lei rideva lo<br />

stesso. Dopo, ci fu chi parlò della mia prestazione per giorni,<br />

ma nessuno disse che mi ero reso ridicolo. Questo non fu rilevato<br />

da nessuno. Al contrario. Forse ero un ballerino accettabile,<br />

pur senza saperlo, anche senza esercizio; forse ero stato<br />

una rivelazione. Perché no? Del resto, accanto a me aveva<br />

ballato per ore anche un consigliere di Magistratura<br />

Indipendente con le tempie brizzolate ed era scattato l’agonismo<br />

di sempre. L’agonismo del calcio, l’agonismo delle bracciate<br />

stile libero al mare, l’agonismo della bella figura, della<br />

cravatta contro la collanina; l’agonismo del figlio unico di un<br />

grande padre. L’agonismo per forza. E su quel vegliardo<br />

avevo vinto facile.<br />

Una storia che credevo di aver dimenticato, questa qui,<br />

ma, cazzo, come suonavano bene quei tre musicisti. Era stata<br />

tutta colpa loro. E dei Village People. O degli Spandau. Forse.<br />

Ricordo una tromba. Una grande tromba. Manco fossero le<br />

167


sirene a cantare per me. Tutto cambia se di mezzo c’è una<br />

tromba. È raro trovare una buona tromba in giro. Quella sera<br />

c’era una tromba che evocava altre città. L’ A m e r i c a .<br />

L’improbabile America. Tutta colpa di quel suono tiepido che<br />

ti svuotava e ti riempiva d’altra umana sostanza, come una<br />

buca fatta nella sabbia a mani nude. Stracolma di necessarie<br />

bugie e nettare.<br />

Invece, per la nostra farfalla viola, era diverso: la discoteca,<br />

secondo me, era un fatto di abitudine e certezze. Non uno<br />

scarto improvviso in un vicolo cieco; piuttosto, la strada più<br />

facile. Quella di tutti. Quella percorsa da masnade di coetanei,<br />

con danni circoscrivibili. Certo, non potevo fare confronti<br />

utili, ero incompetente, ma restava l’obbligo morale di<br />

comprendere qualcosa di più circa le bugie della figlia della<br />

signora Florio.<br />

Ma non toccatemi la fanciulla. Il capo era platealmente<br />

infastidito dall’imprevista evoluzione dell’indagine. Non si<br />

poteva mettere una bambina sulla bocca della Procura senza<br />

altri elementi probatori. Lo diceva da padre. Calma, quando<br />

si parla di minori. Se in processo compaiono i minori, la procedura<br />

cambia registro. Per scongiurare danni aggiunti. Si<br />

voleva astenere. Si voleva tirare indietro.<br />

C’era stata pure un’altra lettera anonima, una delle tante,<br />

arrivata alcuni giorni prima, a cui non avevamo dato importanza<br />

lì per lì, ma che adesso ci dava i brividi. Attenti al porco<br />

con cui se la faceva il Corietti. Ci sono pure in mezzo i ragazzini.<br />

C’era scritto a penna. Piano con i ragazzini. Non si può<br />

sollevare un polverone, solo per ambizione.<br />

Se fosse stata mia figlia? Non ho figlie. In questa materia<br />

la riflessione libera non conta granché, stando a quanto si racconta<br />

in giro. Conta solo l’esperienza. Almeno, è questo che<br />

dicono i padri, orgogliosi del loro bagaglio di conoscenza specifica,<br />

e non credo che desiderino intenzionalmente affermare<br />

il falso. Perché mai dovrebbero mentire? Cosa c’è da<br />

nascondere sui figli? C’è da fidarsi. Ad ogni buon conto, se<br />

avessi prole o potessi comunque scegliere che tipo di prole<br />

168


avere, è una figlia che vorrei. L’ho detto ad Angela: vorrei una<br />

femmina. D’accordo, i figli. Cosa cambia un figlio quando<br />

c’è? S’apre un abisso tra chi sa e chi non sa. Ma potrò dire la<br />

mia anch’io, così da osservatore, o devo obbligatoriamente<br />

rimanere in silenzio e aspettare?<br />

Sembra che chi non ha figli non conti un tubo nella<br />

società. Che la mia sia una colpa anagrafica che non riesco a<br />

farmi perdonare.<br />

Angela non mi perdona, infatti. Angela non vuole farmi<br />

riflettere. Angela, credo, vuole solo aspettare e che anch’io<br />

aspetti: ha smesso da mesi di usare le sue solite parole propiziatorie.<br />

Tipo Utero (la più intuitiva), E p i s i o t o m i a,<br />

Gestazionale, Epoca anamnestica, Diametro parietale, Follicolo<br />

(perché ha un bel suono rotolante); parole così. Prima le<br />

masticava come chewingum. Di recente con le spalle fa cenni<br />

silenziosi d’incredulità. Ha messo il silenzio tra lei e la mia<br />

colpa.<br />

Dei figli si tende a salvaguardare il futuro, come se questo<br />

fosse una loro esclusiva. Il loro futuro sembra un dato certo,<br />

inattaccabile. Soltanto il loro. Del resto, cosa aveva fatto la<br />

signora Florio quando le avevamo chiesto della figlia? Aveva<br />

negato categoricamente, ribadito più e più volte, con toni crescenti,<br />

che sua figlia al negozio non ci veniva mai, che lei<br />

doveva pensare a studiare. A cosa doveva pensare quindi questa<br />

figlia? Al futuro, appunto! Non esiste altro per un genitore.<br />

Il presente non conta. Il futuro è una placenta sempre<br />

ricolma.<br />

Per la gente come me il futuro sembra un lusso, una sciocchezza.<br />

Una fantasia inutile. Dopo una certa età, il futuro si<br />

trasforma in un’ ipotesi; prima è un diritto, poi un’idea instabile.<br />

Ma se hai figli, un futuro per cui lavorare ti resta comunque;<br />

se non ce li hai, che fai, chi sei? Non hai futuro. Sei<br />

un’immagine destinata a oscurarsi gradualmente. No, così<br />

non va bene, non va affatto bene, secondo me. Devo dirlo ad<br />

Angela che così non va.<br />

Mia moglie pensa ancora alla sua placenta vuota? Ha<br />

maturato pensieri che ritiene inutile tradurre in parole. Ce ne<br />

169


stiamo ciascuno nel proprio disavanzo di tempo a far calcoli<br />

che equivalgono a zero, a cui nessuno aggiunge alcun riporto.<br />

Insomma, ce ne stiamo da mesi zitti, zitti sull’argomento.<br />

Estraneità. Temporanea, però, sì, assolutamente temporanea.<br />

Io credo. Devo solo organizzarmi. Sono certo si tratti solo di<br />

un problema di tipo organizzativo. Non ho dubbi. Non può<br />

che essere così. Certo, certissimo. Per lei deve essere come<br />

avere un borsone piccolo, ma estensibile, di pelle specchiante<br />

e cedevole, vitale, che potrebbe miracolosamente contenere<br />

il bagaglio necessario per qualsiasi tipo di viaggio. E non<br />

partire. Viaggi oltremodo avventurosi in testa, ma non partire.<br />

Sentirsi in ritardo e non partire. E dire che io mi consideravo<br />

un tecnico in fatto di valigie; come farle, come conservarle,<br />

come svuotarle. Ma non so come riempire la valigia<br />

della mia Angela; non so come gestire una mancata partenza<br />

o un rinvio. Per questo oggi gradirei molto sapere qualcosa di<br />

più in fatto di figli e valigie, così da elaborare una nuova strategia.<br />

Diventare un esperto, un nonpadre che ha un suo convincimento.<br />

Vorrei sapere esattamente perché desideriamo<br />

mettere al mondo figli. Fare un progetto a riguardo. Prima<br />

che diventi troppo tardi.<br />

L’omicidio del Corietti non mi è stato d’aiuto. Più o meno<br />

tutti desideriamo avere figli. Perché?, mi domando io. Lo<br />

desiderano di più le donne, dicono. Bene. Perché? Oggi vorrei<br />

averne uno anch’io, e anche se non sono una donna. Come<br />

mai? Per il mio solito desiderio di essere capace, di conoscere,<br />

di adattare la realtà a me stesso? Forse. Non sono stati i<br />

figli di qualcuno a far nascere questo bisogno. Non si tratta di<br />

semplice emulazione. Noi, i senza figli, rappresentiamo la<br />

degenerazione di un principio sociale, e siamo sempre di più,<br />

cresciamo numericamente in diretta esponenzialità con il<br />

nostro desiderare, e allora? Come mai questa stessa degenerazione<br />

non ci aiuta a capire qualcosa di più del principio<br />

stesso, come mai non ci avvicina alla verità? Deve essere per<br />

via di tutto questo silenzio. Di una certa vergogna. Di qualche<br />

depistaggio massmediatico.<br />

Dieci anni fa sentivo la necessità che, in quella immobile<br />

incertezza che vivevamo in coppia, qualcuno mi indicasse la<br />

170


soglia, che poi avrei fatto vedere anche ad Angela. Avrei usato<br />

un dito. Le avrei detto Fermati qui. Quella sei tu, siamo noi, e<br />

lei si sarebbe fermata, credo. L’avrei detto allora, lo direi<br />

anche adesso. Mi ci vorrebbe un maestro. Un altro. Ecco cosa<br />

ci vorrebbe. Un maestro in mancate partenze.<br />

Ora, è consequenziale il quesito: che diritto avevamo noi<br />

di infangare, cancellare il profumo innocente e sanguigno di<br />

una placenta altrui? Nessuno. Aveva ragione il mio amico<br />

Ietta, il cui psichiatra aveva trasformato in un gigante con i<br />

piedi d’argilla. Cosa potevamo scoprire al più? Che la fanciulla<br />

tatuata era un’assassina? Non credo proprio. Che conosceva<br />

l’assassino? Possibile. Che era lei, a quindici anni appena<br />

compiuti, con tanto di candeline rosa, l’origine del male?<br />

Non di certo l’istigatrice, se mai una vittima, e poi? Che<br />

avremmo fatto? L’avremmo consolata noi, da buoni padri?<br />

Avremmo assicurato protezione a lei e sua sorella? Bella balla<br />

il lieto fine.<br />

Non ero io il capo, per fortuna.<br />

Il capo aveva un figlio, peraltro, e parlava quindi da un<br />

punto di osservazione privilegiato. Il figlio però se lo teneva<br />

ben nascosto. Il suo era un controcanto appena percepibile.<br />

Ne parlava poco, per lasciarlo crescere tranquillo, diceva lui,<br />

ma in realtà era che non sapeva da quale punto della terra<br />

cantava suo figlio. Non sapeva come, dove e per chi. Non<br />

parlava di futuro, perché era di cattivo umore e scaramantico.<br />

Non credo che non parlare dei propri figli aiuti i genitori.<br />

Bisogna farlo, secondo me. È fondamentale creare delle<br />

pause e poi condividerle. Le pause tra una poppata e l’altra,<br />

tra un rimprovero e un bagnetto, tra un divieto e un regalo.<br />

Mi pare. Pause di riposo e riflessione. Pause d’altro. Le pause<br />

sono la parte più vera di noi, e quelle pause vanno riempite<br />

parlando di noi, dei nostri figli, se ci sono, di quello che<br />

insomma sta intorno alle pause. Invece Ietta taceva.<br />

Ci facevamo entrambi degli scrupoli pensando ai denti<br />

sporgenti e alla vestaglia informe di quella ragazzina sfiorita.<br />

Come era questa ragazzina?<br />

Mi era stata tatuata in testa così come era venuta fuori<br />

171


dalla descrizione fattane dai caramba la mattina dell’omicidio.<br />

Una ragazzina gracile, ma apparentemente robusta nello<br />

spirito. Una specie di uovo bollito. Col guscio dipinto a<br />

mano. Ad ogni modo, certi scrupoli non mi impedivano di<br />

sentirmi costantemente accanto l’afflato gelido di quel primo<br />

cadavere; un monito tetro. Figli ancora nessuno, ma cadaveri<br />

adesso sì. Possedevo un cadavere, anche quella era una degenerazione<br />

di un principio generale: la vita. Era quasi come<br />

avere il morto accanto nel letto, a ingombrarne la metà vuota,<br />

ogni notte.<br />

Mi sarebbe piaciuto spedire in busta chiusa al tribunale il<br />

nome di un assassino pronto per la condanna. E chiudere<br />

così. Sarebbe stato un grande inizio per me: condannare un<br />

uomo; magari raccontare in giro quale essere mostruoso avevamo<br />

incastrato. Il mio mostro, il peggiore di tutti, sfruttava i<br />

percorsi delle farfalle in volo. Che colpo sarebbe stato! Come<br />

mi sarei sentito leggero. Leggero e perdonato come certe mattine<br />

sotto gli occhi di Angela, al risveglio, di domenica. Solo<br />

lei mi guardava così, mi voleva, e sapeva chi ero; cosa guardava<br />

e cosa aveva già guardato coincidevano, e quella coincidenza<br />

mi nettava e mi toglieva peso. Avevamo qualche certezza.<br />

In fondo.<br />

Non posso farne a meno. Ho bisogno di un ricordo felice.<br />

Il mio futuro da solo non mi basta. Non ho placente gonfie,<br />

io.<br />

172


XII CAPITOLO<br />

Ad ogni modo, pur lasciando da parte il periodo<br />

prenatale, la mia lotta col padre mi sembra quanto<br />

mai varia e lunga da poter essere argomento di<br />

una storia…<br />

Giuseppe Berto<br />

“Ormai è troppo tardi, Angela”.<br />

“Che cavolo vuol dire: troppo tardi? Lo volete chiudere<br />

contro ignoti con tutti gli elementi che avete? Ma che roba,<br />

siete… delle pecore. Non si può così”.<br />

“Non abbiamo niente di veramente significativo. Solo elementi<br />

che… tra loro non…”<br />

“E allora? L’intuito dell’investigatore dov’è finito? E la<br />

bambina? E scusa, dai! Lo dovete fare almeno per lei”.<br />

“Appunto”.<br />

“Cosa appunto?”<br />

“Lo sai”.<br />

“Noi donne la vediamo in modo diverso. Noi donne la<br />

vogliamo davvero la verità. Non ci spaventa. È un pensiero<br />

che fa troppo schifo? Non cancellatelo. Non so, partite dalla<br />

discoteca, ecco, per esempio. Oppure chiedete alla madre o<br />

andate in palestra. C’era pure un’altra donna che frequentava<br />

la palestra con assiduità in questa storia, chi era? Sì, la moglie<br />

del morto. Mi pare. Non è vero che era lei? Ecco, fate qualcosa.<br />

Tipo questo”.<br />

“Sì, vero: la moglie del Corietti”.<br />

“Ecco”.<br />

“Ma guarda te. <strong>La</strong> palestra è proprio la stessa. Abbiamo<br />

fatto dei controlli. E quindi? Niente. È la palestra più attrezzata<br />

del quartiere; frequentata da un pozzo di gente. E quindi?<br />

Niente. Ci andavano la moglie della vittima, la moglie<br />

173


dell’amante e la figlia della proprietaria del negozio. E quind<br />

i ? ? ”<br />

“Pure il farmacista?”<br />

“Il musulmano non fa ginnastica”.<br />

“<strong>La</strong> moglie?”<br />

“Tanto meno. Devi vedere che fianchi. No, evidentemente<br />

la moglie preferisce un altro genere di movimento”.<br />

“E i preti?”<br />

“Smettila!”<br />

“Non deve essere facile crescere senza un padre. Non<br />

credi? Un po’ come quella ragazza, quella che è venuta da voi<br />

a parlare male della pretaglia locale. Quella lì. Anche quella è<br />

sola come un cane. No? Può servire un padre. Non si discute<br />

che può servire. Lo stesso dicasi per la figlia della Florio.<br />

Mi pare ovvio”.<br />

“Dipende dalle madri pure. Cioè, ci sono padri inutili<br />

quando le madri bastano. Ci sono madri che addirittura avanzano,<br />

se è per questo. Non mi far fare questi discorsi stupidi!”<br />

“Si resta sempre un po’ zoppi comunque, se non c’è un<br />

padre o qualcuno che ne rivesta il ruolo. Si zoppica. Vediamo,<br />

aveva un fidanzato? <strong>La</strong> ragazzina, intendo. Ce l’aveva o no<br />

una storiella? È normale avere una storiella a quell’età. Se<br />

non ce l’aveva vuol dire che c’era nell’aria qualcosa di strano.<br />

Secondo me. Trovate gli amici. Avete individuato amici pericolosi?<br />

Figure losche? E dai! Ma vi devo dire tutto io?”<br />

“Niente, solo compagni di scuola. I preti non li frequentava.<br />

C’era un gruppetto, due amiche fisse, nient’altro. Ah,<br />

dimenticavo, abbiamo risentito di nuovo il Pace. Per l’ennesima<br />

volta. Non ti dico lo strazio. Io, se Ietta lo convoca ancora,<br />

mi do malato”.<br />

“Quando è morto il padre della bambina con la farfalla?”<br />

“Circa sei anni fa”.<br />

“Gli anni peggiori in solitudine. E tu la vorresti una femmina?”<br />

“Piccola, però, me la devi fare piccola. Da come ne parli,<br />

sembra che mi vuoi portare a casa una diciottenne”.<br />

“Eh, ti piacerebbe eh? Magari come una di quelle utili<br />

anche a mandare avanti il tuo solitario appartamento”.<br />

174


“Come?”<br />

“Non hai detto che stai cercando una donna delle pulizie?”<br />

“Ah, sì, non ti ho detto che me ne ha trovata una la moglie<br />

di Ietta? Sì. Una signora che prima andava a casa loro. Adesso<br />

viene da me. Parla quanto una predica, ma è brava. È venuta<br />

già tre volte. Ha eliminato covoni di polvere. Viene la mattina:<br />

parla e lava tazze, cambia le lenzuola, lava quello che ho<br />

usato per giocare a calcio, spazza; le solite cose, insomma.<br />

Alza le persiane che, fosse per me, le lascerei sempre tirate<br />

giù, per non far fatica. Tanto piove e non c’è mai una sorpresa<br />

che sia una. Le lascio i soldi sul tavolo della cucina. Cerco<br />

di non rispondere alle domande che fa. Ma ne fa tante.<br />

Cavolo! Mi ha pure portato il vino che fa il marito in campagna.<br />

Che ne sa lei che non mi piace. Non mi andava di rifiutare”.<br />

“Diciotto, venti anni?”<br />

“Sessanta. Le ho fatto pure il duplicato delle chiavi di<br />

casa”.<br />

“Comunque dicevo un’altra cosa. Dicevo… Vorresti un<br />

maschio o una femmina?”<br />

“Non fa differenza”.<br />

“Non è vero”.<br />

“Una femmina, allora”.<br />

“Perché?”<br />

“Per esserne geloso”.<br />

“Perverso”.<br />

“Lo sai come sono. Non mi fare domande, allora”.<br />

“Io pensavo che volessi una femmina per non rischiare di<br />

riprodurre con un figlio maschio il tuo rapporto con papà”.<br />

“Perché? Che c’è di male nel rapporto con mio padre?”<br />

“Ah, sì? Te lo dico un’altra volta”.<br />

“A proposito: sabato siamo a pranzo da lui”.<br />

“Eccolo qui. Pranzo di famiglia? Lui sa qualcosa del caso<br />

che state portando avanti?”<br />

“No, non credo. Se tu non hai detto niente non lo sa; ché<br />

da me, è certo, non ha saputo niente”.<br />

“E ai nipotini? Qualcuno in famiglia ha mai accennato ai<br />

175


nipotini? O si parlerà solo di politica e di piante sempre verdi<br />

a casa tua?”<br />

“No, non gli ho raccontato niente. Perché non ho l’assassino.<br />

Che glielo dico a fare se non ho l’assassino? E lo stesso<br />

vale per i figli”.<br />

“Mamma mia, quanto sei figlio!”<br />

“Mi sembra di dovergli dei risultati. Solo questo”.<br />

“Che destino che ti sei scelto! Dovremmo frequentare di<br />

più gli amici. Per distrarti dai tuoi obblighi”.<br />

“Quali amici?”<br />

“Appunto, quali? Coppie, coppie di amici”.<br />

“Per fare cosa?”<br />

“Per frequentarsi”.<br />

“Dici?”<br />

“Dico, dico”.<br />

“E di che parliamo con questa gente?”<br />

“Di quello che facciamo. Magari ripeschiamo qualche vecchia<br />

conoscenza e la rinverdiamo”.<br />

“Ma poi diventa un legame…”<br />

“Perché adesso invece a cosa sei legato?”<br />

“A niente”.<br />

“Sì? Povero te”.<br />

“A te”.<br />

“Ecco. E al tuo bisogno di risultati certi”.<br />

“Dici? Gli amici? Dici? E se poi entriamo in competizione?<br />

E se cominciamo a confrontarci e a deprimerci? No, no.<br />

No”.<br />

“Cioè?”<br />

“<strong>La</strong> casa, i figli. Io ce l’ho, tu non ce l’hai… Le comitive,<br />

sai com’è, no?”<br />

“Sei pazzo”.<br />

“No, guarda: è sempre così tra amici”.<br />

“Ma che ne sai tu? Io mica voglio una comitiva. Parlo di<br />

persone, io. Con cui confrontarmi”.<br />

“Eh, che ne so, che ne so. Si fa presto a dire persone. Quali<br />

persone?”<br />

“Ti farebbe bene confrontarti, invece”.<br />

“Tu dici?”<br />

176


“Ma smettila! Senti un po’: la testimonianza oculare sembra<br />

interessante. Dovevate torchiare a dovere il tizio. Se quello<br />

è venuto a trovarvi è perché ha delle cose in testa, cose da<br />

buttare fuori. Non potete far finta di niente”.<br />

“Non faccio finta. Non lo faccio mai. Il superficiale è quello<br />

lì, mica io. Parlava di due lunghe figure nere. E basta. Che<br />

è come dire niente di niente. Come la paura e basta. E che ce<br />

ne facciamo di due ombre? Siamo pieni di idee, possibilità,<br />

opinioni, sensazioni. Tutta materia che non porta a nulla. <strong>La</strong><br />

verità secondo me è un’altra cosa”.<br />

“E cosa è la verità?”<br />

“È per quella che mi tormento”.<br />

“Magari se approfondite…”<br />

“Io ho approfondito. Senti, basta, eh?”<br />

“Una storia incerta di ragazzine e uomini neri? Questo è<br />

quello che credete di aver fatto venir fuori? Siete sicuri?”<br />

“Così”.<br />

“Raccontami meglio del Pace. È come se mancasse un collegamento.<br />

Non mi convince: ci deve essere qualcosa di più”.<br />

“Guarda, io proprio non so cosa dirti”.<br />

“Manca qualcosa. Ma, scusami, a te non sembra che in<br />

questa storia manchi qualcosa? Il lavoro è il tuo, per carità,<br />

non voglio dire niente, ma secondo me manca qualcosa”.<br />

“Ecco, infatti”.<br />

“Che palle! E poi perché dici sempre il Pace, oppure il<br />

Ietta. Il Tizio, il Caio. Sembri scemo. Perché parli così? Non<br />

ti riconosco…”<br />

“Cerco di comprendere il lessico di questa città”.<br />

“E ci riesci?”<br />

177


XIII CAPITOLO<br />

Alla fine mi ero convinto che nei luoghi, nello spazio fisico,<br />

nelle molecole, avremmo potuto rinvenire l’ultima illuminazione.<br />

L’ultima occasione.<br />

Era un giorno che tirava un vento folle, se non ricordo<br />

male. L’ultimo prima della rinuncia. <strong>La</strong> finestra senza tende<br />

nella stanza di Ietta si affacciava su un vicolo sottile e scuro<br />

come l’interno di una canna di fucile, tutto ugualmente grigio,<br />

più simile alla tromba di un ascensore piuttosto che a<br />

pezzi di cielo e muri e strada, sfiorati dall’aria umida che precipitava<br />

verso il basso. Negli angoli si ammassavano resse di<br />

foglie. Si sollevavano come risate stropicciate in mulinelli. Era<br />

un vento che rimaneva intrappolato nelle strade, senza altra<br />

via di fuga, suonava dentro uno strano clarino, facendo il<br />

verso delle civette. Strappava i cappotti dalle spalle. E i cappelli,<br />

se non trattenuti con le mani. Forse pioveva; non era<br />

facile capire se pioveva o no: in quella città era sempre tutto<br />

fradicio come dopo una spruzzata. Nel centro abitato, come<br />

in una sintetica location, andavi a sbattere ogni mattina contro<br />

sipari opachi che non erano vera pioggia, ma qualcosa di<br />

simile.<br />

E sopra ogni cosa il vento. Così rumoroso e scomodo, lo<br />

ricordo benissimo quella mattina, come un impiccio materiale<br />

ai pensieri.<br />

Ietta disse – e gli scappava il mento dalla faccia, parlando<br />

– che erano pronti gli esami del RIS. Avevano lavorato per<br />

178<br />

Enid sentì che niente poteva più uccidere le sue<br />

speranze, niente. Aveva 75 anni e intendeva cambiare<br />

alcune cose della sua vita.<br />

Jonathan Franzen


giorni sul luogo dell’omicidio, ma i risultati facevano piangere<br />

tutti, tecnici e curiosi. Ietta ci aveva dato una sguardo veloce,<br />

pagine e pagine, ma quello che contava era nelle ultime<br />

quattro righe.<br />

I luoghi. Dal luogo si sarebbe dovuta cogliere la psicologia<br />

dell’omicida. I suoi ultimi pensieri cavalcanti e scossi prima di<br />

impazzire; gli ultimi gesti. Invece. Perfetto, un silenzio perfetto<br />

era descritto in quelle quattro righe e non in modo sintetico.<br />

Cosa ci avevano raccontato i luoghi circa questa vicenda?<br />

Poco. <strong>La</strong> Libreria, via Cardone, la Farmacia, la Palestra, la<br />

Curia, la Casa d’appuntamento, la Procura. Più fondali, da<br />

sostituire di continuo per i frequenti cambi di scena.<br />

Sull’album sembrava mancare la figurina più importante. Ma<br />

quale era?<br />

Mancava qualcosa, assentiva la mia geniale Angela e, cavolo,<br />

anche a voler far finta di nulla, quella donna lì, benedetta<br />

lei, finiva sempre per aver ragione.<br />

Il dove è importante. Non per niente, io e mia moglie all’epoca,<br />

cercavamo casa. Volevamo acquistarla e cambiare il<br />

nostro dove. Borghesemente, diventare proprietari di un<br />

immobile a uso abitativo e darci in pasto all’ICI e ai suoi mille<br />

commercialisti. Nella nostra traversata matrimoniale avevamo<br />

abitato numerosi appartamenti. Niente di nostro: solo<br />

contratti di locazione soggetti alla volubilità Istat. Non che<br />

fosse vitale. I figli nascono ovunque. Infatti. Non era per i<br />

figli che volevamo comprare una casa; quella del nido, gli<br />

uccelli e le pagliuzze, è un’invenzione. Una delle tante in<br />

materia. Al contrario, semmai, volevamo figli per la stessa<br />

patologia per cui bramavamo un tetto: porre fine alla nostra<br />

austera precarietà. Eravamo formiche, solo formiche. Che<br />

fanno le formiche senza un formicaio? Dove le sistemano le<br />

loro molliche? Troppe molliche, comunque, tonnellate di<br />

molliche, da rimanerci schiacciati e ugualmente affamati. Ci<br />

eravamo appesantiti di rimasugli inutili, pur in assenza di<br />

scelte definitive. Nessuna delle nostre scelte lo era stata davvero<br />

fino ad allora. Io credo. Il provvisorio sedimentava senza<br />

pazienza qua e là. Angela, che si lamentava rumorosamente<br />

179


del disordine e della polvere, in verità non faceva nulla per<br />

cambiare la situazione. Tanto siamo qui ancora per poco, diceva,<br />

lanciandosi in pasto alle sue allergie. Era un precario<br />

dimorare di coppia, il nostro, enormemente stabile, ormai.<br />

Nonostante tutto, qualche anno fa, la casa l’abbiamo comprata<br />

davvero. In comunione dei beni, perché siamo scaramantici.<br />

Il trasloco delle nostre montagne di provvisorietà,<br />

però, ci è costato una fortuna.<br />

Angela mi aveva minacciato di morte se non avessi partecipato<br />

nel corpo quanto nello spirito alle grandi manovre. Ho<br />

sentito di mariti che sono usciti per andare al lavoro una mattina,<br />

e alla sera sono rientrati nel nuovo appartamento già in<br />

ordine. Storie di casalinghe anni Cinquanta. Noi invece traslocammo<br />

subito dopo un’estate gonfia di scirocco e sabbia,<br />

e io presi quattro giorni di ferie. Non fu un’impresa facile, ma<br />

rivelatrice. <strong>La</strong> cosa peggiore fu svuotare lo sgabuzzino. Se si<br />

tratta di una sistemazione abitativa provvisoria, lo si intuisce<br />

da come è tenuto lo sgabuzzino; se è tutto un rinviare, accatastare,<br />

un perdere e ritrovare, allora puoi essere certo di trovarti<br />

in una casa in affitto.<br />

<strong>La</strong> nostra casa oggi è soprattutto un corridoio. Una striscia<br />

su cui poggiano diversi stati d’animo, onde di diversa altezza,<br />

odori di arrosto o bagno schiuma; le voci del telegiornale o<br />

l’abbaiare del nostro cane. Una grossa testa bitorzoluta, di<br />

nervi e sangue, che cambia la parrucca. Solitudini diversificate<br />

solo dal passo.<br />

Era tanto tempo fa. Una sera, ormai il contratto con il venditore<br />

era stato perfezionato in ogni minuzia e si aspettava<br />

solo che fossero completati gli ultimi lavori di ristrutturazione<br />

per il nostro trasferimento, una sera, dicevo, Angela era<br />

andata a chiudere le finestre nella nuova casa perché sembrava<br />

dover scoppiare un temporale da un momento all’altro e<br />

non volevamo allagare tutto. Era stata sua l’idea, non mia. Era<br />

sempre preoccupata per lo stato della sua futura casa. Ci passava<br />

di continuo davanti in macchina, per vedere se era tutto<br />

regolare. Mi faceva fare gli appostamenti in incognito, con<br />

occhiali da sole e baffoni neri. Quella volta qualcosa andò<br />

180


storto: tornò a casa tardi che era un fantasma zuppo. Aveva i<br />

capelli incollati alla faccia e le dita che vibravano. Non so cosa<br />

avesse visto nella casa di nostra proprietà ancora vuota,<br />

entrando da sola nel buio, nel silenzio, in un tratto di tempo<br />

ancora inutilizzato. Parlava di odori che non c’erano, che<br />

mancavano, ed era scioccata da questa abnorme assenza d’odore.<br />

Le avevo detto che è pericoloso sottoporsi senza controllo<br />

a certe visioni future. Che troppo desiderare alla fine<br />

può essere dannoso. Ha risposto netta che non sarebbe mai<br />

andata a vivere lì. Che quel futuro notturno e umido non le<br />

interessava affatto, anzi, ne era terrorizzata. Quella era una<br />

gravidanza che non voleva. Adesso non mi va di far della facile<br />

psicoanalisi: la famiglia d’origine, infanzia, i traumi che<br />

restano incatenati ai luoghi, e ai luoghi che contengono altri<br />

luoghi come scatole cinesi. Ad ogni modo, abbiamo fatto il<br />

trasloco come previsto dopo qualche giorno dal temporale. E<br />

buonanotte.<br />

Non avevo bisogno di spiegare a Ietta il mio pensiero legato<br />

ai luoghi. Lui già lo conosceva; era anche lui un proprietario<br />

immobiliare. Era parte dell’universo composto da agenzie<br />

immobiliari, notai, banche, uffici catastali, negozi d’arredamento,<br />

armadi, donne delle pulizie e altri temporali. Per questo<br />

anche lui voleva tornare negli spazi fisici dell’indagine. Al<br />

più presto. Riandammo.<br />

Gli accertamenti tecnici avevano sintetizzato alcune chiavi<br />

di lettura.<br />

Le impronte. Una quantità imprecisata di impronte, oh<br />

quante, ma non ancora attribuibili ad alcuno. Niente sangue<br />

straniero. Nessun altro reperto. Nulla da approfondire tecnicamente<br />

con una superperizia, con superperiti per supermorti<br />

ammazzati. Deduzioni: il morto si era dissanguato, l’assassino<br />

invece era stato solo ferito. Era possibile, per quanto<br />

improbabile. Le impronte più recenti erano sul telefono, sul<br />

primo cassetto di un mobile in ciliegio che raccoglieva documenti<br />

contabili, e sulla cassa. Si trattava di impronte diverse<br />

tra loro, appartenenti ad almeno tre diversi individui. <strong>La</strong> circostanza<br />

poteva significare alcune cose:<br />

181


1) L’assassino non era solo, e questo, in qualche modo,<br />

confermava il miraggio delle due figure alte e nere in prossimità<br />

del negozio, sfuggite al racconto sonnolento del nostro<br />

unico testimone oculare.<br />

2) Più di una persona era passata dalla libreria quella mattina,<br />

ma questo non significava che si trattasse dell’assassino;<br />

le impronte potevano essere lì da giorni e quindi scarsamente<br />

interessanti.<br />

Bisognava vedere con i nostri occhi. Eravamo frastornati<br />

da vagoni di carta da leggere, mentre quello di cui anche noi<br />

avevamo davvero bisogno, era toccare gli oggetti. Di fare<br />

esperienza tattile. Ogni cassetto era stato vuotato e i documenti<br />

visionati pagina per pagina; tra questi erano stati trovati<br />

due scontrini della farmacia risalenti a un mese prima. Il<br />

telefono era muto dentro a un involucro di plastica. In pensione<br />

anche quello. Avevano fatto ordine. Gli altri, con noi.<br />

Attenzione: la mattina prima dell’omicidio nessuno aveva<br />

usato quel telefono. Tabulati lindi. L’ultima telefonata risaliva<br />

al pomeriggio precedente. Si trattava dello squillo della vittima<br />

al suo amico del cuore. Prima di quella, intorno all’ora di<br />

chiusura per il pranzo, era stata fatta una telefonata dalla proprietaria<br />

del negozio alle sue figlie. Lunga. Non c’era modo di<br />

conoscerne il contenuto purtroppo, e fissare l’apparecchio<br />

telefonico, nella speranza che parlasse, non serviva a nulla. In<br />

un angolo, sul fianco di un mobile in legno scuro con le ante<br />

serrate, nonostante la tempesta, c’era ancora un gancio a<br />

pressione; uno di quelli di plastica bianca che l’umido stacca<br />

inesorabile. A quel gancio restava appeso un grembiule nero,<br />

uno tipo bidello del libro Cuore. Forse l’indossava la vittima<br />

quando vestiva i panni da commesso, non però la mattina dell’omicidio.<br />

Non ce lo aveva indosso quella mattina.<br />

Curiosando nelle tasche, avevano beccato una bustina di un<br />

noto analgesico tutta stropicciata. Di certo già scaduta.<br />

Di nuovo. Ancora il mal di testa? Il filo rosso. Come per la<br />

vecchia pazza. Forse quel poveraccio soffriva di cefalea, considerato<br />

anche gli scontrini della farmacia, all’interno della<br />

quale chissà quante volte aveva messo piede. Il dolore era<br />

arrivato ben prima della morte. Il filo rosso era quel dolore<br />

182


specifico? Idea mica tanto originale, a dire il vero. Meglio<br />

quello, che nessun filo, però. Esistenze segnate dal mal di<br />

testa. Teste malate. Teste da curare. Che altro? Ricordai che<br />

anche la vecchia lamentava lo stesso problema, e chissà quante<br />

altre esistenze intorno a noi, obbligate alla somatizzazione<br />

della fatica e del disagio. L’uomo è proprio nato per soffrire!<br />

Alcuni uomini in particolare.<br />

Noi, dal canto nostro, dopo vagoni di carta, ci recammo<br />

sul posto. Dopo un giro nel puzzo marcio del negozio, che di<br />

sacro aveva ormai solo la considerazione del trapasso e la<br />

nebbia soffice dell’incomunicabilità, decidemmo di andare a<br />

fare un giro nei locali della Curia.<br />

Strano andarsene in giro in una tomba. Ti vengono in<br />

mente pensieri assurdi, e non puoi scambiarli con altri più<br />

azzurri. Il senso della vita, il senso della morte, filosofie di<br />

questa natura per uomini semplici. Pensieri che non riuscivo<br />

a trasformare in concetti o colori. Solo disgusto infecondo.<br />

Andammo, comunque.<br />

Avevamo deciso di arrivare alla Curia passando per il corridoio<br />

interno alla libreria. Più suggestivo, più vicino al crimine.<br />

Almeno così ci faceva piacere credere. Non c’erano cicche<br />

in terra sfuggite ai Ris, io guardavo anche per potermi prendere<br />

al soddisfazione di dire che quei ganzi si erano sbagliati,<br />

invece niente; non c’erano fogli di carta con confessioni<br />

nascoste in qualche anfratto e poi dimenticate. Peccato. <strong>La</strong><br />

luce era solo quella che filtrava dalle vetrine, poiché la corrente<br />

era stata staccata. Per il forte vento, le foglie secche sfuggite<br />

ai marciapiedi, si erano infilate negli angoli all’interno dei<br />

corridoi in composizioni d’arte povera. Provammo a percorrere<br />

il passaggio lentamente. Nessuna traccia di sangue;<br />

anche chinandomi a guardare più da vicino, niente. Sui muri<br />

solo il tempo e la muffa, ne conseguiva che, o l’assassino, uno<br />

o più di uno, non era passato attraverso quel budello umido<br />

e angusto, oppure era riuscito a non sanguinare proprio lì,<br />

grazie a una garza, un cerotto, forse un tampone acquistati in<br />

farmacia. C’era, infatti, una farmacia in zona per l’acquisto di<br />

certi articoli essenziali al crimine.<br />

Guardare era il vecchio metodo. Guardavamo per terra, ai<br />

183


lati, sul soffitto. Neppure un capello. Un assassino calvo o<br />

impomatato, con una cuffia in testa come un panettiere o con<br />

un cappello? I preti spesso hanno capelli di propilene, come<br />

quelli di Big Gim, incorporati alla scatola cranica, quasi fossero<br />

d’inchiostro. Il nostro Pace innamorato, invece, aveva<br />

una zazzera scura, sguisciante e umida, che segnava la linea<br />

curva delle orecchie e poi le vene del collo, fino a insinuarsi<br />

dentro il maglione. E il giordano poi? Sulla sua testa d’asfalto<br />

lucido, immobile, contenuta ai lati da una qualche pomata<br />

grassa, c’erano solo linee rette, regolari, rigide, larghe ma<br />

sicure; ci potevano circolare i tir.<br />

Per quanto ci si muovesse con lentezza, era come stare con<br />

entrambi i piedi nudi dentro un grosso bidet, mentre l’acqua<br />

scorreva verso la fogna. Veloce. Irriverente, ma inevitabile.<br />

C’era pendenza e ghiaccio, e noi, senza volontà, acceleravamo<br />

la fuga dei passi. Tenni per me l’ansia che ne scaturiva.<br />

Era un corridoio buio con alcune sedie di paglia poggiate<br />

contro il muro. Proseguimmo sempre più lesti, in fila indiana,<br />

scortati dai caramba. Di rado i caramba che incontri durante<br />

un’indagine, giorno dopo giorno, restano sempre gli stessi;<br />

questione di turni. A parte la divisa, che è invece sempre la<br />

stessa, le facce cambiano. Per il Sergente Garzia, c’era da fare<br />

però un discorso a parte, per la sua operosità sudaticcia, tanto<br />

di cappello. Quello, se poteva, c’era sempre. Chissà come<br />

davvero si chiamava quel cicisbeo sferico: proprio non me lo<br />

ricordo. Il maresciallo, dicevo, ci veniva a trovare di continuo,<br />

sospetto a causa di una sorta di rapimento professionale<br />

nei confronti dell’eloquio di Ietta capo e della sua mite rudezza.<br />

I caramba che il comando ci mandava di volta in volta,<br />

invece, erano diversi, ma sempre in due, proprio come nelle<br />

barzellette, pagati per seguirci ovunque. Soprattutto in quell’angusto<br />

passaggio segreto. Noi avanti, loro dietro.<br />

Alla fine del corridoio, una porta stretta e bassa, in stile<br />

fine ottocento, tra muri spessi un metro. Eccola. Chiusa.<br />

Tentativo fallito. Forse il varco era stato richiuso dall’interno<br />

dopo l’inizio delle indagini. Nessun problema. In Curia si<br />

arrivava comunque, volendo, anche senza appuntamento.<br />

C’era sempre l’ingresso principale da prendere in considera-<br />

184


zione. <strong>La</strong> grande porta che dava sulla strada principale.<br />

Tornammo indietro. Per la proprietà commutativa, i caramba<br />

davanti, noi dietro.<br />

Una volta fuori, di nuovo la strada.<br />

Attraversammo il grande portone di ferro, proprio mentre<br />

ne uscivano due monache vestite color avio, pronte a decollare,<br />

seguite da una decina di bimbetti a quadretti. Dieci cavallette<br />

e due giraffe. Dentro si sviluppava un cortile superiore a<br />

ogni sospetto, non immaginavamo tanto spazio, la superficie<br />

era enorme e cotonata ai lati dai riccioli gonfi di un portico<br />

romanico. Ad intermittenza, tra una colonna e l’altra, spuntava<br />

il lembo nero di qualche abito clericale, rapido.<br />

Sulla porta ci chiesero chi eravamo e citare la Procura funzionò<br />

da grimaldello.<br />

Chiedemmo di don Oreste, anche se non era lui che cercavamo.<br />

Avevamo bisogno di un nome. Qualsiasi nome, purché<br />

dell’ambiente. Facemmo un nome rotondo come si fa negli<br />

uffici pubblici, per evitare la fila. Non cercavamo l’uomo, ma il suo<br />

a b i t a r e .<br />

Guarda, guarda, non distrarti. Mi esortava il capo, sottovoce,<br />

con una faccia rischiarata da una giornata che sembrava<br />

stranamente primaverile. All’improvviso, dopo tutto quel<br />

vento. A sorprenderci, a renderci più lievi. Forse per il contrasto<br />

tra il cunicolo e il cielo, Ietta pareva un ragazzino in<br />

gita.<br />

Don Oreste ci accolse tra i suoi tendaggi vellutati, scivolando<br />

sul parquet, manco avesse ai piedi le pattine di lana<br />

della brava massaia. Guarda, oh, ragazzo, guarda, continuava a<br />

ripetere il capo. Gli arredi venivano da via Cardone, dal negozio<br />

maledetto, non c’era alcun dubbio: i quadri, i calici, i<br />

distributori d’ostie e indulgenze. Stile inconfondibile. Il<br />

luogo era vivo come un’ala di pollo nel suo consommé caldo.<br />

Fu il prelato a chiederci per primo notizie fresche sull’indagine.<br />

Premuroso, non c’è che dire. Parlò per primo, vestendo<br />

di porpora il nostro imbarazzo. Niente di nuovo signor giudice?<br />

Poi fece un commento carico di opportuna pietà circa<br />

le difficoltà del nostro mestiere. Un lungo, comodo, inutile<br />

commento, alla fine del quale, il cicerone si offrì come volon-<br />

185


tario per un giro a contenuto socio-culturale. Era come camminare<br />

sui cirri. Nessun rumore di corpi. Bello il posto e questo<br />

era importante. Per chi apprezza il genere. Se un luogo<br />

sceglie di essere piacevole c’è un motivo, c’è una necessità da<br />

soddisfare. Gesù è sempre stato fotogenico, per esempio. O<br />

perlomeno così è stato pensato, per piacere a molti. Sarebbe<br />

stato facile fare battute sul diavolo e l’acqua santa, ma Ietta<br />

continuava a guardare senza fermarsi, girando la testa di qua<br />

e di là come fanno i bambini. Non solo gli occhi, no, lui sbatteva<br />

la testa a destra e a manca. Avesse trovato la porta di uno<br />

sgabuzzino, anche la tenda di un confessionale, si sarebbe<br />

infilato dentro senza pensarci un secondo, a cavar ragni. Il<br />

segugio. Si teneva le mani volontariamente ammanettate dietro<br />

la schiena, tanto strette da sembrare gobbo per lo sforzo,<br />

e cercava, cercava. Cercava facce di poco conto, facce comuni<br />

di uomini o donne magari intravisti altrove; facce da libreria,<br />

facce da via Cardone. Chissà che cavolo cercava, benedetto<br />

uomo, ché tanto, gira e volta, s’incrociavano solo facce di<br />

chiesa, bastoni ricurvi, vecchiaie che resistevano perché battevano<br />

ancora le carte, lezioni nere come lavagne, da cui tutto<br />

deve essere subito lavato via. Messaggi statici. Sembravano<br />

cani, cani a muso basso. Anche noi sembravamo cani, di razza<br />

diversa però. Segugi. Eravamo perfetti; quasi della loro stessa<br />

altezza, nei diversi ruoli. Un canile silenzioso. Noi e loro. Così<br />

eravamo perché così volevamo essere; almeno per un ultimo<br />

giorno di caccia.<br />

Poi Ietta vide il gabbiotto del centralino. C’erano suoni,<br />

voci umane lì dentro. Fece una domanda al centralinista, che<br />

non era un prete. Quello disse che aveva parlato molte volte<br />

con il negozio accanto; aveva il numero in rubrica, infatti.<br />

Disse di aver parlato alcune volte anche con il Corietti, per<br />

esigenze della Curia; si ricordava benissimo il canto telefonico<br />

dell’usignolo.<br />

I centralinisti si ricordano le voci, è chiaro. Le figure circolanti<br />

nel covo dei preti potevano pure essere volutamente<br />

opache, ma le voci descritte dal centralinista erano vero cristallo.<br />

Meno male. Poi questo era pure uno di quei centralinisti<br />

ciechi che lavorano per particolari agevolazioni di legge. E<br />

186


pure fantasioso, nel suo dare al suono una valenza superiore.<br />

Quasi visionario, mi si passi l’aggettivo. Il massimo. Pensava<br />

fosse molto giovane questo povero Corietti, con quella sua<br />

voce soave, che ammaliava. Tra le sue visioni c’era l’idea di un<br />

puttino biondo che viveva nel suo stesso quartiere. L’avevano<br />

fatto secco al puttino, però, gli dicemmo. Non l’aveva mai<br />

conosciuto di persona; solo sentito più volte al telefono: un<br />

attimo di freschezza ogni volta, prima di passare la linea ad<br />

altri. Qui la Curia vescovile, uffici amministrativi, un attimo<br />

prego…<br />

Ma era un problema mettersi in contatto con quel negozio.<br />

<strong>La</strong> linea era sempre occupata, soprattutto nelle prime ore<br />

della giornata. Sempre occupata? Sì, sosteneva che fosse difficilissimo<br />

comunicare con la libreria per fare un ordine qualunque.<br />

Era il Corietti a usare così tanto il telefono? Ma con<br />

chi parlava il Corietti? Vita privata intensa, quindi.<br />

Deduzione ovvia: pochi clienti, ma tante telefonate. Eppure<br />

la mattina del delitto non c’era stata alcuna telefonata. Se era<br />

abitudine della vittima fare la telefonata del prolungato buongiorno<br />

al suo amato, come mai non l’aveva fatto quella mattina,<br />

prima di morire? L’ultima telefonata non si nega al condannato<br />

a morte. Non ne aveva avuto il tempo o, forse, il suo<br />

amato era venuto a trovarlo di persona? Non per risparmiare<br />

sulla bolletta, presumo. Forse aveva mentito il Pace. Forse.<br />

Cercammo di fissare nella memoria le lampade spente di<br />

quei corridoi, l’odore di cero sciolto, le sedie con la grande<br />

spalliera, i tappeti color topo, i divani glabri, duri come<br />

ammonizioni, la sala d’attesa come un festino di parrocchia,<br />

divenuto improvvisamente di portata internazionale, gli<br />

occhiali scuri del centralinista e il portiere di colore; la fontana<br />

asciutta sotto il portico al momento dei saluti, e andammo<br />

via. Non era stato vano lo sforzo, tant’è che ancora adesso ho<br />

tutto in mente.<br />

E comunque il lavoro è fatica. È bene saperlo. Forse per<br />

questo apparivo stanco al mio maestro, e guardandomi,<br />

anch’egli si stancava, per l’effetto specchio della didattica.<br />

Stanchi entrambi. In un primo momento avrei voluto essere<br />

187


fortemente collaborativo, ma invece, a tradimento, stranito<br />

dal nuovo, cominciavo a sentirmi terribilmente stanco. E non<br />

riuscivo a fingere di non esserlo. Anch’io come il mio amico<br />

Ietta. Le nostre due immagini si sovrapponevano e nessuna<br />

prendeva il sopravvento. Fiacche anche le idee. Le più originali,<br />

prima messe da parte, ora erano infilate in un sacco alla<br />

rinfusa. Ho presente i bussolotti di legno numerati per la<br />

tombola di Natale, stretti con un laccio nel sacchetto, da tirar<br />

fuori secondo la fortuna, a conferma dell’esistenza stessa<br />

della fortuna. Così. Ci sentivamo pure un po’ in colpa. Non<br />

so come mai. Forse, per natura, o magari per educazione,<br />

dopo una gita a casa di Dio, si ha sempre un po’ voglia di<br />

buone azioni. Di redimersi. Forse non vale per gli tutti gli<br />

uomini, forse vale solo per alcuni uomini, tipo quelli come<br />

me, abituati a godere della sicurezza di alcuni precisi modelli<br />

da imitare.<br />

Ecco: i modelli tradizionali cominciavano a scarseggiare.<br />

Pativo le differenze.<br />

Nella mia città, per esempio, nei luoghi assolati di sempre,<br />

avrei camminato per ore senza soffrire, come fanno i gatti,<br />

sulla punta di certi amichevoli precipizi, con quattro unghiate<br />

da rocciatore. Avrei rintracciato in qualcosa di certo il mio<br />

abituale scompiglio meridionale e messo ordine con soli due<br />

gesti, sempre gli stessi. Avrei scelto, tra le cogitazioni del<br />

momento, quella più sana, e sarebbe stata sovrana indiscussa<br />

tra le altre possibili; questa stessa avrebbe impartito ordini e<br />

tenuto tutti gli altri pensieri in fila, come soldati in rassegna.<br />

Sarei stato meglio.<br />

Fuori sede, invece, regnava un ordine superiore, cosmico<br />

e ignoto, difficile anche da riprodurre e mi veniva una gran<br />

voglia di sbadigliare. E di sbagliare. Mi trascinava altrove, mi<br />

distraeva, mi molestava. Non rintracciavo un codice. Colpa<br />

della città.<br />

C’era da dire, però, che pur nella sua rigida insipienza, la<br />

città che mi ospitava occasionalmente riusciva anche a divertirmi.<br />

L’amministrazione curava il verde, funzionava, sì funzionava,<br />

e io la sera sul tardi, a volte, me ne andavo per parchi, tra<br />

188


uccelli strani, cominciando a meditare sull’acquisto di un<br />

cane. Nel dopo cena solitario, neppure fosse stato un bicchierino<br />

d’amaro per digerire, mi passavo tra i denti l’idea sapida<br />

di un nuovo progetto. Senza troppe pretese. Avevo fatto amicizia<br />

con uomini barbuti con cane al seguito, rigorosamente in<br />

pensione. Era un’amicizia che avevo voluto, nata non spontaneamente,<br />

ma per caponaggine. Imparavo a riconoscere e<br />

apprezzare certe categorie nuove. Le barbe soprattutto. Gli<br />

uomini con la barba sono spesso uomini interessanti. Se fossi<br />

rimasto più a lungo in quei posti, chissà quante cose avrei<br />

messo in ordine, chissà. Peccato non abitasse in quella città<br />

novella, una persona veramente importante per me, a parte<br />

Ietta s’intende, ma Ietta era un passaggio e quindi di importanza<br />

limitata nel tempo. Se ti accade qualcosa di terribile o bellissimo<br />

è utile avere una persona importante a cui telefonare.<br />

Comunque, le barbe erano divertenti. I parchi della città<br />

erano pieni di uomini con la barba e cani.<br />

Anche Ietta aveva un cane. Se un magistrato non ha troppi<br />

fascicoli sul proprio ruolo, può anche occuparsi di un cane;<br />

a tratti di una moglie, per ripetizione di un figlio e di un cane,<br />

che comunque richiedono livelli di guardia diversificati.<br />

Funziona così: se un magistrato riesce a ricordare il cognome<br />

delle parti da chiamare nell’udienza del giorno dopo; se,<br />

in altre parole, riesce a ricordare, anche solo vagamente, l’oggetto<br />

delle cause messe al ruolo del giorno, allora vuol dire<br />

che ha ancora un minimo di speranza di fare davvero il suo<br />

mestiere. Che ha ancora in mano la gestione del suo tempo e<br />

può anche permettersi di comprare la palla di gomma al proprio<br />

cane, da usare la domenica mattina.<br />

Se i suoi fascicoli, invece, cominciano a diventare cataste<br />

anonime, solo numeri e date e polvere e articoli di legge, provocando<br />

angoscia e disgusto, ma nessun ricordo lucido, allora<br />

vuol dire che sta facendo il mestiere di un altro, qualcosa<br />

di più vicino all’attività di un contabile o di un archivista.<br />

Adesso, sono passati anni da quei tempi tra le palme che<br />

figliano nei giardini interclusi della mia sudicia città del sud,<br />

lavoro secondo questa seconda ipotesi. Carta e controversie a<br />

carrettate ogni mattina, dalle mie parti, oggi, e nessuno che<br />

189


sia soddisfatto. Questa è la sacrosanta verità, senza fronzoli di<br />

cortesia!<br />

Il cane, in memoria del passato, però, me lo sono comprato<br />

lo stesso, una volta tornato a lavorare nella mia città in<br />

ristrutturazione, con il permesso di mia moglie e della sua<br />

sopraggiunta allergia. Adesso sono i parchi del nord, con il<br />

loro sguardo lindo all’orizzonte, che mi mancano, e quegli<br />

alberi saldi, messi in perfetto ordine, che non hanno bisogno<br />

di far ombra.<br />

Dopo la visita pastorale, camminammo per qualche minuto<br />

sui marciapiedi che si inseguivano a breve distanza l’uno<br />

dall’altro, tagliati a fette dalle strisce pedonali e da quelle gialle<br />

dei parcheggi riservati e dalle griglie per le biciclette. Era<br />

pieno di ruote. Rigorosamente distinte l’une dalle altre. Dopo<br />

il vento, a sorpresa, una bava di sole. Agrimi, l’autista, ci camminava<br />

davanti e la sua ombra finalmente era ricomparsa per<br />

terra e sui muri che costeggiavamo. <strong>La</strong> scolorita sagoma di un<br />

autista solerte, prodotta da un astro insulso, si stagliava sopra<br />

di noi come quella di un gigante a tre teste, perdendo il confine<br />

sui bordi. Che strana ombra produce un sole affaticato.<br />

Ho fatto caso: le ombre hanno un significato per chi è abituato<br />

a tenere gli occhi bassi, per quanti, come me, fanno<br />

attenzione a non inciampare. Nella mia città natale non si<br />

usava il cappello fino a qualche anno fa. Anche con il sole. I<br />

cappelli li portavano soltanto le persone sopra i sessanta.<br />

Senza, quando qualcuno salutava un amico da lontano, si<br />

sporgeva in avanti, muoveva appena la mano e poi era<br />

costretto a metterla sugli occhi a visiera, per non essere scortese.<br />

Se era rivolto a oriente. Altrove ci sono abitudini differenti.<br />

Nella mia città l’unica cosa importante era scegliere con<br />

cura il lato della strada su cui passeggiare. Quando mi muovevo<br />

a piedi con Angela, lei intervallava i suoi pensieri a un<br />

rituale andiamo all’ombra. Perlomeno fino a qualche anno fa;<br />

adesso il cielo del sud si è come spostato altrove: lascia passare<br />

l’acqua come un secchio bucato.<br />

190


Hai fre t t a ? Mi chiese il capo. No, non avevo fretta. Sarei<br />

dovuto ritornare a casa solo nel tardo pomeriggio di quel<br />

venerdì, perché Angela mi aspettava per una sua visita dermatologica.<br />

Quali che fossero i miei impegni, voleva che<br />

fossi presente, che sentissi anch’io tutto quello che il medico<br />

aveva da dirle. Quello di fare fronte unico davanti alla medicina,<br />

era simile al suo bisogno che mi addormentassi sempre<br />

dopo di lei, che lei potesse sentirmi sempre vigile accanto a<br />

sé, all’erta. Per la medesima ansia i responsi medici dovevano<br />

essere ricevuti in compagnia, per condividere il panico, la<br />

sorpresa. Altrimenti a chi racconti che quel medico è un<br />

imbecille, e che andrai di corsa a consultarne un altro? In<br />

quei giorni, la tormentavano delle misteriose chiazze vinaccia<br />

intorno al naso, come un trucco circense, tipo il naso<br />

rosso a palla dei clown. Questa indesiderata begonia sbocciava<br />

soprattutto al risveglio, prima di ogni altro infingimento<br />

chimico. Per questo la mia Angela lasciava andare le dita<br />

senza guinzaglio sempre più spesso, i polpastrelli come biglie<br />

a rotolare, sempre in prossimità del viso in sospettosa attesa.<br />

Si nascondeva con le mani i lineamenti, se era in pubblico.<br />

Come gli sdentati che nascondono la bocca se hanno perso<br />

la dentiera, con le mani, con i capelli, con smorfie nuove, con<br />

sorrisi paralizzati.<br />

Non avevo fretta, diciamo che dovevo garantire la mia presenza<br />

a casa entro le 19. Avevo ancora un po’ di tempo.<br />

Finiamo il giro?<br />

Si era deciso finalmente: Ietta voleva andare a far visita alle<br />

prostitute, nella periferia polposa che dava cibo ai cani randagi.<br />

Il dessert. Facciamo presto, non ti pre o c c u p a re: solo un’occhiata e poi<br />

sei libero.<br />

In macchina si faceva prima. Era meglio muoversi in macchina.<br />

Noi non guidavamo; noi dietro. Tanto c’era Agrimi che<br />

usciva dal traffico come un treno da una galleria, pur restando<br />

spalmato sul coprisedile in rafia, che tiene fresco, nel suo<br />

veicolo abusato, senza segreti, rilassato, senza contrarre neppure<br />

un’unghia. Un ausiliario addetto all’autoveicolo non<br />

bada mai a quali pieghe anomale può prendere la giacca<br />

191


uona, pur restando seduto per ore. Al massimo allunga il<br />

collo come un pellicano se sente che tira. Parla guardando il<br />

cliente nello specchietto retrovisore. Ha spesso la cifosi e<br />

cammina a piedi con lo stesso dondolio accumulato nelle ore<br />

in cui è stato seduto in auto. Guida pianissimo per prassi, non<br />

rischia, non passa mai con il rosso e intervalla brevi parole e<br />

raucedine da silenzio, a veloci scalate di marcia. Non impreca.<br />

In verità, i conducenti dei veicoli di Stato non passano<br />

così tanto del loro prezioso tempo sul mezzo assegnato, come<br />

si potrebbe pensare. Alcuni fanno anche qualche fotocopia in<br />

ufficio, altri la mattina comprano i quotidiani al capo e poi li<br />

leggono, altri portano i figli del capo a scuola o la moglie del<br />

capo dal parrucchiere, oppure restano a guardare un vecchio<br />

televisore in bianco e nero nel gabbiotto destinato alla portineria,<br />

altri sono addetti ai fax urgenti, alle comunicazioni in<br />

genere, manco fossero piccioni viaggiatori.<br />

Ma Agrimi era un uomo speciale. Uno stradario ambulante<br />

che non sbagliava un colpo. Uno di cuore, che sembrava<br />

aver incollato la sua giacca lisa a quella sinistra del capo. Non<br />

lo perdeva di vista. Aveva conformato persino la sua andatura<br />

e modificato la convergenza. Ci portò lontano dall’incenso<br />

e dallo zolfo, dando gas verso la periferia, perché era lì che<br />

stavano le donne che cercavamo.<br />

Colse perfettamente l’umore da fuggiasco del suo capo, e<br />

quindi puntò alla meta come un rapace.<br />

Un bianco mantello di case basse fiancheggiava la campagna,<br />

mescolandosi al giallo dell’erba, già divenuta adusta e<br />

dura. Tra quelle abitazioni c’era la casa che cercavamo.<br />

Le donne ci accolsero su un divanetto fiorato. Erano solo<br />

in due, ma ad abitare l’appartamento erano in realtà in tre; la<br />

più giovane frequentava dei corsi di lingue per studenti lavoratori<br />

e non era in casa. Tanto le prostitute, solitamente,<br />

hanno impegni professionali più consistenti la sera. Poteva<br />

permettersi delle divagazioni nell’attesa del buio. È sempre<br />

stato così. Il sesso cerca la notte, credo io.<br />

Non parlammo di sospetti. Chiedemmo se avevano rivisto<br />

il Pace di recente. Risposero di no, senza mentire; del resto<br />

anche i nostri agenti, eclissati nel fango della campagna lava-<br />

192


ta dalle incessanti piogge, non l’avevano visto passare da<br />

quelle parti. Dopo il fattaccio, il Pace, infatti, per tristezza o<br />

per vergogna, non era più andato a trovare le sue amiche.<br />

Erano due donne diverse, unite dalla scelta dell’arredamento<br />

di casa. Il soggiorno in cui ci accolsero era povero, disseminati<br />

ovunque tappetini con intrecci di strisce colorate di<br />

stoffa, tipo nylon, a raccogliere briciole e scarpe. Una coppia<br />

di cardellini svernava in una gabbia aperta. Tanto non volano,<br />

stanno dentro e non volano; pure a volare via che possono trovare?<br />

Loro lo sanno che qui si sta bene. Abbastanza bene. Il più<br />

scontato tra i simbolismi per donne concrete.<br />

C’era una gran luce in casa. Invenzione assoluta dopo il<br />

grigio parrocchiale. Dalle finestre s’alzava un’onda di luminosità<br />

pomeridiana e polvere, non trattenuta dalle tende, che<br />

frangeva i vetri e stordiva i cardellini. Non erano truccate, ma<br />

avevano entrambe delle gran chiome variopinte, inconsapevoli<br />

cavie di estetisti del capello in vena di miracoli. Ai colori<br />

delle teste attecchiva tutta quella luce invadente e i bulbi<br />

diventavano gioielli tenuti insieme da fermagli improbabili:<br />

matite smozzicate, pinze a forma di pescecane con la bocca<br />

aperta, fiori di carta e mollette da bucato. Creatività a basso<br />

prezzo.<br />

Raccontarono che il Corietti, negli ultimi mesi, quelli<br />

prima di morire, si era fatto vedere ben poco. Parlando, dirigevano<br />

all’unisono il naso verso l’alto, in segno di orgoglioso<br />

disappunto, là dove si faceva più prepotente l’odore di cucinato<br />

proveniente dalla finestra accanto. Da qualche tempo<br />

aveva preso a diradare le sue visite. Non veniva, né da solo né<br />

in compagnia. Non veniva e basta. Chiesi se ritenevano che,<br />

in questo allontanamento, potesse aver avuto un ruolo il Pace<br />

e loro risposero di no: il ragazzo faceva solo quello che il<br />

Corietti gli diceva di fare. Secondo loro, il fidanzato non era<br />

un problema per nessuno. Aveva la volontà di un bebé. Sì,<br />

ogni tanto faceva qualche capriccio, era vero, ma erano affari<br />

che l’amante sapeva contenere facilmente e indirizzare a suo<br />

piacimento. Piccole gelosie, che non preoccupano nessuno.<br />

Secondo le ragazze il Corietti si era allontanato semplicemente<br />

per stanchezza, perché gli uomini si stancano prima o poi,<br />

193


e cercano altri giri di cui vantarsi. Gli uomini non hanno resistenza.<br />

Gli uomini.<br />

Ci sedemmo tutti intorno allo stesso tavolo, a guardare la<br />

tovaglia di plastica gialla, con stampe di papere e coccodrilli.<br />

I raggi di luce prepotente trapassavano la faccia delle due e ne<br />

rivelavano uno spessore differente. <strong>La</strong> più in carne aveva in<br />

volto una trama spessa come garza, con piccole punture di<br />

spillo, l’altra, invece, era livida e trasparente come velina.<br />

Notai sul terrazzino, oltre i vetri, uno stenditoio di plastica<br />

che sfoggiava pigramente alcune mutandine di pizzo rosa;<br />

notai lo stenditoio e contestualmente mi accorsi del mio involontario<br />

tentativo di sedurle. Facevo pause ammiccanti. Non<br />

troppo, un poco, ma era evidente che cercavo di conquistarle.<br />

Per rendere l’atmosfera in qualche modo più familiare.<br />

Ietta chiese da quanto tempo vivevano in quell’appartamento<br />

e come mai avessero scelto proprio quella sistemazione.<br />

Tre camere e servizi al terzo piano. Case popolari. Le scale<br />

d’accesso condominiali erano scoperte, così che la pioggia<br />

gonfiava gli scalini e li rendeva più scivolosi del sapone. <strong>La</strong><br />

casa era appartenuta a un’anziana signora in origine. Te la<br />

ricordi quella, prima che le venisse un colpo di notte, nel<br />

sonno? Diceva l’una all’altra.<br />

Andiamo per ordine. All’inizio, in quella casa ci viveva una<br />

signora con la sua badante. <strong>La</strong> badante, italianissima, presentata<br />

alla vecchia da una parente, era proprio la terza ragazza<br />

della casa, quella che non era presente alla nostra conversazione<br />

perché impegnata altrove. D o v rebbe essere qui a<br />

momenti, cosa cavolo combina quella non sappiamo. Era stata<br />

impegnata a badare all’anziana proprietaria per quasi tre<br />

anni, poi quella era schiattata e con lei era venuto meno il<br />

lavoro e la compagnia. Ma non la casa. Per fortuna c’era stato<br />

il testamento olografo a far da salvagente, documento con cui<br />

l’anziana, in guerra con il mondo, aveva lasciato tutto alla sua<br />

parrocchia. Spilli e avemarie. Tutto. Con una sola condizione<br />

che la Chiesa aveva rispettato: l’affittuaria dell’appartamento<br />

al terzo piano doveva rimanere la giovane badante dai capelli<br />

colorati. Quest’ultima aveva cercato delle amiche, e si erano<br />

ritrovate in tre ad abitare quei metri quadrati per una cifra<br />

194


simbolica, che veniva versata alla Curia ogni tre mesi. Da un<br />

paio di anni, non di più. Ancora la chiesa! <strong>La</strong> Curia e il mercato<br />

immobiliare: che strano, frequente accostamento.<br />

Corietti sapeva tutto; era al corrente anche del ruolo che<br />

aveva la Chiesa in questa società di mutuo affare. Conosceva<br />

l’ambiente, lui. <strong>La</strong> Chiesa quindi c’entrava, di striscio, forse,<br />

ma c’entrava anche in questo caso. L’arcaica storia della mela<br />

e del serpente. Roba trita e ritrita, per carità.<br />

<strong>La</strong> ragazza, ormai rimasta sola nella casa della vecchia,<br />

doveva pur trovare di che sfamarsi, trovare compagnia ai suoi<br />

inevitabili sogni (ché si sogna ovunque, in via Cardone come<br />

nei quartieri popolari) e qualcuno con cui dividere le spese.<br />

Erano arrivati, così, amiche e amanti di vario genere a soccorrerla.<br />

Naturalmente, scivolando dalle mutande di cotone a<br />

quelle di pizzo, sbattute dal vento dell’antica provincia clericale.<br />

Nel bel mezzo di spifferi da sermone, appena smorzati.<br />

Delle buone amiche posso essere comode quanto un materasso.<br />

Quindi le amiche, poi anche il resto. Un po’ di uomini.<br />

Non uno, ma tanti. I soldi, pure. Ben vengano soldi e amiche.<br />

E uomini.<br />

<strong>La</strong> ragazza si era data un cadenza armonica; un ordine<br />

mentale: tutte le mattine, tranne il giovedì, faceva la fisioterapista<br />

presso un centro di riabilitazione motoria (cinesi,<br />

magnetoterapia e qualche massaggio), il pomeriggio, solo i<br />

giorni pari, c’erano i corsi di lingue; il giovedì mattina, giorno<br />

libero, dal parrucchiere. Tutte le sere, tranne la domenica,<br />

marchette.<br />

Questo era l’ultimo luogo della nostra indagine: avevamo<br />

tre vani più servizi da visitare. Ad ogni volto di donna il suo<br />

giusto regno. <strong>La</strong> cucina era abitabile e sfogava i suoi odori sul<br />

piccolo balcone assolato. Nella stessa cucina abitabile c’eravamo<br />

fermati a chiacchierare, aspettando che si ricomponesse<br />

il trio muliebre. Il Corietti, quando era ancora in vita, veniva<br />

il venerdì sera e portava una vaschetta di gelato: nocciola e<br />

bacio, con le nocciole rigorosamente intere, introducendosi<br />

in casa con grandi falcate da ballerino e facendo battute ardite<br />

sulla necessità di una dose giornaliera di baci al velluto. A<br />

volte passava anche di domenica, ma senza gelato. Era diven-<br />

195


tato uno di famiglia, non un cliente, e portava con sé gente<br />

nuova e fidata. Non credere, dottore, abbiamo fatto tutto da<br />

sole; in sicurezza però, scegliendo noi, solo noi, quello che c’era<br />

da scegliere. Hai capito, dottore: scegliendo. Ce ne sono tanti<br />

che fanno i nostri stessi affari in questa città. Si lavora bene.<br />

Noi però non siamo mogli di avvocati, architetti, medici; non<br />

giochiamo, noi. Da noi ci vengono persone semplici, che hanno<br />

pure i bisogni loro. Ci sono giri diversi, lo sai dottore, andate a<br />

vedere la sera del venerdì al Grand Hotel del centro. Tra le due,<br />

quella più in carne e più ciarliera, sembrava la più arrabbiata.<br />

Capendolo, rivolsi i miei sorrisi più tecnici all’altra. Pensai<br />

pure che potesse arrivare persino a innamorarsi di me, e del<br />

mio stile di giovane investigatore retribuito dallo Stato, giovane<br />

uomo aperto, navigato, consapevole delle verità del vivere.<br />

Pensavo che se l’avessi conquistata, sarebbe stato più agevole<br />

l’accesso alla verità. Sì, so come vanno queste cose, chiaro, sì,<br />

chiaro.<br />

Non so dire per quale meccanismo quelle due donne me le<br />

sono immaginate nude, sedute in triade sul loro sofà, un’immagine<br />

di botticelliana mollezza. Non mi capita mica con<br />

tutte le donne che incontro, lo giuro. È durato solo un istante;<br />

poi il sofà è ritornato vuoto.<br />

Quindi, in altre parole: c‘erano due opzioni sessuali cittadine,<br />

e il Corietti si era trovato nel mezzo. Lui non aveva scelto<br />

il giro dell’arabo e della sua consorte, il giro dei professionisti<br />

Burberrys nei grandi alberghi. Non lo aveva scelto o<br />

forse era stato costretto a tenersene lontano, ad accontentarsi<br />

delle tre schampiste con le mutande di pizzo. Potevano<br />

essere stati proprio certi desideri ambiziosi, sorti al primo<br />

brizzolarsi delle tempie, a causarne la morte violenta. Oppure<br />

il suo affacciarsi sul mercato immobiliare, benevolmente<br />

gestito dai preti. Oppure l’aver creduto che fosse facile catturare<br />

farfalle col retino, come la vispa adolescente tatuata.<br />

Mutande, appartamenti o farfalle?<br />

I luoghi del piacere e del bisogno si erano allargati davanti<br />

alle nostre paranoie pomeridiane di fine indagine. Quelle<br />

ragazze variopinte facevano sembrare tutto orrendamente<br />

semplice. Una presenza, un gettone: semplice e interessante.<br />

196


Mi spiego meglio. Mi avevano colpito due cose essenzialmente:<br />

il sorriso schiaffeggiato solo da un lato dalla sorprendente<br />

canicola, e gli occhi vizzi tenuti aperti con difficoltà delle due<br />

amiche. <strong>La</strong> normalità che non mi aspettavo. Anche il modo<br />

con cui avevano parlato dell’amica, momentaneamente assente,<br />

era stato illuminante; avevano descritto la terza donna<br />

come si fa con il proprio vate, con semplicità maestosa.<br />

Amiche credo. <strong>La</strong> marchetta consente quindi amicizia? Non<br />

so davvero.<br />

Ora, che c’è di così atroce nella marchetta? Io non ci vedo<br />

nulla di male; così, detto in astratto, sempre che non si tratti,<br />

nel caso specifico, di mia moglie o mia figlia. Sempre che non<br />

si ravvisi costrizione o bieco sfruttamento. Tra il lecito e l’illecito:<br />

cosa sta nel mezzo? L’immorale? L’incerto? L’acritico?<br />

Questa amicizia tra donne non aveva in sé nulla di apparentemente<br />

violento o incerto. <strong>La</strong> casa pareva normale, la vita<br />

normale. Il sesso sembrava necessario. Del resto, il sesso<br />

risponde a un bisogno primario; i clienti non mancano mai.<br />

Perché non farne un bene di consumo? Funziona: per le prostitute,<br />

come per i conciatori di pelle per scarpe. Nessuno se<br />

ne va in giro scalzo, infatti.<br />

No, non ci trovo niente di male nel sesso a pagamento, se<br />

fatto per libera scelta. Libera per davvero. Questa sì che è la<br />

vera scommessa. <strong>La</strong> libertà quando si tratta di sesso. Ci crederei<br />

se potessi crederci. Anche solo per un attimo, ammettiamo<br />

che ci possa essere libertà per qualcuno. Bene, dico io!<br />

C’è davvero qualcuno che miracolosamente sceglie qualcosa<br />

a questo mondo, che lo fa davvero? Finalmente, dico io. I<br />

problemi, semmai, riguardano la giostra di cavalli scossi e<br />

schiumosi che girano intorno all’affare. Su quelli s’appunta il<br />

giudizio. Perché qualcuno si dovrebbe sentire offeso da questo<br />

talento? Chi lo offre o chi lo riceve? Chi lo sfrutta? Sono<br />

gli sfruttatori il problema, è chiaro. E la libertà.<br />

Io sono parte di una coppia: non posso rispondere, dunque.<br />

Ho altri regolamenti a cui attenermi.<br />

Diciamolo, nelle coppie è molto diverso. Le coppie non<br />

sono roba di corpi. Macché. In alcune c’è un preciso sinallag-<br />

197


ma che passa dritto per il sesso, ma va oltre. <strong>La</strong> coppia è un<br />

affare rischioso: essere in due nel tempo è come essere in<br />

tanti. Non uno solo, ma due, e poi mille, per i mille cambiamenti<br />

di una vita. Vuoi mettere la differenza? Vuoi mettere la<br />

dipendenza? Vuoi mettere l’immensità del molteplice che si<br />

moltiplica e confonde? Vuoi mettere? È la condivisione il<br />

vero ostacolo, i codici di condivisione sopra ogni altra cosa.<br />

Ci sono sempre clausole contrattuali, lunghissime clausole,<br />

spesso il portato genetico di altri contratti precedenti.<br />

Clausole spesso non note ai contraenti o, peggio, aggiunte a<br />

matita in calce senza avvertimento. Può funzionare? Non<br />

saprei. Ci vorrebbe più libertà, per tutti. Meno desideri inespressi<br />

e più libertà. Gran bella idea! Ma che con la coppia<br />

non c’entra nulla. Nella coppia non c’è libertà, ma destrezza.<br />

Quel piccolo appartamento imbevuto d’un forte odore di<br />

Mastrolindo, non faceva pensare a onde anomale di sperma<br />

agglutinato, vomitato sui cuscini con federa di lino o a mammelle<br />

addomesticate nel pianto, o a sangue verginale versato<br />

nella violenza. L’arredo era una dichiarazione d’intenti.<br />

Niente di così perverso o complicato. Normale, appunto.<br />

Non ne ho bisogno per ora, ma se mai dovessi averne, mi<br />

affaccerei alla porta di un appartamento come questo, chiedendo<br />

una prestazione. Non come un poeta maledetto, ma da<br />

pubblico impiegato. Con normalità. <strong>La</strong> normalità del gettone<br />

di presenza, come ho detto. Credo che lo farei, non fosse altro<br />

per capire. Dovessi averne bisogno un giorno.<br />

Per un uomo è più facile accettare cose di sesso come queste;<br />

che sia perché per tradizione secolare fruiamo della prestazione<br />

e quindi la riteniamo un diritto acquisito? Non so<br />

cosa ne penserebbe Angela, considerato che le donne spesso<br />

non comprendono le donne. Non credo che lei possa accettare<br />

l’idea del sesso a pagamento, veramente libero in un libero<br />

mercato. Suona falso come uno slogan elettorale. Mi crederebbe<br />

un romantico idiota. Non riuscirebbe mai a considerare<br />

il sesso una merce lieve e trasferibile. Non credo. Non crederebbe<br />

mai a una fantasia maschile come questa. Non mi<br />

crederebbe se pure le giurassi che è così. Magari ha ragione<br />

198


lei. Però non vale: lei s’illude di conoscere le donne per il solo<br />

fatto di esserlo, di avere uno specchio, ma non so quando<br />

possa averle davvero conosciute, le donne dico, dal momento<br />

che appena può, davanti a un essere del suo stesso sesso,<br />

scappa. Non ascolta, perché ritiene di aver già ascoltato. Poi,<br />

però, se qualcuno si azzarda a dire qualcosa sul tema, soprattutto<br />

se a sentenziare è un uomo, lei scatta come una molla;<br />

parte in quarta, il mio avvocato, nella difesa strenua delle<br />

meraviglie del gentil sesso, delle loro infinite risorse, dell’intelletto,<br />

dei crediti, delle grazie, dei sacrifici delle donne tutte.<br />

Investita del ruolo per nascita e storia. Senza riserve, spara<br />

con il bazuca, non si limita a una battutina di quieto disappunto,<br />

no, s’incazza davvero, urla e strepita, per essere certa<br />

di non dover tornare poi sull’argomento. Si premura di fare<br />

assoluta chiarezza sul punto scabroso una volta per tutte,<br />

come avesse compreso di essere stata investita, solo lei e non<br />

altre paladine, di questo compito ingrato: difendere tutte le<br />

donne del mondo. Spara forte, così che non ci sia contrattacco,<br />

ma solo sbalordimento. Spara una volta sola, per lei e per<br />

tutte le altre. Ma poiché una volta sola non le basta mai, dopo<br />

spara ancora.<br />

Poi, fatto il suo dovere, pretende che ogni altra donna taccia,<br />

che non rompano le balle le altre galline, mentre lei si<br />

riposa.<br />

Curioso fenomeno umano il neofemminismo.<br />

Angela non si trucca, non mette tacchi, niente profumi,<br />

niente perle al collo; non si accanisce contro la sua cellulite<br />

come fosse un parente odioso. Anzi, ne parla con rispetto.<br />

Certe volte non sembra nemmeno una donna. Però parla<br />

delle donne, se le capita. Ma così non vale. Crede di essere<br />

meglio delle altre, secondo me, e non è cosa buona. Credono<br />

tutte così, sotto sotto.<br />

Vale la pena che mi soffermi un attimo sul tema: le figlie<br />

d’Eva. <strong>La</strong> difficoltà non è nostra; è celata nei rapporti tra<br />

donne, sotterrata sotto le lenzuola materne. Gli uomini ne<br />

restano fuori, ai margini. Come se il mondo fosse ancora e<br />

sempre diviso in due fazioni avverse. Io la vedo così. Angela<br />

non è d’accordo. E poiché il mio progetto di vita generale<br />

199


comprende una grande attenzione agli ostacoli, meglio stare<br />

all’erta.<br />

Per fortuna tra uomini ogni relazione è più piana, niente<br />

onde, solo collegamenti diretti, immediati, giusto qualche tiro<br />

a sproposito, una specie di partita a ping-pong. Mentre invece<br />

per le donne, la vita è una ricetta strapiena di ingredienti,<br />

spesso da tenere segreti. Non sempre il risultato finale è piacevole<br />

al palato, ma deve restare un segreto. Non capisco perché,<br />

ma è così. Ho sentito donne rivelare ricette portentose<br />

per la preparazione di piatti esclusivi, tacendone in malafede<br />

un solo ingrediente fondamentale. Prendo le distanze da certi<br />

trucchi.<br />

Una coperta bollente, le donne, anche le più affascinanti.<br />

Asfissianti. Soprattutto quelle che non lavorano. Non potrei<br />

vivere accanto a una casalinga, per esempio. Quelle sono sempre<br />

in guerra con qualcuno, di solito altre donne parimenti<br />

armate. Stanno ritornando di moda, le casalinghe.<br />

Pericolosissime. Mi imbarazza il debito del loro mestolo, che<br />

smuove l’aria domestica. Dio ci tuteli dalle donne infelici,<br />

come da quelle troppo felici o che si credono tali, comunque.<br />

Dio ci salvi da tutte, compresa la vecchia pazza, la vedova<br />

proprietaria della libreria o la culona della farmacia, ma non<br />

da Angela; per forza: lei è un’altra storia.<br />

Con quegli occhi da nuvola rubati chissà dove. Il complimento<br />

non è mio, purtroppo, ma di un geometra. Questo<br />

gentleman in ciabatte se ne venne fuori con la frase da<br />

manuale mentre stava rifacendo i bagni della nostra nuova<br />

casa, dirigendone i lavori. Signora, dove li hai rubati quegli<br />

occhi? Aveva detto a mia moglie, appena sveglia, che faceva<br />

finta di niente. Con tutto il rispetto dottore, mi permetto, aveva<br />

detto a me, mentre bevevo un caffè amaro. Gli operai in casa<br />

sono un grosso problema, un’invasione primitiva. E primitivo<br />

sono anch’io.<br />

È facile parlare di crisi di coppia. Facile. Che ci vuole: crisi<br />

e sei libero. Una commedia americana, una sintesi per la tv.<br />

Ma finiamola!<br />

Non noi. Non io. Non Angela. <strong>La</strong> fortuna non c’entra. Io<br />

odio il concetto di Caso, che la gente debole utilizza a vanve-<br />

200


a per ammorbidire l’esito di certi voli verso il basso. <strong>La</strong><br />

Società? Macché. Balle. Qui si tratta di lavoro. E duro. O le<br />

cose uno le vuole o non le vuole. Altro che storie. Altro che<br />

giovinezza. Ecco. Gli occhi di mia moglie, da ladra: guai a<br />

guardarli troppo a lungo, guai a non guardarli troppo a lungo.<br />

È un fatto di tempi e misura. Bisogna farci la mano con<br />

Angela. Bisogna misurarsi con lei. È questo il mio lavoro,<br />

adesso. Non prendo nessun progetto sotto gamba. Sono<br />

andato troppo avanti per tornare indietro. Mi sono spinto<br />

troppo oltre per arrivare a capire, ora, che non siamo capaci.<br />

Noi, quelli della mia generazione intendo, incapaci. È di questa<br />

incapacità latente che dobbiamo aver paura. Da questa<br />

idea dobbiamo tenerci lontano.<br />

Non potevamo disturbare oltre la quieta siesta delle signorine.<br />

<strong>La</strong> lampadina sul prospetto frontale dell’immobile era<br />

spenta. Fredda con i suoi rivestimenti in metallo, se ne stava<br />

sulla porta d’ingresso, non si poteva non notarla anche se<br />

spenta. Aveva la stessa forza di un rumore improvviso. Ma noi<br />

non potevamo restare. Del resto tutto quel sole all’improvviso<br />

dopo le lastre di vetro plumbeo che riflettevano grigio, grigio,<br />

grigio, solo grigio, era sembrato giusto un regalo. Piccolo<br />

breve regalo per povera gente. Ci congedammo.<br />

Sentiamo di nuovo il Pace a questo punto, che dici? Un’altra<br />

volta soltanto e poi basta. Per forza. Le loro telefonate, l’eventuale<br />

incontro con la vittima la mattina del delitto, ma poi<br />

basta davvero.<br />

Il grande capo se ne volle andare; io non riuscii a far innamorare<br />

di me nessuna delle due graziose giovinette, credo.<br />

Quindi scendemmo rapidi le scale scoperte, dopo aver dato<br />

un ultimo sguardo ai quieti cardellini. Nessun messaggio per<br />

nessuno. Arrivammo in città in un fulmine. In tutta onestà,<br />

non era solo Agrimi a essere miracoloso; era una questione di<br />

strade. Le strade del nord sono diverse da quelle del sud.<br />

Parliamone allora. Delle strade del sud, intendo.<br />

Parliamone, perché nella vita di un individuo, di una città<br />

intera, le strade non sono cosa da niente. Le strade sono vita,<br />

201


oltre che strumento. Qui dove vivo ora, con mia moglie, per<br />

fortuna c’è il telefono, c’è il web, c’è un cavolo di fax, c’è pure<br />

la televisione, ma non ci sono strade percorribili in un tempo<br />

ragionevole; che non paia un viaggio alla Verne, insomma. I<br />

pendolari sono in agonia. Siamo carichi di assicurazioni sulla<br />

vita e lapidi di marmo con foto e rose finte sul ciglio delle<br />

provinciali, dopo calamitose curve a gomito. Le ultime curve<br />

prima dei saluti finali.<br />

Ieri, per dirne una, in un angolo di strada bianco di pietrisco,<br />

c’erano un paio di manifesti funebri con la scritta in grassetto<br />

al centro: CIAO DARIO. Poi uno striscione, poco più<br />

in là, riportava in stampatello l’estrema idiozia: NON CHIE-<br />

DIAMOCI PERCHÉ. No, chiediamocelo invece!<br />

Sembra un piano preciso e diabolico: tenerci lontani,<br />

tenerci immobili. Strade impossibili, dimenticate, raramente<br />

sfregiate da uomini in arancio, autostrade gratuite, con lavori<br />

sempre in corso, ma prive di segnaletica, un solo aeroporto,<br />

più simile a una pista per le biglie di vetro, con un solo volo<br />

e una sola compagnia a disposizione, a prezzi sbalorditivi.<br />

Solo il clima ci aiuta, o perlomeno ci aiutava in passato, ma<br />

nessuno se ne accorge quasi più, eccetto i rilevatori elettronici<br />

della velocità con i loro occhi cinici.<br />

Occhi, paletta e divisa: ecco l’unico rimedio consentito.<br />

Quelli sono degli aggeggi demoniaci. Li vedi sbucare all’improvviso<br />

dai cancelli di inquietanti ville private, i cui proprietari<br />

si vendono al nemico per chissà quali tornaconti.<br />

Emergono come mostri marini, da finti cespugli di ginestra,<br />

alla fine di rettilinei noiosissimi, che invogliano alla volata o al<br />

sonno, e costringono alla frenata fumante. Pericolosissima.<br />

Solo tra i guidatori residua ancora un briciolo di solidarietà,<br />

non di certo da parte dell’amministrazione pubblica, che<br />

invece pensa solo a riempire le casse con multe strepitose e<br />

che alla sicurezza costante del cittadino preferisce l’agguato<br />

occasionale, ben più redditizio.<br />

Tra automobilisti ci si avvisa a colpi di abbaglianti. Il resto<br />

è terrore e preghiera.<br />

Tutto appare ancor più difficile in estate. Ho fatto uno studio<br />

accurato sui vacanzieri immobilizzati. Ogni altro luogo è<br />

202


lontano da qui, per questo la lontananza ci atterrisce.<br />

Ammazzeresti pur di ridurre le distanze. Sulle strade non si<br />

sono più nemmeno le nigeriane, che si sono rotte di non<br />

veder passare un ombra d’uomo. Non viaggia più nessuno e<br />

chi lo fa (o per scappare o per lavoro o perché non è del<br />

posto), non può conservare di certo il pene eretto così a<br />

lungo. È un fatto chimico: lo stress ferisce gli ormoni; l’eternità<br />

li uccide. Non ho dubbi, qualcuno tenta deliberatamente<br />

di impedirci di comunicare, di riprodurci. Tenta l’isolamento.<br />

Ha paura di noi.<br />

Mi feci accompagnare a casa per poter ripartire subito<br />

dopo.<br />

Al rientro in ufficio, dopo aver trascorso un fine settimana<br />

lento come un lago, con la mia Angela, trovai che Ietta aveva<br />

già ascoltato il Pace, come aveva minacciato di fare in precedenza.<br />

Per l’ennesima volta, e tutto da solo.<br />

Mi fece leggere l’ultimo verbale. Le ultime domande, il<br />

fuoco incrociato rivolto a una larva d’uomo, ormai annientato<br />

dall’isolamento sociale, dal disprezzo muliebre e, non ultimo,<br />

dall’astinenza forzata, miravano a svelare definitivamente<br />

l’esistenza di eventuali legami tra il ragazzo e il farmacista<br />

(e l’ombrello, mio dio quell’ombrello!). O, eventalmente, tra<br />

il ragazzo e la Curia.<br />

Ietta voleva ritornare sul concetto “donnine”, giacché era<br />

una fatto fresco, e poi chiudere bottega. Così aveva proceduto.<br />

L’ultima spiaggia, l’ultimo conato investigativo del gran<br />

capo, ormai spossato dalla solitudine.<br />

Al chiudersi di una giornata di lavoro, il capo mi chiedeva<br />

Cosa fai stasera? Qualunque cosa rispondessi, faceva segno di<br />

sì con il mento, spingeva avanti il braccio destro a bloccarmi,<br />

l’altra mano ancora in tasca, come non fosse capace di sostenere<br />

tutta la verità e poi strizzava l’occhio in segno di complicità.<br />

Spossato ma non asciutto.<br />

Mi chiedeva spesso di fargli delle sintesi, di sostituirlo in questo.<br />

Sintesi delle parole su carta; sintesi delle impressioni del<br />

capo in cerca di salvezza. Dunque, vediamo cosa altro posso<br />

ricordare di quell’ultimo interrogatorio dell’amante.<br />

203


1) Il Pace conosceva il farmacista straniero perché tempo<br />

prima gli aveva consigliato un analgesico molto efficace contro<br />

il mal di testa di cui soffriva. Avevano fatto una lunga<br />

chiacchierata sul tema. Ed era così venuto fuori, anche questa<br />

volta, il mal di testa. Figurarsi. Una vera epidemia. Questo<br />

spiegava in parte la presenza di quella confezione nella tasca<br />

del grembiule della vittima. Era un rimedio al suo amore.<br />

Inspiegabile il ridondare dell’emicrania. Corna? Senso di<br />

colpa? Smemoratezza? Tutto il disprezzo del mondo a pesare<br />

più di un macigno sulla testa di qualcuno? Si amavano e si<br />

preoccupavano ciascuno della salute dell’altro, come è giusto<br />

che sia, e poi, è noto, l’emicrania non fa bene all’amore e va<br />

curata, ché non diventi una scusa. Quindi il giordano aveva<br />

allontanato il dolore, cioè aveva fatto solo il suo mestiere, perché<br />

qualcuno gli aveva chiesto aiuto. Il dolore era nelle cose<br />

e forse era enorme. Il farmacista aveva avuto a che fare con<br />

questo dolore terrifico, ma teneva la bocca chiusa.<br />

2) Il Pace diceva di non essere il proprietario dell’ombrello,<br />

né lui, né la vittima, forse la signora Florio, forse lei, aveva<br />

detto distrattamente.<br />

3) Il Pace escludeva categoricamente qualsiasi contatto<br />

con la chiesa. Era ateo, miscredente, bestemmiatore, uno<br />

sporco traditore, un imbecille, un vile, un immorale. Ne disse<br />

di tutti i colori, odiandosi profondamente, nel più contrito<br />

dei pentimenti.<br />

Nella città che mi ospitava credere in Dio non era necessario.<br />

A casa mia, invece, ci sono altre necessità e una di queste<br />

è ancora Dio. Cosa voglia dire essere credenti davanti a<br />

un omicidio, tuttavia, resta un enigma. Dalle mie parti impera<br />

Padre Pio: è lui la risorsa fondamentale, lui la soluzione;<br />

una necessità per molti. Il grande mediatore. Di recente ho<br />

ascoltato una cimice all’interno dell’autovettura di uno spacciatore<br />

che da mesi tenevo sotto controllo. L’uomo era appena<br />

passato indenne da un posto di blocco. Era in macchina<br />

con un collega dall’accento duro e metallico come un trapano<br />

e commentava la fortuna del momento. Quello è stato<br />

P a d re Pio. Lo diceva senz’ombra di dubbio. Era una vera<br />

204


professione di fede. Il mestiere non conta, quando si è uomini<br />

devoti.<br />

Il Pace aveva fatto mettere a verbale tutte le sue adolescenziali<br />

attese sul futuro, percepite in senso vago, come un sogno<br />

fatto dopo aver bevuto, eppure spaventosamente necessarie.<br />

Gli omosessuali sono gli unici che dopo i trentacinque anni<br />

possono permettersi di conservare la fresca ingenuità dell’adolescenza.<br />

Nessuno può farlo, se non loro. Oltre ogni sforzo<br />

fisico. <strong>La</strong> loro è un’adolescenza insidiosa perché permanente.<br />

Bellissima e truce. Bolla d’abbandono in cui un essere<br />

umano riesce ad amarsi, a preservarsi, a rendersi leggero, solo<br />

finché crede di essere il prediletto, l’indispensabile. Basta uno<br />

spillo, e diventa merda secca tra le altre. Il Pace cercava di<br />

continuare a desiderare qualcosa, nonostante tutto quello che<br />

era successo, ma non doveva essergli facile. E poi, se un<br />

pover’uomo non fa almeno quello, sperare cioè, allora è già<br />

bello che morto.<br />

Stava cercando un nuovo lavoro in una di quelle catene di<br />

supermercati, che facevano periodicamente selezione di personale.<br />

Metteva passi titubanti uno davanti all’altro. Per ora in<br />

prova tre mesi al banco latticini e poi chissà. Nell’agenzia<br />

postale presso cui aveva fatto vigilanza fino ad allora, per conto<br />

di una ditta privata, non era più ritornato da quel dì fatale.<br />

Dopo una settimana, l’avevano buttato fuori con una lettera<br />

per niente comprensiva, che il Pace aveva letto a salti, solo le<br />

prime dieci righe, e subito dopo dimenticato sul lavandino a<br />

raccogliere schizzi di dentifricio al fluoro. Era rimasta lì per<br />

giorni, senza che nessuno trovasse la forza d’archiviarla altrove.<br />

Doveva ricominciare. Anche il peggiore dei giorni vede il<br />

suo tramonto, diceva Shakespeare; lo aveva intuito anche lui<br />

in fondo alla sua notte, e quindi deve essere vero. Doveva<br />

ricominciare con le sue sole forze, sotto una gragnola di giudizi<br />

altrui.<br />

<strong>La</strong> solitudine gli si era poggiata addosso come fosse pellicola<br />

domopack: era ormai buono per il frigo. Il terrore e la<br />

sconfitta, confinati come un pipistrello che sbatte le ali, dentro<br />

la sua gola. Senza cibo; un palato privo di buon sapore. E<br />

205


un buio diverso che veniva dal basso, dai piedi, saliva svelto<br />

nella confusione, nel frastuono.<br />

Gli uomini socialmente condannati a rimaner soli,<br />

quand’anche ancora capaci di deboli attese, si riconoscono<br />

lontano un miglio; come tartarughe passano dall’acqua alla<br />

terra. Cominciano a non farsi la barba, a non lavarsi i capelli,<br />

mettono sempre la stessa maglietta, lo stesso guscio, anzi,<br />

probabilmente non lo tolgono mai, si lussano le spalle entrando<br />

e uscendo da coperte aggrovigliate, in letti su cui dormono<br />

un sonno leggero e pieno di buche profonde. Hanno tutti<br />

lo stesso odore di tappezzeria scollata, di carapace muschiato<br />

o brodo freddo, e questo marchio olfattivo, con il tempo,<br />

diventa sempre più invadente. Solo il pipistrello rinchiuso in<br />

gola può vederci chiaro. Se ne incontrano tanti in strada di<br />

uomini così. Dopo qualche mese, perdono anche la vergogna<br />

e chiedono sigarette in giro, mimandone il gesto con due dita<br />

davanti alla bocca.<br />

<strong>La</strong> quotidiana cefalea rimane tra le sopracciglia come una<br />

ruga. Fissa. Non è più una malattia, ma una qualità dell’essere.<br />

L’unica cosa certa.<br />

Eppure, ricordavo che il giorno del nostro primo incontro<br />

il Pace aveva la camicia sotto il maglione, il primo bottone<br />

sbottonato: quella piccolezza che sa ancora di dignità, di vita,<br />

appena sotto la giugulare, dove ancora batte, batte, batte il<br />

ritmo della normalità.<br />

Forse come Angela. Un po’ come Angela, oggi. Dio mio.<br />

Anche Angela da mesi cammina per casa come una lupa.<br />

Spettinata. Io lo sento che mi osserva; ci deve essere uno, uno<br />

solo, tra i suoi tanti pensieri, che la spinge verso il basso, che<br />

le serra le caviglie. E le incenerisce le parole prima che arrivino<br />

in superficie. Cerca qualcuno da acchiappare, che assomigli<br />

a un ladro, che abbia lo stesso tipo di colpe. Cerca qualcuno<br />

o qualcosa, non so. Come ai piedi di un albero enorme<br />

pieno di rami: scava scava scava, sotto le radici, per trovare<br />

l’origine della sua delusione.<br />

Due giorni fa camminava, si è fermata di botto, si è girata<br />

verso di me, che le guardavo le spalle come un guardiano, e<br />

206


ha detto: che guardi, non c’è niente di nuovo. Era Angela, non<br />

il Pace vedovo, no, era la mia Angela. Penso al Pace e a lei:<br />

queste due visioni inespressive, ma occorrenti, messe l’una<br />

dinanzi all’altra mi fanno aver paura della morte. Le mando<br />

via. Sfarfallano e si sollevano verso l’alto facilmente, come<br />

soffioni davanti a una finestra spalancata, senza peso. Angela<br />

poi ritorna, ed è la donna di un giorno diverso, quella degli<br />

inizi, quella nota a me, quella che voglio vedere. <strong>La</strong> sola faccia<br />

che sono capace di vedere, frutto di allucinazioni artistiche<br />

dovute alla giovinezza.<br />

A mio modesto avviso, quel ragazzo, innamorato e perso,<br />

che avrebbe dovuto essere tra i maggiori indiziati per omicidio,<br />

non sembrava affatto un assassino. Neanche lui.<br />

Nessun’altro più di lui, comunque. Perché pericolosi<br />

apparivano gli ambienti, certi modi di vivere e perdersi, i luoghi<br />

visitati, annusati in poche ore di vera riflessione, la loro<br />

indolenza, ma non gli uomini che li abitavano.<br />

Eppure, sul provvedimento conclusivo delle indagini, il<br />

sostituto procuratore ci doveva scrivere un nome, al più due<br />

nomi, e non la piazza centrale, il quartiere, magari la via arricchita<br />

dal numero civico. Persone, non oggetti. Non stati d’animo.<br />

Non si poteva punire la provincia e la sua vita sommersa.<br />

Non le opinioni, le ossessioni. Non le manie, le perversioni.<br />

Neppure le delusioni. Neppure il silenzio. Che inadeguatezza!<br />

Una vera mazzata per le abitudini di Ietta. E per il mio ossessivo<br />

bisogno di certezze.<br />

Un nuovo giorno deludente. C’era che, dopo la lusinga del<br />

sole del giorno prima, aveva ricominciato a piovere e Ietta<br />

doveva portare a spasso il suo cane, così come aveva raccomandato<br />

il veterinario durante l’ultima visita di controllo, al<br />

fine di preservarne, con un po’ di movimento, l’eleganza e lo<br />

scatto delle linee. Se si fosse separato dalla moglie, al capo<br />

sarebbe toccata, senza alcun dubbio, la piena responsabilità<br />

dell’animale e della sua forma fisica. Avrebbe ereditato il peso<br />

della bestia e la sua imperdonabile bellezza. Si stava preparando<br />

a quel momento, faceva pratica. Il Dalmata era sfuggito<br />

a Crudelia. Ora toccava a lui. Di quello poteva essere certo.<br />

207


Portarlo a zampettare nel fango, giorno dopo giorno, però,<br />

senza altre ragioni, se non la bellezza, non era per niente un<br />

pensiero allettante.<br />

Meglio scegliere un cane brutto, quindi. Quand’anche<br />

dovesse prendere chili in eccesso, per l’indolenza del padrone,<br />

o il pelo diventargli duro come quello di un cinghiale, a<br />

causa di inconsapevoli sviste alimentari, nessuno se ne accorgerebbe,<br />

nessun animalista si sentirebbe in pena. Più prudente<br />

organizzarsi in modo tale da aver poco da perdere.<br />

Nonostante ciò, anch’io ho preso per me un cane bellissimo<br />

e ne sono diventato schiavo amorevole. Anni dopo la<br />

morte del Corietti. Una bestia statuaria dai guaiti melodiosi e<br />

dall’intelligenza quasi umana. Pigrissimo ed elegante. Per<br />

anni non ho fatto che parlare del mio pastore tedesco.<br />

Assediati dai miei racconti, tutti fingevano interesse. Alcuni<br />

dicevano che lo stavo sostituendo al figlio che ancora non<br />

avevamo, ma non era questo il punto. Affermazione scontata,<br />

direi. Avete mai provato a far entrare nella vostra casa qualcosa<br />

di bello, di più bello di voi, di invincibilmente bello? E<br />

diventarne custode? Un cane, un quadro, una moglie, un<br />

padre, avete mai provato? <strong>La</strong> bellezza impone degli obblighi,<br />

sempre; i figli non c’entrano. O meglio, vale anche per i figli,<br />

è chiaro, ma sono realtà diverse. Ogni bellezza è unica a suo<br />

modo.<br />

Dopo il suo secondo compleanno, ho intrapreso una lunga<br />

e deludente ricerca della compagna ideale per l’accoppiamento.<br />

Avendo scelto un maschio per orgoglio, nessuna femmina<br />

risultava alla sua altezza. Del mio cane apprezzavo le pupille<br />

frenetiche, l’assolutezza degli sguardi. E l’alito, persino l’odore<br />

del suo alito appestante. Mi facevo lappare i piedi dalla sua<br />

lingua enormemente ruvida e poi li annusavo estasiato: odori,<br />

solo odori, non parole, perché c’era uno scambio, ma di una<br />

tale completezza, da non potersi esprimere verbalmente. <strong>La</strong><br />

bestia, per ricambiare, riempiva i divani di Angela di zampate.<br />

L’ho fatto accoppiare due volte e, in entrambi i casi, la<br />

femmina prescelta ha dato alla luce un solo esemplare, privandomi<br />

del piacere di dover decidere come sistemare i cuc-<br />

208


cioli. Davvero pigrissimo, il mio cane. Risparmiava le sue<br />

energie e amava surriscaldarsi le zampe davanti alle lingue<br />

tremule del camino. Voleva solo me. Si faceva mettere il guinzaglio<br />

per una passeggiata solo se ero io a infilarlo al suo<br />

collo, pelosa ciambella dai colori digradanti. Non aveva altri<br />

bisogni, se non me. Inglese nello stile anche quando faceva i<br />

capricci. <strong>La</strong> bellezza ti frega. Anche quando non è più per<br />

casa, continui a vederla, a desiderarla, a intuirla ovunque. Ed<br />

è comunque colpa tua quando se ne va, perché la bellezza<br />

non ha responsabilità. <strong>La</strong> bellezza è sempre innocente.<br />

Il mio cane si è spento serenamente, ormai prossimo alla<br />

vecchiaia, quando era ancora di una grazia disarmante. Si è<br />

spento di notte, pago di tutta la mia dedizione, con il muso<br />

piantato nella gramigna del giardino su cui aveva sempre vissuto.<br />

Il naso gli si è asciugato ed è morto. A guardarlo steso<br />

lateralmente, come nel sonno, sembrava dello stesso vigore di<br />

sempre. Seppellirlo con lapide e foto sarebbe stato più che<br />

giusto. Impossibile però. Nessuno si occupa di seppellire i<br />

cani, salvo che non siano morti in strada. Neppure a voler<br />

pagare: nessuno ti aiuta a scavare una fossa tanto profonda da<br />

cancellarne ogni memoria. Esistono surreali prescrizioni<br />

comunali a riguardo. Per questa ragione chiesi a un conoscente<br />

di far finta che fosse morto in strada, e farne un mucchietto<br />

di cenere. Ho scavato con entrambe le mani. Ho fatto da<br />

me. Persino Angela ha scavato un po’; lei che si era sempre<br />

dichiarata convinta che un cane non potesse sostituire un<br />

figlio. Infatti, dico io. Lui era un cane. Ma che vuol dire? È<br />

amore e nasce dal bisogno, proprio come tutti gli altri tipi di<br />

amore. Che cosa c’è di terribile o riprovevole in questo?<br />

Ietta voleva fare i suoi paragoni. Lui amava questi giochi<br />

mentali. Era uno di quei tipi che in spiaggia fanno il cruciverba.<br />

Ha un approccio scientifico. Non quanto me, è vero, però<br />

ha anche lui bisogno di certezze elementari. <strong>La</strong> giustizia è<br />

spesso costituita da piccole cose, piccoli risultati. Così comparò<br />

il Pace a un cane domestico, ed escluse la sua colpevolezza.<br />

Non si sa mai: a volte le similitudini risultano utili alle<br />

indagini.<br />

209


Il Pace, quindi, per Ietta, era simile a un cane di razza che,<br />

allontanato dal padrone, comincia a perdere il pelo a ciuffi.<br />

Non si ammazza un buon padrone, ma forse ci si libera di<br />

uno cattivo. Non so. Un cane non ammezzerebbe mai il suo<br />

padrone, il capo branco; fosse anche il demonio, lui non lo<br />

capirebbe. Che padrone era il Corietti? Quanto e come entrava<br />

l’amore in questo crimine? Quanto l’amore, il corpo, l’istinto,<br />

e quanto l’occhio intransigente delle quattro mura che<br />

circondavano la città? Non lo sapevamo.<br />

Ietta, quell’ultimo giorno di indagine ufficiale, lasciò<br />

prima del solito l’ufficio. Aveva quella faccia smarrita che<br />

lascia sfuggire pezzi di pensiero che si attaccano alle cose, alle<br />

finestre; frammenti che fanno credere a formulazioni logiche<br />

complesse, mentre sono solo il ripetersi ossessivo di una serie<br />

di fotogrammi insignificanti. <strong>La</strong> moglie crudele, il figlio taciturno,<br />

il cane che ingrassava, lo straordinario di Agrimi, la<br />

pioggia. Frammenti di Ietta. Andò via come fosse una forma<br />

di protesta, scese le scale quasi senza salutare, coi pensieri che<br />

premevano fin sotto le labbra e le assottigliavano di rabbia e<br />

forzo da contenimento.<br />

Uscì e, nonostante piovesse, portò al parco il suo Dalmata.<br />

Un fatto privato. Senza autista pertanto, ma con il suo cappello<br />

calcato forte sulla fronte. Il cappello in sé non pareva un<br />

fatto singolare. Tutti in strada avevano il cappello, ma nessuno,<br />

mi raccontò, aveva un Dalmata al guinzaglio quel giorno<br />

di pioggerella senza cura.<br />

210


XIV CAPITOLO<br />

…ed ecco perché non crederò mai più<br />

in nessuna delle cose che pensi,<br />

per non parlare di quelle che dici.<br />

Richard Yates<br />

“Stava malissimo. Ah, se lo vedevi, oh, dico: malissimo!”<br />

“Poveraccio”.<br />

“Dice Ietta che l’atteggiamento del ragazzo gli faceva pensare<br />

a quello di un cane”.<br />

“Niente di originale, mi pare. Non ha grande fantasia questo<br />

tuo giudice, mi pare”.<br />

“Però è vero”.<br />

“Sì, d’accordo. <strong>La</strong> solita storia del cane bastonato. Mi sembra<br />

un’immagine banale”.<br />

“Banale o no, è così. Cane per dire cane, così per schematizzare!”<br />

“Non hai detto che c’è pure quella storia della casa delle<br />

prostitute che appartiene alla chiesa? È un fatto curioso.<br />

Molto più interessante dei cani, mi pare. Che ci fa la chiesa<br />

con tutte queste proprietà? Quante case! E il giro di prostitute?<br />

Non ci vedi una contraddizione? Hai detto che avete fatto<br />

un giro in Curia, mi pare?”<br />

“In effetti è vero: ci sono troppe case in questa storia”.<br />

“E quindi?”<br />

“Quindi?”<br />

“Dico, quindi che fate?”<br />

“Abbiamo assunto informazioni da qualche personaggio secondario.<br />

Così. Magari venivano fuori fatti piccanti che il clero voleva<br />

tenere nascosti. Che ne sappiamo noi. Lo sappiamo? No. Ci abbiamo<br />

provato, ma non è servito a niente. Non sto neppure a dirti”.<br />

211


“Niente? <strong>La</strong> città in cui lavori è chiusa a chiave”.<br />

“Ma secondo te quale è la verità? Ti sei fatta un’idea?”<br />

“A chiave, a chiave”.<br />

“Ce l’hai un’ idea, sì o no?”<br />

“E le case? Non mi hai detto nulla delle case. Prima tu<br />

dimmi delle case, poi ti dico io”.<br />

“<strong>La</strong>scia perdere per un attimo”.<br />

“Ma è importante, invece”.<br />

“D’accordo, ma non ci sono elementi per ora; per le case<br />

intendo. Dammi la tua idea sull’omicidio piuttosto, dai!”<br />

“Ma non dici sempre che le opinioni non servono a niente?<br />

Secondo me, sono i preti i veri responsabili; e te l’ho detto<br />

sin dall’inizio. Ma a che serve con te?”<br />

“Perché hai quel tono?”<br />

“Quale tono?”<br />

“Hai qualcosa?”<br />

“Niente. Che vuoi?”<br />

“Perché hai quel tono?”<br />

“Di cosa cavolo parli adesso?”<br />

“Quel tono sbrigativo”.<br />

“Forse ho sonno. Ho sonno. È pure tardi, no? Telefoni<br />

sempre così tardi la sera. E comunque parlavo dei preti”.<br />

“Va bene, i preti, e il fine passionale dove lo metti?”<br />

“Bella però la storia tra la vittima e quel povero disgraziato!”<br />

“Bella? Non è mica detto che quello tra il morto e il Pace<br />

fosse amore. Si fa presto a dire amore. Magari era solo sesso<br />

e pure violento. Che ne sai?”<br />

“Il sesso è spesso violento”.<br />

“Non mi pare”.<br />

“Dici? Mah!”<br />

“Quindi l’amore non c’entra, secondo te”.<br />

“Non ho detto questo. Non ho parlato di amore, io. Siete<br />

voi che dovreste sapere come stanno le cose. Se è amore. E se<br />

era amore cosa cambia? Perché uno che ama non può uccidere?<br />

Tu che ne dici? Io credo che sia successo qualcosa di<br />

grave tra i due, qualcosa che non siete riusciti a scoprire per<br />

ora. Ma di molto, molto, molto grave”.<br />

212


“Chiaro: mica si ammazza per quisquiglie. Deve essere di<br />

sicuro un fatto grave”.<br />

“Alle volte…”<br />

“Sì, alle volte… Trentotto coltellate? Non dimenticare le<br />

modalità dell’omicidio, cara mia. Quelli sono gli unici fatti<br />

sicuri”.<br />

“…”<br />

“Che città di merda!”<br />

“<strong>La</strong> città? Queste cose accadono ovunque. Hai sentito, i<br />

giornali, quanti omicidi irrisolti? Che c’entra la città? In ogni<br />

caso, te la sei scelta tu, la città. Ma non mi fare dire sempre le<br />

stesse cose”.<br />

“Hanno trucidato un uomo e la gente qui ne parla quasi<br />

come di un accadimento quotidiano. Bell’ambiente! Ma io<br />

non lo sapevo, quando sono venuto qui, che era così. E, tra le<br />

altre cose, mi rode ancora il fatto dell’ombrello sporco di sangue.<br />

A te non ti rode?”<br />

“Che hanno detto di preciso le analisi?”<br />

“Niente DNA. Siamo senza. Non è stato identificato.<br />

Nessuna impronta sull’ombrello, e la moglie del Pace ha confermato<br />

che l’arnese non è loro. Potrebbe essere dell’assassino,<br />

ma non…”<br />

“Tu pensi che la soluzione stia nell’ombrello?”<br />

“Sai la cosa strana? Un rilievo ematico del piffero! Scusa,<br />

questo mago del crimine riesce a non lasciare un solo globulo<br />

rosso sul luogo del delitto, e poi intinge la punta del suo<br />

ombrello direttamente in un’arteria? Scusa, non ha senso. Se<br />

il sangue sull’ombrello non è del morto e non è di nessun’altro<br />

dei soggetti noti, allora di chi è? Come mai si trova sull’ombrello?<br />

Sia chiaro: non abbiamo il DNA di tutte le persone<br />

che abbiamo ascoltato. Non è che la Procura possa obbligare<br />

all’esame tutti quelli che passano. Abbiamo chiesto alla<br />

città, è vero. <strong>La</strong> città dice e non dice. E noi lì, a cercare di…”<br />

“Come dappertutto, credo”.<br />

“Forse”.<br />

“Perciò. Niente”.<br />

“Facciamo un’ipotesi di ricostruzione dei fatti. Proviamo,<br />

vuoi? Giochiamo. È un gioco, dai!”<br />

213


“Gioco?”<br />

“Gioca!”<br />

“Hai bisogno di me?”<br />

“Ho bisogno”.<br />

“Dunque: il Corietti è un uomo intelligente, troppo per il<br />

genere di vita che fa. Comincia a sentir serpeggiare intorno ai<br />

suoi fianchi un lieve, ma fastidioso senso di insoddisfazione.<br />

Frequentando le tre giovani e intraprendenti amiche di periferia,<br />

scopre l’esistenza di giri più importanti, che fanno soldi<br />

a palate, giri di signore bene che si tuffano in letti gonfi di<br />

banconote, e vorrebbe unirsi al gruppo. Non riesce a essere<br />

nient’altro che quello che è, e ci soffre. Non vuole più essere<br />

un frocio qualunque, con il suo grembiulino. Gli pesa terribilmente<br />

la marginalità in cui vive. Che fare? Non so come,<br />

scopre che alcuni personaggi appartenenti al clero guidano il<br />

ritmo della danza dionisiaca; sono burattinai che agiscono da<br />

qualche nuvoletta, lassù. Perde il controllo. Vuole agire.<br />

Vittima dei suoi stessi desideri. Però commette un errore.<br />

Tipo dice qualcosa di troppo, magari ne parla con le persone<br />

sbagliate, ricatta qualcuno, magari, e di conseguenza si abbatte<br />

su di lui la più furiosa delle ire divine. Un giorno che piove.<br />

L’assassino, probabilmente di fede cattolica, dopo aver eliminato<br />

lo scomodo testimone, scopre di essersi ferito mentre<br />

aveva in mano l’ombrello, che lo impicciava non poco, e così<br />

decide di liberarsene in strada, prima di riuscire a rintanarsi<br />

al coperto, forse sotto una tovaglia d’altare o forse altrove. Vai<br />

a sapere dove”.<br />

“Va bene, questa la prima”.<br />

“Altra ipotesi: il Corietti si innamora di un prete bello e<br />

aitante; medita con lui la fuga in Australia e l’abbandono dell’abito<br />

talare. Svelato il piano, il Pace si ingelosisce, si sente<br />

ferito a morte mentre è preda di una delle sue emicranie.<br />

Assassina brutalmente l’uomo che ama, magari non c’è premeditazione,<br />

succede per errore, si scaglia contro il suo amantepadrone<br />

senza controllo; lo fa praticamente a pezzi, uccide l’amante,<br />

cioè l’uomo che lo ha liberato dalla prigionia del pregiudizio<br />

sociale, magari facendosi aiutare da un complice, ma,<br />

nella fuga, dimentica l’ombrello sporco fuori dal negozio”.<br />

214


“Interessante”.<br />

“E se lo prende la vecchia”.<br />

“Cosa?”<br />

“L’ombrello”.<br />

“Uhm… l’ombrello, sì”.<br />

“Vieni venerdì?”<br />

“È il compleanno di papà”.<br />

“Evvai! Festeggiamenti di famiglia sul prato. E se non ci<br />

venissi? Se non vengo, tuo padre diventa una bestia e non ti<br />

parla per settimane. Con me non si altera perché sono una<br />

donna; è con te che si imbestialisce. Non è bella questa differenza?<br />

Tra me e te. Quindi festa di famiglia sul prato? Tanto<br />

per cambiare. Io non ci vengo questa volta”.<br />

“Non abbiamo altro da fare. Perché non si può, visto che<br />

non abbiamo altro da fare?”<br />

“E chi lo dice che non abbiamo altro? Si potrebbe tentare<br />

di fare un figlio. Per esempio. Ma bello mio, tu, proprio, eh?<br />

Niente? Sul letto si potrebbe, invece che sul prato di papà! Ci<br />

inventiamo una scusa, se non vuoi rendere pubblica la faccenda.<br />

A tuo padre faremo capire con diplomazia che dopo i<br />

trent’anni può pure capitare. Normale. Al limite, gli chiedi<br />

brutalmente: lo vuoi un nipotino? Allora zitto e collabora”.<br />

“Devo chiedergli quanto ci darà per l’acquisto di casa”.<br />

“Dobbiamo comprare casa?”<br />

“Prima o poi. L’avevamo detto, ti sei dimenticata?”<br />

“Io lavoro gratis e dovrei pensare a una casa? Non so da<br />

che parte del letto dovrò dormire nei prossimi dieci anni e<br />

dovrei pensare a comprare casa? Ma fammi il piacere!”<br />

“In che senso, il letto?”<br />

“Se ci sei tu, io dormo a destra, se non ci sei, dormo a sinistra.<br />

Non ti sei accorto?”<br />

“E cosa cambia?”<br />

“Cambia, bello, cambia. Viviamo realtà differenti, evidentemente”.<br />

“Avevamo detto che la casa è importante. Questo non è<br />

mai stato in discussione. Non mi pare proprio in discussione<br />

la casa”.<br />

“E dobbiamo chiedere un finanziamento proprio questo<br />

215


fine settimana? Non si può aspettare un mese? Un anno?”<br />

“Ma che c’entra? Intanto preparo il terreno”.<br />

“Un nipotino farebbe tutto da solo, senza il bisogno di<br />

feste sul prato. Cosa gli regaliamo a tuo padre? Se non gli<br />

possiamo regalare un nipotino, per ora, gli regaliamo una cravatta?<br />

Un bambino o una cravatta? <strong>La</strong> cravatta è decisamente<br />

meglio. Secondo me tu pensi che sia meglio una cravatta.<br />

Non è vero? Tanto, a lui piace farsi comprare i vestiti da coloro<br />

che lo venerano”.<br />

“A proposito: vorrei una giacca di pelle”.<br />

“E quindi?”<br />

“<strong>La</strong> devi scegliere tu. Regalami un fichissimo giubbino di<br />

pelle nera per quando ritornerò a lavorare a casa”.<br />

“Ma mi spieghi per favore cosa c’entra?”<br />

“Perché i vestiti li scelgono le donne. Ha ragione mio<br />

padre su questo punto. Ti misurano, te li mettono addosso e<br />

ti ammirano. Se l’abito lo sceglie una donna è più bello. Ti sta<br />

meglio. Non so come, ma è così”.<br />

“Sì, so scegliere i vestiti. Lo so fare”.<br />

“Infatti”.<br />

“Ma nudo è un’altra cosa”.<br />

“Ma intanto un giubbino di pelle lo voglio, lo stesso. Non<br />

mi freghi”.<br />

“Voglio fare una visita dal ginecologo, ché mi sento nervosa.<br />

Dobbiamo parlarne. Mi faccio vedere un’altra volta. Mi<br />

accompagni? Tu sai trattare con i medici. Come dici? Polso e<br />

cortesia? C’è il tempo, adesso”.<br />

“Allora posso dire a mio padre che andiamo?”<br />

“Sei morboso”.<br />

“Allora?”<br />

“Individua nuovi obiettivi, ti prego”.<br />

“Sì, ma andiamo da mio padre?”<br />

“Ti prego”.<br />

“Io ti prego”.<br />

“Solo se trovi l’assassino in tempo”.<br />

“Non credo. Guarda, non credo proprio. Polso e cortesia.<br />

Smettila di sfottere”.<br />

216


XV CAPITOLO<br />

…Ma non successe nulla. Il cielo non cade per<br />

così poco. Sarebbe caduto mi chiedo, se avessi<br />

reso a Kurtz la giustizia che gli spettava.<br />

…Ma non potevo. Non potevo dirglielo. Sarebbe<br />

stato troppo tenebroso – davvero troppo tenebroso…<br />

Joseph Conrad<br />

Adesso sono qui: davanti a un semaforo. Sul sedile del passeggero<br />

c’è un faldone. Se inclino verso destra, in basso lo<br />

specchietto retrovisore, posso vederlo svettare. Contiene ventisette<br />

fascicoli d’udienza, da preparare, il cui contenuto non<br />

ricordo per niente. Sono come brutti romanzetti. Mi pare ci<br />

sia, tra le altre, una questione legata a debiti contratti per<br />

gioco. E non sono neppure tutti quelli messi a ruolo per oggi.<br />

Rosso, il semaforo. È qui che penso a quel primo omicidio,<br />

dieci anni fa; a quella città e a quella giubba di pelle taglia 48,<br />

che connota sfarzosamente l’estetica di quegli anni. Penso,<br />

mentre ho i muscoli a riposo. Un piccione, che se ne sbatte<br />

del traffico, mi tuba tra le ruote e ho la certezza matematica<br />

che, pur sgommando, non lo ammezzerei. Penso, posto che il<br />

rosso dura un tempo infinito e vuoto. Metto la cintura di sicurezza<br />

– è pieno di vigili la mattina – che mi strattona la cravatta<br />

e mi lascia una strana secchezza in gola, oltre a un mattiniero<br />

e irrefrenabile bisogno di zuccheri.<br />

Penso a quando c’era Ietta con me.<br />

<strong>La</strong>voro molto più oggi di allora. E si tratta di un lavoro di<br />

stoffa grezza, che pizzica. Sembra un’altra vita. Un tempo<br />

prebellico di cui mi piace parlare; sì, mi piace un sacco, e più<br />

passa il tempo più mi piace. Un tempo verde, in cui anche<br />

Angela, come me, stava mettendo in piedi i pezzi di qualcosa<br />

che ancora non c’era e ci dedicava tempo e cervello. Ed era<br />

molto simile all’amore la sensazione di lavorare insieme verso<br />

217


una certa direzione. Era il tempo in cui si imparava a cucinare<br />

e si pensava davvero di poter scegliere cosa diventare. Una<br />

vita in prova, prima che incominciasse quella vera; quella in<br />

cui, quando suonava il postino, non portava solo bollette.<br />

Quell’intervallo temporale, quella specie di ricreazione con la<br />

merenda, con foto ricordo; senza i denti davanti come alle<br />

elementari. Il tempo in cui tutte le affermazioni sono ugualmente<br />

degne di rispetto; in cui ogni evento è riconducibile a<br />

uno schema commentabile. Intermezzo caduco in cui la verità<br />

c’è, ma si sta bucando la suola delle scarpe a forza di far su e<br />

giù. A furia di correggersi e sbagliare.<br />

In totale sincerità, nulla è mai stato così vicino alla verità<br />

per me, nulla mai più di quell’indagine sgangherata sull’omicidio<br />

del signor Corietti, appunto. Nulla.<br />

Precisamente la verità su quell’omicidio la sentii raccontare<br />

qualche giorno dopo la chiusura delle indagini, e non usciva<br />

dalla bocca del sostituto procuratore. No. Era un discorso<br />

biascicante e scazonte, cupo più di un testamento. Era la<br />

verità della vecchia dei santini.<br />

Cosa ne era stato della storia del Corietti? Alla fine avevamo<br />

chiuso contro ignoti.<br />

Archiviazione lucida, come la lama ripulita di un’arma. <strong>La</strong><br />

stessa lama che non avevamo trovato, che baluginava alla faccia<br />

nostra chissà dove e per chi. Avevamo messo il fascicolo al<br />

suo posto, tolti i mille post it gialli che ne appesantivano la<br />

copertina, e riposto in un armadio in ordine alfabetico.<br />

Finito.<br />

Noi avevamo chiuso, ma la vecchia era ancora in giro, pallottola<br />

vagante a beccare giusto me.<br />

Ci incontrammo. Come sempre, gli elementi scenici erano<br />

quelli dell’anticamera dell’inferno: ampia scalinata, strada<br />

laterale, strisce pedonali appena rifatte, cemento grigio,<br />

superfici verticali riflettenti, a volte catrame, a volte lastroni<br />

di vetro, vapori bollenti e sinistri cigolii che venivano fuori<br />

dalle grate di aerazione sull’asfalto. Il Palazzo di Giustizia.<br />

Eccola la vecchia venire avanti, piano. Comica, accelerata,<br />

bianco e nero. Memoria balorda la mia, che dei mesi di lavo-<br />

218


o in quel palazzo, mi lascia, come un marchio tra gli occhi, il<br />

movimento nautico di una vecchia pazza, che striscia lungo la<br />

strada con dietro il corteo di una gonna a balze, sporca.<br />

Io uscivo, mentre lei era già ai piedi della scalinata. Un<br />

tizio della sicurezza la teneva sotto controllo, con lo sguardo<br />

mobile e la bocca contratta dal freddo. Mi sono frapposto,<br />

interrompendo il raggio laser che passava dagli occhi della<br />

vecchia a quelli della guardia giurata, giusto per qualche<br />

secondo. Mi sono frapposto tra la verità del tipo, che faceva<br />

tediosamente il suo lavoro, e quella della vecchia, che blaterava<br />

qualcosa a voce alta, gesticolando.<br />

Non so come, ma finisco sempre in mezzo a questi traffici.<br />

Anzi, lo so perché: le parole attirano pure me. Se qualcuno<br />

dice qualcosa, io ascolto, sempre.<br />

Infatti. Mi feci più vicino anche per vedere se la donna,<br />

nella sua follia, riusciva a riconoscere il mio viso. Neppure mi<br />

guardò. Sfrecciavano le ventiquattrore scamosciate e le scarpe<br />

marroni sugli scalini. Sono veloci gli avvocati; se ti passano<br />

accanto fanno vento anche se non hanno udienza. Veloci<br />

sono i saluti con cenni di mano. Veloci i parcheggi. Veloci<br />

anche i verbali che scrivono in udienza. Alcuni. Lei niente.<br />

Non sembrava viva tra gli altri, eppure parlava. Sciorinava<br />

senza pubblico. Eccome se parlava, anche se lenta.<br />

Urlava che il sangue trovato sull’ombrello non era il suo.<br />

<strong>La</strong> giustizia non aveva fatto il suo corso. Il sangue, il sangue.<br />

Ancora e ancora la tragedia delle macchie, che avevano alterato<br />

la sua quotidiana percezione della realtà. Un segnale<br />

rosso di sangue ancora fresco, senza croste.<br />

Nessuno, nessun cane mi vuole vicino. Tutti, a suo credere,<br />

sapevano che era malata e, quel che è peggio, avevano scoperto<br />

che Dio esisteva. Con il suo sacrificio involontario, s’era<br />

smarrito il tradizionale piacere di un atto di fede, puro e<br />

cieco. Lei aveva fornito prove inconfutabili. In barba a<br />

Sant’Agostino, era lei la prova vivente dell’esistenza di Dio.<br />

<strong>La</strong> prova era l’ombrello. Semplicemente un ombrello. Tutti<br />

potevano finalmente credere senza fatica e averne giustamente<br />

paura.<br />

In strada, frenate stridule coprivano il gracidare della vec-<br />

219


chia. Voci che si accavallavano, dentro pezzi di conversazioni.<br />

Un vigile fischiava, bucando il corpo molle della donna<br />

con una scarica elettrica, tra strane pieghe e fasce muscolari<br />

evidentemente ancora in uso, per quanto sconosciute.<br />

Braccia, gambe, zoccoli. Lui fischiava e lei si agitava. Era<br />

come presa da tiranti. Aperta e tesa. Stava sopra lo strepito<br />

degli uccelli, sopra lo stridore di freni d’auto che tentavano di<br />

travolgere l’avvocatura o uno dei tanti magistrati scomodi.<br />

Stava sopra tutto e tutti. Cercava di galleggiare. Mentre il<br />

vigile, poco in là, vigilava su ogni cosa; non solo sull’incrocio.<br />

Camminava a scatti, inciampando ripetutamente nella sua<br />

stessa rovina. I tiranti tiravano in diverse direzioni.<br />

Io assistevo come davanti a una diretta televisiva.<br />

State lontani, se non volete morire. Guardate, già mi sono<br />

caduti tutti i denti, e domani mi cadranno le unghie e poi la<br />

pelle. State lontani ché sono infetta. È colpa di questa città di<br />

assassini. Questo Tribunale non serve a niente. Non ci può<br />

salvare.<br />

Non aveva santini tra le mani. Non più. Le mani erano<br />

vuote. Palmo in su a ricevere. L’ombrello aveva preso il posto<br />

dei santini e, dopo, il nulla il posto dell’ombrello.<br />

Distruggiamo questo edificio che non serve più. Dio ci ha<br />

puniti. Mettete una bomba o appiccate un incendio. Subito,<br />

subito.<br />

Non ricordo bene, ma se la vecchia, dalla sommità dei suoi<br />

anni già spesi e dal suo margine, conosceva la realtà dell’HIV,<br />

allora voleva dire che HIV c’era. C’era davvero. Erano quelli<br />

i tempi. L’Africa. E poi, da lontano, tutte le pesti si rassomigliano.<br />

Mentre assistevo al disfarsi di un corpo in preda a sanguinose<br />

invasioni di virus letali, me ne stavo zitto, con il piede<br />

destro su uno scalino e quello sinistro sullo scalino appena<br />

più in alto, statuario e ridicolo. Non faceva differenza alcuna<br />

che a pochi metri ci fosse il mio ufficio. Mi sentivo strano.<br />

Fuori posto. Strano e impreparato. Non c’era stata ancora<br />

alcuna duplicazione genetica. Ero ancora lo stesso identico<br />

uomo sia in ufficio che in famiglia. Quindi, il fatto che fossi<br />

vicino al mio ufficio, non mi rendeva più forte, non mi coraz-<br />

220


zava. Ero ancora un uomo e basta. Ero così a quei tempi:<br />

senza fantasie professionali. Quelle sono venute dopo.<br />

Gia, l’uomo pubblico dettò le sue leggi solo più tardi. Alla<br />

fine dell’uditorato, per la precisione. All’inizio ero io, sempre<br />

io e basta; imprescindibile. Ridicolo. Solo dopo qualche<br />

tempo mi accorsi degli altri. Del mio ruolo tra gli altri, intendo.<br />

Allora ho aguzzato i sensi.<br />

Quando entravano in aula alcuni colleghi, per esempio,<br />

suonava una musichetta tipo avvio delle trasmissione, un<br />

jingle autorevole con i titoli di testa, per fare chiarezza. Non<br />

sono stupido: l’avevo percepito che la suola di cuoio di alcuni<br />

colleghi, di buona fattura italiana (di buona fattura sia la<br />

suola che i colleghi), suonava rumorosamente sul pavimento,<br />

a volerlo. Sempre più rumorosamente. Il tip-tap del<br />

magistrato. Avevo notato che il fascicolo andava tenuto tra<br />

le mani secondo specifiche modalità: la presa energica di chi<br />

l’ha posseduto; di chi vuole conservalo, tutelarlo da assalti<br />

esterni. Il fascicolo, infatti, può essere posseduto carnalmente<br />

se si è all’altezza del suo contenuto e, dopo l’amplesso,<br />

diventa senza segreti. Posseduto, ma rispettato. Non<br />

sgualcito. Non solo. Non era soltanto un fatto di portamento<br />

e scarpe, ma che anche le guance dell’uomo pubblico<br />

andavano impostate, oltre che rasate. Magari profumate, ma<br />

senza esagerare; con odori percepibili al più dall’assistente<br />

in udienza, qualora si fosse posto vicino vicino al suo giudice.<br />

Ci sono magistrati al sapore di pino d’alta montagna,<br />

quelli al gusto di tabacco, quelli verdi al gusto di muschio e<br />

lavanda, quelli che sanno di fragola; in genere quest’ultimi<br />

hanno figli piccoli e un solo bagnoschiuma in casa. Altri<br />

che, invece, cambiano sempre profumazione e non si lasciano<br />

intrappolare. Lievi e impalpabili. Oppure quelli che mettono<br />

la polvere inodore, tipo talco mentolato, persino dentro<br />

le scarpe e intorno al calzino. Non si vogliono far catturare<br />

dai nasi.<br />

Avevo visto, annusato, scrutato e capito. Allora mi sono<br />

dato un look anch’io, che non rappresentava, non sia mai, un<br />

vero schieramento: niente a che vedere con la politica o con<br />

221


le scelte giudiziarie; niente di particolarmente eccentrico.<br />

L’ho fatto per serenità.<br />

Ho preso una cadenza linguistica asciutta e grave. Tra le<br />

altre possibili. Ho fabbricato qualcosa anch’io, ho messo in<br />

evidenza quello che c’era, così da sentir dire in ufficio: no, il<br />

dottore non porta le cravatte se non ha udienza, no il giudice<br />

non beve il caffè freddo, lui solo con ghiaccio e non dopo le<br />

15. Perché l’ostentazione garbata delle proprie manie o delle<br />

proprie passioni, non è reato, anzi, è necessaria, aiuta l’identificazione<br />

con il gruppo e, nello stesso tempo, l’emersione<br />

dallo stesso; è come il rinnovo della patente: obbligatorio e<br />

periodico. Far sapere da subito chi sei, è importante. <strong>La</strong> foto<br />

sulla patente, dai diciotto anni in su, è sempre la stessa. Si rinnova<br />

o si accerta l’immutata idoneità fisica, ma la foto resta<br />

quella originaria. Però la foto ci deve essere sempre: chiara,<br />

stentorea, nitida. Se sanno chi sono e si tranquillizzano, posso<br />

cambiare in silenzio, avevo pensato. Ne ho avute di conferme<br />

in questo senso.<br />

Ai tempi del Corietti, tutto ciò non mi era ancora così chiaro.<br />

Davanti alla vecchia matta, quindi, ben prima di aver scelto<br />

il mio modo, trattenevo la solita postura casuale. Ero incerto,<br />

perché incerti erano gli altri intorno. Come veniva, veniva.<br />

Rassomigliavo ora a tizio, ora a caio. Non avevo studiato il<br />

mio caso. Un praticante senza responsabilità e con identità in<br />

transito.<br />

Stavamo, la vecchia e io, nel traffico, che se ne fregava bellamente<br />

delle sue certezze e delle mie domande. Niente da<br />

aggiungere a questo. <strong>La</strong> vecchia credeva di essere malata e<br />

con lei il mondo, che mescolava ai fatti di chiesa e di Dio,<br />

quelli del sangue, del sesso e del malaffare. Credeva di essere<br />

stata scelta a caso tra i puri, per rappresentare in terra il martirio<br />

di tutte le anime innocenti. Ecco perché non portava più<br />

con sé le immagini dei santi, per la generale redenzione. Era<br />

un inutile peso ormai: era lei l’agnello sacrificale. Diventata,<br />

per investitura divina, l’icona del martirio, bestemmiava contro<br />

il marito e i figli che, abbandonandola, avevano creato il<br />

vuoto pneumatico in città. <strong>La</strong> città era diventata per lei come<br />

222


la pancia del lupo riempita di pietre e ricucita. Stava per<br />

andare a fondo. <strong>La</strong> sua malattia, enorme, visibile, obesa, vendicava<br />

il morto e svelava il male. Tutto il male esistente. Prima<br />

della fine.<br />

Non sentivo proprio ogni sua parola, a essere sincero.<br />

Troppi rumori differenti. <strong>La</strong> sua vocetta stridula dentro l’impazzimento<br />

del traffico dell’ora di punta, veniva rapinata<br />

delle parole migliori. <strong>La</strong> strada masticava l’avvincente sermone<br />

e restituiva ben poco. Non capivo un accidente, diciamolo,<br />

pur sforzandomi. I froci, i froci, berciava lei, ma nessuno si<br />

accorgeva di nulla.<br />

<strong>La</strong> città era avvezza alla follia. Benché quel momento fosse<br />

importante e in qualche modo irripetibile, benché quello strazio<br />

urlante fosse l’unica verità possibile, l’unica passata vicino<br />

a me, l’unica disponibile, proprio lì, ai miei piedi, e l’unica<br />

che in quei mesi di lavoro non fosse mai mutata, dal primo<br />

giorno all’ultimo, nessuno faceva silenzio. A parte me, s’intende.<br />

L’assurda Cassandra non sapeva che le indagini erano state<br />

chiuse davvero, comunque. Senza assassino. Provai l’impulso<br />

irrefrenabile, da bambino crudele, di dirle: basta, è tutto finito,<br />

fiato sprecato, chiudila quella boccaccia, tra un po’ non ne<br />

parlerà più nessuno, nessuno si ricorderà né di te, né di me, che<br />

vale? Dimentichiamo ogni cosa. Quello che è stato è stato e via<br />

dicendo. Ma non lo feci. No.<br />

Chissà che cosa avrebbe detto a quel punto, se l’avessi<br />

fatto. Mi avrebbe preso a morsi, magari. Ma ai pazzi non si<br />

dice mai la verità e io non so il perché. Forse perché non ne<br />

hanno bisogno.<br />

<strong>La</strong> follia dell’ira? Discutiamone. Mi arrabbiavo in passato,<br />

ma erano occasioni eccezionali, da raccontare. Solo in quelle<br />

rare circostanze mia moglie mi mentiva; in tutte le altre era ed<br />

è di una sincerità avventata e terapeutica, da far paura. Una<br />

terapia utile spesso solo a lei. Sincera come l’acqua, ma se mi<br />

fumava il cervello, allora, cambiava sguardo e aspettava che<br />

scampasse, divagando.<br />

Da tanto tempo non accade più. Quante volte mi sarà<br />

223


accaduto in tutto? Un paio, forse tre? Non di più. Adesso ho<br />

imparato delle tecniche specifiche di dilazione e spostamento<br />

della rabbia, roba mia. Segretissima.<br />

Però, ne avrei di ricordi sull’ira di mia moglie o su quella<br />

di mio padre. Loro ne hanno avute tante di esplosioni di questo<br />

genere. E anche adesso. Come a mettersi sulla faccia il<br />

fegato, mostrarlo mentre macera, e poi urla e strepiti, spettacolari,<br />

finché la voce si appanna e la saliva si prosciuga. E se<br />

c’è un piatto frangibile nei dintorni, peggio per lui.<br />

Diventano mostri, loro, ributtanti e banali mostri. In vetrina<br />

per farsi guardare. Possono farlo perché, tutto sommato, si<br />

amano tanto da poterlo tollerare. Lo sbrego degli altri sembra<br />

una cosa normale; vicenda da esseri umani, secondo vecchie<br />

regole, fatali. Persino bello da guardare, commovente come il<br />

circo. Lo possono fare perché sono certi che passerà, certi che<br />

finirà, certi di non diventare pazzi davvero. Altrimenti non lo<br />

farebbero e cercherebbero nascondigli o cure. Come faccio<br />

io.<br />

Quando è capitato a me, in passato, è sempre stata una faccenda<br />

cupa, oltre i confini. Me ne ricordo soltanto due di storie<br />

così. Oggi è diverso, dicevo, oggi me ne sto per i fatti miei:<br />

un po’ prevenuto, guardingo, con le fasce muscolari del collo<br />

in tensione perenne, quasi con una gruccia infilata sotto la<br />

camicia. Difficilmente mi rilasso, di rado sono attraversato da<br />

picchi verso l’alto o verso il basso. Panorama mediamente<br />

piatto, ma in allarme.<br />

Angela dice che, quando accade, mi trasformo fisicamente:<br />

occhi statici che sembrano sotto anestesia locale per intervento<br />

sulla retina, rigidità degli arti, sguardo velato, pupilla<br />

dilatata, senza più una ruga sulla faccia, praticamente ringiovanito,<br />

unghie viola smerigliato, tremito evidente, labbra<br />

bagnate e gonfie. Questa è stata la descrizione fatta da Angela<br />

per celebrare il mostro nero di quelle due incazzature storiche.<br />

<strong>La</strong> prima volta.<br />

Avevo appena preso a frequentare Angela con una certa<br />

assiduità, e si era andati sulla punta dello stivale a vedere il<br />

mare. Dalle mie parti, quando ti innamoravi, scivolavi verso il<br />

224


mare quasi senza accorgertene; la provinciale, senza tagliare<br />

per i paesi, ti si infilava sotto le ruote durante i primi approcci.<br />

Parlavi di te, ascoltavi e guidavi, e a volte, se la cosa stava<br />

andando bene, mettevi un’audiocassetta nello stereo estraibile,<br />

che poi eri costretto a portare in giro con te, grande come<br />

una scatola di Ore Liete; tenevi lo sterzo languidamente solo<br />

con la sinistra, mentre l’altra mano approcciava gradualmente,<br />

mostrando tutta la sua significativa urgenza. Si veniva<br />

richiamati da luoghi più luminosi e ventilati per dare sfoggio<br />

all’eloquio tenuto in caldo in inverno. Le parole venivano<br />

fuori facili, e pure i silenzi erano più pregni se guardavi fisso<br />

l’orizzonte grigioazzurro, fuso alla roccia. Tipo Spinoza: scogliera<br />

a perdifiato, con quei picchi di salite e discese da capogiro,<br />

che la letteratura ci ruba. È il Senso, è l’Eterno, è il<br />

Destino che lo impone. Eravamo saliti fino in cima con il fuoristrada<br />

prestatomi da un amico. Era voluto venire per forza<br />

pure lui, l’amico. Così eravamo andati.<br />

Spento il motore, con lo sguardo immerso nella grande<br />

tavolozza, presi gli zaini e raggiunto uno scoglio qualsiasi,<br />

scomodo e puntuto, i sandali avevano preso a spossarsi.<br />

Mentre la terra continuava a chiamarci. C’era da salire, da<br />

sgambettare come gallinelle, da indicare, descrivere, apprezzare,<br />

e noi, piegati in avanti per bilanciare il peso, parlavamo<br />

l’uno alle spalle dell’altro, intenti nella marcia in fila indiana.<br />

Angela, in quell’istante, rappresentava tutte le donne possibili:<br />

un concetto astruso di cui sapevo ancora poco. Era venuta<br />

insieme a me su quello scoglio aguzzo, non con l’amico e il<br />

suo fuoristrada; almeno così credevo. Ne conseguiva che<br />

tutte le smancerie nei confronti dell’amico, vuoi la mia acqua<br />

da bere? Conosci il posto? Che lavoro fai? erano totalmente<br />

superflue, oltre che impreviste. Mi pungeva principalmente<br />

che lei rimanesse leggermente indietro, a fiancheggiare l’amico<br />

nella salita; che mi guardasse poco e che poco ridesse delle<br />

mie battute a fiato mozzato. Feriva il mio amor proprio<br />

soprattutto il fatto che Angela non comprendesse. Che non<br />

guardasse l’orizzonte, ma altri particolari. Mentre parlavo,<br />

usavo un tono sempre più alto, quasi urlavo così che lei potesse<br />

sentire. Parlavo inutilmente, lei non sentiva, non capiva.<br />

225


Afono io o sorda lei. Mi infastidiva sudare così tanto, esibire<br />

quella corona scura nell’incavo delle ascelle. Bere e sudare,<br />

bere e poi di nuovo sudare, come un cammello, quel mezzo<br />

litro che il paesaggio riscaldava nello zaino. Ho sempre sudato<br />

molto nei momenti di particolare impegno. Liquidi fisiologici<br />

incomprensibili per la mia donna in prova. In più soffrivo<br />

fisicamente, davvero soffrivo: mi si sforacchiavano i piedi<br />

nelle ciabatte gommate. Era evidente: avevo scelto male le<br />

scarpe da indossare, e forse non solo quelle. Mi aspettavo di<br />

dare di più, davanti a quella che si annunciava come la donna<br />

della mia vita. Delusione. Il cielo non mi aiutava e Angela non<br />

mostrava la minima solidarietà nei miei confronti, anzi, cambiava<br />

idea ogni secondo, e le mie proposte, circa il senso da<br />

dare all’allegra scampagnata, non la entusiasmavano né poco,<br />

né punto.<br />

E allora: boom! Fuoco dagli occhi rivolto al cielo, proprio<br />

nell’angolo più ameno della costa, allorché il cielo sembrava<br />

un lenzuolo pulito. Un’ira panoramica che sconvolse Angela<br />

e, credo, la fece innamorare perdutamente di me. Una folgorazione<br />

che la fece saltare di un metro più in là. Leggendolo<br />

con il senno di poi, posso giudicare quello sdegno come un<br />

impulso egoistico dissennato, ma inspiegabilmente efficace.<br />

<strong>La</strong> seconda volta.<br />

Al cinema davano un film d’essai, come ogni martedì sera.<br />

Angela e io, da qualche mese, si faceva sul serio. Si andava al<br />

cinema per spaccare in due tronconi la settimana condivisa e<br />

renderla più elastica. Lei, laureatasi con anticipo, aveva<br />

cominciato a far pratica nello studio legale dell’avvocato che<br />

aveva rappresentato sua madre nella separazione da suo<br />

padre. Uno bravo, che le faceva fare copie dei verbali d’udienza<br />

e anticipare di tasca propria i diritti di cancelleria per<br />

i ricorsi da depositare. <strong>La</strong> separazione tra i suoi genitori era<br />

stata consensuale, ma sapientemente pilotata dall’avvocato.<br />

Lui la considerava un successo, tuttavia non ne parlava mai<br />

con Angela, la cui linea cerebrale irrequieta poteva considerarsene<br />

l’utile frutto. L’avvocato conservava il fascicolo<br />

materno in un suo cassetto inaccessibile, ché sono cose riservate.<br />

Aveva paura, quello, di scoprire i suoi trucchetti tecnici,<br />

226


almeno quanto Angela aveva paura di lasciarsi andare alla<br />

felicità, e poi magari essere costretta a confessarlo ai suoi<br />

genitori, che vivevano ancora in una statica penombra. Io,<br />

intanto, vittima di un’impazienza cronica, studiavo per il concorso<br />

in magistratura, prima ancora di avere discusso la tesi,<br />

e già compravo “Il posto”, “Il disoccupato”, “<strong>La</strong>voro oggi”.<br />

Sono sempre stato uno di quelli che anticipava i compiti del<br />

lunedì durante il fine settimana. Non so aspettare. Un bicchiere<br />

d’acqua lo bevo subito fino all’ultima goccia, anche se non<br />

ho sete in quel momento, perché, prima o poi, la sete verrà.<br />

Compravo i quotidiani locali, anche per vedere cosa davano<br />

al cinema il martedì.<br />

Il martedì, dicevo, c’era il cineforum. Angela, a dieta già da<br />

allora, cenava con una confezione media di popcorn, rigorosamente<br />

senza sale. Sciamavano cicalando studenti e post lauream<br />

impegnati in ottimistiche specializzazioni, verso le poltrone<br />

di velluto, a spettacolo già iniziato, nel buio della sala,<br />

tra le sagome scure. Noi con loro. Oramai, se si sovrapponevano<br />

le nostre mani sul bracciolo, non c’erano più né stupore<br />

né palpiti. Avevo elaborato le mie migliori fantasie riguardo<br />

il nostro rapporto, elaborato piani, cominciato a costruire<br />

quella sacrosanta intimità di chi divide la stessa cella. Mi piaceva<br />

un sacco. Eravamo intimi e capitava anche che, goduria<br />

somma, si trascorressero intere mezzore in silenzio. Poi, dopo<br />

il film, ti veniva voglia di chiedere come è stato?, ed era davvero<br />

importante saperlo.<br />

Quella sera avevo scelto il film giusto. Non avevo commesso<br />

errori. A lei piacevano le storie. D’accordo la fotografia, i<br />

piani, i sapienti campi lunghi e quelli corti, ma soprattutto<br />

cercava le storie, da raccontare il giorno dopo. Possibilmente<br />

storie intense, non brevi; anche tre ricche ore di pellicola. Se<br />

un po’ tristi, meglio, ché non si ridesse troppo in sala e a vanvera.<br />

Non erano tutti uguali i martedì, sondavo prima di scegliere<br />

il film, per capire se era una giornata da sanare con una<br />

lacrima o con una risata. Era da preferire comunque un regista<br />

italiano, magari di quelli giovani e con la barbetta da intellettuale;<br />

al limite un francese, mai un americano. Che un film<br />

non doveva servire a farle sospirare ecco, sono altrove, ma<br />

227


dove cavolo mi trovo e che ci faccio qui? Al contrario, il fine era<br />

riuscire a farle sussurrare siamo tutti nello stesso luogo, io<br />

sono proprio spiccicata alla protagonista del film. Quindi<br />

meglio un regista italiano, decisamente. Alla fine della serata<br />

quello che contava era che lei sentisse che quel regista le era<br />

stato amico e complice, avendo saputo spiegarmi adeguatamente<br />

chi era. Chi era Angela. Facendole fare anche bella<br />

figura. Il film le serviva per comunicare con me.<br />

Quella sera: lacrime.<br />

Con il suo avvocato, infatti, c’erano stati dei problemi, non<br />

ricordo, e lei doveva farmi capire quali e di chi era la responsabilità.<br />

Essendo anche un po’ raffreddata, voleva farmi capire<br />

che era giù di tono, senza dirmelo direttamente, per non<br />

sentirsi troppo fragile; in sintesi voleva che capissi da solo.<br />

Magari con una buona regia a sostenermi. Quindi meglio le<br />

lacrime, senza dubbio alcuno. Già pregustavo l’effetto morbido<br />

delle lacrime sull’umore di Angela, come una birra rossa<br />

media.<br />

A conferma del progressivo consolidarsi del rapporto, le<br />

osservavo i capelli che non aveva lavato; le ciocche ricadenti<br />

ai lati, in stille opache, come bollettini meteorologici. Che<br />

meraviglia riconoscerli al tatto marginalmente unti, come il<br />

tavolo su cui si mangia. Non aveva lavato i capelli per me.<br />

L’aveva fatto per completezza. Per tenerezza. Il lavoro di<br />

mesi, produceva finalmente i suoi guadagni. Di silenzio, relax<br />

e spazzola. Intimi, veramente intimi.<br />

Nell’anticamera, sui divani, mentre scorrevano i titoli di<br />

coda dello spettacolo precedente e si sentivano gli echi smorzati<br />

di una colonna sonora tristissima, che preannunciava<br />

cinematografiche catastrofi, incontrammo un mio vecchio<br />

compagno di scuola. Era quella la catastrofe preannunciata.<br />

<strong>La</strong> sua faccia abbronzata mi colpì come un pestone. Gaio,<br />

ilare, volle che gli presentassi Angela. Era avvenuto molte<br />

altre volte in passato, quando, anche con colpi bassi, era riuscito<br />

ad accaparrarsi l’attenzione delle donne che erano con<br />

me. Perché era un vanesio svuotato come un cofanetto<br />

Sperlari. Diventava avvocato, andava a lavorare in un grande<br />

studio associato nella capitale, diventava esperto di diritto<br />

228


commerciale, imparava l’inglese e lo spagnolo; tutto questo<br />

aveva raccontato ad Angela in due minuti, usando l’imperfetto,<br />

il verbo del divenire, della continuità, dell’inevitabilità.<br />

Come avesse ancora sedici anni, quel bastardo! <strong>La</strong> sua faccia<br />

era un tradimento che si ripeteva; uno slogan imposto violentemente<br />

al ritmo dei miei martedì sera, proprio quando tentavo<br />

di diventare adulto.<br />

Mi sono sentito di nuovo basso, e ci avevo messo anni per<br />

arrivare a non sentirmi più tale, nonostante la natura remasse<br />

contro. Mi sentivo basso e scomodo sul divano concavo del<br />

cinema. Quando l’avevo visto assaltarci, per tirarmi su da<br />

quel diavolo di un divano ammazza-fidanzati e reagire in un<br />

qualche modo, avevo annaspato per qualche secondo con i<br />

piedi nell’aria, cercando un appiglio qualunque, senza sapere<br />

chi tra i presenti poteva averlo notato. Basso. Non era colpa<br />

dei divani scomodi. Lo so. Mi sono sentito quello che ero:<br />

1,65, massimo 1,67; che non è certo 1,83 o 1,86. Ad un certo<br />

punto non si può più giocare con le emozioni o con le sviste<br />

ottiche. Io ero basso, lui alto: come a sedici anni. Come con<br />

tutte le ragazze dell’universo e con tutte le tipologie di futuro<br />

ipotizzabile. Niente di nuovo. Uno ci mette anni per elaborare<br />

fantasie diverse e poi basta un divano.<br />

Ma il peggio stava negli occhi di Angela. Il peggio era che<br />

Angela cedeva. Avevo lavorato per mesi perché lei alla fine<br />

giungesse a non lavarsi i capelli per me, perché li frenasse,<br />

così come erano, in cima alla testa con un laccio di vecchio<br />

cuoio nero. Eppure. Forse questo suo scivolamento imprevisto<br />

era dovuto all’ignoranza. Lei non sapeva chi era in realtà<br />

quell’uomo. Non sapeva quanto era crudele e pericoloso.<br />

D’accordo, ma si tratta di cose che non racconti a una donna,<br />

soprattutto all’inizio. Non è che quando decidi di frequentare<br />

una ragazza, l’avverti che, se vuole restarti accanto in serenità,<br />

può fare quello che vuole, tranne dare confidenza a Tizio<br />

o Caio, nome e cognome, non deve neppure guardarli in faccia,<br />

quelli, perché ti brucia; non è che le fai l’esame d’ammissione<br />

con l’elenco di tutte le cose da non fare o non dire. C’è<br />

un limite anche al desiderio di completezza all’interno di una<br />

coppia, e che diamine!<br />

229


Così, non avendo altra alternativa, mi sono trasformato di<br />

nuovo in una belva senza tana.<br />

Quella fin qui descritta non è solo gelosia, però. Potrebbe<br />

sembrare, lo ammetto, a una prima analisi; di certo un po’<br />

superficiale. Ma non è così. È restare fuori dalle cose che contano<br />

che non mi piace. Sentirmi incapace, lontano, incompreso,<br />

smarrito come un ombrello, appunto: proprio non lo tollero.<br />

Che mi si privi di quel poco di fortuna che mi sono sudato,<br />

mi fa imbestialire. Voglio esserci anch’io. Al meglio. Ho<br />

paura che non accada.<br />

Quello, il mio amico, parlava del regista del film, brillante<br />

come uno zircone. Quella, la mia donna, rideva. Sembrava ci<br />

fosse un’intesa. Per questo Angela, che di tutte le mie debolezze<br />

non era ancora a conoscenza, assistette alla mia seconda<br />

sfuriata, inerme, ma questa volta con minor sorpresa.<br />

Alla fine, credo, mi abbia ancora più profondamente<br />

amato, quasi fossi uno di quei suoi contorti film d’atmosfera,<br />

le cui immagini più forti ti restano nel cervello invecchiando,<br />

imbevendo ogni sinapsi, e ciò che ti capita dopo, richiama gli<br />

stessi fotogrammi, solo un po’ rallentati.<br />

Questi gli unici ricordi coscienti dell’ira. Sì, qualche successivo<br />

squilibro da bilancia inceppata, qualcosa di simile a<br />

un tic al labbro o al sopracciglio, ma non autentica rabbia.<br />

Non più. Per fortuna. Non sta bene dare spettacolo, pure se<br />

funziona.<br />

Quando e se avrò l’impressione che la passione di Angela<br />

subisca un rallentamento, in futuro, forse tirerò fuori dal mio<br />

archivio quegli storici occhi di brace e li rimetterò in attività<br />

per un’altra breve, fulminante replica d’autore.<br />

<strong>La</strong> vecchia, invece, era totalmente fuori. Era ben altra<br />

cosa. Non aveva altre dimensioni da abitare se non quella<br />

della follia, lontana come era anche dal suo quartiere abituale<br />

e in evidente disagio urbano, oltre che psichico. Era lì per<br />

denunciare la sua sofferenza, ma non sapeva dove conducessero<br />

le strade che percorreva. Non si può rivelare nulla se non<br />

si conosce un percorso da fare, rifare, indicare. Era uscita in<br />

strada senza le chiavi di casa. Autodistruttiva.<br />

Solo gli altri vecchi la notavano. Qualcuno tra questi,<br />

230


pochi, addirittura rallentava, con la busta della spesa in<br />

mano, o sollevava il cappello per capire. Per gli altri, invece,<br />

non esisteva. Soggiornava nel frastuono da città senza dar<br />

fastidio. <strong>La</strong> vecchiaia non fa parte della vita che si muove ed<br />

è più attenta alle piccole cose, se riesce a vederle. Solo i vecchi<br />

guardano i vecchi. Mi è capitato, al massimo, di notare<br />

qualche vecchio bacucco contemplare i giovani o gli adulti<br />

maturi, ma ancora belli da guardare. Mentre i giovani mai.<br />

Non guardano i vecchi. Ne sono anzi disgustati. Quelle palpebre<br />

ammollate come tende di vecchio teatro, quelle pelli<br />

come percorsi saltabeccanti di grilli, quelle bocche flosce,<br />

bucate, mancanti e crespe come portoni abbattuti, troppi peli<br />

bianchi e duri come avanzi di roghi. Veramente disgustosi.<br />

Un vecchio non ti disgusta solo se, per parentela o caso, riesci,<br />

guardandolo, a ricordare che faccia aveva cento anni<br />

prima. Hanno una loro estetica tutta commemorativa. Per<br />

questo i giovani non guardano i vecchi: non se li ricordano.<br />

Non ricordano loro e non hanno ancora cominciato a ricordare<br />

neppure se stessi. Si possono fabbricare volontariamente<br />

ricordi non ancora maturi? Forse, non so. C’è qualche caso<br />

particolare, lo fa qualche scellerato, l’amante di racconti dell’orrore;<br />

a volte, se necessario, lo fanno i fotografi di professione<br />

o gli scrittori, per dovere di cronaca, magari per venire<br />

incontro alla cronaca stessa, quando è troppo noiosa.<br />

<strong>La</strong> mia vecchia non era però una vecchia qualunque. <strong>La</strong><br />

mia vecchia pazza era stata scelta da Dio, quasi che Dio elegga<br />

tra i poveracci i suoi ambasciatori, per una forma di compensazione.<br />

Scelta per svelare il mistero dell’omicidio. Colpa<br />

mia forse: ho un’immaginazione romantica. Quella diceva che<br />

il sangue dell’assassino era entrato dentro di lei, il sangue dei<br />

froci, appunto. Dopo la sua morte, tutti avrebbero potuto<br />

conoscerne la vera identità, aprendole in due la pancia gonfia<br />

d’aria. Di quell’oceano di sconcezze, il traffico se ne trascinava<br />

lontano almeno la metà, e lei rimaneva come un burattino<br />

orrendo con i fili non ancora recisi. Sprecata.<br />

Era la prima volta che mi capitava. Normalmente, quando<br />

mi trovavo in quella zona, ero sempre preso da pensieri d’ufficio,<br />

dai miei casi, e nulla mi distraeva. Io, e il resto dell’uni-<br />

231


verso, ci facevamo ognuno i fatti nostri. In altre circostanze,<br />

se non mi fossi sentito in attesa, bisognoso di ricordi prima<br />

della partenza, forse, non l’avrei notata. Ma, quella mattina,<br />

avevamo messo a posto il fascicolo del Corietti: dattiloscritto,<br />

pubblicato, depositato, espulso. Era una mattina in cui dovevo<br />

ascoltare per scegliere. Era una mattina di bilanci, tonda<br />

ma deprimente, e la vecchia aveva un suo strambo megafono<br />

a risuonare tutto per me. Perciò la notai.<br />

Le indagini non avevano portato a nulla; alla fine avevamo<br />

deciso per una richiesta di archiviazione e nessun altro giudice,<br />

dopo di noi, avrebbe avuto qualcosa su cui decidere. Né<br />

avrebbe protestato di certo. Finiva così. L’elaborazione della<br />

nostra incertezza non era riuscita ad andare oltre quel pacco<br />

di cellulosa, salvata al macero.<br />

<strong>La</strong> colpa era delle regole, non nostra.<br />

Detto così sembrava fin troppo scontato. Ebbene sì, c’è un<br />

rigore giuridico, delle regole di gioco da rispettare, anche<br />

quando non si è compreso un tubo di tutta la faccenda; anzi<br />

soprattutto in questo caso. Le regole ci avevano impedito di<br />

arrivare alla verità. Ché di Verità si trattava. Di questo.<br />

Eravamo rimasti senza un’oscena verità o un’ufficiale menzogna.<br />

Le regole ci avevano buttato fuori dalla partita, perché<br />

non avevamo saputo farle fruttare. Anche se si sta perdendo,<br />

se si hanno in mano solo quattro carte da niente, le regole non<br />

possono essere infrante. Si gioca con pochi strumenti e la<br />

verità che intuisci, se la intuisci, la devi modellare, limare,<br />

adattare allo spazio ridotto offerto dalle regole processuali,<br />

senza violarle. Questa è la parte più difficile.<br />

Lo diceva anche il maestro Ietta, che forse non era stato<br />

proprio esplicito sul punto, ma la direzione dei suoi gesti, il<br />

senso che prendevano le sue spalle piegandosi, il bianco<br />

smunto della sua agenda, era di questo che parlava.<br />

Come era questo mestiere? Era un po’ come far entrare<br />

un’anguria in una buca da golf.<br />

Una questione di formine sulla spiaggia.<br />

Non so quali altri esempi fare, insomma, un gioco da bambini,<br />

sincero ma di fantasia.<br />

232


I fatti rappresentano la sabbia di grana fine, cioè una materia<br />

vasta, ma informe; la norma giuridica, invece, è rappresentata<br />

dalla formina da sovrapporre alla sabbia, per modellarla.<br />

Il numero dei granelli non è neppure confrontabile con quello<br />

delle formine a disposizione. Sono grandezze non equiparabili.<br />

Ne viene fuori la stella marina, la tartaruga, la torre<br />

merlata, una qualche verità giuridica visibile, tangibile, comprensibile,<br />

solo se sei stato bravo e attento. Sei hai bagnato la<br />

sabbia al punto giusto, né troppo né poco. Lo sanno anche i<br />

bambini. Esistono tonnellate di formine giuridiche, ma mai in<br />

numero sufficiente da contenere tutta la sabbia da cui siamo<br />

quotidianamente sommersi. Da lì l’umana fatica. Siamo nati<br />

per soffrire. Per misurare, contenere, compensare. Ci sono<br />

verità di tutti i tipi, se pure con lo stesso fine: bilanciare.<br />

Prove, ci voglio prove, ché la verità fantasticata non esiste<br />

in un processo. <strong>La</strong> formina senza la sabbia che vale? A far<br />

finta di stare sulla spiaggia a Natale? Inutile e fa freddo.<br />

<strong>La</strong> stessa vanità assilla la sabbia senza la formina. <strong>La</strong> sabbia<br />

non si trattiene: scorre e lascia tra le dita uno sgradevole<br />

prurito. Questo il gioco: senza prove si ritorna al VIA o si<br />

paga pegno.<br />

Restava questo buco. Enorme. <strong>La</strong> morte. Non ci entravano<br />

le nostre angurie, per quanto succose e vivaci; non ci<br />

entravano il sacerdote affarista, il farmacista ambiguo, l’amante<br />

addolorato e le donnine allegre, nemmeno le muscolose<br />

mogli ingannate, non entrava la commerciante sola e le sue<br />

bambine abbandonate. Non potevano infilarsi le ossessioni<br />

della ragazza sfrattata, né servivano le più astruse testimonianze<br />

oculari. Neppure l’ombrello. Frutta fuori misura,<br />

buona per essere urlata al mercato del venerdì.<br />

Per tutte queste ragioni notai la vecchia, quando la partita<br />

era già stata chiusa per rinuncia.<br />

<strong>La</strong> vecchia era quello che restava in cassa, fatti i conti di<br />

chiusura. Urlava. Sbraitava il danno aggiuntivo che non avevamo<br />

saputo limitare durante lo sforzo interpretativo della<br />

realtà. C’erano, in quel contesto giudiziario, errori accettati,<br />

ritardi consentiti, sprechi tollerati. Oltre questi, si elevava la<br />

233


pigrizia, il rimprovero, immoralità o, al peggio, la segnalazione<br />

al Consiglio Superiore della Magistratura. Quel surplus<br />

terrorizzava Ietta.<br />

Se la vecchia era andata fuori di testa era colpa nostra?<br />

Avevamo causato noi quel danno altrimenti evitabile? Ma no,<br />

che c’entravamo noi? <strong>La</strong> vecchia era già fuori di suo. Al più e<br />

senza volerlo, avevamo acuito una sintomatologia già esistente.<br />

Non eravamo una cura, noi, per nessuno, né ci aspettavamo<br />

di esserlo. Almeno credo. Qualche dubbio c’era, lo<br />

ammetto, e nel dubbio la notai. Poi rimasi devotamente ad<br />

ascoltare il suo bollettino di guerra. Ascoltando, la risarcivo<br />

comunque. Non si sa mai. Aggiravo qualche senso di colpa.<br />

Tutti condannati al contagio e alla morte, diceva lei.<br />

Creperemo per colpa dei giudici. Lei la prima, poi gli altri.<br />

E infatti, quando un bisogno vitale come quello della giustizia<br />

resta insoddisfatto, ti nasce in testa l’idea della morte.<br />

Non dico sciocchezze: è così che accade.<br />

Che me ne faccio io di questa stramba sagoma sulle scale,<br />

pensavo. A quel punto, quasi cadendo all’indietro, per il<br />

conato finale, la donna urlò che l’ombrello di Dio, quello che<br />

svelava il mistero, le era stato rubato dal giudice. Mi fece sobbalzare.<br />

Quale giudice? Quella parlava di me, la belva in abito da<br />

sera parlava proprio di me. Poi con le mani che si aprivano<br />

come rami senza frutti, tacque. Rimase immobile, come fulminata,<br />

così che il suo silenzio e il mio sguardo cominciarono<br />

a scazzottare. Ferma lei, presi a muovermi io, a far scivolare<br />

le scarpe a disagio, a strofinarne la suola ripulendola senza<br />

zerbino.<br />

Accadde in quel preciso momento. Accade un fatto strano<br />

e preciso.<br />

Sulle vene delle vecchie mani le si posò una farfalla viola.<br />

Compì una fantasia acrobatica sulla matassa sprimacciata dei<br />

capelli cenere e si posò. Niente di nuovo. <strong>La</strong> farfalla faceva<br />

quello che sapeva fare e, si sa, i rami secchi sono un ausilio al<br />

volo. Un trampolino di lancio sincero. Era solo una piccola<br />

farfalla viola che si posò. Niente di anomalo. Volava e si fermò,<br />

come tutte. Ma era viola. Non era di un altro colore: era viola.<br />

234


In fondo era maggio, un maggio orrendo, così che l’empireo<br />

della città cercava di dimenticarlo. Ogni cosa era indotta<br />

a disimparare il tempo, tranne le farfalle.<br />

E io che credevo che i tribunali fossero il posto giusto per<br />

certe faccende. Ed io che mi sentivo al sicuro là dentro. Forse<br />

dentro, ma non sulle scale. Sulle scale c’erano onde sonore di<br />

pura metafisica, in aperto contrasto con qualsivoglia verità materiale.<br />

Avevamo camminato in tondo, il buono e l’allievo, per<br />

mesi, ma era quello che eravamo chiamati a fare. Circuiti<br />

interpretativi. Almeno cento volte lo stesso percorso mentale.<br />

Non era stato un errore a frenarci, io credo. Era un’altra la<br />

spiegazione.<br />

Sono una persona ostinata: i tribunali, nonostante tutto,<br />

restano per me il posto della verità. Pensiamoci. Non ci sono<br />

altri posti di ricerca onesta e romantica. Secondo me. Non<br />

voglio fare pubblicità. Verità. Giustizia. Sofismi tecnico-giuridici.<br />

Sono roba soltanto nostra. Ma ci sono dei limiti, è chiaro.<br />

Un atto di violenza così efferato potrà essere mai essere<br />

ricondotto all’equilibrio originario, grazie alla parola di uomini<br />

in toga, dentro un’aula di tribunale? Forse no, ma dovevamo<br />

provarci. Cosa sono le aule d’udienza? Una specie di cannocchiale<br />

puntato, ma non sempre del tutto a fuoco. Non del<br />

tutto a fuoco, ma l’obiettivo resta utilizzare le parole e le azioni,<br />

creare nessi, mettere ordine. Lì dentro molto più che altrove.<br />

E non c’è altro posto simile, mi pare. Non in chiesa, non<br />

in casa, non nelle scuole, non in piazza; nelle piazze ci sono<br />

solo i piccioni a scacazzare su ogni superficie e le parole sono<br />

solo marmellata che fa croste.<br />

Nei tribunali è ancora diverso. I tribunali si portano ancora<br />

addosso alcune vistose stimmate, ma ci sono rimasti solo<br />

loro. Altrove nessuno si aspetta verità o giustizia; si hanno di<br />

queste pretese solo nei tribunali. L’ultima occasione per tanti.<br />

Si sappia una volta per tutte: le parole del diritto sembrano<br />

finte, ma è un’allucinazione acustica, un maquillage ben<br />

riuscito. Vengono messe in un certo ordine, aggiornate<br />

periodicamente, ripetute armonicamente, fatte tacere per<br />

decenni e poi ritirate fuori all’improvviso come un vecchio<br />

235


quadro sotto il crollo di un castello. Sono state pensate per<br />

far paura, per sembrare diverse dalle altre, perché controllino<br />

il caos o lo provochino. Ma sono vere, respirano. Noi<br />

non eravamo stati capaci di mettere ordine fra le parole<br />

u s a t e .<br />

Questa competizione che si serve della grammatica e del<br />

vocabolario, mi ricorda le paure più segrete di Angela e certe<br />

sue perversioni. Angela, infatti, mi racconta spesso delle volte<br />

che aspettava chiusa in camera che si esaurissero le parole a<br />

casa sua. Le parole degli altri.<br />

I suoi genitori se ne dicevano di tutti i colori, ma tra quelle<br />

comuni, c’erano due categorie di parole specifiche: quelle<br />

azzardate e quelle salutari; partorite entrambe dai bisbigli.<br />

Lei se ne stava a origliare, pregando a occhi strizzati che non<br />

venisse detta quella certa parola, non dirlo, non dirlo, sperava;<br />

non dite adesso quelle parole. Erano sempre quelle due o<br />

tre, quelle che scatenavano reazioni a catena, sempre le stesse:<br />

falsità, preconcetto, dipendenza, non erano parole univoche,<br />

avevano peso solo in un certo contesto, erano la sua soggettiva<br />

Hiroshima da divano. Altre volte supplicava dillo ora<br />

ti prego, dillo subito, e sperava che venissero pronunciate proprio<br />

quelle che placavano, che allontanavano altri suoni, che<br />

liberavano, tipo equivoco, logorio, pazienza. Non interessava<br />

la sostanza del pensiero, che pur rimaneva invariata, non<br />

potendo in alcun modo mutare la sua casa nelle sue pietre;<br />

per Angela contavano solo le parole da usare per controllare<br />

il dolore. Si mangiava le dita perché lei era l’unica in casa a<br />

saperle usare. Gli altri no, ne facevano un uso sconsiderato,<br />

crudele, mettevano le une contro le altre. Le parole non sono<br />

un fatto marginale, l’ho detto. Sono vive. Negli anni ha smesso<br />

di usare con i suoi famigliari parole tipo allegria, carnevale.<br />

Nasconde la gioia, le volte che ce l’ha tra le mani. Non la tollererebbero.<br />

Non voglio apparire catastrofico, per carità, la genetica<br />

paterna si ribellerebbe, ma questo è il lavoro che faccio: cercare<br />

la verità lavorando sulle parole della gente, e rendervi<br />

236


giustizia. Se non la trovo, ho fallito. Non si bara, tanto poi si<br />

finisce sui giornali. Nonostante la legge, il suo processo elefantiaco,<br />

non avevamo potuto usare né capire quali erano le<br />

parole giuste. Né usarle, né scriverle in sentenza. Perché,<br />

infatti, le parole giuste devono essere scritte, altrimenti non<br />

vale. Non basta la voce. Né basta un uomo solo. Un uomo da<br />

solo non ce la farebbe mai. Non un solo giudice, ma molti e<br />

diversi. E non solo giudici. C’è molto di più di un uomo in<br />

gara, lo giuro.<br />

Mi metto una giacca onesta per spingere su quest’acceleratore<br />

e alle volte mi stanco come un ciuco e mi si rivolta lo stomaco,<br />

ma è questo il mestiere che faccio. <strong>La</strong> giacca sembra<br />

nuova? È un inganno. Carta e corpi umani, come per i cartapestai.<br />

Se non è questo, che cosa è allora? Di per sé la legge<br />

scritta non serve a niente. È insufficiente, boriosa, impotente.<br />

Nelle stanze dei tribunali, dietro paranze d’alluminio, ci sono<br />

individui che vigilano su quest’insufficienza, controllano sui<br />

monitor il battito cardiaco lento e affaticato del legislatore. A<br />

volte ne dichiarano il decesso. Amen. A volte il recupero.<br />

Amen. Ci sono stanze più grandi di quelle dei praticanti che<br />

somigliano a reparti ospedalieri d’avanguardia, specializzati<br />

nella sperimentazione estrema. Ho sempre creduto che certi<br />

ambienti fossero quelli giusti per far trovare pace agli assassinati.<br />

Non ho ancora cambiato idea.<br />

Il mio è un diritto mite: né pessimista né ottimista. Il diritto<br />

dell’ostinazione e della fantasia. Il diritto del cartapestaio.<br />

Una discreta cartapesta. Discreta e netta. Nessuna altra stoffa.<br />

<strong>La</strong> mano, l’acqua, la carta di giornale stropicciato e vecchio,<br />

cauterizzano una ferita. E posso dirlo in giro.<br />

Anche adesso, per esempio, davanti a questo biblico<br />

semaforo rosso, ai piedi di un incrocio contorto come un<br />

pitone che dorme, frantumato in rivoli stradali laterali frequentatissimi,<br />

impicciato da autoarticolati che hanno perso la<br />

strada, con il verde che non scatta mai, anche adesso vado<br />

verso la verità o il suo desiderio. Magari poi in ascensore<br />

incontro un tipo che odio e mi distraggo, nuotando in un versamento<br />

improvviso di bile, assolutamente soggettivo, assolu-<br />

237


tamente di parte, spingendo la verità a perdersi in troppi desideri,<br />

e divento crudele e vuoto. Eppure resta il fatto che, dal<br />

lunedì al venerdì, vado verso la verità di tutti. Ricamo un<br />

vestito di carta addosso agli uomini, come si fa con i pupi di<br />

Natale a Napoli. E sono soggetto alla carta e ai suoi limiti. Per<br />

mestiere riempio i vuoti. Le buche.<br />

Si parla tanto di certezza della carta e del diritto. Ti dicono:<br />

la formina è questa, la sabbia è quella, mettiamo insieme<br />

i numeri, facciamo la somma, o dentro o fuori, nessun artificio,<br />

nessuna manualità.<br />

Certezza: ne sono piene le dottrine di questa certezza facile;<br />

la chiamano ancora così i colti, o i pigri. Certezza. Ma<br />

anche quelli, i puri, quando è il caso, esigono vestiti su misura.<br />

Dicono: noi non dobbiamo adattare la realtà alla forma.<br />

Rigidi, tutti d’un pezzo. Dobbiamo solo prendere le misure,<br />

non garantire risultati, dicono. Usare la legge così come è.<br />

Basta. Facile a dirsi.<br />

E allora, dunque, che ci faccio io oggi con il pensiero<br />

della vecchia che mi è rimasto in tasca? Non voglio restare<br />

per sempre ad attorcinarmi intorno a un metro rigido da<br />

geometra. Così addestro l’occhio e la bocca a quanto c’è da<br />

vedere e raccontare. E raccontando le cose, le comprendo<br />

m e g l i o .<br />

Consumo litri e litri di benzina e, se non posso evitarlo,<br />

ripenso a mio padre. Vado e cerco di scegliere un punto di<br />

vista, sperando di non cambiare idea troppo spesso.<br />

Cambiare idea? Sia chiaro: non sono mica stupido. Mi accorgo<br />

che tutto tende al cambiamento: io, la mia casa, Angela, i<br />

figli che ancora non ho, i codici, le mani della gente. Ecco<br />

perché mi piacciono i cambiamenti; è per preparami a questi<br />

esami che ho fatto pratica. Anche nei palazzi di giustizia le<br />

cose cambiano, lentamente ma cambiano. Anche le biblioteche<br />

dei Tribunali cambiano. Cambiano anche gli impianti di<br />

climatizzazione. Anche la durata delle udienze e le rivendicazioni<br />

sindacali cambiano. Le sedie dietro le scrivanie adesso<br />

sono ergonomiche e rispettano i reni dei dipendenti. Novità<br />

motivate. <strong>La</strong> vecchiaia dura a lungo perché comincia quando<br />

238


sei giovane, e ha tempo per cambiare; comincia ora, svegliarsi,<br />

presto svegliarsi! È già tutto cominciato, non sono ammessi<br />

ritardi!<br />

E se l’esistenza, come variazione stabile, deve essere una<br />

pena, mi sono scelto Angela da sposare e il matrimonio come<br />

misura sostitutiva. Ci tengo.<br />

Tuttavia, se potessi non cambiare mai, forse non cambierei.<br />

Se mi fosse dato scegliere. Minor fatica, minori rischi.<br />

Non ho fortuna io, forse la fortuna, come l’altezza, salta una<br />

generazione. Mio padre è più alto di me di almeno dieci centimetri.<br />

Infatti, non ho fortuna e non sono alto.<br />

Mi viene da dire che forse sarebbe più facile se nulla cambiasse<br />

mai; sì, magari potrei sostenere a lungo questo smodato<br />

elogio della pigrizia, in nome della coerenza, della forza di<br />

carattere o di altre scempiaggini simili. Potrei. Perché uno,<br />

quando è uomo, e ha sviluppato una certa abitudine alle<br />

parole, può sostenere quello che vuole, argomentarlo, ché<br />

poche sono le tesi davvero insostenibili. Io stesso a volte<br />

sostengo con ardore una tesi e il giorno dopo, candidamente,<br />

me ne dimentico, facendomi latore appassionato di altre voci,<br />

di altre posizioni, opposte alle prime, ma con rinnovato sincero<br />

entusiasmo. Non è che abbia davvero cambiato idea,<br />

piuttosto, un’idea non c’è mai stata; mi sono semplicemente<br />

dimenticato di quanto affermato poco prima.<br />

In realtà non è così importante affermare una cosa o non<br />

affermarla; mi andava e basta. Ero tra amici e mi andava così;<br />

in quel momento specifico Tizio mi era più simpatico di Caio<br />

e ne ho sposato la filosofia. Stop. Tesi. Antitesi. Che vale? Ma<br />

quale forza di carattere, quale coerenza, quale noiosa certezza!<br />

<strong>La</strong> realtà ci contraddice sempre.<br />

Il tempo passa. Non mi resta più neppure l’umore a cui<br />

aggrapparmi, come fosse una guida alpina di lunga esperienza.<br />

Il metabolismo non è più quello di una volta; i muscoli<br />

cedono e le cose cambiano. Persino Angela.<br />

È un fatto. Le cose cambiano perché devono cambiare,<br />

non si tratta di scegliere. L’immobilità non è né ragionevole<br />

né naturale. Poiché desidero che il mondo pensi di me che<br />

sono un uomo ragionevole, cerco di apprezzare le novità e<br />

239


cambiare idea senza dolore. Nonostante la pigrizia che certi<br />

giorni sale come nebbia.<br />

Perché il diritto non dovrebbe seguire la stessa altalena e<br />

ritmo?<br />

<strong>La</strong> fissità che certezza è? Resta, è giusto, il fatto triste che<br />

i numeri sono numeri e che quando hai fretta, troppi fascicoli<br />

sulla scrivania, troppi uomini tra le mani, finisci per imboccare<br />

la strada più facile: quella dei numeri, per la quale uno è<br />

sempre e solo uguale a uno. Non c’è nulla da spiegare o da<br />

capire. Ci vuole molto più impegno a sostenere che uno sia<br />

uguale a uno. Il corsivo costa più fatica, a lavorarci su. Per la<br />

matematica pura basta una firma in calce. Così le domande<br />

della gente ti restano sotto le scarpe o sopra lo zerbino di casa<br />

al rientro. Ma che certezza è la fissità dei numeri e dei calcolatori?<br />

<strong>La</strong> certezza della propria stanchezza o di un fallimento.<br />

Ecco cosa è.<br />

Io non so sbagliare. Mio padre non me lo ha insegnato.<br />

Non ho mai fatto pratica su questo segno grafico. Anche<br />

Ietta, dieci anni fa, pure lui, poveraccio, mica mi ha detto<br />

abbiamo sbagliato, così che capissi e imparassi. No, lui ha illustrato,<br />

giustificato, compensato. Sorriso. Tutto qui. Ma sono<br />

anni che sfoglio fascicoli, con poche foto dentro, e non posso<br />

proprio credere che sia tutto qui.<br />

Dieci anni fa l’anguria non è andata in buca, va bene, non<br />

avevamo niente per riempirci una misera buca da golf e dirci<br />

soddisfatti. Dieci anni fa non è accaduto, ma magari domani,<br />

chissà. Non mi arrendo.<br />

Guido un motore a lenta ripresa, che non è mio, ma che<br />

posso ancora imparare a usare. Ci sarà ancora qualcuno<br />

disposto a educarmi. <strong>La</strong> legge esiste, può, per il fatto di esistere.<br />

Il resto sembra destinato a venire e a salvarci prima o<br />

poi.<br />

Quando quella mattina mi arrivò sulla fronte l’assenza<br />

forte dell’ombrello della vecchia, mi venne voglia di tornarmene<br />

a casa.<br />

Quello urlato dalla vecchia era il primo rimprovero ufficiale<br />

che ricevevo sul lavoro. Il primo in assoluto. Fece piuttosto<br />

240


male. Un morto = il buio escatologico; non era un risultato<br />

utile. Zero punti. Reazione? Dopo il primo insuccesso, mi<br />

venne voglia di casa. Immediatamente, come accade ai bambini<br />

a scuola. Non era un desiderio intempestivo. Da lì a<br />

poco, infatti, avrei dovuto scegliere la sede della mia prima<br />

destinazione con funzioni piene. Posizione in graduatoria<br />

medio bassa, la mia, ma volevo tornare a casa a tutti i costi. Ai<br />

luoghi dell’identità. Avrei venduto mia madre pur di non<br />

dovermi sottoporre ad altre prove lontano da casa. Se non<br />

poteva essere proprio casa mia, che almeno fosse il più vicino<br />

possibile. Casa, casa, casa. Per la prima volta, dopo i consigli<br />

da avventuriero di mio padre. Casa.<br />

Non avrei mai voluto deludere mio padre, è vero. Il suo<br />

occhiale rosa lo rendeva più vulnerabile dinanzi l’altrui disagio.<br />

Se mi vedeva un po’ giù di tono, scuoteva la sua faccia<br />

piacente e rasata. Proprio non capisco cosa ti manchi. Hai tutto<br />

quello che serve a essere felice. Mica sbagliava, dal suo punto<br />

di vista. Gli era noto solo il meglio. Il mio unico modello di<br />

riferimento era il mio vanto e, in ugual misura, il mio terrore.<br />

Strana la vita. Da mio padre ero attratto per sangue, ma, nello<br />

stesso tempo, allontanato per indole. Lui era l’aereo atterrato<br />

morbidamente in orario, io quello che riscalda i motori in<br />

pista in una giornata perturbata. Scherzo del destino e della<br />

genetica: ero il topolino segretamente partorito dalla montagna.<br />

Io basso, lui alto. Lui la norma, io l’eccezione. Facevamo<br />

e facciamo – come dimenticarlo? – lo stesso mestiere e questo<br />

non aiuta. Magistrati. Angurie per entrambi. Non volevo<br />

tradire nessuno. In attesa di rivoluzionarie scoperte scientifiche<br />

in materia, continuavo a considerare le attenzioni generose<br />

di mio padre con avvedutezza e a osservarlo mentre continuava<br />

a vivere, dentro quella sua solita aura, senza nessuna<br />

percezione del tormento dell’universo intero. Pur cercando<br />

di tenermene a distanza di sicurezza, da quell’aura ero sfiorato,<br />

trafitto. Un topo all’ombra della sua montagna. Mai detto<br />

niente di tutto questo a mio padre; mai. Lo giuro su mia<br />

moglie che, invece, sa tutto.<br />

Era il possibile disinganno di mio padre a impensierirmi,<br />

non la sua allegria. Come è possibile? Il mondo non è perfetto<br />

241


come credevo? Ho fatto male i miei calcoli? Non posso crederci.<br />

Qualcuno ha sbagliato e questo qualcuno potrebbe essere il<br />

mio unico figlio. Ahimè! Avrebbe detto così.<br />

E se fosse diventato vecchio all’improvviso per colpa mia?<br />

Per la mia incapacità di intervenire, di gestire la realtà?<br />

Vedere un padre, l’essere più miracoloso che l’universo abbia<br />

creato, da sempre risplendente d’euforia e coraggio, ridurre<br />

la sua naturale quota di luminosità, è un grande dolore per un<br />

figlio.<br />

Però, io non ero come lui e, se non lo ero, allora dovevo<br />

essere qualcos’altro. Essere comunque. Magari senza arrecargli<br />

danno. Cambiare dignitosamente il quadro appeso nel<br />

salotto e scegliere altri soggetti accettabili. Buon marito, buon<br />

giudice, buon padre, buon uomo. Identità variabili.<br />

Contro questa inquietudine, tornare a casa poteva essere<br />

un toccasana. Anche se non ero come lui, tornare in patria<br />

sembrava perfetto. Il minor guasto.<br />

Portai Angela con me a Roma il giorno della grande scelta,<br />

giusto qualche mese dopo la scenata della vecchia dei santini.<br />

Lei interruppe, solo per tre giorni, il suo tessere quei cento<br />

metri di tela di protesta. Volo Itaca-Roma, con soggiorno in<br />

Hotel quattro stelle, a spese dello Stato. A Campo dei Fiori.<br />

Chi se lo dimentica? In aereo c’erano dei colleghi di Bolzano<br />

che imprecavano contro i numerosi uditori che scalavano le<br />

graduatorie, passando in vetta, falsando a tradimento i risultati<br />

degli orali, grazie ai punti aggiuntivi benignamente offerti<br />

da mogli e mariti inamovibili, figli bisognosi come pulcini,<br />

e patologie, le più svariate, di zii, cugini; nipoti, tutte circostanze<br />

ben tutelate dalla legge 104. Noi due, tra gli altri passeggeri,<br />

facevamo finta di essere in luna di miele e di fare altri<br />

mestieri; il veterinario e l’astronauta. Cercavamo di non tradirci<br />

con tecnicismi lessicali da giuristi in volo. Durante il<br />

viaggio, leggemmo narrativa d’evasione, per puro depistaggio.<br />

Era così che avveniva: si andava in un grande albergo,<br />

freddo e porcellanato come una cella frigorifera, che in genere<br />

ospitava congressi di portata internazionale, lì ci attende-<br />

242


vano un palco con la commissione schierata, una sala gremita<br />

di targhette nominative; microfoni, bottiglie di acqua minerale,<br />

fidanzate granfighe, qualche moglie, padri e madri orgogliosamente<br />

anziani, spalmati in sala o nei corridoi.<br />

Credo sia ancora così, magari è solo mutata la scelta dell’albergo<br />

ospitante. Mi sembra di rivedere tutto: scorrendo la<br />

graduatoria ufficiale, resa pubblica assieme ai posti da coprire,<br />

il presidente scandisce nome e cognome; per scongiurare<br />

imbarazzanti omonimie. Il nominato si affretta fino al palco,<br />

si arrampica lungo il microfono come un ramarro sul ramo e<br />

fa lo spelling, pronuncia piano la sede che ha scelto, o crede<br />

di aver scelto, per il suo futuro lavorativo. Fa la sua scelta<br />

infernale, perché definitiva, mentre nelle orecchie si porta<br />

ancora l’eco degli ultimi consigli; dell’ultimo corpo a corpo<br />

con le aspirazioni di famiglia, con i propri traumi infantili,<br />

con i ricordi di scuola guida, con l’allergia al polline, con la<br />

musica rock da ascoltare in macchina, col sorriso agognato da<br />

secoli dalla sua famiglia con altri sette fratelli disoccupati, fai<br />

i conti con l’ultimo documentario sulla Patagonia o sul lago<br />

Titicaca; con tutti i “dicono che”.<br />

Alla fine inventa una città che non esiste. Ridisegna lo stivale.<br />

Lo ripopola, meticciandone i dialetti. Così emerge la<br />

geografia della sua verità. Una nuova formina.<br />

Io non ero impreparato. Con Angela avevamo predisposto<br />

una nostra selezione di luoghi possibili, di città visibili e vivibili,<br />

per precauzione, e perché un amico con più esperienza<br />

ci aveva consigliato in questi termini. Avevamo litigato per<br />

giorni e comprato uno stradario. Le sedi fattibili erano trecentosessantasei,<br />

ma di queste solo dodici erano davvero<br />

desiderabili. <strong>La</strong> Sicilia era una di quest’ultime. Tutti i magistrati<br />

prima o poi pensano alla Sicilia. Anche quelli siciliani,<br />

perché gli schiamazzi del mito arrivano dappertutto con gli<br />

stessi decibel. I magistrati, se sono delusi, annoiati, eccentrici,<br />

pensano alla Sicilia. Si immaginano con una vanga in mano<br />

e la pistola nell’altra, furtivi nella notte, su strade asciutte, da<br />

un portone all’altro, in auto blindate, sagome irradianti ardimento.<br />

Accade, forse, solo perché non hanno ancora sentito<br />

parlare della vita in Calabria e delle sue strade. Comunque<br />

243


accade. <strong>La</strong> Sicilia dei pensieri è una sorta di assolata legione<br />

straniera, in bianco e nero, alla maniera dei film di Stanlio e<br />

Olio. Ora, io non ho mai desiderato cercare un’estranea<br />

verità insulare, no, mai pensato una cosa del genere; resta il<br />

fatto che ho ricevuto anch’io un paio di cartoline dalla Sicilia<br />

e le ho apprezzate. Il sud mi attrae per affinità. Se non fosse<br />

uscita fuori la carta del ritorno, la Sicilia sarebbe diventata<br />

vicinissima.<br />

Ad un certo punto, un viaggio vale l’altro. Se non poteva<br />

essere casa, ogni altra sede avrebbe imposto comunque un<br />

viaggio. Ma questo è un pensiero vecchio di dieci anni.<br />

All’inizio tutti i cambiamenti sembrano possibili, in quanto<br />

creduti brevi, transeunti. All’inizio si brama la mutazione<br />

genetica. Soltanto più tardi si comprende quanto può durare<br />

veramente il Viaggio. Potevo affrontare anche la Sicilia dieci<br />

anni fa. Così credevo io. Sarebbe stato un disastro ancora<br />

sanabile dieci anni fa. È questo che fa la giovinezza.<br />

<strong>La</strong> morte aveva avuto un merito comunque. Il Corietti era<br />

stato capace di mettermi il freno. Solo lui e solo in parte. Se<br />

non fosse stato per quella storia del Corietti pugnalato, chissà<br />

ora dove sarei; chissà davanti a quale semaforo. Ah, sì, è<br />

certo: chissà cosa avrei fatto io, se la vecchia non mi avesse<br />

messo paura.<br />

È stata solo colpa sua, colpa del senso di vuoto che lascia<br />

l’assenza di verità. Colpa delle vertigini. Se non avessi incontrato<br />

il sangue del Corietti, forse oggi sarei siciliano e perfetto.<br />

Angela può anche continuare a dire che non è vero, che<br />

sono io quello instabile, quello incerto, il parolaio, ma io so<br />

che è colpa della vecchia. Uno certe cose le sente. Dove sarei<br />

adesso? Angela non lo sa. Io sì.<br />

Viceversa, sono a pochi chilometri da casa. Per arrivare in<br />

ufficio, prendo l’auto dal garage, non un autobus, ma l’auto<br />

con l’impianto di condizionamento. Considerato che, nella<br />

mia città, non si possono aprire i finestrini in estate. Percorro<br />

dieci chilometri, scelgo uno tra i parcheggi a me riservati e<br />

salgo tre piani in ascensore. Ho tempo per pensare. Uno o<br />

due pensieri, non di più, e nemmeno troppo complessi.<br />

244


In fondo, accettare un lavoro in una città piuttosto che in<br />

un’altra, non è come fare una vacanza. Significa condannarsi<br />

a operare in modo schizofrenico. È stato meglio tornare,<br />

quindi. Giocare a golf con mazze, angurie e buche, ma in casa<br />

propria. Scegliendo un solo modo di essere e fallire.<br />

Una volta Angela mi disse che la parte migliore del viaggio<br />

è il ritorno. Lei è capace di queste sintesi. E quando ci riesce,<br />

sembra illuminarsi di luce divina. Meravigliosa e saggia.<br />

Crederle è salutare. Che parli di corpo e parole, che metta un<br />

confine tra la fantasia e la materia, non conta; crederle è<br />

necessario. Guardarla è quasi rigenerante.<br />

Sono ritornato come E.T., senza altri termini di paragone<br />

se non la testa di Angela, i suoi bulbi piliferi senza requie, il<br />

suo modo di formulare i pensieri a sezioni logiche molteplici,<br />

ma ben distaccate. Sono tornato e mi sono persino commosso.<br />

Con Angela che faceva il tifo, è chiaro, per me e per un<br />

ipotetico embrione.<br />

Sono tornato perché avevo capito pure un’altra questione:<br />

c’era stanchezza nell’aria, invece d’altri profumi casalinghi.<br />

S’allargava una crepa. Lo sentivo che c’era qualcosa che scricchiolava<br />

sotto le mie scarpe, diffondendo un suono infausto,<br />

se pure lontano. Era il suono che fanno i letti vuoti, cigolando<br />

sinistramente. Come quelli posati su soppalchi, che paiono<br />

stabili, di legno e metallo, ma gemono anche sotto un peso<br />

da niente. Sanno di tarlo. Angela diceva che le mancava il mio<br />

corpo, ma non in senso biblico: le mancava vedere il mio<br />

corpo che riempiva gli spazi di ordinaria quotidianità. Il<br />

bagno, il corridoio, la veranda, il letto. Vedermi muovere,<br />

deglutire, tagliarmi le unghie o leggere in bagno. Si stava<br />

organizzando per combattere questa assenza, cercando altre<br />

dimensioni che riempissero quegli spazi cavi. Si era appassionata<br />

alla narrativa America Anni Sessanta e annichiliva volontariamente<br />

ogni mio programma, cambiando idea di continuo.<br />

Il sabato, nel tepore delle coperte, lei era larga, sempre<br />

più larga, sgomitava. Aveva il sonno solitario delle vergini,<br />

reagiva al contatto, mugugnava sorpresa, allargava le gambe<br />

come il quattro di mazze. Dovevo spiegarmi, dire chi ero, per<br />

poterle toccare i fianchi. Poi, divenuta finalmente cosciente,<br />

245


sceglieva lei. Non lo aveva riempito d’altri uomini, non ancora,<br />

per fortuna, non ancora, ma quella lacuna di corpi e il<br />

bisogno di dare una misura alla sua vita senza di me, mi imbarazzava<br />

non poco. Era quello il suono che percepivo, una<br />

sorta di marameo alle mie spalle. Fastidioso e confuso. Come<br />

a essere in continuo ritardo sulla partitura. Per sentirlo con<br />

più chiarezza e magari azzerarlo, dovevo assolutamente prendere<br />

subito l’autostrada che, a fatica, mi avrebbe ricondotto a<br />

casa, nel mio mondo imperfetto. Mi immaginavo ad attendermi<br />

un abbraccio lungo, al sapore di mandarino, a Natale, una<br />

stretta di braccia che recasse l’eco di elementi remoti e primitivi.<br />

Che mescolasse pelle e sudore e sogni. Un abbraccio ibrido,<br />

ma riconoscibile. Un abbraccio che dicesse l’avevo detto<br />

io! Quello della conferma, del eccoti qui, guarda come sei<br />

diventato in tutto questo tempo. Volevo rendere conto di me a<br />

qualcuno. Dovevo tornare per riempire un abbraccio di quel<br />

poco di me.<br />

Nel microcosmo di casa mia, a maggio è già estate, a prescindere<br />

dalla moderna scienza meteorologica e dalle nuove<br />

divise dei colonnelli dell’aeronautica e, solo in nome di quest’assunto,<br />

le farfalle in volo, a maggio, sono molte di più di<br />

una. Si spostano a frotte. Dalle mie parti, l’estate è un ricordo<br />

vicinissimo: solo il freddo intenso aumenta le distanze tra una<br />

memoria e l’altra, ma dura un attimo. A maggio ci si spoglia.<br />

A casa mia, a maggio non vola bassa solo una farfalla, ma<br />

molte, moltissime, e appaiono quasi tutte uguali, a parte i<br />

colori; da non farci caso. Ovunque farfalle, proprio in quelle<br />

stesse ore del giorno in cui, in altre città, non è visibile nessun<br />

volo simile. Solo qui tante farfalle. A giugno, nell’afa, il numero<br />

si riduce di poco. In genere sulla sabbia, tra le dune e i gigli<br />

selvatici, puoi individuarle in coppia, bianche o gialle, in<br />

danza sincronica, vicine tra loro; le puoi vedere insinuarsi tra<br />

viso e viso, quando sulle spiagge, intorno all’ora di pranzo,<br />

arrivano le commesse a prendere il primo segno del costume<br />

intorno al collo. Le commesse dalle 14.30 alle 16.30; dopo si<br />

rientra al negozio. A luglio ci sono le falene, già più grigie, ma<br />

rapidissime e stupide, a coprire le luci troppo forti.<br />

246


Sono le farfalle a rendere una città diversa da un’altra.<br />

Ogni stagione diversa dall’altra, ogni ora diversa dall’altra.<br />

Nella città in cui avevo iniziato, avevo notato una sola farfalla,<br />

una soltanto in così tanti mesi; per questo aveva colpito<br />

il mio cuore. Una farfalla viola.<br />

Solo andando via mi ero reso conto di quanto fossi stato<br />

lontano dalla mia casa, dalla mia vita; quanto stessi dimenticando,<br />

perdendo. Una città non vale un’altra, così come una<br />

farfalla non è solo un insetto. Ho sempre amato i dettagli e le<br />

differenze, è vero, quelle stesse differenze che possono a volte<br />

colmare lo spazio immenso, spesso invisibile, che si frappone<br />

fra gli eventi importanti di una vita. Mi piace l’idea di essere<br />

un giudice entomologo.<br />

Sfido chiunque a negare quanto sia più facile riconoscere<br />

gli insetti in casa propria. Quella farfalla viola, quel tatuaggio<br />

sulla nuca di un’adolescente, mi è rimasto in testa. Quella è<br />

una differenza che forse non ho saputo cogliere in tempo.<br />

Non meno di quella della vecchia, che mi rimproverò aspramente<br />

e mi rimprovera ancora. Adesso che sono qui posso<br />

ricordare e distinguere le farfalle che volano nella nebbia, da<br />

quelle che bruciano al sole. Ma non posso fare nient’altro,<br />

ormai.<br />

E, per fortuna, ho anche perso sette chili. Sono più lieve<br />

anch’io. Non ho altro da compensare se non quella ciccia.<br />

Nessun altra fatica, nessun altro merito da riconoscere.<br />

Nient’altro, né io, né Angela.<br />

Chissà se ci è riuscito anche Ietta. Se ha recuperato angoli<br />

di volo libero o se ha appesantito la corsa. Se ha colto le differenze.<br />

Le scelte giudiziarie e quelle matrimoniali a scacchiera.<br />

Vorrei rivederlo prima o poi. Sette chili di inservibile e<br />

fuorviante leggerezza non sono mica pochi.<br />

Verde. All’improvviso l’incrocio è libero, per me e per il<br />

vigile di competenza, che agita i guanti bianchi nella mia direzione<br />

e pare avere ben più di dieci dita. Mi ero distratto, ma<br />

adesso, finalmente, posso andare.<br />

247


XVI CAPITOLO<br />

“Sai a cosa stavo pensando, Nicola?”<br />

“Cosa?”<br />

“Alla ragazza”.<br />

“Quale?”<br />

“<strong>La</strong> figlia, quella un po’ strana, con il tatuaggio strano; la<br />

figlia più piccola”.<br />

“Che ci pensi a fare? Tanto le indagini sono chiuse. Ci<br />

abbiamo lavorato un sacco. Adesso basta”.<br />

“No, dicevo così per dire. Che fa la ragazza?”<br />

“Si sono trasferite: madre e figlie”.<br />

“E tu sei stanco?”<br />

“Abbastanza. Non dovrei secondo te?”<br />

“Non è normale, però. Non tu, dico loro. Dopo anni, non<br />

è normale ricominciare; non ha mica vent’anni quella madre.<br />

Come campa con due figlie? Il lavoro, la scuola?”<br />

“C’è da dire che ha preso una bella travata la signora, mi<br />

pare. Con buone probabilità il negozio non rendeva più come<br />

prima. I cattolici a volte sono molto superstiziosi. Avrà perso<br />

chissà quanti clienti. Ha chiuso e basta. Se ne sono andate in<br />

un’altra città”.<br />

“Ma in fondo…”<br />

“Certo! Bella pubblicità per il negozio un morto ammazzato!<br />

Non credo che il fatturato, dopo il fattaccio, sia cresciuto<br />

per morbosità. Per quel tipo di commercio tutto dipende<br />

dai rapporti con la Curia. Magari, in un’altra città, una città<br />

248<br />

…“Penelope, svegliati cara figliola, per vedere<br />

cogli stessi tuoi occhi quello che ogni giorno desideri.<br />

Odisseo è arrivato ed è in casa.<br />

Anche se tardi, è tornato ed ha ucciso i proci superbi<br />

che la sua casa infestavano, ne mangiavano i beni.<br />

E opprimevano il figlio”.<br />

Omero


con un cuore meno marcio. Magari altrove c’era la disponibilità<br />

di un parente e ne hanno approfittato. Può essere, no?”<br />

“Forse la Chiesa l’ha punita”.<br />

“Non so. Secondo me non riusciva più a vivere nei luoghi<br />

di sempre. Tutto qui”.<br />

“Ma le ragazze a quella età non si vogliono trasferire”.<br />

“Come lo sai?”<br />

“Lo so. Sei tu che non sai niente dei giovani. Per te dovrebbero<br />

pulirsi le suole, per bene, prima di entrare in società!”<br />

“I giovani? Che cavolo vuol dire? Usa le parole quando<br />

hanno un significato preciso, per cortesia”.<br />

“Quelli molto più giovani di te, intendo dire”.<br />

“Gli adolescenti, quindi. Io questa ragazza non l’ho nemmeno<br />

vista in faccia, Ietta non ha voluto. Non voleva turbare né la<br />

ragazza, né la sua coscienza. Non sappiamo chi era veramente”.<br />

“Perché?”<br />

“Perché il capo non voleva rischiare di metterla in mezzo<br />

inutilmente e farle del male. Chiaro, no? Non siamo mica<br />

macchine. Non ha ancora deciso se segnalare la questione al<br />

tribunale per i minorenni. Non sa. Fatti suoi, ormai”.<br />

“Forse…”<br />

“Pure se…”<br />

“Cosa?”<br />

“Giovani è una bella parola”.<br />

“Sì, la usi poco”.<br />

“Lo sai, io questa ragazza non l’ho mai vista. Ho solo<br />

ascoltato le descrizioni di altri. Cosa ne so? Immagino solo<br />

che non poteva essere lei la causa di tutto”.<br />

“No? Perché non provate a leggere i diari?”<br />

“Non abbiamo pensato ai diari. <strong>La</strong> madre aveva un alibi di<br />

ferro. Non abbiamo sentito il bisogno di ricorrere ai diari”.<br />

“Non i diari della madre, ma quelli della figlia”.<br />

“E chi ti assicura che una quindicenne con i capelli verdi e<br />

i tatuaggi avesse un diario? Nessuno scrive più il diario. Ti<br />

risulta che il genere diario esista ancora?”<br />

“Secondo me, non avete battuto tutte le strade”.<br />

“Quali sarebbero queste ipotetiche strade?”<br />

“Il terzo luogo. Tu hai vissuto nel terzo luogo? Io ho vissuto<br />

249


nel mio terzo luogo, quello che custodiva tutti i miei segreti”.<br />

“Cioè? Da dove esce questa teoria?”<br />

“Il luogo in cui un adolescente è solo con se stesso; il terzo<br />

luogo, eh? Hai presente? Il giovane se ne sta solo con le regole<br />

che ha deciso autonomamente, insieme ai suoi simili, unico<br />

responsabile, unico giudice, che si confronta con se stesso.<br />

Ecco, si confronta. Non sai, eh?”<br />

“Il campetto della partita a calcio, per esempio?”<br />

“Perfetto! Quello! Non la scuola, non la famiglia, in cui le<br />

regole sono imposte. Parlo del luogo in cui si è da soli. Là,<br />

dovevate andare”.<br />

“Nel terzo luogo? Conosci l’indirizzo preciso?”<br />

“Dico sul serio”.<br />

“Quindi anche davanti alla tv”.<br />

“Anche”.<br />

“<strong>La</strong> discoteca?”<br />

“Non lo so, forse. Ci siete andati?”<br />

“Non proprio. Comunque io non mi sento affatto vecchio.<br />

Sia chiaro. Giusto per chiarire”.<br />

“Non avete fatto giustizia. Questo è il punto, caro mio”.<br />

“Ci penserà il tribunale per i minori. Il caso è chiuso per<br />

noi. Non è venuto fuori niente. Capita, no? Lo dici sempre<br />

anche tu, leggendo i giornali. Non è colpa mia. Qualcosa si è<br />

inceppato. Non siamo i primi, noi. E adesso deve essere per<br />

forza colpa nostra, ci deve essere per forza un capro… se non<br />

si è potuto… non si è potuto. E basta”.<br />

“Forse non sei entrato veramente dentro il caso. Non ti sei<br />

immedesimato abbastanza. Che ne so, forse dovevi sentirti<br />

l’assassinato; come se fossi lui”.<br />

“Se io fossi stato il Corietti, sarei rimasto vergine”.<br />

“Vedi? Avevo ragione. Nonostante l’esperienza maturata,<br />

non vi siete fatti investire a pieno dal caso. Avevate delle resistenze<br />

mentali”.<br />

“L’esperienza da sola non basta. Tutti parlano dell’esperienza<br />

come fosse chissà quale rimedio. Cazzate. Dipende dai<br />

casi. È come il tizio che, con gli occhi chiusi, tocca una zampa<br />

di elefante e pensa subito di essere in Africa. Mica è detto che<br />

si trovi davvero in Africa; mica è detto che aver fatto espe-<br />

250


ienza serva davvero a tirarti fuori dai guai. Mica che la pratica<br />

risolve tutto. E poi, io non ho mica finito… di far pratica”.<br />

“Però l’immedesimazione, la passione, aiuta”.<br />

“E che ne so io?”<br />

“Appunto”.<br />

“Niente più di così”.<br />

“Siete rimasti asettici”.<br />

“Eppure io mi sono sentito molto coinvolto in questo omicidio”.<br />

“Ma il morto non è stato sufficiente…”<br />

“Come?”<br />

“Non ti è servito, cioè”.<br />

“Doveva servirmi? E che, quello mica è morto per fare un<br />

favore a me”.<br />

“Be’, però, poteva essere una buona occasione per te, no?”<br />

“E perché?”<br />

“Per migliorare, no? Secondo me tu hai pensato che potesse<br />

esserlo e poi sei rimasto deluso. O no? Hai pensato: ecco<br />

questo è il mio risultato vero, concreto. Ma invece”.<br />

“Uffa!”<br />

“Sei nervoso”.<br />

“Comunque, te l’ho detto, il caso è chiuso e io me ne torno<br />

a casa. E non lo faccio per stanchezza”.<br />

“Lo fai perché hai paura dei froci? Ti fa paura la loro chiarezza?”<br />

“Angela, basta!”<br />

“Ehi, e che ho detto mai? Stavo scherzando”.<br />

“Torno e basta”.<br />

“Hai deciso?”<br />

“Sì, a casa credo di poter lavorare meglio, con una migliore<br />

percezione della realtà. Poi il codice da applicare, comunque,<br />

è sempre quello. Qui o là”.<br />

“L’hai detto a Ietta che te ne vai?”<br />

“Sì, ha risposto che lo aveva capito. È un po’ depresso, ma<br />

non è stupido. Non è depresso per colpa mia, comunque. Io<br />

non c’entro nulla. Ha detto che, secondo lui, questo non è il<br />

lavoro giusto per me, che io ho altri talenti da assecondare.<br />

Parlava così, in generale”.<br />

“Sì? Quali?”<br />

251


“Parlare, insegnare, ricercare; cose così. L’università, per<br />

esempio. Mi piace l’aspetto scientifico della realtà. Ietta dice<br />

che non posso sprecare queste attitudini. Così mi ha detto”.<br />

“Ti piace l’università?”<br />

“Mi piace. Perché non mi deve piacere?”<br />

“Ti piace farti notare, semmai. Come tuo padre”.<br />

“No, scusami, chiariamo: mi piace avere un ruolo, pur restando<br />

nell’ombra. Davvero, invece, tu credi che io voglia solo apparire?<br />

Davvero è questo che pensi, davvero? Non è possibile.<br />

Dimmi, dimmi. Ma se me ne sto sempre da parte; se non forzo<br />

mai la mano. Non è possibile! Questa me la devi spiegare”.<br />

“Calma”.<br />

“Eh, adesso te ne vieni fuori con questa storia”.<br />

“Non sei egocentrico, ma finisci per apparirlo; non so neppure<br />

come fai, ma è così. Parli di te, pensi a te, costruisci e smonti, c o m e<br />

se fossi un collaudatore Lego. Certe volte sei proprio strano!”<br />

“Strano?”<br />

“Hai bisogno di essere ovunque. Poi fai confusione,<br />

pasticci vari, e senti l’esigenza di ricucire”.<br />

“Ma ti piaccio così?”<br />

“Ho turbato la tua vanità, evviva!”<br />

“Ietta dice che faccio bene a tornare. Io lo vorrei capire se<br />

faccio bene. Tu cosa pensi?”<br />

“Attento. A casa è più difficile restare nell’ombra. Qui ti<br />

conoscono tutti, ti romperanno le scatole dalla mattina alla<br />

sera. Tutti ti chiederanno piaceri, ti supplicheranno di fare<br />

dichiarazioni a favore o contro qualcosa. Ci sono le vecchie<br />

amicizie da controllare, arginare. Io, pure, ti costringerò a<br />

riprodurti, e avrai così meno tempo per studiare e lavorare.<br />

Meglio i froci, tutto sommato”.<br />

“Tanto devo tornare per forza, altrimenti tu…”<br />

“L’hai capito, allora. È un business il nostro”.<br />

“Non sono un cretino”.<br />

“Allora non fare finta di avere una scelta, per cortesia.<br />

Comunque, in fondo, hai fatto una buona esperienza. Peccato,<br />

nessun atto di giustizia, ma tanti bei provvedimenti in stampone”.<br />

“Cavolo. Solo alcuni dei provvedimenti sono in prestampato<br />

e poi sono io a collazionarli, sempre”.<br />

252


“Che importa? Prestampati o no, hai creato qualcosa di<br />

tuo. Questo fa la differenza. Hai creato un tuo universo da<br />

esportare in moduli. Mica tutti! Hai chiesto ai tuoi colleghi se<br />

anche loro l’hanno fatto?”<br />

“Lo fanno tutti”.<br />

“E quindi?”<br />

“Quindi faccio bene a tornare?”<br />

“Certo, tanto ogni giudice che arriva in una nuova sede, i<br />

suoi bravi stamponi se li vuole creare da solo; mica si fida di<br />

quelli precostituiti da altri prima di lui. O sbaglio?”<br />

“Non sbagli”.<br />

“Conosco la magistratura, oramai. I miei polli. Che ci vuoi<br />

fare”.<br />

“Allora torno?”<br />

“Sì, anche se io ti darò il tormento”.<br />

“Non puoi approfittarti così di un povero uomo confuso;<br />

di un avversario praticamente a terra”.<br />

“Nessuna tregua. Siamo una società: lo sai o no?”<br />

“Comunque ho deciso. Anche se poi niente esclude che fra<br />

qualche anno mi ritorni la voglia di cambiare, che mi ritorni<br />

un attacco di noia e chieda il trasferimento. Tu allora mi<br />

seguirai e basta”.<br />

“Chi può sapere come sarà il nostro futuro. Chissà cosa<br />

saremo fra dieci anni”.<br />

“Non parlo di sfere magiche, ma di psicosi maschili”.<br />

“Sei un esperto in materia”.<br />

“Insomma, che faccio?”<br />

“Sei pedante. Ecco quello che sei. Pedante”.<br />

“Cioè?”<br />

“Guarda che se torni a lavorare lo scopriranno tutti; se ti<br />

esponi così, come stai facendo, lo capiranno tutti”.<br />

“Cosa capiranno?”<br />

“Quanto sei ossessionato da te stesso, dal concetto di fallibilità”.<br />

“Allora non torno?”<br />

“Ti devi sempre lasciare aperta una possibilità, eh? Devi<br />

sempre avere sotto controllo la rosa delle opzioni possibili?<br />

Non sai rinunciare, tu”.<br />

253


“Torno. Se però poi decido di partire, di nuovo e poi di<br />

nuovo, tu devi venire con me e non si discute”.<br />

“Partire?”<br />

“Altra sede, intendo. Per cambiare”.<br />

“Io, con un figlio? Ti sego le gambe semmai. Non è la città<br />

che mi fa cambiare. Io devo aspettare”.<br />

“Ti sbagli su questo”.<br />

“No, non mi sbaglio. Anche se non ho figli, non mi serve<br />

una città”.<br />

“E se mi viene voglia di ripartire?”<br />

“Resisti, ti controlli, come faccio io, come facciamo noi donne”.<br />

“Voi donne non vi controllate affatto”.<br />

“Noi donne?”<br />

“Non so, mi sembra così. Un fatto naturale”.<br />

“Noi donne? Troppo facile. <strong>La</strong> natura non esiste”.<br />

“E perché lo dici con questo astio? Io non ho mai distinto<br />

l’universo maschile da quello femminile. Lo sai che per me<br />

sono tutte cretinate”.<br />

“Bugiardo. L’hai fatto, l’hai fatto. Eccome se l’hai fatto, e<br />

lo fai ancora”.<br />

“D’accordo. Vedremo. Vorrà dire che in futuro mi prenderò<br />

delle pause, comunque, a conferma”.<br />

“Da chi?”<br />

“Da tutto”.<br />

“Vada per la pausa. Come vuoi. Ti farò credere che ti stai<br />

prendendo delle pause”.<br />

“Mi può bastare, per ora. Torno, quindi?”<br />

“Ancora con questa storia?? Non sei soddisfatto di te, di<br />

noi? Hai il tono di quello che si aspettava altro. Consolati<br />

pensando che la parte migliore di un viaggio è il ritorno”.<br />

“E chi lo dice?”<br />

“Io e qualcun altro”.<br />

“Qualcuno che sapeva come essere felici?”<br />

“Forse”.<br />

“Va bene, se lo dici tu, ci credo. Mi può bastare. Per ora.<br />

Torno”.<br />

“Sì, torna. Sapere dove ritornare è già qualcosa”.<br />

254


Ringraziamenti finali<br />

Diciamolo: questa pagina è un fatto d’uomini. Sono qui dopo una lunga camminata<br />

fatta in mezzo ai miei maschi letterari, ai miei maestri di tutte le età, di tutte<br />

le invenzioni. Erano secoli che volevo ringraziarli tutti, uno per uno. Non citerò i<br />

cognomi: ciascuno si riconoscerà, gli altri immagineranno.<br />

Questa storia mi è stata raccontata la prima volta una domenica d’inverno a<br />

pranzo da Alcide, da allora lui non ha mai più smesso di raccontarla, convinto che<br />

io da sola non potessi farlo in modo completo, e io non ho più smesso di ascoltarlo.<br />

Grazie a lui.<br />

Questa storia, divenuta un plot, l’ha letta per la prima volta Luigi e ha detto<br />

dai, provaci, prenditi il tempo che ti serve.<br />

Grazie a lui.<br />

Questa storia l’ha letta poi anche Michele e ha detto tu scriverai di certo qualcosa<br />

di buono, sei sulla strada giusta, io sono seriamente interessato alle cose che scrivi.<br />

Grazie a lui.<br />

Dopo ha letto Stefano e ha detto io ci farei un libro, non sarebbe un rischio, non<br />

cambierei una parola.<br />

Grazie a lui.<br />

Questa storia, insieme a molte altre, sono state lette qualche mese dopo da<br />

Livio e ha detto tu mi sorprendi sempre.<br />

Grazie a lui.<br />

Poi è stata la volta di Rossano il quale ha subito detto m a n d a re, mandare, non<br />

si discute: ti do un po’ di indirizzi, e poi ha cominciato a sfornare titoli a vagonate,<br />

primo tra questi quello più audace, più inquietante, divenuto poi quello definitivo.<br />

Grazie a lui.<br />

Mentirei però se dicessi che non ci sono state donne a guidare le sorti di questa<br />

vicenda. Senza le donne nulla nasce davvero, si sa. Grazie ai sogni senza limiti<br />

di mia madre Ada, grazie alla fiducia di Ornella quando era libraia, all’ispirazione<br />

nata dagli occhi parlanti di Caterina e all’entusiasmo concreto e stabile di Silvia.<br />

Ora che mi sono tolta la soddisfazione, metto il punto con autentica serenità.<br />

255


Stampa Arti Grafiche Stibu<br />

Urbania, febbraio 2007

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