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Anno V - N° 5, novembre/dicembre 2010 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita<br />
Anno V - N° 5, novembre/dicembre 2010<br />
Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal <strong>Circolo</strong> Cittadino “<strong>Athena</strong>” - Galatina<br />
BUONE FESTE
SOMMARIO<br />
A proposito di Unità...<br />
NORDICI E SUDICI<br />
di Rino DUMA<br />
Terra noscia<br />
LA ‘NGIURIA<br />
di Piero VINSPER 8<br />
Historia Nostra<br />
VINCENZO AMPOLO DA SURBO<br />
di Luigi GALANTE 12<br />
Scrivevano i nostri padri...<br />
IL PANE DELL’ABBONDANZA<br />
di Giuseppe VIRGILIO 14<br />
Personaggi salentini<br />
UCCIO DI CORTE GALLO<br />
di Antonio MELE ‘MELANTON’<br />
C’era una volta...<br />
LA “SPINA” DEL VESCOVO<br />
di Emilio RUBINO 18<br />
Usi e costumi meridionali<br />
LU CAPICARRU<br />
di Luisa CRESCENZI e Tullia COLUZZI 20<br />
Artisti salentini<br />
LA METAFISICA NELLA PITTURA DI CESARI<br />
di Giuseppe MAGNOLO 22<br />
Critici d’arte<br />
RAFFAELE DE GRADA<br />
di Maurizio NOCERA 26<br />
Sul filo della memoria<br />
LA QUINDICINA<br />
di Pippi ONESIMO 28<br />
Associazioni & Enti<br />
CENTRO POLIVALENTE “RITROVIAMOCI”<br />
di Mauro DE SICA 30<br />
4<br />
16<br />
Sul tuo essere Dio<br />
nel fragile bimbo che piange<br />
s’interroga lo sguardo d’infanzie<br />
violentate stuprate storpiate uccise<br />
dimenticate contese e abbandonate,<br />
si chiede quale senso tu hai lasciato a difesa<br />
quale madre hai scelto e quale padre<br />
quale terra che sia casa e non bara<br />
quale strada per giocare e non essere preda<br />
quale adulto che sia maestro e non carnefice<br />
quale vecchio che sia saggio e non padrone;<br />
narra la notte del tuo Natale<br />
un amore spontaneo e diffuso, spinto<br />
da una cometa oltre i confini di un paese:<br />
oggi l’amore sembra sciolto in scatole d’oro<br />
oggetto senza oggetto e senza dopo<br />
pratica di un intelletto che somma e sottrae<br />
e lascia invariato il prestito d’affetto,<br />
si disperde nei suoni che scalpitano<br />
energie di cuore e si spegne la sera<br />
dietro un interruttore asettico e ignaro,<br />
oggi tra i pastori si muovono le vittime<br />
infanti volti che affollano il presente<br />
e sembrano altro dalla nostra carne,<br />
diversa materia dal nostro tempo,<br />
non reagisce il loro dolore dentro noi<br />
perché l’egoismo ci ha resi adulti<br />
malati di paura e senza figli da salvare.<br />
Ma tu, Bambino Gesù, donaci<br />
un’anima d’amore per gli innocenti<br />
che hanno solo Te per salvare l’infanzia.<br />
Maria Rita Bozzetti<br />
Galatina<br />
Redazione Il filo di Aracne<br />
Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal <strong>Circolo</strong> Cittadino “<strong>Athena</strong>”<br />
Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220<br />
info: www.circolocittadinoathena.com - e-mail: circoloathena@tiscali.it<br />
Autorizzazione del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuita<br />
Direttore responsabile: Rossano Marra<br />
Direttore: Rino Duma<br />
Collaborazione artistica: Melanton<br />
Redazione: Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero Vinsper, Gianluca Virgilio<br />
Impaginazione e grafica: Salvatore Chiffi<br />
Distribuzione: Giuseppe De Matteis<br />
Stampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina73013 Galatina.<br />
Bambino Gesù nella mangiatoia<br />
COPERTINA: “Madonna col Bambino” di Totò Rossetti
Centocinquant’anni trascorsi invano<br />
NORDICI NORDICI<br />
E SUDICI SUDICI<br />
Poco è stato fatto per attenuare l’enorme divario tra un Nord dinamico e un Sud sempre più<br />
rassegnato e impotente. L’Italia è tutt’altro che unita, anzi, a distanza di un secolo e mezzo,<br />
il gap economico-sociale tra le due comunità è consistentemente aumentato<br />
Non me ne vogliano i lettori se, a bella posta, ho utilizzato<br />
il termine “sudici” per definire i meridionali:<br />
non è mio costume usare parole offensive nei<br />
confronti di qualsiasi uomo, figuriamoci se rivolte ai miei<br />
conterranei.<br />
Ho preso in prestito la pesante e infelice definizione dal<br />
socialista bolognese Camillo Prampolini, che, all’inizio del<br />
‘900, ebbe a distinguere gli italiani – vantandosene - in<br />
“Nordici e Sudici”. Una frase,<br />
un motto, un marchio<br />
d’infamia, che si commenta<br />
da sé.<br />
Le ragioni che hanno determinato<br />
la profonda frattura<br />
tra settentrionali e meridionali<br />
sono riconducibili<br />
a molteplici cause, tutte figlie<br />
di un’unica madre:<br />
l’Unità d’Italia!<br />
Con questa affermazione<br />
non vorrei essere tacciato di<br />
faziosità, assolutamente no!<br />
Mi sento italiano a tutto<br />
Camillo Prampolini<br />
tondo e sono fiero di esserlo.<br />
Amo le tradizioni, la cul-<br />
tura, la quotidianità della vita che anima l’intero stivale: le<br />
sento mie, le vivo, me ne compiaccio o ne soffro, a seconda<br />
delle varie situazioni. Al tempo stesso, però, non posso<br />
fare a meno di esternare sentimenti di amarezza e di sdegno<br />
per le ripetute umiliazioni e gli abusi subiti dalla mia<br />
gente, nel corso di tanti anni, per opera di settentrionali<br />
prepotenti e altezzosi, quasi appartenessero a una “razza<br />
superiore o dominante”. Le ingiustificate accuse provengono<br />
da persone che non conoscono la vera storia che sta<br />
dietro all’Unità d’Italia, perché nessuno, volutamente, gliel’ha<br />
mai fatta conoscere e studiare. Forse non la conoscono<br />
nemmeno gli stessi meridionali. Come dire: la storia dei<br />
vincitori prevale su quella dei vinti e prevarica sempre le<br />
loro ragioni e diritti.<br />
Per fare maggiore chiarezza esaminiamo la situazione<br />
socio-economica italiana all’alba dell’Unità.<br />
Nel Regno delle Due Sicilie l’analfabetismo, l’ignoranza,<br />
lo sfruttamento e l’enorme indigenza si attestavano intor-<br />
4 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
A PROPOSITO DI UNITÀ...<br />
di Rino Duma<br />
no all’80% dell’intera popolazione e, soltanto nei grandi<br />
centri urbani, scendevano di dieci-quindici punti percentuali.<br />
I grandi latifondisti, possessori d’immense proprietà<br />
terriere (mediamente diecimila ettari), incravattavano il<br />
popolino con pesi e condizioni di vita insopportabili, al limite<br />
della sopravvivenza umana. Insomma, si era instaurato<br />
e consolidato da diverso tempo una sorta di sfruttamento<br />
di tipo colonialistico, nell’ambito della stessa comunità.<br />
Non stavano meglio i settentrionali, che vivevano dei<br />
prodotti della terra e della pastorizia ed erano sfruttati sino<br />
all’osso dai vari paesi del vasto impero austro-ungarico.<br />
Non vi era un adeguato sviluppo industriale, se non<br />
nelle grandi città, e l’istruzione era riservata unicamente<br />
al ceto sociale più alto. Anche qui, quindi, l’ignoranza,<br />
l’analfabetismo e lo sfruttamento regnavano incontrastati.<br />
I settentrionali erano ritenuti dagli austriaci come “gente<br />
fiacca e priva di ogni iniziativa”. A testimonianza di tutto<br />
ciò, si cita la celebre frase di Clemente di Metternich che,<br />
oltre a ritenere l’Italia “una semplice espressione geografica”,<br />
considerava la<br />
gente padana “un<br />
imbelle popolo di<br />
straccioni”. Questa<br />
accusa inclemente<br />
fu poi spiegata da<br />
Cristina di Belgioioso,<br />
nei suoi “Studi<br />
sulla storia di Lombardia”,<br />
con “il difetto<br />
di energia dei<br />
lombardi”.<br />
Quindi, se da una<br />
parte i “sudici” non<br />
se la passavano be-<br />
ne, dall’altra i “nordici”<br />
non stavano<br />
Camillo Benso, conte di Cavour<br />
meglio. Non erano però straccioni né gli uni né gli altri,<br />
poiché in ogni parte d’Europa le condizioni di vita erano<br />
suppergiù identiche.<br />
Se potessimo tornare indietro con una fantomatica macchina<br />
del tempo e fermarci nel 1860, ci accorgeremmo che<br />
l’88-90% dei duosiciliani (i meridionali del Regno delle
Due Sicilie), se interpellati in un ipotetico sondaggio,<br />
non aderirebbe al progetto di Unità<br />
d’Italia. Si pronuncerebbero favorevolmente solo<br />
i liberali radicali e i repubblicani mazziniani,<br />
che vedevano in questo grande progetto la panacea<br />
di ogni male. Poco meno di un milione di<br />
persone su un totale di nove. Un’Unità d’Italia,<br />
quindi, che non tutti gli italiani hanno voluto.<br />
Proseguiamo nel nostro excursus storico.<br />
Si può asserire, senza alcuna possibilità di<br />
smentita, che il Regno duosiciliano era considerato,<br />
all’epoca dell’invasione piemontese, uno<br />
degli Stati europei più solidi ed efficienti per ricchezza,<br />
cultura e organizzazione politica e amministrativa,<br />
non altrettanto si può affermare dei<br />
cugini settentrionali, che, ad ovest, erano stretti<br />
nella morsa dei francesi, mentre, ad est, dell’impero<br />
austriaco.<br />
Nel Meridione d’Italia il sistema bancario e finanziario<br />
godeva ottima salute e la circolazione monetaria, basata<br />
sulla presenza di moneta aurea e argentea (i ducati, per le<br />
operazioni commerciali di un certo valore) e bronzea (i baiocchi<br />
e i tarì, per i piccoli scambi), garantiva la massima<br />
solidità al sistema economico della nazione. Il Banco delle<br />
Due Sicilie emetteva in continuazione moneta sonante, che<br />
attestava il continuo trend positivo dell’economia nazionale.<br />
In Piemonte, invece, (non vi erano banche di Stato)<br />
operavano solo Casse di Risparmio, alcune delle quali erano<br />
state incaricate dal governo centrale a emettere cartamoneta,<br />
che inizialmente era convertibile in oro, ma – si<br />
badi bene - non alla pari, bensì in un rapporto di 3 a 1 (cioè,<br />
si davano tre lire in carta-moneta per ottenere una d’oro!),<br />
ma che ben presto diventò a corso forzoso (cioè non fu più<br />
concessa la possibilità di convertire la moneta cartacea in<br />
oro) e pertanto tutti gli scambi commerciali avvenivano<br />
unicamente in banconote. Si giunse a una decisione del genere<br />
per tamponare l’enormità del debito pubblico, paragonabile<br />
quasi a quello esistente oggi in Italia. In pochi<br />
anni la quantità di carta-moneta fu tanta e tale da determinare<br />
una pericolosa inflazione, l’aumento dei prezzi, la<br />
conseguente svalutazione del potere d’acquisto<br />
e la recessione economica.<br />
Si doveva urgentemente trovare una soluzione<br />
al gravissimo problema per non<br />
andare incontro a una bancarotta di Stato.<br />
Come? Ci pensò Camillo Benso, conte di<br />
Cavour. L’astuto primo ministro stabilì<br />
importanti relazioni con la Francia, alla<br />
quale cedette Nizza e la Savoia, in cambio<br />
di un consistente aiuto militare contro<br />
l’Austria e di un non-interventismo francese<br />
di fronte a una politica espansionistica<br />
piemontese in altre parti dell’Italia, in<br />
particolar modo nel Meridione.<br />
Il Regno delle Due Sicilie era un boccone<br />
prelibato e appetibile. Infatti, in quel<br />
periodo, la sua economia era al massimo<br />
splendore in ogni settore. Il commercio<br />
con l’estero era consistente, tant’è che la<br />
Marina Mercantile (la terza in Europa) po-<br />
teva contare su ben 9.800 bastimenti,<br />
che collegavano ogni<br />
parte e ogni porto del mondo.<br />
Il Settentrione, ahinoi, aveva<br />
pochi sbocchi sul mare e, oltretutto,<br />
il traffico per terra era<br />
quasi nullo perché ostacolato<br />
dalla catena delle Alpi e da un<br />
quasi inesistente sistema ferroviario.<br />
Un’economia, quella<br />
del Nord, asfittica, che si raggomitolava<br />
su se stessa.<br />
Nel Regno duosiciliano primeggiavano<br />
le industrie siderurgiche,<br />
su tutte quelle di<br />
Mongiana e Fuscaldo, e quella<br />
metallurgica di Pietrarsa. Qui<br />
Saverio Nitti<br />
si produceva dell’ottimo acciaio,<br />
da far invidia a quello inglese, binari, locomotive, carrozze<br />
ferroviarie, campane, cannoni, barre di ferro,<br />
lamierati, ingranaggi per macchine industriali e agricole,<br />
presse olearie, utensileria e oggetti di precisione. Immensi,<br />
poi, i cantieri navali di Castellammare di Stabia e Pazzano,<br />
dove erano costruite, anche per conto di Stati<br />
europei, navi a vapore, bastimenti commerciali e navi da<br />
guerra. Importante anche l’industria manifatturiera, come<br />
quella tessile, della carta, della ceramica, del vetro, del mobile,<br />
della concia delle pelli, della trasformazione delle derrate<br />
alimentari (olive, uva, frumento, tabacco, frutta) ecc. Il<br />
Regno di Napoli era al centro della vita del Mediterraneo:<br />
dai suoi porti partivano bastimenti carichi di ogni ben di<br />
Dio, nei suoi porti attraccavano bastimenti stracolmi di<br />
prodotti provenienti dalla Spagna, Inghilterra, Francia,<br />
Russia, Turchia e dal medio ed estremo Oriente. Dagli archivi<br />
doganali dell’epoca emerge che annualmente gli<br />
scambi commerciali si aggiravano, tra import ed export,<br />
nell’ordine di cinquecento milioni di ducati d’oro!<br />
Una grande fortuna, che suscitava anche tanta invidia.<br />
Nel Settentrione c’erano delle industrie (meccaniche, tessili,<br />
manifatturiere, casearie, della ceramica, del vetro e del<br />
Cantiere navale di Castellammare di Stabia<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 5
mobile), ma erano limitate nella produzione, perché limitato<br />
era il suo mercato.<br />
Stanti, quindi, una recessione economica preoccupante<br />
e un debito pubblico alle stelle, l’unica via d’uscita per il<br />
Piemonte era quella di “assorbire”, tramite una fantomatica<br />
Unità d’Italia, altri Stati<br />
dello stivale. Il Cavour aveva<br />
visto bene. In pochi anni,<br />
grazie a Garibaldi e Mazzini,<br />
furono via via annessi gli<br />
staterelli emiliani, il Granducato<br />
di Toscana e infine il<br />
Regno di Napoli.<br />
Approfittando dell’incerta<br />
situazione napoletana, a seguito<br />
della morte di re Ferdinando<br />
II (22 maggio<br />
1859), e grazie al tradimento<br />
di alti ufficiali borbonici (i<br />
generali Francesco Landi e<br />
Amilcare Anguissola su tut-<br />
ti), il Piemonte fece un sol<br />
boccone della modesta resistenza<br />
borbonica, modesta a modo di dire.<br />
Le conseguenze di quell’invasione non tutti le conoscono.<br />
Forzieri stracolmi di ducati d’oro, gioielli, oggetti d’arte<br />
furono trafugati e spediti a Torino. L’intero territorio fu<br />
messo a soqquadro: vi furono<br />
ruberie d’ogni genere,<br />
stupri di donne innocenti,<br />
eccidi di massa (anche<br />
bambini) in ogni angolo<br />
del Regno, ben quarantamila<br />
soldati borbonici arrestati,<br />
deportati e fatti morire<br />
di fame (ma c’è chi parla<br />
di cinquantaseimila!) nelle<br />
fredde prigioni piemontesi<br />
di Fenestrelle e di S. Maurizio<br />
Canavese (sono i primi<br />
lager della storia), interi<br />
paesi rasi al suolo (Casalduni,<br />
Pontelandolfo, Cam-<br />
Carlo Cattaneo<br />
polattaro). La gente moriva<br />
di fame e di stenti. Furono<br />
in molti a darsi al brigantaggio per difendere la propria dignità<br />
e la propria terra (ma non erano briganti!); in molti<br />
preferirono emigrare in Argentina, Australia, Canada, Stati<br />
Uniti d’America per non piegarsi ai veri briganti, quelli<br />
dai “colletti bianchi”.<br />
I Savoia portarono via ogni cosa (non sto esagerando).<br />
Smontarono buona parte degli impianti delle migliori industrie<br />
e li rimontarono in Liguria, in Piemonte e in Lombardia.<br />
Ne beneficiarono i cantieri Cadenaccio, poi diventati<br />
Ansaldo, gli stabilimenti milanesi L’Elvetica, poi rilevati da<br />
Ernesto Breda e infine lo stabilimento meccanico torinese, che<br />
nel 1899 fu denominato Fiat. Portarono via i brevetti industriali,<br />
le maestranze specializzate, le migliori energie umane,<br />
la linfa vitale, lasciarono soltanto cumuli di macerie, la<br />
miseria, la fame, il dolore, una terra senza futuro, da cui<br />
scaturirono ben presto la desolazione, la sporcizia, la rassegnazione,<br />
l’abbandono e, nel mentre, si rafforzarono la<br />
mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Portarono via anche la<br />
storia e le ragioni di una guerra mai dichiarata, di un’invasione<br />
ingiustificata, tutto nel nome di un’Italia Unita. Unità<br />
che non era mai<br />
stata voluta dai Savoia,<br />
poiché il loro vero<br />
intento era quello di<br />
metter riparo al dissesto<br />
finanziario, poi<br />
scaricato sui bilanci<br />
del nuovo Stato, che<br />
venne alla luce con il<br />
pauroso debito pubblico<br />
di 2.374 milioni<br />
di lire-oro. Ancor oggi<br />
gli italiani continuano<br />
a pagarne le disastrose<br />
conseguenze.<br />
A voler fare un’ultima<br />
precisazione, va<br />
detto che il Regno delle<br />
Due Sicilie contribuì alla ricchezza dell’Italia Unita con<br />
443,2 milioni di lire-oro, mentre il Piemonte con 27, la Lombardia<br />
con 8,1 e il Veneto con 12,7 (Rapporto presentato al<br />
Parlamento dal Presidente del Consiglio Francesco Saverio<br />
Nitti). Ed è quanto dire.<br />
Se ci fosse stata veramente la buona intenzione da parte<br />
dei Savoia di unificare e uniformare ogni parte d’Italia, sarebbero<br />
bastati pochi anni per farlo. La Germania, dopo la<br />
caduta del muro di Berlino, ha impiegato solo vent’anni<br />
per ricostruire la parte orientale della nazione. I tedeschi<br />
hanno investito marchi per un valore pari a tre volte l’aiuto<br />
concesso dagli Stati Uniti all’Europa attraverso il piano<br />
Marshall. Ma i tedeschi sono ben altra gente, nonostante i<br />
loro crimini di guerra.<br />
Abbiamo ancora tempo davanti a noi per ovviare all’incuria<br />
e alle mancate promesse dei vari governi succedutisi<br />
nel corso di centocinquant’anni, ma per farlo è necessario<br />
che agli Italiani sia consegnata la vera storia e, soprattutto,<br />
che ci sia la ferma volontà a “edificare” un’effettiva<br />
unità del paese, attraverso una Repubblica Federale, in<br />
cui ogni realtà territoriale sia resa autonoma e debitamente<br />
sostenuta dal governo centrale. All’epoca, un sistema<br />
politico del genere era stato ripetutamente consigliato da<br />
Carlo Cattaneo a Vittorio Emanuele II, ma non se ne fece<br />
nulla, perché i propositi sabaudi miravano a tutelare ben<br />
altri interessi.<br />
Oggi, nonostante i numerosi oltraggi patiti in tanti anni,<br />
noi meridionali ci sentiamo di essere Italiani, mentre altri<br />
inneggiano a una Padania libera, rinnegando l’Unità d’Italia<br />
e minacciando addirittura la secessione dal resto del<br />
paese. Come dire: vi abbiamo sfruttato una volta, oggi di<br />
voi non sappiamo cosa farne!<br />
Noi, invece, vogliamo bene a quest’Italia, rotta e sfasciata,<br />
vogliamo che risorga e che ritorni a essere la nazione<br />
che un tempo in molti ci invidiavano e temevano.<br />
Perciò, W l’Italia, con cuore e sentimento, ma senza rancore<br />
e ipocrisia! •<br />
Rino Duma<br />
Le prigioni di Fenestrelle (quota 1.300 metri)<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 7
Per risalire all’origine del soprannome bisogna andare<br />
indietro nel tempo. Nell’antica Roma i cittadini liberi<br />
perlopiù avevano il praenomen, il nomen e il<br />
cognomen.<br />
Il praenomen corrispondeva, per<br />
così dire, al nostro nome di battesimo;<br />
il nomen indicava la gens,<br />
complesso di più famiglie, legate<br />
tra loro da comunanza di nome,<br />
origine, costumanze (specialmente<br />
religiose); il cognomen indicava la<br />
famiglia.<br />
Le donne, invece, erano indicate<br />
solamente con il nome della gens:<br />
Julia, Cornelia, Caecilia, Octavia. Frequentemente<br />
era fra i Romani l’uso<br />
dell’adozione; colui che era adottato<br />
prendeva il nome dal padre<br />
adottivo, ma vi aggiungeva, trasformandolo<br />
in aggettivo terminante<br />
in anus, il nome della gens<br />
dalla quale proveniva. Così Ottavio, colui che sarebbe diventato<br />
il primo imperatore di Roma con il titolo di Augustus,<br />
essendo adottato da Gaio Giulio Cesare, si chiamò<br />
Gaius Julius Caesar Octavianus.<br />
Però spesso accadeva<br />
che, al praenomen, nomen<br />
e cognomen, vi si<br />
aggiungesse l’agnomen,<br />
il soprannome, ovverosia<br />
la ‘ngiuria. Così abbiamo<br />
Quintus Fabius<br />
Maximus Allobrogicus:<br />
Allobrogico per la vittoria<br />
riportata sugli Allobrogi<br />
nel 121 a.C.;<br />
Quintus Fabius Maximus<br />
Vernucosus Cunctator:<br />
Vernucoso perché<br />
aveva un’escrescenza<br />
carnosa sulle labbra,<br />
Temporeggiatore per la<br />
tattica usata in battaglia contro il nemico; Publius Cornelius<br />
Scipio Africanus: Africano per aver sbaragliato l’esercito dei<br />
8 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
Un tempo era... il biglietto da visita di ogni persona<br />
LA ‘NGIURIA<br />
Oggi, purtroppo, è stata sostituita dalla carta d’identità e dal codice fiscale<br />
‘Mpajasegge<br />
terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra nosc<br />
di Piero Vinsper<br />
Cartaginesi, comandato da Annibale, a Naraggara, presso<br />
Zama, ponendo fine alla seconda guerra punica; Publius<br />
Cornelius Scipio Nasica Serapion: Nasica, nasuto, dal naso<br />
sottile e adunco; Serapione, perché governatore dell’isola<br />
di Cipro.<br />
Questi pochi esempi, ce<br />
ne stanno moltissimi, ci<br />
fanno capire come siano<br />
nati i soprannomi. L’agnomen<br />
è occasionale; nasce,<br />
presso il popolo, spontaneo<br />
e con arguzia; basta<br />
un semplice motivo, un<br />
atteggiamento diverso<br />
dall’uso comune, il non<br />
pronunciare bene una parola,<br />
l’avere una deformazione<br />
fisica, l’esercitare<br />
un mestiere, il coltivare<br />
alcuni determinati<br />
Scarparu<br />
prodotti della terra, il<br />
proporsi in modo imperioso, il mostrarsi in maniera eccentrica<br />
e via di seguito.<br />
Però spesso succede che certi cognomi, rispetto ad altri,<br />
siano predominanti, ed è difficile individuare la persona e<br />
quindi si ricorre alla ‘ngiuria.<br />
Prendiamo a esempio i cognomi Congedo e Tundo.<br />
Di Congedo abbiamo i Barchi, i Cacaove, i Fuggeddhra, gli<br />
Ùrsula, ‘u Purpetta, i Panta, i Parà, i Tatài, ‘u Sciancatu, i Minnella,<br />
i Runzettu, gli ‘Ndurroddhru.<br />
Dei Tundo abbiamo: Piruzzu, Saresci, Cerasa, Rre, Turinu,<br />
Lasi, Pìchenu, Stortu, Cicchieddhri, Turicchiu, Lardu, Runzone,<br />
Scalureddhra.<br />
E noi dal soprannome possiamo individuare, in maniera<br />
molto più sicura, le persone o la famiglia che hanno questo<br />
cognome.<br />
Vero è che la ‘ngiuria sta quasi scomparendo, però ho potuto<br />
constatare personalmente che i giovani d’oggi hanno<br />
l’abitudine di chiamarsi per soprannome e questo mi torna<br />
a conforto, perché, consciamente o inconsciamente,<br />
mantengono in vita certe tradizioni popolari.<br />
D’altra parte la ‘ngiuria non è da considerarsi come un<br />
termine spregiativo, anzi ci arricchisce di un bagaglio culturale,<br />
che ci apre una finestra di fronte a una realtà a vol-
ia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra nosc<br />
te nuda e cruda, ma spesso vera.<br />
Ci sono soprannomi che si riferiscono ad animali: musu<br />
de paducchiu, paparotti, passaricchiu, pecureddhra, macacu, muscia,<br />
topulinu, vorpe, miciu, vovana, ciola, caddhrineddhra, puddhrascia,<br />
taragnula, rèpule, sarda, cane rugnusu.<br />
Altri ai numerali: thrìdici<br />
pili, tthre ccujiuni, tthre cculi,<br />
vintottu, tthre pidocchi, threnta<br />
carrini, vinticinquanni, tthre<br />
rane, tthre mazze, sette misi,<br />
thria, tthre nziddhre, quatthru<br />
rane, capidieci, threnta pili.<br />
Spesso, come ho detto prima,<br />
i nomignoli richiamano<br />
dei difetti fisici: anca de giocculata,<br />
capiviancu, Cia zzoppa,<br />
Vata bbòmbana, manimuzza,<br />
picculinu, pappallollu, mbrìcate,<br />
nciarfetta, stortu, de le lon-<br />
ghe, spinnatu, vàsciu, picozzu.<br />
Le ‘ngiurie si rifanno a ver-<br />
dure, ortaggi e frutta: pastanaca, pasulu, padateddhra, tarece,<br />
don Sinapu, cucuzza, mmalavasia, cerasa, piricocu.<br />
Però, quel che a me più interessa in questo contesto è<br />
analizzare i soprannomi che derivano dall’esercizio di arti<br />
e mestieri.<br />
Chi esercitava un mestiere si portava dietro la croce del<br />
lavoro che svolgeva quotidianamente. Ed ecco le ‘ngiurie:<br />
pasteddhra, pescialuru, pethrujaru, peparussaru, portatavuti,<br />
pospararu, funaru, ‘mpajasegge, mmulaforbici, vardaru, vindioju,<br />
vuttaru, sacristanu, scarparieddhru, ssettamattuni, cadda-<br />
Ferraru<br />
raru, coppularu, casciaru, ccattabbindi, ccidiporci, cconzambrelli,<br />
cornularu, craparu, ferraru, fischiularu, fucaru, furnaru, fusaru,<br />
nuceddhraru, biccheraru, zzoccatore, quarnimentaru,<br />
nnettacumuni, cconzalimbi e giustacòfani.<br />
Pasteddhra è il soprannome dato a una persona che spendeva<br />
la maggior parte della<br />
giornata a fare la pasta fatta<br />
in casa: maccheroni di grano,<br />
minchiarieddhri, maccheroncini<br />
con farina d’orzo e grano,<br />
e orecchiette. Vendeva questi<br />
prodotti a osterie e ristoranti<br />
o a persone che li richiedevano.<br />
Però lo spettacolo più interessante<br />
non era il vederla<br />
sfaccendare nel temperare la<br />
farina, ma guardare tutta una<br />
serie di compensati coperti<br />
da panni bianche di bucato e<br />
pieni di maccheroni e orecchiette,<br />
avvolti con tulle bian-<br />
co, messi su una lunga balconata a essiccare, tanto da<br />
assomigliare a file di pannelli solari che, ohimè, deturpano<br />
da un po’ di tempo a questa parte il paesaggio del nostro<br />
Salento.<br />
Chi andava in giro con la bicicletta, con legata dietro al<br />
portabagagli una latta di olio o di petrolio, era ‘u pethrujaru<br />
o lu vindioju. E ‘u pethrujaru per antonomasia era Cici<br />
Navone, esponente del PSIUP, quello, giusto per intenderci,<br />
che in un comizio elettorale se ne uscì con la frase “le<br />
breccioline che vanghino e venghino dalla via di Soleto”;<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 9
uomo onesto e giusto che con la sua semplicità avrebbe voluto<br />
portare la classe operaia in Paradiso.<br />
Ccidiporci, invece, è la ‘ngiuria data a una famiglia che<br />
possedeva delle botteghe idonee allo spaccio e alla vendita<br />
delle carni. Quelle sì che erano<br />
delle persone molto abili nel<br />
selezionare le parti delle carni,<br />
così come i Patutu, che sono stati<br />
bravi, scrupolosi e ottimi macellai.<br />
Un discorso a parte merita Mesciu<br />
‘Ntoni ferraru. Notaro di cognome,<br />
era molto esperto a<br />
ferrare i cavalli e a eseguire lavori<br />
in ferro battuto. Aveva, questi,<br />
un altro soprannome: fra giorni.<br />
Volete sapere perché? A chi gli<br />
chiedeva quando doveva passare<br />
a ritirare il lavoro ordinato, lui<br />
con una calma olimpica rispondeva<br />
sempre: fra giorni! E ciò ci riporta ai personaggi romani<br />
succitati che avevano anche doppio agnomen.<br />
Pochi forse ricordano Mesciu ‘Ntoni vardaru e Mesciu<br />
‘Esciu quarnimentaru. Dal mestiere esercitato avevano ereditato<br />
il soprannome. Per maggiore chiarezza espositiva<br />
devo aggiungere che c’è una bella differenza tra vardaru e<br />
quarnimentaru. Il primo è colui che fabbrica le selle, il secondo<br />
è chi, invece, s’interessa dei finimenti (briglie, cavezze<br />
ecc.) degli animali da soma.<br />
Molti calcavano le piazze salentine durante i giorni di<br />
mercato per vendere i loro prodotti: ‘u coppularu, ‘u fusaru,<br />
10 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra nosc<br />
Cconzambrelli<br />
‘u fumaru, ‘u bicchieraru, ‘u fischiularu.<br />
Caricavano tutte le loro mercanzie su lli sciarabbà (char à<br />
bancs) e andavano a presentare i loro prodotti, coppole e<br />
cappelli, fusi, funi, zzuche, bicchieri, fìschiuli a possibili acquirenti.<br />
Un tempo l’arte del fischiularu<br />
era fiorente a Galatina e procurava<br />
un sia pur lauto guadagno.<br />
Tu potevi osservare questi maestri<br />
lungo Via Luce, Via Gallipoli,<br />
Via Grotti a preparare i loro<br />
prodotti. A una estremità della<br />
via veniva situata una ruota;<br />
lungo la via, disteso per terra, il<br />
materiale che doveva essere intrecciato.<br />
Man mano che il maestro,<br />
indietreggiando, intrecciava<br />
le corde, l’operaio addetto alla<br />
ruota la faceva girare in modo<br />
che la corda, lu ‘nzartu, la zzuca,<br />
venisse raccolta con la dovuta torsione. Di qui nacque il<br />
vecchio adagio “Ve de retu a rretu comu lu zzuccaru”. Anzi a<br />
noi bambini, che non ci comportavamo, a volte, bene, poiché<br />
avevamo commesso qualche marachella o che non<br />
avevamo voglia di studiare, i nostri genitori ci dicevano<br />
“Mo’ te mandu cu ggiri la rota de lu zzucaru”, che vuol significare<br />
“ti mando a fare un lavoro duro e dispendioso di forze<br />
per farti mettere giudizio”.<br />
Caddararu era la ‘ngiuria appioppata a chi si occupava a<br />
riparare le pentole di rame: cazzalore, farsure, caddarotti e<br />
bbadelle varie. E questa persona sostituiva e aggiustava i
ia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra nosc<br />
manici sconnessi di questi utensili, batteva il rame se il recipiente<br />
presentava qualche gobba. Però la cosa più difficile<br />
era quando il recipiente presentava qualche foro.<br />
Allora subentrava la maestria de lu caddararu. Prendeva<br />
prima una pallina di rame e la batteva con un martello sino<br />
a renderla in una lamella molto sottile. Poi, resa incandescente<br />
su una forgia la parte<br />
da riparare, vi applicava quella<br />
lamella di rame e la batteva<br />
con tanta forza sino a che non<br />
si amalgamava il tutto otturando<br />
i buchi. Per rendere<br />
l’idea era come se si applicasse<br />
a una camera d’aria di gomma,<br />
forata, una pezza tip top.<br />
E da questo lavoro è scaturito<br />
presso il popolo il modo di dire:<br />
“Batti culettu ca la rame è<br />
ddoppia”.<br />
Uno che volesse affilare forbici<br />
e coltelli si affidava allu<br />
mmulaforbici, che esercitava la “professione” in Via Cavazza,<br />
qui a Galatina, sull’entrata posteriore di Palazzo Tondi-<br />
Vignola di Via Garibaldi, laddove c’è una rientranza,<br />
rispetto alla strada, di circa un metro e mezzo. Qui adagiava<br />
il suo “trabiccolo”, ossia la sua “macchina da lavoro”,<br />
consistente in una specie di scanno in legno a forma di<br />
tronco di piramide, alla cui destra era fissata una ruota,<br />
che, tramite una cinghia collegata agli ingranaggi di una<br />
piccola mola, premendo con il piede su di un pedale di legno<br />
posto alla base dello scanno, girava mettendo in mo-<br />
Mmulaforbici<br />
vimento la mola. Sulla mola pendeva, a debita distanza,<br />
una minuta lattina di rame piena d’acqua, che, a seconda<br />
delle circostanze, gocciolava da un beccuccio sulla mola<br />
diminuendo così l’attrito con gli oggetti che dovevano essere<br />
affilati.<br />
Un’altra figura caratteristica era quella persona che aveva<br />
il nomignolo di cconzambrelli.<br />
Andava in giro per il paese prestando<br />
la sua opera ad aggiustare<br />
gli ombrelli. Non si era ancora arrivati<br />
all’epoca dell’usa e getta e<br />
acquistare, allora, un ombrello<br />
nuovo significava togliere un<br />
pezzo di pane dalla bocca dei<br />
propri figli. I ferri del mestiere<br />
erano pochi: una tenaglia, una<br />
pinza, dei pezzi di ferro filato, alcuni<br />
raggi di cerchi di bicicletta,<br />
un martello, una forbice, tutti ben<br />
riposti in un piccolo contenitore<br />
di legno a forma di parallelepipedo<br />
che veniva portato a tracolla tramite una cinghia. Era<br />
un mestiere povero, che aiutava, in certi frangenti, a sbarcare<br />
il lunario.<br />
Ci sono poi delle ‘ngiurie di origine prettamente greca,<br />
come di derivazione greca sono molti cognomi galatinesi.<br />
A tempo debito ne parleremo; ora ne citerò un paio proprio<br />
per stuzzicare la curiosità di voi lettori: Nnai (gr. nai,<br />
sì) e Criu (gr. cryos, freddo).<br />
Buone feste! Che sia per tutti un Natale di fede, di pace<br />
e d’amore. •<br />
Piero Vinsper<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 11
Vincenzo Ampolo nasce a Surbo, (1844/1904) primo<br />
di dieci figli, da Adelaide Messa e Giovan Battista<br />
farmacista del paese. La vita di Vincenzo Ampolo è<br />
caratterizzata da un grande impegno nella vita politica<br />
e amministrativa e da una forte passione<br />
per la letteratura e la poesia, tanto da essere<br />
considerato un notevole esponente della<br />
cultura letteraria salentina tra la fine del<br />
19° e l’inizio del 20° sec. Nel 1871 rientrato<br />
nella città natale, forte delle idee<br />
maturate nella città di Napoli, ha inizio<br />
il secondo periodo della sua vita, quello<br />
della maturità caratterizzato da un<br />
impegno politico e amministrativo, di<br />
collaborazione ai giornali locali e di dedizione<br />
agli studi. Ampolo frequenta il<br />
mondo culturale della città confrontandosi<br />
con i più importanti intellettuali del tempo,<br />
come testimonia la sua collaborazione ai<br />
giornali salentini, centro vivo di fermenti politici<br />
e di idee e seguita a coltivare i suoi studi<br />
“con forza solitaria e tenace sparpagliando<br />
in cento e cento giornali i brandelli dell’anima”. La sua attività<br />
giornalistica ha inizio nel 1878 con il “Gazzettino letterario<br />
di Lecce”. Nel 1881 pubblica dei componimenti<br />
poetici sulla “Strenna salentina”; nel 1883 ha inizio il suo<br />
impegno politico di sindaco del paese che manterrà quasi<br />
ininterrottamente fino alla morte. Grazie soprattutto all’Ampolo,<br />
un fatto curioso si verificò a Surbo. Quello che<br />
per oltre un secolo venne unanimemente ritenuto dagli<br />
studiosi l’artefice della Guglia di Soleto, l’architetto Francesco<br />
Colaci da Surbo, in realtà non è mai esistito e questo<br />
nome venne inventato di sana pianta da Vincenzo Ampolo,<br />
per accreditare al proprio paese l’artefice di tanta bellezza.<br />
Nell’ultimo periodo della sua vita il poeta, pur<br />
continuando a ricoprire incarichi politici nel paese, si rinchiude<br />
sempre più in sé stesso e nel suo mondo personale,<br />
ripiega sui ricordi del passato e dei grandi ideali storici<br />
ormai tramontati. Amico del Duca Castromediano, si interessa<br />
molto alla pubblicazione delle sue disperate “memorie”,<br />
tanto da scontrarsi con l’alta borghesia salentina per<br />
la netta indifferenza a trovare contributi per la pubblicazione<br />
delle “Memorie” del povero Duca Castromediano.<br />
12 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
HISTORIA NOSTRA<br />
Vincenzo Ampolo da Surbo<br />
Eccezionale ritrovamento di un misterioso volantino, in aiuto alle “memorie” del Duca Sigismondo Castromediano<br />
di Luigi Galante<br />
Vincenzo Ampolo<br />
Infastidito da tale indifferenza, alla fine del 1888 stila un<br />
misterioso volantino, tanto da definirli “luridi mosconi. Giudaismo<br />
borghese! Con le sfilacciature del capestro si tessono i galloni;<br />
e la seta dei nastrini, inzuppata nell’acido fenico,<br />
copre lo schifo delle vecchie ulcere atoniche” .<br />
Questo pessimismo matura in seguito a<br />
fatti contingenti quali il venir meno degli<br />
ideali patriottici con il conseguente ingresso<br />
sulla scena politica della classe<br />
che egli stesso definisce “borghesia canaglia”<br />
e dal 1884 al 1885 collabora con<br />
il “Don Ortensio”, giornale umoristico<br />
salentino diretto da Nicolò Ferraioli,<br />
critico nei confronti dell’amministrazione<br />
leccese e con il “Pungiglione” giornale<br />
di satira politica, firmandosi con lo<br />
pseudonimo di “Caporale Obrus”.<br />
L’eccezionale volantino, poco noto agli<br />
studiosi, oggi è custodito nel Museo civico P.<br />
Cavoti di Galatina, con numero inventario 762 ,<br />
tra l’epistolario cavotiano. Tra il Cavoti e<br />
l’Ampolo, vi fu certa corrispondenza, tanto<br />
da inviare al patriota galatinese il “pizzicante” volantino in<br />
onore del Duca Castromediano.<br />
Nel 1888, Ampolo stampa, presso la Tipografia Editrice<br />
Salentina, dei Fratelli Spacciante di Lecce, il volantino a<br />
due facce, dal titolo:<br />
SIGISMONDO CASTROMEDIANO<br />
“I luridi mosconi, che depongono le brutte larve della loro<br />
sazia vanità sulle immedicabili piaghe della patria, chiederanno<br />
accigliati: chi è costui? E’ un povero vecchio,<br />
taciturno, sdegnoso, che, in mezzo al fango della novissima<br />
borghesia, cammina barcollando, in punta di piedi, coi<br />
calzoni rimboccati, per giungere incontaminato sino all’orlo<br />
del sepolcro. Tutti ammirano la bellezza dei marmorei<br />
palazzi, scintillanti nella gloria del sole: ma chi pensa ai ciclopici<br />
massi, che sostengono l’immane peso delle mura<br />
superbe, giù, nel profondo seno della terra, tra la terra e<br />
l’umidore? E pure, quando le tremende convulsioni telluriche<br />
avranno scrollato i vostri superbi edifizi; quando<br />
l’alito fatale del tempo ne avrà ridotto in polvere le pietre;
quando l’acqua ed il vento ne avranno disperso gli atomi;<br />
nel seno cupo della terra si troveranno i ciclopi massi. Lodi<br />
chi vuole il fumo delle fiaccole e le grida briache dei ben<br />
pasciuti pretoriani: a noi basta la sdegnosa bestemmia di<br />
Bruto, dopo la battaglia di Filippi. Su gli arazzi dell’epica<br />
leggenda garibaldina si stende la trama bavosa delle borghesi<br />
lumache: le lacrime degli oppressi colano nei canali<br />
ed innaffiano le splendide sine cura, comprate con la viltà<br />
e col tradimento dagli affamati Maramaldi: le pesanti catene,<br />
trascinate dai nostri poveri Redentori nei cento ergastoli<br />
della tirannide, si trasformano in acutissimi chiodi dai<br />
feroci Tubalcain, per configgere i molesti Messia sulla croce<br />
dell’oblio. Giudaismo borghese! Con le sfilacciature del<br />
capestro si tessono<br />
i galloni; e la<br />
seta dei nastrini,<br />
inzuppata nell’acido<br />
fenico, copre<br />
lo schifo delle<br />
vecchie ulcere<br />
atoniche.<br />
Chi vide le titaniche<br />
pugne della<br />
libertà? Non i<br />
viscosi lombrichi,<br />
che fanno<br />
passare tranquillamente<br />
traverso<br />
i loro intestini la<br />
polvere dei morti.<br />
Quando la forza<br />
dei cannoni<br />
spezzava le barricate,<br />
essi trinca-<br />
vano al fianco di Giuda, nell’antro dei birri: quando il velo<br />
della sera copria pietoso e rendea più livide le piaghe, essi<br />
– borghesi sciacalli – sbucavano dalle caverne del tradimento<br />
e si lordavano di sangue, frugando avidamente nelle tasche<br />
degli uccisi: oggi – fortunati Barabba – passeggiano in<br />
carrozza, e gittano negli occhi degl’illustri sofferenti il superbo<br />
fume dei loro avana.<br />
Largo ai carnefici! Cercate libertà? Picchiate all’uscio del<br />
giudeo: Rothschild vale più dei Mazzini; e la spada di Garibaldi<br />
sta meglio nella gerla del rigattiere. Vi sentite l’anima<br />
lorda? L’acqua del ghetta lava il sangue dei crocifissori.<br />
Volete argento? All’albero di Giuda pendono i borghesi fiorini.<br />
Via, via! I martiri hanno il torto di essersi fatti ammazzare;<br />
e gli apostoli hanno il torto di non essersi saputi rifare<br />
del grasso, perduto negli ergastoli. Chi si fece friggere come<br />
lardo, si contenti dei siccioli. I pratici borghesi raccolgono<br />
tutto: ossa, lacrime, sangue: con questo concime<br />
ingrassano la maledizione del campo scellerato. Sono colpevoli?...<br />
Mainò: raccolgono quello che gli altri hanno generosamente<br />
buttato... Largo, largo ai borghesi Vanni<br />
Fucci! Su la lunga via crucis, resa sacra dal sangue versato<br />
per secoli dai nostri martiri, passa luccicando, sul carro<br />
trionfale, la dorata canaglia. E splendore di virtù? No; è<br />
patina galvanoplastica; grattate l’ipocrisia, e colerà la putredine.<br />
Largo, largo ai fortunati Barabba! Lasciate che sal-<br />
Foglio di adesione di Vincenzo Ampolo<br />
gano sul Campidoglio a ringraziare gli dei, mentre le loro<br />
vittime sono trascinate dagli uncini dell’ingratitudine verso<br />
le crudeli gemonie dell’indigenza. E i vinti non debbon<br />
seguire il carro dei fortunati trionfatori?...Certo: e, questa<br />
volta, è l’Italia dei martiri, è l’Italia del popolo, che fu vinta<br />
dalla perfida plutocrazia dei borghesi alchimisti. Ecco,<br />
ecco: salgon al cielo gli evviva dei burocratici lanzichenecchi;<br />
Il fumo dell’incenso sale dagli argentei turiboli dei blasonati<br />
crocifissori; ed il povero DUCA CASTROME-<br />
DIANO si erge dall’arca d’una stoica povertà, fiero e sdegnoso,<br />
come l’ombra di Farinata! La generosa vittima dei<br />
Borboni, l’illustre galeotto di Montefusco, il messapico Bajardo<br />
senza macchia e senza paura, fu spogliato dagl’ingordi,<br />
vilipeso<br />
dai codardi, flagellatodagl’ingrati:<br />
ma egli<br />
non mutò aspetto,<br />
né mosse collo,<br />
né piegò sua<br />
costa.<br />
Quel magnanimo<br />
s’è dritto, e<br />
guarda, taciturno<br />
e severo, l’alta<br />
trionfale marca<br />
della borghese<br />
canaglia, come<br />
avesse lo inferno<br />
in gran dispetto.<br />
E pure, in mezzo<br />
ai flutti tempe-<br />
stosi d’una crudele<br />
fortuna, quel<br />
buon vecchio ha scritto serenamente le sue dolorose Memorie,<br />
che giacciono ancora inedite sul polveroso scrittojo….<br />
Una volta chiese all’Onorevole Borselli:<br />
“Eccellenza, perché non acquistate quelle pagine, sulle quali si<br />
vede ancora l’umido delle lacrime ed il solco della catena? Perché,<br />
almeno, non mette a disposizione del povero vecchio le poche centinaia<br />
di lire, necessarie a far pubblicare il piccolo volume?” –<br />
M’ebbi dall’Onorevole Borselli cortese risposta: ma di sola<br />
cortesia non si contentano gli editori. E la borghese filantropia?...<br />
Ai rimpannucciati di oggi non si può ricordare<br />
la miseria di jeri. A ogni modo, self-help: se dall’alto non<br />
viene manna, facciamo da noi. Il popolo, che lottò per secoli<br />
contro le falangi della tirannide, come i titani delle cinque<br />
gloriose giornate, saprà pur dare l’obolo suo per<br />
gettare in faccia ai crocifissori la fulgida storia, scritta col<br />
sangue dei crocefissi. Si pubblichino coll’obolo del popolo<br />
le Memorie del venerando Duca Sigismondo Castromediano.<br />
Castromediano, dell’illustre galeotto di Montefusco, di<br />
colui, che – magro, taciturno, sdegnoso – in mezzo al fango<br />
della novissima borghesia, cammina barcollando, in<br />
punta di piedi, coi calzoni rimboccati, per giungere incontaminato<br />
sino all’ombra di Banco.<br />
Self-help<br />
Surbo, 8 <strong>Dicembre</strong> 1888” .<br />
Caporale Obrus<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 13
Fino a quando la società galatinese ha conservato il carattere<br />
della ruralità, è stato uso corrente fare il pane<br />
casareccio nel forno rionale, una costruzione a volta<br />
con un’apertura (la bocca) verso l’esterno. Il pane casareccio<br />
ha comportato l’impiego di tutte le componenti del frumento<br />
e non della sola farina. A Galatina hanno una<br />
tradizione il forno de la Nunna Cia presso l’arco della Por-<br />
Impastatrici di pane<br />
ta Luce, il forno de lu Cuncertu alla via Ottavio Scalfo, e<br />
quello de lu Turinu rretu lu Parma presso la stazione.<br />
La fornaia ha fatto anche da bracina, per usare un termine<br />
toscano, cioè ha venduto per pochi soldi al vicinato<br />
la brace e la cenere per l’imbiancatura dei<br />
panni col ranno, il cosiddetto bucato, che si è fatto<br />
versando l’acqua bollente sulla cenere. Per la famiglia<br />
contadina galatinese il giorno del pane è stato<br />
un momento tolto alla monotonia e all’oppressione<br />
del quotidiano. Esso ha fatto saltare il continuum<br />
della storia in quanto tempo comunitario. Nei locali<br />
del forno, in un’economia povera di scambi, si è<br />
celebrato l’incontro di molte famiglie contadine, che<br />
si sono date reciproco aiuto nell’impastatura e nella<br />
confezione del pane. Appena il pane è sfornato,<br />
ancora odoroso e fumante, un ragazzo, per commissione<br />
del capo famiglia o della moglie di questi, ne<br />
distribuisce a prova uno o due pezzi tra i parenti e<br />
nelle famiglie del vicinato, in proporzione di quanto<br />
a suo tempo gli attuali donatori hanno ricevuto.<br />
È come il compimento di un rito, un modo di rispettare<br />
il diritto di ciascuna famiglia e le leggi stabilite<br />
14 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
SCRIVEVANO I NOSTRI PADRI...<br />
Articolo tratto dal libro “Memorie di Galatina…”<br />
IL PANE DELL’ABBONDANZA<br />
di Giuseppe Virgilio<br />
dal mos maiorum, ed anche un momento in cui si afferma la<br />
solidarietà comunitaria della classe subalterna. Nella società<br />
arcaica rurale, in forza del principio della ripartizione<br />
comunitaria, questo fenomeno culturale, dall’importante<br />
funzione simbolica socializzante, acquista il significato<br />
antropologico di equa distribuzione del pane casareccio<br />
tra i parenti e le famiglie del vicinato, così come presso le<br />
società primitive si distribuiva equamente il prodotto della<br />
raccolta fra tutti i membri della comunità, come garanzia<br />
contro il rischio di carestie collettive derivanti o da<br />
scarsa raccolta di cibo o da altre circostanze avverse.<br />
Il significato socializzante del pane si configura perciò<br />
come una difesa culturale di fronte al rischio della miseria,<br />
sicché mantenere e rafforzare i legami sociali è diventato<br />
in questo caso compito di primaria importanza. Da ciò<br />
deriva che al consumo del pane si connette una sua funzione<br />
rituale. Si ricordi il divieto di buttare via persino una<br />
briciola, l’obbligo di mangiare anche il pane col verde della<br />
muffa, quand’è stato vicino a corrompersi. Ed è ancora<br />
empietà lasciare sul desco il pane capovolto.<br />
Ricordiamo poi l’opposizione tra il mestruo e la manipolazione<br />
del cibo, per cui nella cultura contadina la donna,<br />
durante la mestruazione, è tabuizzata, cioè è sottoposta<br />
all’interdetto magico-religioso di compiere alcune azioni,<br />
ed in particolare<br />
di manipolare il<br />
cibo, poiché, cucinando<br />
in quello<br />
stato, poteva anche<br />
avvelenare il<br />
marito. Il pane<br />
viene quindi confezionato<br />
in uno<br />
stato di assoluta<br />
“purezza”, che nobilita<br />
ancor più<br />
dal punto di vista<br />
simbolico il gesto<br />
del dono.<br />
Per il rito della<br />
cena, durante la<br />
settimana di Pa-<br />
Preparazione del forno<br />
squa, viene distri-
uito il pane azzimo, cioè impastato senza lievito. Il contadino<br />
di Galatina lo tiene in serbo e lo utilizza soltanto in occasione<br />
di violenti temporali, allorché ne getta un pezzo<br />
nella bufera recitando la preghiera corale:<br />
Àzzate San Giuvanni e nun durmire<br />
ca visciu ttre nuveie caminare:<br />
una de acqua, una de vientu,<br />
una de tristu maletiempu.<br />
Nella sfera cristiana è stata traslata una forma pagana di<br />
vita religiosa, allorché gli dei sono stati sottoposti all’ordine<br />
del cosmo, ed i rituali hanno stabilito un legame di reciprocità<br />
fra la divinità e gli<br />
uomini. E così la tempesta si placa<br />
perché l’uomo ha spartito con<br />
gli dei o col santo il pane che<br />
protegge e scampa da ogni pericolo,<br />
e da questo reciproco rispetto<br />
è derivata anche l’aspettativa<br />
dell’abbondanza, più che<br />
dal lavoro e dallo sforzo individuale<br />
e collettivo.<br />
Durante il fascismo a Galatina,<br />
essendo accentuato il contrasto<br />
tra il ceto contadino e la classe<br />
dominante, il dono del pane assu-<br />
me il significato profondo della<br />
coesione del ceto subalterno<br />
contro due classi sociali: quella dei signori e quella dei<br />
mercanti. I primi sono gli appartenenti al ceto agrario, ed<br />
hanno costruito la loro egemonia attraverso la scuola, la<br />
Antico forno a legna<br />
religione, la pubblica amministrazione ecc... I signori possono<br />
anche essere di origine contadina, purché abbiano<br />
perduto la loro originaria forma di moralità e sappiano<br />
adeguarsi allo stile di vita della classe egemone. I secondi,<br />
i mercanti, noi li ricordiamo durante il fascismo, il giovedì,<br />
durante una tappa dei loro traffici. Hanno esposto la<br />
mercanzia davanti alla chiesa dell’Immacolata. Hanno<br />
avuto volta a volta i modi del signore e quelli del villico,<br />
ma ai contadini hanno dato sempre l’impressione di essere<br />
venuti a rastrellare sistematicamente le risorse locali. Si<br />
fa riferimento al commerciante di cereali e di legumi, di<br />
carni e di altri prodotti dell’allevamento.<br />
Il commerciante locale<br />
di derrate alimentari e di<br />
altre merci non prodotte in loco,<br />
il bottegaio, è già una figura<br />
diversa, benché simile, ma più<br />
domestica, più su misura locale,<br />
più controllabile e prevedibile.<br />
Certamente quella del<br />
bottegaio è stata una categoria<br />
più vicina ai signori ed ai mercanti<br />
che al contadino, il quale<br />
non ha mai compreso né ammesso<br />
che il denaro, comunque<br />
anticipato ed investito, possa riprodursi<br />
su se stesso con l’usu-<br />
ra. La stessa compravendita è sempre apparsa al contadino<br />
un’imposizione simile a quella dei prelievi baronali, signorili,<br />
fiscali e decimali. •<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 15
Un luogo non è semplicemente un punto geografico.<br />
È un sedimento di storia. Un magazzino di memoria.<br />
Un richiamo di sentimenti e pensieri. Un<br />
luogo è innanzitutto una gente. La sua cultura stratificata.<br />
La sua immobile mutazione nel tempo, testimoniata da<br />
mirabilie o da scempi. Da amore e furore. Da uomini e<br />
donne che hanno vissuto e vivono con le loro radicate passioni.<br />
Un luogo può anche essere un logo, un simbolo, un nome<br />
evocativo. Un desiderio di avventura e sorprese. Di incontri<br />
e suggestioni.<br />
Ogni luogo, infine, è un’isola. Che in un arcipelago di<br />
altri luoghi e altre genti s’identifica e distingue col suo passato<br />
e la sua storia come con la sua vita corrente.<br />
Isola per antonomasia è Gallipoli.<br />
Kalè Polis, la Città Bella, come molti continuano ancora a<br />
chiamarla. Fra le più antiche e nobili del Salento. È la storica<br />
Anxa di Messapi e Romani. Da secoli il terminale naturale<br />
di commerci e di viaggi. Il fido baluardo difensivo<br />
che i D’Angiò contrapposero all’egemonia sui mari della<br />
Serenissima Repubblica di Venezia: “Fideliter excubat”,<br />
vigila fedelmente, ammonisce il motto del suo stemma civico,<br />
segnato in un cartiglio quasi artigliato da un gallo<br />
rampante.<br />
Tra la fine del Seicento e l’Ottocento, Gallipoli fu anche<br />
la capitale mondiale del commercio dell’olio combustibile<br />
“lampante” che raggiungeva tutte le Capitali d’Europa,<br />
e il suo porto riconosciuto come uno dei più importanti<br />
del Mediterraneo.<br />
Gallipoli, dunque. Terra di rinnovate scoperte ed appaganti<br />
emozioni.<br />
Come in un viaggio promesso, qui non si arriva: si viene.<br />
Si viene per volontà, per curiosità, per sogno, per attrazione<br />
o sconfinamento.<br />
La Città Bella vi accoglierà nel sole e nell’ombra della<br />
sua corona di case bianche, cinta da bastioni poderosi che<br />
sorgono dal mare, vi sorprenderà con i colori delle botteghe,<br />
con i profumi del mercato del pesce, con il sorridente<br />
vociare dei venditori di ricci e di spugne.<br />
Per questo fascino immutabile – nonostante le molte disarmonie<br />
e contraddizioni di una nuova convulsa ‘civiltà’<br />
consumistica e chiassosa, che sempre più assedia la sua<br />
fiera identità – Gallipoli è adorata perfino oltre misura dai<br />
suoi figli più fedeli, ma anche da schiere di viaggiatori e<br />
turisti che non resistono al suo azzurro richiamo.<br />
C’è sempre qualcuno che ne è innamorato perdutamente.<br />
Come Uccio di Corte Gallo.<br />
Non conosco il suo cognome. Non gliel’ho mai chiesto,<br />
né lui me l’ha mai dato. Anche se dal giorno del nostro<br />
16 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
Pecore a Gallipoli Uccio Gallipoli - Corte Gallo<br />
sorprendente incontro, nella primavera scorsa, siamo diventati<br />
indivisibili amici.<br />
Pur nella sua verace schiettezza e autenticità, Uccio di<br />
Corte Gallo è quello che si dice un personaggio. Conoscerlo<br />
è di per sé una conquista, un segno inequivocabile dell’amore<br />
per la<br />
tradizione e per la<br />
nostra vita di uo-<br />
mini, che è poi un<br />
condensato della<br />
civiltà di tutti gli<br />
uomini.<br />
Intanto, per conoscere<br />
Uccio, bisogna<br />
andare nel<br />
suo piccolo regno.<br />
A Corte Gallo, appunto.<br />
Che, seminascosta,<br />
si trova<br />
quasi all’ingresso<br />
dell’isola, prima di<br />
arrivare alla Cattedrale, tra i vicoli che si snodano verso la<br />
Riviera di Scirocco. Fatevela indicare, e andateci. Se non<br />
lo trovate, chiedete di lui, e Uccio apparirà come per sortilegio,<br />
con il suo sorriso e il suo immenso bagaglio di racconti.<br />
Così è accaduto, quando insieme a mia moglie Teresa (e<br />
portandovi poi molti altri amici), nell’abbraccio di questa<br />
corte abbiamo scoperto un fantastico<br />
museo a cielo aperto, generosamente<br />
disponibile a tutti,<br />
con le pareti tappezzate di ferri,<br />
legni, ceramiche, piatti, vecchie<br />
macchine da cucire, nasse e reti<br />
da pescatori, e tutti – davvero<br />
tutti! – gli oggetti del nostro arcaico<br />
vivere quotidiano, ormai<br />
dimenticati e dispersi, ma che<br />
Uccio ha amorevolmente conservato<br />
in bell’ordine, facendoli<br />
rivivere oltre il tempo nella loro<br />
bellezza artigianale: lu sicchiu<br />
per l’acqua del pozzo, li rocci per<br />
recuperarlo alla bisogna, lu farnaru per la farina, la crattacasu<br />
con il suo solido e armonioso perimetro di legno in cui<br />
raccogliere il formaggio, la strattiera per la salsa di pomodoro,<br />
li buccacci e li stangati per fichi, friselle, conserve e<br />
quant’altro, i misurini d'alluminio per l’olio (chi se li ricordava?),<br />
li caddarotti de rame russa, ovviamente anneriti dalla<br />
UCC<br />
DI CORTE CORT<br />
Un’emozionante scope<br />
di Antonio ME<br />
Gallipoli - Rivie
stratificazione di fuliggine, l’altrettanto ‘carbonizzato’ brustulinu<br />
per tostare l’orzo (più che il caffè), il termosifone d’altri<br />
tempi ossia la brasciera (completa di paletta), un<br />
port-enfant di legno, e perfino alcuni attrezzi agricoli come<br />
la sarchiudda, lu serrettu pe putare, o la pompa a spalla pe’<br />
nzurfare le vigne...<br />
E ancora: vutti, barilotti,<br />
tine pe’ la sca-<br />
IO<br />
GALLO<br />
rta nell’Isola dei tesori<br />
LE ‘Melanton’<br />
pece, menze, vozze e<br />
vucale per l’atavica<br />
sete di questa terra,<br />
i mitici e ingegnosi<br />
trapanaturi<br />
de li cconza limbi-egiustacòfane,<br />
e lumi<br />
a petroju, spiritiere,<br />
scarfalietti, vasi de<br />
notte, fusi pe’ la lana,<br />
martieddhi, pinze,<br />
tenaje, ssuje de<br />
scarparu, staffe de ca-<br />
vaddhu, scale, scaleddhe, ‘mbuti, pignate, chiavi, catinazzi... E<br />
pile, stricaturi, limbi e còfani (completi di cenneraturu!) per fare<br />
il bucato.<br />
Un’operazione, quella del bucato, che (come descritto magistralmente<br />
qualche anno fa su queste stesse pagine da Piero<br />
Vinsper) era un vero e proprio evento familiare, e che<br />
Uccio – con semplicità e irresistibile fascinazione – vi illustrerà<br />
in ogni sua fase, richiamando<br />
alla memoria il lavoro, la<br />
dedizione e la maestria delle casalinghe<br />
di un tempo, alle quali<br />
non dovrebbe mancare mai la nostra<br />
grata ammirazione.<br />
A Corte Gallo, Uccio continua<br />
ad avere le visite di forestieri, turisti<br />
e ragazzi delle scuole, ai<br />
quali racconta sempre avvincenti<br />
episodi di vita vissuta quasi<br />
fossero favole da C’era una volta...<br />
E se avrete la fortuna di salire le<br />
scale insieme a lui per entrare<br />
nella sua casa piena di quadri e<br />
immagini d’epoca, scoprirete molti altri incredibili tesori,<br />
fra cui una rara fotografia dei primi del 1900, dove un gregge<br />
di pecore, dal ponte che si congiunge al Borgo, sta entrando<br />
nella città vecchia, costeggiando il Castello.<br />
Ma la meraviglia di maggior richiamo – tanto nella sua<br />
semplicità quanto nella sua intensa devozione religiosa –<br />
ra di scirocco<br />
Banchina di Gallipoli nel 1923 Corte Gallo - Edicola a S. Antonio e Confraternite Uccio e Melanton<br />
resta per me la serie dei pupi di terracotta, che raffigurano<br />
le dieci antiche confraternite religiose di Gallipoli.<br />
Realizzate e colorate a mano dallo stesso Uccio, queste<br />
piccole opere d’arte naif sono sistemate, una accanto all’altra,<br />
sotto la bella edicola con l’immagine di sant’Antonio da<br />
Padova che campeggia nella parete centrale di Corte Gallo,<br />
di fronte all’arco d’ingresso.<br />
Credo che sia interessante conoscere la denominazione e<br />
la Chiesa di appartenenza di ciascuna Confraternita, i colori<br />
distintivi dell’abito (composto da una tunica lunga, detto<br />
sacco, e da una mantellina, chiamata mozzetta), nonché il<br />
legame di devozione con le varie categorie laiche di arti,<br />
mestieri e professioni che le hanno a suo tempo fondate.<br />
Eccone la catalogazione fornitami da Uccio, e da me completata,<br />
dove possibile, con qualche data storica:<br />
- Venerabile Confraternita della Chiesa del Santissimo Crocifisso<br />
(sorta nel 1400 sotto il titolo di San Michele Arcangelo).<br />
Devoti: Bottai. Sacco di colore celeste, mozzetta di colore rosso.<br />
- Confraternita della Chiesa della Madonna del Monte Carmelo<br />
e della Misericordia (sorta intorno al 1530): Calzolai. Sacco<br />
nero, mozzetta nera.<br />
- Confraternita del Santissimo Sacramento (fondata nel 1567),<br />
insediata nella Chiesa del Sacro Cuore di Gesù: Fruttivendoli.<br />
Sacco bianco, mozzetta rossa.<br />
- Confraternita di Santa Maria ad Nives o Cassopo della Chiesa<br />
di San Francesco di Paola (istituita nell’aprile 1649): Fabbri<br />
ferrai. Sacco avana, mozzetta celeste.<br />
- Confraternita della Chiesa di Santa Maria degli Angeli (sorta<br />
nel 1662): Pescatori, Contadini, Artisti. Sacco azzurro, mozzetta<br />
bianca.<br />
- Confraternita della Chiesa della Madonna della Purità (anch’essa<br />
fondata nel 1662): Scaricatori di porto o Bastasi. Sacco<br />
giallino, mozzetta bianca.<br />
- Confraternita del Rosario (del 1687): Sarti. Sacco nero, mozzetta<br />
bianca.<br />
- Confraternita di San Giuseppe e della Buona Morte nella<br />
Chiesa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo: Falegnami. Sacco giallo,<br />
mozzetta bianca.<br />
- Confraternita della Chiesa della Madonna Immacolata: Muratori.<br />
Sacco celeste, mozzetta marrone.<br />
- Confraternita della Santissima Trinità e delle Anime del<br />
Purgatorio: Nobili, Dottori. Sacco avana, mozzetta rossa.<br />
Certo, sarà tutta un’altra cosa se descrivere – insieme a<br />
molti altri aneddoti – le Confraternite gallipoline ve le farete<br />
illustrare dalla viva voce di Uccio, quando andrete a<br />
trovarlo.<br />
Buona passeggiata a Corte Gallo, dunque. E Auguri cordiali<br />
a tutti. •<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 17
Una torbida vicenda neritina di cinque secoli fa<br />
LA “SPINA” DEL VESCOVO<br />
Anche nei periodi più bui, la giustizia, seppure tra tanti stenti, ha fatto il suo corso<br />
Qualche volta, quando l’animo umano è tormentato<br />
da una forte emozione o dal dolore per una spiacevole<br />
traversia, si usa dire che quell’evento “ci ha<br />
punto il cuore”.<br />
Cos’è che può provocarci una sensazione così intensa, se<br />
non una “spina”?<br />
Di spine ci sono tante, tutte pungenti, tutte dolorose e<br />
mai piacevoli.<br />
Ci sono “spine incarnite”, che, in alcuni casi, sono difficili<br />
da estrarre, perché penetrate troppo in fondo; ci sono<br />
“spine velenose”, che, oltre a provocare un forte dolore,<br />
possono, se non estratte immediatamente,<br />
determinare una necrosi della parte interessata;<br />
ci sono, inoltre, “spine di riccio<br />
o di rosa”, e, a voler essere un po’ spiritosi,<br />
“spine… elettriche”, anche se, considerato<br />
il tempo in cui si svolgono i fatti che<br />
stiamo per raccontare, non ce n’erano.<br />
Per non arrovellare più di tanto il cervello<br />
dei nostri incuriositi lettori, dobbiamo<br />
puntualizzare che la “spina”, di cui<br />
stiamo per parlare, è tutta particolare: è<br />
una “spina” dolce, una “spina” che, nel<br />
lontano XVI secolo, fece girar la testa al<br />
vescovo di Nardò, Giacomo Antonio Acquaviva,<br />
figlio del turpe e cattivo Signore<br />
della città, chiamato spregevolmente dal<br />
popolino con l’appellativo di “Guercio di<br />
Puglia”.<br />
Giacomo Antonio Acquaviva non era<br />
un sacerdote, eppure ne fu investito. Tanto<br />
ottenne per potenza di casta, da indur-<br />
re il Pontefice, Papa Leone X, a elevarlo al soglio vescovile<br />
di Nardò il 25 febbraio 1521.<br />
Insediatosi nel sontuoso palazzo adiacente alla Cattedrale,<br />
il nuovo vescovo si circondò di un nugolo di giovani fedeli.<br />
Tutti si amavano come se fossero “Fratelli di Cristo”<br />
ma, in quel palazzo, chi si atteggiava a vero Cristo era soltanto<br />
lui, il Vescovo, giovane fra giovani, pieno di vitalità,<br />
aitante e bello come nostro Signore Gesù.<br />
Nelle segrete stanze di quel palazzo una Spina… punse<br />
il giovane Vescovo, ma non fu una spina che provoca dolore,<br />
bensì una spina dolce, bella, piacevole, cara e affettuosa,<br />
che fece impazzire il vescovo Acquaviva tanto<br />
18 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
C’ERA UNA VOLTA...<br />
di Emilio Rubino<br />
Il Guercio di Puglia<br />
intensamente da farlo suo, per sempre.<br />
Il lettore non si scandalizzi più di tanto. Quella era l’epoca<br />
in cui gli “strappi alle regole” erano all’ordine del giorno<br />
e che, in un certo qual modo, potevano essere anche<br />
tollerati. Di storie di preti e di prelati, che abbandonavano<br />
la giovanile vocazione per la Santa Madre Chiesa e si rifugiavano<br />
tra le calde braccia di qualche “pia donna” in estasi,<br />
ve ne erano a “buzzeffe”, come si usava dire a quel<br />
tempo.<br />
Vi è una lunga serie di storie boccaccesche accadute nella<br />
nostra beneamata Italia. Sarebbe quasi impossibile enumerarle:<br />
forse non basterebbero le pagine<br />
di un corposo quaderno. Perciò, limitiamoci<br />
a richiamare qualche avventura galante<br />
accaduta a Nardò. Qui, di certo, non<br />
mancarono “piccanti fatterelli”, anche di<br />
una certa importanza, che fecero assurgere<br />
ai… disonori della cronaca la nostra<br />
sonnacchiosa città.<br />
Fu una “torbida tresca” quella stabilitasi<br />
tra un ecclesiastico neritino e un’avvenente<br />
fanciulla, e, ancora più sporca, fu<br />
quella di un giovane sacerdote, che, in<br />
barba al voto di castità e al giuramento di<br />
fedeltà a Dio e alla Chiesa, si “fidanzò” ufficialmente<br />
con una ragazza gallipolina.<br />
La storia d’amore tra i due “innocenti fidanzati”<br />
fu breve e finì malamente con<br />
pugni e calci nel sedere al giovane prete,<br />
allorquando i fratelli della ragazza, venuti<br />
a Nardò per le usuali informazioni sul<br />
fidanzato della sorella, appresero dalla<br />
gente che il futuro cognato, più di un “buon giovane”, era<br />
un… “buon sacerdote”.<br />
Ma torniamo alla… Spina del nostro vescovo. Come narrano<br />
le cronache del tempo e don Emilio Mazzarella ne “La<br />
Sede Vescovile di Nardò”, Giacomo Antonio Acquaviva<br />
non fu l’unico prelato nella sua famiglia. Altri suoi fratelli<br />
furono in seguito “ordinati” vescovi: esattamente Giovanni<br />
Battista a Nardò e Giovanni Antonio a Lecce e poi ad<br />
Alessano. Evidentemente quella degli Acquaviva doveva<br />
essere una famiglia molto pia, pura e predisposta al voto<br />
di… castità. Sembrava per davvero una “sacra famiglia”.<br />
Il nostro Giacomo Antonio fu nominato vescovo a segui-
to della (misteriosa) rinuncia del vescovo in carica, e resse<br />
la diocesi neritina per ben undici anni sino al 1532, quando,<br />
all’improvviso, fu punto dalla… Spina.<br />
Chi fosse costei e come nacque e si sviluppò la strana “love<br />
story”, non sappiamo, anche perché nulla di scritto ci è<br />
stato tramandato. Tutto è stato “trascinato” di bocca in<br />
bocca, attraverso cinque secoli, sino ad arrivare<br />
intatto e incorrotto alle nostre<br />
orecchie.<br />
Il padre Belisario Acquaviva,<br />
umanista ma truce tiranno, come la<br />
gran parte dei suoi antecessori e<br />
successori, una volta appresa<br />
la tresca del figlio-vescovo,<br />
ordinò che nulla<br />
trapelasse in giro e che<br />
tutto si fermasse nell’interno<br />
della famiglia.<br />
Chiunque avesse<br />
osato divulgare, anche<br />
tra i più intimi conoscenti,<br />
un minimo di<br />
quella brutta storia,<br />
avrebbe pagato con la vita.<br />
E intanto il nostro Giacomo Antonio continuava nella<br />
sfacciata e peccaminosa vita tra le ovattate e tranquille<br />
stanze dell’Episcopio con la sua dolce Spina, che, guarda<br />
guarda si chiamava Giovanna Spina, donna splendida e<br />
avvenente.<br />
Però, nonostante gli inflessibili ordini del duca Belisario,<br />
nei salotti neritini e tra il volgo non potevano non diffondersi<br />
le sconcertanti notizie, solo che erano sussurrate ai<br />
conoscenti fidati, dopo aver dato un attento sguardo intorno<br />
per essere sicuri di non essere ascoltati e visti.<br />
La storia tra i due era troppo affascinante da tenerla<br />
nascosta: rappresentava un vero e proprio<br />
gossip, come quello che si protrae oggi tra uomini<br />
illustri e… tante belle ragazze. Per tale ragione,<br />
prima con qualche incertezza, e poi sempre<br />
più velocemente la notizia dilagò in ogni parte<br />
del feudo, sollevando ben presto un grosso vespaio.<br />
La “love story” tra il prelato e la bella Giovanna<br />
Spina s’era diffusa a macchia d’olio nell’intero<br />
Salento, cosicché le autorità, sia ecclesiastiche<br />
sia politiche, dovettoro, loro malgrado, intervenire.<br />
La rabbia del duca Belisario era tanta e tale da<br />
indurlo persino a negare il saluto all’ingeneroso<br />
e imprudente figlio. La storia finì di fronte alla<br />
Reale Corte che, per non emettere provvedimenti<br />
drastici nei confronti dell’infedele vescovo,<br />
consigliò il padre di convincerlo alla rinuncia del<br />
prestigioso incarico ecclesiastico. Per non perdere<br />
l’amore per la sua Giovanna, che intanto continuava<br />
a pungere come non mai, Giacomo<br />
Antonio preferì abbandonare l’abito vescovile.<br />
Sebbene fosse intervenuta la forzata rinuncia,<br />
le bocche pettegole e lo scandalo andarono via via montando<br />
come le onde in un mare sempre più infuriato. Per<br />
tale motivo i due amanti furono costretti ad abbandonare<br />
Nardò e a rifugiarsi a Napoli, dove Giacomo Antonio morì<br />
dopo qualche anno, lasciando<br />
la diletta e giovane<br />
moglie sola, senza<br />
figli e in compagnia dei<br />
dolci ricordi legati alle<br />
insonni e piccanti notti<br />
d’amore.<br />
Tutto ciò, però, non<br />
impedì al duca Belisario<br />
di far nominare, appena<br />
quattro anni<br />
dopo, suo figlio Giovanni<br />
Battista, di appena<br />
ventisette anni di<br />
età, alla prestigiosa<br />
poltrona di vescovo di<br />
Nardò. La cerimonia<br />
fu tenuta solennemente<br />
nella Cattedrale il 22<br />
maggio 1536. Anche in<br />
questo caso la nuova ordinazione<br />
avvenne a seguito della rinuncia (misteriosa) del vescovo<br />
in carica. Sulla scorta dell’esempio fraterno, Giovanni<br />
Battista si guardò bene dal tradire i sacramenti e il giuramento<br />
di castità. In pratica, condusse una vera e castigata<br />
vita da… vescovo.<br />
Ancora una volta la giustizia aveva trionfato, seppure<br />
tra tante forzature! •<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 19
Nell’estesa Puglia salentina che Piovene considerava<br />
“il vero fondo dell’Italia”, abbiamo avuto modo<br />
di constatare che la maggiore parte dei paesi da<br />
cui è costituita è ancora caratterizzata da quell’antico e benefico<br />
aspetto della vita di relazione: tutti si conoscono, si<br />
incontrano nelle piazze e nelle corti, cortili di alcuni centri<br />
storici, specie di quelli dove ancora si parla il griko, con<br />
pozzo e granaio sui quali si affacciano varie abitazioni.<br />
Le donne si raccolgono e siedono su gradini o sedili fuori<br />
dell’uscio chiacchierando con linguaggio semplice e pacato.<br />
Alcune di loro ci hanno aperto con cordiale e grande disponibilità<br />
lo scrigno della memoria estraendo da esso perle<br />
del loro vissuto e dell’esperienza di mamme abituate a<br />
seguire credenze e usanze di molti secoli. Così hanno raccontato<br />
che era davvero una fortuna nascere il mercoledì,<br />
il sabato e la domenica e, soprattutto, in un venerdì di marzo<br />
perché non si può essere stregati, mentre venire alla luce<br />
nel giorno della luna, cioè il lunedì, faceva presagire un<br />
carattere lunatico. Il mese più propizio per chi si affacciava<br />
alla vita era gennaio perché iniziando l’anno apriva anche<br />
una vita piena di gioie e di prosperità “non per niente<br />
il nome Gennaio deriva da quello<br />
di Giano, dio degli inizi”. Giuseppina,<br />
una gentile signora<br />
di Copertino, ci ha raccontato<br />
che la gestante non doveva portare<br />
anelli o bracciali se non voleva<br />
un figlio affetto da malformazioni<br />
né appuntare forcine tra<br />
i capelli; se, poi, si fosse esposta<br />
al soffio del vento il povero piccolo<br />
sarebbe rimasto tutta la vita<br />
con la bocca aperta.<br />
Per quanto riguardava i pronostici<br />
sul sesso del nascituro,<br />
si usavano ancora altri stratagemmi<br />
oltre a quelli di cui<br />
abbiamo parlato: la donna<br />
incinta, fatti alcuni passi, doveva<br />
poi tornare indietro; se<br />
avesse deviato verso sinistra<br />
avrebbe dato alla luce un maschio; se<br />
“Capicarru” in ceramica fine ‘700 verso destra una femmi-<br />
20 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
USI E COSTUMI MERIDIONALI<br />
Un aggeggio indispensabile per le mamme di un tempo<br />
Lu capicarru<br />
Tratto dal libro “La nascita - Usi e riti in Campania e nel Salento”<br />
di Luisa Crescenzi e Tullia P. Coluzzi<br />
na. E femmina sarebbe nata pure se avesse provato dolore<br />
alle gambe: dolore de anca, sicura figghia ianca (dolore alla<br />
gamba, sicura figlia dalla carnagione chiara). La forma del<br />
ventre, poi, era di grande<br />
importanza per queste<br />
semplici forme di divinazione:<br />
entre cazzata, pigghia<br />
la spata, entre pizzuta<br />
pigghia la scupa (pancia<br />
schiacciata prende la spada,<br />
pancia pizzuta prende<br />
la scopa). E questo<br />
tipo di pronostici non veniva<br />
fatto solo per il nascituro,<br />
ma anche per<br />
colui che sarebbe venuto<br />
dopo di lui: un maschietto<br />
nato durante la fase<br />
della luna calante sareb-<br />
be stato seguito da un<br />
fratellino; se i suoi capelli<br />
fossero terminati a pun-<br />
Mamma con bimbo in fasce<br />
ta sulla nuca, da una sorellina.<br />
La campana, in un tempo in cui il campo della comunicazione<br />
era molto ristretto, aveva ruoli importanti per<br />
annunciare momenti lieti e spesso drammatici per la comunità.<br />
Così severi rintocchi, succedutisi a distanza di<br />
un minuto, chiedevano ai paesani di pregare per un parto<br />
doloroso e difficile; ma poi, se tutto si fosse risolto,<br />
suonavano festose con tre rintocchi per un maschietto,<br />
Foto tratta da internet
due soli per la femminuccia.<br />
Ci si aiutava, per sciogliere nodi e cacciare spiriti<br />
ostili, togliendo dal dito della partoriente la fede<br />
nuziale e ponendole accanto indumenti maschili<br />
che da tempi immemorabili si credevano provvisti<br />
di un’intensa e misteriosa valenza.<br />
Il bagnetto, fatto alternativamente con acqua<br />
fredda e tiepida, occupava la seconda fase della<br />
nascita; seguiva una fasciatura ben stretta per<br />
impedire danni alla colonna vertebrale secondo<br />
l’antico rituale: “Susu lu lettu se mintivene le rrobbe<br />
de lu vagnone, la fascia, lu brazzaturu, tre panni de<br />
vammace o de cottone, nu pannu de linu o de cannima,<br />
lu coprifasce, doi camasedde: una cu le maniche e l’otra<br />
senza, lu corpettu e la copuledda. A lu vagnone ca s’era<br />
llavatu se ’infilavano le camasedde se ‘nturtjiava ‘ntra<br />
panni e poi se ‘nfassava. All’urtimu se mintia lu coprifasce,<br />
la coppuledda e, o se corcava, o se mentia ntra lu<br />
stompu. Lu vagnone se tenia ‘nfasciatu pe’ tre misi<br />
se nascia d’estate, se era de ‘nvernu chiù de cinque.<br />
Dopu alla femminedda se mintia la vesticedda e allo<br />
masculieddu lu costumino. Se cusia tuttu a mano;<br />
la mescia sarta vania chiamata a casa pe’<br />
diversi giorni e cusìa le rrobbe pe’ tutta la famija.<br />
Li pedalini li facia a fierri la nonna e pe’ le<br />
scarpe se chiamava lu scarparu”. Infine, il<br />
piccolino, introdotto in un sacchetto di stoffa ricamato più<br />
o meno riccamente, era deposto, per permettere alla madre<br />
di dedicarsi ai suoi lavori, nel “capicarru”, sorta di contenitore<br />
imbottito e con poggiatesta usato anche in<br />
Campania.<br />
Per favorire la secrezione lattea le donne si strofinavano<br />
il seno con un fazzoletto prima accostato alla statua della<br />
Madonna dell’Abbondanza di Cursi o si recavano in processione<br />
al santuario della Madonna della Luce a Scorrano.<br />
La signora suddetta ci ha raccontato anche quali rimedi<br />
venivano adottati per guarire il piccolo colpito da fascinazione<br />
(fascinu): lei portò il suo bambino affetto da mal di testa<br />
da una guaritrice, certa Carminuzza. Costei diagnosticò<br />
convinta un sabatisciatu, cioè una fattura perpetrata di sabato.<br />
La poveretta dovette recarsi, fino alla<br />
guarigione del figlio, per tre sabati di seguito<br />
da majane diverse, per essere precisi, tre,<br />
numero magico. La signora Mimina di Novoli<br />
ricorda chiaramente una famosa guaritrice<br />
del paese, Lucia Mazzotto, una<br />
donna alta e imponente che amava vestirsi<br />
con un corsetto (sciuparieddji), un’ampia<br />
gonna nera e una cintura; ella interveniva<br />
sulle slogature dei bambini recitando una<br />
formula magica:<br />
Figliu santu,<br />
te fazzu la croce<br />
cu ll’acqua santa<br />
torna sanu e salvu.<br />
Per mali più leggeri ma fastidiosi, la<br />
mamma usava un “fai da te”: riempiendo<br />
un piccolo quadrato di tela con semi di bacca<br />
di papavero secco bolliti e stringendolo a<br />
“Capicarru” in legno - metà ‘800<br />
forma a succhiotto, lo propinava al piccino. Questa droga<br />
casereccia era chiamata lu babbàfaru.<br />
Quando poi la donna aveva le faccende da sbrigare,<br />
metteva il pupo al sicuro, all’interno del capicarru,<br />
una specie di contenitore, di cui si è parlato in<br />
precedenza, fatto di quattro o sei tavole di legno l’ultima<br />
delle quali era più alta e fornita di un poggiatesta<br />
imbottito per attutire i colpi dati<br />
dall’irrequieto e divertito bambino. Ma, poiché i<br />
neonati usano piangere spesso, veniva attaccato<br />
al bordo del capicarru “lu tetè”, giocattolo formato<br />
da un lungo bastoncino sulla cui sommità erano<br />
nastri colorati e due cerchi di carta velina racchiudenti<br />
pietruzze o ceci che roteando producevano un<br />
lieto rumore. Così per qualche minuto la vista e<br />
l’udito del piccolo annoiato venivano distratti.<br />
La signora Piera di San Pietro Vernotico ci descrive<br />
i magici e teneri momenti ludici che le mamme dedicavano<br />
ai figlioletti improvvisando giochi e<br />
recitando filastrocche senza senso mentre li tenevano<br />
in grembo e portavano le loro manine<br />
al viso:<br />
Cuncetta, Cuncetta<br />
lu tata vae a la fera<br />
la fera de li mintuni<br />
pisci, carni e maccaruni<br />
(Concetta, Concetta, / papà va alla fiera / la fiera dei montoni<br />
/ pesce, carne e maccheroni)<br />
oppure:<br />
Manni manni<br />
è sciutu lu Nanni<br />
ha ‘ccattato la cecce<br />
è sciuta la muscia<br />
se l’ha mangiata<br />
se l’ha pappata<br />
estì, estì de casa mia<br />
(Manni, manni / è uscito Nanni / ha comprato la carne /<br />
è uscita la gatta / se l’è mangiata / se l’è pappata / fuggi,<br />
fuggi da casa mia). •<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 21
Pittore e critico d’arte magliese<br />
La La metafisica nella pittura<br />
NICOLA CESARI<br />
di di NICOLA CESARI<br />
Nicola Cesari è venuto a mancare in modo improvviso<br />
nello scorso luglio. La scomparsa di persone<br />
che contano nella sfera del nostro vissuto lascia<br />
sempre un senso di vuoto, ma al tempo stesso esalta nel<br />
ricordo le varie impressioni e sollecitazioni che hanno costellato<br />
i momenti di contatto. Nasce anche il bisogno di<br />
ripensare giudizi e valutazioni già espressi (vedi il saggio<br />
apparso ne Il Filo di Aracne di febbraio 2010 con il titolo<br />
“Memini ergo sum: Percorsi<br />
della memoria<br />
nella pittura di Nicola<br />
Cesari”), al fine di individuare<br />
aspetti rilevanti<br />
che siano sfuggiti per<br />
le diverse circostanze<br />
di stesura e di pubblicazione.<br />
Abbiamo già evidenziato<br />
come l’espressione<br />
artistica di Cesari sia<br />
sempre da considerare<br />
come un tentativo di<br />
astrazione dal vissuto<br />
Figura 1<br />
di Giuseppe MAGNOLO<br />
mediante una sintesi<br />
estrema generata da<br />
uno stato concettuale o emotivo innestato sull’esperienza<br />
propria ed altrui, filtrato dalla memoria, e riattivato per associazione<br />
mentale con i contenuti rappresentati. Tratti peculiari<br />
collaterali sono stati individuati nella cura e<br />
l’eleganza formale espresse con esattezza geometrica allusivamente<br />
simbolica, nella tesorizzazione del mito dell’infanzia<br />
che consente di raggiungere uno stato di grazia<br />
visionaria, ed infine il tentativo di ricondurre uno stato<br />
emozionale a puro effetto cromatico mediante l’uso sapiente<br />
del colore.<br />
Dagli elementi definitori suddetti esula tuttavia un requisito<br />
importante al fine di pervenire ad una più comprensiva<br />
valutazione del modo in cui Cesari concepiva le<br />
diverse fasi della realizzazione artistica e le correlazioni tematiche<br />
che egli elaborava ed esprimeva sul piano figurativo.<br />
Tale aspetto attiene ad una componente di natura<br />
metafisica sicuramente presente in alcune opere (anche se<br />
in maniera non sempre palese e agevolmente decifrabile),<br />
22 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
ARTISTI SALENTINI<br />
su cui riteniamo utile svolgere alcune riflessioni.<br />
Riguardo al problema religioso Cesari non gradiva in genere<br />
dimostrarsi particolarmente coinvolto, preferendo invece<br />
ritenersi uno spirito libero, curioso e tollerante verso<br />
comportamenti e principi etici anche diversi dai propri,<br />
poco propenso ad accettare i vincoli imposti dall’adesione<br />
ad una qualunque forma di ortodossia. Egli considerava<br />
una prospettiva di tipo laico più consona sia al suo stile di<br />
vita che ai suoi orizzonti culturali, ritenendo che potesse<br />
lasciargli più ampi spazi di conoscenza, confronto e arricchimento.<br />
Inoltre il suo senso di ritrosia, proprio di chi conosce<br />
la complessità delle proprie pulsioni, lo induceva a<br />
non adagiare il suo bisogno di religiosità su una prospettiva<br />
acquiescente. E’ quindi naturale che la sua ricerca di<br />
spiritualità e trascendenza percorresse altri sentieri, quelli<br />
appunto attinenti all’ambito aristico-espressivo. Su questa<br />
linea di interpretazione possiamo meglio intendere alcuni<br />
elementi apparentemente marginali presenti in molte sue<br />
opere, ma certamente non irrilevanti o dovuti al caso.<br />
Procedendo per categorie di riferimento, si possono rinvenire<br />
varie evidenze a sostegno della tesi proposta, traendo<br />
spunto da alcune opere che appartengono ad una fase<br />
relativamente recente della sua vastissima produzione.<br />
Possiamo innanzitutto individuare<br />
un richiamo simbolico<br />
di carattere architettonico<br />
nelle forme iconiche<br />
che spesso nei suoi dipinti<br />
racchiudono i soggetti rappresentati.<br />
Si tratta ad esempio<br />
di archi acuti che possono<br />
suggerire la sommità di<br />
una cupola (vedi figura 1), e<br />
quindi evocare la sacralità di<br />
un tempio, oppure forme ad<br />
ogiva (semplici, doppie, e anche<br />
triple) assimilabili al profilo<br />
di finestre presenti nelle<br />
cattedrali in stile gotico, attraverso<br />
cui possiamo coglie-<br />
Figura 2<br />
re la suggestione di accesso ad un luogo arcano o che<br />
rinvia ad una condizione interna di reclusione indotta dal<br />
trasporto mistico (vedi figura 2).
In altre opere è possibile trovare diversi riferimenti di tipo<br />
architettonico, come ad esempio una sezione della volta<br />
di una cattedrale nella zona in cui il transetto<br />
interseca la navata centrale, oppure un “effetto<br />
campanile” generato dallo sciame<br />
luminescente prodotto dal riflesso<br />
lunare su una superficie riflettente,<br />
che poi si innalza nella volta celeste<br />
assottigliandosi quasi come la guglia<br />
svettante di una struttura architettonica<br />
esile e slanciata.<br />
In una ipotesi interpretativa di tipo<br />
metafisico, è opportuno anche riconsiderare<br />
la funzione di alcune<br />
forme di carattere geometrico, in<br />
particolare la raffigurazione di una<br />
sfera, generalmente disposta in posizione<br />
piuttosto centralizzata rispetto all’articolazione complessiva<br />
della composizione. Di primo impulso questo elemento<br />
potrebbe ritenersi semplicemente riferibile alla visione<br />
orfico-pitagorica di figura geometrica che rappresenta la<br />
perfezione mediante l’isometria della distanza tra il centro<br />
e qualsiasi punto della circonferenza, mentre il movimento<br />
circolare lungo la stessa raffigura la visione<br />
deterministica dell’eterno ritorno, in cui ogni punto rappresentacontemporaneamente<br />
sia l’inizio che la fine.<br />
Ma Cesari non si ferma a<br />
questa concezione pagana o<br />
puramente laica, e crea ulteriori<br />
implicazioni. Come<br />
possiamo vedere nella figura<br />
3, egli non solo replica su ciascun<br />
lato l’immagine della<br />
sfera (l’idea della Trinità Divina),<br />
ma sovrappone ad essa<br />
le bianche ali di una<br />
colomba (simbolo dello Spirito<br />
Santo), caricando l’opera<br />
di valenza superiore connaturata<br />
al senso del divino.<br />
Figura 4<br />
Vi è poi un elemento di ulteriore<br />
rinvio all’idea di sa-<br />
cralità inerente al modo di intendere la fruizione dell’opera<br />
d’arte. Si può infatti notare che alcuni particolari dipinti di<br />
Cesari sono realizzati su legno con una tecnica che richiama<br />
una pala d’altare, elemento già sufficiente ad evocare<br />
la prospettiva religiosa suindicata. Ma ancor di più questo<br />
aspetto viene accentuato dal gesto quasi rituale richiesto<br />
per poter osservare l’opera, quando questa arriva ad assumere<br />
la forma di un polittico, come appunto avviene nel<br />
dipinto considerato. Inizialmente questo non si presenta<br />
visibile, perché celato dalle tavole laterali incernierate e richiuse<br />
a mo’ di ante. Occorre quindi che l’artista stesso, o<br />
qualcuno al suo posto, compia il gesto arcano di aprire le<br />
imposte di questa finestra per svelare l’immagine che essa<br />
nasconde. Necessariamente tanto l’esibizione quanto l’osservazione<br />
del dipinto avverrà con la stessa rituale solennità<br />
con cui un ministro di culto apre il piccolo uscio di un<br />
Figura 3<br />
tabernacolo per esibire il calice con la preziosa reliquia ivi<br />
contenuta. Risulta quindi chiaro che l’artista ha intenzionalmente<br />
cercato un effetto che attribuisce un significato<br />
esoterico non solo al proprio gesto che<br />
permette la realizzazione di una<br />
sorta di rituale di iniziazione o professione<br />
di fede, ma soprattutto a<br />
ciò che attraverso il dipinto si offre<br />
alla visione dell’osservatore.<br />
Per altro verso possiamo trarre indicazioni<br />
che rinviano al senso del<br />
divino mediante alcuni dipinti che<br />
raffigurano degli oggetti-simbolo.<br />
Una di tali immagini è riportata nel-<br />
la figura n. 4, che può apparire come<br />
una semplice litografia, ossia dei segni<br />
grafici prodotti su una lastra di pietra, ma potrebbe<br />
anche alludere alla sacralità di quanto è in essa riportato,<br />
alla stessa maniera in cui vanno considerate le<br />
“Tavole della Legge” incise col fuoco sulla pietra, che Mosè<br />
ricevette sul Monte Sinai come canone su cui si fonda il<br />
corretto agire umano.<br />
Un’altra significativa immagine-documento si può osservare<br />
in una pitto-scultura (riportata in figura 5), che presenta<br />
longitudinalmente una traccia luminosa di un certo<br />
spessore contro uno sfondo scuro. L’ipotesi più immediata<br />
è che essa raffiguri un libro chiuso osservato dal lato opposto<br />
al dorso, che non reca titolo o autore, e che è pronto<br />
per essere sfogliato da chi intendesse consultarlo ed interpretarlo.<br />
Ma perché non pensare attraverso questa immagine<br />
al “libro dei libri”, il più arcano ed importante che sia<br />
mai stato scritto, quello ispirato direttamente da Dio, su cui<br />
si può leggere quel che è stato e quello che sarà, il destino<br />
di ogni uomo, dell’universo, di Cristo stesso?<br />
Passando invece a considerare la tecnica figurativa incentrata<br />
sul colore e gli effetti<br />
cromatici con esso<br />
ottenibili, possiamo trovare<br />
altri riferimenti di<br />
natura biblica, come nel<br />
dipinto della figura 6, in<br />
cui sembra che l’artista<br />
abbia voluto raffigurare<br />
l’alba della creazione (Genesi,<br />
1:2), allorché la materia<br />
era ancora informe e la<br />
luce era indistinguibile<br />
dalle tenebre.<br />
Oppure per contrasto<br />
possiamo vedere in figura<br />
7 una resa cromatica<br />
successiva all’atto della<br />
creazione, in cui la luce e<br />
tutti gli elementi naturali<br />
Figura 5<br />
manifestano il conseguimento<br />
di una giusta collo-<br />
cazione in un ordine universale perfetto, l’espressione di<br />
una visione teleologica dell’autore, che produce un effetto<br />
di tripudio luminoso attraverso un fitto ammiccamento di<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 23
colori, e rinvia ad una concezione panica della realtà, in<br />
cui un senso di divina armonia sembra penetrare ogni<br />
singolo filo d’erba con effetti cromatici insieme esplosivi<br />
e rasserenanti.<br />
L’ipotesi interpretativa che abbiamo illustrato intende<br />
affiancarsi ad altri criteri di lettura senza pretendere<br />
di superarli o ridimensionarli, cercando di accrescere<br />
l’ampiezza e profondità di percezione e comprensione<br />
dell’opera d’arte. Lo scopo precipuo di qualunque studioso<br />
che analizza l’espressione artistica di un autore<br />
non può che consistere nel tentativo di contribuire ad<br />
agevolarne la comprensione, suggerendo con chiarezza<br />
i diversi livelli di interpretazione che ritiene possibili,<br />
e considerandoli come fondamento per ulteriori<br />
sviluppi. Questo si rende tanto più necessario con riferimento<br />
alla vasta produzione artistica di Cesari, spesso<br />
contraddistinta da elementi innovativi sia sul piano<br />
tematico che nella tecnica esecutiva.<br />
Riteniamo comunque che si possa convenire sulla validità<br />
assoluta del “principio di inclusività”, nel senso di<br />
non escludere a priori un qualsiasi criterio interpretativo<br />
Figura 7<br />
unicamente per ragioni di tipo preferenziale o meramente<br />
soggettivo. La plausibilità di una linea di interpretazione<br />
anche in chiave metafisica ci viene offerta dallo stesso autore,<br />
che nell’esporre i canoni fondamentali del suo modo<br />
di intendere l’espressione artistica ha più volte evidenziato<br />
la convinzione che non possono esistere percezioni ed<br />
interpretazioni univoche di un’opera d’arte, in quanto qualunque<br />
osservatore recepisce il prodotto artistico vedendolo<br />
con occhi diversi a seconda degli elementi che egli riesce<br />
ad attivare nell’atto di percezione. Tale diversità di requisiti<br />
è riferita non solo a quelli senso-percettivi, ma anche e<br />
soprattutto a quelli di ordine concettuale, legati al grado individuale<br />
di conoscenza, informazione, capacità di associazione<br />
attraverso la memoria, e via dicendo. Cesari affermava<br />
infatti: ”Ciascun individuo vede lo stesso soggetto<br />
in modo diverso, e la sua capacità di percezione ed interpretazione<br />
è basata prevalentemente su quello che ricorda”.<br />
Nel sottolineare ancora una volta la funzione essenziale<br />
della memoria nella comprensione dell’opera d’arte, egli<br />
postulava anche una conseguente differenziazione circa i<br />
significati molteplici che essa può contenere e trasmettere.<br />
Vi è infine una ulteriore riflessione che nella fattispecie ci<br />
sembra possa concedere spazio all’attribuzione di una capacità<br />
di visione mistico-religiosa in un’ottica individuale<br />
ma con effetti a volte<br />
diffusivi e condivisibili.<br />
Al fine di sostanziare<br />
tale convinzione<br />
trarremo spunto dalla<br />
massima di Terenzio<br />
“homo sum: nihil humani<br />
a me alienum puto”:<br />
sono un uomo, quindi<br />
tutto ciò che è umano<br />
mi appartiene. E’ ovvio<br />
che ciascun individuo<br />
impersona una concezione<br />
di humanitas con<br />
modalità diverse, e<br />
quella di Cesari rivelava<br />
insieme grande desiderio<br />
di conoscenza e<br />
Figura 6<br />
afflato partecipativo,<br />
poi ricomposti in esiti di lucida sintesi in cui è sicuramente<br />
possibile cogliere un anelito di spiritualità, espresso oppure<br />
sottinteso. E dunque non avrebbe davvero senso limitare<br />
la ricchezza di suggestioni, idee ed emozioni, che con<br />
tanta dedizione la sua ricerca artistica ha saputo offrirci.<br />
Le sue opere ci consegnano un’eredità preziosa che possiamo<br />
riscoprire, a condizione di considerarle non nell’ottica<br />
fugace della contingenza, ma in quella più pacata e<br />
ponderata del tempo assoluto. •<br />
Giuseppe Magnolo<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 25
Addio al grande critico d’arte, amico del Salento<br />
RAFFAELE DE GRADA<br />
Ex-partigiano, direttore di riviste d’arte e di letteratura, come “Il ‘45” e “Realismo”,<br />
ha insegnato all’Accademia di Brera e diretto l’Accademia e la Pinacoteca di Ravenna<br />
Raffaelino De Grada, studioso e critico d’arte tra i più<br />
rinomati in Italia e all’estero, è morto a Milano l’1<br />
ottobre 2010. L’ultima volta che l’ho incontrato è stato<br />
nel 2008. Era autunno, questo lo ricordo<br />
benissimo.<br />
Quella volta, a De Grada, il sindaco di Milano,<br />
Letizia Moratti, gli conferì la Grande<br />
Medaglia d’Oro con la seguente motivazione:<br />
«Ha legato il suo nome a Milano tanto nel<br />
campo della ricerca artistica quanto in quello<br />
della passione civile. Attivo come saggista<br />
dagli anni Trenta, ha fondato nella nostra città<br />
la rivista “Corrente”. Arrestato nel 1938<br />
per la sua attività antifascista, è stato la prima<br />
voce di Radio Milano dopo la Liberazione.<br />
Consigliere comunale, deputato e consigliere<br />
di illustri Enti culturali milanesi, dal Teatro<br />
alla Scala al Museo “Poldi Pezzoli”, ha saputo<br />
coniugare la passione per l’arte con quella<br />
per la città. Dal 1965 è stato docente di Storia<br />
dell’arte all’Accademia di Brera, con un impegno ventennale<br />
di Maestro e di ricercatore. Ancora oggi, nella collaborazione<br />
con il “Corriere della Sera” e con i maggiori editori<br />
d’arte, contribuisce alla comprensione e alla lettura della<br />
tradizione artistica italiana dell’età moderna».<br />
Quel giorno, anch’io fui molto felice nel vedere sorridere<br />
di gioia l’amico e il compagno di sempre, anche se poi,<br />
all’incrociarsi dei nostri sguardi, la tristezza ci piombò addosso<br />
come una ghigliottina. Raffaele, magrissimo come<br />
non mai, era ridotto su una sedia a rotelle, trasportato dalla<br />
moglie Maria Luisa, che non lo abbandonò un solo istante.<br />
Quella tristezza, in quello sguardo intenso tra di noi,<br />
stava per dire che adesso, per Raffaele, era proprio iniziato<br />
un nuovo percorso di vita, l’ultimo che, inevitabilmente,<br />
l’avrebbe portato alla fine, giunta inesorabile l’1 ottobre.<br />
Appena un anno prima, Raffaele era stato colpito da un ictus<br />
cerebrale che lo aveva spiantato e ridotto nello stato in<br />
cui lo vidi l’ultima volta. Il nostro sguardo si smorzò in<br />
delle carezze affettuose: lui che accarezzava la mia testa<br />
con quella sua mano ormai quasi del tutto anchilosata, ed<br />
io che lo salutavo con quel tremendo nodo alla gola, perché<br />
sapevo che non l’avrei rivisto più. Erano state tante,<br />
veramente tante, le stagioni passate insieme in molte città<br />
italiane, e poi anche a Lecce, a Gallipoli, le mie città, nelle<br />
quali Raffaele veniva al seguito di suoi parenti. Sono state<br />
settimane indimenticabili, al mare, tra gli ulivi del Salento,<br />
tra monumenti megalitici antichi e moderni, nei musei e<br />
26 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
CRITICI D’ARTE<br />
di Maurizio Nocera<br />
Raffaele De Grada<br />
nelle gallerie, dove amava recarsi, per finire poi il lungo<br />
girovagare in una cena tipica in una delle tante osterie del<br />
posto.<br />
Il giornalista Armando Besio, nel suo articolo<br />
“Addio a Raffaele De Grada, critico, storico<br />
e partigiano, su «la Repubblica» (sabato<br />
2 ottobre 2010), nel dare la notizia, lo ha ricordato<br />
così: «Se n’è andato ieri, a 94 anni, Raffaelino<br />
De Grada, “critico d’arte militante” (ci<br />
teneva a sottolineare la sua distanza dai “critici<br />
critici”), intellettuale antifascista, politico, insegnante,<br />
scrittore, animatore culturale della Milano<br />
del dopoguerra. Amato per la sua schietta<br />
umanità, oltre che stimato per la sua vivace intelligenza».<br />
Personalmente, avevo conosciuto Raffaele<br />
De Grada alla fine degli anni ‘60 rimanendone<br />
amico sempre. È stato importante per me<br />
stargli accanto tutte le volte che veniva in Salento,<br />
terra che amava molto e che, avendo<br />
qui dei parenti, frequentava soprattutto per il mare di Gallipoli,<br />
ma anche per le bellezze artistiche e naturali presente<br />
sull’intero territorio salentino. Non dimentico quella<br />
volta che volle essere accompagnato a Galatina. Gli piaceva<br />
ascoltare i racconti dei galatinesi, ma anche vedere direttamente<br />
i luoghi del fenomeno della sofferenza, tra cui<br />
la cappella che passa sotto il titolo di san Paolo, costruita<br />
nel ‘700 nel contesto della casa dei signori Monti, oggi proprietà<br />
dei signori Marra (Vittorio e consorte).<br />
Una volta gli presentai don Pippi Tundo, parroco e<br />
Mons. della Collegiata, che gli raccontò i motivi e il significato<br />
della presenza dello stemma (la civetta) della città<br />
nel contesto iconografico del tempio dedicato ai SS. Pietro<br />
e Paolo. De Grada rimase affascinato dal racconto dell’anziano<br />
prete, soprattutto quando il sacerdote comparò il<br />
simbolo eccellente della città salentina al simbolo millenario<br />
della municipalità di Atene. E ancora più affascinato rimase<br />
quando si trovò davanti a quel gioiello di affreschi<br />
che è santa Caterina d’Alessandria. Per lungo tempo rimase<br />
ad ammirare le pitture, le studiò annotando di appunto<br />
il suo diario. Piacevolmente sorpreso rimase pure quando<br />
uscendo dalla chiesa notò la targa marmorea con su scritto<br />
che Gioacchino Toma, uno dei grandi pittori dell’Ottocento<br />
napoletano, era nato lì. Volle conoscere pure la casa<br />
natale di Pietro Cavoti e quella di Pietro Siciliani, la cui biblioteca,<br />
ubicata nell’attuale Palazzo della cultura, lo affascinò<br />
enormemente.
L’ultima volta che Raffaele De Grada visitò il Salento è<br />
stato nel 2006, quando aveva compiuto già 90 anni e fu per<br />
me sorprendente vederlo interessato a volte anche a piccoli<br />
particolari di scarso valore; ma poi mi spiegava il motivo<br />
della sua attenzione e mi faceva capire la profondità<br />
della sua cultura. Il rapporto di Raffaele De Grada col Salento<br />
è stato continuo nel tempo, ed egli è venuto qui sempre<br />
con viva partecipazione. Si conosce la sua sterminata<br />
bibliografia degli scritti, ma ce ne sono due (autobiografici)<br />
che mostrano quanto grande<br />
sia stato il suo apporto alla cultura<br />
italiana in circa settanta anni<br />
di vivo operare. Il primo libro<br />
autobiografico è “La grande stagione”,<br />
che è il racconto di quattro<br />
generazioni di una famiglia<br />
italiana, che inizia col bisnonno<br />
Raffaele, un rivoluzionario del<br />
gruppo Cattaneo, incarcerato<br />
dagli austriaci dopo il 1849, prosegue<br />
col nonno Antonio, emigrato<br />
in Svizzera dopo i fatti milanesi del 1898, e prosegue<br />
col padre Raffaele, ritornato da Zurigo per la guerra del<br />
1915-18, concludendosi infine con l’esperienza di Raffaelino<br />
[lo stesso nome del padre, voluto dalla madre Maddalena<br />
(Magda) Ceccarelli, fine e dotta poetessa che, per<br />
distinguerlo dal marito, vi aggiunse il diminutivo], critico<br />
d’arte e partigiano. Si tratta di un secolo di storia, all’interno<br />
del quale De Grada affronta i lunghi anni della dittatura<br />
fascista combattendola sin da giovanissimo, impegnato<br />
Milano - Pinacoteca di Brera<br />
nell’attività di alcune prestigiose riviste, fra cui «Solaria».<br />
L’altro libro è “Panta Rei. Politica, società e cultura. Lo<br />
scenario italiano dal 1945 a oggi”. Si tratta della continuazione<br />
della storia del libro precedente, il cui titolo, “Panta<br />
Rei”, è la famosa massima di Eraclito, che significa “Tutto<br />
scorre”, cioè che la vita comunque va avanti. Raffaele De<br />
Grada affronta qui, chiarendole, molte delle vicende che<br />
vanno dal secondo dopoguerra all’inizio del XXI secolo.<br />
Rievoca l’esperienza della rivista «Il ‘45» e l’inizio dell’esperienza<br />
del movimento realista,<br />
coinvolgendo artisti e intellettuali<br />
come Renato Guttuso,<br />
Ernesto Treccani, Cesare Zavattini,<br />
Vittorio De Sica, Giorgio<br />
Amendola, Giulio Carlo Argan,<br />
Giorgio De Chirico, Giulio Einaudi,<br />
Giangiacomo Feltrinelli,<br />
Alberto Moravia, Umberto Saba<br />
e altri ancora. Subito dopo la fine<br />
della guerra, divenne segretario<br />
italiano del Movimento<br />
Mondiale dei Partigiani della Pace, movimento che gli permise<br />
di conoscere e stringere amicizia con alcuni tra i più<br />
grandi intellettuali del mondo, fra cui i filosofi Merleau-<br />
Ponty, Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, gli scienziati<br />
Jean Frédéric Joliot e sua suocera Marie Curie, il pittore<br />
Pablo Picasso, i poeti Pablo Neruda e Salvatore Quasimodo,<br />
gli scrittori Primo Levi, Natalia Ginzburg e Ilya Ehrenburg,<br />
molti altri ancora, tra cui interessante fu il suo<br />
rapporto con Carlo Levi. •<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 27
I racconti della Vadea<br />
Il sig. Cheròndula aveva appena chiuso il telefono e, visibilmente<br />
soddisfatto, abbandonava la scena, mentre<br />
una risata generale e un fragoroso battimani lo accompagnavano<br />
in segno di appagato compiacimento.<br />
Lui, però, incurante, serio e impettito, quasi indifferente,<br />
schivo come un attore esperto, reduce da tante battaglie<br />
affrontate su immaginari palcoscenici incantati, imboccava<br />
Via Orfanotrofio.<br />
Questa stradina, breve e sottile comu nu vermecòculu, annaspa<br />
a doppia ansa,<br />
schiacciata dall’imponenza<br />
del palazzo signorile<br />
dei “Vallone“ e dall’arroganza<br />
del palazzo<br />
Stasi, i quali con malcelata<br />
prepotenza sembrano<br />
toglierle il respiro.<br />
Poi, dopo pochi passi,<br />
quasi schizzando via con<br />
un balzo liberatorio, si<br />
dissolve su Piazzetta Arcudi.<br />
Qui, lu Piethruzzu, oltrepassata<br />
la putia de lu<br />
Scjancatu, si fermava un<br />
attimo a bere un sorso<br />
d’acqua da una antica<br />
fontanina pubblica, che<br />
non sempre riusciva, come nemmeno oggi, ad assolvere il<br />
suo istituzionale compito… dissetante, per l’incivile offesa<br />
de li cuastasi (ragazzacci di strada) e per la scarsa manutenzione<br />
pubblica.<br />
Subito dopo, in tutta fretta, si incamminava lungo Via Vignola<br />
per scendere giù, verso Chiazza Vecchia (Piazza Vecchia).<br />
E, mentre incedeva con passo svelto e sostenuto, sembrava<br />
avere l’aria austera e solenne di un personaggio greco,<br />
per caso scivolato giù da una tragedia di Sofocle.<br />
Forse è successo per la disattenzione di una antica Antologia<br />
di classici greci, che da sempre aveva custodito le sue<br />
opere gelosamente.<br />
Ma non questa volta, perché era stata lasciata per un attimo<br />
con negligenza aperta sulla panchina cosparsa di foglie,<br />
in un giardino silenzioso e assolato.<br />
E certo quella imprudenza ha esposto involontariamen-<br />
28 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
SUL FILO DELLA MEMORIA<br />
La quindicina<br />
di Pippi Onesimo<br />
Galatina - Piazza Vecchia<br />
te una di queste opere alla curiosità del vento.<br />
Questo, soffiando per gioco o per dispetto, in un andirivieni<br />
divertito e quanto mai confuso e irreale di mulinelli,<br />
ha sfogliato il libro, sollevando a tratti la copertina e rigonfiandole<br />
con spudorata irriverenza la custodia di carta<br />
oleata che la proteggeva.<br />
Poi la ribaltava e la richiudeva con ritmi imprevedibili<br />
e capricciosi .<br />
Così il vento si divertiva, trascorrendo il suo tempo,<br />
mentre il sole filtrava, attraverso<br />
le foglie di un<br />
antico salice, con sottili,<br />
tremuli coni di luce polverosa<br />
obliquamente infissi<br />
nel soffice prato<br />
delle aiuole sottostanti.<br />
Di tanto in tanto, con<br />
soffi improvvisi e intermittenti,<br />
smuoveva le foglie<br />
giallo oro appena<br />
cadute e frusciava fra le<br />
pagine ingiallite del libro,<br />
mentre scorreva le<br />
sue righe con indiscreta<br />
ma delicata circospezione.<br />
E ciò, fino a quando il<br />
sole non si adagiava, sbadigliando<br />
stanco e scapigliato, dietro un muro di cinta, dopo<br />
aver abbozzato col suo faccione largo e rubicondo un<br />
fugace sorriso, quando era ancora seminascosto dietro<br />
l’antico, imponente, irsuto campanile del paese.<br />
Salutava anche, con cortese e gentile discrezione, le ultime<br />
rondini, che garrivano, roteando con ampie, fantasiose,<br />
veloci evoluzioni, o con placidi, piccoli cerchi asimmetrici,<br />
che sembravano sfiorare, planando, i rossicci tetti<br />
a embrice di vecchie case, che, timorose e spaventate, si<br />
stringevano attorno, come arroccate e raccolte in un antico<br />
e assonnato presepe.<br />
Forse questi eccellenti, infaticabili, puntuali migratori inseguivano,<br />
come sempre, i loro sogni, capricciosamente<br />
fluttuando nel cielo azzurro appena appena cangiante nel<br />
grigio, per l’avanzare del tramonto, che pian piano cominciava<br />
a velare la campagna circostante.<br />
Intanto, come a un segnale convenuto, si davano appun-
tamento, radunandosi a ranghi compatti sui fili d’alta tensione<br />
e formando, da palo a palo, una lunga catena, a più<br />
strati, di puntini neri stretti stretti, quasi collegati come in<br />
una immensa collana.<br />
Era già settembre e le rondini si preparavano a levarsi in<br />
volo per far ritorno a casa; prima,<br />
però, garrivano per qualche<br />
istante, quasi volessero<br />
scrivere nel cielo un cordiale<br />
ringraziamento per l’ospitalità<br />
ricevuta e un rumoroso, vivace<br />
arrivederci alla prossima primavera.<br />
Subito dopo, finalmente, avevano<br />
via libera le ombre della<br />
sera, che, sempre con una irriverenza<br />
pettegola e una sospettosa<br />
curiosità, invadevano in<br />
tutta fretta la scena, accasandosi<br />
senza perdere un attimo di<br />
tempo, perché fin troppo affaticate dopo tanto girovagare.<br />
E mentre il vento si acquietava, tutt’intorno rimaneva solo<br />
il rumore impercettibile, rispettoso e solenne, ma delicatamente<br />
discreto, del silenzio della notte .<br />
A qualcuno che gli chiedeva perché aveva tanta fretta di<br />
raggiungere Chiazza Vecchia, il sig. Cheròndula rispondeva<br />
sorpreso e meravigliato: “comu?... nu’ lu sai, ca osce cade ‘u<br />
giurnu de la quindicina de la Rusetta? ”(Come ?… non lo sai<br />
che oggi arrivano da Rusetta le nuove signorine, per il cambio<br />
quindicinale?).<br />
Poi, con un sorriso ammiccante e malizioso, appena abbozzato,<br />
continuò a scendere per Via Vignola.<br />
Chicco non fece caso, più di tanto, a quel discorso, anche<br />
perché non ne afferrava il senso.<br />
Solo qualche anno più tardi, amici più anziani, più esperti<br />
e più navigati gli spiegarono il significato di quel rituale.<br />
Gli riferivano che il cambio arrivava preciso, regolare e<br />
puntuale, come i trionfali, imbandierati e vanitosi treni del<br />
Ventennio, ogni quindici giorni e si svolgeva fra i complimenti<br />
e gli ammiccamenti a volte gentili, a volte volgari,<br />
ma… in verità interessati dei passanti, qualcuno dei quali<br />
potenziale, se non sicuro, cliente.<br />
Le Signorine, alcune in gruppo, altre in fila, comunque in<br />
ordine sparso, tutte imbellettate e incipriate spargevano<br />
dietro di loro una ubriacante, avviluppante e sbarazzina<br />
carrara (scia) di profumo e di curiosità.<br />
Si radunavano in Piazza San Pietro, fra il portone d’ingresso<br />
del Castello e il bar Sammartino, dove erano giunte<br />
con automobili di servizio, messe a disposizione dall’Organizzazione.<br />
Camminavano a piedi con studiato, lento e cadenzato<br />
portamento, ancheggiando sulle chianche con impercettibili<br />
movimenti ondulatori del bacino, accentuati con capricciosa<br />
eleganza e ricercata movenza .<br />
Ottenevano questo effetto morbido e vellutato, quasi<br />
provocatoriamente signorile, con ostentata vanità, ma senza<br />
scadere mai nella volgarità o nella sguaiata e grossolana<br />
sciattezza .<br />
Le gambe erano la loro arma migliore, la loro punta di<br />
Galatina - Via Orfanotrofio<br />
diamante, il loro manifesto pubblicitario, specie se avvolte in<br />
calze a rete sottili e quasi invisibili, …se non fosse per una<br />
cucitura nera che verticalmente attraversava il polpaccio<br />
ben modellato, esaltandone le fattezze.<br />
Ma l’effetto scenografico diventava speciale, quando incedevano<br />
con alti e pericolosi tacchi<br />
a spillo, che solo la loro<br />
navigata e sperimentata esperienza<br />
riusciva a tenere sempre<br />
diritti, senza mai deragliare di<br />
un millimetro.<br />
Vestivano vistosi, policromi e<br />
attillati tailleurs in parte sbottonati<br />
con sbarazzina, contenuta<br />
civetteria.<br />
Evidenziavano così candide<br />
camiciette con i colletti arricciati,<br />
come se fossero festose ghirlande<br />
di fiori posate sui loro<br />
colli diafani e vellutati.<br />
Queste erano poco trasparenti, se non quel tanto per renderle<br />
con studiata malizia appariscenti.<br />
Le scollature erano meno provocanti, appena appena<br />
ammiccanti, mai volgari, offensive, o irriverenti.<br />
La pubblicità era anche allora, come oggi e come sempre,<br />
l’anima del commercio.<br />
E quella vera, che alimenta la concorrenza, se condotta<br />
con lealtà, trasparenza e rispetto delle regole, è la sola capace<br />
di esaltare il confronto e la libertà di scelta. •<br />
novembre/dicembre 2010 Il filo di Aracne 29
Una splendida realtà cittadina<br />
CENTRO POLIVALENTE<br />
“RITROVIAMOCI”<br />
L’associazione galatinese, guidata brillantemente da Cesare Sabella da oltre un decennio,<br />
organizza annualmente un fitto programma di attività sociali e culturali<br />
Ègiusto dare ampio risalto e riconoscimento a quest’associazione,<br />
che si muove tra tanto entusiasmo e<br />
impegno nell’ambito dell’associazionismo galatinese.<br />
L’importante successo va attribuito al presidente Cesare<br />
Sabella, titolare della Concessionaria Renault nella<br />
nostra città, il quale, nonostante i numerosi impegni derivanti<br />
dalla sua attività commerciale, riesce a guidare in<br />
modo eccellente e scrupoloso l’associazione e a coinvolgere<br />
ogni socio nell’organizzazione e realizzazione dell’articolato<br />
programma annuale.<br />
Va comunque detto che il primo ideatore del Centro Polivalente<br />
“Ritroviamoci” è stato il sig. Luigi Balena, carrozziere,<br />
che, nel 1999, avvertì la necessità di creare un<br />
sodalizio per fare volontariato e spendersi a favore delle<br />
persone anziane. Ne parlò con Cesare Sabella e in pochi<br />
30 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2010<br />
ASSOCIAZIONI & ENTI<br />
di Mauro De Sica<br />
giorni i due, aiutati da altri amici, organizzarono la “Festa<br />
del Veterano”, gettando in tal modo le prime basi dell’attuale<br />
associazione.<br />
La simpatica serata si svolse al piano terra dell’Istituto<br />
Immacolata (IPAB), il 24 ottobre 1999, alla presenza di un<br />
folto e compiaciuto pubblico. Dopo il brillante successo, il<br />
gruppo di amici chiese all’allora presidente dell’Istituto,<br />
sig. Alberto Garrisi, l’autorizzazione a usufruire di quei locali<br />
per svolgere le attività sociali della costituenda associazione.<br />
Il presidente, purtroppo, non accettò la richiesta,<br />
motivando il rifiuto con generiche scuse. Buon per loro<br />
che, a distanza di poco tempo, fu nominato a presidente<br />
dell’IPAB galatinese il sig. Antonello Palumbo, che fu ben<br />
lieto di accogliere la nuova associazione. Alla buona riuscita<br />
dell’importante iniziativa, Mons. Fedele Lazari svolse<br />
un ruolo decisivo.<br />
Da quel fatidico giorno a tutt’oggi sono trascorsi dieci<br />
anni, durante il corso dei quali sono state realizzate numerose<br />
e qualificanti iniziative.<br />
Delle tante attività annuali sinora organizzate, non possono<br />
essere sottaciute le più importanti:<br />
1) “Festival dell’Anziano”, che rappresenta il fiore all’occhiello<br />
dell’Associazione;<br />
2) “Natale sotto l’albero”, un’iniziativa molto sentita tra<br />
i soci;<br />
3) “Mascherissima”, che in sostanza ha sostituito il “Veglioncino<br />
dei Bambini” d’un tempo;<br />
4) “Corso di Ballo” e le relative “Gare di Ballo” tra soci;<br />
5) “Giochiamo insieme” a “Bingo”, “Mercante in Fiera”,<br />
“Tombolata” e altri (tutti i martedì);<br />
6) “Gite sociali” nel Salento;<br />
7) “Cene sociali”, numerose durante tutto l’anno;<br />
8) “Scampagnate in allegria”, il 25 aprile e il lunedì in Albis<br />
di ogni anno;<br />
9) “Giochi d’altri tempi”, come “Lu curuddhru”, “A<br />
spaccachianche”, “Uno monta la luna” ed altri;<br />
I soci attualmente iscritti all’associazione “Ritroviamoci”<br />
sono 140. Un buon numero, che va di anno in anno<br />
incrementandosi, grazie all’opera meticolosa del Consiglio<br />
Direttivo e, soprattutto, del presidente Sabella, che<br />
- lasciatemelo dire - sottrae un’enormità di tempo al proprio<br />
lavoro e alla propria famiglia per far crescere bene<br />
la grande “Famiglia degli Anziani”, che, nonostante i<br />
tempi attuali sempre più incerti e preoccupanti, ha estremo<br />
bisogno di attenzione, di conforto, di vicinanza e di<br />
tanto… amore. •
L’azienda “Pietro De Pascalis s.r.l.”, situata nella zona<br />
industriale di Galatina a pochi chilometri da Lecce,<br />
con la sua cava che si estende su oltre 70 ettari, opera<br />
sia nel settore pubblico che in quello privato: in particolare,<br />
nella produzione dei calcestruzzi e dei<br />
conglomerati bituminosi e nella realizzazione di reti<br />
idriche e fognanti, di metanodotti, di opere stradali.<br />
Il fondatore, Pietro De Pascalis, ha iniziato la propria<br />
attività nel lontano 1960 con l’estrazione della “Dolomia”<br />
di Galatina, una pietra che oggi viene impiegata<br />
ampiamente per il restauro dei centri storici.<br />
L’azienda ha sempre rivolto particolare attenzione agli<br />
standard qualitativi infatti è stata fra le prime, nel settore<br />
edile, estrattivo e nella produzione di calcestruzzi<br />
preconfezionati, ad aver conseguito la certificazione<br />
di qualità ISO 9002 già nel 2000.<br />
Tale politica aziendale si è ulteriormente enfatizzata<br />
con l’avvento delle nuove ISO 9001:2000, per completarsi<br />
con il marchio CE degli aggregati destinati a<br />
conglomerati cementizi e bituminosi, e con la certificazione<br />
degli impianti di produzione dei calcestruzzi<br />
conformemente al D.M. 14/09/2005.<br />
Nel 2009 la Pietro De Pascalis s.r.l. ha attivato la ex<br />
“Poliresine”, una fabbrica di tubi e raccordi in PVC,<br />
polipropilene e polietilene, ripristinando una importante<br />
realtà produttiva del territorio salentino.<br />
Una spettacolare panoramica della cava, dove di giorno<br />
si estrae, si seleziona e si trasporta il materiale<br />
GALATINA (Lecce) C. da San Giuseppe<br />
Zona industriale, S.P. 362<br />
telefono 0836.561132 - 563836<br />
info@pietrodepascalis.it