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GIULIO MOZZI (non) UN CORSO DI SCRITTURA E NARRAZIONE

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<strong>GIULIO</strong> <strong>MOZZI</strong><br />

(<strong>non</strong>) <strong>UN</strong> <strong>CORSO</strong> <strong>DI</strong> <strong>SCRITTURA</strong> E <strong>NARRAZIONE</strong><br />

1


Qualche anno fa Gianni Bonina, responsabile del settimanale di<br />

cultura Stilos (esce ogni martedì allegato al quotidiano La Sicilia), mi<br />

propose di pubblicare un corso di scrittura e narrazione a puntate.<br />

Io accettai. Ne è venuta fuori una cosa un po’ bizzarra e sconclusionata.<br />

Che è questa qui.<br />

Chiacchierata numero 1<br />

Buongiorno. Questa è la prima puntata di un corso di scrittura e<br />

narrazione a puntate. Cominciamo sgomberando il campo da qualche<br />

possibile equivoco.<br />

«Ma si può insegnare a scrivere?». Questa domanda mi è stata fatta<br />

mille volte. Rispondo: si può insegnare tutta la parte tecnica dello<br />

scrivere e del narrare. A me la parte tecnica dello scrivere e del narrare<br />

è stata insegnata. Ho lavorato sette anni nell’ufficio stampa della<br />

Confartigianato del Veneto − avevo risposto a un annuncio nel<br />

quotidiano, mi avevano preso perché battevo a macchina velocissimo<br />

−, e lì alcuni giornalisti bravi e generosi mi hanno insegnato<br />

molte cose. Tra un racconto d’amore o di suspance e un comunicato<br />

stampa sulle norme igieniche nella produzione del gelato c’è una<br />

bella differenza; ma la tecnica che ci sta sotto, vi piaccia o no, è sempre<br />

quella.<br />

«Come mai questa nuova moda dei corsi di scrittura?». Non è una<br />

nuova moda. La tecnica di composizione del discorso, ossia la retorica,<br />

ossia la tecnica di argomentare e raccontare con efficacia, si insegna<br />

da sempre. I primi manuali di tecnica del discorso li scrissero<br />

2<br />

alcuni avvocati siracusani, riferisce Cicerone, più di quattrocent’anni<br />

avanti Cristo. Grammatica (cioè conoscenza della lingua)<br />

e retorica sono state per secoli le colonne portanti della<br />

cultura europea. Ovviamente la retorica d’oggi <strong>non</strong> è la stessa<br />

cosa della retorica di duemill’anni fa. Ma vi assicuro che quando<br />

ho letto l’Institutio oratoria («La formazione dell’oratore») di<br />

Quintiliano, pubblicata tra il 90 e il 100 dopo Cristo, ho avuta<br />

l’impressione di leggere un libro scritto da un mio collega<br />

d’oggi. Le questioni didattiche sono sempre le stesse.<br />

«Ma allora, se a scrivere e raccontare si insegna, dove sta di casa<br />

il talento?». Faccio un esempio. La cortesia (cioè il comportamento<br />

formalmente ineccepibile) può essere insegnata: è una<br />

tecnica. La gentilezza d’animo <strong>non</strong> può essere insegnata: <strong>non</strong> è<br />

una tecnica. Però la gentilezza d’animo può essere il frutto, si<br />

dice, di una buona educazione. Allora diciamo che «insegnare» è<br />

tutt’altra cosa da «educare». Il talento può essere «educato»: ci<br />

sono persone più giovani di me, che secondo me sono dotate di<br />

talento, alle quali io volentieri offro tempo, disponibilità a discutere<br />

di qualunque cosa (in particolare dei loro tentativi di<br />

scrittura), libri in prestito (centinaia), complicità, sostegno morale,<br />

aiuto pratico (a una di queste persone, l’altra settimana, ho<br />

prestata una lampada). In sostanza, offro la mia amicizia, per<br />

quel che vale. Questo è, per me, il modo di occuparmi del loro<br />

talento. Ovviamente un laboratorio è tutta un’altra cosa. (Tuttavia<br />

succede che, a volte, una squisita cortesia venga scambiata<br />

per gentilezza d’animo. A volte la tecnica può essere così raffinata<br />

da simulare il talento).<br />

«Si può diventare scrittori frequentando un laboratorio di<br />

scrittura?». No. Come <strong>non</strong> si diventa Vittorio Gassman frequentando<br />

un laboratorio di teatro, né si diventa Novella Calligaris<br />

frequentando un corso di nuoto. Ma se uno è un Vittorio<br />

Gassman potenziale, o una Novella Calligaris potenziale, frequentar<br />

eun laboratorio di teatro o un corso di nuoto <strong>non</strong> gli/le


farà certo male. Magari, semplicemente, porterà un risparmio di<br />

tempo.<br />

«Ma allora, se ciò che si insegna è tutta tecnica, dove stanno i sentimenti,<br />

la creatività, l’ispirazione?». Appunto. I sentimenti, la creatività,<br />

l’ispirazione hanno bisogno della tecnica. Se io <strong>non</strong> so scrivere<br />

nel senso più banale della parola, se sono analfabeta, dei sentimenti<br />

e della creatività e dell’ispirazione mi faccio poco. Oppure me ne farò<br />

tanto, ma <strong>non</strong> nella direzione della scrittura. Racconterò a voce,<br />

dipingerò, farò salti e capriole, canterò: ma <strong>non</strong> scriverò. La cosa mi<br />

pare ovvia. Si tratta di accettare l’idea che esistano un abbiccì e una<br />

grammatica della narrazione: e che senza abbiccì e grammatica <strong>non</strong><br />

si può andare tanto avanti.<br />

«Ma per saper scrivere, bisogna leggere molto?». Lo pensano in<br />

tanti. Io penso che la scrittura ha anche bisogno di allenamento,<br />

come gli scacchi o il calcio o il pianoforte. Chi ha la patente ma <strong>non</strong><br />

guida quasi mai, quando guida è un pericolo ambulante: lo sappiamo<br />

tutti. Invece chi guida tutti i giorni (se conosce la tecnica della guida,<br />

se <strong>non</strong> è del tutto privo di talento…) è più sicuro, più tranquillo, più<br />

efficace − e alla fin fine più veloce, anche se guida piano. Nessuno<br />

penserebbe di poter giocare seriamente a calcio senza un po’ di allenamenti,<br />

no?<br />

«Tanto, io scrivo per me». «Io <strong>non</strong> faccio mai leggere a nessuno<br />

quello che scrivo». Certamente si può scrivere solo per sé. È importante<br />

però capire che la scrittura «per sé» è una cosa del tutto diversa<br />

dalla scrittura «per gli altri». Tutti i libri che abbiamo letti (o<br />

quasi tutti) sono stati scritti perché altri li leggessero. Le nostre<br />

scritture private, quelle che teniamo per noi soli o, al massimo, per<br />

noi e per le persone che ci sono più care, sono veramente scritture<br />

d’altra specie. E funzionano in tutt’altro modo. Se si vuole imparare<br />

a scrivere e narrare storie, è bene rendersi conto che <strong>non</strong> si narra a<br />

nessuno; si narra sempre a qualcuno. E quel qualcuno è importante,<br />

più importante di noi che raccontiamo. Infatti, se smette di ascoltarci<br />

o di leggerci, è come se la nostra storia svanisse.<br />

3<br />

***<br />

Bene. Questa era una specie di premessa. La settimana prossima<br />

parleremo delle tre parti in cui si divide la tecnica (o l’arte,<br />

dice qualcuno; ma la parola greca «tèchne», da cui «tecnica», e la<br />

parola latina «ars», da cui «arte» sono in realtà perfetti si<strong>non</strong>imi)<br />

della scrittura e della narrazione: l’invenzione, l’organizzazione<br />

del discorso, lo stile. E poi, per un po’ di settimane, parleremo<br />

dell’invenzione. Perché, sapete, quando qualcuno viene da me e<br />

mi dice, colpendosi la fronte con un dito: «Sa, io la storia ce l’ho<br />

tutta qui, nella mia testa», la verità è (di solito) che in testa ha<br />

solo un germe della storia. Il germe va fatto germogliare: e cercherò<br />

di proporre dei sistemi. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 2<br />

Buongiorno. Dicevo la settimana scorsa: che quando qualcuno<br />

viene da me e mi dice, colpendosi la fronte con un dito: «Sa,<br />

io la storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa», la verità è (di solito)<br />

che in testa ha solo un germe della storia.<br />

Gli insegnanti di retorica − cioè di tecnica del discorso −<br />

dell’antichità dividevano la retorica stessa in cinque parti, i cui<br />

nomi latini sono: inventio, elocutio, dispositio, memoria e actio. Possiamo<br />

tradurli grosso modo così: trovare la materia, ornare lo<br />

stile, organizzare il testo, mandare a mente, saper dire con efficacia.<br />

Gli antichi insegnanti di retorica, ricordiamolo, insegnavano<br />

a pronunciare discorsi in pubblico; quindi anche il mandare<br />

a mente e il saper recitare con voce e gestualità efficaci facevano<br />

parte del loro insegnamento. Va detto però che la memoria<br />

<strong>non</strong> è solo un insieme di tecniche per ricordare, ma anche la<br />

capacità di “tenere sotto controllo” un testo di una certa lunghezza<br />

(provate a scrivere un romanzo di 400 pagine, e vedrete


se <strong>non</strong> vi servirà memoria); e l’actio, cioè la “presentazione” al pubblico<br />

per mezzo del gesto e della voce, può essere identificata, per<br />

noi che siamo produttori di narrazioni scritte, con la<br />

“presentazione” grafica: un giornale, un libro, un dattiloscritto male<br />

impaginati o scorretti, <strong>non</strong> si lasciano leggere volentieri.<br />

Le parti importanti della retorica, comunque, erano le prime tre:<br />

inventio, elocutio, dispositio. Tuttavia, nei trattati di retorica, l’inventio faceva<br />

spesso la parte del leone, a spese della dispositio: trovare gli argomenti,<br />

la materia, i contenuti, significa automaticamente già cominciare<br />

a organizzarli, a disporli secondo logica, narrazione ed efficacia.<br />

Quanto all’elocutio, spesso si riduceva a una sorta di catalogo,<br />

tendenzialmente sterminato, di “bei modi di dire”: figure retoriche,<br />

giri di frase, ritmi sonanti, parole belle, e così via. Insomma, più che<br />

di stile (lo stile dovrebbe essere, credo, qualcosa che agisce dentro la<br />

scrittura), quei trattati parlano di ornamenti del discorso (e<br />

l’ornamento è qualcosa che si appiccica esternamente). Tutti noi<br />

sappiamo che <strong>non</strong> bastano gli ornamenti (abiti, gioielli, maquillage) a<br />

fare di una donna una donna elegante, cioè una donna provvista di<br />

stile.<br />

Così, alla fin fine, il cuore della retorica è la prima delle sue cinque<br />

parti: l’inventio, il trovare la materia. E di questo, nelle prime puntate<br />

di questo corso, parleremo molto.<br />

***<br />

La parola “inventare” deriva appunto dal latino invenire, che significa:<br />

trovare. Infatti ho tratto inventio con: trovare la materia. E noi diciamo<br />

facilmente, nel linguaggio famigliare, “una bella trovata” per<br />

dire “una buona idea, una buona invenzione”. Ma <strong>non</strong> è che le storie,<br />

gli argomenti, la materia, si trovino per caso o per fortuna. Chi<br />

cerca trova, si dice; e chi dorme <strong>non</strong> piglia pesci. Ma cercare <strong>non</strong> basta:<br />

ci vuole del metodo, del criterio, dell’abilità nel cercare. Ciascuno<br />

di noi dispone di un cugino o di una zia celebri per la loro inca-<br />

4<br />

pacità di trovare alcunché − le chiavi di casa, il libretto degli assegni,<br />

il telefono portatile − quand’anche l’abbiano sotto il naso.<br />

Si può imparare a inventare? Si può imparare a cercare? In linea<br />

di massima sì. O almeno: impegnandosi, ci si può migliorare.<br />

Si possono imparare dei metodi (ne proporrò alcuni seri, altri<br />

divertenti o imbarazzanti). Ma a una condizione. Che è questa:<br />

accettare di considerare la fantasia come il nostro peggior<br />

nemico.<br />

I bambini, si dice, hanno tanta fantasia. Spesso si inventano<br />

storie mirabolanti. Eppure, se ci pensate, i bambini vogliono<br />

sentirsi raccontare sempre le stesse storie (e guai a cambiare una<br />

sola parola!). Infatti, le storie che s’inventano, cioè che si raccontano<br />

da sé, sono sempre le stesse storie. Il bambino ama la<br />

ripetizione. Il bambino che si racconta storie è, senza saperlo,<br />

un po’ come l’atleta che instancabilmente ripete, ripete, ripete il<br />

gesto o la serie di gesti che gli serviranno durante la competizione<br />

o la partita: si allena.<br />

La fantasia è, semplificando molto, la capacità di passare da<br />

una cosa a un’altra per mezzo di somiglianze, vicinanze, differenze,<br />

opposizioni, appartenenze, condivisioni eccetera. Io dico:<br />

«Mela!» e tu mi rispondi: «Eva!». Io dico: «Uva!» e tu mi rispondi:<br />

«Solarium!». Io dico: «Solaris!» e tu mi rispondi: «Tardelli!». Il<br />

bello della fantasia è che <strong>non</strong> produce necessariamente passaggi<br />

sensati: un passaggio può appoggiarsi sull’appartenenza a una<br />

storia nota (da mela a Eva), su un’affinità materiale (mela e uva<br />

sono frutti), su un equivoco (l’uva che si mangia è tutt’altra cosa<br />

dai raggi Uva), su un’appartenenza locale (i raggi Uva abbronzano,<br />

ci si abbronza nel solarium), su una somiglianza di suono<br />

esibita (da Eva a uva, da solarium a Solaris) o nascosta (il regista<br />

di Solaris è Tarkovskij, da cui Tardelli, il calciatore).<br />

Il difetto della fantasia è che essa procede sempre per contiguità,<br />

passa da una cosa alla cosa vicina, fa il minimo sforzo − e,<br />

soprattutto, <strong>non</strong> si guarda intorno e <strong>non</strong> pensa al futuro: è tutta


concentrata lì, sul presente, sul passaggio che sta compiendo in quel<br />

momento. Inoltre la fantasia è involontaria: fa quello che vuole, <strong>non</strong><br />

funziona a comando, quando decide di incrociare le braccia <strong>non</strong> c’è<br />

niente da fare. Non va.<br />

L’invenzione adopera, senz’altro, la fantasia; ma <strong>non</strong> si riduce alla<br />

fantasia. Dicevo: accettare di considerare la fantasia come il nostro<br />

peggior nemico. Era una frase esagerata; l’ho detta così, per fare impressione;<br />

ma in fondo è quello che penso. Perché la fantasia è invadente,<br />

pretende di comandare lei, s’intrufola dappertutto, anche<br />

quando <strong>non</strong> la si vuole: e fa fare errori.<br />

Piuttosto che di fantasia, quindi, l’invenzione si nutre di immaginazione.<br />

Immaginare significa: produrre una visione. Una visione è un<br />

oggetto un bel po’ più complesso e ricco di un semplice passaggio<br />

da una cosa a un’altra. Ma dell’immaginazione, e del suo essere una<br />

facoltà razionale e rigorosa, parleremo la settimana prossima. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 3<br />

Buongiorno. Siamo ancora − dalla settimana scorsa − a quel punto<br />

lì, di quello che diceva, battendosi la fronte con il dito: «Sa, io la storia<br />

ce l’ho tutta qui, nella mia testa». A chi mi dice così, io in genere<br />

<strong>non</strong> gli credo. Soprattutto se subito dopo aggiunge: «Il problema è<br />

che <strong>non</strong> so raccontarla. Mi manca la tecnica».<br />

Noi viviamo immersi nelle storie. Torniamo a casa dal lavoro e<br />

qualcuno ci chiede: «Com’è andata?»; noi raccontiamo, e poi: «E a<br />

te, com’è andata?». Prendiamo il treno e in trenta o trecento chilometri<br />

impariamo tutta la vita dei nostri compagni di viaggio. Leggiamo<br />

il giornale. Guardiamo la televisione. Andiamo al cinema.<br />

Mentiamo alla moglie, all’amante, e anche a noi stessi. Raccontiamo<br />

storie, vere, storie false, storie inventate. Continuamente.<br />

5<br />

Il raccontare è per tutti noi un comportamento normale, che<br />

facciamo senza neanche pensarci su: come il camminare, il guidare<br />

l’automobile, il fischiettare. Ci sono persone più o meno<br />

abili nel raccontare. Può succedere che un’emozione, uno spavento,<br />

un dolore ci rendano temporaneamente incapaci di raccontare.<br />

Ci sono patologie che inibiscono la lingua o la capacità<br />

di articolare una narrazione. Possiamo perdere la capacità di<br />

raccontare una determinata cosa (abbiamo fatto un incidente e<br />

<strong>non</strong> ci ricordiamo nulla; siamo state violentate e <strong>non</strong> siamo capaci<br />

di dirlo). Ma, insomma, mediamente, generalmente, credo<br />

che si possa dire: tutti sono capaci di raccontare, bene o male,<br />

una cosa che hanno in mente.<br />

Già: ma raccontare per iscritto è una cosa diversa. In che cosa<br />

è diversa? In una cosa sola è diversa: la narrazione scritta è una<br />

narrazione fissata e isolata. Parlando posso essere impreciso, posso<br />

correggermi o ricredermi, posso andare a salti, posso giovarmi<br />

di gesti e facce, posso prendere sottobraccio l’ascoltatore,<br />

posso far conto sulle domande che lui mi farà (se dimentico un<br />

pezzo di storia, l’interlocutore interverrà), posso spiegarmi alla<br />

buona, posso girare intorno, posso essere poco chiaro, posso<br />

dire: «Sì, insomma, allora lui prese su una di quelle robe là, come<br />

si chiamano? Quelle che ci hanno il coso sopra, hai presente?»,<br />

facendo un gesto con la mano destra, come per pulire un<br />

vetro, «che poi si prende da una parte, e lo si gira», con un gesto<br />

della mano sinistra, dall’alto al basso, verso l’esterno «e con<br />

l’affare sotto, giallo, quello mobile, no?»; e l’interlocutore, bene<br />

o male, mi capirà, o mi interrogherà finché <strong>non</strong> riuscirà a farmi<br />

spiegare.<br />

Una narrazione scritta invece è fissata e isolata. È lì per sempre,<br />

<strong>non</strong> può essere cambiata; e deve fare da sola, <strong>non</strong> può fare<br />

conto − se <strong>non</strong> entro limiti ristretti: ne parleremo − sulla cooperazione<br />

del lettore. Tutto ciò che nella narrazione orale si im-


provvisa, si produce lì per lì, si fa e si disfa, nella narrazione scritta<br />

dev’essere perfettamente calcolato.<br />

Questo perfetto calcolo è il lavoro dell’immaginazione.<br />

***<br />

Immaginare significa, prima di tutto, immaginare il lettore. Quando<br />

noi parliamo − <strong>non</strong> solo per raccontare, ma anche nella conversazione,<br />

in una lezione, in un tentativo di vendita, in un bisticcio, in<br />

una dichiarazione d’amore, in una trattativa − abbiamo sempre ben<br />

presente, davanti a noi, l’interlocutore. Regoliamo sull’interlocutore<br />

il nostro tono di voce, la scelta delle parole, il giro delle frasi, le cose<br />

che diciamo e quelle che omettiamo, le formule di cortesia, gli eufemismi,<br />

le scorciature e le spiegazioni in dettaglio, i riassunti e le divagazioni.<br />

Guardiamo chi ci sta di fronte, ne interpretiamo le reazioni,<br />

ascoltiamo i suoi interventi, spiamo la sua faccia: letteralmente<br />

cuciamo addosso all’interlocutore il nostro discorso o la nostra narrazione.<br />

Quando raccontiamo per iscritto, cioè facciamo una narrazione fissata<br />

e isolata, <strong>non</strong> c’è niente di tutto questo. Il lettore, ce lo dobbiamo<br />

immaginare. Non nel senso che dobbiamo immaginarci un lettore<br />

maschio, femmina, colto, incolto, amante dei classici o della letteratura<br />

dozzinale, esperto o inesperto, eccetera; o meglio: sì, ci immagineremo<br />

anche tutto questo − ne parleremo, ne parleremo − ma<br />

prima di tutto dobbiamo immaginarci il lettore come un qualcuno<br />

che segue la storia, vorrebbe intervenire, fare domande, contraddirci,<br />

dubitare; e come un qualcuno che si appassiona, si diverte, si<br />

emoziona, ride, piange, si stanca, si stufa.<br />

Mentre scriviamo e raccontiamo dovremmo sentire il lettore. Soprattutto<br />

dovremmo sentire i suoi tempi. A volte diciamo, di un romanzo<br />

o di una commedia o di un film, che è troppo lungo o troppo<br />

corto, che <strong>non</strong> ha ritmo, che sembrano mancargli delle cose, che<br />

ci si perde nella narrazione. Bene: quando diciamo questo, stiamo<br />

6<br />

dicendo che, secondo noi, il romanziere o il drammaturgo o il<br />

cineasta <strong>non</strong> hanno saputo governare bene i tempi della narrazione.<br />

Cioè che <strong>non</strong> sono stati capaci di sentire il lettore.<br />

Il lettore, peraltro, siamo noi. E così vi assegno il primo esercizio<br />

di questo corso di scrittura e narrazione a puntate: provate<br />

a osservarvi mentre leggete, mentre assistete a una commedia o<br />

guardate un film. Non c’è altro modo di imparare a immaginare<br />

il lettore, che provare a sentire noi stessi mentre siamo lettori. Per<br />

questo si dice: «Se vuoi scrivere, devi leggere». Perché noi siamo<br />

prima di tutto lettori, perché scriviamo in quanto abbiamo letto,<br />

abbiamo fatta l’esperienza del leggere.<br />

Una narrazione è, in fondo, una specie di lunga lettera inviata<br />

a uno sconosciuto. Così come, nello scrivere una lettera alla<br />

persona che più amiamo, metteremmo moltissimo impegno<br />

nell’immaginare la reazione di questa persona a ogni nostra singola<br />

parola, similmente nel narrare dovremo mettere moltissimo<br />

impegno nell’immaginare la reazione a ogni nostra singola<br />

parola della persona che più amiamo: il nostro lettore, la nostra<br />

lettrice.<br />

Perché, in effetti, <strong>non</strong> si scrive mica per sé stessi; così come<br />

<strong>non</strong> ci si ama da sé. Si scrive per un’altra persona, molto più<br />

importante di noi; così come la persona che amiamo è molto<br />

più importante di noi. Ci risentiamo la settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 4<br />

Buongiorno. La situazione è questa: avete il desiderio di raccontare<br />

una certa cosa. Siete lì, pronti. Il tutto vi sembra abbastanza<br />

chiaro. Potreste dire, colpendovi la fronte con un dito, le<br />

parole fatidiche: «La storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa; si<br />

tratta solo di scriverla». Bene. Questo, ci crediate o no, è il momento<br />

buono per astenervi dallo scriverla.


Le ragioni sono tante. Una è che spesso, molto spesso, ciò che<br />

sembra molto nitido finché è un’idea, diventa molto meno nitido<br />

quando si tratta di farlo diventare quindici o cinquanta o trecento<br />

pagine, tutte piene di parole. Se abbiamo la sensazione di una grande<br />

chiarezza, se ci pare di avere a disposizione la storia (e i personaggi,<br />

le scene, i luoghi, gli abbigliamenti, i dialoghi, i contesti ecc.) fin nei<br />

minimi dettagli: questo è senz’altro positivo. Però è bene che ne dubitiamo.<br />

Quante volte succede, di iniziare a scrivere magari con foga,<br />

con grande felicità, e di ritrovarsi poi − dopo quindici, o cinquanta,<br />

o trecento pagine − con la cosa fatta a mezzo, o a un terzo,<br />

o a tre quarti, e a <strong>non</strong> saper più che pesci pigliare? Succede perfino<br />

ai professionisti.<br />

La nettezza e completezza dell’idea iniziale è spesso illusoria. Conviene,<br />

per prudenza, trattenere l’impulso di mettersi a scrivere subito,<br />

di corsa, ininterrottamente: e mettersi piuttosto a immaginare<br />

ulteriori dettagli, a conoscere meglio i luoghi, ad approfondire le conoscenze.<br />

Spesso le idee iniziali sono un po’ astratte. Un uomo è<br />

stato piantato brutalmente, il 2 novembre, dalla donna che ha amata,<br />

credendosi riamato, per dieci anni; lei gli ha detto: «Non ti ho mai<br />

amato, tu per me sei stato una disgrazia». Il nostro uomo si prende<br />

un mese di ferie per metabolizzare l’accaduto. Domanda: chi, oggi,<br />

in Italia, può prendersi un mese di ferie, di punto in bianco, in novembre?<br />

Che lavoro dovrà fare, quest’uomo, per potersi permettere<br />

una pausa siffatta? L’idea iniziale tende a <strong>non</strong> preoccuparsi di questi<br />

dettagli. Ma <strong>non</strong> sono dettagli: perché decidere la professione d’un<br />

uomo significa decidere la sua condizione sociale, il suo grado<br />

d’istruzione, il suo stile di vita, la sua morale, o soldi che può spendere,<br />

i mobili che ha in casa.<br />

Nei romanzi italiani il protagonista spesso <strong>non</strong> ha un lavoro preciso.<br />

Oppure fa uno di quei lavori vaghi − vaghi per chi <strong>non</strong> li fa −<br />

che sembrano distaccarlo dalla massa dei comuni mortali con problemi<br />

di mutuo: fa il “giornalista che <strong>non</strong> va mai in redazione”, il<br />

“regista che in questo momento <strong>non</strong> ha nessun film da girare”, il<br />

7<br />

“compositore di canzoni d’amore che campa componendone<br />

una all’anno”, il “professore universitario in anno sabbatico”,<br />

l’“imprenditore che ormai <strong>non</strong> ha più bisogno di occuparsi<br />

dell’azienda” o infine lo “scrittore” o, peggio che peggio,<br />

l’“aspirante scrittore”. Io sospetto che dietro tante vaghezze si<br />

celino spesso due cose, l’una o l’altra o tutt’e due: una certa incapacità<br />

ad avere che fare con il mondo reale, come se il mondo<br />

reale fosse un impiccio, un peso, un fastidio; e il pregiudizio che<br />

le narrazioni siano più interessanti, più attraenti, se fanno evadere<br />

il lettore dal mondo reale anche proponendogli personaggi dai<br />

mestieri misteriosi e bizzarri.<br />

Fatto sta che proprio il corpo a corpo con il mondo reale,<br />

lungi dall’essere un peso, può esaltare le nostre capacità di immaginazione<br />

e fornire appigli e appoggi alla nostra storia. Nel<br />

momento in cui il vostro personaggio smette di essere “un uomo”<br />

e diventa “il signor Pierermenegildo Bartezzaghi; <strong>non</strong> parente<br />

del Bartezzaghi dei cruciverba; nato a Cernusco sul Naviglio<br />

e residente a Milano nella zona di piazzale Gambare; trentaseienne;<br />

quasi laureato in ingegneria elettronica; sviluppatore<br />

di software per la contabilità in eterno co.co.co.; alto 1,72 e leggermente<br />

sovrappeso; piantato dalla prima fidanzata, quella dei<br />

vent’anni, dopo l’interrotta gravidanza di lei (lui, naturalmente,<br />

voleva tenere il bambino, sposarla, eccetera); piantato dalla seconda<br />

fidanzata, quella di quando lui era studente-lavoratore e<br />

tutti i suoi coetanei erano studenti e basta (cioè lui aveva soldi<br />

in tasca, e gli altri no) in occasione di un memorabile capodanno<br />

in Valtellina con amici e amiche (lei, la sera dell’ultimo, si fece<br />

scopare da un bruto culturista); piantato dalla terza fidanzata,<br />

quella laureata in legge, appunto il giorno della di lei laurea,<br />

conseguita nel giugno dell’ultimo anno di corso (mentre lui, con<br />

un terzo di esami ancora da fare, stava al terzo fuoricorso); rifugiatosi<br />

infine nella donna attuale, la quarta, quella che l’ha<br />

piantato solo ora, più o meno come un naufrago si rifugia in


un’isola tropicale dove per avere riposo basta stendersi sulla sabbia,<br />

per avere cibo basta scuotere la palma, e l’attività più eccitante è la<br />

pesca all’amo”; bene, nel momento in cui il vostro “uomo” si concretizza<br />

in questo modo, tutto è più chiaro. E altrettanto si dovrà<br />

concretizzare la donna (e anche le donne che l’hanno preceduta; e<br />

anche la madre di lui, matrice di tutte le sue donne…). A questo<br />

punto, inventare <strong>non</strong> è più difficile. È più facile. Certo: dovrete imparare<br />

che cosa fa tutto il santo giorno uno sviluppatore di software<br />

per la contabilità, com’era il cielo di Cernusco sul Naviglio negli anni<br />

Settanta, come funzionano i Centri di aiuto alla vita in Lombardia<br />

negli anni Ottanta, eccetera. E imparare tutte queste cose − cioè, sostanzialmente,<br />

documentarvi sul mondo reale così come lo frequenta<br />

e attraversa il vostro personaggio − vi farà venire nuove idee,<br />

nuovi pensieri, nuovi personaggi, nuovi risvolti della storia, nuovi<br />

intrecci, nuove parole.<br />

***<br />

Ma perché, mentre si fa tutto questo, mentre si immagina, è bene<br />

astenersi dallo scrivere? Semplicemente perché lo scritto è vischioso.<br />

Ciò che è scritto, è scritto perché resti. Si può magari poi modificarlo,<br />

correggerlo, aggiustarlo: ma la sostanza resterà sempre quella.<br />

Non ci saranno nuove invenzioni. Ma di questa vischiosità del già<br />

scritto, parleremo la settimana prossima. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 5<br />

Buongiorno a tutte e tutti. La settimana scorsa dicevo: quando si<br />

ha la sensazione di avere tutta una storia in mente, mentre la nostra<br />

immaginazione lavora, mentre ci documentiamo − leggendo, visitando<br />

luoghi, rovistando in archivi, parlando con persone − per conoscere<br />

meglio possibile gli scenari della storia, la vita materiale dei<br />

8<br />

personaggi, il contesto storico o politico o economico o di costume<br />

e così via; mentre facciamo tutto questo, dicevo, è bene<br />

astenersi dallo scrivere: perché lo scritto è vischioso. Mi spiego.<br />

Una pagina scritta, già scritta, ci oppone resistenza. Ogni<br />

giorno due o tre persone mi scrivono mandandomi dei racconti<br />

o un romanzo e chiedendomi di esprimere un parere (cosa che<br />

faccio quando posso e quando voglio: sono una persona disponibile,<br />

ma questo <strong>non</strong> autorizza nessuno presumere che la mia<br />

attenzione gli sia dovuta). Ogni settimana mi trovo effettivamente<br />

a discutere con l’autore o l’autrice di un gruppo di racconti<br />

o di un romanzo. Quando sostengo questi colloqui è, in<br />

genere, perché penso che quei racconti o quel romanzo dimostrino<br />

la capacità dell’autore o autrice di scrivere cose interessanti<br />

e ben fatte; tuttavia, raramente sono completamente soddisfatto<br />

di ciò che ho letto (e quindi raramente sono disponibile<br />

a presentarlo a un editore o ad accoglierlo in una collana da me<br />

curata). La conversazione prende spesso una curiosa piega. Io<br />

dico: «Questo che ho letto è interessante. Tuttavia, nel suo<br />

complesso, <strong>non</strong> mi sembra riuscito. Ora provo a dire perché<br />

<strong>non</strong> mi sembra riuscito. Mi interesserebbe, in futuro, leggere<br />

qualcosa d’altro scritto da te». L’interlocutore mi ascolta pazientemente<br />

e poi dice: «Allora, se lavoro in questo e in questo<br />

modo sul mio romanzo (sui miei racconti), si potrebbe pubblicarli?».<br />

La situazione è ovviamente un po’ ricattatoria, ma <strong>non</strong> è<br />

questo il punto. Il punto è che raramente mi è successo di vedere<br />

un racconto o un romanzo complessivamente <strong>non</strong> riusciti<br />

trasformarsi, benché l’autore o autrice ce la metta tutta, in un<br />

racconto o un romanzo riusciti.<br />

Questo <strong>non</strong> perché l’autore o autrice sia incapace. Non perché<br />

(spero) le mie osservazioni al testo siano sbagliate. Ma semplicemente<br />

perché, il più delle volte, un racconto o un romanzo<br />

complessivamente <strong>non</strong> riusciti hanno − avrebbero, perché nessuno<br />

ha il coraggio di farlo − bisogno di essere <strong>non</strong> riveduti,


<strong>non</strong> riscritti, ma addirittura re-immaginati. Mi sono accorto infatti che<br />

ciò che in genere mi lascia insoddisfatto, di un racconto o un romanzo<br />

che leggo, <strong>non</strong> è una carenza stilistica, o un difetto<br />

nell’intreccio, o un’incongruenza materiale: è l’incompleta, imperfetta<br />

immaginazione. E allora, bisognerebbe ricominciare da capo:<br />

da quando quel romanzo o racconto ancora <strong>non</strong> era stato scritto.<br />

Chi ha voglia di buttare via, per ricominciare da capo, trecento pagine?<br />

Nessuno. Ma quasi nessuno ha voglia di buttare via anche<br />

quindici pagine. Io stesso, quando fallisco un racconto, faccio una<br />

grande fatica a ricominciare da capo; ci riesco, a volte, se ci provo a<br />

grande distanza di tempo: due o tre anni, se <strong>non</strong> di più.<br />

***<br />

Ma <strong>non</strong> è solo un fatto di fatica. È che una storia, una volta scritta<br />

da cima a fondo, è per così dire esaurita, e la nostra immaginazione si<br />

è irrigidita. Non siamo più capaci di trovare possibilità alternative che<br />

<strong>non</strong> siano delle semplici variazioni di quelle già scritte. Non siamo<br />

più capaci di trovare un’altra lingua. Non siamo più capaci di estrarre<br />

il cuore dal corpo della nostra storia, e di trapiantarlo in un altro<br />

corpo più adatto, più vivo, pronto a balzare in piedi e camminare.<br />

Faccio un esempio privato. Nella mia mente c’è da qualche anno<br />

(dal 1997, credo) un personaggio. Si chiama Santiago ed è a volte<br />

maschio, a volte femmina, generalmente ambiguo. Santiago è un<br />

personaggio che agisce con assoluta crudeltà: questa è la sua natura.<br />

È comparso, di sfuggita, in alcuni miei racconti; <strong>non</strong> ne è mai stato il<br />

protagonista, neanche un comprimario: una comparsa, al massimo<br />

un figurante. Queste sue rapide apparizioni mi hanno permesso di<br />

tenerlo vivo nell’immaginazione, senza peraltro che l’immaginazione<br />

si irrigidisse. tre anni fa ho scritto un troncone di romanzo − un<br />

centinaio di pagine − nel quale Santiago è al centro della storia. Il<br />

romanzo è fallito (l’ho interrotto, mi sembrava molto brutto, <strong>non</strong><br />

sapevo più come venirne fuori). La mia immaginazione di Santiago<br />

9<br />

si è irrigidita. Solo adesso, a distanza di tempo, posso cominciare<br />

nuovamente a immaginarlo senza ridurmi a ripetere le immaginazioni<br />

precedenti. Sono convinto che il fallimento del romanzo<br />

sia dovuto a un’incompleta immaginazione di Santiago,<br />

e penso che se avessi pazientato un po’, ancora un anno o due,<br />

probabilmente oggi il romanzo di Santiago sarebbe ormai<br />

scritto; o comunque mi risulterebbe assai meno penoso scriverlo<br />

(ne sarebbe felice il mio editore, che come quasi tutti gli<br />

editori preferisce i romanzi ai racconti, e <strong>non</strong> ne può più di me<br />

che scrivo, o almeno riesco a portargli, nient’altro che racconti).<br />

La situazione ideale è questa: quando la narrazione è ormai<br />

così completamente immaginata, che possiamo sederci a scriverla<br />

come se copiassimo. Naturalmente <strong>non</strong> succede così spesso;<br />

può succedere abbastanza facilmente per un racconto, difficilmente<br />

succede per un romanzo (anche se conosco almeno una<br />

persona capace di scrivere un romanzo, un buon romanzo, in<br />

cinque mesi scarsi: e di scriverlo tutto di fila come se copiasse).<br />

Ma senz’essere inutilmente radicali, credo che possiamo tenere<br />

per buona questa regola di comportamento: <strong>non</strong> precipitarsi a<br />

scrivere ogniqualvolta ci viene in mente qualcosa di apparentemente<br />

buono; distinguere il tempo dedicato all’immaginazione<br />

dal tempo dedicato alla scrittura; <strong>non</strong> pensare che la prima soluzione<br />

che troviamo sia necessariamente, magari proprio in<br />

virtù della sua “spontaneità” o “naturalezza”, la soluzione più<br />

opportuna. Ma di questo, del trovare altre soluzioni, parliamo la<br />

settimana prossima. A risentirci.


Chiacchierata numero 6<br />

Buongiorno a tutte e tutti. Dicevo la settimana scorsa: <strong>non</strong> pensiamo<br />

che la prima soluzione narrativa che troviamo sia necessariamente,<br />

magari proprio in virtù della sua “spontaneità” o<br />

“naturalezza”, la soluzione più opportuna. Una storia, questo è evidente,<br />

può essere raccontata in diversi modi. Di solito, quando cominciamo<br />

a immaginare una storia, siamo molto preoccupati della<br />

sua materia: che cosa succede, a chi, dove, perché, eccetera. Ma a un<br />

certo punto − possibilmente prima di metterci a scrivere − dovremo<br />

cominciare a immaginare anche la forma della storia, il modo in cui<br />

organizzeremo l’intreccio, lo stile che adopereremo, il tipo di testo<br />

che produrremo. Certo: la storia ci è venuta in mente, abbiamo cominciato<br />

a immaginarla con una certa forma: avremo la sensazione fortissima<br />

che quella forma sia indissolubilmente legata alla storia. Ma<br />

spesso <strong>non</strong> è così.<br />

Immaginare forme per una storia è, tra l’altro, un gioco avvincente.<br />

Si può provare a farlo, per prova, con storie che tutti conoscono. In<br />

Pinocchio Carlo Collodi segue passo passo le avventure del suo burattino;<br />

la stessa storia potrebbe essere raccontata seguendo, invece, le<br />

peripezie di Geppetto. Certo: <strong>non</strong> sarebbe esattamente la stessa storia;<br />

anzi, sarebbe probabilmente una storia completamente diversa: ma comunque<br />

frutto della stessa immaginazione. La storia di Pinocchio<br />

implica la storia di Geppetto: sono indispensabili l’una all’altra;<br />

Collodi, per raccontare la storia di Pinocchio, ha dovuto immaginare<br />

anche la storia di Geppetto.<br />

Pia Piera ha scritto un libro che s’intitola Il diario di Lo (ed. Marsilio),<br />

nel quale racconta la medesima storia che tutti hanno letta in<br />

Lolita di Nabokov, ma dal punto di vista di Lolita: anzi, addirittura<br />

per mezzo della voce di Lolita, le parole del suo diario. Nabokov ha<br />

scritto il suo libro tutto dal punto di vista dell’uomo, di Humbert<br />

Humbert; per Humbert Humbert Lolita rimane, dal principio alla<br />

fine del libro, sostanzialmente un mistero; ma <strong>non</strong> era un mistero<br />

10<br />

per Nabokov, che doveva conoscerla bene − diciamo così − per<br />

riuscire a raccontare come Humbert Humbert <strong>non</strong> capisse<br />

niente di lei. Di nuovo: la storia di Humbert Humbert implica la<br />

storia di Lolita, sono due storie contenute nella stessa immaginazione.<br />

Possiamo immaginare anche diverse possibilità ideologiche. I<br />

promessi sposi è un romanzo tutto scritto − paternalisticamente −<br />

dalla parte della «povera gente»; ma potremmo provare a cambiargli<br />

ideologia, e a riscriverlo tutto dalla parte dei potenti. Lucia<br />

allora <strong>non</strong> è più un esempio di virtù, ma una cretina che <strong>non</strong><br />

si rende conto del vantaggio che potrebbe trarre dalla «protezione»<br />

di don Rodrigo; padre Cristoforo <strong>non</strong> è più un eroe ma<br />

un vigliacco che è sfuggito alla giustizia indossando il saio; Renzo<br />

è un sedizioso; l’Innominato è un uomo che era stato un<br />

grande, ma improvvisamente è impazzito; il cardinale è il diavolo;<br />

e don Abbondio è il suddito ideale, sempre pronto a servire.<br />

Oppure potremmo adottare un’ideologia nichilista: e quindi<br />

tutto ciò che nel romanzo accade, secondo Manzoni, grazie<br />

al silenzioso e misterioso intervento della divina provvidenza,<br />

accadrà invece − come, tra l’altro, in tanti romanzi dell’epoca −<br />

per puro purissimo caso.<br />

Una vecchia vignetta di Altan mostrava uno dei suoi soliti<br />

omaccioni in poltrona che diceva: «A volte ho dei pensieri che<br />

<strong>non</strong> condivido». Ora, <strong>non</strong> è detto che noi dobbiamo condividere<br />

i pensieri della storia che raccontiamo. Così come posso immaginare<br />

un personaggio potente o nichilista, posso anche immaginarmi<br />

di essere io stesso un narratore nichilista o servo dei<br />

padroni. L’ideologia di fondo di una narrazione è essa stessa<br />

un’invenzione, una nostra libera scelta di narratori.<br />

***


È imprudente dare per scontato che la nostra storia debba essere<br />

per forza un romanzo o un racconto. Molte storie si raccontano<br />

meglio con forme teatrali, o con lo stile e i modi della sceneggiatura<br />

cinematografica, o addirittura in versi. Nelo Risi (fratello di Dino, e<br />

regista anch’egli) pubblicò negli anni Settanta un libro di poesia intitolato:<br />

Di certe cose, che dette in versi suonano meglio che in prosa. Ecco:<br />

dovremmo sempre domandarci se la cosa che abbiamo in mente<br />

«suonerebbe meglio» in prosa o in verso, in romanzo o in racconto,<br />

in scena o al cinema.<br />

Ma, se decidiamo ad esempio che la misura giusta è quella del racconto,<br />

abbiamo ancora un sacco di possibilità tra le quali scegliere.<br />

Innanzitutto possiamo − e dobbiamo − scegliere il “genere” del nostro<br />

racconto: giallo, noir, fiaba, rosa, horror, novella, apologo, eccetera.<br />

Poi possiamo − e dobbiamo − scegliere se il nostro racconto avrà<br />

dialoghi o <strong>non</strong> ne avrà o sarà costituito interamente da dialoghi; se<br />

sarà lento o veloce o a ritmo variabile; se sarà dettagliato o sommario,<br />

realistico o evocativo, semplice o intricato (una storia intricata<br />

può essere raccontata con semplicità, una storia semplice può essere<br />

raccontata intricatamente), in prima seconda terza persona, e così<br />

via.<br />

E come se <strong>non</strong> bastasse, dobbiamo − possiamo − anche decidere<br />

proprio il tipo di testo. Un delitto, ad esempio, può essere raccontato<br />

con un normale racconto. Ma può essere raccontato anche con<br />

estratti dagli atti del processo, o con una confessione, o con la sentenza<br />

(una sentenza è anche una meticolosa ricostruzione di fatti), o<br />

attraverso gli articoli dei giornali… Un amore può essere raccontato<br />

con un normale racconto, ma anche con le lettere (o le email, o gli<br />

sms) che gli amanti si scambiano… Una follia può essere raccontata<br />

con un normale racconto, ma anche con una cartella clinica, o con<br />

testi scritti dal folle stesso… Si può dire addirittura che è una caratteristica<br />

propria del romanzo moderno, quella di essere costituito di<br />

materiali diversi provenienti da tutti i generi di scrittura possibili e<br />

praticabili: il romanzo imita il mondo anche nel senso che imita tutte<br />

11<br />

le scritture del mondo. Ma dell’imitazione, discorso importante<br />

e difficile, cominciamo a parlare la settimana prossima. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 7<br />

Buongiorno, buongiorno. La settimana scorsa dicevo: il romanzo<br />

imita il mondo anche nel senso che imita tutte le scritture<br />

del mondo. Nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij troviamo,<br />

incastonati dentro il romanzo, addirittura tre interi libri: la vita<br />

del santo monaco Zosìma, scritta da Aleksèj Karamazov (un libretto<br />

edificante, un’agiografia); il racconto del poema La leggenda<br />

del Grande Inquisitore (<strong>non</strong> leggiamo il poema che Ivan ha<br />

scritto, ma ascoltiamo il racconto che Ivan ne fa a Dimitri); la<br />

requisitoria del pubblico ministero al processo che conclude il<br />

libro (un’ottantina di pagine, nella mia edizione). Quindi: scrittura<br />

agiografica, scrittura poetica o para-poetica, scrittura giuridica.<br />

Nel Moby-Dick di Melville troviamo infinite citazioni (vere,<br />

false) da testi che parlano di balene e capodogli; ma troviamo<br />

anche (occupa due capitoli) la predica d’un pastore sulla storia<br />

di Giona nel ventre della balena. Memoriale di Paolo Volponi è<br />

un romanzo che consiste tutto, appunto, di un “memoriale”<br />

scritto dal protagonista, un operaio molto nevrotico: vi parla<br />

dunque la lingua della nevrosi. Del romanzo Vogliamo tutto<br />

l’autore, Nanni Balestrini, <strong>non</strong> ha scritta una sola parola: racconta<br />

i moti di fabbrica dei primi anni Settanta incollando pezzi<br />

giornalistici, comunicati sindacali, volantini, interviste registrate<br />

a operai e dirigenti, documenti interni dell’azienda (la Fiat).<br />

Gadda, come noto, usava tutte le parole che gli capitavano a tiro.<br />

Pasolini faceva parlare i suoi «ragazzi di vita» in un italoromanesco<br />

insieme degradato e poetico; Marco Franzoso in<br />

Westwood dee-jay sembra ripetere l’operazione con l’italo-veneto


d’oggi; Aldo Nove attribuisce a certi suoi personaggi la lingua di Novella<br />

2000 o di Ok, il prezzo è giusto; Andrea Camilleri si diverte (nella<br />

Scomparsa di Patò e nella Concessione del telefono) a “far parlare i documenti”,<br />

costruendo narrazioni sotto forma di dossier: articoli di giornale,<br />

relazioni di polizia, corrispondenza burocratica (ma, diversamente<br />

da Balestrini, Camilleri inventa − così sembra − i suoi materiali<br />

e li tiene ben distinti, <strong>non</strong> li contamina tra loro). In somma,<br />

tutte le lingue che si parlano e si scrivono nel mondo possono entrare<br />

− citate, imitate, collageate, parodiate, evocate, filologizzate − dentro<br />

il romanzo.<br />

«Nella pubblicità di un sapone si possono fare scoperte altrettanto<br />

preziose che nei Pensieri di Pascal»: <strong>non</strong> lo dice Aldo Nove, lo dice<br />

Marcel Proust (in Albertine scomparsa, cap. I): Proust, infatti, era un<br />

abilissimo parodista; e a ogni personaggio della Ricerca ha attribuita<br />

una sua specifica lingua (sintassi, lessico, registro, intonazione, gestualità),<br />

anche a rischio di rendersi insopportabile (quando parla la<br />

signora Verdurin, vengono i brividi tant’è sgradevole; la duchessa di<br />

Guermantes parla più per toni di voce, piccoli suoni gutturali, che<br />

per parole e frasi compiute; nel signore di Charlus, invece, risplende<br />

la gloria della lingua francese; ecc.).<br />

***<br />

La prima imitazione che si attua nel romanzo è dunque<br />

l’imitazione delle lingue del mondo. È ovvio che per imitare bisogna<br />

conoscere; e per conoscere bisogna innanzitutto distinguere. Colui<br />

che fa «scoperte preziose» tanto nella pubblicità d’un sapone quanto<br />

nei Pensieri di Pascal <strong>non</strong> è il lettore indifferente, quello che<br />

“digerisce tutto”: è invece il lettore che sa distinguere i sapori e gli<br />

odori delle parole e dei giri di frase: <strong>non</strong> il lettore bulimico, ma il<br />

lettore bongustaio.<br />

A chi desideri raccontare storie suggerirei di esercitarsi − per gioco,<br />

per esercizio − nelle imitazioni e nelle parodie. Anche tradurre può<br />

12<br />

essere molto istruttivo. E perfino semplicemente copiare è<br />

un’attività molto utile. La lettura attentissima, lenta, che bisogna<br />

fare per copiare un testo è il modo più pratico per imparare<br />

come quel testo è fatto, come funziona la sua lingua. Ad esempio,<br />

se provate a copiare una pagina dei Promessi sposi, vi accorgerete<br />

di quanta punteggiatura vi si trovi dentro: punteggiatura<br />

che, a una lettura normale, quasi <strong>non</strong> si nota tanto è opportuna<br />

e ben sistemata.<br />

I dizionari; i dizionari etimologici; i repertori di “parole nuove”<br />

e di parole straniere entrate nell’uso italiano; le storie della<br />

lingua; le analisi sociolinguistiche; i manuali di linguaggio giornalistico,<br />

televisivo, cinematografico, radiofonico, pubblicitario,<br />

scientifico; le raccolte di frasi fatte, di lettere per tutte le occasioni,<br />

di discorsi da dire in questa o quella circostanza: sono<br />

tutti strumenti utili, utilissimi, specialmente se <strong>non</strong> li lasciamo<br />

sullo scaffale ma li tiriamo giù spesso per studiarli e consultarli.<br />

Nessun manuale o dizionario, peraltro, potrà sostituire il puro<br />

e semplice godimento della lettura o dell’ascolto di lingue diverse.<br />

Io m’incanto spesso, in treno − viaggio moltissimo in treno<br />

− ad ascoltare le persone che parlano. È molto bello ascoltare i<br />

bambini, vedere come pian piano s’impadroniscono della lingua,<br />

come si divertono a usare le parole appena imparate (mio<br />

nipote Aldo, cinque anni, che dice: «Giochiamo a chi dice la parola<br />

più diversa»; sua sorella Anna, quattro anni, che gli chiede di<br />

farle spazio sul divano − per guardare i cartoni della Pimpa − e,<br />

dopo essersi sistemata, gli dice solennemente: «Sei proprio un<br />

gentiluomo»).<br />

Ma <strong>non</strong> si tratta solo di imitare delle lingue, di collezionare<br />

lessico e giri di frase; si tratta anche di imitare delle forme del<br />

discorso. Se voglio scrivere una storia nella forma d’un memoriale<br />

o d’una sentenza o d’un epistolario, dovrò approfondire la<br />

conoscenza del memoriale, della sentenza o della lettera come<br />

genere letterario, come forma del discorso. Senza contare che


<strong>non</strong> solo le lingue e le scritture possono essere imitate, ma anche le<br />

forme musicali, le forme grafiche, le forme architettoniche e urbanistiche<br />

(e infatti si parla spesso di “linguaggio” musicale, visivo, architettonico,<br />

urbanistico…). Ma di questo, con qualche esempio da<br />

Oceano mare di Alessandro Baricco, parliamo la prossima settimana.<br />

A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 8<br />

Buongiorno. La settimana scorsa avevo promesso qualche esempio<br />

di imitazione − di imitazione ben riuscita, s’intende − tratto da Oceano<br />

mare di Alessandro Baricco. Ma l’altro giorno, in un laboratorio di<br />

scrittura a Bergamo, ho parlato appunto di imitazione − che è,<br />

avrete capito, un mio cavallo di battaglia −: e c’è stato un coro di<br />

proteste. «Ma se io imito», mi è stato detto, «dove va a finire la mia<br />

originalità?». L’originalità <strong>non</strong> c’entra, io penso. Ma per spiegarmi<br />

devo prenderla alla larga.<br />

Noi tutti scriviamo in una lingua: la lingua italiana (si può anche<br />

scrivere in dialetto, o in lingue miste; ne riparliamo alla fine). Questa<br />

lingua, la lingua italiana, <strong>non</strong> ce la siamo mica inventata noi:<br />

l’abbiamo ricevuta, imparata. I genitori, gli adulti, i coetanei, i libri, i<br />

giornali, la televisione, la radio: tutti ci hanno insegnata la lingua italiana.<br />

È ovvio però che la lingua italiana la parliamo ciascuno di noi<br />

a modo suo. Ogni scrittore ha una sua lingua più o meno riconoscibile;<br />

ciascuno di noi, anche nel parlato più intimo, familiare e incontrollato,<br />

ha suoi propri modi di dire, giri sintattici, parole, articolazioni<br />

del discorso.<br />

Esiste poi un mito romantico: quello dello scrittore − del poeta, in<br />

particolare − che “reinventa” la lingua in cui scrive. Lo scrittore secondo<br />

l’immaginazione romantica <strong>non</strong> parla la lingua, per così dire,<br />

dei comuni mortali; parla una lingua che gli viene dritta dal cuore, o<br />

13<br />

dalla pancia, o dalla musa, o da dio, o dall’ispirazione, o da chissadove.<br />

Bene: questa immaginazione romantica era certamente<br />

opportuna a suo tempo: la lingua letteraria di allora, tra fine<br />

Sette e inizio Ottocento, era una lingua molto stilizzata, molto<br />

regolata, molto scelta, e quindi anche molto limitata, molto<br />

ideologica (inconsapevolmente ideologica, ma ideologica),<br />

molto − diciamolo − letteraria. Lo scrittore romantico sentiva<br />

giustamente il bisogno di trovare, ossia inventare, un’altra lingua<br />

letteraria: che fosse, appunto, meno letteraria, o addirittura<br />

per niente letteraria.<br />

Ma i tempi cambiano. Alessandro Manzoni fu uno scrittore<br />

romantico − vabbè, il romanticismo in Italia è stato una cosa<br />

all’acqua di rose, in confronto agli sfracelli dei tedeschi: ma<br />

Alessandro Manzoni è stato romantico nei limiti del possibile in<br />

Italia: era già scandaloso, ricordiamocelo, che avesse eletto a<br />

protagonisti del suo romanzo due «vili meccanici», due poveracci,<br />

anziché principi e re − e costruì una lingua romantica così<br />

ben fatta, così efficiente, così ben funzionante, che dopo lui<br />

tutti, o quasi tutti, divennero manzoniani. La rivoluzione si era<br />

compiuta. Dopo il tempo dell’innovazione era venuto il tempo<br />

dello sfruttamento dell’innovazione acquisita: fino alla rivoluzione<br />

successiva... (ho un tantino semplificato; portate pazienza).<br />

Che c’entra questo con l’imitazione? C’entra tanto. La tradizione<br />

letteraria − cioè il mucchio di tutti i testi scritti prima che<br />

noi scrivessimo i nostri − è uno sterminato magazzino di parole,<br />

di frasi, di giunti sintattici, di forme della narrazione, di metri,<br />

di rime; tutto questo magazzino, noi possiamo immaginarlo<br />

come una lingua: la lingua della narrazione e della poesia. Ogni<br />

momento noi, anche quando ogni sera raccontiamo al coniuge<br />

com’è andata la giornata, attingiamo senza pensarci su, senza<br />

nemmeno accorgercene, a questo sterminato magazzino: esat-


tamente come attingiamo ogni momento, senza pensarci su e senza<br />

nemmeno accorgercene, al magazzino delle parole.<br />

Naturalmente quando scriviamo, soprattutto se vogliamo scrivere<br />

un’opera letteraria, stiamo bene attenti alle parole che scegliamo. Ma<br />

quando usiamo, per dire, la parola «casa», <strong>non</strong> è che ci sentiamo poco<br />

originali: la parola «casa» è stata usata da tutti gli scrittori d’Italia,<br />

per secoli, e noi li imitiamo usandola ancora; ma <strong>non</strong> sentiamo questo<br />

come una perdita di originalità. Possiamo, certo, scegliere di <strong>non</strong><br />

usare proprio la parola «casa» bensì un’altra parola o espressione più<br />

adatta ai nostri scopi: «magione», «dimora», «edificio», «abitazione»,<br />

«appartamento», «nido familiare», «cuccia», «ostello», «baracca»,<br />

«home sweet home», «prigione», «gabbia» ecc.: ma così facendo continuiamo<br />

ad attingere al grande magazzino del lessico italiano − o accettato<br />

in Italia −: ciascuna di queste parole o espressioni è stata<br />

adoperata da altri scrittori e/o parlanti prima di noi.<br />

Allo stesso modo − così chiudo il ragionamento − possiamo pensare<br />

che quando imitiamo forme del testo, schemi narrativi, articolazioni<br />

della storia ecc., <strong>non</strong> facciamo altro che usare il magazzino<br />

delle narrazioni come se fosse un magazzino delle parole; e nel riusare,<br />

adattata alle nostre esigenze, una forma di testo già usata, <strong>non</strong><br />

facciamo niente di diverso da quando diciamo, come tanti altri hanno<br />

detto, «casa» o «appartamento».<br />

Un paradosso: se volessimo parlare una lingua veramente nostra,<br />

una lingua che venga veramente dal cuore o dalla pancia o dalla musa<br />

o da dio, probabilmente parleremmo una lingua comprensibile<br />

solo a noi stessi. Così, se volessimo usare forme di testo, schemi<br />

narrativi o articolazioni della storia che vengano direttamente dal<br />

cuore ecc., probabilmente comporremmo una narrazione comprensibile<br />

solo a noi stessi.<br />

Si tratta, in somma, di pensare alla narrazione come a un luogo di<br />

compromesso: tra la voce divina che «ditta dentro» e l’elementare<br />

desiderio, o esigenza, che ciò che scriviamo sia comprensibile ad altri.<br />

Naturalmente possiamo prenderci delle libertà: possiamo miscu-<br />

14<br />

gliare la lingua italiana con i dialetti o con altre lingue, possiamo<br />

articolare la storia in maniere strane e bizzarre, possiamo attingere<br />

a tradizioni linguistiche e narrative diverse dalla nostra.<br />

***<br />

Queste cose ho dette nel laboratorio di Bergamo, domenica<br />

scorsa; e sembrava quasi che si fossero tutti convinti, finché<br />

<strong>non</strong> me ne sono uscito con questa parolaccia: «compromesso».<br />

Apriti cielo! Ma del compromesso, per l’appunto, parleremo la<br />

settimana prossima; e quanto agli esempi da Oceano mare, aspetteranno.<br />

State bene.<br />

Chiacchierata numero 9<br />

Buongiorno, buongiorno. Scrivere questa puntata è stato veramente<br />

difficile, tra un’influenza e l’altra. Perciò se dico bestialità<br />

<strong>non</strong> prendétevela. Dicevo: se volessimo parlare una lingua<br />

veramente nostra, una lingua che venga veramente da dentro di<br />

noi (dal cuore o dalla pancia, o magari dalla musa o da dio…),<br />

probabilmente parleremmo una lingua comprensibile solo a noi<br />

stessi. Esiste, e ricompare qua e là in continuazione (anche<br />

Dante s’interrogava su quale fosse la lingua di Adamo ed<br />

Eva…), il mito di una lingua originaria, una lingua profonda, una<br />

pre-lingua comune a tutte le persone esistite esistenti e future,<br />

seppellita dentro ciascuno di noi, trasmessa − diremmo oggi −<br />

via Dna, sottostante a tutte le differenti lingue effettivamente<br />

parlate. Bene: colui che chiamo «l’artista romantico» va giusto in<br />

cerca di questa pre-lingua che, da nessuno effettivamente parlata,<br />

dovrebbe essere comprensibile a chiunque.<br />

Dove la trova, l’artista romantico, la pre-lingua? Ovvio: dentro<br />

di sé: nel profondo di sé. E come fa a trovarla? Ovvio: liberan-


dola da tutte le post-lingue, scartavetratando le incrostazioni che la<br />

storia umana (la pre-lingua è quasi inevitabilmente pre-umana,<br />

esterna alla storia) le ha depositate sopra.<br />

Ecco allora due paradossi. Uno: l’artista romantico troverà dentro<br />

di sé, nel suo profondo, la lingua sua propria; e identificherà magicamente<br />

questa lingua sua propria con la pre-lingua che sottostà a<br />

tutte le lingue effettivamente parlate. Due: l’artista romantico disprezzerà<br />

la lingua «comune», nel senso di: «quella che si parla e si<br />

scrive tutti i giorni»; e cercherà invece una lingua «comune», nel senso<br />

di: «originaria e sottostante a tutte le lingue».<br />

C’è insomma una contraddizione insanabile tra due desideri che<br />

stanno in chi racconta storie − come, credo, in qualsiasi artista −: il<br />

desiderio di esprimersi e il desiderio di comunicare. Con «esprimersi»<br />

intendo lo «spremere fuori da sé» (questa è l’etimologia) ciò che si<br />

ha dentro di più proprio, intimo e privato. Con «comunicare» intendo<br />

invece il «trovare qualcosa di comune» con l’interlocutore (il lettore):<br />

ossia, a ben vedere, l’esatto contrario.<br />

Se mi pesto il dito col martello, urlo: l’urlo è certamente originario,<br />

comune a tutti; appartiene certamente alla pre-lingua (l’urlo <strong>non</strong> è<br />

nemmeno una vera e propria parola); esprime certamente ciò che in<br />

quel momento io ho di più mio, intimo e privato (un male cane).<br />

Possiamo dunque dire che con l’urlo io «mi esprimo». Mia moglie,<br />

due stanze più in là, sentirà l’urlo: ma che significato gli darà? In fin<br />

dei conti un urlo di «urrà!» <strong>non</strong> è così diverso da un urlo di dolore.<br />

E comunque, dall’urlo in sé, <strong>non</strong> si capisce di che dolore si tratti: un<br />

dolore fisico? un dolore morale? un dolore divino? (Certo: prima i<br />

colpi di martello; poi l’urlo, e i colpi che si interrompono; mia moglie<br />

capisce tutto, <strong>non</strong> è mica scema; ma la sua mente sfrutta i dati di<br />

contesto, decifra <strong>non</strong> l’urlo ma la situazione − che contiene, come<br />

un oggetto e <strong>non</strong> come una parola, anche l’urlo).<br />

Quando, due giorni dopo, racconto l’incidente a mio cognato esibendo<br />

il ditone imbozzolito di garze, naturalmente lo faccio sorridendo:<br />

perché, insomma, pestarsi un dito col martello<br />

15<br />

nell’appendere un quadro, è da idioti; e se <strong>non</strong> racconto la cosa<br />

sorridendo, se cioè <strong>non</strong> mi mostro superiore agli avvenimenti,<br />

se <strong>non</strong> eseguo un trattamento ironico della narrazione<br />

dell’incidente, se <strong>non</strong> metto una distanza tra il me che racconta<br />

e il me che agisce nel racconto, rischio di fare appunto la figura<br />

dell’idiota. Con mio cognato, <strong>non</strong> deve succedere. Se racconterò<br />

bene, lui capirà tutto: capirà perfino che sto raccontando<br />

ironicamente perché <strong>non</strong> voglio passare da idiota; ne dedurrà<br />

che io sono sì stato idiota per un istante − quanto bastava per<br />

pestarmi un dito − ma che poi mi sono subito ripreso, e attualmente<br />

ho messa la testa a posto. Non lo farò più. Il mio racconto<br />

quindi «comunica», in quanto tiene conto<br />

dell’interlocutore, della mia relazione con lui, delle sue reazioni<br />

al mio stesso racconto, eccetera.<br />

***<br />

Nello scrivere, nel narrare, siamo continuamente tirati da questi<br />

due desideri: dal desiderio di esprimerci, ossia di cacciare degli<br />

urli, e dal desiderio di comunicare, ossia di intavolare una<br />

relazione con il lettore. La contraddizione <strong>non</strong> è sanabile; la<br />

volontà di sanarla produce afasia. Nemmeno il giusto mezzo,<br />

che è come una neutralizzazione di entrambi i desideri, è una<br />

soluzione sensata. La soluzione sensata è, secondo me: accettare<br />

la contraddizione, accettare di essere tirati da due desideri<br />

contraddittori, tentare di farli coesistere.<br />

C’è chi è di natura più portato all’espressione, chi più alla comunicazione.<br />

Dante adopera tutte le parole che gli capitano a<br />

tiro, Petrarca seleziona scrupolosissimamente il suo lessico. Il<br />

Manzoni ci racconta la sua storia nel modo più normale possibile,<br />

il Gadda racconta le sue storie in modi così bizzarri da <strong>non</strong><br />

essere nemmeno capace di portarle a conclusione. Ma la scelta<br />

della comunicazione <strong>non</strong> impedisce a Manzoni di trovare di


tanto in tanto espressioni fortissime («La sventurata rispose», cap.<br />

X); e la scelta dell’espressione <strong>non</strong> impedisce a Dante di essere di<br />

tanto in tanto addirittura elementare («La bocca le baciò tutto tremante»,<br />

nell’episodio di Paolo e Francesca: frase che potrebbe stare<br />

benissimo in un romanzo Harmony).<br />

Tutto questo che ho detto della lingua vale evidentemente, secondo<br />

il parallelismo che facevo la settimana scorsa, per le forme e i<br />

modi della narrazione. Esistono in noi delle «pre-forme della narrazione»?<br />

Chi lo sa, io dico. Magari sì. Psicoanalisti e antropologi potrebbero<br />

avere delle idee in proposito. Possiamo cercare di sprofondare<br />

in noi per avvicinarle. In confidenza: ogni volta che ne troverete<br />

una, di pre-forma, vi accorgerete che ce ne sono altre molto più<br />

nel profondo…<br />

Basta, basta. Alla prossima settimana. Dove dovrò parlarvi del<br />

classicismo, e toccherà rimandare ancora gli esempi di imitazione<br />

tratti da Oceano mare di Baricco. Pazienza.<br />

Chiacchierata numero 10<br />

Buongiorno. Scusate, ma devo sbrigare un po’ di posta. Un lettore<br />

mi ha scritto nei giorni scorsi, via posta elettronica: «Caro Mozzi, le<br />

sue chiacchierate su Stilos sono anche belle e simpatiche; però, devo<br />

dirle, ho l’impressione che lei stia menando il can per l’aia. A sentir<br />

lei, dovremmo essere sempre lì ad aspettare, a esitare, a farci mille<br />

domande, a immaginarci il possibile lettore, a cercare modelli da<br />

imitare, a riflettere sull’origine di ciascuna parola o di ciascuna formula<br />

narrativa che ci venga in mente; ma, come dire, prima o poi<br />

dovrà pur venire il momento di mettersi lì, ed effettivamente scrivere.<br />

O no? Mi dica, sinceramente: ma lei, si comporta davvero così<br />

come ci suggerisce di comportarci? E poi: le cose che ci racconta, lei<br />

le ha sempre sapute, ancora da prima di scrivere il suo primo racconto,<br />

quando ha sentito di avere la vocazione del narratore, oppure<br />

16<br />

le ha imparate nel tempo, a forza di scrivere e scrivere? Perché,<br />

vede, può darsi che ciò che lei ci racconta sia giusto e sensato;<br />

però può anche darsi che certi modi di procedere, di ragionare e<br />

di immaginare, possano essere imparati solo a forza di fare, di<br />

agire, di scrivere; mentre potrebbe essere del tutto inutile sentirsene<br />

parlare così, preventivamente, astrattamente…».<br />

Il lettore, come si vede, è persona di grandissimo buon senso.<br />

Ebbene sì, è vero: sto menando il can per l’aia. È vero: prima o<br />

poi deve pur venire il momento in cui ci si mette lì a scrivere, e<br />

succeda quel che succeda (purché succeda qualcosa). È vero,<br />

<strong>non</strong> sempre io mi comporto nei modi in cui vi suggerisco di<br />

comportarvi: a volte lavoro moltissimo prima di scrivere, altre<br />

volte mi siedo a scrivere il giorno stesso in cui l’idea mi è venuta<br />

in mente; a volte mi riempio di scrupoli realistici, altre<br />

volte tiro via dritto limitandomi a controllare le cose essenziali.<br />

È vero, tutto ciò che vi racconto <strong>non</strong> l’ho saputo da sempre,<br />

l’ho imparato un po’ per volta, a forza di scrivere e pubblicare;<br />

ma soprattutto l’ho imparato a forza di stare in aula − in innumerevoli<br />

“corsi” e “laboratori”, <strong>non</strong>ché “workshops” e<br />

“cantieri” di “scrittura” − a cercare di insegnare ad altri come<br />

fare per benino qualcosa che a me, in fin dei conti, viene del<br />

tutto naturale.<br />

Non è vero, invece, che io abbia un giorno sentita la vocazione<br />

del narratore. Di questo, peraltro, parleremo un’altra volta.<br />

Ho cominciato a scrivere il mio primo racconto il 17 febbraio<br />

1991, all’età di trentun anni e mezzo. Il mio primo libro è uscito<br />

in libreria il 30 aprile 1993. Se penso a che cosa ero allora devo<br />

dire: ero un narratore ingenuo e sentimentale. Molto ingenuo, e<br />

sentimentale in una maniera un po’ cervellotica. Oggi, se rileggo<br />

quei racconti scritti dieci, dodici anni fa, mi dico: «Ma come ho<br />

fatto a inventarmi queste cose? Da dove le ho tirate fuori?»; e,<br />

confesso, spesso <strong>non</strong> so rispondere. Mi sento dire a volte che<br />

quei miei primi racconti sarebbero più “amabili” di quelli che


ho scritti poi. Io penso che quei primi racconti abbiano delle qualità<br />

che i racconti successivi <strong>non</strong> hanno più avute, proprio perché allora<br />

ero assolutamente ingenuo e indifesamente sentimentale.<br />

Poi, come succede, sono diventato adulto. I bambini hanno una<br />

grazia che poi perdono. Io ho persa quella grazia − e forse ho perso<br />

ogni tipo di grazia, <strong>non</strong> so. Certo è che da tre anni abbondanti<br />

(l’ultimo mio libro di racconti è uscito nella primavera del 2001) io<br />

<strong>non</strong> invento più storie nuove; saltuariamente scrivo racconti su<br />

commissione, a tema, in una situazione che è molto più quella del<br />

gioco − magari un gioco assai serio − che quella dell’invenzione. La<br />

cosa in sé <strong>non</strong> mi dispiace. Lavoro come consulente editoriale, e occuparsi<br />

dei libri degli altri <strong>non</strong> è meno bello, interessante e divertente;<br />

e forse è più utile. Dà molte soddisfazioni.<br />

Occuparsi della scrittura degli altri, nei laboratori di scrittura o come<br />

consulente editoriale, è un esercizio curioso. Bisogna, per così<br />

dire, uscire da sé stessi, dimenticarsi il proprio gusto e il proprio<br />

modo di ragionare, lavorare perché la scrittura di un’altra persona<br />

diventi spiegatamente ciò che al momento è solo in potenza. Un po’<br />

come il buon genitore, che lavora perché il figlio diventi ciò che può<br />

essere e <strong>non</strong> perché diventi ciò che lui, il genitore, desidera che sia.<br />

Non è semplice essere buoni genitori.<br />

In un romanzo di fantascienza che mi piace molto, Dune di Frank<br />

Herbert, c’è una battuta che dice più o meno (vado a memoria):<br />

«Tutti sapevano che cosa dovevano fare. Lui <strong>non</strong> dava mai ordini.<br />

Una volta che avesse dato un ordine, sarebbe stato costretto a ripeterlo<br />

ogni volta». Credo che le cose stiano più o meno così. Preferisco<br />

menare il can per l’aia − mettiamola così: dare l’impressione di<br />

star menando il can per l’aia − piuttosto che dire: «Fate così e cosà».<br />

Preferisco proporre dei criteri, dei modi di pensare, piuttosto che<br />

compilare un elenco di regole o di consigli vincenti. Sbaglio? Può<br />

darsi. Ma, al momento, <strong>non</strong> mi viene niente di meglio.<br />

Devo però dire: tra i miei racconti ce n’è di migliori e di peggiori,<br />

di quasi belli e di molto brutti (spesso, di quanto un racconto sia<br />

17<br />

brutto, me ne accorgo quando lo vedo stampato nel libro); e<br />

generalmente quelli che mi sembrano, anche a distanza di tempo,<br />

più validi, sono quelli in cui ho agito in modi simili a quelli<br />

che vi ho proposti fin qui. Magari ho agito in quei modi prima<br />

di rendermi conto che erano dei modi, prima di riuscire a pensarli<br />

in astratto. Fatto sta che quei modi ci sono.<br />

Ovviamente, possono esserci altri modi. Cerco di trasmettere<br />

ciò che ho nella mia esperienza.<br />

***<br />

Altri lettori e altre lettrici mi domandano se insegno nel «laboratorio<br />

di scrittura» che spesso pubblica inserzioni pubblicitarie<br />

in Stilos. Rispondo: no. È un laboratorio che <strong>non</strong> conosco.<br />

Per questa settimana, dunque, è tutto; gli esempi di imitazione<br />

da Oceano mare sono ulteriormente rimandati, e siete autorizzati<br />

a dubitare che ve li proporrò mai. A rivederci.<br />

Chiacchierata numero 11<br />

Buongiorno. Sicuramente vi sarà successo, e <strong>non</strong> poche volte,<br />

di avere una parola sulla punta della lingua - un nome di persona,<br />

un titolo di libro - e di <strong>non</strong> saperlo dire. Dite: «Vabbè, mi<br />

verrà in mente dopo»; ed effettivamente, cinque minuti dopo,<br />

quando ormai state parlando d’altro, quella parola vi appare, e<br />

potete dirla. Vi sarà successo, anche, di <strong>non</strong> essere capaci di venire<br />

fuori da un problema, o di imparare una cosa, o di scrivere<br />

un testo; lasciate perdere, stufi e irritati; e poi, in altro momento,<br />

a mente più sgombra, <strong>non</strong> più irritati, vi mettete lì e il problema<br />

si risolve da solo, la cosa si impara facilmente, il testo vi<br />

viene tutto dritto e pulito come se ve l’avesse dettato qualcuno.


La nostra memoria e la nostra capacità di pensare, quindi, subiscono<br />

ogni tanto degli stop; e il più delle volte sembra che la cosa più<br />

opportuna <strong>non</strong> sia <strong>non</strong> incaponirsi, volere a tutti costi trovare ciò<br />

che ci manca: ma accettare lo stop e passare ad altro, se possibile a<br />

qualcosa di completamente diverso. Io, ad esempio, se sto lavorando<br />

a casa e sento di essere in uno stop, mi fermo e vado a fumare<br />

una sigaretta in cortile. Guardo il muro, il tasso, le primule, le rose.<br />

Magari prendo su il giornale e mentre fumo leggo un articolo che<br />

ancora mi manca. Poi rientro. Se me lo posso permettere - cioè se<br />

<strong>non</strong> ho una scadenza immediata - passo a un altro lavoro, oppure<br />

addirittura vado a fare quattro passi. È un sistema come un altro.<br />

Quando stiamo lavorando all’invenzione di una storia, o alla redazione<br />

di un testo, è facile che càpitino di questi stop. Sono antipatici<br />

e fastidiosi, all’apparenza. In realtà sono molto utili. Abbiamo uno<br />

stop quando intuiamo che ciò che stiamo facendo <strong>non</strong> va bene, anche<br />

se <strong>non</strong> sappiamo perché <strong>non</strong> va bene - se lo sapessimo, probabilmente<br />

saremmo in grado di prendere un’altra via. Siamo nelle<br />

condizioni di un computer che si “impianta” (tutti i computer, più o<br />

meno spesso, si “impiantano”). Dobbiamo spegnere e riaccendere.<br />

Resettare, come orribilmente si dice. Sembra quasi, in somma, che un<br />

eccesso di concentrazione a un certo punto richieda una distrazione volontaria.<br />

Ora: uscire in giardino a fumare una sigaretta o fare quattro passi<br />

in centro sono senza dubbio delle tecniche di distrazione, facilmente<br />

praticabili e a disposizione di chiunque (i <strong>non</strong> fumatori possono dar<br />

l’acqua alle piante, o osservare i percorsi delle formiche); ma sembrano<br />

essere delle tecniche di distrazione piuttosto grossolane. La<br />

domanda è: si possono trovare delle tecniche di distrazione-ericoncentrazione<br />

più efficaci? La risposta è: sì, si può.<br />

***<br />

18<br />

Brian Eno è, per chi <strong>non</strong> lo sapesse, un musicista e un produttore<br />

musicale (<strong>non</strong>ché un artista visivo). È un uomo che, per<br />

carattere e per strategia artistica, preferisce stare dietro piuttosto<br />

che davanti. Heroes è per tutti una canzone di David Bowie, forse<br />

la più famosa canzone di David Bowie; ma è una canzone di<br />

David Bowie e Brian Eno. I dischi con i quali gli U2 o i Talking<br />

Heads si sono imposti come star mondiali sono stati prodotti da<br />

Brian Eno. Si può dire che, nella storia del cosiddetto “rock<br />

progressivo” il nome di Briano Eno compaia ogniqualvolta avviene<br />

qualcosa di nuovo.<br />

Nel 1975 Brian Eno pubblicò un curioso oggetto, prodotto in<br />

coppia con il pittore Peter Schmidt (scomparso pochi anni dopo):<br />

un mazzo di 124 carte chiamate Oblique strategy, «strategie<br />

oblique». Su ciascuna carta è scritta una frase: un po’ come negli<br />

Imprevisti e nelle Probabilità del Monopoli. Le prime dieci carte,<br />

ad esempio, portano queste frasi: «Sempre dei primi passi»,<br />

«Una linea ha due estremi», «Il minimo comune denominatore»,<br />

«Respira più profondamente», «Non è che una questione di lavoro»,<br />

«A che cosa stai veramente pensando in questo momento»,<br />

«Cascate», «La cosa più importante è quella più facilmente<br />

dimenticata», «Vi sono delle sezioni? Considera delle<br />

transizioni», «Decora, decora». (Se volete leggerle tutte, attaccatevi<br />

all’internet e scrivete in un qualsiasi motore di ricerca:<br />

«Oblique strategy» o «Strategie oblique»).<br />

Così Eno e Schmidt spiegavano ragioni e modi d’impiego<br />

delle carte: «Queste carte si sono sviluppate a partire<br />

dall’osservazione dei princìpi che regolano le nostre creazioni.<br />

Talvolta, esse furono riconosciute retrospettivamente […], talvolta<br />

scaturirono dall’azione, altre volte ancora si trattò di semplici<br />

formule. Le si potrebbe impiegare come un tutto (una serie<br />

di possibilità costantemente riportate alla memoria) o isolatamente,<br />

estraendo una carta del gioco, mescolato il mazzo, ogniqualvolta<br />

si presentasse un dilemma nel corso di una precisa


situazione. In tal caso ci si rimette alla carta anche se <strong>non</strong> ne sia<br />

chiara l’applicazione. Le carte <strong>non</strong> danno responsi definitivi, nel<br />

senso che nuove idee si presenteranno spontaneamente, altre diverranno<br />

via via evidenti».<br />

Che cosa sono dunque queste carte? Sono forse degli oracoli? Dei<br />

mezzi magici? No: sono semplicemente uno strumento di distrazione.<br />

Quando ci troviamo in un dilemma, quando le parole o le invenzioni<br />

<strong>non</strong> ci vengono, quando ci pare di <strong>non</strong> saper che pesci pigliare,<br />

possiamo giocare questo gioco: peschiamo una carta, e ci confrontiamo<br />

con ciò che dice. Attenzione: <strong>non</strong> «accettiamo ciò che dice»,<br />

ma «ci confrontiamo con ciò che dice». Confrontarsi significa: provare<br />

a vedere se l’istruzione o il consiglio dati dalla carta <strong>non</strong> possano,<br />

magari paradossalmente, magari irrealizzabilmente, applicarsi al<br />

nostro caso. Dai ragionamenti che faremo scaturirà forse qualcosa<br />

di bizzarro, raramente qualcosa di fattibile, spesso qualcosa di impensato.<br />

La logica della faccenda mi pare chiara: spingiamo deliberatamente<br />

il nostro ingegno e la nostra intuizione ad affrontare una questione<br />

da un punto di vista impensato o a partire da premesse impensate. Il<br />

risultato è che <strong>non</strong> solo ci distraiamo, ma anche, per così dire, ci rilanciamo.<br />

«Ma», obietterà qualcuno, «funziona?».<br />

Sì, funziona: funziona. Del dettaglio di come funzioni, ne parliamo<br />

settimana prossima. Lo prometto. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 12<br />

Buongiorno. Parlavo la settimana scorsa della possibilità di usare<br />

tecniche di distrazione per scampare agli eccessi di concentrazione (gli attacchi<br />

di incaponimento, i blocchi creativi ecc.); e raccontavo delle<br />

Strategie oblique inventate da Brian Eno e Peter Schmidt: un mazzo di<br />

carte contenente consigli più o meno ambigui, giocosi o paradossali<br />

19<br />

(da «Ascolta la dolce voce» a «Sopprimi le specificità e sostituiscile<br />

con delle ambiguità»). Delle Oblique strategies o Strategie oblique,<br />

al di là di quel che si trova nella rete (qualunque motore di<br />

ricerca sarà felice di aiutarvi), parlano Fabio Destefani e Francesco<br />

Masson in un libro di vent’anni fa che si trova a volte nelle<br />

librerie a metà prezzo (Brian Eno: «Strategie oblique», Gammalibri<br />

1983, pp. 226) e parla lo stesso Eno nel suo libro-diario Futuri<br />

impensabili (Giunti 1997, pp. 360, 17 euro).<br />

Naturalmente le frasi-stimolo inventate da Eno appartengono<br />

a lui e sono adatte a lui. La cosa migliore, dunque, è che ciascuno<br />

si faccia il suo proprio mazzo di carte. A tutti sarà capitato di<br />

osservare nel proprio comportamento delle procedure particolarmente<br />

efficaci, che risolvono problemi specifici o problemi<br />

generali. Ad esempio: io sono uno scrittore di racconti, cioè di<br />

storie <strong>non</strong> particolarmente lunghe, e ho qualche problema a<br />

controllare la “massa” del testo quando questa supera le venticinque<br />

pagine. Ho provato a farmi degli schemi, delle scalette:<br />

ed è stato un disastro (io, le scalette, le odio). Allora, piuttosto,<br />

se perdo il filo della storia o se <strong>non</strong> so più come uscire dalla situazione<br />

in cui mi sono cacciato, smetto di andare avanti e riparto<br />

dal principio: rileggo, inserisco nuove cose, completo descrizioni<br />

appena accennate, aggiungo parole: faccio una specie<br />

di “gonfiatura” del testo (a sgonfiarlo ci penserò poi), che mi<br />

serve a vedere con più chiarezza le mie stesse immaginazioni. A<br />

un certo punto, di solito due o tre capoversi prima di dove mi<br />

sono impantanato, trovo il modo di indirizzare la storia da<br />

un’altra parte. Evidentemente <strong>non</strong> mi ero accorto, prima, che lì<br />

c’era un bivio; e avevo imboccata la strada meno produttiva.<br />

Così, una delle mie personali Strategie oblique dice: «Qual è<br />

l’ultima decisione che hai presa?».<br />

Altre volte ho la sensazione che un racconto sia sì finito, ma,<br />

come dire?, un po’ vuoto. Non nel senso che sia fatuo: ma nel<br />

senso che <strong>non</strong> mi dà quella buona impressione di pieno (appun-


to) che un racconto dovrebbe dare (secondo me). Allora rileggo dal<br />

principio (io rileggo tantissimo, s’è capito) e cerco di capire che cosa<br />

(o la mancanza di che cosa) mi dà questa sensazione di vuoto. Di<br />

solito finisco con l’accorgermi che in alcune zone della narrazione<br />

corro troppo veloce, <strong>non</strong> mi soffermo abbastanza (io <strong>non</strong> sono<br />

esattamente un narratore d’azione: sono piuttosto un narratore<br />

contemplativo), <strong>non</strong> mostro ciò che devo mostrare con la dovuta<br />

intensità; allora intervengo lì, e cerco di fare meglio. Così un’altra<br />

carta dice: «Controlla la velocità».<br />

Altre volte ho il problema di passare da una situazione a un’altra<br />

situazione: e <strong>non</strong> so bene che cosa metterci in mezzo. Non so come<br />

fare il transito. Di solito io produco delle masse di testo piuttosto<br />

compatte, e i transiti avvengono per lenti slittamenti, a volte per<br />

smottamenti silenziosi, quasi per sonnambulismo. Tuttavia a volte si<br />

slitta, si smotta, si sonnambula, ma si resta sempre al palo. Non si<br />

arriva a un di là. Allora rileggo, rileggo, rileggo, finché <strong>non</strong> trovo il<br />

punto in cui posso inserire una cesura: un «a capo» (parecchi miei<br />

racconti sono privi di «a capo»), una riga bianca, addirittura un andare<br />

a pagina nuova. Una cesura è fatta di tre parti: l’ultima frase, la riga<br />

bianca, la prima frase. Il problema è: che cosa legge, il lettore,<br />

nella riga bianca? Sono riuscito a costruire e avviare, nelle frasi che<br />

precedono la riga bianca, una “macchina evocativa” tale che il lettore<br />

vedrà, nella riga bianca, tutto quello che deve vederci? Allora ho<br />

delle carte che dicono: «Una porta che si apre verso l’interno» e<br />

«Come una notte di sogni <strong>non</strong> ricordati» (e c’è anche una carta originale<br />

di Eno, da me amatissima: «Ci sono delle sezioni? Considera<br />

le transizioni»).<br />

In somma, si tratta di osservare il proprio modo di procedere e di<br />

annotare, via via, le soluzioni efficaci. Le nostre personali Strategie<br />

oblique, tuttavia, <strong>non</strong> dovranno contenere consigli precisi, categorici,<br />

vere e proprie istruzioni: dovranno contenere, invece, dei “consigli<br />

vuoti”, cioè formulati in modo da poter essere applicati (nel modo<br />

che dicevo la settimana scorsa: cioè <strong>non</strong> pedissequamente, ma «per<br />

20<br />

confronto») a qualunque materia. Una carta che dica: «Rendi<br />

più credibili i personaggi» è un’istruzione, applicabile solo a una<br />

narrazione; una che dica: «Produci una rete di relazioni» è invece<br />

un “consiglio vuoto”, applicabile a una narrazione e ai personaggi<br />

così come alle forme di un’opera pittorica o a<br />

un’invenzione musicale (naturalmente, i personaggi diventano<br />

più “credibili” nel momento in cui smettiamo di immaginarli<br />

come mònadi isolate e li inseriamo ciascuno nella sua rete di<br />

relazioni con altri personaggi; come avrò modo di raccontare<br />

un’altra volta, è mia convinzione che i personaggi <strong>non</strong> esistano:<br />

esistono le relazioni tra i personaggi).<br />

***<br />

Ci vuol poco, a questo punto, per immaginare che più o meno<br />

qualsiasi repertorio di “consigli vuoti” possa essere adoperato<br />

come un mazzo di Strategie oblique. Il Castello dei destini incrociati di<br />

Italo Calvino, che contiene due storie fondate sui tarocchi, è lì<br />

per ricordarcelo. Ma anche il Libro della vita pubblicato dalle edizioni<br />

Armenia (pp. 188, 13 euro), sorta di raccolta di oracoli:<br />

basta formulare una domanda precisa, dice l’introduzione, e<br />

aprirlo a caso; si otterrà infallibilmente la risposta giusta. Penso<br />

una domanda. Lo apro a caso. Leggo: «Una visione completa<br />

include sempre lo spazio indispensabile per immaginare gli elementi<br />

mancati». Interessante, no? Basta <strong>non</strong> prenderlo troppo<br />

sul serio. Ci sentiamo tra una settimana.<br />

Chiacchierata numero 13<br />

Buongiorno. Lunedì scorso, in un laboratorio di scrittura che<br />

si tiene nella mia città (Padova) ho parlato delle Strategie oblique<br />

di Brian Eno e Peter Schmidt (delle quali ho parlato nelle ultime


due puntate di questa rubrica). Come sempre succede, il gruppo<br />

(una ventina di persone, tutte tra i venticinque e i trenta) ha reagito<br />

con uno scetticismo a dir poco pesante. «Ma in somma, queste cose<br />

New Age! Queste specie di magie!». Ma no, ho detto. Niente cose<br />

New Age. Niente specie di magie. Le Strategie oblique sono un modo<br />

come un altro – è importante: un modo come un altro; più divertente<br />

di altri; efficace tanto quanto altri – per raggiungere un paio di<br />

scopi: sbloccare la propria concentrazione (soprattutto quando si è<br />

in una situazione di “incaponimento”), considerare altre possibilità.<br />

Questa, del considerare altre possibilità, è una mia fissa. Quando<br />

mi viene in mente una storia, la prima cosa che penso è: potrebbe<br />

andare diversamente; potrei raccontarla diversamente. La direzione<br />

della storia che scelgo, esclude tutte le altre possibili direzioni. La<br />

forma che scelgo per raccontarla, esclude tutte le altre forme. Se<br />

scrivo: «Guidava una Peugeot bianca», escludo tutti gli altri mezzi di<br />

trasporto (asino, carrozzella, motocicletta, piedi, elicottero…),<br />

escludo tutte le altre marche d’automobili, escludo tutti gli altri colori<br />

(però mi lascio aperta la scelta tra i vari modelli di Peugeot).<br />

Se impariamo a sentire ogni scelta <strong>non</strong> solo come un’opportunità,<br />

ma anche come un’esclusione, questo ci sarà utile. Ovviamente diventeremo<br />

più indecisi. Ovviamente avremo più incertezze. Ovviamente<br />

avremo più ripensamenti. Ovviamente avremo più riscritture.<br />

E questo, in un’attività che tutto sommato può concedersi più o<br />

meno tutto il tempo che vuole, <strong>non</strong> è un problema. O lo è?<br />

***<br />

Eppure, nei vari corsi e laboratori di scrittura in cui insegno, vedo<br />

che c’è molta fretta. Fretta di finir di scrivere ciò che si sta scrivendo,<br />

fretta di avere tra le mani qualcosa di compiuto e definitivo,<br />

fretta di abbandonare un testo per passare a un altro. Essendoci<br />

fretta, c’è anche ansia: l’ansia di <strong>non</strong> essere capaci, l’ansia di <strong>non</strong> sapersi<br />

inventare altro, l’ansia di <strong>non</strong> saper finire, l’ansia di <strong>non</strong> arrivare<br />

21<br />

a un risultato… (e dico questo, mica di quelli che vogliono<br />

“diventare uno scrittore”, che sono una categoria a parte; dico<br />

di quelli che, a sentir loro, “amano la scrittura”, “si divertono<br />

con la scrittura”, “si sono iscritti al corso per curiosità, per fare<br />

una cosa piacevole”.<br />

Io da circa tre anni <strong>non</strong> scrivo una storia nuova. Ho scritte<br />

delle cose su commissione: delle descrizioni di luoghi, un raccontino<br />

su un tema dato; ma questa è proprio la parte “da professionista”<br />

del mio lavoro; i risultati magari sono buoni, mi<br />

soddisfano, ma <strong>non</strong> sono “una storia nuova”. Bene: questo <strong>non</strong><br />

mi preoccupa.<br />

Dal 1998 giace dentro il mio pc un mezzo tronco di romanzo.<br />

Ha un titolo imbarazzante (Introduzione ai comportamenti vili) e un<br />

contenuto che mi spaventa. Non sono capace, per ora, di rimettermici<br />

sopra. Ogni tanto lo guardo, e dico: mah!… Un<br />

editore l’ha letto e ha detto: «È una cosa terribile! Non oserei<br />

mai pubblicarla!», intendendo <strong>non</strong> che si tratti di una cosa mal<br />

fatta e mal scritta, ma di una cosa spaventosa per il suo contenuto.<br />

Un altro editore ha detto: «Bello! Bellissimo! Quand’è che<br />

lo finisci?», e continua a chiedermi quand’è che lo finisco più o<br />

meno ogni sei mesi, dal 1998.<br />

Io, <strong>non</strong> so se lo finisco.<br />

Il 16 maggio 2003 avrò la gioia di pubblicare, presso l’editore<br />

per il quale lavoro, un grosso romanzo scritto da uno dei miei<br />

più cari amici. (Sia chiaro: ci siamo conosciuti, nel 1995, per la<br />

scrittura; <strong>non</strong> è che pubblico solo i miei amici; è che sulla base<br />

della scrittura possono nascere, o <strong>non</strong> nascere, grandi amicizie:<br />

in questo caso è nata). Io sono convinto che sia un capolavoro.<br />

Il libro è stato scritto in tre anni, e fa 560 pagine. In questi tre<br />

anni ho visto il mio amico “entrare” progressivamente sempre<br />

di più dentro il libro. Da settembre dell’anno scorso fino<br />

all’altro ieri, credo che sostanzialmente nella sua vita <strong>non</strong> ci sia<br />

stato altro che il libro da fare. Certo: ha lavorato (campa con


due lavori part-time). Certo: ha letto (ma sempre in funzione del libro).<br />

Certo: ha avuta un po’ di vita sociale: se è vita sociale trovarsi e<br />

<strong>non</strong> parlare che del libro.<br />

La dedizione è diventata, pian piano, e senza che il mio amico se<br />

ne avvedesse, davvero totale. Negli ultimi mesi, poi, la situazione si<br />

era fatta quasi disperata. Il mio amico, semplicemente, <strong>non</strong> riusciva<br />

a finire. Il romanzo ha una struttura molto complessa, e ogni giorno<br />

si scoprivano piccole cose che <strong>non</strong> tornavano, aggiustamenti necessari,<br />

riferimenti incrociati da far incrociare. Una notte, mi ricordo,<br />

eravamo già alla rilettura delle bozze, scoprimmo che la mancanza di<br />

una virgola in una delle prime pagine aveva completamente modificata<br />

l’interiorità, verso pagina quattrocento, di un personaggio <strong>non</strong><br />

proprio secondario (fu necessario, per far tornare i conti, aggiungere<br />

una nota in calce qua, togliere un passaggio là, inserire piccole varianti<br />

un po’ dappertutto).<br />

Non c’è stata fretta. Né da parte mia, che ero nel ruolo dell’editore;<br />

né da parte del mio amico, che in fin dei conti si è preso tutto il<br />

tempo del quale aveva bisogno. Certo: <strong>non</strong> siamo stati degli sconsiderati.<br />

Sapevamo che c’erano delle scadenze. Ma sapevamo, ad<br />

esempio, che potevamo cambiarle (e le abbiamo cambiate, infatti).<br />

Ecco, secondo me: essere disponibili a considerare altre possibilità;<br />

aver voglia di collaudare altre forme oltre alla prima che ci è venuta<br />

in mente; <strong>non</strong> avere fretta di finire, di consegnare, di avere un risultato;<br />

tutto questo è indispensabile per rendersi conto che un’opera<br />

letteraria, per modesta e poco ambiziosa che sia, è comunque un<br />

oggetto complesso. Dove complesso significa, appunto, che la sparizione<br />

di una virgola a pagina sette cambia la psiche di un personaggio a<br />

pagina quattrocento. E di come, nel dettaglio, questo possa avvenire,<br />

parliamo la settimana prossima. A risentirci.<br />

22<br />

Chiacchierata numero 14<br />

Buongiorno. Domandavo la settimana scorsa: come può avvenire<br />

che, in un romanzo, la sparizione di una virgola a pagina<br />

sette modifichi l’interiorità di un personaggio a pagina quattrocento?<br />

In realtà <strong>non</strong> saprei spiegarlo molto. La mia battuta ricalca<br />

una battuta celebre, secondo la quale: il battito d’ali d’una<br />

farfalla a Pechino può provocare il crollo d’un ponte a New<br />

York. Si fa questa battuta, di solito quando si cerca di spiegare il<br />

significato della parola «olistico».<br />

Dalla garzantina di filosofia: «Olismo, tesi epistemologica secondo<br />

cui l’organismo biologico o psichico deve essere studiato<br />

in quanto totalità organizzata (in greco hólos significa “tutto, intero”)<br />

e <strong>non</strong> in quanto somma di parti discrete». In effetti è assai<br />

diverso considerare una narrazione una «somma di parti discrete»,<br />

cioè di parti tranquillamente separabili, almeno nel pensiero,<br />

l’una dall’altra (<strong>non</strong> solo un episodio dall’altro ma anche,<br />

ad esempio, il registro linguistico dalla punteggiatura, il dialogo<br />

dalla descrizione dei movimenti, il lessico dalla sintassi ecc.); e<br />

considerarla invece una «totalità organizzata», cioè un sistema<br />

nel quale nessun elemento è pensabile come separato dagli altri<br />

- nel quale, aggiungo, ogni elemento è una sorta di “precipitato”<br />

del sistema tutto (e il sistema tutto ha lo stesso grado di coesione<br />

e compattezza, <strong>non</strong>ché la stessa forma, di ciascun elemento).<br />

In realtà, se io penso a una narrazione come a una «totalità organizzata»,<br />

corro seriamente il rischio di <strong>non</strong> riuscire proprio a<br />

pensarla, perché potrei pensarla solo “tutta insieme” e “in tutta<br />

la sua profondità”: e chi è capace, difronte a una narrazione<br />

(come difronte a qualunque cosa) di pensarla davvero “tutta insieme”<br />

e “in tutta la sua profondità”? C’è qualcuno capace di<br />

pensare “tutto insieme” e “in tutta la sua profondità” un romanzo<br />

come I fratelli Karamazov? Credo di no; dubito assai che<br />

lo pensasse in tal modo lo stesso Dostoevskij, che pure l’aveva


scritto. Ma anche una barzelletta o la più semplice delle favole, <strong>non</strong><br />

appena le prestiamo attenzione, rivelano profondità insondabili.<br />

E allora? Allora, secondo me è bene cercare comunque di pensare<br />

olisticamente a ciò che andiamo scrivendo. Ora dico delle banalità.<br />

Sarebbe bello se, in ogni narrazione, la forma soggiacente a ogni singola<br />

frase, a ogni scelta di lessico, a ogni segno di punteggiatura, a<br />

ogni svolta dell’azione, a ogni battuta di dialogo, a ogni spazio bianco<br />

interposto tra uno e l’altro episodio ecc. - fosse sempre la stessa<br />

forma, e fosse pure la stessa forma generale di tutta la narrazione. È<br />

evidente che un simile grado di controllo è pressoché impossibile.<br />

Ma si può provarci, tendere a, andare verso. Molte grandi opere sono<br />

onorevoli tentativi, falliti.<br />

***<br />

Io scrivo la mia narrazione dal principio alla fine; ma continuamente,<br />

mentre progredisco, torno indietro, cambio, aggiusto, tolgo,<br />

rifaccio, sposto; e quando bene ho finito torno a lavorare sul tutto, e<br />

lavoro sulla mia narrazione come se fosse un oggetto; ne faccio degli<br />

schemi che osservo come osserverei una piantina topografica; modifico<br />

il “peso” di fatti, parole, azioni, pause ecc. come se dovessi far<br />

raggiungere lo stato di equilibrio a una bilancia con <strong>non</strong> due soli, ma<br />

con duecento piatti.<br />

Ma il lettore che legge, <strong>non</strong> fa mica così. Il lettore che legge parte<br />

veramente dal principio e arriva veramente fino alla fine (se la mia narrazione<br />

<strong>non</strong> gli fa schifo). Per me che l’ho scritta la narrazione è un<br />

oggetto, una topografia, una stanza piena di bilance; per il lettore<br />

che la legge la narrazione è un cammino, un filo, un «avvenne questo…<br />

e poi questo… e poi questo…». Anche qualora io racconti più<br />

storie intrecciate, o riempia la narrazione di flash-back, o dissemini i<br />

fatti nel disordine più assoluto, comunque per il lettore c’è dapprima<br />

pagina uno, poi pagina due, poi pagina tre… In fondo I fratelli Kara-<br />

23<br />

mazov, come tanti romanzi dell’Ottocento, è stato pubblicato<br />

dapprima a puntate nei giornali, e solo dopo raccolto in volume.<br />

Allora dobbiamo rassegnarci: per il lettore, la narrazione come<br />

«totalità organizzata» è spesso impercepibile. O ne ha, al massimo,<br />

una percezione inconsapevole, una specie di “ombra<br />

d’intuizione”. Quando andiamo al cinema, e ne usciamo insoddisfatti<br />

del film ma senza saper dire perché ne siamo insoddisfatti,<br />

forse stiamo intuendo qualche falla nella «totalità organizzata»<br />

del film. La differenza tra il lettore comune (o lo spettatore<br />

comune) e il critico letterario (o cinematografico) è spesso<br />

qui: nella capacità di percepire la narrazione o il film come<br />

«totalità organizzata».<br />

In somma: vi sto invitando a tentar di pensare le vostre narrazioni<br />

come «totalità organizzate»; vi avviso che è una cosa difficilissima;<br />

e, per confortarvi, vi dico che comunque, della «qualità<br />

organizzativa» della vostra «totalità», se ne accorgeranno<br />

quattro gatti, al massimo qualche parruccone di critico. Bene, è<br />

proprio così. E allora, santo cielo, perché farlo?<br />

Semplicemente perché l’unica differenza che io sia riuscito a<br />

percepire, in vita mia, tra chi «è uno scrittore» e chi «<strong>non</strong> è uno<br />

scrittore», riguarda la qualità dell’investimento personale nella<br />

scrittura. E l’investimento personale nella scrittura (la «dedizione»,<br />

potrei dire) <strong>non</strong> è qualcosa che possa essere incrementato<br />

discretamente; a un certo punto c’è un salto, e questo salto c’è<br />

chi lo fa e chi <strong>non</strong> lo fa. Il salto è: tentar di pensare alle narrazioni<br />

come a «totalità organizzate», oppure <strong>non</strong> farlo; e chi lo<br />

fa, cioè chi «è uno scrittore», in quel momento smette di essere<br />

una persona normale. Non voglio dire che diventi pazzo o asociale;<br />

no, smette di essere una persona normale e, ad esempio, si<br />

concede uno smisurato egocentrismo; ossia, esclude dalla sua<br />

mente qualunque pensiero che <strong>non</strong> concerna il pensare la sua<br />

narrazione come «totalità organizzata».


Narratori così, ovviamente, ce n’è pochi. Io ne so tre, in Italia.<br />

Quanto a me, il salto <strong>non</strong> ho osato farlo. Troppa paura, e poi <strong>non</strong> ce<br />

l’avrei fatta. Alla prossima.<br />

Chiacchierata numero 15<br />

Buongiorno. Scrivevo la settimana scorsa, tra le altre cose (ho<br />

scritte troppe cose, la settimana scorsa; dovrò fare un po’ di riprese,<br />

per spiegarmi a puntino); scrivevo dunque: il narratore compone la<br />

sua narrazione come un oggetto, una struttura; lavora ora all’inizio,<br />

ora alla fine, ora al mezzo; torna indietro, cambia, rifà, eccetera; ma<br />

poi il lettore parte dal principio e arriva (se va tutto bene) fino alla<br />

fine; per il lettore, nel momento in cui legge, una narrazione <strong>non</strong> è<br />

un oggetto, una cosa che si possa guardare dall’alto o dal basso o da<br />

destra o da sinistra: per il lettore la narrazione è un filo, un percorso,<br />

una sequenza, una cosa in somma che ha una sola direzione e un<br />

solo verso.<br />

Poi, magari, a lettura compiuta, anche il lettore riesce a guardare la<br />

narrazione come un oggetto. Ma questa è un’altra faccenda.<br />

Bene. Ho qui sul tavolo, accanto alla mia mano sinistra, un libro<br />

ancora avvolto nel cellophane. L’ho comperato ieri alla libreria Remainder’s<br />

di Milano, in galleria Vittorio Emanuele. L’ho pagato 2<br />

euro e 7 centesimi. L’editore è Lerici. L’autore è un francese, Marc<br />

Saporta. Il titolo è: Composizione n. 1. E c’è scritto sotto: «romanzo».<br />

L’esterno del libro è pieno di istruzioni. C’è una fascetta (bianca, con<br />

la scritta in rosso mattone) che dice: «TANTI ROMANZI PER QUANTI<br />

SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale: mescolandole, a<br />

ciascuno il “suo” romanzo». Sulla copertina, in alto a sinistra, è<br />

scritto: «Si invita il lettore a mescolare queste pagine come un mazzo<br />

di carte. Se gli fa piacere, può anche alzarle con la sinistra, come si fa<br />

dalla cartomante. In ogni caso l’ordine in cui appariranno allora i diversi<br />

fogli determinerà il destino di X». Suppongo quindi che X sia il<br />

24<br />

nome del protagonista. Sempre sulla copertina, in alto a destra,<br />

è riportata una frase tratta dal quotidiano Il Giorno: «La libertà<br />

del lettore di leggere il suo romanzo disponendo come crede<br />

l’ordine delle pagine è totale ed effettiva. Questa è un’opera che<br />

merita tutta la nostra attenzione, è uno dei più compiuti e veri<br />

romanzi che la letteratura francese ci abbia saputo proporre».<br />

La quarta di copertina dice (stralcio, sennò mi mangio tutto lo<br />

spazio): «In una vita il tempo e l’ordine degli eventi contano assai<br />

più della natura, degli eventi stessi. […] Ma <strong>non</strong> è indifferente<br />

sapere se [l’uomo] ha incontrato l’amante, Dagmar, prima<br />

o dopo il matrimonio; se ha abusato della piccola Helga da<br />

adolescente o da uomo maturo; se il furto di cui si è reso colpevole<br />

è stato commesso in nome della Resistenza o in tempi meno<br />

torbidi […] Dall’ordine in cui si susseguiranno i singoli episodi<br />

dipende anche che la storia finisca bene o male. Una vita si<br />

compone di parecchi elementi. Ma infinito è il numero delle<br />

possibili combinazioni».<br />

Strappo il cellophane. Il libro è costituito d’un certo numero<br />

di pagine <strong>non</strong> numerate, scritte da una parte sola, <strong>non</strong> rilegate (è<br />

spesso due centimetri). Un pacchetto di schede, in somma. La<br />

copertina è una sorta di contenitore. È stato pubblicato in<br />

Francia nel 1961, in Italia nel 1962. Maneggio il tutto con<br />

estrema cura. Soprattutto, <strong>non</strong> voglio mescolare le pagine/schede.<br />

Perché, io, questo romanzo, lo voglio leggere dal<br />

principio alla fine. Perché, io, <strong>non</strong> ho nessuna voglia di quel tipo di<br />

libertà.<br />

***<br />

La verità è che ne ho comperate due copie. Una l’ho liberata<br />

dal cellophane, l’altra no. Numererò le pagine della copia che<br />

leggerò, man mano che progredirò nella lettura. Quando avrò<br />

finito, aprirò anche l’altra copia: voglio sapere - ma tratterrò la


mia curiosità fino a quel punto - se in due copie diverse del libro<br />

l’ordine delle pagine/schede è lo stesso. Presumo che sì; ho un’idea<br />

di quanto costa fare i libri; e produrre due o tre mila libri ciascuno<br />

con un diverso ordine delle pagine/schede, è un costo da far venire i<br />

capelli bianchi.<br />

Tra chi frequenta corsi o laboratori di scrittura, <strong>non</strong>ché tra i cosiddetti<br />

“aspiranti scrittori” che mi mandano i loro dattiloscritti, è diffuso<br />

un pregiudizio: che la narrazione sia un semplice supporto, o<br />

addirittura un’occasione, per la libera attività fantasticante del lettore.<br />

«Io scrivo, ma poi il lettore deve essere libero di immaginare<br />

quello che vuole»: così mi viene detto, più o meno. E se faccio notare<br />

che una scena è incompleta, che di un personaggio <strong>non</strong> si sa<br />

neanche se è maschio o femmina, che <strong>non</strong> si capisce se l’azione avviene<br />

a New York o a Berlino o a Giarre, eccetera; mi viene detto:<br />

«Voglio che il lettore sia libero di immaginarsi la scena come vuole,<br />

il personaggio come vuole, la città come vuole».<br />

Ora; <strong>non</strong> so voi; ma io, quando leggo un libro, quando sono un<br />

semplice lettore, <strong>non</strong> voglio questo. Ho letto fin da bambino, ho<br />

cominciato con i romanzi di Salgàri e della baronessa Orczy, il libro<br />

d’avventure è per me il prototipo di ogni libro. Certo: oggi sono un<br />

lettore più raffinato, mentre leggo vedo i meccanismi della narrazione,<br />

distinguo nel giudizio tra narrazione e scrittura, eccetera; ma per<br />

ridiventare il lettore che ero quando avevo sei anni, mi bastano tre<br />

secondi. Se ho davanti a me due ore di treno e <strong>non</strong> ho con me<br />

niente da leggere, senza esitazione compero un Urania, un manga,<br />

un Superpoket, un Mito (mai un giallo): e in treno leggo beatamente,<br />

come legge beatamente il più ingenuo dei lettori; salvo poi, arrivato<br />

a destinazione, buttare via il libro: perché mi basta uscire dalla lettura<br />

quel tanto che serve per smontare dal treno, per rendermi conto che<br />

ciò che stavo leggendo era una schifezza. Ma fin che lo leggevo, accidenti!,<br />

sono stato al gioco.<br />

Questo per dire che io sono, come molti, come - spero - tutti, un<br />

lettore ingenuo. E, come tutti, voglio che mi si racconti una storia:<br />

25<br />

che cominci dal principio e finisca con la fine, che mi avvinca e mi rapisca,<br />

che riempia la mia immaginazione e <strong>non</strong> mi lasci più un solo pensiero<br />

mio.<br />

Tuttavia, il pregiudizio di cui sopra contiene, come tutti i pregiudizi,<br />

qualcosa di vero. E un libro come quello di Marc Saporta<br />

ha un suo senso. Ne parliamo tra una settimana.<br />

Chiacchierata numero 16<br />

Buongiorno. Descrivevo, settimana scorsa, un libro che ho<br />

comperato una libreria a metà prezzo: Composizione n. 1, di Marc<br />

Saporta (pubblicato da Lerici nel 1961). Un libro composto <strong>non</strong><br />

di pagine rilegate ma di fogli sciolti, ciascuno recante una scena<br />

o un breve episodio; con in copertina l’avviso: «Si invita il lettore<br />

a mescolare queste pagine come un mazzo di carte. L’ordine<br />

delle pagine è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo».<br />

E dicevo, settimana scorsa: di questa libertà, della libertà<br />

di mescolare le pagine, <strong>non</strong> so che cosa farmene; io voglio<br />

una storia con un inizio e una fine…<br />

Vediamo.<br />

In quarta di copertina di quel libro c’è scritto: «Una vita si<br />

compone di parecchi elementi. Ma infinito è il numero delle<br />

possibili combinazioni». È vero? Ma sì, è vero, si potrebbe dire;<br />

benché le combinazioni (delle pagine) siano <strong>non</strong> infinite ma<br />

moltissime (e parecchie di queste siano assai simili tra loro: se<br />

solo una pagina cambia di posto, ho davvero un “altro” romanzo?).<br />

E invece, dirò, <strong>non</strong> è per niente vero.<br />

La mia vita (quarantadue anni, dieci mesi e diciannove giorni,<br />

oggi che leggete questo pezzo) consiste in un’unica combinazione.<br />

Non posso tornare indietro e cambiare. Certo: posso, nel<br />

raccontare (a me stesso, a voi, a chiunque) la mia storia, introdurre<br />

spostamenti, cancellazioni, invenzioni; posso, in somma,


mentire. Ma se leggo un romanzo, posso pensare che il narratore mi<br />

stia mentendo? No.<br />

Posso pensare che Zeno Cosini, protagonista della Coscienza di Zeno<br />

di Italo Svevo <strong>non</strong>ché autore del “memoriale” che costituisce il 99%<br />

del romanzo (ne resta fuori solo la brevissima introduzione firmata<br />

dallo psicoanalista di Zeno), menta a tutto spiano. E so benissimo<br />

che Italo Svevo ha scritto un romanzo, cioè “una storia inventata”<br />

(per quanto possa aver fatto man bassa, per comporla, delle sue<br />

esperienze di vita): e un’invenzione, della quale siamo tutti consapevoli<br />

che è un’invenzione, <strong>non</strong> è una menzogna.<br />

Ma il narratore, che <strong>non</strong> è né Italo Svevo né Zeno Cosini, ma è una<br />

sorta di fantasma che io, durante la lettura, percepisco (in buona misura<br />

inconsapevolmente) come colui che mi racconta la storia e me<br />

la garantisce - no, lui <strong>non</strong> può mentire. Lui mi garantisce che ogni<br />

parola che leggo è esattamente come Zeno l’ha scritta. Mi garantisce<br />

che, fintantoché proseguirò nella lettura, continuerò a percepire Zeno<br />

come una persona dotata di esistenza autonoma.<br />

Io, come lettore, sono disposto ad accettare qualunque storia, anche<br />

la più improbabile. Accetto che il protagonista nasca povero, diventi<br />

ricco per caso, ritorni povero, scopra di essere figlio d’un re,<br />

incontri improvvisamente un fratello gemello del quale nulla si sapeva;<br />

accetto che i cattivi si rivelino buoni, che i buoni si rivelino<br />

cattivi, che tutti abbiano doppie e triple identità, che il castello in riva<br />

al lago sia in verità una baracca, che l’oceano sia in realtà una<br />

pozzanghera, che una lucerna contenga un essere soprannaturale:<br />

tutto, tutto.<br />

Io, come lettore, sono disposto ad accettare una storia raccontata<br />

in qualunque modo. Si può partire dal principio, dalla fine, dal mezzo,<br />

da tre punti diversi, da nessun punto; la narrazione può andare<br />

avanti nel tempo, indietro nel tempo, a salti; posso avere due o tre<br />

tempi contemporaneamente; posso avere omissioni, ripetizioni,<br />

menzogne dei personaggi; posso avere un testo apocrifo, o compo-<br />

26<br />

sto da una collezione di apocrifi, scritto da un cane o da un cavallo,<br />

delirante, scritto in una lingua inventata.<br />

Ma, in qualunque modo sia raccontata la storia, mi è necessario<br />

che la narrazione abbia un principio e una fine. Una pagina<br />

1 e una pagina 242 con stampato in mezzo: «Fine». Anche se,<br />

magari, in quella pagina 242, è raccontato il primo avvenimento<br />

della storia, il germe della storia stessa… L’importante è che,<br />

quando giungerò a pagina 242, il narratore mi dica: ecco, la storia<br />

è andata proprio così; e io possa rispondere: sì, davvero, è andata<br />

proprio così.<br />

Perché la mia esperienza di vita, <strong>non</strong> è quella di un numero infinito<br />

delle combinazioni: è quella piuttosto, di un numero ben<br />

finito di fatti. Ci saranno state, magari infinite, le possibilità; ma<br />

la mia vita quale sarebbe potuta essere se le cose fossero andate<br />

diversamente, a chi interessa? A me no. Se uno mi dicesse:<br />

«Guarda, ora ti racconto come <strong>non</strong> sono andate le cose», gli direi<br />

che ho altro da fare. Anche un romanzo come L’uomo nell’alto<br />

castello (altrimenti noto come La svastica sul sole) di Philip K.<br />

Dick, che ci racconta un mondo nel quale l’Asse ha vinta la seconda<br />

guerra mondiale, <strong>non</strong> è una storia che ci racconta come<br />

<strong>non</strong> sono andate le cose: ci racconta, casomai, che le cose sono effettivamente<br />

andate diversamente da come credevamo. Pretende in<br />

somma che, mentre leggiamo, crediamo a quella storia come se<br />

fosse la storia vera.<br />

Il romanzo di Marc Saporta, dunque, con la sua stessa forma<br />

fisica, prima ancora che cominciamo a leggerlo, ci mette in forte<br />

imbarazzo.<br />

***<br />

Pier Vittorio Tondelli diceva che lui, mentre scriveva, desiderava<br />

«schiavizzare il lettore». Io preferisco dire: voglio esercitare<br />

un dominio sul lettore. Voglio che la sua mente assuma la for-


ma della mia immaginazione. Certo: ogni lettore (lo dicevo la settimana<br />

scorsa) reagisce diversamente a una narrazione. Ogni lettore è<br />

diverso da un altro lettore, e quindi la mia narrazione, a contatto con<br />

ciascun diverso lettore, produce diversi effetti. Ma questo <strong>non</strong> mi<br />

interessa. Non dico che sia un inconveniente: dico che <strong>non</strong> mi interessa.<br />

Se pensassi che è il lettore che fa il libro, dovrei fare un libro<br />

tutto di pagine bianche: così il lettore sarà libero di farci quello che<br />

vuole. Ma questo è un boomerang: niente è meno suggestivo di una<br />

pagina bianca.<br />

Mi rendo conto che c’è un paradosso. Racconto una storia sapendo<br />

che il lettore ne farà quel che vorrà, e tuttavia cerco di stabilire<br />

un dominio sul lettore.<br />

È come quando sono innamorato. Voglio che la persona amata sia<br />

liberamente sé stessa, e voglio che sia mia. Ne riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 17<br />

Buongiorno. Interrompo il ragionamento della settimana scorsa<br />

(finivo accennando all’innamoramento come modello della relazione<br />

tra lo scrivente e il lettore; dicevo che come si hanno verso la persona<br />

amata sia il desiderio di possederla sia il desiderio che sia totalmente<br />

sé stessa, ossia libera, così lo scrivente desidera dominare<br />

l’immaginazione del lettore pur sapendo che il lettore, di ciò che egli<br />

scrive, farà ciò che vuole). Interrompo il ragionamento, dicevo, per<br />

dirvi che sono appena partito da Bologna (è martedì 13 maggio, sono<br />

le dieci e cinque del mattino) e sto andando a Napoli, dove arriverò<br />

alle due e mezza. Ho quattro ore abbondanti a disposizione;<br />

quindi ho tirato fuori il portatile e mi sono messo a scrivere.<br />

L’altro giorno una gentile giornalista, intervistandomi al telefono,<br />

mi ha domandato: «Ma lei, quando scrive?». «Nei ritagli di tempo»,<br />

ho risposto. «Cioè?». «Cioè quando posso. Ci sono certi mesi<br />

dell’anno che <strong>non</strong> scrivo nulla se <strong>non</strong> cose di lavoro,» (questo è uno<br />

27<br />

di quei mesi, e questo articolo è una cosa di lavoro) «altri mesi<br />

che ci posso dedicare le giornate. Poi ci sono mesi e mesi che<br />

<strong>non</strong> mi viene niente da scrivere». «Quindi <strong>non</strong> ha l’abitudine di<br />

scrivere tutti i giorni, magari in certe ore?». «Mi capita di scrivere<br />

la mattina presto, perché per costituzione sono uno che si<br />

sveglia presto. Ma altrettanto spesso mi capita di scrivere fino a<br />

notte tardi». «E quando scrive, come si organizza?». «Be’, mi<br />

metto lì e scrivo». «Ascolta musica? Beve caffè? Fuma?». «Ma<br />

no», dico, «quando scrivo, scrivo. Mi ci concentro». «E scrive su<br />

carta? Su fogli sciolti? Su quaderni? Con la penna? Con la matita?».<br />

«Scrivo con il personal computer». «Sempre? Anche le<br />

prime stesure?». «Senta: mi sono seduto per la prima volta davanti<br />

a un pc nel 1977, quando avevo 17 anni. Era un Apple I-<br />

Ie. Ho posseduto un Commodore 64, un Amstraad 1024, un<br />

Olidata formato lavatrice, un paio di assemblati a<strong>non</strong>imi, e<br />

adesso finalmente ho un portatile. Nel 1982 ho cominciato a<br />

lavorare in un ufficio stampa, dove per prima cosa mi hanno<br />

messo davanti a un terminale; e tre anni dopo siamo passati alla<br />

rete di personal, gli OS/2 dell’Ibm. In somma, ho attraversata<br />

un po’ tutta la storia della scrittura al pc, con qualche incursione<br />

nel mondo Apple. Per me la tastiera è il mezzo più naturale per<br />

scrivere».<br />

Sento che la giornalista è perplessa. «Ho detto qualcosa che<br />

<strong>non</strong> va?», domando. «No», dice, e aggiunge: «Allora lei adesso,<br />

col portatile, scrive un po’ dove le capita». «Ma, sì, mi ci sto<br />

abituando; è chiaro però che a casa mia lavoro meglio». «In che<br />

stanza scrive?». «Ho uno studiolo incasinatissimo». «Generi di<br />

conforto?». «Nessuno». «Non sente la nostalgia della carta, della<br />

penna che corre sulla carta?». «No». Altro silenzio della giornalista.<br />

Riattacco: «Guardi, se c’è un’esperienza poco mistica, per<br />

me, è proprio quella dello scrivere e del leggere. Viaggio parecchio,<br />

sempre in treno, e così il treno è diventato la mia sala di<br />

lettura. E può essere sala di scrittura». «Vuol dire che per lei il


treno è diventato necessario?». «Ma no! Dico che è un posto come<br />

un altro, comodo per fare certe cose. Per lavarsi o mangiare <strong>non</strong> è<br />

comodo. Per telefonare nemmeno. Per leggere e scrivere sì». «Non<br />

ha problemi a concentrarsi?». «Quando lavoravo in ufficio stampa,<br />

eravamo quattro in una stanza. Io ero la “macchina per scrivere”<br />

dell’ufficio, scrivevo quasi tutto. Il capo stava attaccato al telefono,<br />

perché il suo era lavoro di relazioni. Quello che impaginava le riviste<br />

girava attorno al tavolo luminoso, ritagliava, incollava, chiamava la<br />

tipografia, leggeva i testi a bassa voce per trovare i refusi. Quello<br />

della pubblicità (facevamo delle riviste tecniche, finanziate dalla<br />

pubblicità) stava anche lui sempre al telefono, quando <strong>non</strong> era in giro.<br />

Poi arrivava gente, parlava con me, con il capo, andava via. Lì<br />

dentro io confezionavo ogni giorno le mie dieci-quindici cartelle».<br />

«Ma era un’alta cosa…». «Non ci vuole meno concentrazione, per<br />

scrivere un articolo sulle nuove norme del ministero tedesco della<br />

sanità circa il confezionamento del gelato da passeggio, o per spiegare<br />

il meccanismo delle tariffe a forcella per l’autotrasporto di collettame<br />

umido…». «Ma che ufficio stampa era, scusi?».<br />

«Un’associazione artigiana».<br />

***<br />

Sono qui sul treno per Napoli, e scrivo. Attorno a me c’è gente che<br />

chiacchiera, telefona, fuma, va e torna dalla carrozza bar. Due bambini<br />

giocano agli indiani. Due tipe quarantenni (l’età mia) si scambiano<br />

giornali tipo Chi e Oggi, commentando gli articoli. Tre napoletani<br />

giocano a carte strepitando. Un signore massiccio, a occhio<br />

sessantenne, alla mia sinistra, guarda fisso la ragazza che mi dormicchia<br />

difronte (<strong>non</strong> più di ventiquattr’anni, maglietta rossa attillata,<br />

capezzoli prominenti). Una studentessa molla il libro e prende il<br />

game-boy, bip-bip-bpi. Più in là, quattro soldatini in licenza schiamazzano.<br />

Dietro di me un giapponese strilla nel telefono, velocissimo,<br />

a scatti, ripetendo tutto due volte (anche se è giapponese, capi-<br />

28<br />

sco che ripete tutto due vole). In una nota in fondo a Senza sangue<br />

Alessandro Baricco ringrazia l’istituzione che lo ha ospitato<br />

durante la stesura dello stesso Senza sangue (un museo statunitense,<br />

se <strong>non</strong> ricordo male) per avergli garantito (cito a memoria,<br />

sono in treno) «quel silenzio senza il quale nessuna opera<br />

può nascere».<br />

Dostoevskij scriveva tutto il giorno per le riviste, la sera si<br />

ubriacava di brutto, giocava e perdeva a carte, a volte gli veniva<br />

un attacco epilettico; sua moglie andava a raccoglierlo da sotto<br />

il tavolo dell’osteria, lo tirava a casa, gli metteva la testa sotto<br />

l’acqua fredda; e lui allora si metteva buono buono a scrivere i<br />

Karamazov. Che relazione ci sarà mai, tra il silenzio e il rumore,<br />

tra l’opera e il silenzio e il rumore? A me piacciono di più i libri<br />

scritti in mezzo al rumore, credo. E mi sembra di sentirlo,<br />

mentre leggo. Viva il rumore! Sono le undici e cinque, finito<br />

l’articolo. 6.000 battute esatte. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 18<br />

Buongiorno. Due settimane fa, prima di interrompermi per<br />

parlare del rumore, dicevo: che l’innamoramento può essere un<br />

modello della relazione tra lo scrivente e il lettore; e che come si<br />

hanno verso la persona amata sia il desiderio di possederla sia il<br />

desiderio che sia totalmente sé stessa, ossia libera, così lo scrivente<br />

desidera dominare l’immaginazione del lettore pur sapendo<br />

che il lettore, di ciò che egli scrive, farà ciò che vuole.<br />

Mi imbatto continuamente, nei laboratori di scrittura che conduco,<br />

in persone che mi dicono: «Io scrivo soprattutto per me».<br />

Bene. Scrivere per sé è un’attività completamente diversa dallo<br />

scrivere per un altro. Non voglio dire che lo scrivere per un altro<br />

sia più lodevole dello scrivere per un altro. Dico che sono due<br />

cose diverse. Potrei esagerare e dire che scrivere per un altro è


letteratura, scrivere per sé <strong>non</strong> è letteratura. Questo <strong>non</strong> significa<br />

che testi scritti per sé <strong>non</strong> possano essere assai belli; né significa che<br />

testi scritti per un altro siano necessariamente belli.<br />

Mi imbatto continuamente anche in persone che mi dicono: «Scrivo<br />

per esprimermi». Esprimersi significa, letteralmente, spremersi fuori,<br />

spremere qualcosa di sé fuori di sé. Ecco, io direi che scrivere per un altro<br />

è l’attività esattamente opposta: è andare verso l’altro. E confesso che<br />

(io sono, come chiunque, prima di tutto un lettore) a me, uno tutto<br />

intento a spremersi fuori di sé, m’interessa poco. M’interessa poco<br />

perché, alla fin fine, mi pare che a lui interessi poco di me. Invece,<br />

uno che viene verso di me, m’interessa: proprio perché viene verso<br />

di me.<br />

Nell’innamoramento ci sono, mi pare, entrambe le cose. C’è uno<br />

spremersi fuori di sé, e c’è un andare verso l’altro. Ma la prima cosa,<br />

è l’andare verso l’altro. Se io vado verso l’altra persona, l’altra persona<br />

può accettarmi. Quando l’altra persona mi avrà accettato, allora<br />

potrò - di tanto in tanto - spremermi fuori di me. Il mio andare verso<br />

l’altra persona avrà prodotta una disponibilità dell’altra persona<br />

verso di me; e dentro questa disponibilità (aggiungo: nei limiti di<br />

questa disponibilità) io potrò spremermi fuori di me. Altrettanto accade<br />

all’altra persona: il suo accettarmi <strong>non</strong> è altro che un venire<br />

verso di me; io allora la accetterò; e dentro questa mia accettazione,<br />

questa mia disponibilità, l’altra persona potrà spremersi fuori di sé.<br />

Quando comincio a raccontare, è necessario che io vada verso il<br />

lettore. Devo innanzitutto desiderare che il lettore esista. Poi dovrò<br />

desiderare la sua persona: la presenza, la compagnia, l’attenzione, la<br />

continuità. Poi dovrò desiderare di essere accettato da lui. Poi, se mi<br />

avrà accettato, dovrò esplorare questa sua accettazione: misurare la<br />

sua disponibilità. A quel punto, conoscerò i limiti entro i quali potrò<br />

anche esprimermi, spremermi fuori di me. Se io mi piazzassi là, subito,<br />

davanti a lui, e - trac! - mi spremessi fuori da me, il lettore probabilmente<br />

mi rifiuterebbe. Non saprei dargli torto.<br />

29<br />

Le persone che, nei laboratori di scrittura, parlano della propria<br />

scrittura come di un’espressione, fanno spesso un paragone:<br />

tra la scrittura e il vomito. Quando questo succede, io dico:<br />

«Scusa, ma se queste pagine tu le hai “vomitate”, come dici, per<br />

quale ragione io dovrei mettermi a leggere il tuo vomito? Che<br />

persona pensi che io sia, se mi dai da leggere il tuo vomito?».<br />

***<br />

Certo: nell’innamoramento, la persona verso la quale andare è<br />

lì. Magari è inaccessibile, magari ci ha già scacciati una dozzina<br />

di volte dalla sua presenza, magari è morta, magari <strong>non</strong> si accorge<br />

di noi; tuttavia, è lì. Il lettore, invece, dov’è? Chi l’ha visto?<br />

Com’è fatto?<br />

Ma io conosco il lettore. Infatti, come ho detto, e come<br />

chiunque, io sono un lettore. So che cosa mi succede, mentre<br />

leggo. Nella lettura faccio uno sdoppiamento: leggo, e guardo<br />

che cosa mi succede mentre leggo. Spio le mie reazioni. Mi conosco.<br />

Mi imparo. «Ma a questo punto», dirà qualcuno, «il lettore<br />

sei sempre tu! Quindi hai poco da parlare di una scrittura che<br />

va verso l’altra persona!». E invece no. Che conoscenza posso avere,<br />

io, dell’altra persona, se <strong>non</strong> attraverso la conoscenza che ho<br />

di me? Gesù di Nazareth diceva, o si tramanda che abbia detto:<br />

«Ama il tuo prossimo come te stesso»; anche lui, quindi, che<br />

pure proponeva la dedizione all’altro come massima virtù,<br />

metteva al primo posto, come amore originario, in base al quale<br />

tutti gli altri amori si definiscono, l’amore verso di sé.<br />

«La prima volta che ho fatto all’amore», mi ha detto una volta<br />

un ragazzo, in un laboratorio di scrittura, «<strong>non</strong> avevo la minima<br />

idea di che cosa fossero il desiderio, il piacere, il bisogno della<br />

ragazza con cui ero. Ho capito poi, che solo attraverso il desiderio<br />

il piacere il bisogno miei potevo arrivare a un’intuizione».


Essendo lettore, faccio dunque esperienza dell’innamoramento che<br />

colui di cui sto leggendo un testo ha verso di me. Su questa esperienza<br />

d’innamoramento subito, di amore ricevuto - che è originaria -<br />

fondo la mia capacità di innamoramento verso colui che leggerà ciò<br />

che io scrivo.<br />

Qualche scrittore banalmente dice: «Scrivo i libri che mi piacerebbe<br />

leggere». Ma questo è solo un primo passo: eleggo me lettore a<br />

modello di tutti i lettori. È ancora una cosa molto egocentrica. Propongo<br />

di fare un passo avanti: adopero la mia esperienza di lettura<br />

per immaginarmi come possa essere l’esperienza di lettura di un’altra<br />

persona.<br />

Si dice spesso: «Vuoi scrivere? Allora leggi!». Il consiglio è buono:<br />

ma <strong>non</strong> perché leggere serva a imparare la buona forma, il lessico,<br />

l’arrotondamento delle frasi, l’abilità descrittiva, l’efficacia del dialogo,<br />

l’incatenamento della trama; sì, certo, leggere serve anche a questo;<br />

ma questa è la parte tecnica della faccenda; leggere serve prima<br />

di tutto a costituire la propria esperienza di lettore.<br />

Un lettore mi ha scritto: «Ho smesso di leggere la sua rubrica perché<br />

lei <strong>non</strong> arriva mai al dunque». Bene: secondo me, questo è il<br />

dunque. Settimana prossima ci torno su. State bene.<br />

Chiacchierata numero 19<br />

Buongiorno. Dicevo la settimana scorsa, che lo scrivere per sé è<br />

una cosa del tutto diversa dallo scrivere per un’altra persona. Dicevo<br />

che il lettore, <strong>non</strong> l’autore, costituisce il testo. Ciò che è scritto, esiste<br />

veramente in quanto viene letto. Queste sono cose nelle quali<br />

credo molto. Sono fermamente convinto che le persone che provano,<br />

vogliono, desiderano molto «scrivere», e tuttavia scrivono cose<br />

bruttissime (sono tante, purtroppo), sono proprio persone che <strong>non</strong><br />

riescono a concepire lo scrivere come un andare verso l’altro.<br />

30<br />

Detto questo: nei giorni scorsi ho avviato un blog. Non sto a<br />

spiegare che cosa tecnicamente sia un blog: per sommi capi, si<br />

chiama blog una tecnologia che permette di pubblicare nel web<br />

con estrema facilità. Pubblicare un testo nel proprio blog <strong>non</strong> è<br />

più complicato che spedire un’email (so che per molti anche le<br />

email sono un mistero; ma <strong>non</strong> so che farci; <strong>non</strong> sono cose indispensabili,<br />

come <strong>non</strong> è indispensabile leggere questo articolo).<br />

Quasi tutti i portali italiani (Clarence, Virgilio ecc.) danno la<br />

possibilità di aprire dei blog (gratis). Basta iscriversi. Il bello del<br />

blog (che si chiama così, mi dicono, perché è una contrazione di<br />

web log, «una traccia nel web») è che tutti i pezzi che pubblicate<br />

vengono impaginati automaticamente uno sotto l’altro, corredati<br />

di data e ora. Appena spedite un pezzo nuovo, questo finisce<br />

in cima alla pagina; mentre gli altri scorrono verso il basso.<br />

Un po’ come certi espositori/distributori di pacchetti di caramelle,<br />

per spiegarsi.<br />

Questo metodo d’impaginazione, se ci pensate, sembra fatto<br />

apposta per tenere un diario. E già, direte voi: ma chi è che si<br />

mette a tenere un diario nel web? Risposta: un sacco di gente.<br />

Pare che in Italia ci siano già circa quindicimila blog attivi. Vabbè:<br />

come in tutte le cose del web, facciamo conto che un terzo<br />

siano già “morti”. Non tutti sono dei diari. Io ne ho visitati un<br />

po’, ma sono ancora all’inizio dell’esplorazione. C’è un bel libro<br />

che parla di questo universo: Mondo blog. Storie vere di gente in rete,<br />

pubblicato da Hops Libri (www.hopslibri.it), e curato da La Pizia,<br />

da una “blogger” (bloggatrice? mah!) assai popolare e stimata.<br />

Io ho la sensazione che la forma-diario sia dominante. Il grande<br />

giornalista che ogni giorno, alle undici del mattino, scrive nel<br />

suo blog quali articoli della stampa internazionale gli sono sembrati<br />

più interessanti, e mette eventualmente i link alle edizioni<br />

on-line dei vari Financial Times o Le Monde: be’, questo giornalista<br />

<strong>non</strong> tiene un diario vero e proprio, ma sicuramente usa la forma<br />

del diario.


Tornando a noi: qualche giorno fa, dicevo, ho aperto un blog. Non<br />

so bene perché l’ho fatto. Io <strong>non</strong> ho mai tenuto un diario. Per un<br />

certo tempo, quando avevo 13-16 anni, scrivevo delle cose in certi<br />

quaderni. Ma <strong>non</strong> erano diari. Comunque <strong>non</strong> li ho più. (Nei blog,<br />

tutto ciò che scrivete e pubblicate viene automaticamente archiviato<br />

per data, mese e anno: senza che voi dobbiate far nulla. Nulla va<br />

perduto, a meno che voi <strong>non</strong> lo cancelliate apposta). L’idea di tenere<br />

un diario mi è sempre sembrata un’idea bizzarra. Eppure ho aperto<br />

un blog, senza sapere bene perché lo facevo. E mi sono trovato, senza<br />

volerlo e quasi senza saperlo, a scrivere un diario.<br />

In realtà, sono anni che tengo diari. Per anni mi sono scritto settimanalmente<br />

con un’amica (oggi ci sentiamo un po’ di meno, e soprattutto<br />

al telefono). Da anni telefono ogni giorno alla donna della<br />

mia vita (che abita abbastanza lontano da dove abito io) e ci raccontiamo<br />

più o meno che cos’è successo durante il giorno. La mia vita,<br />

le minuzie della mia vita, le racconto pur sempre, a ritmi più o meno<br />

fitti, a un certo numero di persone care. Così, nel momento in cui<br />

mi sono trovato difronte la «Pagina Principale» del mio blog, <strong>non</strong> ho<br />

avuto esitazioni. Ho raccontato ciò che avevo appena finito di raccontare<br />

a qualcun altro.<br />

Nel giro di poche ore (la cosa mi ha lasciato assai stupito, devo dire)<br />

qualche navigatore del web aveva beccata la mia pagina; e aveva<br />

depositata nella casella dei «commenti» (altro accessorio automatico<br />

del blog) qualche battuta di saluto o di, appunto, commento. Bene,<br />

mi sono detto: di nuovo, <strong>non</strong> sono solo. Questo che ho scritto, che<br />

scrivo, <strong>non</strong> è per me solo.<br />

***<br />

Ricapitolando: l’esperienza di raccontare le mie giornate, pressoché<br />

quotidianamente, a qualcuno, mi ha messo in grado di iniziare un<br />

diario: il cui stile di scrittura ecc. ricalca, me ne accorgo bene, proprio<br />

questi racconti orali. D’altra parte, ho iniziato a tenere un diario<br />

31<br />

solo quando mi sono reso conto che esisteva uno strumento<br />

per tenere facilmente un diario <strong>non</strong> privato, ma pubblico.<br />

Non è che io desideri migliaia di lettori per il mio diario. Non<br />

credo che i fatterelli della mia vita quotidiana siano particolarmente<br />

interessanti (la lite col bigliettaio, la signora stramba incontrata<br />

in treno, la telefonata piena di equivoci: ciò che succede<br />

a tutti). Ma credo che un diario <strong>non</strong> pubblico, <strong>non</strong> sarei mai<br />

riuscito a tenerlo.<br />

Perché, appunto, una scrittura che <strong>non</strong> presupponga un lettore,<br />

<strong>non</strong> esiste.<br />

Dovrò confrontarmi con qualcuno, su queste cose. Ad esempio<br />

con il mio amico Giuseppe Caliceti, scrittore emiliano, che<br />

dal 14 luglio del 2000 tiene un diario in pubblico (<strong>non</strong> in forma<br />

di blog; ma questo <strong>non</strong> c’entra, è solo un aspetto tecnologico)<br />

nelle pagine di www.emilianet.it (per leggerlo, cliccare sulla dicitura:<br />

«Pubblico/privato»), (e ne ha anche fatto un libro, Pubblico<br />

/ Privato 0.1, edito da Sironi). O con la scrittrice Francesca<br />

Mazzucato, blogger credo della prim’ora<br />

(http://francescamazzuccato.splinder.it), che anche lei ha fatto<br />

diventare il suo blog un libro (Diario di una blogger, Marsilio). Ma<br />

bisognerebbe fare tutto un discorso, sulla scrittura e le scritture<br />

nel web. Con calma. Buona settimana.<br />

Chiacchierata numero 20<br />

Buongiorno. Mi pare che ci siamo un po’ persi, tra discorsi<br />

sulla relazione con il lettore come relazione di seduzione e innamoramento,<br />

e chiacchiere sui blog, ossia sulle scritture diaristiche<br />

nella rete. Ma <strong>non</strong> ci siamo persi per nulla. Scrivere tutti i<br />

giorni qualcosa, in un luogo pubblico, significa dover ri-sedurre,<br />

di volta in volta, il lettore (vale anche per questa rubrichetta<br />

settimanale).


Qualche giorno fa una tipa sconosciuta mi ha scritto per posta<br />

elettronica: «Senti, Giulio. Ho letto il tuo libro Il male naturale. Poi ho<br />

letto il tuo libro Il culto dei morti nell’Italia contemporanea. Ci ho pensato<br />

su. Bisogna assolutamente che noi scopiamo», segue indirizzo, telefono<br />

ecc. È curioso che questo cortocircuito avvenga (rileggete i titoli<br />

dei due libri) attraverso il coté più necrofilo della mia scrittura<br />

(voglio dire, sarebbe tutt’altra cosa essere presi di mira per aver<br />

scritto La felicità terrena, no?): d’altra parte so bene che uno dei due<br />

libri in questione, Il male naturale, che è il mio più brutto libro, è il<br />

mio più brutto libro perché è un libro che ho scritto per me. In una<br />

noterella nell’ultima pagina, ho scritto addirittura: «Credo che fare<br />

questo libro mi abbia salvato la pelle e quindi m’importa poco del<br />

male che potrà fare ad altre persone».<br />

Eppure, anche un libro che io, sbagliando, ho scritto prima di tutto<br />

per me, è riuscito a operare delle seduzioni. L’email che ho ricevuta<br />

qualche giorno fa, ne è testimonianza. D’altra parte, mi pare indubbio<br />

che quella lettera è una lettera impropria. Che risponde, suppongo,<br />

all’improprietà dell’atto di comunicazione che ho compiuto io. Ho<br />

scritto prima di tutto per me, e il risultato è che il libro, per così dire,<br />

<strong>non</strong> è un libro. Un vero libro fa venire voglia al lettore di raccontare<br />

a sua volta delle storie, <strong>non</strong> di copulare con l’autore.<br />

Tutto questo per dire: che bisogna stare attenti con la seduzione.<br />

Se il lettore è il mio desiderio, è bene che io abbia un’idea di come è<br />

fatto il mio desiderio. Una buona relazione amorosa, lo sanno tutti<br />

tranne certi adolescenti e i quarantenni disperati, <strong>non</strong> è «solo sesso»<br />

(e <strong>non</strong> è neanche, lo sanno tutti tranne gli altri adolescenti, «puro spirito»).<br />

Io ho fatta una curiosa cosa, con i miei libri: in alcuni agisco<br />

verso il lettore un desiderio «puro spirito», in altri agisco verso il<br />

lettore un desiderio «solo sesso». I «puro spirito» sono meglio dei<br />

«solo sesso»; ciò <strong>non</strong> toglie che siano libri intimamente difettosi.<br />

Chiunque conosce almeno una “coppia perfetta”: lui e lei sembrano<br />

veramente indissolubili. Non che siano come i lui e le lei del mulino<br />

bianco: sono un lui e una lei dotati di personalità, che litigano<br />

32<br />

abbondantemente, che <strong>non</strong> sono d’accordo su nulla, e così via:<br />

però sembrano veramente indissolubili. Io, difronte a coppie<br />

così, mi rendo conto che <strong>non</strong> sono capace di capire. Eppure, a<br />

dirla, è una cosa così semplice: sono persone che si amano integralmente.<br />

Non sono né «solo sesso» né «puro spirito», <strong>non</strong><br />

fanno distinzioni di alcun tipo nel loro desiderio. Lui ama lei,<br />

desidera lei; lei ama lui, desidera lui. Lui <strong>non</strong> ama, che so, la<br />

dolcezza di lei, i begli occhi di lei, il ventre caldo di lei; lei <strong>non</strong><br />

ama, che so, le chiappe sode di lui, la calma di lui, le orecchie<br />

buffe di lui: no, si amano integralmente.<br />

Allo stesso modo, ci sono degli scrittori che investono il lettore<br />

con un desiderio integrale. Non sono tanti. Qualche settimana<br />

fa parlavo di quei narratori che riescono a pensare le loro<br />

narrazioni come «totalità organizzate»; costoro, scrivevo, si<br />

concedono uno smisurato egocentrismo, ossia escludono dalla<br />

loro mente qualunque pensiero che <strong>non</strong> concerna il pensare la<br />

narrazione come «totalità organizzata». Bene: un narratore che<br />

riesce a pensare le sue narrazioni come «totalità organizzate», è<br />

uno scrittore che investe il lettore con un desiderio integrale.<br />

Egli <strong>non</strong> desidera, infatti, che il lettore sia avvinto da questa o<br />

quella cosa presente nel testo: desidera che il lettore sia avvinto<br />

da cima a fondo, per tutto il tempo della lettura.<br />

Il paradosso apparente è dunque questo: solo il narratore dotato<br />

di uno smisurato egocentrismo è capace di investire il lettore<br />

con un desiderio integrale. Come dire, che solo una coppia di<br />

egocentrici smisurati può amarsi integralmente. D’altra parte,<br />

l’ho ricordato due settimane fa, ci fu uno che disse: «Ama il tuo<br />

prossimo come te stesso». Ossia: l’altruista assoluto, dovendo<br />

definire l’amore per l’altro, prende come modello l’amore per<br />

sé.<br />

***


A chi mi dice: «Ma, in somma, questo lettore del quale parli sempre,<br />

che cos’è? È un lettore ideale? È un «lettore modello», così come<br />

definito da Umberto Eco? È “il pubblico”? È una tua costruzione<br />

mentale? È il risultato della tua ormai pluriennale interazione,<br />

interna ed esterna ai libri, con i lettori? Che cos’è questo cavolo di<br />

lettore di cui parli sempre?». Posso rispondere solo questo: è la<br />

proiezione del mio desiderio, del mio desiderio di un altro. Purtroppo<br />

io <strong>non</strong> sono tanto forte, e <strong>non</strong> sono nemmeno capace di concepire<br />

un completo desiderio di un altro. Questo altro che desidero, è altro<br />

da me solo in parte, forse in piccola parte.<br />

Ma dicevo anche, qualche settimana fa, che di narratori capaci di<br />

pensare la narrazione come «totalità organizzata», ossia di investire il<br />

lettore con un desiderio integrale, ossia di concepire un completo<br />

desiderio di un altro, io ne conosco tre, in Italia. In parecchi mi hanno<br />

scritto per dirmi: «Fuori i nomi, e i titoli». Allora: Antonio Moresco,<br />

Gli esordi, Feltrinelli; Vitaliano Trevisan, Un mondo meraviglioso,<br />

Theoria, appena ripubblicato da Einaudi; Aldo Busi, Vita standard di<br />

un venditore provvisorio di collant, Mondadori. E a questi tre aggiungerei<br />

un quarto, che è una mia personale scommessa: Umberto Casadei, Il<br />

suicidio di Angela B., Sironi. Buone letture.<br />

(«Ehi, ehi! E la tipa dell’email?». «Le ho risposto: <strong>non</strong> se ne parla<br />

neanche»).<br />

Chiacchierata numero 21<br />

Buongiorno, buongiorno. Gianni Bonina, nella prima pagina dello<br />

scorso numero di Stilos, parlava di fotogafia cominciando così: «Chi,<br />

davanti alla macchina fotografica, guarda l’obiettivo, assume una posa,<br />

atto che significa cedere volontariamente la propria immagine».<br />

Poi Bonina faceva altre considerazioni; ma a me serve solo questa<br />

frase qui.<br />

33<br />

Potrei dire: «Chi scrive un testo affinché (o con la speranza<br />

che) sia pubblicato, assume una posa, atto che significa cedere<br />

volontariamente la propria immagine». A me piacciono molto le<br />

fotografie con le persone messe in posa. Quando guardo una<br />

fotografia presa al volo, ho la sensazione di vedere un’immagine<br />

rubata: un’immagine tutta di proprietà del fotografo, nella quale<br />

la responsabilità del fotografato è quasi nulla. Quando guardo la<br />

fotografia di una persona messa in posa, ho la sensazione di vedere<br />

un’immagine, diciamo così, cooperata: un’immagine di proprietà<br />

tanto del fotografo quanto del fotografato, nella quale la<br />

responsabilità è condivisa.<br />

Chi scrive un testo, si mette in posa da solo. È insieme il fotografo<br />

e il fotografato. La persona che si mette in posa davanti al<br />

fotografo, decide <strong>non</strong> solo di «cedere volontariamente la propria<br />

immagine», ma anche di «offrire deliberatamente una determinata<br />

immagine di sé». Certo: ci sono fotografati più o meno<br />

consapevoli della faccenda, più o meno capaci di immaginare<br />

che fotografia uscirà fuori, più o meno in grado di immaginare i<br />

possibili significati che la fotografia produrrà. E ci sono fotografati<br />

che <strong>non</strong> sono in grado di immaginare né questo né<br />

quello.<br />

Tuttavia, ciò che mi interessa è soprattutto l’assunzione di responsabilità.<br />

«Ci mettiamo qui. No, lì. Guarda di qua. Alza il<br />

mento. Apri gli occhi. Guardami da sopra le spalle. Pensa a<br />

qualcosa di bello. Non aprire la bocca»: il fotografo potrà potrà<br />

manipolarmi quanto vuole; ma avrà sempre il mio consenso, e<br />

quindi la mia assunzione di responsabilità.<br />

Ora: il contenuto della fotografia <strong>non</strong> è la persona ritratta; è<br />

l’assunzione di responsabilità che la persona ritratta fa. Una<br />

fotografia <strong>non</strong> mi dice che Tizio è fatto così e/o cosà; mi dice<br />

che Tizio si prende questa e/o quella e/o quest’altra responsabilità.


E <strong>non</strong> parlo di foto eccezionali, eh!: parlo di foto qualunque, normali.<br />

Chi scrive, mette in ciò che scrive la sua persona; ma quando io<br />

leggo ciò che Caio ha scritto, ciò che percepisco <strong>non</strong> è che Caio è<br />

fatto così e/o cosà; ma che Caio si prende questa e/o quella e/o<br />

quest’altra responsabilità. E <strong>non</strong> c’è neanche un fotografo con cui<br />

condividerla.<br />

Non sto parlando dell’autobiografia o dell’autobiografismo, sia<br />

chiaro. Oppure: Samuel Beckett, che scriveva quel che scriveva Samuel<br />

Beckett, diceva: «In fondo, tutto è autobiografia»; solo in questo<br />

senso, se proprio volete, potrei dire che parlo di autobiografia.<br />

Ma preferisco evitare questa parola. Dico: sto parlando del mettere la<br />

propria persona in ciò che si scrive.<br />

Io racconto una storia. Dico cose, ometto di dire cose. Uso una<br />

certa retorica, ne uso un’altra. Faccio scelte: cioè, mi metto in posa;<br />

cioè, mi assumo una responsabilità.<br />

Se una narrazione è un atto di comunicazione (e <strong>non</strong> venitemi a dire<br />

che <strong>non</strong> lo è) allora (secondo il vecchio motto che «il mezzo è il<br />

messaggio») il vero contenuto della comunicazione è la posa che<br />

prendo, la responsabilità che assumo. Chi dice: «Io <strong>non</strong> metto filtri<br />

alla mia mente quando scrivo… Lascio che passi tutto… Non do<br />

forme precostituite al mio testo…» e/o cose simili, dice veramente:<br />

«Non mi prendo la responsabilità di ciò che ho scritto. Rivolgetevi al<br />

mio inconscio, o al massimo al mio pusher».<br />

Se un testo è (immaginariamente, <strong>non</strong> realmente) come una mia<br />

fotografia, allora c’è poco da girarci attorno; il materiale è quello, la<br />

carne è quella; tutto sta nella posa, nel come disporrò la carne nello<br />

spazio dell’inquadratura.<br />

Che poi il testo produca davanti al lettore cose raccontate che vengono<br />

dalla cosiddetta realtà, dai cosiddetti vissuti personali, dalla cosiddetta<br />

vita vissuta; oppure cose raccontate di pura invenzione; <strong>non</strong><br />

cambia niente. Beckett direbbe: «In fondo, è pur sempre autobiografia».<br />

34<br />

***<br />

Non so voi; sarà che sono miope; ma io riconosco le persone,<br />

da un po’ lontano, soprattutto dalle posture e dai movimenti; il<br />

corpo e la faccia, li vedo dopo. Soprattutto il modo di camminare,<br />

riconosco.<br />

Vi ricordate il professore del film L’attimo fuggente? Quello che<br />

portava i ragazzi a passeggiare in cortile, e diceva loro (più o<br />

meno): l’andatura è lo stile, lo stile è l’uomo, l’andatura è<br />

l’uomo. Ecco: il vostro stile è l’andatura del vostro testo (che,<br />

immaginariamente, corrisponderà all’andatura del vostro corpo).<br />

Ma l’andatura di un testo è un effetto illusorio: perché il testo<br />

è fermo (si muove il lettore). Il testo è la fotografia di un<br />

corpo in posa. L’essere in posa, postura, è, volendo costringere le<br />

parole a dire proprio quello che ci serve, una sorta di andatura da<br />

fermo.<br />

Dove voglio arrivare? Ma, voglio tornare al principio, alla frase<br />

di Bonina: «Chi, davanti alla macchina fotografica, guarda<br />

l’obiettivo, assume una posa, atto che significa cedere volontariamente<br />

la propria immagine». Guardate le singole parole.<br />

Macchina. Obiettivo. Assumere una posa. Atto. Cedere. Volontariamente.<br />

Immagine. Paragonate ciascuna di queste parole<br />

a ciò che avviene con il testo scritto. Pensate al lettore come a<br />

una macchina. All’obiettivo come a ciò che serve al lettore per<br />

“mettere a fuoco” il vostro testo, ossia comprenderlo.<br />

All’assumere una posa come a un assumere responsabilità. Al<br />

testo come a un atto. Alla lettura come a una cessione. Alla volontarietà,<br />

<strong>non</strong> indispensabilità, del vostro atto di scrivere e far<br />

leggere. Pensate al testo come a un’immagine di voi, carne e ossa:<br />

distinta quindi da voi, poiché un’immagine è un’immagine e<br />

voi siete voi; della quale vi prendete la responsabilità; della quale,<br />

ciò che vedo io lettore, è soprattutto questa responsabilità<br />

che vi prendete. Ne riparleremo.


Chiacchierata numero 22<br />

Buongiorno. Un giorno sì e un giorno no c’è un lettore (quasi mai<br />

una lettrice: ne parliamo settimana prossima) che mi domanda: «Ma<br />

se io voglio mandare un dattiloscritto alle case editrici, come devo<br />

presentarlo?». La domanda sembra banale e <strong>non</strong> lo è. Io ricevo due<br />

o tre dattiloscritti al giorno (a casa mia; altrettanti ne arrivano in casa<br />

editrice) e naturalmente <strong>non</strong> mi è possibile leggerli tutti integralmente.<br />

Ho imparato con l’esperienza che alcune caratteristiche del<br />

dattiloscritto, anche caratteristiche fisiche, sono significative. Ogni<br />

tanto mi viene in mente che si potrebbe inventare una disciplina simile<br />

alla grafologia, ma per i dattiloscritti («dattilografologia»?).<br />

Quindi, in somma, qui cerco di dare alcuni consigli per la presentazione<br />

dei dattiloscritti alle case editrici. Cominciamo:<br />

1. Il dattiloscritto deve essere leggibile. Sembra un consiglio stupido<br />

per eccesso di ovvietà; ma <strong>non</strong> è così. Ricevo parecchi dattiloscritti<br />

quasi illeggibili. La leggibilità è assicurata da: corpo del carattere<br />

<strong>non</strong> troppo grande e <strong>non</strong> troppo piccolo (l’ideale è l’11 o il 12);<br />

carattere <strong>non</strong> troppo semplice e <strong>non</strong> troppo elaborato (Garamond e<br />

Times sono l’ideale; Arial, Helvetica e simili sono più faticosi da leggere;<br />

assolutamente da evitare i caratteri più complicati, in particolare<br />

quelli che imitano il corsivo); foglio con ampi margini (diciamo 4<br />

centimetri per parte); interlinea normale, <strong>non</strong> più stretto né più largo<br />

di quello che il vostro sistema di scrittura propone come standard;<br />

rientro a inizio paragrafo (di 0,25 centimetri, in linea di massima). In<br />

particolare, spesso ricevo dattiloscritti con margini minimi, tipo un<br />

centimetro e mezzo: la riga di testo risulta così lunga che la lettura è<br />

faticosissima. Immaginate: se questo foglio di giornale <strong>non</strong> fosse<br />

impaginato sei colonne, ma fosse tutto un colon<strong>non</strong>e unico, riuscireste<br />

a leggerlo?<br />

2. Sul dattiloscritto scrivete il vostro nome, cognome, indirizzo,<br />

numero di telefono, email, tutto quanto. Mi è successo di ricevere<br />

dattiloscritti senza i dati dell’autore.<br />

35<br />

3. Mandate il dattiloscritto intero. Non mandate due capitoli<br />

scrivendo: «Se vi sembrerà interessante, chiedetemi pure i successivi:<br />

sarò felice di mandarveli»). Non esiste. Non mandate<br />

una lettera con una “scheda” del vostro romanzo: mandate il<br />

romanzo.<br />

4. Se mandate il vostro dattiloscritto a una casa editrice, cioè a<br />

un’azienda, mandatelo pure senza preavviso. Se lo mandate a<br />

una persona privata (ad esempio a me) e avete la possibilità di<br />

chiedere permesso (per telefono, via posta elettronica) fàtelo: è<br />

una gentilezza.<br />

5. Non mandate un file via posta elettronica, a meno che vi sia<br />

esplicitamente richiesto. Già mi sobbarco l’onere di leggervi,<br />

perché mai dovrei mettere io i soldi dell’inchiostro e della stampa?<br />

(Nonché il tempo per stampare).<br />

6. Mandate un dattiloscritto rilegato con la spirale di plastica,<br />

cioè con una rilegatura che possa essere facilmente disfata. In<br />

questo modo, se l’editore vorrà fotocopiarlo (per passarlo a più<br />

lettori, ad esempio), gli basterà sfilare la spirale e passare tutto<br />

nella copiatrice automatica. Se rilegate con graffe, colla, spirali<br />

di metallo ecc., l’editore dovrà far fotocopiare il libro pagina per<br />

pagina (in alternativa, sfascerà il vostro bell’oggetto rilegato).<br />

7. Non mandate dattiloscritti «per ricevere un giudizio». Se io<br />

comincio a leggere un testo, e a pagina 10 mi rendo conto che<br />

chi l’ha scritto <strong>non</strong> sa l’italiano, è chiaro che interrompo la lettura<br />

(magari sfogliacchio un po’, tanto per essere sicuro). A quel<br />

punto io so che quel testo <strong>non</strong> è leggibile; ma <strong>non</strong> posso emettere<br />

un «giudizio». Io sono pagato (dall’editore) per scegliere libri<br />

da pubblicare: <strong>non</strong> per fare il critico letterario su tutto ciò<br />

che mi arriva in casa. Oltretutto, il giudizio è quasi sempre negativo<br />

(statistica: su mille dattiloscritti, <strong>non</strong> più di cento sono<br />

leggibili; <strong>non</strong> più di dieci sono davvero interessanti; uno o due sono<br />

pubblicabili). E nessun editore (nemmeno io) ha voglia di spendere<br />

tempo su un testo, nel momento in cui ha deciso che quel


testo <strong>non</strong> è almeno davvero interessante. Io inizialmente cedevo: dicevo<br />

alla persona che cosa effettivamente pensavo di ciò che avevo letto.<br />

Quindi mi toccava dire: «Guardi, il suo romanzo mi è sembrato<br />

bruttissimo. È evidente che lei <strong>non</strong> ha la minima idea di che cosa sia<br />

la lingua italiana», eccetera. In cambio ricevevo insulti. Vale la pena<br />

di conversare un po’ con l’autore, ed eventualmente di avviare un<br />

rapporto continuativo, se il testo, alla prova della lettura, sembra<br />

avere più potenzialità che risultati. Ma sono, al solito, assai pochi casi.<br />

8. È bene se unite al dattiloscritto una lettera di autopresentazione.<br />

Dite chi siete, di che campate, se avete figli, cose così. Se avete vinto<br />

premi letterari per racconti e romanzi inediti, <strong>non</strong> scrivetelo. Se il<br />

vostro professore d’italiano del liceo diceva che scrivevate benissimo,<br />

<strong>non</strong> scrivetelo. Se siete laureati, <strong>non</strong> fatevi fare una lettera di<br />

raccomandazione dal professore con cui avete fatta la tesi. Se avete<br />

pubblicato un libro a vostre spese, allegàtelo al dattiloscritto; ma<br />

<strong>non</strong> allegate gli articoli che sono usciti sui giornali locali. In somma,<br />

ricordàtevi di questo: il lettore professionista che legge il vostro dattiloscritto,<br />

è interessato solo al dattiloscritto.<br />

9. Scegliete bene la casa editrice alla quale mandare il dattiloscritto.<br />

Andate in libreria, guardate che cosa pubblica l’editore Tale e che<br />

cos’altro pubblica l’editore Talaltro, e fate la vostra scelta. Mi ricordo<br />

di un tizio, di professione geometra, che aveva mandati i suoi<br />

romanzi agli editori Pirola e Maggioli. Pirola e Maggioli fanno libri<br />

di argomento legale, fiscale, economico, edile: <strong>non</strong> certo romanzi.<br />

Ma lui, il geometra, conosceva solo Pirola e Maggioli. Sia Mondadori<br />

sia Einaudi o Garzanti o Guanda fanno narrativa, ma <strong>non</strong> esattamente<br />

lo stesso tipo di narrativa. Se scrivete poesie, <strong>non</strong> mandatele a<br />

me: lavoro per un editore che fa solo prosa. E così via. Bene. Questo<br />

è tutto. Alla prossima. Arrivederci.<br />

36<br />

Chiacchierata numero 23<br />

Buongiorno. Scrivo questo pezzo sabato 5 luglio, alle 9 di<br />

mattina. Sono in Toscana, ospite d’un ragazzo che ha scritto un<br />

libro interessante e imperfetto. Sono qui per parlarne con lui.<br />

Abbiamo due giorni a disposizione. Io naturalmente ho letto e<br />

riletto il libro. Sui margini del dattiloscritto ho segnate un sacco<br />

di cose: espressioni che <strong>non</strong> mi sembrano del tutto chiare o abbastanza<br />

efficaci; frasi che mi sembrano perfettibili; aggettivi sui<br />

quali ho da ridire; svolte delle storie che mi lasciano un po’ perplesso;<br />

dialoghi che mi sembrano, volta a volta, troppo pesanti<br />

o troppo leggeri; eccetera eccetera. Ma di queste cose, credo che<br />

<strong>non</strong> parlerò con M**.<br />

Il libro di M** è interessante. Si tratta di una serie di racconti<br />

legati tra loro da una questione (la parola “questione” mi sembra<br />

la più adatta). In ogni storia avviene qualcosa che è spiegabile<br />

in un solo modo: immaginando un intervento divino. Eppure,<br />

i protagonisti (e i narratori) delle storie, a questo intervento<br />

divino <strong>non</strong> possono credere. Non dico che <strong>non</strong> vogliono:<br />

<strong>non</strong> possono. Per cui ogni storia si chiude con un movimento,<br />

ripetitivo ma ogni volta diverso, di “scarto”: la soluzione-dio<br />

viene scartata, aggirata, elusa, dimenticata, lasciata in sospeso,<br />

messa in dubbio, nemmeno pensata - come se fosse una cosa<br />

troppo terribile, pensarla.<br />

Già. Perché il dio che c’è e <strong>non</strong> c’è in queste storie, <strong>non</strong> è mica<br />

il dio-consolatore, il dio-buono. E’ piuttosto il dio-dio:<br />

quello le cui scelte sono imperscrutabili, e spesso francamente<br />

incomprensibili. Quello di Giobbe, per dire: che prima fa una<br />

scommessa col diavolo (dio dice al diavolo: “Guarda Giobbe<br />

come mi ama”; il diavolo dice: “Per forza, lo hai coperto di beni<br />

e ricchezze; làscialo a me, che gli faccio qualche disgrazia, e poi<br />

vedremo”; dio dice: “Va bene, basta che <strong>non</strong> me l’ammazzi”) e<br />

poi, quando Giobbe s’alza in piedi e dice: “Dio mio, perché mi


hai fatto questo?”, dio prima se ne infischia, e poi s’alza in piedi,<br />

squarcia i cieli, guarda Giobbe e gli dice: “Chi sei tu per chiedermi<br />

conto delle mie azioni?”.<br />

Un dio difficile da digerire, dunque, quello che appare-scompare<br />

nelle storie di M**. E per questo, a mio avviso, un dio interessante.<br />

Ma la cosa ancor più interessante, è che le storie che M** racconta<br />

<strong>non</strong> sono inventate. Non da lui, almeno. Nel suo libro M** (che è<br />

un appassionato di storia, di fumetto, di narrativa fantasy e di soldatini)<br />

ha “rivisitate”, come si usa dire, un certo numero di storie già<br />

note, già raccontate. Storie che appartengono alla storia, storie che<br />

appartengono alla fantascienza o al fantasy, storie che appartengono<br />

alla tradizione favolistica e leggendaria, e così via: dalla nascita di<br />

Gesù in Betlemme alla storia della legione romana scomparsa, dal<br />

pifferaio magico alla crociata dei bambini. Nel ri-raccontare tutte<br />

queste storie, M** ha fatto sì che, appunto, in ciascuna venisse alla<br />

luce la “questione”: se dio sia, se dio intervenga nella storia, o se dio<br />

<strong>non</strong> sia, o magari sia ma <strong>non</strong> intervenga nella storia.<br />

È quasi come se (devo andarci cauto, perché questo è un pensiero<br />

mio, <strong>non</strong> di M**) M** avesse voluto aggiungere qualche storia alle<br />

storie, già numerosissime, della Bibbia. Solo che le storie di M** sono<br />

più parenti dei libri inquietanti della Bibbia (Giobbe, appunto, o il<br />

Qoèlet) che <strong>non</strong> di quelli confortanti. Se la Bibbia è la storia<br />

dell’incontro e della relazione amorosa tra dio e il suo popolo, le<br />

storie di M** sono storie di un incontro che per lo più <strong>non</strong> avviene:<br />

di sfioramenti, di occasioni mancate.<br />

Ogni storia poi ha un suo trattamento stilistico specifico. Una storia<br />

ha per protagonista Carlo Magno, è in forma drammatica ed è<br />

intessuta di citazioni shakespeariane. Una storia è una storia di briganti<br />

toscani, ed è scritta in uno splendido italiano contaminato dal<br />

parlato. Un’altra storia ricalca modi borgesiani, un’altra ancora nasce<br />

da una citazione di Ballard; e così via.<br />

***<br />

37<br />

Che cosa farò con M**? Mi metterò, dattiloscritto alla mano, a<br />

discutere di singole frasi, singole parole, microsvolte narrative,<br />

aggettivi, pronomi, consecutio temporum? Non credo.<br />

Con M**, parlerò di massimi sistemi. Del modo in cui la<br />

“questione” è venuta alla luce in lui. Del modo in cui si può fare<br />

“sentire” al lettore la profonda unitarietà del libro che Massimo<br />

ha composto, al di là della deliberata diversità stilistica.<br />

Del modo in cui si può far percepire al pubblico naturale di<br />

questo libro (i lettori di fantascienza, fantasy e annessi & connessi)<br />

la presenza della “questione”. Del modo in cui si può far<br />

“aprire” questo libro a lettori estranei al suo pubblico naturale<br />

(<strong>non</strong> parlo di marketing; parlo di azioni interne al libro). Del<br />

modo in cui si possono inserire, o far apparire con più risalto,<br />

dentro al libro, “segnali” che guidino il lettore da una storia<br />

all’altra, da un versante all’altro della “questione”, dallo scetticismo<br />

più assoluto al desiderio di dio.<br />

Ci metteremo quindi in giardino, poseremo i dattiloscritti<br />

sull’erba (il mio, con tutti i miei segni da “maestria con la penna<br />

rossa”; il suo, con segnate tutte le cose che vorrà chiedermi), e<br />

preliminarmente parleremo dei massimi sistemi. Perché un libro<br />

è, sì, senz’altro, lavoro artigianale, connessioni, raffinatezza linguistica,<br />

coerenza narrativa, tutte quelle cose lì: ma è, prima di<br />

tutto questo, un’immaginazione che ha senso, dà senso, ha bisogno<br />

di senso. E tutto il resto, una volta che di questo senso si<br />

sia venuti a capo, è semplice lavoro.<br />

M** ha le idee chiare. Io, credo, anche. Dobbiamo esplorare<br />

ancora un po’ le nostre immaginazioni, per poter lavorare insieme.<br />

Perché io sono il suo editor. E devo entrare completamente<br />

nella sua immaginazione, imparare a simularla. Finché<br />

avrò la mia immaginazione attiva, a poco servirà parlare; e <strong>non</strong><br />

si potrà discutere nemmeno di virgole.


Il mestiere dell’editor, detto in due parole, è questo: diventare<br />

provvisoriamente un altro. Cosa assai divertente, e affascinante. Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 24<br />

Buongiorno. Scrivo questo pezzo sabato 12 luglio, alle dieci di<br />

mattina. Sono stato due giorni in Emilia, ospite di Luisa, che ha<br />

scritto un libro assai bello (avrò l’onore di pubblicarlo nel gennaio o<br />

febbraio prossimi). Il libro racconta la storia d’una bambina. Ci parlano<br />

dentro molte voci. A volte parla la bambina: racconta al tempo<br />

presente la sua infanzia. Un’infanzia che sembra veramente d’altri<br />

tempi: si parla di campagna, di terra, di bestie, di regole patriarcali, di<br />

fame. Eppure Luisa ha forse due, tre anni più di me. La voce della<br />

bambina è, ovviamente, scritta dalla donna adulta: ma la sensazione<br />

<strong>non</strong> è quella di leggere una voce adulta che imita una voce bambina;<br />

è piuttosto quella di leggere una voce adulta occupata, invasa da una<br />

voce bambina.<br />

Alla voce della bambina si alternano altre voci. La “voce delle fonti”,<br />

ad esempio: una voce cronachistica, appena appena ironica, che<br />

riporta antiche filastrocche, cita dai quaderni di scuola della bambina<br />

(Luisa - che ovviamente è e <strong>non</strong> è la bambina; come sempre avviene<br />

nelle narrazioni - ha conservato dozzine di quaderni, ritagli, giornaletti,<br />

scarabocchi), da vecchi giornalini, da ricordi dei genitori raccolti<br />

in età adulta (le preghiere e i canti latini storpiati, le vecchie storielle<br />

“da filò”, i “fatti” che si raccontavano). E poi, impressionanti,<br />

le fotografie dell’album di famiglia.<br />

La “voce amorevole”, invece, è una voce che fa confusione con i<br />

pronomi. Si rivolge alla bambina dandole del tu. Poi dice: io. Poi dice:<br />

noi. Cose come: «All’asilo avevi paura. Non avevamo giochi,<br />

all’asilo. Non vedevo l’ora di uscire, ma la mamma <strong>non</strong> veniva mai a<br />

prenderci». La voce amorevole dà conforto, è vicina, consola. Tocca<br />

38<br />

la bambina, la avvolge, la accarezza. Non bamboleggia mai, peraltro.<br />

Tutt’altro. A volte rimprovera o sollecita, ma sempre per<br />

rafforzare.<br />

Infine, a volte parla una voce che Luisa ha chiamata “voce<br />

delle radici”. Che è la voce più indecifrabile, per me. Apparentemente<br />

è una voce che accusa i genitori, che chiede loro conto.<br />

Mi avete fatto questo e questo, dice questa voce. E spesso racconta<br />

una rivincita. Ma <strong>non</strong> si tratta mai di una rivincita contro i<br />

genitori; è una rivincita di un’altra direzione. Quand’ero piccola<br />

e ogni tanto bagnavo il letto, racconta ad esempio, mi avete instillata<br />

la vergogna per i miei liquidi. Bene: oggi <strong>non</strong> me ne vergogno<br />

affatto, anzi; mi piace far pipì dappertutto, anche nei<br />

prati, nei parchi, nelle strade. Quando ne ho bisogno ne ho bisogno.<br />

«Come i gatti segnano il territorio», ho detto a Luisa. Lei<br />

ha riso.<br />

Ma di libri che raccontano l’infanzia, ce n’è a palate. Che cosa<br />

fa, di speciale, questo libro di Luisa?<br />

Fa più o meno questo. La bambina è all’inizio un soggetto così<br />

trascurabile, per gli adulti, che nemmeno le viene dato il nome,<br />

così alieno che nessuno la toccava mai. Alla fine, dopo duecento<br />

e passa pagine, la bambina è diventata - per l’adulta - una<br />

specie di dea: una dea mediatrice, che consente all’adulta di accogliere,<br />

anche amare, il tempo in cui nessuno le dava un nome<br />

e nessuno osava toccarla; pur senza cedere, mai, all’invito nostalgico.<br />

Luisa, in somma, ha costruito un vero mito personale. Che è<br />

anche, credo, una sorta di mito ctonio. È una cosa <strong>non</strong> da tutti.<br />

***<br />

Lavorare con Luisa è molto bello. In questi due giorni abbiamo<br />

chiacchierato sulle generali, esaminate singole pagine, di-


scussi il senso e la lingua di ciascuna delle “voci”, abbozzate soluzioni<br />

d’impaginazione.<br />

Abbiamo anche mangiato insalata di riso, melone, tigelle, borlenghi,<br />

formaggi, tagliolini.<br />

Abbiamo bevuta moltissima acqua.<br />

Siamo andati al parco del suo paese, dove c’è un laghetto con una<br />

coppia di cigni bianchi. Quest’anno la coppia ha figliato: e infatti<br />

portavano in giro, un po’ nell’acqua un po’ sul prato, quattro bei cignottini<br />

grossi come galline, con il piumaggio ancora incerto e la<br />

camminata, sul prato, clownesca.<br />

Siamo andati a vedere il monumento agli scout defunti, che è una cosa<br />

che un vicino della Luisa ha costruita nel suo giardino. Una sorta di<br />

muro irregolare, alto un paio di metri e largo tre, pieno di nicchie e<br />

sporgenze, con incastonate dentro immagini sacre, un presepietto,<br />

piastrelle con motti e ammonimenti, crocefissi.<br />

Siamo andati a vedere la casa dell’infanzia della bambina: ossia un<br />

condominio/centrocommerciale in puro stile postmoderno emiliano<br />

(cioè postomoderno, ma con il mattone a vista), che giace lì dove<br />

c’era la casa dell’infanzia della bambina.<br />

Lavorare a un libro, dicevo anche settimana scorsa, significa tentar<br />

di condividere un’immaginazione. Un’immaginazione è fatta anche<br />

di paesaggio, cibo, luoghi, alberi, monumenti agli scout defunti, case<br />

che <strong>non</strong> esistono più.<br />

Non voglio dire che un buon editor dovrebbe sempre traslocare a<br />

casa dei suoi autori. Ma, ogni tanto, è proprio necessario. Non si<br />

può entrare nell’immaginazione di Luisa senza entrare anche, almeno<br />

per un po’, nei suoi luoghi. Io frequento abbastanza l’Emilia, al<br />

suo paese ero già stato, ma di una gita d’un paio di giorni c’era proprio<br />

bisogno. Non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello<br />

di farla salire a Padova o a Milano. No, sono sceso io.<br />

Poi, Luisa è una donna. E il suo libro, si sarà capito, è un libro differente.<br />

Per me, che sono maschio, la faccenda <strong>non</strong> è semplice. Spesso,<br />

semplicemente <strong>non</strong> capisco. O <strong>non</strong> capisco, ad esempio, quanto di<br />

39<br />

ciò che dice e racconta Luisa appartenga al suo immaginario, e<br />

quanto invece appartenga al suo mondo reale. Non so nemmeno<br />

se l’immaginario, per me e per lei, siano la stessa cosa. Se la<br />

relazione col mondo, per me e per lei, siano la stessa cosa.<br />

È anche per questo, tra l’altro, che tengo molto a questo libro:<br />

perché mi sembra assai bello, ma mi sfugge.<br />

Succede anche questo, all’editor ambulante: inseguire, fino nel<br />

profondo dell’Emilia, un libro che gli sfugge. E poi dire, candidamente:<br />

«Non so ben che dire». Perché uno dei compiti<br />

dell’editor, del <strong>non</strong> si parla mai, ma è uno dei più importanti, è<br />

questo: amare i libri futuri, amarne il mistero. Buona settimana.<br />

Chiacchierata numero 25<br />

Buongiorno. Scrivo questo pezzo giovedì 17 luglio, alle quattro<br />

meno venti (del pomeriggio). Ho appena tirata fuori la posta<br />

dalla casella, e ho trovato il nuovo numero della rivista Fernandel<br />

(n. 3/2003) pubblicata dalla casa editrice Fernandel. La rivista<br />

Fernandel è sempre molto interessante, e anche i libri che fa la<br />

casa editrice Fernandel sono molto interessanti (se vi interessa:<br />

http://www.fernandel.it). In questo numero della rivista Fernandel<br />

c’è una interessante (e divertente) intervista di Sergio Rotino<br />

a Tiziano Scarpa. Tiziano Scarpa ha appena pubblicato un<br />

libro di racconti (Cosa voglio da te, Einaudi: un bel libro) e Sergio<br />

Rotino gli fa delle domande sullo scrivere racconti, confrontato<br />

allo scrivere romanzi. «Scrivo contemporaneamente racconti e<br />

romanzi», dice a un certo punto Tiziano Scarpa. E aggiunge,<br />

parlando un po’ in generale: «I racconti sono scritti meglio, si<br />

possono correggere e riscrivere un mucchio di volte. Mentre è<br />

difficile governare fino all’ultima virgola una cosa di quattrocento<br />

pagine. E da un libro di racconti si possono escludere<br />

quelli meno riusciti, mentre magari un romanzo ha bisogno di


alcuni capitoli di raccordo che possono essere meno potenti rispetto<br />

al resto del libro, ma necessari».<br />

Proprio stamattina, mentre viaggiavo in treno da Milano a Padova,<br />

in un recente manuale universitario (Franco Brioschi, Costanzo di<br />

Girolamo, Massimo Fusillo, Introduzione alla letteratura, Carocci) leggevo<br />

quasi la stessa cosa, ma a rovescio (cioè dal punto di vista del<br />

lettore): «La differenza principale tra lungo e breve consiste probabilmente<br />

nel fatto che, nel genere breve, il lettore o l’ascoltatore ha<br />

la possibilità di un controllo mnemonico totale o pressoché totale degli<br />

elementi narrativi presentati, mentre questo <strong>non</strong> può avvenire nella<br />

stessa misura in una narrazione lunga come un romanzo. Ma c’è anche<br />

una differenza di modalità di ricezione: un racconto può essere<br />

letto o ascoltato in una volta, mentre la lettura o l’ascolto di un romanzo<br />

presuppone normalmente, per la sua estensione, delle pause»<br />

(p. 139).<br />

Non mi interessa, ora, qui, mettermi a discutere della differenza tra<br />

racconto e romanzo (tra l’altro io, a differenza di Tiziano Scarpa, so<br />

scrivere solo racconti; quindi sullo scrivere romanzi <strong>non</strong> ho alcuna<br />

competenza diretta). M’interessa mettervi sotto gli occhi questo<br />

semplice fatto: nel comporre una narrazione, lunga o breve che sia,<br />

tener conto del tempo (del proprio tempo di scrittura, del tempo di<br />

lettura), dell’attenzione (della propria attenzione, e di quella del lettore),<br />

della possibilità materiale (propria, e del lettore) di tenere tutto<br />

il materiale narrativo sempre presente.<br />

Se io, nel comporre, faccio fatica a tenere sotto controllo tutto il<br />

materiale, a ricordare con precisione tutto ciò che faccio avvenire, a<br />

far durare le “sessioni di scrittura” abbastanza a lungo da scrivere<br />

ogni volta una porzione significativa della mia narrazione, mi conviene<br />

pensare che esattamente gli stessi problemi, probabilmente, li<br />

avrà anche il lettore.<br />

Ieri sena, a cena con persone gentilissime, si discuteva un po’ sul<br />

serio e un po’ scherzando, su quanto tempo ci voglia a leggere un<br />

romanzo di ottocento pagine. Chi diceva sedici ore, chi diceva dieci.<br />

40<br />

E qualcuno ha detto: «Eh, era bello quando si era ragazzi, che si<br />

aveva il tempo di mettersi lì magari due giorni interi, da mattina<br />

a sera, e far fuori certi volumoni…». Sono convinto che certe<br />

letture di grossi libri fatte da ragazzo, che mi sono rimaste impresse<br />

indelebilmente, mi siano rimaste impresse indelebilmente<br />

appunto perché potevo permettermi lunghissime sessioni di<br />

lettura. Ricordo di aver letto Guerra e pace in neanche due settimane.<br />

Vabbè, avevo quattordici anni, ci capivo da qua fin là:<br />

però la storia, almeno quella, e certe situazioni (la morte del<br />

principe Andrej!) me le ricordo come se avessi chiuso il libro<br />

cinque minuti fa. Per leggere Alla ricerca del tempo perduto ci ho<br />

messo da novembre 2002 a febbraio 2003: sono più pagine di<br />

Guerra e pace, certo, ma una lettura diluita in quattro mesi, d’un<br />

libro peraltro che ha singole scene della durata anche di trecento<br />

pagine, è una lettura veramente malfatta.<br />

E allora? Dicevo: mentre scrivo la mia narrazione devo pensare,<br />

una volta di più, a chi la leggerà, e a come la leggerà. Ieri, in<br />

casa editrice, discutevo con Giorgio un suo testo che pubblicheremo<br />

all’inizio del 2004: è un libro di racconti (anche se sono<br />

racconti per modo di dire: si potrebbe chiamarli «brani di<br />

testo descrittivi del mondo» e, bruttezza della formula a parte, si<br />

sarebbe più precisi) tutti centrati su un numero ristretto di ambienti<br />

situazioni tipologie di personaggi, ma variabilissimi nella<br />

forma, che lui nel suo dattiloscritto ha impaginati come se fossero<br />

paragrafi di un romanzo. Ci siamo trovati a discutere<br />

l’opportunità di questa scelta (sulla quale, a dire il vero, lui <strong>non</strong><br />

aveva meditato più che tanto). Ci piaceva l’idea che tutti questi<br />

racconti molto legati tra loro fossero sulla pagina quasi una<br />

“colata” d’inchiostro (e di narrazione); d’altra parte ci pareva<br />

che fosse il caso di inserire, qua e là, quasi delle “pause caffè”<br />

per il lettore, dei possibili luoghi di sosta durante la lettura. Altrimenti,<br />

ci siamo detti, rischiamo di ammazzarlo, questo povero<br />

lettore.


Ecco: l’amore per il lettore (del quale ho parlato più volte, in queste<br />

pagine) consiste anche nel <strong>non</strong> chiedergli più di quanto chiederemmo<br />

a noi stessi. Se abbiamo composta una pagina in cinque<br />

giorni di duro lavoro, ricordiamogli che lui (come anche noi, quando<br />

siamo lettori) si aspetta di poterla leggere in un paio di minuti. Se<br />

abbiamo voglia di scrivere un romanzo con cinquecento personaggi,<br />

ricordiamoci che così come noi avremo il problema di ricordarceli<br />

tutti, lo stesso problema ce l’avrà anche il povero lettore. Perché, da<br />

questo punto di vista, come da altri, il narratore e il lettore, questo<br />

va detto, sono nella stessa barca. Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 26<br />

«Lei che è uno scrittore, che cosa farà durante le vacanze?». «Ma,<br />

<strong>non</strong> lo so, mi pare già una grazia che quest’anno vado in vacanza».<br />

«Scommetto che ne approfitterà per scrivere qualcosa di nuovo».<br />

«Non sono uno di quelli che riescono a scrivere come se fosse un<br />

lavoro». «Allora leggerà». «Se è per questo, leggo sempre». «Ma in<br />

vacanza che cosa preferisce: leggere o rileggere?». «Non vedo la differenza».<br />

«Non so, qualcosa come rileggere i classici, o i libri voluminosi<br />

che durante l’inverno <strong>non</strong> è riuscito a leggere, oppure un libro<br />

al quale è affezionato e che rilegge spesso». «Sinceramente: parto<br />

domani, ma <strong>non</strong> ho ancora pensato a che libri mettere in borsa. Ce<br />

n’è un paio che devo finire, e poi ne prenderò su qualcun altro. Un<br />

po’ a caso». «Ma per lei la vacanza è un momento d’ispirazione?».<br />

«Anche fare la coda in posta per pagare le bollette può essere un<br />

momento d’ispirazione». «Dunque lo scrittore <strong>non</strong> va mai veramente<br />

in vacanza». «Ma sì, vado in vacanza, vado a Pantelleria due<br />

settimane». «No, nel senso che la sua mente, le sue piccole cellule<br />

grigie, anche durante la vacanza, saranno sempre lì a lavorare, a elaborare<br />

storie…». «A dire il vero, mi piacerebbe proprio stare un po’<br />

senza far niente». «In fondo la vita dello scrittore è tutta una grande<br />

41<br />

vacanza, no?». «Come, scusi?». «Sempre lì, a leggere, scrivere,<br />

meditare, a conversare con altri scrittori, a confrontarvi ai convegni…».<br />

«Non so che dirle. Stamattina ero a Verona, 82 chilometri<br />

in treno da Padova, mia città, sveglia alle 5.45 del mattino,<br />

per quattro ore di lezione sul descrivere luoghi in un master<br />

per futuri “manager culturali”. L’altro ieri ero a Milano, 232<br />

chilometri, sveglia sempre alle 5,45, a lavorare in casa editrice,<br />

dove abbiamo discusso alcuni aspetti contrattuali d’un autore,<br />

progettato un convegno da farsi in primavera prossima, pianificata<br />

la campagna stampa per un libro che esce in settembre, inseguito<br />

un personaggio illustre dal quale vorremmo una prefazione.<br />

Il giorno prima ancora ero a Lignano, sulla costa friulana,<br />

<strong>non</strong> so i chilometri, sveglia alle 6 del mattino, per una lezione<br />

sul lavoro editoriale in uno stage di scrittura e narrazione…».<br />

«Insomma, <strong>non</strong> vorrà lamentarsi». «No. Infatti. Non mi lamento.<br />

Voglio solo far notare che ciò di cui vivo è un lavoro<br />

come un altro, una libera professione come un’altra. Come tanti<br />

devo alzarmi spesso, raggiungere il luogo di lavoro, fare quello<br />

che mi è stato chiesto di fare, possibilmente farlo bene, tornare<br />

a casa, e sperare che mi paghino. La mia esistenza <strong>non</strong> è una<br />

grande vacanza. È l’esistenza di un libro professionista come un<br />

altro». «Lei quindi si considera un professionista». «Sì, ma <strong>non</strong><br />

del raccontare. Mi considero un professionista dell’insegnare a<br />

scrivere e narrare, del descrivere luoghi, dello scegliere libri da<br />

pubblicare (apprendista professionista, in quest’ultimo caso)».<br />

«E allora, quand’è che lei crea?». «Quando càpita, se càpita. Non<br />

credo di avere creato tanto spesso». «Non faccia il falso modesto».<br />

«Non faccio il falso modesto. Di inventare davvero, forse<br />

mi è capitato due volte in vita». «E il resto è tutta professionalità?».<br />

«Il resto sono tentativi falliti, riusciti a metà, <strong>non</strong> riusciti<br />

per niente, <strong>non</strong> riusciti per un pelo, che quasi quasi ce la facevano,<br />

che ce l’avrebbero fatta se fossi stato capace di essere<br />

meno simile a me stesso…». «Lei <strong>non</strong> è simile a sé stesso?». «Io


sono simile a me stesso. Ma per creare, certe volte, bisognerebbe diventare<br />

un altro». «Lei <strong>non</strong> ha fiducia in sé stesso». «Diciamo così:<br />

ho fiducia nella mia capacità di diventare, di tanto in tanto, un altro».<br />

«Una specie di dottor Jeckill e mister Hyde». «Se vuole». «A questo<br />

punto, però, <strong>non</strong> mi ha ancora detto che cosa farà durante le vacanze».<br />

«Sì che l’ho detto: quello che fanno tutti». «Montagna o mare?».<br />

«Mare». «Le piace leggere sotto l’ombrellone?». «Ci sono certi libri<br />

che sotto l’ombrellone vanno benissimo». «Ad esempio?». «I libri<br />

lunghi». «Le piacciono i libri lunghi?». «Sì. Se un libro è lungo, già<br />

solo per quello mi interessa». «Legge i best-seller americani?». «No,<br />

ci ho provato delle volte, ma mi annoio. Si capisce subito come finiranno<br />

le cose». «Con qualche eccezione». «Con qualche eccezione,<br />

d’accordo, ma l’idea di annoiarmi nove volte su dieci <strong>non</strong> mi entusiasma».<br />

«Quindi in valigia metterà dei libri lunghi?». «Non credo».<br />

«E allora?». «E allora, guardi, se proprio vuole: ho tirato giù dallo<br />

scaffale, proprio mentre parlavamo, La penombra che abbiamo attraversato<br />

di Lalla Romano, Einaudi, che ho comperato una vita fa ma <strong>non</strong><br />

ho ancora letto; Gli esordi di Antonio Moresco, Feltrinelli, che ho<br />

letto e vorrei rileggere; Il peccato e la paura, di Jean Delumeau, il Mulino,<br />

un saggio sull’idea di colpa tra Medioevo e Rinascimento che ho<br />

cominciato tre volte senza mai venirne a capo; Paterson di William<br />

Carlos Williams, Lerici, un poema che ho già letto tre o quattro<br />

volte; Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Einaudi, un classico<br />

dell’urbanistica. Penso che potrebbero andare, e bastare». «Qual è il<br />

più lungo?». «Il Delumeau, che fa mille e otto pagine». «Ma perché<br />

legge un libro di mille pagine sul senso di colpa?». «Dice che <strong>non</strong><br />

dovrei?». «No, <strong>non</strong> lo dico, ma mi sembra strano che uno scrittore<br />

legga un libro del genere». «Perché strano?». «Perché <strong>non</strong> è letteratura,<br />

è… è… <strong>non</strong> saprei neanche dire che cos’è, un libro del genere, di<br />

storia del senso di colpa. E quello di urbanistica, poi, che cosa se ne<br />

fa?». «Ma, <strong>non</strong> lo so. Non è che me ne faccio qualcosa direttamente.<br />

Sono una persona umana, ho dei sensi di colpa, vivo in una città,<br />

perché <strong>non</strong> dovrei imparare qualcosa sui sensi di colpa e sulle cit-<br />

42<br />

tà?». «Ma <strong>non</strong> dico che <strong>non</strong> dovrebbe. È che pensavo che gli<br />

scrittori leggessero solo libri di scrittori». «E i farmacisti leggono<br />

solo libri di farmacia?». «No, <strong>non</strong> faccia apposta a <strong>non</strong> capire».<br />

«Infatti, ho capito benissimo». «E che cos’ha capito?». «No, meglio<br />

se <strong>non</strong> lo dico». «No, lo dica, invece». «Lo dica». «No». «Lo<br />

dica, sì». «No». «Sì». «No».<br />

Chiacchierata numero 27<br />

Saluti a tutti. Non passa giorno senza che il postino <strong>non</strong> mi lasci<br />

nella cassetta delle lettere (o sul davanzale della finestra, se<br />

<strong>non</strong> ci stanno) almeno un paio di bustoni con dentro dattiloscritti<br />

(romanzi, raccolte di racconti, saggi storici, poesie, sistemi<br />

filosofici). Non passa giorno senza che nella mia casella di<br />

posta elettronica <strong>non</strong> si riversino uno o due dattiloscritti. Non<br />

passa giorno senza che qualcuno mi telefoni per propormi un<br />

testo da leggere. Ogni tanto succedono cose curiose. Questa è<br />

successa il 21 luglio scorso.<br />

***<br />

Sono nel mio studio. Sono le sette e venti del mattino. Sto lavorando.<br />

Il telefono suona. Alle sette e venti del mattino mi telefonano<br />

solo gli amici, quindi rispondo fiducioso.<br />

«Buongiornoo, è il dottor Mozzii?». Una voce maschile, voluminosa.<br />

«Buongiorno», dico. «Sono Giulio Mozzi. Lei cercava Giulio<br />

Mozzi?».<br />

In Padova, mia città, abita un altro Giulio Mozzi. Fa il cardiologo.<br />

«Cercavoo lo scrittoree, è leii?», dice la voce.<br />

«Sono io», dico. Amen.


«Ecco sentaa, io le telefonavoo perché avrei scrittoo due romanzii,<br />

cioè quattroo, ma due sono già stati pubblicatii, per le Edizioni<br />

dell’Antico Torchioo, lei ha presentee?».<br />

Penso all’Antica Gelateria del Corso e rispondo: «No. Mai sentite<br />

nominare».<br />

«Ecco sentaa, io con questi quii ho fatto due romanzii, noo?, e<br />

avrebbero anche venduto benee, se loro si fossero dati una mossaa,<br />

invece hanno venduto solo duemila copiee, abbiamo fatto due edizionii,<br />

e allora adessoo che ho qui due romanzii, volevo pubblicarli<br />

da leii», dice la voce.<br />

«Ma», dico, «prima dovrò leggerli».<br />

«Ecco sentaa, io passavo per Padova giovedìi, così glieli portoo,<br />

facciamo quattro chiacchieree», dice la voce.<br />

«Ma, vede», dico, «anche se ci vediamo, finché io <strong>non</strong> ho letti i testi,<br />

<strong>non</strong> è che abbiamo molto da dirci».<br />

«Ecco sentaa, noo, è che le volevo spiegaree, perché sono romanzi<br />

che hanno un messaggioo particolaree, così <strong>non</strong> volevo essere<br />

fraintesoo, e poi così possiamo parlare degli aspetti commercialii,<br />

che sono importantii, noo?», dice la voce.<br />

«Ma, guardi», dico, «quanto al messaggio contenuto nei romanzi, è<br />

proprio meglio se <strong>non</strong> ne parliamo prima: perché se il romanzo fa<br />

passare il suo messaggio, bene, ma se ha bisogno di spiegazioni di<br />

contorno, allora vuol dire che <strong>non</strong> basta a sé stesso. E quanto agli<br />

aspetti commerciali, mi pare un po’ prematuro».<br />

«Ecco, sentaa, ad esempio io potrei portare degli sponsoor, come<br />

la Cassa di Credito Cooperativo del Tagliamentoo e del Piavee, che<br />

ha sponsorizzato anche gli altri due romanzii, e la Cantina Sociale di<br />

Sacilee, che ha sponsorizzato solo il secondoo, perché è arrivata tardii,<br />

ma si è già detta interessataa al terzoo», dice la voce.<br />

«Ma, sa», dico, «che ci sia o <strong>non</strong> ci sia uno sponsor, a me <strong>non</strong> interessa<br />

mica tanto. A me interessa consigliare all’editore buoni libri».<br />

«Ecco, sentaa, io comunque sarei là giovedìi, le faccio uno squilloo,<br />

andiamo a mangiaree un bocconee», dice la voce.<br />

43<br />

«Ma, ecco», dico, «io giovedì <strong>non</strong> ci sono proprio. Sono a Milano,<br />

in casa editrice».<br />

L’uomo, mi aspettavo che rilanciasse su mercoledì o venerdì.<br />

Invece, e <strong>non</strong> me l’aspettavo, sta zitto qualche secondo.<br />

«A Milanoo, ha dettoo?», dice poi.<br />

«Sì», dico. «A Milano. La casa editrice per la quale lavoro è a<br />

Milano».<br />

«Non è a Padovaa?», dice.<br />

«No», dico. «Io abito a Padova, ma lavoro per una casa editrice<br />

di Milano».<br />

«Ma allora è una cosa milanesee», dice.<br />

«È un’azienda di Milano», dico.<br />

«Quindi <strong>non</strong> vi interessaa, uno scrittore di Gradoo», dice.<br />

«Ma no!», dico. «L’editore è di Milano, ma pubblica persone<br />

che abitano in ogni parte d’Italia. Abbiamo autori piemontesi,<br />

emiliani, pugliesi, napoletani...».<br />

«Ecco sentaa, anche del Sud, alloraa?», dice.<br />

«Sì, certo», dico, «anche del Sud. Anzi, in proporzione con le<br />

altre case editrici, abbiamo parecchi autori del Sud».<br />

«Ah bee, alloraa, mi scusi tantoo, ma <strong>non</strong> ci siamoo», dice.<br />

«Cioè?», domando.<br />

«Non ci siamoo, <strong>non</strong> ci siamoo. Arrivederla, dottor Mozzii»,<br />

dice.<br />

«Buona giornata», dico.<br />

Clic.<br />

***<br />

Sono certo che l’a<strong>non</strong>imo telefonatore abbia veramente vendute<br />

migliaia di copie del suo romanzo stampato dalle Edizioni<br />

dell’Antico Torchio. Uno che è capace di telefonare a un perfetto<br />

sconosciuto alle sette e venti di mattina, sarebbe capace di


vendere frigoriferi agli esquimesi. Li prenderebbe per sfinimento.<br />

E <strong>non</strong> mi fa neanche tanta impressione il razzismo. Che <strong>non</strong> è un<br />

razzismo verso il Sud (già Milano <strong>non</strong> andava bene): è razzismo verso<br />

chiunque <strong>non</strong> sia identico. Ed è, ovviamente, un razzismoautogol:<br />

se si accetta di comunicare solo tra identici, è come <strong>non</strong><br />

comunicare con nessuno.<br />

Mi spaventa più di tutto la velocità della decisione. Gli sono bastati<br />

pochi secondi, a quell’uomo, per chiudere la telefonata. Per escludere<br />

dall’orizzone questa realtà scomoda e fastidiosa, che è l’editore<br />

per il quale io lavoro. Sono stato bruciato con una sola fiammata.<br />

Per carità: <strong>non</strong> abbiamo perso niente. Sono sicuro. Alla prossima.<br />

Chiacchierata numero 28<br />

Buongiorno. Com’è andato il Ferragosto? Spero bene. Bene.<br />

Un amico mi segnala una lezione dello scrittore Sandro Veronesi<br />

(il suo ultimo romanzo: La forza del passato, Feltrinelli), tenuta durante<br />

un corso di scrittura organizzato a Roma dalla casa editrice<br />

Minimum Fax, leggibile in “sbobinatura” nelle pagine web appunto<br />

di Minimum Fax<br />

(http://www.minimumfax.com/speciale.asp?specialeID=22&ns=2)<br />

. In questa lezione Veronesi a un certo punto dice: «Quando soffrono,<br />

i professionisti, smettono di scrivere, e i dilettanti si mettono a<br />

scrivere». Il «lavoro principale» dello scrittore «professionista» è, dice<br />

Veronesi, «tenere pulito il proprio potenziale» da «tutti gli ingombri»:<br />

«la donna v’ha lasciato, i cazzi, i soldi, la monnezza, quello che<br />

volete». «Il professionista lì si ferma, lotta con ‘sto vento, risolve, per<br />

quel che può, o vi è travolto, se <strong>non</strong> riesce a risolvere i problemi,<br />

poi, dopo, quando questo momentaccio è passato, scrive». Al contrario,<br />

«il dilettante, invece, BUM, subito prende questo flusso di<br />

merda che gli arriva addosso, e, per terapia, per consolarsi, per reg-<br />

44<br />

gere meglio l’urto e illudendosi addirittura che questo nobiliti il<br />

suo gesto, scrive».<br />

Il concetto <strong>non</strong> è nuovo; ma mi sembra molto ben detto. Mi<br />

piace anche questo uso delle parole «dilettante» e «professionista».<br />

Poi Veronesi continua: «Qualunque cosa consegua alla tua vita<br />

quotidiana che finisce dentro la scrittura va vagliata e lavorata<br />

molto prima. Perché se tu hai un rapporto familiare, è ovvio<br />

che questo rapporto familiare finisce per formare quello che<br />

scriverai. Il disagio, quello che <strong>non</strong> funziona nel tuo rapporto<br />

familiare, con i tuoi genitori, con tua moglie, con i tuoi figli, finirà<br />

per formare in un modo nell’altro quello che scrivi. Però<br />

c’è il rischio che dopo tu trasferisci sulla scrittura la soluzione<br />

del rapporto familiare. Se ti va bene il libro, perché lo pubblichi,<br />

perché viene anche apprezzato, rischi di <strong>non</strong> considerare più un<br />

problema familiare quello che è diventato addirittura la chiave<br />

del tuo successo. Ecco, allora: un professionista questo sbaglio<br />

<strong>non</strong> lo deve fare, perché è troppo fragile, lo capite, troppo fragile<br />

quello che costruisci. Ti appoggi su un problema, lo trasformi<br />

in soluzione senza avere toccato il problema…».<br />

Perfetto. Devo dire che <strong>non</strong> ho mai sentito spiegare meglio<br />

perché e percome l’idea, così diffusa, della “scrittura come terapia”<br />

è in buona parte un’idea sbagliata.<br />

Una persona assai amabile mi ha scritto, circa un mese fa: «Io<br />

sto scrivendo un diario, spinta dalla mia terapeuta… Adesso<br />

che ho quasi finito il mio diario retrospettivo, inserito in quello<br />

attuale, mi chiedo che farne, oltre ad averne usufruito per chiarirmi,<br />

anche perché la mia terapeuta, a cui l’ho letto man mano,<br />

si è molto interessata nell’ascoltarlo e m’incoraggia a <strong>non</strong> tenerlo<br />

chiuso nel classico cassetto». Qui si tratta di vera e propria<br />

“scrittura come terapia”, perché la scrittura nasce, e ha la sua<br />

prima esistenza, proprio all’interno di una relazione terapeutica;<br />

potremmo dire, anzi, che qui <strong>non</strong> abbiamo una “scrittura come


terapia”, ma una “terapia con scrittura”. Naturalmente può succedere<br />

che una scrittura iniziata all’interno di una relazione terapeutica<br />

poi si renda autonoma e diventi, diciamo così, “scrittura-scrittura”.<br />

Cosa che auguro, senza azzardarmi in previsioni, all’amabile persona<br />

di cui sopra.<br />

L’importante è che, per usare il linguaggio un po’ brutale di Sandro<br />

Veronesi, vi sia prima la «soluzione dei problemi», e poi la scrittura.<br />

In me, ad esempio, la scrittura è nata durante una relazione terapeutica,<br />

e all’interno di una relazione amicale. Una situazione quasi ideale.<br />

Che però io sono riuscito a rovinare, qualche tempo dopo, perché<br />

senza rendermene ben conto ho fatto della scrittura un antagonista<br />

della relazione terapeutica. Dicevo: «C’è del lavoro che faccio nella<br />

relazione terapeutica, e c’è del lavoro che faccio per mio conto nella<br />

scrittura»; ciò che accadeva, invece, era che facevo del lavoro nella<br />

relazione terapeutica e, penelopescamente, lo disfacevo nella scrittura.<br />

Se qualcuno fosse curioso di verificare la cosa in corpore vili, può<br />

andare a confrontare la felicità (psichica, morale, estetica) del mio<br />

primo libro di racconti (Questo è il giardino, del 1993, ora negli Oscar<br />

Mondadori) con l’orrore (psichico, morale, estetico) del mio terzo<br />

libro di racconti (Il male naturale, del 1998, Mondadori).<br />

Dal punto di vista di Sandro Veronesi, io sono uno scrittore «cattivo<br />

professionista»: perché a volte mi comporto come un professionista,<br />

e a volte come un dilettante. Il mio ultimo libro di racconti<br />

(Fiction, del 2001, Einaudi) è un libro da superprofessionista (<strong>non</strong> è<br />

un giudizio di qualità, è un giudizio professionale), mentre la decisione,<br />

presa qualche mese fa, di tenere un diario in pubblico<br />

(http://giuliomozzi.clarence.com) è sicuramente dilettantesca (o,<br />

almeno, presenta tutti i pericoli del dilettantismo).<br />

***<br />

Ma come si fa, a diventare «professionisti» nel senso indicato da<br />

Veronesi (cioè <strong>non</strong> nel senso di “vivere dei propri libri”; quella è<br />

45<br />

un’altra faccenda)? Secondo me, e <strong>non</strong> saprei se Veronesi sarebbe<br />

d’accordo, si tratta di capire che la scrittura è un’attività di<br />

relazione. È una cosa che ho già detta e ripetuta in questa rubrica.<br />

Si tratta quindi di trovare, nella nostra esperienza di vita,<br />

delle relazioni-modello sulle quali basare la nostra idea di “scrittura<br />

come relazione”. La relazione terapeutica è per definizione una<br />

relazione-modello; una relazione amicale felice è naturalmente<br />

una relazione-modello; ma anche le relazioni familiari, professionali,<br />

comunitarie possono servire da modello.<br />

Ci sono anche libri che fanno intravedere la loro relazionemodello.<br />

Ad esempio, La coscienza di Zeno: che esplicita, e parodizza,<br />

la relazione terapeutica come relazione-modello. O i libri<br />

di Aldo Busi, che diventano bellissimi quando la sua relazione<br />

con la madre emerge come relazione-modello.<br />

E voi, che relazione-modello avete? Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 29<br />

Buongiorno. Un collaboratore d’un quotidiano mi chiede, un<br />

paio di giorni fa, di segnalargli corsi e laboratori di scrittura che<br />

inizino nel mese di settembre. Io gli dico: «Mi dia un paio<br />

d’ore»; scartabello le mie carte, do un’occhiata ai miei archivi;<br />

poi mi attacco alla rete, visito un po’ di siti bene aggiornati; alla<br />

fine faccio una lista di corsi e laboratori, e gliela giro. S’intende<br />

che <strong>non</strong> è una lista completa; come ha chiesto a me, questo<br />

collaboratore d’un quotidiano avrà chiesto ad altri.<br />

Dunque.<br />

Girellando per la rete, volando di sito in sito a caccia di corsi e<br />

laboratori di scrittura dei quali mi fosse sfuggita la notizia, trovo<br />

questo annuncio: «VUOI <strong>DI</strong>VENTARE <strong>UN</strong>O SCRITTORE?<br />

GRATIS? ALMENO PROVARE? Diventare scrittori gratis?<br />

Cosa significa? Significa che quest’anno, ad Arezzo Wave, apre,


dal 3 al 6 luglio WORD STAGE, puoi partecipare a laboratori di<br />

scrittura gratuiti condotti da gente come Lucarelli, Nove, Scarpa,<br />

Montanari... E se aggiungessi che tra coloro che partecipano ai laboratori<br />

sarà scelto il miglior racconto da inserire, assieme ai racconti<br />

di Scarpa, Evangelisti, Voltolini, Rigosi, Cornia, Nori... nell’antologia<br />

de “La Biblioteca di Riccardo - Circolo Aurora”?».<br />

Il corso è già scaduto; ma l’annuncio mi fa impressione.<br />

Dunque.<br />

«Diventare uno scrittore gratis» mi suona un po’ come «Perdere<br />

sette chili in sette giorni senza rinunciare a sbafare di tutto». Non<br />

voglio dire che per «diventare uno scrittore» uno debba frequentare<br />

per forza un corso costosissimo. È che quel «gratis» mi sembra<br />

equivalere a un «senza fatica», «in sette giorni», eccetera.<br />

In realtà «Diventare uno scrittore gratis» suona come un’occasione,<br />

un’eccezione rispetto alla norma, che sarebbe: «Diventare uno<br />

scrittore pagando (caro)». Quindi l’idea che sta dietro il «Diventare<br />

uno scrittore gratis» è: «Normalmente, per “diventare uno scrittore”,<br />

bisogna spendere molti soldi (e/o fare molta fatica); noi ti offriamo,<br />

occasione unica ed eccezionale, di “diventare uno scrittore” senza<br />

spendere nulla, e facendo anche poca fatica».<br />

Questa “offerta speciale”, in somma, <strong>non</strong> va contro, ma va a rafforzare<br />

l’idea che per “diventare scrittori” sia necessario passare attraverso<br />

costosi corsi e laboratori di scrittura. Come un annuncio che<br />

dicesse: «Vieni in vacanza nel nostro villaggio, per sette giorni potrai<br />

fare sesso con chiunque vorrai»; che ha come “sfondo” l’idea che<br />

tanti siano sessualmente repressi e insoddisfatti.<br />

Poi.<br />

«Tra coloro che partecipano ai laboratori sarà scelto il miglior racconto<br />

da inserire, assieme ai racconti di Scarpa, Evangelisti, Voltolini,<br />

Rigosi, Cornia, Nori…». Ossia: noi ti forniamo l’occasione per<br />

diventare (gratis) uno scrittore; però <strong>non</strong> è poi così facile; in realtà<br />

uno solo dei partecipanti diventerà uno scrittore; infatti uno solo dei<br />

46<br />

partecipanti sarà ammesso a pubblicare al fianco di Scarpa,<br />

Evangelisti, Voltolini, Rigosi, Cornia, Nori eccetera, che sono già<br />

degli scrittori.<br />

Quindi, per essere considerati, o almeno considerarsi, «uno<br />

scrittore», bisogna potersi idealmente sedere a fianco di Scarpa<br />

Evangelisti eccetera: che sono «Autori Autorizzati», secondo la<br />

felice definizione dello stesso Scarpa (potete leggerla in rete,<br />

qui: http://www.nazioneindiana.com/archives/000089.html).<br />

«Diventare uno scrittore», a questo punto, è come ottenere un<br />

patentino. E questo patentino si ottiene pagando, frequentando<br />

costosi corsi e laboratori di scrittura. Occasionalmente, una<br />

volta l’anno, il patentino è disponibile gratis. Una specie di iniziativa<br />

promozionale.<br />

Che poi Scarpa, Evangelisti, Voltolini, Rigosi, Cornia, Nori<br />

eccetera, siano «diventati scrittori», ossia «Autori Autorizzati»,<br />

in tutt’altro modo e per tutt’altre vie; questo <strong>non</strong> conta. E <strong>non</strong><br />

ha neanche senso dirlo, tutto sommato, perché le “vie<br />

d’accesso” alla pubblicazione, al «diventare scrittori», <strong>non</strong> sono<br />

per nulla codificate. Non c’è un percorso da fare, <strong>non</strong> serve un<br />

diploma, <strong>non</strong> ci sono concorsi che ti “laureino” scrittore. In assenza<br />

di percorsi riconoscibili, chiunque ha la possibilità di<br />

metter fuori un annuncio e dire: «Vuoi diventare scrittore?<br />

Gratis?».<br />

***<br />

Dove voglio arrivare? A questo:<br />

Esiste ormai un vasto mercato di corsi, laboratori, stage di<br />

scrittura. Sono così tanti che ne perdo il conto. Di per sé <strong>non</strong> ci<br />

trovo niente di male. Esiste anche un vasto mercato di corsi di<br />

salsa e merengue, di corsi di nuoto, di corsi d’inglese.<br />

Personalmente credo che sia un bene, se molte persone si accostano<br />

o riaccostano alla scrittura. Una delle ragioni per le


quali mi piace questo mio mestiere di insegnante di scrittura e narrazione<br />

è che lo trovo un mestiere utile.<br />

Non ho neanche problemi di concorrenza. Ho lavoro che mi basta.<br />

Però:<br />

Mi scoccia che circolino annunci come quello che ho riportato e<br />

discusso. Mi scoccia davvero. Magari poi il laboratorio sarà stato, in<br />

sé e per sé, una bella cosa. Guardo i docenti: Carlo Lucarelli è un insegnante<br />

strepitoso (l’ho visto in azione), Tiziano Scarpa idem, Aldo<br />

Nove e Raul Montanari <strong>non</strong> li ho mai visti in aula ma sono persone<br />

intelligenti e capaci.<br />

Il punto <strong>non</strong> è la qualità del corso. Il punto è la modalità di presentazione.<br />

Due o tre persone al giorno mi scrivono per avere notizie di corsi<br />

che si svolgano dalle loro parti, o per chiedermi un’opinione sulla<br />

“credibilità” di questo o quel corso al quale stanno pensando di<br />

iscriversi.<br />

Posso dare una sola indicazione. Tanto più è basso il profilo, tanto<br />

più è credibile la faccenda: un corso per «migliorare il proprio stile»<br />

è più credibile di un corso per «diventare scrittori».<br />

E tanto più il prezzo vi pare congruo (rispetto alle ore, ai docenti<br />

reclutati ecc.), tanto più è credibile la faccenda (il troppo e il troppo<br />

poco sono cattivi segnali): tenendo conto che ci sono iniziative di<br />

enti pubblici (biblioteche, di solito) che per ragioni ovvie costano<br />

meno delle iniziative private.<br />

Se volete essere informati su più o meno tutti i corsi e i laboratori<br />

che si svolgono in Italia, vi consiglio le pagine web curate da Annamaria<br />

Manna, “guida” di scrittura creativa per il portale SuperEva:<br />

http://guide.supereva.it/scrittura_creativa. Buona settimana.<br />

47<br />

Chiacchierata numero 30<br />

State un po’ a sentire: «Nel 1903 mia <strong>non</strong>na Teresa, madre di<br />

mio padre, si arrabbiò con Dio e anche con tutti gli ebrei di<br />

Dnepropetrovsk, in Ucraina, perché continuavano a credere in<br />

Lui malgrado la micidiale i<strong>non</strong>dazione del fiume Dnepr. Durante<br />

l’alluvione era morto Giuseppe, il suo figlio preferito.<br />

Quando l’acqua aveva cominciato a invadere la casa, il ragazzo<br />

aveva spinto in cortile un armadio e ci si era arrampicato sopra,<br />

ma il mobile <strong>non</strong> rimase a galla perché era gravato dai trentasette<br />

trattati del Talmud…». Sono le prime righe di Quando Teresa<br />

si arrabbiò con Dio, romanzo di Alejandro Jodorowsky (1992;<br />

Feltrinelli 1996, ora nei tascabili). Conosco pochi inizi di narrazione<br />

così fulminanti. Jodorowsky forse <strong>non</strong> se n’era reso conto<br />

(il titolo originale è Donde mejor canta un pàjaro), ma il traduttore<br />

(Gianni Guadalupi) e l’editore italiani sì: e dall’incipit ricavarono<br />

il titolo. Mi ricordo: vidi il libro, il titolo mi attirò, lessi il primo<br />

capoverso e senza esitare passai alla cassa. Due giorni dopo<br />

avevo già letto il libro. Ottimo.<br />

Le prime righe di una narrazione sono importanti tanto<br />

quanto il primo approccio in una seduzione. In quanto lettori,<br />

lo sappiamo bene. Ma come è fatto un incipit efficace? Guardiamo<br />

qualche esempio.<br />

La sorpresa. «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da<br />

sonni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme<br />

insetto immondo». F. Kafka, La metamorfosi. Raramente<br />

l’elemento fantastico entra così velocemente nella narrazione, e<br />

in maniera così naturale.<br />

Il conflitto. «La notizia arrivò all’Alto Commissariato britannico<br />

di Nairobi alle nove e trenta di un lunedì mattina. Per Sandy<br />

Woodrow fu come una fucilata, che lo colpì diritto nel suo cuore<br />

inglese diviso». J. Le Carré, Il giardiniere tenace. Dove <strong>non</strong><br />

conta tanto l’effetto di shock («una fucilata») quanto l’immagine


del «cuore inglese diviso»: noi già immaginiamo un conflitto interno<br />

al personaggio.<br />

Il destino. «Non l’ho mai conosciuta da viva. Lei, per me, esiste solo<br />

attraverso gli altri, nell’evidenza delle loro reazioni alla sua morte.<br />

Scavando a ritroso e attenendomi ai fatti posso dire che era una ragazza<br />

triste e una puttana. Nella migliore delle ipotesi era una fallita,<br />

un’etichetta che, del resto, potrei applicare a me stesso». J. Ellroy,<br />

Dalia Nera. Non sappiamo ancora niente, ignoriamo chi sia lei e chi<br />

sia lui; ma presentiamo che <strong>non</strong> sapremo mai veramente chi è “lei”,<br />

e che alla fine del romanzo “lui” scoprirà di <strong>non</strong> sapere niente di sé.<br />

L’azione. «La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati<br />

lei. Quanto a Lucy aveva già il suo daffare. Si dovevano togliere<br />

le porte dai cardini; gli uomini di Rumpelmayer sarebbero arrivati tra<br />

poco. E poi, pensò Clarissa Dalloway, che mattina - fresca come se<br />

fosse stata appena creata per dei bambini su una spiaggia». La signora<br />

Dalloway di V. Woolf <strong>non</strong> è certo un romanzo d’azione; tuttavia<br />

l’incipit ci offre già quel “narrare concitato” tipico di questo romanzo,<br />

in cui il turbinare di percezioni e pensieri ci avvolge e dà<br />

l’illusione di un’azione continua.<br />

Generalizzando, si potrebbe dire: un buon inizio di narrazione<br />

presenta velocemente uno o più personaggi determinati, in una situazione<br />

determinata, posto o posti in un conflitto e/o difronte a un<br />

avvenimento improvviso e/o misterioso. Questa generalizzazione,<br />

come sempre in questo campo, vale quel che vale.<br />

I demoni di F. Dostoevskij, ad esempio, inizia così: «Nell’accingermi<br />

alla descrizione degli avvenimenti tanto strani svoltisi or <strong>non</strong> è<br />

molto nella nostra città, in cui finora <strong>non</strong> era accaduto nulla di notevole,<br />

sono costretto, per la mia inesperienza, a rifarmi alquanto da<br />

lontano; e precisamente da alcuni particolari biografici intorno a<br />

Stepan Trofimovic Verchovenski, uomo rispettabilissimo e di molto<br />

ingegno. Questi particolari <strong>non</strong> serviranno che d’introduzione,<br />

mentre la storia che mi propongo di scrivere seguirà poi». Il bello è<br />

che i «particolari biografici» occupano, nell’edizione che ho qui, 210<br />

48<br />

pagine su complessive 730 del romanzo. Sarà una questione di<br />

respiro: un racconto di venti pagine ha bisogno di un inizio più<br />

spiccio di un romanzo di 730; e un romanzo di 730 pagine avrà<br />

bisogno di imporre al lettore un ritmo di lettura pacato, piuttosto<br />

che convulso.<br />

O pensate ai Promessi sposi, che iniziano addirittura tre volte:<br />

prima c’è l’introduzione falso-seicentesca («L’Historia si può veramente<br />

deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di<br />

mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita…»),<br />

poi c’è lo scorcio paesaggistico (ma anche storicosociale)<br />

che tutti conoscono («Quel ramo del lago di Como…»),<br />

e infine c’è l’inizio della narrazione vera e propria: «Per una di<br />

quelle stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa,<br />

sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio,<br />

curato d’una delle terre accennate di sopra…». Notiamo,<br />

tra l’altro, che l’incontro di don Abbondio con i bravi di<br />

don Rodrigo è un inizio di narrazione che presenta un personaggio<br />

determinato, in una situazione (tempo, spazio, contesto<br />

sociale) determinata, posto in un conflitto e difronte a un avvenimento<br />

improvviso e misterioso.<br />

***<br />

Leggete questa: «Ieri pomeriggio a Monteortone due giovani a<br />

bordo di una motocicletta hanno rotto il vetro di un’auto parcheggiata<br />

in via Castello da una coppia di turisti tedeschi e si<br />

sono impossessati della busta di plastica lasciata sul sedile.<br />

Fortunatamente c’erano solo fazzoletti di carta e cosmetici. Gli<br />

agenti della polizia municipale hanno accompagnato i due a<br />

sporgere denuncia ai carabinieri». Questa notizia breve, uguale a<br />

tante altre, è già un discreto inizio di narrazione. Ci sono due<br />

personaggi determinati, c’è una situazione determinata, c’è un<br />

avvenimento improvviso (per quanto <strong>non</strong> grave) e, volendo,


misterioso (perché rubare, considerato il molto rischio e il prevedibile<br />

minimo guadagno, una busta della spesa?).<br />

Ma delle relazioni tra notizia e incipit, giornali e romanzi, parliamo<br />

settimana prossima. Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 31<br />

Martedì scorso finivo citando una breve notizia di cronaca (dal<br />

Gazzettino, pagine provinciali di Padova). La ripeto: «Ieri pomeriggio<br />

a Monteortone due giovani a bordo di una motocicletta hanno rotto<br />

il vetro di un’auto parcheggiata in via Castello da una coppia di turisti<br />

tedeschi e si sono impossessati della busta di plastica lasciata sul<br />

sedile. Fortunatamente c’erano solo fazzoletti di carta e cosmetici.<br />

Gli agenti della polizia municipale hanno accompagnato i due a<br />

sporgere denuncia ai carabinieri».<br />

Si può dire che la notizia è insignificante. Eppure contiene una<br />

sorta di promessa di narrazione. A partire da questo fatto insignificante,<br />

potrebbe succedere di tutto. Perché mai due tizi in motocicletta dovrebbero<br />

rubare una busta della spesa abbandonata sul sedile di<br />

un’automobile? O sono due sciocchi, o avevano qualche ragione di<br />

credere che in quella busta potesse esserci qualcosa d’importante.<br />

Avendo una motocicletta, è molto più redditizio uno scippo al volo<br />

(mal che vada si porta a casa un portafoglio) che una simile rapina<br />

(di pochissimo conto, ma sempre rapina è).<br />

Poi: chissà che cosa ci facevano, due turisti tedeschi, a Monteortone.<br />

Monteortone è, va l’assicuro, tra tutti i paesi della provincia di<br />

Padova, uno dei meno rilevanti turisticamente. Non c’è nessuna ragione<br />

precisa perché dei turisti debbano andare a Monteortone. E<br />

allora, che cosa ci facevano lì? E che cosa volevano veramente rubare i<br />

due motociclisti? E si è trattato veramente di un furto oppure di un<br />

modo, per chissà quali ragioni così stabilito, di far passare di mano<br />

un oggetto? In fondo, che dentro la busta ci fossero solo fazzoletti<br />

49<br />

di carta e cosmetici, l’hanno detto i due turisti, <strong>non</strong> è mica un<br />

fatto accertato…<br />

Molti romanzi o racconti cominciano così: con un fatto banale,<br />

anche futile, che tuttavia apre una promessa di narrazione: ossia,<br />

pur nella sua banalità, contiene qualcosa di inspiegabile, o almeno<br />

di illogico. L’abilità del narratore consiste, in questi casi, nel<br />

proporci un mondo nel quale le cose che avvengono sono banali<br />

(e perciò, va da sé, senza esitazione credibili) e tuttavia lievemente<br />

“sfasate” rispetto alla vera e autentica banalità (quella,<br />

per intenderci, che sperimentiamo nella nostra vita quotidiana).<br />

La narrazione in somma ci propone avvenimenti perfettamente<br />

credibili, che però <strong>non</strong> sono davvero del tutto perfettamente<br />

credibili. Sono credibili, ma ci lasciano il sospetto che “ci<br />

sia sotto qualcosa”. Sono credibili, ma hanno un particolare<br />

che, a pensarci bene, è troppo strano per essere creduto così sui<br />

due piedi. Sono credibili, ma forse basterebbe osservarli da un<br />

altro punto di vista…<br />

***<br />

«Eravamo forse una decina o qualcuno in più. Eravamo ai<br />

giardini pubblici. Era novembre. Era vino. Ce n’era tanto. Per<br />

tenersi caldi, per stare vicini. Qualcuno esagerò. Più di qualcuno,<br />

a dire il vero. Poi uno corse ad abbracciare un albero enorme<br />

e iniziò a sgranare parole senza senso circa la fecondazione<br />

e gli elefanti in Indonesia». Questo è l’incipit di Come gli elefanti in<br />

Indonesia, romanzo assai bizzarro e <strong>non</strong> del tutto privo di qualità<br />

di Vanni Schiavoni, classe 1977, di Manduria (edizioni LiberArs,<br />

liberars@libero.it). Anche qui abbiamo una situazione banale,<br />

nella quale irrompe un fatto inspiegabile. Che c’entrano gli<br />

elefanti, la fecondazione, l’Indonesia, con un normale pomeriggio<br />

di ragazzi che chiacchierano e bevono?


Il fatto inspiegabile però qui è, se così si può dire, troppo inspiegabile.<br />

Può sembrare solo un’idea bislacca. Tuttavia anche l’incipit<br />

della Metamorfosi di Kafka («Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina<br />

da sonni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme<br />

insetto immondo») può sembrare solo un’idea bislacca. È necessario<br />

quindi che il narratore, subito dopo aver presentato il fatto inspiegabile,<br />

faccia di tutto perché esso venga riclassificato (dal lettore) tra i<br />

fatti spiegabili, magari appena un po’ inspiegabili. Non per niente il<br />

grosso problema di Gregorio Samsa, risvegliatosi «trasformato in un<br />

enorme insetto immondo», è sintetizzabile più o meno così: «Santo<br />

cielo, che cosa penserà il capufficio?». E i suoi familiari reagiscono al<br />

fatto più o meno così: «Santo cielo, guarda come si è ridotto Gregorio!».<br />

La realtà, “strappata” dal fatto inspiegabile, viene rapidamente<br />

“ricucita”.<br />

Nel romanzo di Vanni Schiavoni, questo “ricucimento” della realtà<br />

tarda ad arrivare. Così che il lettore legge e legge le prime pagine, e<br />

<strong>non</strong> capisce bene quale sia la promessa narrativa. Che c’entrano gli<br />

elefanti? A un certo punto la risposta arriva, e la narrazione si fa leggere<br />

assai volentieri; tuttavia c’è stato uno iato, un momento di indecisione<br />

iniziale, un piccolo vuoto: proprio all’inizio, proprio lì dove,<br />

invece, il lettore dovrebbe (permettetemi questo verbo) essere incuriosito<br />

e irretito.<br />

Perché lo scopo di ogni narrazione, si sa, è questo: essere letta, o<br />

ascoltata, o guardata, dall’inizio alla fine.<br />

***<br />

Quando il fatto che irrompe è veramente inspiegabile, o almeno<br />

straordinario, è necessario provvedere rapidamente a un<br />

“ricucimento” della realtà. Se il fatto che irrompe è sostanzialmente<br />

spiegabile, è necessario provvedere a instillare nel lettore il dubbio<br />

che così spiegabile in effetti <strong>non</strong> sia. Che cominciamo a raccontare<br />

in un modo o che cominciamo a raccontare in un altro, si arriva<br />

50<br />

comunque a uno stesso punto medio: la presentazione di una<br />

realtà che è parzialmente spiegabile (e che quindi il lettore si<br />

spiega da sé) e parzialmente inspiegabile (e che quindi il lettore<br />

si aspetta che noi gli spieghiamo).<br />

Una realtà tutta inspiegabile, sarebbe rifiutata dal lettore come<br />

una sciocchezza. Una realtà tutta spiegabile, <strong>non</strong> presenta il minimo<br />

interesse.<br />

L’incipit di una narrazione, quindi, serve anche a questo: a<br />

promettere al lettore che, questa realtà dove qualcosa è inspiegabile,<br />

prima o poi gli sarà spiegata per filo e per segno. Promessa<br />

che, sia chiaro, <strong>non</strong> è poi così obbligatorio mantenere.<br />

Ma ne parliamo tra una settimana.<br />

Chiacchierata numero 32<br />

Dicevo la settimana scorsa che ogni racconto o romanzo, già<br />

nelle prime righe, fa al lettore una promessa di narrazione. Leggere<br />

le prime frasi o la prima pagina d’un libro, per capire se può<br />

interessarci, è un’abitudine diffusa. Ma come funziona, nel dettaglio,<br />

questa promessa di narrazione? Io <strong>non</strong> lo so spiegare. Posso<br />

solo fare esempi.<br />

Quello che segue è l’incipit di Viaggio alle Incoronate, un romanzo<br />

di Hans Kitzmüller. Kitzmüller è un germanista goriziano, un<br />

narratore, un prestigioso studioso e traduttore. Le Incoronate<br />

sono isole della Dalmazia. Io, tengo a precisarlo, <strong>non</strong> ho ancora<br />

letto il libro.<br />

«L’idea di partire finalmente, mi emozionava. Per andare sino<br />

alle Incoronate dovevo affrontare una lunga navigazione solitaria<br />

che poteva essere anche di tre, quattro giorni - dipendeva dal<br />

tempo e dal mare che avrei trovato. Mi pregustavo però anche<br />

la meraviglia e lo stupore di fronte a visioni straordinarie. Laggiù<br />

volevo gettare l’ancora in ogni baia sicura, ormeggiare ad


ogni piccolo molo dell’arcipelago. E starmene lì, seduto o sdraiato<br />

nel sedile del pozzetto, cullato nella quiete dell’attracco a vivere intensamente<br />

il lieve nulla di cui sono fatte le ore trascorse a bordo in<br />

certe sere silenziose e in certe notti luminose».<br />

Questo incipit contiene tutto il programma d’un libro. Un uomo<br />

parte per un viaggio a lungo progettato, o più volte rimandato, comunque<br />

molto desiderato («finalmente»), nel corso del quale egli<br />

prevede o progetta di entrare in uno stato d’animo speciale, anzi già<br />

vi sta entrando («mi emozionava»), stato d’animo possibile in quanto<br />

il viaggio, grazie alle «incertezze» e alla «solitudine» che garantisce, si<br />

prospetta come alternativo alla vita ordinaria del protagonista, che si<br />

presumerà «certa» e «affollata», più o meno come potrebbe essere la<br />

vita di un professore di Lingua e letteratura tedesca all’Università di<br />

Udine, quale Kitzmüller è. Naturalmente, che la narrazione sia autobiografica,<br />

o para-autobiografica, è una supposizione. Ma siamo appena<br />

all’inizio, e abbiamo il diritto di fare supposizioni.<br />

La destinazione del viaggio è provvista d’un nome quasi magico: le<br />

Isole Incoronate fanno pensare all’Isola-<strong>non</strong>-trovata o all’Isola Ferdinandea.<br />

Come se ciò <strong>non</strong> bastasse, il signor Kitzmüller già annuncia<br />

«meraviglia», «stupore» e «visioni straordinarie»; meraviglia stupore<br />

e visioni, tuttavia, <strong>non</strong> terribili né inquietanti, bensì da godersi<br />

in «baie sicure», «seduto o sdraiato», «cullato nella quiete». Il viaggio<br />

sarà quindi estatico: <strong>non</strong> sarà il viaggio mistico del giovane che va<br />

incontro ai pericoli per mettersi alla prova e tentar di diventare immortale,<br />

ma il viaggio estatico dell’adulto che cerca pace e straniamento<br />

per ritrovare, diciamo così, la sua nascita. Nient’altro che<br />

un’estasi, infatti, è quel «vivere intensamente il lieve nulla» che sta<br />

nell’ultima frase. Viene in mente quel viaggiatore leggero e folle che<br />

fu Robert Walser: i cui personaggi spesso intraprendono viaggi a<br />

piedi, nel corso dei quali godono di ogni felicità.<br />

Che libro ci aspettiamo, dunque? Non certo un’avventura marinaresca.<br />

Ci aspettiamo che un professore di Lingua e letteratura tedesca,<br />

o comunque un personaggio immaginabile da un professore di<br />

51<br />

Lingua e letteratura tedesca, passi alcuni giorni in mare; <strong>non</strong> in<br />

mezzo al mare, ovviamente, ma costeggiando; e che questi<br />

giorni si riempiano di eventi minimi, di «lievi nulla»; e che tra<br />

eventi minimi e «lievi nulla» irrompa qualcosa. Che cosa? Ma,<br />

sarà un passato, saranno dei passati. Il libro sarà un libro di rievocazione.<br />

Creata per mezzo della «solitudine» una tabula rasa, il<br />

nostro professore o personaggio aprirà la propria mente, lascerà<br />

libero il passaggio a tutto ciò che “il logorio della vita moderna”<br />

tiene invece a bada, distante. Giusto? È più o meno questo, il<br />

libro che ci aspettiamo?<br />

La cosa divertente è che il libro - passo dalla prima pagina<br />

all’ultima - finisce con queste parole:<br />

«Tutto, poi, è stato esattamente così».<br />

***<br />

Ma la vera curiosità che ci farà leggere il libro è questa: il nostro<br />

navigante, in quei giorni di viaggio, incontrerà i mostri marini?<br />

«Che c’entrano i mostri marini?», domanderà qualcuno.<br />

In effetti l’incipit <strong>non</strong> dice nulla sui mostri marini; <strong>non</strong> li nomina,<br />

<strong>non</strong> li promette, ma nemmeno li nega. I mostri marini sono<br />

nella nostra immaginazione. Che cosa saranno, le «visioni<br />

straordinarie» di cui si parla? Saranno semplicemente paesaggi<br />

molto belli, o saranno i mostri marini? L’incipit, in effetti, mette<br />

avanti due cose che stanno in tensione. La promessa di «meraviglia»<br />

e di «visioni straordinarie» è almeno all’apparenza incompatibile<br />

con la promessa di «lievi nulla», di «quiete» e di «sere<br />

silenziose». Siamo ancora all’inizio della narrazione, siamo<br />

pronti a tutto: ma abbiamo cominciato, senza rendercene ben<br />

conto, a dare una forma a questa nostra disponibilità. In sostanza,<br />

ci stiamo preparando a sovrapporre le cose incompatibili:<br />

ad accettare che una «sera silenziosa» sia fonte di «meravi-


glia», che un «lieve nulla» si presenti come una «visione straordinaria».<br />

Stiamo imparando a rinunciare ai mostri marini.<br />

Alla fin fine siamo abbastanza sicuri che Viaggio alle Incoronate sarà<br />

un libro un po’ noioso: perché <strong>non</strong> ci offrirà un turbine di avvenimenti<br />

nitidamente esposti, come i libri d’avventure, ma tenterà invece<br />

di confondere la nostra visione. Ci saranno pagine nelle quali <strong>non</strong><br />

capiremo bene se una «visione straordinaria» o un «lieve nulla» si stia<br />

levando dinanzi ai nostri occhi.<br />

Ecco. L’incipit di Viaggio alle Incoronate è sicuramente un bell’incipit,<br />

molto evocativo, un po’ magico. Fa al lettore una promessa assai seria.<br />

E in effetti (nel frattempo l’ho letto) poi la mantiene. È un libro<br />

assai bello. Se v’incuriosisce, e <strong>non</strong> riuscite a trovarlo in libreria,<br />

potete rivolgervi direttamente all’editore (Santi Quaranta,<br />

0422.433.194). La settimana prossima faremo a pezzi qualche altro<br />

inizio di narrazione. Perché nella narrazione, così come nelle relazioni<br />

amorose, nell’inizio di solito c’è già tutto. Buona settimana.<br />

Chiacchierata numero 33<br />

Si parlava di incipit, e delle promesse che essi fanno al lettore. Uno<br />

degli incipit più invitanti degli ultimi anni è quello di Anime alla deriva<br />

di Richard Mason (Einaudi). Il prologo comincia così:<br />

«Mia moglie si è sparata ieri pomeriggio.<br />

«O almeno questo è quanto ritiene la polizia, e io interpreto la<br />

parte del vedovo affranto con entusiasmo e con successo. Vivere<br />

con Sarah mi ha insegnato a ingannare me stesso, e l’ho trovato io,<br />

come lei, un eccellente modo per imparare a ingannare gli altri. Naturalmente<br />

io so che lei <strong>non</strong> ha fatto niente del genere. Mia moglie<br />

era troppo equilibrata, troppo ancorata al presente per pensare di<br />

farsi del male. È mia opinione che <strong>non</strong> si sia mai preoccupata di<br />

quello che aveva fatto. Era incapace di provare rimorso.<br />

«Sono stato io a ucciderla.<br />

52<br />

«E <strong>non</strong> per i motivi che potreste immaginare. Il nostro <strong>non</strong><br />

era affatto un matrimonio infelice, anzi».<br />

Per questo incipit, una grande promessa narrativa in poche righe,<br />

comperai il libro. Il marito omicida, mentitore, narratore<br />

brioso e cinico; Sarah, moglie perfetta anche nella crudeltà; un<br />

inganno profondamente incistato nella vita di una coppia «felice»;<br />

un avvenimento lontano nel tempo («quello che aveva fatto»)<br />

che all’improvviso scatena la bufera; un bel porgere la storia<br />

al pubblico con il voi, come fossimo a teatro; la scelta di dire<br />

subito come la storia va a finire, segno di olimpica sicurezza<br />

dell’autore…<br />

Il guaoio è che tutto questo regge per trentotto righe e mezza.<br />

Poi casca l’asino. Sentite:<br />

«Se mi conosceste, <strong>non</strong> direste che sono il tipo dell’assassino.<br />

Non mi considero certo un uomo violento, e <strong>non</strong> penso che<br />

l’aver ucciso Sarah modificherà questa mia opinione. Dopo<br />

settant’anni su questa terra, conosco i miei difetti, e la violenza,<br />

perlomeno in senso fisico, <strong>non</strong> è tra questi. Ho ucciso mia moglie<br />

perché lo esigeva la giustizia; e uccidendola ho ristabilito<br />

almeno una specie di giustizia. O no? I dubbi mi tormentano; le<br />

antiche ferite si riaprono. La mia ossessione per il peccato e la<br />

punizione, messa a tacere in modo molto imperfetto tanto tempo<br />

fa, torna a farsi sentire. Mi scopro a chiedermi quale diritto<br />

avessi di giudicare Sarah, e quanto più duramente sarò giudicato<br />

per aver giudicato lei; per averla giudicata e punita in un modo<br />

in cui io <strong>non</strong> sono mai stato giudicato e punito».<br />

L’asino casca, per l’esattezza, alle parole «O no?». «Ma come»,<br />

mi vien da dire a Mason, «mi metti in scena questo bellissimo<br />

personaggio pieno di menzogne e di brio, e dopo trentotto righe<br />

e mezza senti già il bisogno di correggerlo, di incrinare il<br />

suo brio, di riparare le sue menzogne? Gli fai sentire il bisogno<br />

della verità e della giustizia? Gli fai dire la verità? Ma perché? Che


cosa me ne faccio di una storia in cui un personaggio profondissimamente<br />

menzognero mi racconta per davvero la verità?».<br />

A pagina 38 smisi di leggere. Tutto era chiaro: c’era il nostro uomo,<br />

James, e c’era una ragazza fascinosa e nevrotica, Ella, palesemente<br />

<strong>non</strong> sposabile. La storia poteva essere una sola: Sarah, la perfetta<br />

e crudele moglie intravista nel prologo, fa fuori Ella per sposarsi<br />

James. James alla fine la scopre e la fa fuori.<br />

Un amico, lettore più diligente di me, mi ha detto che ci ho quasi<br />

preso: Sarah e Ella sono cugine; Ella ruba un fidanzato a Sarah, e<br />

poi lo pianta per James; Sarah ammazza il padre di Ella, suo zio, e la<br />

fa condannare per omicidio; Ella poi, dimostrando una squisita sensibilità<br />

narrativa, si toglie di mezzo impiccandosi in carcere.<br />

Ecco: questi sono gli ingranaggi della narrazione, i famosi<br />

“trucchi” che forniscono ogni personaggio di una decente motivazione.<br />

Niente è più prevedibile degli ingranaggi.<br />

***<br />

Ma che fosse tutto troppo chiaro, deve averlo capito anche Mason.<br />

«C’è bisogno di qualcosa per tener su il mistero», si sarà detto. E infatti,<br />

venticinque righe dopo quel rovinoso «O no?», ecco che ci<br />

mette una pezza:<br />

«Ho scelto lunedì pomeriggio per frugare nella sua [di Sarah] scrivania<br />

perché mia moglie [Sarah, appunto] era fuori a sorvegliare i<br />

lavori di ampliamento della biglietteria. E per puro caso ho trovato il<br />

cassetto in cui l’ha conservata per tutti questi anni».<br />

La pezza è: «l’». Che cosa ha conservato Sarah, «per tutti questi anni»,<br />

nel cassetto della scrivania? Il prologo si conclude senza dircelo.<br />

Basta sfogliare un po’ per vedere che a pagina 323 la scena si ripete<br />

pari pari, ma il particolare mancante viene finalmente esibito:<br />

«Lunedì pomeriggio [Sarah] era fuori a sorvegliare i lavori di ampliamento<br />

della biglietteria, così scelsi quel momento per andare a<br />

frugare nella sua scrivania. E assolutamente per caso ho trovato il<br />

53<br />

cassetto in cui l’ha conservata per tutti questi anni. Un cassetto<br />

minuscolo, nascosto in una voluta, che si apriva grazie a una<br />

molla segreta.<br />

«Era una strana chiave: pesante, grossa, ma fatta di un acciaio<br />

lucente troppo moderno per quel disegno; era tagliata per una<br />

serratura antica».<br />

A pagina 330 James chiederà conto a Sarah di quella chiave;<br />

Sarah gli racconterà una storia che ci porterà a reinterpretare<br />

tutto ciò che ci era stato raccontato fino a quel punto; e a pagina<br />

344, ultima del libro, finalmente James ammazzerà Sarah.<br />

Dire «la» trovai a pagina 4, e spiegare che cos’è quel «la» a pagina<br />

323, significa chiedere davvero molto al lettore: <strong>non</strong> in<br />

termini di partecipazione, ma di indulgenza.<br />

Immaginate di essere al cinema. Vedete James che fruga nella<br />

scrivania della moglie, che intasca un oggetto senza che si capisca<br />

cos’è. C’è un mistero? No, nessun mistero: semplicemente,<br />

la chiave <strong>non</strong> è stata inquadrata. Una semplice omissione. E<br />

un’omissione così palese, così deliberata, <strong>non</strong> crea nessuna tensione<br />

narrativa. Pensate a Psycho. Anche lì l’assassino <strong>non</strong> viene<br />

inquadrato. Un espediente elementare. Ma sparsi per il film ci<br />

sono moltissimi altri elementi, di tutt’altra specie, che creano<br />

tensione. In Anime alla deriva, invece, è tutto lì.<br />

In conclusione: se si fanno promesse, è bene mantenerle. Non<br />

basta nascondere per creare un mistero. Gli avvenimenti possono<br />

essere parzialmente intuibili, ma <strong>non</strong> del tutto prevedibili.<br />

E se un personaggio a un certo punto diventa scomodo, <strong>non</strong><br />

suicidatelo. Se ne accorgono tutti.<br />

Chiacchierata numero 34<br />

Sono tre settimane, se <strong>non</strong> quattro, che vi parlo di incipit, di<br />

inizi di narrazione. Naturalmente c’è quello che prende la palla


al balzo e mi scrive: «Caro Mozzi: mi compiaccio che in questo sedicente<br />

corso di scrittura e narrazione a puntate lei abbia smesso di<br />

tergiversare. Magari, però, si potrebbe provare ad andare un po’ oltre<br />

l’inizio, vero? A spiegare un po’ come si scrive una storia, tutta,<br />

da cima a fondo, no?».<br />

Sono d’accordo. Una storia, dunque, si può scrivere una volta che<br />

si siano decise due cose:<br />

prima cosa, qual è il conflitto alla base della storia stessa;<br />

seconda cosa, qual è la voce che racconta la storia.<br />

Queste due decisioni sono preliminari. Non c’è scampo. Se ho<br />

l’abitudine di riempire quaderni o hard disk di appunti abbozzi e<br />

tentativi, niente si concretizzerà finché <strong>non</strong> avrò decise queste due<br />

cose: qual è il conflitto, qual è la voce.<br />

La voce è una cosa che il lettore deve sentire subito, dalla prima riga.<br />

E il conflitto, se viene immediatamente presentato, immediatamente<br />

accalappia il lettore.<br />

Si può dire, secondo me, che trovare l’incipit di una storia, cioè un<br />

paragrafo nel quale si senta la voce di chi racconta (un narratore<br />

esterno, un personaggio ecc.) e si percepisca l’esistenza di un conflitto<br />

(<strong>non</strong> necessariamente si capisca che conflitto è, quali sono i<br />

suoi esatti termini ecc.), significa veramente essere “a metà<br />

dell’opera”. Almeno per quanto riguarda il racconto. Per un romanzo,<br />

<strong>non</strong> so. Io <strong>non</strong> so scrivere romanzi, quindi <strong>non</strong> mi azzardo a dire.<br />

Credo che valga, quel che sto dicendo, oltre che per il racconto,<br />

per i romanzi che adoperano la prima persona. Ma <strong>non</strong> sono sicurissimo.<br />

Prendiamo uno degli incipit più belli che io conosca: quello del romanzo<br />

Memoriale di Paolo Volponi (ora nei tascabili Einaudi):<br />

«I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno<br />

dalla prigionia in Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e<br />

così crudele distacco, mi rigettasse. Io sono nato il 12 marzo 1919<br />

ad Avig<strong>non</strong>e, in Francia; ma sono italiano e di genitori italiani, padre<br />

piemontese e madre veneta, nata nella campagna fra Padova e Tre-<br />

54<br />

viso, in luoghi assai belli, ella mi ha sempre detto, che io <strong>non</strong><br />

conosco. Oggi che scrivo ho già compiuto trentasei anni e i<br />

miei mali sono arrivati a un punto tale che <strong>non</strong> posso fare a<br />

meno di denunciarli. Scrivo, stando a casa mia, a Candia, nel<br />

Canavese, in provincia di Torino. Questa casa è fuori del paese,<br />

verso il piccolo lago di Candia; ma un poco spostata a sinistra,<br />

tra pese e lago, verso la collina; è una casa di campagna con un<br />

poco di orto, la sua loggia di mattoni rossi, il fienile e la stalla<br />

abbandonati, dove vivono in disordine alcune galline, due galli e<br />

una famiglia di conigli, quasi selvatici. Io <strong>non</strong> curo la terra né gli<br />

animali da cortile, perché sono un operaio di una fabbrica in<br />

città; di una fabbrica grande più della stessa città».<br />

La potenza di questo incipit mi lascia senza fiato. Mi ricordo<br />

che lessi questo romanzo per la prima volta andando ad Ancona,<br />

in treno. Lo aprii che il treno s’era appena mosso da Padova,<br />

mia città, e quando si trattò di scendere a Bologna per cambiare,<br />

quasi me ne dimenticai. Perché, poi, tutto il libro continua<br />

con questo slancio, senza mai mutare l’andatura. Arrivai ad<br />

Ancona che era notte fonda, crollai a dormire nel letto della<br />

pensione, terminai di leggere la mattina del giorno dopo, mentre<br />

sbocconcellavo l’orribile croissant confezionato della colazione.<br />

***<br />

Da questo incipit apprendiamo innanzitutto alcune coordinate<br />

spaziotemporali: dove siamo, che anni sono. Poi apprendiamo<br />

una quantità di cose materiali sul personaggio narratore: l’età, la<br />

condizione sociale bassa (i genitori sono dovuti andare a cercar<br />

lavoro in Francia), l’origine contadina, la prigionia in Germania<br />

ecc. Ma apprendiamo soprattutto, e fin dalle primissime parole,<br />

molte cose sulla personalità di qust’uomo: e le apprendiamo,


appunto, attraverso la sua voce: le parole che usa, il modo in cui le<br />

mette insieme.<br />

L’espressione «i miei mali», così indeterminata e onnicomprensiva,<br />

è propria di chi combatte contro un nemico invisibile: un disperato,<br />

o un paranoico. La dichiarazione: «Io <strong>non</strong> curo la terra perché sono un<br />

operaio», con il suo carattere di decisione assurdamente radicale, di<br />

esagerata adesione al ruolo sociale di operaio, rafforza l’impressione.<br />

La frase: «Una fabbrica grande più della stessa città» ci fa capire che<br />

il personaggio vive la fabbrica come luogo mitico e magico. In soldoni:<br />

il suo senso di realtà fa acqua.<br />

Ancora. La terra materna ha «quasi rigettato» il nostro uomo. La<br />

madre è nata in «luoghi assai belli», e la casa e il luogo sono descritti<br />

con una lingua materiale e amorosa. Ma ci accorgiamo subito che,<br />

questa terra bella e amata, è proprio il nostro uomo, nella frase sulla<br />

fabbrica, a rigettarla violentemente.<br />

La lingua è apparentemente calma, con frasi ampie; <strong>non</strong> è una lingua<br />

parlata, ma una lingua volutamente alta e nobile nella sintassi,<br />

benché molto semplice nel lessico. Il nostro uomo sta scrivendo un<br />

Memoriale (questo il titolo del libro) rivolto ancora <strong>non</strong> sappiamo a<br />

chi (ma possiamo immaginare: a chi, secondo lui, ha il potere di liberarlo<br />

dai suoi «mali»). È un operaio, usa una lingua semplice, ma la<br />

rende forte proprio attraverso le ampie volute delle frasi.<br />

Quindi: qui abbiamo una immediata messa in scena della voce del<br />

personaggio, <strong>non</strong>ché del conflitto in atto. Che sarà, giustamente<br />

immaginiamo cominciando a leggere, un conflitto tra una visione<br />

paranoica della realtà, propria dell’operaio che scrive, e una visione<br />

“normale” della realtà, che sarà propria di tutti gli altri - e in particolare,<br />

possiamo supporre, di coloro ai quali egli si rivolge per essere<br />

liberato dai suoi «mali».<br />

E c’è anche un altro conflitto, sotterraneo. Perché il narratore, colui<br />

che sta dietro l’operaio che scrive e gli guida la penna, in realtà,<br />

così come anche noi faremo leggendo, sta dalla parte dell’operaio. La<br />

55<br />

sua visione paranoica, ci fa intendere, è quella giusta. La realtà è<br />

paranoica.<br />

Chiacchierata numero 35<br />

Parliamo dunque della trama, dell’intreccio, del plot. In un libro<br />

sulla sceneggiatura cinematografica che <strong>non</strong> possiedo più<br />

(l’ho prestato, come faccio sempre e <strong>non</strong> torna mai indietro)<br />

c’era scritto che tutte le trame esistenti potevano essere ridotte<br />

(anche questo <strong>non</strong> ce l’ho più per lo stesso motivo) c’era<br />

un’appendice con l’elenco di tutte le trame esistenti: ed erano,<br />

se <strong>non</strong> ricordo male, trentatré. Qualche mese fa, sul Corriere della<br />

sera, ho letto un articolo secondo il quale le trame esistenti sono<br />

in tutto tre. Non una di più. Sette, trentatré, tre. Non ha grande<br />

importanza il numero. Quello che mi incuriosisce è che comunque<br />

tutti e tre i testi sostengono che il numero delle trame<br />

esistenti (e quindi, si postula, possibili) sia finito ed anche abbastanza<br />

basso. La trama, sarebbe quindi, nelle narrazioni,<br />

l’elemento più ripetitivo e meno inventivo. Perfetto. Peccato<br />

però che sia proprio la trama, a quel che si dice in giro,<br />

l’elemento determinante di una narrazione, ciò che ti fa leggere<br />

tutto fino in fondo. Qualche giorno fa, mentre dicevo più o<br />

meno queste cose in un’aula caldissima un tipo con i baffi si è<br />

alzato in piedi e mi ha interrotto dicendo: «Dicono così, perché<br />

<strong>non</strong> vogliono svelare i loro segreti». Io ho detto: «Eh?». «Sì», ha<br />

insistito, la persona: «Quelli che sanno inventare le trame, poiché<br />

le trame hanno un elevato valore commerciale, <strong>non</strong> vogliono<br />

che si sappia in giro come si fa ad inventarle. Così fanno circolare<br />

la voce che inventare le trame <strong>non</strong> sia un problema, che<br />

basti sceglierne una da un catalogo di tre sette o trentatré. Invece<br />

loro, zitti zitti, ne inventano di sempre nuove. E se le fanno<br />

pagare bene».


L’idea devo dire mi è sembrata curiosa. Ho deciso di tralasciare<br />

l’accusa implicita («Tu <strong>non</strong> ci insegni a fare le trame perché vuoi tenerti<br />

tutti i soldi»). Allora ho detto, mentre il tipo con i baffi tornava<br />

a sedersi: «Bene, complimenti per l’ingenuità. Lei, caro signore, ha<br />

appena elaborata una trama; e, senza rendersene conto, l’ha regalata<br />

a tutti».<br />

«Quale trama?», ha domandato un altro. «Ma è evidente», ho detto.<br />

Mi sono avvicinato di due passi al pubblico, e ho cominciato: «Supponiamo<br />

che esista, a Hollywood tanto per cambiare, qualcosa come<br />

una Società Segreta Degli Inventori Di Trame. Supponiamo che ne<br />

faccia parte un numero ristrettissimo di scrittori e sceneggiatori.<br />

Supponiamo che questa società segreta fornisca di tanto in tanto, a<br />

prezzi salatissimi, consulenze a sceneggiatori, narratori e registi in<br />

difficoltà. Solo grazie a loro, ad esempio, Cameron è riuscito a portare<br />

a termine Titanic. È per aver rifiutato sdegnosamente i loro servigi<br />

che Kubrik <strong>non</strong> è stato capace di trovare un finale decentemente<br />

comprensibile a 2001 Odissea nello spazio. Si sospetta che ci sia<br />

il loro zampino dietro i successi di Shakespeare in Love e C’è post@ per<br />

te. Chiaro?».<br />

Nessuno ha detto niente. Ho continuato. «Bene, supponiamo che<br />

un giorno la segretissima sede di questa società segreta venga violata,<br />

e qualche informazione importantissima (uno schema di storia,<br />

una sceneggiatura intera, fate voi) sia stata sottratta. Immaginiamo<br />

una porta scassinata, una cassaforte aperta, una borsa scippata in<br />

pieno giorno, un computer ramazzato da un hacker: ci sono tanti<br />

modi. I nostri baldi superinventori di storie si metteranno alla ricerca<br />

del ladro. Naturalmente loro, essendo dei superinventori di storie,<br />

sono bravissimi nell’ipotizzare che cosa sia successo. In effetti <strong>non</strong><br />

fanno indagini (<strong>non</strong> possono peraltro, essendo una società segreta,<br />

rivolgersi alla polizia): si siedono attorno a un tavolo e, come direbbe<br />

un politico, elaborano degli scenari. Chi può essere stato? Perché?<br />

In che modo? Quando? Seduti attorno a un tavolo, i nostri<br />

uomini inventano storie su storie, nella convinzione che quando<br />

56<br />

troveranno una storia davvero convincente, allora potranno andare<br />

a colpo sicuro. Chi è stato, secondo voi, a rubare quelle informazioni<br />

segretissime?». Un attimo di silenzio. «Uno di loro»,<br />

dice una tipa bionda in fondo all’aula. «Bene», dico, rivolgendomi<br />

a lei. «E allora, che cosa succederà?».<br />

«Be’», dice la tipa bionda, «a un certo punto cercheranno di<br />

sbranarsi tra loro».<br />

«Ci sono altre ipotesi?», domando, guardandomi in giro.<br />

«Un evento casuale», dice un ragazzo sui vent’anni,in terza fila.<br />

«Cioè?», incalzo.<br />

«Cioè», dice il ragazzo, «è successo per caso, oppure effettivamente<br />

qualcuno ha fatto o tentato un furto, ma c’è stato di<br />

mezzo un evento casuale, per cui è impossibile ricostruire gli<br />

avvenimenti in forma narrativa coerente».<br />

«Oppure?», dico ancora.<br />

«Oppure», dice una signora di mezz’età con due paia di occhiali<br />

appese al collo, «chi è entrato nella loro sede <strong>non</strong> l’ha<br />

fatto per rubare una sceneggiatura ma per altre ragioni».<br />

«Ad esempio?», dico.<br />

«Ma…», dice la signora di mezz’età. «Un hacker può entrare<br />

nel tuo computer anche per puro caso, senza sapere che tu sei<br />

tu», dice il ragazzo in terza fila.<br />

«Una storia d’amore», dice la signora di mezz’età. «Ci vorrebbe<br />

una storia d’amore».<br />

«Troviamola», dico.<br />

«Una vecchia amante di uno degli sceneggiatori vuole recuperare<br />

un oggetto a cui tiene?», dice con molti dubbi la signora.<br />

«Mmh», dico.<br />

«È stata la donna delle pulizie», dice il tipo con i baffi. «Spolverando<br />

la cassaforte l’ha aperta casualmente, e poi <strong>non</strong> ha più<br />

saputo richiuderla».<br />

Qualcuno ride.


«Allora», ho detto. «Compiti per casa Provate a inventare qualche<br />

pezzo di questa storia, cercando di <strong>non</strong> introdurre elementi casuali.<br />

Potete anche manipolare la parte che ho detta io, <strong>non</strong> c’è problema».<br />

«A che cosa serve questo esercizio?», domanda un signore sui cinquanta.<br />

«Serve a dimostrarvi che <strong>non</strong> c’è niente da insegnarvi, a proposito<br />

di trame», dico. «Sapete già tutto. Basta fare un po’ di esercizio».<br />

«Non vale!», dice il tipo con i baffi.<br />

«Sia chiaro per tutti», dico: «Quest’aula è mia, e qui comando io».<br />

Ridiamo tutti.<br />

Ci sentiamo tra una settimana.<br />

Chiacchierata numero36<br />

Si parlava di trame. E dicevo: in fatto di trame, c’è poco da imparare.<br />

E <strong>non</strong> credo che si possa insegnare gran che. Si può provare,<br />

forse, a indicare qualche regola generale. Che peraltro vale quel che<br />

vale.<br />

Una trama deve avere un capo e una coda. Sembra una banalità, e in effetti<br />

lo è. Ci sono capolavori della narrativa mondiale che <strong>non</strong> hanno<br />

né capo né coda (Gargantua e Pantagruele di Rabelais, ad esempio; oppure<br />

Orlando di Virginia Woolf): ma certe cose, in confidenza, lasciamole<br />

fare a chi se le può permettere. Che una trama abbia un<br />

capo e una coda, significa in pratica questo: la situazione che si produce<br />

alla fine deve essere in una qualche relazione (narrativa, simbolica,<br />

allegorica, morale…) con la situazione dalla quale il racconto è<br />

partito. Se all’inizio abbiamo un giovinotto e una giovinotta che vogliono<br />

sposarsi, e un cattivone che lo vuole impedire, <strong>non</strong> possiamo<br />

avere alla fine i marziani che invadono la Patagonia. Tra le centinaia<br />

di dattiloscritti speranzosi di pubblicazione che leggo, i casi così sono<br />

dozzine.<br />

57<br />

Se quando si apre il sipario c’è un fucile da caccia appeso al muro, entro<br />

la fine della commedia quel fucile dovrà sparare. Questa massima me<br />

l’hanno venduta come cechoviana. Mi sembra una buona massima.<br />

Tutto ciò che entra nella narrazione deve avere una ragione<br />

per stare lì. Non necessariamente sarà una ragione solo o<br />

esclusivamente narrativa, cioè legata all’azione: un fucile può<br />

avere mille buone ragioni per essere appeso a un certo muro;<br />

l’importante è che queste ragioni siano comprensibili al lettore,<br />

e che siano legate a ciò che si sta raccontando. Ho appena finito<br />

di leggere un dattiloscritto <strong>non</strong> del tutto brutto, nel quale tutti i<br />

personaggi hanno riproduzioni di quadri di Matisse appese alle<br />

pareti di casa. Ho domandato all’autore: «Ma perché tutti questi<br />

Matisse?»; e lui ha risposto: «A me piace Matisse». Questa, spero<br />

sia chiaro, <strong>non</strong> è una buona ragione.<br />

Una trama vive di azioni raccontate al tempo presente o al passato remoto.<br />

Leggo continuamente romanzi, o pretesi tali, in cui gran<br />

parte degli avvenimenti è raccontata all’imperfetto. «A quei<br />

tempi Mario abitava a Quingentole ed era innamorato di Maria.<br />

Gironzolava davanti casa sua tutte le sere, trovava una scusa per<br />

attaccare bottone, le offriva un caffè al bar, casualmente si trovava<br />

nell’ufficio postale o dal droghiere quando lei doveva appunto<br />

spedire una raccomandata o comperare il detersivo». Una<br />

narrazione all’imperfetto <strong>non</strong> racconta mai un fatto preciso,<br />

determinato, unico; racconta avvenimenti ricorrenti; e <strong>non</strong> c’è<br />

niente di male a fare ricorso, di tanto in tanto, a queste<br />

“narrazioni condensate”: ma il regime dell’imperfetto <strong>non</strong> può<br />

essere dominante.<br />

Il tempo ha i suoi tempi. Le azioni hanno bisogno di tempo per<br />

avvenire. Umberto Eco, nelle «Postille» aggiunte, dalla prima<br />

edizione in poi, al Nome della rosa, dice di aver calcolato i tempi<br />

di certe conversazioni tenendo conto del fatto che esse avvengono<br />

durante spostamenti dei personaggi da una parte all’altra<br />

dell’Abbazia: spostamenti che richiedevano, secondo le distan-


ze, certi precisi tempi. Se un personaggio va da Roma a Bologna in<br />

treno, ci metterà quelle tre ore circa; se deve imparare l’inglese, avrà<br />

bisogno del suo tempo; se invecchia, gli servirà un certo numero<br />

d’anni. Anche questa è una banalità; ma la vedo spesso dimenticata.<br />

Una trama è un concatenamento di avvenimenti. Non è un semplice susseguirsi.<br />

Don Rodrigo vuole possedere Lucia perché ha fatto<br />

scommessa con il conte Attilio, suo cugino; perciò manda i bravi a<br />

spaventare don Abbondio; a causa della sua amicizia competitiva<br />

con il conte Attilio, <strong>non</strong> può rinunciare alla cosa (gli importa molto<br />

meno di metter le mani su una ragazza belloccia che di far brutta figura<br />

col cugino); perciò, man mano che le cose si fanno sempre più<br />

difficili per lui, finisce con l’intricarsi in relazioni sempre più problematiche<br />

(arriva fino a quel grande boss della criminalità organizzata<br />

che è l’innominato). Il comportamento di don Rodrigo è guidato<br />

dalla legge dell’escalation, del continuo aumento della posta; ma,<br />

secondo questa legge, è rigorosamente conseguente. Renzo e Lucia<br />

vogliono sposarsi; hanno una prima reazione emotiva che li porta a<br />

tentare il matrimonio clandestino; quando questo fallisce, solo allora<br />

capiscono che è meglio per loro fidarsi di fra’ Cristoforo che dei loro<br />

istinti; perciò fuggono e si separano, andando incontro a svariate<br />

avventure. Ora: che il cattivone debba persistere nella sua cattiveria,<br />

è una regola generale: quando desistesse, la storia finirebbe lasciando<br />

tutti insoddisfatti. E che i due amanti debbano essere separati per<br />

vivere svariate avventure (e subire tentazioni, avere incidenti ecc.) lo<br />

sapevano già i romanzieri ellenistici, duemil’anni fa. Ma, in ogni narrazione,<br />

questi fatti che per così dire devono avvenire, devono avvenire<br />

per ragioni proprie, interne alla situazione di partenza. Devono essere,<br />

nel migliore dei casi, conseguenza di quel fucile che avevamo visto<br />

appeso al muro nella prima scena…<br />

Una narrazione è un montaggio. Nei film pornografici, la cosa essenziale<br />

è mostrare l’atto sessuale; tuttavia, le diverse scene in cui si realizza<br />

(con estrema facilità) l’atto sessuale, sono comunque “tenute<br />

assieme” da sia pur labilissime scene di raccordo; e l’azione princi-<br />

58<br />

pale (l’atto sessuale in corso) è spesso interrotta, intercalata, da<br />

altre scene (con atti <strong>non</strong> sessuali), che hanno lo scopo di attizzare<br />

la curiosità dello spettatore sottraendogli ciò che più gli<br />

interessa. Se perfino nei film pornografici abbiamo scene di<br />

raccordo, montaggi alternati di scene della storia principale e<br />

scene delle storie collaterali, e così via, <strong>non</strong> potremo esimerci di<br />

usare questi strumenti nelle nostre narrazioni (che sono, o vogliono<br />

essere, mi auguro, più serie di un film pornografico). Riprendiamo<br />

il discorso, da questo punto, tra sette giorni. Saluti.<br />

Chiacchierata numero37<br />

Una narrazione, dicevo la settimana scorsa, è una concatenazione<br />

di avvenimenti. La cosa è banale. Adesso dico un’altra cosa<br />

banale: una narrazione è una selezione di avvenimenti. Vediamo<br />

un po’.<br />

C’è un esempio che Umberto Eco ha fatto in un qualche suo<br />

libro (<strong>non</strong> ricordo quale). Gli rubo l’esempio. In un film, diceva<br />

Umberto Eco, noi vediamo una persona che si sveglia, si lava, si<br />

veste, esce di casa, sale in automobile, va, arriva dove deve arrivare,<br />

esce dall’automobile, entra in un palazzo. Bene. Noi però,<br />

nel film, <strong>non</strong> vediamo tutte queste cose minuziosamente raccontate.<br />

Il film può mostrarci una stanza buia con una sveglia<br />

che suona; poi un tipo che si lava la faccia in bagno; poi lo stesso<br />

tipo che esce di casa e attraversa la strada per raggiungere<br />

l’automobile; poi l’automobile in mezzo al traffico; poi<br />

l’automobile che si ferma e il tipo che ne esce fuori; poi il portone<br />

del palazzo con il tipo che ci entra dentro. Questo è normale.<br />

Noi ci accorgiamo che il film che stiamo guardando è un<br />

brutto film, diceva Umberto Eco, soprattutto se ci accorgiamo<br />

che questo montaggio di avvenimenti è sbagliato. Ad esempio, se


un passaggio è troppo lungo o troppo corto; o se manca un passaggio<br />

essenziale; o se è presente un passaggio inessenziale. In sostanza,<br />

concludeva Umberto Eco (ma qui sto usando parole mie, diverse<br />

dalle sue, che erano molto tecniche) una buona narrazione è fatta di<br />

elisioni e di allusioni ben funzionanti. Tutto ciò che per lo spettatore<br />

(o per il lettore: è uguale) è assolutamente ovvio, oppure ricostruibile<br />

a posteriori, può essere tranquillamente omesso: anzi, deve essere<br />

omesso, a meno che <strong>non</strong> si voglia costruire una narrazione specificamente<br />

puntata sugli avvenimenti ovvii, trascurabili, insignificanti.<br />

Nel qual caso, forse si potrà fare una buona narrazione, probabilmente<br />

si farà una narrazione assai difficile da leggere (sia chiaro:<br />

nessuno è tenuto a scrivere narrazioni facili da leggere; qui stiamo<br />

facendo dei discorsi attorno alle narrazioni per così dire “medie”).<br />

Allora: il punto sta proprio nell’imparare a selezionare efficacemente<br />

gli avvenimenti da rappresentare, e nel saper valutare la capacità<br />

del lettore (o dello spettatore) di riempire i vuoti che lasciamo nella<br />

narrazione. Come si impara questo? In un solo modo: leggendo narrazioni<br />

che ci sembrino buone, e osservando in quali modi il narratore<br />

che ci piace seleziona e monta gli avvenimenti. Proviamo,<br />

mentre leggiamo, a tenere d’occhio i vuoti della narrazione. Osserviamo<br />

come il narratore, narrandoci l’avvenimento A e<br />

l’avvenimento C, induca noi lettori a immaginare, tra A e C,<br />

l’avvenimento B che <strong>non</strong> viene raccontato. Osserviamo come il narratore<br />

continuamente alluda a cose che bene o male conosciamo, e<br />

come questo suo far ricorso alle nostre competenze gli permetta di correre<br />

via spedito, senza fermarsi continuamente a precisare questo e<br />

quello. Osserviamo, soprattutto, <strong>non</strong> tanto quello che il narratore fa,<br />

quanto quello che facciamo noi lettori. Siamo noi che abbiamo in<br />

mente il filo della narrazione, che connettiamo tutto ciò che leggiamo<br />

per mezzo di questo filo, che riempiamo i vuoti, che interpretiamo<br />

tutto ciò che avviene nel testo sotto i nostri occhi (o sullo<br />

schermo davanti ai nostri occhi) come se facesse parte di un’azione<br />

unitaria, e <strong>non</strong> come se fosse una sequenza di avvenimenti slegati.<br />

59<br />

È dal nostro comportamento come lettori, in somma, che impariamo<br />

come dobbiamo comportarci come narratori.<br />

***<br />

Naturalmente ogni narrazione ha un modo tutto suo di elidere<br />

(cioè di <strong>non</strong> raccontare certe cose) e di alludere (cioè di raccontare<br />

certe cose per sommi, sommissimi capi). Ma tutti questi<br />

modi diversi sfruttano lo stesso fatto: che il lettore mentre legge<br />

(o lo spettatore mentre guarda), automaticamente integra la narrazione<br />

e ne prevede gli svolgimenti.<br />

Nel film The others c’è una scena curiosa. Nicole Kidman vive<br />

in una casa che sembra infestata da fantasmi (a fine film si capirà<br />

che <strong>non</strong> è così; ma questo <strong>non</strong> è importante per l’esempio<br />

che voglio fare; e <strong>non</strong> so nemmeno se la scena fosse proprio<br />

così, magari <strong>non</strong> la ricordo esattamente; ma neanche questo è<br />

importante). A un certo punto, nella casa si sente un suono di<br />

pianoforte. Kidman corre alla stanza del pianoforte, ne spalanca<br />

la porta, e: nella stanza <strong>non</strong> c’è nessuno, e immediatamente il<br />

suono del pianoforte tace. Kidman esce dalla stanza; la porta si<br />

chiude da sola e la musica riprende. Kidman cerca di riaprire la<br />

porta, ma questa <strong>non</strong> si apre. Tira e spingi, tira e spingi, la porta<br />

<strong>non</strong> si apre; finché Kidman <strong>non</strong> abbandona la presa e rimane lì,<br />

con aria impotente, difronte alla porta chiusa.<br />

Io, sprofondato nella mia poltrona, pensai rapidissimamente:<br />

“Sì; è come nei film di Buster Keaton; ora la porta si aprirà di<br />

colpo e sbatterà sul naso di Kidman”. In quell’istante la porta si<br />

aprì di colpo e sbatte sul naso di Kidman, mandandola lunga<br />

distesa per terra. L’intero cinema sobbalzò per lo spavento. Io<br />

mi feci scappare una lunga risata solista.<br />

Cos’era successo? Semplice: io, per puro caso o grazie alla mia<br />

abitudine a lavorare su narrazioni, ero stato capace di prevedere<br />

l’avvenimento; di conseguenza, quando l’avvenimento si realiz-


zò, lo percepii in maniera del tutto diversa da quella di tutti gli altri.<br />

Pensateci un attimo: la scena della porta che prima, per quanto tirata<br />

e spinta, <strong>non</strong> si apre, e poi si spalanca da sola colpendo in faccia il<br />

protagonista, <strong>non</strong> è forse una scena classica da film di Fantozzi? Sì:<br />

in ogni film di Fantozzi ci sono due o tre scene fatte esattamente in<br />

questo modo. Ma il regista di The others poteva tranquillamente far<br />

conto che, essendo The others un film molto diverso dai film di Fantozzi<br />

(o di Buster Keaton), gli spettatori <strong>non</strong> si sarebbero aspettati<br />

una “mossa” di quel tipo. Quanto a me, sono l’eccezione che conferma<br />

la regola.<br />

In sostanza: ogni volta che fate un passo avanti nella narrazione,<br />

immaginate che cosa potrebbe avvenire nella testa di un lettore. È<br />

davvero molto semplice, ed è tutto qui. Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 38<br />

L’altro giorno stavo in una biblioteca, e facevo più o meno i discorsi<br />

sulle trame che ho fatti nelle ultime settimane qui in Stilos. A<br />

un certo punto una ragazza bionda e con le guance rosse ha alzata la<br />

mano e dice: «Ma insomma, in sostanza, come si fa a capire quando<br />

una trama è una buona trama?».<br />

«Non ne ho idea», dico io.<br />

L’aula si mette in agitazione.<br />

«Come sarebbe, che <strong>non</strong> ne ha idea?», dice un ragazzo con il maglione<br />

celeste. «Ci sta parlando da due ore e adesso ci viene a dire<br />

che <strong>non</strong> ha idea?».<br />

«Be’, sì», dico. «È così».<br />

E sto zitto. Perché io, quando voglio, sono una peste.<br />

Il confabulamento aumenta. Tutti parlottanoon tutti. C’è aria di<br />

confusione, ma un po’ anche di rivolta.<br />

«Senta», dice un ragazzo lungo lungo, alzandosi in piedi. «Ci ridarebbe<br />

indietro i soldi?».<br />

60<br />

Risate. Che tipo di risate? Risate cordiali, sdrammatizzanti? Risate<br />

ostili? Risate d’imbarazzo?<br />

«Posso rinunciare al compenso che la biblioteca mi ha promesso»,<br />

dico, «ma se volete i soldi indietro, dovete fare causa<br />

alla biblioteca. Io <strong>non</strong> so neanche quanto avete pagato».<br />

«Trenta euro», dice una signora sulla sessantina con i capelli<br />

biondi tinti.<br />

«Trenta euro per le quattro serate o trenta euro in tutto?»,<br />

domando.<br />

«Trenta euro in tutto», dice la signora.<br />

«E allora», dico allargando le braccia, «che cosa pretendete per<br />

trenta euro? Se volete sapere come si fa a capire quando una<br />

trama è una buona trama, dovete spenderne almeno trecento.<br />

Forse tremila».<br />

Non ride nessuno. Anzi, tutti ammutoliscono.<br />

«In che senso?», sbotta un tipo dall’aria incazzata (ma aveva<br />

l’aria incazzata anche la volta prima: deve avere quest’aria di<br />

suo).<br />

«Nel senso», dico, prendendo il tono di quello che smorza i<br />

conflitti, «che magari in teoria si possono formulare delle regole,<br />

dei criteri. Ma poi, in fondo, è sempre un fatto di esperienza<br />

e sensibilità».<br />

«Insomma, la solita storia», dice il ragazzo col maglione celeste.<br />

«Sta per dirci che dovremmo spendere trecento o tremila<br />

euro in libri, farci le ossa leggendo, e allora poi magari…», e fa<br />

un gesto in alto con la mano destra, come a dire: e poi magari<br />

chissà.<br />

«No», dico. «Non voglio dire questo. Voglio dire che davvero<br />

certe cose <strong>non</strong> si insegnano, o almeno <strong>non</strong> si insegnano in situazioni<br />

come queste. Però si imparano. Ma si imparano se c’è<br />

davvero un investimento personale. Ad esempio: a me il cinema<br />

piace. Però <strong>non</strong> ci vado mai. Non trovo mai il tempo. Stasera<br />

sono qui con voi, domani sera sarò a Vercelli per un incontro,


poi vado a Milano, poi vado a Reggio Emilia… Chi ce l’ha, mi dico,<br />

il tempo di andare al cinema? E così, di fatto, <strong>non</strong> investo seriamente<br />

nel cinema. Mi piacerebbe anche scrivere un romanzo. So di<br />

che cosa avrei bisogno, per provare seriamente a scrivere un romanzo:<br />

di tre mesi di isolamento. Mi servirebbero per cominciarlo, per<br />

farmi un’idea sulla quale potrei poi lavorare anche <strong>non</strong> in isolamento.<br />

E tre mesi di isolamento, potrei anche prendermeli. Me li posso<br />

permettere, <strong>non</strong>ostante il mutuo». (Ridono. Bene). «Però <strong>non</strong> me li<br />

prendo, questi tre mesi di isolamento. Avrei anche la solidarietà di<br />

tutti: la mia compagna, le persone con cui lavoro, eccetera, se dicessi<br />

loro: guardate, mi servono tre mesi di isolamento per cominciare un romanzo,<br />

cercherebbero di agevolarmi. Ne sono sicuro. Però io <strong>non</strong> lo faccio.<br />

E così resto quello che sono: uno scrittore di racconti».<br />

Vedo che sono impressionati. Bene.<br />

«E perché ci fa questo discorso proprio a proposito delle trame?»,<br />

dice la signora sulla sessantina con i capelli biondi tinti.<br />

«Ma», dico, «potevo farlo anche a proposito d’altro. Me lo tenevo<br />

di scorta, per quando qualcuno mi avesse chiesto di formulare delle<br />

regole, dei criteri certi. È del tutto normale desiderare dei criteri certi»,<br />

dico rivolgendomi alla ragazza bionda e con le guance rosse (<strong>non</strong><br />

voglio metterla sotto accusa), «ma in certi casi bisogna adattarsi<br />

all’idea che <strong>non</strong> se ne possono avere. Che bisogna farne a meno.<br />

Che bisogna provare e riprovare, e vedere che cosa succede. I trecento<br />

o i tremila euro», e qui mi volto verso il ragazzo col maglione<br />

celeste, «potranno anche servirvi per comprare libri, oppure per andare<br />

al cinema, o per visitare mostre e musei - che sono tutte cose<br />

altrettanto utili e istruttive - ma intendevo dire, prima, soprattutto,<br />

visto che si dice che il tempo è denaro, che vi occorre tempo. Dovete<br />

trovare il tempo di provare e riprovare. Di scrivere e di riscrivere. Di<br />

fare e di buttare via. Di costruire e poi guardare che cosa avete costruito.<br />

Lei», mi rivolgo al tipo incazzoso, «quanto tempo dedica,<br />

settimanalmente, a esercitarsi nella scrittura e nella narrazione?».<br />

«Non saprei», dice il tipo.<br />

61<br />

«Cinque ore?», incalzo, «Dieci ore».<br />

«No, no», dice il tipo. «Magari un paio d’ore la settimana. Una<br />

sera la settimana, ecco».<br />

Tutti capiscono che probabilmente il tempo è ancora di meno.<br />

«E lei?», dico al ragazzo lungo lungo.<br />

«Più o meno siamo lì», dice.<br />

«E lei», dico a una ragazza con i capelli nerissimi e gli occhiali<br />

tondi, «quant’era lunga, la cosa più lunga che ha scritta?».<br />

La ragazza esita, poi dice: «Quattro pagine».<br />

«E lei?», dico a un ragazzo con tre peli di barba, ma lunghissimi.<br />

«Eh», dice, con un enorme sospiro, «qualcosa di più… Anche<br />

quindici pagine… Tutte cose <strong>non</strong> finite, comunque».<br />

«Ecco», dico.<br />

Tutti tacciono. Tira un’aria da esame di coscienza collettivo.<br />

Per un istante mi attraversa il ricordo dei campi scuola<br />

dell’Azione Cattolica.<br />

«Io ho scritto trecento pagine», dice rompendo il silenzio un<br />

signore con i capelli bianchi e le rughe.<br />

«Quanto ci ha messo?», domando.<br />

«Eh, forse cinque anni. È la storia di tutta la mia vita».<br />

«E ha una buona trama?», insisto.<br />

Il signore ride. «No. Ma chi se ne importa. La leggeranno i<br />

miei nipoti. L’ho scritta per loro. Non è una vita avventurosa, è<br />

solo…», ha un’esitazione piccolissima, «è solo la mia vita, ecco.<br />

La vita del loro <strong>non</strong>no. Adesso mi saltano sulle ginocchia,<br />

quando saranno grandi e io <strong>non</strong> ci sarò, mi conosceranno. Mi<br />

pare una cosa bella».<br />

«Cinque minuti di pausa», dico.


Chiacchierata numero 39<br />

Una scuola media superiore di Treviso mi ha invitato a tenere, per<br />

un gruppo di insegnanti d’italiano, un paio di incontri di aggiornamento<br />

su «La nuova narrativa italiana». Sono andato fin lì, ho fatto<br />

quello che dovevo, ho parlato di Piervittorio Tondelli e di Enrico<br />

Palandri, di Marco Lodoli, di Aldo Busi, dell’"ondata emiliana" degli<br />

anni Ottanta e dell’"ondata veneta" degli anni Novanta, dei narratori-poeti<br />

romani, dei siciliani che secondo me <strong>non</strong> sono nemmeno<br />

italiani (nel senso che la letteratura siciliana, secondo me, è davvero<br />

una cosa per conto suo, con logiche e ragioni sue, che procede e si<br />

autogenera senza chiedere permesso a nessuno), dei narratori cannibali<br />

che in realtà <strong>non</strong> sono mai esistiti, e così via. Una serie di voci di<br />

enciclopedia snocciolate con garbo. Cose che quelle trenta persone<br />

che avevo davanti avrebbero potuto apprendere leggendo un qualsiasi<br />

buon saggio (ad esempio quello di Filippo La Porta, La nuova<br />

narrativa italiana, pubblicato qualche anno fa da Boringhieri e successivamente<br />

aggiornato). Ma, si sa, sentirsi raccontare una cosa e leggerne,<br />

è tutt’altro affare.<br />

«Lei ha usato spesso una curiosa distinzione», ha detto una signora<br />

con la faccia larga durante la discussione conclusiva. «Di certi libri ci<br />

ha detto che sono belli, o molto belli; di altri che sono storicamente importanti,<br />

a prescindere dal fatto che siano belli o <strong>non</strong> belli. Vuole<br />

spiegarsi meglio?».<br />

«Mi sembra chiarissimo», ho detto. «Altri libertini di Tondelli e Boccalone<br />

di Palandri sono libri storicamente importanti perché hanno,<br />

per così dire, sturato il Vaso di Pandora: una significativa porzione<br />

di una generazione ci si è riconosciuta, e ha cominciato a scrivere, a<br />

raccontarsi e a raccontare, partendo da quei due libri là: soprattutto,<br />

direi, da Boccalone. I due libri sono quindi importanti dal punto di vista<br />

storico. Poi, secondo me, Altri libertini è un libro assai più bello<br />

di Boccalone, che è davvero molto molto ingenuo; mentre un altro libro<br />

di Tondelli che a me sembra più bello di Altri libertini, e cioè Pao<br />

62<br />

Pao, è un libro che mi sembra storicamente quasi inerte. Tondelli<br />

farà un altro libro storicamente importante, e cioè Camere<br />

separate, che è un cappello dal quale sta uscendo tutta un’altra<br />

generazione di narratori (vedi Il mondo senza di me del giovane<br />

Marco Mancassola) e che ad alcuni sembra bruttissimo e ad altri<br />

sembra bellissimo. A me sembrò bellissimo quando lo lessi appena<br />

uscito: oggi ci andrei un po’ cauto».<br />

«Ma insomma», ribatte la signora con la faccia larga, «se noi<br />

volessimo leggerci quel che serve leggere per capire la nuova<br />

narrativa italiana, che cosa dovremmo privilegiare? I libri che lei<br />

chiama belli, o quelli che chiama storicamente importanti?».<br />

«Ma signora», dico, «è un po’ come chiedere a un bambino se<br />

vuole più bene alla mamma o al papà. Veda un po’ lei».<br />

Interviene un tipo barbuto. «Noi <strong>non</strong> dobbiamo insegnare letteratura»,<br />

dice, «ma storia della letteratura. Quindi l’influenza storica<br />

di un testo ha la meglio sul giudizio squisitamente estetico».<br />

«Se ragionassimo così», dico, «allora forse ci toccherebbe leggere<br />

Bonvesin de la Riva, in quanto inventore del genere "viaggio<br />

all’inferno e ritorno", e lasciar perdere Dante: che in fondo<br />

è soltanto un epigono».<br />

«Sta scherzando?», sbotta il preside: che siede in prima fila e<br />

del quale ho già sperimentato, nelle ore precedenti, l’assoluta<br />

mancanza di umorismo.<br />

«Sto portando alle estreme conseguenze l’argomento fornito<br />

dal professore», dico indicando il tipo barbuto, «per far vedere<br />

come <strong>non</strong> sia poi così sicuro».<br />

Il tipo barbuto fa per ribattere, ma per fortuna interviene una<br />

signora con i capelli bianchi cortissimi e la voce roca da fumatrice<br />

accanita (durante la conferenza è uscita un paio di volte).<br />

«Ma questi suoi giudizi, di valore storico o di valore estetico, su<br />

che cosa sono fondati?», dice. «Lei <strong>non</strong> ci ha fornita nessuna<br />

indicazione di bibliografia critica».


«Non è che ci sia molta bibliografia critica da citare», dico. «Io ho<br />

attraversata, da lettore, la narrativa di questi anni; e vi dico quel che<br />

mi sembra sensato. Non sono né un critico né un storico: sono un<br />

lettore e un narratore».<br />

«Ma se lei <strong>non</strong> è un critico», insiste la signora con i capelli bianchi<br />

cortissimi, «su che cosa fonda i suoi giudizi?».<br />

Subodoro la mina, ma <strong>non</strong> riesco a intuire dove la piazzerà. Dico:<br />

«Signora, io ho letti questi libri. Sono una persona nel pieno possesso<br />

delle sue facoltà mentali. Esprimo dei giudizi. In cinque ore complessive<br />

<strong>non</strong> abbiamo certo avuto il tempo di fare delle grandi analisi.<br />

Sostanzialmente vi ho detto: questi libri sicuramente vale la pena<br />

di leggerli, per una ragione o per l’altra; e questi altri forse <strong>non</strong> vale<br />

la pena».<br />

Vedo che c’è dello sconcerto. Aggiungo: «Voi vi rendete conto,<br />

spero, che è possibile formulare dei giudizi basandosi unicamente<br />

sulle proprie competenze e sul proprio sentimento».<br />

«Così, autocraticamente?», dice il tipo barbuto.<br />

«Mica voglio imporre dei giudizi», dico. «Ma dopo che ho letto un<br />

libro, avrò il diritto di pensare che sia un libro buono o cattivo. O<br />

devo aspettare che me lo dica qualcun altro?».<br />

L’uditorio ondeggia. Sembra incerto tra le proprie abitudini e il<br />

buon senso.<br />

«Ma ci sono due autori che lei <strong>non</strong> ha citati», riprende imperterrita<br />

la signora con i capelli bianchi corti. «Eppure sono importantissimi.<br />

Invece, tutti quelli che lei ha citati, io <strong>non</strong> li ho mai sentiti nominare.<br />

E, badi», dice agitando l’indice della mano destra, «io sono una che<br />

s’informa, <strong>non</strong> sono una sprovveduta».<br />

«Faccia i nomi», dico.<br />

«Lei <strong>non</strong> ci arriva?», dice la signora.<br />

«Senta», dico, «<strong>non</strong> facciamo gli indovinelli. Faccia i nomi».<br />

La signora si prende una pausa drammatica. Poi scandisce: «Diego<br />

Cugia, Fabio Volo».<br />

Respiro a fondo.<br />

63<br />

«Signora, Diego Cugia e Fabio Volo hanno scritto dei libri di<br />

valore letterario bassissimo. Soprattutto Fabio Volo».<br />

«Però in televisione e nei giornali, è di loro che si parla», dice<br />

la signora, trionfante, guardandosi attorno.<br />

«Lei ha letti i loro libri, signora?», domando.<br />

«No», dice la signora.<br />

Chiacchierata numero 40<br />

Buongiorno. Ultimamente faccio molta fatica a leggere. Io ho<br />

sempre letto molto, fin da bambino; ho sempre letto di tutto,<br />

fin da bambino. Uno dei miei libri preferiti di quando avevo<br />

sette od otto anni (cioè del 1967/68), era un libro sui pesci: Il<br />

mondo vivente nei mari italiani, di Enrico Tortonese, Paravia. Tortonese<br />

è stato un grande biologo (ricercatore, direttore del Museo<br />

di Scienze Naturali di Genova, direttore di importanti collane<br />

di libri scientifici). Il mondo vivente era una specie di "romanzo<br />

didattico", secondo un modello molto in voga, specie nei libri<br />

scolastici, tra fine dell’Ottocento e primi del Novecento. Un<br />

gruppo di ragazzini in vacanza al mare incontra un giovane naturalista,<br />

che diventa la loro guida all’esplorazione del mare. La<br />

vita del mare mi attirava, naturalmente, anche perché vivevo in<br />

un paese sul mare (Sottomarina di Chioggia), e mio padre si occupava<br />

professionalmente di vita del mare (biologo anche lui).<br />

Un altro libro che da ragazzino ho letto e riletto decine di<br />

volte, era un libro sulle pietre. Non mi ricordo l’autore, il titolo,<br />

l’editore. Qualche anno fa, volendolo regalare ai miei nipoti,<br />

l’ho cercato e <strong>non</strong> l’ho più trovato. C’era, ad esempio, un bellissimo<br />

capitolo sull’ossidiana. Tutto quello che so sull’ossidiana,<br />

l’ho imparato lì. C’erano poi Dall’aquilone all’astronave, del quale<br />

pure <strong>non</strong> ricordo l’autore (ma ricordo benissimo che nell’agosto<br />

del 1972 lo dimenticammo a San Daniele nel Friuli, a casa di


mia <strong>non</strong>na paterna che ci aveva ospitati per due settimane; ricordo il<br />

dispiacere, e la rabbia, l’anno dopo, quando ritornammo lì e <strong>non</strong> riuscimmo<br />

più a trovarlo).<br />

Mi piaceva leggere libri che mi insegnavano delle cose. Anche<br />

adesso mi piace leggere libri che mi insegnano delle cose. Mi piaceva<br />

leggere libri che mi raccontavano delle cose vere. C’erano anche i libri<br />

che raccontavano storie inventate, ma quelli mi interessavano di<br />

meno. Preferivo Le avventure di Robinson Crusoe nell’isola deserta a I viaggi<br />

di Gulliver: era troppo evidente che Gulliver, quei favolosi viaggi,<br />

se li era inventati di sana pianta! Invece Robinson, quello era uno<br />

che si era trovato veramente nei guai, e se l’era cavata ottimamente!<br />

A un certo punto capii che c’erano libri che raccontavano storie in<br />

tutto e per tutto, o per molta parte, inventate; e che tuttavia sembravano<br />

raccontare storie vere. Robinson Crusoe era uno di questi. Ma<br />

anche La luce che si spense di Kipling o Michele Strogoff di Verne. La cosa<br />

mi creò dei problemi. «Se uno racconta una storia che <strong>non</strong> è vera»,<br />

dicevo a mia mamma, «dovrebbe avvisare prima. Non va bene,<br />

che uno se ne debba accorgere a metà libro, perché succede qualcosa<br />

di impossibile». Mia mamma diceva: «Ma Giulio, le storie dei romanzi<br />

sono tutte inventate». «Ma perché?», dicevo io. «Ma perché<br />

sì», diceva lei, disorientata dal mio infantile furore epistemologico, «i<br />

romanzi sono così. Sembrano veri, ma sono inventati».<br />

In somma, persi la mia ingenuità. Cominciai a guardare i romanzi<br />

con sospetto. Comunque li leggevo, perché leggevo qualunque cosa.<br />

Finché <strong>non</strong> incappai in una sequenza tremenda: I ragazzi della via Pal,<br />

Senza famiglia e Incompreso. Quando riconsegnai Incompreso a mia<br />

mamma, perché lo restituisse alla Zia Prestatrice Di Libri (c’era questa<br />

zia, maestra elementare in pensione, che possedeva tutti i romanzi<br />

per ragazzi, nessuno escluso: quindicinalmente mia mamma<br />

passava da lei, restituiva i quattro o cinque libri che avevamo letti<br />

nella quindicina - eravamo in tre - e ne prelevava altrettanti), le dissi<br />

solennemente: «Io, questo libro, <strong>non</strong> lo farò mai leggere a mio figlio».<br />

Ero così devastato che mia mamma si preoccupò, e per un<br />

64<br />

certo tempo mi dirottò su letture meno pericolose: La grande avventura<br />

di un piccolo baco da seta, I grandi animali delle savane, I grandi<br />

inventori dell’Ottocento (tutte cose grandi, per noi piccoli!), e così<br />

via.<br />

Ultimamente, dicevo, faccio molta fatica a leggere. Incontro<br />

continuamente libri che raccontano storie inventate in maniera<br />

perfettamente credibile. Non serve neanche che vada a cercarli<br />

in libreria: me li spediscono a casa, una dozzina per settimana.<br />

Essere uno scrittore ha anche di questi privilegi. E io, sinceramente,<br />

<strong>non</strong> ne posso più. Non mi disturba leggere storie inventate.<br />

Ho appena finito di rileggere, per puro e purissimo diletto,<br />

l’Orlando furioso. Ma le storie inventate raccontate in maniera<br />

perfettamente verosimile, quelle ormai mi danno sui nervi.<br />

«C’è scritto sopra: Romanzo», ha dichiarato salomonicamente<br />

un amico, grande lettore e fumatore di pipa, con il quale, giorni<br />

fa, discutevo animatamente di queste cose.<br />

«Sì, vabbè», ho detto io. «Ma tu <strong>non</strong> consideri l’altra faccia<br />

della questione».<br />

«Quale faccia?», ha detto l’amico mordicchiando la pipa.<br />

«Ad esempio», ho detto io, «che a forza di leggere storie vere<br />

che sembrano verosimili e storie inventate che sembrano altrettanto<br />

inverosimili, si comincia a fare confusione».<br />

«Siamo tutti adulti», ha dichiarato l’amico esalando una grande<br />

quantità di fumo.<br />

«I bambini no», ho detto.<br />

«Ecco», ha detto l’amico allargando le braccia, «tra cinque minuti<br />

comincerai a parlare male di Berlusconi».<br />

«No», ho detto io. «Ma a te <strong>non</strong> viene in mente di domandarti<br />

come mai i nostri narratori si dedichino quasi tutti a scrivere<br />

storie inventate che sembrano vere?».<br />

«Gli scrittori l’hanno sempre fatto», ha detto l’amico scrutando<br />

il fornelletto della pipa.


«Non è vero», ho detto. «Gli inventori del romanzo, Cervantes,<br />

Rabelais, Ariosto, quelli lì, fino a Sterne, hanno scritto romanzi che<br />

sono storie inventate che <strong>non</strong> fanno nessuno sforzo per <strong>non</strong> sembrare<br />

inventate. Il romanzo verosimile è un’invenzione Ottocentesca».<br />

«E allora?», ha bofonchiato l’amico, distratto dalle operazioni di riaccensione<br />

della pipa.<br />

«E allora, accidenti!», ho strillato, «perché quando parlo di queste<br />

cose <strong>non</strong> c’è mai nessuno che mi dia retta seriamente?».<br />

«Perché sono cose pericolose», ha detto l’amico, brandendomi<br />

contro, accusatorio, la pipa fumante.<br />

Ne riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 41<br />

Buongiorno. La settimana scorsa, riferendo un frammento di conversazione<br />

con un amico, giravo attorno a una questione: «Oggi<br />

come oggi, quando si parla di letteratura s’intende quasi automaticamente<br />

la narrazione, quando si parla di narrazione s’intende quasi automaticamente<br />

il romanzo, e quando si parla di romanzo s’intende automaticamente,<br />

senza quasi, una storia inventata, quindi <strong>non</strong> vera, raccontata<br />

con verosimiglianza. Non è forse bizzarro? Non è bizzarro che<br />

la principale forma letteraria della modernità consista nella narrazione<br />

di storie <strong>non</strong> vere? Non è bizzarro che, quando accademici critici<br />

pedagoghi e soloni vari raccomandano "ai giovani" la "lettura di<br />

buoni libri", sostanzialmente intendono raccomandare loro la lettura<br />

di libri che raccontano storie inventate, ossia <strong>non</strong> vere?».<br />

Di solito, quando pongo questa questione (in corsi di scrittura e<br />

narrazione, in convegni, in cenacoli di scrittori, in piazza, a insegnanti<br />

di lettere ecc.), mi viene risposto più o meno: «Ma la letteratura<br />

porta con sé una verità che è più vera della verità delle cose reali».<br />

Provo a collaudare la risposta. È noto che Alessandro Manzoni,<br />

65<br />

nel costruire la trama dei Promessi sposi, si ispirò ad alcuni fatti<br />

avvenuti realmente nella Lombardia del Seicento. Sono stati<br />

rintracciati anche gli atti di un processo a una sorta di don Rodrigo<br />

dell’epoca, che quasi certamente furono nella disponibilità<br />

di Manzoni. Bene. Manzoni decise di raccontare una storia inventata:<br />

che cioè attingeva a piene mani dalla documentazione,<br />

ma con assoluta libertà. Tutto nei Promessi sposi è "storico":<br />

l’abbigliamento dei bravi, il modo di salutare e riverire, il contesto<br />

socioeconomico, le leggi e i bandi, i fatti di Milano (rivolta<br />

per il pane, peste), i libri della biblioteca di don Ferrante, e così<br />

via. Tuttavia la storia, benché ispirata a eventi documentati, è<br />

liberamente inventata.<br />

Ora: perché mai i Promessi sposi sarebbero una narrazione che<br />

porta con sé una verità più vera di quella che porterebbe con sé<br />

un buon lavoro storiografico? C’è una serie di risposte, che mi<br />

sento regolarmente dare, e che mi sembrano futili: «Perché i<br />

personaggi sono più vivi, perché l’immaginazione è più colpita,<br />

perché la narrazione è più vivace, perché la forza della magnifica<br />

scrittura di Manzoni entra nel profondo dei nostri cuori», eccetera.<br />

Futilità, secondo me. La risposta giusta, e che mi sento<br />

dare raramente, è secondo me questa: «Perché Manzoni, nel<br />

raccontare quella storia di amore, fede e sopruso, la inscrive<br />

dentro un universo governato (misteriosamente, ma governato)<br />

dalla Provvidenza. La Provvidenza <strong>non</strong> si può vedere, toccare,<br />

udire; la Provvidenza si può solo intuire. I Promessi sposi sono<br />

una narrazione che ci guida all’intuizione della Provvidenza, che<br />

è una realtà trascendente, una realtà "soprareale"». Qualunque<br />

opinione si abbia della Provvidenza, questa mi sembra una<br />

buona risposta.<br />

Si può dire anche così: Manzoni <strong>non</strong> rappresenta, <strong>non</strong> imita<br />

questo mondo. Manzoni inventa un altro mondo: un mondo diverso<br />

da quello dove abitiamo, e nel quale la Provvidenza <strong>non</strong><br />

solo si lascia intuire, ma addirittura si dispiega e dà forma a


tutto il mondo stesso. La verosimiglianza, la meticolosa ricostruzione<br />

storiografica, la cura dei particolari, servono solo a produrre una<br />

illusione di realtà, o meglio, una illusione di esistenza di questo altro<br />

mondo.<br />

E, tanto per andare terra terra: a che cosa serve mai, inventare un<br />

altro mondo? Serve, semplicemente, a farlo diventare reale. Il mondo<br />

dei Promessi sposi, oggi come oggi, piaccia o <strong>non</strong> piaccia, è nel novero<br />

delle realtà disponibili.<br />

Mettiamo che io sia un uomo disperato. Mettiamo che qualcuno<br />

mi consigli di leggere i Promessi sposi. Mettiamo che io li legga, e che<br />

rimanga folgorato. «È così», mi dico. «La c’è, la Provvidenza!». In<br />

quell’istante, io smetto di vivere nel mondo in cui vivevo prima, e<br />

comincio a vivere nel mondo dei Promessi sposi. Da quell’istante, vivrò<br />

in un mondo nel quale la Provvidenza <strong>non</strong> solo si lascia intuire,<br />

ma addirittura si dispiega e dà forma a tutto il mondo stesso.<br />

A chi mi domanda: «A che cosa serve la letteratura?», io rispondo:<br />

«A inventare mondi alternativi».<br />

C’è un’obiezione frequente: «Ma allora tu assegni ai Promessi sposi<br />

più o meno lo stesso senso che assegni al Manifesto del Partito Comunista<br />

di Marx ed Engels o alla Città di Dio di sant’Agostino!».<br />

«Be’», dico in questi casi, «sì».<br />

***<br />

Milan Kundera ha scritto da qualche parte (<strong>non</strong> chiedetemi dove)<br />

che «il romanzo ha edificato la coscienza europea». Noi abbiamo la<br />

possibilità di essere Europa, intende dire Kundera, perché tanti romanzi<br />

hanno inventato dei mondi nei quali l’Europa, una cosa che<br />

prima <strong>non</strong> c’era, c’era. Prima dell’Europa c’era stata la Cristianità.<br />

Prima della Cristianità c’era stato l’Impero romano. Europa, Cristianità,<br />

Impero romano, sono i nomi di una cosa sola: i nomi del mondo,<br />

inteso come una totalità dotata di senso.<br />

66<br />

A questo punto, definire il romanzo come narrazione verosimile,<br />

<strong>non</strong> è più così banale. Potremmo dire che il romanzo è una narrazione<br />

verosimile, ma che il vero al quale tale narrazione desidera<br />

essere simile <strong>non</strong> è il vero dell’esperienza, bensì il vero del desiderio,<br />

o il vero dell’intuizione, o il vero della fede, o il vero del<br />

futuro, o altri o tutti questi insieme. La verosimiglianza rispetto<br />

all’esperienza è un semplice strumento, è per così dire un grado<br />

minimo della verosimiglianza: e il suo scopo è la produzione<br />

dell’illusione di esistenza del mondo desiderato, intuito, creduto<br />

o previsto.<br />

Quando ci mettiamo a raccontare una storia, dovremmo pensare<br />

a questo. Ogni tentativo di raccontare una storia è un tentativo<br />

di inventare il mondo.<br />

Mi si dirà: «Certo, ti sei trovato l’esempio comodo. I Promessi<br />

sposi andavano proprio bene. Ma se prendessimo come esempio<br />

l’Assommoir, Nana o il Paradiso delle signore di Emile Zola, le<br />

cose andrebbero diversamente».<br />

Non è vero, secondo me. Ma ho finito lo spazio, e l’esempio<br />

con Zola lo faccio tra sette giorni. Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 42<br />

Buongiorno. Ho letto L’Assommoir di Émile Zola<br />

(L’Ammazzatoio, si potrebbe trdurre, più o meno; ma, essendo il<br />

nome d’una bettola, in italiano di solito viene lasciato come in<br />

francese) durante l’ultimo anno del liceo. Faceva parte di una<br />

scelta di letture romanzesche extraitaliane che ci aveva proposta<br />

l’insegnante di italiano: una ventina di libri, dei quali si doveva<br />

leggerne due. Io, per praticità, e visto che avevo il tempo, li lessi<br />

tutti. Ma L’Assommoir mi impressionò più di tutti. Quando ne<br />

parlammo in aula feci un intervento di venti minuti al termine<br />

del quale l’insegnante disse: «Sì, va bene, però secondo me <strong>non</strong>


hai capito niente». In quei venti minuti avevo parlato di una cosa<br />

sola: del fatto che c’è un capitolo di quaranta pagine, nell’Assommoir,<br />

dove si parla solo di ciò che c’è sulla tavola al pranzo di matrimonio.<br />

Quaranta pagine in cui i personaggi mangiano e basta, e tutto quello<br />

che mangiano ci viene detto e mostrato.<br />

Era vero che <strong>non</strong> avevo capito niente. Mi sarei dovuto accorgere,<br />

leggendo L’Assommoir, dell’ideologia di Zola. Mi sarei dovuto accorgere<br />

(era anche spiegato nell’introduzione, eh!) della "macrostoria"<br />

dentro la quale Zola collocava la "microstoria" dell’Assommoir.<br />

L’Assommoir fa parte di un ciclo di romanzi nei quali viene raccontata<br />

la storia di una grande famiglia francese. La faccenda è accuratamente<br />

progettata da Zola in modo che dentro questa famiglia si<br />

ritrovi, per così dire, tutta la Francia: quella metropolitana e quella<br />

campagnola, quella proletaria e quella borghese, quella femminile e<br />

quella maschile, e così via. Questa famiglia è la Francia. Ogni romanzo<br />

è uno snodo di albero genealogico.<br />

Che cosa tiene insieme tutti questi romanzi? Il determinismo genetico.<br />

Un’idea parascientifica (molto para e poco scientifica; ma bisogna<br />

ricordarsi che, nell’Ottocento, il pensiero cosiddetto positivistico<br />

o scientistico fu portatore di bufale oggi incredibili) che credeva<br />

di appoggiarsi alla teoria darwiniana dell’evoluzione della specie<br />

mediante la selezione naturale e la sopravvivenza del più adatto. La<br />

grande opera di Zola, composta di <strong>non</strong> so quanti romanzi, è una<br />

sorta di storia evolutiva di una famiglia francese esemplare. Dove c’è<br />

chi sa adeguarsi alle trasformazioni dell’ambiente, e chi invece <strong>non</strong><br />

sa adeguarsi: e muore senza riprodursi.<br />

Questa logica è applicata <strong>non</strong> solo ai personaggi, ma anche alle<br />

formazioni sociali. Nel Paradiso delle signore (Au Bonheur des dames), ad<br />

esempio, viene descritta proprio in termini di darwinismo sociale la<br />

competizione tra i grandi magazzini e le vecchie botteghe. Tra il personale<br />

del grande magazzino, che si chiama appunto Il Paradiso delle<br />

signore, la competizione è fortissima: e ci sono alcuni personaggi che<br />

67<br />

hanno la funzione di selezionare, promuovere, licenziare: sono<br />

la Natura Sociale fatta personaggio.<br />

Se io permetto che la mia immaginazione si lasci prendere<br />

dall’opera di Émile Zola, <strong>non</strong> c’è scampo: la mia immaginazione<br />

si lascerà prendere da questa ideologia. Io ero affascinato, quella<br />

volta in ultima classe di liceo, dalle descrizioni che trovavo<br />

nell’Assommoir, che erano la cosa più materialistica che mai<br />

avessi incontrata; ma <strong>non</strong> mi ero accorto che quelle descrizioni<br />

così potenti erano collocate dentro un mondo, accuratamente<br />

inventato da Émile Zola, in cui tutto funzionava secondo le regole<br />

del suo concetto di darwinismo sociale. Così che quel concetto<br />

era passato in me senza che me ne accorgessi.<br />

Ciò che mi sembrava supermaterialistico, era ciò che serviva a<br />

far passare in me, a rendere credibile per me, una rappresentazione<br />

superidealistica del mondo (come si dice comunemente)<br />

o un mondo superidealizzato (come preferirei dire io). Idealizzato,<br />

sì. Perché un mondo nel quale c’è un principio unico che<br />

regge tutto, e questo principio si lascia perfettamente conoscere,<br />

<strong>non</strong> saprei chiamarlo se <strong>non</strong>: un mondo idealizzato.<br />

***<br />

La settimana scorsa parlavo, dicendo più o meno le stesse cose<br />

(portate pazienza) dei Promessi sposi. La differenza che<br />

m’interessa, ora come ora, tra i Promessi sposi e l’Assommoir, è<br />

questa: che nell’Assommoir la posizione di Colui Che Crea E Dà<br />

Senso Al Mondo è occupata da una Legge di Natura: che, peraltro,<br />

viene data come perfettamente conosciuta. Quindi<br />

l’Assommoir <strong>non</strong> ci parla di nulla che sia fuori dal territorio del senso;<br />

<strong>non</strong> ci parla di un là fuori. Ci offre con la destra un mondo inventato<br />

e con la sinistra, senza che neanche serva chiederla, una<br />

completa e compatta spiegazione del senso di questo mondo. I<br />

Promessi sposi, invece, nella posizione di Colui Che Crea e Dà


Senso Al Mondo mettono Dio (o, piuttosto, la sua Presenza nel<br />

mondo e nella storia, ossia la Provvidenza). Solo che di Dio <strong>non</strong> si<br />

ha la stessa conoscenza che si può avere di una Legge di Natura.<br />

Tutt’altro. Dio <strong>non</strong> è nel mondo, è fuori dal mondo, e fa quello che<br />

vuole. Bisogna sempre ricordarsi di Giobbe. Dopo che il Diavolo,<br />

avendo avuta mano libera dal Signore, ha tolto tutto a Giobbe e gli<br />

ha fatti morire i figli e le mogli e i servi, Giobbe interroga il Signore:<br />

«Perché l’hai fatto, a me che sono un uomo giusto?»; e il Signore risponde:<br />

«Perché io sono il Signore, e faccio quello che voglio.<br />

Dov’eri tu, quando io creavo il cielo e la terra?». E Giobbe dice: «Mi<br />

scusi».<br />

Allora, quella cosa banale che si dice dei romanzi, che «creano un<br />

mondo», penso che si possa ridirla con un po’ di ricchezza in più: i<br />

romanzi inventano un mondo e, pur senza uscire da questo mondo,<br />

alludono, da dentro quel mondo, a qualcosa che c’è là fuori; e in questo<br />

dirigere i nostri occhi verso il là fuori c’è, forse, quella che si<br />

chiama «la verità della letteratura».<br />

Émile Zola <strong>non</strong> lo sapeva, che i suoi libri mi sarebbero serviti a<br />

imparare a guardare le cose. Io <strong>non</strong> ho più guardato il cibo come lo<br />

guardavo prima, dopo aver letto l’Assommoir. Credeva, Émile Zola<br />

che il là fuori che i suoi romanzi additavano fosse la Legge di Natura.<br />

Macché.<br />

Ma sapere tutto questo, a noi che vogliamo raccontare storie, a che<br />

cosa serve? Ne parliamo tra una settimana.<br />

Chiacchierata numero 43<br />

Buongiorno. Finivo il mio pezzo, la settimana scorsa, scrivendo:<br />

«Quella cosa banale che si dice dei romanzi, che creano un mondo,<br />

penso che si possa ridirla con un po’ di ricchezza in più: i romanzi<br />

inventano un mondo e, pur senza uscire da questo mondo, alludono,<br />

da dentro quel mondo, a qualcosa che c’è là fuori; e in questo di-<br />

68<br />

rigere i nostri occhi verso il là fuori c’è, forse, quella che si chiama<br />

la verità della letteratura» E buttavo là la domanda: «Ma sapere<br />

tutto questo, a noi che vogliamo raccontare storie, a che cosa<br />

serve?».<br />

Qualche mese fa ho tentato di scrivere un racconto in forma<br />

di lettera (mi piace molto la forma della lettera) di una figlia al<br />

padre. La figlia scrive al padre, rispondendo a una lettera che il<br />

padre le ha inviato e che lei <strong>non</strong> ha voluto leggere: <strong>non</strong> ha<br />

nemmeno aperta la busta. Il lettore <strong>non</strong> conosce, ovviamente, il<br />

contenuto della busta. Il funzionamento del racconto è chiaro:<br />

c’è una voce che parla (la figlia), rispondendo a un discorso (la<br />

lettera del padre) del quale noi <strong>non</strong> sapremo mai niente (la figlia<br />

sta scrivendo al padre, mica a noi). Al centro di tutto ci sarà<br />

sempre questa busta <strong>non</strong> aperta: <strong>non</strong> un "<strong>non</strong> detto", ma un<br />

"<strong>non</strong> letto".<br />

Non sono riuscito a finire il racconto. Ho scritte una dozzina<br />

di pagine senza riuscire a intravedere una conclusione. Tuttavia<br />

il testo, anche così com’è, mi intriga. Allora, qualche settimana<br />

fa, ho deciso di pubblicare la lettera, incompleta com’è, nel mio<br />

diario pubblico in rete<br />

(http://giuliomozzi.clarence.com/archive/040559.html).<br />

Dopo aver letto, un amico mi ha scritto: «Quello che mi ha<br />

insegnato il tuo racconto […] è che la prosa <strong>non</strong> può rappresentare<br />

le emozioni o le esperienze a nudo. Mi è parso chiaro<br />

che la letteratura si deve inoltrare in tutto quel territorio che sta<br />

nei dintorni della verità (nostra, che vogliamo rappresentare),<br />

ma <strong>non</strong> deve mai volgere lo sguardo verso il centro, verso la verità<br />

stessa. Se ne deve solamente percepire la presenza. La verità,<br />

intesa anche come insieme dei nostri sentimenti, <strong>non</strong> è inesprimibile,<br />

ma irrappresentabile agli altri. Ecco che la narrazione<br />

compie un’opera di finzione stando alla larga dall’immagine che<br />

noi abbiamo della verità, della nostra emotività, mette in campo


tutt’al più la nostra cosmogonia, il nostro universo simbolico, che<br />

poi è a stretto contatto con la nostra storia più intima.<br />

«Tutto questo ho pensato a causa di quella lettera <strong>non</strong> aperta del<br />

tuo racconto, a quel insistente modo di esporla, di tenerla nella storia,<br />

di erigerla a protagonista. È lì che ho capito che avevi intrapreso<br />

un sentiero diverso dalla strada principale che portava alla verità, che<br />

altrimenti sarebbe stata scritta come una mera notizia di cronaca. La<br />

lettera era il tuo girare intorno alla verità, un rappresentarla per immagini<br />

diverse, un girare per corridoi senza mai varcare nessuna soglia.<br />

Ecco, forse la letteratura è tutto questo vagare su percorsi che<br />

<strong>non</strong> portano in nessun luogo, ma che sono attigui alla verità che<br />

sentiamo il bisogno di raccontare».<br />

L’amico si chiama Alberto Bogo (il suo diario in rete si trova qui:<br />

http://www.upsaid.com/palomar), e sono felice che mi abbia permesso<br />

di usare le sue parole. La frase: «Girare per corridoi senza mai<br />

varcare nessuna soglia» mi fa venire in mente un film di Luis Bunuel,<br />

L’angelo sterminatore. In quel film (che ho visto credo vent’anni<br />

fa, e che quindi potrei ricordare tutto diverso da come è) succede<br />

questo: c’è una festa o un party, nel salone di una villa; al momento<br />

di andarsene, nessuno riesce ad andarsene; tutti arrivano fino alla<br />

porta d’ingresso (che è aperta), si guardano attorno, e decidono di<br />

<strong>non</strong> uscire. Arriva la notte, poi il giorno successivo, eccetera; la<br />

gente dorme nel salone, litiga, s’innamora, tratta affari, discute di<br />

politica o di teologia, gioca a scacchi, fa di tutto. Non so quanto<br />

tempo le soglie del salone restino inviolabili (tra l’altro, nessuno può<br />

neanche entrare); dopo un po’ di giorni, comunque, un personaggio<br />

si avvicina alla porta d’ingresso, che è sempre aperta, la guarda, e<br />

grida: «Guardate! È aperta!». Tutti escono, e il film finisce: l’ultima<br />

immagine è un gregge di pecore, e si sentono le campane.<br />

Facile lettura allegorica: il salone è la vita; i personaggi però pensano<br />

che la vera vita sia quella fuori; quando bene riescono a uscire<br />

dalla vita, entrano davvero nella vera vita: cioè muoiono, come agnelli<br />

portati al sacrificio.<br />

69<br />

Il narratore, allora, secondo me, è colui che sta dentro nella<br />

sala, come tutti gli altri, che come tutti gli altri crede di essere<br />

prigioniero nella sala, e che la vera vita sia fuori, e che un giorno,<br />

diversamente da tutti gli altri, accostandosi alla porta o a una finestra,<br />

e guardando fuori, si accorge che fuori c’è davvero la vera<br />

vita, ossia che uscendo dalla sala si muore.<br />

Il narratore <strong>non</strong> è colui che ci spiega che là fuori c’è qualcosa<br />

di diverso da quello che abbiamo sempre immaginato. Il narratore<br />

è colui che ci spiega che là fuori c’è proprio quello che abbiamo<br />

sempre immaginato: però cambiato di segno. La vera vita<br />

è davvero la vera vita, ossia la vita oltre la vita, quindi implica la<br />

morte.<br />

Il narratore è colui che coglie il <strong>non</strong>-letto. Ciò che tutti hanno<br />

avuto sott’occhio.<br />

***<br />

Questi ragionamenti, a chi voglia raccontare storie, servono<br />

molto.<br />

Servono a capire che l’immaginazione realistica è l’immaginazione<br />

più visionaria che si possa concepire. Tutti sono capaci di immaginare<br />

quello che <strong>non</strong> c’è (allora: un fungo alto due metri, un<br />

nano vestito di rosso, un’aragosta con i jeans, un ombrello e<br />

una macchina da cucire distesi sopra un tavolo anatomico; ecco<br />

fatto, ecco immaginato); la cosa difficile è immaginare quello che<br />

c’è.<br />

La figlia del mio racconto sa benissimo (adesso lo so anch’io,<br />

perché me l’ha spiegato Alberto…) che <strong>non</strong> le servirà a nulla,<br />

leggere la lettera del padre. Immaginarla, invece, immaginare questa<br />

cosa che c’è, ecco cos’è importante.<br />

Perché il mondo <strong>non</strong> va mica imitato. Va inventato. Ma ne riparleremo.


Chiacchierata numero 44<br />

Buongiorno. Finivo il mio pezzo, la settimana scorsa, scrivendo:<br />

“Perché il mondo <strong>non</strong> va mica imitato. Va inventato. Ma ne riparleremo”.<br />

Ne riparleremo, ma <strong>non</strong> oggi. Oggi ho voglia di raccontarvi<br />

un’altra cosa. Che comunque c’entra.<br />

Oggi, cioè sabato 13 dicembre (giorno in cui materialmente scrivo<br />

il pezzo, alle undici e mezza di sera), sono a Palermo. Leonora Cupane<br />

dell’associazione Città Invisibili mi ha invitato a condurre un<br />

piccolo laboratorio di scrittura: la sera del venerdì, le intere giornate<br />

di sabato e domenica. Una ventina di partecipanti. Titolo del laboratorio:<br />

“Narrare vuol dire diventare un altro”.<br />

Questa del “diventare un altro” è una delle mie fisse.<br />

Mi sono accorto (mi è anche stato fatto notare…) che ormai in<br />

tutte le occasioni che ho di parlare o scrivere (se converso con gli<br />

amici, se faccio lezione, se scrivo per Stilos o nel mio diario in rete, e<br />

così via) finisco col parlare o scrivere sempre delle stesse cose. Ci<br />

sono dei pensieri che mi occupano per settimane e mesi, e per settimane<br />

e mesi letteralmente <strong>non</strong> sono capace di pensare ad altro.<br />

Il problema è che io <strong>non</strong> penso. Pensare significa, credo, stare lì da<br />

soli, e far funzionare il cervello. Magari si può nel contempo fare<br />

qualcosa per distrarre il corpo o i sentimenti: passeggiare ai giardini<br />

pubblici o in alta montagna, ascoltare buona musica che sappiamo<br />

praticamente a memoria, pulire la casa, lavorare al tornio. Io però<br />

questo <strong>non</strong> lo so fare. Da solo, <strong>non</strong> so pensare. So pensare solo<br />

scrivendo. Ultimamente, addirittura, solo parlando.<br />

Nei corsi e laboratori di scrittura il mio lavoro è sempre accuratamente<br />

preparato. Come è ovvio che sia. C’è sempre un certo spazio<br />

per l’improvvisazione (quando si leggono e commentano i testi prodotti<br />

dai partecipanti, <strong>non</strong> si può ovviamente che improvvisare; e<br />

càpita di trovarsi davanti un gruppo che ha bisogni imprevisti od offre<br />

opportunità che sarebbe un peccato <strong>non</strong> cogliere).<br />

70<br />

Tuttavia, sempre più spesso accade che nel bel mezzo di un<br />

corso o di un laboratorio (oppure di una conferenza o di una<br />

conversazione) io perda all’improvviso la Trebisonda e cominci<br />

a parlare <strong>non</strong> dell’argomento previsto, bensì del mio pensiero<br />

dominante di quel periodo.<br />

La cosa mi preoccupa.<br />

Qualche anno fa ho fissato questo pensiero: “Quando scrivo,<br />

io <strong>non</strong> svelo, io <strong>non</strong> scopro me stesso. Quando scrivo, io produco<br />

me stesso. Prima che scrivessi, <strong>non</strong> c’ero; dopo che ho scritto,<br />

ci sono”. In questi mesi ho fatto un piccolo cambiamento, e dico:<br />

“Quando scrivo, io invento me stesso”.<br />

Naturalmente, c’è una contraddizione. Basterebbe domandare:<br />

“Scusa, ma chi inventa te stesso? Se tu vieni inventato, vieni inventato<br />

da qualcuno; e questo, chi è? E se sostieni che vieni inventato<br />

da te stesso, allora vuol dire che ci sei già, prima di inventarti”.<br />

Ho deciso di accettare la contraddizione.<br />

Quando scrivo, invento un me stesso che <strong>non</strong> è esattamente<br />

me stesso. Invento un altro me stesso. Senza questo altro me<br />

stesso, <strong>non</strong> sarei capace di scrivere. Naturalmente ogni attività<br />

di scrittura richiede l’invenzione di uno specifico me stesso.<br />

Anche per scrivere questo pezzo per Stilos, devo inventare un<br />

altro me stesso. Peraltro questa è la quarantaquattresima puntata,<br />

e il me-stesso-autore-dei-pezzi-per-Stilos è ormai un soggetto<br />

abbastanza stabilizzato.<br />

Quindi: per scrivere, devo inventare un altro me stesso, e dopo<br />

averlo inventato devo diventarlo. Devo quindi, in sostanza,<br />

diventare un altro; un altro inventato da me, un altro me stesso,<br />

ma pur sempre un altro.<br />

[Stavo raccontando giusto queste cose, oggi (mentre scrivo,<br />

sono ormai le undici di sera), quando a un certo punto un signore<br />

simpatico (uno dei signori più simpatici che mi sia mai<br />

capitato di incontrare in queste situazioni) ha levate le braccia al


cielo e ha detto: “Aiuto!”. E poi ha aggiunto: “Ma se io comincio a<br />

pensare a questo, a pensare che tra me e ciò che scrivo c’è sempre<br />

un altro, c’è questo me stesso che fa per così dire da mediatore, e<br />

che per ogni testo che scrivo c’è un distinto me stesso che media,<br />

eccetera eccetera, sai che cosa succede?”.<br />

“Sì”, ho detto. “Che smetti di scrivere, e stop”.<br />

“Ecco, appunto”, ha detto il signore simpatico. “E allora?”.<br />

“E allora” ho detto, “tu pensi mentre guidi l’automobile?”.<br />

Il signore simpatico ha riso. “Sì, penso. Ed è per questo che vado<br />

sempre a sbattere di qua e di là”.<br />

“Ma pensi a guidare o pensi ad altro?”, ho detto.<br />

“Penso ad altro”, ha detto il signore simpatico, ridendo.<br />

“Ecco”, ho detto allora. “Tu guidi senza pensare a quello che fai<br />

mentre guidi. È questione di addestramento”.<br />

“Mah”, ha detto il signore simpatico.]<br />

Ma che cosa sono, questi altri me stesso? Sono dei complessi di<br />

modi stilistici, di parole, di punti di vista sul mondo, di forme narrative,<br />

di contenuti narrativi e di pensiero, eccetera eccetera.<br />

Quando dico queste cose, c’è sempre qualcuno che salta fuori a dire:<br />

“Vabbè, ci stai semplicemente dicendo che per ogni tipologia di<br />

testo che fai, installi nella tua mente una proiezione di te come<br />

scrittore dotata di specifiche caratteristiche stilistiche e narrative”.<br />

Magari è così. Magari questo è il modo più economico per dire la<br />

cosa. Ma <strong>non</strong> mi soddisfa. Perché questi altri me stesso, io <strong>non</strong> me li<br />

sento mica come delle funzioni del testo. Me li sento, piuttosto, come<br />

dei veri e propri mediatori, che mi consentono di fare cose che in loro<br />

assenza <strong>non</strong> saprei fare.<br />

E allora mi vien da dire che la primaria, e forse principale, attività<br />

del narratore, consiste nell’inventare e nel produrre intorno a sé un<br />

certo numero di altri se stessi, di mediatori in somma, ciascuno dei<br />

quali si rende disponibile nel momento in cui c’è bisogno di lui.<br />

Bene. In questo momento, dunque, sono invaso da questo genere<br />

di pensieri. Per questo ho deciso di parlarne oggi. Peraltro la cosa<br />

71<br />

c’entra con l’argomento promesso la settimana scorsa. Tra inventare<br />

altri se stessi, inventare altre persone, inventare mediatori,<br />

e inventare mondi, <strong>non</strong> è che ci sia poi tanta differenza. La<br />

prossima settimana, comunque, riprendiamo il filo.<br />

Chiacchierata numero 45<br />

Questa sera (ieri sera, per voi che leggete questo pezzo in Stilos)<br />

andrò a leggere un Racconto di Natale in una serata di Racconti<br />

di Natale. Mi hanno invitato dicendomi: «Può fare come<br />

vuole, può leggere un Racconto di Natale scritto da lei o scritto<br />

da altri, edito o inedito, come vuole. Basta che, quando ha deciso,<br />

ci avvisi: così evitiamo che due persone decidano di leggere<br />

lo stesso Racconto di Natale». Io ho risposto: «Poiché ne ho<br />

scritto uno, leggerò un Racconto di Natale scritto da me». Mi<br />

hanno detto: «Bene».<br />

Poi ho parlato un po’ della cosa con un amico che, a differenza<br />

di me, è un grande esperto di Racconti di Natale; e così ho<br />

scoperto che il mio racconto è sì un racconto di Natale, ma <strong>non</strong><br />

è un Racconto di Natale. Gli manca una maiuscola.<br />

«I Racconti di Natale Standard», mi ha spiegato l’amico, «sono<br />

racconti di redenzione. Sono racconti nei quali un evento improbabile,<br />

inatteso, addirittura casuale, produce nel cuore di un<br />

protagonista solitamente freddo, generalmente maldisposto,<br />

eventualmente anche cattivo, un certo riscaldamento. Ma il Perfetto<br />

Racconto di Natale è quello in cui un qualcuno che <strong>non</strong><br />

possiede nulla riesce a fare, disinteressatamente e quasi senza<br />

accorgersene, un dono-della-vita a un qualcuno che possiede<br />

tutto, o quasi tutto, o comunque desidera possedere tutto».<br />

«Che cosa intendi per dono-della-vita?», ho domandato<br />

all’amico.


«Intendo quel dono che ti cambia la vita», ha risposto l’amico.<br />

«Quel dono che consiste, detto nel modo più semplice e brutale,<br />

nella Rivelazione della Verità».<br />

Nel mio racconto di Natale, minuscolo, <strong>non</strong> perfetto e nemmeno<br />

standard, <strong>non</strong> succede questo. Succede dell’altro. Ma pazienza: è<br />

comunque un racconto di Natale, e questa sera lo leggerò. Tuttavia,<br />

per sicurezza, per controllare se ho capito bene, sono andato a rileggermi<br />

il Canto di Natale di Charles Dickens. Che, se <strong>non</strong> è quello il<br />

Perfetto Racconto di Natale, ho pensato, quale racconto lo è?<br />

Allora: <strong>non</strong> vi riassumo il Canto di Natale, che tanto lo sapete tutti<br />

(e se <strong>non</strong> lo sapete, datevi una mossa e leggetelo). Ma vi ricordo il<br />

succo della storia. Il succo della storia è che un uomo viene guidato<br />

a scoprire che i poveri sono poveri; che essere poveri significa <strong>non</strong><br />

avere niente, nemmeno il possesso della propria vita; che le persone<br />

povere sono persone.<br />

Nel Canto di Natale il protagonista cattivo e maldisposto viene guidato<br />

a fare una esperienza di verità. A dirla tutta: viene guidato a fare<br />

una esperienza, a fare per la prima volta nella sua vita una esperienza<br />

del mondo. Il mondo, fino al giorno prima, per il cattivo e maldisposto<br />

Uncle Scrooge, <strong>non</strong> esisteva: <strong>non</strong> ne aveva mai fatta esperienza.<br />

Aveva fatta esperienza di un "mondo" tra virgolette: il<br />

"mondo" prodotto da lui, il "mondo" delle sue (scarse) relazioni sociali,<br />

il "mondo" dell’astrazione monetaria, eccetera eccetera. Mai,<br />

proprio mai, aveva fatta esperienza del mondo senza virgolette.<br />

È un po’ come Matrix. Uncle Scrooge se ne stava nella sua cellaculla,<br />

a dormire e a sognare di essere ricco in un mondo nel quale la<br />

ricchezza (la sua ricchezza) era la cosa più desiderabile che ci fosse;<br />

e all’improvviso qualcuno lo sveglia, lo conduce a fare esperienza<br />

del mondo senza virgolette (del mondo senza Matrix) e a un certo<br />

punto, quando finalmente la miseria del mondo è dispiegata sotto gli<br />

occhi di Uncle Scrooge, gli dice: «Benvenuto nel deserto del Reale!».<br />

Ma, c’è una differenza. Perché Matrix, con tutta la sua buona volontà,<br />

<strong>non</strong> è un Racconto di Natale.<br />

72<br />

La differenza è che il Perfetto Racconto di Natale, dopo aver<br />

condotto il protagonista a fare un’esperienza del mondo senza<br />

virgolette, mica lo abbandona lì. Tutt’altro. Provvede, invece, a<br />

fornirgli delle altre virgolette: diverse. Il protagonista esce dal<br />

"mondo", fa esperienza del mondo, e viene condotto in un<br />

«mondo».<br />

Queste virgolette sono indispensabili. Il mondo senza virgolette<br />

è incomprensibile, è orrore. Abbiamo bisogno di virgolette.<br />

Se il Velo di Maya ci separa dal deserto del Reale, abbiamo<br />

tutto il diritto di desiderare di sapere che cosa c’è al di là del<br />

Velo di Maya; ma abbiamo anche il dovere di sapere che il Velo<br />

di Maya, un Velo di Maya, è indispensabile. Senza Velo di Maya,<br />

senza virgolette, saremmo esposti all’orrore del Reale.<br />

Un paio di settimane fa scrivevo: «Quella cosa banale che si<br />

dice dei romanzi, che creano un mondo, penso che si possa ridirla<br />

con un po’ di ricchezza in più: i romanzi inventano un mondo<br />

e, pur senza uscire da questo mondo, alludono, da dentro quel<br />

mondo, a qualcosa che c’è là fuori; e in questo dirigere i nostri<br />

occhi verso il là fuori c’è, forse, quella che si chiama la verità della<br />

letteratura».<br />

Potrei aggiungere, adesso, che la verità della letteratura è forse<br />

<strong>non</strong> solo nel dirigere i nostri occhi verso il là fuori, oltre Veli e<br />

virgolette; ma anche nel riportare poi il nostro sguardo in un<br />

dentro. Perché là fuori, semplicemente, <strong>non</strong> si può vivere.<br />

Ci provo ancora (vi sarete accorti che tutto questo mio parlare<br />

è un girare intorno, un tentar di provocare intuizioni; <strong>non</strong> è un<br />

procedere tanto razionale). Ci provo dicendo: la letteratura ci<br />

fornisce esperienze immaginarie (anche la poesia, eh!, mica solo la<br />

narrativa). Ci consente quindi di sperimentare situazioni, condizioni,<br />

pensieri che ci farebbero morire, senza che ci sia pericolo<br />

di morte. E in questo modo ci permettere di includere la morte,<br />

senza averla sperimentata, dentro la nostra esperienza.


Il Perfettissimo Racconto di Natale è, naturalmente, quello contenuto<br />

nei Vangeli. Che cosa succede nel Perfettissimo Racconto di<br />

Natale? Succede che il là fuori più là fuori che ci sia, la persona divina<br />

(che, avendo creato il mondo, <strong>non</strong> può che essere fuori dal mondo),<br />

decide di entrare dentro il mondo. Il Perfettissimo Racconto di Natale<br />

dice che ciò che avviene tutti i giorni immaginariamente nella<br />

Letteratura, è avvenuto una volta (un’azione singolare, un punctum)<br />

nella Storia. Che c’è quindi un punto dove il dentro e il là fuori coincidono:<br />

un punto dove il Reale appare, e <strong>non</strong> è un deserto.<br />

Chiacchierata numero 46<br />

Come tutti (spero), anch’io ho compilata la mia lista di buoni propositi<br />

per l’anno nuovo.<br />

Voglio leggere i romanzi inglesi. Sono sempre stato prevenuto contro il<br />

romanzo inglese. Non so quando ho cominciato. Potrei dire che ho<br />

sempre pensato che il romanzo inglese è insopportabile. Mi sono<br />

scoperto anche, a volte, a sostenere che gli unici romanzi inglesi<br />

buoni, li hanno scritti gli irlandesi (da Swift a Joyce) o al massimo gli<br />

statunitensi (James). Invece <strong>non</strong> è così vero. La verità è che trovo<br />

pallosissimo Thomas Hardy (ma, ho scoperto, sono in tanti a trovarlo<br />

pallosissimo), che le sorelle Brontë mi fanno venire il latte alle<br />

ginocchia, e che trovo l’ironia di Jane Austen geniale per quattro pagine,<br />

e insopportabile per più di quattro pagine di fila. E <strong>non</strong> sopporto<br />

(veramente <strong>non</strong> sopporto: sbuffo, strèpito, divento nervoso) i<br />

vari celebratissimi contemporanei Ian McEwan, Jonathan Coe, eccetera<br />

eccetera: quando li leggo sento il ronzio e il cricchettio di<br />

tutte gli ingranaggetti narrativi, ed è una cosa che mi dà sui nervi.<br />

Però il Tristram Shandy di Lawrence Sterne è uno dei romanzi più<br />

belli che abbia mai letto. Però Tom Jones di Henry Fielding, che sto<br />

leggendo in questi giorni su pressante suggerimento di un amico (me<br />

l’ha regalato) mi sembra un capolavoro di grazia e cordialità. E allo-<br />

73<br />

ra? E allora, bisogna che vada in cerca di un certo romanzo inglese,<br />

quello che può piacermi e intrigarmi. Ad esempio, ho<br />

come il sospetto che Middlemarch di George Eliot possa intrigarmi…<br />

Voglio scrivere una tragedia. Sissignori: una tragedia come quelle<br />

greche, con il coro, i monologhi, i messaggeri, e tutte quelle robe<br />

lì. Lo voglio fare dal 1999. E <strong>non</strong> mi ci sono messo mai seriamente.<br />

La storia c’è. Ce l’ho. E <strong>non</strong> ve la dico. Anche se l’ho<br />

già usata per un racconto. È un dramma familiare. Una cosa tosta.<br />

Con tanto di cadavere in scena, per tutto il tempo. Una sorella<br />

gemella scomparsa, un fratello gemello che nemmeno sa<br />

dell’esistenza della sorella... Forse il modello potrebbe essere<br />

più Seneca che i greci, a dire il vero. Non lo so. Il fatto è che io<br />

una tragedia <strong>non</strong> sono capace di scriverla. Però posso impegnarmi,<br />

no? Posso impegnarmi anch’io. Basta traccheggiare.<br />

Voglio andare al cinema. Sembra facile, vero? Eppure io <strong>non</strong> ci<br />

riesco. Non ci vado quasi mai. Devo cominciare ad andarci.<br />

Almeno Finding Nemo, in somma, voglio vederlo. E anche Opopomoz.<br />

Non per niente ho cinque nipotini sotto i dieci anni. Serviranno<br />

pure a qualcosa. Con tutti i libretti che gli regalo, troveranno<br />

il tempo di accompagnarmi al cinema.<br />

Voglio smettere di perdere i biglietti da visita. Quando qualcuno mi<br />

dà il suo biglietto da visita, io lo perdo. Sempre. Questa cosa<br />

deve finire.<br />

Voglio scrivere la sceneggiatura cinematografica che <strong>non</strong> ho mai scritta. Il<br />

soggetto l’ho già scritto. È una storia un po’ alla Signori e signore:<br />

una commedia all’italiana, forse. In un paese veneto (mettiamo<br />

del vicentino, va’) c’è un gruppo di notabili (il sindaco, il direttore<br />

della filiale della Banca popolare, il farmacista, il costruttore…)<br />

che s’inventa di fare le apparizioni della Madonna. Niente<br />

di strano. Quando in un paese comincia ad apparire la Madonna,<br />

nasce subito un business: immaginette, acque benedette, bancarelle,<br />

pasti per sfamare i pellegrini, pullman per trasportarli, e


così via. «Facciamo una bella apparizione», dicono questi qua, «e poi<br />

prendiamo in mano la gestione di tutto». Reclutano un poveraccio,<br />

lo straccino del paese, naturalmente indebitato con tutti, ricattabilissimo,<br />

con sei bocche da sfamare a casa, e lo istruiscono per bene.<br />

Lo straccino comincia ad avere le visioni. Il business si mette in moto.<br />

Tutto va bene. Solo che un giorno, il figlio del sindaco fa un volo<br />

con la moto. Si spacca la testa. Finisce all’ospedale, in coma. È dato<br />

per spacciato. La moglie del sindaco (che <strong>non</strong> sa nulla della truffa,<br />

che crede che veramente la Madonna appaia ecc.) va dallo straccino<br />

e gli dice: «Adesso te, che sei così in confidenza con la Madonna,<br />

vieni con me in chiesa, e preghiamo finché mio figlio <strong>non</strong> si salva».<br />

Lo straccino, ovviamente, è terrorizzato. Comunque va con la moglie<br />

del sindaco, s’inginocchia in chiesa, prega. «Madonna mia», prega<br />

lo straccino, «vi prego, anche se ho partecipato a questa truffa<br />

condotta in vostro nome, toglietemi da questo guaio. Salvate la pelle<br />

a quel ragazzo, che poi vi prometto, svelerò tutto». Il ragazzo, miracolosamente,<br />

si salva. Si fa festa in tutto il paese. Lo straccino viene<br />

convocato dal Vescovo. Davanti al Vescovo, lo straccino cerca di<br />

confessare. Ma il Vescovo, che prima era stato scettico, ora è entusiasta<br />

delle apparizioni. Abbraccia lo straccino. Lo loda. Lo riabbraccia.<br />

Gli propone addirittura di farsi prete. Lo straccino <strong>non</strong> confessa.<br />

È più spaventato che mai.<br />

Un paio di settimane dopo, solenne cerimonia di ringraziamento al<br />

paese. Messa grande, col Vescovo. Lo straccino siede accanto a lui.<br />

A un certo punto, la Madonna gli appare davvero. «Madonna mia!»,<br />

dice lo straccino, «come potrete perdonarmi ora?». «Ma va’», gli dice<br />

la Madonna, «che un po’ mi sono anche divertita». «Ma io vi ho ingannata!»,<br />

si accusa lo straccino in lacrime. «Ah, be’, sì, d’accordo»,<br />

ammette la Madonna, «ma quella volta in chiesa, mi pregavi sinceramente».<br />

«Sì, ma per paura, più che per vera fede!», dice lo straccino.<br />

«Mah», conclude la Madonna, «paura, fede… Queste sottigliezze…<br />

La misericordia di Dio <strong>non</strong> ci bada tanto… Stai tranquillo, va’.<br />

74<br />

E <strong>non</strong> peccare più». E qui, con un primo piano dello straccino,<br />

mentre la Madonna scompare, dovrebbe finire il film.<br />

Ecco. Io di scrivere una sceneggiatura <strong>non</strong> sono mica capace.<br />

Non rubatemi l’idea, eh! Però se c’è qualcuno che vuol darmi<br />

una mano…<br />

Voglio fare 365 fotografie. Una al giorno. Per ricordarmi bene.<br />

Con la Polaroid, che mi piace un sacco. Perché io, sapete, sono<br />

uno che tende a dimenticarsi.<br />

Bene. Questi sono i miei propositi. Quelli che c’entrano con la<br />

cosiddetta letteratura, naturalmente. Poi ci sono gli altri, quelli<br />

seri. Ma oggi <strong>non</strong> sono serio. Buon anno nuovo.<br />

Chiacchierata numero 47<br />

Bene. Buon anno ancora (fino all’Epifania si può fare gli auguri,<br />

si dice dalle mie parti; dopo, porta male). Non so bene di<br />

che cosa abbiamo parlato, nelle settimane scorse; ero partito<br />

con la faccenda del plot, della trama, dell’intreccio; e poi, <strong>non</strong><br />

so nemmeno io come, mi sono ritrovato a dire cose fumose<br />

sulla verità della letteratura e cose simili. Portate pazienza. Comunque<br />

credo di avere scritto su plot trama e intreccio più o<br />

meno tutto quello che so, cioè quasi niente; e così considero<br />

chiuso l’argomento. Continuo quindi con le cose fumose.<br />

Ciò di cui comincio a parlare oggi, è: l’autore. Ne ho già parlato<br />

diverse volte; ma ora cerco di andare con ordine.<br />

Chi è l’autore di questo articolo? «Be’, sei tu», mi direte voi. E<br />

ci avete pure ragione. D’altra parte, esistono certo diverse maniere<br />

di "fare l’autore". Nel primo capoverso di questo articolo<br />

io "ho fatto l’autore" in un certo modo. Potevo farlo anche in<br />

un altro modo.<br />

Pensate al povero Alessandro Manzoni. Lui finge di essere un<br />

semplice trascrittore, un traduttore in italiano contemporaneo


(dei suoi tempi) di un manoscritto a<strong>non</strong>imo, nel quale si racconta la<br />

storia di Renzo, Lucia e tutti gli altri. Questo gli consente, di tanto in<br />

tanto, e direi abbastanza spesso, di prendere le distanze da ciò che<br />

racconta, e financo dai capoversi sfacciatamente moraleggianti che<br />

qua e là gli scappano. Naturalmente nessuno dei lettori crede che ci<br />

sia davvero un autore a<strong>non</strong>imo dal quale Manzoni si limita a trascrivere.<br />

È un gioco? Sì, certo, è un gioco. Che Manzoni a suo piacimento<br />

sospende: quando abbandona l’a<strong>non</strong>imo e si prende due capitoli per<br />

raccontare, da storiografo e <strong>non</strong> da romanziere, la peste di Milano; o<br />

quando termina la storia di Gertrude con il famoso: «La sventurata<br />

rispose», che dice tutto e <strong>non</strong> dice niente, e <strong>non</strong> si ferma nemmeno<br />

cinque minuti, come sarebbe naturale, a notare come l’autore a<strong>non</strong>imo,<br />

tanto ricco di particolari fino a quel punto, sia improvvisamente<br />

ammutolito. E noi, che sappiamo giocare al gioco che Manzoni<br />

ci propone, <strong>non</strong> battiamo ciglio.<br />

Ma dire: «È un gioco» mi sembra, per quanto sia vero, un po’ poco.<br />

Anche perché spesso, quando si parla di "giochi letterari", ci si<br />

dimentica che i "giochi letterari" sono sempre giochi di relazione: di<br />

relazione con il lettore.<br />

In queste settimane ho letto un romanzo settecentesco, il Tom Jones<br />

di Henry Fielding (scritto tra il 1745 e il 1749), e me ne sono innamorato<br />

(consiglio, a chi fosse interessato, l’edizione nei Grandi Libri<br />

Garzanti; e colgo l’occasione per ringraziare l’amico Leonardo che<br />

me l’ha regalato).<br />

Il Tom Jones comincia così: «L’autore dovrebbe considerare se<br />

stesso <strong>non</strong> come un gentiluomo che offra un pranzo in forma privata<br />

o d’elemosina, bensì come il padrone d’una taverna aperta a<br />

chiunque paghi. Nel primo caso, colui che invita offre naturalmente<br />

il cibo che vuole, e quand’anche questo sia mediocre e magari sgradevole<br />

ai loro gusti, gli ospiti <strong>non</strong> debbono protestare; ché<br />

l’educazione impone loro d’approvare e lodare qualunque cosa venga<br />

loro posta dinanzi. Proprio il contrario accade al padrone d’una<br />

75<br />

taverna. Quelli che pagano vogliono dar soddisfazione al proprio<br />

palato, anche quando questo sia raffinato e capriccioso, e<br />

se <strong>non</strong> è tutto di loro gusto, si sentono in diritto di criticare, di<br />

protestare, d’imprecar magari contro il pranzo, senz’alcun ritegno».<br />

Manzoni <strong>non</strong> avrebbe mai paragonato il proprio romanzo a<br />

una taverna, credo; piuttosto a una civile conversazione; ma, se<br />

ci pensate, il "gioco" che lui fa con noi lettori e con il suo autore<br />

a<strong>non</strong>imo, è proprio questo. Manzoni interloquisce con<br />

l’autore, lo prende garbatamente in giro, mette in dubbio ciò<br />

che dice, lo corregge, lo scorcia, in somma: <strong>non</strong> fa il chiasso da<br />

taverna prospettato da Fielding ma, mettendosi nei panni del<br />

trascrittore e quindi, per così dire, del "primo lettore" del manoscritto<br />

dell’autore a<strong>non</strong>imo, provvede per conto nostro (di noi<br />

lettori) a «criticare, protestare, imprecar magari contro il pranzo».<br />

Con un certo ritegno, però.<br />

A questo punto provo a dire: l’autore è un modo di relazione con il<br />

lettore. Il signor Alessandro Manzoni si inventa, per stare in relazione<br />

con il lettore, di "fare l’autore" in un certo modo. Così<br />

come io, per stare in relazione con voi, mi sono inventato di<br />

"fare l’autore" in un certo modo.<br />

Ecco, l’importante è questo, secondo me: ricordarsi che<br />

l’autore è un’invenzione, e che questa invenzione serve a stare<br />

in relazione con il lettore.<br />

***<br />

Naturalmente, uno stesso autore può "fare l’autore" in modi<br />

molto diversi. Ci sono autori che "fanno l’autore" sempre nello<br />

stesso modo, in tutte le loro opere; e autori che si divertono a<br />

"fare l’autore" in modi sempre diversi. Italo Calvino, ad esempio,<br />

era uno di questi. Palomar, Se una notte d’inverno un viaggiatore<br />

e Il visconte dimezzato, a me <strong>non</strong> sembrano nemmeno scritti dalla


stessa persona, benché <strong>non</strong> siano poi così diversi, nella scrittura,<br />

l’uno dall’altro. Il che mi fa pensare a volte che Calvino, come il visconte<br />

d’un suo altro romanzo, sia per così dire uno scrittore inesistente.<br />

E allora devo dire che, alla fin fine, Calvino "fa l’autore" sempre allo<br />

stesso modo: fa l’autore inesistente.<br />

Invece Susanna Tamaro, pur avendo scritti tutti (mi pare) i suoi<br />

romanzi e racconti in prima persona, ed essendosi inventata quindi<br />

una grande quantità di "io", di "personaggi narratori" molto diversi<br />

tra loro, "fa l’autore" sempre nello stesso modo, e cioè suscitando<br />

una forte empatia nel lettore: tanto che, quando ha voluto dar voce<br />

a un personaggio orribile e disgustoso (la Olga di Va’ dove ti porta il<br />

cuore: «Una donna acuta, crudele, di una crudeltà che spesso sfiora il<br />

cinismo, […] confusa, egoista», come l’ha definita la stessa Tamaro<br />

in Famiglia Cristiana del 22.1.97) ha ottenuto l’effetto paradossale di<br />

farlo percepire come amabile.<br />

Ma di questi incidenti che possono capitare a un autore, vero o inventato<br />

che sia, esistente o inesistente che sia, parleremo con comodo<br />

nelle prossime settimane. Di nuovo buon anno.<br />

Chiacchierata numero 48<br />

Buondì a tutti. Promettevo, settimana scorsa, che avrei parlato<br />

delle disavventure che possono capitare a un autore: vero o inventato<br />

che sia.<br />

Cominciamo da qualche disavventura facile e <strong>non</strong> troppo impegnativa.<br />

Accendete il computer, attaccatevi all’internet. Cercate<br />

http://kimota.clarence.com. Kimota (che si pronuncia con l’accento<br />

sulla i: è l’inverso di Atomik, un personaggio di cartoni animati) è<br />

colui che si firma Kimota. Il blog (ossia il suo "diario" in rete, nel<br />

quale lui pubblica pressoché quotidianamente) di Kimota è il blog di<br />

Kimota. L’autore di questo blog difficilmente si chiamerà davvero<br />

76<br />

Kimota (nei giorni scorsi ho conosciuto un Neill, una Soranza e<br />

un Theresio con l’h; ma Kimota mi pare davvero troppo). E,<br />

per quel che ne sappiamo, niente ci autorizza a pensare che colui<br />

che si firma Kimota ci racconti, con parole e fotografie (fotografie<br />

assai belle, secondo me) ciò che davvero accade, giorno<br />

per giorno, a colui che si firma Kimota.<br />

L’internet consente di queste cose. Di scegliersi un nome e di<br />

costruirci attorno una persona.<br />

Allora, succede che un bel giorno la rivista La luna di traverso<br />

(che ha anche uno spazio in rete:<br />

http://www.lalunaditraverso.it), pubblicata a Parma grazie<br />

all’infaticabile Guido Conti, pubblica un racconto di Kimota.<br />

Che viene stampato con sopra il suo nome. Il suo nome vero,<br />

<strong>non</strong> Kimota. E succede questo, come racconta Kimota stesso<br />

nel suo blog/diario<br />

(http://kimota.clarence.com/archive/054702.html):<br />

«Vi posso raccontare di come, letto finalmente il mio primo<br />

racconto pubblicato, abbia avuto luogo con metà dei miei parenti<br />

il seguente scambio di battute:<br />

«- Hm, è bello, però... <strong>non</strong> è... <strong>non</strong> è... un po’...<br />

«- Un po’ ambiguo?<br />

«- Sì, ecco... un po’ gay...<br />

«- Be’, in fondo il tema della rivista è "Equivoci".<br />

«- Sì, ho capito, ma qua racconti in prima persona di quello<br />

che hai fatto con questo Carlo. E tu... tu <strong>non</strong> sei... vero? Vero?!<br />

«- Non "io". Cioè: io sono l’autore del racconto, ma <strong>non</strong> il<br />

narratore. Quello, o quella, che racconta i vari avvenimenti <strong>non</strong><br />

sono io. Dico "quello o quella" visto che ho evitato di connotare<br />

sessualmente tale narratore. Potrebbe anche essere una donna.<br />

«- Ah, ecco, meno male».<br />

Altro esempio. Marco Candida è un giovane ed eccellente narratore.<br />

Non ha pubblicato nessun libro (per il momento), ma è


comunque un giovane ed eccellente narratore. Anche lui ha un blog:<br />

http://marco2.clarence.com). In questo blog ha pubblicato, ai primi<br />

di gennaio, un Resoconto Capodanno Camogli 2004 veramente spassoso<br />

(http://marco2.clarence.com/archive/055778.html). Raccontava<br />

della gita a Camogli insieme a una certa F., di cazzeggi e scioccezzuole<br />

varie, eccetera eccetera. Qualche pagina davvero piacevole.<br />

Pochi giorni dopo ha dovuto pubblicare una Precisazione: «Il resoconto<br />

su Camogli è frutto di invenzione. Questo <strong>non</strong> significa che<br />

<strong>non</strong> sono stato a Camogli a Capodanno ma significa che F. nella<br />

realtà <strong>non</strong> c’é. Questo <strong>non</strong> significa che ero solo a Camogli e che<br />

<strong>non</strong> fossi con una donna ma <strong>non</strong> significa che con quella donna io<br />

abbia avuto qualcosa di più che un semplice rapporto di amicizia»<br />

(http://marco2.clarence.com/archive/056353.html). Che cos’era<br />

successo? Era successo che qualche buontempone, intervenendo nel<br />

blog nello spazio dei "commenti", aveva cominciato a fare illazioni<br />

(banalucce e antipaticucce) su questa certa F. Notiamo però come la<br />

"precisazione" di Marco Candida <strong>non</strong> sia esattamente una smentita.<br />

Nega che F. esista. Ma lascia aperta la possibilità che dietro lo<br />

"schermo" di F. vi sia una persona; e lascia aperta la possibilità<br />

("<strong>non</strong> significa che" vuol dire: "potrebbe anche essere, ma <strong>non</strong> dico<br />

né sì né no") che con quella donna ci sia stato "qualcosa di più che<br />

un semplice rapporto di amicizia".<br />

(Se a questo punto siete disorientati, e vi state domandando che<br />

cosa diavolo sia un blog, provate a leggere ad esempio qui:<br />

http://www.splinder.it/node/view/24, o a sfogliare in libreria questo<br />

libro: Eloisa di Rocco, Mondo blog. Storie vere di gente in rete, Hops<br />

Libri).<br />

Allora: Kimota e Marco Candida "fanno l’autore" in modo diverso.<br />

Kimota, quando pubblica il suo blog/diario, "fa l’autore" in un<br />

certo modo (parla in prima persona ma cela la sua identità, usa più le<br />

fotografie che le parole, si esprime sempre con un ammirabile distacco,<br />

e così via). Lo stesso Kimota, quando pubblica un racconto<br />

con il suo vero nome e cognome (qui <strong>non</strong> posso dirlo, per le evi-<br />

77<br />

denti ragioni) si trova in una situazione diversa: e prova un<br />

certo imbarazzo. La cosa divertente è che il Kimota in rete, diversamente<br />

dal narratore del racconto pubblicato in La luna di<br />

traverso, somiglia davvero molto alla persona che in rete si firma<br />

Kimota, e che ho avuto il piacere di conoscere di persona. In<br />

sostanza: quest’uomo si espone autenticamente per mezzo di<br />

uno pseudonimo (un nome <strong>non</strong> autentico), mentre firma con il<br />

suo nome autentico un racconto in cui espone un narratore che<br />

<strong>non</strong> è lui (cioè "fa l’autore" fingendo di <strong>non</strong> essere colui che è,<br />

ma un altro diverso da lui).<br />

Però.<br />

Marco Candida, invece, è più giocherellone. Si firma con un<br />

nome e un cognome che sono il suo nome e cognome, racconta<br />

delle storie che sembrano tranquillissimamente avvenimenti capitati<br />

a lui, stuzzica la curiosità (magari volgaruccia, vabbè) del<br />

lettore; e poi, quando ben il lettore ha identificato il Marco<br />

Candida che firma il blog con il Marco Candida reale, e quindi<br />

la ragazza F. con una ragazza reale che con Marco Candida si<br />

suppone abbia fatte certe cose (nel Resoconto Capodanno, però,<br />

<strong>non</strong> c’è niente di esplicito), allora se ne viene fuori a precisare<br />

introducendo confusione, a smentire ambiguamente. Imbarazzo?<br />

Poca capacità di "fare l’autore"? No. Semplicemente voglia,<br />

e buona capacità, di prendere in gioco il lettore. Che <strong>non</strong> è come<br />

«prendere in giro», peraltro.<br />

Per concludere: lo scopo di questa puntata era, come sarà risultato<br />

evidente, invitarvi a leggere questi due blog, di Kimota e<br />

di Marco Candida, che a me sembrano molto interessanti. Ma<br />

intanto vi ho raccontata qualche disavventura dell’autore. A tra<br />

poco.


Chiacchierata numero 49<br />

Buongiorno, buongiorno. Avevamo cominciato, nelle settimane<br />

scorse, a parlare delle avventure e disavventure che possono capitare<br />

a un autore. Oggi vorrei fare una divagazione. Per tornare però, alla<br />

fine, esattamente sull’argomento.<br />

Un’avventura che può capitare a un autore, è questa: interrogarsi<br />

su ciò che fa, sul perché lo fa, sull’utilità e l’opportunità di ciò che fa.<br />

E se anche un autore <strong>non</strong> si interroga su questo, a interrogarlo ci<br />

pensa il pubblico: che gli domanda: «Perché scrivi?». Non è necessario<br />

aver pubblicato libri, per sentirsi fare questa domanda. Basta che<br />

qualcuno vi chieda perché uscite poco la sera, e che voi rispondiate:<br />

«Sto cercando di scrivere un romanzo». Entro tre minuti di conversazione<br />

arriverà la domanda: «Perché lo fai?».<br />

Vittorio Bianchi è un uomo circa della mia età; ha un paio d’anni<br />

di più. Da quando aveva ventiquattro anni, e quindi da più di<br />

vent’anni, è ospite di quello che una volta si chiamava Ospedale psichiatrico,<br />

e oggi si chiama Comunità terapeutica residenziale protetta<br />

(Ctrp). A Padova, la mia città.<br />

Qualche anno fa un mio conoscente mi disse: «Senti, c’è uno che ti<br />

vorrebbe conoscere»; e mi presentò Guido Solerti. Guido mi spiegò<br />

in quattro e quattr’otto perché mi voleva conoscere: insegnava da<br />

alcuni anni nel "corso di alfabetizzazione" interno alla Ctrp di Padova;<br />

lì aveva conosciuto Vittorio Bianchi, che del corso era uno dei<br />

più fedeli frequentatori; e Vittorio Bianchi, mi disse Guido, scriveva<br />

delle cose assai interessanti.<br />

«Fammi vedere», dissi.<br />

Guido mi fece vedere.<br />

Un anno e mezzo dopo usciva il libro di Vittorio. L’editore era<br />

Theoria (un editore allora glorioso, oggi defunto). Il libro era un<br />

"montaggio" di tanti brevi testi, di tanti "temi" che Vittorio aveva<br />

scritto nel corso di qualche anno. I "temi" erano stati a volte proposti<br />

da Guido, altre volte Vittorio se li era autoproposti. Guido e io<br />

78<br />

leggemmo tutti i quader<strong>non</strong>i di Vittorio, individuammo alcuni<br />

filoni (la storia delle vita prima dell’internamento, le relazioni<br />

con i medici e gli infermieri, gli effetti dei farmaci, le amicizie,<br />

riflessioni morali e religiose, favolette), scegliemmo un’ottantina<br />

di "temi"; e senza troppa fatica venne fuori appunto un libro.<br />

Come introduzione al libro ponemmo un "tema" dal titolo: Il<br />

piacere di scrivere.<br />

«Io amo scrivere molto, specialmente se faccio corrispondenza<br />

postale. Ho sempre desiderato (e tutt’ora desidero) scrivere<br />

lettere o cartoline ai miei parenti ed amici. Come e quanto è<br />

bello, fare così!! Provo molta soddisfazione ed anche coloro che<br />

ricevono i miei scritti, provano soddisfazione. Cosa pensano loro,<br />

se scrivo mie notizie? Certamente, pensano che io sia attivo<br />

e che li tengo sempre aggiornati; pensano anche, che per me, è<br />

un piacere e che lo faccio volentieri. Quando scrivo, espongo le<br />

mie idee, avvenimenti, sentimenti, problemi, ecc. Così facendo,<br />

loro mi comprendono e mi rispondono. Più scrivo, meglio è!<br />

Secondo me, lo scrivere ad una o più persone, è una manifestazione<br />

d’affetto (specialmente se scrivo ad una persona cara, a<br />

cui voglio bene). Sono scrittori anche i poeti. Essi amano molto<br />

scrivere. Di solito, i poeti compongono poesie; qualsiasi tipo di<br />

poesie, a seconda delle loro idee, aspirazioni o sentimenti<br />

dell’animo, a tal punto da coinvolgere, commuovere, esaltare,<br />

ecc. una persona che è intenta a leggere una determinata poesia.<br />

I poeti, trascorrono la maggior parte della loro giornata (anche a<br />

costo della vita) componendo poesie; che fascino! Che bellezza!<br />

Che incanto e con quanta tenerezza! (nel caso, scrivano poesie<br />

d’amore). Eppure, essi <strong>non</strong> si stancano mai! Quanta intelligenza!<br />

Quanta bravura e che stile! Anch’io, vorrei essere un poeta,<br />

ma, per fortuna, <strong>non</strong> lo sono, perché <strong>non</strong> amo comporre poesie.<br />

Se scrivo, mi diletto a comporre lettere, o temi. Mi piacerebbe,<br />

scrivere un libro, cioè, descrivere la mia vita vissuta».


Il libro uscì, e s’intitolò: «Io, avrei voluto essere come quel passero».<br />

Fu recensito ampiamente in un paio di settimanali "per lettori<br />

forti" (un bellissimo articolo di Mauro Covacich in Diario, uno di<br />

Alberto Casadei in Avvenimenti), ebbe qualche segnalazione qua e là,<br />

dopodiché, come succede a molti libri, morì.<br />

Vittorio ci guadagnò anche una partecipazione al Maurizio Costanzo<br />

Show. Per felice coincidenza, infatti, poche settimane dopo la pubblicazione<br />

del libro cadeva il ventesimo anniversario della legge Basaglia.<br />

Costanzo dedicò all’argomento una puntata. Mi chiamarono<br />

dalla redazione. Con mille cautele, Vittorio,Guido e un infermiere<br />

affrontarono il viaggio fino a Roma, al Teatro dei Parioli. Costanzo,<br />

come allora gli succedeva talvolta, condusse la faccenda assai bene.<br />

Vittorio fece un’ottima figura, si divertì moltissimo, e incontrò<br />

Haeter Parisi al bar.<br />

Oggi Vittorio abita sempre al Ctrp. Non scrive più, se <strong>non</strong> qualche<br />

lettera a Guido. Ha conservata la passione per la lirica. Canta bene,<br />

suonicchia il pianoforte, ha una discreta collezione di dischi e videocassette.<br />

Guido <strong>non</strong> lavora più al Ctrp, ma vede spesso Vittorio.<br />

Io incontro Vittorio ogni tanto, al bar del Ctrp. Non mi riconosce.<br />

Allora, la domanda è questa: Vittorio è un autore? Sicuramente ha<br />

scritto un libro, sia pure con l’aiuto di due editor un po’ speciali<br />

(che, peraltro, si sono limitati alla scelta dei pezzi e alla correzione di<br />

due o tre errori di ortografia); sicuramente il libro è scritto in una<br />

lingua fuorinorma; forse Vittorio riprenderà a scrivere, difficilmente<br />

farà un altro libro.<br />

Il pezzo Il piacere di scrivere mostra che Vittorio aveva ben chiaro il<br />

senso di ciò che faceva: «Secondo me, lo scrivere ad una o più persone,<br />

è una manifestazione d’affetto (specialmente se scrivo ad una<br />

persona cara, a cui voglio bene)». E se <strong>non</strong> sapeva usare alla perfezione<br />

il mezzo della lingua, la sua istanza comunicativa era abbastanza<br />

intensa da farglielo usare comunque: piegandolo e storcendolo, se<br />

serviva, fino a fargli dire ciò che aveva da dire.<br />

79<br />

Vittorio Bianchi è un autore? Io dico di sì. Ne riparliamo la<br />

settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 50<br />

Continuiamo a parlare di avventure e disavventure dell’autore.<br />

Ma faccio una divagazione. La settimana scorsa avevo finito<br />

con una domanda; settimana prossima tenterò una risposta.<br />

Oggi voglio parlare di quest’altra cosa qui.<br />

Il settimanale L’Espresso ha pubblicato un pezzo di Mauro<br />

Covacich intitolato: «Ho le vertigini da fiction». Covacich scrive<br />

tra le altre cose: «La nostra è un’epoca di meraviglie. Il cielo si è<br />

abbassato al punto che gli aerei entrano nelle costruzioni più<br />

alte. Maestri di scuola si vestono di tritolo e salgono sugli autobus<br />

per farsi brillare. Attori diventano governatori. Cantanti diventano<br />

primi ministri. Presidenti della Camera diventano conduttrici<br />

televisive. […] Ogni cosa per essere reale dev’essere trasmessa,<br />

ma <strong>non</strong> solo - questa ormai è roba vecchia - anche ogni<br />

esperienza di vita è reale solo se pensata da chi la vive coi ritmi,<br />

le sequenze e le inquadrature di una fiction. Il concetto la vita<br />

come un romanzo ha cambiato più volte faccia fino ad arrivare a la<br />

vita come un reality show». E poi interroga: «Perché gli scrittori italiani<br />

si sottraggono a tutto ciò? Perché lo ignorano mentre raccontano<br />

le loro storie? […] Perché <strong>non</strong> riusciamo a prendere il<br />

mondo per le corna? Perché <strong>non</strong> riusciamo a raccontare storie -<br />

<strong>non</strong> importa se inventate, vere, realistiche, surreali - in grado di<br />

spremere la vita, di metterla sotto torchio?».<br />

Mauro Covacich è uno scrittore che pubblica dal 1993. I suoi<br />

libri sono tradotti in varie lingue. Il suo ultimo romanzo, A perdifiato,<br />

uscito nel 2003 per Mondadori, è stato ampiamente lodato.<br />

Il suo pezzo, in sostanza, riprende uno dei “discorsi circolari”<br />

della società letteraria italiana; un discorso che periodi-


camente rispunta, e che è l’esplicitazione di una sorta di “complesso<br />

d’inferiorità” della narrativa italiana rispetto alle altre narrative, soprattutto<br />

quella anglosassone; l’inferiorità consistente, volta a volta,<br />

nella minore capacità di produrre solide trame, nello scollamento<br />

con la società reale, nella mancanza di senso epico, nell’elitarismo<br />

bellettristico o, come nella versione esposta da Covacich,<br />

nell’incapacità di «spremere la vita, metterla sotto torchio»: mentre<br />

gli scrittori statunitensi, si dice, <strong>non</strong> fanno altro tutto il giorno.<br />

Nei giorni scorsi ho riassunto e commentato il pezzo di Covacich<br />

nel mio diario in rete (http://giuliomozzi.clarence.com). Le reazioni,<br />

tra i lettori del diario, sono state le più varie. Ne riporto alcune, scegliendole<br />

tra quelle che esprimono disaccordo.<br />

Un lettore che si firma Mario Zero scrive: «Ma siamo davvero sicuri<br />

che nei libri cerchiamo brani di realtà? Io <strong>non</strong> ne sono affatto<br />

convinto. Leggiamo forse Dante o Shakespeare o Tolstoi per avere<br />

un’immagine precisa del medioevo o dell’Inghilterra elisabettiana o<br />

dellka Russia dell’Ottocento? Non mi pare. La letteratura è<br />

l’opposto della realtà. Nella realtà, soprattutto in quella "sociale",<br />

tutto appare confuso, insensato, mentre nell’arte le parole formano<br />

una bellezza, un senso, ed è per questo che le amiamo. Il mondo è<br />

uno sgabuzzino soffocante, l’arte prova ad aprire una finestra, ad<br />

aggiungere aria e un senso ulteriore. L’arte, da sempre, partecipa al<br />

regno dello spirito, <strong>non</strong> a quello della baraonda sociale. […] Agli artisti<br />

chiedo di aprire il mondo, <strong>non</strong> di raddoppiarlo».<br />

Una lettrice che si firma A<strong>non</strong>ima Sequestrata scrive: «A Mauro<br />

Covacich direi che, naturale, dicesse, facesse e pensasse quel che<br />

vuole. Soprattutto gli dicevo di curarsi di casi suoi […] sforzandosi<br />

lui stesso, in qualità di scrittore, di far lo scrittore nel modo che più<br />

lo aggrada, giusto scrivendo. La domanda che si fa per mestiere perché<br />

richiesto da un giornale letto da migliaia, […] m’augurerei che se<br />

la ritorcesse, principalmente quando pensa gratis tra sé e sé, modificandola<br />

dunque in questa quasi identica: perché mi sottraggo a tutto<br />

ciò? Perché lo ignoro mentre racconto le mie storie?».<br />

80<br />

Un lettore che si firma Demetrio scrive: «Cosa manca, agli<br />

autori italiani? Forse l’onestà. Non so ma tutte le volte che leggo<br />

[…] noto un deficit di onestà. Dire la cosa che conta. Dare<br />

un segno alla realtà, darne una voce. Organizzare una storia che<br />

abbia una voce che sia sentita reale da parte di chi ci legge. Forse<br />

dovremmo avere più tempo e meno impegni. La scrittura e il<br />

gesto dello scrivere è un’azione lenta e antica. E forse questo<br />

tempo sdegnato e veloce <strong>non</strong> ci permette di trovare il giusto<br />

ritmo e la giusta voce. Essere onesti forse è quello che manca<br />

agli scrittori. Onesti nel dire: abbiamo grandi pensieri, magnificenti<br />

concetti del vivere, ma caro lettore noi andiamo di fretta e<br />

quello che possiamo offrirti è questo testo. Così. Smozzicato,<br />

spizzicato e storticato. E’ il massimo che possiamo offrirti. Forse<br />

questo nostro atto (dico nostro nel senso più ampio) di<br />

umiltà potrebbe darci la forza di scrivere un testo che morda la<br />

realtà».<br />

Un lettore che si firma Ardito Piccardi (don Ardito Piccardi<br />

era il protagonista del romanzo Il cielo e la terra di Carlo Coccioli)<br />

scrive: «Dato che la realtà è il segno utilizzato dalla verità per<br />

manifestarsi. Dato che la verità <strong>non</strong> si capisce ma si incontra.<br />

L’importante è che lo scrittore sia onesto. Onesto, artista, e per<br />

il resto libero di essere così com’è. Il mondo può discutere, ma<br />

poi nella vita ci si innamora di una donna brutta e stronza, di un<br />

uomo che ci stava sulle palle, e si scopre un libro che ci tocca<br />

nervi sconosciuti. Credo si debba solo distinguere tra letteratura<br />

e virtuo-trucchetti-simil-questo-o-quello. Se uno scrittore dà il<br />

sangue, quello è uno scrittore, anche se alla shampista <strong>non</strong> piace».<br />

Che cosa, dunque, intendo suggerire, allineando questi estratti<br />

di reazioni al pezzo di Mauro Covacich? Una cosa sola. Quando<br />

l’autore si interroga su ciò che fa, e si azzarda a manifestare questo<br />

interrogarsi in pubblico, stia attento. Perché spesso l’autore si


fa, su ciò che il suo lavoro è per i lettori, delle idee un pochettino<br />

immaginarie. Ma anche di questo riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 51<br />

Buongiorno, buon febbraio. Ho due discorsi in sospeso da riprendere.<br />

Sempre a proposito delle avventure e delle disavventure<br />

dell’autore.<br />

Due settimane fa vi parlavo di Vittorio Bianchi, autore del libro Io<br />

avrei voluto essere come quel passero (Theoria 1998). Vittorio Bianchi è<br />

ospite della Comunità terapeutica residenziale protetta (Ctrp), ossia<br />

di quello che una volta si chiamava Ospedale psichiatrico, di Padova.<br />

Il libro è composto di brevi testi, "temi" che Vittorio Bianchi ha<br />

composti durante le ore di un "corso di alfabetizzazione" svoltosi<br />

tra le mura del Ctrp.<br />

Concludevo domandando: «Vittorio Bianchi è un autore?». La mia<br />

risposta è: «Sì, lo è». La prefazione a quel libro, firmata da me e da<br />

Guido Solerti, insegnante di Vittorio Bianchi nel corso di alfabetizzazione,<br />

cominciava con un’affermazione perentoria: «Vittorio<br />

Bianchi, ospite dell’ex Ospedale psichiatrico di Padova, oggi Comunità<br />

terapeutica residenziale protetta, è uno scrittore». Quella frase,<br />

nel corso di alcuni incontri che feci per promuovere il libro, suscitò<br />

reazioni piuttosto contrariate.<br />

«Non è uno scrittore», mi si diceva. «È un malato: un malato di<br />

mente».<br />

Io m’incazzavo di brutto: «È una persona umana o no? E se è una<br />

persona umana, gode o <strong>non</strong> gode di tutti i diritti di una persona<br />

umana?».<br />

«Non è questione di diritto», mi si rispondeva. «È che una persona<br />

malata di mente <strong>non</strong> può avere quella serenità, quell’ordine mentale,<br />

quella superiorità morale eccetera, che fanno di una persona un autore,<br />

uno scrittore».<br />

81<br />

Era come invitarmi a nozze. Mi ero preparata una lista di artisti<br />

celeberrimi e acclamatissimi, <strong>non</strong>ché mentecatti, disonesti,<br />

criminali, maniaci, alcolisti, tossici, pervertiti e così via. Ma c’era<br />

sempre quello che si alzava a dire: «Prendiamo Nietszche, ad<br />

esempio. A un certo punto impazzì. Una volta impazzito, fu<br />

rinchiuso e <strong>non</strong> filosofò più». Applausi dal pubblico.<br />

Mi giocavo l’ultima cartuccia: «Ma Nietszche <strong>non</strong> filosofò più<br />

perché era diventato pazzo, o perché fu rinchiuso?». La risposta<br />

era, solitamente: «Eh?». Allora io passavo a illustrare il regime<br />

farmacologico medio di un ospite di Ctrp, finendo con la storia<br />

(che <strong>non</strong> so se sia leggenda o verità) di quel poveretto che,<br />

avendo mangiato troppo panettone il giorno di Natale, ricevette<br />

una bella purga il giorno di Santo Stefano; e, per la vischiosità<br />

farmacologica tipica di quegli ambienti, continuò poi a ricevere la<br />

purga, tutte le sere che dio mandava in terra, per anni.<br />

«Vittorio Bianchi è già dentro, però», commentava sempre qualcuno.<br />

«E <strong>non</strong>ostante sia già dentro, ha scritte queste belle cose».<br />

Perché, ovviamente, sulla bellezza (per quanto ingenua e strana)<br />

dei testi di Vittorio Bianchi, nessuno aveva niente da ridire.<br />

Io stavo in silenzio. Lasciavo corda. E pian piano, usciva fuori<br />

un’altra ragione per cui <strong>non</strong> sembrava possibile, ai più, considerare<br />

Vittorio Bianchi un autore: «Non ha consapevolezza di<br />

quello che fa».<br />

«Come, <strong>non</strong> ha consapevolezza!», strillavo. «Ma sa benissimo<br />

quello che fa! Vi ho pur letto quel pezzo, dove dichiarava le sue<br />

intenzioni: "Quando scrivo, espongo le mie idee, avvenimenti,<br />

sentimenti, problemi, ecc.", "Secondo me, lo scrivere ad una o<br />

più persone, è una manifestazione d’affetto", "Mi piacerebbe,<br />

scrivere un libro, cioè, descrivere la mia vita vissuta"!».<br />

«Sì, vabbè», diceva allora qualcuno. «Ma questa <strong>non</strong> è mica<br />

letteratura».<br />

«Eh?», dicevo io.


«Ma sì», continuava quello, «esporre idee, sentimenti, problemi, rivolgersi<br />

con affetto a qualcun altro, descrivere la propria vita vissuta!…<br />

Non è mica questo, la letteratura».<br />

«E che cos’è, allora?», dicevo io.<br />

«La letteratura è… è…», la risposta magari <strong>non</strong> arrivava subito. Ma<br />

arrivava comunque presto, ed era sempre quella. «La letteratura è<br />

creazione, ecco! Ed esprime dei valori universali, in cui tutti si riconoscono!».<br />

A quel punto, domandavo quali fossero i valori universali. E veniva<br />

fuori: l’amore, l’amicizia, l’onestà, il coraggio, la purezza… E io<br />

allora di nuovo tiravo fuori l’elenco degli scrittori mentecatti e farabutti,<br />

e di nuovo si ricominciava a litigare…<br />

Perché, dunque, Vittorio Bianchi <strong>non</strong> riusciva a essere accettato<br />

come autore, scrittore? Secondo me, perché a Vittorio Bianchi,<br />

ospite del Ctrp di Padova, vivo e vegeto, vicino, talvolta presente a<br />

quegli incontri, risultava inapplicabile un equivoco. Quell’equivoco<br />

grazie al quale si concepisce l’autore, lo scrittore, come un essere distante,<br />

«antropologicamente diverso dal resto dell’umanità» (come<br />

direbbe l’attuale presidente del Consiglio dei ministri), più alto della<br />

media, circonfuso di luce, con i riccioli naturali eccetera.<br />

Equivoco che è ben radicato nel popolo dei lettori, e che molti<br />

autori ben volentieri coltivano. Equivoco che davvero, a volte, mi<br />

sembra più forte della realtà. Basta che pensi a quante sono le persone<br />

che si stupiscono che i cosiddetti scrittori abbiano un lavoro,<br />

un mutuo da pagare, la spesa da fare al Billa, dei problemi di prostata,<br />

dei figli che danno da pensare, e così via.<br />

Lo scrittore pazzo, criminale, o umanamente disgustoso, <strong>non</strong> scalfisce<br />

questo equivoco se è sufficientemente distante: se è morto da<br />

tempo, se abita a New York, se è ricchissimo di famiglia, se va nella<br />

prima pagina di Gente e così via. Allora, grazie alla distanza (umana,<br />

sociale ecc.) viene percepito come uno che fa certe cose perché è un artista,<br />

e ovviamente agli artisti si perdona tutto.<br />

82<br />

Il povero Vittorio Bianchi, invece, <strong>non</strong> ha speranza. Poiché lui<br />

è lì, è visibile, è ospitato in quel determinato Ctrp, poiché ha in<br />

somma una sua concretezza inequivocabile, <strong>non</strong> potrà mai diventare<br />

uno che fa certe cose perché è un artista. È, e continuerà<br />

a essere, un povero malato di mente. Quindi <strong>non</strong> gli si perdona<br />

niente: e anche il suo scrivere, il suo rivolgersi ad altri (la<br />

letteratura <strong>non</strong> è altro che questo: rivolgersi ad altri, <strong>non</strong> a me<br />

stesso ma ad altri) viene catalogato come pura e semplice curiosità,<br />

un lusus naturae. E lui <strong>non</strong> è uno scrittore, bensì un caso umano.<br />

L’altro discorso sospeso, lo ripiglio settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 52<br />

Buongiorno. Il tema è ancora: avventure e disavventure<br />

dell’autore. Un paio di settimane fa riferivo brevemente di un<br />

articolo polemico («Ho le vertigini da fiction») pubblicato da<br />

Mauro Covacich nel settimanale L’Espresso (nel numero che è in<br />

edicola da venerdì scorso trovate una bella risposta di Carla Benedetti,<br />

eccellente critica letteraria); raccontavo di averlo sunteggiato<br />

e commentato nel mio diario in rete (il cui indirizzo è:<br />

http://giuliomozzi.clarence.com; ma credo che cambierà prossimamente,<br />

a causa di disastri informatici <strong>non</strong> miei ma del portale<br />

Clarence, che <strong>non</strong> sto qui a contarvi); e infine riportavo alcune<br />

reazioni di lettori.<br />

Il pezzo di Covacich diceva in sostanza: Nel nostro tempo<br />

succede di tutto, sconvolgimenti sociali ed economici e politici,<br />

eppure pare che «gli scrittori italiani si sottraggono a tutto ciò».<br />

E domandava Covacich: «Perché lo ignorano mentre raccontano<br />

le loro storie? […] Perché <strong>non</strong> riusciamo a prendere il mondo<br />

per le corna? Perché <strong>non</strong> riusciamo a raccontare storie - <strong>non</strong>


importa se inventate, vere, realistiche, surreali - in grado di spremere<br />

la vita, di metterla sotto torchio?».<br />

In alcune delle reazioni di lettori che riportavo, compariva la parola:<br />

onestà. Ma che cos’è l’onestà per un narratore? (A parte<br />

l’ovvio: <strong>non</strong> passare col rosso, pagare giuste le tasse, <strong>non</strong> rapinare i<br />

supermercati, <strong>non</strong> spillare soldi agli assessorati in cambio di sinecure<br />

ecc.). Il lettore/scrittore che si firmava Demetrio, ad esempio, la definiva<br />

così: «Organizzare una storia che abbia una voce che sia sentita<br />

reale da parte di chi ci legge».<br />

Ragioniamo: una voce; che sia sentita reale; da parte di chi legge.<br />

Demetrio <strong>non</strong> dice: una voce che racconti una storia reale, una storia<br />

vera. Dice: una voce che sia sentita reale. Conta la «realtà» della<br />

voce, <strong>non</strong> delle cose raccontate. Le cose raccontate potranno essere<br />

invenzione pura; la voce <strong>non</strong> deve essere contraffatta. Può sembrare<br />

un paradosso. Io, che sono capace di dire la verità e di mentire senza<br />

la minima differenza nella voce, ho il sospetto che sia davvero un<br />

paradosso.<br />

Tuttavia, a proposito di «realtà», un altro lettore, che si firmava<br />

Mario Zero, diceva: «La letteratura è l’opposto della realtà. Nella<br />

realtà, soprattutto in quella sociale, tutto appare confuso, insensato,<br />

mentre nell’arte le parole formano una bellezza, un senso, ed è per<br />

questo che le amiamo». E mi viene il dubbio che Mario Zero, in<br />

questa forma apodittica, esprima un desiderio che è il contrario di<br />

quello espresso da Demetrio; come se Mario Zero dicesse: voglio<br />

una voce che <strong>non</strong> sia confusa e insensata, una voce opposta alla<br />

realtà. Forzando: una voce irreale.<br />

Ma un altro lettore, che si firmava con il nome di Ardito Piccardi,<br />

sacerdote protagonista del romanzo di Carlo Coccioli Il cielo e la terra,<br />

tagliava corto e diceva: «Se uno scrittore dà il sangue, quello è uno<br />

scrittore». E mi par di capire che il «dare il sangue» sarebbe appunto<br />

il segno dell’onestà. Un’onestà radicale: che <strong>non</strong> si definisce, direi,<br />

nel rispetto per gli altri; ma piuttosto nel rispetto per sé stessi quali<br />

83<br />

creature e immagini di dio. Mi viene il dubbio che la parola<br />

«santità» potrebbe, a questo punto, sostituire la parola «onestà».<br />

Dunque? Che strane richieste rivolgono i lettori agli autori, mi<br />

viene da pensare ogni volta che leggo cose del genere. Che strane<br />

richieste. Mi si chiede di essere onesto. Ma il romanzo <strong>non</strong> è<br />

per statuto una finzione? E se fingo una storia, <strong>non</strong> potrò fingere<br />

una voce? L’esperienza della scrittura mi dice: niente è più<br />

divertente che fingere una voce che suoni autentica; e niente è<br />

più istruttivo (per chi scrive e per chi legge) che fingere una voce<br />

che suoni autentica (ossia: niente è più istruttivo che tentare,<br />

provvisoriamente e per finta, di essere un altro); e poche cose sono<br />

difficili come fingere una voce che suoni autentica. Potrei<br />

metterla così: sono disponibile ad accettare l’onestà come un<br />

impegno verso il lettore. Ma vorrei tanto sapere come fa, un<br />

lettore, a decidere se la mia voce è «reale» o no.<br />

Mi si chiede di <strong>non</strong> ripetere la realtà, e di fornire piuttosto<br />

qualcosa che sia dotato di «bellezza» e «senso». Il presupposto è<br />

che la «realtà» sia brutta e insensata. Ma allora sembra che ci sia<br />

un mondo reale di qua, valle di lacrime nella quale siamo costretti<br />

a vivere, e un mondo dell’arte di là, luogo di bellezza e di<br />

senso. E io vado in bestia. Perché se questo mondo è una valle<br />

di lacrime, io vorrei farlo diventare luogo di bellezza e di senso.<br />

Se scrivendo produco una bellezza e un senso che <strong>non</strong> si trovano<br />

nel mondo, mi sento come un profeta: uno che vede ciò che<br />

potrebbe essere. Ma ho imparato che i profeti <strong>non</strong> sono coloro<br />

che vedono (in anticipo) ciò che <strong>non</strong> è ancora; sono piuttosto<br />

coloro che vedono (qui, ora) ciò che è sotto gli occhi tutti e<br />

sfugge agli occhi di tutti.<br />

E infine, a chi mi chiede di dare il sangue, mi viene quasi da<br />

dare un rispostaccia. Perché <strong>non</strong> so quante volte sono stato avvicinato<br />

da lettori e lettrici che mi dicevano: «Ti sono grato,<br />

perché vedo che in quel tal libro, in quel tale racconto, in quella<br />

tal pagina, veramente hai dato il sangue» (o: hai messa a nudo la


tua anima, eccetera; espressioni equivalenti). E io, naturalmente, sapevo<br />

che quel tal libro, quel tale racconto, quella tal pagina erano<br />

magari stati prodotti con un gioco combinatorio. Quegli stessi lettori<br />

e lettrici, poi, tendevano a dare per scontato che qualunque storia io<br />

avessi raccontata, fosse una storia accaduta a me. E allora dico: sospetto<br />

che questa richiesta di «dare il sangue» sia semplicemente una<br />

richiesta di «uscire dalla letteratura» e «dire la verità dell’esperienza».<br />

Di quest’ultima cosa riparliamo tra una settimana. E poi cercherò<br />

di tirare le fila di questa questione, che in sostanza si può riassumere<br />

così (credo): com’è che i lettori si immaginano che la scrittura sia per<br />

gli scrittori una certa cosa, e gli scrittori (io compreso) invece dicono<br />

che è tutt’altra cosa? Come fanno a essere così differenti, le due<br />

esperienze? Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 53<br />

Saluti a tutti e tutte. La settimana scorsa finivo il mio pezzo con<br />

questa domanda. «Com’è che i lettori si immaginano che la scrittura<br />

sia per gli scrittori una certa cosa, e gli scrittori (io compreso) invece<br />

dicono che è tutt’altra cosa? Come fanno a essere così differenti, le<br />

due esperienze?».<br />

Magari voi vi aspettate che io sappia la risposta alla domanda. E<br />

invece no. Ci ho pensato su (ci ho pensato, in particolare, mercoledì<br />

mattina tra le sette e le nove - mentre andavo a Milano in treno - e<br />

domenica mattina tra le undici e le quattro - mentre tornavo da Napoli<br />

in treno), e <strong>non</strong> mi è venuta in mente una risposta sensata.<br />

In altri momenti della settimana ho provato ad affrontare la questione<br />

diversamente: ho domandato a un certo numero di lettori puri<br />

che cosa pensassero che fosse, per uno scrittore, in generale, la<br />

scrittura: l’attività dello scrivere. E ho ricevute risposte così diverse,<br />

da <strong>non</strong> sapere che cosa concluderne.<br />

84<br />

Allora provo a improvvisare, in parte ripetendo cose che ho<br />

già dette nelle prime puntate (un anno fa!) di questa rubrica.<br />

A tanti sarà capitato di sentirsi dire: «Se vuoi scrivere, allora<br />

leggi!». Che è un’affermazione sacrosanta, ma sacrosanta fino a<br />

un certo punto.<br />

Giacomo Leopardi faceva dire a un personaggio delle sue Operette<br />

morali: «A conoscere perfettamente i pregi di un’opera perfetta<br />

o vicina alla perfezione, e capace veramente<br />

dell’immortalità, <strong>non</strong> basta essere assuefatto a scrivere, ma bisogna<br />

saperlo fare quasi così perfettamente come lo scrittore<br />

medesimo che hassi a giudicare. […] L’uomo <strong>non</strong> giunge a poter<br />

discernere e gustare compiutamente l’eccellenza degli scrittori<br />

ottimi, prima che egli acquisti la facoltà di poterla rappresentare<br />

negli scritti suoi: perché quell’eccellenza <strong>non</strong> si conosce<br />

né gustasi totalmente se <strong>non</strong> per mezzo dell’uso e dell’esercizio<br />

proprio, e quasi, per così dire, trasferita in se stesso».<br />

Allo stesso modo si potrebbe dire (e faccio questi esempi perché<br />

l’affermazione del personaggio di Leopardi <strong>non</strong> suoni troppo<br />

bizzarra) che solo un cuoco potrà apprezzare fino in fondo<br />

la qualità di certi piatti, e solo un calciatore potrà apprezzare fino<br />

in fondo la qualità di un dribbling.<br />

Ma, di nuovo, andiamo a sbattere contro una tautologia (tautologia<br />

è il dire la stessa cosa in altri termini). Le due esperienze,<br />

della lettura e della scrittura, sono differenti. Su questo <strong>non</strong> ci<br />

piove. Chi pratica, magari intensivamente o professionalmente,<br />

una certa attività, saprà osservare la stessa attività, svolta da altri,<br />

con particolare attenzione e comprensione.<br />

A questo punto mi domando perché la domanda posta alla fine<br />

del pezzo della settimana scorsa, e all’inizio di questo stesso<br />

pezzo, m’importi così tanto.<br />

E mi viene una risposta <strong>non</strong> tanto simpatica. Però siccome mi<br />

è venuta, e siccome ci ho girato attorno tutta la settimana, decido<br />

di dirla.


La scrittura è probabilmente il mezzo di produzione artistica più economico.<br />

Bastano carta e penna, basta un computer che oggi ce<br />

l’hanno tutti. Basta avere tempo. Non servono tanti soldi. La scultura<br />

è decisamente più onerosa, per <strong>non</strong> parlare del cinema; e così via.<br />

La scrittura, poi, è probabilmente anche il mezzo di produzione<br />

artistica più ibrido. Non si scrive solo per fare produzione artistica;<br />

si scrive per centomila altre ragioni. Io stesso, qui, mentre scrivo<br />

questo articolo - che spero venga bene perché mi sono preso tardi e<br />

lo sto facendo di corsa, <strong>non</strong> ho tanto tempo per pensare a quello<br />

che dico - <strong>non</strong> ho certo in mente di fare dell’arte. Sto scrivendo un<br />

articolo. E stamattina ho scritte altre cose, avendo in mente di tutto<br />

fuorché di fare dell’arte.<br />

Difronte ai miei amici pittori, io devo confessare: <strong>non</strong> riesco a<br />

immaginare che cosa passi loro per la testa. L’altra sera ho visto un<br />

film nel quale ho avuta una particina (Primo amore di Matteo Garrone;<br />

con Michela Cescon e Vitaliano Trevisan protagonisti; molto<br />

bello, secondo me) e mi sono reso conto che, anche se sono stato<br />

un po’ sul set, anche se ho visto un po’ (un po’) lavorare gli sceneggiatori<br />

(gli stessi Garrone e Trevisan, più Massimo Gaudioso), comunque<br />

<strong>non</strong> sono in grado di immaginare che cosa passi per la testa<br />

del regista. Quando giravamo le due scenette in cui ci sono anch’io,<br />

vedevo il regista andare di qua e di là, aprire e chiudere porte, muovere<br />

la macchina; e <strong>non</strong> capivo che cosa succedeva. Il risultato visivo<br />

di quelle due scene, visto al cinema, <strong>non</strong> c’entra niente con ciò<br />

che io avevo visto sul set mentre provavamo e riprovavamo.<br />

Invece, mi rendo conto che questa sensazione di <strong>non</strong> riuscire a<br />

immaginare, ben pochi ce l’hanno nei confronti della scrittura. Ogni<br />

volta che, iniziando un laboratorio di narrazione, faccio ai partecipanti<br />

quelle due o tre domande che servono a conoscersi, a dire perché<br />

si è lì e che cosa ci si aspetta, mi rendo conto che quasi nessuno<br />

pensa al narrare e allo scrivere come ad attività misteriose. No: per<br />

quasi tutti il narrare e lo scrivere sono cose ben chiare; e a me, con-<br />

85<br />

duttore del laboratorio, si chiede solo di insegnare un po’ di<br />

«trucchi del mestiere». Dicono così: «trucchi del mestiere».<br />

E allora azzardo una doppia risposta, magari un po’ paradossale.<br />

I cosiddetti scrittori difendono la specificità del loro mezzo di<br />

produzione artistica, sostanzialmente indistinguibile dalla scrittura<br />

che comunemente tanti usano, ammantandolo di mistero.<br />

Hanno bisogno di dire che la loro scrittura è un’altra cosa, è<br />

sempre un’altra cosa; perché devono distinguerla dalla scrittura<br />

di tutti.<br />

E i lettori, da parte, loro, cadono nell’inganno simmetrico: di<br />

identificare troppo immediatamente la scrittura come mezzo di<br />

produzione artistica con la scrittura che più o meno tutti, per un<br />

verso o per l’altro, per uno scopo o per un altro, pratichiamo. E<br />

quindi <strong>non</strong> vedono le differenze per eccesso di sbrigatività.<br />

Ma mi viene il dubbio di avere scritte delle fesserie. Perciò invito<br />

chi sia arrivato a leggere fin qui, a scrivermi che cosa ne<br />

pensa. Usate la posta elettronica, l’indirizzo è:<br />

giuliomozzi@gmail.com. Buona settimana.<br />

Chiacchierata numero 54<br />

Buondì. La settimana scorsa finivo il mio pezzo rilanciando la<br />

domanda: «Com’è che i lettori si immaginano che la scrittura sia<br />

per gli scrittori una certa cosa, e gli scrittori (io compreso) invece<br />

dicono che è tutt’altra cosa? Come fanno a essere così differenti,<br />

le due esperienze?».<br />

Ho ricevute alcune risposte.<br />

Adriana Di Grazia scrive tra le altre cose: «La passione per la<br />

scrittura o si ha o <strong>non</strong> si ha. Non si può inventare. Si inizia sui<br />

banchi di scuola a scoprire quell’inclinazione che poi si sostanzia<br />

riempendo pagine bianche di quaderni o di diari, di emozio-


ni traboccanti, costruendo storie che si vorrebbe vivere, volando<br />

con la fantasia. Io ritengo che la scrittura sia una forma di rigenerazione.<br />

Penso che lo scrittore, narrando una storia, realmente accaduta<br />

o tratta dalla fantasia, si incarni nei personaggi ritrovandosi a<br />

vivere un’altra vita, dal principio alla fine, con tutte le passioni e i<br />

sentimenti che sono celati nell’animo. Praticamente, a mio avviso,<br />

allo scrittore è concesso vivere una, due dieci, cento vite attraverso<br />

personaggi diversi, arrivando ad essere ciò che sarebbe voluto essere<br />

e <strong>non</strong> è stato, assaporando quasi la vita e le emozioni che avrebbe<br />

voluto provare e che <strong>non</strong> ha provato e <strong>non</strong> proverà mai. Ed alla fine<br />

della storia, sentirsi appagato, ed avere voglia di ricominciare nuovamente.<br />

Ciò è proprio di chi <strong>non</strong> si accontenta di vivere una sola<br />

vita».<br />

Gabriella dell’Aria scrive tra le altre cose: «Da un paio di anni scrivo,<br />

ho iniziato per mettermi alla prova, per vedere se riuscivo a creare<br />

una storia, a portarla avanti in modo coerente per un centinaio di<br />

pagine ed a concluderla, l’ho fatto. Ne ho iniziata un’altra. Esiste<br />

una profonda differenza tra ciò che ho scritto "dando il sangue" e<br />

quello che invece é stato elaborato freddamente dal cervello; nel<br />

primo caso si tratta di frasi brevi, essenziali, che fissano emozioni<br />

senza che chi le legga possa "sentirle", così <strong>non</strong> è per le seconde.<br />

Allora mi viene da chiedere: <strong>non</strong> è forse scrivendo con il massimo<br />

impegno intellettivo l’unico modo di "dare il sangue"? […] Mi domando<br />

che tipo di lettrice sono: <strong>non</strong> ho mai letto un romanzo chiedendomi<br />

quali pensieri attraversassero la mente di colui che, con la<br />

sua maestria, sta momentaneamente irretendo la mia, né prima, né<br />

durante né tantomeno dopo che avesse scritto, posso chiedermelo<br />

per una poesia, per un quadro, ma il romanzo credo nasca da un<br />

progetto più ampio e complesso che può essere molto diverso da<br />

quello che ognuno di noi percepisce leggendolo, in ciascuno tocca<br />

corde diverse».<br />

Mauro Mirci mi scrive una lunga e bella lettera, dalla quale estraggo<br />

solo le tre «risposte elementari» (una principale, e due di riserva)<br />

86<br />

conclusive: «Se scrivere è un’attività misteriosa, praticata da iniziati<br />

per il tramite di altrettanto misteriosi riti, allora solo chi ha<br />

partecipato - anche inconsapevolmente - a tali riti sarebbe legittimato<br />

a dirsi scrittore. Resterebbero esclusi gli altri, gli scriventi,<br />

capaci di scrivere, sì, ma <strong>non</strong> di trasmettere per il tramite della<br />

scrittura. Ma se è misteriosa l’attività, e sono misteriosi i riti, allora<br />

in base a quali discriminanti lo scrivente sarebbe in grado di<br />

percepire il proprio transito alle qualità di scrittore?<br />

«La mia prima risposta elementare. Non è possibile individuare<br />

tali discriminanti con sicurezza: trattandosi di attività misteriosa<br />

è impossibile determinarne i parametri fondamentali.<br />

«Risposte di riserva.<br />

«La mia seconda risposta elementare. La domanda è mal posta.<br />

Riformularla.<br />

«La mia terza risposta elementare. Abbiamo imparato<br />

l’alfabeto a scuola. Serve a comunicare. Trasmettere è un’altra<br />

cosa. Conosco molte persone che sono capaci di trasmettere in<br />

maniera incredibilmente efficace, e alcune di esse sono, o sono<br />

state, analfabete. Sono state perché morte, o perché hanno poi<br />

imparato a leggere, scrivere e far di conto. Non ti sei mai chiesto<br />

quali incredibili e misteriose qualità possegga un bimbo in fasce<br />

per trasmetterti i suoi bisogni? Trasmetterti, <strong>non</strong> solo comunicarti.<br />

Quando un bambino trasmette un bisogno <strong>non</strong> lo fa<br />

solo attraverso una forma di comunicazione (il pianto) ma anche<br />

ingenerando nel genitore ansia, paura, irrequietezza. Coinvolge,<br />

cioè, il suo interlocutore nella maniera più assoluta e intima.<br />

Non fa o stesso lo scrittore?».<br />

Non penso che lo scrivere sia una «attività misteriosa, praticata<br />

da iniziati». Sono convinto addirittura che solo chi riesce a<br />

pensare allo scrivere e al narrare senza percepire nessun mistero<br />

nello scrivere e nel narrare, anzi immaginandoselo come un<br />

fatto molto pratico, come una cosa che normalmente si fa, abbia<br />

la possibilità di fare uno scatto in avanti.


Non so se il narratore si «incarni nei personaggi ritrovandosi a vivere<br />

un’altra vita». La mia esperienza è piuttosto il contrario (ma<br />

forse è solo una differenza di formulazione): nel momento in cui mi<br />

sono reso conto che era la mia vita, quella che si esponeva nella narrazione,<br />

e che quanto più mi davo da fare con l’invenzione tanto più<br />

era la mia persona (un fantasma della mia persona) che si ritrovava ricostruita<br />

nella pagina, in quel momento mi è sembrato che cambiasse<br />

tutto, e che il narrare diventasse una cosa seria.<br />

E ho il sospetto che sì, che forse davvero «scrivere con il massimo<br />

impegno intellettivo è l’unico modo di "dare il sangue"». La lingua,<br />

le forme della narrazione, sono cose della mia mente. Sono separate<br />

dal mio corpo. Finché <strong>non</strong> vedo questa separazione, finché <strong>non</strong> le<br />

percepisco come attrezzi e strumenti, protesi del corpo (e pertanto<br />

distinte dal corpo, fabbricate), io resto nella confusione.<br />

Un esempio sciocco. Una volta una signora protestò perché mi<br />

aveva inviati dei racconti, e io <strong>non</strong> l’avevo degnata di una risposta.<br />

Io dissi che ritenevo mio diritto rispondere a chi mi pareva. Qualche<br />

minuto dopo la signora parlò dei suoi scritti in termini di «vomitature»<br />

della sua anima. Questo è un esempio di confusione.<br />

Chi volesse intervenire mi scriva: giuliomozzi@gmail.com.<br />

Chiacchierata numero 55<br />

Buondì. Va bene, va bene, si cambia argomento. Qualche lettore<br />

mi ha fatto notare che il tema "avventure e disavventure dell’autore"<br />

era un tantino vago e decisamente poco pratico. Sono d’accordo. È<br />

che credo che ogni tanto, nel parlare di come e di perché («perché»<br />

sia nel senso di: «per quale ragione», sia nel senso di «con quale scopo»)<br />

si scrive, ci si possa concedere il lusso di andare un po’ a campi,<br />

di avviare riflessioni delle quali <strong>non</strong> si conosce l’esito, di interrogarsi<br />

sui massimi sistemi. E quindi su questa o su altre questioni generalissime,<br />

capiterà di tornarci.<br />

87<br />

Oggi però, per compensazione, proviamo ad andare sul pratico.<br />

Parliamo del dialogo. La domanda: «Come si fa a fare un<br />

buon dialogo?» è tra quelle che più spesso mi sento rivolgere.<br />

Provo a rispondere con un esempio. Quello che segue è un<br />

brano di un romanzo inedito (e ancora incompiuto, a dire il vero)<br />

scritto da un giovane secondo me piuttosto bravo (e che ha<br />

data la sua autorizzazione a questo esercizio pubblico).<br />

Quando Juan uscì dalla camera, spettinato e assonnato venne in cucina<br />

per riempirsi un bicchiere con dell’acqua del rubinetto.<br />

«Guarda che ho comprato da bere» gli dico<br />

Con gli occhi assonnati mi guarda «Che c’è da bere?».<br />

«Ma vedi un po’ te… Martini, Gin, vino bianco, dovrebbe essere avanzata<br />

della crema al wiskey».<br />

«Qualcosa che <strong>non</strong> contenga alcol, che so Coca cola, una Fanta, cedrata?».<br />

«Senti caro apri il frigo, gli analcolici li portano le ragazze, fai un salto<br />

giù e chiedi a loro».<br />

Juan prende un bicchiere dalla credenza si versa del Martini e apre la<br />

porta di casa e scende le scale.<br />

Lascia la porta aperta e sento le sue ciabatte di plastica che sbattono per i<br />

gradini.<br />

Dopo qualche minuto risale, ha in mano una bottiglia di gassosa, si siede<br />

su una sedia in cucina e mescola la gassosa al Martini.<br />

«C’è un’aria un po’ tesa giù» dice<br />

«Che succede?» gli chiedo.<br />

«Boh… e che ne so, io sono solo andato in cucina a prendere questa bottiglia,<br />

le ragazze erano in salotto come se stessero in riunione, parlavano di<br />

soldi».<br />

«Ma tu <strong>non</strong> hai chiesto niente? Che ne so’ una cosa così per dire, tanto<br />

per gentilezza».<br />

«Ma io sono sceso solo per la gassosa» mi risponde mescolando il suo<br />

drink.


«Va beh ci diranno tra un po’, anzi fai una cosa scendi giù di nuovo e vai a<br />

dire che se vogliono qui è pronto e possono salire».<br />

«Adesso?» chiede Juan<br />

«Sì adesso, dai sono quasi le nove».<br />

«Va beh aspetta che finisco il mio sbattutino».<br />

«Dai Juan butta giù tutto in un sorso e valle a chiamare» dico mentre porto in<br />

tavola del grana e del salame.<br />

Juan butta giù e poi apre la bottiglia di Gin, si versa un paio di dita sullo<br />

stesso bicchiere, riapre la porta, scende le scale con lo stesso rumore di poco prima,<br />

risale le scale, chiude la porta con il gomito perché in una mano ha il bicchiere<br />

con il Gin e nell’altra una bottiglia di coca, si siede al tavolo della cucina,<br />

versa un po’ di coca nel bicchiere e mescola.<br />

«Juan le hai chiamate o sei solo andato a prenderti la coca?».<br />

«Le ho chiamate arrivano appena finiscono» mi risponde mentre mescola con<br />

un cucchiaino il suo gin e cola.<br />

«Finiscono cosa?» chiedo<br />

«Finiscono la loro riunione» risponde<br />

«Ah ma allora è una cosa seria, boh chissà cosa sarà successo».<br />

E questo è lo stesso brano riveduto e corretto:<br />

Quando Juan uscì dalla camera, spettinato e assonnato venne in cucina per<br />

riempirsi un bicchiere con dell’acqua del rubinetto.<br />

«Guarda che ho comprato da bere» gli dico<br />

Mi guarda con gli occhi assonnati.<br />

«Martini, Gin, vino bianco», gli dico. «Dovrebbe essere avanzata della crema<br />

al wiskey».<br />

«Qualcosa che <strong>non</strong> contenga alcol?».<br />

«Gli analcolici li portano le ragazze. Fa’i un salto giù e chiedi a loro».<br />

Juan prende un bicchiere dalla credenza, si versa del Martini e apre la porta di<br />

casa.<br />

Sento le sue ciabatte di plastica che sbattono per i gradini.<br />

88<br />

Dopo qualche minuto risale, ha in mano una bottiglia di gassosa, si siede<br />

su una sedia in cucina e mescola la gassosa al Martini.<br />

«C’è un’aria un po’ tesa giù» dice<br />

«Che succede?» gli chiedo.<br />

«Le ragazze erano in salotto come se stessero in riunione, parlavano di<br />

soldi».<br />

«Ma tu <strong>non</strong> hai chiesto niente».<br />

«Io sono solo andato in cucina a prendere questa bottiglia», mi risponde<br />

mescolando il suo drink.<br />

«Fa’ una cosa: scendi giù di nuovo e vai a dire che se vogliono qui è<br />

pronto».<br />

«Adesso?» chiede Juan<br />

«Sono quasi le nove».<br />

«Finisco il mio sbattutino».<br />

«Dai Juan, valle a chiamare» dico mentre porto in tavola del grana e del<br />

salame.<br />

Juan butta giù e poi apre la bottiglia di Gin, si versa un paio di dita<br />

sullo stesso bicchiere, riapre la porta, scende le scale con lo stesso rumore di<br />

poco prima, risale le scale, chiude la porta con il gomito perché in una mano<br />

ha il bicchiere con il Gin e nell’altra una bottiglia di coca, si siede al tavolo<br />

della cucina, versa un po’ di coca nel bicchiere e mescola.<br />

«Le hai chiamate o sei solo andato a prenderti la coca?».<br />

«Arrivano appena finiscono» mi risponde mentre mescola con un cucchiaino<br />

il suo gin e cola.<br />

«Finiscono cosa?» chiedo<br />

«La riunione» risponde.<br />

«Ma allora è una cosa grave».<br />

La prima versione del brano conta 1.811 battute. La seconda,<br />

1.475. Circa il 19% di meno.<br />

Che cosa è stato eliminato? Dal punto di vista del senso,<br />

niente. Sono state eliminate solo le ridondanze. Le ridondanze<br />

sono quelle battute di dialogo che possiamo presumere che il


lettore si "fabbricherà" da sé; e che quindi <strong>non</strong> c’è bisogno di mettere<br />

nero su bianco. Oppure quelle battute che <strong>non</strong> portano nessuna<br />

informazione: né per il loro contenuto, né per ciò che rivelano sul<br />

comportamento dei personaggi.<br />

Ad esempio: la continua riluttanza di Juan a rispondere direttamente<br />

alle domande che il personaggio-narratore gli fa, è un tratto<br />

caratteristico del personaggio. Quindi se le ultime battute fossero<br />

state risolte in uno scambio del tipo: «Arrivano appena finiscono la<br />

riunione», «Ma allora è una cosa grave», <strong>non</strong> avremmo persa nessuna<br />

informazione sul contenuto, ma avremmo persa un’informazione<br />

sul comportamento di Juan.<br />

Ma è possibile stabilire le regole di un buon dialogo? Ci proveremo<br />

la settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 56<br />

Buongiorno a tutte e tutti. Avevamo cominciato a parlare di dialogo.<br />

Andiamo avanti. Prima di tutto facciamo una distinzione. È un<br />

po’ accademica, ma portate pazienza.<br />

Una narrazione è una narrazione. Quando dico: «Cappuccetto<br />

Rosso uscì di casa alle dieci del mattino e s’incamminò, attraverso il<br />

bosco, verso casa della <strong>non</strong>na», è chiaro che sto narrando.<br />

Ma quando dico: «"Sai <strong>non</strong>na", disse Cappuccetto Rosso alla <strong>non</strong>na,<br />

"lungo la strada ho incontrato uno strano tipo che mi ha fatto un<br />

sacco di domande"», che cosa sto facendo? Sembra chiaro: sto narrando<br />

di Cappuccetto Rosso che dice… Che cosa dice? Dice quel<br />

che ha detto: l’ho sentito con le mie orecchie (ero una mosca nella<br />

stanza, avevo un microregistratore). Le frasi tra virgolette (ma se le<br />

virgolette, per una bizzarria mia, mancassero, la cosa <strong>non</strong> sarebbe<br />

diversa) in cui è scritto ciò che Cappuccetto Rosso disse, hanno uno<br />

statuto diverso dalle frasi in cui il narratore (un narratore a<strong>non</strong>imo,<br />

oppure un "io" che racconta: è uguale) dice che Cappuccetto Rosso<br />

89<br />

fece questo e fece quello, ubbidì e disubbidì alla mamma.<br />

In che senso le frasi tra virgolette hanno uno statuto diverso?<br />

Be’, perché sono parole di Cappuccetto Rosso: mica parole del<br />

narratore.<br />

Provo a spiegare con due esempi. Primo esempio: «"Ciò,<br />

nóna», disse Cappuccetto Rosso alla <strong>non</strong>na, "a gò incrozà par<br />

via un mèco stranbo, c’al me gà impenìo de questióni». Questo,<br />

perdonate il regionalismo, è un Cappuccetto Rosso che parla<br />

pressappoco in lingua veneta. Il narratore, invece, parla in lingua<br />

italiana. Si potrebbe anche invertire l’esempio: «"Sai <strong>non</strong>na",<br />

gà dito Baréta Rossa, "lungo la strada…"» eccetera.<br />

La lingua del narratore e la lingua del personaggio, in sostanza,<br />

possono essere molto diverse.<br />

Secondo esempio. Molti hanno letto, e forse tutti i lettori<br />

avranno almeno sfogliato, quel romanzo di Hermann Hesse che<br />

s’intitola Il lupo della steppa (Oscar Mondadori). Il lupo della steppa<br />

è un libro che contiene un altro libro: che s’intitola, curiosamente,<br />

Il lupo della steppa. Oppure: Ivan Karamàzov è autore<br />

d’un poema intitolato Il grande inquisitore, e Alësa Karamàzov è<br />

autore di una biografia del santo monaco Zosìma. Ambedue i<br />

testi (quello di Alësa riportato pari pari, quello di Ivan "raccontato<br />

in prosa" da Ivan al fratello Dimitri) nel libro di Fëdor Dostoevskij<br />

I fratelli Karamàzov.<br />

Ora, chi sono gli autori di questi libri, poemi e agiografie? «Ma<br />

è evidente», dirà qualcuno, «gli autori sono Hermann Hesse e<br />

Fëdor Dostoevskij». E invece no. Non voglio negare che quelle<br />

pagine siano state scritte materialmente da Hermann Hesse e<br />

Fëdor Dostoevskij. Fatto sta che loro <strong>non</strong> ne sono gli autori. Gli<br />

autori sono questo e quel fratello Karamàzov, nel caso di Dostoevskij,<br />

e <strong>non</strong>-mi-ricordo-più-come-si-chiama nel caso di<br />

Hermann Hesse (portate pazienza: ho appena cambiato casa, i<br />

libri sono ancora tutti negli scatoloni).<br />

Facciamo un piccolo sforzo: e ci rendiamo conto che anche le


attute di un dialogo, benché siano state materialmente scritte da<br />

colui che firma il romanzo, hanno come autori i personaggi che le<br />

pronunciano. Cappuccetto Rosso è autore delle sue battute, il lupo<br />

delle sue, la <strong>non</strong>na delle sue, e così via.<br />

«Bene», dirà il qualcuno di cui sopra, «e a che cosa mi serve sapere<br />

questo? Sapevo già che ogni personaggio deve parlare con una voce<br />

sua». Oh, in somma, adesso lo sappiamo meglio. E disponiamo anche<br />

di una terminologia che dice chiara la cosa:<br />

- le parti del testo in cui a parlare è il narratore, o un "io narrante",<br />

comunque colui che si assume la responsabilità generale<br />

del testo stesso, si possono chiamare, con un termine accademico,<br />

diegetiche, o più banalmente narrative (o propriamente narrative);<br />

- le parti del testo in cui a parlare <strong>non</strong> è colui che si assume la responsabilità<br />

generale del testo stesso, bensì parla un personaggio<br />

o un documento (la voce della televisione, una lettera, un<br />

libro ritrovato, una scritta sul muro, un annuncio alla radio,<br />

una battuta di film…) si possono chiamare, con termine accademico,<br />

mimetiche, o più banalmente imitative.<br />

E qui, per l’appunto, mi serviva arrivare. A questa parola: imitazione.<br />

Il dialogo (diversamente dalla narrazione vera e propria) si pone<br />

come imitazione di un testo che sta fuori del testo. Se scrivo:<br />

«L’autobus era grosso e arancione», tutti capiscono che sto cercando<br />

di far vedere l’autobus al lettore; ma nessuno pensa che io lo stia imitando.<br />

Invece, se faccio dire a un personaggio: «Scusi, è già passato il<br />

16?», la battuta viene da tutti percepita come imitazione di una battuta<br />

reale - o almeno, imitazione di una battuta possibile.<br />

Fate un esperimento. Procuratevi un registratore. Registrate una<br />

conversazione: una normale conversazione a tavola, la conversazione<br />

di quando rientrate a casa e vi raccontate la giornata con il coniuge,<br />

la conversazione al bar: quello che volete.<br />

Riascoltate la conversazione. Trascrivétela.<br />

90<br />

Vi accorgerete che, come conversazione scritta, fa schifo. E<br />

così comprenderete che riproduzione e imitazione sono due cose<br />

molto diverse.<br />

Fate un secondo esperimento. Andate al cinema. Già che ci<br />

siete, andate a vedere Primo amore di Matteo Garrone, visto che<br />

ci recito anch’io (sono lo psicologo della mutua). Potrete osservare<br />

che durante tutto il film i personaggi <strong>non</strong> vanno mai di<br />

corpo, mangiano pochissimo (<strong>non</strong> solo lei, che nella storia è<br />

appunto colei che <strong>non</strong> mangia; ma anche lui), fanno compere<br />

una volta sola, e <strong>non</strong> puliscono la casa.<br />

La narrazione del film, che diversamente dalla narrazione<br />

scritta è per così dire tutta imitativa, è una narrazione-imitazione<br />

molto ellittica, elusiva, allusiva. Osservate quante domande, nei<br />

dialoghi dei film, restano senza risposta. A quante domande<br />

viene risposto con un gesto. Quanti dialoghi sono incompleti,<br />

quante azioni stesse sono incomplete.<br />

Perché questa incompletezza? Ma perché il lettore (lo spettatore)<br />

sa fare la sua parte. Intuisce che cosa manca. Riempie i<br />

vuoti. Attinge alla sua esperienza di vita, e completa il quadro.<br />

Ne riparliamo settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 57<br />

Buona settimana. Parliamo ancora di dialogo. Eravamo rimasti<br />

alla distinzione: il dialogo scritto <strong>non</strong> è una riproduzione del<br />

dialogo parlato, bensì una imitazione. Se vogliamo scrivere un<br />

dialogo che risulti "realistico", <strong>non</strong> dobbiamo fare una riproduzione.<br />

La differenza tra la riproduzione e l’imitazione, nel dialogo<br />

scritto, riguarda soprattutto i tempi. Se ascoltiamo (come settimana<br />

scorsa suggerivo di fare) un dialogo registrato, ci accorgiamo<br />

subito come esso sia pieno di battute e parole che <strong>non</strong>


fanno passare nessuna informazione (parole vuote, potremmo chiamarle),<br />

<strong>non</strong>ché di battute e parole che ripetono e ribadiscono informazioni<br />

già date o comunque implicite (parole ridondanti). Ora, il<br />

buon dialogo scritto è quello che <strong>non</strong> contiene né parole vuote né<br />

parole ridondanti; a meno che esse, come dicevo due settimane fa,<br />

<strong>non</strong> siano utili a caratterizzare un personaggio.<br />

Ecco un esempio da un racconto di Federigo Tozzi, L’ombra della<br />

giovinezza. Un uomo che vive in campagna, Orazio, s’innamora di<br />

una ragazza di città, Marsilia. «Gli piaceva parlarle», scrive Tozzi,<br />

«perché ella, anche quando egli stava zitto a posta, capiva tutto quel<br />

che aveva pensato; ed egli <strong>non</strong> sapeva come facesse». I dialoghi tra i<br />

due sono quindi curiosamente asimmetrici:<br />

Qualche volta, egli stava anche una settimana senza tornare in città; e quando<br />

andava a ritrovarla, aveva paura ch’ella lo rimproverasse; ma ella gli diceva, come<br />

se avesse voluto suggerirgli la risposta:<br />

«Hai avuto molto da fare?».<br />

Egli stava per dirle la verità; ma, pensando che fosse inutile, le prometteva<br />

soltanto di vederla ormai tutti i giorni. Allora ella si metteva a ridere; ed egli le<br />

chiedeva:<br />

«Mi avevi aspettato?».<br />

Ella gli rispondeva:<br />

«Ti aspetto sempre».<br />

«Ora, che sono con te, <strong>non</strong> andrei più via».<br />

«Basta che tu mi voglia bene. Come ci si sta in campagna?».<br />

«Io starei più volentieri in città».<br />

«Ed io, invece, verrei volentieri con te in campagna».<br />

«Non ci sei stata mai?».<br />

«Una volta, andavamo in villeggiatura; ma <strong>non</strong> lontano».<br />

«Te ne ricordi sempre?»<br />

«Sempre».<br />

«Ti divertivi?».<br />

«Mi faceva bene».<br />

91<br />

«E io invece avrei bisogno di stare in città. Per cambiare, forse».<br />

«Sceglieremo dove vuoi tu».<br />

«Ma <strong>non</strong> sarà possibile; <strong>non</strong> posso lasciare la fattoria».<br />

E s’egli si metteva a raccontarle come viveva insieme con il fratello, ella<br />

stava attenta come per capire bene e per far piacere a lui; ma da sé <strong>non</strong> gli<br />

chiedeva mai niente e né meno voleva sapere quand’egli l’avrebbe sposata.<br />

Pareva che <strong>non</strong> gliene importasse, rimettendosi del tutto alla volontà di lui.<br />

Questo è un dialogo fatto quasi tutto di parole vuote, frasi<br />

convenzionali, e per di più ridondanti. Eppure è un eccellente<br />

dialogo, perché ci dice tutto quel che c’è da sapere (è a due pagine<br />

dall’inizio del racconto, che ne fa quasi quaranta; ed è<br />

l’unico dialogo tra i due amanti che venga riferito) sulla relazione<br />

tra i due. Tozzi doveva avere ben chiare le informazioni da<br />

passare al lettore: la disponibilità di Marsilia, l’irresolutezza di<br />

Orazio; la sensazione di Orazio che Marsilia gli leggesse dentro,<br />

mentre in realtà lei scriveva dentro di lui: gli forniva dei pensieri<br />

pensabili, dei pensieri che lui <strong>non</strong> era in grado di pensare da<br />

solo (trasferirsi in città, sposarla…) e che infatti, quando lui era<br />

lontano da lei, si dissolvevano; <strong>non</strong>ché l’incapacità di Orazio a<br />

leggere dentro Marsilia, culminante in quel «Pareva che <strong>non</strong><br />

gliene importasse», che <strong>non</strong> è opinione del narratore bensì il<br />

pensiero di Orazio (è una frase, per così dire, "in soggettiva").<br />

Ci sono dunque dei dialoghi che <strong>non</strong> servono a far passare al<br />

lettore le informazioni letteralmente contenute nelle battute, ma<br />

a rappresentare il tipo di relazione esistente tra i personaggi.<br />

Questi dialoghi potranno tranquillamente essere farciti di parole<br />

vuote, di ridondanze, di frasi convenzionali eccetera: perché<br />

forse (<strong>non</strong> sono sicurissimo di quello che sto per dire) proprio<br />

nelle zone più inconsistenti della conversazione si annidano i<br />

segnali della relazione.<br />

Un altro esempio. Questo è preso da una pagina del mio diario<br />

in rete.


«Biglietto, prego», dice il controllore.<br />

Mi sveglio. Vedo la schiena del controllore.<br />

Guardo nel portafoglio, niente, apro la tasca grande dello zaino, niente, apro<br />

la tasca media dello zaino, niente.<br />

«Biglietto, prego», dice il controllore.<br />

È per me.<br />

«Un momento», dico.<br />

Nella tasca piccola dello zaino, niente.<br />

«Quanto le ci vuole?», dice il controllore.<br />

Tiro giù il cappotto dalla reticella.<br />

«Stavo dormendo», dico. «Stavo anche sognando».<br />

Nelle tasche del cappotto, niente.<br />

«Ce l’ha o no?», dice il controllore.<br />

«L’ho fatto alla macchinetta automatica», dico, continuando a frugare in tutte<br />

le tasche possibili.<br />

«Me lo faccia vedere», dice il controllore.<br />

«Certo», dico io. Ormai mi sto frugando anche nelle mutande.<br />

«Se <strong>non</strong> ce l’ha», dice il controllore, «fa prima a dirlo subito».<br />

«Ce l’ho», dico, ricominciando il giro delle tasche.<br />

«Me lo faccia vedere», dice il controllore.<br />

«Arrivo», dico.<br />

«Ce l’ha o <strong>non</strong> ce l’ha?», dice il controllore.<br />

In quel momento mi accorgo che il biglietto è sul sedile. Ci ho dormito sopra.<br />

Qui il dialogo è, se possibile, ancora più vuoto e ridondante. Il suo<br />

senso è, ancora, di mostrare la relazione tra i due personaggi (controllore<br />

e viaggiatore). Il controllore parla la lingua aggressiva<br />

dell’autorità; il viaggiatore cerca di sgusciare via, fornisce inutili assicurazioni<br />

della sua buona fede («L’ho fatto alla macchinetta automatica»),<br />

dà risposte incongrue («Stavo anche sognando»), ma nella<br />

sostanza accetta l’aggressione dell’autorità; e manifesta l’accettazione<br />

agitandosi tutto in cerca del biglietto, cercandolo «anche nelle mu-<br />

92<br />

tande»: cioè mettendo tutto il suo corpo, simbolicamente denudato<br />

dal frugarsi, a disposizione dell’autorità.<br />

Nel dialogo quindi <strong>non</strong> contano solo le battute scambiate:<br />

contano anche i gesti, i movimenti dei personaggi; gesti che sono<br />

in parte una sorta di "punteggiatura" del dialogo, ma che<br />

possono anche diventare una sorta di "controdialogo": "dicendo"<br />

cose che le parole <strong>non</strong> dicono. Ma ne parliamo tra una settimana.<br />

Chiacchierata numero 58<br />

Buondì. Settimana scorsa dicevo che nel dialogo <strong>non</strong> contano<br />

solo le battute scambiate ma anche i gesti, i movimenti dei corpi:<br />

che costituiscono una sorta di "punteggiatura" del dialogo,<br />

ma possono anche diventare una sorta di "controdialogo", "dicendo"<br />

ciò che le battute <strong>non</strong> dicono. Vi propongo un altro<br />

esempio da Federigo Tozzi. Si tratta del racconto «Gli amanti»:<br />

Lui: Perché <strong>non</strong> vieni a baciarmi?<br />

Lei: Tu cominceresti a volermi bene, ma <strong>non</strong> c’è più tempo.<br />

Lui: Non è vero!<br />

Lei: Io <strong>non</strong> voglio parlare di come tu: ti sei comportato con me.<br />

Lui: Hai ragione tu; e mi puoi rimproverare.<br />

Lei: È troppo tardi; t’ho detto.<br />

Lui: E pure, ieri sera ti sei lasciata baciare! E mi baciavi anche tu.<br />

Lei: Perché io sono sempre stata la stessa con te.<br />

Lui: E perché stamani <strong>non</strong> sei più?<br />

Lei: Devi pentirti. Esci. Puoi andartene.<br />

Lui: Mi devi perdonare.<br />

Lei: Tu ancora <strong>non</strong> sei sicuro del tuo pentimento.<br />

Lui: Se tu vuoi, stamani me ne vado, ma oggi torno. Te lo prometto.


Lei: Quando sono stata sola, ed io soffrivo della mia solitudine, tu <strong>non</strong> ti sei<br />

fatto vedere. Tu sei venuto soltanto quando avevi per me un desiderio sensuale.<br />

Non è vero, forse? Tu lo sapevi che io soffrivo!<br />

Lui: No.<br />

Lei: T’immaginavi che io <strong>non</strong> avessi avuto bisogno di te?<br />

Lui: …<br />

Lei: Tu <strong>non</strong> tornerai, per ora. Non mi vedrai mai più.<br />

Lui: …<br />

Lei: Ho troppo sofferto.<br />

Lui: Perché, dunque, stanotte m’hai fatto dormire nel tuo letto?<br />

Lei: Perché tu imparassi di più a conoscere quale donna tu perdi. Ho voluto<br />

castigarti così. E stamani tu soffri. È quello che ti meriti. Lo sapevo che stamani<br />

ti sarebbe dispiaciuto a lasciarmi; mentre fino a ieri sera eri stato quasi un<br />

mese senza farti vedere. Se tu mi ami, devi capire tutto il male che hai fatto; sopra<br />

a tutto a te stesso.<br />

Lui: Ma se tu mi hai fatto dormire con te, ho creduto che mi volessi bene!<br />

Lei: Ti voglio bene, è vero; ma è necessario che <strong>non</strong> ci vediamo più. Mentre tu<br />

dormivi, stanotte, io pensavo; e <strong>non</strong> trovavo nessuna scusa per te. Tu sei venuto a<br />

trovarmi soltanto perché ti faceva comodo.<br />

Lui: Allora, se devo andarmene, vado subito.<br />

Lei: Vattene pure.<br />

Curioso, vero? Un racconto fatto tutto e solo di dialogo. Naturalmente<br />

c’è il trucco. Ho preso un racconto di Tozzi e ho tolto tutto,<br />

lasciando solo il dialogo. Ecco un frammento (tutt’intero <strong>non</strong> mi sta<br />

in questo spazio) del vero racconto di Tozzi:<br />

[…] Ella, allora, indovinando quel che egli sentiva, si volse un poco a lui e gli<br />

disse:<br />

–Tu cominceresti a volermi bene, ma <strong>non</strong> c’è più tempo.<br />

Egli sapeva ch’ella aveva ragione, ma il desiderio di <strong>non</strong> perderla gli fece rispondere:<br />

– Non è vero!<br />

93<br />

Ella si voltò tutta a lui; ed egli, per <strong>non</strong> essere costretto ad abbassare gli<br />

occhi, finse di pensare ad altro e di <strong>non</strong> aver capito. Era quasi sicuro<br />

ch’ella gli avrebbe risposto con bontà, ma aveva paura di compromettersi di<br />

più parlandole; perché sarebbe stato costretto ad ammettere la verità. Ma,<br />

pure ch’ella <strong>non</strong> fosse stata troppo esigente, egli era disposto anche a commuoversi;<br />

quantunque <strong>non</strong> si sentisse ancora capace ad amarla da vero.<br />

Egli, allora, le prese il viso e le fece una carezza; ma ella trasse a dietro la<br />

testa, si levò dal collo una treccia mandandola più in là con una mano; e gli<br />

disse:<br />

– Io <strong>non</strong> voglio parlare di come tu ti sei comportato con me.<br />

A lui dispiaceva ch’ella avesse ragione; quasi la invidiava; ma le rispose:<br />

– Hai ragione tu; e mi puoi rimproverare.<br />

– È troppo tardi; t’ho detto.<br />

Egli si avvicinò a lei; ma ella lo respinse mettendogli una mano su la bocca.<br />

Egli le disse:<br />

– E pure, ieri sera ti sei lasciata baciare! E mi baciavi anche tu.<br />

– Perché io sono sempre stata la stessa con te.<br />

– E perché stamani <strong>non</strong> sei più?<br />

– Devi pentirti. Esci. Puoi andartene.<br />

Ma egli allora la prese da dietro le spalle e la costrinse a restare così abbracciata.<br />

Ella divenne più risoluta, e teneva il viso lontano. Allora, egli la<br />

lasciò. Si sentiva pigliare dall’ira, ma sentiva anche ch’ella aveva ragione e<br />

ch’era più buona di lui. Perciò attese, a capo basso, qualche parola meno<br />

brusca. Come si pentiva di <strong>non</strong> averla amata! Ma perché, s’egli si pentiva,<br />

ed ella doveva avvedersene, <strong>non</strong> era possibile che lo perdonasse? Doveva essere<br />

possibile.<br />

La nebbia cominciava ad andarsene; e le cupole grigie e turchinicce erano<br />

fra i tetti e le terrazze. I fiori sul balcone sgocciolavano come se fosse piovuto.<br />

[…]<br />

La cosa interessante è questa: il racconto, tutto sommato, sta<br />

in piedi anche se ridotto al nudo dialogo. Si capisce che cosa<br />

succede e qual è la relazione tra i due personaggi, e si intuisce


che cosa può essere accaduto prima (anche nel racconto vero, nulla si<br />

sa della storia precedente dei due amanti; il racconto si limita a mettere<br />

in scena la discussione e la separazione). E allora si vede bene<br />

che cosa aggiungono, al nudo dialogo, le altre parti del testo: aggiungono<br />

qualche scorcio sull’interiorità dei personaggi, ma soprattutto<br />

gesti, movimenti, allontanamenti e avvicinamenti, contatti dii<br />

corpi solo immaginati, proposti, accettati o rifiutati.<br />

Volendo, si potrebbe ridurre il racconto quasi ai soli gesti, alle cose<br />

visibili. Provate a farlo con il frammento che ho riportato sopra. Vi<br />

accorgerete che la relazione tra i personaggi resta perfettamente<br />

comprensibile, anche se è un po’ più arduo capire esattamente che<br />

cosa stia succedendo.<br />

A che pro questo bizzarro esercizio di smembramento d’un racconto?<br />

Semplicemente per far vedere come in un racconto il dialogo<br />

e la narrazione vera e propria si intreccino, si sovrappongano, esistano<br />

quasi autonomamente l’uno dall’altro, e tuttavia cooperino efficientemente<br />

a uno stesso scopo: trasportare nella mente del lettore<br />

<strong>non</strong> solo la storia immaginata dal narratore, ma tutta la sua immaginazione,<br />

comprensiva delle parole dette, dei movimenti dei corpi, e financo<br />

l’interiorità dei personaggi (che è, però, la parte meno autonoma<br />

del testo).<br />

Per scrivere un buon dialogo, quindi, bisogna soprattutto immaginare<br />

gli spazi dell’azione, e il movimento dei personaggi in questi<br />

spazi. Ne parliamo la prossima settimana.<br />

Chiacchierata numero 59<br />

Saluti a tutti. Dicevo la settimana scorsa: per scrivere un buon<br />

dialogo bisogna immaginare gli spazi dell’azione, e il movimento dei<br />

personaggi in questi spazi.<br />

Questo è un punto chiave.<br />

94<br />

Nel momento in cui si pensa al dialogo, è bene immaginare la<br />

narrazione come una messa in scena. Avete mai visto un film o<br />

una pièce teatrale in cui gli attori stiano sempre fermi? No. (Be’,<br />

se vi piace Beckett, forse sì; ma Beckett <strong>non</strong> fa testo). Gli attori<br />

si muovono nello spazio della scena, il regista muove la macchina<br />

da presa: mentre il dialogo avviene, tutto è in movimento.<br />

Ma a che cosa serve tutto questo movimento? «A rendere più<br />

espressivo il dialogo», si potrebbe dire. Ma <strong>non</strong> è così. Il dialogo<br />

ideale è un dialogo che sta in piedi da solo; è addirittura quel<br />

dialogo che, pur privato di tutto il contorno di inquadrature e<br />

movimenti (come facevo la settimana scorsa bistrattando un<br />

racconto di Federigo Tozzi), e ridotto alla sola parte imitativa,<br />

sta in piedi da solo: e <strong>non</strong> ha bisogno di gesti che lo rendano più<br />

espressivo.<br />

E allora?<br />

Allora, si può dire che i movimenti e le inquadrature servono<br />

più che altro a far passare il tempo. E il modo migliore di far<br />

passare il tempo, tenendo conto che avete lì un lettore che vi<br />

legge, è di dargli qualcosa da guardare. Un gesto, un movimento,<br />

uno sguardo fuori dalla finestra, una smorfia.<br />

Un frammento da un racconto di Raymond Carver, «Di cosa<br />

parliamo quando parliamo d’amore» (dal libro omonimo; questa<br />

è la traduzione di Livia Manera, ed. Garzanti):<br />

«E allora la vecchia coppia?», disse Laura. «Non hai finito la storia che<br />

avevi cominciato».<br />

Laura faceva una gran fatica ad accendersi la sigaretta. Le si spegnevano<br />

continuamente i fiammiferi.<br />

Ora nella stanza la luce era diversa, stava cambiando, diventava più tenue.<br />

Ma le foglie fuori dalla finestra luccicavano ancora, e io contemplai le<br />

forme che disegnavano sui vetri e sul ripiano di formica. Non erano gli stessi<br />

disegni, naturalmente.<br />

«E allora, la vecchia coppia?», dissi.


«Più vecchia ma più saggia», disse Terri.<br />

Mel le puntò gli occhi in faccia.<br />

Terri disse: «Va’ avanti con la tua storia, tesoro. Stavo solo scherzando. Che<br />

cosa è successo dopo?».<br />

«Terri, certe volte», disse Mel.<br />

«Per favore, Mel», disse Terri. «Non essere sempre così serio, amore. Non sai<br />

stare allo scherzo».<br />

«Dov’è lo scherzo?», disse Mel.<br />

Teneva il bicchiere in mano e guardava fisso sua moglie.<br />

«Cos’è successo?», disse Laura.<br />

Mel puntò gli occhi su Laura. «Laura, se <strong>non</strong> avessi Terri e se <strong>non</strong> la amassi<br />

tanto, e se Nick <strong>non</strong> fosse il mio migliore amico, mi innamorerei di te. Ti porterei<br />

via con me, tesoro», disse.<br />

«Racconta la tua storia», disse Terri. «Poi andiamo in quel nuovo posto, va<br />

bene?».<br />

«Va bene», disse Mel. «Dov’ero rimasto?», disse. Fissò la tavola e poi riprese<br />

a parlare.<br />

Che cosa succede, in questa breve scena, tra le due coppie di personaggi?<br />

(Nick, che è il narratore, e Laura; Mel e Terri). Non succede<br />

quasi niente: se <strong>non</strong>, per così dire, un leggero aumento della tensione<br />

tra Mel e Terri. Carver (che è probabilmente, da vent’anni in<br />

qua, il narratore che ha subiti più tentativi d’imitazione in Italia) coglie<br />

un momento morto, un incaglio nella conversazione di queste<br />

due coppie. Teoricamente, questa dovrebbe essere la meno interessante<br />

delle scene. Eppure si fa leggere: perché noi abbiamo sempre<br />

qualcosa da vedere. Laura che cerca di accendersi una sigaretta, e<br />

<strong>non</strong> ci riesce (tutti e quattro i personaggi hanno bevuto). Nick lascia<br />

vagare la sua attenzione, e ciò che entra quasi casualmente<br />

nell’attenzione di Nick. Mel che guarda Terri, stringe il bicchiere, poi<br />

guarda Laura, poi fissa la tavola. «Minuzie», si potrebbe dire. Ma sono<br />

le minuzie che tengono su tutto. Se questa scena fosse un piccolo<br />

film, avremmo una grande quantità di inquadrature: <strong>non</strong> solo sui visi<br />

95<br />

dei personaggi che parlano, com’è d’uso, ma anche sulle loro<br />

mani, sui loro bicchieri, sui personaggi silenziosi, sul tavolo e su<br />

ciò che si vede<br />

Ora: è importante rendersi conto che questa breve scena <strong>non</strong><br />

può esistere senza una precisa immaginazione dello spazio nel<br />

quale si svolge. Abbiamo una stanza, una tavola col ripiano ricoperto<br />

di formica, quattro persone sedute attorno alla tavola,<br />

una finestra con fuori delle foglie e un tipo particolare di luce.<br />

A me viene da pensare (vabbè, è banale) a certi quadri di Hopper,<br />

dominati dalla luce che entra da una grande finestra - o, al<br />

contrario, rinchiusi negli spazi di luce creati da lampade o tubi<br />

al neon.<br />

Nella stanza ci sarà stato anche altro (chi volesse leggersi il<br />

racconto intero, vedrà che c’è anche altro). Ma <strong>non</strong> è importante,<br />

per Raymond Carver, nominare tutto ciò che c’è dentro<br />

la stanza: e <strong>non</strong> lo fa, infatti. È importante, piuttosto, avere una<br />

precisa immaginazione della stanza; di ciò che unisce e insieme<br />

divide i personaggi; della luce che c’è; dei gesti che ciascuno<br />

compie.<br />

Non si può dire, credo, che quando Carver scrive: «Teneva il<br />

bicchiere in mano e guardava fisso sua moglie», questo aggiunga<br />

espressività al personaggio. Se c’è una sensazione che dà, semmai,<br />

questa notazione del narratore, è che Mel sia incapace di qualunque<br />

espressività. Ma con questa frase Carver colloca in una<br />

certa posizione Mel, dà una direzione al suo sguardo, dirige Mel<br />

come un regista dirigerebbe un attore (un regista, immagino,<br />

molto antiespressionista): mi vien da dire, con questa notazione<br />

Carver scolpisce Mel, ce lo offre come la scultura di un uomo che<br />

tiene il bicchiere in mano e guarda fisso sua moglie. Laura, invece,<br />

che «fa una gran fatica ad accendersi la sigaretta», più che<br />

una scultura sembra una performer impegnata nell’esecuzione di<br />

un gesto insignificante - sfregare un fiammifero, tentare di ac-


cendere la sigaretta - ripetuto e insistito fino al punto da renderlo<br />

misteriosamente ipersignificante.<br />

E notiamo, infine, come ciascuno dei gesti di ciascun personaggio<br />

- così come ogni loro battuta - <strong>non</strong> fa che ridefinire la relazione di<br />

quel personaggio con gli altri, o con almeno un altro. Ma riprendiamo<br />

il discorso tra una settimana.<br />

Chiacchierata numero 60<br />

Buongiorno, buongiorno. Ancora sul dialogo. È possibile, a questo<br />

punto, fissare dei criteri per scrivere un buon dialogo? Possiamo<br />

provarci: con la raccomandazione, però, di prendere questi criteri<br />

<strong>non</strong> come delle regole, ma come semplici indicazioni. Tant’è che alcuni<br />

di questi criteri, come vedremo subito, ne limitano e correggono<br />

altri. Cominciamo:<br />

1. Un buon dialogo è fatto di tante parole piene e di pochissime parole<br />

vuote (vedi puntata 57). Le interiezioni, le esclamazioni, i saluti, le<br />

frasi di circostanza, le battute insignificanti: tutto questo appartiene<br />

alla conversazione reale, ma <strong>non</strong> alla conversazione scritta nelle narrazioni.<br />

2. Tuttavia, le parole vuote possono essere fondamentali, addirittura<br />

costitutive del dialogo, quando aiutano a mettere in luce la relazione<br />

esistente tra i personaggi: l’ossequiosità di uno, la reticenza<br />

dell’altro, vengono mostrate soprattutto dall’uso e dall’abuso di parole<br />

vuote.<br />

3. Il primo nemico del buon dialogo è la ridondanza. Ogni volta<br />

che scrivo una battuta, vado a capo, e mi accingo a scriverne<br />

un’altra, devo domandarmi: «Ciò che B risponde ad A, può essere<br />

intuito dal lettore?». Se la risposta è: «Sì, da ciò che A dice, da ciò<br />

che si sa di B, dalle circostanze eccetera, il lettore può intuire, già sa,<br />

che cosa B risponderà ad A»; se la risposta è questa, allora la risposta<br />

di B è semplicemente superflua.<br />

96<br />

4. Un dialogo avviene sempre tra almeno due personaggi, in<br />

uno spazio. Esso quindi è costituito anche dagli sguardi di A<br />

verso B, ci C verso A; dai movimenti dei personaggi, soprattutto<br />

dagli avvicinamenti e dagli allontanamenti, dai contatti di corpo,<br />

dagli incroci di sguardi. Questi avvicinamenti, allontanamenti,<br />

contatti e incroci, dipenderanno anche dallo spazio nel quale<br />

avviene il dialogo. Bisogna quindi immaginare bene lo spazio e<br />

gestire i personaggi come se fossimo dei registi di teatro alle<br />

prese con degli attori.<br />

5. I movimenti di cui al punto 4 funzionano un po’ come una<br />

punteggiatura del dialogo. Ma possono essere usati anche come<br />

una antipunteggiatura: cioè per far dire ai personaggi (con il corpo,<br />

con il moto) cose diverse da quelle che dicono con le parole.<br />

Un certo grado di contraddizione tra parole e corpo rende<br />

più saporito il personaggio, lo fa essere meno tutto d’un pezzo,<br />

più credibile.<br />

6. Se una battuta di dialogo può essere sostituita da un gesto, è<br />

opportuno sostituirla con un gesto. Il lettore ha bisogno di cose<br />

da vedere, e un gesto sarà sempre più visibile della più azzeccata<br />

delle battute. Naturalmente <strong>non</strong> deve trattarsi di gesti-parola<br />

(«Fece segno di no con la testa») ma di gesti che prendono il significato<br />

di una risposta in quel determinato contesto.<br />

7. I personaggi «dicono», «domandano», «sussurrano», «bisbigliano»,<br />

«urlano», «gridano», «strillano», e così via. I personaggi<br />

<strong>non</strong> «esclamano con voce rotta dall’angoscia», <strong>non</strong> «dicono con<br />

voce flautata», <strong>non</strong> «mugolano con le lacrime agli occhi», <strong>non</strong><br />

«confessano torcendosi le mani», e così via. Il dialogo ideale è<br />

quello in cui si usa sempre il più semplice dei verbi, «dice», «disse»;<br />

e l’intonazione di voce si capisce dalle parole stesse e dal<br />

contesto.<br />

8. Un buon dialogo si scrive e si rilegge: nel rileggerlo si toglie<br />

almeno un venti per cento del testo.


9. Il dialogo serve a due cose: a definire la relazione tra i personaggi<br />

(vedi il punto 2) o a far progredire l’azione. Le cose <strong>non</strong> devono<br />

accadere durante il dialogo, ma nel dialogo. Soprattutto, il dialogo <strong>non</strong><br />

serve a informare il lettore di cose che sono accadute fuori scena o<br />

in precedenza.<br />

10. Nel dialogo ogni personaggio parla la sua propria lingua, il suo<br />

idioletto. Questo <strong>non</strong> vuol dire che l’idioletto di ogni personaggio vada<br />

creato scientificamente, con intento realistico. I napoletani <strong>non</strong> sono<br />

tenuti a parlare in napoletano, i veneti <strong>non</strong> sono tenuti a dire ciò,<br />

bòcia e sgnàpa ad ogni piè sospinto. La maggior parte dei personaggi<br />

dei romanzi italiani si esprime in un italiano medio, e questo va bene.<br />

Bisogna stare attenti però a <strong>non</strong> attribuire varianti regionali ai<br />

personaggi sbagliati. Quello che per un lombardo è l’oratorio, per un<br />

veneto è il patronato. Quello che per un milanese è la brioche, per un<br />

romano è il cornetto. Un salernitano e un udinese usano diversamente<br />

parole come tinello, terrina, giovane (sostantivo), melone. Un vicentino<br />

<strong>non</strong> dice assai, un siciliano sì; e se al vicentino scappa di dire assai,<br />

intende qualcosa di un po’ diverso da ciò che intende il siciliano.<br />

Quindi: se tutti parlano in italiano medio, va bene; se un personaggio<br />

usa espressioni dell’italiano regionale, stare attenti che siano<br />

dell’italiano regionale suo; se si vuole che parli dialetto, che la cosa<br />

abbia una sua giustificazione (e sia fatta con perizia: va da sé). Analogamente,<br />

se in un romanzo italiano c’è un personaggio inglese che<br />

parla italiano, <strong>non</strong> sarà tenuto a dire well e by Jove!.<br />

11. Nel dialogo la punteggiatura va dosata bene. È giusto inserire<br />

punti e virgole tenendo conto più di un ipotetico parlato che della<br />

sintassi e della logica. È sbagliato esagerare con i segni di intonazione<br />

(esclamativi, interrogativi): come già detto (punto 7) l’intonazione<br />

dovrebbe intuirsi dalle parole stesse e dal contesto.<br />

12. Nei dialoghi in cui un personaggio parla molto e l’altro sta ad<br />

ascoltare, è bene che di tanto in tanto il soliloquio dell’uno sia interrotto:<br />

<strong>non</strong> necessariamente da interventi dell’altro, ma anche da ge-<br />

97<br />

sti, movimenti eccetera (punti 4 e 5). Segnalo un’eccezione gigantesca:<br />

Lord Jim di Conrad.<br />

13. Nelle liti, il lettore deve avere ben chiaro quale sia<br />

l’oggetto del contendere.<br />

14. Negli equivoci, il lettore deve capire subito chi sta equivocando<br />

(e su che cosa si equivoca).<br />

15. Nelle scene d’affetto, lasciate parlare il corpo.<br />

16. Se in una stanza ci sono otto personaggi, che parlino tutti:<br />

o, se qualcuno <strong>non</strong> parla, che almeno faccia qualcosa. Magari<br />

dorma.<br />

E si potrebbe proseguire: ma stiamo davvero sconfinando dai<br />

criteri alle regolette. E perciò, per oggi, basta.<br />

Chiacchierata numero 61<br />

Buondì. Settimana scorsa mi sono azzardato a fornire sedici<br />

criteri (criteri, <strong>non</strong> regole) per la gestione del dialogo. Avrei<br />

potuto fornirne di più, o di meno. Alcuni sono più importanti,<br />

altri meno. Vorrei soffermarmi su uno (il numero 9): «Il dialogo<br />

serve a definire la relazione tra i personaggi o a far progredire<br />

l’azione». Della prima cosa abbiamo già parlato (in particolare<br />

nella puntata LVII); ora parliamo della seconda. Cominciamo<br />

con un esempio: un brano da La donna di scorta, romanzo<br />

d’esordio (assai bello) di Diego De Silva (disponibile ora nei<br />

Tascabili Einaudi). I personaggi sono Livio, uomo sposato con<br />

Laura, e Dorina. Da poco tempo Livio e Dorina sono amanti.<br />

La scena è a casa di Dorina.<br />

Dorina era distesa sul fianco e si cingeva la vita con un braccio. Livio<br />

allungò la mano e le carezzò i capelli. Non era sicuro che fosse sveglia, ma<br />

provò ugualmente a parlarle.<br />

«Dormi?».


Lei tirò l’aria col naso e poi disse no.<br />

«Forse è meglio che ci alziamo», disse Livio portando la voce appena sotto il<br />

normale livello di conversazione.<br />

«Ma che ore sono?» rispose lei a occhi chiusi, anche se l’iniziativa di Livio<br />

l’aveva già mezza strappata al torpore.<br />

Livio si alzò a sedere e prese l’orologio dal comodino.<br />

«Le undici».<br />

«Lo prendi il caffè?» continuò, visto che lei <strong>non</strong> aveva aggiunto altro.<br />

«Eh, quasi quasi».<br />

«Allora rimani, te lo porto».<br />

Dorina affondò la testa nel cuscino tutta contenta di <strong>non</strong> doversi alzare subito.<br />

Livio si mise in piedi e fece per rivestirsi. Aveva appena raccolto la camicia<br />

dalla sedia quando Dorina uscì dal letto e lo interruppe.<br />

«Aspettaspetta».<br />

«Aspettare che?».<br />

Dorina aprì l’armadio, prese una busta e ne tirò fuori dei panni.<br />

«Tieni», disse, e glieli lanciò insieme. Sembravano due. Mentre gli volavano incontro<br />

nella penombra, a Livio sembrò di vedere una cordicella.<br />

«E questa che è?». Sapeva benissimo di avere tra le mani una tuta da ginnastica.<br />

«L’ho presa ieri al mercato, per te. Credo che la misura sia giusta. Non mi<br />

andava di vederti in giro per casa vestito come un ospite».<br />

Lusingato, Livio se la infilò.<br />

Andò a preparare il caffè.<br />

Notiamo, preliminarmente, come questo dialogo sia abbondantemente<br />

"punteggiato" dai gesti (vedi la puntata LIX e i criteri 4 e 5<br />

della puntata scorsa). Ogni gesto vale come una battuta di dialogo e<br />

ogni battuta di dialogo vale come un gesto. Al punto che, quando<br />

Livio prende su la camicia dalla sedia, De Silva scrive: «Dorina uscì<br />

dal letto e lo interruppe», come se lo avesse interrotto a metà di una frase<br />

(se De Silva avesse scritto: «lo bloccò», <strong>non</strong> avremmo avuto questo<br />

effetto).<br />

98<br />

In questo breve episodio c’è azione? Sì, certo. Azione banale:<br />

una coppia si sveglia, lui si alza per fare il caffè, sta per rivestirsi,<br />

lei lo interrompe e gli offre un dono: una tuta da casa. È così?<br />

No, <strong>non</strong> è così. Dorina in realtà propone a Livio un rito di<br />

passaggio, e Livio lo accetta «lusingato». Indossando la tuta Livio<br />

smette di essere «un ospite» e diventa, per così dire, di casa.<br />

La casa lo accetta come suo proprio, e Livio accetta di sentirsi a<br />

casa sua in quella casa. Che questo avvenga per mezzo di una<br />

vestizione, è un classico dei riti di passaggio (pensate al vestito<br />

della prima comunione, ai vestiti degli sposi…). Che l’abito indossato<br />

da Livio sia un abito per stare in casa, e <strong>non</strong> un abito per<br />

uscire di casa, è segno della natura e del limite della relazione tra<br />

Livio e Dorina: la clandestinità.<br />

L’offerta dell’abito da parte di Dorina è però preceduta da una<br />

avance da parte di Livio: «Lo prendi il caffè? Rimani, te lo porto».<br />

Come dicesse: «Ormai sono di casa, posso muovermi in<br />

questa casa, compiere un’azione così intima, così da coppia, come<br />

fare il caffè e portartelo a letto; <strong>non</strong> merito forse una risposta<br />

da parte tua? Qualcosa che consacri il mio essere di casa?».<br />

Potremmo dire che in questa scena si svolge un’azione rituale.<br />

E il dialogo ha effettivamente un funzionamento rituale: quando<br />

Livio capisce di avere tra le mani una tuta, e ugualmente dice:<br />

«E questa che è?», lo fa per permettere a Dorina di dire:<br />

«L’ho presa ieri al mercato, per te». Dove una parola chiave è<br />

«ieri». Come Dorina dicesse: «Ieri <strong>non</strong> eravamo insieme, eppure<br />

vedi: pensavo a te, dunque eravamo insieme». L’altra parola<br />

chiave è: «mercato». Non nel chiuso di un negozio, è stata acquistata<br />

la tuta: ma all’aria aperta del mercato. L’evocazione<br />

dell’aria aperta del mercato è una avance di Dorina: che <strong>non</strong> vorrebbe<br />

la loro relazione confinata nella clandestinità. Livio <strong>non</strong><br />

se ne rende conto, e probabilmente nemmeno Dorina: la cui<br />

parte razionale accetta di essere una «donna di scorta», ma la<br />

parte emotiva no. E preannuncia, l’evocazione dell’aria aperta


del mercato, la scena del definitivo distacco tra Livio e Dorina (pp.<br />

125 sgg.): che avviene appunto in un luogo pubblico, un ristorante<br />

dove Livio e Dorina cenano insieme e nel quale arrivano dei conoscenti<br />

di Livio. Livio dissimula. Dorina capisce che la loro relazione<br />

<strong>non</strong> uscirà mai dalla clandestinità. Ci sarà ancora un incontro - uno<br />

strascico - e basta. Nemmeno un addio.<br />

Qual è dunque il progresso dell’azione, in questo episodio? È questo:<br />

Livio e Dorina, fino a quel momento "amanti <strong>non</strong> impegnati",<br />

diventano "amanti impegnati"; e questo loro impegnarsi già contiene<br />

il germe della loro futura separazione. La cosa poteva essere narrata<br />

senza dialogo? Ma, forse sì. Ma avrebbe comportato dei gesti-parola,<br />

interpretabili dal lettore come vere e proprie battute di dialogo:<br />

quindi, <strong>non</strong> può essere narrata senza dialogo.<br />

Si può dire, certo, che tutto ciò che avviene in questa scena è un<br />

mutamento nella relazione tra i personaggi; e che essendo la storia<br />

raccontata in La donna di scorta una storia di relazione tra personaggi,<br />

in questo caso i due scopi del dialogo, definire la relazione e far progredire<br />

l’azione, sostanzialmente coincidono. Non c’è dubbio. Ma se<br />

in questa scena si compie un rito, si consacra un mutamento, allora<br />

questa scena è il punto in cui un mutamento diventa un fatto, quindi<br />

azione. Ma ne riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 62<br />

«Dunque si va avanti sì o no? Corpo di Giove! È impossibile che noi siamo<br />

caduti come tanti stupidi su un banco».<br />

«È impossibile avanzare, signor Yanez».<br />

«Che cos’è dunque che ci ha fermati?».<br />

«Non lo sappiamo ancora».<br />

«Per Giove! Era ubriaco il pilota? Bella fama che si acquistano i Malesi! Ed<br />

io che li avevo creduti, fino a stamane, i migliori marinai dei due mondi! Sambi-<br />

99<br />

gliong, fa spiegare dell’altra tela. Il vento è buono e chissà che <strong>non</strong> riusciamo<br />

a passare».<br />

«Non faremo nulla, signor Yanez, perché la marea cala rapidamente».<br />

«Che il diavolo si porti all’inferno quell’imbecille di pilota!».<br />

Così comincia Il re del mare, uno dei romanzi di Emilio Salgàri<br />

appartenente al "ciclo della Malesia", ossia al ciclo di Sandokan,<br />

Yanez, Marianna, Tremal-Naik, Kammamuri e tutti gli altri.<br />

Yanez, a questo punto, fa chiamare il pilota.<br />

«Padada», disse l’europeo con voce secca, mentre appoggiava la destra sul<br />

calcio d’una delle sue pistole, «come va questa faccenda? Avevi detto che<br />

conoscevi tutti i passi della costa bornese ed è solo per ciò che ti ho imbarcato».<br />

«Ma, signore…», balbettò il malese con aria imbarazzata».<br />

«Che cosa vuoi dire?», chiese Yanez che per la prima volta in vita sua<br />

sembrava avesse perduta la sua flemma abituale.<br />

«Questo banco <strong>non</strong> esisteva prima».<br />

«Briccone, vuoi tu che sia sorto stamane dal fondo del mare? Sei un imbecille!<br />

Tu hai dato un colpo falso di barra per arrestare la Marianna».<br />

«A quale scopo, signore?».<br />

«Che ne so io? Potrebbe darsi che tu fossi d’accordo con quei misteriosi<br />

nemici che hanno sollevato i dayachi».<br />

«Non ho avuto altri rapporti che coi miei compatriotti, signore».<br />

«Credi che ci potremo disincagliare?».<br />

«Sì, all’alta marea».<br />

«Vi sono molti dayachi sul fiume?».<br />

«Non credo».<br />

«Sai che abbiano buone armi?».<br />

«Non ho veduto presso di loro che qualche fucile».<br />

«Chi può essere stato a sollevarli?», borbottò Yanez. «Vi è un mistero<br />

qui sotto che <strong>non</strong> riesco a spiegare, quantunque la Tigre della Malesia si<br />

ostini a vedere in tuttociò la mano degl’Inglesi. Speriamo di giungere in


tempo e di ricondurre Tremal-Naik e Darma a Mompracem, prima che i ribelli<br />

invadano le loro piantagioni e distruggano le loro fattorie. Vediamo se possiamo<br />

lasciare questo banco prima che la marea abbia raggiunto la sua massima altezza».<br />

Voltò le spalle al malese e si rivolse verso prora, curvandosi sulla murata del<br />

castello.<br />

Sulla qualità della scrittura di Emilio Salgàri si può discutere. Ma la<br />

sua qualità di narratore, come sa chiunque sia stato ragazzino, è altissima.<br />

Certo: un narratore <strong>non</strong> proprio innovativo. Ma un narratore<br />

che sapeva usare con disinvoltura tutti gli strumenti della narrativa<br />

popolare. Nonché un grande immaginatore, che con Sandokan ha<br />

creato uno dei pochi personaggi della letteratura italiana che restino<br />

nel tempo.<br />

Salgàri cominciava spesso i suoi libri con lunghi dialoghi. Era un<br />

modo per introdurre il lettore direttamente nel vivo dell’azione: perché<br />

il dialogo, per Salgàri, è soprattutto azione. Guardiamo quante<br />

informazioni vengono date al lettore nel dialogo riportato sopra:<br />

impariamo che i nostri eroi sono in nave, nel Borneo, incagliati in<br />

un banco di sabbia; che la nave si è recata nel Borneo per imbarcare<br />

Tremal-Naik e Darma; che la meta del viaggio è Mompracem, la<br />

mitica isola dei pirati. Ma impariamo anche che c’è in corso una rivolta,<br />

e che Yanez è costretto a <strong>non</strong> fidarsi di nessuno: nemmeno<br />

del pilota della nave. E impariamo infine che quel banco di sabbia è<br />

misterioso: fino a poco prima <strong>non</strong> c’era.<br />

Osserviamo i movimenti del dialogo. Yanez convoca Padada, il<br />

pilota. Qual è il problema di Yanez? Non solo capire se e quando ci<br />

si potrà disincagliare; ma scoprire se l’incagliamento <strong>non</strong> faccia parte<br />

di un disegno altrui. Interpella dunque Padada. L’inizio è soft: Yanez<br />

mette in dubbio la competenza di Padada: «Avevi detto che conoscevi<br />

tutti i passi della costa bornese». Padada dà, esitando, una risposta<br />

alla quale Yanez fa fatica a credere: «Questo banco <strong>non</strong> esisteva<br />

prima». D’altra parte una risposta disarmante può essere cre-<br />

100<br />

dibile proprio in quanto tale. In fondo, è vero che vicino alla<br />

voce d’un fiume (scopriremo due pagine dopo, di essere vicino<br />

alla foce d’un fiume) si possono creare rapidamente banchi di<br />

sabbia. E poi c’è sempre l’azione delle maree, delle tempeste, e<br />

così via. Quindi Padada, rispondendo così, e <strong>non</strong> accampando<br />

altre giustificazioni, si espone all’ira di Yanez, ma <strong>non</strong> dà<br />

l’impressione di essere un traditore. Yanez deve comunque<br />

metterlo alla prova: lo insulta, cerca di fargli saltare i nervi, lo<br />

accusa esplicitamente: «Tu hai dato un colpo falso di barra per<br />

arrestare la Marianna». Padada risponde nel migliore dei modi:<br />

<strong>non</strong> dice di no, dice: «A quale scopo?». In sostanza, costringe<br />

Yanez a esplicitare la sua accusa implicita. Cosa che Yanez fa:<br />

«Potrebbe darsi che tu fossi d’accordo con quei misteriosi nemici…».<br />

Padada <strong>non</strong> risponde direttamente. Dice: «Non ho avuto altri<br />

rapporti che coi miei compatriotti». Non si dichiara fedele a<br />

Yanez (cosa inutile, visto che in questo momento Yanez <strong>non</strong> sa se<br />

fidarsi o no di lui); si dichiara fedele a una fedeltà più grande,<br />

quella per la razza e la patria. E invita Yanez a rendersi conto di<br />

persona: faccia pure un’inchiesta, scoprirà che il buon Padada<br />

<strong>non</strong> ha mai parlato con nessun dayaco… Però Padada <strong>non</strong> dice:<br />

«Non sono in combutta con i dayachi». Yanez lo invita a una<br />

negazione, e lui si scansa.<br />

Yanez si ritiene soddisfatto della risposta (o finge di ritenersi<br />

soddisfatto) e cambia discorso. «Credi che ci potremo disincagliare?».<br />

Padada è nuovo il suo pilota. Come dire: l’incidente è<br />

chiuso, mi fido di te, dimmi come facciamo a toglierci di qui.<br />

Ma un attimo dopo, la domanda: «Sai che abbiano buone armi?»<br />

è insidiosa. Se Padada fosse troppo bene informato, i sospetti<br />

ritornerebbero. Padada è cauto: «Non ho veduto presso<br />

di loro che qualche fucile». «Non ho veduto». Non «Ho sentito<br />

dire», ad esempio, che implicherebbe una relazione. «Non ho<br />

veduto», come dire: «Avrai visto anche tu, anche tu li vedi».


E Yanez, con tutti i suoi sospetti, resta a bocca asciutta. Alla settimana<br />

prossima.<br />

Chiacchierata numero 63<br />

Bene. Ho dedicate otto puntate al dialogo. Non ne posso più. E<br />

poiché <strong>non</strong> ho voglia di mettermi a parlare dell’ambientazione, dei<br />

tempi delle scene, dell’articolazione della trama, dei colpi di scena e<br />

di tutte quelle robe lì che si trovano nei manuali (ad esempio in Scrivere<br />

un romanzo: come strutturare personaggi e storie in modo efficace, di Donna<br />

Levin, Dino Audino Editore, www.audinoeditore.it, 188 pagine<br />

per 18 euro); allora mi metterò a parlare d’altro.<br />

Sabato 24 aprile ero a Bolzano per un laboratorio di scrittura intitolato<br />

Cose che succedono mentre si fa la spesa al supermercato, organizzato<br />

presso l’Università popolare delle Alpi Dolomitiche da Giovanni<br />

Accardo.<br />

Che cosa si fa, in un laboratorio di scrittura intitolato Cose che succedono<br />

mentre si fa la spesa al supermercato? Per cominciare, si parla del supermercato.<br />

«Qual è la vostra relazione con il supermercato?», ho domandato ai<br />

ventotto baldi corsisti. «Quando ci andate? Come ci andate? Che cosa<br />

ci comperate?», eccetera. Com’era prevedibile, è uscito fuori un<br />

po’ di tutto: da «Io <strong>non</strong> ci vado mai, nemmeno se mi pagano» a «Ah,<br />

com’è bello il supermercato!… Lo amo proprio!».<br />

Avevo bisogno di capire che cosa intendevano dire i miei baldi<br />

corsisti (e le mie balde corsiste) quando pronunciavano la parola:<br />

«supermercato». L’Italia è lunga, come si usa dire. I supermercati<br />

<strong>non</strong> sono tutti uguali ovunque. Nella Libera Provincia di Bolzano,<br />

ad esempio, <strong>non</strong> ci sono ipermercati: è una precisa scelta politica.<br />

Così abbiamo chiacchierato un po’.<br />

Poi, uno stop improvviso. «Prendete carta e penna», ho detto. Ho<br />

dettato i titoli di quattro esercizi, da eseguirsi ciascuno in sette/dieci<br />

101<br />

minuti: Lode del supermercato (da eseguire in versi), Registrazione dei<br />

pensieri di una cassiera quarantacinquenne in attesa di recarsi, finito il<br />

turno, presso l’avvocato divorzista, Autobiografia passionale di un vasetto<br />

di marmellata di prugne senza zuccheri aggiunti, Opinioni sul cosmo di un<br />

salamino Negroni a basso contenuto di grassi, e così via.<br />

«Questi esercizi sono stupidi», ha detto un baldo corsista.<br />

«È vero», ho ammesso.<br />

Gli esercizi erano effettivamente stupidi, ma avevano il loro<br />

senso. Si trattava, per me, di spostare l’attenzione dei baldi corsisti<br />

dal loro vissuto-del-supermercato al vissuto-delsupermercato<br />

di qualcun altro: e in particolare, al vissuto-delsupermercato<br />

dei prodotti, delle merci.<br />

«Perché?».<br />

Pazienza, ci arrivo.<br />

Quando ben gli esercizi sono stati grosso modo eseguiti (quasi<br />

nessuno è arrivato fino al salamino), allora ho cominciato a raccontare.<br />

Ho raccontata la favola dei giocattoli: quelli che a mezzanotte,<br />

magicamente, diventano vivi e cominciano a parlare tra loro.<br />

Ho raccontata l’operetta di Leopardi Dialogo tra Federico Ruysch<br />

e le sue mummie, dove grazie a una singolarissima e rarissima congiunzione<br />

astronomica le mummie conservate nello studio del<br />

suddetto Federico Ruysch, celeberrimo (a quei tempi) anatomista<br />

e preparatore, iniziano a cantare:<br />

Sola nel mondo eterna, a cui si volve<br />

Ogni creata cosa,<br />

In te, morte, si posa<br />

Nostra ignuda natura;<br />

Lieta no, ma sicura<br />

Dall’antico dolor.


Ruysch si precipita nello studio, inizia a parlare con le mummie, le<br />

interroga (ovviamente) su che cosa sia il morire, le mummie rispondono<br />

che <strong>non</strong> ne hanno idea, che loro hanno del morire più o meno<br />

il ricordo che da vive avevano del nascere, e poi alla fine il tempo<br />

scade e le mummie ripiombano nel silenzio.<br />

Quello che è successo nel quarto d’orda successivo <strong>non</strong> me lo ricordo<br />

tanto. Ho cominciato a parlare delle merci, dei prodotti, come<br />

di esseri che a mezzanotte si risvegliano, parlano; mi sono interrogato<br />

sulla lingua delle merci (se le prugne parlano la loro lingua, la<br />

marmellata di prugne che lingua parlerà? forse una linguaprugna<br />

frullata, sminuzzata, ridotta a grumi di fonemi?), sull’eventuale pluralità<br />

di lingue (il fustino di detersivo parla come le ciliegie sotto spirito?);<br />

e poi ho parlato del desiderio delle merci, del loro sporgersi,<br />

protendersi dagli scaffali verso di noi, del loro voler essere scelte,<br />

elette, acquistate… Non siamo noi che desideriamo le merci, ho<br />

detto, sono loro che desiderano noi… Che desiderano noi in quanto<br />

loro destino, in quanto noi daremo loro una fine, e quindi un senso…<br />

Una balda corsista ha detto: «Basta così, altrimenti <strong>non</strong> ci vado più,<br />

io, al supermercato».<br />

Allora ho detto: «Bene, andiamo tutti al supermercato».<br />

E ci siamo andati. Con bloc-notes e penna biro. «Guardate le parole»,<br />

ho detto ai baldi corsisti, «guardate che cosa c’è scritto sopra<br />

le merci, che cosa c’è scritto sui cartelli, ascoltate che cosa dice la<br />

gente, ascoltate la radio…».<br />

Siamo tornati in aula dopo un’ora abbondate. Abbiamo parlato<br />

delle parole trovate. Più d’uno o d’una ha detto: «Non mi ero mai<br />

accorto della tale o talaltra cosa, che ho sempre avuta sott’occhio».<br />

Bene. Abbiamo scoperto che sopra le merci sono scritte cose incredibili.<br />

Esercizio. «Provate a scrivere dei pensieri fatti dalle merci. Ipotizzando<br />

che la lingua a disposizione delle merci sia composta sostanzialmente<br />

dalle parole che gli uomini hanno scritte sopra le merci<br />

102<br />

stesse». Qualcuno ha protestato. «Che razza di esercizio è?».<br />

«Suvvia», ho detto, «proviamo».<br />

Abbiamo provato. Qualcuno <strong>non</strong> è riuscito a venirne a capo.<br />

Qualcuno si è divertito assai a giocare con la lingua. Sono uscite<br />

delle cose a metà tra la Fontana malata di Palazzeschi e i libri di<br />

Ballard. Bene. Ormai eravamo a fine giornata. Ho assegnati i<br />

compiti: «Scrivete». «Che cosa?». «Eh, cose attinenti al tema: Cose<br />

che succedono mentre si fa la spesa al supermercato». «Sì, vabbè, ma…».<br />

«Vi do dei modelli. I Frammenti di un discorso amoroso di Roland<br />

Barthes, le Città invisibili di Italo Calvino, il Catalogo dei giocattoli<br />

di Sandra Petrignani. Saluti a tutti, ci si vede tra un mese».<br />

Bisognerebbe interrogarsi, a questo punto, sulla sensatezza di<br />

fare un laboratorio di scrittura e narrazione dedicato ai supermercati.<br />

Secondo me è cosa sensatissima. Ma ne parliamo tra<br />

una settimana.<br />

Chiacchierata numero 64<br />

Buondì. Raccontavo, settimana scorsa, di un laboratorio di<br />

scrittura che si sta svolgendo a Bolzano. Il tema del laboratorio<br />

è: Cose che succedono mentre si fa la spesa al supermercato. I corsisti<br />

(che rivedrò tra un mese) hanno già cominciato a mandarmi testi:<br />

il più interessante è, finora, un breve racconto avente per<br />

oggetto (parole dell’autrice): «Il suicidio, visto attraverso gli occhi<br />

di una scatoletta di pomodoro». Un’altra persona mi ha<br />

scritto: «Sto rizzando i sensi quando vado a far la spesa... Gli<br />

stimoli si sono moltiplicati». Una terza persona invece mi ha<br />

scritto: «Non so che dirle. Credevo di essermi iscritto a un laboratorio<br />

di scrittura creativa. Che cosa c’entra il supermercato?».<br />

Bene. In tanti anni che ci lavoro (più di dieci), mi sono ormai<br />

fatto qualche idea su ciò che si intende normalmente per «laboratorio<br />

di scrittura creativa». Si intende, in linea di massima:


un’occasione per sentirsi raccontare delle cose su un certo preciso<br />

numero di argomenti (la costruzione della trama, la formazione del<br />

personaggio, la contestualizzazione, il punto di vista, il trattamento<br />

del dialogo…), per scrivere qualche pagina su un tema dato e/o con<br />

delle forme date, per leggere o dare in lettura dei propri testi e sentire<br />

l’opinione del docente.<br />

Io stesso ho fatte di queste cose: che vanno benissimo, sono utili,<br />

servono. Però, in tutta sincerità, mi hanno stufato. Sulla costruzione<br />

della trama ci sono dei bellissimi libri, per capire come si fa un buon<br />

dialogo <strong>non</strong> c’è niente di meglio che leggere attentamente un dialogo<br />

che ci sembri buono, il punto di vista è una questione quasi sempre<br />

(<strong>non</strong> so perché) enfatizzata ma difatto banale, la contestualizzazione<br />

è una cosa che o uno capisce che è fondamentale (e allora se<br />

la sa cavare da solo) o <strong>non</strong> vuol capire che è fondamentale (e allora<br />

collocherà le sue storie, come tanti fanno, in contesti vaghi, indefiniti<br />

o standard); eccetera. Scrivere su un tema dato <strong>non</strong> è una cosa di<br />

per sé particolarmente interessante (tranne in un caso, e ne parlo<br />

poi), scrivere in una forma data è puro e semplice esercizio («Vi<br />

spiegherò il madrigale, dopodiché scriveremo tutti dei madrigali…»).<br />

Discutere i testi è, sì, una cosa interessante; per me, che avrò discusso<br />

migliaia di racconti o poesie o tentativi di romanzo, resta una cosa<br />

interessante. Ma in un laboratorio si producono esercizi; e discutere<br />

gli esercizi <strong>non</strong> è, secondo me, particolarmente interessante. Un<br />

esercizio al massimo si corregge: «Sì, il tuo madrigale è venuto bene;<br />

no, <strong>non</strong> hai fatte le rime giuste», eccetera.<br />

Dicevo, che c’è un caso in cui mi sembra interessante scrivere su<br />

un tema dato. Il caso è questo: quando le indicazioni del docente<br />

siano estremamente costrittive. Mi sarà sicuramente capitato di dire<br />

- in qualcuna di queste chiacchierate che ormai <strong>non</strong> fanno più nessun<br />

tentativo di farsi passare per un corso di scrittura a puntate - mi<br />

sarà sicuramente capitato di dire che le costrizioni aguzzano<br />

l’ingegno e stimolano l’invenzione. Tra dire: «Ora scriveremo un<br />

racconto sul tema: Cose che succedono mentre si fa la spesa al supermercato»,<br />

103<br />

e fare tutto l’ambaradam che ho raccontato nella precedente<br />

puntata, la differenza è tutta qui: nel grado di costrizione.<br />

Quando arrivo a dire: «Provate a scrivere dei pensieri fatti dalle<br />

merci. Ipotizzando che la lingua a disposizione delle merci sia<br />

composta sostanzialmente dalle parole che gli uomini hanno<br />

scritte sopra le merci stesse», so benissimo che sto imponendo<br />

un esercizio impossibile da eseguire o, se preferite, un esercizio<br />

che può essere eseguito solo in maniera fallimentare. E infatti<br />

ho detto, lì a Bolzano, come sempre dico: «Scrivere un esercizio<br />

che sia anche una cosa bella, è impossibile». A me interessa che le<br />

persone ci provino. Che ci diano dentro. Che arrivino al punto<br />

di fare cose che mai avrebbero fatto, pur di venire a capo<br />

dell’esercizio, pur di potermi dire: «Ecco, tu hai cercato di fregarmi<br />

con un esercizio impossibile, ma io l’ho fatto lo stesso».<br />

Ma c’è un’altra cosa che riesce a rendere interessante un esercizio<br />

di scrittura, ed è l’azzeccare un tema che imponga di rifocalizzare<br />

qualcosa che appartiene all’esperienza comune: un tema,<br />

in altre parole, che spinga, che forzi a gettare su cose che<br />

sempre guardiamo uno sguardo nuovo. Spesso, ad esempio,<br />

comincio un laboratorio con degli esercizi che chiamo «di<br />

sgranchimento» ma che sono, ahimè, dei veri esercizi di provocazione.<br />

Dico: «Prendete carta e penna. Tema: La mia mamma».<br />

Tutti sghignazzano. Io sto serio, finché qualcuno <strong>non</strong> mi domanda:<br />

«Va bene, apprezziamo lo scherzo, ma qual è il vero titolo<br />

dell’esercizio?»; e io ribadisco: «Tema: La mia mamma». Al<br />

quale seguono altri temi dello stesso genere quali: «Il mio compagno<br />

di banco», «La strada nella quale abito», «Una giornata<br />

piacevole», «Le mie feci».<br />

«Alt!», dirà qualcuno. «"Le mie feci" <strong>non</strong> è un tema dello stesso<br />

genere».<br />

Non è vero. È proprio un tema dello stesso genere. O quantomeno,<br />

produce un effetto del genere: mette in imbarazzo.<br />

Costringe ad addentrarsi nel territorio dell’ovvio (in quello che


si presume essere il territorio dell’ovvio) per poi scoprire che quello<br />

<strong>non</strong> è per nulla il territorio dell’ovvio. E fa scoprire che, spesso, per<br />

parlare delle cose più semplici e prossime, letteralmente <strong>non</strong> abbiamo<br />

parole. Ho visto interi gruppi di aspiranti narratori andare in tilt<br />

difronte al compito improbo di scrivere una paginetta sulla mamma.<br />

Le merci del supermercato, questo è il punto d’arrivo, sono come<br />

la mamma. Appartengono alla nostra vita, così come alla vita di tutti<br />

i personaggi delle storie che raccontiamo. Le guardiamo (anche attentissimamente,<br />

per sceglierle) tutti i santi giorni. Eppure, così come<br />

la mamma e le feci, raramente ne percepiamo le potenzialità narrative.<br />

Per dirla tutta: quasi mai, nei vari corsi e laboratori che vado<br />

facendo, incontro persone che ne percepiscano le potenzialità narrative.<br />

Ma, ovviamente, <strong>non</strong> si tratta solo di questo. Ne riparliamo tra<br />

sette giorni.<br />

Chiacchierata numero 65<br />

Allora, stavo parlando dei supermercati e delle merci. Ho letto in<br />

questi giorni (me l’ha segnalato Vitaliano Trevisan) un piccolo libro<br />

molto bello: Requiem per un albero, di Matteo Melchiorre (Edizioni<br />

Spartaco, corso De Carolis 18, 81055 Santa Maria Capua Vetere<br />

[Ce], www.edizionispartaco.it). È un libro che parla di un albero: un<br />

grande olmo (chiamato l’Alberón) che sorgeva nel paese di Tomo, in<br />

provincia di Vicenza:<br />

«Era un cumulo davanti agli occhi di verdi forati da luci azzurre. Il<br />

tronco, cinque metri di circonferenza. Corteccia grigiobruna e muschio<br />

a macchie. Tre rami, come alberi normali. In su, una casacata<br />

di rami e rametti barocchi. Foglie pesanti. La chioma, quindici, venti<br />

metri. Qualche ramo dei più alti ingrigito, scortecciato da frustate di<br />

fulmine».<br />

104<br />

Il libro inizia con la caduta dell’alberón: «Un colpo di vento e<br />

il terreno inzuppato di pioggia sono bastati a buttare giù<br />

l’Alberón. Ma sembrava più solido della roccia. Una frana di<br />

tuono, senz’altro, ma che nessuno ha sentito. L’Alberón è rimasto<br />

rovesciato, le radici nude alle intemperie, i rami alti, che <strong>non</strong><br />

vedevi, spezzati sull’erba fresca, avviliscono. Il pomeriggio del 4<br />

maggio mi sono trovato davanti a un gigante antico, al suolo».<br />

Tutto il libro è un viaggio attorno all’Alberón: che davanti ai<br />

nostri occhi di lettori si trasforma, pian piano, da un semplice<br />

«grande olmo» in una specie di divinità ctonia, in un simbolo<br />

della comunità di Tomo, in un’allegoria della fine del mondo<br />

premoderno. Attraverso la storia dell’Alberón Matteo Melchiorre<br />

racconta tutta la storia di una comunità, di un cosmo e di un<br />

tempo che <strong>non</strong> esistono più.<br />

Bene. Se avete tempo e voglia, leggete questo libro: che, ripeto,<br />

è molto bello (e costa solo 10 euro). Se conoscete i libri di<br />

Luigi Meneghello, vi accorgerete che l’aria che tira è più o meno<br />

quella: e anche la qualità della scrittura.<br />

Sento già la domanda: «Che cosa c’entra l’Alberón con i supermercati?».<br />

Appunto. Se la storia dell’Alberón è la storia di<br />

una comunità, di un cosmo e di un tempo che <strong>non</strong> esistono più,<br />

allora la questione è: chi, o che cosa, oggi, nelle nostre comunità,<br />

nei nostri cosmi, nei nostri tempi, può essere ciò che per<br />

quelle comunità quei cosmi e quei tempi che <strong>non</strong> esistono più erano<br />

gli Alberoni che, essi pure, <strong>non</strong> esistono più o, se ancora resistono,<br />

sono diventati insensati?<br />

Una dozzina d’anni fa a Padova, la città dove abito, fu costruito<br />

il primo ipermercato della zona. Io, come tutti, uno dei<br />

primi giorni d’apertura, andai a vederlo. Poi <strong>non</strong> ci andai più<br />

per un pezzo: <strong>non</strong> ne avevo bisogno, la piazza del mio quartiere<br />

offriva, in termini di merci, più o meno tutto quello che mi serviva.<br />

C’era il fruttivendolo, il negozio di alimentari, il macellaio,<br />

la cartoleria, il bar, la pasticceria, la merceria, il meccanico da


iciclette, il meccanico da motorini, la trattoria, il negozio di articoli<br />

per la casa, il riparatore di elettrodomestici, l’idraulico, l’elettrauto,<br />

l’edicola, il fiorista, il barbiere, il tabaccaio.<br />

Ho cominciato a frequentare l’ipermercato da quando le botteghe<br />

hanno cominciato a sparire dalla piazza: oggi <strong>non</strong> ci sono più il fruttivendolo,<br />

il macellaio, la merceria, il riparatore di elettrodomestici,<br />

l’idraulico, l’elettrauto, il barbiere, il tabaccaio; la trattoria e il bar<br />

hanno nuove gestioni e sono stati trasformati; il negozio di articoli<br />

per la casa si è rimpicciolito e ha ceduto parte del proprio spazio a<br />

un solarium.<br />

Penso che si possa paragonare la caduta dell’Alberón e la scomparsa<br />

delle botteghe. Le botteghe, ovviamente, <strong>non</strong> erano solo luoghi<br />

dove potevo comperare le cose: erano luoghi di incontri, di conversazione,<br />

di perdita del tempo, di informazione sulla vita del quartiere,<br />

e così via. Per me, «andare in piazza» significava uscire, star fuori<br />

un’oretta o un’oretta e mezza, tornare a casa con qualche acquisto,<br />

eventualmente, ma soprattutto con tante conversazioni nella testa.<br />

Io ho bisogno di andare in piazza. Quando <strong>non</strong> sono in viaggio<br />

per lavoro, alle sei del pomeriggio esco e vado in piazza. Non posso<br />

farne a meno.<br />

Quando ho cominciato, per necessità, a frequentare l’ipermercato,<br />

ho scoperto che per molti miei concittadini l’ipermercato era diventato<br />

ciò che per me era sempre stata la piazza. Nell’ipermercato si<br />

passeggia, si mangia il gelato, si fanno andare i bambini sulle giostrine,<br />

si conversa, si perde tempo, si legge il giornale al bar. E tutta<br />

questa vita sociale avviene in un luogo deputato all’esposizione e alla<br />

vendita delle merci, un luogo tutto foderato di merci, un luogo nel<br />

quale, mi viene da dire, anche il nostro perderci tempo diventa merce,<br />

noi stessi diventiamo merce.<br />

Se è giusto parlare dell’Alberón (ed è sicuramente giusto parlare<br />

dell’Alberón) per le stesse ragioni è giusto parlare degli ipermercati e<br />

delle merci: ed è giusto parlarne nello stesso modo, ossia come luo-<br />

105<br />

ghi e cose che manifestano la comunità, il cosmo e il tempo che<br />

oggi esiste.<br />

In un suo romanzo breve, Crampi, Marco Lodoli racconta a un<br />

certo punto di un personaggio che va a mangiare in un negozio<br />

dove «davano da mangiare pane e carne» (cito a memoria: il libro<br />

è sepolto da qualche parte, negli scatoloni <strong>non</strong> ancora aperti<br />

dopo il trasloco). Che cosa è mai, un negozio dove danno da<br />

mangiare pane e carne? Facile: è un fast-food, probabilmente un<br />

McDonald’s. Ma allora, perché Marco Lodoli dice «pane e carne»<br />

e <strong>non</strong> «hamburger»? Forse perché è un purista e la parola<br />

«hamburger» gli fa schifo?<br />

No. Marco Lodoli dice «pane e carne» perché ha capito tutto.<br />

Perché ha capito che una delle cose che le merci ci fanno, è impedirci<br />

di nominare le cose con il loro nome naturale. Ovviamente<br />

l’esistenza di nomi naturali delle cose è un mito. Il problema<br />

è che per i quindicenni d’oggi il nome naturale del «pane<br />

e carne» è per l’appunto «hamburger». Esattamente come per<br />

molti pensionati il mondo è quella cosa che si vede in televisione<br />

e per molti single la verdura è quella cosa che si estrae dalle<br />

buste surgelate. Ne riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 66<br />

Saluti a tutti. Ultimo giorno nel quale vi parlo di supermercati.<br />

Voi tutti conoscete (se <strong>non</strong> li avete letti, sapete sicuramente<br />

che cosa sono) questi tre libri: Candido di Voltaire, Don Chisciotte<br />

di Cervantes, La signora Bovary di Flaubert. Ciò di cui forse <strong>non</strong><br />

vi siete accorti è che raccontano tutti e tre la stessa storia.<br />

In Candido c’è il filosofo Pangloss, che ha letto Leibniz e ne ha<br />

capita una cosa sola: che il mondo nel quale viviamo è il migliore<br />

dei mondi possibili. Del concetto dà l’interpretazione ottimistica<br />

(sapete la barzelletta: l’ottimista è convinto di vivere nel


migliore dei mondi possibili; e il pessimista, ahimè, anche lui) e periodicamente<br />

si impegna, soprattutto quando il gruppo dei protagonisti<br />

si trovi veramente nella merda, a dimostrare che meglio di così<br />

<strong>non</strong> poteva andare.<br />

In Don Chisciotte c’è un uomo che a forza di leggere romanzi cavallereschi<br />

s’è convinto che il mondo sia davvero tale e quale nei romanzi<br />

cavallereschi è descritto: perciò si procura un cavallo, uno<br />

scudiero, una lancia, un elmo, e se ne parte alla ricerca della bella<br />

Dulcinea del Toboso, combattendo contro giganti e maghi.<br />

Nella Signora Bovary c’è una povera donna che, insoddisfatta della<br />

vita in paese accanto al noiosissimo marito Charles, si rifugia<br />

nell’immaginario dei romanzi rosa: e quando trova un uomo che in<br />

quell’immaginario si muove a suo agio, se ne lascia manipolare.<br />

Questi tre libri raccontano dunque la stessa storia: la storia di chi<br />

sostituisce all’esperienza del mondo una immaginazione del mondo<br />

appresa dai libri. Che la fonte siano i saggi filosofici di Leibniz, i<br />

poemi cavallereschi o la letteratura rosa, la questione <strong>non</strong> cambia.<br />

Perché questi tre libri sono (per noi) interessanti? Perché noi consideriamo<br />

false le immaginazioni del mondo fornite da Leibniz, dalla<br />

letteratura cavalleresca e dalla letteratura rosa. Quindi troviamo<br />

drammatico il conflitto tra un personaggio portatore di un’idea di<br />

mondo falsa e il mondo (che noi riteniamo essere) vero.<br />

Ovviamente, se noi ritenessimo, d’accordo con Pangloss, che viviamo<br />

nel migliore dei mondi possibili; che la cavalleria è la vera sostanza<br />

del mondo; e che l’amore è quella cosa di cui parla nei romanzo<br />

rosa; <strong>non</strong> troveremmo per nulla interessanti questi tre libri.<br />

Anzi, ci darebbero <strong>non</strong> poco sui nervi.<br />

Bene.<br />

Ora, la domanda è: noi, in quale immaginazione del mondo viviamo?<br />

Se tra cent’anni un Voltaire, un Cervantes, un Flaubert volesse<br />

raccontare la nostra storia come storia di persone che vivevano<br />

dentro un’immaginazione falsa del mondo, quale sarebbe la fonte di<br />

questa immaginazione?<br />

106<br />

Di solito, quando nei miei laboratori di scrittura arrivo a fare<br />

questa domanda, la risposta è: «La televisione». In qualche caso<br />

la risposta è: «Il mercato».<br />

Facciamo conto che queste risposte siano giuste (<strong>non</strong> sono<br />

del tutto convinto che siano giuste; ma possono andare, almeno<br />

provvisoriamente). Allora dobbiamo immaginare che la televisione<br />

o il supermercato siano, per chi li frequenta patologicamente<br />

(sia chiaro: Pangloss, Chisciotte, Bovary, sono personaggi<br />

patologici), dei veri e propri sostituti del mondo.<br />

In questi giorni sto lavorando con una compagnia teatrale a<br />

un lavoro sui «miti nella contemporaneità» (ve ne parlerò nelle<br />

prossime settimane, perché è un lavoro molto istruttivo anche<br />

per me). Inevitabilmente sono saltati fuori la televisione e il supermercato.<br />

Nel mio lavoro di scrittura e nelle improvvisazioni<br />

degli attori si trovano battute di questo tipo:<br />

«Il supermercato è nella mia mente. La mia mente è il supermercato».<br />

«La mia televisione ha novecentonovantanove canali. La mia<br />

vita ha novecentonovantanove possibilità».<br />

Da cui risulta evidente che per i personaggi della pièce che<br />

stiamo costruendo (personaggi "smitizzati", alla ricerca di<br />

"nuovi miti") il supermercato o la televisione sono più o meno<br />

ciò che erano i libri di filosofia per Pangloss, i poemi cavallereschi<br />

per don Cisciotte, i romanzi rosa per la signora Bovary.<br />

L’importanza di libri come Candido, Don Chisciotte, La signora<br />

Bovary, sta proprio nell’averci restituito l’immaginario di un<br />

certo ceto sociale in una certa epoca e in un certo luogo. Sono<br />

libri realistici, addirittura iperrealistici, <strong>non</strong> perché ci descrivano<br />

accuratamente l’Europa dei tempi di Voltaire, la Spagna dei<br />

tempi di Cervantes, la provincia Francese dei tempi di Flaubert;<br />

tutt’altro; la vera Europa, la vera Spagna, la vera provincia Francese<br />

appaiono, in questi libri, solo come delle ombre o delle larve,<br />

destinate a soccombere difronte alla potenza dell’immaginario.


Anche la signora Bovary, tutto sommato, riesce a procurarsi una<br />

bella morte da eroina romantica.<br />

Non ho certo l’intenzione di sostenere che tutto ciò che fanno le<br />

narrazioni sia di restituire più o meno criticamente (tanto<br />

l’umorismo di Voltaire quanto la comicità di Cervantes o il minuzioso<br />

naturalismo di Flaubert sono operazioni critiche) gli immaginari<br />

collettivi: questa è una delle cose che le narrazioni fanno; ma mi<br />

sembra che sia una delle più importanti e che avvenga addirittura<br />

automaticamente, e spesso all’insaputa dell’autore. Quindi, tanto<br />

vale tuffarcisi dentro.<br />

Il problema è che esiste una vasta nube di discorsi vagamente sociologici/antropologici<br />

sul supermercato e sulla televisione. Qualunque<br />

intellettuale è pronto a dirvi che la televisione è brutta, fa schifo,<br />

rincretinisce la gente, e così via; e che il supermercato è brutto, fa<br />

schifo, rincretinisce la gente, e così via. Tuttavia questi discorsi,<br />

buoni per tutte le occasioni, sono generalmente accomunati da una<br />

spaventosa genericità.<br />

Che un telefilm come Giovanni e il Magico Alverman o Vacanze<br />

sull’isola dei gabbiani sia ciò che hanno in comune due quarantenni<br />

d’oggi, ossia letteralmente la lingua comune della quale essi possono disporre<br />

per parlarsi; e che esattamente la stessa funzione "accomunante", forse<br />

addirittura "comunitaria" possa essere svolta dalla Nutella o dai<br />

biscotti Bucaneve o dall’omino Bialetti: questo <strong>non</strong> è trascurabile.<br />

Noi, ci piaccia o <strong>non</strong> ci piaccia, siamo fatti di queste cose.<br />

Chiacchierata numero 67<br />

Oggi è lunedì 31 maggio 2004. Sono le undici e dieci del mattino.<br />

Entro mezzogiorno devo consegnare questo pezzo. È colpa mia, mi<br />

sono preso in ritardo. Avrei dovuto scriverlo e spedirlo venerdì<br />

mattina, così sarei partito per Tortona tranquillo tranquillo. Invece<br />

mi sono detto: «Ma no, dài, che mentre sono a Tortona lo trovo, il<br />

107<br />

tempo di scrivere il pezzo per Stilos. Lo trovo senz’altro». E in<br />

effetti il tempo l’avrei avuto. Non avevo invece un pc sul quale<br />

scriverlo e una connessione alla rete per spedirlo.<br />

Così, dopo aver finito di parlare di supermercati, e prima di<br />

cominciare a parlarvi del teatro, oggi mi prendo una pausa e vi<br />

parlo d’altro.<br />

Sono stato a Tortona, sabato 29 e domenica 30 maggio, per<br />

un cosiddetto corso di scrittura (organizzato da Marco Candida:<br />

http://marco2.clarence.com). In realtà siamo stati due giorni a<br />

fare esercizio di lettura su tre racconti e un frammento di romanzo.<br />

I racconti erano: «Gli amanti» di Federigo Tozzi (vedi la<br />

puntata 58), «Progetti per una visita a mia moglie» di Romolo<br />

Bugaro (da Indianapolis e altri racconti, Theoria) e la novella di Federigo<br />

degli Alberighi dal Decamerone del Boccaccio (giornata<br />

quinta, <strong>non</strong>a novella). Il frammento di romanzo era il capitolo<br />

14 di La donna di scorta di Diego De Silva (vedi la puntata 61).<br />

A me piace molto fare esercizi di lettura. Non si tratta di<br />

niente di speciale: si legge il testo (scelgo per lo più un racconto,<br />

tanto per avere una cosa di senso compiuto; oppure un passo<br />

da un romanzo noto a tutti, tipo I promessi sposi o Pinocchio; e cerco<br />

di proporre cose di autori italiani, tanto antichi quanto contemporanei),<br />

poi io faccio la domanda di rito («Che cosa ve ne<br />

pare, di questo che abbiamo letto?»), e si comincia a discutere.<br />

Il punto di partenza sono i giudizi di valore. «Bello». «Non mi<br />

è piaciuto». «Si sente che è un racconto di settant’anni fa» (che è<br />

un giudizio di valore, sebbene mascherato). «Un po’ legnoso».<br />

Oppure le reazioni emotive: «Che paura!». «Che mostro,<br />

quell’uomo». «Angosciante». «Mi sono commossa», e così via.<br />

In genere, nei corsi, le reazioni sono piuttosto libere. Quasi<br />

nessuno si fa scrupolo di dire che ciò che ho proposto <strong>non</strong> gli<br />

piace. (Io stesso cerco di <strong>non</strong> proporre cose troppo indiscutibili: è<br />

utile alla discussione che nel gruppo il testo proposto piaccia ad<br />

alcuni e ad altri no). Vedo che quando propongo Manzoni o


Boccaccio c’è chi alza gli occhi al cielo: ma credo che una delle mission<br />

(così si dice oggi, nevvero?) del mio lavoro sia anche quella di<br />

ricuperare i libri studiati a scuola a una lettura tranquilla, libera, disinibita,<br />

curiosa.<br />

Sui giudizi di valore (che sono sempre giudizi sintetici, complessivi)<br />

e sulle reazioni emotive (che in genere sono reazioni a un singolo elemento<br />

del testo letto) si può costruire la discussione. Basta che io dica:<br />

«Perché? Perché è bello, <strong>non</strong> ti piace, si sente che è di settant’anni<br />

fa, ti sembra legnoso? Perché hai avuta paura, quell’uomo ti<br />

è parso un mostro, ti è venuta l’angoscia, ti sei commosso?».<br />

Qui bisogna avere un po’ di pazienza. È più semplice formulare un<br />

giudizio sintetico che uno analitico. È difficile spostare la propria<br />

attenzione dal singolo elemento che ci ha colpiti fino a investire<br />

l’intero testo. Il mio lavoro, come conduttore del gruppo, consiste in<br />

due cose: guidare le persone a esplicitare i propri giudizi e le proprie<br />

reazioni, ad argomentare, a fornire gli esempi, a motivare; e tenere<br />

d’occhio quelle due o tre cose che si possono imparare da quel determinato<br />

testo (cioè: le due o tre cose di cui quel testo è un buon<br />

esempio). Lavoro quindi in parte improvvisando (certi testi suscitano<br />

pressappoco sempre le stesse reazioni: ma, appunto, pressappoco;<br />

uso regolarmente una certa batteria di testi, ma mi piace anche<br />

cambiarli, se <strong>non</strong> altro per <strong>non</strong> annoiarmi io stesso) e in parte secondo<br />

degli indirizzi che ho in mente.<br />

A Tortona, ad esempio (dove il gruppo era bello, vivace e vario)<br />

ho dovuto improvvisare parecchio. Il che è bene anche per me. La<br />

lettura è un esercizio continuo, e da un testo che si crede di conoscere<br />

a menadito (quante volte avrò proposto quel racconto di Bugaro?<br />

Forse una dozzina; e quello di Tozzi anche di più) possono<br />

sempre saltare fuori cose nuove.<br />

Ecco: tutto sommato, credo che l’insegnamento più importante<br />

che queste giornate di esercizio di lettura possono trasmettere, sia<br />

l’idea che la lettura è un lavoro inesauribile. A me fanno un po’ impressione<br />

le persone che leggono tanto, che leggono tutto. Per carità, <strong>non</strong><br />

108<br />

è che io legga sempre lo stesso libro. Ma credo che, dal punto di<br />

vista di chi vuole migliorare le proprie capacità di scrittura, <strong>non</strong><br />

sia così importante leggere tanti testi. È importante leggere con<br />

attenzione, è importante esercitarsi a capire che cosa avviene nel<br />

testo che si sta leggendo: e dico «che cosa avviene» intendendo<br />

<strong>non</strong> la trama e l’azione, ma tutto ciò che produce in noi giudizi<br />

e reazioni emotive.<br />

A me che voglio continuamente migliorare le mie capacità di<br />

scrittura, <strong>non</strong> serve tanto sapere se, poniamo, Tuo figlio di Gian<br />

Mario Villalta è un bel libro o no (è un bel libro, secondo me:<br />

pubblicato da Mondadori): mi interessa leggerlo, avere delle reazioni<br />

emotive, farmi un’opinione (un giudizio sintetico) e poi<br />

riflettere e discutere, discutere e riflettere, fintantoché <strong>non</strong> avrò<br />

capito quali cose, dentro il libro, producono in me il tal giudizio<br />

e le tali reazioni emotive (a me, ad esempio, Tuo figlio è sembrato<br />

un libro molto maschile; e devo ancora capire bene perché:<br />

sono sicuro che <strong>non</strong> è solo perché ci sono tanti personaggi maschi;<br />

e forse dovrei dire che mi sembra un libro, in effetti, più<br />

che maschile, virile…).<br />

Ma prima ho scritto: «Dal punto di vista di chi vuole migliorare<br />

le proprie capacità di scrittura…». Che <strong>non</strong> è il punto di vista<br />

di chi vuole godere della bellezza di un testo; né il punto di vista<br />

di chi vuole comprendere perfettamente un testo. Mi rendo<br />

conto che sembra poco credibile: ma le tre cose sono disgiunte.<br />

Volevo fare solo una pausa, ma mi sa che dovrò riprendere il<br />

discorso settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 68<br />

Dicevo settimana scorsa che leggere un testo per goderne la<br />

bellezza è cosa diversa dal leggerlo per migliorare le proprie capacità<br />

di scrittura. Analogamente, leggere un testo per goderne


la bellezza è cosa diversa dal leggerlo per comprendere un contesto<br />

letterario, storico, politico, sociale. Leggere I promessi sposi come episodio<br />

importante nella storia della formazione di una coscienza nazionale<br />

italiana, ad esempio, o all’interno del dibattito filosofico romantico<br />

su natura e scopi della storiografia e della letteratura, è altra<br />

cosa che leggere I promessi sposi per il piacere di leggerli.<br />

Potrei anche esagerare, e dire che leggere un testo per goderne la<br />

bellezza è cosa diversa dal leggerlo per capirlo.<br />

Nei mesi scorsi ho letti tutti i libri pubblicati in Italia di Thomas<br />

Pynchon, narratore statunitense. Pynchon è un cosiddetto narratore<br />

postmoderno; io ho fatta questa campagna di lettura perché dovrò<br />

seguire, nei prossimi mesi, come editor, la pubblicazione di un libro<br />

molto ma molto postmoderno. E, in somma, <strong>non</strong> posso lavorare su<br />

un libro se <strong>non</strong> conosco almeno decentemente la tradizione sulla<br />

quale si innesta.<br />

Gli amici mi avevano avvertito: «Attento: nei libri di Pynchon <strong>non</strong><br />

si capisce nulla». Io comincio a leggerli, ed effettivamente <strong>non</strong> capisco<br />

nulla. Leggo Mason & Dixon, leggo Vineland, leggo V., leggo<br />

L’incanto del lotto 49, leggo Entropia e, in coscienza, posso dire: <strong>non</strong> ci<br />

ho capito nulla.<br />

Tuttavia, questi libri li ho letti. Magari sbuffando e mandando al<br />

diavolo l’autore, ma li ho letti: trovandoci dentro pagine o episodi<br />

assai belli e divertenti e altre pagine o episodi da tagliarsi le vene<br />

(soprattutto in V., del quale mi sento di dire, alla fin fine, che è un<br />

libro proprio brutto: a parte le scene di ubriacature collettive e di rissa,<br />

nella quali Pynchon è un maestro). Quindi questi libri, pur senza<br />

che io ci capissi nulla, mi procuravano piacere. Ero capace di godermeli,<br />

magari solo a tratti, a pezzi, ma ero capace.<br />

Io sono un ragazzo diligente. Ma <strong>non</strong> sono uno di quelli che per<br />

principio finiscono tutti i libri che cominciano. No, no: se una cosa<br />

<strong>non</strong> mi va, la pianto lì. Dovevo conoscere una tradizione, è vero,<br />

leggevo per lavoro, ma alla meno peggio potevo farmela raccontare<br />

dai libri di storia della letteratura. Per ogni cosa c’è un bignami.<br />

109<br />

Finché sono arrivato all’ultimo romanzo, del quale sapevo che<br />

è considerato il capolavoro di Thomas Pynchon: L’arcobaleno<br />

della gravità. Che in effetti è lunghissimo (968 pagine: lo trovate<br />

nella Biblioteca Universale Rizzoli per appena 11 euro e 36), divertentissimo,<br />

bellissimo, e si capisce tutto.<br />

Mi sono domandato, ovviamente, se dell’Arcobaleno della gravità<br />

mi è sembrato di capire tutto perché è un libro di cui si capisce<br />

tutto; o perché è effettivamente un capolavoro rispetto al quale<br />

gli altri libri di Pynchon sono da considerarsi esperimenti, tentativi<br />

e fallimenti; o perché, dài e dài, ormai mi ero addestrato a<br />

leggere Pynchon. La risposta, secondo me, è la seconda.<br />

Leggendo L’arcobaleno della gravità il piacere è stato intensissimo.<br />

Certo: intensificato, rispetto alla lettura degli altri libri di<br />

Pynchon, dal sentirmi a mio agio, dalla sensazione di capire perfettamente<br />

che cosa mi stava accadendo davanti agli occhi. Ma<br />

avevo provato piacere, seppure <strong>non</strong> così continuativamente,<br />

anche leggendo gli altri libri.<br />

Sto andando fuori tema? Ma no, ci arrivo subito. Adesso, dovendo<br />

cominciare a lavorare su questo benedetto romanzo di<br />

tradizione postmoderno-pynchoniana, mi sono messo a rileggere<br />

l’Arcobaleno. Mi sono detto: «Bene. Sono diventato un lettore<br />

di questo genere di letteratura. Ho scoperto che mi piace pure.<br />

Ho letto questo romanzo come avrei letto un qualsiasi altro<br />

romanzo più tradizionale, con facilità e piacere. Adesso cerchiamo<br />

di capire come è fatto, o meglio: di capire come si fa a<br />

farlo, un romanzo così. Perché è di questo che ho bisogno, per<br />

lavorare su un romanzo che in qualche modo gli somiglia».<br />

Dal dire al fare, c’è di mezzo il mare. Sto sguazzando da un<br />

paio di mesi dentro l’Arcobaleno, e devo ammettere che no, <strong>non</strong><br />

ho ancora capito come si fa a fare un romanzo del genere. Saprei<br />

raccontarvelo, saprei descrivervelo minutamente, saprei<br />

spiegarvi un bel po’ di pieghe dell’intreccio e delle allusioni e dei<br />

giochetti linguistici scemi che Pynchon si diverte a disseminarci


dentro, eccetera, ma <strong>non</strong> saprei minimamente dirvi come si fa a fare<br />

un romanzo del genere.<br />

La differenza tra la comprensione della letteratura che si apprende<br />

a scuola, e quella che serve per produrre letteratura, è proprio questa.<br />

A scuola un bravo insegnante fa leggere, guida gli allievi al godimento<br />

della bellezza, e mostra loro come è fatto un testo. Qui si<br />

ferma. Ma del come si fa a farlo, un testo, per lo più <strong>non</strong> si parla. E,<br />

curiosamente, le relazioni tra come un testo è fatto e come si fa a<br />

farlo <strong>non</strong> sono poi tante.<br />

Provate a descrivere una bicicletta, un piatto di pasta alla Norma,<br />

un mattone, un cd-rom. Potreste riuscire a descriverli assai bene,<br />

spiegando la funzione di ciascuna delle parti che li compongono, e<br />

così via. Ma da qui a sapere come si fa a farli, c’è una bella distanza.<br />

E naturalmente, tutti questi oggetti, soprattutto la pasta alla Norma,<br />

è possibilissimo usarli senza capirli minimamente e senza avere la<br />

minima idea di come si fa a farli.<br />

Mi domando: ma perché ho tirato fuori questo discorso?<br />

L’altro giorno, durante la presentazione d’un libro, una signora del<br />

pubblico si rivolse a me (che facevo il bravo presentatore) e cominciò<br />

a contestarmi un’affermazione dicendo: «Si vede che lei legge<br />

poco». La signora è una signora che legge moltissima letteratura, sicuramente<br />

molta più di me (io leggo soprattutto d’altro). Ma il<br />

punto <strong>non</strong> è questo. Il punto è che questa signora e io, mentre parlavamo<br />

di un certo libro, sembrava addirittura che <strong>non</strong> parlassimo<br />

dello stesso libro. Non perché uno avesse capito, e l’altro no. No.<br />

Perché ne parlavamo da punti di vista completamente diversi: lei da<br />

analista di testi, io da produttore. Ma ci torneremo su.<br />

Chiacchierata numero 69<br />

L’apprendista teatrante, 1. Sono alla Corte ospitale<br />

(www.corteospitale.org) di Rubiera, un paesino tra Modena e Reggio<br />

110<br />

Emilia. La Corte ospitale è un antico edificio, molto semplice e<br />

molto bello, collocato su quella che un tempo era la via dei pellegrini<br />

che andavano a Roma. I pellegrini potevano trovarvi un<br />

giaciglio, del cibo, una stalla per i cavalli. Qualche anno fa<br />

un’illuminata amministrazione comunale ha deciso di ricuperare<br />

la Corte per collocarvi dentro delle attività culturali. Oggi vi<br />

hanno sede l’associazione di fotografi “Linea di confine per la<br />

fotografia contemporanea” (un gruppo di fotografi idealmente<br />

allievi di Luigi Ghiri), il Parco naturale del fiume Secchia, e un<br />

centro di produzione teatrale.<br />

Io sono qui perché il regista Franco Brambilla mi ha proposto<br />

di scrivere i testi per un’opera teatrale. Il debutto sarà al festival<br />

di Castiglioncello, il 15 luglio; il 25, 26 e 27 giugno si svolgeranno,<br />

nel chiostro della Corte, le cosiddette “prove aperte”.<br />

L’opera teatrale (<strong>non</strong> riesco a trovare parole migliori per definirla:<br />

<strong>non</strong> è né una commedia né una tragedia; forse si potrebbe<br />

dire che è un dramma allegorico) ha per ora questo titolo: Miti,<br />

oggi. Con Brambilla abbiamo cominciato a parlarne nel dicembre<br />

scorso. Abbiamo poi fatte due sessioni di lavoro con gli attori<br />

(Elsa Bossi, Tony Contartese, Anna Coppola, Sergio Paladino),<br />

ciascuna di due settimane circa. Ora stiamo provando.<br />

Per me si è trattato di un’esperienza del tutto nuova. Avevo<br />

già lavorato per il teatro: per Fantaghirò, una compagnia della<br />

mia città (Padova) che fa soprattutto, ma <strong>non</strong> solo, teatro per<br />

bambini e ragazzi. Per loro ho scritto: una riduzione del Mago di<br />

Oz di L. Frank Baum, una commedia originale intitolata Il mercato<br />

di Trella, e un atto unico ricavato da Uomini in fuga di Carlo<br />

Coccioli e destinato a una campagna per la prevenzione<br />

dell’alcolismo promossa dall’Arci. Ma con Fantaghirò il lavoro<br />

era stato assai diverso. C’erano delle esigenze narrative e didattiche<br />

ben precise: esigenze che, in realtà, facilitavano molto il<br />

lavoro. Io poi scrivevo, facevo, provavo, e la compagnia con


molta libertà riscriveva, tagliava, rifaceva. La situazione ideale per un<br />

principiante.<br />

Per questo Miti, oggi, invece, le cose sono state per me assai difficili.<br />

Si partiva da un tema, anziché da una storia; e su questo tema, per di<br />

più, <strong>non</strong> è che ci fosse un approccio unico. Per me, ad esempio, il<br />

mito è un’esigenza naturale della persona e delle collettività. La parola<br />

“mito” significa in origine: “narrazione”. I grandi miti sono le<br />

narrazioni delle origini (e della futura fine) del mondo; i piccoli miti<br />

sono le narrazioni delle origini di più o meno qualunque cosa: del<br />

cibo che si mangia, della medicina che si usa, di ogni uso e costume,<br />

della disposizione delle stanze nella casa, e così via. La cosiddetta civiltà<br />

occidentale sta tentando da qualche secolo (dall’Illuminismo in<br />

poi) di scacciare i miti dal proprio perimetro. Il territorio del mito si<br />

è oggettivamente ristretto, e sempre più spazio ha, nella nostra vita,<br />

la razionalità. O almeno così crediamo: io, personalmente, ci credo<br />

poco; credo piuttosto a un travestimento razionalistico del mito; e credo<br />

che potremmo vivere meglio se accettassimo l’idea che, si voglia o<br />

<strong>non</strong> si voglia, il mito scacciato dalla porta tende sempre a rientrare<br />

dalla finestra.<br />

A fronte di questo mio approccio alla faccenda, c’era chi invece<br />

stava nella posizione illuministica: secondo la quale il mito è ciò che<br />

impedisce all’uomo e alla collettività la precisa e veritiera conoscenza<br />

del mondo e delle cose; e la smitizzazione del mondo, con il conseguente<br />

progresso della scienza, è quanto di meglio l’Occidente abbia<br />

saputo offrire. Se poi alla fin fine, dopo avere ben bene smitizzato il<br />

mondo, ci si trova soli e nudi su questo pianeta vagante negli spazi<br />

siderei, bene: <strong>non</strong> sarà bello, ma è quel che è.<br />

L’elaborazione di un testo per questo spettacolo (scusate la lunga<br />

premessa: ma è necessaria per parlare di ciò che è il tema di queste<br />

chiacchierate) è avvenuta così. Prima abbiamo parlato, parlato, parlato.<br />

Ci siamo confrontati sui nostri diversi approcci al mito. Abbiamo<br />

pescato nei nostri immaginari e nelle nostre memorie, ricuperando<br />

avvenimenti, ricordi personali, storie, romanzi, film, pièce, nei<br />

111<br />

quali il mito (il bisogno di mito, il superamento del mito, la negazione<br />

del mito…) avesse importanza.<br />

Poi abbiamo presa una decisione: che l’opera teatrale avrebbe<br />

raccontata la storia di quattro personaggi (perché quattro sono<br />

gli attori) che si ritrovano all’improvviso senza-storia, senzamito,<br />

senza-cosmo. I quattro giungono ciascuno per conto<br />

proprio, secondo itinerari che <strong>non</strong> hanno importanza, a una casa.<br />

In questa casa si confronteranno: uno esibirà il proprio rifiuto<br />

del mito, come esperienza fallimentare; un altro esprimerà<br />

il proprio bisogno di mito e la propria disponibilità ad aderire a<br />

più o meno qualunque mito gli si presenti; un altro presenterà la<br />

propria nostalgia di un tempo in cui il mito c’era, era vivo e<br />

lottava insieme a noi; l’ultimo avrà invece un atteggiamento opportunistico:<br />

<strong>non</strong> disponibile ad aderire a un mito, ne riconoscerà<br />

tuttavia una certa qual indispensabilità, e tenterà di proporre<br />

un improbabile modo di credere ai miti per immaginazione: di<br />

crederci come si crede alla fortuna e alla sfortuna, alla possibilità<br />

di vincere al lotto, all’amore romantico, alla squadra del cuore:<br />

con l’immaginazione da una parte e la razionalità dall’altra.<br />

A questo punto, avevamo quattro personaggi e un’occasione<br />

di storia. Non avevamo però una storia. La storia, naturalmente,<br />

era il compito mio. Ma abbiamo deciso che ce ne saremmo occupati<br />

con calma. Intanto si trattava di definire meglio i personaggi.<br />

Abbiamo così prodotti, un po’ per scrittura mia e un po’<br />

con improvvisazioni degli attori, alcuni monologhi: <strong>non</strong> necessariamente<br />

destinati a entrare nel testo definitivo, ma utili per<br />

mostrare ogni personaggio in tutta la sua natura.<br />

Il séguito alla prossima puntata.<br />

Chiacchierata numero 70


L’apprendista teatrante, 2. Raccontavo, ormai due settimane fa, della<br />

mia pressoché prima esperienza dello scrivere per il teatro. Riassumo:<br />

mi sono trovato a lavorare per un regista (Franco Brambilla) e<br />

per quattro attori, sul tema generico Miti, oggi. Al centro della faccenda<br />

c’era dunque un tema, <strong>non</strong> una storia; c’erano comunque, necessariamente,<br />

almeno quattro personaggi. Il primo lavoro è stato:<br />

scrivere dei monologhi, delle sparate, dei dialoghi a due, per tentar<br />

di definire quale fosse la natura di ciascun personaggio.<br />

Due attrici, due attori. Uno degli attori, per scelta del regista, era<br />

un attore acrobata; e il progetto di scenografia prevedeva un grande<br />

trave in alto, appeso al quale l’attore avrebbe volteggiato, passeggiato<br />

a testa in giù, recitato e (eventualmente) cantato. Per amor di<br />

simmetria, decidemmo che una delle due attrici avrebbe abitato<br />

sotto il palco. Il palco diventava quindi un pavimento pieno di buchi.<br />

L’altro attore e l’altra attrice avrebbero posati i piedi per terra in<br />

modo normale. E fu abbastanza automatico pensare che questi due<br />

sarebbero stati una coppia: uno sposo e una sposa, un Adamo e una<br />

Eva, qualcosa del genere.<br />

Per l’attore acrobata (detto anche: l’uomo appeso) scrissi un monologo<br />

sull’osservazione (per trarne auspici) del volo degli uccelli.<br />

Per la sposa, scrissi invece una cosa che si chiamava: Osservazioni sul<br />

volo degli yogurt. L’idea era: trarre auspici dal volo degli uccelli significa<br />

pensare che nel mondo tout se tient, che l’universo è compatto e sensato;<br />

oggi però nessuno si mette a interpretare il volo degli uccelli;<br />

tutti, invece (e <strong>non</strong> credo che sia una cosa tanto diversa) interpretiamo<br />

gli andamenti dei mercati finanziari o le offerte speciali al supermercato.<br />

Al fondo, c’è sempre la convinzione (la speranza,<br />

l’illusione…) che ogni cosa nel mondo sia legata alle altre cose.<br />

Di questi due monologhi, nel testo finale, <strong>non</strong> è quasi rimasta traccia.<br />

Ma sono stati utili per mettere a fuoco i due personaggi<br />

dell’uomo appeso e della sposa; <strong>non</strong>ché per definire che cosa sarebbe<br />

materialmente successo sulla scena.<br />

112<br />

Sulla scena sarebbe successo questo: i personaggi avrebbero<br />

provato a dare corpo, con le parole e con l’azione, al loro bisogno<br />

di sentire che l’universo è compatto e sensato; avrebbero<br />

cercato quindi di allestire dei miti, di proporre degli atteggiamenti<br />

mitici, di agire come persone che credono a un mito.<br />

Tutti questi tentativi sarebbero stati fallimentari. Un loop, insomma:<br />

un continuo tentare e fallire.<br />

Non volevamo però produrre sulla scena eventi che rimandassero<br />

più che tanto a ciò che comunemente viene chiamato:<br />

mito. Non volevamo, in somma, né Deucalione e Pirra né i sette<br />

giorni della creazione; ma nemmeno i miti della rivoluzione<br />

proletaria o della parusia, del calcio o di Hollywood. Volevamo<br />

qualcosa di più elementare.<br />

Nelle infinite discussioni preparatorie, a un certo punto apparvero<br />

due parole chiave: deserto e Antigone. Deserto: nel primo<br />

film della trilogia Matrix, quando l’eroe finalmente riesce a sciogliersi<br />

dalla macchina e a giungere in quello che si suppone essere<br />

il mondo vero (e che naturalmente appare come un posto orrendo),<br />

viene accolto con una battuta sarcastica: “Benvenuto<br />

nel deserto del reale!”. La battuta è diventata anche titolo d’un<br />

libro del filosofo Slavoj Žižek (edito in Italia da Meltemi). Che<br />

cos’è, nell’interpretazione di Žižek, il “deserto del reale”? È,<br />

grosso modo, una sorta di reale puro, un reale difronte al quale<br />

siamo disarmati; un reale senza mito, senza fantasmi, senza<br />

ideologia, senza niente: nude cose, e stop. In questa idea di deserto<br />

abbiamo identificata la condizione di partenza dei nostri<br />

personaggi.<br />

Antigone: durante le improvvisazioni, quando i quattro attori<br />

(vita dura, quella dell’attore) stavano lì a pensare che erano in<br />

un deserto e dovevano inventarsi qualcosa da fare, a un certo<br />

punto saltò fuori il picnic. La cosa più elementare, appunto:<br />

siamo quattro, siamo qui, il primo passo per uscire dal deserto<br />

<strong>non</strong> può essere che quello di stabilire una minima relazione tra


noi; ed ecco, cos’altro possiamo fare se <strong>non</strong> mangiare insieme? E se<br />

<strong>non</strong> c’è niente da mangiare, <strong>non</strong> ha importanza: può essere più che<br />

sufficiente mimare un pasto insieme, mettere insieme qualcosa che<br />

potrebbe sembrare una tovaglia con qualcosa che potrebbe sembrare<br />

un piatto, sedersi uno vicino all’altro. Non è importante l’evento<br />

reale (che si mangi), è importante l’evento simbolico (siamo insieme<br />

per mangiare, per ricordare quando si mangiava, per profetizzare<br />

che mangeremo ecc.). Così i nostri personaggi diventavano quattro<br />

Antigoni a picnic: perché Antigone è colei che difende, anche a costo<br />

della vita, contro la realpolitik dello zio Creonte, il diritto di agire<br />

sempre e comunque secondo il volere degli dèi: anche se gli dèi, nel<br />

tempo della realpolitik, sono diventati irreali.<br />

La preparazione del picnic è diventata quindi il primo tentativo dei<br />

nostri quattro personaggi di evocare un mito, uno “stare insieme”<br />

antico (e magari iniziale) sul quale costruire.<br />

Naturalmente il tentativo fallisce: perché uno dei personaggi, la<br />

donna sotterrata, fa saltare tutto. Stiamo solo facendo finta, dice agli<br />

altri. Non è importante, le rispondono. E invece sì, dice lei, ciò che<br />

stiamo facendo <strong>non</strong> è reale. E insiste tanto, da disilludere anche gli<br />

altri.<br />

La seconda “azione mitica”, dopo il fallimento del picnic,<br />

l’abbiamo trovata nel dare i nomi alle cose (ciò che fece Adamo subito<br />

dopo essere stato creato). Lo sposo, sobillato dall’uomo appeso,<br />

crede di individuare nella donna sotterrata colei che può dargli<br />

l’autorità di dare il nome alle cose; la donna prima si rifiuta, poi alla<br />

fine (solo per levarsi di torno quel rompiballe di uno sposo) gli dà<br />

un nome derisorio, lo chiama appunto “Adamo”; lo sposo <strong>non</strong> percepisce<br />

la derisione, è tutto fiero del suo nome nuovo, si gonfia come<br />

un pavone, e istantaneamente battezza “Eva” la donna sotterrata;<br />

la quale, ovviamente, <strong>non</strong> gradisce affatto…<br />

Così, un po’ alla volta, abbiamo ideate le scene dello spettacolo.<br />

Ma del resto vi racconto tra una settimana.<br />

113<br />

Chiacchierata numero 71<br />

L’apprendista teatrante, 3. Con oggi finisco, spero, di raccontarvi<br />

questa mia breve avventura teatrale. A un certo punto avevamo,<br />

dunque: la storia (una storia piuttosto esile, trattandosi sostanzialmente<br />

d’un dramma allegorico), le scene, i raccordi tra le<br />

scene, più o meno tutto il testo. E c’erano lo spazio (un palco<br />

all’aperto, inclinato verso il pubblico, con sei buchi dai quali<br />

poteva andare e venire la donna sotterrata, e un arco metallico<br />

dal quale poteva andare e venire l’uomo appeso), le due attrici, i<br />

due attori.<br />

A quel punto, io sono entrato nel panico. Perché ho dovuta<br />

affrontare, di colpo, la grande differenza tra la pagina e la scena.<br />

Una volta ho scritto un racconto di venticinque pagine in cui<br />

da pagina uno a quattro raccontavo cose che avvenivano, al<br />

presente, in un tempo di circa sei minuti; da cinque a dodici<br />

raccontavo cose avvenute in un tempo precedente, nell’arco di<br />

circa undici anni; da tredici a sedici raccontavo cose che avveniva,<br />

al presente, in circa due ore; da diciassette a ventiquattro<br />

raccontavo cose avvenute in un tempo precedente, nell’arco di<br />

circa venticinque anni; nelll’ultima pagina raccontavo, al presente,<br />

cose avvenute in circa dieci minuti.<br />

Quanto si racconta sulla pagina, si fa sempre così. Il tempo è<br />

elastico, malleabile, disponibile a tutto. Si può andare avanti,<br />

andare indietro, ripetere, allungare, accorciare, manipolare, falsificare:<br />

si può fare tutto. C’è chi sostiene, addirittura, che<br />

l’invenzione del romanzo coincida, più o meno, con<br />

l’invenzione di questa inesauribile elasticità del tempo.<br />

Bene: sulla scena, è tutto diverso. Non dico che si debbano rispettare<br />

le classiche unità di tempo e di luogo. Ma c’è poco da<br />

fare: un’ora di scena racconta un’ora di tempo. Sì, d’accordo, si<br />

possono inventare degli stacchi, si può fare questo e quello. Ma,<br />

per esempio, il tempo va sempre avanti. E, cosa ancor più stu-


pefacente, viaggia alla stessa velocità per tutti i personaggi: mentre,<br />

nella narrazione sulla pagina, il tempo ha normalmente velocità diverse<br />

per ciascun personaggio.<br />

Un’altra volta ho scritto un racconto nelle cui prime tre pagine ho<br />

minuziosamente descritta l’abitazione del protagonista. Facevo una<br />

specie di lenta carrellata lungo le pareti; poi concludevo con uno zoom<br />

indietro grazie al quale l’abitazione, composta di un unico locale, appariva<br />

finalmente tutta intera, e uno zoom avanti che terminava su un<br />

primo piano del protagonista, seduto al suo tavolo al centro della<br />

stanza.<br />

Ho usati termini tecnici del cinema: carrellata, zoom indietro,<br />

zoom avanti. E infatti il cinema somiglia molto di più alla narrazione<br />

sulla pagina che alla narrazione sulla scena teatrale. Il cinema ha,<br />

esattamente come la narrazione sulla pagina (scritta, ma anche disegnata:<br />

i fumetti), la possibilità di produrre focalizzazioni precisissime.<br />

Pensate, ad esempio, alla scena d’apertura di Donne sull’orlo di una crisi<br />

di nervi di Pedro Almodòvar: la cinepresa si muove più o meno come<br />

si muoveva il mio occhi nel racconto di cui sopra, e si fermava su un<br />

primo piano di un’arancia, enorme in tutto lo schermo.<br />

Bene: sulla scena teatrale, è ancora tutto diverso. Certo: i gesti, le<br />

luci soprattutto, possono "ritagliare" lo spazio, concentrare<br />

l’attenzione su questo o quel particolare od oggetto. Ma se anche io<br />

piombo la scena nell’oscurità, e lascio solo una luce che illumini il<br />

teschio sulla mano protesa di Amleto, ho sì una focalizzazione<br />

molto intensa: ma <strong>non</strong> ho, per così dire, un teschio grande come<br />

tutto uno schermo da cinema.<br />

Per di più, il regista era fermamente intenzionato a far restare gli<br />

attori in scena per tutto il tempo. Sì, ogni tanto l’uomo appeso si<br />

appartava là in cima, ogni tanto la donna sotterrata si sotterrava per<br />

qualche momento: ma lo sposo e la sposa, ad esempio, erano sempre<br />

lì. Magari si appartavano, si sedevano su una chaise-longue o sulla<br />

sedia volante (c’era una sedia volante, in scena), si facevano per un<br />

po’ i fatti loro: ma, alla fin fine, erano sempre tutti lì.<br />

114<br />

E così ho assistito, con crescente ammirazione, a quel lavoro<br />

che il regista chiamava: "montaggio". Una cosa molto semplice:<br />

un po’ alla volta, attraverso pazientissime ripetizioni (ho scoperte<br />

le doti fondamentali dell’attore: memoria gestuale e pazienza)<br />

il tempo di ciascun attore veniva riempito. Era come se<br />

il regista avesse in corpo un metronomo (e difatti, lo scartafaccio<br />

sul quale l’assistente registrava passi, intonazioni, gesti, velocità<br />

eccetera, lo chiamava partitura), una sensibilità minuziosissima<br />

per il tempo. E vedevo che, pian piano, davvero il tempo<br />

si riempiva. Quando abbiamo fatte, una settimana fa, le prime<br />

prove aperte, il pubblico ha visto uno spettacolo ancora in fieri,<br />

largamente imperfetto (anche sul piano del testo), ma comunque<br />

metronomicamente esatto. Su quel palco, ciascuno degli<br />

attori stava per un’ora e cinque: e viveva per un’ora e cinque,<br />

senza buchi, senza rallentamenti (e senza, intendiàmoci, irragionevoli<br />

accelerazioni).<br />

Mi viene in mente quello che scrivevo, qualche settimana fa, a<br />

proposito del dialogo (dalla puntata 55 alla puntata 63). Raccomandavo<br />

insistentemente la rapidità delle battute, la connessione<br />

tra battute e gesto, il controllo del tempo, e così via. Ho<br />

scoperto nei giorni scorsi che scrivere un buon dialogo interno<br />

a una narrazione è uno scherzo, rispetto allo scrivere una scena<br />

per il teatro: e questo <strong>non</strong> perché nel teatro bisogna far passare<br />

quasi tutto nella parola detta dai personaggi; ma perché, appunto,<br />

nel teatro il tempo e la focalizzazione funzionano in<br />

modo completamente diverso.<br />

Sulla base di quest’unica esperienza <strong>non</strong> posso certo permettermi<br />

di dispensare consigli. Ma mi sento di dire (ne ho parlato<br />

a lungo, ovviamente, con Franco Brambilla, regista dello spettacolo)<br />

che le cose da apprendere, da sperimentare, sono appunto<br />

queste: tempo e focalizzazione. E sospetto che ci sia un sistema<br />

solo: provare e riprovare, guardar lavorare chi già sa. Grazie alla


Corte ospitale (www.corteospitale.org), produttrice dello spettacolo,<br />

ho avuta questa opportunità. Tutta la mia gratitudine.<br />

Chiacchierata numero 72<br />

I mestieri dello scrittore, 1. Quando, terminata la conferenza sulle magnifiche<br />

sorti e progressive della narrativa italiana, andiamo tutti<br />

all’osteria a bere qualcosa (io, ad addentare un panino: in corpo ho<br />

solo il caffè delle sei di mattina), il signore con la barba a un certo<br />

punto dice: «Eh, beato lei!».<br />

«Beato perché?», domando.<br />

«Perché fa la bella vita!», dice sorridendo il signore con la barba.<br />

«Se ne sta sempre tranquillo, nella sua cameretta, a scrivere, si perde<br />

nelle sue fantasie…».<br />

«Veramente», dico, «in questo momento la mia cameretta è distante<br />

tre ore e mezza di treno».<br />

Arrivano le birre.<br />

«Ma sì», insiste sempre sorridendo il signore con la barba, «lei gira<br />

il mondo, oggi qui, domani là, senza pensieri…».<br />

«Si decida», dico. «Lei mi immagina sempre chiuso nella mia cameretta<br />

o sempre in giro per il mondo?».<br />

Il signore con la barba ha un attimo di esitazione.<br />

«Be’», dice, «un po’ questo e un po’ quello. Fatto sta che è una<br />

bella vita, no?».<br />

«Ah», dico, «che sia bella <strong>non</strong> discuto. È comunque la vita che mi<br />

sono cercato. Ma che sia bella per quelle ragioni lì, ne dubito».<br />

Il signore con la barba decide che lo sto provocando, e fa la faccia<br />

un po’ incazzata.<br />

«Insomma, mi dica», dice, «mi dica che cosa vuole dire».<br />

«Voglio dire», dico, «che la mia vita è una vita abbastanza comune.<br />

Un po’ lavoro in casa, parecchio vado in giro. Andare in giro <strong>non</strong> è<br />

particolarmente distensivo: pensi lei, oggi ho preso il treno alle tre e<br />

115<br />

quaranta, grazie a un po’ di ritardo sono arrivato che erano quasi<br />

le otto, alle otto e mezza ero già nella sala della conferenza.<br />

Domani ho il treno alle sei e un quarto…».<br />

«Ma chi gliela fa fare», mi interrompe il signore con la barba,<br />

visibilmente seccato. «Può partire anche un po’ più tardi, no? O<br />

lo fa apposta per farsi compatire?».<br />

I compagni di tavolata, mi accorgo, sono tutti zitti. Stiamo<br />

dando spettacolo.<br />

«Posso partire alle dieci e mezza», dico. «Però poi ho un problema<br />

col cambio, e il viaggio mi dura quasi un’ora di più, arrivo<br />

alle tre del pomeriggio. Invece partendo alle sei e un quarto<br />

posso far conto di essere a casa per le dieci e mezza: ho ancora<br />

mezza mattinata che posso lavorare».<br />

«E che lavoro fa?», domanda il signore con la barba.<br />

«Secondo lei», domando io a lui, «quello che ho fatto questa<br />

sera è lavoro o no?».<br />

Rimane un attimo interdetto.<br />

«No», dice. «Lei questa sera si è limitato a parlare delle cose<br />

che sa».<br />

«Quindi <strong>non</strong> è lavoro?».<br />

«No», dice il signore con la barba tutto soddisfatto.<br />

«Quindi», riepilogo pedantemente, «uscire di casa alle tre del<br />

pomeriggio, prendere l’autobus, arrivare in stazione, fare un tot<br />

di ore di treno, saltare la cena, parlare per due ore di cose che<br />

so», e qui calco la voce, «perché le ho studiate, cenare con un panino<br />

all’osteria, dormire in pensione, ripartire alle sei e un quarto<br />

di mattina, eccetera: questo, per lei, <strong>non</strong> è lavorare? Non è fatica?».<br />

Sono stato troppo pedante. Gli ho dato il tempo di preparare<br />

una risposta pronta.<br />

«Non dico che <strong>non</strong> è fatica», dice. «Ma <strong>non</strong> è lavoro».<br />

«Che cosa è lavoro?», domando subito.


«Lavoro è…», e si perde per due, tre, quattro secondi. Ma si riprende.<br />

«Lavoro è produrre».<br />

«E io <strong>non</strong> ho prodotto niente».<br />

«Ha solo parlato».<br />

«Lei, adesso, dopo avermi sentito parlare», dico, «ha l’impressione<br />

di saperne un po’ di più sulla narrativa italiana?».<br />

«So quello che mi ha detto lei», dice diffidente il signore con la<br />

barba. «Solo quello che mi ha detto lei».<br />

«Lei pensa che io abbia raccontate panzane?», domando diretto.<br />

«No», dice il signore con la barba, con la faccia di chi avrebbe voglia<br />

di dire «Sì», ma <strong>non</strong> ne ha il fegato.<br />

«Lei pensa che io abbia raccontate cose che <strong>non</strong> servono a niente?»,<br />

insisto, prevedendo la risposta.<br />

«Sì, ecco», dice il signore con la barba, dicendo la risposta prevista.<br />

«Non è che sia proprio una cosa che serve a tanto, la letteratura».<br />

«Quindi lei dice che quello che io faccio, qualunque cosa faccia»,<br />

dico, «<strong>non</strong> è un lavoro, perché <strong>non</strong> serve a niente?».<br />

«Sì», dice.<br />

Lo guardo bene fisso in faccia.<br />

«Cioè», comincia a dire, «<strong>non</strong> è che voglio dire…».<br />

Lo interrompo alzando entrambe le mani. «Non voleva dire quello<br />

che ha detto?».<br />

«Sì», dice, «no…».<br />

«Lei perché è qui?», gli domando.<br />

«Come, perché sono qui?», mi domanda.<br />

«Le chiedo perché è qui», insisto. «Perché è venuto alla conferenza<br />

stasera, perché si è anche fermato qui, ora, all’osteria».<br />

«Ma», abbozza, «perché pensavo che lei fosse una persona interessante».<br />

«E lo sono?», domando sorridendo, più ingenuo che posso.<br />

«Ma che cosa vuole da me?», dice l’uomo con la barba, alterandosi,<br />

alzando un po’ la voce.<br />

116<br />

«Ma», dico allargando le braccia, «lei viene qui a dirmi che la<br />

cosa alla quale ho dedicata la mia esistenza è una cosa che <strong>non</strong><br />

serve a niente, e io sono curioso di sapere perché lei», e gli<br />

punto l’indice destro sul petto, «perché lei viene fin qui a sentire<br />

uno parlare di una cosa che <strong>non</strong> serve a niente».<br />

«Lei è un maleducato», dice il signore con la barba.<br />

«Può darsi», dico. «Ma ha cominciato lei».<br />

«Cominciato cosa?», quasi grida l’uomo con la barba.<br />

«Ha cominciato lei», dico ripigliando il tono pedante, «a scocciarsi<br />

perché la mia vita è fatta in un certo modo, cioè è una vita<br />

di lavoro come quella di tutti, mentre lei avrebbe preferito (e<br />

perché lo avrebbe preferito, io <strong>non</strong> lo so) che la mia vita fosse<br />

fatta in un altro modo, fosse stata una bella vita, tutta consacrata<br />

all’arte e ai godimenti…».<br />

«Io <strong>non</strong> ho detto questo!», dice secco l’uomo con la barba.<br />

«Ah no?», dico con il tono del finto tonto.<br />

A questo punto, dopo avere assistito all’escalation senza sapere<br />

bene che fare, intervengono i compagni di tavolata, in primo<br />

luogo l’organizzatore dell’incontro. L’uomo con la barba cambia<br />

platealmente posto, va a mettersi quattro sedie più in là. Intanto<br />

arriva il mio panino, comincio a masticare.<br />

L’organizzatore si scusa, io gli dico tra un boccone e l’altro che<br />

<strong>non</strong> c’è nulla di cui si debba scusare. Dopo un po’ l’uomo con<br />

la barba si alza, lascia cinque euro sul tavolo, se ne va salutando<br />

vagamente e dirigendo lo sguardo ovunque tranne che dalla mia<br />

parte.<br />

Io penso: «Anche oggi mi sono guadagnata la giornata».<br />

Chiacchierata numero 73<br />

I mestieri dello scrittore, 2. Mercoledì scorso a Milano ho fatto<br />

conoscenza con Gianni Biondillo, autore di Per cosa si uccide


(Guanda), che è un libro assai divertente e piacevole da leggere:<br />

quattro storie poliziesche milanesi, un commissariato di periferia, dei<br />

poliziotti sgangherati, un veloce alternarsi di scene da ridere (se vi<br />

piacciono le freddure loffie), da commuoversi di brutto e da stare<br />

col fiato sospeso. Ma <strong>non</strong> ho conosciuto Gianni Biondillo nella sua<br />

qualità, per così dire, di "scrittore": l’ho conosciuto nella sua qualità<br />

di architetto. Gianni Biondillo, infatti, è un giovane (e cordialissimo)<br />

architetto.<br />

Mentre pranzavamo al ristorante cinese (menù fisso, 6 euro a testa:<br />

un involtino primavera, un riso da scegliere tra quattro tipi, un piatto<br />

di carne da scegliere tra dodici tipi, acqua, caffè) s’è parlato della ragione<br />

del nostro incontro (mi sto interessando a una villa forse progettata<br />

da Gio Ponti, a Sermide, in provincia di Mantova; abbandonata<br />

da vent’anni, e che forse varrebbe la pena di ricuperare; e<br />

Gianni si era interessato al mio interessamento); ma, ovviamente, s’è<br />

parlato anche d’altro.<br />

A un certo punto Gianni Biondillo ha detto: «Dopo che ho pubblicato<br />

il libro, qualche mese fa, mi è successo più volte di sentirmi<br />

dire dagli amici: ma come, hai pubblicato un libro, fai ancora<br />

l’architetto? Perché l’idea corrente è questa: che chi pubblica un libro,<br />

diventa istantaneamente miliardario».<br />

Più o meno una volta la settimana parlo (o mi scambio email) con<br />

qualche giovinotto di belle speranze che dice, chiaro e netto: «Voglio<br />

diventare uno scrittore professionista». Dove «professionista»<br />

significa, secondo me (e anche secondo loro): che vive del proprio<br />

lavoro di scrittura. E, tra l’altro, che ci vive anche bene: i «professionisti»<br />

sono persone come gli avvocati, i notai, i commercialisti; nella<br />

parola «professionista» è implicita, mi pare, l’idea di qualcuno che<br />

guadagna bene.<br />

Io vivo di parecchi lavori. Il principale, oggi, è il contratto di collaborazione<br />

coordinata e continuativa con l’editore Sironi. Il mio<br />

compito è trovare buone opere di narrativa italiana da pubblicare.<br />

117<br />

Poi, vabbè, essendo l’azienda un’azienda piccola, si finisce col<br />

fare tante cose. Da lì viene circa la metà di quanto mi serve per<br />

campare.<br />

Faccio corsi e laboratori di scrittura e narrazione. Per un certo<br />

periodo ho vissuto solo di quelli. Lavoravo furiosamente, saltavo<br />

da una città all’altra. Sono arrivato a fare addirittura 28 ore<br />

settimanali in aula (che, sommate alle ore necessarie per preparare<br />

le lezioni, sono una bella botta). Oggi sto cercando di diminuire<br />

questi impegni.<br />

Ci sono anche gli inviti estemporanei. Mi chiamano qua e là<br />

per una conferenza, una lettura, un incontro con una classe o<br />

con i frequentatori di una biblioteca. Ogni invito è un viaggio,<br />

ogni viaggio è un piccolo introito. In qualche caso molto piccolo,<br />

in qualche caso (raro) assurdamente alto. A volte mi viene<br />

chiesto addirittura di organizzare degli eventi, e allora può essere<br />

divertente: ma, quando si organizza, si finisce con lo sfacchinare<br />

tantissimo.<br />

Ci sono i lavori con i miei amici architetti e fotografi. Si tratta<br />

sostanzialmente di fare descrizioni di luoghi. Una volta l’anno,<br />

un lavoro di questi càpita. Ci si prende di più o di meno, a seconda.<br />

Poi, ogni anno c’è qualcosa di speciale. Quest’anno c’è stato il<br />

lavoro per il teatro, del quale vi ho raccontato fin troppo nelle<br />

scorse settimane. L’anno scorso fu un lavoro assai interessante<br />

per l’Istituto trentino di cultura: si trattava di scrivere una storia<br />

a partire da un affresco allegorico; questa storia sarebbe poi<br />

stata messa in musica da un compositore… Mi divertii molto.<br />

La cosa speciale è di solito la cosa più bella dell’anno, la più<br />

istruttiva.<br />

Qualche giorno fa, discutendo in un blog, un certo Massimo<br />

mi ha buttato là: "È vero che se fosse solo per i libri pubblicati,<br />

voi scrittori fareste la fame?". Be’, io sicuramente sì. Pubblico


libri dal 1993: dal 1993 a oggi ho guadagnato, in diritti d’autore, circa<br />

31 mila euro: 2.700 euro l’anno (lordi, s’intende).<br />

I miei guadagni annui totali corrispondono, tanto per dare un’idea,<br />

a una remunerazione mensile netta (pagate le tasse, le spese per la<br />

produzione del reddito, gli innumerevoli viaggi, l’Inps) di circa<br />

1.500/1.600 euro, per dodici mensilità. Non calcolo, per principio,<br />

tra le «spese per la produzione del reddito», le spese per acquisto di<br />

libri; ci calcolo invece la bolletta del telefono (che due bimestri fa ha<br />

sfiorato i 600 euro).<br />

La maggior parte dei miei amici narratori campa onestamente (spero)<br />

del suo lavoro: che siano architetti o avvocati, pubblicitari o cassieri<br />

di supermercato, professori o maestri, proiezionisti o callcentristi,<br />

funzionari dell’Usl, di banca o di qualche ministero. C’è una prevalenza<br />

di professioni intellettuali, com’è ovvio (nota: come è ovvio,<br />

<strong>non</strong> come è giusto). Quasi tutti vogliono bene al loro lavoro; qualcuno<br />

preferirebbe farne un altro; qualcuno vorrebbe guadagnare un<br />

po’ di più faticando un po’ di meno; qualcuno preferirebbe <strong>non</strong> lavorare:<br />

c’è, in somma, la varietà di opinioni che si può trovare in<br />

qualunque bar.<br />

Due di loro stanno tentando di vivere di sola scrittura. Entrambi<br />

hanno scelto di vivere molto modestamente, perché solo vivendo<br />

molto modestamente possono assicurare a sé stessi la propria libertà.<br />

Io ho scelto di campare di cose tutte connesse con la scrittura e la<br />

narrazione; ma per me è importante campare di diverse cose. Se, per<br />

dire, io dipendessi in tutto e per tutto dai diritti d’autore, mi sentirei<br />

(e sarei effettivamente) ostaggio del mio editore. Se dipendessi in<br />

tutto e per tutto dall’editore Sironi, mi sentirei a disagio (anche se lì<br />

ho incontrate alcune tra le migliori persone che io abbia incontrate<br />

in vita).<br />

Io credo, sinceramente, che l’autonomia di una persona sia soprattutto<br />

(qui, dalle nostre parti, almeno) autonomia economica. E<br />

credo che, uno scrittore, questa autonomia dovrebbe cercarsela.<br />

118<br />

Ne riparliamo.


Chiacchierata numero 74<br />

I mestieri dello scrittore, 3. Qualche sera fa un cosiddetto giovane<br />

scrittore, ossia un ragazzo che qualche mese fa ha pubblicato un<br />

romanzo presso una casa editrice dignitosa, mi ha detto:<br />

«Ma, secondo te, io dovrei mettermi a fare tutte quelle cose che<br />

fanno gli altri?».<br />

Erano le dieci e mezza di sera. Eravamo seduti sul bordo del marciapiede,<br />

fuori da un cinema. Aspettavamo un amico che ci lavora, e<br />

che circa a quell’ora doveva finire di lavorarci, per fare quattro passi<br />

e bere qualcosa di fresco.<br />

«Quali cose?», gli ho detto.<br />

Il giovane scrittore, questo va precisato, tende a rivolgersi a me più<br />

o meno come se io fossi uno scrittore anziano. Si aspetta sempre che<br />

io trovi delle risposte risolutive.<br />

«Ma sì», ha insistito, «quelle che fanno tutti gli altri scrittori».<br />

«Tipo?».<br />

«Scrivere nei giornali, collaborare con le case editrici, lavorare per il<br />

cinema, andare in televisione… Quelle cose lì».<br />

«Be’», ho detto, «<strong>non</strong> è che siano cose obbligatorie. Non è che se<br />

<strong>non</strong> le fai <strong>non</strong> sei un vero scrittore».<br />

«Giulio, ascolta, <strong>non</strong> è questione di essere o <strong>non</strong> essere un vero<br />

scrittore. È questione di soldi».<br />

«Ah», ho detto. (E ho pensato: "Come se <strong>non</strong> lo sapessi"). «Ma, sì,<br />

sicuramente, a fare quelle cose lì ci si guadagna, a volte anche seriamente».<br />

«Per esempio, a scrivere nei giornali?».<br />

«Quello <strong>non</strong> lo so», ho detto.<br />

«Ma tu <strong>non</strong> scrivi nei giornali?».<br />

«Io scrivo per il supplemento letterario di un quotidiano siciliano.<br />

Faccio una rubrica, una volta alla settimana».<br />

«Ecco. E quanto prendi?».<br />

119<br />

«Niente», gli dico. «Non prendo niente, perché è già un miracolo<br />

che quel supplemento letterario esista. Il giornalista che<br />

l’ha inventato se lo deve difendere con i denti. Dovesse anche<br />

pagare tutti i collaboratori, chiuderebbe subito».<br />

Il giovane scrittore è perplesso.<br />

«Ma tu, allora», dice, «perché hai accettato di scriverci gratis?»<br />

«Perché quel supplemento letterario mi piace. Perché il giornalista<br />

che se l’è inventato mi è sembrato un giornalista bravo.<br />

Perché mi lascia parlare di cose che mi interessano e nel modo<br />

che più mi piace. Ti basta?».<br />

Il giovane scrittore tace. Ha capito perfettamente, ma si vede<br />

che questa cosa del gratis <strong>non</strong> gli va tanto giù.<br />

«E le collaborazioni con gli editori?», ripiglia.<br />

«Guarda», gli dico, «io lavoro con un editore serio dal 2001.<br />

Ho un contratto da cococò, e ci tiro fuori più o meno metà di<br />

quello che mi serve per campare. Però era dal 1996, che cercavo<br />

di lavorare per un editore. Ci ho provato e ci ho riprovato, e poi<br />

ho rinunciato. Nel momento in cui ho rinunciato, un editore al<br />

quale mai e poi mai avrei pensato mi ha telefonato».<br />

«Hai fatto una frase con un sacco di ato», dice ridendo il giovane<br />

scrittore.<br />

Rido anch’io. Tiriamo fuori le sigarette. Fumiamo le stesse: io<br />

la versione strong, lui quella light. Ma lui ne fuma il triplo di me.<br />

«Insomma», riprende, «è difficile lavorare per gli editori».<br />

«Guarda, proprio <strong>non</strong> saprei se è difficile», dico. «Persone che<br />

mi chiedono come si può fare a entrare in una casa editrice, ce<br />

n’è tante. A tutte mi tocca rispondere: <strong>non</strong> lo so. Insistendo,<br />

ecco: insistendo».<br />

«Ma anche cose da poco, tipo leggere dattiloscritti, correggere<br />

bozze, fare l’editor, cose così».<br />

Mi rendo conto che il giovane scrittore, pur avendo pubblicato<br />

il suo libro per una casa editrice dignitosa, <strong>non</strong> ha ben capito<br />

quali sono le professionalità dentro una casa editrice. Ma


<strong>non</strong> ho voglia di profondermi in spiegazioni: è mercoledì, sono<br />

ormai le undici di sera, siamo seduti in braghette corte sull’orlo del<br />

marciapiede, fumiamo, e siamo sudati come bestie. La vita ha le sue<br />

esigenze.<br />

«Per un certo tempo ho letto dattiloscritti per conto di Einaudi»,<br />

ho detto. «Dovevo leggere, e poi scrivere una scheda di valutazione<br />

secondo un certo schema. Mi davano centomila lire a dattiloscritto».<br />

«Così poco?».<br />

«Lorde», sottolineo. «Centomila lorde».<br />

«Ma <strong>non</strong> è giusto!», insorge il giovane scrittore. Si alza in piedi,<br />

butta la sigaretta, la schiaccia sotto il tacco. Noto la cosa. Io, le sigarette,<br />

le ho sempre schiacciate sotto la punta.<br />

«Giusto o <strong>non</strong> giusto», dico, «<strong>non</strong> è che gli altri editori, che io sappia,<br />

pagassero di più».<br />

«È una miseria», afferma deciso il giovane scrittore.<br />

«Fa’ un po’ di conti», gli dico. Ho finita la sigaretta anch’io. La lancio,<br />

becco giusto il tombino. «Per l’esperienza che ho io, i libri pubblicabili,<br />

tra i dattiloscritti che arrivano nelle case editrici, sono più o<br />

meno uno o due su mille».<br />

«Stai scherzando».<br />

«Intendo tra quelli che arrivano dal nulla. Quelli segnalati da agenti,<br />

da altri scrittori, eccetera, quella è un’altra cosa: <strong>non</strong> è tutto oro, figuriàmoci,<br />

ma la percentuale di cose interessanti è più consistente.<br />

Però, tra quelli che arrivano dai perfetti sconosciuti, pubblicabili sono<br />

uno o due su mille. Chiaro?».<br />

«Chiaro».<br />

«Quindi, se ciascuno di questi mille dattiloscritti viene letto, e se<br />

per ciascuna lettura si spendono centomila lire, ossia cinquantadue<br />

euro…».<br />

«Fanno cinquantaduemila euro».<br />

«Naturalmente, alcuni di questi dattiloscritti potranno <strong>non</strong> essere<br />

letti, perché magari arrivano da pazzi riconosciuti, o perché ci si accorge<br />

a pagina due che l’autore <strong>non</strong> sa nemmeno dove stanno di ca-<br />

120<br />

sa la grammatica e la sintassi; altri invece potranno essere letti<br />

due volte, tre volte, da persone diverse, nel corso della procedura<br />

di selezione. Chiaro?».<br />

«Chiaro».<br />

«Bene», dico accendendo un’altra sigaretta. «Ho fatto un po’ di<br />

conti, e secondo me quel singolo dattiloscritto che si pubblica,<br />

che diventa un libro, viene a costare all’incirca sessantacinquemila<br />

euro».<br />

«Come, viene a costare?…».<br />

«Sì: si spendono sessantacinquemila euro per scegliere un dattiloscritto<br />

in mezzo ad altri mille. Capisci che, se si pagasse di<br />

più per ogni lettura, i costi salirebbero ancora…».<br />

Il giovane scrittore è in trance. So benissimo a cosa sta pensando.<br />

Sta pensando ai pochissimi euro che gli sono stati dati<br />

per il libro che ha fatto. Si sta rendendo conto, all’improvviso,<br />

di quanti soldi ci siano dietro i suoi pochi soldi.<br />

In quel momento, l’amico che aspettavamo, è uscito. Siamo<br />

andati a bere qualcosa di fresco.<br />

Chiacchierata numero 75<br />

I mestieri dello scrittore, 4. «In somma», dice il giovane scrittore<br />

mentre ci dirigiamo verso le piazze (sono le undici di sera passate,<br />

fa un’afa collosa, siamo in cerca di una bevanda fresca), «io<br />

<strong>non</strong> dico che ci voglio vivere, facendo lo scrittore, ma portare a<br />

casa un guadagno decente, ne avrò il diritto, no?».<br />

No, mi viene da dirgli. Il diritto no.<br />

«Senti», gli dico invece, «di diritti d’autore io <strong>non</strong> ho mai campato;<br />

<strong>non</strong> sono mai stato capace di vendere più che tanto; <strong>non</strong><br />

ho mai fatto né film né programmi televisivi; <strong>non</strong> ho collaborazioni<br />

lussuose con quotidiani e mensili illustrati…».<br />

«No», mi interrompe il giovane scrittore, «<strong>non</strong> volevo dire…».


«Aspetta», gli dico. «Il punto è: se c’è qualcuno che <strong>non</strong> è in grado<br />

di darti consigli precisi, in questa materia, quello sono io. Tu vedi<br />

come campo: corro di qua e di là, un contrattino su, un contrattino<br />

giù, e metto insieme la mesata. Vuoi campare come me?».<br />

«No. Io voglio scrivere».<br />

«Perfetto», dico. «Allora <strong>non</strong> prendere esempio da me».<br />

Il terzo amico che è con noi, è lui pure un cosiddetto giovane<br />

scrittore; anche se <strong>non</strong> è più tanto giovane, visto che va per la quarantina;<br />

ma ha pubblicato un libro, un primo libro, circa un anno fa,<br />

e quindi anche lui è un giovane scrittore.<br />

«Ascolta», dice il terzo amico, «se vuoi stare tranquillo, tròvati un<br />

lavoro».<br />

Lui, naturalmente, un lavoro ce l’ha; anzi ne ha due. Di pomeriggio<br />

fa il cassiere in un ipermercato, di notte fa il proiezionista in un cinemino<br />

dei preti.<br />

«Ma <strong>non</strong> è umiliante?», dice il giovane scrittore. «Non vi sembra<br />

umiliante?», insiste (lui, invece, un lavoro preciso <strong>non</strong> ce l’ha; ogni<br />

tanto fa delle cose per l’Arci, per il Progetto giovani della sua città, e<br />

ci prende qualche soldo). Ora fa un passo davanti a noi, si volta, si<br />

ferma e ci guarda. «Guardàtevi. Lavorate un sacco di ore al giorno<br />

per campare, e <strong>non</strong> scrivete. Non sarà mica giusto? Tu, almeno tu»,<br />

dice rivolto a me, «che di libri ne hai pubblicati un bel po’, e che<br />

ormai sei un valore consolidato, <strong>non</strong> dico me e lui», indicando il terzo<br />

amico, «che siamo immigrati appena sbarcati a Lampedusa, ma almeno<br />

tu, che della Repubblica delle Lettere sei cittadino con pieni diritti,<br />

dovresti poter stare tranquillo e beato, senza bisogno di correre di<br />

qua e di là».<br />

«A me piace lavorare», dico.<br />

«Mica dovresti sempre stare a grattarti!», dice il giovane scrittore.<br />

«È una questione di ruolo sociale», insiste accalorandosi. «Tu dovresti<br />

essere celebrato, ad esempio, in questa città, essere un fiore<br />

all’occhiello. Dovresti essere almeno assessore alla cultura. E invece?<br />

121<br />

Non ti si fila nessuno, se proprio va bene ti trattano come una<br />

merda».<br />

Visualizzo un doppiopetto blu; la giacca del doppiopetto; il<br />

bavero; l’occhiello del bavero; e, che spunta dall’occhiello, un<br />

fiore sovrappeso, sudato e in braghette corte. Cerco di restare<br />

impassibile.<br />

«A-ha», dico, «di ciò che <strong>non</strong> ho cercato di avere <strong>non</strong> ho avuto<br />

nulla».<br />

«Eh», dice il terzo amico, «da Baudelaire in poi, <strong>non</strong> è più così».<br />

«Cosa vuoi dire?», dice il giovane scrittore.<br />

In questo istante nelle piazze ci sono tutti i padovani che <strong>non</strong><br />

sono andati in vacanza, cioè circa centoventicinquemila. Zigzaghiamo<br />

tra i tavolini del bar Gancino, del bar del Duomo, del<br />

bar Oro e Verde, del Caffè dell’orologio, del bar Nazionale, del<br />

bar dell’Angolo. Tutto pieno.<br />

«Baudelaire», dice il terzo amico, «lo dico così, approssimativamente,<br />

quasi simbolicamente, è stato il primo letterato che si<br />

è messo spontaneamente ed esplicitamente nelle mani del mercato».<br />

«Hai fatto quattro mente di fila», dice il giovane scrittore.<br />

«Lui ha voluto essere indipendente», continua il terzo amico<br />

senza badargli (il giovane scrittore fa segno: «Cinque», aprendo<br />

le dita della mano destra), «e così si è trovato nella necessità di<br />

rispondere <strong>non</strong> a un feudatario, o a un qualche riccastro o nobilastro,<br />

o a un qualche ceto di riferimento: no, si è trovato a<br />

rispondere al mercato».<br />

«E allora?», dice il giovane scrittore.<br />

«E allora è così», dice il terzo amico. «Finché lo scrittore è un<br />

cortigiano, allora ha dei serissimi doveri ai quali corrispondono<br />

dei precisi diritti. Quando lo scrittore va sul mercato, <strong>non</strong> ha<br />

più doveri verso nessuno; e in cambio <strong>non</strong> ha nessun diritto.<br />

Ciò che lui fa, è merce tra le altre merci».


«Ma il ruolo sociale dello scrittore, allora, dov’è finito?», dice il giovane<br />

scrittore.<br />

Ho trovato un tavolino libero. Lo occupiamo baldanzosamente. La<br />

ragazza rumena arriva in trenta secondi. Tre Slalom medie, due<br />

bionde e una rossa. Sfoderiamo i pacchetti, accendiamo tre sigarette.<br />

«E allora?», sollecita il giovane scrittore.<br />

«Ma che cazzo di ruolo sociale vuoi avere!», sbotta il terzo amico.<br />

«Ma <strong>non</strong> vedi? Non vedi? Guàrdati attorno, accidenti!».<br />

Attorno c’è tutta un’umanità maschile in braghette corte che suda,<br />

fuma e beve birre; e tutta un’umanità femminile in pinocchietti e top<br />

che fuma, beve succhi Ace e apparentemente <strong>non</strong> suda.<br />

«Vuoi avere un ruolo sociale per questi qui?», dice il terzo amico.<br />

«Ma <strong>non</strong> lo so», dice il giovane scrittore. «Sto facendo delle domande».<br />

Troppo comodo, penso. Allora dico: «Ascolta. Un ruolo sociale,<br />

qualunque cosa sia e qualunque cosa tu intenda per ruolo sociale, è<br />

qualcosa che esiste e ha senso solo in relazione a un gruppo sociale<br />

ben definito. È chiaro?».<br />

«Sì», dice il giovane scrittore. Il terzo amico annuisce.<br />

«Rispetto a questo gruppo sociale tu dovresti essere, come io e lui<br />

dovremmo essere», continuo, «organico. Dovresti esser organico, ossia<br />

consapevolmente o inconsapevolmente, ma credo che sia meglio<br />

consapevolmente, portatore degli interessi (magari solo simbolici,<br />

eh!), dei desideri, dei sentimenti, dei conflitti di classe, eccetera di<br />

questo gruppo sociale. Dovresti essere, in somma, colui che sa dire<br />

ciò che gli altri sanno solo agire. È chiaro?».<br />

È chiaro.<br />

«Bene», dico. «Rispetto a quale gruppo sociale tu sei in questa posizione?».<br />

«Nessuno», dice il giovane scrittore, palesemente irritato, frantumando<br />

la sigaretta nel posacenere. «L’artista è libero per definizione».<br />

Arriva la ragazza rumena, scarica sul tavolino le tre birre.<br />

122<br />

Chiacchierata numero 76<br />

I mestieri dello scrittore, 5. «E, prima di fare lo scrittore, che cosa<br />

faceva?».<br />

Osservo la tipa. Avrà trent’anni, anche se io mi sbaglio sempre<br />

sull’età delle persone. Faccio un calcolo: mi ha già detto che si è<br />

laureata in letteratura inglese, che ha lavorato «un paio d’anni»<br />

per un’azienda di ceramiche, che ha preso al volo un corso della<br />

Regione Lombardia sulla comunicazione in rete, e che adesso è<br />

contentissima di lavorare nel web di questa grande azienda di<br />

filati e maglieria, dove le hanno appena rinnovato il contratto<br />

annuale. Sì, trent’anni ce li ha, ma <strong>non</strong> di più.<br />

«Ma», rispondo, «facevo quello che fanno tutti: lavoravo».<br />

«In che senso?», dice la tipa, sorridendo.<br />

Mi preparo. Seduti attorno alla tavola siamo in otto. C’è chi si<br />

conosce da tempo, ed è già avviato in conversazioni che io <strong>non</strong><br />

sono in grado né di capire né di seguire. C’è chi è seduto qui<br />

per me, perché pensa che cenare con me sia un’esperienza interessante<br />

(mah!), e tra chi è seduto qui per me c’è questa tipa<br />

che, evidentemente, vuole cavare dalla rapa (che sono io) tutto<br />

il sangue che si può.<br />

«Ho lavorato sette anni in un ufficio stampa», le dico. «E altri<br />

sette in una libreria scientifica».<br />

«L’ufficio stampa di una casa editrice?».<br />

«No, di un’associazione sindacale datoriale».<br />

La parola «datoriale» divide il mondo in due: chi la sa, e chi<br />

<strong>non</strong> la sa.<br />

La tipa, che continua a sorridere, è vagamente perplessa.<br />

«Di datori di lavoro. Lavoravo in Confartigianato. Una specie<br />

di Confindustria delle imprese artigiane, le imprese piccole. Ci


occupavamo di camionisti, gelatieri, parrucchieri, edili, dipintori,<br />

estetiste, falegnami, cose così».<br />

«E lei era nell’ufficio stampa?».<br />

«Ci facevo lavoro di segreteria. Mi hanno preso perché avevo un<br />

diploma di dattiloscrittura veloce, metodo Scheidegger. Rispondevo<br />

al telefono, dicevo attenda, prego, ora le passo il dottore, con l’Ibm a testina<br />

rotante copiavo in bella copia gli articoli e i comunicati stampa,<br />

spedivo i fax, leccavo i francobolli da appiccicare sulle buste».<br />

La tipa sembra delusa. Ne approfitto per pescare dal piatto centrale<br />

un’altra dose di baccalà mantecato. Danno sempre troppo poca<br />

polenta, penso. La tipa ha davanti un piatto di insalatina. Questi sono<br />

gli antipasti, poi si vedrà.<br />

«Sono stato lì sette anni», continuo, «e pian piano ho cominciato a<br />

scrivere anch’io, poi ho trovato chi mi ha insegnato, eccetera eccetera.<br />

Ho fatta un po’ di carriera interna, in somma».<br />

«Allora già scriveva!», dice la tipa, trionfante.<br />

«Come no?», dico. Faccio il tono di voce da cinegiornale. «Ieri pomeriggio<br />

alle 15 si è riunito, presso la sede della Federazione regionale<br />

dell’artigianato veneto, Frav/Confartigianato, il direttivo dell’Urvaat, l’Unione<br />

regionale veneta artigiani autotrasportatori. Il direttivo ha approvato<br />

all’unanimità un documento, illustrato dal presidente dell’Urvaat Tal Deitali,<br />

nel quale si avanzano alcune osservazioni critiche sul Progetto Regionale per lo<br />

sviluppo del Settore Secondario, in merito alla politica dei trasporti. Ci lascia<br />

sconcertati, ha dichiarato Tal Deitali…».<br />

«Ma è una cosa orribile!», quasi grida la tipa.<br />

«Ba’, in somma», dico, «è la prosa delle agenzie di stampa, degli articoli<br />

di cronaca».<br />

«Ma è tremenda!», insiste la tipa.<br />

«Ci ho campato per sette anni», dico secco. «E le assicuro che i nostri<br />

comunicati stampa erano i migliori della regione»<br />

«Cioè?».<br />

«Erano scritti bene. Facevamo il possibile per evitare il sindacalese.<br />

E ci riuscivamo anche abbastanza».<br />

123<br />

«Quindi», dice la tipa, «c’era già lo scrittore in lei…».<br />

«No, <strong>non</strong> c’entra. Era una questione di dignità. Volevamo<br />

scrivere ciò che dovevamo scrivere - e che riguardava sempre<br />

materie come contratti di lavoro, sicurezza nelle aziende, politiche<br />

regionali, legislazione, cose così - volevamo scrivere sempre<br />

dei testi che <strong>non</strong> ci disgustassero. Che si lasciassero leggere, che<br />

fossero comprensibili. Testi che noi, da lettori dei giornali,<br />

avremmo letto volentieri».<br />

«Ah», dice la tipa.<br />

C’è un momento di pausa. All’altro capo del tavolo stanno<br />

parlando male di Mario Luzi. Mi verso da bere e intanto penso<br />

che <strong>non</strong> ho mai sentito parlare bene di Mario Luzi. Dev’esserci<br />

una congiura.<br />

«E perché ha smesso di lavorare lì?».<br />

«Mi sono stufato. Lavoravo dodici ore al giorno, e per di più a<br />

Venezia: che è bella da vedere, ma lavorarci è un delirio. Poi<br />

succedevano strane cose, e io volevo cavarmi fuori».<br />

«Strane cose?».<br />

«Tangentopoli è arrivata dopo», dico, «ma se lì fosse arrivata<br />

quattro o cinque anni prima, trovava pane per i suoi denti».<br />

Mentre la dico, mi rendo conto che sto facendo una frase assurda.<br />

«E allora ha messo su una libreria», ripiglia la tipa.<br />

«Non ho messo su una libreria», preciso. «Sono andato a lavorare<br />

in una libreria, come fattorino».<br />

La tipa tenta di salvare il salvabile. «Be’, comunque era sempre<br />

in mezzo ai libri».<br />

«Come no? Era una libreria tecnico-scientifica e universitaria.<br />

Vendevamo i libri di testo agli studenti di chimica, fisica, farmacologia,<br />

ingegneria, biologia. E vendevamo libri scientifici e<br />

tecnici a docenti universitari e professionisti vari. Sa qual era il<br />

nostro best-seller, tolti i libri adottati?».<br />

«No», dice.


«Andreini, La conduzione degli impianti a vapore, Hoepli».<br />

Non è vero. Pprobabilmente il best-seller vero era il manuale<br />

dell’Autocad, nelle sue diverse release, pubblicato da Tecniche Nuove.<br />

Ma l’Andreini fa sempre il suo effetto. Nessuno, tranne chi deve<br />

saperlo, sa che cosa sia la conduzione degli impianti a vapore. E chi<br />

<strong>non</strong> lo sa, si immagina sempre che sia una cosa stranissima.<br />

La tipa cambia di posto a qualche foglia d’insalatina nel suo piatto.<br />

Sta zitta per troppo tempo. Mi viene il dubbio di averla offesa. A un<br />

certo punto posa la forchetta, mi guarda dritto in faccia. Parla:<br />

«Lei vuole darmi da intendere che <strong>non</strong> gliene è mai fregato niente<br />

della letteratura. Questo l’ho capito. Ma io <strong>non</strong> ci casco, sa. Sarà una<br />

sua difesa, questa. Io <strong>non</strong> ci credo. Chi disprezza compra, si dice. Lei<br />

va pazzo per la letteratura. Si sente. Si vede. Lei trasuda letteratura<br />

da tutti i pori».<br />

Chiacchierata numero 77<br />

Lo scrittore in vacanza, 1. Che cosa fa uno scrittore in vacanza? Fa<br />

quello che fanno tutti gli altri. Va a spasso, prende il sole, nuota, si<br />

arrampica, visita i musei, compera ricordini e specialità, fa foto,<br />

dorme più del solito, legge libri lunghissimi.<br />

Poi, gli càpitano delle strane avventure.<br />

Il 6 agosto scorso, a Fermo (Ap), al mercatino delle cose vecchie<br />

ho comperato questo libro: Manuale di lettura per lo studio pratico dei vari<br />

generi di componimenti letterari, ad uso del ginnasio superiore dell’Istituto tecnico<br />

e della Scuola normale, compilato da Alcibiade Vecoli e Guido Paliotti,<br />

G. Barbèra Editore, Firenze 1909. Un bel librotto di 647 pagine,<br />

piuttosto malmesso, reincollato alla bell’e meglio.<br />

L’ho comperato per tre ragioni: primo, perché compero compulsivamente<br />

tutti i manuali di questo tipo, soprattutto quelli tra fine<br />

Otto e inizio Novecento; secondo, perché sfogliandolo ci ho trovati<br />

dentro dei componimenti poetici di Andrea Orcagna, Pieraccio Te-<br />

124<br />

daldi, Bernardino Zendrini e Antonio Guadagnoli (accostati a<br />

Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Torquato Tasso e Giacomo<br />

Leopardi: e la cosa m’incuriosiva); terzo, perché costava<br />

quattro euro.<br />

Naturalmente me lo sono leggiucchiato, il mio Manuale, tra<br />

una passeggiata e un riposino; e sentite che cosa mi è capitato di<br />

leggere nella prefazione:<br />

«Tra i vari insegnamenti teorici che sono, per così esprimersi,<br />

tradizionali nella scuola italiana, ce n’è uno il quale, più d’ogni<br />

altro, ha resistito all’azione demolitrice e innovatrice de’ tempi:<br />

vogliamo dire l’insegnamento dei diversi generi di componimenti<br />

letterari tanto in poesia quanto in prosa. […] E qui può<br />

esserci rivolta la domanda: L’avere persistito nel mantenere un<br />

tale insegnamento teorico è, secondo voi, un bene o un male?.<br />

Rispondiamo: Può, a seconda dei casi, essere l’una cosa e l’altra.<br />

È un male se - come in altri tempi - si presume anch’oggi di apprendere<br />

ai giovani la ricetta infallibile per architettare un poema<br />

epico, o per isciogliere il volo a un’alata ode pindarica; per<br />

colorire una storia sentenziosa, o per tessere con bella simmetria<br />

un’eloquente orazione ciceroniana. Che la razza di<br />

quest’ingenui spacciatori di ricette letterarie <strong>non</strong> s’è ancora<br />

spenta, ne fanno sicura fede certi libri di testo, che tuttora continuano<br />

a deliziare le nostre scuole, dove stroppiano i cervelli di<br />

tanti studenti, inculcando loro il convincimento che esista una<br />

larga strada maestra, unica e ben determinata, per ascendere alle<br />

alte vette dell’Arte; mentre invece i sentieri per giungere ai giardini<br />

incantati della grande ammaliatrice [che sarebbe appunto l’Arte,<br />

beninteso] sono, per chi abbia forti i garetti, infiniti di numero,<br />

come i raggi che dalla circonferenza vanno al centro del circolo.<br />

Ma è al contrario un bene, ove tale insegnamento venga impartito<br />

col fine modestissimo di far conoscere ai giovani quale sia<br />

l’origine delle forme principali della letteratura nostra; a quali


norme abbiano esse obbedito, e a quali modificazioni siano andate<br />

via via soggette» (pp. V-VI).<br />

Oggi come oggi gli esempi sarebbero diversi: nessuno (credo) aspira<br />

a comporre poemi epici, odi pindariche, storie sentenziose od<br />

orazioni ciceroniane; ma se al posto di questi generi letterari ci mettiamo<br />

quelli in voga al nostro tempo (il romanzo con tutti i suoi<br />

sottogeneri: thriller, horror, fantasy, rosa, storico, d’azione e così via; le<br />

novelle in versi con musica, ossia - detto così, all’ingrosso - le canzoni<br />

cantautorali; la poesia lirica pura - praticata da molti nostri poeti,<br />

<strong>non</strong>ché da molti autori di canzoni <strong>non</strong> cantautorali; il discorso efficace,<br />

dal fondo di quotidiano alla pubblicità a tutte le varie forme di<br />

comunicazione; eccetera), <strong>non</strong> mi sembra che cambi molto. E nessuno,<br />

credo, oggi come oggi, ardirebbe parlare di Arte con la A maiuscola<br />

o, peggio, di «grande ammaliatrice» (la maiuscola spetterebbe casomai<br />

al Successo, e ad ammaliare sono piuttosto le Sirene del Mercato);<br />

tuttavia, di nuovo, mi sembra che <strong>non</strong> cambi molto.<br />

Mi ha consolato, mentre spilluzzicavo il mio Manuale tra un riposino<br />

e una passeggiata, pensare che novantasei anni fa i suoi autori<br />

avevano che fare con le stesse obiezioni e accuse con le quali ho che<br />

fare io oggi: che insegnare a scrivere e raccontare <strong>non</strong> è possibile;<br />

che le sedicenti scuole di scrittura e narrazione illuderebbero gli ingenui<br />

inculcando loro semplicistiche e, appunto, illusorie ricette «infallibili»<br />

per comporre Capolavori di Successo; che le stesse sedicenti<br />

scuole di scrittura e narrazione produrrebbero un’omologazione<br />

(«una larga strada maestra, unica e ben determinata») dei lavori letterari<br />

(tutti gli scrittori di racconti sarebbero carveriani, tutti gli scrittori<br />

di romanzi sarebbero baricchiani, eccetera).<br />

Mi ha consolato, e insieme mi ha sconsolato. In questi giorni di<br />

vacanza mi è capitato anche di rileggere un dialogo di Platone, il<br />

Gorgia: dove il grande rétore sofista viene elegantemente infinocchiato<br />

da Socrate che già nelle prime pagine lo mette alle strette sulla<br />

questione: quale sia l’oggetto della retorica (ossia, in termini moderni,<br />

della «teoria e tecnica della composizione del discorso argomen-<br />

125<br />

tativo e narrativo»). Gorgia dapprima afferma che oggetto della<br />

retorica è più o meno tutto ciò di cui si può parlare, in quanto<br />

se ne parla; ma Socrate lo incalza, gli domanda se la retorica si<br />

occupi dunque di medicina, di fitness («ginnastica», nel testo greco),<br />

di edilizia, di arte militare, e Gorgia deve rispondere che no,<br />

evidentemente no; e una volta esclusi praticamente tutti i campi<br />

del sapere, in quanto ciascuno è dotato di un contenuto specifico<br />

che in quanto tale <strong>non</strong> compete al rétore, Gorgia è costretto<br />

a forza ad ammettere che la retorica è una disciplina priva di<br />

oggetto, o comunque della quale l’oggetto è indefinibile.<br />

Triste il destino di chi ha la pretesa di insegnare (o di educare<br />

a) raccontare e argomentare. Preso in mezzo tra l’accusa di<br />

vendere fumo e quella di insegnare una disciplina senza contenuto,<br />

cioè il nulla. Ne riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 78<br />

Lo scrittore in vacanza, 2. Settimana scorsa cominciavo dalla<br />

domanda: «Che cosa fa uno scrittore in vacanza?». Lo scrittore,<br />

dicevo, quand’è in vacanza, legge molto.<br />

Ci sono dei libri che uno, dopo che li ha comperati, li guarda<br />

per un po’, li sfoglia per un po’, li leggiucchia per un po’; e alla<br />

fin fine li posa e dice a sé stesso: «Bene. Questo libro lo leggerò<br />

in vacanza». Anche lo scrittore, come ogni lettore, talvolta fa<br />

così. Solitamente si tratta di libri lunghissimi, difficilissimi e di<br />

grande formato. Quindi: pesanti da trasportare, duri da leggere,<br />

e scomodi da maneggiare sulla sedia a sdraio.<br />

Lo scrittore porta con sé in vacanza questi libri soprattutto a<br />

causa del suo senso di colpa. «Come posso prendere la parola»,<br />

si dice lo scrittore, «se prima <strong>non</strong> ho letto tutto ciò che è stato<br />

scritto? Come posso scrivere un romanzo sugli anacardi se <strong>non</strong><br />

ho prima letto tutto ciò che è stato scritto sugli anacardi? Come


posso ambire a diventare un classico se prima <strong>non</strong> ho letti tutti i libri<br />

ritenuti classici?», e così via. Quasi tutti gli scrittori si fanno di queste<br />

domande, e di conseguenza, hanno dei sensi di colpa. Perché, com’è<br />

noto, leggere tutto <strong>non</strong> è possibile.<br />

Fortunatamente lo scrittore, benché in vacanza e dotato di sensi di<br />

colpa, tende a conservare la sua naturale intelligenza. E così, a prescindere<br />

dai libri punitivi che ha portato con sé, gli capita di comperare,<br />

mentre vacanzeggia qua e là, altri libri, molto più effettivamente<br />

vacanzieri: che finirà col leggere avidamente, scordando gli<br />

altri e tamponando a suon di godimento il senso di colpa.<br />

Io, ad esempio, ho comperato, al mercatino dei bambini di Porto<br />

san Giorgio (Ap), un interessantissimo libretto intitolato: I prodigiosi<br />

panini di S. Nicola da Tolentino. Pubblicato dalle Edizioni Agostiniane<br />

nel 1960, il libretto è di piccolo formato, ha solo 32 pagine, ed è ornato<br />

da una bella, benché scolorata, immagine di san Nicola da Tolentino.<br />

Il libretto raccoglie una quantità di testimonianze di persone che,<br />

rivoltesi a san Nicola, hanno ricevuto un aiuto. Le grazie sono divise<br />

con una classificazione rigorosa: ci sono prima le «Grazie spirituali»,<br />

poi gli «Aiuti provvidenziali», la «Sospirata prole», i «Bambini graziati»<br />

e, per ben dieci pagine, le «Sorprendenti guarigioni». Le testimonianze<br />

sono brevi, poche righe; quasi mai c’è una data o un luogo.<br />

«Senza figli. Ero da molti anni sposata e <strong>non</strong> avevo figli. Avendo<br />

sentito parlare delle grazie fatte da S. Nicola, mi rivolsi a lui domandandogli<br />

un bambino che rallegrasse il mio focolare; e subito il<br />

Santo mi ascoltò e oggi abbiamo un bambino al quale abbiamo dato<br />

il nome di Nicola come segno di riconoscenza».<br />

«I panini sotto il cuscino. Un babbo racconta: Mio figlio appena nato<br />

fu giudicato dai medici in imminente pericolo di vita senza speranza<br />

di salvarlo. Sono andato dai Padri che m’hanno dato le preghiere per<br />

la novena di S. Nicola ed alcuni panini benedetti che ho messi sotto<br />

il cuscino di mio figlio. Con mia moglie e con gli altri figli abbiamo<br />

fatto la novena e da quel giorno il nostro beniamino guarì».<br />

126<br />

È curioso notare come san Nicola, per venire incontro alle<br />

esigenze dei suoi devoti, <strong>non</strong> disdegni di servirsi di mezzi molto<br />

terreni: per esempio, delle vincite alla lotteria:<br />

«Aiuto economico. Con grande devozione stavo facendo i lunedì<br />

di S. Nicola per varie mie necessità, fra cui quella economica.<br />

Acquistai una cartella della lotteria e offrii una buona<br />

elemosina per la costruzione del suo altare. La cartella con<br />

grande mia gioia ebbe il premio maggiore. Grato, compio la mia<br />

promessa con la pubblicazione di un tanto favore».<br />

«Molti debiti. Trovandomi in una situazione difficilissima per i<br />

molti debiti che mi opprimevano e <strong>non</strong> avendo altri rifugio, mi<br />

rivolsi pieno di fede a S. Nicola da Tolentino, eseguendo la devozione<br />

dei lunedì senza interruzione. Comprai alcune cartelle<br />

della Lotteria di Medellìn e S. Nicola mi favorì facendomi vincere<br />

il primo premio del prezzo di ventimila pesos e così mi liberai<br />

dai debiti. Grazie infinite a S. Nicola».<br />

Ma, direte voi, perché mai uno scrittore in vacanza si mette a<br />

leggere di questa roba? Rispondo: perché lo scrittore in vacanza,<br />

dopo avere preso in mano in libretto a causa del suo titolo<br />

curioso (che cosa saranno mai, questi «prodigiosi panini?») si è<br />

reso conto di avere davanti un campione (anzi, una collezione<br />

di campioni) di un genere letterario del tutto particolare.<br />

Nei ringraziamenti a san Nicola (e penso che la faccenda si<br />

possa estendere a tanti altri santi e sante) le circostanze sono<br />

sempre vaghe, vaghissime. C’è chi è pieno di debiti, chi è in prigione,<br />

chi è malato, chi viene osteggiato dalla famiglia, chi gli<br />

rubano l’automobile, chi ha una malattia che nessun medico<br />

può curare: ma niente mai viene detto sulla provenienza del<br />

male o sulle cause della disgrazia. Tutti coloro che scrivono e<br />

ringraziano sembrano, per così dire, appena nati. Sono appena<br />

nati, e sono pieni di debiti (o accusati ingiustamente o malati<br />

eccetera). Si rivolgono a san Nicola, con enorme fede (e da do-


ve verrà loro questa fede? <strong>non</strong> viene detto), e san Nicola provvede.<br />

Non c’è altro.<br />

La purezza di questi racconti, io la trovo commovente. Sembrano<br />

dei minuscoli soggetti da film - da film che si piange un sacco, naturalmente,<br />

e poi alla fine però si risolve tutto e si sorride.<br />

Mi viene in mente Dino Buzzati. Che, un bel giorno, s’inventò, essendo<br />

buon pittore oltre che eccellente scrittore, di dipingere una<br />

sequenza di ex voto (i brevi testi del mio libretto sono, per così dire,<br />

degli ex voto scritti). Ne dipinse una trentina che diventarono, con<br />

l’aggiunta di note filologiche di dubbia credibilità, prima una mostra<br />

e poi un libro (oggi quasi introvabile) intitolati entrambi I miracoli di<br />

val Morel. Ma ne riparleremo.<br />

Intanto, se volete sapere qualcosa di più sui «prodigiosi panini», vi<br />

consiglio un’escursione nel web: all’indirizzo<br />

http://www.sannicoladatolentino.it troverete tutte le informazioni.<br />

Chiacchierata numero 79<br />

Lo scrittore in vacanza, 3. È difficile meditare su un tema come: «Lo<br />

scrittore in vacanza» senza ripensare alle celebri (credo, almeno, che<br />

siano celebri) pagine di Pier Vittorio Tondelli intitolate: «Frammenti<br />

dell’autore inattivo» (in L’abbandono, Bompiani). In effetti Tondelli<br />

<strong>non</strong> parlava della vacanza. Parlava dell’inattività.<br />

«Può trattarsi di un periodo conseguente alla pubblicazione di un<br />

testo, periodo in cui egli [lo scrittore] <strong>non</strong> scrive un po’ per riposarsi,<br />

un po’ per riprendersi dalle fatiche delle stesure, un po’ per godersi<br />

i frutti e le chiacchiere di ciò che ha fatto. In questo caso<br />

l’inattività, cioè la mancanza di scrittura, appare un momento assai<br />

piacevole. […] Nei momenti di inattività è probabile che […] uno<br />

scrittore, lavori semplicemente al recupero di se stesso, a ricostruire<br />

quello che la scrittura gli ha frantumato dentro».<br />

127<br />

Tondelli, in questo come in altri testi, racconta la scrittura<br />

come una faccenda che si affronta di petto. Non un relax, uno<br />

svago, un concedersi al piacere di fare: ma una cosa che si può<br />

affrontare solo mettendo in gioco la persona intera, come in<br />

una guerra, una cosa che ti fa dimenticare il mondo e le altre<br />

persone, nella quale ti immergi, in solitudine, e dalla quale riemergi,<br />

se tutto è andato bene, dopo un certo tempo (mesi, anni),<br />

forse felice ma soprattutto stremato e bisognoso di riposo.<br />

Conosco alcuni miei “colleghi” che vivono lo scrivere in questo<br />

modo. Le loro immersioni a volte mi spaventano. E quando<br />

emergono, e hanno la faccia e i modi di vita di chi sembra appena<br />

scampato alla morte, mi spavento altrettanto.<br />

Io (sarà che da più di vent’anni sono abituato, per i vari mestieri<br />

che ho fatti, a scrivere ogni giorno, e talvolta a scrivere parecchio<br />

ogni giorno; sarà, più probabilmente, che loro sono degli<br />

scrittori veri, delle persone con la vocazione dello scrittore;<br />

mentre io sono uno al quale è capitato, in un certo momento<br />

della vita, di avere delle cose da raccontare e, per circostanze<br />

fortuite, quel minimo di capacità tecnica che serve a raccontare),<br />

io <strong>non</strong> me la vivo così. Conosco però, <strong>non</strong>ostante<br />

l’abitudine a scrivere ogni giorno, l’altra forma dell’inattività.<br />

Tondelli:<br />

«Nel secondo caso, l’inattività dello scrittore è cosa assai diversa.<br />

Non scrive perché <strong>non</strong> riesce a scrivere. Non scrive perché<br />

<strong>non</strong> ne ha voglia. […] La sua inattività che in un primo momento,<br />

come si è detto, era un ritorno alla vita, alla luce, diventa<br />

ora un ritorno nell’ombra. Non scriveva prima, e <strong>non</strong> scrive<br />

ora. Per gli altri, <strong>non</strong> fa differenza. Ma per lui sì. Il riposo è diventato<br />

ozio, e l’ozio nevrosi, e la nevrosi impossibilità di amare,<br />

quindi di scrivere e di lavorare».<br />

Conosco un sacco di scrittori inattivi che scrivono moltissimo.<br />

Io stesso sono un buon caso. Scrivo settimanalmente queste<br />

paginette per Stilos (un vero piacere), scrivo quasi tutti i giorni il


mio diario in pubblico (che si legge qui: http://www.giuliomozzi.com),<br />

scrivo spesso (su commissione) brevi racconti o descrizioni di luoghi<br />

o di edifici (una mia specialità, quest’ultima); eppure, eppure,<br />

ormai da diversi anni sono uno scrittore inattivo.<br />

C’è un segnale ben preciso, del quale anche Tondelli parla. In tanti<br />

si sentono liberi di farti, così all’improvviso, la domanda fatidica:<br />

«Che cosa stai scrivendo?». «Imbarazzati», scrive Tondelli, «si può<br />

rispondere che si sta facendo altro, oppure che si sta studiando o<br />

leggendo dei manoscritti». Io me la cavo dicendo: «Be’, scrivo il diario»,<br />

che è una risposta quasi perfetta: perché il diario, fino a controprova,<br />

è pur sempre scrittura (anche se, ultimamente, grazie a una<br />

macchina fotografica digitale vinta in un concorso delle Ferrovie<br />

dello stato, sempre più spesso mi appoggio alle immagini…).<br />

Il mio ultimo libro di racconti è uscito nel 2001. L’ultimo racconto<br />

l’ho scritto alla fine del 1999. Da allora, questo è il punto, <strong>non</strong> ho<br />

più immaginato un preciso progetto di scrittura. Il diario in pubblico,<br />

<strong>non</strong>ostante la sua mole (dal 26 maggio 2003 al 29 agosto 2004, giorno<br />

in cui scrivo questo articolo, ci ho pubblicati dentro 695 tra annotazioni,<br />

pagine di diario, raccontini, riflessioni, commenti<br />

all’attualità, poesiole eccetera) è tutto fuorché scrittura progettata.<br />

Immaginate un musicista che tutti i giorni prenda lo strumento e<br />

per due ore suoni, suoni, liberamente improvvisando. Lui suona,<br />

no? Fa musica, no? Però da quattro anni <strong>non</strong> mette per iscritto una<br />

sola nota, da quattro anni <strong>non</strong> registra le sue improvvisazioni per riascoltarle<br />

ed, eventualmente, scegliere le più riuscite per compilare<br />

un disco; in somma, da quattro anni si tiene lontano dalla dimensione<br />

progettuale della scrittura.<br />

Mi succede spesso di parlare con persone che dicono: «Ah, io <strong>non</strong><br />

so fare a meno della scrittura. Io bisogna che tutti i giorni scriva<br />

qualcosa, anche più volte al giorno. Ho sempre con me questo quadernino,<br />

vede?, che ogni volta che mi viene in mente qualcosa ce la<br />

scrivo dentro». Queste persone, mi pare, identificano la compulsione<br />

alla scrittura con la vocazione alla scrittura (e sbagliano); e in più<br />

128<br />

<strong>non</strong> si rendono conto che proprio tutto quel loro gran fervore<br />

di scrittura, in quanto è una negazione della dimensione progettuale<br />

della scrittura, è tendenzialmente nullo.<br />

In queste settimane di vacanza, l’incontro con alcune scritture<br />

del tutto prive di arte (come quelle di cui parlavo ieri: i ringraziamenti<br />

dei beneficati da san Nicola da Tolentino) è stato per<br />

me ristoratore. Ho la sensazione che, forse, sto uscendo da<br />

questa lunga inattività iperattiva. La cosa, devo dirlo, mi conforta.<br />

Ho sempre detto: «Perché ho fatto un libro o due, <strong>non</strong> sarò<br />

mica condannato a fare lo scrittore per tutta la vita». Oggi comincio<br />

a pensare che dalla scrittura o ci si libera del tutto, o se ne fa<br />

una questione di vita o di morte. Confesso che difronte a questo<br />

mio pensiero sono riluttante, e preferirei evitarlo. Ma tant’è:<br />

ormai è un pensiero fatto, è dentro la mia testa, e sarà ben difficile<br />

farlo uscire.<br />

Perché i pensieri, come noto, godono di vita propria.<br />

Chiacchierata numero 80<br />

Libri che insegnano a scrivere, 1. Comincio questa settimana una<br />

rassegna di libri che parlano, con intenzioni più o meno didattiche,<br />

dello scrivere. Negli ultimi dieci anni ne sono stati pubblicati<br />

(scritti appositamente da autori italiani o tradotti) moltissimi.<br />

Alcuni dei libri dei quali parlerò sono facilmente trovabili.<br />

Altri sono più difficili da trovare in libreria (per il mercato editoriale,<br />

un libro di tre anni fa è vecchio), ma probabilmente disponibili<br />

in biblioteca.<br />

Giuseppe Conte è un notevole poeta. Nel 1995 ha pubblicato<br />

per l’editore Guanda un Manuale di poesia. Se volete avere<br />

un’idea della poesia di Conte, prima di prendere in mano il suo<br />

manuale, vi consiglio la raccolta L’Oceano e il ragazzo, Tea (costa<br />

sette euro e venti). Il Manuale di poesia dovrebbe essere ancora in


commercio; se <strong>non</strong> lo trovate in libreria, provate a ordinarlo. Io, che<br />

credevo di averlo ma <strong>non</strong> me lo trovavo più in casa (sapete, sono<br />

uno di quello che presta i libri), l’ho ordinato e mi è arrivato in due<br />

settimane.<br />

Il Manuale di poesia è diviso in due parti. La prima parla<br />

dell’ispirazione; la seconda, della tecnica della scrittura poetica. Di<br />

solito, nei manuali di scrittura, si dà per scontato che l’ispirazione sia<br />

una cosa della quale è imbarazzante parlare; una cosa, per dirla tutta,<br />

che <strong>non</strong> si sa bene di che specie sia e nemmeno se esista davvero;<br />

una cosa che, comunque, o c’è o <strong>non</strong> c’è, o ce l’hai o <strong>non</strong> ce l’hai; e<br />

c’è poco da girarci attorno. Quindi, di solito, i manuali di scrittura<br />

liquidano la faccenda dell’ispirazione in poche righe, con espressioni<br />

del tipo: «È evidente che l’ispirazione <strong>non</strong> si può insegnare», oppure:<br />

«Come diceva Nonsochì, l’arte è per il 5% ispirazione e per il 95%<br />

traspirazione», ossia lavoro e sudore; eccetera. Giuseppe Conte no:<br />

delle 140 pagine del suo libro, 64 sono dedicate all’ispirazione.<br />

Bene. E che cosa dice, dell’ispirazione, Giuseppe Conte?<br />

Più che la parola «ispirazione», Conte adopera la parola: «Voci». E<br />

dice: «Le Voci che spingono a scrivere poesia ci raggiungono da <strong>non</strong><br />

sappiamo dove. È difficile capire se arrivino da lontananze misteriose,<br />

e ci entrino dentro come punte di frecce, o se stiano addormentate<br />

nella zona oscura della nostra anima. […] Quello che importa è<br />

che le Voci parlino e che noi sappiamo innanzitutto ascoltarle. Se<br />

<strong>non</strong> crediamo che le cose apparentemente inanimate o mute possano<br />

parlarci, difficilmente ci accingeremo al lavoro della poesia. Voci<br />

possono essere […] quelle delle stelle […]. Voci quelle dei fiori. […]<br />

Voci quelle dell’amore più puro ma anche dell’amore più violento e<br />

brutale. Voci quelle dell’odio, del corrompimento, dell’assenza e<br />

della presenza di Dio o degli dèi. Scriviamo spinti da queste Voci, da<br />

Tumulti, Domande, Stati di alterazione dell’Anima, da Visioni che le<br />

Voci contribuiscono a far balenare in noi» (pp. 16-17).<br />

Conte sa benissimo che parlando di Voci (e di tutte quelle altre cose<br />

con l’iniziale maiuscola), e poche pagine dopo addirittura delle<br />

129<br />

Muse, fa un discorso decisamente inattuale. E allora intitola apposta<br />

un paragrafo: «Dove incontrare le Muse oggi» (p. 18).<br />

Dove, dunque? Nei «più desolati sobborghi» o nella «più silenziosa<br />

biblioteca», o nel «teatro più fastoso», tra le collezioni<br />

d’arte «più raffinate». Praticamente ovunque, sembra di capire,<br />

purché si tratti di un luogo «più»: un «sobborgo desolato» o un<br />

«teatro fastoso» <strong>non</strong> bastano, ci vogliono un «sobborgo più desolato»<br />

o un «teatro più fastoso».<br />

Badate, <strong>non</strong> sto prendendo in giro Giuseppe Conte. Questi<br />

suoi «più» sono probabilmente la spia di una percezione estetizzante<br />

della vita. Bene, Giuseppe Conte ci sta dicendo che per<br />

scrivere poesia bisogna avere una percezione estetizzante della<br />

vita; o, almeno, che per riuscire a sentire le Voci bisogna avere il<br />

coraggio di abbandonarsi, di tanto in tanto, a una percezione<br />

estetizzante della vita. (Che la percezione estetizzante della vita<br />

abbia le sue perversioni e il suo kitsch, Conte lo sa benissimo; e<br />

gli pare così ovvio che queste perversioni e questo kitsch siano<br />

tutt’altra cosa da ciò di cui sta parlando, che <strong>non</strong> spende neanche<br />

una riga a segnare la differenza).<br />

Ma poiché un manuale è un manuale, ecco che Conte fa una<br />

cosa stupefacente: ci dà addirittura, in undici brevi paragrafi,<br />

«Undici suggerimenti» per riuscire ad ascoltare le Voci. Èccoli:<br />

(pp. 23-29): «Aprire varchi nel muro compatto della realtà.<br />

Guardare le cose sempre con meraviglia. Accettare la solitudine.<br />

Praticare la buona conversazione. Leggere ad alta voce poesia.<br />

Essere liberi da ogni pregiudizio morale e ideologico. Benedire<br />

le passioni. Avere il gusto degli estremi. Accettare il vuoto.<br />

Camminare. Aprirsi all’infinito».<br />

La poesia dunque per Conte <strong>non</strong> è una “materia”, bensì una<br />

“disciplina”. Le sue undici formule possono essere, credo, riassunte<br />

in una sola, abbastanza zen: «Sii disponibile». Se sarai disponibile,<br />

forse le Voci ti parleranno. Se <strong>non</strong> sarai disponibile,<br />

sicuramente le Voci <strong>non</strong> ti parleranno. Tutto qui.


«Tutto qui?», dirà sicuramente qualcuno. «Tutto così semplice e insieme<br />

impossibile, tutto così profondamente arcaico e così modernamente<br />

new age?». Sì, mi pare di poter dire; tutto qui. E credo che<br />

sia un bel merito quello di Giuseppe Conte, che ci mette a confronto<br />

con questo «Tutto qui».<br />

Probabilmente <strong>non</strong> si può voler essere poeti. Càpita di esserlo.<br />

Anche perché l’essere poeti, secondo Conte, comporta un bel po’ di<br />

rinuncia al voler essere (all’ideologia, ad esempio; mentre «Benedire<br />

le passioni» significa accettare qualcosa che incontrollabilmente ci<br />

càpita).<br />

C’è qualcosa di disgustoso, ho pensato rileggendo il libro di Conte<br />

per scrivere questo pezzo, c’è qualcosa di disgustoso nell’immagine<br />

del poeta, o piuttosto del Poeta, che esce da queste pagine. D’altra<br />

parte Giuseppe Conte, con tutto che ha scritte molte poesie bellissime,<br />

mi pare un uomo che sprigiona da ogni poro antipatia.<br />

Ma che c’entra? Forse il Poeta è davvero un Completamente Diverso.<br />

Uno che suscita inquietudine, antipatia e disgusto. Non uno<br />

come noi.<br />

Chiacchierata numero 81<br />

Libri che insegnano a scrivere, 2. Settimana scorsa ho puntato verso<br />

l’alto, scrivendo del Manuale del poeta di Giuseppe Conte: un libro<br />

che parla di Voci, Muse, Ispirazione e compagnia briscola. Oggi<br />

puntiamo verso il basso, con un bel libretto di Bice Mortara Garavelli:<br />

Prontuario di punteggiatura (Laterza, 153 pagine, 10 euro). È<br />

uscito l’anno scorso ed è quindi trovabile dappertutto.<br />

«Prontuario» è una parola ancora più umile, più discreta di «manuale».<br />

E infatti il Prontuario di Bice Mortara Gavavelli si apre con<br />

una dichiarazione di prudenza tra le più prudenti che abbia mai lette:<br />

«Questo libro contiene una scelta di indicazioni pratiche accompagnate<br />

da chiarimenti teorici essenziali [che significa: «ridotti all’essenziale,<br />

130<br />

all’osso»; e <strong>non</strong> «fondamentali, di grande importanza», ndr] sui fenomeni<br />

e gli usi interpuntivi. Chi lo ha scritto <strong>non</strong> ha preteso di accampare<br />

ipotesi innovative o di offrire una panoramica sullo<br />

stato degli studi e delle conoscenze in materia. Ha avuto solo la<br />

(modesta) ambizione di fare qualcosa di utile, sulla base di<br />

un’ovvietà e di ragionevoli constatazioni. È ovvio che con la<br />

punteggiatura abbia a che fare chiunque voglia e sappia scrivere.<br />

È ragionevole prendere atto che sono abbastanza frequenti i<br />

dubbi e le curiosità su una pratica aperta a incertezze, a problemi<br />

per i quali talvolta si improvvisano soluzioni arbitrarie - ma<br />

<strong>non</strong> è detto che l’arbitrio e l’improvvisazione portino necessariamente<br />

ad errori» (pp. vii-viii).<br />

Tanta prudenza <strong>non</strong> è fuori luogo. La prima impressione, per<br />

chi si metta a riflettere sulla punteggiatura, è che se ne possa dire<br />

tutto e il contrario di tutto.<br />

Alle scuole elementari mi avevano insegnato (e ho scoperto<br />

negli anni che queste definizioni sono un patrimonio abbastanza<br />

diffuso) che la virgola indica «una piccola pausa» e il punto e<br />

virgola «una pausa più lunga»; che i due punti «precedono una<br />

spiegazione, un elenco o un discorso diretto», e <strong>non</strong> se ne possono<br />

mai mettere due consecutivi; che il punto (o punto fermo, per<br />

la maestra Raule che era più pignola) sta «alla fine della frase»;<br />

che si va a capo quando «una parte del discorso è conclusa»; e<br />

così via.<br />

Ma provate a fare un esperimento. Provate a registrarvi mentre<br />

leggete. L’ideale sarebbe registrarsi senza sapere di essere registrati,<br />

ma se lo fate da voi stessi è cognitivamente complicato.<br />

Scegliete un testo <strong>non</strong> troppo semplice, magari un testo dalla<br />

punteggiatura ricca (una bella pagina manzoniana, ad esempio:<br />

l’addio ai monti o la madre di Cecilia) ma <strong>non</strong> delirante (evitate Marinetti,<br />

in somma). Prima di registrarvi fate delle prove, sempre<br />

a voce alta. Cercate di leggere bene: immaginate di avere davanti<br />

un pubblico che <strong>non</strong> conosca quel testo, e di doverglielo far ca-


pire e gustare. Registrate dunque, poi mettete tutto da pare qualche<br />

giorno (il tempo sufficiente per dimenticare dove erano messe le<br />

virgole nel testo che avete letto), e infine trascrivete il testo dalla vostra<br />

registrazione. A questo punto, confrontate con l’originale.<br />

Scommetto (vado sul sicuro, l’ho fatto tante volte) che la punteggiatura<br />

della trascrizione <strong>non</strong> corrisponderà, se <strong>non</strong> all’ingrosso, a<br />

quella originale. Una volta che feci questo esercizio in un laboratorio<br />

di scrittura, un signore lungo lungo con una camicia gialla davvero<br />

orribile commento: «Sono cose che fanno pensare».<br />

Il Prontuario di Bice Mortara Garavelli è quindi tutto cosparso di<br />

formule prudenziali: «Si usa dire… Ma l’esperienza mostra…» (p.<br />

17); «Un’altra ragione sintattica che indirizzerebbe a separare con un<br />

segno d’interpunzione…» (p. 18); «L’uso della disgiuntiva "o" può<br />

ricadere sotto condizioni analoghe a quelle di "sia"» (p. 20); «Si tende,<br />

prevalentemente, a evitare la virgola quando…» (p. 21); «La presenza o<br />

l’assenza di una virgola davanti a un pronome relativo <strong>non</strong> dovrebbero<br />

essere casuali» (p. 26); e così via.<br />

«Ma a che cosa serve», potrebbe domandare qualcuno, «un prontuario<br />

che <strong>non</strong> ti dice mai chiaramente fa’ così che fai bene, ma ti riempie<br />

la testa di forse, di prevalentemente, eccetera eccetera?». La risposta è<br />

facile. Ciascuno di noi tende a usare la punteggiatura in modo tutto<br />

sommato automatico. È raro che si torni indietro a spostare una virgola,<br />

a sostituire un punto con un punto e virgola, a controllare la<br />

quantità di puntini di sospensione che abbiamo disseminati nel testo.<br />

Leggere questo Prontuario produce, e <strong>non</strong> è poco, l’effetto di costringerci<br />

a pensare ogniqualvolta mettiamo giù una virgola, una parentesi,<br />

un a capo.<br />

Faccio un esempio. Io produco una varietà di testi scritti: lettere,<br />

email, articoli per Stilos, progetti didattici, recensioni di libri, lezioni,<br />

racconti, pagine del mio diario in rete, e così via. Ultimamente ho<br />

assaporato la gioia dello scrivere i verbali dell’assemblea di condominio<br />

(ho preteso di fare il segretario verbalizzante: sono pur sempre<br />

l’unico scrittore del condominio). Ciascuna di queste tipologie di testi<br />

131<br />

fa riferimento, in maniera più o meno esplicita e più o meno rigida,<br />

a convenzioni linguistiche: che riguardano il lessico, la<br />

sintassi, e anche la punteggiatura.<br />

In una email a un’amica posso scrivere come mi pare. In un<br />

pezzo per Stilos, no: sarei scortese, se lo facessi. Ma <strong>non</strong> posso<br />

nemmeno scrivere piatto-piatto e banale-banale, come fa (se è<br />

bravo) il giornalista di cronaca: chi legge questa rubrica si<br />

aspetta, credo, anche una scrittura vivace. Nei verbali<br />

dell’assemblea di condominio scrivo piatto-piatto e banalebanale;<br />

nei progetti didattici per le scuole medie superiori scrivo<br />

in perfetto scolastichese; e, in somma, questo è il punto della questione,<br />

ciascuna di queste scritture richiede un certo lessico, una<br />

certa sintassi, e una certa punteggiatura.<br />

Lo studio del Prontuario di Bice Mortara Garavelli (che è autrice<br />

anche di un ottimo e chiaro Manuale di retorica, pubblicato da<br />

Garzanti) ha acuita la mia sensibilità. Ha fatto di me un punteggiatore<br />

più pignolo ma anche più variabile, più "personale" ma<br />

anche più adattabile. Il che <strong>non</strong> mi dispiace affatto.<br />

Chiacchierata numero 82<br />

Libri che insegnano a scrivere, 3. Due settimane fa ho presentato<br />

un manuale di poesia, settimana scorsa un prontuario di punteggiatura,<br />

oggi tocca a un libro sull’argomentare. Le puntate di<br />

questa rubrica dedicate ai «libri che insegnano a scrivere» saranno<br />

parecchie; e, tanto per <strong>non</strong> annoiare lettori e lettrici eventualmente<br />

disinteressati/e alla poesia o alla prosa o alla narrazione<br />

o all’argomentazione eccetera, saltabeccherò disinvoltamente,<br />

di puntata in puntata, da un argomento all’altro.<br />

Il gioco dell’argomentare di Cristina Pennavaja (Franco Angeli<br />

1997, 190 pagine) è un buon libro semplice e introduttivo. Ha<br />

un sottotitolo che può stupire: Percorso creativo per migliorare lo stile,


la scrittura, la vita. «Lo stile e la scrittura, vabbè», dirà qualcuno, «ma<br />

la vita? Non è un po’ troppo, per un manuale sull’argomentazione,<br />

pretendere di migliorare la vita?». Ebbene, no, <strong>non</strong> è un po’ troppo; è<br />

semplicemente indispensabile. Poi vedremo perché.<br />

I pregi del libro sono: ordine, chiarezza, completezza<br />

nell’essenzialità, efficacia degli esercizi, umiltà, moralità. La teoria<br />

dell’argomentazione è una disciplina antichissima (il suo nome più<br />

nobile è «retorica»), che per molti secoli ha sofferto di elefantiasi<br />

della materia e di ipertecnicismo del linguaggio: Pennavaja riesce a<br />

esporla con ordine e chiarezza, sfrondando con intelligenza, introducendo<br />

i tecnicismi solo quando servono davvero.<br />

Un paio di esempi. Il capitolo «Le sei funzioni fondamentali della<br />

comunicazione verbale» (pp. 31-37) <strong>non</strong> comincia (diversamente da<br />

pressoché tutti gli altri manuali che conosco) con l’elenco e la definizione<br />

delle sei funzioni, bensì con una breve scena di dialogo in<br />

cui tutte le funzioni entrano in gioco; prosegue con la presentazione<br />

e spiegazione di alcuni termini indispensabili (contesto, messaggio,<br />

codice, canale) e con il davvero inevitabile schemino «Emittente-<br />

Messaggio-Destinatario»; torna alla scena di dialogo, la analizza e fa<br />

vedere le sei funzioni in azione; e si conclude con altri brevi esempi<br />

puntualizzanti. Pennavaja poi <strong>non</strong> chiama le sei funzioni <strong>non</strong> con i<br />

nomi in uso nei trattati di linguistica e di retorica, ma con nomi più<br />

intuitivi: la funzione «conativa» diventa così «persuasiva», la funzione<br />

«fàtica» diventa «di contatto» (i nomi tecnici, comunque, sono in<br />

nota).<br />

Altro esempio. C’è un capitolo sulle figure retoriche. Si intitola:<br />

«Gli effetti delle figure retoriche nel testo» (pp. 92-102). Pennavaja<br />

<strong>non</strong> si cura della natura delle figure retoriche, va diritta al sodo occupandosi<br />

degli effetti che il loro impiego produce sul lettore o<br />

ascoltatore del testo. Così tutto risulta molto più chiaro che nei tradizionali<br />

trattati di linguistica e di retorica, dove le figure sono di solito,<br />

ahimè, catalogate secondo la loro natura (figure di parola, di<br />

pensiero, di posizione, di sostituzione eccetera), indipendentemente<br />

132<br />

da ciò a cui servono: come se in un libro di cucina le ricette <strong>non</strong><br />

fossero ordinate secondo la funzione dei singoli piatti<br />

all’interno del pasto (antipasti, primi, secondi, contorni, dolci)<br />

ma secondo gli ingredienti necessari a confezionarli.<br />

Dicevo: questo è anche un libro umile. A pagina 28, ad esempio,<br />

Pennavaja cita in nota il Trattato dell’argomentazione di Chaϊm<br />

Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca («opera fondamentale, purtroppo<br />

talora di difficile lettura») e i Saggi di linguistica generale di<br />

Roman Jakobson, e dice: «Il mio testo si propone di esporre in<br />

modo semplice gran parte della teoria di Perelman, saldandola<br />

con il modello delle funzioni comunicative di Roman Jakobson.<br />

Ritengo infatti che attraverso questa saldatura cada finalmente<br />

la separazione fra retorica delle argomentazioni e retorica delle<br />

figure di stile». Pennavaja presenta il suo lavoro, in somma,<br />

quasi come se fosse un "bignami"; in realtà la materia del Trattato<br />

di Perelman (che è davvero fondamentale ed è davvero di<br />

difficile lettura; ne parlerò prossimamente) è nel libro di Pennavaja<br />

completamente riorganizzata; e la «saldatura con il modello<br />

delle funzioni comunicative» è un’innovazione, quantomeno a<br />

livello didattico, <strong>non</strong> da poco.<br />

Dicevo infine che Il gioco dell’argomentare è anche un libro morale.<br />

Sempre a pagina 28 leggiamo la seguente dichiarazione:<br />

«Questo libro vuole essere soprattutto la prova che tutti possono<br />

imparare ad argomentare in maniera adeguata, utilizzando<br />

pensieri e parole aperti al dialogo con il prossimo, senza cadere<br />

nel ridicolo né mettere in ridicolo l’altro, evitando una inutile<br />

modestia e abbracciando invece la fruttuosa umiltà». La retorica,<br />

ai suoi inizi, fu guardata spesso, e <strong>non</strong> a torto, con diffidenza.<br />

I temibili «sofisti» erano filosofi, o retori, che si dichiaravano<br />

disponibili a sostenere indifferentemente una causa o la causa<br />

opposta, ad affermare indifferentemente la verità o la falsità di<br />

qualunque testi. Nell’antica Atene poteva accadere che un uomo<br />

politico di primo piano fosse ostracizzato, ossia mandato in


esilio, semplicemente a causa delle sue grandi capacità retoriche:<br />

perché chi è troppo bravo a convincere, chi è un troppo bravo venditore<br />

di sé stesso e delle proprie idee, chi ha con l’altro un approccio<br />

<strong>non</strong> dialogante ma manipolatorio, mina la democrazia.<br />

Diffidate, vi prego, di qualunque libro che parli di scrittura, narrazione,<br />

argomentazione, poesia, drammaturgia eccetera in termini di<br />

pura tecnica. Anche scrivere un annuncio del tipo: «Nel mese di<br />

agosto l’edicola dei giornali resterà aperta solo nell’orario mattutino»<br />

richiede, magari in misura minima, una riflessione morale.<br />

In questo, dunque, consiste il «miglioramento della vita» auspicato<br />

da Caterina Pennavaja nel sottotitolo del Gioco dell’argomentazione:<br />

nell’imparare a percepire, in tutti gli atti di comunicazione che concer<strong>non</strong>o<br />

decisioni, e in generale in tutti gli atti di comunicazione<br />

della vita quotidiana, la presenza di una questione morale interna alla<br />

comunicazione stessa, ai suoi modi e al suo stile.<br />

Chiacchierata numero 83<br />

Libri che insegnano a scrivere, 4. Un libro nuovo, nuovissimo: Come si<br />

fa un blog di Sergio Maistrello (Tecniche Nuove, pp. 173, euro 9,90).<br />

In questa rubrica ho parlato varie volte dei blog. Ma ripigliamo il discorso<br />

dal principio. Che cos’è un blog? Maistrello: «Un blog è un<br />

sito Web che richiede al suo autore capacità tecniche minime per<br />

pubblicare contenuti. Ti consente di diventare editore di te stesso<br />

nel giro di pochi minuti». E: «La parola blog nasce dall’unione e contrazione<br />

di Web e log, dove log è il termine inglese che identifica i registri<br />

in cui sono annotati gli eventi. La traduzione utilizzata più di<br />

frequente è diario di bordo, una definizione coerente con la metafora<br />

della navigazione utilizzata a proposito di Internet e fedele alla<br />

predominanza dell’elemento temporale in questo genere di pubblicazioni»<br />

(pp. 1-2).<br />

133<br />

Immaginatevi un programma televisivo o radiofonico, quotidiano,<br />

della durata di dieci minuti. Immaginate di essere voi gli<br />

autori e i conduttori di questo programma. Immaginate che la<br />

struttura del programma sia semplicemente questa: che voi andate<br />

in onda, e dite quello che vi pare. Un giorno raccontate<br />

una cosa che vi è successa. Un giorno raccontate una storia inventata.<br />

Un giorno esprimete un’opinione su qualcosa che è accaduto<br />

dall’altra parte del mondo o a vostro cugino. Un giorno<br />

leggete un articolo di giornale e lo commentate. Un giorno parlate<br />

di un libro che avete letto e che vi ha entusiasmati o disgustati.<br />

E così via.<br />

Negli ultimi tre-quattro anni, migliaia di persone in Italia hanno<br />

cominciato a pubblicare dei blog. Altri, parecchi, sono in<br />

forma di diario; altri si occupano di argomenti specifici (molti<br />

sono dedicati alla letteratura, al cinema, alla musica); altri contengono<br />

esclusivamente poesie; altri commentano l’attualità; altri<br />

sono luoghi d’incontro per piccole comunità; eccetera.<br />

La cosa interessante della tecnologia blog, <strong>non</strong>ché la ragione<br />

per cui vi parlo di questo libro, è che con essa si diventa facilissimamente,<br />

come dice Maistrello, «editori di se stessi». Ma attenzione:<br />

nell’essere «editori di se stessi», <strong>non</strong> c’è solo la libertà;<br />

c’è anche la responsabilità.<br />

Lo scrittore che vede il suo libro pubblicato da un editore, di<br />

fatto gli delega una serie di questioni (il rischio economico, ad<br />

esempio; la confezione grafica; la distribuzione); chi si fa editore<br />

di sé stesso deve arrangiarsi. Se il pubblicare un blog costa qualcosa<br />

(in termini di bolletta telefonica per la connessione<br />

all’internet; ma anche come acquisto di spazio in un server, abbonamenti<br />

a certi servizi, eccetera: tutte cose che Maistrello<br />

spiega assai bene nel suo libro), il rischio economico è tutto<br />

dell’autore-editore. Difficilmente si faranno soldi con un blog;<br />

ma l’autore-editore è comunque costretto a confrontare ciò che<br />

spende (denaro, tempo) e il risultato che ottiene. Quando si


apre un blog si possono acquistare, o anche ottenere gratis, delle<br />

«gabbie grafiche» preconfezionate: ma è così facile, trasformare e<br />

manipolare le pagine web (Maistrello dà un po’ di consigli e di istruzioni),<br />

che difatto l’autore-editore è responsabile anche dell’aspetto<br />

grafico del suo prodotto. Pubblicare nel web significa aprirsi a «una<br />

platea potenziale di milioni di persone», ma l’autore-editore scoprirà<br />

quanto è difficile (e, quindi, quanta soddisfazione dà) trovarsi dei<br />

lettori, affezionarli, convincerli a visitare il suo blog ogni volta che ci<br />

pubblica qualcosa di nuovo.<br />

Il libro di Sergio Maistrello, tra i tanti che sono stati pubblicati<br />

sull’argomento in questi ultimi anni (e consiglio a tutti Mondoblog di<br />

Eloisa di Rocco, Hops Libri), ha il pregio di essere introduttivo, bene<br />

scritto, assai bene equilibrato tra faccende prettamente tecniche e<br />

questioni inerenti appunto l’essere autore ed editore di sé stesso.<br />

Tutta la sezione di Come si fa un blog intitolata «Come si gestisce un<br />

blog» è dedicata a questi argomenti. Scrive Maistrello: «Il blog è un<br />

atto di generosità verso te stesso e verso gli altri. Consideralo prima<br />

di tutto un servizio a quanti verranno a visitare il tuo sito: scrivendo<br />

di te, della tua esperienza, delle tue competenze, metti a disposizione<br />

un patrimonio di informazioni che prima o poi potrebbe essere utile<br />

a qualcun altro. […] Rileggendo a mesi di distanza i tuoi archivi [dove<br />

si conservano i materiali pubblicati] ti renderai conto di quanto dedicare<br />

del tempo al sito ti avrà arricchito: noterai l’evoluzione dello stile di<br />

scrittura, rileggerai i tuoi stessi spunti biografici in una nuova prospettiva<br />

dopo averli lasciati decantare per qualche tempo, costruirai<br />

un’identità digitale che farà da specchio alla tua vita reale, metterai<br />

ordine nelle tue idee e nel modo di presentarle al prossimo» (p. 115).<br />

In altri termini: scrivere e pubblicare in rete costringe a pensare alla<br />

scrittura, sia essa informativa o narrativa, diaristica o cazzeggistica,<br />

tecnica o poetica, come a una attività relazionale. Scrivere e pubblicare<br />

nella rete costringe a pensare al lettore, a capire come l’oggetto indispensabile<br />

al testo <strong>non</strong> sono tanto io, l’autore, quanto l’altro, il lettore.<br />

Nei blog, tra l’altro, è possibile permettere ai lettori di inserire, in<br />

134<br />

calce alle cose scritte dall’autore-editore, dei cosiddetti «commenti».<br />

Potrà capitare, quindi, di esprimere un’opinione e di<br />

trovarsi pochi minuti dopo a discuterla con altri; di raccontare<br />

la propria giornata e di incontrare qualcuno che dice: «Ma guarda,<br />

anche a me è successo…»; di pubblicare una poesia e di trovarsi<br />

coperti di elogi o di sberleffi.<br />

Ma prima di aprire un blog, magari conviene andarsene a leggere<br />

un po’. Ecco qualche arbitrarissimo consiglio: il blog di<br />

Sergio Maistrello, http://www.sergiomaistrello.it; il blog di<br />

Eloisa Di Rocco (l’autrice di Mondoblog), http://x.lapizia.net; il<br />

blog di Princess Proserpina, http://www.pproserpina.net; il<br />

blog collettivo Macchianera, http://www.macchianera.net; il<br />

blog letterario Nazione Indiana,<br />

http://www.nazioneindiana.com; e il blog del simpaticisssimo<br />

Gattostanco: http://gattostanco.diludovico.it.<br />

Chiacchierata numero 84<br />

Libri che insegnano a scrivere, 5. Ai bambini, si sa, i libri piacciono<br />

parecchio. Il bambino italiano medio legge più libri dell’adulto<br />

italiano medio. Magari, specie se è un bambino piccolo, ciò che<br />

fa con i libri <strong>non</strong> è esattamente leggere: manipola, guarda, gioca,<br />

succhia, mordicchia, lancia in aria o in terra, eccetera. Fa’ quello<br />

che deve fare, in somma.<br />

Il libro dei libri di Niccolò Barbiero e Giulia Orecchia (Salani,<br />

pp. 151, euro 9,50) è, come dice il sottotitolo, un Manuale per giocare<br />

a costruire libri. Non è quindi esattamente un libro che «insegna<br />

a scrivere»; ma poiché chiunque si metta d’impegno a scrivere<br />

un romanzo o un poema o una collezione di liriche o di<br />

racconti (o qualunque altra cosa) ha generalmente lo scopo di<br />

arrivare prima o poi a fare un libro, tanto vale esercitarsi a fare libri<br />

fin da piccoli.


Attenzione: c’è una bella differenza tra scrivere un libro, e farlo. Per<br />

fare un libro bisogna occuparsi di carta, di inchiostro, di caratteri e<br />

corpi (oggi si chiamano font), di copertina, di illustrazioni, di paratesti<br />

(risvolto, quarta di copertina, biografia dell’autore) e così via; senza<br />

contare poi che una volta fatto il libro bisogna distribuirlo e venderlo,<br />

ed è tutta un’altra storia. Nel mio ormai pluriennale lavoro di lettore<br />

di dattiloscritti inediti, e destinati nella stragrande maggioranza a restare<br />

inediti, mi sono reso conto che ci sono persone che si rendono<br />

conto di che cos’è un libro, e persone che <strong>non</strong> se ne rendono conto.<br />

Basta, appunto, guardare il dattiloscritto. Un dattiloscritto curato,<br />

leggibile, ben marginato, con un font <strong>non</strong> bizzarro, stampato senza<br />

tirchieria d’inchiostri, fotocopiato con cura, appartiene sicuramente<br />

a una persona che sa che cos’è un libro. Ed è molto diverso, nei casi<br />

in cui si decide di «fare il libro», avere che fare con un autore che sa<br />

che cos’è un libro o con uno che <strong>non</strong> sa che cos’è.<br />

Un libro è un oggetto che altre persone prenderanno in mano; e<br />

soppesandolo dovranno decidere se acquistarlo o no, se leggerlo o<br />

no. Il libro quindi deve essere, per così dire, rappresentativo di sé<br />

stesso (deve dare l’idea di essere una certa cosa, ed essere effettivamente<br />

quella cosa); deve essere comodo e maneggevole nella giusta<br />

misura; deve essere leggibile; deve avere delle partizioni interne che<br />

corrispondano ai prevedibili tempi di lettura; deve essere illustrato<br />

efficacemente, se è un libro che prevede illustrazioni; deve giustificarsi<br />

da sé, saper stare al mondo, avere un’evidenza propria, occupare<br />

sensatamente il proprio posto sullo scaffale o sul tavolo.<br />

Ecco: fabbricare libri, significa imparare tutte queste cose. E cominciare<br />

dai libri per bambini <strong>non</strong> è una cattiva idea. I libri per<br />

bambini sono oggetti assai più ricchi e liberi dei libri per adulti. Un<br />

libro per bambini può essere rotondo o addirittura sferico, può avere<br />

il becco, può suonare o fare le puzze, può avere forma di scatola<br />

o di balena, può essere più grande del suo lettore o più piccolo di un<br />

pacchetto di fiammiferi svedesi. Fabbricare libri per i bambini (meglio<br />

ancora: con i bambini) porta ad assaporare questa grande liber-<br />

135<br />

tà, e a capire che <strong>non</strong> è certo una libertà sfrenata: perché comunque,<br />

come dicevo, una volta fabbricato il libro dovrà, almeno<br />

ogni tanto (è lecito concedere i bambini di conservare i<br />

libri fabbricati da loro stessi) andare incontro a un lettore estraneo,<br />

od almeno <strong>non</strong> coincidente con l’autore stesso.<br />

Finito tutto questo pistolotto, del Libro dei libri devo dire che<br />

mi sembra assai ben fatto. La varietà di libri proposta <strong>non</strong> è né<br />

eccessiva né scarsa. Le idee sono per lo più tradizionali (il che<br />

va benissimo), con qualche innovazione (bene!). I disegni sono<br />

chiarissimi (migliori dei testi, che sono comunque assai buoni).<br />

Ogni proposta per fare un libro contiene una vivace descrizione<br />

di come dovrà essere il lavoro finito, l’elenco dei materiali necessari,<br />

le istruzioni per costruire, suggerimenti per variare o<br />

ampliare il modello.<br />

Io sono particolarmente affezionato al Libro postale: «Ogni pagina<br />

di questo libro è in realtà una busta dove si raccolgono<br />

banconote di un certo valore, un dente caduto in battaglia, lettere<br />

segrete, fotografie e anche biglietti del treno usati o nuovi.<br />

Le buste possono essere i diverse dimensioni, di plastica, trasparenti<br />

o colorate, basta che la copertina del Libro postale sia<br />

più grande di tutte le altre buste. Una volta pronto, il libro si<br />

chiude in una busta ancora più grossa e ce lo si può spedire a<br />

casa» (p. 52). Per <strong>non</strong> parlare del Libro ingessato, il Libro 007, il<br />

Libro da appendere, il Libro con la bocca, il Libro teatro, e chi<br />

più ne ha più ne metta. Ovviamente il Libro dei libri si occupa<br />

prevalentemente del supporto: che cosa ci vada scritto o disegnato<br />

dentro, in questi libri, è affare secondario (ci sono però<br />

buoni suggerimenti e stimoli curiosi).<br />

Dopo pagina 100 il Libro dei libri abbandona, come se ne avesse<br />

abbastanza, il tema della produzione dei libri, e va a toccare<br />

velocemente vari altri aspetti: inventare un marchio editoriale<br />

(«Edizioni Asino chi legge» mi pare il suggerimento più grazioso),<br />

applicare ai libri etichette di genere o di proprietà, districarsi tra


l’enorme varietà di alfabeti a stampa, fabbricare segnalibri personalizzati,<br />

prodursi da sé la carta (riciclando altra carta), organizzare una<br />

mostra-mercato delle proprie opere. E <strong>non</strong> manca un adeguato repertorio<br />

di mostre-mercati di libri per bambini, <strong>non</strong>ché<br />

un’interessante scelta di pubblicazioni nel web interamente o parzialmente<br />

consacrata all’arte di fare libri con i bambini (da affrontare<br />

con un adulto accanto, anche perché parecchie sono in lingua inglese).<br />

In somma, questo Libro dei libri mi è sembrato proprio un fior di<br />

libro, utile e divertente. E ne consiglierei la lettura <strong>non</strong> solo ai piccoli,<br />

ma anche ai grandi. Perché si rendano conto di quanto lavoro,<br />

di quanti sforzi di invenzione e di armonia, ci siano dentro quel parallelepipedo<br />

di carta stampata che chiamiamo «libro».<br />

Alla prossima.<br />

Chiacchierata numero 85<br />

Libri che insegnano a scrivere, 6. Questa settimana <strong>non</strong> vi parlo di un<br />

libro, ma di una rivista. Si chiama Quaderni di didattica della scrittura, è<br />

un semestrale, e il numero 1 è appena uscito (146 pp., editore Carocci,<br />

un numero 16 euro, per abbonamenti: 06 420 142 60,<br />

riviste@carocci.it). I Quaderni sono curati dal Dipartimento di scienze<br />

pedagogiche e didattiche dell’Università di Bari, presso il quale è<br />

attivo da più di dieci anni un «Corso di alta formazione in didattica<br />

della scrittura»; <strong>non</strong> si rivolgono all’aspirante scrittore ma ai professionisti<br />

della scrittura (giornalisti, saggisti), agli insegnanti di Italiano<br />

delle scuole medie superiori e ai docenti universitari.<br />

Il primo Quaderno contiene delle cose piuttosto interessanti. Lo<br />

scrittore Raffaele Nigro racconta in un lungo intervento («Così ho<br />

scritto, così scrivo») il suo "percorso di avvicinamento" alla scrittura<br />

attraverso contraddittorie esperienze letterarie e antropologiche<br />

(dalla trascrizione delle fiabe tradizionali agli entusiasmi neoavan-<br />

136<br />

guardistici, per approdare a quello stile quasi ipnotico, raffinato<br />

e popolare insieme, che gli è caratteristico). Roberto Maragliano<br />

(già autore di un importante Manuale di didattica multimediale<br />

pubblicato da Laterza) affronta con piglio dinamico e tono un<br />

po’ profetico la questione dell’«Insegnare a scrivere con il computer»,<br />

individuando nella scrittura con il computer tre tratti<br />

nettamente distintivi rispetto alla scrittura con carta e penna: la<br />

perfettibilità, la connettività e la dialogicità. Il saggio di Pasquale Guaragnella<br />

«Apologia e confutazione nella prosa di Galileo», di taglio<br />

sostanzialmente storico-descrittivo, è un bel saggio istruttivo<br />

e divertente, ma è un saggio che sarebbe potuto apparire in<br />

qualunque rivista di storia e critica letteraria.<br />

La sezione «Interventi ed esperienze» si apre con un saggio di<br />

Giuseppe Fiori («Una penna per gli under 18») che pone una<br />

questione assai interessante: «Oggi <strong>non</strong> è facile per uno scrittore<br />

per adulti vestire i panni dello scrittore per l’infanzia o per i<br />

giovani. Perché si è abituati ad un’altra scrittura, ma soprattutto<br />

perché il mondo dell’infanzia di oggi cambia più rapidamente di<br />

quello di cento anni fa. Non è facile essere aggiornati sui mutevoli<br />

miti, giochi e linguaggi delle nuove generazioni. Segnatamente<br />

è difficile (anche per gli psicologi) comprendere lo spettro<br />

percettivo che un bambino/ragazzo ha del mondo e che gli<br />

arriva attraverso i media, l’elettronica, per <strong>non</strong> parlare delle "rivoluzioni"<br />

private familiari e sociali (disoccupazione, emigrazione,<br />

nuove povertà, separazioni ecc.)» (p. 63). Giuseppe Fiori,<br />

un po’ a volo d’uccello (questo è un saggio che sembra proprio<br />

un assaggio), prova a vedere come si sono posti il problema, e<br />

quali soluzioni hanno adottate, alcuni narratori di successo, da<br />

Tahar Ben Jelloun a Daniel Pennac, da Roddy Doyle a J. K.<br />

Rowling.<br />

Il cospicuo saggio di Loredana Perla («Competenza e scrittura»,<br />

25 pagine) tenta con successo di fare il punto sull’approccio<br />

d’ispirazione cognitivistica alla didattica della scrittura


(senz’altro il più proficuo), passato nel giro di un ventennio circa da<br />

una «concezione ipertroficamente intellettuale dei processi connessi<br />

all’apprendimento dello scrivere» a una più opportuna considerazione<br />

dei «fattori motivazionali» (p. 82). La mia impressione è che questo<br />

saggio fissi i punti di riferimento di tutto il Quaderno.<br />

«Criteri e indicazioni per la tesi di laurea» di Vanna Zaccaro prende<br />

le mosse dal celeberrimo Come si fa una tesi di laurea di Umberto Eco<br />

(Bompiani) e, sinceramente, ho l’impressione che <strong>non</strong> vada molto<br />

più in là. «Scrivere l’attimo, ovvero il telegiornale» di Francesco<br />

Giorgino è un’introduzione all’argomento molto brillante e suggestiva,<br />

ricca di molte informazioni in poche pagine. «In treno con il<br />

block-notes», di Daniele Giancane, è un testo curioso e ondivago.<br />

«Scrivere in treno è una delle cose più belle e naturali del mondo,<br />

perché viaggiare in treno vuol dire osservare l’umanità attorno a noi<br />

e al contempo il paesaggio che corre dal finestrino. Visto che si deve<br />

star fermi, o quasi, è un buon tempo per riflettere, fare bilanci, persino<br />

meditare. Forse pregare» (p. 126). Partendo da qui, Giancane<br />

arriva… Non ho capito. Non ho capito dove arriva. Verso la fine<br />

scrive: «La mia finalità è quella di riflettere sulla scrittura in un <strong>non</strong>luogo<br />

come il treno; sulla sua possibilità e la sua "bellezza", anzitutto<br />

per chi la pratica. Scrivere (nel mio caso poesie) sul treno può sembrare<br />

quasi incredibile - per chi ha una concezione "classica" della<br />

scrittura, perlomeno nel senso anche dei mezzi e dei luoghi […].<br />

Può sembrare atto quasi sacrilego scrivere una poesia in treno, una<br />

"caduta" dalla serietà dello scrittoio attorniato da una robusta biblioteca<br />

(ognuno pensa alla biblioteca di casa Leopardi) alla vile laicità<br />

di uno scompartimento» (p. 132). Ma, <strong>non</strong> so. Ho l’impressione<br />

che si sfondino porte aperte. Il primo Quaderno di didattica della scrittura<br />

si conclude infine con un racconto di Raffaele Crovi.<br />

In sostanza: come in ogni rivista ci sono cose più interessanti e altre<br />

meno, ma credo che soprattutto gli insegnanti di Italiano nelle<br />

scuole medie superiori farebbero bene a dare un’occhiata a questo<br />

137<br />

Quaderno, e magari ad abbonarsi. Io mi sono abbonato. Di una<br />

rivista come questa, da anni sentivo la mancanza.<br />

***<br />

La settimana scorsa ho parlato del Libro dei libri. Manuale per<br />

giocare a costruire libri di Niccolò Barbiero e Giulia Orecchia (Salani).<br />

Avrei dovuto almeno citare (me ne sono dimenticato) un<br />

altro aureo libretto sullo stesso argomento: Guida pratica per fare<br />

libri con i bambini, di Maria Pia Alignani (ed. Sonda, pp. 102, euro<br />

10,50). La Guida (diversamente dal Libro dei libri) <strong>non</strong> si rivolge<br />

direttamente ai bambini bensì agli adulti, e si ispira al Book Art<br />

Project di Paul Johnson, è a sua volta autore dell’ottimo Facciamo<br />

un libro (ugualmente pubblicato da Sonda). Ma su libri &<br />

bambini riprenderemo il discorso.<br />

Chiacchierata numero 86<br />

Libri che insegnano a scrivere, 7. Credo che il libro di cui vi parlo<br />

oggi sia assai difficile da trovare. La persona che me l’ha prestato<br />

l’ha trovato in una libreria di libri usati. L’editore <strong>non</strong> esiste<br />

più. Si tratta di Come scrivere romanzi rosa. Guida alla narrativa<br />

sentimentale: personaggi, ambienti, dialoghi, sentimento, passione, conflitto,<br />

di Phyllis Taylor Pianka (Spazio Libri Editori, 1993 [ma<br />

l’edizione originale americana è del 1988], pp. 160, 28.000 lire).<br />

Il libro è interessante, secondo me, per tre ragioni: primo, perché<br />

<strong>non</strong> mi risulta che esistano in lingua italiana altri manuali di<br />

scrittura relativi a questo genere di romanzi (ma, se sapete<br />

l’inglese, lo potete comperarlo per soli due dollari su<br />

www.amazon.com); secondo, perché è un libro interessante e<br />

divertente; terzo, perché i romanzi rosa sono un genere letterario<br />

sempre denigrato, e a me invece stanno simpatici.


La signora Pianka è un’autrice, da quel che ho potuto capire, abbastanza<br />

affermata (ma <strong>non</strong> tradotta in Italia). Ha pubblicato qualche<br />

dozzina di romanzi quasi tutti di genere rosa, distribuiti tra i vari<br />

sottogeneri: rosa contemporaneo, rosa d’ambientazione storica, rosa-gotico,<br />

e così via. È in somma una seria professionista. E infatti il<br />

libro fa capire fin dalla prima pagina che il romanzo rosa è, prima di<br />

tutto, un prodotto industriale: «I romanzi di "genere" vengono di<br />

solito stampati in particolari collane, con un preciso numero di titoli,<br />

sono pubblicati mensilmente e si rivolgono a una precisa fascia di<br />

lettori. […] Si tratta di libri di formato ridotto, di una lunghezza<br />

standard che varia dalle 55 mila alle 85 mila parole. […] Alcune case<br />

americane si avvalgono dei servizi di produttori editoriali […]: si<br />

tratta di società che presentano all’editore pacchetti per le nuove serie,<br />

nuovi libri o semplicemente nuove idee. Se l’editore decide di<br />

acquistare, offre al produttore editoriale una cifra prefissata per la<br />

produzione dei libri. Il produttore ingaggia allora degli autori per<br />

scrivere i libri, di solito in conformità con le direttive o le trame da<br />

lui stesso fornite» (p. 13). Queste cose possono sembrare bizzarre<br />

all’aspirante narratore italiano. Proprio per questo gli farà bene impararle.<br />

Ciò detto, il libro della signora Pianka è, tutto sommato, un libro<br />

assai ben fatto. L’articolazione in capitoli è piuttosto chiara ed efficace:<br />

accanto a capitoli che potreste trovare in qualsiasi manuale di<br />

narrazione («Il punto di vista», «I personaggi», «Come scrivere dialoghi<br />

credibili», ecc.), ci sono quelli specifici: «Costruire la trama romantica»,<br />

«Sensualità e sessualità», «Il romanzo rosa storico», e così<br />

via.<br />

La signora Pianka <strong>non</strong> si fa scrupoli ad essere severamente prescrittiva.<br />

Nel capitolo «La costruzione delle scene» (pp. 88-100)<br />

elenca nove «tipi di scene» che «dovrebbero essere presenti in ogni<br />

racconto rosa»: la scena d’apertura, le scene-situazione (dove «si organizzano<br />

dati informativi sull’antefatto principale» e «si impostano<br />

personaggi per giustificare l’azione che logicamente seguirà»), le sce-<br />

138<br />

ne di verifica (dove dovremo «vedere al lavoro» il personaggio,<br />

qualunque sia il suo lavoro), le scene di conflitto (il conflitto è<br />

«la messa in funzione di idee o desideri incompatibili»), le scene<br />

di arresto e scene di progressione («nel condurre i personaggi<br />

verso una meta, l’autore dovrà evitare di semplificare eccessivamente<br />

la trama»), la scena del voltafaccia («definita anche "il<br />

momento più cupo", poiché si pone come se <strong>non</strong> ci fosse soluzione<br />

al problema»), il flashback e il flashforward (due «tecniche<br />

per fermare il tempo»), la scena clou («ove viene a ricomporsi il<br />

conflitto e ove le mete vengono raggiunte»), la scena conclusiva<br />

(«il punto dove il bandolo della matassa si dipana, ove si dà ragione<br />

di tutti gli indizi disseminati qua e là, in cui il lettore viene<br />

appagato dal finale gratificante»). Queste scene ci devono essere,<br />

spiega la signora Pianka, <strong>non</strong> c’è scampo: se <strong>non</strong> ce le mettete,<br />

il vostro romanzo rosa <strong>non</strong> viene bene - o vi viene un romanzo<br />

che <strong>non</strong> è esattamente un romanzo rosa.<br />

Il capitolo «Sensualità e sessualità» è utilissimo per capire come<br />

si incontrano e si legano, nella produzione del romanzo rosa,<br />

i desideri delle lettrici, gli obiettivi di mercato delle case editrici,<br />

e la fantasia delle autrici e degli autori. Dopo avere descritta<br />

la morale un po’ bacchettona vigente nel romanzo rosa<br />

fino a tutti gli anni Settanta, la signora Pianka scrive: «Poi, con<br />

gli anni Ottanta, caddero molte barriere. Una collana di rosa, ad<br />

esempio, richiedeva che ci fosse una scena di letto verso il terzo<br />

capitolo, ed almeno tre scene di letto in tutto il libro. Uso il<br />

termine scena di letto con leggerezza, poiché la competitività tra<br />

gli autori era feroce, e si cercava chi riuscisse a inventare il posto<br />

più esotico (e scomodo) ove gli amanti potessero unirsi.<br />

[…] Ma le mode cambiano e fanno il loro tempo. Vi furono<br />

delle persone più sagge alla direzione editoriale e si convenne<br />

che, in effetti, la fantasia aveva oltrepassato il romantico per<br />

sconfinare nel ridicolo. Vennero redatti nuovi orientamenti<br />

editoriali, ove si diceva che <strong>non</strong> era proprio logico che i perso-


naggi saltassero su di un letto dopo essersi conosciuti da appena<br />

un’ora. […] La tendenza al realismo trova spazio in questi libri, ma il<br />

loro centro di gravità resta sempre e comunque la fantasia, ove una<br />

storia d’amore perfetta ha il ruolo principale. […] Nessuno di noi<br />

deve scordarsi il motivo per cui questi libri godono di così vasta popolarità:<br />

[…] perché ci permettono un’evasione dal quotidiano. Benché<br />

essi siano parte integrante del mondo in cui si vive, e riflettano il<br />

mutato ruolo della donna e il cambiamento dei sogni delle donne<br />

stesse, <strong>non</strong> dovranno essere una riproduzione minuziosa di quel<br />

mondo, altrimenti cesseranno di avere la loro funzione nelle aspirazioni<br />

delle lettrici» (pp. 102-104).<br />

Avere una funzione nelle aspirazioni delle lettrici. Ecco qualcosa a cui<br />

l’aspirante narratore, di qualunque genere egli sia, pensa (secondo<br />

me) troppo poco spesso.<br />

Chiacchierata numero 87<br />

Libri che insegnano a scrivere, 8. La pianta del riso di Raffaele Palma<br />

(sottotitolo: Guida alla didattica dello humour) <strong>non</strong> è esattamente un libro<br />

che insegna a scrivere. (D’altra parte, la maggior parte dei libri<br />

che insegnano a scrivere sono, secondo me, libri che parlano di tutto<br />

fuorché di scrittura: ma di questo parleremo un’altra volta). Il libro<br />

mi è stato regalato da un’amica di Torino insieme a una scelta di<br />

prodotti gastronomici piemontesi: e forse c’entrerà, <strong>non</strong> saprei dire<br />

(si tratterebbe, in quel caso, di una freddura), il fatto che in Piemonte<br />

(nel Vercellese soprattutto) le risaie abbondano. Chissà.<br />

Non so esattamente chi sia Raffaele Palma. Nella quarta di copertina<br />

del libro, Maria Valabrega scrive: «A ridere, o almeno a sorridere,<br />

si impara. Da anni Raffaele Palma è impegnato in questa <strong>non</strong> facile<br />

battaglia. Ha cominciato ad esprimere le sue proteste con mascheroni<br />

satirici, con ingombranti e complesse sculture realizzate<br />

con i materiali più svariati, per passare poi alla satira disegnata.<br />

139<br />

Composizioni graffianti, un po’ ciniche, mai troppo cattive, per<br />

sottolineare le ingiustizie sociali, per riflettere con pochi tratti<br />

nervosi il velenoso mondo che ci circonda. Perché <strong>non</strong> insegnare<br />

agli altri l’arte liberatoria della satira? Così Palma ha fondato<br />

il C. A. U. S., Centro Arti Umoristiche e Satiriche. Di qui sono<br />

partire le iniziative: corsi per adulti, per ragazzi, mostre, studi<br />

con medici ed esperti per capire fino a che punto una buona risata<br />

sia anche una buona medicina». Il libro, in sostanza, raccoglie<br />

le sintesi di alcune relazioni tenute a un convegno intitolato<br />

«Sorriso e salute» (organizzato da Palma a Torino nel 1989),<br />

integrati da una serie di esercizi di scrittura, disegno e scrittura<br />

con disegno.<br />

Il tutto, va detto, è un po’ goliardico e confuso. Nella frenesia<br />

di far stare di tutto dentro il piccolo libro (139 pagine) Palma ha<br />

stipati i materiali all’inverosimile. Parecchi esercizi di scrittura<br />

sono spiegati così sbrigativamente che, anche a pensarci e ripensarci,<br />

<strong>non</strong> ci si capisce nulla. Alcuni capitoli pretendono di<br />

trattare tutte insieme delle forme di testo che a me sembrano<br />

molto differenti tra loro (vedi il capitolo dodici: «Slogans, massime,<br />

aforismi, proverbi, quiz, test». Altri capitoli hanno titoli<br />

che promettono molto e poi, alla prova della lettura, lasciano<br />

delusi e anche un po’ sbigottiti: vedi il diciassettesimo capitolo,<br />

«Didattica dell’umorismo nelle carceri minorili», dove dal titolo<br />

uno si aspetta la relazione accurata (e anche un po’ tecnica, perdiana!)<br />

di un’esperienza, e si trova invece un appuntino di una<br />

paginetta e mezza.<br />

Comunque, fatte al libretto tutte le pulci che vanno fatte, bisogna<br />

ammettere che è in fin dei conti un libretto interessante:<br />

e per più ragioni.<br />

La prima ragione è che, come altre pubblicazioni simili, La<br />

pianta del riso è un considerevole serbatoio di cose che si possono<br />

fare. Io l’ho ricevuto in dono un paio di settimane fa, e ho<br />

già cominciato ad adoperare in aula esercizi ed esercizietti che ci


ho trovati dentro. Niente di speciale, per carità: ma il lavoro di insegnare<br />

a scrivere (così come quello di imparare) ha bisogno anche di<br />

queste cose. L’esempio calzante, l’esercizio divertente, l’aneddoto<br />

appropriato, sono strumenti che sveltiscono il lavoro dell’intuizione<br />

e facilitano la memorizzazione. Ovviamente, sono utili quando si<br />

parli, in aula, della tecnica dello scrivere; <strong>non</strong> quando si parli di tutto<br />

quell’altro, che è la parte minore per massa e maggiore per peso, e<br />

che <strong>non</strong> è tecnica.<br />

La seconda ragione è che La pianta del riso è stato scritto con un<br />

entusiasmo che tutto travolge. Non si parla, in questo libro, di allegria<br />

letizia felicità: no, si parla del riso proprio come fatto fisico,<br />

come movimento improvvisamente e provvisoriamente ingovernabile<br />

di certi muscoli della faccia e della pancia. Se una mens sana produce<br />

un corpus sanum, sembra presupporre tutto il libro, allora un corpus<br />

sanum produrrà senza scampo una mentem sanam. E sano per definizione<br />

è quel corpo che ride. Magari questa sarà, che ne so, una<br />

psicosomatica da quattro soldi, ma è comunque utile per ricordare a<br />

chi scriva o voglia scrivere, che <strong>non</strong> solo la mente e la ragione del<br />

lettore vanno catturate, ma pure il suo corpo e la sua anima.<br />

La terza ragione è che il libro è, di per sé, allegramente godibile.<br />

Porto ad esempio, scegliendo tra centinaia, questo microracconto<br />

onomastico-commerciale, cioè basato su nomi di prodotti in vendita<br />

nei supermercati (nello specifico, amari e altri liquori): «Era il 18<br />

Isolabella dell’anno Stock 84 e i due nobili Don Bairo e Don Perig<strong>non</strong><br />

scendevano la China Martini del Montenegro dopo la vista alla<br />

cappella di San Marzano. Si fermarono in un Punt e Mes e Don Bairo<br />

disse: “Chivas tu da Julia?”. Don Perig<strong>non</strong>, piuttosto Maraschino<br />

in volto, indicando la sua Gambarotta rispose: “Non ci voleva<br />

quello scivolone su quella Petrus maledetta… Ma Jesus sa quanto<br />

vorrei con ella stare, ma con questo Pastis mi sarebbe difficile far<br />

Ferrochina come vorrei”. “Aperol, potresti darci tu una Batida al<br />

posto mio!”. “Jaegermeister”, rispose don Bairo, “sono in partenza<br />

per la Cynar”. Ma, il giorno seguente, scivolando in una Sambuca, si<br />

140<br />

frantumò il Bocchino. Ne ebbe per tre mesi in un ospedale del<br />

Lucano e <strong>non</strong> si perdonò mai di <strong>non</strong> aver accettato l’invito<br />

dell’Unicum suo amico» (p. 50). Se tutto questo vi fa sorridere,<br />

allora La pianta del riso fa per voi. Se <strong>non</strong> vi dice nulla, le possibilità<br />

sono due: o siete troppo giovani (il libro è dei primi anni<br />

Novanta; e molti liquori allora di moda sono oggi oggetti<br />

d’antiquariato), e allora siete perdonati, oppure proprio <strong>non</strong><br />

siete dotati per le attività inutili e sciocche, e allora <strong>non</strong> c’è<br />

niente da fare.<br />

La cosa più difficile, probabilmente, è procurarsi il libro.<br />

L’editore è l’assessorato all’Istruzione del Comune di Torino. Il<br />

Centro Arti Umoristiche e Satiriche è ben rappresentato in<br />

Google. E poi i libri, come noto, a chi li cerca ostinatamente,<br />

prima o poi gli cascano in braccio.<br />

Chiacchierata numero 88<br />

Libri che insegnano a scrivere, 9. Un lettore mi scrive: «Caro Mozzi,<br />

le confesso de da quando ha cominciato a consigliare i "libri<br />

che insegnano a scrivere" mi lascia un po’ perplesso. Non dubito<br />

che i libri che lei consiglia siano ottimi libri (lei è tra l’altro<br />

abbastanza accurato da indicarne anche i limiti): ma mi sembra<br />

che lei proceda un po’ a caso indicando ora un libro d’un tipo e<br />

ora un libro d’un altro, senza un sistema preciso, e soprattutto<br />

privilegiando libri molto specifici (la punteggiatura, il romanzo<br />

rosa, come far fabbricare libri ai bambini…), un po’ paradossali,<br />

addirittura marginali, talvolta per sua stessa ammissione introvabili;<br />

mentre a chi la legge farebbe comodo, magari, un elenchino<br />

ragionato dei libri in qualche modo "fondamentali" - che<br />

ci saranno, immagino. Oppure in questo campo tutta la bibliografia<br />

è fatta di libri strani e bizzarri?».


Il lettore ha naturalmente ragione, molta ragione. Non ci vorrebbe<br />

molto a fare una lista breve (un «elenchino», come dice lui) di libri<br />

veramente fondamentali. Ma io <strong>non</strong> ne ho voglia.<br />

La pratica della scrittura si può dividere (l’ho già detto più volte,<br />

ma portate pazienza) in tre parti. C’è una parte di tecnica, una di consapevolezza,<br />

e una di genio. Sul genio (o talento, o bernoccolo, o che<br />

altro: dàtegli il nome che volete) c’è poco da dire. C’è chi le Muse gli<br />

parlano, e chi no. Certo: tra chi ha il genio della scrittura ci sarà chi<br />

ha un genio grande e chi ha un genio piccolo; ma queste sono variazioni<br />

di grado; la differenza sta chi il genio talento bernoccolo ce<br />

l’ha, e chi no. Il genio <strong>non</strong> è insegnabile: spunta dove vuole e quando<br />

vuole.<br />

La tecnica è ciò che può essere insegnato a chiunque <strong>non</strong> sia stupido.<br />

Ovviamente si possono raggiungere diversi livelli nel padroneggiamento<br />

della tecnica. Possono esservi scrittori dotati di molto<br />

genio e poca tecnica, o di poco genio e molta tecnica, di poco di<br />

questo e di quella, di molto di questo e di quella.<br />

La consapevolezza è la consapevolezza di una cosa: che la scrittura<br />

è un’attività relazionale. Che <strong>non</strong> si scrive per sé per l’Arte o per i<br />

posteri o per il mercato o per il pubblico o per il proprio analista o<br />

per sfogarsi eccetera, ma si scrive (banalmente: ma spesso questa<br />

banalità risulta difficile da accettare) perché altre persone leggano -<br />

perché almeno un’altra persona legga. Che l’oggetto indispensabile,<br />

nell’esistenza di una scrittura, <strong>non</strong> è colui che scrive: bensì colui che<br />

legge.<br />

Ora, di manuali che insegnano la tecnica ce n’è tanti; e si trovano<br />

facilmente nelle librerie. Volendo fare l’«elenchino», e cercando di<br />

indicare pochi titoli di facile lettura e buona qualità, direi: Come si fa<br />

una tesi di laurea di Umberto Eco (tascabili Bompiani: che è<br />

un’introduzione generale alla produzione e all’organizzazione di un<br />

testo, saggistico o narrativo che sia); Il grande manuale di scrittura creativa<br />

(di vari autori, edizioni Nord: traduzione di un’opera statunitense,<br />

quindi continuamente riferito a una letteratura molto diversa dalla<br />

141<br />

nostra, ma utile onesto e chiaro); il Manuale di retorica di Bice<br />

Mortara Garavelli (tascabili Bompiani: mi raccomando di controllare<br />

che sia l’ultima edizione, riveduta e ampliata - e, direi,<br />

resa più accessibile); e L’arte della narrativa di David Lodge<br />

(anche questo nei tascabili Bompiani: <strong>non</strong> è un caso, ma il risultato<br />

della quarantennale collaborazione tra questo editore e<br />

Umberto Eco). Fine dell’«elenchino». Si impara tutta la tecnica<br />

che serve, da questi quattro libro? No: la tecnica è sterminata. E<br />

che altro bisognerebbe leggere, allora? Di tutto, direi. Bisognerebbe<br />

leggere un po’ di tutto. Anche fumetti o libretti<br />

d’istruzione o programmi di sala o discorsi elettorali o il codice<br />

civile eccetera. Ma questo, evidentemente, è un altro discorso.<br />

***<br />

Soddisfatto in questo modo (o almeno spero) l’esigente lettore,<br />

passo a dire che a volte si compera un libro pensando che<br />

sia un libro e poi, quando lo si legge, si scopre di averne comperati<br />

tre. Questo mi è successo con Il filo d’Arianna (dalla parola al<br />

testo) scritto da Susanna Nugnes, Pier Antonio Pardi e Alessandro<br />

Scarpellini (Edizioni Ets, pp. 221, euro 10,33. Sulla copertina<br />

c’è scritto anche: Quaderno di scrittura creativa I, ma <strong>non</strong> mi risulta<br />

che questo terzetto d’autori abbia prodotto un secondo<br />

quaderno; benché nel sito dell’editore (www.edizioniets.com) si<br />

possano rintracciare altre pubblicazioni, soprattutto di Pardi,<br />

nate nell’ambito dell’attività di «Officina», un laboratorio fondato<br />

a Pisa dallo stesso Pardi.<br />

I tre libri sono dunque questi: Il «Trattatino enigmisticogrammaticale»<br />

di Nugnes (pp. 9-67), «C’era una volta… una pagina<br />

bianca» di Pardi (71-131), e «Scrittura profonda / Scrittura<br />

sensoriale» di Scarpellini (135-218). L’obiettivo comune, dichiarano<br />

gli autori, è di «far entrare i ragazzi nei labirinti magici della<br />

scrittura in un modo giocoso e leggermente trasgressivo, lavo-


ando sulla parola e sulle sue infinite e imprevedibili applicazioni».<br />

Direi che l’obiettivo è raggiunto.<br />

In sostanza, Il filo d’Arianna è uno dei tanti libri che legano<br />

l’apprendimento dell’uso della lingua nella scrittura al gioco: gioco<br />

enigmistico, gioco verbale, gioco narrativo, gioco di scrittura. È uno<br />

dei tanti, ma tra tutti quelli che ho letti a me sembra quello più utile<br />

e interessante: un po’ perché <strong>non</strong> è estremistico (provate a leggere<br />

l’Atlante di letteratura potenziale dell’Oulipo, pubblicato in Italia<br />

dalla Clueb, e ne uscirete con la convinzione che gli autori fossero<br />

tutti pazzi), un po’ perché <strong>non</strong> eccede nel puro ludismo (con una<br />

«d» sola, ossia: «accentuazione degli aspetti ludici»), ma soprattutto<br />

perché è ben consapevole di ciò che è e di ciò che <strong>non</strong> è. È un libro<br />

che «fa entrare nei labirinti magici della scrittura», ma si guarda bene<br />

dal promettere di tirarvene fuori; è un libro «trasgressivo» sì, ma solo<br />

«leggermente»; è dedicato «alla parola e alle sue infinite e imprevedibili<br />

applicazioni» ma, per il solo fatto di avere una mole ragionevole,<br />

con ogni evidenza <strong>non</strong> pretende di esaurirle tutte.<br />

Chiacchierata numero 89<br />

Libri (e altre cose) che insegnano a scrivere, 10. In questa puntata <strong>non</strong><br />

parlo di libri. Parlo di due pubblicazioni in rete. Una volta le «pubblicazioni<br />

in rete» si chiamavano «siti web». Credo peraltro che si<br />

chiamino ancora «siti web». Però secondo me «pubblicazione in rete»<br />

è meglio di «sito web» (che paraltro vuol dire, più o meno, «pubblicazione<br />

in rete»).<br />

Dunque, parlo di due pubblicazioni in rete. Una si chiama Il mestiere<br />

di scrivere (http://www.mestierediscrivere.com) ed è curata da Luisa<br />

Carrada. L’altra <strong>non</strong> ha un vero e proprio nome, e consiste delle<br />

pagine sulla scrittura creativa curate da Annamaria Manna all’interno<br />

del portale SuperEva (http://guide.supereva.it/scrittura_creativa).<br />

142<br />

«Il mestiere di scrivere», spiega Luisa Carrada, «è il sito che mi sarebbe<br />

piaciuto trovare su Internet per fare meglio il mio lavoro.<br />

E siccome <strong>non</strong> c’era, alla fine ho deciso di farlo io. Lavoro come<br />

copywriter ed editor in una grande azienda high-tech, un lavoro<br />

divertente e ingrato, che consiste nel far esprimere e comunicare<br />

l’azienda al meglio attraverso le parole. In pratica, significa<br />

scrivere, curare, correggere, seguire una quantità di testi su tanti<br />

strumenti di comunicazione diversi: brochure, documenti interni,<br />

presentazioni, pubblicità, discorsi del management, la intranet<br />

aziendale, il sito Internet, il bilancio annuale. Ma significa<br />

farlo dando all’azienda un’unica voce, un unico stile, coerenti<br />

con il suo modo di essere, con i suoi obiettivi, con i suoi valori,<br />

persino con i suoi problemi.<br />

«Quando ho cominciato, dieci anni fa, il mestiere proprio <strong>non</strong><br />

lo conoscevo. […] Qualche idea sulla comunicazione […]<br />

l’avevo, ma mi ero sempre occupata di arte e letteratura, al massimo<br />

di cronaca e problemi sociali. Di informatica e tecnologia<br />

<strong>non</strong> sapevo nulla e comunque ciò che mi si chiedeva allora era<br />

soprattutto di "scrivere bene in italiano".<br />

«Naturalmente capivo che questo <strong>non</strong> bastava. Ho cercato di<br />

guardarmi intorno e di leggere il più possibile sulla comunicazione<br />

di impresa, ho seguito corsi con titoli altisonanti […], ma<br />

era tutto terribilmente teorico. I "ferri del mestiere" - perché di<br />

mestiere si tratta - me li sono costruiti sul campo, giorno per<br />

giorno.<br />

«Poi è arrivata Internet. Era l’estate del 1994, e l’ho passata a<br />

scoprire questo mondo nuovo, a leggere avidamente su monotoni<br />

fondi grigi ciò che altri, in tutto il mondo, scrivevano sui<br />

problemi della mia professione. Anzi, della nostra professione,<br />

perché mi sono sentita finalmente parte di una comunità professionale<br />

più vasta. […] Ho conosciuto altre persone che avevano<br />

moltissime cose da insegnarmi, ma soprattutto ho cominciato<br />

a riflettere su questo strano e nuovo mezzo di comunica-


zione, che mi chiedeva di lavorare e scrivere in modo del tutto diverso.<br />

«Da allora <strong>non</strong> mi sono più fermata. Nella mia azienda mi sono<br />

dedicata soprattutto alla comunicazione online, collaborando a<br />

mettere in piedi il sito internet e un’intranet che ormai funziona<br />

egregiamente da cinque anni. Tutto questo mentre proseguiva la mia<br />

esplorazione di Internet alla ricerca di studi, suggerimenti, riflessioni,<br />

o di altre persone che vivevano le mie stesse avventure.<br />

«A un certo punto ho pensato che tutto questo lavoro poteva diventare<br />

un sito, un sito italiano, forse il primo, dedicato alla scrittura<br />

professionale. Utile agli editor come me e a chi vuole diventarlo, ma<br />

anche a chi nel suo lavoro deve scrivere molto e vuole comunicare<br />

bene.<br />

«Nel Mestiere di scrivere ci sono le mie letture e le mie esperienze<br />

concrete del lavoro di tutti i giorni».<br />

Il Mestiere di scrivere si divide in varie sezioni, alcune dedicate alla<br />

scrittura in generale e altre alla scrittura per la rete in particolare. Assai<br />

interessanti sono i Quaderni del Mestiere di scrivere, ossia brevi monografie<br />

in formato Pdf, scaricabili gratuitamente.<br />

***<br />

SuperEva è l’unico portale italiano che offra le «guide». Tutti i<br />

portali, quale in un modo quale in un altro, offrono censimenti e<br />

classificazioni di pubblicazioni in rete: si propongono, per così dire,<br />

come indici della rete. Le «guide di SuperEva» sono persone che, appassionate<br />

a una materia o a una disciplina o a un’arte o a qualunque<br />

cosa, <strong>non</strong> solo curano degli indici e delle pagine di segnalazioni particolarmente<br />

accurate, ma anche dialogano con navigatori e navigatrici,<br />

rispondo a richieste, propongono iniziative.<br />

Annamaria Manna, che dall’estate del 2000 (se <strong>non</strong> ricordo male) è<br />

la «guida di SuperEva» per la «scrittura creativa», è riuscita a diventare<br />

il punto di riferimento italiano per tutte le attività che ruotano<br />

143<br />

attorno alla cosiddetta «scrittura creativa». Della quale fornisce<br />

addirittura una «definizione ufficiale»: «Lo scopo della scrittura<br />

creativa è di sviluppare la nostra capacità di costruire testi in<br />

modo creativo ed efficace. Attraverso un’esplorazione attiva e<br />

divertente della lingua italiana, si può migliorare la qualità della<br />

scrittura di ciascuno. Affrontare un percorso di scrittura creativa<br />

significa calarsi in un laboratorio che prevede sperimentazioni<br />

brevi e mirate, alla portata di tutti, di un diverso stile di<br />

composizione. Ci si riappropria così, con un nuovo spirito decisamente<br />

più attivo e protagonista, di tutte le tecniche di composizione,<br />

di ogni genere testuale (narrativo, poetico, saggistico,<br />

ecc.) e di tutte le fasi del processo di scrittura, dall’ideazione,<br />

alla redazione, alla correzione».<br />

La rete è un mare magnum, nel quale è molto più facile perdere<br />

il proprio tempo che trovare ciò che si cerca. L’eccellente lavoro<br />

di Annamaria Manna, che instancabilmente segnala tutto ciò<br />

che in Italia avviene, si fa, si dice, si pubblica in carta o in rete,<br />

attorno alle pratiche della scrittura, è di grandissima utilità. A<br />

tutti coloro che sono alla ricerca di una pubblicazione (di carta<br />

o in rete), di un laboratorio, di un corso universitario, in somma<br />

di una qualsiasi occasione formativa per la scrittura e la narrazione,<br />

<strong>non</strong> posso che dire: rivolgetevi ad Annamaria.<br />

Chiacchierata numero 90<br />

Libri che insegnano a scrivere, 11. «Non occorre aver passato<br />

molto tempo a rivedere e giudicare articoli di cronaca per avere<br />

chiara una cosa: un articolo <strong>non</strong> funziona <strong>non</strong> per lo stile<br />

sciatto, le citazioni sbagliate o la costruzione scadente, ma perché<br />

<strong>non</strong> sono state fatte ricerche adeguate. Nel giornalismo,<br />

<strong>non</strong> c’è linguaggio elaborato che possa nascondere questo fatto:<br />

o avete la materia prima su cui lavorare oppure no». Così si leg-


ge a pagina 64 di Il giornalista quasi perfetto (The Universal Journalist) di<br />

David Randall (Laterza 2004, pp. 338, 12 euro, traduzione di Bruna<br />

Tortorella e Bruno Giovagnoli), un libro appena pubblicato in Italia<br />

(e che, confesso, forse <strong>non</strong> ho letto del tutto; perché <strong>non</strong> l’ho letto<br />

dal principio alla fine, ma l’ho spilluzzicato qua e là, durante un lungo<br />

viaggio notturno in treno, riprendendolo il giorno dopo all’alba, e<br />

quello dopo ancora a sera tardi, talvolta leggendo due volte le stesse<br />

pagine, talvolta saltandone altre) e che mi è sembrato, lo dico di<br />

cuore, un gran bel libro.<br />

David Randall è caporedattore dell’Independent, un quotidiano inglese<br />

che è di fatto ciò che è di nome: indipendente; che esiste credo da<br />

una dozzina d’anni; e che, diversamente da come accade in Italia, si<br />

è conquistato un pubblico <strong>non</strong> grazie alla posizione etico-politica<br />

che rappresenta (benché <strong>non</strong> sia privo di una posizione eticopolitica)<br />

ma grazie alla qualità del suo lavoro d’inchiesta (io visito<br />

quasi tutti i giorni l’edizione in rete:<br />

http://www.independent.co.uk).<br />

Quando leggo i manuali di giornalismo, spesso mi viene da pensare:<br />

«Accidenti, ma qui si sta spiegando l’ovvio». E in effetti è così: i<br />

manuali di giornalismo spiegano che ci sono varie fonti delle notizie,<br />

che un articolo si scrive così e così, che con le fonti istituzionali ci si<br />

relaziona in un certo modo e con le fonti <strong>non</strong> istituzionali (o antiistituzionali)<br />

ci si relaziona in un altro, che ogni informazione va<br />

controllata nei limiti dell’umano possibile, che <strong>non</strong> è la stessa cosa<br />

"passare" un’agenzia o dare un’informazione di prima mano, eccetera.<br />

Tutte cose che chiunque, a pensarci due minuti, ci arriva.<br />

Ma il libro di Randall ha un titolo sbagliato. Non è, infatti, un libro<br />

sul lavoro del giornalista. È, più precisamente, un libro sul lavoro<br />

del cronista. Comincia con queste parole: «Gli eroi del giornalismo<br />

sono i cronisti. Quello che fanno è scoprire le cose. Arrivano per<br />

primi, nel caos del presente, battendo alle porte chiuse, a volte correndo<br />

dei rischi, e catturano l’inizio della verità. Se <strong>non</strong> lo fanno loro,<br />

chi dovrebbe farlo? I direttori? I commentatori? C’è una sola al-<br />

144<br />

ternativa ai cronisti: accettare la versione ufficiale, quella che i<br />

poteri economici, i burocrati e i politici scelgono di darci. Dopotutto,<br />

senza i cronisti, che cosa saprebbero i commentatori?»<br />

(p. 3). E finisce (cito le ultime parole del capitolo «Letture consigliate»)<br />

raccomandando così la lettura di quello che Randall<br />

definisce «il più acuto libro sulla stampa che io abbia mai letto»,<br />

A Mathematician Read The Newspaper (Un matematico legge i giornali)<br />

di John Allen Paulos: «Avendo abbinato all’amore per la matematica<br />

un innato interesse per la stampa, Paulos va a caccia di<br />

errori logici e statistici nei giornali e ne trova numerosi esempi.<br />

Questo libro vi spiegherà il nesso tra la teoria del caos e il valore<br />

di notizia, modificando per sempre il vostro modo di leggere<br />

un articolo» (p. 332).<br />

Randall è un cronista nato. Il suo problema è: come faccio a<br />

sapere il più possibile attorno all’avvenimento X? come faccio a<br />

controllare che ciò che so sull’avvenimento X sia vero o almeno<br />

decentemente probabile? come faccio a trovare notizie<br />

sull’avvenimento X al di fuori delle fonti ufficiali? come faccio a<br />

valutare la qualità delle informazioni che le fonti di parte mi<br />

danno sull’avvenimento X?<br />

E, cosa molto importante: come faccio, io che sono (in<br />

quanto giornalista, cronista, uomo dei media) sostanzialmente un<br />

mediatore, uno che riporta, un reporter, a gestire la diffusione<br />

delle notizie con responsabilità, sfuggendo al pericolo (oggi più<br />

che ieri concreto) di essere manipolato dalle fonti di notizie, di<br />

essere abbagliato dal desiderio dello scoop ad ogni costo, di servire<br />

come utile idiota poteri dei quali nemmeno sospetto<br />

l’esistenza?<br />

Il giornalista quasi perfetto è un libro tutto intriso di una moralità<br />

squisitamente anglosassone. Il cronista, per Randall, è per definizione<br />

un uomo libero: ma <strong>non</strong> nel senso che egli sia libero,<br />

diciamo così, per natura e per principio; piuttosto nel senso che<br />

egli deve ogni giorno, a ogni ora, ogni volta che riceve e vaglia


un’informazione, ogni volta che decide che cosa mettere o <strong>non</strong><br />

mettere in pagina, che cosa scrivere o <strong>non</strong> scrivere nel pezzo, egli<br />

deve senza sosta «invigilare sé stesso» (rubo la formula a Benedetto<br />

Croce), porsi in grado di garantire prima appunto a sé stesso, e poi a<br />

tutti i suoi lettori, di avere agito e scritto come uomo libero, <strong>non</strong> influenzato<br />

nemmeno inconsapevolmente, uomo autonomo sia materialmente<br />

sia spiritualmente.<br />

A chiunque voglia scrivere romanzi e racconti, io consiglierei la<br />

lettura di questo libro. Che il lavoro del narratore sia tutt’altra cosa<br />

dal lavoro del cronista, questo si può concedere. Ma ho il sospetto<br />

che la responsabilità del narratore verso i propri lettori sia simile alla<br />

responsabilità del cronista verso i propri lettori. Certo: il narratore<br />

narra fatti inventati, il cronista riferisce fatti accaduti. Ma il lettore si<br />

aspetta dal narratore una parola di verità, oltre la finzione e (paradossalmente:<br />

ma è così) per mezzo di essa; così come il lettore del<br />

giornale si aspetta dal cronista che gli racconti una cosa avvenuta<br />

così come è avvenuta, così come è stato possibile, adoperandosi al<br />

proprio meglio, scoprire che è avvenuta.<br />

Saranno diverse qualità di «parola di verità»; <strong>non</strong> discuto; sarà anche<br />

diversa l’attenzione che il lettore pone al giornale o al libro; <strong>non</strong><br />

discuto; ma se i narratori si arrogano la capacità (spesso lo fanno) di<br />

raccontare verità di un ordine superiore a quello della banale cronaca,<br />

la loro responsabilità sarà pure di un ordine superiore. O no?<br />

145<br />

Chiacchierata numero 91<br />

Libri che insegnano a scrivere, 12. Oggi vi parlo di un libro pressoché<br />

introvabile. «Ma se è introvabile», direte voi, «perché mai ce<br />

ne parli?». Come libro, <strong>non</strong> è neanche niente di speciale. «Ma se<br />

<strong>non</strong> è un niente di speciale», direte voi, «perché ce ne parli?<br />

Perché <strong>non</strong> ci parli, piuttosto, di qualche libro veramente importante<br />

- e, magari, che si riesca anche a trovare in libreria o in<br />

biblioteca?».<br />

Rispondo: perché mi piace tormentarvi, cari miei, e perché il<br />

mio vero scopo <strong>non</strong> è farvi leggere questo o quel libro: quanto<br />

persuadervi che di libri che insegnano a scrivere ce n’è un sacco,<br />

e di generi e specie che voi nemmeno vi immaginavate.<br />

Bene. Il libro è questo: Renato Cesari, Il libro dei discorsi, Salani<br />

1928 (pp. 420). L’ho comperato per due soldi, ovviamente<br />

usato, a una festa del libro a Como.<br />

Il signor Cesari è molto chiaro nei suoi intenti. Scrive nella<br />

prefazione: «Non tutti possono essere oratori, ma quasi tutti<br />

possono diventarlo. Molti sentono agitarsi nel cuore i più generosi<br />

sentimenti, nella mente affollarsi le più belle idee, ma <strong>non</strong><br />

trovano la parola adatta ad esprimerli comunicandone agli altri<br />

il calore e la forza persuasiva. D’altra parte a tutti può capitare<br />

di dover parlare e a nessuno piace o dichiarare la propria incapacità<br />

rifiutandosi, o far meschine figure accettando. Ebbene,<br />

con questo libro, compilato con delicato senso di opportunità, e<br />

frutto in gran parte di personale esperienza, abbiamo voluto offrire<br />

a tutti il mezzo di sottrarsi all’imbarazzante dilemma soddisfacendo<br />

con onore a questa necessità della vita moderna: il<br />

parlare in pubblico. Ma soprattutto abbiamo voluto soccorrere<br />

coloro ai quali la loro condizione sociale consente meno che ad<br />

altri di dedicar tempo e fatica allo studio e alla preparazione. Il<br />

nostro libro, utile a tutti, è per questi indispensabile» (p. 5). Seguono<br />

alcune veloci indicazioni (una paginetta e via) su come


leggere, come atteggiare il corpo durante l’orazione, che espressione<br />

tenere nel volto.<br />

I discorsi sono divisi in quattro grandi gruppi: «Vita di famiglia»<br />

(fidanzamento, matrimonio, nozze d’argento, nozze d’oro, battesimo,<br />

cresima, prima comunione, ordinazione sacerdotale, feste varie);<br />

«Discorsi funebri»; «Vita di associazione» (circolo ricreativo, società<br />

sportiva, circolo patriottico, istituzioni varie, discorsi vari); «Discorsi<br />

per circostanze varie». Alcuni esempi di «circostanze varie»: «Per<br />

l’inaugurazione di un monumento ai caduti di guerra», «Per la partenza<br />

di un collega trasferito» (con una «Risposta del partente»), «Per<br />

il felice esito di un processo a un amico calunniato» (con una «Risposta<br />

dell’amico festeggiato»), «Al pranzo di addio a un amico che<br />

parte per per l’America» (o, in alternativa, «in onore di un amico reduce<br />

dall’America»), e così via. I «Discorsi funebri» sono divisi nelle<br />

seguenti tipologie: «Davanti alla salma di un amico», «di un collega»,<br />

«del principale», «di un superiore», «di un subalterno», «di un operaio<br />

morto sul lavoro», «di un eroe civile», «di un automobilista perito in<br />

una corsa», «di un alpinista perito in un’ascensione», «di un morto in<br />

guerra», «di un giovinetto» (una bizzarra tassonomia delle morti, mi viene<br />

da dire…).<br />

«Ma perché», voi insisterete, «ci parli di questo libro? E ce ne leggi<br />

dettagliatamente l’indice?». Vi parlo di questo libro perché è un libro<br />

indispensabile. Oggigiorno nessuno (quasi nessuno) scrive più discorsi.<br />

Nelle occasioni più svariate si vedono oratori decisamente<br />

inetti improvvisare, buttar fuori qualche banalità, impappinarsi,<br />

scardinare logica e sintassi, aggrapparsi ai luoghi comuni. Se vi capiterà<br />

di dover fare dei discorsi, e se <strong>non</strong> siete dei Ciceroni naturali, vi<br />

consiglio di prepararvi con cura. Questo libro è una raccolta di<br />

esempi; di esempi datati, peraltro (ma vi sfido a trovare una raccolta<br />

recente di esempi di discorsi); ma pur sempre esempi. Il signor Renato<br />

Cesari, del quale <strong>non</strong> so nulla, è un compilatore senza infamia e senza<br />

lode; abbonda di retorica in certe circostanze ed è stringato e<br />

limpido in altro, con un buon senso dell’opportunità; ha un buon<br />

146<br />

senso dei tempi, dice quello che nelle varie circostanze va effettivamente<br />

detto, ogni tanto ha qualche guizzo d’ingegno (nella<br />

chiusa del «Discorso per richiamare i soci d’un circolo a una<br />

maggiore attività», prima minaccia l’esplusione degli ignavi e poi<br />

concede: «Voglio sperare che nessuno aspetterà la pedata<br />

dell’espulsione per questa volta rimasta a mezz’aria…», e io<br />

m’immagino l’oratore in bilico s’un piede solo).<br />

Poi, il libro certamente vi tornerebbe utile se vi saltasse in capo<br />

di raccontare una storia ambientata negli anni Trenta. Nel<br />

primo Novecento (per tacer dell’Ottocento) la vita familiare e<br />

sociale era tutta segnata da discorsi. Oggi, quando a un certo<br />

punto della festa tutti cominciano a gridare «Dis-cor-so! Discor-so!»,<br />

il festeggiato per lo più si alza e dice, se va bene (se<br />

<strong>non</strong> è ubriaco, ad esempio, o se <strong>non</strong> è terrorizzato dalla prospettiva<br />

di sposarsi l’indomani), quattro parole in croce. Settant’anni<br />

fa le cose andavano diversamente. Come vi preoccupereste,<br />

per il vostro romanzo d’epoca, di informarvi sugli avvenimenti<br />

storici, sulla moda femminile (come veste la protagonista?),<br />

sulle abitudini alimentari eccetera, similmente dovreste<br />

informarvi sulle modalità di esecuzione di questa allora frequentissima<br />

performance sociale: il discorso.<br />

Ma, naturalmente, tutto questo che ho detto finora l’ho detto<br />

quasi per scherzo. La verità è che volevo invitarvi a frugare<br />

nelle bancarelle dell’usato, a cercare e collezionare (di solito costano<br />

pochissimo, sono libri popolari) repertori di frasi fatte,<br />

discorsi, lettere. Perché sono letture divertentissime, perché<br />

portano la traccia linguistica di situazioni e relazioni sociali delle<br />

quali <strong>non</strong> abbiamo memoria personale, perché leggerli è il<br />

modo più pratico per imparare la più vieta retorica. Quella della<br />

quale dobbiamo liberarci, ma solo chi la conosce sa liberarsene.


Chiacchierata numero 92<br />

Libri che insegnano a scrivere, 13. Settimana scorsa vi ho parlato di un<br />

manuale di discorsi del 1928. Questa settimana ho voglia di parlarvi<br />

di un libro che s’intitola addirittura Oratoria sacra, di Alfredo Bonfatti<br />

(Morcelliana 1964, pp. 233). Che naturalmente <strong>non</strong> è più in commercio,<br />

ma in qualche biblioteca, magari di seminario o vescovile, si<br />

troverà. Io l’ho comperato per 6 euro, qualche tempo fa, alla libreria<br />

Remainder’s in Galleria a Milano; <strong>non</strong> ricordo se ne fossero altre<br />

copie; ma credo di no perché, quando trovo libri del genere, e difficili<br />

da trovare, spesso ne prendo più di una copia, con l’idea che<br />

prima o poi troverò qualche complice, interessato alla faccenda<br />

quanto me, a cui regalarlo.<br />

Ma qui devo raccontare un po’ di fatti miei. Da qualche anno ho<br />

cominciato a tormentare i librai cattolici d’Italia. Ogni volta che avvisto<br />

una libreria cattolica mi ci fiondo dentro, mi piazzo davanti al<br />

banco, e domando sfacciatamente: «Buongiorno. Ce l’avreste mica,<br />

un trattato di omiletica?».<br />

L’«omiletica» sarebbe, per spiegarsi, la disciplina che studia come si<br />

fanno le omelie, volgarmente dette: «prediche». Un nome più alla<br />

moda per l’omiletica, un po’ in stile corso di laurea in Scienza delle<br />

comunicazioni, potrebbe essere qualcosa come: «Teorica e tecnica<br />

della predicazione liturgica e pastorale».<br />

Ora, io <strong>non</strong> so se voi frequentate le messe. Io sì. E <strong>non</strong> ne posso<br />

più, da anni, di sentire prediche fatte male. Non parlo dei contenuti<br />

(avrei anche da ridire sui contenuti, a volte; ma <strong>non</strong> è questo il luogo),<br />

ma della forma. Vedo preti che senza neanche saper bene<br />

l’italiano sovrabbondano (quasi per ipercorrettismo) nell’ornato;<br />

sento prediche disordinate, con l’ordine degli argomenti sconvolto,<br />

o addirittura senza né capo né coda; vedo accumulazioni di luoghi<br />

comuni (<strong>non</strong> loci communes, quei «punti di comune accordo», quei<br />

«minimi comuni denominatori dell’opinione» sui quali il buon oratore<br />

edifica il proprio persuasivo discorso: proprio luoghi comuni nel<br />

147<br />

senso più banale del termine), metaforeggiamenti bizzarri, sentimentalismi<br />

fuori luogo, patetismi ridicoli. Un campionario del<br />

disordine oratorio.<br />

(Una volta il mio parroco buonanima, che peraltro era un discreto<br />

predicatore e un sanissimo pensatore, nel commentare<br />

una parabola evangelica esclamò: «Questa parabola, è addirittura<br />

un’iperbole!». E a me toccava pure stare serio).<br />

Ma vi dicevo: che tormento i librai cattolici d’Italia. Smetterei<br />

di tormentarli, vi assicuro, se uno di loro riuscisse a mettermi<br />

sotto il naso il tanto sospirato trattato di omiletica. Invece no.<br />

Niente da fare. Tirano fuori le raccolte di prediche svolte<br />

(uguali in tutto alle raccolte «temi svolti» che saccheggiavamo<br />

alle medie), i libri con i commenti ai Vangeli del giorno, i cdrom<br />

ipertestuali con le prediche in scatola di montaggio; tentano<br />

di farmi abbonare alla Palestra del clero, più che centenaria rivista,<br />

a suo modo meravigliosa, che pubblica settimanalmente<br />

prediche svolte, spiegazioni delle letture e tutto ciò che possa<br />

servire al povero prete infacondo; e alla fine, dopo tante mie insistenze,<br />

gettano le armi e dichiarano: che no, un trattato di<br />

omiletica <strong>non</strong> ce l’hanno, neanche vecchissimo, sono decenni<br />

che <strong>non</strong> ne vedono uno.<br />

(Ho provato a cercare anche in rete. E l’ho trovato, un trattato<br />

di omiletica online: un e-book di omiletica. La cosa divertente è<br />

che è in rumeno. Se <strong>non</strong> ci credete, andate a vedere qui:<br />

http://www.unibuc.ro/eBooks/Teologie/omiletica/cuprins.ht<br />

m).<br />

Per un paio d’anni ho lavorato accanto a un prete di eccezionali<br />

qualità morali, di grande sensibilità umana e di scarsissima<br />

istruzione. Questo prete si chiudeva in studio tutti i sabati mattina,<br />

tirava giù dallo scaffale i libri di prediche svolte, consultava<br />

la Palestra del clero della settimana, e cominciava a darsi da fare.<br />

Che cosa faceva? Copiava. E <strong>non</strong> c’è da scandalizzarsi per questo:<br />

vorrei vedervi, io, voi, a inventarvi ogni settimana (e pen-


sate sotto le feste!) una predica nuova. Il guaio è che quel povero<br />

prete, secondo me per un qualche oscuro senso di colpa, <strong>non</strong> aveva<br />

il coraggio di prendere la predica che gli sembrasse più adatta e ben<br />

fatta tra quelle disponibili, e di mandarla a mente. No. Lui doveva<br />

scriverla, la predica. E così, con tre o quattro libri e riviste aperti davanti,<br />

penna in mano e quaderno sotto il naso, prendeva una frase<br />

qui, una frase lì, un concetto a destra, un exemplum a sinistra, e confezionava<br />

la sua predica. Potete immaginarvi quanto coerente e<br />

comprensibile. Un vero pasticcio. Per fortuna, col tempo, prese sicurezza<br />

e smise di consultare i bignami. Oggi è un predicatore eccellente,<br />

perché è un predicatore semplice.<br />

Tutto questo per arrivare a dire che l’omelia, o predica, è un genere<br />

letterario ahimè davvero trascurato. Benché decine di migliaia di<br />

preti tutte le domeniche si dannano (ma forse <strong>non</strong> è il verbo più<br />

adatto) a recitare la loro brava predica; ma <strong>non</strong> ricevono (più; una<br />

volta sì) nessuna formazione specifica, <strong>non</strong> hanno testi teorici di riferimento,<br />

nessun teorico della letteratura studia analizza viviseziona<br />

i testi che essi producono…<br />

Conoscere il «genere letterario omelia» è utile come è utile conoscere<br />

qualunque genere letterario. Perciò un’occhiatina a un trattatello<br />

di omiletica, se riuscite a trovarlo in biblioteca del seminario, io<br />

ve lo consiglierei. Il libro di Alfredo Bonfatti a me è sembrato bello,<br />

perché <strong>non</strong> è un "manuale pratico" ma davvero un trattatello in<br />

compendio, una omiletica in nuce; ed è scritto da un uomo di ampia (e<br />

anche assai laica) cultura. La questione centrale, quella che ritorna in<br />

ogni capitolo, è: quale «rapporto» e quale «tensione» vi siano tra «un<br />

messaggio divino» e la sua «stilizzazione in un linguaggio umano, regolato<br />

dalla retorica». E molto interessante è, all’interno di una succinta<br />

storia della predicazione, la connessione tra la qualità del «sentimento<br />

religioso» e «le condizioni della cultura riflessa in cui esso si<br />

esprime». Ovvero come il sentimento religioso, nel suo mutare storico,<br />

incontri (o inventi) specifici mezzi retorici per dirsi.<br />

148<br />

Chiacchierata numero 93<br />

Libri che insegnano a scrivere, 14. Scusate, la settimana scorsa <strong>non</strong><br />

c’ero. Portate pazienza. Stavo assai poco bene. Niente di grave,<br />

parecchio di fastidioso. Comunque tutto passato. Mi dispiace:<br />

<strong>non</strong> ho potuto farvi gli auguri di Natale. E <strong>non</strong> posso neanche<br />

dire: «Sarà per un’altra volta», perché questa rubrica (c’è già chi<br />

prepara i festeggiamenti) al numero 100 si interromperà.<br />

Quest’oggi decido di fare pubblicità a una cosa mia e di fare<br />

pubblicità a una pubblicità. Non so quante regole del buon<br />

giornalismo sto violando, ma suppongo che a Natale si possa (e<br />

comunque io <strong>non</strong> sono un giornalista; sono stato iscritto<br />

all’Ordine, in qualità di pubblicista, per qualche anno; ma da<br />

almeno dieci anni <strong>non</strong> lo sono più). Come scusante posso solo<br />

dire: sono due cose, queste alle quali intendo fare pubblicità,<br />

che a modo loro insegnano a scrivere.<br />

La pubblicità alla cosa mia è questa. Fino a poco più di un anno<br />

fa mi divertivo a fare una cosa che si chiamava vibrisse, e che<br />

era un «bollettino di letture e scritture» diffuso gratuitamente,<br />

ogni settimana, via posta elettronica. Bastava chiederlo. Un<br />

numero di vibrisse conteneva, di solito, da due a quattro articoli:<br />

sulla scrittura, sulla lettura, sulla didattica della scrittura e della<br />

lettura, eccetera; poi conteneva un certo numero, assai variabile,<br />

di notizie su incontri pubblici, conferenze, corsi e laboratori di<br />

scrittura, festival, eccetera; poi conteneva recensioni e brevi<br />

saggi letterari, eccetera; poi conteneva delle rubriche, la più apprezzata<br />

delle quali era Dopo Carosello, dedicata alla scrittura per<br />

la pubblicità; e poi c’erano altre cose, eccetera eccetera. Poco<br />

più di un anno fa, quando gli abbonati erano circa duemilacinquecento,<br />

ho dovuto sospendere le spedizioni. Ragioni tecniche,<br />

ragioni di problemi con i servizi di posta elettronica, eccetera;<br />

<strong>non</strong> mi dilungo. Fattostà che nei giorni scorsi, dopo lunga<br />

preparazione, vibrisse è rinato. Non più nella forma di bollettino


inviato via posta elettronica, ma nella forma di pubblicazione nel<br />

web. L’indirizzo è: www.vibrissebollettino.net. Dentro ci trovate le<br />

cose che ho dette prima. E, naturalmente, è tutto gratis.<br />

La pubblicità alla pubblicità, invece, è questa che ora scrivo. In<br />

questi giorni ho visto sui tavoli di molte persone un piccolo libro di<br />

formato quasi quadrato, intitolato: TuttiAUTORI. Stampa il tuo libro;<br />

e sottotitolato: Guida per editare, stampare e pubblicare con facilità un libro<br />

in proprio. Include un CD-Rom con modelli ed esempi. Pubblicato da: Editrice<br />

Bibliografica & Lampi di stampa. Costo: 12 euro. Pagine:79.<br />

«Bene», pensavo, vedendo questo libretto, «prima o poi bisogna che<br />

me la prenda anch’io, ‘sta cosa qua». E l’altro giorno ho provveduto.<br />

TuttiAUTORI <strong>non</strong> è un libro che spiega come si fa a editare, stampare<br />

e pubblicare con facilità un libro in proprio. Sì, fa in parte anche<br />

questo; ma lo fa quasi per sbaglio. Ma per capire la faccenda, bisogna<br />

prima imparare che cos’è Lampi di stampa. Nel sito<br />

dell’Editrice Bibliografica si legge: «Ogni anno aumenta il numero<br />

dei libri esauriti o posti fuori catalogo dagli editori. Ma oggi, con la<br />

stampa digitale si possono riproporre a prezzi convenienti, opere in<br />

tiratura limitata: perfino stampare un libro una copia per volta.<br />

Lampi di stampa è una società che si è costituita per offrire a tutti<br />

questo servizio innovativo. I partner dell’iniziativa sono: Editrice<br />

Bibliografica; Legoprint, una delle maggiori aziende grafiche italiane<br />

e con un ruolo importante anche nel mercato europeo, assieme al<br />

Gruppo L.E.G.O. di cui la società fa parte; Messaggerie Libri, il<br />

maggiore distributore italiano. Inoltre Lampi di stampa in collaborazione<br />

con la società Libuk offre la possibilità di pubblicare le opere<br />

di autori esordienti in formato elettronico (e Book) e cartaceo (print<br />

on demand e microtiratura). L’offerta prevede un pacchetto di servizi<br />

editoriali integrati e modulari che partono dalla fornitura di servizi<br />

editoriali di base per la pubblicazione e la vendita delle opere in<br />

formato elettronico con la possibilità di scegliere servizi aggiuntivi<br />

(es. editing)».<br />

149<br />

E TuttiAUTORI è semplicemente un manualetto che spiega<br />

come si usufruisce del servizio di microtiratura di Lampi di<br />

stampa. Non che <strong>non</strong> sia scritto, eh!, nella quarta di copertina.<br />

Ma comunque mi sembra curiosa l’idea di vendere in libreria la<br />

pubblicità al proprio servizio. Fino ad oggi <strong>non</strong> mi era mai capitato,<br />

di pagare per acquistare della pubblicità. E sinceramente ci sono<br />

rimasto piuttosto male. Mi sono sentito fregato. Speravo che<br />

nel libretto ci fosse qualcosa d’altro, qualcosa in più delle pure e<br />

semplici istruzioni per usare i servizi di Lampi di stampa. E invece<br />

no.<br />

Ché poi, tra l’altro, c’è la retorica del «tutti autori» che mi dà<br />

sui nervi. La quarta di copertina dice: «TuttiAUTORI è [e mi fa<br />

impressione, quella parola «AUTORI» scritta in tutto maiuscolo;<br />

come se diventando degli «AUTORI» (di un libro autopubblicato)<br />

si diventasse, che so: più alti, più importanti, più belli,<br />

più autoriali…] un set composto da una guida e un CD-Rom<br />

che permette a chiunque di stampare con facilità il proprio libro.<br />

Un prodotto/servizio appositamente pensato per aspiranti<br />

scrittori con un romanzo nel cassetto, studiosi e docenti universitari<br />

autori di saggi e dispense, dirigenti d’azienda con relazioni<br />

da diffondere», e seguono le informazioni commerciali.<br />

Ora, sia chiaro che a un «aspirante scrittore con un romanzo<br />

nel cassetto», farsi stampare il libro da Lampi di stampa è più o<br />

meno come farselo stampare dalla copisteria all’angolo. Sarà un<br />

lavoro fatto meglio, per carità. Ci sarà la pubblicità nel sito<br />

www.lampidistampa.it. Il libro (se <strong>non</strong> ho capito male) sarà reso<br />

disponibile presso InternetBookShop (www.ibs.it), la più nota<br />

web-libreria italiana. Ma tutto questo serve a poco, molto poco.<br />

Sicuramente <strong>non</strong> serve a diventare «autori».<br />

Quanto agli «studiosi e docenti universitari, dirigenti<br />

d’azienda» eccetera: probabilmente Lampi di stampa è per loro<br />

un ottimo servizio. Non l’unico in Italia, peraltro.<br />

Buon anno nuovo.


Chiacchierata numero 94<br />

Libri che insegnano a scrivere, 15. Duccio Demetrio è un professore<br />

dell’Università statale di Milano che da tempo si occupa di pedagogia<br />

della memoria e di educazione degli adulti. Un suo libro che è<br />

stato molto letto tra chi si occupa di scrittura è Raccontarsi.<br />

L’autobiografia come cura di sé (Raffaello Cortina 1996, 13 euro): una<br />

bella introduzione alla, appunto, pedagogia della memoria, e al racconto<br />

autobiografico. Demetrio ha girato attorno a questi temi in<br />

parecchi libri: alcuni di taglio divulgativo (come quello citato), altri<br />

più accademici, altri più bizzarri e stravaganti. Tra questi ultimi (che<br />

sono quelli in fondo più interessanti) citerei: Di che giardino sei? Conoscersi<br />

attraverso un simbolo (Meltemi 2000, 23 euro) Album di famiglia.<br />

Scrivere i ricordi di casa (Meltemi 2002, 24 euro), due libri riccamente e<br />

suggestivamente illustrati che propongono, in maniera molto pratica<br />

e - insieme - con profondità teorica, dei percorsi di memoria, conoscenza<br />

di sé, racconto e scrittura.<br />

Ma quest’oggi vorrei parlare in particolare del più bizzarro e stravagante<br />

di tutti i libri di Duccio Demetrio: Il gioco della vita. Kit autobiografico.<br />

Trenta proposte per il piacere di raccontarsi (Guerini e Associati<br />

1999, 16 euro). In effetti <strong>non</strong> si tratta di un puro e semplice libro;<br />

forse <strong>non</strong> si tratta neanche, propriamente parlando, di un libro, ma<br />

piuttosto di un «quaderno attivo» (come quelli che usavamo alle<br />

scuole elementari, sì).<br />

Ma procediamo con ordine.<br />

Il «quaderno» contiene trenta proposte di esercizi, o giochi, di<br />

memoria. Alcuni sono molto semplici (da descrivere; da fare, è un<br />

altro paio di maniche). Ad esempio il gioco numero 3, «La prima<br />

volta che…», propone di rievocare alcune «prime volte»: «La prima<br />

volta che vi siete accorti di essere al mondo, che avete pensato a<br />

qualche cosa di importante, che avete fatto qualche cosa degno di<br />

nota per voi o per gli altri, che avete voluto bene a qualcuno, che vi<br />

150<br />

siete sentiti liberi, che avete provato dolore, che avete scoperto<br />

l’ingiustizia, che avete scoperta la bellezza…», e così via. Oppure<br />

il gioco numero 17, quello delle «coincidenze»: «Non tutto<br />

ciò che ci accade è frutto della volontà o del caso. Talvolta<br />

sembra si stabilisca una curiosa alleanza tra la prima e il secondo,<br />

come se si venissero incontro a nostro vantaggio o svantaggio.<br />

È il momento allora di passare in rassegna le circostanze in<br />

cui avete provato questa sensazione, piacevole o spiacevole, che<br />

possiamo anche chiamare senso del destino…».<br />

Sono esercizi molto semplici, dunque, apparentemente anche<br />

banali. Ma la cosa interessante è la proposta di Demetrio di affrontare<br />

questi esercizi <strong>non</strong> come esercizi, ma come «giochi»: da<br />

farsi, per di più, in società. Con gli amici. Con i familiari. Con i<br />

compagni di un qualche tipo di esperienza (i vostri colleghi, i<br />

partecipanti alle attività di un’associazione…). Il «quaderno»<br />

<strong>non</strong> fa che proporre una trentina di «giochi» (ma c’è un’utile<br />

introduzione che spiega la logica di tutta la faccenda), toccherà<br />

poi all’inventiva del gruppo allargarli, variarli, abbandonarli e<br />

riprenderli, mescolarli, stravolgerli e reinventarli.<br />

E sono giochi utili alla scrittura. Non solo alla scrittura di sé,<br />

autobiografica, intimistica. Ma alla scrittura tout-court. Non per<br />

niente quasi ogni gioco fa venire in mente un’opera letteraria<br />

che ne sembra per così dire l’esemplificazione. Il «gioco della<br />

prima volta» richiama irresistibilmente il celebre Mi ricordo di<br />

Georges Perec (Bollati Boringhieri 1998, 13 euro), libro tutto<br />

composto con minimi, irrilevanti e importantissimi ricordi: «Mi<br />

ricordo che un amico di mio cugino Henri quando preparava gli<br />

esami restava tutto il giorno in vestaglia. - Mi ricordo del pane<br />

giallo che c’è stato per qualche tempo dopo la guerra. - Mi ricordo<br />

i vecchi numeri dell’Illustration. - Mi ricordo che un giorno<br />

mio cugino Henri visitò una fabbrica di sigarette e ne riportò<br />

una sigaretta lunga come cinque sigarette. - Mi ricordo di<br />

avere ottenuto al Parc des Princes un autografo di Louison


Bobet. - Mi ricordo gli spettacoli del giovedì pomeriggio al cinema<br />

Royal-Passy. C’era un film che si intitolava I tre desperados, e un altro,<br />

Le cinque pallottole d’argento, che prevedeva cinque episodi. - Mi ricordo<br />

i foulard in seta di paracadute»: e così via, in uno sprofondamento<br />

nella memoria che solo a prima vista può apparire futile e del<br />

tutto privato: bastano due o tre pagine perché il testo ci rapisca e ci<br />

porti con sé fino alla fine del libro (e, tanto per far vedere che<br />

l’imitazione <strong>non</strong> è una pratica sconsigliabile, vale la pena di citare<br />

l’amabilissimo Mi ricordo di Matteo B. Bianchi, appena pubblicato da<br />

Fernandel, 10 euro).<br />

Mentre il «gioco delle coincidenze» fa venire in mente, senza<br />

scampo, La musica del caso di Paul Auster (Guanda 2003, 7,50 euro),<br />

romanzo tutto costruito (come parecchi scritti di Auster, a dire il vero,<br />

ad esempio Esperimento di verità, Einaudi 2001, 9,30 euro) proprio<br />

come un impressionante avvitamento su sé stessi, se così posso dire,<br />

dell’intenzione e del caso.<br />

Il libro di Demetrio contiene poi anche un divertentissimo ed<br />

emozionantissimo «Gioco dell’oca». Che è un normalissimo gioco<br />

dell’oca, solo che, come spiegano le istruzioni, «ogni casella è contrassegnata<br />

da una parola e da un’immagine; il giocatore deve raccontare<br />

l’episodio della sua vita che quella parola gli rievoca. Non è<br />

il gioco della verità: si può raccontare anche una storia inventata,<br />

purché risulti verosimile agli altri giocatori». Io l’ho collaudato giocando<br />

con un gruppo di amici, e sono venute fuori cose sorprendenti.<br />

Ci siamo divertiti molto, e ci siamo raccontati con leggerezza,<br />

tranquillità, e un pizzico d’invenzione, cose di noi che, altrimenti,<br />

sarebbero rimaste nascoste nei doppi fondi dei cassetti interiori…<br />

Duccio Demetrio ha anche fondato ad Anghiari, insieme a Saverio<br />

Tutino, una ormai celebre «Libera università dell’autobiografia»,<br />

sulla quale si possono trovare abbondantissime notizie nel sito<br />

www.lua.it.<br />

151<br />

Chiacchierata numero 95<br />

Libri che insegnano a scrivere, 16. Anche questa settimana, come<br />

ho fatto altre volte, vi proporrò un paio di libri che, almeno a<br />

prima vista, con lo scrivere hanno poco che fare. Il primo è un<br />

libro di Massimo Picozzi e Angelo Zappalà e Massimo Picozzi;<br />

s’intitola Criminal profiling. Dall’analisi della scena del delitto al profilo<br />

psicologico del criminale, è pubblicato da McGraw-Hill (pp. 412, euro<br />

29). Dei due autori, almeno Picozzi dovreste averlo già sentito<br />

nominare: è stato perito in alcuni grandi processi recenti, è<br />

passato (mi dicono) qualche volta in televisione, insieme a Carlo<br />

Lucarelli ha scritto un libro intitolato Serial killer. Storie di ossessione<br />

omicida (Oscar Mondadori, euro 8.40) che, per gli appassionati<br />

del genere, è sicuramente una lettura interessante.<br />

Ma, a uno che voglia raccontare storie, io raccomanderei soprattutto<br />

di leggere Criminal profiling. Innanzitutto spiego che<br />

cos’è. Il criminal profiling è un insieme di metodi e procedure che<br />

permette di ricavare dall’esame della scena di un delitto informazioni<br />

sulle caratteristiche psicologiche dell’autore del delitto<br />

stesso. Così come, per dire, dalla dimensione delle impronte di<br />

scarpe la polizia scientifica può ricavare una stima dell’altezza<br />

del criminale (sempre che quelle impronte siano state impresse<br />

dalla scarpa del criminale), similmente l’esperto di criminal profiling<br />

può ipotizzare, ad esempio, se il criminale era in quel momento<br />

sobrio o in preda a qualche droga, se è un tipo metodico<br />

o casinista, se il delitto è stato accuratamente preparato o no, se<br />

la personalità del criminale è patologica o no, eccetera. Incrociando<br />

le ipotesi (che sono solo ipotesi, sia chiaro) dell’esperto<br />

di criminal profiling con le ipotesi (che sono anch’esse ipotesi)<br />

della polizia scientifica, spesso si ricavano informazioni utili alle<br />

indagini.<br />

Se volete farvi un’idea approssimativa, ma <strong>non</strong> inesatta, del lavoro<br />

dell’esperto di criminal profiling, potete andare all’edicola e


comperare Julia, un fumetto della Bonelli che ha per protagonista<br />

Julia Kendall, una criminologa consulente dell’immaginaria procura<br />

di Garden City. Il personaggio di Julia Kendall, inventato da Giancarlo<br />

Berardi, è molto bello; e nel complesso il fumetto è, secondo<br />

me, uno dei migliori in circolazione. Nel numero attualmente in edicola,<br />

intitolato La storia di Jason, Julia Kendall fa un vero e proprio<br />

lavoro di criminal profiling osservando il filmato di un delitto (registrate<br />

da un telecamera di sorveglianza), parlando con i familiari e i<br />

colleghi di lavoro del criminale, studiandone l’ambiente sociale e così<br />

via. Si tratta di un caso un po’ particolare, perché l’identità del<br />

criminale è nota fin dall’inizio; ma spesso ciò che si chiede<br />

all’esperto di criminal profiling <strong>non</strong> è solo: «Chi è il criminale?», ma è<br />

anche, e credo soprattutto: «Come agirà ora il criminale? Che cosa<br />

possiamo aspettarci da lui?».<br />

Torniamo al libro di Picozzi e Fragalà. Il libro si apre con<br />

un’appassionata difesa del criminal profiling (come un po’ tutte le discipline<br />

criminologiche, è considerato da molti investigatori come<br />

una roba da apprendisti stregoni); prosegue raccontando la storia del<br />

criminal profiling e della sua progressiva accettazione da parte degli investigatori,<br />

diffondendosi nell’esposizione di qualche caso celebre<br />

(ci fu qualche criminologo che riuscì addirittura ad azzeccare il colore<br />

della cravatta del criminale…); e infine arriva al sodo. Alle tecniche.<br />

Ed è questo che, a chi vuole raccontare storie, interessa di più.<br />

Una storia avviene sempre in un luogo (o in più luoghi). L’esperto<br />

di criminal profiling lavora su un luogo dove «una storia è avvenuta», e<br />

dal luogo ricava informazioni sulla storia. Sulla sua dinamica, sui<br />

personaggi (il criminale, ma anche la vittima: un intero capitolo è<br />

dedicato alla «vittimologia»), sugli avvenimenti collaterali che possono<br />

aver provocato, aiutato, intralciato l’avvenimento principale. Chi<br />

vuole raccontare storie deve fare il lavoro inverso. Ha la storia, deve<br />

costruire le relazioni tra la storia che ha in mente e il luogo (i luoghi)<br />

dove essa avviene. Certo: <strong>non</strong> tutte le storie raccontano crimini. Ma<br />

l’accuratezza scientifica che l’esperto di criminal profiling mette nello<br />

152<br />

"smontare" la scena del delitto, il narratore deve metterla nel<br />

"costruire" la scena della sua narrazione.<br />

Durante i laboratori di scrittura che conduco, spesso provoco<br />

i partecipanti, durante la discussione dei loro racconti, domandando:<br />

«Ma di che colore ha i calzini, questo personaggio? E<br />

quest’altro, sotto i pantaloni porta mutande elastiche o braghette<br />

di tela?». Ecco. Queste sono domande che un qualsiasi<br />

esperto di criminal profiling si pone. E che si pone anche qualunque<br />

narratore esperto. Magari <strong>non</strong> sa nemmeno che se le pone:<br />

ha un tale senso della realtà, che istintivamente mette ogni cosa<br />

al posto giusto. Però se le pone.<br />

Fate un esercizio. Andatevi a leggere le pagine di Delitto e castigo<br />

dove Raskolnicov ammazza la vecchia. Poi prendete carta e<br />

matita, e provate a disegnare la scena che potrebbero essersi<br />

presentata agli investigatori. E, di nuovo, a ritroso, provate a<br />

immaginare (come se foste già esperti di criminal profiling) quali<br />

informazioni sulla personalità dell’ignoto criminale potevano<br />

raccogliere, dalla scena del delitto, questi investigatori; e quale<br />

profilo psicologico del criminale essi potevano ipotizzare.<br />

Poi, naturalmente, confrontate questo profilo psicologico con<br />

ciò che, avendo letto per intero (mi raccomando) Delitto e castigo,<br />

sapete sul conto di Raskolnicov. Al di là del suo aspetto vagamente<br />

macabro, vi assicuro che è un esercizio interessante.<br />

Per l’altro libro mi restano poche righe. S’intitola Raccontare<br />

delitti. Il ruolo della narrativa nella formazione del processo<br />

criminologico; a cura di A. Francia, A. Verde e J. Birkhoff,<br />

Franco Angeli, pp. 221, euro 17.50. È un po’ la controprova di<br />

ciò che vi ho detto finora: un libro di saggi che raccontano come<br />

l’abilità immaginativa dei narratori abbia arricchito<br />

l’immaginazione dei criminologi. Ma magari ne parlo un’altra<br />

volta.


Chiacchierata numero 96<br />

Libri che insegnano a scrivere, 17. Oggi farò una cosa di quelle che <strong>non</strong><br />

sta tanto bene fare. Parlerò male di un libro che <strong>non</strong> ho letto. Ne<br />

parlerò male, tuttavia, sulla base di un certo numero di informazioni:<br />

che mi sono state fornite dall’editore del libro stesso.<br />

Ricevo da Writers Magazine Italia una email intitolata: Il forum degli<br />

scrittori. La leggo. C’è dentro il rinvio a un sito:<br />

www.writersmagazine.it. Clicco. Imparo che Writers Magazine Italia<br />

è «La rivista scritta per chi scrive. Tutta da leggere!». Questo è<br />

l’inizio della presentazione: «Negli Stati Uniti c’è il Writers’ Journal, in<br />

Inghilterra la Writing Magazine, in Francia la Ecrire Magazine, in Canada<br />

The Writer. Tutte pubblicazioni dedicate all’affascinante mestiere<br />

di scrivere. In Italia mancava una rivista del genere, anche se su Internet<br />

esistono numerose realtà dedicate alla letteratura e alla scrittura,<br />

ma finalmente il buco è stato colmato. Con la Writers Magazine<br />

Italia anche i nostri autori hanno adesso un punto di riferimento,<br />

una guida tecnica e culturale a cui potersi appoggiare e un valido approdo<br />

critico per le loro opere». Bene: <strong>non</strong> è vero che in Italia<br />

«mancava una rivista del genere». Esiste da dieci anni, si chiama Inchiostro<br />

(www.rivistainchiostro.it) ed è, così mi pare, ispirata esattamente<br />

agli stessi modelli che cita la WMI (permettetemi questo acronimo).<br />

Questa dichiarazione <strong>non</strong> è un’inesattezza, <strong>non</strong> è una esagerazione<br />

pubblicitaria: è una dichiarazione falsa. Mi azzardo a dire:<br />

consapevolmente falsa.<br />

(Alla domanda: «Ma tu, li conosci quelli di Inchiostro?», rispondo:<br />

«Sì, li conosco. Ho anche lavorato con loro, qualche anno fa. Se<br />

pensate che io scriva questo articolo perché sono "amico" di Inchiostro,<br />

smettete pure di leggere. Io scrivo questo articolo perché ho visitato<br />

il sito di WMI e la prima cosa che ci ho trovata dentro è una<br />

dichiarazione falsa»).<br />

Nella pagina d’apertura del sito del WMI vedo pubblicizzato un libro:<br />

Il Prontuario dello scrittore. Lo slogan dice: «Un agile manuale per<br />

153<br />

chi vuole avere sempre a portata di mano tutti i segreti e le tecniche<br />

della scrittura». Questo <strong>non</strong> è niente di più di una deformazione<br />

pubblicitaria: nessuno, credo, può credere veramente che<br />

la pratica della scrittura consista nell’applicazione, come da<br />

«prontuario», di «segreti» e di «tecniche».<br />

Clicco. Apro la pagina che parla del libro. Leggo: «Procedendo<br />

a piccoli passi questo libro prende in esame tutti gli aspetti della<br />

scrittura, dagli elementi cardine quali la grammatica e la sintassi,<br />

fino al traguardo di una perfetta revisione secondo i più dettagliati<br />

schemi della tecnica editoriale. Non una bibbia per autori<br />

privi di talento, e neppure un abbecedario per dilettanti privi di<br />

ispirazione e di idee. La tecnica deve essere uno strumento di<br />

precisione nelle mani di un chirurgo, e suggerire esattamente<br />

quali mosse devono essere eseguite per ottenere il miglior risultato<br />

finale». Il che implica, credo, che quale sia «il miglior risultato<br />

finale» sia cosa nota a tutti; e che ottenerlo sia (naturalmente<br />

per chi <strong>non</strong> sia un «dilettante privo di talento, di ispirazione<br />

e di idee») sia solo una questione di tecnica.<br />

Il sito del WMI offre la possibilità di leggere l’indice del Prontuario<br />

e l’introduzione. Clicco sull’introduzione. Qui trovo un<br />

altro slogan: «Un agile manuale per chi vuole diventare professionista<br />

della scrittura». Un «professionista», addirittura? E basta<br />

un «agile manuale» per diventare «professionista»?<br />

Comincio a leggere l’introduzione. Prima frase: «Scrivere significa,<br />

essenzialmente, saper mutuare talento, stile e tecnica in<br />

un prodotto fruibile dal grande pubblico». Il verbo «mutuare»<br />

qui sta, credo, nel senso di: «prendere, ricavare da altri: Canova<br />

ha mutuato i ca<strong>non</strong>i figurativi dal classicismo» (De Mauro). Anche se<br />

l’espressione: «mutuare in» mi lascia un po’ perplesso. Continuo<br />

a leggere: «Talento, stile e tecnica. Sono questi gli ingredienti<br />

che, se abilmente mescolati e utilizzati nelle giuste proporzioni,<br />

possono portare uno scrittore a calcare il palcoscenico del successo.<br />

Ma <strong>non</strong> sempre si tratta di tre discipline (e caratteristiche)


che si possono apprendere con l’operosità e l’applicazione, anche se<br />

sopra a tutto vige una regola fondamentale, in grado di offrire la<br />

giusta opportunità a tutti: leggere».<br />

A questo punto sono terrorizzato. Scopro che «talento, stile e tecnica»<br />

sono «ingredienti», «discipline» e «caratteristiche». Il «talento» è<br />

una «caratteristica»? Mah. La «tecnica» è una «disciplina»? Ho<br />

l’impressione che ci sia piuttosto un’opposizione tra «tecnica» e «disciplina»;<br />

ma forse qui «disciplina» è nel senso di «materia», come si<br />

dice: «materia scolastica». E davvero «talento», «stile» e «tecnica»<br />

vanno «mescolati e utilizzati nelle giuste proporzioni»? E davvero<br />

l’«essenza» della pratica dello scrivere è nel produrre «un prodotto<br />

fruibile dal grande pubblico»? E davvero l’importante, per chi voglia<br />

dedicarsi alla pratica dello scrivere, è arrivare a «calcare il palcoscenico<br />

del successo»?<br />

E, domanda più importante di tutte: ma chi ha scritte queste cose,<br />

ha un’idea di che cosa sia la lingua italiana?<br />

Allora, adesso faccio la cosa che <strong>non</strong> sta tanto bene fare. Vi dico:<br />

se vi càpita di vedere in edicola il Writers Magazine Italia, evitate di<br />

comperarlo. Se vi càpita sottomano il Prontuario dello scrittore, <strong>non</strong><br />

compràtelo.<br />

Sono quasi dodici anni che conduco corsi e laboratori di scrittura e<br />

narrazione. Sono quasi dodici anni che litigo con chi mi dice: «Voi<br />

che fate queste cose siete tutti ciarlatani». Il problema è che i ciarlatani<br />

esistono davvero. Tuttavia <strong>non</strong> è difficile distinguere chi è ciarlatano<br />

da chi <strong>non</strong> è tale. Il ciarlatano vi promette la Luna. Il ciarlatano<br />

vi dice che è tutto facile. Il ciarlatano vi parla di «segreti» e «trucchi<br />

del mestiere». Il ciarlatano fa intendere, o dice addirittura apertamente,<br />

che tutti sono scrittori; e che se ciò che avete scritto <strong>non</strong> viene<br />

apprezzato dall’universo mondo, è perché il mondo è cattivo. Eccetera.<br />

Il <strong>non</strong> ciarlatano parla d’altro.<br />

Chiacchierata numero 97<br />

154<br />

Libri che insegnano a scrivere, 18. Di Annamaria Testa ho letti tre<br />

libri: La parola immaginata (Pratiche 1988), Farsi capire. Comunicare<br />

con efficacia e creatività nel lavoro e nella vita (Rizzoli 2000), e adesso<br />

questo Le vie del senso. Come dire cose opposte con le stesse parole (Carocci<br />

2004, con Paolo Rossetti, 104 pagine per 18 euro, illustrato).<br />

Prima di conoscere questi libri avevo letti diversi suoi<br />

articoli in una rivista bellissima, tutta dedicata alla pubblicità,<br />

che si chiamava Nuovo (nel primo numero, mi ricordo, c’era uno<br />

strepitoso servizio fotografico sui bagni delle agenzie di pubblicità;<br />

motivato dalla comune constatazione, che le idee migliori<br />

vengono sempre in bagno). Ma anche voi, ci scommetterei<br />

avete «letto» qualcosa di Annamaria Testa: pur senza averla mai<br />

sentita nominare.<br />

Vi ricordate la campagna pubblicitaria del Perlana, quella del<br />

«Passaparola»? E la campagna dell’acqua Ferrarelle, quella con<br />

le tre Gioconde? E la campagna della Golia, quella del «Ti sfrizzola<br />

il velopendulo»? Se ve le ricordate, e se le ricordate con un<br />

sorriso, allora siete già dei fan di Annamaria Testa: e <strong>non</strong> potrete<br />

fare a meno di leggere i suoi libri. (Se <strong>non</strong> le ricordate,<br />

probabilmente avete meno di vent’anni).<br />

La parola immaginata è, per quel che ne so, il più interessante libro<br />

italiano sulla pubblicità. Farsi capire è un ottimo libro sulla<br />

(attenti: <strong>non</strong> «un manuale di») comunicazione. Se vi interessano<br />

la pubblicità e la comunicazione, li consiglio di cuore; se <strong>non</strong> vi<br />

interessano (perché vi stanno a cuore soltanto la letteratura e la<br />

bellezza), ve li consiglio ugualmente.<br />

In questi libri troverete tutto fuorché il «comunichese» e il<br />

«pubblicitese» che si trovano in certi manuali tirati via (la maggioranza,<br />

temo) o che si sentono parlare in certi terribili (e<br />

molto alla moda, sì) corsi di comunicazione. No, Annamaria<br />

Testa è tutta un’altra cosa. E questo Le vie del senso ne è la prova.<br />

Immaginate una battuta di conversazione; una battuta qualsiasi,<br />

banale, di quelle che si dicono senza pensarci su. Tipo: «Bella


giornata, oggi». E immaginate, ora, di pronunciare questa battuta<br />

con intonazioni diverse, in situazioni diverse, calandovi in parti diverse.<br />

Siete un vampiro. Vi avvicinate a una bella fanciulla. Con voce<br />

suadente le sussurrate: «Bella giornata oggi».<br />

Siete Silvio Berlusconi e avete appena stravinte le elezioni. Vi avvicinate<br />

a Fausto Bertinotti, gli posate un braccio sulle spalle e gli dite:<br />

«Bella giornata oggi».<br />

Siete un operatore di call center con contratto trimestrale. Tornate a<br />

casa dopo un turno particolarmente pesante, con la voce roca e le<br />

occhiaie nere. La vostra compagna vi guarda e vi dice: «Bella giornata<br />

oggi».<br />

Siete Nerone. Mentre Roma brucia vi avvicinate a un pompiere e<br />

gli dite: «Bella giornata oggi».<br />

Siete un telegiornalista. Oggi sono deragliati quattro treni, sono<br />

precipitati quattro aeroplani, sono stati ammazzati dozzine di innocenti.<br />

Decidete di aprire il telegiornale con un servizio sul tempo che<br />

fa. La prima battuta è: «Bella giornata oggi».<br />

Ecco: vi rendete ben conto che in ognuno di questi casi la ciò che<br />

voi dite vuol dire qualcosa di diverso. «Per esempio secondo il tono<br />

di voce secondo cui viene detto», scrive Annamaria Testa, «o il foglio,<br />

l’insegna, il manifesto su cui è stampato. E secondo la frase in<br />

cui è inserito. E secondo chi lo dice o lo scrive. E secondo chi<br />

ascolta o legge. E secondo la loro condizione, sia contingente che<br />

permanente. E secondo quanto è successo prima e potrebbe succedere<br />

dopo. E secondo quanto chi scrive e chi legge, chi parla e chi<br />

ascolta sa o immagina di quanto è successo prima e potrebbe succedere<br />

dopo. E secondo quanto sa o immagina del suo interlocutore.<br />

E secondo il tempo e il luogo, in una regressione di causa in causa,<br />

di contesto in contesto…» (p. 18).<br />

E tutto il libro di Annamaria Testa è una ostinata (e istruttiva, e assai<br />

divertente) disamina di tutto ciò che si può dire dicendo o scrivendo:<br />

«Bella giornata oggi». Non che sia particolarmente impor-<br />

155<br />

tante sviscerare il senso di una battuta banale come: «Bella giornata<br />

oggi»: ma il libro vale, e vale secondo me parecchio, come<br />

esempio di lavoro.<br />

In sei agili capitoletti Annamaria Testa mostra come si possa<br />

intervenire su un testo breve: sulla sua struttura (cambiando<br />

l’ordine degli elementi, aggiungendo elementi, lavorando la<br />

punteggiatura); sulla sua espressione (cancellando o deformando);<br />

sulla sua forma (dimensione, colore e tipo dei caratteri); sul contesto<br />

nel quale appare (definendo il «campo», governando situazioni<br />

e paratesti, collocandolo su o accostandolo a oggetti); sul<br />

format al quale appartiene il messaggio complessivo (testo +<br />

tutto il resto).<br />

«Smontare e rimontare pezzi di comunicazione distinguendo<br />

tra significanti e significati, parte verbale e parte analogica,<br />

strutture e contenuti, è un gioco infinito», scrive Annamaria Testa.<br />

«Per giocarlo bastano un po’ di immaginazione e un po’ di<br />

rigore». E continua: «Prestare una giusta attenzione alla forma<br />

nella quale si trasmettono i testi, ed essere capaci di leggere le<br />

scelte - o le sciocchezze - formali fatte da chi li produce potrebbe<br />

(dovrebbe?) essere il segno di un’altrettanto giusta attenzione<br />

alla sostanza. A volte, invece, si tende a considerare la<br />

forma tanto più disprezzabile o irrilevante quanto più i contenuti<br />

sono, o vogliono essere, fondamentali. È un’ingenuità che<br />

si può pagare cara» (pp. 102-104).<br />

Non ho potuto fare a meno di pensare, leggendo questo bel<br />

libretto, ai dattiloscritti in attesa di lettura che sono impilati qui,<br />

a destra del tavolo sul quale sto scrivendo. Di quei dattiloscritti,<br />

alcuni mi sembrano addirittura impossibili da leggere. Corpi<br />

piccolissimi, margini inesistenti, font bizzarri, impaginazioni irregolari.<br />

Uno dei sogni della mia vita (credo di averlo anche già<br />

scritto; ma portate pazienza, è l’età) è: scrivere un trattato di<br />

psicopatologia dell’impaginazione. Difronte a un dattiloscritto


semplicemente illeggibile, la mia domanda è: «Ma questa persona,<br />

vuole davvero farsi leggere?».<br />

Chiacchierata numero 98<br />

Con Gianni Bonina, direttore di Stilos, siamo d’accordo: questa rubrica<br />

s’interromperà alla puntata numero 100. Questa è la 98; è<br />

quindi la terz’ultima.<br />

Quando Gianni mi propose, circa due anni fa, di pubblicare in Stilos<br />

«un corso di scrittura a puntate, o qualcosa del genere», io fui<br />

molto contento.<br />

Stilos mi sembrava una bella cosa, ben fatta, molto più ruspante e<br />

molto meno ingessata di altri supplementi letterari o librari, eccetera.<br />

Di mettere un po’ in ordine la mia esperienza sovrabbondante (e,<br />

in quando sovrabbondante, un po’ confusa) di conduttore di corsi e<br />

laboratori di scrittura, avevo proprio voglia.<br />

In somma: ero proprio contento.<br />

Adesso, a distanza di due anni, dico: bene, sono proprio contento.<br />

La rubrica termina perché tutte le cose di questo mondo devono<br />

terminare (e anche perché, onestamente, <strong>non</strong> saprei più che cosa<br />

raccontarvi); ma sono proprio contento.<br />

Mi ricordo che due anni fa andai in libreria. «Buongiorno», dissi.<br />

«Avete mica un libro che spieghi come si fa a tenere una rubrica<br />

settimanale in un giornale?».<br />

«Eh?», disse la ragazza.<br />

«Mi è stato chiesto di tenere una rubrica settimanale in un giornale»,<br />

spiegai. «Io a scrivere un articolo o due <strong>non</strong> ci ho problemi, figuriàmoci,<br />

poi mi hanno chiesto di parlare di cose che so, che pratico<br />

tutti i giorni, <strong>non</strong> ho un problema di materiale».<br />

«Dunque?», disse la ragazza.<br />

«Dunque», continuai infervorandomi, «il problema è che scrivere<br />

tutte le settimane su un certo argomento è un tipo tutto particolare<br />

di scrittura, mi spiego?».<br />

156<br />

«No», disse la ragazza.<br />

«Le faccio un esempio», dissi. «Questa libreria è frequentata da<br />

parecchi docenti universitari, vero?».<br />

«Sì», disse la ragazza.<br />

«Lei avrà notato che i docenti universitari hanno dei tempi»,<br />

dissi enfatizzando la parola tempi, «molto particolari e precisi,<br />

nel parlare».<br />

«Certo», disse la ragazza. «Ogni volta che aprono la bocca<br />

parlano per quarantacinque minuti. Perché quarantacinque minuti<br />

è la durata della lezione universitaria standard».<br />

«Benissimo», dissi. «Lei immagina che cosa succederebbe se<br />

così, all’improvviso, Letizia Moratti decidesse che le lezioni<br />

universitarie devono durare mezz’ora, o un’ora e un quarto».<br />

«Be’», disse la ragazza. «Penso che andrebbero tutti in crisi».<br />

«Appunto. Il mio è un problema di questo genere», conclusi.<br />

«Mi spieghi bene», disse la ragazza.<br />

«Eh», incominciai, «io nella mia vita ho scritto di tutto. A<br />

vent’anni compilavo articoli su articoli per le riviste bimestrali<br />

della Confartigianato veneta: L’autotrasportatore artigiano, Unit-Eis<br />

Notizie, C.re.s.p.e Informazioni, Medioveneto, Confezioni & maglieria,<br />

L’acconciatore artigiano, Artigianato artistico».<br />

«Mi spiace», disse la ragazza. «Non volevo suscitare in lei dolorosi<br />

ricordi».<br />

«Ma no!», dissi. «Mi divertivo un sacco. Per L’autotrasportatore<br />

artigiano facevo anche le prove su strada dei camion».<br />

«Dev’essere stato atroce», disse la ragazza.<br />

«Non fraintenda», dissi. «A venticinque anni scrissi il mio primo<br />

discorso elettorale».<br />

«E fu eletto?», disse la ragazza.<br />

«Non era per me», dissi. «Era per un candidato della Dc alle<br />

elezioni europee».<br />

«E fu eletto?», disse la ragazza.


«No», dissi. «Primo dei <strong>non</strong> eletti, a 524 voti dall’ultimo degli eletti».<br />

«Be’, un bel risultato», disse la ragazza, «per essere il suo primo discorso<br />

elettorale».<br />

«Potrei continuare senza essere interrotto?», dissi.<br />

«Prego», disse la ragazza. «Pensavo solo di offrirle un po’ di calore<br />

umano, mostrando di interessarmi alle sue squallide vicende».<br />

«In somma», dissi tagliando corto, «poi ho compilato manuali scolastici,<br />

ho tradotto anche da lingue che <strong>non</strong> conoscevo, ho fatti i titoli<br />

del calcio minore nel quotidiano del martedì, ho scritti racconti,<br />

saggi, perfino poemi…».<br />

«Bravo, bravissimo», disse la ragazza, applaudendo.<br />

«Non le dico mica queste cose per farmi bello», dissi. «È che, vede,<br />

trovandomi a scrivere tutte queste cose, ho imparato che ogni tipo<br />

di scrittura ha un suo specifico e preciso funzionamento».<br />

«Indubbiamente», disse la ragazza.<br />

«E quindi, essendomi stato chiesto di scrivere una rubrica settimanale,<br />

mi sono messo in cerca di un qualche testo che parli della<br />

scrittura periodica».<br />

«Ma lei pensa che sia una scrittura diversa da tutte le altre?», disse<br />

la ragazza.<br />

«Ma, <strong>non</strong> lo so», dissi agitando le mani. «Magari no. Magari sì. Non<br />

ho idea. C’è questa cosa della periodicità settimanale, ad esempio,<br />

che mi impensierisce. Bisogna che gli articoli abbiano, che so, un<br />

ritmo, un’andatura, un qualcosa che li leghi l’uno all’altro…».<br />

«Un fil rouge», suggerì la ragazza.<br />

«Ecco, sì, un fil rouge», continuai. «E poi c’è la faccenda della misura<br />

fissa: seimila battute, sempre, ovviamente con un margine di libertà,<br />

ma comunque seimila battute, sempre».<br />

La ragazza sbatté le palpebre.<br />

«Ma ci sono cose che in seimila battute <strong>non</strong> so mica se si riesce a<br />

dirle», disse anacolutando con garbo. «E altre che tremila bastano e<br />

avanzano».<br />

157<br />

Ha capito, pensai.<br />

«Bene, ecco», dissi. «Vedo che ha capito il problema. A questo<br />

punto la domanda è: ce l’ha un libro che parli di questo?».<br />

«No», disse la ragazza.<br />

«Proprio nessuno nessuno?», insistei.<br />

«Può provare a guardare nei manuali di giornalismo», disse<br />

stancamente la ragazza.<br />

«Già fatto», dissi. «Quelli che approfondiscono di più la faccenda,<br />

dicono che le rubriche settimanali esistono. E nulla più».<br />

La ragazza mi guardò.<br />

Io la guardai.<br />

«Dovrà fare da solo», disse la ragazza.<br />

«Eh sì», dissi.<br />

«Imparare sul campo», disse la ragazza.<br />

«Eh sì», dissi.<br />

«Far tesoro degli errori commessi», disse la ragazza.<br />

«Eh sì», dissi.<br />

«E magari potrebbe anche andar male», disse la ragazza.<br />

«Eh sì», dissi.<br />

Restammo un po’ in silenzio.<br />

«Grazie», dissi infine. «Arrivederci».<br />

«Arrivederci», disse la ragazza.<br />

Uscii dalla libreria.<br />

Questo per dire che, se per caso questa rubrica vi è sembrata a<br />

tratti confusa o sciatta o disordinata, ci sono delle ragioni.


Chiacchierata numero 99<br />

Quando lavoravo nell’ufficio stampa della Confartigianato del Veneto<br />

(negli anni Ottanta) scrivevo tutti i giorni almeno cinque o sei<br />

cartelle.<br />

(«Cartella» è una gloriosa parola del linguaggio giornalistico. Una<br />

«cartella» è un foglio di carta battuto a macchina, con trenta righe di<br />

testo, ciascuna lunga - circa - sessanta battute. Milleottocento battute<br />

in tutto. In pratica, scrivendo sul foglio di carta standard - che <strong>non</strong><br />

era l’A4 oggi universalmente diffuso - bastava mettere l’interlinea<br />

uno e mezzo, e lasciare due centimetri di margine per parte, e si otteneva<br />

una perfetta «cartella». Perché il nome «cartella» - da charta,<br />

chartula: foglio, foglietto - si sia conservato con questo senso solo nel<br />

giornalismo, <strong>non</strong> lo so proprio).<br />

Ogni giorno, dicevo, scrivevo almeno quattro o cinque cartelle.<br />

Spesso di più.<br />

Il nostro ufficio produceva vari tipi di testi. Scrivevamo comunicati<br />

stampa da spedire ai giornali; discorsi che poi altri avrebbero<br />

pronunziati in convegni e congressi; articoli per le sette riviste bimestrali<br />

di trentadue pagine ciascuna (rispettivamente: per l’edilizia, i<br />

parrucchieri e le estetiste, l’artigianato d’arte, i gelatieri, gli autotrasportatori<br />

e i tassisti, gli artigiani del tessile; più una rivista politicosindacale<br />

di taglio generalista) che uscivano in realtà irregolarmente<br />

ma erano comunque un bell’impegno; un’agenzia stampa quasi quotidiana<br />

(cinque giorni per settimana, ogni uscita con una dozzina di<br />

notizie e almeno un approfondimento); manuali e manualetti sugli<br />

argomenti più svariati.<br />

In somma, avevamo il nostro bel da fare. Eravamo in due (c’erano<br />

dei collaboratori ma, come dire: erano giornalisti ai quali ci conveniva<br />

dare uno stipendio, ma <strong>non</strong> era necessario che lavorassero; anche<br />

in questo modo si guadagnava spazio sulla stampa; uno di loro lo<br />

vidi forse due volte in sette anni), e per questa mole di lavoro essere<br />

in due <strong>non</strong> è tanto: anche perché le riviste <strong>non</strong> basta scriverle, biso-<br />

158<br />

gna anche inventarle, impaginarle, illustrarle, eccetera; e per<br />

scrivere su un argomento bisogna pure studiarlo (c’è chi fa a<br />

meno, ma <strong>non</strong> va bene); e poi il lavoro di un ufficio stampa<br />

consiste anche nel tenere relazioni, nel fare telefonate, nello<br />

spingere di qua e nel tirare di là; nell’inventare gli slogan per le<br />

idee dell’organizzazione; eccetera.<br />

Eravamo in due: l’altro era il capo, e io ero il giovane. Per ragioni<br />

che mi sembrano evidenti il lavoro di relazioni era tutto<br />

appannaggio del capo (tra l’altro, è un lavoro per il quale io sono<br />

negato). E <strong>non</strong> è un lavoro che prenda poco tempo. In sostanza,<br />

il novanta per cento di quel che si scriveva lo scrivevo<br />

io; il capo si riservava i testi più difficili da fare (<strong>non</strong> necessariamente<br />

i più importanti), solitamente perché ricchi di mediazioni,<br />

di sottintesi politico-sindacali, di allusioni e di ammiccamenti<br />

(un lavoro da servizi segreti, ci dicevamo, ridendo).<br />

Quindi io scrivevo le mie quattro o cinque, ma talvolta anche<br />

le mie quindici o venti cartelle quotidiane. Quando si avvicinavano<br />

i congressi dell’organizzazione, il lavoro diventava parossistico.<br />

La Confartigianato è un’organizzazione che associa imprenditori<br />

artigiani. Ai congressi dovevano prendere la parola i<br />

presidenti delle associazioni locali e delle unioni di mestiere:<br />

persone magari abilissime nel loro lavoro, ma spesso del tutto<br />

inette nel parlare in pubblico (spesso anche nel parlare in italiano<br />

standard). Mi ricordo le settimane precongressuali come<br />

lunghi sogni ad occhi aperti. Telefonavamo a Tizio, gli chiedevamo<br />

che cosa intendesse dire al congresso, Tizio ce lo spiegava<br />

a modo suo (e in buon dialetto), noi scrivevamo gli interventi,<br />

li spedivamo per posta o via fax (la rete era ancora una<br />

cosa per specialisti), loro ritelefonavano per aggiustare qualcosa,<br />

noi riscrivevamo, eccetera. Tre, quattro, cinque ore al giorno a<br />

fare questo. Non era, ovviamente, solo un lavoro di scrittura:<br />

era anche un lavoro politico, di mediazione e di moderazione<br />

(l’imprenditore artigiano veneto, come tutti coloro che si fanno


da sé, ha facilmente tendenze criminali: basti guardare l’aggressività<br />

della Lega, che dal punto di vista antropologico è sicuramente il<br />

partito i cui vertici somigliano di più alla base - e viceversa).<br />

La redazione dell’agenzia quotidiana era un altro bell’impegno.<br />

Ogni giorno bisognava cavar fuori una dozzina di notizie concernenti<br />

l’artigianato: ma questo era il meno. Un’organizzazione genera<br />

da sé le sue notizie. Il più era, materialmente, scriverle: spiegando<br />

tutti gli aspetti tecnici in modo da renderle comprensibili, potenzialmente,<br />

a chiunque; e colorandole, anche le notizie più tecniche,<br />

del colore politico-sindacale della nostra organizzazione. Mi ricordo<br />

quando scoppiò la polemica sugli acconciatori unisex. In Veneto, allora,<br />

c’era una legge che regolava il mestiere di acconciatore: e distingueva<br />

tra «parrucchieri per signora» e «barbieri». Ma in quegli<br />

anni il mercato si stava trasformando; approdavano in Italia le grandi<br />

catene di acconciatura, che <strong>non</strong> facevano più distinzione tra maschi<br />

e femmine. Bisognava regolamentare diversamente il mestiere,<br />

in modo che gli artigiani più in gamba potessero trasformare la loro<br />

bottega in salone di acconciatura… unisex. «No», dissi io nel corso di<br />

una riunione della Fnapusma (Federazione nazionale acconciatori<br />

per uomo e signora & mestieri affini), «<strong>non</strong> unisex. Casomai bisex:<br />

lavorano per entrambi i sessi». Apriti cielo. Nessuno voleva gli acconciatori<br />

bisex: sembrava una brutta cosa. Tutti li volevano unisex:<br />

usando una parola che diceva il contrario di ciò che si voleva dire.<br />

(Quella, tra parentesi, per me fu una battaglia persa. Gli acconciatori<br />

veneti sono tuttora unisex, e lavorano per entrambi i sessi).<br />

Perché vi racconto tutto questo? Perché ogni volta che qualcuno<br />

mi domanda: «Ma che cosa devo fare, che cosa devo studiare, per<br />

diventare uno scrittore?», a me vengono in mente quei sette anni in<br />

Confartigianato. Durante i quali imparai molte cose sulla scrittura:<br />

anche, tra le altre cose, a scrivere questo articolo in, aspettate che<br />

controllo, diciotto minuti e mezzo. Trecentoventisette battute al minuto.<br />

159<br />

Chiacchierata numero 100<br />

State leggendo la centesima e ultima puntata di questa rubrica<br />

scritta da giulio mozzi, che sono io, intitolata Scriptorium (nome<br />

trovato da Gianni Bonina, direttore di Stilos), e annunciata nella<br />

sua prima puntata con la frase: «Questa è la prima puntata di un<br />

corso di scrittura e narrazione a puntate».<br />

Mi sono riletto le novantanove puntate precedenti e mi sono<br />

domandato: «Veramente ho compilato un corso di scrittura e<br />

narrazione a puntate?». Mi sono risposto: «Ma, sostanzialmente<br />

no. Il concetto di corso a puntate contiene, così a occhio, un qualche<br />

concetto di progressione didattica. Da un corso di scrittura e<br />

narrazione, poi, cosa che so bene perché la sento dire da quasi<br />

tutti coloro che partecipano ai corsi e laboratori da me condotti,<br />

ci si aspetta in genere l’apprendimento di tecniche (talvolta degradate<br />

a trucchi del mestiere): e io <strong>non</strong> posso dire di avere insegnate<br />

delle tecniche. Un corso poi dovrebbe essere un qualchecosa di<br />

sistematico, di organizzato; mentre questa rubrica è stata vagante<br />

e divagante. La stessa serie conclusiva, dedicata ai Libri che<br />

insegnano a scrivere, è stata tutto fuorché un’ordinata e completa<br />

bibliografia». «E allora?», mi sono domandato di nuovo, «Ho<br />

forse buttato via il tempo di me che ho scritto, di coloro che<br />

hanno letto?». «Spero di no», mi sono risposto, «spero di no ma<br />

<strong>non</strong> posso esserne sicuro. Il fatto è che la riduzione della scrittura<br />

e della narrazione a tecniche è, così mi sembra, una delle cose<br />

più perniciose per il bene della scrittura e della narrazione.<br />

Certamente un contenuto tecnico c’è nello scrivere e nel narrare;<br />

così come nel fare l’amore c’è un contenuto tecnico, ed è<br />

perfino possibile l’apprendimento di tecniche, di operazioni, di<br />

procedure, eventualmente con l’adoperamento di strumenti e<br />

marchingegni; ma credo che difficilmente si possa credere che il<br />

fare l’amore possa essere ridotto al suo contenuto tecnico; tanto


che dei professionisti e delle professioniste del fare l’amore si dice<br />

comunemente che con difficoltà abbiano accesso al vero amore (comprensivo,<br />

mi pare del vero fare l’amore), o che, in alternativa, in loro la<br />

professionalità nel fare l’amore sia completamente distinta e separata<br />

dalla eventuale capacità di vero amore». «Stai dicendo», mi sono<br />

detto allora, «che chi si aspetta da un corso di scrittura e narrazione<br />

(a puntate o no) esclusivamente o prevalentemente un contenuto<br />

tecnico, è un po’ come quegli e quelle adolescenti che, terrorizzati<br />

dagli aspetti <strong>non</strong> tecnici dell’amore e del fare l’amore, riversano il loro<br />

terrore sugli aspetti tecnici, finendo col <strong>non</strong> capire più che in questione<br />

sono sentimenti, senso d’identità, appassionamento per<br />

l’altro, disponibilità ad offrirsi; e credendo invece che sia tutta una<br />

questione ginnica, di operazioni e prestazioni?». «Sì, più o meno sì»,<br />

mi sono risposto.<br />

A questo punto, smetto di parlare con me stesso; e mi rivolgo a chi<br />

ha seguita questa rubrica durata quasi tre anni. Dico: «Grazie per<br />

l’attenzione e la pazienza. Ho cercato di fare il meglio che potevo.<br />

Qualche puntata è venuta un po’ tirata via; qualche altra è venuta<br />

benino; mi sono ripetuto abbastanza (ma in quasi tre anni, credo sia<br />

lecito ripetersi); <strong>non</strong> mi sono contraddetto troppo; e ho deciso di<br />

terminare perché, sinceramente, <strong>non</strong> sapevo più che cosa raccontarvi.<br />

Tutto quello che mi pareva di potervi raccontare, l’ho raccontato.<br />

Se vi pare poco o misero, <strong>non</strong> so che dirvi. Ricordate che nella<br />

scrittura e nella narrazione, così come per le altre altri, la cosa più<br />

importante e misteriosa è, di solito, proprio sotto il vostro naso. Io<br />

ho sperimentato questo; e vi auguro di sperimentarlo».<br />

Naturalmente Gianni Bonina, direttore di Stilos, preso atto della<br />

mia decisione di fermarmi alla puntata numero 100, ha detto subito.<br />

«Sì, certo, va bene. Però mica smetterai di scrivere per Stilos, no?». Io<br />

allora ho detto: «Be’, no. Potrei fare dei pezzi di tanto in tanto. Però<br />

dovresti chiedermeli tu: perché, quanto a inventare articoli, io <strong>non</strong> ci<br />

so proprio fare». Allora Gianni ha detto: «Potremmo inventare<br />

160<br />

un’altra rubrica». «Ah sì», ho detto allora io, «potremmo inventarci<br />

un’altra rubrica».<br />

(I manuali per discorsi da tenere in varie occasioni sottolineano<br />

molto questo punto: <strong>non</strong> si deve mai dire che una conclusione<br />

è una conclusione e basta; ma ogni conclusione deve essere<br />

trasformata in un, o almeno nella prefigurazione di un, nuovo<br />

inizio).<br />

In sostanza, mi sono venute un po’ di idee per un’altra rubrica.<br />

Alcune sono bislacche, altre sono sensate, parecchie <strong>non</strong> saprei<br />

come fare a farle: nessuna, lo giuro, è un’idea originale. Le<br />

metto qui, e aspetto di sentire delle opinioni<br />

(giuliomozzi@gmail.com) e/o delle ulteriori proposte:(a) Recensioni<br />

di libri immaginari e inesistenti, (b) Segnalazione, recensione<br />

e/o direttamente pubblicazione di testi belli trovati<br />

nella grande rete, (c) Brevi excursus su temi e/o parole e/o luoghi<br />

ricorrenti e/o situazioni ricorrenti nella narrativa contemporanea,<br />

(d) Recensioni di libri recenti ma introvabili, scomparsi<br />

dal mercato e dalle biblioteche, (e) Recensioni di copertine di<br />

libri, o recensioni di quarte di copertina di libri, o recensioni di<br />

recensioni, (f) Recensioni di cose scritte, a prescindere dal loro<br />

supporto: si potrebbero recensire le istruzioni per l’uso della lavatrice,<br />

i foglietti illustrativi delle medicine, i biglietti del bus, le<br />

carte da gioco ecc., (g) Brevi biografie, con citazioni dalle opere,<br />

di poeti immaginari, (h) Una rubrica di risposte a domande di<br />

lettori sulla letteratura, (i) eccetera.<br />

Nessuna di queste idee, ripeto, è originale. La (e) è già stata<br />

usata, per dire, almeno da Marco Belpoliti in Alias, supplemento<br />

del quotidiano il manifesto, e da Elio Paoloni, collaboratore<br />

di Stilos, nella rivista Fernandel pubblicata dall’omonima casa<br />

editrice. La (a) viene dal divertentissimo libro Mirabiblia, a cura<br />

di Paolo Dall’Acqua, recentemente pubblicato da Zanichelli; e<br />

la (g), molto simile, da La letteratura nazista in America di Ro-


erto Bolaňo, pubblicato da Sellerio. Niente di nuovo sotto il sole,<br />

quindi.<br />

Ma confidiamo nei vostri consiglio. A risentirci.<br />

161

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