Desiderio di Dio e creazione di un ordine mondano nella Regula ...

Laurea magistrale in Scienze delle religioni a.a. 2008/2009 

Corso di storia del cristianesimo antico e medievale 

Desiderio di Dio e creazione di un ordine mondano nella 

Regula Benedicti 

Bibliografia 

La regola di san Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. PRICOCO, Milano, Fondazione Lorenzo 

Valla - Mondadori, 1995 (Scrittori greci e latini). 

La Règle de saint Benoît. I (Prologue - ch. 7), introduction, traduction et notes par A. DE VOGÜE, 

texte établi et présenté par J. NEUFVILLE, Paris, Les éditions du Cerf, 1972 (Sources chrétiennes, 

181). 

S. BENEDETTO, La regola, testo, versione e commento a cura di A. LENTINI, Montecassino, Tip. 

editrice M. Pisani, 1980. 

BIARNE, JACQUES, Monaci e rigoristi in Occidente, in Storia del cristianesimo. Religione - Politica - 

Cultura, II, La nascita di una cristianità (250-430), a cura di CH. 

e L. PIETRI, Roma, Borla - Città Nuova, 2000, pp. 698-718. 

BROWN, PETER, Genesi della tarda antichità, Torino, Einaudi, 2001 [1978] (Piccola Biblioteca 

Einaudi, 95). In particolare i cap. 3 (Gli «amici di Dio») e 4 (Dai cieli al deserto: Antonio e Pacomio). 

DE VOGÜE, ADALBERT, La regola di san Benedetto. Commento dottrinale e spirituale, Praglia, Scritti 

monastici, 1998. 

MARAVAL, PIERRE, Il monachesimo orientale, in Storia del cristianesimo. Religione - Politica - 

Cultura, II, La nascita di una cristianità (250-430), a cura di CH. e L. PIETRI, Roma, Borla - Città 

Nuova, 2000, pp. 673-697. 

Il monachesimo come fenomeno storico-religioso 

Il monachesimo non è una modalità di realizzazione dell’esperienza religiosa specifica della 

tradizione cristiana; forme di vita assimilabili a quella monastica si trovano nella tradizione hindu, nel 

giainismo, nel buddismo, nel taoismo, nell’islam e almeno in una fase della storia del giudaismo. Si 

tratta di fenomeni storici molto differenziati e con gradi di istituzionalizzazione variabili, anche 

all’interno di ciascuna tradizione religiosa. Dal punto di vista esterno possono essere accomunati da 

alcuni elementi: 

· forme più o meno accentuate di separazione rispetto alla maggioranza dei componenti della 

comunità sociale e religiosa (nell’abito, nei luoghi di residenza, nelle relazioni interpersonali, 

nell’organizzazione del tempo, nelle pratiche alimentari e di vita);

· una condotta di vita caratterizzata dall’ascetismo e da specifiche pratiche rituali e di preghiera 

(controllo alimentare, sessuale, del sonno, riti di ammissione e di consacrazione, organizzazione del 

tempo a partire da pratiche liturgiche e/o meditative); 

· l’orientamento di questa condotta a un progresso spirituale di colui che la pratica: il termine 

“monaco” può essere interpretato sia in relazione all’ideale della solitudine, sia in relazione alla 

ricerca dell’unificazione di sé (importanza della relazione gerarchica tra maestro e discepolo, 

incipiente e progredito). 

Il monachesimo cristiano in Oriente 

Condotte ascetiche (digiuno, veglie, elemosine, lavoro manuale, continenza sessuale, preghiere 

prolungate) sono attestate tra i cristiani fin dalle origini, anche come stile di vita permanente e 

riconosciuto dalla comunità (vergini, vedove nel NT). Abbiamo testimonianza dalla letteratura subapostolica 

dell’esistenza di profeti itineranti (Did. 11-12), di continenti uomini e donne che vivevano 

nelle comunità (p.e. Ign. Ad Polyc. 5, 2; Ad Smyrn. 13, 1). 

Nel corso del III sec., soprattutto nelle comunità cristiane urbane, cresce il numero delle donne che 

vivono in verginità: eccedenza numerica delle donne, rifiuto dei matrimoni misti, celibato vissuto 

come condizione ideale (anche a motivo della posizione subordinata della donna nel matrimonio) 

possono essere stati elementi che sul piano sociale hanno promosso la diffusione di questa scelta di 

vita ascetica, che è comunque considerata «la porzione più nobile del gregge del Signore» (Cipr. De 

habitu virg. 3). 

Un aspetto particolare, e discusso, della vita ascetica dei primi secoli è rappresentato dalla 

coabitazione di uomini e donne consacrati (cf. p.e. Eus. HE VII 30, 12); probabilmente è una forma di 

vita che ha avuto all’inizio motivazioni pratiche e che corrisponde a una specie di matrimonio 

spirituale di cui si ha notizia anche presso le comunità gnostiche (Ir. Adv. haer. I 13, 3). 

Solo dalla seconda metà del III sec. si può parlare nelle chiese cristiane di una specifica forma di 

vita, solitaria o comunitaria, che si andò istituzionalizzando sotto il nome di “monachesimo”: quando 

Antonio, verso il 275, decide di dedicarsi alla vita ascetica al di fuori del proprio villaggio, già trova 

persone che lo hanno preceduto in questa scelta di vita. 

Se il monachesimo come forma di vita non è un’invenzione cristiana, non è però chiaro se e quali 

siano stati gli antecedenti storici del monachesimo cristiano. Si possono indicare varie esperienze che 

possono aver avuto o hanno effettivamente svolto un ruolo nella definizione di un modello di vita 

monastica anche in seno alle chiese cristiane: 

- l’influenza di determinate esperienze ascetico-comunitarie nella tradizione filosofica ellenica 

(p.e. pitagorismo o stoicismo); la filosofia greca ha fornito, forse, più che modelli concreti di 

istituzioni di vita, un quadro teorico d’interpretazione della condotta ascetica; non per caso vita 

cristiana e vita monastica sono state spesso identificate dagli scrittori cristiani come “vita filosofica” 

(cf. G. BARDY, «Philosophe» et «philosophie» dans le vocabulaire chrétien des premièrs siècles, 

«Revue d’Ascétique et de Mystique», 25 (1949), pp. 97-108); è interessante osservare che Gregorio di 

Nissa, p.e., evita sistematicamente l’espressione “vita monastica” e adotta invece l’espressione “vita 

filosofica”; 

- l’influenza di alcune esperienze ascetico-comunitarie del giudaismo del secondo tempio 

(terapeuti, esseni, dei quali parlano Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio) o di comunità di asceti 

manichei che conducevano vita comune o ancora influssi gnostici. 

Difficilmente, però, queste influenze avrebbero potuto produrre da sé il fenomeno del 

monachesimo cristiano, che è fiorito contemporaneamente in luoghi diversi dell’impero e ha 

conosciuto un’espansione rapida a partire dal IV sec.; al più gli hanno fornito riferimenti teorici o 

modelli di condotta. 

Nell’autocomprensione dei monaci cristiani giocavano soprattutto: 

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- la ripresa di modelli biblici (Mosè, Elia, Giovanni Battista, Cristo stesso, avevano trascorso parte 

o tutto il loro ministero nel deserto), 

- il riferimento al martirio (in un’epoca in cui, dopo la pace costantiniana la chiesa da alternativa al 

mondo diviene sempre più essa stessa parte del mondo, dalla quale il vangelo invita a separarsi) 

- il desiderio di realizzare una perfetta sequela di Cristo, nella rinuncia alla ricchezza (Mt 19, 21), 

alla solidarietà familiare (Lc 14, 26-27), nel rinnegamento di sé fino alla croce (Mc 10, 38). 

· Indubbiamente vi è fra gli elementi che hanno favorito l’espansione del monachesimo anche una 

reazione alla crescente integrazione delle chiese nel tessuto sociale e istituzionale dell’impero 

(favorito dall’aumento numerico dei battezzati), sia prima della persecuzione di Diocleziano sia, 

soprattutto, dopo, durante l’epoca costantiniana. 

· Un’altra ragione di carattere sociale che può spiegare il successo del monachesimo sta nella 

crescente pressione fiscale che schiaccia i ceti inferiori nell’impero e ne facilita la fuga nei monasteri, 

per mettersi al riparo dalle estorsioni delle autorità. In epoca tardo-antica in Egitto, p.e., il termine 

“anacoresi” indica la fuga verso i margini desertici della valle del Nilo da parte di coloro che vogliono 

sottrarsi al fisco, alla giustizia, alla costrizione, alle cariche pubbliche. 

· P. Brown indica anche nel monachesimo l’erede della tradizione antica dei mediatori con il 

divino: il successo e il potere crescente dei monaci nella società tardo-antica si spiegherebbe anche 

con il fatto ch’essi vennero percepiti come “amici di Dio”, interlocutori diretti della divinità. 

Tradizionalmente l’Egitto è indicato come il luogo nel quale il monachesimo cristiano è nato, sia 

nella sua forma anacoretica, sia (un poco più tardi) in quella cenobitica. Inizialmente la vita dei 

monaci si svolgeva ai limiti dei villaggi, in zone disabitate, ma non remote dalla striscia di terra 

coltivata e abitata lungo il Nilo. 

Anche s’egli non fu il primo o intraprendere la vita eremitica, né l’unico della sua epoca, il 

modello anacoretico di vita monastica è legato in modo del tutto particolare alla figura dell’egiziano 

Antonio, la cui biografia, scritta da Atanasio poco dopo la sua morte (~ 251-356) ebbe un enorme 

successo e contribuì non poco a propagandare la vita eremitica dentro e fuori i confini dell’impero. 

La Vita di Antonio è una fonte importante per conoscere i primi passi dell’anacoretismo egiziano, 

ma è una fonte tendenziosa: scritta da un vescovo preoccupato di mantenere nell’alveo della comunità 

ecclesiale e nella soggezione all’autorità un movimento che rappresenta un rischio per la compagine 

istituzionale della chiesa sia sotto il profilo disciplinare, sia sotto il profilo dottrinale. Antonio viene 

presentato come perfetto asceta e campione dell’ortodossia nicena. Nella sua condotta di vita vengono 

messi in rilievo i tratti che diventeranno caratteristici dell’ideale monastico: preghiera, lettura delle 

Scritture, lavoro manuale, carità e pratica rigorosa dell’ascesi. 

Nel 270 circa, dopo la morte dei genitori, Antonio, un contadino agiato del medio Egitto, della 

città di Heracleopolis Magna, distribuisce i propri beni ai poveri e si ritira in solitudine nei pressi del 

villaggio nativo, ricorrendo ai consigli di un eremita che viveva nelle vicinanze. Dopo circa 15 anni si 

ritira in una zona più interna del deserto, prima, per cinque anni, come recluso in una tomba, poi, per 

altri venti, in un fortino abbandonato. Dal 312 si spinge verso la zona montagnosa in prossimità del 

Mar Rosso, dove rimane fino alla morte nel 356. In queste ultime due stazioni del proprio “esodo” 

Antonio viene raggiunto da discepoli che formano intorno a lui una comunità di solitari. 

Comunità simili di anacoreti che si affidano al magistero di un anziano si ritrovano dall’inizio del 

IV sec. in varie regioni dell’Egitto; le fonti letterarie che ne descrivono i personaggi più autorevoli 

sono tutte successive: Storia dei monaci dell’Egitto (racconto di un viaggio fatto nel 394 da alcuni 

monaci palestinesi), Storia lausiaca, di Palladio di Elenopoli (419-420), Conferenze e Istituzioni di 

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Giovanni Cassiano (pubblicate prima del 429), varie collezioni di Apoftegmi dei padri, messi per 

iscritto fra V e VI sec. 

Una zona particolarmente popolata di comunità anacoretiche è quella a Sud di Alessandria: 

intorno al 320-330 si insedia presso la collina di Nitria (40 km a sud di Alessandria) Ammone, ben 

presto raggiunto da una folta schiera di discepoli attirati dalla sua fama di santità. In cerca di una 

maggiore solitudine, egli si ritira verso le Celle, a circa 20 km più a sud; qui visse tra il 382 e il 399 

Evagrio Pontico. 

Al 330 risale l’insediamento di un altro grande padre del monachesimo egiziano, Macario il 

Grande, nel deserto di Sceti, oltre 50 km a sud di Celle. Da questi insediamenti, fino a quando 

vennero quasi completamente abbandonati nel corso del VI sec. — sia in seguito alla crisi origenista 

sia in seguito agli attacchi di tribù nomadi provenienti dalla Libia — sciamarono monaci in direzione 

del Sinai, della Palestina e di altre località. 

Si tratta di colonie monastiche anche assai numerose, nelle quali la vita solitaria è mitigata da 

luoghi e tempi di incontro fra i solitari: per l’eucaristia domenicale e un pasto comune. 

Accanto alle colonie di solitari, l’Egitto vede quasi contemporaneamente sorgere anche un 

movimento monastico organizzato sulla base della vita comune, il cui promotore più autorevole fu 

Pacomio (~ 292-346). Su di lui sono pervenute numerose Vite, le più antiche in copto; sono inoltre 

state tramandate la regola (tradotta in latino nel 404 da Girolamo), lettere. 

Pacomio era di origine pagana, si convertì al cristianesimo nel 312, secondo i biografi colpito dalla 

carità esercitata dai militari cristiani (Pacomio era stato arruolato a forza nell’esercito). Dal 323 si 

stabilì a Tabennesi, nell’Alto Nilo e qui diede vita a una comunità la cui organizzazione è insieme 

regolata dai precetti delle Scritture, dall’esperienza dei campi militari e dal modo di vita dei villaggi 

dei contadini copti. La comunione pacomiana è costituita da un insieme di edifici circondati da un 

muro e ospita una colonia monastica piuttosto numerosa. I monaci si riuniscono due volte al giorno 

per la preghiera, prendono i pasti in comune, mettono in comune i loro beni e i proventi del loro 

lavoro (le case in cui è sudivisa la comunità raggruppano i fratelli in funzione del loro mestiere). Nel 

monachesimo pacomiano è l’obbedienza la virtù per eccellenza del monaco. Una innovazione 

significativa del monachesimo pacomiano è l’introduzione di una regolamentazione anche scritta 

della vita comunitaria, che venne prodotta in un arco di tempo piuttosto lungo e da più autori (se ne 

possiede il testo completo nella versione latina di Girolamo, fatta su una precedente traduzione greca 

dell’originale copto). 

Alla morte di Pacomio esistevano nove monasteri maschili e due femminili posti sotto la sua 

direzione, ciascuno popolato da comunità molto numerose (dell’ordine delle centinaia di membri). I 

monasteri pacomiani erano collegati fra loro dalla comune obbedienza a un superiore unico, pur 

avendo ciascuno il proprio e formavano un vero e proprio ordine monastico, la cui espansione 

continuò anche dopo la morte di Pacomio. 

Il monachesimo egiziano fu a lungo sotto l’influenza della teologia e della spiritualità di Origene e 

i suoi esponenti non furono affatto reclutati solo fra i membri delle classi inferiori (malgrado Atanasio 

tenga a rappresentare Antonio come un illetterato, le epistole lo mostrano in possesso di una certa 

formazione culturale e influenzato dal pensiero di Origene). I conflitti sull’eredità culturale di 

Origene esplosi all’inizio del V secolo coinvolsero profondamente il monachesimo egiziano e 

portarono alla progressiva espulsione di questa tradizione (all’inizio del V sec. dura persecuzione 

dell’origenismo da parte del patriarca di Alessandria Teofilo). 

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Accanto alla teologia, un ambito nel quale il monachesimo conobbe sviluppi autonomi e talvolta 

conflittuali fu quello dei rapporti con le istituzioni ecclesiastiche. Soprattutto lo sviluppo iniziale del 

movimento avvenne al di fuori del controllo ecclesiastico e l’affacciarsi nella letteratura monastica di 

posizioni che privilegiano la solitudine e la lotta del monaco rispetto alla sua partecipazione regolare 

alla pratica sacramentale mostra la presenza di linee di spiritualità che percepiscono l’esperienza 

monastica come indipendente dal controllo della comunità ecclesiale. In processo di tempo, tuttavia, 

prevalse il controllo ecclesiastico sui monaci, una spia ne è la più frequente ordinazione di monaci a 

presbiteri o anche a vescovi. 

Un centro di espansione del monachesimo fu anche la penisola del Sinai, abitata da numerose 

colonie di monaci (cf. la Peregrinatio Egeriae), la cui presenza dura ancora oggi con la comunità del 

monastero di Santa Caterina del Sinai, fondato da Giustiniano nel VI sec. 

Nel corso del IV sec. insediamenti monastici si diffondono anche in Palestina, cominciando dal 

deserto di Giuda. I monaci vivono per lo più in laure: comunità di eremiti che si ritrovano alla fine 

della settimana in edifici destinati alla vita comune nei pressi della chiesa. Una innovazione tipica del 

monachesimo palestinese è il raccordo fra cenobio ed eremo: i monaci iniziavano la propria 

esperienza nella comunità e poi passavano alla vita semianacoretica della laura (stradina, viottolo: era 

il sentiero che collegava tra loro le celle di una comunità di solitari), a volte interrompendola per 

periodi o in via definitiva per un isolamento totale. 

Un’altra caratteristica tipica del monachesimo palestinese è data dalle numerose comunità, 

maschili e femminili, edificate in città o in zone suburbane, nei pressi dei luoghi santi; esse erano 

dedite in particolare all’ufficiatura liturgica nei santuari e alla cura e ospitalità dei pellegrini. Si tratta 

di comunità spesso internazionali (cf. anche la presenza di monasteri latini a Gerusalemme e 

Betlemme), dedite a un ascetismo moderato e coinvolte attivamente nelle dispute cristologiche del V 

e VI secolo. 

Non mancarono nemmeno in Palestina, comunque, monaci o gruppi di monaci che vivevano 

secondo il modello egiziano, senza essere legati né a un santuario né a una laura. 

La nascita del monachesimo in Siria e Mesopotamia ha tratti peculiari e non è influenzata se non 

in una fase successiva, dal V sec., dalle esperienze egiziane e palestinesi. Fin dal II sec. l’area siriaca 

ospita vari movimenti rigoristi (encratiti) avversi al matrimonio e fautori di una vita ascetica. Da 

questo ambiente fioriscono nella chiesa di Persia prima del IV sec. i “figli del patto”, laici votati alla 

vita verginale e al servizio della chiesa, che però non si davano né alla vita solitaria né al cenobitismo. 

Siccome i membri della comunità di Qumran chiamavano se stessi “figli dell’alleanza”, non è escluso 

che questo movimento abbia esercitato una qualche influenza sulla nascita dei figli del patto cristiani. 

A partire dal IV secolo inizia l’espansione, nelle zone montuose a nord e a est di Antiochia, di 

eremiti e cenobiti, uniti dalla pratica di un ascetismo estremamente severo. Reclusi, stiliti, monaci 

erranti, monaci che vivevano all’aperto, monaci che si rinchiudevano in un edificio privo, però, del 

tetto, dendriti... spesso gli asceti si dedicavano alla preghiera in modo esclusivo, vivendo della carità 

pubblica (almeno fino alla crisi messaliana e alla crescita numerica del movimento, che portò a una 

rivalutazione del lavoro e della capacità dei monaci di autosostenersi economicamente). Un tratto 

proprio di questo monachesimo è anche il suo impegno missionario, più sistematico e continuo di 

quello svolto dai monaci egiziani. 

L’espansione del monachesimo in Asia Minore non è documentata prima della metà del IV sec., 

quando un sinodo tenuto a Gangra (340/41) condanna Eustazio di Sebaste († 377) e i suoi discepoli 

per il loro rigorismo estremo: essi disprezzano il matrimonio, estendono a tutti i cristiani il precetto 

della povertà e della castità, ammettono la rottura dei vincoli sociali e familiari, vivono in fraternità 

separate, contestano l’autorità ecclesiastica e la condotta dei cristiani comuni, adottano usi e 

abbigliamento propri. Almeno in parte, queste accuse sono esagerate, perché Eustazio, eletto vescovo 

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di Sebaste nel 356, fu personaggio rispettato per la sua virtù e svolse un ruolo non secondario nei 

confronti di Basilio di Cesarea e dei suoi familiari nell’avviarli alla scelta di un genere di vita 

ascetico. L’ascetismo di impronta eustaziana è anche all’origine probabilmente delle prime comunità 

monastiche a Costantinopoli ed è una delle radici del rapporto conflittuale che fino al V sec. oppone i 

monaci ai patriarchi, come Giovanni Crisostomo e Nestorio, che ne tentano il disciplinamento 

Proprio Basilio, però, orientò la scelta di vita ascetica in una direzione molto diversa da quella 

indicata da Eustazio. Ricevuto il battesimo nel 355, intraprese un lungo viaggio per conoscere i 

monaci della Siria e dell’Egitto; al termine, si stabilì in una proprietà di famiglia insieme ad alcuni 

familiari e discepoli. Il suo modello di monachesimo è basato sulla condivisione della vita in 

comunità, su un ascetismo moderato e sulla pratica della carità reciproca, mentre mantiene un 

atteggiamento cauto nei confronti dell’eremitismo. Basilio non usa mai nei propri scritti il termine 

“monaco” e riferisce il proprio ideale di vita genericamente alla vita cristiana, della quale la vita 

monastica costituisce soltanto una forma particolare. Le fraternità che si ispirano al suo insegnamento 

praticano la comunione dei beni, il lavoro, la continenza; restano in stretto rapporto con il vescovo e 

si assoggettano alla guida di un proestós al quale devono obbedienza. Malgrado la grande influenza 

esercitata sul monachesimo di quest’area, il modello basiliano non è l’unico ad essersi affermato, 

come mise in luce la crisi messaliana. 

Una testimonianza significativa delle tensioni che accompagnano l’espansione del monachesimo 

nei suoi rapporti con le gerarchie ecclesiastiche è data dalla crisi messaliana. Si tratta di un 

movimento nato nel corso della seconda metà del IV sec., prima in Mesopotamia, poi diffuso in Siria 

e Asia Minore. Efrem ed Epifanio sono i primi a parlarne e a condannarne gli errori intorno agli anni 

’70 del IV sec.: i messaliani (o euchiti) sono degli entusiasti, rifiutano di lavorare, praticano la vita 

comune fra uomini e donne e non osservano le regole di un’ordinata condotta sociale. Una serie di 

sinodi locali condannò il movimento, fino all’anatema del concilio di Efeso del 431. Parte degli errori 

loro contestati sono di tipo dottrinale, parte sono legati alla loro condotta. Pare che i messaliani 

ritenessero che in tutti i battezzati rimanesse un demone che poteva essere allontanato solo con la 

preghiera; la preghiera poteva inoltre produrre secondo loro la venuta dello Spirito santo e l’unione 

con il Verbo, la liberazione definitiva dalle passioni e la piena impassibilità. Perciò i messaliani 

rivendicavano i propri carism, sogni, visioni, non si assoggettavano al lavoro, ritenevano inutili i 

sacramenti, la gerarchia e le istituzioni della chiesa. Non si trattò di un movimento unitario, ma di 

un’ispirazione che si ripresenta anche in altri luoghi e tempi nella storia del movimento monastico e 

della quale è più facile ricostruire la storia sul versante delle polemiche e della repressione che non su 

quello delle effettive dottrine e pratiche degli aderenti, delle quali è rimasta una documentazione 

diretta molto scarsa. 

Ascetismo e monachesimo in Occidente 

Pratiche ascetiche sono attestate nella condotta di molti cristiani fin da epoca neotestamentaria, ma 

lo sviluppo di un movimento monastico dai lineamenti definiti è più tardivo rispetto all’Oriente. In 

Occidente sono attestate una verginità e una vedovanza consacrate, prevalentemente femminili, ma 

non solo, alle quali viene riconosciuto un ruolo specifico nella vita delle chiese. Talvolta le vergini 

vivono anziché in famiglia in comunità, cf. le comunità conosciute da Ambrogio e Girolamo nel IV 

sec. A partire da Costantino venne anche elaborata una speciale legislazione nell’impero per tutelare 

lo stato verginale. 

Fra vita ascetica e monachesimo esiste una distinzione che, per il periodo delle origini, in cui il 

movimento monastico non è ancora istituzionalizzato in modo preciso, è difficile da tracciare: si tratta 

di una differenza nell’intensità e nel rigore della vita ascetica, o si tratta di forme di vita di natura 

differente? 

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La conoscenza del monachesimo occidentale antico è resa possibile da fonti letterarie di natura 

disparata: lettere, biografie, agiografie, testi di carattere giuridico, atti sinodali... un ruolo particolare 

tra queste fonti spetta alle regole, che cominciano a circolare in Occidente dall’inizio del V secolo, in 

una fase di relativo assestamento e consolidamento del fenomeno monastico: traduzioni (Regole di 

Pacomio e Basilio) o opere originali (p.e. la Regola di Agostino). 

Stando alla testimonianza di Girolamo, l’introduzione di un modello di vita monastica in 

Occidente avvenne ad opera di Eusebio di Vercelli; egli venne nominato vescovo fra il 343-353 e 

introdusse per i chierici del suo prebiterio la vita comune, il digiuno, la castità, il lavoro manuale, la 

lettura. Più o meno agli stessi anni risale l’esperienza di Martino che, dopo essere stato militare e aver 

ricevuto una formazione religiosa da Ilario di Poitiers, nel 358-59 visse da eremita a Milano, poi 

sull’isola ligure di Gallinara, per poi dare vita a una fondazione monastica simile a una laura a 

Ligugé, non lontano da Poitiers, intorno al 360. Divenuto vescovo di Tours nel 371, Martino fondò 

nei suoi dintorni il monastero di Marmoutier, anch’esso simile a una laura circodata da un muro, in 

cui i monaci vivevano in capanne isolate e si ritrovavano insieme per i pasti e per il culto. 

Testimonianze della fine del IV sec. mostrano la presenza di insediamenti monastici, sia cenobitici 

sia eremitici in vari luoghi: un convento femminile a Bologna, a Verona, a Lubiana, eremiti insediati 

lungo la costa ligure, nelle isole (Capraia, Gorgona, forse Baleari), la comunità di Pinetum per la 

quale Rufino traduce la Regola di Basilio, quella di Nola fondata da Paolino, quella alla quale diede 

vita Agostino... Ai primi anni del V secolo risale la fondazione del monastero di Lérins, su un’isola 

provenzale non lontana da Cannes. Fu una fondazione che godette di vasto prestigio e dalla quale 

uscirono numerosi fondatori e vescovi: Onorato, il fondatore, morì come vescovo di Arles nel 430. 

Il monachesimo delle origini è spesso connotato da una deliberata presa di distanza dai modi di 

vita e dalle forme di relazione condivisi dalla maggioranza (l’eremitismo può essere visto anche nei 

termini di una rottura dei vincoli sociali): i monaci si presentano con un aspetto trasandato, i capelli e 

la barba lunghi, le donne vestono come gli uomini, non portano calzature, non lavorano e vivono 

dell’elemosina delle comunità cristiane. Quest’ultimo elemento dell’atteggiamento verso il lavoro 

può avere motivazioni diverse: permanenza di un ideale aristocratico dell’otium, che sceglie le attività 

superiori dello spirito (lettura, preghiera, trascrizione di manoscritti) e lascia a personale subordinato 

la cura delle attività lucrative. Può trattarsi anche della contestazione della vita radicata nel secolo, 

sotto la spinta di un ideale escatologico che vive come se il tempo della fine fosse imminente e 

abbandona attività che distolgono da ciò che è più urgente. 

Degli aspetti tragressivi e sovversivi dal punto di vista sociale del fenomeno monastico danno 

testimonianza alla fine del IV secolo le voci critiche che si levano sia all’interno sia all’esterno delle 

chiese cristiane: è famoso il giudizio durissimo di Rutilio Namaziano sui monaci che abitano le isole 

del Tirreno (cf. De reditu I 440 ss.; composto nel 417): 

Processu pelagi iam se Capraria tollit; 

squalet lucifugis insula plena viris. 

Ipsi se monachos Graio cognomine dicunt, 

quod soli nullo vivere teste volunt. 

Munera fortunae metuunt, dum damna verentur. 

Quisquam sponte miser, ne miser esse queat? 

Quaenam perversi rabies tam stulta cerebri, 

dum mala formides, nec bona posse pati? 

Fra la fine del IV e i primi anni del V secolo Girolamo scrive un’opera per replicare alle obiezioni 

sollevate da un presbitero Vigilanzio nei confronti dei monaci: egli ritiene indecoroso che una 

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comunità di adulti non provveda al proprio sostentamento, contesta il celibato dei chierici, ritiene che 

la fuga dal mondo, se fosse generalizzata, avrebbe un effetto catastrofico. 

All’inizio del V secolo si avvia in Occidente la fase della codificazione della vita monastica grazie 

all’iniziativa di quattro autori soprattutto: Girolamo, Rufino, Agostino, Cassiano. A Rufino si deve la 

traduzione latina (nel 397) della redazione breve della Regola di Basilio, fatta con lo scopo dichiarato 

di diffondere anche in Occidente una forma regolata di vita monastica comunitaria. Girolamo traduce 

nel 404 il corpus pacomiano. Agostino è invece autore originale e ha avuto un influsso determinante 

sulla successiva tradizione legislativa nel monachesimo latino. Agli anni 397-411 risale la redazione 

da parte di Agostino di un Praeceptum, che venne in seguito integrato da un Ordo monasterii che non 

è di sua mano e fissa particolari come il calendario, l’orario, i pasti e il riposo dei monaci. Cassiano 

non è autore di una regola, ma le Institutiones del 425 e le Collationes del 426-428 trasmettono in 

Occidente l’esperienza fatta dal loro autore in Egitto e hanno lo scopo di adattare all’ambiente 

provenzale (dal 415 alla morte nel 435 Cassiano conduce vita monastica a Marsiglia) i modelli del 

monachesimo del deserto. 

La Regula Benedicti 

LA RB è stata verosimilmente composta fra il 530-560 e destinata non, come spesso accade per le 

regole antiche, a una singola specifica comunità, ma a un numero indeterminato di comunità di 

dimensioni variabili e collocate in regioni anche relativamente distanti fra loro (abbastanza da 

richiedere adattamenti al clima per quanto concerne il vestiario e altri aspetti di vita pratica, lasciati 

alla discrezione dell’abate). 

Diversamente dalle regole più antiche, che trattano in modo parziale gli aspetti legati alla vita delle 

comunità cui sono rivolte, sia la RM sia la RB puntano a offrire un quadro completo della vita 

cenobitica, sia nei suoi fondamenti spirituali, sia nelle osservanze e nell’organizzazione interna della 

comunità monastica e delle sue attività. Ciò non significa che la RB abbia una struttura sistematica: 

anche se si possono riconoscere gruppi di capitoli omogenei per tema, essi si succedono in modo 

piuttosto disordinato e in alcuni casi con riprese e ripetizioni (p.e. i due capitoli dedicati all’abate). 

La lettura della RB proposta da de Vogüe si fonda sull’ipotesi, formulata in precedenza da J. 

Froger, della dipendenza sostanziale della RB da un testo precedente, la cosiddetta Regula Magistri 

(RM). Il commento pubblicato dalle SC documenta in modo definitivo questa tesi oggi generalmente 

condivisa dagli studiosi. 

Fra le regole monastiche antiche pervenute in latino — circa una trentina — del periodo compreso 

tra le origini del cenobitismo latino e Benedetto di Aniane, che nel IX secolo le raccolse tutte insieme 

nel Liber ex regulis, la RB è una delle più estese, la terza dopo la RM e quella di Basilio. A. de Vogüe 

distingue varie generazioni di regole: 

· la prima generazione di regole monastiche composte o tradotte tra la fine del IV e l’inizio del V 

secolo (Pacomio, Basilio, Agostino, Quattro padri, II Regola dei padri, Cassiano Inst. 1-4); 

· la seconda generazione, risalente alla prima metà del VI secolo (RM, Paolo e Stefano, Cesario, 

Orientalis, Macario); 

· la terza (RB, Aureliano, Tarnatensis), della metà del VI secolo. La RB influenza a sua volta le 

regole successive: 

· meno quelle della quarta generazione, all’inizio del VII secolo (Colombano, Isidoro); 

· assai più quelle della quinta (Donato, Valdeberto, Fruttuoso, III Regola dei padri), 

· e sesta generazione (Regula Largiente Domino, forse di Ambrogio Autperto), collocabili intorno 

alla metà del VII secolo. 

La posizione intermedia della RB è confermata da un elemento lessicale interessante: la frequenza 

della parola monachus. Pressoché assente nelle regole più antiche, essa è ben rappresentata invece 

8

nella RB, dove, accanto a una novantina di occorrenze del termine frater, ricorre 36 volte il termine 

monachus, per di più con un valore pregnante: esso non indica solo una condizione sociale, ma una 

scelta di vita spiritualmente impegnativa (cf. RB 18, 24-25; 39, 7-9; 40, 6; 48, 8; 49, 1). 

Un cenno a parte va fatto per la serie delle cinque regole dei padri: Regula quattuor patrum, 

Secunda regula patrum, Tertia regula patrum, Regula Macharii, Regula orientalis. Secondo la 

ricostuzione di De Vogue, la più antica sarebbe quella dei Quattro padri, legata, come tutte le altre, al 

cenobio di Lérins e redatta nel primo decennio del V secolo. Essa sarebbe stata aggiornata e 

completata nei decenni successivi dalla Seconda regola, che è la fonte della Regola di Macario, scritta 

nei primissimi anni del VI secolo. La Terza regola (composta probabilmente al sinodo di Clermont- 

Ferrand del 535) e la Regola orientale (molto vicina alla precettistica pacomiana) sarebbero le più 

recenti, risalenti agli anni ‘20/30 del VI secolo. 

La RB presenta, oltre alla dipendanza massiccia dalla RM, influenze provenienti da vari testi della 

prima generazione: Pacomio, Basilio, Agostino, Cassiano, le due Regulae patrum più antiche; ma 

l’influenza di gran lunga più significativa è quella di Agostino, che è invece scasamente rappresentato 

nella RM: RB 31, 7. 13. 18-19; 33, 6; 34, 1-5; 35, 13; 52, 1-5; 64, 7-8. 11. 15. Ad Agostino la RB 

deve sottolineature che insistono sulla dimensione comunitaria e fraterna e sull’attenzione per la 

costituzione e i bisogni dei singoli all’interno della comunità. Queste annotazioni correggono in parte 

l’impostazione rigidamente gerarchica che RB deriva dalla RM. 

Schematizzando, RB deriva da RM la nozione del monastero-schola nella quale sotto la direzione 

di un maestro gli allievi progrediscono verso la perfezione mediante l’ascesi; da Agostino deriva 

l’idea del monastero come comunità che, sull’esempio della chiesa degli At, mette tutto in comune e 

dà a ciascuno secondo le sue necessità, alla luce della legge fondamentale dell’amore. 

Rispetto alla RM è un carattere proprio della RB, che può derivare almeno in parte da Agostino, la 

cura per le persone e gli atteggiamenti interiori, più che per l’ordine e le osservanze esterne. Nel 

codice penale della RB non è enfatizzata tanto l’esigenza della conservazione dell’ordine quanto la 

ricerca della salvezza di ciascuno. Spesso la RB accenna, sia pure rapidamente, accanto alle 

prescrizioni concrete, all’atteggiamento spirituale con il quale esse dovrebbero essere realizzate. 

È interessante il modo in cui in RB 73 l’autore presenta il proprio lavoro: diversamente dalla 

sicurezza di sé e dall’autorevolezza rivendicata dall’autore della RM, l’autore della RB minimizza il 

valore del codice che ha composto, presentandolo come niente più che un avvio alla vita religiosa. 

Non si tratta solo di una dichiarazione retorica, ma anche di un giudizio nei confronti della situazione 

del monachesimo della sua epoca; ad esso offre un riferimento minimo e l’esortazione a progredire 

sempre più nell’assimilazione della dottrina tradizionale dei padri e della Scrittura. RB è organizzata 

insomma come un ordine minimale che rimane aperto a uno sviluppo ulteriore, per chi vuole e ne è 

capace (la mediazione per questo sviluppo è offerta per lo più in concreto dall’abate). 

Una struttura analoga che prevede una prospettiva su due livelli de Vogüe ritiene di trovarla anche 

in tre articoli (RB 19, 1-2; 42, 1; 49, 1-2) nei quali si sottolinea, da una parte, un ideale che dovrebbe 

guidare sempre la vita del monaco e si indicano, dall’altra, delle circostanze concrete minimali nelle 

quali esso si dovrebbe realizzare: 1) Dio è dappertutto, ma soprattutto nella liturgia; 2) si deve tacere 

sempre, ma soprattutto la notte; 3) la vita del monaco dovrebbe essere una perpetua quaresima, ma 

almeno nei 40 giorni bisogna osservarla. 

L’inserimento di osservanze puntuali nella prospettiva del loro senso globale per la vita del 

monaco spiega anche la relativa libertà con la quale determinate osservanze subiscono mitigazioni o 

riduzioni (tempi di preghiera più brevi rispetto a RM o alla tradizione romana, preghiera notturna 

abbreviata in estate fino a novembre, digiuno mitigato in estate). Tale flessibilità (che si esprime 

talora anche in irrigidimenti rispetto alla RM o altre fonti) è legata anche a circostanze concrete, come 

9

la necessità di prevedere che i monaci almeno in alcune occasioni si debbano impegnare direttamente 

nel lavoro dei campi. 

La RB introduce senz’altro delle mitigazioni nell’osservanza, ma va notato ch’esse non sono 

particolarmente rilevanti se confrontate con RM o con le altre regole occidentali precedenti o coeve 

(mentre lo sono assai di più a paragone con le consuetudini monastiche egiziane). Si tratta tuttavia di 

adattamenti applicati con riluttanza, vissuti come cedimenti alla decadenza e alla rilassatezza dei 

tempi; l’ideale rimane quello di un ascetismo intransigente. 

La comunità descritta nella RB ha una struttura gerarchica (l’ordine è dato dall’anzianità di 

professione), articolata e piuttosto chiusa verso l’esterno: da una parte, infatti, pratica l’ospitalità in 

modo generoso e con una motivazione squisitamente teologica, dall’altra affida gli ospiti all’abate e al 

foresterario e vieta i contatti diretti fra loro e gli altri membri della comunità. 

Pur essendo una comunità per lo più laicale, il monastero della RB include fra i propri membri 

anche diaconi e presbiteri, che celebrano i riti nell’oratorio della comunità e la rendono anche per 

questo aspetto autosufficiente. La RB prevede che un anziano si occupi in modo specifico della 

formazione dei novizi, un infermiere abbia cura dei malati, un monaco a ciò designato sostituisca 

l’abate nel dare l’annuncio delle ore canoniche; accanto al capitolo di tutta la comunità, l’abate è 

coadiuvato anche da un consiglio ristretto di anziani. Anche la cura della porta e degli ospiti è affidata 

a un monaco a ciò deputato in modo speciale. Una cura del tutto speciale dedica la RB al cellerario e 

al priore della comunità. 

Si tratta nell’insieme di una comunità fortemente strutturata, sia in senso orizzontale che verticale: 

in essa il centro decisionale è l’abate, che deve essere scelto fra le persone spiritualmente degne, 

senza che venga indicato in modo vincolante un procedimento preciso per la sua elezione. L’autorità 

dell’abate è assai estesa e in più occasioni la RB affida esplicitamente a lui il compito di determinare i 

dettagli concreti della prescrizioni ch’essa mantiene su un livello generale o sulle quali non si attarda: 

l’abate è in un certo senso la regola vivente della comunità, che applica e adatta la regola scritta alle 

situazioni concrete. 

Malgrado la RB nasca da un’intensa esperienza spirituale, essa dedica assai poco spazio a 

trattazioni dottrinali esplicite. Ciò non toglie che si possano cogliere alcuni accenti nell’autore, per 

esempio la sua attenzione non solo per la proiezione escatologica della vita monastica, ma anche per 

la possibilità di realizzare un progresso personale e collettivo in questa vita, l’insistenza sulla 

preghiera personale e sull’atteggiamento con il quale compierla; ancora la motivazione teologica che 

viene offerta a giustificazione di determinate disposizioni (p.e. RB 3, 3; 53, 15; 61, 4; 63, 5-6). 

L’organizzazione del tempo nella RB 

L’anno è organizzato in due grandi periodi: l’inverno e l’estate; quest’ultima inizia sempre con la 

Pasqua, mentre l’inizio del periodo invernale cambia: mentre nella RM l’inverno inizia con 

l’equinozio d’autunno, nella RB inizia il 13 settembre per il digiuno (si prende il pasto all’ora nona; 

nella RM questa è la regola per tutto l’anno), il 1 ottobre per il lavoro (durante l’estate è prevista una 

pausa di riposo dal lavoro a metà giornata), il 1 novembre per le vigilie notturne (le veglie notturne 

nella stagione estiva sono più brevi). 

Tradizionalmente i giorni di digiuno sono il mercoledì e il venerdì; la RM prescrive anche un 

digiuno il sabato, si tratta di un uso della chiesa di Roma, del quale RB non parla, probabilmente in 

rapporto con la tendenza generale a mitigare le pratiche ascetiche obbligatorie. 

La struttura dell’anno liturgico che emerge da RB è assai semplice: essa parla esplicitamente solo 

di tre ricorrenze: pasqua, pentecoste e caput quadragesiame, che non si sa quando si collocasse. RB 

14, 1 accenna anche a solennità e feste dei santi, il che significa che quelle esplicitamente citate non 

sono le uniche feste celebrate nel monastero. La poca enfasi posta su questo tema rende ancora più 

10

notevole l’insistenza sull’inizio della quaresima: RB 15, 2; 41, 6; 48, 10. 16 (più il cap. 49, 

interamente dedicato all’osservanza della quaresima). 

Il rituale 

RB 38, 2 accenna incidentalmente alla comunione domenicale e da 38, 10 si può dedurre che la 

comunione (non la celebrazione eucaristica) ha luogo tutti i giorni prima dei pasti. Diversamente da 

quanto previsto da RM, la celebrazione eucaristica ha luogo all’interno del monastero, il cui oratorio è 

dotato di reliquie (cf. RB 58, 18-19). Mentre la comunità di RM è interamente composta da laici, RB 

prevede che ne facciano parte dei chierici i quali possono provvedere alla celebrazione dei riti 

all’interno del monastero e non nella chiesa parrocchiale. Questo permette a RB di salvaguardare 

l’isolamento dei monaci anche dal punto di vista liturgico (i laici non hanno accesso di norma ad 

oratori privati), così come si sforza di garantirne l’autarchia sul piano economico. Quest’autonomia 

sacramentale pone alla RB un problema sconosciuta alla RM, quello della relazione tra i monaci preti 

e l’abate. 

La vita monastica è scandita da alcuni gesti rituali che la RB codifica, sia pure semplificando 

significativamente rispetto alla RM: 

· entrata e uscita dal servizio dei settimanari (RB 35) 

· entrata del lettore (RB 38) 

· preghiera prima e dopo i pasti (RB 43) 

· riconciliazione dello scomunicato (RB 44) 

· accoglienza degli ospiti (RB 53) 

· professione (RB 58) 

· partenza e ritorno da un viaggio (RB 67) 

Il fatto che questi siano gli unici riti codificati non significa, naturalmente, che fossero gli unici 

praticati, visto che spesso RB riduce all’essenziale le prescrizioni che organizzano la vita della 

comunità. È per esempio del tutto ovvio che un qualche rito di benedizione del novo abate dovesse 

essere celebrato, anche se la regola non lo menziona, probabilmente perché RB non intendeva 

proporre uno svolgimento alternativo a quello comune all’epoca. 

Interessante è il rito della riconciliazione dello scomunicato: esso riduce il complicato cerimoniale 

di RM a un semplice gesto, quello di prostrarsi ai piedi dei confratelli all’uscita dall’oratorio; nello 

stesso tempo, però, prolunga nel tempo la durata della penitenza in funzione della gravità della colpa 

commessa e trasforma il gesto in un periodo di espiazione. 

Un tratto caratteritico dei rituali descritti è che essi spesso consistono semplicemente in un gesto 

(prosternazione), o in brevi formule ripetute più volte. Gesti che RM colloca in rapporto diretto con la 

situazione vitale alla quale sono collegati, p.e. la benedizione dei settimanari di cucina in refettorio, 

vengono spostati nell’oratorio del monastero e così dotati di un carattere sacrale più esplicito. 

Autore, contesto cronologico e geografico della RB 

La tradizione manoscritta attribuisce unanimemente la RB a un Benedetto. Questo Benedetto è 

generalmente identificato con il Benedetto al quale Gregorio Magno dedica il II libro dei propri 

Dialogi e del quale dice che ha composto una regula monachorum (Dial. II 36). 

In effetti nel Commento al I libro dei Re (IV 70), Gregorio cita RB 58, 1-2. 8. 12; è quindi 

legittimo supporre che la regola cui si fa cenno nei Dialogi sia proprio la RB. 

Il problema è allora di sapere se il Benedetto al quale si attribuisce la RB sia quello di cui parla 

Gregorio e se la biografia ch’egli ne scrive abbia una qualche attendibilità storica. De Vogue è 

sostanzialmente favorevole a questa conclusione: secondo lui, l’invenzione di cui Gregorio dà prova 

nei Dialogi si esercita su un tessuto di partenza che è storico e che non è possibile attribuire 

interamente alla sua fantasia. 

11

Ciò non toglie che Gregorio possa avere attribuito a un Benedetto realmente vissuto e autore di una 

regola monastica uno scritto del quale invece era lui l’autore: questa ipotesi è, secondo De Vogue, 

confutata dal fatto che in alcuni casi l’epistolario di Gregorio mostra ch’egli prese decisioni e diede 

norme difformi da quelle suggerite in RB. 

Quanto alla datazione: si può osservare che RM cita con una certa libertà letteratura extracanonica, 

il che ne colloca la redazione verosimilmente prima del decreto di Gelasio del 530. Anche la 

designazione dell’abate da parte del predecessore è una procedura che indica una data anteriore al 530 

(col pontificato di Bonifacio II [530-532], infatti, anche i papi vengono eletti e non designati dal loro 

predecessore). Infine, la RM è citata dalla regola dell’abate Eugippo, composta verso il 530, quindi 

deve essere stata scritta prima di quella data. Se si ammette che la RB dipenda da RM, si deve 

concludere ch’essa sia necessariamente posteriore al 530. 

Alcune reminiscenze di RB presenti nella regola di Colombano fanno per altro pensare che RB sia 

anteriore a questo testo (del quale tuttavia la cronologia è discussa). 

Se si ammette che la vita di Benedetto raccontata da Gregorio ha un fondamento storico, la 

cronologia della RB deve essere coerente con i dati che si possono ricavare dai Dialogi. Tutti i fatti 

narrati da Dial. II e databili con una certa verosimiglianza (visita di Totila, presa di Roma, morte di 

Germano di Capua...) sono collocabili intorno alla metà del VI sec., nel corso della guerra gotica 

(535-551), e appartengono al periodo cassinese della vita di Benedetto. Alcune particolarità della RB 

che si potrebbero spiegare attraverso il contatto con la legislazione di Giustiniano, la conoscenza del 

Basilio greco e della liturgia greca, invitano a collocare la morte dell’autore della RB verso il 560. 

Su può perciò concludere che la redazione della RB è avvenuta in un arco di tempo compreso tra il 

530 e il 560, più probabilmente alla fine di questo periodo, visto che RB cita il V libro delle Vitae 

patrum che è stato tradotto in latino tra il 526 e il 556 da Pelagio. 

Il presupposto di tutto questo discorso è che RB sia posteriore a RM e ne sia in un certo senso una 

sintesi. Si potrebbe anche pensare, al contrario che RM sia posteriore a RB e ne costituisca un 

ampliamento. Varie ragioni rendono questa seconda ipotesi improbabile: 

· dal punto di vista letterario, si osserva in RB la tendenza a utilizzare fonti sicuramente più 

antiche, p.e. Agostino, selezionando passi e ricomponendoli in modo abbastanza libero (cf. RB 54); 

esattamente lo stesso procedimento si osserva in relazione a RM, perciò è più probabile che sia RB a 

ricombinare e sintetizzare RM, piuttosto che pensare che RM metta in ordine e distenda più 

ampiamente il testo di RB (cf. p.e. RB 22 e 52). 

· dal punto di vista delle istituzioni si osserva nella RB un arricchirsi e complicarsi della struttura, 

anche fisica, della comunità monastica rispetto a quella descritta da RM; infermeria, cucina per gli 

ospiti, cella noviciorum sono presenti in RB e assenti in RM insieme agli officiali che se ne 

occupano. Nella RB sono affidate stabilmente a un fratello competente funzioni che in RM sono date 

per rotazione, p.e. quella di infermiere, foresterario, annunciatore dell’ufficio. La struttura gerarchica 

della comunità non è solo stabilita dalla relazione verticale fra monaci e abate, ma anche dalle 

relazioni orizzontali tra i monaci anziani e quelli più giovani. 

Questi e altri elementi inducono a collocare la RM prima di RB. Ma potrebbe trattarsi di due scritti 

composti in epoche diverse dal medesimo autore, questo spiegherebbe le forti somiglianze tra i due 

testi; e la cronologia ipotizzata per la loro composizione è compatibile con questa ipotesi. 

Anche qui vi sono alcuni argomenti contro che, senza essere decisivi presi uno a uno, danno peso 

all’idea che gli autori siano distinti: 

· le differenze istituzionali possono essere espressione di un’evoluzione nell’esperienza dell’autore, 

ma fa un po’ specie che cambi anche la terminologia: RM non parla mai di monachi, mentre RB usa 

correntemente questo termini accanto a quelli di fratres e discipuli. 

· notevoli differenze si riscontrano anche nell’uso di particelle: autem, aliter, atque, neque.... 

soprattutto le parti proprie di RB appaiono stilisticamente diverse dalle parti che ha in comune con 

RM. 

12

Prologus 

I. De generibus monachorum 

II. Qualis esse debeat Abbas 

III. De adhibendis ad consilium fratribus 

IV. Quae sunt instrumenta bonorum operum 

V. De oboedientia 

VI. De tacitunitate 

VII. De humilitate 

Regulae capita 

VIII. De Officiis divinis in noctibus 

IX. Quot Psalmi dicendi sunt nocturnis horis 

X. Qualiter aestatis tempore agatur nocturna laus 

XI. Qualiter Dominicis diebus Vigiliae agantur 

XII. Qualiter Matutinorum sollemnitas agatur 

XIII. Privatis diebus qualiter Matutini agantur 

XIV. In natalitiis Sanctorum qualiter Vigiliae agantur 

XV. Alleluia quibus temporibus dicatur 

XVI. Qualiter divina Opera per diem agantur 

XVII. Quot Psalmi per easdem Horas dicendi sunt 

XVIII. Quo ordine Psalmi dicendi sunt 

XIX. De disciplina psallendi 

XX. De reverentia orationis 

XXI. De Decanis Monasterii 

XXII. Quomodo dormiant Monachi 

XXIII. De excommunicatione culparum 

XXIV. Qualis debet esse modus excommunicationis 

XXV. De gravioribus culpis 

XXVI. De iis, qui sine iussione Abbatis iunguntur excommunicatis 

XXVII. Qualiter debeat esse sollicitus Abbas circa excommunicatos 

XXVIII. De iis, qui saepius correcti non emendantur 

XXIX Si debeant iterum recipi fratres exeuntes de Monasterio 

XXX De pueris minori aetate, qualiter corripiantur 

XXXI. De Cellarario Monasterii 

XXXII. De ferramentis, vel rebus Monasterii 

XXXIII. Si quid debeant Monachi proprium habere 

XXXIV. Si omnes debeant aequaliter necessaria accipere 

XXXV. De septimanariis coquinae 

XXXVI. De infirmis Fratribus 

XXXVII. De senibus, vel infantibus 

XXXVIII. De hebdomadario Lectore 

XXXIX De mensura ciborum 

XL De mensura potus 

13

XLI. Quibus horis oporteat reficere Fratres 

XLII. Ut post Completorium nemo loquatur 

XLIII. De iis, qui ad Opus Dei, vel ad mensam tarde occurrunt 

XLIV. De iis qui excommunicantur, quomodo satisfaciant 

XLV. De iis qui falluntur in Oratorio 

XLVI. De iis qui in aliis quibuslibet rebus delinquunt 

XLVII. De significanda hora Operis Dei 

XLVIII. De opere manuum cotidiano 

XLIX De Quadragesimae observatione 

L De Fratribus qui longe ab Oratorio laborant, aut in via sunt 

LI. De Fratribus qui non satis longe proficiscuntur 

LII. De Oratorio Monasterii 

LIII. De hospitibus suscipiendis 

LIV. Si debeat Monachus litteras vel eulogia suscipere 

LV. De Vestimentis et calceamentis Fratrum 

LVI. De mensa Abbatis 

LVII. De artificibus Monasterii 

LVIII. De disciplina suscipiendorum Fratrum 

LIX De filiis nobilium vel pauperum qui offeruntur 

LX De Sacerdotibus qui voluerint in Monasterio habitare 

LXI. De Monachis peregrinis, qualiter suscipiantur 

LXII. De Sacerdotibus Monasterii 

LXIII. De ordine Congregationis 

LXIV. De ordinando Abbate 

LXV. De Praeposito Monasterii 

LXVI. De Ostiario Monasterii 

LXVII. De Fratribus in via directis 

LXVIII. Si Fratri impossibilia iniungantur 

LXIX Ut in Monasterio non praesumat alter alterum defendere 

LXX Ut non praesumat quisquam aliquem passim caedere aut excommunicare 

LXXI. Ut obedientes sint sibi invicem Fratres 

LXXII. De Zelo bono, quem debent habere Monachi 

LXXIII. De eo quod non omnis observatio iustitiae in hac sit Regula constituta 

14

- Prologus 

Per una lettura tematica della Regola: 

1. La spiritualità monastica 

1.1. La pratica delle virtù nella condotta del monaco 

a) Principi generali 

Caput IV: Quae sunt instrumenta bonorum operum 

Caput XLIX: De Quadragesimae observatione 

Caput LXXII: De Zelo bono, quem debent habere Monachi 

b) L’obbedienza 

Caput V: De oboedientia 

Caput LXVIII: Si Fratri impossibilia iniungantur 

Caput LXXI: Ut obedientes sint sibi invicem Fratres 

c) Il silenzio 

Caput VI: De tacitunitate 

Caput XLII: Ut post Completorium nemo loquatur 

d) L’umiltà 

Caput VII: De humilitate 

1.2. Preghiera e liturgia 

a) L’atteggiamento fondamentale nella preghiera 

Caput XIX: De disciplina psallendi 

Caput XX: De reverentia orationis 

b) L’ordinamento della liturgia 

Caput XVI: Qualiter divina Opera per diem agantur 

Caput VIII: De Officiis divinis in noctibus 

Caput IX: Quot Psalmi dicendi sunt nocturnis horis 

Caput X: Qualiter aestatis tempore agatur nocturna laus 

Caput XI: Qualiter Dominicis diebus Vigiliae agantur 

Caput XII: Qualiter Matutinorum sollemnitas agatur 

Caput XIII: Privatis diebus qualiter Matutini agantur 

Caput XIV: In natalitiis Sanctorum qualiter Vigiliae agantur 

Caput XV: Alleluia quibus temporibus dicatur 

Caput XVII: Quot Psalmi per easdem Horas dicendi sunt 

Caput XVIII: Quo ordine Psalmi dicendi sunt 

c) Come e dove si celebra 

Caput XLVII: De significanda hora Operis Dei 

Caput LII: De Oratorio Monasterii 

2.1. I generi dei monaci 

Caput I : De generibus Monachorum 

2. I monaci e la comunità 

15

2.2. L’abate e la regola 

Caput II: Qualis debeat esse Abbas 

Caput XXVII: Qualiter debeat esse sollicitus Abbas circa excommunicatos 

Caput LVI: De mensa Abbatis 

Caput LXIV: De ordinando Abbate 

Caput LXXIII: De eo quod non omnis observatio iustitiae in hac sit Regula 

constituta 

2.3. Cellerario e priore 

Caput XXXI: De Cellarario Monasterii 

Caput LXV: De Praeposito Monasterii 

2.4. La comunità 

a) Partecipazione al governo 

Caput III: De adhibendis ad consilium fratribus 

Caput XXI: De Decanis Monasterii 

b) Funzioni particolari nella comunità 

Caput XXXV: De septimanariis coquinae 

Caput XXXVIII: De hebdomadario Lectore 

Caput LXII: De Sacerdotibus Monasterii 

Caput LXVI: De Ostiario Monasterii 

c) Condizioni particolari di alcuni fratelli 

Caput XXXVI: De infirmis Fratribus 

Caput XXXVII: De senibus, vel infantibus 

d) La disciplina comunitaria 

Caput LXIII: De ordine Congregationis 

Caput LXIX: Ut in Monasterio non praesumat alter alterum defendere 

Caput LXX: Ut non praesumat quisquam aliquem passim caedere aut excommunicare 

2.5. Accoglienza dei candidati 

Caput LVIII: De disciplina suscipiendorum Fratrum 

Caput LIX: De filiis nobilium vel pauperum qui offeruntur 

Caput LX: De Sacerdotibus qui voluerint in Monasterio habitare 

3. Condotta di vita e beni materiali 

3.1. I bisogni fondamentali 

a) Sonno 

Caput XXII: Quomodo dormiant Monachi 

b) Cibo 

Caput XXXIX: De mensura ciborum 

Caput XL: De mensura potus 

Caput XLI: Quibus horis oporteat reficere Fratres 

c) Vesti 

Caput LV: De Vestimentis et calceamentis Fratrum 

16

3.2. Il lavoro 

Caput XLVIII: De opera manuum cotidiano 

Caput LVII: De artificibus Monasterii 

3.3. Viaggi e uscite dal monastero 

Caput L: De Fratribus qui longe ab Oratorio laborant, aut in via sunt 

Caput LI: De Fratribus qui non satis longe proficiscuntur 

Caput LXVII: De Fratribus in via directis 

3.4. Beni del monastero e dei monaci 

Caput XXXII: De ferramentis, vel rebus Monasterii 

Caput XXXIII: Si quid debeant Monachi proprium habere 

Caput XXXIV: Si omnes debeant aequaliter necessaria accipere 

Caput LIV: Si debeat Monachus litteras vel eulogia suscipere 

3.5. Gli ospiti 

Caput LIII: De hospitibus suscipiendis 

Caput LXI: De Monachis peregrinis, qualiter suscipiantur 

3.6. Le infrazioni alla Regola 

Caput XXIII: De excommunicatione culparum 

Caput XXIV: Qualis debet esse modus excommunicationis 

Caput XXV: De gravioribus culpis 

Caput XXVI: De iis, qui sine iussione Abbatis iunguntur excommunicatis 

Caput XXVIII: De iis, qui saepius correcti non emendantur 

Caput XXIX: Si debeant iterum recipi fratres exeuntes de Monasterio 

Caput XXX: De pueris minori aetate, qualiter corripiantur 

Caput XLIII: De iis, qui ad Opus Dei, vel ad mensam tarde occurrunt 

Caput XLIV: De iis qui excommunicantur, quomodo satisfaciant 

Caput XLV: De iis qui falluntur in Oratorio 

Caput XLVI: De iis qui in aliis quibuslibet rebus delinquunt 

17

1. La spiritualità monastica 

Prologus 

[1] Obsculta, o fili, praecepta magistri, et inclina aurem cordis tui, et admonitionem pii patris libenter 

excipe et efficaciter comple, [2] ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae 

desidiam recesseras. [3] Ad te ergo nunc mihi sermo dirigitur, quisquis abrenuntians propriis 

voluntatibus, Domino Christo vero regi militaturus, oboedientiae fortissima atque praeclara arma 

sumis. 

Il prologo si apre sul tema biblico dell’ascolto (Prov 4, 20): la regola è un insieme di insegnamenti da ascoltare più 

che da leggere. I §§ 1-4 e 46-49 sono propri di RB, che riassume molto rapidamente i temi principali esposti nelle 

prime tre parti del prologo di RM, mentre il resto è tratto alla lettera dalla quarta sezione della RM. Il maestro e 

padre che bisogna ascoltare è insieme l’abate che formula questo invito, ma è in prima istanza Dio stesso, che 

chiama il proprio operaio alla messe, come dirà più sotto. 

L’ascolto del maestro introduce alla metafora del monastero-scuola che verrà presentata in seguito; l’altra 

metafora, sempre collegata al signifcato del termine latino schola, è quella del servizio militare, che si compie con 

le armi e la fatica dell’obbedienza. Tanto nella scuola quanto nella milizia, il Cristo della RM e RB è il maestro e il 

re, al quale si deve soggezione e obbedienza. 

L’ascolto, l’apprendimento, la milizia vissuti con dedizione (libenter ... efficaciter...) portano al ritorno a colui dal 

quale ci si era allontanati in seguito al peccato. L’antropologia di RM e RB non è certo ottimistica: l’uomo viene 

raggiunto dalla voce di Dio in una situazione di inerte distanza da Lui e viene invitato a intraprendere la via del 

ritorno tramite la separazione dal mondo e dalla condotta abituale. Questo ritorno implica una dura fatica, la 

rinuncia alla volontà propria, che configura il monachesimo come martirio. L’idea della rinuncia evoca in termini 

molto impliciti il riferimento, che in RM è invece aperto, della vita monastica al battesimo. 

[4] In primis, ut quicquid agendum inchoas bonum, ab eo perfici instantissima oratione deposcas, [5] 

ut qui nos iam in filiorum dignatus est numero computare non debet aliquando de malis actibus 

nostris contristari. [6] Ita enim ei omni tempore de bonis suis in nobis parendum est ut non solum 

iratus pater suos non aliquando filios exheredet, [7] sed nec, ut metuendus dominus irritatus a malis 

nostris, ut nequissimos servos perpetuam tradat ad poenam qui eum sequi noluerint ad gloriam. 

La chiamata nel numero dei figli è probabilmente un altro cenno al battesimo: interessante osservare come la vita 

monastica appaia la conseguenza del battesimo e il compimento (necessario?) della vocazione battesimale. Bisogna 

pregare Di che porti a compimento l’opera buona che iniziamo (la conversione alla vita monastica) per non 

rischiare che il padre benevolo che si è rivolto all’inizio al discepolo si riveli alla fine un giudice irato verso chi 

non ha voluto seguirlo nella gloria. 

Da qui sino al § 46 RB riproduce il prologo di RM. Quest’ultimo è un testo molto ampio organizzato in quattro 

parti: un prologo; un thema, che presenta sotto forma di una parabola la vita monastica come prosecuzione e 

compimento del battesimo alla luce dell’interpretazione di Mt 11, 28-30: «venite a me voi tutti che siete affaticati e 

oppressi ... il mio giogo infatti è dolce»: all’umanità oppressa dal peso del peccato, Cristo offre il ristoro del 

battesimo e invita coloro che si sono ristorati all’acqua del battesimo a raggiungere poi la pienezza della vita 

assumendo su di sé il suo giogo. Al thema segue un lungo commento al Padre nostro e a quest’ultimo un 

commento ai salmi 33, 12-16 e 14, 1-5. La ragione per la quale RB sceglie di riprodurre solo l’ultima parte è che 

essa contiene la frase decisiva, concernente l’istituzione di una «scuola del servizio divino». 

[8] Exsurgamus ergo tandem aliquando excitante nos scriptura ac dicente: «Hora est iam nos de 

somno surgere» (Rom 13, 11), [9] et apertis oculis nostris ad deificum lumen, attonitis auribus 

audiamus divina cotidie clamans quid nos admonet vox dicens: [10] «Hodie si vocem eius audieritis, 

nolite obdurare corda vestra» (Sal 94, 8). [11] Et iterum: «Qui habet aures audiendi audiat quid 

spiritus dicat ecclesiis» (Apoc 2, 7). [12] Et quid dicit? «Venite, filii, audite me; timorem Domini 

docebo vos» (Sal 33, 12) [13] «Currite dum lumen vitae habetis, ne tenebrae mortis vos 

comprehendant» (Gv 12, 35). 

Il testo è un mosaico fitto di citazioni bibliche, tratte indifferentemente dal NT e dall’AT e incentrato sull’urgenza 

(cf. hodie) di raccogliere l’appello della voce di Dio e correre verso la salvezza, prima che sia troppo tardi. 

18

[14] Et quaerens Dominus in multitudine populi cui haec clamat operarium suum, iterum dicit: [15] 

«Quis est homo qui vult vitam et cupit videre dies bonos?» (Sal 33, 13) [16] Quod si tu audiens 

respondeas: Ego, dicit tibi Deus: [17] Si vis habere veram et perpetuam vitam, «prohibe linguam tuam 

a malo et labia tua ne loquantur dolum; deverte a malo et fac bonum, inquire pacem et sequere eam» 

(Sal 33, 14-15). [18] Et cum haec feceritis, oculi mei super vos et aures meas ad preces vestras, et 

antequam me invocetis dicam vobis: «Ecce adsum» (Is 58, 9). [19] Quid dulcius nobis ab hac voce 

Domini invitantis nos, fratres carissimi? [20] Ecce pietate sua demonstrat nobis Dominus viam vitae. 

Il testo del Sal 33 è parafrasato e inserito in un dialogo fra Dio e l’uomo: l’appello primo e principale che RM e RB 

rivolgono è diretto al singolo, dal quale viene sollecitata una risposta in ordine alla propria salvezza; la comunità è 

funzionale a questo obiettivo essenziale. L’immagine dell’operaio tratto dalla moltitudine, anch’essa 

neotestamentaria, rimanda all’idea della vita monastica come vita eletta, superiore a quella della moltitudine. Si 

può osservare che nella scelta del salmo come una sorta di invito alla vita monastica non emerge, però, alcun 

contenuto specificamente monastico. La condotta che qui viene suggerita e interpretata come via alla vera vita è 

una condotta che in realtà ogni cristiano e prima ancora ogni buon giudeo e uomo dabbene dovrebbe seguire. Se ne 

possono trarre due prospettive abbastanza diverse: o che la vita monastica non è che un’articolazione della vita 

cristiana, priva però di contenuti specifici; oppure che la vita cristiana è sostanzialmente da identificarsi nella vita 

monastica e che in un certo senso è pienamente cristiano solo colui che si dà alla vita monastica. 

[21] Succinctis ergo fide vel observantia bonorum actuum lumbis nostris (Ef 6, 14), per ducatum 

evangelii pergamus itinera eius, ut mereamur eum «qui nos vocavit in regnum suum» (1 Tess 2, 12) 

videre. 

Il riferimento alla guida dell’evangelo prepara il passaggio alla parafrasi del Sal 14 e mostra con chiarezza che per 

l’autore la nozione di “vangelo” si estende a tutti i testi della Scrittura. In particolare i salmi sono percepiti dalla 

tradizione antica come voce di Cristo e della chiesa, questo spiega perché in un protrettico al monachesimo 

cristiano venga proposto un passo di RM che contiene il commento a due testi dell’AT: per Benedetto e per i suoi 

contemporanei il salterio non è affatto un testo precristiano. 

[22] In cuius regni tabernaculo si volumus habitare, nisi illuc bonis actibus curritur, minime 

pervenitur. [23] Sed interrogemus cum propheta Dominum dicentes ei: «Domine, quis habitabit in 

tabernaculo tuo, aut quis requiescet in monte sancto tuo?» (Sal 14, 1) [24] Post hanc interrogationem, 

fratres, audiamus Dominum respondentem et ostendentem nobis viam ipsius tabernaculi, [25] dicens: 

«Qui ingreditur sine macula et operatur iustitiam; [26] qui loquitur veritatem in corde suo, qui non 

egit dolum in lingua sua; [27] qui non fecit proximo suo malum, qui opprobrium non accepit adversus 

proximum suum» (Sal 14, 2-3); [28] qui malignum diabolum aliqua suadentem sibi, cum ipsa 

suasione sua a conspectibus cordis sui respuens, «deduxit ad nihilum» (Sal 14, 4), et parvulos 

cogitatos eius tenuit et allisit ad Christum (Sal 136, 9); [29] qui, timentes Dominum, de bona 

observantia sua non se reddunt elatos, sed ipsa in se bona non a se posse sed a Domino fieri 

existimantes, [30] operantem in se Dominum «magnificant», illud cum propheta dicentes: «Non 

nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam» (Sal 113 b, 1); [31] sicut nec Paulus apostolus 

de praedicatione sua sibi aliquid imputavit, dicens: «Gratia Dei sum id quod sum» (1 Cor 15, 10); 

[32] et iterum ipse dicit: «Qui gloriatur, in Domino glorietur» (2 Cor 10, 17). [33] Unde et Dominus 

in evangelio ait: «Qui audit verba mea haec et facit ea, similabo eum viro sapienti qui aedificavit 

domum suam super petram; [34] venerunt flumina, flaverunt venti, et impegerunt in domum illam, et 

non cecidit, quia fundata erat super petram» (Mt 7, 24-25). 

In RB come già in RM è molto forte la proiezione all’al di là: la vita monastica è una corsa (§ 22: curritur) verso il 

regno di Dio; il riposo è oggetto di una ricerca che non necessariamente trova già in questo mondo qualcosa di più 

di un’anticipazione. Insistito il tema dell’azione: la vita monastica consiste in un costante esercizio di giustizia, 

veracità, resistenza alle tentazioni, umiltà nel non attribuire a se stessi i propri successi e progressi. NB 

l’interpretazione allegorica del Sal 136: i piccoli che vengono sbattuti sulla roccia sono i pensieri peccaminosi 

suggeriti dal demonio e infranti sulla roccia che è Cristo. Il cenno finale all’uomo sapiente può forse essere letto in 

19

elazione con la metafora della scuola, già emersa all’inizio e che verrà enunciata in modo esplicito nei §§ che 

seguono. 

[35] Haec complens Dominus exspectat nos cotidie his suis sanctis monitis factis nos respondere 

debere. [36] Ideo nobis propter emendationem malorum huius vitae dies ad indutias relaxantur, [37] 

dicente Apostolo: «An nescis quia patientia Dei ad paenitentiam te adducit?» (Rom 2, 4) [38] Nam 

pius Dominus dicit: «Nolo mortem peccatoris, sed convertatur et vivat» (Ez 33, 11). 

All’hodie della chiamata deve seguire il cotidie della risposta: il tempo della vita è dato per la correzione del male 

compiuto in questa vita; la vita monastica è pensata come esperienza di conversione e come itinerario penitenziale: 

più sotto parla della partecipazione alla passione di Cristo e in RB 49 si dirà che tutta la vita del monaco dev’essere 

una perpetua quaresima. 

[39] Cum ergo interrogassemus Dominum, fratres, de habitatore tabernaculi eius, audivimus habitandi 

praeceptum, sed si compleamus habitatoris officium. [40] Ergo praeparanda sunt corda nostra et 

corpora sanctae praeceptorum oboedientiae militanda, [41] et quod minus habet in nos natura 

possibile, rogemus Dominum ut gratiae suae iubeat nobis adiutorium ministrare. [42] Et si, fugientes 

gehennae poenas, ad vitam volumus pervenire perpetuam, [43] dum adhuc vacat et in hoc corpore 

sumus et haec omnia per hanc lucis vitam vacat implere, [44] currendum et agendum est modo quod 

in perpetuo nobis expediat. 

Ritorna una serie di temi già affiorati nei §§ precedenti: l’idea che abitare nella tenda del Signore comporti 

l’adozione perseverante e risoluta di una condotta di vita e di pensiero (corda et corpora) alternativa a quella del 

mondo, una militia il cui elemento distintivo è l’obbedienza. Si tratta di un esercizio impegnativo, forse superiore 

alle possibilità umane senza il soccorso della grazia (elemento agostiniano?). I §§ 42-44 riportano all’urgenza 

pressante del compito: bisogna fuggire, correre, agire, finché c’è luce, per poter ottenere la liberazione dalla 

gehenna e la vita eterna. 

[45] Constituenda est ergo nobis dominici schola servitii. 

È l’espressione più importante del prologo, quella alla quale tende la scelta dell’ultima sezione del testo della RM. 

Essa riprende il tema già annunciato all’inizio dall’invito ad accogliere i praecepta magistri e su cui insisteranno 

anche le ultime parole del prologo. 

In RM il riferimento alla figura di Cristo come maestro era più esplicito, perché nel thema la narrazione parabolica 

descriveva l’umanità come una carovana di gente sfinita e assetata. A un certo punto, gli uomini scorgono una 

fonte e odono una voce che li invita: «venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò» (Mt 11, 

28); dopo essersi riavuti e dissetati odono di nuovo: «prendete il mio giogo sopra di me e imparate da me, che sono 

mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11, 29-30). La scuola del servizio divino serve 

così in RM a dare concretezza all’invito evangelico discite a me, che Cristo rivolge a coloro ai quali ha dischiuso la 

via della salvezza attraverso l’acqua del battesimo. Il collegamento della vita monastica al battesimo è un tema 

originale della RM, che RB riprende in modo più implicito. 

L’immagine del monastero come scuola era nota anche a Cassiano (Conl. III 1, 2; XVIII 16, 15; XIX 2, 4; 11, 1), 

che l’intendeva, però, nel senso che il cenobio è la scuola che prepara il monaco ad affrontare la vita solitaria. RM 

e RB conservano la medesima prospettiva, dal momento che collocano la vita eremitica al vertice dell’esperienza 

spirituale e presentano la vita del cenobio come un addestramento ad affrontare la battaglia solitaria con il 

demonio. Da questo punto di vista, si può osservare in RM e RB una prospettiva diversa da altre regole (Agostino, 

Quattro padri, Basilio) che insistono maggiormente sul valore della comunità e presentano fin dall’esordio la 

comunità monastica come comunità fraterna simile alla chiesa apostolica descritta dagli Atti. 

L’altro elemento legato all’immagine della scola è quello del servizio pubblico/militare: non per caso nel prologo 

compaiono anche vari riferimenti alla vita monastica come militia. Se il discepolo ha un ruolo soprattutto passivo, 

di ascolto e apprendimento, il servitore ha un compito più attivo, deve eseguire delle azioni a beneficio di chi lo 

invia e della collettività (cf. anche l’immagine dell’operaio scelto tra la moltitudine). Per altro, questa milizia e 

questo servizio si attuano principalmente nella forma dell’obbedienza, dunque ancora una volta di un ascolto 

laborioso/faticoso. 

A titolo di curiosità, si può ricordare che il 529, data secondo la tradizione dell’insediamento di Benedetto a 

Montecassino, coincide con la fine, in seguito a un intervento dell’imperatore Giustiniano, della scuola platonica di 

Atene: data simbolica di una sorta di passaggio di consegne da un modo ad un altro di disporre il percorso di 

20

perfezionamento spirituale di una comunità di discepoli. 

[46] In qua institutione nihil asperum, nihil grave, nos constituturos speramus; [47] sed et si quid 

paululum restrictius, dictante aequitatis ratione, propter emendationem vitiorum vel conservationem 

caritatis processerit, [48] non ilico pavore perterritus refugias viam salutis quae non est nisi angusto 

initio incipienda (Mt 7, 14). [49] Processu vero conversationis et fidei, dilatato corde inenarrabili 

dilectionis dulcedine curritur via mandatorum Dei (Sal 118, 32), [50] ut ab ipsius numquam 

magisterio discedentes, in eius doctrinam usque ad mortem in monasterio perseverantes (At 2, 42), 

passionibus Christi per patientiam participemur, ut et regno eius mereamur esse consortes. Amen. 

L’espressione nihil asperum, nihil grave è probabilmente un’eco di Mt 11, che RB non cita esplicitamente, ma che 

fa da sfondo al testo di RM. Come il giogo evangelico, così quello della regola non intende presentare nulla di 

insopportabile e di duro; ciò non toglie che l’inizio della via della salvezza sia necessariamente stretto (Mt 7). Non 

è strano che da una parte si dica che il giogo è leggero e dall’altra, nello stesso passo, si dica che necessariamente 

la via della salvezza è stretta: la spiegazione sarà data da RB nell’interpretazione di Sal 118, 32: viam mandatorum 

tuorum cucurri, cum dilatasti cor meum. 

I §§ 46-49 sono propri di RB, mentre il § 50 riprende il testo della RM. Il § 50 torna all’immagine del magistero e 

della dottrina esplicitandone il senso: il monastero è scola nella quale si deve perseverare fino alla morte per poter 

accedere al regno di Cristo; non è un luogo di riposo, ma di fatica, nel quale si partecipa alle passiones di Cristo, e 

il plurale sottolinea forse l’elemento etico di questa partecipazione. Tra la vocazione battesimale e il regno 

s’inserisce questa tappa intermedia di dura fatica, il che significa che il monastero occupa nella prospettiva dei due 

autori il tempo e lo spazio della chiesa militante. Il tenore di questo § 50 contraddice le annotazioni 

immediatamente precedenti, dovute a Benedetto, che propongono una prospettiva più ottimistica e fiduciosa nei 

confronti della vita monastica. 

C’è nella vita monastica indubbiamente un elemento agonico/agonistico: essa è corsa, partecipazione alle 

passiones Christi; ma questa esperienza, senza essere eliminata o contraddetta, riceve un senso nuovo nel processo 

della conversione, quando il cuore si dilata sotto la spinta dell’indescrivibile dolcezza dell’amore e la corsa nella 

via dei precetti di Dio cessa di essere solo una fatica. Questa sottolineatura getta una luce importante sul senso 

della milizia monastica nella prospettiva della RB. 

Il prologo permette di fare qualche accenno alle fonti letterarie della RB, in particolare alla Scrittura. Buona parte 

dei testi citati da RB si ritrova anche in RM, ma generalmente si nota in RB la tendenza a conformare il testo 

biblico, in particolare quello dei Salmi, a quello in uso a Roma. Solo in tre punti RB utilizza testi provenienti da 

opere extracanoniche, citandoli come se fossero scritturari: 

RB 7, 24: Passio Sebastiani 14 

RB 7, 33: Passio Anastasiae 17 

RB 7, 61: Sextus Sent. 145 

In tutti e tre i casi si tratta di testi provenienti dalla RM 10 e utilizzati dall’autore di RB senza che si rendesse conto 

che non si trattava di passi biblici. Nelle parti proprie, RB cita solo due volte un testo extrabiblico e in entrambi i 

casi si tratta delle Vitae patrum: RB 18, 25; 40, 6. RB menziona anche delle altre opere letterarie per suggerirne la 

lettura: cf. RB 42, 3. 5; 73, 5 (interessante che gli unici autori esplicitamente menzionati siano Cassiano e Basilio) 

e, in termini più generici, i suggerimenti di RB 9, 8; 73, 2. 4. RB mostra in generale una preoccupazione accentuata 

per la lettura appropriata alla formazione spirituale dei monaci. 

Oltre alle letture suggerite ai monaci, vi sono quelle che hanno fatto da sfondo alla stesura della regola: in essa si 

trovano numerose citazioni implicite di Agostino, Basilio e ps.-Basilio, Cipriano, Leone, Cassiano, Historia 

monachorum, Pacomio, Regole dei padri. 

21

1.1. La pratica delle virtù nella condotta del monaco 

a) Principi generali 

Caput IV 

Quae sunt instrumenta bonorum operum 

[1] In primis Dominum Deum diligere ex toto corde, tota anima, tota virtute (Dt 6, 5; Mc 12, 30 e 

par); 

[2] deinde proximum tamquam seipsum (Mc 12, 31 e par; Lev 19, 18). 

[3] Deinde non occidere, 

[4] non adulterare, 

[5] non facere furtum, 

[6] non concupiscere, 

[7] non falsum testimonium dicere (Es 20, 13-17; Dt 5, 17-21; Mt 19, 18 par; Rom 13, 9), 

[8] honorare omnes homines (1 Pt 2, 17), 

[9] et quod sibi quis fieri non vult, alio ne faciat (Mt 7, 12; Tob 4, 16; Rom 13, 8-10). 

Presentazione del decalogo. I primi due §§ riassumono secondo Mc 12, 30 la legge e i profeti, e sono citati al 

primo posto anche a Agostino (Ordo mon. 1) e da Basilio (Reg. I 2-5). Interessante osservare che l’amore, che il 

cap. 7 metterà al vertice della scala dell’umiltà, qui è posto a fondamento di tutto lo strumentario delle buone 

opere; non solo termine remoto, ma presupposto dell’intera condotta del cristiano e del monaco. I §§ successivi 

riprendono sostanzialmente il decalogo nella formulazione di Mt; la cosa non è strana, anche se è un tratto 

originale di RM e di RB: se è ovvio che un monaco non debba uccidere o commettere adulterio, dirlo 

esplicitamente significa riportare l’intera osservanza monastica sul fondamento della legge divina enunciata dalla 

Scrittura e compendiata nel decalogo e nel duplice comandamento dell’amore. 

Il § 8 amplia il comandamento di onorare padre e madre: visto che il monaco è tenuto ad abbandonare la propria 

famiglia e mettersi al servizio di Dio e di tutti gli uomini (cf. Gen 12, 1; Mt 19, 29). Sul rapporto con i parenti RB 

54, 1-2: in generale RB tende a rendere più severo l’isolamento, anche fisico, del monaco e a separarlo 

maggiormente dalle relazioni con l’ambiente sociale e familiare circostante. Il § 9 riprende la cosiddetta “regola 

aurea”, anch’essa formulazione sintetica della condotta conforme alla legge. L’osservanza del decalogo è la prima 

grande realizzazione del comandamento dell’amore del prossimo. 

[10] Abnegare semetipsum sibi ut sequatur Christum (Mt 16, 24 par). 

[11] Corpus castigare (1 Cor 9, 27), 

[12] delicias non amplecti, 

[13] ieiunium amare. 

Tema della rinuncia a se stessi per la sequela di Cristo. A una prima serie di ammonizioni dirette a realizzare 

l’amore del prossimo, seguono questi §§ che si occupano di comportamenti tesi ad attuare l’amore per Dio nella 

forma della sequela di cristo. Come in Mt 19, 16 ss, dopo aver enumerato i comandamenti, Gesù invita il giovane 

ricco a lasciare tutto e seguirlo, qui RB propone la rinuncia a se stessi a seguito del decalogo. L’opposizione tra 

delicias e ieiunium suggerisce l’ampiezza della rinuncia monastica: essa non coinvolge solo il cibo ma tutto ciò che 

i qualsiasi modo nutre i desideri e i piaceri mondani. Sul regime alimentare cf RB 39-41. È interessante che RB 

chieda non solo di praticare, ma di amare il digiuno e la castità, suggerendo in tal modo non solo un 

comportamento, ma un atteggiamento che conferisce a quella condotta il suo valore. 

[14] Pauperes recreare, 

[15] nudum vestire, 

[16] infirmum visitare, 

[17] mortuum sepelire (Mt 25, 35-36; Tob 1, 20; Is 58, 7). 

22

[18] In tribulatione subvenire (Is 1, 17), 

[19] dolentem consolari (2 Cor 1, 4; Is 61, 2). 

Opere di misericordia materiale (§§ 14-17) e spirituale (§§ 18-19). Si torna a una serie di ammonizioni destinate a 

realizzare concretamente l’amore del prossimo. Al movimento di rinuncia a sé, descritto nella sezione precedente, 

si oppone il movimento positivo di assunzione di responsabilità nei confronti delle necessità e del dolore degli altri. 

[20] Saeculi actibus se facere alienum (Gc 1, 27), 

[21] nihil amori Christi praeponere. 

Enunciazione esplicita del principio che la vita monastica è separazione dal mondo: importante sottolineare che 

questa separazione, prima di essere fisica, è nell’atteggiamento: si tratta per RB di diventare estraneo al modo di 

agire del mondo e, per converso, di non anteporre nulla all’amore di Cristo (genitivo oggettivo o soggettivo? cf. 

formulazioni analoghe in Vita Antoniii [PG 26, 865], Cipr. De orat. dom. 15). Anche qui doppio movimento: 

rinuncia e adesione. Il Cristo maestro e re del prologo appare qui in modo più esplicito come destinatario, o 

artefice, di una relazione d’amore con il monaco; in tal modo si riprende il primo comandamento enunciato al § 1. 

[22] Iram non perficere, 

[23] iracundiae tempus non reservare (Mt 5, 22). 

[24] Dolum in corde non tenere (Prov 12, 20; Sal 14, 3), 

[25] pacem falsam non dare (Ger 9, 8; Sal 27, 3). 

[26] Caritatem non derelinquere (1 Pt 4, 8). 

[27] Non iurare ne forte periuret (Mt 5, 33), 

[28] veritatem ex corde et ore proferre (Sal 14, 3). 

[29] Malum pro malo non reddere (1 Pt 3, 9; 1 Tess 5, 15). 

[30] Iniuriam non facere, sed et factas patienter sufferre (1 Cor 6, 7-8). 

[31] Inimicos diligere (Mt 5, 44 par). 

[32] Maledicentes se non remaledicere, sed magis benedicere (Lc 6, 28; 1 Cor 4, 12; 1 Pt 3, 9). 

[33] Persecutionem pro iustitia sustinere (Mt 5, 10; 1 Cor 4, 12). 

Veracità e mansuetudine. Una serie di massime concernenti le relazioni con il prossimo, che invita a deporre l’ira e 

il rancore, a non ingannare, a essere veritieri, a sopportare il male senza renderlo. Complessivamente si ha la 

percezione che la vita monastica sia presentata come un esercizio che espone inevitabilmente a incomprensioni, 

ingiustizie e persecuzioni, alle quali il monaco deve cedere senza resistere; è l’attuazione di quella partecipazione 

alle passiones Christi di cui si parla alla fine del prologo. 

[34] Non esse superbum , 

[35] non vinolentum (1 Tim 3, 3; Tt 1, 7), 

[36] non multum edacem (Sir 37, 32), 

[37] non somnulentum (Prov 20, 13), 

[38] non pigrum (Rom 12, 11), 

[39] non murmuriosum, 

[40] non detractorem (Sap 1, 11). 

Controllo di sé. Queste ammonizioni hanno una forma diversa da quelle che precedono e seguono, forse stanno qui 

23

con lo scopo di interrompere la monotonia delle frasi verbali. Anche dal punto di vista tematico sembrano un po’ 

disturbare la relazione tra i precetti concernenti la sopportazione del male e l’invito ad affidare a Dio la propria 

speranza che si legge in § 41. La superbia sarà oggetto di trattazione approfondita in RB 7; sul vino Benedetto 

ritorna in RB 40 e sulla misura del cibo in RB 39. 

[41] Spem suam Deo committere (Sal 72, 28; 77, 7). 

[42] Bonum aliquid in se cum viderit, Deo applicet, non sibi; 

[43] malum vero semper a se factum sciat et sibi reputet. 

Il § 41 fornisce la giustificazione del comportamento descritto in §§ 20-33 di non resistenza al male: esso è reso 

possibile dalla speranza che si affida a Dio. Sull’attribuzione a Dio del bene che si compie e a sé del male si è già 

espresso il prologo al § 29. Si tratta di dottrina agostiniana (Serm. 96, 2). Il catalogo degli strumenti si concentra 

ora sulla relazione del monaco non più con gli altri, ma direttamente con Dio. 

[44] Diem iudicii timere (Sir 7, 40), 

[45] gehennam expavescere, 

[46] vitam aeternam omni concupiscentia spiritali desiderare, 

[47] mortem cotidie ante oculos suspectam habere (Mt 24, 44; 25, 13 par; 1 Cor 15, 31). 

Meditare la morte e il giudizio. RM e RB insistono fortemente sulla proiezione della vita monastica alla vita eterna, 

in relazione alla quale ritorna il tema del desiderio; timore del giudizio e desiderio della vita sono due dimensioni 

contemporaneamente presenti e necessarie a evitare sia la fatua presunzione di non correre alcun rischio, sia 

l’ossessione della paura. Non è fuori luogo ricordare che anche nella tradizione ellenica la filosofia è descritta 

come un esercizio/meditazione della morte. 

[48] Actus vitae suae omni hora custodire, 

[49] in omni loco Deum se respicere pro certo scire (Prov 15, 3). 

[50] Cogitationes malas cordi suo advenientes mox ad Christum allidere et seniori spiritali patefacere 

(Sal 136, 9), 

[51] os suum a malo vel pravo eloquio custodire (Sal 33, 14), 

[52] multum loqui non amare, 

[53] verba vana aut risui apta non loqui, 

[54] risum multum aut excussum non amare. 

Vigilanza sui pensieri e sulle parole. Il § 50 riprende prol. § 28: la manifestazione dei pensieri cattivi al padre 

spirituale è raccomandata anche da Cassiano (Inst. IV 9); sul padre spirituale cf. RB 46, 5. NB l’insistenza sul 

controllo della parola e del riso come strumento per il controllo dei pensieri e della condotta (cf. sopra il § 36 sul 

tema della moderazione nel cibo). Il silenzio è oggetto di una trattazione specifica in RB 6 

[55] Lectiones sanctas libenter audire, 

[56] orationi frequenter incumbere (Lc 18, 1; 1 Tess 5, 17), 

[57] mala sua praeterita cum lacrimis vel gemitu cotidie in oratione Deo confiteri, 

[58] de ipsis malis de cetero emendare. 

Compunzione e preghiera. Se il gruppo precedente suggerisce i comportamenti da evitare, questi §§ propongono 

l’uso alternativo e corretto del pensiero e della parola. Interessante l’associazione fatta in questi §§ fra ascolto delle 

sante letture (cioè della Scritturao dei padri) e preghiera frequente; cf. Hier. Ep. 58, 6: «semper ... sacra sit lectio; 

frequenter orandum». La lettura è un atto comunitario, la si ascolta nella celebrazione dell’ufficio e durante i pasti, 

sia per l’uso antico, sia perché non tutti sanno leggere da soli. Ancora una volta è interessante osservare l’avverbio 

libenter: esso precisa che l’ascolto della lettura non è di per sé sufficiente a fare di questa uno strumento dell’arte 

spirituale; essa lo diventa solo se è fatta volentieri, il che vuol dire anche con modi tali da non disturbare gli altri 

uditori. 

L’invito alla preghiera frequente è ricorrente nella letteratura monastica e include la preghiera comunitaria e quella 

24

privata. I §§ 57-58 descrivono l’atteggiamento fondamentale della preghiera, la compunzione: il senso acuto e 

doloroso della propria indegnità e peccaminosità, che induce a una continua vigilanza e richiesta di perdono. Esso è 

citato in RB 7 come dodicesimo scalino della scala dell’umiltà; le lacrime definiscono nella letteratura monastica 

antica lo stato monastico. Cf Hier. Contra Vigilantium 15: «monachus ... non doctoris habet, sed plangentis 

officium». 

[59] Desideria carnis non efficere (Gal 5, 16), 

[60] voluntatem propriam odire (Sir 18, 30), 

[61] praeceptis abbatis in omnibus oboedire, etiam si ipse aliter - quod absit - agat, memores illud 

dominicum praeceptum: 

«Quae dicunt facite, quae autem faciunt facere nolite» (Mt 23, 3). 

[62] Non velle dici sanctum antequam sit, sed prius esse quod verius dicatur. 

Rinuncia ai desideri della carne e alla volontà propria e adesione nell’obbedienza alla volontà altrui. Come già ha 

esortato a rinunciare alla propria volontà nel prologo (§ 3), RB ritorna ora sul medesimo tema, mettendolo in 

parallelo con i desideri della carne: l’affermazione di sé è del medesimo genere, che si tratti di soddisfare i desideri 

carnali o di realizzare la propria volontà. Si annunzia anche il tema dell’obbedienza al superiore al di fuori di 

qualunque considerazione circa l’effettiva coerenza e sensatezza degli ordini impartiti (cf RB 64). Il § 62 ha a che 

fare con la medesima costellazione: si tratta sempre di mettere sotto controllo il narcisismo, che spinge a voler 

ottenere dagli altri un riconoscimento per sé. La precisazione al § 61 sul fatto che bisogna obbedire anche all’abate 

indegno è propria di RB e segnala una volontà di consolidare l’autorità del superiore, forse indizio di una 

situazione all’interno dei monasteri in cui essa è più minacciata. 

[63] Praecepta Dei factis cotidie adimplere (Sir 6, 37), 

[64] castitatem amare (Gdt 15, 11), 

[65] nullum odire, 

[66] zelum non habere, 

[67] invidiam non exercere, 

[68] contentionem non amare (Gc 3, 14; Fil 1, 15; 1 Tim 6, 24), 

[69] elationem fugere. 

[70] Et seniores venerare, 

[71] iuniores diligere. 

[72] In Christi amore pro inimicis orare (Mt 5, 44); 

[73] cum discordante ante solis occasum in pacem redire (Ef 4, 26). 

[74] Et de Dei misericordia numquam desperare. 

Esercizio dell’amore reciproco. Dalla trattazione di strumenti incentrati sulla relazione del monaco con Dio si 

torna, attraverso il tema dell’obbedienza all’abate, alle relazioni interpresonali. Così un’ultima serie di 

ammonizioni riprende alcuni temi già visti e ne presenta altri incentrati sulla condotta improntata all’amore 

vicendevole; questo è il modo di adempiere nei fatti e non solo in apparenza i comandamenti (§§ 62-63). Lo zelo, 

nel senso di ardore/invidia può avere anche un senso positivo cf. RB 72, dove è precisato che si tratta dello zelo 

buono che devono avere i monaci. Zelus, invidia, contentio sono menzionati insieme nei passi del NT citati al § 68, 

da qui la serie di tre ammonizioni successive che suggeriscono in negativo gli atteggiamenti che i §§ successivi 

formulano in positivo: si tratta in ultima analisi di forme diverse e concrete di esercizio dell’amore e del rispetto 

reciproco. L’ultimo § sintetizza in una breve formula l’idea che non è in forza della propria applicazione, ma della 

misericordia di Dio che è possibile realizzare una condotta irreprensibile. 

Si può notare che i §§ 1-2 fanno riferimento all’amore per Dio e il prossimo; il § 41 alla speranza e il § 74 alla 

fiducia nella misericordia di Dio: l’intera arte spirituale si compendia in un atteggiamento fondamentale di fiducia 

e di amore verso Dio. 

[75] Ecce haec sunt instrumenta artis spiritalis. [76] Quae cum fuerint a nobis die noctuque 

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incessabiliter adimpleta et in die iudicii reconsignata, illa merces nobis a Domino recompensabitur 

quam ipse promisit. [77] «Quod oculus non vidit nec auris audivit, quae praeparauit Deus his qui 

diligunt illum» (1 Cor 2, 9; Is 64, 4). [78] Officina vero ubi haec omnia diligenter operemur claustra 

sunt monasterii et stabilitas in congregatione. 

Si esplicita la metafora degli “strumenti delle buone opere”: il monastero è un’officina, un laboratorio nel quale gli 

operai praticano mediante utensili appropriati un’arte i cui frutti saranno poi ricompensati. L’immagine 

dell’operaio era nel prologo (§ 14) e ritorna a RB 7, 69. L’immagine del monastero come scola si arricchisce qui di 

un tratto ulteriore, come luogo di lavoro e di esercizio di un artigianato. Il cenno alla stabilitas riprende la 

conclusione del prologo in cui si fa menzione della perseveranza nel monastero fino alla morte (§ 50). RB è 

particolarmente insistente su questo tema: condanna dei monaci girovaghi (RB 1), richiesta da parte dei candidati 

alla vita monastica di impegnarsi esplicitamente a praticare la stabilità (RB 58, 9. 17; 60, 9; 61, 5). 

Dopo che il cap. 1 ha presentato i generi di monaci, il cap. 2 l’abate e il cap. 3 il modo di convocare a consiglio i 

fratelli, i capp. 4-7 contengono l’esposizione delle fondamenta spirituali della vita monastica, una specie di 

vademecum per l’esercizio del magistero abbaziale: mentre i capitoli successivi presentano le tre virtù più 

importanti — obbedienza, silenzio e umiltà — qui è presentata una lunga lista di brevi ammonimenti dal carattere 

molto generico: essi infatti si applicano tanto alla vita monastica quanto a qualunque vita cristiana (p.e. il § 4, che 

cita il comandamento di non commettere adulterio, non ha nulla di specificamente monastico). Nn è una scelta 

casuale: si tratta di mostrare che la vita monastica è innanzitutto una vita pienamente e autenticamente cristiana, 

del tutto conforme alla tavola dei valori che la tradizione riconosce come vincolanti per tutti i battezzati. 

Il cap. 4 riprende con poche varianti RM 3 (ma è significativo che sopprima la conclusione escatologica della 

propria fonte) e gli unisce in conclusione RM 6, che conclude la lunga trattazione riservata da RM all’ars sancta. 

Ci sarebbe molto da dire sulla forma letteraria di questo testo. Pur senza un ordine rigoroso, è evidente che le 

ammonizioni nella loro gran parte non si susseguono a caso e realizzano una specie di alternanza tra norme ispirate 

all’amore per Dio e norme ispirate all’amore per il prossimo. Si rimane però sconcertati dall’accumulo di 

esortazioni che si collocano a livelli di importanza molto differenti, almeno per la sensibilità attuale: l’amore di 

Dio e del prossimo si accompagnano all’invito a non bere troppo e a non ridere smodatamente. 

Il ricorso a raccolte di massime è diffuso nella letteratura ascetico-filosofica antica: cf. le Massime capitali di 

Epicuro, le neopitagoriche Sentenze di Sesto, utilizzate anche da Porfirio nella Lettera a Marcella, e molta 

letteratura cristiana e monastica, che in forma di liste di brevi sentenze raccoglie e rende più facilmente 

memorizzabili insegnamenti utili alla vita spirituale (cf. i primi sei capitoli della Didaché). Del resto, già nel 

prologo la citazione dei Sal 33 e 14 aveva assunto la forma, assai più breve, di un catalogo di comportamenti da 

adottare per entrare nella vita eterna; e la forma del catalogo torna ancora nel cap 7 a proposito della scala 

dell’umiltà. 

Caput XLIX 

De Quadragesimae observatione 

[1] Licet omni tempore vita monachi quadragesimae debet observationem habere, [2] tamen, quia 

paucorum est ista virtus, ideo suademus istis diebus quadragesimae omni puritate vitam suam 

custodire omnes pariter, [3] et neglegentias aliorum temporum his diebus sanctis diluere. [4] Quod 

tunc digne fit si ab omnibus vitiis temperamus, orationi cum fletibus, lectioni et compunctioni cordis 

atque abstinentiae operam damus. 

Mentre RM dedica all’osservanza della quaresima tre capitoli (RM 51-53), RB ne tratta brevemente, indicando, più 

che osservanze specifiche, l’atteggiamento spirituale con il quale questo periodo deve essere vissuto dal monaco. 

L’importanza attribuita alla quaresima emerge dal fatto che di essa si tiene conto anche nell’organizzare gli orari di 

lavoro e dei pasti (RB 41, 6-7; 48, 14-16). Ispirandosi a Leone Magno (Serm. de quadr. I 2; IV 1), RB esordisce 

con un enunciato di principio: tutta la vita del monaco dev’essere un’osservanza quaresimale (la connotazione 

penitenziale è così essenziale al monachesimo che nella chiesa antica l’ingresso nello stato monastico può 

sostituire la penitenza canonica); subito segue la constatazione disincantata che pochi sono in grado di attuare 

questa condotta e, quindi, l’indicazione pratica: almeno nei giorni della quaresima si dia corpo a una condotta 

degna della condizione del monaco. De Vogüe indica in questa tensione tra un ideale e un’indicazione minimale 

cui attenersi un tratto caratteristico della RB. 

Il § 4 raccoglie i capisaldi della condotta monastica: ascetismo, preghiera, lettura (infatti in RB 48, 15-16 viene 

prescritta la lettura quaresimale), accompagnati dalle lacrime e dalla compunzione del cuore; cf. anche RB 4, 55- 

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57; 52, 4. 

Per omni puritate vitam suam custodire cf RB 4, 48. 

[5] Ergo his diebus augeamus nobis aliquid solito pensu servitutis nostrae, orationes peculiares, 

ciborum et potus abstinentiam, [6] ut unusquisque super mensuram sibi indictam aliquid propria 

voluntate cum «gaudio Sancti Spiritus» (1 Tess 1, 6) offerat Deo, [7] id est subtrahat corpori suo de 

cibo, de potu, de somno, de loquacitate, de scurrilitate, et cum spiritalis desiderii gaudio sanctum 

Pascha exspectet. 

La penitenza quaresimale consiste, oltre che nell’astinenza da ogni vizio, nell’aggiungere volontariamente qualche 

cosa all’abituale impegno ascetico, sottraendo al corpo cibo, sonno, parole (cf. RB 4, 34-37. 51-54). Senza perdere 

di vista il fatto che il monaco lugentis habet officium, RB aggiunge una notazione che sottrae la penitenza a una 

dimensione di luttuosa macerazione: essa esprime l’attesa, nella gioia (NB la duplice menzione di gaudium in 

connessione con Spiritus e spiritalis) del desiderio spirituale, del giorno di pasqua. Questa proiezione gioiosa del 

desiderio non contraddice il fatto che il monaco sia contemporaneamente uno schiavo, tenuto a realizzare un 

pensum, un servizio obbligatorio (pensus era la quota di lana che la donna, in particolare la schiava, era tenuta a 

filare entro un certo limite di tempo). 

[8] Hoc ipsud tamen quod unusquisque offerit abbati suo suggerat, et cum eius fiat oratione et 

voluntate, [9] quia quod sine permissione patris spiritalis fit, praesumptioni deputabitur et vanae 

gloriae, non mercedi. [10] Ergo cum voluntate abbatis omnia agenda sunt. 

Nel cap. compare due volte l’idea e il termine di “offerta”: un’eco forse dell’invito paolino a trasformare tutta la 

vita del cristiano in un «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rom 12, 1). Anche le pratiche quaresimali 

volontarie devono essere sottoposte all’approvazione dell’abate, perché non si trasformino in occasioni di 

autoesaltazione narcisistica. Il § 10 enuncia, come spesso avviene in RB, un principio di portata generale che 

eccede l’occasione particolare che ne suggerisce la formulazione. 

Caput LXXII 

De Zelo bono, quem debent habere Monachi 

[1] Sicut est zelus amaritudinis (Gc 3, 14) malus qui separat a Deo et ducit ad infernum, [2] ita est 

zelus bonus qui separat a vitia et ducit ad Deum et ad vitam aeternam. 

[3] Hunc ergo zelum ferventissimo amore exerceant monachi, [4] id est ut «honore se invicem 

praeveniant» (Rm 12, 10; cf. 1 Pt 2, 17), [5] infirmitates suas sive corporum sive morum 

patientissime tolerent, [6] oboedientiam sibi certatim impendant; [7] nullus quod sibi utile iudicat 

sequatur, sed quod magis alio (1 Cor 10, 24. 33; 13, 5; Fil 2, 4); [8] caritatem fraternitatis caste 

impendant (1 Tess 4, 9; 1 Pt 2, 17), [9] amore Deum timeant (1 Pt 2, 17; Sir 5, 6; 12, 13), [10] 

abbatem suum sincera et humili caritate diligant, [11] Christo omnino nihil praeponant, [12] qui nos 

pariter ad vitam aeternam perducat. 

Questo capitolo conclude la sezione finale di RB (63-72), che è una ripresa e integrazione di temi già svolti in altri 

luoghi della regola, fatta da una prospettiva più autonoma e meno segnata dall’influsso della RM. Nella sua 

estrema brevità, il cap. 72 ha la forma di una breve catechesi impostata sul tema delle due vie che ricorda l’esordio 

della Didaché (I 1; ma cf. anche Mt 7, 13-14): vi è uno zelo cattivo, che è gelosia, invidia (cf. RB 4, 66; 65, 22) e 

c’è uno zelo buono, che è amore, fervore (cf. RB 64, 6; 66, 4). 

I §§ 3-11 ripropongono in maniera molto compatta e coerente temi che sono stati affrontati sia nel trattato sugli 

strumenti delle buone opere (RB 4), sia nei capp. immediatamente precedenti: cf. gli «onori reciproci» del cap. 63, 

17; l’«amore verso l’abate» del cap. 64, 15; l’«obbedienza reciproca» del cap. 71, 1-4. Per il § 4 cf. RB 4, 70 

§ 5 cf. RB 4, 16. 30; 5, 2. 

§ 11 cf. RB 4, 21 

Il tema che qui viene sviluppato è la relazione dei fratelli fra loro e con l’abate e la dimensione insistita di queste 

relazioni è quella dell’amore: due volte ricorrono i termini amor e caritas, per di più si precisa: ferventissimo 

amore e sincera et humili caritate diligant. Se il cap. 63 illustra le relazioni all’interno della comunità in termini di 

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precedenze, rispetto reciproco e subordinazione dei più giovani agli anziani, qui l’invito all’esercizio dell’amore 

reciproco è senza restrizioni e sembra suggerire la possibilità o almeno l’aspirazione a un superamento della 

gerarchia. 

Anche in questo trattatello l’obiettivo è la «vita eterna», come in prol. 50 e in 4, 76-77 (il tema della vita eterna fa 

da cornice all’inizio e alla fine delle otto formule del cap.); questa volta, però, la dimensione comunitaria è 

dominante su quella individuale: il testo è formulato al plurale e il conseguimento della vita eterna riguarda tutti 

insieme i membri della comunità (pariter). 

Il § 8 potrebbe essere interpunto anche così: caritatem fraternitatis caste impendant amore; [9] Deum timeant. 

Questa formulazione conserva il parallelismo con 1 Pt 2, 17, che ispira il passo, e sarebbe anche parallela alla 

costruzione del successivo abbatem suum sincera et humili caritate diligant. 

b) L’obbedienza 

Caput V 

De oboedientia 

[1] Primus humilitatis gradus est oboedientia sine mora. [2] Haec convenit his qui nihil sibi a Christo 

carius aliquid existimant. [3] Propter servitium sanctum quod professi sunt seu propter metum 

gehennae vel gloriam vitae aeternae, [4] mox aliquid imperatum a maiore fuerit, ac si divinitus 

imperetur moram pati nesciant in faciendo. [5] De quibus Dominus dicit: «Obauditu auris oboedivit 

mihi» (Sal 17, 45). [6] Et item dicit doctoribus: «Qui vos audit me audit» (Lc 10, 16). [7] Ergo hi 

tales, relinquentes statim quae sua sunt et voluntatem propriam deserentes, [8] mox exoccupatis 

manibus et quod agebant imperfectum relinquentes, vicino oboedientiae pede iubentis vocem factis 

sequuntur, [9] et veluti uno momento praedicta magistri iussio et perfecta discipuli opera, in 

velocitate timoris Dei, ambae res communiter citius explicantur. 

Alla presentazione generale degli strumenti delle buone opere fatta nel cap. 4, segue latrattazione tematica delle tre 

virtù fondamentali del monaco: obbedienza (RB 5), taciturnità (RB 6) e umiltà (RB 7). La trattazione 

dell’obbedienza dipende da RM 7, che viene citata abbreviando sensibilmente, pur conservandone la scansione 

fondamentale: descrizione dell’obbedienza immediata; evocazione della via stretta; atteggiamenti interiori di una 

vera obbedienza. A sua volta, la dottrina sull’obbedienza presentata da RM dipende soprattutto da Cipriano e da 

Basilio. 

Il § 1 sembra in contraddizione con l’esordio del cap. 7: può esserci stato davvero un cambiamento di prospettiva 

in RM e in RB, oppure, più probabilmente, qui primus sta per “eminente, evidente, principale” e non suppone una 

gerarchia di gradi come nel cap. 7 (del resto già nel prologo 2-3 la vita monastica è presentata alla luce della virtù 

dell’obbedienza). 

Importante nell’impostazione di RM e RB è la fondazione teologica dell’obbedienza: essa non conviene al monaco 

per ragioni di opportunità e di pacifica convivenza con gli altri, ma perché essa è lo strumento della sua 

conformazione al Cristo, che si è spogliato della propria volontà per fare quella del Padre (Gv 6, 38). La 

sollecitudine nell’adempiere senza alcun indugio gli ordini del superiore è propria di chi non ha nulla che gli stia a 

cuore più del Cristo (cf. RB prol. 3. 50; 4, 10. 21): in ultima analisi, dunque, l’obbedienza monastica è diretta a 

Cristo. A questa motivazione teologica se ne aggiungono altre, delle quali non si esplicita la coordinazione con la 

prima: la lealtà al santo servizio che ci si è assunti (cf. l’idea del Cristo vero re del prologo), il timore dell’inferno, 

l’attesa del paradiso. In ogni caso, ai §§ 5-6 si opera una identificazione tra superiore e Dio, al punto che l’ordine 

impartito dal superiore viene accolto come se fosse stato impartito da Dio stesso (divinitus). Il termine maior del § 

4 può essere considerato un sinonimo di abbas (cf. RB 2, 1), ma potrebbe essere anche letto nella prospettiva di 

quell’obbedienza che deve essere resa da ciascuno a coloro che gli sono sovraordinati per età di professione o 

funzione all’interno della comunità (cf RB 71 e 72, 6). 

È un tratto significativo di tutto lo scritto il riferimento di ogni indicazione normativa ad alcuni testi fondamentali 

della Scrittura, in questo caso Lc 10, 16; Mt 7, 14; Gv 6, 38, a partire dai quali viene sviluppata la dottrina e la 

normativa. 

I §§ 7-9 descrivono la rapidità e quasi la simultaneità fra ordine e sua esecuzione; il senso un po’ angosciante di 

questa assoluta soggezione all’espressione della volontà del superiore è mitigato dalla formulazione del § 9: sia 

l’ordine sia l’esecuzione devono nascere dal timore di Dio; non ci si deve quindi permettere di impartire ordini 

arbitrari o contrari al timore di Dio. 

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[10] Quibus ad vitam aeternam gradiendi amor incumbit, [11] ideo angustam viam arripiunt - unde 

Dominus dicit: «Angusta via est quae ducit ad vitam» (Mt 7, 14) [12] ut non suo arbitrio viventes vel 

desideriis suis et voluptatibus oboedientes, sed ambulantes alieno iudicio et imperio, in coenobiis 

degentes abbatem sibi praeesse desiderant. [13] Sine dubio hi tales illam Domini imitantur sententiam 

qua dicit: «Non veni facere voluntatem meam, sed eius qui misit me» (Gv 6, 38). 

Lentini lega il § 10 al precedente § 9, facendone la spiegazione non della scelta della via stretta, ma della rapida 

esecuzione dell’ordine ricevuto. Il senso del discorso non cambia. 

Si ritrova il senso di urgenza indilazionabile, fondata sull’amore e sul desiderio della vita eterna (RB 4, 46), che 

spinge il monaco ad affrontare la via stretta dell’obbedienza (Mt 7, 14 usato anche nel prol. 48). NB con quale 

predilezione RB, seguendo RM, utilizza metafore spaziali legate al movimento, alla corsa, all’ascesa, per esprimere 

la vita monastica. 

Si osservi l’anacoluto del § 12: ut (finale o consecutivo) ... desiderant. Il vivere a proprio arbitrio equivale a 

obbedire ai propri desideri e alla ricerca del proprio piacere: qui sembra esserci una contraddizione tra vocazione 

monastica, che richiede l’esercizio di una scelta personale e libera, e il risoluto rifiuto di accordare alcun valore alla 

volontà propria nell’ambito di questa vita. Si potrebbe obiettare, però, che dal punto di vista della RB l’entrata in 

monastero non è una scelta, ma un atto a sua volta di obbedienza a Dio che chiama e che la volontà propria che qui 

si prescrive di abbandonare è l’espressione dell’umanità irredenta, della carne; veramente libero è colui che fa la 

volontà di Dio, e nella prospettiva di RM ed RB, essa si manifesta al monaco in modo privilegiato attraverso la 

mediazione del superiore. Interessante a questo proposito la precisazione sul fatto che la pratica dell’obbedienza è 

resa possibile dalla vita in coenobiis. Anche se non in termini esclusivi, il § 13 mostra come la vita monastica sia 

pensata come la realizzazione di una piena imitatio Christi. 

[14] Sed haec ipsa oboedientia tunc acceptabilis erit Deo et dulcis hominibus, si quod iubetur non 

trepide, non tarde, non tepide, aut cum murmurio vel cum responso nolentis efficiatur, [15] quia 

oboedientia quae maioribus praebetur Deo exhibetur; ipse enim dixit: «Qui vos audit me audit» (Lc 

10, 16). [16] Et cum bono animo a discipulis praeberi oportet, quia «hilarem datorem diligit Deus» (2 

Cor 9, 7). [17] Nam, cum malo animo si oboedit discipulus et non solum ore sed etiam in corde si 

murmuraverit, [18] etiam si impleat iussionem, tamen acceptum iam non erit Deo qui cor eius respicit 

murmurantem, [19] et pro tali facto nullam consequitur gratiam; immo poenam murmurantium 

incurrit, si non cum satisfactione emendaverit. 

Dopo aver descritto le modalità esteriori dell’attuazione dell’obbedienza, l’autore precisa ora l’atteggiamento con il 

quale l’obbedienza, per avere valore, deve essere prestata. È interessante osservare che RB conserva di RM solo la 

sezione nella quale viene descritta l’obbedienza perfetta, quella che corrisponde non solo all’attuazione della 

volontà del superiore, ma a una volontaria e incondizionata accoglienza del comando per una motivazione 

religiosa. Un’obbedienza puramente materiale e prestata malvolentieri non è ritenuta dall’autore di RB degna di 

questo nome. Il § 14 introduce, preceduto da RB 4, 39, il tema della mormorazione, contro la quale è ferma e 

costante la messa in guardia della RB: cf. RB 23, 1; 34, 6; 35, 13; 40, 9; 53, 18. 

Caput LXVIII 

Si Fratri impossibilia iniungantur 

[1] Si cui fratri aliqua forte gravia aut impossibilia iniunguntur, suscipiat quidem iubentis imperium 

cum omni mansuetudine et oboedientia. [2] Quod si omnino virium suarum mensuram viderit pondus 

oneris excedere, impossibilitatis suae causas ei qui sibi praeest patienter et opportune suggerat, [3] 

non superbiendo aut resistendo vel contradicendo. [4] Quod si post suggestionem suam in sua 

sententia prioris imperium perduraverit, sciat iunior ita sibi expedire, [5] et ex caritate, confidens de 

adiutorio Dei, oboediat. 

RB, ispirandosi alla regola di Basilio (69; 82), affronta esplicitamente un problema che in RM non viene posto: 

come comportarsi di fronte a un comando che appare irrealizzabile a chi lo riceve. Il § 1 prescrive che l’ordine 

venga comunque accolto cum omni mansuetudine et oboedientia. Solo dopo averlo accolto e averne tentato 

l’esecuzione, il monaco può esporre al superiore le ragioni delle proprie difficoltà; anche in questo caso è 

interessante la descrizione dell’atteggiamento con il quale le difficoltà vanno esposte: in positivo, patienter et 

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opportune; e in negativo, non superbiendo aut resistendo vel contradicendo. Se l’ordine non viene ritirato, esso va 

accolto, non perché sia ragionevole o utile, ma ex caritate; e va eseguito avendo fiducia nell’aiuto di Dio. NB che 

non viene detto nulla su come si deve comportare il superiore (di questo RB si occupa altrove): è ovvio che l’abate 

non deve dare ordini assurdi, contrari alla religione e al bene; ma non sembra che spetti al sottoposto valutare il 

valore in sé dell’ordine ricevuto; egli può al massimo esporre la ragioni soggettive per le quali esso gli sembra 

irrealizzabile, salvo essere tenuto in ogni caso ad accettare la volontà del superiore una volta ch’essa sia stata 

confermata. 

Caput LXXI 

Ut obedientes sint sibi invicem Fratres 

[1] Oboedientiae bonum non solum abbati exhibendum est ab omnibus, sed etiam sibi invicem ita 

oboediant fratres, [2] scientes per hanc oboedientiae viam se ituros ad Deum. 

L’invito all’obbedienza vicendevole si trova anche nella regola di Basilio (13 e 64). Il fatto che l’obbedienza sia 

dovuta a tutti e non solo all’abate rende più esplicito il suo ancoramento in una prospettiva non solo disciplinaregerarchica, 

ma soprattutto teologica della pratica di questa virtù. Ancora una volta RB tematizza quanto già nel 

prologo era stato detto: attraverso l’obbedienza il monaco ritorna alla patria perduta del cielo (NB metafora della 

via). 

[3] Praemisso ergo abbatis aut praepositorum qui ab eo constituuntur imperio, cui non permittimus 

privata imperia praeponi, [4] de cetero omnes iuniores prioribus suis omni caritate et sollicitudine 

oboediant. [5] Quod si quis contentiosus reperitur, corripiatur. 

In realtà RB non rinuncia a pensare i rapporti interpresonali in termini gerarchici: l’obbedienza è dovuta 

dall’inferiore al superiore, dal giovane all’anziano (ma cf. in RB 72 l’almeno potenziale superamento dell’ordine 

gerarchico in quello dell’amore). Ancora una volta, non basta eseguire atti esterni, occorre che essi siano espressivi 

di un atteggiamento interiore: omni caritate et sollicitudine. L’insistenza sugli atteggiamenti interiori suppone che 

la vita del monaco si svolga come un continuo esercizio di attenzione e di discernimento di quali siano i veri 

moventi del suo agire: un’azione perfettamente conforme al dettato della regola, ma fondata su moventi narcisistici 

e di autoaffermazione, non ottiene lo scopo e anzi mette in pericolo il soggetto. 

[6] Si quis autem frater pro quavis minima causa ab abbate vel a quocumque priore suo corripitur 

quolibet modo, [7] vel si leviter senserit animos prioris cuiuscumque contra se iratos vel commotos 

quamvis modice, [8] mox sine mora tamdiu prostratus in terra ante pedes eius iaceat satisfaciens, 

usque dum benedictione sanetur illa commotio. [9] Quod qui contempserit facere, aut corporali 

vindictae subiaceat aut, si contumax fuerit, de monasterio expellatur. 

L’ultima annotazione riguarda il modo con il quale bisogna accogliere gli eventuali rimproveri da parte di un 

superiore: a presceindere da qualsiasi valutazione circa la fondatezza del rimprovero che gli viene rivolto, o dalle 

buone ragioni per le quali il superiore è irritato con lui, il monaco è tenuto a dargli soddisfazione prostrandosi ai 

suoi piedi, fino a quando non abbia ricevuto da lui la benedizione che lo riconcilia. 

c) Il silenzio 

Caput VI 

De tacitunitate 

[1] Faciamus quod ait propheta: «Dixi: Custodiam vias meas, ut non delinquam in lingua mea. Posui 

ori meo custodiam. Obmutui et humiliatus sum et silui a bonis» (Sal 38, 2-3). [2] Hic ostendit 

propheta, si a bonis eloquiis interdum propter taciturnitatem debet taceri, quanto magis a malis verbis 

propter poenam peccati debet cessari. 

Il trattato sul silenzio della RB è molto più breve di quello della RM (8-9), il che un po’ colpisce, considerata 

30

l’importanza dell’argomento per la spiritualità della RB; sembra che in questo caso l’insegnamento sulla taciturnità 

venga impartito anche con l’esempio, mediante una trattazione estremamente concisa. 

Come in moltissimi altri luoghi, una prescrizione comportamentale è introdotta e fondata da un rinvio alla 

Scrittura; la citazione, peraltro, è fatta ad arte per acquistare un senso più generale, omettendo dopo le parole posui 

ori meo custodiam il seguito: cum consisteret peccator adversum me. NB il termine propheta: nella prospettiva 

degli scrittori cristiani antichi il Salterio è senz’altro un libro profetico. La taciturnitas è l’attitudine a custodire il 

silenzio; essa non esclude in modo assoluto che le parole cattive; ma rimane l’impressione di un’attenzione 

prevalentemente negativa: RB indica quel che non si deve fare, ma non dà in modo esplicito indicazioni positive 

sul buon uso delle parole; sembra cioè più preoccupata di limitare al massimo l’uso della parola, piuttosto che 

d’insegnare a parlare opportunamente. 

[3] Ergo, quamvis de bonis et sanctis et aedificationum eloquiis, perfectis discipulis propter 

taciturnitatis gravitatem rara loquendi concedatur licentia, [4] quia scriptum est: «In multiloquio non 

effugies peccatum» (Prov 10, 19) [5] et alibi: «Mors et vita in manibus linguae» (Prov 18, 21). [6] 

Nam loqui et docere magistrum condecet, tacere et audire discipulum convenit. 

Torna la metafora della scuola e della relazione maestro-discepolo: i monaci sono nel cenobio discepoli, ai quali 

rivolge la parola il Cristo attraverso l’abate e coloro che egli eventualmente delega a un determinato ufficio. Anche 

qui si rimane abbastanza delusi dall’assenza di motivazioni più profonde: sopra si è detto che non bisogna dire 

parole cattive propter poenam peccati, qui si dice che si deve tacere perché parlare è prerogativa del maestro. Tutto 

qui per giustificare il valore positivo del silenzio? Forse si può risolvere il dubbio osservando che nella tradizione è 

così profonda l’identificazione tra stato monastico e silenzio che non vi è alcun bisogno di insistere nel giustificare 

queste prescrizioni. Così come non perde tempo a ragionare sulla castità del monaco (non vi è alcun capitolo della 

RB dedicato a trattare questo tema!), RB non offre argomenti per fondare teologicamente il silenzio, perché è 

autoevidente agli occhi dell’autore che essere monaci significhi rinunciare il più possibile a far sentire la propria 

voce, ad obbedire al proprio ventre, a compiacere i propri desideri, cioè ad alimentare il proprio io alienandolo 

dalla comunione con Dio e con i fratelli. 

[7] Et ideo, si qua requirenda sunt a priore, cum omni humilitate et subiectione reverentiae 

requirantur. [8] Scurrilitates vero vel verba otiosa et risum moventia aeterna clausura in omnibus locis 

damnamus et ad talia eloquia discipulum aperire os non permittimus. 

Come nel caso di comandi la cui esecuzione egli reputa impossibile (RB 68), così nel caso in cui debba rivolgersi 

al superiore per una richiesta, il monaco deve mantenere un atteggiamento di rispettosa umiltà. La relazione tra 

pratica del silenzio e relazioni gerarchiche non ci è immediatamente chiara: essa rientra nella logica secondo la 

quale il silenzio del monaco è espressione della rinuncia ad affermare se stesso, è dunque un’espressione 

dell’umiltà, dell’abnegare semetipsum sibi. 

Si noti la severa condanna delle parole inutili e scurrili; cf. Mt 12, 36 (RB 4, 53), Lc 6, 25 ed Ef 4, 29; 5, 4. Un’eco, 

forse, della tradizionale stima riservata nella cultura romana per la gravitas. 

Caput XLII 

Ut post Completorium nemo loquatur 

[1] Omni tempore silentium debent studere monachi, maxime tamen nocturnis horis. [2] Et ideo omni 

tempore, sive ieiunii sive prandii: [3] si tempus fuerit prandii, mox surrexerint a cena, sedeant omnes 

in unum et legat unus Collationes vel Vitas Patrum aut certe aliud quod aedificet audientes, [4] non 

autem Heptateuchum aut Regum, quia infirmis intellectibus non erit utile illa hora hanc scripturam 

audire, aliis vero horis legantur. 

Nonostante il titolo, la norma sul silenzio notturno occupa solo una piccola parte di questo capitolo, che prescrive il 

modo di organizzare l’ultima parte della giornata monastica e va letto in stretto collegamento con RB 22, che tratta 

del dormitorio e del riposo dei monaci. RM tratta con maggiore ampiezza gli stessi temi ai capp. 29-30. 

L’esordio è interessante: viene enunciato un principio generale, e subito dopo una applicazione circoscritta di 

questo principio; la stessa procedura si riscontra, p.e., anche nel capitolo 49 sulla quaresima. Nei giorni di digiuno 

si prende un solo pasto a nona, mentre negli altri giorni si prende un pasto a sesta e la cena a sera, dopo il vespro. 

Al termine della cena o qualche tempo dopo il vespro, nei giorni di digiuno, i monaci si riuniscono per la lettura 

comune (non è precisato il luogo), alla quale seguirà l’ufficio di compieta, verosimilmente nell’oratorio. 

31

Le Collationes di Cassiano verranno citate di nuovo in RB 73, 5 insieme alle Institutiones coenobiorum dello 

stesso autore, talmente noto da non richiedere di essere menzionato per nome (a meno che questi titoli non debbano 

essere intesi come generi letterari). Il titolo di Vitae patrum, anch’esse nuovamente menzionate in RB 73, 5, si 

riferisce probabilmente alla Historia monachorum in Aegypto, tradotta in latino da Rufino; ma non è escluso che si 

tratti di un titolo generale per indicare altre opere del medesimo tipo. L’essenziale è che si tratti della lettura di 

un’opera dal contenuto edificante. Interessante la riserva sui libri dell’eptateuco e dei Re (Gn, Es, Lv, Nm, Dt, Gs, 

Gd, 1-2 Sam, 1-2 Re): si tratta di scritti dal contenuto spesso violento, scabroso o scarsamente comprensibile, 

dunque pericolosi per il turbamento e le fantasie che possono scatenare, all’inizio della notte, in menti affaticate o 

deboli per età, ignoranza o malattia, che potrebbero perciò essere visitate da sogni peccaminosi durante le ore del 

riposo. Sullo sfondo si intravede una preoccupazione di salvaguardia della castità dei monaci, evitando le 

polluzioni notturne causate da sogni erotici. 

[5] Si autem ieiunii dies fuerit, dicta vespera parvo intervallo mox accedant ad lectionem 

Collationum, ut diximus. [6] Et lectis quattuor aut quinque foliis vel quantum hora permittit, [7] 

omnibus in unum occurrentibus per hanc moram lectionis, si qui forte in assignato sibi commisso fuit 

occupatus, [8] omnes ergo in unum positi compleant et, exeuntes a completoriis, nulla sit licentia 

denuo cuiquam loqui aliquid. 

Viene indicata anche la misura della lettura, sia pure in termini molto approssimativi: una decina di pagine di testo, 

in rapporto con la situazione concreta (teniamo conto che la durata delle ore all’epoca della RB varia sensibilmente 

da estate a inverno). La lettura sembra motivata più che da esigenze di formazione spirituale da una necessità 

pratica: intrattenere i monaci in modo non ozioso mentre i settimanari di cucina e chi ha qualche adempimento da 

terminare concludono i loro compiti, in modo che tutti si ritrovino insieme per l’ultima preghiera del giorno. 

L’organizzazione della giornata monastica, senza essere ossessiva e inumana, mostra tuttavia la forte 

preoccupazione di non lasciare al singolo a disposizione troppo tempo libero da impegni. 

Quando sono tutti riuniti, i monaci celebrano la compieta, al termine del quale inizia il grande silenzio notturno. 

Questo silenzio è probabilmente motivato anche da una preoccupazione etica: evitare che i monaci si appartino 

durante le ore notturne e abbiano incontri sessuali con la scusa di parlare tra di loro o con qualche ospite. 

[9] Quod si inventus fuerit quisquam praevaricare hanc taciturnitatis regulam, gravi vindictae 

subiaceat - [10] excepto si necessitas hospitum supervenerit aut forte abbas alicui aliquid iusserit, [11] 

quod tamen et ipsud cum summa gravitate et moderatione honestissima fiat. 

Venir meno al silenzio notturno è una violazione grave, anche se si danno situazioni in cui è concessa 

un’eccezione: la necessità di occuparsi degli ospiti o di obbedire a una richiesta dell’abate; anche in questo caso 

RB si preoccupa di precisare il modo in cui ci si deve comportare: con la massima riservatezza e discrezione. 

d) L’umiltà 

Caput VII 

De humilitate 

[1] Clamat nobis scriptura divina, fratres, dicens: Omnis qui se exaltat «humiliabitur et qui se humiliat 

exaltabitur» (Lc 14, 11; 18, 14; Mt 23, 12). [2] Cum haec ergo dicit, ostendit nobis omnem 

exaltationem genus esse superbiae. [3] Quod se cavere propheta indicat dicens: «Domine, non est 

exaltatum cor meum neque elati sunt oculi mei, neque ambulavi in magnis neque in mirabilibus super 

me» (Sal 130, 1). [4] Sed quid «si non humiliter sentiebam, si exaltavi animam meam? - sicut 

ablactatum super matrem suam, ita retribues in animam meam» (Sal 130, 2). 

Questo capitolo è il più esteso della RB ed è quello nel quale si trova la trattazione più ampia della dottrina ascetica 

benedettina; posto al termine della parte dottrinale della RB, ne costituisce in qualche modo la sintesi e questo 

spiega il suo carattere sistematico (12 gradini sono un numero simbolico) e la sua ampiezza eccezionale rispetto 

agli altri capitoli. La fonte principale di questa trattazione in RM e RB è un discorso dell’abate Pinufio nelle 

Institutiones di Giovanni Cassiano (IV 39). Nel discorso riportato da Cassiano venivano, però, elencati 10 indizi 

dell’umiltà; qui essi sono trasformati nei gradini di una scala, il che suggerisce - artificiosamente - l’idea di un 

32

metodo da seguire. Il testo di RB riproduce in parte RM 10, del quale omette interamente il lungo finale 

escatologico con la descrizione del paradiso, quasi a voler contenere entro l’orizzonte visibile della comunità 

terrena lo spazio entro il quale si deve esercitare e dare i suoi frutti l’umiltà. Questo è anche l’ultimo capitolo nel 

quale RB si presenta come la trascrizione più o meno ad verbum di intere sezioni di RM; dal cap. 8 in avanti RM 

sarà utilizzata e parafrasata in modo più libero e sintetico. 

L’esordio ha movenze omiletiche, con il vocativo fratres: la Scrittura «grida» che solo gli umili saranno innalzati. 

Ogni forma di autoesaltazione è un atto di superbia e non sfugge alla pena. La citazione evangelica tratta da Lc 

costituisce il fondamento dell’intera trattazione ed è rafforzata dalla citazione salmica (propheta), che propone la 

medesima dottrina, questa volta non in forma di precetto, ma di esperienza personale. 

Il § 4 pone un problema di interpunzione: alcuni mss leggono sed quid? ecc.. altri leggono al modo in cui il testo è 

interpunto qui sopra. In entrambi i casi il senso resta il medesimo: prosegue la citazione del salmo, del quale si dà 

una lettura diversa da quella suggerita dalle versioni moderne (che ne fanno un’immagine di fiducioso abbandono 

in Dio, come quello di un bambino in braccio a sua madre); i due emistichi sono qui intesi come un periodo 

ipotetico: se mi esalto, Dio mi allontana da sé come quando una madre stacca dal proprio seno il figlio per 

svezzarlo. 

[5] Unde, fratres, si summae humilitatis volumus culmen attingere et ad exaltationem illam caelestem 

ad quam per praesentis vitae humilitatem ascenditur volumus velociter pervenire, [6] actibus nostris 

ascendentibus scala illa erigenda est quae in somnio lacob apparuit, per quam ei descendentes et 

ascendentes angeli monstrabantur. [7] Non aliud sine dubio descensus ille et ascensus a nobis 

intellegitur nisi exaltatione descendere et humilitate ascendere. [8] Scala vero ipsa erecta nostra est 

vita in saeculo, quae humiliato corde a Domino erigatur ad caelum. [9] Latera enim eius scalae 

dicimus nostrum esse corpus et animam, in qua latera diversos gradus humilitatis vel disciplinae 

evocatio divina ascendendo inseruit. 

Esegesi allegorizzante di Gen 28, 12. L’immagine della scala come metafora del progresso spirituale si trova anche 

nella letteratura filosofica, dentro fuori il cristianesimo (cf. Phil. Alex. Somn. I 133; Nicom. Introd. arithm. I 1, 2- 

4, pp. 2, 5-3, 8; I 3, 1-2, pp. 5, 13-6, 6 Hoche; cf. I. Hadot, Arts libéraux, 63-69; Boeth. Cons. I 1, 4-5; Cass. Inst. I 

praef. 2) ed è più volte sfruttata nella letteratura monastica, cf. la Scala paradisi di Giovanni Climaco o Hier. Ep. 

98, 3 (che probabilmente ispira Benedetto). NB la formulazione ossimorica del § 5: summae humilitatis culmen... 

exaltationem ad quam per humilitatem ascenditur; e di nuovo il senso della rapidità e dell’urgenza: si volumus 

velociter pervenire. 

Mentre gli angeli della scala di Giacobbe sono generalmente interpretati come i mediatori che recano agli uomini i 

doni di Dio e gli riportano le preghiere e le suppliche degli uomini, qui al § 7 Benedetto legge negli angeli che 

salgono gli spiriti umili e in quelli che discendono gli spiriti superbi (forse avendo in mente la dottrina del peccato 

angelico delle origini). Il § 8 continua la lettura in chiave allegorica ed etica: la scala è la vita terrena, che se 

vissuta con umiltà, viene da Dio innalzata al cielo. Benedetto ha in mente una scala a pioli, come si deduce dal § 9: 

i lati della scala sono anima e corpo e i diversi gradi di virtù e di esercizio ascetico ne sono i pioli. L’immagine non 

va forzata, quasi che, secondo l’autore, i diversi gradini siano in una successione necessaria l’uno rispetto all’altro 

e non si possa ascendere a un livello senza aver prima attraversato il livello precedente. Si tratta di suggerire l’idea 

di un movimento progressivo e di una conquista che si realizza un po’ alla volta (e può anche subire arresti o 

regressi). 

[10] Primus itaque humilitatis gradus est si, timorem Dei sibi ante oculos semper ponens, oblivionem 

omnino fugiat [11] et semper sit memor omnia quae praecepit Deus, ut qualiter et contemnentes 

Deum gehenna de peccatis incendat et vita aeterna quae timentibus Deum praeparata est animo suo 

semper evolvat. [12] Et custodiens se omni hora a peccatis et vitiis, id est cogitationum, linguae, 

manuum, pedum vel voluntatis propriae sed et desideria carnis, [13] aestimet se homo de caelis a Deo 

semper respici omni hora et facta sua omni loco ab aspectu divinitatis videri et ab angelis omni hora 

renuntiari. 

Il primo gradino dell’umiltà: costante memoria della presenza e del giudizio di Dio. Il primo gradino ha una 

trattazione molto ampia (§§ 10-30). RB insiste sulla costante, continua presenza a se stesso del monaco, che si sa 

sottoposto incessantemente al giudizio di Dio e conserva memoria della pena riservata al peccato e del premio 

riservato a chi teme Dio e perciò evita ogni atto e pensiero malvagio. NB a § 13 la menzione degli angeli 

messaggeri, già evocati dalla citazione della scala di Giacobbe. 

33

[14] Demonstrans nobis hoc propheta, cum in cogitationibus nostris ita Deum semper praesentem 

ostendit dicens: «Scrutans corda et renes Deus» (Sal 7, 10); [15] et item: «Dominus novit cogitationes 

hominum»; [16] et item dicit: «Intellexisti cogitationes meas a longe» (Sal 138, 3); [17] et: «Quia 

cogitatio hominis confitebitur tibi» (Sal 75, 11). [18] Nam ut sollicitus sit circa cogitationes suas 

perversas, dicat semper utilis frater in corde suo: «Tunc ero immaculatus coram eo si observavero me 

ab iniquitate mea» (Sal 17, 24). 

Una serie di citazioni salmiche mostra che Dio conosce ogni pensiero umano, perciò il monaco che non vuole 

sprecare i propri talenti e desidera invece risultare utilis (cf. Sir 4, 34; Sal 13, 3; Mt 25, 30; Lc 17, 10) dovrà 

anzitutto evitare di abbandonarsi a pensieri malvagi, che non rimangono celati a Dio. 

[19] Voluntatem vero propriam ita facere prohibemur cum dicit scriptura nobis: «Et a voluntatibus 

tuis avertere» (Sir 18, 30). [20] Et item rogamus Deum in oratione ut fiat illius voluntas in nobis (Mt 

6, 10). [21] Docemur ergo merito nostram non facere voluntatem cum cavemus illud quod dicit sancta 

scriptura: «Sunt viae quae putantur ab hominibus rectae, quarum finis usque ad profundum inferni 

demergit» (Prov 16, 25; 14, 12), [22] et cum item pavemus illud quod de neglegentibus dictum est: 

«Corrupti sunt et abominabiles facti sunt in voluntatibus suis» (Sal 13, 1). 

Dalla messa in guardia contro i pensieri cattivi RB passa immediatamente alla messa in guardia contro il fare la 

propria volontà, che è sempre percepito in RB come un atto malvagio e contrario all’umiltà e all’obbedienza. 

[23] In desideriis vero carnis ita nobis Deum credamus semper esse praesentem cum dicit propheta 

Domino: «Ante te est omne desiderium meum» (Sal 37, 10). [24] Cavendum ergo ideo malum 

desiderium quia mors secus introitum delectationis posita est. [25] Unde scriptura praecepit dicens: 

«Post concupiscentias tuas non eas» (Sir 18, 30). 

Dalla volontà propria si passa ai desideri cattivi: dal momento che Dio conosce ogni nostro desiderio, dobbiamo 

allontanare da noi i desideri malvagi. 

[26] Ergo «si oculi Domini speculantur bonos et malos» (Prov 15, 3) [27] «et Dominus de caelo 

semper respicit super filios hominum, ut videat si est intellegens aut requirens Deum» (Sal 13, 2), 

[28] et si ab angelis nobis deputatis cotidie die noctuque Domino factorum nostrorum opera 

nuntiantur, [29] cavendum est ergo omni hora, fratres, sicut dicit in psalmo propheta, ne nos 

«declinantes in malo et inutiles factos» aliqua hora aspiciat Deus [30] et, parcendo nobis in hoc 

tempore quia pius est et exspectat nos converti in melius, ne dicat nobis in futuro: «Haec fecisti et 

tacui» (Sal 49, 21). 

Riepilogo: Dio vede sempre ciò che fanno gli uomini e gli angeli lo informano delle loro azioni. Occorre pertanto 

guardarsi in ogni momento dal male; mentre ora Dio sopporta pazientemente il malvagio, in attesa che si converta, 

nel giudizio futuro lo metterà davanti alle conseguenze della sua malvagità. NB il senso, che può essere 

angosciante, dello sguardo di Dio e degli angeli, al quale nulla sfugge di quel che si fa e si pensa; ne discende un 

atteggiamento vigilante e la tensione a una continua presenza a se stessi, per evitare le conseguenze future delle 

proprie azioni malvagie. Molti temi trattati qui erano già stati annunciati in RB 4, 44-45. 47. 48-49. 50. 59. 

[31] Secundus humilitatis gradus est si propriam quis non amans voluntatem desideria sua non 

delectetur implere, [32] sed vocem illam Domini factis imitetur dicentis: «Non veni facere voluntatem 

meam, sed eius qui me misit» (Gv 6, 38). [33] Item dicit scriptura: Voluntas habet poenam et 

necessitas parit coronam. 

Secondo scalino: non fare la propria volontà. È una precisazione di quanto già indicato al gradino precedente, con 

in più la ripresa in positivo della scelta di compiere la volontà del Padre, formulata con lo stesso verso posto a 

fondamento della trattazione dedicata all’obbedienza (RB 5, 13). Interessante il § 33: cita come se fosse 

scritturistico un passo che viene dalla Passio Anastasiae: il detto aveva evidentemente una circolazione proverbiale 

e Benedetto pensa che sia biblico. 

34

[34] Tertius humilitatis gradus est ut quis pro Dei amore omni oboedientia se subdat maiori, imitans 

Dominum, de quo dicit apostolus: «Factus oboediens usque ad mortem» (Fil 2, 8). 

Terzo scalino: dall’obbedienza a Dio a quella prestata ai superiori. Inizia la trattazione di atteggiamenti pertinenti 

in modo proprio la vita monastica. Interessante la motivazione teologica di questa obbedienza verso il superiore 

umano: essa è prestata pro Dei amore e nell’imitazione del Cristo crocifisso. Si può osservare che, se vi è in RB 

una mitigazione, più o meno riluttante, dell’ascesi fisica, rimane fortissima la richiesta di un vero martirio 

psicologico, quale è la rinuncia sistematica a una condotta centrata su di sé, sui propri pensieri e desideri. 

[35] Quartus humilitatis gradus est si, in ipsa oboedientia duris et contrariis rebus vel etiam 

quibuslibet irrogatis iniuriis, tacite conscientia patientiam amplectatur [36] et sustinens non lassescat 

vel discedat, dicente scriptura: «Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit» (Mt 10, 22) [37] 

item: «Confortetur cor tuum et sustine Dominum» (Sal 26, 14). [38] Et ostendens fidelem pro 

Domino universa etiam contraria sustinere debere, dicit ex persona sufferentium: «Propter te morte 

afficimur tota die, aestimati sumus ut oves occisionis» (Sal 43, 22) [39] Et securi de spe retributionis 

divinae subsequuntur gaudentes et dicentes: «Sed in his omnibus superamus propter eum qui dilexit 

nos» (Rm 8, 37) [40] Et item alio loco scriptura: «Probasti nos, Deus, igne nos examinasti sicut igne 

examinatur argentum; induxisti nos in laqueum; posuisti tribulationes in dorso nostro» [41] Et ut 

ostendat sub priore debere nos esse, subsequitur dicens: «Imposuisti homines super capita nostra» 

(Sal 65, 10-11). [42] Sed et praeceptum Domini in adversis et iniuriis per patientiam adimplentes, qui 

percussi in maxillam praebent et aliam, auferenti tunicam dimittunt et pallium, angariati miliario 

vadunt duo (Mt 5, 39 ss; Lc 6, 29), [43] cum Paulo Apostolo falsos fratres sustinent et persecutionem 

sustinent et maledicentes se benedicent (2 Cor 11, 26; 1 Cor 4, 12). 

Quarto scalino: esercizio della pazienza. In termini analoghi a quelli che si trovano nel capitolo sull’obbedienza 

nelle cose ritenute impossibili, anche qui RB indica la necessità di perseverare in un atteggiamento accogliente e di 

consapevole accettazione anche quando le relazioni con le persone e le circostanze sono particolarmente moleste o 

dolorose (patientiam può essere “pazienza”, ma anche “patimento”). La richiesta è motivata teologicamente: pro 

Domino... ed è fondata nella speranza della retribuzione futura. Al § 41 piega la lettura di Sal 65, 11 a motivare 

ancora una volta la necesità dell’obbedienza: Dio stesso ha voluto che ci fossero uomini al di sopra di noi; come 

dire che la struttura gerarchica dei rapporti sociali è una realtà che per l’autore della RB è espressione diretta della 

volontà di Dio. 

[44] Quintus humilitatis gradus est si omnes cogitationes malas cordi suo advenientes vel mala a se 

absconse commissa per humilem confessionem abbatem non celaverit suum. [45] Hortans nos de hac 

re scriptura dicens: «Revela ad Dominum viam tuam et spera in eum» (Sal 36, 5). [46] Et item dicit: 

«Confitemini Domino quoniam bonus, quoniam in saeculum misericordia eius» (Sal 105, 1) [47] Et 

item propheta: «Delictum meum cognitum tibi feci et iniustitias meas non operui. [48] Dixi: 

Pronuntiabo adversum me iniustitias meas Domino, et tu remisisti impietatem cordis mei» (Sal 31, 5). 

Quinto gradino: apertura di cuore al padre spirituale. Cf. RB 4, 50; 46, 5. Non si tratta qui della pratica della 

penitenza canonica, ma di quella che con termine moderno si potrebbe definire “direzione spirituale”. NB al § 46 il 

verbo confitemini è interpretato nel senso di “confessare” e non in quello biblico di “celebrare”. 

[49] Sextus humilitatis gradus est si omni vilitate vel extremitate contentus sit monachus, et ad omnia 

quae sibi iniunguntur velut operarium malum se iudicet et indignum (Lc 17, 10), [50] dicens sibi cum 

propheta: «Ad nihilum redactus sum et nescivi, ut iumentum factus sum apud te et ego semper 

tecum» (Sal 72, 22-23). 

Sesto gradino: accontentarsi della condizione più vile. Un’articolazione della rinuncia alla propria volontà: il 

monaco rinuncia ad avanzare per sé pretese di qualsiasi genere, si accontenta di quel che gli viene offerto e 

accoglie qualunque incombenza gli venga affidata con la consapevolezza della propria nullità, ponendo il 

fondamento della propria fiducia non in se stesso, ma nel fatto di essere insieme a Dio. 

35

[51] Septimus humilitatis gradus est si omnibus se inferiorem et viliorem non solum sua lingua 

pronuntiet, sed etiam intimo cordis credat affectu, [52] humilians se et dicens cum propheta: «Ego 

autem sum uermis et non homo, opprobrium hominum et abiectio plebis» (Sal 21, 7). [53] «Exaltatus 

sum et humiliatus et confusus» (Sal 87, 16) [54] Et item: «Bonum mihi quod humiliasti me, ut discam 

mandata tua» (Sal 118, 71). 

Settimo gradino: reputarsi inferiore agli altri. Qui non si tratta solo di accontentarsi di quel che la situazione di fatto 

o gli altri offrono al monaco, ma di dichiarare e pensare con convinzione di non valere affatto nulla più degli altri. 

[55] Octavus humilitatis gradus est si nihil agat monachus, nisi quod communis monasterii regula vel 

maiorum cohortantur exempla. 

Ottavo gradino: non fare nulla per distinguersi. Dopo aver esposto passaggi che riguardano soprattutto 

l’atteggiamento interiore del monaco, la scala dell’umiltà tratta ora di comportamenti concreti che risultano da quei 

passaggi. È interessante la pedagogia: non muove da determinati comportamenti all’acquisizione di determinati 

atteggiamenti, ma insiste prima sugli atteggiamenti e poi sulle condotte che di essi devono diventare l’espressione. 

L’inversione, che non è felice dal punto di vista di una prassi formativa concreta, esprime probabilmente la 

preoccupazione di evitare conformismo e ipocrisia nella condotta dei monaci. L’adeguazione in tutto al modello 

offerto dalla tradizione è ancora una volta finalizzata ad estirpare il narcisismo e l’inclinazione 

all’autoaffermazione; il rischio è quello dell’appiattimento e della spersonalizzazione. Per questo tale condotta non 

è suggerita che adesso? 

[56] Nonus humilitatis gradus est si linguam ad loquendum prohibeat monachus et, taciturnitatem 

habens, usque ad interrogationem non loquatur, [57] monstrante scriptura quia «in multiloquio non 

effugitur peccatum» (Prov 10, 19) [58] et quia «vir linguosus non dirigitur super terram» (Sal 139, 

12). 

Nono gradino: custodia del silenzio. Riprende un testo già citato a RB 6, 4 (cf. anche 4, 52). Il monaco non parla 

fino a che non vi sia una buona ragione per farlo, il che significa, di solito, fino a che qualcuno non gli rivolga una 

domanda. Anche i due successivi gradini concernono il controllo della lingua e propongono temi che compaiono 

anche altrove in RB: il rifiuto delle risate futili e sgangherate (RB 4, 53-54; 6, 8), l’invito a usare parole moderate, 

ponderate e misurate. 

[59] Decimus humilitatis gradus est si non sit facilis ac promptus in risu, quia scriptum est: «Stultus 

in risu exaltat vocem suam» (Sir 21, 23). 

[60] Undecimus humilitatis gradus est si, cum loquitur monachus, leniter et sine risu, humiliter cum 

gravitate vel pauca verba et rationabilia loquatur, et non sit clamosus in voce, [61] sicut scriptum est: 

Sapiens verbis innotescit paucis. 

Anche qui il § 61 cita come se fosse scritturistico un detto che viene invece da una raccolta di sentenze pitagoriche, 

le Sentenze di Sesto (145); anche se vi sono alcuni passi biblici affini, p.e. Sir 10, 14. 

[62] Duodecimus humilitatis gradus est si non solum corde monachus sed etiam ipso corpore 

humilitatem videntibus se semper indicet, [63] id est in opere Dei, in oratorio, in monasterio, in horto, 

in via, in agro vel ubicumque sedens, ambulans vel stans, inclinato sit semper capite, defixis in terram 

aspectibus, [64] reum se omni hora de peccatis suis aestimans iam se tremendo iudicio repraesentari 

aestimet, [65] dicens sibi in corde semper illud quod publicanus ille evangelicus fixis in terram oculis 

dixit: «Domine, non sum dignus», ego peccator, «levare oculos» meos «ad caelos» (Lc 18, 13) [66] Et 

item cum Propheta: «Incurvatus sum et humiliatus sum usquequaque» (Sal 37, 9). 

Dodicesimo gradino: manifestare sempre un atteggiamento umile. Quello che sembra il meno significativo e il 

meno affidabile degli indizi di una vera umiltà arriva al termine del percorso sviluppato in questo capitolo: occhi 

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assi, capo chino, espressioni di autodenigrazione possono essere insopportabili e insulse se sono pura messa in 

scena, frutto di affettazione. Occorre che esse siano la traduzione veritiera di una percezione di sé maturata e 

assimilata dal singolo, espressione della sua verità personale e non assunzione di una abito appreso dall’esterno. 

Non è affatto scontato che, con tutta la fatica che deve fare per dominarsi, il monaco arrivi a maturare davvero di se 

stesso l’idea ch’egli non sia che un pubblico peccatore. 

[67] Ergo, his omnibus humilitatis gradibus ascensis, monachus mox ad caritatem Dei perveniet illam 

quae «perfecta foris mittit timorem» (1 Gv 4, 18), [68] per quam universa quae prius non sine 

formidine observabat absque ullo labore velut naturaliter ex consuetudine incipiet custodire, [69] non 

iam timore gehennae, sed amore Christi et consuetudine ipsa bona et delectatione virtutum. [70] Quae 

Dominus iam in operarium suum mundum a vitiis et peccatis Spiritu Sancto dignabitur demonstrare. 

Interessante osservare che, mentre l’inizio era centrato sul timore di Dio e della pena del peccato, la conclusione 

dell’itinerario è positiva: l’amore. La condotta del monaco non cambia nei suoi contenuti, ma quello che prima 

richiedava una laboriosa fatica ed era motivato dal timore dell’inferno, ora è fatto quasi per natura, persino con 

piacere. È esattamente la stessa prospettiva con la quale si conclude il prologo (cf. anche qui come nel prol. la 

menzione dell’operaio). 

Si può osservare con un certo disagio che in questo capitolo l’amore affiora in modo esplicito solo al termine del 

percorso ed ha un ruolo marginale nel corso del suo svolgimento (compare solo al § 34); del tutto assente, poi, è la 

menzione dell’amore del prossimo; mentre il timore dello sguardo e del giudizio di Dio domina dal primo al 

dodicesimo scalino. Colpisce anche il fatto che solo alla fine di questo itinerario si faccia menzione dell’azione 

santificante dello Spirito, che sembra essere più l’esito che la condizione di un cammino di crescita spirituale del 

monaco. Questi limiti, che sono reali, vengono ridimensionati se si tiene presente l’intento prevalentemente pratico 

e orientativo della RB, che non si presenta come un testo autosufficiente e completo, e il peso che in essa hanno 

anche elementi quantitativamente minori, che sono però spesso la spia delle preoccupazioni e della sensibilità 

partire dalle quali Benedetto utilizzava le proprie fonti. 

Si osservi, per esempio, come l’assimilazione dell’umiltà al mistero di Cristo sia fatta in modo del tutto implicito 

attraverso la menzione di Gv 6, 38 e di Fil 2, 8. Si tratta, però, di un aspetto importante della dottrina dell’umiltà 

sviluppata da RM e RB, perché la stacca dall’ambito solo etico e ne fa un’espressione dell’assimilazione del fedele 

al Cristo attraverso la quale si compie la salvezza. Solo se si tiene ben presente questo elemento la pratica 

dell’umiltà nei termini qui suggerita può avere gli effetti positivi promessi (esaltazione dell’umile, gioia 

dell’amore) e non tramutarsi nel sistematico avvilimento e nella depressione della personalità umana e dei suoi 

slanci. 

1.2. Preghiera e liturgia 

a) L’atteggiamento fondamentale nella preghiera 

Caput XIX 

De disciplina psallendi 

[1] Ubique credimus divinam esse praesentiam et «oculos Domini in omni loco speculari bonos et 

malos» (Prov 15, 3), [2] maxime tamen hoc sine aliqua dubitatione credamus cum ad opus divinum 

assistimus. [3] Ideo semper memores simus quod ait propheta: «Servite Domino in timore» (Sal 2, 

11), [4] et iterum: «Psallite sapienter» (Sal 46, 8) [5] et: «In conspectu angelorum psallam tibi» (Sal 

137, 1). [6] Ergo consideremus qualiter oporteat in conspectu divinitatis et angelorum eius esse, [7] et 

sic stemus ad psallendum ut mens nostra concordet voci nostrae. 

RB 8-20 contiene l’ordo per la celebrazione della liturgia monastica. In modo per noi sorprendente, questa parte 

fondamentale della vita monastica non è oggetto di una trattazione dottrinale; RB inizia in modo molto secco a 

parlarne dando. dal cap. 8 in poi, indicazioni sulla distribuzione dei salmi nelle diverse ore e sul modo di celebrare 

l’ufficio divino. Solo ai capp. 16 e 19-20 vengono svolte alcune brevi considerazioni, non sul senso della preghiera 

in quanto tale, ma sul preteso fondamento biblico dell’ordinamento orario proposto e sull’atteggiamento spirituale 

con il quale la preghiera va celebrata. Ancora una volta, appare in tutta evidenza la non autosufficienza e la non 

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esaustività del testo della regola, che non si propone di fondare una spiritualità e una teologia della vita monastica, 

che l’autore dà in qualche modo per presupposta. Due questioni alle quali RB non dà (deliberatamente?) una 

risposta, quanto meno non dà una risposta esplicita, riguardano il senso di una distribuzione oraria della preghiera e 

le ragioni di una celebrazione comune della preghiera. Perché, cioè, si prega in determinate ore e perché questa 

preghiera viene fatta tutti insieme? 

Sono possibili per entrambi i problemi due risposte di massima, entrambe largamente attestate nella tradizione 

cristiana: l’ideale è quello di una preghiera incessante e la moltiplicazione nel corso della giornata di momenti 

esplicitamente dedicati alla preghiera serve ad avviare a una pratica continua dell’orazione; oppure si può pensare 

che vi sia una condizione di comunione profonda con Dio che accompagna le attività profane trasformandole in 

preghiera e che solo in alcuni momenti si affaccia in modo esplicito nella celebrazione della liturgia, come attività 

libera e gratuita che interrompe il flusso delle occupazioni mondane. 

Per quanto riguarda la dimensione comunitaria di questa preghiera, si può assumerla come una semplice pedagogia 

che avvia e sostiene il cammino della preghiera personale, l’unione del solo al Solo; oppure si può pensare che la 

dimensione comunitaria sia una aspetto necessario e irrinunciabile della preghiera, senza il quale smette di essere 

possibile anche la preghiera personale. 

Il § 1 di RB 19 riecheggia Cipr. De orat. dom. 4; il passo di Prov è già stato citato anche in RB 7, 26. Come già nei 

capitoli sulla quaresima (RB 49) e sul silenzio notturno (RB 42), anche qui viene enunciato un principio generale 

che poi viene circoscritto a una situazione determinata: Dio è presente ovunque e quindi sempre e comunque 

bisognerebbe essere compenetrati dal senso della sua presenza e agire come se si fosse dinanzi a lui; ma questo 

atteggiamento è raccomandato in modo particolare nella celebrazione della liturgia (opus divinum). Il sapienter che 

è raccomandato agli oranti significa presenza a se stessi, consapevolezza di quello che si fa, di chi si è e di chi è 

colui in presenza del quale ci si trova. Non basta che i testi della liturgia vengano pronunciati, occore che la mens 

sia in consonanza con essi, non sia distratta. 

La tradizione monastica più antica tende ad una applicazione letterale del monito biblico di pregare senza 

interruzione (1 Ts 5, 17; Rm 12, 12; Ef 6, 18; Fil 4, 6; Col 4, 2; Lc 18, 1; 21, 36), quindi non fa distinzioni forti tra 

preghiera liturgica, preghiera privata, lavoro manuale e tempo dedicato ai pasti e dilata, invece, su tutte queste 

attività la pratica dell’ascolto o della recitazione di testi biblici, intervallati da frequenti prostrazioni di preghiera 

silenziosa. RM e RB (che non citano in alcun luogo l’invito alla preghiera continua) mostrano, invece, la tendenza 

a separare più nettamente il tempo della preghiera da quello del lavoro, accentuando gli elementi che disciplinano e 

sacralizzano il tempo e i luoghi dedicati alla celebrazione della liturgia. Una spia lessicale si può cogliere nello 

spostamento del significato dell’espressione opus Dei: essa indica in RM e RB solo l’ufficiatura liturgica, dalla 

quale, come si vedrà in RB 52, è escluso il lavoro manuale. Di questa più accentuata distinzione tra l’ambito 

profano del lavoro e l’ambito sacro della liturgia può essere spia anche il fatto che l’ordinamento della liturgia 

giornaliera è presentato tutto in blocco separatamente dalla regolamentazione degli altri aspetti della giornata 

monastica. 

L’opus Dei inteso come celebrazione della liturgia verrà progressivamente percepito come un’attività accanto ad 

altre, come la più importante fra le attività della giornata monastica (cf. il monito di RB 43, 3: nihil operi Dei 

praeponatur), fino a diventare più tardi — nel monachesimo cluniacense, per esempio — in un certo senso il 

lavoro stesso del monaco. Si perderà in tal modo l’idea che la preghiera non sia un’attività da svolgere in un 

determinato quantitativo nel corso della giornata, ma una condizione che dovrebbe abbracciare l’intera esistenza. 

Caput XX 

De reverentia orationis 

[1] Si, cum hominibus potentibus volumus aliqua suggerere, non praesumimus nisi cum humilitate et 

reverentia, [2] quanto magis Domino Deo universorum cum omni humilitate et puritatis devotione 

supplicandum est. [3] Et non in multiloquio (Mt 6, 7), sed in puritate cordis et compunctione 

lacrimarum nos exaudiri sciamus. [4] Et ideo brevis debet esse et pura oratio, nisi forte ex affectu 

inspirationis divinae gratiae protendatur. [5] In conventu tamen omnino brevietur oratio, et facto 

signo a priore omnes pariter surgant. 

Questo capitolo e il precedente pongono un problema: in essi si tratta di due argomenti separati. dell’ufficio 

liturgico in RB 19 e della preghiera privata extraliturgica in RB 20, o si tratta di due momenti complementari della 

celebrazione dell’opus Dei, cioè salmodia recitata/cantata e preghiera personale? 

Cassiano descrive (Inst. II 7) l’uso egiziano dell’orazione salmica, la preghiera silenziosa al termine della recita di 

un salmo; tale pratica è attestata anche da RM 14, 1; 20. Si può perciò ragionevolmente supporre che RB 19-20 

formino una unità, nella quale si descrivono i due momenti fondamentali della celebrazione dell’opus Dei: 

salmodia e preghiera personale ispirata dal salmo. Tale preghiera personale silenziosa si faceva in ginocchio o 

prostrati (cf. il surgant e RB 50, 3); secondo RB, essa non si deve protrarre troppo a lungo, perlomeno non nella 

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ecita comunitaria dell’ufficio. Quindi l’opus Dei non era un seguito ininterrotto di testi recitati a voce alta, ma 

includeva sospensioni silenziose, sulle quali appunta la propria attenzione il cap. 20. In altre parole, non si applica 

a RB, né a RM, il concetto moderno di una distinzione tra preghiera comune, fatta recitando ad alta voce dei testi 

stabiliti, e preghiera privata, lasciata alla libera iniziativa e all’ispirazione dei singoli; l’unica forma di preghiera 

conosciuta da RM e RB è l’opus Dei, al cui interno si alternano recitazione di testi e preghiera personale silenziosa. 

Il § 3 propone il modo della preghiera in termini analoghi a quelli che si sono prescritti nella relazione tra monaco 

e superiore: poche parole ben ponderate e presentate con umiltà e rispetto. Sulla compunzione e le lacrime cf. RB 

4, 57; 7, 62 ss; 52, 4. 

È interessante anche osservare il modo in cui nei due capitoli viene descritto l’atteggiamento dell’orante: nel cap. 

19 si chiede uno sforzo di attenzione: presenza a se stessi e al testo che si sta recitando; nel cap. 20 si chiede 

un’intensa partecipazione affettiva alla preghiera: cum omni humilitate et puritatis devotione supplicandum est ... 

in puritate cordis et compunctione lacrimarum. Il massimo dell’intensità della preghiera si ha in questa 

sospensione silenziosa (anche la posizione corporea diversa suggerisce questa intensificazione), rispetto alla quale 

la recitazione salmica sembra avere una funzione preparatoria. La dossologia che chiude la recita di ogni salmo e 

che RB prescrive di recitare inchinandosi serve così a introdurre il momento propriamente orante dell’opus Dei. 

Per avvalorare questa tesi, de Vogüe osserva che, a ben vedere, i testi recitati durante l’ufficio non possono essere 

qualificati come preghiere, per lo meno non tutti: vi sono istruzioni sapienziali, esortazioni alla lode, meditazioni 

che spesso non si rivolgono direttamente a Dio, ma a destinatari umani. Lo stesso vale anche per gli altri elementi 

dell’ufficio, inni, antifone, responsori... Inoltre, la disposizione dei salmi nell’ufficio settimanale in RB, ma non 

solo, non segue un criterio di contenuto o di genere, ma quasi solo l’ordine di successione nel salterio, generando 

una notevole confusione, se si volesse ammetter che la preghiera consistesse propriamente nella recita di questi 

testi. La salmodia appare così, in continuità con la lectio degli altri libri della Scrittura, soprattutto come l’offerta di 

stimoli e di occasioni alla preghiera personale, che avviene subito dopo la recita del salmo e questo spiega perché 

anche il salterio, come il resto della Scrittura, venga sottoposto ad una lettura cursoria durante l’ufficio: prima si 

ascolta la parola di Dio, poi si risponde ad essa con la preghiera. 

Nel monachesimo egiziano la salmodia comunitaria prevedeva che i salmi venissero recitati da un solista e 

ascoltati dalla comunità, e i salmi più lunghi venivano suddivisi in sezioni: questi elementi mostrano che la 

salmodia era strutturata secondo modalità del tutto simili all’ascolto degli altri testi biblici; la preghiera subentrava 

come atto successivo a questo ascolto della parola biblica. Il diffondersi, fino a diventare esclusivo, dal VI sec. in 

poi dell’uso di recitare i salmi a cori alterni è il segno che essi non vengono più percepiti come parola di Dio 

rivolta all’uomo (NB che in RB l’autore dei salmi è ancora sistematicamente identificato come propheta), ma come 

parola rivolta dalla comunità orante a Dio e identificati essi stessi con la preghiera. 

b) L’ordinamento della liturgia 

Caput XVI 

Qualiter divina Opera per diem agantur 

[1] Ut ait propheta: «septies in die laudem dixi tibi» (Sal 118, 164) [2] Qui septenarius sacratus 

numerus a nobis sic implebitur, si matutino, primae, tertiae, sextae, nonae, vesperae completoriique 

tempore nostrae servitutis officia persolvamus, [3] quia de his diurnis horis dixit: «Septies in die 

laudem dixi tibi». [4] Nam de nocturnis vigiliis idem ipse propheta ait: «Media nocte surgebam ad 

confitendum tibi» (Sal 118, 62). 

[5] Ergo his temporibus referamus laudes Creatori nostro «super iudicia iustitiae suae», id est 

matutinis, prima, tertia, sexta, nona, vespera, completorios, et nocte surgamus ad confitendum ei. 

RB mette in relazione la scansione oraria dell’ufficio liturgico con due testi della Scrittura, mentre in RM 34, 1-3 

l’ordinamento liturgico monastico viene, più realisticamente, fatto dipendere dalla tradizione dei padri. 

L’organizzazione dei tempi della preghiera — i cui momenti forti sono la preghiera della lodi, al sorgere del sole, e 

quella del vespro, al tramonto — ha relazione con le consuetudini della preghiera quotidiana giudaica (a sua volta 

in rapporto con la liturgia del tempio), ma non ha un’esplicita regolamentazione nel NT, dove si legge solo un 

invito generico a pregare incessantemente (1 Ts 5, 17; Rm 12, 12; Ef 6, 18; Fil 4, 6; Col 4, 2; Lc 18, 1; 21, 36). La 

tradizione successiva ha poi voluto assegnare a ciascuna ora un significato particolare, legato a personaggi o 

avvenimenti della Bibbia (pentecoste a terza, crocifissione a sesta, discesa agli inferi a nona ecc...). 

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Caput VIII 

De Officiis divinis in noctibus 

[1] Hiemis tempore, id est a kalendas Novembres usque in Pascha, iuxta considerationem rationis, 

octava hora noctis surgendum est, [2] ut modice amplius de media nocte pausetur et iam digesti 

surgant. [3] Quod vero restat post vigilias a fratribus qui psalterii vel lectionum aliquid indigent 

meditationi inserviatur. [4] A Pascha autem usque ad supradictas Novembres, sic temperetur hora ut 

vigiliarum agenda parvissimo intervallo, quo fratres ad necessaria naturae exeant, mox matutini, qui 

incipiente luce agendi sunt, subsequantur. 

Ai capp. 8-20 di RB corrispondono i capp. 33-43 di RM, come al solito assai più ampi. Questo corpo di articoli, 

posto all’inizio della parte organizzativa della RB attesta l’importanza attribuita dall’autore alla celebrazione 

dell’ufficio, nell’ordinare la quale si ispira soprattutto, ma non solo, a RM e alla liturgia romana contemporanea (cf 

RB 13, 10). Per capire il senso delle indicazioni cronologiche date da RB si deve tenere conto ch’essa è stata 

composta in Italia centrale. L’anno è diviso in due periodi: inverno, dal 1 novembre a pasqua, ed estate, da pasqua 

alla fine di ottobre. Secondo l’uso romano, il giorno e la notte sono suddivisi in 12 ore ciascuno, che hanno perciò 

durata diseguale a seconda delle stagioni, e solo negli equinozi durano esattamente 60 minuti. In Italia centrale le 

ore della notte si allungano durante l’autunno, sino ad arrivare a una durata massima di circa 75 minuti al solstizio 

d’inverno (a ridosso di Natale); accade l’opposto dall’equinozio di primavera, quando le ore notturne tendono ad 

accorciarsi fino ad arrivare ad una durata minima di circa 45 minuti all’epoca del solstizio d’estate. Questo 

significa che il riposo notturno era più lungo durante l’inverno e più breve durante l’estate (perciò durante l’estate 

viene accordata una pausa di riposo dopo l’ora sesta e il pranzo: RB 48, 5). 

Assumendo che in novembre la notte inizi verso le 18, col tramonto del sole, l’ottava ora di notte (compiuta) 

corrisponderà più o meno alle 2.00. Si tenga presente che secondo RB 41, 9 vespro e cena dovevano aver luogo 

ancora con la luce del giorno, quindi i monaci andavano a dormire entro la prima ora della notte. Se si alzavano 

all’ottava ora della notte, il loro riposo durava sette ore intere; il che significa che all’altezza del solstizio d’inverno 

essi avevano a disposizione un tempo di circa otto ore e tre quarti di riposo, mentre al solstizio d’estate il sonno 

notturno durava circa cinque ore e un quarto. Si tratta di indicazioni del tutto approssimative, che dovevano essere 

adattate alla situazione reale iuxta considerationem rationis. In ogni caso, è interessante osservare che il sonno è 

continuo e sufficiente a permettere al monaco di alzarsi a digestione terminata. 

L’ufficio notturno durante l’inverno ha una durata superiore che in estate, visto che le ore sono più lunghe; al 

termine i monaci non tornano a letto, ma, in attesa che venga il tempo delle lodi (che si celebrano alle prime luci 

del nuovo giorno), si dedicano alla meditatio, cioè all’apprendimento mnemonico e alla ripetizione di testi biblici, 

soprattutto dei salmi. 

Da pasqua a fine ottobre le notti si abbreviano, perciò l’alzata dei monaci deve essere regolata in modo tale che tra 

il termine dell’ufficio notturno (che è più breve) e l’inizio delle lodi (che verosimilmente iniziavano un po’ più 

tardi) intercorra solo una breve pausa, il tempo di andare a soddisfare «le necessità di natura». 

Caput IX 

Quot Psalmi dicendi sunt nocturnis horis 

[1] Hiemis tempore suprascripto, in primis versu tertio dicendum: «Domine, labia mea aperies, et os 

meum adnuntiabit laudem tuam» (Sal 50, 17) [2] Cui subiungendus est tertius psalmus et gloria. [3] 

Post hunc, psalmum nonagesimum quartum cum antiphona, aut certe decantandum. [4] Inde sequatur 

ambrosianum, deinde sex psalmi cum antiphonas. 

§ 1: La triplice ripetizione di un versetto si trova anche in RB 35, 16-17; 38, 3; 58, 22. I §§ 2-3 descrivono gli 

elementi fissi che introducono la celebrazione del I notturno: salmo 3, salmo 94, inno (ambrosianum). L’antifona è 

un breve ritornello che il coro ripete intercalandolo alle strofe del salmo proclamate/cantate da un solista. A questi 

elementi fissi segue poi la recitazione di sei salmi con le loro antifone. Non è chiaro se RB si riferisca a una prassi 

simile a quella egiziana (un lettore proclama il salmo e il coro interviene solo con un ritornello) o se già sia 

divenuta normale la pratica della recitazione a cori alterni del testo del salmo. 

[5] Quibus dictis, dicto versu, benedicat abbas et, sedentibus omnibus in scamnis, legantur vicissim a 

fratribus in codice super analogium tres lectiones, inter quas et tria responsoria cantentur: [6] duo 

responsoria sine gloria dicantur; post tertiam vero lectionem, qui cantat dicat gloriam. [7] Quam dum 

incipit cantor dicere, mox omnes de sedilia sua surgant, ob honorem et reverentiam sanctae Trinitatis. 

40

Ai salmi, recitati a memoria, seguono tre letture (in estate, per abbreviare, diventano una sola breve lettura: cf. 

sotto il cap. 10) fatte al leggio da tre lettori diversi mentre i monaci ascoltano seduti. Al termine di ciascuna lettura 

si canta un responsorio, affidato verosimilmente a un solista al quale l’assemblea risponde. 

[8] Codices autem legantur in vigiliis divinae auctoritatis, tam veteris testamenti quam novi, sed et 

expositiones earum, quae a nominatis et orthodoxis catholicis patribus factae sunt. 

Una precisazione significativa circa il contenuto di queste letture notturne: AT e NT, ma anche opere di autori 

ecclesiastici che spieghino le Scritture, a patto che i loro autori siano di riconosciuta ortodossia. Si tratta di un 

elemento che induce a collocare la composizione della RB dopo la compilazione del cosiddetto “decreto gelasiano” 

(quindi dopo il 530). 

[9] Post has vero tres lectiones cum responsoria sua, sequantur reliqui sex psalmi, cum alleluia 

canendi. [10] Post hos, lectio apostoli sequatur, ex corde recitanda, et versus, et supplicatio litaniae, id 

est Kyrie eleison. [11] Et sic finiantur vigiliae nocturnae. 

Il II notturno prevede altri sei salmi, questa volta cantati non con un’antifona, ma intercalati con l’alleluia; una 

breve lettura apostolica fatta a memoria, una litania di supplica e, forse, a conclusione la recita a bassa voce del 

Pater noster. 

Caput X 

Qualiter aestatis tempore agatur nocturna laus 

[1] A Pascha autem usque ad kalendas Novembres, omnis ut supra dictum est psalmodiae quantitas 

teneatur, [2] excepto quod lectiones in codice, propter brevitatem noctium, minime legantur, sed pro 

ipsis tribus lectionibus una de veteri testamento memoriter dicatur, quam brevis responsorius 

subsequatur. [3] Et reliqua omnia ut dictum est impleantur, id est ut numquam minus a duodecim 

psalmorum quantitate ad vigilias nocturnas dicantur, exceptis tertio et nonagesimo quarto psalmo. 

Caput XI 

Qualiter Dominicis diebus Vigiliae agantur 

[1] Dominico die temperius surgatur ad vigilias. [2] In quibus vigiliis teneatur mensura, id est, 

modulatis ut supra disposuimus sex psalmis et versu, residentibus cunctis disposite et per ordinem in 

subselliis, legantur in codice, ut supra diximus, quattuor lectiones cum responsoriis suis. [3] Ubi 

tantum in quarto responsorio dicatur a cantante gloria; quam dum incipit, mox omnes cum reverentia 

surgant. 

[4] Post quibus lectionibus sequantur ex ordine alii sex psalmi cum antiphonas sicut anteriores, et 

versu. [5] Post quibus iterum legantur aliae quattuor lectiones cum responsoriis suis, ordine quo 

supra. 

[6] Post quibus dicantur tria cantica de prophetarum, quas instituerit abbas; quae cantica cum alleluia 

psallantur. 

[7] Dicto etiam versu et benedicente abbate, legantur aliae quattuor lectiones de novo testamento, 

ordine quo supra. [8] Post quartum autem responsorium incipiat abbas hymnum Te Deum laudamus. 

[9] Quo perdicto, legat abbas lectionem de Evangelia, cum honore et timore stantibus omnibus. [10] 

Qua perlecta, respondeant omnes Amen, et subsequatur mox abbas hymnum Te decet laus, et data 

benedictione incipiant matutinos. 

[11] Qui ordo vigiliarum omni tempore tam aestatis quam hiemis aequaliter in die dominico teneatur. 

41

[12] Nisi forte - quod absit - tardius surgant: aliquid de lectionibus breviandum est, aut responsoriis. 

[13] Quod tamen omnino caveatur ne proveniat. Quod si contigerit, digne inde satisfaciat Deo in 

oratorio per cuius evenerit neglectum. 

L’ufficiatura notturna domenicale è notevolmente accresciuta, perciò la levata dev’essere anticipata, in modo che 

l’inizio delle lodi non sia spostato troppo in avanti: ai sei salmi del primo notturno seguono quattro letture con i 

loro responsori; seguono altri sei salmi e altre quattro letture con i loro responsori; ai due notturni se ne aggiunge 

un terzo: una serie di tre cantici tratti dai libri profetici a scelta dell’abate, cui seguono quattro letture prese dal NT. 

La veglia giunge al vertice con il canto dell’inno Te Deum, la proclamazione del vangelo conclusa 

dall’acclamazione Te decet laus. Come in estate, all’ufficio notturno, dopo una breve pausa, segue 

immediatamente quello dele lodi mattutine. NB l’annotazione finale: l’ordine del’ufficio notturno domenicale è 

uguale in estate e in inverno, ma se per qualche ragione ci si alza troppo tardi (il che poteva ben succedere in 

epoche in cui non si disponeva di orologi), si abbreviano le letture e i responsori. 

Caput XII 

Qualiter Matutinorum sollemnitas agatur 

[1] In matutinis dominico die, in primis dicatur sexagesimus sextus psalmus, sine antiphona, in 

directum. [2] Post quem dicatur quinquagesimus cum alleluia. [3] Post quem dicatur centesimus 

septimus decimus et sexagesimus secundus. [4] Inde benedictiones et laudes, lectionem de 

Apocalypsis una ex corde, et responsorium, ambrosianum, versu, canticum de Evangelia, litania, et 

completum est. 

Lo schema delle lodi mattutine domenicali è il seguente: Sal 66 (recitato di seguito); Sal 50 (intercalato con 

l’alleluia); Sal 117; 62; Cantico dei tre fanciulli (Dan 3, 57-88); Sal 148; 149; 150; lettura breve dall’Ap con il suo 

responsorio; inno; versetto; Cantico di Zaccaria; supplica litanica. 

Caput XIII 

Privatis diebus qualiter Matutini agantur 

[1] Diebus autem privatis, matutinorum sollemnitas ita agatur, [2] id est, ut sexagesimus sextus 

psalmus dicatur sine antiphona, subtrahendo modice, sicut dominica, ut omnes occurrant ad 

quinquagesimum, qui cum antiphona dicatur. [3] Post quem alii duo psalmi dicantur secundum 

consuetudinem, id est: [4] secunda feria, quintum et tricesimum quintum; [5] tertia feria, 

quadragesimum secundum et quinquagesimum sextum; [6] quarta feria, sexagesimum tertium et 

sexagesimum quartum; [7] quinta feria, octogesimum septimum et octogesimum nonum; [8] sexta 

feria, septuagesimum quintum et nonagesimum primum; [9] sabbatorum autem, centesimum 

quadragesimum secundum et canticum Deuteronomium qui dividatur in duas glorias. [10] Nam 

ceteris diebus canticum unumquemque die suo ex prophetis sicut psallit ecclesia Romana dicantur. 

[11] Post haec sequantur laudes; deinde lectio una apostoli memoriter recitanda, responsorium, 

ambrosianum, versu, canticum de Evangelia, litania et completum est. 

[12] Plane agenda matutina vel vespertina non transeat aliquando, nisi in ultimo per ordinem oratio 

dominica, omnibus audientibus, dicatur a priore, propter scandalorum spinas quae oriri solent, [13] ut 

conventi per ipsius orationis sponsionem qua dicunt: «Dimitte nobis sicut et nos dimittimus,» purgent 

se ab huiusmodi vitio. [14] Ceteris vero agendis, ultima pars eius orationis dicatur, ut ab omnibus 

respondeatur: «Sed libera nos a malo.» 

Caput XIV 

In natalitiis Sanctorum qualiter Vigiliae agantur 

[1] In sanctorum vero festivitatibus, vel omnibus sollemnitatibus, sicut diximus dominico die 

agendum, ita agatur, [2] excepto quod psalmi aut antiphonae vel lectiones ad ipsum diem pertinentes 

dicantur; modus autem suprascriptus teneatur. 

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Caput XV 

Alleluia quibus temporibus dicatur 

[1] A sanctum Pascha usque Pentecosten, sine intermissione dicatur alleluia, tam in psalmis quam in 

responsoriis. [2] A Pentecosten autem usque caput quadragesimae, omnibus noctibus, cum sex 

posterioribus psalmis tantum ad nocturnos dicatur. [3] Omni vero dominica extra quadragesima, 

cantica, matutinos, prima, tertia, sexta nonaque cum alleluia dicatur, vespera vero iam antiphona. [4] 

Responsoria vero numquam dicantur cum alleluia, nisi a Pascha usque Pentecosten. 

Caput XVII 

Quot Psalmi per easdem Horas dicendi sunt 

[1] Iam de nocturnis vel matutinis digessimus ordinem psalmodiae; nunc de sequentibus horis 

videamus. 

[2] Prima hora dicantur psalmi tres singillatim et non sub una gloria, [3] hymnum eiusdem horae post 

versum Deus in adiutorium antequam psalmi incipiantur. [4] Post expletionem vero trium psalmorum 

recitetur lectio una, versu et Kyrie eleison et missas. 

[5] Tertia vero, sexta et nona, item eo ordine celebretur oratio, id est versu, hymnos earundem 

horarum, ternos psalmos, lectionem et versu, Kyrie eleison et missas. [6] Si maior congregatio fuerit, 

cum antiphonas, si vero minor, in directum psallantur. 

[7] Vespertina autem synaxis quattuor psalmis cum antiphonis terminetur. [8] Post quibus psalmis, 

lectio recitanda est; inde responsorium, ambrosianum, versu, canticum de Evangelia, litania, et 

oratione dominica fiant missae. 

[9] Completorios autem trium psalmorum dictione terminentur. Qui psalmi directanei sine antiphona 

dicendi sunt. [10] Post quos hymnum eiusdem horae, lectionem unam, versu, Kyrie eleison, et 

benedictione missae fiant. 

Caput XVIII 

Quo ordine Psalmi dicendi sunt 

[1] In primis dicatur versu Deus in adiutorium meum intende, «Domine ad adiuvandum me festina,» 

gloria, inde hymnum uniuscuiusque horae. [2] Deinde, prima hora dominica, dicenda quattuor 

capitula psalmi centesimi octavi decimi; [3] reliquis vero horis, id est tertia, sexta vel nona, terna 

capitula suprascripti psalmi centesimi octavi decimi dicantur. 

[4] Ad primam autem secundae feriae, dicantur tres psalmi, id est primus, secundus et sextus; [5] et 

ita per singulos dies ad primam usque dominica dicantur per ordinem terni psalmi usque nonum 

decimum psalmum, ita sane ut nonus psalmus et septimus decimus partiantur in binos. [6] Et sic fit ut 

ad vigilias dominica semper a vicesimo incipiatur. 

[7] Ad tertiam vero, sextam nonamque secundae feriae, novem capitula quae residua sunt de 

centesimo octavo decimo, ipsa terna per easdem horas dicantur. 

[8] Expenso ergo psalmo centesimo octavo decimo duobus diebus, id est dominico et secunda feria, 

[9] tertia feria iam ad tertiam, sextam vel nonam psallantur terni psalmi a centesimo nono decimo 

usque centesimo vicesimo septimo, id est psalmi novem. [10] Quique psalmi semper usque dominica 

per easdem horas itidem repetantur, hymnorum nihilominus, lectionum vel versuum dispositionem 

uniformem cunctis diebus servatam. [11] Et ita scilicet semper dominica a centesimo octavo decimo 

incipietur. 

43

[12] Vespera autem cotidie quattuor psalmorum modulatione canatur. [13] Qui psalmi incipiantur a 

centesimo nono usque centesimo quadragesimo septimo, [14] exceptis his qui in diversis horis ex eis 

sequestrantur, id est a centesimo septimo decimo usque centesimo vicesimo septimo et centesimo 

tricesimo tertio et centesimo quadragesimo secundo; [15] reliqui omnes in vespera dicendi sunt. [16] 

Et quia minus veniunt tres psalmi, ideo dividendi sunt qui ex numero suprascripto fortiores 

inveniuntur, id est centesimum tricesimum octavum et centesimum quadragesimum tertium et 

centesimum quadragesimum quartum; [17] centesimus vero sextus decimus, quia parvus est, cum 

centesimo quinto decimo coniungatur. 

[18] Digesto ergo ordine psalmorum vespertinorum, reliqua, id est lectionem, responsum, hymnum, 

versum vel canticum, sicut supra taxavimus impleatur. 

[19] Ad completorios vero cotidie idem psalmi repetantur, id est quartum, nonagesimum et 

centesimum tricesimum tertium. 

[20] Disposito ordine psalmodiae diurnae, reliqui omnes psalmi qui supersunt aequaliter dividantur in 

septem noctium vigilias, [21] partiendo scilicet qui inter eos prolixiores sunt psalmi et duodecim per 

unamquamque constituens noctem. 

[22] Hoc praecipue commonentes ut, si cui forte haec distributio psalmorum displicuerit, ordinet si 

melius aliter iudicaverit, [23] dum omnimodis id adtendat ut omni hebdomada psalterium ex integro 

numero centum quinquaginta psalmorum psallantur, et dominico die semper a caput reprehendatur ad 

vigilias. [24] Quia nimis inertem devotionis suae servitium ostendunt monachi qui minus a psalterio 

cum canticis consuetudinariis per septimanae circulum psallunt, [25] dum quando legamus sanctos 

patres nostros uno die hoc strenue implesse, quod nos tepidi utinam septimana integra persolvamus. 

L’osservazione con la quale si chiude la serie di capitoli che tratta l’ufficio è significativa: la celebrazione 

dell’ufficio monastico è cosa di pertinenza della comunità e dell’abate, non vi è una prassi unica obbligatoria; 

quindi nulla vieta di adottare una diversa distribuzione del salterio, con un’unica clausola vincolante: che esso 

venga recitato per intero nel corso di una settimana. 

c) Come e dove si celebra 

Caput XLVII 

De significanda hora Operis Dei 

[1] Nuntianda hora operis Dei dies noctesque sit cura abbatis: aut ipse nuntiare aut tali sollicito fratri 

iniungat hanc curam, ut omnia horis competentibus compleantur. 

RB insiste più volte sulla necessità di un adempimento puntuale della celebrazione dell’ufficio (cf. 43 e 45), 

l’importanza attribuita al rispetto degli orari è dimostrata dal fatto che il compito di indicare l’ora delle celebrazioni 

diurne e notturne è affidata direttamente all’abate o a un monaco da lui delegato. 

[2] Psalmos autem vel antiphonas post abbatem ordine suo quibus iussum fuerit imponant. [3] 

Cantare autem et legere non praesumat nisi qui potest ipsud officium implere ut aedificentur 

audientes; [4] quod cum humilitate et gravitate et tremore fiat, et cui iusserit abbas. 

Un’annotazione complessiva sull’ordine e l’atteggiamento con il quale devono essere adempiute diverse mansioni 

necessarie alla vita della comunità e che richiedono competenze specifiche: cantare, leggere. Anche gli esperti 

devono compiere il loro ufficio solo su indicazione dell’abate, lo devono fare in modo da edificare i loro confratelli 

e agire con umiltà e prudenza. 

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Caput LII 

De Oratorio Monasterii 

[1] Oratorium hoc sit quod dicitur, nec ibi quicquam aliud geratur aut condatur. [2] Expleto opere 

Dei, omnes cum summo silentio exeant, et habeatur reverentia Deo, [3] ut frater qui forte sibi 

peculiariter vult orare non impediatur alterius improbitate. [4] Sed et si aliter vult sibi forte secretius 

orare, simpliciter intret et oret, non in clamosa voce (Mt 6, 5-6), sed in lacrimis et intentione cordis. 

[5] Ergo qui simile opus non facit, non permittatur explicito opere Dei remorari in oratorio, sicut 

dictum est, ne alius impedimentum patiatur. 

Il capitolo combina due fonti: Aug. Reg. 7, 31-34 e RM 68, 1-5; vi emergono, infatti, due preoccupazioni distinte: 

che chi vuol pregare privatamente nell’oratorio non sia disturbato dal rumore fatto da chi vi lavora o vi soggiorna 

per altre ragioni; che chi vuol pregare lo faccia in silenzio, in modo da non disturbare altri eventualmente presenti. 

Le osservazioni qui fatte ci sembrano abbastanza scontate, abituati come siamo a pensare che la chiesa sia un luogo 

sacro, deputato esclusivamente alla preghiera. Va però tenuta presente la consuetudine del monachesimo egiziano, 

soprattutto eremitico, di associare alla recita dei salmi o di altri testi della Scrittura un’attività manuale, in modo da 

mantenere più facilmente per un tempo lungo la concentrazione della mente, vincendo la noia e il sonno; questa 

attività manuale e vocale (meditatio) veniva interrotta di quando in quando da prosternazioni con le quali il monaco 

esprimeva la propria preghiera silenziosa in risposta alle parole bibliche recitate (a questo si riferisce RB 4, 56; cf. 

Cassiano Inst. II 12-15; III 2). RB accentua il distacco tra lavoro e preghiera, tra tempo profano e tempo sacro, 

vietando che nell’oratorio si svolgano attività diverse dalla preghiera comunitaria o personale. 

Il § 4 contiene un’osservazione che è propria di RB e non deriva dalle sue fonti: emerge la solita preoccupazione di 

san Benedetto di indicare quale dev’essere l’atteggiamento con il quale svolgere una determinata attività. Qui non 

si accontenta di proibire di far rumore e dare fastidio agli altri, ma dice anche come deve essere la preghiera (cf. su 

questo punto quanto osserva in RB 4, 57; 20, 3; 49, 4). 

45

2. I monaci e la comunità 

2.1. I generi dei monaci 

Caput I 

De generibus Monachorum 

[1] Monachorum quattuor esse genera manifestum est. [2] Primum coenobitarum, hoc est 

monasteriale, militans sub regula vel abbate. 

Come il prologo ha presentato i presupposti spirituali della vocazione monastica, questo capitolo, che ha anch’esso 

una funzione introduttiva, ne illustra le tipologie di realizzazione, secondo uno schema sistematico abbastanza 

diffuso (cf. classificazioni analoghe in Hier. Ep. 22, 34-36; Cass. Conl. XVIII 4-8). Il testo di RB riproduce la 

prima parte del medesimo capitolo di RM (1, 1-14); in essa, però, la trattazione dei diversi generi di monaci serviva 

a introdurre il ruolo determinate dell’abate/dottore, mentre in RB sopravvive solo la classificazione iniziale dei 

generi di monaci. Per primi vengono citati i cenobiti, ai quali la RB è destinata. Interessante la precisazione che 

questi sono coloro che «militano» (cf. l’immagine di Cristo re del prologo 3. 40; Gb [?] vita hominis militia est) 

sub regula vel abbate. Si tratta di un elemento istituzionale nuovo: all’obbedienza all’abate si aggiunge 

l’obbedienza ad un codice scritto. 

[3] Deinde secundum genus est anachoritarum, id est eremitarum, horum qui non conversationis 

fervore novicio, sed monasterii probatione diuturna, [4] qui didicerunt contra diabolum multorum 

solacio iam docti pugnare, [5] et bene exstructi fraterna ex acie ad singularem pugnam eremi, securi 

iam sine consolatione alterius, sola manu vel brachio contra vitia carnis vel cogitationum, Deo 

auxiliante, pugnare sufficiunt. 

Il secondo genere di monaci approvato è quello degli eremiti, costoro non sono dei novellini nella vita monastica 

(conversatio qui ha il senso tecnico di “vita monastica”), ma hanno alle spalle una lunga esprienza cenobitica, che 

li ha attrezzati ad affrontare la battaglia solitaria con il demonio (NB il ricorrere delle metafore militari). 

Importante l’annotazione Deo auxiliante: non si è mai autosufficienti nella vita monastica, essa suppone sempre 

l’intervento di Dio a sostegno dell’impegno personale del religioso. 

Ci si può chiedere se questo tributo di onore pagaro all’eremitismo sia solo retorico o derivi dalla reale convinzione 

della superiorità di questa forma di vita. Basilio e Pacomio, per esempio, non ammettono la vita solitaria, mentre 

RM, appoggiandosi in questo capitolo a Cassiano — che la stima e la considera superiore alla vita comune — 

sembra optare per una sua inclusione fra le forme possibili di vita monastica (impressione rafforzata dal fatto che 

in genere le altre regole cenobitiche occidentali non menzionano affatto la possibilità di un passaggio dal cenobio 

all’eremo). L’insistenza della metafora guerresca nel trattare gli eremiti suggerisce l’idea che la funzione del 

cenobio sia soprattutto propedeutica e pedagogica: esso serve ad addestrare al combattimento; una volta che abbia 

raggiunto questo scopo, il monaco può arrangiarsi da solo. 

[6] Tertium vero monachorum taeterrimum genus est sarabaitarum, qui nulla regula approbati, 

experientia magistra, sicut aurum fornacis, sed in plumbi natura molliti, [7] adhuc operibus servantes 

saeculo fidem, mentiri Deo per tonsuram noscuntur. [8] Qui bini aut terni aut certe singuli sine 

pastore, non dominicis sed suis inclusi ovilibus, pro lege eis est desideriorum voluntas, [9] cum 

quicquid putaverint vel elegerint, hoc dicunt sanctum, et quod noluerint, hoc putant non licere. 

Il termine sarabaita viene da Cassiano, la categoria è nota anche a Girolamo, che li chiama remnuoth; sono 

descritti come falsi religiosi, che fingono di essere ciò che non sono perché non si sottomettono all’obbedienza, 

elemento determinante dell’identità del vero monaco. Solo l’esperienza della concreta messa in pratica 

dell’obbedienza regolare insegna al monaco a purificarsi, diventando come oro che passa attraverso il fuoco della 

fornace. 

[10] Quartum vero genus est monachorum quod nominatur gyrovagum, qui tota vita sua per diversas 

provincias ternis aut quaternis diebus per diversorum cellas hospitantur, [11] semper vagi et 

numquam stabiles, et propriis voluntatibus et gulae illecebris servientes, et per omnia deteriores 

46

sarabaitis. 

La quarta categoria di monaci descritta da RM e RB riprende la descrizione fatta da Agostino dei circumcelliones; 

la condanna di questi girovaghi è ancora più dura di quella dei sarabaiti, perché essi respingono i due capisaldi del 

monachesimo come la concepiscono RM e RB: l’obbedienza e la stabilità in un luogo. RB omette, però, di citare la 

lunga satira che RM 1, 13-74 dedica a questa categoria di religiosi. 

[12] De quorum omnium horum miserrima conversatione melius est silere quam loqui. [13] His ergo 

omissis, ad coenobitarum fortissimum genus disponendum, adiuvante Domino, veniamus. 

Malgrado le osservazioni fatte sopra circa il rilievo positivo accordato alla vita eremitica, è ai cenobiti che RM e 

RB sono indirizzate ed è all’ordinata regolamentazione di questa forma di vita che ora procedono i due autori. 

2.2. L’abate e la regola 

Caput II 

Qualis debeat esse Abbas 

[1] Abbas qui praeesse dignus est monasterio semper meminere debet quod dicitur et nomen maioris 

factis implere. [2] Christi enim agere vices in monasterio creditur, quando ipsius vocatur pronomine, 

[3] dicente Apostolo: «Accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus: Abba, Pater» (Rom 

8, 15). 

Questo capitolo e il successivo, sul consiglio dei fratelli, formano nella RM un’unica trattazione; diversamente dal 

solito, RB non abbrevia, ma amplia il testo di RM, tanto più che a questo capitolo si aggiunge poi il cap. 64 

sull’elezione dell’abate: segno di una situazione nella quale l’autorità del superiore è oggetto di contestazioni e 

rifiuti? 

Il fatto che questa trattazione sia posta all’inizio della regola esprime di per sé il ruolo fondativo che a questa carica 

viene assegnato da RM e RB, in contrasto con altre regole, p.e. Agostino, che ne tratta al termine (Praec. VII 3). 

L’abate, nel cenobio disegnato da RM e RB, svolge la funzione svolta dal padre spirituale, dall’anziano nel 

monachesimo egiziano: gli viene riconosciuta una dignità che è sostanzialmente analoga a quella di un vescovo, 

perché esercita una funzione magisteriale e pastorale (Christi agere vices) del tutto parallela alla sua; anche se 

l’abate viene istituito nel proprio ufficio dal vescovo locale. 

Il termine abbas deriva dall’aramaico e significa “padre”; nel NT è usato in riferimento a Dio (Mc 14, 36; Rm 8, 

15; Gal 4, 6); curiosamente, però, RB applica il passo di Rm 8, 15 al Cristo, del quale l’abate è il vicario nel 

cenobio. 

[4] Ideoque abbas nihil extra praeceptum Domini quod sit debet aut docere aut constituere vel iubere, 

[5] sed iussio eius vel doctrina fermentum divinae iustitiae in discipulorum mentibus conspargatur, 

[6] memor semper abbas quia doctrinae suae vel discipulorum oboedientiae, utrarumque rerum, in 

tremendo iudicio Dei facienda erit discussio. [7] Sciatque abbas culpae pastoris incumbere quicquid 

in ovibus paterfamilias utilitatis minus potuerit invenire. [8] Tantundem iterum erit ut, si inquieto vel 

inoboedienti gregi pastoris fuerit omnis diligentia attributa et morbidis earum actibus universa fuerit 

cura exhibita, [9] pastor eorum in iudicio Domini absolutus dicat cum propheta Domino: «iustitiam 

tuam non abscondi in corde meo, veritatem tuam et salutare tuum dixi (Sal 39, 11); ipsi autem 

contemnentes spreverunt me (Is 1, 2; Ez 20, 27)» [10] et tunc demum inoboedientibus curae suae 

ovibus poena sit eis praevalens ipsa mors (Is 25, 8). 

RM e RB aprono il discorso sull’abate dicendo anzitutto chi egli sia: il padre, il vicario di Cristo, il maestro, il 

pastore. Sia pure in terza persona, il testo si rivolge insistentemente all’abate esortandolo ad avere precisa 

coscienza del proprio compito e della propria responsabilità davanti a Dio: meminere debet, memor, sciat. 

L’istanza regolatrice del potere dell’abate all’interno della comunità non è costituita dalla comunità stessa, ma 

soltanto dalla sua coscienza e dal richiamo a un esercizio prudente e sapiente delle sue prerogative, del quale dovrà 

rendere conto nel giudizio di Dio. 

47

NB le due metafore del maestro (docere, doctrina) e del pastore, che precisano il modo in cui egli deve esercitare 

nel cenobio la propria paternità. Autorità di comando (pastore) e di dottrina (maestro) configurano il ruolo 

dell’abate in una prospettiva parallela a quella del vescovo rispetto alla chiesa locale. 

L’amplissima autorità riconosciuta all’abate non sottrae la responsabilità ai sottoposti, qualora essi non 

corrispondano in modo appropriato alla sua sollecitudine: della loro eventuale insubordinazione saranno loro a 

rispondere. L’ultima frase va letta: poena sit - eis praevalens - ipsa mors; il passo di Is 25, 8 è citato secondo la 

Vetus Latina. 

[11] Ergo, cum aliquis suscipit nomen abbatis, duplici debet doctrina suis praeesse discipulis, [12] id 

est omnia bona et sancta factis amplius quam verbis ostendat, ut capacibus discipulis mandata Domini 

verbis proponere, duris corde vero et simplicioribus factis suis divina praecepta monstrare. [13] 

Omnia vero quae discipulis docuerit esse contraria in suis factis indicet non agenda, ne aliis 

praedicans ipse reprobus inveniatur, [14] ne quando illi dicat Deus peccanti: «Quare tu enarras 

iustitias meas et assumis testamentum meum per os tuum? Tu vero odisti disciplinam et proiecisti 

sermones meos post te» (Sal 49, 16-17), [15] et: «Qui in fratris tui oculo festucam videbas, in tuo 

trabem non vidisti» (Mt 7, 3). 

Dalla definizione della figura dell’abate scaturiscono le indicazioni circa il modo in cui egli deve realizzare il 

proprio compito. Un tratto che distingue RB da RM è la ripetuta sottolineatura del dovere da parte sua di adattarsi 

ai singoli e alle loro attitudini. Nella veste di maestro, l’abate deve rivolgersi sia ai capaces sia ai simpliciores, 

offrendo a entrambi un insegnamento proporzionato: agli uni un insegnamento verbale, agli altri l’esempio da 

imitare. Esistono livelli di competenza, di intelligenza, di progresso spirituale diversi e occorre tenerne conto. 

Segue ancora un richiamo alla necessaria coerenza tra l’insegnamento impartito e la condotta di vita dell’abate. 

[16] Non ab eo persona in monasterio discernatur. [17] Non unus plus ametur quam alius, nisi quem 

in bonis actibus aut oboedientia invenerit meliorem. [18] Non convertenti ex servitio praeponatur 

ingenuus, nisi alia rationabilis causa exsistat. [19] Quod si ita, iustitia dictante, abbati visum fuerit, et 

de cuiuslibet ordine id faciet. Sin alias, propria teneant loca, [20] quia sive servus sive liber (Ef 6, 8), 

omnes in Christo unum sumus (Gal 3, 8) et sub uno Domino aequalem servitutis militiam baiulamus, 

quia «non est apud Deum personarum acceptio» (Rm 2, 11; Ef 6, 9; Col 3, 25). [21] Solummodo in 

hac parte apud ipsum discernimur, si meliores ab aliis in operibus bonis et humiles inveniamur. [22] 

Ergo aequalis sit ab eo omnibus caritas, una praebeatur in omnibus secundum merita disciplina. 

Dopo le indicazioni su come esercitare il ruolo di maestro, indicazioni su come esercitare il ruolo di pastore: il 

principio generale è enunciato al § 16: imparzialità. La preoccupazione che l’abate non faccia distinzioni arbitrarie 

tra i suoi sottoposti è diffusa nella letteratura monastica antica (cf. Reg. IV Patr. V 11-12). Al § 17 il termine 

oboedientia è aggiunta di RB rispetto a RM. 

Interessante il cenno alle precedenze (cf. su questo punto RB 63) ordinariamente esse sono dettate dall’anzianità di 

ingresso in monastero (conversio), non dalla dignità sociale (schiavi o liberi) di origine dei monaci; ma l’abate può 

modificare per una rationabilis causa tale ordine di precedenza (precisazione propria di RB rispetto a RM: 

Benedetto prevede e concede deroghe al principio generale, ma si aspetta che esse abbiano una ragione fondata e 

condivisibile). Ritorna l’idea della vita monastica come servitù e come milizia. Si noti la formulazione del § 22 che 

riprende in forma questa volta positiva un principio generale, come nel § 16 era stato formulato in forma negativa. 

[23] In doctrina sua namque abbas apostolicam debet illam semper formam servare in qua dicit: 

«Argue, obsecra, increpa» (2 Tm 4, 2), [24] id est, miscens temporibus tempora, terroribus 

blandimenta, dirum magistri, pium patris ostendat affectum, [25] id est indisciplinatos et inquietos 

debet durius arguere, oboedientes autem et mites et patientes ut in melius proficiant obsecrare, 

neglegentes et contemnentes ut increpat et corripiat admonemus. 

[26] Neque dissimulet peccata delinquentium; sed et mox ut coeperint oriri radicitus ea ut praevalet 

amputet, memor periculi Heli sacerdotis de Silo (1 Sam 2-4). [27] Et honestiores quidem atque 

intellegibiles animos prima vel secunda admonitione verbis corripiat, [28] improbos autem et duros ac 

superbos vel inoboedientes verberum vel corporis castigatio in ipso initio peccati coerceat, sciens 

scriptum: «Stultus verbis non corrigitur» (Prov 18, 2; 29, 9) [29] et iterum: «Percute filium tuum 

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virga et liberabis animam eius a morte» (Prov 23, 14). 

Modo di amministrare la disciplina: i §§ 26-29 sono propri di RB rispetto a RM (il cenno al destino di Eli gli viene 

dalla regola di Basilio) e ancora una volta sottolineano l’esigenza di procedere caso per caso nel modo appropriato 

e opportuno. L’abate deve sapere utilizzare senza esitazione, in rapporto all’attitudine dei monaci, strumenti 

correttivi diversi: per gli uni l’esortazione affettuosa, per gli altri il rimprovero severo (§§ 23-25). In ogni caso non 

deve lasciar correre, ma intervenire immediatamente a correggere le infrazioni, memore del destino del sacerdote 

Eli, che, non sapendo punire adeguatamente il comportamente dei propri figli, ha provocato la morte sua e loro. 

Le preoccupazioni espresse da RB, che insiste da una parte sulle prerogative dell’abate, dall’altra sulla necessità 

che il superiore se ne serva con coraggio e saggezza, suggeriscono un ambiente nel quale l’esercizio della funzione 

abbaziale conosce importanti contestazioni e distorsioni. 

[30] Meminere debet semper abbas quod est, meminere quod dicitur, et scire quia cui plus 

committitur, plus ab eo exigitur. [31] Sciatque quam difficilem et arduam rem suscipit regere animas 

et multorum servire moribus, et alium quidem blandimentis, alium vero increpationibus, alium 

suasionibus; [32] et secundum uniuscuiusque qualitatem vel intellegentiam, ita se omnibus conformet 

et aptet ut non solum detrimenta gregis sibi commissi non patiatur, verum in augmentatione boni 

gregis gaudeat. [33] Ante omnia, ne dissimulans aut parvipendens salutem animarum sibi 

commissarum, ne plus gerat sollicitudinem de rebus transitoriis et terrenis atque caducis, [34] sed 

semper cogitet quia animas suscepit regendas, de quibus et rationem redditurus est. [35] Et ne 

causetur de minori forte substantia, meminerit scriptum: «Primum quaerite regnum Dei et iustitiam 

eius, et haec omnia adicientur vobis» (Mt 6, 33) [36] et iterum: «Nihil deest timentibus eum» (Sal 33, 

10). 

Precisazione circa l’oggetto primo al quale deve dedicarsi la sollecitudine dell’abate: governare anime. I §§ 31-37 

sono un’aggiunta originale di RB rispetto al testo di RM. Si noti l’insistenza sulla coscienza del proprio compito: 

meminere, sciat. Il suo compito è occuparsi della salus animarum che gli sono affidate. La forma propria di 

rinuncia all’io che il superiore è chiamato a praticare consiste nella capacità di adattarsi alla situazione reale delle 

persone che gli sono affidate. L’abate non deve sforzarsi di far diventare i monaci tali quali li vorrebbe, ma 

mettersi a servizio della loro diversità. 

Accenno finale alla possibilità che il monastero sia povero ed esiga una particolare cura amministrativa: anche in 

questo caso la gestione degli affari terreni non è motivo sufficiente per trascurare il compito di esercitare la 

paternità spirituale a vantaggio dei monaci e tale paternità si esercita in modo esemplare anche nella capacità di 

non farsi sopraffare dall’ansia del futuro. 

[37] Sciatque quia qui suscipit animas regendas paret se ad rationem reddendam, [38] et quantum sub 

cura sua fratrum se habere scierit numerum, agnoscat pro certo quia in die iudicii ipsarum omnium 

animarum est redditurus Domino rationem, sine dubio addita et suae animae. [39] Et ita, timens 

semper futuram discussionem pastoris de creditis ovibus, cum de alienis ratiociniis cavet, redditur de 

suis sollicitus, [40] et cum de monitionibus suis emendationem aliis sumministrat ipse efficitur a vitiis 

emendatus. 

Il capitolo si chiude ripetendo ancora una volta l’ammonimento a essere pronto a rendere conto a Dio del proprio 

governo. Alla pressoché illimitata autorità che nei fatti è riconosciuta all’abate in RB corrisponde come 

contrappeso il richiamo insistito e persino minaccioso ad usarla in ordine al bene della comunità, anzi di ciascun 

singolo membro, nel modo migliore possibile: conscio di dover rendere conto di se stesso, l’abate non dovrebbe 

aver tempo di impancarsi a giudice degli altri (cum de alienis ratiociniis cavet, redditur de suis sollicitus). 

Caput XXVII 

Qualiter debeat esse sollicitus Abbas circa excommunicatos 

[1] Omni sollicitudine curam gerat abbas circa delinquentes fratres, «quia non est opus sanis medicus 

sed male habentibus» (Mt 9, 12; Lc 5, 31). [2] Et ideo uti debet omni modo ut sapiens medicus, 

immittere senpectas, id est seniores sapientes fratres, [3] qui quasi secrete consolentur fratrem 

fluctuantem et provocent ad humilitatis satisfactionem et consolentur eum «ne abundantiori tristitia 

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absorbeatur» (2 Cor 2, 7), [4] sed, sicut ait item apostolus, «confirmetur in eo caritas» (2 Cor 2, 8) et 

oretur pro eo ab omnibus. 

All’inesorabilità degli interventi correttivi prescritti da RB corrisponde un fine che questo capitolo, originale 

rispetto a RM, esplicita con la metafora del medico (che rinvia alla sovrapposizione abate/Cristo di cui si parla in 

RB 2): si tratta di indurre chi pecca a pentirsi e a guarire dal proprio errore, avendo contemporaneamente cura della 

salute degli altri; di qui l’isolamento in cui viene confinato il delinquens e l’invito a pregare per lui. 

Il fatto che RB inserisca nel codice penitenziale un capitolo apposito per indicare all’abate gli interventi non solo 

punitivi, ma di sostegno (consoletur) a chi infrange la disciplina, rientra in quell’attenzione particolare espressa 

dall’autore per le situazioni personali, ne mostra insieme il disincanto dinanzi alla fallibilità delle persone (si può 

errare sia nell’infrangere la disciplina, sia nel punire le infrazioni) e la fiducia nella possibilità che tutti hanno di 

correggersi, soprattutto se aiutati dal buon esempio e dalla sollecitudine altrui. 

Il termine senpecta qui vale per “compagno, socio, persona di fiducia”, deriva verosimilmente dal greco 

sympaiktes = compagno di giochi. È stata proposta anche l’interpretazione, meno probabile, di “cataplasma, 

impacco”, nel senso di “farmaco”. 

[5] Magnopere enim debet sollicitudinem gerere abbas et omni sagacitate et industria currere, ne 

aliquam de ovibus sibi creditis perdat. [6] Noverit enim se infirmarum curam suscepisse animarum, 

non super sanas tyrannidem; [7] et metuat prophetae comminationem per quam dicit Deus: «Quod 

crassum videbatis assumebatis et quod debile erat proiciebatis» (Ez 34, 3-4). [8] Et pastoris boni pium 

imitetur exemplum, qui, relictis nonaginta novem ovibus in montibus, abiit unam ovem quae erraverat 

quaerere; [9] cuius infirmitati in tantum compassus est (Eb 4, 15), ut eam in sacris humeris suis 

dignaretur imponere et sic reportare ad gregem (Lc 15, 4-5; Mt, 18, 12). 

Dalla metafora del medico a quella del pastore, attraverso due testi fondamentali della letteratura de pastoribus del 

cristianesimo antico: la minaccia di Ezechiele contro i cattivi pastori di Israele e la parabola del buon pastore, che 

rende evidente l’assimilazione del ruolo abbaziale a quello del Cristo compiuta da RB. Si osservi anche il currere 

del § 5, che sottolinea l’urgenza e l’impegno (omni modo uti debet) con il quale al superiore è prescritto di 

intervenire a sostegno del confratello pericolante. 

Caput LVI 

De mensa Abbatis 

[1] Mensa abbatis cum hospitibus et peregrinis sit semper. [2] Quotiens tamen minus sunt hospites, 

quos vult de fratribus vocare in ipsius sit potestate. [3] Seniore tamen uno aut duo semper cum 

fratribus dimittendum propter disciplinam. 

La norma di RB irrigidisce le indicazioni date da RM 84: l’abate pranza insieme agli ospiti e i pellegrini a una 

mensa separata da quella degli altri monaci (cf. RB 53: la preoccupazione di onorare gli ospiti si associa a quella di 

evitare il contatto dei monaci con chi è estraneo al cenobio). Non è chiaro se il § 2 intenda dire che l’abate può 

invitare alla propria mensa qualche confratello nel caso in cui vi siano meno ospiti o se intenda dare questa facoltà 

solo nel caso in cui non vi sia alcun ospite (il minus si può intendere in entrambi i modi). Se fosse vera la seconda 

ipotesi, questo comporterebbe che l’abate pranzi sempre a una mensa separata, il che mal si concilia con quanto si 

legge in RB 38, 9. 

Caput LXIV 

De ordinando Abbate 

[1] In abbatis ordinatione illa semper consideretur ratio ut hic constituatur quem sive omnis concors 

congregatio secundum timorem Dei, sive etiam pars quamvis parva congregationis saniore consilio 

elegerit. [2] Vitae autem merito et sapientiae doctrina eligatur qui ordinandus est, etiam si ultimus 

fuerit in ordine congregationis. 

Questo capitolo, stando al titolo, dovrebbe integrare il cap. 2 esplicitando le prescrizioni relative alla successione 

abbaziale; in realtà riprende una serie di temi già svolti all’inizio di RB, offrendo un nuovo direttorio generale sui 

50

compiti e le qualità dell’abate. In RM 92-94 la procedura normale di nomina dell’abate è la designazione da parte 

del predecessore, che in prossimità della propria morte indica alla comunità chi ritiene degno di succedergli. Solo 

in caso di morte improvvisa o di mancata designazione era previsto l’intervento dell’abate di un altro monastero, 

incaricato a questo scopo dal vescovo. Questo metodo di designazione, a lungo in uso nella tradizione monastica 

anche posteriore, ai tempi di RM era in uso anche per la nomina del vescovo di Roma. La procedura elettiva 

indicata da RB, con gli eventuali correttivi basati sul principio della sanior pars, corrisponde alla legislazione 

giustinianea del 530 e 546 e questo è uno degli indizi su cui ci si basa per datare la redazione di RB alla metà circa 

del VI sec. 

La preoccupazione fondamentale del capitolo non è comunque quella di determinare il modo legittimo della scelta 

del successore, ma quella di garantire alla comunità un superiore degno di svolgere l’incarico. Per questo è prevista 

esplicitamente la possibilità di un intervento dall’esterno per rimediare a un’elezione falsata da parte di monaci 

corrotti e indisciplinati. 

Evidentemente, in caso di conflitto tra candidature divergenti, la determinazione di quale fosse la sanior pars 

doveva spettare al vescovo locale, forse coadiuvato dagli altri abati della diocesi. 

In RB non si trova alcuna descrizione, come invece in RM, di un rito di immissione in carica dell’abate, ma è 

evidente che oltre alla sua scelta, comunque fatta, doveva esservi nella prassi un rito religioso di benedizione che 

ne ufficializzava il mandato e lo inaugurava. 

Rilevante l’indicazione circa i criteri di scelta: vita virtuosa e sapienza, anche se l’eletto dovesse essere l’ultimo 

nella gerarchia del monastero. Una delle pratiche tradizionali di successione era, infatti, che divenisse abate il più 

anziano e chi occupava la posizione più elevata nella gerachia della comunità. 

[3] Quod si etiam omnis congregatio vitiis suis - quod quidem absit - consentientem personam pari 

consilio elegerit, [4] et vitia ipsa aliquatenus in notitia episcopi ad cuius dioecesim pertinet locus ipse 

vel ad abbates aut christianos vicinos claruerint, [5] prohibeant pravorum praevalere consensum, sed 

domui Dei dignum constituant dispensatorem, [6] scientes pro hoc se recepturos mercedem bonam, si 

illud caste et zelo Dei faciant, sicut e diverso peccatum si neglegant. 

In caso di scelta disdicevole, l’intervento correttivo può venire dal vescovo diocesano, da altri abati, da laici. RB si 

preoccupa di chiarire anche in questo caso che è meritevole un intervento mosso da disinteresse e sollecitudine per 

Dio; evidentemente, infatti, si apre qui lo spazio per abusi notevoli e forti intromissioni nella gestione del cenobio 

da parte di persone esterne in grado di influenzare la scelta del superiore. 

[7] Ordinatus autem abbas cogitet semper quale onus suscepit et cui redditurus est rationem 

vilicationis suae, [8] sciatque sibi oportere prodesse magis quam praeesse. 

L’ammonimento rivolto all’abate a considerare bene quale sia il suo compito e a chi dovrà darne conto apre la 

sezione dottrinale del capitolo, che riprende temi già svolti in RB 2. NB il tema escatologico, l’idea dell’autorità 

come servizio faticoso (onus, vilicatio) a beneficio dei sottoposti e non per soddisfare la propria ambizione 

(prodesse - praeesse). 

[9] Oportet ergo eum esse doctum lege divina, ut sciat et sit unde proferat nova et vetera (Mt 13, 52), 

castum, sobrium (1 Tim 3, 2), misericordem, [10] et semper «superexaltet misericordiam iudicio» (Gc 

2, 13) ut idem ipse consequatur. [11] Oderit vitia, diligat fratres. [12] In ipsa autem correptione 

prudenter agat et ne quid nimis, ne dum nimis eradere cupit aeruginem frangatur vas; [13] suamque 

fragilitatem semper suspectus sit, memineritque calamum quassatum non conterendum (Mt 12, 20; Is 

42, 3). [14] In quibus non dicimus ut permittat nutriri vitia, sed prudenter et cum caritate ea amputet, 

ut viderit cuique expedire sicut iam diximus, [15] et studeat plus amari quam timeri. 

Non ci sono sostanziali novità rispetto alle indicazioni del cap. 2, ma un tono meno brusco e più umano 

nell’insistere sui tratti positivi dell’azione dell’abate, che dev’essere improntata sempre a rispetto, delicatezza, 

prudenza e amore nei confronti dei monaci. NB il ne quid nimis di § 12. Il § 15 viene da Agostino (Reg VII 3). 

[16] Non sit turbulentus (Is 42, 5) et anxius, non sit nimius et obstinatus, non sit zelotypus et nimis 

suspiciosus, quia numquam requiescit; [17] in ipsis imperiis suis providus et consideratus, et sive 

secundum Deum sive secundum saeculum sit opera quam iniungit, discernat et temperet, [18] 

cogitans discretionem sancti Iacob dicentis: «Si greges meos plus in ambulando fecero laborare, 

51

morientur cuncti una die» (Gen 33, 13). 

La serie di prescrizioni negative e positive qui accumulate delinea una personalità salda nella virtù, paziente di 

fronte ai limiti propri e altrui, capace di esercitare una leadership convinta, ma disinteressata e realistica. La virtù 

che emerge è quella della dscretio: discernimento. 

[19] Haec ergo aliaque testimonia discretionis matris virtutum sumens, sic omnia temperet ut sit et 

fortes quod cupiant et infirmi non refugiant. [20] Et praecipue ut praesentem regulam in omnibus 

conservet, [21] ut dum bene ministraverit audiat a Domino quod servus bonus qui erogavit triticum 

conservis suis in tempore suo: [22] «Amen dico vobis, ait, super omnia bona sua constituit eum» (Mt 

24, 45-47; Lc 12, 42). 

Il § 19 riassume e conclude le singole prescrizioni con un’indicazione generale, che riprende lo spirito del 

programma enunciato nel prologo a proposito della istituzione della schola dominici servitii: vi sarà certamente 

qualcosa di faticoso da realizzare, ma non tale da scoraggiare fin dall’inizio chi si avvia all’impresa. 

La conclusione torna all’immagine del vilicus usata all’inizio: l’abate è un servo, un amministratore e deve far 

rendere bene la proprietà affidata alla sua cura, in modo da ricevere la ricompensa dal padrone. La consapevolezza 

di essere un servo si deve tradurre in una condotta obbediente alla regola, e suppongo che praesentem regulam si 

riferisca qui precisamente al testo della RB, non al principio enunciato al § precedente. 

Caput LXXIII 

De eo quod non omnis observatio iustitiae in hac sit Regula constituta 

[1] Regulam autem hanc descripsimus, ut hanc observantes in monasteriis aliquatenus vel honestatem 

morum aut initium conversationis nos demonstremus habere. 

Questo capitolo non ha paralleli in RM e si presenta come una riflessione generale sull’opera appena conclusa. 

Colpisce il punto di vista molto restrittivo: non si tratta di una proposta di vita per chi aspira alla perfezione, ma di 

un piccolo avviamento a una vita onesta per chi non è capace di fare di meglio. Il progresso verso forme di vita più 

esigenti è auspicato e considerato possibile, ma in tal caso ci si rivolgerà a maestri più autorevoli dell’autore della 

RB. Si esprime in questa presa di posizione un giudizio, formulato esplicitamente al § 7, molto severo sulla 

condizione del monachesimo contemporaneo, che non avrebbe nulla da insegnare e solo da apprendere dagli 

esempi dei predecessori. C’è indubbiamente in questo modo di esprimersi un elemento retorico: minimizzare se 

stessi e il presente rispetto alla tradizione; ma si tratta di una diagnosi alla quale Benedetto probabilmente aderiva 

davvero. L’estrema sobrietà con la quale Benedetto presenta il proprio lavoro non significa, però, ch’egli non gli 

attribuisca un valore vincolante per chi fa professione monastica: cf. RB 58; 64, 20; 66, 8 p.e. 

[2] Ceterum ad perfectionem conversationis qui festinat, sunt doctrinae sanctorum patrum, quarum 

observatio perducit hominem ad celsitudinem perfectionis. [3] Quae enim pagina aut qui sermo 

divinae auctoritatis veteris ac novi testamenti non est rectissima norma vitae humanae? [4] Aut quis 

liber sanctorum catholicorum patrum hoc non resonat ut recto cursu perveniamus ad creatorem 

nostrum? [5] Necnon et Collationes Patrum et Instituta et Vitas eorum, sed et Regula sancti patris 

nostri Basilii, [6] quid aliud sunt nisi bene viventium et oboedientium monachorum instrumenta 

virtutum? [7] Nobis autem desidiosis et male viventibus atque neglegentibus rubor confusionis est. 

I suggerimenti di lettura qui offerti colpiscono per l’esplicita professione di ortodossia cattolica formulata 

dall’autore. È in questa tradizione cattolica ortodossa che si collocano anche le grandi opere dei maestri spirituali 

monastici, che accompagnano la lettura e l’osservanza della Scrittura. Se collationes patrum et instituta non sono 

qui mere indicazioni di genere letterario (come si potrebbe pensare per il fatto che subito dopo si accenna alle vitas 

eorum) possiamo riconoscere i titoli delle due opere più famose di Giovanni Cassiano (cf. anche RB 42, 3), messo 

accanto al «nostro santo padre Basilio» come guida a monaci virtuosi e obbedienti. 

[8] Quisquis ergo ad patriam caelestem festinas, hanc minimam inchoationis regulam descriptam, 

adiuvante Christo, perfice, [9] et tunc demum ad maiora quae supra commemoravimus doctrinae 

virtutumque culmina, Deo protegente, pervenies. Amen. 

52

Si torna alla fine del libro, come già nel prologo, alla seconda persona singolare e all’invito a intraprendere con 

slancio (festinas) la strada verso la patria, il cielo con l’aiuto di Cristo e di Dio. 

È interessante osservare che mentre ancora per Girolamo e Cassiano, all’inizio della diffusione del monachesimo 

in Occidente, la disciplina cenobitica si identifica con il vivere sotto l’autorità di un abate, qui RB, come già RM, 

aggiunge a quella dell’abate l’autorità della regola, intesa come codice normativo messo per iscritto (NB l’uso del 

singolare e la sottolineatura descriptam): il cenobita in RB 1 era stato definito come colui che milita «sub regula 

vel abbate». Tuttavia il valore che si assegna ad essa non è quello di un codice rigorosamente normativo: l’autorità 

rimane quella della tradizione e della Scrittura, mediata caso per caso dal discernimento dell’abate. 

2.3. Cellerario e priore 

Caput XXXI 

De Cellarario Monasterii 

[1] Cellararius monasterii eligatur de congregatione, sapiens, maturis moribus, sobrius, non multum 

edax, non elatus, non turbulentus, non iniuriosus, non tardus, non prodigus, [2] sed timens Deum; qui 

omni congregationi sit sicut pater. 

Il cap. riprende indicazioni di RM 16. Dopo una sezione introduttiva dedicata soprattutto alla presentazione dei 

capisaldi spirituali e disciplinari della vita monastica, dopo l’ordo liturgico e il codice penitenziale, inizia con 

questo capitolo la sezione propriamente organizzativa della RB, che provvede ai diversi aspetti della vita concreta 

della comunità e arriva fino al cap. 57; i capp. 31-41 in particolare hanno per filo conduttore il tema 

dell’alimentazione e dei beni materiali destinati alle necessità dei monaci. Non per caso, questa sezione si apre con 

il capitolo dedicato a colui al quale è affidata la gestione annonaria del cenobio (dispensa, cantina, oggetti d’uso). 

Non è detto esplicitamente a chi spetti di eligere il cellerario, si può supporre che sia l’abate a nominarlo, 

eventualmente su consiglio dei confratelli. Quel che invece la regola sottolinea è che deve trattarsi di un membro 

della comunità, non si può affidare questo compito a un amministratore esterno. 

Colpisce la formulazione impegnativa che viene data per una funzione così prosaica, la cui descrizione si trasforma 

in un’elevata esortazione morale, nella quale abbondano prescrizioni di carattere spirituale e scarseggiano le 

indicazioni pratiche. Le caratteristiche che vengno enumerate richiamano sia il cap. 64 sull’abate, sia alcuni punti 

del cap. 4 sugli strumenti delle buone opere. Le virtù che gli vengono richieste sono quelle che favoriscono il 

rapporto con un amministratore: dev’essere accorto, ma affabile e e pio; interessante il cenno al fatto che non sia 

mangione (cf. RB 4, 36): virtù necessaria a uno che ha le chiavi della dispensa. 

La paternità che egli esercita sui confratelli è simile a quella esercitata dall’abate (cf. RB 2, 7). La preoccupazione 

evidente dell’autore è che coloro che hanno ruoli di prestigio nella comunità li rivestano con un atteggiamento che 

garantisca da parte loro correttezza e maturità umana e spirituale. 

[3] Curam gerat de omnibus; [4] sine iussione abbatis nihil faciat. [5] Quae iubentur custodiat; [6] 

fratres non contristet. [7] Si quis frater ab eo forte aliqua irrationabiliter postulat, non spernendo eum 

contristet, sed rationabiliter cum humilitate male petenti deneget. [8] Animam suam custodiat, memor 

semper illud apostolicum quia «qui bene ministraverit gradum bonum sibi acquirit» (1 Tim 3, 13). [9] 

Infirmorum, infantum, hospitum pauperumque cum omni sollicitudine curam gerat, sciens sine dubio 

quia pro his omnibus in die iudicii rationem redditurus est. 

[10] Omnia vasa monasterii cunctamque substantiam ac si altaris vasa sacrata conspiciat. [11] Nihil 

ducat neglegendum. [12] Neque avaritiae studeat, neque prodigus sit et stirpator substantiae 

monasterii, sed omnia mensurate faciat et secundum iussionem abbatis. 

Prescrizioni concernenti l’adempimento del compito nei confronti degli altri e degli oggetti del monastero. Le 

indicazioni sono molto generali, ma significative: abbia cura di tutti, obbedisca all’abate e conservi verso i 

confratelli - in particolare verso coloro che sono più esposti a necessità particolari (cf. per i malati RB 36, per i 

fanciulli e i vecchi anche RB 37 e RB 53 per gli ospiti e i poveri) - un atteggiamento positivo e rispettoso, anche 

quando è costretto a dare una risposta negativa ad una richiesta inopportuna. Il richiamo ricorrente (cf. i capp. 2 e 

64 sull’abate) a tenere conto della sensibilità e delle necessità dei singoli è un tratto proprio di RB rispetto a RM, 

discende forse dall’influsso agostianiano. 

53

La medesima cura che ha per le persone il cellerario deve osservare verso i beni del monastero, che non deve 

trattare come se fossero cosa sua propria, ma come suppellettili sacre. 

NB la similitudine dei vasi dell’altare e la parallela descrizione del cellerario utilizzando le parole di 1 Tim 

concernenti il diacono, la definizione del monastero come domus Dei (RB 31, 19; 53, 22; 64, 4) sembrano spie di 

un processo di sacralizzazione che investe la totalità degli spazi e delle attività all’interno del cenobio. 

[13] Humilitatem ante omnia habeat, et cui substantia non est quod tribuatur, sermo responsionis 

porrigatur bonus, [14] ut scriptum est: «Sermo bonus super datum optimum» (Sir 18, 17; Gc 1, 17). 

[15] Omnia quae ei iniunxerit abbas, ipsa habeat sub cura sua; a quibus eum prohibuerit, non 

praesumat. [16] Fratribus constitutam annonam sine aliquo typho vel mora offerat, ut non 

scandalizentur, memor divini eloquii quid mereatur «qui scandalizaverit unum de pusillis» (Mt 18, 6). 

Ancora un richiamo esplicito all’umiltà e all’obbedienza da parte del cellerario, che deve consegnare ai fratelli ciò 

che è stabilito dall’abate, senza far pesare il proprio giudizio e il proprio potere. E se non può dare qualcosa, a 

causa delle condizioni materiali, dia almeno una buona parola in risposta. 

[17] Si congregatio maior fuerit, solacia ei dentur, a quibus adiutus et ipse aequo animo impleat 

officium sibi commissum. [18] Horis competentibus dentur quae danda sunt et petantur quae petenda 

sunt, [19] ut nemo perturbetur neque contristetur in domo Dei. 

Alla premura e sollecitudine per i bisogni e la tranquillità degli altri corrisponde analoga preoccupazione anche per 

la serenità del cellerario, al quale, se è il caso, si prevede di poter offrire degli aiuti, perché possa svolgere senza 

troppo affanno il proprio compito (preoccupazione che si affaccia anche per i settimanari di cucina e per il 

portinaio). 

Interessante il cenno ai §§ 6; 7 e 19 sulla necessità che i monaci non si contristino a vicenda: se è vero che RB ha 

un atteggiamento molto severo nei confronti del riso, tiene però a che la vita del monaco si svolga all’insegna della 

serenità. Un cenno merita anche il fatto che non solo si tratta di dare in modo ordinato e misurato, ma anche di 

chiedere: al monaco non è vietato di domandare ciò di cui ha eventualmente bisogno, come accade nel 

monachesimo egiziano e anche nella regola di Basilio. 

Dal momento che tutti sono in una condizione di indigenza, poiché si sono spogliati di ogni proprietà e non 

dispongono di mezzi propri di sussistenza (cf. il riferimento ai pusilli al § 16), diventa essenziale per una 

convivenza ordinata e pacifica che chi dispone del controllo delle risorse comuni le amministri in modo 

coscienzioso, disinteressato e tenendo conto delle necessità legittime di ciascuno. 

Caput LXV 

De Praeposito Monasterii 

[1] Saepius quidem contigit ut per ordinationem praepositi scandala gravia in monasteriis oriantur, [2] 

dum sint aliqui maligno spiritu superbiae inflati et aestimantes se secundos esse abbates, assumentes 

sibi tyrannidem, scandala nutriunt et dissensiones in congregationes faciunt, [3] et maxime in illis 

locis ubi ab eodem sacerdote vel ab eis abbatibus qui abbatem ordinant, ab ipsis etiam et praepositus 

ordinatur. [4] Quod quam sit absurdum facile advertitur, quia ab ipso initio ordinationis materia ei 

datur superbiendi, [5] dum ei suggeritur a cogitationibus suis exutum eum esse a potestate abbatis sui, 

[6] quia ab ipsis es et tu ordinatus a quibus et abbas. [7] Hinc suscitantur invidiae, rixae, detractiones, 

aemulationes, dissensiones, exordinationes, [8] ut dum contraria sibi abbas praepositusque sentiunt, et 

ipsorum necesse est sub hanc dissensionem animas periclitari, [9] et hi qui sub ipsis sunt, dum 

adulantur partibus, eunt in perditionem. [10] Cuius periculi malum illos respicit in capite qui talius 

inordinationis se fecerunt auctores. 

Capitolo originale di RB, espressione di preoccupazioni relative all’esercizio dell’autorità all’interno del cenobio 

che probabilmente RM non conosceva o non viveva con la medesima intensità. 

Mentre in genere un capitolo inizia con un principio generale, la menzione di una necessità alla quale si intende 

provvedere o una citazione scritturistica, questo inizia con la descrizione piuttosto lugubre dei disordini che spesso 

insorgono nei cenobi in relazione con l’istituzione, accanto all’abate, di un preposito o priore; soprattutto se al 

prescelto l’incarico viene ufficialmente conferito da qugli stessi che ordinano l’abate, dando luogo alla presunzione 

54

che il preposito non sia assoggettato all’autorità dell’abate, perché stabilito nel proprio ufficio da quegli stessi che 

provvedono anche alla benedizione abbaziale. Il tono allarmato e amaro della descrizione sembra legato a 

esperienze dirette che suscitano nell’autore forte perplessità nei confronti del modo in cui questa funzione viene 

attribuita e svolta nei cenobi contemporanei. È strano che RB inizi a trattare di una carica dicendone solo i pericoli 

gravissimi che essa comporta. Perché allora non rinunciarvi semplicemente, come del resto ha fatto RM? 

Il § 3 conferma indirettamente l’esistenza di un rito per l’immissione dell’abate nel proprio ufficio, anche se RB 

non ne parla ai capp. 2 e 64. Non è chiaro se qui ordinatio significhi solo il rito liturgico dell’immissione 

nell’ufficio o anche la scelta. In entrambi i casi RB mostra un atteggiamento molto diffidente nei confronti di una 

figura che può essere percepita come un secondo abate (§ 2). 

Da notare ai §§ 5-6 il discorso diretto, nel quale vengono riprodotti i pensieri che possono tentare il preposito; la 

messa in guardia dai propri pensieri, attraverso i quali parla il demonio, è un aspetto di quel costante invito ad 

abbandonare la volontà propria che attraversa RB. NB la descrizione fosca della divisione interna che può derivare 

dal conflitto fra i due superiori e le loro fazioni, provocata dalla leggerezza di coloro che hanno ordinato il 

preposito. 

Meraviglia il fatto che in RB la figura del preposito sia nominata solo una volta e di sfuggita (21, 7), mentre qui se 

ne parla in termini che denotano una viva preoccupazione per questa istituzione, che fra l’altro sembra 

difficilmente armonizzabile con la figura dei decani. 

[11] Ideo nos vidimus expedire propter pacis caritatisque custodiam in abbatis pendere arbitrio 

ordinationem monasterii sui; [12] et si potest fieri per decanos ordinetur, ut ante disposuimus, omnis 

utilitas monasterii, prout abbas disposuerit, [13] ut, dum pluribus committitur, unus non superbiat. 

[14] Quod si aut locus expetit aut congregatio petierit rationabiliter cum humilitate et abbas 

iudicaverit expedire, [15] quemcumque elegerit abbas cum consilio fratrum timentium Deum ordinet 

ipse sibi praepositum. 

Benedetto è chiaramente contrario alla presenza di un preposito nel cenobio e preferisce che i collaboratori 

dell’abate siano più d’uno, tutti allo stesso titolo e tutti subordinati all’autorità del superiore (sui decani cf. RB 21; 

62, 7). L’evoluzione dei cenobi benedettini andrà invece in direzione opposta e porterà alla rapida scomparsa del, 

già poco rilevante in RB, istituto dei decani, mentre si affermerà l’uso di nominare un priore claustrale che governi 

il cenobio come vicario dell’abate. 

Interessante la motivazione: per la conservazione della pace e della carità è bene che tutta l’autorità nel cenobio sia 

nelle mani di uno solo. Resta comunque ammessa anche, per necessità o su ragionevole richiesta della comunità, la 

scelta di un preposito, che verrà fatta dall’abate, con il consiglio dei confratelli e senza interventi esterni né per la 

sua scelta né per la sua immissione nell’ufficio. 

[16] Qui tamen praepositus illa agat cum reverentia quae ab abbate suo ei iniuncta fuerint, nihil contra 

abbatis voluntatem aut ordinationem faciens, [17] quia quantum praelatus est ceteris, ita eum oportet 

sollicitius observare praecepta regulae. [18] Qui praepositus si repertus fuerit vitiosus aut elatione 

deceptus superbire, aut contemptor sanctae regulae fuerit comprobatus, admoneatur verbis usque 

quater; [19] si non emendaverit, adhibeatur ei correptio disciplinae regularis. [20] Quod si neque sic 

correxerit, tunc deiciatur de ordine praepositurae et alius qui dignus est in loco eius surrogetur. [21] 

Quod si et postea in congregatione quietus et oboediens non fuerit, etiam de monasterio pellatur. [22] 

Cogitet tamen abbas se de omnibus iudiciis suis Deo reddere rationem, ne forte invidiae aut zeli 

flamma urat animam. 

Disposizioni in positivo e in negativo sul modo in cui il preposito deve svolgere il proprio compito: l’unica 

preoccupazione, fortissimamente sottolineata, è che egli si conservi in una posizione di subordinazione rispettosa 

nei confronti dell’abate e della regola (NB). In caso di insubordinazione e conflitto vi è una gradualità di interventi 

correttivi, che può arrivare fino all’espulsione dalla comunità. Interessante l’indicazione di ammonire il preposito 

fino a quattro volte (in RB 21, 7 ai decani si danno solo tre ammonizioni prima di rimuoverli) e anche l’esortazione 

all’abate a non lasciarsi sopraffare dalla gelosia e dall’invidia nei confronti del preposito. 

2.4. La comunità 

55

a) Partecipazione al governo 

Caput III 

De adhibendis ad consilium fratribus 

[1] Quotiens aliqua praecipua agenda sunt in monasterio, convocet abbas omnem congregationem et 

dicat ipse unde agitur, [2] et audiens consilium fratrum tractet apud se et quod utilius iudicaverit 

faciat. [3] Ideo autem omnes ad consilium vocari diximus quia saepe iuniori Dominus revelat quod 

melius est. 

Una volta definita personalità e compiti dell’abate, RB tratta del consiglio dei fratelli, separando questo argomento 

dal precedente, che RM trattava in un unico capitolo (RM 2, 41-51), e svolgendolo con una certa libertà rispetto 

alla propria fonte. In realtà, anche in RB si tratta di una specie di appendice al capitolo sull’abate, visto che la 

convocazione dei fratelli, la scelta degli argomenti da discutere, la valutazione delle opinioni e la decisione finale 

spettano comunque in toto all’abate; tuttavia il fatto di separare questo capitolo da quello sull’abate conferisce al 

tema svolto un rilievo maggiore ed è di per sé indizio di un’attenzione maggiore e una sottolineatura del carattere 

costitutivo che ha per la vita del cenobio anche il coinvolgimento dei fratelli nell’esame dei problemi comuni. 

L’interesse del testo sta nel mostrare la complessa relazione che si stabilisce tra l’autorità dell’abate, quella della 

regola e la partecipazione dei fratelli alla valutazione dei problemi comuni e alle decisioni. Colpisce la rinuncia a 

indicare meccanismi concreti di funzionamento, al di là della delega all’abate della responsabilità procedurale e 

dell’enunciazione di principi guida che devono ispirare l’atteggiamento di ciascun soggetto coinvolto. 

[4] Sic autem dent fratres consilium cum omni humilitatis subiectione, et non praesumant procaciter 

defendere quod eis visum fuerit, [5] et magis in abbatis pendat arbitrio, ut quod salubrius esse 

iudicaverit ei cuncti oboediant. [6] Sed sicut discipulos convenit oboedire magistro, ita et ipsum 

provide et iuste condecet cuncta disponere. 

Un tratto della RB è l’attenzione agli aspetti differenti delle cose, con il risultato di dare talvolta indicazioni la cui 

attuazione non è così semplice: ha appena detto che l’abate decide se e quando convocare i fratelli; ma al § 3 

precisa che li deve convocare tutti. Qui dà indicazioni sul modo in cui i fratelli devono esprimere il proprio parere 

all’abate, in termini di massima umiltà (cf. RB 6, 7) e senza insistenza; ma subito al § 6 aggiunge che, se a loro 

spetta obbedire, all’abate spetta di prendere provvedimenti opportuni; torna l’immagine della schola come già nel 

prologo (cf. RB prol. 45) e nel capitolo sull’obbedienza: il maestro parla e i discepoli ascoltano, ma la riserva 

indica l’implicita consapevolezza che l’abate può benissimo sbagliare e prendere decisioni non ponderate a 

sufficienza. 

[7] In omnibus igitur omnes magistram sequantur regulam, neque ab ea temere declinetur a quoquam. 

[8] Nullus in monasterio proprii sequatur cordis voluntatem, [9] neque praesumat quisquam cum 

abbate suo proterve aut foris monasterium contendere. [10] Quod si praesumpserit, regulari 

disciplinae subiaceat. [11] Ipse tamen abbas cum timore Dei et observatione regulae omnia faciat, 

sciens se procul dubio de omnibus iudiciis suis aequissimo iudici Deo rationem redditurum. [12] Si 

qua vero minora agenda sunt in monasterii utilitatibus, seniorum tantum utatur consilio, [13] sicut 

scriptum est: «Omnia fac cum consilio et post factum non paeniteberis» (Sir 32, 24; Prov 31, 3). 

Rispetto a RM qui RB aggiunge un elemento nuovo e importante: sia i monaci sia l’abate sono tenuti ad obbedire 

alla regola, e pare chiaro (visto anche l’uso del termine regula al singolare) che si riferisca proprio al testo che sta 

componendo. Questa regola ha autorità anche sul superiore, è magistra. La sua osservanza è garanzia perché 

nessuno, nemmeno il superiore, sia indotto a sottrarsi all’obbedienza, cioè a seguire la propria volontà. Cf. in RB 1, 

2 la definizione dei cenobiti come di coloro che militano sub regula vel abbate. 

I §§ 9-11 obbediscono di nuovo, per così dire, al ritmo del colpo al cerchio e alla botte: l’autorità dell’abate va in 

ogni modo salvaguardata, anche dal punto di vista formale; perciò è fatto divieto ai monaci di discutere con lui in 

modo ostinato o all’esterno del monastero (il che farebbe supporre che almeno all’interno del monastero sia 

concesso loro di ragionare con lui, sia pure in termini rispettosi e moderati). Contemporaneamente, all’abate è di 

nuovo ricordato che delle proprie decisioni dovrà rendere conto a Dio (cf. RB 2, 34) e che i criteri che lo devono 

guidare sono il timore di Dio e l’obbedienza alla regola. Benedetto ha sommamente a cuore la tutela delle 

prerogative dell’abate, ma sa anche benissimo che chi dispone di tanta libertà di azione è esposto al rischio di 

esercitare un potere arbitrario sui suoi sottoposti, perciò cerca di porre un argine, sia pure ricorrendo all’esortazione 

56

spirituale e non a strumenti di tipo istituzionale. 

Diversamente da RM, che prevedeva un unico consiglio, RB prevede che vi sia un consiglio dell’intera comunità 

per discutere le questioni di maggior peso e un consiglio ristretto, costituito solo dagli anziani del monastero, per 

discutere gli affari di importanza minore. 

Caput XXI 

De Decanis Monasterii 

[1] Si maior fuerit congregatio, eligantur de ipsis fratres boni testimonii et sanctae conversationis, et 

constituantur decani, [2] qui sollicitudinem gerant super decanias suas in omnibus secundum mandata 

Dei et praecepta abbatis sui. [3] Qui decani tales eligantur in quibus securus abbas partiat onera sua, 

[4] et non eligantur per ordinem, sed secundum vitae meritum et sapientiae doctrinam. 

[5] Quique decani, si ex eis aliqua forte quis inflatus superbia repertus fuerit reprehensibilis, correptus 

semel et iterum atque tertio si emendare noluerit, deiciatur, [6] et alter in loco eius qui dignus est 

surrogetur. [7] Et de praeposito eadem constituimus. 

Dopo l’ordo liturgico, i capitoli dal 21 al 57 sono dedicati all’organizzazione della vita interna e della disciplina del 

cenobio. Il capitolo conserva l’essenziale del lungo capitolo RM 11, anche se la drastica riduzione quantitativa 

dipende probabilmente da una diversa valutazione dell’importanza di questo ufficio, che pure conserva agli occhi 

di Benedetto un certo peso; progressivamente la funzione dei decani verrà sempre più marginalizzata, fino a 

scomparire nell’organizzazione del monachesimo cluniacense e nella tradizione successiva, venendo ripristinato 

solo in anni recenti e con funzioni significativamente diverse nel monachesimo benedettino contemporaneo. 

Il modello dell’organizzazione decanale è tipico del monachesimo egiziano e risente, da una parte, dell’esempio 

offerto dall’esercito romano, nel quale un decurione era posto a capo di un gruppo di dieci soldati (tale impronta 

militare è evidente nell’organizzazione decanale delle comunità pacomiane), dall’altra da Es 18, 21-22 (ripreso in 

Dt 1, 13 e At 6, 1-3), in cui a Mosè viene consigliato da suo suocero Ietro di dividere il peso della guida del popolo 

ricorrendo a una gerarchia di collaboratori fidati e saggi. Non è detto a chi spetti la scelta di questi collaboratori 

(previsti solo nel caso di una comunità piuttosto numerosa), ma è ragionevole supporre che tale elezione spettasse 

all’abate. 

Il compito dei decani è provvedere ai gruppi di monaci loro affidati, seguendo in questo i comandamenti di Dio e le 

prescrizioni dell’abate. RB non precisa nel dettaglio funzioni e compiti specifici dei decani, ma si può supporre che 

essi fossero soprattutto collegati alla sorveglianza e alla disciplina dei monaci. 

È interessante il richiamo al criterio di scelta, che non deve essere quello dell’anzianità, ma del merito personale: 

come nel caso dell’abate e di altri officiali del cenobio, anche qui all’autore sta a cuore soprattutto che la persona 

prescelta abbia determinati requisiti di maturità spirituale. Da una parte, RB è attenta a offrire un criterio oggettivo 

che organizzi le relazioni dei monaci all’interno del cenobio (l’ordine di ingresso nella comunità, che viene fatto 

valere in tutti i casi in cui la comunità deve esprimersi nel suo insieme: coro, refettorio, decisioni comuni...); 

dall’altra parte, però, non rinuncia a lasciare spazio a un criterio soggettivo, che tenga conto del valore delle 

persone, e lo affida al buon senso dell’abate. 

L’espressione vitae meritum et sapientiae doctrinam ricorre anche in RB 64, 2; indica evidentemente non che nei 

decani è richiesta cultura scientifico-filosofica, ma saggezza e conoscenza nella legge di Dio. 

Nel caso di mancanze disciplinari, mentre per i monaci è prevista una duplice ammonizione (RB 23, 2), per i 

decani si prevede un triplice richiamo prima di ricorrere alla misura drastica della rimozione dall’ufficio. Il § 7 è 

l’unico nel quale viene fatta menzione del preposito/priore al di fuori del capitolo che gli viene espressamente 

dedicato; un indizio del fatto che il modello ideale di cenobio al quale l’autore si ispira non prevede la presenza di 

questa figura. Nel cap. 65, diversamente da quanto qui annotato, si prevedono per il priore addirittura quattro 

ammonizioni prima della punizione. Evidentemente RB 65 è stato aggiunto in un secondo momento, e anche un 

po’ a malincuore, a integrare il tipo di organizzazione inizialmente delineato. 

b) Funzioni particolari nella comunità 

Caput XXXV 

De septimanariis coquinae 

[1] Fratres sibi invicem serviant, ut nullus excusetur a coquinae officio, nisi aut aegritudo, aut in 

causa gravis utilitatis quis occupatus fuerit, [2] quia exinde maior merces et caritas acquiritur. [3] 

57

Imbecillibus autem procurentur solacia, ut non cum tristitia hoc faciant; [4] sed habeant omnes 

solacia secundum modum congregationis aut positionem loci. [5] Si maior congregatio fuerit, 

cellararius excusetur a coquina, vel si qui, ut diximus, maioribus utilitatibus occupantur; [6] ceteri sibi 

sub caritate invicem serviant. 

Nell’ambito dell’organizzazione materiale del cenobio il cap. 31, che descrive le funzioni del cellerario, apre la 

sezione che va fino al cap. 57 e che descrive attività e uffici tutti più o meno in rapporto con quello del cellerario. 

Alle questioni legate all’alimentazione dei monaci RB dedica grandissima attenzione: i capitoli 35-41 sono tutti 

direttamente o indirettamente interessati a questo tema. Questo capitolo riassume il contenuto di RM 18-23. 

La prassi della rotazione settimanale in vari servizi comunitari è tipica del monachesimo egiziano, e viene ripresa 

anche da RM. 

Mentre la trattazione dei decani (RB 21) e quella del cellerario (RB 31) rinviano soprattutto al passo degli At 6 

relativo all’istituzione dei diaconi e a quello sulla scelta degli anziani fatta da Mosè nel deserto (Es 18, 21-22), 

questo capitolo collegherà il servizio della cucina al gesto della lavanda dei piedi compiuto da Gesù nell’ultima 

cena. Si tratta di indicazioni molto esplicite sulla funzione ministeriale attribuita a chi svolge un ufficio nel 

cenobio. RB infatti fa anche del servizio di cucina un’occasione di esercizio ascetico e di manifestazione 

dell’amore reciproco, perciò precisa che a nessuno, salvo eccezioni, sia risparmiata questa incombenza, anche se a 

chi ne avrà bisogno si dovrà dare l’aiuto che gli serve per compierla senza troppa fatica. 

NB il cenno alla posizione del luogo al § 4: numero e condizioni di chi serve in cucina potranno variare in 

rapporto, p.e., con la distanza da fonti di acqua o di approvvigionamento di alimenti ecc. 

Si noti in § 1 l’anacoluto costituito dal nominativo aegritudo. La proposizione del § 2 potrebbe riferirsi sia al fatto 

che si guadagna più merito col servirsi a vicenda, sia al fatto che chi è malato o ha compiti importanti acquista più 

meriti in ciò che nel servizio di cucina. Notare l’inclusione ai §§ 1 e 6: sibi invicem serviant. 

[7] Egressurus de septimana sabbato munditias faciat. [8] Lintea cum quibus sibi fratres manus aut 

pedes tergunt lavent. [9] Pedes vero tam ipse qui egreditur quam ille qui intraturus est omnibus 

lavent. [10] Vasa ministerii sui munda et sana cellarario reconsignet; [11] qui cellararius item intranti 

consignet, ut sciat quod dat aut quod recipit. 

RB sembra supporre che il responsabile del servizio di cucina sia uno solo alla settimana e che gli altri monaci che 

lo aiutano lo facciano in veste di collaboratori. Il servizio inizia la domenica mattina e termina la sera del sabato. 

Viene precisato che al termine della settimana si deve fare pulizia nei locali, riconsegnare gli utensili in ordine al 

cellerario e fare il bucato. Annotazione dettata certamente da buonsenso pratico e tuttavia essa esprime anche il 

valore formativo per lo spirito di autocontrollo vigilanza e servizio che la condotta del monaco deve esprimere in 

ogni circostanza. 

L’uscente e l’entrante lavano i piedi dei confratelli; anche agli ospiti e ai pellegrini è previsto che vengano lavati i 

piedi (RB 53, 13): gesto che ha un significato insieme pratico e rituale. Considerato il valore che ha questo gesto in 

Gv 13, esso configura il servizio alla mensa nientemeno che come una imitatio Christi. Il § 8 fa capire che il 

lavaggio delle mani e dei piedi non è comunque solo un’operazione settimanale... 

Il ritmo settimanale del servizio potrebbe essere collegato a 2 Cr 23, 8 (Vulgata) che descrive il servizio delle 

diverse classi di leviti al tempio di Gerusalemme: sarebbe un ulteriore indizio del processo di sacralizzazione che 

investe tutte le attività della vita monastica, ricollegandone i ritmi al culto prestato nel tempio. 

[12] Septimanarii autem ante unam horam refectionis accipiant super statutam annonam singulas 

biberes et panem, [13] ut hora refectionis sine murmuratione et gravi labore serviant fratribus suis. 

[14] In diebus tamen sollemnibus usque ad missas sustineant. 

Visto che oltre alla preparazione dei pasti il settimanario e i suoi collaboratori devono anche servire i confratelli a 

tavola, RB prevede che possano prendere un po’ di cibo (precisa un sorso/bicchiere di vino e del pane) prima del 

pasto comune, in modo da non essere troppo aggravati dal digiuno (tenuto conto del fatto che il pasto viene preso a 

sesta nei giorni di doppia refezione, per lo più l’unico pasto viene preso dopo nona, mentre in quaresima il digiuno 

dura fino a vespro: cf. RB 41). Al § 3 si era preoccupato di eliminare i motivi di tristitia, qui al § 13 si preoccupa di 

eliminare cause di legittima murmuratio: l’autore è estremamente attento a equilibrare la richiesta al monaco di 

assumere atteggiamenti pazienti e positivi in ogni circostanza e la premura perché questo esercizio non sia troppo 

esigente e improbo. 

Il § 14 non è di interpretazione univoca: sembra alludere alle orazioni conclusive della celebrazione eucaristica, ma 

può anche riferirsi alla preghiera conclusiva dell’ufficio o del pasto stesso. Il senso è che, nei giorni nei quali 

veniva distribuita l’eucaristia, il digiuno eucaristico richiedeva che il piccolo supplemento riservato ai settimanari 

58

di cucina venisse omesso. Il § attesta che la celebrazione eucaristica quotidiana non è ancora in uso all’epoca di 

composizione della RB. 

[15] Intrantes et exeuntes hebdomadarii in oratorio mox matutinis finitis dominica omnibus genibus 

provolvantur postulantes pro se orari. [16] Egrediens autem de septimana dicat hunc versum: 

«Benedictus es, Domine Deus, qui adiuvasti me et consolatus es me» (Dan 3, 52; Sal 88, 17) [17] quo 

dicto tertio accepta benedictione egrediens, subsequatur ingrediens et dicat: «Deus in adiutorium 

meum intende, Domine ad adiuvandum me festina» (Sal 69, 2), [18] et hoc idem tertio repetatur ab 

omnibus et accepta benedictione ingrediatur. 

L’inizio e la conclusione del servizio di cucina vengono solennizzati con un breve rito che si compie nell’oratorio 

del monastero dopo le lodi della domenica. È un indizio importante del valore attribuito a questa attività di per sé 

molto modesta. Secondo De Vogue (VII, 120), l’espressione omnibus genibus provolvantur, che RB non adopera 

altrimenti, dal momento che parla di un “gettarsi ai piedi o a terra”, può indicare una inclinazione all’altezza delle 

ginocchia di coloro che vengono supplicati. La rubrica serve forse ad adeguare il rituale monastico all’uso stabilito 

dal canone 20 del concilio di Nicea (325) di non inginocchiarsi di domenica. Si noti la triplice ripetizione dei due 

versetti per l’inizio e la fine del servizio di cucina. 

Caput XXXVIII 

De hebdomadario Lectore 

[1] Mensis fratrum lectio deesse non debet, nec fortuito casu qui arripuerit codicem legere ibi, sed 

lecturus tota hebdomada dominica ingrediatur. [2] Qui ingrediens post missas et communionem petat 

ab omnibus pro se orari, ut avertat ab ipso Deus spiritum elationis, [3] et dicatur hic versus in oratorio 

tertio ab omnibus, ipso tamen incipiente: «Domine, labia mea aperies, et os meum adnuntiabit laudem 

tuam» (Sal 50, 17) [4] et sic accepta benedictione ingrediatur ad legendum. 

Alla regolamentazione dei pasti appartiene anche questo capitolo, dedicato al compito del lettore settimanale, che 

deve leggere durante il pasto comune. La lettura ai pasti ha la funzione pratica di impedire le chiacchiere inutili ed 

è intesa dalla tradizione come realizzazione concreta dell’affermazione di Mt 4, 4: «non di solo pane vive l’uomo, 

ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cf RM 24, 4). Il compito di leggere, come quello di servire a tavola 

è ritualizzato e sacralizzato dalla preghiera. La scelta del versetto da ripetere collega la lettura della mensa a quella 

dell’ufficio notturno, che si apre con la medesima formula. 

Questo passo è uno dei pochi di RB in cui si menzionano la messa e la comunione della domenica (ma il termine 

missa in RB non ha un significato univoco, potendo indicare anche le orazioni conclusive dell’ufficio o della 

mensa); altri brevi cenni alla comunione o alla celebrazione eucaristica si trovano in RB 59, 2. 8; 62, 6; 63, 4; altri 

due riferimenti sono incerti: RB 35, 14; 60, 4. Questa modestia contrasta con l’ampiezza dello spazio dedicato alla 

codificazione della celebrazione della liturgia delle ore (RB 8-20). Il silenzio non significa in questo caso 

disinteresse, ma accettazione tacita delle consuetudini e delle norme condivise. Mentre il cursus della liturgia delle 

ore è un fatto proprio della comunità monastica, i ritmi e la modalità della celebrazione eucaristica rispecchiano la 

disciplina comune dell’epoca e perciò né RM né RB sentono il bisogno di aggiungere note particolari. 

Dal § 2 si può dedurre ragionevolmente che, diversamente da RM, RB preveda la celebrazione domenicale 

dell’eucaristia all’interno dell’oratorio del monastero. Meno sicuro è se il successivo § 10 si riferisca alla pratica 

della comunione quotidiana al di fuori della messa, come in RM 21-22. Certamente non è in uso ai tempi della RB 

la celebrazione quotidiana della messa, che si afferma a partire dall’età carolingia, quando, per lo meno nei grandi 

monasteri, si moltiplica il numero dei monaci chierici e si diffonde l’uso di celebrare una messa conventuale 

quotidiana insieme a una molteplicità di messe private a imitazione del culto che si celebra a Roma presso i diversi 

santuari della città (il parallelismo monastero - città di Roma si aggiunge e sovrappone a quello tra il monastero e 

la Gerusalemme escatologica, città/tempio di Dio e dei salvati). 

[5] Et summum fiat silentium, ut nullius mussitatio vel vox nisi solius legentis ibi audiatur. [6] Quae 

vero necessaria sunt comedentibus et bibentibus sic sibi vicissim ministrent fratres ut nullus indigeat 

petere aliquid; [7] si quid tamen opus fuerit, sonitu cuiuscumque signi potius petatur quam voce. [8] 

Nec praesumat ibi aliquis de ipsa lectione aut aliunde quicquam requirere, ne detur occasio; [9] nisi 

forte prior pro aedificatione voluerit aliquid breviter dicere. 

59

Nel monachesimo egiziano è previsto che i monaci prendano il pasto comune in assoluto silenzio; Basilio e la 

tradizione cappadoce prevedono invece che il pasto sia accompagnato dalla lettura. In entrambi i casi i monaci 

devono tacere; ma l’indicazione di servirsi piuttosto di segni che di parole per domandare ciò che serve a mensa 

non significa che anche nella vita quotidiana il linguaggio verbale dovesse essere sostituito da un sistema di segni 

convenzionali. 

La disciplina della mensa ha caratteristiche simili a quella dell’oratorio. È un’annotazione originale di RB quella 

che prescrive ai monaci di scambiarsi vicendevolmente i piccoli servizi necessari a mensa. 

[10] Frater autem lector hebdomadarius accipiat mixtum priusquam incipiat legere, propter 

communionem sanctam, et ne forte grave sit ei ieiunium sustinere. [11] Postea autem cum coquinae 

hebdomadariis et servitoribus reficiat. [12] Fratres autem non per ordinem legant aut cantent, sed qui 

aedificant audientes. 

Come chi si occupa del servizio di cucina, anche il lettore ha diritto a un piccolo supplemento, che gli renda meno 

gravoso il compito. In questo caso si tratta verosimilmente di un po’ di vino misto ad acqua (il vino puro è 

generalmente il merum). La tradizione successiva ha inteso questo mixtum come vino mescolato a pane, ma 

probabilmente RB intende solo vino; lo potrebbe confermare il cenno alla comunione: per evitare che particelle 

dell’eucaristia venissero sputate parlando o tossendo era uso dopo la comunione, che veniva ricevuta, 

evidentemente prima del pasto, bere un po’ di acqua o vino e a questo sembra alludere anche il passo del § 10. 

La lettura a mensa, come il canto (nell’oratorio o anche a mensa?), suppongono competenze particolari (la lettura 

dei codici manoscritti è resa spesso difficile dall’assenza di punteggiatura, dalla scriptio continua, dalla presenza di 

abbreviazioni), perciò l’ordine di anzianità qui subisce una deroga e il compito della lettura è riservato a chi la può 

fare con edificazione degli uditori. Ammesso che anche a mensa fosse previsto, almeno in alcune circostanze, il 

canto di determinati testi, avremmo un ulteriore elemento che avvicina la ritualità del pasto a quella dell’ufficio 

corale. 

Caput LXII 

De Sacerdotibus Monasterii 

[1] Si quis abbas sibi presbyterum vel diaconem ordinari petierit, de suis eligat qui dignus sit 

sacerdotio fungi. 

Dopo l’ampia sezione che organizza le attività e la vita comunitaria (RB 31-57), una sezione dedicata a questioni 

connesse con il reclutamento dei monaci (RB 58-61), questo capitolo (da leggersi insieme a RB 60) e il successivo 

formano una breve sezione dedicata alla gerarchia interna della comunità. 

Il monachesimo è originariamente una forma di vita laicale, i monaci assistono alla celebrazione eucaristica nelle 

chiese poste nel loro territorio, ma spesso ritengono che la solitudine valga la rinuncia alla partecipazione al culto 

comunitario (Gregorio Magno nei Dial. II 1 ricorda l’episodio della visita di un prete ricevuta da Benedetto eremita 

a Subiaco, che ignorava che quel giorno fosse Pasqua). Le regole antiche sono estremamente parche di parole 

riguardo alla presenza di preti nelle comunità monastiche e i pochi cenni che fanno sono per lo più restrittivi: i preti 

sono accolti come ospiti, ma devono assoggettarsi alla disciplina prevista per tutti e non vengono generalmente 

aggregati in modo stabile alla comunità religiosa. 

RB, prevedendo che la celebrazione eucaristica si svolga nell’oratorio interno al monastero (per rafforzare 

l’isolamento della comunità dall’esterno), deve anche provvedere alla presenza stabile nel cenobio di ministri per 

la celebrazione eucaristica, ma tratta il tema senza enfatizzare il ruolo sacerdotale più di quanto abbia fatto con altri 

uffici necessari alla vita comunitaria (è interessante che deidchi uno spazio molto più ampio al cellerario). La scelta 

dei monaci da destinare al ministero ordinato spetta all’abate. Significativo il fatto che RB non tratti del sacerdozio 

in quanto tale, ma discuta dei monaci sacerdoti come casi particolari di due problemi più ampi: il reclutamento dei 

monaci e l’ordine della gerarchia interna della comunità. RB non è interessata all’elaborazione di una specifica 

spiritualità che colleghi stato monastico e appartenenza all’ordine sacro, men che meno prevede una distinzione tra 

la categoria dei monaci laici e illetterati (quelli che in futuro diventeranno i fratelli conversi, addetti ai lavori 

manuali e all’amministrazione secolare del cenobio) e la categoria dei monaci del coro, tutti preti. 

Con l’aggregazione di preti alla comunità monastica (RB 60) o con l’ordinazione di monaci a presbiteri, la 

comunità cenobitica acquista in modo più marcato una struttura parallela e autosufficiente rispetto a quella della 

chiesa locale; il che pone le premesse per il futuro sganciamento dei monasteri dalla soggezione all’autorità dei 

vescovi locali e contribuisce a quella identificazione tra monastero e chiesa che all’epoca di RB è avviata, ma non 

si è ancora compiuta. 

60

[2] Ordinatus autem caveat elationem aut superbiam, [3] nec quicquam praesumat nisi quod ei ab 

abbate praecipitur, sciens se multo magis disciplinae regulari subdendum. [4] Nec occasione 

sacerdotii obliviscatur regulae oboedientiam et disciplinam, sed magis ac magis in Deum proficiat. 

[5] Locum vero illum semper attendat quod ingressus est in monasterio, [6] praeter officium altaris, et 

si forte electio congregationis et voluntas abbatis pro vitae merito eum promovere voluerint. [7] Qui 

tamen regulam decanis vel praepositis constitutam sibi servare sciat. 

Come per ogni altro ufficio che attribuisce a un confratello una qualsiasi forma di preminenza sugli altri, RB si 

premura di mettere in guardia dal rischio di una indebita esaltazione di sé da parte del titolare. Non si tratta solo di 

vanità e di superbia, ma anche del rischio di ritenersi sciolto dal vincolo di obbedienza nei confronti dell’abate, 

visto che il prete e il diacono sono ordinati dal vescovo, cioè dalla stessa autorità dalla quale anche l’abate viene 

benedetto e immesso nel proprio ufficio (per questa ragione RB vieta espressamente che il priore sia investito del 

proprio ufficio dal vescovo). Notevole l’ammonimento, ricavato da Cipriano di Cartagine (e da lui rivolto ai 

confessores), a progredire costantemente in Dio, che RB rivolge ai monaci preti. 

La almeno potenziale concorrenza tra abate e prete nel cenobio, dovuta al fatto che entrambi ricevono la loro 

investitura dal vescovo, è complicata dal fatto che, nella prospettiva di RB, il prete nel monastero si trova in una 

situazione anomala: non svolge alcuna funzione magisteriale e di governo, alcuna cura pastorale, la sua funzione è 

confinata all’ambito liturgico sacramentale, mentre il ruolo di insegnare e di guidare spetta all’abate e ai suoi 

delegati. 

Il ministro ordinato ha diritto alla precedenza solo nell’atto di adempiere alle proprie funzioni liturgiche, altrimenti 

occupa ordinariamente il posto che gli spetta in base all’anzianità di professione, a meno che per i suoi meriti 

personali l’abate e la comunità non gli attribuiscano una posizione superiore. Non è menzionata un’attività ad 

extra da parte dei monaci sacerdoti, né l’esercizio della predicazione: la cura animarum e il governo del cenobio 

sono in ogni caso affidati ad ufficiali che verosimilmente, almeno all’inizio, erano per lo più laici (se si studia la 

corrispondenza di Gregorio Magno con i superiori monastici ai quali scrive, su circa settanta casi gli abati preti o 

diaconi sono più o meno una decina). NB questo è l’unico luogo della RB in cui viene menzionata esplicitamente 

una electio congregationis accanto alla voluntas abbatis. 

Il § 7 non è molto chiaro: quale sarebbe la regola stabilita per i decani e i priori, quella di restare umili e 

subordinati all’abate? Ma lo ha appena detto. O è un dativo di agente: il monaco-sacerdote deve restare sottomesso 

alle prescrizioni che gli vengono date dai decani e dai priori? A meno che non si intenda , come Lentini, che il 

monaco sacerdote deve attenersi alla prescrizione data a proposito dei decani e dei priori, e sapere cioè che non gli 

è permesso sottrarsi alla loro autorità. 

[8] Quod si aliter praesumpserit, non sacerdos sed rebellio iudicetur. [9] Et saepe admonitus si non 

correxerit, etiam episcopus adhibeatur in testimonio. [10] Quod si nec sic emendaverit, clarescentibus 

culpis, proiciatur de monasterio, [11] si tamen talis fuerit eius contumacia ut subdi aut oboedire 

regulae nolit. 

Nel caso che il monaco sacerdote non mantenga la propria posizione subordinata, dopo numerosi richiami (NB non 

si precisa il numero, come si fa nel caso dei decani e del priore) e dopo che anche il vescovo è stato fatto 

intervenire per correggerlo, deve essere allontanato dal monastero. 

Caput LX 

De Sacerdotibus qui voluerint in Monasterio habitare 

[1] Si quis de ordine sacerdotum in monasterio se suscipi rogaverit, non quidem citius ei assentiatur. 

[2] Tamen, si omnino persteterit in hac supplicatione, sciat se omnem regulae disciplinam 

servaturum, [3] nec aliquid ei relaxabitur, ut sit sicut scriptum est: «Amice, ad quod venisti?» (Mt 26, 

50). [4] Concedatur ei tamen post abbatem stare et benedicere aut missas tenere, si tamen iusserit ei 

abbas; [5] sin alias, ullatenus aliqua praesumat, sciens se disciplinae regulari subditum, et magis 

humilitatis exempla omnibus det. [6] Et si forte ordinationis aut alicuius rei causa fuerit in 

monasterio, [7] illum locum attendat quando ingressus est in monasterio, non illum qui ei pro 

reverentia sacerdotii concessus est. [8] Clericorum autem si quis eodem desiderio monasterio sociari 

voluerit, loco mediocri collocentur; [9] et ipsi tamen si promittunt de observatione regulae vel propria 

stabilitate. 

61

Cf. quanto detto sopra a proposito del cap. 62, che tratta anch’esso della relazione tra monastero e chierici. RB 

ammette i membri del clero tra le fila dei monaci, diversamente da RM e da altre regole antiche, ma conserva nei 

loro confronti un atteggiamento cauto fino alla diffidenza: non si vuole rischiare che l’appartenenza all’ordine 

sacro venga rivendicata come un pretesto per sottrarsi all’obbedienza e per suscitare disordine nella gerarchia 

comunitaria. Perciò la procedura di ammissione in comunità del canidato chierico segue le stesse linee di quella 

riservata al laico. 

Buffa la citazione di Mt 26 al § 3: si tratta delle parole che Gesù rivolge a Giuda quando viene raggiunto dal 

traditore nell’orto del Getsemani, probabilmente, però, qui non vengono citate con alcuna intenzione ironica o 

polemica, ma solo per il loro senso letterale, al di fuori di ogni considerazione per il contesto dal quale 

provengono. 

Caput LXVI 

De Ostiario Monasterii 

[1] Ad portam monasterii ponatur senex sapiens, qui sciat accipere responsum et reddere, et cuius 

maturitas eum non sinat vagari. [2] Qui portarius cellam debebit habere iuxta portam, ut venientes 

semper praesentem inveniant a quo responsum accipiant. [3] Et mox ut aliquis pulsaverit aut pauper 

clamaverit, “Deo gratias” respondeat aut “Benedic”, [4] et cum omni mansuetudine timoris Dei reddat 

responsum festinanter cum fervore caritatis. [5] Qui portarius si indiget solacio iuniorem fratrem 

accipiat. 

I capitoli 58-66 raccolgono una serie di indicazioni concernenti la struttura della comunità: il reclutamento dei suoi 

membri fra le diverse categorie di persone che si possono presentare, le funzioni e le relazioni gerarchiche fra i 

monaci. Alla trattazione del portinaio, che probabilmente costituiva l’ultimo capitolo di una primitiva redazione 

della RB, si connette per associazione anche qualche considerazione più generale sulla clausura monastica. 

Il compito di portinaio è particolarmente delicato: egli è il diaframma tra la comunità e l’esterno e deve pertanto 

essere in grado di mediare con intelligenza fra i due ambiti, è il garante i quella separazione che è uno dei tratti 

costitutivi dell’identità monastica (si osservi il rituale descritto per l’ammissione alla comunità in RB 58, il 

candidato va lasciato davanti alla porta per alcuni giorni; nel monachesimo pacomiano i novizi vengono alloggiati 

negli ambienti della portineria). 

Si osservi il contrasto tra la disponibilità a rispondere immediatamente a chi si presenta alla porta del monastero e 

la preoccupazione di ridurre al minimo la necessità per i monaci di uscirne (perché questo «non giova alle loro 

anime»). 

Abbastanza anziano da non essere portato a gironzolare (a meno che non si debba leggere, con un ms vacari, 

invece di vagari, e intendere: “starsene con le mani in mano, pigramente e negligentemente”), il portinaio ha la 

propria cella vicino alla porta, in modo da essere sempre disponibile a rispondere a chi sopravviene: si tratta quindi 

di un ufficio stabile e non a rotazione. 

In RM 95 i portinai sono due e il loro compito viene descritto in termini più limitati (aprire e chiudere la porta, 

annunziare all’abate i nuovi arrivati). 

La porta del cenobio a quanto pare è ordinariamente chiusa, ma il § 3 precisa che la risposta a chiunque bussi deve 

essere immediata (mox ... festinanter) e ispirata a un amore sollecito. Come per altri uffici (cellerario, settimanari 

di cucina), anche per il portinaio sono dettati i requisiti personali richiesti all’adempimento corretto della sua 

funzione ed è previsto che in caso di bisogno possa ricorrere all’aiuto di un collaboratore. 

[6] Monasterium autem, si possit fieri, ita debet constitui ut omnia necessaria, id est aqua, 

molendinum, hortum, vel artes diversas intra monasterium exerceantur, [7] ut non sit necessitas 

monachis vagandi foris, quia omnino non expedit animabus eorum. [8] Hanc autem regulam saepius 

volumus in congregatione legi, ne quis fratrum se de ignorantia excuset. 

Prescrizioni di carattere generale sulla conformazione del monastero: l’ideale è quello di una sorta di cittadella 

autosufficiente, di cui il portinaio è per così dire la sentinella. La comunità deve essere per quanto possibile isolata 

anche fisicamente dall’ambiente circostante e disporre nello spazio interno della clausura delle strutture necessarie 

alla vita e all’esercizio delle attività economiche. La motivazione è certo pratica e ascetica (preservare il più 

possibile i monaci dal contatto diretto con i secolari), ma probabilmente anche simbolica: il monastero tende ad 

acquistare i tratti della città di Dio (Gerusalemme - Roma) e a proporsi come un’alternativa totale alla città 

mondana: ha una propria gerarchia interna, il proprio maestro e pastore, il proprio clero, i propri artigiani, è 

62

autosufficiente dal punto di vista economico. Tanto forte è la preoccupazione di segregare i monaci dal contatto 

con l’esterno che RB vieta loro di prendere cibo fuori dal recinto monastico, sottopone a un controllo rigido lo 

scambio di notizie e di oggetti con l’esterno (cf. il cap. 67). 

Il § 8 fa pensare che questo capitolo, come nella RM, fosse quello conclusivo in una prima redazione della regola; 

RB si presenta come un testo elementare, un avvio alla vita monastica, ma non per questo rivendica meno autorità 

normativa nei confronti dei monaci ai quali è destinata (è abbastanza evidente, infatti, che qui il termine regula si 

riferisce non alla prescrizione appena data relativamente alla clausura, ma all’intero codice legislativo). Il fatto che 

poi siano stati aggiunti i capp. 67-73 non ha indotto l’autore a spostare alla fine la prescrizione del § 8. Altri segni 

di stadi redazionali successivi sono le riprese delle prescrizioni relative all’abate e al priore ai capp. 64-65, che 

integrano e in parte correggono quanto scritto in precedenza ai capp. 2 e 21, senza che l’autore abbia ritenuto 

necessario rifondere il testo. 

La lettura frequente della regola è richiesta anche da altri autori: Agostino chiede che la regola venga letta ogni 

settimana (VIII 2), la Reg. IV patrum vuole essere letta ogni giorno (3, 31); la RM dev’essere letta ai pasti (24, 15), 

in modo tale da essere completata ogni settimana. 

c) Condizioni particolari di alcuni fratelli 

Caput XXXVI 

De infirmis Fratribus 

[1] Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est, ut sicut revera Christo ita eis serviatur, 

[2] quia ipse dixit: «Infirmus fui et visitastis me» (Mt 25, 36), [3] et: «Quod fecistis uni de his 

minimis mihi fecistis» (Mt 25, 40). [4] Sed et ipsi infirmi considerent in honorem Dei sibi servire, et 

non superfluitate sua contristent fratres suos servientes sibi; [5] qui tamen patienter portandi sunt, 

quia de talibus copiosior merces acquiritur. [6] Ergo cura maxima sit abbati ne aliquam neglegentiam 

patiantur. 

RB 31, 9 raccomanda al cellerario una cura particolare nei confronti dei malati, dei bambini, dei poveri e degli 

ospiti; ecco probabilmente la ragione per la quale i capitoli 36 e 37 sono posti nella sezione che dipende 

direttamente dal direttorio sul cellerario. La cura degli infermi è oggetto di un richiamo particolarmente forte in RB 

(cf. anche 4, 16), che - diversamente da RM - destina in modo speciale a questo compito un monaco a ciò deputato 

e dei locali appositi. Questo da una parte garantisce una maggiore efficienza nel servizio, dall’altra induce un 

processo di istituzionalizzazione e ritualizzazionec che può di fatto impoverire i contatti e le relazioni all’interno 

della comunità. 

I malati sono affidati direttamente all’abate e questa sollecitudine è motivata, come molte altre relazioni nel 

cenobio, in termini cristologici: nel malato viene servito il Cristo (così come nell’abate si obbedisce a Cristo, 

nell’ospite e nel povero si accoglie Cristo, nel giovane può parlare il Cristo...). Da parte sua, il malato è invitato a 

non fare della malattia un pretesto per coltivare il proprio egoismo; è interessante la sottolineatura del § 5, che non 

prevede alcuna sanzione per il malato fastidioso se non la richiesta di una particolare pazienza da parte di chi lo 

assiste. 

[7] Quibus fratribus infirmis sit cella super se deputata et servitor timens Deum et diligens ac 

sollicitus. [8] Balnearum usus infirmis quotiens expedit offeratur - sanis autem et maxime iuvenibus 

tardius concedatur. [9] Sed et carnium esus infirmis omnino debilibus pro reparatione concedatur; at, 

ubi meliorati fuerunt, a carnibus more solito omnes abstineant. [10] Curam autem maximam habeat 

abbas ne a cellarariis aut a servitoribus neglegantur infirmi. Et ipsum respicit quicquid a discipulis 

delinquitur. 

Ancora un forte richiamo alla responsabilità dell’abate nei confronti dei malati. RB prevede che agli infermi sia 

destinato un ambiente apposito: le cure da prestare loro richiedono un allentamento delle osservanze regolari che 

non deve incidere sul ritmo di vita del resto della comunità e la separazione garantisce a entrambi un maggiore agio 

e tranquillità. La stessa ragione guida la decisione di affidare la cura dei malati a un fratello a ciò particolarmnete 

destinato e dotato di maturità spirituale e premura (questi elementi sono propri di RB rispetto alla RM). 

L’uso dei bagni per motivi igienici e di terapia è molto diffuso nel mondo romano. Bagni e terme sono luoghi di 

socializzazione e di intrattenimento molto apprezzati, spesso adorni di statue di divinità. Vi si gira nudi, si è esposti 

63

a tentazioni sessuali. Da qui la diffidenza dei cristiani per questi luoghi e la decisa avversione degli asceti per il 

ricorso al bagno (cf. anche quel che dice Porfirio a proposito di Plotino). RB si dimostra estremamente tollerante, 

concedendo il bagno agli infermi tutte le volte che ciò sia ritenuto conveniente. Molto più prudente nel concederlo 

ai monaci sani, soprattutto ai giovani; ma il tardius non significa “mai” e già questo elemento è rilevante. Questo 

non significa che RB consideri la mancanza di igiene un comportamento ascetico: cf. in RB 35 il cenno al fatto che 

i monaci si lavano mani e piedi. 

La stessa tolleranza riguarda la disciplina alimentare: in RB 39, 11 la carne è del tutto vietata ai monaci, mentre qui 

viene concessa ai malati fino a che essi ne abbiano bisogno. 

Caput XXXVII 

De senibus, vel infantibus 

[1] Licet ipsa natura humana trahatur ad misericordiam in his aetatibus, senum videlicet et infantum, 

tamen et regulae auctoritas eis prospiciat. [2] Consideretur semper in eis imbecillitas et ullatenus eis 

districtio regulae teneatur in alimentis, [3] sed sit in eis pia consideratio et praeveniant horas 

canonicas. 

Mentre RM si occupa dei malati nei capp. 69-70, non parla di bambini e vecchi se non di passaggio, nel capitolo 

sul digiuno, che per loro deve essere mitigato (RM 28, 13-26). Anche in questo capitolo di RB l’unica prescrizione 

esplicita riguarda il regime alimentare, che deve essere mitigato per i bambini e i vecchi come per i malati 

(accostamento interessante: infanzia e vecchiaia sono età “inferme”). L’indicazione vale tuttavia certamente come 

linea di condotta generale anche per altri aspetti della disciplina monastica (cf. anche RB 4, 70-71). 

Va sottolineato come un tratto caratteristico di RB il costante richiamo a tenere presente la diversità delle situazioni 

e delle esigenze personali di ciascun monaco: esso vale anzitutto per l’abate e per i suoi collaboratori, ma si 

estende a tutti i monaci nelle loro relazioni reciproche. L’equanimità e la parità reciproca non si devono esprimere 

in una ripartizione meccanica in parti uguali per tutti dei beni e degli obblighi, ma in una attenta considerazione dei 

bisogni, delle possibilità, delle attitudini mutevoli di ciascuno. Così, p.e., a RB 39, 10 ai piccoli viene destinata una 

quantità di cibo inferiore a quella destinata agli adulti, ma qui il § 3 concede loro di prendere cibo anche al di fuori 

degli orari dei pasti comuni (ai quali comunque partecipano anch’essi secondo RB 63, 18). 

Come appare anche da RB 59, nel monastero possono vivere anche fanciulli (ragazzini fino ai 15 anni di età circa), 

destinati dalle famiglie ad intraprendere la vita monastica. 

d) La disciplina comunitaria 

Caput LXIII 

De ordine Congregationis 

[1] Ordines suos in monasterio ita conservent ut conversationis tempus ut vitae meritum discernit 

utque abbas constituerit. [2] Qui abbas non conturbet gregem sibi commissum nec, quasi libera utens 

potestate, iniuste disponat aliquid, [3] sed cogitet semper quia de omnibus iudiciis et operibus suis 

redditurus est Deo rationem. 

Come nella RM (92-94), l’argomento dell’ordine interno alla comunità è trattato da RB in stretto rapporto con 

quello della successione abbaziale. Mentre RM, per evitare che si cristallizzino rapporti di potere nel cenobio e per 

lasciare mano libera all’abate nella scelta del proprio successore, invita a modificare spesso l’ordine interno della 

comunità, RB si ispira a un principio generale che deve regolare stabilmente le relazioni gerarchiche tra i monaci 

secondo tre criteri: tempo di ingresso in monastero, merito di vita, giudizio dell’abate. In ultima analisi i criteri 

sono solo due: uno oggettivo, quello dato dall’ordine di entrata nella vita monastica, e uno soggettivo, dato dalla 

valutazione dell’abate, che può decidere di fare avanzare o retrocedere qualcuno per premiarne i meriti o castigarne 

le infrazioni. 

L’ancorare la gerarchia del monastero al tempo della “conversione” del monaco comporta che età cronologica e 

rango sociale dei monaci passino, almeno in teoria, in secondo piano; si tratta di una prassi attestata da Filone 

Alessandrino anche per i terapeuti d’Egitto (De vita cont. 67) ed è uno dei segni più espliciti, in una società 

fortemente gerarchizzata come quella tardo-antica, del carattere alternativo rispetto a quello secolare dell’ordine 

delle relazioni proposte a chi intraprende la vita monastica (cf. Gal 3, 28 e RB 2, 20). Come il battesimo annulla le 

differenze precedenti («non c’è più giudeo né greco...»), l’ingresso nella vita monastica, come un secondo 

64

attesimo, produce i medesimi effetti di superamento della gerarchia sociale, che viene consegnata al passato. 

Come in tutte le disposizioni concernenti l’abate, al massimo di autonomia concesso alle sue decisioni corrisponde 

anche il richiamo alla responsabilità ch’egli ha di giovare alla comunità, facendo uso del vasto potere discrezionale 

che gli è concesso non in modo arbitrario, ma con discernimento e con la consapevolezza di doverne rendere conto 

a Dio stesso. 

[4] Ergo secundum ordines quos constituerit vel quos habuerint ipsi fratres sic accedant ad pacem, ad 

communionem, ad psalmum imponendum, in choro standum; [5] et in omnibus omnino locis aetas 

non discernat ordines nec praeiudicet, [6] quia Samuel et Daniel pueri presbyteros iudicaverunt. [7] 

Ergo excepto hos quos, ut diximus, altiori consilio abbas praetulerit vel degradaverit certis ex causis, 

reliqui omnes ut convertuntur ita sint, [8] ut verbi gratia qui secunda hora diei venerit in monasterio 

iuniorem se noverit illius esse qui prima hora venit diei, cuiuslibet aetatis aut dignitatis sit, [9] pueris 

per omnia ab omnibus disciplina conservata. 

Vengono enumerate alcune situazioni nelle quali il criterio della gerarchia deve regolare l’ordine con il quale i 

monaci compiono un gesto o una funzione. Mentre è scontato che gli anziani rivendichino un diritto naturale alla 

superiorità, RB si preoccupa di garantire anche ai più giovani, qualora lo meritino, una posizione eminente nella 

comunità, ricorrendo agli esempi di Samuele e Daniele, che pur giovani hanno ricevuto da Dio una vocazione 

speciale. Un richiamo analogo è fatto anche in RB 3 a proposito del consiglio dei fratelli. 

Le deroghe al criterio del tempo di ingresso in monastero vengono stabilite dall’abate, ma devono dipendere certis 

ex causis per on provocare mormorazioni e disordini tra i fratelli. 

Anche ai fanciulli spetta, dunque, il posto che corrisponde al momento del loro ingresso nel monastero, il che non 

toglie che coloro che sono più maturi di età debbano preoccuparsi di sorvegliarli ed esercitare un certo controllo su 

di loro in tutte le circostanze. 

[10] Iuniores igitur priores suos honorent, priores minores suos diligant. [11] In ipsa appellatione 

nominum nulli liceat alium puro appellare nomine, [12] sed priores iuniores suos fratrum nomine, 

iuniores autem priores suos nonnos vocent, quod intellegitur paterna reverentia. [13] Abbas autem, 

quia vices Christi creditur agere, dominus et abbas vocetur, non sua assumptione sed honore et amore 

Christi; [14] ipse autem cogitet et sic se exhibeat ut dignus sit tali honore. 

[15] Ubicumque autem sibi obviant fratres, iunior priorem benedictionem petat. [16] Transeunte 

maiore minor surgat et det ei locum sedendi (Lev 19, 32), nec praesumat iunior consedere nisi ei 

praecipiat senior suus, [17] ut fiat quod scriptum est: «Honore invicem praevenientes» (Rm 12, 10). 

[18] Pueri parvi vel adulescentes in oratorio vel ad mensas cum disciplina ordines suos consequantur. 

[19] Foris autem vel ubiubi, et custodiam habeant et disciplinam, usque dum ad intellegibilem 

aetatem perveniant. 

Una specie di piccolo galateo monastico (da completare con il cap. 72), che prescrive il modo di rivolgersi gli uni 

agli altri, la condotta reciproca, il comportamento nei confronti dei fanciulli e si ispira a prescrizioni provenienti da 

alcune lettere pseudo-paoline per regolare i rapporti coniugali o le relazioni tra genitori e figli (Ef 5, 22-33; 6, 1-4; 

Col 3, 18-20). Per il § 10 cf. RB 4, 70-71. 

Al nome di ciascuno deve essere premesso un titolo di rispetto adeguato alla sua situazione: il più anziano si 

rivolge al più giovane chiamandolo “fratello”, il più giovane si rivolge all’anziano chiamandolo “nonno”, termine 

esotico in latino, proveniente forse dalla tradizione egiziana e che RB traduce, per renderlo comprensibile, con 

“paterna reverenza” (cf. l’inglese nun e il tedesco Nonne che significano “monaca”). Per il § 13 cf RB 2, 2: il titolo 

di “signore e abate” spetta al superiore non per sua vanagloria, ma per amore a Cristo. L’accento batte qui sul tema 

del rispetto (honor, honorare, reverentia), che costituisce un livello necessario e preliminare a quello dell’amore. È 

interessante che il testo paolino che fonda queste indicazioni (Rm 12, 10) venga citato solo nella sua parte 

conclusiva: honore invicem praevenientes; ma è implicito il riferimento anche a quanto precede: caritate 

fraternitatis invicem diligentes. 

Nell’insieme, RB propone il modello di una società armonica, nella quale ciascuno occupa con consapevolezza e 

pacificamente il posto che gli spetta, adempie ai propri doveri nei confronti degli altri e in tal modo garantisce la 

giustizia, il rispetto e la tranquillità di tutti. Il fatto notevole è che l’ordine del cenobio intende essere la proiezione 

fattuale di criteri diversi da quelli che valgono nella società secolare: età cronologica e posizione sociale non 

valgono più, al punto che anche un bambino ha un posto che precede quello di un adulto, se quest’ultimo è stato 

ammesso al cenobio in un momento successivo; uno schiavo precede un uomo libero, ecc... Una ripresa del 

65

modello costituito dalla comunità apostolica di Gerusalemme descritta in At, che è anche una sorta di anticipazione 

dell’uguaglianza escatologica dei salvati: il monastero si propone come immagine e prefigurazione della 

Gerusalemme celeste. 

Il cenno del § 19 alla intelligibilis aetas, sulla base di RB 70, 4 sembra alludere ai 15 anni di età. 

Caput LXIX 

Ut in Monasterio non praesumat alter alterum defendere 

[1] Praecavendum est ne quavis occasione praesumat alter alium defendere monachum in monasterio 

aut quasi tueri, [2] etiam si qualivis consanguinitatis propinquitate iungantur. [3] Nec quolibet modo 

id a monachis praesumatur, quia exinde gravissima occasio scandalorum oriri potest. [4] Quod si quis 

haec transgressus fuerit, acrius coerceatur. 

Caput LXX 

Ut non praesumat quisquam aliquem passim caedere aut excommunicare 

[1] Vitetur in monasterio omnis praesumptionis occasio; [2] atque constituimus ut nulli liceat 

quemquam fratrum suorum excommunicare aut caedere, nisi cui potestas ab abbate data fuerit. [3] 

«Peccantes» autem «coram omnibus arguantur ut ceteri metum habeant» (1 Tim 5, 20). [4] Infantum 

vero usque quindecim annorum aetates disciplinae diligentia ab omnibus et custodia sit; [5] sed et hoc 

cum omni mensura et ratione. [6] Nam in fortiori aetate qui praesumit aliquatenus sine praecepto 

abbatis vel in ipsis infantibus sine discretione exarserit, disciplinae regulari subiaceat, [7] quia 

scriptum est: «Quod tibi non vis fieri, alio ne feceris». 

I due capp. 69-70 non sembrano avere alcun rapporto con quanto precedee sono forse stati aggiunti per esplicitare 

regole di condotta la cui mancata osservanza può essere fonte di disordine nelle relazioni interpersonali nel 

cenobio. In entrambi i casi, sia pure per ragioni opposte, il principio che viene messo in pericolo è quello della 

comune dipendenza e obbedienza nei confronti dell’abate: solo a lui spetta prendere l’iniziativa di correggere le 

colpe dei monaci, nel modo che ritiene opportuno. Elemento interessante è il divieto esplicito di fondarsi sulle 

relazioni di parentela per ergersi a difensore di un monaco che si ritenga, a torto o ragione, ingiustamente punito. 

Come indicato al capitolo 63 e altrove, i legami di sangue, insieme agli altri vincoli sociali, non sono più validi 

nella comunità monastica e non possono più essere invocati come criteri di condotta. 

Il divieto di arrogarsi arbitrariamente interventi correttivi nei confronti dei confratelli riguarda evidentemente 

soprattutto coloro che sono costituiti in autorità nel cenobio e che possono perciò presumere di servirsene in modo 

autonomo. Chi usurpa l’autorità deve perciò essere ripreso pubblicamente, mentre di solito l’ammonizione veniva 

data in forma riservata. 

Interessante anche l’ammonimento a osservare il senso della misura e la ragionevolezza nei confronti degli 

interventi correttivi riservati ai fanciulli. La motivazione finale, rappresentata dalla “regola aurea” riprende RB 4, 9 

e 61, 14. 

2.5. Accoglienza dei candidati 

Caput LVIII 

De disciplina suscipiendorum Fratrum 

[1] Noviter veniens quis ad conversationem, non ei facilis tribuatur ingressus, [2] sed sicut ait 

Apostolus: «Probate spiritus si ex Deo sunt» (1 Gv 4, 1). 

Il capitolo raccoglie materiali che RM distribuisce nei capp. 87-90. 

Fra i capp. 58-66, complessivamente dedicati all’esame della costituzione della comunità, i capp. 58-61 sono 

specificamente dedicati alla questione del reclutamento dei suoi membri. Questo è uno dei più importanti della RB, 

perché, attraverso la descrizione della procedura ordinaria di ammissione al monastero, di fatto fornisce anche un 

quadro del contenuto della vita monastica, che completa quanto è stato scritto nei capp. iniziali della regola. 

L’esordio appare bizzarro: invece di incoraggiare alla vita monastica, come nel prologo (cf. soprattutto i §§ 46-49), 

qui si oppone al candidato un muro di reticenza e quasi di ostilità. A colui che si presenta per intraprendere la vita 

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monastica non deve essere concesso facilmente e senza esame di accedere al cenobio, per ragioni spirituali, ma 

anche per accortezza umana: il cenobio non dev’essere rifugio di impostori, falliti o irresponsabili. Certamente RB 

è stata scritta in un’epoca in cui era dominante la preocupazione di contenere l’afflusso dei candidati, non di 

promuoverlo. Rimane lo sconcerto per un tono molto diverso da quello della prima pagina di RB, apparentemente 

dominato dall’ansia di difendersi dai rischi rappresentati da ogni nuovo ingresso in comunità. 

NB l’uso tecnico del termine conversatio per indicare la vita monastica. 

[3] Ergo si veniens perseveraverit pulsans et illatas sibi iniurias et difficultatem ingressus post 

quattuor aut quinque dies visus fuerit patienter portare et persistere petitioni suae (Lc 11, 8), [4] 

adnuatur ei ingressus et sit in cella hospitum paucis diebus. [5] Postea autem sit in cella noviciorum 

ubi meditent et manducent et dormiant. [6] Et senior eis talis deputetur qui aptus sit ad lucrandas 

animas, qui super eos omnino curiose intendat. [7] Et sollicitudo sit si revera Deum quaerit, si 

sollicitus est ad opus Dei, ad oboedientiam, ad opprobria. [8] Praedicentur ei omnia dura et aspera per 

quae itur ad Deum. 

L’ammissione avviene secondo un percorso a tappe, che RB vuole impegnativo (iniurias, difficultatem): prima per 

alcuni giorni davanti alla porta del cenobio, poi negli ambienti riservati agli ospiti, infine in quelli riservati ai 

novizi. L’estrema prudenza nell’ammettere i candidati è suggerita anche dalla regola di Pacomio, da quella dei 

Quattro padri, da Cassiano: ha lo scopo di non esporre la comunità al contatto con impostori o persone instabili, ma 

anche di risparmiare agli inadatti un’esperienza troppo deludente. Tuttavia a chi persevera nella richiesta non deve 

essere impedito l’accesso, né si fa qui esplicitamente questione della condizione di provenienza del candidato. 

La fase di preparazione vera e propria inizia con l’ammissione al noviziato: la destinazione di un locale apposito a 

dimora dei candidati e di un ufficiale apposito a seguirne la preparazione è un tratto proprio di RB. Anche i pasti 

sono presi separatamente dal resto della comunità. 

NB che a RB non interessa in alcun modo che il candidato conosca i membri della comunità, entri con loro in 

confidenza e familiarità, anzi tiene ben lontani gli uni dagli altri i monaci e i novizi. 

Interessante la descrizione del senior: dev’essere persona matura, capace di attirare le anime (una versione 

monastica della psychagogia del filosofo platonico) e capace di esaminare attentamente le persone che gli sono 

affidate. I §§ 7-8 riassumono i punti sui quali si deve concentrare l’esame e la formazione da parte del senior: si 

tratta di vedere quale sia la motivazione fondamentale che spinge il candidato alla vita monastica (non la ricerca 

diun bene parziale, ma il deum quaerere è l’unica motivazione che può sostenere questa scelta), di mettere alla 

prova la sua capacità di assumere la condotta e gli atteggiamenti essenziali della vita monastica (preghiera, 

obbedienza, pazienza), di renderlo consapevole della fatica che gli è richiesta nel cammino che intende 

intraprendere. Obbedienza e tolleranza degli opprobria sono manifestazioni esteriori della ricerca di Dio e parte 

necessaria di una assimilazione al Cristo, che si è «fatto obbediente fino alla morte» (Fil; cf. anche Eb 13). 

[9] Si promiserit de stabilitate sua perseverantia, post duorum mensuum circulum legatur ei haec 

regula per ordinem [10] et dicatur ei: Ecce lex sub qua militare vis; si potes observare, ingredere; si 

vero non potes, liber discede. [11] Si adhuc steterit, tunc ducatur in supradictam cellam noviciorum et 

iterum probetur in omni patientia. [12] Et post sex mensuum circuitum legatur ei regula, ut sciat ad 

quod ingreditur. [13] Et si adhuc stat, post quattuor menses iterum relegatur ei eadem regula. [14] Et 

si habita secum deliberatione promiserit se omnia custodire et cuncta sibi imperata servare, tunc 

suscipiatur in congregatione, [15] sciens et lege regulae constitutum quod ei ex illa die non liceat 

egredi de monasterio, [16] nec collum excutere de sub iugo regulae quem sub tam morosam 

deliberationem licuit aut excusare aut suscipere. 

L’accesso alla vita monastica è scandito con le procedure di un rito di passaggio, riprendendo sotto questo aspetto 

implicitamente l’equiparazione tra monachesimo e battesimo che il thema della RM formula esplicitamente. 

Se la prima tappa, davanti alla porta del monastero e nella foresteria, rappresenta una fase di separazione dalla sua 

vita precedente, il soggiorno nel noviziato costituisce un periodo durante il quale il candidato vive una condizione 

intermedia tra quella del secolare e quella del monaco: è assoggettato alla disciplina regolare, ma non condivide 

tutti i momenti della vita della comunità e sta in locali separati dagli altri monaci; viene sperimentato nella stessa 

condotta dei monaci, ma può ad ogni momento recedere e tornare alla cndizione precedente. Durante questa fase 

preparatoria, per tre volte gli viene letto per intero il testo della regola e gli viene chiesto di esaminare la propri 

adisponibilità ad assumersene il carico. Solo al termine di un anno si giunge all’impegno definitivo. 

Il testo del § 9 è incerto: Lentini legge si promiserit de stabilitate sua perseverantiam. 

Il testo della regola deve dunque essere conservato in una copia scritta e viene proposto al candidato come la lex 

67

sotto la quale egli intende svolgere il proprio servizio militare (cf. prologo 3 e capp. 1, 2; 61, 10). La formulazione 

ufficiale della richiesta di impegno al termine di ciascuna lettura sembra avvenire in un contesto diverso dal quello 

del noviziato, visto che si dice che dopo il candidato dev’essere ricondotto nei locali destinati ai novizi. Il triplice 

rito della lettura con il quale si giunge alla professione esprime il carattere estremamente impegnativo e il vincolo 

definitivo rappresentato dalla professione monastica, vincolo che non ammette deroghe una volta che sia stato 

assunto. Colpiscono questa preoccupazione di impegni precisi e vincolanti e le minacce che vengono fatte pesare 

contro chi verrà meno agli impegni assunti. 

[17] Suscipiendus autem in oratorio coram omnibus promittat de stabilitate sua et conversatione 

morum suorum et oboedientia, [18] coram Deo et sanctis eius, ut si aliquando aliter fecerit, ab eo se 

damnandum sciat quem irridit. [19] De qua promissione sua faciat petitionem ad nomen sanctorum 

quorum reliquiae ibi sunt et abbatis praesentis. [20] Quam petitionem manu sua scribat, aut certe, si 

non scit litteras, alter ab eo rogatus scribat et ille novicius signum faciat et manu sua eam super altare 

ponat. [21] Quam dum imposuerit, incipiat ipse novicius mox hunc versum: «Suscipe me, Domine, 

secundum eloquium tuum et vivam, et ne confundas me ab exspectatione mea» (Sal 118, 116). [22] 

Quem versum omnis congregatio tertio respondeat, adiungentes Gloria Patri. [23] Tunc ille frater 

novicius prosternatur singulorum pedibus ut orent pro eo, et iam ex illa die in congregatione 

reputetur. 

Descrizione del rito della professione monastica: esso si svolge nell’oratorio del monastero, davanti a tutta la 

comunità, a Dio e ai suoi santi. La professione è suggellata da un documento scritto dal candidato di suo pugno, se 

ne è capace, e deposto sull’altare (assimilazione dell’offerta di sé fatta con la professione all’offerta del pane e del 

vino per la celebrazione dell’eucaristia); tale documento ha la forma di una richiesta (petitio), rivolta ai santi le cui 

reliquie sono custodite nell’oratorio, e all’abate del cenobio di accogliere il candidato come membro della 

comunità. Il cenobio è nel suo insieme una domus Dei e quindi i suoi proprietari ed abitatori in senso proprio sono 

Dio e i santi. La loro menzione unita a quella dell’abate in carica serve poi a localizzare e a datare il documento, 

che è un vero e proprio atto giuridico vincolante. 

La stabilitas è il primo e più caratteristico contenuto della promessa del monaco (cf. RB 4, 78), la conversatio 

morum include tutti gli aspetti della condotta monastica, quindi l’umiltà, la povertà, la castità, la separazione, 

mentre oggetto di una menzione esplicita è l’obbedienza, che è l’altra virtù cardinale del monachesimo cenobitico. 

Il rito della professione è completato dal triplice canto di un versetto del salmo 118 e dalla prosternazione del neoprofesso 

ai piedi di ciascuno dei suoi confratelli. 

[24] Res, si quas habet, aut eroget prius pauperibus aut facta sollemniter donatione conferat 

monasterio, nihil sibi reservans ex omnibus, [25] quippe qui ex illo die nec proprii corporis 

potestatem se habiturum scit. [26] Mox ergo in oratorio exuatur rebus propriis quibus vestitus est et 

induatur rebus monasterii. [27] Illa autem vestimenta quibus exutus est reponantur in vestiario 

conservanda, [28] ut si aliquando suadenti diabolo consenserit ut egrediatur de monasterio - quod 

absit - tunc exutus rebus monasterii proiciatur. [29] Illam tamen petitionem eius, quam desuper altare 

abbas tulit, non recipiat, sed in monasterio reservetur. 

Una serie di dettagli procedurali concernenti i beni del neo-professo, il suo abito, la persistenza dei vincoli 

contratti. RB, come già RM, mostra una pressante preoccupazione di assicurare la perseveranza del monaco una 

volta che abbia emesso la professione; rispetto a questo obiettivo anche i mezzi di pressione più violenti sembrano 

ammessi e l’uscita è presentata come una eventualità estrema e una colpa gravissima, infatti l’apostata non esce, 

ma viene cacciato (proiciatur). L’irrevocabilità della professione monastica non è di per sé un elemento necessario 

al monachesimo, tanto che esso è stato messo in discussione nel monachesimo cristiano in anni recenti e non è 

presente in altre tradizioni religiose, come quella buddista. Esso ha probabilmente a che fare con la relazione, 

implicita ma stretta, stabilita tra battesimo e professione monastica: nell’uno e nell’altro caso si tratta di condizioni 

che non ammettono un recesso. A questo proposito è di nuovo interessante osservare come si intreccino un forte 

appello alla matura deliberazione del singolo e la consapevolezza che la sua perseveranza non può dipendere solo 

dalla sua forza di volontà, ma è in ultima analisi un dono di grazia che deve essere invocato dalla preghiera di tutti. 

È prevista la possibilità che il candidato faccia donazione dei propri beni al monastero che lo accoglie. In processo 

di tempo questa diventerà una norma vincolante, tanto che solo coloro che erano in grado di portare dei beni a un 

monastero vi venivano accolti come monaci o monache a pieno titolo. 

Il mutamento degli abiti è la manifestazione visibile del mutamento intervenuto nella condizione della persona, 

abbandona le proprie vesti e indossa quelle del monastero. Non è detto in modo esplicito che il monaco indossi una 

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divisa che lo distingua per una foggia particolare, ma è abbastanza plausibile che questo elemento sia ovvio, perché 

la condizione monastica dev’essere immediatamente visibile anche all’esterno (cf. RB 55). 

Interessante anche la clausola finale circa l’eventuale uscita dal monastero, che non può a questo punto 

configurarsi se non come una rovinosa e pericolosissima diserzione. Il fatto di trattenere il documento di 

professione è insieme un atto di accusa contro l’apostata e una tutela giuridica per il cenobio, che può in tal modo 

legittimare il possesso dei beni a suo tempo erogati dal professo. 

Caput LIX 

De filiis nobilium vel pauperum qui offeruntur 

[1] Si quis forte de nobilibus offerit filium suum Deo in monasterio, si ipse puer minor aetate est, 

parentes eius faciant petitionem quam supra diximus [2] et cum oblatione ipsam petitionem et manum 

pueri involvant in palla altaris, et sic eum offerant. 

Si pone nei confronti di questo capitolo (che abbrevia drasticamente RM 91) lo stesso problema che si è posto nella 

chiesa antica e si pone tuttora in determinati contesti nei confronti del battesimo degli infanti: se si tratta di una 

scelta libera e responsabile, come si può addossarla ad un bambino che è di fatto oggetto, e forse vittima, della 

scelta compiuta al suo posto dai genitori? Mentre Basilio stabilisce esplicitamente che nel cenobio possano essere 

accolti dei fanciulli, ma che essi saranno ammessi alla professione solo all’età che si considera idonea per le nozze, 

RB, come buona parte della tradizione monastica, sembra dare per scontato che l’oblazione fatta dai genitori 

vincoli il bambino allo stesso titolo dei voti pronunciati da un adulto e ne faccia perciò un monaco a pieno titolo, 

con tutti gli obblighi e le prerogative che gli spettano (cf. RB3, 3; 63, 5-9. 18-19), fatte salve le mitigazioni 

alimentari dovute all’età (RB 37) e la necessità di una disciplina e di una vigilanza maggiore da parte degli adulti 

(RB 70, 4-5). 

Nel caso di un minore, più o meno prima dei 15 anni (cf. RB 70), coloro che sono in grado di esercitare atti 

giuridicamente validi nei suoi confronti e al posto suo sono i genitori o i tutori, perciò nel caso dell’oblazione del 

minore non basta la sua, eventuale, decisione, ma è richiesta la presenza e la partecipazione dei tutori. La mano del 

fanciullo viene avvolta nella tovaglia che copre l’altare e le offerte e diventa un tutt’uno con esse. Chiaramente in 

questo caso non viene descritto tutto il processo di deliberazione del capitolo 58, perché trattandosi di un minore si 

suppone ch’egli non sia in grado di prendere una decisione matura per sé, sarà un compito posteriore quello di 

formarlo perché divenga degno e capace di adempiere agli obblighi ai quali è stato vincolato. 

[3] De rebus autem suis, aut in praesenti petitione promittant sub iureiurando quia numquam per se, 

numquam per suffectam personam nec quolibet modo ei aliquando aliquid dant aut tribuunt 

occasionem habendi; [4] vel certe si hoc facere noluerint et aliquid offerre volunt in eleemosynam 

monasterio pro mercede sua, [5] faciant ex rebus quas dare volunt monasterio donationem, reservato 

sibi, si ita voluerint, usufructu. [6] Atque ita omnia obstruantur ut nulla suspicio remaneat puero per 

quam deceptus perire possit - quod absit - quod experimento didicimus. [7] Similiter autem et 

pauperiores faciant. [8] Qui vero ex toto nihil habent, simpliciter petitionem faciant et cum oblatione 

offerant filium suum coram testibus. 

Le disposizioni relative ai beni seguono lo schema del capitolo 58, sottolineano la preoccupazione principale, che 

al monaco sia sottratto il controllo di qualsiasi bene che potrebbe teoricamente spettargli. 

Le disposizioni di questo capitolo oggi meravigliano, ma suppongono evidentemente una concezione molto diversa 

dall’attuale dell’autorità paterna sui figli, concezione che pesava allo stesso modo anche sulla determinazione del 

futuro matrimoniale della prole. La presenza di bambini negli ambienti monastici è legata talvolta alla conversione 

dei genitori, alla necessità di asicurare assistenza agli orfani, a un atto di devozioni dei genitori. 

Anche Porfirio racconta che alla scuola di Plotino erano presenti bambini, orfani di senatori che lasciavano al 

filosofo il compito di educarli e amministrarne i beni. Plotino, però, non ammetteva che i ragazzi rinunciassero ai 

propri beni e si dedicassero interamente alla pratica della filosofia se non una volta raggiunta un’età conveniente 

per disporre liberamente di se stessi. 

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3. Condotta di vita e beni materiali 

3.1. I bisogni fondamentali 

a) Sonno 

Caput XXII 

Quomodo dormiant Monachi 

[1] Singuli per singula lecta dormiant. [2] Lectisternia pro modo conversationis secundum 

dispensationem abbatis sui accipiant. [3] Si potest fieri omnes in uno loco dormiant; sin autem 

multitudo non sinit, deni aut viceni cum senioribus qui super eos solliciti sint pausent. [4] Candela 

iugiter in eadem cella ardeat usque mane. 

[5] Vestiti dormiant et cincti cingellis aut funibus, ut cultellos suos ad latus suum non habeant dum 

dormiunt, ne forte per somnum vulnerent dormientem; [6] et ut parati sint monachi semper et, facto 

signo absque mora surgentes, festinent invicem se praevenire ad opus Dei, cum omni tamen gravitate 

et modestia. 

[7] Adulescentiores fratres iuxta se non habeant lectos, sed permixti cum senioribus. [8] Surgentes 

vero ad opus Dei invicem se moderate cohortentur propter somnulentorum excusationes. 

Il capitolo combina diversi passi provenienti da RM 11 (il capitolo sui decani) e RM 29 e anche in RB è 

strettamente legato all’ufficio dei decani, che è stato descritto nel cap. 21, e con il cap. 42 sul silenzio notturno. 

La precisazione che ciascuno abbia il suo letto ha senso in relazione all’uso, fra le classi inferiori, di dormire in più 

persone insieme per povertà di spazi, di coperte e per tenersi caldi (con le prevedibili conseguenze sul piano dei 

rapporti sessuali). La guarnitura del letto è offerta a ciascuno secondo le disposizioni dell’abate, che deve tenere 

conto della condotta monastica e delle esigenze dei singoli. Dormitorio comune, lume sempre acceso, dormire 

vestiti e separazione dei giovani sono tutte misure destinate a rendere più facile il controllo della castità. 

Il dormire vestiti ha anche un valore simbolico e pratico: essere pronti, dopo un sonno relativamente breve 

(Cassiano consiglia tre o quattro ore, ma RB è assai più larga, almeno in inverno) ad affrettarsi alla preghiera 

notturna una volta che se ne dia il segnale (cf l’immagine dei servi che attendono l’arrivo del padrone o degli ospiti 

che attendono l’arrivo dello sposo, Mt 24; Lc 12, 35-40). 

Il dormitorio comune, esplicitamente previsto anche dalla legislazione giustinianea, è una innovazione che si 

impone nel VI sec. rispetto alle celle separate delle comunità di solitari in Egitto ed è motivata soprattutto da 

preoccupazioni di controllo disciplinare reciproco. Questa trasformazione comporta una profonda ristrutturazione 

delle modalità di vita dei cenobi, perché elimina per alcuni secoli ogni spazio di solitudine per i singoli monaci. 

b) Cibo 

Caput XXXIX 

De mensura ciborum 

[1] Sufficere credimus ad refectionem cotidianam tam sextae quam nonae, omnibus mensis, cocta duo 

pulmentaria, propter diversorum infirmitatibus, [2] ut forte qui ex illo non potuerit edere ex alio 

reficiatur. [3] Ergo duo pulmentaria cocta fratribus omnibus sufficiant et, si fuerit unde poma aut 

nascentia leguminum, addatur et tertium. 

Riprende RM 26 e ne formula in modo più rigoroso le prescrizioni. Sia qui sia in RB 40, 3 il credimus formula la 

prescrizione con un certo ritegno. Nel lessico di RB refectio e reficere indicano il pasto principale, non la cena 

serale (cf. RB 24, 5-6; 35, 12-13; 38, 11; 41, 6-7; 48, 13), da cui viene esplicitamente distinto (41, 1. 9). Il pasto di 

mezzogiorno viene chiamato prandium (RB 39, 4; 41, 4; 42, 3) e il pasto della sera cena (39, 4; 41, 1; 42, 3). 

Quella che qui viene indicata è dunque la misura del cibo relativa al pasto principale della giornata. Come risulterà 

da RB 41, sesta e nona sono le due ore normali del pasto principale. RB non dà indicazioni esplicite sul pasto in 

tempo di quaresima, che veniva preso la sera a vespro, ma si può supporre che nelle sue intenzioni non si 

discostasse troppo da quanto qui prescritto. La precisazione omnibus mensis lascia perplessi perché non se ne vede 

la ragione, Lentini suppone che si tratti della corruzione di un omnibus mensibus, presente in vari mss e in RM 26. 

70

RB insiste sul fatto che si deve trattare di due pulmentaria (termine generico che indica ogni cibo che si 

accompagna con il pane) cotti, i cibi crudi (frutta o verdura fresca) sono un’eventuale aggiunta al pasto principale e 

probabilmente formano anche la, più sobria, cena della sera. La presenza di due pietanze cotte deve garantire che 

se uno non può mangiarne una, possa almeno cibarsi dell’altra, ma non è escluso che vengano consumate 

entrambe. 

[4] Panis libra una propensa sufficiat in die, sive una sit refectio sive prandii et cenae: [5] quod si 

cenaturi sunt, de eadem libra tertia pars a cellarario servetur reddenda cenandis. 

La misura di una libbra di pane al giorno era ususale anche fra i monaci egiziani (Cassiano Coll. II 19) e viene 

indicata anche in RM 26, 2; RB precisa che sia una libbra di buon peso (propensa: che fa pendere il piatto della 

bilancia dalla propria parte). La libbra romana equivaleva più o meno a 1/3 di kg, ma sembra una misura troppo 

scarsa per essere quella di riferimento in questo contesto, tanto più che essa deve bastare per tutto il giorno, per di 

più in un contesto nel quale il pane costituisce l’alimento principale. Un peso conservato a Montecassino e che la 

tradizione vuole far risalire ai tempi di Benedetto vale 1, 055 Kg; verosimilmente è una misura che si approssima 

di più a quella intesa qui. 

[6] Quod si labor forte factus fuerit maior, in arbitrio et potestate abbatis erit, si expediat, aliquid 

augere, [7] remota prae omnibus crapula et ut numquam surripiat monacho indigeries, [8] quia nihil 

sic contrarium est omni christiano quomodo crapula, [9] sicut ait Dominus noster: «Videte ne 

graventur corda vestra crapula» (Lc 21, 34). [10] Pueris vero minori aetate non eadem servetur 

quantitas, sed minor quam maioribus, servata in omnibus parcitate. [11] Carnium vero quadrupedum 

omnimodo ab omnibus abstineatur comestio, praeter omnino debiles aegrotos. 

Una serie di precisazioni che circostanziano la norma generale, prevedendo alleggerimenti, nel caso di lavori 

particolarmente gravosi, o di malattia; ai ragazzini si destina una quantità di cibo inferiore a quella degli adulti (ma 

in RB 37 concede loro pasti più frequenti). La norma che deve guidare le scelte dell’abate è che si eviti l’ingordigia 

(crapula, indigeries). Interessante la precisazione al § 11 sulla carne di quadrupedi: i commentatori antichi della 

regola discutevano se il divieto delle carni formulato in RB 36, 9 valesse anche solo per i quadrupedi, come è 

formulato qui; secondo alcuni, i volatili equivalevano infatti ai pesci (dal momento che sono stati creati insieme) e 

le loro carni venivano ritenute meno capaci di fomentare le passioni di quanto non lo fossero le carni dei 

quadrupedi. 

Caput XL 

De mensura potus 

[1] «Unusquisque proprium habet donum ex Deo, alius sic, alius vero sic» (1 Cor 7, 7); [2] et ideo 

cum aliqua scrupulositate a nobis mensura victus aliorum constituitur. [3] Tamen infirmorum 

contuentes imbecillitatem, credimus heminam vini per singulos sufficere per diem. [4] Quibus autem 

donat Deus tolerantiam abstinentiae, propriam se habituros mercedem sciant. 

Riassume in il lungo capitolo di RM 27. L’autore dichiara esplicitamente la propria esitazione nel fissare la misura 

del vitto degli altri e lo fa con moderazione e in termini non rigidi: suggerisce a chi ne è capace di proporsi 

un’astinenza più severa, ma ammette che si abbia indulgenza per la debolezza degli altri. 

Interessante la citazione da 1 Cor 7, 7, che allude alla continenza sessuale e l’applica alla continenza nel consumo 

di vino: nella tradizione ascetica gola e lussuria sono vizi strettamente solidali; il riferimento al testo paolino, 

inoltre, inserisce la pratica dell’astinenza alimentare nel quadro dei carismi propri della vita monastica. 

Anche per l’emina vale quanto detto per la libbra: quella romana equivale a circa ¼ di litro, che veniva 

generalmente mescolato con acqua, ma è probabile che l’uso concreto prevedesse una misura assai maggiore 

(secondo alcuni commentatori circa 3/4). 

[5] Quod si aut loci necessitas vel labor aut ardor aestatis amplius poposcerit, in arbitrio prioris 

consistat, considerans in omnibus ne surrepat satietas aut ebrietas. [6] Licet legamus vinum omnino 

monachorum non esse, sed quia nostris temporibus id monachis persuaderi non potest, saltem vel hoc 

consentiamus ut non usque ad satietatem bibamus, sed parcius, [7] «quia vinum apostatare facit etiam 

71

sapientes» (Sir 19, 2). 

In caso di necessità particolari, dovute al clima o al lavoro, l’abate può aumentare la misura concessa, purché non 

si vada all’ubriachezza. L’autore è più reticente nel caso del vino, sa che esso dovrebbe essere escluso dal vitto dei 

monaci (cf. la citazione della Vitae patrum V 4, 31: vinum monachorum omnino non est) e lo concede cedendo al 

malcostume dei contemporanei. 

[8] Ubi autem necessitas loci exposcit ut nec suprascripta mensura inveniri possit, sed multo minus 

aut ex toto nihil, benedicant Deum qui ibi habitant et non murmurent. [9] Hoc ante omnia admonentes 

ut absque murmurationibus sint. 

L’uso del vino non è un diritto, è una concessione alla debolezza delle persone, perciò là dove non se ne trovi (un 

altro indizio del fatto che la RB viene scritta pensando alla possibilità di un suo uso anche in luoghi molto diversi 

per clima e collocazione da quello nel quale vive l’autore), ai monaci viene ingiunto di non cedere alla 

mormorazione. 

Caput XLI 

Quibus horis oporteat reficere Fratres 

[1] A sancto Pascha usque Pentecosten, ad sextam reficiant fratres et sera cenent. [2] A Pentecosten 

autem, tota aestate, si labores agrorum non habent monachi aut nimietas aestatis non perturbat, quarta 

et sexta feria ieiunent usque ad nonam; [3] reliquis diebus ad sextam prandeant; [4] quam prandii 

sextam, si operis in agris habuerint aut aestatis fervor nimius fuerit, continuanda erit et in abbatis sit 

providentia. [5] Et sic omnia temperet atque disponat qualiter et animae salventur et quod faciunt 

fratres absque iusta murmuratione faciant. 

[6] Ab idus autem Septembres usque caput quadragesimae, ad nonam semper reficiant. 

[7] In quadragesima vero usque in Pascha, ad vesperam reficiant; [8] ipsa tamen vespera sic agatur ut 

lumen lucernae non indigeant reficientes, sed luce adhuc diei omnia consummentur. [9] Sed et omni 

tempore, sive cena sive refectionis hora sic temperetur ut luce fiant omnia. 

Dopo aver fissato la quantità del cibo e della bevanda, dà anche indicazioni sui tempi dei pasti. Ci sono tre diversi 

schemi: da Pasqua fino al termine dell’estate si possono avere due pasti al giorno, uno a sesta e uno la sera dopo il 

vespro. Dopo il tempo pasquale (nel quale non si digiuna mai) è previsto per i giorni di digiuno, mercoledì e 

venerdì, un unico pasto a nona, ma a giudizio dell’abate anche in quei giorni si possono avere due pasti in caso di 

necessità. Il principio guida è enunciato al § 5: la condotta ascetica deve essere proporzionata alle condizioni 

concrete, in modo da non offrire ai monaci ragioni di una legittima mormorazione. Si tenga presente che il periodo 

estivo è quello nel quale le notti sono più brevi e le giornate più lunghe: un digiuno prolungato fino a nona in 

questa stagione è dunque più gravoso. Soprattutto se i monaci devono dedicarsi direttamente a dei lavori agricoli 

(cosa che ordinariamente non è prevista, perché contrasta sensibilmente con le esigenze di disciplina oraria, 

alimentare e claustrale). 

Dalla metà di settembre (le idi di settembre cadono il 13) fino all’inizio di quaresima si avrà un solo pasto al 

giorno, dopo nona. E durante la quaresima il digiuno durerà fino alla sera. 

La precisazione fatta al § 8 fa supporre che forse l’orario del vespro venisse anticipato. Fare in modo di concludere 

la giornata con la luce del sole è comunque un principio generale. Esso ha certamente ragioni pratiche, risparmiare 

i costi e i disagi di illuminare ambienti comunitari, ma anche ragioni simboliche e disciplinari: i monaci realizzano 

in modo speciale l’affermazione di Paolo secondo la quale i cristiani sono figli della luce e figli del giorno; inoltre, 

agire alla luce del giorno rende più sicuro il controllo disciplinare sulla condotta dei singoli. Qui l’indicazione 

riguarda il pasto serale, ma verosimilmente la prassi concreta, almeno in Italia, doveva far coincidere l’andata al 

dormitorio con la fine della luce (l’inno di compieta inizia: te lucis ante terminum...). 

Complessivamente RB 39-41, che corrisponde a RM 26-28, propone ai monaci un regime alimentare sobrio, ma 

molto benevolo, se confrontato con altre consuetudini e con le condizioni di vita in cui verosimilmente si 

trovavano i contadini e i poveri nella medesima epoca. Il fatto che per buona parte dell’anno si faccia un unico 

pasto al giorno, l’astensione pressoché totale dal consumo di carne ne fanno un regime comunque austero. RM e 

RB sono inserite in una tradizione nella quale il disciplinamento fisico è parte assolutamente essenziale della vita 

del monaco (bisogna non solo praticare, ma «amare il digiuno»); è significativo da questo punto di vista il fatto che 

72

le agiografie antiche sono spesso abbondanti di notazioni circa il regime alimentare dei loro eroi. 

Ma l’ascetismo benedettino, pur attento alla misura del sonno e del cibo, non è concentrato su queste componenti, 

bensì sull’acquisizione, attraverso la disciplina fisica, di una disciplina generale del desiderio, di un abito mentale 

di obbedienza e di umiltà, cioè sulla rinuncia a coltivare il proprio io, praticando invece il ricordo di Dio, 

un’attenzione costante ai propri moventi e ai propri limiti, alle necessità altrui, alle prescrizioni dell’abate, della 

regola e della Scrittura. 

Come in altri casi, anche per il cibo né RM né RB formulano principi teorici che fondino la prassi, a parte il rinvio 

ripetuto alla sobrietà di costumi; è per loro del tutto scontato che il monaco debba praticare una condotta di 

astinenza anche nel vitto (cf. RB 4, 11-13. 35-36. 64). Si tenga anche presente che l’ascesi alimentare non ha 

affatto un significato solo punitivo o espiatorio: secondo la tradizione, il consumo di carne e di vino è iniziato nella 

storia dell’umanità dopo il diluvio, sicché l’adozione di una dieta vegetariana e priva di vino è simbolo del ritorno 

alla condizione dell’Adamo prima della caduta. 

c) Vesti 

Caput LV 

De Vestimentis et calceamentis Fratrum 

[1] Vestimenta fratribus secundum locorum qualitatem ubi habitant vel aerum temperiem dentur, [2] 

quia in frigidis regionibus amplius indigetur, in calidis vero minus. [3] Haec ergo consideratio penes 

abbatem est. [4] Nos tamen mediocribus locis sufficere credimus monachis per singulos cucullam et 

tunicam - [5] cucullam in hieme villosam, in aestate puram aut vetustam - [6] et scapulare propter 

opera, indumenta pedum pedules et caligas. 

Il presente capitolo (corrispondente a RM 81-82) riprende temi che emergono sia nella trattazione 

dell’alimentazione dei monaci sia nella trattazione della proprietà. Il principio generale è dato dal dovere di essere 

sobri (evitando sia l’eccessiva raffinatezza sia la sciatteria della veste) e di badare all’adattamento, a giudizio 

dell’abate, del vestiario monastico alla situazione climatica del luogo in cui il monastero è collocato (un altro 

indizio a riprova del fatto che stendendo la regola Benedetto non aveva in mente soltanto la situazione del cenobio 

di Montecassino). L’indicazione offerta vale come esempio di massima, per i luoghi posti in zone a clima 

temperato (cf. il sufficere credimus di § 4 con le espressioni analoghe in RB 39, 1; 40, 3). 

Cucullus è di per sé un cappuccio che copre il capo e la nuca, usato dai contadini e dai bambini (perciò Cassiano 

Inst. I 3 dice ch’esso richiama il monaco alla semplicità del fanciullo); RB allude alla vestis cucullata, cioè a una 

veste munita di cappuccio, la cui foggia poteva verosimilmente variare da luogo a luogo. La cuculla si indossava 

sopra la tunica, che era una veste, con o senza maniche, che copriva il corpo ed era stretta ai fianchi da una cintura. 

Durante il lavoro la cocolla era sostituita da un altro tipo di abito, forse una specie di grembiulone, lo scapolare. 

Non è chiaro che cosa intenda esattamente RB con pedules, se qualcosa di analogo alle calze o un tipo di calzatura. 

Attraverso un lungo percorso di trasformazioni e adattamente, questi capi sono divenuti elementi standard di una 

divisa monastica che ha ormai valore solo convenzionale, avendo perso ogni funzione pratica che avevano i diversi 

capi qui descritti. Anche oggi monaci e monache indossano questa divisa che li differenzia del tutto 

nell’abbigliamento dai laici. Ci si può chiedere se questa fosse la situazione anche nel monachesimo antico. 

Si tenga presente il grande valore simbolico che ha l’abito nel mondo antico per sottolineare gli elementi 

dell’appartenenza etnica, sociale e professionale. Anche all’abito dei cristiani e dei monaci sono dedicate numerose 

trattazioni nella letteratura spirituale antica. Che l’abito del monaco sia diverso da quello dei laici è dimostrato 

dall’indicazione data in RB 58 a proposito dell’assunzione di una veste diversa da parte di chi fa la professione. La 

differenza probabilmente non era così vistosa come è oggi tra la veste comune e la divisa dei monaci. 

[7] De quarum rerum omnium colore aut grossitudine non causentur monachi, sed quales inveniri 

possunt in provincia qua degunt aut quod vilius comparari possit. [8] Abbas autem de mensura 

provideat ut non sint curta ipsa vestimenta utentibus ea, sed mensurata. [9] Accipientes nova, vetera 

semper reddant in praesenti reponenda in vestiario propter pauperes. [10] Sufficit enim monacho duas 

tunicas et duas cucullas habere propter noctes et propter lavare ipsas res; [11] iam quod supra fuerit 

superfluum est, amputari debet. [12] Et pedules et quodcumque est vetere reddant dum accipiunt 

novum. 

Il criterio per la scelta del tessuto e del colore deve essere la disponibilità e il buon prezzo; solo in seguito il colore 

73

nero si è imposto come distintivo dell’abito monastico (ma i rami riformati, camaldolesi, cisterciensi, olivetani 

adottarono in genere vesti non tinte e quindi di coloro tendente al bianco). L’autore si preoccupa però che la misua 

degli abiti sia conveniente, non vuole che i monaci siano vestiti male. Anche l’annotazione sui poveri è 

interessante: si deve destinare al loro uso il vestiario smesso dai monaci, il che significa che non si può trattare di 

abiti in cattivo stato e dalla foggia troppo diversa da quella usuale anche tra i laici. 

All’uso personale sno riservati due capi di ciascun elemento del vestiario, in modo da poter sostituire l’abito da 

lavoro con quello per la notte (RB 42: i monaci dormono vestiti) e da poter lavare gli indumenti. 

[13] Femoralia hi qui in via diriguntur de vestario accipiant, quae revertentes lota ibi restituant. [14] 

Et cucullae et tunicae sint aliquanto a solito quas habent modice meliores; quas exeuntes in via 

accipiant de vestiario et revertentes restituant. 

Annotazione per il caso di chi esce dal cenobio in viaggio: deve avere anche dei femoralia, più o meno l’analogo 

delle nostre mutande, probabilmente per il caso in cui si dovesse cavalcare. Anche gli altri abiti si preoccupa siano 

di aspetto dignitoso. Il decoro sta particolarmente a cuore a Benedetto: vesti della misura giusta, pulite, di aspetto 

dignitoso soprattutto se ci si deve presentare ad estranei. 

[15] Stramenta autem lectorum sufficiant matta, sagum et lena, et capitale. [16] Quae tamen lecta 

frequenter ab abbate scrutinanda sunt propter opus peculiare, ne inveniatur; [17] et si cui inventum 

fuerit quod ab abbate non accepit, gravissimae disciplinae subiaceat. [18] Et ut hoc vitium peculiaris 

radicitus amputetur, dentur ab abbate omnia quae sunt necessaria, [19] id est cuculla, tunica, pedules, 

caligas, bracile, cultellum, graphium, acum, mappula, tabulas, ut omnis auferatur necessitatis 

excusatio. 

Dalle disposizioni sul vestiario si passa a quelle concernenti i letti dei monaci, dotati di un pagliericcio (matta), un 

lenzuolo di tela grossolana (sagum), una coperta pesante (lena) e di un cuscino. La preoccupazione principale di 

Benedetto è che lo spazio del letto, l’unico spazio privato del monaco, non sia usato per nascondere oggetti di cui il 

monaco si sia appropriato indebitamente. Da qui la norma “poliziesca” data all’abate di esaminare spesso i letti dei 

monaci. Tuttavia è degna di attenzione anche l’indicazione su come ovviare al vizio della proprietà: l’abate deve 

preoccuparsi che a ciascuno sia dato il necessario, inclusi gli oggetti più minuti per l’uso personale e quotidiano 

(l’enumerazione che qui viene fatta non è certamente esaustiva, ma significativa quanto al genere di cose delel 

quali il monaco doveva essere fornito). Fra questo necessario rientrano anche stilo e tavolette, il che mostra come 

almeno in linea di principio il monaco doveva essere persona alfabetizzata. Fra le cose di uso personale rientravano 

probabilmente anche il sapone e i lintea per asciugarsi. 

[20] A quo tamen abbate semper consideretur illa sententia Actuum Apostolorum, quia dabatur 

singulis prout cuique opus erat (At 4, 35). [21] Ita ergo et abbas consideret infirmitates indigentium, 

non malam voluntatem invidentium; [22] in omnibus tamen iudiciis suis Dei retributionem cogitet. 

Come spesso in RB, la chiusa del capitolo propone una considerazione valida in generale, che riassume i principi ai 

quali deve ispirarsi la condotta dell’abate: attenzione ai bisogni reali dei singoli, prudenza e consapevolezza della 

propria responsabilità davanti a Dio (sia nel caso in cui manchi al proprio dovere concendedo di meno di quel che a 

qualcuno serve, sia nel caso sia troppo generoso con alcuni suscitando il malcontento legittimo di altri). Il passo di 

At 4, 35 è citato anche a RB 34, 1. 

3.2. Il lavoro 

Caput XLVIII 

De opera manuum cotidiano 

[1] Otiositas inimica est animae, et ideo certis temporibus occupari debent fratres in labore manuum, 

certis iterum horis in lectione divina. 

Il capitolo riprende RM 50, con la significativa omissione di tutte le considerazioni del Maestro volte a indicare il 

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significato spirituale delle prescrizioni da lui date. RB si limita a disporre l’utilizzo del tempo in modo ch’esso sia 

utile, ma non si sofferma a commentare il senso delle disposizioni che vengono impartite. Sotto la rubrica di 

“lavoro manuale” viene in realtà tracciato un orario che comprende anche altre attività della giornata monastica e 

che integra le disposizioni date in relazione alla liturgia, ai pasti e al sonno. 

Il capitolo si apre con l’enunciazione di un principio di carattere generale che richiama il senso di Sir 33, 28-29. La 

grande preoccupazione che attraversa il capitolo, come analoghe prescrizioni di altri testi, è che si eviti in ogni 

modo l’ozio. La prescrizione esplicita di dedicarsi anche a un labor manuum esprime la preoccupazione che i 

monaci si procurino da sé il proprio sostentamento e non pesino sugli altri: non si tratta, cioè, solo di un esercizio 

ascetico fatto a scopo di mortificazione, ma del compimento di un dovere sociale. 

[2] Ideoque hac dispositione credimus utraque tempore ordinari: [3] id est ut a Pascha usque kalendas 

Octobres a mane exeuntes a prima usque hora paene quarta laborent quod necessarium fuerit; [4] ab 

hora autem quarta usque hora qua sextam agent lectioni vacent; [5] post sextam autem surgentes a 

mensa pausent in lecta sua cum omni silentio, aut forte qui voluerit legere sibi sic legat ut alium non 

inquietet; [6] et agatur nona temperius mediante octava hora, et iterum quod faciendum est operentur 

usque ad vesperam. 

Vengono previsti tre periodi nel corso dell’anno per i quali, tenendo conto della durata del giorno e di esigenze 

liturgiche e disciplinari (cf. RB 8; 10; 41), si danno disposizioni diverse: da pasqua fino all’inizio di ottobre 

(estate); dall’inizio di ottobre fino all’inizio della quaresima (inverno); quaresima. Il primo periodo descritto è 

quello estivo: la notte è più breve e le giornate sono più lunghe, l’ufficio notturno è abbreviato (fino a novembre) il 

digiuno mitigato (fino alle idi di settembre), perché si pranza e si cena, tranne il mercoledì e il venerdì, quando, 

salvo situazioni particolari, si mangia solo a nona. RB concede una pausa di riposo dopo sesta, sia che si pranzi sia 

che si digiuni, e anticipa l’ora nona, in modo che si riprenda a lavorare avendo a disposizione circa altre tre ore 

prima del vespro. 

Concretamente, l’ora prima si tiene in questo periodo in un’ora compresa fra le 4, 30 e le 6, 00, il lavoro prosegue 

fino a più o meno le 9, 00, dopo di che ci si dedica alla lettura fino all’ora in cui dicono sesta, più o meno le 11, 30. 

Dopo sesta e il pasto, RB concede un periodo di riposo, durante il quale è possibile sia dormire che ritornare alla 

lettura. La precisazione di Benedetto al riguardo fa supporre che la lettura venisse fatta ordinariamente 

pronunciando a mezza voce il testo letto. La recita di nona viene anticipata, quindi avrà avuto luogo intorno alle 

14, 00/ 14, 30, ed è seguita dal lavoro fino a vespro. In tal modo nelle ore più calde della giornata i monaci non 

sono impegnati nel lavoro manuale. 

[7] Si autem necessitas loci aut paupertas exegerit ut ad fruges recolligendas per se occupentur, non 

contristentur, [8] quia tunc vere monachi sunt si labore manuum suarum vivunt, sicut et patres nostri 

et apostoli. [9] Omnia tamen mensurate fiant propter pusillanimes. 

Ordinariamente anche il lavoro manuale dovrebbe potersi svolgere nel recinto del monastero (RB 66, 6), è tuttavia 

prevista esplicitamente la possibilità che, occasionalmente, i monaci debbano impegnarsi direttamente nel lavoro 

dei campi, il che poteva essere sentito come particolarmente umiliante soprattutto da parte di chi non veniva dalle 

classi più modeste. 

[10] A kalendas autem Octobres usque caput quadragesimae, usque in hora secunda plena lectioni 

vacent; [11] hora secunda agatur tertia, et usque nona omnes in opus suum laborent quod eis 

iniungitur; [12] facto autem primo signo nonae horae, deiungant ab opera sua singuli et sint parati 

dum secundum signum pulsaverit. [13] Post refectionem autem vacent lectionibus suis aut psalmis. 

Il periodo invernale viene calcolato, per quanto concerne il lavoro dalle calende di ottobre (1 ottobre) e dura fino 

all’inizio della quaresima (il digiuno fino a nona nei giorni feriali inizia già dalle idi di settembre, mentre l’orario 

invernale dell’ufficio inizia solo il 1 novembre). Qui la lettura precede il lavoro, che inizia, dopo la recita (un po’ 

anticipata) di terza, in un’ora che intorno al solstizio d’inverno era più o meno attorno alle 9, 00. Il lavoro prosegue 

fino a poco prima l’ora dell’unico pasto della giornata, che si prende, dopo aver recitato nona, più o meno fra le 14, 

00 e le 15, 00. Il tempo successivo, prima della celebrazione del vespro, è riservato, come quello notturno tra le 

vigilie e le lodi, alla lettura e allo studio dei salmi. L’espressione lectionibus suis fa pensare a letture ordinate e 

stabilite secondo un criterio preciso. 

[14] In quadragesimae vero diebus, a mane usque tertia plena vacent lectionibus suis, et usque decima 

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hora plena operentur quod eis iniungitur. [15] In quibus diebus quadragesimae accipiant omnes 

singulos codices de bibliotheca, quos per ordinem ex integro legant; [16] qui codices in caput 

quadragesimae dandi sunt. 

La quaresima è organizzata secondo criteri propri sia nella disciplina del digiuno, sia nella scansione del tempo 

quotidiano. È il tempo al quale RB riserva un’attenzione privilegiata, elevandolo a modello del modo in cui l’intera 

vita del monaco dovrebbe svolgersi (RB 49). Assumendo come riferimento l’equinozio di primavera, il lavoro è 

preceduto da 1-2 ore di lettura e inizia intorno alle 9, 00 del mattino; prosegue fino alle 16, 00 (con le interruzioni 

per gli uffici di sesta e nona). Al lavoro segue il canto del vespro, l’unico pasto della giornata e la lettura fatta in 

comune, seguita da compieta. Il tempo di quaresima è caratterizzato da una speciale attenzione per la lettura. La 

precisazione che ciascun monaco deve ricevere un codice fa supporre che almeno la capacità di leggere dovesse 

essere comune a tutti. Interessante anche la prescrizione che il libro si legga per intero. 

[17] Ante omnia sane deputentur unus aut duo seniores qui circumeant monasterium horis quibus 

vacant fratres lectioni, [18] et videant ne forte inveniatur frater acediosus qui vacat otio aut fabulis et 

non est intentus lectioni, et non solum sibi inutilis est, sed etiam alios distollit: [19] hic talis si - quod 

absit - repertus fuerit, corripiatur semel et secundo; [20] si non emendaverit, correptioni regulari 

subiaceat taliter ut ceteri timeant (1 Tm 5, 20). [21] Neque frater ad fratrem iungatur horis 

incompetentibus. 

La sorveglianza affidata a due anziani nei tempi dedicati alla lettura suppone ch’essa non venisse condotta in un 

medesimo luogo. Interessante la menzione al dovere del monaco di essere utilis (cf. anche RB 7, 18). Ancora una 

volta al preoccupazione forte è quella di evitare la dissipazione e le chiacchiere: compito precipuo del monaco è 

l’esercizio di una costante, tendenzialmente ininterrotta, presenza a se stesso e a Dio. 

[22] Dominico item die lectioni vacent omnes, excepto his qui variis officiis deputati sunt. [23] Si 

quis vero ita neglegens et desidiosus fuerit ut non velit aut non possit meditare aut legere, iniungatur 

ei opus quod faciat, ut non vacet. [24] Fratribus infirmis aut delicatis talis opera aut ars iniungatur ut 

nec otiosi sint nec violentia laboris opprimantur aut effugentur. [25] Quorum imbecillitas ab abbate 

consideranda est. 

Un’altra serie di indicazioni che modificano le norme appena prescritte tenendo conto di situazioni particolari: i 

giorni di festa, l’incapacità, la malattia. L’eccezione prevista per il fratello negligente sembra da intendersi non in 

via permanente, ma rispetto all’indicazione di dedicare l’intera domenica alla lettura e alla meditazione. Sembra 

difficile infatti immaginare che Benedetto ammetta in monastero una persona incapace di dedicarsi in qualsiasi 

modo alla lettura e alla meditazione, visto che ha appena detto che tutti devono ricevere un codice da leggere 

durante la quaresima. 

A titolo di esemplificazione, da questo, dai capp. 41-42 e da quelli dedicati all’ufficio si può ricavare questo 

schema orario: 

· Estate (da pasqua al 13 settembre), assumendo come riferimento il solstizio d’estate: 2 levata e vigilie notturne; 3, 

30 lodi; 4-4, 30 pausa; 4, 30 prima; 5-9 lavoro; 9 terza; 9, 30-11, 30 lettura; 11, 30 sesta, pranzo, siesta; 14 nona; 

14, 30-18 lavoro; 18-19, 30 vespro, cena, lettura comune, compieta; 19, 30 riposo. 

· Inverno (dal 1 ottobre a quaresima), assumendo come riferimento il solstizio d’inverno: 2, 30 levata e vigilie 

notturne; 4, 30-5, 30 pausa; 5, 30 lodi; 6-9 prima (verso le 7, 30) e lettura; 9 terza; 9, 30-13, 30 lavoro; 14 nona e 

pranzo; 15-16,30 lettura; 16, 30 vespro, lettura comune, compieta; 17, 30 riposo. 

Il tempo dedicato alla lettura e al lavoro manuale non sono perfettamente equivalenti: il lavoro prevale sulla lettura 

in estate, mentre diminuisce nei mesi invernali. Si può osservare che le ore dedicate alla lettura sono le migliori per 

condizioni di luce, in inverno, o quelle nelle quali non è consigliabile svolgere lavoro fisico, in estate. Si deve tener 

conto del fatto, comunque, che i testi letti eano spesso oggetto di memorizzazione e di ripetizione nel corso della 

giornata. Se alla lettura privata si aggiunge quella fatta in comune, in refettorio e nell’ufficio liturgico, essa diventa 

l’attività portante della giornata monastica, che accompagna il lavoro e sostiene la meditazione. 

Come si vede, non è prevista una celebrazione quotidiana dell’eucaristia, che rimane riservata alle domeniche e 

alle solennità; né sono previsti luoghi e tempi destinati alla ricreazione e alla socializzazione tra i monaci, o a 

regolari forme di insegnamento e predicazione da parte dell’abate. Questo non esclude a priori che spazi di questo 

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genere vi fossero, ma non rientrano tra gli elementi ritenuti essenziali dalla codificazione della vita monastica 

proposta dalla RB. 

Caput LVII 

De artificibus Monasterii 

[1] Artifices si sunt in monasterio cum omni humilitate faciant ipsas artes, si permiserit abbas. [2] 

Quod si aliquis ex eis extollitur pro scientia artis suae, eo quod videatur aliquid conferre monasterio, 

[3] hic talis erigatur ab ipsa arte et denuo per eam non transeat, nisi forte humiliato ei iterum abbas 

iubeat. 

Il capitolo integra, riprendendo RM 85, quanto disposto a RB 48 e chiude la sezione inaugurata dal cap. 31 sul 

cellerario. Artifex è colui che, artigiano o artista, possiede un sapere tecnico-produttivo; il suo esercizio è 

subordinato al giudizio dell’abate, che deve preoccuparsi anzitutto che l’attività artigianale o artistica non 

comprometta l’umiltà del monaco con la presunzione di arrecare con la propria attività un vantaggio al cenobio. 

Gli aspetti concreti dell’esercizio delle attività lavorative non sono menzionati, ma è indicato il principio guida al 

quale esso deve ispirarsi. 

[4] Si quid vero ex operibus artificum venumdandum est, videant ipsi per quorum manus transigenda 

sint ne aliquam fraudem praesumant. [5] Memorentur semper Ananiae et Saphirae, ne forte mortem 

quam illi in corpore pertulerunt (At 5, 1-11), [6] hanc isti vel omnes qui aliquam fraudem de rebus 

monasterii fecerint in anima patiantur. [7] In ipsis autem pretiis non surripiat avaritiae malum, [8] sed 

semper aliquantulum vilius detur quam ab aliis saecularibus dari potest, [9] «ut in omnibus 

glorificetur Deus» (1 Pt 4, 11). 

Non è del tutto chiaro a chi pensi Benedetto in questi §§; verosimilmente i prodotti destinati alla vendita all’esterno 

del cenobio saranno stati affidati a degli intermediari esterni e non commerciati direttamente dai monaci. Da una 

parte a costoro, ma indirettamente anche all’abate e agli artigiani, è rivolta l’ammonizione a non defraudare il 

monastero di quanto è giusto; dall’altra i monaci vengono messi in guardia dal desiderio di guadagno e sollecitati a 

vendere i propri prodotti a un prezzo leggermente inferiore a quello degli altri commercianti. La frode e l’avidità di 

guadagno sono trattate insieme e costituiscono, insieme alla superbia, il rischio dal quale chi lavora deve sapersi 

guardare. 

Caratteristica della RB la chiusa scritturistica del § 9, che propone, in un contesto per altro assai prosaico, un 

principio di condotta valido in modo generale. 

3.3. Viaggi e uscite dal monastero 

Caput L 

De Fratribus qui longe ab Oratorio laborant, aut in via sunt 

[1] Fratres qui omnino longe sunt in labore et non possunt occurrere hora competenti ad oratorium - 

[2] et abbas hoc perpendet, quia ita est - [3] agant ibidem opus Dei, ubi operantur, cum tremore 

divino flectentes genua. [4] Similiter, qui in itinere directi sunt, non eos praetereant horae constitutae, 

sed ut possunt agant sibi et servitutis pensum non neglegant reddere. 

Caput LI 

De Fratribus qui non satis longe proficiscuntur 

[1] Frater qui pro quovis responso dirigitur et ea die speratur reverti ad monasterium, non praesumat 

foris manducare, etiam si omnino rogetur a quovis, [2] nisi forte ei ab abbate suo praecipiatur. [3] 

Quod si aliter fecerit, excommunicetur. 

I due capitoli sono collegati e hanno stretta relazione con le prescrizioni relative al lavoro e all’orario della 

giornata; nell’uno e nell’altro caso il problema è la condotta del monaco al di fuori del recinto del cenobio e la 

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prescrizione di massima che viene impartita è di mantenere nel modo più fedele possibile anche all’esterno i ritmi e 

le consuetudini della vita claustrale, vengono infatti presi in considerazione i due momenti essenziali della vita 

comunitaria: la preghiera comune e il pasto. 

In entrambe le disposizioni interviene il giudizio dell’abate, che può dispensare i monaci impegnati nel lavoro dal 

rientrare in monastero per le ore canoniche e può permettere a un monaco di prendere cibo fuori dal monastero, 

qualora si debba trattenere a lungo. 

Interessante la nota di 50, 4: agant sibi: il monaco è tenuto a rendere il pegno del proprio quotidiano servizio (è un 

miles) anche lontano dal cenobio, ma tenendosi in disparte dagli altri. Ancora più severo il divieto di prendere cibo 

con altri, anche se invitati: il rifiuto della commensalità, che sembra contrastare con i doveri dell’ospitalità tanto 

sottolineati nella RB, ha una motivazione ascetico-sociale: si vuole evitare che il monaco dia luogo a chiacchiere e 

scandali con un comportamento troppo disinvolto, mantenendo anche mentre è all’esterno del recinto monastico il 

regime di separazione rispetto ai secolari. 

Caput LXVII 

De Fratribus in via directis 

[1] Dirigendi fratres in via omnium fratrum vel abbatis se orationi commendent, [2] et semper ad 

orationem ultimam operis Dei commemoratio omnium absentum fiat. 

Riprende la materia trattata in RB 50-51 e integra le osservazioni fatte nel capitolo precedente sulla clausura 

monastica. Il fatto che qui venga usato il plurale lascia forse supporre che i monaci non intraprendessero viaggi 

lunghi da soli, sia per ragioni di sicurezza, sia per ragioni di disciplina (dal concilio di Aix-la-Chapelle nell’817 

questa diviene poi la norma). L’uscita dal monastero, anche se lecita e necessaria, ha i caratteri di un’esposizione al 

pericolo e sembra includere un’inevitabile contaminazione, per questo l’insistenza della regola è sulla preghiera da 

domandare prima durante e dopo il viaggio. 

[3] Revertentes autem de via fratres ipso die quo redeunt per omnes canonicas horas, dum expletur 

opus Dei, prostrati solo oratorii [4] ab omnibus petant orationem propter excessos, ne qui forte 

surripuerint in via visus aut auditus malae rei aut otiosi sermonis. [5] Nec praesumat quisquam referre 

alio quaecumque foris monasterium viderit aut audierit, quia plurima destructio est. [6] Quod si quis 

praesumpserit, vindictae regulari subiaceat. [7] Similiter et qui praesumpserit claustra monasterii 

egredi vel quocumque ire vel quippiam quamvis parvum sine iussione abbatis facere. 

Il monaco di ritorno da un viaggio non deve raccontare alcunché di ciò che ha visto e sentito all’esterno del 

cenobio e deve sottoporsi a un rito penitenziale nell’oratorio, per espiare eventuali mancanze di continenza negli 

sguardi, nei discorsi alscoltati e nelle parole dette. Il tema dominante è quello della custodia dell’isolamento fisico 

del monastero e del monaco, premessa necessaria per la salvaguardia del suo distacco da passioni e distrazione che 

possono diminuire la sua attenzione e presenza a se stesso e a Dio. 

3.4. Beni del monastero e dei monaci 

Caput XXXII 

De ferramentis, vel rebus Monasterii 

[1] Substantia monasterii in ferramentis vel vestibus seu quibuslibet rebus praevideat abbas fratres de 

quorum vita et moribus securus sit, [2] et eis singula, ut utile iudicaverit, consignet custodienda atque 

recolligenda. [3] Ex quibus abbas brevem teneat, ut dum sibi in ipsa assignata fratres vicissim 

succedunt, sciat quid dat aut quid recipit. [4] Si quis autem sordide aut neglegenter res monasterii 

tractaverit, corripiatur; [5] si non emendaverit, disciplinae regulari subiaceat. 

Il capitolo segue immediatamente quello sul cellerario ed esemplifica un caso nel quale egli può avvalersi della 

collaborazione di fratelli nello svolgimento del proprio compito; qui RB prevede che la custodia dei beni del 

monastero sia affidata in particolare a monaci degni di fiducia. L’abate deve comunque tenere un inventario di 

tutto, per sapere che cosa di volta in volta viene affidato a ciascun officiale. 

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Il § 4 torna, come in vari altri casi, sulla necessità di esercitare anche nei confronti delle cose un’attenzione 

scrupolosa. Il confine tra un esercizio di consapevolezza costante, che si estende ai propri moti interiori, alle 

relazioni con le persone e le cose e una soffocante ossessione per l’ordine e il controllo è molto sottile e tuttavia si 

tratta di due atteggiamenti completamente diversi. 

Caput XXXIII 

Si quid debeant Monachi proprium habere 

[1] Praecipue hoc vitium radicitus amputandum est de monasterio, [2] ne quis praesumat aliquid dare 

aut accipere sine iussione abbatis, [3] neque aliquid habere proprium, nullam omnino rem, neque 

codicem, neque tabulas, neque graphium, sed nihil omnino, [4] quippe quibus nec corpora sua nec 

voluntates licet habere in propria voluntate; [5] omnia vero necessaria a patre sperare monasterii, nec 

quicquam liceat habere quod abbas non dederit aut permiserit. 

Dalla questione dei beni comuni a quella dei beni personali. Della proprietà RB parla anche altrove, p.e. nei capp. 

54-55; 58-59. Le indicazioni della RB dipendono prevalentemente da RM (soprattutto i capp. 82 e 91), da Cassiano 

e da Agostino. Il principio è netto e non ammette eccezioni: assolutamente nulla dev’essere rivendicato come 

proprio dai monaci, nemmeno il loro corpo e la loro volontà. La formulazione del principio è singolarmente dura, 

data più in termini giuridici che dottrinali: il monaco, essendo soggetto all’abate, non ha più alcuna capacità di 

possedere in proprio (in tal modo la povertà è messa strettamente in relazione con la pratica dell’obbedienza); 

questa formulazione avvicina la condizione monastica allo statuto giuridico dello schiavo. 

Gli oggetti elencati nel § 3, per la loro modestia, esemplificano l’estensione di questo divieto. Esso non impone di 

ridursi in uno stato di assoluta indigenza (all’abate è fatto obbligo esplicito di provvedere ai monaci secondo le loro 

necessità, cf. RB 55, 19), ma richiede di esercitarsi nel distacco, in quella che si potrebbe chiamare 

disidentificazione rispetto alle forme mediante le quali normalmente si costruisce e si rafforza il dominio dell’io: 

desiderio, possesso, potere. Il § 5 lega, sia pure indirettamente, la condizione di espropriazione del monaco alla 

fiducia nella provvidenza: tutto il monaco deve attendere dal padre del monastero, cioè da colui che nel cenobio 

vices gerit Christi. In ultima analisi, è Dio che provvede al monaco, che da lui aspetta «il pane quotidiano» (questo 

tema è sviluppato esplicitamente da RM nel prologo 54-56. 

[6] «Omniaque omnium sint communia, ut scriptum est, ne quisquam suum aliquid dicat» (At 4, 32) 

vel praesumat. [7] Quod si quisquam huic nequissimo vitio deprehensus fuerit delectari, admoneatur 

semel et iterum; [8] si non emendaverit, correptioni subiaceat. 

Il modello che viene additato è quello della comunità apostolica di Gerusalemme, in cui tutto era comune. La 

citazione di At 4, 32 è ispirata a RB probabilmente dalla regola agostiniana. 

Si noti la terminologia: dire di qualcosa che è mio è un vizio sommamente iniquo. La povertà personale del 

monaco non è qui proposta per ragioni sociali: dare l’esempio agli altri, condividere la sorte dei poveri o cose 

simili, visto che non vi sono obiezioni a che il monastero disponga di beni e dipendenti. La povertà viene 

perseguita come mezzo ed espressione della condizione di rinunciante propria del monaco. 

Caput XXXIV 

Si omnes debeant aequaliter necessaria accipere 

[1] Sicut scriptum est: «Dividebatur singulis prout cuique opus erat» (At 4, 32). [2] Ubi non dicimus 

ut personarum - quod absit - acceptio sit, sed infirmitatum consideratio; [3] ubi qui minus indiget agat 

Deo gratias et non contristetur, [4] qui vero plus indiget humilietur pro infirmitate, non extollatur pro 

misericordia; [5] et ita omnia membra erunt in pace. [6] Ante omnia, ne murmurationis malum pro 

qualicumque causa in aliquo qualicumque verbo vel significatione appareat; [7] quod si deprehensus 

fuerit, districtiori disciplinae subdatur. 

Il testo è strettamente collegato al precedente cap. 33, come mostra il ricorso, in apertura, alla medesima autorità 

scritturistica. La distribuzione dei beni in misura diversa, secondo le necessità di ciascuno, è raccomandata anche, 

con riferimento allo stesso passo degli At, dalla regola di Agostino (I 3). Perché questo modo di procedere non dia 

adito a lamentele, occorre che l’abate eserciti cautela e discernimento e che si coltivi un atteggiamneto reciproco di 

fiducia e di umiltà tra i monaci, in modo che chi riceve non si senta privilegiato e chi non riceve non si senta 

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defraudato. Significativo in questa prospettiva l’ennesimo ammonimento, in chiusura, che mette in guardia dalla 

mormorazione ene vieta qualsiasi manifestazione, sotto pena di un castigo immediato (di solito RB prevede prima 

del castigo degli ammonimenti). 

Caput LIV 

Si debeat Monachus litteras vel eulogia suscipere 

[1] Nullatenus liceat monacho neque a parentibus suis neque a quoquam hominum nec sibi invicem 

litteras, eulogias vel quaelibet munuscula accipere aut dare sine praecepto abbatis. [2] Quod si etiam a 

parentibus suis ei quicquam directum fuerit non praesumat suscipere illud, nisi prius indicatum fuerit 

abbati. [3] Quod si iusserit suscipi, in abbatis sit potestate cui illud iubeat dari, [4] et non contristetur 

frater cui forte directum fuerat, ut non detur occasio diabolo. [5] Qui autem aliter praesumpserit, 

disciplinae regulari subiaceat. 

Questo cap., che non ha un parallelo in RM, si collega logicamente con il capitolo precedente, dedicato 

all’accoglienza degli ospiti, e integra il contenuto dei capp. 33-34 sul tema della proprietà personale; la sua fonte è 

la regola di Agostino, della quale combina due capitoli: 11, 115-119 e 12, 140-144. La redazione di RB combina 

due passi che hanno nel testo di Agostino un senso ben diverso: nel primo passo si tratta di mancanze alla castità 

(relazioni con una donna attraverso lettere e piccoli doni), mentre il secondo tratta di mancanze alla comunione dei 

beni (appropriazione da parte del monaco di oggetti utili inviati dalla famiglia di origine). RB allarga la casistica 

nel § 1 (a parentibus, quoquam hominum, sibi invicem) e nei §§ 2-3 sottolinea il ruolo dell’abate nell’assegnazione 

degli eventuali doni. 

Eulogia: in senso proprio indica il pane benedetto (non l’eucaristia) durante la messa e distribuito ai fedeli o agli 

assenti in segno di comunione e come segno di amicizia; il termine si è poi usato per indicare ogni genere di dono 

pio (reliquie, medaglie, immagini o anche altro). 

Le prescrizioni sono particolarmente odiose per la nostra sensibilità; esse mirano a salvaguardare nel modo più 

rigoroso la separazione del monaco, sottraendolo ai rapporti privilegiati con la propria famiglia o con la cerchia 

degli amici, e a coltivare le due virtù che RB reputa fondamentali nel monaco: l’obbedienza e l’umiltà. 

3.5. Gli ospiti 

Caput LIII 

De hospitibus suscipiendis 

[1] Omnes supervenientes hospites tamquam Christus suscipiantur, quia ipse dicturus est: «Hospes fui 

et suscepistis me» (Mt 25, 35); [2] et omnibus congruus honor exhibeatur, «maxime domesticis fidei» 

(Gal 6, 10) et peregrinis. 

Il testo di RB combina in un’unica trattazione indicazioni che in RM sono disseminate in vari capitoli. Lo stretto 

legame stabilito tra l’accoglienza degli ospiti e l’oratorio e la mensa del cenobio spiega forse la posizione del 

capitolo, che segue una serie di capitoli in cui questi due ambienti sno più volte venuti a tema.Come ususale in RB, 

viene enunciato un principio generale di comportamento e il fondamento scritturistico sul quale esso è basato; in 

questo caso il principio fondamentale è che l’accoglienza degli ospiti, senza distinzione di categoria, è accoglienza 

del Cristo (è però verosimile che l’accoglienza non fosse concessa agli eretici e alle donne). Si noti che le forme 

dell’ospitalità non sono identiche per tutti: a ciascuno devono essere manifestate le forme di onore adeguate; RB 

nasce e si muove in una società fortemente gerarchizzata e certo non pensava a u identico trattamento per tutti gli 

ospiti. 

L’espressione domestici fidei non è del tutto chiara: potrebbe indicare i cattolici, in opposizione agli eretici (ariani 

in particolare all’epoca di composizione della RB), ma non sembra probabile che fosse prevista l’accoglienza in 

monastero di persone non cattoliche. I commentatori ritengono che questa espressione paolina venisse usata per 

designare monaci e chierici, coloro che sono in modo più particolare “familiari” di Dio per la professione di vita 

che hanno intrapreso. Anche il termine peregrini qui non dovrebbe designare qualunque forestiero, ma riferirsi in 

modo speciale ai pellegrini, a coloro cioè che sono in viaggio per ragioni devozionali e ai quali va perciòà riservata 

un’accoglienza più calorosa. 

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[3] Ut ergo nuntiatus fuerit hospes, occurratur ei a priore vel a fratribus cum omni officio caritatis, [4] 

et primitus orent pariter, et sic sibi socientur in pace. [5] Quod pacis osculum non prius offeratur nisi 

oratione praemissa, propter illusiones diabolicas. [6] In ipsa autem salutatione omnis exhibeatur 

humilitas omnibus venientibus sive discedentibus hospitibus: [7] inclinato capite vel prostrato omni 

corpore in terra, Christus in eis adoretur qui et suscipitur. 

[8] Suscepti autem hospites ducantur ad orationem et postea sedeat cum eis prior aut cui iusserit ipse. 

[9] Legatur coram hospite lex divina ut aedificetur, et post haec omnis ei exhibeatur humanitas. [10] 

Ieiunium a priore frangatur propter hospitem, nisi forte praecipuus sit dies ieiunii qui non possit 

violari; [11] fratres autem consuetudines ieiuniorum prosequantur. [12] Aquam in manibus abbas 

hospitibus det; [13] pedes hospitibus omnibus tam abbas quam cuncta congregatio lavet; [14] quibus 

lotis, hunc versum dicant: «Suscepimus, Deus, misericordiam tuam in medio templi tui» (Sal 47, 10). 

Viene descritto un cerimoniale di accoglienza singolarmente lungo e impegnativo, che si svolge prima sulla porta 

del monastero, poi nell’oratorio e infine a mensa, prevede vari momenti (preghiera, saluto, nuova preghiera 

nell’oratorio, lavanda delle mani e dei piedi, refezione e lettura) e prevederebbe il coinvolgimento dell’abate e 

dell’intera comunità. Esso certamente non veniva osservato in questa forma se non in occasioni del tutto 

eccezionali; esso tuttavia rende in modo molto chiaro il valore attribuito alla presenza dell’ospite e anche le 

preoccupazioni di RB nell’evitare presenze pericolose per la pace del cenobio. 

Vari elementi lessicali insistono sull’atteggiamento di sollecita premura che deve guidare l’accoglienza dell’ospite: 

occurratur ... cum omni officio caritatis ... omnis exhibeatur humilitas ... omnis exhibeatur humanitas. La 

motivazione di questa sollecitudine, che arriva a interrompere il digiuno per tener compagnia all’ospite a mensa, è 

cristologica: nell’ospite si adora il Cristo, si accoglie la sua misericordiosa visita (il cerimoniale liturgico 

dell’accoglienza, la citazione del Sal 47 confermano la rappresentazione del cenobio come domus Dei e la 

rappresentazione dell’ospite come una sorta di emissario del “padrone di casa”). 

È estremamente importante questa insistenza sul modo di accogliere gli ospiti: la separazione rigorosa dagli uomini 

(cf. il divieto per chi è fuori dal monastero per breve tempo di mangiare insieme agli altri e tutte le altre norme che 

dettagliano la chiusura dei monaci alle relazioni con l’esterno) non deve essere conseguenza di un atteggiamento di 

misantropia e repulsione verso il contatto con le persone. Il monaco dovrebbe essere capace di rallegrarsi della 

visita di chiunque, ma per ragioni non narcisistiche; accogliere in ciascuno il Cristo, ma non servirsi della presenza 

altrui a beneficio del proprio io. Da qui la cautela nei confronti delle «illusioni diaboliche» che si esprime nel 

rituale di accoglienza. 

[15] Pauperum et peregrinorum maxime susceptioni cura sollicite exhibeatur, quia in ipsis magis 

Christus suscipitur; nam divitum terror ipse sibi exigit honorem. 

Dopo le indicazioni di fondo vengono varie precisazioni pratiche. Questa è la più importante dal punto di vista 

spirituale: poveri e pellegrini, per ragioni diverse, sono degni di una sollecitudine particolare, perché in essi si 

rende onore non alla condizione storica dell’individuo, ma al suo essere segno della presenza del Cristo. La 

ricchezza ha in genere un potere sufficiente nei nostri confronti perché agiamo nei confronti del ricco con 

deferenza e rispetto. 

[16] Coquina abbatis et hospitum super se sit, ut, incertis horis supervenientes hospites, qui numquam 

desunt monasterio, non inquietentur fratres. [17] In qua coquina ad annum ingrediantur duo fratres 

qui ipsud officium bene impleant. [18] Quibus, ut indigent, solacia administrentur, ut absque 

murmuratione serviant, et iterum, quando occupationem minorem habent, exeant ubi eis imperatur in 

opera. [19] Et non solum ipsis, sed et in omnibus officiis monasterii ista sit consideratio, [20] ut 

quando indigent solacia accommodentur eis, et iterum quando vacant oboediant imperatis. [21] Item 

et cellam hospitum habeat assignatam frater cuius animam timor Dei possidet; [22] ubi sint lecti strati 

sufficienter. Et domus Dei a sapientibus et sapienter administretur. 

Seguendo la propria tendenza alla specializzazione, RB dispone che agli ospiti siano destinati dei locali appositi, 

sui quali veglia un monaco «posseduto dal timore di Dio», e una cucina separata per loro e per l’abate; i fratelli 

assegnati a questo incarico non seguono un turno settimanale, ma annuale, devono essere cuochi non improvvisati 

e, se ne hanno bisogno, possono ricevere aiuto da altri (principio che deve valere per tutti gli incarichi assegnati nel 

cenobio). Anche qui Benedetto approfitta dell’occasione per enunciare un principio guida che vale al di là di 

questo contesto specifico e che ne esprime lo spirito ordinato, disciplinato e prudente: «la casa di Dio sia 

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amministrata saggiamente da uomini saggi». 

[23] Hospitibus autem cui non praecipitur ullatenus societur neque colloquatur; [24] sed si obviaverit 

aut viderit, salutatis humiliter, ut diximus, et petita benedictione pertranseat, dicens sibi non licere 

colloqui cum hospite. 

Il monaco deve trattare l’ospite come un superiore ed avere nei suoi riguardi un atteggiamento umile e accogliente, 

ma non entrare in familiarità con lui; il colloquio con gli ospiti spetta all’abate e ai fratelli da lui delegati a questo 

fine. Il contrasto tra la raccomandazione iniziale di accogliere l’ospite come Cristo e il divieto di intrattenersi con 

lui è uno dei molti che punteggiano RB e che mostrano la presenza nell’atteggiamento del suo autore di una 

polarità tra ottimismo e disincanto. L’ospite è portatore di Cristo, ma può esserlo per i monaci anche di illusioni 

diaboliche, di disturbo e di disordine; si devono onorare i poveri, perché i ricchi siamo già portati per natura a 

onorarli per la loro ricchezza... RB non perde di vista né gli ideali spirituali altissimi ai quali la vita del monaco di 

deve orientare, né l’effettiva modestia della loro realizzazione in molte circostanze di vita concreta e cerca di 

tenere conto in modo adeguato di entrambi questi aspetti (cf. il medesimo contrasto tra il prologo e il cap. 58 

sull’accoglienza dei candidati; o il contrasto tra sollecitudine ad accogliere e divieto di uscire dalla clausura che si 

esprime nel cap. 66). 

In genere appare molto ambivalente il modo in cui nella RB viene disciplinato il rapporto del monaco con il 

mondo: un massimo di disponibilità, umiltà, accoglienza, spirito di servizio si coniuga con una occhiuta 

sorveglianza, con la diffidenza nei confronti del perdurare di relazioni interpersonali, di cadute nei confronti della 

castità o della povertà. Si tratta di un’oscillazione presente in tutta la tradizione monastica, che alterna accoglienza 

e vigilanza nei confronti di chi proviene dal quel mondo dal quale i monaci hanno deciso di separarsi. 

Il passaggio attravero la porta del monastero è percepito e rappresentato come il passaggio attraverso due mondi, o 

due livelli di realtà, regolati da leggi diverse; da qui il rituale complesso che disciplina accoglienza degli ospiti, dei 

candidati alla vita monastica, le uscite e le entrate, anche dei monaci, nel recinto della clausura. Rimane molto 

interessante il fatto che la separazione qualitativa tra questi due mondi non viene mai forzata in una separazione 

fattuale assoluta (che sarebbe del resto impossibile): ci si allontana dal mondo per seguire Cristo, poi però si deve 

aprire la porta del chiostro per ricevere il Cristo, che si presenta nella persona dell’ospite. Colui che si cerca 

attraverso l’uscita dal mondo secolare si ripresenta provenendo proprio da quel mondo. Così la tensione tra le due 

sfere deve essere mantenuta e mai risolta a beneficio dell’una o dell’altra. Sia il rinchiudersi nell’isolamento, sia il 

perdersi nuovamente nel mondo comportano, agli occhi dell’autore della RB, un rischio, quello di perdere il 

contatto con la presenza del Cristo. 

Il cerimoniale dell’ospitalità tende anch’esso a rappresentare in forma di azioni simboliche la diversa qualità dei 

rapporti umani che la RB intende promuovere fra coloro che si danno alla professione monastica: la preghiera 

comune precede lo scambio dei saluti, la lettura della Scrittura accompagna il pasto; l’incontro tra gli uomini 

dovrebbe cioè avvenire ad un livello diverso da quello al quale ordinariamente esso si colloca (gerarchia sociale, 

relazioni affettive, interessi economici) e svolgersi secondo modalità alternative. 

Caput LXI 

De Monachis peregrinis, qualiter suscipiantur 

[1] Si quis monachus peregrinus de longinquis provinciis supervenerit, si pro hospite voluerit habitare 

in monasterio [2] et contentus est consuetudinem loci quam invenerit, et non forte superfluitate sua 

perturbat monasterium, [3] sed simpliciter contentus est quod invenerit, suscipiatur quanto tempore 

cupit. [4] Si qua sane rationabiliter et cum humilitate caritatis reprehendit aut ostendit, tractet abbas 

prudenter ne forte pro hoc ipsud eum Dominus direxerit. 

Questo capitolo si trova nella sezione dedicata all’accoglienza dei candidati alla vita religiosa nel monastero, ma 

completa anche le indicazioni date in quello relativo all’ospitalità, prendendo in considerazione una categoria di 

ospiti alla quale già in RB 53 si è prescritto di dare un riguado particolare: coloro che condividono la medesima 

professione di vita monastica. La severità manifestata in RB 1 nei confronti di monaci sarabaiti e girovaghi 

giustifica la gradualità dell’approccio nei confronti del confratello che viene da lontano: viene accolto come ospite 

e osservato nel suo comportamento, perché potrebbe essere stato mandato da Dio per ammonire ed edificare la 

comunità che lo accoglie — e in tal caso è prudente non solo accettare di incardinarlo in essa, ma anche sollecitarlo 

a fermarsi — ma potrebbe essere anche un seminatore di disordine e di cattivo esempio e in tal caso andrà 

allontanato (honeste, però, cn discrezione e senso della misura). 

La figura del monaco pellegrino non coincide necessariamente con quella del girovago, ma si vede che RB si 

preoccupa della sua stabilizzazione; d’altra parte l’estraneo può essere il portatore di un ammonimento e di un 

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esempio che Dio stesso manda; occorre perciò che l’abate ne soppesi bene le parole, qualora esse siano formulate 

in termini ragionevoli e siano mosse da umiltà e amore nei confronti degli ospiti che lo accolgono. 

[5] Si vero postea voluerit stabilitatem suam firmare, non renuatur talis voluntas, et maxime quia 

tempore hospitalitatis potuit eius vita dinosci. [6] Quod si superfluus aut vitiosus inventus fuerit 

tempore hospitalitatis, non solum non debet sociari corpori monasterii, [7] verum etiam dicatur ei 

honeste ut discedat, ne eius miseria etiam alii vitientur. [8] Quod si non fuerit talis qui mereatur 

proici, non solum si petierit suscipiatur congregationi sociandus, [9] verum etiam suadeatur ut stet, ut 

eius exemplo alii erudiantur, [10] et quia in omni loco uni Domino servitur, uni regi militatur. [11] 

Quem si etiam talem esse perspexerit abbas, liceat eum in superiori aliquantum constituere loco. [12] 

Non solum autem monachum, sed etiam de suprascriptis gradibus sacerdotum vel clericorum stabilire 

potest abbas in maiori quam ingrediuntur loco, si eorum talem perspexerit esse vitam. 

Non ritorna sulle tappe dell’aggregazione al monastero, ma ne indica i due momenti fondamentali: quello della 

prova e della conoscenza del candidato e quello della sua accoglienza definitiva al «corpo» del monastero. 

Interessante la metafora del corpo, che ben manifesta la concezione organica della comunità cenobitica e la sua 

autosufficienza. 

[13] Caveat autem abbas ne aliquando de alio noto monasterio monachum ad habitandum suscipiat 

sine consensu abbatis eius aut litteras commendaticias, [14] quia scriptum est: «Quod tibi non vis 

fieri, alio ne feceris.» 

Se nel caso di un monaco proveniente da molto lontano ci si può accontentare delle informazioni ch’egli stesso dà 

e della conoscenza diretta del suo modo di vivere, nel caso di un monaco proveniente da un monastero conosciuto, 

è fatto obbligo all’abate di non riceverlo senza il consenso o la racomandazione dell’abate del monastero di 

provenienza. La motivazione di questo comportamento è data dalla medesima “regola d’oro” che è stata già citata 

anche tra gli strumenti delle buone opere al cap. 4, 9. 

3.6. Le infrazioni alla Regola 

Malgrado la RB sia disseminata di luoghi nei quali si prevedono infrazioni e misure disciplinari specifiche (cf. p.e. 

RB 32; 33; 34; 42; 51; 71), i capp. 23-30 formano un codice penitenziale complessivo, integrato da un supplemento 

nei capp. 43-46. Anche in RM 12-14 si trova una estesa trattazione delle misure disciplinari da prendere nei 

confronti di chi commette infrazioni alla regola. Rispetto al Maestro, Benedetto accentua la severità delle misure 

correttive, ma anche la preoccupazione per il recupero del monaco indisciplinato (cf. in particolare il cap. 27, che è 

originale di RB e insiste sul ruolo dell’abate come pastore e medico dei suoi monaci); si preoccupa maggiormente 

della protezione della comunità dal cattivo esempio di chi manca che della punizione delle infrazioni. 

Alcuni tratti complessivi delle misure disciplinari previste (sostanzialmente si tratta di pene corporali — battiture o 

digiuno — o di esclusione da determinati o da tutti i momenti della vita comunitaria, fino all’espulsione completa 

dal cenobio, cf. Mt 5, 29-30) sono la gradualità (la pena è irrogata dopo gli ammonimenti, il testo di riferimento 

fondamentale della prassi disciplinare di RB è Mt 18, 15-17), la proporzione (non ogni infrazione è punita nello 

stesso modo), l’adeguatezza al soggetto (colpe uguali vengono punite con strumenti diversi, a seconda 

dell’attittudine di chi le ha commesse), il fine medicinale più che vendicativo (scopo della punizione è risvegliare 

nel monaco la coscienza di sé e della propria vocazione; per questo tutte le pene, compresa l’espulsione dal 

cenobio, sono revocabili), la necessità che esse vengano irrogate con equanimità (solo il superiore decide la 

punizione e la deve stabilire non in preda all’ira o per ragioni arbitrarie). 

Il codice penitenziale, presente anche in molti altri testi disciplinari della tradizione monastica ed ecclesiastica 

antiche, è senz’altro la parte della RB che appare più lontana dalla sensibilità attuale: colpiscono la dimensione 

repressiva, la pubblicità della soddisfazione imposta a chi manca, la frequenza e la durezza delle pene previste 

anche per infrazioni di scarso rilievo, il ricorso a un rituale di riconciliazione del penitente che ha soddisfatto la 

pena analogo a quello che si usa per la riconciliazione dei grandi peccatori nella chiesa antica. I tempi della pena 

sembrano tuttavia complessivamente brevi, ore o giorni; a ragione de Vogüe parla di una sorta di miniaturizzazione 

nella vita del cenobio della penitenza canonica ecclesiastica. 

La radicalizzazione della disciplina penitenziale, anche confrontata con la prassi extramonastica dei tempi, rinvia 

alla concezione della vita monastica come vita costitutivamente penitenziale (RB 55, 1): nella chiesa antica, 

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infatti, l’ingresso nella vita monastica poteva sostituire la penitenza canonica da parte di chi aveva commesso gravi 

colpe. 

Caput XXIII 

De excommunicatione culparum 

[1] Si quis frater contumax aut inoboediens aut superbus aut murmurans vel in aliquo contrarius 

exsistens sanctae regulae et praeceptis seniorum suorum contemptor repertus fuerit, [2] hic secundum 

Domini nostri praeceptum admoneatur semel et secundo secrete a senioribus suis. [3] Si non 

emendaverit, obiurgetur publice coram omnibus. [4] Si vero neque sic correxerit, si intellegit qualis 

poena sit, excommunicationi subiaceat; [5] sin autem improbus est, vindictae corporali subdatur. 

Caput XXIV 

Qualis debet esse modus excommunicationis 

[1] Secundum modum culpae, et excommunicationis vel disciplinae mensura debet extendi; [2] qui 

culparum modus in abbatis pendat iudicio. 

[3] Si quis tamen frater in levioribus culpis invenitur, a mensae participatione privetur. [4] Privati 

autem a mensae consortio ista erit ratio ut in oratorio psalmum aut antiphonam non imponat, neque 

lectionem recitet, usque ad satisfactionem. [5] Refectionem autem cibi post fratrum refectionem solus 

accipiat, [6] ut, si verbi gratia fratres reficiunt sexta hora, ille frater nona, si fratres nona, ille vespera, 

[7] usque dum satisfactione congrua veniam consequatur. 

Caput XXV 

De gravioribus culpis 

[1] Is autem frater qui gravioris culpae noxa tenetur suspendatur a mensa, simul ab oratorio. [2] 

Nullus ei fratrum in nullo iungatur consortio nec in colloquio. [3] Solus sit ad opus sibi iniunctum, 

persistens in paenitentiae luctu, sciens illam terribilem apostoli sententiam dicentis [4] «traditum 

eiusmodi hominem in interitum carnis, ut spiritus salvus sit in die Domini.» [5] Cibi autem 

refectionem solus percipiat, mensura vel hora qua praeviderit abbas ei competere; [6] nec a quoquam 

benedicatur transeunte nec cibum quod ei datur. 

Caput XXVI 

De iis, qui sine iussione Abbatis iunguntur excommunicatis 

[1] Si quis frater praesumpserit sine iussione abbatis fratri excommunicato quolibet modo se iungere 

aut loqui cum eo vel mandatum ei dirigere, [2] similem sortiatur excommunicationis vindictam. 

Caput XXVIII 

De iis, qui saepius correcti non emendantur 

[1] Si quis frater frequenter correptus pro qualibet culpa, si etiam excommunicatus non emendaverit, 

acrior ei accedat correptio, id est ut verberum vindicta in eum procedant. [2] Quod si nec ita 

correxerit, aut forte - quod absit - in superbia elatus etiam defendere voluerit opera sua, tunc abbas 

faciat quod sapiens medicus: [3] si exhibuit fomenta, si unguenta adhortationum, si medicamina 

scripturarum divinarum, si ad ultimum ustionem excommunicationis vel plagarum virgae, [4] et iam 

si viderit nihil suam praevalere industriam, adhibeat etiam - quod maius est - suam et omnium fratrum 

pro eo orationem, [5] ut Dominus qui omnia potest operetur salutem circa infirmum fratrem. [6] Quod 

si nec isto modo sanatus fuerit, tunc iam utatur abbas ferro abscisionis, ut ait Apostolus: «Auferte 

malum ex vobis,» [7] et iterum: «Infidelis, si discedit, discedat,» [8] ne una ovis morbida omnem 

gregem contagiet. 

Caput XXIX 

Si debeant iterum recipi fratres exeuntes de Monasterio 

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[1] Frater qui proprio vitio egreditur de monasterio, si reverti voluerit, spondeat prius omnem 

emendationem pro quo egressus est, [2] et sic in ultimo gradu recipiatur, ut ex hoc eius humilitas 

comprobetur. [3] Quod si denuo exierit, usque tertio ita recipiatur, iam postea sciens omnem sibi 

reversionis aditum denegari. 

Caput XXX 

De pueris minori aetate, qualiter corripiantur 

[1] Omnis aetas vel intellectus proprias debet habere mensuras. [2] Ideoque, quotiens pueri vel 

adulescentiores aetate, aut qui minus intellegere possunt quanta poena sit excommunicationis, [3] hi 

tales dum delinquunt, aut ieiuniis nimiis affligantur aut acris verberibus coerceantur, ut sanentur. 

Caput XLIII 

De iis, qui ad Opus Dei, vel ad mensam tarde occurrunt 

[1] Ad horam divini officii, mox auditus fuerit signus, relictis omnibus quaelibet fuerint in manibus, 

summa cum festinatione curratur, [2] cum gravitate tamen, ut non scurrilitas inveniat fomitem. 

[3] Ergo nihil operi Dei praeponatur. 

[4] Quod si quis in nocturnis vigiliis post gloriam psalmi nonagesimi quarti, quem propter hoc 

omnino subtrahendo et morose volumus dici, occurrerit, non stet in ordine suo in choro, [5] sed 

ultimus omnium stet aut in loco quem talibus neglegentibus seorsum constituerit abbas, ut videantur 

ab ipso vel ab omnibus, [6] usque dum completo opere Dei publica satisfactione paeniteat. [7] Ideo 

autem eos in ultimo aut seorsum iudicavimus debere stare ut, visi ab omnibus, vel pro ipsa verecundia 

sua emendent; [8] nam, si foris oratorium remaneant, erit forte talis qui se aut recollocet et dormit, aut 

certe sedit sibi foris vel fabulis vacat, et datur occasio maligno; [9] sed ingrediantur intus, ut nec 

totum perdant et de reliquo emendent. 

[10] Diurnis autem horis, qui ad opus Dei post versum et gloriam primi psalmi qui post versum 

dicitur non occurrerit, lege qua supra diximus in ultimo stent, [11] nec praesumant sociari choro 

psallentium usque ad satisfactionem, nisi forte abbas licentiam dederit remissione sua, [12] ita tamen 

ut satisfaciat reus ex hoc. 

[13] Ad mensam autem qui ante versu non occurrerit, ut simul omnes dicant versu et orent et sub uno 

omnes accedant ad mensam, [14] qui per neglegentiam suam aut vitio non occurrerit, usque secunda 

vice pro hoc corripiatur; [15] si denuo non emendaverit, non permittatur ad mensae communis 

participationem, [16] sed sequestratus a consortio omnium reficiat solus, sublata ei portione sua 

vinum, usque ad satisfactionem et emendationem. 

[17] Similiter autem patiatur qui et ad illum versum non fuerit praesens qui post cibum dicitur. 

[18] Et ne quis praesumat ante statutam horam vel postea quicquam cibi aut potus praesumere; [19] 

sed et cui offertur aliquid a priore et accipere renuit, hora qua desideraverit hoc quod prius recusavit 

aut aliud, omnino nihil percipiat usque ad emendationem congruam. 

Caput XLIV 

De iis qui excommunicantur, quomodo satisfaciant 

[1] Qui pro gravibus culpis ab oratorio et a mensa excommunicantur, hora qua opus Dei in oratorio 

percelebratur, ante fores oratorii prostratus iaceat nihil dicens, [2] nisi tantum posito in terra capite, 

stratus pronus omnium de oratorio exeuntium pedibus; [3] et hoc tamdiu faciat usque dum abbas 

iudicaverit satisfactum esse. 

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[4] Qui dum iussus ab abbate venerit, volvat se ipsius abbatis deinde omnium vestigiis ut orent pro 

ipso, [5] et tunc, si iusserit abbas, recipiatur in choro vel in ordine quo abbas decreverit; [6] ita sane ut 

psalmum aut lectionem vel aliud quid non praesumat in oratorio imponere nisi iterum abbas iubeat; 

[7] et omnibus horis, dum percompletur opus Dei, proiciat se in terra in loco quo stat, [8] et sic 

satisfaciat usque dum ei iubeat iterum abbas ut quiescat iam ab hac satisfactione. 

[9] Qui vero pro levibus culpis excommunicantur tantum a mensa, in oratorio satisfaciant usque ad 

iussionem abbatis; [10] hoc perficiant usque dum benedicat et dicat: Sufficit. 

Caput XLV 

De iis qui falluntur in Oratorio 

[1] Si quis dum pronuntiat psalmum, responsorium, antiphonam vel lectionem fallitus fuerit, nisi 

satisfactione ibi coram omnibus humiliatus fuerit, maiori vindictae subiaceat, [2] quippe qui noluit 

humilitate corrigere quod neglegentia deliquit. [3] Infantes autem pro tali culpa vapulent. 

Caput XLVI 

De iis qui in aliis quibuslibet rebus delinquunt 

[1] Si quis dum in labore quovis, in coquina, in cellario, in ministerio, in pistrino, in horto, in arte 

aliqua dum laborat, vel in quocumque loco, aliquid deliquerit, [2] aut fregerit quippiam aut perdiderit, 

vel aliud quid excesserit ubiubi, [3] et non veniens continuo ante abbatem vel congregationem ipse 

ultro satisfecerit et prodiderit delictum suum, [4] dum per alium cognitum fuerit, maiori subiaceat 

emendationi. 

[5] Si animae vero peccati causa fuerit latens, tantum abbati aut spiritalibus senioribus patefaciat, [6] 

qui sciat curare et sua et aliena vulnera, non detegere et publicare. 

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Desiderio di Dio e creazione di un ordine mondano nella Regula ...

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