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Sacre impronte e oggetti - Università degli Studi di Torino

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Collana <strong>di</strong> <strong>Stu<strong>di</strong></strong> del<br />

Centro <strong>di</strong> Scienze Religiose<br />

<strong>di</strong>retta da<br />

ADELE MONACI CASTAGNO<br />

2


Il Convegno e gli Atti che sono oggetto <strong>di</strong> questa pubblicazione sono stati<br />

realizzati con il sostegno della Fondazione CRT.<br />

Questo volume è anche pubblicato e gratuitamente scaricabile<br />

dal sito internet del Centro <strong>di</strong> Scienze Religiose (<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>):<br />

This book is also published and can be downloaded for free<br />

from the website of the Centro <strong>di</strong> Scienze Religiose (University of Turin):<br />

www.unito.it/csr<br />

In copertina: Romano I Lecapeno riceve il mandylion <strong>di</strong> Edessa. Madrid,<br />

Biblioteca Nacional, Vitr/26/2 (gr. 347), f. 131r.


<strong>Sacre</strong> <strong>impronte</strong> e <strong>oggetti</strong><br />

«non fatti da mano d’uomo»<br />

nelle religioni<br />

Atti del Convegno Internazionale – <strong>Torino</strong>, 18-20 maggio 2010<br />

a cura <strong>di</strong><br />

Adele Monaci Castagno<br />

E<strong>di</strong>zioni dell’Orso<br />

Alessandria


© 2011<br />

Copyright by Centro Interfacoltà e Inter<strong>di</strong>partimentale <strong>di</strong> Scienze Religiose<br />

via Giulia <strong>di</strong> Barolo, 3/A 10124 <strong>Torino</strong><br />

tel. 011.6703822<br />

e-mail: peterson@unito.it<br />

E<strong>di</strong>zioni dell’Orso<br />

via Rattazzi, 47 15121 Alessandria<br />

tel. 0131.252349 fax 0131.257567<br />

Realizzazione e<strong>di</strong>toriale ed informatica <strong>di</strong> Arun Maltese<br />

(bear.am@savonaonline.it)<br />

È autorizzata la riproduzione a scopo non commerciale per uso interno e personale,<br />

fatti salvi i <strong>di</strong>ritti morali <strong>degli</strong> autori, senza apportare alcuna mo<strong>di</strong>fica al testo e con<br />

chiara in<strong>di</strong>cazione della fonte. È vietata ogni ripubblicazione non autorizzata. L’illecito<br />

sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del<br />

22.04.41.<br />

ISBN 978-88-6274-299-3


Adele Monaci Castagno<br />

Presentazione.<br />

Michael Singleton<br />

Traces of the Invisible in Africa.<br />

INDICE<br />

Enrico Comba<br />

Cose <strong>di</strong> un altro mondo: <strong>oggetti</strong> sacri nella tra<strong>di</strong>zione<br />

<strong>degli</strong> In<strong>di</strong>ani delle Pianure.<br />

Alberto Pelissero<br />

Su alcuni <strong>oggetti</strong> achiropiti della civiltà in<strong>di</strong>ana.<br />

Roberto Tottoli<br />

La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

nella tra<strong>di</strong>zione islamica.<br />

Luca Patrizi<br />

Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām.<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico:<br />

valenze religiose e politiche.<br />

Graziano Lingua<br />

Gli acheropiti e i fondamenti della teoria<br />

dell’immagine cristiana.<br />

Anca Vasiliu<br />

L’image-empreinte, identifiant visuel<br />

du Dieu-homme (réflexions sur la trace,<br />

le portrait antique et le Mandylion byzantin).<br />

1<br />

9<br />

41<br />

63<br />

71<br />

81<br />

95<br />

113<br />

129<br />

V


Luigi Canetti<br />

Vestigia Christi. Le orme <strong>di</strong> Gesù fra Terrasanta<br />

e Occidente latino.<br />

Adele Monaci Castagno<br />

L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano: visioni,<br />

rivelazioni, picturae nella Chiesa africana del V secolo.<br />

Ester Brunet<br />

Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini.<br />

Rémi Gounelle<br />

Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

et de la Sainte Face: la Cura sanitatis Tiberii<br />

et la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris.<br />

Bernard Flusin<br />

L’image d’Édesse, Romain et Constantin.<br />

Andrea Nicolotti<br />

Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

secondo alcune moderne interpretazioni.<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Dalle acheropite alla Sindone.<br />

In<strong>di</strong>ce<br />

153<br />

181<br />

201<br />

231<br />

253<br />

279<br />

309


PRESENTAZIONE<br />

ADELE MONACI CASTAGNO<br />

Questo volume riunisce gli Atti del Convegno Internazionale tenutosi<br />

a <strong>Torino</strong> dal 18 al 20 maggio 2010; in quegli stessi giorni la città assisteva<br />

partecipe all’imponente afflusso <strong>di</strong> circa due milioni <strong>di</strong> pellegrini<br />

che, provenienti anche da luoghi lontani, sfilavano commossi davanti<br />

alla Sindone esposta in Duomo, a poca <strong>di</strong>stanza dalla sede del Rettorato<br />

in cui si svolgevano i lavori del Convegno. Non <strong>di</strong>versamente dalle<br />

ostensioni precedenti, anche l’ostensione del 2010 ha suscitato uno<br />

straor<strong>di</strong>nario interesse e devozione. È un fatto che interpella non soltanto<br />

i credenti, ma che riguarda anche gli stu<strong>di</strong>osi interessati a comprenderne<br />

le ragioni e i significati su una scala <strong>di</strong> lungo periodo e in un<br />

orizzonte multiculturale e multireligioso. In questo senso il Centro Inter<strong>di</strong>partimentale<br />

e Interfacoltà <strong>di</strong> Scienze Religiose dell’<strong>Università</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>Torino</strong> ha organizzato il Convegno Internazionale <strong>Sacre</strong> <strong>impronte</strong> e <strong>oggetti</strong><br />

“non fatti da mano d’uomo” nelle religioni invitando gli stu<strong>di</strong>osi a<br />

riflettere, a partire dalla propria prospettiva, sugli “acheropiti”, su quegli<br />

<strong>oggetti</strong>, appunto, non fatti da mani d’uomo, ritenuti presentificazioni<br />

del <strong>di</strong>vino nello spazio sociale, come nella spiritualità <strong>degli</strong> in<strong>di</strong>vidui,<br />

che hanno una tra<strong>di</strong>zione millenaria nella cultura europea, ma che, <strong>di</strong>versamente<br />

declinati, sono presenti anche in altre culture e che permettono<br />

dunque il confronto fra metodologie <strong>di</strong>fferenti. I contributi qui<br />

riuniti sono il frutto del <strong>di</strong>alogo fra competenze <strong>di</strong>verse, filologiche,<br />

storiche, antropologiche, filosofiche, artistiche dei cui risultati merita <strong>di</strong><br />

sottolineare alcuni temi e le problematiche trasversali.<br />

Comparare il <strong>di</strong>verso. Un tema rilevante è, innanzitutto, quello metodologico<br />

insito nell’accostamento <strong>di</strong> scenari culturali così <strong>di</strong>versi. Per<br />

questo, mo<strong>di</strong>ficando l’or<strong>di</strong>ne effettivo delle relazioni, il volume si apre<br />

con il contributo <strong>di</strong> Michael Singleton che in modo simpaticamente critico<br />

ci spiega perché tutti i termini che appaiono nel titolo del Convegno<br />

appaiono irrime<strong>di</strong>abilmente eurocentrici dal suo punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong><br />

antropologo che ha lavorato sul campo in Africa: il concetto <strong>di</strong> “sacro”<br />

1


2<br />

Presentazione<br />

implica quello <strong>di</strong> “profano”, una <strong>di</strong>stinzione tipicamente occidentale;<br />

“impronta” è ciò che si vede e che acquista un significato particolare<br />

soltanto in un contesto culturale che riconosce la supremazia della vista<br />

sugli altri sensi; “non fatti da mano d’uomo” rimanda ad una concezione<br />

in cui la techne umana recita una parte <strong>di</strong> rilievo, se pure, in<br />

qualche caso, fonte <strong>di</strong> problemi; non è così invece per gli artisti o gli artigiani<br />

<strong>di</strong> altre culture. “Religioni” è naturalmente il concetto più contestabile:<br />

implica una separazione fra campi – il luogo della teologia e del<br />

rito dagli altri “luoghi” – che è sconosciuta in altre culture. Il contributo<br />

<strong>di</strong> Singleton, nella parte più teorica, è il necessario caveat nei confronti<br />

<strong>di</strong> un uso non consapevole <strong>di</strong> categorie e concetti. Tuttavia dal<br />

confronto avvertito fra culture <strong>di</strong>verse possono nascere domande nuove<br />

in grado <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re la comprensione del proprio campo <strong>di</strong> ricerca.<br />

Singleton, ad esempio, stabilisce una stretta relazione fra il noma<strong>di</strong>smo<br />

ra<strong>di</strong>cale dei WaKonongo e alcune caratteristiche della loro<br />

cultura. Riguardo all’Invisibile, tendono ad agire piuttosto che a vedere;<br />

provano <strong>di</strong>sinteresse a mo<strong>di</strong>ficare in modo permanente o memoriale<br />

i luoghi, preferiscono non lasciare tracce o dare importanza a tracce <strong>di</strong><br />

natura morale piuttosto che materiale; sono in<strong>di</strong>fferenti verso gli <strong>oggetti</strong><br />

materiali, fatti o non fatti da mano d’uomo. È interessante, però, notare<br />

che in un’altra cultura, anch’essa caratterizzata, almeno nella fase<br />

più antica, dal noma<strong>di</strong>smo, come quella <strong>degli</strong> in<strong>di</strong>ani delle pianure stu<strong>di</strong>ata<br />

da Enrico Comba, troviamo <strong>oggetti</strong> come il Copricapo Sacro <strong>di</strong><br />

Bisonte ritenuti doni del Creatore in un lontano passato e tramandati<br />

attraverso sorvegliate procedure attraverso le generazioni. Oggetti sui<br />

generis, naturalmente. Anche in questo caso il nostro linguaggio non<br />

riesce a esprimere adeguatamente il significato in quanto sono “<strong>oggetti</strong>”<br />

trattati e rappresentati come persone non umane all’interno <strong>di</strong> una<br />

prospettiva che attribuisce la stessa caratteristica – l’essere vivo, attivo e<br />

interattivo – a qualsiasi cosa, dal sole, alle formiche e ai bisonti e in cui<br />

non vi è una netta <strong>di</strong>stinzione fra cultura e natura. Per questo – osserva<br />

Enrico Comba – il paradosso <strong>di</strong> considerare frutto dell’intervento <strong>di</strong><br />

entità <strong>di</strong>vine dei manufatti umani, piuttosto che pietre conchiglie fossili,<br />

è solo apparentemente un paradosso.<br />

Nella civiltà in<strong>di</strong>ana, invece, descritta da Alberto Pelissero, sono<br />

proprio pietre particolari o fossili o altre creazioni naturali ad offrirsi al<br />

culto templare e privato come <strong>oggetti</strong> autogeni, non fatti da mano<br />

d’uomo, in grado <strong>di</strong> “raccontare” e significare miti cosmici <strong>di</strong> fondazione.<br />

Ancora un oggetto naturale, la pietra nera donata da Dio ad Adamo<br />

per mostrare dove costruire la Ka’ba, tuttora incastonata nell’angolo<br />

sud-orientale della Ka’ ba a Mecca, <strong>di</strong>venta nella tra<strong>di</strong>zione isla-


Presentazione<br />

mica il simbolo della natura primor<strong>di</strong>ale dell’Islam. Ma, come fa notare<br />

Roberto Tottoli, l’appropriazione della pietra nera già venerata insieme<br />

ad altre reliquie bibliche prima dell’arrivo <strong>di</strong> Muhammad a Mecca<br />

avviene all’interno <strong>di</strong> un contesto storico <strong>di</strong> negoziazione e reinterpretazione<br />

delle tra<strong>di</strong>zioni monoteiste ebraiche e cristiane e con<strong>di</strong>vide con<br />

queste le stesse tensioni e aporie implicite nella sacralizzazione <strong>di</strong> luoghi<br />

e <strong>oggetti</strong> particolari.<br />

Impronta, immagine, reliquia: un approccio filosofico. Il confronto <strong>di</strong><br />

metodologie e <strong>di</strong> saperi <strong>di</strong>sciplinari <strong>di</strong>versi mi pare abbia bene messo a<br />

fuoco la rilevanza culturale e la complessità <strong>di</strong> significati presenti in<br />

questi singolari <strong>oggetti</strong>. Nei <strong>di</strong>versi contesti culturali, il minimo comune<br />

denominatore consiste più nella loro funzione <strong>di</strong> essere un canale<br />

privilegiato <strong>di</strong> relazione con il <strong>di</strong>vino, che nella loro essenza. La stessa<br />

<strong>di</strong>stinzione fra oggetto naturale e oggetto frutto in tutto o in parte della<br />

techne dell’uomo funziona soltanto in alcuni contesti culturali. Particolarmente<br />

interessante, nell’ambito del Me<strong>di</strong>terraneo in cui sono venute<br />

stratificandosi e confrontandosi le culture classica, giudaica, cristiana e<br />

islamica è il tema delle <strong>impronte</strong>. Anca Vasiliu ha <strong>di</strong>segnato la complessa<br />

articolazione fra impronta e immagine nel passaggio fra la tra<strong>di</strong>zione<br />

classica a quella cristiana. Se nell’età antica l’impronta come traccia<br />

“eternalizzata” <strong>di</strong> un passaggio fisico è considerata più “vera” dell’immagine,<br />

successivamente impronta e immagine vengono a sovrapporsi:<br />

l’immagine speculare viene ad un certo punto considerata come l’impronta<br />

lasciata sulla superficie riflettente dall’immagine e alcune immagini,<br />

come il Mandylion <strong>di</strong> Edessa, in cui la condensazione fra impronta<br />

e immagine è ritenuta opera <strong>di</strong>vina, <strong>di</strong>ventano icone, canali aperti <strong>di</strong><br />

comunicazione con il <strong>di</strong>vino, in cui il Dio incarnato e dunque fisicamente<br />

circoscrivibile si offre alla contemplazione e alla venerazione. Si<br />

comprende allora il ruolo decisivo recitato da questo tipo <strong>di</strong> immagini<strong>impronte</strong><br />

acheropite nella formazione della filosofia cristiana dell’immagine;<br />

una filosofia messa a punto soltanto con la vittoria sull’iconoclastia,<br />

dopo lunghi contrasti e che per affermarsi ha dovuto neutralizzare<br />

il <strong>di</strong>vieto biblico delle immagini. Graziano Lingua ricostruisce le<br />

fasi salienti <strong>di</strong> questo passaggio in cui le acheropite, come immagini del<br />

volto <strong>di</strong> Cristo che egli stesso ha impresso su un telo e ha donato, costituiscono<br />

il mito fondatore della legittimità delle immagini, il superamento<br />

dello scoglio rappresentato dalla fallacia della creatività artistica<br />

umana e, in quanto ritratti autentici, consentono la visione del <strong>di</strong>vino e<br />

dunque il transito ad un mondo superiore.<br />

3


4<br />

Presentazione<br />

La tra<strong>di</strong>zione latina. Le immagine acheropite recitarono una parte <strong>di</strong><br />

rilievo nel <strong>di</strong>battito teologico nella lunga crisi iconoclasta da cui emerse<br />

alla fine il significato religioso e politico dell’immagine artificiale. Ester<br />

Brunet mette in luce i riferimenti più importanti ad esse presenti nella<br />

documentazione relativa al Concilio <strong>di</strong> Nicea del 787, mettendone in<br />

evidenza i no<strong>di</strong> più problematici e focalizzando poi la sua attenzione su<br />

una documentazione finora poco stu<strong>di</strong>ata: i Libri carolini, redatti da<br />

Teodulfo <strong>di</strong> Orléans e espressione dell’opposizione <strong>di</strong> Carlo Magno alle<br />

posizioni iconodule del Concilio <strong>di</strong> Nicea. Opposizione che si concentra,<br />

in parte, nella demolizione del fondamento filologico delle tra<strong>di</strong>zioni<br />

sul Mandylion e, in parte, con l’affermazione che se alcune immagini<br />

compiono miracoli, non tutte le immagini devono essere venerate, confutando<br />

così la concezione iconodula <strong>di</strong> immagine sacra come immagine<br />

che sia <strong>di</strong> per sé un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> comunicazione con il <strong>di</strong>vino.<br />

Nello stesso torno <strong>di</strong> tempo in cui Carlo Magno e la sua cerchia<br />

esprimevano il loro rifiuto delle immagini acheropite orientali più famose,<br />

si stavano ra<strong>di</strong>cando tra<strong>di</strong>zioni riguardanti la Veronica, la pia<br />

donna che nell’immaginario occidentale è legata alla VI stazione della<br />

Via Crucis, ritratta mentre offre al Cristo in cammino verso il Calvario<br />

un panno per detergersi il viso, panno su cui miracolosamente rimane<br />

impresso il volto <strong>di</strong> Cristo. L’indagine <strong>di</strong> Rémi Gounelle si concentra<br />

sui testi più antichi <strong>di</strong> questa tra<strong>di</strong>zione: la Cura sanitatis Tiberii e la<br />

Vin<strong>di</strong>cta salvatoris in cui l’immagine posseduta dalla Veronica è un’immagine<br />

che opera guarigioni, ma ancora un’immagine <strong>di</strong>pinta e non<br />

acheropita come lo <strong>di</strong>verrà in seguito forse per attrazione verso le immagini<br />

acheropite giunte in Occidente in seguito al sacco <strong>di</strong> Costantinopoli.<br />

Il contributo <strong>di</strong> Gounelle apre interessanti prospettive <strong>di</strong> ricerca<br />

sulla fase più antica della devozione al santo volto, proponendo una<br />

nuova datazione e un <strong>di</strong>verso rapporto fra le <strong>di</strong>verse recensioni della<br />

Vin<strong>di</strong>cta. Prima <strong>di</strong> queste testimonianze, nella tra<strong>di</strong>zione latina sono<br />

conosciuti soltanto altri due racconti in qualche modo legati ad <strong>impronte</strong><br />

e immagini miracolose: la prima è ricordata ancora da Gounelle<br />

ed è menzionata negli Atti apocrifi <strong>di</strong> Pietro e Paolo – testo originariamente<br />

composto in greco ma la cui traduzione latina (III sec.?) era molto<br />

<strong>di</strong>ffusa in Occidente – che potrebbe essere all’origine della leggenda<br />

della Veronica: vi si racconta infatti che, dopo la decapitazione <strong>di</strong> Paolo,<br />

viene messo sui suoi occhi un panno in cui rimane impresso il suo<br />

sangue e che viene miracolosamente restituito alla donna che l’aveva<br />

dato a Paolo, incontrato mentre ancora stava <strong>di</strong>rigendosi verso il luogo<br />

del suo martirio.


Presentazione<br />

La fonte stu<strong>di</strong>ata da Adele Monaci è dell’inizio del V secolo e racconta<br />

l’origine <strong>di</strong> un’immagine acheropita, nel senso <strong>di</strong> immagine ritenuta<br />

<strong>di</strong> mano <strong>di</strong>versa da quella dei comuni mortali e non come impronta<br />

meccanica e miracolosa dell’originale. Non si tratta <strong>di</strong> un’immagine<br />

<strong>di</strong> Cristo ma <strong>di</strong> Stefano martire che si materializza a Uzalis, nell’Africa<br />

cristiana, il giorno successivo ad un fatto straor<strong>di</strong>nario avvenuto in<br />

quella città. All’interno <strong>di</strong> un testo de<strong>di</strong>cato a raccontare i miracoli<br />

compiuti dalle reliquie del protomartire e in cui viene attribuita una<br />

grande importanza alle visioni ispirate da Dio per comprendere quanto<br />

avviene in quella Chiesa, l’immagine <strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina, che è una copia<br />

sui generis <strong>degli</strong> eventi del giorno prima, riveste lo stesso ruolo della visione,<br />

in quanto <strong>di</strong>schiude alla comunità l’autentico significato <strong>di</strong> quegli<br />

eventi.<br />

Il ruolo politico. Apparentemente <strong>di</strong>stanti per ambito culturale e cronologia,<br />

i contributi <strong>di</strong> Bernard Flusin e Lellia Cracco Ruggini illuminano<br />

un nodo problematico importante relativo agli acheropiti: la loro<br />

funzione politica. Al Mandylion edesseno e ai documenti che ne raccontano<br />

la traslazione a Costantinopoli nel 944 è de<strong>di</strong>cato lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong><br />

Flusin che, attraverso la ricostruzione filologica dei rapporti fra <strong>di</strong>verse<br />

recensioni dello stesso testo o fra testi <strong>di</strong>versi, mette in luce l’uso politico<br />

<strong>di</strong> questa immagine nel rafforzamento e nella legittimazione del regno<br />

<strong>di</strong> Costantino VII Porfirogenito. La stessa funzione politica <strong>di</strong> pignora<br />

imperii è attribuita in età pagana e tardo antica a due altri <strong>oggetti</strong><br />

acheropiti: l’Ancile <strong>di</strong> Numa e il Palla<strong>di</strong>o. Il primo – uno scudo piccolo<br />

e oblungo – secondo racconti leggendari riportati da Ovi<strong>di</strong>o e Plutarco<br />

sarebbe stato ricevuto dal cielo da Numa per confortare i citta<strong>di</strong>ni vittime<br />

<strong>di</strong> una grave pestilenza insieme ad un oracolo secondo il quale Roma<br />

avrebbe conservato la sua grandezza fintanto che l’avesse conservato<br />

nella città. Il Palla<strong>di</strong>o – una piccola statua lignea raffigurante la dea<br />

– sarebbe stata anch’essa donata dal cielo in collegamento alla fondazione<br />

<strong>di</strong> Ilio e quin<strong>di</strong>, per il tramite <strong>di</strong> Enea, a quella <strong>di</strong> Roma o, nella<br />

versione bizantina della leggenda, a quella <strong>di</strong> Costantinopoli. Si tratta<br />

<strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zioni che ebbero un certo rilancio in età tardo antica, ma la loro<br />

fortuna, legata prevalentemente a significati politici, seguì la sorte <strong>di</strong><br />

Roma. Anche il contributo <strong>di</strong> Gian Maria Zaccone, pur focalizzandosi<br />

su un altro aspetto, si riferisce alla Sindone, nel momento della sua<br />

massima affermazione, come ad una “reliquia <strong>di</strong>nastica” promossa dai<br />

Savoia per affermare e legittimare il loro ruolo politico ad intra come<br />

ad extra, fra le <strong>di</strong>nastie regali europee. In un contesto culturale non europeo,<br />

gli <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> provenienza celeste posseduti e tramandati dagli in-<br />

5


6<br />

Presentazione<br />

<strong>di</strong>ani delle pianure – stu<strong>di</strong>ati da Enrico Comba – sono carichi <strong>di</strong> valenze<br />

politiche, non ai fini della legittimazione <strong>di</strong> una leadership, ma in<br />

quanto simbolo intorno al quale si costruisce la rappresentazione del<br />

gruppo sociale e del suo benessere.<br />

Altre <strong>impronte</strong>. Nelle acheropite l’impronta del <strong>di</strong>vino è ritratto; tuttavia<br />

essa può dar luogo ad altro: l’impronta come traccia fisica del <strong>di</strong>vino<br />

è collegata alla creazione come i tre passi <strong>di</strong> Viṣṇu che hanno dato<br />

luogo all’universo; ma il tema dell’impronta “creatrice” si incontra anche<br />

in tra<strong>di</strong>zioni islamiche relative ai passi <strong>di</strong> Adamo. Sono questi miti<br />

cosmogonici – come afferma Luca Patrizi – che hanno sviluppato la venerazione<br />

<strong>di</strong> <strong>impronte</strong> sacre <strong>di</strong> pie<strong>di</strong> attribuite soprattutto a profeti: ad<br />

Abramo, menzionate dal Corano, a Mosé, allo stesso Muhammad, in<br />

Gerusalemme e in vari altri luoghi. Si menziona anche l’impronta della<br />

mano dell’arcangelo Gabriele sempre a Gerusalemme. In tra<strong>di</strong>zioni religiose<br />

aniconiche come l’islamismo o la fase più antica del bud<strong>di</strong>smo,<br />

l’impronta come negativo <strong>di</strong> una forma piena tende a precedere o a surrogare<br />

l’immagine, perché, come ricorda Luigi Canetti riprendendo Lèroy-Gourhan,<br />

l’impronta è “l’alba delle immagini”.<br />

Lo sviluppo della venerazione delle orme che Gesù avrebbe lasciato<br />

impresse sulla roccia del Monte <strong>degli</strong> Ulivi al momento della sua risalita<br />

al cielo non è invece riferibile ad un contesto aniconico. Diversamente<br />

dalle <strong>impronte</strong> dei profeti islamici, nel caso delle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Gesù la<br />

documentazione consente all’indagine storica <strong>di</strong> ricostruire le varie fasi<br />

della reificazione e spazializzazione <strong>di</strong> una profezia veterotestamentaria:<br />

“Prostriamoci nel luogo dove pose i suoi pie<strong>di</strong>” (Ps 131 7b, Sept),<br />

letta alla luce del racconto dell’ascensione <strong>di</strong> Cristo (Lc 24, 50-2; At.<br />

1,12); percorrendo la storia dell’esegesi <strong>di</strong> questi versetti biblici, è possibile<br />

constatare che soltanto nei primi anni del V sec. – quando in ambito<br />

cristiano le immagini erano largamente apprezzate e venerate – le orme<br />

si cristallizzarono in un oggetto e in un luogo precisi, <strong>di</strong>ventando<br />

poi meta <strong>di</strong> pellegrinaggio nei secoli successivi.<br />

La Sindone come immagine acheropita. Gli ultimi due contributi<br />

esplorano da punti <strong>di</strong> vista <strong>di</strong>versi il rapporto fra immagini acheropite<br />

e l’immagine acheropita più famosa: il telo sindonico torinese.<br />

L’articolo <strong>di</strong> Andrea Nicolotti esamina la fondatezza <strong>di</strong> recenti interpretazioni<br />

che affermano l’identità fra il Mandylion <strong>di</strong> Edessa e la<br />

Sindone <strong>di</strong> cui, altrimenti, non si hanno notizie sicure anteriori al XIV<br />

secolo. È facile intuire che tale collegamento, se corretto, potrebbe costituire<br />

una testimonianza significativa a favore dell’antichità della Sin-


Presentazione<br />

done. La miniatura riportata sulla copertina <strong>di</strong> questo volume, raffigurante<br />

la consegna del Mandylion all’Imperatore Romano I Lecapeno è<br />

stata utilizzata come prova del fatto che il Mandylion sarebbe stato in<br />

realtà un lungo lenzuolo. Dopo la confutazione filologica e storica dei<br />

principali argomenti a favore <strong>di</strong> questa identificazione, il contributo segue<br />

inoltre il viaggio del Mandylion da Costantinopoli alla Sainte-Chapelle<br />

a Parigi fino alla sua scomparsa definitiva durante la Rivoluzione<br />

francese.<br />

Il collegamento fra il Mandylion e la Sindone è però ricuperato da<br />

Gian Maria Zaccone da un punto <strong>di</strong> vista storico da un’altra angolazione<br />

ponendo l’uno e l’altra nella storia bimillenaria della devozione e<br />

della pietà. L’uno e l’altra non sono lo stesso oggetto, ma, nei <strong>di</strong>versi<br />

momenti storici e nelle questioni che sollevano, hanno continuità storica<br />

e profonda affinità che li pongono entrambi nella stessa tra<strong>di</strong>zione:<br />

l’essere immagine, ma anche reliquia; l’essere espressione <strong>di</strong> una teologia<br />

cristologica incentrata sulla contemplazione dell’umanità sofferente<br />

<strong>di</strong> Cristo alla luce della sua resurrezione e, insieme, nella storia della<br />

devozione, coagulo dell’ansia <strong>di</strong> vedere il volto del Dio incarnato che<br />

prevale sul tema della visibilità esplorata dalla filosofia dell’immagine e<br />

dalla teologia.<br />

7


TRACES OF THE INVISIBLE IN AFRICA<br />

1. A philosophical preamble<br />

MICHAEL SINGLETON<br />

Université Catholique de Louvain<br />

Extra ecclesiam nulla salus – whatever the everlasting value of the<br />

theologian’s tenet that salvation cannot be had except within the Church<br />

(Catholic, the present Pope would like to add), the anthropologist (not<br />

to say “this” anthropologist), affirms axiomatically that there can be<br />

“Nothing beyond Culture”, extra culturam nil datur. The claim will<br />

sound extravagant to many a western ear, programmed to consider the<br />

cultural as a mere <strong>di</strong>mension and a rather superficial one at that, in<br />

comparison to economics and politics (not to mention issues raised by<br />

the natural sciences such as climate change or nuclear physics). Here,<br />

however, I propose 1. that “Culture” be understood not as one part<br />

amongst many but as a socio-historic Whole and 2. that though there<br />

are a whole lot of cultures their incompressibility and in some cases incompatibility<br />

means that no one culture can ever embrace the whole<br />

lot. The point then is not to add yet another definition of culture to the<br />

hundreds already in circulation but to decide whether, in the last analysis,<br />

“making meaning” implies referring to trans-, extra- or supra-cultural<br />

Reality or whether “signification” (“making sense” – signum<br />

facere) is essentially an intra-cultural real-ization. Put more concretely, is<br />

there really only one Revealed Word or one Rational World or are there<br />

as many orderings of things as there are cultures?<br />

Though apparently academic, the question has crucial implications.<br />

Accepting that there can be no universal and univocal yardstick and<br />

taking cultures as self-constructed wholes would make for a permanent<br />

and positive plurality of cultures till the end of human times. Assuming,<br />

on the contrary, that where basics are concerned, all cultures must bow<br />

down before Something substantially and significantly (super)natural,<br />

automatically induces highly ambiguous and ultimately unacceptable<br />

consequences. The first is the reduction of culture to a merely secondary<br />

or selectively snobbish phenomenon. On the one hand, when money is<br />

9


10<br />

Michael Singleton<br />

short, subsi<strong>di</strong>es to the arts are the first to suffer, yiel<strong>di</strong>ng to priorities<br />

such as repairing motorways or buil<strong>di</strong>ng nuclear power stations. On the<br />

other hand, what is taken to be absolutely true by higher culture allows<br />

the aristocracy to <strong>di</strong>stinguish itself 1 from the popular culture of the lower<br />

classes or incites the more missionary minded of the upper classes to<br />

put genuine literature and authentic art at the <strong>di</strong>sposition of the vulgus<br />

plebs. The second equivocal result of imagining that culture is not all inclusive<br />

is the taking for granted what must be proved namely that such<br />

categories as the cultural, the economic and the political enjoy substantial<br />

transcultural significance. We will shortly see, for instance, that there<br />

is no such reality in sub-Saharan Africa as the “religious”, at least as<br />

this field is conventionally understood by the Western world. Thirdly<br />

and far more <strong>di</strong>sastrously (pre)supposing that the cultural must answer<br />

to the (super)natural leads automatically to an intransigent, intercultural<br />

intolerance. For if the Really Real is supernaturally Revealed and/or<br />

naturally Rational then the only culture(s) which can legitimately pretend<br />

to last till the End of Time are those whose essential identity ever<br />

increasingly espouses the (super)natural Order of Things.<br />

A simple schema can illustrate this primor<strong>di</strong>al bifurcation between<br />

those who accept that cultures cannot be definitely referred to non-cultural<br />

criteria and those who decisively refer cultures to (super)natural realities:<br />

In both figures, the top line represents an indefinite series of cultures.<br />

As it stands, printed on paper, the schema represents cultures syn-<br />

1 As P. BOURDIEU, La Distinction. Critique sociale du jugement, Paris 1979, classically<br />

showed.


Traces of the Invisible in Africa<br />

chronically and therefore artificially, as products, large and small, such<br />

as Africa, Europe, Asia>Tanzania, Italy, Vietnam>Ukonongo (the region<br />

of Tanzania where I <strong>di</strong>d field work), Piedmont, Hanoi. In actual<br />

fact, cultures are <strong>di</strong>achronic phenomena, socio-historic processes. It<br />

would thus be more exact to speak in general of culturation and in particular<br />

of Africanization, Westernization and so on. Though data give<br />

rise to thought, what is made de facto of the material will depend on the<br />

point of view a socio-historically situated mind adopts in the light of the<br />

conventional cause he or she has chosen to defend. The Italians or the<br />

Middle Ages, the WaKonongo and the late 1960s, for example, do not<br />

exist as such a parte rei, since the precise delimitation of a particular<br />

people or period (i.e. the constitution of a given culture) answers to para<strong>di</strong>gmatic<br />

choices and peculiar preoccupations, philosophic or otherwise.<br />

In the first figure, cultural values and visions are judged absolutely<br />

with regards their conforming or not to objective standards. These<br />

latter, for catholic theologians, have been revealed in the Bible. Though<br />

admitting that all cultures were possessed of “natural” religion, the Vatican<br />

claims that some were far less natural than others. The triangular<br />

polygamy of Africa, for instance, and the circular polytheism of Asia<br />

were or are highly unnatural compared to the emerging monogamy and<br />

monotheism of Rome. A providential, preparatio evangelica, meant that<br />

the greying square of the roman Empire made it ready, at the time of<br />

Christ, to welcome the supernatural moral values and religious visions<br />

revealed by the black square of God’s Truth. But the schema works for<br />

Reason too. For today the scientifically minded westerner is convinced<br />

that his greying culture is the first to square up to natural facts. The scientist<br />

now knows for sure that you cannot make rain by sacrificing a<br />

black hen as Africans in their triangle once superstitiously believed but<br />

only by sprinkling metal particles in the sky and that if acupuncture<br />

works it is not because of such circular silly chinoiseries as the struggle<br />

between Yin and Yang but simply because appropriately placed needles<br />

can release endorphins. Paradoxically, accor<strong>di</strong>ng to this first understan<strong>di</strong>ng<br />

of the relations between the cultural and the (super)natural,<br />

Culture amounts to next to nothing and Nature represents almost everything.<br />

When it is not simply neutral, at its best, culture points in the<br />

same <strong>di</strong>rection as nature, whereas at its worst, it proves itself to be <strong>di</strong>abolically<br />

or <strong>di</strong>sastrously unnatural.<br />

In the second figure, there is no absolutely objective Reality to which<br />

cultures can be decisively and definitively related. If, none the less, one<br />

culture remains grey, it is to reflect a simple but substantial fact of life:<br />

no living person can find himself everywhere or nowhere at any given<br />

11


12<br />

Michael Singleton<br />

moment – each and everyone of us, hic et nunc, can basically be at home,<br />

and legitimately so, in one culture to the exclusion of all others. I, as a<br />

modern European, cannot subscribe at the same time to creationism<br />

and evolutionism, hold simultaneously to geo- and heliocentrism, blame<br />

climate change on the gods rather than humans… Far from being a deus<br />

ex machina, greying reality refutes the accusation of cultural relativism<br />

often levelled at anthropologists. Far from preten<strong>di</strong>ng that everything<br />

morally and metaphysically goes, the cultural anthropologist merely<br />

claims that values and visions being relatively absolute, only the absolutely<br />

absolute is to be avoided. There is a whole world of <strong>di</strong>fference<br />

between presently preferring one’s grey location to triangular and circular<br />

alternatives and proclaiming that one’s religion and raison d’être are<br />

the only ones (super)naturally guaranteed.<br />

2. Ethnocentrically yours<br />

Hopefully this ethno-epistemological exor<strong>di</strong>um will explain why in<br />

declaring the Turin colloquium to be ethnocentric, a participating anthropologist<br />

who also happens to be an africanist, incriminated no one.<br />

A happening can be international in that it takes place between nationals<br />

of <strong>di</strong>fferent nations but it cannot be intercultural if by this is meant<br />

aimed at substantially one and the same identical theme, accidentally<br />

given <strong>di</strong>fferent hues by <strong>di</strong>ffering cultures. If one is inevitably (not to say<br />

“naturally”!) located or centred somewhere, then there is no alternative<br />

beyond assuming one’s ethnocentrism critically and (un)consciously<br />

preten<strong>di</strong>ng to represent human nature as such 2 . Before treating the sui 3<br />

generis nature of traces in Africa, it is consequently opportune to briefly<br />

explain why every term of the title under which we convened – “<strong>Sacre</strong>d<br />

Imprints and ‘objects not made by human hand’ in religions” – being essentially<br />

Eurocentric, is inadequate to making sense of the African material.<br />

– <strong>Sacre</strong>d. As soon as more than a mere general or purely heuristic<br />

sense is given to the contrast between the sacred and the profane, its pe-<br />

2 M. SINGLETON, Critique de l’ethnocentrisme Du missionnaire anthropophage à<br />

l’anthropologue post-développementiste, Paris 2004.<br />

3 “We” “us” “our” – shorthand in this text for the average member (sometimes<br />

scholarly) of contemporary Euro-American culture.


Traces of the Invisible in Africa<br />

culiarly western content becomes patent. To affirm as some specialists<br />

do that amongst Primitives everything is religious, is tantamount to saying<br />

that nothing is! Already lacking the linguistic equivalent for opposing<br />

as we do the sacred to the profane, the Africans I knew spoke spontaneously<br />

and more to their points, of the <strong>di</strong>fference between the true<br />

and the false, the really real and the less so (the former consisting of<br />

dreams, <strong>di</strong>vination, witchcraft and the like, which we would esteem unreal!),<br />

the significantly important and the or<strong>di</strong>nary, the secret knowledge<br />

reserved to given groups as opposed to common sense, the masculine,<br />

the elders, the initiated as <strong>di</strong>stinct from women, young people and the<br />

uninitiated. Most of the time, most of the people I knew in Tanzania interacted<br />

with their lineage ancestors and other invisible partners as they<br />

<strong>di</strong>d with more visible interlocutors: respectfully but realistically, with little<br />

or no trace of the tremens et fascinans historians of religion associate<br />

with “primitive” peoples 4 . Supposing the term to stem from religare, religion,<br />

as “asymmetrical networking between humans and the more<br />

than human”, is fundamentally relational or allological 5 . Though somehow<br />

elsewhere and otherwise, the religiously transcendent Other cannot<br />

be absolutely beyond reach. Somewhat surprisingly, however, while reciprocating<br />

with such invisible realities as the shades of ancestors and ancestral<br />

spirits, many African religions admit of an Invisible closely resembling<br />

the Infinite of such (post)modern thinkers as Levinas, in that<br />

It is totally removed from religious exchanges. As such, It (habitually<br />

but ambiguously designated as deus otiosus) is even more intangibly and<br />

purely Infinite than the a-religious God of Bonhoeffer or the Being who<br />

survived the theological death of God 6 . Consequently the invisible entities<br />

of whose traces in Africa it will be question here, are far less than<br />

strictly <strong>di</strong>vine.<br />

– Imprints: Our spontaneously associating prints with printing answers<br />

to the West’s privileging sight over other senses: we pity the blind<br />

4 M. SINGLETON, Speaking to the Ancestors. Religion as Interlocutory Interaction,<br />

Anthropos 104 (2009) 311-332.<br />

5 M. SINGLETON, L’au-delà, l’en deçà et l’à côté du religieux, Revue du Mauss 22<br />

(2003) 181-206.<br />

6 A non religious rea<strong>di</strong>ng of Christianity and the more ra<strong>di</strong>cal “Death of God”<br />

theology prevalent for decades beyond the Alps is now available in the papal<br />

peninsula; cf. G. VATTIMO, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso,<br />

Cernusco 2002.<br />

13


14<br />

Michael Singleton<br />

more than the deaf, we prefer clear and <strong>di</strong>stinct ideas to irrational emotions<br />

7 ; the world view (Weltanschauung) of which we speak culminates<br />

in the beatific vision; like God, Big Brother is watching us; we seek realistically<br />

visual art forms rather than symbolically evocative figures; statues<br />

of our Lady of Lourdes or Fatima are supposed to represent the<br />

Blessed Virgin as she really appeared for purposes of contemplative<br />

adoration, fetishes on the other hand, are not iconic images but aidememoire,<br />

functioning like the prompting cards of actors, tangible reminders<br />

of the actions agreed upon by the owner of the fetish and his<br />

interlocutor. An African sculptor carves Motherhood and not any recognizable<br />

mother. The predominance of the eye over the ear even affects<br />

my own <strong>di</strong>scipline: “visual anthropology” 8 , like anthropology itself, is a<br />

typical product of our Weltanschauung and as such participates in that<br />

Westernization of the world decried by Latouche 9 .<br />

– Objects: The anthropologist could concede the term… provided<br />

one recognizes not only the ethnocentric character of material versus<br />

immaterial <strong>di</strong>vide but above all that any concrete object “materializes”<br />

the particular project of a singularly situated, socio-historic subject answerable<br />

in turn to the Global Project or Culture to which he belongs<br />

and in which he believes 10 . Objects as not lying there (iaceo) to be stum-<br />

7 The voyeuristic bias of the western mind though sublimated as intellectual curiosity<br />

obliged the in<strong>di</strong>genous other to behave exhibitionistically and led to a century<br />

of sterile debate about primitive ideas of God or the total neglect of the emotional,<br />

though it be crucial in such phenomena as emigration (L. MERLA - L. BAL-<br />

ADASSAR [edd.], Les dynamiques de soin transnationales. Entre émotions et considérations<br />

économiques, numéro spécial de Recherches sociologiques et anthropologiques<br />

41/1 [2010]).<br />

8 Now “in”, to the extent of its having regular rubric in professional journals<br />

such as the Journal des Anthropologues. I woke up this morning to hear the speaker<br />

on the Belgian ra<strong>di</strong>o say “merci d’ouvrir les yeux avec nous”!<br />

9 S. LATOUCHE, L’occidentalisation du monde, Paris 1989.<br />

10 A culture can be seen to function as a Global Project carried forward by its<br />

constitutive, particular projects, be they micro, meso or macro (M. SINGLETON,<br />

Critique de l’ethnocentrisme Du missionnaire anthropophage à l’anthropologue postdéveloppementiste,<br />

Paris 2004). Take, for instance, the school system which articulate<br />

the Choice of Society, which a country like Belgium can represent: at a macro<br />

level, the Ministry for Education oversees two meso, parallel structures, one religious,<br />

the other lay – the first being further <strong>di</strong>vided at the micro level into establishments<br />

run by the Jesuits, the Salesians or the Bene<strong>di</strong>ctines.


Traces of the Invisible in Africa<br />

bled against but thrown (iacere or the heideggerian Entwurf) outside by<br />

an insider 11 .<br />

– Not made by human hand: Even making abstraction of the iconoclastic<br />

context in which the Greek term appeared, one must bear in<br />

mind that the “primitive” artist or artisan was persuaded his productions<br />

proceeded as much if not more so from ancestral rather than personal<br />

inspiration and skills. I knew of Bantu healers (waganga) who had<br />

accidentally stumbled on me<strong>di</strong>cinal plants but who (and not only to<br />

make them acceptable to their clients) attributed their <strong>di</strong>scoveries to<br />

spiritual inspiration. Even more to the point, however, is the inexistence<br />

elsewhere of what the western world understands by human nature. I<br />

came to realize that when, during my stay in Tanzania, I gave an aspirin<br />

to a MuKonongo suffering from what I took to be a headache not only<br />

<strong>di</strong>d I suppose what remained to be proven, namely that he had in mind<br />

what I had in speaking of the human head but I imposed my naïve Greco-Latin<br />

<strong>di</strong>chotomy between soul and body on someone who knew that<br />

humans are composed of several elements (inclu<strong>di</strong>ng the shadow 12 ) and<br />

that a headache far from being a mere neurophysiological <strong>di</strong>sorder<br />

could be due to someone (like your mother in law) having it in for you.<br />

Since then there is no such one transcultural thing as a human head<br />

there is no reason why the meaning of the human hand should be substantially<br />

the same no matter whose it happens culturally to be.<br />

– Religion: Finally and perhaps more surprisingly, if religion is to en-<br />

11 After having abandoned the inventory of material culture to mere ethnographers<br />

in favour of analysing structures and symbols, anthropologists, of late, under<br />

the impulse of historical materialists such as M. HARRIS, Cultural Materialism,<br />

London 1990 and neo-Marxists like M. GODELIER, Horizons, trajets marxistes en<br />

anthropologie, Paris 1977 – not to mention more philosophically minded existentialists<br />

and phenomenologists – have taken the study of material objects to higher<br />

hermeneutical levels (cf. the pioneering volume of A. APPADURAI, The Social Life<br />

of Things. Commo<strong>di</strong>ties in Cultural Perspective, Cambridge 1986).<br />

12 During my first days amongst the WaKonongo, out of politeness, I stepped<br />

behind an old lady who imme<strong>di</strong>ately reprimanded me for crushing her dawa or<br />

reme<strong>di</strong>es… stored in her shadow. Likewise should an Australian aborigine chance<br />

upon the footprints left in the sand by his mother in law whom he should never encounter<br />

face to face he will imme<strong>di</strong>ately obliterate them. For many peoples, far<br />

from being fleeting or flimsy, traces are true sacraments presentifying what they<br />

represent. Christ’s steps which Christians follow metaphorically would materialize<br />

his real presence for many “primitive” peoples.<br />

15


16<br />

Michael Singleton<br />

joy any specific sense this can only be substantially had there where a<br />

field of theological reasoning and ritual activity has been separated out<br />

from neighbouring spheres such as those limited to politics, economics…<br />

or purely cultural activities! This kind (i.e. our kind) of spherical<br />

segregation has simply never occurred in many non-western cultures.<br />

Bushman economics or Bantu politics are ethnocentric misnomers. In<br />

the whole of Africa, for instance, there is no word for “religion”, no way<br />

to <strong>di</strong>stinguish between “believing” and “knowing”, no monotheistic<br />

idea of the <strong>di</strong>vine, no inkling of in<strong>di</strong>vidual immortality… the problem<br />

being that if you remove such traits from your definition you are likely<br />

to end up not with a quintessential reality but nothing in particular.<br />

In effect, confronted interculturally with the manifest absence in foreign<br />

places or in former times of what one initially took to be intrinsically<br />

present in the sacred, religion, objects and imprints, we must chose<br />

one of two solutions. Either we maintain that substantially the Same underlies<br />

even the most accidental of <strong>di</strong>fferences or we accept that at some<br />

point in space and time the ra<strong>di</strong>cally Other emerges. The first option reduces<br />

cultures to superficial variations of an underlying identical theme:<br />

Cro-Magnon and Bushmen being just as essentially religious as we are,<br />

the form taken by the <strong>Sacre</strong>d then in Dordogne and now in the Kalahari<br />

must have left imprints more or less the same as those we recognize ourselves.<br />

This approach (a priori rather than a posteriori), treats data as it<br />

would an artichoke: the more epiphenomenal leaves or accidental appearances<br />

you peal away, the more you will home in on the very heart of<br />

things: the <strong>Sacre</strong>d as it really is, transculturally, in Itself, imprints as<br />

they should significantly and substantially be to all people, abstraction<br />

made of their cultural peculiarities. The metaphorical artichoke, however,<br />

is but one step away from the metaphysical archetype and neither Plato,<br />

Jung or Girard have exactly won over the scholarly community to the<br />

thesis that primor<strong>di</strong>al, underlying principles account for the fundamental<br />

meaning of accidental appearances.<br />

The second answer, espousing the empirical evidence as closely as<br />

possible, recognizes that both synchronically and <strong>di</strong>achronically, critical<br />

thresholds are crossed, obliging the intercultural traveller to accept he<br />

has left behind one thing and must make room for something quite <strong>di</strong>fferent.<br />

There was a time when agriculture and the city simply <strong>di</strong>d not exist,<br />

not even in an elementary form or embryonic shape. Interculturally,<br />

there comes a point where there is no longer any point in mo<strong>di</strong>fying<br />

one’s first understan<strong>di</strong>ngs of things (such as religion or imprints) but<br />

where a completely fresh understan<strong>di</strong>ng is required. And what if Reality<br />

is an onion!? No layer would then be more consistent than any other


Traces of the Invisible in Africa<br />

and beyond successive layers there would lie nothing of any substantial<br />

consequence.<br />

Another simple schema could help clarify this irreducible opposition<br />

between the natura-lists and the nomina -lists, between those who believe<br />

that by abstracting from accidental appearances one can define reality at<br />

it substantially is and those who know that series of situated singularities<br />

can, at the most, give rise to culturally conventionalized generalizations.<br />

The naturalist thinks, for instance, that by leaving aside aspects<br />

such as the age or sex of in<strong>di</strong>viduals, their skin colour or social con<strong>di</strong>tion,<br />

one attains to an underlying human nature, ontologically identical<br />

in every human being from the moment of conception to the hour of<br />

death – hence for the perennial philosopher and tra<strong>di</strong>tional theologian,<br />

the metaphysical immorality of even therapeutic abortion or mercy<br />

killing. The nominalist, on the contrary, is convinced 1. That knowledge<br />

supposes generalization – a singularity (this man) must be related<br />

to something less singular such as “being human”; 2. That it is in<strong>di</strong>spensable<br />

for cultures to come up with conventional generalizations –<br />

hence the western (re)defining mankind so as to avoid horrors such as<br />

Auschwitz; but 3. That some cultures have decided upon a far larger definition<br />

of what merits being treated as an end in itself and not a mere<br />

means. Thus, though they deal with same singular data as us, the Jains<br />

of In<strong>di</strong>a feel that insects warrant as much respect as humans while the<br />

anthropophagous Asmats of Irian Jaya (ex Papua New Guinea), though<br />

confronted with the same material, have agreed upon a more restricted<br />

notion of humanity, neighbouring villagers being treated as comestibles;<br />

and finally 4. That there are no objective, natural criteria to decide<br />

which culture is absolutely right and which is totally wrong.<br />

17


18<br />

Michael Singleton<br />

On the left, starting out on a intercultural safari with a given definition<br />

of the <strong>Sacre</strong>d and its Imprints, one is obliged to recognize that the<br />

further one travels the less it fits the empirical evidence. None the less,<br />

despite the final culture visited resembling more a line than a triangle,<br />

having decided from the outset that all cultures must have some form to<br />

the <strong>Sacre</strong>d (if only to <strong>di</strong>stinguish men from animals), one relates the<br />

ethnographic material to the <strong>Sacre</strong>d as Such (represented by the underlying<br />

the substantially black and perfect triangle). On the right, the intercultural<br />

traveller realizes that, en route, the definition with which he<br />

started out is undergoing the death of a thousand qualifications due to<br />

increasingly contra<strong>di</strong>ctory data. At some point in cultural space, so as<br />

to respect his fin<strong>di</strong>ngs, he decides to accept that his former definition<br />

(represented by the dotted triangle) can only be plausibly applied to a<br />

limited number of cultures (the triangular series) and must be replaced<br />

by a new generalization (the dotted square) of similar onto-epistemological<br />

shape and size, capable of cre<strong>di</strong>tably covering the field material<br />

furnished by a fresh series of (square) cultures. However, for reasons of<br />

sheer commo<strong>di</strong>ty and conventional communication, our nominalistic<br />

voyager might prefer not to renounce the terms “sacred” and “imprints”<br />

but will reduce them to purely generic or heuristic status, producing<br />

field material to prove that, in actual fact, there exist several incompatible<br />

species of what globally goes by as the sacred and its imprints.<br />

3. Visible traces of the invisible in Africa<br />

It is with these philosophical preambles in mind that we finally arrive<br />

ad rem nostram – the visible traces of the invisible in Africa. Though it<br />

goes against my empirical grain to have thus put the conceptual cart before<br />

the ethnographic horse, I felt it was important to clarify the nature<br />

and scope of an anthropological contribution to an inter<strong>di</strong>sciplinary<br />

colloquium such as ours. The anthropologist is often invited to leave his<br />

native reserve so as to explain to his more civilized and scholarly colleagues<br />

what his chosen but primitive people thought of fundamental<br />

and recurrent human issues such as how the Transcendent Other made<br />

Himself known in former times and out of the way places. With a bit of<br />

luck, our meandering, labyrinthic introduction will have persuaded our<br />

readers that what Africa has to say on the matter is as uniquely irreducible<br />

as African languages are to their Indo-european equivalents.<br />

Africa is not speaking, albeit in its own fashion, about basically the


Traces of the Invisible in Africa<br />

same thing as we but is talking about something quite other for the simple<br />

reason that words are not only things but give rise to the things they<br />

speak about. What exactly can only be fathomed by familiarizing ourselves<br />

with the Sitzen im Leben peculiar to the Continent. The ABC of<br />

sociology is that mentalities go hand in hand with their respective milieus<br />

– or as the French would put it: “à chaque lieu sa logique et son<br />

langage”. In theory there are as many <strong>di</strong>fferent sacred traces as there are<br />

<strong>di</strong>stinct cultural locations. The delimitation of these latter being, as we<br />

have suggested, not <strong>di</strong>ctated apo<strong>di</strong>ctically by reality itself but by the<br />

cause one has decided to promote. Here we will detail only two out of a<br />

whole plethora of cultural possibilities: one global – that of orality – the<br />

other more specific – that of slash and burn agriculture.<br />

3.1. Orality is a para<strong>di</strong>gmatic roof and not a first floor<br />

“Children should be seen and not heard!” was our parents repeated<br />

reprimand for our rowdy behaviour at table. “Spirits should be heard<br />

and not seen” is what oral cultures in general and Africa in particular<br />

have always thought and said about their invisible interlocutors. Fides ex<br />

au<strong>di</strong>tu! Primor<strong>di</strong>ally, however, faith involves not so much listening attentively<br />

to a list of truths (such as those of the Nicene Creed) as trusting<br />

that what a person demands is right and fitting (vere <strong>di</strong>gnum et iustum<br />

est). For those whose para<strong>di</strong>gmatic ceiling is plastered with the spoken<br />

word “hee<strong>di</strong>ng” and not “seeing” is “believing”. The fact, however,<br />

that they transcribed oral tra<strong>di</strong>tion and wrote about what they heard,<br />

has meant that even anthropologists have only recently recognized the<br />

irreversible and irreducible nature of speech. Apart from writing not<br />

being humanity’s final communicative word (it could be superseded by<br />

other forms of transmission), historically it has not so much replaced an<br />

oral stage as complemented and complicated this latter’s lasting sui<br />

generis stature. Ethnologists, moreover, are not the only ones to have depreciated<br />

the enduring peculiarity of verbal exchange. As well as turning<br />

a blind eye to the unintended and unwanted side effects of writing 13 ,<br />

scholars of <strong>Sacre</strong>d Scriptures have often failed to fathom the initially in-<br />

13 J. GOODY, The Logic of Writing and the Organization of Society, Cambridge<br />

1986, a Cambridge anthropologist and africanist, was amongst the first to rethink<br />

the whole issue of orality and inspire classical scholars to revisit writing in Ancient<br />

Times (F. DUPONT, L’invention de la littérature. De l’ivresse grecque au texte latin,<br />

19


20<br />

Michael Singleton<br />

tended meaning of the spoken words written down by inspired authors<br />

or scribes. For lack of tape recorders they could do no better than<br />

transliterate the Word of God into a Bible or Book.<br />

A classic example is the verse 14 of Exodus chapter 3 seen as the culminating<br />

point of the Old Testament in that Yahweh there supposedly<br />

translates Himself theologically as “I am who (or what) I am” 14 . For<br />

centuries or more, exegetes have pondered over the onto-theological implications<br />

of what they (mis)took to be a declaration of metaphysical<br />

identity. In fact, vulgarly translated, what Moses’ transcendent interlocutor<br />

told him was: “whatever I might be is none of your business,<br />

your job is to promulgate my Ten Commandments!”. As Tennyson<br />

would have put it: “yours not to reason why, yours but to do and <strong>di</strong>e!”.<br />

In oral cultures words tend not to be idle but illocutionary. “Primitive<br />

peoples” such as those of Melanesia would have no <strong>di</strong>fficulty in understan<strong>di</strong>ng<br />

what Austin meant by “performative language games” since for<br />

them thinking, speaking and doing were all one 15 . In terms of theological<br />

information, the New Testament is no more informative than the<br />

Old. Long before he found himself transformed by conciliar decree from<br />

the son of God to God the Son, Jesus after having seen it for himself <strong>di</strong>d<br />

not reveal or unveil the true nature of the godhead but more prosaically<br />

proposed (Jn 1.18 exegesis) that since the Infinite acted lovingly the best<br />

finite creatures could do in turn was to love one another. It was to take<br />

two thousand years before yet another inspired Semite, Levinas, was to<br />

come to the same conclusion: let us stop trying to reason about God<br />

and content ourselves with being responsible.<br />

On the field it took me a while to realize that the WaKonongo, like<br />

most people most of the time, make do with a strict minimum of clear<br />

and <strong>di</strong>stinct ideas. While being illiterate <strong>di</strong>d not prevent them from making<br />

their world meaningful and managing it accor<strong>di</strong>ngly, it <strong>di</strong>d mean<br />

Paris 1998). Interestingly too, archaeologists have recognised the ambiguous origins<br />

of writing and its equivocal functions – cf. the section “The role of writing<br />

and literacy in the development of social and political power” in J. GLEDHILL - B.<br />

BENDER - M.T. LARSEN, State and society: the emergence and development of social<br />

hierarchy and political centralization, New York 1988, 169-186.<br />

14 A. LACOCQUE, La révélation des révélations, in A. LACOCQUE - P. RICŒUR,<br />

Penser la Bible, Paris 1998, 314-345.<br />

15 M. LEENHARDT, Do Kamo. La personne et le mythe dans le monde mélanésien,<br />

Paris 1971.


Traces of the Invisible in Africa<br />

that their interest in speculating about the nature of things was less intensely<br />

intellectual than mine. In the hamlet of Mapili where I resided in<br />

south central Tanzania, half of the women half of the time were possessed<br />

by spirits. At first I tried to find answers to the questions which<br />

spontaneously arose to my scholastic mind. What exactly were these<br />

spirits – called majini and mashetani on account of an incidental rather<br />

than an important impact of Islam on the local <strong>di</strong>scourse. Where were<br />

they when not possessing their chosen victims (the in<strong>di</strong>viduals the spirits<br />

had, on occasion, chosen to descend themselves or as a rule on which<br />

their master had chosen to send and set them)? Were they male or female,<br />

small or large, black or white? How had some learnt to speak English<br />

and Arabic? How, being spirits, <strong>di</strong>d they manage to eat the rice and<br />

chicken offered to them or travel to Mapili from the coast and sometimes<br />

from Mecca itself? What <strong>di</strong>d they do with the money offered<br />

them? Did they remain in the vicinity or remove themselves further<br />

afield after they had ceased to actively posses the possessed?<br />

Two things, however, rapidly became apparent: the first, that my interlocutors<br />

had never raised such issues themselves, the second, that, intrigued<br />

by my queries, they were on the points of creating an African<br />

equivalent of my scholastic ontology (a Konongo version of Père Tempel’s<br />

Bantu Philosophy)! I consequently ceased to harass the possessed<br />

with my perennial philosophical preoccupations, contenting myself not<br />

only to observe from afar but to participate actively in the group therapeutic<br />

solution to the stressful situations the spirits expressed and embo<strong>di</strong>ed.<br />

The spirits spoke to such everyday contexts as intergenerational<br />

conflict (a young girl who refused the elderly suitor imposed by her parents<br />

was likely to be possessed by spirits sent by these latter to make her<br />

see their reasons) or tension between co-wives (the jealously of a neglected<br />

spouse usually translated itself by a more favoured partner being<br />

possessed by a spirit mandated by her rival). The victims had no vested<br />

interest, no valid reason in knowing any more about their spirits than<br />

that they could often be induced by negotiation to foster change for the<br />

better of painful, problematic pre<strong>di</strong>caments. For such <strong>di</strong>scussions to enjoy<br />

a satisfactory outcome, it was not essential to know whether one’s<br />

spiritual respondent was male or female, tall or small, it was quite sufficient,<br />

et amplius, for him (or her) to possess such minimally personalized<br />

traits as being able, on the one hand, to make oneself understood, and,<br />

on the other, to manifest a sympathetic understan<strong>di</strong>ng of a victim’s<br />

plight.<br />

The invisible à l’africaine apparently prefers to leave its mark on people<br />

rather than on places. Possession is thus one of the most obvious<br />

21


22<br />

Michael Singleton<br />

ways of tracing the presence of the invisible in Africa. Invisible yet not<br />

inau<strong>di</strong>ble, African spirits speak and can be spoken to, but they do not<br />

talk about themselves. They make an impression on others but without<br />

leaving prints pointing to themselves. The behavioural response such<br />

“spirits of affliction” (as they are technically called) occasion constitutes<br />

the most tangible trace of their passing presence. It is true that<br />

they can make themselves painfully felt here and there in their victims’<br />

body and in<strong>di</strong>rectly leave their mark on social networks but I never came<br />

across any such spirit affecting gratuitously the physical world. Though<br />

the tone of their voice (usually high pitched) <strong>di</strong>ffered slightly from the<br />

or<strong>di</strong>nary speech of their victims, the spirits of Mapili <strong>di</strong>d not make the<br />

possessed behave <strong>di</strong>fferently even during seances – as sometimes happens,<br />

for instance, in the case of Voodoo sessions where, for example, the<br />

martial character of a spirit can be visibly played out by the person it<br />

possesses. It is important to note, however, that no MKonongo in his or<br />

her right mind would go out of his or her way to become possessed. The<br />

phenomenon has thus nothing to do with the mystical union between<br />

the <strong>di</strong>vine and the human sought after by some Christian Saints and<br />

which lead to their being rewarded with such visible signs as the stigmata<br />

(St Francis of Assisi, Padre Pio) or the sacred heart transplant undergone<br />

by Catherine of Sienna.<br />

The predominantly pragmatic orientation of spiritual <strong>di</strong>alogue in<br />

Africa is especially clear in the case of prophetic inspiration. Though he<br />

had become increasingly irrelevant, the WaKonongo knew of an ancestral<br />

spirit called Katabi. “Ancestral” in that he had probably been an historical<br />

figure but also because he (similar to our Charlemagne or Barbarossa)<br />

had come to transcend mere humanity, being associated with<br />

what we call natural phenomena such as the rain or earthquakes. I<br />

learnt more about him from the literature and archival material than<br />

from oral tra<strong>di</strong>tion. He was wont to suddenly possess unsuspecting<br />

young girls in out of the way hamlets. For the same sound sociological<br />

reasons 16 , the Blessed Virgin too is also given to seizing upon relatively<br />

16 The layman might wonder why when God has something to reveal of vital<br />

importance for mankind as a whole instead of getting imme<strong>di</strong>ately in touch with<br />

the highest authorities (the High priest of Jerusalem or the Pope in Rome), He<br />

contacts peripheral proletarians in godforsaken backwaters (“Jesus… of Nazareth<br />

of all places!” expostulated the Jewish elite in 30 A.D.) or even prefers not putting<br />

in a personal appearance, <strong>di</strong>spatching His Mother to appear in the most out-


Traces of the Invisible in Africa<br />

marginal members of equally peripheral locations. However, unlike his<br />

Christian counterparts, Katabi <strong>di</strong>d not waste time in revealing his appearances<br />

but came straight to the point: the person possessed was to<br />

imme<strong>di</strong>ately inform the local authorities that unless they took the necessary<br />

ritual steps (such as sacrificing a fowl on the chiefly graves) then<br />

<strong>di</strong>saster (a drought or plague of locust) would imme<strong>di</strong>ately ensue. On<br />

rare occasions, the spirit’s spokesperson might erect a shrine and function<br />

for a while as an oracle. However, as we will see, the noma<strong>di</strong>c mode<br />

of reproduction prevalent in UKonongo <strong>di</strong>d not make for permanent<br />

sacred centres served by generations of specialists in the sacred. It is<br />

true, none the less, as befits a “territorial spirit” 17 , Katabi was partly and<br />

particularly associated with a large swampy depression to which he had<br />

given his name. Yet when all is said and done, such supra-clan and even<br />

“tribal” entities, never bothered to insist on their in<strong>di</strong>vidual identity (as<br />

their Christian counterparts do – “I am the Immaculate Conception”)<br />

but from the outset informed their inspired interlocutors in no uncertain<br />

terms the line of conduct to be adopted forthwith if the worst was to be<br />

avoided and the best obtained. The WaKonongo would have been<br />

surprised to hear Katabi declare in kiKonongo (as Our Lady <strong>di</strong>d in 1858<br />

in the <strong>di</strong>alect of Lourdes – “que soy era immaculado counceptiou”) “I<br />

am this that or the other”; they would have been even more put out had<br />

he revealed an object unmade by human hand but representing his<br />

semblance in as meticulously complicated a manner as the medal the<br />

lan<strong>di</strong>sh of locations to the poorest of children (Bernadette in Lourdes, the three<br />

young peasant illiterates of Fatima – or their Belgian equivalents in Banneux and<br />

Beauraing). Sociologically speaking (M. SINGLETON, “En marge monumentale” in<br />

A la périphérie du centre. Les limites de l’hégémonie en anthropologie, sous la <strong>di</strong>r. M.<br />

Daveluy et L-J. Dorais, Montréal, Liber, 2009), the reason is quite simple: the powers<br />

that be, even when supreme, being primarily preoccupied with coor<strong>di</strong>nating<br />

sectoral solutions to specific problems, are rarely well placed to face globally urgent<br />

issues. It often takes an innocent, adolescent outsider (like Joan of Arc in the hamlet<br />

of Domremy – or the young Einstein in his patent office of Berne (for the law of<br />

marginal mutants holds for matters secular as well as religious)) to see what is totally<br />

wrong and to come up with a wholesome answer. Not everyone can read at<br />

first sight those telling traces which the New Testament styled “the signs of the<br />

times”: now a commonplace concern, the danger globalization represents for the<br />

environment was initially prophesized by a handful of eccentric revolutionaries. Interpreting<br />

imprints is a much a question of an exegete’s social location as it is of his<br />

innate intelligence.<br />

17 R.P. WERBNER (ed.). Regional Cults, London 1977.<br />

23


24<br />

Michael Singleton<br />

same immaculately conceived revealed in 1830 to Saint Catherine La -<br />

bouré.<br />

From the outset, Western observers of the African scene were struck<br />

by the aniconic approach of in<strong>di</strong>genous religions not only to spirits of<br />

Katabi’s calibre but to what they took to be the High God himself 18 . He<br />

possessed no place of worship, no clergy, no statues; no prayers were addressed<br />

to him and the departed had even less to do with him after death<br />

than they had during life; and, in keeping with the sacrosanct principle<br />

of keeping things apart so as maintain the structured order vital to survival,<br />

should the <strong>di</strong>vine ever fall unannounced upon earth then<br />

apotropaïc measures were imme<strong>di</strong>ately taken to get it back where it belonged<br />

in the heavens above. The academic interpretation of aniconism,<br />

however, was uncritically ethnocentric and doubly so. The lack of any<br />

imaging of the <strong>di</strong>vine was not due positively to an impressive intuition<br />

bearing on the intrinsic impossibility of representing the immaterial or<br />

negatively to iconoclastic crusa<strong>di</strong>ng anticipatory of Judaeo-Christianity’s<br />

Holy War on idolatry. The facts of the matter are far simpler: when<br />

your culture has chosen to privilege the au<strong>di</strong>ble, visualizing the Invisible<br />

or looking around for any visible traces it might have intentionally left<br />

on rocks, shrouds or whatever, is not your priority of priorities.<br />

Hierophony rather than hierophany!<br />

18 A mistake which irreproachable witnesses were later to rectify. Sir Edward<br />

Evans-Pritchard whose penultimate assistant I was in Oxford, once confessed that<br />

the monotheism of the Nuer (a nilotic people of the Sudan) had been instrumental<br />

in his conversion to Catholicism, yet he was unable to identify Mbori, the<br />

supreme symbol of the Azande with anything more <strong>di</strong>vine than a pars pro toto representation<br />

of the Ancestors (M. SINGLETON, Theology, ‘Zande Theology’ and Secular<br />

Theology, in Zande Themes. Essays presented to Sir Edward Evans-Pritchard,<br />

Oxford 1972, 130-157). Though as member of the same catholic missionary society<br />

as Pater Wilhelm Schmidt S.V.D. (amongst the most ardent promoters of Urmonotheismus),<br />

he had gone to find remnants of primitive monotheism in the<br />

Congo, J.-Fr. Thiel (Ahnen, Geister, Hochste Wesen. Religionsethnologische Untersuchungen<br />

im Zaïre-Kasaï-Gebiet, St Augustin bei Bonn, 1977) returned convinced<br />

in turn that Primor<strong>di</strong>al Ancestor would be a better rendering of Nzambi (an almost<br />

continent wide term) than the usual “High God”. On this whole question cf.<br />

M. SINGLETON, Le pillage identitaire de l’Afrique ancestrale, in P. NGANDU<br />

NKASHAMA (ed.), Itinéraires et trajectoires: du <strong>di</strong>scours littéraire à l’anthropologie.<br />

Mélanges offerts à Clémentine Faïk-Nzuji Ma<strong>di</strong>ya, Paris 2007, 263-283.


3.2. Noma<strong>di</strong>c traceability<br />

Traces of the Invisible in Africa<br />

Africa, of course, is not entirely blind to the contrast between the visible<br />

and the invisible. Indeed, correctly decoded, the <strong>di</strong>stinction is just as<br />

(un)consciously basic to the identity of Africans as the <strong>di</strong>chotomy between<br />

the material and the spiritual which fundamentally (in)forms our<br />

understan<strong>di</strong>ng of the self. However, whereas in our tra<strong>di</strong>tion the generic<br />

<strong>di</strong>vide between matter and spirit gives rise to a whole series of equally<br />

unbridgeable gaps (notably those between body and soul, the human<br />

and the <strong>di</strong>vine, the inanimate and the animate, this world and the next),<br />

African cultures tra<strong>di</strong>tionally ignored the metaphysical and Manichean<br />

implications of our rather simplistic and relatively <strong>di</strong>sastrous dualism.<br />

In sub-saharan Africa, the sphere of the spirits is part and parcel of one<br />

world, a world which was neither created ex nihilo nor is destined to<br />

come to an imminent, apocalyptic End (by the establishment of the elect<br />

in the City of God or the regrouping of revolutionaries in Porto Alegre);<br />

the inhabitants of the spirit world (the “souls” of the deceased included),<br />

are not particularly immaterial and hence not peculiarly immortal;<br />

ancestors and spirits do not live up above in heavenly choirs<br />

eternally given to theocentric contemplation but exist alongside the living<br />

or, on occasion, in the vicinity but underground; they are not even<br />

intrinsically invisible as they can be seen from time to time by or<strong>di</strong>nary<br />

people and as often as required ex professo by specialists such as witch<br />

hunters 19 – for the invisible, partaking of the ambivalence characteristic<br />

19 Late one evening in my Tanzanian village a young adult, terrorized, said he<br />

had just espied a witch in the bush, walking naked on his hands and with a bowl of<br />

fire between his legs (as befits a denizen of an upturned order of things); a student<br />

of mine who became the first Minister for Environment in Senegal, told me that as<br />

a child he had seen a weirdly white personage on the outskirts of his village – his<br />

mother, informed, had imme<strong>di</strong>ately turned to a marabout to remove for ever this<br />

dubious gift of double vision (the one my Jesuit friend Eric de Rosny obtained at<br />

the outcome of long and laborious initiation in the Cameroon, so as to be able to<br />

fight face to face the nocturnal forces of evil (E. DE ROSNY, Les yeux de ma chèvre.<br />

Sur les pas des maîtres de la nuit en pays douala [Cameroun], Paris 1981). Again in<br />

Tanzania, Seyfu Maji<strong>di</strong>, an old Arab friend of mine who had become more<br />

African than the Africans themselves, once confided to me the secret recipe of a<br />

magical remedy for doctoring bullets thanks to which he had been able to shoot at<br />

night a witch. Amongst the key ingre<strong>di</strong>ents figured the pus from the eyes of a<br />

puppy – a young virgin creature doted like members of its species with ability to<br />

25


26<br />

Michael Singleton<br />

of almost everything in Africa, is far from being habitually or exclusively<br />

well intentioned towards common mortals: to my surprise, since I had<br />

been brought up to belief witchcraft resulted from a <strong>di</strong>abolic covenant 20 ,<br />

the WaKonongo proposed we include witches and not just smiths, carpenters<br />

and other professionals in the socialist village (ujamaa) we projected<br />

and when they could not put a name on the malevolent origin of<br />

<strong>di</strong>sease or death, attributed them to a “God” beyond good and evil as<br />

Nietzsche would have put it; anthropo-logically speaking, the African<br />

himself, unlike his Judaeo-Christian and Greco-Latin counterpart 21 is<br />

see danger in the dark. An interesting sideline to our debate but which we can only<br />

mention here, is the social status and appreciation of those with the capacity, innate<br />

or acquired to see the invisible. The priestly and/or professional Establishment<br />

tends to be wary of visionary seers – the children visited in our times by the<br />

Blessed Virgin were “encouraged” to enter the convent or the seminary and many<br />

modern artists have only enjoyed fame posthumously. However, in less hierarchically<br />

and stabilized societies, prophets (Moses being an outstan<strong>di</strong>ng example but<br />

one can also think of the founders of new religious movements) can become powerful<br />

leaders. The invisible imprints itself <strong>di</strong>fferently on marginal as opposed to<br />

central figures – the first pope, a youthful, irresponsible stranger in Jerusalem,<br />

could allow himself to see tongues of fire and speak in tongues, whereas, still sociologically<br />

speaking, it is hard to imagine the last pope, despite his being the only<br />

one to fully see God’s Truth, len<strong>di</strong>ng himself to accusations of drunken and <strong>di</strong>sorderly<br />

behaviour.<br />

20 As it became anathema in the West (not during the Dark Ages but during<br />

Les Lumières) to have any dealings with the Devil, the very embo<strong>di</strong>ment of Evil,<br />

negotiating with his equivalents as Africans do (P. COPPO, Negoziare con il male.<br />

Stregoneria e controstregoneria dogon, <strong>Torino</strong> 2007) or getting the better of him as<br />

even some Christian Saints do (admittedly in the Abruzzi! – A.M. DI NOLA, Gli<br />

aspetti magico-religiosi <strong>di</strong> una cultura subalterna italiana, <strong>Torino</strong> 1976), would never<br />

to the theologically orthodox mind. Speaking of theological traces, it would be<br />

interesting to analyse how or<strong>di</strong>nary people react to the innumerable bridges the<br />

Devil is said to have miraculously built here and there throughout Christianized<br />

Europe.<br />

21 Though life long I have insisted on the irreducible <strong>di</strong>versity of cultures – to<br />

the point of even identifying culture with singular in<strong>di</strong>viduals – global contrasts<br />

such as those between the West and Africa are not entirely devoid of meaning. Despite<br />

a multiplicity of modes of economic production (noma<strong>di</strong>c, pastoral, agricultural)<br />

and degrees of political organisation (from the small Pygmy band to the<br />

huge West African Empires through Bantu villages of various shapes and sizes), it<br />

is possible and plausible to oppose Africa as a whole, materially (in terms of the<br />

natural environment and its exploitation), morally (peculiar codes of conduct)


Traces of the Invisible in Africa<br />

not condemned to oscillate wildly between carnal passions and spiritual<br />

aspirations but contrives to live on reasonably good terms with a somewhat<br />

fragmented and fissile whole composed, in some cultures, of up to<br />

nine elements – inclu<strong>di</strong>ng, for instance, his shadow or the likelihood of<br />

fin<strong>di</strong>ng himself metamorphosed into a lion or even a baobab.<br />

In our eyes, traceability is a physically objectifiable phenomenon –<br />

there is only a <strong>di</strong>fference of degree between the Mandyllion and mad<br />

cows. To the African mind, traceability involves to a far greater degree,<br />

interpersonal intentionality. In other words, traces are left on the<br />

ground, the walls and the ceiling of cultural constructions and constructions<br />

vary interculturally not only in shape and size but in destination.<br />

What separates the palace of Versailles from a mud hut is not so<br />

much the monumental versus the modest as purposeful meaning: the<br />

king of France lived and entertained in his chateau, the Konongo chief<br />

who hosted me merely slept and stored things in his hut. Material similarities<br />

between marks made by the sacred and/or the invisible often<br />

mask quite <strong>di</strong>fferent meanings. Take footprints for instance. A neighbour<br />

in Mapili, panic stricken, called me to witness how the bare footprints<br />

left in the muddy approaches to his recently dug well proceeded in<br />

one <strong>di</strong>rection… away from rather than to and fro! They could only have<br />

been made by malevolent witches. Amongst the first sights I visited on<br />

arriving in the central Tanzanian town of Tabora, there to learn Swahili,<br />

were the prints left in a granite outcrop by the somewhat mythical<br />

founder of the local chiefly dynasty. Rather than, as is sometimes the<br />

case, elaborations of prehistoric populations 22 , they seemed to be naturally<br />

eroded depressions. The phenomenon is reported worldwide – for<br />

starters one cannot do much better than consult an encyclopae<strong>di</strong>c rubric<br />

such as that of Wikipe<strong>di</strong>a with its references, amongst others, to Bud-<br />

and metaphysically (the value put on “both and” rather than our “either or”) with<br />

a European tra<strong>di</strong>tion stemming from the Ancient World and the Bible.<br />

22 Even less of course <strong>di</strong>d they evoke the humanoid footprints left in the volcanic<br />

mud of Laetoli (Tanzania) three and half million years ago or those of our<br />

common mitochondrial mother of South Africa dating from a hundred thousand<br />

years before the present. T. Meaden (Secrets of the Avebury Stones, London 1999),<br />

a renowned specialist in megalithic monuments, was amongst the first to note how<br />

prehistoric man had worked over the expressive potentialities of certain natural<br />

features, deepening, for instance, a crevice in a stan<strong>di</strong>ng stone so as to increase its<br />

resemblance to a vulva, or working over protuberances to make a rock face even<br />

more human like.<br />

27


28<br />

Michael Singleton<br />

dha, Quo Va<strong>di</strong>s and Buzz Aldrin (but not as yet to the carbon footprints<br />

our various life styles stamp more or less <strong>di</strong>sastrously on the environment).<br />

It could be that the marks in the rock near Tabora had already<br />

given rise to thought amongst the early hunter gatherers of the<br />

area. But of this we possess… no trace! In living memory, though not<br />

made by human hand, the eroded forms in question, had taken on<br />

meaning for the local inhabitants, the Wanyamwezi. Slash and burn<br />

agriculturalist, their ancestors had been around for at least a thousand<br />

years. I was informed that the footprints 23 had been left by a barefooted,<br />

elderly chief, long long ago, if not exactly at the dawn of time. Consequently,<br />

the prints are not simply human, nor do they speak of a young<br />

person and even less of a female peasant. They answer to the peculiar<br />

sociohistoric choices of a particular culture at a given moment in space<br />

and time when patriarchal authority was the best social bet possible.<br />

A phenomenon such as footprints in rocks, though materially identical,<br />

is thus susceptible of quite <strong>di</strong>fferent meanings. In our culture, they<br />

speak of the mysterious and often miraculous possibility enjoyed by<br />

saintly personages or fabulous creatures to leave their mark in one go on<br />

the hardest of realities – the prophet Mahomet on the temple rock in<br />

Jerusalem, Bayard, the horse carrying the four sons of Aymon, fleeing<br />

from Charlemagne, and whose hoof cleft the cliff near Dinant on the<br />

Meuse in Belgium (the former still visited by pious pilgrims, the latter by<br />

sceptical tourists). Whatever might have been the attitudes of their forebears,<br />

perhaps more assiduously “religious” than their descendants, few<br />

of the Wanyamwezi living in the vicinity showed much interest in the<br />

prints and no one apparently (still?) paid them any ritual attention.<br />

Does this mean they had sunk to the transcultural level of pure folklore?<br />

Yes and No! “Yes” in the sense that these ancestral traces were no longer<br />

(if they had ever been) central to the Nymawezi philosophy and practice<br />

of the world. “No” because the notion of folklore can only be applied<br />

equivocally to the understan<strong>di</strong>ng of cultures which ignore the axiological<br />

asymmetry between the popular (religious) persuasions of the vulgus<br />

plebs and the claims of hierarchical authorities to represent orthodoxy<br />

or the convictions of aristocratic elites to incarnate enlightened opinion.<br />

23 Petrosomaglyphs, to use the somewhat barbaric technical term, can “result<br />

from” or represent other bo<strong>di</strong>ly members and even objects such as the butt end of<br />

spears or the legs of stools.


Traces of the Invisible in Africa<br />

Moreover the informed observer of Bantu cultures 24 has every reason to<br />

believe that if mythical heroes were able to leave their prints on rocks it<br />

is because these latter in illo tempore primor<strong>di</strong>ale had not yet hardened.<br />

In the beginning 25 things in general had not acquired their definitive<br />

identity nor had the time to settle down in their proper places: the Heavens<br />

above were quite close to the Earth below (so much so that one of<br />

the first women, poun<strong>di</strong>ng corn, could hit “God” where it hurt, provoking<br />

his annoyed and decisive retreat from human affairs), animals spoke<br />

as humans <strong>di</strong>d, death was not part of the order of things, men wandered<br />

around like savages in the bush before managing to get the better of<br />

women who were already living in a civilized village… and rocks were<br />

still as soft as mud. Distance (that between the Infinite and the finite being<br />

the extreme case – sacrifices being intended not to promote communion<br />

with the <strong>di</strong>vine but to remove it where it belonged and ideally<br />

should stay put), <strong>di</strong>stinction (between for instance sacred chiefs and<br />

their subjects) and <strong>di</strong>vision (amongst other things of labour between<br />

old and young, men and women) are vital for the survival of the type of<br />

society under consideration.<br />

Like the exegetes and theologians who contrast the sublime seriousness<br />

of the Gospel narratives with the charming but chil<strong>di</strong>sh character<br />

of the Apocryphal legends, we too tend to smile on first acquaintance<br />

with the flighty fantasies of “primitive” mythology. But is the story of<br />

the child Jesus, as a precocious Pantocrator, able to breathe life into clay<br />

pigeons, less theologically profound than the baby of Bethlehem to<br />

whom the stars bowed down? Likewise, though they might end up as a<br />

folkloric tourist attraction, on principle the scholar has no reason to<br />

treat the footprints of Tabora as less significant cosmologically than<br />

their supposedly superior revealed or rational counterparts. At the very<br />

least, the footprints in question, on closer inspection, despite their common<br />

denominator similarities with other historical exemplars, taking<br />

place as they do within a hermeneutical horizon to all intents and purposes<br />

finalized in the last analysis by ancestral spirits, deliver a message<br />

24 Such as De Heusch (L. DE HEUSCH, Le roi ivre ou l’origine de l’Etat, Paris<br />

1972, 29.36.50.279) – and the many references in the index under the rubrics “<strong>di</strong>scontinuité”<br />

and “<strong>di</strong>sjunction”<br />

25 Usually a far more complex and subtle situation than that imagined by the<br />

Judaeo-Christian tenet of an abrupt creation ex nihilo the exclusive work of an<br />

Almighty Being.<br />

29


30<br />

Michael Singleton<br />

quite <strong>di</strong>fferent from that associated with such traces in a monotheistic<br />

culture such as ours.<br />

The contrast, however, between a religiosity centred on the ancestors<br />

rather than on God, is still far too general to do full justice to the materiality<br />

and meaning of traces as experienced by peoples (re)producing<br />

themselves in the way the WaKonongo do. Readying myself to descend<br />

upon the WaKonongo by rea<strong>di</strong>ng what little had been recorded of them<br />

in the literature, I had been led to believe that they could be catalogued<br />

as “swidden agriculturalists” 26 . Slashing and burning stretches of the<br />

surroun<strong>di</strong>ng forest 27 , they <strong>di</strong>d not remain fixed on one spot for more<br />

than a decade in their nuclear family homesteads isolated in the middle<br />

of fields they hoed to cultivate maize, manioc, sweet potatoes and the<br />

like but which became ever less fertile over the years. During the time I<br />

spent with them (from mid 1969 to the end of 1972), I too cut down<br />

trees and planted enough maize to become relatively self-reliant (as at<br />

the time Mwalimu Nyerere urged everyone in the country to do), making<br />

even a couple of shillings thanks to the local cash crops – peanuts<br />

and rice – and the honey obtained from the hives my hosts afforded me.<br />

None the less, it took thirty years or more, before it dawned upon me<br />

that describing their mode of (re)production as shifting agriculture constituted<br />

a pseudo-scientific smokescreen masking their truly noma<strong>di</strong>c<br />

identity. It was not until after the turn of the century that I came to realize<br />

to what extent the Konongo way of life and its accompanying<br />

Weltanschauung answered to the most authentically noma<strong>di</strong>c of existences.<br />

26 A. SÜRIÄINEN, Swidden Cultivation in Precolonial History of Africa, in J.<br />

RAUMOLIN (ed.), Suomen Antropologi (special issue on swidden cultivation) 12/4<br />

(1987) 269-278.<br />

27 Though it appeared never en<strong>di</strong>ng to the first Europeans, the forest of<br />

UKonongo (consisting mainly of miombo or brachtstegia) was not particularly<br />

spectacular (as tropical forest can be) and contained nothing of particular note<br />

such as impressive mountains or large waterfalls. The exceptional features of the<br />

Australian landscape could partly account for the primor<strong>di</strong>al importance of traces<br />

in the aboriginal philosophy and practices of their world. But once again the traces<br />

in question are not so much vestigial reminders of times gone by as sacraments reactivating<br />

the vital activities of the ancestral founders of the aboriginal milieu (I<br />

counted over thirty explicit mentions of traces in B. GLOWCZEWSKI, Du rêve à la loi<br />

chez les Aborigènes. Mythes, rites et organisation sociale en Australie, Paris 1991<br />

not to mention the theme being the leit-motiv of a less scholarly work by B.<br />

CHATWIN, The Songlines, London 1987).


Traces of the Invisible in Africa<br />

A priori, it is possible and plausible to construct at least three specific<br />

models of generic noma<strong>di</strong>sm and then proceed a posteriori to relate<br />

ethnographic instances to them.<br />

In all three cases, movement, represented by the arrows, is of the<br />

essence. The first type corresponds to the annual migrations of the<br />

southern Tunisian Bedouins I encountered in mid-1969. They spent the<br />

summer months in the low lying desert and the winter months close to<br />

the granaries (ghorofa) on higher ground. Though such peoples are often<br />

presented in western me<strong>di</strong>a as genuine nomads it would be more exact<br />

to designate them as transhumant agro-pastoralists. I came across<br />

the second kind of noma<strong>di</strong>sm while working in Mauritania. A chief<br />

would decide that it was time for his dependents to fold their tents and<br />

move on in caravan style to the next watering place. But as these de- and<br />

relocations took place within a fixed albeit extensive territory, the group<br />

would eventually end up back where it had started from. At least during<br />

the time I knew them, the WaKonongo embo<strong>di</strong>ed the third possibility.<br />

The elders were aware of where (the grey circle) they had been some<br />

years prior to the all important present (the black circle) and adults,<br />

when pressed to think about it, acknowledged the fact that they were<br />

not destined to stay permanently put on the spot. The awareness, however,<br />

of past locations was purely pragmatic and the acknowledgment<br />

of future a mere matter of fact. Mindful of the nostalgia many migrants<br />

feel towards their initial homeland and their aspirations to return<br />

home when and if possible, I asked my authoritative Konongo informants<br />

whether they too regretted their clans having been obliged to up-<br />

31


32<br />

Michael Singleton<br />

root themselves or if they longed to revisit their ancestral fatherlands.<br />

They looked at me as if I had come from outer space! “Why go back on<br />

our tracks to places identical in all respects but one to the spot we<br />

presently enjoy – the one crucial <strong>di</strong>fference being that our former locations<br />

had become unviable”. And in fact, out hunting or collecting honey<br />

with my hosts in their immense forest environment (substantially the<br />

same for thousands of square kilometres), we occasionally came across<br />

matonge or mahame i.e. still vaguely recognizable clearings where their<br />

ancestors had settled for a while but which were now gradually returning<br />

to primeval woodland. Though some of their forebears were known<br />

to them, none of my companions ever stopped to pay his respects to<br />

their eternal resting place… cemeteries being the first plots to be overrun<br />

by the inva<strong>di</strong>ng vegetation. Indeed, even chiefly graves (the only<br />

ones enjoying a minimum of visibility), though at first located in settlements,<br />

eventually found themselves forgotten and abandoned in the<br />

bush as people moved ever on 28 . If in our schema the future is represented<br />

by a blank circle it is because the WaKonongo had little reason to<br />

think of where they might eventually be tomorrow and even less of how<br />

they would be there since it could be no <strong>di</strong>fferent from where they<br />

presently found themselves. By chance, I was able to revisit for a day in<br />

1986, the people of Mapili I had left somewhat abruptly in December<br />

1972, having been accused by the government of setting snakes upon a<br />

rival socialist village. Mapili was no more and the dozen or more families<br />

whose existence I had closely shared were now a couple of kilometres<br />

further on, living and working in the fields they had prepared on the<br />

edge of the forest… but it was I who pointed out to them how far they<br />

had moved on over the intervening years!<br />

While gerontocratic rather than democratic, Konongo noma<strong>di</strong>sm<br />

was far from <strong>di</strong>ctatorial. Unlike the Mauritanian instance, no chief<br />

could give the WaKonongo a collective order to exploit fresh territory.<br />

Each family, in the <strong>di</strong>rection it thought fit, instinctively slashed and<br />

burnt what it required to make the best of the present. Each family, settling<br />

down for a while in the space it had cleared, built what to our mind<br />

would seem a rather elementary, minimalist dwelling, somewhere to<br />

sleep and store what little was possessed. Though in terms of the material<br />

at their <strong>di</strong>sposition, they could have constructed bigger and better<br />

28 For photos of one such grave site, cf. M. SINGLETON, Speaking to the Ancestors.<br />

Religion as Interlocutory Interaction, Anthropos 104 (2009) 311-332.


Traces of the Invisible in Africa<br />

houses, why do so when residence being temporary there is no point in<br />

making anything to last? Given that the limits to what can be reasonably<br />

and rea<strong>di</strong>ly carried noma<strong>di</strong>cally on are soon reached, why spend time<br />

and money on cumulating loads of things rather than invest imme<strong>di</strong>ately<br />

in social networking by convivially brewing beer for family, friends<br />

and neighbours?<br />

It would be hard to imagine theoretically and to come across concretely<br />

a people as perfectly noma<strong>di</strong>c as the WaKonongo. Unconcerned<br />

by the fact they had come from somewhere and knowing full well they<br />

were going nowhere in particular, the WaKonongo had quite logically<br />

decided to provide themselves in the present with the strict minimum<br />

materially necessary to make life morally worthwhile. That their life<br />

style was more than necessity made virtue was sadly proven after my departure<br />

by their paying the price for resisting the villagisation programme<br />

enforced, sometimes brutally, in the mid-1970s by TANU the<br />

ruling party.<br />

The anthropologist is paid to account for the kind of noma<strong>di</strong>c choice<br />

the WaKonongo incarnate. Though psychologists have long since found<br />

the link proposed by Kretschmer (1888-1964) between physical morphology<br />

and mental <strong>di</strong>sorder too can<strong>di</strong>dly causal for words, sociologists<br />

still associate mentalities with milieus – “associate” rather than “produce”<br />

being the operative, saving word! In one of my first ethnological<br />

essays about the WaKonongo 29 , I related their self-reliant optimism<br />

(they were convinced that no matter what the problem, someone somewhere<br />

possessed the reme<strong>di</strong>al solution – dawa or uganga) with the easy<br />

going and pro<strong>di</strong>gal nature of their forest environment. When in good<br />

times the forest provides you with more than you need and even in bad<br />

times affords you a strict vital minimum, there is no reason to want<br />

things get to better or to worry about them getting worse. Likewise, travelling<br />

light, with little or no baggage, allowed the WaKonongo to <strong>di</strong>spense<br />

with the top-heavy metaphysics more sedentary people encumber<br />

themselves with. “Semper idem et ne varietur” would have been a fitting<br />

motto for the chrono-logic induced by the Konongo context. When<br />

there had been no one decisive starting point in the past to one’s permanent<br />

peregrinations, when there was no foreseeable final goal beyond<br />

one’s imme<strong>di</strong>ate horizons but fundamentally the prolongation of same<br />

29 M. SINGLETON, Dawa. Beyond Science and Superstition, Anthropos 74 (1979)<br />

817-863.<br />

33


34<br />

Michael Singleton<br />

situation as of now, when, humanly speaking, the present gives you<br />

more than sufficient satisfaction, what urgent need is there to speculate<br />

about First Beginnings or prognosticate Last Ends, what could make<br />

you desperately want to barter your present sinecure against the offer of<br />

a totally transcendent but somewhat hypothetical Other? Not being restless<br />

(inquietum) but perpetually mobile, the nomad does not aspire to<br />

share Eternal Immobility (nunc stans) with an Unmoving Mover (Primum<br />

mobile).<br />

Within the limits of this contribution, I can afford the reader only the<br />

briefest of inklings as to the sui generis character of noma<strong>di</strong>sm and its<br />

impact on the theme of transcendent traces. Before conclu<strong>di</strong>ng, however,<br />

an important and interesting issue must be raised, albeit just as summarily.<br />

To what extent would the WaKonongo I frequented subscribe to<br />

my tar<strong>di</strong>ly identifying them as authentic nomads? Though people tend<br />

to take their personal and collective identities for granted, speculatively<br />

they are far from representing self evident phenomena. Before being recently<br />

superseded by the more fundamental issue of recognition, that of<br />

identity was much debated by philosophers, psychologists and social<br />

scientists 30 . To the extent that a simple worker must be conscientized to<br />

his proletarian role I do not claim that peasants such as the WaKonongo,<br />

left unattended by anthropologists, would be completely conscious<br />

of their noma<strong>di</strong>c intentionality. The West has a long history of conscripting<br />

natives as cannon fodder for hostilities none of their making.<br />

Not only <strong>di</strong>d colonial troops <strong>di</strong>e in their thousands during our world<br />

wars but the identities of “primitive” peoples were pillaged and put<br />

polemically to use in such exclusively Eurocentric debates as that which<br />

opposed the promoters of primor<strong>di</strong>al monotheism to its detractors 31 .<br />

None the less, despite “noma<strong>di</strong>c” being an appellation academically<br />

controlled by anthropologists, I remain convinced not only that this theoretical<br />

“fact” does justice to the ethnographic data but that “my” 32<br />

WaKonongo would not accuse me of instrumentalizing them for a cause<br />

to which they would of themselves in no way subscribe.<br />

30 M. SINGLETON, La carte de l’identité, in P.P. GOSSIAUX (ed.), Questions régionales<br />

et citoyenneté européenne, Liège 2000, 101-122.<br />

31 Epitomized by the never en<strong>di</strong>ng polemic between Schmidt and Pettazzoni<br />

(R. PETTAZZONI, L’essere supremo nelle religioni primitive, <strong>Torino</strong> 1957).<br />

32 Far from being a condescen<strong>di</strong>ng, paternalistic appropriation, this personalization<br />

of my relations with the WaKonongo reflects a fact often glossed over by<br />

recourse to more anonymously habitual but also more academically ambiguous


Traces of the Invisible in Africa<br />

Admittedly, however, they would probably like to point out a couple<br />

of facts which, as much to simplify things as for lack of space, I failed to<br />

mention – such as: 1. Their having massively converted to Catholicism<br />

in the mid 1930s (as I see it, largely because the old “gods” no longer delivering<br />

the goods – such as the rains – without which peasant life is impossible,<br />

they had had a vested interest in turning to the new ones 33 );<br />

2. That the impression I might have given of their being confined to<br />

their native reserve is inadequate in that many of them had travelled beyond<br />

the forest and that all knew of a much larger world outside the region<br />

of Ukonongo (though this is true, I remain persuaded that, to all<br />

intents and purposes, those who returned and not only those who had<br />

rarely left their immense wooded homeland, behaved and believed from<br />

day to day as if their environment stretched around and on indefinitely<br />

– which is quite <strong>di</strong>fferent from saying “infinitely”); 3. That they had, on<br />

occasion, been confronted with signs of the invisible and were not entirely<br />

in<strong>di</strong>fferent to making the invisible visible: they had indeed associated<br />

the sleeping sickness outbreak at the end of the first world war<br />

with a mysteriously large, linear swath in the forest, as if some monstrous<br />

creature had passed by and I was told that a similarly strange<br />

path in the bush was believed to have been the road taken by the zombies<br />

working for the first missionaries to the area (the zealous obsession<br />

of the priests and their catechists to baptize babies if not already dead at<br />

least in articulo mortis had been interpreted as a supernatural recruitment<br />

for nocturnal slave labour!). Graves had been built, especially for<br />

deceased chiefs – who bequeathed to their successors regalia such as<br />

stools, spears, hoes and spiral shells (symbolizing the moon, the rain<br />

and fertility) which had become over time more and more “sacred” and<br />

thus seemingly not made by human hand. Far be it from me then to deny<br />

or downplay the role played by the visible in Konongo “religion” – it<br />

is simply that, in keeping with the “law” of asymmetry, in any given pair<br />

of phenomena such as the left and the right, the above and the below,<br />

expression “the” WaKonongo. Thanks to sophisticated opinion polls such as those<br />

used by the European Values <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es, it is plausible to say the X % of the Belgians<br />

do not believe in God as opposed to Y % of the Italians who do. But in the case of<br />

the usual ethnographic monograph, talk of the WaKonongo or the Nuer, can only<br />

imply an extrapolation from a handful of hand picked informants to a rather<br />

hypothetical group mentality.<br />

33 M. SINGLETON, Histoires d’eaux africaines. Essais d’anthropologie impliquée,<br />

Louvain 2010.<br />

35


36<br />

Michael Singleton<br />

male and female, old and young, the visible and the au<strong>di</strong>ble, one member<br />

is (and often to a large extent) more appreciated and activated than<br />

the other. As the cliché generally puts it, it is a question of degree but as<br />

our italics suggest, concretely the degree in question can be as much as<br />

90° rather than 10°.<br />

I might seem to be preaching for my chapel, but when all is said and<br />

done an outsider is often more aware than the insider of underlying currents<br />

or overarching issues – a fisherman realizes more than the fish that<br />

they are swimming in water! I had left for UKonongo in 1969 expecting<br />

that they too, like the other African peoples I had read about, would<br />

have carved fetishes galore, would spend more than their free time in<br />

elaborate masked dances and would even have constructed minimally<br />

monumental shrines to the memory of departed ancestors or to lodge<br />

visiting spirits. My great expectations, however, came to nothing – the<br />

only statue I caught a glimpse of was that of a European (priest?) seated<br />

on a throne. It was in the possession of aged Myeye (one of the last<br />

surviving representatives of “secret” society – secretive would be more<br />

apposite a term – formerly de<strong>di</strong>cated to the mastery of deadly snakes;<br />

from time to time people would dance (especially when drunk!) but never<br />

sported masks, contenting themselves with simply imitating wild animals;<br />

while out walking in the bush, I once thought I had come across a<br />

spirit shrine at a crossroads but on <strong>di</strong>scretely photographing it heard the<br />

lad who had accompanied me wonder why I was so fascinated by traps<br />

for ravaging rodents! It took me quite a while to realize that the absence<br />

of what I had hoped for answered to the presence of something as<br />

equally if not more anthropo-logically challenging: a culture for which<br />

the spoken word was primor<strong>di</strong>al 34 . Not that the Africans I knew never<br />

34 Christian readers might be interested to learn that this predominance and<br />

pre-eminence of speech led me, a Roman Catholic missionary at the time as well<br />

an anthropologist, to surreptitiously substitute a sacrament of the Word for the<br />

Holy Eucharistic (even as Africanized and restored to its agape appearances by<br />

Vatican II – M. SINGLETON, The peasant priesthood, New Blackfriars, May 1973,<br />

201-208). Having once ritually slaughtered animals (notably to make it rain), the<br />

WaKonongo understood and appreciated the mass as a bloody sacrifice but nothing<br />

in their culture had prepared them for the mass as a meal: important in<strong>di</strong>viduals<br />

such as myself were expected to eat alone and apart; rather than symbolically<br />

effect communion (as coming together amicably ipso facto does), eating confirmed<br />

social <strong>di</strong>visions – women returned home to eat with their young children after having<br />

brought food to their men folk who, seated on the ground, ate rapidly and in si-


Traces of the Invisible in Africa<br />

stopped talking! On the contrary, especially in the forest, silence was the<br />

rule. They had no time for idle talk. Exchanges were polite but purposeful.<br />

Though such facts as orality and noma<strong>di</strong>sm can be simply stated 35 ,<br />

their implications, in particular for the symposium’s theme, can be quite<br />

consequential. What do the WaKonongo tell us? Not that any one culture<br />

can be absolutely right and all the others completely wrong. Comparing<br />

cultures in this way would demand the existence of a universally<br />

valid, univocal transcultural yardstick – an assumption which, hopefully,<br />

we have shown to be not only ambiguous but unacceptable. In the<br />

same way that there is little point in claiming humans to be more intelligent<br />

than worms, each species having the know-how to make its ends<br />

meet, likewise, unless clear proof to the contrary is forthcoming (such as<br />

the verging on extinction), each and every culture possesses the material,<br />

moral and metaphysical wherewithal required for coping, as it deems<br />

fit, with the con<strong>di</strong>tions to which it relates. However, as Orwell would<br />

have put it, though all are relatively equal, at times some cultures can appear<br />

more equal than others! In ad<strong>di</strong>tion to lea<strong>di</strong>ng us to believe that<br />

there are as many specifically <strong>di</strong>stinct approaches to and appreciations<br />

of traces as there are significantly <strong>di</strong>fferent cultures, what could a noma<strong>di</strong>c<br />

option say about traces to those who have chosen to settle down<br />

definitively?<br />

In the first place, intent above all on what happens within human<br />

networks, the nomad neither strains after nor does he feel particularly<br />

constrained by potentially portentous signs made from beyond the pale<br />

lence so as to avoid the food going cold or being covered with dust. Nothing, on<br />

the other hand, brought them together in a truly liturgical atmosphere than the<br />

palavers which took place every evening under the auspices of the elders. One has<br />

only to observe the new religious movements inspired by the Bible but invented by<br />

Africans to realize that, in the absence of anything resembling a sacred banquet,<br />

everything turns around the spoken word – rea<strong>di</strong>ngs and sermons, witnessing and<br />

speaking in tongues, healing and dancing. Africanizing the Eucharist (by allowing<br />

drums rather than the organ to be played during the ceremony or the celebrant<br />

wearing locally coloured vestments) does not make it any the less an ethnocentric<br />

proposition (not to say imperialistic imposition).<br />

35 For an overview of noma<strong>di</strong>sm cf J. ATTALI, L’homme nomade, Paris 2003,<br />

and for my latest and perhaps last philosophical foraging in the field, M. SINGLE-<br />

TON, Pensées nomades, penser nomade, in F. HIRAUX (ed.), Etu<strong>di</strong>ants du 21 e siècle,<br />

Louvain-la-Neuve 2005, 87-108.<br />

37


38<br />

Michael Singleton<br />

by some invisible Other. Though not going out of his way to meet up<br />

with the Invisible, should this latter appear on the scene our nomad will<br />

not pause to ascertain the credentials or speculate on the identity of the<br />

Transcendent but imme<strong>di</strong>ately go about doing what is required of him.<br />

He does not expect to learn anything about the Invisible – especially<br />

how It might really look 36 . He would be extremely surprised were his interlocutor<br />

to order a statue faithfully representing his features be made<br />

and even more so to receive the precise plan of a temple to enshrine for<br />

all to see the icon in question. Never tarrying for long in any particular<br />

place, even striking features of the landscape will not leave an everlasting<br />

impression on his mind. Noma<strong>di</strong>c believing is behaving not seeing.<br />

In the second place, leaving so few traces of his own passing on the surroun<strong>di</strong>ngs,<br />

it would be quite out of character for a nomad, even if impressed<br />

by the marks of the Invisible, to permanently and monumentally<br />

mo<strong>di</strong>fy the environment as a consequence. The marks a nomad himself<br />

leaves are more moral than material. Significantly when I asked the<br />

WaKonongo what they remembered most about their pioneering missionaries,<br />

rather than mention the churches, schools and <strong>di</strong>spensaries<br />

built, they spoke of their human qualities – pa<strong>di</strong>li huyu alikuwa mpole<br />

kabisa lakini ndugu yake alikuwa mkali sana : “Father X was extremely<br />

warm hearted whereas his confrere, Father Y, was excessively harsh”.<br />

Rather than in any materialisation of the spiritual, the nomad lives on<br />

his children, his offspring who will inherit his reputation rather than his<br />

realizations. In the third place, when time soon renders invisible the few<br />

visible traces your passing by produced, you are inclined to imagine that<br />

even the Invisible comes and goes just as fleetingly. Not conceiving<br />

Katabi as having always existed the WaKonongo were not surprised by<br />

36 Throughout this contribution I have spoken in the masculine of the Invisible<br />

but, as we have suggested, the sexual identity of the sacred is less of an issue for<br />

Africans than it has become for feminist theologians who would like to see God<br />

the (patriarchal) Father give place to a maternal figure which some go on to associate<br />

with an earlier, supposedly matriarchal era of human evolution. Female goddesses,<br />

however, can be every bit as violent and vicious as their male counterparts<br />

and just as ethnocentric – though one can understand why some ra<strong>di</strong>cals oppose<br />

Pacha Mama or Mother Earth to the Moloch of Globalization, since ancestral<br />

Africa knew no such figure, crusa<strong>di</strong>ng world wide in its favour (G. DE MARZO,<br />

Buen Vivir. Per una democrazia della terra, Roma 2009) would merely substitute<br />

one form of evangelization for another.


Traces of the Invisible in Africa<br />

his demise. Though practising Catholics, they never gave me the impression<br />

that a firm belief in in<strong>di</strong>vidual immortality had replaced the noma<strong>di</strong>c<br />

notion that a full life before was better than any hypothetical life<br />

after death: provided he has been able to leave his prints for a while in<br />

the sand, a nomad is not particularly perturbed by the prospects of the<br />

wind blowing them away. When alongside other sparsely scattered<br />

species you provisionally occupy a modest patch in the midst of a world<br />

as wide as it is without end, you are not likely to imagine that Mankind<br />

is the be all and end all of Creation or that condemned, the present creation<br />

will be definitively replaced by another. In<strong>di</strong>fferent to material objects,<br />

made or not by human hand, nomads also make do without that<br />

theological teleology the citizens of western civilization deem in<strong>di</strong>spensable<br />

37 . Here today, gone tomorrow, their footprints are finally as invisible<br />

as those of the Invisible itself. Qui aures habet, au<strong>di</strong>at!<br />

37 Intriguingly, though sedentary for ages, the Chinese quarter of humanity<br />

seems to manage too without first and final causes (F. JULLIEN, La propension des<br />

choses. Pour une histoire de l’efficacité en Chine, Paris 1992).<br />

39


COSE DI UN ALTRO MONDO: OGGETTI SACRI<br />

NELLA TRADIZIONE DEGLI INDIANI DELLE PIANURE<br />

1. Oggetti non-or<strong>di</strong>nari.<br />

ENRICO COMBA<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Nell’Aprile del 1958 ci fu grande agitazione nella riserva <strong>degli</strong><br />

Cheyenne settentrionali, in Montana. Voci concitate e allarmate riferivano<br />

che il ‘Copricapo Sacro’ se n’era andato, alcuni temevano che potesse<br />

essere venduto o ceduto a qualche estraneo, a un museo o a un<br />

commerciante. Le autorità della riserva furono imme<strong>di</strong>atamente chiamate<br />

in causa e le associazioni militari, un’antica istituzione dei tempi<br />

in cui gli Cheyenne erano cacciatori e guerrieri equestri e che è sopravvissuta<br />

nel Ventesimo Secolo, si misero in allerta. Che cosa era successo?<br />

Il Custode del Copricapo Sacro, Ernest American Horse, che era<br />

stato appena nominato nel suo ruolo e aveva preso in consegna il sacro<br />

oggetto, era partito improvvisamente verso Sheridan, nel Wyoming. Intercettato<br />

lungo il percorso, egli si <strong>di</strong>fese sostenendo che, dal momento<br />

che gli era stato raccomandato <strong>di</strong> non lasciare mai l’oggetto incusto<strong>di</strong>to,<br />

aveva pensato <strong>di</strong> portarlo con sé nel viaggio. I membri delle società<br />

militari tuttavia requisirono l’involto contenente il Copricapo e lo consegnarono<br />

all’Ufficio dell’amministrazione della tribù, dove rimase per<br />

alcuni giorni in attesa che si trovasse una nuova persona alla quale affidarne<br />

la custo<strong>di</strong>a 1 .<br />

L’agitazione che percorse la comunità cheyenne in questa occasione<br />

era motivata dal fatto che l’oggetto in questione non era un oggetto<br />

qualsiasi e neppure una semplice reliquia sacra o una testimonianza del<br />

passato. Il Copricapo Sacro <strong>di</strong> Bisonte (esevone) rappresenta il punto <strong>di</strong><br />

congiunzione <strong>degli</strong> Cheyenne con l’universo che li circonda, la continuità<br />

e la possibilità <strong>di</strong> sopravvivenza della comunità nel suo insieme.<br />

1 P. J. POWELL, Issiwun: <strong>Sacre</strong>d Buffalo Hat of the Northern Cheyenne, Mon -<br />

tana: The Magazine of Western History 10 (1960) n.1, 35.<br />

41


42<br />

Enrico Comba<br />

Nelle parole <strong>di</strong> padre Peter Powell, che ha frequentato gli Cheyenne per<br />

decenni, esso incorpora la ‘cosa sacra’ per eccellenza, «il legame supremo<br />

che unisce il passato, il presente e il futuro, facendone una cosa sola»<br />

2 . Avvolto in un involto <strong>di</strong> pelle, che contiene anche altri <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong><br />

accompagnamento, offerte, e così via, viene conservato scrupolosamente<br />

da una persona a cui viene affidato questo compito a nome dell’intera<br />

comunità e che un tempo trasmetteva l’incarico all’interno della<br />

stessa famiglia. Nel passato, l’oggetto sacro veniva esposto pubblicamente<br />

solo in rare occasioni: nel caso <strong>di</strong> una grave malattia, nel corso<br />

della cerimonia <strong>di</strong> rinnovamento delle Frecce <strong>Sacre</strong> (maahotse), oppure<br />

se, in una spe<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> guerra, qualcuno chiedeva <strong>di</strong> poterlo indossare,<br />

in genere in seguito a una visione o a un voto pronunciato in precedenza<br />

3 . Il Copricapo Sacro è un apporto dei Sutaio, un gruppo parlante<br />

una lingua strettamente imparentata a quella <strong>degli</strong> Cheyenne veri e<br />

propri (o Tsistsistas). I due gruppi si unirono in un’epoca imprecisata,<br />

che alcuni autori collocano intorno alla metà del Settecento: i Sutaio<br />

recarono con sé il Copricapo Sacro (esevone) e la cerimonia della Danza<br />

del Sole come caratteristiche specifiche del proprio gruppo, mentre i<br />

Tsistsistas avevano le Frecce <strong>Sacre</strong> (maahotse) e la cerimonia Massaum,<br />

che garantiva il rapporto con il mondo animale. Dopo le complesse vicende<br />

storiche che hanno portato ai conflitti militari durante l’Ottocento,<br />

alla costituzione delle riserve e alla fine della vita nomade, gli<br />

Cheyenne si sono separati in un gruppo meri<strong>di</strong>onale, stanziato in Oklahoma,<br />

presso il quale vengono ancora conservate le <strong>Sacre</strong> Frecce, e<br />

un gruppo settentrionale, in Montana, dove si trova il Copricapo Sacro.<br />

Quest’ultimo continua a essere considerato come il canale privilegiato<br />

che trasmette l’energia e la forza vitale dal Creatore (maheo) al<br />

mondo umano, convogliando il potere benefico alla comunità e, in particolar<br />

modo, alle donne 4 .<br />

Questi <strong>oggetti</strong> però non sono in alcun modo peculiari <strong>degli</strong> Cheyenne.<br />

I Teton (o Lakota) considerano con grande reverenza una pipa,<br />

chiamata Pipa del Vitello <strong>di</strong> Bisonte, conservata nella riserva <strong>di</strong><br />

2 Ivi, 35.<br />

3 G. B. GRINNELL, The Cheyenne In<strong>di</strong>ans: Their History and Ways of Life, vol.<br />

2, New Haven, Conn. 1923 (rist. Lincoln 1972), 562-563.<br />

4 P. J. POWELL, People of the <strong>Sacre</strong>d Mountain: a History of the Cheyenne<br />

Chiefs and Warrior Societies, 1830-1879; with an Epilogue 1969-1974, vol. 2, San<br />

Francisco 1981, XXXVIII.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

Cheyenne River, South Dakota, in un involto sacro, che rappresenta il<br />

legame della comunità con il proprio passato, con le origini della nazione<br />

e il simbolo della sua unità e continuità nel tempo. Anche in questo<br />

caso lo stretto legame della comunità con questo oggetto si rese manifesto<br />

nel 1898, quando l’agente della riserva dette or<strong>di</strong>ne che l’involto<br />

venisse confiscato e trasferito negli uffici dell’amministrazione. La sollevazione<br />

della gente della riserva costrinse il funzionario a restituire<br />

rapidamente l’oggetto sacro. L’involto venne aperto pubblicamente, in<br />

epoca storica, solo nel 1936, quando Martha Bad Warrior, la figlia del<br />

precedente custode, espose la pipa per un giorno <strong>di</strong> preghiera destinato<br />

a far cessare un periodo <strong>di</strong> devastante siccità che metteva in pericolo la<br />

sopravvivenza della sua gente 5 . Attualmente, il sacro oggetto si trova<br />

ancora conservato a Cheyenne River, sotto la custo<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Arvol<br />

Looking Horse, l’attuale custode 6 . Durante il periodo della vita nomade,<br />

l’involto contenente la Pipa Sacra veniva tenuto nella tenda del suo<br />

custode. Durante il giorno era posto su un tripode, <strong>di</strong> fronte all’ingresso<br />

della tenda, e a nessuno era consentito <strong>di</strong> passare tra l’involto e la<br />

tenda. Con il tramonto del sole veniva ricondotto all’interno dell’abitazione<br />

7 . La Pipa del Vitello <strong>di</strong> Bisonte non era impiegata in alcun rituale<br />

collettivo, ma poteva essere oggetto <strong>di</strong> offerte in<strong>di</strong>viduali, in cui una<br />

persona recava in dono strisce <strong>di</strong> stoffa accompagnate da preghiere e<br />

invocazioni 8 .<br />

Anche tra gli Arapaho e i Gros Ventre si trovano delle pipe sacre,<br />

considerate <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> grande importanza e circondati da un alone <strong>di</strong><br />

mistero e <strong>di</strong> segretezza. Tra gli Arapaho settentrionali, che vivono nella<br />

riserva <strong>di</strong> Wind River, nel Wyoming, la Pipa Piatta (se’ičóo) costituisce<br />

la più preziosa proprietà dell’intera comunità. Nel passato il custode<br />

dell’involto in cui è conservata rizzava la propria tenda al centro del-<br />

5 S. J. THOMAS, A Sioux Me<strong>di</strong>cine Bundle, American Anthropologist 43 (1941)<br />

n. 4, 605-609; R.J. DE MALLIE, Teton, in R.J. DE MALLIE (ed.), Handbook of<br />

North American In<strong>di</strong>ans, vol. 13: Plains, Washington 2001, Part 2, 817.<br />

6 A. LOOKING HORSE, The <strong>Sacre</strong>d Pipe in Modern Life, in R. J. DE MALLIE -<br />

D. R. PARKS (edd.), Sioux In<strong>di</strong>an Religion: Tra<strong>di</strong>tion and Innovation, Norman<br />

1987, 67-73.<br />

7 J. L. SMITH, A Short History of the <strong>Sacre</strong>d Calf Pipe of the Teton Dakota,<br />

Museum News, W.H. Over Dakota Museum, University of South Dakota 28<br />

(1967) n.7-8, 23.<br />

8 Ivi, 11-16.<br />

43


44<br />

Enrico Comba<br />

l’accampamento e questa abitazione era la prima che veniva smontata<br />

quando ci si apprestava a trasferire l’inse<strong>di</strong>amento. Egli aveva il compito<br />

<strong>di</strong> svolgere determinati rituali durante il corso dell’anno, nonché <strong>di</strong><br />

presiedere nel caso in cui qualcuno avesse fatto voto <strong>di</strong> celebrare una<br />

cerimonia specificamente rivolta all’oggetto sacro 9 . «Il possesso della<br />

Sacra Pipa fin dalle origini del tempo collega <strong>di</strong>rettamente il popolo<br />

Arapahoe con il Creatore, e l’appropriato trattamento della Sacra Pipa<br />

è sinonimo <strong>di</strong> mantenimento <strong>di</strong> relazioni armoniose con gli esseri umani,<br />

con la natura e con il Creatore» 10 .<br />

Tutti questi <strong>oggetti</strong> presentano una serie <strong>di</strong> elementi comuni: sono<br />

investiti <strong>di</strong> una forte rilevanza sociale, sono considerati come il simbolo<br />

intorno a cui si costruisce la rappresentazione del gruppo sociale e del<br />

suo benessere, sono affidati alle cure <strong>di</strong> una particolare persona, che li<br />

custo<strong>di</strong>sce a nome e per conto della comunità, sono considerati il tramite<br />

attraverso il quale si articolano le relazioni che uniscono gli esseri<br />

umani con gli altri abitanti dell’universo, visibili e invisibili, viene loro<br />

attribuita la qualità <strong>di</strong> fungere da legame tra passato, presente e futuro,<br />

e, infine, pur essendo evidentemente dei manufatti, sono considerati <strong>oggetti</strong><br />

provenienti da un ‘altrove’, da un’altra <strong>di</strong>mensione.<br />

2. Un dono che viene da lontano.<br />

Secondo la tra<strong>di</strong>zione dei Sutaio, l’origine del Copricapo Sacro risale<br />

a un’epoca molto antica, quando il popolo si trovava in una situazione<br />

<strong>di</strong> grande prostrazione: la carestia <strong>di</strong>lagava sulle terre del Nord, dove<br />

vivevano anticamente i Sutaio. La vegetazione era avvizzita, gli animali<br />

scarsi e affamati, la sopravvivenza <strong>degli</strong> umani era drammaticamente<br />

minacciata. Un giovane sciamano (o me<strong>di</strong>cine-man) si avvicina<br />

alla giovane moglie del capo e le chiede qualcosa da mangiare; finito il<br />

magro pasto egli le chiede <strong>di</strong> partire con lui per una misteriosa spe<strong>di</strong>zione.<br />

La donna acconsente e la coppia si mette in viaggio. Durante il<br />

tragitto il giovane, che si chiama Corna Erette (tomsivsi), rivela alla<br />

donna che il loro viaggio è motivato da una visione, che egli aveva rice-<br />

9 L. FOWLER, Arapaho, in De MALLIE (ed.) Handbook of North American<br />

In<strong>di</strong>ans, vol. 13, cit., 843.<br />

10 L. FOWLER, Arapahoe Politics, 1851-1978: Symbols in Crisis of Authority,<br />

Lincoln 1982, 109.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

vuto dal Creatore, la ‘Grande Me<strong>di</strong>cina’ o il ‘Grande Padre’ (heammawihio).<br />

Dopo <strong>di</strong>versi giorni essi arrivano a una foresta, sulla quale si<br />

erge un’alta montagna, sul fianco della quale si apre una caverna. Qui<br />

essi vengono accolti dallo stesso Creatore e dallo Spirito del Tuono, i<br />

quali li istruiscono e consegnano loro il Sacro Copricapo <strong>di</strong> Bisonte<br />

(esevone), grazie al quale essi potranno esercitare il controllo sui bisonti<br />

e gli altri animali. Quando i due escono dalla caverna «l’intera terra<br />

sembrò rinnovata» e una moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> bisonti uscì dalla stessa cavità<br />

andando a popolare la pianura circostante. Al suo ritorno al villaggio,<br />

il giovane sciamano <strong>di</strong>sse al suo popolo <strong>di</strong> aver portato con sé gli animali,<br />

in modo che essi non soffrissero più la fame, e mostrò loro in quale<br />

modo condurre la cerimonia della Danza del Sole (hokéheome), che<br />

gli era stata insegnata durante il suo soggiorno nella caverna della<br />

montagna 11 . Secondo gli informatori <strong>di</strong> Powell, questa montagna era<br />

chiamata Black Mountain e doveva trovarsi nelle regioni setten trio -<br />

nali 12 . Secondo Ralph Redfox, che <strong>di</strong>scende da una famiglia <strong>di</strong> Sutaio,<br />

questa montagna sarebbe da identificare con nowah’wus, la montagna<br />

sacra legata alla tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> origine delle <strong>Sacre</strong> Frecce, donate all’eroe<br />

Dolce Me<strong>di</strong>cina (motseyoef) in una caverna, in un racconto che riproduce<br />

sostanzialmente quello che abbiamo appena riportato 13 .<br />

La tra<strong>di</strong>zione riguardante l’origine della Sacra Pipa tra i Lakota è<br />

molto nota ed è stata pubblicata in decine <strong>di</strong> versioni. Tutte concordano<br />

sugli elementi essenziali: il popolo si trova in <strong>di</strong>fficoltà per la mancanza<br />

<strong>di</strong> animali, due esploratori vengono inviati alla ricerca <strong>di</strong> selvaggina<br />

e incontrano inaspettatamente una giovane donna. Uno dei guerrieri<br />

desidera possederla ma viene avvolto da una nebbia misteriosa e <strong>di</strong><br />

lui rimangono solo le ossa. La donna annuncia <strong>di</strong> essere inviata dal Popolo<br />

dei Bisonti e manda il giovane esploratore ad avvisare l’accampamento<br />

della sua prossima visita. Allo spuntar del sole la misteriosa visitatrice<br />

appare presso il campo, viene accolta con tutti gli onori e consegna<br />

alla comunità la Sacra Pipa del Vitello <strong>di</strong> Bisonte e le istruzioni per<br />

11 G. A. DORSEY, The Cheyenne: I. Ceremonial Organization, Field Colum bian<br />

Museum Publ. 99, Anthropological Series 9 (1905) n.1, 46-49.<br />

12 P. J. POWELL, Sweet Me<strong>di</strong>cine: The Continuing Role of the <strong>Sacre</strong>d Arrows, the<br />

Sun Dance, and the <strong>Sacre</strong>d Buffalo Hat in Northern Cheyenne History, vol. 2,<br />

Norman 1969 [2.ed. 1979, vol. 2, 469].<br />

13 Informazione fornita da Herman Bender e basata su molti anni <strong>di</strong> conoscenza<br />

e <strong>di</strong> colloqui con Ralph Redfox e altri anziani Cheyenne.<br />

45


46<br />

Enrico Comba<br />

la celebrazione dei principali rituali della religione lakota. Allontanatasi<br />

dall’accampamento, la donna si trasforma in un vitello <strong>di</strong> bisonte<br />

bianco e scompare alla vista 14 .<br />

Si possono riconoscere subito numerose analogie e corrispondenze.<br />

In tutti i casi la situazione <strong>di</strong> partenza riguarda una crisi del rapporto<br />

tra cacciatori e prede: la mancanza <strong>di</strong> selvaggina e il rischio della penuria<br />

<strong>di</strong> cibo. L’acquisizione dell’oggetto sacro consiste nell’instaurazione<br />

<strong>di</strong> una nuova relazione con le potenze spirituali che governano la riproduzione<br />

e la moltiplicazione <strong>degli</strong> animali. Nel caso dei Lakota sono gli<br />

animali stessi, il ‘popolo dei Bisonti’ che invia un messaggero per alleviare<br />

la situazione <strong>di</strong>sperata dell’umanità. Bisogna tenere in considerazione<br />

un aspetto molto rilevante: nella visione del mondo dei popoli<br />

amerin<strong>di</strong>ani gli animali non costituiscono una categoria <strong>di</strong> esseri nettamente<br />

<strong>di</strong>stinti e separati dall’umanità. Non solo nei tempi delle origini<br />

uomini e animali erano praticamente in<strong>di</strong>stinguibili, in quanto gli esseri<br />

primor<strong>di</strong>ali mostravano caratteristiche che mescolavano elementi<br />

umani ed elementi propri alle <strong>di</strong>verse specie animali, ma anche nel presente,<br />

uomini e animali si <strong>di</strong>fferenziavano soltanto per una particolare<br />

modalità <strong>di</strong> osservare e interpretare il mondo. Quando cacciavano i bisonti<br />

o i caribù, gli uomini osservavano gli animali che cercavano <strong>di</strong><br />

fuggire, venivano colpiti e cadevano a terra.<br />

«Ma dal punto <strong>di</strong> vista dei caribù si vedevano gli animali come persone,<br />

che vivevano in gruppi familiari e che cacciavano alla stessa maniera <strong>degli</strong><br />

umani. Quando uno dei loro membri era inseguito da cacciatori umani, il<br />

giovane [trasformato in animale] vedeva una persona vestita con un abito<br />

bianco che fuggiva, cercando scampo […] Invece <strong>di</strong> una persona che fuggiva,<br />

i cacciatori umani vedevano un caribù, e invece <strong>di</strong> un mantello bianco<br />

abbandonato, i cacciatori vedevano la carcassa <strong>di</strong> un animale ucciso» 15 .<br />

14 G. A. DORSEY, Legend of the Teton Sioux Me<strong>di</strong>cine Pipe, Journal of Ameri -<br />

can Folk-Lore 19 (1906) n.75; F. DENSMORE, Teton Sioux Music, Bureau of<br />

American Ethnology Bulletin 61 (1918) (rist. Lincoln 1992, 68]; SMITH, A Short<br />

History cit., 1-4. La versione probabilmente più celebre è quella riportata da<br />

Black Elk in J. E. BROWN, The <strong>Sacre</strong>d Pipe: Black Elk’s Account of the Seven Rites<br />

of the Oglala Sioux, Norman 1953, 3-9.<br />

15 H. L. HARROD, The Animals Came Dancing: Native American <strong>Sacre</strong>d<br />

Ecology and Animal Kinship, Tucson 2000, 73-74; il riferimento è alle tra<strong>di</strong>zioni<br />

dei Cree riportate da A. TANNER, Bringing Home Animals: Religious Ideology and<br />

Mode of Production of the Mistassini Cree Hunters, London 1979, 136-137.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

Questa caratteristica del pensiero in<strong>di</strong>geno delle Americhe, che si<br />

trova <strong>di</strong>ffusa in tutto il continente, è stata definita dall’antropologo<br />

brasiliano Eduardo Viveiros de Castro ‘prospettivismo’ 16 . Secondo tale<br />

prospettiva gli umani e gli animali si <strong>di</strong>fferenziano soprattutto per il<br />

fatto <strong>di</strong> essere ‘rivestiti’ da un corpo <strong>di</strong>verso, ma con<strong>di</strong>vidono una comune<br />

interiorità, che viene descritta come sostanzialmente simile alla<br />

forma umana. Gli animali quin<strong>di</strong> sono, come gli uomini, dotati <strong>di</strong> volontà,<br />

intenzionalità, decisionalità e potere, spesso in misura anche superiore<br />

a quella <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>spongono gli uomini. La caccia quin<strong>di</strong> non è<br />

tanto il risultato della capacità o delle abilità dell’uomo che sa imporre<br />

la propria forza o la propria astuzia sulla preda, ma <strong>di</strong>pende dalla volontà<br />

dell’animale <strong>di</strong> lasciarsi uccidere a beneficio <strong>degli</strong> uomini. Se gli<br />

animali non fossero <strong>di</strong>sposti benevolmente nei confronti <strong>degli</strong> umani la<br />

sopravvivenza <strong>di</strong> questi ultimi sarebbe messa in serio pericolo. È esattamente<br />

questo lo scenario con cui si aprono i racconti <strong>di</strong> cui abbiamo<br />

parlato. Gli uomini soffrono la fame, gli animali sono introvabili, la fame<br />

attanaglia il villaggio. La soluzione giunge come un atto gratuito <strong>di</strong><br />

generosità nei confronti del genere umano: una chiamata da parte delle<br />

potenze superiori, come nel caso della storia <strong>di</strong> Corna Erette, oppure<br />

l’invio <strong>di</strong> un messaggero da parte del mondo animale.<br />

Un altro elemento importante che compare in entrambe le tra<strong>di</strong>zioni<br />

riguarda il ruolo svolto dalla donna come interme<strong>di</strong>atrice con il<br />

mondo non-umano. Nel caso dei Lakota il bisonte bianco si trasforma<br />

in una giovane donna per consegnare la Pipa Sacra, mentre nel caso<br />

dell’eroe dei Sutaio è necessario che questi si faccia accompagnare da<br />

una donna nel suo viaggio verso l’ignoto. Anche in questo secondo racconto<br />

l’esito finale sarà il ripopolamento della terra da parte dei bisonti,<br />

che emergono dalla caverna sul fianco della montagna. Il bisonte è<br />

in effetti strettamente legato alle qualità femminili e al mondo della<br />

donna. Gli animali sono associati alla terra, alla riproduzione, alla fertilità<br />

e vengono quin<strong>di</strong> posti in relazione con il ruolo della donna, alla<br />

quale spetta il compito <strong>di</strong> assicurare la continuità del gruppo grazie alla<br />

sua capacità generativa 17 . La donna <strong>di</strong>viene pertanto un elemento essenziale<br />

<strong>di</strong> interme<strong>di</strong>azione tra il mondo umano e il mondo animale, il<br />

16 E. VIVEIROS DE CASTRO, Cosmological Deixis and Amerin<strong>di</strong>an Perspectivism,<br />

Journal of the Royal Anthropological Institute 4 (1998) n.3, 469-488.<br />

17 E. COMBA, Il cerchio della vita: uomini e animali nell’universo simbolico <strong>degli</strong><br />

In<strong>di</strong>ani delle Pianure, <strong>Torino</strong> 1999, 176.<br />

47


48<br />

Enrico Comba<br />

canale attraverso cui può fluire la forza vitale, che determina al tempo<br />

stesso la moltiplicazione <strong>degli</strong> animali e la riproduzione <strong>degli</strong> esseri<br />

umani. La donna scelta da Corna Erette è la moglie del capo villaggio,<br />

quin<strong>di</strong> la rappresentante dell’intero gruppo nei confronti del mondo<br />

animale, così come la Donna Vitello <strong>di</strong> Bisonte Bianco (Ptehincalasanwin)<br />

rappresenta tutto il popolo dei bisonti nei confronti <strong>degli</strong> umani.<br />

Il ruolo della donna come me<strong>di</strong>atrice tra i mon<strong>di</strong> viene riproposto in<br />

vario modo: nei <strong>di</strong>versi racconti in cui un umano sposa una donna-bisonte<br />

(oppure nella versione in cui una donna umana viene rapita da<br />

un marito-bisonte) e nelle cerimonie in cui era previsto un rapporto<br />

sessuale tra la donna e un anziano, che rivestiva il ruolo del bisonte 18 .<br />

L’origine della Pipa Piatta <strong>degli</strong> Arapaho ci conduce in un’epoca ancora<br />

più remota: al tempo della creazione del mondo. Sulle acque primor<strong>di</strong>ali<br />

galleggia un oggetto, che è al tempo stesso una persona, si<br />

tratta della Pipa Sacra (se’ičóo). Secondo altre versioni è un uomo che<br />

regge in mano una pipa. In ogni caso questo essere è solo e sta <strong>di</strong>giunando,<br />

implorando aiuto e benevolenza, che gli verrà concessa dal<br />

Creatore (heisonoonin). «Nella mitologia <strong>degli</strong> Arapaho la creazione<br />

della terra, l’origine della cultura e l’acquisizione delle cerimonie avvengono<br />

tutte come risultato del <strong>di</strong>giuno, <strong>di</strong> una con<strong>di</strong>zione che desta<br />

pietà» 19 . Questa con<strong>di</strong>zione è quella che viene ricercata da ogni in<strong>di</strong>viduo<br />

che desideri ottenere un aiuto, un beneficio da parte <strong>di</strong> una potenza<br />

spirituale: costui (o costei) deve allontanarsi dall’abitato e dagli altri<br />

esseri umani, isolarsi in qualche luogo adatto, astenersi da cibo e acqua<br />

restando in attesa <strong>di</strong> una comunicazione da parte del mondo invisibile.<br />

Si tratta <strong>di</strong> sollecitare il soccorso e la benevolenza delle potenze spirituali<br />

mostrando la propria con<strong>di</strong>zione miserevole e <strong>di</strong>sperata. La situazione<br />

<strong>di</strong> estremo bisogno tratteggiata all’inizio <strong>degli</strong> altri racconti che<br />

abbiamo esaminato conduce allo stesso risultato: la ricerca <strong>di</strong> un intervento<br />

da parte delle forze spirituali che hanno a cuore la sopravvivenza<br />

della specie umana. Così, per gli Arapaho, la Pipa Piatta si trova al centro<br />

delle pratiche cerimoniali che hanno lo scopo <strong>di</strong> garantire la continuità<br />

della vita e la sopravvivenza <strong>degli</strong> esseri umani sulla terra. La conoscenza<br />

necessaria per la celebrazione delle cerimonie concerne le mo-<br />

18 A. B. KEHOE, The Function of Ceremonial Sexual Intercourse Among the<br />

Northern Plains In<strong>di</strong>ans, Plains Anthropologist 15 (1970) n. 48, 99-103.<br />

19 J. D. ANDERSON, The Four Hills of Life: Northern Arapaho Knowledge and<br />

Life Movement, Lincoln 2001, 51.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

dalità con cui queste devono essere eseguite e la determinazione del<br />

tempo esatto in cui le azioni sacre si devono svolgere 20 .<br />

Questo ci permette <strong>di</strong> collegarci a un personaggio che abbiamo percepito<br />

solo rapidamente nel racconto relativo all’origine del Copricapo<br />

Sacro: si tratta dello Spirito del Tuono (nonoma), che compare nella<br />

montagna sacra accanto allo stesso Creatore. Il racconto lakota non fa<br />

menzione del Tuono, anche se la nuvola che circonda e uccide il guerriero<br />

dalle cattive intenzioni potrebbe essere una velata manifestazione<br />

<strong>di</strong> questo essere. In ogni caso, il Tuono e il Bisonte erano strettamente<br />

connessi l’uno all’altro: il rombo <strong>di</strong> una mandria <strong>di</strong> bisonti ricordava<br />

l’avvicinarsi del tuono. Inoltre, le pietre sacre, usate nelle cerimonie destinate<br />

ad attirare i bisonti, erano considerate provenienti dal cielo e cadute<br />

sulla terra ad opera del Tuono 21 . Ma soprattutto il tuono era un<br />

preciso in<strong>di</strong>catore stagionale: segnalava la fine dell’inverno e il sopraggiungere<br />

dell’estate. In tutta l’area delle Pianure i primi tuoni <strong>di</strong> primavera<br />

costituivano l’occasione per la celebrazione <strong>di</strong> cerimonie che erano<br />

incentrate sull’impiego <strong>di</strong> pipe sacre. Tra i Gros Ventre una delle due<br />

Pipe <strong>Sacre</strong> considerate patrimonio comune della tribù, la Pipa Piumata<br />

(ana:thanitč) era considerata un dono dello Spirito del Tuono (bha’a),<br />

si pensava fosse strettamente associata al cielo e alle nuvole tempestose<br />

e poteva essere impiegata cerimonialmente soltanto nel periodo in cui<br />

erano presenti i tuoni, ossia dalla primavera all’inizio dell’autunno 22 .<br />

I tuoni segnavano infatti l’inizio della stagione cerimoniale, il periodo<br />

in cui le bande <strong>di</strong> cacciatori noma<strong>di</strong> cominciavano a muoversi dalle<br />

se<strong>di</strong> invernali per riunirsi in gruppi più numerosi e de<strong>di</strong>carsi alla caccia<br />

collettiva al bisonte. L’annuncio delle prime piogge significava il generale<br />

rifiorire e rigenerarsi <strong>di</strong> tutte le specie vegetali e animali dal torpore<br />

dell’inverno, mentre le giornate si allungavano e il sole sembrava riprendere<br />

forza e vigore. Le cerimonie collettive della stagione estiva<br />

sembravano accompagnare il rinascere della vegetazione e in<strong>di</strong>cavano<br />

l’esigenza <strong>di</strong> una parallela rigenerazione della comunità umana, rappresentata<br />

dalla celebrazione <strong>di</strong> rituali che comprendevano la ripetizio-<br />

20 Ivi, 245-246.<br />

21 F. DENSMORE, Teton Sioux Music cit., 208-210.<br />

22 J. M. COOPER, The Gros Ventres of Montana: Part II. Religion and Ritual,<br />

Washington, D.C. 1957, 140-148. Una dettagliata descrizione dell’origine della<br />

Pipa Piumata è riportata in G. HORSE CAPTURE (ed.), The Seven Visions of Bull<br />

Lodge, As Told by His Daughter, Garter Snake, Lincoln-London 1980, 103-122.<br />

49


50<br />

Enrico Comba<br />

ne dell’atto cosmogonico, l’instaurazione <strong>di</strong> un nuovo or<strong>di</strong>ne dell’universo<br />

e il rinnovamento delle relazioni che univano gli esseri umani agli<br />

altri abitanti della terra.<br />

3. Persone e cose.<br />

In occasione dell’apertura dell’involto contente il Sacro Copricapo<br />

<strong>degli</strong> Cheyenne, il custode dell’oggetto sacro, Henry Little Coyote, si rivolse<br />

con deferenza a quest’ultimo chiamandolo «mio Dio» e invocandone<br />

la benevolenza e l’intercessione a nome <strong>di</strong> tutta la comunità 23 . Tale<br />

atteggiamento, che forse è stato influenzato dal formulario <strong>di</strong> preghiere<br />

introdotto dal Cristianesimo, non è però affatto eccezionale.<br />

Questi <strong>oggetti</strong> sacri sono infatti generalmente considerati come qualcosa<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>verso da semplici ‘<strong>oggetti</strong>’: sono in effetti trattati e rappresentati<br />

come se si trattasse a tutti gli effetti <strong>di</strong> ‘persone’. Robert Lowie ha osservato<br />

la <strong>di</strong>ffusa presenza, tra i Crow del Montana, nei primi anni del<br />

Novecento, <strong>di</strong> pietre sacre (baco’ritsi’tse), trovate accidentalmente o in<br />

seguito all’in<strong>di</strong>cazione ricevuta durante una visione: queste pietre hanno<br />

spesso una forma particolare, che ricorda un animale o una parte<br />

del suo corpo e a volte sono costituite da ammoniti o altri fossili 24 . Esse<br />

assicuravano la fortuna al loro possessore, soprattutto in guerra e nel<br />

procacciare la selvaggina. Alcune poi erano in grado <strong>di</strong> crescere nel<br />

corso del tempo, aumentando la loro <strong>di</strong>mensione in maniera vistosa e<br />

erano considerate capaci <strong>di</strong> riprodursi, come <strong>degli</strong> esseri viventi. Ma,<br />

aggiunge lo stesso autore, «non solo le baco’ritsi’tse erano concepite<br />

come organismi capaci <strong>di</strong> crescere e moltiplicarsi, ma come esseri personali<br />

dotati <strong>di</strong> potere, che si rivelano nel corso <strong>di</strong> esperienze equivalenti<br />

a una visione» 25 .<br />

Gli stessi elementi, ossia il potere proveniente dal mondo spirituale e<br />

la manifestazione attraverso una visione, costituivano i criteri attraverso<br />

i quali i Blackfoot attribuivano la categoria <strong>di</strong> ‘persone’ a <strong>oggetti</strong><br />

non-umani, animati e inanimati. Secondo la visione dell’universo <strong>di</strong><br />

questo popolo, infatti, esiste una forza <strong>di</strong>ffusa (natoji, che significa ‘po-<br />

23 P. J. POWELL, Issiwun: <strong>Sacre</strong>d Buffalo cit., 39-40.<br />

24 R. H. LOWIE, The Crow In<strong>di</strong>ans, New York 1935 (rist. Lincoln-London<br />

1983, 261).<br />

25 Ivi, 261-263.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

tere solare’) che si manifesta in maniera principale nell’astro <strong>di</strong>urno,<br />

ma che pervade l’intero cosmo. Questa forza può entrare in comunicazione<br />

con gli esseri umani attraverso un’esperienza visionaria in cui<br />

compare un qualsiasi oggetto, animato o inanimato, come manifestazione<br />

della forza solare. Nell’atto <strong>di</strong> comunicare con l’uomo, l’oggetto<br />

<strong>di</strong>viene in tal modo ‘come una persona’. «Non si trova alcuna chiara<br />

<strong>di</strong>stinzione circa il fatto se sia il potere a mascherarsi da oggetto oppure<br />

se sia l’oggetto stesso che si maschera da persona» 26 . Lowie sembra un<br />

po’ imbarazzato dal fatto che i Crow «personificano <strong>oggetti</strong> inanimati e<br />

li investono <strong>di</strong> potere sovrannaturale». Non si tratta, ci spiega, <strong>di</strong> una<br />

sorta <strong>di</strong> panteismo, poiché non tutti gli <strong>oggetti</strong> vengono considerati in<br />

questo modo. Piuttosto essi ritengono che «potenzialmente qualsiasi<br />

oggetto possa essere ricondotto entro la sfera del misteriosamente potente»<br />

27 . Questa tendenza alla personificazione <strong>di</strong> cose inanimate, ritenute<br />

impregnate <strong>di</strong> una sorta <strong>di</strong> misterioso potere mistico, viene interpretata,<br />

da Lowie, come la creazione <strong>di</strong> ‘dei occasionali’ (nonce-gods),<br />

creati da un momentaneo impulso o da un’esigenza contingente 28 .<br />

Che le cose fossero un po’ più complesse è stato <strong>di</strong>mostrato brillantemente<br />

dalle ricerche <strong>di</strong> Irving Hallowell tra gli Ojibwa dei Gran<strong>di</strong> Laghi.<br />

Egli ha osservato che in numerose culture umane la categoria <strong>di</strong><br />

‘persona’ costituisce una delle principali nozioni intorno alle quali si<br />

costruisce una particolare visione del mondo e della realtà. Tale categoria<br />

però non è affatto limitata ai soli esseri umani, nemmeno nella nostra<br />

società, dove le caratteristiche <strong>di</strong> ‘persona’ sono attribuite anche alla<br />

<strong>di</strong>vinità. Nel caso <strong>degli</strong> Ojibwa, queste <strong>di</strong>fficoltà possono essere illustrate<br />

dall’analisi della parola ‘nonno’:<br />

«Questa non viene applicata solo alle persone umane ma anche agli esseri<br />

spirituali che sono persone <strong>di</strong> una categoria <strong>di</strong>versa dagli umani. Infatti,<br />

quando viene impiegato il plurale collettivo “i nostri nonni”, il riferimento<br />

è primariamente alle persone <strong>di</strong> questo secondo tipo. Così, se stu<strong>di</strong>amo<br />

l’organizzazione sociale <strong>degli</strong> Ojibwa nella solita maniera, teniamo conto<br />

<strong>di</strong> un solo genere <strong>di</strong> “nonni”. Se stu<strong>di</strong>amo la loro religione scopriamo che<br />

vi sono altri “nonni”. Ma se adottiamo una prospettiva che tenga conto<br />

della loro visione del mondo non appare più alcuna <strong>di</strong>cotomia. In questa<br />

26 C. WISSLER, Ceremonial Bundles of the Blackfoot In<strong>di</strong>ans, Anthropological<br />

Papers of the American Museum of Natural History 11, part II (1912) 103.<br />

27 R. H. LOWIE, The Crow In<strong>di</strong>ans cit., 250.<br />

28 Ivi, 251.<br />

51


52<br />

Enrico Comba<br />

prospettiva “nonno” è un termine che si può applicare a determinati “<strong>oggetti</strong><br />

persone”, senza alcuna <strong>di</strong>stinzione tra persone umane e quelle che appartengono<br />

alla classe delle persone <strong>di</strong>verse da quelle umane» 29 .<br />

L’universo dei popoli in<strong>di</strong>geni delle Americhe era quin<strong>di</strong> composto<br />

da molteplici entità dotate <strong>di</strong> caratteristiche personali, che non si identificavano<br />

con l’insieme dei soli esseri umani. Come è stato descritto in<br />

maniera semplice e <strong>di</strong>retta da Luther Stan<strong>di</strong>ng Bear, uno dei primi giovani<br />

Lakota condotti a stu<strong>di</strong>are alla Scuola In<strong>di</strong>ana <strong>di</strong> Carlisle: «Ogni<br />

cosa possedeva una personalità, e <strong>di</strong>fferiva da noi solo per la forma. La<br />

conoscenza era inerente in ogni cosa. Il mondo era una biblioteca e i<br />

suoi libri erano le pietre, le foglie, l’erba, il ruscello, gli uccelli e gli animali<br />

che con<strong>di</strong>videvano con noi e come noi la forza e la bene<strong>di</strong>zione<br />

della terra» 30 . Questo universo è reso vivo, <strong>di</strong>namico, vitale da una sorta<br />

<strong>di</strong> energia, <strong>di</strong> potere che produce il movimento e la vita <strong>di</strong> tutti gli esseri<br />

che lo compongono, un potere che proviene in ultima analisi dalla<br />

fonte principale e originaria da cui il cosmo stesso ha avuto origine, il<br />

Creatore. Per i Lakota questo potere è in<strong>di</strong>cato dal termine wakan, per<br />

gli Cheyenne dal concetto <strong>di</strong> exhastoz (‘energia cosmica’), per i Crow<br />

dalla nozione <strong>di</strong> maxpe. «È il maxpe che rende tutte le cose e le persone<br />

<strong>di</strong>fferenti a seconda delle loro capacità e natura» 31 . Il cosmo è costituito<br />

quin<strong>di</strong> da una rete <strong>di</strong> relazioni che uniscono fra <strong>di</strong> loro questi <strong>di</strong>versi<br />

esseri, il potere costituisce l’elemento non solo <strong>di</strong> vitalità e <strong>di</strong> trasformazione,<br />

ma rappresenta l’intreccio delle relazioni e dei legami che si<br />

stabiliscono tra gli esseri umani e gli altri abitanti dell’universo. «La cosa<br />

importante è che una ‘persona’ può essere in qualsiasi cosa –il sole,<br />

le formiche, gli orsi, i bisonti, le pietre, i torrenti e gli alberi. Il mondo è<br />

quin<strong>di</strong> costituito da ‘persone’, spirituali e umane, che possono parlare,<br />

influenzare, cooperare le une con le altre e scambiarsi dei doni, in un<br />

reciproco scambio e con profitto per entrambi» 32 .<br />

Gli <strong>oggetti</strong> e le cose inanimate, come le piante e gli animali, acquisiscono<br />

la natura <strong>di</strong> ‘persone <strong>di</strong>verse da quelle umane’ nel momento in<br />

29 A. I. HALLOWELL, Ojibwa Ontology, Behavior, and World View, in Contribu -<br />

tions to Anthropology: Selected Papers of A.I. Hallowell, Chicago-London 1976,<br />

359-360.<br />

30 L. STANDING BEAR, Land of the Spotted Eagle, Boston 1933 (rist. Lincoln<br />

1978, 194].<br />

31 F. W. VOGET, The Shoshoni-Crow Sun Dance, Norman 1984, 294.<br />

32 Ivi, 294.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

cui si pongono in relazione con gli esseri umani. Tali relazioni implicano<br />

la conoscenza del corretto modo <strong>di</strong> agire e <strong>di</strong> comportarsi nei confronti<br />

<strong>di</strong> queste ‘persone’. Gli <strong>oggetti</strong> che sono investiti <strong>di</strong> ‘potere’ possiedono<br />

una sorta <strong>di</strong> energia vitale, <strong>di</strong> autonomia decisionale, e devono<br />

essere maneggiati e interpellati con la massima cautela e attenzione. Il<br />

beneficio o il pericolo che può venire da queste ‘persone-oggetto’ <strong>di</strong>pende<br />

dalla conoscenza che gli uomini hanno circa il loro corretto impiego<br />

e il modo in cui è possibile stabilire un’adeguata comunicazione<br />

con essi. «Fino a quando ci si prendeva cura dell’oggetto in modo adeguato,<br />

lo spirito continuava a risiedere in esso, continuando a fornire<br />

conoscenza e vitalità». Ma quando una persona che era in possesso <strong>di</strong><br />

un oggetto sacro moriva senza trasmettere le istruzioni per la cura dell’oggetto<br />

a qualcun altro, questo <strong>di</strong>veniva fonte <strong>di</strong> pericolo e <strong>di</strong> inquietu<strong>di</strong>ne<br />

e spesso veniva seppellito con il suo proprietario 33 .<br />

Gli <strong>oggetti</strong> sacri come il Copricapo Sacro o come la Pipa del Vitello<br />

<strong>di</strong> Bisonte acquisiscono la loro straor<strong>di</strong>naria importanza dal fatto <strong>di</strong><br />

incarnare la relazione non <strong>di</strong> un singolo in<strong>di</strong>viduo con i poteri invisibili,<br />

ma dell’intera comunità con le entità che popolano l’universo e che<br />

garantiscono la sopravvivenza e lo sviluppo della specie umana. Essi<br />

costituiscono un canale <strong>di</strong> collegamento privilegiato che unisce il mondo<br />

visibile al mondo invisibile, la società umana al mondo <strong>degli</strong> animali,<br />

il presente al passato, il mondo attuale al momento della creazione.<br />

Il corretto modo <strong>di</strong> interagire e <strong>di</strong> maneggiare questi <strong>oggetti</strong> sacri costituisce<br />

il nucleo essenziale della tra<strong>di</strong>zione culturale della comunità e il<br />

sapere necessario per mettere in pratica queste norme si identifica con<br />

l’intero patrimonio culturale. Se l’universo è visto come un universo <strong>di</strong><br />

interazioni e <strong>di</strong> legami, e l’estensione del concetto <strong>di</strong> persona all’ambito<br />

non-umano ha la funzione <strong>di</strong> sottolineare la fondamentale inter<strong>di</strong>pendenza<br />

<strong>di</strong> tutti gli esseri che compongono l’universo 34 , allora questi <strong>oggetti</strong><br />

<strong>di</strong> importanza cruciale per la comunità <strong>di</strong>vengono l’incarnazione<br />

<strong>di</strong> questo nodo <strong>di</strong> relazioni, il fulcro a partire dal quale si <strong>di</strong>partono<br />

una quantità <strong>di</strong> connessioni che uniscono gli esseri umani al resto dell’universo.<br />

33 J. D. ANDERSON, The Four Hills of Life cit., 269.<br />

34 W. K. POWERS, <strong>Sacre</strong>d Language: the Nature of Supernatural Discourse in<br />

Lakota, Norman 1986, 152.<br />

53


54<br />

Enrico Comba<br />

4. Quel che resta quando le cose cambiano.<br />

Questi <strong>oggetti</strong> che provengono da un’altra <strong>di</strong>mensione, sembrano incapsulare<br />

un frammento <strong>di</strong> eternità. Non prodotti dalla mano <strong>di</strong> un artefice<br />

umano, essi sembrano destinati a sfuggire alle leggi che governano<br />

le cose materiali appartenenti a questo mondo. Tuttavia, nel momento<br />

in cui entrano nel mondo umano, essi <strong>di</strong>vengono elementi costitutivi<br />

della vita sociale, sono oggetto <strong>di</strong> cura e <strong>di</strong> precauzioni rituali e<br />

sono assoggettati al logoramento e alla <strong>di</strong>ssoluzione. La storia pittografica<br />

<strong>di</strong>pinta da Battiste Good durante la seconda metà dell’Ottocento<br />

e raccolta nella riserva <strong>di</strong> Rosebud, mostra l’evento dell’arrivo della<br />

Donna Bisonte Bianco tra i Lakota con il dono della Pipa Sacra come<br />

punto iniziale della vicenda storica, che viene collocato cronologicamente<br />

all’anno 901 d.C.: il mito e la storia si intrecciano e si confondono<br />

35 . Questo apparente miscuglio tra storia e mito non dovrebbe sorprendere<br />

troppo. Infatti, come ha mostrato Arnold Krupat, i racconti<br />

che si riferiscono a un tempo remoto e a personaggi fantastici (che noi<br />

classifichiamo come ‘miti’ e che sono in<strong>di</strong>cati dai Lakota con il termine<br />

ohun’kaka) e le storie riferibili a tempi più recenti e a protagonisti reali<br />

(resoconti che noi in<strong>di</strong>chiamo come ‘storia’), vengono considerati come<br />

ugualmente veri. La loro verità non risiede tanto nella corrispondenza<br />

a un riscontro fattuale, quanto nella corrispondenza a quanto viene<br />

considerato culturalmente e pubblicamente come adeguata conoscenza<br />

del passato 36 .<br />

L’inserimento nella storia, tuttavia, porta con sé inevitabilmente l’effetto<br />

dello sgretolamento e del cambiamento: nessuna cosa può rimanere<br />

sempre uguale a se stessa, una volta che sia trascinata nel vortice<br />

del tempo che scorre. Anche la Pipa Sacra, infatti, ha subito i trascorsi<br />

delle vicende storiche: vi sono <strong>di</strong>saccor<strong>di</strong> e controversie circa il suo<br />

aspetto originario. Alcuni, come Black Elk, ritenevano che il fornello<br />

della Pipa Sacra portasse scolpita l’immagine <strong>di</strong> un bisonte 37 , mentre<br />

35 G. MALLERY, Picture-Writing of the American In<strong>di</strong>ans, in 10 th Annual Re port<br />

of the Bureau of American Ethnology 1888-1889 (1893) 290.<br />

36 A. KRUPAT, Red Matters: Native American <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es, Philadelphia 2002, 50. Il<br />

termine Lakota ohun’kaka viene descritto come un racconto ‘non creduto vero’ da<br />

E. DELORIA, Dakota Texts (Publications of the American Ethnological Society,<br />

vol. 14), New York 1932, IX-X.<br />

37 J. E. BROWN, The <strong>Sacre</strong>d Pipe cit., 6.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

sem bra che la pipa attualmente conservata nell’involto sacro non abbia<br />

alcuna scultura. Secondo alcuni Oglala, la pipa mostrata pubblicamente<br />

da Martha Bad Warrior nel 1934 non era la vera pipa, ma un sostituto,<br />

mentre l’oggetto originale rimase sempre custo<strong>di</strong>to nell’involto. Ma<br />

John Fire aggiunse che il fornello originario della pipa non era in pietra,<br />

come nelle pipe attuali, ma in osso <strong>di</strong> bisonte e che con il passar del<br />

tempo si deteriorò e dovette venir sostituito 38 .<br />

L’effetto travolgente <strong>degli</strong> acca<strong>di</strong>menti storici si fece sentire in modo<br />

particolarmente devastante per gli Cheyenne, il cui principale oggetto<br />

sacro, le <strong>Sacre</strong> Frecce (maahotse), consegnate al popolo dall’eroe culturale<br />

Dolce Me<strong>di</strong>cina e conservate come una reliquia che incarnava l’unità<br />

e la prosperità della comunità, vennero catturate dai nemici Pawnee<br />

nel 1830, durante una catastrofica spe<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> guerra 39 . Si trattò<br />

del «più grande <strong>di</strong>sastro che il Popolo ebbe a soffrire» 40 . Dopo <strong>di</strong>versi<br />

giorni <strong>di</strong> dubbi e <strong>di</strong> incertezze sul da farsi, il consiglio supremo della<br />

comunità, chiamato il Consiglio dei Quarantaquattro Capi, si riunì in<br />

lunghe ore <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione e alla fine fu deliberata la necessità <strong>di</strong> procedere<br />

alla creazione <strong>di</strong> nuove frecce. «Tutti insieme avevano deciso che si<br />

dovesse fare quattro nuove Frecce, poiché il Popolo non poteva continuare<br />

a vivere senza Maahótse. Essi non potevano esistere senza le <strong>Sacre</strong><br />

Frecce attraverso le quali Ma’heo’o [il Creatore] riversava la vita<br />

nelle loro esistenze e nel mondo» 41 . Questa decisione, se da un lato testimonia<br />

della grande importanza simbolica <strong>di</strong> cui l’oggetto sacro era<br />

investito, dall’altro mostra anche l’aspetto paradossale <strong>di</strong> tale scelta.<br />

Come si può sostituire un oggetto non prodotto dall’uomo, ma proveniente<br />

da un’altra <strong>di</strong>mensione, da un altro mondo, con qualcosa <strong>di</strong> ‘fatto’<br />

appositamente, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> esplicitamente artificiale? Il problema<br />

sembra che abbia scosso e arrovellato molti Cheyenne nel corso del<br />

tempo: anche se le nuove Frecce erano equivalenti a quelle antiche da<br />

un punto <strong>di</strong> vista simbolico e ideologico, tuttavia si percepiva che non<br />

38 J. L. SMITH, A Short History of the <strong>Sacre</strong>d Calf Pipe cit., 28. Si veda anche J.<br />

F. LAME DEER – R. ERDOES, Lame Deer Seeker of Visions: The Life of a Sioux<br />

Me<strong>di</strong>cine Man, New York 1972, 255-256.<br />

39 P. J. POWELL, People of the <strong>Sacre</strong>d Mountain cit., 3-10; G. A. DORSEY, How<br />

the Pawnee Captured the Cheyenne Me<strong>di</strong>cine Arrows, American Anthropologist 5<br />

(1903) n.4, 644-658.<br />

40 P. J. POWELL, People of the <strong>Sacre</strong>d Mountain cit., 10.<br />

41 Ivi, 11.<br />

55


56<br />

Enrico Comba<br />

erano più la stessa cosa, che qualcosa era cambiato in modo irrime<strong>di</strong>abile.<br />

Da quel momento, alcuni anziani cominciarono a pensare, iniziò<br />

un periodo <strong>di</strong> gravi sofferenze per gli Cheyenne, ma anche per i loro nemici,<br />

i Pawnee, le cui fortune, da quel momento in poi, avrebbero cominciato<br />

a declinare sempre più 42 .<br />

Anche il Copricapo Sacro (esevone), appartenente ai Sutaio, confluiti<br />

nella nazione Cheyenne, fu al centro <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> eventi drammatici<br />

e tumultuosi. Nel 1865 venne affidato temporaneamente in custo<strong>di</strong>a a<br />

un uomo chiamato Broken Dish, che lo avrebbe dovuto consegnare al<br />

figlio del custode precedente, Coal Bear. Egli però volle tenere con sé<br />

l’oggetto e, nottetempo, fuggì dall’accampamento rifugiandosi nel villaggio<br />

<strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> Lakota amici. L’involto con l’oggetto sacro venne<br />

recuperato grazie all’intervento delle società militari, ma qualcosa<br />

sembrava non andare per il verso giusto, si sentiva che una minaccia si<br />

addensava sulla comunità. Dopo qualche tempo il custode decise <strong>di</strong><br />

ispezionare l’involto del Sacro Copricapo e in questa circostanza scoprì<br />

con raccapriccio che al Copricapo mancava uno dei corni <strong>di</strong> bisonte<br />

che ne facevano da ornamento 43 . Anche in questo caso si doveva trovare<br />

una soluzione per affrontare le trasformazioni e il deterioramento<br />

che il tempo e le vicende umane producevano su <strong>oggetti</strong> che per loro<br />

natura avrebbero dovuto rimanere intatti e inalterati. Dal momento<br />

che, come sostiene padre Powell, «la profonda spiritualità <strong>degli</strong><br />

Cheyenne non manca <strong>di</strong> praticità» 44 , si decise <strong>di</strong> preparare un nuovo<br />

corno in sostituzione <strong>di</strong> quello mancante, per restituire integrità all’oggetto<br />

sacro. Tuttavia, l’evento aveva lasciato la sua traccia indelebile:<br />

una serie <strong>di</strong> catastrofi e <strong>di</strong> sfortune si sarebbe abbattuta sulla comunità<br />

e in particolare sui protagonisti <strong>di</strong> questa drammatica vicenda. «Quasi<br />

tutte le sciagure <strong>degli</strong> Cheyenne sono avvenute in seguito alla per<strong>di</strong>ta<br />

delle Frecce della Me<strong>di</strong>cina e alla <strong>di</strong>ssacrazione del Copricapo Sacro»<br />

45 .<br />

L’irreversibilità dei mutamenti viene espressa anche nel modo in cui<br />

gli eventi storici sono percepiti e interpretati dagli stessi protagonisti.<br />

Quando nel 1906, in Oklahoma, morì la moglie <strong>di</strong> Broken Dish, il re-<br />

42 Ivi, 15.<br />

43 P. J. POWELL, Issiwun: <strong>Sacre</strong>d Buffalo Hat cit., 32.<br />

44 Ivi, 32.<br />

45 G. B. GRINNELL, The Great Mysteries of the Cheyenne, American Anthro -<br />

pologist 12 (1910) n.4, 567.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

sponsabile delle vicende riguardanti il Copricapo Sacro, venne trovato<br />

il corno mancante, che la donna aveva fino ad allora indossato come<br />

amuleto. Il corno venne trasferito nuovamente in Montana, dove si trova<br />

il custode dell’oggetto sacro. Costui, che a quel tempo si chiamava<br />

Wounded Eye, si trovò <strong>di</strong> fronte a uno spinoso problema: si doveva<br />

rimpiazzare il corno originale al posto <strong>di</strong> quello che era stato sostituito?<br />

Cosa si doveva fare con il sostituto? Come procedere nella sostituzione?<br />

Per rispondere a queste domande venne organizzata una Cerimonia<br />

<strong>degli</strong> Spiriti, una sorta <strong>di</strong> seduta sciamanica, in cui si interpellavano<br />

<strong>di</strong>rettamente le potenze invisibili (maiyun). Costoro dettero il loro<br />

responso in maniera inequivocabile: il corno trovato sul corpo della<br />

donna poteva essere tranquillamente seppellito: il potere sacro se ne era<br />

allontanato e ormai questo era solo un involucro vuoto 46 . Una risposta<br />

simile venne ottenuta dagli Cheyenne quando il generale Hugh Scott si<br />

offrì <strong>di</strong> fungere da interme<strong>di</strong>ario per fare in modo che i Pawnee restituissero<br />

le Frecce originali catturate nel 1830: anche in questa circostanza<br />

i maiyun interpellati risposero che le Frecce possedute dai Pawnee<br />

erano ormai prive <strong>di</strong> potere. Le <strong>Sacre</strong> Frecce conservate nell’involto<br />

sacro <strong>degli</strong> Cheyenne, anche se sostituite con <strong>oggetti</strong> fabbricati appositamente,<br />

erano il vero maahotse 47 .<br />

L’oggetto sacro trae la sua forza e il suo significato dall’essere il tramite<br />

<strong>di</strong> una relazione, il veicolo attraverso il quale è possibile realizzare<br />

una comunicazione tra il mondo umano e il mondo invisibile. Il potere<br />

dell’oggetto si riferisce alla sua qualità <strong>di</strong> legame con il mondo delle<br />

potenze spirituali, più che alle caratteristiche materiali <strong>di</strong> cui è composto.<br />

Quando questo potere viene ufficialmente e pubblicamente trasferito<br />

su un altro oggetto, l’involucro precedente perde ogni interesse e<br />

ogni funzione simbolica. Il cambiamento tuttavia non annulla il passato,<br />

ma lascia <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> sé uno strascico <strong>di</strong> conseguenze e <strong>di</strong> trasformazioni<br />

irreversibili. Non si può risalire il flusso del tempo e ritornare alle<br />

con<strong>di</strong>zioni originarie: quello che si può fare è cercare <strong>di</strong> mantenere un<br />

legame con il passato, per progettare il futuro della comunità.<br />

Il caso dei Gros Ventre del Montana ci consente <strong>di</strong> precisare ulteriormente<br />

non solo il ruolo dei mutamenti e dell’irreversibilità <strong>degli</strong> acca<strong>di</strong>menti<br />

storici, ma anche le <strong>di</strong>verse e conflittuali interpretazioni che,<br />

in una singola comunità, possono venir elaborate per spiegare e attri-<br />

46 P. J. POWELL, Issiwun: <strong>Sacre</strong>d Buffalo Hat cit., 33.<br />

47 Ivi, p. 33.<br />

57


58<br />

Enrico Comba<br />

buire senso agli avvenimenti. Nel corso <strong>degli</strong> ultimi decenni dell’Ottocento,<br />

i Gros Ventre, abbandonarono gradualmente la pratica della religione<br />

tra<strong>di</strong>zionale, incentrata sull’impiego cerimoniale <strong>di</strong> due pipe sacre,<br />

la Pipa Piumata e la Pipa Piatta e sulla Danza del Sole, per aderire<br />

alla religione cattolica, pur mantenendo un particolare rispetto e venerazione<br />

per gli <strong>oggetti</strong> sacri del passato. Per gli anziani della comunità<br />

all’inizio del Novecento le pipe sacre continuavano ad essere importanti<br />

strumenti per pregare e connettersi con il Grande Mistero (l’Essere<br />

Supremo), tuttavia, per le giovani generazioni <strong>di</strong> allora, esse rappresentavano<br />

un potere spirituale che proveniva da un passato ormai trascorso<br />

definitivamente, ma che al presente era troppo grande per essere manipolato<br />

con sicurezza 48 . Negli anni Ottanta e Novanta, invece, gli anziani<br />

continuano a ritenere che i rituali legati alle pipe sacre richiedano<br />

una specifica conoscenza, che ormai nessuno più possiede, e che pertanto<br />

debbano essere lasciate in pace, per evitare che una loro non corretta<br />

manipolazione possa condurre a pericolosi inconvenienti. I giovani,<br />

influenzati dai movimenti <strong>di</strong> rinascita culturale e <strong>di</strong> riscoperta delle<br />

tra<strong>di</strong>zioni, tendono invece a richiedere il ritorno alla pratica della religione<br />

tra<strong>di</strong>zionale 49 .<br />

Quando, nel dopoguerra, il custode della Pipa Piumata, Iron Man,<br />

aprì l’involto in cui era conservata, si accorse con sgomento che la pipa<br />

era sparita. Fred Gone, uno <strong>degli</strong> anziani della comunità, ha spiegato<br />

in questo modo l’incre<strong>di</strong>bile evento:<br />

«La nostra gente, gli In<strong>di</strong>ani Gros Ventre, in chiara coscienza, ritengono<br />

che sia stata restituita al luogo da cui era venuta, poiché il suo scopo qui,<br />

nella tribù, aveva fatto il suo tempo. Perché se fosse stata rubata e qualcuno<br />

che non era stato adeguatamente preparato circa le norme e le regole che<br />

riguardano questa Pipa si fosse intromesso, questo sarebbe sicuramente venuto<br />

alla luce» 50 .<br />

48 L. FOWLER, Shared Symbols, Contested Meanings: Gros Ventre Culture and<br />

History 1778-1984, Ithaca-London 1987, 134-135.<br />

49 Ivi, p. 151-154.<br />

50 M. C. HARTMANN, The Significance of the Pipe To the Gros Ventres of<br />

Montana, <strong>di</strong>ss., Bozeman 1955, 69. Il racconto della scoperta della scomparsa<br />

della Pipa è riportato da J. P. GONE, ‘We Where Through as Keepers of It’: The<br />

‘Missing Pipe Narrative’ and Gros Ventre Cultural Identity, Ethos 27 (1999) n.4,<br />

415-440.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

Il nipote <strong>di</strong> Fred Gone ha ottenuto da sua nonna una descrizione<br />

della vicenda. Nelle parole dell’anziano Gros Ventre, l’oggetto era stato<br />

donato al gruppo dall’Essere Supremo, “in un modo sovrannaturale”,<br />

affinché potesse proteggere e guidare la comunità. «Perché», si chiede<br />

Fred, «non poteva riprenderselo, se pensava che non ci servisse più?».<br />

L’idea <strong>di</strong> un intervento <strong>di</strong>retto del Creatore sembra avvalorare la concezione,<br />

con<strong>di</strong>visa da molti anziani della comunità, <strong>di</strong> una ra<strong>di</strong>cale <strong>di</strong>scontinuità<br />

storica, in cui la pratica religiosa cattolica si è sostituita in<br />

maniera irreversibile alla religione tra<strong>di</strong>zionale 51 . Come si è visto, questa<br />

interpretazione non è universalmente con<strong>di</strong>visa, soprattutto dalle<br />

generazioni più giovani.<br />

In ogni caso il passato non può essere ripristinato, i segni, le ferite<br />

che la storia ha prodotto rimangono come traccia indelebile dell’inesorabile<br />

passaggio del tempo e <strong>degli</strong> inevitabili mutamenti che questo<br />

comporta. Questo non significa però che il passato debba essere <strong>di</strong>menticato:<br />

la forza per affrontare le incognite e le sfide del presente può essere<br />

trovata attraverso un richiamo al passato, cercando <strong>di</strong> ricucire i legami<br />

che attraversano le generazioni e che consentono a un gruppo<br />

umano <strong>di</strong> conservare il senso della propria storia e <strong>di</strong> costruire il proprio<br />

progetto per l’avvenire. Il legame che i popoli delle Gran<strong>di</strong> Pianure<br />

ancora testimoniano nei confronti <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> sacri della propria tra<strong>di</strong>zione<br />

ci ricorda come il potente valore simbolico <strong>di</strong> tali <strong>oggetti</strong> non si<br />

sia ancora esaurito e possa continuare a persistere, in nuove forme e significati,<br />

nel Ventunesimo Secolo.<br />

5. Osservazioni conclusive.<br />

Gli <strong>oggetti</strong> sacri <strong>degli</strong> In<strong>di</strong>ani delle Pianure si presentano come una<br />

sorta <strong>di</strong> paradosso: sono costituiti da <strong>oggetti</strong> manufatti: copricapo, ornamenti,<br />

pipe, armi, eppure sono considerati non prodotti dalla mano<br />

dell’uomo ma provenienti da un’altra <strong>di</strong>mensione. Perché questi <strong>oggetti</strong><br />

sono proprio dei manufatti? Sembrerebbe più sensato attribuire l’intervento<br />

<strong>di</strong> entità non umane a <strong>oggetti</strong> prodotti dalla ‘natura’: pietre, pezzi<br />

<strong>di</strong> legno, conchiglie, fossili, che possono a volte assumere forme strane<br />

e bizzarre e sembrare opera <strong>di</strong> un modellamento o <strong>di</strong> una trasforma-<br />

51 J. P. GONE, ‘We Where Through as Keepers of It’ cit., 430.<br />

59


60<br />

Enrico Comba<br />

zione operata da qualche artefice sconosciuto. Invece, tutti gli <strong>oggetti</strong><br />

venerati e custo<strong>di</strong>ti con reverenza da questi popoli sono dei prodotti<br />

‘culturali’, che inevitabilmente richiedono un lavoro ad opera delle mani<br />

dell’uomo. Il paradosso qui è forse in parte dovuto alla percezione<br />

occidentale, che tende a universalizzare una <strong>di</strong>stinzione netta e precisa<br />

tra ‘natura’ e cultura umana che non trova riscontri puntuali nelle culture<br />

dei popoli delle Americhe. Philippe Descola ha mostrato come in<br />

cosmologie, come quelle dei popoli amerin<strong>di</strong>ani, in cui la maggior parte<br />

delle piante e <strong>degli</strong> animali è inclusa con gli esseri umani in una comunità<br />

<strong>di</strong> persone, è pressoché impossibile tracciare una netta linea <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>stinzione tra natura e cultura 52 . La natura sembra essere piuttosto il<br />

prolungamento della cultura al <strong>di</strong> là dei confini del mondo umano:<br />

l’uomo e l’animale con<strong>di</strong>vidono lo stesso genere <strong>di</strong> interiorità e sono<br />

entrambi interpretati come s<strong>oggetti</strong> dotati <strong>di</strong> volontà, decisionalità e<br />

capacità creativa.<br />

La natura paradossale <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> sacri non sta quin<strong>di</strong> tanto nella<br />

loro qualità <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> ‘culturali’ non prodotti dall’uomo, quanto nel<br />

fatto che essi sono <strong>oggetti</strong> che incorporano una relazione, sono incarnazioni<br />

ed espressioni del rapporto dell’uomo con una <strong>di</strong>mensione invisibile<br />

e potente. Essi esprimono un legame che è al tempo stesso inesprimibile<br />

e inconcepibile, sono gli interfaccia con un mondo che non è<br />

attingibile o descrivibile nei termini or<strong>di</strong>nari della percezione della<br />

realtà. Da un certo punto <strong>di</strong> vista gli <strong>oggetti</strong> sacri si presentano come<br />

provocazioni rappresentative, un po’ come il famoso quadro <strong>di</strong> Henri<br />

Magritte Ceci n’est pas une pipe. Se Magritte intendeva riferirsi al problema<br />

del rapporto fra un oggetto e la sua rappresentazione grafica, le<br />

pipe sacre <strong>degli</strong> In<strong>di</strong>ani americani sembrano voler suggerire un paradosso<br />

più intricato. Una pipa sacra è una pipa e al tempo stesso non è<br />

una pipa: ma che cos’è una pipa? Per i popoli nativi americani essa non<br />

è semplicemente l’oggetto materiale che vede un osservatore esterno,<br />

bensì anche e soprattutto uno strumento <strong>di</strong> comunicazione, un mezzo<br />

attraverso il quale è possibile percepire una relazione.<br />

La pipa è essenzialmente uno strumento per inviare un’offerta <strong>di</strong> fumo<br />

agli esseri spirituali, quin<strong>di</strong> è ciò che consente una comunicazione<br />

con il mondo invisibile. La cerimonia del fumo della pipa comporta il<br />

passaggio dello strumento dall’uno all’altro dei partecipanti, <strong>di</strong>sposti<br />

52 P. DESCOLA, Par-delà nature et culture, Paris 2005, 25 e passim.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

in cerchio, in cui ciascuno prende alcune boccate: la circolazione della<br />

pipa crea un legame sociale tra le persone, rappresentato dalla <strong>di</strong>sposizione<br />

in cerchio, che rappresenta la forma dell’abitazione, la <strong>di</strong>sposizione<br />

dell’accampamento (quin<strong>di</strong> il mondo delle relazioni sociali) e, più<br />

ampiamente, il cerchio esterno del cosmo (l’insieme delle relazioni tra<br />

gli esseri) 53 . Anche la freccia, un altro oggetto che si trova frequentemente<br />

tra le testimonianze <strong>di</strong> un legame con il mondo spirituale, è uno<br />

strumento <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione: è l’arma che consente l’uccisione <strong>degli</strong> animali<br />

cacciati e il procacciamento del cibo, pertanto costituisce il punto<br />

<strong>di</strong> interme<strong>di</strong>azione tra il mondo umano e il mondo animale, tra la vita<br />

e la morte e spesso nelle tra<strong>di</strong>zioni mitiche si narra che le prime armi<br />

furono concesse in dono dagli animali stessi ai cacciatori, perché potessero<br />

farne uso per garantirsi la sopravvivenza.<br />

Ma che cosa fa <strong>di</strong> una pipa una pipa sacra e <strong>di</strong> una freccia una freccia<br />

sacra? O meglio, ogni pipa e ogni freccia sono in qualche modo sacre<br />

perché entrano in una serie <strong>di</strong> relazioni e <strong>di</strong> pratiche rituali che in<strong>di</strong>cano<br />

il loro ruolo come strumenti in una rete <strong>di</strong> correlazioni. Tuttavia<br />

la Pipa Sacra dei Lakota o dei Gros Ventre è <strong>di</strong>versa da ogni altra pipa,<br />

come le Frecce <strong>Sacre</strong> <strong>degli</strong> Cheyenne sono <strong>di</strong>verse da qualsiasi altra<br />

freccia.<br />

Qui dobbiamo tenere in considerazione il fatto che esistono <strong>di</strong>verse<br />

categorie <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong>. Secondo un’interpretazione in chiave economica,<br />

molto <strong>di</strong>ffusa nella nostra società, un qualsiasi manufatto ha le stesse<br />

qualità <strong>degli</strong> altri, ossia entra in una rete <strong>di</strong> relazioni tra esseri umani in<br />

cui può essere scambiato, acquistato, ceduto, acquisendo in tal modo<br />

un valore che è funzione delle relazioni in cui si trova inserito. Ma<br />

Maurice Godelier ha mostrato come in ogni società vi siano <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong><br />

che si scambiano, <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> che non si scambiano ma si possono<br />

solo donare e, infine, <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> che non si possono né scambiare<br />

né donare, ma si devono conservare. Questi sono gli <strong>oggetti</strong> che hanno<br />

il massimo valore sociale e simbolico 54 . Secondo Godelier, gli <strong>oggetti</strong><br />

sacri costituiscono il fondamento su cui si costruisce l’immagine che<br />

una società fa <strong>di</strong> se stessa: ciò che una società vuole presentare e ciò che<br />

vuole <strong>di</strong>ssimulare <strong>di</strong> se stessa. In particolare, ciò che verrebbe <strong>di</strong>ssimulato<br />

ed occultato è il ruolo umano nella costruzione della società. L’uo-<br />

53 J. PAPER, Offering Smoke: The <strong>Sacre</strong>d Pipe and Native American Religion.<br />

Moscow 1988, 35-36.<br />

54 M. GODELIER, L’énigme du don, Paris 2008, 48-50.<br />

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62<br />

Enrico Comba<br />

mo, negli <strong>oggetti</strong> sacri, sparisce come autore e creatore, lasciando il<br />

campo ad ‘esseri immaginari’, spiriti o <strong>di</strong>vinità 55 .<br />

Qui forse Godelier tende a semplificare un po’ troppo le cose. L’argomentazione<br />

che una società <strong>di</strong>ssimula o nasconde a se stessa certe<br />

‘verità’ è piuttosto debole: chi occulta nei confronti <strong>di</strong> chi? Forse dovremmo<br />

semplicemente riconoscere che in molte società si ritiene che<br />

l’inventività e la creatività dell’uomo non siano sufficienti a produrre<br />

un adeguato e armonico sistema <strong>di</strong> vita: occorre che l’uomo si metta in<br />

relazione con gli altri esseri, con le potenze del cosmo, che solo allo<br />

sguardo esterno appaiono come ‘entità immaginarie’. La garanzia <strong>di</strong><br />

continuità e sopravvivenza della specie umana, come ha visto bene Godelier,<br />

viene fornita solo dal dono che esseri non-umani fanno a beneficio<br />

dell’umanità. Gli <strong>oggetti</strong> sacri, che non sono interpretati come il<br />

prodotto dell’attività umana, ma sono visti come doni che provengono<br />

da altrove, costituiscono il legame solido e tangibile con gli abitanti<br />

non-umani dell’universo, il pegno del loro interesse per la stabilità e la<br />

prosperità del mondo umano. Ben lungi dall’essere una <strong>di</strong>ssimulazione<br />

o un’allucinazione collettiva, essi testimoniano piuttosto dell’umiltà e<br />

del senso <strong>di</strong> responsabilità <strong>di</strong> popoli che hanno percepito la propria<br />

permanenza sulla terra come funzione e con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> una complessa<br />

rete <strong>di</strong> rapporti con gli altri abitanti dell’universo, in cui noi, umani,<br />

«non siamo soli al mondo» 56 .<br />

55 Ivi, 239-249.<br />

56 La frase è tratta dal titolo del libro <strong>di</strong> T. NATHAN, Nous ne sommes pas seuls<br />

au monde: les enjeux de l’ethnopsychiatrie, Paris 2007.


SU ALCUNI OGGETTI ACHIROPITI DELLA CIVILTÀ INDIANA<br />

ALBERTO PELISSERO<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Il tema dell’indagine proposto rimanda, sin dalla terminologia impiegata,<br />

al contesto prima greco e poi cristiano, ma non è peregrino se<br />

applicato all’àmbito in<strong>di</strong>ano. In In<strong>di</strong>a si parla soprattutto <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong><br />

culto ‘non umani’, apauruṣeya, piuttosto che ‘non fatti da mano [d’uomo]’,<br />

e pour cause: infatti il primo oggetto apauruṣeya è il fondamento<br />

stesso della civiltà indoaria, ossia il corpus del Veda. Si tratta in questo<br />

caso <strong>di</strong> un oggetto sonoro, fatto <strong>di</strong> suoni ancora prima che <strong>di</strong> significati:<br />

secondo l’interpretazione estrema, quella sposata dalla scuola della<br />

pūrvamīmāṃsā, la ‘prima esegesi’, il mondo sorge solo in seguito alla<br />

pronuncia dei suoi singoli elementi contenuta nel Veda, nel senso che a<br />

mano a mano che questo o quell’oggetto viene nominato per la prima<br />

volta nel Veda, il suo referente viene in essere nel mondo, in illo tempore,<br />

nel momento in cui all’inizio <strong>di</strong> ogni nuovo grande ciclo cosmico il<br />

Veda viene per la prima volta pronunciato da una voce incorporea celeste<br />

per dare esistenza all’universo.<br />

Ma se non ci limiteremo a questa testimonianza estrema <strong>di</strong> oggetto<br />

apauruṣeya non sarà <strong>di</strong>fficile rinvenire altre tipologie <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> achiropiti<br />

nel mondo in<strong>di</strong>ano; semplicemente era parso necessario sottolineare<br />

che l’accento cade più sull’origine non umana che sulla natura non<br />

manufatta <strong>di</strong> tali elementi. Cerchiamo <strong>di</strong> circoscrivere l’àmbito <strong>di</strong> indagine<br />

esa minando un’altra tipologia marginale prima <strong>di</strong> arrivare a quello<br />

che a nostro parere costituisce il punto focale dell’indagine. La tipologia<br />

marginale è rappresentata dalle vere e proprie orme <strong>di</strong>vine, impresse<br />

perlo più nella pietra come testimonianza concreta della presenza<br />

fisica <strong>di</strong> questa o quella <strong>di</strong>vinità o personaggio venerabile. Si trovano<br />

im pronte achiropite <strong>di</strong> <strong>di</strong>vinità in più <strong>di</strong> un luogo, ma il sito forse più<br />

signi ficativo è quello <strong>di</strong> Gayā (nell’o<strong>di</strong>erno Bihār, a sud <strong>di</strong> Patna), dove<br />

si trova un santuario vaiṣṇava in cui si venerano le orme <strong>di</strong> Viṣṇu (e per<br />

questo denominato Viṣṇupāda) impresse su una roccia. Nei pressi, in<br />

un luogo de<strong>di</strong>cato alla tonsura rituale dei pellegrini (Muṇḍapṛṣṭha), si<br />

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64<br />

Alberto Pelissero<br />

trova del pari una roccia su cui sono impresse le orme <strong>di</strong> Rudra (ipostasi<br />

<strong>di</strong> Śiva) 1 . Lo stesso accade per le orme del Buddha, non a caso venerate<br />

a Bodh Gayā, a soli 12 chilometri da Gayā: qui l’immagine è incisa<br />

chiaramente sulla pietra dalla mano <strong>di</strong> un ignoto scultore (dunque non<br />

si tratta <strong>di</strong> tipologia achiropita in senso proprio), ma serve a ricordare<br />

l’episo<strong>di</strong>o leggendario secondo il quale il Buddha in prossimità della<br />

morte avrebbe lasciato l’impronta delle proprie orme su una roccia<br />

presso il villaggio <strong>di</strong> Kusināra. Nella prima stagione del buddhismo vigeva<br />

una sorta <strong>di</strong> <strong>di</strong>vieto a rappresentare la figura umana del Buddha,<br />

forse in funzione <strong>di</strong> contrasto <strong>di</strong> una possibile deriva devozionale, <strong>di</strong>vieto<br />

che cade definitivamente con l’affermarsi dell’arte indo-greca del<br />

Gandhāra. Sino ad allora il Maestro veniva evocato me<strong>di</strong>ante espe<strong>di</strong>enti<br />

iconografici <strong>di</strong>versi, il più <strong>di</strong>ffuso dei quali era la rappresentazione<br />

dei suoi pie<strong>di</strong>, dei calzari o delle <strong>impronte</strong>, che dovevano riportare i<br />

canonici 108 segni caratteristici (lakṣaṇa). L’immagine più venerata a<br />

Śrī Laṅkā è quella sulla cima del Picco d’Adamo (singalese Samanalakanda),<br />

detto anche Śrī Pada, l’orma illustre, venerata con interpretazioni<br />

iconografico-simboliche <strong>di</strong>fferenti da buddhisti, hindū e musulmani.<br />

In àmbito hinduista a Citrakūṭa presso le rive della Mandākinī (nel<br />

cuore dell’antico Bundelkhand, o<strong>di</strong>erno Madhya Pradeś), luogo connesso<br />

al culto <strong>di</strong> Rāma e Sītā che vi trovarono rifugio nel corso dell’esilio,<br />

si venerano le orme <strong>di</strong> Rāma e un buco in una roccia che Sītā avrebbe<br />

usato come pentola per cucinare. Ma come s’è detto le orme achiropite<br />

impresse nella roccia non sono forse la tipologia principale <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong><br />

achiropiti della tra<strong>di</strong>zione in<strong>di</strong>ana. I due tipi più importanti sono<br />

riservati l’uno al culto <strong>di</strong> Śiva, l’altro a quello <strong>di</strong> Viṣṇu. Ve<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> cosa<br />

si tratta.<br />

Il primo oggetto da prendere in considerazione è il liṅga, signum, testimonianza<br />

della presenza <strong>di</strong> Śiva, più in particolare lo svāyambhuvaliṅga,<br />

“segno autogeno”, ossia non creato da mano d’uomo. Si tratta <strong>di</strong><br />

ciottoli che hanno la forma <strong>di</strong> un ellissoide <strong>di</strong> rotazione, creati dall’erosione<br />

delle acque dei fiumi nel letto dei quali sono rinvenuti, in primo<br />

luogo la Narmadā. Prima <strong>di</strong> affrontarne l’analisi sarà bene dare qualche<br />

informazione sulla natura generale del liṅga e sulla simbologia sog-<br />

1 Si vedano Agnipurāṇa 114-115, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara Press, Bombay<br />

1921 (rist. anastatica Nāg, Delhi 2004 3 ), 83-86 per il testo sanscrito, e N. GAN-<br />

GADHARAN, The Agni Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and Mythology Series<br />

28, Delhi 1985, 332-341 per una traduzione inglese.


Su alcuni <strong>oggetti</strong> achiropiti della civiltà in<strong>di</strong>ana<br />

giacente. Anzitutto una precisazione: un liṅga non è necessariamente<br />

un betilo, perché non è fatto esclusivamente <strong>di</strong> pietra. Ciò chiarito, il<br />

liṅga è un simbolo cosmologico aniconico che sostituisce l’icona antropomorfica<br />

nel sanctum dei templi de<strong>di</strong>cati a Śiva (per questo è detto comunemente<br />

śivaliṅga), che rappresenta a un tempo l’axis mun<strong>di</strong> (dal<br />

mito <strong>di</strong> Śiva come liṅgodbhāvamūrti, l’icona scaturita dalla mandorla<br />

che si apre al centro del pilasto <strong>di</strong> fuoco nel corso del conflitto per la<br />

supremazia tra Brahmā e Viṣṇu) 2 e il potere creativo <strong>di</strong> Śiva, sempre in<br />

precario equilibrio tra ascesi ed erotismo, o più precisamente fra trattenimento<br />

ed emissione del seme (Śiva come para<strong>di</strong>gma dell’ūrdhvaretas,<br />

l’asceta che trattenendo il seme entro il corpo lo fa risalire lungo la colonna<br />

spinale fino al brahmarandhra, il “foro <strong>di</strong> Brahmā” al vertice del<br />

capo) 3 . In riferimento al mito <strong>di</strong> Śiva come liṅgodbhāvamūrti la parte<br />

sommitale del liṅga è occupata da Brahmā, quella centrale da Śiva-Rudra,<br />

quella inferiore da Viṣṇu. Se si eccettuano le tipologie più decisamente<br />

antropomorfiche, con caratteristiche anatomiche in evidenza come<br />

il solco del glande (Guḍimallam, Āndhra Pradeś, tempio <strong>di</strong> Paraśurāmeśvara),<br />

il liṅga si presenta come un pilastro arrotondato alla<br />

sommità e fissato su una base quadrangolare o circolare, che rappresenta<br />

la “matrice” (yoni). A parte quelli achiropiti <strong>di</strong> cui si tratterà infra,<br />

possono essere fatti <strong>di</strong> roccia, pietre preziose, metallo, leghe metalliche,<br />

legno, argilla (śailaja, ratnaja, dhātuja, lohaja, dāruja, mṛnmaya) e<br />

momentanei (kṣaṇika), ossia fatti <strong>di</strong> materiali plasmabili, privi <strong>di</strong> una<br />

forma propria e non durevoli come la farina, la pasta <strong>di</strong> sandalo, la<br />

sabbia, la cenere o lo sterco vaccino. La forma arrotondata può estendersi<br />

anche alla base inferiore, assimilandosi pertanto a un ellissoide <strong>di</strong><br />

rotazione, in modo da evocare l’immagine dell’uovo cosmico<br />

(brahmāṇḍa, “uovo <strong>di</strong> Brahmā”, il simbolo macrocosmico che richiama<br />

in àmbito microcosmico l’embrione umano, piṇḍāṇḍa, “uovo in forma<br />

2 Si vedano anzitutto Kūrmapurāṇa 1,26 secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara Press,<br />

Bombay 1924 (rist. anastatica Nāg, Delhi 1983), 57-60 per il testo sanscrito, e<br />

G.V. TAGARE, The Kūrma Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and Mythology Series<br />

20, Delhi 1981, 220-229 per una traduzione inglese. Varianti trascurabili in<br />

questa sede nel Liṅga-, Vāyu e Śivapurāṇa.<br />

3 Lo stu<strong>di</strong>o classico in merito è quello <strong>di</strong> W. DONIGER, Asceticism and Eroticism<br />

in the Mythology of Śiva, London - New York 1973, ripubblicato come Śiva,<br />

The Erotic Ascetic, London - New York 1981, e <strong>di</strong>sponibile anche in traduzione<br />

italiana (<strong>di</strong> F. Orsini), Śiva, L’asceta erotico, Milano 1997.<br />

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Alberto Pelissero<br />

<strong>di</strong> bolo sacrificale”), o quella dell’“embrione aureo” (hiraṇyagarbha, altra<br />

evidente analogia tra filogenesi macrocosmica e ontogenesi microcosmica).<br />

Proprio a questa tipologia appartengono gli svāyambhuvaliṅga (considerati<br />

<strong>di</strong> qualità “suprasuperiore”, uttamottama, rispetto a quelli fatti<br />

da déi, antidéi, esseri sovrumani e uomini rispettivamente) <strong>di</strong> cui s’è<br />

fatto cenno. Talora (ma questa sinonimia non è accettata da tutte le<br />

fonti) sono noti anche come bāṇaliṅga, termine <strong>di</strong> ardua traduzione dal<br />

momento che bāṇa in<strong>di</strong>ca in<strong>di</strong>fferentemente una freccia, un suono, un<br />

fuoco, un fulmine. Sono sassi chiari <strong>di</strong> forma ovale, con una (esemplari<br />

più pregiati) o più macchie o striature marroni o rossicce; o viceversa<br />

fulvi con chiazze chiare. Il colore <strong>di</strong> base, la <strong>di</strong>sposizione, <strong>di</strong>mensione e<br />

forma delle macchie, la proporzione tra tinta <strong>di</strong> fondo e screziature, sono<br />

altrettanti parametri utili a determinare la tipologia <strong>di</strong> uno<br />

svāyambhuvaliṅga: non ce n’è uno uguale a un altro, dal momento che il<br />

rapporto tra il colore che simboleggia il principio maschile e quello che<br />

simboleggia il principio femminile è soggetto a innumerevoli variazioni.<br />

In particolare, nel caso <strong>di</strong> un liṅga a fondo fulvo con una macchia<br />

biancastra nel terzo quarto superiore, il fondo scuro simboleggia la<br />

componente maschile, la macchia chiara quella femminile, rappresentando<br />

così cromaticamente la compenetrazione e l’inter<strong>di</strong>pendenza dei<br />

due principi. Non si tratta dunque, particolarmente per i tipi “autogeni”,<br />

<strong>di</strong> un semplice simbolo fallico, ma piuttosto della reintegrazione<br />

della polarità maschile-femminile, come si evince da molti in<strong>di</strong>zi: nel<br />

liṅga si fondono “suono” e “punto”, ossia risonanza centrifuga <strong>di</strong> un<br />

suono che si origina a partire da un punto <strong>di</strong> irraggiamento e ritorno<br />

centripeto all’origine (rispettivamente nāda, suono espansivo <strong>di</strong> carattere<br />

maschile equiparato a Śiva, e bindu, punto fonico <strong>di</strong> carattere femminile<br />

equiparato alla sua śakti, la potenza <strong>di</strong>vina); il liṅga è padre e<br />

madre dell’universo, simbolo stesso dell’unione <strong>di</strong> Śiva e śakti 4 . Il Kāmikāgama<br />

descrive uno svāyambhuvaliṅga come sorto spontaneamente<br />

e da tempo immemorabile senza intervento <strong>di</strong> alcun agente (umano o<br />

non umano). Pertanto, anche se eventualmente danneggiato da calamità<br />

come il fuoco, un elefante infoiato, un’inondazione, vandalismo<br />

da parte <strong>di</strong> popolazioni ostili, non è necessario provvedere a una sua<br />

4 Si vedano Śivapurāṇa 1,16, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara Press, Bombay 1895-<br />

1896 (rist. anastatica Nāg, Delhi 2004 3 ), vol. 1, 15-17 per il testo sanscrito, e J.L.<br />

SHASTRI (ed.), The Śiva Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and Mythology Series<br />

1, Delhi 1970, 96-106 per una traduzione inglese.


Su alcuni <strong>oggetti</strong> achiropiti della civiltà in<strong>di</strong>ana<br />

reinstallazione rituale (jīrṇoddhāra), basterà provvedere a pochi semplici<br />

riti volti a purificare l’avvenuta contaminazione. Se una parte <strong>di</strong> un<br />

liṅga autogeno si rompe è possibile provvedere alla riparazione me<strong>di</strong>ante<br />

fascette d’oro o <strong>di</strong> rame che tengano insieme i pezzi; se però la<br />

parte rotta è costituita da frammenti non ricomponibili, questi potranno<br />

essere eliminati, con le dovute cautele previste dal rituale. Se infine<br />

uno svāyambhuvaliṅga viene completamente rimosso dalla propria sede<br />

e gettato via, quali che ne siano le ragioni, il re e il suo regno andranno<br />

in rovina, dal momento che non è stata garantita la sicurezza dell’oggetto<br />

sacro (il più sacro tra tutti i tipi contemplati <strong>di</strong> liṅga). Proprio la<br />

superiorità del liṅga autogeno su tutti gli altri ha fatto sì che praticamente<br />

ogni villaggio riven<strong>di</strong>casse la presenza <strong>di</strong> un pur piccolo santuario<br />

che ne conteneva uno. Il commentatore Nigamajñānadeva <strong>di</strong> Vyāghrapura,<br />

figlio <strong>di</strong> Vāmadevaśivācārya, nella sua glossa al Jīrṇoddhāradaśaka<br />

elenca 69 siti presso i quali si venerano altrettanti svāyambhuvaliṅga<br />

legati a una specifica <strong>di</strong>vinità (ipostasi <strong>di</strong> Śiva) 5 .<br />

Una tipologia del tutto peculiare <strong>di</strong> svāyambhuvaliṅga è l’imponente<br />

liṅga <strong>di</strong> ghiaccio venerato ad Amarnāth (Kaśmīr), meta <strong>di</strong> pellegrinaggi<br />

<strong>di</strong> massa ad alta quota (il sito è a 3888 metri sul livello del mare), che<br />

tra<strong>di</strong>zionalmente viene considerato autoprodotto per fusione e successiva<br />

condensazione spontanea dell’acqua e del vapore acqueo entro<br />

una grotta (una sua possibile fusione per con<strong>di</strong>zioni ambientali avverse<br />

nel 2007 ha suscitato polemiche sulla possibilità che sia stato ricostituito<br />

artificialmente, ossia manipolato).<br />

Il secondo oggetto achiropito della civiltà in<strong>di</strong>ana è lo śālagrāma, un<br />

tipo <strong>di</strong> ammonite (mollusco cefalopode <strong>di</strong> origine mesozoica), ossia<br />

una conchiglia fossile <strong>di</strong> colore nero o nerastro legata al simbolismo <strong>di</strong><br />

Viṣṇu (nella sua forma ricorda l’arma preferita dal <strong>di</strong>o, il <strong>di</strong>sco da getto<br />

dai bor<strong>di</strong> affilati, cakra), che si rinviene nel letto del fiume Gaṇḍakī (o<br />

in uno dei suoi sette affluenti nepalesi, la Kālīgaṇḍakī), e prende il nome<br />

dal villaggio omonimo in cui si concentrano i ritrovamenti più numerosi<br />

<strong>degli</strong> esemplari più pregiati per completezza, <strong>di</strong>mensioni, integrità.<br />

Trova impiego nei riti domestici del pañcāyatana (‘le cinque <strong>di</strong>more’),<br />

nel corso dei quali vengono adorate cinque <strong>di</strong>vinità simboleg-<br />

5 A titolo <strong>di</strong> curiosità, il secondo lungometraggio della tetralogia <strong>di</strong> In<strong>di</strong>ana<br />

Jones (a parere unanime dei critici l’episo<strong>di</strong>o meno riuscito, tra l’altro funestato<br />

da numerosissimi stereotipi <strong>di</strong> stampo colonialistico), In<strong>di</strong>ana Jones e il tempio<br />

maledetto (Steven Spielberg, In<strong>di</strong>ana Jones and the Temple of Doom, 1984) ruota<br />

proprio intorno al recupero <strong>di</strong> alcuni svāyambhuvaliṅga (“pietre <strong>di</strong> Śaṅkara”).<br />

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Alberto Pelissero<br />

giate da altrettante pietre: Śiva come bāṇaliṅga (pietra bianca), Viṣṇu<br />

come śālagrāma (pietra nera), Gaṇeśa come pietra rossa, Durgā (o Pārvatī)<br />

come pietra multicolore e Sūrya come frammento <strong>di</strong> cristallo <strong>di</strong><br />

rocca o selce. I cinque <strong>oggetti</strong> achiropiti sono <strong>di</strong>sposti su <strong>di</strong> un vassoio e<br />

l’officiante compie in loro favore l’offerta <strong>di</strong> acqua, foglie <strong>di</strong> bilva (Aegle<br />

marmelos, per Śiva), tulasī (Ocymum sanctum, sorta <strong>di</strong> basilico dal<br />

fusto legnoso, per Viṣṇu), fiori e frutta. Altri due riti vaiṣṇava comportano<br />

l’impiego <strong>di</strong> śālagrāma. Il primo è il jalotsarga (‘oblazione d’acqua’),<br />

sorta <strong>di</strong> matrimonio tra uno stagno e un albero che sorge nei<br />

suoi pressi, o tra un pozzo e un campo appena <strong>di</strong>ssodato. Nel corso<br />

della cerimonia, che si propone <strong>di</strong> arrecare fertilità al sito, l’acqua (jala)<br />

è rappresentata da un officiante che tiene in mano uno śālagrāma, l’elemento<br />

vegetale da un secondo officiante. Il matrimonio è consacrato<br />

me<strong>di</strong>ante l’atto <strong>di</strong> piantare nelle acque dello stagno o presso il pozzo<br />

un virgulto <strong>di</strong> jaṭā (Nardostachis jatamansi). Il secondo rito ha caratteristiche<br />

analoghe, prende il nome <strong>di</strong> bāṇotsarga e prevede l’unione <strong>di</strong><br />

uno śālagrāma con un ramo <strong>di</strong> tulasī. Si noti come l’impiego dello śālagrāma<br />

si configuri come sostanzialmente rituale in àmbito domestico,<br />

in ciò <strong>di</strong>fferenziandosi dallo svāyambhuvaliṅga, che trova preferibilmente<br />

impiego in àmbito rituale templare o per uso me<strong>di</strong>tativo personale;<br />

e come i riti in cui si usa lo śālagrāma comportino l’unione <strong>di</strong> un<br />

elemento minerale con uno vegetale. Il legame tra i due elementi è sottolineato<br />

dal mito eziologico secondo il quale la sposa dell’anti<strong>di</strong>o (asura)<br />

Jālaṃdhara, <strong>di</strong> nome Vṛndā, sedotta da Viṣṇu, avrebbe maledetto il<br />

<strong>di</strong>o condannandolo a rinascere trasformandosi in śālagrāma; lei stessa<br />

dopo essersi immolata su una pira sarebbe rinata come tulasī. Lo stesso<br />

mito, comportante seduzione e conseguente male<strong>di</strong>zione, si ritrova con<br />

variante nei nomi dei protagonisti, Tulasī sposa <strong>di</strong> Śaṅkhacūḍa sedotta<br />

da Viṣṇu 6 : sulla pietra in cui fu tramutato il <strong>di</strong>o insetti e vermi avrebbero<br />

tracciato il profilo della sua arma, il <strong>di</strong>sco da getto. Si noti la spiegazione<br />

che si potrebbe <strong>di</strong>re ‘evemeristica’ dell’evidente artificiosità del rilievo<br />

presente sulla superficie dell’oggetto, che con una certa eleganza<br />

viene ricondotta all’azione <strong>di</strong> organismi viventi ma scarsamente coscienti<br />

e nel contempo sottratta all’opera cosciente della mano umana.<br />

I <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> fossile danno luogo a una complessa nomenclatura<br />

che richiama alcuni <strong>degli</strong> epiteti del <strong>di</strong>o e della sua sposa (Lakṣmī):<br />

6 Brahmavaivartapurāṇa 1,21. Non mi è stato possibile verificare questa citazione,<br />

che ho tratto da S.A. DANGE, Encyclopae<strong>di</strong>a of Puranic Beliefs and Practices,<br />

New Delhi 1989, vol. 4, 1390.


Su alcuni <strong>oggetti</strong> achiropiti della civiltà in<strong>di</strong>ana<br />

quattro conchiglie insieme unite in una sorta <strong>di</strong> ghirlanda (vanamālā)<br />

che forma un portale, dal colore della nube appena formata, prendono<br />

il nome <strong>di</strong> Lakṣmī Nārāyaṇa; due portali, quattro <strong>di</strong>schi e il <strong>di</strong>segno<br />

dell’orma <strong>di</strong> vacca uniti in ghirlanda si chiamano Raghunātha; due <strong>di</strong>schi<br />

senza ghirlanda, dal colore della nube gravida <strong>di</strong> pioggia, si chiamano<br />

Dadhivāmana; il tipo precedente ma con ghirlanda si chiama<br />

Śrīdhara; due <strong>di</strong>schi senza ghirlanda con forma circolare si chiama Dāmodara;<br />

il tipo precedente attraversato da una fen<strong>di</strong>tura a forma <strong>di</strong><br />

freccia si chiama Raṇarāma (Rāma in posa da combattimento, perché<br />

ricorda la faretra colma <strong>di</strong> dar<strong>di</strong>); sette <strong>di</strong>schi con forma <strong>di</strong> parasole e<br />

faretra si chiama Rārarājeśvara; quattor<strong>di</strong>ci <strong>di</strong>schi dal colore della nube<br />

gravida <strong>di</strong> pioggia si chiama Ananta; due <strong>di</strong>schi con l’orma <strong>di</strong> vacca,<br />

<strong>di</strong> forma circolare e dal colore della nube gravida <strong>di</strong> pioggia si chiama<br />

Madhusūdana; un <strong>di</strong>sco, Sudarśana; se il <strong>di</strong>sco è dai contorni confusi<br />

ossia in<strong>di</strong>stinguibile (gupta), Gadādhara; due <strong>di</strong>schi a forma <strong>di</strong> muso <strong>di</strong><br />

cavallo, Hayagrīva; due <strong>di</strong>schi con ampia fen<strong>di</strong>tura, Nṛsiṃha; il tipo<br />

precedente con estesa ghirlanda, Lakṣmī Nṛsiṃha; due <strong>di</strong>schi con superficie<br />

perfettamente levigata, Vāsudeva; molti <strong>di</strong>schi piccoli dal colore<br />

della nube gravida <strong>di</strong> pioggia, con molti piccoli buchi, Pradyumna;<br />

due <strong>di</strong>schi a<strong>di</strong>acenti, Saṅkarśaṇa; <strong>di</strong> forma circolare, <strong>di</strong> aspetto gradevole<br />

e <strong>di</strong> colore giallastro, Aniruddha. Alcune varianti <strong>di</strong> questa classificazione<br />

si trovano nell’Agnipurāṇa 7 , che riporta le seguenti denominazioni:<br />

Vāsudeva, Saṅ karṣaṇa, Pradyumna, Aniruddha, Nārāyaṇa, Parameṣṭi,<br />

Viṣṇu, Nṛsiṃha, Varāha, Kūrma, Hayagrīva, Vaikuṇṭha, Matsya,<br />

Śrī dhara, Vāmana, Trivikrama, Ananta, Dāmodara, Sudarśana,<br />

Lakṣmī Nārāyaṇa, Acyuta, Janardana, Puruṣottama, Navavyūha,<br />

Daśā vatāra, Dvādaśātman. Nello Skandapurāṇa 8 se ne menzionano 24<br />

tipi; la classificazione più tarda si trova nella Prāṇatośiṇī (1821 e.v.). Si<br />

può notare che la nomenclatura della tipologia <strong>degli</strong> śālagrāma combina<br />

i <strong>di</strong>eci avatāra (<strong>di</strong>scese sulla terra <strong>di</strong> Viṣṇu) con i quattro vyūha<br />

(emanazioni <strong>di</strong> Kṛṣṇa), attingendo inoltre ad altre fonti della teonomastica<br />

vaiṣṇava.<br />

7 Si vedano Agnipurāṇa 46, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara cit., 32 per il testo sanscrito,<br />

e N. GANGADHARAN, The Agni Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and<br />

Mythology Series 27, Delhi 1984, 124-126 per una traduzione inglese.<br />

8 Si vedano Skandapurāṇa 6,244, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara Press, Bombay<br />

1867 (rist. anastatica Nāg, Delhi 1993 3 , vol. 6, 278 per il testo sanscrito, e G.P.<br />

BHATT, The Skanda Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and Mythology Series 66,<br />

Delhi 2003, 1049-1050 per una traduzione inglese.<br />

69


70<br />

Alberto Pelissero<br />

A titolo <strong>di</strong> completezza si segnala che una nomenclatura altrettanto<br />

minuziosa riguarda un oggetto <strong>di</strong> culto <strong>di</strong> area śaiva, i semi <strong>di</strong> rudrākṣa<br />

(nocciolo della bacca della pianta Elaeocarpus ganitrus), che possono<br />

avere da una a centootto faccette, e trovano impiego nella confezione <strong>di</strong><br />

rosari a 108 grani che si usano per la preghiera e la me<strong>di</strong>tazione. Sono<br />

anch’essi <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> culto achiropiti, ma dal momento che vengono manipolati<br />

per la fabbricazione <strong>di</strong> rosari (e anche perché sono massicciamente<br />

falsificati me<strong>di</strong>ante sostituti artificiali per il loro valore pecuniario<br />

rilevante) non sono stati inclusi nella rassegna.<br />

Chi beve costantemente acqua in cui è stato immerso uno śālagrāma<br />

esau<strong>di</strong>sce tutti i propri desideri e ottiene la liberazione dal ciclo delle rinascite.<br />

Presso il villaggio <strong>di</strong> Śālagrāma è proibito tagliare rami <strong>di</strong> tulasī.<br />

L’inter<strong>di</strong>zione più forte è <strong>di</strong> natura sessuale: a nessuna donna, nubile,<br />

sposata o vedova che sia, è consentito anche solo sfiorare uno śālagrāma<br />

(si ricor<strong>di</strong> il mito eziologico della seduzione). Lo Śivapurāṇa 9 riconcilia<br />

il culto della conchiglia fossile con l’àmbito śaiva, ricordando<br />

che Śiva stesso si recò dal futuro suocero Himavat, padre <strong>di</strong> Pārvatī,<br />

sotto le spoglie <strong>di</strong> uno studente brahmanico (brahmacārin) recando in<br />

mano un rosario <strong>di</strong> cristallo <strong>di</strong> rocca (sphaṭikamālā, oggetto śaiva) e al<br />

collo uno śālagrāma (oggetto vaiṣṇava).<br />

In conclusione, lo svāyambhuvaliṅga e lo śālagrāma, collegati rispettivamente<br />

alla coppia Śiva-Śakti e a Viṣṇu, costituiscono due tipologie<br />

<strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> culto achiropiti molto rappresentativi nella civiltà in<strong>di</strong>ana<br />

tra<strong>di</strong>zionale, dal momento che coprono la gamma delle tre principali<br />

gran<strong>di</strong> religioni che ricadono entro la macrocategoria <strong>di</strong> hinduismo: sivaismo,<br />

saktismo e visnuismo. Il loro simbolismo, complesso ma evidente,<br />

li rende particolarmente interessanti per stu<strong>di</strong>are i mo<strong>di</strong> in cui<br />

contenuti dottrinali raffinati si facciano strada nell’ortoprassi devozionale,<br />

senza perdere le proprie caratteristiche concettuali o snaturare<br />

quelle rituali in cui si incar<strong>di</strong>nano, ma traendo reciproco rafforzamento<br />

e consolidamento le une dalle altre.<br />

A titolo esemplificativo, si riportano le immagini <strong>di</strong> uno svāyambhuvaliṅga,<br />

del liṅga <strong>di</strong> ghiaccio <strong>di</strong> Amarnāth e <strong>di</strong> uno śālagrāma. (Tavv. 1-<br />

3).<br />

9 Si vedano Śivapurāṇa 2,3,31,34, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara cit., vol. 1, 159<br />

per il testo sanscrito, e J.L. SHASTRI (ed.), The Śiva Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion<br />

and Mythology Series 2, Delhi 1970, 600 per una traduzione inglese.


LA PIETRA NERA E IL CULTO DELLA KA‘BA A MECCA<br />

NELLA TRADIZIONE ISLAMICA<br />

Ogni anno un numero sempre crescente <strong>di</strong> musulmani si recano in<br />

pellegrinaggio a Mecca, la città nel cuore della Penisola araba che ha<br />

dato i natali a Muhammad (m. 632 d.C.), il Profeta fondatore della<br />

religione islamica. La pratica del pellegrinaggio è infatti considerata<br />

dai musulmani uno dei cinque pilastri della fede, un obbligo in<strong>di</strong>viduale<br />

che il musulmano che ne ha capacità economica e fisica, dovrebbe<br />

compiere almeno una volta nella vita. Per tale ragione, quin<strong>di</strong>, Mecca<br />

ha rappresentato storicamente il polo attrattivo per tutte le terre abitate<br />

dai musulmani, il centro della propria geografia sacra, e, <strong>di</strong> conseguenza,<br />

occasione <strong>di</strong> grande mobilità interna nel mondo musulmano.<br />

Per il singolo fedele, tuttavia, il pellegrinaggio è innanzitutto un vero e<br />

proprio calarsi nella natura primor<strong>di</strong>ale della propria religiosità, attraverso<br />

una serie <strong>di</strong> rituali che hanno un preciso significato tra<strong>di</strong>zionale.<br />

Ciò avviene innanzitutto in relazione al ruolo del Profeta Abramo che<br />

avrebbe non solo realizzato una sorta <strong>di</strong> pellegrinaggio ai luoghi delle<br />

Penisola, seguendo la storia già biblica <strong>di</strong> accompagnarvi il figlio<br />

Ismaele avuto dalla schiava Agar, ma, secondo la tra<strong>di</strong>zione accennata<br />

in passi coranici, soprattutto per costruirvi a Mecca il tempio della<br />

Ka‘ba. La Ka’ba e la Pietra Nera che essa contiene in suo angolo sono<br />

il centro <strong>di</strong> Mecca e quin<strong>di</strong> il centro <strong>di</strong> attrazione del pellegrino, il<br />

luogo in cui si salda fede personale e ritualità connessa a un luogo e a<br />

un oggetto <strong>di</strong> origine celeste.<br />

1. La Ka‘ba e la Pietra Nera<br />

ROBERTO TOTTOLI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Napoli - L’Orientale<br />

Nell’architettura della Ka‘ba, una posizione specifica e unica riveste<br />

la Pietra incastonata nell’angolo sud-orientale, simbolo del culto meccano<br />

fin dal periodo pre-islamico e catalizzatore dell’immaginario relativo<br />

al pellegrinaggio. L’islam costruirà una propria visione del pellegrinaggio,<br />

della Ka‘ba e della Pietra Nera, e in particolare proprio<br />

71


72<br />

Roberto Tottoli<br />

della Pietra Nera 1 che rappresenta l’esempio più significativo <strong>di</strong> oggetto<br />

<strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina (para<strong>di</strong>siaca) <strong>di</strong>sceso sulla terra nella tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica. Tale concezione si definì attraverso la costruzione tra<strong>di</strong>zionale<br />

e l’assorbimento <strong>di</strong> concezioni e mitologie, già pienamente sviluppate<br />

in un’opera come Le storie <strong>di</strong> Mecca <strong>di</strong> al-Azraqī (m. 837 d.C.).<br />

In tale immaginario, la storia della presenza terrena <strong>di</strong> questo oggetto<br />

non terreno non può che risalire alle origini dell’umanità. Per la tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica 2 , Dio mostra ad Adamo dove costruire la Ka‘ba<br />

inviando dal cielo una tenda e a tal fine <strong>di</strong>scende pure la Pietra Nera,<br />

che ci racconta Wahb ibn Munabbih 3 , in origine era un bianco giacinto<br />

tra i giacinti del Para<strong>di</strong>so, la cui luce traeva origine dall’intensa luce<br />

para<strong>di</strong>siaca. Anche la terra era can<strong>di</strong>da e senza macchia, perché senza<br />

peccato o impurità, ci <strong>di</strong>ce la stessa tra<strong>di</strong>zione, spiegando in<strong>di</strong>rettamente<br />

anche la natura del colore bianco della Pietra. Particolare, in<br />

questa ricostruzione, è il ruolo della tenda, la quale serve a delimitare<br />

un precinto sacro con la sua presenza, su cui l’uomo, il primo uomo,<br />

può e<strong>di</strong>ficare la Casa <strong>di</strong> Dio. Poi, dopo ciò, Dio fa <strong>di</strong>scendere anche la<br />

Pietra angolare, così <strong>di</strong>cono le tra<strong>di</strong>zioni, che spesso, quando menzionano<br />

la pietra lo fanno utilizzando il termine arabo rukn che significa<br />

angolo, tanto che rimarrà un’espressione comune a designare la Pietra<br />

Nera, al-rukn al-aswad 4 .<br />

Una serie <strong>di</strong> altre tra<strong>di</strong>zioni in genere scarsamente attestate nelle<br />

1 Sulla Pietra Nera ve<strong>di</strong> le tra<strong>di</strong>zioni raccolte e tradotte in AL-AZRAQĪ, La<br />

Ka‘bah. Tempio al centro del Mondo, a cura <strong>di</strong> Roberto Tottoli, Trieste 1992, in<br />

part. 95-98.<br />

2 Ve<strong>di</strong> AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 5-7. Su questa tra<strong>di</strong>zione, sulla tenda e sulla<br />

Pietra Nera in origine bianca ve<strong>di</strong> A.J. WENSINCK, The Ideas of the Western<br />

Semites Concerning the Navel of the Earth, Verhandleingen der Koninklijke<br />

Akademie van Wetenschappen te Amsterdam. Afdeeling Letterkunde. Nieuwe<br />

reeks 17/1 (1916) 45.55; C.-A. GILIS, La doctrine initiatique du pélerinage, Paris<br />

1982, 70-72; U. RUBIN, The Ka‘ba: aspects of its ritual functions and position in<br />

pre-Islamic background of Dīn Ibrāhīm, Jerusalem <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es in Arabic and Islam 8<br />

(1986) 97-133, p. 118.<br />

3 Figura chiave del primo islam (m. inizi dell’VIII secolo), <strong>di</strong> origine yemenita,<br />

fu autore <strong>di</strong> vari libri oggi perduti e spesso citato in tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> argomento<br />

cosmogonico o sui profeti.<br />

4 Sul significato del termine rukn, che designa gli angoli della Ka‘ba e anche la<br />

Pietra Nera, ve<strong>di</strong> G.R. HAWTING, The origins of the Muslim sanctuary at Mecca,<br />

in G.H.A. JUYNBOLL (ed.), <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es on the First Century of Islamic Society,<br />

Carbondale - Edwardsville 1982, 23-47, p. 44.


La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

raccolte poi canonizzate, ma comunque frequenti in alcune delle opere<br />

più antiche della letteratura musulmana, enumera gli <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> origine<br />

para<strong>di</strong>siaca portati con sé da Adamo all’uscita del para<strong>di</strong>so, e tra questi<br />

immancabilmente c’è la Pietra Nera: la sua origine è para<strong>di</strong>siaca,<br />

così come, va detto, altri <strong>oggetti</strong>, tra cui ad esempio il bastone <strong>di</strong> Mosé<br />

è tra i più frequentemente menzionati 5 .<br />

La sacralità della Pietra è ulteriormente sottolineata dagli avvenimenti<br />

che riguardano la Pietra Nera durante il <strong>di</strong>luvio: La Pietra Nera<br />

viene innalzata pro<strong>di</strong>giosamente da Dio in modo che le acque del<br />

Diluvio non la tocchino. Ma la tra<strong>di</strong>zione islamica aggiunge un ulteriore<br />

elemento <strong>di</strong> sacralizzazione del territorio meccano, in questo caso<br />

il monte Abū Qubays, oggi all’interno della città, quando afferma che<br />

fu custo<strong>di</strong>ta sopra <strong>di</strong> essa per non essere toccata dal Diluvio 6 . Il Dilu -<br />

vio spazzò via la Casa costruita dai <strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong> Adamo sui confini<br />

tracciati sulla tenda <strong>di</strong>scesa del para<strong>di</strong>so e così facendo, ci <strong>di</strong>ce la tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica, mo<strong>di</strong>ficò il luogo in cui si trovava finché non vi giunse<br />

Abramo e vi fu la sua costruzione a cui accenna anche il Corano, per<br />

la verità in due passi scarni e non chiarissimi.<br />

Sarà Dio poi a riportare da Abū Qubays la Pietra Nera, mentre<br />

Abramo e Ismaele stanno costruendo la Ka‘ba prendendo pietre dalle<br />

montagne più <strong>di</strong>verse della tra<strong>di</strong>zione sacra me<strong>di</strong>orientale (Sinai, Mon -<br />

te <strong>degli</strong> Ulivi, Libano, al-Jūdī e Ḥirā) 7 e con l’ausilio <strong>di</strong> angeli e altri<br />

interventi <strong>di</strong>vini. Manca però la Pietra angolare e allora, dopo che<br />

Abramo ha mandato a cercarla Ismaele, Dio stesso la porta, e la co -<br />

struzione è conclusa. Le tra<strong>di</strong>zioni islamiche sul tempo <strong>di</strong> Abramo<br />

accennano alle ulteriori vicissitu<strong>di</strong>ni che hanno colpito la Pietra e che,<br />

fino alla costruzione <strong>di</strong> Abramo luccicante <strong>di</strong> splendore para<strong>di</strong>siaco,<br />

l’hanno resa appunto nera. Qui la ricchezza <strong>di</strong> interpretazioni e la loro<br />

varietà è non solo interessante ma dai toni molto <strong>di</strong>versi. Ad esempio,<br />

si <strong>di</strong>ce che la Pietra fu resa nera dal fuoco che l’ha raggiunta durante il<br />

periodo preislamico e quello islamico. Un’altra, non meno frequentemente<br />

attestata e caratterizzante delle regole <strong>di</strong> purità islamiche, afferma<br />

che furono le tante donne mestruate, e quin<strong>di</strong> impure, che la toccarono<br />

a renderla nera.<br />

La Ka‘ba compare non da meno in queste tra<strong>di</strong>zioni ed accompa-<br />

5 Ve<strong>di</strong> ad es. AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 95; ulteriori riferimenti, da altre fonti,<br />

sono riportate nelle note al testo <strong>di</strong> al-Azraqī.<br />

6 AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 10.<br />

7 AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 25.<br />

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74<br />

Roberto Tottoli<br />

gna le concezioni relative alla Pietra Nera. Anzi, come sottolineato da<br />

certi stu<strong>di</strong> 8 , gli attributi tra Pietra Nera e Ka‘ba tendono a sovrapporsi,<br />

a sottolineare come nella centralità sacra i due elementi per certi versi<br />

coincidano. Una tra<strong>di</strong>zione che risale a Ka‘b al-Aḥbār 9 <strong>di</strong>ce che la<br />

Ka‘ba fu schiuma sull’acqua prima che Id<strong>di</strong>o creasse cieli e terra, mentre<br />

per altre tra<strong>di</strong>zione la Ka‘ba era in origine un rubino cavo. La<br />

Ka‘ba fu creata prima che fosse creata qualsiasi cosa delle terre, anzi,<br />

la terra fu spianata a partire da una collinetta da cui fu poi fatta la<br />

Casa (ar. Bayt), sinonimo <strong>di</strong> Ka‘ba già nel Corano, ben duemila anni<br />

prima <strong>di</strong> ogni altra casa, con fondamenta che giungono fin sulla settima<br />

terra. Furono inoltre gli angeli a ricostruirla, segno tangibile, quin<strong>di</strong>,<br />

che il carattere primor<strong>di</strong>ale la pone ben prima delle vicende umane<br />

e del primo uomo e profeta Adamo e quin<strong>di</strong> anche dei profeti e pa -<br />

triarchi successivi: ad<strong>di</strong>rittura al tempo in cui Dio era contornato solo<br />

da angeli, che non solo la costruirono ma che anche ricevettero l’or<strong>di</strong>ne<br />

<strong>di</strong> girarle attorno, a dar inizio al rituale del pellegrinaggio in un<br />

tempo a-storico. La storia che farà seguito con Adamo e da Adamo in<br />

poi non può <strong>di</strong> conseguenza che portare il segno della sua origine primor<strong>di</strong>ale<br />

e accompagnare la Ka‘ba, e con essa la Pietra Nera, sempre<br />

più nelle vicende umanissime <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzioni e costruzioni, con un chiaro<br />

abbandono dei richiami al tempo astorico delle origini e con una<br />

conseguente de-mitologizzazione della presenza della Ka‘ba e della<br />

Pietra Nera tra gli uomini e nella comunità dei credenti.<br />

Questo immaginario, unito a tutti gli altri segni (ad esempio la<br />

cosiddetta Stazione <strong>di</strong> Abramo – maqām Ibrāhīm – che contiene l’impronta<br />

dei pie<strong>di</strong> del patriarca), unito a quanto la tra<strong>di</strong>zione islamica ci<br />

racconta su quel che trovò Muhammad all’indomani della conquista<br />

della Mecca, ci dà una connotazione della Ka‘ba quanto mai biblica e<br />

patriarcale: Abramo, la sua impronta <strong>di</strong> origine pro<strong>di</strong>giosa, lo spazio<br />

a<strong>di</strong>acente chiamato Ḥijr che conterrebbe innumerevoli tombe <strong>di</strong> profeti,<br />

e ad<strong>di</strong>rittura dei ritratti <strong>di</strong> Abramo, della Madonna e del Bambino,<br />

che Muhammad trovò al suo interno e <strong>di</strong> cui avrebbe or<strong>di</strong>nato solo una<br />

rimozione parziale. In questo immaginario, che rilegge l’ere<strong>di</strong>tà biblica<br />

in termini islamici, il carattere celeste e primor<strong>di</strong>ale della Pietra Nera e<br />

per estensione, della Ka‘ba, sono i fondamenti del significato e della<br />

funzione del rituale del pellegrinaggio.<br />

8 GILIS, La doctrine initiatique cit., 73. Sulle tra<strong>di</strong>zioni qui brevemente descritte,<br />

ve<strong>di</strong> al-Azraqī, La Ka‘bah cit., 1 sgg.<br />

9 Ebreo convertito all’islam (nel 638) e nome frequentemente utilizzato in relazione<br />

alla tra<strong>di</strong>zione biblica <strong>di</strong>ffusa nella letteratura islamica.


2. Muhammad e la Pietra Nera<br />

La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

Questa storia sacra prosegue nella prima età islamica. Ne è un<br />

esempio per eccellenza la tappa che vede protagonista il Profeta con la<br />

Pietra Nera prima della rivelazione. Una tra<strong>di</strong>zione storica atta a<br />

“costruire” la personalità eccellente <strong>di</strong> Muhammad prima della sua<br />

missione profetica ci racconta che, dopo una <strong>di</strong>struzione, tra l’altro<br />

tutt’altro che rara data la frequenza <strong>di</strong> alluvioni nelle vallate meccane,<br />

Muhammad fu protagonista della rie<strong>di</strong>ficazione della Ka‘ba. Muham -<br />

mad, per vincere le rivalità tribali e claniche, fece appoggiare la Pietra<br />

Nera su un telo, un sudario, preso per ogni angolo da una delle quattro<br />

tribù più importanti <strong>di</strong> Mecca e così trasportata nel luogo dove venne<br />

sistemata e si trova tuttora. Il trasporto congiunto aveva la funzione <strong>di</strong><br />

non privilegiare nessuno a <strong>di</strong>scapito <strong>di</strong> altri, e <strong>di</strong> frenare rivalità e possibili<br />

motivi <strong>di</strong> contrasto tribale. Secondo una tra<strong>di</strong>zione proprio nel<br />

momento della sistemazione della Pietra Nera il <strong>di</strong>avolo, Iblīs, sarebbe<br />

intervenuto per cercare <strong>di</strong> convincere la gente meccana a non concedere<br />

questo privilegio al Profeta 10 .<br />

Anni dopo, dopo la conquista <strong>di</strong> Mecca, attorno a queste reliquie,<br />

così centrali per la sensibilità islamica, Muhammad vi avrebbe trovato<br />

trecentosessanta idoli, numero quanto mai significativo, adatto a un<br />

calendario più che simbolico, idoli che or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere imme<strong>di</strong>atamente,<br />

a significare il netto rifiuto della nuova religione verso il culto<br />

idolatra e pagano in uso a Mecca e in tutta la penisola, e contro il<br />

quale l’islam si definisce, a contrario, come la religione del monoteismo<br />

più puro.<br />

L’irruzione del momento storico <strong>di</strong> ingresso della missione del Pro -<br />

feta Muhammad e quin<strong>di</strong> della nascita dell’islam trascina la Pietra<br />

Nera, e <strong>di</strong> conseguenza anche la Ka‘ba, in un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> vicende <strong>di</strong>verse.<br />

Quando Muhammad ritorna da dominatore nella città natale, la Ka‘ba<br />

è, insieme, secondo la testimonianza storica musulmana stessa, un reliquario<br />

biblico <strong>di</strong> varia natura e un pantheon pagano. E allora, alla luce<br />

<strong>di</strong> ciò, dove porre la Pietra Nera quando il Profeta entra alla Mecca<br />

l’anno della riconquista: tra i reliquari accettati o assorbiti dall’islam<br />

oppure una sopravvivenza tra l’idolo cancellato e quello decapitato? In<br />

realtà la scelta era già stata fatta da Muhammad, o meglio dalla rivelazione<br />

coranica quando negli anni a cavallo della sua fuga a Me<strong>di</strong>na<br />

10 Ve<strong>di</strong>, su tutta la vicenda, AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 68-69.<br />

75


76<br />

Roberto Tottoli<br />

stabilì che la pratica tra<strong>di</strong>zionale araba del pellegrinaggio alla Ka‘ba a<br />

Mecca, già accennata ad<strong>di</strong>rittura da Erodoto, era in origine una pratica<br />

monoteistica, riven<strong>di</strong>cata da Abramo stesso e incarnata pienamente<br />

dalla Pietra Nera posta nell’angolo sud-orientale, assurta a simbolo<br />

della natura primor<strong>di</strong>ale dell’islam 11 .<br />

La svolta che ha portato all’assorbimento del culto del pellegrinaggio<br />

a Mecca è stata oggetto <strong>di</strong> varie interpretazioni, soprattutto da<br />

parte orientalistica. Famosa è stata, dalla fine dell’800 e almeno fino<br />

agli stu<strong>di</strong> più recenti, lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> C. Snouck Hurgronje 12 che giu<strong>di</strong>cò<br />

questa operazione una consapevole e quin<strong>di</strong> anche vincente scelta politica<br />

<strong>di</strong> Muhammad, il quale si risolse a cavalcare il prestigio del pellegrinaggio,<br />

superando le sue prime perplessità monoteistiche verso gran<br />

parte dei rituali che furono cancellati, per ricavarne comunque prestigio<br />

e andare incontro alle sensibilità arabe della penisola. Tale interpretazione,<br />

liquidatoria ovviamente delle concezioni islamiche, ci interessa<br />

qui perché evidenzia un problema, quello accennato sopra, sulla<br />

compatibilità dell’azione <strong>di</strong> Muhammad ispirata dalla parola coranica<br />

monoteistica e de-mitologizzante, con il credo pre-islamico intorno al<br />

pellegrinaggio, alla Ka‘ba e soprattutto alla Pietra Nera.<br />

3. La Pietra Nera<br />

La Pietra Nera alla fine si salvò alla conquista <strong>di</strong> Muhammad, e<br />

anzi, rimase il centro della sacralità meccana. E grazie a ciò ricevette la<br />

giusta attenzione nella tra<strong>di</strong>zione islamica la quale, però, lascia anche<br />

trasparire, come vedremo, tensioni <strong>di</strong> segno <strong>di</strong>verso. Ogni testo <strong>di</strong> storia<br />

<strong>di</strong> Mecca, già da quello, più importante e antico, <strong>di</strong> al-Azraqī, ma<br />

anche gran parte delle raccolte <strong>di</strong> detti del Profeta Muhammad o <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>scussione giuri<strong>di</strong>ca, includono capitoli sull’eccellenza della Pietra<br />

Nera, anche se queste opere sono più interessate a definire come agire<br />

concretamente con la Pietra Nera durante il pellegrinaggio e quin<strong>di</strong><br />

sull’obbligo <strong>di</strong> toccarla, esau<strong>di</strong>to, in caso <strong>di</strong> impossibilità, anche con<br />

un semplice cenno o sguardo, fatta salva una sana intenzione <strong>di</strong> compiere<br />

questo gesto 13 . In modo curioso alcune tra<strong>di</strong>zioni accennano al<br />

11 Ve<strong>di</strong> ad es. Cor. 22:26.<br />

12 C. SNOUCK HURGRONJE, Il pellegrinaggio alla Mecca, <strong>Torino</strong> 1989.<br />

13 Ve<strong>di</strong> AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 97-98.


La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

costume da parte del Profeta <strong>di</strong> toccare durante la circumambulazione<br />

della Ka‘ba sia la Pietra Nera che il cosiddetto angolo yemenita, l’altro<br />

posto a sud, quasi ad attenuare la singolarità rituale della Pietra Nera e<br />

la sua centralità nel rituale della circumambulazione. E lo stesso vale<br />

davanti alla <strong>di</strong>scussione dottrinale se baciare o meno la Pietra Nera<br />

durante il tocco, con l’altrettanto curioso atteggiamento <strong>di</strong> ‘Umar che<br />

avrebbe affermato davanti alla Pietra:<br />

«Tu sei solo una pietra e se non avessi visto l’Inviato <strong>di</strong> Dio, Dio lo<br />

bene<strong>di</strong>ca e gli conceda salvezza, baciarti neppure io ti bacerei» 14 .<br />

‘Umar alla fine seguì l’esempio del Profeta. In altre versioni sarebbe<br />

stato ‘Alī b. Abī Ṭālib a rintuzzare ‘Umar davanti all’affermazione<br />

ancora più dura che si trattasse <strong>di</strong> una Pietra che non arreca danno né<br />

giovamento. ‘Alī gli ricordò che in realtà si trattava <strong>di</strong> una Pietra che<br />

arrecava danno o vantaggio agli uomini. In questa rivalità tra alcuni<br />

dei compagni più importanti del Profeta Muhammad si evidenzia una<br />

tensione irriducibile tra monoteismo coranico e centralità religiosa dell’oggetto<br />

Pietra Nera calato dal cielo, in cui il carattere sacrale della<br />

parola coranica, increata, dovrebbe essere l’unico segno <strong>di</strong>vino dato<br />

agli uomini, mentre la tra<strong>di</strong>zione extra-coranica vi introduce un immaginario<br />

con connessa ritualità in odore <strong>di</strong> paganesimo.<br />

Altra letteratura tra<strong>di</strong>zionale prende una <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong>versa e non<br />

lascia spazio a dubbi <strong>di</strong> questo tipo. Certe tra<strong>di</strong>zioni affermano così<br />

che Pietra e la Stazione <strong>di</strong> Abramo (maqām Ibrāhīm) sono originarie<br />

del Para<strong>di</strong>so, due delle gemme del para<strong>di</strong>so. Alcune versioni citano<br />

però solo la Pietra Nera come originaria del para<strong>di</strong>so, a testimonianza<br />

che è da essa che ha origine questa virtù emblematica e significativa 15 .<br />

Furono però toccate da idolatri tanto da annullarne le virtù che permettevano<br />

ad ogni malato <strong>di</strong> guarire toccandola. È il Profeta Muham -<br />

mad stesso a <strong>di</strong>re alla moglie ‘A’isha che se non fosse stato per le impurità<br />

del periodo pre-islamico avrebbe conservato tale capacità. Era un<br />

bianco giacinto e <strong>di</strong>venne nera proprio perché Dio la protesse dalle<br />

malefatte dei peccatori che giungevano a toccarla. Secondo un’altra<br />

tra<strong>di</strong>zione, ad<strong>di</strong>rittura, la Pietra Nera avrebbe avuto persino occhi e<br />

14 MĀLIK IBN ANAS, al-Muwaṭṭa’. Manuale <strong>di</strong> legge islamica, a cura <strong>di</strong> Roberto<br />

Tottoli, <strong>Torino</strong> 2011, no. 1066.<br />

15 Ve<strong>di</strong> fonti citate in AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 112-113. Sullo scambio frequente<br />

<strong>di</strong> attributi anche tra Pietra Nera e Stazione <strong>di</strong> Abramo, ve<strong>di</strong> M.J. KISTER,<br />

Maqām Ibrāhīm: a stone with an inscription, Le Muséon 84 (1971) 477-491, p. 482.<br />

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78<br />

Roberto Tottoli<br />

una lingua in grado <strong>di</strong> parlare e testimoniare su chi giungeva a farle<br />

visita, aggiungendo che è la Mano destra <strong>di</strong> Dio, scavalcando così a piè<br />

pari secoli <strong>di</strong> raffinati <strong>di</strong>battiti teologici sugli attributi <strong>di</strong>vini e tutta la<br />

tensione teologica che tale <strong>di</strong>scussione causò nella storia islamica 16 .<br />

Le tra<strong>di</strong>zioni curiose non finiscono qui: secondo alcune <strong>di</strong> queste,<br />

un’indefinita pietra, a volte identificata come la Pietra Nera, oppure la<br />

Stazione <strong>di</strong> Abramo, avrebbe contenuto una scritta (in siriaco) con una<br />

formula <strong>di</strong> bene<strong>di</strong>zione per il luogo e la gente del luogo 17 . Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong><br />

ogni, relativo, valore storico, <strong>di</strong> questa informazione, la segnalazione<br />

della scritta in siriaco, unita alla frequente partecipazione <strong>di</strong> copti o<br />

bizantini nella ricostruzione della Ka‘ba, sottolinea ben oltre il riferimento<br />

continuo al tempo biblico la stretta connessione con la sacralità<br />

<strong>di</strong> matrice ebraica e cristiana.<br />

La tra<strong>di</strong>zione islamica rivela anche particolari curiosi in relazione ai<br />

pro<strong>di</strong>gi attestati sulla Pietra Nera. Una tra<strong>di</strong>zione afferma che era talmente<br />

brillante che Dio la oscurò altrimenti avrebbe illuminato tutta la<br />

terra giorno e notte, con evidentemente problemi per gli uomini desiderosi<br />

<strong>di</strong> un riposo notturno. E infine troviamo persino una tra<strong>di</strong>zione,<br />

tarda eppure giunta fino alle attestazioni orali, che la Pietra sarebbe<br />

stata invece un angelo, l’angelo incaricato <strong>di</strong> impe<strong>di</strong>re ad Adamo <strong>di</strong><br />

mangiare dall’albero della conoscenza, fatto <strong>di</strong>scendere così in questa<br />

nuova forma e con una nuova funzione dopo il fallimento <strong>di</strong> quella sua<br />

prima missione 18 .<br />

Le tra<strong>di</strong>zioni islamiche nel loro insieme paiono quin<strong>di</strong> stabilire nei<br />

vari generi <strong>di</strong> letteratura che le raccolgono concezioni <strong>di</strong>verse, anche<br />

profondamente <strong>di</strong>verse sulla natura della Pietra Nera. Un’evidente<br />

linea <strong>di</strong> pensiero ne sancisce l’origine <strong>di</strong>vina e la colloca per aspetto<br />

originario e per storia e poteri in una posizione unica tra tutti gli<br />

<strong>oggetti</strong> terreni. Ricor<strong>di</strong>amo a tale proposito la tendenza sunnita tra<strong>di</strong>zionale<br />

a sacralizzare il tutto per attenuare la sacralità dei luoghi e dei<br />

tempi e per collocare così il singolo credente in una posizione peculiare<br />

del suo rapporto con Dio che è me<strong>di</strong>ato solo dalla parola coranica.<br />

Tali concezioni relative alla natura peculiare della Pietra Nera vanno in<br />

16 AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 95; su tali tra<strong>di</strong>zioni ve<strong>di</strong> M. GAUDEFROY-<br />

DEMOMBYNES, Le pèlerinage à la Mecque, Paris 1923, 47; GILIS, La doctrine initiatique<br />

du pélerinage cit., 67.<br />

17 AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 58.<br />

18 Ve<strong>di</strong> AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 113.


La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

<strong>di</strong>rezione opposta. Da qui l’evidente emergere <strong>di</strong> tensioni e <strong>di</strong> valutazioni<br />

contrastanti, fin dalle prime tra<strong>di</strong>zioni. Già nelle raccolte <strong>di</strong> detti<br />

<strong>di</strong> Muhammad utilizzati per gli aspetti rituali del pellegrinaggio, troviamo<br />

infatti i pronunciamenti <strong>di</strong> ‘Umar e altre implicite perplessità<br />

sulla Pietra. Che siano il frutto <strong>di</strong> tendenze <strong>di</strong>verse o <strong>di</strong> polemici contrasti<br />

sullo status della Pietra o piuttosto sulla ritualità del pellegrinaggio<br />

non è facile da stabilire. Forse è un po’ <strong>di</strong> tutto questo, oppure il<br />

segno delle tensioni e problemi <strong>di</strong> vario tipo che trovano la loro espressione<br />

proprio nella Pietra Nera.<br />

4. Tensioni e problemi<br />

La Pietra Nera appare infatti una Pietra angolare <strong>di</strong> tensioni tra<strong>di</strong>zionali<br />

e teologiche, che risultano ancora più evidenti se poste all’incrocio<br />

<strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> relazioni, ad esempio in relazione al rapporto tra spazio<br />

sacro – e spazio non sacro, nelle <strong>di</strong>mensioni orizzontale e verticale.<br />

Ne abbiamo già accennato: nello sforzo <strong>di</strong> attenuazione della sacralità<br />

e soprattutto della sacralità dello spazio terreno, orizzontale, la<br />

Pietra Nera, la Ka‘ba e quin<strong>di</strong> il pellegrinaggio sono decisamente un<br />

punto <strong>di</strong> tensione. La Pietra Nera e per estensione il Tempio Sacro a<br />

Mecca che prende la sacralità non solo dalla presenza della Pietra<br />

Nera, ma da altro reliquiario, ma che ha nella Pietra Nera il suo luogo<br />

centrale, vanno contro la concezione islamica <strong>di</strong> una terra tutta come<br />

luogo <strong>di</strong> culto (tutta la terra è una moschea) in un processo <strong>di</strong> sacralizzazione<br />

che ha il preciso scopo, opposto, <strong>di</strong> de-sacralizzare i luoghi <strong>di</strong><br />

culto. Tendenza, va detto, come sempre spesso <strong>di</strong>sattesa e combattuta<br />

tra tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> segno opposto, ma comunque fondamentale nella concezione<br />

del rapporto tra uomo e luogo in cui vive. La Ka‘ba scavalca<br />

questo assunto, non solo perché contiene una Pietra Nera non umana,<br />

originaria del para<strong>di</strong>so, e a volte pro<strong>di</strong>giosamente dotata <strong>di</strong> poteri, ma<br />

anche per la sua corrispondenza con una Casa celeste omologa (la<br />

Casa Abitata), 19 che crea una relazione questa volta verticale ancor più<br />

caratterizzante e mitologizzante.<br />

Qui vi è l’altro evidente punto <strong>di</strong> tensione che fa i conti proprio con<br />

le tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> segno <strong>di</strong>verso che riflettono una contesa <strong>di</strong> sacralità nel<br />

mondo islamico e che richiamano anche grossi quesiti sulle origini del-<br />

19 Citata in Cor. 52:4.<br />

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Roberto Tottoli<br />

l’islam nel confronto tra fattore arabo e ra<strong>di</strong>ci ebraico-cristiane. La<br />

relazione sacrale verticale è sancita da questa Casa Abitata, che crea<br />

un asse peculiare con la Casa a Mecca e contribuisce così anche alla<br />

questione tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> rivalità e eccellenza dei luoghi più importanti<br />

per la religiosità islamica, risolvendo in maniera definitiva il primo<br />

confronto polemico, ampiamente attestato nella prima tra<strong>di</strong>zione islamica,<br />

tra Gerusalemme e Mecca. Lo risolve dopo un’ampia contesa,<br />

che deriva da detti del Profeta, come quello famoso che mette sullo<br />

stesso piano Mecca, Me<strong>di</strong>na e Gerusalemme, e anche quell’altro luogo<br />

<strong>di</strong> definizione <strong>di</strong> un ruolo privilegiato in un asse verticale e celeste che è<br />

rappresentato dalla tra<strong>di</strong>zione ricchissima del viaggio notturno e<br />

dell’Ascensione celeste (la scala) <strong>di</strong> Muhammad, che ebbe luogo a<br />

Gerusalemme.<br />

Fin qui per quanto concerne la ricezione islamica della sacralità<br />

pre-islamica del luogo. Vi è poi la fondamentale tensione nel rapporto<br />

monoteismo-idolatria. La presenza della Pietra Nera pone un quesito<br />

fondamentale, ovvero perché ricorrere a un betilo nella costruzione <strong>di</strong><br />

un puro monoteismo, quando la tra<strong>di</strong>zione islamica ha nel Corano il<br />

suo centro <strong>di</strong> comunicazione verticale Dio-uomo. È il Corano secondo<br />

il dogma sunnita parola increata <strong>di</strong> Dio, presente ab eterno accanto<br />

alla <strong>di</strong>vinità che garantisce questo canale <strong>di</strong> comunicazione unico. Esso<br />

è increato ma fu rivelato in un dato tempo e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>scese, e non a<br />

caso il verbo che esprime la rivelazione significa primariamente in<br />

arabo <strong>di</strong>scendere (anzala). È il logos il canale <strong>di</strong> comunicazione tra Dio<br />

e l’orizzonte terrestre della creazione, non certo una pietra.<br />

Tali quesiti e tali dubbi non hanno una risposta. Attestano solo il carattere<br />

composito e problematico <strong>di</strong> costruzione storica <strong>di</strong> aspetti del<br />

credo islamico, e l’immancabile tensione tra teologie e tra<strong>di</strong>zioni. La<br />

Pietra Nera ne è uno <strong>degli</strong> esempi più evidenti, perché data la natura<br />

dell’islam e del messaggio coranico rivelato a Muhammad, la presenza<br />

<strong>di</strong> un oggetto para<strong>di</strong>siaco nella comunità <strong>degli</strong> uomini non poteva che<br />

generare tensioni e arricchire la costruzione <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione ricca <strong>di</strong><br />

tendenze <strong>di</strong>verse e anche contrastanti. Tensioni che non mancheranno<br />

nel corso dei secoli <strong>di</strong> riaffacciarsi quando la devozione musulmana comincerà<br />

a popolare lo spazio e i luoghi musulmani <strong>di</strong> altri segni tangibili<br />

della presenza <strong>di</strong>vina, con pro<strong>di</strong>gi e attestazioni miracolose connesse a<br />

figure storiche dell’islam soprattutto mistico. La Pietra Nera ne rappresenta<br />

in fondo una sorta <strong>di</strong> emblematico esempio probante, per la sua<br />

natura e per la ricchezza <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zioni che l’ha circondata e la circonda.


IMPRONTE, RITRATTI E RELIQUIE DI PROFETI NELL’ISLĀM<br />

LUCA PATRIZI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Napoli «L’Orientale»<br />

Viṣṇu ha camminato a gran<strong>di</strong> passi nell’universo; ha appoggiato il suo piede<br />

per tre volte. (L’universo) si è raccolto attorno alla polvere (dei suoi passi).<br />

Tre passi ha camminato Viṣṇu, il protettore invulnerabile, quin<strong>di</strong> ha stabilito<br />

le leggi (dell’universo) 1 .<br />

È comune ad ogni civiltà la narrazione della storia sacra delle proprie<br />

origini attraverso dei miti cosmogonici. Nel RġVeda, il più antico<br />

testo in<strong>di</strong>ano, Viṣṇu compie tre passi fondatori nell’universo detti ‘trivikrama’<br />

che, nell’atto <strong>di</strong> misurare lo spazio, creano il mondo a partire<br />

dalla polvere generata dalle sue <strong>impronte</strong> 2 . I primi due passi sono visibili<br />

sulla terra, mentre il terzo è visibile solo in cielo, e «nessuno riesce a<br />

raggiungerlo, neppure gli uccelli dell’aria, dotati <strong>di</strong> ali» 3 . Oltre alla presenza<br />

‘pervasiva’ che questo atto riveste per i mon<strong>di</strong>, evidenziata dall’etimologia<br />

del nome Viṣṇu, esso si svolge contemporaneamente lungo<br />

l’Axis Mun<strong>di</strong>, permettendo in questo modo la comunicazione tra i <strong>di</strong>fferenti<br />

livelli dell’universo e soprattutto la <strong>di</strong>scesa della bene<strong>di</strong>zione celeste<br />

sulla terra 4 . Colui che compie il sacrificio rituale, nello Hindūismo<br />

1 H. BAKKER, The Footprints of the Lord, Devotion Divine, in D. L. ECK - F.<br />

MALLISON (edd.), Bhakti Tra<strong>di</strong>tions from the Regions of In<strong>di</strong>a: <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es in Honour<br />

of Charlotte Vaudeville, Groningen 1991, 19-37; cfr. anche The Hymns of the<br />

Rgveda. Translated with a Popular Commentary by Ralph T.H. Griffith, Benares<br />

1889, 1.22.<br />

2 I tre passi <strong>di</strong> Viṣṇu sono citati in vari passaggi del Rgveda: 1.22, 1.154, 1.155,<br />

6.49, 7.100, 8.12, 8.29, 8.96. Nel verso 1:146 è invece Agni a lasciare impressa la<br />

sua impronta nella terra. Nel Śatapatha-Brāhmana 6.7.4.7, si legge che «tramite i<br />

passi <strong>di</strong> Viṣṇu, Prajāpati creò il mondo», cfr. The Śatapatha-Brāhmana Accor<strong>di</strong>ng<br />

to the Text of the Mādhyan<strong>di</strong>na School, translated by Julius Eggeling, Oxford<br />

1882.<br />

3 The Hymns of the Rgveda, cit., 1.155.<br />

4 J. GONDA, Viṣṇu, in L. JONES (ed.), Encyclope<strong>di</strong>a of Religion, Second E <strong>di</strong>tion,<br />

Farmington Hills 2005, 9617-9619.<br />

81


82<br />

Luca Patrizi<br />

<strong>di</strong> matrice viṣṇaita, imita ritualmente l’atto <strong>di</strong> Viṣṇu e si identifica in esso.<br />

Con la pratica egli si rende gra<strong>di</strong>to alla <strong>di</strong>vinità, e il suo sacrificio<br />

può <strong>di</strong>ventare simile ad un’ascensione celeste: il primo passo avviene<br />

sulla terra, il secondo nell’aria, e il terzo infine nel cielo 5 . Anche il quinto<br />

avatāra <strong>di</strong> Viṣṇu, Vāmana, che ha la forma <strong>di</strong> un nano, secondo il<br />

Viṣṇu Purana si ingigantisce per compiere i tre passi nei tre mon<strong>di</strong> 6 , e<br />

secondo alcune versioni con il terzo passo preme la testa del re Bali<br />

spingendolo all’inferno 7 . Con il suo terzo passo nel cielo, inoltre, Viṣṇu<br />

crea un’apertura nel para<strong>di</strong>so dal quale sgorga sulla terra il fiume Gange<br />

8 . Sulle rive <strong>di</strong> questo fiume, nella regione <strong>di</strong> Uttarakhand in In<strong>di</strong>a,<br />

sorge Haridwar, una delle quattro se<strong>di</strong> del pellegrinaggio detto Kumbh<br />

Mela. Proprio qui, sul muro lambito dal fiume sacro, è venerata un’impronta<br />

attribuita a Viṣṇu. Il luogo è detto Har Ki Pauri, che significa «I<br />

passi del Signore» 9 .<br />

Un altro luogo nel quale è custo<strong>di</strong>ta una sacra impronta <strong>di</strong> Viṣṇu è il<br />

Viṣṇupāda Man<strong>di</strong>r, «il Tempio dell’Impronta <strong>di</strong> Viṣṇu», a Gaya, nella<br />

regione <strong>di</strong> Bihar 10 . Secondo la leggenda il tempio è stato costruito a<br />

partire da questa impronta, che è situata nel suo centro esatto, e si è<br />

prodotta nel momento in cui Viṣṇu ha soggiogato il demone Gayasur<br />

premendone il petto con il piede, narrazione che contiene senza dubbio<br />

reminiscenze della leggenda <strong>di</strong> Vāmana narrata precedentemente 11 .<br />

5 The Śatapatha-Brāhmana, cit. 1.9.3.8-12.<br />

6 The Vishnu Purana, A System of Hindu Mythology and Tra<strong>di</strong>tion, Translated<br />

from the Original Sanskrit and Illustrated by Notes Derived Chiefly from others<br />

Puranas by Horace Hayman Wilson, Londra 1864, III/1, 18-19, dove è riportato<br />

inoltre un passaggio interessante dal commentario <strong>di</strong> Durga della Nirukta <strong>di</strong><br />

Yāska, riferito ai tre passi <strong>di</strong> Viṣṇu: «He plants one foot on the ‘samarohana’<br />

(place of rising), when mounting over the hill of ascension; [another], on the<br />

‘vishnupada’, the meri<strong>di</strong>an sky; [a third], on the ‘gayasiras’, the hill of setting».<br />

7 W. J. WILKINS, Hindu Mythology, Ve<strong>di</strong>c and Purānic, Calcutta 1882, 130-135.<br />

8 I. VISWANATHAN PETERSON, Ganges River, in L. JONES (ed.), Encyclope<strong>di</strong>a of<br />

Religion, Second E<strong>di</strong>tion, Farmington Hills 2005, 3274-3275.<br />

9 C. A. JONES, Haridwar, in C. A. JONES AND J. D. RYAN (edd.), Encyclope<strong>di</strong>a<br />

of Hinduism, New York 2007, 180.<br />

10 BAKKER, cit., 19-25; P. DEBJANI, Antiquity of the Vishnupad at Gaya, East<br />

and West 35, 1-3 (1985) 103-141.<br />

11 Su questa impronta come Axis Mun<strong>di</strong> della geografia sacra <strong>di</strong> questa parte<br />

del territorio in<strong>di</strong>ano, oltre a BAKKER, cit., 21-22, cfr. R. P. B. SINGH, Cosmic<br />

Order and Cultural Astronomy: <strong>Sacre</strong>d Cities of In<strong>di</strong>a, Newcastle upon Tyne 2009,<br />

79-122, e R. P. B. SINGH, <strong>Sacre</strong>dscape, Manescape & Cosmogony at Gaya, In<strong>di</strong>a: A


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

I buddhisti venerano la stessa impronta attribuendola al Buddha Śā -<br />

kya muni, e, nella zona attorno a Gaya, dove si trova Bodh Gaya, sito<br />

del famoso albero sotto il quale egli raggiunse l’illuminazione secondo<br />

le tra<strong>di</strong>zioni, vi sono numerose <strong>impronte</strong> impresse nella roccia, la cui<br />

attribuzione è con<strong>di</strong>visa tra hindū e buddhisti 12 . Secondo il Canone pāli,<br />

appena nato il Buddha posa i pie<strong>di</strong> sulla terra compiendo sette passi<br />

e affermando <strong>di</strong> essere «il più alto del mondo, il migliore del mondo e il<br />

primogenito del mondo». Questi passi devono essere intesi in senso<br />

verticale secondo Mircea Eliade, come un’ascensione che avviene al<br />

Centro del Mondo. Il Bodhisattva <strong>di</strong>venta così contemporaneo alla<br />

creazione del mondo, abolendo il tempo. I suoi passi producono la civiltà,<br />

spianando e trasformando la terra sotto <strong>di</strong> essi 13 . Un’impronta<br />

del Buddha, molto venerata, detta Sri Pada, «Sacra Impronta», si trova<br />

in Sri Lanka in un santuario in cima al monte Samanala. Essa è attribuita<br />

dagli hindū a Śiva, dai cristiani a San Tommaso, e dai musulmani<br />

a Adamo. Secondo la leggenda Alessandro Magno dopo la conquista<br />

dell’In<strong>di</strong>a si sarebbe recato in pellegrinaggio verso questa sacra impronta,<br />

mentre in tempi più vicini a noi possiamo ricordare, tra le altre,<br />

la testimonianza della visita <strong>di</strong> Marco Polo (m. 1324) nel Milione, e del<br />

viaggiatore musulmano Ibn Baṭṭūṭa (m. 1368) 14 . Secondo la tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica, Adamo, primo uomo e primo profeta dell’umanità, espulso<br />

dal para<strong>di</strong>so, ‘cade’ proprio a Saran<strong>di</strong>b, nome arabo dello Sri Lanka.<br />

Dopo aver pianto a lungo, prima a causa della tristezza per la comprensione<br />

della sua <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza, e poi per la gioia del perdono <strong>di</strong>vi-<br />

study in <strong>Sacre</strong>d Geography, National Geographical Journal of In<strong>di</strong>a 45, 1-4 (1999)<br />

32-61.<br />

12 J. N. KINNARD, The Polyvalent Pādas of Viṣṇu and the Buddha, History of<br />

Religions 40:1 (2000) 32-57. Sulle <strong>impronte</strong> in ambito buddhista, cfr. A. M.<br />

QUAGLIOTTI, Buddhapadas: An Essay on the Representations of the Footprints of<br />

the Buddha with a Descriptive Catalogue of the In<strong>di</strong>an Specimens from the 2nd<br />

Century B.C. to the 4 th century A.D., Kamakura 1998.<br />

13 M. ELIADE, Miti, sogni e misteri, Milano 1990, 96-100.<br />

14 A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del Me<strong>di</strong>o Evo, Milano 2002, 61-63;<br />

S. PARANAVITANA, The God of Adam’s Peak, Artibus Asiae, Supplementum 18<br />

(1958) 5-78; T. W. RHYS DAV I D S, Adam’s Peak in J. HASTINGS (ed.), The<br />

Encyclope<strong>di</strong>a of Religion and Ethics 1, E<strong>di</strong>nburgh 1908, 87; W. SKEEN, Adam’s<br />

Peak. Legendary, Tra<strong>di</strong>tional, and Historic Notices of the Samanala and Sri-Pada,<br />

with a Descriptive Account of the Pilgrims’ Route from Colombo to the <strong>Sacre</strong>d<br />

Foot-Print, Colombo 1870; IBN BAṬṬŪṬA, I Viaggi, <strong>Torino</strong> 2006, 661-663.<br />

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84<br />

Luca Patrizi<br />

no, le sue lacrime, scese come ruscelli dai suoi occhi, generano una rigogliosa<br />

vegetazione. In seguito egli si alza in pie<strong>di</strong>: dotato <strong>di</strong> altezza<br />

considerevole la sua testa tocca il primo cielo, da dove può intendere le<br />

voci <strong>degli</strong> angeli. Inizia a camminare, e la sua processione comporta<br />

una progressiva decrescita. Ogni suo passo produce una città, con acqua<br />

e vegetazione rigogliosa, mentre lo spazio tra i suoi passi <strong>di</strong>venta<br />

deserto. Al termine egli è scortato dall’angelo Gabriele a Mecca, dove<br />

compie il primo pellegrinaggio 15 . A partire da simili miti <strong>di</strong> fondazione<br />

si è sviluppata nell’ambito <strong>di</strong> varie tra<strong>di</strong>zioni religiose la venerazione<br />

delle <strong>impronte</strong> sacre alle quali è attribuita un’origine acheropita, così<br />

come <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> fattura umana, prodotte in seguito ad ispirazione<br />

<strong>di</strong>vina, o come copie santificate <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> acheropiti 16 . Questi <strong>oggetti</strong><br />

sono inclusi nell’insieme dei cosiddetti petrosomatoglifi, «<strong>impronte</strong> del<br />

corpo sulla pietra», nel novero delle quali si contano anche le <strong>impronte</strong><br />

preistoriche e altre <strong>impronte</strong>, <strong>di</strong>ffuse in tutto il mondo, <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile identificazione<br />

temporale e <strong>di</strong> significato, sia umane che animali 17 . In ambito<br />

islamico possiamo trovare una serie <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> attribuite a <strong>di</strong>fferenti<br />

profeti, <strong>di</strong>sseminate in tutta l’area <strong>di</strong> influenza dell’Islām. Secondo<br />

alcune tra<strong>di</strong>zioni islamiche, il numero dei profeti dall’inizio della creazione<br />

varierebbe da 315, 1000, fino a 224.000, 25 dei quali trovano un<br />

nome nel Corano, da Adamo fino a Muḥammad, passando per molti<br />

profeti biblici a altri specificamente arabi o <strong>di</strong> dubbia attribuzione 18 .<br />

Proseguendo lungo la storia sacra della profezia nell’Islām alla ricerca<br />

<strong>di</strong> <strong>impronte</strong>, troviamo l’impronta attribuita ad Abramo, impressa in<br />

una pietra conservata dentro un tabernacolo alla Mecca accanto alla<br />

15 TABARI, I Profeti e i Re, Parma 1993, 10-12; C. W. ERNST, In<strong>di</strong>a as a <strong>Sacre</strong>d<br />

Islamic Land, in D. S. LOPEZ JR. (ed.), Religions of In<strong>di</strong>a in Practice, Princeton<br />

1995, 556-563.<br />

16 Cfr. ad esempio P. B. THOMAS, The Riddle of Ishtar’s Shoes The Religious<br />

Significance of the Footprints at ‘Ain Dara from a Comparative Perspective,<br />

Journal of Religious History 32/3 (2008) 303-319.<br />

17 Cfr. J. BORD, Footprints in Stone. The significance of foot- and hand-prints<br />

and other imprints left by early men, giants, heroes, devils, saints, animals, ghosts,<br />

witches, fairies and monsters, Avebury 2004.<br />

18 Sui profeti nell’Islām, cfr. R. TOTTOLI, I profeti biblici nella tra<strong>di</strong>zione islamica,<br />

Brescia 1999, e B. M. WHEELER, Prophets in the Quran: an introduction to the<br />

Quran and Muslim exegesis, London-New York 2002. Secondo il commentario<br />

coranico <strong>di</strong> al-Bayḍāwī il numero dei profeti è <strong>di</strong> 124.000, cfr. AL-BAYḌĀWĪ, Anwār<br />

al-tanzīl wa-asrār al-ta’wīl, Beirut 1988, 2:346.


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

Ka‘ba, e definita Maqām Ibrāhīm, significando la parola maqām allo<br />

tempo stesso luogo, posizione, rango spirituale e in senso esteso anche<br />

tomba, <strong>di</strong> un profeta o <strong>di</strong> un santo. Un versetto coranico invita i credenti<br />

a considerare questo luogo come un luogo <strong>di</strong> preghiera, e infatti<br />

delle preghiere rituali vengono eseguite <strong>di</strong> fronte ad esso 19 . Per sua natura<br />

la religione islamica è refrattaria a qualsiasi genere <strong>di</strong> venerazione<br />

al <strong>di</strong> fuori del culto <strong>di</strong> Dio, ma la venerazione <strong>di</strong> questa impronta trova<br />

riscontro nel Corano, come abbiamo visto, ed è dunque accettata, allo<br />

stesso modo della venerazione della Pietra Nera. Tuttavia gli ‘ulamā’, i<br />

dottori <strong>di</strong> scienza religiosa, si sono chiesti se con Maqām Ibrāhīm si dovesse<br />

intendere l’acheropito stesso oppure in senso più ampio il luogo<br />

in cui pregò Abramo. Secondo alcuni, esso sarebbe la pietra sulla quale<br />

Abramo salì per costruire la Ka‘ba, oppure per chiamare le genti al<br />

pellegrinaggio, mentre altre opinioni sostengono che esso rappresenti la<br />

<strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> preghiera (qibla) <strong>di</strong> Abramo, e che la pietra sia <strong>di</strong> origine<br />

<strong>di</strong>vina, come la Pietra Nera. Altri ‘ulamā’, come Ibn al-Jawzī (m. 1201),<br />

affermano che l’impronta è un simbolo per spingere i credenti a seguire<br />

l’esempio <strong>di</strong> Abramo, seguendo i suoi passi 20 . È interessante segnalare<br />

come alcune interpretazioni in ambito Hindū considerino La Mecca<br />

come un antico santuario ve<strong>di</strong>co e affermino che l’impronta sia da attribuire,<br />

secondo le opinioni, piuttosto a Viṣṇu, Śiva, Krishna o Brahma<br />

21 .<br />

Un’altra impronta <strong>di</strong> Abramo è venerata a Bani Na‘im, villaggio vicino<br />

a Hebron in Cisgiordania, nei pressi della tomba <strong>di</strong> Lot, nipote <strong>di</strong><br />

Abramo e profeta secondo l’Islām, luogo <strong>di</strong> sepoltura già segnalato da<br />

San Girolamo nel 4° secolo. Le fonti affermano che da qui Abramo osservò<br />

la <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Sodoma e Gomorra e la sua prosternazione <strong>di</strong><br />

fronte all’evento lasciò l’impronta dei suoi pie<strong>di</strong> sulla roccia 22 .<br />

19 «wa-ttakhidū min maqām Ibrāhīm muṣallan», Cor. 2:125.<br />

20 M. J. KISTER, Makām Ibrāhīm, Encyclope<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion,<br />

4:102, e M. J. KISTER, Maqām Ibrāhīm: a stone with an inscription, Le Muséon 84<br />

(1971), 477-91.<br />

21 Cfr. C. W. ERNST, Situating Sufism and Yoga, Journal of the Royal Asiatic<br />

Society 3/15:1 (2005) 25-26. In Internet, su alcuni siti <strong>di</strong> ispirazione Hindū, si possono<br />

trovare numerosi riferimenti a quelle che vengono definite le «ra<strong>di</strong>ci ve<strong>di</strong>che<br />

dell’Arabia preislamica».<br />

22 M. SHARON, Corpus Inscriptionum Arabicarum Palaestinae, 2, Leiden 1997,<br />

18-19.<br />

85


86<br />

Luca Patrizi<br />

Sono venerate anche <strong>impronte</strong> attribuite a Mosé: in prossimità della<br />

città <strong>di</strong> Damasco, nella cosiddetta Masjid al-Qadam, «la Moschea dell’Impronta»,<br />

è conservata in una teca un’impronta nella roccia ricondotta<br />

al profeta biblico 23 . Nelle antiche guide ai luoghi <strong>di</strong> pellegrinaggio<br />

sono segnalate altre <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Mosè, nella Masjid al-Qadam del<br />

Cairo, non più esistente 24 , e l’impronta dei due pie<strong>di</strong> del profeta biblico<br />

nel paese <strong>di</strong> Atfih, a sud del Cairo all’altezza dell’oasi <strong>di</strong> al-Fayyūm, <strong>di</strong><br />

cui si sono perse le tracce 25 . Un’altra impronta degna <strong>di</strong> nota è quella<br />

segnalata nel sud della Siria a Imtan: si tratterebbe dell’impronta lasciata<br />

dal bastone <strong>di</strong> Mosè, che è <strong>di</strong> origine soprannaturale, e attorno al<br />

quale sono sorte numerose leggende in Islām 26 . Si segnalano anche delle<br />

<strong>impronte</strong> attribuite ad Aronne, e precisamente a Salkhad, nel sud<br />

della Siria, nel punto esatto in cui sarebbe terminata per il profeta e suo<br />

fratello Mosè la peregrinazione nel deserto del Sinai 27 .<br />

Le <strong>impronte</strong> che la tra<strong>di</strong>zione islamica attribuisce al Profeta Muḥammad<br />

sono numerose. La più celebre è l’impronta conservata a Gerusalemme<br />

nella Cupola della Roccia (Qubbat al-Ṣakhra), prodottasi miracolosamente<br />

in occasione del viaggio celeste del Profeta, il mi‘rāj 28 . Essa<br />

si trova attualmente nell’angolo sud-ovest della Roccia, dentro a un reliquiario<br />

29 (Tav. 4). Altre <strong>impronte</strong> sono conservate a Ṭā’if in Arabia<br />

23 J. SOURDEL-THOMINE, Les anciens lieux de pèlerinage damascains d’après les<br />

sources arabes, Bulletin d’études orientales XIV (1952–4) 73, e AL-HARAWĪ, Guide<br />

des lieux de pélerinage, Damasco 1997, 31.<br />

24 AL-HARAWĪ, cit., 93.<br />

25 Ivi, 98.<br />

26 Ivi, 44. Sul bastone <strong>di</strong> Mosé, cfr. A. JEFFERY, ‘Aṣā, Encyclope<strong>di</strong>a of Islam<br />

Second E<strong>di</strong>tion, 1:701.<br />

27 Ivi, 43.<br />

28 T. W. ARNOLD, Ḳadam Sharīf (Ḳadam Rasūl Allāh), Encyclopae<strong>di</strong>a of<br />

Islam Second E<strong>di</strong>tion, 4:367. Sul Mi‘rāj, cfr. B. SCHRIEKE - J. E. BENCHEIKH - J.<br />

KNAPPERT - B. W. ROBINSON, Mi‘rādj, Encyclope<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion,<br />

7:97, e Il viaggio notturno e l’ascensione del Profeta, a cura <strong>di</strong> I. Zillio-Gran<strong>di</strong>,<br />

<strong>Torino</strong> 2010.<br />

29 G. NECIPOGLU, The Dome of the Rock as Palimpsest: ‘Abd al-Malik’s Grand<br />

Narrative and Sultan Süleyman’s Glosses, Muqarnas 25 (2008), 25, 29, 32, 58, 69-<br />

70; A. ELAD, Me<strong>di</strong>eval Jerusalem and Islamic worship: holy places, ceremonies, pilgrimage,<br />

Leiden 1995, 72-73, 166-167. Nella grotta sottostante la Roccia, alla<br />

qua le si accede con una scala, è segnalata inoltre un’impronta attribuita al profeta<br />

Idrīs, l’Enoch biblico, cfr. NECIPOGLU, cit. 58, 63.


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

Sau<strong>di</strong>ta sul monte Abū Zubaydah, una al Cairo nel mausoleo <strong>di</strong> Qā’it<br />

Bay, una a Tanta, nel delta egiziano, custo<strong>di</strong>ta all’interno del mausoleo<br />

del celebre sufi Aḥmad al-Badawī (m. 1260), e una nella Masjid al-<br />

Aqdām a sud <strong>di</strong> Damasco 30 . Nella moschea al-Karimiyya ad Aleppo,<br />

un’impronta attribuita al Profeta è posizionata in senso verticale, in modo<br />

da permettere a dell’acqua <strong>di</strong> percorrerne la superficie, prima <strong>di</strong> esser<br />

raccolta in un bicchiere, pronta per essere bevuta, nella ricerca della bene<strong>di</strong>zione<br />

che ne deriva 31 (Tav. 5). Due <strong>impronte</strong> sono custo<strong>di</strong>te nel palazzo<br />

Topkapi a Istanbul, assieme ad un gran numero <strong>di</strong> reliquie attribuite<br />

al Profeta, che i governanti islamici si sono tramandate attraverso<br />

la storia come segno <strong>di</strong> religiosità e potere. Si ritiene che una delle due<br />

sia stata provocata dalla pressione del piede del Profeta Muḥammad in<br />

occasione della ricostruzione della Ka‘ba (Tav. 6), ed è quin<strong>di</strong> in relazione<br />

con il Maqām Ibrāhīm, mentre la seconda è una copia dell’impronta<br />

impressa sulla Roccia a Gerusalemme 32 . Numerose <strong>impronte</strong> del<br />

Profeta sono segnalate infine nel subcontinente in<strong>di</strong>ano, in un contesto<br />

senza dubbio maggiormente pre<strong>di</strong>sposto a questo genere <strong>di</strong> venerazione.<br />

La più celebre è quella custo<strong>di</strong>ta nella moschea detta Qadam Sharīf, il<br />

«La Nobile Impronta» a Delhi, e quella a Lucknow, nell’Uttar Pradesh<br />

33 . Si segnala inoltre una venerazione per i sandali del Profeta, che ha<br />

analogie con pratiche simili soprattutto nel Buddhismo 34 . Prima <strong>di</strong> interrogarsi<br />

sul valore <strong>di</strong> queste <strong>impronte</strong>, bisogna segnalare anche la presenza<br />

<strong>di</strong> <strong>impronte</strong> attribuite a ‘Ali ibn AbīṬālib, genero del Profeta e suo<br />

quarto successore (khalīfa) nel governo dell’impero islamico. In questo<br />

caso, la particolarità è legata al fatto che si tratta <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> delle ma-<br />

30 WHEELER, cit., 78-79. Anche Ibn Baṭṭūṭa segnala la presenza dell’impronta<br />

dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Mosé in questa moschea, affermando inoltre che secondo alcune tra<strong>di</strong>zioni<br />

essa è ad<strong>di</strong>rittura costruita sulla tomba del profeta, cfr. IBN BAṬṬŪṬA, cit.,<br />

113-114.<br />

31 Testimonianza dell’autore. Su questa pratica, cfr. A. SCHIMMEL, And<br />

Muham mad Is His Messenger: The Veneration of the Prophet in Islamic Piety,<br />

Chapel Hill and London 1985, 42.<br />

32 WHEELER, cit., 78-79; H. AYDIN, The <strong>Sacre</strong>d Trusts: Pavilion of the <strong>Sacre</strong>d<br />

Relics, Topkapi Palace Museum, Istanbul, New Jersey 2010.<br />

33 J. BURTON-PAGE, Ḳadam Sharīf (Ḳadam Rasūl Allāh). In<strong>di</strong>a and Pakistan,<br />

Encyclopae<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion, 4:367; P. HASAN, The Footprint of the<br />

Prophet, Muqarnas 14 (1993) 335-343; A. WELCH, The Shrine of the Holy<br />

Footprint in Delhi, Muqarnas 14 (1997) 166-178.<br />

34 WHEELER, cit., 79-80.<br />

87


88<br />

Luca Patrizi<br />

ni. Esse sono <strong>di</strong>ffuse soprattutto nel contesto geografico <strong>di</strong> influenza<br />

sciita. Una <strong>di</strong> queste <strong>impronte</strong> è a Nisibis, una delle più antiche città assire<br />

al confine tra Turchia e Siria, nell’oratorio <strong>di</strong> Bab al-Rūm 35 , e un’altra<br />

a Qarqisiyya, vicino a Busayrah, sull’Eufrate, in Siria 36 . Nel museo <strong>di</strong><br />

Baghdad è conservata l’impronta della mano <strong>di</strong> ‘Alī che era incastonata<br />

nell’antico mirhab della moschea <strong>di</strong> Mosul 37 . Sempre a Baghdad, nella<br />

zona <strong>di</strong> un antico mercato, il Sūq al-Mirjāniyya, troviamo un’altra impronta<br />

delle <strong>di</strong>ta della mano <strong>di</strong> ‘Alī 38 . Questo elenco <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> in ambito<br />

islamico non è esaustivo, ed è limitato soltanto ad alcune tra le più<br />

rappresentative.<br />

Per trarre delle prime conclusioni a proposito del valore delle <strong>impronte</strong><br />

dei profeti nell’Islām si può affermare che, in maniera non <strong>di</strong>ssimile<br />

da quel che si potrebbe <strong>di</strong>re per altre tra<strong>di</strong>zioni religiose, esse rappresentino<br />

principalmente la riproduzione e la riattualizzazione <strong>di</strong> un<br />

mito cosmogonico, come abbiamo visto nella leggenda <strong>di</strong> Adamo in Sri<br />

Lanka e <strong>di</strong> Abramo e <strong>di</strong> Muḥammad alla Mecca. La conservazione<br />

delle <strong>impronte</strong>, così come la riproduzione <strong>di</strong> copie delle stesse o <strong>di</strong> modelli<br />

che si richiamano ad esse, è strettamente legata nell’Islām alla fondazione<br />

della civiltà: infatti non è raro trovare menzione <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici costruiti<br />

a partire da queste <strong>impronte</strong> o <strong>di</strong> governanti che si procurano a<br />

caro prezzo <strong>impronte</strong> da inserire nella fondazione <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici importanti<br />

al fine <strong>di</strong> legittimare il loro potere 39 . Possiamo dunque affermare che la<br />

<strong>di</strong>ffusione delle <strong>impronte</strong> del Profeta, così come delle reliquie, come vedremo,<br />

va <strong>di</strong> pari passo con la <strong>di</strong>ffusione della civiltà islamica. In secondo<br />

luogo le <strong>impronte</strong> rappresentano nel loro senso più elevato l’impressione<br />

sulla pietra, dunque su questa realtà, della traccia proveniente<br />

dalla realtà sottile, l’immagine provocata da una rottura <strong>di</strong> livello, e<br />

la formazione <strong>di</strong> un passaggio tra la terra e il cielo, sia nel caso in cui<br />

essa è prodotta in seguito ad una <strong>di</strong>scesa che ad un’ascensione celeste.<br />

In questa categoria rientrano le <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> ascensione dei profeti e le<br />

<strong>impronte</strong> lasciate da angeli e cavalcature celesti. Esaminando il caso<br />

dell’impronta attribuita al profeta Muḥammad sulla Roccia a Gerusalemme<br />

in occasione del mi‘rāj, l’Ascensione Celeste, possiamo notare<br />

35 AL-HARAWĪ, cit., 146.<br />

36 Ivi, 148.<br />

37 Ivi, 155.<br />

38 Ivi, 172.<br />

39 WHEELER, cit., 71-98.


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

che essa ha un antecedente importante: nella Cappella dell’Ascensione,<br />

sempre a Gerusalemme, il Cristianesimo venera l’impronta del piede <strong>di</strong><br />

Gesù, impressa su una roccia in occasione della sua ascensione in cielo.<br />

È interessante notare che assieme all’impronta del Profeta i musulmani<br />

venerano altre due <strong>impronte</strong> nell’area della Roccia: l’impronta della<br />

mano dell’angelo Gabriele, prodottasi mentre l’angelo cercava <strong>di</strong> bloccare<br />

a terra la Roccia che si stava alzando assieme al Profeta durante<br />

l’Ascensione, e la traccia lasciata dallo zoccolo del Burāq, la cavalcatura<br />

celeste che conduce a gran velocità il Profeta da Mecca a Gerusalemme,<br />

prima dell’Ascensione 40 .<br />

Inoltre, le <strong>impronte</strong> simboleggiano il cammino religioso e spirituale:<br />

se nel Buddhismo l’iconografia del Buddha che cammina e lascia<br />

un’impronta rappresenta il dharma, e i maestri talvolta lasciano in ere<strong>di</strong>tà<br />

ai loro <strong>di</strong>scepoli delle <strong>impronte</strong> dei loro pie<strong>di</strong> dopo la loro morte 41 ,<br />

anche nell’Islām le <strong>impronte</strong> rappresentano il cammino religioso, e l’azione<br />

del seguire l’esempio profetico e l’esempio dei santi, come abbiamo<br />

visto in occasione dell’interpretazione del significato del Maqām<br />

Ibrāhīm da parte <strong>di</strong> Ibn al-Jawzī 42 . La venerazione dei sandali del Profeta,<br />

<strong>di</strong>ffusa ad ogni latitu<strong>di</strong>ne nelle terre islamiche, può essere ricondotta<br />

a queste stesse motivazioni simboliche 43 .<br />

40 NECIPOGLU, cit., 58, 63. Un’altra impronta della mano dell’angelo Gabriele<br />

si trova nella grotta detta attualmente Qubbat al-arba‘īn sul Monte Qāsiyūn a<br />

Damasco, luogo sacro molto antico e venerato, dove, tra l’altro, si sarebbe consumato<br />

secondo la leggenda l’omici<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Caino da parte <strong>di</strong> Abele, cfr. N.<br />

ELLISSÉEFF, Ḳāsiyūn, Encyclopae<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion, 4:724, e W. BORK-<br />

QAYSIEH, Die Geschichte von Kain und Abel (Hābīl wa Qābīl) in der sunnitischislamischen<br />

Überlieferung, Berlino 1993, 86-130. A Buṣrā, in Siria, nella moschea<br />

detta al-Mabrak, si trova invece un’impronta sulla roccia prodotta dalle ginocchia<br />

della cammella del profeta Muḥammad, cfr. IBN BAṬṬŪṬA, cit., 127. Un’altra<br />

versione riporta che la cammella trasportava un esemplare del Corano: in<br />

entrambi i casi è la ‘pesantezza’ della Parola <strong>di</strong> Dio a imprimere la roccia. Questa<br />

caratteristica è evidente anche in altri resoconti, secondo i quali la <strong>di</strong>scesa della<br />

Parola <strong>di</strong> Dio causava l’aumento temporaneo del peso del Profeta, cfr. GRIL, cit.,<br />

42. 41 BAKKER, cit., 26-27. Nello Hindūismo, il rispetto per il maestro si esprime<br />

con lo stare «ai suoi pie<strong>di</strong>», talvolta toccandoli o baciandoli, cfr. J. STRONG, Relics<br />

of the Buddha, Princeton 2004, 85. La stessa cosa si può attestare nell’ambito del<br />

rapporto maestro-<strong>di</strong>scepolo nel Sufismo.<br />

42 Supra, 85.<br />

43 SCHIMMEL, cit., 40-42.<br />

89


90<br />

Luca Patrizi<br />

Infine, possiamo considerare questo genere <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> una particolare<br />

forma <strong>di</strong> aniconismo, dal momento che esse rappresentano il negativo<br />

<strong>di</strong> una figura piena. L’impronta del Buddha, ad esempio, è il primo<br />

motivo iconografico storico del Buddhismo, e nella sua fase aniconica,<br />

che secondo alcuni specialisti dura dall’inizio fino al 2° secolo a.C., è<br />

anche l’unico motivo iconografico utilizzato per descrivere il Buddha<br />

stesso, tanto da assurgerne a simbolo, come il pesce per il Cristo nel<br />

Cristianesimo aniconico delle origini 44 . Essendo l’Islām orientato all’aniconismo<br />

assoluto, così come l’Ebraismo, questa è una modalità <strong>di</strong><br />

rappresentazione che gli è certo congeniale.<br />

Sulla venerazione delle <strong>impronte</strong>, così come sulla venerazione delle<br />

reliquie più in generale, si sono originate molte polemiche in seno all’Islām,<br />

dal momento che, come abbiamo visto, esistono solo due <strong>oggetti</strong> la<br />

cui venerazione non può essere contestata in quanto legata ad un testo<br />

fondatore: il Maqām Ibrāhīm, e la Pietra Nera, venerata dal Profeta in<br />

vita, e legittimata da alcune tra<strong>di</strong>zioni profetiche. Per quel che concerne<br />

invece la venerazione delle altre <strong>impronte</strong>, non vi è unanimità tra gli<br />

‘ulamā’. Ibn Taymiyya, celebre ‘ālim morto a Damasco nel 1328, con<strong>di</strong>videva<br />

la stessa visione <strong>di</strong> Lutero nei confronti del culto delle reliquie, e<br />

secondo la sua opinione l’impronta lasciata dal Profeta sulla Roccia <strong>di</strong><br />

Gerusalemme sarebbe un falso 45 . Egli giunse fino a tentare <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere<br />

una <strong>di</strong> queste <strong>impronte</strong> a Damasco, e fu costretto a fuggire dalla folla<br />

inferocita, decisa a ven<strong>di</strong>care il suo tentativo ai loro occhi sacrilego 46 .<br />

In relazione all’aniconismo islamico è interessante soffermarsi brevemente<br />

sulla questione dei ritratti dei profeti nell’Islām. In ambito<br />

islamico ogni forma <strong>di</strong> riproduzione della Divinità, dei profeti, <strong>degli</strong><br />

uomini, e in generale <strong>di</strong> ogni cosa vivente è proscritta, mentre è lecito il<br />

ricorrere a motivi provenienti dalla natura o a motivi geometrici 47 .<br />

44 A. K. COOMARASWAMY, The Origin of the Buddha Image, Art Bulletin 9:4<br />

(1927) 287; per un’opinione più sfumata nei riguar<strong>di</strong> della teoria dell’aniconismo<br />

buddhista, cfr. S. L. HUNTINGTON, Early Buddhist Art and the Theory of<br />

Aniconism, Art Journal 49/4, (1990) 401-408.<br />

45 C. D. MATTHEWS, A Muslim Iconoclast (Ibn Taymīyyeh) on the ‘Merits’ of<br />

Jerusalem and Palestine, Journal of the American Oriental Society 56/1 (1936), 5.<br />

46 M. U. MEMON, Ibn Taymiyya’s Struggle against Popular Religion, The<br />

Hague 1976, 362 n. 301.<br />

47 A. J. WENSINCK, Ṣūra, Encyclopae<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion, 9:925.<br />

Queste prescrizioni sono state seguite solo parzialmente in area persiana e turca,<br />

dove si è assistito ad uno sviluppo <strong>di</strong> un’arte figurativa incentrata anche su motivi


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

Il giorno della conquista della Mecca il profeta Muḥammad or<strong>di</strong>nò che<br />

gli idoli del culto preislamico che si trovavano all’esterno e all’interno<br />

della Ka‘ba venissero <strong>di</strong>strutti. Secondo le fonti islamiche, inoltre, all’interno<br />

della Ka‘ba erano conservate rappresentazioni <strong>di</strong> angeli e profeti,<br />

tra le quali è ricordata l’immagine <strong>di</strong> Abramo che tiene in mano<br />

delle frecce <strong>di</strong> <strong>di</strong>vinazione, ma soprattutto un’immagine <strong>di</strong> Gesù con la<br />

madre, che fu l’unica a non essere cancellata, secondo l’or<strong>di</strong>ne del Profeta<br />

48 . Si possono segnalare inoltre alcune interessanti tra<strong>di</strong>zioni islamiche,<br />

ma anche ebraiche, in relazione ai ritratti dei profeti, secondo le<br />

quali Dio mostrò ad Adamo l’immagine <strong>di</strong> tutti i profeti fino alla fine<br />

del mondo, egli compreso. Secondo altre tra<strong>di</strong>zioni Dio fece scendere<br />

sulla terra un tābūt, una scatola <strong>di</strong> legno raro intarsiata d’oro, munita<br />

<strong>di</strong> cassetti: Abramo la aprì, e vi trovò i ritratti <strong>di</strong> tutti i profeti, che <strong>di</strong>scendevano<br />

da Adamo, e i ritratti <strong>di</strong> tutti i faraoni e i governanti temporali,<br />

che <strong>di</strong>scendevano da Caino. Un’altra tra<strong>di</strong>zione narra che nel<br />

corso della famosa ambasciata inviata dal Profeta Muḥammad per invitare<br />

l’imperatore bizantino Eraclio all’Islām tramite una missiva,<br />

l’imperatore mostrò ai componenti meccani della delegazione una scatola<br />

con numerosi cassetti, dai quali estrasse i ritratti <strong>di</strong> tutti i profeti<br />

da Adamo fino a Muḥammad. Quando gli fu domandato in che modo<br />

fosse venuto in possesso <strong>di</strong> quell’oggetto, Eraclio rispose che esso era<br />

<strong>di</strong>sceso sulla terra per Adamo, e in seguito era stato ritrovato da Alessandro<br />

Magno assieme al leggendario Tesoro <strong>di</strong> Adamo, per passare in<br />

seguito <strong>di</strong> mano in mano fino a lui. Altre versioni simili <strong>di</strong> questi racconti<br />

si ritrovano in altre tra<strong>di</strong>zioni islamiche, mentre in due <strong>di</strong>fferenti<br />

cronache cinesi risalenti al 15° secolo è riportata la seguente storia,<br />

comune anche ad altre tra<strong>di</strong>zioni islamiche: un imperatore cinese<br />

contemporaneo <strong>di</strong> Muḥammad invitò il profeta in Cina; egli inviò in<br />

sua vece una sua immagine, che aveva la caratteristica <strong>di</strong> scomparire<br />

dopo un certo tempo, per evitare che in seguito essa potesse <strong>di</strong>ventare<br />

og getto <strong>di</strong> venerazione. Infatti, nel momento in cui l’imperatore Hi uan-<br />

Tsong si convertì e cominciò ad adorare il ritratto, esso scomparve 49 .<br />

sacri, che giunge fino a riprodurre le fattezze del profeta Muḥammad, cfr. P.<br />

SOUCEK, The Theory and Practice of Portraiture in the Persian Tra<strong>di</strong>tion, Mu qar -<br />

nas 17 (2000), 97-108.<br />

48<br />

WENSINCK, cit., 9:925; G. R. D. KING, The Paintings of the Pre-Islamic<br />

Ka‘ba, Muqarnas 21 (2004), 219-229.<br />

49 O. GRABAR, The Story of Portraits of the Prophet Muhammad, <strong>Stu<strong>di</strong></strong>a Isla -<br />

mi ca 96 (2003), 19-38.<br />

91


92<br />

Luca Patrizi<br />

Nell’Islām la scrittura prende il posto dell’iconografia, e dal momento<br />

che il Corano è Verbo <strong>di</strong> Dio fatto libro, la scrittura coranica prende il<br />

posto che nel Cristianesimo hanno l’Icona, soprattutto, e poi l'immagine<br />

del Cristo in genere. Al posto delle immagini, inoltre, vi è il ricorso<br />

alla descrizione fisica del profeta Muḥammad tratta da resoconti dei<br />

suoi compagni, che ha preso la forma canonica della cosiddetta Ḥilya,<br />

«Ornamento», una descrizione redatta con una cura particolare per la<br />

calligrafia, <strong>di</strong>ffusa soprattutto durante il periodo ottomano 50 . Per<br />

quanto riguarda le reliquie profetiche, anche se a prima vista sembrerebbe<br />

non trattarsi esattamente <strong>di</strong> acheropiti, esse sono venerate in<br />

realtà per la relazione che intrattengono con il soprannaturale. Infatti<br />

la dottrina islamica, a fianco <strong>di</strong> posizioni tendenti a privilegiare l’umanità<br />

del Profeta, propone anche posizioni che evidenziano il suo statuto<br />

particolare rispetto alle altre creature, sviluppate soprattutto nell’ambito<br />

delle dottrine legate al Sufismo. Secondo queste dottrine, oltre ad<br />

essere il Sigillo dei Profeti, ed oltre ad essere la prima creatura ad essere<br />

stata esistenziata, creatura dalla quale tutte le altre creature traggono la<br />

loro origine, essendo il suo corpo luogo della Teofania <strong>di</strong>vina, egli<br />

arriva quasi ad identificarsi con il Corano. Nelle dottrine più eso -<br />

teriche, poi, la sua natura interiore è identica alla Luce Divina, deno -<br />

minata al-nūr al-Muḥamma<strong>di</strong>yya, la «luce Muḥamma<strong>di</strong>ca» o al-ḥaqiqa<br />

al-Muḥamma<strong>di</strong>yya, la «realtà Mu ḥam ma<strong>di</strong>ca» 51 . Il suo corpo ha dunque<br />

uno statuto speciale: i compagni del Profeta, soprattutto in occasione<br />

della fine del pellegrinaggio, quando il rito impone la rasatura,<br />

conservarono i suoi capelli e i peli della sua barba, il suo sangue, la sua<br />

saliva, e anche gli <strong>oggetti</strong> che entravano in contatto con il suo corpo,<br />

come l’acqua delle abluzioni 52 . Inoltre sono stati conservati i capi <strong>di</strong> vestiario<br />

che gli appartenevano, le sue scarpe, e le sue spade. Alcuni compagni,<br />

come ad esempio il califfo Omayyade Mu‘āwīya I (m. 680), dopo<br />

aver raccolto e conservato queste reliquie, alla morte si facevano seppellire<br />

assieme ad esse, con dei capelli del Profeta sugli occhi, sulla bocca<br />

o sopra o sotto la lingua. Gran<strong>di</strong> guerrieri come Khālid Ibn al-Walīd<br />

(m. 642) si lanciavano in battaglia con delle reliquie del Profeta racchiuse<br />

in piccole urne attaccate a delle collane. I compagni hanno <strong>di</strong>ffu-<br />

50 SCHIMMEL, cit., 36-39.<br />

51 Ivi, 123-143.<br />

52 Cfr. D. GRIL, Le corps du Prophète, Revue des mondes musulmans et de la<br />

Mé<strong>di</strong>terranée 113-114 (2006) 37-57.


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

so le reliquie del Profeta in tutto il nascente impero islamico, ed esse sono<br />

state spesso utilizzate, come nel caso delle <strong>impronte</strong>, nella fondazione<br />

<strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici sacri e <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici pubblici, poste alle fondamenta 53 . Alcune<br />

reliquie si sono trasmesse <strong>di</strong> generazione in generazione, e come nel caso<br />

delle reliquie buddhiste e cristiane, si sono talvolta moltiplicate in<br />

maniera incontrollata. Gli esemplari più antichi e importanti sono conservati<br />

soprattutto nel museo del Palazzo Topkapi <strong>di</strong> Istanbul e nella<br />

moschea <strong>di</strong> al-Ḥusayn al Cairo 54 . Una <strong>di</strong> queste reliquie rientra tuttavia<br />

pienamente nella categoria <strong>degli</strong> acheropiti, almeno grazie alla sua leggenda:<br />

infatti la spada del Profeta ere<strong>di</strong>tata da suo padre ‘Abd Allāh<br />

denominata al-Ma’thūr e conservata ancora attualmente al Topkapi, risulta<br />

essere stata forgiata dai jinn, esseri che sfuggono alla percezione,<br />

assimilabili ai geni e ai demoni della tra<strong>di</strong>zione greco-romana. Per curiosità,<br />

si ritiene che un’altra delle spade possedute dal Profeta e oggi<br />

presenti al Topkapi sia una delle tre spade <strong>di</strong> origine antichissima che<br />

furono sottratte alle tribù israelite sconfitte, ed è quella che la tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica afferma essere la stessa con cui il Cristo della seconda venuta<br />

sconfiggerà l’Anticristo 55 .<br />

Le reliquie <strong>di</strong> Muḥammad acquistano dunque la loro sacralità in relazione<br />

alla natura interiore del Profeta, soprattutto grazie al suo legame<br />

intimo con il Corano, l’acheropito per eccellenza nell’Islām: secondo<br />

la dottrina islamica infatti il Corano è ‘non-creato’, non soltanto<br />

nella sua essenza, ma anche nella sua forma materiale 56 . Discendendo<br />

nel Profeta, il Corano penetra dunque la sua natura interiore fino ad<br />

identificarsi con essa: è celebre il detto <strong>di</strong> ‘Ā’isha, una delle sue mogli,<br />

53<br />

WHEELER, cit., 81-98. Un analogo utilizzo delle reliquie nella costruzione<br />

<strong>degli</strong> e<strong>di</strong>fici sacri si può osservare nel caso dello Hindūismo e del Buddhismo, cfr.<br />

M. BÉNISTI, Étude sur le stūpa dans l’Inde ancienne, Bulletin de l’Ecole française<br />

d’Extrême-Orient 50/1 (1960) 37-116.<br />

54<br />

WHEELER, cit., 81-98.<br />

55 Ivi, 29-46.<br />

56 In conseguenza <strong>di</strong> ciò, come per la Torah in ebraico, un’attenzione rituale è<br />

applicata alla manipolazione <strong>degli</strong> esemplari cartacei del Corano, e colui che<br />

intende toccarne il testo deve trovarsi in stato <strong>di</strong> purità rituale in seguito ad abluzione.<br />

Attorno alla natura creata o increata del Corano si è prodotta in Islām un<br />

confronto teologico molto acuto, sfociato nell’Inquisizione (mihna) mu‘tazilita del<br />

califfo al-Ma’mūn (m. 833). L’analogia con le controversie teologiche in merito<br />

alla natura del Cristo nel Cristianesimo dei primi concili meriterebbero <strong>di</strong> essere<br />

approfon<strong>di</strong>te.<br />

93


94<br />

Luca Patrizi<br />

che interrogata a proposito del carattere del Profeta rispose: «Il suo carattere<br />

era il Corano» 57 .<br />

Anche per quel che concerne le reliquie, si può affermare che la loro<br />

<strong>di</strong>ffusione procede <strong>di</strong> pari passo con la <strong>di</strong>ffusione storica e geografica<br />

della civiltà islamica, ed esse rivestono quin<strong>di</strong> una funzione civilizzatrice<br />

e <strong>di</strong> legittimazione del potere temporale. La collezione <strong>di</strong> reliquie sacre<br />

custo<strong>di</strong>ta al Topkapi, ad esempio, ha certamente contribuito a legittimare<br />

il dominio ottomano su una parte del mondo arabo, allo stesso<br />

modo in cui l’In<strong>di</strong>a Moghul trasse la legittimazione del suo potere temporale<br />

dalle reliquie sottratte a Samarcanda, delle quali si era a sua volta<br />

impossessato Tamerlano durante la conquista del Me<strong>di</strong>o Oriente.<br />

Questo processo non è certo nuovo: anche nell’Egitto tolemaico i governanti<br />

ellenici riuscirono a imporre la loro autorità rispetto alle popolazioni<br />

locali grazie ad un pellegrinaggio compiuto verso tutte le<br />

città che conservavano interrate le <strong>di</strong>verse parti del corpo <strong>di</strong> Osiride 58 .<br />

In conclusione, possiamo affermare che i dati esposti nel corso <strong>di</strong> questa<br />

<strong>di</strong>ssertazione mostrino fino a che punto l’Islām s’iscriva nel solco<br />

simbolico, storico e sociale delle dottrine e delle religioni orientali che<br />

l’hanno preceduta, ere<strong>di</strong>tandone e rinnovandone le principali caratteristiche.<br />

57 «kāna khuluquhu al-Qur’ān», IBN ḤANBAL, Musnad, 25341, 25855; MUSLIM,<br />

Ṣaḥīḥ, 6:18 n. 746.<br />

58 WHEELER, cit., 91.


OGGETTI ‘CADUTI DAL CIELO’ NEL MONDO ANTICO:<br />

VALENZE RELIGIOSE E POLITICHE<br />

LELLIA CRACCO RUGGINI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> –<br />

Accademia Nazionale dei Lincei, Roma<br />

Secondo Schopenhauer materia della storia sarebbe il fatto particolare<br />

nella sua contingenza, cioè soltanto ciò che esiste <strong>di</strong> volta in volta.<br />

E in questa prospettiva la materia storica non gli appariva un oggetto<br />

degno <strong>di</strong> esame laborioso da parte dello spirito umano, che dovrebbe<br />

sempre scegliere l’infinito 1 (o quanto meno – come già scriveva Seneca<br />

nel I secolo d.C. – «ricercare ciò che si deve fare, piuttosto che quello è<br />

stato fatto» 2 ). Oggi, a circa un secolo e mezzo <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza da Schopenhauer,<br />

il modo <strong>di</strong> guardare alla storia è ra<strong>di</strong>calmente mutato; e anche<br />

questo Convegno parte dal presente (in parallelo con l’ostensione<br />

della Sindone a <strong>Torino</strong> dal 10 al 23 maggio 2010), indagando il fenomeno<br />

della devozione per le ‘<strong>Sacre</strong> Impronte’ nelle varie religioni (secondo<br />

formulazioni che variano molto a seconda del contesto culturale), ma<br />

evitando sempre – deliberatamente – qualsivoglia <strong>di</strong>battito sulla loro<br />

autenticità, aspetto del tutto estraneo sia all’indagine storico-<strong>di</strong>acronica<br />

(<strong>degli</strong> storici, <strong>degli</strong> storici delle religioni, <strong>degli</strong> storici dell’arte), sia<br />

all’apporto <strong>degli</strong> antropologi, dei filosofi, dei teorici della comunicazione<br />

visiva e così via.<br />

Io, qui, mi occuperò brevemente soltanto della preistoria del fenomeno,<br />

ossia <strong>degli</strong> ‘<strong>oggetti</strong> caduti dal cielo’ nell’antichità; e soltanto per<br />

sottolineare, attraverso alcuni esempî, il mutamento epocale che andò<br />

maturando anche in questo ámbito nel lento passaggio al me<strong>di</strong>oevo, in<br />

parallelo con l’affermarsi, sul tramonto del mondo pagano, del cristianesimo.<br />

1 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, II (Supplementi<br />

al III libro), cap. 38 (Sulla storia), trad. ital., Bari 1930, 537-546 (da Die<br />

Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig 1844 2 , la prima e<strong>di</strong>z. ted. ad avere i Supplementi).<br />

2 LUCIUS ANNAEUS SENECA, Naturales Quaestiones, III, Praef., 7: “Quanto satius<br />

est quid faciendum sit quam quid factum quaerere”.<br />

95


96<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

Durante l’età romana e bizantina – <strong>di</strong> cui mi occuperò principalmente<br />

in questa sede – tali <strong>oggetti</strong> furono presi in alta considerazione<br />

come talismani (assieme ad altri pignora imperii che dal cielo non erano<br />

caduti affatto 3 ), atti a garantire la sopravvivenza <strong>di</strong> un’entità statale che<br />

fin dalle origini si era profilata come unitaria, anche se non ancora<br />

‘mon<strong>di</strong>ale’ come sarebbe avvenuto in seguito. E il fatto <strong>di</strong> essere ‘<strong>oggetti</strong><br />

caduti dal cielo’ si spiega semplicemente con la loro antichità, che<br />

aveva fatto smarrire la nozione della loro origine storica: tali furono, in<br />

particolare, le caratteristiche sia dell’ancile (scudo) al tempo leggendario<br />

<strong>di</strong> Numa, sia del Palla<strong>di</strong>o o simulacro arcaico <strong>di</strong> Pallade Atena<br />

(quanto meno nella sua interpretazione romana). Si tratta dei due casi<br />

senz’altro più celebri e a noi meglio testimoniati in numerose varianti.<br />

Un aspetto comune a entrambi (e che sembra trovare pochi riscontri<br />

in altre religioni al <strong>di</strong> fuori del paganesimo e del cristianesimo, per ragioni<br />

<strong>di</strong>verse ma comprensibili) fu l’esistenza <strong>di</strong> numerose copie identiche,<br />

onde evitare sottrazioni sacrileghe, consentendo nel contempo <strong>di</strong><br />

poter sempre mettere in dubbio eventuali traslazioni <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> che si legavano<br />

alla sopravvivenza stessa dell’imperium e proprio per questo<br />

considerati segni del consenso <strong>di</strong>vino 4 .<br />

Nel cristianesimo, così come presso altre religioni, le ‘<strong>Sacre</strong> Impronte’<br />

rivestirono significati e finalità <strong>di</strong>fferenti: teologici innanzi tutto<br />

(con formulazioni <strong>di</strong>verse a seconda dei contesti), che la pubblica autorità<br />

concorse tutt’al più a garantire, pur non avendo partecipato alla loro<br />

‘invenzione’ (inventio). E questo era evidentemente frutto <strong>di</strong> situazio-<br />

3 Sette, enumerati anche dal SERVIUS AUCTUS (o DANIELINUS), Ad Vergilii Aeneidem,<br />

VII,18, in G. THILO - H. HAGEN (edd.), Servii grammatici qui feruntur in<br />

Vergilii Carmina Commentarii, Leipzig 1884 (rist. anast. Hildesheim 1961), II,<br />

141; A. PELLIZZARI, Servio. Storia, cultura e istituzioni nell’opera <strong>di</strong> un grammatico<br />

tardoantico, Firenze 2003, 51-52, n. 90: Ҡaius matris deum, quadriga fictilis<br />

Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, velum Ilionae, palla<strong>di</strong>um, ancilia”;<br />

sul Servio Danielino più in generale vd. ibid., 12-15, con bibliografia.<br />

4 Per il paganesimo vd. oltre (esistettero ovviamente anche altri <strong>oggetti</strong> creduti<br />

‘caduti dal cielo’ per via dello loro alta antichità: tale venne ritenuto ad esempio il<br />

simulacro <strong>di</strong> Artemide a Efeso, il cui culto, assimilato con quello della Gran Madre,<br />

risaliva almeno all’VIII secolo a.C., allorché venne eretto il primo tempio – al<br />

suo carattere «celeste» accennano Acta Apostolorum 19,35 –; ma esso ebbe un valore<br />

soprattutto religioso e regionale). Per il cristianesimo si conoscono due copie<br />

del man<strong>di</strong>lion <strong>di</strong> Edessa nel IX secolo, sempre in Oriente: vd. B. FLUSIN, L’image<br />

d’Édesse, Romain et Constantin, in questa stessa sede.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

ni capovolte rispetto alla precedente fase romana (meno, forse, rispetto<br />

al periodo greco arcaico, per quanto è dato saperne; e pour cause), allorché<br />

per la prima volta si era verificata la convergenza tra portentum<br />

(evento <strong>di</strong> per sé religioso) e vocazione politica ‘ecumenica’. Le entità<br />

statali in cui il fenomeno religioso in seguito si inscrisse furono invece<br />

sempre meno forti e unitarie delle Chiese che via via se ne eressero a custo<strong>di</strong>.<br />

Caso mai – ma non è certo mio compito occuparmene qui – sarebbe<br />

interessante investigare le ragioni a monte del comparire, persistere<br />

ovvero scomparire <strong>di</strong> queste devozioni in determinati perio<strong>di</strong> storici<br />

e non in altri: è per esempio significativa, nel cristianesimo, la comparsa<br />

d’immagini ‘acheropite’ non solo in contesti iconoduli, ma anche<br />

per un rilancio del culto <strong>di</strong> Cristo attraverso man<strong>di</strong>lia, Veroniche, Sindoni,<br />

a fronte <strong>di</strong> una devozione mariana sempre più forte.<br />

Ma torniamo all’ancile e al Palla<strong>di</strong>o, ossia ai due pignora imperii<br />

che, in età pagana antica e tardoantica, ebbero entrambi valenze in sostanza<br />

politiche, ma fortune in parte <strong>di</strong>verse sul finire della loro vicenda<br />

fra IV e VI secolo, per la natura stessa dei messaggi <strong>di</strong> cui entrambi gli<br />

<strong>oggetti</strong> erano portatori.<br />

Lo scudo ebbe infatti una sopravvivenza ‘popolare’ e folklorica <strong>di</strong><br />

lunga durata, specialmente in quanto connesso con festività della cui<br />

origine si era ormai persa la nozione, ma che rimasero a lungo un punto<br />

<strong>di</strong> riferimento importante nel calendario romano. Dell’ancile e delle<br />

sue vicende un funzionario palatino come Giovanni Lido, nell’Oriente<br />

greco dell’età giustinianea (VI secolo d.C.) – o la fonte antiquaria che<br />

certo gli sottostava – poteva ormai dare una spiegazione in parte opposta<br />

a quella tra<strong>di</strong>zionale: liberamente fantasiosa, ma certo più adatta<br />

alla mentalità prevalente nei nuovi tempi cristiani, come si vedrà meglio<br />

in seguito.<br />

Il secondo oggetto – il Palla<strong>di</strong>o – conobbe invece una fortuna legata<br />

soprattutto all’idea <strong>di</strong> sopravvivenza dell’imperium ecumenico <strong>di</strong> Roma;<br />

e quin<strong>di</strong> tramontò in Occidente con la conquista visigota dell’Urbe<br />

nel 410 5 , lasciando <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> sé imbarazzo e reticenze non casuali presso<br />

gli stessi Romani ormai fatti cristiani; mentre in Oriente tale fortuna si<br />

protrasse a lungo sul piano eru<strong>di</strong>to e antiquario grazie a un’idea <strong>di</strong><br />

translatio imperii il cui primo atto risaliva allo stesso fondatore ‘cristia-<br />

5 Vd. da ultimo L. CRACCO RUGGINI, I barbari e l’impero prima e dopo il 410,<br />

in Ambrogio e i Barbari (Accademia Ambrosiana - Classe <strong>di</strong> <strong>Stu<strong>di</strong></strong> Ambrosiani.<br />

Dies Academicus 2010, Milano, 26-27 aprile 2010), 21-28, in corso <strong>di</strong> stampa.<br />

97


98<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

no’ <strong>di</strong> Costantinopoli, Costantino il Grande. Per quanto si riferisce ai<br />

pontifices in quanto custo<strong>di</strong> del Palla<strong>di</strong>o, il pontificato massimo imperiale,<br />

benché ormai cristianizzato, si conservò per salvaguardare certe<br />

funzioni pubbliche ancora attive e connesse con l’istituzione<br />

pontificale 6 ; ma esse risultano del tutto assenti dalla tra<strong>di</strong>zione antica<br />

<strong>degli</strong> ‘<strong>oggetti</strong> caduti dal cielo’.<br />

Incominciamo dunque dall’ancile 7 . Ne parlano <strong>di</strong>ffusamente soprattutto<br />

i Fasti <strong>di</strong> Ovi<strong>di</strong>o in età augustea 8 e, circa un secolo dopo, Plutarco<br />

nella Vita <strong>di</strong> Numa 9 . Si favoleggiava infatti che questo re – cui si attribuivano<br />

del resto tutte le istituzioni religiose più antiche – durante una<br />

pestilenza che incrudelì in Italia e a Roma stessa nell’ottavo anno del<br />

suo regno si rivolgesse supplice agli dei; e ricevesse dal cielo uno scudo<br />

in bronzo <strong>di</strong> forma particolare, piccolo e oblungo (breve et rotundum,<br />

<strong>di</strong>rà ancora Isidoro <strong>di</strong> Siviglia fra VI e VII secolo, riferendo autori più<br />

antichi) 10 , per confortare i citta<strong>di</strong>ni scoraggiati con questa garanzia <strong>di</strong><br />

protezione <strong>di</strong>vina, accompagnata da un oracolo delle Muse secondo il<br />

quale Roma avrebbe perdurato nella sua grandezza finché l’ancile fos se<br />

rimasto in città (si trattava <strong>di</strong> un’arma <strong>di</strong> sola <strong>di</strong>fesa, si ba<strong>di</strong>, comparsa<br />

sotto il regno <strong>di</strong> un sovrano simbolo <strong>di</strong> pietà e <strong>di</strong> pace). Numa, per -<br />

tanto, ne fece tosto costruire altre un<strong>di</strong>ci copie, onde confondere eventuali<br />

ladri; e per custo<strong>di</strong>re i do<strong>di</strong>ci ancilia creò anche una confraternita<br />

6 L. CRACCO RUGGINI, “Pontifices”: un caso <strong>di</strong> osmosi linguistica, Cristianesimo<br />

nella storia 31 (2009) 363-384 = ora anche in P. BROWN - R. LIZZI (edd.), Pagani<br />

e cristiani in <strong>di</strong>alogo. Tempi e limiti della cristianizzazione dell’impero romano<br />

(IV-V secolo d.C.). Atti del Convegno Internazionale (Bose, 20-22 ottobre 2008),<br />

Berlin 2011, 403-423, in corso <strong>di</strong> stampa.<br />

7 Oltre a PELLIZZARI, Servio cit., 49-60, vd. specialmente P. HABEL, s.v. «Ancile»,<br />

Realencyclopä<strong>di</strong>e der classischen Altertumswissenschaft, I/2, Stuttgart 1894,<br />

2112-2113; Thesaurus linguae Latinae, II, Leipzig 1900-1906, s.v. «Ancile», 26-27;<br />

Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, VIII, Paris 1909, s.v. «Salii»,<br />

1014-1022; G. GIANNELLI, Enciclope<strong>di</strong>a Italiana, III, Roma 1929, s.v. «Ancili»,<br />

148-149, e XXX, Roma 1936, s.v. «Salî», 526-527.<br />

8<br />

OVIDIUS, Fasti, Libro III (marzo), vv. 1-398.<br />

9 13.<br />

10 Forma e <strong>di</strong>mensioni corrispondevano a quelle dello scudo arcaico, arrondato<br />

sopra e sotto e più stretto nel mezzo (amb(i) e caelo: ‘incavato da due parti’):<br />

VARRO, De lingua Latina, VII,43: “ancilia <strong>di</strong>cta ab ambecisu, quod ea arma ab<br />

utraque parte, ut Tracum, incisa”; SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, VIII, 664;<br />

ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae, XVIII,12.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

<strong>di</strong> do<strong>di</strong>ci patrizî (che non potevano cumulare tale carica con nessun<br />

altro ufficio religioso): il collegio sacerdotale dei Salii Palatini (cui<br />

Tullo Ostilio avrebbe poi aggiunto altri do<strong>di</strong>ci Salii Collini, con sede sul<br />

Quirinale). L’esistenza <strong>di</strong> Salii Palatini e Collini riporta in ogni caso a<br />

un’età molto antica, in cui il sinecismo dei villaggi sui colli <strong>di</strong> Roma<br />

ancora non aveva avuto luogo (già Ovi<strong>di</strong>o, con ragione, pensava che il<br />

culto <strong>di</strong> Marte in varî centri italici riportasse a un’età anteriore alla<br />

fondazione <strong>di</strong> Roma). Sembra esserne conferma anche la raffigurazione<br />

più antica <strong>degli</strong> ancilia – quattro, portati da due Salii che reggevano<br />

le due estremità <strong>di</strong> un bastone – su <strong>di</strong> una gemma etrusca <strong>di</strong> età ar -<br />

caica 11 .<br />

Il nome dei Salii, <strong>di</strong>ce Plutarco con comprensibile sciovinismo filogreco,<br />

derivava da Salius, un uomo <strong>di</strong> Samotracia 12 o <strong>di</strong> Mantinea che<br />

per primo avrebbe insegnato a tali sacerdoti le loro danze (è comunque<br />

chiaro che il termine deriva piuttosto da salire, saltare, ossia ‘danzare’:<br />

a saltando, <strong>di</strong>ce infatti Varrone) 13 . L’artigiano romano che invece, con<br />

11 Sardonica – ora a Firenze – riprodotta in Dictionnaire des antiquités grecques<br />

et romaines cit., VIII, 1020, fig. 6045; esiste poi un timbro in cornalina, meno<br />

arcaico, con scena analoga (ibid. 1020, fig. 6046); per attestazioni <strong>di</strong> ancilia e <strong>di</strong><br />

Salii presso altre popolazioni dell’Italia centrale, vd. per esempio ibid. 1020, figg.<br />

6043-6044 (denarî della gens Procilia e della gens Cornificia a Lanuvio in età repubblicana;<br />

collegi sacerdotali <strong>di</strong> Salii sono noti anche ad Alba, Lavinio, Ariccia,<br />

Anagni, Tuscolo, Tivoli, oltre il Po a Pavia, Brescia, Verona, Padova, Oderzo, ecc.<br />

e fuori d’Italia per esempio a Sagunto durante il dominio romano. A Tibur i Salii<br />

erano il collegio sacerdotale <strong>di</strong> Ercole; ma al principio del secolo V d.C. Macrobio<br />

(Saturnalia, III,12) metteva in bocca a Vettio Agorio Prestato (defunto nel <strong>di</strong>cembre<br />

384: L. CRACCO RUGGINI, Il paganesimo romano tra religione e politica [384-<br />

394 d. C.]: per una reinterpretazione del “Carmen contra paganos”, Memorie dell’Accademia<br />

Nazionale dei Lincei, Classe <strong>di</strong> Scienze Morali, Storiche e Filologiche,<br />

s. VIII 23/1 [1979] 1-144) repliche a Evangelos – che accusava Virgilio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione<br />

–, asserendo fra l’altro che, un tempo, Marte si era identificato con<br />

Ercole (ibid., § 5). La rappresentazione <strong>di</strong> due ancilia si trova ancora in età imperiale<br />

su <strong>di</strong> un nummo <strong>di</strong> Antonino Pio: Thesaurus linguae Latinae cit. (sopra, nota<br />

7). 12 Non sembra casuale che proprio a Samotracia – oltre che presso gli Etruschi<br />

e altri popoli – avessero luogo danze <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> origine arcaica: GIANNELLI, s.v.<br />

«Salî» cit. (sopra, nota 7).<br />

13 VARRO, De lingua Latina, V,85. Anche Dionigi <strong>di</strong> Alicarnasso (II,70), nell’affermare<br />

che, se avesse dovuto rendere in greco il termine Salii, lo avrebbe tradotto<br />

con Cureti, mostra come in età augustea si sapesse ormai ben poco circa le loro<br />

99


100<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

grande abilità, aveva fabbricato le un<strong>di</strong>ci copie dello scudo piovuto dal<br />

cielo si sarebbe chiamato Mamurio Veturio, e in luogo <strong>di</strong> qualsiasi altro<br />

premio avrebbe chiesto <strong>di</strong> essere ricordato nei carmina dei Salii Palatini,<br />

i sacerdoti <strong>di</strong> Marte Gra<strong>di</strong>vo custo<strong>di</strong> dei do<strong>di</strong>ci ancilia (forse nel sacrarium<br />

<strong>di</strong> Marte nella Regia). E, in effetti, tale nome ricorre più volte nei<br />

canti dei Salii assieme con quello <strong>di</strong> altre <strong>di</strong>vinità 14 . Mamers, però, era<br />

anche la forma osca <strong>di</strong> Mars, Marte; e gli stessi eru<strong>di</strong>ti antichi, pur facendo<br />

assai per tempo oggetto dei loro studî i canti dei Salii (uno dei<br />

più antichi monumenti della loro lingua nazionale), già li comprendevano<br />

soltanto in parte: sicché è ben possibile che quella <strong>di</strong> Mamurio<br />

Veturio sia soltanto un’invenzione dovuta all’incomprensione del testo<br />

originario 15 .<br />

Nel mese <strong>di</strong> marzo i Salii recavano gli scu<strong>di</strong> in processione per la<br />

città 16 , appesi al collo, danzando e cantando i loro carmina e ferman-<br />

origini, e l’unico aspetto sicuro fosse costituito dalle loro danze. Sulle varie eti -<br />

mologie <strong>di</strong> ancilia correnti nel mondo greco del II secolo d.C. vd. ad esempio l’elenco<br />

che ne dà Plutarco, rifacendosi a Giuba II <strong>di</strong> Mauretania (I secolo a.C.) e ad<br />

altre fonti (Numa, 13,9-10): «Quanto agli scu<strong>di</strong> – pevltai –, li chiamano ancilia per<br />

via della loro figura: essa non è un cerchio, né presenta la forma <strong>di</strong> un arco <strong>di</strong> cerchio<br />

come i soliti scu<strong>di</strong>, ma ha un intaglio sinuoso, le cui estremità si piegano all’in<strong>di</strong>etro<br />

e si congiungono fra loro nello spessore dello scudo, rendendo ricurva la<br />

figura – ajgkuvlon to; sch'ma poiou'sin –; oppure a causa del gomito – <strong>di</strong>a; to;n ajgkw'na<br />

– intorno al quale si portano. Queste etimologie le dà Giuba, che tende a con -<br />

siderare greco il nome. Ma esso potrebbe essere derivato anche dall’originaria caduta<br />

dall’alto – dΔ a]n th'" ajnevkaqen fora'" –, o dalla guarigione <strong>degli</strong> appestati –<br />

th'" ajkevsew" tw'n nosouvntwn –, o ancora dall’arresto delle sventure – th'" tw'n<br />

aujcmw'n luvsew" –, come gli Ateniesi chiamano “Anake" i Dioscuri, se proprio si<br />

deve ricondurre il nome alla lingua greca» (trad. <strong>di</strong> Mario Mafre<strong>di</strong>ni, in M. MAN-<br />

FREDINI – L. PICCIRILLI [edd.], Plutarco, Vite <strong>di</strong> Licurgo e <strong>di</strong> Numa, Milano 1980,<br />

119). Sulle fonti <strong>di</strong> Plutarco quivi, vd. spec. PICCIRILLI, Introduzione, ibid. XLII-<br />

XLIV.<br />

14 Agli inizî del V secolo Macrobio (Saturnalia, I,12,12) osservava l’assenza<br />

soltanto <strong>di</strong> Venere fra gli dei menzionati negli antichi carmi dei Salii (ov’erano invece<br />

sicuramente ricordati Marte Gra<strong>di</strong>vo e Quirino, Giano Quirino, Giove Lucezio,<br />

Saturno, Minerva, Giunone, Diana, Libero, Salus, Concor<strong>di</strong>a, Pax, cui in seguito<br />

si affiancarono alcuni <strong>di</strong>vi a incominciare da Augusto e alcuni Principi della<br />

famiglia imperiale).<br />

15 Varrone, per esempio (De lingua Latina, VI,49), interpretava l’espressione<br />

come memoria vetus.<br />

16<br />

POLYBIUS, Historiae, XXI,13. Le feste primaverili si consideravano concluse<br />

il 24 marzo.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

dosi ogni sera in varie stationes per rinfrescarsi, banchettare e riposare<br />

17 . I giorni più importanti, ancora secondo i Fasti <strong>di</strong> Filocalo attorno<br />

alla metà del IV secolo, sembra fossero il 9 marzo (arm[a] ancilia movent)<br />

18 , il 14/15 marzo (Mamuralia) e il 19 marzo (Quinquatria) 19 . Il 19<br />

ottobre, invece, le cerimonie si ripetevano, ma per un giorno soltanto.<br />

Nel tempo restante gli scu<strong>di</strong> venivano conservati sul Palatino; e, secondo<br />

una tra<strong>di</strong>zione ancora menzionata nella prima età imperiale, costituiva<br />

un presagio infausto intraprendere un atto pubblico riguardante<br />

la guerra quando gli ancilia non erano ancora tornati al loro posto 20 .<br />

Talora – in circostanze <strong>di</strong> particolare minaccia – gli scu<strong>di</strong> furono u<strong>di</strong>ti<br />

rumoreggiare e muoversi spontaneamente, quasi fossero impazienti <strong>di</strong><br />

essere rimessi in uso (ad esempio prima della guerra <strong>di</strong> Roma con i<br />

Cimbri): ancora ne fa menzione il De pro<strong>di</strong>giis <strong>di</strong> Giulio Ossequente,<br />

probabilmente nel IV secolo d.C. 21 .<br />

In ogni caso, sono soprattutto due gli aspetti che meritano <strong>di</strong> essere<br />

messi in luce. Uno è ben noto e tuttora <strong>di</strong>scusso, e riguarda il carattere<br />

<strong>di</strong> Marte: precipuamente agricolo, oppure guerriero? Per solito si suole<br />

insistere soprattutto sul secondo aspetto, certo prevalente in età storica;<br />

e si ricorda come le feste dei Salii coincidessero con la stagione <strong>di</strong><br />

17 Oggi non è più possibile identificarle nella maggior parte, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong><br />

quelle <strong>di</strong> altre processioni (ad esempio quella <strong>degli</strong> Argei). È tuttavia certa una<br />

statio presso il ponte Sublicio ligneo, il più antico costruito dai Romani sulla via<br />

che portava al Gianicolo, che allora rappresentava la città ostile (Antipolis); per<br />

l’iscrizione tarda <strong>di</strong> Roma (forse dell’avanzato IV secolo d.C.) menzionante le stationes<br />

<strong>degli</strong> ancilia, vd. oltre, nota 35. IUVENALIS, Saturae, II, v. 126, parla <strong>degli</strong><br />

ancilia come <strong>di</strong> un «sacro peso»; Luciano da parte sua, nonostante la consueta irriverenza<br />

in materia religiosa, arrivò ad affermare che le danze dei Salii erano da<br />

considerare la più santa delle arti perché in onore del Dio guerriero.<br />

18 Corpus inscriptionum Latinarum, I (Fasti <strong>di</strong> Filocalo nel 354 d.C. e Laterculus<br />

<strong>di</strong> Polemio Silvio nel 448/449).<br />

19 I Mamuralia vengono collocati il 14 marzo dal calendario <strong>di</strong> Filocalo (per il<br />

quale vd. sopra, nota 18), e il 15 marzo da Giovanni Lido (III,29 e IV,36, Corpus<br />

Scriptorum Historiae Byzantinae, 44 e 71).<br />

20 SUETONIUS, Otho, 8; TACITUS, Historiae, I,89 ss.<br />

21 Le tavole dei pro<strong>di</strong>gi dal 249 al 12 a.C. (la cui la prima parte – la più antica –<br />

è oggi perduta) si fondano sulla tra<strong>di</strong>zione liviana epitomata e ulteriormente contaminata,<br />

nonché sulle liste consolari; Giulio Ossequente viene per lo più ritenuto<br />

un autore pagano tardo, che giustificò il proprio credo nelle forme dell’antica fede;<br />

ma vi è anche chi lo ha collocato nel II secolo d.C.: The Prosopography of the<br />

Later Roman Empire, I, Cambridge 1971, s.v. «Iulius Obsequens», 636.<br />

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102<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

apertura e <strong>di</strong> chiusura delle operazioni belliche, quando si purificavano<br />

le armi. Anche le loro danze sacre e altri gesti rituali svolgevano probabilmente<br />

un ruolo <strong>di</strong> propiziazione guerresca, come presso i Feziali 22 .<br />

Sembra tuttavia certo, per quanto ne sappiamo, che mai i Salii furono<br />

portati in battaglia dagli eserciti; che, secondo Catone il Vecchio, Marte-Silvano<br />

veniva invocato soprattutto per tenere lontani dalle fattorie<br />

il cattivo tempo, le malattie e altre calamità; e che proprio per questo<br />

tale <strong>di</strong>vinità fu la prima ad essere portata in processione attraverso i<br />

campi. Vi è quin<strong>di</strong> chi – come l’antropologo James George Frazer nell’e<strong>di</strong>zione<br />

dei Fasti ovi<strong>di</strong>ani – ha pensato soprattutto a primitive competenze<br />

agricole <strong>di</strong> Marte, in una età in cui coltivare i campi, in Italia,<br />

significava anche <strong>di</strong>fenderli con le armi dalle minacce dei vicini. Ed egli<br />

ha ritenuto che fosse molto vicino al vero William Ramsay nel pensarla<br />

proprio a questo modo. Con il supporto d’esempi moderni <strong>di</strong> varî popoli<br />

primitivi (in regioni dell’Africa, dell’In<strong>di</strong>a, ecc.) 23 , congiunto alle<br />

testimonianze <strong>di</strong> Ovi<strong>di</strong>o e <strong>di</strong> Varrone, Frazer ha pertanto ipotizzato che<br />

le cerimonie dei Salii avessero all’origine un carattere precipuamente<br />

agricolo, che mimava la cacciata dei demonî dell’infertilità e del vecchio<br />

Marte che li personificava, per far posto al Marte del nuovo anno; marzo<br />

e ottobre segnavano infatti anche l’inizio e la fine della stagione agricola.<br />

Propendo io pure, tutto sommato, per questa soluzione.<br />

Il secondo aspetto è invece stato fino ad oggi trascurato, ma nel contesto<br />

attuale mi sembra <strong>di</strong> particolare importanza, e vorrei quin<strong>di</strong> sottolinearlo<br />

in modo speciale: cioè la fortuna che le festività dei Salii tornarono<br />

a godere nel Tardoantico. Proprio le fonti <strong>di</strong> tale epoca, infatti,<br />

vi insistono, con particolari <strong>di</strong> comodo per lo più inventati vuoi per<br />

ignoranza storica vuoi per ragioni ideologiche (fino al IV/V secolo), ma<br />

sulla base <strong>di</strong> date che ancora vengono registrate nei calendarî <strong>di</strong> Filocalo<br />

(345 d.C.) e <strong>di</strong> Polemio Silvio (circa un secolo dopo), in<strong>di</strong>rettamente<br />

mostrando quin<strong>di</strong> come a quest’epoca tali feste avessero ancora un<br />

qualche significato. Un’iscrizione romana del IV secolo d.C. ricorda, da<br />

parte sua, il restauro delle stationes processionali a private spese dei<br />

pontifices Vestae, dopo un lungo periodo <strong>di</strong> trascuratezza 24 .<br />

22 Vd. in generale la bibliografia citata a nota 7.<br />

23 J.G. FRAZER – G.P. GOOD (edd.), Ovi<strong>di</strong>us, Fasti, Cambridge 1939 2 , Appen<strong>di</strong>x,<br />

385-421 e partic. 397-403.<br />

24 Per i calendarî <strong>di</strong> Filocalo e <strong>di</strong> Polemio Silvio vd. sopra, note 18-19 e oltre,<br />

nota 3; per l’iscrizione romana vd. sopra, nota 17, e oltre, nota 35.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

Probabilmente sul finire del IV secolo d.C. la Historia Augusta 25 ricorda<br />

come il giovane e corrotto imperatore Elagabalo, che veniva dalla<br />

Siria, appena entrato in Roma (luglio 219) si sarebbe preoccupato <strong>di</strong><br />

trasferire quivi il culto solare <strong>di</strong> Baal – venerato a Emesa e omonimo<br />

del nuovo imperatore (Helagabal) –, portando nell’Urbe la sua pietra<br />

sacra (un aerolito aniconico o pietra nera caduta dal cielo come quella<br />

della Mecca, già esistente nell’età preislamica politeista, sebbene la<br />

Ka’ba e i pellegrinaggi rituali venissero istituiti soltanto più tar<strong>di</strong>,<br />

quando gli Arabi, con Maometto, si convertirono all’unico Dio) 26 . Elagabalo<br />

costruì per il <strong>di</strong>o siriaco un tempio sul Palatino presso il palazzo<br />

imperiale 27 , con l’intenzione (studens) <strong>di</strong> portare in esso anche il si -<br />

mulacro della Gran Madre Cibele, il fuoco <strong>di</strong> Vesta (presagio funesto<br />

per la città qualora si fosse spento) 28 , il Palla<strong>di</strong>o, gli ancilia 29 e tutti gli<br />

altri <strong>oggetti</strong> sacri ai Romani, «in modo che a Roma fosse venerato soltanto<br />

Elagabalo». Egli aveva pure in animo <strong>di</strong> trasferire nel medesimo<br />

luogo i culti <strong>degli</strong> Ebrei, dei Samaritani e dei Cristiani, affinché «i sacerdoti<br />

<strong>di</strong> Helagabal <strong>di</strong>venissero i depositarî dei misteri <strong>di</strong> ogni altra religione»<br />

30 .<br />

Ciò trova una conferma almeno parziale in Ero<strong>di</strong>ano (molto più vicino<br />

a Elagabalo nel tempo, dal momento che scrisse la sua opera storica<br />

al tempo <strong>di</strong> Filippo l’Arabo, là dove questi afferma che l’imperatore<br />

avrebbe fatto trasferire a palazzo, nella propria camera da letto, il Palla<strong>di</strong>o<br />

o antica statua <strong>di</strong> Pallade, per unirla in ierogamia al <strong>di</strong>o orientale<br />

25 Scriptores Historiae Augustae, Antoninus Helagabalus 3,4 (questo libro è attribuito<br />

a Elio Lampri<strong>di</strong>o e de<strong>di</strong>cato a Costantino il Grande: ma l’opera sembra<br />

essere <strong>di</strong> un solo autore e non anteriore alla fine del IV secolo).<br />

26 Da ultimo F.A. PENNACCHIETTI, Processione attorno al santuario e purità rituale<br />

nel pellegrinaggio islamico, Rivista <strong>di</strong> Storia e Letteratura Religiosa 42<br />

(2006) 639-649. Si noti come il termine arabo per designare il pellegrinaggio sia<br />

ḥağğ, con una ra<strong>di</strong>ce e un tema nominale che in cananeo (ebraico) e in aramaico<br />

(siriaco) significano ‘festa’, ma anche ‘danza sacra’ (Ibid., p. 639 con nota 3).<br />

27 Un altro tempio venne eretto in onore <strong>di</strong> Helagabal nella parte orientale della<br />

città, presso i giar<strong>di</strong>ni della Spes Vetus.<br />

28<br />

HERODIANUS, Ab excessu <strong>di</strong>vi Marci, V,6,3-4; PELLIZZARI, Servio cit. (sopra,<br />

nota 3), 53.<br />

29 Stando a Plutarco (Numa, 13), le Vestali erano tenute a pulire quoti<strong>di</strong>anamente<br />

il loro tempio con l’acqua sacra che sgorgava da una fonte presso il luogo<br />

ove l’ancilium era sceso dal cielo e che Numa aveva consacrato alle Muse.<br />

30 Spec. T. OPTENDRENK, Die Religionspolitik des Kaisers Elagabal im Spiegel<br />

der “Historia Augusta”, Bonn 1969.<br />

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104<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

<strong>di</strong> cui era il primo sacerdote. Senza dubbio si trattava <strong>di</strong> un gesto atto a<br />

sottolineare il legame fra sé e uno dei più significativi pignora imperii <strong>di</strong><br />

Roma; ma dovette avere una durata assai breve, dal momento che l’imperatore<br />

fece tosto rimuovere il simulacro <strong>di</strong> Pallade per sostituirlo con<br />

quello della dea africana Caelestis (o Urania) 31 . Tra IV e V secolo il Palla<strong>di</strong>o<br />

doveva già da tempo essere stato restituito alle Vestali se Prudenzio,<br />

parafrasando quanto aveva scritto anni prima Ambrogio <strong>di</strong> Milano<br />

in una celebre lettera a Teodosio, avrebbe ironizzato anche su ciò<br />

come su <strong>di</strong> un’ulteriore offesa nei confronti <strong>di</strong> una <strong>di</strong>vinità cara alle Vestali<br />

32 .<br />

Ma il passo della Historia Augusta, oltre un secolo dopo Ero<strong>di</strong>ano,<br />

sembra contenere un elemento ideologico in più (anche per il Palla<strong>di</strong>o e<br />

gli altri culti, del resto): ossia una sottesa polemica filopagana contro<br />

Costantino (il de<strong>di</strong>catario ‘ufficiale’ della Vita <strong>di</strong> Elagabalo scritta da<br />

‘Elio Lampri<strong>di</strong>o’), e contro la sua velleità <strong>di</strong> portare a Costantinopoli,<br />

nuova Roma, i sacra più antichi dell’Urbe, garanzie della sua stessa durata<br />

come entità politica superiore a tutte le altre. Si insinuava così copertamente,<br />

attraverso l’aperta riprovazione e la smentita nei confronti<br />

<strong>di</strong> Elagabalo, che anche il primo imperatore cristiano avesse portato<br />

nella sua nuova capitale soltanto una copia <strong>di</strong> questi due pignora imperi<br />

33 .<br />

Tra la fine del IV secolo e il V menzionano gli ancilia, come si è già<br />

veduto per la Historia Augusta e per Prudenzio, anche Servio nel suo<br />

commento all’Eneide, Macrobio nei Saturnaliorum libri per bocca <strong>di</strong><br />

Vettio Agorio Pretestato (pontifex Vestae, pontifex Solis, quindecemvir,<br />

31 Vd. spec. A. FRASCHETTI, La conversione da Roma pagana a Roma cristiana,<br />

Bari 1999, 42-44.<br />

32<br />

PRUDENTIUS, Contra Symmachum, I, v. 195; sempre in polemica antipagana,<br />

ma ad altro proposito, ID. Peristephanon, II, vv. 509-512 (sul martirio <strong>di</strong> Lorenzo);<br />

per l’iscrizione romana tarda (ma d’incerta datazione precisa) menzionante due<br />

pontifices Vestae vd. oltre, nota 35. Sulla dea Caelestis vd. L. CRACCO RUGGINI, Il<br />

Co<strong>di</strong>ce Teodosiano e le eresie, in <strong>di</strong> J.-J. AUBERT - PH. BLANCHARD (edd.), Droit, religion<br />

et société dans le “Code Théodosien” (Neuchâtel 15-17 Février 2007), Genève<br />

2009, 21-37 e spec. 30-34.<br />

33 R. TURCAN, Héliogabal précurseur de Costantin?, Bulletin de l’Association<br />

“Guillaume Budé” s. IV 47 (1988) 38-52; L. CRACCO RUGGINi, Elagabalo, Costantino<br />

e i «culti siriaci» nella “Historia Augusta”, in G. BONAMENTE – N. DUVAL<br />

(edd.), Historiae Augustae Colloquium Parisinum, Historiae Augustae Colloquia<br />

n. s. 1, Macerata 1991, 123-146.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

curialis Herculis. sacratus Libero, Eleusinis hierophanta, neocorus, tauroboliatus,<br />

pater patrum, morto alla fine del 384) 34 , un’iscrizione romana<br />

(oggi perduta) che celebrava il restauro a proprie spese <strong>di</strong> una mansio<br />

dei Salii Palatini da parte <strong>di</strong> due pontifices Vestae (Plotius Acilius e Vitrasius<br />

Praetextatus) 35 , il calendario cristiano <strong>di</strong> Filocalo nel 354 e poi<br />

ancora Polemio Silvio attorno alla metà del V secolo. Al tempo <strong>di</strong> Giustiniano<br />

poi, questa volta nella parte <strong>di</strong> lingua greca dell’impero, Giovanni<br />

Lido (un ex funzionario palatino <strong>di</strong> Costantinopoli) fu il solo a<br />

parlare ampiamente <strong>degli</strong> ancilia nel De mensibus, ma secondo una versione<br />

in parte opposta a quella tra<strong>di</strong>zionale. Egli racconta infatti che la<br />

cerimonia dei Salii (evidentemente ancor viva al tempo suo) intendeva<br />

punire Mamurio Veturio per avere fabbricato copie dello scudo sacro,<br />

dando inizio a una serie <strong>di</strong> mali per la città <strong>di</strong> Roma: per questa ragione<br />

sarebbe <strong>di</strong>ventato proverbiale chiamare Mamurio chi venisse percos-<br />

34 Corpus inscriptionum Latinarum, VI,1770 = Inscriptiones Latinae selectae,<br />

1259; CRACCO RUGGINI, Il paganesimo romano cit. (sopra, nota 11), 20-21, nota<br />

44. 35 Corpus inscriptionum Latinarum, VI, 2158 = Inscriptiones Latinae selectae,<br />

4944. L’iscrizione (romana) parla <strong>di</strong> stationes dei Salii Palatini erette per la custo<strong>di</strong>a<br />

delle armi sacre e restaurate, dopo essere state e lungo trascurate, a spese dei<br />

pontefici della Regia (pontifices Vestae). Essa si data sicuramente tra la fine III e<br />

quella del IV secolo d.C., sotto i promagistrati dei pontefici – contemporanei oppure<br />

in successione – Plozio Acilio Lucillo e Vitrasio Pretestato; una probabile attribuzione<br />

del titolo epigrafico all’avanzato IV secolo è stata proposta da Bartolomeo<br />

Borghesi, in quanto i due viri clarissimi e pontefici eseguono i restauri a spese<br />

proprie (come ad esempio anche Vettio Agorio Pretestato per il portico <strong>degli</strong> Dei<br />

Consentes: Corpus inscriptionum Latinarum, VI, 102 = Inscriptiones Latinae selectae,<br />

4003; vd. pure MACROBIUS, Saturnalia, III,1-9; CRACCO RUGGINI, Il paganesimo<br />

romano cit. [sopra, nota 11], note 270 e 298), forse quin<strong>di</strong> dopo la soppressione<br />

delle sovvenzioni a certi collegi sacerdotali da parte dell’Augusto cristiano Graziano,<br />

nel 382 (sui limiti <strong>di</strong> tali soppressioni R. LIZZI TESTA, Dal conflitto al <strong>di</strong>alogo:<br />

nuove prospettive sulle relazioni tra pagani e cristiani in Occidente alla fine del<br />

IV secolo, in U. CRISCUOLO – L. DE GIOVANNI [edd.], Trent’anni <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> sulla Tarda<br />

Antichità: bilanci e prospettive. Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 21-23<br />

novembre 2007, Napoli 2009, 167-190). Il cristiano Sozomeno (Historia Ecclesiastica,<br />

II,5,2) informa a sua volta, con accenti ano<strong>di</strong>ni, che già durante le confische<br />

costantiniane <strong>di</strong> preziosi pagani a Costantinopoli i sacerdoti avevano custo<strong>di</strong>to<br />

presso <strong>di</strong> sé in privato i beni più pregiati, tra cui i «cosiddetti <strong>oggetti</strong> caduti dal<br />

cielo» (ta; <strong>di</strong>opeth' kaloumevna) (con toni più drammatici, vd. pure il pagano Libanio<br />

nell’Oratio XXX, 6, Pro templis, nell’avanzato IV secolo).<br />

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Lellia Cracco Ruggini<br />

so (come il simulacro <strong>di</strong> Mamurio dai Salii armati <strong>di</strong> verghe) per avere<br />

procurato guai con le sue stesse mani: una versione, come si vede, molto<br />

più adatta alla corrente mentalità cristiana, forse <strong>di</strong>mentica della<br />

tra<strong>di</strong>zione più antica e, nel contempo, favorevole all’idea <strong>di</strong> una translatio<br />

imperii nella capitale romana d’Oriente 36 .<br />

Veniamo ora al Palla<strong>di</strong>o, sul quale mi soffermerò più brevemente in<br />

quanto ne ho già parlato altrove (né, in sostanza, ho finora cambiato<br />

idea) 37 . Si tratta, come nel caso dell’ancile, <strong>di</strong> un simulacro assai antico<br />

caduto dal cielo, in questo caso associato al culto <strong>di</strong> Pallade 38 : una piccola<br />

statua lignea della dea (breve est et latet, scrive Servio fra IV e V secolo:<br />

sembra fosse, <strong>di</strong> fatto, alta tre cubiti) 39 . Secondo Apollodoro, essa<br />

sarebbe <strong>di</strong>scesa nella Troade proprio mentre Ilo stava fondando Ilio,<br />

con funzione augurale (la leggenda non compare in Omero, ma, per testimonianza<br />

del neoplatonico Proclo nel V secolo d.C., era presente nella<br />

cosiddetta Piccola Iliade) 40 . Secondo tale versione, dunque, la statuetta<br />

si collegava a Troia e quin<strong>di</strong> anche al mito delle origini <strong>di</strong> Roma,<br />

della quale essa sarebbe stata la progenitrice leggendaria.<br />

La comparsa del Palla<strong>di</strong>o venne interpretata come omen favorevole<br />

per la nascente Ilio, la cui salvezza sarebbe poi <strong>di</strong>pesa appunto dalla<br />

conservazione del simulacro. Proprio per questo, durante la guerra con<br />

i Greci, i Troiani ne fecero una copia da esporre nel tempio, mentre l’originale<br />

rimaneva nascosto in luogo più sicuro. Ma secondo il mito greco<br />

– ripreso in età tardoantica anche da Servio 41 – Ulisse e Diomede<br />

36 IOHANNES LYDUS, De Mensibus, III,29 (sul mese <strong>di</strong> marzo) e IV,36 (dopo<br />

aver parlato <strong>di</strong> varie feste agricole, si ba<strong>di</strong>), Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae<br />

44 e 71 (vd. sopra, nota 19).<br />

37 Spec. L. CRACCO RUGGINI, Costantino e il Palla<strong>di</strong>o, in Roma Costantinopoli<br />

Mosca. Atti del I seminario internazionale <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> storici “Da Roma alla terza Roma.<br />

Documenti e stu<strong>di</strong>” (Roma, 21-23 aprile 1981), Napoli 1983, 241-251;<br />

EAD.,”Pontifices” cit. (sopra, nota 6).<br />

38 PELLIZZARI, Servio cit. (sopra, nota 3), 49-60, con fonti ivi; sulla controversa,<br />

incerta etimologia del nome vd. spec. ibid., 49 con nota 72.<br />

39 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, II, v. 227; APOLLODORUS, Bibliotheca, III,12,3<br />

(autore ateniese del II secolo a.C.); A. ADLER (ed.), Suidae Lexicon, s.v. «Pallav<strong>di</strong>on»,<br />

IV, 4-5. Un cubito equivaleva a 444 millimetri.<br />

40 PELLIZZARI, Servio cit. (sopra, nota 3), 49 con nota 74.<br />

41 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, II, v. 166. Molte città greche vantarono pertanto,<br />

a causa del proliferare delle copie, <strong>di</strong> possedere il vero Palla<strong>di</strong>o (Atene,<br />

Sparta, Argo, Anfissa, Lindo, Pellene).


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

riuscirono egualmente a impadronirsi del vero Palla<strong>di</strong>o, passando attraverso<br />

cunicoli e uccidendo i guar<strong>di</strong>ani del tempio in cui il simulacro<br />

era custo<strong>di</strong>to. Tuttavia, dopo molte peripezie, il Palla<strong>di</strong>o sarebbe stato<br />

portato a Enea in Italia, tramite un certo Naute, la cui famiglia avrebbe<br />

perciò avuto il privilegio <strong>di</strong> custo<strong>di</strong>re i sacra della dea Minerva (un tipico<br />

racconto eziologico pure questo, ancora a fine IV secolo d.C. raccolto<br />

da Servio).<br />

Secondo la versione romana dell’intera vicenda (forse la più <strong>di</strong>ffusa,<br />

e accettata anche da Dionigi <strong>di</strong> Alicarnasso in età augustea) 42 , il Palla<strong>di</strong>o<br />

autentico non sarebbe stato però quello rubato dai Greci ed esposto<br />

a Troia nel tempio, bensì la sua copia. Ed Enea avrebbe portato in<br />

Italia <strong>di</strong> persona l’originale, dopo averlo prelevato a Troia. Secondo<br />

Servio, invece, esso sarebbe rimasto fra le rovine della città fino al suo<br />

ritrovamento da parte <strong>di</strong> Gaio Flavio Fimbria, un amico <strong>di</strong> Mario che<br />

soggiornò a Ilio dopo aver guerreggiato contro Mitridate; e soltanto allora<br />

esso sarebbe stato trasferito definitivamente a Roma, continuando<br />

quivi a esercitare il proprio ruolo salvifico (inizî del I secolo a.C.) 43 . Pure<br />

a Roma se ne fecero quin<strong>di</strong>, come per l’ancile <strong>di</strong> Numa, alcune imitazioni,<br />

entrando tutte quante a far parte dei pignora imperii custo<strong>di</strong>ti nel<br />

tempio rotondo <strong>di</strong> Vesta all’estremità orientale del Foro Romano 44 .<br />

Se ne prese cura soprattutto il collegio dei pontefici romani, il cui<br />

nome si collegava forse al Palla<strong>di</strong>o in quanto, secondo una variante della<br />

tra<strong>di</strong>zione mitografica greca riferita anche dal Servius auctus, il simulacro<br />

<strong>di</strong> Pallade sarebbe caduto miracolosamente dal cielo su <strong>di</strong><br />

ponte presso Atene (gevfura; pontifices = gefuristaiv, gefuropoioiv) e da<br />

qui sarebbe poi arrivato a Troia soltanto in un secondo tempo 45 . Era<br />

42 DIONYSIUS HALICARNASSENSIS, Antiquitates Romanae, I,69,2-3.<br />

43 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, II, v. 166: “quod postea bello Mithridatico<br />

<strong>di</strong>citur Fimbria quidam Romanus inventum in<strong>di</strong>casse: quod Romam constat advectum”.<br />

44 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, VII, v. 188; M. SORDI, Lavinio, Roma e il Palla<strong>di</strong>o,<br />

in M. SORDI (ed.), Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l’Oriente,<br />

Milano 1982, 65-78 e partic. 74 ss. Sul tempio <strong>di</strong> Vesta vd. S.B. PLATNER – T.<br />

ASHBY, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford 1929 (rist. anast.<br />

Roma 1965), 557; R.T. SCOTT, Lexicon topographicum Urbis Romae, V, s. v. «Vesta,<br />

aedes», Roma 1999, 125-128.<br />

45 SERVIUS eSERVIUS DANIELINUS, Ad Vergilii Aeneidem, II, v. 166: “<strong>di</strong>cunt sane<br />

alii, unum simulacrum caelo lapsum, quod nubibus advectum et in ponte depositum,<br />

apud Athenas tantum fuisse, unde et gefuristh;" <strong>di</strong>cta est (sic). Ex qua<br />

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Lellia Cracco Ruggini<br />

pertanto noto il salvataggio del Palla<strong>di</strong>o da due terribili incendî del<br />

tempio <strong>di</strong> Vesta: il primo nel 241 a.C. grazie al pontefice massimo Lucio<br />

Cecilio Metello, e il secondo sotto il regno <strong>di</strong> Commodo (161-180<br />

d.C.), allorchè il simulacro venne trasferito nel palazzo imperiale dalle<br />

Vestali in processione lungo la Via Sacra. Sicché, secondo Ero<strong>di</strong>ano,<br />

soltanto allora, per la prima volta, esso fu veduto anche dalla gente comune<br />

46 .<br />

Come per gli ancilia, secondo la Historia Augusta Elagabalo pensò a<br />

un trasferimento pure del Palla<strong>di</strong>o nel tempio da lui costruito sul Palatino<br />

in onore del <strong>di</strong>o Helagabal, come si è già in parte veduto; e nel caso<br />

del Palla<strong>di</strong>o, però, forse il giovane Principe qualcosa fece davvero<br />

(sempre secondo Ero<strong>di</strong>ano), anche se la biografia <strong>di</strong> fine IV secolo insinua<br />

che si trattava soltanto <strong>di</strong> una sua riproduzione 47 (cui accenna pure<br />

etiam causa pontifices nuncupatos volunt: quamvis quidam pontifices a ponte Sublicio,<br />

qui primus Tybri impositus est, appellatos tradunt, sicut Saliorum carmina<br />

loquuntur. Sed hoc Atheniense Palla<strong>di</strong>um veteribus Troianis Ilium translatum”.<br />

Plutarco (Numa, 9) enumera varie etimologie <strong>di</strong> pontivfike", correnti al tempo suo:<br />

o nel senso <strong>di</strong> dunatoiv, pothvnte", perché al servizio <strong>degli</strong> dèi che erano potenti (vd.<br />

pure VARRO, De lingua Lat. V,83, il quale riferisce l’opinione del pontifex maximus<br />

Quinto Scevola – console nel 95 a.C. – su pontifex da posse et facere, pur affermando<br />

<strong>di</strong> preferire personalmente la derivazione <strong>di</strong> pontifex da pontem facere); o<br />

perché addetti a <strong>di</strong>stinguere ciò che «era possibile» da ciò che non lo era nell’ámbito<br />

delle funzioni sacre; o perché gefuropoioiv, cioè costruttori dell’antichissimo<br />

ponte ligneo sul Tevere <strong>di</strong> cui erano custo<strong>di</strong> e sul quale eseguivano i riti sacri da<br />

tempo immemorabile (una spiegazione che Plutarco giu<strong>di</strong>ca comunque «risibile»<br />

in quanto non collegabile con Numa Pompilio, dal momento che il ponte Sublicio<br />

era stato completato – si credeva al tempo suo – soltanto da Anco Marcio nipote<br />

<strong>di</strong> Numa). Sull’argomento vd. approfon<strong>di</strong>menti in CRACCO RUGGINI, Costantino e<br />

il Palla<strong>di</strong>o cit. (sopra, nota 37); EAD., “Pontifices” cit. (sopra, nota 6); J. CHAM-<br />

PEAUX, Les pontifes romains et l’entretien du pont Sublicius, Bulletin de la Société<br />

Nationale des Antiquaires de France (2002 [2008]) 117-128; per meglio comprendere<br />

l’età <strong>di</strong> transizione giustinianea, più in generale M. MAAS, John Lydus and the<br />

Roman Past. Antiquarianism and Politics in the Age of Justinian, London-New<br />

York 1992; M. MAZZA, Giovanni Lido, “De magistratibus”: sull’interpretazione delle<br />

magistrature romane nella Tarda Antichità, in F. ELIA (ED.), Omaggio a Rosario<br />

Soraci. Politica, retorica e simbolismo del primato, Catania 2004, II, 219-258 = ID.,<br />

Tra Roma e Costantinopoli. Ellenismo Oriente Cristianesimo nella Tarda Antichità.<br />

Saggi scelti, Catania 2009, 269-299.<br />

46 CICERO, Pro M. Aemilio Scauro, 48; OVIDIUS, Fasti, VI, vv. 436-454; VALE-<br />

RIUS MAXIMUS, Factorum et <strong>di</strong>ctorum memorabilium libri, I,4,4; HERODIANUS, Ab<br />

excessu <strong>di</strong>vi Marci, I,14,4-5.<br />

47 Vd. sopra, testo corrispondente alle note 25-33.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

Servio nei Commentarii, in anni probabilmente assai vicini e in un ambiente<br />

culturale romano assai simile a quelli dell’autore della Historia<br />

Augusta: filosenatorio, filopagano, tra<strong>di</strong>zionalista) 48 .<br />

Fosse o meno Vettio Agorio Pretestato il pontifex romano che, assieme<br />

al greco Sopatro come augure, l’11 maggio del 330 presiedette alla<br />

rifondazione sacra <strong>di</strong> Costantinopoli sull’antica Bisanzio, un Palla<strong>di</strong>o<br />

venne allora collocato alla base della colonna porfiretica che sorreggeva<br />

una statua solare <strong>di</strong> Costantino nella sua nuova capitale (che nella<br />

prima metà del XII secolo, secondo Zonara e Anna Comnena, sarebbe<br />

stata una statua <strong>di</strong> Apollo adattata e trasportata da Ilio), mentre un’altra<br />

copia – più in vista – adornava l’ippodromo 49 . Ma benché la tra<strong>di</strong>-<br />

48<br />

PELLIZZARI, Servio cit., spec. cap. I (Servio nella realtà storica e culturale del<br />

suo tempo), 5-31.<br />

49 C. BRENOT, Les monnaies au nom de “Populus Romanus” à Constantinople,<br />

«Quad. Ticinesi <strong>di</strong> numismatica e antichità classiche», 9 (1980) 299-313 (l’Autrice<br />

pubblica un deposito <strong>di</strong> mezzi nummi costantinopolitani da poco ritrovato nel sito<br />

del Bosco <strong>degli</strong> Arvali all’uscita <strong>di</strong> Roma – una trentina <strong>di</strong> esemplari in tutto –, sicuramente<br />

databili fra il 320 e il 335 e probabilmente attorno al 330, ossia poco<br />

dopo l’apertura dell’atelier nel 324 –, alcuni dei quali recano al verso l’immagine<br />

<strong>di</strong> un ponte, senza leggenda alcuna); CRACCO RUGGINI, Costantino e il Palla<strong>di</strong>o<br />

cit. (sopra, nota 37), spec. pp. 244-247 (ove l’Autrice ha posto ipoteticamente in<br />

relazione le monetine bronzee <strong>di</strong> Costantinopoli trovate a Roma – forse venute<br />

quivi con la delegazione sacerdotale al suo rientro nell’Urbe – con la fondazione<br />

sacra della capitale costantiniana nel 330). FRASCHETTI, La conversione cit. (sopra,<br />

nota 31), 42-47 e 65-70, come del resto il suo maestro Santo Mazzarino, non<br />

crede che il pontefice prescelto fosse allora Vettio Agorio Pretestato, e parla <strong>di</strong><br />

«affabulazione» meramente costantinopolitana, adducendo la seguente motivazione<br />

(a parte più <strong>di</strong>scutibili considerazioni cronologiche): che un pontefice romano<br />

mai avrebbe partecipato alla fondazione <strong>di</strong> una città che si preparava ad essere<br />

una potenziale rivale <strong>di</strong> Roma nel primato politico, economico e demografico. Ma<br />

il Costantino storico (che non si deve confondere con il modello <strong>di</strong> principe cristiano<br />

elaborato soprattutto nel V secolo e seguenti) al principio del IV secolo poteva<br />

benissimo voler adeguare a Roma la nuova capitale testé da lui fondata, pur<br />

senza trasportarvi il simulacro originale del Palla<strong>di</strong>o, ma solo una sua copia beneaugurante:<br />

in tale caso, un pontefice pagano <strong>di</strong> Roma non avrebbe avuto proprio<br />

nulla da obiettare (anzi!) circa una propria partecipazione alla inauguratio<br />

(senza dubbio tra<strong>di</strong>zionale) <strong>di</strong> Costantinopoli, da parte <strong>di</strong> un imperatore che nel<br />

330 del tutto cristiano ancora evidentemente non era. Esichio <strong>di</strong> Mileto, nella seconda<br />

metà del VI secolo, in un passo interpolato avrebbe poi alleggerito Costantino<br />

<strong>di</strong> ogni responsabilità attribuendo l’iniziativa all’intervento superstizioso dei<br />

senatori <strong>di</strong> Roma (così come Sozomeno, già intorno alla metà del V secolo, in proposito<br />

aveva incolpato invece i sacerdoti pagani <strong>di</strong> Costantinopoli: oiJ newkovroi<br />

109


110<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

zione patriografica costantinopolitana giurasse sull’autenticità del Palla<strong>di</strong>o<br />

sottostante alla colonna <strong>di</strong> Costantino (quando, tuttavia, prevaleva<br />

ormai la versione cristianizzata della rifondazione costantiniana elaborata<br />

dalle Storie Ecclesiastiche attorno alla metà del V secolo) 50 , non<br />

è affatto chiaro se il simulacro portato da Roma nella nuova capitale da<br />

Costantino fosse l’originale oppure soltanto una copia 51 .<br />

In verità, non si sa con certezza quando abbia incominciato effettivamente<br />

a <strong>di</strong>ffondersi la tra<strong>di</strong>zione letteraria della translatio costantiniana<br />

del Palla<strong>di</strong>o. Sono soltanto le fonti greco-orientali a parlarcene, a<br />

partire dal VI secolo. È comunque certo che nell’Occidente non solo cristianizzato,<br />

ma <strong>di</strong>venuto anche un regno romano-barbarico ormai abbandonato<br />

al proprio destino, non vi è alcuna traccia del Palla<strong>di</strong>o nelle<br />

ultime polemiche pagano-cristiane, specie dopo la conquista <strong>di</strong> Roma<br />

da parte dei Visigoti nel 410: un evento che ebbe un enorme impatto<br />

psicologico anche se, sul piano concreto, la città ricuperò abbastanza<br />

rapidamente. Le ultime battaglie ideologiche si svolsero piuttosto sul<br />

piano <strong>di</strong> un provvidenzialismo sempre più spinto 52 , per il quale il Palla<strong>di</strong>o<br />

non poteva essere <strong>di</strong> alcuna utilità nemmeno per gli ultimi pagani,<br />

nonostante il permanere, ancora al principio del V secolo, <strong>di</strong> qualche<br />

eco, per esempio in un grammatico come Servio, <strong>di</strong> una pubblicistica<br />

senatoria che, in funzione precipuamente anticostantinopolitana, si faceva<br />

vanto <strong>di</strong> detenere il Palla<strong>di</strong>o autentico. In ogni caso, a me sembra<br />

kai; oiJ iJerei'"; vd. oltre, nota 51): evidentemente l’autore bizantino non era semplicemente<br />

in grado <strong>di</strong> negare una translatio <strong>di</strong> cui dovevano allora sussistere tracce<br />

assai forti nella tra<strong>di</strong>zione locale, pur proclamandosi ormai Costantinopoli <strong>di</strong> fondazione<br />

cristiana: HESYCHIUS ILLUSTRIUS, Patria, in T. PREGER (ed.), Scriptores<br />

originum Constantinopolitanarum, Leipzig 1907, I, 17, in apparato; E. FOLLIERI,<br />

La fondazione <strong>di</strong> Costantonopoli: riti pagani e cristiani, in Roma, Costantinopoli,<br />

Mosca cit. (sopra, nota 37), 217-231 e spec. 223; PELLIZZARI, Servio cit. (sopra,<br />

nota 3), 55-57.<br />

50 Vd. spec. SOCRATES, Historia Ecclesiastica, I,17 (GCS, Neue Folge 1, 55-57);<br />

SOZOMENUS, Historia Ecclesiastica, II,3 (GCS 51-56); PHILOSTORGIUS, Historia<br />

Ecclesiastica, II,9 (GCS 20-21); MAZZA, Tra Roma e Costantinopoli cit. (sopra,<br />

nota 45), 161-191 (V: Costantino nella storiografia ecclesiastica [dopo Eusebio]) e<br />

partic. 180.<br />

51 Vd. sopra, testo <strong>di</strong> nota 49; e inoltre spec. IOHANNES MALALAS, Chronographia,<br />

XIII,6, Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, 320 (verso il 530). PEL-<br />

LIZZARI, Servio cit. (sopra, nota 3), 55-59 con note 109 e 122.<br />

52<br />

CRACCO RUGGINI, I barbari e l’impero prima e dopo il 410 cit. (sopra, nota<br />

5).


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

che siffatte polemiche si debbano collegare piuttosto al problema <strong>di</strong><br />

una translatio imperii già in parte avverata, ma non ancora, forse, del<br />

tutto consolidata.<br />

Nel VI secolo uno storico bizantino come Procopio accenna sì alla<br />

presenza a Roma <strong>di</strong> un’immagine simile al Palla<strong>di</strong>o, che ancora al tempo<br />

suo veniva mostrata ai visitatori (lui stesso compreso) nel tempio<br />

della Fortuna; nel contempo però – testimonia – i Romani affermavano<br />

d’ignorare quale sorte fosse toccata al Palla<strong>di</strong>o della tra<strong>di</strong>zione 53 : una<br />

reticenza che rivela dunque fasti<strong>di</strong>o nei confronti delle crescenti fortune<br />

<strong>di</strong> Costantinopoli, ma soprattutto imbarazzo per un pignus imperii che<br />

chiaramente aveva mostrato <strong>di</strong> non funzionare più come portafortuna<br />

infallibile, e che per <strong>di</strong> più si legava alle credenze <strong>di</strong> un paganesimo ormai<br />

superato. E <strong>di</strong>fatti uno storico bizantino come Giovanni Zonara,<br />

alto funzionario palatino e poi monaco sul Monte Athos molti secoli<br />

dopo Procopio (prima metà del XII secolo), nel <strong>di</strong>scorrere del Palla<strong>di</strong>o<br />

avrebbe ad<strong>di</strong>rittura ignorato la fase romana della sua vicenda, affermando<br />

una provenienza <strong>di</strong>retta del simulacro da Troia a Costantinopoli<br />

attraverso al Bosforo 54 .<br />

Ciò che qui soprattutto importa notare è come pure nel caso del Palla<strong>di</strong>o,<br />

al pari <strong>di</strong> quello (più circoscritto) <strong>degli</strong> ancilia in Roma, siano<br />

state soprattutto le fonti più tarde a parlarne: nel caso del Palla<strong>di</strong>o o<br />

antica statua <strong>di</strong> Pallade rifacendosi, a livello d’intellettuali e <strong>di</strong> antiquarî,<br />

a varianti della leggenda che presentavano più evidenti agganci<br />

con il mondo greco e che erano affermazione <strong>di</strong> una evidente translatio<br />

imperii in atto (quin<strong>di</strong> per ragioni ancora una volta in prima istanza<br />

politiche, piuttosto che religiose); mentre, nel caso dello scudo arcaico<br />

come pignus imperii per Roma, ebbero una vita prolungata soltanto<br />

quelle festività calendariali <strong>di</strong> cui non si conoscevano più le origini, ma<br />

alle quali si era affezionati.<br />

Come simboli puramente religiosi (non già ideologici), questi <strong>oggetti</strong><br />

‘caduti dal cielo’ ebbero quin<strong>di</strong> una vita precaria, oscura e cronologicamente<br />

assai limitata.<br />

53 PROCOPIUS, De bello Gothico, I,15,11.<br />

54 ZONARAS, Epitome Historiarum, XIII,3,28 (Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae,<br />

Bonn 1897, III, 18). La statua solare <strong>di</strong> Costantino-Apollo cadde al suolo<br />

nel 1106, sotto il regno <strong>di</strong> Alessio Comneno: ZONARAS, Epitome Historiarum,<br />

XIII,3,27 (Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, III, 18).<br />

111


LE ACHEROPITE E I FONDAMENTI<br />

DELLA TEORIA DELL’IMMAGINE CRISTIANA<br />

GRAZIANO LINGUA<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Il più noto esempio <strong>di</strong> sacra impronta nel cristianesimo sono senza<br />

dubbio le immagini acheropite, immagini cioè che, come <strong>di</strong>ce il loro<br />

stesso nome, sono ottenute senza l’intervento della mano dell’uomo.<br />

Esse, come già aveva rilevato Ernst Kitzinger 1 , sono fondamentalmente<br />

<strong>di</strong> due tipi: immagini <strong>di</strong> Cristo, della Vergine o <strong>di</strong> un santo ritenute opera<br />

<strong>di</strong> una mano <strong>di</strong>versa da quella dei comuni mortali, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> origine<br />

<strong>di</strong>vina e a volte cadute dal cielo secondo la fattispecie dei <strong>di</strong>ipetes del<br />

mondo classico, oppure immagini ritenute <strong>impronte</strong> meccaniche prodottesi<br />

miracolosamente dall’originale, in particolare <strong>impronte</strong> del volto<br />

<strong>di</strong> Cristo, ma anche dell’intero corpo come nel caso dei lenzuoli sindonici<br />

o <strong>di</strong> parti <strong>di</strong> esso come l’immagine sulla colonna della flagellazione<br />

<strong>di</strong> cui ci parlano alcuni resoconti <strong>di</strong> pellegrinaggio a Gerusalemme<br />

del VI secolo 2 .<br />

Esse rappresentano un consistente capitolo della storia del culto cristiano<br />

che ha origine nel VI secolo in contesto bizantino, in cui si intrecciano<br />

due <strong>di</strong>stinti aspetti: da una parte le leggende che nascono e si sviluppano<br />

sull’origine <strong>di</strong> questi <strong>oggetti</strong> e dall’altra le immagini fisiche che<br />

vengono via via ad identificarsi e ad incorporare queste leggende. Il<br />

materiale relativo ad entrambi questi aspetti è ampio e <strong>di</strong>versificato, come<br />

si può ben vedere consultando la documentazione raccolta già alla<br />

fine dell’Ottocento da Ernst von Dobschütz nel suo Christusbilder 3 . Per<br />

1 E. KITZINGER, Il culto delle immagini. L’arte bizantina dal cristianesimo delle<br />

origini all’Iconoclastia, trad. it. <strong>di</strong> R. Garroni, Milano 1992, 44.<br />

2 Mi riferisco ai pellegrini Teodosio e Antonino da Piacenza che parlano nei<br />

loro resoconti <strong>di</strong> un’immagine <strong>di</strong> Cristo sulla colonna della Flagellazione. Cfr. E.<br />

KITZINGER, Il culto delle immagini, cit., 32.<br />

3 E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo, trad. it. <strong>di</strong> Giuliano e G. Rossi, Prefazione<br />

<strong>di</strong> G. Lingua, Milano 2006.<br />

113


114<br />

Graziano Lingua<br />

un primo orientamento in quanto <strong>di</strong>rò voglio almeno ricordare gli<br />

esempi più famosi <strong>di</strong> acheropite <strong>di</strong> Cristo. Nel contesto orientale innanzitutto<br />

l’immagine <strong>di</strong> Edessa che la tra<strong>di</strong>zione collega allo scambio <strong>di</strong><br />

lettere tra Gesù e il re Abgar <strong>di</strong> Edessa 4 e l’immagine <strong>di</strong> Camulia o Camuliana<br />

che secondo la leggenda viene ritrovata da una donna in una<br />

pozza d’acqua del suo giar<strong>di</strong>no e rappresenta un eloquente esempio <strong>di</strong><br />

immagine <strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina 5 . Nel contesto della chiesa latina il Velo della<br />

Veronica con l’articolata leggenda che lo circonda 6 , e le sindoni, tra<br />

cui in particolare la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> che <strong>di</strong>venterà con il tempo la più<br />

nota e venerata non solo in Occidente.<br />

Ho citato sinteticamente questi esempi soltanto per un primo orientamento<br />

sulla questione, perché non affronterò nel mio intervento una<br />

precisa ricostruzione delle leggende, né delle vicende storiche che le immagini<br />

fisiche considerate “non fatte da mano d’uomo” hanno avuto<br />

prima nella Chiesa d’Oriente e poi nella Chiesa latina. Il profilo con cui<br />

guardo alla questione è invece un profilo squisitamente filosofico: intendo<br />

cioè prendere in esame il ruolo che storicamente e concettualmente<br />

esse hanno giocato nello sviluppo della teoria cristiana dell’immagine<br />

e il contributo che il materiale agiografico e la riflessione teologica<br />

sulle acheropite possono offrire a questioni che ancora oggi sono<br />

filosoficamente centrali per pensare il ruolo delle immagini e la natura<br />

delle operazioni artistiche, non solo in ambito religioso. Quello che<br />

<strong>di</strong>rò si porrà quin<strong>di</strong> in una zona <strong>di</strong> confine dove l’ermeneutica dei dati<br />

storici incontra l’architettonica <strong>di</strong> una filosofia dell’immagine, considerata<br />

come tema <strong>di</strong> particolare rilevanza non solo per una ricostruzione<br />

della storia del pensiero cristiano, ma anche come genealogia del <strong>di</strong>battito<br />

contemporaneo sul visivo e le sue manifestazioni.<br />

4 Sull’immagine <strong>di</strong> Edessa oltre al materiale raccolto da von Dobschütz si possono<br />

vedere A. CAMERON, The History of the Image of Edessa: the Telling of a<br />

Story, Harvard Ukranian <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 7 (1983) 80-94; H. BELTING, Il culto delle immagini.<br />

Storia dell’icona dall’età imperiale al Tardo Me<strong>di</strong>oevo, trad. it <strong>di</strong> B. Maj, Roma<br />

2001, 257-269.<br />

5 Sull’immagine <strong>di</strong> Camulia cfr. E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo cit.,<br />

51-64; E. KITZINGER, Il culto delle immagini cit., 46-47.<br />

6 Sul Velo della Veronica si veda H. BELTING, Il culto delle immagini, cit., 269-<br />

277; G. WOLF, From Mandylion to Veronica: Picturing the “Disembo<strong>di</strong>ed” Face and<br />

Disseminating the True Image of Christ in the Latin West, in H. KESSLER - G.<br />

WOLF (edd.), The Holy Face and the Paradox of Representation, Bologna 1998,<br />

153-179.


Le acheropite<br />

È proprio perché le acheropite mi interessano in questa prospettiva<br />

genealogica che ritengo utile inserire la nascita o l’articolato sviluppo<br />

delle leggende sulle immagini “non fatte da mano d’uomo” all’interno<br />

del più complessivo problema dell’origine e della legittimazione delle<br />

immagini <strong>di</strong> culto in una religione come quella cristiana che nei suoi<br />

primi secoli <strong>di</strong> vita si è trovata schiacciata tra due atteggiamenti opposti:<br />

da una parte l’invadente uso <strong>di</strong> rappresentazioni visive delle religioni<br />

pagane da cui doveva <strong>di</strong>fferenziarsi e dall’altra il sospetto, se non la<br />

vera e propria avversione, verso l’utilizzo <strong>di</strong> immagini religiose ere<strong>di</strong>tato<br />

dall’ebraismo.<br />

Collocato in questo contesto <strong>di</strong> sviluppo della teologia cristiana dell’immagine<br />

la questione delle immagini “non fatte da mano d’uomo”<br />

mi conduce a proporre due tesi alla <strong>di</strong>scussione.<br />

La prima è che le acheropite assumano il ruolo <strong>di</strong> “mito fondatore”<br />

per la teologia dell’immagine bizantina in specifico e più in generale abbiano<br />

una funzione istitutiva per il concetto cristiano <strong>di</strong> immagine <strong>di</strong><br />

culto, perché sono autorizzate e garantite da Dio, quin<strong>di</strong> traggono la<br />

loro autorità non semplicemente dalla scelta umana <strong>di</strong> infrangere il comandamento<br />

<strong>di</strong> Esodo 20 (“Non ti farai idolo, né immagine alcuna…”),<br />

ma da una decisione <strong>di</strong> Dio stesso, operata attraverso il Gesù<br />

storico. Quando il materiale leggendario attribuisce a Gesù stesso la<br />

scelta <strong>di</strong> lasciare una traccia figurativa <strong>di</strong> sé offre ipso facto un argomento<br />

a favore <strong>di</strong> un’interpretazione non rigorista del comandamento,<br />

che non può più essere letto come un <strong>di</strong>vieto assoluto <strong>di</strong> produrre immagini.<br />

La seconda è che il concetto stesso <strong>di</strong> immagine “non fatta da mano<br />

umana” permette <strong>di</strong> pensare la natura dell’immagine cristiana secondo<br />

un modello in cui l’iniziativa iconica spetta a Dio stesso e all’artista<br />

non è concesso nessun ruolo creativo, ma tutt’al più la canonica ripetizione<br />

<strong>di</strong> questo gesto istitutivo originario. Da questo punto <strong>di</strong> vista il<br />

fatto stesso che le acheropite siano, nella maggior parte dei casi, considerate<br />

delle <strong>impronte</strong> determina una loro natura ambivalente perché fa<br />

essere questi <strong>oggetti</strong> sia immagini che raffigurano in modo in<strong>di</strong>cale il<br />

loro modello come un calco meccanico sia reliquie che, incorporando il<br />

sacro, costituiscono delle estensioni del potere <strong>di</strong>vino del loro modello.<br />

Questi due aspetti danno vita ad una <strong>di</strong>alettica interna al concetto stesso<br />

<strong>di</strong> acheropita, <strong>di</strong>alettica che attraverserà anche molta parte della <strong>di</strong>scussione<br />

sulle immagini “cheropite” <strong>di</strong> Cristo, specialmente nel pensiero<br />

cristiano orientale relativo all’icona. Nella teologia cristiana le immagini<br />

sono sempre qualcosa <strong>di</strong> più <strong>di</strong> una semplice raffigurazione per-<br />

115


116<br />

Graziano Lingua<br />

ché, se così non fosse, non se ne spiegherebbe il culto. L’immagine è anche<br />

una “presentificazione” <strong>di</strong> carattere operativo, un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> relazione<br />

con Dio e non solo uno schermo su cui vedere delle figure. E<br />

anche da questo punto <strong>di</strong> vista la letteratura che circonda le acheropite<br />

è molto interessante.<br />

Per affrontare queste due tesi ho or<strong>di</strong>nato questo mio intervento in<br />

due momenti. Innanzitutto cercherò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re qualcosa sul ruolo che storicamente<br />

hanno avuto gli acheropiti nel loro contesto originario, quello<br />

bizantino e sulle cause del loro successo per vedere dall’interno come<br />

essi rispondano alla questione della legittimità delle immagini <strong>di</strong> culto.<br />

Successivamente analizzerò come questa <strong>di</strong>mensione fornisca a livello<br />

sistematico elementi <strong>di</strong> carattere più propriamente filosofico ed estetico,<br />

cercando <strong>di</strong> far emergere il contributo che queste immagini/traccia<br />

offrono ad una riflessione sulla teoria dell’immagine.<br />

In sede introduttiva prima <strong>di</strong> analizzare queste due tesi mi preme<br />

una breve contestualizzazione storico-critica <strong>di</strong> quello che <strong>di</strong>rò. Sostenere<br />

che le acheropite abbiano avuto un ruolo importante nello sviluppo<br />

della teologia dell’immagine cristiana e che il loro valore istitutivo<br />

connoti l’estetica dell’icona e contribuisca in modo significativo alla<br />

teoria cristiana dell’immagine implica <strong>di</strong> collocarsi in una prospettiva<br />

<strong>di</strong>fferente da quella che ha caratterizzato una certa tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>,<br />

inaugurata dal già citato lavoro <strong>di</strong> E. von Dobschütz. In Christusbilder,<br />

a cui dobbiamo una prima raccolta dell’ampio materiale leggendario<br />

sugli acheropiti, l’interesse principale dell’autore è chiaramente storicoricostruttivo<br />

e documentario, ma la ricostruzione lascia trasparire una<br />

precisa tesi interpretativa con cui il materiale narrativo è trattato 7 . Da<br />

allievo <strong>di</strong> A. von Harnack, l’autore è convinto che le immagini miracolose<br />

siano un tipico prodotto del processo <strong>di</strong> “ellenizzazione” del cristianesimo,<br />

perché esse introducono un elemento spurio rispetto allo<br />

spiritualismo <strong>di</strong> matrice ebraica che caratterizzerebbe i primissimi secoli<br />

cristiani. Il vero cristianesimo sarebbe rimasto aniconico, o per lo meno<br />

avrebbe evitato le immagini <strong>di</strong> carattere ritrattistico che richiamano<br />

<strong>di</strong>rettamente il culto idolatrico pagano, se dopo la svolta costantiniana<br />

insieme alle masse <strong>di</strong> fedeli non avesse fatto irruzione nella nuova religione<br />

anche “il culto superstizioso delle immagini” 8 . Questa convinzio-<br />

7 Riprendo qui alcune osservazioni sviluppate più <strong>di</strong>ffusamente in G. LINGUA,<br />

Pre fazione, in E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo cit., 5-12.<br />

8 Ivi, 45.


ne sta alla base della tesi <strong>di</strong> fondo del libro, l’idea cioè che il materiale<br />

agiografico che circonda le acheropite cristiane sia una trasposizione<br />

delle leggende pagane sui <strong>di</strong>ipetes e che quin<strong>di</strong> ci sia un legame causale<br />

tra i due. L’interesse comparativo e il debito nei confronti della teoria<br />

dell’ellenizzazione impe<strong>di</strong>scono così a Dobschütz <strong>di</strong> cogliere a pieno il<br />

fatto che le leggende sugli acheropiti non erano prive <strong>di</strong> motivazioni endogene<br />

al cristianesimo che potevano fungere da cause altrettanto rilevanti<br />

per il loro successo della semplice importazione della tra<strong>di</strong>zione<br />

esogena sugli “<strong>oggetti</strong> caduti dal cielo”. Esse non restarono appannaggio<br />

della religione popolare, ma entrarono nella letteratura controversistica<br />

<strong>degli</strong> iconofili per la loro forte carica apologetica a favore delle<br />

immagini <strong>di</strong> culto, anche perché in esse prendeva forma in modo incoativo<br />

l’asse portante della teoria cristiana dell’immagine, il fatto cioè che<br />

la legittimità delle icone e del culto ad esse tributato si fon<strong>di</strong> sull’incarnazione<br />

<strong>di</strong> Cristo. Le acheropite sono un fenomeno legato alla cristologia<br />

delle immagini nel doppio senso che la caratterizza: per un verso, in<br />

quanto reliquie visive, pretendono <strong>di</strong> essere una testimonianza <strong>di</strong>retta<br />

del Gesù storico, hanno quin<strong>di</strong> il carattere <strong>di</strong> una traccia documentale<br />

che prova la realtà dell’incarnazione e dall’altra in quanto giustificazione<br />

cristologica dell’immagine, perché si “autolegittimano” come volute<br />

<strong>di</strong>rettamente o in<strong>di</strong>rettamente da Gesù stesso.<br />

1.<br />

Le acheropite<br />

Fatta questa premessa veniamo al primo aspetto che mi interessa.<br />

Molte sono le ragioni che hanno fatto sì che intorno alla seconda metà<br />

del VI secolo si <strong>di</strong>ffonda in contesto bizantino il materiale leggendario<br />

sulle immagini “non fatte da mano umana” e le immagini fisiche ad esse<br />

collegate, come originali e come copie “manufatte” <strong>di</strong> questi originali<br />

9 .<br />

Può esserci una ragione largamente antropologico-religiosa, ricordata<br />

da Averil Cameron come “una persistente crescita <strong>di</strong> interesse per<br />

una documentazione la più <strong>di</strong>retta possibile su Cristo” 10 . Poiché la leg-<br />

9 Su questo aspetto si veda J. TRILLING, The Image not Made by Hands and the<br />

Byzantine Way of Seeing, in H. KESSLER - G. WOLF (edd.), The Holy Face and the<br />

Paradox of Representation, cit., 109-127.<br />

10 A. CAMERON, The History of the Image of Edessa: the Telling of a Story,<br />

Harvard Ukranian <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 7 (1983) 86.<br />

117


118<br />

Graziano Lingua<br />

genda faceva risalire le immagini al Gesù storico esse potevano servire<br />

come conferma della reale esistenza <strong>di</strong> Cristo in un corpo umano e come<br />

testimonianza ritrattistica del volto <strong>di</strong> Cristo, rendendolo così più<br />

vicino ai fedeli. Questa ragione va compresa nello sviluppo <strong>di</strong> interesse<br />

per la reliquie <strong>di</strong> Gesù che comincia già prima del VI secolo e nell’interesse<br />

per il vero ritratto <strong>di</strong> Cristo, interesse questo, che si va amplificando<br />

proprio negli stessi secoli della <strong>di</strong>ffusione delle immagini acheropite.<br />

Può esserci poi una ragione <strong>di</strong> natura politica. Come ricorda André<br />

Grabar, la lunga guerra persiana, a cui l’Impero bizantino doveva far<br />

fronte in quel periodo, può aver costituito un motivo scatenante per la<br />

nascita del culto <strong>di</strong> queste immagini perché richiedeva simboli <strong>di</strong> identificazione<br />

in uno scontro non solo militare, ma anche ideologico tra<br />

«l’impero cristiano e l’impero zoroastraiano» 11 . Fin dalla sua prima apparizione<br />

durante l’asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Edessa del 544, da parte del re persiano<br />

Cosroe 12 , l’acheropita <strong>di</strong> Edessa interviene in modo miracoloso contro<br />

i nemici e la sua funzione apotropaica è bene attestata dalla leggenda<br />

secondo cui una clausola della lettera <strong>di</strong> Gesù a Abgar avrebbe affermato<br />

che finché l’immagine fosse rimasta ad Edessa la città non sarebbe<br />

stata presa dai nemici 13 . La stessa funzione avrà dopo il trasferimento<br />

a Costantinopoli nel 944 come bene si vede nella descrizione del suo<br />

arrivo nella capitale offerta dalla Narratio de imagine Edessena 14 , attribuita<br />

all’Imperatore Costantino VII. E questo non vale soltanto per l’acheropita<br />

edesseno: l’imperatore Eraclio per esempio, usa un’immagine<br />

miracolosa <strong>di</strong> Cristo, probabilmente l’immagine <strong>di</strong> Camuliana, come<br />

palla<strong>di</strong>um durante la campagna contro i Persiani 15 .<br />

Accanto a queste ragioni voglio però soffermarmi su un motivo <strong>di</strong><br />

natura teologica che se non spiega <strong>di</strong>rettamente la nascita <strong>di</strong> queste leg-<br />

11 A. GRABAR, L’iconoclasme byzantin, Paris 1984, 32.<br />

12<br />

EVAGRIO, Historia Ecclesiastica, IV, 27.<br />

13 Narratio de imagine Edessena, 7, 20, cfr. M. GUSCIN, The Image of Edessa,<br />

Leiden 2009, 21.<br />

14 Il fatto che l’immagine venga trasportata lungo le mura o in processione all’interno<br />

della città viene infatti chiaramente interpretato nella Narratio come un<br />

gesto apotropaico. “Essi credevano in questo modo – <strong>di</strong>ce la Narratio riferendosi<br />

all’immagine <strong>di</strong> Edessa – che la città sarebbe <strong>di</strong>venuta più santa e più forte, e sarebbe<br />

stata conservata incolume e inespugnabile in ogni tempo”, cfr. Narratio de<br />

imagine Edessena, 28, 23-25, cfr. M. GUSCIN, The Image of Edessa, 57.<br />

15<br />

GIORGIO DI PISIDIA, De expe<strong>di</strong>tione Persica, I, 139 ss. Su questo cfr. E. KIT-<br />

ZINGER, Il culto delle immagini cit., 42.


Le acheropite<br />

gende, certamente contribuisce a giustificare la loro fama nei secoli successivi<br />

non solo all’interno del contesto bizantino, il contributo cioè<br />

che l’idea stessa <strong>di</strong> immagine “non fatta da mano d’uomo” poteva offrire<br />

al <strong>di</strong>battito sulla legittimità del culto delle immagini, <strong>di</strong>battito<br />

che – come è noto – non si limita soltanto ai secoli dell’iconoclastia, ma<br />

comincia prima ed ha la sua origine remota nel rapporto stesso <strong>di</strong> derivazione<br />

del cristianesimo dall’ebraismo.<br />

Per capire questo fatto devo richiamare brevemente il contesto del<br />

<strong>di</strong>battito sulle immagini nel cristianesimo delle origini. Va ricordato<br />

che i primi secoli cristiani evidenziano per lo meno una situazione paradossale<br />

su questo versante, perché se è vero che già a cavallo tra il II e<br />

il III secolo cominciano ad apparire immagini con esplicito contenuto<br />

religioso, tuttavia la letteratura patristica è rispetto alla legittimità dell’uso<br />

delle immagini abbastanza cauta, e in alcuni casi esplicitamente<br />

contraria fino al IV secolo inoltrato 16 . Il processo <strong>di</strong> giustificazione teorica<br />

delle immagini è piuttosto lungo e segue a gran<strong>di</strong> linee due <strong>di</strong>verse<br />

traiettorie che si possono raccogliere, l’una attorno all’idea che l’immagine<br />

sia legittima in quanto ha una funzione <strong>di</strong>dattico-narrativa e può<br />

contribuire alla <strong>di</strong>ffusione del messaggio cristiano grazie alla sua fruibilità<br />

e all’attrazione emozionale che esercita, e una seconda secondo cui<br />

essa non è solo legittima, ma anche essenziale all’economia salvifica,<br />

perché rappresenta un canale <strong>di</strong> comunicazione tra Dio e il mondo,<br />

grazie alla sua funzione rivelativa 17 . La prima linea trova la sua formulazione<br />

più chiara nel tema classico della Biblia pauperum e serve a giustificare<br />

le immagini con contenuto narrativo 18 , la seconda invece si svi-<br />

16 Ho analizzato questo aspetto in G. LINGUA, L’icona, l’idolo e la guerra delle<br />

immagini, Milano 2006, 43-62.<br />

17 Queste due traiettorie costituiscono anche una delle <strong>di</strong>fferenze più rilevanti<br />

tra la teoria dell’immagine del Cristianesimo occidentale e quella che prevarrà nel<br />

Cristianesimo orientale. Su questo aspetto si veda P. BERNARDI, I colori <strong>di</strong> Dio.<br />

L’immagine cristiana tra Oriente e Occidente, Milano 2007.<br />

18 La convinzione che le immagini abbiano un’utilità per il loro ruolo <strong>di</strong>dattico<br />

e per il contributo che possono offrire alla pre<strong>di</strong>cazione è presente nella letteratura<br />

patristica fin dalla seconda metà del IV secolo. Il tema trova però la sua compiuta<br />

sistematizzazione nelle lettere <strong>di</strong> Gregorio Magno al vescovo Sereno <strong>di</strong><br />

Marsiglia. Per una traduzione parziale del testo <strong>di</strong> Gregorio Magno si veda D.<br />

MENOZZI, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle<br />

origini ai nostri giorni, Cinisello Balsamo 1995, 79-80. Per una contestualizzazione<br />

è utile P.A. MARIAUX, L’image selon Grégoire le Grande et la question de l’art missionaire,<br />

Cristianesimo nella storia 14 (1993) 1-12.<br />

119


120<br />

Graziano Lingua<br />

luppa a giustificazione delle immagini ritrattistiche prive <strong>di</strong> contenuto<br />

narrativo e con esplicita funzione cultuale, come è il caso delle icone bizantine<br />

19 .<br />

È all’interno <strong>di</strong> questo secondo contesto che va visto il ruolo delle<br />

acheropite perché il materiale leggendario e l’utilizzo teologico che ne<br />

viene fatto contengono al proprio interno un implicito tentativo <strong>di</strong> risolvere<br />

alcuni problemi posti proprio dall’immagine <strong>di</strong> culto, priva <strong>di</strong><br />

carattere narrativo. In questo senso ho detto che esse possono fungere<br />

da “mito fondatore” dell’icona, perché rappresentano qualcosa come<br />

l’anello mancante tra il <strong>di</strong>vieto ebraico dell’idolatria e la scelta cristiana<br />

<strong>di</strong> produrre ritratti <strong>di</strong> Cristo, in quanto non solo il Dio invisibile ai cherubini<br />

si è fatto visibile nella persona storica <strong>di</strong> Gesù, ma anche la sua<br />

volontà <strong>di</strong> non essere rappresentato è stata una volta per sempre superata<br />

dal Gesù storico.<br />

D’altro canto l’idea stessa che possa esistere un’immagine “non fatta<br />

da mano d’uomo” contiene molti elementi utili all’apologia delle immagini<br />

<strong>di</strong> culto. Lo si può mostrare venendo ad alcuni testi dalla letteratura<br />

iconofila che si riferiscono alle acheropite come ad una prova<br />

della legittimità delle immagini, una prova così evidente da non richiedere<br />

un’articolata giustificazione teologica 20 . Qualche esempio. Giovanni<br />

Damasceno allude due volte all’acheropita <strong>di</strong> Edessa, l’una nella<br />

De fide orthodoxa e l’altra nei Contra imaginum calumniatores. Nel primo<br />

caso l’immagine <strong>di</strong> Edessa è usata come una testimonianza della<br />

tra<strong>di</strong>zione non scritta in riferimento alla quale la venerazione delle immagini<br />

può essere giustificata, anche se non è <strong>di</strong>rettamente autorizzata<br />

19 Questa seconda traiettoria <strong>di</strong> legittimazione non solo dell’uso delle immagini,<br />

ma anche del loro culto sta alla base della teologia bizantina dell’icona. Per seguire<br />

lo sviluppo teorico del <strong>di</strong>battito prima dello scontro iconoclastico resta fondamentale<br />

il lavoro <strong>di</strong> G. LADNER, The Concept of the Image in the Greek Fathers<br />

and the Byzantine Iconoclastic Controversy, Dumbarton Oaks Papers 7 (1953) 3-<br />

34. Per una introduzione sugli aspetti più propriamente filosofici e teologici del<br />

pensiero bizantino sulle immagini si vedano V.V. BIČKOV, L’estetica bizantina.<br />

Problemi teorici, trad. it. <strong>di</strong> F.S. Perillo, Bitonto 1983; M. BARASCH, Icon. <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es<br />

in History o Fan Idea, New York - London1992; M.-J. MONDZAIN, Image, icône,<br />

économie. Les sources byzantines de l’immginaire contemporain, Paris 1996; P. BER-<br />

NARDI, L’icona. Estetica e teologia, Roma 1998.<br />

20 Devo gli elementi fondamentali <strong>di</strong> questa breve carrellata al saggio <strong>di</strong> A. CA-<br />

MERON, The Mandylion and Byzantine Iconoclasm, in H. KESSLER - G. WOLF<br />

(edd.), The Holy Face cit., 33-54.


Le acheropite<br />

nella tra<strong>di</strong>zione scritta 21 . Nel secondo caso l’immagine è usata come<br />

prova concreta della liceità delle immagini e del loro gra<strong>di</strong>mento a<br />

Dio 22 e come documento per provare l’antichità dell’uso delle immagini<br />

nel cristianesimo. Questa questione dell’antichità è com’è noto uno <strong>degli</strong><br />

argomenti contrapposti dagli iconoclasti agli iconoduli. Le immagini<br />

e il loro culto sono secondo i primi un’usanza introdotta <strong>di</strong> recente,<br />

mentre l’argomento <strong>degli</strong> iconofili è che il tutto appartenga alla tra<strong>di</strong>zione<br />

più antica del cristianesimo. Ora, se le acheropite sono state generate<br />

<strong>di</strong>rettamente dal contatto con il corpo <strong>di</strong> Cristo, esse sono raffigurazioni<br />

contemporanee al Gesù storico che provengono dall’epoca apostolica<br />

e la loro antichità non può essere messa in dubbio.<br />

Nel Secondo Concilio <strong>di</strong> Nicea (787), ci ricorda Averil Cameron,<br />

l’immagine <strong>di</strong> Edessa è uno dei testimonia citato per <strong>di</strong>mostrare il miracoloso<br />

potere delle immagini; in questo periodo l’immagine, anche se<br />

non ancora presente a Costantinopoli sta gradualmente emergendo<br />

«come uno dei maggiori simboli iconofili bizantini» 23 , tanto che risulta<br />

<strong>di</strong>fficile affermare come fa Dobschütz che l’uso dogmatico <strong>di</strong> queste<br />

immagini sarebbe qualcosa <strong>di</strong> secondario 24 . È così che il riferimento all’immagine<br />

acquista maggiore spessore teologico negli iconofili successivi.<br />

La troviamo citata nel trattato a <strong>di</strong>fesa delle icone <strong>di</strong> Theodoro<br />

Abu Qurrah, in funzione anti-giudaica e anti-islamica come giustificazione<br />

della legittimità dell’uso <strong>di</strong> immagini, contro il <strong>di</strong>vieto antico-testamentario<br />

e i testi avversi alle immagini della tra<strong>di</strong>zione islamica 25 .<br />

21 GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa, 89, (ed. Kotter, vol. 2, Berlin<br />

1973, 208). In questo primo testo c’è da segnalare un aspetto interessante, che ritroviamo<br />

in <strong>di</strong>verse versioni della leggenda quali ad esempio la Narratio de imagine<br />

Edessena, già più volte citata. L’artista non è capace <strong>di</strong> <strong>di</strong>pingere a causa della<br />

gloria che splende dal volto <strong>di</strong> Cristo e Gesù stesso viene incontro al desiderio <strong>di</strong><br />

vedere <strong>di</strong> Abgar ponendo un himation sulla propria faccia e trasferendo su <strong>di</strong> esso<br />

la sua immagine. L’acheropita è tale quin<strong>di</strong> perché l’uomo non è capace con le<br />

proprie mani <strong>di</strong> fare ciò che fa Gesù stesso, cioè <strong>di</strong> produrre un’immagine <strong>di</strong> Cristo.<br />

22 GIOVANNI DAMASCENO, Contra imaginum calumniatores, I, 33; II, 29; III, 45<br />

(ed. Kotter, vol. 3, Berlin 1975) Cfr. G. DAMASCENO, Difesa delle immagini sacre,<br />

trad. it. <strong>di</strong> V. Fazzo, Roma 1983, 65 e paralleli.<br />

23 A. CAMERON, The Mandylion and Byzantine Iconoclasm cit., 41.<br />

24 E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo cit., 62.<br />

25 T. ABU QURRAH, Trattato sulla venerazione delle immagini, 23,2 (cfr. ID., La<br />

<strong>di</strong>fesa delle icone, trad. it. <strong>di</strong> Paola Pizzo, Milano 1995, 142-143). In particolare<br />

l’immagine <strong>di</strong> Edessa viene citata nella <strong>di</strong>scussione sul fatto che l’onore o il <strong>di</strong>-<br />

121


122<br />

Graziano Lingua<br />

Teodoro <strong>Stu<strong>di</strong></strong>ta cita le acheropite per giustificare la proskynesis, la venerazione<br />

contro la latreia, l’adorazione idolatrica 26 . Niceforo Costantinopolitano<br />

nei suoi Antirretici torna due volte sul volto lasciato da<br />

Cristo su un lenzuolo. Nel Primo Antiretico per legittimare il ritratto <strong>di</strong><br />

Cristo 27 e nel Terzo 28 , dove viene riportata per esteso la leggenda <strong>di</strong> Abgar.<br />

In questo secondo caso – come segnala M.-J. Mondzain 29 – Niceforo<br />

usa nei confronti dell’acheropita il termine homoioma, implicitamente<br />

attestando che essa risolve il problema della homoiosis (somiglianza<br />

formale) del ritratto <strong>di</strong> Cristo, anche se lo fa in termini metonimici<br />

e non simbolici come avviene invece nella immagini artistiche. L’acheropita<br />

può avere questo valore apologetico perché in esso si giustifica<br />

non soltanto un legame causale tra Cristo e la sua raffigurazione,<br />

ma la figura che è impressa sul velo riproduce esattamente i tratti della<br />

persona <strong>di</strong> Cristo realmente esistita e non un’idea generica <strong>di</strong> uomo <strong>di</strong>vino.<br />

La traccia prelevata <strong>di</strong>rettamente sul modello storico – si potrebbe<br />

<strong>di</strong>re proseguendo al <strong>di</strong> là del testo <strong>di</strong> Niceforo – riduce al minimo il<br />

rischio <strong>di</strong> inadeguatezza mimetica e quin<strong>di</strong> può essere considerata “ritratto<br />

autentico”.<br />

sprezzo tributato all’immagine passi al prototipo oppure no, altra questione centrale<br />

nel <strong>di</strong>battito sulla legittimità del culto delle icone. Abu Qurrah compara gli<br />

effetti dell’atteggiamento nei confronti dell’immagine <strong>di</strong> Edessa agli effetti che<br />

produrrebbe la venerazione o il <strong>di</strong>sprezzo dell’immagine dell’immagine del proprio<br />

padre: “Se qualche Cristiano si rifiutasse <strong>di</strong> venerarla, vorrei tanto raffigurare<br />

suo padre sulla porta della chiesa dell’immagine <strong>di</strong> Cristo. Quin<strong>di</strong> inviterei<br />

chiunque avesse venerato l’immagine <strong>di</strong> Cristo, a sputare quando esce, sul volto<br />

dell’immagine <strong>di</strong> suo padre, specialmente se fosse stato lui a trasmettergli <strong>di</strong> venerare<br />

la santa immagine, per vedere se costui si a<strong>di</strong>rerebbe per questo oppure no.<br />

Ma è indubbio che egli godrebbe <strong>di</strong> ripagare chi avesse agito così con l’immagine<br />

<strong>di</strong> suo padre fino al punto <strong>di</strong> togliergli la vita. Dopo<strong>di</strong>ché noi gli <strong>di</strong>remmo: se l’ira<br />

che ti prende per il <strong>di</strong>sprezzo reso all’immagine <strong>di</strong> tuo padre ti fa arrivare a tal<br />

punto, sappi che analogamente l’onore reso all’immagine <strong>di</strong> Cristo arreca a lui<br />

piacere ed Egli ricompensa colui che venera la sua immagine con tanto bene<br />

quanto è il male che tu hai fatto a colui che sputava sul volto dell’immagine <strong>di</strong> tuo<br />

padre e ancora <strong>di</strong> più, secondo la misura della sua magnanimità che trascende<br />

ogni immaginazione”. (ivi)<br />

26 TEODORO STUDITA, Epistulae, 409, 42 (ed G. FATOUROS, Corpus fontium historiae<br />

Byzantinae, Berlin 1992, 31,2).<br />

27 NICEFORO, Antirrhetici, PG 100, 260 A. Cfr. NICÉPHORE, Discours contre les<br />

iconoclastes, a cura <strong>di</strong> M.-J. Mondzain, Paris 1989, 97<br />

28 NICEFORO, Antirrhetici, PG 100, 461. Cfr. NICÉPHORE, Discours cit., 246-247.<br />

29 Cfr. NICÉPHORE, Discours cit., p. 247 nota 118.


2.<br />

Le acheropite<br />

Ora, perché le acheropite possono essere usate con tanta evidenza<br />

come testimoni a favore delle immagini? La risposta sta nel fatto che la<br />

loro natura stessa contiene al proprio interno alcuni elementi costitutivi<br />

della teoria cristiana dell’immagine. Ne evidenzierò sinteticamente<br />

due: il privilegio iconico <strong>di</strong> Dio, il fatto cioè che il vero attore dell’immagine<br />

cristiana è Dio stesso e non l’artista a cui spetta soltanto <strong>di</strong><br />

contribuire lasciando emergere una realtà che ha origini al <strong>di</strong> là del<br />

proprio arbitrio creativo, e la <strong>di</strong>alettica tra la funzione rappresentativa<br />

e la funzione ostensivo-rivelativa che fa dell’immagine nel cristianesimo<br />

un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> comunicazione con Dio e non soltanto uno schermo<br />

mimetico in cui vedere delle figure. Detto sinteticamente, la potenza<br />

apotropaica e taumaturgica <strong>degli</strong> acheropiti non deriva soltanto dal<br />

fatto <strong>di</strong> essere autentici ritratti <strong>di</strong> Cristo, ma da una presenza <strong>di</strong>vina che<br />

conservano al loro interno e che li rende “immagini viventi” che si comportano<br />

come reincarnazioni <strong>di</strong> Cristo compiendo miracoli e dando<br />

origine ad altre immagini anch’esse acheropite.<br />

Vengo al primo aspetto. Per cogliere a pieno il ruolo giocato dagli<br />

acheropiti nello sviluppo del culto delle immagini non si deve sottovalutare<br />

che proprio il “tratto cheropitico”, cioè l’intervento della mano<br />

dell’artista, costituisce un elemento problematico. Già nell’Antico Testamento<br />

o poi nei Padri dei primi secoli le operazioni artistiche <strong>di</strong><br />

messa in immagine sono considerate un pericoloso inganno. Per comprendere<br />

questo aspetto soffermiamoci sull’aggettivo acheiropoietos.<br />

Esso non deriva dal greco classico, ma è proprio della lingua della comunità<br />

cristiana delle origini ed è presente nel Nuovo Testamento in tre<br />

ricorrenze Mc 14,58; 2 Cor 2,11 e 1 Col 2,11, dove si riferisce a realtà (il<br />

tempio <strong>di</strong> Gerusalemme, il corpo glorioso e la circoncisione “non fatta<br />

da mani d’uomo”) che derivano <strong>di</strong>rettamente da un intervento <strong>di</strong> Dio.<br />

Per capire il motivo per cui questo termine possa essere stato trasferito<br />

alle immagini bisogna considerare il fatto che l’aggettivo cheiropoietos,<br />

su cui il termine è costruito per contrapposizione, a parte il suo significato<br />

generale <strong>di</strong> “creato dall’uomo” e connesso con l’ambito <strong>degli</strong> artefatti,<br />

aveva anche una specifica connotazione legata all’idolatria 30 . Acheiropoietos<br />

da questo punto <strong>di</strong> vista serve a connotare come non-idolatrico<br />

l’oggetto a cui viene attribuito. Hans Belting 31 suggerisce <strong>di</strong> con-<br />

30 E. KITZINGER, Il culto delle immagini cit., 93-94.<br />

31 H. BELTING, La vera immagine <strong>di</strong> Cristo, trad. it. <strong>di</strong> A. Cinato, <strong>Torino</strong> 2007.<br />

123


124<br />

Graziano Lingua<br />

siderare che già in Paolo l’aggettivo porterebbe in sé questo significato<br />

polemico contro l’idolatria ricordando l’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Atti 19 in cui si<br />

racconta che la pre<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> Paolo ad Efeso provocò un tumulto<br />

perché quest’ultimo aveva messo in <strong>di</strong>scussione l’operato dell’argentiere<br />

Demetrio che produceva tempietti <strong>di</strong> Artemide, Dea <strong>di</strong> cui la città<br />

pretendeva <strong>di</strong> avere un’immagine caduta dal cielo. Secondo le parole riportate<br />

da Demetrio Paolo aveva affermato che “non sono Dei quelli<br />

fatti con le mani” (<strong>di</strong>a cheiron ginomenoi, Att, 19,26).<br />

In questo testo troviamo l’idea antico-testamentaria che ci sia un legame<br />

stretto tra idolatria e produzione manuale <strong>di</strong> immagini. Quest’idea<br />

è presente non solo nel <strong>di</strong>vieto <strong>di</strong> Esodo 20, ma anche nella polemica<br />

profetica nei confronti <strong>degli</strong> idoli “opera <strong>degli</strong> artigiani” che come<br />

tale non possono pretendere <strong>di</strong> essere Dio (Ger 10, 3; Is 44,9; Os 14, 4).<br />

La stessa avversità all’operato <strong>degli</strong> artisti si ritrova per esempio in Tertulliano<br />

e in Clemente Alessandrino 32 . In questo senso si può meglio<br />

comprendere il motivo per cui questo termine può essere stato utilizzato<br />

per delle immagini: esso risultava utile per chi intendesse promuoverne<br />

il culto, «pur mantenendo allo stesso tempo l’ostilità paleocristiana<br />

nei confronti dell’artista e <strong>di</strong> ogni sua opera» 33 .<br />

Il legame <strong>di</strong> questo concetto con il sospetto <strong>di</strong> derivazione ebraica<br />

nei confronti delle operazioni <strong>di</strong> messa in immagine è sottolineato particolarmente<br />

da Marie-José Mondzain 34 . Perché – si domanda la<br />

Mondzain – produrre immagini dovrebbe essere una forza che minaccia<br />

la fede monoteista? In fondo le immagini sono soltanto rappresentazioni<br />

<strong>di</strong> falsi idoli che nulla possono <strong>di</strong> fronte al Santo. La risposta a<br />

questa domanda va cercata nello stretto intreccio che nella cultura dell’ebraismo<br />

biblico esiste tra la produzione <strong>di</strong> immagini e il desiderio<br />

senza limiti <strong>di</strong> vedere. Nell’ottica antico-testamentaria le immagini non<br />

sono in grado <strong>di</strong> dar vita ad operazioni <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione simbolica, ma<br />

soltanto ad operazioni <strong>di</strong> esposizione idolatrica del <strong>di</strong>vino, in quanto<br />

incorporano Dio nell’immagine, per cui lo sguardo dell’uomo si sod<strong>di</strong>sfa<br />

della rappresentazione senza transitare oltre. Ecco perché, è sempre<br />

la Mondzain a notarlo, le immagini hanno a che vedere con la morte,<br />

con il sangue delle vittime dei sacrifici idolatrici e quin<strong>di</strong> con la separa-<br />

32<br />

TERTULLIANO, De spectaculis, 23; CLEMENTE ALESSANDRINO, Cohortatio ad<br />

gentes, 46.<br />

33 E. KITZINGER, Il culto delle immagini cit., 94.<br />

34 Cfr. M.-J. MONDZAIN, Le commerce des regards, Paris 2002, 45-50.


Le acheropite<br />

zione tra puro e impuro. L’immagine, in quanto genera adorazione passionale,<br />

nell’ottica antico-testamentaria non potrà mai essere purificata.<br />

Neanche la presenza <strong>di</strong> immagini nel tempio <strong>di</strong> Salomone può considerarsi<br />

una purificazione dell’immagine e delle operazioni dell’artigiano<br />

perché esse non esprimono la passione dell’uomo, ma un comando<br />

dato <strong>di</strong>rettamente da Dio. Soltanto con il cristianesimo questa purificazione<br />

sarà possibile, ma passerà attraverso il superamento della<br />

Legge compiuto dal sangue del Figlio nato da una madre vergine e passato<br />

attraverso la morte violenta e l’effusione del sangue sulla croce. «È<br />

lui – conclude Mondzain – il produttore incontestato <strong>di</strong> macchie acheropite<br />

(il Santo Volto, la Sindone e la Veronica) e il modello sovrano<br />

delle icone cheropite perché egli ha purificato le mani purificando il<br />

sangue. Attraverso <strong>di</strong> lui l’immagine sarà salvata dall’impurità» 35 .<br />

Ora questo ultimo richiamo alle macchie acheropite fatto da Mondzain<br />

ci riporta al centro stesso del nostro tema. Il contributo <strong>di</strong> queste<br />

immagini al processo <strong>di</strong> redenzione operato dal cristianesimo nei confronti<br />

delle immagini artificiali passa attraverso a una forma paradossale<br />

<strong>di</strong> capovolgimento del <strong>di</strong>vieto antico-testamentario che pretende<br />

però <strong>di</strong> conservare la fedeltà nei confronti del suo spirito originario.<br />

Ciò che non viene intaccato dalle acheropite e che le costituisce come<br />

immagini istitutive, è proprio l’iniziativa iconica <strong>di</strong> Dio. Ci possono essere<br />

immagini <strong>di</strong> Cristo, nella sua doppia natura <strong>di</strong> uomo e <strong>di</strong> Dio, soltanto<br />

se è Cristo stesso che decide che ci siano, come già era avvenuto<br />

nell’Antico Testamento per le raffigurazioni del tempio <strong>di</strong> Salomone.<br />

In questo caso l’iniziativa iconica è persino più accentuata perché non<br />

entra in gioco l’azione della mano dell’artigiano, ma è Cristo stesso che<br />

produce miracolosamente l’immagine. Non è un caso allora che tali immagini<br />

acquistino in tutta la teologia dell’icona la funzione <strong>di</strong> archetipo<br />

che deve essere trasmesso e copiato fedelmente, perché la fedeltà<br />

della copia è tutta tesa a ridurre al minimo il ruolo della creatività dell’artista<br />

a favore della <strong>di</strong>mensione intrinsecamente rivelativa dell’immagine.<br />

Si comprende così quanto <strong>di</strong>ce Anca Vasiliu, ovvero che <strong>di</strong>etro ad<br />

ogni immagini ortodossa c’è un acheropita 36 perché, seppure in modo<br />

derivato, anche nella rappresentazione artistica, il primato delle immagini<br />

spetta a Dio e le mani impure dell’uomo possono entrare in gioco<br />

35 Ivi, 50.<br />

36 A. VASILIU, La traversé de l’image, Art et théologie dans les églises moldaves<br />

au XVI siècle, Paris 1994, 33.<br />

125


126<br />

Graziano Lingua<br />

solo all’interno <strong>di</strong> un preciso canone iconografico che impe<strong>di</strong>sce ogni<br />

arbitrio creativo 37 .<br />

Il tratto intrinsecamente rivelativo <strong>degli</strong> acheropiti ci conduce poi al<br />

secondo elemento concettuale che mi interessa analizzare, vale a <strong>di</strong>re la<br />

natura ambivalente <strong>di</strong> queste immagini che pretendono allo stesso tempo<br />

<strong>di</strong> essere veri ritratti <strong>di</strong> Cristo, in quanto <strong>impronte</strong> meccaniche dell’originale<br />

e reliquie che, incorporando il sacro, costituiscono delle<br />

estensioni del potere <strong>di</strong>vino del loro modello.<br />

Quando Niceforo segnala implicitamente che l’acheropita risolve il<br />

problema dell’adeguatezza della somiglianza formale e che quin<strong>di</strong> può<br />

essere considerato a tutti gli effetti il modello del ritratto <strong>di</strong> Cristo, egli<br />

accenna ad un problema che stimolerà non solo l’immaginario me<strong>di</strong>oevale.<br />

Che cosa c’è infatti <strong>di</strong> più affascinante dell’idea che esistano uno o<br />

più ritratti autentici <strong>di</strong> Gesù <strong>di</strong> Nazareth in grado <strong>di</strong> restituire il volto<br />

del Figlio <strong>di</strong> Dio nelle sue sembianze terrene o magari l’intero corpo<br />

come nel caso della Sindone. L’acheropita come impronta offre questo<br />

per la sua forza probativa, in quanto la figura si produce per un trasferimento<br />

meccanico, senza alcun intervento che lo possa alterare. Tuttavia<br />

alla proprietà fisiognomica dell’impronta si unisce nelle acheropite<br />

il fatto che nella maggior parte dei casi si tratta <strong>di</strong> reliquie <strong>di</strong> contatto,<br />

che come tali non sono importanti tanto per la loro <strong>di</strong>mensione mimetica,<br />

quanto per la loro potenza operativa ed istitutiva. Da questo punto<br />

<strong>di</strong> vista non è centrale la visibilità del tratto fisiognomico, quanto<br />

piuttosto la “visione” nel senso forte del termine, cioè la loro capacità<br />

<strong>di</strong> produrre il transito ad una <strong>di</strong>mensione invisibile che va al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ciò<br />

che si vede, pur operando in ciò che si vede.<br />

Questa <strong>di</strong>mensione operativa si vede bene in una caratteristica particolare<br />

delle acheropite: esse oltre a <strong>di</strong>ventare modelli per una serie notevole<br />

<strong>di</strong> copie, tendono a riprodursi automaticamente quasi che la loro<br />

funzione istitutiva dell’immagine sacra fosse ancora una volta intrinseca<br />

all’immagine stessa, come se l’immagine fosse ‘autoperformativa’. Il<br />

dato è ben presente nel materiale leggendario. L’immagine <strong>di</strong> Camuliana<br />

genera imme<strong>di</strong>atamente una propria copia sul tessuto in cui era stata<br />

avvolta 38 . Lo stesso accade per l’immagine <strong>di</strong> Edessa che si riproduce<br />

ben due volte su un mattone, keramion, la prima durante il tragitto che<br />

37 V. LOSSKY – L. OUSPENSKY, Le sens des icones, Paris 2003, 65.<br />

38 Cfr. E. KITZINGER, Il culto delle immagini cit., 46.


Le acheropite<br />

Anania compie dalla Palestina a Edessa 39 e la seconda quando il vescovo<br />

Eulalio ritrova l’immagine che era stata precedentemente murata 40 .<br />

Riprodursi da sé, compiere miracoli significa appartenere alla categoria<br />

delle “immagini viventi” 41 che si comportano come reincarnazioni<br />

presentificanti il proprio modello. Questo tratto è ben visibile se, come<br />

ha fatto George Di<strong>di</strong>-Hubermann, si analizza la fenomenologia<br />

particolare <strong>di</strong> queste immagini che ripresenta in altra forma la stessa<br />

<strong>di</strong>alettica a cui ho accennato. La tra<strong>di</strong>zione parla <strong>di</strong> esse contemporaneamente<br />

come immagini risplendenti e come semplici tracce in cui è<br />

poco quello che si vede, o in cui ciascuno vede quello che vi proietta,<br />

quasi la <strong>di</strong>mensione rappresentativa passasse in secondo or<strong>di</strong>ne per lasciare<br />

spazio invece alla <strong>di</strong>mensione transitiva ed operativa. Esse ripetono<br />

il faccia a faccia accecante <strong>di</strong> fronte all’invisibile proprio dell’insostenibile<br />

luce taborica che acceca gli occhi dei <strong>di</strong>scepoli al momento<br />

della Trasfigurazione. Ne è un esempio lo splendore accecante che secondo<br />

la leggenda avrebbe abbagliato Abgar quando Taddeo si presenta<br />

a lui tenendo l’immagine <strong>di</strong> Cristo <strong>di</strong> fronte alla propria faccia 42 .<br />

L’ambivalenza tra ritratto e reliquia si trasforma quin<strong>di</strong> nella <strong>di</strong>alettica<br />

tra vedere e non vedere che attraversa l’intera storia <strong>degli</strong> acheropiti.<br />

È sempre Di<strong>di</strong>-Hubermann a ricordarne alcuni esempi: l’immagine<br />

edessena da questo punto <strong>di</strong> vista viene definita da Giorgio <strong>di</strong> Pisi<strong>di</strong>a<br />

“grafica-agrafica” 43 quasi a costruire un enigma semiotico dove il carattere<br />

in<strong>di</strong>cale dell’immagine-traccia si accosta paradossalmente al carattere<br />

iconico dell’immagine-ritratto. La Veronica è allo stesso tempo<br />

irra<strong>di</strong>ante e oscura secondo quanto cantano gli inni liturgici Salve<br />

sancta facies che la descrive come impronta dello splendore e il Ave facies<br />

praeclara dove il Santo Volto è descritto come “pallida, denigrata et<br />

39 Narratio de imagine Edessena, 9, 13-16, cfr. M. GUSCIN, The Image of Edessa<br />

cit., 23<br />

40 Synaxarion, 17, 5-10, cfr. GUSCIN, The Image of Edessa cit., 105.<br />

41 Cfr. G. DIDI-HUBERMAN, Devant l’image, Paris 1990, 237-238.<br />

42 “Il re lo vide giungere da lontano e gli parve <strong>di</strong> vedere una luce splendente<br />

provenire dal suo volto, troppo brillante per essere guardata, emessa in realtà dall’immagine<br />

che lo ricopriva”, cfr. Narratio de imagine Edessena, 12, 19-21, cfr.<br />

GUSCIN, The Image of Edessa cit., 27. Si tratta in questo caso della seconda leggenda<br />

sull’origine dell’immagine <strong>di</strong> Edessa riportata nella Narratio, secondo cui<br />

l’immagine sarebbe stata portata ad Abgar dal <strong>di</strong>scepolo Taddeo inviato a guarirlo<br />

dopo la morte <strong>di</strong> Cristo.<br />

43<br />

GIORGIO DI PISIDIA, Expe<strong>di</strong>tio persica, I, 140.<br />

127


128<br />

Graziano Lingua<br />

sanguineo rigata” 44 . Per questo Dante nel Canto XXXI del Para<strong>di</strong>so<br />

può affermare che la fame <strong>di</strong> vedere le esatte sembianze <strong>di</strong> Cristo del<br />

pellegrino <strong>di</strong> Croazia che si reca in pellegrinaggio a Roma per la Veronica<br />

“non sen sazia”, non viene saziata.<br />

Conclusione<br />

Questa natura ambivalente e l’iniziativa iconica <strong>di</strong> Dio che ne declina<br />

la <strong>di</strong>mensione rivelativa costituiscono due elementi <strong>di</strong> grande interesse<br />

offerto alla riflessione filosofica dalle tra<strong>di</strong>zioni sulle immagini<br />

“non fatte da mano d’uomo” perché in esse l’immagine non è tanto<br />

uno schermo mimetico che conta per la sua visibilità o per la sua qualità<br />

artistica, ma piuttosto un <strong>di</strong>spositivo che mette in relazione lo spettatore<br />

con la realtà operante all’interno dell’immagine stessa. Da questo<br />

punto <strong>di</strong> vista entrambi gli aspetti che ho velocemente tratteggiato<br />

contribuiscono ad un allargamento del concetto <strong>di</strong> immagine, ben al <strong>di</strong><br />

là della concettualità a cui ci ha abituato l’estetica moderna. Parlare <strong>di</strong><br />

iniziativa iconica <strong>di</strong> Dio significa infatti riconoscere all’immagine una<br />

ulteriorità simbolica che entra in gioco anche quando l’immagine è fatta<br />

da mano umana, perché contesta la semplice identificazione tra operazione<br />

artistica <strong>di</strong> messa in immagine e creatività s<strong>oggetti</strong>va. Da qui la<br />

feconda ambivalenza tra visibilità e invisibilità che trova nell’idea cristiana<br />

<strong>di</strong> incarnazione il suo modello originario. Ora, come <strong>di</strong>cevamo<br />

all’inizio è sulla nozione <strong>di</strong> incarnazione che si gioca la svolta cristiana<br />

<strong>di</strong> legittimare le immagini <strong>di</strong> fronte al <strong>di</strong>vieto antico-testamentario. L’iniziativa<br />

iconica <strong>di</strong> Dio e l’ambivalenza ontologica e fenomenologica<br />

delle acheropite rappresentano da questo punto vista un vero e proprio<br />

racconto fondatore, che apre ad una concezione in cui ciò che conta è il<br />

<strong>di</strong>spositivo generale <strong>di</strong> messa in relazione proprio delle immagini, e non<br />

solo la loro funzione mimetica e la loro qualità artistica.<br />

44 Cfr. G. DIDI-HUBERMANN, La ressemblance par contact, Paris 2008, 89-90.


L’IMAGE-EMPREINTE, IDENTIFIANT VISUEL DU DIEU-HOMME<br />

(RÉFLEXIONS SUR LA TRACE, LE PORTRAIT ANTIQUE<br />

ET LE MANDYLION BYZANTIN)<br />

ANCA VASILIU<br />

Centre Léon Robin, CNRS Paris-Sorbonne<br />

Quelle soit volontaire comme l’imposition de la main fabricatrice ou<br />

involontaire comme la marque allègre d’un pas, la trace ou l’empreinte<br />

appartient à une structure visuelle et noétique particulière. Héritière<br />

d’une tra<strong>di</strong>tion immémoriale dont le contour des mains sur des parois<br />

de caverne porte encore le souvenir, l’empreinte a une fonction précise<br />

dans la pensée antique grecque : elle est censée capter un trait propre,<br />

recevoir une donnée singulière, unique, saisir dans son impact formel le<br />

passage d’un singulier immanent et immé<strong>di</strong>at, en situant aussitôt le<br />

résultat de ce double acte de passage et d’impression (fruit de l’union<br />

entre un support propice et un sceau ou une frappe) en rapport <strong>di</strong>rect<br />

avec les moyens de la connaissance et de la transmission. Si l’apparence<br />

formelle situe l’empreinte dans la famille des signes, cette appartenance<br />

doit aussitôt être amendée : en tant que signe, l’empreinte (ou la trace)<br />

a une fonction spécifique liée à son origine et à un régime de réalité<br />

particulière qui lui appartient exclusivement. Cette structure simple,<br />

articulant un support récepteur et un « signe » visible, a en effet la<br />

valeur d’un « original », alors qu’une image, aussi ressemblante soitelle,<br />

est d’emblée considérée comme une « copie ». Quant au signe proprement<br />

<strong>di</strong>t, il signifie, laissant sa présence réelle s’effacer aussitôt la<br />

signification saisie, tan<strong>di</strong>s qu’une trace demeure toujours dans ses<br />

contours et n’a pas de sens en dehors de ceux-ci. La trace partage donc<br />

certaines propriétés à la fois avec le signe et avec l’image, mais ne s’y<br />

confond guère.<br />

Cependant, ce n’est pas à l’égard du signe mais par <strong>di</strong>stinction avec<br />

le statut de l’image que le statut de la trace ou de l’empreinte se définit<br />

dans la pensée antique. De moindre valeur aléthique qu’une empreinte<br />

ou qu’une trace, l’image est d’emblée susceptible de fausseté puisqu’elle<br />

montre l’aspect et ne garantit en rien que cet aspect subsiste encore<br />

après qu’il ait été surpris et fixé, tan<strong>di</strong>s que la trace, témoignage palpable<br />

d’un passage, jouit au contraire d’un régime de réalité renforcée<br />

129


130<br />

Anca Vasiliu<br />

par la pérennisation de l’instant qui a capté le transit et par la certitude<br />

de son statut matériel qui, aussi minimal soit-il, conforte autant la vue<br />

que la sensation plus basique du toucher. Mais, de ce régime de réalité<br />

propre au statut de l’empreinte ou de la trace sourd aussi une aporie.<br />

Le caractère original d’une empreinte relève du particulier (une trace<br />

est toujours la trace d’un in<strong>di</strong>vidu ou d’un objet singulier), tan<strong>di</strong>s que<br />

l’intellection et le langage opèrent avec des catégories et visent la<br />

connaissance de l’universel non du particulier et de l’in<strong>di</strong>viduel.<br />

Difficile à surmonter pour la pensée antique, ce décalage entre l’information<br />

singulière d’une donnée sensible ponctuelle, propre à l’expérience<br />

sensitive dont relève la trace, et sa traduction en signe, voire en<br />

notion opératoire ou en concept, réclame alors l’aménagement d’un<br />

pacte. C’est le rôle privilégié accordé à la trace comme « sceau » de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

formel qui sauve pour un temps la mise aux dépens de l’image<br />

et de la ressemblance. Ce rôle, apparenté au témoignage, permet de<br />

dépasser le paradoxe tout en respectant sa rigueur : la trace est perçue<br />

comme articulant en un seul périmètre et sous un signe unique le particulier<br />

et le général, deux plans séparés ontologiquement pour les<br />

Anciens. Cette définition lui permet de jouer un rôle considérable à la<br />

fois dans la pensée théologique antique et dans les pratiques religieuses<br />

du moyen âge.<br />

1. Trace et image : témoignage du singulier et modes d’in<strong>di</strong>viduation<br />

L’usage récurrent de la notion de trace ou d’empreinte dans la philosophie<br />

ancienne recouvre donc le décalage signalé en faisant jouer à<br />

la trace ou à l’empreinte le rôle non seulement d’un signe mais de<br />

quelque chose de formel situé au-delà du signe dans l’ordre de la vérité.<br />

La trace ou l’empreinte ne signifie pas seulement mais témoigne audelà<br />

de toute signification : son rôle est donc aussi celui d’un argument<br />

par la preuve, et même d’un moyen de persuasion dans un processus<br />

cognitif qui n’opère pas seulement par démonstration ou par déduction<br />

mais joue en même temps sur l’effet irréfutable produit par la révélation,<br />

l’apparition, l’exposition et le témoignage, comme dans les<br />

récits, les mythes, le théâtre antique. Certes, l’objet ou l’être qui se<br />

dévoile dans une trace dépose en et par celle-ci un témoignage double :<br />

il témoigne de son passage certain en même temps que de son caractère<br />

propre, de son unicité, que cette dernière soit humaine ou <strong>di</strong>vine,<br />

immanente ou transcendante. Toutefois, la trace de cette singularité ne


L’image-empreinte<br />

parle pas des propriétés accidentelles de l’objet ou de l’être in<strong>di</strong>viduel<br />

mais certifie seulement de son caractère formel et de son appartenance<br />

à une espèce. L’empreinte de la main in<strong>di</strong>que un homme, la trace d’un<br />

sabot, le passage d’une biche ou d’un sanglier. Se fier à ce renseignement<br />

apporte des résultats cognitifs dès lors que l’empreinte, même si<br />

elle est irréductible au concept puisqu’elle est physique et particulière,<br />

est toujours située, par analogie structurelle, au cœur même des facultés<br />

de la connaissance. Elle n’est pas seulement extérieure, livrée à l’expérience<br />

sensorielle, ne consiste pas en une in<strong>di</strong>cation sans signification(s),<br />

mais elle est perçue <strong>di</strong>rectement en relation avec sa reproduction<br />

dans l’âme et dans le noûs, auprès desquels elle se déploie, révèle<br />

ses « secrets » et fait, là encore, office double : de témoignage de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

et de moyen spécifique de renseignement sur l’espèce et le genre.<br />

Et, là encore, l’empreinte ou la trace va plus au fond du processus<br />

cognitif que l’image dont se servent les facultés noétiques, l’imagination<br />

et la mémoire en particulier ; plus au fond, puisque la trace ou<br />

l’empreinte concerne physiquement l’in<strong>di</strong>vidu, le met en question <strong>di</strong> -<br />

rec tement au cours d’un processus unique par lequel un être s’approprie<br />

à la fois l’objet de la trace et la trace elle-même comme moyen<br />

emblématique de la connaissance. Ainsi la trace apparaît-elle comme le<br />

moyen le plus rapproché de la connaissance des formes para<strong>di</strong>gmatiques<br />

et en même temps comme le moyen le plus apparenté au processus<br />

de la mise en acte de l’expression cognitive, du langage qui reflète la<br />

saisie en soi-même des traces ou des empreintes de toutes les choses<br />

perçues.<br />

En somme, la trace assure une connaissance réservée aux choses particulières<br />

à partir des impressions que celles-ci produisent dans l’âme<br />

comme si cette dernière était en cire : il y a en nos âmes une cire imprégnable<br />

(ejn tai'" yucai'" hJmw'n ejno;n khvrinon ejkmagei'on), <strong>di</strong>t Platon dans le<br />

Théétète 191c ; ou à partir de ce qui se reflète sur la surface lisse et<br />

brillante du foie sur lequel, d’après les Anciens, des impressions reçues<br />

s’impriment et se donnent à voir sous une certaine forme, parakeivmenon<br />

ejkmagei'on (Timée 72c), laissant se deviner, par remontée à partir de la<br />

réflexion, le cours des événements et le sens que prennent les choses. Ou<br />

encore, comme chez Aristote et chez les Stoïciens, une connaissance qui<br />

se constitue à partir de ce qui se forme et s’imprime dans la mémoire,<br />

dans l’imagination et dans le noûs lui-même sous le mode des « représentations<br />

» : des phantasmata, des ennoiai ou des epinoiai.<br />

Ainsi, l’intellection et le langage, qui n’ont pas d’emblée un accès<br />

<strong>di</strong>rect à l’expérience que livre au regard la trace formelle spécifique<br />

131


132<br />

Anca Vasiliu<br />

d’un être singulier ou d’une chose particulière, inscrivent cette trace<br />

comme une affection, un pathos imprimé, et traduisent en mots le rapport<br />

à la chose singulière à partir de cette impression, comme si celle-ci<br />

était une sorte d’« image » signifiante, restaurée à partir de l’empreinte<br />

reçue dans l’âme et dans le noûs. Les traces ou les empreintes deviennent<br />

alors des intermé<strong>di</strong>aires entre l’expérience immé<strong>di</strong>ate, immaîtrisable<br />

comme telle, et le concept qui en réduit les contours pour l’ajuster<br />

au commun et à l’universel, en traduisant les traces ou les em -<br />

preintes reçues (ou encore les impressions) en langage 1 . Mais il y a<br />

dans ce processus une <strong>di</strong>alectique entre la trace formelle ou l’empreinte<br />

d’un sceau (ejkmagei'on) et un certain type d’image (eijkwvn, to; ei[kasma,<br />

ou encore oJmoivwma), une image qui est de l’ordre d’une ressemblance<br />

pure, factice, et qu’il convient de saisir comme telle pour pouvoir comprendre<br />

sur quel registre se situe la possibilité d’entretenir un rapport<br />

ou d’avoir un accès à l’identité d’un être singulier ou d’un objet particulier<br />

selon la <strong>di</strong>stinction bien établie entre sa trace et son aspect.<br />

Il me semble important de retenir cette <strong>di</strong>stinction, aussi brièvement<br />

soit-elle esquissée, car c’est sur le levier de celle-ci que va s’appuyer la<br />

culture byzantine en accordant un rôle considérable et philosophiquement<br />

novateur à l’image, un rôle qui englobe aussi, nécessairement, la<br />

fonction particulière réservée ja<strong>di</strong>s à la trace seule. Récupérant les fondements<br />

philosophiques sur lesquels s’étaient constitués les statuts<br />

complémentaires de l’image et de l’empreinte dans la pensée antique,<br />

1 Rappelons le début du De interpretatione, 16a 4-8, car c’est l’un des passages<br />

aristotéliciens qui décrit le plus clairement ce processus analogique entre connaissance<br />

et langage par des empreintes dans l’âme et leurs « traductions » par des<br />

signes, processus qui tente l’impossible articulation entre le singulier de l’impression<br />

produisant l’opinion, et l’universalité du signe imprimé, ici sous l’espèce du<br />

signe phonétique, produisant la vraie connaissance : « Les sons émis par la voix<br />

sont les symboles des affections [ou impressions] de l’âme (ejn th'/ yuch'/ paqhmavtwn<br />

suvmbola), et les mots écrits les symboles des mots émis par la voix. Et de même<br />

que l’écriture n’est pas la même chez tous les hommes, les mots parlés ne sont pas<br />

non plus les mêmes, bien que les affections [ou impressions] de l’âme dont ces<br />

expressions sont les signes immé<strong>di</strong>ats soient identiques à tous (w|n mevntoi tau'ta<br />

shmei'a prwvtw", taujta; pa'si paqhvmata th'" yuch'"), comme sont identiques aussi les<br />

choses dont ces affections [ou impressions] sont les copies [ou ressemblances] (kai;<br />

w|n tau'ta oJmoiwvmata, pravgmata h[dh taujtav). » Trad. J. Tricot (Paris 1994) légèrement<br />

retouchée ; pour le texte grec, H. P. COOKE, London 1973 6 .


L’image-empreinte<br />

ce rôle majeur de l’image devient culturellement formateur d’un nouveau<br />

para<strong>di</strong>gme, bien que le pouvoir institutionnel, politique et ecclésiastique,<br />

s’en soit emparé aussitôt pour en faire aussi un instrument<br />

stratégique redoutable. Il faut cependant souligner une inflexion, un<br />

point d’orgue qui permet de comprendre la profondeur où s’opère la<br />

mutation. Ce processus de changement de para<strong>di</strong>gme qui déborde les<br />

cadres stricts de l’image puisqu’il assimile à l’image, du moins conceptuellement,<br />

les traits caractéristiques de l’empreinte ou de la trace, s’appuie<br />

aussi sur l’équivocité propre au statut de l’empreinte ou de la trace<br />

– or cette équivocité concerne le sujet, le met en cause, le fait naître à<br />

lui-même en quelque sorte, et résout au niveau de celui-ci le paradoxe<br />

du singulier et de l’universel évoqué plus haut. Puisque la trace est<br />

trace du particulier, de sa singularité absolue d’in<strong>di</strong>vidu, et qu’elle est<br />

donc incompressible comme trace et irréductible comme unicité à l’homogénéité<br />

et à l’univocité des catégories, il n’y a alors qu’une solution<br />

pour faire sortir la connaissance fournie par la trace de l’aporie particulier-universel<br />

dans laquelle la pensée classique l’avait enfermée. Cette<br />

solution consiste à inverser le rapport : ce n’est pas la trace qui est<br />

garante de l’in<strong>di</strong>vidu à travers l’acte de passage dont elle témoigne et<br />

qui certifie l’existence outre le transit, mais c’est le statut de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

lui-même qui s’identifie dorénavant à la trace dès lors que celle-ci<br />

garantit à l’in<strong>di</strong>vidu qu’il est bien lui-même le lieu d’un passage et qu’à<br />

ce titre il conserve un lien propre avec l’origine de cette trace, avec son<br />

principe formateur et avec son modèle formel. L’in<strong>di</strong>vidu lui-même,<br />

plus exactement son âme, est déterminé(e) comme sujet de la trace,<br />

comme support (subiectum) de celle-ci (vestigium), et cette situation<br />

formalise le « propre » de l’in<strong>di</strong>vidu, i.e. son âme, en tant que singularité<br />

vivante ayant reçu le sceau universel de son modèle formel intelligible<br />

2 .<br />

2 Ce n’est que par souci de clarté que j’ai ajouté les termes latins subiectum et<br />

vestigium, plus familiers à la réflexion sur le substrat et la trace que leurs équivalents<br />

grecs hupokeimenon et ekmageîon. Il faudrait préciser que ces notions sont<br />

au cœur de la réflexion philosophique et théologique gréco-latine de l’antiquité<br />

tar<strong>di</strong>ve et du moyen âge car elles constituent la base des définitions de l’in<strong>di</strong>vidu,<br />

de la personne, de l’existence et de la connaissance du singulier en contre-point<br />

avec la connaissance par les universaux. Notre brève présentation théorique du<br />

statut antique de l’empreinte n’a pour but que d’in<strong>di</strong>quer les champs philosophiques<br />

et théologiques concernés, nullement de les résumer.<br />

133


134<br />

Anca Vasiliu<br />

Plotin, chez qui cette inversion du rapport semble servir précisément<br />

pour définir la singularité de l’in<strong>di</strong>vidu, décrit le sceau imprimé à l’aide<br />

d’un terme <strong>di</strong>fférent de celui employé par Platon. C’est le terme d’ikhnos,<br />

la trace du pas, la marque du passage, l’empreinte du transit dont<br />

Plotin se sert comme déterminant de l’âme in<strong>di</strong>viduelle recevant<br />

dans/sur la matière-substrat, comme une illumination préalable, la projection<br />

de la partie de l’âme du monde qui lui correspond 3 . Or le terme<br />

i[cno" comporte une toute autre détermination sémantique que le terme<br />

ejkmagei'on à l’égard de l’empreinte ou de la trace. Les deux termes, l’un<br />

à connotation dynamique l’autre suggérant la pérennisation du transit,<br />

désignent en effet de manière bien <strong>di</strong>stincte la singularité du sujet.<br />

Dans le premier cas le sujet est lui-même une trace et s’identifie au<br />

propre de celle-ci, à savoir au passage et à ce/celui qui met en route le<br />

mouvement de transit, à savoir la force aspirante du modèle imprimé ;<br />

la métaphore la plus usuelle est celle du pas <strong>di</strong>vin dans le sillage duquel<br />

s’inscrit par la volonté le vivant 4 . Dans le second cas, l’empreinte est un<br />

sceau formel qui fait que l’in<strong>di</strong>vidu puisse rejoindre l’espèce et se<br />

3 Ennéade VI, 7, 7 et 33 (T. 38) ; voir aussi V, 5, 5 (T. 10) pour la relation substrat-forme<br />

au niveau de l’âme in<strong>di</strong>viduelle (mais le terme ikhnos n’est pas utilisé<br />

dans ce second contexte). On retrouve certains échos de ces passages plotiniens<br />

chez Grégoire de Nysse, notamment dans De hominis opificio (V et XVI) à propos<br />

de l’inscription de la ressemblance de Dieu dans l’âme-image de l’homme, mais<br />

sous con<strong>di</strong>tion de l’espèce non de l’in<strong>di</strong>vidu.<br />

4 Suivre la trace du pas <strong>di</strong>vin est un topos homérique : à l’égard des <strong>di</strong>eux il<br />

convient de les suivre, comme Ulysse qui se met dans les pas d’Athéna – katovpisqe<br />

metæ i[cnion w{ste qeoi'o « je marche sur ses pas, je le suis à la trace comme un<br />

<strong>di</strong>eu ». Platon cite ainsi Homère dans le Phèdre (266b) : Ulysse est en train de<br />

suivre les pas, donc la volonté d’un <strong>di</strong>eu et non pas la sienne propre. A noter que<br />

le passage où apparaît cette citation est important dans l’économie du Phèdre car<br />

Socrate y définit la méthode <strong>di</strong>alectique comme moyen de donner la possibilité de<br />

parler et de penser (levgein te kai; fronei'n) par le biais de deux opérations du langage<br />

: la <strong>di</strong>vision et l’unification ou rassemblement, opérations qui permettent<br />

d’articuler, par les vertus du logos, l’un et le multiple. Voir pour les occurrences<br />

dans l’Odyssée les références citées par L. Brisson (trad. du Phèdre dans GF,<br />

Paris, 1997 2 , n. 358, p. 224). Sur l’usage du terme ikhnos par Plotin, avec un sens<br />

dynamique renvoyant à la fois à l’empreinte, au passage, au transit et à la danse,<br />

voir J.-L. CHRÉTIEN, Plotin en mouvement, in Reconnaissances philosophiques,<br />

Paris 2010, 21-25. Et pour la relation trace-signe, toujours chez Plotin, voir G.<br />

LEROUX, La trace et les signes. Aspects de la sémiotique de Plotin, in Sophiès<br />

Maiètores. Hommage à Jean Pépin, Paris 1992, 245-262.


L’image-empreinte<br />

reconnaître comme appartenant à elle, désapproprié de sa singularité<br />

mais s’appropriant en même temps l’universel comme une image de<br />

l’altérité même inscrite en lui. Cette seconde instance de la trace est<br />

privilégiée en raison de son glissement facile vers le domaine de l’image<br />

et de la ressemblance. La proximité avec l’image sous-entendue dans<br />

l’empreinte du sceau, permet de saisir de manière plus efficace le rapport<br />

au modèle comme un rapport de reflet imprimé et de lien de<br />

miroitement déterminant pour la constitution d’un sujet qui ne devient<br />

lui-même que lorsqu’il a aussi un moyen de se connaître lui-même audelà<br />

de sa présence visible pour les autres. Mais il faut aussi préciser un<br />

aspect conjoncturel qui justifie cette proximité. Le glissement sémantique<br />

depuis la trace ou l’empreinte vers l’image spéculaire, image qui<br />

se constitue à partir d’un reflet, est facilité conceptuellement par la<br />

théorie optique dominante dans toute l’antiquité classique et tar<strong>di</strong>ve,<br />

théorie qui stipulait la réception du reflet comme une empreinte véritable<br />

sur la surface catoptrique. Dès lors, un reflet est nécessairement<br />

une image imprimée dans/sur toute surface lisse et brillante préparée à<br />

recevoir un reflet, et à le recevoir en effet comme une trace de ce/celui<br />

qui se rend ainsi manifeste.<br />

2. Empreinte et portrait ; la nécessité du nom<br />

A partir de cette dualité terminologique de l’empreinte ou de la<br />

trace, et de cette situation de proximité conjoncturelle entre la trace et<br />

l’image, on constate plusieurs juxtapositions et superpositions de<br />

registres sémantiques qui étaient restés à <strong>di</strong>stance dans la pensée<br />

grecque classique et qui se trouvent désormais déplacés et re<strong>di</strong>stribués<br />

selon le nouveau para<strong>di</strong>gme imposé par le christianisme. Persiste<br />

d’abord un flottement conceptuel autour de la notion d’eikôn et une<br />

tendance à l’employer comme un quasi synonyme des notions de typos<br />

et de charactèr – des notions bien <strong>di</strong>stinctes mais qui relèvent toutes<br />

deux d’un processus générique d’impression. Ensuite, ce moment de<br />

flottement théorique autour du rôle que pourrait jouer l’image comme<br />

un plan de réflexion et d’impression assez facilement assimilable au<br />

rôle joué par le logos à l’égard du noûs, flottement dont les traits caractéristiques<br />

apparaissent au cours des débats trinitaires du IV e s. aussi<br />

bien en milieu grec que latin 5 , est dépassé lorsque se produit une véri-<br />

5 Cette esquisse, bien trop rapide, s’appuie sur certaines des conclusions pré-<br />

135


136<br />

Anca Vasiliu<br />

table superposition de la trace et de l’image-aspect, de l’empreinte et de<br />

l’apparence visuelle, superposition réclamée comme « preuve » par une<br />

théologie de l’Incarnation et par la défense acharnée de l’orthodoxie<br />

du dogme christologique à la suite du concile de Chalcédoine (451). A<br />

l’encontre de tous les adversaires de la double nature du Christ, cette<br />

superposition d’image et de trace, encore perçue comme paradoxale<br />

par les tenants d’une certaine rationalité théologique qui s’y opposent,<br />

est désormais présentée comme une « œuvre <strong>di</strong>vine ». Or trois siècles<br />

plus tard, en contexte de confrontation avec les iconoclastes, c’est précisément<br />

de cette « œuvre <strong>di</strong>vine », l’Incarnation du Fils, Dieu-<br />

Monogène, « œuvre <strong>di</strong>vine » unique et non-produite artificiellement,<br />

que le statut de l’icône se réclamera. Et dans la continuité <strong>di</strong>recte de<br />

cette « œuvre <strong>di</strong>vine » dont se réclamerait l’icône pour ses défenseurs,<br />

un objet unique, considéré comme « <strong>di</strong>vin » lui-aussi, viendra conforter<br />

par la « preuve » de l’empreinte du visage le témoignage « historique »<br />

d’un Dieu-homme unique, le Christ. Le témoignage de l’existence et les<br />

traits spécifiques du Christ seront alors présentés comme subsistant<br />

ailleurs, et mieux <strong>di</strong>t-on, que dans les Evangiles. L’entorse de la raison<br />

s’opère maintenant à l’égard du langage et tend à s’opposer à la domination<br />

cognitive, jusque là reconnue, du logos.<br />

L’empreinte devient dans ce cas totalement identique à une image,<br />

et cette image, icône, i.e. ressemblance par excellence, devient ainsi une<br />

réplique paradoxale du logos – paradoxale car à la fois une et multiple,<br />

originale et copie, inerte et pourtant vivante et donc absolument vraie,<br />

authentique, puisqu’elle relève <strong>di</strong>rectement de l’être vivant <strong>di</strong>eu et<br />

homme, puissance en même temps qu’actualisation physique et formelle<br />

de cette puissance sans forme. Seul le logos, expression parfaite du<br />

noûs, bénéficiait auparavant de ce statut. Désormais l’icône prend la<br />

relève <strong>di</strong>recte. Elle s’approprie le statut de la trace qui lui assure un<br />

sentées dans les travaux récemment publiés sur le rôle de l’image comme argument<br />

dans les débats trinitaires en milieux cappadocien et chez un auteur latin<br />

proche de la théologie grecque et précurseur d’Augustin. Voir : A. VASILIU, Eikôn.<br />

L’image dans le <strong>di</strong>scours des trois Cappadociens, Paris 2010 et EAD., L’argument de<br />

l’image dans la défense de la consubstantialité par Marius Victorinus, en cours de<br />

publication dans Les Etudes philosophiques, Paris 2011. Je prie le lecteur de bien<br />

vouloir excuser cette autoréférence et de considérer qu’elle me permet de faire ici<br />

l’économie de la bibliographie et d’une multitude de références textuelles impossibles<br />

à résumer en une seule note.


L’image-empreinte<br />

accès à l’identifiant du singulier, mais remplace ce qui dans l’imageempreinte<br />

(imago) relevait d’un objet inerte ou d’un cadavre, par une<br />

image-empreinte unique et absolument nouvelle, icône, trace et portrait<br />

à la fois, reproduisant les traits du vivant, c’est-à-<strong>di</strong>re la trace effective<br />

de l’être vrai. Je reviendrai sur quelques détails de cet objet étrange, de<br />

cet hapax devenu prototype de toute icône, objet qui se perçoit si -<br />

multanément comme une toile-imprimée (mandylion) et comme une<br />

image-portrait (le visage du Christ). Mais retenons l’essentiel : cette<br />

image, trace, relique, signe et portrait à la fois, prend le dessus aux<br />

dépens du langage dans la référence à Dieu puisqu’elle est considérée<br />

comme absolument vraie en tant que hapax et comme ajceiropoivhton –<br />

unique et tombée du ciel –, arguments ou plutôt preuves de vérité auxquel(le)s<br />

la parole évangélique n’avait jamais prétendu ni jamais fait<br />

appel.<br />

Le cas de cet objet est bien étrange et son histoire pleine encore de<br />

zones floues ; il est cependant si symptomatique qu’il est devenu incontournable<br />

dans l’étude des rouages qui articulent pensée théologique et<br />

pratiques religieuses en contexte chrétien. Le paradoxe qu’il soulève<br />

n’est d’ailleurs pas la seule contra<strong>di</strong>ction ou <strong>di</strong>storsion volontaire qui<br />

s’est produite dans ce contexte. En voici encore une, toujours au sujet<br />

de l’image, mais plus générique. Contrairement à l’empreinte qui provient<br />

d’un rapport intime avec l’in<strong>di</strong>vidu et qui en même temps lui survit,<br />

l’image, bien que saisie conceptuellement, définit en réalité l’extériorité<br />

caduque, l’apparence et les propriétés accidentelles, et dénote<br />

une incapacité certaine à retenir la nature substantielle et le caractère<br />

propre d’un in<strong>di</strong>vidu. Or la fonction qui sera assignée à l’image en<br />

contexte chrétien, et notamment byzantin, renverse justement cette<br />

situation et fait de l’image un argument de la nature substantielle et du<br />

caractère propre d’un in<strong>di</strong>vidu particulier. Ces deux modalités, la trace<br />

et l’image, ou l’empreinte et l’aspect, se trouvent par conséquent croisées<br />

et identifiées dans le périmètre d’un seul objet, l’icône, qui signale<br />

une identité particulière et qui signifie en même temps une approche<br />

universelle à travers cette même identité. Cette situation est valide dans<br />

le cas de toutes les icônes, qu’elle que soit leur époque et leur sujet.<br />

Tout être figurant dans une icône, la Mère de Dieu, un saint ou un<br />

archange, a sa présence physique propre inscrite dans le corps physique<br />

de l’image, en même temps qu’il montre ses traits spécifiques et signifie<br />

à travers ses traits, dans son aspect particulier même, l’empreinte universelle<br />

laissée dans le créé par l’Incarnation du Fils. Qu’elle soit ou<br />

non une réplique du Mandylion, l’icône est alors, et à ce titre, image et<br />

vestige simultanément.<br />

137


138<br />

Anca Vasiliu<br />

Nous savons, par ailleurs, que dans la pensée antique une identité<br />

in<strong>di</strong>viduelle est signalée prioritairement par le nom et qu’au nom<br />

s’ajoutent des traits caractéristiques qui situent l’in<strong>di</strong>vidu dans une<br />

catégorie et qui le décrivent à partir d’une typologie : roi, mage, athlète,<br />

héros mythologique, donateur, satyre, pleureuse etc., en ce qui concerne<br />

l’appartenance de l’in<strong>di</strong>vidu à une catégorie ; figure large au nez<br />

camus (Socrate) ou efféminée (Antinoos) etc., pour ce qui est d’une<br />

typologie particulière ; à quoi s’ajoutent des signalements particuliers,<br />

des « signes <strong>di</strong>stinctifs » comme la cicatrice sur la jambe pour Ulysse<br />

ou le côté percé pour le Christ, censés assurer l’assistance sur une identité<br />

précise contre les sosies ou les mauvais esprits, trompeurs et vagabonds.<br />

Or l’utilisation du trait imprimé, de l’encoche, du moulage, de<br />

la trace, de l’empreinte (hJ sfragiv", to; sfravgisma) sur/dans une matière<br />

propre à recevoir cette empreinte (ejkmagei'on) supplante les catégories,<br />

la nécessité absolue du nom propre et l’usage de l’image typologique à<br />

l’égard de l’identité d’un être, en signalant les deux aspects de sa réalité<br />

sensible telle qu’elle est saisie par le trait d’une impression : (1) que<br />

l’objet ou l’être qui a produit cette trace est un et seul, la trace étant la<br />

sienne – trace d’un objet particulier ou d’un in<strong>di</strong>vidu –, aspect dont j’ai<br />

déjà souligné les <strong>di</strong>fficultés d’articulation avec les moyens de la<br />

connaissance et de l’expression ; et (2) que la trace recueille sur un support<br />

<strong>di</strong>fférent de celui d’origine certaines propriétés qui sont certes<br />

accidentelles, mais qui constituent en même temps une preuve d’existence<br />

et de surcroît une preuve substantielle de ce que cet objet ou cet<br />

être a précisément d’unique et d’irremplaçable au moment même du<br />

passage où l’empreinte s’est produite. Or ce qu’un objet ou un être a<br />

d’unique et d’irremplaçable est l’entité précise de son corps. C’est en<br />

celle-ci que se révèle la relation formelle avec son prototype dans le cas<br />

d’un objet produit, et que se révèle aussi la relation avec l’âme comme<br />

forme in<strong>di</strong>viduelle et comme hypostase de l’âme cosmique dans le cas<br />

d’un être vivant particulier.<br />

Ces deux aspects, la preuve de la singularité et la <strong>di</strong>fférence de support-réceptacle,<br />

aspects qui semblent pour nous aller de soi et qui ne<br />

sont pas du ressort de l’image mais sont propres à la seule empreinte<br />

ou trace, soulèvent néanmoins des <strong>di</strong>fficultés de définition pour la pensée<br />

antique. J’ai déjà mentionné l’une d’entre elles : le rapport à l’in<strong>di</strong>vidu,<br />

la saisie du caractère in<strong>di</strong>viduel d’un être a lieu prioritairement à<br />

travers le nom, non à travers une image. Mais de là découlent encore<br />

d’autres embûches à la saisie de l’identité in<strong>di</strong>viduelle d’un être vivant.<br />

L’homme, outre son genre et son nom, est reconnu et déterminé selon<br />

son appartenance à une lignée parentale, à un métier, à un lieu, à une


L’image-empreinte<br />

situation. Dans un <strong>di</strong>alogue ou dans une pièce de théâtre, par exemple,<br />

l’in<strong>di</strong>vidu porte un nom ; ou alors, plus couramment encore, il est désigné<br />

par une fonction ou par le rôle qu’il incarne dans la société et qui<br />

lui assure un statut : roi, prêtre, philosophe, maçon, cordonnier, portier,<br />

berger, esclave métèque…. Si, de surcroît, un homme a droit à<br />

l’image pour des raisons de fonction ou de reconnaissance privée ou<br />

publique, s’il est donc roi, ancêtre, vainqueur, rhéteur, sauveur, mécène…,<br />

alors cette image relève moins des traits propres et davantage<br />

d’une typologie spécifique, liée précisément aux fonctions, au contexte<br />

de la demande et au but dans lequel un « portrait » est réalisé, conservé,<br />

voire érigé sur la place publique 6 . Il arrive dans ce cas qu’il y ait<br />

aussi des « portraits » de chevaux particuliers (vainqueurs de courses,<br />

par exemple), non seulement des « portraits » d’êtres humains. Des<br />

traits spécifiques y sont inscrits avec plus ou moins de soin pour une<br />

ressemblance « réaliste », mais ce qui prime dans la réception est le statut<br />

propre d’un « portrait », d’un objet à part, non la présence de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

lui-même par image interposée. Le rapport à l’être in<strong>di</strong>viduel<br />

lui-même à travers une image ne va pas de soi, car un être n’est perçu<br />

comme étant véritablement lui-même que dans son corps et dans sa vie<br />

durant. Autrement <strong>di</strong>t, l’être se confond avec son existence, or celle-ci<br />

est corporelle et elle lui appartient sans qu’il y ait aucune possibilité de<br />

dédoublement de l’être, ou de détachement d’une partie au moins de<br />

celui-ci, dans une image qui pourrait faire semblant de prendre la place<br />

de l’être ou du moins de le montrer comme existant en <strong>di</strong>fféré. L’être<br />

s’identifie entièrement à son corps animé et celui-ci est son unique<br />

image, c’est-à-<strong>di</strong>re sa seule visibilité réelle, <strong>di</strong>stincte, par ailleurs, de son<br />

apparence physique, de son simple aspect visuel particulier 7 . Tout support<br />

<strong>di</strong>fférent du corps vivant qui montre une ressemblance est perçu<br />

par conséquent comme un « objet » <strong>di</strong>fférent, adapté à d’autres besoins<br />

6 Sur le rapport entre fonction, masque et identité dans la pensée et dans l’iconographie<br />

grecques classiques, voir F. FRONTISI-DUCROUX, Du masque au visage.<br />

Aspects de l’identité en Grèce ancienne, Paris 1995.<br />

7 Un exemple typique et particulièrement clair puisqu’il est étayé par un<br />

important <strong>di</strong>spositif philosophique, est l’épisode du portrait de Plotin sur lequel<br />

s’ouvre la Vie de Plotin ré<strong>di</strong>gé par Porphyre. Il ne s’agit pas d’un refus du portrait<br />

mais d’un refus de la pose nécessaire à la réalisation du portrait. L’argumentation<br />

de Plotin, rapportée par Porphyre, consiste à considérer le corps comme la véritable<br />

image de l’être et le <strong>di</strong>scours philosophique devant les élèves comme seule<br />

expression qui mérite d’en garder la mémoire. J’y reviendrai.<br />

139


140<br />

Anca Vasiliu<br />

que ceux de la vie de l’in<strong>di</strong>vidu, même si des traits ressemblants rapprochent<br />

de manière <strong>di</strong>te « réaliste » le portrait de l’« original »,<br />

comme dans le cas du portrait républicain romain par exemple.<br />

La conséquence de cette situation est une <strong>di</strong>stinction nette entre la<br />

puissance de la trace qui relève de l’in<strong>di</strong>vidu et atteste précisément de<br />

son existence particulière, et une image qui « <strong>di</strong>t » quelque chose de<br />

l’homme en le contextualisant (selon le genre et le type), mais ne relève<br />

pas de l’être intime et singulier de celui-ci, aussi ressemblante soit-elle<br />

par ailleurs. En somme, le portrait n’est pas un relevé d’identité de<br />

l’être mais une forme de description ou de présentation visuelle qui met<br />

en lumière des propriétés, des fonctions, à la limite des attributs ou des<br />

instruments de ses actions spécifiques. Aussi caractéristique soit-il, le<br />

portrait n’est pas non plus une reproduction fidèle de l’aspect ; il ne<br />

relève pas de la manifestation apparitionnelle de l’in<strong>di</strong>vidu car celle-ci<br />

s’identifie à l’être vivant et ne peut pas se détacher de lui pour se présenter<br />

en son absence sous la forme d’une statue ou d’un tableau. Si<br />

une image (de type eidôlon) remplace un être vivant dans des con<strong>di</strong>tions<br />

exceptionnelles relatées par les mythes (comme dans le cas<br />

d’Hélène par exemple, selon Gorgias ou Euripide), cette image n’est<br />

pas définie comme un portrait mais comme un double de l’être vivant.<br />

En outre, le portrait n’appartient pas de droit à celui qui est représenté<br />

mais à celui qui l’a produit et qui le livre à la communauté comman<strong>di</strong>taire<br />

pour servir à des fins précises : sociales, religieuses ou politiques.<br />

Bien que le portrait soit donc lié nécessairement à un être, ni l’image ni<br />

l’objet produit ne relèvent de la sphère privée in<strong>di</strong>viduelle de cet être. A<br />

fortiori il ne concerne pas un quelconque rapport à « soi » de l’être qui<br />

définirait ainsi la conscience de sa singularité ; l’unicité et la nature<br />

propre de l’être en question se révèlent autrement et ailleurs. Qui plus<br />

est, un portrait n’est même pas le garant que l’être qu’il (re)présente ait<br />

jamais existé. Le portrait antique tient donc d’une fonction, constitue<br />

l’expression consacrée d’un état de faits ou d’une situation, et n’ouvre<br />

pas un accès à la « personne » ou au caractère propre de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

dont il représente de manière fidèle ou fictive l’aspect.<br />

En ce qui concerne la trace, bien que visuelle comme signe, elle n’est<br />

pas perçue comme une forme et ne peut nullement, a priori, constituer<br />

un portrait. Ni eidos ni morphê, la trace ou l’empreinte appartient à<br />

une catégorie à part de signes visuels, bien <strong>di</strong>stincte de la catégorie des<br />

formes. Même quand une empreinte s’approche formellement d’un<br />

portrait, comme dans le cas d’un moulage, l’empreinte va chercher<br />

dans le formel ce que l’aspect, l’apparence, le trait peuvent apporter à


L’image-empreinte<br />

la connaissance d’un être au-delà de ce que présente un portrait conçu<br />

comme tel, dans le sens classique du terme. La trace peut-elle partager<br />

alors avec l’être lui-même quelque chose de la « sphère privée » de<br />

celui-ci, quelque chose qui serait ignoré ou occulté par le portrait ?<br />

Peut-elle participer du caractère unique et de la nature propre de cet<br />

être dont elle garde quelque chose de plus que le pur souvenir nominal<br />

de son existence perché sur un stemma généalogique ? Sans aucun<br />

doute, car la trace ne produit pas une altérité bâtarde de l’être, mi-figure<br />

mi-fonction comme le portrait, mais tient lieu de marque propre<br />

pour une identité précise, même quand la trace de cette identité est<br />

minime, voire méconnaissable à la limite. Bien qu’elle ne soit pas complète<br />

mais toujours fragmentaire, et parfois réduite à l’extrême, la trace<br />

touche néanmoins à l’essentiel, à ce qui constitue le noyau de subsistence<br />

de l’être lui-même : elle touche, ou plus exactement a touché une fois<br />

le corps animé. A partir de là, elle continue à se nourrir de la puissance<br />

inscrite une fois pour toutes dans l’existence même à laquelle elle a touché<br />

à un moment donné. La trace « retire » ou « retient » de ce contact<br />

physique quelque chose qu’elle fait apparaître ailleurs : elle fait acte de<br />

ritratto au sens premier du terme, alors qu’elle n’est justement pas un<br />

« portrait » mais tout au plus un moulage, voire une imago au sens premier<br />

du terme. Et ce que la trace « retient » de l’original, elle l’affirme<br />

et le montre aussitôt. Elle est la trace de quelque chose qui est ou du<br />

moins a été réellement : un vivant ou une chose existante. Une trace ou<br />

une empreinte est donc perçue comme une preuve d’existence corporelle<br />

non comme une représentation. Elle ne peut donc pas être forme<br />

elle-même – à la limite une trace est l’informel même –, mais elle révèle<br />

dans son intimité d’existence la forme de ce dont elle est la trace. En<br />

outre, une trace ou une empreinte est perçue comme le résultat d’une<br />

collaboration entre l’être (un geste produit par sa volonté, ou simplement<br />

par son existence de passage, comme dans la trace involontaire<br />

du pied sur la glaise ou sur le sable) et un support indépendant de l’être<br />

et structurellement <strong>di</strong>fférent de celui-ci : la glaise modelée, une pierre<br />

gravée, une paroi ou une toile maculée de crasse, de sueur, de sang, de<br />

couleurs naturelles, etc. Comme dans le cas d’une ombre ou d’un<br />

reflet, l’empreinte provient d’une rencontre entre la présence actualisée<br />

de l’être et un support matériel qui recueille un « restant » de cette<br />

actualisation ; sauf que l’empreinte n’est pas nécessairement attachée à<br />

la présence de l’être et n’est pas con<strong>di</strong>tionnée par ce lien, alors que<br />

l’ombre ou le reflet demeurent tant qu’un être s’y mire ou se trouve<br />

dans une lumière particulière, mais s’évanouissent aussitôt après.<br />

141


142<br />

Anca Vasiliu<br />

L’empreinte nécessite donc la présence, mais elle lui survit ; d’où son<br />

rôle de « témoin ». Toutefois, dans la rencontre elle-même et dans la<br />

collaboration entre une présence de passage et le réceptacle de sa trace<br />

se passe quelque chose d’essentiel qui transgresse les limites de la<br />

simple conservation fortuite d’une empreinte. A lieu en effet, comme<br />

dans le secret de toute rencontre, un transfert, un échange, un infléchissement<br />

réciproque qui est perçu par les Anciens comme un processus<br />

de révélation de la sphère privée de l’être et de son caractère singulier.<br />

Quelque chose comme une puissance provenant de la nature intime de<br />

l’être vivant survit dans sa trace et vient à l’entendement à partir de la<br />

rencontre nécessaire entre le toucher et la vue. Quelque chose de particulier,<br />

non de l’ordre d’une forme (eidos ou morphê) mais de l’ordre<br />

d’une dynamis, surgit et s’impose à partir de l’unité entre la consistance<br />

substantielle du corps et l’aspect, unité constitutive du statut même de<br />

la trace. Dans l’empreinte, cette unité substantielle entre la matière<br />

réceptrice et la dynamis donnée demeure dans l’objet lui-même, alors<br />

qu’une image se réalise dans la rupture affichée entre l’objet subsistant<br />

et la forme seule dont l’image tente de reproduire l’aspect.<br />

3. Un portrait en forme de trace ou le visage comme empreinte de l’être<br />

Ce bref rappel théorique du statut antique du portrait, de l’image et<br />

de la trace est censé souligner le caractère exceptionnel de l’empreinteportrait<br />

à laquelle nous avons affaire lorsque apparaît l’« objet » étrange<br />

évoqué plus haut, un genre d’objet jamais conçu jusque là : le visage<br />

d’un être singulier imprimé trait pour trait sur un tissu – trace imprimée<br />

qui est donc aussi un portrait et qui se confond totalement avec le<br />

support. L’objet ainsi produit est appelé « voile »: mandylion. Son<br />

caractère exceptionnel vient du fait que s’articulent dans le périmètre<br />

d’un objet unique deux genres <strong>di</strong>stincts de structures visuelles : la trace<br />

d’une part, le portrait de l’autre, les deux faisant ici corps commun en<br />

un seul et même objet qui est, de surcroit, un objet de voilement, de<br />

<strong>di</strong>ssimulation des apparences immé<strong>di</strong>ates. De la superposition d’une<br />

trace et d’un portrait naît ainsi, sous une entité unique, à la fois un<br />

type et un objet, car ce Mandylion relève de l’image autant que de la<br />

relique, de la révélation autant que du témoignage, du visuel autant<br />

que du haptique, du commun autant que du propre singulier, du générique<br />

autant que de l’in<strong>di</strong>viduel, du formel autant que de la puissance<br />

enfermée dans le conjoncturel. On comprend dès lors que le Mandy -


L’image-empreinte<br />

lion, quand il s’impose, au X e s., dans le monde byzantin, inscrit son<br />

caractère exceptionnel à la racine même des structures visuelles habituelles.<br />

C’est à partir de là qu’il tente de bouleverser le para<strong>di</strong>gme<br />

concernant l’accès à ce que signalait la singularité d’une identité in<strong>di</strong>viduelle<br />

: la dynamis inscrite dans la trace corporelle. Et c’est là qu’il<br />

situe aussi sa prétendue nouveauté, partant de l’accès à ce que l’existence<br />

même rendait manifeste de l’être humain selon l’anthropologie<br />

chrétienne, à savoir la révélation du visage comme image du caractère<br />

propre, image de l’âme dans laquelle s’était inscrit le mouvement de la<br />

ressemblance envers Dieu.<br />

Cette singulière association de trace et d’image porte en elle tout le<br />

trouble que devait encore susciter dans l’esprit des fidèles l’idée d’un<br />

Dieu visible. Au X e s., quand le Mandylion, transféré à Constanti nople,<br />

commence à essaimer des répliques et à être donc connu, l’indécision<br />

entre une trace imprimée (ejkmagei'on) et une image peinte (eijkwvn) persiste<br />

dans les appellations qui lui sont données. Cette indécision signale<br />

la <strong>di</strong>fficulté de voir deux structures visuelles aussi <strong>di</strong>fférentes se télescoper<br />

et s’unir en un seul et même objet. Le miracle est appelé à jouer<br />

alors son jeu. Mais les tra<strong>di</strong>tions sont tout aussi fortes pour <strong>di</strong>stinguer<br />

l’icône, qui est considérée comme « pareille » aux paroles des Evangiles<br />

(selon le Syno<strong>di</strong>kon du « Triomphe de l’Orthodoxie », 843), et les<br />

reliques proprement <strong>di</strong>tes qui sont des témoignages de la puissance<br />

<strong>di</strong>vine et qui n’ont de valeur que par leurs actions : guérisons, apparitions,<br />

défenses contre des agresseurs, mais qui n’agissent pas par leur<br />

simple aspect formel – à moins d’être encastrées dans des reliquaires<br />

(icônes, vases ou boîtes) qui sont eux-mêmes à la fois des supports<br />

visuels et des réceptacles de vestiges corporels. Le Mandylion, en<br />

revanche, fait office double : il est « icône », appelé ainsi dès les premiers<br />

textes byzantins qui en parlent 8 , et en même temps il est considéré<br />

comme une, voire la relique par excellence de celui qui n’a pas laissé<br />

de cadavre pour preuve de sa vie terrestre. Et comme relique, cette<br />

trace est avant tout une preuve d’existence à la fois de la vie terrestre de<br />

l’in<strong>di</strong>vidu singulier dont elle provient, et de la nature <strong>di</strong>vine de celui-ci,<br />

<strong>di</strong>vinité incarnée dans un être humain. Se télescopent ainsi au moins<br />

8 Dans la Vie de Saint Paul du Mont Latros (X e s.) : Cristou' eijkovni h{n suvnhqe"<br />

mandhvlion ; ou dans la Chronique de Michel le Syrien (XII e s.) : hJ eijkwnh; prwtovtupov"<br />

te kai; a[grafo". Cf. H. L. KESSLER, cité infra.<br />

143


144<br />

Anca Vasiliu<br />

trois significations. La première est proprement théologique et commune<br />

avec celle assignée à l’icône selon l’acception qui s’était imposée<br />

avec Nicée II et le Syno <strong>di</strong>kon de l’Orthodoxie (l’icône comme « preuve<br />

<strong>di</strong>vine » de l’Incar nation et de la double nature du Christ). La seconde<br />

signification est partagée avec celle dont relèvent aussi les pratiques<br />

religieuses dévolues aux reliques, aux amulettes et à tous les « objets<br />

magiques », « merveilleux », investis de « forces spirituelles » transmises<br />

par simple toucher à des lambeaux ou à des débris de matières<br />

(pravn<strong>di</strong>a). Enfin, une troisième signification est politique et provient<br />

du rôle que l’on fait dorénavant jouer au Mandylion en le considérant<br />

comme palla<strong>di</strong>um (investit du pouvoir apotropaïque qu’il avait joué<br />

auprès du roi Abgar, puis comme défenseur de la ville d’Edesse) et en<br />

même temps comme substitut du voile du Temple ancien dont il prend<br />

la relève, bien qu’il ne soit pas installé dans l’église d’apparat, à Sainte-<br />

Sophie, mais gardé dans une chapelle du palais sur le Bosphore 9 .<br />

Cependant, le plus troublant reste le statut du soi-<strong>di</strong>sant portrait<br />

(ou autoportrait) présenté sur un support souple et d’emblée inadéquat<br />

pour recevoir une image. Dans la plupart des représentations les plus<br />

anciennes (icône du Sinaï du temps de Constantin VII, manuscrits des<br />

X e -XII e s.), le tissu ne semble pas faire véritablement corps commun<br />

avec le portrait ou avec l’image qui devait y être imprimée. De toute<br />

évidence, la trace et l’image iconique font encore <strong>di</strong>fficilement ménage<br />

commun. L’icône est invincolata, incirconscriptible à la trame matérielle<br />

du textile. Le support est nécessaire à la réception d’une impression,<br />

mais, dans ce cas particulier, l’empreinte qui apparaît semble appartenir<br />

à une autre réalité que celle du support, une réalité que le regard<br />

doit, par conséquent, situer ailleurs que dans les pigments ou dans les<br />

restes délavés de couleurs prises entre les fibres d’une serviette. Cette<br />

situation particulière ne tient pas seulement de la définition canonique<br />

de l’icône du Christ comme icône de l’Incarnation « incirconscriptible<br />

» à la chair. Elle s’explique avant tout par ce statut ambigu du<br />

Mandylion qui, de concert avec les textes, ne <strong>di</strong>stingue pas et ne tranche<br />

pas clairement entre la réalité d’une trace et le genre d’une image-portrait.<br />

9 Selon les documents conservés le Mandylion ainsi que la lettre à Abgar se<br />

trouvaient dans la chapelle du Pharos. On en aurait perdu la trace après 1204.


L’image-empreinte<br />

Rappelons deux histoires para<strong>di</strong>gmatiques qui exprimaient dans le<br />

monde antique la possibilité de retrouver sur un support matériel la<br />

trace singulière de l’existence et d’avoir simultanément un accès visuel<br />

à une identité in<strong>di</strong>viduelle par portrait interposé : la légende concernant<br />

l’invention du portrait modelé en argile par le potier Butadès de<br />

Sicyone à partir d’une ombre projetée 10 , et l’histoire du portrait racontée<br />

par Porphyre au début de la Vie de Plotin 11 . On remarquera que<br />

dans ces deux histoires bien connues, autant dans la première, considérée<br />

comme « archaïque », que dans la seconde, située à la fin du III e s.<br />

après J. C., le rapport à l’original, à l’être vivant, passe nécessairement<br />

par un intermé<strong>di</strong>aire et se réalise par une empreinte prise sur cet intermé<strong>di</strong>aire<br />

: l’ombre sur une paroi, pour l’amant de la fille de Butadès,<br />

10 Histoire racontée par PLINE L’ANCIEN, Histoire naturelle, XXXV, chap.<br />

XLIII (12).<br />

11<br />

PORPHYRE, Sur la vie de Plotin et la mise en ordre de ses livres (VP), I.<br />

« Plotin, le philosophe qui vécut à notre époque, donnait l’impression d’avoir<br />

honte d’être dans un corps (ejwv/kei me;n aijscumevnw/ o{ti ejn swvmati ei[h). C’est en<br />

vertu d’une telle <strong>di</strong>sposition qu’il refusait de rien raconter sur ses origines, sur ces<br />

parents ou sur sa patrie (ou[te peri; tou' gevnou" aujtou' <strong>di</strong>hgei'sqai … ou[te peri; tw'n<br />

gonevwn ou[te peri; th'" patrivdo"). Supporter un peintre ou un sculpteur (zwgravfou<br />

… h] pla'stou) lui paraissait in<strong>di</strong>gne au point même qu’il répon<strong>di</strong>t à Amélius le<br />

priant d’autoriser que l’on fit son portrait (eijkovna aujtou') : ‘Il ne suffit donc pas<br />

de porter ce reflet [cette image] dont la nature nous a entourés (hJ fuvsi" ei[dwlon<br />

hJmi'n peritevqeiken)’, mais voilà qu’on lui demandait encore de consentir à laisser<br />

derrière lui un reflet de reflet ([une image de l’image] eijdwvlou ei[dwlon sugcwrei'n<br />

aujto;n), plus durable celui-là, comme si c’était là vraiment l’une des œuvres <strong>di</strong>gnes<br />

d’être contemplées (dhv ti tw'n ajxioqeavtwn e[rgwn) ! Aussi, devant le refus de Plotin<br />

qui n’acceptait pas de poser à cette fin, Amélius, qui avait pour ami Cartérius, le<br />

meilleur des peintres de l’époque, l’introduisit et le fit assister aux cours – qui en<br />

avait le désir pouvait en effet fréquenter les cours – ; Cartérius s’habitua à<br />

recueillir des impressions visuelles plus marquées (oJra'n fantasiva") grâce à une<br />

attention soutenue. Puis, lorsqu’il eut dessiné son ébauche à partir de l’image<br />

déposée dans sa mémoire (ejk tou' th'/ mnhvmh/ ejnapokeimevnou ijndavlmato" to;<br />

ei[kasma), et qu’Amélius eut corrigé avec lui l’esquisse pour parfaire la ressemblance<br />

(eij" oJmoiovthta), le talent de Cartérius permit la réalisation, à l’insu de<br />

Plotin (ajgnoou'nto" tou' Plwtivnou), d’un portrait de lui, très ressemblant (eijkovna<br />

aujtou' … oJmoiotavthn). » Je cite l’é<strong>di</strong>tion et la traduction du texte publié dans le<br />

volume collectif paru sous le titre cité supra chez Vrin (coll. « Histoire des doctrines<br />

de l’Antiquité classique »), Paris 1992. Voir aussi l’article de J. PÉPIN,<br />

L’épisode du portrait de Plotin, in PORPHYRE, La vie de Plotin, II (introd., éd.,<br />

trad., commentaires, notes, collectif), Paris 1992, 301-334.<br />

145


146<br />

Anca Vasiliu<br />

ou l’impression du visage de Plotin dans l’âme et dans l’imagination du<br />

peintre Cartérius, obligé d’assister au cours de philosophie et de retenir,<br />

à défaut de pose, l’expression de l’être vivant à partir de l’acte qui<br />

lui était propre, celui d’enseigner la philosophie. La mémoire et l’imagination<br />

du peintre, ainsi que celles du <strong>di</strong>sciple philosophe Amélius, collaborent<br />

pour réaliser un portrait très ressemblant, bien que réalisé à<br />

l’insu de Plotin, comme du dehors du sujet, puisque Plotin refuse de<br />

s’immobiliser et considère que son corps même est image, une image<br />

vraie, puisque existante, vivante, expression de l’acte même d’être. On<br />

pourrait <strong>di</strong>re, en respectant à la lettre la pensée de Plotin, que son<br />

corps animé est son seul et unique « autoportrait » véritable 12 . Le portrait<br />

réalisé ne peut, dès lors, qu’être un eijdwvlou ei[dwlon, l’image<br />

d’une image, selon l’expression de Porphyre, de même que l’homme luimême<br />

est défini dans les exégèses alexandrines ou cappadociennes du<br />

verset biblique (Gen. 1,26) qui raconte sa création comme une eikôn<br />

eikonos ou comme une imago imaginis. Cette expression apparaît donc<br />

aussi chez de nombreux exégètes gréco-latins : Philon, Grégoire de<br />

Nysse, Marius Victorinus, Jean Scot, etc. Le redoublement de l’image<br />

et l’inférence de l’une à l’autre qui s’installe nécessairement, apparaissent<br />

ainsi comme les conséquences de l’inscription corporelle de tout<br />

être existant.<br />

Or ces histoires, para<strong>di</strong>gmatiques pour le processus de structuration<br />

et d’objectivation du visuel qui nous intéresse ici, para<strong>di</strong>gmatiques en<br />

tout cas pour le rapport entre l’empreinte et le portrait, présentent des<br />

proximités frappantes avec la légende du portrait du Christ destiné au<br />

roi Abgar. Sans avoir évidemment rien d’historique, ces proximités<br />

in<strong>di</strong>quent toutefois une forte rémanence concernant à la fois les con<strong>di</strong>tions<br />

restrictives par lesquelles un être se laisse identifier, voire définir<br />

dans le périmètre de son portrait, et la possibilité d’accéder à quelque<br />

chose de propre à son identité vivante, à sa dynamis, en réduisant les<br />

traits du portrait à une empreinte singulière, spécifique et unique,<br />

propre à l’in<strong>di</strong>vidu. Certes, l’action de peindre ou d’imprimer le portrait<br />

dépend cette fois-ci <strong>di</strong>rectement du sujet représenté. Sauf que le<br />

Christ, faisant ainsi son « autoportrait », ne s’auto-imprime pas lui-<br />

12 Plotin parle à ce sujet du noyau indéfinissable de la forme même de l’être et<br />

désigne ce noyau par un terme d’autoréférence, comme dans l’exemple de Socrate<br />

qui n’est lui-même qu’en tant que Aujtoswkravth" : « ni Socrate ni l’âme de<br />

Socrate mais Socrate à l’égard de lui-même » (Ennéade V, 7, 1, 3 [T. 18]).


L’image-empreinte<br />

même sur le linge destiné à Abgar. Il imprime ou laisse apparaître sur<br />

le linge l’icône de l’icône du Père, l’icône de l’image qu’il est lui-même<br />

en tant que Fils eikôn tou Theou (Col. 1, 15, II Cor. 4, 4). Car le Christ<br />

est lui-même support d’une image imprimée dans son corps vivant ;<br />

non une image de lui-même seul, comme le corps vivant de Plotin est<br />

son image la plus fidèle en dehors de ses <strong>di</strong>scours, mais il est image<br />

d’une altérité, image du Père. Ce qui s’imprime alors est déjà une<br />

superposition d’impressions, une image unique mais à double fond,<br />

icône de celui qui est lui-même icône d’un autre. Et à partir de cette<br />

« impression double », paradoxale transparence visible imprimée sur le<br />

voile en raison de la propriété unique de cet être à la fois <strong>di</strong>eu invisible<br />

et incarné, l’image qui apparaît peut en effet se rédupliquer à l’infini<br />

car elle contient en elle-même la racine du dédoublement – cette superposition<br />

en abîme d’une empreinte corporelle particulière et d’un portrait<br />

qui montre quelque chose d’autre que les traits d’un être singulier.<br />

Partant de ce prototype iconique, toute image est dès lors considérée<br />

comme une « image de l’image », tou' tuvpou tuvpo", « impression de<br />

l’impression » ou « signe du signe », image générique et corps commun<br />

d’une empreinte et d’un visage spécifique. Le Mandylion est en tout cas<br />

appelé « icône de l’icône » par l’auteur même de la Narratio de imagine<br />

Edessena qui raconte, vers 945 probablement, l’histoire du transfert de<br />

l’image-empreinte (ejkmagei'on) d’Edesse à Constantinople 13 .<br />

13 Voir, pour une mise au point historique récente, l’article de H. L. KESSLER,<br />

Il Mandylion, dans le catalogue Il volto <strong>di</strong> Cristo, Milano 2000, 67-99. Pour la<br />

variante iconographique byzantine du Mandylion (les premières icônes connues<br />

sont du X e s.), voir la Légende d’Abgar V, roi d’Edesse, histoire, iconographie et<br />

bibliographie dans Lexikon der christlichen Ikonographie, vol. I, Freiburg 1968,<br />

col. 18-19. Pour la variante occidentale – le Voile de Véronique ou la Véronique –<br />

histoire, iconographie et bibliographie dans Iconography of Christian Art (G.<br />

SCHILLER), vol. 2, London 1972, 78-81, 173, 190-193. Pour les <strong>di</strong>scussions théoriques<br />

concernant le statut de l’image-icône-relique pendant et après la grande<br />

crise iconoclaste, voir les deux ouvrages de C. BARBER: Contesting the Logic of<br />

Painting, Art and Understan<strong>di</strong>ng in Eleventh-Century Byzantium, Leiden-Boston<br />

2007, surtout le chap. 1: “The Syno<strong>di</strong>kon of Orthodoxy and the ground of painting”<br />

(1-22) et Figure and Likeness. On the limits of Representation in Byzantine<br />

Iconoclasm, Princeton-Oxford 2002. Pour l’inscription spatiale de l’image et le<br />

rapport quasi organique entre le Mandylion et le statut des reliques dans la pensée<br />

et dans les pratiques religieuses byzantines, voir les articles réunis dans le volume<br />

Eastern Christian Relics, sous la <strong>di</strong>r. de A. LIDOV, Moscou 2003, dont : G. WOLF,<br />

The Holy Face and the Holy Feet : preliminary reflections before the Novgorod<br />

147


148<br />

Anca Vasiliu<br />

On comprend alors la superposition qui est savamment opérée : le<br />

corporel générique en tant qu’image de l’espèce donne lieu à une<br />

image-empreinte de l’in<strong>di</strong>vidu qui légitime du même coup la production<br />

sans fin de copies visuelles de cet unicum. Cependant, pour que la<br />

légitimation de l’image-copie soit en même temps une attestation<br />

d’identité propre de l’être singulier et non d’une espèce qui n’existe pas<br />

dans le cas du Christ, pour que l’image soit donc une attestation de<br />

l’être unique qui apparaît ainsi dans image, il faut y joindre encore le<br />

« cachet » personnel : la signature, le caractère propre imprimé, le touché<br />

fixé de manière indélébile, et non seulement exprimé à travers un<br />

geste, une expression ou une mé<strong>di</strong>ation comme l’ombre portée ou<br />

comme une parabole, une histoire racontée. C’est uniquement alors<br />

que l’icône devient « image » à proprement parler, objet visuel par<br />

excellence et non seulement un équivalent du logos, voire un substitut<br />

par défaut des paroles évangéliques. Pour remplir pleinement ce rôle, il<br />

faut que l’image soit justifiée par la preuve de la trace qui atteste une<br />

typologie particulière en l’imposant comme visage propre de l’être vrai,<br />

« authentique ». La fidélité envers cette typologie « originale » sera par<br />

la suite la con<strong>di</strong>tion de vérité de l’image, et donc le garant absolu de sa<br />

puissance qui lui permet de se substituer aussi, le cas échéant, à la<br />

parole révélée.<br />

Ce double statut de l’image inscrite sur le Mandylion ajceiropoivhton,<br />

icône d’une part, empreinte de l’autre, double statut qui suppose nécessairement<br />

un aller-retour du regard – découvrant la <strong>di</strong>ssemblance de<br />

toute image à l’égard du vrai vivant, pour retrouver ensuite sa ressemblance<br />

profonde, intime, naturelle presque, avec l’image in<strong>di</strong>viduelle<br />

imprimée dans l’âme comme sur un tissu ou dans une cire molle,<br />

impression qui correspond au visage de l’être vivant – s’exprime, théologiquement<br />

parlant, à travers le rapport qui s’établit dorénavant dans<br />

l’espace byzantin entre Incarnation et Eschatologie 14 . Entendons par<br />

Mandylion (281-287), A. LIDOV, The Mandylion and Keramion as an image-archetype<br />

of sacred space (249-280) et M. EMMANUEL, The Holy Mandylion in the iconographic<br />

programms of the churches at Mystras (291-304).<br />

14 Cette question, purement théologique, dépasse le cadre thématique de cette<br />

étude. Je ne fais ici qu’esquisser une ouverture pour comprendre les enjeux d’une<br />

image qui réunit sous un seul genre affiché, le portrait, deux con<strong>di</strong>tions <strong>di</strong>stinctes,<br />

et a priori séparées, d’une donnée visuelle : l’aspect et la trace. L’invention d’une


L’image-empreinte<br />

cette dernière le fait de situer l’homme et le corps de l’Eglise dans le<br />

royaume de l’Esprit à l’horizon de la Seconde Parousie. Cette relation<br />

entre l’Incarnation dont relève l’image du Christ, et l’Eschatologie<br />

dont le sens est donné par le corps de l’Eglise appelée « demeure de<br />

l’Esprit Saint », correspond d’ailleurs à un paragraphe bien connu du<br />

Horos de Nicée II. Il s’agit de la mise en commun des moyens du récit<br />

par lequel est proféré le message des Evangiles et de l’image relevée par<br />

la peinture (th'" eijkonikh'" ajnazwgrafhvsew"). La parole évangélique et<br />

la peinture qui la montre en image constituent la voie royale que nous<br />

pratiquons (th;n basilikh;n w{sper ejrcovmenoi trivbon), voie par laquelle<br />

sont respectés (suivis à la lettre, ejpakolouqou'nte") l’enseignement des<br />

<strong>di</strong>scours théologiques de nos saints Pères (th'/ qehgovrw/ <strong>di</strong>daskaliva/ tw'n<br />

ajgivwn patevrwn hJmw'n) et la tra<strong>di</strong>tion de l’Eglise universelle (kai; th'/ paradovsei<br />

th'" kaqolikh'" ejkklhsiva") en laquelle habite l’Esprit saint avec<br />

qui l’Eglise s’identifie (tou' ga;r ejn aujth'/ oijkhvsanto" ajgivou pneuvmato"<br />

ei\nai tauvthn ginwvskomen,…). Universelle, l’Eglise est ainsi reconnue<br />

comme identique (tauta) avec l’Esprit saint, lequel se confond avec<br />

l’Eglise universelle et en même temps est présent comme habitant dans<br />

ce lieu d’où s’est absenté, à l’Ascension, le Dieu incarné. Ainsi la « voie<br />

royale » (th;n basilikh;n w{sper ejrcovmenoi trivbon) doit conduire le fi -<br />

dèle du Fils à l’Esprit : des Evangiles vers l’Eglise, de l’idée d’in<strong>di</strong>vidu<br />

vers l’idée de communauté, de la conscience d’un soi propre (ego) vers<br />

une intégration du soi comme sujet d’une communauté demeurant jusqu’à<br />

la fin des temps 15 .<br />

telle image vise non seulement à faire se rejoindre deux registres de la réalité<br />

visuelle, mais principalement à s’approprier l’expérience de la foi dans l’exercice<br />

du double pouvoir, temporel et spirituel. Pour les significations et les illustrations<br />

de cette relation théologique particulièrement importante dans le <strong>di</strong>scours iconographique<br />

byzantin tar<strong>di</strong>f, voir les analyses de l’emplacement du Mandylion et les<br />

juxtapositions avec l’image de l’Agneau dans l’iconographie intérieure-extérieure<br />

des monastères de Moldavie aux XV e et XVI e s., dans A. VASILIU, La traversée de<br />

l’image (Paris 1994) et id. Les architectures de l’image. Monastères de Moldavie<br />

XIV e -XVI e s., Paris 1998 (trad. italienne, L’archittetura <strong>di</strong>pinta. Gli affreschi<br />

Moldavi nel XV e e XVI e secolo, Milan 1998).<br />

15 Touvtwn ou{tw" ejcovntwn, th;n basilikh;n w{sper ejrcovmenoi trivbon, ejpakolouqou'te"<br />

th'/ qehgovrw/ <strong>di</strong>daskaliva/ tw'n ajgivwn patevrwn hJmw'n, kai; th'/ paradovsei th'"<br />

kaqolikh'" ejkklhsiva", tou' ga;r ejn aujth'/ oijkhvsanto" ajgivou pneuvmato" ei\nai tauvthn<br />

ginwvskomen, … « Puisqu’il en est ainsi, comme si nous marchions sur la voie royale,<br />

suivant l’enseignement proclamé par Dieu et la tra<strong>di</strong>tion de l’Eglise universelle<br />

– nous savons qu’elle est l’Eglise de l’Esprit Saint qui habite en elle, … » Je cite<br />

149


150<br />

Anca Vasiliu<br />

4. Corps et visage (en guise de conclusion)<br />

Je voudrais revenir au point de départ pour boucler cette brève analyse<br />

théorique des enjeux philosophiques et théologiques de l’empreinte<br />

et de l’image, et cette <strong>di</strong>alectique entre la trace et le portrait présentée<br />

à l’œuvre dans une démarche intellectuelle orientée vers la saisie des<br />

ambiguïtés et des « impensables » de la foi. C’est sur ce terrain aux<br />

contours fuyants que la trace joue son rôle de preuve et d’expressiontémoin<br />

de la singularité d’une identité in<strong>di</strong>viduelle, expression dans<br />

laquelle est enfermée toute la puissance du caractère existentiel ou<br />

vivant de cette identité de l’être insaisissable autrement. Et c’est sur ce<br />

terrain aussi que l’invention du Mandylion, qui ne produit pas un<br />

simple objet « tombé du ciel » mais prend le soin de constituer un véritable<br />

mythe fondateur (ou re-fondateur) de la fonction sacrée assignée<br />

à Byzance à l’image-icône, vient situer dans le contexte d’une anthropologie<br />

christianisée la relation entre le corps et le visage.<br />

Le binôme « corps-visage » se présente comme une transposition<br />

anthropologique structurelle de ce qui était en contexte théologique le<br />

rapport entre la substance et la personne dans le cas d’une identité in<strong>di</strong>viduelle<br />

pourvue d’existence humaine ou <strong>di</strong>vine : un rapport controversé<br />

entre le substrat (partagé ou pas) et une constitution formelle qui y<br />

est inscrite et que nous définissons invisiblement par le caractère et<br />

visiblement par l’expression. La corporalité objective de l’image a fait<br />

de celle-ci un argument en faveur de la consubstantialité des Hy posta -<br />

ses dans les débats trinitaires grecs et latins du IV e s. L’aspect, sous le<br />

mode du « portrait », de même que sa traduction comme eikôn,<br />

comme une conjoncture de visibilité potentielle spécifique à l’unicité de<br />

l’in<strong>di</strong>vidu, viennent établir un équilibre avec l’argument de la substantialité<br />

de l’image, en faisant de cette dernière une preuve d’existence, et<br />

donc de l’acte par lequel l’être se dévoile. Le sémantisme théologique<br />

est certes complexe, mais il s’éclaire dès que s’opère son transfert sur le<br />

plan de la structure de l’homme. Le corps devient substance et forme<br />

de la nature commune du genre, tan<strong>di</strong>s que le visage, avec son expression<br />

in<strong>di</strong>cible mais figurable à partir d’un certains nombre de traits et<br />

l’é<strong>di</strong>tion MANSI XIII, 373D-380B (dans Conciliorum Œcumenicorum Decreta, Bologne<br />

1973, 135-37) et la traduction proposée par M.-Fr. Auzepy au début du volume<br />

Nicée II (sous la <strong>di</strong>r. de Fr. BŒSPFLUG et N. LOSSKY), Paris 1987. J’ai proposé<br />

dans le texte une traduction quasi littérale du passage.


L’image-empreinte<br />

de conventions, s’évertue à refléter l’existence et contient toute sa puissance,<br />

sans pouvoir en dévoiler toutefois le contenu effectif. Ce binôme,<br />

« corps-visage », ou corporéité du genre et portrait du singulier, circonscrit<br />

à travers les catégories du langage et de la pensée de l’être une<br />

forme de réciprocité entre Dieu et l’homme, une certaine réciprocité<br />

appelée parfois une homologie mais non une analogie, afin de pouvoir<br />

saisir l’unité et non la <strong>di</strong>vision.<br />

Si l’homme est image de Dieu mais n’est pas engendré comme l’est<br />

seul le Fils de Dieu, alors l’homme eijkwvn est le seul véritable ajceiropoivhto"<br />

pour le monde chrétien. Et dans ce cas, le Mandylion peut à la<br />

rigueur se définir comme une « preuve » de l’Incarnation, comme un<br />

témoin de la vie terrestre du Fils de Dieu en tant qu’homme, peut en<br />

somme se défendre comme un argument en faveur de l’historicité du<br />

Christ, mais ne légitime pas une « image vraie de Dieu ». D’où toute<br />

l’ambiguïté dans laquelle est pris le Mandylion : entre un statut d’empreinte<br />

et un statut d’icône, entre la relique, l’image et le voile, entre la<br />

figure et le signe – un trouble qu’expriment autant les textes les plus<br />

anciens que l’iconographie tar<strong>di</strong>ve. Cependant, l’invention impériale<br />

d’une « image vraie » n’a pas l’audace de se montrer comme une invention<br />

de toute pièce. Elle fait fond sur une structure visuelle bien établie<br />

et encore à l’œuvre dans la pensée byzantine, un régime qui <strong>di</strong>stingue<br />

clairement les registres sensible et conceptuel du visible : d’une part<br />

l’empreinte, trace ou image naturelle, qui mé<strong>di</strong>atise la puissance d’un<br />

étant singulier, du vivant en particulier ; de l’autre, le portrait comme<br />

genre de ressemblance typologique, qui permet à l’in<strong>di</strong>vidu de garder<br />

intouchable l’unicité, donc son accès à la transcendance contenue, inscrite,<br />

enfouie dans l’être même.<br />

Le plus troublant dans cette affaire n’est pas le mystère dont on a<br />

entouré cet objet étrange, d’un genre à l’évidence bâtard. Ni l’anecdotique<br />

de son invention ni l’attrait persistant que le Mandylion exerce<br />

pour le regard, ne frappe autant que l’éclairage apporté par cet objet<br />

sur les ressorts subtils dont le pouvoir politique est capable de se servir<br />

pour asseoir des certitudes en sa faveur en assignant un visage au <strong>di</strong>vin<br />

et en faisant reposer la transcendance sur des arguments figuratifs aux<br />

dépens du logos – quitte à inventer des miracles et des retombées du<br />

ciel en substituant et en inversant les règles des structures visuelles du<br />

réel et les modes de penser la singularité et l’universalité des vivants et<br />

des choses existantes.<br />

151


Tavole


Tav. 1: Svāyambhuvaliṅga.<br />

Tav. 2: Liṅga <strong>di</strong> ghiaccio <strong>di</strong> Amarnāth.


Tav. 3: Śālagrāma.<br />

Tav. 4: Roccia <strong>di</strong> Gerusalemme.


Tav. 5: Impronta del profeta Muḥammad ad Aleppo.


Tav. 6: Impronta del profeta Muḥammad al museo Topkapi <strong>di</strong> Istanbul.<br />

Tav. 7: Oggetti incisi a forma <strong>di</strong> conchiglia (ca. 15000 a. C.); calco <strong>di</strong> gasteropode<br />

fossile e altre ‘curiosità’ naturali raccolte in epoca Musteriana (da DIDI-HUBER -<br />

MAN, La somiglianza per contatto, p. 38).


Tav. 8: Cranio modellato con argilla e conchiglie ritrovato nei pressi <strong>di</strong> Gerico<br />

(VII-VI millennio a. C.).<br />

Tav. 9. Impronte <strong>di</strong> pie<strong>di</strong> incise e iscrizioni (sec. VI-V a. C.) su una roccia presso il<br />

santuario cretese <strong>di</strong> Athena Sammonia (da GUARDUCCI, Le <strong>impronte</strong> del «Quo<br />

Va<strong>di</strong>s», p. 311); Lavinium (Pratica <strong>di</strong> Mare), lastra marmorea con iscrizione de<strong>di</strong>catoria<br />

a Iside regina e <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> pie<strong>di</strong> incise (da DUNBABIN, «Ipsa deae vestigia»,<br />

p. 90).


Tav. 10: Impronte rocciose dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù all’interno dell’e<strong>di</strong>cola dell’Ascen -<br />

sione sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi (Gerusalemme).


Tav. 11: Le <strong>impronte</strong> del «Quo va<strong>di</strong>s» venerate a Roma presso la chiesa <strong>di</strong> S.<br />

Maria in Palmis ovvero del Domine quo va<strong>di</strong>s.<br />

Tav. 12: Roma, basilica <strong>di</strong> Santa Pudenziana, mosaico del catino absidale (fine IV<br />

secolo).


Tav. 13: Disegno della Rotonda dell’Ascensione (ca. 680 d. C.) nel De locis sanctis<br />

<strong>di</strong> Adamnano (da GEYER, Itinera hierosolymitana, p. 250).<br />

Tav. 14: München, Bayerisches Nationalmuseum, tavola eburnea (IV-V secolo)<br />

con scena dell’Ascensione (da Enciclope<strong>di</strong>a dell’arte me<strong>di</strong>evale, II, Roma 1991, p.<br />

573).


Tav. 16: London, British Museum, ms.<br />

Caligula A. XIV, fol. 18 (da SHAPIRO,<br />

The Image of the Disappearing Christ, p.<br />

145).<br />

Tav. 15: Launcells (Cornovaglia), chiesa<br />

parrocchiale <strong>di</strong> St Swithin, incisione sul<br />

fianco <strong>di</strong> una panca lignea (sec. XV-XVI)<br />

raffigurante i pie<strong>di</strong> e le <strong>impronte</strong> del Cristo<br />

durante l’Ascensione (da BORD, Footprints<br />

in Stone, p. 37).


Tav. 17: Monza, Tesoro del Duomo, ampolla argentea (sec. VII) con scena del<br />

Cri sto asceso al cielo (da A. GRABAR, Ampoules de Terre Sainte, Paris 1958, tav.<br />

III f. t.).<br />

Tav. 18: London, British Museum, lastra <strong>di</strong><br />

pietra calcarea (I sec. a. C.) raffigurante i<br />

Buddhapāda.


Tav. 19: Roma, S. Lorenzo fuori le mura, mosaico dell’arco trionfale.<br />

Tav. 20: Durrës (Dyrrachium), mosaico dell’anfiteatro.


Tav. 21: Roma, Seminario Romano, Collezione Zurla, medaglia bronzea.<br />

Tav. 22: New York, Metropolitan Museum of Art, Roger Found, 1918 (18.145.3),<br />

frammento <strong>di</strong> vetro dorato.


Tav. 23: Proposta <strong>di</strong> sistema <strong>di</strong> piegatura e fissaggio su tavola della Sindone (per<br />

cortesia <strong>di</strong> Ian Wilson).<br />

Tav. 24: Particolare del volto della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>.


Tav. 25: Man<strong>di</strong>lio. Affresco della chiesa del Salvatore <strong>di</strong> Spas-Nere<strong>di</strong>tsa, presso<br />

Veliky Novgorod.<br />

Tav. 26: Tende del Tabernacolo mosaico. Cod. Laurentianus Me<strong>di</strong>ceus Plutei<br />

9.28, f.109r.


Tav. 27. Man<strong>di</strong>lio. Affresco della chiesa della Panagia tou Arakou <strong>di</strong> Lagoudera,<br />

Cipro.<br />

Tav. 28: Miniatura del co<strong>di</strong>ce Scilitze. Madrid, Biblioteca Nacional, Vitr/26/2 (gr.<br />

347), f. 205r.<br />

Tav. 29: Reliquiario del Man<strong>di</strong>lio, secondo la<br />

miniatura del Libro d’ore della Sainte-Chapelle.


Tav. 30: Incisione del 1649 raffigurante il contenuto della Grande chasse della<br />

Sainte-Chapelle.<br />

Tav. 31: Incisione da S. J. MORAND, Histoire de la Ste-Chapelle Royale du Palais,<br />

Paris 1790, p. 40, raffigurante il reliquiario del Man<strong>di</strong>lio.


VESTIGIA CHRISTI. LE ORME DI GESÙ FRA TERRASANTA E<br />

OCCIDENTE LATINO<br />

LUIGI CANETTI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Bologna<br />

È una tendenza antichissima, e ra<strong>di</strong>cata probabilmente negli schemi<br />

percettivi e operativi del processo <strong>di</strong> ominazione, quella <strong>di</strong> rilevare sulla<br />

superficie delle rocce naturali incavi o avvallamenti che richiamano la<br />

forma <strong>di</strong> esseri viventi o <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> fabbricati dall’uomo 1 . Tra le forme<br />

più ricorrenti, le <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> estremità umane o animali non a caso<br />

rappresentano anche i s<strong>oggetti</strong> più antichi dell’arte rupestre e preistorica<br />

2 . Come aveva chiarito Leroi-Gourhan, nelle prime collezioni umane,<br />

le più elementari concatenazioni operazionali inscenano, nel gioco <strong>di</strong><br />

matrice e impronta, la coesistenza del fare e dell’imitare, <strong>di</strong> tyche e <strong>di</strong><br />

techne, <strong>di</strong> ‘invenzione’ e <strong>di</strong> manipolazione 3 . Nelle grotte <strong>di</strong> Lascaux troviamo<br />

raccolte <strong>di</strong> conchiglie vere (ready made, prelievo dalla realtà) a<br />

fianco <strong>di</strong> conchiglie fossili (forme improntate naturali) e <strong>di</strong> forme imitate,<br />

cioè pietre scolpite a forma <strong>di</strong> conchiglia 4 [Tav. 7]. Difficile stabilire<br />

se l’acquisizione e la percezione <strong>di</strong> tali forme debba intendersi in or<strong>di</strong>ne<br />

logico o cronologico. Si crea qui, come nel caso <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> votivi, una<br />

1 Molto materiale, da valutare sempre con grande cautela, viene descritto e riprodotto<br />

nell’opera <strong>di</strong> J. BORD, Footprints in Stone, Loughborough 2004. La tendenza<br />

umana a scorgere una coerenza in una configurazione casuale è nota come<br />

apofenia, ed è un fenomeno rilevato fin dall’Antichità. Una sua variante, la pareidolia,<br />

è l’attitu<strong>di</strong>ne a riconoscere in configurazioni casuali personaggi universalmente<br />

noti, ed ha avuto numerose applicazioni artistiche; cfr. M. MESCHIARI,<br />

Nati dalle colline. Percorsi <strong>di</strong> etnoecologia, Napoli 2010, 27-33.<br />

2 Una buona panoramica viene ora offerta da A. D. ACZEL, Le cattedrali della<br />

preistoria. Il significato dell’arte rupestre, ed. it. a cura <strong>di</strong> A. ALESSANDRELLO, Milano<br />

2010 (ed. orig. 2009).<br />

3 A. LEROI-GOURHAN, Le geste et la parole, II. La mémoire et les rythmes, Paris<br />

1964, 206-216 (trad. it., Il gesto e la parola, II. La memoria e i ritmi, trad. it. <strong>Torino</strong><br />

1977, 421-429).<br />

4 G. DIDI-HUBERMAN, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e<br />

modernità dell’impronta, trad. it. <strong>Torino</strong> 2009 (ed. orig. 2008), 36 s.<br />

153


154<br />

Luigi Canetti<br />

sorta <strong>di</strong> collisione feconda tra i <strong>di</strong>fferenti mo<strong>di</strong> della somiglianza enunciati<br />

nella Poetica <strong>di</strong> Aristotele 5 ; quei mo<strong>di</strong> che il para<strong>di</strong>gma imitativo<br />

rinascimentale, basato sul mito vasariano del <strong>di</strong>segno dal vero e sul primato<br />

dell’idea che scalza la traccia per contatto, ha poi obliterato alla<br />

coscienza moderna 6 . Sembra però che il montaggio preceda l’immagine,<br />

la collezione inventi la forma perché, come scritto Di<strong>di</strong>-Huberman,<br />

«il prelievo si trasforma in forma quando <strong>di</strong>venta elemento <strong>di</strong> una<br />

struttura» 7 : il fiore vero deposto sulla tomba <strong>di</strong> un Neanderthaliano è<br />

già una sorta <strong>di</strong> ready made, prelievo e al tempo stesso intenzione e forma<br />

artistica, contatto e <strong>di</strong>stanza, segno sintagmatico e para<strong>di</strong>gmatico.<br />

Questa <strong>di</strong>alettica del fare e dell’imitare è già manifesta nelle incisioni<br />

seriali e propiziatorie <strong>di</strong> zampe animali a fianco <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> reali della<br />

selvaggina 8 . Per un’epoca più recente (sesto millennio a. C.), basti menzionare<br />

i famosi crani <strong>di</strong> Gerico, plasmati in argilla su veri teschi umani<br />

[Tav. 8], reificazione e contrario del mito <strong>di</strong> Pigmalione, come osservò<br />

acutamente Ernst Gombrich 9 .<br />

L’impronta, fin dalla preistoria, costituisce dunque tanto un motivo<br />

quanto un processo. Forma e racconto, immagine e al tempo stesso<br />

schema operazionale, essa realizza in maniera para<strong>di</strong>gmatica la <strong>di</strong>alettica<br />

tra contatto e assenza; esprime, anzi, il contatto <strong>di</strong> un’assenza. La<br />

ricerca del bizzarro e del fantastico nella natura (conchiglie, pietre antropomorfe<br />

e magari rilavorate dall’uomo, fossili, ossa, corna) è alla<br />

base delle prime collezioni e instaura, forse, il primo sentimento del sacro;<br />

articola una <strong>di</strong>alettica del contatto e della <strong>di</strong>stanza, un’aura che<br />

non è affatto sparita nell’età della tecnica, contrariamente a una certa<br />

vulgata <strong>di</strong> Benjamin 10 : nelle culture arcaiche, l’impronta – per matrice o<br />

5 ARIST. Poet. 1447a (I,15): le imitazioni (mimēseis) «<strong>di</strong>fferiscono l’una dall’altra<br />

per tre aspetti: o per il fatto <strong>di</strong> imitare con mezzi <strong>di</strong>versi, o cose <strong>di</strong>verse, o <strong>di</strong>versamente<br />

e non nello stesso modo» (cfr. ARISTOTELE, Poetica, trad. e cura <strong>di</strong> P.<br />

DONINI, <strong>Torino</strong> 2008, 5).<br />

6 Cfr. L. CANETTI, «Facendosi fare <strong>di</strong> cera». Euristica dell’eccedenza e della somiglianza<br />

tra Me<strong>di</strong>oevo ed Età moderna, in Finis corporis. Eccedenze, protuberanze,<br />

estremità nei corpi. Atti del convegno internazionale «Micrologus» (Lugano, <strong>Università</strong><br />

della Svizzera italiana, 28-30 maggio 2009), a cura <strong>di</strong> A. PARAVICINI BA-<br />

GLIANI, Firenze, in corso <strong>di</strong> stampa.<br />

7 DIDI-HUBERMAN, cit., 37.<br />

8 DIDI-HUBERMAN, cit., 44 s.<br />

9 E. H. GOMBRICH, Arte e illusione. <strong>Stu<strong>di</strong></strong>o sulla psicologia della rappresentazione<br />

pittorica, nuova ed. it., Milano 2002 (ed. orig. 1960), 112.<br />

10 DIDI-HUBERMAN, cit., 26 s., 74 s.


‘Vestigia Christi’<br />

per impressione – costituisce già una tecnica in cui coesistono, appunto,<br />

contatto e <strong>di</strong>stanza, <strong>di</strong>mensione tattile e <strong>di</strong>mensione ottica, appropriazione<br />

e <strong>di</strong>sseminazione 11 .<br />

Le reliquie cristiane e le più antiche immagini <strong>di</strong> culto, le acheropite,<br />

sono un caso para<strong>di</strong>gmatico <strong>di</strong> auratizzazione della traccia (vestigium),<br />

<strong>di</strong> riconoscimento e <strong>di</strong> messinscena rituale della potenza del contatto<br />

per impronta. Come nel conio monetale e nel sigillo, convivono in esse<br />

l’invisibile matrice auratica dell’autorità e la sua concreta possibilità <strong>di</strong><br />

manifestazione e <strong>di</strong>sseminazione. Nell’impronta vive dunque il paradosso<br />

della coesistenza <strong>di</strong> unicità e imitazione, della matrice e della sua<br />

infinita generazione, che non sminuisce l’autorità del modello. Sta qui,<br />

io credo, il nodo cognitivo e operazionale della peculiarità me<strong>di</strong>evale<br />

(ma <strong>di</strong>rei premoderna) della relazione immaginale e testuale tra modello<br />

e copia, tra imitazione e riproduzione, tra autore e citazione 12 . L’impronta<br />

costituisce dunque non soltanto l’alba della immagini, nel senso<br />

illustrato da Léroy-Gouhran, ma anche, come tutti sanno, il para<strong>di</strong>gma<br />

istitutivo dell’immagine cristiana. I paradossi che nell’impronta coesistono<br />

– polivalenza, reversibilità, polimorfismo: in sintesi, il suo carattere<br />

para<strong>di</strong>gmatico e, al tempo stesso, il suo essere <strong>di</strong>spositivo operazionale<br />

e processuale, metafora e metonimia, insomma – si accordano perfettamente<br />

ai paradossi concettuali dell’Incarnazione, e quin<strong>di</strong> anche ai<br />

paradossi e ai requisiti richiesti agli <strong>oggetti</strong> che la rappresentano. Testimonianza<br />

ed efficacia, memoria e riattivazione, passato e futuro, contatto<br />

e <strong>di</strong>stanza, appropriazione e <strong>di</strong>sseminazione. Seméion antilegómenon<br />

proprio come l’apparizione del Messia fra gli uomini secondo la<br />

profezia lucana messa in bocca a Simeone (cfr. Lc 2, 34).<br />

Tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti-Trenta del Novecento, i<br />

maggiori folkloristi, etnografi ed eru<strong>di</strong>ti (da Frazer a Sébillot, da Reinach<br />

a Saintyves fino a Deonna) documentarono, con larghi riferimenti<br />

ai miti e ai riti delle civiltà classiche ed extraeuropee, l’estrema <strong>di</strong>ffusione<br />

e la persistenza, nelle campagne e nelle aree rupestri delle gran<strong>di</strong><br />

nazioni coloniali, delle leggende che attribuivano le <strong>impronte</strong> megalitiche<br />

naturali o artificiali (rilavorate dall’uomo per adattarle agli schemi<br />

e ai racconti mitici tra<strong>di</strong>zionali) al passaggio o alla presenza <strong>di</strong> eroi e<br />

11 Cfr. M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, nuova ed. it. a cura <strong>di</strong> M.<br />

CARBONE, Milano 1999 (ed. orig. 1964), 149-152.<br />

12 Cfr. G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,<br />

<strong>Torino</strong> 1977, 85 s.<br />

155


156<br />

Luigi Canetti<br />

personaggi della fiaba e del mito. Peraltro, nel folklore moderno d’Europa,<br />

uno spazio considerevole in questa sorta <strong>di</strong> iknografia mitico-religiosa<br />

spettava ancora a Gesù, alla Madonna, al Diavolo (o ai demoni)<br />

e ai taumaturghi più venerati dell’agiografia cattolica 13 . Nel 1903, la<br />

Révue des tra<strong>di</strong>tions populaires, dopo un’inchiesta lanciata 17 anni prima,<br />

pubblicava sotto la rubrica «Empreintes merveilleuses» una lista <strong>di</strong><br />

ben 225 items in cui confluivano i materiali mitografici raccolti dai cinque<br />

continenti. A <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> un anno, Paul Sébillot, verificando le<br />

analogie con quanto già si sapeva dalle fonti sulle province dell’antica<br />

Gallia, proponeva un’ampia sintesi <strong>di</strong> temi e motivi documentabili in<br />

area francofona sulla base <strong>di</strong> una tipologia articolata in <strong>impronte</strong> antropomorfe<br />

(mani, pie<strong>di</strong>, talloni, ginocchia), tracce zoomorfe e, infine,<br />

utensili e <strong>oggetti</strong> 14 . Dopo più <strong>di</strong> un secolo, possiamo ormai <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong><br />

una molteplicità <strong>di</strong> conoscenze archeologiche ed epigrafiche in relazione<br />

alle <strong>impronte</strong> epifaniche e artificiali a forma <strong>di</strong> piede umano presso<br />

le gran<strong>di</strong> civiltà me<strong>di</strong>terranee 15 . Sin dall’ultima fase del Paleolitico, le<br />

orme antropomorfe vennero prodotte, perfezionate o utilizzate dagli<br />

uomini secondo varie tecniche (incisione, scalfittura, incasso, rilievo<br />

ecc.) e in relazione a molteplici scopi e significati <strong>di</strong> natura rituale: attrazione<br />

o male<strong>di</strong>zione magica <strong>degli</strong> amanti o dei nemici; confezione <strong>di</strong><br />

ex voto anatomorfi; affermazione e riconoscimento <strong>di</strong> una memoria e<br />

<strong>di</strong> una presenza umana o <strong>di</strong> una epifania <strong>di</strong>vina in un luogo sacro (in<br />

questo senso, Iside, affiancata poi da Serapide, la farà da padrona fino<br />

al V secolo dell’èra cristiana). E ancora: auspicio del buon esito <strong>di</strong> un<br />

13 Dei vestigia <strong>di</strong> san Martino sappiamo qualcosa fin dall’epoca merovingia: si<br />

veda ancora il classico S. REINACH, Les monuments de pierre brute dans le langage<br />

et les tra<strong>di</strong>tions populaires, Révue Archéologique, 21 (1893), 223-226. Quando Philippe<br />

Berruyer, vescovo <strong>di</strong> Bourges, visitava le parrocchie della sua <strong>di</strong>ocesi verso la<br />

metà del XIII secolo, quelli che non riuscivano a toccare ed abbracciare i suoi pie<strong>di</strong><br />

si accontentavano <strong>di</strong> baciare le <strong>impronte</strong> lasciate dal suo cavallo (cfr. A. VAU-<br />

CHEZ, La saintété en Occident aux derniers siècles du Moyen Âge d’après les procès<br />

de canonisation et les documents hagiographiques, Rome 1988 2 [1981], 521).<br />

14 P. SÉBILLOT, Le Folk-lore de France, I. Le ciel et la terre, Paris 1904, 359-412;<br />

rist. in P. SÉBILLOT, Le folklore de France, II. La terre et le monde souterrain, a cura<br />

<strong>di</strong> C. METTRA, Paris 1983, 195-246.<br />

15 Cfr. L. CASTIGLIONE, Vestigia, Acta Archaelogica Academiae Scientiarum<br />

Hungaricae, 22 (1970), 95-132; B. KÖTTING, s. v. Fuß, in RAC, VIII, Stuttgart<br />

1972, 722-743; K. M. D. DUNBABIN, «Ipsa deae vestigia…». Footprints <strong>di</strong>vine and<br />

human on Graeco-Roman monuments, Journal of Roman Archeology, 3 (1990), 85-<br />

109.


‘Vestigia Christi’<br />

viaggio <strong>di</strong> andata e ritorno verso una meta <strong>di</strong> pellegrinaggio; proskynemata<br />

cioè atti <strong>di</strong> devozione scritti e figurati, <strong>di</strong>ffusi in tutto il bacino<br />

me<strong>di</strong>terraneo dall’epoca egizia del Nuovo Regno fino alla prima età bizantina<br />

[Tav. 9]; e infine, la ben nota assunzione paleocristiana dell’antichissimo<br />

simbolismo dei pie<strong>di</strong> come metafora figurata del viaggo nell’oltremondo<br />

16 .<br />

Tutto questo, però, resterà sullo sfondo. Qui, infatti, mi occuperò delle<br />

<strong>impronte</strong> dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù attestate per la prima volta a Gerusalemme<br />

da alcuni scrittori latini tra IV e V secolo [Tav. 10]. Quando si <strong>di</strong>scutono<br />

le testimonianze archeologiche e letterarie relative alle ultime tracce del<br />

Salvatore, che sarebbero rimaste impresse sulla roccia del Monte <strong>degli</strong><br />

Ulivi al momento dell’Ascensione, non si deve mai trascurare un aspetto<br />

cruciale. Per noi, oggi, sono scontate le ragioni per escludere la possibilità<br />

che si tratti delle vere orme dei pie<strong>di</strong> del Cristo risorto prima della<br />

sua risalita al cielo. Ma non bisogna <strong>di</strong>menticare che appena settant’anni<br />

fa, in ambiente cattolico, la questione sollevava ancora qualche scrupolo<br />

<strong>di</strong> irriverenza in una grande stu<strong>di</strong>osa come Margherita Guarducci<br />

17 , che esaminò e demolì da par suo l’autenticità delle famose <strong>impronte</strong><br />

romane del Quo Va<strong>di</strong>s conservate nella chiesetta eponima sulla via<br />

Appia antica [Tav. 11]. Detto questo, dev’essere poi imme<strong>di</strong>atamente<br />

chiarito che al cuore <strong>di</strong> un possibile <strong>di</strong>scorso storico sta proprio la genesi<br />

e la successiva vicenda <strong>di</strong> quella possibilità ovvero <strong>di</strong> una credenza che<br />

per molti secoli è stata quasi una certezza <strong>di</strong> fede, una prova fisica del<br />

passaggio terreno <strong>di</strong> Gesù e della sua risalita alla <strong>di</strong>mora del Padre, e<br />

quin<strong>di</strong> anche un pegno escatologico del suo ritorno.<br />

Lo scopo <strong>di</strong> questa ricerca è in primo luogo documentare, ma soprattutto<br />

tentare d’interpretare il complesso e mutevole significato storico<br />

delle più antiche attestazioni scritte e figurate <strong>di</strong> un mito, che ha<br />

16 Cfr. H. LECLERCQ, s. v. Pied, in DACL, XIV/1, Paris 1939, 818-822 (820); e<br />

inoltre, KÖTTING, cit., 738 s. Nessuna menzione del simbolismo del piede nel sontuoso<br />

repertorio iconografico <strong>di</strong> G.-H. BAUDRY, Les symboles du christianisme ancien<br />

(I er -VII e siècle), Paris 2009; cfr. invece il più agile M. FEUILLET, Lexique des<br />

symboles chrétiens, Paris 2004, 88.<br />

17 M. GUARDUCCI, Le <strong>impronte</strong> del Quo Va<strong>di</strong>s e monumenti affini figurati ed<br />

epigrafici, Atti della Pontificia Accademia Romana <strong>di</strong> Archeologia. Ren<strong>di</strong>conti,<br />

19 (1942-43), 305-344; a proposito dei vestigia apostolorum, <strong>di</strong> cui si parla nella<br />

Passio Sebastiani martyris, si vedrà l’accurata <strong>di</strong>samina linguistico-filologica <strong>di</strong> B.<br />

LUISELLI, In margine al problema della traslazione delle ossa <strong>di</strong> Pietro e Paolo, Mélanges<br />

de l’Ecole française de Rome. Antiquité, 98 (1986), 843-854 (848 ss.).<br />

157


158<br />

Luigi Canetti<br />

strutturato e plasmato l’immaginario cristiano per più <strong>di</strong> un millennio.<br />

In questo senso, è comunque opportuno non trascurare il fatto che le<br />

orme del Salvatore sull’Oliveto sono soltanto una delle molteplici evidenze<br />

mitiche relative alle ultime <strong>impronte</strong> lasciate sulla terra da eroi,<br />

esseri <strong>di</strong>vini, profeti, santi e fondatori <strong>di</strong> culti e <strong>di</strong> devozioni. Ciò non<br />

riguarda soltanto i paganesimi del mondo classico e le tre religioni<br />

abramitiche. Qui non è il caso <strong>di</strong> ri<strong>di</strong>scutere le note testimonianze <strong>di</strong><br />

Erodoto, Diodoro Siculo, Cicerone, Apuleio, Pausania e Luciano, relative<br />

alle sacre <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Iside, Eracle, Dioniso, Perseo, Prometeo ed<br />

altri personaggi semi<strong>di</strong>vini nonché dei loro animali, ad<strong>di</strong>tate nell’antichità<br />

tra i mirabilia eroici 18 . Ma è bene ricordare che proprio a Gerusalemme,<br />

nella Cupola della Roccia, sul tavolato dell’antico tempio <strong>di</strong> Salomone,<br />

l’Islam ha riconosciuto e venerato fin i primor<strong>di</strong> le <strong>impronte</strong><br />

lasciate da Maometto prima della sua ascesa al cielo, e già attribuite all’arcangelo<br />

Gabriele 19 . Benché su tale credenza abbia potuto stingere<br />

l’ormai solida mitopiesi cristiana delle orme <strong>di</strong> Gesù sul Monte Oliveto,<br />

in questo caso è probabile che si tratti della risignificazione del famoso<br />

lapis pertusus <strong>di</strong> cui parlò per primo l’Itinerarium Bur<strong>di</strong>galense 20 ,<br />

e dove ancora nel 333 sarebbe stato possibile riconoscere sul marmo<br />

dell’altare le tracce del sangue <strong>di</strong> Zaccaria (Mt 23, 35) nonché le vestigia<br />

dei chio<strong>di</strong> dei soldati che lo assassinarono, quasi si fossero impresse<br />

nella cera molle 21 .<br />

18 Cfr. DUNBABIN, cit., 96; J. BOARDMAN, Archeologia della nostalgia. Come i<br />

greci reinventarono il loro passato, trad. it. Milano 2004 (ed. orig. 2002), 104-109,<br />

242, 244, 246, 247; S. A. TAKÁCS, Divine and Humane Feet: Records of Pilgrims Honouring<br />

Isis, in J. ELSNER - J. RUTHERFORD (eds.), Pilgrimage in Graeco-Roman and<br />

Early Christian Antiquity. Seeing the Gods, Oxford 2005, 353-369 (358 s.).<br />

19 Mi sembra convincente l’ipotesi <strong>di</strong> CASTIGLIONE, cit., 98, secondo cui le <strong>impronte</strong><br />

rocciose palestinesi potrebbero avere rappresentato in epoca storica un<br />

possibile trait d’union, per via <strong>di</strong> obliterazione o <strong>di</strong> sostituzione, con l’antico culto<br />

sacrificale delle pietre in ambiente semitico.<br />

20 «Et in aede ipsa, ubi templum fuit, quem salomon ae<strong>di</strong>ficauit, in marmore<br />

ante aram sanguinem zachariae ibi <strong>di</strong>cas ho<strong>di</strong>e fusum; etiam parent uestigia<br />

clauorum militum, qui eum occiderunt, per totam aream, ut putes in cera fixum<br />

esse. Sunt ibi et statuae duae hadriani; est et non longe de statuas lapis pertusus,<br />

ad quem ueniunt iudaei singulis annis et unguent eum et lamentant se cum gemitu<br />

et uestimenta sua scindunt et sic recedunt.» (Itinerarium Bur<strong>di</strong>galense, 591, 1-3,<br />

ed. P. GEYER, Itinera hierosolymitana saeculi IV-VIII, in CSEL 39, Pragae-Vindobonae-Lipsiae<br />

1898, 21-22).<br />

21 Girolamo, cinquant’anni più tar<strong>di</strong>, avrebbe ironizzato sulle guide che ancora<br />

mostravano le tracce presunte del sangue <strong>di</strong> Zaccaria; cfr. HIER. Comm. in Matth.


‘Vestigia Christi’<br />

Mitologia e folklore, specie nei casi in cui l’eziologia delle <strong>impronte</strong><br />

leggendarie richiami i personaggi e le vicende della storia sacra 22 , ci<br />

aiutano meglio a comprendere come nell’immaginario europeo si sia<br />

potuta costituire e stratificare quella straor<strong>di</strong>naria alchimia <strong>di</strong> luoghi <strong>di</strong><br />

memoria, che nel giro <strong>di</strong> poche generazioni, tra Costantino e Teodosio,<br />

ha proiettato e reificato nella topografia dei luoghi santi i racconti biblici<br />

e la mitopoiesi fiorita intorno ad essi 23 . La percezione <strong>di</strong> un nuovo<br />

spazio cristiano, tra Oriente e Occidente, è stata a sua volta plasmata<br />

attraverso l’istituzione <strong>di</strong> segni, <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> e significati incar<strong>di</strong>nati certo<br />

sulle coor<strong>di</strong>nate antropologiche del mondo classico, ma al tempo stesso<br />

veicolati in maniera decisiva dalla machina memorialis del grande co<strong>di</strong>ce<br />

scritturistico 24 .<br />

È quanto mai sintomatico che negli scritti <strong>di</strong> Eusebio <strong>di</strong> Cesarea noi<br />

troviamo <strong>di</strong>scussa per la prima volta in modo sistematico la possibilità<br />

<strong>di</strong> una reificazione spaziale delle profezie bibliche, in or<strong>di</strong>ne al loro<br />

compimento cristiano nei luoghi stessi in cui il Verbo <strong>di</strong> Dio si sarebbe<br />

incarnato. Nel VI libro della Dimostrazione evangelica (composta sicuramente<br />

prima dello scoppio della crisi Ariana, e databile agli anni 314-<br />

318 e comunque non oltre il 323 25 ), al capitolo XVIII, si analizza la famosa<br />

profezia <strong>di</strong> Zaccaria 14 sul saccheggio e la <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Gerusalemme,<br />

quando «metà della città sarà condotta in schiavitù, e quelli del<br />

mio popolo che resteranno non periranno». Allora «uscirà il Signore e<br />

si schiererà contro quelle nazioni» da lui stesso radunate contro la sua<br />

città, «e staranno sal<strong>di</strong> i suoi pie<strong>di</strong> in quel giorno, sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi,<br />

<strong>di</strong> fronte a Gerusalemme a oriente» 26 . Eusebio vede realizzati questi<br />

IV, 24, 15, ed. É. BONNARD in JÉRÔME, Commentaire sur saint Matthieu. Livres<br />

III-IV, Paris 1979 (SCh 259), 193 («simpliciores fratres inter ruinas templi et altaris<br />

siue in portarum exitibus quae siloam ducunt, rubra saxa monstrantes zachariae<br />

sanguine putant esse polluta.»).<br />

22 In Francia, ad esempio, erano ancora attestate ai primi del Novecento le<br />

tracce del passaggio della Sacra Famiglia durante la fuga da Nazareth in Egitto;<br />

cfr. SÉBILLOT, cit., 364 (199 s. della rist.).<br />

23 Cfr. M. HALBWACHS, La topographie légendaire des Evangiles en Terre Sainte,<br />

Paris 1941 (trad. it., Memorie <strong>di</strong> Terrasanta, a cura <strong>di</strong> F. CARDINI, Venezia 1988).<br />

24 Cfr. M. CARRUTHERS, Machina memorialis. Me<strong>di</strong>tazione, retorica e costruzione<br />

delle immagini (400-1200), trad. it. Pisa 2006 (ed. orig. 1998), 62-68.<br />

25 Cfr. P. CARRARA, Introduzione a EUSEBIO DI CESAREA, Dimostrazione evangelica,<br />

Milano 2000 (Letture cristiane del primo millennio, 29), p. 17, n. 21.<br />

26 Seguirò d’ora in poi la trad. it. <strong>di</strong> CARRARA, cit., 513 ss.<br />

159


160<br />

Luigi Canetti<br />

misteriosi eventi nei giorni della venuta <strong>di</strong> Cristo fra gli uomini e nelle<br />

successive tribolazioni della città santa, fra le guerre giudaiche <strong>di</strong> Tito e<br />

Adriano. Schieratosi fra gli stessi asse<strong>di</strong>anti, il Signore ha dunque mosso<br />

guerra contro la città e quella parte dei suoi abitanti che non lo ha<br />

riconosciuto. E il versetto sui pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Lui, che si fermeranno in quel<br />

giorno sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi, «cos’altro in<strong>di</strong>ca – sostiene Eusebio – se<br />

non l’istituzione e il rafforzamento della Chiesa […] la quale allegoricamente<br />

viene qui chiamata Monte <strong>degli</strong> Ulivi?» 27 . Si tratta ovviamente<br />

della chiesa delle nazioni, l’oliveto innestato sulle ra<strong>di</strong>ci apostoliche,<br />

piantato da Cristo «con piante vigorose, cioè anime sante e nutrite <strong>di</strong><br />

luce» e contrapposto alla «prima vigna» dell’antico Israele, che anziché<br />

uva produsse spine e generò ingiustizia 28 . Questo Monte <strong>degli</strong> Ulivi «fu<br />

costituito da Dio in luogo dell’antica Gerusalemme terrena e del suo<br />

culto dopo la <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Gerusalemme», ed è allora opportuno il rilievo<br />

del profeta, secondo cui i pie<strong>di</strong> del Signore «non si fermeranno su<br />

Gerusalemme», giacché, una volta <strong>di</strong>strutta la città, ciò non sarebbe<br />

più stato possibile 29 . Si fermarono invece <strong>di</strong> fronte alla città, sul Monte<br />

<strong>degli</strong> Ulivi, come confermerebbe anche il profeta Ezechiele (11, 22-23),<br />

che vide la gloria del Signore innalzarsi dal mezzo della città e fermarsi<br />

sul monte che è <strong>di</strong> fronte 30 . A questo punto viene la parte più interessante<br />

dell’intera sequenza tipologica 31 :<br />

A tutt’oggi, – osserva Eusebio, – si può vedere letteralmente compiuto il<br />

senso <strong>di</strong> questo passo, allorché tutti i fedeli <strong>di</strong> Cristo si sono raccolti da<br />

ogni parte della terra, non come un tempo per la festività in Gerusalemme,<br />

né per adorare il tempio che prima si ergeva in Gerusalemme, ma per recarsi<br />

a conoscere la <strong>di</strong>struzione e la desolazione <strong>di</strong> Gerusalemme, avvenute secondo<br />

la profezia, e per adorare sul monte <strong>degli</strong> Ulivi che è <strong>di</strong> fronte a Gerusalemme,<br />

dove fu presente la gloria del Signore, che aveva abbandonato la<br />

città <strong>di</strong> prima. Secondo l’esposizione che abbiamo fatto, veramente si fermarono<br />

i pie<strong>di</strong> del Signore e Salvatore nostro, dunque dello stesso Logos <strong>di</strong><br />

Dio, grazie a quell’abito umano che aveva indossato, sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi.<br />

Ciò avvenne presso quella grotta, che là viene mostrata – s’intende, evidentemente,<br />

ai pellegrini e ai devoti – quando pregò e trasmise ai suoi <strong>di</strong>scepoli,<br />

sulla cima del Monte <strong>degli</strong> Ulivi, i misteri del compimento della storia.<br />

27 EUS. Dem. ev. VI, XVIII, 17, ibid., 517.<br />

28 Ibid., 18-19, 517 s..<br />

29 Ibid., 20, 518.<br />

30 Ibid., 22, 518.<br />

31 Ibid., 23-25, 518 s.


‘Vestigia Christi’<br />

Di là, inoltre, salì ai cieli, come Luca negli Atti <strong>degli</strong> Apostoli ci insegna,<br />

<strong>di</strong>cendo che proprio sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi, alla presenza <strong>degli</strong> Apostoli che<br />

guardavano, egli fu innalzato, e una nube lo sottrasse ai loro occhi. E mentre<br />

fissavano il cielo, poiché egli si allontanava, ecco due uomini si presentarono<br />

loro in bianche vesti e <strong>di</strong>ssero: Uomini <strong>di</strong> Galilea, perché ve ne state guardando<br />

verso il cielo? Questo Gesù che è stato portato <strong>di</strong> fra voi in cielo ritornerà<br />

nel modo in cui lo avete visto andare verso il cielo (Atti 1, 1-11). A queste parole<br />

aggiunge: Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto <strong>degli</strong> Ulivi,<br />

che è <strong>di</strong> fronte a Gerusalemme» (Atti 1, 12).<br />

Dunque, conclude Eusebio, il senso più profondo <strong>di</strong> questo passo <strong>di</strong><br />

Zaccaria in<strong>di</strong>ca l’istituzione futura, e ormai compiuta, della santa<br />

Chiesa <strong>di</strong> Cristo, elevata in luogo della Gerusalemme caduta, e «a<br />

oriente <strong>di</strong> essa, in quanto illuminata per prima dai raggi della luce religiosa<br />

[…], e avvicinatasi a lui, Sole <strong>di</strong> giustizia»; una nuova Gerusalemme<br />

«che è stata resa degna dei pie<strong>di</strong> del Signore» 32 .<br />

Ano<strong>di</strong>na e implicita nei testi canonici (Luca 24, 50-2; Atti 1, 12),<br />

l’ambientazione dell’Ascensione <strong>di</strong> Cristo sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi, tra<strong>di</strong>zionale<br />

scenario e tribuna profetica da cui lo stesso Gesù avrebbe pronunciato<br />

il <strong>di</strong>scorso escatologico sulla grande tribolazione della città<br />

santa (Mt 24, 3; Mc 13, 3), si fa strada quasi naturalmente nell’immaginario<br />

cristiano probabilmente già tra I e II secolo. Inoltre, come ha tentato<br />

<strong>di</strong> provare Simon-Claude Mimouni riesaminando tutto il dossier<br />

archeologico e letterario sulle grotte giudeo-cristiane, non è improbabile<br />

che già prima del riconoscimento del cristianesimo da parte <strong>di</strong> Costantino<br />

la grotta dell’Ascensione costituisse un luogo <strong>di</strong> culto frequentato<br />

dai cristiani (lo lascia intendere anche il passo <strong>di</strong> Eusebio appena<br />

citato); uno dei pochi, dunque, sfuggiti al recupero pagano della città<br />

da parte <strong>di</strong> Adriano 33 . Non abbiamo però sufficienti elementi per <strong>di</strong>mostrare<br />

che si trattasse <strong>di</strong> un santuario giudeo-cristiano, anche se già nel<br />

II secolo è documentabile in quest’area la presenza <strong>di</strong> comunità ebionite<br />

34 . Va però rilevato che un testimone importantissimo sulla genesi del<br />

rinnovato interesse ai luoghi santi come Cirillo <strong>di</strong> Gerusalemme, nelle<br />

sue Catechesi prebattesimali (348), trattando dell’Ascensione del Si-<br />

32 Ibid., 26, 519 s.<br />

33 S.-CL. MIMOUNI, Le judéo-christianisme ancien. Essai historique, Paris 1998,<br />

347 -366.<br />

34 Cfr. ibid., 361.<br />

161


162<br />

Luigi Canetti<br />

gnore 35 , non associa mai questo evento ad un punto preciso sul monte<br />

<strong>degli</strong> Ulivi né tantomeno ad eventuali tracce materiali superstiti, quelle<br />

«testimonianze» che lui stesso, in riferimento alla croce, al Gòlgota, e<br />

alla roccia del sepolcro, chiama appunto i martyria della passione e della<br />

resurrezione 36 . Mi sembra dunque a fortiori probante il fatto che in<br />

Cirillo non vi sia alcuna menzione dei vestigia Christi, il che rappresenta<br />

un sicuro termine post quem per datare la nascita <strong>di</strong> questa nuova devozione<br />

alle orme <strong>di</strong> Gesù 37 .<br />

Dopo il 337, all’indomani dell’invenzione archeologica e mnemostorica<br />

della Gerusalemme cristiana, nel III libro della Vita <strong>di</strong> Costantino<br />

Eusebio celebrava il recupero e l’ornamentazione delle tre «grotte mistiche»:<br />

oltre a quella che testimonia la resurrezione del Salvatore, presso<br />

il santo sepolcro 38 , sono, nell’or<strong>di</strong>ne, l’antro della Natività a Betlemme<br />

ossìa quello della prima epifania del Salvatore, testimone della sua<br />

incarnazione; e infine, «lo speco che intese solennizzare il ricordo dell’Ascensione<br />

al cielo, che avvenne sulla cima del Monte» 39 . L’onore e lo<br />

sfarzo decorativo riservati da Costantino a queste due ultime grotte miravano<br />

a solennizzare e perpetuare il ricordo della madre Elena, allora<br />

(326-329/30) già avanti negli anni 40 :<br />

35 CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi XIV, 23 (cfr. CIRILLO E GIOVANNI DI<br />

GERUSALEMME, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, a cura <strong>di</strong> G. MAESTRI - V.<br />

SAXER, Milano 1994, 446-447).<br />

36 Ibid., XIII, 4 (387 s.); XIV, 22 (445 s.). Cfr. R. DESJARDINS, Les Vestiges du<br />

Seigneur au Mont des Oliviers. Un courant mystique et iconographique, Bulletin de<br />

Litterature Ecclesiastique, 73 (1972), 51-72 (54).<br />

37 È in ogni caso evidente, come ha ben suggerito F. HEIM (Virtus. Idéologie politique<br />

et croyances religieuses au IV e siècle, Bern-Frankfurt/M.-New York-Paris<br />

1991, 58 s.) che fin dagli anni della inventio costantiniana della Terrasanta, malgrado<br />

il filtro e il ‘freno’ della rilettura <strong>di</strong> Eusebio, tutti i martyria palestinesi racchiudevano<br />

e ricoprivano un determinato vestigium, oggetto o luogo che era stato<br />

in contatto <strong>di</strong>retto con il Salvatore e con la storia sacra. Ed è con vera passione e<br />

tenace determinazione che Costantino fa ricercare quei luoghi rivestendoli letteralmente<br />

con i nuovi monumenti cristiani.<br />

38 EUS. V. Const. III, 25-40; cfr. Eusebius von Caesarea De vita Constantini /<br />

Über das Leben Konstantins, eingeleitet von B. BLECKMANN, übersetzt und kommentiert<br />

von H. SCHNEIDER, Turnhout 2005 (Fontes Christiani, 83), 342-359; EU-<br />

SEBIO DI CESAREA, Sulla vita <strong>di</strong> Costantino, a cura <strong>di</strong> L. TARTAGLIA, Napoli 2001 2<br />

(1984), 137-144.<br />

39 Eus. V. Const. III, 41, 2 (d’ora in avanti seguirò, con qualche lieve mo<strong>di</strong>fica,<br />

la trad. <strong>di</strong> TARTAGLIA, cit., 144).<br />

40 Ibid. 42, 2 (trad. TARTAGLIA, cit., 145).


‘Vestigia Christi’<br />

mossa da giovanile sollecitu<strong>di</strong>ne [l’imperatrice] venne con straor<strong>di</strong>nario fervore<br />

a rendersi conto della Terrasanta, e a visitare con premura veramente<br />

imperiale le province orientali e tutte le popolazioni che le abitano. Dopo<br />

che ebbe reso la dovuta adorazione ai luoghi sui quali il Salvatore aveva impresso<br />

le sue orme [ovvero posato i suoi passi] conformemente a quel che <strong>di</strong>ce<br />

la parola dei profeti, prostriamoci nel luogo ov’egli pose i suoi pie<strong>di</strong> (Ps.<br />

131, 7b Sept. 41 ), subito ella volle lasciare ai posteri un frutto della propria<br />

religiosità.<br />

A questo punto Eusebio, in un paragrafo singolarmente contorto 42 ,<br />

che ha messo a dura prova l’acribìa <strong>di</strong> illustri traduttori ed esegeti <strong>di</strong><br />

queste pagine, dopo aver ricordato la munificenza <strong>di</strong> Elena nell’abbellire<br />

il tempio presso la grotta <strong>di</strong> Betlemme, celebra ancora la larghezza dei<br />

donativi costantiniani a favore <strong>degli</strong> e<strong>di</strong>fici fatti erigere dall’imperatrice<br />

madre sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi a ricordo dell’Ascensione: «il sacro e<strong>di</strong>ficio<br />

<strong>di</strong> una chiesa sulla cima più alta del monte», e «un tempio <strong>di</strong> preghiera<br />

in onore del Salvatore» nel luogo in cui, «come afferma un racconto veri<strong>di</strong>co»<br />

(cfr. Mc 13, 3; Atti 1, 6-12), proprio «il Salvatore del mondo iniziò<br />

ai sacri misteri della fede i suoi <strong>di</strong>scepoli» 43 . Quest’ultima basilica a<br />

tre navi, con atrio delle stesse <strong>di</strong>mensioni, e innalzata sopra la grotta, era<br />

sicuramente già in pie<strong>di</strong> nel 333, come testimonia il pellegrino <strong>di</strong> Bordeaux<br />

44 , e nel 384 venne frequentata da Egeria durante i riti della settimana<br />

santa («ecclesia […] quae est in Eleona, id est in monte Oliveti, et<br />

41 Qui il riferimento letterale al Salmo 131, 7b Sept (proskunhvsomen eij" to;n tovpon,<br />

ou| e[sthsan oiJ povde" aujtou') non potrebbe intendersi se non come una giustificazione<br />

ancora molto ano<strong>di</strong>na del pellegrinaggio devozionale ai luoghi santi. In<br />

ogni caso è in<strong>di</strong>scutibile che il passo biblico non può essere assunto, nella prospettiva<br />

<strong>di</strong> Eusebio, come una esortazione a venerare le vestigia materiali (orme e<br />

quant’altro, insomma) della presenza <strong>di</strong> Gesù in Terrasanta. Più avanti si <strong>di</strong>rà<br />

qualcosa sull’esegesi questo passo in Girolamo e in Agostino proprio in riferimento<br />

al pellegrinaggio in Terrasanta e al culto delle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Gesù.<br />

42 EUS. V. Const. III, 43, 2-3 (ed. BLECKMANN - SCHNEIDER, cit., 361 s.).<br />

43 Ibid., 43, 3: pavlin dΔhJ me;n basilevw" mhvter th'" eij" oujranou;" poreiva" tou' tw'n<br />

o{lwn swth'ro" ejti; tou' tw'n ejlaiw'n o[rou" th;n mnhvmhn ejphrmevnai" oijkodomivai" ajnuv -<br />

you, a[nw pro;" tai'" ajkrwreivai" para; th;n tou' panto;" o[rou" korufh;n iJero;n oi\jkon<br />

ejkklhsiva" ajnegeivrasa, newvn te kajntau'qa proseukthvrion tw'/ ta;" aujtovqi <strong>di</strong>atriba;"<br />

eJlomevnw/ swth'ri susthsamevnh, ejpei; kajntau'qa lovgo" ajlhqh;" katevcei ejn aujtw'/<br />

a[ntrw/ tou;" aujtou' qiaswvta" muei'n ta;" ajporrhvtou" teleta;" to;n tw'n o{lwn swth'ra.<br />

44 Itinerarium Bur<strong>di</strong>galense, 595, 6-7: «Inde ascen<strong>di</strong>s in montem oliueti, ubi dominus<br />

ante passionem apostolos docuit: ibi facta est basilica iussu constantini.»<br />

(ed. GEYER, Itinera hierosolymitana, cit., 23); cfr. P. MARAVAL, Lieux saints et pèle-<br />

163


164<br />

Luigi Canetti<br />

ibi est spelunca illa in quo docebat Dominus» 45 ). Distrutta dai Persiani<br />

nel 614, fu a mala pena restaurata e sopravvisse a stento fino all’epoca<br />

delle Crociate 46 . Egeria, si ba<strong>di</strong>, non fa menzione alcuna <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> dei<br />

pie<strong>di</strong> del Signore, e a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> Eusebio non parla <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> culto<br />

ubicati sulla cima del monte, da lei chiamato semplicemente Imbomon<br />

(ejn bounw'/, ‘sulla collina’), “id est [in eo] loco de quo ascen<strong>di</strong>t Dominus<br />

in caelis” 47 . L’Itinerarium descrive la processione liturgica dei rami <strong>di</strong><br />

palma che si snodava dall’Eleona all’Imbomon; e sempre lungo quel tragitto<br />

si celebravano i riti del cinquantesimo giorno successivo alla Pasqua,<br />

con la lettura dal Vangelo e dagli Atti «ubi <strong>di</strong>cit de ascensu Domini<br />

in celis post resurrectionem» 48 . Soltanto fra il 392 e il 395, come ha<br />

<strong>di</strong>mostrato Paul Devos 49 , sull’Imbomon verrà e<strong>di</strong>ficata una chiesa a<br />

pianta centrale finanziata dalla matrona Poemenia 50 , la nobildonna<br />

ispanica <strong>di</strong> stirpe teodosiana, che a quanto sembra fu oggetto <strong>degli</strong> stra-<br />

rinages d’Orient. Histoire et géographie. Des origines à la conquête arabe, Paris<br />

1985, 265.<br />

45 Itinerarium Egeriae, 30, 3; cfr. ÉGÉRIE, Journal de voyage, éd. P. MARAVAL,<br />

Paris 2002 (SCh 296), 272.19-20; ve<strong>di</strong> anche 43,6 (ibid., 302.41-43): «…itur ad illam<br />

ecclesiam, quae et ipsa in Eleona est, id est in qua spelunca sedens docebat<br />

Dominus apostolos»); e 25, 11 (ibid., 254.76-77), sui riti dell’Epifania («Quarta<br />

<strong>di</strong>e in Eleona, id est in ecclesia quae est in monte Oliueti, pulchra satis, similiter<br />

omnia ita ornantur et ita celebrantur ibi»).<br />

46 Sempre secondo l’anonimo <strong>di</strong> Bordeaux (Itin. Burd. 595.17-596.1, ed.<br />

GEYER, cit., 23), nell’e<strong>di</strong>ficio sulla cima del Monte si celebrava la memoria della<br />

Trasfigurazione; un dato non del tutto inesatto perché sembra corrispondere ad<br />

un uso liturgico della chiesa <strong>di</strong> Gerusalemme (cfr. MARAVAL, Lieux saints, cit.,<br />

265, n. 112).<br />

47 Cfr. Itinerarium Egeriae, 31, 1, ed. MARAVAL, cit., 272.5 (cfr. anche ibid., 69-<br />

70 del saggio introduttivo).<br />

48 Cfr. Itinerarium Egeriae, 43, 5, ed. MARAVAL, cit., 300.38-39.<br />

49 Cfr. P. DEVOS, Égérie n’a pas connu d’église de l’Ascension, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana,<br />

87 (1969), 208-212; le fini analisi testuali <strong>di</strong> Paul Devos hanno confermato<br />

l’intuizione del p. Virgilio Corbo (v. infra, nota 55), secondo cui al tempo <strong>di</strong> Egeria<br />

(384) non esisteva ancora alcuna chiesa dell’Ascensione sulla cima del monte<br />

Oliveto.<br />

50 Cfr. P. DEVOS, La servante de Dieu Poemenia d’après Pallade, la tra<strong>di</strong>tion copte<br />

et Jean Rufus, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana, 87 (1969), 189-208; J. R. MARTINDALE<br />

(ed.), PLRE, II (1980), 894 s.; E. D. HUNT, Holy Land Pilgrimage in the Later Roman<br />

Empire. A.D. 312-460, Oxford 1982, 47, 76-78, 160-163; R. L. WILKEN, The<br />

Land called Holy. Palestine in Christian History and Thought, New Haven-London


‘Vestigia Christi’<br />

li <strong>di</strong> san Girolamo per quella che gli appariva un’ostentazione itinerante<br />

della sua ricchezza («regius apparatus») 51 , ma più verosimilmente anche<br />

per i legami <strong>di</strong> lei con la rivale cerchia monastica olivetana <strong>di</strong> Rufino<br />

e Melania proprio nel momento in cui scoppiò la controversia origenista,<br />

che dal 393 al 397 (e dunque negli anni della fondazione del santuario<br />

olivetano) contrappose Girolamo a Rufino e al vescovo Giovanni<br />

<strong>di</strong> Gerusalemme 52 . Il ché, come ora vedremo, spiega forse il sospetto<br />

silenzio dello stesso Girolamo sul pro<strong>di</strong>gio olivetano delle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong><br />

Gesù. Verso la fine del V secolo, la chiesa sulla cima dell’Oliveto viene<br />

menzionata come «casa della Santa Ascensione» nella versione siriaca<br />

della Vita <strong>di</strong> Pietro Ibero dell’antiocheno Giovanni Rufo, che rievocando<br />

il viaggio a Gerusalemme compiuto dal protagonista tra il 437 e il<br />

439 attribuisce a Poemenia la fondazione del santuario e dei suoi annessi<br />

53 . Secondo un’ipotesi <strong>di</strong> André Grabar, ora non più accre<strong>di</strong>tata, la ro-<br />

1992, 152 s.; R. TEJA, Poemenia: una peregrina hispana de la familia de Teodosio I,<br />

in Homenaje a José María Blázquez, VI: Antigüedad: Religiones y Sociedades,<br />

Madrid 1998, 279-290.<br />

51 HIER. Ep. 54, 13 (a. 395), ed. I. HILBERG in CSEL 54, Wien 1910, 479 («Vi<strong>di</strong>mus<br />

nuper ignominiosum per totum orientem uolitasse: et aetas et cultus et habitus<br />

et incessus, in<strong>di</strong>screta societas, exquisitae epulae, regius apparatus neronis et<br />

sardanapalli nuptias loquebantur. Aliorum uulnus nostra sit cautio; pestilente flagellato<br />

stultus sapientior erit. Sanctus amor inpatientiam non habet; falsus rumor<br />

cito opprimitur et uita posterior iu<strong>di</strong>cat de priori. Fieri quidem non potest, ut absque<br />

morsu hominum uitae huius curricula quis pertranseat, malorumque solacium<br />

est bonos carpere, dum peccantium multitu<strong>di</strong>ne putant culpam minui peccatorum;<br />

sed tamen cito ignis stipulae conquiescit et exundans flamma deficientibus<br />

nutrimentis paulatim emoritur. si anno praeterito fama mentita est aut, si certe<br />

uerum <strong>di</strong>xit, cesset uitium, cessabit et rumor. haec <strong>di</strong>co. Non quo de te sinistrum<br />

quid metuam, sed quo pietatis affectu etiam. Quae tuta sunt, pertimescam. O si<br />

uideres sororem tuam et illud sacri oris eloquium coram au<strong>di</strong>re contingeret, cerneres<br />

in paruo corpusculo ingentes animos, au<strong>di</strong>res totam ueteris et noui testamenti<br />

suppellectilem ex illius corde feruere. Ieiunia pro ludo habet, orationem pro deliciis.»).<br />

Per la datazione, e l’identificazione <strong>di</strong> Poemenia, cfr. P. DEVOS, Saint Jérôme<br />

contre Poemenia?, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana, 91 (1973), 117-120.<br />

52 Cfr. J. N. D. KELLY, Jerome. His Life, Writings, and Controversies, New York<br />

1975, 195-209, 243-258; HUNT, cit., 155-179; B. BITTON-ASHKELONY, Encountering<br />

the <strong>Sacre</strong>d. The Debate on Christian Pilgrimage in Late Antiquity, Berkely-Los<br />

Angels-London 2005, 85-97; H. CROUZEL - E. PRINZIVALLI, Origenismo, in Nuovo<br />

<strong>di</strong>zionario patristico e <strong>di</strong> antichità cristiane, a cura <strong>di</strong> A. DI BERARDINO, II, Genova-Milano<br />

2007, 3681-86.<br />

53 Vita Petri Iberi, 43; cfr. John Rufus: The Lives of Peter the Iberian, Theodo-<br />

165


166<br />

Luigi Canetti<br />

tonda dell’Ascensione sarebbe stata raffigurata per la prima volta a Roma,<br />

verso la fine del IV secolo, nel grande mosaico absidale <strong>di</strong> Santa Pudenziana<br />

[Tav. 12], che ne mostrerebbe la primitiva articolazione con la<br />

basilica dell’Eleona nell’ambito <strong>di</strong> un’unica struttura architettonica 54 .<br />

Nel 1959, gli ultimi scavi <strong>di</strong> Virgilio Corbo confermarono che si trattava<br />

<strong>di</strong> una rotonda (e non <strong>di</strong> un ottagono, come ancora pensava Grabar)<br />

con tre portici concentrici a mo’ <strong>di</strong> gallerie coperte, e il centro a cielo<br />

aperto, per lasciare visibile il punto in cui si sarebbero posati sulla terra<br />

per l’ultima volta i pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù prima della sua ascesa al cielo 55 . La descrizione<br />

più dettagliata dell’e<strong>di</strong>ficio, pur con qualche forzatura e imprecisione,<br />

proviene in realtà dalla periegesi dei luoghi santi fornita intorno<br />

al 680 dal monaco Adamnano <strong>di</strong> Hy 56 , che accompagnò al suo<br />

scritto un <strong>di</strong>segno esplicativo <strong>di</strong> questa singolare struttura architettonica<br />

[Tav. 13].<br />

In una celebre tavola eburnea <strong>di</strong> produzione italica ma conservata a<br />

Monaco, e databile tra la fine del IV e gli inizi del V secolo [Tav. 14],<br />

viene raffigurata sul lato destro la scena dell’Ascensione sul Monte Oliveto,<br />

riconoscibile per la presenza, in alto a sinistra, <strong>di</strong> un grande olivo<br />

che sbuca da <strong>di</strong>etro l’e<strong>di</strong>cola del Santo Sepolcro, che però si trovava<br />

nell’area del Gòlgotha, il centro sacrale della nuova Gerusalemme cristiana.<br />

Che si tratti della rotonda costantiniana dell’Anastasis sembra<br />

acclarato dalla presenza <strong>di</strong> un milite astato, e soprattutto dalla scenetta<br />

dell’angelo che in<strong>di</strong>ca alle pie donne che Gesù è ormai risorto. Gli storici<br />

dell’arte tardoantica hanno rilevato in questo splen<strong>di</strong>do avorio la<br />

continuità <strong>degli</strong> schemi iconografici caratteristici dell’apoteosi imperia-<br />

sius of Jerusalem, and the Monk Romanus, eds. C. B. HORN-R. R. PHOENIX jr.,<br />

Leiden-Boston 2008, 58-61 (testo critico siriaco e traduzione inglese); MARAVAL,<br />

Lieux saints, cit., 266, n. 14; R. KRAUTHEIMER, Early Christian Architecture, New<br />

Haven-London 1986 4 , 75, sulla base <strong>degli</strong> scavi del p. Corbo (v. infra, nota 55), datava<br />

ancora l’e<strong>di</strong>ficio al 370.<br />

54 Cfr. A. GRABAR, Martyrium. Recherches sur le culte des reliques et l’art chrétienne<br />

antique, I: Architecture, Paris 1946 (= London 1972), 288-289; v. inoltre DE-<br />

VOS, Egérie n’a pas connu d’église de l’Ascension, 212, n. 2.<br />

55 V. C. CORBO, Ricerche archeologiche sul monte <strong>degli</strong> Ulivi, Gerusalemme<br />

1965 (<strong>Stu<strong>di</strong></strong>um biblicum franciscanum, 16), 97-104.<br />

56 ADAMNANI HIENSIS De locis sanctis I, 23: «Cuius uidelicet rotundae eeclesiae<br />

figura uili quamuis pictura sic depicta declaratur» (ed. GEYER, Itinera hierosolymitana,<br />

cit., 249; a p. 250 si riproduce il <strong>di</strong>segno della rotonda). Ritorno fra poco<br />

sul passo <strong>di</strong> Adamnano.


‘Vestigia Christi’<br />

le (si pensi alle monete postume <strong>di</strong> Costantino descritte da Eusebio) e il<br />

particolare, già proprio all’imaginario ebraico e pagano, della mano <strong>di</strong><br />

Dio protesa ad accogliere il profeta e il sovrano mentre risale ad astra; è<br />

stata poi notata la sovrapposizione con il tema della trasfigurazione, a<br />

sua volta tributario del motivo biblico dell’ascensus profetico 57 . Non<br />

bisogna <strong>di</strong>menticare che ancora al tempo <strong>di</strong> Egeria era sfuocata la <strong>di</strong>stinzione<br />

tra le festività liturgiche della glorificazione del Cristo 58 . Nessuno,<br />

a quanto mi consta, si è soffermato più <strong>di</strong> tanto sui peculiari dettagli<br />

narrativi <strong>di</strong> questa immagine: sono qui comprensenti, alle pen<strong>di</strong>ci<br />

dell’Oliveto, il momento della salita al cielo, con la mano del Padre affiorante<br />

dalle nubi, che accoglie un Cristo ancora ben piantato con i<br />

pie<strong>di</strong> per terra (e in effetti, per il gesto <strong>di</strong> un apostolo che si ripara il<br />

volto dalla luce abbagliante, l’episo<strong>di</strong>o sembra richiamare quello della<br />

Trasfigurazione); e infine, sul lato sinistro, un angelo che richiama da<br />

presso quel Cristo docente – a quell’epoca non ancora necessariamente<br />

rappresentato col nimbo 59 – che la tra<strong>di</strong>zione, accolta da Eusebio e da<br />

tutti gli autori successivi, riconduceva agli ultimi insegnamenti impartiti<br />

ai <strong>di</strong>scepoli <strong>di</strong> fronte alla grotta del monte Oliveto. Benché, come<br />

scrisse Krautheimer, «the Imbomon represented a variant on the plan<br />

of the Anastasis Rotunda» 60 , non intendo con ciò sostenere che l’e<strong>di</strong>ficio<br />

qui raffigurato sia effettivamente la rotonda dell’Ascensione, a quel<br />

57 Cfr. E. T. DEWALD, The Iconography of the Ascension, American Journal of<br />

Archaeology, 19 (1915), 277-319 (279); S. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità,<br />

trad. it. <strong>Torino</strong> 1995 (ed. orig. 1981), 179; una buona rassegna storica e<br />

tipologica viene fornita da V. M. SCHMIDT, Ascensione, in Enciclope<strong>di</strong>a dell’arte<br />

me<strong>di</strong>evale, II, Roma 1991, 572-577. Più <strong>di</strong> recente, B. BRENK, L’avorio Trivulzio e<br />

il suo significato, Felix Ravenna, 157-160 (2001-2004), 57-73 (ma in realtà il lavoro<br />

è stato presentato in occasione del seminario internazionale Il secolo dei <strong>di</strong>ttici.<br />

Temi <strong>di</strong> ricerca e spunti <strong>di</strong> riflessione sul V secolo d. C., Ravenna, 15-16 maggio<br />

2009), ha giu<strong>di</strong>cato il famoso <strong>di</strong>ttico Trivulzio della Resurrezione come «una nuova<br />

interpretazione dell’avorio <strong>di</strong> Monaco», ed «entrambi scolpiti nella stessa bottega<br />

più o meno contemporaneamente» (58) negli anni tra fine IV e inizio V secolo<br />

(71); i due artisti, dovendo raffigurare il sepolcro <strong>di</strong> Gerusalemme ma poco interessati<br />

ad una interpretazione esatta del testo dei Vangeli, avrebbero quin<strong>di</strong><br />

«scelto la rappresentazione <strong>di</strong> un mausoleo italico» (65).<br />

58 Cfr. in proposito DESJARDINS, cit., 53, e il prezioso ragguaglio liturgico <strong>di</strong><br />

MARAVAL (ed.) in ÉGÉRIE, Journal de voyage, cit., 300 s., n. 1.<br />

59 Cfr. BRENK, cit., 58.<br />

60 KRAUTHEIMER, cit., 75.<br />

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168<br />

Luigi Canetti<br />

tempo forse ancora inesistente o tutt’al più in fase costruzione: la struttura<br />

sembra alludere – pur senza raffigurarla in senso mimetico – all’e<strong>di</strong>cola<br />

dell’Anastasis 61 , e la cupola, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quella dell’Ascensione,<br />

non è sormontata da quella croce, <strong>di</strong> cui parla anche san Girolamo,<br />

e che fu rimpiazzata da Eudocia dopo l’incen<strong>di</strong>o del 450 62 . Non escluderei<br />

però un certo grado <strong>di</strong> contaminazione nella mnemostoria dei<br />

due episo<strong>di</strong> evangelici, come sembra tra<strong>di</strong>re la <strong>di</strong>spositio qui sussunta<br />

dall’artista; una contaminazione orientata sia dai processi <strong>di</strong> trasmissione<br />

dell’immaginario evangelico <strong>di</strong> Terransanta sia dai canoni iconografici<br />

e dai vincoli compositivi.<br />

Nella superba lettera 108, o Epitaphium sanctae Paulae, in<strong>di</strong>rizzata<br />

ad Eustochio nel 404 per consolarla della morte della madre 63 , Gerolamo,<br />

nella scia <strong>di</strong> Eusebio e <strong>di</strong> Paolino, ma con singolare letteralità <strong>di</strong><br />

esegesi tipologica e topografica, evidenziava l’affinità e la corrispondenza<br />

tra la pratica del pellegrinaggio ai luoghi santi e l’esortazione<br />

contenuta nel Salmo 131 (7) a prostrarsi nel luogo «dove si posarono i<br />

pie<strong>di</strong> del Signore», pur senza che ciò implicasse un <strong>di</strong>retto riferimento<br />

al culto delle orme <strong>di</strong> Gesù impresse sulla roccia, le nuove reliquie dell’Ascensione<br />

che Gerolamo <strong>di</strong>fficilmente poteva ignorare qualora ne<br />

fosse stato a conoscenza, ma <strong>di</strong> cui – al <strong>di</strong> là del pudore a suffragare<br />

l’autenticità <strong>di</strong> un simile pro<strong>di</strong>gio – aveva forse tutto l’interesse a tacere,<br />

specie nelle circostanze documentate dall’epistola 58, in piena polemica<br />

origenista – siamo intorno al 395 64 . Tanto più che in tali frangenti Gerolamo<br />

assunse, e manifestò proprio al vescovo <strong>di</strong> Nola, che era a ri-<br />

61 Ve<strong>di</strong> supra, nota 57.<br />

62<br />

HIER. Ep. 108, 12 (a. 404), ed. I. HILBERG in CSEL 55, Wien 1912, 320.9;<br />

EIUSD. Comm. in Soph. 1, 15-16, ed. M. ADRIAEN in CCSL 76A, Turnhout 1970,<br />

673; cfr. DEVOS, La ‘servante de Dieu’ Poemenia, cit., 211; HUNT, cit., 162; MARA-<br />

VAL, Lieux saints, cit., 266, n. 117.<br />

63 Ed. HILBERG in CSEL 55, 306-351; cfr. BITTON-ASHKELONY, cit., 67 s., 70, 82<br />

s., 97.<br />

64 Ed. HILBERG in CSEL 54, 527-541. Nel Commento al profeta Zaccaria, Girolamo<br />

sembra invero riferirsi alla presenza allegorica –– non metonimica – del<br />

sole <strong>di</strong> giustizia, che si è posato ad oriente della città santa; cfr. HIER. Comm. in<br />

Zach. 3,14, ed. M. ADRIAEN in CCSL, 76A, cit., lin. 105 s.: «Et ipse mons Oliuarum<br />

in quo stant pedes Domini, contra Hierusalem est et ad orientem, unde oritur<br />

sol iustitiae, illis que oliuis consitus est, de quibus <strong>di</strong>citur: filii tui sicut nouellae<br />

oliuarum, in circuitu mensae tuae.»


‘Vestigia Christi’<br />

schio <strong>di</strong> subire l’influenza dei suoi avversari, l’entourage <strong>di</strong> Rufino e<br />

Melania inse<strong>di</strong>atosi proprio sul monte Oliveto, una posizione decisamente<br />

ostile al pellegrinaggio a Gerusalemme inteso in senso letterale.<br />

Una presa <strong>di</strong> posizione polemica, che ribaltava, fra l’altro, quanto ancora<br />

lui stesso auspicava nella lettera 47 a Desiderio, del 393, dunque<br />

appena due anni prima, laddove Gerolamo, sempre citando e interpretando<br />

alla lettera il Salmo 131 (il ‘canto delle salite’, ovvero il salmo<br />

messianico per l’anniversario della traslazione dell’Arca) si era spinto<br />

ad affermare, con sconcertante estremismo, che «adorasse ubi steterunt<br />

pedes Domini pars fidei est» 65 . L’apologia del pellegrinaggio, quasi<br />

specchio paradossale <strong>di</strong> una utopistica società <strong>di</strong> santi, aveva del resto<br />

trovato il suo apice, in quello stesso anno, nella famosa lettera in<strong>di</strong>rizzata<br />

a Marcella da Paola ed Eustochio (ma redatta dallo stesso Gerolamo),<br />

con l’esaltazione della grotta <strong>di</strong> Betlemme, del sepolcro e delle<br />

tracce fisiche del martirio del Signore, e l’insistenza sui guadagni spirituali,<br />

intellettuali e morali lucrati con la visita ai luoghi santi 66 . In effetti<br />

Gerolamo, nemmeno in questo caso si arrischiava a negare che anche<br />

altrove potessero darsi i santi e la santità, poiché «regnum dei intra nos<br />

esse». E quando <strong>di</strong>chiarava venerabile il sepolcro del Signore, egli non<br />

pensava certo ad un’appropriazione magica <strong>di</strong> luoghi e <strong>di</strong> reliquie, ma<br />

semmai esaltava il fatto che quegli stessi luoghi consentissero ancora <strong>di</strong><br />

vedere, cioè infine <strong>di</strong> coltivare un ricordo più vivido e meritorio del Signore<br />

che giace nel lenzuolo, con l’angelo assiso ai suoi pie<strong>di</strong> e il sudario<br />

ripiegato 67 . Del resto, nel suo commento a Matteo 23, 35, Gerolamo<br />

65 Ep. 47, 2, ed. HILBERG in CSEL 54, 346.4-9: «Itaque, quod uenerabilis Paula<br />

me est deprecata, ut facerem, sponte facio hortor que uos et precor per Domini<br />

caritatem, ut nobis uestros tribuatis aspectus et per occasionem sanctorum locorum<br />

tanto <strong>di</strong>tetis munere. Certe, si consortia <strong>di</strong>splicuerint, adorasse, ubi steterunt<br />

pedes Domini, pars fidei est et quasi recentia natiuitatis et crucis ac passionis ui<strong>di</strong>sse<br />

uestigia.» Si veda in proposito L. LUGARESI, “In spirito e verità”. La scoperta<br />

dei luoghi santi e l’inizio dei pellegrinaggi nel cristianesino antico, in Pellegrini e<br />

luoghi santi dall’Antichità al Me<strong>di</strong>oevo, a cura <strong>di</strong> M. MENGOZZI, Cesena 2000, 38-<br />

43; BITTON-ASHKELONY, cit., 81s. Nel Commento a Matteo Gerolamo propone<br />

un’interpretazione letterale, riferita alla Gerusalemme terrena, <strong>di</strong> Mt 27, 52-53<br />

(dopo la morte <strong>di</strong> Gesù i corpi dei santi escono dai sepolcri ed entrano nella città<br />

santa) anche in funzione della santificazione cristiana della città quale mèta del<br />

pellegrinaggio; cfr. la convincente lettura <strong>di</strong> BITTON-ASHKELONY, cit., 79 s.<br />

66 Ep. 46, ed. HILBERG in CSEL 55, 329-344.<br />

67 Cfr. LUGARESI, cit., 40 s.; BITTON-ASHKELONY, cit., 83-85.<br />

169


170<br />

Luigi Canetti<br />

faceva dell’ironia sui simpliciores fratres che ancora ai suoi tempi mostravano<br />

tra le rovine del tempio le pietre macchiate dal sangue <strong>di</strong> Zaccaria,<br />

figlio <strong>di</strong> Barachia, ucciso dagli ebrei 68 .<br />

La fonte cruciale per tutto il nostro <strong>di</strong>scorso è però costituita dal<br />

quarto paragrafo della celebre Epistola 31 inviata da Paolino <strong>di</strong> Nola a<br />

Sulpicio Severo, redatta nella primavera del 403, e riecheggiata a stretto<br />

giro <strong>di</strong> corrispondenza nelle Cronache dello stesso Severo, che aveva richiesto<br />

al vescovo nolano alcune reliquie <strong>di</strong> santi per la consacrazione<br />

della basilica <strong>di</strong> Primuliacum 69 . Paolino, che ne era sprovvisto, decise <strong>di</strong><br />

inviare all’amico aquitano, in un sontuoso astuccio d’oro, un frammento<br />

della Croce <strong>di</strong> Cristo che aveva ricevuto dal vescovo Giovanni <strong>di</strong> Gerusalemme<br />

tramite Melania Seniore. La lettera contiene il famoso racconto<br />

della inventio della vera Croce e la descrizione del ruolo centrale<br />

<strong>di</strong> Elena. È un episo<strong>di</strong>o che dà l’occasione a Paolino <strong>di</strong> soffermarsi sulle<br />

vicende <strong>di</strong> Gerusalemme tra la morte <strong>di</strong> Gesù, la profanazione adrianea<br />

della città santa, e l’avvento provvidenziale <strong>di</strong> Costantino e dell’augusta<br />

Elena. Costei «chiese al figlio <strong>di</strong> concederle <strong>di</strong> purificare tutti i<br />

luoghi calcati dalle orme del Signore (loca dominicis impressa vestigiis),<br />

e contrassegnati dal ricordo delle opere <strong>di</strong> Dio per noi, da ogni contagio<br />

<strong>di</strong> profana empietà, <strong>di</strong>struggendo i templi e gl’idoli, e <strong>di</strong> restituirli<br />

così al culto della sua religione, affinché la chiesa fosse finalmente glorificata<br />

nella terra delle sue origini». Attingendo a piene mani ai tesori<br />

imperiali «la regina ricoprì e adornò con la costruzione <strong>di</strong> basiliche tutti<br />

quei luoghi, in cui il nostro Signore e Redentore aveva compiuto per<br />

noi i misteri del suo amore e della nostra salvezza, con gli eventi santi<br />

della sua incarnazione, passione, risurrezione e ascensione» 70 . Tra questi<br />

e<strong>di</strong>fici, sottolinea Paolino 71 ,<br />

68 Ve<strong>di</strong> supra, nota 21.<br />

69<br />

PAUL. NOL. Ep. 31, 4, ed. G. HARTEL in CSEL 29, Pragae-Vindobonae-Lipsiae<br />

1894, 272.<br />

70 Da qui in poi, con qualche lieve mo<strong>di</strong>fica, citerò dalla trad. it. (con testo<br />

Hartel a fronte) a cura <strong>di</strong> G. SANTANIELLO: PAOLINO DI NOLA, Le Lettere, II, Napoli<br />

1992, 209.<br />

71 Cfr. ibid., 209-211; ed. HARTEL, cit., 272: «Mirum uero inter haec, quod in<br />

basilica ascensionis locus ille tantum, de quo in nube susceptus ascen<strong>di</strong>t, captiuam<br />

in sua carne ducens captiuitatem nostram, ita sacratus <strong>di</strong>uinis uestigiis <strong>di</strong>citur, ut<br />

numquam tegi marmore aut pauiri receperit semper excussis solo respuente quae<br />

manus adornan<strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o temptauit adponere. Itaque in toto basilicae spatio solus<br />

in sui cespitis specie uirens permanet et inpressam <strong>di</strong>uinorum pedum uenerationem<br />

calcati deo pulueris perspicua simul et adtigua uenerantibus harena conseruat,<br />

ut uere <strong>di</strong>ci possit: adorauimus ubi steterunt pedes eius.»


‘Vestigia Christi’<br />

è straor<strong>di</strong>nario il fatto che, nella basilica dell’ascensione, – come si <strong>di</strong>ce, –<br />

soltanto quel luogo, dal quale il Signore, avvolto da una nube, ascese al cielo,<br />

portando la nostra schiavitù prigioniera nella sua carne, fu così santificato<br />

dalle orme <strong>di</strong>vine (ita sacratus <strong>di</strong>vinis vestigiis) che mai permise <strong>di</strong> essere<br />

ricoperto <strong>di</strong> marmo o spianato: il suolo rifiutava ed allontanava da sé<br />

tutto ciò che la mano dell’uomo cercava <strong>di</strong> collocarvi per adornarlo. Pertanto,<br />

in tutto lo spazio della basilica, quel luogo soltanto si conserva verdeggiante<br />

nella bellezza della sua zolla erbosa e la sabbia, che è insieme<br />

chiaramente <strong>di</strong> polvere calpestata da Dio e accessibile ai fedeli che la venerano,<br />

conserva impresse le venerate <strong>impronte</strong> dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong>vini, così che veramente<br />

si può <strong>di</strong>re: Ci siamo prostrati ad adorare il luogo dove poggiarono i<br />

suoi pie<strong>di</strong> (Ps. 131, 7).<br />

Il miracolo delle orme <strong>di</strong>vine, benché Paolino non faccia cenno alla<br />

sua ubicazione sul Monte Oliveto (ma quando scrive la cosa era ormai<br />

risaputa), realizza dunque letteralmente la promessa messianica del<br />

Salmo 131 72 . Com’è già stato supposto 73 , è possibile che Paolino sia venuto<br />

a conoscenza del pro<strong>di</strong>gio dalla stessa Melania, sia perché la nobildonna<br />

faceva parte della famiglia olivetana sia perché, parente dello<br />

stesso Paolino 74 , si era recata a Nola poco prima del 403, e in quell’occasione,<br />

recandogli in dono il frammento della Croce da parte del ve-<br />

72 Cfr. anche PAUL. NOL. Ep. 49, 14, ed. HARTEL, 402: «Si ergo religiosa cupi<strong>di</strong>tas<br />

est loca uidere, in quibus Christus ingressus et passus est et resurrexit et unde<br />

conscen<strong>di</strong>t, et aut de ipsis locis exiguum puluerem aut de ipso crucis ligno aliquid<br />

saltem festucae simile sumere et habere, bene<strong>di</strong>ctio est: considera quanto maior et<br />

plenior gratia sit uiuum senem uel testimonio <strong>di</strong>uinae ueritatis inspicere? si praesepe<br />

nati, si fluuius baptizati, si hortus magistri, si atrium iu<strong>di</strong>cati, si<br />

columna <strong>di</strong>stricti, si spina coronati, si lignum suspensi, si saxum sepulti, si locus<br />

resuscitati euecti que memoria <strong>di</strong>uinae quondam praesentiae celebratur et ueterem<br />

ueritatem praesenti fide conprobant in rebus exanimis uiua documenta: quam<br />

religiose adspiciendus est hic, quem adloqui dei sermo <strong>di</strong>gnatus est, cui se facies<br />

<strong>di</strong>uina non texit, cui nunc martyrem suum, nunc semet ipsum Christus osten<strong>di</strong>t, in<br />

cuius uiuente terra dominici corporis uidemus inpressa uestigia, si fidelibus oculis<br />

et acie spiritali quod in eo sinus Christi, quod manus contigit perlegamus, et canitiem,<br />

quae saepe super domini genu iacuit, saepe domini sinu tepuit, nostra manu<br />

saepe mulcentes et auriculam saepe palpantes, quam caelestes <strong>di</strong>giti domino iocante<br />

traxerunt?».<br />

73 Cfr. DESJARDINS, cit., 57.<br />

74 Nell’Epistola 29, in<strong>di</strong>rizzata sempre a Severo nella primavera del 400, in<br />

occasione del primo rientro <strong>di</strong> lei in Italia, il vescovo <strong>di</strong> Nola ne tratteggiò una<br />

sorta <strong>di</strong> panegirico; cfr. SANTANIELLO in PAOLINO DI NOLA, Le Lettere, II, cit., 137<br />

ss.<br />

171


172<br />

Luigi Canetti<br />

scovo <strong>di</strong> Gerusalemme, gli aveva probabilmente narrato la storia della<br />

inventio, che nella lettera 31 segue imme<strong>di</strong>atamente il brano sulle sacre<br />

<strong>impronte</strong>.<br />

Sulpicio Severo, obliterando la cautela paoliniana del <strong>di</strong>citur, confermò<br />

<strong>di</strong> lì a poco che nel luogo in cui si potevano ancora vedere le<br />

tracce dei pie<strong>di</strong> del Signore – quei <strong>di</strong>vina vestigia che ormai, evidentemente,<br />

si mostravano ai pellegrini – il suolo avrebbe rifiutato il sontuoso<br />

rivestimento <strong>di</strong> lastre marmoree con le quali invano si tentò <strong>di</strong> abbellirlo;<br />

e aggiunse che più volte il marmo andò in frantumi sul volto <strong>degli</strong><br />

operai. Che Dio abbia camminato realmente su quella polvere, afferma<br />

poi Severo, è testimoniato dal fatto che le <strong>impronte</strong> sono ancora visibili:<br />

malgrado i fedeli gareggino nell’asportare quoti<strong>di</strong>anamente un po’<br />

della polvere calpestata dal Signore, la sabbia non ne subisce alcun<br />

danno, e la terra, come se fosse scolpita (signata) da quelle orme, conserva<br />

sempre la stessa immagine (species) 75 . Quasi, insomma, che il decus<br />

e il fasto delle materie preziose non bastasse o meglio, non servisse,<br />

a signare e a glorificare le tracce <strong>di</strong>rette dell’ultima presenza terrena del<br />

logos incarnato, prima della sua apoteosi celeste. Le orme dei pie<strong>di</strong> del<br />

Salvatore sono già in sé stesse un monumento e un in<strong>di</strong>ce, memoria e<br />

sineddoche, della potenza <strong>di</strong>vina <strong>di</strong> resurrezione; una preziosa reliquia<br />

per contatto o un calco statuario impresso, appunto, pro<strong>di</strong>giosamente<br />

nel luogo del sacro monte in cui, come voleva Eusebio, la gloria del Signore<br />

si è manifestata per l’ultima volta, e dal quale ritornerà fra gli<br />

uomini alla fine dei tempi. Questo, mi pare, potrebbe essere il significato<br />

implicito del mito eziologico delle sacre <strong>impronte</strong>, cristallizzatosi per<br />

la prima volta nei racconti letterari <strong>di</strong> Paolino e <strong>di</strong> Sulpicio, nei quali si<br />

rileva l’autenticità e, per quanto non si parli apertamente <strong>di</strong> miracoli, si<br />

attesta ormai l’efficacia reliquiale delle vestigia impresse sulla roccia e<br />

sulla sabbia dai pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù 76 .<br />

75 SULPICII SEVERI Chronicorum libri II, XXXIII, 3, ed. G. DE SENNEVILLE-GRA-<br />

VE in SULPICE SÉVÈRE, Chroniques, Paris 1999 (SCh 441), 302: «Illud mirum, quod<br />

locus ille, in quo postremum institerant <strong>di</strong>uina uestigia, cum in caelum Dominus<br />

nube sublatus, continuari pauimento cum reliqua stratorum parte non potuit, siquidem<br />

quaecumque applicabantur, insolens humana suscipere terra respueret,<br />

excussis in ora apponentium saepe marmoribus. Quin etiam calcati Deo pulueris<br />

adeo perenne documentum est, ut uestigia impressa cernantur, et cum coti<strong>di</strong>e confluentium<br />

fides certatim Domino calcata <strong>di</strong>ripiat, damnum tamen arena non sentiat,<br />

et eandem adhuc sui specie, uelut impressis signata uestigiis, terra custo<strong>di</strong>t.»<br />

76 Secondo Paolino, del resto, i luoghi in cui sono state traslate le reliquie dei<br />

santi recano impressi i vestigia della virtus <strong>di</strong>vina (cfr. PAUL. NOL. Carmina, XIX,


‘Vestigia Christi’<br />

Tra il 419 e il 421 (secondo altri, nel 414), Agostino pre<strong>di</strong>cò una serie<br />

<strong>di</strong> Omelie sul Vangelo <strong>di</strong> Giovanni. A chiarimento della figura dell’unico<br />

ovile e del solo pastore, inviato alle pecore perdute della casa d’Israele,<br />

il vescovo d’Ippona rileva che, se ai popoli pagani il Signore inviò<br />

gli Apostoli, al popolo d’Israele volle annunziare personalmente la<br />

buona novella «in modo che quanti lo <strong>di</strong>sprezzavano fossero più severamente<br />

giu<strong>di</strong>cati». «In quella terra – rimarca Agostino – egli abitò, lì<br />

si scelse la madre, lì volle essere concepito, volle nascere e versare il suo<br />

sangue; in quella terra anche adesso si venerano le orme che egli vi lasciò<br />

impresse prima <strong>di</strong> ascendere al cielo.» 77 Nonostante questo passo<br />

sia stato verosimilmente concepito e letto dopo la svolta pastorale del<br />

415 – con quanto essa implicava in fatto <strong>di</strong> accoglienza, da parte <strong>di</strong><br />

Agostino, <strong>di</strong> una prospettiva più sensibile all’efficacia miracolosa dei<br />

segni della presenza <strong>di</strong>vina, a partire dalle reliquie stefaniane <strong>di</strong> Uzalis<br />

– dubito che il cenno alle sacre <strong>impronte</strong> (che Agostino poté forse conoscere<br />

per il tramite dello stesso Paolino) debba intendersi come qualcosa<br />

<strong>di</strong> più <strong>di</strong> un richiamo simbolico, <strong>di</strong>rei tutt’al più la metafora impressa<br />

nella roccia, della presenza storica del Signore nella terra d’Israele.<br />

Del resto, in un’altra Omelia su Giovanni, egli vedeva nel gesto <strong>di</strong><br />

unzione dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù a Betania un’esortazione allegorica a condurre<br />

una vita degna del cristiano, seguire cioè le orme <strong>di</strong> Gesù: «Unge pedes<br />

Iesu: bene vivendo dominica sectare vestigia» 78 . In ogni caso, <strong>di</strong>versi<br />

anni prima, commentando il passo del Salmo 131 (7) Adorabimus in<br />

loco ubi steterunt pedes eius, Agostino intese quel passo come figura <strong>di</strong><br />

coloro che avranno perseverato sal<strong>di</strong> sino alla fine nella stabile <strong>di</strong>mora<br />

del Signore: «Ecco dove poggiano stabilmente i suoi pie<strong>di</strong>. Adora [Dio]<br />

dentro tale <strong>di</strong>mora. Sii cioè uno <strong>di</strong> coloro sui quali i pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Dio poggiano<br />

stabilmente» 79 .<br />

342-352, ed. G. HARTEL in CSEL 30, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1894, 130); si<br />

veda in proposito HEIM, cit., 56 s.<br />

77 «Ad Gentes non perrexit ipse, sed misit: ad populum vero Israel et misit, et<br />

venit ipse; ut qui contemnebant, maius iu<strong>di</strong>cium sumerent, quia et praesentia est<br />

illis exhibita. Ipse Dominus ibi fuit, ibi matrem elegit; ibi concipi, ibi nasci, ibi<br />

sanguinem fundere voluit; ibi sunt vestigia eius, modo adorantur, ubi novissime<br />

stetit, unde ascen<strong>di</strong>t in coelum: ad Gentes autem misit.» (AUG. In Ioh. Euang.<br />

Tractatus, 47, 4, ed. R. WILLELMS in CCSL 36, Turnholti 1954, lin. 13 ss.).<br />

78 In Ioh. Euang. Tractatus, 50, 6, ibid., lin. 11.<br />

79 AUG. Enarrationes in Psalmos, 131, 13 (Ippona 407/Cartagine 412): «… ecce<br />

in quibus steterunt pedes eius; in eo loco adora, id est, de talibus esto in quibus<br />

173


174<br />

Luigi Canetti<br />

Le attestazioni più interessanti, nella scia <strong>di</strong> Paolino e Sulpicio, sono<br />

quelle fornite dalla letteratura odoeporica e devozionale del primo Me<strong>di</strong>oevo.<br />

Curiosamente – e ancora non saprei darmene una ragione plausibile<br />

– l’Anonimo <strong>di</strong> Piacenza, intorno al 560-70, non fa alcun cenno<br />

alle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Cristo sul Monte Oliveto. Eppure si tratta <strong>di</strong> una delle<br />

fonti più sensibili a registrare i concreti dettagli topografici e taumaturgici<br />

<strong>di</strong> Terrasanta: si pensi solo alla celebre descrizione delle <strong>impronte</strong><br />

<strong>di</strong> Gesù sulla colonna della flagellazione, da cui i pellegrini traevano le<br />

mensurae attraverso una cor<strong>di</strong>cella appesa poi al collo a mo’ <strong>di</strong> filatterio<br />

reliquiale 80 ; o ancora, alla pietra quadrangolare su cui insistette Gesù<br />

durante l’interrogatorio con Pilato, e sulla quale sarebbero rimasti<br />

impressi i suoi vestigia pedum, anche se poi, sembra <strong>di</strong> capire, qualcuno<br />

ne <strong>di</strong>pinse il ritratto dal vivo e lo collocò nello stesso pretorio («pedem<br />

pulchrum, mo<strong>di</strong>cum, subtile […] statura communem, pulchram, capillos<br />

obanellatos, manum formosam, <strong>di</strong>gitas longa imago designat»); in<br />

ogni caso, anche dalle <strong>impronte</strong> dei pie<strong>di</strong> rimaste sulla pietra si ricavano<br />

le mensurae che poi vengono utilizzate «pro singulis languoribus et<br />

sanantur» 81 .<br />

In effetti, come ho già anticipato, è nella straor<strong>di</strong>naria Relatio de locis<br />

sanctis del monaco Adamnano (Adomnán), scritta intorno al 680,<br />

che ritroviamo la descrizione più dettagliata delle strutture architettoniche<br />

e dell’autentico <strong>di</strong>spositivo devozionale (confemato in gran parte<br />

dagli scavi <strong>degli</strong> anni Cinquanta del Novecento) attivo a quel tempo sul<br />

monte Oliveto intorno alle <strong>impronte</strong> miracolose dei pie<strong>di</strong> del Risorto.<br />

Oltre ai già noti particolari delle lastre rigettate e della sabbia raccolta<br />

dai pellegrini senza mai esaurirsi, viene descritta la famosa torretta <strong>di</strong><br />

bronzo che ricopriva le sacre vestigia, visibili da un pertugio nella parte<br />

superiore, e accessibili da una porticella per asportarne la polvere miracolosa<br />

82 ; inoltre, con tipica sensibilità tardoantica e altome<strong>di</strong>evale a un<br />

steterunt pedes domini.» (edd. E. DEKKERS - J. FRAIPONT in CCSL 38-40, Turnholti<br />

1956, lin. 39).<br />

80 Itinerarium Antonini Placentini, 22, 5, ed. C. MILANI, Itinerarium Antonini<br />

Placentini. Un viaggio in Terra Santa del 560-570 d. C., Milano 1977, 158.<br />

81 Ibid., 23, 3-6, ed. MILANI, 162-164.<br />

82 ADAMNANI HIENSIS De locis sanctis I, 23 (ed. GEYER, Itinera hierosolymitana,<br />

cit., 246-251). Che i fedeli asportassero la sabbia delle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Gesù, garanzia<br />

del potere miracoloso attribuito a una preziosa reliquia da contatto (si pensi all’olio<br />

delle lampade del Santo Sepolcro, alla terra e alla polvere delle tombe sante<br />

ecc.), si ricollega probabilmente anche al valore magico delle orme nella cultura


‘Vestigia Christi’<br />

elemento caratterizzante dell’ornatus templare e del fasto litur gico 83 ,<br />

Adamnano presta molta attenzione ai complessi sistemi <strong>di</strong> luminarie<br />

allestiti nella rotonda dell’Ascensione. Sull’isoletta <strong>di</strong> Iona (I Chaluim<br />

Chille, in gaelico), nelle Ebri<strong>di</strong> interne, tra l’Irlanda e la Scozia, nel celebre<br />

monastero fondato da Columba, egli mise per iscritto, combinandole<br />

con nutrite citazioni dalle fonti più antiche (fra l’altro, anche i Chronica<br />

<strong>di</strong> Sulpicio Severo), le memorie del viaggio in Oriente del vescovo<br />

Arculfo 84 . Benché l’esistenza storica <strong>di</strong> questo personaggio sia stata<br />

<strong>di</strong> recente messa in <strong>di</strong>scussione 85 , è <strong>di</strong>fficile dubitare che la vividezza e<br />

la perspicuità topografica e narrativa <strong>di</strong> queste pagine siano figlie dell’esperienza<br />

<strong>di</strong>retta <strong>di</strong> uno che ha viaggiato, osservato, e certamente ha<br />

potuto ascoltare dal vivo molti racconti dei pellegrini <strong>di</strong> Terrasanta negli<br />

anni della prima occupazione islamica. In ogni caso, l’opera <strong>di</strong><br />

Adamnano, soprattutto grazie alla ricezione quasi letterale negli scritti<br />

<strong>di</strong> Beda 86 , ha avuto un’enorme fortuna e una straor<strong>di</strong>naria importanza<br />

nel plasmare l’immaginario devozionale dei luoghi santi nell’Occidente<br />

classica, attestato già nei famosi akousmata o symbola pitagorici (ed. F. BOEHM, De<br />

Symbolis Pythagoreis, Berolini 1905, 40-41, § 35). Osservazioni non scontate a proposito<br />

del possibile valore metonimico <strong>degli</strong> styboi <strong>di</strong> Elena al v. 411 dell’Agamennone<br />

eschileo (passi <strong>di</strong> Elena che si avvicina al letto nuziale op pure <strong>impronte</strong>, tracce<br />

lasciate dalla sposa sul letto ormai abbandonato?) si trove ranno in C. BRILLAN-<br />

TE, Metamorfosi <strong>di</strong> un’immagine: le statue animate e il sogno, in Il sogno in Grecia,<br />

a cura <strong>di</strong> G. GUIDORIZZI, Roma-Bari 1988, 17-33 (25 ss.), e in M. BETTINI, Il ritratto<br />

dell’amante, <strong>Torino</strong> 1992, 16-20. Sulla magia delle <strong>impronte</strong> nelle culture etnologiche,<br />

è ancora utile il classico J. FRAZER, Il ramo d’oro. <strong>Stu<strong>di</strong></strong>o sulla magia e la religione<br />

trad. it. <strong>Torino</strong> 1990 (ed. orig. 1922), 59-60.<br />

83 Ho <strong>di</strong>scusso <strong>di</strong> questi aspetti in L. CANETTI, Trésors et décor des églises au<br />

Moyen Âge. Pour une approche sémiologique des «ornamenta ecclesiae», in Du<br />

matériel au spirituel. Realités archeologiques et historiques des «depots» de la prehistoire<br />

a nos jours. XXIX e Rencontres internationales d’archeologie et d’histoire<br />

d’Antibes (Antibes, 16-18 octobre 2008), s. la <strong>di</strong>r. de S. BONNARDIN - C. HAMON -<br />

M. LAUWERS - B. QUILLIEC, Antibes 2009, 273-282.<br />

84 Cfr. Th. O’LOUGHLIN, Adomnan and the Holy Places. The Perception of an<br />

Insular Monk on the Locations of the Bibilical Drama, London-New York 2007,<br />

50-63.<br />

85 Cfr. N. DELIERNEUX, Arculfe «sanctus episcopus gente Gallus»: une existence<br />

historique <strong>di</strong>scutable, Révue Belge de Philologie et d’Histoire, 75 (1997), 911-941.<br />

86 BEDAE Liber de locis sanctis, VI, ed. GEYER, Itinera hierosolymitana, cit., 310-<br />

311; EIUSD. Historia ecclesiastica gentis Anglorum V, XVII, 1 (cfr. BEDA, Storia <strong>degli</strong><br />

Inglesi, a cura <strong>di</strong> M. LAPIDGE, II, Milano-Roma 2010, 402-404).<br />

175


176<br />

Luigi Canetti<br />

latino fino all’età Umanistica. Lo attesta, fra l’altro, il <strong>di</strong>ario del viaggio<br />

in Egitto e in Terrasanta composto da Michele <strong>di</strong> Figline Val d’Arno,<br />

un prete che nel 1490 vide sull’Oliveto «quel saxo dove Yhesu benedecto<br />

pose e’ pie<strong>di</strong> quan fu assunto en cielo» notando «la propria forma<br />

de’ pie<strong>di</strong> rossa in su quel masso biancho» 87 . Sono gli anni nei quali<br />

l’occupazione ottomana stava orientando la spiritualità europea alla<br />

traslazione e alla ‘invenzione’ autoctona dei Monti sacri, dei Calvari,<br />

<strong>degli</strong> Oliveti e delle nuove Gerusalemmi interiori 88 . Peraltro, a partire<br />

dal Duecento, e dunque in concomitanza con la nuova fortuna devozionale<br />

<strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> della passione ma anche col rinnovato interesse<br />

per le acheropite all’indomani della IV Crociata 89 , è possibile documentare,<br />

da molteplici attestazioni <strong>di</strong>rette e in<strong>di</strong>rette <strong>di</strong> una loro riproduzione,<br />

la crescente fortuna devozionale dei vestigia Christi nella religiosità<br />

dell’Occidente cristiano 90 [Tav. 15].<br />

Meyer Shapiro, in un pregevole articolo uscito nella Parigi occupata<br />

del ’43, ha <strong>di</strong>mostrato come la pagina <strong>di</strong> Adamnano sul pro<strong>di</strong>gio delle<br />

orme sull’Oliveto, tramite la sua ricezione in Beda e nei poemi e omiliari<br />

in lingua anglosassone <strong>di</strong> IX-X secolo, abbia esercitato un influsso<br />

profondo sull’iconografia dell’Ascensione testimoniata dai manoscritti<br />

insulari a cavallo del Mille 91 . In effetti, la singolare rappresentazione ot -<br />

87 M. MONTESANO, Da Figline a Gerusalemme. Viaggio del prete Michele in<br />

Egitto e in Terrasanta (1489-1490), Roma 2010, 114.<br />

88 Per una buona panoramica su questi temi basti rinviare qui a F. CARDINI, In<br />

Terrasanta. Pellegrini italiani tra Me<strong>di</strong>oevo e prima età moderna, Bologna 2002.<br />

89 Si veda in proposito H. BELTING, Die Reaktion des Kunst des 13. Jahrhunderts<br />

auf den Import von Reliquien und Ikonen, in Il Me<strong>di</strong>o Oriente e l’Occidente<br />

nell’arte del XIII secolo. Atti del XXIV Congresso C.I.H.A. (Bologna, 10-18 settembre<br />

1979), a cura <strong>di</strong> H. BELTING, Bologna 1982, 35-53; J. DURAND, Reliquie e<br />

reliquiari depredati in Oriente e a Bisanzio al tempo delle crociate, in Le Crociate.<br />

L’Oriente e l’Occidente da Urbano II a San Luigi (1096-1270), a cura <strong>di</strong> M. REY-<br />

DELQUÉ, Milano 1997, 378-389; L. CANETTI, Rappresentare e vedere l’invisibile.<br />

Una semantica storica <strong>degli</strong> «ornamenta ecclesiae», in Reli giosità e civiltà. Le comunicazioni<br />

simboliche (secoli IX-XIII). Settimane internazionali della Mendola.<br />

Nuova serie, 2007-2011 (Domodossola, Sacro Monte e Castello <strong>di</strong> Mattarella, 20-<br />

23 settembre 2007), a cura <strong>di</strong> G. ANDENNA, Milano 2009, 345-405 (375 ss.).<br />

90 DESJARDINS, cit., 67-72; SCHMIDT, cit., 576.<br />

91 M. SHAPIRO, The Image of the Disappearing Christ. The Ascension in English<br />

Art around the Year 1000, Gazette des Beaux-Arts, 85 (1943), 133-152 (rist. in M.<br />

SHAPIRO, Late Antique, Early Christian and Me<strong>di</strong>eval Art. Selected Papers, New<br />

York 1979, 267-287); si veda, inoltre, R. DESHMAN, Another Look at the Disap-


‘Vestigia Christi’<br />

tica dell’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Atti 1, 9 secondo lo sguardo dal basso dei <strong>di</strong>scepoli,<br />

con visibili i soli pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù che fuoriescono dalla nube [Tav. 16], ha<br />

inaugurato e anticipato <strong>di</strong> almeno due secoli un tratto compositivo e<br />

una sensibilità visuale che soltanto molto più tar<strong>di</strong> si sarebbero <strong>di</strong>ffusi<br />

anche nell’Europa continentale. È come se il mito e la sua localizzazione<br />

nelle sacre <strong>impronte</strong>, con<strong>di</strong>zionando la resa iconografica dello sguardo<br />

dal basso dei pie<strong>di</strong> Gesù, abbia sconvolto i due schemi più antichi secondo<br />

cui si raffigurava il miracolo dell’Ascensione: il tipo siro-palestinese,<br />

con il Cristo glorioso e trionfante dentro la mandorla e sovrastante<br />

gli Apostoli – così appariva alla fine del VI secolo sulle ampolle a eulogia<br />

conservate nel duomo <strong>di</strong> Monza [Tav. 17] –, e il tipo ellenistico ovvero<br />

l’ascensus ad astra favorito dalla mano <strong>di</strong>vina, qual era già evidente<br />

nell’avorio <strong>di</strong> Monaco 92 .<br />

Si ha la netta impressione che le più antiche testimonianze <strong>di</strong> un culto,<br />

o comunque <strong>di</strong> un’attenzione <strong>di</strong> tipo memoriale alle vestigia dei pie<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong> Gesù, non abbiano tanto a che fare con la questione dell’insorgere<br />

<strong>di</strong> eventuali surrogati aniconici dell’immagine interdetta del suo volto o<br />

della sua persona. Salvo, forse, l’aniconismo <strong>di</strong> Eusebio <strong>di</strong> Cesarea 93 , e<br />

ad eccezione della parentesi iconoclasta dell’VIII-IX secolo bizantino e<br />

carolingio 94 , tale questione non si è mai posta nel cristianesimo in ma-<br />

pearing Christ: Corporeal and Spiritual Vision in Early Me<strong>di</strong>aeval Images, Art Bulletin,<br />

79 (1997), 518-546.<br />

92 L’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> un tipo ‘ellenistico’ e occidentale (rappresentato dallo<br />

stesso avorio <strong>di</strong> Monaco e dal pannello del portale <strong>di</strong> S. Sabina), <strong>di</strong> uno ‘orientale’<br />

(articolato a sua volta nei tipi siriaco, palestinese e copto), e <strong>di</strong> un tipo ‘bizantino’<br />

erede <strong>di</strong> quello siro-palestinese (Evangeliario <strong>di</strong> Rabbula, ampolle devozionali <strong>di</strong><br />

Terrasanta), risale a DEWALD, cit., 279 ss., 282 ss., 291 ss. Tale tipizzazione non è<br />

più ricevibile nel suo schematismo geo-culturale, ancor refrattario all’ipotesi <strong>di</strong><br />

una complessa circolazione e reciproca interferenza tra i modelli e gli stili (è sintomatica<br />

la pretesa orientalità dell’arte bizantina, e il suo isolamento dalle matrici<br />

ellenistiche, che riguarderebbero invece Roma e l’Occidente). Per una visione ben<br />

più articolata e sfumata, si veda la splen<strong>di</strong>da sintesi <strong>di</strong> O. DEMUS, L’arte bizantina<br />

in Occidente, trad. it. <strong>Torino</strong> 2008 (ed. orig. 1970), 3-49.<br />

93 Si veda L. CANETTI, Costantino e l’immagine del Salvatore. Una prospettiva<br />

mnemostorica sull’aniconismo cristiano antico, Zeitschrift für Antikes Christentum<br />

/ Journal of Ancient Christianity, 13 (2009), 233-262 (244 ss.).<br />

94 Buone rassegne <strong>di</strong> fonti e <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> in proposito sono fornite da M.-F AUZÉPY,<br />

L’iconoclasme, Paris 2006, e da M. BETTETINI, Contro le immagini. Le ra<strong>di</strong>ci dell’iconoclastia,<br />

Roma-Bari 2006, 92-128. Quasi esclusivamente incentrato sull’età del-<br />

177


178<br />

Luigi Canetti<br />

niera così programmatica e <strong>di</strong>sciplinare, come è accaduto invece nel<br />

bud<strong>di</strong>smo, dove alle <strong>impronte</strong> ‘naturali’ e artificiali del Buddha<br />

(Buddhapāda, in sanscrito) fu attribuita precisamente, quantomeno fino<br />

ai primi secoli della nostra èra, una funzione <strong>di</strong> sostituto aniconico<br />

per aggirare il <strong>di</strong>vieto <strong>di</strong> riprodurre le fattezze del Risvegliato, <strong>di</strong>vieto<br />

che lui stesso avrebbe espresso 95 [Tav. 18]. Se ne contano più <strong>di</strong> un migliaio<br />

soltanto nello Sri Lanka, il paese che, nel santuario <strong>di</strong> Kandy, custo<strong>di</strong>sce<br />

anche il sacro dente, la più preziosa reliquia del fondatoree,<br />

mèta ancor oggi <strong>di</strong> assidui pellegrinaggi 96 ; ma se ne trovano a centinaia<br />

dalla Cina alla Thailan<strong>di</strong>a al Giappone, insieme ad altre reliquie <strong>di</strong>rette<br />

e in<strong>di</strong>rette, compresi i resti corporei della cremazione 97 . In effetti, anche<br />

a prescindere da una <strong>di</strong>scussione sulle ambiguità e le aporie che si celano<br />

spesso <strong>di</strong>etro la nozione <strong>di</strong> aniconismo – non tanto uno sta<strong>di</strong>o effettivo<br />

<strong>di</strong> civiltà quanto piuttosto, come ha mostrato Freedberg 98 , un mito<br />

della purezza originaria ovvero, come ritiene Assmann, una strategia<br />

teologico-politica dei gestori della potenza salvifica 99 –, basterà rilevare<br />

come i primi documenti scritti delle vestigia corporali dell’Ascensione<br />

siano perfettamente coevi (e, nel caso <strong>di</strong> Paolino, in pratica coincidano)<br />

con le più antiche testimonianze <strong>di</strong> un culto o comunque <strong>di</strong> un’ormai<br />

<strong>di</strong>lagante <strong>di</strong>ffusione delle immagini del Cristo, <strong>degli</strong> Apostoli e dei santi<br />

martiri nei luoghi pubblici, e poi sempre più anche in case private, in<br />

la Riforma protestante il sontuoso catalogo Iconoclasme. Vie et mort de l’image<br />

mé<strong>di</strong>évale, sous la <strong>di</strong>r. de C. DUPEUX - P. JETZLER - J. WIRTH, Zurich 2001.<br />

95 Secondo la leggenda, le <strong>impronte</strong> si sarebbero impresse sulla roccia dopo che<br />

il Buddha ottenne l’illuminazione. Si può sempre partire dal classico P. SAINTY-<br />

VES, Les reliques et les images légendaiores, éd. établie par F. Lacassin, Paris 1987<br />

(ed. orig. 1912 3 ), 923-925; ma cfr. ora l’ottimo J. S. STRONG, Relics of the Buddha,<br />

Princeton 2004, 85-97. Ciò non esclude che nel corso dei secoli, e negli svariati<br />

ambienti e occasioni <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusione delle reliquie, la percezione e l’utilizzo <strong>di</strong> queste<br />

ultime siano stati talvolta subor<strong>di</strong>nati a credenze e rituali <strong>di</strong> altro or<strong>di</strong>ne e significato<br />

(ideologico, politico, magico, terapeutico). Sul simbolismo del Darmacakra,<br />

la ‘Ruota-Parola’ ovvero la ‘Ruota-Mondo’ raffigurata all’interno dei pie<strong>di</strong> del Risvegliato,<br />

rinvio al classico A. K. COOMARASWAMY, L’albero, la ruota, il loto. Elementi<br />

<strong>di</strong> iconografia buddhista, trad. it. Roma-Bari 2009 (ed. orig. 1935), 35-51.<br />

96 Cfr. STRONG, cit., 190-196.<br />

97 Cfr. ibid., 8-12, 19 ss., 100 ss., 115 ss.<br />

98 Cfr. D. FREEDBERG, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e<br />

emozioni del pubblico, trad. it. <strong>Torino</strong> 1993 (ed. orig. 1989), 87-129.<br />

99 Cfr. J. ASSMANN, Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in<br />

Israele e in Europa, trad. it. <strong>Torino</strong> 2002 (ed. orig. 2000), 5-23, 247-263 e passim.


‘Vestigia Christi’<br />

tutta la cristianità, dal Crescente fertile all’estremo Occidente. L’intensificarsi,<br />

poi, delle attestazioni in concomitanza con il grande sviluppo<br />

del pellegrinaggio ai luoghi santi, tra IV e VIII secolo, accompagna a<br />

sua volta, e sembra confermare, l’intensificarsi <strong>di</strong> un culto per le immagini<br />

miracolose variamente associato alle reliquie del Cristo e dei martiri:<br />

una prassi devozionale che, al <strong>di</strong> là delle sfumature e delle <strong>di</strong>vergenze<br />

tra le varie posizioni <strong>degli</strong> stu<strong>di</strong>osi, viene ormai riconosciuta come<br />

una tra le cifre peculiari della religiosità <strong>di</strong> quei secoli 100 .<br />

100 Nel mare magnum della bibliografia, una sobria ed equilibrata rassegna è<br />

stata fornita da L. BRUBAKER, Icons before Iconoclasm?, in Morfologie sociali e<br />

culturali in Europa fra tarda antichità e alto me<strong>di</strong>oevo (Spoleto, 3-9 aprile 1997),<br />

Spoleto 1998, 1215-1254.<br />

179


L’IMMAGINE ACHEROPITA DI S. STEFANO: VISIONI, RIVELA-<br />

ZIONI, PICTURAE NELLA CHIESA AFRICANA DEL V SECOLO.<br />

1. Il problema<br />

ADELE MONACI CASTAGNO<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Nel dossier <strong>di</strong> fonti raccolte da Dobschütz, che costituisce ancora<br />

oggi un punto <strong>di</strong> riferimento negli stu<strong>di</strong>, la fonte <strong>di</strong> cui ci vogliamo occupare<br />

è menzionata, ma velocemente liquidata con un giu<strong>di</strong>zio piuttosto<br />

severo; pur dandole un certo rilievo, lo stu<strong>di</strong>oso tedesco afferma<br />

che «questa storia non smuove la nostra convinzione che la credenza e<br />

la dottrina teologica secondo cui le immagini sacre sono acheropiti,<br />

cioè non fatte da mano umana, siano circoscritte alla sola epoca <strong>di</strong><br />

Giustiniano» 1 . Nell’e<strong>di</strong>zione recente del De miraculis Sancti Stephani, il<br />

giu<strong>di</strong>zio non è più confortante: secondo Jean-Noel Michaud che de<strong>di</strong>ca<br />

uno stu<strong>di</strong>o all’episo<strong>di</strong>o, l’origine misteriosa dell’immagine «qui a quelque<br />

chose d’assez nettement byzantin» 2 sarebbe una pista falsa che non<br />

recita alcun ruolo nell’interpretazione del miracolo. Va subito detto<br />

che, secondo la classificazione proposta da Kitzinger 3 , si possono <strong>di</strong>stinguere<br />

due tipi <strong>di</strong> acheiropoietai: le immagini ritenute <strong>di</strong> mano <strong>di</strong>versa<br />

da quella dei comuni mortali oppure le immagini ritenute <strong>impronte</strong><br />

meccaniche e miracolose dell’originale: l’immagine <strong>di</strong> Uzalis appartiene<br />

naturalmente al primo tipo.<br />

Pur con queste delimitazioni, ritengo che questo testo meriti un approfon<strong>di</strong>mento:<br />

la sua precocità rispetto agli sviluppi più tar<strong>di</strong> in ambi-<br />

1 E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo, tr. it., Milano 2006, 49.<br />

2 J.-N. MICHAUD, Verum et velum: le miracle et l’image du miracle in Les<br />

Miracles de Saint Étienne: recherches sur le recueil pseudo-augustinienne (BHL<br />

7860-78619, avec é<strong>di</strong>tion critique, traduction et commentaire par J. MEYERS,<br />

Turnhout 2006, 188.<br />

3 E. KITZINGER, Il culto delle immagini. L’arte bizantina dal cristianesimo<br />

delle origini all’iconoclastia, tr. it., Firenze 1992, 44.<br />

181


182<br />

Adele Monaci Castagno<br />

to greco, il fatto che riguar<strong>di</strong> un’immagine relativa ad un martire e non<br />

a Cristo, l’area <strong>di</strong> provenienza latina ritenuta poco o nulla investita dai<br />

problemi che in Oriente crearono i presupposti per la ricezione delle<br />

immagini acheropite, sono, a mio avviso, tutti elementi che spingono<br />

ad analizzare il De miraculis dal punto <strong>di</strong> vista suggerito da questo nostro<br />

incontro, cercando, cioè, <strong>di</strong> far luce su come e perché, in un particolare<br />

ambiente e in particolari circostanze, l’idea <strong>di</strong> un’immagine miracolosa<br />

<strong>di</strong> provenienza <strong>di</strong>vina potesse farsi strada ed essere ritenuta<br />

plausibile. Si tratta insomma <strong>di</strong> mettere in luce un <strong>di</strong>spositivo in grado<br />

<strong>di</strong> illuminare in modo comparativo anche gli altri casi.<br />

Poco dopo il 424, Evo<strong>di</strong>o, vescovo <strong>di</strong> Uzalis, chiese ad un chierico o<br />

a un monaco della sua Chiesa 4 <strong>di</strong> mettere per scritto i miracoli compiuti<br />

da Stefano: «nostro patrono e primo martire» 5 . Evo<strong>di</strong>o fa parte <strong>di</strong><br />

quella cerchia <strong>di</strong> vescovi che, <strong>di</strong>scepoli e collaboratori <strong>di</strong> Agostino, con<strong>di</strong>visero<br />

le sue numerose battaglie e che, <strong>di</strong> concerto con il primate <strong>di</strong><br />

Ippona, si adoperarono ad assecondare e a guidare il culto del protomartire<br />

che si sviluppò a partire dall’arrivo delle sue reliquie in Occidente<br />

nel 416 6 . Come spesso avviene nelle opere appartenenti a questo<br />

genere letterario, fra cui però De miraculis S. Stephani è il testimone più<br />

antico, la redazione avvenne in più riprese: l’Anonimo raccolse nel primo<br />

libro una prima serie <strong>di</strong> miracula <strong>di</strong> cui alcuni avevano caratterizzato<br />

la presenza delle reliquie ad Uzalis ancor prima della loro presa in<br />

carico da parte della gerarchia ecclesiastica. Il vescovo decise poi <strong>di</strong> traslarle<br />

nella memoria appositamente costruita nella chiesa episcopale o<br />

in una cappella a<strong>di</strong>acente a questa da un’altra chiesa periferica de<strong>di</strong>cata<br />

ad altri martiri onorati ad Uzalis.<br />

4 L’A. poteva essere entrambi; Evo<strong>di</strong>o, seguendo l’esempio del suo maestro<br />

Agostino, fondò un monastero ove conduceva vita comune con i suoi sacerdoti,<br />

monastero che potrebbe essere quello citato da De miraculis 1,1, 2; 2,5,2. L’A.<br />

poteva appartenere al clero <strong>di</strong>ocesano, sul quale appare molto informato (Ibid.<br />

1,7; 2,4, 2; 2,5,2). Cfr. V. SAXER, Morts, martyrs reliques en Afrique chrétienne aux<br />

premiers siècles. Les témoignage de Tertullien, Cyprien et Augustin à la lumière<br />

de l’archéologie africaine, Paris 1980, 253 ; sul De miraculis in generale 245-254.<br />

Sulla storia del culto e le tra<strong>di</strong>zioni agiografiche su Stefano: F. BOVON, The<br />

Dossier on Stephen, Harvard Theological <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 96 (2003) 279-315. La datazione<br />

del De miraculis è congetturale, dopo l’estate del 424: Les miracles cit., 24.<br />

5 De miraculis 1, prol.<br />

6 A. MANDOUZE (ed.), Prosopographie chrétienne du Bas-Empire (=PCBE), T.<br />

I: Prosopographie de l’Afrique chrétienne (303-533), Paris 1982, 366-374.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

Questo primo libro venne fatto oggetto <strong>di</strong> una lettura pubblica nel<br />

corso <strong>di</strong> una liturgia de<strong>di</strong>cata al martire, una cerimonia durante la quale<br />

furono fatti salire sul pulpito anche i protagonisti <strong>di</strong> alcuni miracoli,<br />

a mano a mano che il resoconto dei miracoli che li riguardavano veniva<br />

letto all’assemblea. La descrizione <strong>di</strong> questa cerimonia che suscitò nei<br />

fedeli una profonda emozione è contenuta nel primo capitolo del secondo<br />

libro che, pur essendo anch’esso tutto de<strong>di</strong>cato ai miracula <strong>di</strong><br />

Stefano, ha rispetto al primo un carattere profondamente <strong>di</strong>verso in<br />

quanto destinato alla lettura (e all’ascolto) privato e non più liturgico.<br />

L’intento dell’A., che aggiunge questo secondo libro <strong>di</strong> sua iniziativa, è<br />

quello <strong>di</strong> lasciare una memorabilis historia dei miracoli compiuti fino ai<br />

“giorni nostri”. In chiusura del secondo libro, ne promette un terzo che<br />

non posse<strong>di</strong>amo e che avrebbe dovuto riunire i resoconti <strong>di</strong> altri miracoli<br />

che già circolavano sotto forma <strong>di</strong> piccoli libri (libelli) che li trattavano<br />

separatamente.<br />

Il racconto che ci interessa è nel secondo libro e narra una vicenda<br />

che si <strong>di</strong>stende in due tempi. In un giorno <strong>di</strong> mercato a Uzalis, il cielo<br />

sereno del mezzogiorno si oscurò improvvisamente e la folla vide in alto<br />

un drago <strong>di</strong> fuoco <strong>di</strong> immensa grandezza con il capo proteso dalle<br />

nubi 7 . Questi, stando sospeso, emetteva fiamme e gli astanti in preda<br />

all’angoscia lo vedevano già precipitare in mezzo alla città. Tutti abbandonano<br />

i loro commerci e si rifugiano «ad gremium Ecclesiae matris»<br />

per invocare la misericor<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Dio dopo essersi prostrati davanti<br />

alla memoria <strong>di</strong> Stefano. L’intercessione del martire invocato per rivolgere<br />

la sua preghiera a Cristo ottenne dalla clemenza <strong>di</strong>vina che «l’orribile<br />

massa cerulea cominciò a poco a poco a sottrarsi e a nascondersi<br />

alla vista <strong>degli</strong> uomini nel cerchio delle nubi e, con il ritorno del sereno<br />

là dove i venti si erano scatenati, venne <strong>di</strong>spersa e allontanata» 8 . Gli<br />

animi <strong>di</strong> tutti tornarono alla letizia e la scena si chiude sulla commossa<br />

gratitu<strong>di</strong>ne espressa a Dio e all’amico suo Stefano.<br />

Il giorno seguente avvenne – sono le parole dell’A. – «un miracolo<br />

ancora più straor<strong>di</strong>nario». «In loco Memblonitano», a circa <strong>di</strong>eci Km<br />

da Uzalis 9 , il sud<strong>di</strong>acono Semno della chiesa <strong>di</strong> Uzalis viene avvicinato<br />

7 De miraculis 2, 4.<br />

8 De miraculis 2,4, p. 242, 36-39: “Horrendus illius caerulei globus paulatim<br />

coepit a conspectu hominum inter nubium septa subtrahi atque abscon<strong>di</strong>, et qua<br />

uenti incubuerant, redeunte caeli serena facie, <strong>di</strong>scuti ac propelli”.<br />

9 C. HAMDOUNE, La vie quoti<strong>di</strong>enne à Uzalis, in Les Miracles cit., 113.<br />

183


184<br />

Adele Monaci Castagno<br />

da uno sconosciuto, un negotiator, che dopo essersi sincerato della sua<br />

identità gli consegna «uelum uariis pictum e cera coloribus» 10 . L’A. ritiene<br />

inoltre, ma su questo tornerò in seguito, che l’«ignotus homo»<br />

fosse un angelo.<br />

La pictura presente sul uelum ritraeva un soggetto articolato in più<br />

scene che l’A. descrive partendo dalla parte destra del tessuto:<br />

«Si vedeva il beato Stefano in persona in pie<strong>di</strong> che portava sulle sue spalle<br />

la croce gloriosa, lo si vedeva percuotere con la punta della croce la porta<br />

della città, dalla quale si scorgeva fuggire il drago spaventoso, evidentemente<br />

perché l’amico <strong>di</strong> Dio stava entrando. Ma quel serpente malevolo<br />

che non era al sicuro neppure con la fuga, lo si vedeva calpestato e schiacciato<br />

dal piede trionfante del martire <strong>di</strong> Cristo» 11 .<br />

Quando Semno portò il velo a Uzalis e lo sospese davanti alla memoria<br />

<strong>di</strong> Stefano, i fedeli <strong>di</strong> ogni età e sesso si misero a guardare e ad<br />

ammirare spectaculum grande : essi – aggiunge poco dopo l’A. – «vedevano<br />

per or<strong>di</strong>ne e per mano liberatrice <strong>di</strong> chi il drago era stato <strong>di</strong>strutto<br />

e il nemico vinto».<br />

10 Secondo il commentatore (367, n. 85) si farebbe qui riferimento alla tecnica<br />

dell’encausto secondo uno dei proce<strong>di</strong>menti descritti da Plinio, Hist. nat. 25, 39,<br />

122. Nei primi secoli, questa tecnica applicata a tessuti è testimoniata da alcuni<br />

ritratti appartenenti a mummie del Fayoum. Fa <strong>di</strong>fficoltà il fatto che il uelum<br />

farebbe pensare ad un supporto tessile <strong>di</strong> una certa <strong>di</strong>mensione se venne appeso<br />

davanti alla memoria come cortina o tenda usata per separare l’e<strong>di</strong>cola dai fedeli.<br />

Secondo J. TRILLING, The Image not made by Hands and the Byzantine Way of<br />

Seeing, in H.L. KESSLER - G. WOLF (edd.), The Holy Face and the Paradox of<br />

Representaion, Bologna 1998, 109-127, 115, si farebbe riferimento piuttosto ad<br />

una tecnica del tipo “a riserva”, per intenderci, ora più nota con il termine batik,<br />

che era conosciuta nel mondo tardo antico, ma non in più colori. In questo caso,<br />

visto che si trattava <strong>di</strong> tecnica che richiedeva una lunga lavorazione, la precisazione<br />

dell’A. non sarebbe priva <strong>di</strong> riferimento al carattere miracoloso dell’immagine,<br />

arrivata a Uzalis solo il giorno dopo <strong>degli</strong> avvenimenti.<br />

11 De miraculis 2,4, p. 344, 54-59: “In dextera ueli parte ipse sanctus Stephanus<br />

uidebatur adstare, et gloriosam crucem propriis repositam humeris baiulare, qua<br />

crucis cuspide portam ciuitatis uidebatur pulsare, ex qua profugiens draco taeterrimus<br />

cernebatur exire, amico Dei uidelicet aduentante. Verum ille serpens noxius<br />

nec in ipsa fuga tutissimus, sub triumphali pede martyris Christi contritus aspiciebatur<br />

et pressus”.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

2. La rappresentazione <strong>di</strong> Stefano in ambiente africano<br />

Il recente commento dell’episo<strong>di</strong>o, già citato e che è a mia conoscenza<br />

anche l’unico più approfon<strong>di</strong>to, sostiene che quando L’A. sottolinea<br />

il carattere miracoloso del secondo episo<strong>di</strong>o, non intenderebbe riferirsi<br />

all’origine <strong>di</strong>vina dell’immagine, ma alluderebbe ad un miracolo <strong>di</strong> natura<br />

spirituale: i fedeli osservando l’immagine avrebbero maturato una<br />

più chiara conoscenza della presenza del male nel mondo e della sconfitta<br />

<strong>di</strong> questo ad opera della croce 12 , secondo una chiave <strong>di</strong> lettura spiritualizzante<br />

che effettivamente affiora in altri racconti della stessa raccolta<br />

13 . Lo stesso stu<strong>di</strong>oso ammette che la sua interpretazione presuppone<br />

che l’immagine osservata con stupore e ammirazione dai fedeli <strong>di</strong><br />

Uzalis sarebbe stata in realtà un’immagine generica che rappresentava<br />

non Uzalis, ma una città qualunque, non Stefano, ma un martire qualunque<br />

o Cristo stesso recante la croce gloriosa: «On peut aussi supposer<br />

qu’un détail de la peinture permettait d’identifier le martyr et Uzalis.<br />

Mais ce serait une supposition gratuite et inutile car le texte met en<br />

place un <strong>di</strong>spositif d’interprétation qui n’aurait aucun sens si la peinture<br />

représentait Uzalis et non une cité quelconque» 14 . Tuttavia l’A. del<br />

De miraculis insiste molto sull’identificazione <strong>di</strong> Stefano: lo ripete ben<br />

tre volte nelle quattro righe <strong>di</strong> descrizione dell’immagine; a mio avviso,<br />

non è importante che cosa l’ignoto artista avesse voluto rappresentare,<br />

ma che cosa rendeva plausibile agli occhi dei fedeli <strong>di</strong> Uzalis e del redattore<br />

del De miraculis l’identificazione della scena rappresentata con<br />

quanto era successo il giorno prima. Naturalmente non possiamo sapere<br />

sull’immagine del telo più <strong>di</strong> quanto l’A. ci <strong>di</strong>ce ed egli non specifica<br />

i motivi che lo spingono a identificare nel personaggio raffigurato Stefano;<br />

tuttavia possiamo spingere un po’ più a fondo l’analisi, chiedendoci,<br />

in primo luogo, se nel suo ambiente esisteva un’iconografia relativa<br />

a Stefano e se il De miraculis in altri passi mostra <strong>di</strong> conoscerla e <strong>di</strong><br />

averla recepita.<br />

Di grande importanza è il luogo dove l’immagine si trovava esposta<br />

agli occhi dei fedeli: davanti alla memoria <strong>di</strong> Stefano, un’e<strong>di</strong>cola all’interno<br />

della chiesa episcopale o in luogo ad essa strettamente collega-<br />

12 MICHAUD, Verum cit., 188-191.<br />

13 G. DE NIE, Imaging Miracles in Early Fifth-century Uzalis, in <strong>Stu<strong>di</strong></strong>a<br />

Patristica XL, Leuven-Paris-Dudley 2006, 21-36.<br />

14 MICHAUD, Verum cit., 191,7; 189; cfr. anche più avanti p. 191.<br />

185


186<br />

Adele Monaci Castagno<br />

to 15 . Negli stessi anni, Agostino testimonia ad Ippona una pratica simile:<br />

in un’omelia pronunciata in onore del martire, il vescovo fa esplicito<br />

riferimento alla «dulcissima pictura» 16 che i fedeli potevano osservare e<br />

in cui era raffigurato Stefano mentre veniva lapidato e Saulo che custo<strong>di</strong>va<br />

le vesti <strong>di</strong> coloro che avevano testimoniato contro <strong>di</strong> lui, un’immagine<br />

dunque che corrispondeva a Atti 7, 58-59.<br />

In una Chiesa come quella africana, in cui si leggevano le passiones<br />

dei martiri nel giorno a loro de<strong>di</strong>cato 17 , quella <strong>di</strong> Stefano godeva <strong>di</strong><br />

un’autorità ancora più grande. Come fa osservare ancora Agostino 18 ,<br />

Stefano è l’unico martire la cui passio fa parte della Scrittura e il pre<strong>di</strong>catore,<br />

prendendo la parola dopo la lettura del passo <strong>degli</strong> Atti, non<br />

manca <strong>di</strong> richiamare l’attenzione dei fedeli sui dettagli per lui significativi<br />

del testo incoraggiandoli a farsene un’immagine mentale 19 .<br />

In At 6,1-6 si afferma che Stefano faceva parte <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> sette<br />

uomini scelti tramite l’imposizione delle mani dai do<strong>di</strong>ci per «il servizio<br />

delle mense» (<strong>di</strong>akonia); come osserva Agostino in un’omelia de<strong>di</strong>cata<br />

a Stefano, la traduzione esatta del termine greco <strong>di</strong>akonos è minister,<br />

ma – aggiunge – «Abbiamo ormai l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> usare termini in greco,<br />

al posto <strong>di</strong> quelli latini».Osserva, inoltre, che in alcuni co<strong>di</strong>ci dei Vangelo<br />

il termine <strong>di</strong>akonos, invece <strong>di</strong> «Ubi ego sum, illic et minister meus»<br />

(Gv 12,26), viene reso: «Ubi sum ego, illi et <strong>di</strong>aconus meus» 20 . Pertanto<br />

il pre<strong>di</strong>catore si sente autorizzato ad usare il termine <strong>di</strong>aconus e a sviluppare<br />

questo uso linguistico per mettere in luce come Stefano, «dopo<br />

gli Apostoli e dagli Apostoli or<strong>di</strong>nato primo <strong>di</strong>acono, ottenne la corona<br />

prima <strong>degli</strong> Apostoli» 21 .<br />

15 Y. DUVAL, Les monuments du culte d’Etienne à Uzalis, in Les miracles cit.,<br />

97-100.<br />

16 Aug., Serm. 316, 5.<br />

17 F. DE GAIFFIER, La lecture des Actes des Martyrs dans la prière liturgique en<br />

Occident. À propos du Passionaire hispanique, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana 72 (1954),<br />

143-145. V. SAXER, Morts, martyrs cit., 200-208.<br />

18 Serm. 315,1. Utilizzo la seguente e<strong>di</strong>zione: Sant’Agostino, Discorsi, vol. V<br />

(273-340/A), Sui Santi. Testo latino dell’e<strong>di</strong>zione maurina e delle e<strong>di</strong>zioni postmaurine.<br />

Introduzione <strong>di</strong> A. Quacquarelli. Traduzione, note e in<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> M.<br />

Recchia, Roma 1986.<br />

19 Serm. 315, 3: “Au<strong>di</strong>stis, et spectacula cor<strong>di</strong>s vi<strong>di</strong>stis. Sonus erat in auribus,<br />

visio in mentibus. Spectatis magnum agonem Sancti Stephani, qui in agone lapidabatur”.<br />

20 Serm. 319, 3.<br />

21 Serm. 317,1 e 316, 1.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

Nella Chiesa del V secolo il termine <strong>di</strong>aconus in<strong>di</strong>viduava un or<strong>di</strong>ne<br />

appartenente al sacerdozio ed è naturale che i fedeli comprendessero la<br />

<strong>di</strong>akonia apostolica <strong>di</strong> Stefano alla luce del <strong>di</strong>aconato del loro tempo e<br />

se ne facessero un’immagine mentale corrispondente. I fedeli <strong>di</strong> Uzalis<br />

erano inoltre visitati spesso in sogno da Stefano e il resoconto delle loro<br />

visioni conteneva, fra l’altro, «un portrait en mot» 22 : Stefano appare<br />

ai fedeli sempre come un giovane <strong>di</strong> aspetto bellissimo, vestito <strong>di</strong> una<br />

veste bianca, talvolta recante le insegne del <strong>di</strong>aconato 23 , talvolta vestito<br />

in modo da far pensare ad un giovane <strong>di</strong> rango elevato 24 .<br />

L’immagine <strong>di</strong> Stefano nell’aspetto <strong>di</strong> un bel giovane con i capelli<br />

corti e senza barba nel mosaico (ricostruito) <strong>di</strong> S. Lorenzo fuori le mura<br />

a Roma (Tav. 19), che risalirebbe al V sec. e in quello <strong>di</strong> una piccola<br />

cappella costruita all’interno dell’anfiteatro <strong>di</strong> Dyrrachium in Albania<br />

risalente al VI sec. (Tav. 20) 25 , può essere esempio <strong>di</strong> un’iconografia <strong>di</strong><br />

Stefano ampiamente <strong>di</strong>ffusa formatasi in corrispondenza al rilancio del<br />

culto <strong>di</strong> Stefano a partire appunto dal V sec. In entrambe le raffigurazioni<br />

Stefano veste la dalmatica con sopra una stola bianca.<br />

L’aspetto giovanile era già menzionato da Agostino 26 e potrebbe essere<br />

collegato alla carica <strong>di</strong> <strong>di</strong>acono che nel cursus honorum ideale era<br />

la più bassa <strong>degli</strong> or<strong>di</strong>ni sacerdotali oppure potrebbe riferirsi ad un modello<br />

angelico suggerito forse in At 6,15. Agostino, inoltre, insiste su un<br />

dettaglio che non è esplicitato dal testo <strong>degli</strong> Atti, ma che può essere<br />

22 L’espressione è <strong>di</strong> G. DAGRON, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique,<br />

Paris 2007, 155.<br />

23 De mirac. 1,4: “Amictum veste can<strong>di</strong>da, specie decora”; 1,6: “Juvene, can<strong>di</strong>da<br />

veste nitente, habitum <strong>di</strong>aconi praeferente”; 1,11: “Juvenili forma prae<strong>di</strong>tum,<br />

speciosa etiam ueste et habitu decorum”; 2, 2, 6: “Videt apparentem sibi insignem<br />

uirum uisu, <strong>di</strong>aconi praeferentem habitum”; Ibid.: “Videt illum decorum habitu<br />

juuenem, nivea veste fulgentem”.<br />

24 De mirac. 1, 14: “Per somnium uidet sibi apparere quemdam decorum juuenem,<br />

cujusdam honorati et primarii ciuitatis uiri nomine Uzalensis uultum habitumque<br />

praeferentem”; 2,2,9: “Ibique juuenem illum speciosum cerneret, can<strong>di</strong>da<br />

luce perfusum et insigni equo subvectum, lampadesque quamplures lucentes, ac<br />

praecedens ei splen<strong>di</strong><strong>di</strong>ssimum apparatum”; cfr. L. GRIGG, Making Martyrs in<br />

Late Antiquity, London 2004, 111-135.<br />

25 R. CORMACK, Writing in Gold. Byzantine Society and Its Icons, London<br />

1985, 84. G. NITZ, Stephan, in Lexikon der christlichen Ikonographie, Bd. 8 (1990),<br />

395-403.<br />

26 Ibid. c. 395.<br />

187


188<br />

Adele Monaci Castagno<br />

dedotto da esso, se si affronta il problema <strong>di</strong> come rendere la scena con<br />

un’immagine. Il testo afferma che Stefano si mise in ginocchio per rivolgere<br />

al Signore la preghiera <strong>di</strong> non imputare ai suoi persecutori il loro<br />

peccato. Di qui la deduzione che Stefano era in pie<strong>di</strong> (stans) quando,<br />

poco prima, pronunciava le altre sue parole: «Signore Gesù ricevi il mio<br />

spirito» (At 7,58). Nell’immagine <strong>di</strong> Ippona, Stefano era raffigurato<br />

così, altrimenti il vescovo avrebbe avuto qualche <strong>di</strong>fficoltà a farsi capire<br />

quando, nella stessa omelia cui accenna alla pictura, attira l’attenzione<br />

proprio sul fatto che Stefano, mentre pronuncia la preghiera è stans –<br />

in pie<strong>di</strong> –, mentre quando prega per i suoi persecutori si mette in ginocchio<br />

27 . Interessante è anche lo sviluppo esegetico collegato a tale osservazione<br />

che viene ripetuta anche altrove: «Perché – si domanda il pre<strong>di</strong>catore<br />

– raccomandò se stesso stando in pie<strong>di</strong>? Perché raccomandava<br />

un giusto», mentre si mise in ginocchio per pregare per dei malvagi 28 . È<br />

un giusto che prega per la sua giusta ricompensa 29 ; è, pur nell’apparente<br />

sconfitta della lapidazione, un vincitore 30 .<br />

Ritengo che una traccia <strong>di</strong> questi sviluppi esegetici agostiniani sia rimasta<br />

nella descrizione della pictura <strong>di</strong> Uzalis: «In dextera ueli parte<br />

ipse sanctus Stephanus uidebatur adstare». La precisazione riferita ad<br />

una figura che portava sulle spalle una “croce gloriosa” è ridondante e<br />

potrebbe essere la trascrizione “automatica” <strong>di</strong> un’immagine mentale<br />

plasmata dall’esegesi agostiniana. Il punto che mi preme sottolineare è<br />

che nei primi decenni del V secolo in ambiente africano esisteva un intreccio<br />

<strong>di</strong> testi, immagini, visioni, interpretazioni esegetiche che concorrevano<br />

a formare un’immagine mentale con<strong>di</strong>visa dell’aspetto <strong>di</strong><br />

Stefano 31 .<br />

In che misura la pictura <strong>di</strong> Uzalis descritta dall’A. rifletteva l’immagine<br />

<strong>di</strong> Stefano quale risulta dalla pre<strong>di</strong>cazione agostiniana e dalle visioni<br />

del De miraculis? La figura della pictura <strong>di</strong> Uzalis non doveva <strong>di</strong>scostarsene<br />

molto se l’A. ritiene che essa potesse essere plausibilmente<br />

27 Aug., Serm. 316, 3.<br />

28 Ibid. e Serm. 315, 3. 4.5: “Discrevi iustum a peccatoribus: pro iusto stans<br />

petebat, quia mercedem exigebat”.<br />

29 Serm. 315, 3. 4.5: “Discrevi iustum a peccatoribus: pro iusto stans petebat,<br />

quia mercedem exigebat”.<br />

30 Serm. 315,7. Cfr. anche Serm. 317, 5.<br />

31 Su questi intrecci DAGRON, Décrire cit., 86-93; J.M. SANSTERRE, Appa ritions<br />

et miracles à Ménouthis: de l’incubation païenne à l’incubation chrétienne, in A.<br />

DIERKENS (ed.), Apparitions et miracles, Bruxelles 1991, 69-83.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

collegata a Stefano, “santo”, “amico <strong>di</strong> Dio”, “martire <strong>di</strong> Cristo”; questo<br />

non significa, tuttavia, che chi aveva eseguito la pittura intendesse<br />

ritrarre proprio Stefano. Non si può non notare, ad esempio, che essa,<br />

se riferita ad un martire, rappresenterebbe, allo stato attuale della documentazione<br />

iconografica, un caso isolato. In primo luogo, va osservato<br />

che non si tratta <strong>di</strong> una scena <strong>di</strong> martirio che, nel periodo che va<br />

dall’ultimo quarto del IV sec. ai primi due decenni del V sec., sembra<br />

essere un modo già tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> rappresentare i martiri stando almeno<br />

alle fonti letterarie che descrivono immagini per noi perdute: <strong>di</strong> questo<br />

tipo era la «pictura dulcissima» raffigurante Stefano a Ippona, le<br />

immagini <strong>di</strong> Cassiano e Ippolito descritte da Prudenzio e in Oriente<br />

quelle descritte da Asterio, da Gregorio <strong>di</strong> Nissa riguardanti rispettivamente<br />

i martìri <strong>di</strong> Eufemia e Teodoro 32 . Inoltre, la figura che reca sulla<br />

spalla la croce gloriosa come un trofeo e che calpesta il dragone corrisponde<br />

piuttosto all’iconografia <strong>di</strong> Cristo victor cui era spesso connessa<br />

la calcatio simboleggiante la sconfitta del <strong>di</strong>avolo 33 . Nelle raffigurazioni<br />

più antiche (IV- VI secc.) Cristo appare come un giovane guerriero<br />

imberbe 34 .<br />

L’azione della calcatio compare raffigurata talvolta in connessione<br />

con la raffigurazione del descensus <strong>di</strong> Cristo agli inferi: in questo caso la<br />

calcatio del nemico è inserita in una scena più complessa comprendente<br />

le porte aperte dell’inferno e la liberazione dei prigionieri – dei santi –<br />

che fino a quel momento vi erano rinchiusi, secondo un’iconografia il<br />

cui testimone più antico conosciuto è dell’inizio dell’VIII sec., ma che ha<br />

alla base una tra<strong>di</strong>zione letteraria molto più antica e <strong>di</strong>ffusa 35 . L’immagine<br />

<strong>di</strong> Uzalis potrebbe essere stata la raffigurazione <strong>di</strong> questa scena:<br />

Cristo con l’estremità della croce batte energicamente la porta, pulsare<br />

può in<strong>di</strong>care il semplice bussare, ma anche un’azione più violenta: il percuotere,<br />

battere spingere, un forzare, appunto, la porta 36 .<br />

32 F. BISCONTI, Dietro e intorno all’iconografia martiriale romana: dal ‘vuoto fi -<br />

gu rativo’ all’‘immaginario devozionale’, in M. LAMBERIGTS - P. VAN DEUN (edd.),<br />

Martyrium in Multi<strong>di</strong>sciplinary Perspective. Mémorial Louis Reekmans, Leuven<br />

1995, 247-292, cfr. 260-266.<br />

33 G. SCHILLER, Die Auferstehung und Erhöhung Christi, in Ikonographie der<br />

christlichen Kunst, Bd 3, Gütersloher 1971, 32-41.<br />

34 Ibid. Tav. 62; 63; 64.<br />

35 SCHILLER cit., 47-50. R. GOUNELLE, La descente du Christ aux enfers: institutionnalisation<br />

d’une croyance, Paris 2000.<br />

36 “Qua crucis cuspide portam ciuitatis uidebatur pulsare, ex qua profugiens<br />

189


190<br />

Adele Monaci Castagno<br />

Non sono note immagini <strong>di</strong> calcatio riferite a martiri; non ritengo<br />

sufficientemente argomentata l’interpretazione <strong>di</strong> Marucchi relativa a<br />

una medaglia devozionale in bronzo, datata fra V e VII secolo, raffigurante<br />

una figura nimbata recante sulla spalla una croce che calpesta un<br />

serpente attorcigliato, a suo <strong>di</strong>re unico esempio iconografico riferito ad<br />

un santo (Tav. 21) 37 . Il Marucchi, che non conosce il testo del De miraculis,<br />

la identifica con Lorenzo, per il particolare della croce, che in effetti<br />

caratterizza la più antica iconografia <strong>di</strong> Lorenzo come possiamo<br />

vederla in un frammento <strong>di</strong> vetro dorato del IV secolo (Tav. 22); in un<br />

affresco della catacomba <strong>di</strong> S. Senatore ad Albano Laziale (tardo V secolo);<br />

nella Basilica <strong>di</strong> Lorenzo fuori le Mura a Roma (Tav. 20) e infine<br />

nel Mausoleo <strong>di</strong> Galla Placi<strong>di</strong>a 38 . Egli esclude che possa riferirsi a Cristo,<br />

per il solo motivo che il personaggio è raffigurato con i capelli e<br />

barba corti, mentre nello stesso periodo il Salvatore sarebbe stato raffigurato<br />

con una capigliatura lunga e la barba lunga <strong>di</strong>visa. In realtà, la<br />

raffigurazione <strong>di</strong> Cristo <strong>di</strong> tipo semitico, secondo la classificazione proposta<br />

da Belting, è ancora <strong>di</strong>ffusa fra V e VII sec. 39<br />

Come ho detto prima, in<strong>di</strong>pendentemente da ciò che l’ignoto artista<br />

avesse inteso realmente raffigurare sul velum <strong>di</strong> Uzalis, la questione per<br />

noi significativa è cercare <strong>di</strong> comprendere che cosa rendesse plausibile<br />

agli occhi dell’A. del De miraculis e dei fedeli <strong>di</strong> Uzalis l’identificazione<br />

<strong>di</strong> Stefano nel personaggio che calpesta il dragone. Ora se vi poteva essere<br />

un ambiente ricettivo riguardo all’immagine <strong>di</strong> un martire che calpesta<br />

un draco questo era senza dubbio l’Africa <strong>di</strong> Agostino, ove una<br />

straor<strong>di</strong>naria venerazione circondava i martiri e ogni anno nel <strong>di</strong>es natalis<br />

<strong>di</strong> Perpetua si leggeva la sua Passio contenente il resoconto <strong>di</strong> una<br />

sua visione ove la donna afferma <strong>di</strong> aver visto se stessa in visione calpestare<br />

la testa <strong>di</strong> un draco, prima <strong>di</strong> cominciare a salire una scala simboleggiante<br />

il suo martirio 40 . Sulla base <strong>di</strong> questi elementi – un’immagine<br />

con<strong>di</strong>visa dei tratti caratteristici <strong>di</strong> Stefano, l’immagine del martire imi-<br />

draco taeterrimus cernebatur exire”. Ringrazio R. Gounelle, presente al Con ve -<br />

gno, <strong>di</strong> avermi suggerito questa pista <strong>di</strong> ricerca.<br />

37 O. MARUCCHI, Eine Medaille und eine Lampe aus der Sammlung Zurla,<br />

Romische Quartalschrift 1 (1887), 316-325, pl. X. n.1.<br />

38 GRIGG, Making Martyrs cit., 136 sgg.; L. PETZOLDT, Laurentius, in Lexikon<br />

der christlichen Ikonographie, vol. 7 (1990), 374-380.<br />

39 H. BELTING, Il culto delle immagini: storia dell’icona dall’età imperiale al<br />

tardo Me<strong>di</strong>oevo, tr. it., Roma 2001, 172-173.<br />

40 Passio Perpetuae 4,7; più avanti 10,11 un’altra visione <strong>di</strong> Perpetua, in cui ella


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

tatore <strong>di</strong> Cristo vittorioso sul demonio – non c’è, a mio avviso, un motivo<br />

fondato per non dare fiducia all’A., quando questi, pur senza ulteriori<br />

specificazioni, afferma <strong>di</strong> riconoscere nel velum il santo patrono<br />

Stefano in azione.<br />

3. Visione, realtà, verità<br />

Un altro aspetto da sottolineare è che l’A. ricorre a <strong>di</strong>versi accorgimenti<br />

per accre<strong>di</strong>tare l’idea che l’origine della pictura fosse miracolosa.<br />

Notiamo intanto che quello che poteva apparire come una normale<br />

transazione commerciale fra un ven<strong>di</strong>tore e un acquirente interessato<br />

ad acquistare un’immagine religiosa viene circondato da un’aura <strong>di</strong> mistero:<br />

l’A. insiste sul fatto che il negotiator si rivolge a Semno ultro – <strong>di</strong><br />

sua iniziativa – e che dopo aver appreso chi fosse, “subito” gli consegna<br />

il velo, quasi eseguisse un incarico della <strong>di</strong>uina <strong>di</strong>spensatio menzionata<br />

poco prima; insiste anche sul fatto che il negotiator non era mai stato<br />

visto prima “nella nostra regione”, che fosse homo ignotus. «Bisogna<br />

credere – conclude l’A. – che quest’uomo era un angelo in quanto non<br />

è cosa inau<strong>di</strong>ta, né fuori dall’esperienza… che i santi angeli si sono mostrati<br />

spesso sotto un’apparenza terrestre e una forma visibile» 41 . Il fatto<br />

poi che si fosse materializzata lontano da Uzalis, a un giorno <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza<br />

dagli avvenimenti, un’immagine dalle conseguenze così significative<br />

per interpretare proprio tali avvenimenti sottolinea ancora <strong>di</strong> più<br />

la sua origine misteriosa e <strong>di</strong>vina: l’avvenimento del giorno prima e<br />

l’immagine consegnata a Semno il giorno seguente è un geminum miraculum,<br />

come riba<strong>di</strong>rà l’A. alla fine del racconto.<br />

Tuttavia, non si tratta soltanto <strong>di</strong> questo: l’origine miracolosa dell’immagine,<br />

lungi da essere marginale nell’economia complessiva del<br />

racconto, è invece l’esito estremo, ma coerente, della rilevanza, specifica<br />

del De miraculis, del rapporto fra visione e realtà, fra l’immagine<br />

mentale <strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina e l’interpretazione <strong>di</strong> ciò che avviene nella<br />

realtà.<br />

Ponendosi nel solco del <strong>di</strong>scorso agiografico africano caratterizzato<br />

fin dalle Passiones più antiche dalla centralità delle visioni in stato <strong>di</strong><br />

combatte nell’arena contro un Egizio, simbolo del <strong>di</strong>avolo, presenta una seconda<br />

scena <strong>di</strong> calcatio.<br />

41 De miraculis 2,4, ll. 48-52.<br />

191


192<br />

Adele Monaci Castagno<br />

veglia o in sogno 42 , anche il nostro Anonimo riserva loro un ruolo <strong>di</strong><br />

primo piano, fin dal primo miracolo narrato che precede il rumor annunciante<br />

l’arrivo delle reliquie <strong>di</strong> Stefano nella Chiesa <strong>di</strong> Uzalis. Una<br />

«sacra famula Dei», che ha ascoltato una conversazione <strong>di</strong> «servi <strong>di</strong><br />

Dio» sulle reliquie <strong>di</strong> Stefano appena ricevute dall’Oriente, si chiede come<br />

si poteva essere certi che fossero proprio le reliquie del martire. Nella<br />

notte stessa ha una visione in cui un presbitero mette un’ampolla<br />

contenente «come delle gocce <strong>di</strong> sangue e delle spighe che la inducevano<br />

pensare a delle ossa» 43 in bocca <strong>di</strong> un monaco presente e subito dalle<br />

sue orecchie e dagli occhi erompono fiamme.<br />

Il miracolo, in questo caso, consiste nella coincidenza fra ciò che<br />

l’ancilla Dei vide «in somnii reuelatione» e ciò che avvenne poi «in<br />

ipsius rei manifestatione». Una coincidenza che per manifestarsi pienamente<br />

ha bisogno <strong>di</strong> un’esegeta, l’A. stesso, che riconosce, nell’ampolla<br />

sognata, quella realmente arrivata nelle mani del vescovo; nelle fiamme<br />

provenienti dall’ampolla, la prae<strong>di</strong>catio sulle sante reliquie da parte dei<br />

monaci e da questi propagate all’intero corpo della Chiesa <strong>di</strong> Uzalis;<br />

nel presbyter, il prete arrivato dall’Oriente – cioè Orosio – che parlò<br />

delle reliquie ai monaci, infiammandoli del fuoco sacro 44 .<br />

Ancora una visione accompagna un’altra tappa importante del ra<strong>di</strong>camento<br />

del culto <strong>di</strong> Stefano a Uzalis: una sacra virgo si vede in sogno<br />

percorrere una strada secondaria che porta alla chiesa periferica de<strong>di</strong>cata<br />

ai martiri Felice e Genna<strong>di</strong>o. Le viene incontro una folla immensa<br />

che, con ceri e lampade, accompagna «can<strong>di</strong>datum parvulum» acclamandolo<br />

come Confessore <strong>di</strong> Cristo. Giunti nella chiesa <strong>di</strong> Uzalis lo<br />

fanno salire sul pulpito e il fanciullo stendendo le mani <strong>di</strong>ce: «Ecco,<br />

avete un martire». Il miracolo consiste anche qui nella puntuale corrispondenza<br />

con quanto accadde dopo quaranta giorni, quando un corteo<br />

festante accompagnò – proprio su quella strada secondaria – il ve-<br />

42 M. DULAEY, Le rêve dans la vie et la pensée de Saint Augustin, Paris 1973,<br />

181-200 (sui sogni del De miraculis). Per l’A., i sogni non sono sogni or<strong>di</strong>nari ma<br />

vere e proprie “rivelazioni”; anche l’uso <strong>di</strong> video con la proposizione participiale<br />

(invece <strong>di</strong> visus + l’infinito) tende a suggerire la stessa cosa (DULAEY, Le rêve cit.,<br />

158); «Videt per somnium perductum se» (De miraculis 1,4, p. 280, 9; 1,11, p. 296,<br />

10 etc.).<br />

43 De miraculis 1,1, p. 270, 14: «Intra se habens sanguinis quamdam aspersionem<br />

et aristarum quasi ossuum significationem»; è l’unica descrizione presente<br />

nel testo delle reliquie.<br />

44 Ibid.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

scovo che, seduto su un carro con in grembo le reliquie <strong>di</strong> Stefano –<br />

«uelut paruulus can<strong>di</strong>datus», le traslò nella chiesa principale.<br />

Se nel sogno era stato il fanciullo stesso a manifestarsi come martire,<br />

nella realtà fu la lettura dal pulpito della lettera <strong>di</strong> Severo <strong>di</strong> Minorca in<br />

cui venivano raccontate le virtutes compiute dalle reliquie nella sua<br />

Chiesa a proclamare <strong>di</strong> fronte ai fedeli <strong>di</strong> Uzalis esultanti: «Ecce habetis<br />

martyrem» 45 . Anche in questo caso la corrispondenza è resa esplicita<br />

dall’esegeta che – secondo la propria cultura teologica – tratta le visioni<br />

come profezie il cui adempimento nella realtà può essere mostrato<br />

soltanto attraverso la decifrazione dei significati simbolici delle parti<br />

delle visioni meno realistiche 46 . La “realtà” per altro rivela la sua verità<br />

proprio nella misura in cui è interpretata alla luce della visione.<br />

Ancora una visione accompagna un’altra fase cruciale del ra<strong>di</strong>camento<br />

del culto <strong>di</strong> Stefano a Uzalis. Il vescovo decise <strong>di</strong> trasferire parte<br />

delle reliquie del martire in una chiesa <strong>di</strong>versa, ma ecco che, quando si<br />

<strong>di</strong>ffonde la notizia che si sta preparando il veicolo che avrebbe trasportato<br />

l’indomani il vescovo con le reliquie, la folla gli si fa intorno, lo<br />

stringe, lo obbliga a rimettere le reliquie al loro posto. Un tale episo<strong>di</strong>o<br />

avrebbe riverberato sul vescovo – la cui volontà era miseramente fallita<br />

– e sui suoi fedeli che l’avevano ostacolato con successo una luce negativa,<br />

se esso non fosse un altro anello della catena visione – compimento<br />

nella realtà costituita anche dagli altri episo<strong>di</strong>. In effetti due giorni<br />

prima del fatto due sacerdoti avevano avuto in visione chiari avvertimenti<br />

<strong>di</strong> non spostare le reliquie, ma non avevano ritenuto opportuno<br />

riferirli al vescovo. Uno dei due improvvi<strong>di</strong> fu preso a schiaffi e il vescovo,<br />

ora in grado <strong>di</strong> decifrare correttamente la volontà del santo, decise<br />

<strong>di</strong> riunire nella chiesa episcopale anche le reliquie che fino a quel momento<br />

si trovavano nel monastero episcopale 47 .<br />

Ritorniamo ora al nostro testo: in De Miraculis 2, 4 l’A. esprime la<br />

convinzione che il draco apparso alla folla <strong>di</strong> Uzalis non sia stato sol-<br />

45 I, 2; sulle traslazioni e le <strong>di</strong>verse fasi del culto <strong>di</strong> Stefano a Uzalis: Y. DU VAL,<br />

Le culte des reliques en Occident à la lumière du De miraculis, in Les miracles cit.,<br />

47-67, cfr. 56-58.<br />

46 J. MEYERS, Les citations bibliques dans le De miraculis, in Les miracles cit.,<br />

145-170, spec. 149-151: gran parte delle citazioni scritturistiche sono riferite a<br />

<strong>di</strong>versi eventi per <strong>di</strong>mostrare che la Scrittura ha trovato in essi la sua realizzazione.<br />

47 De miraculis 1,7; 8.<br />

193


194<br />

Adele Monaci Castagno<br />

tanto un preoccupante fenomeno atmosferico e neppure un evento da<br />

interpretare in modo simbolico. Insiste che si era trattato <strong>di</strong> un vero e<br />

proprio draco, in quanto i dracones esistono: lo testimonia non solo la<br />

«notitia popularis» ma anche la Scrittura, in quel punto dei Salmi in<br />

cui si <strong>di</strong>ce: «Lodate il Signore dalla terra, dragoni e tutti gli abissi, fuoco,<br />

gran<strong>di</strong>ne, neve, ghiaccio e venti <strong>di</strong> tempesta che compiono la sua<br />

parola» (148,7). Da questa citazione, l’A. ricava che i dracones sono<br />

reali come i fenomeni citati dopo e, come questi, sono s<strong>oggetti</strong> alla volontà<br />

<strong>di</strong> Dio. Una <strong>di</strong>fficoltà è rappresentata dal fatto che nella citazione<br />

biblica, il draco eleva la sua lode de terra, insieme agli abyssi, che normalmente<br />

in<strong>di</strong>cano le profon<strong>di</strong>tà marine, mentre la folla <strong>di</strong> Uzalis l’ha<br />

visto in cielo, ma l’A. suggerisce che abyssus è anche l’immensitas dell’aere<br />

tenebroso, denso dei vapori del mare e delle polveri della terra in<br />

cui si formano i fenomeni atmosferici.<br />

L’apparizione del draco è avvenuta «ex hac prouidentia <strong>di</strong>spensationis<br />

Dei». Nello sforzo <strong>di</strong> dare spessore <strong>di</strong> realtà a quanto ha impaurito<br />

la folla ricorrendo ad un’esegesi letterale della Scrittura, L’A. non <strong>di</strong>ce<br />

nulla <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso da quanto afferma Agostino commentando lo stesso<br />

versetto dei Salmi: anche per lui i dracones sono animali giganteschi in<br />

grado <strong>di</strong> librarsi in aria e creare fenomeni atmosferici violenti 48 .<br />

Malgrado il sollievo provato per la sparizione del draco e la gratitu<strong>di</strong>ne<br />

verso il Santo, coloro che avevano assistito alla spaventevole apparizione<br />

conservavano un’idea confusa su quanto in realtà era successo.<br />

La conoscenza piena arrivò soltanto quando i fedeli guardarono la pictura<br />

49 .<br />

Negli animi <strong>di</strong> tutti, la testimonianza (attestatio) del giorno successivo confermava<br />

l’atten<strong>di</strong>bilità <strong>degli</strong> avvenimenti del giorno prima. Infatti quello<br />

che veniva osservato con attenzione nel velo rendeva più cre<strong>di</strong>bile l’accaduto<br />

nella realtà. L’immagine concordava con la grazia, e il dono salutare del<br />

giorno prima proveniente da Dio tanto era fatto oggetto <strong>di</strong> rinnovata venerazione<br />

quanto più era riconosciuto dopo nell’immagine del velo; proprio<br />

la concordanza della veritas fra il prima e il poi, come fra le cose e le copie<br />

accendeva in molti tanto stupore, amore, ammirazione, gratitu<strong>di</strong>ne da farli<br />

esclamare con un’unica voce: ‘Veramente Dio ha liberato la città attraverso<br />

il suo amico e ha scacciato da noi una grande sciagura’ 50 .<br />

48 Aug. Exp. Ps. 148, 9.<br />

49 I, 4, p. 346, 77: i fedeli, vedendo l’immagine passano dal dubbio alla certezza.<br />

«Exinde non dubii, sed certi».<br />

50 De miraculis 2,4, p. 344, ll. 63-72: “Gestae quippe rei fidem praecedentis <strong>di</strong>ei


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

In conclusione: nei racconti precedenti a questo, il miracolo scaturiva<br />

dalla coincidenza della revelatio con la res ipsa; le visioni anticipavano<br />

e legittimavano la realtà e questa <strong>di</strong>ventava pienamente intelligibile<br />

soltanto alla luce delle visioni che la precedevano.<br />

Nell’episo<strong>di</strong>o del dragone l’or<strong>di</strong>ne dei fattori è invertito, ma la logica<br />

non cambia. Il punto <strong>di</strong> partenza non è la visione, ma un fatto vissuto,<br />

però ambiguo, bisognoso per essere compreso pienamente <strong>di</strong> una luce<br />

<strong>di</strong>vina che lo illumini; per questo è necessario che l’immagine abbia<br />

un’origine <strong>di</strong>vina, perché possa, come le visioni, farsi portavoce della<br />

verità.<br />

La pictura, in quanto a fedeltà all’accaduto è una «copia exemplaris»<br />

dell’«imago rerum», ma in quanto immagine non fatta da mano<br />

d’uomo, arrivata a Uzalis «procurante <strong>di</strong>uina <strong>di</strong>spensatione» – è più <strong>di</strong><br />

una copia della realtà, aiuta a deco<strong>di</strong>ficarla, ne costituisce la verità.<br />

Non è solo immagine, ma, in un certo senso, icona se, come <strong>di</strong>ce Dagron,<br />

«dans le domaine de la représentation, on pourrait <strong>di</strong>re que l’icône<br />

est un portrait plus vrai que réel, et qu’elle s’affranchit des contraintes<br />

de l’historicité pour trouver une autre cohérence, non celle de la ressemblance,<br />

mais celle de la reconnaissance» 51 .<br />

4. Tacita prae<strong>di</strong>catio: visualità e parola<br />

Il De Miraculis contiene anche un altro aspetto che lo rende interessante:<br />

un’inusuale esaltazione del “vedere” riguardo all’ascoltare e al<br />

leggere; un aspetto che potrebbe portare elementi <strong>di</strong> novità al <strong>di</strong>battito<br />

sul ruolo delle immagini nella Chiesa occidentale e su come in essa è<br />

stato articolato il tema del rapporto fra parola e immagine.<br />

Il secondo libro del De miraculis si apre con il resoconto <strong>di</strong> una ceri-<br />

commendabat in animis omnium attestatio sequentis <strong>di</strong>ei. Namque illud quod<br />

stu<strong>di</strong>osius cernebatur in uelo, hoc iam cre<strong>di</strong>bilius tenebatur in uero. Concurrebat<br />

enim pictura cum gratia, et iam <strong>di</strong>uinitus illud pri<strong>di</strong>e salutis beneficium recolebatur<br />

quam postea in ueli imagine aduertebatur. Denique ex ipsa congruentia <strong>di</strong>ei<br />

praecedentis atque sequentis ueritatis, et imagine rerum et quorundam exemplariorum,<br />

tantus in multis stupor pariterque amor, admiratio et gratulatio accendebatur<br />

ut a cunctis nihil aliud omnino uel <strong>di</strong>ceretur uel affirmaretur nisi hoc unum:<br />

«Vere quia per amicum suum Deus istam liberauit ciuitatem,et grandem a nobis<br />

depulit pestem»”.<br />

51 DAGRON, Décrire cit., 211.<br />

195


196<br />

Adele Monaci Castagno<br />

monia avvenuta nella chiesa <strong>di</strong> Uzalis in presenza dei fedeli, in un momento<br />

non precisato, ma successivo alla messa per scritto del I libro. In<br />

quella circostanza vennero letti dal pulpito alcuni miracoli del martire<br />

<strong>di</strong> Cristo «fideliter descripta et publica attestatione comprobata» tratti<br />

dal I libro del De miraculis. Chi descrive la scena è coinvolto dagli avvenimenti<br />

e partecipa alla cerimonia durante la quale viene letto il suo libro.<br />

In quella circostanza e secondo una pratica che troviamo descritta<br />

anche da Agostino ad Ippona 52 , vennero presentati all’assemblea le<br />

persone che avevano beneficiato della guarigione. Con la loro presenza<br />

e le loro <strong>di</strong>chiarazioni – <strong>di</strong>ce l’A. – «non solo testimoniarono a favore<br />

dei nostri scritti, ma si misero davanti perché guardaste la realtà e la<br />

certezza della verità». Tutto il capitolo è giocato sulla coppia ascoltare/vedere<br />

e sulla citazione del Ps. 47 (48), 9: «Sicut au<strong>di</strong>vimus, ita et vi<strong>di</strong>mus»,<br />

«ciò che abbiamo ascoltato, lo abbiamo anche visto», <strong>di</strong> cui<br />

quello che avvenne in quella circostanza è presentato come il compimento.<br />

All’effetto dell’ascolto della parola pronunciata viene accostata l’oculata<br />

fides derivante dal vedere con i propri occhi; dopo il sermo relativo<br />

al miracolo della restituzione della vista, fu offerta allo sguardo <strong>di</strong><br />

tutti la tacita prae<strong>di</strong>catio <strong>degli</strong> occhi guariti della donna; dopo la lectio<br />

relativa al paralitico, tutta la chiesa poteva vedere le sue membra integre<br />

come palpabilibus documentis; le cose scritte coincidevano mirabiliter<br />

con le res ipsae. In tale coincidenza fu visto un miracolo ancora<br />

maggiore da cui scaturì un’ondata <strong>di</strong> emozione nei presenti: se all’ascolto<br />

dei miracoli vi era stato un clamor gratulationis, il vedere scatenò<br />

maior exultatio e così, osserva l’A., «la fiamma del <strong>di</strong>vino amore penetrava<br />

nel cuore <strong>di</strong> ciascuno attraverso l’u<strong>di</strong>to e la vista». Con questa<br />

frase che richiama la visione dell’ampolla che infiammava le orecchie e<br />

gli occhi del monaco l’A. inserisce questo momento liturgico nella catena<br />

delle realizzazione profetiche; rende questa stessa cerimonia miracolo<br />

in un gioco <strong>di</strong> specchi sapientemente ricostruito.<br />

Ma è ancora la nostra immagine acheropita <strong>di</strong> Uzalis a rendere<br />

esplicito ancora <strong>di</strong> più il tema. Secondo l’A., la pictura è arrivata a<br />

52 Sermo 320 in onore <strong>di</strong> Stefano, presentando davanti ai fedeli Paolo miracolosamente<br />

guarito dalle reliquie «pro scriptura notitia, pro charta facies…»; questo<br />

sermone fa parte <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> quattro (320.323) de<strong>di</strong>cati alla guarigione <strong>di</strong><br />

Paolo e <strong>di</strong> sua sorella e alla loro presenza davanti ai fedeli nel momento in cui<br />

venne letto il libellus che li riguardava.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

Uzalis per volere <strong>di</strong>vino affinché «la fragilità umana ignorante <strong>di</strong> ogni<br />

cosa non mostrasse la sua gratitu<strong>di</strong>ne senza essere edotta in modo più<br />

chiaro ed evidente»; questo insegnamento è impartito da Dio stesso attraverso<br />

l’immagine “tacite”. Essa, <strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina, insegna senza parole<br />

e per quanto poi l’A. le presti le sue ad uso e consumo dei suoi lettori,<br />

egli descrive una situazione in cui tutti acquisiscono una conoscenza<br />

superiore attraverso la sola vista:<br />

E veramente fu in certo qual modo un <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Dio agli uomini quello<br />

che il velo senza parole significava chiaramente e <strong>di</strong>ceva: “O miseri mortali,<br />

da quale incen<strong>di</strong>o proveniente dal dragone siete scampati ieri e <strong>di</strong> quale avvocato<br />

è stata accolta l’intercessione a vostro favore comprendetelo oggi<br />

dall’immagine <strong>di</strong> questo velo e rallegratevi. Da questa confrontate nel vostro<br />

pensiero la prova <strong>di</strong> prima e la liberazione <strong>di</strong> poi e in seguito a questo<br />

liberati dai dubbi e sicuri rendete grazie a Dio vostro attraverso il mio amico.<br />

Ecco guardate il dragone messo in fuga ed espulso dalla città, ecco il<br />

primo mio martire che calpesta il suo capo, ecco il trofeo della croce con<br />

cui avete vinto il vostro nemico” 53 .<br />

Dai numerosi stu<strong>di</strong> che negli ultimi decenni si sono occupati del rapporto<br />

fra immagini e parole 54 emerge un quadro con<strong>di</strong>viso sia delle fonti<br />

ritenute pertinenti, sia dei principali no<strong>di</strong> interpretativi: la tra<strong>di</strong>zione<br />

orientale più precocemente <strong>di</strong> quella occidentale – e con minori riserve<br />

53 De miraculis 1,4, 344, ll. 73-80. “Et re uera Dei fuit ad homines quaedam illa<br />

allocutio in uelo tacite significantis admodum et <strong>di</strong>centis: «O miseri mortales,<br />

quale hesterna <strong>di</strong>e euaseritis draconis incen<strong>di</strong>um, uel cuius pro nobis aduocati<br />

suffragium fuerit acceptum, isto sequenti <strong>di</strong>e istius ueli figuratione intelligite,<br />

atque gaudete. Hinc destra et praecedentem tentationem et subsequente liberationem<br />

apud uosmetipsos conferte, exinde non dubii, sed certi, Deo uestro per amicum<br />

meum gratias agite. Ecce draconem de uestra ciuitate cernitis fugatum et<br />

expulsum, ecce conterentem caput eius primum martyrem meum, ecce Crucus<br />

tropaeum per quod uestrum uicistis inimicum»”.<br />

54 Non soltanto le immagini figurative, ma la ‘visualità’ in generale che comprende<br />

anche le immagini mentali formate dalle parole o immagini descritte dalle<br />

parole: G. FRANK, The Memory of Eyes. Pilgrims to Living Saints in Christian<br />

Late Antiquity, Berkeley-Los Angeles-London 2000, 17-29. Cfr. anche P. BROWN,<br />

Images as a Substitutes for Writing, in E. CHRYSOS - I. WOOD (edd.), East and<br />

West: Modes of Communication, Leiden-Boston-Köln 1999, 15-34; I. WOOD,<br />

Images as a Substitutes for Writing: a Reply in Ibid. 37-46; i due volumi Testo e<br />

immagine nell’alto Me<strong>di</strong>oevo (Settimane <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o del Centro italiano <strong>di</strong> stu<strong>di</strong><br />

sull’alto Me<strong>di</strong>oevo, 41) Spoleto 1994.<br />

197


198<br />

Adele Monaci Castagno<br />

– ha valorizzato il ruolo <strong>di</strong>dattico dell’immagine accanto alla parola o<br />

più efficacemente <strong>di</strong> questa: «Ciò che la parola del racconto offre all’u<strong>di</strong>to,<br />

la pittura lo mostra in silenzio attraverso la vista» 55 afferma Basilio<br />

in un’omelia de<strong>di</strong>cata alla celebrazione dei XL martiri, seguito da<br />

Gregorio <strong>di</strong> Nissa 56 . Queste testimonianze, almeno in parte, confluirono<br />

nel dossier <strong>di</strong> testi presenti nella trattatistica iconodula 57 durante le<br />

<strong>di</strong>verse fasi della crisi iconoclasta, durante la quale emersero posizioni<br />

iconodule a favore della superiorità delle immagini sulla parola, affermazioni<br />

ora però in parte considerate troppo legate alle fasi acute della<br />

controversia; analogamente, sarebbero da contestualizzare meglio anche<br />

le affermazioni iconoclaste sulla loro totale illiceità, dal momento<br />

che, almeno nella prima fase, si continuava a riconoscere ad alcune <strong>di</strong><br />

esse una funzione <strong>di</strong>dattica 58 .<br />

In ambito occidentale, a partire dalla fine del IV secolo, c’è un certo<br />

numero <strong>di</strong> testimonianze relative alla presenza <strong>di</strong> immagini nei luoghi<br />

<strong>di</strong> culto tra le quali anche quella <strong>di</strong> Stefano a Ippona, tuttavia, proprio<br />

Agostino, avanza importanti considerazioni che tendono a metterne in<br />

luce i limiti 59 o a circoscrivere il ruolo delle immagini sottolineandone<br />

l’inferiore efficacia <strong>di</strong> fronte alla parola (scritta o ascoltata), segno che<br />

nel suo ambiente questa concorrenza era già avvertita e considerata<br />

non priva <strong>di</strong> pericoli. Per esempio, egli rimprovera i cristiani che imparano<br />

dalle pareti, piuttosto che dai libri, e che, vedendo ritratti insieme<br />

a Cristo Pietro e Paolo, li considerano entrambi suoi <strong>di</strong>scepoli 60 .<br />

È significativo dell’atteggiamento <strong>di</strong> Agostino che, nella stessa memoria<br />

<strong>di</strong> Stefano a Ippona che ospitava la «dulcissima pictura», questi<br />

avesse voluto che fossero scritti «quattuor versus» da lui composti per<br />

guidare l’interpretazione dei fedeli anche in assenza della viva voce del<br />

vescovo e della lettura del testo biblico:<br />

55 Bas., Om. 19, 2, PG 31, 509 D.<br />

56 Greg. Nyss. De deitate Filii, PG 46, col. 572 C, e ID., In Theod. Mart. PG 46,<br />

737 D-740 A.<br />

57 Nella tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> tale dossier furono decisivi i Discorsi in <strong>di</strong>fesa delle immagini<br />

sacre <strong>di</strong> Giovanni Damasceno, che raccoglieva le principali testimonianze<br />

patristiche.<br />

58 M. SANSTERRE, La parole, le texte et l’image selon les auteurs byzantins des<br />

époques iconoclaste et posticonoclaste, in Testo e immagine nell’Alto Me<strong>di</strong>oevo cit.,<br />

197-243; G. CAVALLO, Testo e immagine: una frontiera ambigua, in Ivi, 31-64.<br />

59 Aug., In Iohann. 24, 2.<br />

60 Aug, De Consensus Evang. I,10.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

A che scopo <strong>di</strong>re <strong>di</strong> più e parlarvi più a lungo? Leggete i quattro versi che<br />

ho fatto scrivere nella cappella (in cella), leggeteli, teneteli a mente, custo<strong>di</strong>teli<br />

in cuore. Infatti abbiamo voluto che fossero scritti lì proprio perché legga<br />

chi vuole, legga quando vuole. Perché tutti possano ricordarli, sono pochi,<br />

perché tutti possano leggerli, sono in vista <strong>di</strong> tutti. Non c’è bisogno <strong>di</strong><br />

consultare un co<strong>di</strong>ce: quella cappella (camera) è il vostro co<strong>di</strong>ce 61 .<br />

Le affermazioni <strong>di</strong> Gregorio Magno contenute nelle due Lettere a<br />

Sereno sull’utilità delle immagini per gli illetterati solo apparentemente<br />

sciolgono ogni riserva riguardo alle immagini come sostituti della parola<br />

scritta o ascoltata. Queste Lettere, interpretate troppo spesso alla luce<br />

del concetto me<strong>di</strong>evale della Biblia pauperum, cioè nel senso <strong>di</strong><br />

un’autonomia delle immagini rispetto ad altri me<strong>di</strong>a, si ra<strong>di</strong>cherebbero<br />

invece nel pensiero <strong>di</strong> Agostino, aperto all’importanza delle immagini e<br />

della visualità in generale, però sorvegliate e guidate dalla lettura e dall’ascolto<br />

della pre<strong>di</strong>cazione e dall’approfon<strong>di</strong>mento teologico 62 .<br />

Il De miraculis <strong>di</strong> cui ci stiamo occupando non è mai citato nel dossier<br />

tutto sommato limitato <strong>di</strong> testi occidentali; il rilievo tutto particolare<br />

rivestito in esso dall’autonomia del vedere, sullo sfondo <strong>di</strong> un’attenzione<br />

più generale riguardo alla ‘visualità’, rispetto al leggere o all’ascoltare,<br />

risalta ancora <strong>di</strong> più se collocato sullo sfondo proprio della<br />

riflessione agostiniana da cui, come abbiamo visto, per altri versi <strong>di</strong>pende.<br />

Tale <strong>di</strong>fferenza lascia trapelare nella cerchia <strong>di</strong> Agostino – all’interno<br />

dunque dello stesso clero – un punto <strong>di</strong> vista alternativo con cui<br />

egli si trova a confrontarsi e a reagire.<br />

61 Aug., Serm. 319,8; su questa iscrizione: G. SANDERS, Augustin et le message<br />

épigraphique: le Tétrastique en l’honneur de saint Etienne, Augustiniana 40 (1990)<br />

95-124.<br />

62 Greg. Mag., Ep. 9. 11; C. CHAZELLE, Pictures, Books and the Illitterate.<br />

Gregory ’s Letters to Serenus of Marseille, Word and Images 6 (1990), 138-153.<br />

199


LE ICONE ACHEROPITE A NICEA II E NEI LIBRI CAROLINI<br />

ESTER BRUNET<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>um Generale Marcianum, Venezia<br />

La crisi dell’iconoclasmo a Bisanzio rappresenta, a detta <strong>di</strong> Marie-<br />

Josè Mondzain, il contesto, drammatico e potente, in cui si definisce<br />

l’orizzonte <strong>di</strong> senso religioso e politico dell’immagine artificiale; il frangente<br />

culturale in cui si genera il pensiero sull’immagine <strong>di</strong> cui noi siamo<br />

oggi gli ere<strong>di</strong> 1 . La dottrina delle icone definitasi in quegli anni si avvale,<br />

apparentemente senza remore, dei racconti relativi alle immagini<br />

acheropite. Per un iconofilo, l’impronta miracolosa del volto <strong>di</strong> Cristo<br />

su panno è il segno <strong>di</strong> un consenso della <strong>di</strong>vinità all’immagine; prova<br />

della reale umanità <strong>di</strong> Cristo e insieme Rivelazione del <strong>di</strong>vino, essa rappresenta<br />

il ritratto prototipico che sigilla la legittimità incarnazionale<br />

dell’icona.<br />

Le testimonianze testuali sulle acheropite, in particolare sul Mandylion,<br />

la Camuliana e la Veronica, furono raccolte più <strong>di</strong> un secolo fa da<br />

Ernst von Dobschütz, in un libro che rimane imprescin<strong>di</strong>bile per le ricerche<br />

in questo settore 2 . Tuttavia ancora oggi, le attestazioni scritte<br />

dell’interesse suscitato dalle acheropite durante la prima stagione dell’iconoclasmo,<br />

oggetto del presente saggio, vengono prevalentemente impiegate<br />

dagli stu<strong>di</strong>osi per dare ragione della storia e dell’aspetto materiale<br />

<strong>di</strong> queste immagini 3 . Minor attenzione è stata data al ruolo gioca-<br />

1 M-J. MONDZAIN, Immagine Icona Economia. Le origini bizantine dell’immaginario<br />

contemporaneo, trad. it., Milano 2006 (e<strong>di</strong>z. orig. Image, icône, économie,<br />

Paris 1996).<br />

2 Cfr. E. VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen<br />

Legende, Leipzig 1899, <strong>di</strong> cui è stata recentemente tradotta la seconda e<strong>di</strong>zione<br />

del 1909, purtroppo priva del ponderoso apparato documentario (Immagini <strong>di</strong><br />

Cristo, Milano 2006).<br />

3 Si vedano a questo proposito le giuste considerazioni <strong>di</strong> A. CAMERON, The<br />

Mandylion and Byzantine Iconoclasm, in H. L. KESSLER - G. WOLF (edd.), The<br />

Holy Face and the Paradox of Representation, Bologna 1998, 37.<br />

201


202<br />

Ester Brunet<br />

to dallo statuto <strong>di</strong> ‘acheropitia’ nel pensiero iconodulo, e ancor meno a<br />

quelle che potremmo definire le ‘ragioni <strong>degli</strong> altri’, ossia alla visione<br />

che delle immagini acheropite avevano gli iconoclasti e chi non con<strong>di</strong>videva,<br />

con Roma e con l’Oriente fedele al culto delle icone, la linea teologica<br />

esplicitata, sul piano magisteriale, dal Concilio Niceno del 787.<br />

Mi riferisco, come in<strong>di</strong>cato nel titolo, non tanto alla voce dei vinti<br />

orientali (trà<strong>di</strong>ta a noi, per quanto riguarda la prima stagione della crisi<br />

iconoclastica, praticamente soltanto nell’Horos della Sinodo <strong>di</strong> Hieria<br />

[754], conservato negli Acta niceni, e in alcuni stralci delle Questioni<br />

dell’imperatore Costantino V 4 ), ma a quello straor<strong>di</strong>nario trattato occidentale<br />

sulle immagini che sono i Libri Carolini, prodotti su iniziativa<br />

<strong>di</strong> Carlo Magno nei primissimi anni Novanta del IX secolo in aperta<br />

polemica con la teoria iconologica nicena. Un confronto tra quest’opera<br />

e gli Acta del Settimo Concilio Ecumenico, che si faccia particolarmente<br />

attento ai tempi e ai mo<strong>di</strong> della trasmissione dei testi, permette<br />

<strong>di</strong> delineare per opposita il ruolo delle acheropite, nell’ottica <strong>di</strong> una definizione<br />

teorica tanto della legittimità quanto della <strong>di</strong>mensione cultuale<br />

delle immagini tout court.<br />

I padri del Niceno II fanno più <strong>di</strong> un riferimento alle immagini ‘non<br />

fatte da mano d’uomo’. Durante la quinta sessione, tutta de<strong>di</strong>cata alla<br />

lettura dei testimonia a favore del culto delle icone, vengono ricordate,<br />

in or<strong>di</strong>ne, le immagini camuliana ed edessena. Il <strong>di</strong>acono e cubiculario<br />

Cosma denuncia infatti la manomissione <strong>di</strong> un libro, forse un sinassario,<br />

da cui gli iconoclasti, definiti «falsificatori della verità» e «incen<strong>di</strong>ari<br />

dei libri», hanno strappato i fogli dove si parlava dell’acheropita<br />

<strong>di</strong> Camulia 5 . Secondo la leggenda <strong>di</strong> origine più antica, riportata dallo<br />

Pseudo-Zaccaria retore 6 , tale immagine era miracolosamente apparsa<br />

4 Definizione del Concilio <strong>di</strong> Hieria (754): J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum<br />

nova et amplissima collectio, XIII, Florentiae 1767, 205-328. Alcuni excerpta dell’opera<br />

dell’imperatore Costantino V si sono conservati negli Antirretici <strong>di</strong><br />

Niceforo (cfr. H. HENNEPHOF [ed.], Textus Byzantinos ad iconomachiam pertinentes<br />

in usum academicum, Leiden 1969, 52-57).<br />

5 MANSI, cit., 189: «Abbiamo trovato questo libro nella sagrestia delle pure<br />

chiese del patriarcato, contenente le lotte <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi martiri. Hanno strappato i fo -<br />

gli, dove si parlava dell’immagine acheropita <strong>di</strong> Camuliana. Ecco, lo faccio ve -<br />

dere a tutti» (trad.: P. G. DI DOMENICO [ed.], Atti del Concilio Niceno II Ecu -<br />

menico Settimo, Città del Vaticano 2004, II, 268).<br />

6 Ecclesiastica historia, a. 569. Il brano è riportato in C. MANGO, The Art of<br />

the Byzantine Empire 312-1453. Sources and Documents, Toronto 1986, 114-115.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

in una fontana nel giar<strong>di</strong>no <strong>di</strong> una donna pagana; estratta da quest’ultima<br />

ancora asciutta, l’icona si autoriproduce sulla veste della donna,<br />

rivelando in questo modo la propria provenienza celeste.<br />

L’acheropita <strong>di</strong> Camulia è completamente assorbita nelle <strong>di</strong>namiche<br />

della lotta dei testi; vi si allude per <strong>di</strong>mostrare l’acribia con cui gli iconoclasti,<br />

a detta dei padri conciliari, hanno cercato <strong>di</strong> cancellare i testimonia<br />

della venerazione delle immagini. Cosma prende il libro e lo mostra<br />

all’assemblea: non serve riba<strong>di</strong>re la storia dell’origine dell’immagine,<br />

che evidentemente egli ritiene tutti conoscano, o dare ragione delle<br />

sue implicazioni dottrinali: il gesto d’ostensione dello scritto violato accusa<br />

più <strong>di</strong> molte parole. Non credo anzi sia un caso che le due più illustri<br />

acheropite d’Oriente siano trattate entrambe e previamente sotto il<br />

profilo filologico: infatti, anche del passo tratto dalla Storia Ecclesiastica<br />

<strong>di</strong> Evagrio, il quale testimonia il potere miracoloso del Mandylion <strong>di</strong><br />

Edessa, il concilio specifica che è stato cancellato da un co<strong>di</strong>ce, che <strong>di</strong><br />

nuovo si mostra al consesso; salvo poi questa volta dare lettura del testimonium<br />

«da un libro <strong>di</strong> eguale forma» portato da uno dei partecipanti<br />

7 . Non sappiamo molto del modo con cui gli iconoclasti contrastassero<br />

il ricorso dottrinale all’acheropitia, ma non si può non concordare,<br />

almeno parzialmente, con Robin Cormack, che giu<strong>di</strong>ca l’appello<br />

al Mandylion da parte del partito iconodulo una strategia non priva <strong>di</strong><br />

rischi 8 ; non solo per i pericoli che comportava il far passare come avìta<br />

una tra<strong>di</strong>zione relativamente recente, ma anche per una irriducibile tensione<br />

dottrinale, che i racconti d’origine delle acheropite non sciolgono<br />

ed anzi mantengono intatta nella sua delicatissima complessità, insistendo<br />

molto, come è noto, sull’impotenza del pittore a <strong>di</strong>pingere il volto<br />

del Signore. Dal loro punto <strong>di</strong> vista, gli iconoclasti si saranno ben<br />

chiesti se il fallimento <strong>di</strong> Anania, inviato dal re <strong>di</strong> Edessa Abgar per ritrarre<br />

il taumaturgo ma, come racconta Giovanni Damasceno, impossibilitato<br />

a farlo «a causa del lucente splendore» 9 che emanava dal volto<br />

del Signore, non sottendesse la ra<strong>di</strong>cale impossibilità per l’uomo <strong>di</strong><br />

creare immagini del Verbo incarnato. Possiamo supporre dal tono <strong>di</strong><br />

alcune argomentazioni iconodule che per un avversario delle immagini<br />

7<br />

MANSI, cit., 189.<br />

8 Cfr. R. CORMACK, Painting the Soul. Icons, Death Masks, and Shrouds, Lon -<br />

don 1997, 114 ss.<br />

9 V. FAZZO (ed.), Giovanni Damasceno. La fede ortodossa, Milano-Roma 1998,<br />

285.<br />

203


204<br />

Ester Brunet<br />

non fosse poi così necessario negare l’esistenza o delegittimare lo status<br />

del Mandylion: il quale, considerato un unicum, impronta <strong>di</strong>retta e reliquia<br />

della <strong>di</strong>vino-umanità dell’«incomprensibile Verbo <strong>di</strong> Dio» 10 , sarebbe<br />

stato concesso da Dio all’uomo per mostrare, appunto, quanto<br />

qualsiasi altra rappresentazione artificiale fosse non soltanto indegna e<br />

superflua, ma anche impossibile dal punto <strong>di</strong> vista cristologico 11 . A ragion<br />

veduta la Mondzain ha pertanto definito lo statuto che l’immagine<br />

acheropita doveva avere agli occhi <strong>degli</strong> iconoclasti come <strong>di</strong> «impronta<br />

<strong>di</strong>retta e sacra del corpo, segno e memoriale dell’umanità <strong>di</strong>vina<br />

che vieta ogni altra rappresentazione» 12 . Il fatto è che le leggende, essendo<br />

historiae <strong>di</strong> un processo spirituale <strong>di</strong> produzione <strong>di</strong> immagine che ripete<br />

o si rifà al processo <strong>di</strong> Incarnazione stesso, non potevano non trattenerne<br />

anche tutta la paradossalità – <strong>di</strong> Infinito che si fa finito, <strong>di</strong><br />

Creatore che si fa creatura. Esiste una tensione interna, uno scarto logico<br />

incolmabile in questi tentativi leggendari <strong>di</strong> raccontare la messa in<br />

10 Definizione del Concilio iconoclastico <strong>di</strong> Santa Sofia (815): cfr. P. J. A -<br />

LEXAN DER (ed.), The Iconoclastic Council of St. Sophia and its Definition,<br />

Dumbarton Oaks Papers 7 (1953) 58-66; trad. D. MENOZZI, La Chiesa e le immagini.<br />

I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, trad. it.,<br />

Milano 1995 (e<strong>di</strong>z. orig. Les images. L’Église et les arts visuels, Paris 1991), 114.<br />

11 Niceforo ad esempio sembra rispondere a una precisa mozione <strong>degli</strong> iconoclasti<br />

quando <strong>di</strong>chiara «non vano» il processo <strong>di</strong> figurazione ritrattistica rispetto<br />

all’impronta lasciata da Cristo sul panno. Infatti Niceforo non nega il proprium<br />

<strong>di</strong> immagine al tempo stesso naturale e non consustanziale al modello dell’acheropita,<br />

che la <strong>di</strong>stingue dalle immagini artificiali. E tuttavia egli sposta l’accento<br />

su un’altra natura, quella del modello; perché secondo il teologo la domanda corretta<br />

da porsi in questo caso non è tanto se l’icona sia legittima o meno in quanto<br />

immagine non naturale, ma se era naturale in Cristo il farsi ritrarre. Infatti, «se<br />

Cristo era tale <strong>di</strong> sua natura, è vano accusare il pittore o lo spettatore: in effetti,<br />

non <strong>di</strong>pende dal <strong>di</strong>segno o dalla visione, e ancor meno dal pittore o dal riguardante,<br />

se così è stato, ma da colui che si è offerto alla visione e all’iscrizione, al<br />

quale tali proprietà appartengono naturalmente». La causa dell’icona non è la<br />

pittura, ma il fatto che Dio si sia reso visibile incarnandosi. Qui è chiaro che<br />

Niceforo si rifà all’acheropita per legittimare la rappresentazione <strong>di</strong> Cristo, contro<br />

l’idea iconoclastica che il Mandylion giustifichi l’esclusione della mano dell’uomo<br />

dalla produzione iconica. Cfr. NICEPHORUS PATRIARCHA, Antirrhetici, I,<br />

24 (Patrologia Graeca 100, 260); trad. francese: M.-J. MONDZAIN-BAUDINET,<br />

Nicephore, Discours contre les iconoclastes, Paris 1989, 97-98, cfr. specialmente n.<br />

88, 90.<br />

12 MONDZAIN, cit., 248 (corsivo mio).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

immagine <strong>di</strong> Dio, che li espone perennemente al rischio <strong>di</strong> una lettura<br />

separante <strong>di</strong> teologia e antropologia 13 .<br />

Va ricordato peraltro che il partito iconoclastico orientale, <strong>di</strong>versamente<br />

da quanto ancora spesso si legge, non si era mai <strong>di</strong>chiarato contrario<br />

<strong>di</strong> principio al culto dei santi (che <strong>di</strong>fende anzi esplicitamente in<br />

un anatematisma <strong>di</strong> Hieria 14 ) e delle reliquie, anche se è plausibile che<br />

queste ultime non siano rimaste immuni alla poderosa opera <strong>di</strong> ridefinizione<br />

dei confini del sacro attuata con particolare rigore dal Copronimo<br />

15 . Agli occhi <strong>degli</strong> iconoclasti meno integralisti, il Mandylion poteva<br />

subire un confortante ‘depotenziamento’ se valutato soltanto come<br />

reliquia <strong>di</strong> contatto, al pari <strong>di</strong> altre legate alla vicenda terrena <strong>di</strong> Gesù<br />

(la lancia <strong>di</strong> Longino, i frammenti della vera croce…) e non per le sue<br />

implicazioni iconologiche <strong>di</strong> para<strong>di</strong>gma istitutivo e «mito <strong>di</strong> fondazione»<br />

16 dell’immagine cristiana. Avremo modo <strong>di</strong> vedere come anche i Libri<br />

Carolini, pur non con<strong>di</strong>videndo le istanze della cristologia iconoclastica<br />

orientale, <strong>di</strong>stingueranno la potenziale venerabilità delle immagini<br />

miracolose dal culto delle icone in quanto tali.<br />

Ecco quin<strong>di</strong> che presentare i testimonia sulle acheropite entro il cono<br />

13 Va da sé che nelle leggende il fallimento del pittore non significa la negazione<br />

dell’arte dell’icona, ma l’estrinsecazione, sul piano narrativo, del primato <strong>di</strong><br />

Dio, la cui iniziativa non contrad<strong>di</strong>ce la libertà dell’uomo, ma ne è il presupposto:<br />

soltanto in questo modo l’arte può pretendere <strong>di</strong> simboleggiare il mistero, <strong>di</strong><br />

per sé inafferrabile, della <strong>di</strong>vino-umanità <strong>di</strong> Cristo, che sfuggirebbe ai soli sensi<br />

umani senza la previa con<strong>di</strong>scendenza <strong>di</strong>vina. Cfr. C. SCHÖNBORN, Les icônes qui<br />

ne sont pas faites de main d’homme, in Image et Signification. Rencontres de l’École<br />

du Louvre, Paris 1983, 214-215. Ho trattato più approfon<strong>di</strong>tamente questi temi<br />

in un saggio recentemente pubblicato: E. BRUNET, L’immagine dell’Uomo non<br />

fatta da mani d’uomo. Statuto dell’immagine e dell’arte nei racconti d’origine delle<br />

acheropite, Marcianum 6/2 (2010) 207-237.<br />

14 MANSI, cit., 348.<br />

15 Sulla generale tolleranza <strong>degli</strong> iconoclasti nei confronti delle reliquie, cfr. in<br />

special modo E. THUNØ, Image and relic. Me<strong>di</strong>ating the <strong>Sacre</strong>d in Early Me<strong>di</strong>eval<br />

Rome, Roma 2002, 151, con bibliografia precedente; P. BOULHOL, Claude de<br />

Turin: un évêque iconoclaste dans l’Occident carolingien; étude suivie de l’é<strong>di</strong>tion<br />

du Commentaire sur Josué, Paris 2002, 117 e 134-135.<br />

16 Con questa definizione è efficacemente titolata la sezione de<strong>di</strong>cata alle<br />

immagini acheropite in E. BURGIO (ed.), Racconti <strong>di</strong> immagini. Trentotto capitoli<br />

sui poteri della rappresentazione nel Me<strong>di</strong>oevo occidentale, Alessandria 2001. Sulle<br />

acheropite come ‘mito fondatore’ delle icone cristiane, cfr. il saggio <strong>di</strong> Graziano<br />

Lingua contenuto in questo volume.<br />

205


206<br />

Ester Brunet<br />

prospettico della manomissione dei testi significava <strong>di</strong>mostrare in via<br />

preliminare e nel modo più lampante quanto esse fossero un argomento<br />

temuto dagli iconoclasti: lo strappo dei fogli, le pagine erase, erano,<br />

agli occhi dei padri niceni, la prova che gli stessi iconoclasti considerassero<br />

le immagini non fatte da mano d’uomo un’arma particolarmente<br />

pericolosa dell’arsenale dei testi iconoduli.<br />

Entro qui solo brevemente nella questione relativa all’autenticità del<br />

passo <strong>di</strong> Evagrio, considerato da alcuni stu<strong>di</strong>osi, come Julian Chrysostomides<br />

e Han Drijvers, un’interpolazione successiva rispetto al testo<br />

originale della fine del VI secolo; interpolazione che risalirebbe proprio<br />

al VII Concilio Ecumenico 17 . Questa tesi è stata fortemente contrastata<br />

da Michael Whitby nella sua traduzione commentata dell’opera <strong>di</strong><br />

Evagrio, con argomentazioni circa la struttura del testo che risultano a<br />

mio parere convincenti 18 . Si potrebbe anzi considerare l’analisi <strong>di</strong><br />

Whitby l’ennesimo monito contro gli eccessi <strong>di</strong> una certa critica interpolazionistica,<br />

che nel caso specifico della crisi iconoclastica tende a<br />

sospingere qualsiasi riferimento a immagini miracolose e particolarmente<br />

venerate alla tarda fase della controversia. Ad ogni modo, va<br />

senz’altro rilevata la curiosa lacunosità <strong>di</strong> citazioni del passo <strong>di</strong> Evagrio<br />

fino alla lezione nicena che, come ha evidenziato Averil Cameron, è la<br />

prima e unica a noi nota che precede quella della Bibliotheca foziana 19 .<br />

Ma se consideriamo le argomentazioni «filologiche» e «paleografiche»<br />

del concilio – per <strong>di</strong>rla con von Harnack 20 – per ciò che probabilmente<br />

esse sono, ossia un’abile strategia retorica pur tuttavia fondata su elementi<br />

reali, occorre ammettere la possibilità che l’interesse rivolto da<br />

entrambi i partiti alla acheropita edessena abbia portato alla ribalta –<br />

forse durante i travagliati mesi tra la convocazione del concilio a Co-<br />

17 Cfr. J. CHRYSOSTOMIDES, An Investigation Concerning the Authenticity of the<br />

Letter of the Three Patriarchs, in ID. - J. A. MUNITIZ - E. HARVALIA-CROOK - C.<br />

DENDRINOS (edd.), The Letter of the Three Patriarchs to Emperor Theophilos and<br />

Related Texts, Camberley 1997, XXIV-XXVIII; H. J. W. DRIJVERS, The Image of<br />

Edessa in the Syriac Tra<strong>di</strong>tion, in KESSLER - WOLF, cit., 18 ss.<br />

18 Cfr. M. WHITBY (ed.), The Ecclesiastical History of Evagrius Scholasticus,<br />

Liverpool 2000, 323-326 (Appen<strong>di</strong>x II. The Image of Edessa). Lo status quaestionis<br />

è ben riassunto in M. GUSCIN, The Image of Edessa, Leiden 2009, 170-174.<br />

19 Cfr. CAMERON, The Mandylion cit., 42.<br />

20 A. VON HARNACK, History of Dogma, trad. ingl., IV, New York 1961, 261<br />

(e<strong>di</strong>z. orig. Lehrbuch der Dogmengeschichte, Freiburg 1886-1890).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

stantinopoli e il suo forzato <strong>di</strong>rottamento a Nicea – dei testi fino ad allora<br />

poco impiegati nel <strong>di</strong>battito; tanto più se apportatori <strong>di</strong> notizie<br />

originali come Evagrio, che rispetto alle <strong>di</strong>verse leggende sull’origine<br />

dell’immagine edessena, è quello forse più congeniale ai toni e agli<br />

orientamenti della raccolta <strong>di</strong> auctoritates conciliare, particolarmente<br />

attenta a mettere in luce l’attività miracolosa delle icone. Evagrio infatti<br />

dà per scontate le nozioni relative all’origine e all’arrivo dell’immagine<br />

a Edessa 21 , concentrandosi sul racconto <strong>di</strong> come l’acheropita avesse<br />

miracolosamente salvato la città dall’attacco persiano del 544, permettendo<br />

agli edesseni asse<strong>di</strong>ati l’impresa altrimenti impossibile <strong>di</strong> accendere<br />

un fuoco che bruciasse le travi <strong>di</strong> un rinterro nemico.<br />

Ora, secondo la teologia neoplatonica <strong>di</strong> Giovanni Damasceno è<br />

proprio <strong>di</strong> tutte le icone partecipare in un certo qual modo della dynamis,<br />

dell’‘energia’ del prototipo; non perché portatrici in sé della <strong>di</strong>vinità<br />

(altrimenti venerarle sarebbe idolatria), ma perché transitus a colui<br />

che vi è rappresentato. Esiste un legame effettivo ed efficace tra prototipo<br />

e immagine, che conferisce a quest’ultima un ruolo me<strong>di</strong>atore. Gli<br />

atti del Concilio Niceno II, pur rimarcando sempre la <strong>di</strong>fferenza ontologica<br />

tra icona e modello («i cristiani affermano che l’immagine è unita<br />

all’archetipo secondo il solo nome e non secondo l’essenza» 22 ), riportano<br />

<strong>di</strong>versi racconti agiografici in cui le immagini <strong>di</strong> Cristo, della<br />

Vergine o <strong>di</strong> un santo sono presentate come il mezzo tramite cui si esercita<br />

la loro potenza, quasi ne fungessero da sostituto in terra. I legati<br />

dei patriarchi d’Oriente e il concilio riconoscono espressamente alle immagini<br />

il potere <strong>di</strong> compiere miracoli («È stato <strong>di</strong>mostrato […] che le<br />

immagini dei santi sono miracolose e operano guarigioni»; «Gloria a<br />

te, o Dio che operi miracoli per mezzo delle sacre immagini» 23 ). L’acheropita,<br />

immagine-transitus e insieme reliquia <strong>di</strong> contatto, è oggetto eccezionale<br />

<strong>di</strong> presentificazione del sacro, ma è al tempo stesso esemplare<br />

21 Evagrio si limita a una breve descrizione dell’icona edessena: «immagine<br />

fatta da Dio, che mani umane non avevano <strong>di</strong>pinto, e che Cristo aveva mandato<br />

ad Abgar perché desiderava vederla» (Historia ecclesiastica, IV, 27; trad. F.<br />

CARCIONE, Evagrio <strong>di</strong> Epifania. Storia Ecclesiastica, Milano-Roma 1998, 233).<br />

22 MANSI, cit., 252 (trad. DI DOMENICO, cit., II, 304).<br />

23 MANSI, cit., 24 e 60 (trad.: DI DOMENICO, cit., II, 170 e 191). Cfr. M. F.<br />

AUZÉPY, L’iconodoulie: défense de l’image ou de la dévotion à l’image?, in F.<br />

BOESPFLUG - N. LOSSKY (edd.), Nicée 2., 787-1987: douze siècles d’images religieuses,<br />

Paris 1987, 157-165 (= L’histoire des iconoclastes, Paris 2007, 37-44).<br />

207


208<br />

Ester Brunet<br />

della funzione che ogni icona acheropita assolve in quanto figurazione<br />

simbolica.<br />

Da un punto <strong>di</strong> vista complementare, il miracolo è un dato iconologico,<br />

il mezzo tramite cui le immagini spiegano innanzitutto sé stesse,<br />

dando prova della loro cre<strong>di</strong>bilità <strong>di</strong> raffigurazione autentica 24 . Essendo<br />

il Mandylion l’immagine autentica per eccellenza, la salvaguar<strong>di</strong>a<br />

miracolosa della città, che nel racconto <strong>di</strong> Evagrio avviene soltanto dopo<br />

l’atto <strong>di</strong> venerazione da parte <strong>degli</strong> abitanti, è la prova della sua cre<strong>di</strong>bilità<br />

e il segno che Dio gratifica questo tipo <strong>di</strong> relazione cultuale:<br />

Evagrio stesso commenta <strong>di</strong>cendo che «la potenza <strong>di</strong>vina era scesa in<br />

soccorso della fede <strong>di</strong> quanti avevano agito in quel modo» 25 , <strong>di</strong> quelli<br />

cioè che avevano portato l’immagine sul luogo dell’attacco e l’avevano<br />

aspersa con acqua benedetta. I padri niceni compiono lo sforzo, che si<br />

manifesta a partire dall’oculata scelta dei testi, <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare nel<br />

Mandylion non tanto le caratteristiche che ne determinano l’eccezionalità<br />

rispetto ai manufatti, ma quelle che, al contrario, ne definiscono l’esemplarità:<br />

ecco quin<strong>di</strong> che l’origine miracolosa passa in secondo piano<br />

rispetto all’attività miracolosa dell’immagine, per quanto i due<br />

aspetti siano connessi, ed anzi il primo determini il secondo. Il racconto<br />

<strong>di</strong> Evagrio, inoltre, è congeniale perché, come si è visto, fa emergere<br />

con particolare evidenza il contesto cultuale del miracolo.<br />

Se per immagini acheropite inten<strong>di</strong>amo non soltanto quelle generate<br />

per contatto <strong>di</strong>retto con il volto o il corpo del Signore, ma anche le immagini<br />

apparse per ‘ierofania’ (la stessa Camuliana appartiene a questo<br />

gruppo), occorre completare la lista nicena con il racconto dell’origine<br />

<strong>di</strong> una croce d’oro e d’argento, che secondo quanto riporta una leggenda<br />

martiriale, fu miracolosamente decorata con le immagini del volto<br />

<strong>di</strong> Cristo e <strong>di</strong> due arcangeli. Si tratta <strong>di</strong> un brano tratto dalla Passione<br />

<strong>di</strong> san Procopio, <strong>di</strong> cui Stefano, segretario e referendario, dà lettura nel<br />

corso della quarta sessione conciliare 26 . La storia è ambientata durante<br />

la persecuzione <strong>di</strong> Diocleziano. Un giovane pagano <strong>di</strong> Gerusalemme<br />

chiamato Neania (sarà in seguito rinominato Procopio) viene inviato<br />

dall’imperatore ad Alessandria a capo <strong>di</strong> una missione militare contro i<br />

24 Cfr. H. BELTING, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale<br />

al tardo Me<strong>di</strong>oevo, trad. it., Roma 2001 (e<strong>di</strong>z. orig. Bild und Kult, München<br />

1991), 72.<br />

25 CARCIONE, cit., 233.<br />

26 MANSI, cit., 89 (trad. DI DOMENICO, cit., II, 207).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

cristiani. Durante il viaggio egli ha una visione della croce che lo converte;<br />

giunto a Scitopoli, in Palestina, chiede a un orefice <strong>di</strong> fabbricarne<br />

una che somigli a quella che gli è apparsa. Quando viene terminata e<br />

innalzata, appaiono su <strong>di</strong> essa tre immagini con relative iscrizioni in<br />

ebraico: sopra la figura dell’estremità superiore si trova scritto «Emmanuele»,<br />

ai termini del braccio orizzontale «Michele» e «Gabriele» 27 .<br />

L’artigiano non si capacita dell’accaduto, e tenta <strong>di</strong> cancellare le immagini,<br />

ma sarà punito da Dio con la paralisi della mano. Egli agisce non<br />

per zelo iconoclastico, ma perché, come lui stesso <strong>di</strong>rà giustificandosi<br />

<strong>di</strong> fronte a Neania, «non sa chi siano questi, e quale sia l’iscrizione»; infatti,<br />

<strong>di</strong>ce, le immagini «sono sorte» dopo che il suo lavoro è terminato,<br />

lasciandolo sgomento. Neania, capito che nella croce c’è una potenza,<br />

«la venera» (proskuvhsa"). In seguito, armato della croce miracolosa,<br />

metterà in fuga un esercito nemico 28 .<br />

Il racconto legato all’apparizione della croce fa parte <strong>di</strong> una versione<br />

della Passio <strong>di</strong>versa e accresciuta rispetto all’originale racconto riportato<br />

da Eusebio. Formatasi in età post-giustinianea 29 , questa versione,<br />

che si ispira chiaramente alla visione <strong>di</strong> Costantino, presenta delle<br />

caratteristiche tipiche dei racconti <strong>di</strong> immagini miracolose, ma anche<br />

alcuni interessanti tratti originali, spia delle molte varianti con cui nel<br />

corso del VI secolo si va componendo la tematizzazione letteraria dell’immagine<br />

non fatta da mani d’uomo. Sottolineo soltanto due aspetti.<br />

Innanzitutto, il rapporto tra opera <strong>di</strong> Dio e opera dell’uomo: anche in<br />

questo caso, l’immagine del volto <strong>di</strong> Cristo – e qui anche delle potenze<br />

angeliche – viene dall’iniziativa <strong>di</strong>vina, ma il manufactum (la croce) e il<br />

‘Deo factum’ (immagini e iscrizioni) coesistono in rapporto non esclusivo.<br />

La leggenda sotto questo aspetto sembrerebbe richiamare altre immagini<br />

celebri, <strong>di</strong> cui tuttavia abbiamo testimonianze parecchio più tarde,<br />

che si <strong>di</strong>fferenziano dal Mandylion e dalla Camuliana per un’idea<br />

molto più ibrida <strong>di</strong> acheropitia. È noto ad esempio quanto narra l’anonima<br />

relatio me<strong>di</strong>evale (XII sec.) dell’origine del Volto Santo <strong>di</strong> Lucca,<br />

secondo cui Nicodemo, dopo aver scolpito da sé il corpo del Crocifisso,<br />

si sarebbe trovato impossibilitato a riprodurne il volto, che fu portato a<br />

27 Cfr. H. DELEHAYE, Les légendes grecques des saints militaires, Paris 1909, 82<br />

ss., dove è riportata anche la contestata tesi del de Rossi che, sulla base dell’iconografia,<br />

scioglieva la formula epigrafica CMG in C(risto;") M(icah;l) G(abrihvl).<br />

28 Cfr. MANGO, cit., 144-145.<br />

29 Cfr. DELEHAYE, cit.<br />

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210<br />

Ester Brunet<br />

termine soltanto in seguito per un intervento notturno <strong>degli</strong> angeli 30 .<br />

Similmente, l’antica icona del Salvatore al Laterano, definita acheropita<br />

nel Liber Pontificalis (metà dell’VIII sec.) 31 , secondo una leggenda più<br />

tarda fu <strong>di</strong>segnata da san Luca e <strong>di</strong>pinta dagli angeli 32 .<br />

Secondo aspetto: il devoto che <strong>di</strong> fronte all’icona compie i gesti co<strong>di</strong>ficati<br />

del culto lo fa, come già ho detto, nella convinzione che essa sia<br />

una porta <strong>di</strong> comunicazione con il mondo celeste; alla base c’è l’idea,<br />

desumibile dai molti testimoni letterari presentati al concilio e recepita,<br />

sul piano teologico, dalla teoria della partecipazione del Damasceno, <strong>di</strong><br />

un’ampia identificazione dell’icona con il proprio modello. Qui come<br />

in altri racconti, l’immagine mostra <strong>di</strong> essere ‘vicaria’ in terra del prototipo<br />

nella maniera più evidente, ossia a contrario: <strong>di</strong> fronte a una gestualità<br />

empia, il prototipo ‘presentificato’ dall’icona attacca il sacrilego,<br />

pur se, come nel nostro caso, inconsapevole della propria empietà 33 .<br />

Agire contro o a favore dell’acheropita, come del resto contro o a favore<br />

<strong>di</strong> tutte le sacre icone, significa agire contro o a favore del prototipo<br />

che essa ‘significa’; pertanto si può <strong>di</strong>re che «vedere l’icona miracolosa<br />

del Signore è vedere il Signore» 34 . Sotto questa luce si comprende come<br />

alcuni teologi iconoduli non esitino a parlare dell’apparizione della Camuliana<br />

in termini <strong>di</strong> vera e propria cristofania, paragonando Camulia<br />

a Betlemme, l’acheropita alla nascita del Verbo incarnato 35 . A Camulia<br />

come nel caso, ancorché soltanto letterario, della croce <strong>di</strong> Procopio,<br />

siamo <strong>di</strong> fronte a vere e proprie «immagini viventi» 36 .<br />

30 Cfr. G. SCHNÜRER, Über Alter und Herkunft des Volto Santo von Lucca,<br />

Römische Quartalschrift 34 (1926) 271-306.<br />

31 Cfr. L. DUCHESNE (ed.), Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire,<br />

I, Paris 1886 (rist. 1955), 442.<br />

32 Cfr. G. WOLF, Dal volto all’immagine, in ID. - G. MORELLO (ed.), Il volto <strong>di</strong><br />

Cristo, Milano 2000, 19.<br />

33 Si confronti sotto questo aspetto il racconto della croce <strong>di</strong> Procopio con la<br />

storia, riferita al concilio da Costantino <strong>di</strong> Costanza, <strong>di</strong> un saraceno <strong>di</strong> Gabala<br />

(cfr. MANSI, cit., 80), il cui occhio salta fuori dall’orbita dopo aver colpito l’occhio<br />

<strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> una icona. Cfr. AUZÉPY, L’iconodoulie, défense de l’image ou de la<br />

dévotion à l’image?, in BOESPFLUG - LOSSKY, cit., 161.<br />

34 SCHÖNBORN, cit., 210.<br />

35 Cfr. la versione della leggenda della Camuliana tra<strong>di</strong>zionalmente attribuita<br />

a Gregorio <strong>di</strong> Nissa ma sicuramente più tarda (VII-VIII sec.), contenuta in un<br />

sinassario (testo greco in NIKODĒMOS AGIOREITĒS, Synaxaristes, II, Athina 1929,<br />

307-308). Cfr. SCHÖNBORN, cit., 211-212; E. KITZINGER, The Cult of Images in<br />

the Age before Iconoclasm, Dumbarton Oaks Papers 8 (1954) 143-144.<br />

36 Cfr. G. DIDI-HUBERMAN, Face, proche, lointain: l’empreinte du visage et le


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

Questi dunque i riferimenti alle immagini acheropite negli atti <strong>di</strong> Nicea<br />

II. Una copia <strong>degli</strong> atti, approvati dai legati papali presenti al concilio,<br />

giunse quasi imme<strong>di</strong>atamente a Roma e fu recepita da papa Adriano<br />

I. Non entro qui nel merito della trasmissione <strong>degli</strong> atti a Carlo Magno,<br />

vicenda ancora in parte misteriosa. L’ipotesi più probabile è che il<br />

pontefice avesse voluto inviare a Carlo, tra il 788 e il 790, una traduzione<br />

latina, alla quale il sovrano reagì con inaspettata in<strong>di</strong>gnazione, criticando<br />

apertamente la teologia delle immagini confessata dal concilio 37 .<br />

Certamente a Carlo premeva più <strong>di</strong> ogni altra cosa il riconoscimento<br />

della propria autorità. In una fase <strong>di</strong> forte ascesa politica, non era nei<br />

suoi piani l’accettazione passiva <strong>di</strong> un concilio imperiale dell’Oriente,<br />

celebratosi senza previ accor<strong>di</strong> con il sovrano franco e la partecipazione<br />

<strong>di</strong> vescovi delle sue <strong>di</strong>ocesi. L’opposizione <strong>di</strong> Carlo portò alla redazione<br />

dei cosiddetti Libri Carolini 38 e alla convocazione della Sinodo <strong>di</strong><br />

Francoforte (794) 39 , che nelle intenzioni dei padri partecipanti (tra i<br />

quali una legazione papale) doveva essere un concilio ‘universale’ alternativo<br />

a Nicea II 40 . Il movente politico ed ecclesiologico, ovvero la protesta<br />

nei confronti <strong>di</strong> una concezione <strong>di</strong> Chiesa tutta centrata sull’asse<br />

lieu pour apparaître, in KESSLER - WOLF, cit., 95-108; ID., Devant l’image, Paris<br />

1990, 237-239.<br />

37 Questa ipotesi, la più convincente tra quelle sinora prodotte, si scontra tuttavia<br />

con la strana assenza <strong>di</strong> documentazione: non si conserva alcuna lettera<br />

accompagnatoria, e nessun accenno all’invio <strong>degli</strong> Acta si rinviene nella corrispondenza<br />

franco-papale del Codex Carolinus. Per questo punto controverso, si<br />

veda da ultimo T. F. X. NOBLE, Images, Iconoclasm, and the Carolingians,<br />

Philadelphia 2009, 160-161.<br />

38 Cfr. A. FREEMAN - P. MEYVAERT (edd.), Libri Carolini (sive Opus Caroli<br />

regis contra synodum), Monumenta Germaniae Historica, Concilia, 2, suppl. 1,<br />

Hannover 1998, 97-558.<br />

39 Cfr. A. WERMINGHOFF (ed.), Concilia Aevi Karolini (742-842). Pars 1,<br />

Monumenta Germaniae Historica, Concilia, 2,1, Hannoverae - Lipsiae 1906,<br />

110-171.<br />

40 Sul significato del termine ‘ecumenico’ e sulle prerogative ecclesiali del<br />

sovrano rinvenibili negli atti, cfr. specialmente V. PERI, L’ecumenicità <strong>di</strong> un concilio<br />

come processo storico nella vita della Chiesa, Annuarium Historiae Conci lio -<br />

rum 20 (1988) 231-232 (= Da Oriente e da Occidente. Le Chiese cristiane<br />

dall’Impero Romano all’Europa moderna. I: Sui Concili Ecumenici, Roma-Padova<br />

2002, 479-481); R. SAVIGNI, Giona d’Orléans. Una ecclesiologia carolingia,<br />

Bologna 1989, 118-120.<br />

211


212<br />

Ester Brunet<br />

Roma-Bisanzio, agì <strong>di</strong> pari passo con quello teologico e pastorale: i vescovi<br />

franchi parleranno sempre del culto delle icone come <strong>di</strong> una pratica<br />

orientale loro estranea 41 .<br />

Scritti da Teodulfo d’Orléans, i Libri Carolini rappresentano la confutazione<br />

argomentata delle decisioni <strong>di</strong> Nicea; non si può <strong>di</strong>re che essi<br />

rispecchino le posizioni <strong>di</strong> tutta la Chiesa franca, ma certamente quelle<br />

della sua corrente più influente e vicina al re. La documentazione relativa<br />

ai colloqui 42 <strong>di</strong> Parigi dell’825, in cui Ludovico il Pio e una ristretta<br />

cerchia <strong>di</strong> presuli si confrontarono sulla questione delle immagini, riferisce<br />

che un incontro simile si era già verificato per volere <strong>di</strong> Carlo Magno,<br />

al cui cospetto si dette lettura del materiale prodotto per sottoporlo<br />

alla sua approvazione. È molto probabile che questo consesso ebbe<br />

luogo a Regensburg nel 790 e fu l’occasione <strong>di</strong> un lavoro preliminare <strong>di</strong><br />

selezione e <strong>di</strong>scussione dei punti più controversi <strong>degli</strong> atti niceni, in vista<br />

<strong>di</strong> un rigetto formale delle definizioni della sinodo. La più antica attestazione<br />

manoscritta dei Libri Carolini (Vaticanus Latinus 7207) reca<br />

una serie <strong>di</strong> note tironiane (catholice, sapienter, acute, bene…) che sembrerebbero<br />

registrare questa prima fase, ossia la reazione <strong>di</strong> Carlo e<br />

«dei suoi» 43 al momento della lettura dei capitoli. Secondo la convincente<br />

cronologia <strong>di</strong> Ann Freeman 44 , i Libri Carolini furono scritti da<br />

Teodulfo nel corso del 792 sulla base del materiale selezionato a Regen-<br />

41 In più punti i Libri accusano le pratiche iconodule <strong>di</strong> essere una novità,<br />

senza vere ra<strong>di</strong>cazioni nella Scrittura e nella patristica. Cfr. a questo proposito<br />

M.F. AUZÉPY, Francfort et Nicée II, in R. BERNDT (ed.), Das Frankfurter Konzil<br />

von 794. Kristallisationspunkt karolingischer Kultur, Frankfurt am Main 1997,<br />

279-300 (= L’histoire, cit., 285-302).<br />

42 Uso il termine ‘colloqui’ e non più ‘sinodo’ sulla base della convincente<br />

analisi <strong>di</strong> NOBLE, Images cit., 263-268. In effetti, la documentazione connessa a<br />

vario titolo con questa assemblea <strong>di</strong> vescovi (lettere, Libellus, Epitome: cfr. A.<br />

WERMINGHOFF [ed.], Concilia Aevi Karolini (742-842). Pars 2, Monumenta<br />

Germaniae Historica, Concilia, 2,2, Hannoverae - Lipsiae 1908, 473-551) non<br />

parla mai <strong>di</strong> una sinodo o <strong>di</strong> un concilio, ma <strong>di</strong> un conventus. È probabile che si<br />

sia trattato dell’incontro a scopo consultivo <strong>di</strong> un ristretto gruppo <strong>di</strong> vescovi selezionati<br />

personalmente da Ludovico il Pio.<br />

43 Coram se suisque (WERMINGHOFF, Concilia, cit., 2, 481).<br />

44 Cfr. A. FREEMAN, Carolingian Orthodoxy and the Fate of the Libri Carolini,<br />

Viator 16 (1985) 105 (= Theodulf of Orléans: Charlemagne’s spokesman against<br />

the Second Council of Nicaea, Aldershot 2003, nr. III, 105).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

sburg; questo stesso materiale fu utilizzato anche per la composizione<br />

del cosiddetto Capitulare adversus synodum, un documento che non si<br />

conserva, ma che doveva essere una versione preliminare e molto più<br />

succinta dei Libri, contenente una prefazione e un commento ai capitoli<br />

più controversi del Concilio Niceno II. Come testimonia il Libellus <strong>di</strong><br />

Parigi 45 , il Capitulare fu inviato a Roma tramite Angilberto <strong>di</strong> Centula<br />

per sottoporlo al giu<strong>di</strong>zio del papa. Nel frattempo continuava la stesura<br />

dei Libri che, completati e corretti l’anno seguente, furono presentati<br />

a Carlo per l’approvazione poco prima che giungesse a corte la risposta<br />

<strong>di</strong> papa Adriano al Capitulare (autunno 793).<br />

Il Vaticanus Latinus 7207 è prezioso non solo perché conserva le note<br />

del re, ma anche perché rivela con eccezionale evidenza la presenza<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>verse fasi redazionali. La Freeman ha infatti <strong>di</strong>mostrato che il co<strong>di</strong>ce<br />

era il manoscritto <strong>di</strong> lavoro <strong>di</strong> Teodulfo, vagliato in seguito da almeno<br />

tre mani <strong>di</strong>verse, che intervennero apponendo numerose correzioni:<br />

Walther Schmandt ne ha contate circa 3.400 46 , particolarmente<br />

concentrate nel II libro, <strong>di</strong> cui si decise una drastica riduzione della lunghezza<br />

47 . Le correzioni sono tuttavia <strong>di</strong>ffuse in tutta l’opera, e coinvolgono<br />

anche le parti de<strong>di</strong>cate al Mandylion <strong>di</strong> Edessa, come tra poco si<br />

avrà modo <strong>di</strong> appurare. Purtroppo il co<strong>di</strong>ce vaticano è privo della prefazione,<br />

della parte iniziale del III libro e <strong>di</strong> tutto il IV libro. La ricostruzione<br />

dell’opera nel suo complesso è stata fatta ricorrendo ad un altro<br />

antico co<strong>di</strong>ce (Parigi, Bibl. de l’Arsenal 664), preparato su richiesta <strong>di</strong><br />

Incmaro <strong>di</strong> Reims nel corso <strong>degli</strong> anni Sessanta del IX sec. e conservatosi<br />

fortunatamente intatto. È chiaro tuttavia che per le parti mancanti<br />

del co<strong>di</strong>ce vaticano la ricostruzione del testo originale <strong>di</strong> Teodulfo si fa<br />

<strong>di</strong>fficile se non in molti punti impossibile.<br />

45 Cfr. WERMINGHOFF, Concilia, cit., 2, 481.<br />

46 Cfr. W. SCHMANDT, <strong>Stu<strong>di</strong></strong>en zu den Libri Carolini, Mainz 1966, 6.<br />

47 Il motivi per cui si procedette a una tale riduzione, che, secondo i calcoli <strong>di</strong><br />

Freeman, portò all’eliminazione <strong>di</strong> una trentina <strong>di</strong> folia (cfr. A. FREEMAN - P.<br />

MEYVAERT, Opus Caroli regis contra synodum: An Introduction, in FREEMAN,<br />

Theodulf cit., 56), non sono stati chiariti. È possibile che la responsabilità <strong>di</strong> questa<br />

decisione sia da attribuire a un teologo <strong>di</strong> corte particolarmente influente, che<br />

ritenne poco efficace l’ampiezza delle argomentazioni <strong>di</strong> Teodulfo. Si procedette<br />

pertanto all’eliminazione delle parti ritenute ripetitive, e alla sintesi <strong>di</strong> quelle che<br />

indugiavano in <strong>di</strong>ssertazioni retoriche (ivi, 59). Per una ricostruzione ipotetica<br />

dello schema originario del trattato, si veda K. MITALAITÉ, Philosophie et Théolo -<br />

gie de l’image dans les Libri Carolini, Paris 2007, 455-468.<br />

213


214<br />

Ester Brunet<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>osi come Jean Wirth, Kristina Mitalaité e, più recentemente,<br />

Thomas Noble 48 , hanno <strong>di</strong>mostrato, contro un’avversa tra<strong>di</strong>zione storiografica<br />

49 , la complessità e l’originalità della teoria dell’immagine<br />

espressa in questo scritto. Non dovendo contrapporsi, a <strong>di</strong>fferenza <strong>degli</strong><br />

iconoclasti orientali, a pratiche iconodule <strong>di</strong>ffuse, i Libri Carolini<br />

non condannano le immagini perché dannose o devianti, ma le ritengono<br />

essenzialmente inutili alla fede. Essi riprendono, ma con molte cautele,<br />

il leitmotiv gregoriano dell’efficacia pedagogica delle immagini, soprattutto<br />

delle historiae <strong>di</strong> impianto narrativo, ma dubitano che l’arte<br />

sia realmente in grado <strong>di</strong> veicolare il kerigma, l’essenza del messaggio<br />

cristiano. Secondo i Libri Carolini, l’immagine, non avendo alcuna funzione<br />

liturgica o devozionale, ha soltanto un uso estetico, <strong>di</strong> ornamentum<br />

dei luoghi <strong>di</strong> culto; al massimo, può sollecitare nel fedele la memoria<br />

delle opere <strong>di</strong> Cristo e dei santi, ma rimane pur sempre il simulacro<br />

dell’aspetto esteriore <strong>di</strong> un oggetto, dei lineamenti fisici <strong>di</strong> un uomo, a<br />

cui l’agostinismo <strong>di</strong> Teodulfo non riconosceva alcun significato sul piano<br />

della fede e del culto ‘in spirito e verità’. In tale contesto teologico<br />

<strong>di</strong> netta contrapposizione tra spirito e materia, il <strong>di</strong>sagio, <strong>di</strong>rei quasi<br />

l’irritazione, che prova Teodulfo <strong>di</strong> fronte all’argumentum delle immagini<br />

miracolose, in senso sia attivo – immagini che fanno miracoli – sia<br />

passivo – immagini che appaiono in circostanze miracolose – è palpabile.<br />

In risposta a Nicea II, i Libri Carolini de<strong>di</strong>cano un capitolo intero<br />

(IV, 10) alla contestazione dell’autorità dell’immagine <strong>di</strong> Edessa.<br />

Prima <strong>di</strong> affrontare l’analisi del testo, occorre però fare un passo in<strong>di</strong>etro,<br />

e chiedersi se i teologi <strong>di</strong> Carlo fossero già a conoscenza dei racconti<br />

d’origine del Mandylion edesseno, o se li classificassero tra le «pe-<br />

48 Cfr. J. WIRTH, L’image mé<strong>di</strong>évale: naissance et développements (VIe - XVe siècles),<br />

Paris 1989, 129-166; MITALAITÉ, cit.; NOBLE, Image cit., 158-243; ID.,<br />

Kings, Clergy and Dogma: the Settlement of Doctrinal Disputes in the Carolingian<br />

World, in S. BAXTER - C. KARKOV - J. NELSON - D. PELTERET (edd.), Early<br />

Me<strong>di</strong>eval <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es in Memory of Patrick Wormald, Farnham 2009, 237-252.<br />

49 Cfr. specialmente S. GERO, The Libri Carolini and the Image Controversy,<br />

Greek Orthodox Theological Review 18 (1973) 11; G. DUMEIGE, Nicée II<br />

(Histoire des Conciles Oecuméniques 4), Paris 1978, 155; con alcuni recentissimi<br />

epi goni: cfr. C. RUDOLPH, La resistenza all’arte nell’Occidente, in E. CASTEL -<br />

NUOVO - G. SERGI (ed.), Arti e storia nel Me<strong>di</strong>oevo. III: Del vedere. Pubblici, for me,<br />

funzioni, <strong>Torino</strong> 2004, 70, che definisce i Libri «un testo tanto mal in<strong>di</strong>rizzato<br />

nella sua foga quanto non autorevole».


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

ricolose novità» 50 <strong>di</strong> cui tacciavano il Concilio Niceno <strong>di</strong> essere ap -<br />

portatore. Senz’altro Teodulfo è a conoscenza dell’esistenza <strong>di</strong> immagini<br />

pretese acheropite, ‘semiacheropite’ o degne <strong>di</strong> particolare onore per<br />

le circostanze straor<strong>di</strong>narie in cui furono create. Si pensi ad esempio<br />

alla fama che a quel tempo godevano i racconti dei miracoli legati alla<br />

statua <strong>di</strong> Paneade; o al resoconto del viaggio in Palestina e a Costantinopoli<br />

<strong>di</strong> Arculfo, vescovo della Gallia, raccolto intorno al 680 dal -<br />

l’abate irlandese Adamnano <strong>di</strong> Iona nel suo De locis sanctis, ove si narra,<br />

oltre che <strong>di</strong> alcuni miracoli operati da immagini, anche <strong>di</strong> una veste<br />

tessuta da Maria recante i ritratti <strong>di</strong> Gesù e <strong>degli</strong> apostoli 51 . Senz’altro i<br />

teologi <strong>di</strong> Carlo non erano all’oscuro del particolare status che col<br />

tempo avevano assunto alcune antiche icone <strong>di</strong> Roma, prima fra tutte<br />

l’acheropita del Salvatore custo<strong>di</strong>ta nel sancta sanctorum del Late ra -<br />

no.<br />

Ma quali sono le fonti dei Libri Carolini sulla leggenda d’origine<br />

dell’acheropita <strong>di</strong> Edessa? Communis opinio tra gli storici è che i Libri<br />

tra<strong>di</strong>scano l’assenza <strong>di</strong> rapporti con il dossier patristico greco relativo<br />

alla controversia iconoclastica, ad eccezione <strong>di</strong> ciò che era stato reso loro<br />

accessibile tramite la versione latina <strong>degli</strong> Acta del VII Concilio Ecumenico<br />

52 . Tuttavia una lettura attenta dei testi fa trapelare l’esistenza <strong>di</strong><br />

almeno due fonti alternative, che nel caso dell’acheropita <strong>di</strong> Edessa si<br />

rivelano un nodo fondamentale per comprenderne la ricezione letteraria<br />

in ambito franco. La ricostruzione non è semplice, per via dei molti<br />

documenti andati perduti, e tuttavia non è impossibile.<br />

Sappiamo che nel 769 papa Stefano III convoca un concilio, nel tentativo<br />

<strong>di</strong> riallacciare l’alleanza franco-papale all’alba della deposizione<br />

dell’antipapa Costantino. Il consesso è certamente una delle più rilevanti<br />

assemblee conciliari italiane dell’VIII secolo, per l’alto numero <strong>di</strong><br />

presuli partecipanti, tra cui, a detta del Liber Pontificalis, una nutrita e<br />

50 Cfr. Libri Carolini: præfatio libri quarti (p. 485).<br />

51 L’opera è molto <strong>di</strong>scussa, tanto che oggi si dubita persino dell’esistenza <strong>di</strong><br />

Arculfo. Forse Adamnano venne a conoscenza dei racconti che riporta tramite i<br />

suoi contatti con la Northumbria, e quin<strong>di</strong> con Roma, o con la sede vescovile <strong>di</strong><br />

Canterbury, retta in quegli anni dal greco Teodoro <strong>di</strong> Tarso. Cfr. a questo proposito<br />

N. DELIERNEUX, Arculfe «sanctus episcopus gente Gallus»: une existence<br />

historique <strong>di</strong>scutable, Révue Belge de Philologie et d’Histoire 75 (1997) 911-941.<br />

52 Cfr. GERO, The Libri cit.; ID., Byzantine Iconoclasm During the Reign of<br />

Constantine V with Particular Attention to the Oriental Sources, Louvain 1977, 81.<br />

215


216<br />

Ester Brunet<br />

teologicamente attrezzata rappresentanza franca 53 . Gli atti 54 ci sono<br />

giunti in stato gravemente lacunoso, ma sufficiente per rivelarci che i<br />

vescovi riuniti si pronunciarono a favore del culto delle icone. A questo<br />

proposito, vennero letti vari testimonia favorevoli alle immagini, tra cui<br />

anche il testo, tradotto in latino, <strong>di</strong> una syno<strong>di</strong>ca fidei, che non si conserva,<br />

in<strong>di</strong>rizzata al predecessore <strong>di</strong> Stefano papa Paolo I e giunta a Roma<br />

il 12 agosto del 767 per il tramite <strong>di</strong> un presbitero inviato dal patriarca<br />

<strong>di</strong> Gerusalemme Teodoro. Nel documento, che era una risposta<br />

a precedenti epistole <strong>di</strong> quel pontefice, i patriarchi <strong>di</strong> Gerusalemme, <strong>di</strong><br />

Antiochia e <strong>di</strong> Alessandria, nonché numerosi altri vescovi <strong>di</strong> Chiese<br />

orientali, facevano solenne professione <strong>di</strong> fede ortodossa, e confermavano<br />

la loro piena adesione al culto delle immagini sacre. La sino<strong>di</strong>ca<br />

fu un documento chiave dell’argomentazione iconofila della Sinodo<br />

Lateranense del 769. La si lesse con molta solennità, e fu presentata come<br />

una sorta <strong>di</strong> ‘preambolo’ dottrinale alla definizione dogmatica <strong>di</strong><br />

quel concilio, che stabiliva un nesso necessario tra l’icona e l’economia<br />

incarnazionale.<br />

Ciò è testimoniato dalla lunga epistola che nel 793 papa Adriano I<br />

in<strong>di</strong>rizzava a Carlo Magno 55 , dopo che il sovrano, nell’attesa della stesura<br />

definitiva dei Libri Carolini, aveva fatto pervenire a Roma il Capi-<br />

53 I partecipanti franchi erano do<strong>di</strong>ci: cinque dai territori <strong>di</strong> Carlo e sette da<br />

quelli <strong>di</strong> Carlomanno; trentanove invece il numero dei vescovi italiani. Sul concilio,<br />

cfr. J. HERRIN, The Formation of Christendom, London 1989, 393-396; M.<br />

MCCORMICK, Textes, images et iconoclasme dans le cadre des relations entre<br />

Byzance et l’Occident carolingien, in Testo e immagine nell’Alto Me<strong>di</strong>oevo,<br />

Spoleto 1994, 131-133.<br />

54 Cfr. WERMINGHOFF, Concilia, cit., 1, 74-92.<br />

55 «Iste Thedorus patriarcha Ierosolimorum, cum ceteris praecipuis patriarchis,<br />

videlicet Cosmas Alexandriae Theodorus alius Anthiochie, dudum predecessori<br />

nostro sanctae recordationis quondam Paulo pape, emiserunt propriam<br />

eorum recte fidei syno<strong>di</strong>cam, in qua et de sacratissimis imaginibus subtili narratione,<br />

qualiter una cum nostra sancta catholica et apostolica universale Romana<br />

ecclesia ipsi vel ceteri orientales orthodoxi episcopi et christianus populus sentiunt,<br />

et in earundem sanctorum imaginum veneratione sincero mentis effectum<br />

ferventes in fide existunt, studuerunt intimandum. Quam syno<strong>di</strong>cam in Latino<br />

interpretatam eloquio predecessor noster quondam sanctissimus dominus Ste -<br />

phanus papa in suo concilio, quod et ipse pro sacris imaginibus una cum <strong>di</strong>versis<br />

episcopis partibus Francie seu Italie fecit, suscipientes ac relegentes, placuerunt<br />

tam de <strong>di</strong>versis sanctorum patrum testimoniis, quam de symbolo fidei, ubi facti<br />

sunt» (K. HAMPE [ed.], Epistolae selectae pontificum Romanorum Carolo Magno


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

tulare de imaginibus. Va innanzitutto sottolineato il fatto, <strong>di</strong> per sé interessante,<br />

che il Capitulare conteneva un riferimento polemico al<br />

Mandylion <strong>di</strong> Edessa, verso cui il papa istruisce una replica; ciò <strong>di</strong>mostra<br />

che l’acheropita era stata selezionata e inserita tra gli argumenta<br />

più controversi, che si volevano sottoporre all’attenzione del vescovo <strong>di</strong><br />

Roma. È proprio il locus della lettera adrianea che risponde alle critiche<br />

mosse dai Franchi nei confronti dell’immagine edessena, a conservare<br />

una preziosa citazione <strong>degli</strong> atti del Concilio Lateranense del 769,<br />

che sarebbe andata altrimenti perduta. Come in un gioco <strong>di</strong> scatole cinesi,<br />

il passo del Concilio Lateranense citato da Adriano cita a sua volta<br />

un breve stralcio della sino<strong>di</strong>ca orientale (de syno<strong>di</strong>ca trium patriarcharum,<br />

videlicet Cosme Alexandrie, Theodori Anthiochie et Theodori<br />

Hierosolime, quam in prae<strong>di</strong>cto concilio relecta) 56 . Il passo che Adriano<br />

riproduce rappresenta chiaramente la chiusa della lettera, dove soltanto<br />

si nomina l’acheropita <strong>di</strong> Edessa assieme agli alia aut similia sanctorum<br />

patrum, quelle autorità <strong>di</strong> chiara fama que et vos melius co -<br />

gnoscitis 57 . Tuttavia, le parole usate dal redattore (Restat mihi tempus<br />

enarran<strong>di</strong> de Abgaro Edeseno) potrebbero alludere alla presenza, per<br />

nulla inconsueta negli scambi epistolari del tempo 58 , <strong>di</strong> un allegato <strong>di</strong><br />

fonti patristiche e agiografiche, cui l’epistola rinvierebbe per una narrazione<br />

più puntuale delle origini dell’acheropita edessena.<br />

et Ludowico Pio regnantibus scriptae, in Epistolae karolini aevi. Tomus III, Monu -<br />

menta Gernaniae Historica, Epistolae, 5, Berolini 1899, 11).<br />

56 Ivi, 23.<br />

57 Di seguito il testo completo della citazione: «Restat mihi tempus enarran<strong>di</strong><br />

de Abgaro Edeseno, et alia aut similia sanctorum patrum, que et vos melius<br />

cognoscitis. Persevera, sanctissime pater, persevera in eadem bona fide, corroboratus<br />

super petram fidei, sicut deiloqua vox affata est apostolo Petro: “Tu es<br />

Petrus, et super hanc petram ae<strong>di</strong>ficabo ecclesiam meam; et porte inferi non<br />

praevalebunt adversus eam”. Vere non prevalebunt ei in saeculum saeculi.<br />

Cognitum facimus te sanctissimum dominum ego humilis Theodorus patriarcha<br />

Ierosolimorum, et hii, qui nobiscum sunt, Cosmas patriarcha Alexandriae et<br />

Theodorus patriarcha Antiochie ipsum intellegimus et cre<strong>di</strong>mus, sicut et vestra<br />

sanctitas patet» (ibid.).<br />

58 Si veda a questo proposito P. CONTE, Regesto delle lettere dei papi del secolo<br />

VIII. Saggi, Milano 1984, 75-76, che sottolinea l’importanza dei florilegi e dei<br />

documenti allegati alle epistole per la formazione, tra VII e VIII sec., <strong>di</strong> un dossier<br />

teologico comune a Roma e a Costantinopoli. Lo stu<strong>di</strong>oso cita opportunamente<br />

il caso del patriarca costantinopolitano Sergio, che nel 633-634 aggiorna papa<br />

Onorio sulla questione monoenergita inviandogli tutte le sue lettere in materia.<br />

217


218<br />

Ester Brunet<br />

Il testo della sino<strong>di</strong>ca non era nuovo al clero vicino a Pipino. Sappiamo<br />

infatti da una lettera conservata nel Codex Carolinus che nell’agosto<br />

del 767, quin<strong>di</strong> due anni prima la convocazione del Concilio Romano,<br />

l’antipapa Costantino non soltanto l’aveva fatto leggere pubblicamente,<br />

ma l’aveva pure inviato, all’inizio <strong>di</strong> settembre, al re dei Franchi,<br />

in versione greca e latina, come allegato a un’epistola che aveva lo<br />

scopo <strong>di</strong> giustificare la propria assunzione al soglio <strong>di</strong> Pietro 59 . Costantino<br />

<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> accludere copia della sino<strong>di</strong>ca <strong>di</strong> Teodoro affinché il sovrano<br />

conosca lo zelo per le sacre immagini che anima tutto l’Oriente. Come<br />

ha <strong>di</strong>mostrato Michael McCormick in un brillante e documentato<br />

intervento spoletino 60 , soltanto qualche mese prima si era avuto a Gentilly<br />

un incontro tra Pipino, rappresentanti del clero e della nobiltà<br />

franca e ambasciatori venuti da Roma e Costantinopoli, in cui si era <strong>di</strong>scusso<br />

tra l’altro della questione delle immagini. È possibile che con<br />

l’invio della sino<strong>di</strong>ca il papa avesse voluto riba<strong>di</strong>re a Pipino come le<br />

chiese d’Oriente, con la sola eccezione <strong>di</strong> Costantinopoli, fossero in linea<br />

con Roma nella comune <strong>di</strong>fesa dell’ortodossia. Molto probabilmente<br />

la prima conoscenza dell’esistenza del Mandylion in Occidente, a<br />

Roma come in Gallia, avvenne tra l’agosto e il settembre del 767 grazie<br />

a questa epistola.<br />

Durante il consesso del 769, papa Stefano avrà modo <strong>di</strong> sviluppare il<br />

<strong>di</strong>scorso intorno al Mandylion attingendo anche a un’altra fonte, come<br />

lui stesso specifica, ossia le relazioni, scritte o orali (relatione fidelium<br />

de partibus orientis advenientibus) in cui i pellegrini riportavano il racconto<br />

della straor<strong>di</strong>naria reliquia del volto del Signore, avendola potuta<br />

vedere con i propri occhi o avendone sentito parlare a Costantinopo-<br />

59 «Itaque innotescimus excellentiae vestrae, quod duodecimo <strong>di</strong>e preteriti<br />

Augusti mensis nunc transactae quintae in<strong>di</strong>ctionis coniunxit ad nos a sancta<br />

civitate quidam religiosus presbiter Constantinus nomine, deferens syno<strong>di</strong>cam<br />

fidei missam a Theodoro Hierusolimitano patriarcha ad nomen predecessoris<br />

nostri, domni Pauli papae; in quo et reliqui patriarchae, id est Alexandrinus et<br />

Antiocenus, et plurimi metropolitani episcopi orientalium partium visi sunt concordasse.<br />

Eamque cum magna lætitia suscipientes atque amplectentes, in populo<br />

in ambone relegi fecimus. Cuius exemplar in Latino et Greco eloquio vestrae<br />

excellentiae <strong>di</strong>reximus, ut agnoscatis, qualis fervor sanctarum imaginum orientalibus<br />

partibus cunctis christianis inminet» (W. GUNDLACH [ed.], Codex Caro linus,<br />

in Epistolae merowingici et karolini aevi. Tomus I, Monumenta Ger ma niae<br />

Historica, Epistolae, 3, Berolini 1892, 652-653).<br />

60 Cfr. MCCORMICK, cit., 113-131.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

li, dove già l’icona era famosa 61 . Edessa era <strong>di</strong>ventata importante meta<br />

<strong>di</strong> pellegrinaggi, sia da Oriente che da Occidente, sin dalla fine del IV<br />

sec. 62 ; la sua forza attrattiva andava in parallelo con la crescente <strong>di</strong>ffusione<br />

della leggenda <strong>di</strong> uno scambio epistolare tra Cristo e Abgar, tramandata<br />

per primo da Eusebio <strong>di</strong> Cesarea 63 e conosciuta in Occidente<br />

nella versione <strong>di</strong> Rufino. La risposta scritta <strong>di</strong> Cristo al toparca <strong>di</strong><br />

Edessa, un documento considerato autografo e preziosamente conservato,<br />

si ra<strong>di</strong>ca in una tra<strong>di</strong>zione testuale ben più antica <strong>di</strong> quella del<br />

Mandylion, ma non se ne <strong>di</strong>stacca, perché il racconto d’origine dell’immagine<br />

acheropita s’innesta nel medesimo complesso <strong>di</strong> leggende incentrate<br />

intorno alla figura <strong>di</strong> Abgar: sia la lettera che l’immagine risultano<br />

infine inviate da Gesù al re per rispondere alle sue richieste ed<br />

esau<strong>di</strong>re il suo desiderio <strong>di</strong> vedere il Signore 64 . Oltre alla lettera scritta<br />

da Gesù e all’acheropita, entrambe <strong>oggetti</strong> concreti e venerati – la seconda<br />

a partire almeno dalla fine del VI sec. 65 – la città conservava il<br />

prezioso corpo <strong>di</strong> Tommaso, apostolo dell’Asia. Non stupisce quin<strong>di</strong><br />

che più <strong>di</strong> un pellegrino <strong>di</strong> ritorno a Roma raccontasse <strong>di</strong> aver visitato<br />

Edessa, come aveva fatto a suo tempo Egeria, e che queste relazioni <strong>di</strong><br />

viaggio circolassero e fossero particolarmente apprezzate, se lo stesso<br />

papa Stefano ci tiene a specificare: sepe cognovimus.<br />

Il pontefice introduce il racconto dell’origine del Mandylion con una<br />

puntualizzazione sul rapporto tra Sacra Scrittura e Tra<strong>di</strong>zione della<br />

Chiesa: la Tra<strong>di</strong>zione non si accosta semplicemente alle Scritture, come<br />

fosse un canale alternativo della Rivelazione, ma le contiene. Infatti, <strong>di</strong>-<br />

61 Cfr. DOBSCHÜTZ, Immagini cit., 137-138.<br />

62 Cfr. J.B. SEGAL, Edessa: the Blessed City, Oxford 1970, 172-175.<br />

63 Cfr. EUSEBIUS CAESARIENSIS, Historia ecclesiastica, I, 13.<br />

64 Per un’analisi comparata <strong>di</strong> lettera e immagine, cfr. A. LIDOV, Holy Place,<br />

Holy Script, Holy Gate. Revealing the Edessa Para<strong>di</strong>gm in Christian Imagery, in<br />

A. R. CALDERONI MASETTI - C. DOFOUR BOZZO - G. WOLF (edd.), Intorno al<br />

Sacro Volto. Genova, Bisanzio e il Me<strong>di</strong>terraneo (secoli XI-XIV), Venezia 2007,<br />

145-162.<br />

65 Averil Cameron ha <strong>di</strong>mostrato che vi è coincidenza cronologica tra le prime<br />

attestazioni scritte dell’esistenza <strong>di</strong> immagini non fatte da mano d’uomo, ascrivibili<br />

tutte alla fine del VI secolo, e il venire alla luce dell’icona edessena. Cfr. A.<br />

CAMERON, The History of the Image of Edessa: the Telling of a Story, Harvard<br />

Ukrainian <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 7 (1983) 80-94 ( = C. MANGO - O. PRITSAK [edd.], Okeanos.<br />

Essays Presented to Ihor Ševčenko on his Sixtieth Birthday by his Colleagues and<br />

Students).<br />

219


220<br />

Ester Brunet<br />

ce il papa citando Giovanni, in quibus [scil. relationibus] licet evangelium<br />

sileat, tamen nequaquam in omnibus incre<strong>di</strong>bile fidei meritum, ex hoc adfirmantem<br />

de ipso evangelista: «Multa quidem et alia signa fecit Iesus,<br />

que non sunt scripta in libro hoc». Il racconto dell’immagine edessena è<br />

considerato quin<strong>di</strong> parte della Tra<strong>di</strong>zione non scritta, e non<strong>di</strong>meno altrettanto<br />

autorevole, ancor <strong>di</strong> più per il fatto che risale al Gesù storico.<br />

Tale inquadramento del Mandylion è molto significativo. Alludendo al<br />

fatto che i Vangeli non esauriscono tutta la vicenda storica <strong>di</strong> Cristo,<br />

ma che sono una componente (certo la più importante, ma non l’unica)<br />

del depositum fidei, papa Stefano schiude per la prima volta ai vescovi<br />

franchi presenti al consesso del 769 un argomento che non era affatto<br />

nuovo ai <strong>di</strong>fensori delle immagini sacre. Nella messa a punto della <strong>di</strong>mensione<br />

cultuale dell’immagine, che gli autori iconofili fino a Nicea II<br />

erano in gran parte orientati a fondare sui temi portanti della Tra<strong>di</strong>zione<br />

(Paradosis) e dell’autorità 66 , stupirebbe in effetti non trovare una seria<br />

istruzione del rapporto Scrittura/Tra<strong>di</strong>zione. Prima <strong>di</strong> papa Stefano,<br />

già Giovanni Damasceno aveva fatto un affondo in tal senso, proprio<br />

in <strong>di</strong>fesa della cre<strong>di</strong>bilità del racconto del Mandylion. Nel De fide<br />

orthodoxa il monaco teologo organizza con perizia il <strong>di</strong>scorso; il racconto<br />

dell’origine dell’acheropita <strong>di</strong> Edessa conclude una più articolata<br />

riflessione teorica sulle icone, e viene fatto seguire da una considerazione,<br />

scritturalmente fondata, sull’autorità della Tra<strong>di</strong>zione:<br />

È tramandata anche una narrazione su come Abgar, re <strong>di</strong> Edessa, inviò un<br />

pittore che raffigurasse l’immagine del Signore ma il pittore non poté a<br />

causa del lucente splendore del volto: il Signore stesso, avendo<br />

posto un mantello sul suo volto <strong>di</strong>vino e vivificante, vi impresse la sua immagine,<br />

e così inviò ad Abgar che desiderava. Che gli apostoli<br />

hanno tramandato moltissime cose anche senza scriverle, lo <strong>di</strong>ce Paolo,<br />

l’Apostolo delle genti: «Perciò, fratelli, state sal<strong>di</strong> e mantenete le tra<strong>di</strong>zioni<br />

che avete appreso così dalla nostra parola come dalla nostra lettera»; e ai<br />

Corinti: «Vi lodo, o fratelli, perché in ogni cosa vi ricordate <strong>di</strong> me, e conservate<br />

le tra<strong>di</strong>zioni così come ve le ho tramandate» 67 .<br />

66 Sul topos dell’antichità del culto delle icone e sulla teologia nicena come<br />

ritorno alla Tra<strong>di</strong>zione, cfr. in special modo AUZÉPY, Francfort cit., 291-293;<br />

EAD., La Tra<strong>di</strong>tion comme arme du pouvoir: l’exemple de la querelle iconoclaste, in<br />

J.-M. SANSTERRE (ed.), L’autorité du passé dans les sociétés mé<strong>di</strong>évales, Roma<br />

2004, 79-92 (= L’histoire, cit., 105-115).<br />

67 IOHANNES DAMASCENUS, De fide orthodoxa, IV, 16 (trad. FAZZO, cit., 285).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

In questo modo il ricorso alla Tra<strong>di</strong>zione – ovvero a tutto ciò che è<br />

stato trasmesso dagli Apostoli oltre le Scritture, ma che con queste è<br />

congruente e da queste riceve il suo senso più autentico – vale per dare<br />

concretezza veritativa sia alla trasmissione del racconto d’origine dell’immagine<br />

edessena sia, più in generale, al culto delle icone, cioè al<br />

contenuto <strong>di</strong> tutto il capitolo. Non è certamente il Damasceno – che<br />

peraltro si appella a Paolo e non a Giovanni – la fonte <strong>di</strong>retta <strong>di</strong> papa<br />

Stefano, ma il confronto risulta senz’altro utile per mettere a fuoco le<br />

strategie e i topoi argomentativi <strong>degli</strong> iconoduli circa le immagini acheropite.<br />

Ritorniamo agli atti della Sinodo Lateranense. Secondo quanto <strong>di</strong>ce<br />

papa Stefano – sulla base, come egli stesso specifica, <strong>di</strong> ciò che ha appreso<br />

dai pellegrini – la vicenda si svolse nei giorni precedenti la Passione,<br />

presumibilmente a Gerusalemme. Qui Gesù fu contattato dal re <strong>di</strong><br />

Edessa Abgar, che desiderava convincerlo a venire da lui per vederlo <strong>di</strong><br />

persona e godere dei suoi poteri taumaturgici, sottraendolo al contempo<br />

alle persecuzioni dei giudei. Gesù non accon<strong>di</strong>scese alla richiesta, ma inviò<br />

un panno con impresso il proprio volto; promise inoltre l’invio a<br />

Edessa <strong>di</strong> un apostolo, <strong>di</strong> cui non specifica l’identità, allo scopo <strong>di</strong> guarire<br />

la malattia <strong>di</strong> Abgar e convertire la città, ma soltanto dopo aver portato<br />

a termine la sua missione nel mondo 68 . Vanno senz’altro notate alcune<br />

specificità del racconto; in particolare il fatto che l’icona, contro la<br />

testimonianza <strong>di</strong> Eusebio, è menzionata nella lettera <strong>di</strong> Cristo 69 . Infatti<br />

così Stefano cita (o parafrasa) l’epistola <strong>di</strong> Cristo ad Abgar: «Se desideri<br />

conoscere il mio aspetto fisico, ecco che ti invio il mio volto impresso<br />

su un panno <strong>di</strong> lino (transformatam in linteo), così che si plachi il tuo fervido<br />

desiderio e tu capisca che ciò che hai u<strong>di</strong>to <strong>di</strong> me è vero». Per la verità,<br />

il papa non specifica se la risposta <strong>di</strong> Gesù fosse scritta o orale 70 ;<br />

68 «Redemptor humani generis, adpropinquante <strong>di</strong>e passionis, cuidam regi<br />

Etessene civitatis, desideranti corporaliter illum cernere et ut persecutiones Iu -<br />

daeorum aufugiens, ad illum convolaret et au<strong>di</strong>tas miraculorum oppiniones et<br />

sanitatum curationes illi et populo suo impertiret, respon<strong>di</strong>sset: “Quod si faciem<br />

meam corporaliter cernere cupis, en tibi vultus mei speciem transformatam in linteo<br />

<strong>di</strong>rigo, per quam et desiderii tui fervorem refrigeres, et quod de me au<strong>di</strong>sti<br />

inpossibile nequaquam fieri existimes. Postquam tamen conplevero ea, que de me<br />

scripta sunt, <strong>di</strong>rigam tibi unum de <strong>di</strong>scipulis meis, qui tibi et populo tuo sanitates<br />

impertiat et ad sublimitatem fidei vos perducat”» (ed. HAMPE, Epistolae, cit., 23).<br />

69 Lo notava già DOBSCHÜTZ, Immagini, cit., 105.<br />

70 Una risposta orale da parte <strong>di</strong> Gesù è testimoniata nella versione <strong>degli</strong> Atti<br />

221


222<br />

Ester Brunet<br />

avendo compen<strong>di</strong>ato il racconto, con la conseguenza <strong>di</strong> aver lasciato impliciti<br />

alcuni passaggi, <strong>di</strong>ce solo che Gesù «rispose» (respon<strong>di</strong>sset) a una<br />

richiesta <strong>di</strong> Abgar: che lo abbia fatto per iscritto o al cospetto <strong>di</strong> inviati<br />

– peraltro sempre presenti in tutte le varianti della leggenda anche se qui<br />

non esplicitamente citati – non è dato sapere con certezza. Mancando il<br />

riferimento agli ambasciatori del re, non si trovano poi altri due elementi<br />

presenti in entrambe le versioni della leggenda tramandate da Giovanni<br />

Damasceno 71 e in altri scritti anti-iconoclastici: la previa volontà<br />

del sovrano <strong>di</strong> ‘sostituire’ Gesù con la sua immagine qualora egli si fosse<br />

rifiutato <strong>di</strong> andare a Edessa; e il tentativo (fallito) del messaggero/pittore<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>pingere il volto <strong>di</strong> Cristo.<br />

Una versione dell’origine dell’immagine <strong>di</strong> Edessa, più succinta ma<br />

non troppo <strong>di</strong>ssimile da quelle circolanti in Oriente, era dunque presentata<br />

dal pontefice ai vescovi partecipanti alla Sinodo Lateranense del<br />

769. Il <strong>di</strong>scorso del papa non faceva che confermare quanto il clero<br />

franco aveva già potuto apprendere due anni prima dalla lettera sino<strong>di</strong>ca<br />

dei patriarchi orientali che, nominando la leggenda nel testo e forse<br />

riportandola a parte, avevano reso edotti i fratelli d’Occidente sull’esistenza<br />

dell’immagine ‘non fatta da mano d’uomo’ <strong>di</strong> Edessa.<br />

Combattendo l’opinione contraria, l’autore dei Libri Carolini procura<br />

su <strong>di</strong> essa un’incontestabile testimonianza. Il capitolo de<strong>di</strong>cato alla<br />

trattazione del Mandylion appartiene al IV Libro, ed è pertanto impossibile<br />

capire se il testo sia quello originale <strong>di</strong> Teodulfo o se abbia subito<br />

correzioni significative. Fluido e ben argomentato, sembrerebbe non essere<br />

stato oggetto <strong>di</strong> particolari decurtazioni, ma si rimane nel campo<br />

delle pure ipotesi. La maniera con cui i Libri Carolini trattano il racconto<br />

giustificativo dell’autenticità del Mandylion rivela che la contestazione<br />

è <strong>di</strong>retta non tanto agli argomenti del Niceno II, e quin<strong>di</strong> al testimonium<br />

tratto da Evagrio, quanto a quelli del Concilio Lateranense.<br />

<strong>di</strong> Addai (<strong>di</strong> incertissima datazione: VI-VIII sec.; cfr. C. TISCHENDORF [ed.], Acta<br />

Apostolorum Apocrypha, Lipsiae 1851, specialmente 262) e dell’Ammonizione <strong>di</strong><br />

un vecchio (Nouqesiva gevronto" peri; tw'n aJgivwn eijkovnwn; cfr. B. M. MELIO RANSKIJ<br />

(ed.), Georgij Kiprjanin i Ioann Ierusalimljanin, Sankt-Peterburg 1901, V-XXXIX),<br />

un’opera anch’essa <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile ascrizione cronologica ma presumibilmente compilata<br />

tra il 754 e il 787. Per un’analisi dei testi, cfr. GUSCIN, cit., 145-146, 153-154.<br />

71 Cfr. IOHANNES DAMASCENUS, De fide orthodoxa IV, 16; ID., De sacris imaginibus<br />

orationes, I, 33.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

Lo <strong>di</strong>mostra chiaramente la bordata <strong>di</strong> Teodulfo contro le ragioni della<br />

Tra<strong>di</strong>zione. Cito testualmente:<br />

Chi […] afferma l’autenticità <strong>di</strong> queste due epistole, una ricevuta dal Signore,<br />

l’altra dal lui inviata, <strong>di</strong>cendo che non tutto ciò che Gesù ha detto e fatto<br />

è stato riportato nei Vangeli, e per questo si rifà al passo giovanneo:<br />

“Molti altri segni ha fatto Gesù <strong>di</strong> fronte ai suoi <strong>di</strong>scepoli, che non sono<br />

stati scritti in questo libro”, sappia che qui si intende <strong>di</strong>re miracoli, e non<br />

epistole, segni, e non costituzioni 72 .<br />

Il destinatario della critica <strong>di</strong> Teodulfo è senza alcun dubbio papa<br />

Stefano; gli atti del concilio romano sono, per quanto attiene la leggenda<br />

dell’acheropita edessena, fonte e interlocutori principali.<br />

Le «due epistole» cui si riferisce Teodulfo sono ovviamente quelle<br />

che, secondo la più antica testimonianza <strong>di</strong> Eusebio, in seguito ripresa<br />

da altri autori come Egeria 73 , Procopio 74 ed Evagrio, s’inviarono Cristo<br />

e Abgar, e che papa Gelasio verso la fine del V sec., come puntualmente<br />

ricorda il Nostro, aveva <strong>di</strong>chiarato apocrife, minandone l’auctoritas 75 .<br />

La critica all’immagine edessena da parte <strong>di</strong> Teodulfo rispecchia in ciò<br />

una tendenza generale dei Libri Carolini, che è quella <strong>di</strong> un’attenzione<br />

puntigliosa ai testi e alla loro autorevolezza. L’acre<strong>di</strong>ne polemica dei<br />

Libri è tutta rivolta al <strong>di</strong>scre<strong>di</strong>to delle lettere, e la strategia argomentativa<br />

non è insensata, visto che era stato proprio papa Stefano ad inserire<br />

<strong>di</strong>rettamente nella risposta <strong>di</strong> Gesù i dati <strong>di</strong> creazione e invio dell’ache-<br />

72 «Si vero hi, qui […] easdem epistolas, unam a Domino susceptam, alteram<br />

missam, adfirmare velint <strong>di</strong>centes non omnia scripta in evangelio, quae a<br />

Domino <strong>di</strong>cta vel facta sunt, et utantur testimonio Iohannis <strong>di</strong>centis: “Multa<br />

quidem et alia signa fecit Iesus in conspectu <strong>di</strong>scipulorum suorum, quae non sunt<br />

scripta in libro hoc”, advertant hoc de miraculis, non de epistolis, de signis, non<br />

de constitutionibus intellegi posse» (ed. FREEMAN, Libri Carolini, cit., 511).<br />

73 Cfr. Itinerarium Egeriae, XIX (trad. P. SINISCALCO - L. SCARAMPI (edd.),<br />

Egeria. Pellegrinaggio in Terra Santa, Milano-Roma 20082 , 108-112).<br />

74 Cfr. J. HAURY - G. WIRTH (edd.), Procopius. Bellum Persicum, II, 26-27, 268<br />

ss.<br />

75 «Quae duae epistolae cum a sancti evangelii lectione sint penitus extraneae<br />

et a beato Gelasio, Romanae urbis antistite, vel a ceteris aeque catholicis et<br />

orthodoxis viris inter apochrifas scripturas prorsus deputatae, non sunt in testimonium<br />

quodammodo producendae, quia ad ea, quae in quaestionem veniunt<br />

adprobanda vel inprobanda, sicut et ceterae apochrifae scripturae minus sunt<br />

idoneae» (ed. FREEMAN, Libri Carolini, cit., 511).<br />

223


224<br />

Ester Brunet<br />

ropita, implicando l’immagine nello scritto. Per i Libri Carolini le lettere<br />

sono predominanti al punto tale che l’argomentazione ha del paradossale;<br />

non soltanto perché le due epistole, il cui reale contenuto Teodulfo<br />

probabilmente conosceva tramite la Storia ecclesiastica <strong>di</strong> Eusebio/Rufino<br />

o la Peregrinatio <strong>di</strong> Egeria, non accennano minimamente<br />

all’icona acheropita, ma anche perché la contro-argomentazione scritturale<br />

ispirata al passo giovanneo, se applicata agli scritti invece che all’immagine,<br />

perde tutto il suo senso: se infatti i Libri Carolini obiettano<br />

che Giovanni «intende <strong>di</strong>re miracoli, e non epistole, segni, e non costituzioni»,<br />

si potrebbe replicare che è appunto a un miracolo che gli iconoduli<br />

si riferiscono, ossia a quello dell’impressione del volto <strong>di</strong> Cristo<br />

sul panno.<br />

Pur presentando qualche aporia, la logica dei Libri Carolini è pervicace,<br />

ed è quella della demolizione del documentum, ergo del monumentum.<br />

Non a caso i Libri insistono ancora sull’apocrifia dello scambio<br />

epistolare tra Cristo e Abgar in un altro punto del testo (III, 30), tutto<br />

de<strong>di</strong>cato all’uso improprio <strong>di</strong> testimonia apocrifi negli Acta niceni. Sul<br />

capitolo tuttavia ci si deve purtroppo limitare a considerazioni molto<br />

generali, per via della grave decurtazione apportatavi dai correttori 76 .<br />

Teodulfo si spinge poi oltre l’orizzonte filologico, e chiama in causa<br />

un altro argomento cui sovente si appella, la non pertinenza dei testimonia<br />

alla questione della sacralità delle immagini. In un saggio molto<br />

penetrante, Jean-Marie Sansterre 77 ha messo bene in luce la logica esercitata<br />

da Teodulfo nei confronti delle immagini miracolose, che si gioca<br />

sempre sul piano previo della critica delle fonti, cui segue l’analisi teologica.<br />

Contro l’acheropita edessena Teodulfo procede con la stessa<br />

metodologia con cui esamina il racconto, che i padri niceni traggono<br />

dal Prato spirituale <strong>di</strong> Giovanni Mosco, dei miracoli attribuiti a un’ico-<br />

76 Dai foll. 189v.-190v., che contengono il capitolo in questione, sono state<br />

cancellate ben 10 righe (cfr. FREEMAN - MEYVAERT, Opus cit., n. 280). Il testo,<br />

parzialmente recuperato in una nota dell’e<strong>di</strong>tio critica, accenna alle epistole <strong>di</strong><br />

Cristo e Abgar definendole documenti non autentici. È possibile che il capitolo<br />

sia stato decurtato in questo punto perché lo si riteneva un’inutile ripetizione <strong>di</strong><br />

IV, 10, dove l’argomento è trattato <strong>di</strong>ffusamente.<br />

77 Cfr. J.-M. SANSTERRE, Attitudes occidentales à l’égard des miracles d’images<br />

dans le haut Moyen Âge, Annales. Histoire, Sciences Sociales 53/6 (1998) 1225-<br />

1228.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

na appartenente a un abate, anacoreta nei pressi <strong>di</strong> Gerusalemme, e riferiti<br />

all’autore da un presbitero della chiesa <strong>di</strong> Ascalona 78 .<br />

Per prima cosa i Libri mettono in dubbio il valore del testimonium in<br />

quanto tale: la tra<strong>di</strong>zione dell’acheropita è apocrifa, perché apocrifo è<br />

lo scambio epistolare tra Cristo e Abgar; ciò sarebbe <strong>di</strong> per sé sufficiente,<br />

secondo Teodulfo, a squalificare qualsiasi pretesa del partito iconodulo.<br />

Relativamente all’icona dell’anacoreta, l’autore sospetta la buona<br />

fede del testimone e lamenta alcune lacune narrative presenti nel testo.<br />

Come ha notato correttamente Sansterre, l’analisi critica delle fonti<br />

«non è una questione <strong>di</strong> pura forma. Essa esprime quella “paura carolingia<br />

per il nuovo, il falso e il dubbioso” che Marc van Uytfanghe ha<br />

recentemente messo in evidenza per spiegare la rarità <strong>di</strong> santi contemporanei»<br />

79 .<br />

Teodulfo poi si pone <strong>di</strong> fronte alla possibilità che i racconti siano veri.<br />

Come inquadrarli? Nel caso della testimonianza <strong>di</strong> Giovanni Mosco,<br />

egli collega in prima battuta il miracolo al luogo sacro in cui l’icona<br />

era conservata, «perché è più cre<strong>di</strong>bile che questo miracolo […] sia<br />

accaduto per rispetto allo spazio sacro piuttosto che per la presenza <strong>di</strong><br />

una qualche immagine»; c’è quin<strong>di</strong> il tentativo <strong>di</strong> leggere l’evento miracoloso<br />

come in<strong>di</strong>pendente dall’immagine. Il passo successivo consiste<br />

nel valutare l’ipotesi che l’immagine sia realmente implicata nel miracolo,<br />

ossia, per usare la terminologia dei Libri, che Dio abbia realizzato<br />

cose straor<strong>di</strong>narie per mezzo <strong>di</strong> immagini o nelle immagini 80 . Ciò significa<br />

forse che alle immagini sia dovuto il culto? Teodulfo specifica che<br />

la ‘veicolazione’ del miracolo da parte <strong>di</strong> una determinata immagine<br />

non implica la venerazione <strong>di</strong> tutte le immagini. Ciò risulta chiaro nel<br />

commento al passo <strong>di</strong> Giovanni Mosco:<br />

Se si stabilisce che il miracolo che secondo il prete <strong>di</strong> Ascalona si è verificato<br />

<strong>di</strong> fronte a un’immagine, avvenne a causa <strong>di</strong> quell’immagine, ciò non significa<br />

che si debbano adorare per questo motivo le immagini, ché non si<br />

creda <strong>di</strong> dover adorare tutto ciò per cui o in cui un miracolo è apparso. Se<br />

78 Cfr. Libri Carolini, IV, 12 ed. FREEMAN, cit., 514-515; Acta <strong>di</strong> Nicea II:<br />

MANSI, cit., 193-196.<br />

79<br />

SANSTERRE, Attitudes cit., 1225, che cita M. VAN UYTFANGHE, Le culte des<br />

saints et la prétendue “Aufklärung” carolingienne, in R. FAVREAU (ed.), Le culte des<br />

saints aux IXe - XIIIe siècles, Poitiers 1995, 157.<br />

80 Cfr. Libri Carolini, III, 25, ed. FREEMAN, cit., 452.<br />

225


226<br />

Ester Brunet<br />

adoriamo tutto ciò in cui o per cui certi miracoli sono apparsi, non resterà<br />

pressoché nulla che non sia adorabile 81 .<br />

Sembra che qui Teodulfo ponga una netta <strong>di</strong>stinzione tra le cose tramite<br />

le quali Dio ha operato – singole e determinate; per fare un esempio<br />

concreto cui altrove si appellano i Libri 82 , il roveto ardente, quel roveto<br />

attraverso cui Dio parlò a Mosè – e la categoria <strong>di</strong> enti /roveto/ –<br />

«esistiti, o esistenti o che esisteranno al mondo» 83 ; se del primo (‘quel’<br />

roveto) Teodulfo non contesta l’adorazione (ancorché mai la affermi<br />

esplicitamente 84 ), dei secon<strong>di</strong> (tutti i roveti) la nega recisamente 85 .<br />

Ed in effetti non potrebbe essere altrimenti, pena l’incoerenza con<br />

l’esaltazione della sacralità delle reliquie, che l’autore propugna con<br />

fervore in molti altri punti del testo. Secondo i Libri, le reliquie sono<br />

degne <strong>di</strong> particolare venerazione perché sono le vestigia mortali dei<br />

santi, il cui corpo è ‘tempio’ <strong>di</strong> Dio, od <strong>oggetti</strong> posseduti, usati o toccati<br />

da Cristo, e dai santi che ora si trovano presso Dio 86 . Le reliquie, memorie<br />

<strong>di</strong> vita mirabile e pegni <strong>di</strong> vita celeste, sono parte <strong>di</strong> quelle realtà<br />

venerabili, come le specie eucaristiche e i vasi sacri che le contengono, i<br />

81 «Si ergo id miraculum, quod Ascalonitanae ecclesiae praesbiter erga imaginem<br />

apparuisse retulit, ob eandem imaginem apparuisse constaret, non ideo imagines<br />

adorandæ forent, quoniam non omnia, per quae vel in quibus miracula<br />

apparuere, adoranda creduntur. Si ergo omnia, in quibus vel per quæ miracula<br />

quaedam apparuere, adoranda sunt, pene nihil remanebit, quod non adoretur»<br />

(ivi, 515). I corsivi del testo sono miei.<br />

82 Cfr. Libri Carolini, III, 25, ed. FREEMAN, cit., 454-455.<br />

83 U. ECO, Il segno, Milano 1980, 25.<br />

84 Cfr. SANSTERRE, Attitudes cit., 1228; MITALAITÉ, cit., 352.<br />

85 Scorgo un parallelo interessante tra i capitoli III, 25 e IV, 12 dei Libri<br />

Carolini e la polemica che il vescovo iconoclasta Clau<strong>di</strong>o <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> nel suo<br />

Apologeticum adversus Theutmirum abbatem (825) <strong>di</strong>rige contro il culto, a suo<br />

<strong>di</strong>re insensato, della croce. Clau<strong>di</strong>o replica ai suoi accusatori che «se vogliono<br />

adorare ogni legno a forma <strong>di</strong> croce, per il fatto che Cristo è rimasto appeso a una<br />

croce, converrà loro adorare molte altre cose da lui compiute durante la sua esistenza<br />

terrena». Ed infatti consiglia loro <strong>di</strong> adorare le vergini, «perché una vergine<br />

partorì Cristo»; gli asini, «perché andò a Gerusalemme sul dorso <strong>di</strong> un asinello»;<br />

le lance, «perché con delle lance i soldati lo ferirono sul capo»; e così via (P.<br />

ZANNA (ed.), Dungal, Responsa contra Clau<strong>di</strong>um. A Controversy on Holy Images,<br />

Firenze 2002, 278-283; corsivo mio). La logica è la stessa dei Libri Carolini, pur<br />

se declinata nella forma della reductio ad absurdum.<br />

86 Cfr. Libri Carolini, III, 24.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

co<strong>di</strong>ci delle Scritture, la croce, l’Arca dell’Alleanza e anche le chiese 87 ,<br />

verso cui si rende lecito culto nonostante la loro materialità. È evidente<br />

che Teodulfo, confutando la testimonianza <strong>di</strong> Mosco, valuta le immagini<br />

come <strong>oggetti</strong> tra tanti, privi <strong>di</strong> un loro statuto specifico, e che ciò faccia<br />

emergere un interessante parallelo con le reliquie. Riprendendo l’esempio<br />

del roveto, cosa <strong>di</strong>stingue infatti il roveto-reliquia da tutti gli altri<br />

roveti esistenti, rendendolo degno <strong>di</strong> culto, se non il fatto <strong>di</strong> aver<br />

ospitato l’angelo del Signore in forma <strong>di</strong> fiamma – una speciale virtus,<br />

dunque, che non gli è propria in quanto essere, ma che gli è stata conferita?<br />

Così anche per le icone, il ragionamento <strong>di</strong> Teodulfo in<strong>di</strong>vidua in<br />

una causa esterna al loro essere immagini il motivo della loro eventuale<br />

venerazione. Non si tratta dell’ammissione, da parte <strong>di</strong> Teodulfo, della<br />

teoria della ‘partecipazione’ dell’icona al modello, sulla falsariga dell’iconologia<br />

del Damasceno, riconosciuta per quella particolare categoria<br />

<strong>di</strong> immagini miracolose. Semmai il contrario: considerando l’immagine<br />

alla stregua <strong>di</strong> un oggetto qualsiasi, che può, come altri, farsi in taluni<br />

casi tramite e strumento <strong>di</strong> grazia miracolosa, Teodulfo mostra <strong>di</strong> respingere<br />

in modo ra<strong>di</strong>cale la concezione <strong>di</strong> immagine sacra propugnata<br />

dagli iconoduli, che la considerano in sé stessa un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> comunicazione<br />

col <strong>di</strong>vino, un transitus al modello venerato, in poche parole<br />

un simbolo. Rispetto all’approccio iconodulo, i termini vengono totalmente<br />

ribaltati: se Teodulfo non nega che l’immagine possa essere strumento<br />

<strong>di</strong> teofania, ma in maniera in<strong>di</strong>stinguibile rispetto a un roveto,<br />

per gli iconoduli tutte le immagini sono in sé teofaniche e quin<strong>di</strong> potenzialmente<br />

miracolose, per la loro qualità iconologica intrinseca <strong>di</strong> ‘presentificazione’<br />

del modello; già si è visto come sotto questo aspetto le<br />

acheropite non siano immagini-eccezioni, ma ‘archetipi’ <strong>di</strong> tutte le icone.<br />

Altrove Teodulfo sembra quasi voler assestare il tiro, affermando<br />

che il miracolo, considerato come «realtà effimera e transitoria» 88 , non<br />

implica la sacralizzazione del luogo in cui si realizza 89 . Ma anche sugli<br />

<strong>oggetti</strong> miracolosi il suo giu<strong>di</strong>zio non è in realtà così netto, e lo si coglie<br />

– non a caso – proprio in relazione al Mandylion. Il passo è estremamente<br />

interessante. Teodulfo contesta ai padri del Niceno II che il racconto<br />

dell’acheropita possa essere considerato una prova a sostegno del<br />

87 Cfr. Libri Carolini, II, 26-30.<br />

88 MITALAITÉ, cit., 351.<br />

89 Cfr. Libri Carolini, IV, 13.<br />

227


228<br />

Ester Brunet<br />

culto delle immagini; ma non perché, come ci si aspetterebbe seguendo<br />

la logica della critica al passo <strong>di</strong> Giovanni Mosco, la sacralità dell’acheropita<br />

non sia estensibile alle immagini in quanto <strong>oggetti</strong> della stessa<br />

specie, ma perché da nessuna parte è specificato che «Abgar richiese al<br />

Signore un’immagine per adorarla, o che il Signore abbia destinato ad<br />

Abgar un’immagine per l’adorazione» 90 . La preoccupazione <strong>di</strong> Teodulfo<br />

è qui primariamente <strong>di</strong> contestare una lettura ‘tipologica’ dell’episo<strong>di</strong>o<br />

come giustificativa del culto delle icone. La tesi <strong>di</strong> fondo è quella<br />

che contrad<strong>di</strong>stingue i Libri Carolini nel loro complesso; nec adorare<br />

nec frangi: il volto del Signore può essere riprodotto in figura, ma ciò<br />

non implica che l’immagine vada adorata.<br />

Estesa al Mandylion, tuttavia, questa tesi adombra la presenza <strong>di</strong><br />

una contrad<strong>di</strong>zione interna: mettendo in <strong>di</strong>scussione l’intrinseca venerabilità<br />

<strong>di</strong> quella particolare immagine, che pure è morfologicamente riconducibile<br />

a una reliquia <strong>di</strong> contatto, Teodulfo sembrerebbe contrad<strong>di</strong>re<br />

quanto sostiene a proposito delle icone operanti miracoli, che ha<br />

precedentemente <strong>di</strong>stinto, almeno sul piano logico, da tutte le altre immagini.<br />

Il problema è che il racconto dell’origine dell’acheropita edessena<br />

mette Teodulfo <strong>di</strong> fronte a una questione <strong>di</strong>fficilmente <strong>di</strong>rimibile,<br />

ossia la perfetta e in<strong>di</strong>stricabile sovrapposizione, nell’immagine-traccia,<br />

<strong>degli</strong> aspetti reliquiale e immaginale. L’icona <strong>di</strong> Edessa rappresenta uno<br />

scoglio per la logica dei Libri, ed è forse questo il motivo sottaciuto per<br />

cui Teodulfo insiste molto sull’inautenticità dello scambio epistolare<br />

tra Cristo e Abgar, lasciando del tutto scoperto il versante <strong>di</strong> una riflessione<br />

ad hoc sulle implicazioni iconologiche dell’acheropitia.<br />

Nella relazione tra le reliquie e le <strong>di</strong>verse forme artistiche scorgiamo<br />

la via attraverso cui l’immagine <strong>di</strong> culto si farà strada a Nord delle Alpi.<br />

Secondo J.-C. Schmitt 91 , le somiglianze tra immagini e reliquie, la<br />

loro equanime partecipazione alla più ampia storia <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> sacri,<br />

90 «Textus […] ab istis ob adorandarum imaginum errorem adstruendum in<br />

synodo adlatus, nec suis quidem vel tenuiter favet sequacibus, praesertim cum ibidem<br />

nequaquam Abgarus Domino imaginem quandam adoraturus postulasse<br />

legatur aut idem omnium Dominus eidem Abgaro quandam imaginem adorandam<br />

destinasse perhibeatur» (ed. FREEMAN, Libri Carolini, cit., 511).<br />

91 J.-C. SCHMITT, Les reliques et les images, in E. BOZÓKY - A.-M. HELVÉTIUS<br />

(edd.), Les reliques: objets, cultes, symboles, Turnhout 1999, 145-167 (= Le corps<br />

des images. Essais sur la culture visuelle du Moyen Âge, Paris 2002, 273-294, specialmente<br />

289-290).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

emergono per contrasto proprio in ambito carolingio, nel pieno della<br />

lotta ingaggiata da Clau<strong>di</strong>o <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> (780 ca. - 828) contro ogni me<strong>di</strong>azione<br />

materiale della trascendenza. Negando, secondo la lettura che<br />

ne danno i suoi oppositori Giona d’Orléans e l’irlandese Dungal 92 , assieme<br />

alla venerazione delle immagini anche quella dovuta alla croce e<br />

alle reliquie, Clau<strong>di</strong>o <strong>di</strong> fatto costringe come mai prima d’allora a una<br />

considerazione unitaria <strong>di</strong> questi <strong>oggetti</strong>, come modelli <strong>di</strong>versi <strong>di</strong> un’unica<br />

istanza <strong>di</strong> «presentificazione e visualizzazione del sacro» 93 . Ma già<br />

i Libri Carolini si erano posti il problema, sotto il profilo gerarchico e<br />

comparativo, in<strong>di</strong>viduando i motivi per cui il culto delle immagini rispetto<br />

alle res sacrae potesse <strong>di</strong>rsi indebitamente preteso.<br />

È però nei casi in cui immagini e reliquie si implicano reciprocamente,<br />

più che in una serie <strong>di</strong> caratteristiche comuni, che si in<strong>di</strong>vidua la corrente<br />

carsica da cui affiora l’immagine <strong>di</strong> culto. Il reliquiario decorato<br />

rappresenta a questo proposito il lien più imme<strong>di</strong>ato e palese tra arte e<br />

reliquia. Come ha acutamente rilevato Jean Wirth, i Carolingi dovevano<br />

fare i conti, nella pratica, con una sovrapposizione, sovente irrisolvibile,<br />

<strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> venerabili e decorazione artistica: «poiché l’immagine <strong>di</strong><br />

Cristo poteva figurare su una croce […] e quella <strong>di</strong> un santo su un reliquiario,<br />

la <strong>di</strong>stinzione tra culto, lecito, della croce o delle reliquie, e culto,<br />

illecito, delle immagini, non era invero semplice» 94 . Credo che le<br />

acheropite rappresentino in certo senso l’altra faccia della medaglia del<br />

problema sollevato dai reliquiari, o meglio, uno dei due termini <strong>di</strong> quel<br />

perfetto chiasmo concettuale, che si instaura se consideriamo le sacre<br />

<strong>impronte</strong> delle imagines-reliquiae, e i reliquiari, in senso metonimico,<br />

delle reliquiae imaginatae. Ritengo che ci sia ancora modo <strong>di</strong> lavorare<br />

92 Cfr. DUNGAL, Responsa contra Clau<strong>di</strong>um, ed. ZANNA, cit., 2-251; IONAS<br />

AURELIANENSIS, De cultu imaginum (Patrologia Latina 106, 305-388).<br />

93 SCHMITT, cit., 275. Su come immagini e reliquie, pur se con i dovuti <strong>di</strong>stinguo,<br />

fossero oggetto del medesimo riconoscimento sacrale, esemplificato a Roma<br />

nel cerimoniale dell’unzione, cfr. da ultimo L. CANETTI, «Suxerunt oleum de<br />

firma petra». Unzione dei simulacri e immagini miracolose tra Antichità e<br />

Me<strong>di</strong>oevo, in ID. - M. CAROLI - E. MORINI - R. SAVIGNI (edd.) <strong>Stu<strong>di</strong></strong> <strong>di</strong> storia del<br />

cristianesimo per Alba Maria Orselli, Ravenna 2008, 61-87.<br />

94 J. WIRTH, Il culto delle immagini, in CASTELNUOVO - SERGI, cit., 12. Sul tema<br />

si veda anche il recente stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> L. CANETTI, Rappresentare e vedere l’invisibile.<br />

Una semantica storica <strong>degli</strong> «ornamenta ecclesiae», in G. ANDENNA (ed.),<br />

Religiosità e civiltà. Le comunicazioni simboliche (secoli IX-XIII), Milano 2009,<br />

345-405.<br />

229


230<br />

Ester Brunet<br />

proficuamente su crinale <strong>di</strong> questi due versanti, poiché è senza dubbio<br />

nell’ambito delle frizioni iconoclastiche, così come furono recepite e<br />

maturate in Occidente, che si gettarono le basi per la concezione dell’immagine<br />

<strong>di</strong> culto nell’Europa me<strong>di</strong>evale.


LES ORIGINES LITTÉRAIRES<br />

DE LA LÉGENDE DE VÉRONIQUEETDELASAINTE FACE :<br />

LA CURA SANITATIS TIBERII ET LA VINDICTA SALVATORIS<br />

RÉMI GOUNELLE<br />

Faculté de théologie protestante –<br />

Université de Strasbourg<br />

Comme l’a montré Ernst von Doschütz dans son magistral Christusbilder,<br />

la légende associant le portrait de Jésus à Véronique a partie liée<br />

avec une série de tra<strong>di</strong>tions littéraires sur Ponce Pilate, au point<br />

d’ailleurs qu’elle ne peut être correctement comprise hors de ce contexte<br />

1 . Ces tra<strong>di</strong>tions sont d’une grande complexité et souffrent d’avoir été<br />

quelque peu négligées par la recherche 2 . Plusieurs textes importants<br />

sont ainsi toujours dans l’attente d’une é<strong>di</strong>tion critique. Les quelques<br />

études qui ont été consacrées aux autres dans le courant du XX e siècle<br />

ont montré l’insuffisance des é<strong>di</strong>tions existances et ont complexifié le<br />

dossier. Les origines et les relations des <strong>di</strong>vers récits de l’Antiquité et du<br />

Haut Moyen Âge consacrés à Pilate et à Véronique – pour ne pas parler<br />

des enjeux dont ils sont porteurs – sont ainsi loin de pouvoir être élucidées.<br />

Il n’est dès lors pas surprenant que les études sur le culte de la<br />

« Sainte Face » soient relativement prudentes dès lors qu’elles s’aventurent<br />

avant le XII e siècle, date à partir de laquelle ce culte est relativement<br />

bien documenté 3 .<br />

1 E. VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende,<br />

Leipzig 1899, 197-262.<br />

2 On trouvera une présentation générale de ces textes dans Z. IZYDORCZYK,<br />

The Evangelium Nicodemi in the Latin Middle Ages, in Z. IZYDORCZYK (ed.), The<br />

Me<strong>di</strong>eval Gospel of Nicodemus. Texts, Intertexts and Contexts in Western Europe,<br />

Tempe (AZ) 1997, 43-101. Cf. aussi M. GEERARD, Clavis Apocryphorum Novi<br />

Testamenti, Turnhout 1992, s. n. 64-77.<br />

3 Cf. la synthèse d’A. CHASTEL, La Véronique, Revue de l’art 40-41 (1978) 71-<br />

82 et surtout H. BELTING, Image et culte. Une histoire de l’image avant l’époque de<br />

l’art (trad. F. Müller), Paris 1998, 292-300, à quoi s’ajoute le dossier de documents<br />

des pp. 728-733. Cf. aussi E. KURYLUK, Veronica and Her Cloth. History,<br />

Symbolism, and Structure of A « True Image », Cambridge MA 1991, 120-121,<br />

peu fiable, et J.-M. SANSTERRE, « Variation d’une légende et genèse d’un culte<br />

231


232<br />

Rémi Gounelle<br />

La présente contribution ne simplifera pas la question : en présentant<br />

de façon critique les deux récits les plus anciens conservés sur la<br />

« Sainte face » – la Cura sanitatis Tiberii et la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris –, elle<br />

fera surtout ressortir les points d’incertitude qui méritent d’être explorés<br />

par la recherche ultérieure et elle se gardera d’avancer des solutions<br />

définitives à des problèmes qui ne pourront être résolus tant que la tra<strong>di</strong>tion<br />

textuelle des <strong>di</strong>vers documents en cause n’aura pas fait l’objet<br />

d’études approfon<strong>di</strong>es 4 .<br />

I. La Cura sanitatis Tiberii<br />

D’un commun consensus, la recherche actuelle estime que le témoin<br />

le plus ancien de la légende de Véronique est la Cura sanitatis Tiberii,<br />

‘Guérison de Tibère’, dont E. von Dobschütz a proposé une é<strong>di</strong>tion critique<br />

dans son Christusbilder 5 sur la base de trente-cinq manuscrits 6 ,<br />

qu’il a répartis en deux recensions, en fonction de leur lien avec l’Evangile<br />

de Nicodème 7 .<br />

entre la Jérusalem des origines, Rome et l’Occident : quelques jalons de l’histoire<br />

de Véronique et de la Veronica jusqu’à la fin du XIII e siècle », in J. DUCOS – P.<br />

HENRIET (edd.), Passages. Déplacements des hommes, circulation des textes et<br />

identités dans l’Occident mé<strong>di</strong>éval, Paris, sous presse.<br />

4 Une étude des sources de ces tra<strong>di</strong>tions, notamment de leurs relations avec<br />

les tra<strong>di</strong>tions sur Abgar et avec celles de la Vita Sylvestri, qui atteste des images<br />

de Pierre et de Paul, en lien avec la guérison de Constantin, serait en particulier<br />

prématurée.<br />

5 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 157**-203**. La version du Parisinus lat.<br />

3338, fol. 166-168 – un manuscrit connu de E. von Dobschütz, qui lui a attribué<br />

le sigle 9 – a été é<strong>di</strong>tée par E. DARLEY, Les Acta Salvatoris, un Evangile de la<br />

Passion et de la Résurrection et une mission apostolique en Aquitaine. Suivis d’une<br />

traduction de la version anglo-saxonne, Paris 1913, 47-51. E. DARLEY a publié<br />

d’autres ouvrages relatifs au même sujet, notamment Les Actes du Sauveur, la<br />

Lettre de Pilate, les Missions de Volusien, de Nathan, la Vin<strong>di</strong>cte. Leurs origines et<br />

leurs transformations, Paris 1919. A. MASSER et M. SILLER, Das Evangelium<br />

Nicodemi in spätmittelalterlicher deutscher Prosa, Heidelberg 1987, 464-467 ont<br />

publié le texte de l’e<strong>di</strong>tio princeps de la Cura sanitatis Tiberii.<br />

6 A ces 35 manuscrits s’ajoutent les témoins des Actes de Pierre et de Paul et<br />

de l’Evangile de Nicodème que E. von Dobschütz a utilisés, de façon <strong>di</strong>scutable,<br />

pour é<strong>di</strong>ter la Lettre de Pilate à Claude (§16).<br />

7 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 194**. La recension B, qu’E. von Doschütz


1.1. Datation et localisation<br />

Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

La datation de la Cura sanitatis Tiberii peut être considérée comme<br />

relativement certaine. Un terminus ante quem sûr est en effet fourni par<br />

le plus ancien témoin manuscrit connu – Lucca, Bibl. capit. 490 –, qui<br />

date du VIII e siècle. Un terminus a quo est en outre fourni par la reprise<br />

de passages de l’Evangile de Nicodème au §6 du récit, ce qui exclut une<br />

datation antérieure au IV e siècle, voire au V e ou au VI e -VII e siècle 8 , si<br />

l’auteur de la Cura sanitatis Tiberii a connu le texte de la recension latine<br />

A de ce texte 9 . Il ne semble en tout cas pas y avoir de raison valable<br />

pour affirmer une datation au VI e siècle ou aux alentours de 600 comme<br />

le fait E. von Dobschütz dans Christusbilder 10 .<br />

La localisation de ce texte est plus douteuse. E. von Dobschütz en situait<br />

la rédaction en Italie du Nord, plus précisément en Toscane, en<br />

raison de la localisation de l’exil de Pilate à Tusciam, ciuitatem Ameriam<br />

(§11) : à ses yeux, seul un Toscan a pu situer dans sa région le bannissement<br />

du gouverneur romain ! 11 La plus grande prudence est de mise<br />

face à cette hypothèse, qui repose sur un in<strong>di</strong>ce bien fragile, que rien<br />

ne confirme par ailleurs.<br />

1.2. Le récit<br />

Dans la forme é<strong>di</strong>tée par Ernst von Dobschütz, la Cura sanitatis est<br />

composée de deux parties, reliées artificiellement l’une à l’autre par une<br />

semble considérer comme plus tar<strong>di</strong>ve que la forme A, regroupe les manuscrits<br />

où la Cura sanitatis accompagne l’Evangile de Nicodème.<br />

8 Sur le texte grec et les traductions de l’Evangile de Nicodème, voir R.<br />

GOUNELLE, Pilate (Acts of), in The Oxford Bible Dictionary (sous presse).<br />

9 Les allusions aux Actes de Pierre et de Paul composés au V e ou au VI e siècle,<br />

auxquels la seconde section (§15-20) a repris la Lettre de Pilate à Claude, sont<br />

moins probantes, dans la mesure où il n’est pas entièrement certain que la Cura<br />

sanitatis Tiberii primitive contenait les deux parties du récit actuel (voir plus<br />

loin). Sur la Lettre de Pilate à Claude, voir J.-D. DUBOIS – R. GOUNELLE, Lettre<br />

de Pilate à l’empereur Claude, in P. GEOLTRAIN – J.-D. KAESTLI (edd.), Ecrits apocryphes<br />

chrétiens, II, Paris 2005 (ci-après EAC II), 357-363.<br />

10 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 203** et 276*. E. von Dobschütz proposait<br />

plus prudemment une période entre le V e et le VIII e siècle, p. 213.<br />

11 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 214 ; cette localisation est reprise comme<br />

une certitude p. 217 et 203**.<br />

233


234<br />

Rémi Gounelle<br />

in<strong>di</strong>cation de temps 12 , mais certains manuscrits ne semblent contenir<br />

que la première section du récit (§1-14). Le récit a-t-il été abrégé ou au<br />

contraire amplifié au fil du temps ? La question mériterait d’être reprise<br />

à nouveaux frais 13 .<br />

La première section (§1-14) rapporte ce qui s’est passé sous le règne<br />

de Tibère et s’achève par la mort de l’empereur ; la seconde (§15-20) raconte<br />

les aventures de Pierre et de Paul sous le règne de Néron, jusqu’à<br />

la mort de ce dernier. Si ces deux récits, consacrés à Tibère et à Néron,<br />

font bien partie de l’état primitif de la Cura sanitatis Tiberii, son auteur<br />

semble avoir voulu compiler une sorte de chronique historique. L’histoire<br />

de Véronique se trouve dans la première section.<br />

L’action se déroule à peu près trois ans après la mort de Jésus 14 . Tibère,<br />

souffrant, envoie Volusien à Jérusalem à la recherche de Jésus, espérant<br />

obtenir de lui la guérison de son mal (§1-2 ; 4). Arrivé à destination,<br />

Volusien explique à Pilate l’objet de sa mission, ce qui suscite<br />

quelque trouble. Après s’être entretenu avec <strong>di</strong>verses personnes, Volusien<br />

met Pilate en prison, et part à la recherche d’une représentation figurée<br />

(similitudo) de Jésus (§9). Un certain Marcius dénonce alors Véronique,<br />

identifiée à la femme hémorroïsse (§9). Après l’avoir fait venir,<br />

Volusien lui demande l’image de Jésus – désignée par le terme latin imago<br />

ou par des transcriptions du grec eikôn –, mais Véronique affirme ne<br />

pas en avoir. Il la renvoie chez elle avec des soldats qui, au terme d’une<br />

fouille, trouvent l’image. Véronique et l’image, ainsi que Pilate, sont<br />

amenés à Rome (§10) ; l’empereur condamne le gouverneur romain<br />

12 Eodem tempore dans une recension ; post Clau<strong>di</strong>um uero dans l’autre. Cf.<br />

DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 182**.<br />

13 La présence d’un explicit à la fin de la première section (DOBSCHÜTZ,<br />

Christusbilder, cit., 182**) dans des témoins qui ne semblent plus cités dans la<br />

suite de l’apparat critique d’E. von Dobschütz suggère que tous les manuscrits ne<br />

contiennent pas l’intégralité du texte, mais le caractère négatif de cet apparat<br />

empêche d’en être certain. Pour le Parisinus lat. 3338, l’é<strong>di</strong>tion susmentionnée<br />

d’E. DARLEY n’est pas non plus claire sur ce point ; seuls les §1-14 y figurent,<br />

mais l’explicit in<strong>di</strong>qué dans le Catalogue général des manuscrits latins, V, Paris<br />

1966, 226 ne correspond pas à la fin du texte é<strong>di</strong>té par Darley; d’autre part,<br />

d’après ce catalogue, suit, au fol. 168, un paragraphe intitulé De mala uita et<br />

morte neron (p. 226), dont le rapport avec la suite de la Cura sanitatis mériterait<br />

d’être analysé.<br />

14 Cf. Cura sanitatis, §9.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

(§11), demande à voir le portrait de Jésus, est guéri et se convertit au<br />

christianisme, avant de mourir dans son lit (§12-14).<br />

1.3. Analyse<br />

L’origine du portrait de Jésus qui suscitera la guérison de Tibère est<br />

précisée dans l’intervention de Marcius, un personnage inconnu par<br />

ailleurs : « lorsqu’elle fut guérie, elle peignit pour elle par amour de lui<br />

son image (imaginem) alors qu’il restait dans son corps, et Jésus le savait<br />

» (§9). Ces informations sont reproduites dans la suite du récit avec<br />

quelques mo<strong>di</strong>fications par Volusien : Véronique « a fait peindre pour<br />

elle par amour l’image (imaginem) de Jésus à sa ressemblance (similitu<strong>di</strong>nem)<br />

» – la recension B ajoute : « du vivant de Jésus » (§12).<br />

1.3.1. Une oeuvre humaine<br />

Dans ces deux passages, le portrait de Jésus est explicitement présenté<br />

comme une oeuvre purement humaine : il a été peint par Véronique<br />

en personne. Le portrait de Jésus qui guérit l’empereur n’est donc clairement<br />

pas d’origine miraculeuse dans la Cura sanitatis Tiberii. Les allusions<br />

au récit de la création de l’être humain à l’image et à la ressemblance<br />

de Dieu (Genèse 1, 27), mises dans la bouche de Volusien au §12,<br />

sont toutefois là pour laisser percevoir la valeur de ce portrait, qui représente<br />

véritablement Jésus et qui, en tant que véritable « image » de<br />

lui, le rend présent, ce qui permet d’expliquer les guérisons dont ce portrait<br />

sera la source dans la suite du récit.<br />

1.3.2. Une peinture, mais sur quel support ? et que représente-t-elle ?<br />

Cette image faite de main d’homme est un portrait peint – c’est du<br />

moins ce que laisse entendre le recours au verbe depingere dans les deux<br />

citations 15 . La Cura sanitatis ne précise toutefois pas sur quel support<br />

cette peinture a été faite. Le passage du récit qui précise où Véronique<br />

conservait cette image (§9) ne permet pas d’en savoir plus ; la plupart<br />

des manuscrits, suivis par E. von Dobschütz, affirment que ce portrait<br />

15 Dans la première citation (§9), deux témoins de la recension B lisent depressit,<br />

mais ils ont conservé le verbe depingere dans la seconde occurrence de ce<br />

motif (§12).<br />

235


236<br />

Rémi Gounelle<br />

était dans la chambre de Véronique (in cubiculo), près de sa tête (ad caput<br />

eius), mais de rares témoins précisent qu’il était dans/sur sa couche<br />

(in cubili) ou dans/sur un oreiller (in cerbicale). Cette dernière variante<br />

laisse entendre qu’il s’agit d’une peinture sur un tissu, mais elle est clairement<br />

secondaire 16 . On ne peut donc savoir si, pour l’auteur de la Cura<br />

sanitatis, le portrait figurait sur un tissu, sur une planche de bois, sur<br />

un <strong>di</strong>sque en métal etc.<br />

Le récit ne précise non plus pas s’il s’agit d’un portrait en pied ou<br />

simplement d’une représentation du visage de Jésus. Peut-être l’emploi<br />

du terme imago, qui servait à désigner les portraits des ancêtres dans le<br />

monde classique, suggère-t-il plutôt une peinture se limitant au visage,<br />

mais il s’agit au mieux d’un in<strong>di</strong>ce, dont on aimerait trouver confirmation<br />

par ailleurs.<br />

1.3.3. Précisions de copistes<br />

Les imprécisions du récit n’ont pas satisfait tous les copistes. C’est<br />

ainsi que le plus ancien manuscrit de la Cura sanitatis, déjà mentionné,<br />

fait mention explicite du visage de Jésus 17 . L’auteur du De Veronilla et<br />

de imagine Domini in sindone depicta, une version abrégée de la Cura<br />

sanitatis Tiberii, peut-être composée au X e siècle et qui attend d’être<br />

é<strong>di</strong>tée de façon critique 18 , estime en revanche que l’image de Véronique<br />

16 Cette leçon est propre au manuscrit a, qui omet la relative suivante, bien<br />

attestée dans les autres manuscrits. La destinée de l’image ne permet pas d’en<br />

savoir davantage : elle est simplement « présentée » (praesentari) à Tibère, qui<br />

ordonne qu’elle soit enfermée dans un écrin d’or et de pierres précieuses (§13).<br />

17 Cf. au §12, l. 6, où le manuscrit a ajoute hominis uultum simile.<br />

18 Sur ce texte, é<strong>di</strong>té par H. F. MASSMANN, Der keiser und der kunige buoch<br />

oder <strong>di</strong>e sogennante Kaiserchronik, Ge<strong>di</strong>cht des zwölften Jahrhunderts, III, Quedlinburg,<br />

1854, 579-580, 605-606, cf. A. SCHÖNBACH, [Compte-rendu de C. von Tischendorf,<br />

Evangelia Apocrypha], Anzeiger für deutsches Alterthum und deutsche<br />

Litteratur 2 (1876), 149-212 (181-182) ; Christusbilder, cit., 278*; IZY DORCZYK,<br />

The Evangelium Nicodemi, cit., p. 63, qui mentionne quatre manuscrits. Faute<br />

d’avoir eu accès à l’é<strong>di</strong>tion de H. F. Massmann, j’ai utilisé le brouillon d’é<strong>di</strong>tion<br />

d’E. von Dobschütz, conservé dans le fonds « von Dob schütz » de l’Institut Romand<br />

des Sciences Bibliques (Lausanne) ; cette é<strong>di</strong>tion, qui n’a jamais paru, repose<br />

apparemment sur deux manuscrits : Stuttgart, Württembergische Landesbibliothek,<br />

Theol phil. 8°57, fol. 82 v -85 – utilisé par H. Massmann – et Einsiedeln,<br />

Stiftsbibliothek 249, p. 176-179 – ce dernier manuscrit, inconnu de Z. Izydorczyk,<br />

constituerait un cinquième témoin de ce texte.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

est bien un portrait en pied de Jésus, peint in una sindone ; ce faisant, il<br />

associe le récit avec une des reliques de la Passion, qui prétend préserver<br />

une image du corps de Jésus, de la tête aux pieds 19 .<br />

Si aucun de ces témoins ne fait de ce portrait une image acheiropoiete,<br />

un autre manuscrit de la Cura Sanitatis conservé à Graz 20 , s’est senti<br />

obligé de le faire ; le copiste de ce codex, daté de 1412, a en effet substantiellement<br />

complété la dénonciation de Volusien pour faire de<br />

l’image de Jésus son portrait, miraculeusement imprimé (§9) : « Jésus,<br />

exténué par son voyage, se ren<strong>di</strong>t auprès de (Véronique) avec ses <strong>di</strong>sciples<br />

et lui demanda un linge (linteum) pour essuyer la sueur de son visage.<br />

Elle accepta, et quand il mit le linge sur son visage, son visage peignit<br />

dessus toute sa forme (figuram) 21 ; il le ren<strong>di</strong>t à la femme et lui ordonna<br />

de le garder précieusement » 22 . Cet ajout, isolé et clairement secondaire,<br />

est proche de celui que l’on trouve dans la Bible en français de<br />

Roger d’Argenteuil (composée au plus tard à la fin du XIII e s.) 23 .<br />

II. La Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris<br />

A la <strong>di</strong>fférence de la Cura sanitatis Tiberii, la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris,<br />

‘Vengeance du Sauveur’ 24 , n’a pas encore fait l’objet d’une é<strong>di</strong>tion cri-<br />

19 Un portrait en pied de Jésus est conservé parmi les reliques de la Passion,<br />

comme le rappelle, à propos de la sixième station du chemin de croix, X.<br />

BARBIER DE MONTAULT, Iconographie du chemin de la croix, Annales archéologiques,<br />

1860-1865, republié in Oeuvres complètes, VIII : Rome. V – Dévotions<br />

populaires, troisième partie, Paris 1893, 208-209.<br />

20 Il s’agit du manuscrit Graz, Universitätbibliothek, (814) 35/2, qui porte le<br />

sigle g dans l’é<strong>di</strong>tion de von Dobschütz. Ce témoin, perdu pendant la seconde<br />

guerre mon<strong>di</strong>ale, contenait, avant la Cura Sanitatis Tiberii (fol. 288-292),<br />

l’Evangile de Nicodème (fol. 274-288); il aurait donc dû figurer parmi les témoins<br />

de la recension B dans l’é<strong>di</strong>tion citée (cf. note 7).<br />

21 Je traduits figura par « forme », mais il est possible que ce terme signifie<br />

déjà ici « figure », « visage ».<br />

22 Cette leçon est citée dans l’apparat au §9 l. 11 (DOBSCHÜTZ, Christusbilder,<br />

cit., 175**).<br />

23 Ce texte est cité dans DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 304*-305*. Sur les<br />

<strong>di</strong>verses tra<strong>di</strong>tions similaires en vieux français, voir l’introduction d’A. E. FORD,<br />

La Vengeance de Nostre-Seigneur. The Old and Middle-French Prose Version. The<br />

Version of Japheth, Toronto 1984, 1-8, 14-18.<br />

24 C’est bien à ce texte que renvoie P. PERDRIZET sous le titre Vin<strong>di</strong>cta Salo -<br />

237


238<br />

Rémi Gounelle<br />

tique satisfaisante. L’é<strong>di</strong>tion de Constantin von Tischendorf, qui n’a<br />

pas encore été remplacée, est éclectique et repose sur un nombre réduit<br />

de témoins latins, à quoi s’ajoute une traduction d’une version anglosaxonne,<br />

qu’il a parfois utilisée pour corriger les manuscrits latins 25 .<br />

Cette é<strong>di</strong>tion doit être utilisée avec d’autant plus de prudence que<br />

des recherches postérieures ont fait apparaître des formes du texte assez<br />

<strong>di</strong>vergentes. Ainsi Ernst von Dobschütz a-t-il recouru, dans son Christusbilder,<br />

au témoignage du Parisinus lat 5327, un manuscrit daté entre<br />

le IX e et le XI e siècle, qui se <strong>di</strong>stingue du texte é<strong>di</strong>té par C. von Tischendorf<br />

notamment par une finale originale. Plusieurs études sur les<br />

formes anglo-saxonnes de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris ont aussi apporté des<br />

informations nouvelles sur la tra<strong>di</strong>tion textuelle latine de ce texte. Ainsi<br />

E. Kölbing et Mabel Day ont-ils résumé, en 1932, la forme particulière<br />

que prend la Vin<strong>di</strong>cta dans trois manuscrits anglais et ont-ils publié le<br />

début d’un texte latin qui en est proche 26 . Soixante-cinq ans plus tard,<br />

plusieurs savants ont publié, sous la houlette de J. E. Cross, le texte latin<br />

du plus ancien manuscrit connu (St-Omer, Bibliothèque municipale,<br />

202) – un codex probablement d’origine anglaise, qui <strong>di</strong>verge de façon<br />

importante des textes connus jusqu’alors – et son parallèle en vieil-anglais<br />

27 .<br />

minis, dans son article De la Véronique et de sainte Véronique, Sbornik statej po<br />

archeologii i vizantinovedeniju [= Seminarium Kondakovianum. Recueil<br />

d’études. Archéologie. Histoire de l’art. Etudes byzantines], 5 (1932), 1-15 + 1 pl.<br />

(p. 8).<br />

25 C. von TISCHENDORF, Evangelia apocrypha, adhibitis plurimis co<strong>di</strong>cibus graecis<br />

et latinis, maximam partem nunc primum consultis atque ine<strong>di</strong>torum copia insignibus,<br />

Leipzig 1876 (18531 ) (ci-après TISCHENDORF), 471-486.<br />

26 E. KÖLBINGS – M. DAY, The Siege of Jerusalem. E<strong>di</strong>ted from Ms. Laud<br />

Misc. 656 With Variants From All Other Extant Mss., Londres 1932, XVI-XVII<br />

(résumé) et 83-85 (é<strong>di</strong>tion dans l’appen<strong>di</strong>ce II du début du texte latin parallèle).<br />

Sur la forme du texte mise au jour par ces savants, voir plus loin. Une nouvelle<br />

é<strong>di</strong>tion du texte en vieil-anglais a été publiée par R. HANNA – D. LAWTON, The<br />

Siege of Jerusalem, Oxford 2003.<br />

27 Two Old English Apocrypha and Their Manuscript Source. The Gospel of<br />

Nicodemus and The Avenging of The Saviour. E<strong>di</strong>ted by J. E. CROSS. With<br />

Contributions by D. BREARLEY, J. CRICK, T. N. HALL, A. ORCHARD, Cam bridge<br />

1996, 248-292 (ci-après CROSS). Une traduction annotée de ce texte a été publiée<br />

dans G. BESSON – M. BROSSARD-DANDRÉ – Z. IZYDORCZYK, Vengeance du<br />

Sauveur, in EAC II, 371-398. Le texte de ce manuscrit n’est pas unique ; dans le<br />

fonds von Dobschütz (voir n. 18) figure en effet la collation intégrale d’un témoin<br />

qui en est très proche, mais qu’il n’est pas possible d’identifier, en l’absence de


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

Ces travaux font ressortir les insuffisances de l’é<strong>di</strong>tion de C. von Tischendorf.<br />

Toute étude de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris se doit d’en revenir aux<br />

manuscrits. La présente étude exploitera ainsi les é<strong>di</strong>tions existantes de<br />

co<strong>di</strong>ces spécifiques et les collations iné<strong>di</strong>tes d’Ernst von Dobschütz 28 ,<br />

même si, en l’absence de toute étude d’ensemble de la tra<strong>di</strong>tion manuscrite,<br />

il s’agit d’un exercice périlleux.<br />

2.1. Les deux recensions de la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Le contenu de la Vin<strong>di</strong>cta ne peut être à l’heure actuelle considéré<br />

comme assuré. Comme l’ont relevé E. Kölbing et Mabel Day, certains<br />

manuscrits ne mentionnent en effet pas la figure de Volusien 29 ; ces co<strong>di</strong>ces<br />

se <strong>di</strong>stinguant des autres sous d’autres aspects dont il sera question<br />

plus loin, il est nécessaire d’y voir une recension spécifique de la<br />

Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris. Je <strong>di</strong>stinguerai cette forme, que j’appellerai la recension<br />

non volusienne, des états connus, désignés par recension volusienne<br />

(c’est-à-<strong>di</strong>re mentionnant Volusien).<br />

2.1.1. La Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris volusienne<br />

La recension qui fait mention de Volusien est la seule é<strong>di</strong>tée. Deux<br />

volets qui se répondent constituent une histoire unique 30 , située sous le<br />

toute mention de cote, de sigle et de folio ; il ne peut en tout cas pas s’agit du<br />

manuscrit de Saint-Omer, d’une part parce que E. von Dobschütz en ignorait<br />

l’existence, d’autre part parce qu’une variante dont il sera question plus loin<br />

prouve qu’il s’agit d’un autre témoin. D’après les collations iné<strong>di</strong>tes d’E. von<br />

Dobschütz, le manuscrit Cambridge, Corpus Christi College 288, fol. 54 v -60 r<br />

(XII e -XIII e s.) s’achève comme le témoin de Saint-Omer, mais il en <strong>di</strong>ffère sur<br />

plusieurs points en son début ; il en est moins proche que le manuscrit non identifié.<br />

28 Sauf in<strong>di</strong>cation contraire, toutes les in<strong>di</strong>cations sur des variantes manuscrites<br />

proviennent des collations contenues dans le fonds von Dobschütz (voir n.<br />

18). Je remercie G. BESSON (Ecole Normale Supérieure, Lyon), d’avoir procédé à<br />

quelques vérifications sur le Parisinus lat. 5327, utilisé par von Dobschütz.<br />

29 KÖLBING – DAY, cit., XVI-XVII. Les manuscrits concernés sont : Bristish<br />

Library, Royal 8 E XVII, Royal 9 A XIV et Harley 495.<br />

30 La Vin<strong>di</strong>cta est souvent considérée comme la combinaison superficielle de<br />

deux récits (ainsi IZYDORCZYK, The Evangelium Nicodemi in the Latin Middle<br />

239


240<br />

Rémi Gounelle<br />

règne de Tibère qui, seul, semble intéresser l’auteur de ce texte. La première<br />

section (§1-10) a pour protagoniste principal Tyrus, un officier<br />

d’Aquitaine atteint d’un chancre au visage qui, une fois converti au<br />

christianisme, trouve la guérison ; la seconde (§11-35) est consacrée au<br />

siège de Jérusalem par Tyrus (devenu Titus lors de son baptême) et Vespasien,<br />

à l’intervention de Volusien et à la guérison de Tibère, atteint de<br />

la lèpre, par le portrait de Jésus.<br />

Dans ces formes du récit, la première apparition de Véronique et du<br />

portrait de Jésus est abrupte : après avoir pris possession de la Judée,<br />

Titus et Vespasien cherchent à se procurer un portrait (uultus 31 ) du<br />

Christ (§18), sans que les raisons de leur quête ne soit explicitée ; ils découvrent<br />

qu’une femme nommée Véronique en possède un et jettent Pilate<br />

en prison (§18) 32 . Du sort accordé à la détentrice de ce portrait, qui<br />

avait été mentionnée par Nathan parmi les personnes guéries par Jésus<br />

(§6), rien n’est <strong>di</strong>t à ce stade de l’histoire. Titus et Vespasien demandent<br />

alors à l’empereur Tibère d’envoyer Volusien en Judée; ce dernier a<br />

pour mission de trouver un <strong>di</strong>sciple de Jésus qui puisse le guérir (§19).<br />

Une fois arrivé, Volusien interroge « tous ceux qui avaient connu le<br />

Christ » (§19), parmi lesquels Véronique (§22). Il cherche alors à se procurer<br />

le portrait du Seigneur, sans hésiter à faire usage de la force (§24).<br />

Véronique finit par céder à la torture et avoue l’avoir dans sa chambre 33<br />

et l’adorer chaque jour. Elle remet alors le portrait de Jésus à Volusien,<br />

qui se prosterne devant lui avant de le déposer, emballé « dans une étoffe<br />

de pourpre brochée d’or », dans un coffret qu’il scelle de son anneau<br />

(§24). Ce portrait provoquera la guérison et la conversion de Tibère<br />

(§33-35).<br />

Ages, cit., 60), mais l’homogénéité du texte est justement signalée dans EAC II,<br />

371 ; ces savants font commencer le second volet au §11.<br />

31 Ce terme est attesté dans le manuscrit de Saint-Omer, susmentionné, dans le<br />

Parisinus lat. 5327, le Vaticanus lat. 4363 et l’Ambrosianus B 57 inf. TISCHENDORF<br />

é<strong>di</strong>te : facie siue uultu. La même <strong>di</strong>fférence est constatable au §24.<br />

32 La recherche du portrait de Jésus est par erreur considérée comme la fin du<br />

§17 dans CROSS, 270 et, en conséquence, dans EAC II, 389.<br />

33 Le lieu dans lequel Véronique conserve le portrait fait l’objet de variantes.<br />

Cf. plus bas.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

2.1.2. La recension non volusienne<br />

Dans les formes non volusiennes, encore iné<strong>di</strong>tes 34 , le récit est plus<br />

simple et homogène. Le portrait de Jésus fait son apparition dans la<br />

bouche de Nathan ; après avoir raconté les faits et gestes de Jésus, et<br />

après avoir mentionné sa résurrection, le Juif précise en effet que Véronique<br />

avait été guérie d’une perte de sang et avait ensuite « représenté<br />

(figurauit) son visage (uultum) sur son pallium » (§7) 35 . Titus se convertit<br />

alors et promet à Nathan de venger la mort de Jésus (§9) ; puis il<br />

convoque Vespasien, présenté comme son frère ; suit le récit du siège de<br />

Jérusalem (§11-17) et la recherche du portrait de Jésus (§18). Titus et<br />

Vespasien trouvent Véronique et la renvoient à Rome, avec l’image et<br />

les ennemis du Christ qu’ils avaient arrêtés (§27) ; après avoir fait son<br />

rapport à Tibère, le légat de Titus et de Vespasien lui montre le portrait,<br />

qui guérit l’empereur (§33) ; Tibère se retourne alors contre Pilate et le<br />

met à mort (§35).<br />

2.1.3. Relations entre ces deux recensions<br />

Il peut sembler prématuré de déterminer laquelle de ces deux recensions<br />

est la plus ancienne, mais un élément important permet d’ores et<br />

déjà de trancher en faveur de la forme non volusienne : le récit sur Volusien<br />

qui en est absent est très proche de la Cura sanitatis Tiberii. C’est<br />

d’ailleurs sur la base de cette parenté que la recherche antérieure a cru<br />

voir dans la Cura sanitatis Tiberii un dérivé de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris 36 ,<br />

34 Seul le début du ms. Bristish Library, Harley 495 est é<strong>di</strong>té dans l’appen<strong>di</strong>ce<br />

de KÖLBING – DAY, cit. J’ai pu prendre connaissance intégrale, dans les archives<br />

d’E. von Dobschütz (cf. n. 18), d’une collation intégrale du ms. Londres, British<br />

Library, Royal 8 E XVII (fol. 123b), avec les variantes de trois autres témoins :<br />

Londres, British Library, Royal 9 A XIV (fol. 292b), Cambridge, Universitary<br />

Library, Dd.3.16 (Oo.VII.48) (f. 18b) et Oxford, Bodleian Library, Selden Supra<br />

74 (fol. 28a).<br />

35 Le texte du ms. British Library, Royal 8 E XVII est très proche de celui é<strong>di</strong>té<br />

par KÖLBINGS – DAY, cit., 83 (Quaedam uero femina nomine Veronica in terra nostra<br />

que fluxum sanguinis patiebatur per xii annos curauit non potuit nisi per ipsum.<br />

Et postea pro amore suo uultum suum figurauit in pallio suo. Et omnes ibi aduenientes<br />

infirmos ho<strong>di</strong>erna <strong>di</strong>e illum adorantes et osculantes mox sanitatem optimam<br />

suscipiunt). Sur le sens de pallium, voir plus loin, p. 249.<br />

36 TISCHENDORF, LXXXIV, considérait comme une évidence que la Vin<strong>di</strong>cta<br />

241


242<br />

Rémi Gounelle<br />

une des sources de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris 37 , ou encore un proche parent<br />

de ce texte 38 . Or, il est <strong>di</strong>fficile d’imaginer un copiste éliminant de la<br />

Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris les éléments concernant Volusien sans supprimer<br />

d’autres éléments du récit ou sans laisser des traces du texte qu’il supprimait.<br />

Il est par contre possible qu’un copiste ait complété un texte<br />

préexistant à l’aide de la Cura sanitatis Tiberii.<br />

Cette hypothèse est d’autant plus vraisemblable que les manuscrits<br />

connus de Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris volusienne posent des problèmes de cohérence<br />

: dans le texte é<strong>di</strong>té par C. von Tischendorf, l’image est découverte<br />

deux fois ; dans le manuscrit de Saint-Omer, où ce doublet n’apparaît<br />

pas tel quel, l’action se déroule de façon surprenante : Titus et<br />

Vespasien cherchent le portrait de Jésus et trouvent Véronique (§18),<br />

puis Volusien arrive et Véronique se présente à lui comme la femme hémorroïsse<br />

(§22) ; Volusien lui réclame alors le portrait de Jésus, dont il<br />

n’est pourtant pas censé connaître l’existence (§24). Ces problèmes de<br />

cohérence s’expliquent si le texte mentionnant Volusien résulte de la<br />

combinaison d’un récit proche de celui de Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris non volusienne,<br />

où figurent les détails du §18, et de la Cura sanitatis Tiberii, où<br />

la suite trouve des parallèles 39 . Les quelques contacts qui seront relevés<br />

Salvatoris était plus ancienne que la Cura sanitatis. A. de SANTOS OTERO, Los<br />

Evangelios Apócrifos, Madrid (1956 1 ) 1988 6 , 506, présente de son côté la Cura<br />

sanitatis Tiberii comme une réécriture d’une forme ancienne de la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Saluatoris.<br />

37 Pour VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 209-214, 217, 277*, la Cura sanitatis<br />

Tiberii est le témoin le plus ancien de la légende de Véronique et est une des<br />

sources de la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris. Bien que peu argumentée, cette hypothèse s’est<br />

imposée, au point d’être citée comme une évidence dans la recherche contemporaine;<br />

cf. par exemple EAC II, 375.<br />

38 En 1876, Anton SCHÖNBACH, cit., 185-186, tenta de montrer que la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Saluatoris – qu’il considérait comme le plus ancien des deux textes, comme C.<br />

von Tischendorf – et la Cura sanitatis Tiberii seraient deux réécritures indépendantes<br />

d’un texte plus ancien, la Mors Pilati (‘Mort de Pilate’), un texte é<strong>di</strong>té par<br />

TISCHENDORF, 456-458, traduit par J.-N. PÉRÈS et in EAC II, 401-413, et qu’il<br />

datait des VI e -VII e siècles (cf. le schéma récapitulatif d’A. SCHÖNBACH, cit., p.<br />

170, où la Cura sanitatis Tiberii porte le sigle B, la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris K et la<br />

Mors Pilati A). Comme l’a montré VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 230-238,<br />

cette théorie est intenable, car loin d’être un texte ancien, la Mort de Pilate est un<br />

extrait de la Légende dorée de Jacques de Voragine, et, par l’intermé<strong>di</strong>aire d’elle,<br />

d’une légende en prose sur Pilate largement <strong>di</strong>ffusée au Moyen Age (voir la présentation<br />

de la question par J.-N. PÉRÈS in EAC II, 401-405).<br />

39 Cf. Cura sanitatis, § 24.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

dans la suite de cette étude entre la Cura sanitatis Tiberii et la recension<br />

volusienne de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris vont en tout cas dans ce sens.<br />

Puisqu’enfin, la recension volusienne de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris<br />

semble accorder plus d’importance au portrait de Jésus, dont elle fait<br />

une véritable relique, que la recension non volusienne 40 , il y a toutes les<br />

chances qu’elle résulte d’une révision d’un texte antérieur, plus court,<br />

que conserve la forme non volusienne. Les relations précises entre ces<br />

deux recensions et la Cura sanitatis Tiberii ne pourront pas être déterminées<br />

tant qu’une é<strong>di</strong>tion critique n’en aura pas été élaborée, mais il<br />

semble donc d’ores et déjà possible d’affirmer que la forme la plus ancienne<br />

de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris ne dépend pas de la Cura sanitatis Tiberii.<br />

2.2. Datation et localisation<br />

La datation et la localisation de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris ont fait l’objet<br />

de quelques hypothèses qu’il convient de <strong>di</strong>scuter brièvement à la lumière<br />

de la tra<strong>di</strong>tion manuscrite.<br />

2.2.1. Un texte du sud de la Gaule ?<br />

Dans son étude sur les images du Christ, E. von Dobschütz a proposé<br />

de dater la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris de la période pré-carolingienne, en raison<br />

de son usage des données historiques ; sur la base de la finale du<br />

Parisinus lat 5327, il a situé la rédaction de ce texte dans le sud de la<br />

Gaule, peut-être au début du VIII e siècle 41 .<br />

Cette hypothèse a été prolongée et précisée par Gisèle Besson, Michèle<br />

Brossard-Dandré et Zbigniew Izydorczyk 42 : la finale du texte,<br />

telle qu’attestée par le Parisinus lat 5327, précise que Tibère s’est rendu<br />

à Agde, d’où il a pris l’Hérault et est parvenu « à la rivière appelée<br />

Tincta », c’est-à-<strong>di</strong>re la Thongue 43 . Or, une abbaye béné<strong>di</strong>ctine, dé<strong>di</strong>ée<br />

à un énigmatique saint Tibère, a été é<strong>di</strong>fiée au confluent de l’Hérault et<br />

de la Thongue vers 770. Cette coïncidence ne saurait être le fait du hasard<br />

: la construction de cette abbaye et la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris ont très<br />

probablement partie liée. Peut-être faudrait-il aller jusqu’à considérer<br />

40 Cf. plus loin.<br />

41 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 216, 277*.<br />

42 Voir plus haut, n. 27.<br />

43 EAC II, 398.<br />

243


244<br />

Rémi Gounelle<br />

la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris comme une « histoire du patron de cette<br />

abbaye » 44 ; si tel était le cas, ce texte devrait être daté un peu plus tard<br />

que ne le proposait Ernst von Dobschütz – à la fin du VIII e siècle.<br />

De telles hypothèses ne sont toutefois valables que pour la forme<br />

longue attestée par le Parisinus lat 5327. Mais est-elle primitive ? On<br />

peut en douter, car elle ne figure ni dans le manuscrit le plus ancien<br />

connu, déjà mentionné, dont la fin courte se retrouve dans d’autres co<strong>di</strong>ces<br />

45 , ni dans les témoins é<strong>di</strong>tés par C. von Tischendorf ; dans ces manuscrits,<br />

rien n’est <strong>di</strong>t du baptême de Tibère (§35), du châtiment de Pilate,<br />

ni de la mort de Tibère, à la <strong>di</strong>fférence du Parisinus lat 5327.<br />

D’autres manuscrits contiennent un récit plus long que le codex de<br />

Saint-Omer et ses proches parents, mais il s’agit d’une autre fin que celle<br />

du Parisinus lat 5327 46 . D’autres encore contiennent un texte proche<br />

de celui de ce manuscrit, mais plus court 47 . Il est donc probable que la<br />

forme longue transmise par le Parisinus lat 5327 est le résultat d’une<br />

évolution progressive de la fin de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris 48 . Si tel était le<br />

cas, la datation et la localisation avancées par Ernst von Doschütz et<br />

approfon<strong>di</strong>e par Gisèle Besson, Michèle Brossard-Dandré et Zbigniew<br />

Izydorczyk ne vaudraient que pour la recension volusienne de la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Salvatoris, voire pour une sous-famille cette recension, à laquelle<br />

se rattacherait le Parisinus lat. 5327. Seule une étude de la tra<strong>di</strong>tion manucrite<br />

dans son ensemble, associée à une analyse littéraire du texte,<br />

permettra de trancher cette question.<br />

2.2.2. Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris et Evangelium Nicodemi<br />

Jusqu’il y a peu, un autre in<strong>di</strong>ce pouvait être utilisé pour dater la<br />

Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris: la forme é<strong>di</strong>tée par Constantin von Tischendorf cite<br />

explicitement au §21 le récit que l’Evangile de Nicodème latin donne<br />

44 EAC II, 378.<br />

45 Le codex inconnu (voir note 27) et le ms. Cambridge, Corpus Christi<br />

College 288 s’achèvent de la même manière.<br />

46 C’est le cas du ms. Oxford Bodleian Library 90 (XIII e s.), fol. 88 v -90 v et des<br />

manuscrits de la recension non volusienne.<br />

47 Tel semble être le cas du ms. Milan, Biblioteca Ambrosiana B 57 inf.<br />

48 Les auteurs de EAC II, 380 et 396, affirment que, dans le manuscrit de<br />

Saint-Omer, la fin a été « manifestement abrégée ». Cela n’est évident que pour<br />

les lecteurs habitués à un texte plus long.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

de la libération de Joseph d’Arimathée de prison 49 ; la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris<br />

ne pouvait donc être antérieure au VI e , voire au VII e siècle 50 . Mais la<br />

publication du manuscrit de Saint-Omer change à nouveau la donne :<br />

en lieu et place du récit de la libération miraculeuse de Joseph d’Arimathée,<br />

il contient un témoignage du même Joseph sur la descente de<br />

croix et la résurrection ; une apparition du ressuscité à Joseph y est<br />

certes mentionnée, mais sans aucune allusion claire à l’Evangile de Nicodème.<br />

Les collations iné<strong>di</strong>tes d’Ernst von Dobschütz montrent en<br />

outre que le Parisinus lat. 5327 suit le manuscrit de Saint-Omer sur ce<br />

point, tan<strong>di</strong>s que la recension non volusienne et le Bodleianus 90 ne<br />

font pas mention de Joseph d’Arimathée.<br />

Ce passage a donc manifestement été revu au fil du temps. La recherche<br />

sur la tra<strong>di</strong>tion textuelle de ce texte n’en étant qu’à ses balbutiements,<br />

il n’est à l’heure actuelle pas possible de déterminer si la citation<br />

de l’Evangile de Nicodème figurait ou non dans la forme la plus ancienne<br />

de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris. Il n’en est pas moins vrai que l’absence<br />

de ce passage dans la recension non volusienne, comme dans certains<br />

manuscrits de la recension volusienne, plaide pour un ajout secondaire<br />

dans certaines formes de cette dernière recension. La question devra<br />

être <strong>di</strong>scutée par la recherche ultérieure, mais, quels que soient les résultats<br />

auxquels elle parviendra, il est clair que le critère de datation que<br />

fournissait la citation de l’Evangile de Nicodème ne peut plus être retenu.<br />

2.2.3. Bilan<br />

La plus grande prudence est ainsi de mise sur l’origine de ce texte,<br />

qui ne pourra être déterminée que sur la base d’une véritable é<strong>di</strong>tion<br />

critique, prenant en compte les nombreux témoins manuscrits<br />

existants 51 . La seule certitude est que la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris est antérieure<br />

au IX e siècle, date du plus ancien manuscrit connu, et qu’elle a circulé<br />

sous <strong>di</strong>verses formes.<br />

49 Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris, §21.<br />

50 Cf. GOUNELLE, Pilate (Acts of), cit.<br />

51 Une soixantaine de témoins manuscrits a été identifiée par Z. Izydorczyk,<br />

dans le cadre de ses recherches sur la tra<strong>di</strong>tion manuscrite de l’Evangile de<br />

Nicodème (cf. Z. IZYDORCZYK Manuscripts of the Evangelium Nicodemi: A<br />

Census, Toronto 1994). E. von Doschütz n’en connaissait que quinze, qu’il mentionne<br />

dans son Christusbilder, cit., 276*-277*.<br />

245


2.3. Analyse<br />

246<br />

Rémi Gounelle<br />

Pour autant que la documentation <strong>di</strong>sponible permette d’en juger,<br />

les deux recensions s’accordent sur la nature de l’image. Dans un cas<br />

comme dans l’autre, il s’agit bien d’un véritable portrait, seul le visage<br />

(uultus ou facies) étant représenté ; Jésus n’est donc pas peint intégralement,<br />

comme dans le De Veronilla. Il s’agit, d’autre part, d’une œuvre<br />

de Véronique, non acheiropoiète, comme nous le montrerons plus loin.<br />

Cet accord de fond ne doit pas cacher des <strong>di</strong>vergences importantes<br />

entre les deux recensions.<br />

2.3.1. La Vin<strong>di</strong>cta volusienne : une relique<br />

A en croire l’é<strong>di</strong>tion de Tischendorf, l’image de Jésus était conservée<br />

par Véronique sur une fine étoffe pure (in sindone munda), que le récit<br />

<strong>di</strong>stingue de la fine étoffe d’or (in sindone aurea) dans laquelle l’enveloppe<br />

Volusien (§24). Les autres manuscrits de la recension volusienne<br />

auxquels j’ai eu accès ne dressent pas de parallèle similaire. Ils précisent<br />

bien que Volusien enveloppe le portrait de Jésus, mais ils emploient le<br />

terme pallium, et non sindon, pour désigner le tissu qui sert à protéger<br />

l’image et qui sera déployé par la suite devant Tibère pour la lui faire<br />

apparaître (§24, 33) 52 . Quant à Véronique, elle ne conserve pas le portrait<br />

sur un sindon, mais la tra<strong>di</strong>tion manuscrite ne permet pas à l’heure<br />

actuelle de reconstituer le terme exact employé 53 .<br />

52 Attesté dans le manuscrit de Saint-Omer, le terme pallium se retrouve dans<br />

le codex inconnu d’E. von Dobschütz (voir n. 29), et dans les témoins suivants :<br />

Cambridge, Corpus Christi College 288 ; Milan, Biblioteca Ambrosiana, B 57<br />

inf ; Oxford, Bodleian Library 90.<br />

53 Le manuscrit de Saint-Omer lit en effet : ego enim habeo incluso in cu[…]u<br />

meo (CROSS, 280). L’é<strong>di</strong>teur restitue in cubitu, ‘dans/sur ma couche’, sur la base<br />

de la traduction en vieil-anglais qui en dépend (CROSS, 281 : one mynre bredcofan).<br />

Le manuscrit collationné par E. von Dobschütz et qui est très proche du<br />

codex de Saint-Omer (voir n. 27) lit ici in cofinu, ‘dans la corbeille’, ‘dans le couffin’,<br />

ce qui n’est guère satisfaisant. Le ms. Oxford Bodleian Library 90 semble,<br />

quant à lui, ici corrompu ; dans sa collation, E. von Dobschütz in<strong>di</strong>que : in coctimo<br />

(?). Le Parisinus lat 5327, enfin, parle de coussin (cusinum), une leçon qui<br />

trouve un parallèle dans certains manuscrits de la Cura sanitatis Tiberii (§10), aux<br />

côtés de cubiculum, qui désigne la chambre à coucher. Le Vaticanus lat. 4363,<br />

quant à lui, a abrégé; il lit simplement : ego habeo illum.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

Tout aussi délicate à déterminer est la nature exacte de cette image.<br />

Il est clair, pour un certain nombre de témoins, qu’il s’agit d’une peinture.<br />

Ils s’accordent en effet avec la Cura sanitatis Tiberii pour rendre<br />

compte de la captation du visage de Jésus à l’aide du verbe pingere,<br />

‘peindre’ (§32) – mais cette précision est absente de plusieurs manuscrits<br />

54 . Les co<strong>di</strong>ces qui transmettent ce texte ne sont en outre pas toujours<br />

très clairs sur ce point. Ainsi le manuscrit de Saint-Omer lit-il: inuenerunt<br />

mulierem nomine Veronice qui pincxerat eum habens (§32) 55 ; le<br />

pronom relatif qui, bien qu’au masculin, renvoie ici très probablement<br />

à Véronique, le copiste procédant en d’autres endroits à des accords<br />

fautifs du même type 56 ; il faut donc vraisemblablement traduire : « une<br />

femme nommée Véronique qui l’avait, car elle l’avait peint » 57 . Même si<br />

l’attribution de la peinture à Véronique peut sembler peu cohérente<br />

avec le §26, où Véronique affirme que ce portrait lui a été donné par Jésus<br />

58 , cette interprétation est confirmée par le manuscrit Cambridge,<br />

Corpus Christi College 288, qui lit : inuenerunt mulierem nomine Veronicam<br />

quae pinctum eum habebat 59 .<br />

54 Cette précision est absente du texte é<strong>di</strong>té par C. von Tischendorf, comme de<br />

l’Ambrosianus B 57 inf. et du Bodleianus 90. Comme elle est présente dans la<br />

recension non volusienne, je pense qu’elle appartenait peut-être à la forme primitive<br />

de la recension volusienne, et qu’elle en a été éliminée par la suite, pour faire<br />

de ce portrait une image implicitement acheiropoiète. Une fois encore, il ne sera<br />

possible de trancher ce point qu’au terme d’une étude détaillée de la tra<strong>di</strong>tion<br />

manuscrite.<br />

55<br />

CROSS, 290.<br />

56 Cf. A. ORCHARD, The Style of the Texts and the Translation Strategy, in<br />

CROSS, 105-130 (108).<br />

57 EAC II, 395. Les auteurs des EAC II, 395, affirment : « le texte est ambigu<br />

et présente des variantes dans les manuscrits ; selon les cas, on peut comprendre<br />

que le portrait a été peint par Véronique ou par le Christ ».<br />

58<br />

CROSS, 282. Au §26, les manuscrits latins utilisés par C. von Tischendorf<br />

sont corrompus, mais ils ne laissent pas de trace du texte du manuscrit de Saint-<br />

Omer. Ces précisions sont absentes de la traduction en vieil-anglais é<strong>di</strong>tée par<br />

CROSS, mais il est <strong>di</strong>fficile d’en conclure quoi que ce soit, car le traducteur conteste<br />

la nature du tissu détenu par Véronique : il ne s’agit pas selon lui du portrait de<br />

Jésus, mais d’un morceau de ses vêtements – voir §18 ; CROSS, 273 ; §24, p. 381 ;<br />

l’absence de cette phrase dans la traduction en vieil-anglais est dès lors peut-être<br />

due à une censure du traducteur.<br />

59 Le texte du Vaticanus lat. 4363 est proche, mais la collation du fonds E. von<br />

Dobschütz n’est pas très claire sur ce point.<br />

247


248<br />

Rémi Gounelle<br />

Quoi qu’il en soit, la Vin<strong>di</strong>cta volusienne insiste sur la conservation<br />

de ce qui apparaît bel et bien comme une relique : à la <strong>di</strong>fférence de la<br />

Cura sanitatis Tiberii, mais comme la recension non volusienne, elle<br />

souligne l’importance que le portrait de Jésus joue pour Véronique, qui<br />

l’adore chaque jour (§24), y voyant le signe de la bonté de Jésus (§26).<br />

La dévotion de Véronique suscite celle des autres protagonistes : Volusien<br />

l’adore à son tour (§24) et l’emballe dans de l’or, avant que Tibère<br />

ne l’adore à son tour (§33). Le récit insiste également sur le coffre dans<br />

lequel a été transporté le portrait de Jésus et fait peut-être par là-même<br />

allusion aux caisses de bois dans lesquelles cette image aurait été transportée<br />

de Jérusalem à Rome ; de fait, deux églises romaines prétendent<br />

conserver de tels reliquaires : Saint Eloi des Forgerons (S. Eligio dei<br />

Ferrari) et Sainte Marie des Martyrs 60 . Il reviendra à la recherche ultérieure<br />

d’étu<strong>di</strong>er les éventuels rapports de la vénération accordée à ces<br />

reliquaires avec cette forme de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris.<br />

La transformation de l’image de Jésus en une véritable relique ne<br />

rend que plus surprenant le silence de cette recension sur sa destinée :<br />

ni le texte long du Parisinus lat 5327, ni les formes plus courtes auxquelles<br />

j’ai eu accès ne précisent ce que devient la relique. Le lecteur attentif<br />

aura certes noté que, dans cette forme du récit, le palais de Tibère<br />

est apparemment localisé au Latran (§27) 61 ; ce serait donc là que le<br />

portrait de Jésus est situé à la fin du récit. Cette in<strong>di</strong>cation fait peutêtre<br />

écho á la représentation Christ, réputée acheiropoiète, du Sancta<br />

Sanctorum de Saint-Jean-de Latran 62 , mais son caractère implicite empêche<br />

d’y voir un clair renvoi.<br />

60 Voir X. BARBIER DE MONTAULT, Reliques et souvenirs de la Passion de<br />

Notre-Seigneur à Rome, Revue de l’art chrétien 1888, 212-218, republié dans<br />

Oeuvres complètes, VII : Rome. V – Dévotions populaires, deuxième partie, Paris<br />

1893, 494-503 (où Sainte-Marie de la Rotonde désigne très probablement Sainte<br />

Marie des Martyrs, qui est l’ancien Panthéon). Cf. aussi les rubriques « Saint<br />

Eloi des Forgerons » et « Sainte Marie des Martyrs » dans X. BARBIER DE<br />

MONTAULT, Inventaire des principales reliques de chaque église [de Rome], Année<br />

liturgique à Rome, V, 130-162, réé<strong>di</strong>té dans Oeuvres complètes, VII, cit., 252-<br />

279.<br />

61 Les manuscrits ne parlant pas de Volusien mentionnent apparemment<br />

Rome, sans plus de précision.<br />

62 Sur cette image, voir G. WOLF La Veronica e la tra<strong>di</strong>zione romana <strong>di</strong> icone,<br />

in A. GENTILI et al. (edd.), Il ritratto e la memoria: materiali 2, Rome 1993, 9-35<br />

(19-21).


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

2.3.2. La Vin<strong>di</strong>cta non volusienne : une image miraculeuse<br />

Dans la recension non volusienne, le portrait de Jésus est présenté<br />

sans ambiguité comme l’oeuvre de Véronique en personne, qui a représenté<br />

(figurauit) le visage de son sauveur sur son pallium (in pallio suo),<br />

ce qui pourrait renvoyer non à une quelconque tenture, mais à son<br />

manteau. Si les miracles effectués grâce à l’image détenue par Véronique<br />

sont mentionnés – tous ceux qui se rendaient chez cette femme,<br />

adoraient l’image et l’embrassaient étaient guéris, précise le texte, bien<br />

avant de narrer la guérison de Tibère (§7) 63 – la puissance miraculeuse<br />

du portrait n’incite nullement l’empereur à le conserver : après avoir<br />

condamné Pilate pour avoir injustement mis à mort Jésus, Tibère rend<br />

à Véronique son image, la remercie en lui donnant de l’argent et des<br />

honneurs et la renvoie chez elle 64 .<br />

La Vin<strong>di</strong>cta non volusienne est donc en retrait par rapport aux<br />

formes volusiennes : non seulement la dévotion à l’image est beaucoup<br />

moins mise en valeur, mais encore le portrait de Jésus retourne à Jérusalem<br />

après avoir accompli la guérison de Tibère. Ces deux traits<br />

confirment la probable antériorité de cette forme du récit par rapport à<br />

la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris volusienne.<br />

III. Bilan<br />

Cette présentation des récits de la fin de l’Antiquité et du Haut<br />

Moyen Âge sur la légende de Véronique aura fait ressortir plus d’incertitudes<br />

que de certitudes, aussi bien sur la Cura sanitatis Tiberii – dont<br />

l’extension exacte dans les manuscrits n’est pas entièrement sûre et<br />

dont l’interprétation n’est pas aisée – que sur la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris –<br />

dont les textes é<strong>di</strong>tés pourraient être des réécritures d’une forme plus<br />

ancienne, encore iné<strong>di</strong>te, et qu’il serait nécessaire d’étu<strong>di</strong>er à nouveaux<br />

frais, sur la base de la soixantaine de manuscrits identifiés à l’heure actuelle.<br />

Il n’en reste pas moins que, même à la lumière d’un dossier aussi<br />

63 Cf. plus haut p. 241.<br />

64 Le manuscrit Bristish Library, Royal 8 E XVII lit : Imperator autem red<strong>di</strong><strong>di</strong>t<br />

Veronice uultum Domini et de<strong>di</strong>t maximas <strong>di</strong>uitias et honores et misit eam per (?),<br />

fideles seruos in terram suam.<br />

249


250<br />

Rémi Gounelle<br />

complexe et insuffisamment travaillé, certaines constantes apparaissent.<br />

D’une part, dans ces aucunes de ces tra<strong>di</strong>tions le portrait de Jésus<br />

n’est d’origine miraculeuse – si ce n’est dans des manuscrits isolés et<br />

tar<strong>di</strong>fs qui ont mis au goût du jour leur source –, mais il se transforme<br />

progressivement en relique ; par là-même, les <strong>di</strong>verses formes de la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Salvatoris constituent de précieux témoignages sur la préhistoire<br />

du culte de la Sainte Face. D’autre part, cette légende n’est pas liée à la<br />

passion du Christ dans les textes dont il a été question précédemment,<br />

mais à la guérison de Véronique ; il y a tout lieu de croire que c’est ce<br />

contexte initial qui explique que ce portrait ait des vertus miraculeuses :<br />

les guérisons qu’il opère prolongent en quelque sorte la guérison de Véronique.<br />

Les tra<strong>di</strong>tions dans lequelles le visage de Jésus est imprimé de façon<br />

miraculeuse sur un tissu ne proviennent ni de la Cura sanitatis Tiberii ni<br />

de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris. Elles trouvent peut-être leur origine dans un<br />

récit apocryphe du VI e siècle, les Actes de Pierre et de Paul, dont Ernst<br />

von Dobschütz n’a peut-être pas assez perçu l’importance 65 : sur le chemin<br />

qui le mène à son martyre, l’apôtre Paul croise une femme, que la<br />

version grecque nomme Perpétue tan<strong>di</strong>s que la version latine appelle<br />

Plautilla ; il lui demande la pièce de tissu qu’elle a avec elle ; lors de la<br />

décapitation de Paul, ce tissu est mis sur les yeux de l’apôtre, dont le<br />

sang s’imprime sur le tissu, qui est miraculeusement renvoyé à sa propriétaire,<br />

pour la plus grande confusion de ceux qui assistent à la scène<br />

66 . Au vu de l’influence des Actes de Pierre et de Paul en Occident et<br />

de leur fréquente association avec les tra<strong>di</strong>tions autour de Pilate, il est<br />

possible que cette histoire explique que la légende de Véronique, originellement<br />

située bien avant la Passion, ait été par la suite localisée sur<br />

le chemin menant au Calvaire. La question, qui ne semble pas avoir été<br />

encore étu<strong>di</strong>ée de façon approfon<strong>di</strong>e, mériterait de l’être.<br />

La recherche sur la Cura sanitatis Tiberii et surtout sur la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Saluatoris n’en est qu’à ses débuts. Elle aura nécessairement des répercussions<br />

sur les origines de la légende de Véronique, puisque les relations<br />

entre la Cura sanitatis Tiberii et de la Vin<strong>di</strong>cta sont désormais à<br />

65 Ce texte n’est mentionné par E. von Dobschütz dans Christusbilder, cit.,<br />

252 n. 4.<br />

66 Acta Petri et Pauli, 79 ; Passio sancti Pauli apostoli, 14-18, é<strong>di</strong>tés par R. A.<br />

LIPSIUS, Acta Petri. Acta Pauli, Acta Petri et Pauli…, Leipzig 1891 [réimpression :<br />

Hildesheim – Zürich – New York 1990], 38-42, 212-214.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

envisager sous un jour nouveau en fonction des nouvelles données que<br />

les archives d’E. von Dobschütz ont permis de mettre au jour ; il est, en<br />

outre, possible que la publication de la recension non volusienne de la<br />

Vin<strong>di</strong>cta conduise à envisager d’une nouvelle manière la question des<br />

sources des légendes mé<strong>di</strong>évales sur la « Sainte Face » ; enfin, la façon<br />

dont les <strong>di</strong>verses formes de ces textes parlent de l’image de Jésus gagnerait<br />

à être interprétée dans le cadre plus large des reliques de la Passion,<br />

sans se limiter aux images du visage du Christ conservé, comme la recherche<br />

a eu trop tendance à le faire.<br />

251


L’IMAGE D’ÉDESSE, ROMAIN ET CONSTANTIN<br />

BERNARD FLUSIN<br />

École Pratique des Hautes Études, Parigi<br />

L’image d’Édesse qu’on appelle or<strong>di</strong>nairement le mandylion 1 est<br />

l’image acheiropoiète du Christ la plus célèbre dans le monde byzantin.<br />

Elle occupe une place importante à l’époque iconoclaste et peu après,<br />

parce que les iconophiles l’invoquent pour soutenir leur position 2 . Une<br />

nouvelle phase de son histoire commence sous le règne de Romain Ier<br />

Lécapène lorsque, en 944, un siècle après le triomphe des images, elle<br />

est transférée d’Édesse à Constantinople en même temps que la lettre<br />

du Christ à Abgar 3 . Arrivée dans la capitale le 15 août, jour de la Dormition,<br />

elle est accueillie d’abord au grand sanctuaire marial des Blachernes<br />

4 , où se trouvent ce jour-là les empereurs : Romain et ses deux<br />

fils, ainsi que son gendre, Constantin Porphyrogénète 5 . Le lendemain,<br />

16 août, on organise une cérémonie au terme de laquelle la sainte ima-<br />

1 Comme le fait remarquer A. CAMERON, The mandylion and Byzantine Iconoclasm,<br />

in H. L. KESSLER - G. WOLF (edd.), The Holy Face and the Paradox of Representation,<br />

Bologna 1998, 33-54, ici 37, le terme ne devient commun dans les<br />

sources grecques qu’au XI e siècle. Nous conservons l’orthographe tra<strong>di</strong>tionnelle.<br />

En grec, la forme mantivlion (lat. mantile) est plus correcte, mais on remarquera<br />

que, dans le Skylitzès de Madrid, la légende de la miniature illustrant l’arrivée de<br />

l’image d’Édesse porte : to;; a{gion manduvl(ion).<br />

2 Voir CAMERON, cit. (n. 1).<br />

3 La lettre du Christ passe au second plan, mais son transfert est mentionné à<br />

de nombreuses reprises : Récit (B), §§ 44, 45, 46, 49, 50, 52, 53, 56, 62, éd. DOB-<br />

SCHÜTZ, cit. (n. 9), 73**-83**.<br />

4 Sur les Blachernes voir R. JANIN, La géographie ecclésiastique de l’empire byzantin.<br />

Première partie. Le siège de Constantinople et le patriarcat œcuménique.<br />

Tome III. Les églises et les monastères, Paris 1969 2 , 161-171. L’empereur s’y rend<br />

pour la fête de la Dormition : cf. De cerimoniis aulae Byzantinae, I,46, éd. A. VOGT,<br />

Le livre des cérémonies, tome I, Paris 1967 (réimpression de l’é<strong>di</strong>tion de 1935), 177.<br />

5 Cf. Récit (B), § 56, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 81**. Le Récit, comme nous le<br />

verrons, est loin d’être objectif, mais les dates données (15 août pour l’arrivée aux<br />

253


254<br />

Bernard Flusin<br />

ge est déposée dans le palais impérial. La translation de 944 est illustrée<br />

par plusieurs textes. Je me concentrerai sur l’un d’entre eux, dont je<br />

voudrais préciser la date et l’origine : le Récit sur la sainte image acheiropoiète<br />

de Jésus Christ notre Dieu, attribué à Constantin VII Porphyrogénète<br />

6 . Je chercherai ensuite ce que ce récit nous apprend sur l’objet<br />

lui-même. Enfin, je tenterai de dégager le sens que les Byzantins ont attribué<br />

à la translation de cette image si particulière, à la fois relique et<br />

icône, et de montrer comment, en très peu de temps, entre 944 à 945, ce<br />

sens a été profondément transformé.<br />

1. Le Récit<br />

Le Récit sur l’image acheiropoiète d’Édesse est accessible aujourd’hui<br />

dans l’é<strong>di</strong>tion récemment procurée par M. Guscin 7 . Cependant, ce travail,<br />

bien qu’il repose sur une base manuscrite assez large 8 , n’est pas à<br />

proprement parler critique. Aucun classement des manuscrits n’est proposé,<br />

l’é<strong>di</strong>teur utilisant in<strong>di</strong>fféremment, pour le texte du Récit, aussi<br />

bien des ménologes métaphrastiques que des témoins non métaphrastiques.<br />

Les problèmes principaux que pose l’histoire des textes ne sont<br />

pas évoqués, de sorte que cette é<strong>di</strong>tion, qui semble offrir une référence<br />

commode, ne peut guère servir de base au travail que nous nous proposons<br />

ici. Il faut, pour obtenir une image plus exacte des textes, recourir<br />

au livre classique de Ernst von Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen<br />

zur christlichen Legende, paru en 1899, qui, même s’il est en partie<br />

vieilli, reste le guide le plus sûr 9 . Rappelons que Dobschütz é<strong>di</strong>te deux<br />

Blachernes, 16 août pour la cérémonie) sont sûres, et correspondent au programme<br />

de Romain tel qu’on peut le reconstituer.<br />

6 BHG 794, 795, 796 (le rédacteur de ces notices considère Constantin VII<br />

comme l’auteur de BHG 794, et met à part la prière finale – BHG 795 – et le Traité<br />

liturgique ; il rappelle d’autre part avec raison que BHG 794 a été incorporée<br />

par Syméon dans son ménologe).<br />

7 M. GUSCIN, The Image of Edessa, Leiden-Boston 2009 (The Me<strong>di</strong>eval Me<strong>di</strong>terranean).<br />

8 Voir la liste des manuscrits dans GUSCIN, cit. (n. 7), 7. À la <strong>di</strong>fférence de<br />

Dobschütz, Guscin a eu un bon accès aux manuscrits conservés dans les monastères<br />

de l’Athos.<br />

9 E. VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende,<br />

I-II, Leipzig 1899-1900.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

formes du texte : la forme A, anonyme, qu’il juge initiale, et qu’il reprend<br />

dans le livre liturgique des Ménées ; la forme B, qui, d’après son<br />

titre, est une œuvre de Constantin VII, et que Dobschütz considère<br />

comme secondaire 10 . Parce qu’il travaillait à la fin du XIX e s., Dobschütz<br />

ne pouvait savoir que la forme A était en fait le texte qu’on trouve,<br />

pour le 16 août, dans le Synaxaire de Constantinople et que nous<br />

pouvons donc lire maintenant dans l’é<strong>di</strong>tion de Delehaye, parue en<br />

1902 11 . De même, Dobschütz n’était pas au courant des travaux d’Albert<br />

Ehrhard qui, de son côté, reconstituait la structure du grand ménologe<br />

que Syméon Métaphraste avait composé à la fin du X e siècle 12 .<br />

Or le texte B é<strong>di</strong>té par Dobschütz est en fait celui du ménologe métaphrastique<br />

13 . Précisons. On sait que, dans son ménologe, Syméon a ré-<br />

10 DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 38**-85** (é<strong>di</strong>tion de A et de B), 86**-92** (rapport<br />

des deux textes) ; voir les réserves de H. DELEHAYE, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana 19<br />

(1900) 214. Dobschütz réaffirmera plus tard sa position, contre Delehaye : E. VON<br />

DOBSCHÜTZ, Der Kammerherr Theophanes (Zu Konstantins des Purpurgeborenen<br />

Fespre<strong>di</strong>gt auf <strong>di</strong>e Translation des Christusbildes von Edessa), Byzantinische Zeitschrift<br />

10 (1901) 167.<br />

11 H. DELEHAYE, Synaxarium Ecclesiae Constantinopolitanae e co<strong>di</strong>ce Sirmon<strong>di</strong>ano,<br />

nunc Berolinensi a<strong>di</strong>ectis synaxariis selectis, Bruxelles 1902 (Propylaeum ad<br />

Acta Sanctorum Novembris), 893-901 : désormais Synax. CP. L’é<strong>di</strong>tion du texte<br />

A par GUSCIN, cit. (n. 7), 88-111, ne <strong>di</strong>stingue pas entre les <strong>di</strong>fférentes familles de<br />

Synaxaires.<br />

12 A. Ehrhard reconstitue dès 1897 la structure du ménologe métaphrastique,<br />

avec ses <strong>di</strong>x tomes et ses cent quarante-huit textes : A. EHRHARD, Die Legendensammlung<br />

des Symeon Metaphrastes und ihr ursprünglicher Bestand. Eine paläographische<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>e zur griechischen Hagiographie, in Festschrift zum elfhundertjährigen<br />

Jubiläum des deutschen Campo Santo in Rom, Rome 1897, 46-82 ; ID., Forschungen<br />

zur Hagiographie der griechischen Kirche vornehmlich auf Grund der hagiographischen<br />

Handschriften von Mailand, München und Moskau, Römische<br />

Quartalschrift 11 (1897) 67-205. Pour la tra<strong>di</strong>tion manuscrite du Ménologe métaphrastique,<br />

voir A. EHRHARD, Überlieferung und Bestand der hagiographischen<br />

und homiletischen Literatur der griechischen Kirche von den Anfängen bis zum Ende<br />

des 16. Jahrhunderts, II, Leipzig 1938 (Texte und Untersuchungen, 51), 306-709.<br />

Voir C. HØGEL, Symeon Metaphrastes. Rewriting and Canonization, Copenhagen<br />

2002.<br />

13 Dobschütz s’en apercevra plus tard lui-même et, dans un article où il répond<br />

en particulier aux réserves formulées par Delehaye, pourra se flatter d’avoir<br />

donné la première é<strong>di</strong>tion critique d’un texte métaphrastique : DOBSCHÜTZ, Der<br />

Kammerherr, cit. (n. 10), 167.<br />

255


256<br />

Bernard Flusin<br />

uni des textes de nature <strong>di</strong>fférente : des métaphrases à proprement parler,<br />

la vita ou la passion ancienne étant profondément réécrite, mais<br />

aussi des textes qui, parce qu’ils lui paraissaient satisfaisants, ont été repris<br />

tels quels, les manuscrits métaphrastiques pouvant dès lors être<br />

considérés comme une branche de la tra<strong>di</strong>tion <strong>di</strong>recte de chacun de ces<br />

textes 14 . Le Récit sur l’image appartient à la deuxième catégorie. Dans<br />

le ménologe métaphrastique, il n’a donc pas été réécrit, mais il a été retouché<br />

et il convient de chercher sous quelle forme il se présentait dans<br />

les ménologes prémétaphrastiques : l’utilisateur de l’é<strong>di</strong>tion Dobschütz<br />

doit lire attentivement l’apparat critique, et suivre en particulier les leçons<br />

des manuscrits V et X, qui donnent un texte non métaphrastique<br />

15 . Autre élément de complexité : Dobschütz, dans ces deux témoins<br />

du récit, a trouvé, avant la prière finale, un court traité liturgique<br />

sur la façon dont l’image acheiropoiète était honorée à Édesse. Il l’é<strong>di</strong>te<br />

à part, comme un appen<strong>di</strong>ce dont on ne comprend guère le statut 16 .<br />

Doit-on ou non considérer que ce traité fait partie du Récit ? Comme<br />

on le voit, nous n’avons pas affaire à un texte simple, puisqu’il faut tenir<br />

compte de trois formes <strong>di</strong>fférentes : A de Dobschütz, c’est-à-<strong>di</strong>re le<br />

texte des synaxaires, accessible maintenant dans l’é<strong>di</strong>tion de Delehaye<br />

et, moins clairement, dans celle de Guscin 17 ; B de Dobschütz, d’après<br />

les manuscrits non métaphrastiques (désormais B1), ou dans la recension<br />

métaphrastique (désormais B2). Pour parler du Récit, il faut préciser<br />

quelle forme on utilise et <strong>di</strong>stinguer entre A et B, et, quand il y a<br />

lieu, entre B1 et B2.<br />

14 EHRHARD, Überlieferung, cit. (n. 12), II, 697-699 ; cf. HØGEL, cit. (n. 12), 91-<br />

92 et 119. La présence du Récit sur l’image dans le 10 e tome du ménologe métaphrastique<br />

explique l’abondance exceptionnelle de sa tra<strong>di</strong>tion manuscrite.<br />

15 V : Vienne, Bibl. nat., hist. gr. 45 ; X : Paris, Bibl. nat., gr. 1474 (X est un<br />

ménologe métaphrastique, mais il contient un appen<strong>di</strong>ce de textes non métaphrastiques<br />

sur les images du Christ : EHRHARD, Überlieferung, cit. [n. 12], II,<br />

623-624 ; F. HALKIN, Manuscrits grecs de Paris : inventaire hagiographique,<br />

Bruxelles 1968 [Subsi<strong>di</strong>a hagiographica 44], 174-175). Dans son é<strong>di</strong>tion de B,<br />

Dobschütz réserve un apparat spécial à VX. Le manuscrit V appartient à la même<br />

famille que X, mais son texte est retouché. Le texte de X, lui-même, porte<br />

quelques traces d’un remaniement. Mais l’accord des deux donne souvent des leçons<br />

convaincantes.<br />

16 Ed. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 110**-114**. Sur ce point, l’é<strong>di</strong>tion Guscin, qui<br />

é<strong>di</strong>te ce traité à sa place, marque un progrès (cf. GUSCIN, cit. [n. 7], 60-68) : la forme<br />

du texte é<strong>di</strong>té est, pour l’essentiel, non métaphrastique.<br />

17 Synax. CP, cit. (n. 11), 893-901; GUSCIN, cit. (n. 7), 88-111.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

Il est commode, pour comprendre les principales <strong>di</strong>fférences entre<br />

ces trois formes, de partir de B1. Sa structure est simple : après un titre<br />

(sans nom d’auteur dans B1), le texte commence par un prologue, puis<br />

développe longuement une « archéologie 18 », c’est-à-<strong>di</strong>re un exposé sur<br />

les origines et l’histoire ancienne de l’acheiropoiète. Il raconte ensuite la<br />

translation de cette image d’Édesse à Constantinople, puis nous trouvons<br />

le traité liturgique, propre à B1, sur les cérémonies en l’honneur<br />

du mandylion à Édesse, et enfin une assez longue prière finale. Nous<br />

avons noté dans un tableau la présence (X) ou l’absence (0) des principaux<br />

éléments.<br />

Mention de l’auteur<br />

dans le titre<br />

Texte A<br />

(Synaxaire)<br />

Texte B1<br />

(prémétaphrastique)<br />

Texte B2<br />

(métaphrastique)<br />

0 0 X (Constantin<br />

Porphyrogénète)<br />

1. prologue 0 X X<br />

2. « Archéologie » :<br />

2a : le mandylion est<br />

apporté à Abgar par<br />

Ananias<br />

X X X<br />

2b : le mandylion est<br />

apporté à Ananias par<br />

Thaddée<br />

0 X X<br />

2c : redécouverte sous<br />

Eulalios et miracle lors<br />

du siège d’Édesse<br />

X X X<br />

2d : récit de miracle<br />

repris d’Evagre le<br />

Scholastique<br />

0 X X<br />

2e : guérison de la fille<br />

de Chosroès<br />

0 X X<br />

3. Translation X X X<br />

4. Traité liturgique 0 X 0<br />

5. Prière finale pour<br />

l’empereur<br />

0 X X<br />

18 Le terme ajrcaiologiva est employé dans le Récit (B), § 2, éd. DOBSCHÜTZ,<br />

cit. (n. 9), 41**, l. 7.<br />

257


258<br />

Bernard Flusin<br />

L’opposition entre A et B apparaît clairement : A n’a pas le prologue,<br />

ni la prière finale. Il ne porte pas de trace non plus du traité liturgique.<br />

La deuxième partie, « l’archéologie », est beaucoup plus brève<br />

dans A que dans B (absence de 2b, 2d, 2e). A ne connaît qu’un récit sur<br />

l’origine de l’image miraculeuse (2a), alors que le récit B en a deux (2a<br />

et 2b). De même, A ne contient qu’un récit de miracle à l’époque ancienne,<br />

lors de la guerre avec la Perse (2c) ; le récit B en comprend trois<br />

(2c, 2d, 2e). Pour cette première partie, les <strong>di</strong>fférences sont donc considérables.<br />

Pour le récit sur la translation, A est très semblable à B, dont<br />

il apparaît comme l’abrégé. L’origine et la nature de A restent obscures.<br />

Pour Dobschütz, cette forme du récit est première, et B n’en est qu’une<br />

amplification 19 . Cette position est à première vue surprenante : on attendrait,<br />

comme il est normal pour une notice du Synaxaire, que A soit<br />

un résumé. Il paraît probable cependant que, pour sa première partie<br />

(« l’archéologie »), A n’est pas un simple abrégé de B : on y trouve des<br />

détails qui montrent que le rédacteur peut avoir eu recours <strong>di</strong>rectement<br />

à une version des Actes de Thaddée, ou qu’il avait entre les mains un<br />

état du Récit antérieur à B 20 . Quant aux <strong>di</strong>fférences entre B1 prémétaphrastique<br />

et B2 métaphrastique, les plus importantes paraissent les<br />

deux suivantes : l’attribution à Constantin VII ne figure que dans les<br />

manuscrits métaphrastiques ; au contraire, le traité liturgique (4) ne figure<br />

que dans certains manuscrits non métaphrastiques.<br />

Nous sommes donc, pour dater ce texte et l’attribuer à un auteur,<br />

dans une situation inconfortable, puisque nous avons affaire à un texte<br />

qui a connu plusieurs états. La plupart des chercheurs travaillent, implicitement<br />

ou non, avec le texte B, en fait B2, laissant de côté, comme<br />

y incite l’é<strong>di</strong>tion de Dobschütz, le Traité liturgique. Nous accorderons<br />

plus d’importance à B1. Pour l’auteur et la date, rappelons que, pour le<br />

Récit B, l’opinion des chercheurs contemporains varie. I. Ševčenko,<br />

dans un article fondamental pour l’œuvre de Constantin, l’attribue à<br />

un collaborateur de l’empereur, le même qui a ré<strong>di</strong>gé la Vie de Basile 21 .<br />

Evelyne Patlagean, en 1995, se ralliait, sans arguments supplémen-<br />

19<br />

DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 86**-91** ; et encore, ID., Der Kammerherr, cit. (n.<br />

10), 167.<br />

20 Voir plus loin, et notes 85-86.<br />

21 I. ŠEVČENKO, Re-rea<strong>di</strong>ng Constantine Porphyrogenitus, in J. SHEPARD - S.<br />

FRANKLIN (edd.), Byzantine Diplomacy, Aldershot 1992, 167-195 (184-185 et n.<br />

46). Les ressemblances stylistiques notées par Ševčenko sont convaincantes.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

taires, à l’opinion de Dobschütz : l’attribution à Constantin VII est raisonnable,<br />

et une date haute, en 945, probable 22 . Mais Süsse Engberg,<br />

dans un article paru en 2004, remet en cause la datation du texte (B) et<br />

son attribution : parce qu’elle a de bonnes raisons, comme nous le verrons,<br />

de penser que l’image d’Édesse n’a pas été déposée au Pharos,<br />

comme le <strong>di</strong>t le Récit, elle est tentée d’abaisser la date de composition<br />

du Récit, dont l’autorité lui paraît contestable 23 . Voyons les pièces principales<br />

du dossier.<br />

Tout d’abord le titre, tel qu’on le trouve dans les manuscrits métaphrastiques<br />

(B2), et qui remonte donc aux années 980 24 : « De<br />

Constantin, basileus des Romains dans le Christ basileus éternel, récit<br />

compilé à partir de <strong>di</strong>verses histoires, sur la <strong>di</strong>vine image acheiropoiète<br />

de Jésus-Christ notre Dieu qui fut envoyée à Abgar, et sur son transfert<br />

d’Édesse dans cette ville très prospère où nous sommes, la Reine des<br />

villes, Constantinople 25 ». La solennité du titre impérial est frappante.<br />

Elle trouve des parallèles dans d’autres œuvres dont l’attribution à<br />

Constantin est beaucoup plus sûre. Ainsi par exemple pour le De cerimoniis<br />

: « De Constantin, ami du Christ, basileus dans le Christ lui-même,<br />

basileus éternel, fils de Léon, l’empereur très sage d’éternelle mémoire,<br />

un traité… 26 ». On notera aussi la similitude, pour la mention<br />

des sources, avec le titre de la Vie de Basile : « Récit historique… que<br />

Constantin… a réuni à partir de <strong>di</strong>fférentes narrations 27 … ». Non seu-<br />

22 E. PATLAGEAN, L’entrée de la sainte Face d’Édesse à Constantinople en 944,<br />

in A. VAUCHEZ (ed.), La religion civique à l’époque mé<strong>di</strong>évale et moderne (Chrétienté<br />

et Islam), Paris 1995, 21-35.<br />

23 S. G. ENGBERG, Romanos Lakapenos and the Man<strong>di</strong>lion of Edessa, in J. DU-<br />

RAND - B. FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques du Christ, Paris 2004 (Monographies<br />

17), 123-142, en particulier 135.<br />

24 Pour cette date, voir HØGEL, cit. (n. 12), 74-75.<br />

25 Kwnstantivnou ejn Cristw/' basilei' aijwnivw/ basilevw" jRwmaivwn <strong>di</strong>hvghsi" ajpo;<br />

<strong>di</strong>afovrwn ajqroisqei'sa iJstoriw'n peri; th'" pro;" Au[garon ajpostaleivsh" ajceiropoihvtou<br />

qeiva" eijkovno" ΔIhsou' Cristou' tou' Qeou' hJmw'n, kai; wJ" ejx ΔEdevsh" metekomivsqh<br />

pro;" th;n paneudaivmona tauvthn kai; basilivda tw'n povlewn Kwnstantinouvpolin,<br />

Récit (B), tit., éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**.<br />

26 Kwnstantivnou tou' filocrivstou kai; ejn aujtw/' tw/' Cristw/' tw/' aijwnivw/ basilei'<br />

basilevw", uiJou' Levonto" tou' sofwtavtou kai; ajeimnhvstou basilevw" suvntagmav ti<br />

kai; basileivou spoudh'" o[ntw" a[xion poivhma, De cerimoniis, éd. A. VOGT, cit. (n.<br />

4), I, 1.<br />

27 ÔIstorikh; <strong>di</strong>hvghsi"… h}n Kwnstanti'no"… ajpo; <strong>di</strong>afovrwn ajqroivsa" <strong>di</strong>hgh-<br />

259


260<br />

Bernard Flusin<br />

lement l’attribution à Constantin par un auteur aussi averti que le logothète<br />

du Drome Syméon Métaphraste ne peut être écartée légèrement,<br />

mais la forme même du titre que nous lisons dans les ménologes métaphrastiques<br />

a de bonnes chances d’être authentique.<br />

Venons-en à une deuxième pièce. Il s’agit du début du traité liturgique,<br />

tel qu’on le trouve dans plusieurs manuscrits non métaphrastiques<br />

(B1). Je cite le passage important : « Cela, notre très <strong>di</strong>vin et<br />

grand empereur Constantin Porphyrogénète l’a étu<strong>di</strong>é sans négligence,<br />

l’a recueilli, l’a écrit dans des livres et, afin d’ajouter une action louable<br />

à ses autres très grands exploits, l’a transmis à la république chrétienne,<br />

après avoir bien réfléchi à ce sujet et conçu, à propos des plus grandes<br />

choses, des pensées inspirées par Dieu et sublimes. Mais puisqu’il ne<br />

s’en est pas tenu là et qu’il a poussé plus loin la recherche, le présent récit<br />

exposera aussi en quel honneur elle était tenue par le peuple chrétien<br />

d’Édesse 28 . »<br />

Trois points retiennent l’attention. Premièrement, ce passage, et le<br />

Traité liturgique dans son ensemble, ne sont pas de Constantin Porphyrogénète,<br />

mais de proches de cet empereur, de collaborateurs, qui ré<strong>di</strong>gent<br />

et donnent une forme achevée aux recherches qu’il a menées. La<br />

forme prémétaphrastique du Récit (B1) n’est donc pas, ou pas tout entière,<br />

de Constantin. Deuxièmement, il ne fait pas de doute que ces collaborateurs<br />

écrivent sous le règne de Constantin VII et que leur texte, à<br />

plus forte raison celui qu’ils complètent, est à situer sous ce règne, avant<br />

959. Troisièmement, l’auteur, ou les auteurs anonymes du Traité, témoignent<br />

du rôle majeur qu’a joué Constantin dans l’élaboration du Récit :<br />

il a «étu<strong>di</strong>é sans négligence» (ouj parevrgw"… filoponhqevnta), « rassemblé»<br />

(sullegevnta), « écrit dans des livres » (bivbloi" ejnapografevnta).<br />

Leur témoignage rejoint ce que l’auteur du récit B, s’exprimant à la première<br />

personne, <strong>di</strong>t à la fin du prologue : « Ainsi donc, vous tous qui<br />

avez une foi droite et un zèle brûlant, rassemblez-vous, venez écouter, et<br />

je vous raconterai tout ce que j’ai pu établir avec exactitude, après avoir<br />

soumis chaque chose à une épreuve rigoureuse, sans épargner ma peine<br />

dans la recherche de la vérité, et que j’ai recueilli auprès des auteurs<br />

d’écrits historiques et de ceux qui sont venus de là-bas jusqu’à nous : des<br />

choses dont ils <strong>di</strong>saient que le souvenir s’était conservé auprès d’eux par<br />

mavtwn…, Vie de Basile, éd. I. BEKKER, Theophanes Continuatus, Ioannes Cameniata<br />

etc., V, Bonn 1838, 211.<br />

28 Traité liturgique, § 1, l. 10-19, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 110**-111**.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

des voies secrètes 29 . » La question semble donc tranchée, mais l’abondance<br />

même des expressions utilisées par les rédacteurs du traité liturgique<br />

peut laisser perplexe : Constantin a-t-il beaucoup fait, ou tout fait<br />

? Est-il l’auteur du Récit, au sens habituel du terme, et sous quelle forme<br />

exactement ? N’a-t-il pas plutôt fait faire ?<br />

On peut invoquer ici une troisième pièce. Il s’agit d’un passage de la<br />

prière finale, présente dans les deux formes du texte B. L’auteur<br />

s’adresse à l’image acheiropoiète : « Sauve et garde toujours celui qui<br />

règne sur nous dans la piété et la douceur et qui fête avec éclat la commémoration<br />

de ton arrivée, lui que, par ta présence, tu as fait monter<br />

sur le trône de son grand-père et de son père ! Garde son rejeton comme<br />

successeur de sa lignée et de son sceptre à l’abri de tout accident<br />

30 !»<br />

L’empereur, rétabli ainsi par l’image sur le trône de son père et de<br />

son grand-père, est évidemment Constantin Poprhyrogénète, relégué<br />

longtemps au dernier rang du collège impérial par Romain Ier et ses<br />

fils, et dont le règne personnel commence peu après l’arrivée de l’image.<br />

De ce fait, la prière finale, au moins, ne peut être de Constantin lui-même<br />

: l’expression « celui qui règne sur nous, to;n… hJmw'n basileuvonta »<br />

est décisive 31 . La question est alors de savoir si cette observation, qui<br />

rejoint celle que nous avions faite pour le Traité liturgique, s’étend à<br />

d’autres parties du Récit, voire à son ensemble. Autre remarque : l’auteur<br />

de la prière implore l’image pour Constantin, mais aussi pour son<br />

fils. Il est notable que celui-ci soit mentionné, dans ce contexte, sans<br />

titre impérial. On sait que la date du couronnement de Romain II, fils<br />

de Constantin VII, a fait l’objet de <strong>di</strong>scussions : V. Grumel, dans son<br />

traité de chronologie, la situait encore « au plus tard » au printemps<br />

948 32 , mais la datation peut être précisée. Certains – c’est le cas de Dob-<br />

29 Récit (B), § 3, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 41**.<br />

30 Sw'ze kai; frouvrei ajei; to;n eujsebw'" kai; pra/vw" hJmw'n basileuvonta kai; th;n th'"<br />

sh'" ejpidhmiva" ajnavmnhsin lamprw'" eJortavzonta, o}n th/' parousiva/ sou ejpi; to;n<br />

pappw/'on kai; patrw/'on qrovnon ajnuvywsa": fuvlatte to;n touvtou blasto;n eij" <strong>di</strong>adoch;n<br />

tou' gevnou" kai; tw'n skhvptrwn ajnwvleqron, Récit (B), § 65, éd. DOBSCHÜTZ, cit.<br />

(n. 9), 85**, l. 12-16. Voir Dobschütz (ibid., 96**), qui relève que la prière finale<br />

ne peut avoir été prononcée par Constantin VII.<br />

31 La première personne qu’on lit ibid., l. 11-12, ne renvoie donc pas, apparemment,<br />

à la même personne que celle du § 3 (cf. n. 29).<br />

32 V. GRUMEL, La chronologie, Paris 1958, 358.<br />

261


262<br />

Bernard Flusin<br />

schütz 33 – ont pensé que Constantin avait fait couronner son fils dès<br />

Pâques 945, mais V. Nazarenko en 1989, suivi plus récemment par C.<br />

Zuckerman, a montré que ce couronnement devait être daté de l’année<br />

suivante, 946, le 22 mars, jour de Pâques 34 . Si nous remarquons que la<br />

prière finale du Récit, comme l’in<strong>di</strong>que l’expression « celui qui… fête<br />

avec éclat la commémoration de ton arrivée, to;n… th;n th'" sh'" ejpidh -<br />

miva" ajnavmnhsin lamprw'" eJortavzonta », a été prononcée pour une fête<br />

commémorative de l’arrivée de l’image, alors que Constantin VII est<br />

seul empereur, alors, la date s’impose : la prière doit être datée du 16<br />

août 945, premier anniversaire de la translation, et le seul qui précède le<br />

couronnement de Romain II. Rappelons que 945 était la date que Dobschütz<br />

jugeait probable pour la rédaction du Récit lui-même 35 .<br />

Pour conclure sur ce point, nous avons devant nous des données <strong>di</strong>vergentes.<br />

D’une part, les témoignages attribuant à Constantin VII le<br />

Récit sont très forts. D’autre part, la prière finale et le Traité liturgique<br />

ne sont pas de Constantin, mais ont été composés sous son règne, et<br />

dans son entourage : la prière dès août 945, le Traité sans doute plus<br />

tard, mais peut-être encore avant le couronnement de Romain II, la<br />

prière finale étant reprise sans changements dans cette forme augmentée<br />

36 . Peut-on concilier ces données ? Il faut tout d’abord remarquer<br />

que cette situation n’est pas unique : elle rappelle celle que nous observons<br />

pour la Vie de Basile, qu’on hésite également à attribuer à<br />

Constantin VII, l’hésitation portant ici aussi sur la nature du travail de<br />

l’empereur : a-t-il pris l’initiative et réuni la documentation, ou bien encore<br />

ré<strong>di</strong>gé lui-même, ou ré<strong>di</strong>gé certaines parties ? Il est clair que, pour<br />

plusieurs œuvres impériales, c’est la notion d’auteur qui doit être reconsidérée<br />

: nous avons souvent affaire à des textes à plusieurs mains, ou<br />

33 DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 98** ; voir aussi, pour la même date, G. OSTRO-<br />

GORSKY et E. STEIN, Die Krönungsordnungen des Zeremonienbuches, Byzantion 7<br />

(1932) 198 ; voir aussi G. DE JERPHANION, La date du couronnement de Romain II.<br />

Les inconvénients d’un alinéa mal placé, Orientalia christiana perio<strong>di</strong>ca 1 (1935)<br />

490-495.<br />

34 C. ZUCKERMAN, Le voyage d’Olga et la première ambassade espagnole à<br />

Constantinople en 946, Travaux et mémoires 13 (2000) 669-670.<br />

35 DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 94**-100**.<br />

36 L’argument ne vaut pas bien sûr pour la recension métaphrastique B1, où la<br />

prière se retrouve : Syméon et ses collaborateurs n’avaient pas les mêmes raisons<br />

d’être sensible au titre de Romain II que Constantin VII et ses aides.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

même à plusieurs voix. C’est le cas du Récit. L’engagement personnel<br />

de Constantin VII dans sa rédaction est certain, même s’il a eu des collaborateurs.<br />

Il a fait ré<strong>di</strong>ger, ou ré<strong>di</strong>gé lui-même une première version,<br />

puis surveillé l’enrichissement de ce premier texte au moins jusqu’à l’intégration<br />

du Traité liturgique, c’est-à-<strong>di</strong>re jusqu’à la rédaction de la forme<br />

B1. Il est <strong>di</strong>fficile de <strong>di</strong>re quelle est la première forme du Récit. On a<br />

vu que, pour Dobschütz, la forme A, anonyme, était la forme initiale.<br />

Mais il est probable que ce que nous lisons dans les Synaxaires 37 n’est<br />

qu’une forme secondaire, même si le rédacteur peut avoir eu recours,<br />

pour la première partie, à une autre source, et il nous paraît même douteux<br />

que A puisse abréger un état du récit antérieur à B1. Quant au<br />

Récit B, sous sa forme prémétaphrastique (B1), il résulte d’un enrichissement<br />

par des collaborateurs de Constantin, du texte primitif (perdu<br />

pour nous) : ils ont ajouté le Traité liturgique ; peut-être ont-ils procédé<br />

à d’autres mo<strong>di</strong>fications qui ne sont plus décelables. Pour la date, B1<br />

est donc postérieur au 16 août 945, mais reste sans doute antérieur au<br />

22 mars 946, date du couronnement de Romain II. Enfin, la forme B<br />

métaphrastique (B2) représente, comme il est normal, un développement<br />

ultérieur : outre quelques mo<strong>di</strong>fications de détail, elle naît de B1<br />

par simple suppression du Traité liturgique, qui n’a pas intéressé le Métaphraste.<br />

Pour la suite, sauf exception signalée, nous renverrons au<br />

Récit B, et de préférence à la forme B1, qu’il est légitime de traiter<br />

comme une œuvre de Constantin VII, même si elle n’est pas (ou pas entièrement)<br />

de sa plume, et de dater du tout début de son règne personnel.<br />

2. L’image acheiropoiète<br />

Le Récit (B) ré<strong>di</strong>gé peu après la translation elle-même, et qui appartient<br />

à l’hagiographie officielle du règne du Porphyrogénète, montre ce<br />

qu’était la sainte image transférée d’Édesse à Constantinople le 15 août<br />

944. Le prologue développe un thème qui se retrouve, en d’autres<br />

termes, dans l’homélie de Grégoire le Référendaire 38 , celui du caractère<br />

37 À notre connaissance elle est absente de la recension constantinienne du Synaxaire,<br />

en tout cas du ms. Jérusalem, Bibl. patr., Sainte-Croix 40, malgré ce que<br />

peut faire penser l’apparat de Delehaye (Synax. CP, cit., [n. 11], 893-894).<br />

38 L’homélie de Grégoire (BHG 796g, éd. et trad. A.-M. DUBARLE, L’homélie<br />

263


264<br />

Bernard Flusin<br />

incompréhensible de la production de l’image d’Édesse : le Christ luimême<br />

est incompréhensible, et la plupart de ses actions le sont aussi. Il<br />

n’est donc pas bon, il est impie d’essayer de comprendre ce qu’est cette<br />

image et comment elle a été produite. Mais il est possible de s’interroger<br />

sur son origine et sur son histoire, même si les tra<strong>di</strong>tions, sur ce<br />

point, <strong>di</strong>vergent, l’important étant qu’elles soient d’accord sur l’essentiel<br />

39 .<br />

Il faut prêter attention au récit sur les origines parce qu’il nous renseigne<br />

sur ce qu’était concrètement la sainte image d’Édesse. Le Récit<br />

(B) présente successivement deux tra<strong>di</strong>tions. D’après la première, la<br />

plus répandue d’après B 40 , et la seule qui soit connue du texte des Synaxaires<br />

(A) 41 , le roi d’Édesse Abgar avait envoyé à Jésus, peu avant la<br />

Passion, un messager, Ananias, avec une lettre lui demandant de venir à<br />

Édesse. Comme Ananias était un peintre habile, il lui avait ordonné<br />

aussi de faire son portrait. Ananias vient en Palestine, trouve le Christ,<br />

qui répond à la lettre d’Abgar (c’est la fameuse lettre du Christ à Abgar),<br />

et qui, sachant qu’Ananias doit faire son portrait, le devance : « le<br />

Christ… se lava le visage avec de l’eau, essuya l’humi<strong>di</strong>té produite avec<br />

l’essuie-main (cheiromaktron) qu’on lui donna, et fit en sorte que ses<br />

traits (charaktèr) s’impriment sur cet essuie-main, d’une façon <strong>di</strong>vine,<br />

qui dépasse l’entendement. Il le donna à Ananias et lui enjoignit de le<br />

remettre à Abgar, afin qu’il l’ait pour apaiser à la fois son désir et sa<br />

mala<strong>di</strong>e 42 . » Ananias repart ensuite pour Édesse avec la lettre et le portrait<br />

miraculeux. Chemin faisant, devant Hiérapolis, l’image s’imprime<br />

miraculeusement sur une brique ou une tuile, conservée depuis dans<br />

cette ville 43 .<br />

de Grégoire le Référendaire pour la réception de l’image d’Édesse, Revue des études<br />

byzantines 55 [1997] 5-51 ; éd. et trad. GUSCIN, cit. [n. 7], 70-87), prononcée sans<br />

doute dès 944, peut avoir été utilisée par les rédacteurs du Récit. Les points de<br />

contact, cependant, peuvent s’expliquer par l’utilisation de sources communes. Le<br />

caractère miraculeux de l’image est le thème principal du prologue de Grégoire,<br />

dont le premier mot est Paravdoxo".<br />

39 Récit (B), §§ 1-2, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**-41**.<br />

40 Cf. Récit (B), § 16, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 53** : kai; ou|to" me;n oJ para;<br />

tw'n pleiovnwn legovmeno" lovgo".<br />

41 Récit (A), § 1-7, ibid., 40**-52** (le récit est plus court que celui de B, auquel<br />

il est parallèle).<br />

42 Récit (B), § 13, ibid., 49**-51**.<br />

43 Récit (B), § 14, ibid., 51**.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

La deuxième tra<strong>di</strong>tion, absente de A, est commune à B et à l’homélie<br />

de Grégoire le Référendaire 44 . L’image n’est plus remise à Ananias et<br />

elle a une autre origine. Nous sommes maintenant au jar<strong>di</strong>n des Oliviers,<br />

le soir précédant la crucifixion 45 . Je cite le Récit B : « Alors, <strong>di</strong>sent-ils,<br />

que le Christ était sur le point d’aller vers sa Passion volontaire,<br />

alors que, montrant la faiblesse qui est celle de l’homme, on le voyait<br />

s’inquiéter et prier, au moment où le récit de l’évangile note que ses<br />

sueurs coulaient comme des caillots de sang, alors, <strong>di</strong>t cette version,<br />

ayant reçu de l’un de ses <strong>di</strong>sciples ce morceau de tissu qu’on voit aujourd’hui,<br />

il y essuya les gouttes de ses sueurs et aussitôt s’imprima cette<br />

empreinte qu’on voit de cette forme déiforme. Il le remit à Thomas,<br />

auquel il ordonna de l’envoyer à Abgar par l’intermé<strong>di</strong>aire de Thaddée<br />

après qu’il serait monté au ciel 46 . »<br />

Cette seconde tra<strong>di</strong>tion <strong>di</strong>ffère nettement de la première, mais, pour<br />

les auteurs du Récit, cette <strong>di</strong>fférence est de peu d’importance 47 . Pour<br />

nous, nous voyons que, dans les deux cas, l’image produite miraculeusement<br />

est une empreinte du Christ vivant, plus précisément de son visage,<br />

et que le support de cette image est une serviette. Ce sont les<br />

points essentiels.<br />

Pour le vocabulaire désignant le support du portrait miraculeux<br />

dans nos textes, il faut noter que le terme mandylion (lat. mantile) n’est<br />

pas employé dans le texte constantinien 48 . Dans le Récit, sous les<br />

formes A et B, les termes sont assez variés. Il est question d’un tissu<br />

u{fasma 49 ; d’un petit morceau de tissu to; nu'n blepovmenon tou'to temavcion<br />

tou' uJfavsmato" 50 ; d’un tissu de lin tw/' ejk livnou uJfavsmati 51 ; d’une<br />

44 Récit (B), §§ 16-23, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 53**-59** ; GRÉGOIRE LE<br />

RÉFÉRENDAIRE, Homélie pour la réception de l’Image, §§ 9-10, éd. DUBARLE, cit.<br />

(n. 38), 19 ; éd. GUSCIN, cit. (n. 7), 74-76.<br />

45 Lc 43.<br />

46 Récit (B), § 17, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 53**.<br />

47 « À coup sûr, il n’y a rien d’étonnant à ce qu’avec tout ce temps, le récit<br />

s’égare bien souvent. En effet, pour l’essentiel du sujet, tous s’accordent semblablement,<br />

reconnaissant que c’est à partir du visage du Sauveur que la forme qu’il<br />

y a sur le tissu s’est imprimée ; mais, sur telle circonstance de l’affaire, c’est-à-<strong>di</strong>re<br />

sur le moment, ils <strong>di</strong>ffèrent, ce qui ne fait aucun tort à la vérité, que cela se soit<br />

produit avant ou après. » (Récit [B], § 16, éd. DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 53**).<br />

48 Voir n. 1.<br />

49 Récit (B), §§ 2, 14, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**, l. 20 ; 51**, l. 27.<br />

50 Récit (B), § 17, ibid., 53**, l. 22.<br />

51 Récit (B), § 2, ibid., 41**, l. 10.<br />

265


266<br />

Bernard Flusin<br />

toile fine ojqovnh 52 ; une fois, dans A, d’un morceau de lin, sindwvn 53 ;<br />

dans B, d’un « saint morceau d’étoffe » to; iJero;n ejkei'no rJavko" 54 , ou,<br />

dans A, d’un « morceau d’étoffe plié en quatre », rJavko" tetrav<strong>di</strong>plon 55 .<br />

Le terme rJavko", généralement péjoratif (chiffon, guenille), laisse penser<br />

que ce morceau de tissu n’avait rien de luxueux. L’adjectif tetrav<strong>di</strong>plon,<br />

qu’on trouve dans A, peut surprendre, mais nous semble trouver son<br />

explication dans le fait que le récit A utilise ici comme source les Actes<br />

de Thaddée, où, dans la forme du texte la plus ancienne, le terme tetrav<strong>di</strong>plon<br />

est employé comme substantif 56 . Il est probable qu’à l’époque<br />

mé<strong>di</strong>o-byzantine, ce mot rare était sorti de l’usage et que les rédacteurs<br />

de A l’ont conservé, mais comme adjectif. Il est question dans B, d’un<br />

essuie-mains, ceirovmaktron 57 . Ce dernier terme éclaire les autres :<br />

comme le montre le contexte, le Christ, pour s’essuyer, se sert d’une<br />

serviette. Ce qui est important, et bien sûr, pour des Byzantins, surprenant,<br />

c’est que le portrait du Christ n’est pas sur un support habituel,<br />

mais sur de l’étoffe.<br />

Cependant, lorsqu’elle arrive entre les mains des Byzantins, l’image<br />

d’Édesse n’est pas une simple serviette. Le roi Abgar, nous <strong>di</strong>t-on, afin<br />

de l’exposer à la vénération de tous à la porte de la ville, l’avait fait coller<br />

sur une planche et l’avait ornée d’or, et sur cet or, « qu’on voit aujourd’hui<br />

», avait été gravée une inscription 58 . Si cet « aujourd’hui »<br />

renvoie, comme il est naturel de le penser, à l’époque de la rédaction du<br />

Récit, c’est donc sur une planche, et avec un cadre en or, que l’image<br />

d’Édesse est arrivée entre les mains des Byzantins 59 . Nous savons enfin<br />

52 Récit (B), § 21, ibid., 57**, l. 12.<br />

53 Récit (A), ibid., 48**, l. 5.<br />

54 Récit (B), § 14, ibid., 51**, l. 11.<br />

55 Récit (A), § 5, ibid., 48*, l. 2.<br />

56 Actes de Thaddée, éd. R. A. LIPSIUS - M. BONNET, Acta Apostolorum Apocrypha,<br />

I, Leipzig 1891, 274, l. 16. Dans l’un des deux témoins du texte (P : Paris,<br />

Bibl. nat., gr. 548), tetrav<strong>di</strong>plon est un substantif. Dans le manuscrit de Vienne<br />

(V : voir plus haut, n. 15), l’expression est la même que dans le Récit A : rJavko" tetrav<strong>di</strong>plon.<br />

Il semble bien, sur ce point précis, que le Récit A ait utilisé les Actes de<br />

Thaddée indépendamment de B (où cette expression ne se retrouve pas). Quant<br />

aux rapports du Récit A avec la forme évoluée des Actes de Thaddée qu’on lit<br />

dans V, ils sont complexes, les Actes ayant à leur tour été influencés par le Récit<br />

(B), les deux textes étant présents dans V.<br />

57 Récit (B), § 13, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 51**, l. 2.<br />

58 Récit (B), § 25, ibid., 59**-61**.<br />

59 L’hésitation vient du fait qu’on lit la même expression dans le manuscrit V


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

par le traité liturgique que cette image était enfermée dans un reliquaire<br />

avec des volets qu’on ouvrait pour laisser entrevoir l’image-relique 60 .<br />

Une fois par an, cependant, le premier <strong>di</strong>manche du Carême, elle était<br />

sortie et exposée dans le sanctuaire de la Grande Église d’Édesse 61 . Le<br />

rédacteur du Traité liturgique parle de « l’ancien reliquaire 62 », ce qui<br />

fait penser que l’image n’a pas été transportée dans celui-ci, mais dans<br />

une châsse (qhvkh, skeu'o", sorov", ou, avec une référence scripturaire<br />

évidente, kibwtov" 63 ) faite pour cette occasion.<br />

Pour ce qu’il y avait sur le tissu, l’auteur de B recourt aux termes<br />

d’impression (ejktuvpwma, ejktuvpwsi" 64 ) de ressemblance ou de similitude<br />

(ejmfevreia 65 , oJmoivwma 66 ), mais surtout au vocabulaire de la représentation<br />

(ajpeikovnisma 67 , ejkmovrfwsi" 68 ) et de l’image, eijkwvn étant le terme<br />

le plus utilisé 69 . Que représentait cette image ? Certaines expressions<br />

peuvent laisser dans l’incertitude si on les isole : ainsi, peri; tou' ejktupwvmato"<br />

th'" qeandrikh'" touvtou morfh'" « l’empreinte de cette forme<br />

théandrique 70 », ou d’autres expressions semblables, où l’image reproduit<br />

la « forme » ou « l’aspect » morfhv 71 ou ei|do" 72 du Christ. Mais<br />

des Actes de Thaddée : th;n qeivan kai; ajceiropoivhton tauvthn eijkovna… ejpi; sanivdo"<br />

kollhvsa" kai; <strong>di</strong>a; tou' nu'n fainomevnou cristou' [lege crusou'] kallwpivsa" ajnevsthsen,<br />

éd. LIPSIUS-BONNET, cit. (n. 56), 276, dans l’apparat. Il est probable que nous<br />

avons affaire ici à un interpolateur, qui enrichit le texte ancien des Actes de Thaddée<br />

d’emprunts qu’il fait au Récit constantinien B (A mentionne la planche et<br />

l’inscription, mais pas l’or).<br />

60 Traité liturgique, § 4, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 112**, l. 18-24.<br />

61 Traité liturgique, § 2, ibid., 111**.<br />

62 Ibid., § 4, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 112**, l. 19.<br />

63 Récit (B), § 53 (qhvkh); § 58 (skeu'o") ; § 57-58 (kibwtov") ; § 60 (sorov"); éd.<br />

DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 79**, 81**, 83**.<br />

64 Récit (B), § 2 , 14, 17, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**, 51**, 53**.<br />

65 Récit (B), § 19 ; éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 55**.<br />

66 Récit (B), §§ 19, 20, 24, 32, 41, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 57**, 59**, 65**, 71**.<br />

67 Récit (B), §§ 14, 33, 49, 55, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 51**, 67**, 77**,<br />

79**.<br />

68 Récit (B), § 18, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 55**.<br />

69 Par ex., Récit (B), titre ; et, dans le texte, à partir du § 25 (§§ 25, 27, 28… );<br />

éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 59**, 61**, 63**.<br />

70 Récit (B), § 2, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**, l. 18-19.<br />

71 Récit (B), § 2, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**, l. 19 ; § 14, éd. DOBSCHÜTZ,<br />

cit. (n. 9), 51**, l. 28 ; § 16, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 53**, l. 5 ; § 21, éd. DOB-<br />

SCHÜTZ, cit. (n. 9), 57**, l. 13 ; § 24, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 59**, l. 10 ;<br />

72 Récit (B1), § 13, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 49**, l. 22 ; § 17, ibid., 53**, l. 24.<br />

267


268<br />

Bernard Flusin<br />

d’autres passages sont beaucoup plus précis. Dès le prologue, l’auteur<br />

du Récit B1 parle de « la forme du visage », to; tou' proswvpou ei\do" 73<br />

qui s’est imprimée miraculeusement sur le tissu de lin, et nous trouvons<br />

ailleurs d’autres expressions aussi nettes 74 . Pour les Byzantins, l’image<br />

d’Édesse est un portrait, une empreinte du visage du Seigneur, et rien<br />

que de son visage.<br />

Ajoutons que les contemporains de la translation connaissent bien la<br />

sainte image. Celle-ci, en effet, avait été copiée. Il ne s’agit pas ici des<br />

deux Saintes Tuiles, celle de Hiérapolis et celle d’Édesse, produites miraculeusement,<br />

et qui sont elles aussi évidemment des représentations du<br />

visage du Christ 75 . Mais lorsque Chosroès avait demandé qu’on lui envoie<br />

l’image, les gens d’Édesse, par prudence, avaient fait exécuter une<br />

copie parfaite, qu’ils lui avaient envoyée à la place de l’authentique et<br />

qui leur avait été restituée après avoir du reste efficacement délivré du<br />

démon qui la possédait la fille du Roi des rois 76 . Une autre copie était en<br />

possession, au X e s., de l’église nestorienne d’Édesse, de sorte que les envoyés<br />

byzantins avaient eu soin, lorsqu’on leur avait livré l’objet, de le<br />

confronter avec ses deux copies pour s’assurer qu’on ne les dupait pas 77 .<br />

On sait aussi qu’un ascète contemporain de Constantin VII, saint Paul<br />

du Latros, avait demandé au patrice envoyé par cet empereur de « placer<br />

sur l’image acheiropoiète de Christ qu’on appelle habituellement le saint<br />

mandylion une pièce de lin qui ait exactement la même <strong>di</strong>mension » (th/'<br />

ajceiropoihvtw/ tou' Cristou' eijkovni h}n suvnhqe" mandhvlion ojnomavzein<br />

a{gion ejpiteqh'nai aujth/' mevro" ojqovnh" ijsovmhke" ajkribw'"), et de le lui faire<br />

parvenir : il avait alors pu contempler, sur ce linge resté pourtant immaculé<br />

aux yeux de tout autre, la Face du Christ 78 . On voit que les té-<br />

73 Ibid., § 2, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 41**.<br />

74 Th;n ajceirovgrafon tou' kuriakou' proswvpou ejkmovrfwsin « la représentation,<br />

qui n’a pas été peinte par la main humaine, du visage du Seigneur », Récit (B1),<br />

§ 18, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 55**, l. 1-2 ; voir aussi § 16, ibid., 53**, l. 12-13<br />

(oJmologou'sin ajpo; tou' kuriakou' proswvpou th;n ejn tw/' uJfavsmati ejktupwqh'nai paradovxw"<br />

morfhvn). On peut signaler aussi, comme allant dans le même sens ; l’emploi<br />

du terme carakthvr, qui désigne les traits du visage : Récit (B), § 13, éd. DOB-<br />

SCHÜTZ, cit. (n. 9), 51**, l. 3.<br />

75 Récit (B), § 14 et 32, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 51** et 65**.<br />

76 Récit (B), § 40-41, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 71**-73**.<br />

77 Récit (B), § 47, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 75**.<br />

78 Vie de S. Paul du Latros, 37, éd. H. DELEHAYE, Vita S. Pauli Iunioris, in Th.<br />

WIEGAND, Der Latmos, Berlin 1913, 127.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

moignages sur l’image d’Édesse au siècle sont précis, contrôlés, et qu’on<br />

ne peut les écarter légèrement.<br />

À son arrivée à Constantinople aussi, la sainte image avait suscité la<br />

curiosité générale et, d’après le Ps.-Syméon, elle avait été examinée peu<br />

après en particulier par les jeunes empereurs, les fils de Romain Lécapène<br />

et son gendre Constantin : « Alors que tous examinaient les traits<br />

immaculés sur la sainte empreinte du Fils de Dieu, les fils de l’empereur<br />

<strong>di</strong>saient qu’ils ne voyaient rien qu’un visage. Mais Constantin, son<br />

gendre, <strong>di</strong>sait voir des yeux et des oreilles 79 .» On en déduira que l’image<br />

d’Édesse devait être passablement effacée. Mais surtout, comme l’explique<br />

le moine Serge, petit-neveu de Phôtios et confident de Romain<br />

Ier, cette perception <strong>di</strong>fférente de l’image, chez les jeunes empereurs, a<br />

un sens profond : « Le glorieux Serge leur <strong>di</strong>t : ‘Les uns et les autres,<br />

vous avez bien vu.’ Ils répliquèrent : ‘Et que signifie la <strong>di</strong>fférence entre<br />

chacun de nous et lui ?’ Il répon<strong>di</strong>t : ‘Ce n’est pas moi, mais le prophète<br />

David qui <strong>di</strong>t : Les yeux du Seigneur sont vers les justes et Ses oreilles<br />

écoutent leur prière. Mais le visage du Seigneur est vers ceux qui font le<br />

mal, pour effacer de terre leur mémoire 80 (Ps. 33. 16).’» L’image joue un<br />

rôle <strong>di</strong>scriminant, <strong>di</strong>stinguant les justes des méchants. Et comme elle<br />

opère cette <strong>di</strong>stinction entre des empereurs, son rôle de révélateur moral<br />

est éminemment politique.<br />

3. Un texte politique<br />

L’anecdote que transmet la chronique du Pseudo-Syméon montre<br />

bien que l’arrivée du mandylion à Constantinople en 944 intéresse la légitimité<br />

impériale et qu’elle révèle, parmi les empereurs de l’époque, celui<br />

qui peut à bon droit exercer le pouvoir. Le rôle de l’image d’Édesse<br />

est désormais plutôt celle d’une relique du Christ, qui rejoint à<br />

Constantinople d’autres reliques de même nature 81 . Sa valeur d’image,<br />

qui avait assuré sa notoriété à l’époque iconoclaste, tend à s’effacer.<br />

79 Pavntwn kaqistorouvntwn to;n a[cranton carakth'ra ejn tw'/ aJgivw/ ejkmageivw/ tou'<br />

UiJou' tou' Qeou', e[legon oiJ uiJoi; tou' basilevw" mh; blevpein ti h] provswpon movnon, oJ<br />

de; gambro;" Kwnstanti'no" e[legen blevpein ojfqalmou;" kai; w\ta, PS.-SYMÉON, Chronographia,<br />

52, éd. I. BEKKER, Theophanes Continuatus, Ioannes Cameniata etc.,<br />

Bonn 1838, 750.<br />

80 Ibid., 750-751 ; cf. Ps. 33. 16.<br />

81 C’est le mouvement décrit en Récit (B), § 46, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9),<br />

269


270<br />

Bernard Flusin<br />

Elle n’est pas entièrement perdue de vue par les contemporains de<br />

Romain et de Constantin : dans la prière finale du Récit par exemple, le<br />

choix des expressions témoigne bien d’une certaine virtuosité, au moins<br />

rhétorique, à parler de l’icône 82 . Mais l’époque iconoclaste est loin et,<br />

bien que l’auteur utilise la Lettre des trois patriarches 83 , l’atmosphère<br />

est autre, éloignée de toute polémique et de toute volonté apologétique.<br />

Cette tendance s’accentuera ainsi que le montre – après l’époque de<br />

Constantin 84 – un passage du récit A, c’est-à-<strong>di</strong>re du Synaxaire, où l’on<br />

voit que les rédacteurs sont peu sensibles aux questions que pose l’image<br />

du Christ. Dans la notice du Synaxaire, nous lisons en effet que le<br />

roi Abgar, envoyant Ananias porter au Christ sa lettre, lui avait demandé,<br />

parce qu’il le savait bon peintre, d’exécuter pour lui un portrait<br />

du Christ. Ananias, arrivé près du Christ, s’installe donc pour faire la<br />

peinture qu’on lui demandait, mais il ne le peut : « Ananias, après être<br />

parti pour Jérusalem, ayant remis au Seigneur la lettre, regardait attentivement<br />

vers lui. Comme il ne pouvait l’approcher à cause de la multitude<br />

qui avait afflué, il monta sur un rocher qui s’élevait un peu au-dessus<br />

de la terre et aussitôt, fixant les yeux sur le Seigneur et la main sur<br />

sa feuille, il cherchait à copier la ressemblance de ce qui lui apparaissait.<br />

Mais il ne pouvait absolument pas la saisir parce qu’elle apparaissait<br />

tantôt avec un visage, tantôt avec un autre, sous un aspect changé<br />

85 . » On voit ce qui se passe. Le rédacteur retrouve ici un motif ar-<br />

73**. Sur l’accumulation à Constantinople de reliques prestigieuses, en particulier<br />

celles de la Passion, voir B. FLUSIN, Construire une nouvelle Jérusalem :<br />

Constantinople et les reliques, in A. AMIR MOEZZI - J. SCHEID (edd.), L’Orient<br />

dans l’histoire religieuse de l’Europe. L’invention des origines, Turnhout 2000, 51-<br />

70. 82 On notera l’accumulation des expressions employées pour désigner l’image :<br />

ΔAllΔ w\ qei'on oJmoivwma tou' ajparallavktou patro;" oJmoiwvmato", w\ carakth;r tou'<br />

carakth'ro" th'" patrikh'" uJpostavsew", w\ septh; kai; pavntime sfragi;" tou' ajrcetuvpou<br />

kavllou" Cristou', Récit (B1), § 65, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 85**.<br />

83 Elle est citée explicitement (Récit B, § 35, éd. DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 69**).<br />

84 Apparaissant dans les recensions secondaires du Synaxaire de Constantinople,<br />

ce Récit A est postérieur au X e s.<br />

85 Récit (A), § 4, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 46** ; cf. Synax. CP, cit., (n. 11),<br />

896 ; GUSCIN, cit. (n. 7), 92 (la traduction anglaise, p. 93, - « he could not take<br />

down his form at all as Jesus kept looking here and there and moving his face<br />

from one side to another » – nous paraît trop rationnelle : Jésus ne bouge pas seulement<br />

; il change de visage et d’aspect. C’est bien ainsi que l’ont compris les lecteurs<br />

anciens : voir plus bas, et n. 86).


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

chaïque, celui de la polymorphie du Christ, qu’il associe à l’image d’Édesse<br />

86 , sans voir le danger : une telle tra<strong>di</strong>tion suppose en effet une<br />

christologie particulière, et surtout, elle montre que l’origine miraculeuse<br />

de l’image d’Édesse est liée à une conception selon laquelle une<br />

image naturelle du Christ est en fait impossible. C’est aller à contresens<br />

de l’utilisation iconophile du précédent que semble fournir le portrait<br />

réalisé par le Christ lui-même. Une autre version du Synaxaire, reprenant<br />

ce détail, le glose de façon intéressante : « Ananias arrive à Jérusalem,<br />

remet la lettre au Christ, s’efforce aussi de tracer sur une feuille sa<br />

forme <strong>di</strong>vine au moyen de couleurs matérielles, mais il ne le peut. En effet,<br />

il ne pouvait nullement saisir la forme de celui qui est incompréhensible<br />

en raison de sa <strong>di</strong>vinité 87 . » On voit vers quel danger l’on glisse : le<br />

Christ, parce qu’il est <strong>di</strong>vin, ne peut être représenté. Les rédacteurs de<br />

B, dans le passage parallèle 88 , n’ont pas ce détail, ou peut-être, plus<br />

prudents, l’ont-ils supprimé. Il n’est pourtant pas sans intérêt pour<br />

comprendre comment, initialement, le récit sur l’origine du saint mandylion<br />

était conçu et compris. Il n’a pu survivre, dans A, que parce que<br />

les enjeux théologiques de l’image d’Édesse étaient perdus de vue.<br />

L’iconologie, dans les textes du X e siècle, passe donc à l’arrière-plan<br />

et perd progressivement de sa netteté. L’intérêt se déplace vers un autre<br />

point : la relation entre les reliques du Christ et l’empereur, ou peutêtre,<br />

l’empereur, le Christ, et Constantinople. Il faut maintenant s’intéresser<br />

à celui qui organise cette translation spectaculaire – Romain Lécapène<br />

– et tenter de comprendre comment il l’a conçue.<br />

Les événements sont bien connus 89 . À la fin du règne de Romain Ier,<br />

l’armée byzantine, conduite par le grand général Jean Kourkouas, après<br />

avoir pris Dara le 18 mai 943, s’est avancée jusqu’à Édesse. Marius Ca-<br />

86 Le même motif se retrouve à propos d’une autre image acheiropoiète,<br />

conservée en Egypte cette fois (Pèlerin de Plaisance, 44, 2-3), de sorte qu’il semble<br />

y a voir un lien plus qu’accidentel entre ces images si spéciales et la polymorphie<br />

du Christ. On peut se demander comment le rédacteur de A a eu l’idée de ce détail<br />

: il ne figure pas dans la version ancienne des Actes de Thaddée (manuscrit P<br />

de Lipsius-Bonnet, p. 274 de l’é<strong>di</strong>tion; dans V, il s’agit sans doute d’une interpolation)<br />

; mais il est douteux qu’il l’ait inventé.<br />

87 Synax. CP, cit., (n. 11), 897-898 (manuscrit D, dans l’apparat).<br />

88 Récit (B), § 10, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 47**.<br />

89 Voir M. CANARD, Histoire de la dynastie des Hamdanides de Jazîra et de Syrie,<br />

Alger-Paris 1951, 747-753.<br />

271


272<br />

Bernard Flusin<br />

nard, utilisant les sources arabes, a bien montré qu’il ne s’agissait pas<br />

ici d’une guerre de conquête mais plutôt d’un grand raid, de sorte que<br />

l’armée lève le siège sans chercher vraiment à prendre la ville 90 . Cependant,<br />

Romain Lécapène saisit l’occasion pour tenter de se faire livrer le<br />

butin le plus précieux qu’il puisse espérer : le prestigieux mandylion et la<br />

lettre du Christ, qui protègent Édesse, et dont il espère enrichir sa capitale,<br />

renforçant ainsi son propre prestige de souverain victorieux. Il<br />

entre en négociation avec les autorités de la ville et avec le califat, auquel<br />

la question est soumise 91 . En même temps, pour faire pression, il<br />

envoie une deuxième fois Kourkouas et son armée dans la région, où ils<br />

s’emparent de Ras Ain le 13 novembre 943 92 . Au terme de tractations<br />

assez longues, Romain obtient enfin ce qu’il veut, en échange de la libération<br />

de deux cents prisonniers sarrasins (c’est l’argument qui a décidé<br />

le calife), d’une somme de douze mille pièces d’argent, peut-être destinées<br />

à l’Église d’Édesse, et de la promesse, confirmée par chrysobulle,<br />

de ne plus attaquer Édesse et trois autres villes de la région 93 .<br />

La translation de la précieuse relique, telle que la notent les chroniqueurs,<br />

a pour but de renforcer le prestige de l’empereur et de mettre en<br />

valeur ses victoires. Le thème est alors celui qu’on trouve exprimé dans<br />

un canon ancien, qui célèbre la translation de 944 94 . Il semble avoir été<br />

composé pour l’arrivée même de la relique comme le montrent certains<br />

passages qui se réfèrent à l’événement même plutôt qu’à sa commémoraison.<br />

Il s’agit en outre d’un chant très favorable à Romain Ier – même<br />

si celui-ci n’est pas nommé –, ce qui est plus facile à concevoir avant la<br />

chute de cet empereur qu’après 95 . L’opinion de Dobschütz, pour qui il<br />

90 Ibid., 748.<br />

91 Sur les négociations conduisant à cet échange, d’après les sources arabes,<br />

Ibid., 749-50.<br />

92 Ibid., 751.<br />

93 Les <strong>di</strong>spositions de l’accord sont reproduites par les rédacteurs du Récit (B),<br />

§ 45, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 73**-75** ; on peut penser qu’ils avaient<br />

connaissance du chrysobulle accordé par Romain à la suite de la demande de<br />

l’émir d’Édesse, chrysobulle qu’ils mentionnent explicitement (Récit [B], § 45, éd.<br />

DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 75**, l. 3).<br />

94 É<strong>di</strong>té par DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 120**-126**.<br />

95 L’empereur, au singulier, est comparé à David dansant devant l’arche : ode<br />

3, strophe 4 (éd. DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 121**, l. 10-13) ; il est inspiré par Dieu<br />

(qeovfrwn, ibid., 121**, l. 22), fidèle (pistov", ibid., 123**, l. 28), il a l’esprit puissant<br />

(krataiovfrwn, ibid., 121**, l. 30).


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

s’agit sans doute d’un canon composé dès 944, paraît donc justifiée 96 et<br />

le sens que cette hymne donne à l’événement qu’elle célèbre est celui<br />

qu’avait voulu lui donner Romain. Voici un passage caractéristique :<br />

«La force abandonne la dextre des fils d’Ismaël. En effet, armé de la<br />

Croix, le puissant basileus a jeté à terre le rempart qui la protégeait 97 . »<br />

Le thème, qui est repris dans une autre strophe 98 , est clair : c’est celui<br />

de la victoire impériale sur les Arabes et l’empereur qu’on célèbre est<br />

celui qui, triomphant, se réjouit « aujourd’hui 99 » d’accueillir la sainte<br />

image.<br />

Le thème de la victoire, très présent dans le canon, se retrouve<br />

quand on examine comment Romain Ier a conçu et organisé l’arrivée<br />

du mandylion. Au terme d’un assez long voyage, les reliques – l’image et<br />

la lettre – arrivent à Constantinople un jour qui a été évidemment choisi<br />

: le soir du 15 août, jour de la Dormition, les empereurs étant aux<br />

Blachernes. La déposition a lieu le 16 août. C’est le jour de la saint<br />

Diomède, mais surtout celui où l’Église de Constantinople célèbre la<br />

fin miraculeuse du siège de la Ville par les Arabes en 718. Il est <strong>di</strong>fficile<br />

d’y voir une coïncidence : la fête instaurée par Romain Ier redouble et<br />

masque celle qu’avait instaurée l’empereur iconoclaste Léon III l’Isaurien,<br />

et peut-être aussi, Constantinople, ville dé<strong>di</strong>ée à la Vierge, est-elle<br />

placée plus <strong>di</strong>rectement maintenant sous la protection de son fils 100 . Il<br />

96 DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), p. 119**-120**. La question est compliquée, du fait<br />

qu’il existe plusieurs canons pour la fête du mandylion. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), p.<br />

119**, en signale un autre, qui lui est resté inaccessible. V. Grumel, pour sa part,<br />

é<strong>di</strong>te un autre canon, lui aussi ancien, qui est remplacé par un autre à la fin du XI e<br />

s., à la suite de la condamnation de Léon de Chalcédoine (V. GRUMEL, Léon de<br />

Chalcédoine et le canon de la fête du saint man<strong>di</strong>lion, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana 68<br />

[1950] = Mélanges Paul Peeters, II, 135-152). On peut se demander, du canon é<strong>di</strong>té<br />

par Dobschütz (dont Grumel ne tient pas compte) ou de celui é<strong>di</strong>té par Grumel,<br />

quel est le plus ancien. Les marques d’actualité, dans le canon Dobschütz,<br />

abondent. Voir par ex. ode 4, strophe 1 : « Alors que ta sainte empreinte, Sauveur,<br />

a quitté la terre du Levant pour gagner la nôtre, aujourd’hui, le pieux basileus la<br />

reçoit tan<strong>di</strong>s qu’elle approche » (éd. DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 121**, l. 20-24). Nous<br />

sommes sensible aussi au fait que l’auteur du canon sait que la lettre du Christ est<br />

rapportée en même temps que la sainte image: cf. ode V, strophe 1 et 2. Bien que<br />

Dobschütz é<strong>di</strong>te cette hymne d’après les Ménées imprimés, il s’agit certainement<br />

d’un texte ancien.<br />

97 Ode 4, strophe 3, ibid., 121**, l. 28-31.<br />

98 Ode 7, strophe 2, ibid., 123**, l. 1-8.<br />

99 Ibid., 121**, l. 12.<br />

100 PATLAGEAN, cit. (n. 22).<br />

273


274<br />

Bernard Flusin<br />

s’agit du reste à peine d’un changement : les auteurs du canon pour la<br />

fête, dans les théotokia, invoquent in<strong>di</strong>fféremment l’intercession de la<br />

Vierge ou sa protection <strong>di</strong>recte en faveur de Constantinople, qui est, à<br />

leurs yeux, sa ville et son héritage 101 .<br />

Romain Lécapène ne s’est pas contenté de négocier la venue à<br />

Constantinople du mandylion et d’organiser une cérémonie qui, tout en<br />

rappelant ses victoires, montrait qu’il avait su enrichir le trésor des reliques<br />

qui protégeaient la Ville. Il a construit, pour y déposer l’image,<br />

une église spéciale. Sysse Engberg en effet, dans un bel article, a pu<br />

montrer que le mandylion, à son arrivée, n’avait pas été déposé, comme<br />

le <strong>di</strong>t le Récit constantinien, dans l’église du Pharos, mais dans une<br />

autre chapelle palatine 102 . Examinant les témoins anciens du prophètologion,<br />

elle relève que, le 16 août, l’Église de Constantinople célèbre in<strong>di</strong>ssociablement<br />

l’arrivée du saint mandylion et la dé<strong>di</strong>cace de l’église<br />

du Sauveur à la Chalkè. On sait que cette église, qui sera plus tard<br />

agran<strong>di</strong>e par Jean Tzimiskès, est une fondation de Romain Lécapène,<br />

qui l’avait é<strong>di</strong>fiée au-dessus de l’entrée principale du palais impérial, la<br />

Chalkè 103 . Nous savons maintenant qu’en construisant cette chapelle à<br />

cet endroit si particulier, Romain Ier envisageait d’y entreposer le mandylion,<br />

auquel il attribuait un rôle qui lui convenait bien : celui de protecteur<br />

des portes. Et il est probable que la dé<strong>di</strong>cace du Christ de la<br />

Chalkè a eu lieu le jour où l’on y a déposé l’image d’Édesse, le 16 août<br />

944.<br />

101 Pour la demande d’intercession, voir le théotokion de l’ode 4, éd. DOB-<br />

SCHÜTZ, cit. (n. 9), 122**, l. 1-3 : « Toute pure, intercède, nous t’en prions, pour<br />

que ta ville soit conservée intacte à l’abri des attaques barbares » ; pour le secours<br />

<strong>di</strong>rect, théotokion de la 5 e ode, ibid., l. 18-22 : «Arrête, Vierge sainte, les révoltes<br />

incessantes de nos ennemis, anéantis leurs plans. » Les expresssions « ta ville » et<br />

« ton héritage » se lisent ibid., 122**, l. 2 et 21.<br />

102 S. G. ENGBERG, Romanos Lekapenos and the Man<strong>di</strong>lion of Edessa, in J. DU-<br />

RAND - B. FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques du Christ, Paris 2004, 123-142.<br />

103 Voir JANIN, cit. (n. 4), 529-530. La construction de l’église du Sauveur de la<br />

Chalkè est attribuée à Romain l’Ancien par les Patria (éd. T. PREGER, Scriptores<br />

originum Constantinopolitanarum, II, Leipzig 1907, 282). Pour sa reconstruction<br />

par Jean Tzimiskès, voir LÉON LE DIACRE, éd. C. B. HASIUS, Historiae libri decem,<br />

Bonn 1828, 128-129 ; JEAN SKYLITZÈS, éd. J. THURN, Ioannis Scylitzae synopsis<br />

historiarum, Berlin 1973, 311. Pour la <strong>di</strong>sposition des lieux et leur histoire, voir C.<br />

MANGO, The Brazen House. A Study of the Vestibule of the Imperial Palace of<br />

Constantinople, Copenhagen 1959, 149-169.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

C’est donc tout un programme de Romain Lécapène que les documents<br />

liturgiques en particulier permettent de reconstituer, et nous<br />

voyons l’importance qu’il entendait attribuer à cette translation. De ce<br />

programme, et en particulier de la fonction attribuée à l’église de la<br />

Chalkè, il ne reste presque rien, l’année suivante, dans le récit constantinien.<br />

La situation politique, en effet, change vite. Romain Ier, qui met en<br />

scène ses victoires, est renversé quatre mois plus tard par ses fils et par<br />

son gendre, Constantin, qui se débarrasse de ses beaux-frères peu après<br />

et devient seul empereur 104 . L’arrivée de la relique a eu un autre effet<br />

que celui qu’on attendait. Elle a <strong>di</strong>stingué et choisi le véritable empereur,<br />

qu’elle a rétabli, comme le <strong>di</strong>t la prière finale du Récit, sur le trône<br />

de son grand-père et de son père 105 . Sous la plume ou sous la surveillance<br />

de Constantin triomphant, le récit de la translation, dès 945,<br />

se transforme.<br />

Les auteurs du Récit ne passent pas sous silence le rôle qu’a joué Romain<br />

Lécapène. La première fois que celui-ci apparaît dans le texte, une<br />

périphrase semble bien marquer une certaine réticence à lui attribuer le<br />

titre impérial 106 , mais le terme basileus sera cependant employé plusieurs<br />

fois à son propos 107 . Le récit porte au cré<strong>di</strong>t de Romain Ier le zèle<br />

qu’il met à enrichir sa capitale de la précieuse relique 108 , mais on chercherait<br />

vainement un rappel de ses victoires sur les Arabes, à l’exception<br />

de la mention des captifs qu’il propose d’échanger contre l’image<br />

d’Édesse. Il paraît avoir simplement obtenu d’acheter celle-ci, non pas<br />

après une offensive victorieuse de son armée, mais au terme de plusieurs<br />

demandes adressées aux habitants d’Édesse. Le 15 août, il accueille<br />

l’image aux Blachernes, mais le 16, malade et alité, il ne participe<br />

pas à la cérémonie. Les rédacteurs du Récit, contraints de prendre<br />

104 Voir par ex. S. RUNCIMAN, The Emperor Romanus Lecapenus and His Reign.<br />

A Study of Tenth-Century Byzantium, Cambridge 19883 (réimpression de<br />

l’é<strong>di</strong>tion de 1929), 229-237.<br />

105 Récit (B), § 65, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 85**.<br />

106 ÔO th'" ÔRwmaivwn kurieuvwn ajrch'" ÔRwmanov", Récit (B), § 43, DOBSCHÜTZ, cit.<br />

(n. 9), 73**.<br />

107 Récit (B), §§ 45, 46, 54 ; cf. aussi § 57 : éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 75**, l. 4,<br />

13 ; 79**, l. 17 ; 81**, l. 16.<br />

108 Récit (B), § 43, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 43**.<br />

275


276<br />

Bernard Flusin<br />

en compte une réalité historique toute fraîche, n’ont pas frappé Romain<br />

de damnatio memoriae, mais ils l’ont relégué à l’arrière-plan, le montrant<br />

curieusement absent, jusque dans son palais, des cérémonies qu’il<br />

a pourtant organisées. La pointe du texte se trouve maintenant dans la<br />

prophétie placée dans la bouche d’un possédé, miraculeusement<br />

contraint à <strong>di</strong>re la vérité : « ‘Constantinople, <strong>di</strong>sait-il, reprends ta gloire<br />

et ta joie ; et toi, Constantin Porphyrogénète, reprends ton empire !’<br />

Quand ces paroles eurent été prononcées, l’homme fut guéri et délivré<br />

aussitôt de l’attaque du démon. » Toute la cour, nous <strong>di</strong>t-on, avait été le<br />

témoin de cette prophétie, en particulier le parakoimomène Théophane,<br />

le vainqueur des Russes, que Romain Ier avait envoyé jusque sur le<br />

Sangarios accueillir la relique 109 . Traité par l’auteur comme une <strong>di</strong>gression,<br />

cet épisode est porteur du sens nouveau qu’en 945, on attribue à<br />

la translation : le Christ, dans son image sainte, quitte la terre des infidèles<br />

pour retrouver son peuple ; à Constantinople, l’ordre est rétabli,<br />

l’héritier légitime reprenant place paisiblement sur le trône de ses pères.<br />

Pour achever la transformation, il suffira, sur la fin, d’opérer un dernier<br />

changement en composant quelque peu avec la vérité historique : l’image<br />

d’Édesse n’est plus déposée, avec la lettre, dans la chapelle dominant<br />

la Chalkè comme l’avait voulu Romain Lécapène. Elle n’occupe plus<br />

une place insigne, protégeant l’entrée du palais et rappelant trop <strong>di</strong>rectement<br />

le souvenir d’un empereur victorieux, mais elle vient prendre sa<br />

place parmi d’autres reliques, « dans l’église du Pharos 110 , dont nous<br />

avons parlé, dans la partie droite, vers l’est, pour la gloire des fidèles,<br />

pour la garde des empereurs, pour la sûreté de toute la Ville et de tout<br />

l’État des chrétiens 111 ».<br />

On voit quelle est la fonction du Récit constantinien. Si l’empereur<br />

devient hagiographe 112 , ce n’est pas parce qu’il se tient à l’écart du pou-<br />

109 Théophane, peu après, participera à une tentative de restauration de Romain<br />

Lécapène et sera exilé. Son rôle, de ce fait, sera minimisé, ou, au contraire,<br />

dans un curieux manuscrit, mis en valeur : voir DOBSCHÜTZ, Der Kammerherr cit.<br />

(n. 10).<br />

110 Sur cette chapelle du palais, voir P. MAGDALINO, L’église du Phare et les reliques<br />

de la Passion à Constantinople (VII e /VIII e -XIII e siècles), in J. DURAND - B.<br />

FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques du Christ, Paris 2004, 15-30.<br />

111 Récit (B), § 64, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 85**.<br />

112 Voir B. FLUSIN, L’empereur hagiographe, in P. GURAN (éd.), L’empereur ha-


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

voir et partage noblement ses loisirs, ainsi que le <strong>di</strong>t Runciman, entre<br />

l’écriture, la peinture et le vin. L’hagiographie, ici comme dans d’autres<br />

cas 113 , répond sans doute, dans une mesure qu’il est bien <strong>di</strong>fficile d’évaluer,<br />

à un sentiment de piété personnelle. Mais elle est aussi, et surtout,<br />

propagande. Constantin, au début de son règne personnel, veut <strong>di</strong>ffuser<br />

des événements une image bien précise : l’empereur légitime, <strong>di</strong>gne<br />

d’accueillir l’image qui protégera la Ville, ce n’est pas Romain Lécapène,<br />

mais c’est lui.<br />

giographe. Culte des saints et monarchie byzantine et post-byzantine, Bucarest<br />

2001, 29-54.<br />

113 Voir B. FLUSIN, Constantin Porphyrogénète. Discours sur la translation des<br />

reliques de saint Grégoire de Nazianze (BHG 728), Revue des études byzantines 57<br />

(1999) 5-97.<br />

277


FORME E VICENDE DEL MANDILIO DI EDESSA SECONDO<br />

ALCUNE MODERNE INTERPRETAZIONI<br />

ANDREA NICOLOTTI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Ecco <strong>di</strong> nuovo un <strong>di</strong>vin giorno <strong>di</strong> solennità del Signore. Infatti colui che<br />

siede nell’alto dei cieli ci ha ora manifestamente visitati, per mezzo della<br />

sua augusta immagine. Colui che è lassù, invisibile ai Cherubini, vien visto,<br />

attraverso una figura, da coloro ai quali si è fatto somigliante, ineffabilmente<br />

plasmato dall’immacolato <strong>di</strong>to del Padre, a somiglianza propria.<br />

Noi, adorandola con fede e amore, ne riceviamo santificazione 1 .<br />

Mentre il coro intona questo stichērón, intercalando i versetti <strong>di</strong> un<br />

salmo, il clero si muove in processione attraverso la chiesa, incensandone<br />

ogni angolo, dopo che la navata, prima velata dalle tenebre, risplende<br />

illuminata dalle candele appena accese. È il solenne “lucernario”, il<br />

rito centrale del vespro bizantino col quale si celebra il simbolismo cristologico<br />

del passaggio dalla tenebra alla luce; il canto, che ogni 16 <strong>di</strong><br />

agosto si ripete in tutte le chiese che seguono l’antico rito costantinopolitano,<br />

è lo stichērón proprio della festa della santa acheropita <strong>di</strong><br />

Edessa.<br />

Esiste dunque, <strong>di</strong>ce l’innografo, una «augusta immagine», un ritratto<br />

visibile e tangibile, nel quale la figura del Cristo celeste ed incorporeo<br />

è resa palese agli occhi <strong>di</strong> tutti. Una vera “icona” che, in verità, è<br />

andata <strong>di</strong>spersa; ma anche se essa più non esiste, il carattere conservativo<br />

della liturgia orientale non impe<strong>di</strong>sce che la si continui a celebrare.<br />

Ciò che si commemora, peraltro, non è tanto l’immagine stessa quanto<br />

1 E. VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende,<br />

Leipzig 1899, 125**, l. 30 - 126**, l. 5: pavlin despotikh'" pavresti panhguvrew"<br />

qeiva hJmevra. ÔO ga;r ejn uJyivstoi" kaqhvmeno" nu'n hJma'" safw'" ejpeskevyato <strong>di</strong>a; th'"<br />

septh'" aujtou' eijkovno": oJ a[nw toi'" ceroubi;m w]n ajqewvrhto" oJra'tai <strong>di</strong>a; grafh'"<br />

oi|sper wJmoivwtai patro;" ajcravntw/ daktuvlw/, morfwqei;" ajrrhvtw" kaqΔ oJmoivwsin<br />

th;n aujtou', h}n pivstei kai; povqw/ proskunou'nte" aJgiazovmeqa.<br />

279


280<br />

Andrea Nicolotti<br />

un preciso ed irripetibile evento della storia: il 16 agosto dell’anno 944<br />

quest’autentica rappresentazione <strong>di</strong>vina, conosciuta ai più come<br />

Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa, veniva trionfalmente esposta nel palazzo imperiale<br />

della capitale bizantina ed entrava a far parte del tesoro dell’imperatore<br />

2 . Romano I Lecapeno l’aveva fortemente desiderata per sé, e per<br />

poterla trasferire a Costantinopoli l’aveva acquistata a caro prezzo dal<br />

califfo ‛Umar ibn al-Khaṭṭāb che, a quel tempo, governava la città <strong>di</strong><br />

Edessa.<br />

La leggenda che riguardava il Man<strong>di</strong>lio (manduvlion, che in greco<br />

significa ‘fazzoletto’) era da tempo nota in tutto l’impero: per accontentare<br />

Abgar, un antico sovrano edesseno che desiderava vederlo,<br />

Gesù si sarebbe asciugato il volto su un panno, lasciando miracolosamente<br />

impressa su <strong>di</strong> esso l’immagine del proprio viso. E questa “sacra<br />

impronta” inviata al sovrano era <strong>di</strong>venuta al contempo simbolo e<br />

Palla<strong>di</strong>o della città <strong>di</strong> Edessa: una preziosa reliquia che si presentava<br />

come l’unica vera rappresentazione terrena del volto umano un tempo<br />

assunto dal Dio invisibile.<br />

Del “Salvatore acheropita” 3 ben presto furono in circolazione alcune<br />

copie su stoffa, ciascuna delle quali si presentava come quella autentica,<br />

o perlomeno come frutto <strong>di</strong> qualche miracolosa repli ca zione 4 .<br />

Quando Romano mandò a prenderla a Edessa, il vescovo <strong>di</strong> Samosata<br />

Abramio dovette esaminarne tre esemplari conservati in tre <strong>di</strong>verse<br />

chiese della città, e scegliere quella che gli sembrava autentica, scartando<br />

le altre due 5 . Ma <strong>di</strong> essa abbondavano soprattutto le rappresentazioni<br />

pittoriche, che raggiunsero il momento <strong>di</strong> massima fioritura dopo<br />

che il Man<strong>di</strong>lio fu traslato a Costantinopoli: da quel momento, quasi<br />

non vi è chiesa bizantina che non ospiti un affresco del panno acheropita.<br />

La tra<strong>di</strong>zione iconografica orientale, dopo un primo periodo<br />

2 Su questa traslazione A. A. VASILIEV, Byzance et les Arabes, tome 2/1: La<br />

dynastie macédonienne, Bruxelles 1968, 297-303; É. PATLAGEAN, L’entrée de la<br />

Sainte Face d’Édesse à Costantinople en 944, in A. VAUCHEZ (ed.), La religion<br />

civique à l’époque mé<strong>di</strong>évale et moderne (Chrétienté et Islam), Rome 1995, 21-35.<br />

3 È il nome che il Man<strong>di</strong>lio ha assunto tra gli ortodossi slavi: Спас<br />

Нерукотворенный.<br />

4 È quanto era già avvenuto, in ambito pagano, con il Palla<strong>di</strong>o caduto dal<br />

cielo, il cui originale molte città della Grecia pretendevano <strong>di</strong> possedere (si veda il<br />

contributo <strong>di</strong> Lellia Cracco Ruggini in questo stesso volume).<br />

5<br />

CONSTANTINUS VII PORPHYROGENITUS, Narratio de imagine Edessena, 40 e<br />

46-47 (ed. DOBSCHÜTZ, Christusbilder cit., 71** e 75**).


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

caratterizzato da una certa libertà <strong>di</strong> rappresentazione, ha sviluppato e<br />

cristallizzato una tipologia iconografica dell’immagine edessena abbastanza<br />

stabile e ripetitiva. Il man<strong>di</strong>lio, sostanzialmente, viene raffigurato<br />

come un panno <strong>di</strong> stoffa più o meno piccolo, <strong>di</strong> forma rettangolare<br />

o quadrata, <strong>di</strong> colore chiaro, il quale è identificabile dalla presenza <strong>di</strong><br />

tutti o <strong>di</strong> alcuni dei seguenti elementi: frange sui lati; pieghe sulla tela;<br />

bande colorate simmetriche che attraversano il tessuto e sfondo decorato<br />

(solitamente a rombi o losanghe, talora con motivi floreali o cruciformi,<br />

per ricordare l’intreccio dei fili che costituiscono il tessuto o<br />

l’ornamento del damasco). Al centro del panno si staglia l’immagine<br />

del volto <strong>di</strong> Gesù, abitualmente inscritto in un nimbo crocifero con<br />

croce patente, barbato, privo del collo, con gli occhi aperti e senza<br />

segni <strong>di</strong> sofferenza (<strong>di</strong>versamente dalla “Veronica” occidentale, che raffigura<br />

un santo volto straziato). Con queste caratteristiche l’iconografia<br />

del Man<strong>di</strong>lio ha attraversato i secoli ed è giunta fino ad oggi 6 .<br />

Sulla vera natura <strong>di</strong> questo oggetto – o per meglio <strong>di</strong>re sull’archetipo<br />

<strong>di</strong> questo oggetto – in questi ultimi anni è stata avanzata una proposta<br />

interpretativa la quale, pur avendo ottenuto poco cre<strong>di</strong>to da parte <strong>degli</strong><br />

stu<strong>di</strong>osi, ha ottenuto larga <strong>di</strong>ffusione al <strong>di</strong> fuori dell’ambito accademico.<br />

Ad avanzarla è stato lo scrittore inglese Ian Wilson in un libro del<br />

1978 de<strong>di</strong>cato ad un’altra immagine acheropita, quella ultima e più famosa:<br />

la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> 7 . Questo e i successivi contributi del medesimo<br />

autore sull’argomento 8 sono <strong>di</strong>venuti un punto <strong>di</strong> passaggio obbligato<br />

per tutti coloro che si occupano della storia della Sindone: uno<br />

<strong>degli</strong> elementi cruciali fu precisamente la proposta <strong>di</strong> identificare la reliquia<br />

torinese, <strong>di</strong> cui non vi sono testimonianze storiche anteriori al<br />

XIV secolo, con un’altra immagine acheropita, quella edessena, della<br />

quale invece abbiamo notizie almeno a partire dal V-VI secolo. Le due<br />

reliquie, secondo Wilson, sarebbero dunque lo stesso oggetto.<br />

Eppure, anche solo ad un primo sguardo, le <strong>di</strong>fferenze tra i due<br />

<strong>oggetti</strong> sono molte: il Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa era un piccolo asciugamano,<br />

un panno con il quale Gesù si sarebbe asciugato il viso, mentre la<br />

6 Sul modello iconografico consueto si può vedere G. GHARIB, Le icone. Sto -<br />

ria e culto, Roma 1993, 85.<br />

7 I. WILSON, The Shroud of Turin, New York 1978, subito tradotto: ID., Le<br />

Suaire de Turin, Paris 1978.<br />

8 L’ultima sua monografia è I. WILSON, The Shroud. The 2000-Year-Old<br />

Mystery Solved, London 2010.<br />

281


282<br />

Andrea Nicolotti<br />

Sindone è un lino sepolcrale lungo quasi quattro metri e mezzo e largo<br />

più <strong>di</strong> un metro e <strong>di</strong>eci, dal peso complessivo <strong>di</strong> più <strong>di</strong> un chilogrammo;<br />

il Man<strong>di</strong>lio recava l’immagine <strong>di</strong> un volto, mentre la Sindone<br />

mostra la duplice immagine, frontale e posteriore, dell’intero corpo <strong>di</strong><br />

un uomo; il Man<strong>di</strong>lio raffigurava il volto a colori del Cristo vivente,<br />

con gli occhi aperti e senza segni <strong>di</strong> tortura, mentre quello della<br />

Sindone è un cadavere insanguinato, monocromatico, con gli occhi<br />

chiusi e numerose ferite anche sul viso. Nonostante le palesi <strong>di</strong>fferenze,<br />

la pretesa identità fra le due reliquie è stata propagandata da molta<br />

parte dell’e<strong>di</strong>toria e dalla stampa più <strong>di</strong>vulgativa, passando sotto silenzio<br />

o superando le <strong>di</strong>fficoltà grazie ad una serie <strong>di</strong> congetture, talora<br />

davvero molto ar<strong>di</strong>te, e creando nei lettori l’impressione <strong>di</strong> un consenso<br />

storiografico che in realtà non è mai stato raggiunto.<br />

Nel presente contributo, a fronte della molteplicità <strong>degli</strong> argomenti<br />

che potrebbero essere trattati, mi occupo soltanto <strong>di</strong> alcune questioni<br />

particolarmente significative, sufficienti per formarsi un’opinione sul<br />

problema. È l’anticipazione <strong>di</strong> una ricerca molto più ampia, che prelude<br />

alla pubblicazione <strong>di</strong> una monografia interamente de<strong>di</strong>cata alla questione<br />

9 .<br />

1. L’immagine <strong>di</strong> Edessa<br />

Le varie fasi della creazione della leggenda dell’immagine <strong>di</strong> Edessa<br />

sono abbastanza note, e non è il caso <strong>di</strong> riprenderle qui in maniera<br />

approfon<strong>di</strong>ta 10 . Essa nacque, in sostanza, come appen<strong>di</strong>ce alla cosid-<br />

9 Un mio volume sulla storia della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> tra il XIII e il XIV secolo<br />

è fresco <strong>di</strong> stampa: A. NICOLOTTI, I Templari e la Sindone. Storia <strong>di</strong> un falso,<br />

Roma 2011. Seguirà a breve la monografia de<strong>di</strong>cata al Man<strong>di</strong>lio.<br />

10 Sulla storia e le vicende <strong>di</strong> questa acheropita, mi limito a segnalare: E. VON<br />

DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo, trad. ital., Milano 2006, 91-148 (e<strong>di</strong>z. orig.<br />

Christusbilder cit., 102-196); S. RUNCIMAN, Some Remarks on the Image of<br />

Edessa, Cambridge Historical Journal 3/3 (1931) 238-252; A. CAMERON, The<br />

History of the Image of Edessa: The Telling of a Story, Harvard Ukrainian<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 7 (1983) 80-94; EAD., The Mandylion and Byzantine Iconoclasm, in H. L.<br />

KESSLER - G. WOLF (edd.), The Holy Face and the Paradox of Representation,<br />

Bologna 1998, 33-54; H. L. KESSLER, Il mandylion, in G. MORELLO - G. WOLF<br />

(edd.), Il volto <strong>di</strong> Cristo, Milano 2000, 67-76; A. M. LIDOV, Святой Мандилион.<br />

История реликвии, in L. EVSEEVA - A. M. LIDOV - N. N. CHUGREEVA (edd.),<br />

Спас Нерукотворный в русской иконе, Moskva 2005, 12-39; A. N. PALMER, The


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

detta “leggenda <strong>di</strong> Abgar”, la cui prima testimonianza scritta è contenuta<br />

nella Storia ecclesiastica <strong>di</strong> Eusebio <strong>di</strong> Cesarea (311-325 circa).<br />

Secondo questo racconto – che costituisce il più antico tentativo <strong>di</strong><br />

riscrittura della storia dell’evangelizzazione cristiana in Osroene – alla<br />

prima metà del I secolo sulla città <strong>di</strong> Edessa regnava Abgar V Ukkāmā,<br />

il quale era afflitto da una terribile malattia. Avendo u<strong>di</strong>to delle meraviglie<br />

compiute da Gesù <strong>di</strong> Nazaret in Palestina, «gli si rivolse inviando<br />

una lettera tramite un corriere» <strong>di</strong> nome Anania, domandandogli la<br />

guarigione. Gesù non poté accontentarlo, al momento, ma «lo degnò<br />

almeno <strong>di</strong> una lettera personale, promettendogli che gli avrebbe inviato<br />

uno dei suoi <strong>di</strong>scepoli per la guarigione della sua malattia e, al contempo,<br />

per la salvezza sua e <strong>di</strong> tutti i suoi congiunti» 11 . Eusebio allega al<br />

suo racconto una traduzione greca, cavata da un supposto originale<br />

siriaco, sia della lettera <strong>di</strong> Abgar a Gesù, sia della risposta. Il racconto<br />

si conclude con la narrazione <strong>di</strong> quanto avvenne in seguito: la venuta<br />

presso Abgar <strong>di</strong> Taddeo, uno dei Settanta, che dopo averlo risanato si<br />

<strong>di</strong>ede all’evangelizzazione del paese.<br />

La leggenda è dunque attestata nel IV secolo, ma non conosce ancora<br />

l’immagine <strong>di</strong> Cristo <strong>di</strong> cui ci stiamo occupando: quest’ultima compare<br />

soltanto in un testo siriaco più tar<strong>di</strong>vo, risalente al V secolo, conosciuto<br />

come Dottrina <strong>di</strong> Addai 12 . Qui si narra che Anania non era un<br />

corriere, bensì un archivista. Anche in questo caso il contatto tra<br />

Abgar e Gesù si limita ad una corrispondenza epistolare, ma c’è una<br />

novità: «Quando Anania l’archivista vide che Gesù gli aveva parlato in<br />

quel modo, siccome era il pittore del re, prese e <strong>di</strong>pinse l’immagine <strong>di</strong><br />

Gesù con pigmenti scelti e la portò con sé al re Abgar suo sovrano»; e<br />

questi «la accolse con grande gioia e la collocò con grande onore in<br />

una delle stanze del suo palazzo» 13 .<br />

Il testo appena riportato costituisce la prima testimonianza dell’esi-<br />

Logos of the Mandylion: Folktale, or <strong>Sacre</strong>d Narrative?, in L. GREISIGER - C.<br />

RAMMELT - J. TUBACH (edd.), Edessa in hellenistisch-römischer Zeit, Beirut 2009,<br />

117-208.<br />

11 EUSEBIUS CAESARIENSIS, Historia ecclesiastica, I,13,2-5 (ed. E. SCHWARTZ,<br />

Eusebius Kirchengeschichte, Leipzig 1932).<br />

12 Su questo testo cfr. A. DESREUMAUX, Histoire du roi Abgar et de Jésus,<br />

Turnhout 1993; J. GONZÁLEZ NÚÑEZ, La leyenda del rey Abgar y Jesús, Madrid<br />

1995.<br />

13 Doctrina Addai, pp. 4-5 (ed. G. PHILLIPS, The Doctrine of Addai, the<br />

Apostle, London 1876).<br />

283


284<br />

Andrea Nicolotti<br />

stenza <strong>di</strong> un ritratto <strong>di</strong>pinto, nella città <strong>di</strong> Edessa, che raffigurava il<br />

Cristo. Nel VI secolo, però, in un’altra opera siriaca (gli Atti <strong>di</strong> Mar<br />

Mari) la prospettiva cambia ulteriormente: non c’è più l’archivista<br />

Anania, che ha lasciato il posto a un imprecisato numero <strong>di</strong> «abili pittori».<br />

Essi non agiscono più autonomamente perché Abgar stesso, si<br />

<strong>di</strong>ce, aveva or<strong>di</strong>nato loro «<strong>di</strong> pitturare e riportare con un <strong>di</strong>pinto il<br />

volto <strong>di</strong> nostro Signore, affinché egli potesse godere della sua immagine<br />

come se lo avesse incontrato». Così prosegue il racconto:<br />

Andarono dunque i pittori con gli ambasciatori del re, eppure non riuscivano<br />

a pitturare la pittura della venerabile umanità <strong>di</strong> nostro Signore.<br />

Nostro Signore, allora, quando nella conoscenza della sua <strong>di</strong>vinità vide l’amore<br />

<strong>di</strong> Abgar nei suoi confronti, avendo visto che i pittori si affaticavano<br />

per riuscire a pitturare un’immagine per come era, ma non riuscivano,<br />

prese un telo e lo premette sul proprio volto, il vivificatore del mondo, e<br />

[l’immagine] risultò come era 14 .<br />

Ecco dunque una nuova versione della leggenda: il ritratto edesseno<br />

non è più una bella pittura, ma si è trasformato in un’immagine miracolosa,<br />

un’acheropita realizzata da Cristo stesso. Anche lo scrittore<br />

antiocheno Evagrio Scolastico, negli ultimissimi anni del VI secolo,<br />

allude ad una «immagine fatta da Dio, non prodotta da mani d’uomo,<br />

che Cristo Dio ha inviato ad Abgar», e ad essa attribuisce la vittoria<br />

<strong>degli</strong> edesseni durante l’asse<strong>di</strong>o persiano del 544 15 . E pure Giovanni<br />

Damasceno, tra il 730 e il 750, è a conoscenza del miracolo grazie al<br />

quale Cristo imprime la propria immagine su un panno «accostandolo<br />

al volto» 16 .<br />

Le fonti, dunque, attestano chiaramente un lungo processo <strong>di</strong> rielaborazione<br />

<strong>di</strong> una leggenda che nel IV secolo non comprende alcuna<br />

14 Acta Mar Maris, 3:<br />

<br />

(ed. A. HARRAK, The Acts of<br />

Mār Mārī the Apostle, Atlanta 2005).<br />

15<br />

EVAGRIUS SCHOLASTICUS, Historia ecclesiastica, IV, 27 (ed. J. BIDEZ - L.<br />

PARMENTIER, The Ecclesiastical History of Evagrius, London 1898).<br />

16<br />

IOANNES DAMASCENUS, Orationes de imaginibus tres, I,33; anche ID.,<br />

Expositio fidei, 89 (ed. B. KOTTER, Die Schriften des Johannes von Damaskos, voll.<br />

2-3, Berlin 1973-1975).<br />

.<br />

<br />

. : <br />

. <br />

<br />

<br />

.<br />

:


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

immagine, nel V conosce un <strong>di</strong>pinto a colori, e solo a partire dal VI, da<br />

ultimo, una miracolosa immagine acheropita. L’identificazione tra la<br />

Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> e l’immagine edessena – o per meglio <strong>di</strong>re l’immagine<br />

edessena per come è descritta in quest’ultima fase della leggenda –<br />

mostra già ora, in prima istanza, un primo punto <strong>di</strong> debolezza: la genesi<br />

tar<strong>di</strong>va e la cangiante leggendarietà delle descrizioni dell’immagine<br />

edessena impe<strong>di</strong>scono <strong>di</strong> attribuir loro un valore storico. Le de scrizioni<br />

sono incompatibili tra loro, e <strong>di</strong>mostrano l’impossibilità che alla base<br />

dei racconti vi fosse un solo oggetto compatibile con la reliquia tori -<br />

nese. La Sindone, infatti, non ha nulla a che fare con l’antico ritratto<br />

tracciato «con pigmenti scelti», ma neppure è conciliabile con le ca -<br />

ratteristiche dell’acheropita: un’immagine del solo volto <strong>di</strong> Cristo,<br />

proprio quel «volto <strong>di</strong> nostro Signore» che Abgar si attendeva <strong>di</strong> ricevere;<br />

un Cristo vivo e senza segni <strong>di</strong> sofferenza o ferite, perché ancora<br />

ben lungi dall’essere arrestato e torturato dai romani. Sia che questi<br />

testi descrivessero una sola icona conservata a Edessa, sia che si riferissero<br />

ad icone <strong>di</strong>verse – le varie copie in circolazione, oppure le copie <strong>di</strong><br />

rimpiazzo che dovettero sostituire quelle eventualmente <strong>di</strong>sperse du -<br />

ran te le tremende inondazioni della città 17 – nessuno conosceva la Sin -<br />

done.<br />

2. Gli Atti <strong>di</strong> Taddeo<br />

In una data imprecisata fra il 609 e il 944 18 fu composto un racconto,<br />

in lingua greca 19 , che contiene una nuova versione della leggenda<br />

edessena. In essa ricompare la figura del solo Anania, inviato <strong>di</strong> re<br />

Abgar, ma non si fa più parola <strong>di</strong> <strong>di</strong>pinti:<br />

17 Siamo al corrente <strong>di</strong> almeno quattro inondazioni che sommersero la città e i<br />

suoi abitanti, facendo anche crollare le mura, avvenute negli anni 201, 203, 413 e<br />

525: cfr. A. PALMER, Procopius and Edessa, Antiquité tar<strong>di</strong>ve 8 (2000) 129-133.<br />

18 Andrew Palmer (Les Actes de Thaddée, Apocrypha 13 [2002] 63-84) propone<br />

il biennio 629-630.<br />

19 Il testo greco <strong>degli</strong> Atti non ha nulla a che vedere con quello siriaco della<br />

Dottrina <strong>di</strong> Addai; eppure Barbara Frale li confonde sistematicamente, ascrivendo<br />

ad uno frasi ed espressioni tratte dall’altro (B. FRALE, La Sindone e il ritratto <strong>di</strong><br />

Cristo, Città del Vaticano 2010, 79-81, 95, 98, 112).<br />

285


286<br />

Andrea Nicolotti<br />

Abgar aveva or<strong>di</strong>nato ad Anania <strong>di</strong> osservare accuratamente il Cristo, che<br />

apparenza avesse, l’età, i capelli, insomma tutto quanto. Partitosi Anania e<br />

consegnata la lettera, se ne stava fissando intensamente il Cristo, ma non<br />

era in grado <strong>di</strong> afferrarlo. Quando lui, come quegli che conosce i cuori, se<br />

ne accorse, chiese <strong>di</strong> lavarsi. Gli fu dato un tetrá<strong>di</strong>plon e, lavatosi, si asciugò<br />

il viso. Rimasta impressa la sua immagine nel tessuto, lo consegnò ad<br />

Anania […] Dopo aver ricevuto Anania, essersi prostrato e aver adorato<br />

l’immagine […] Abgar fu risanato dalla propria malattia 20 .<br />

Proprio dal termine tetrá<strong>di</strong>plon, che viene adoperato dagli Atti e<br />

ripreso da quei testi che da essi <strong>di</strong>pendono <strong>di</strong>rettamente 21 , è nata la<br />

teoria sindonologica <strong>di</strong> Ian Wilson. Consultando una e<strong>di</strong>zione inglese<br />

<strong>degli</strong> Atti <strong>di</strong> Taddeo, egli notò che il traduttore aveva segnalato in nota<br />

il significato letterale della parola tetrav<strong>di</strong>plon: ‘doubled in four’ 22 .<br />

Tenendo a mente la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, egli architettò una farraginosa<br />

ricostruzione: immaginando <strong>di</strong> piegare in quattro il lenzuolo della<br />

Sindone si potrebbe ottenere, come risultato, un tessuto a strati so vrap -<br />

posti; e sulla superficie esterna, su uno dei sue lati, potrebbero restare<br />

in vista soltanto la testa e una parte del busto dell’uomo su <strong>di</strong> essa raffigurato.<br />

Proprio in questo modo – sostiene Wilson – il tessuto sarebbe<br />

stato conservato nella città <strong>di</strong> Edessa chiuso all’interno <strong>di</strong> un reliquiario,<br />

impedendo ai fedeli <strong>di</strong> apprezzarne il reale contenuto. Ignari del<br />

fatto che le pieghe del lenzuolo nascondessero l’immagine <strong>di</strong> un corpo<br />

20 Acta Thaddaei, 2-4: paraggeivla" tw'/ ΔAnaniva/ oJ ”Abgaro" iJstorh'sai to;n<br />

Cristo;n ajkribw'", poiva" eijdeva" ejstivn, thvn te hJlikivan kai; trivca kai; aJplw'" pavnta.<br />

‘O de; ΔAnaniva" ajpelqw;n kai; dou;" th;n ejpistolh;n h\n ejpimelw'" ajtenivzwn tw'/<br />

Cristw'/, kai; oujk hjduvnato katalabevsqai aujtovn. ‘O de; wJ" kar<strong>di</strong>ognwvsth" gnou;"<br />

h[/thse nivyasqai: kai; ejpedovqh aujtw'/ tetrav<strong>di</strong>plon: kai; niyavmeno" ajpemavxato th;n<br />

o[yin aujtou'. ΔEntupwqeivsh" de; th'" eijkovno" aujtou' ejn th'/ sindovni ejpevdwken tw'/<br />

ΔAnaniva/ ª…º ‘O de; dexavmeno" to;n ΔAnanivan kai; pesw;n kai; proskunhvsa" th;n eijkovna<br />

ª…º oJ ”Abgaro" ijavqh ajpo; th'" novsou aujtou' (ed. R. A. LIPSIUS - M. BONNET,<br />

Acta Apostolorum Apocrypha, vol. 1, Leipzig 1903, 274. Nuova e<strong>di</strong>zione in<br />

PALMER, The Logos of the Mandylion cit., 171-175).<br />

21 Ad esempio una recensione della Narratio de imagine Edessena, poi rimaneggiata<br />

nel Sinassario costantinopolitano: CONSTANTINUS VII PORPHY RO GE -<br />

NITUS, Narratio de imagine Edessena, 5 (A), ed. DOBSCHÜTZ, Christusbilder cit.,<br />

48**, l. 2.<br />

22 A. ROBERTS - J. DONALDSON - A. C. COXE, The Ante-Nicene Fathers. The<br />

Writings of the Fathers Down to A.D. 325, vol. 8, Buffalo 1886, 558: “doubled in<br />

four”.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

intero, ed abituati a vedere solo ciò che il reliquiario permetteva loro <strong>di</strong><br />

scorgere – cioè una piccola superficie della stoffa, quella non nascosta<br />

dalla cornice avente un’apertura circolare al centro – tutti si sarebbero<br />

lasciati ingannare dalle apparenze. Così sarebbe nata la leggenda dell’immagine<br />

edessena la quale – come già visto – conosce <strong>di</strong>pinti o figure<br />

acheropite del solo volto <strong>di</strong> Cristo [Tav. 23 23 ].<br />

La spiegazione è francamente fantasiosa, e costruita a tavolino per<br />

adattare la leggenda <strong>di</strong> Abgar alla realtà <strong>di</strong> un oggetto del tutto <strong>di</strong>verso<br />

da quello che essa descrive. Eppure, complice molta letteratura sulla<br />

Sindone <strong>di</strong> carattere devozionale o solo apparentemente scientifico, a<br />

partire dal 1978 si sono moltiplicati i tentativi <strong>di</strong> accre<strong>di</strong>tare tale ricostruzione,<br />

nonostante le obiezioni. La prima obiezione risiede nel carattere<br />

assolutamente congetturale della teoria, che non ha alcun riscontro<br />

in tutta quanta la tra<strong>di</strong>zione sia sul Man<strong>di</strong>lio, sia sulla Sindone<br />

stessa. La seconda, nell’impossibilità <strong>di</strong> credere che l’autore <strong>degli</strong> Atti<br />

usasse con coscienza il termine tetrav<strong>di</strong>plon nel senso che si pretende,<br />

quando allo stesso tempo descrive l’immagine <strong>di</strong> Edessa in modo del<br />

tutto tra<strong>di</strong>zionale, cioè come un asciugamano coll’immagine <strong>di</strong> un volto;<br />

ed è lo stesso autore che, quando è chiamato a parlare dei teli sepolcrali<br />

<strong>di</strong> Gesù, non li mette in alcuna relazione con l’immagine miracolosa<br />

ed usa, per designarli, una terminologia del tutto <strong>di</strong>fferente 24 . Salta<br />

poi agli occhi quanto sia incompatibile l’evidenza <strong>di</strong> un lenzuolo recante<br />

l’immagine <strong>di</strong> un cadavere rispetto ad un racconto nel quale si parla<br />

<strong>di</strong> un Gesù vivente che imprime la sua immagine asciugandosi il viso<br />

davanti alla folla.<br />

Eppure i sostenitori dell’identità Sindone/Man<strong>di</strong>lio, ipotesi alla quale<br />

ha entusiasticamente aderito un crescente numero <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>osi della<br />

Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, hanno a loro volta escogitato una serie <strong>di</strong> controobiezioni<br />

ancor più congetturali, spesso insostenibili. Imma ginare che i<br />

testi abbiano potuto descrivere il Man<strong>di</strong>lio come un panno per asciugarsi<br />

il viso, pur avendo a mente un lenzuolo tombale, è evidente contrad<strong>di</strong>zione:<br />

si è dunque proposto che gli autori <strong>di</strong> quegli scritti abbiano<br />

mantenuto un deliberato silenzio, inscenando una sorta <strong>di</strong> “pia frode”<br />

o “devoto complotto” perché spinti da preoccupazioni teologiche.<br />

Nell’ambiente edesseno, dove predominavano le idee “monofisite”, i<br />

cristiani avrebbero avuto una concezione del Cristo che ne accettava la<br />

23 Ringrazio Ian Wilson per avermi concesso l’uso <strong>di</strong> questa immagine.<br />

24 Acta Thaddaei, 6, dove parla <strong>di</strong> ejntavfia.<br />

287


288<br />

Andrea Nicolotti<br />

sola natura <strong>di</strong>vina; a motivo <strong>di</strong> ciò, essi avrebbero avuto la tendenza a<br />

nascondere tutti quegli elementi che potessero <strong>di</strong>mostrare l’esistenza in<br />

lui <strong>di</strong> una vera umanità 25 . La Sindone sarebbe stata uno <strong>di</strong> questi elementi,<br />

perché con la sua impronta del cadavere <strong>di</strong> un Gesù ferito e sanguinante<br />

ne avrebbe inevitabilmente mostrato il lato più fragile ed umano.<br />

Ma questa spiegazione – che attribuisce al clero <strong>di</strong> Edessa il deliberato<br />

e colpevole nascon<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> una reliquia, allo scopo <strong>di</strong> favorire<br />

una cristologia erronea che tale reliquia chiaramente sconfessava ai loro<br />

occhi – non solo è ingenerosa nei confronti della cristianità edessena,<br />

ma denota altresì una completa ignoranza dell’ambiente teologico<br />

siro. È infatti ben noto e pacifico da almeno un secolo, perlomeno dopo<br />

i classici stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Joseph Lebon, che il cosiddetto “monofisismo”<br />

edesseno non prevedeva in alcun modo la negazione né della reale<br />

umanità del Cristo né della sua morte cruenta sulla croce 26 . Un nascon<strong>di</strong>mento<br />

del presunto telo funerario <strong>di</strong> Cristo, con le sue ferite sanguinanti<br />

che ne <strong>di</strong>mostravano la piena umanità, non può essere giustificato<br />

con questo argomento.<br />

D’altra parte non è necessario guardare l’intero corpo dell’uomo<br />

della Sindone per capire che si tratta dell’immagine <strong>di</strong> un cadavere ferito:<br />

è sufficiente vederne il solo volto, con quegli occhi chiusi e le numerose<br />

colature <strong>di</strong> sangue che scendono sulla fonte, sul capo e sui capelli<br />

[Tav. 24]. Nonostante quanti, contro ogni evidenza, hanno tentato <strong>di</strong><br />

replicare sostenendo che gli occhi sembrano chiusi ma potrebbero anche<br />

sembrare aperti, e che le macchie <strong>di</strong> sangue potrebbero essere confuse<br />

con ciocche <strong>di</strong> capelli 27 .<br />

Si è poi fatto ricorso ad altre presunte argomentazioni <strong>di</strong>mostrative:<br />

il fatto che certe raffigurazioni iconografiche bizantine abbelliscano lo<br />

sfondo del Man<strong>di</strong>lio con un motivo a rombi decorati, e vi <strong>di</strong>pingano<br />

sui lati una serie <strong>di</strong> frange annodate [Tav. 25 28 ], è stato interpretato<br />

25 Così, tra i tanti, B. FRALE, I Templari e la Sindone <strong>di</strong> Cristo, Bologna 2009,<br />

109.<br />

26 Cfr. J. LEBON, Le monophysisme sévérien, Lovanii 1909; ID., La christologie<br />

du monophysisme syrien, in A. GRILLMEIER - H. BATCH (edd.), Das Konzil von<br />

Chalkedon. Geschichte und Gegenwart, vol. 1, Würzburg 19622 , 425-580.<br />

27 I. WILSON, Le Suaire de Turin, Paris 1978, 160-164; W. BULST - H.<br />

PFEIFFER, Das Turiner Grabtuch und das Christusbild, vol. 1: Das Grabtuch.<br />

Forschungsberichte und Untersuchungen, Knecht 1987, 124.<br />

28 Affresco della chiesa del Salvatore <strong>di</strong> Spas-Nere<strong>di</strong>tsa, dell’anno 1199, presso<br />

Veliky Novgorod.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

come prova dell’esistenza del reliquiario ove la Sindone sarebbe stata<br />

chiusa ripiegata su se stessa: il motivo a rombi sarebbe un reticolato<br />

d’oro che proteggeva la Sindone, e le frange sarebbero in realtà i tiranti<br />

che servivano a fissarla su un supporto ligneo. Le terminazioni allargate<br />

delle frange (i no<strong>di</strong>) non sarebbero altro che la rappresentazione<br />

delle teste dei chio<strong>di</strong> usati per fermarla [Tav. 23]. Eppure sia le frange<br />

sia lo sfondo a reticolato sono attestati altrove – in affreschi, miniature<br />

ed icone – su stoffe che nulla hanno a che vedere con la Sindone o il<br />

Man<strong>di</strong>lio (ad esempio su una delle miniature del Cosma In<strong>di</strong>copleuste,<br />

quella che raffigura le tende del Tabernacolo mosaico [Tav. 26 29 ]); né si<br />

potrebbe <strong>di</strong>re che gli iconografi bizantini abbiano rappresentato sempre<br />

in quel modo le frange e lo sfondo del Man<strong>di</strong>lio, in quanto su altri<br />

<strong>di</strong>pinti le frange non hanno alle estremità alcun allargamento a forma<br />

<strong>di</strong> “chiodo” e spesso sul tessuto non vi è alcuna decorazione né geometrica<br />

né floreale, ma al massimo bande colorate perpen<strong>di</strong>colari [Tav.<br />

27 30 ] che si ritrovano tal quali in molti asciugamani dell’epoca sopravvissuti<br />

fino ai nostri giorni 31 .<br />

La stessa spiegazione del tessuto ‘piegato in quattro’ si presta ad<br />

obiezioni: perché la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> sia piegata fino ad assumere la<br />

forma voluta, quella che lascia visibile solo il volto, le piegature – per<br />

come vengono rappresentate graficamente dagli stessi sostenitori della<br />

teoria – sono evidentemente tre, e non quattro [Tav. 23]. Il risultato<br />

delle piegature è comunque quello <strong>di</strong> otto strati sovrapposti; e poiché<br />

quattro per due fa otto, l’ostacolo è stato superato proponendo <strong>di</strong> tradurre<br />

tetrav<strong>di</strong>plon non più come ‘piegato in quattro’ ma come ‘piegato<br />

quattro volte doppio’. Quale senso può avere un tal genere <strong>di</strong> denominazione,<br />

ove invece <strong>di</strong> <strong>di</strong>re ‘piegato in otto’ si sceglie <strong>di</strong> <strong>di</strong>re ‘piegato<br />

quattro volte doppio’? Trovandosi nella <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> spiegarlo, è stata<br />

escogitata una nuova ipotesi: per un certo periodo la Sindone sarebbe<br />

stata piegata solo due volte, a formare quattro strati sovrapposti, e con<br />

questa “piegatura” probabilmente sarebbe stata fissata a penzoloni sul<br />

labaro dell’imperatore Costantino (anche in questo caso nascosta alla<br />

29 Cod. Laurentianus Me<strong>di</strong>ceus Plutei 9.28, f.109r.<br />

30 Affresco dell’anno 1192 nella chiesa della Panagia tou Arakou <strong>di</strong> Lagou -<br />

dera, sull’isola <strong>di</strong> Cipro.<br />

31 Alcune immagini <strong>di</strong> tessuti antichi con queste bande perpen<strong>di</strong>colari si trovano<br />

in W. F. VOLBACH, I tessuti del Museo Sacro Vaticano, Città del Vaticano 1942.<br />

32<br />

BULST - PFEIFFER, Das Turiner Grabtuch cit., 124.<br />

289


290<br />

Andrea Nicolotti<br />

vista, però, da un altro «telo sfarzoso»). Successivamente, per sfuggire<br />

a Giuliano l’Apostata, sarebbe stata staccata dal labaro, portata a<br />

Edessa e piegata un’altra volta nel mezzo, creando dunque una serie <strong>di</strong><br />

otto strati, che le permettessero <strong>di</strong> entrare e rimanere nascosta in uno<br />

scrigno; <strong>di</strong> qui la <strong>di</strong>citura ‘piegato in quattro per due volte’, che sarebbe<br />

<strong>di</strong>ventata una sorta <strong>di</strong> «parola segreta» che solo certi cristiani, al<br />

corrente dei fatti, potevano capire 32 .<br />

A vanificare questi esercizi <strong>di</strong> fantasia, al <strong>di</strong> là del buon senso, potrà<br />

risultare utile esaminare i risultati <strong>di</strong> una perizia tessile effettuata sulla<br />

Sindone stessa: da essa risulta che «allo scopo <strong>di</strong> proteggere il suo prezioso<br />

contenuto, il telo è stato piegato per lungo con l’immagine all’interno<br />

e ciò è avvenuto, a quanto sembra, fin da un tempo assai lontano»:<br />

una piegatura unica in senso longitu<strong>di</strong>nale, quin<strong>di</strong> – come è d’uso,<br />

ancor oggi, quando si piegano le lenzuola – la quale attraversa l’immagine<br />

nel mezzo. E questo è incompatibile con quanto si vuole <strong>di</strong>mostrare.<br />

Mancano poi, sul lato della Sindone in cui vi è l’immagine, «zone<br />

sporche che starebbero ad in<strong>di</strong>care che una certa parte del telo è stata<br />

mostrata temporaneamente incorniciata da un passepartout o qualcosa<br />

<strong>di</strong> simile», ed anche questo particolare esclude la teoria della<br />

Sindone ripiegata in un reliquiario che ne lasciava esposta verso l’esterno<br />

solo la parte recante l’impronta del volto 33 . Quel reliquiario la cui<br />

apertura, secondo quell’interpretazione, sarebbe stata circolare e sarebbe<br />

all’origine, su tutte le icone, del nimbo che circonda la testa del<br />

Cristo acheropita.<br />

Resta ancora da spiegare il significato dell’aggettivo/sostantivo<br />

tetrav<strong>di</strong>plon, per il quale non sembra esserci altra attestazione anteriore<br />

a quelle legate al Man<strong>di</strong>lio. Sulla base <strong>di</strong> quali elementi si può <strong>di</strong>re<br />

che la traduzione ‘piegato in quattro’ debba essere scartata in favore <strong>di</strong><br />

‘piegato quattro volte doppio’? Se <strong>di</strong>plov" significa ‘doppio’ o ‘piegato<br />

due volte’, tetrav<strong>di</strong>plo" dovrà significare ‘piegato due per quattro<br />

volte’? I sostenitori della teoria del Wilson lo affermano, scomponendo<br />

la parola come tetrav-<strong>di</strong>-plo" e attribuendo al <strong>di</strong> un valore raddoppiativo<br />

– la qual cosa la renderebbe <strong>di</strong>stinta da tetra-plov" 34 . Ma sono pro-<br />

33 M. FLURY-LEMBERG, Sindone 2002. L’intervento conservativo, <strong>Torino</strong> 2003,<br />

39. 34 Ai nomi già elencati si può aggiungere K. DIETZ, Some Hypotheses Con -<br />

cerning the Early History of the Turin Shroud, Sindon 16 (2001) 17.<br />

35 D. DĒMĒTRAKOS, Mevga lexikovn ovlh" th" ellhnikhv" glwvssh", vol. 14, Athē?


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

prio i lessici della lingua greca a considerare tetrav<strong>di</strong>plo" come sinonimo<br />

<strong>di</strong> tetraplov", ed essi stessi lo definiscono come «ciò che è piegato<br />

quattro volte, ciò che ha quattro pieghe, pliche» oppure che è «quadruplice<br />

o quadruplo» 35 , laddove il suffisso -<strong>di</strong>plo" negli aggettivi composti<br />

«<strong>di</strong>chiara che la cosa determinata è piegata in tante parti quante ne<br />

esprime il numerale car<strong>di</strong>nale che fa da prefisso» 36 . Risultano dunque<br />

assai più corrette le traduzioni consuete: ‘piegato in quattro’, oppure<br />

‘composto <strong>di</strong> quattro strati’, ‘<strong>di</strong> quattro pieghe’, o ad<strong>di</strong>rittura ‘con<br />

quattro angoli’, ‘quadrato’ 37 . Anche la tra<strong>di</strong>zione religiosa greca<br />

moderna conferma quest’interpretazione: per Nicodemo l’Aghiorita,<br />

la cui parafrasi del Sinassario è nota in tutto il mondo greco-ortodosso,<br />

quello che fu dato a Gesù per asciugarsi fu «un panno piegato in<br />

quattro pieghe (panivon <strong>di</strong>plwmevnon me; tevssara" <strong>di</strong>vpla")» con il quale<br />

«si deterse il proprio <strong>di</strong>vino e intemerato volto» 38 .<br />

Andrew Palmer fornisce una chiave <strong>di</strong> lettura promettente: nell’ambiente<br />

<strong>di</strong> lingua siriaca che aveva dato origine alla ‘quadruplice’ armonia<br />

evangelica <strong>di</strong> Taziano (<strong>di</strong>a; tessavrwn), il ritratto <strong>di</strong> Cristo costituirebbe<br />

una sorta <strong>di</strong> parallelo “vangelo dell’immagine”. Ma convince<br />

ancor più il richiamo al Libro dell’Esodo (28,16 e 39,9) ove il pettorale<br />

<strong>di</strong> lino indossato dal Sommo Sacerdote è descritto come ‘quadrato’<br />

([:Wbr", tetravgwnon nei LXX) e ‘doppiato’ (lWpK", <strong>di</strong>plou'n): una specie <strong>di</strong><br />

sacca <strong>di</strong> stoffa dentro alle cui pieghe erano conservati gli strumenti <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>vinazione 39 . Il termine tetrav<strong>di</strong>plon tra<strong>di</strong>rebbe dunque un’origine<br />

siriaca, forse veterostestamentaria, il che spiegherebbe il motivo per cui<br />

in greco il termine fosse così raro e sia stato spesso soppiantato da<br />

qualcos’altro.<br />

nai 1964, 7169; cfr. P. DRANDAKĒS (ed.), Megavlh Ellhnikhv Egkuklopaivdeia, vol.<br />

22, Athēnai 1929, 901; A. THUMB, Handbuch der neugriechischen Volkssprache,<br />

Strassburg 1910, 78.<br />

36<br />

INSTITOUTO NEOELLĒNIKŌN SPOUDŌN (ed.), Lexikov th" koinhv"<br />

neoellhnikhv", Athēnai 1998, sub voce.<br />

37 Cfr. M. ILLERT, Die Abgarlegende. Das Christusbild von Edessa, Turnhout<br />

2007, 68, nota 286; P. A. GRAMAGLIA, Giovanni Skylitzes, il panno <strong>di</strong> Edessa e le<br />

“sindoni”, Approfon<strong>di</strong>mento Sindone 1/2 (1997) 8.<br />

38<br />

NIKODĒMOS AGIOREITĒS, Sunaxaristhv" tw'n dwvdeka mhnw'n, vol. 3, Venezia<br />

1819, 265.<br />

39<br />

PALMER, The Logos of the Mandylion cit., 205.<br />

40 P. L. BAIMA BOLLONE, Sindone, storia e scienza, Ivrea 2010, 53.<br />

291


3. Gregorio il Referendario<br />

292<br />

Andrea Nicolotti<br />

I testi che descrivono l’immagine edessena e il suo reliquiario, il cui<br />

significato è stato forzato allo scopo <strong>di</strong> renderlo compatibile con la teoria<br />

sindonologica, sono molti; ma ve n’è uno in particolare che viene<br />

costantemente citato come prova, «al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ogni ragionevole dubbio»,<br />

che «l’immagine <strong>di</strong> Edessa non recava soltanto l’immagine del<br />

volto visibile attraverso l’apertura del contenitore, ma che all’interno si<br />

trovavano ripiegate le altre parti <strong>di</strong> quello che è un lenzuolo su cui si<br />

rileva l’impronta dell’intero cadavere» 40 : un lenzuolo che, secondo quel<br />

testo, <strong>di</strong>mostrerebbe un evidente «carattere funebre» 41 . Eppure mai si<br />

parla <strong>di</strong> lenzuola funebri o <strong>di</strong> immagini intere e teli ripiegati in questa<br />

omelia che un certo Gregorio «arci<strong>di</strong>acono e referendario della grande<br />

chiesa <strong>di</strong> Costantinopoli» pronunciò in occasione della traslazione dell’immagine<br />

acheropita da Edessa a Constantinopoli 42 . Uno scritto che<br />

è testimone dell’ennesima evoluzione della leggenda edessena: il panno<br />

<strong>di</strong> Anania, secondo Gregorio, non è più la pezzuola con cui Gesù si<br />

asterge il viso appena lavato con l’acqua, bensì un asciugamano che gli<br />

serve per detergere quei sudori misti a sangue che, secondo il Vangelo<br />

<strong>di</strong> Luca, rigavano il suo viso nell’orto dei Getzemani (Lc 22,44).<br />

Nella sua omelia Gregorio allestisce attorno al panno acheropita<br />

edesseno un complesso <strong>di</strong>scorso allegorico, ricco <strong>di</strong> riman<strong>di</strong> biblici,<br />

considerazioni teologiche e reminiscenze patristiche. Egli paragona la<br />

traslazione del Man<strong>di</strong>lio all’uscita <strong>degli</strong> Ebrei dall’Egitto, o al ritorno<br />

in Gerusalemme dell’arca dell’alleanza sottratta ai Filistei; lo fa applicando<br />

all’argomento un’esegesi <strong>di</strong> contemplazione spirituale che egli<br />

stesso definisce qewriva, ove la lettura delle Scritture non si arresta al<br />

senso letterale ed imme<strong>di</strong>ato dei testi 43 . Volendo <strong>di</strong>stinguerla dai comuni<br />

ritratti, <strong>di</strong>pinti dagli uomini, il Referendario esalta l’immagine acheropita<br />

che<br />

si è impressa grazie ai soli sudori dell’agonia del volto vivificante, stillati<br />

41 I. RAMELLI, Dal Man<strong>di</strong>lion <strong>di</strong> Edessa alla Sindone: alcune note sulle testimonianze<br />

antiche, Ilu. Revista de ciencias de las religiones 4 (1999) 180.<br />

42 Ed. A. M. DUBARLE, L’homélie de Grégoire le Référendaire pour la réception<br />

de l’image d’Édesse, Revue des études byzantines 55 (1997) 5-51.<br />

43 Cfr. P. TARNANT, La qewriva d’Antioche dans le cadre des sens de l’Écriture,<br />

Biblica 34 (1953) 135-158; 354-383; 354-383; 456-486.<br />

44 GREGORIUS REFERENDARIUS, Homilia, 26: ejnagwnivoi" iJdrw'si proswvpou


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

come gocce <strong>di</strong> sangue, e grazie al <strong>di</strong>to <strong>di</strong> Dio. Sono queste le bellezze che<br />

hanno dato colore alla reale impronta <strong>di</strong> Cristo, perché anche ciò da cui<br />

vennero stillate è stato adornato dai goccioli del suo stesso costato.<br />

Entrambi sono carichi <strong>di</strong> dottrina: là sangue ed acqua, qui sudore e figura.<br />

Oh, quale uguaglianza <strong>di</strong> circostanze! Queste cose, infatti, [provengono] da<br />

uno solo e [sono] <strong>di</strong> uno solo 44 .<br />

Il sudore misto a sangue che il Cristo sofferente ai Getzemani si deterse<br />

nel panno, grazie all’intervento del «<strong>di</strong>to <strong>di</strong> Dio», cioè della sua<br />

potenza (cfr. Ex 8,5), ha dato origine alla miracolosa impressione dell’immagine<br />

sul Man<strong>di</strong>lio. Similmente anche il corpo <strong>di</strong> Cristo sulla croce,<br />

come già il panno <strong>di</strong> Abgar, è stato adornato dall’acqua mista a sangue<br />

proveniente dalla ferita del proprio costato. Entrambi gli <strong>oggetti</strong> –<br />

il corpo <strong>di</strong> Cristo ed il panno – sono stati dunque impreziositi dal sangue,<br />

in entrambi i casi proveniente «da uno solo», il medesimo Signore;<br />

ma nel primo caso ciò è avvenuto grazie ad un intervento soprannaturale,<br />

nel secondo, invece, per effetto naturale. Gregorio invita a contemplare<br />

le due <strong>di</strong>stinte effusioni <strong>di</strong> sangue, originate in due momenti <strong>di</strong>versi<br />

della passione. È Cristo la sorgente <strong>di</strong> entrambe: il suo volto stilla<br />

sudore misto a sangue, il suo costato trafitto getta sangue misto ad acqua.<br />

L’impronta miracolosa <strong>di</strong> Edessa – prosegue il racconto – è al<br />

contempo umana e <strong>di</strong>vina, perché «realtà straor<strong>di</strong>naria, sovrumana»<br />

ma anche «circoscritta, a misura d’uomo», visibile ed apprezzabile nei<br />

suoi contorni. Nel lasciare l’impronta del proprio volto, infatti, Cristo<br />

si è servito del proprio sudore, prodotto della natura umana che si è degnato<br />

<strong>di</strong> assumere: ha così miracolosamente trasferito «l’archetipo» (il<br />

suo volto) «sulla similitu<strong>di</strong>ne» (l’immagine sul panno).<br />

Nulla <strong>di</strong> nuovo, in sostanza: ma il fatto che l’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Gesù che si<br />

asciuga il viso sia stato collocato nei giorni della sua passione, permette<br />

a Gregorio <strong>di</strong> costruire un’allegoria tra il sudore misto a sangue dei<br />

Getzemani e l’acqua mista a sangue del Golgota. Eppure una <strong>di</strong>versa<br />

zwarcikou', toi'" wJsei; qrovmboi katastalavxasin ai{mato" ejntetuvpwtai, kai; daktuvlw/<br />

qeou'. Au|tai to; ejkmagei'on o[ntw" Cristou' aiJ crwmatourghvsasai<br />

wJraiovthte", o{ti kai; to; ajfæ ou| katestalavcqhsan, rJanivsi pleura'" ij<strong>di</strong>va" ejgkekallwvpistai.<br />

”Amfw dogmavtwn mestav: ai|ma kai; u{dwr ejkei' ejntau'qa iJdrw;" kai; morfhv.<br />

‘W pragmavtwn ijsovthto", ejk tou' eJno;" ga;r tau'ta kai; tou' aujtou'. Ringrazio Gino<br />

Zaninotto e Valerio Polidori per avermi procurato due fotografie del manoscritto.<br />

45 Cfr. G. ZANINOTTO, Orazione <strong>di</strong> Gregorio il Referendario in occasione della<br />

traslazione a Costantinopoli dell’immagine edessena nell’anno 944, in S. RODANTE<br />

293


294<br />

Andrea Nicolotti<br />

interpretazione <strong>di</strong> alcune parole del Referendario ha fornito a Gino<br />

Zaninotto ed André-Marie Dubarle, seguiti da molti altri, l’occasione<br />

per sostenere l’identità tra il panno edesseno qui descritto e la Sindone<br />

<strong>di</strong> <strong>Torino</strong>. Dove il testo <strong>di</strong>ce «sono queste le bellezze che hanno dato<br />

colore alla reale impronta <strong>di</strong> Cristo, perché anche ciò da cui vennero<br />

stillate (to; ajfΔ ou| katestalavcqhsan) è stato adornato dai goccioli del<br />

suo stesso costato», essi hanno proposto <strong>di</strong> tradurre in questo modo:<br />

«perché anch’essa [cioè l’impronta], dopo che esse vennero stillate, è<br />

stata adornata dalle gocce del suo stesso costato», come se Gregorio<br />

avesse voluto descrivere un lenzuolo con un’immagine bagnata dal sangue<br />

del fianco <strong>di</strong> Cristo» 45 . L’argo menta zione, per usare le parole <strong>di</strong><br />

Bernard Flusin, è «mal fondata» 46 . Ma soprattutto la traduzione è<br />

insostenibile: al posto del tov che Zaninotto e Dubarle riferiscono ad<br />

ejkmagei'on, ci dovremmo aspettare un tou'to, un tovde o un aujtov; e l’espressione<br />

ajfΔ ou| (‘da cui’) in quel contesto e in quella posizione non<br />

lascia pensare ad un ‘dopo che’. Anche un sindonologo come Mark<br />

Guscin, dopo avervi inizialmente aderito, ha rigettato questa forzata<br />

traduzione 47 .<br />

Essa, peraltro, <strong>di</strong>strugge quella ben calibrata «associazione contemplativa<br />

<strong>di</strong> due episo<strong>di</strong> ed immagini <strong>di</strong>verse» compiuta da Gregorio 48 :<br />

da una parte, cioè «là» (ejkei'), il corpo <strong>di</strong> Cristo macchiato dal sangue<br />

e dall’acqua fuoriuscite dal costato; dall’altra, cioè «qui» (ejntau'qa), il<br />

panno che ne raffigura i lineamenti, col suo sudore misto a sangue e la<br />

(ed.), La Sindone. Indagini scientifiche, Cinisello Balsamo 1988, 349; DUBARLE,<br />

L’homélie de Grégoire cit., 28.<br />

46 B. FLUSIN, Didascalie de Constantin Stilbès sur le mandylion et la sainte tuile<br />

(BHG 796m), Revue des études byzantines 55 (1997) 58. L’articolo <strong>di</strong> Flusin<br />

compare imme<strong>di</strong>atamente dopo l’e<strong>di</strong>zione del testo del Referendario pubblicato<br />

da Dubarle, nella medesima rivista.<br />

47 M. GUSCIN, The Image of Edessa, Leiden 2009, 85. Anche Emmanuel<br />

Poulle fa altrettanto, e rifiuta l’idea che il Man<strong>di</strong>lio e la Sindone siano la stessa<br />

cosa. Ma subito dopo – quasi a far rientrare dalla finestra ciò che è stato appena<br />

cacciato dalla porta – recupera la reliquia torinese ipotizzando che anch’essa si<br />

trovasse a Costantinopoli, e che il Referendario vi stia facendo implicito riferimento<br />

con le sue parole, pur senza menzionarla (Les sources de l’histoire du linceul<br />

de Turin, Revue d’histoire ecclésiastique 104/3-4 [2009] 765 e 754-755).<br />

48 P. A. GRAMAGLIA, Ancora la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, Rivista <strong>di</strong> storia e letteratura<br />

religiosa 27 (1991) 112.<br />

49 In questo stesso volume Bernard Flusin descrive la forma e le caratteristiche<br />

del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> cui parla la Narratio de imagine Edessena. Eppure anche in quel


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

forma impressa dal contatto col suo viso. Non ha quin<strong>di</strong> senso la contrapposizione,<br />

che è stata tentata, tra due zone della Sindone: «là» –<br />

cioè all’altezza del costato – sangue ed acqua, «qui» – all’altezza del<br />

volto – sudore e immagine, quasi come se Gregorio avesse davanti a sé<br />

una Sindone <strong>di</strong>stesa e ne in<strong>di</strong>casse, con il <strong>di</strong>to, due punti <strong>di</strong>stanti tra<br />

loro pochi centimetri. Contrapposizione poco evidente, ma anche inefficace:<br />

quando il Referendario descrive il Man<strong>di</strong>lio come impresso <strong>di</strong><br />

«sudore e figura» e lo contrappone al corpo del crocifisso che cola<br />

«sangue ed acqua», lo fa a buon <strong>di</strong>ritto; ma se volesse parlare <strong>di</strong> due<br />

punti della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, come potrebbe fare altrettanto? Tutta la<br />

Sindone è piena <strong>di</strong> sangue, e tutto il sangue sgorga dall’immagine,<br />

all’altezza del volto come all’altezza del costato: quale sarebbe la contrapposizione,<br />

quale sarebbe la <strong>di</strong>fferenza tra i due punti sul lenzuolo?<br />

C’è però molto <strong>di</strong> più. I sostenitori della teoria sindonologica omettono<br />

quasi regolarmente <strong>di</strong> fornire un quadro complessivo dei testi che<br />

adoperano, essendo adusi ad estrapolare brevi frammenti dalle fonti<br />

per corroborare la propria teoria 49 . È anche il caso dell’omelia del<br />

Referendario, che in più occasioni aveva descritto a chiare lettere la<br />

natura del Man <strong>di</strong>lio a cui essa è de<strong>di</strong>cata. Ecco ad esempio come<br />

Taddeo, secondo Gregorio, si rivolge a re Abgar per narrargli come l’acheropita<br />

si era formata:<br />

Quando Anania, al quale affidaste le lettere, <strong>di</strong>sse a viva voce che tu, oltre<br />

alla salute, aspiravi anche a vedere la rassomiglianza del suo volto visibile,<br />

[Gesù] lo esortò ad affrettarsi verso <strong>di</strong> te con la sua lettera […] Ed egli,<br />

quando era in angoscia per la propria volontaria passione, […] prendendo<br />

questo lino si deterse i sudori che, essendo angosciato, il suo volto aveva<br />

fatto colare come gocce <strong>di</strong> sangue. E subito, in modo sorprendente, come<br />

egli dal nulla aveva portato all’esistenza l’universo con la potenza della<br />

<strong>di</strong>vinità, così si rappresentò nel lino lo splendore della sua figura 50 .<br />

Il racconto è tra<strong>di</strong>zionale: Abgar vuole un ritratto del volto <strong>di</strong> Gesù,<br />

caso, secondo quei medesimi autori, si parlerebbe della Sindone.<br />

50 GREGORIUS REFERENDARIUS, Homilia, 11: ΔAnanivou w|/ ta;" ejpistola;" ejpisteuvsate<br />

zwvsh/ fonh'/ eijpovnto" meta; th'" uJgeiva" glivcesqaiv se ijdei'n kai; tou'<br />

oJrwmevnou proswvpou aujtou' th;n ejmfevreian, to;n me;n fqavsai pro;" se; proetrevyato<br />

meta; th'" ejpistolh'" aujtou' ª…º oJ dev, hJnivka pro;" to; eJkouvsion pavqo" aujtou' ajgwniw'n<br />

ª…º tauvth" th'" ojqovnh" labovmeno" ajnemavxato ou{“ ajgwniw'nto" wJsei; qrovmbou"<br />

ai{mato" iJdrw'ta" to; provswpon aujtou' ejpestavlassen. Kai; paradovxw" eujquv",<br />

w{sper ejk tou' mh; o[nto" oujsivwse qeovthto" ijscuvi> to; pa'n, ou{tw" ajnetupwvsato ejn th'/<br />

ojqovnh/ to; ajpauvgasma th'" morfh'" aujtou'.<br />

295


296<br />

Andrea Nicolotti<br />

e Gesù lo accontenta, imprimendo il proprio viso su un panno sul<br />

quale si asciuga il sudore. Quando Taddeo si incammina per consegnarlo<br />

ad Abgar, pone il volto acheropita al <strong>di</strong> sopra del proprio volto:<br />

egli desiderava che lo splendore che quel volto santo irraggiava potesse<br />

oscurare il proprio, in modo da mostrare ad Abgar «lo splendore del<br />

volto <strong>di</strong> colui che cercava». Senza lasciarsi fuorviare dalla vista <strong>di</strong><br />

Taddeo, Abgar avrebbe potuto – lo <strong>di</strong>ce Taddeo stesso – ascrivere questa<br />

luce «non al mio [volto], bensì a quello posto al <strong>di</strong> sopra [del<br />

mio]» 51 . E non si parla d’altro che <strong>di</strong> volti.<br />

In un altro punto, Gregorio il Referendario desidera contrapporre<br />

la particolarità inimitabile dell’immagine acheropita, che non è fatta <strong>di</strong><br />

pigmenti, a qualunque altra raffigurazione pittorica umana. Per farlo,<br />

descrive i colori che i pittori <strong>di</strong> icone adoperano per rappresentare le<br />

varie parti del volto: e menziona guance, labbra, barba, ciglia, occhi,<br />

orecchie, naso, mento e capelli. Non fa riferimento a nessun’altra parte<br />

del corpo umano, come è ovvio: egli sta istituendo un parallelismo fra<br />

due ritratti entrambi raffiguranti nient’altro che un volto. Sarebbe stato<br />

inutile, quin<strong>di</strong>, parlar d’altro.<br />

È dunque lapalissiano: il panno raffigurava un volto, e poteva stare<br />

comodamente <strong>di</strong>steso sul viso <strong>di</strong> Taddeo che camminava verso Edessa<br />

(cosa <strong>di</strong>fficile ad immaginarsi per un lenzuolo <strong>di</strong> quattro metri). E<br />

durante l’asse<strong>di</strong>o della città anche il metropolita Eulalio poté scacciare<br />

i nemici «mettendo tra le sue palme il lino nel quale aveva preso forma<br />

l’immagine non fatta da mani d’uomo» camminando con esso «sulla<br />

sommità delle mura sotto gli occhi dei citta<strong>di</strong>ni» 52 .<br />

Impossibile pretendere che il medesimo autore nella medesima<br />

opera abbia parlato dell’immagine edessena come ritratto del volto <strong>di</strong><br />

Cristo impresso su un asciugamano ai Getzemani, per poi alludere ad<br />

essa, poche righe dopo, avendo in mente un lenzuolo funebre con l’impronta<br />

<strong>di</strong> un cadavere. Se davvero avesse avuto per le mani una<br />

Sindone sepolcrale <strong>di</strong>stesa, con la doppia immagine <strong>di</strong> un corpo intero,<br />

Gregorio non avrebbe potuto esprimersi in quei termini per tutto il<br />

resto della sua opera 53 . Davanti a quest’evidenza appaiono in tutta la<br />

loro fragilità gli acrobatici tentativi <strong>di</strong> aggirare l’insormontabile osta-<br />

51 GREGORIUS REFERENDARIUS, Homilia, 13.<br />

52 GREGORIUS REFERENDARIUS, Homilia, 14.<br />

53 Eppure qualcuno sembra non percepire nemmeno questa stridente contrad<strong>di</strong>zione:<br />

ZANINOTTO, Orazione <strong>di</strong> Gregorio cit., 345; RAMELLI, Dal Man<strong>di</strong>lion <strong>di</strong><br />

E dessa cit., 181.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

colo: si è provato a sostenere che lo stesso lenzuolo sia stato usato in<br />

occasioni <strong>di</strong>verse e con funzioni <strong>di</strong>fferenti, prima nell’Orto <strong>degli</strong> Ulivi<br />

per detergere il sudore <strong>di</strong> Gesù (Sindone-asciugamano) per poi essere<br />

riutilizzato, da parte <strong>di</strong> Giuseppe d’Arimatea, per avvolgerne il corpo<br />

morto (Sindone-sudario), ed infine finire nelle mani <strong>di</strong> Taddeo e quin<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong> Abgar (Sindone-acheropita). Stupisce, oltre alla fantasia, la leggerezza<br />

con la quale viene trattata la leggenda edessena, quasi fosse un<br />

testo storicamente atten<strong>di</strong>bile. Oppure si è congetturato che Gregorio il<br />

Referendario abbia fatto un po’ <strong>di</strong> confusione perché avrebbe avuto<br />

<strong>di</strong>nanzi agli occhi, a Costantinopoli, la Sindone parzialmente <strong>di</strong>spiegata<br />

ma non completamente <strong>di</strong>stesa, e quin<strong>di</strong> avrebbe visto il costato<br />

insanguinato senza capire che oltre al costato c’era anche tutto il resto<br />

del corpo (!). O ancora, egli avrebbe visto la Sindone per intero comprendendo<br />

d’un tratto la sua vera natura, fino a quel momento occulta,<br />

ma ne avrebbe taciuto la vera identità per non dare scandalo (!),<br />

concedendosi solo qualche nebulosa allusione 54 .<br />

Questo modo <strong>di</strong> procedere ben mostra quali siano i meto<strong>di</strong> esegetici<br />

messi in atto dai sostenitori della teoria proposta dal Wilson, il cui<br />

risultato consiste nell’accumulazione, operata senza spirito critico, <strong>di</strong><br />

qualunque documento possa servire a <strong>di</strong>mostrare l’antichità e l’autenticità<br />

della reliquia a loro tanto cara.<br />

4. Il co<strong>di</strong>ce Scilitze<br />

A Madrid è conservato un bellissimo co<strong>di</strong>ce illustrato contenente il<br />

testo della sinossi della Storia <strong>di</strong> Giovanni Scilitze (tardo XI secolo) 55 .<br />

È con ogni probabilità un prodotto dello scriptorium del monastero <strong>di</strong><br />

San Salvatore a Messina; Vasiliki Tsamakda, però, ha convincentemente<br />

<strong>di</strong>mostrato che le miniature del co<strong>di</strong>ce costituiscono una copia <strong>di</strong><br />

54 DUBARLE, L’homélie de Grégoire le Référendaire cit., 12 ; ID., L’omelia <strong>di</strong><br />

Gre gorio il Referendario e il lenzuolo <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, Collegamento pro Sindone (mar -<br />

zo-aprile 1992) 45, 49 e 51.<br />

55 Madrid, Biblioteca Nacional, cod. Vitr/26/2 (gr. 347, olim N-2), f. 131r. Fac<br />

simile del manoscritto: Ioannes Scylitza, Synopsis historiarum incipiens a Nice -<br />

phori imperatoris a genicis obitu ad Isacii Commeni imperium, Athens 2000.<br />

56 Cfr. le conclusioni <strong>di</strong> V. TSAMAKDA, The Illustrated Chronicle of Ioannes<br />

Skylitzes in Madrid, Leiden 2002, 394-397.<br />

297


298<br />

Andrea Nicolotti<br />

cronache illustrate già esistenti, anteriori al XIII secolo 56 . Tra le varie<br />

miniature ve ne sarebbe una che rappresenta proprio la consegna del<br />

Man<strong>di</strong>lio all’imperatore da parte <strong>di</strong> Gregorio il Referendario. Così,<br />

almeno, <strong>di</strong>chiara Barbara Frale:<br />

Una splen<strong>di</strong>da miniatura bizantina trecentesca raffigura l’arrivo del Man -<br />

<strong>di</strong>lio a Costantinopoli, e l’imperatore Costantino VII riceve da Gregorio il<br />

Referendario non un semplice asciugamano, bensì un telo molto lungo<br />

dove si staglia l’immagine del Santo Volto 57 .<br />

Nessuna <strong>di</strong> queste informazioni, però, corrisponde a verità. Occorre<br />

innanzitutto osservare che nella miniatura menzionata – che è riprodotta<br />

nella copertina <strong>di</strong> questo libro – l’imperatore che riceve la reliquia<br />

non è Costantino VII, ma Romano I Lecapeno; l’immagine si trova<br />

infatti in quella parte del manoscritto che descrive i fatti avvenuti sotto<br />

il regno <strong>di</strong> Romano I (fogli 127-131). I personaggi <strong>di</strong>segnati si trovano<br />

all’interno <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio a volte: quasi sicuramente è il santuario<br />

costantinopolitano <strong>di</strong> Santa Maria delle Blacherne, ove sappiamo che<br />

l’icona edessena giunse la sera del 15 agosto 944. Alle spalle dell’imperatore<br />

sono raffigurati i suoi tre figli, cioè il patriarca Teofilatto,<br />

Stefano e Costantino.<br />

Gregorio il Referendario, <strong>di</strong>fferentemente da quanto affermato,<br />

nella miniatura non compare: l’uomo che offre il Man<strong>di</strong>lio a Romano<br />

è infatti il cubicularius Teofane 58 , colui che era stato inviato da Ro -<br />

mano stesso a riceverla sul fiume Sangario 59 . Lo <strong>di</strong>ce lo stesso Gio -<br />

vanni Scilitze, nel testo che affianca la miniatura: «La <strong>di</strong>vina raffigurazione<br />

fu consegnata e portata nella città imperiale; essa fu accolta dal<br />

sovrano con una splen<strong>di</strong>da ed appropriata scorta, per mezzo del<br />

parakoimwvmeno" Teofane» 60 .<br />

57 FRALE, I Templari cit., 108.<br />

58 Sul quale ve<strong>di</strong> E. VON DOBSCHÜTZ, Der Kammerherr Theophanes, Byzan ti -<br />

ni sche Zeitschrift 10 (1901) 166-181.<br />

59 Gli eventi sono narrati anche in THEOPHANES CONTINUATUS, Chro no -<br />

graphia, ed. I. BEKKER, Theophanes Continuatus, Ioannes Cameniata, Symeon<br />

Magister, Georgius Monachus, Bonn 1838, 432,4-24, e in LEO GRAM MA TICUS, ed.<br />

I. BEKKER, Leonis Grammatici Chronographia, Bonn 1842, 325,22 - 326,12.<br />

60 IOANNES SCILITZES, Synopsis historiarum, Vita <strong>di</strong> Romano I, par. 37 (ed J.<br />

THURN, Ioannis Scylitzae synopsis historiarum, Berlin 1973, 231-232).<br />

61 TSAMAKDA, The Illustrated Chronicle cit., 168.<br />

62 In verità quelle che ho visionato non sembrano lasciare dubbi in proposito.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> questi errori, quel che è più grave è che nel co<strong>di</strong>ce Scilitze<br />

matritense non esiste alcun «telo molto lungo dove si staglia l’immagine<br />

del Santo Volto». Sarebbe davvero degno <strong>di</strong> nota se questo lungo<br />

telo della Sindone, che così tanto ci si affanna a ritrovare in testi che<br />

avrebbero timore <strong>di</strong> parlarne, campeggiasse in<strong>di</strong>sturbato su una miniatura.<br />

Quel che si vede non è uno, bensì due tessuti sovrapposti: il primo<br />

è un lungo velo rosso, dello stesso colore del mantello dell’imperatore e<br />

<strong>di</strong> altri due personaggi, sopra il quale è poggiato il Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa,<br />

che è il consueto piccolo asciugamano bianco. Anche Vasiliki Tsa -<br />

makda, che ha stu<strong>di</strong>ato e descritto una ad una tutte le miniature del<br />

co<strong>di</strong>ce, ben <strong>di</strong>stingue il Man<strong>di</strong>lio che «ha la forma <strong>di</strong> un tessuto bianco<br />

rettangolare, con frange, sul quale il capo <strong>di</strong> Cristo è raffigurato con<br />

plasticità, come nelle altre figure», il quale viene offerto a Romano<br />

Lecapeno «da Teofane, le cui mani sono coperte da un lungo tessuto<br />

che pende dalle sue spalle» 61 . La funzione del tessuto sottostante è ben<br />

comprensibile: la lunga stoffa purpurea serviva da velo protettivo,<br />

affinché la reliquia non fosse a <strong>di</strong>retto contatto con le mani impure <strong>di</strong><br />

chi la sorreggeva.<br />

La confusione tra il Man<strong>di</strong>lio e il velo sottostante, che Frale propone,<br />

non è nuova, ed è stata a lungo sostenuta da alcuni stu<strong>di</strong>osi della<br />

Sindone (che non si chiedevano, però, perché essa fosse stranamente<br />

colorata <strong>di</strong> rosso!). Forse qualche scadente fotografia in bianco e nero<br />

potrebbe indurre qualcuno a confondere la stoffa bianca del Man<strong>di</strong>lio<br />

con lo sfondo sottostante altrettanto bianco 62 . Eppure fin dal 1990<br />

buone immagini a colori vennero fatte circolare proprio in ambienti<br />

sindonologici 63 , e già nel 1991 Pier Angelo Gramaglia aveva fatto notare<br />

l’errore interpretativo 64 . Eppure, nonostante questo, a fronte <strong>di</strong> mol -<br />

La più vecchia che ho trovato sta in A. GRABAR, La sainte face de Laon, Prague<br />

1931, tavola VI,5, dove le frange del Man<strong>di</strong>lio si <strong>di</strong>stinguono bene dal tessuto e<br />

dallo sfondo sottostante. Il manoscritto fu poi riprodotto per intero da S. CIRAC<br />

ESTOPAÑÁN, Skyllitzes matritensis. Reproducciones y miniaturas, Barcelona 1965.<br />

63 Al V Congresso nazionale <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> sulla Sindone <strong>di</strong> Cagliari, nell’aprile del<br />

1990, quando Bruno Bonnet-Eymard <strong>di</strong>stribuì a tutti i presenti un foglio recante<br />

una buona immagine a colori, e ne allegò copia alle stampe <strong>di</strong> un suo successivo libro.<br />

64 Subito segnalato da P. A. GRAMAGLIA, Ancora la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, Rivi sta<br />

<strong>di</strong> storia e letteratura religiosa 27 (1991) 99-101.<br />

65 Ad esempio, G. ZANINOTTO, Il presunto mandylion nel co<strong>di</strong>ce Skylitzès <strong>di</strong><br />

Madrid, Collegamento pro Sindone (marzo-aprile 1994) 22-38; P. DE<br />

299


300<br />

Andrea Nicolotti<br />

ti che riconobbero <strong>di</strong> essersi ingannati 65 permangono ancora coloro<br />

che non fanno alcun conto delle critiche (oltre a Frale, Ilaria Ramelli e<br />

Marco Tosatti 66 ) oppure cercano tortuose spiegazioni alternative: e<br />

così André-Marie Dubarle, davanti all’evidenza dei due panni <strong>di</strong>stinti,<br />

appena dopo aver rinnegato la spiegazione sindonologica sbagliata che<br />

fino ad allora aveva sostenuto, tenta ancora <strong>di</strong> interpretare il lungo<br />

velo protettivo come «in<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> una qualche tra<strong>di</strong>zione un po’ <strong>di</strong>menticata<br />

o mal compresa» del Man<strong>di</strong>lio come lunga Sindone 67 . Pier Luigi<br />

Baima Bollone, invece, al posto del Man<strong>di</strong>lion con le frange vede un<br />

contenitore della Sindone piegata in otto (dunque il viso <strong>di</strong> Cristo<br />

sarebbe <strong>di</strong>segnato sul contenitore?), salvo poi calcolare la lunghezza<br />

del tessuto protettivo purpureo sulla base della proporzione con l’altezza<br />

dei personaggi <strong>di</strong>segnati e ritrovarci, manco a <strong>di</strong>rlo, proprio la<br />

lunghezza della Sindone 68 . Anche Maria Grazia Siliato e Remi Van<br />

Haelst fanno ogni sforzo per ritrovarvi la Sindone in qualche forma,<br />

quest’ultimo ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong>cendo <strong>di</strong> vedere nella miniatura sia la<br />

Sindone sia il Man<strong>di</strong>lio, uno sopra l’altro, essendo confermato nelle<br />

sue opinioni dalle visioni <strong>di</strong> Anna Katharina Emmerick! 69 Nessuno <strong>di</strong><br />

questi autori ritiene strano che il miniaturista, volendo rappresentare<br />

la Sindone, abbia <strong>di</strong>segnato un Man<strong>di</strong>lio con un volto <strong>di</strong> Cristo vivo,<br />

con gli occhi aperti e le guance rubiconde, quando l’uomo della<br />

Sindone è morto, insanguinato e soprattutto intero.<br />

Dell’uso del manto purpureo a scopo protettivo-rituale abbiamo<br />

<strong>di</strong>retta conferma da altre miniature del medesimo co<strong>di</strong>ce. Al foglio 207<br />

verso è rappresentato Giovanni Orfanotrofo, fratello <strong>di</strong> Michele Pa fla -<br />

gone, mentre consegna all’eunuco Costantino Fagitze un’arca conte-<br />

RIEDMATTEN, Parcours personnel dans le manuscrit de Skylitzès, Montre-nous ton<br />

visage 30 (2004) 14-23.<br />

66<br />

RAMELLI, Dal Man<strong>di</strong>lion cit., 181; M. TOSATTI, Inchiesta sulla Sindone,<br />

Casale Monferrato 2009, 54.<br />

67 A. M. DUBARLE, Novità nella storia antica della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, Sindon 2<br />

(1990) 47-48.<br />

68 P. L. BAIMA BOLLONE, Sindone o no, <strong>Torino</strong> 1990, 104.<br />

69 M. G. SILIATO, Sindone: mistero dell’impronta <strong>di</strong> duemila anni fa, Casale<br />

1997, 192-193; R. VAN HAELST, Un’altra occhiata al co<strong>di</strong>ce Skylitzes, Collega -<br />

mento pro Sindone (settembre-ottobre 1995) 38-39.<br />

70 Racconto in IOANNES SCILITZES, Synopsis historiarum, Vita <strong>di</strong> Michele IV,<br />

par. 3 (pp. 393-394).


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

nente sacre reliquie coprendosi le mani con un velo 70 . Un altro velo,<br />

lungo esattamente come quello della miniatura del Man<strong>di</strong>lio, sta al<br />

foglio 205 recto [Tav. 28]): Giorgio Maniace consegna ad un messo<br />

un’altra reliquia, la lettera <strong>di</strong> Cristo ad Abgar, e dall’altro lato della<br />

pagina si vede lo stesso messo che la rimette nelle mani dell’imperatore<br />

Romano III Argiro. Non credo che qualcuno voglia sostenere che la<br />

Sindone venisse usata regolarmente come tessuto <strong>di</strong> trasporto <strong>di</strong> tutte<br />

le reliquie <strong>di</strong> Costantinopoli.<br />

5. La fine del Man<strong>di</strong>lio<br />

Il 15 agosto 944, come già detto, il Man<strong>di</strong>lio da Edessa giunse a Costantinopoli,<br />

e <strong>di</strong> lì più non si mosse per quasi tre secoli. Accolto nel<br />

santuario delle Blacherne, fu traslato solennemente al palazzo del Bucoleone<br />

il giorno successivo e lì incoronato sul trono imperiale, per poi<br />

essere collocato probabilmente nella cappella del Salvatore alla Chalke,<br />

espressamente costruita da Romano Lecapeno per ospitare l’acheropita<br />

71 . Successivamente, con la salita al trono <strong>di</strong> Costantino VII Porfirogenito,<br />

fu traslato nella cappella della Vergine del Faro che si trovava all’interno<br />

del Bucoleone, nei pressi del crisotriclinio e <strong>degli</strong> appartamenti<br />

del sovrano 72 . In questo piccolo e<strong>di</strong>ficio l’imperatore poteva <strong>di</strong>sporre<br />

della più ricca collezione <strong>di</strong> reliquie <strong>di</strong> tutto l’impero, in particolare <strong>di</strong><br />

quelle legate alla passione <strong>di</strong> Cristo, quasi una Gerusalemme in miniatura<br />

73 .<br />

71 Così E. BALDWIN SMITH, Architectural Symbolism of Imperial Rome and the<br />

Middle Ages, Princeton 1956, 138, e S. G. ENGBERG, Romanos Lekapenos and the<br />

Man<strong>di</strong>lion of Edessa, in J. DURAND - B. FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques du<br />

Christ, Paris 2004, 123-142. Si veda anche il contributo <strong>di</strong> B. Flusin in questo<br />

volume.<br />

72 Sulla chiesa del Faro, J. EBERSOLT, Le grand palais de Constantinople et le<br />

livre des cérémonies, Paris 1910, 104-109; ID., Sanctuaires de Byzance. Recherches<br />

sur les anciens trésors des églises de Constantinople, Paris 1921, 17-30; R.<br />

GUILLAND, L’église de la Vierge du Phare, Byzantinoslavica 12 (1951) 232-234; S.<br />

MIRANDA, Les palais des empereurs byzantins, Mexico 1965, 104-107; R. JANIN,<br />

La géographie ecclésiastique de l’Empire byzantin, partie 1, t. 3: Les églises et les<br />

monastères, Paris 1969, 232-236; H. MAGUIRE (ed.), Byzantine Court Culture<br />

from 829 to 1204, Washington 1997, 55-57.<br />

73 Cfr. P. MAGDALINO, L’église du Phare et les reliques de la Passion à Cons tan -<br />

tinople (VII e /VIII e -XIII e siècles), in DURAND - FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques<br />

du Christ cit., 25. Ve<strong>di</strong> anche B. FLUSIN, Construire une nouvelle Jérusalem:<br />

301


302<br />

Andrea Nicolotti<br />

La chiesa del Faro era servita da un clero alle <strong>di</strong>pendenze dell’imperatore.<br />

Quando nell’aprile 1204 i crociati si apprestarono ad assalire la<br />

città, stabilirono <strong>di</strong> risparmiare dal saccheggio i due palazzi imperiali,<br />

quello delle Blacherne e il Bucoleone: appena entrati, dunque, li requisirono<br />

e vi collocarono due corpi <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a, per impe<strong>di</strong>re alla truppa<br />

<strong>di</strong> farne preda 74 . Così il tesoro <strong>di</strong> reliquie rimase intatto e poté passare<br />

sotto la <strong>di</strong>retta proprietà del nuovo imperatore latino, Baldovino delle<br />

Fiandre, ed il servizio liturgico all’interno della Cappella del Faro fu<br />

subito garantito da un clero alle <strong>di</strong>rette <strong>di</strong>pendenze della Santa Sede.<br />

Ecco perché non è possibile – come invece fanno molti sostenitori dell’identità<br />

Sindone/Man<strong>di</strong>lio – immaginare che qualche singolo crociato<br />

o religioso abbia sottratto la reliquia dall’interno del palazzo, per giustificarne<br />

in tal modo l’allontanamento da Costantinopoli e l’arrivo in<br />

Occidente sotto forma <strong>di</strong> Sindone 75 .<br />

La conquista della capitale bizantina ebbe come effetto la spoliazione<br />

delle sue ricchezze e delle sue reliquie, che in gran parte furono traslate<br />

altrove (spesso dopo essere state vendute) 76 . Nessuno, però, poteva<br />

mettere le mani sulle reliquie del Faro, né Baldovino, per alcuni<br />

anni, si mostrò <strong>di</strong>sponibile a cedere il simbolico tesoro imperiale che<br />

aveva ere<strong>di</strong>tato. Soltanto a motivo delle ristrettezze economiche, e <strong>di</strong>e-<br />

Constantinople et les reliques, in M. A. AMIR-MOEZZI - J. SCHEID (edd.), L’Orient<br />

dans l’histoire religieuse de l’Europe: l’invention des origines, Turnhout 2000, 51-<br />

70; M. BACCI, Relics of the Pharos Chapel: A Wiew from the Latin West, in A.<br />

LIDOV (ed.), Восточнохристианские реликвии - Eastern Christian Relics,<br />

Moskva 2003, 234-248; H. A. KLEIN, <strong>Sacre</strong>d Relics and Imperial Ceremonies at<br />

the Great Palace of Constantinople, in F. A. BAUER (ed.), Visualisierungen von<br />

Herrschaft. Frühmittelalterliche Residenzen - Gestalt und Zeremoniell, Istanbul<br />

2006, 79-99.<br />

74 Cfr. A. CARILE, Per una storia dell’impero latino <strong>di</strong> Costantinopoli, Bologna<br />

19782 , 154 e 159-161: Si veda anche il racconto <strong>di</strong> Geoffroy de Villehardouin (La<br />

conquête de Constantinople, cap. 250) e <strong>di</strong> Robert de Clari (La conquête de<br />

Constantinople, capp. 93-94).<br />

75 Tutte queste teorie sono esposte in A. NICOLOTTI, I Templari e la Sindone.<br />

Storia <strong>di</strong> un falso, Roma 2011.<br />

76 Su questo, come punto <strong>di</strong> partenza, K. KRAUSE, Immagine-reliquia: da Bi -<br />

san zio all’Occidente, in G. WOLF - C. DUFOUR BOZZO - A. CALDERONI MASETTI<br />

(edd.), Mandylion. Intorno al Sacro Volto da Bisanzio a Genova, Milano 2004,<br />

209-235.<br />

77 Sulle reliquie della Sainte-Chapelle si veda l’eccellente J. DURAND - M. P.<br />

LAFFITTE (edd.), Le trésor de la Sainte-Chapelle, Paris 2001.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

tro pagamento <strong>di</strong> una cifra astronomica, alcuni anni dopo si vide<br />

costretto a cedere tutte le reliquie della cappella del Faro a Luigi IX, re<br />

<strong>di</strong> Francia, il quale per ospitarle fece e<strong>di</strong>ficare a Parigi la splen<strong>di</strong>da<br />

Sainte-Chapelle 77 . E per conservarvi al riparo i santi <strong>oggetti</strong>, fece<br />

costruire un imponente reliquiario ligneo, la Grande chasse, da collocare<br />

in posizione centrale sullo sfondo dell’abside 78 .<br />

Siamo in grado <strong>di</strong> sapere con precisione quali furono le reliquie<br />

cedute al sovrano francese perché ci è pervenuto il testo <strong>di</strong> una <strong>di</strong>chiarazione,<br />

datata giugno 1247, che le elenca una ad una:<br />

La sacrosanta corona <strong>di</strong> spine del Signore, e la santa croce; poi del sangue<br />

del Signore nostro Gesù Cristo; i panni dell’infanzia del Salvatore, con i<br />

quali fu avvolto nella culla; un’altra grande porzione del legno della santa<br />

croce; il sangue che, per stupefacente miracolo, stillò da un’immagine del<br />

Signore percossa da un infedele; poi la catena, o vincolo <strong>di</strong> ferro, fatto<br />

quasi in forma <strong>di</strong> anello, con il quale, si ritiene, nostro Signore fu legato; la<br />

santa tela inserita in una tavola; gran parte della pietra del sepolcro del<br />

Signore nostro Gesù Cristo; del latte della beata vergine Maria; poi il ferro<br />

della sacra lancia con il quale il fianco del Signore nostro Gesù Cristo<br />

venne trafitto; un’altra piccola croce, che gli antichi chiamavano croce<br />

trionfale, perché gli imperatori erano soliti portarla alle guerre per speranza<br />

<strong>di</strong> vittoria; la clamide scarlatta che i soldati misero addosso al Signore<br />

nostro Gesù Cristo, a suo scherno; la canna che gli posero in mano al<br />

posto dello scettro; la spugna piena d’aceto che gli sporsero quando era<br />

assetato sulla croce; parte del sudario con il quale il suo corpo fu avvolto<br />

nel sepolcro; poi il lino <strong>di</strong> cui si cinse quando lavò i pie<strong>di</strong> dei <strong>di</strong>scepoli, e<br />

con il quale asciugò i loro pie<strong>di</strong>; la verga <strong>di</strong> Mosè; la parte superiore della<br />

testa del beato Giovanni Battista, e le teste dei santi Biagio, Clemente e<br />

Simeone 79 .<br />

78 Cfr. R. BRANNER, The Grande chasse of the Sainte-Chapelle, Gazette des<br />

Beaux-Arts 77 (1971), 5-18<br />

79 BALDUINUS II, Epistula Ludovico IX: “sacrosanctam spineam coronam<br />

Domini, et crucem sanctam. Item de sanguine domini nostri Iesu Christi; pannos<br />

infantiae Salvatoris, quibus fuit in cunabulis involutus; aliam magnam partem de<br />

ligno sanctae crucis; sanguinem, qui de quadam imagine Domini ab infideli percussa<br />

stupendo miraculo <strong>di</strong>stillavit; catenam etiam, sive vinculum ferreum, quasi<br />

in modum annulli factum, quo cre<strong>di</strong>tur idem Dominus noster fuisse ligatus; sanctam<br />

toellam tabulae insertam; magnam partem de lapide sepulchri domini nostri<br />

Iesu Christi. De lacte beatae Marie virginis. Item ferrum sacrae lanceae quo<br />

perforatum fuit in cruce latus domini nostri Iesu Christi; crucem aliam me<strong>di</strong>ocrem,<br />

quam crucem triumphalem veteres appellabant, quia ipsam in spem victoriae<br />

consueverant imperatores ad bella deferre; clamidem coccineam quam cir-<br />

303


304<br />

Andrea Nicolotti<br />

Tra le reliquie della cappella del Faro che il futuro santo sovrano<br />

pose nella sua nella Sainte-Chapelle c’è dunque una sancta toella tabulae<br />

insertam, cioè una santa ‘tela’ (toella o tuella, in francese toelle o<br />

toille) inserita in una ‘tavola’, ‘pannello’ o ‘cornice’, oppure ‘scatola’,<br />

‘cofanetto’, ‘reliquiario’: tabula (in francese table, tableau, tablier) è il<br />

nome che si adoperava per designare un reliquiario solitamente in<br />

forma <strong>di</strong> pannello quadrato o rettangolare, talora con coperchio<br />

richiu<strong>di</strong>bile 80 . Con un’espressione del tutto compatibile, cioè touaile, il<br />

crociato Robert de Clari aveva designato il Man<strong>di</strong>lio quando si trovava<br />

ancora a Costantinopoli 81 , ed è questa la più ovvia spiegazione sulla<br />

natura <strong>di</strong> quella “tela” 82 . Non vi sono invece sindoni, ma solo una<br />

«parte del sudario con il quale il suo corpo fu avvolto nel sepolcro».<br />

Poiché la permanenza del Man<strong>di</strong>lio nella Sainte-Chapelle è inequivocabilmente<br />

<strong>di</strong>mostrata fino al XVIII secolo, <strong>di</strong>versi stu<strong>di</strong>osi della<br />

Sindone – pur continuando a sostenere l’identità con il Man<strong>di</strong>lio –<br />

hanno escluso che la sancta toella possa essere proprio quel Man<strong>di</strong>lio:<br />

ciò implicherebbe, infatti, il collasso dell’intera loro teoria. Il motivo è<br />

che la presenza del santo volto a Parigi si scontrerebbe con la <strong>di</strong>mostrata<br />

esistenza della Sindone, fin dal secolo XIV, a Lirey, Chambéry ed<br />

infine <strong>Torino</strong>. Si è allora tentato <strong>di</strong> togliere legittimità alle fonti parigine<br />

relative al Man<strong>di</strong>lio. Per Ian Wilson, ad esempio, sarebbe «inconce-<br />

cumdederunt milites domino nostro Iesu Christo, in illusionem ipsius; arun<strong>di</strong>nem<br />

quem pro sceptro posuerunt in manu ipsius; spongiam quam porrexerunt ei<br />

sitienti in cruce aceto plenam; partem sudarii quo involutum fuit corpus eius in<br />

sepulchro; linteum etiam quo praecinxit se quando lavit pedes <strong>di</strong>scipulorum, et<br />

quo eorum pedes extersit; virgam Moysi; superiorem partem capitis beati Ioannis<br />

Baptistae, et capita sanctorum Blasii, Clementis et Simeonis” (ed. S. J. MORAND,<br />

Histoire de la S te -Chapelle Royale du Palais, Paris 1790, Pièces justificatives, 7-8).<br />

80 Cfr. J. BRAUN, Die Reliquiare des christlichen Kultes, Freiburg 1940, 43-45.<br />

81 R. DE CLARI, La conquête de Constantinople, 83 : “Or avoit encore autres<br />

saintuaires en chele capele que nous vous aviemes evliés a <strong>di</strong>re, car il i avoit deus<br />

riches vaissiaus d’or qui pendoient en mi le capele a deus grosses caaines d’argent.<br />

En l’un de ches waissiaus, si i avoit une tuile, et en l’autre une touaile” (ed. J.<br />

DUFOURNET, Robert de Clari. La conquête de Constantinople, Paris 2004). La<br />

parola tuile in<strong>di</strong>ca il Keramion <strong>di</strong> Edessa, che è una copia miracolosa del<br />

Man<strong>di</strong>lio impressa sulla terracotta.<br />

82 Fin da P. RIANT, Exuviae sacrae constantinopolitanae, vol. 1: Fasciculus<br />

documentorum minorum, Genevae 1877, CLXXXI.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

pibile che un oggetto così illustre nella storia abbia conosciuto una<br />

sorte talmente oscura», in quanto, egli sostiene, un oggetto <strong>di</strong> tale<br />

importanza avrebbe dovuto godere <strong>di</strong> maggior fama e considerazione<br />

83 . I francesi, però, si <strong>di</strong>mostrano più interessati alla corona <strong>di</strong> spine,<br />

perché della leggenda tutta orientale del Man<strong>di</strong>lio sapevano assai<br />

poco; i greci, da parte loro, alla corona <strong>di</strong> spine preferivano la lancia <strong>di</strong><br />

Longino, alla cui adorazione de<strong>di</strong>cavano solenni liturgie, in quanto ciascuno,<br />

come è naturale, attribuisce alle reliquie un valore che <strong>di</strong>pende<br />

dalle proprie inclinazioni, dalla propria spiritualità e dal contesto liturgico,<br />

tra<strong>di</strong>zionale ed agiografico in cui è cresciuto. Ancor più inconcludente<br />

l’obiezione del sindonologo Mark Guscin, tutta basata sull’uso<br />

del termine toella: «Sarebbe strano se un nuovo termine fosse stato<br />

introdotto per denominare un oggetto che era così ben identificato<br />

come mandylion o come immagine acheiropoietos <strong>di</strong> Edessa» 84 . Ma non<br />

si è appena detto che proprio Robert de Clari, francese come Luigi IX,<br />

lo aveva chiamato touaile senza mai usare le parole mandylion o acheiropoietos?<br />

Di qui in avanti le fonti che ci informano sulla sorte del Man<strong>di</strong>lio<br />

sono tutte occidentali. Talvolta <strong>di</strong>mostrano l’incertezza <strong>di</strong> chi sapeva <strong>di</strong><br />

avere a che fare con un ritratto del volto <strong>di</strong> Cristo, ma non conoscendo<br />

la leggenda del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa si trovava costretto a ricorrere ad<br />

altre spiegazioni. Così, dopo il 1241, il monaco Gérard de Saint-<br />

Quentin-en-l’Isle nomina tra le reliquie della Sainte-Chapelle una tabula<br />

quedam quam, cum deponeretur Dominus de cruce, eius facies tetigit 85 ;<br />

e lo stesso avviene con un altro documento del 1327 da cui, tra l’altro,<br />

ricaviamo che il Man<strong>di</strong>lio fu traslato nella sua sede parigina esattamente<br />

nell’anno 1240 86 . Le sequenze liturgiche De sanctis reliquis<br />

(1250-1260 circa) alludono al Man<strong>di</strong>lio con le parole tabula, mappa e<br />

mappula, e anch’esse ben lo <strong>di</strong>fferenziano dal sudarium 87 . Il pellegrino<br />

83 I. WILSON, Le Suaire de Turin cit., 219.<br />

84 M. GUSCIN, The Image of Edessa, Leiden 2009, 189.<br />

85 G. DE SAINT-QUENTIN-EN-L’ISLE, Translatio sancte corone, in F. DE MÉLY,<br />

Exuviae sacrae constantinopolitanae, Paris 1904, 107.<br />

86 S. J. MORAND, Histoire de la S te -Chapelle Royale du Palais, Paris 1790, 121-<br />

122: “Quadam tabula quam tetigit facies Christi”.<br />

87 Cfr. K. GOULD, The Sequences De sanctis reliquiis as Sainte-Chapelle<br />

Inventories, Me<strong>di</strong>aeval <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 43 (1981) 315-341, specie 238, 331-332 e 338-340.<br />

Testi in R. J. HESBERT, Le Prosaire de la Sainte-Chapelle. Manuscrit du chapitre de<br />

Saint-Nicolas de Bari, Macon 1952.<br />

305


306<br />

Andrea Nicolotti<br />

Arnold von Harff, invece, negli ultimissimi anni del XV secolo descrisse<br />

il panno come «un pezzo <strong>di</strong> stoffa nel quale nostro Signore Gesù sudò<br />

sangue ed acqua» (scegliendo, dunque, una interpretazione identica a<br />

quella già incontrata nell’omelia <strong>di</strong> Gregorio il Referen dario) 88 .<br />

C’è poi una serie <strong>di</strong> inventari della Grande chasse perio<strong>di</strong>camente<br />

redatti su incarico del sovrano. Il primo è del marzo 1534 e sostanzialmente<br />

traduce in francese il documento del 1247, quando parla <strong>di</strong><br />

saincte toelle 89 inserée à la table, où est la face de Nostre Seigneur Jésus<br />

Christ», come precisano Michel Félibien e Arthur-Michel de Bois -<br />

lisle 90 . La tela è riposta in un grande reliquiario ma è consumata, e<br />

con serva soltanto più la apparence d’une effigie 91 . Tra il 1534 e il 1573<br />

un altro inventario parla <strong>di</strong> una Véronique 92 , <strong>di</strong>mostrando che il redattore<br />

dello scritto aveva compiuto la più ovvia identificazione tra il<br />

Man <strong>di</strong>lio e la sua corrispettiva occidentale, la Veronica rimasta im -<br />

pressa durante la sua passione. L’inventario del 30 agosto 1740 è il più<br />

chiaro, perché descrive il reliquiario come una scatola dorata <strong>di</strong> 60x40<br />

centimetri (non viene riportata la misura della sua profon<strong>di</strong>tà, che va<br />

ricavata dai <strong>di</strong>segni) con all’interno, nel mezzo, la représentation de la<br />

sainte face de Notre Seigneur, ou la Véronique 93 .<br />

Fortunatamente abbiamo anche qualche <strong>di</strong>segno del contenuto<br />

della Grande chasse: innanzitutto la bellissima miniatura del cosiddetto<br />

Libro d’ore della Sainte-Chapelle (dell’anno 1506) 94 dove, sotto la testa<br />

<strong>di</strong> san Giovanni Battista, c’è una scatola rettangolare che sulla base<br />

delle successive descrizioni possiamo ritenere essere il reliquiario del<br />

Man<strong>di</strong>lio [Tav. 29]. In un’incisione risalente al 1649, quella stessa sca-<br />

88 E. VON GROOTE (ed.), Die Pilgerfahrt des Ritters Arnold von Harff, Cöln<br />

1860, 245: “Item van deme sweyss doich, dae inne vnser here Jhesus wasser ind<br />

bloyt gesweist hat”.<br />

89 La lezione erronea treille o trelle, che spesso si incontra in luogo <strong>di</strong> toelle, va<br />

corretta: cfr. DURAND - LAFFITTE, Le trésor cit., 70.<br />

90 M. FÉLIBIEN, Histoire de la ville de Paris, tomo 3, Paris 1725, 150; M. DE<br />

BOISLISLE, Pièces justificatives pour servir à l’histoire des premiers présidents<br />

(1506-1791), Paris 1873, 48 (§59).<br />

91 A. VIDIER, Le trésor de la Sainte-Chapelle, Mémoires de la Société de<br />

l’Histoire de Paris et de l’Île-de-France 35 (1908) 190-192.<br />

92 VIDIER, Le trésor cit., 193 (inventario M).<br />

93 VIDIER, Le trésor cit., 297.<br />

94 Cfr. DURAND - LAFFITTE, Le trésor cit., 132-133.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

tola reca un’iscrizione che la identifica come S. toile enchassée en une<br />

table [Tav. 30] 95 .<br />

Con la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789 iniziò la crisi della<br />

cappella reale. Uno dei suoi canonici, Sauveur-Jérôme Morand, nel<br />

1790 pubblicò una corposa storia della Sainte-Chapelle, nella quale<br />

compare l’ultima incisione che rappresenta il contenuto della Grande<br />

chasse 96 . Il paragone con le precedenti raffigurazioni <strong>di</strong>mostra che in<br />

certi casi la <strong>di</strong>sposizione e la forma dei reliquiari era mutata: la cassetta<br />

con il Man<strong>di</strong>lio (n° 18) non si trova più sotto la testa <strong>di</strong> Giovanni<br />

Battista, ma sta a lato della corona <strong>di</strong> spine, sotto il reliquiario in<br />

forma <strong>di</strong> croce che contiene la punta metallica della lancia <strong>di</strong> Longino<br />

[Tav. 31]. Ma è ormai tempo che la chasse venga smembrata: dopo che<br />

gli effetti della Costituzione civile del clero avevano soppresso tutti i privilegi<br />

della Sainte-Chapelle, il sovrano Luigi XVI non desidera perdere<br />

le proprie reliquie ed ottiene che siano trasferite a Saint-Denis, ed un<br />

sommario inventario redatto il 10 marzo 1791 conferma il trasferimento<br />

anche della nostra sainte face 97 . Ma l’11 novembre, quando ormai la<br />

testa <strong>di</strong> Luigi è caduta, tutto ritorna a Parigi, compresa la boite à coulisse<br />

contenant un portrait: l’ultimo reliquiario del santo volto aveva<br />

dunque un coperchio scorrevole 98 , simile a quello che i bizantini adoperavano<br />

specie per le stauroteche.<br />

La Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> e il Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa <strong>di</strong>fferiscono anche<br />

nella sorte: mentre la prima godeva <strong>di</strong> una crescente fama, prezioso<br />

patrimonio del Regno <strong>di</strong> Sardegna, per l’altro non ci fu scampo: quando<br />

la sua scatola fu smantellata e mandata a fondere, allo scopo <strong>di</strong><br />

ricavarne lingotti, evidentemente nessuno si prese la briga <strong>di</strong> interrogarsi<br />

in merito allo straccio consunto che essa conteneva.<br />

95 DURAND - LAFFITTE, Le trésor cit., 134-135.<br />

96 S. J. MORAND, Histoire de la S te -Chapelle Royale du Palais, Paris 1790, 40.<br />

97 VIDIER, Le trésor cit., 325 (inventario CC).<br />

98 P. LACROIX, Inventaires du trésor de l’abbaye de Saint-Denis, Revue universelle<br />

des arts 4 (1856) 136; cfr. VIDIER, Le trésor cit., 339.<br />

307


DALLE ACHEROPITE ALLA SINDONE<br />

GIAN MARIA ZACCONE<br />

Direttore scientifico del Museo della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

È sempre complesso accostare la questione Sindone senza rischiare<br />

<strong>di</strong> cadere in equivoci o deludere le aspettative, e mi rendo conto che lo<br />

stesso titolo del mio intervento può risultare fuorviante o provocatorio.<br />

Questo perché intorno al Lenzuolo conservato a <strong>Torino</strong> ferve il <strong>di</strong>battito,<br />

essenzialmente concentrato sulla questione della cosiddetta “autenticità”<br />

– termine per altro inadeguato e impreciso a fronte della complessità<br />

dell’oggetto Sindone – che in verità monopolizza l’attenzione e<br />

spesso degenera in polemica. Una polemica insita nel fondamento stesso<br />

della realtà sindonica: il rimando alla figura <strong>di</strong> Cristo ed alla sua incarnazione,<br />

del quale compartecipa la caratteristica <strong>di</strong> signum contra<strong>di</strong>ctionis.<br />

E qui già mi sembra <strong>di</strong> scorgere un primo fondante punto <strong>di</strong> incontro<br />

con la realtà delle acheropite più risalenti. Similmente a quanto accadde<br />

a molte <strong>di</strong> queste ultime, sin dalla sua comparsa nella storia la<br />

Sindone è stata infatti oggetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussioni, interpretazioni ed approcci<br />

<strong>di</strong>fferenti quando non antitetici. Aggravati dal fatto che essa viene<br />

vissuta quale ultima acheropita <strong>di</strong> Cristo, ed in qualche modo carica su<br />

<strong>di</strong> sé esiti ed ere<strong>di</strong>tà della millenaria questione, attraversando epoche in<br />

cui il rapporto religione e società, ragione e fede conosce alterne fasi a<br />

volte fortemente problematiche, delle quali in un certo senso la Sindone,<br />

con la sua essenza religiosa e con la sua forma che interpella le<br />

scienze umane, <strong>di</strong>viene para<strong>di</strong>gma.<br />

Nel mondo moderno e post moderno le posizioni che si riscontrano<br />

nei suoi confronti sono certamente, rispetto ad epoche passate, ancora<br />

più complesse e variegate.<br />

Molti la considerano una reliquia, anzi la più significativa delle reliquie<br />

del passaggio <strong>di</strong> Cristo sulla terra, nel quale è dunque impressa la<br />

vera e unica effigie del Salvatore, impreziosita dal suo stesso sangue,<br />

dunque la vera ed unica acheropita. Alcuni si spingono ancora oltre, sino<br />

a voler trovare in essa le tracce fisiche della Sua gloriosa resurrezione.<br />

309


310<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Altri, prescindendo dalle proprie convinzioni circa la sua origine,<br />

sottolineano l’importanza <strong>di</strong> un oggetto il cui innegabile rimando alla<br />

Passione <strong>di</strong> Cristo ne fa una realtà unica dal punto <strong>di</strong> vista religioso,<br />

con enormi potenzialità pastorali e spirituali, ma anche capace <strong>di</strong> suscitare<br />

l’interesse <strong>degli</strong> stu<strong>di</strong>osi <strong>di</strong> tante <strong>di</strong>scipline.<br />

Altri ancora la bollano come un falso più o meno antico, comunque<br />

non meritevole <strong>di</strong> alcun interesse, o al massimo degno <strong>di</strong> comparire in<br />

un ipotetico museo dei gran<strong>di</strong> inganni della storia.<br />

Il contenuto <strong>di</strong> tali posizioni è qui necessariamente schematizzato,<br />

ma nella realtà è facile riscontrare come esse si intrecciano e sfumano<br />

l’una nell’altra, si confrontano, si scontrano, a testimonianza in ogni<br />

caso del fatto che l’incontro con la Sindone non lascia in<strong>di</strong>fferenti.<br />

Molto in questo senso hanno contribuito le ricerche scientifiche che<br />

a partire dall’inizio del secolo scorso si sono concentrate su <strong>di</strong> essa,<br />

coinvolgendo pesantemente le modalità <strong>di</strong> approccio. Oggi la questione<br />

è, se possibile, ancora più affascinante e nello stesso tempo <strong>di</strong>battuta se<br />

si considera che la maggior parte <strong>di</strong> tali stu<strong>di</strong>, pur non avendo chiarito<br />

le modalità <strong>di</strong> formazione dell’immagine, appaiono escluderne l’origine<br />

manuale, a fronte <strong>di</strong> un risultato <strong>di</strong> datazione che porrebbe l’origine del<br />

lenzuolo in epoca me<strong>di</strong>evale.<br />

Sino alla fine dell’Ottocento invece la ricerca sulla Sindone aveva<br />

praticato soprattutto i percorsi storici ed in parte teologici, ma tutto<br />

sommato il problema della “autenticità” – oggetto principale della ricerca<br />

scientifica – rimaneva limitato a <strong>di</strong>squisizioni tra dotti, che <strong>di</strong>fficilmente<br />

arrivavano ad interessare il vasto pubblico.<br />

Storicamente è stato l’aspetto devozionale, che più imme<strong>di</strong>atamente<br />

emerge dalla Sindone, ad avvicinare le genti al Sacro Telo, e le gran<strong>di</strong><br />

masse che si spostano per partecipare alle solenni ostensioni non sono<br />

generalmente spinte da curiosità intellettuale circa l’origine del Lenzuolo,<br />

ma sono mosse dal desiderio <strong>di</strong> ricerca <strong>di</strong> qualche cosa – <strong>di</strong> un<br />

volto, una figura –, dall’ansia dell’incontro con una realtà che fa parte<br />

dei più profon<strong>di</strong> e recon<strong>di</strong>ti affetti del proprio animo. Giustamente è<br />

stato affermato autorevolmente che l’incontro con la Sindone da parte<br />

dell’uomo, e a maggior ragione del fedele, è prescientifico 1 . Ancora una<br />

volta mi pare <strong>di</strong> poter affermare che, in quanto oggetto in grado <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare<br />

tali legittime attese, l’accostamento al significato delle acheropite<br />

sia legittimamente consentito, e <strong>di</strong>rei dovuto.<br />

1 G. GHIBERTI, Davanti alla Sindone, Cinisello Balsamo 2010.


Dalle acheropite alla Sindone<br />

Indagini compiute sui pellegrini delle ultime ostensioni, dal 1978 ad<br />

oggi, hanno confermato che ben pochi furono coloro che si mossero<br />

verso <strong>Torino</strong> facendo riferimento alla questione della “autenticità”, e<br />

che quin<strong>di</strong> pongono tale problema alla base <strong>di</strong> un rapporto con la Sindone.<br />

Molti più sono stati quelli che hanno spostato la loro attenzione<br />

verso la Sindone come “segno”, che <strong>di</strong>venta “mistero”, che “parla <strong>di</strong><br />

violenza e ingiustizia”, “l’immagine della pace, l’impronta della sofferenza”.<br />

Ma una sofferenza che non si esaurisce in se stessa: per il credente<br />

la me<strong>di</strong>tazione sulla morte <strong>di</strong> Cristo non può essere <strong>di</strong>staccata<br />

dalla gioia della Pasqua, e viceversa: la Sindone <strong>di</strong>venta quin<strong>di</strong> “immagine<br />

<strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> risurrezione” 2 .<br />

Tale riflessione che va veramente al cuore della fede cristiana, è<br />

un’ulteriore <strong>di</strong>mostrazione della potenza catechetica della Sindone, che<br />

si riflette anche sulla sfera esistenziale: buona parte <strong>degli</strong> intervistati vede<br />

nella Sindone un forte richiamo verso sentimenti <strong>di</strong> pace e <strong>di</strong> amore,<br />

<strong>di</strong> carità fattiva ed un invito alla speranza. Troviamo qui, in forme certamente<br />

con<strong>di</strong>zionate da una particolare sensibilità attuale, i medesimi<br />

temi presenti nelle testimonianze e nei testi che illustrano il ruolo e significato<br />

delle icone.<br />

D’altra parte è innegabile che, proprio per la moderna sensibilità, la<br />

Sindone costituisca anche una “provocazione all’intelligenza” 3 , e che<br />

quin<strong>di</strong> esista un pur legittimo desiderio <strong>di</strong> indagarne le caratteristiche,<br />

per verificare la tra<strong>di</strong>zionale identificazione con il sudario <strong>di</strong> Cristo, soprattutto<br />

attraverso l’esame <strong>di</strong>retto, utilizzando le più moderne e sofisticate<br />

tecniche <strong>di</strong> indagine.<br />

Questo particolare approccio, a partire dall’inizio del secolo scorso,<br />

ha contribuito a rivestire la Sindone <strong>di</strong> una connotazione del tutto particolare,<br />

in quanto ha portato ad isolare la Sindone dalle <strong>di</strong>namiche<br />

consuete del <strong>di</strong>battito sul senso religioso e il fondamento storico e teologico<br />

dell’oggetto, come avvenuto per le immagini <strong>di</strong> Cristo, per farla<br />

<strong>di</strong>venire quasi un para<strong>di</strong>gma della moderna <strong>di</strong>alettica che investe il rapporto<br />

scienza\fede.<br />

Questo è probabilmente un tributo obbligato all’approccio moderno<br />

alla reliquia, ma che per la Sindone ha assunto connotazioni ra<strong>di</strong>cali,<br />

più <strong>di</strong> quanto avvenga per altre realtà. La pur importante questione<br />

2 Fondamentale rimane la ricerca <strong>di</strong> Garelli nel 1978. Cfr. F. GARELLI, Il volto<br />

<strong>di</strong> Dio. L’esperienza del sacro nella società contemporanea, Bari 1983.<br />

3 GIOVANNI PAOLO II, Venerazione della Sindone, 24 maggio 1998.<br />

311


312<br />

Gian Maria Zaccone<br />

delle reliquie <strong>di</strong> san Pietro ad esempio, o quella più recente dell’apostolo<br />

Paolo hanno destato un certo clamore, non certo comunque paragonabile,<br />

per imponenza e durata, a quello sviluppato sulla Sindone. Sicuramente<br />

perché quest’ultima non è, o non è solo, un ricordo, ciò che è<br />

rimasto, una pur importante “reliquia” ma è una presenza, viva, vitale,<br />

impressionante e coinvolgente. Termini tutti che si possono applicare<br />

egualmente alla percezione delle acheropite nel tempo.<br />

Come il monaco inglese Mattew Paris attribuisce a Innocenzo III il<br />

testo <strong>di</strong> una preghiera nella quale la Veronica romana è vista quale ricordo<br />

del passaggio <strong>di</strong> Cristo in terra e anticipazione dell’incontro alla<br />

fine dei tempi, così veramente la Sindone rende reale con la sua presenza<br />

l’attesa del compimento della promessa <strong>degli</strong> angeli al momento dell’ascensione:<br />

«Questo Gesù che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà<br />

un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo».<br />

Lo sviluppo e l’imporsi <strong>di</strong> questo ruolo provvidenziale dell’immagine<br />

<strong>di</strong> Cristo impressa sul Lenzuolo torinese è dato ritrovare nello svilupparsi<br />

dello stu<strong>di</strong>o della storia della Sindone. Con la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

abbandonare una impostazione legata alla questione “scientifica”, cioè<br />

utilizzando la storia come una delle leve per avallare o respingere la<br />

presenza del Lenzuolo nella sepoltura <strong>di</strong> Cristo. Purtroppo sino ad ora<br />

questa è stata la strada percorsa, anche in recenti saggi con pretese accademiche.<br />

In quest’ottica tra<strong>di</strong>zionalmente si <strong>di</strong>vide la cosiddetta storia<br />

della Sindone in due gran<strong>di</strong> perio<strong>di</strong>: quello precedente la comparsa<br />

in Europa (metà del XIV secolo), e quello successivo sino ad oggi. Questa<br />

perio<strong>di</strong>zzazione tiene conto della presenza o meno <strong>di</strong> documenti<br />

che consentano <strong>di</strong> identificare la Sindone oggi a <strong>Torino</strong> con <strong>oggetti</strong> presenti<br />

nelle varie epoche.<br />

Il fatto che non possono sorgere dubbi sull’identificazione della Sindone<br />

<strong>di</strong> Lirey con quella <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> giustifica la determinazione del secondo<br />

periodo. Il primo, invece, è connotato negativamente, nel senso<br />

che è caratterizzato dalla mancanza <strong>di</strong> documenti <strong>di</strong> qualsiasi tipo tali<br />

da consentire una certa identificazione dei <strong>di</strong>versi <strong>oggetti</strong> a cui viene attribuito<br />

un rapporto con la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>.<br />

Personalmente ritengo che su tali basi ci si debba accontentare <strong>di</strong><br />

dare per assodato che abbastanza presto inizia a circolare la notizia<br />

della conservazione del corredo funerario <strong>di</strong> Cristo, compresa la sindone<br />

– in quanto citata nei Vangeli –, che forse esisteva anche una sindone<br />

figurata, che certo esistevano immagini <strong>di</strong> Cristo oggetto <strong>di</strong> grande<br />

venerazione. Ed è qui, su quest’ultimo termine, che si apre veramente la<br />

nuova prospettiva. Se non esistono documenti in grado <strong>di</strong> identificare<br />

la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> con quella o quelle citate nell’antichità, tuttavia


Dalle acheropite alla Sindone<br />

un legame fortissimo c’è, ed è fondamentale: si tratta della storia della<br />

devozione e della pietà. In questa prospettiva credo che la storia della<br />

Sindone altro non sia che la storia della devozione ad un oggetto che<br />

nello stesso momento è ritenuto immagine ma anche reliquia – l’equilibrio<br />

ed il rapporto tra le due interpretazioni è alterno nel tempo –, immagine<br />

e reliquia <strong>di</strong> Cristo nel momento culminante del mistero dell’incarnazione:<br />

partecipa dunque della storia della pietà verso elementi<br />

car<strong>di</strong>ni della fede. Occorre pertanto ribaltare la prospettiva corrente.<br />

La devozione e la pietà verso la Sindone ere<strong>di</strong>tano ed in un certo senso<br />

<strong>di</strong>vengono para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong> tutta una tra<strong>di</strong>zione della Chiesa sin dai primi<br />

secoli: dalle catechesi <strong>di</strong> Cirillo <strong>di</strong> Gerusalemme, alla <strong>di</strong>fesa delle immagini<br />

<strong>di</strong> Giovanni Damasceno, dalla devozione all’umanità <strong>di</strong> Cristo,<br />

connotata da san Bernardo e san Francesco, alla sistematizzazione Tridentina,<br />

alle nuove prospettive magistralmente delineate da Giovanni<br />

Paolo II nel 1998, alla profon<strong>di</strong>ssima me<strong>di</strong>tazione <strong>di</strong> Benedetto XVI nel<br />

2010. La storia della Sindone quin<strong>di</strong>, o meglio la vera essenza della storia<br />

della Sindone, la venerazione ad essa tributata, fa parte della più<br />

ampia storia della Chiesa, della storia della pietà in seno ad essa, sia<br />

spontanea sia co<strong>di</strong>ficata, entrando quin<strong>di</strong> nel campo della liturgia, della<br />

storia della ricerca delle fattezze umane <strong>di</strong> Cristo. Alla base della<br />

quale <strong>di</strong>venta in<strong>di</strong>spensabile un approccio teologico ed una chiara linea<br />

pastorale e catechetica, <strong>di</strong> cui possiamo con evidenza seguire gli sviluppi<br />

nelle successive trasformazioni e aggiornamenti che nel tempo sono<br />

stati apportati ai testi della liturgia concessa nel 1506.<br />

Ho più volte affermato – creando anche un certo scandalo nel mondo<br />

<strong>degli</strong> apologeti – che a mio avviso la Sindone, nel suo significato,<br />

non è autoreferenziante, ma presuppone due punti <strong>di</strong> riferimento ben<br />

precisi. La Sindone è stata – provvidenzialmente per il credente – posta<br />

sul cammino della storia perché gli uomini si confrontino con essa. La<br />

guar<strong>di</strong>no, perché è oggetto da guardare con gli occhi del corpo e con<br />

quelli della mente. Senza <strong>di</strong> essi, senza gli uomini, la Sindone non è in<br />

grado <strong>di</strong> esprimersi nella sua complessità e completezza. D’altra parte<br />

la Sindone non sarebbe nulla se non fosse «lo specchio del Vangelo» 4 ,<br />

quin<strong>di</strong> se non fosse riferimento straor<strong>di</strong>nario a Cristo. Senza Cristo la<br />

Sindone semplicemente non sarebbe. Evidentemente queste considerazioni<br />

sono ancora una volta applicabili alle acheropite.<br />

4 GIOVANNI PAOLO II, Venerazione della Sindone, 24 maggio 1998.<br />

313


314<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Ne consegue che per un approccio <strong>di</strong> questo tipo la perio<strong>di</strong>zzazione<br />

sin qui utilizzata <strong>di</strong>venta stretta ed anche fuorviante.<br />

Se la Sindone deve essere considerata nel suo rapporto con la storia<br />

<strong>degli</strong> uomini ed in particolare della Chiesa, è a questa che dobbiamo<br />

fare riferimento. È noto quanto le perio<strong>di</strong>zzazioni nella storia siano<br />

aleatorie e pericolose, soprattutto se legate a date precise. Tuttavia scegliendo<br />

alcuni momenti importanti della storia della Chiesa, soprattutto<br />

intesa come storia spirituale, possiamo isolare dei macroperio<strong>di</strong> che<br />

in maniera sod<strong>di</strong>sfacente consentono <strong>di</strong> seguire lo sviluppo <strong>di</strong> quelle<br />

forme <strong>di</strong> pietà e cultuali cui si accennava prima. Ci si potrà rendere<br />

conto <strong>di</strong> una caratteristica essenziale della Sindone. Essa ha attraversato<br />

epoche, culture, crisi, senza mai smettere <strong>di</strong> avere un significato, <strong>di</strong><br />

portare un messaggio. Credo che questo sia il risultato <strong>di</strong> quella funzione<br />

me<strong>di</strong>atrice e <strong>di</strong> referenze cui ho fatto cenno. Ma soprattutto è testimonianza<br />

per il credente del <strong>di</strong>segno provvidenziale che ne accompagna<br />

l’esistenza.<br />

Tornando dunque alla perio<strong>di</strong>zzazione, mi è parso <strong>di</strong> poter in<strong>di</strong>viduare<br />

alcuni intervalli <strong>di</strong> tempo che consentono <strong>di</strong> connotare <strong>di</strong>versi<br />

approcci alla Sindone, in particolare per quanto riguarda i secoli documentati<br />

5 . Da una parte si osserva una posizione della Chiesa istituzionale<br />

che da una iniziale cautela, per non <strong>di</strong>re <strong>di</strong>ffidenza, va poco per<br />

volta aprendosi, e dall’altra una tra<strong>di</strong>zione ininterrotta <strong>di</strong> devozione da<br />

parte delle genti, che sicuramente ha con<strong>di</strong>zionato lo stesso atteggiamento<br />

pur sempre attento dell’autorità, dando origine ad un caso forse<br />

unico, per articolazione, durata e interesse, nella storia della Chiesa.<br />

Un primo periodo è quello me<strong>di</strong>evale, che si sarebbe dovuto rivelare<br />

particolarmente accogliente, considerato il robusto sviluppo della devozione<br />

all’umanità <strong>di</strong> Cristo.<br />

Gli estremi della fase storica che chiamiamo Me<strong>di</strong>o Evo sono certamente<br />

molto ampi. Tuttavia si può in<strong>di</strong>viduare una coincidenza dello<br />

sviluppo <strong>di</strong> tale devozione, nei termini che qui ci interessano, ad iniziare<br />

da quel periodo che con felice espressione Léopold Génicot in<strong>di</strong>ca<br />

come il mezzogiorno della cristianità me<strong>di</strong>evale, in cui si colgono i primi<br />

frutti della riforma della Chiesa voluta da Gregorio VII.<br />

È un tempo molto delicato dal nostro punto <strong>di</strong> vista, in quanto è<br />

proprio nel momento più drammatico della storia della Chiesa me<strong>di</strong>e-<br />

5 Per una storia della Sindone mi permetto <strong>di</strong> rimandare al mio G.M. ZAC CO -<br />

NE, La Sindone. Storia <strong>di</strong> una immagine, Milano 2010.


Dalle acheropite alla Sindone<br />

vale – ed anche quello in cui la pietà verso i segni materiali corre seriamente<br />

il rischio <strong>di</strong> derive pericolose – che compare un segno complesso<br />

e inquietante come la nostra Sindone. Ed è per questo che la devozione<br />

verso la Sindone conosce serie <strong>di</strong>fficoltà, sino a raggiungere un livello<br />

<strong>di</strong> culto meramente tollerato da parte dell’Istituzione religiosa. La giustificazione<br />

<strong>di</strong> tale tolleranza, stabilita dal papa Clemente VII <strong>di</strong> Avignone<br />

contro il parere stesso <strong>di</strong> Pierre d’Arcis, Or<strong>di</strong>nario del luogo in<br />

cui compare la Sindone, consiste nel fatto che il Pontefice concentra<br />

l’attenzione sul valore iconico <strong>di</strong> quell’immagine, evitando il problema<br />

della realtà <strong>di</strong> reliquia. Ma è anche il periodo che sfocia nella normalizzazione<br />

del rapporto dei fedeli con la Sindone, attraverso un ulteriore<br />

intervento della Chiesa e la concessione del culto pubblico nel 1506,<br />

quando la Sindone, ormai inserita in un assetto stabile e garantito –<br />

una <strong>di</strong>nastia regnante – può finalmente essere oggetto <strong>di</strong> un culto pienamente<br />

accettato, la cui liturgia costringe la devozione all’interno <strong>di</strong><br />

forme precise e tutelate da abusi. Dal memoriale <strong>di</strong> Pierre d’Arcis e dalle<br />

prescrizioni <strong>di</strong> Clemente VII <strong>di</strong> Avignone ai provve<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> Giulio II<br />

sembra esserci un abisso, che invece non esiste se si considera il percorso<br />

alla luce della storia della Chiesa, dell’evoluzione della pietà e <strong>degli</strong><br />

eventi occorsi alla Sindone. Giova inoltre anche confrontare il rapporto<br />

fedele – immagine – reliquia in altre situazioni e contesti coevi, che<br />

gettano una luce <strong>di</strong>versa sulle questioni sindoniche dei primi tempi della<br />

sua esistenza nota.<br />

Il Concilio <strong>di</strong> Trento, ma soprattutto la sua applicazione da parte <strong>di</strong><br />

una Chiesa veramente ansiosa <strong>di</strong> riforma, in cui operarono altissime figure,<br />

imponenti per dottrina e spiritualità, sfociata nel periodo del<br />

trionfo barocco, ha poi influito in maniera determinante sull’approccio<br />

alla Sindone. I solenni apparati delle ostensioni – ma anche qui occorre<br />

considerare il parallelo con analoghe manifestazioni religiose –, la <strong>di</strong>ffusione<br />

iconografica e soprattutto la manualistica e l’omiletica tracciano<br />

una precisa linea pastorale che inserisce a pieno titolo la Sindone<br />

tra gli <strong>oggetti</strong> privilegiati <strong>di</strong> catechesi. A fianco della quale si pone l’intensa<br />

attività della <strong>di</strong>nastia proprietaria, i Savoia, interessati a <strong>di</strong>ffondere<br />

la conoscenza della loro “reliquia <strong>di</strong>nastica”, segno della legittimazione<br />

del proprio ruolo. È questo veramente il periodo trionfale della<br />

Sindone, in cui il culto da tollerato e accettato <strong>di</strong>viene vigorosamente<br />

promosso, e certamente il più ricco <strong>di</strong> testimonianze <strong>di</strong> una pietà totalmente<br />

trasversale negli strati sociali, compatti nell’inginocchiarsi <strong>di</strong><br />

fronte all’immagine dell’amore e del dolore.<br />

Il Settecento con le sue istanze razionaliste apre quel periodo che dal<br />

cosiddetto “Aufklärung cattolico” si snoda con la sua serrata critica si-<br />

315


316<br />

Gian Maria Zaccone<br />

no alla crisi modernista. Gli storici della Chiesa hanno vagliato sotto i<br />

più vari aspetti questa transizione. Quella che forse è mancata è una<br />

trattazione organica – ma mi rendo conto che lo stesso termine “organica”<br />

è qui fuori luogo – delle strade percorse dalla pietà in questi secoli,<br />

che spesso hanno <strong>di</strong>verso in maniera anche drammatica dal pensiero<br />

filosofico. È questo in effetti un periodo in cui lo stu<strong>di</strong>o del rapporto<br />

dei fedeli con la Sindone, come anche <strong>degli</strong> scritti su <strong>di</strong> essa, può portare<br />

ad intuire delle <strong>di</strong>namiche interessanti anche in un contesto più vasto<br />

<strong>di</strong> quello sindonico. Tra il libro del gesuita Sanna Solaro, <strong>di</strong>fensore<br />

della Sindone 6 e i testi profondamente critici dell’abate Chevalier 7 , coevi,<br />

quale è il rapporto? E lo straor<strong>di</strong>nario numero <strong>di</strong> pellegrini che si recano<br />

all’Ostensione del 1898 come si deve porre a fronte delle <strong>di</strong>struttive<br />

critiche verso la Sindone che vengono egualmente dal mondo laico e<br />

da parte <strong>di</strong> quello religioso? Non è inoltre un caso che dalla seconda<br />

metà del settecento le ostensioni subiscano un drastico ri<strong>di</strong>mensionamento,<br />

limitandosi praticamente a occasioni <strong>di</strong>nastiche.<br />

Segue il già citato periodo della scienza, nel quale ancora oggi viviamo.<br />

Dallo stu<strong>di</strong>o delle vicende della Sindone in quest’ottica emerge con<br />

chiarezza che preminente nel tempo è stato il ruolo <strong>di</strong> immagine.<br />

Un’immagine che offre possibilità <strong>di</strong> lettura a più livelli. Essa consente<br />

imme<strong>di</strong>atamente pre<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> tipo ascetico insistenti sulla me<strong>di</strong>tazione<br />

verso la Passione <strong>di</strong> Cristo, ma anche <strong>di</strong> affrontare argomenti <strong>di</strong><br />

carattere più mistagogico. È agile il passaggio dalla visione del cadavere<br />

martoriato sulla Sindone alla catechesi sulla morte <strong>di</strong> Cristo, e da questa<br />

alla resurrezione – mai, desidero riba<strong>di</strong>rlo – assente. Come pure <strong>di</strong><br />

affrontare questioni morali ed etiche. Ed anche <strong>di</strong> collegare temi scritturali.<br />

Il fatto che essa sia anche una reliquia – fatto dato per scontato<br />

nella totalità dei pre<strong>di</strong>catori fino agli anni Settanta del secolo scorso –<br />

serve tutto sommato solo a corroborare il significato dell’immagine,<br />

consentendo <strong>di</strong> affermare che non si parla <strong>di</strong> “un’immagine” ma <strong>di</strong><br />

“quell’immagine”, al più permettendo <strong>di</strong> inserire il tema del sangue <strong>di</strong><br />

6 G. SANNA SOLARO, La santa Sindone che si venera a <strong>Torino</strong>, <strong>Torino</strong> 1901.<br />

7 Ulysse Chevalier, con l’intento <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare su basi storiche l’origine me<strong>di</strong>evale<br />

della Sindone, ritornò più volte sul tema tra 1899 e il 1903. I suoi due lavori<br />

fondamentali sono: Étude critique sur l’origine du Saint Suaire de Lirey –<br />

Chambéry – Turin, Paris 1900, ed Autour des origines du Suaire de Lirey avec<br />

documents iné<strong>di</strong>ts, Paris 1903.


Dalle acheropite alla Sindone<br />

Cristo nella pre<strong>di</strong>cazione, tema per altro che conobbe un grande sviluppo<br />

in epoca tridentina e barocca. Però, ripeto, il punto nodale è l’im -<br />

magine. L’abate Fleury, al quale ho <strong>di</strong>mostrato appartenere la settecentesca<br />

<strong>di</strong>ssertazione contro l’autenticità della sindone <strong>di</strong> Besançon 8 , affermava:<br />

«Alla fine, anche se non si trattasse del vero sudario nel quale<br />

fu avvolto il corpo <strong>di</strong> Cristo, è sempre una toccante immagine del Salvatore<br />

che ci conduce a onorare molti dei suoi misteri», un pensiero<br />

completamente sovrapponibile a quanto affermato dal car<strong>di</strong>nal Ballestero<br />

dopo il responso del C14, frettolosamente – e con colpevole superficialità<br />

– bollato come una <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> resa, che chiarì come<br />

preminente per la Chiesa fosse la realtà <strong>di</strong> immagine, definendo la Sindone<br />

“veneranda icona”, intendendo con questo richiamare il profondo<br />

significato collegato con tale termine.<br />

Una definizione il cui valore veramente comprensivo della profonda<br />

realtà sindonica ha trovato quest’anno una vigorosa conferma straor<strong>di</strong>naria<br />

nella me<strong>di</strong>tazione <strong>di</strong> Benedetto XVI davanti alla Sindone, definita<br />

“Icona del Sabato Santo 9 ”.<br />

La Sindone, come ricordato da Giovanni Paolo II non è un articolo<br />

<strong>di</strong> fede 10 , e quin<strong>di</strong> la Chiesa non ha nessun dovere <strong>di</strong> ergersi a giu<strong>di</strong>ce<br />

della ricerca compiuta su <strong>di</strong> essa, lasciando libertà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio.<br />

D’altra parte essa ha tutto il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> in<strong>di</strong>care in quell’immagine un<br />

oggetto che – come sancì il Concilio <strong>di</strong> Nicea nel 787 precisando una<br />

dottrina del culto dell’immagine immutata sino ad oggi – è venerabile<br />

privatamente e liturgicamente in quanto «l’onore attribuito all’immagine<br />

passa al prototipo e chi venera l’immagine, venera la persona che<br />

questa rappresenta» 11 . Sono persuaso – corroborato in ciò dalle parole<br />

dei due ultimi pontefici e dalla pastorale che in questi anni si è sviluppata<br />

intorno alla Sindone – che dal punto <strong>di</strong> vista del fedele sia questo<br />

8 G. M. ZACCONE, Le manuscrit 826 de la Bibliothèque municipale de Besan -<br />

çon, in Non fait de main d’homme. Actes du IIIe Symposium scientifique Interna -<br />

tional. Nice 1997, Paris 1998.<br />

9 BENEDETTO XVI, Venerazione della Sindone, 2 maggio 2010.<br />

10 Non è certamente un concetto introdotto a giustificazione <strong>di</strong> una posizione<br />

della Chiesa nei confronti della Sindone. Lo troviamo già espresso ad esempio in<br />

un testo fortemente agiografico come quello <strong>di</strong> G. LANZA, La Santissima Sindone<br />

del Signore, <strong>Torino</strong> 1898,<br />

11 H. DENZINGER - A. SCHÖNMETZER, Enchiri<strong>di</strong>on symbolorum, definitionum<br />

et declarationum de rebus fidei et morum, Barcinone etc., 1967 34 , *601.<br />

317


318<br />

Gian Maria Zaccone<br />

l’aspetto <strong>di</strong> maggior potenza evocativa e spirituale, e dunque la ragione<br />

fondante <strong>di</strong> interesse per la Sindone.<br />

Anche sotto questo aspetto mi sembra dunque <strong>di</strong> poter confermare<br />

che veramente esiste una profonda continuità con le immagini “acheropite”<br />

che hanno contrassegnato la storia dell’umanità credente.<br />

Una umanità che da sempre si è interrogata sulla fisicità del Verbo<br />

fatto Uomo, e ben presto si è de<strong>di</strong>cata a cercarne ricor<strong>di</strong>, reliquie e immagini.<br />

Soprattutto immagini perché è la prima volta nella storia che<br />

l’uomo ha potuto contemplare il suo Dio non antropomorfizzato, ma<br />

nella sua vera realtà <strong>di</strong> Dio che fatto uomo ha assunto una sua precisa<br />

in<strong>di</strong>vidualità non <strong>di</strong>sgiunta dalla <strong>di</strong>vinità “vero Dio e vero uomo”. Una<br />

realtà che però ha creato sin dai primi secoli, anche in questo campo,<br />

questioni, <strong>di</strong>spute e lacerazioni.<br />

Se infatti le reliquie come la croce – la più risalente <strong>di</strong> esse – non<br />

crearono grossi problemi circa la loro forma ed esistenza, e se qualche<br />

questione in più originò la raffigurazione del Crocefisso, a cui per altro<br />

non si chiedeva una somiglianza fisica con l’originale ma una rappresentazione<br />

prima evocativa e poi realistica del sacrificio espiatorio, non<br />

così accade per l’immagine, l’icona del Redentore.<br />

Qui infatti la questione assume connotazioni realmente critiche: si<br />

tratta <strong>di</strong> riprodurre le fattezze dell’uomo Dio, i suoi tratti, <strong>di</strong> rispondere<br />

materialmente alla biblica, spirituale, invocazione del salmista «Il tuo<br />

volto, signore, io cerco», a fronte della mancanza totale <strong>di</strong> descrizioni<br />

dell’aspetto fisico dell’uomo Gesù.<br />

La stessa tra<strong>di</strong>zione patristica ondeggia tra gli estremi del più bello<br />

dei figli dell’Uomo e dell’uomo deforme.<br />

Moltissimi sono i testi che trattano dell’aspetto storico-artistico della<br />

raffigurazione <strong>di</strong> Cristo. Relativamente meno quelli che affrontano la<br />

vera essenza dell’origine e del <strong>di</strong>battito sull’immagine, sulla sua liceità e<br />

sulla stessa possibilità <strong>di</strong> esistenza 12 . Il problema infatti, come sottolinea<br />

Schönborn, è squisitamente teologico:<br />

L’icona non solo tiene desta la memoria dell’incarnazione, ma ricorda costantemente<br />

anche il ritorno promesso <strong>di</strong> Cristo 13 . Per questo la Chiesa<br />

12 Sul primo aspetto si può utilmente consultare il catalogo della mostra giubilare<br />

a cura <strong>di</strong> G. MORELLO - G. WOLF, Il Volto <strong>di</strong> Cristo, Milano 2000, con la<br />

ricca bibliografia. Per il secondo inelu<strong>di</strong>bile è il rimando a C. SCHÖNBORN,<br />

L’icona <strong>di</strong> Cristo. Fondamenti teologici, Cinisello Balsamo 1988.<br />

13 Il car<strong>di</strong>nale <strong>di</strong> Vienna qui fa riferimento alla citata promessa <strong>degli</strong> angeli al


Dalle acheropite alla Sindone<br />

d’Oriente considera l’icona <strong>di</strong> Cristo un elemento imprescin<strong>di</strong>bile della<br />

confessione cristiana. Essa vede nell’icona una sintesi della confessione <strong>di</strong><br />

fede… Tutti i gran<strong>di</strong> enunciati della confessione cristologia della Chiesa antica<br />

sono riassunti in questo mistero. Di ciò erano pienamente consapevoli<br />

coloro che <strong>di</strong>fendevano le immagini. Per essi quin<strong>di</strong> la <strong>di</strong>fesa delle immagini<br />

e la loro venerazione non era una questione puramente pragmatico-pedagogica:<br />

ne andava invece del centro stesso della fede cristiana… La controversia<br />

iconoclasta è, dal punto <strong>di</strong> vista del contenuto, l’ultima fase della<br />

controversia cristologia della Chiesa antica 14 .<br />

Ne emerge che la questione della raffigurazione <strong>di</strong> Cristo, ed anche<br />

la storia <strong>di</strong> tale percorso, sia inelu<strong>di</strong>bile per un approccio corretto alla<br />

Sindone come alle acheropite.<br />

È poi evidente che una volta chiariti i fondamenti teologici esistono<br />

anche gli aspetti estetici, che tuttavia appaiono chiaramente subor<strong>di</strong>nati,<br />

a maggior ragione per quanto riguarda la <strong>di</strong>sputa iconoclasta, a<br />

quelli cristologici.<br />

In effetti quando i <strong>di</strong>fensori delle immagini opponevano agli iconoclasti<br />

che il Verbo eterno, realmente fatto carne, si è fatto anche “circoscrivibile”,<br />

ne giustificavano la rappresentabilità attraverso una immagine.<br />

Il problema semmai – e qui si lambisce la questione estetica – è<br />

«in qual misura il Figlio sia immagine perfetta del Padre, anche in<br />

quanto incarnato, cioè in qual misura un volto umano possa essere perfetta<br />

immagine <strong>di</strong> Dio. Solo dopo aver misurato, in modo approssimativo,<br />

questa <strong>di</strong>mensione della raffigurabilità, la questione delle “immagini<br />

sacre”, della possibilità per l’arte <strong>di</strong> attingere il mistero inattingibile,<br />

acquista tutta la sua portata» 15 . In questo mistero secondo Teodoro<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>ta si esprime sino in fondo l’originalità paradossale della fede cristiana,<br />

in cui la seconda Persona della <strong>di</strong>vina ed eterna Trinità, per sua<br />

stessa natura non visibile, è <strong>di</strong>venuta visibile in Gesù <strong>di</strong> Nazaret, come<br />

preciso in<strong>di</strong>viduo che ha camminato nella storia, che altri in<strong>di</strong>vidui<br />

hanno incontrato, con i quali ha parlato e mangiato, sofferto e gioito.<br />

momento dell’ascensione: «Questo Gesù che è stato tra voi assunto fino al cielo,<br />

tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo». Tale<br />

visione peraltro non è solo orientale. Ricordo il già citato testo della preghiera<br />

attribuito dal monaco inglese Mattew Paris ad Innocenzo III, nel quale la<br />

Veronica romana è vista come ricordo del passaggio <strong>di</strong> Cristo in terra e anticipazione<br />

della visione <strong>di</strong> Dio.<br />

14<br />

SCHÖNBORN, cit., 129-130.<br />

15 Ibid.<br />

319


320<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Da cui anche la questione artistico-estetica. Da dove ricavare i tratti <strong>di</strong><br />

questa in<strong>di</strong>vidualità, poiché nulla ce li ha tramandati? Chi poi è in grado<br />

<strong>di</strong> cogliere questi tratti sì umani, ma che coinvolgono immensi e insondabili<br />

misteri? Interrogativi che ebbero come esito l’iconografia simbolica,<br />

che in qualche modo elude il problema, e quella ritenuta verista<br />

che invece rischia <strong>di</strong> soffocare nel problema.<br />

Per rime<strong>di</strong>are all’impasse assistiamo parallelamente allo sviluppo<br />

della tra<strong>di</strong>zione acheropita, che da una parte legittima la venerazione<br />

dell’immagine, in quanto espressione della volontà dello stesso raffigurato,<br />

e dall’altra ne garantisce la corrispondenza all’originale. Immagini<br />

che, proprio per essere le “vere” immagini, godono del privilegio <strong>di</strong><br />

potersi riprodurre miracolosamente per contatto, a testimonianza del<br />

fatto che comunque la bellissima realtà del Dio fatto uomo non può essere<br />

umanamente riprodotta. Così ad esempio accadde al Mandylion<br />

<strong>di</strong> Edessa, ed anche alla Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> fu attribuito tale comportamento.<br />

Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ipotesi che vorrebbero identificare queste due immagini –<br />

al momento <strong>di</strong>fficilmente percorribili – non si può negare che comunque<br />

il legame tra <strong>di</strong> esse è reale, profondo e per molti versi ben più fondante<br />

<strong>di</strong> una dubbia continuità materiale.<br />

Altra acheropita dove il legame con la Sindone appare palese è la<br />

Veronica, la cui tra<strong>di</strong>zione occidentale risulta per molti versi speculare<br />

a quella del Mandylion in Oriente.<br />

Come noto sin dall’inizio del XII secolo esistono notizie certe del fatto<br />

che il velo conservato a Roma racchiudesse l’immagine del Volto <strong>di</strong><br />

Cristo, secondo le fonti impresso dal sudore e sangue del Getzemani.<br />

Non sfugge il parallelismo sia con alcune interpretazioni del Mandylion<br />

dopo l’arrivo a Costantinopoli, come anche con l’immagine della<br />

Sindone «icona <strong>di</strong>pinta col sangue» 16 .<br />

Per molto tempo gli storici si sono interrogati su quale delle due leggende<br />

– Veronica e Mandylion – si fosse modellata l’altra. La questione<br />

non è qui <strong>di</strong> interesse. Importante è prendere atto che tutta la Cristianità<br />

anela ad identificare quel volto. Il Mandylion in Oriente e la Veronica<br />

in Occidente rappresentano due fondamentali espressioni dello<br />

stesso Volto, recepite secondo le più profonde attese delle <strong>di</strong>verse spiritualità.<br />

Ne è palese testimonianza il ruolo della Veronica nella pietà<br />

me<strong>di</strong>evale, ed in particolare il significato enorme rivestito nei Giubilei.<br />

16 BENEDETTO XVI, Venerazione della Sindone, 2 maggio 2010.


Dalle acheropite alla Sindone<br />

Le relazioni dei pellegrini, i testi letterari, le cronache liturgiche segnalano<br />

in maniera inequivocabile l’emozione della presenza <strong>di</strong> quel volto<br />

a Roma. E <strong>di</strong>co presenza perché non era certo la “visibilità” ciò che appagava<br />

il pellegrino. In effetti credo che ben pochi potessero <strong>di</strong>re <strong>di</strong> avere<br />

realmente potuto osservare le fattezze <strong>di</strong> quel volto – che oggi come<br />

noto non sembra più percepibile – visto rapidamente e da lontano, in<br />

mezzo ad una folla inverosimile. Ancora una volta si sottolinea il valore<br />

simbolico <strong>di</strong> queste immagini-reliquie, che hanno significato nell’immaginario<br />

devozionale appunto per la loro presenza, e non tanto per la loro<br />

percettibilità: presenza testimoniata dall’ostensione, che ne manifesta<br />

la fisicità piuttosto che i particolari. La stessa Sindone partecipa <strong>di</strong><br />

tale caratteristica. Le ostensioni al popolo infatti consentivano sicuramente<br />

<strong>di</strong> vedere il lenzuolo, forse ai meno lontani <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere qualche<br />

macchia <strong>di</strong> sangue, dopo il 1532 le bruciature, ma non certo <strong>di</strong> apprezzare<br />

le fattezze dell’impronta, privilegio destinato solo a categorie<br />

esclusive <strong>di</strong> persone in ostensioni private. Non <strong>di</strong>mentichiamo che in<br />

questo tardo me<strong>di</strong>oevo si stabiliscono delle azioni liturgiche destinate<br />

al “vedere”, per percepire materialmente una presenza, reclamate a<br />

gran voce dalla pietà popolare, quali l’elevazione, vera e propria ostensione<br />

del corpo <strong>di</strong> Cristo sotto le specie del pane e l’adorazione del<br />

Santissimo Sacramento in occasione della festa del Corpus Domini,<br />

anch’essa creazione me<strong>di</strong>evale – istituita nel 1246 a Liegi – che ebbe un<br />

successo enorme.<br />

Tra le acheropite registrate nella storia queste sono certamente quelle<br />

che maggiore influenza hanno avuto sulla pietà, anche perché ritenute<br />

coeve <strong>di</strong> Cristo.<br />

Ma per quanto riguarda il nostro assunto vorrei ancora ricordare<br />

l’icona <strong>di</strong> Beyrouth, per la sua importanza non tanto come immagine,<br />

quanto per l’introduzione <strong>di</strong> un tema che risulta fondamentale per la<br />

pietà me<strong>di</strong>evale verso l’umanità <strong>di</strong> Cristo e <strong>di</strong> riflesso anche verso la<br />

Sindone: il sangue. Si tratta infatti della leggenda <strong>di</strong> un’icona vilipesa, il<br />

cui costato lacerato avrebbe emesso sangue. Fonte della leggenda sarebbe<br />

una relazione, attribuita non a caso a sant’Atanasio 17 , letta al II<br />

17 Come noto Atanasio il Grande, dottore della Chiesa, fu strenuo <strong>di</strong>fensore<br />

della corretta dottrina circa l’incarnazione contro le eresie che mettevano in <strong>di</strong>scussione<br />

la realtà e l’unità delle due nature <strong>di</strong> Cristo. In questo caso l’icona sanguinante<br />

contribuisce a <strong>di</strong>mostrare la reale natura umana del Verbo incarnato.<br />

321


322<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Concilio <strong>di</strong> Nicea. Il testo ci è tramandato in due versioni, greca e latina,<br />

connotati da alcune <strong>di</strong>vergenze che ben illustrano le <strong>di</strong>fferenti mentalità<br />

nell’affrontare la questione. Da sottolineare in questa leggenda il<br />

fatto che l’icona deve essere interpretata come una figura intera del<br />

Cristo, dalla tra<strong>di</strong>zione latina attribuita a Nicodemo. Tale caratteristica<br />

si desume dal fatto che il rito <strong>di</strong> profanazione avvenne infliggendo all’immagine<br />

tutti i tormenti della passione: dalla coronazione <strong>di</strong> spine,<br />

all’inchiodamento <strong>di</strong> mani e pie<strong>di</strong>, al colpo <strong>di</strong> lancia. Fu a questo punto<br />

che il costato iniziò ad emettere sangue ed acqua, che secondo la tra<strong>di</strong>zione<br />

latina venne raccolto – fu infatti in Occidente che ebbe particolare<br />

sviluppo la devozione al sangue <strong>di</strong> Cristo – e dal quale sarebbero<br />

derivate tutte le reliquie del sangue <strong>di</strong> Cristo, altro del quale in terra<br />

non si conserva, eccetto beninteso quello del sacrificio eucaristico.<br />

La questione della possibilità <strong>di</strong> permanenza in terra <strong>di</strong> tale sangue<br />

dopo la resurrezione sarà fonte <strong>di</strong> interminabili ed accese <strong>di</strong>spute teologiche.<br />

Questa leggenda propone una soluzione al problema, immaginando<br />

un momento successivo e miracoloso per giustificare la presenza<br />

<strong>di</strong> tali reliquie, tant’è che Roberto Bellarmino riterrà questa affermazione<br />

un’interpolazione più tarda, frutto delle <strong>di</strong>scussioni teologiche<br />

successive.<br />

Non <strong>di</strong>ssimilmente da quanto accadde per il Mandylion, la cui esistenza<br />

in quanto acheropita venne vittoriosamente opposta agli iconoclasti,<br />

la presenza <strong>di</strong> sangue sulla Sindone venne agitata quale inoppugnabile<br />

argomento dai sostenitori della possibilità <strong>di</strong> presenza <strong>di</strong> reliquie<br />

del sangue <strong>di</strong> Cristo.<br />

Non sfugge che nella tra<strong>di</strong>zione dell’icona <strong>di</strong> Beyrout si ritrovano<br />

elementi comuni alla leggenda del Santo Volto <strong>di</strong> Lucca. Conosciamo<br />

da molte fonti la grande venerazione che dal XII secolo circonda questo<br />

gigantesco crocifisso, che nel panorama delle reliquie della Passione occupa<br />

un posto singolare, meritevole <strong>di</strong> essere citato. Di per sé infatti<br />

non è altro che un’opera artistica, sulla cui origine è ampio il <strong>di</strong>battito.<br />

La sua preziosità come icona venne sancita sin dal XII secolo con l’attribuzione<br />

dell’opera miracolosamente giunta in Italia a Nicodemo,<br />

specificando però in questa tra<strong>di</strong>zione che il modello del <strong>di</strong>scepolo fu<br />

l’immagine del Signore impressa sulla Sindone. È evidente il richiamo<br />

comunque ad una acheropita che garantisce la realizzabilità dell’oggetto,<br />

e trovo interessante questa tra<strong>di</strong>zione, che potrebbe essere la più risalente<br />

testimonianza del fatto che una raffigurazione del Cristo martoriato<br />

impressa su <strong>di</strong> un lino potesse essere considerata materialmente<br />

possibile ed oggetto <strong>di</strong> venerazione. Un ulteriore legame con l’immagine<br />

<strong>di</strong> Beyrouth e con la Sindone, che fa dell’immagine del Crocefisso


Dalle acheropite alla Sindone<br />

anche una reliquia, mi pare ben visibile nel completarsi della leggenda<br />

con la scoperta al suo interno delle ampolle contenenti il sangue <strong>di</strong> Cristo.<br />

Credo dunque <strong>di</strong> poter concludere che effettivamente la Sindone<br />

può considerarsi un punto <strong>di</strong> arrivo al <strong>di</strong> là del quale la tra<strong>di</strong>zione delle<br />

acheropite non poteva più spingersi, ed in effetti non si è più spinta. In<br />

qualche modo essa ha raccolto gli esiti <strong>di</strong> tutta una tra<strong>di</strong>zione preesistente,<br />

si è posta nella storia dell’iconografia <strong>di</strong> Cristo quale icona definitiva<br />

nella sua completezza e complessità. Un’icona che ha consentito<br />

anche agli uomini moderni e contemporanei <strong>di</strong> proseguire sulla strada<br />

<strong>di</strong> pietà e devozione percorsa da milioni <strong>di</strong> credenti. Essa, ultima venuta,<br />

ha soppiantato nella spiritualità, ma anche nell’immaginario collettivo,<br />

ogni altra immagine precedente. Non per la sua bellezza materiale<br />

– vi sono icone la cui presenza estetica è superiore – ma per la sua<br />

realtà, e non solo realismo, che consente a chi le si avvicina <strong>di</strong> provare il<br />

senso <strong>di</strong> una presenza e non solo <strong>di</strong> una memoria, <strong>di</strong> una partecipazione<br />

e non solo <strong>di</strong> una contemplazione.<br />

323


Finito <strong>di</strong> stampare nel giugno 2011<br />

da DigitalPrint Service s.r.l. in Segrate (Mi)<br />

per conto delle E<strong>di</strong>zioni dell’Orso

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