11.06.2013 Views

Sacre impronte e oggetti - Università degli Studi di Torino

Sacre impronte e oggetti - Università degli Studi di Torino

Sacre impronte e oggetti - Università degli Studi di Torino

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

Collana <strong>di</strong> <strong>Stu<strong>di</strong></strong> del<br />

Centro <strong>di</strong> Scienze Religiose<br />

<strong>di</strong>retta da<br />

ADELE MONACI CASTAGNO<br />

2


Il Convegno e gli Atti che sono oggetto <strong>di</strong> questa pubblicazione sono stati<br />

realizzati con il sostegno della Fondazione CRT.<br />

Questo volume è anche pubblicato e gratuitamente scaricabile<br />

dal sito internet del Centro <strong>di</strong> Scienze Religiose (<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>):<br />

This book is also published and can be downloaded for free<br />

from the website of the Centro <strong>di</strong> Scienze Religiose (University of Turin):<br />

www.unito.it/csr<br />

In copertina: Romano I Lecapeno riceve il mandylion <strong>di</strong> Edessa. Madrid,<br />

Biblioteca Nacional, Vitr/26/2 (gr. 347), f. 131r.


<strong>Sacre</strong> <strong>impronte</strong> e <strong>oggetti</strong><br />

«non fatti da mano d’uomo»<br />

nelle religioni<br />

Atti del Convegno Internazionale – <strong>Torino</strong>, 18-20 maggio 2010<br />

a cura <strong>di</strong><br />

Adele Monaci Castagno<br />

E<strong>di</strong>zioni dell’Orso<br />

Alessandria


© 2011<br />

Copyright by Centro Interfacoltà e Inter<strong>di</strong>partimentale <strong>di</strong> Scienze Religiose<br />

via Giulia <strong>di</strong> Barolo, 3/A 10124 <strong>Torino</strong><br />

tel. 011.6703822<br />

e-mail: peterson@unito.it<br />

E<strong>di</strong>zioni dell’Orso<br />

via Rattazzi, 47 15121 Alessandria<br />

tel. 0131.252349 fax 0131.257567<br />

Realizzazione e<strong>di</strong>toriale ed informatica <strong>di</strong> Arun Maltese<br />

(bear.am@savonaonline.it)<br />

È autorizzata la riproduzione a scopo non commerciale per uso interno e personale,<br />

fatti salvi i <strong>di</strong>ritti morali <strong>degli</strong> autori, senza apportare alcuna mo<strong>di</strong>fica al testo e con<br />

chiara in<strong>di</strong>cazione della fonte. È vietata ogni ripubblicazione non autorizzata. L’illecito<br />

sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del<br />

22.04.41.<br />

ISBN 978-88-6274-299-3


Adele Monaci Castagno<br />

Presentazione.<br />

Michael Singleton<br />

Traces of the Invisible in Africa.<br />

INDICE<br />

Enrico Comba<br />

Cose <strong>di</strong> un altro mondo: <strong>oggetti</strong> sacri nella tra<strong>di</strong>zione<br />

<strong>degli</strong> In<strong>di</strong>ani delle Pianure.<br />

Alberto Pelissero<br />

Su alcuni <strong>oggetti</strong> achiropiti della civiltà in<strong>di</strong>ana.<br />

Roberto Tottoli<br />

La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

nella tra<strong>di</strong>zione islamica.<br />

Luca Patrizi<br />

Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām.<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico:<br />

valenze religiose e politiche.<br />

Graziano Lingua<br />

Gli acheropiti e i fondamenti della teoria<br />

dell’immagine cristiana.<br />

Anca Vasiliu<br />

L’image-empreinte, identifiant visuel<br />

du Dieu-homme (réflexions sur la trace,<br />

le portrait antique et le Mandylion byzantin).<br />

1<br />

9<br />

41<br />

63<br />

71<br />

81<br />

95<br />

113<br />

129<br />

V


Luigi Canetti<br />

Vestigia Christi. Le orme <strong>di</strong> Gesù fra Terrasanta<br />

e Occidente latino.<br />

Adele Monaci Castagno<br />

L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano: visioni,<br />

rivelazioni, picturae nella Chiesa africana del V secolo.<br />

Ester Brunet<br />

Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini.<br />

Rémi Gounelle<br />

Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

et de la Sainte Face: la Cura sanitatis Tiberii<br />

et la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris.<br />

Bernard Flusin<br />

L’image d’Édesse, Romain et Constantin.<br />

Andrea Nicolotti<br />

Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

secondo alcune moderne interpretazioni.<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Dalle acheropite alla Sindone.<br />

In<strong>di</strong>ce<br />

153<br />

181<br />

201<br />

231<br />

253<br />

279<br />

309


PRESENTAZIONE<br />

ADELE MONACI CASTAGNO<br />

Questo volume riunisce gli Atti del Convegno Internazionale tenutosi<br />

a <strong>Torino</strong> dal 18 al 20 maggio 2010; in quegli stessi giorni la città assisteva<br />

partecipe all’imponente afflusso <strong>di</strong> circa due milioni <strong>di</strong> pellegrini<br />

che, provenienti anche da luoghi lontani, sfilavano commossi davanti<br />

alla Sindone esposta in Duomo, a poca <strong>di</strong>stanza dalla sede del Rettorato<br />

in cui si svolgevano i lavori del Convegno. Non <strong>di</strong>versamente dalle<br />

ostensioni precedenti, anche l’ostensione del 2010 ha suscitato uno<br />

straor<strong>di</strong>nario interesse e devozione. È un fatto che interpella non soltanto<br />

i credenti, ma che riguarda anche gli stu<strong>di</strong>osi interessati a comprenderne<br />

le ragioni e i significati su una scala <strong>di</strong> lungo periodo e in un<br />

orizzonte multiculturale e multireligioso. In questo senso il Centro Inter<strong>di</strong>partimentale<br />

e Interfacoltà <strong>di</strong> Scienze Religiose dell’<strong>Università</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>Torino</strong> ha organizzato il Convegno Internazionale <strong>Sacre</strong> <strong>impronte</strong> e <strong>oggetti</strong><br />

“non fatti da mano d’uomo” nelle religioni invitando gli stu<strong>di</strong>osi a<br />

riflettere, a partire dalla propria prospettiva, sugli “acheropiti”, su quegli<br />

<strong>oggetti</strong>, appunto, non fatti da mani d’uomo, ritenuti presentificazioni<br />

del <strong>di</strong>vino nello spazio sociale, come nella spiritualità <strong>degli</strong> in<strong>di</strong>vidui,<br />

che hanno una tra<strong>di</strong>zione millenaria nella cultura europea, ma che, <strong>di</strong>versamente<br />

declinati, sono presenti anche in altre culture e che permettono<br />

dunque il confronto fra metodologie <strong>di</strong>fferenti. I contributi qui<br />

riuniti sono il frutto del <strong>di</strong>alogo fra competenze <strong>di</strong>verse, filologiche,<br />

storiche, antropologiche, filosofiche, artistiche dei cui risultati merita <strong>di</strong><br />

sottolineare alcuni temi e le problematiche trasversali.<br />

Comparare il <strong>di</strong>verso. Un tema rilevante è, innanzitutto, quello metodologico<br />

insito nell’accostamento <strong>di</strong> scenari culturali così <strong>di</strong>versi. Per<br />

questo, mo<strong>di</strong>ficando l’or<strong>di</strong>ne effettivo delle relazioni, il volume si apre<br />

con il contributo <strong>di</strong> Michael Singleton che in modo simpaticamente critico<br />

ci spiega perché tutti i termini che appaiono nel titolo del Convegno<br />

appaiono irrime<strong>di</strong>abilmente eurocentrici dal suo punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong><br />

antropologo che ha lavorato sul campo in Africa: il concetto <strong>di</strong> “sacro”<br />

1


2<br />

Presentazione<br />

implica quello <strong>di</strong> “profano”, una <strong>di</strong>stinzione tipicamente occidentale;<br />

“impronta” è ciò che si vede e che acquista un significato particolare<br />

soltanto in un contesto culturale che riconosce la supremazia della vista<br />

sugli altri sensi; “non fatti da mano d’uomo” rimanda ad una concezione<br />

in cui la techne umana recita una parte <strong>di</strong> rilievo, se pure, in<br />

qualche caso, fonte <strong>di</strong> problemi; non è così invece per gli artisti o gli artigiani<br />

<strong>di</strong> altre culture. “Religioni” è naturalmente il concetto più contestabile:<br />

implica una separazione fra campi – il luogo della teologia e del<br />

rito dagli altri “luoghi” – che è sconosciuta in altre culture. Il contributo<br />

<strong>di</strong> Singleton, nella parte più teorica, è il necessario caveat nei confronti<br />

<strong>di</strong> un uso non consapevole <strong>di</strong> categorie e concetti. Tuttavia dal<br />

confronto avvertito fra culture <strong>di</strong>verse possono nascere domande nuove<br />

in grado <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re la comprensione del proprio campo <strong>di</strong> ricerca.<br />

Singleton, ad esempio, stabilisce una stretta relazione fra il noma<strong>di</strong>smo<br />

ra<strong>di</strong>cale dei WaKonongo e alcune caratteristiche della loro<br />

cultura. Riguardo all’Invisibile, tendono ad agire piuttosto che a vedere;<br />

provano <strong>di</strong>sinteresse a mo<strong>di</strong>ficare in modo permanente o memoriale<br />

i luoghi, preferiscono non lasciare tracce o dare importanza a tracce <strong>di</strong><br />

natura morale piuttosto che materiale; sono in<strong>di</strong>fferenti verso gli <strong>oggetti</strong><br />

materiali, fatti o non fatti da mano d’uomo. È interessante, però, notare<br />

che in un’altra cultura, anch’essa caratterizzata, almeno nella fase<br />

più antica, dal noma<strong>di</strong>smo, come quella <strong>degli</strong> in<strong>di</strong>ani delle pianure stu<strong>di</strong>ata<br />

da Enrico Comba, troviamo <strong>oggetti</strong> come il Copricapo Sacro <strong>di</strong><br />

Bisonte ritenuti doni del Creatore in un lontano passato e tramandati<br />

attraverso sorvegliate procedure attraverso le generazioni. Oggetti sui<br />

generis, naturalmente. Anche in questo caso il nostro linguaggio non<br />

riesce a esprimere adeguatamente il significato in quanto sono “<strong>oggetti</strong>”<br />

trattati e rappresentati come persone non umane all’interno <strong>di</strong> una<br />

prospettiva che attribuisce la stessa caratteristica – l’essere vivo, attivo e<br />

interattivo – a qualsiasi cosa, dal sole, alle formiche e ai bisonti e in cui<br />

non vi è una netta <strong>di</strong>stinzione fra cultura e natura. Per questo – osserva<br />

Enrico Comba – il paradosso <strong>di</strong> considerare frutto dell’intervento <strong>di</strong><br />

entità <strong>di</strong>vine dei manufatti umani, piuttosto che pietre conchiglie fossili,<br />

è solo apparentemente un paradosso.<br />

Nella civiltà in<strong>di</strong>ana, invece, descritta da Alberto Pelissero, sono<br />

proprio pietre particolari o fossili o altre creazioni naturali ad offrirsi al<br />

culto templare e privato come <strong>oggetti</strong> autogeni, non fatti da mano<br />

d’uomo, in grado <strong>di</strong> “raccontare” e significare miti cosmici <strong>di</strong> fondazione.<br />

Ancora un oggetto naturale, la pietra nera donata da Dio ad Adamo<br />

per mostrare dove costruire la Ka’ba, tuttora incastonata nell’angolo<br />

sud-orientale della Ka’ ba a Mecca, <strong>di</strong>venta nella tra<strong>di</strong>zione isla-


Presentazione<br />

mica il simbolo della natura primor<strong>di</strong>ale dell’Islam. Ma, come fa notare<br />

Roberto Tottoli, l’appropriazione della pietra nera già venerata insieme<br />

ad altre reliquie bibliche prima dell’arrivo <strong>di</strong> Muhammad a Mecca<br />

avviene all’interno <strong>di</strong> un contesto storico <strong>di</strong> negoziazione e reinterpretazione<br />

delle tra<strong>di</strong>zioni monoteiste ebraiche e cristiane e con<strong>di</strong>vide con<br />

queste le stesse tensioni e aporie implicite nella sacralizzazione <strong>di</strong> luoghi<br />

e <strong>oggetti</strong> particolari.<br />

Impronta, immagine, reliquia: un approccio filosofico. Il confronto <strong>di</strong><br />

metodologie e <strong>di</strong> saperi <strong>di</strong>sciplinari <strong>di</strong>versi mi pare abbia bene messo a<br />

fuoco la rilevanza culturale e la complessità <strong>di</strong> significati presenti in<br />

questi singolari <strong>oggetti</strong>. Nei <strong>di</strong>versi contesti culturali, il minimo comune<br />

denominatore consiste più nella loro funzione <strong>di</strong> essere un canale<br />

privilegiato <strong>di</strong> relazione con il <strong>di</strong>vino, che nella loro essenza. La stessa<br />

<strong>di</strong>stinzione fra oggetto naturale e oggetto frutto in tutto o in parte della<br />

techne dell’uomo funziona soltanto in alcuni contesti culturali. Particolarmente<br />

interessante, nell’ambito del Me<strong>di</strong>terraneo in cui sono venute<br />

stratificandosi e confrontandosi le culture classica, giudaica, cristiana e<br />

islamica è il tema delle <strong>impronte</strong>. Anca Vasiliu ha <strong>di</strong>segnato la complessa<br />

articolazione fra impronta e immagine nel passaggio fra la tra<strong>di</strong>zione<br />

classica a quella cristiana. Se nell’età antica l’impronta come traccia<br />

“eternalizzata” <strong>di</strong> un passaggio fisico è considerata più “vera” dell’immagine,<br />

successivamente impronta e immagine vengono a sovrapporsi:<br />

l’immagine speculare viene ad un certo punto considerata come l’impronta<br />

lasciata sulla superficie riflettente dall’immagine e alcune immagini,<br />

come il Mandylion <strong>di</strong> Edessa, in cui la condensazione fra impronta<br />

e immagine è ritenuta opera <strong>di</strong>vina, <strong>di</strong>ventano icone, canali aperti <strong>di</strong><br />

comunicazione con il <strong>di</strong>vino, in cui il Dio incarnato e dunque fisicamente<br />

circoscrivibile si offre alla contemplazione e alla venerazione. Si<br />

comprende allora il ruolo decisivo recitato da questo tipo <strong>di</strong> immagini<strong>impronte</strong><br />

acheropite nella formazione della filosofia cristiana dell’immagine;<br />

una filosofia messa a punto soltanto con la vittoria sull’iconoclastia,<br />

dopo lunghi contrasti e che per affermarsi ha dovuto neutralizzare<br />

il <strong>di</strong>vieto biblico delle immagini. Graziano Lingua ricostruisce le<br />

fasi salienti <strong>di</strong> questo passaggio in cui le acheropite, come immagini del<br />

volto <strong>di</strong> Cristo che egli stesso ha impresso su un telo e ha donato, costituiscono<br />

il mito fondatore della legittimità delle immagini, il superamento<br />

dello scoglio rappresentato dalla fallacia della creatività artistica<br />

umana e, in quanto ritratti autentici, consentono la visione del <strong>di</strong>vino e<br />

dunque il transito ad un mondo superiore.<br />

3


4<br />

Presentazione<br />

La tra<strong>di</strong>zione latina. Le immagine acheropite recitarono una parte <strong>di</strong><br />

rilievo nel <strong>di</strong>battito teologico nella lunga crisi iconoclasta da cui emerse<br />

alla fine il significato religioso e politico dell’immagine artificiale. Ester<br />

Brunet mette in luce i riferimenti più importanti ad esse presenti nella<br />

documentazione relativa al Concilio <strong>di</strong> Nicea del 787, mettendone in<br />

evidenza i no<strong>di</strong> più problematici e focalizzando poi la sua attenzione su<br />

una documentazione finora poco stu<strong>di</strong>ata: i Libri carolini, redatti da<br />

Teodulfo <strong>di</strong> Orléans e espressione dell’opposizione <strong>di</strong> Carlo Magno alle<br />

posizioni iconodule del Concilio <strong>di</strong> Nicea. Opposizione che si concentra,<br />

in parte, nella demolizione del fondamento filologico delle tra<strong>di</strong>zioni<br />

sul Mandylion e, in parte, con l’affermazione che se alcune immagini<br />

compiono miracoli, non tutte le immagini devono essere venerate, confutando<br />

così la concezione iconodula <strong>di</strong> immagine sacra come immagine<br />

che sia <strong>di</strong> per sé un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> comunicazione con il <strong>di</strong>vino.<br />

Nello stesso torno <strong>di</strong> tempo in cui Carlo Magno e la sua cerchia<br />

esprimevano il loro rifiuto delle immagini acheropite orientali più famose,<br />

si stavano ra<strong>di</strong>cando tra<strong>di</strong>zioni riguardanti la Veronica, la pia<br />

donna che nell’immaginario occidentale è legata alla VI stazione della<br />

Via Crucis, ritratta mentre offre al Cristo in cammino verso il Calvario<br />

un panno per detergersi il viso, panno su cui miracolosamente rimane<br />

impresso il volto <strong>di</strong> Cristo. L’indagine <strong>di</strong> Rémi Gounelle si concentra<br />

sui testi più antichi <strong>di</strong> questa tra<strong>di</strong>zione: la Cura sanitatis Tiberii e la<br />

Vin<strong>di</strong>cta salvatoris in cui l’immagine posseduta dalla Veronica è un’immagine<br />

che opera guarigioni, ma ancora un’immagine <strong>di</strong>pinta e non<br />

acheropita come lo <strong>di</strong>verrà in seguito forse per attrazione verso le immagini<br />

acheropite giunte in Occidente in seguito al sacco <strong>di</strong> Costantinopoli.<br />

Il contributo <strong>di</strong> Gounelle apre interessanti prospettive <strong>di</strong> ricerca<br />

sulla fase più antica della devozione al santo volto, proponendo una<br />

nuova datazione e un <strong>di</strong>verso rapporto fra le <strong>di</strong>verse recensioni della<br />

Vin<strong>di</strong>cta. Prima <strong>di</strong> queste testimonianze, nella tra<strong>di</strong>zione latina sono<br />

conosciuti soltanto altri due racconti in qualche modo legati ad <strong>impronte</strong><br />

e immagini miracolose: la prima è ricordata ancora da Gounelle<br />

ed è menzionata negli Atti apocrifi <strong>di</strong> Pietro e Paolo – testo originariamente<br />

composto in greco ma la cui traduzione latina (III sec.?) era molto<br />

<strong>di</strong>ffusa in Occidente – che potrebbe essere all’origine della leggenda<br />

della Veronica: vi si racconta infatti che, dopo la decapitazione <strong>di</strong> Paolo,<br />

viene messo sui suoi occhi un panno in cui rimane impresso il suo<br />

sangue e che viene miracolosamente restituito alla donna che l’aveva<br />

dato a Paolo, incontrato mentre ancora stava <strong>di</strong>rigendosi verso il luogo<br />

del suo martirio.


Presentazione<br />

La fonte stu<strong>di</strong>ata da Adele Monaci è dell’inizio del V secolo e racconta<br />

l’origine <strong>di</strong> un’immagine acheropita, nel senso <strong>di</strong> immagine ritenuta<br />

<strong>di</strong> mano <strong>di</strong>versa da quella dei comuni mortali e non come impronta<br />

meccanica e miracolosa dell’originale. Non si tratta <strong>di</strong> un’immagine<br />

<strong>di</strong> Cristo ma <strong>di</strong> Stefano martire che si materializza a Uzalis, nell’Africa<br />

cristiana, il giorno successivo ad un fatto straor<strong>di</strong>nario avvenuto in<br />

quella città. All’interno <strong>di</strong> un testo de<strong>di</strong>cato a raccontare i miracoli<br />

compiuti dalle reliquie del protomartire e in cui viene attribuita una<br />

grande importanza alle visioni ispirate da Dio per comprendere quanto<br />

avviene in quella Chiesa, l’immagine <strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina, che è una copia<br />

sui generis <strong>degli</strong> eventi del giorno prima, riveste lo stesso ruolo della visione,<br />

in quanto <strong>di</strong>schiude alla comunità l’autentico significato <strong>di</strong> quegli<br />

eventi.<br />

Il ruolo politico. Apparentemente <strong>di</strong>stanti per ambito culturale e cronologia,<br />

i contributi <strong>di</strong> Bernard Flusin e Lellia Cracco Ruggini illuminano<br />

un nodo problematico importante relativo agli acheropiti: la loro<br />

funzione politica. Al Mandylion edesseno e ai documenti che ne raccontano<br />

la traslazione a Costantinopoli nel 944 è de<strong>di</strong>cato lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong><br />

Flusin che, attraverso la ricostruzione filologica dei rapporti fra <strong>di</strong>verse<br />

recensioni dello stesso testo o fra testi <strong>di</strong>versi, mette in luce l’uso politico<br />

<strong>di</strong> questa immagine nel rafforzamento e nella legittimazione del regno<br />

<strong>di</strong> Costantino VII Porfirogenito. La stessa funzione politica <strong>di</strong> pignora<br />

imperii è attribuita in età pagana e tardo antica a due altri <strong>oggetti</strong><br />

acheropiti: l’Ancile <strong>di</strong> Numa e il Palla<strong>di</strong>o. Il primo – uno scudo piccolo<br />

e oblungo – secondo racconti leggendari riportati da Ovi<strong>di</strong>o e Plutarco<br />

sarebbe stato ricevuto dal cielo da Numa per confortare i citta<strong>di</strong>ni vittime<br />

<strong>di</strong> una grave pestilenza insieme ad un oracolo secondo il quale Roma<br />

avrebbe conservato la sua grandezza fintanto che l’avesse conservato<br />

nella città. Il Palla<strong>di</strong>o – una piccola statua lignea raffigurante la dea<br />

– sarebbe stata anch’essa donata dal cielo in collegamento alla fondazione<br />

<strong>di</strong> Ilio e quin<strong>di</strong>, per il tramite <strong>di</strong> Enea, a quella <strong>di</strong> Roma o, nella<br />

versione bizantina della leggenda, a quella <strong>di</strong> Costantinopoli. Si tratta<br />

<strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zioni che ebbero un certo rilancio in età tardo antica, ma la loro<br />

fortuna, legata prevalentemente a significati politici, seguì la sorte <strong>di</strong><br />

Roma. Anche il contributo <strong>di</strong> Gian Maria Zaccone, pur focalizzandosi<br />

su un altro aspetto, si riferisce alla Sindone, nel momento della sua<br />

massima affermazione, come ad una “reliquia <strong>di</strong>nastica” promossa dai<br />

Savoia per affermare e legittimare il loro ruolo politico ad intra come<br />

ad extra, fra le <strong>di</strong>nastie regali europee. In un contesto culturale non europeo,<br />

gli <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> provenienza celeste posseduti e tramandati dagli in-<br />

5


6<br />

Presentazione<br />

<strong>di</strong>ani delle pianure – stu<strong>di</strong>ati da Enrico Comba – sono carichi <strong>di</strong> valenze<br />

politiche, non ai fini della legittimazione <strong>di</strong> una leadership, ma in<br />

quanto simbolo intorno al quale si costruisce la rappresentazione del<br />

gruppo sociale e del suo benessere.<br />

Altre <strong>impronte</strong>. Nelle acheropite l’impronta del <strong>di</strong>vino è ritratto; tuttavia<br />

essa può dar luogo ad altro: l’impronta come traccia fisica del <strong>di</strong>vino<br />

è collegata alla creazione come i tre passi <strong>di</strong> Viṣṇu che hanno dato<br />

luogo all’universo; ma il tema dell’impronta “creatrice” si incontra anche<br />

in tra<strong>di</strong>zioni islamiche relative ai passi <strong>di</strong> Adamo. Sono questi miti<br />

cosmogonici – come afferma Luca Patrizi – che hanno sviluppato la venerazione<br />

<strong>di</strong> <strong>impronte</strong> sacre <strong>di</strong> pie<strong>di</strong> attribuite soprattutto a profeti: ad<br />

Abramo, menzionate dal Corano, a Mosé, allo stesso Muhammad, in<br />

Gerusalemme e in vari altri luoghi. Si menziona anche l’impronta della<br />

mano dell’arcangelo Gabriele sempre a Gerusalemme. In tra<strong>di</strong>zioni religiose<br />

aniconiche come l’islamismo o la fase più antica del bud<strong>di</strong>smo,<br />

l’impronta come negativo <strong>di</strong> una forma piena tende a precedere o a surrogare<br />

l’immagine, perché, come ricorda Luigi Canetti riprendendo Lèroy-Gourhan,<br />

l’impronta è “l’alba delle immagini”.<br />

Lo sviluppo della venerazione delle orme che Gesù avrebbe lasciato<br />

impresse sulla roccia del Monte <strong>degli</strong> Ulivi al momento della sua risalita<br />

al cielo non è invece riferibile ad un contesto aniconico. Diversamente<br />

dalle <strong>impronte</strong> dei profeti islamici, nel caso delle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Gesù la<br />

documentazione consente all’indagine storica <strong>di</strong> ricostruire le varie fasi<br />

della reificazione e spazializzazione <strong>di</strong> una profezia veterotestamentaria:<br />

“Prostriamoci nel luogo dove pose i suoi pie<strong>di</strong>” (Ps 131 7b, Sept),<br />

letta alla luce del racconto dell’ascensione <strong>di</strong> Cristo (Lc 24, 50-2; At.<br />

1,12); percorrendo la storia dell’esegesi <strong>di</strong> questi versetti biblici, è possibile<br />

constatare che soltanto nei primi anni del V sec. – quando in ambito<br />

cristiano le immagini erano largamente apprezzate e venerate – le orme<br />

si cristallizzarono in un oggetto e in un luogo precisi, <strong>di</strong>ventando<br />

poi meta <strong>di</strong> pellegrinaggio nei secoli successivi.<br />

La Sindone come immagine acheropita. Gli ultimi due contributi<br />

esplorano da punti <strong>di</strong> vista <strong>di</strong>versi il rapporto fra immagini acheropite<br />

e l’immagine acheropita più famosa: il telo sindonico torinese.<br />

L’articolo <strong>di</strong> Andrea Nicolotti esamina la fondatezza <strong>di</strong> recenti interpretazioni<br />

che affermano l’identità fra il Mandylion <strong>di</strong> Edessa e la<br />

Sindone <strong>di</strong> cui, altrimenti, non si hanno notizie sicure anteriori al XIV<br />

secolo. È facile intuire che tale collegamento, se corretto, potrebbe costituire<br />

una testimonianza significativa a favore dell’antichità della Sin-


Presentazione<br />

done. La miniatura riportata sulla copertina <strong>di</strong> questo volume, raffigurante<br />

la consegna del Mandylion all’Imperatore Romano I Lecapeno è<br />

stata utilizzata come prova del fatto che il Mandylion sarebbe stato in<br />

realtà un lungo lenzuolo. Dopo la confutazione filologica e storica dei<br />

principali argomenti a favore <strong>di</strong> questa identificazione, il contributo segue<br />

inoltre il viaggio del Mandylion da Costantinopoli alla Sainte-Chapelle<br />

a Parigi fino alla sua scomparsa definitiva durante la Rivoluzione<br />

francese.<br />

Il collegamento fra il Mandylion e la Sindone è però ricuperato da<br />

Gian Maria Zaccone da un punto <strong>di</strong> vista storico da un’altra angolazione<br />

ponendo l’uno e l’altra nella storia bimillenaria della devozione e<br />

della pietà. L’uno e l’altra non sono lo stesso oggetto, ma, nei <strong>di</strong>versi<br />

momenti storici e nelle questioni che sollevano, hanno continuità storica<br />

e profonda affinità che li pongono entrambi nella stessa tra<strong>di</strong>zione:<br />

l’essere immagine, ma anche reliquia; l’essere espressione <strong>di</strong> una teologia<br />

cristologica incentrata sulla contemplazione dell’umanità sofferente<br />

<strong>di</strong> Cristo alla luce della sua resurrezione e, insieme, nella storia della<br />

devozione, coagulo dell’ansia <strong>di</strong> vedere il volto del Dio incarnato che<br />

prevale sul tema della visibilità esplorata dalla filosofia dell’immagine e<br />

dalla teologia.<br />

7


TRACES OF THE INVISIBLE IN AFRICA<br />

1. A philosophical preamble<br />

MICHAEL SINGLETON<br />

Université Catholique de Louvain<br />

Extra ecclesiam nulla salus – whatever the everlasting value of the<br />

theologian’s tenet that salvation cannot be had except within the Church<br />

(Catholic, the present Pope would like to add), the anthropologist (not<br />

to say “this” anthropologist), affirms axiomatically that there can be<br />

“Nothing beyond Culture”, extra culturam nil datur. The claim will<br />

sound extravagant to many a western ear, programmed to consider the<br />

cultural as a mere <strong>di</strong>mension and a rather superficial one at that, in<br />

comparison to economics and politics (not to mention issues raised by<br />

the natural sciences such as climate change or nuclear physics). Here,<br />

however, I propose 1. that “Culture” be understood not as one part<br />

amongst many but as a socio-historic Whole and 2. that though there<br />

are a whole lot of cultures their incompressibility and in some cases incompatibility<br />

means that no one culture can ever embrace the whole<br />

lot. The point then is not to add yet another definition of culture to the<br />

hundreds already in circulation but to decide whether, in the last analysis,<br />

“making meaning” implies referring to trans-, extra- or supra-cultural<br />

Reality or whether “signification” (“making sense” – signum<br />

facere) is essentially an intra-cultural real-ization. Put more concretely, is<br />

there really only one Revealed Word or one Rational World or are there<br />

as many orderings of things as there are cultures?<br />

Though apparently academic, the question has crucial implications.<br />

Accepting that there can be no universal and univocal yardstick and<br />

taking cultures as self-constructed wholes would make for a permanent<br />

and positive plurality of cultures till the end of human times. Assuming,<br />

on the contrary, that where basics are concerned, all cultures must bow<br />

down before Something substantially and significantly (super)natural,<br />

automatically induces highly ambiguous and ultimately unacceptable<br />

consequences. The first is the reduction of culture to a merely secondary<br />

or selectively snobbish phenomenon. On the one hand, when money is<br />

9


10<br />

Michael Singleton<br />

short, subsi<strong>di</strong>es to the arts are the first to suffer, yiel<strong>di</strong>ng to priorities<br />

such as repairing motorways or buil<strong>di</strong>ng nuclear power stations. On the<br />

other hand, what is taken to be absolutely true by higher culture allows<br />

the aristocracy to <strong>di</strong>stinguish itself 1 from the popular culture of the lower<br />

classes or incites the more missionary minded of the upper classes to<br />

put genuine literature and authentic art at the <strong>di</strong>sposition of the vulgus<br />

plebs. The second equivocal result of imagining that culture is not all inclusive<br />

is the taking for granted what must be proved namely that such<br />

categories as the cultural, the economic and the political enjoy substantial<br />

transcultural significance. We will shortly see, for instance, that there<br />

is no such reality in sub-Saharan Africa as the “religious”, at least as<br />

this field is conventionally understood by the Western world. Thirdly<br />

and far more <strong>di</strong>sastrously (pre)supposing that the cultural must answer<br />

to the (super)natural leads automatically to an intransigent, intercultural<br />

intolerance. For if the Really Real is supernaturally Revealed and/or<br />

naturally Rational then the only culture(s) which can legitimately pretend<br />

to last till the End of Time are those whose essential identity ever<br />

increasingly espouses the (super)natural Order of Things.<br />

A simple schema can illustrate this primor<strong>di</strong>al bifurcation between<br />

those who accept that cultures cannot be definitely referred to non-cultural<br />

criteria and those who decisively refer cultures to (super)natural realities:<br />

In both figures, the top line represents an indefinite series of cultures.<br />

As it stands, printed on paper, the schema represents cultures syn-<br />

1 As P. BOURDIEU, La Distinction. Critique sociale du jugement, Paris 1979, classically<br />

showed.


Traces of the Invisible in Africa<br />

chronically and therefore artificially, as products, large and small, such<br />

as Africa, Europe, Asia>Tanzania, Italy, Vietnam>Ukonongo (the region<br />

of Tanzania where I <strong>di</strong>d field work), Piedmont, Hanoi. In actual<br />

fact, cultures are <strong>di</strong>achronic phenomena, socio-historic processes. It<br />

would thus be more exact to speak in general of culturation and in particular<br />

of Africanization, Westernization and so on. Though data give<br />

rise to thought, what is made de facto of the material will depend on the<br />

point of view a socio-historically situated mind adopts in the light of the<br />

conventional cause he or she has chosen to defend. The Italians or the<br />

Middle Ages, the WaKonongo and the late 1960s, for example, do not<br />

exist as such a parte rei, since the precise delimitation of a particular<br />

people or period (i.e. the constitution of a given culture) answers to para<strong>di</strong>gmatic<br />

choices and peculiar preoccupations, philosophic or otherwise.<br />

In the first figure, cultural values and visions are judged absolutely<br />

with regards their conforming or not to objective standards. These<br />

latter, for catholic theologians, have been revealed in the Bible. Though<br />

admitting that all cultures were possessed of “natural” religion, the Vatican<br />

claims that some were far less natural than others. The triangular<br />

polygamy of Africa, for instance, and the circular polytheism of Asia<br />

were or are highly unnatural compared to the emerging monogamy and<br />

monotheism of Rome. A providential, preparatio evangelica, meant that<br />

the greying square of the roman Empire made it ready, at the time of<br />

Christ, to welcome the supernatural moral values and religious visions<br />

revealed by the black square of God’s Truth. But the schema works for<br />

Reason too. For today the scientifically minded westerner is convinced<br />

that his greying culture is the first to square up to natural facts. The scientist<br />

now knows for sure that you cannot make rain by sacrificing a<br />

black hen as Africans in their triangle once superstitiously believed but<br />

only by sprinkling metal particles in the sky and that if acupuncture<br />

works it is not because of such circular silly chinoiseries as the struggle<br />

between Yin and Yang but simply because appropriately placed needles<br />

can release endorphins. Paradoxically, accor<strong>di</strong>ng to this first understan<strong>di</strong>ng<br />

of the relations between the cultural and the (super)natural,<br />

Culture amounts to next to nothing and Nature represents almost everything.<br />

When it is not simply neutral, at its best, culture points in the<br />

same <strong>di</strong>rection as nature, whereas at its worst, it proves itself to be <strong>di</strong>abolically<br />

or <strong>di</strong>sastrously unnatural.<br />

In the second figure, there is no absolutely objective Reality to which<br />

cultures can be decisively and definitively related. If, none the less, one<br />

culture remains grey, it is to reflect a simple but substantial fact of life:<br />

no living person can find himself everywhere or nowhere at any given<br />

11


12<br />

Michael Singleton<br />

moment – each and everyone of us, hic et nunc, can basically be at home,<br />

and legitimately so, in one culture to the exclusion of all others. I, as a<br />

modern European, cannot subscribe at the same time to creationism<br />

and evolutionism, hold simultaneously to geo- and heliocentrism, blame<br />

climate change on the gods rather than humans… Far from being a deus<br />

ex machina, greying reality refutes the accusation of cultural relativism<br />

often levelled at anthropologists. Far from preten<strong>di</strong>ng that everything<br />

morally and metaphysically goes, the cultural anthropologist merely<br />

claims that values and visions being relatively absolute, only the absolutely<br />

absolute is to be avoided. There is a whole world of <strong>di</strong>fference<br />

between presently preferring one’s grey location to triangular and circular<br />

alternatives and proclaiming that one’s religion and raison d’être are<br />

the only ones (super)naturally guaranteed.<br />

2. Ethnocentrically yours<br />

Hopefully this ethno-epistemological exor<strong>di</strong>um will explain why in<br />

declaring the Turin colloquium to be ethnocentric, a participating anthropologist<br />

who also happens to be an africanist, incriminated no one.<br />

A happening can be international in that it takes place between nationals<br />

of <strong>di</strong>fferent nations but it cannot be intercultural if by this is meant<br />

aimed at substantially one and the same identical theme, accidentally<br />

given <strong>di</strong>fferent hues by <strong>di</strong>ffering cultures. If one is inevitably (not to say<br />

“naturally”!) located or centred somewhere, then there is no alternative<br />

beyond assuming one’s ethnocentrism critically and (un)consciously<br />

preten<strong>di</strong>ng to represent human nature as such 2 . Before treating the sui 3<br />

generis nature of traces in Africa, it is consequently opportune to briefly<br />

explain why every term of the title under which we convened – “<strong>Sacre</strong>d<br />

Imprints and ‘objects not made by human hand’ in religions” – being essentially<br />

Eurocentric, is inadequate to making sense of the African material.<br />

– <strong>Sacre</strong>d. As soon as more than a mere general or purely heuristic<br />

sense is given to the contrast between the sacred and the profane, its pe-<br />

2 M. SINGLETON, Critique de l’ethnocentrisme Du missionnaire anthropophage à<br />

l’anthropologue post-développementiste, Paris 2004.<br />

3 “We” “us” “our” – shorthand in this text for the average member (sometimes<br />

scholarly) of contemporary Euro-American culture.


Traces of the Invisible in Africa<br />

culiarly western content becomes patent. To affirm as some specialists<br />

do that amongst Primitives everything is religious, is tantamount to saying<br />

that nothing is! Already lacking the linguistic equivalent for opposing<br />

as we do the sacred to the profane, the Africans I knew spoke spontaneously<br />

and more to their points, of the <strong>di</strong>fference between the true<br />

and the false, the really real and the less so (the former consisting of<br />

dreams, <strong>di</strong>vination, witchcraft and the like, which we would esteem unreal!),<br />

the significantly important and the or<strong>di</strong>nary, the secret knowledge<br />

reserved to given groups as opposed to common sense, the masculine,<br />

the elders, the initiated as <strong>di</strong>stinct from women, young people and the<br />

uninitiated. Most of the time, most of the people I knew in Tanzania interacted<br />

with their lineage ancestors and other invisible partners as they<br />

<strong>di</strong>d with more visible interlocutors: respectfully but realistically, with little<br />

or no trace of the tremens et fascinans historians of religion associate<br />

with “primitive” peoples 4 . Supposing the term to stem from religare, religion,<br />

as “asymmetrical networking between humans and the more<br />

than human”, is fundamentally relational or allological 5 . Though somehow<br />

elsewhere and otherwise, the religiously transcendent Other cannot<br />

be absolutely beyond reach. Somewhat surprisingly, however, while reciprocating<br />

with such invisible realities as the shades of ancestors and ancestral<br />

spirits, many African religions admit of an Invisible closely resembling<br />

the Infinite of such (post)modern thinkers as Levinas, in that<br />

It is totally removed from religious exchanges. As such, It (habitually<br />

but ambiguously designated as deus otiosus) is even more intangibly and<br />

purely Infinite than the a-religious God of Bonhoeffer or the Being who<br />

survived the theological death of God 6 . Consequently the invisible entities<br />

of whose traces in Africa it will be question here, are far less than<br />

strictly <strong>di</strong>vine.<br />

– Imprints: Our spontaneously associating prints with printing answers<br />

to the West’s privileging sight over other senses: we pity the blind<br />

4 M. SINGLETON, Speaking to the Ancestors. Religion as Interlocutory Interaction,<br />

Anthropos 104 (2009) 311-332.<br />

5 M. SINGLETON, L’au-delà, l’en deçà et l’à côté du religieux, Revue du Mauss 22<br />

(2003) 181-206.<br />

6 A non religious rea<strong>di</strong>ng of Christianity and the more ra<strong>di</strong>cal “Death of God”<br />

theology prevalent for decades beyond the Alps is now available in the papal<br />

peninsula; cf. G. VATTIMO, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso,<br />

Cernusco 2002.<br />

13


14<br />

Michael Singleton<br />

more than the deaf, we prefer clear and <strong>di</strong>stinct ideas to irrational emotions<br />

7 ; the world view (Weltanschauung) of which we speak culminates<br />

in the beatific vision; like God, Big Brother is watching us; we seek realistically<br />

visual art forms rather than symbolically evocative figures; statues<br />

of our Lady of Lourdes or Fatima are supposed to represent the<br />

Blessed Virgin as she really appeared for purposes of contemplative<br />

adoration, fetishes on the other hand, are not iconic images but aidememoire,<br />

functioning like the prompting cards of actors, tangible reminders<br />

of the actions agreed upon by the owner of the fetish and his<br />

interlocutor. An African sculptor carves Motherhood and not any recognizable<br />

mother. The predominance of the eye over the ear even affects<br />

my own <strong>di</strong>scipline: “visual anthropology” 8 , like anthropology itself, is a<br />

typical product of our Weltanschauung and as such participates in that<br />

Westernization of the world decried by Latouche 9 .<br />

– Objects: The anthropologist could concede the term… provided<br />

one recognizes not only the ethnocentric character of material versus<br />

immaterial <strong>di</strong>vide but above all that any concrete object “materializes”<br />

the particular project of a singularly situated, socio-historic subject answerable<br />

in turn to the Global Project or Culture to which he belongs<br />

and in which he believes 10 . Objects as not lying there (iaceo) to be stum-<br />

7 The voyeuristic bias of the western mind though sublimated as intellectual curiosity<br />

obliged the in<strong>di</strong>genous other to behave exhibitionistically and led to a century<br />

of sterile debate about primitive ideas of God or the total neglect of the emotional,<br />

though it be crucial in such phenomena as emigration (L. MERLA - L. BAL-<br />

ADASSAR [edd.], Les dynamiques de soin transnationales. Entre émotions et considérations<br />

économiques, numéro spécial de Recherches sociologiques et anthropologiques<br />

41/1 [2010]).<br />

8 Now “in”, to the extent of its having regular rubric in professional journals<br />

such as the Journal des Anthropologues. I woke up this morning to hear the speaker<br />

on the Belgian ra<strong>di</strong>o say “merci d’ouvrir les yeux avec nous”!<br />

9 S. LATOUCHE, L’occidentalisation du monde, Paris 1989.<br />

10 A culture can be seen to function as a Global Project carried forward by its<br />

constitutive, particular projects, be they micro, meso or macro (M. SINGLETON,<br />

Critique de l’ethnocentrisme Du missionnaire anthropophage à l’anthropologue postdéveloppementiste,<br />

Paris 2004). Take, for instance, the school system which articulate<br />

the Choice of Society, which a country like Belgium can represent: at a macro<br />

level, the Ministry for Education oversees two meso, parallel structures, one religious,<br />

the other lay – the first being further <strong>di</strong>vided at the micro level into establishments<br />

run by the Jesuits, the Salesians or the Bene<strong>di</strong>ctines.


Traces of the Invisible in Africa<br />

bled against but thrown (iacere or the heideggerian Entwurf) outside by<br />

an insider 11 .<br />

– Not made by human hand: Even making abstraction of the iconoclastic<br />

context in which the Greek term appeared, one must bear in<br />

mind that the “primitive” artist or artisan was persuaded his productions<br />

proceeded as much if not more so from ancestral rather than personal<br />

inspiration and skills. I knew of Bantu healers (waganga) who had<br />

accidentally stumbled on me<strong>di</strong>cinal plants but who (and not only to<br />

make them acceptable to their clients) attributed their <strong>di</strong>scoveries to<br />

spiritual inspiration. Even more to the point, however, is the inexistence<br />

elsewhere of what the western world understands by human nature. I<br />

came to realize that when, during my stay in Tanzania, I gave an aspirin<br />

to a MuKonongo suffering from what I took to be a headache not only<br />

<strong>di</strong>d I suppose what remained to be proven, namely that he had in mind<br />

what I had in speaking of the human head but I imposed my naïve Greco-Latin<br />

<strong>di</strong>chotomy between soul and body on someone who knew that<br />

humans are composed of several elements (inclu<strong>di</strong>ng the shadow 12 ) and<br />

that a headache far from being a mere neurophysiological <strong>di</strong>sorder<br />

could be due to someone (like your mother in law) having it in for you.<br />

Since then there is no such one transcultural thing as a human head<br />

there is no reason why the meaning of the human hand should be substantially<br />

the same no matter whose it happens culturally to be.<br />

– Religion: Finally and perhaps more surprisingly, if religion is to en-<br />

11 After having abandoned the inventory of material culture to mere ethnographers<br />

in favour of analysing structures and symbols, anthropologists, of late, under<br />

the impulse of historical materialists such as M. HARRIS, Cultural Materialism,<br />

London 1990 and neo-Marxists like M. GODELIER, Horizons, trajets marxistes en<br />

anthropologie, Paris 1977 – not to mention more philosophically minded existentialists<br />

and phenomenologists – have taken the study of material objects to higher<br />

hermeneutical levels (cf. the pioneering volume of A. APPADURAI, The Social Life<br />

of Things. Commo<strong>di</strong>ties in Cultural Perspective, Cambridge 1986).<br />

12 During my first days amongst the WaKonongo, out of politeness, I stepped<br />

behind an old lady who imme<strong>di</strong>ately reprimanded me for crushing her dawa or<br />

reme<strong>di</strong>es… stored in her shadow. Likewise should an Australian aborigine chance<br />

upon the footprints left in the sand by his mother in law whom he should never encounter<br />

face to face he will imme<strong>di</strong>ately obliterate them. For many peoples, far<br />

from being fleeting or flimsy, traces are true sacraments presentifying what they<br />

represent. Christ’s steps which Christians follow metaphorically would materialize<br />

his real presence for many “primitive” peoples.<br />

15


16<br />

Michael Singleton<br />

joy any specific sense this can only be substantially had there where a<br />

field of theological reasoning and ritual activity has been separated out<br />

from neighbouring spheres such as those limited to politics, economics…<br />

or purely cultural activities! This kind (i.e. our kind) of spherical<br />

segregation has simply never occurred in many non-western cultures.<br />

Bushman economics or Bantu politics are ethnocentric misnomers. In<br />

the whole of Africa, for instance, there is no word for “religion”, no way<br />

to <strong>di</strong>stinguish between “believing” and “knowing”, no monotheistic<br />

idea of the <strong>di</strong>vine, no inkling of in<strong>di</strong>vidual immortality… the problem<br />

being that if you remove such traits from your definition you are likely<br />

to end up not with a quintessential reality but nothing in particular.<br />

In effect, confronted interculturally with the manifest absence in foreign<br />

places or in former times of what one initially took to be intrinsically<br />

present in the sacred, religion, objects and imprints, we must chose<br />

one of two solutions. Either we maintain that substantially the Same underlies<br />

even the most accidental of <strong>di</strong>fferences or we accept that at some<br />

point in space and time the ra<strong>di</strong>cally Other emerges. The first option reduces<br />

cultures to superficial variations of an underlying identical theme:<br />

Cro-Magnon and Bushmen being just as essentially religious as we are,<br />

the form taken by the <strong>Sacre</strong>d then in Dordogne and now in the Kalahari<br />

must have left imprints more or less the same as those we recognize ourselves.<br />

This approach (a priori rather than a posteriori), treats data as it<br />

would an artichoke: the more epiphenomenal leaves or accidental appearances<br />

you peal away, the more you will home in on the very heart of<br />

things: the <strong>Sacre</strong>d as it really is, transculturally, in Itself, imprints as<br />

they should significantly and substantially be to all people, abstraction<br />

made of their cultural peculiarities. The metaphorical artichoke, however,<br />

is but one step away from the metaphysical archetype and neither Plato,<br />

Jung or Girard have exactly won over the scholarly community to the<br />

thesis that primor<strong>di</strong>al, underlying principles account for the fundamental<br />

meaning of accidental appearances.<br />

The second answer, espousing the empirical evidence as closely as<br />

possible, recognizes that both synchronically and <strong>di</strong>achronically, critical<br />

thresholds are crossed, obliging the intercultural traveller to accept he<br />

has left behind one thing and must make room for something quite <strong>di</strong>fferent.<br />

There was a time when agriculture and the city simply <strong>di</strong>d not exist,<br />

not even in an elementary form or embryonic shape. Interculturally,<br />

there comes a point where there is no longer any point in mo<strong>di</strong>fying<br />

one’s first understan<strong>di</strong>ngs of things (such as religion or imprints) but<br />

where a completely fresh understan<strong>di</strong>ng is required. And what if Reality<br />

is an onion!? No layer would then be more consistent than any other


Traces of the Invisible in Africa<br />

and beyond successive layers there would lie nothing of any substantial<br />

consequence.<br />

Another simple schema could help clarify this irreducible opposition<br />

between the natura-lists and the nomina -lists, between those who believe<br />

that by abstracting from accidental appearances one can define reality at<br />

it substantially is and those who know that series of situated singularities<br />

can, at the most, give rise to culturally conventionalized generalizations.<br />

The naturalist thinks, for instance, that by leaving aside aspects<br />

such as the age or sex of in<strong>di</strong>viduals, their skin colour or social con<strong>di</strong>tion,<br />

one attains to an underlying human nature, ontologically identical<br />

in every human being from the moment of conception to the hour of<br />

death – hence for the perennial philosopher and tra<strong>di</strong>tional theologian,<br />

the metaphysical immorality of even therapeutic abortion or mercy<br />

killing. The nominalist, on the contrary, is convinced 1. That knowledge<br />

supposes generalization – a singularity (this man) must be related<br />

to something less singular such as “being human”; 2. That it is in<strong>di</strong>spensable<br />

for cultures to come up with conventional generalizations –<br />

hence the western (re)defining mankind so as to avoid horrors such as<br />

Auschwitz; but 3. That some cultures have decided upon a far larger definition<br />

of what merits being treated as an end in itself and not a mere<br />

means. Thus, though they deal with same singular data as us, the Jains<br />

of In<strong>di</strong>a feel that insects warrant as much respect as humans while the<br />

anthropophagous Asmats of Irian Jaya (ex Papua New Guinea), though<br />

confronted with the same material, have agreed upon a more restricted<br />

notion of humanity, neighbouring villagers being treated as comestibles;<br />

and finally 4. That there are no objective, natural criteria to decide<br />

which culture is absolutely right and which is totally wrong.<br />

17


18<br />

Michael Singleton<br />

On the left, starting out on a intercultural safari with a given definition<br />

of the <strong>Sacre</strong>d and its Imprints, one is obliged to recognize that the<br />

further one travels the less it fits the empirical evidence. None the less,<br />

despite the final culture visited resembling more a line than a triangle,<br />

having decided from the outset that all cultures must have some form to<br />

the <strong>Sacre</strong>d (if only to <strong>di</strong>stinguish men from animals), one relates the<br />

ethnographic material to the <strong>Sacre</strong>d as Such (represented by the underlying<br />

the substantially black and perfect triangle). On the right, the intercultural<br />

traveller realizes that, en route, the definition with which he<br />

started out is undergoing the death of a thousand qualifications due to<br />

increasingly contra<strong>di</strong>ctory data. At some point in cultural space, so as<br />

to respect his fin<strong>di</strong>ngs, he decides to accept that his former definition<br />

(represented by the dotted triangle) can only be plausibly applied to a<br />

limited number of cultures (the triangular series) and must be replaced<br />

by a new generalization (the dotted square) of similar onto-epistemological<br />

shape and size, capable of cre<strong>di</strong>tably covering the field material<br />

furnished by a fresh series of (square) cultures. However, for reasons of<br />

sheer commo<strong>di</strong>ty and conventional communication, our nominalistic<br />

voyager might prefer not to renounce the terms “sacred” and “imprints”<br />

but will reduce them to purely generic or heuristic status, producing<br />

field material to prove that, in actual fact, there exist several incompatible<br />

species of what globally goes by as the sacred and its imprints.<br />

3. Visible traces of the invisible in Africa<br />

It is with these philosophical preambles in mind that we finally arrive<br />

ad rem nostram – the visible traces of the invisible in Africa. Though it<br />

goes against my empirical grain to have thus put the conceptual cart before<br />

the ethnographic horse, I felt it was important to clarify the nature<br />

and scope of an anthropological contribution to an inter<strong>di</strong>sciplinary<br />

colloquium such as ours. The anthropologist is often invited to leave his<br />

native reserve so as to explain to his more civilized and scholarly colleagues<br />

what his chosen but primitive people thought of fundamental<br />

and recurrent human issues such as how the Transcendent Other made<br />

Himself known in former times and out of the way places. With a bit of<br />

luck, our meandering, labyrinthic introduction will have persuaded our<br />

readers that what Africa has to say on the matter is as uniquely irreducible<br />

as African languages are to their Indo-european equivalents.<br />

Africa is not speaking, albeit in its own fashion, about basically the


Traces of the Invisible in Africa<br />

same thing as we but is talking about something quite other for the simple<br />

reason that words are not only things but give rise to the things they<br />

speak about. What exactly can only be fathomed by familiarizing ourselves<br />

with the Sitzen im Leben peculiar to the Continent. The ABC of<br />

sociology is that mentalities go hand in hand with their respective milieus<br />

– or as the French would put it: “à chaque lieu sa logique et son<br />

langage”. In theory there are as many <strong>di</strong>fferent sacred traces as there are<br />

<strong>di</strong>stinct cultural locations. The delimitation of these latter being, as we<br />

have suggested, not <strong>di</strong>ctated apo<strong>di</strong>ctically by reality itself but by the<br />

cause one has decided to promote. Here we will detail only two out of a<br />

whole plethora of cultural possibilities: one global – that of orality – the<br />

other more specific – that of slash and burn agriculture.<br />

3.1. Orality is a para<strong>di</strong>gmatic roof and not a first floor<br />

“Children should be seen and not heard!” was our parents repeated<br />

reprimand for our rowdy behaviour at table. “Spirits should be heard<br />

and not seen” is what oral cultures in general and Africa in particular<br />

have always thought and said about their invisible interlocutors. Fides ex<br />

au<strong>di</strong>tu! Primor<strong>di</strong>ally, however, faith involves not so much listening attentively<br />

to a list of truths (such as those of the Nicene Creed) as trusting<br />

that what a person demands is right and fitting (vere <strong>di</strong>gnum et iustum<br />

est). For those whose para<strong>di</strong>gmatic ceiling is plastered with the spoken<br />

word “hee<strong>di</strong>ng” and not “seeing” is “believing”. The fact, however,<br />

that they transcribed oral tra<strong>di</strong>tion and wrote about what they heard,<br />

has meant that even anthropologists have only recently recognized the<br />

irreversible and irreducible nature of speech. Apart from writing not<br />

being humanity’s final communicative word (it could be superseded by<br />

other forms of transmission), historically it has not so much replaced an<br />

oral stage as complemented and complicated this latter’s lasting sui<br />

generis stature. Ethnologists, moreover, are not the only ones to have depreciated<br />

the enduring peculiarity of verbal exchange. As well as turning<br />

a blind eye to the unintended and unwanted side effects of writing 13 ,<br />

scholars of <strong>Sacre</strong>d Scriptures have often failed to fathom the initially in-<br />

13 J. GOODY, The Logic of Writing and the Organization of Society, Cambridge<br />

1986, a Cambridge anthropologist and africanist, was amongst the first to rethink<br />

the whole issue of orality and inspire classical scholars to revisit writing in Ancient<br />

Times (F. DUPONT, L’invention de la littérature. De l’ivresse grecque au texte latin,<br />

19


20<br />

Michael Singleton<br />

tended meaning of the spoken words written down by inspired authors<br />

or scribes. For lack of tape recorders they could do no better than<br />

transliterate the Word of God into a Bible or Book.<br />

A classic example is the verse 14 of Exodus chapter 3 seen as the culminating<br />

point of the Old Testament in that Yahweh there supposedly<br />

translates Himself theologically as “I am who (or what) I am” 14 . For<br />

centuries or more, exegetes have pondered over the onto-theological implications<br />

of what they (mis)took to be a declaration of metaphysical<br />

identity. In fact, vulgarly translated, what Moses’ transcendent interlocutor<br />

told him was: “whatever I might be is none of your business,<br />

your job is to promulgate my Ten Commandments!”. As Tennyson<br />

would have put it: “yours not to reason why, yours but to do and <strong>di</strong>e!”.<br />

In oral cultures words tend not to be idle but illocutionary. “Primitive<br />

peoples” such as those of Melanesia would have no <strong>di</strong>fficulty in understan<strong>di</strong>ng<br />

what Austin meant by “performative language games” since for<br />

them thinking, speaking and doing were all one 15 . In terms of theological<br />

information, the New Testament is no more informative than the<br />

Old. Long before he found himself transformed by conciliar decree from<br />

the son of God to God the Son, Jesus after having seen it for himself <strong>di</strong>d<br />

not reveal or unveil the true nature of the godhead but more prosaically<br />

proposed (Jn 1.18 exegesis) that since the Infinite acted lovingly the best<br />

finite creatures could do in turn was to love one another. It was to take<br />

two thousand years before yet another inspired Semite, Levinas, was to<br />

come to the same conclusion: let us stop trying to reason about God<br />

and content ourselves with being responsible.<br />

On the field it took me a while to realize that the WaKonongo, like<br />

most people most of the time, make do with a strict minimum of clear<br />

and <strong>di</strong>stinct ideas. While being illiterate <strong>di</strong>d not prevent them from making<br />

their world meaningful and managing it accor<strong>di</strong>ngly, it <strong>di</strong>d mean<br />

Paris 1998). Interestingly too, archaeologists have recognised the ambiguous origins<br />

of writing and its equivocal functions – cf. the section “The role of writing<br />

and literacy in the development of social and political power” in J. GLEDHILL - B.<br />

BENDER - M.T. LARSEN, State and society: the emergence and development of social<br />

hierarchy and political centralization, New York 1988, 169-186.<br />

14 A. LACOCQUE, La révélation des révélations, in A. LACOCQUE - P. RICŒUR,<br />

Penser la Bible, Paris 1998, 314-345.<br />

15 M. LEENHARDT, Do Kamo. La personne et le mythe dans le monde mélanésien,<br />

Paris 1971.


Traces of the Invisible in Africa<br />

that their interest in speculating about the nature of things was less intensely<br />

intellectual than mine. In the hamlet of Mapili where I resided in<br />

south central Tanzania, half of the women half of the time were possessed<br />

by spirits. At first I tried to find answers to the questions which<br />

spontaneously arose to my scholastic mind. What exactly were these<br />

spirits – called majini and mashetani on account of an incidental rather<br />

than an important impact of Islam on the local <strong>di</strong>scourse. Where were<br />

they when not possessing their chosen victims (the in<strong>di</strong>viduals the spirits<br />

had, on occasion, chosen to descend themselves or as a rule on which<br />

their master had chosen to send and set them)? Were they male or female,<br />

small or large, black or white? How had some learnt to speak English<br />

and Arabic? How, being spirits, <strong>di</strong>d they manage to eat the rice and<br />

chicken offered to them or travel to Mapili from the coast and sometimes<br />

from Mecca itself? What <strong>di</strong>d they do with the money offered<br />

them? Did they remain in the vicinity or remove themselves further<br />

afield after they had ceased to actively posses the possessed?<br />

Two things, however, rapidly became apparent: the first, that my interlocutors<br />

had never raised such issues themselves, the second, that, intrigued<br />

by my queries, they were on the points of creating an African<br />

equivalent of my scholastic ontology (a Konongo version of Père Tempel’s<br />

Bantu Philosophy)! I consequently ceased to harass the possessed<br />

with my perennial philosophical preoccupations, contenting myself not<br />

only to observe from afar but to participate actively in the group therapeutic<br />

solution to the stressful situations the spirits expressed and embo<strong>di</strong>ed.<br />

The spirits spoke to such everyday contexts as intergenerational<br />

conflict (a young girl who refused the elderly suitor imposed by her parents<br />

was likely to be possessed by spirits sent by these latter to make her<br />

see their reasons) or tension between co-wives (the jealously of a neglected<br />

spouse usually translated itself by a more favoured partner being<br />

possessed by a spirit mandated by her rival). The victims had no vested<br />

interest, no valid reason in knowing any more about their spirits than<br />

that they could often be induced by negotiation to foster change for the<br />

better of painful, problematic pre<strong>di</strong>caments. For such <strong>di</strong>scussions to enjoy<br />

a satisfactory outcome, it was not essential to know whether one’s<br />

spiritual respondent was male or female, tall or small, it was quite sufficient,<br />

et amplius, for him (or her) to possess such minimally personalized<br />

traits as being able, on the one hand, to make oneself understood, and,<br />

on the other, to manifest a sympathetic understan<strong>di</strong>ng of a victim’s<br />

plight.<br />

The invisible à l’africaine apparently prefers to leave its mark on people<br />

rather than on places. Possession is thus one of the most obvious<br />

21


22<br />

Michael Singleton<br />

ways of tracing the presence of the invisible in Africa. Invisible yet not<br />

inau<strong>di</strong>ble, African spirits speak and can be spoken to, but they do not<br />

talk about themselves. They make an impression on others but without<br />

leaving prints pointing to themselves. The behavioural response such<br />

“spirits of affliction” (as they are technically called) occasion constitutes<br />

the most tangible trace of their passing presence. It is true that<br />

they can make themselves painfully felt here and there in their victims’<br />

body and in<strong>di</strong>rectly leave their mark on social networks but I never came<br />

across any such spirit affecting gratuitously the physical world. Though<br />

the tone of their voice (usually high pitched) <strong>di</strong>ffered slightly from the<br />

or<strong>di</strong>nary speech of their victims, the spirits of Mapili <strong>di</strong>d not make the<br />

possessed behave <strong>di</strong>fferently even during seances – as sometimes happens,<br />

for instance, in the case of Voodoo sessions where, for example, the<br />

martial character of a spirit can be visibly played out by the person it<br />

possesses. It is important to note, however, that no MKonongo in his or<br />

her right mind would go out of his or her way to become possessed. The<br />

phenomenon has thus nothing to do with the mystical union between<br />

the <strong>di</strong>vine and the human sought after by some Christian Saints and<br />

which lead to their being rewarded with such visible signs as the stigmata<br />

(St Francis of Assisi, Padre Pio) or the sacred heart transplant undergone<br />

by Catherine of Sienna.<br />

The predominantly pragmatic orientation of spiritual <strong>di</strong>alogue in<br />

Africa is especially clear in the case of prophetic inspiration. Though he<br />

had become increasingly irrelevant, the WaKonongo knew of an ancestral<br />

spirit called Katabi. “Ancestral” in that he had probably been an historical<br />

figure but also because he (similar to our Charlemagne or Barbarossa)<br />

had come to transcend mere humanity, being associated with<br />

what we call natural phenomena such as the rain or earthquakes. I<br />

learnt more about him from the literature and archival material than<br />

from oral tra<strong>di</strong>tion. He was wont to suddenly possess unsuspecting<br />

young girls in out of the way hamlets. For the same sound sociological<br />

reasons 16 , the Blessed Virgin too is also given to seizing upon relatively<br />

16 The layman might wonder why when God has something to reveal of vital<br />

importance for mankind as a whole instead of getting imme<strong>di</strong>ately in touch with<br />

the highest authorities (the High priest of Jerusalem or the Pope in Rome), He<br />

contacts peripheral proletarians in godforsaken backwaters (“Jesus… of Nazareth<br />

of all places!” expostulated the Jewish elite in 30 A.D.) or even prefers not putting<br />

in a personal appearance, <strong>di</strong>spatching His Mother to appear in the most out-


Traces of the Invisible in Africa<br />

marginal members of equally peripheral locations. However, unlike his<br />

Christian counterparts, Katabi <strong>di</strong>d not waste time in revealing his appearances<br />

but came straight to the point: the person possessed was to<br />

imme<strong>di</strong>ately inform the local authorities that unless they took the necessary<br />

ritual steps (such as sacrificing a fowl on the chiefly graves) then<br />

<strong>di</strong>saster (a drought or plague of locust) would imme<strong>di</strong>ately ensue. On<br />

rare occasions, the spirit’s spokesperson might erect a shrine and function<br />

for a while as an oracle. However, as we will see, the noma<strong>di</strong>c mode<br />

of reproduction prevalent in UKonongo <strong>di</strong>d not make for permanent<br />

sacred centres served by generations of specialists in the sacred. It is<br />

true, none the less, as befits a “territorial spirit” 17 , Katabi was partly and<br />

particularly associated with a large swampy depression to which he had<br />

given his name. Yet when all is said and done, such supra-clan and even<br />

“tribal” entities, never bothered to insist on their in<strong>di</strong>vidual identity (as<br />

their Christian counterparts do – “I am the Immaculate Conception”)<br />

but from the outset informed their inspired interlocutors in no uncertain<br />

terms the line of conduct to be adopted forthwith if the worst was to be<br />

avoided and the best obtained. The WaKonongo would have been<br />

surprised to hear Katabi declare in kiKonongo (as Our Lady <strong>di</strong>d in 1858<br />

in the <strong>di</strong>alect of Lourdes – “que soy era immaculado counceptiou”) “I<br />

am this that or the other”; they would have been even more put out had<br />

he revealed an object unmade by human hand but representing his<br />

semblance in as meticulously complicated a manner as the medal the<br />

lan<strong>di</strong>sh of locations to the poorest of children (Bernadette in Lourdes, the three<br />

young peasant illiterates of Fatima – or their Belgian equivalents in Banneux and<br />

Beauraing). Sociologically speaking (M. SINGLETON, “En marge monumentale” in<br />

A la périphérie du centre. Les limites de l’hégémonie en anthropologie, sous la <strong>di</strong>r. M.<br />

Daveluy et L-J. Dorais, Montréal, Liber, 2009), the reason is quite simple: the powers<br />

that be, even when supreme, being primarily preoccupied with coor<strong>di</strong>nating<br />

sectoral solutions to specific problems, are rarely well placed to face globally urgent<br />

issues. It often takes an innocent, adolescent outsider (like Joan of Arc in the hamlet<br />

of Domremy – or the young Einstein in his patent office of Berne (for the law of<br />

marginal mutants holds for matters secular as well as religious)) to see what is totally<br />

wrong and to come up with a wholesome answer. Not everyone can read at<br />

first sight those telling traces which the New Testament styled “the signs of the<br />

times”: now a commonplace concern, the danger globalization represents for the<br />

environment was initially prophesized by a handful of eccentric revolutionaries. Interpreting<br />

imprints is a much a question of an exegete’s social location as it is of his<br />

innate intelligence.<br />

17 R.P. WERBNER (ed.). Regional Cults, London 1977.<br />

23


24<br />

Michael Singleton<br />

same immaculately conceived revealed in 1830 to Saint Catherine La -<br />

bouré.<br />

From the outset, Western observers of the African scene were struck<br />

by the aniconic approach of in<strong>di</strong>genous religions not only to spirits of<br />

Katabi’s calibre but to what they took to be the High God himself 18 . He<br />

possessed no place of worship, no clergy, no statues; no prayers were addressed<br />

to him and the departed had even less to do with him after death<br />

than they had during life; and, in keeping with the sacrosanct principle<br />

of keeping things apart so as maintain the structured order vital to survival,<br />

should the <strong>di</strong>vine ever fall unannounced upon earth then<br />

apotropaïc measures were imme<strong>di</strong>ately taken to get it back where it belonged<br />

in the heavens above. The academic interpretation of aniconism,<br />

however, was uncritically ethnocentric and doubly so. The lack of any<br />

imaging of the <strong>di</strong>vine was not due positively to an impressive intuition<br />

bearing on the intrinsic impossibility of representing the immaterial or<br />

negatively to iconoclastic crusa<strong>di</strong>ng anticipatory of Judaeo-Christianity’s<br />

Holy War on idolatry. The facts of the matter are far simpler: when<br />

your culture has chosen to privilege the au<strong>di</strong>ble, visualizing the Invisible<br />

or looking around for any visible traces it might have intentionally left<br />

on rocks, shrouds or whatever, is not your priority of priorities.<br />

Hierophony rather than hierophany!<br />

18 A mistake which irreproachable witnesses were later to rectify. Sir Edward<br />

Evans-Pritchard whose penultimate assistant I was in Oxford, once confessed that<br />

the monotheism of the Nuer (a nilotic people of the Sudan) had been instrumental<br />

in his conversion to Catholicism, yet he was unable to identify Mbori, the<br />

supreme symbol of the Azande with anything more <strong>di</strong>vine than a pars pro toto representation<br />

of the Ancestors (M. SINGLETON, Theology, ‘Zande Theology’ and Secular<br />

Theology, in Zande Themes. Essays presented to Sir Edward Evans-Pritchard,<br />

Oxford 1972, 130-157). Though as member of the same catholic missionary society<br />

as Pater Wilhelm Schmidt S.V.D. (amongst the most ardent promoters of Urmonotheismus),<br />

he had gone to find remnants of primitive monotheism in the<br />

Congo, J.-Fr. Thiel (Ahnen, Geister, Hochste Wesen. Religionsethnologische Untersuchungen<br />

im Zaïre-Kasaï-Gebiet, St Augustin bei Bonn, 1977) returned convinced<br />

in turn that Primor<strong>di</strong>al Ancestor would be a better rendering of Nzambi (an almost<br />

continent wide term) than the usual “High God”. On this whole question cf.<br />

M. SINGLETON, Le pillage identitaire de l’Afrique ancestrale, in P. NGANDU<br />

NKASHAMA (ed.), Itinéraires et trajectoires: du <strong>di</strong>scours littéraire à l’anthropologie.<br />

Mélanges offerts à Clémentine Faïk-Nzuji Ma<strong>di</strong>ya, Paris 2007, 263-283.


3.2. Noma<strong>di</strong>c traceability<br />

Traces of the Invisible in Africa<br />

Africa, of course, is not entirely blind to the contrast between the visible<br />

and the invisible. Indeed, correctly decoded, the <strong>di</strong>stinction is just as<br />

(un)consciously basic to the identity of Africans as the <strong>di</strong>chotomy between<br />

the material and the spiritual which fundamentally (in)forms our<br />

understan<strong>di</strong>ng of the self. However, whereas in our tra<strong>di</strong>tion the generic<br />

<strong>di</strong>vide between matter and spirit gives rise to a whole series of equally<br />

unbridgeable gaps (notably those between body and soul, the human<br />

and the <strong>di</strong>vine, the inanimate and the animate, this world and the next),<br />

African cultures tra<strong>di</strong>tionally ignored the metaphysical and Manichean<br />

implications of our rather simplistic and relatively <strong>di</strong>sastrous dualism.<br />

In sub-saharan Africa, the sphere of the spirits is part and parcel of one<br />

world, a world which was neither created ex nihilo nor is destined to<br />

come to an imminent, apocalyptic End (by the establishment of the elect<br />

in the City of God or the regrouping of revolutionaries in Porto Alegre);<br />

the inhabitants of the spirit world (the “souls” of the deceased included),<br />

are not particularly immaterial and hence not peculiarly immortal;<br />

ancestors and spirits do not live up above in heavenly choirs<br />

eternally given to theocentric contemplation but exist alongside the living<br />

or, on occasion, in the vicinity but underground; they are not even<br />

intrinsically invisible as they can be seen from time to time by or<strong>di</strong>nary<br />

people and as often as required ex professo by specialists such as witch<br />

hunters 19 – for the invisible, partaking of the ambivalence characteristic<br />

19 Late one evening in my Tanzanian village a young adult, terrorized, said he<br />

had just espied a witch in the bush, walking naked on his hands and with a bowl of<br />

fire between his legs (as befits a denizen of an upturned order of things); a student<br />

of mine who became the first Minister for Environment in Senegal, told me that as<br />

a child he had seen a weirdly white personage on the outskirts of his village – his<br />

mother, informed, had imme<strong>di</strong>ately turned to a marabout to remove for ever this<br />

dubious gift of double vision (the one my Jesuit friend Eric de Rosny obtained at<br />

the outcome of long and laborious initiation in the Cameroon, so as to be able to<br />

fight face to face the nocturnal forces of evil (E. DE ROSNY, Les yeux de ma chèvre.<br />

Sur les pas des maîtres de la nuit en pays douala [Cameroun], Paris 1981). Again in<br />

Tanzania, Seyfu Maji<strong>di</strong>, an old Arab friend of mine who had become more<br />

African than the Africans themselves, once confided to me the secret recipe of a<br />

magical remedy for doctoring bullets thanks to which he had been able to shoot at<br />

night a witch. Amongst the key ingre<strong>di</strong>ents figured the pus from the eyes of a<br />

puppy – a young virgin creature doted like members of its species with ability to<br />

25


26<br />

Michael Singleton<br />

of almost everything in Africa, is far from being habitually or exclusively<br />

well intentioned towards common mortals: to my surprise, since I had<br />

been brought up to belief witchcraft resulted from a <strong>di</strong>abolic covenant 20 ,<br />

the WaKonongo proposed we include witches and not just smiths, carpenters<br />

and other professionals in the socialist village (ujamaa) we projected<br />

and when they could not put a name on the malevolent origin of<br />

<strong>di</strong>sease or death, attributed them to a “God” beyond good and evil as<br />

Nietzsche would have put it; anthropo-logically speaking, the African<br />

himself, unlike his Judaeo-Christian and Greco-Latin counterpart 21 is<br />

see danger in the dark. An interesting sideline to our debate but which we can only<br />

mention here, is the social status and appreciation of those with the capacity, innate<br />

or acquired to see the invisible. The priestly and/or professional Establishment<br />

tends to be wary of visionary seers – the children visited in our times by the<br />

Blessed Virgin were “encouraged” to enter the convent or the seminary and many<br />

modern artists have only enjoyed fame posthumously. However, in less hierarchically<br />

and stabilized societies, prophets (Moses being an outstan<strong>di</strong>ng example but<br />

one can also think of the founders of new religious movements) can become powerful<br />

leaders. The invisible imprints itself <strong>di</strong>fferently on marginal as opposed to<br />

central figures – the first pope, a youthful, irresponsible stranger in Jerusalem,<br />

could allow himself to see tongues of fire and speak in tongues, whereas, still sociologically<br />

speaking, it is hard to imagine the last pope, despite his being the only<br />

one to fully see God’s Truth, len<strong>di</strong>ng himself to accusations of drunken and <strong>di</strong>sorderly<br />

behaviour.<br />

20 As it became anathema in the West (not during the Dark Ages but during<br />

Les Lumières) to have any dealings with the Devil, the very embo<strong>di</strong>ment of Evil,<br />

negotiating with his equivalents as Africans do (P. COPPO, Negoziare con il male.<br />

Stregoneria e controstregoneria dogon, <strong>Torino</strong> 2007) or getting the better of him as<br />

even some Christian Saints do (admittedly in the Abruzzi! – A.M. DI NOLA, Gli<br />

aspetti magico-religiosi <strong>di</strong> una cultura subalterna italiana, <strong>Torino</strong> 1976), would never<br />

to the theologically orthodox mind. Speaking of theological traces, it would be<br />

interesting to analyse how or<strong>di</strong>nary people react to the innumerable bridges the<br />

Devil is said to have miraculously built here and there throughout Christianized<br />

Europe.<br />

21 Though life long I have insisted on the irreducible <strong>di</strong>versity of cultures – to<br />

the point of even identifying culture with singular in<strong>di</strong>viduals – global contrasts<br />

such as those between the West and Africa are not entirely devoid of meaning. Despite<br />

a multiplicity of modes of economic production (noma<strong>di</strong>c, pastoral, agricultural)<br />

and degrees of political organisation (from the small Pygmy band to the<br />

huge West African Empires through Bantu villages of various shapes and sizes), it<br />

is possible and plausible to oppose Africa as a whole, materially (in terms of the<br />

natural environment and its exploitation), morally (peculiar codes of conduct)


Traces of the Invisible in Africa<br />

not condemned to oscillate wildly between carnal passions and spiritual<br />

aspirations but contrives to live on reasonably good terms with a somewhat<br />

fragmented and fissile whole composed, in some cultures, of up to<br />

nine elements – inclu<strong>di</strong>ng, for instance, his shadow or the likelihood of<br />

fin<strong>di</strong>ng himself metamorphosed into a lion or even a baobab.<br />

In our eyes, traceability is a physically objectifiable phenomenon –<br />

there is only a <strong>di</strong>fference of degree between the Mandyllion and mad<br />

cows. To the African mind, traceability involves to a far greater degree,<br />

interpersonal intentionality. In other words, traces are left on the<br />

ground, the walls and the ceiling of cultural constructions and constructions<br />

vary interculturally not only in shape and size but in destination.<br />

What separates the palace of Versailles from a mud hut is not so<br />

much the monumental versus the modest as purposeful meaning: the<br />

king of France lived and entertained in his chateau, the Konongo chief<br />

who hosted me merely slept and stored things in his hut. Material similarities<br />

between marks made by the sacred and/or the invisible often<br />

mask quite <strong>di</strong>fferent meanings. Take footprints for instance. A neighbour<br />

in Mapili, panic stricken, called me to witness how the bare footprints<br />

left in the muddy approaches to his recently dug well proceeded in<br />

one <strong>di</strong>rection… away from rather than to and fro! They could only have<br />

been made by malevolent witches. Amongst the first sights I visited on<br />

arriving in the central Tanzanian town of Tabora, there to learn Swahili,<br />

were the prints left in a granite outcrop by the somewhat mythical<br />

founder of the local chiefly dynasty. Rather than, as is sometimes the<br />

case, elaborations of prehistoric populations 22 , they seemed to be naturally<br />

eroded depressions. The phenomenon is reported worldwide – for<br />

starters one cannot do much better than consult an encyclopae<strong>di</strong>c rubric<br />

such as that of Wikipe<strong>di</strong>a with its references, amongst others, to Bud-<br />

and metaphysically (the value put on “both and” rather than our “either or”) with<br />

a European tra<strong>di</strong>tion stemming from the Ancient World and the Bible.<br />

22 Even less of course <strong>di</strong>d they evoke the humanoid footprints left in the volcanic<br />

mud of Laetoli (Tanzania) three and half million years ago or those of our<br />

common mitochondrial mother of South Africa dating from a hundred thousand<br />

years before the present. T. Meaden (Secrets of the Avebury Stones, London 1999),<br />

a renowned specialist in megalithic monuments, was amongst the first to note how<br />

prehistoric man had worked over the expressive potentialities of certain natural<br />

features, deepening, for instance, a crevice in a stan<strong>di</strong>ng stone so as to increase its<br />

resemblance to a vulva, or working over protuberances to make a rock face even<br />

more human like.<br />

27


28<br />

Michael Singleton<br />

dha, Quo Va<strong>di</strong>s and Buzz Aldrin (but not as yet to the carbon footprints<br />

our various life styles stamp more or less <strong>di</strong>sastrously on the environment).<br />

It could be that the marks in the rock near Tabora had already<br />

given rise to thought amongst the early hunter gatherers of the<br />

area. But of this we possess… no trace! In living memory, though not<br />

made by human hand, the eroded forms in question, had taken on<br />

meaning for the local inhabitants, the Wanyamwezi. Slash and burn<br />

agriculturalist, their ancestors had been around for at least a thousand<br />

years. I was informed that the footprints 23 had been left by a barefooted,<br />

elderly chief, long long ago, if not exactly at the dawn of time. Consequently,<br />

the prints are not simply human, nor do they speak of a young<br />

person and even less of a female peasant. They answer to the peculiar<br />

sociohistoric choices of a particular culture at a given moment in space<br />

and time when patriarchal authority was the best social bet possible.<br />

A phenomenon such as footprints in rocks, though materially identical,<br />

is thus susceptible of quite <strong>di</strong>fferent meanings. In our culture, they<br />

speak of the mysterious and often miraculous possibility enjoyed by<br />

saintly personages or fabulous creatures to leave their mark in one go on<br />

the hardest of realities – the prophet Mahomet on the temple rock in<br />

Jerusalem, Bayard, the horse carrying the four sons of Aymon, fleeing<br />

from Charlemagne, and whose hoof cleft the cliff near Dinant on the<br />

Meuse in Belgium (the former still visited by pious pilgrims, the latter by<br />

sceptical tourists). Whatever might have been the attitudes of their forebears,<br />

perhaps more assiduously “religious” than their descendants, few<br />

of the Wanyamwezi living in the vicinity showed much interest in the<br />

prints and no one apparently (still?) paid them any ritual attention.<br />

Does this mean they had sunk to the transcultural level of pure folklore?<br />

Yes and No! “Yes” in the sense that these ancestral traces were no longer<br />

(if they had ever been) central to the Nymawezi philosophy and practice<br />

of the world. “No” because the notion of folklore can only be applied<br />

equivocally to the understan<strong>di</strong>ng of cultures which ignore the axiological<br />

asymmetry between the popular (religious) persuasions of the vulgus<br />

plebs and the claims of hierarchical authorities to represent orthodoxy<br />

or the convictions of aristocratic elites to incarnate enlightened opinion.<br />

23 Petrosomaglyphs, to use the somewhat barbaric technical term, can “result<br />

from” or represent other bo<strong>di</strong>ly members and even objects such as the butt end of<br />

spears or the legs of stools.


Traces of the Invisible in Africa<br />

Moreover the informed observer of Bantu cultures 24 has every reason to<br />

believe that if mythical heroes were able to leave their prints on rocks it<br />

is because these latter in illo tempore primor<strong>di</strong>ale had not yet hardened.<br />

In the beginning 25 things in general had not acquired their definitive<br />

identity nor had the time to settle down in their proper places: the Heavens<br />

above were quite close to the Earth below (so much so that one of<br />

the first women, poun<strong>di</strong>ng corn, could hit “God” where it hurt, provoking<br />

his annoyed and decisive retreat from human affairs), animals spoke<br />

as humans <strong>di</strong>d, death was not part of the order of things, men wandered<br />

around like savages in the bush before managing to get the better of<br />

women who were already living in a civilized village… and rocks were<br />

still as soft as mud. Distance (that between the Infinite and the finite being<br />

the extreme case – sacrifices being intended not to promote communion<br />

with the <strong>di</strong>vine but to remove it where it belonged and ideally<br />

should stay put), <strong>di</strong>stinction (between for instance sacred chiefs and<br />

their subjects) and <strong>di</strong>vision (amongst other things of labour between<br />

old and young, men and women) are vital for the survival of the type of<br />

society under consideration.<br />

Like the exegetes and theologians who contrast the sublime seriousness<br />

of the Gospel narratives with the charming but chil<strong>di</strong>sh character<br />

of the Apocryphal legends, we too tend to smile on first acquaintance<br />

with the flighty fantasies of “primitive” mythology. But is the story of<br />

the child Jesus, as a precocious Pantocrator, able to breathe life into clay<br />

pigeons, less theologically profound than the baby of Bethlehem to<br />

whom the stars bowed down? Likewise, though they might end up as a<br />

folkloric tourist attraction, on principle the scholar has no reason to<br />

treat the footprints of Tabora as less significant cosmologically than<br />

their supposedly superior revealed or rational counterparts. At the very<br />

least, the footprints in question, on closer inspection, despite their common<br />

denominator similarities with other historical exemplars, taking<br />

place as they do within a hermeneutical horizon to all intents and purposes<br />

finalized in the last analysis by ancestral spirits, deliver a message<br />

24 Such as De Heusch (L. DE HEUSCH, Le roi ivre ou l’origine de l’Etat, Paris<br />

1972, 29.36.50.279) – and the many references in the index under the rubrics “<strong>di</strong>scontinuité”<br />

and “<strong>di</strong>sjunction”<br />

25 Usually a far more complex and subtle situation than that imagined by the<br />

Judaeo-Christian tenet of an abrupt creation ex nihilo the exclusive work of an<br />

Almighty Being.<br />

29


30<br />

Michael Singleton<br />

quite <strong>di</strong>fferent from that associated with such traces in a monotheistic<br />

culture such as ours.<br />

The contrast, however, between a religiosity centred on the ancestors<br />

rather than on God, is still far too general to do full justice to the materiality<br />

and meaning of traces as experienced by peoples (re)producing<br />

themselves in the way the WaKonongo do. Readying myself to descend<br />

upon the WaKonongo by rea<strong>di</strong>ng what little had been recorded of them<br />

in the literature, I had been led to believe that they could be catalogued<br />

as “swidden agriculturalists” 26 . Slashing and burning stretches of the<br />

surroun<strong>di</strong>ng forest 27 , they <strong>di</strong>d not remain fixed on one spot for more<br />

than a decade in their nuclear family homesteads isolated in the middle<br />

of fields they hoed to cultivate maize, manioc, sweet potatoes and the<br />

like but which became ever less fertile over the years. During the time I<br />

spent with them (from mid 1969 to the end of 1972), I too cut down<br />

trees and planted enough maize to become relatively self-reliant (as at<br />

the time Mwalimu Nyerere urged everyone in the country to do), making<br />

even a couple of shillings thanks to the local cash crops – peanuts<br />

and rice – and the honey obtained from the hives my hosts afforded me.<br />

None the less, it took thirty years or more, before it dawned upon me<br />

that describing their mode of (re)production as shifting agriculture constituted<br />

a pseudo-scientific smokescreen masking their truly noma<strong>di</strong>c<br />

identity. It was not until after the turn of the century that I came to realize<br />

to what extent the Konongo way of life and its accompanying<br />

Weltanschauung answered to the most authentically noma<strong>di</strong>c of existences.<br />

26 A. SÜRIÄINEN, Swidden Cultivation in Precolonial History of Africa, in J.<br />

RAUMOLIN (ed.), Suomen Antropologi (special issue on swidden cultivation) 12/4<br />

(1987) 269-278.<br />

27 Though it appeared never en<strong>di</strong>ng to the first Europeans, the forest of<br />

UKonongo (consisting mainly of miombo or brachtstegia) was not particularly<br />

spectacular (as tropical forest can be) and contained nothing of particular note<br />

such as impressive mountains or large waterfalls. The exceptional features of the<br />

Australian landscape could partly account for the primor<strong>di</strong>al importance of traces<br />

in the aboriginal philosophy and practices of their world. But once again the traces<br />

in question are not so much vestigial reminders of times gone by as sacraments reactivating<br />

the vital activities of the ancestral founders of the aboriginal milieu (I<br />

counted over thirty explicit mentions of traces in B. GLOWCZEWSKI, Du rêve à la loi<br />

chez les Aborigènes. Mythes, rites et organisation sociale en Australie, Paris 1991<br />

not to mention the theme being the leit-motiv of a less scholarly work by B.<br />

CHATWIN, The Songlines, London 1987).


Traces of the Invisible in Africa<br />

A priori, it is possible and plausible to construct at least three specific<br />

models of generic noma<strong>di</strong>sm and then proceed a posteriori to relate<br />

ethnographic instances to them.<br />

In all three cases, movement, represented by the arrows, is of the<br />

essence. The first type corresponds to the annual migrations of the<br />

southern Tunisian Bedouins I encountered in mid-1969. They spent the<br />

summer months in the low lying desert and the winter months close to<br />

the granaries (ghorofa) on higher ground. Though such peoples are often<br />

presented in western me<strong>di</strong>a as genuine nomads it would be more exact<br />

to designate them as transhumant agro-pastoralists. I came across<br />

the second kind of noma<strong>di</strong>sm while working in Mauritania. A chief<br />

would decide that it was time for his dependents to fold their tents and<br />

move on in caravan style to the next watering place. But as these de- and<br />

relocations took place within a fixed albeit extensive territory, the group<br />

would eventually end up back where it had started from. At least during<br />

the time I knew them, the WaKonongo embo<strong>di</strong>ed the third possibility.<br />

The elders were aware of where (the grey circle) they had been some<br />

years prior to the all important present (the black circle) and adults,<br />

when pressed to think about it, acknowledged the fact that they were<br />

not destined to stay permanently put on the spot. The awareness, however,<br />

of past locations was purely pragmatic and the acknowledgment<br />

of future a mere matter of fact. Mindful of the nostalgia many migrants<br />

feel towards their initial homeland and their aspirations to return<br />

home when and if possible, I asked my authoritative Konongo informants<br />

whether they too regretted their clans having been obliged to up-<br />

31


32<br />

Michael Singleton<br />

root themselves or if they longed to revisit their ancestral fatherlands.<br />

They looked at me as if I had come from outer space! “Why go back on<br />

our tracks to places identical in all respects but one to the spot we<br />

presently enjoy – the one crucial <strong>di</strong>fference being that our former locations<br />

had become unviable”. And in fact, out hunting or collecting honey<br />

with my hosts in their immense forest environment (substantially the<br />

same for thousands of square kilometres), we occasionally came across<br />

matonge or mahame i.e. still vaguely recognizable clearings where their<br />

ancestors had settled for a while but which were now gradually returning<br />

to primeval woodland. Though some of their forebears were known<br />

to them, none of my companions ever stopped to pay his respects to<br />

their eternal resting place… cemeteries being the first plots to be overrun<br />

by the inva<strong>di</strong>ng vegetation. Indeed, even chiefly graves (the only<br />

ones enjoying a minimum of visibility), though at first located in settlements,<br />

eventually found themselves forgotten and abandoned in the<br />

bush as people moved ever on 28 . If in our schema the future is represented<br />

by a blank circle it is because the WaKonongo had little reason to<br />

think of where they might eventually be tomorrow and even less of how<br />

they would be there since it could be no <strong>di</strong>fferent from where they<br />

presently found themselves. By chance, I was able to revisit for a day in<br />

1986, the people of Mapili I had left somewhat abruptly in December<br />

1972, having been accused by the government of setting snakes upon a<br />

rival socialist village. Mapili was no more and the dozen or more families<br />

whose existence I had closely shared were now a couple of kilometres<br />

further on, living and working in the fields they had prepared on the<br />

edge of the forest… but it was I who pointed out to them how far they<br />

had moved on over the intervening years!<br />

While gerontocratic rather than democratic, Konongo noma<strong>di</strong>sm<br />

was far from <strong>di</strong>ctatorial. Unlike the Mauritanian instance, no chief<br />

could give the WaKonongo a collective order to exploit fresh territory.<br />

Each family, in the <strong>di</strong>rection it thought fit, instinctively slashed and<br />

burnt what it required to make the best of the present. Each family, settling<br />

down for a while in the space it had cleared, built what to our mind<br />

would seem a rather elementary, minimalist dwelling, somewhere to<br />

sleep and store what little was possessed. Though in terms of the material<br />

at their <strong>di</strong>sposition, they could have constructed bigger and better<br />

28 For photos of one such grave site, cf. M. SINGLETON, Speaking to the Ancestors.<br />

Religion as Interlocutory Interaction, Anthropos 104 (2009) 311-332.


Traces of the Invisible in Africa<br />

houses, why do so when residence being temporary there is no point in<br />

making anything to last? Given that the limits to what can be reasonably<br />

and rea<strong>di</strong>ly carried noma<strong>di</strong>cally on are soon reached, why spend time<br />

and money on cumulating loads of things rather than invest imme<strong>di</strong>ately<br />

in social networking by convivially brewing beer for family, friends<br />

and neighbours?<br />

It would be hard to imagine theoretically and to come across concretely<br />

a people as perfectly noma<strong>di</strong>c as the WaKonongo. Unconcerned<br />

by the fact they had come from somewhere and knowing full well they<br />

were going nowhere in particular, the WaKonongo had quite logically<br />

decided to provide themselves in the present with the strict minimum<br />

materially necessary to make life morally worthwhile. That their life<br />

style was more than necessity made virtue was sadly proven after my departure<br />

by their paying the price for resisting the villagisation programme<br />

enforced, sometimes brutally, in the mid-1970s by TANU the<br />

ruling party.<br />

The anthropologist is paid to account for the kind of noma<strong>di</strong>c choice<br />

the WaKonongo incarnate. Though psychologists have long since found<br />

the link proposed by Kretschmer (1888-1964) between physical morphology<br />

and mental <strong>di</strong>sorder too can<strong>di</strong>dly causal for words, sociologists<br />

still associate mentalities with milieus – “associate” rather than “produce”<br />

being the operative, saving word! In one of my first ethnological<br />

essays about the WaKonongo 29 , I related their self-reliant optimism<br />

(they were convinced that no matter what the problem, someone somewhere<br />

possessed the reme<strong>di</strong>al solution – dawa or uganga) with the easy<br />

going and pro<strong>di</strong>gal nature of their forest environment. When in good<br />

times the forest provides you with more than you need and even in bad<br />

times affords you a strict vital minimum, there is no reason to want<br />

things get to better or to worry about them getting worse. Likewise, travelling<br />

light, with little or no baggage, allowed the WaKonongo to <strong>di</strong>spense<br />

with the top-heavy metaphysics more sedentary people encumber<br />

themselves with. “Semper idem et ne varietur” would have been a fitting<br />

motto for the chrono-logic induced by the Konongo context. When<br />

there had been no one decisive starting point in the past to one’s permanent<br />

peregrinations, when there was no foreseeable final goal beyond<br />

one’s imme<strong>di</strong>ate horizons but fundamentally the prolongation of same<br />

29 M. SINGLETON, Dawa. Beyond Science and Superstition, Anthropos 74 (1979)<br />

817-863.<br />

33


34<br />

Michael Singleton<br />

situation as of now, when, humanly speaking, the present gives you<br />

more than sufficient satisfaction, what urgent need is there to speculate<br />

about First Beginnings or prognosticate Last Ends, what could make<br />

you desperately want to barter your present sinecure against the offer of<br />

a totally transcendent but somewhat hypothetical Other? Not being restless<br />

(inquietum) but perpetually mobile, the nomad does not aspire to<br />

share Eternal Immobility (nunc stans) with an Unmoving Mover (Primum<br />

mobile).<br />

Within the limits of this contribution, I can afford the reader only the<br />

briefest of inklings as to the sui generis character of noma<strong>di</strong>sm and its<br />

impact on the theme of transcendent traces. Before conclu<strong>di</strong>ng, however,<br />

an important and interesting issue must be raised, albeit just as summarily.<br />

To what extent would the WaKonongo I frequented subscribe to<br />

my tar<strong>di</strong>ly identifying them as authentic nomads? Though people tend<br />

to take their personal and collective identities for granted, speculatively<br />

they are far from representing self evident phenomena. Before being recently<br />

superseded by the more fundamental issue of recognition, that of<br />

identity was much debated by philosophers, psychologists and social<br />

scientists 30 . To the extent that a simple worker must be conscientized to<br />

his proletarian role I do not claim that peasants such as the WaKonongo,<br />

left unattended by anthropologists, would be completely conscious<br />

of their noma<strong>di</strong>c intentionality. The West has a long history of conscripting<br />

natives as cannon fodder for hostilities none of their making.<br />

Not only <strong>di</strong>d colonial troops <strong>di</strong>e in their thousands during our world<br />

wars but the identities of “primitive” peoples were pillaged and put<br />

polemically to use in such exclusively Eurocentric debates as that which<br />

opposed the promoters of primor<strong>di</strong>al monotheism to its detractors 31 .<br />

None the less, despite “noma<strong>di</strong>c” being an appellation academically<br />

controlled by anthropologists, I remain convinced not only that this theoretical<br />

“fact” does justice to the ethnographic data but that “my” 32<br />

WaKonongo would not accuse me of instrumentalizing them for a cause<br />

to which they would of themselves in no way subscribe.<br />

30 M. SINGLETON, La carte de l’identité, in P.P. GOSSIAUX (ed.), Questions régionales<br />

et citoyenneté européenne, Liège 2000, 101-122.<br />

31 Epitomized by the never en<strong>di</strong>ng polemic between Schmidt and Pettazzoni<br />

(R. PETTAZZONI, L’essere supremo nelle religioni primitive, <strong>Torino</strong> 1957).<br />

32 Far from being a condescen<strong>di</strong>ng, paternalistic appropriation, this personalization<br />

of my relations with the WaKonongo reflects a fact often glossed over by<br />

recourse to more anonymously habitual but also more academically ambiguous


Traces of the Invisible in Africa<br />

Admittedly, however, they would probably like to point out a couple<br />

of facts which, as much to simplify things as for lack of space, I failed to<br />

mention – such as: 1. Their having massively converted to Catholicism<br />

in the mid 1930s (as I see it, largely because the old “gods” no longer delivering<br />

the goods – such as the rains – without which peasant life is impossible,<br />

they had had a vested interest in turning to the new ones 33 );<br />

2. That the impression I might have given of their being confined to<br />

their native reserve is inadequate in that many of them had travelled beyond<br />

the forest and that all knew of a much larger world outside the region<br />

of Ukonongo (though this is true, I remain persuaded that, to all<br />

intents and purposes, those who returned and not only those who had<br />

rarely left their immense wooded homeland, behaved and believed from<br />

day to day as if their environment stretched around and on indefinitely<br />

– which is quite <strong>di</strong>fferent from saying “infinitely”); 3. That they had, on<br />

occasion, been confronted with signs of the invisible and were not entirely<br />

in<strong>di</strong>fferent to making the invisible visible: they had indeed associated<br />

the sleeping sickness outbreak at the end of the first world war<br />

with a mysteriously large, linear swath in the forest, as if some monstrous<br />

creature had passed by and I was told that a similarly strange<br />

path in the bush was believed to have been the road taken by the zombies<br />

working for the first missionaries to the area (the zealous obsession<br />

of the priests and their catechists to baptize babies if not already dead at<br />

least in articulo mortis had been interpreted as a supernatural recruitment<br />

for nocturnal slave labour!). Graves had been built, especially for<br />

deceased chiefs – who bequeathed to their successors regalia such as<br />

stools, spears, hoes and spiral shells (symbolizing the moon, the rain<br />

and fertility) which had become over time more and more “sacred” and<br />

thus seemingly not made by human hand. Far be it from me then to deny<br />

or downplay the role played by the visible in Konongo “religion” – it<br />

is simply that, in keeping with the “law” of asymmetry, in any given pair<br />

of phenomena such as the left and the right, the above and the below,<br />

expression “the” WaKonongo. Thanks to sophisticated opinion polls such as those<br />

used by the European Values <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es, it is plausible to say the X % of the Belgians<br />

do not believe in God as opposed to Y % of the Italians who do. But in the case of<br />

the usual ethnographic monograph, talk of the WaKonongo or the Nuer, can only<br />

imply an extrapolation from a handful of hand picked informants to a rather<br />

hypothetical group mentality.<br />

33 M. SINGLETON, Histoires d’eaux africaines. Essais d’anthropologie impliquée,<br />

Louvain 2010.<br />

35


36<br />

Michael Singleton<br />

male and female, old and young, the visible and the au<strong>di</strong>ble, one member<br />

is (and often to a large extent) more appreciated and activated than<br />

the other. As the cliché generally puts it, it is a question of degree but as<br />

our italics suggest, concretely the degree in question can be as much as<br />

90° rather than 10°.<br />

I might seem to be preaching for my chapel, but when all is said and<br />

done an outsider is often more aware than the insider of underlying currents<br />

or overarching issues – a fisherman realizes more than the fish that<br />

they are swimming in water! I had left for UKonongo in 1969 expecting<br />

that they too, like the other African peoples I had read about, would<br />

have carved fetishes galore, would spend more than their free time in<br />

elaborate masked dances and would even have constructed minimally<br />

monumental shrines to the memory of departed ancestors or to lodge<br />

visiting spirits. My great expectations, however, came to nothing – the<br />

only statue I caught a glimpse of was that of a European (priest?) seated<br />

on a throne. It was in the possession of aged Myeye (one of the last<br />

surviving representatives of “secret” society – secretive would be more<br />

apposite a term – formerly de<strong>di</strong>cated to the mastery of deadly snakes;<br />

from time to time people would dance (especially when drunk!) but never<br />

sported masks, contenting themselves with simply imitating wild animals;<br />

while out walking in the bush, I once thought I had come across a<br />

spirit shrine at a crossroads but on <strong>di</strong>scretely photographing it heard the<br />

lad who had accompanied me wonder why I was so fascinated by traps<br />

for ravaging rodents! It took me quite a while to realize that the absence<br />

of what I had hoped for answered to the presence of something as<br />

equally if not more anthropo-logically challenging: a culture for which<br />

the spoken word was primor<strong>di</strong>al 34 . Not that the Africans I knew never<br />

34 Christian readers might be interested to learn that this predominance and<br />

pre-eminence of speech led me, a Roman Catholic missionary at the time as well<br />

an anthropologist, to surreptitiously substitute a sacrament of the Word for the<br />

Holy Eucharistic (even as Africanized and restored to its agape appearances by<br />

Vatican II – M. SINGLETON, The peasant priesthood, New Blackfriars, May 1973,<br />

201-208). Having once ritually slaughtered animals (notably to make it rain), the<br />

WaKonongo understood and appreciated the mass as a bloody sacrifice but nothing<br />

in their culture had prepared them for the mass as a meal: important in<strong>di</strong>viduals<br />

such as myself were expected to eat alone and apart; rather than symbolically<br />

effect communion (as coming together amicably ipso facto does), eating confirmed<br />

social <strong>di</strong>visions – women returned home to eat with their young children after having<br />

brought food to their men folk who, seated on the ground, ate rapidly and in si-


Traces of the Invisible in Africa<br />

stopped talking! On the contrary, especially in the forest, silence was the<br />

rule. They had no time for idle talk. Exchanges were polite but purposeful.<br />

Though such facts as orality and noma<strong>di</strong>sm can be simply stated 35 ,<br />

their implications, in particular for the symposium’s theme, can be quite<br />

consequential. What do the WaKonongo tell us? Not that any one culture<br />

can be absolutely right and all the others completely wrong. Comparing<br />

cultures in this way would demand the existence of a universally<br />

valid, univocal transcultural yardstick – an assumption which, hopefully,<br />

we have shown to be not only ambiguous but unacceptable. In the<br />

same way that there is little point in claiming humans to be more intelligent<br />

than worms, each species having the know-how to make its ends<br />

meet, likewise, unless clear proof to the contrary is forthcoming (such as<br />

the verging on extinction), each and every culture possesses the material,<br />

moral and metaphysical wherewithal required for coping, as it deems<br />

fit, with the con<strong>di</strong>tions to which it relates. However, as Orwell would<br />

have put it, though all are relatively equal, at times some cultures can appear<br />

more equal than others! In ad<strong>di</strong>tion to lea<strong>di</strong>ng us to believe that<br />

there are as many specifically <strong>di</strong>stinct approaches to and appreciations<br />

of traces as there are significantly <strong>di</strong>fferent cultures, what could a noma<strong>di</strong>c<br />

option say about traces to those who have chosen to settle down<br />

definitively?<br />

In the first place, intent above all on what happens within human<br />

networks, the nomad neither strains after nor does he feel particularly<br />

constrained by potentially portentous signs made from beyond the pale<br />

lence so as to avoid the food going cold or being covered with dust. Nothing, on<br />

the other hand, brought them together in a truly liturgical atmosphere than the<br />

palavers which took place every evening under the auspices of the elders. One has<br />

only to observe the new religious movements inspired by the Bible but invented by<br />

Africans to realize that, in the absence of anything resembling a sacred banquet,<br />

everything turns around the spoken word – rea<strong>di</strong>ngs and sermons, witnessing and<br />

speaking in tongues, healing and dancing. Africanizing the Eucharist (by allowing<br />

drums rather than the organ to be played during the ceremony or the celebrant<br />

wearing locally coloured vestments) does not make it any the less an ethnocentric<br />

proposition (not to say imperialistic imposition).<br />

35 For an overview of noma<strong>di</strong>sm cf J. ATTALI, L’homme nomade, Paris 2003,<br />

and for my latest and perhaps last philosophical foraging in the field, M. SINGLE-<br />

TON, Pensées nomades, penser nomade, in F. HIRAUX (ed.), Etu<strong>di</strong>ants du 21 e siècle,<br />

Louvain-la-Neuve 2005, 87-108.<br />

37


38<br />

Michael Singleton<br />

by some invisible Other. Though not going out of his way to meet up<br />

with the Invisible, should this latter appear on the scene our nomad will<br />

not pause to ascertain the credentials or speculate on the identity of the<br />

Transcendent but imme<strong>di</strong>ately go about doing what is required of him.<br />

He does not expect to learn anything about the Invisible – especially<br />

how It might really look 36 . He would be extremely surprised were his interlocutor<br />

to order a statue faithfully representing his features be made<br />

and even more so to receive the precise plan of a temple to enshrine for<br />

all to see the icon in question. Never tarrying for long in any particular<br />

place, even striking features of the landscape will not leave an everlasting<br />

impression on his mind. Noma<strong>di</strong>c believing is behaving not seeing.<br />

In the second place, leaving so few traces of his own passing on the surroun<strong>di</strong>ngs,<br />

it would be quite out of character for a nomad, even if impressed<br />

by the marks of the Invisible, to permanently and monumentally<br />

mo<strong>di</strong>fy the environment as a consequence. The marks a nomad himself<br />

leaves are more moral than material. Significantly when I asked the<br />

WaKonongo what they remembered most about their pioneering missionaries,<br />

rather than mention the churches, schools and <strong>di</strong>spensaries<br />

built, they spoke of their human qualities – pa<strong>di</strong>li huyu alikuwa mpole<br />

kabisa lakini ndugu yake alikuwa mkali sana : “Father X was extremely<br />

warm hearted whereas his confrere, Father Y, was excessively harsh”.<br />

Rather than in any materialisation of the spiritual, the nomad lives on<br />

his children, his offspring who will inherit his reputation rather than his<br />

realizations. In the third place, when time soon renders invisible the few<br />

visible traces your passing by produced, you are inclined to imagine that<br />

even the Invisible comes and goes just as fleetingly. Not conceiving<br />

Katabi as having always existed the WaKonongo were not surprised by<br />

36 Throughout this contribution I have spoken in the masculine of the Invisible<br />

but, as we have suggested, the sexual identity of the sacred is less of an issue for<br />

Africans than it has become for feminist theologians who would like to see God<br />

the (patriarchal) Father give place to a maternal figure which some go on to associate<br />

with an earlier, supposedly matriarchal era of human evolution. Female goddesses,<br />

however, can be every bit as violent and vicious as their male counterparts<br />

and just as ethnocentric – though one can understand why some ra<strong>di</strong>cals oppose<br />

Pacha Mama or Mother Earth to the Moloch of Globalization, since ancestral<br />

Africa knew no such figure, crusa<strong>di</strong>ng world wide in its favour (G. DE MARZO,<br />

Buen Vivir. Per una democrazia della terra, Roma 2009) would merely substitute<br />

one form of evangelization for another.


Traces of the Invisible in Africa<br />

his demise. Though practising Catholics, they never gave me the impression<br />

that a firm belief in in<strong>di</strong>vidual immortality had replaced the noma<strong>di</strong>c<br />

notion that a full life before was better than any hypothetical life<br />

after death: provided he has been able to leave his prints for a while in<br />

the sand, a nomad is not particularly perturbed by the prospects of the<br />

wind blowing them away. When alongside other sparsely scattered<br />

species you provisionally occupy a modest patch in the midst of a world<br />

as wide as it is without end, you are not likely to imagine that Mankind<br />

is the be all and end all of Creation or that condemned, the present creation<br />

will be definitively replaced by another. In<strong>di</strong>fferent to material objects,<br />

made or not by human hand, nomads also make do without that<br />

theological teleology the citizens of western civilization deem in<strong>di</strong>spensable<br />

37 . Here today, gone tomorrow, their footprints are finally as invisible<br />

as those of the Invisible itself. Qui aures habet, au<strong>di</strong>at!<br />

37 Intriguingly, though sedentary for ages, the Chinese quarter of humanity<br />

seems to manage too without first and final causes (F. JULLIEN, La propension des<br />

choses. Pour une histoire de l’efficacité en Chine, Paris 1992).<br />

39


COSE DI UN ALTRO MONDO: OGGETTI SACRI<br />

NELLA TRADIZIONE DEGLI INDIANI DELLE PIANURE<br />

1. Oggetti non-or<strong>di</strong>nari.<br />

ENRICO COMBA<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Nell’Aprile del 1958 ci fu grande agitazione nella riserva <strong>degli</strong><br />

Cheyenne settentrionali, in Montana. Voci concitate e allarmate riferivano<br />

che il ‘Copricapo Sacro’ se n’era andato, alcuni temevano che potesse<br />

essere venduto o ceduto a qualche estraneo, a un museo o a un<br />

commerciante. Le autorità della riserva furono imme<strong>di</strong>atamente chiamate<br />

in causa e le associazioni militari, un’antica istituzione dei tempi<br />

in cui gli Cheyenne erano cacciatori e guerrieri equestri e che è sopravvissuta<br />

nel Ventesimo Secolo, si misero in allerta. Che cosa era successo?<br />

Il Custode del Copricapo Sacro, Ernest American Horse, che era<br />

stato appena nominato nel suo ruolo e aveva preso in consegna il sacro<br />

oggetto, era partito improvvisamente verso Sheridan, nel Wyoming. Intercettato<br />

lungo il percorso, egli si <strong>di</strong>fese sostenendo che, dal momento<br />

che gli era stato raccomandato <strong>di</strong> non lasciare mai l’oggetto incusto<strong>di</strong>to,<br />

aveva pensato <strong>di</strong> portarlo con sé nel viaggio. I membri delle società<br />

militari tuttavia requisirono l’involto contenente il Copricapo e lo consegnarono<br />

all’Ufficio dell’amministrazione della tribù, dove rimase per<br />

alcuni giorni in attesa che si trovasse una nuova persona alla quale affidarne<br />

la custo<strong>di</strong>a 1 .<br />

L’agitazione che percorse la comunità cheyenne in questa occasione<br />

era motivata dal fatto che l’oggetto in questione non era un oggetto<br />

qualsiasi e neppure una semplice reliquia sacra o una testimonianza del<br />

passato. Il Copricapo Sacro <strong>di</strong> Bisonte (esevone) rappresenta il punto <strong>di</strong><br />

congiunzione <strong>degli</strong> Cheyenne con l’universo che li circonda, la continuità<br />

e la possibilità <strong>di</strong> sopravvivenza della comunità nel suo insieme.<br />

1 P. J. POWELL, Issiwun: <strong>Sacre</strong>d Buffalo Hat of the Northern Cheyenne, Mon -<br />

tana: The Magazine of Western History 10 (1960) n.1, 35.<br />

41


42<br />

Enrico Comba<br />

Nelle parole <strong>di</strong> padre Peter Powell, che ha frequentato gli Cheyenne per<br />

decenni, esso incorpora la ‘cosa sacra’ per eccellenza, «il legame supremo<br />

che unisce il passato, il presente e il futuro, facendone una cosa sola»<br />

2 . Avvolto in un involto <strong>di</strong> pelle, che contiene anche altri <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong><br />

accompagnamento, offerte, e così via, viene conservato scrupolosamente<br />

da una persona a cui viene affidato questo compito a nome dell’intera<br />

comunità e che un tempo trasmetteva l’incarico all’interno della<br />

stessa famiglia. Nel passato, l’oggetto sacro veniva esposto pubblicamente<br />

solo in rare occasioni: nel caso <strong>di</strong> una grave malattia, nel corso<br />

della cerimonia <strong>di</strong> rinnovamento delle Frecce <strong>Sacre</strong> (maahotse), oppure<br />

se, in una spe<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> guerra, qualcuno chiedeva <strong>di</strong> poterlo indossare,<br />

in genere in seguito a una visione o a un voto pronunciato in precedenza<br />

3 . Il Copricapo Sacro è un apporto dei Sutaio, un gruppo parlante<br />

una lingua strettamente imparentata a quella <strong>degli</strong> Cheyenne veri e<br />

propri (o Tsistsistas). I due gruppi si unirono in un’epoca imprecisata,<br />

che alcuni autori collocano intorno alla metà del Settecento: i Sutaio<br />

recarono con sé il Copricapo Sacro (esevone) e la cerimonia della Danza<br />

del Sole come caratteristiche specifiche del proprio gruppo, mentre i<br />

Tsistsistas avevano le Frecce <strong>Sacre</strong> (maahotse) e la cerimonia Massaum,<br />

che garantiva il rapporto con il mondo animale. Dopo le complesse vicende<br />

storiche che hanno portato ai conflitti militari durante l’Ottocento,<br />

alla costituzione delle riserve e alla fine della vita nomade, gli<br />

Cheyenne si sono separati in un gruppo meri<strong>di</strong>onale, stanziato in Oklahoma,<br />

presso il quale vengono ancora conservate le <strong>Sacre</strong> Frecce, e<br />

un gruppo settentrionale, in Montana, dove si trova il Copricapo Sacro.<br />

Quest’ultimo continua a essere considerato come il canale privilegiato<br />

che trasmette l’energia e la forza vitale dal Creatore (maheo) al<br />

mondo umano, convogliando il potere benefico alla comunità e, in particolar<br />

modo, alle donne 4 .<br />

Questi <strong>oggetti</strong> però non sono in alcun modo peculiari <strong>degli</strong> Cheyenne.<br />

I Teton (o Lakota) considerano con grande reverenza una pipa,<br />

chiamata Pipa del Vitello <strong>di</strong> Bisonte, conservata nella riserva <strong>di</strong><br />

2 Ivi, 35.<br />

3 G. B. GRINNELL, The Cheyenne In<strong>di</strong>ans: Their History and Ways of Life, vol.<br />

2, New Haven, Conn. 1923 (rist. Lincoln 1972), 562-563.<br />

4 P. J. POWELL, People of the <strong>Sacre</strong>d Mountain: a History of the Cheyenne<br />

Chiefs and Warrior Societies, 1830-1879; with an Epilogue 1969-1974, vol. 2, San<br />

Francisco 1981, XXXVIII.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

Cheyenne River, South Dakota, in un involto sacro, che rappresenta il<br />

legame della comunità con il proprio passato, con le origini della nazione<br />

e il simbolo della sua unità e continuità nel tempo. Anche in questo<br />

caso lo stretto legame della comunità con questo oggetto si rese manifesto<br />

nel 1898, quando l’agente della riserva dette or<strong>di</strong>ne che l’involto<br />

venisse confiscato e trasferito negli uffici dell’amministrazione. La sollevazione<br />

della gente della riserva costrinse il funzionario a restituire<br />

rapidamente l’oggetto sacro. L’involto venne aperto pubblicamente, in<br />

epoca storica, solo nel 1936, quando Martha Bad Warrior, la figlia del<br />

precedente custode, espose la pipa per un giorno <strong>di</strong> preghiera destinato<br />

a far cessare un periodo <strong>di</strong> devastante siccità che metteva in pericolo la<br />

sopravvivenza della sua gente 5 . Attualmente, il sacro oggetto si trova<br />

ancora conservato a Cheyenne River, sotto la custo<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Arvol<br />

Looking Horse, l’attuale custode 6 . Durante il periodo della vita nomade,<br />

l’involto contenente la Pipa Sacra veniva tenuto nella tenda del suo<br />

custode. Durante il giorno era posto su un tripode, <strong>di</strong> fronte all’ingresso<br />

della tenda, e a nessuno era consentito <strong>di</strong> passare tra l’involto e la<br />

tenda. Con il tramonto del sole veniva ricondotto all’interno dell’abitazione<br />

7 . La Pipa del Vitello <strong>di</strong> Bisonte non era impiegata in alcun rituale<br />

collettivo, ma poteva essere oggetto <strong>di</strong> offerte in<strong>di</strong>viduali, in cui una<br />

persona recava in dono strisce <strong>di</strong> stoffa accompagnate da preghiere e<br />

invocazioni 8 .<br />

Anche tra gli Arapaho e i Gros Ventre si trovano delle pipe sacre,<br />

considerate <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> grande importanza e circondati da un alone <strong>di</strong><br />

mistero e <strong>di</strong> segretezza. Tra gli Arapaho settentrionali, che vivono nella<br />

riserva <strong>di</strong> Wind River, nel Wyoming, la Pipa Piatta (se’ičóo) costituisce<br />

la più preziosa proprietà dell’intera comunità. Nel passato il custode<br />

dell’involto in cui è conservata rizzava la propria tenda al centro del-<br />

5 S. J. THOMAS, A Sioux Me<strong>di</strong>cine Bundle, American Anthropologist 43 (1941)<br />

n. 4, 605-609; R.J. DE MALLIE, Teton, in R.J. DE MALLIE (ed.), Handbook of<br />

North American In<strong>di</strong>ans, vol. 13: Plains, Washington 2001, Part 2, 817.<br />

6 A. LOOKING HORSE, The <strong>Sacre</strong>d Pipe in Modern Life, in R. J. DE MALLIE -<br />

D. R. PARKS (edd.), Sioux In<strong>di</strong>an Religion: Tra<strong>di</strong>tion and Innovation, Norman<br />

1987, 67-73.<br />

7 J. L. SMITH, A Short History of the <strong>Sacre</strong>d Calf Pipe of the Teton Dakota,<br />

Museum News, W.H. Over Dakota Museum, University of South Dakota 28<br />

(1967) n.7-8, 23.<br />

8 Ivi, 11-16.<br />

43


44<br />

Enrico Comba<br />

l’accampamento e questa abitazione era la prima che veniva smontata<br />

quando ci si apprestava a trasferire l’inse<strong>di</strong>amento. Egli aveva il compito<br />

<strong>di</strong> svolgere determinati rituali durante il corso dell’anno, nonché <strong>di</strong><br />

presiedere nel caso in cui qualcuno avesse fatto voto <strong>di</strong> celebrare una<br />

cerimonia specificamente rivolta all’oggetto sacro 9 . «Il possesso della<br />

Sacra Pipa fin dalle origini del tempo collega <strong>di</strong>rettamente il popolo<br />

Arapahoe con il Creatore, e l’appropriato trattamento della Sacra Pipa<br />

è sinonimo <strong>di</strong> mantenimento <strong>di</strong> relazioni armoniose con gli esseri umani,<br />

con la natura e con il Creatore» 10 .<br />

Tutti questi <strong>oggetti</strong> presentano una serie <strong>di</strong> elementi comuni: sono<br />

investiti <strong>di</strong> una forte rilevanza sociale, sono considerati come il simbolo<br />

intorno a cui si costruisce la rappresentazione del gruppo sociale e del<br />

suo benessere, sono affidati alle cure <strong>di</strong> una particolare persona, che li<br />

custo<strong>di</strong>sce a nome e per conto della comunità, sono considerati il tramite<br />

attraverso il quale si articolano le relazioni che uniscono gli esseri<br />

umani con gli altri abitanti dell’universo, visibili e invisibili, viene loro<br />

attribuita la qualità <strong>di</strong> fungere da legame tra passato, presente e futuro,<br />

e, infine, pur essendo evidentemente dei manufatti, sono considerati <strong>oggetti</strong><br />

provenienti da un ‘altrove’, da un’altra <strong>di</strong>mensione.<br />

2. Un dono che viene da lontano.<br />

Secondo la tra<strong>di</strong>zione dei Sutaio, l’origine del Copricapo Sacro risale<br />

a un’epoca molto antica, quando il popolo si trovava in una situazione<br />

<strong>di</strong> grande prostrazione: la carestia <strong>di</strong>lagava sulle terre del Nord, dove<br />

vivevano anticamente i Sutaio. La vegetazione era avvizzita, gli animali<br />

scarsi e affamati, la sopravvivenza <strong>degli</strong> umani era drammaticamente<br />

minacciata. Un giovane sciamano (o me<strong>di</strong>cine-man) si avvicina<br />

alla giovane moglie del capo e le chiede qualcosa da mangiare; finito il<br />

magro pasto egli le chiede <strong>di</strong> partire con lui per una misteriosa spe<strong>di</strong>zione.<br />

La donna acconsente e la coppia si mette in viaggio. Durante il<br />

tragitto il giovane, che si chiama Corna Erette (tomsivsi), rivela alla<br />

donna che il loro viaggio è motivato da una visione, che egli aveva rice-<br />

9 L. FOWLER, Arapaho, in De MALLIE (ed.) Handbook of North American<br />

In<strong>di</strong>ans, vol. 13, cit., 843.<br />

10 L. FOWLER, Arapahoe Politics, 1851-1978: Symbols in Crisis of Authority,<br />

Lincoln 1982, 109.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

vuto dal Creatore, la ‘Grande Me<strong>di</strong>cina’ o il ‘Grande Padre’ (heammawihio).<br />

Dopo <strong>di</strong>versi giorni essi arrivano a una foresta, sulla quale si<br />

erge un’alta montagna, sul fianco della quale si apre una caverna. Qui<br />

essi vengono accolti dallo stesso Creatore e dallo Spirito del Tuono, i<br />

quali li istruiscono e consegnano loro il Sacro Copricapo <strong>di</strong> Bisonte<br />

(esevone), grazie al quale essi potranno esercitare il controllo sui bisonti<br />

e gli altri animali. Quando i due escono dalla caverna «l’intera terra<br />

sembrò rinnovata» e una moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> bisonti uscì dalla stessa cavità<br />

andando a popolare la pianura circostante. Al suo ritorno al villaggio,<br />

il giovane sciamano <strong>di</strong>sse al suo popolo <strong>di</strong> aver portato con sé gli animali,<br />

in modo che essi non soffrissero più la fame, e mostrò loro in quale<br />

modo condurre la cerimonia della Danza del Sole (hokéheome), che<br />

gli era stata insegnata durante il suo soggiorno nella caverna della<br />

montagna 11 . Secondo gli informatori <strong>di</strong> Powell, questa montagna era<br />

chiamata Black Mountain e doveva trovarsi nelle regioni setten trio -<br />

nali 12 . Secondo Ralph Redfox, che <strong>di</strong>scende da una famiglia <strong>di</strong> Sutaio,<br />

questa montagna sarebbe da identificare con nowah’wus, la montagna<br />

sacra legata alla tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> origine delle <strong>Sacre</strong> Frecce, donate all’eroe<br />

Dolce Me<strong>di</strong>cina (motseyoef) in una caverna, in un racconto che riproduce<br />

sostanzialmente quello che abbiamo appena riportato 13 .<br />

La tra<strong>di</strong>zione riguardante l’origine della Sacra Pipa tra i Lakota è<br />

molto nota ed è stata pubblicata in decine <strong>di</strong> versioni. Tutte concordano<br />

sugli elementi essenziali: il popolo si trova in <strong>di</strong>fficoltà per la mancanza<br />

<strong>di</strong> animali, due esploratori vengono inviati alla ricerca <strong>di</strong> selvaggina<br />

e incontrano inaspettatamente una giovane donna. Uno dei guerrieri<br />

desidera possederla ma viene avvolto da una nebbia misteriosa e <strong>di</strong><br />

lui rimangono solo le ossa. La donna annuncia <strong>di</strong> essere inviata dal Popolo<br />

dei Bisonti e manda il giovane esploratore ad avvisare l’accampamento<br />

della sua prossima visita. Allo spuntar del sole la misteriosa visitatrice<br />

appare presso il campo, viene accolta con tutti gli onori e consegna<br />

alla comunità la Sacra Pipa del Vitello <strong>di</strong> Bisonte e le istruzioni per<br />

11 G. A. DORSEY, The Cheyenne: I. Ceremonial Organization, Field Colum bian<br />

Museum Publ. 99, Anthropological Series 9 (1905) n.1, 46-49.<br />

12 P. J. POWELL, Sweet Me<strong>di</strong>cine: The Continuing Role of the <strong>Sacre</strong>d Arrows, the<br />

Sun Dance, and the <strong>Sacre</strong>d Buffalo Hat in Northern Cheyenne History, vol. 2,<br />

Norman 1969 [2.ed. 1979, vol. 2, 469].<br />

13 Informazione fornita da Herman Bender e basata su molti anni <strong>di</strong> conoscenza<br />

e <strong>di</strong> colloqui con Ralph Redfox e altri anziani Cheyenne.<br />

45


46<br />

Enrico Comba<br />

la celebrazione dei principali rituali della religione lakota. Allontanatasi<br />

dall’accampamento, la donna si trasforma in un vitello <strong>di</strong> bisonte<br />

bianco e scompare alla vista 14 .<br />

Si possono riconoscere subito numerose analogie e corrispondenze.<br />

In tutti i casi la situazione <strong>di</strong> partenza riguarda una crisi del rapporto<br />

tra cacciatori e prede: la mancanza <strong>di</strong> selvaggina e il rischio della penuria<br />

<strong>di</strong> cibo. L’acquisizione dell’oggetto sacro consiste nell’instaurazione<br />

<strong>di</strong> una nuova relazione con le potenze spirituali che governano la riproduzione<br />

e la moltiplicazione <strong>degli</strong> animali. Nel caso dei Lakota sono gli<br />

animali stessi, il ‘popolo dei Bisonti’ che invia un messaggero per alleviare<br />

la situazione <strong>di</strong>sperata dell’umanità. Bisogna tenere in considerazione<br />

un aspetto molto rilevante: nella visione del mondo dei popoli<br />

amerin<strong>di</strong>ani gli animali non costituiscono una categoria <strong>di</strong> esseri nettamente<br />

<strong>di</strong>stinti e separati dall’umanità. Non solo nei tempi delle origini<br />

uomini e animali erano praticamente in<strong>di</strong>stinguibili, in quanto gli esseri<br />

primor<strong>di</strong>ali mostravano caratteristiche che mescolavano elementi<br />

umani ed elementi propri alle <strong>di</strong>verse specie animali, ma anche nel presente,<br />

uomini e animali si <strong>di</strong>fferenziavano soltanto per una particolare<br />

modalità <strong>di</strong> osservare e interpretare il mondo. Quando cacciavano i bisonti<br />

o i caribù, gli uomini osservavano gli animali che cercavano <strong>di</strong><br />

fuggire, venivano colpiti e cadevano a terra.<br />

«Ma dal punto <strong>di</strong> vista dei caribù si vedevano gli animali come persone,<br />

che vivevano in gruppi familiari e che cacciavano alla stessa maniera <strong>degli</strong><br />

umani. Quando uno dei loro membri era inseguito da cacciatori umani, il<br />

giovane [trasformato in animale] vedeva una persona vestita con un abito<br />

bianco che fuggiva, cercando scampo […] Invece <strong>di</strong> una persona che fuggiva,<br />

i cacciatori umani vedevano un caribù, e invece <strong>di</strong> un mantello bianco<br />

abbandonato, i cacciatori vedevano la carcassa <strong>di</strong> un animale ucciso» 15 .<br />

14 G. A. DORSEY, Legend of the Teton Sioux Me<strong>di</strong>cine Pipe, Journal of Ameri -<br />

can Folk-Lore 19 (1906) n.75; F. DENSMORE, Teton Sioux Music, Bureau of<br />

American Ethnology Bulletin 61 (1918) (rist. Lincoln 1992, 68]; SMITH, A Short<br />

History cit., 1-4. La versione probabilmente più celebre è quella riportata da<br />

Black Elk in J. E. BROWN, The <strong>Sacre</strong>d Pipe: Black Elk’s Account of the Seven Rites<br />

of the Oglala Sioux, Norman 1953, 3-9.<br />

15 H. L. HARROD, The Animals Came Dancing: Native American <strong>Sacre</strong>d<br />

Ecology and Animal Kinship, Tucson 2000, 73-74; il riferimento è alle tra<strong>di</strong>zioni<br />

dei Cree riportate da A. TANNER, Bringing Home Animals: Religious Ideology and<br />

Mode of Production of the Mistassini Cree Hunters, London 1979, 136-137.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

Questa caratteristica del pensiero in<strong>di</strong>geno delle Americhe, che si<br />

trova <strong>di</strong>ffusa in tutto il continente, è stata definita dall’antropologo<br />

brasiliano Eduardo Viveiros de Castro ‘prospettivismo’ 16 . Secondo tale<br />

prospettiva gli umani e gli animali si <strong>di</strong>fferenziano soprattutto per il<br />

fatto <strong>di</strong> essere ‘rivestiti’ da un corpo <strong>di</strong>verso, ma con<strong>di</strong>vidono una comune<br />

interiorità, che viene descritta come sostanzialmente simile alla<br />

forma umana. Gli animali quin<strong>di</strong> sono, come gli uomini, dotati <strong>di</strong> volontà,<br />

intenzionalità, decisionalità e potere, spesso in misura anche superiore<br />

a quella <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>spongono gli uomini. La caccia quin<strong>di</strong> non è<br />

tanto il risultato della capacità o delle abilità dell’uomo che sa imporre<br />

la propria forza o la propria astuzia sulla preda, ma <strong>di</strong>pende dalla volontà<br />

dell’animale <strong>di</strong> lasciarsi uccidere a beneficio <strong>degli</strong> uomini. Se gli<br />

animali non fossero <strong>di</strong>sposti benevolmente nei confronti <strong>degli</strong> umani la<br />

sopravvivenza <strong>di</strong> questi ultimi sarebbe messa in serio pericolo. È esattamente<br />

questo lo scenario con cui si aprono i racconti <strong>di</strong> cui abbiamo<br />

parlato. Gli uomini soffrono la fame, gli animali sono introvabili, la fame<br />

attanaglia il villaggio. La soluzione giunge come un atto gratuito <strong>di</strong><br />

generosità nei confronti del genere umano: una chiamata da parte delle<br />

potenze superiori, come nel caso della storia <strong>di</strong> Corna Erette, oppure<br />

l’invio <strong>di</strong> un messaggero da parte del mondo animale.<br />

Un altro elemento importante che compare in entrambe le tra<strong>di</strong>zioni<br />

riguarda il ruolo svolto dalla donna come interme<strong>di</strong>atrice con il<br />

mondo non-umano. Nel caso dei Lakota il bisonte bianco si trasforma<br />

in una giovane donna per consegnare la Pipa Sacra, mentre nel caso<br />

dell’eroe dei Sutaio è necessario che questi si faccia accompagnare da<br />

una donna nel suo viaggio verso l’ignoto. Anche in questo secondo racconto<br />

l’esito finale sarà il ripopolamento della terra da parte dei bisonti,<br />

che emergono dalla caverna sul fianco della montagna. Il bisonte è<br />

in effetti strettamente legato alle qualità femminili e al mondo della<br />

donna. Gli animali sono associati alla terra, alla riproduzione, alla fertilità<br />

e vengono quin<strong>di</strong> posti in relazione con il ruolo della donna, alla<br />

quale spetta il compito <strong>di</strong> assicurare la continuità del gruppo grazie alla<br />

sua capacità generativa 17 . La donna <strong>di</strong>viene pertanto un elemento essenziale<br />

<strong>di</strong> interme<strong>di</strong>azione tra il mondo umano e il mondo animale, il<br />

16 E. VIVEIROS DE CASTRO, Cosmological Deixis and Amerin<strong>di</strong>an Perspectivism,<br />

Journal of the Royal Anthropological Institute 4 (1998) n.3, 469-488.<br />

17 E. COMBA, Il cerchio della vita: uomini e animali nell’universo simbolico <strong>degli</strong><br />

In<strong>di</strong>ani delle Pianure, <strong>Torino</strong> 1999, 176.<br />

47


48<br />

Enrico Comba<br />

canale attraverso cui può fluire la forza vitale, che determina al tempo<br />

stesso la moltiplicazione <strong>degli</strong> animali e la riproduzione <strong>degli</strong> esseri<br />

umani. La donna scelta da Corna Erette è la moglie del capo villaggio,<br />

quin<strong>di</strong> la rappresentante dell’intero gruppo nei confronti del mondo<br />

animale, così come la Donna Vitello <strong>di</strong> Bisonte Bianco (Ptehincalasanwin)<br />

rappresenta tutto il popolo dei bisonti nei confronti <strong>degli</strong> umani.<br />

Il ruolo della donna come me<strong>di</strong>atrice tra i mon<strong>di</strong> viene riproposto in<br />

vario modo: nei <strong>di</strong>versi racconti in cui un umano sposa una donna-bisonte<br />

(oppure nella versione in cui una donna umana viene rapita da<br />

un marito-bisonte) e nelle cerimonie in cui era previsto un rapporto<br />

sessuale tra la donna e un anziano, che rivestiva il ruolo del bisonte 18 .<br />

L’origine della Pipa Piatta <strong>degli</strong> Arapaho ci conduce in un’epoca ancora<br />

più remota: al tempo della creazione del mondo. Sulle acque primor<strong>di</strong>ali<br />

galleggia un oggetto, che è al tempo stesso una persona, si<br />

tratta della Pipa Sacra (se’ičóo). Secondo altre versioni è un uomo che<br />

regge in mano una pipa. In ogni caso questo essere è solo e sta <strong>di</strong>giunando,<br />

implorando aiuto e benevolenza, che gli verrà concessa dal<br />

Creatore (heisonoonin). «Nella mitologia <strong>degli</strong> Arapaho la creazione<br />

della terra, l’origine della cultura e l’acquisizione delle cerimonie avvengono<br />

tutte come risultato del <strong>di</strong>giuno, <strong>di</strong> una con<strong>di</strong>zione che desta<br />

pietà» 19 . Questa con<strong>di</strong>zione è quella che viene ricercata da ogni in<strong>di</strong>viduo<br />

che desideri ottenere un aiuto, un beneficio da parte <strong>di</strong> una potenza<br />

spirituale: costui (o costei) deve allontanarsi dall’abitato e dagli altri<br />

esseri umani, isolarsi in qualche luogo adatto, astenersi da cibo e acqua<br />

restando in attesa <strong>di</strong> una comunicazione da parte del mondo invisibile.<br />

Si tratta <strong>di</strong> sollecitare il soccorso e la benevolenza delle potenze spirituali<br />

mostrando la propria con<strong>di</strong>zione miserevole e <strong>di</strong>sperata. La situazione<br />

<strong>di</strong> estremo bisogno tratteggiata all’inizio <strong>degli</strong> altri racconti che<br />

abbiamo esaminato conduce allo stesso risultato: la ricerca <strong>di</strong> un intervento<br />

da parte delle forze spirituali che hanno a cuore la sopravvivenza<br />

della specie umana. Così, per gli Arapaho, la Pipa Piatta si trova al centro<br />

delle pratiche cerimoniali che hanno lo scopo <strong>di</strong> garantire la continuità<br />

della vita e la sopravvivenza <strong>degli</strong> esseri umani sulla terra. La conoscenza<br />

necessaria per la celebrazione delle cerimonie concerne le mo-<br />

18 A. B. KEHOE, The Function of Ceremonial Sexual Intercourse Among the<br />

Northern Plains In<strong>di</strong>ans, Plains Anthropologist 15 (1970) n. 48, 99-103.<br />

19 J. D. ANDERSON, The Four Hills of Life: Northern Arapaho Knowledge and<br />

Life Movement, Lincoln 2001, 51.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

dalità con cui queste devono essere eseguite e la determinazione del<br />

tempo esatto in cui le azioni sacre si devono svolgere 20 .<br />

Questo ci permette <strong>di</strong> collegarci a un personaggio che abbiamo percepito<br />

solo rapidamente nel racconto relativo all’origine del Copricapo<br />

Sacro: si tratta dello Spirito del Tuono (nonoma), che compare nella<br />

montagna sacra accanto allo stesso Creatore. Il racconto lakota non fa<br />

menzione del Tuono, anche se la nuvola che circonda e uccide il guerriero<br />

dalle cattive intenzioni potrebbe essere una velata manifestazione<br />

<strong>di</strong> questo essere. In ogni caso, il Tuono e il Bisonte erano strettamente<br />

connessi l’uno all’altro: il rombo <strong>di</strong> una mandria <strong>di</strong> bisonti ricordava<br />

l’avvicinarsi del tuono. Inoltre, le pietre sacre, usate nelle cerimonie destinate<br />

ad attirare i bisonti, erano considerate provenienti dal cielo e cadute<br />

sulla terra ad opera del Tuono 21 . Ma soprattutto il tuono era un<br />

preciso in<strong>di</strong>catore stagionale: segnalava la fine dell’inverno e il sopraggiungere<br />

dell’estate. In tutta l’area delle Pianure i primi tuoni <strong>di</strong> primavera<br />

costituivano l’occasione per la celebrazione <strong>di</strong> cerimonie che erano<br />

incentrate sull’impiego <strong>di</strong> pipe sacre. Tra i Gros Ventre una delle due<br />

Pipe <strong>Sacre</strong> considerate patrimonio comune della tribù, la Pipa Piumata<br />

(ana:thanitč) era considerata un dono dello Spirito del Tuono (bha’a),<br />

si pensava fosse strettamente associata al cielo e alle nuvole tempestose<br />

e poteva essere impiegata cerimonialmente soltanto nel periodo in cui<br />

erano presenti i tuoni, ossia dalla primavera all’inizio dell’autunno 22 .<br />

I tuoni segnavano infatti l’inizio della stagione cerimoniale, il periodo<br />

in cui le bande <strong>di</strong> cacciatori noma<strong>di</strong> cominciavano a muoversi dalle<br />

se<strong>di</strong> invernali per riunirsi in gruppi più numerosi e de<strong>di</strong>carsi alla caccia<br />

collettiva al bisonte. L’annuncio delle prime piogge significava il generale<br />

rifiorire e rigenerarsi <strong>di</strong> tutte le specie vegetali e animali dal torpore<br />

dell’inverno, mentre le giornate si allungavano e il sole sembrava riprendere<br />

forza e vigore. Le cerimonie collettive della stagione estiva<br />

sembravano accompagnare il rinascere della vegetazione e in<strong>di</strong>cavano<br />

l’esigenza <strong>di</strong> una parallela rigenerazione della comunità umana, rappresentata<br />

dalla celebrazione <strong>di</strong> rituali che comprendevano la ripetizio-<br />

20 Ivi, 245-246.<br />

21 F. DENSMORE, Teton Sioux Music cit., 208-210.<br />

22 J. M. COOPER, The Gros Ventres of Montana: Part II. Religion and Ritual,<br />

Washington, D.C. 1957, 140-148. Una dettagliata descrizione dell’origine della<br />

Pipa Piumata è riportata in G. HORSE CAPTURE (ed.), The Seven Visions of Bull<br />

Lodge, As Told by His Daughter, Garter Snake, Lincoln-London 1980, 103-122.<br />

49


50<br />

Enrico Comba<br />

ne dell’atto cosmogonico, l’instaurazione <strong>di</strong> un nuovo or<strong>di</strong>ne dell’universo<br />

e il rinnovamento delle relazioni che univano gli esseri umani agli<br />

altri abitanti della terra.<br />

3. Persone e cose.<br />

In occasione dell’apertura dell’involto contente il Sacro Copricapo<br />

<strong>degli</strong> Cheyenne, il custode dell’oggetto sacro, Henry Little Coyote, si rivolse<br />

con deferenza a quest’ultimo chiamandolo «mio Dio» e invocandone<br />

la benevolenza e l’intercessione a nome <strong>di</strong> tutta la comunità 23 . Tale<br />

atteggiamento, che forse è stato influenzato dal formulario <strong>di</strong> preghiere<br />

introdotto dal Cristianesimo, non è però affatto eccezionale.<br />

Questi <strong>oggetti</strong> sacri sono infatti generalmente considerati come qualcosa<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>verso da semplici ‘<strong>oggetti</strong>’: sono in effetti trattati e rappresentati<br />

come se si trattasse a tutti gli effetti <strong>di</strong> ‘persone’. Robert Lowie ha osservato<br />

la <strong>di</strong>ffusa presenza, tra i Crow del Montana, nei primi anni del<br />

Novecento, <strong>di</strong> pietre sacre (baco’ritsi’tse), trovate accidentalmente o in<br />

seguito all’in<strong>di</strong>cazione ricevuta durante una visione: queste pietre hanno<br />

spesso una forma particolare, che ricorda un animale o una parte<br />

del suo corpo e a volte sono costituite da ammoniti o altri fossili 24 . Esse<br />

assicuravano la fortuna al loro possessore, soprattutto in guerra e nel<br />

procacciare la selvaggina. Alcune poi erano in grado <strong>di</strong> crescere nel<br />

corso del tempo, aumentando la loro <strong>di</strong>mensione in maniera vistosa e<br />

erano considerate capaci <strong>di</strong> riprodursi, come <strong>degli</strong> esseri viventi. Ma,<br />

aggiunge lo stesso autore, «non solo le baco’ritsi’tse erano concepite<br />

come organismi capaci <strong>di</strong> crescere e moltiplicarsi, ma come esseri personali<br />

dotati <strong>di</strong> potere, che si rivelano nel corso <strong>di</strong> esperienze equivalenti<br />

a una visione» 25 .<br />

Gli stessi elementi, ossia il potere proveniente dal mondo spirituale e<br />

la manifestazione attraverso una visione, costituivano i criteri attraverso<br />

i quali i Blackfoot attribuivano la categoria <strong>di</strong> ‘persone’ a <strong>oggetti</strong><br />

non-umani, animati e inanimati. Secondo la visione dell’universo <strong>di</strong><br />

questo popolo, infatti, esiste una forza <strong>di</strong>ffusa (natoji, che significa ‘po-<br />

23 P. J. POWELL, Issiwun: <strong>Sacre</strong>d Buffalo cit., 39-40.<br />

24 R. H. LOWIE, The Crow In<strong>di</strong>ans, New York 1935 (rist. Lincoln-London<br />

1983, 261).<br />

25 Ivi, 261-263.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

tere solare’) che si manifesta in maniera principale nell’astro <strong>di</strong>urno,<br />

ma che pervade l’intero cosmo. Questa forza può entrare in comunicazione<br />

con gli esseri umani attraverso un’esperienza visionaria in cui<br />

compare un qualsiasi oggetto, animato o inanimato, come manifestazione<br />

della forza solare. Nell’atto <strong>di</strong> comunicare con l’uomo, l’oggetto<br />

<strong>di</strong>viene in tal modo ‘come una persona’. «Non si trova alcuna chiara<br />

<strong>di</strong>stinzione circa il fatto se sia il potere a mascherarsi da oggetto oppure<br />

se sia l’oggetto stesso che si maschera da persona» 26 . Lowie sembra un<br />

po’ imbarazzato dal fatto che i Crow «personificano <strong>oggetti</strong> inanimati e<br />

li investono <strong>di</strong> potere sovrannaturale». Non si tratta, ci spiega, <strong>di</strong> una<br />

sorta <strong>di</strong> panteismo, poiché non tutti gli <strong>oggetti</strong> vengono considerati in<br />

questo modo. Piuttosto essi ritengono che «potenzialmente qualsiasi<br />

oggetto possa essere ricondotto entro la sfera del misteriosamente potente»<br />

27 . Questa tendenza alla personificazione <strong>di</strong> cose inanimate, ritenute<br />

impregnate <strong>di</strong> una sorta <strong>di</strong> misterioso potere mistico, viene interpretata,<br />

da Lowie, come la creazione <strong>di</strong> ‘dei occasionali’ (nonce-gods),<br />

creati da un momentaneo impulso o da un’esigenza contingente 28 .<br />

Che le cose fossero un po’ più complesse è stato <strong>di</strong>mostrato brillantemente<br />

dalle ricerche <strong>di</strong> Irving Hallowell tra gli Ojibwa dei Gran<strong>di</strong> Laghi.<br />

Egli ha osservato che in numerose culture umane la categoria <strong>di</strong><br />

‘persona’ costituisce una delle principali nozioni intorno alle quali si<br />

costruisce una particolare visione del mondo e della realtà. Tale categoria<br />

però non è affatto limitata ai soli esseri umani, nemmeno nella nostra<br />

società, dove le caratteristiche <strong>di</strong> ‘persona’ sono attribuite anche alla<br />

<strong>di</strong>vinità. Nel caso <strong>degli</strong> Ojibwa, queste <strong>di</strong>fficoltà possono essere illustrate<br />

dall’analisi della parola ‘nonno’:<br />

«Questa non viene applicata solo alle persone umane ma anche agli esseri<br />

spirituali che sono persone <strong>di</strong> una categoria <strong>di</strong>versa dagli umani. Infatti,<br />

quando viene impiegato il plurale collettivo “i nostri nonni”, il riferimento<br />

è primariamente alle persone <strong>di</strong> questo secondo tipo. Così, se stu<strong>di</strong>amo<br />

l’organizzazione sociale <strong>degli</strong> Ojibwa nella solita maniera, teniamo conto<br />

<strong>di</strong> un solo genere <strong>di</strong> “nonni”. Se stu<strong>di</strong>amo la loro religione scopriamo che<br />

vi sono altri “nonni”. Ma se adottiamo una prospettiva che tenga conto<br />

della loro visione del mondo non appare più alcuna <strong>di</strong>cotomia. In questa<br />

26 C. WISSLER, Ceremonial Bundles of the Blackfoot In<strong>di</strong>ans, Anthropological<br />

Papers of the American Museum of Natural History 11, part II (1912) 103.<br />

27 R. H. LOWIE, The Crow In<strong>di</strong>ans cit., 250.<br />

28 Ivi, 251.<br />

51


52<br />

Enrico Comba<br />

prospettiva “nonno” è un termine che si può applicare a determinati “<strong>oggetti</strong><br />

persone”, senza alcuna <strong>di</strong>stinzione tra persone umane e quelle che appartengono<br />

alla classe delle persone <strong>di</strong>verse da quelle umane» 29 .<br />

L’universo dei popoli in<strong>di</strong>geni delle Americhe era quin<strong>di</strong> composto<br />

da molteplici entità dotate <strong>di</strong> caratteristiche personali, che non si identificavano<br />

con l’insieme dei soli esseri umani. Come è stato descritto in<br />

maniera semplice e <strong>di</strong>retta da Luther Stan<strong>di</strong>ng Bear, uno dei primi giovani<br />

Lakota condotti a stu<strong>di</strong>are alla Scuola In<strong>di</strong>ana <strong>di</strong> Carlisle: «Ogni<br />

cosa possedeva una personalità, e <strong>di</strong>fferiva da noi solo per la forma. La<br />

conoscenza era inerente in ogni cosa. Il mondo era una biblioteca e i<br />

suoi libri erano le pietre, le foglie, l’erba, il ruscello, gli uccelli e gli animali<br />

che con<strong>di</strong>videvano con noi e come noi la forza e la bene<strong>di</strong>zione<br />

della terra» 30 . Questo universo è reso vivo, <strong>di</strong>namico, vitale da una sorta<br />

<strong>di</strong> energia, <strong>di</strong> potere che produce il movimento e la vita <strong>di</strong> tutti gli esseri<br />

che lo compongono, un potere che proviene in ultima analisi dalla<br />

fonte principale e originaria da cui il cosmo stesso ha avuto origine, il<br />

Creatore. Per i Lakota questo potere è in<strong>di</strong>cato dal termine wakan, per<br />

gli Cheyenne dal concetto <strong>di</strong> exhastoz (‘energia cosmica’), per i Crow<br />

dalla nozione <strong>di</strong> maxpe. «È il maxpe che rende tutte le cose e le persone<br />

<strong>di</strong>fferenti a seconda delle loro capacità e natura» 31 . Il cosmo è costituito<br />

quin<strong>di</strong> da una rete <strong>di</strong> relazioni che uniscono fra <strong>di</strong> loro questi <strong>di</strong>versi<br />

esseri, il potere costituisce l’elemento non solo <strong>di</strong> vitalità e <strong>di</strong> trasformazione,<br />

ma rappresenta l’intreccio delle relazioni e dei legami che si<br />

stabiliscono tra gli esseri umani e gli altri abitanti dell’universo. «La cosa<br />

importante è che una ‘persona’ può essere in qualsiasi cosa –il sole,<br />

le formiche, gli orsi, i bisonti, le pietre, i torrenti e gli alberi. Il mondo è<br />

quin<strong>di</strong> costituito da ‘persone’, spirituali e umane, che possono parlare,<br />

influenzare, cooperare le une con le altre e scambiarsi dei doni, in un<br />

reciproco scambio e con profitto per entrambi» 32 .<br />

Gli <strong>oggetti</strong> e le cose inanimate, come le piante e gli animali, acquisiscono<br />

la natura <strong>di</strong> ‘persone <strong>di</strong>verse da quelle umane’ nel momento in<br />

29 A. I. HALLOWELL, Ojibwa Ontology, Behavior, and World View, in Contribu -<br />

tions to Anthropology: Selected Papers of A.I. Hallowell, Chicago-London 1976,<br />

359-360.<br />

30 L. STANDING BEAR, Land of the Spotted Eagle, Boston 1933 (rist. Lincoln<br />

1978, 194].<br />

31 F. W. VOGET, The Shoshoni-Crow Sun Dance, Norman 1984, 294.<br />

32 Ivi, 294.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

cui si pongono in relazione con gli esseri umani. Tali relazioni implicano<br />

la conoscenza del corretto modo <strong>di</strong> agire e <strong>di</strong> comportarsi nei confronti<br />

<strong>di</strong> queste ‘persone’. Gli <strong>oggetti</strong> che sono investiti <strong>di</strong> ‘potere’ possiedono<br />

una sorta <strong>di</strong> energia vitale, <strong>di</strong> autonomia decisionale, e devono<br />

essere maneggiati e interpellati con la massima cautela e attenzione. Il<br />

beneficio o il pericolo che può venire da queste ‘persone-oggetto’ <strong>di</strong>pende<br />

dalla conoscenza che gli uomini hanno circa il loro corretto impiego<br />

e il modo in cui è possibile stabilire un’adeguata comunicazione<br />

con essi. «Fino a quando ci si prendeva cura dell’oggetto in modo adeguato,<br />

lo spirito continuava a risiedere in esso, continuando a fornire<br />

conoscenza e vitalità». Ma quando una persona che era in possesso <strong>di</strong><br />

un oggetto sacro moriva senza trasmettere le istruzioni per la cura dell’oggetto<br />

a qualcun altro, questo <strong>di</strong>veniva fonte <strong>di</strong> pericolo e <strong>di</strong> inquietu<strong>di</strong>ne<br />

e spesso veniva seppellito con il suo proprietario 33 .<br />

Gli <strong>oggetti</strong> sacri come il Copricapo Sacro o come la Pipa del Vitello<br />

<strong>di</strong> Bisonte acquisiscono la loro straor<strong>di</strong>naria importanza dal fatto <strong>di</strong><br />

incarnare la relazione non <strong>di</strong> un singolo in<strong>di</strong>viduo con i poteri invisibili,<br />

ma dell’intera comunità con le entità che popolano l’universo e che<br />

garantiscono la sopravvivenza e lo sviluppo della specie umana. Essi<br />

costituiscono un canale <strong>di</strong> collegamento privilegiato che unisce il mondo<br />

visibile al mondo invisibile, la società umana al mondo <strong>degli</strong> animali,<br />

il presente al passato, il mondo attuale al momento della creazione.<br />

Il corretto modo <strong>di</strong> interagire e <strong>di</strong> maneggiare questi <strong>oggetti</strong> sacri costituisce<br />

il nucleo essenziale della tra<strong>di</strong>zione culturale della comunità e il<br />

sapere necessario per mettere in pratica queste norme si identifica con<br />

l’intero patrimonio culturale. Se l’universo è visto come un universo <strong>di</strong><br />

interazioni e <strong>di</strong> legami, e l’estensione del concetto <strong>di</strong> persona all’ambito<br />

non-umano ha la funzione <strong>di</strong> sottolineare la fondamentale inter<strong>di</strong>pendenza<br />

<strong>di</strong> tutti gli esseri che compongono l’universo 34 , allora questi <strong>oggetti</strong><br />

<strong>di</strong> importanza cruciale per la comunità <strong>di</strong>vengono l’incarnazione<br />

<strong>di</strong> questo nodo <strong>di</strong> relazioni, il fulcro a partire dal quale si <strong>di</strong>partono<br />

una quantità <strong>di</strong> connessioni che uniscono gli esseri umani al resto dell’universo.<br />

33 J. D. ANDERSON, The Four Hills of Life cit., 269.<br />

34 W. K. POWERS, <strong>Sacre</strong>d Language: the Nature of Supernatural Discourse in<br />

Lakota, Norman 1986, 152.<br />

53


54<br />

Enrico Comba<br />

4. Quel che resta quando le cose cambiano.<br />

Questi <strong>oggetti</strong> che provengono da un’altra <strong>di</strong>mensione, sembrano incapsulare<br />

un frammento <strong>di</strong> eternità. Non prodotti dalla mano <strong>di</strong> un artefice<br />

umano, essi sembrano destinati a sfuggire alle leggi che governano<br />

le cose materiali appartenenti a questo mondo. Tuttavia, nel momento<br />

in cui entrano nel mondo umano, essi <strong>di</strong>vengono elementi costitutivi<br />

della vita sociale, sono oggetto <strong>di</strong> cura e <strong>di</strong> precauzioni rituali e<br />

sono assoggettati al logoramento e alla <strong>di</strong>ssoluzione. La storia pittografica<br />

<strong>di</strong>pinta da Battiste Good durante la seconda metà dell’Ottocento<br />

e raccolta nella riserva <strong>di</strong> Rosebud, mostra l’evento dell’arrivo della<br />

Donna Bisonte Bianco tra i Lakota con il dono della Pipa Sacra come<br />

punto iniziale della vicenda storica, che viene collocato cronologicamente<br />

all’anno 901 d.C.: il mito e la storia si intrecciano e si confondono<br />

35 . Questo apparente miscuglio tra storia e mito non dovrebbe sorprendere<br />

troppo. Infatti, come ha mostrato Arnold Krupat, i racconti<br />

che si riferiscono a un tempo remoto e a personaggi fantastici (che noi<br />

classifichiamo come ‘miti’ e che sono in<strong>di</strong>cati dai Lakota con il termine<br />

ohun’kaka) e le storie riferibili a tempi più recenti e a protagonisti reali<br />

(resoconti che noi in<strong>di</strong>chiamo come ‘storia’), vengono considerati come<br />

ugualmente veri. La loro verità non risiede tanto nella corrispondenza<br />

a un riscontro fattuale, quanto nella corrispondenza a quanto viene<br />

considerato culturalmente e pubblicamente come adeguata conoscenza<br />

del passato 36 .<br />

L’inserimento nella storia, tuttavia, porta con sé inevitabilmente l’effetto<br />

dello sgretolamento e del cambiamento: nessuna cosa può rimanere<br />

sempre uguale a se stessa, una volta che sia trascinata nel vortice<br />

del tempo che scorre. Anche la Pipa Sacra, infatti, ha subito i trascorsi<br />

delle vicende storiche: vi sono <strong>di</strong>saccor<strong>di</strong> e controversie circa il suo<br />

aspetto originario. Alcuni, come Black Elk, ritenevano che il fornello<br />

della Pipa Sacra portasse scolpita l’immagine <strong>di</strong> un bisonte 37 , mentre<br />

35 G. MALLERY, Picture-Writing of the American In<strong>di</strong>ans, in 10 th Annual Re port<br />

of the Bureau of American Ethnology 1888-1889 (1893) 290.<br />

36 A. KRUPAT, Red Matters: Native American <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es, Philadelphia 2002, 50. Il<br />

termine Lakota ohun’kaka viene descritto come un racconto ‘non creduto vero’ da<br />

E. DELORIA, Dakota Texts (Publications of the American Ethnological Society,<br />

vol. 14), New York 1932, IX-X.<br />

37 J. E. BROWN, The <strong>Sacre</strong>d Pipe cit., 6.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

sem bra che la pipa attualmente conservata nell’involto sacro non abbia<br />

alcuna scultura. Secondo alcuni Oglala, la pipa mostrata pubblicamente<br />

da Martha Bad Warrior nel 1934 non era la vera pipa, ma un sostituto,<br />

mentre l’oggetto originale rimase sempre custo<strong>di</strong>to nell’involto. Ma<br />

John Fire aggiunse che il fornello originario della pipa non era in pietra,<br />

come nelle pipe attuali, ma in osso <strong>di</strong> bisonte e che con il passar del<br />

tempo si deteriorò e dovette venir sostituito 38 .<br />

L’effetto travolgente <strong>degli</strong> acca<strong>di</strong>menti storici si fece sentire in modo<br />

particolarmente devastante per gli Cheyenne, il cui principale oggetto<br />

sacro, le <strong>Sacre</strong> Frecce (maahotse), consegnate al popolo dall’eroe culturale<br />

Dolce Me<strong>di</strong>cina e conservate come una reliquia che incarnava l’unità<br />

e la prosperità della comunità, vennero catturate dai nemici Pawnee<br />

nel 1830, durante una catastrofica spe<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> guerra 39 . Si trattò<br />

del «più grande <strong>di</strong>sastro che il Popolo ebbe a soffrire» 40 . Dopo <strong>di</strong>versi<br />

giorni <strong>di</strong> dubbi e <strong>di</strong> incertezze sul da farsi, il consiglio supremo della<br />

comunità, chiamato il Consiglio dei Quarantaquattro Capi, si riunì in<br />

lunghe ore <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione e alla fine fu deliberata la necessità <strong>di</strong> procedere<br />

alla creazione <strong>di</strong> nuove frecce. «Tutti insieme avevano deciso che si<br />

dovesse fare quattro nuove Frecce, poiché il Popolo non poteva continuare<br />

a vivere senza Maahótse. Essi non potevano esistere senza le <strong>Sacre</strong><br />

Frecce attraverso le quali Ma’heo’o [il Creatore] riversava la vita<br />

nelle loro esistenze e nel mondo» 41 . Questa decisione, se da un lato testimonia<br />

della grande importanza simbolica <strong>di</strong> cui l’oggetto sacro era<br />

investito, dall’altro mostra anche l’aspetto paradossale <strong>di</strong> tale scelta.<br />

Come si può sostituire un oggetto non prodotto dall’uomo, ma proveniente<br />

da un’altra <strong>di</strong>mensione, da un altro mondo, con qualcosa <strong>di</strong> ‘fatto’<br />

appositamente, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> esplicitamente artificiale? Il problema<br />

sembra che abbia scosso e arrovellato molti Cheyenne nel corso del<br />

tempo: anche se le nuove Frecce erano equivalenti a quelle antiche da<br />

un punto <strong>di</strong> vista simbolico e ideologico, tuttavia si percepiva che non<br />

38 J. L. SMITH, A Short History of the <strong>Sacre</strong>d Calf Pipe cit., 28. Si veda anche J.<br />

F. LAME DEER – R. ERDOES, Lame Deer Seeker of Visions: The Life of a Sioux<br />

Me<strong>di</strong>cine Man, New York 1972, 255-256.<br />

39 P. J. POWELL, People of the <strong>Sacre</strong>d Mountain cit., 3-10; G. A. DORSEY, How<br />

the Pawnee Captured the Cheyenne Me<strong>di</strong>cine Arrows, American Anthropologist 5<br />

(1903) n.4, 644-658.<br />

40 P. J. POWELL, People of the <strong>Sacre</strong>d Mountain cit., 10.<br />

41 Ivi, 11.<br />

55


56<br />

Enrico Comba<br />

erano più la stessa cosa, che qualcosa era cambiato in modo irrime<strong>di</strong>abile.<br />

Da quel momento, alcuni anziani cominciarono a pensare, iniziò<br />

un periodo <strong>di</strong> gravi sofferenze per gli Cheyenne, ma anche per i loro nemici,<br />

i Pawnee, le cui fortune, da quel momento in poi, avrebbero cominciato<br />

a declinare sempre più 42 .<br />

Anche il Copricapo Sacro (esevone), appartenente ai Sutaio, confluiti<br />

nella nazione Cheyenne, fu al centro <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> eventi drammatici<br />

e tumultuosi. Nel 1865 venne affidato temporaneamente in custo<strong>di</strong>a a<br />

un uomo chiamato Broken Dish, che lo avrebbe dovuto consegnare al<br />

figlio del custode precedente, Coal Bear. Egli però volle tenere con sé<br />

l’oggetto e, nottetempo, fuggì dall’accampamento rifugiandosi nel villaggio<br />

<strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> Lakota amici. L’involto con l’oggetto sacro venne<br />

recuperato grazie all’intervento delle società militari, ma qualcosa<br />

sembrava non andare per il verso giusto, si sentiva che una minaccia si<br />

addensava sulla comunità. Dopo qualche tempo il custode decise <strong>di</strong><br />

ispezionare l’involto del Sacro Copricapo e in questa circostanza scoprì<br />

con raccapriccio che al Copricapo mancava uno dei corni <strong>di</strong> bisonte<br />

che ne facevano da ornamento 43 . Anche in questo caso si doveva trovare<br />

una soluzione per affrontare le trasformazioni e il deterioramento<br />

che il tempo e le vicende umane producevano su <strong>oggetti</strong> che per loro<br />

natura avrebbero dovuto rimanere intatti e inalterati. Dal momento<br />

che, come sostiene padre Powell, «la profonda spiritualità <strong>degli</strong><br />

Cheyenne non manca <strong>di</strong> praticità» 44 , si decise <strong>di</strong> preparare un nuovo<br />

corno in sostituzione <strong>di</strong> quello mancante, per restituire integrità all’oggetto<br />

sacro. Tuttavia, l’evento aveva lasciato la sua traccia indelebile:<br />

una serie <strong>di</strong> catastrofi e <strong>di</strong> sfortune si sarebbe abbattuta sulla comunità<br />

e in particolare sui protagonisti <strong>di</strong> questa drammatica vicenda. «Quasi<br />

tutte le sciagure <strong>degli</strong> Cheyenne sono avvenute in seguito alla per<strong>di</strong>ta<br />

delle Frecce della Me<strong>di</strong>cina e alla <strong>di</strong>ssacrazione del Copricapo Sacro»<br />

45 .<br />

L’irreversibilità dei mutamenti viene espressa anche nel modo in cui<br />

gli eventi storici sono percepiti e interpretati dagli stessi protagonisti.<br />

Quando nel 1906, in Oklahoma, morì la moglie <strong>di</strong> Broken Dish, il re-<br />

42 Ivi, 15.<br />

43 P. J. POWELL, Issiwun: <strong>Sacre</strong>d Buffalo Hat cit., 32.<br />

44 Ivi, 32.<br />

45 G. B. GRINNELL, The Great Mysteries of the Cheyenne, American Anthro -<br />

pologist 12 (1910) n.4, 567.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

sponsabile delle vicende riguardanti il Copricapo Sacro, venne trovato<br />

il corno mancante, che la donna aveva fino ad allora indossato come<br />

amuleto. Il corno venne trasferito nuovamente in Montana, dove si trova<br />

il custode dell’oggetto sacro. Costui, che a quel tempo si chiamava<br />

Wounded Eye, si trovò <strong>di</strong> fronte a uno spinoso problema: si doveva<br />

rimpiazzare il corno originale al posto <strong>di</strong> quello che era stato sostituito?<br />

Cosa si doveva fare con il sostituto? Come procedere nella sostituzione?<br />

Per rispondere a queste domande venne organizzata una Cerimonia<br />

<strong>degli</strong> Spiriti, una sorta <strong>di</strong> seduta sciamanica, in cui si interpellavano<br />

<strong>di</strong>rettamente le potenze invisibili (maiyun). Costoro dettero il loro<br />

responso in maniera inequivocabile: il corno trovato sul corpo della<br />

donna poteva essere tranquillamente seppellito: il potere sacro se ne era<br />

allontanato e ormai questo era solo un involucro vuoto 46 . Una risposta<br />

simile venne ottenuta dagli Cheyenne quando il generale Hugh Scott si<br />

offrì <strong>di</strong> fungere da interme<strong>di</strong>ario per fare in modo che i Pawnee restituissero<br />

le Frecce originali catturate nel 1830: anche in questa circostanza<br />

i maiyun interpellati risposero che le Frecce possedute dai Pawnee<br />

erano ormai prive <strong>di</strong> potere. Le <strong>Sacre</strong> Frecce conservate nell’involto<br />

sacro <strong>degli</strong> Cheyenne, anche se sostituite con <strong>oggetti</strong> fabbricati appositamente,<br />

erano il vero maahotse 47 .<br />

L’oggetto sacro trae la sua forza e il suo significato dall’essere il tramite<br />

<strong>di</strong> una relazione, il veicolo attraverso il quale è possibile realizzare<br />

una comunicazione tra il mondo umano e il mondo invisibile. Il potere<br />

dell’oggetto si riferisce alla sua qualità <strong>di</strong> legame con il mondo delle<br />

potenze spirituali, più che alle caratteristiche materiali <strong>di</strong> cui è composto.<br />

Quando questo potere viene ufficialmente e pubblicamente trasferito<br />

su un altro oggetto, l’involucro precedente perde ogni interesse e<br />

ogni funzione simbolica. Il cambiamento tuttavia non annulla il passato,<br />

ma lascia <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> sé uno strascico <strong>di</strong> conseguenze e <strong>di</strong> trasformazioni<br />

irreversibili. Non si può risalire il flusso del tempo e ritornare alle<br />

con<strong>di</strong>zioni originarie: quello che si può fare è cercare <strong>di</strong> mantenere un<br />

legame con il passato, per progettare il futuro della comunità.<br />

Il caso dei Gros Ventre del Montana ci consente <strong>di</strong> precisare ulteriormente<br />

non solo il ruolo dei mutamenti e dell’irreversibilità <strong>degli</strong> acca<strong>di</strong>menti<br />

storici, ma anche le <strong>di</strong>verse e conflittuali interpretazioni che,<br />

in una singola comunità, possono venir elaborate per spiegare e attri-<br />

46 P. J. POWELL, Issiwun: <strong>Sacre</strong>d Buffalo Hat cit., 33.<br />

47 Ivi, p. 33.<br />

57


58<br />

Enrico Comba<br />

buire senso agli avvenimenti. Nel corso <strong>degli</strong> ultimi decenni dell’Ottocento,<br />

i Gros Ventre, abbandonarono gradualmente la pratica della religione<br />

tra<strong>di</strong>zionale, incentrata sull’impiego cerimoniale <strong>di</strong> due pipe sacre,<br />

la Pipa Piumata e la Pipa Piatta e sulla Danza del Sole, per aderire<br />

alla religione cattolica, pur mantenendo un particolare rispetto e venerazione<br />

per gli <strong>oggetti</strong> sacri del passato. Per gli anziani della comunità<br />

all’inizio del Novecento le pipe sacre continuavano ad essere importanti<br />

strumenti per pregare e connettersi con il Grande Mistero (l’Essere<br />

Supremo), tuttavia, per le giovani generazioni <strong>di</strong> allora, esse rappresentavano<br />

un potere spirituale che proveniva da un passato ormai trascorso<br />

definitivamente, ma che al presente era troppo grande per essere manipolato<br />

con sicurezza 48 . Negli anni Ottanta e Novanta, invece, gli anziani<br />

continuano a ritenere che i rituali legati alle pipe sacre richiedano<br />

una specifica conoscenza, che ormai nessuno più possiede, e che pertanto<br />

debbano essere lasciate in pace, per evitare che una loro non corretta<br />

manipolazione possa condurre a pericolosi inconvenienti. I giovani,<br />

influenzati dai movimenti <strong>di</strong> rinascita culturale e <strong>di</strong> riscoperta delle<br />

tra<strong>di</strong>zioni, tendono invece a richiedere il ritorno alla pratica della religione<br />

tra<strong>di</strong>zionale 49 .<br />

Quando, nel dopoguerra, il custode della Pipa Piumata, Iron Man,<br />

aprì l’involto in cui era conservata, si accorse con sgomento che la pipa<br />

era sparita. Fred Gone, uno <strong>degli</strong> anziani della comunità, ha spiegato<br />

in questo modo l’incre<strong>di</strong>bile evento:<br />

«La nostra gente, gli In<strong>di</strong>ani Gros Ventre, in chiara coscienza, ritengono<br />

che sia stata restituita al luogo da cui era venuta, poiché il suo scopo qui,<br />

nella tribù, aveva fatto il suo tempo. Perché se fosse stata rubata e qualcuno<br />

che non era stato adeguatamente preparato circa le norme e le regole che<br />

riguardano questa Pipa si fosse intromesso, questo sarebbe sicuramente venuto<br />

alla luce» 50 .<br />

48 L. FOWLER, Shared Symbols, Contested Meanings: Gros Ventre Culture and<br />

History 1778-1984, Ithaca-London 1987, 134-135.<br />

49 Ivi, p. 151-154.<br />

50 M. C. HARTMANN, The Significance of the Pipe To the Gros Ventres of<br />

Montana, <strong>di</strong>ss., Bozeman 1955, 69. Il racconto della scoperta della scomparsa<br />

della Pipa è riportato da J. P. GONE, ‘We Where Through as Keepers of It’: The<br />

‘Missing Pipe Narrative’ and Gros Ventre Cultural Identity, Ethos 27 (1999) n.4,<br />

415-440.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

Il nipote <strong>di</strong> Fred Gone ha ottenuto da sua nonna una descrizione<br />

della vicenda. Nelle parole dell’anziano Gros Ventre, l’oggetto era stato<br />

donato al gruppo dall’Essere Supremo, “in un modo sovrannaturale”,<br />

affinché potesse proteggere e guidare la comunità. «Perché», si chiede<br />

Fred, «non poteva riprenderselo, se pensava che non ci servisse più?».<br />

L’idea <strong>di</strong> un intervento <strong>di</strong>retto del Creatore sembra avvalorare la concezione,<br />

con<strong>di</strong>visa da molti anziani della comunità, <strong>di</strong> una ra<strong>di</strong>cale <strong>di</strong>scontinuità<br />

storica, in cui la pratica religiosa cattolica si è sostituita in<br />

maniera irreversibile alla religione tra<strong>di</strong>zionale 51 . Come si è visto, questa<br />

interpretazione non è universalmente con<strong>di</strong>visa, soprattutto dalle<br />

generazioni più giovani.<br />

In ogni caso il passato non può essere ripristinato, i segni, le ferite<br />

che la storia ha prodotto rimangono come traccia indelebile dell’inesorabile<br />

passaggio del tempo e <strong>degli</strong> inevitabili mutamenti che questo<br />

comporta. Questo non significa però che il passato debba essere <strong>di</strong>menticato:<br />

la forza per affrontare le incognite e le sfide del presente può essere<br />

trovata attraverso un richiamo al passato, cercando <strong>di</strong> ricucire i legami<br />

che attraversano le generazioni e che consentono a un gruppo<br />

umano <strong>di</strong> conservare il senso della propria storia e <strong>di</strong> costruire il proprio<br />

progetto per l’avvenire. Il legame che i popoli delle Gran<strong>di</strong> Pianure<br />

ancora testimoniano nei confronti <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> sacri della propria tra<strong>di</strong>zione<br />

ci ricorda come il potente valore simbolico <strong>di</strong> tali <strong>oggetti</strong> non si<br />

sia ancora esaurito e possa continuare a persistere, in nuove forme e significati,<br />

nel Ventunesimo Secolo.<br />

5. Osservazioni conclusive.<br />

Gli <strong>oggetti</strong> sacri <strong>degli</strong> In<strong>di</strong>ani delle Pianure si presentano come una<br />

sorta <strong>di</strong> paradosso: sono costituiti da <strong>oggetti</strong> manufatti: copricapo, ornamenti,<br />

pipe, armi, eppure sono considerati non prodotti dalla mano<br />

dell’uomo ma provenienti da un’altra <strong>di</strong>mensione. Perché questi <strong>oggetti</strong><br />

sono proprio dei manufatti? Sembrerebbe più sensato attribuire l’intervento<br />

<strong>di</strong> entità non umane a <strong>oggetti</strong> prodotti dalla ‘natura’: pietre, pezzi<br />

<strong>di</strong> legno, conchiglie, fossili, che possono a volte assumere forme strane<br />

e bizzarre e sembrare opera <strong>di</strong> un modellamento o <strong>di</strong> una trasforma-<br />

51 J. P. GONE, ‘We Where Through as Keepers of It’ cit., 430.<br />

59


60<br />

Enrico Comba<br />

zione operata da qualche artefice sconosciuto. Invece, tutti gli <strong>oggetti</strong><br />

venerati e custo<strong>di</strong>ti con reverenza da questi popoli sono dei prodotti<br />

‘culturali’, che inevitabilmente richiedono un lavoro ad opera delle mani<br />

dell’uomo. Il paradosso qui è forse in parte dovuto alla percezione<br />

occidentale, che tende a universalizzare una <strong>di</strong>stinzione netta e precisa<br />

tra ‘natura’ e cultura umana che non trova riscontri puntuali nelle culture<br />

dei popoli delle Americhe. Philippe Descola ha mostrato come in<br />

cosmologie, come quelle dei popoli amerin<strong>di</strong>ani, in cui la maggior parte<br />

delle piante e <strong>degli</strong> animali è inclusa con gli esseri umani in una comunità<br />

<strong>di</strong> persone, è pressoché impossibile tracciare una netta linea <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>stinzione tra natura e cultura 52 . La natura sembra essere piuttosto il<br />

prolungamento della cultura al <strong>di</strong> là dei confini del mondo umano:<br />

l’uomo e l’animale con<strong>di</strong>vidono lo stesso genere <strong>di</strong> interiorità e sono<br />

entrambi interpretati come s<strong>oggetti</strong> dotati <strong>di</strong> volontà, decisionalità e<br />

capacità creativa.<br />

La natura paradossale <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> sacri non sta quin<strong>di</strong> tanto nella<br />

loro qualità <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> ‘culturali’ non prodotti dall’uomo, quanto nel<br />

fatto che essi sono <strong>oggetti</strong> che incorporano una relazione, sono incarnazioni<br />

ed espressioni del rapporto dell’uomo con una <strong>di</strong>mensione invisibile<br />

e potente. Essi esprimono un legame che è al tempo stesso inesprimibile<br />

e inconcepibile, sono gli interfaccia con un mondo che non è<br />

attingibile o descrivibile nei termini or<strong>di</strong>nari della percezione della<br />

realtà. Da un certo punto <strong>di</strong> vista gli <strong>oggetti</strong> sacri si presentano come<br />

provocazioni rappresentative, un po’ come il famoso quadro <strong>di</strong> Henri<br />

Magritte Ceci n’est pas une pipe. Se Magritte intendeva riferirsi al problema<br />

del rapporto fra un oggetto e la sua rappresentazione grafica, le<br />

pipe sacre <strong>degli</strong> In<strong>di</strong>ani americani sembrano voler suggerire un paradosso<br />

più intricato. Una pipa sacra è una pipa e al tempo stesso non è<br />

una pipa: ma che cos’è una pipa? Per i popoli nativi americani essa non<br />

è semplicemente l’oggetto materiale che vede un osservatore esterno,<br />

bensì anche e soprattutto uno strumento <strong>di</strong> comunicazione, un mezzo<br />

attraverso il quale è possibile percepire una relazione.<br />

La pipa è essenzialmente uno strumento per inviare un’offerta <strong>di</strong> fumo<br />

agli esseri spirituali, quin<strong>di</strong> è ciò che consente una comunicazione<br />

con il mondo invisibile. La cerimonia del fumo della pipa comporta il<br />

passaggio dello strumento dall’uno all’altro dei partecipanti, <strong>di</strong>sposti<br />

52 P. DESCOLA, Par-delà nature et culture, Paris 2005, 25 e passim.


Cose <strong>di</strong> un altro mondo<br />

in cerchio, in cui ciascuno prende alcune boccate: la circolazione della<br />

pipa crea un legame sociale tra le persone, rappresentato dalla <strong>di</strong>sposizione<br />

in cerchio, che rappresenta la forma dell’abitazione, la <strong>di</strong>sposizione<br />

dell’accampamento (quin<strong>di</strong> il mondo delle relazioni sociali) e, più<br />

ampiamente, il cerchio esterno del cosmo (l’insieme delle relazioni tra<br />

gli esseri) 53 . Anche la freccia, un altro oggetto che si trova frequentemente<br />

tra le testimonianze <strong>di</strong> un legame con il mondo spirituale, è uno<br />

strumento <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione: è l’arma che consente l’uccisione <strong>degli</strong> animali<br />

cacciati e il procacciamento del cibo, pertanto costituisce il punto<br />

<strong>di</strong> interme<strong>di</strong>azione tra il mondo umano e il mondo animale, tra la vita<br />

e la morte e spesso nelle tra<strong>di</strong>zioni mitiche si narra che le prime armi<br />

furono concesse in dono dagli animali stessi ai cacciatori, perché potessero<br />

farne uso per garantirsi la sopravvivenza.<br />

Ma che cosa fa <strong>di</strong> una pipa una pipa sacra e <strong>di</strong> una freccia una freccia<br />

sacra? O meglio, ogni pipa e ogni freccia sono in qualche modo sacre<br />

perché entrano in una serie <strong>di</strong> relazioni e <strong>di</strong> pratiche rituali che in<strong>di</strong>cano<br />

il loro ruolo come strumenti in una rete <strong>di</strong> correlazioni. Tuttavia<br />

la Pipa Sacra dei Lakota o dei Gros Ventre è <strong>di</strong>versa da ogni altra pipa,<br />

come le Frecce <strong>Sacre</strong> <strong>degli</strong> Cheyenne sono <strong>di</strong>verse da qualsiasi altra<br />

freccia.<br />

Qui dobbiamo tenere in considerazione il fatto che esistono <strong>di</strong>verse<br />

categorie <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong>. Secondo un’interpretazione in chiave economica,<br />

molto <strong>di</strong>ffusa nella nostra società, un qualsiasi manufatto ha le stesse<br />

qualità <strong>degli</strong> altri, ossia entra in una rete <strong>di</strong> relazioni tra esseri umani in<br />

cui può essere scambiato, acquistato, ceduto, acquisendo in tal modo<br />

un valore che è funzione delle relazioni in cui si trova inserito. Ma<br />

Maurice Godelier ha mostrato come in ogni società vi siano <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong><br />

che si scambiano, <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> che non si scambiano ma si possono<br />

solo donare e, infine, <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> che non si possono né scambiare<br />

né donare, ma si devono conservare. Questi sono gli <strong>oggetti</strong> che hanno<br />

il massimo valore sociale e simbolico 54 . Secondo Godelier, gli <strong>oggetti</strong><br />

sacri costituiscono il fondamento su cui si costruisce l’immagine che<br />

una società fa <strong>di</strong> se stessa: ciò che una società vuole presentare e ciò che<br />

vuole <strong>di</strong>ssimulare <strong>di</strong> se stessa. In particolare, ciò che verrebbe <strong>di</strong>ssimulato<br />

ed occultato è il ruolo umano nella costruzione della società. L’uo-<br />

53 J. PAPER, Offering Smoke: The <strong>Sacre</strong>d Pipe and Native American Religion.<br />

Moscow 1988, 35-36.<br />

54 M. GODELIER, L’énigme du don, Paris 2008, 48-50.<br />

61


62<br />

Enrico Comba<br />

mo, negli <strong>oggetti</strong> sacri, sparisce come autore e creatore, lasciando il<br />

campo ad ‘esseri immaginari’, spiriti o <strong>di</strong>vinità 55 .<br />

Qui forse Godelier tende a semplificare un po’ troppo le cose. L’argomentazione<br />

che una società <strong>di</strong>ssimula o nasconde a se stessa certe<br />

‘verità’ è piuttosto debole: chi occulta nei confronti <strong>di</strong> chi? Forse dovremmo<br />

semplicemente riconoscere che in molte società si ritiene che<br />

l’inventività e la creatività dell’uomo non siano sufficienti a produrre<br />

un adeguato e armonico sistema <strong>di</strong> vita: occorre che l’uomo si metta in<br />

relazione con gli altri esseri, con le potenze del cosmo, che solo allo<br />

sguardo esterno appaiono come ‘entità immaginarie’. La garanzia <strong>di</strong><br />

continuità e sopravvivenza della specie umana, come ha visto bene Godelier,<br />

viene fornita solo dal dono che esseri non-umani fanno a beneficio<br />

dell’umanità. Gli <strong>oggetti</strong> sacri, che non sono interpretati come il<br />

prodotto dell’attività umana, ma sono visti come doni che provengono<br />

da altrove, costituiscono il legame solido e tangibile con gli abitanti<br />

non-umani dell’universo, il pegno del loro interesse per la stabilità e la<br />

prosperità del mondo umano. Ben lungi dall’essere una <strong>di</strong>ssimulazione<br />

o un’allucinazione collettiva, essi testimoniano piuttosto dell’umiltà e<br />

del senso <strong>di</strong> responsabilità <strong>di</strong> popoli che hanno percepito la propria<br />

permanenza sulla terra come funzione e con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> una complessa<br />

rete <strong>di</strong> rapporti con gli altri abitanti dell’universo, in cui noi, umani,<br />

«non siamo soli al mondo» 56 .<br />

55 Ivi, 239-249.<br />

56 La frase è tratta dal titolo del libro <strong>di</strong> T. NATHAN, Nous ne sommes pas seuls<br />

au monde: les enjeux de l’ethnopsychiatrie, Paris 2007.


SU ALCUNI OGGETTI ACHIROPITI DELLA CIVILTÀ INDIANA<br />

ALBERTO PELISSERO<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Il tema dell’indagine proposto rimanda, sin dalla terminologia impiegata,<br />

al contesto prima greco e poi cristiano, ma non è peregrino se<br />

applicato all’àmbito in<strong>di</strong>ano. In In<strong>di</strong>a si parla soprattutto <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong><br />

culto ‘non umani’, apauruṣeya, piuttosto che ‘non fatti da mano [d’uomo]’,<br />

e pour cause: infatti il primo oggetto apauruṣeya è il fondamento<br />

stesso della civiltà indoaria, ossia il corpus del Veda. Si tratta in questo<br />

caso <strong>di</strong> un oggetto sonoro, fatto <strong>di</strong> suoni ancora prima che <strong>di</strong> significati:<br />

secondo l’interpretazione estrema, quella sposata dalla scuola della<br />

pūrvamīmāṃsā, la ‘prima esegesi’, il mondo sorge solo in seguito alla<br />

pronuncia dei suoi singoli elementi contenuta nel Veda, nel senso che a<br />

mano a mano che questo o quell’oggetto viene nominato per la prima<br />

volta nel Veda, il suo referente viene in essere nel mondo, in illo tempore,<br />

nel momento in cui all’inizio <strong>di</strong> ogni nuovo grande ciclo cosmico il<br />

Veda viene per la prima volta pronunciato da una voce incorporea celeste<br />

per dare esistenza all’universo.<br />

Ma se non ci limiteremo a questa testimonianza estrema <strong>di</strong> oggetto<br />

apauruṣeya non sarà <strong>di</strong>fficile rinvenire altre tipologie <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> achiropiti<br />

nel mondo in<strong>di</strong>ano; semplicemente era parso necessario sottolineare<br />

che l’accento cade più sull’origine non umana che sulla natura non<br />

manufatta <strong>di</strong> tali elementi. Cerchiamo <strong>di</strong> circoscrivere l’àmbito <strong>di</strong> indagine<br />

esa minando un’altra tipologia marginale prima <strong>di</strong> arrivare a quello<br />

che a nostro parere costituisce il punto focale dell’indagine. La tipologia<br />

marginale è rappresentata dalle vere e proprie orme <strong>di</strong>vine, impresse<br />

perlo più nella pietra come testimonianza concreta della presenza<br />

fisica <strong>di</strong> questa o quella <strong>di</strong>vinità o personaggio venerabile. Si trovano<br />

im pronte achiropite <strong>di</strong> <strong>di</strong>vinità in più <strong>di</strong> un luogo, ma il sito forse più<br />

signi ficativo è quello <strong>di</strong> Gayā (nell’o<strong>di</strong>erno Bihār, a sud <strong>di</strong> Patna), dove<br />

si trova un santuario vaiṣṇava in cui si venerano le orme <strong>di</strong> Viṣṇu (e per<br />

questo denominato Viṣṇupāda) impresse su una roccia. Nei pressi, in<br />

un luogo de<strong>di</strong>cato alla tonsura rituale dei pellegrini (Muṇḍapṛṣṭha), si<br />

63


64<br />

Alberto Pelissero<br />

trova del pari una roccia su cui sono impresse le orme <strong>di</strong> Rudra (ipostasi<br />

<strong>di</strong> Śiva) 1 . Lo stesso accade per le orme del Buddha, non a caso venerate<br />

a Bodh Gayā, a soli 12 chilometri da Gayā: qui l’immagine è incisa<br />

chiaramente sulla pietra dalla mano <strong>di</strong> un ignoto scultore (dunque non<br />

si tratta <strong>di</strong> tipologia achiropita in senso proprio), ma serve a ricordare<br />

l’episo<strong>di</strong>o leggendario secondo il quale il Buddha in prossimità della<br />

morte avrebbe lasciato l’impronta delle proprie orme su una roccia<br />

presso il villaggio <strong>di</strong> Kusināra. Nella prima stagione del buddhismo vigeva<br />

una sorta <strong>di</strong> <strong>di</strong>vieto a rappresentare la figura umana del Buddha,<br />

forse in funzione <strong>di</strong> contrasto <strong>di</strong> una possibile deriva devozionale, <strong>di</strong>vieto<br />

che cade definitivamente con l’affermarsi dell’arte indo-greca del<br />

Gandhāra. Sino ad allora il Maestro veniva evocato me<strong>di</strong>ante espe<strong>di</strong>enti<br />

iconografici <strong>di</strong>versi, il più <strong>di</strong>ffuso dei quali era la rappresentazione<br />

dei suoi pie<strong>di</strong>, dei calzari o delle <strong>impronte</strong>, che dovevano riportare i<br />

canonici 108 segni caratteristici (lakṣaṇa). L’immagine più venerata a<br />

Śrī Laṅkā è quella sulla cima del Picco d’Adamo (singalese Samanalakanda),<br />

detto anche Śrī Pada, l’orma illustre, venerata con interpretazioni<br />

iconografico-simboliche <strong>di</strong>fferenti da buddhisti, hindū e musulmani.<br />

In àmbito hinduista a Citrakūṭa presso le rive della Mandākinī (nel<br />

cuore dell’antico Bundelkhand, o<strong>di</strong>erno Madhya Pradeś), luogo connesso<br />

al culto <strong>di</strong> Rāma e Sītā che vi trovarono rifugio nel corso dell’esilio,<br />

si venerano le orme <strong>di</strong> Rāma e un buco in una roccia che Sītā avrebbe<br />

usato come pentola per cucinare. Ma come s’è detto le orme achiropite<br />

impresse nella roccia non sono forse la tipologia principale <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong><br />

achiropiti della tra<strong>di</strong>zione in<strong>di</strong>ana. I due tipi più importanti sono<br />

riservati l’uno al culto <strong>di</strong> Śiva, l’altro a quello <strong>di</strong> Viṣṇu. Ve<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> cosa<br />

si tratta.<br />

Il primo oggetto da prendere in considerazione è il liṅga, signum, testimonianza<br />

della presenza <strong>di</strong> Śiva, più in particolare lo svāyambhuvaliṅga,<br />

“segno autogeno”, ossia non creato da mano d’uomo. Si tratta <strong>di</strong><br />

ciottoli che hanno la forma <strong>di</strong> un ellissoide <strong>di</strong> rotazione, creati dall’erosione<br />

delle acque dei fiumi nel letto dei quali sono rinvenuti, in primo<br />

luogo la Narmadā. Prima <strong>di</strong> affrontarne l’analisi sarà bene dare qualche<br />

informazione sulla natura generale del liṅga e sulla simbologia sog-<br />

1 Si vedano Agnipurāṇa 114-115, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara Press, Bombay<br />

1921 (rist. anastatica Nāg, Delhi 2004 3 ), 83-86 per il testo sanscrito, e N. GAN-<br />

GADHARAN, The Agni Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and Mythology Series<br />

28, Delhi 1985, 332-341 per una traduzione inglese.


Su alcuni <strong>oggetti</strong> achiropiti della civiltà in<strong>di</strong>ana<br />

giacente. Anzitutto una precisazione: un liṅga non è necessariamente<br />

un betilo, perché non è fatto esclusivamente <strong>di</strong> pietra. Ciò chiarito, il<br />

liṅga è un simbolo cosmologico aniconico che sostituisce l’icona antropomorfica<br />

nel sanctum dei templi de<strong>di</strong>cati a Śiva (per questo è detto comunemente<br />

śivaliṅga), che rappresenta a un tempo l’axis mun<strong>di</strong> (dal<br />

mito <strong>di</strong> Śiva come liṅgodbhāvamūrti, l’icona scaturita dalla mandorla<br />

che si apre al centro del pilasto <strong>di</strong> fuoco nel corso del conflitto per la<br />

supremazia tra Brahmā e Viṣṇu) 2 e il potere creativo <strong>di</strong> Śiva, sempre in<br />

precario equilibrio tra ascesi ed erotismo, o più precisamente fra trattenimento<br />

ed emissione del seme (Śiva come para<strong>di</strong>gma dell’ūrdhvaretas,<br />

l’asceta che trattenendo il seme entro il corpo lo fa risalire lungo la colonna<br />

spinale fino al brahmarandhra, il “foro <strong>di</strong> Brahmā” al vertice del<br />

capo) 3 . In riferimento al mito <strong>di</strong> Śiva come liṅgodbhāvamūrti la parte<br />

sommitale del liṅga è occupata da Brahmā, quella centrale da Śiva-Rudra,<br />

quella inferiore da Viṣṇu. Se si eccettuano le tipologie più decisamente<br />

antropomorfiche, con caratteristiche anatomiche in evidenza come<br />

il solco del glande (Guḍimallam, Āndhra Pradeś, tempio <strong>di</strong> Paraśurāmeśvara),<br />

il liṅga si presenta come un pilastro arrotondato alla<br />

sommità e fissato su una base quadrangolare o circolare, che rappresenta<br />

la “matrice” (yoni). A parte quelli achiropiti <strong>di</strong> cui si tratterà infra,<br />

possono essere fatti <strong>di</strong> roccia, pietre preziose, metallo, leghe metalliche,<br />

legno, argilla (śailaja, ratnaja, dhātuja, lohaja, dāruja, mṛnmaya) e<br />

momentanei (kṣaṇika), ossia fatti <strong>di</strong> materiali plasmabili, privi <strong>di</strong> una<br />

forma propria e non durevoli come la farina, la pasta <strong>di</strong> sandalo, la<br />

sabbia, la cenere o lo sterco vaccino. La forma arrotondata può estendersi<br />

anche alla base inferiore, assimilandosi pertanto a un ellissoide <strong>di</strong><br />

rotazione, in modo da evocare l’immagine dell’uovo cosmico<br />

(brahmāṇḍa, “uovo <strong>di</strong> Brahmā”, il simbolo macrocosmico che richiama<br />

in àmbito microcosmico l’embrione umano, piṇḍāṇḍa, “uovo in forma<br />

2 Si vedano anzitutto Kūrmapurāṇa 1,26 secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara Press,<br />

Bombay 1924 (rist. anastatica Nāg, Delhi 1983), 57-60 per il testo sanscrito, e<br />

G.V. TAGARE, The Kūrma Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and Mythology Series<br />

20, Delhi 1981, 220-229 per una traduzione inglese. Varianti trascurabili in<br />

questa sede nel Liṅga-, Vāyu e Śivapurāṇa.<br />

3 Lo stu<strong>di</strong>o classico in merito è quello <strong>di</strong> W. DONIGER, Asceticism and Eroticism<br />

in the Mythology of Śiva, London - New York 1973, ripubblicato come Śiva,<br />

The Erotic Ascetic, London - New York 1981, e <strong>di</strong>sponibile anche in traduzione<br />

italiana (<strong>di</strong> F. Orsini), Śiva, L’asceta erotico, Milano 1997.<br />

65


66<br />

Alberto Pelissero<br />

<strong>di</strong> bolo sacrificale”), o quella dell’“embrione aureo” (hiraṇyagarbha, altra<br />

evidente analogia tra filogenesi macrocosmica e ontogenesi microcosmica).<br />

Proprio a questa tipologia appartengono gli svāyambhuvaliṅga (considerati<br />

<strong>di</strong> qualità “suprasuperiore”, uttamottama, rispetto a quelli fatti<br />

da déi, antidéi, esseri sovrumani e uomini rispettivamente) <strong>di</strong> cui s’è<br />

fatto cenno. Talora (ma questa sinonimia non è accettata da tutte le<br />

fonti) sono noti anche come bāṇaliṅga, termine <strong>di</strong> ardua traduzione dal<br />

momento che bāṇa in<strong>di</strong>ca in<strong>di</strong>fferentemente una freccia, un suono, un<br />

fuoco, un fulmine. Sono sassi chiari <strong>di</strong> forma ovale, con una (esemplari<br />

più pregiati) o più macchie o striature marroni o rossicce; o viceversa<br />

fulvi con chiazze chiare. Il colore <strong>di</strong> base, la <strong>di</strong>sposizione, <strong>di</strong>mensione e<br />

forma delle macchie, la proporzione tra tinta <strong>di</strong> fondo e screziature, sono<br />

altrettanti parametri utili a determinare la tipologia <strong>di</strong> uno<br />

svāyambhuvaliṅga: non ce n’è uno uguale a un altro, dal momento che il<br />

rapporto tra il colore che simboleggia il principio maschile e quello che<br />

simboleggia il principio femminile è soggetto a innumerevoli variazioni.<br />

In particolare, nel caso <strong>di</strong> un liṅga a fondo fulvo con una macchia<br />

biancastra nel terzo quarto superiore, il fondo scuro simboleggia la<br />

componente maschile, la macchia chiara quella femminile, rappresentando<br />

così cromaticamente la compenetrazione e l’inter<strong>di</strong>pendenza dei<br />

due principi. Non si tratta dunque, particolarmente per i tipi “autogeni”,<br />

<strong>di</strong> un semplice simbolo fallico, ma piuttosto della reintegrazione<br />

della polarità maschile-femminile, come si evince da molti in<strong>di</strong>zi: nel<br />

liṅga si fondono “suono” e “punto”, ossia risonanza centrifuga <strong>di</strong> un<br />

suono che si origina a partire da un punto <strong>di</strong> irraggiamento e ritorno<br />

centripeto all’origine (rispettivamente nāda, suono espansivo <strong>di</strong> carattere<br />

maschile equiparato a Śiva, e bindu, punto fonico <strong>di</strong> carattere femminile<br />

equiparato alla sua śakti, la potenza <strong>di</strong>vina); il liṅga è padre e<br />

madre dell’universo, simbolo stesso dell’unione <strong>di</strong> Śiva e śakti 4 . Il Kāmikāgama<br />

descrive uno svāyambhuvaliṅga come sorto spontaneamente<br />

e da tempo immemorabile senza intervento <strong>di</strong> alcun agente (umano o<br />

non umano). Pertanto, anche se eventualmente danneggiato da calamità<br />

come il fuoco, un elefante infoiato, un’inondazione, vandalismo<br />

da parte <strong>di</strong> popolazioni ostili, non è necessario provvedere a una sua<br />

4 Si vedano Śivapurāṇa 1,16, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara Press, Bombay 1895-<br />

1896 (rist. anastatica Nāg, Delhi 2004 3 ), vol. 1, 15-17 per il testo sanscrito, e J.L.<br />

SHASTRI (ed.), The Śiva Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and Mythology Series<br />

1, Delhi 1970, 96-106 per una traduzione inglese.


Su alcuni <strong>oggetti</strong> achiropiti della civiltà in<strong>di</strong>ana<br />

reinstallazione rituale (jīrṇoddhāra), basterà provvedere a pochi semplici<br />

riti volti a purificare l’avvenuta contaminazione. Se una parte <strong>di</strong> un<br />

liṅga autogeno si rompe è possibile provvedere alla riparazione me<strong>di</strong>ante<br />

fascette d’oro o <strong>di</strong> rame che tengano insieme i pezzi; se però la<br />

parte rotta è costituita da frammenti non ricomponibili, questi potranno<br />

essere eliminati, con le dovute cautele previste dal rituale. Se infine<br />

uno svāyambhuvaliṅga viene completamente rimosso dalla propria sede<br />

e gettato via, quali che ne siano le ragioni, il re e il suo regno andranno<br />

in rovina, dal momento che non è stata garantita la sicurezza dell’oggetto<br />

sacro (il più sacro tra tutti i tipi contemplati <strong>di</strong> liṅga). Proprio la<br />

superiorità del liṅga autogeno su tutti gli altri ha fatto sì che praticamente<br />

ogni villaggio riven<strong>di</strong>casse la presenza <strong>di</strong> un pur piccolo santuario<br />

che ne conteneva uno. Il commentatore Nigamajñānadeva <strong>di</strong> Vyāghrapura,<br />

figlio <strong>di</strong> Vāmadevaśivācārya, nella sua glossa al Jīrṇoddhāradaśaka<br />

elenca 69 siti presso i quali si venerano altrettanti svāyambhuvaliṅga<br />

legati a una specifica <strong>di</strong>vinità (ipostasi <strong>di</strong> Śiva) 5 .<br />

Una tipologia del tutto peculiare <strong>di</strong> svāyambhuvaliṅga è l’imponente<br />

liṅga <strong>di</strong> ghiaccio venerato ad Amarnāth (Kaśmīr), meta <strong>di</strong> pellegrinaggi<br />

<strong>di</strong> massa ad alta quota (il sito è a 3888 metri sul livello del mare), che<br />

tra<strong>di</strong>zionalmente viene considerato autoprodotto per fusione e successiva<br />

condensazione spontanea dell’acqua e del vapore acqueo entro<br />

una grotta (una sua possibile fusione per con<strong>di</strong>zioni ambientali avverse<br />

nel 2007 ha suscitato polemiche sulla possibilità che sia stato ricostituito<br />

artificialmente, ossia manipolato).<br />

Il secondo oggetto achiropito della civiltà in<strong>di</strong>ana è lo śālagrāma, un<br />

tipo <strong>di</strong> ammonite (mollusco cefalopode <strong>di</strong> origine mesozoica), ossia<br />

una conchiglia fossile <strong>di</strong> colore nero o nerastro legata al simbolismo <strong>di</strong><br />

Viṣṇu (nella sua forma ricorda l’arma preferita dal <strong>di</strong>o, il <strong>di</strong>sco da getto<br />

dai bor<strong>di</strong> affilati, cakra), che si rinviene nel letto del fiume Gaṇḍakī (o<br />

in uno dei suoi sette affluenti nepalesi, la Kālīgaṇḍakī), e prende il nome<br />

dal villaggio omonimo in cui si concentrano i ritrovamenti più numerosi<br />

<strong>degli</strong> esemplari più pregiati per completezza, <strong>di</strong>mensioni, integrità.<br />

Trova impiego nei riti domestici del pañcāyatana (‘le cinque <strong>di</strong>more’),<br />

nel corso dei quali vengono adorate cinque <strong>di</strong>vinità simboleg-<br />

5 A titolo <strong>di</strong> curiosità, il secondo lungometraggio della tetralogia <strong>di</strong> In<strong>di</strong>ana<br />

Jones (a parere unanime dei critici l’episo<strong>di</strong>o meno riuscito, tra l’altro funestato<br />

da numerosissimi stereotipi <strong>di</strong> stampo colonialistico), In<strong>di</strong>ana Jones e il tempio<br />

maledetto (Steven Spielberg, In<strong>di</strong>ana Jones and the Temple of Doom, 1984) ruota<br />

proprio intorno al recupero <strong>di</strong> alcuni svāyambhuvaliṅga (“pietre <strong>di</strong> Śaṅkara”).<br />

67


68<br />

Alberto Pelissero<br />

giate da altrettante pietre: Śiva come bāṇaliṅga (pietra bianca), Viṣṇu<br />

come śālagrāma (pietra nera), Gaṇeśa come pietra rossa, Durgā (o Pārvatī)<br />

come pietra multicolore e Sūrya come frammento <strong>di</strong> cristallo <strong>di</strong><br />

rocca o selce. I cinque <strong>oggetti</strong> achiropiti sono <strong>di</strong>sposti su <strong>di</strong> un vassoio e<br />

l’officiante compie in loro favore l’offerta <strong>di</strong> acqua, foglie <strong>di</strong> bilva (Aegle<br />

marmelos, per Śiva), tulasī (Ocymum sanctum, sorta <strong>di</strong> basilico dal<br />

fusto legnoso, per Viṣṇu), fiori e frutta. Altri due riti vaiṣṇava comportano<br />

l’impiego <strong>di</strong> śālagrāma. Il primo è il jalotsarga (‘oblazione d’acqua’),<br />

sorta <strong>di</strong> matrimonio tra uno stagno e un albero che sorge nei<br />

suoi pressi, o tra un pozzo e un campo appena <strong>di</strong>ssodato. Nel corso<br />

della cerimonia, che si propone <strong>di</strong> arrecare fertilità al sito, l’acqua (jala)<br />

è rappresentata da un officiante che tiene in mano uno śālagrāma, l’elemento<br />

vegetale da un secondo officiante. Il matrimonio è consacrato<br />

me<strong>di</strong>ante l’atto <strong>di</strong> piantare nelle acque dello stagno o presso il pozzo<br />

un virgulto <strong>di</strong> jaṭā (Nardostachis jatamansi). Il secondo rito ha caratteristiche<br />

analoghe, prende il nome <strong>di</strong> bāṇotsarga e prevede l’unione <strong>di</strong><br />

uno śālagrāma con un ramo <strong>di</strong> tulasī. Si noti come l’impiego dello śālagrāma<br />

si configuri come sostanzialmente rituale in àmbito domestico,<br />

in ciò <strong>di</strong>fferenziandosi dallo svāyambhuvaliṅga, che trova preferibilmente<br />

impiego in àmbito rituale templare o per uso me<strong>di</strong>tativo personale;<br />

e come i riti in cui si usa lo śālagrāma comportino l’unione <strong>di</strong> un<br />

elemento minerale con uno vegetale. Il legame tra i due elementi è sottolineato<br />

dal mito eziologico secondo il quale la sposa dell’anti<strong>di</strong>o (asura)<br />

Jālaṃdhara, <strong>di</strong> nome Vṛndā, sedotta da Viṣṇu, avrebbe maledetto il<br />

<strong>di</strong>o condannandolo a rinascere trasformandosi in śālagrāma; lei stessa<br />

dopo essersi immolata su una pira sarebbe rinata come tulasī. Lo stesso<br />

mito, comportante seduzione e conseguente male<strong>di</strong>zione, si ritrova con<br />

variante nei nomi dei protagonisti, Tulasī sposa <strong>di</strong> Śaṅkhacūḍa sedotta<br />

da Viṣṇu 6 : sulla pietra in cui fu tramutato il <strong>di</strong>o insetti e vermi avrebbero<br />

tracciato il profilo della sua arma, il <strong>di</strong>sco da getto. Si noti la spiegazione<br />

che si potrebbe <strong>di</strong>re ‘evemeristica’ dell’evidente artificiosità del rilievo<br />

presente sulla superficie dell’oggetto, che con una certa eleganza<br />

viene ricondotta all’azione <strong>di</strong> organismi viventi ma scarsamente coscienti<br />

e nel contempo sottratta all’opera cosciente della mano umana.<br />

I <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> fossile danno luogo a una complessa nomenclatura<br />

che richiama alcuni <strong>degli</strong> epiteti del <strong>di</strong>o e della sua sposa (Lakṣmī):<br />

6 Brahmavaivartapurāṇa 1,21. Non mi è stato possibile verificare questa citazione,<br />

che ho tratto da S.A. DANGE, Encyclopae<strong>di</strong>a of Puranic Beliefs and Practices,<br />

New Delhi 1989, vol. 4, 1390.


Su alcuni <strong>oggetti</strong> achiropiti della civiltà in<strong>di</strong>ana<br />

quattro conchiglie insieme unite in una sorta <strong>di</strong> ghirlanda (vanamālā)<br />

che forma un portale, dal colore della nube appena formata, prendono<br />

il nome <strong>di</strong> Lakṣmī Nārāyaṇa; due portali, quattro <strong>di</strong>schi e il <strong>di</strong>segno<br />

dell’orma <strong>di</strong> vacca uniti in ghirlanda si chiamano Raghunātha; due <strong>di</strong>schi<br />

senza ghirlanda, dal colore della nube gravida <strong>di</strong> pioggia, si chiamano<br />

Dadhivāmana; il tipo precedente ma con ghirlanda si chiama<br />

Śrīdhara; due <strong>di</strong>schi senza ghirlanda con forma circolare si chiama Dāmodara;<br />

il tipo precedente attraversato da una fen<strong>di</strong>tura a forma <strong>di</strong><br />

freccia si chiama Raṇarāma (Rāma in posa da combattimento, perché<br />

ricorda la faretra colma <strong>di</strong> dar<strong>di</strong>); sette <strong>di</strong>schi con forma <strong>di</strong> parasole e<br />

faretra si chiama Rārarājeśvara; quattor<strong>di</strong>ci <strong>di</strong>schi dal colore della nube<br />

gravida <strong>di</strong> pioggia si chiama Ananta; due <strong>di</strong>schi con l’orma <strong>di</strong> vacca,<br />

<strong>di</strong> forma circolare e dal colore della nube gravida <strong>di</strong> pioggia si chiama<br />

Madhusūdana; un <strong>di</strong>sco, Sudarśana; se il <strong>di</strong>sco è dai contorni confusi<br />

ossia in<strong>di</strong>stinguibile (gupta), Gadādhara; due <strong>di</strong>schi a forma <strong>di</strong> muso <strong>di</strong><br />

cavallo, Hayagrīva; due <strong>di</strong>schi con ampia fen<strong>di</strong>tura, Nṛsiṃha; il tipo<br />

precedente con estesa ghirlanda, Lakṣmī Nṛsiṃha; due <strong>di</strong>schi con superficie<br />

perfettamente levigata, Vāsudeva; molti <strong>di</strong>schi piccoli dal colore<br />

della nube gravida <strong>di</strong> pioggia, con molti piccoli buchi, Pradyumna;<br />

due <strong>di</strong>schi a<strong>di</strong>acenti, Saṅkarśaṇa; <strong>di</strong> forma circolare, <strong>di</strong> aspetto gradevole<br />

e <strong>di</strong> colore giallastro, Aniruddha. Alcune varianti <strong>di</strong> questa classificazione<br />

si trovano nell’Agnipurāṇa 7 , che riporta le seguenti denominazioni:<br />

Vāsudeva, Saṅ karṣaṇa, Pradyumna, Aniruddha, Nārāyaṇa, Parameṣṭi,<br />

Viṣṇu, Nṛsiṃha, Varāha, Kūrma, Hayagrīva, Vaikuṇṭha, Matsya,<br />

Śrī dhara, Vāmana, Trivikrama, Ananta, Dāmodara, Sudarśana,<br />

Lakṣmī Nārāyaṇa, Acyuta, Janardana, Puruṣottama, Navavyūha,<br />

Daśā vatāra, Dvādaśātman. Nello Skandapurāṇa 8 se ne menzionano 24<br />

tipi; la classificazione più tarda si trova nella Prāṇatośiṇī (1821 e.v.). Si<br />

può notare che la nomenclatura della tipologia <strong>degli</strong> śālagrāma combina<br />

i <strong>di</strong>eci avatāra (<strong>di</strong>scese sulla terra <strong>di</strong> Viṣṇu) con i quattro vyūha<br />

(emanazioni <strong>di</strong> Kṛṣṇa), attingendo inoltre ad altre fonti della teonomastica<br />

vaiṣṇava.<br />

7 Si vedano Agnipurāṇa 46, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara cit., 32 per il testo sanscrito,<br />

e N. GANGADHARAN, The Agni Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and<br />

Mythology Series 27, Delhi 1984, 124-126 per una traduzione inglese.<br />

8 Si vedano Skandapurāṇa 6,244, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara Press, Bombay<br />

1867 (rist. anastatica Nāg, Delhi 1993 3 , vol. 6, 278 per il testo sanscrito, e G.P.<br />

BHATT, The Skanda Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion and Mythology Series 66,<br />

Delhi 2003, 1049-1050 per una traduzione inglese.<br />

69


70<br />

Alberto Pelissero<br />

A titolo <strong>di</strong> completezza si segnala che una nomenclatura altrettanto<br />

minuziosa riguarda un oggetto <strong>di</strong> culto <strong>di</strong> area śaiva, i semi <strong>di</strong> rudrākṣa<br />

(nocciolo della bacca della pianta Elaeocarpus ganitrus), che possono<br />

avere da una a centootto faccette, e trovano impiego nella confezione <strong>di</strong><br />

rosari a 108 grani che si usano per la preghiera e la me<strong>di</strong>tazione. Sono<br />

anch’essi <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> culto achiropiti, ma dal momento che vengono manipolati<br />

per la fabbricazione <strong>di</strong> rosari (e anche perché sono massicciamente<br />

falsificati me<strong>di</strong>ante sostituti artificiali per il loro valore pecuniario<br />

rilevante) non sono stati inclusi nella rassegna.<br />

Chi beve costantemente acqua in cui è stato immerso uno śālagrāma<br />

esau<strong>di</strong>sce tutti i propri desideri e ottiene la liberazione dal ciclo delle rinascite.<br />

Presso il villaggio <strong>di</strong> Śālagrāma è proibito tagliare rami <strong>di</strong> tulasī.<br />

L’inter<strong>di</strong>zione più forte è <strong>di</strong> natura sessuale: a nessuna donna, nubile,<br />

sposata o vedova che sia, è consentito anche solo sfiorare uno śālagrāma<br />

(si ricor<strong>di</strong> il mito eziologico della seduzione). Lo Śivapurāṇa 9 riconcilia<br />

il culto della conchiglia fossile con l’àmbito śaiva, ricordando<br />

che Śiva stesso si recò dal futuro suocero Himavat, padre <strong>di</strong> Pārvatī,<br />

sotto le spoglie <strong>di</strong> uno studente brahmanico (brahmacārin) recando in<br />

mano un rosario <strong>di</strong> cristallo <strong>di</strong> rocca (sphaṭikamālā, oggetto śaiva) e al<br />

collo uno śālagrāma (oggetto vaiṣṇava).<br />

In conclusione, lo svāyambhuvaliṅga e lo śālagrāma, collegati rispettivamente<br />

alla coppia Śiva-Śakti e a Viṣṇu, costituiscono due tipologie<br />

<strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> culto achiropiti molto rappresentativi nella civiltà in<strong>di</strong>ana<br />

tra<strong>di</strong>zionale, dal momento che coprono la gamma delle tre principali<br />

gran<strong>di</strong> religioni che ricadono entro la macrocategoria <strong>di</strong> hinduismo: sivaismo,<br />

saktismo e visnuismo. Il loro simbolismo, complesso ma evidente,<br />

li rende particolarmente interessanti per stu<strong>di</strong>are i mo<strong>di</strong> in cui<br />

contenuti dottrinali raffinati si facciano strada nell’ortoprassi devozionale,<br />

senza perdere le proprie caratteristiche concettuali o snaturare<br />

quelle rituali in cui si incar<strong>di</strong>nano, ma traendo reciproco rafforzamento<br />

e consolidamento le une dalle altre.<br />

A titolo esemplificativo, si riportano le immagini <strong>di</strong> uno svāyambhuvaliṅga,<br />

del liṅga <strong>di</strong> ghiaccio <strong>di</strong> Amarnāth e <strong>di</strong> uno śālagrāma. (Tavv. 1-<br />

3).<br />

9 Si vedano Śivapurāṇa 2,3,31,34, secondo l’ed. Veṅkaṭeśvara cit., vol. 1, 159<br />

per il testo sanscrito, e J.L. SHASTRI (ed.), The Śiva Purāṇa, Ancient In<strong>di</strong>an Tra<strong>di</strong>tion<br />

and Mythology Series 2, Delhi 1970, 600 per una traduzione inglese.


LA PIETRA NERA E IL CULTO DELLA KA‘BA A MECCA<br />

NELLA TRADIZIONE ISLAMICA<br />

Ogni anno un numero sempre crescente <strong>di</strong> musulmani si recano in<br />

pellegrinaggio a Mecca, la città nel cuore della Penisola araba che ha<br />

dato i natali a Muhammad (m. 632 d.C.), il Profeta fondatore della<br />

religione islamica. La pratica del pellegrinaggio è infatti considerata<br />

dai musulmani uno dei cinque pilastri della fede, un obbligo in<strong>di</strong>viduale<br />

che il musulmano che ne ha capacità economica e fisica, dovrebbe<br />

compiere almeno una volta nella vita. Per tale ragione, quin<strong>di</strong>, Mecca<br />

ha rappresentato storicamente il polo attrattivo per tutte le terre abitate<br />

dai musulmani, il centro della propria geografia sacra, e, <strong>di</strong> conseguenza,<br />

occasione <strong>di</strong> grande mobilità interna nel mondo musulmano.<br />

Per il singolo fedele, tuttavia, il pellegrinaggio è innanzitutto un vero e<br />

proprio calarsi nella natura primor<strong>di</strong>ale della propria religiosità, attraverso<br />

una serie <strong>di</strong> rituali che hanno un preciso significato tra<strong>di</strong>zionale.<br />

Ciò avviene innanzitutto in relazione al ruolo del Profeta Abramo che<br />

avrebbe non solo realizzato una sorta <strong>di</strong> pellegrinaggio ai luoghi delle<br />

Penisola, seguendo la storia già biblica <strong>di</strong> accompagnarvi il figlio<br />

Ismaele avuto dalla schiava Agar, ma, secondo la tra<strong>di</strong>zione accennata<br />

in passi coranici, soprattutto per costruirvi a Mecca il tempio della<br />

Ka‘ba. La Ka’ba e la Pietra Nera che essa contiene in suo angolo sono<br />

il centro <strong>di</strong> Mecca e quin<strong>di</strong> il centro <strong>di</strong> attrazione del pellegrino, il<br />

luogo in cui si salda fede personale e ritualità connessa a un luogo e a<br />

un oggetto <strong>di</strong> origine celeste.<br />

1. La Ka‘ba e la Pietra Nera<br />

ROBERTO TOTTOLI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Napoli - L’Orientale<br />

Nell’architettura della Ka‘ba, una posizione specifica e unica riveste<br />

la Pietra incastonata nell’angolo sud-orientale, simbolo del culto meccano<br />

fin dal periodo pre-islamico e catalizzatore dell’immaginario relativo<br />

al pellegrinaggio. L’islam costruirà una propria visione del pellegrinaggio,<br />

della Ka‘ba e della Pietra Nera, e in particolare proprio<br />

71


72<br />

Roberto Tottoli<br />

della Pietra Nera 1 che rappresenta l’esempio più significativo <strong>di</strong> oggetto<br />

<strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina (para<strong>di</strong>siaca) <strong>di</strong>sceso sulla terra nella tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica. Tale concezione si definì attraverso la costruzione tra<strong>di</strong>zionale<br />

e l’assorbimento <strong>di</strong> concezioni e mitologie, già pienamente sviluppate<br />

in un’opera come Le storie <strong>di</strong> Mecca <strong>di</strong> al-Azraqī (m. 837 d.C.).<br />

In tale immaginario, la storia della presenza terrena <strong>di</strong> questo oggetto<br />

non terreno non può che risalire alle origini dell’umanità. Per la tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica 2 , Dio mostra ad Adamo dove costruire la Ka‘ba<br />

inviando dal cielo una tenda e a tal fine <strong>di</strong>scende pure la Pietra Nera,<br />

che ci racconta Wahb ibn Munabbih 3 , in origine era un bianco giacinto<br />

tra i giacinti del Para<strong>di</strong>so, la cui luce traeva origine dall’intensa luce<br />

para<strong>di</strong>siaca. Anche la terra era can<strong>di</strong>da e senza macchia, perché senza<br />

peccato o impurità, ci <strong>di</strong>ce la stessa tra<strong>di</strong>zione, spiegando in<strong>di</strong>rettamente<br />

anche la natura del colore bianco della Pietra. Particolare, in<br />

questa ricostruzione, è il ruolo della tenda, la quale serve a delimitare<br />

un precinto sacro con la sua presenza, su cui l’uomo, il primo uomo,<br />

può e<strong>di</strong>ficare la Casa <strong>di</strong> Dio. Poi, dopo ciò, Dio fa <strong>di</strong>scendere anche la<br />

Pietra angolare, così <strong>di</strong>cono le tra<strong>di</strong>zioni, che spesso, quando menzionano<br />

la pietra lo fanno utilizzando il termine arabo rukn che significa<br />

angolo, tanto che rimarrà un’espressione comune a designare la Pietra<br />

Nera, al-rukn al-aswad 4 .<br />

Una serie <strong>di</strong> altre tra<strong>di</strong>zioni in genere scarsamente attestate nelle<br />

1 Sulla Pietra Nera ve<strong>di</strong> le tra<strong>di</strong>zioni raccolte e tradotte in AL-AZRAQĪ, La<br />

Ka‘bah. Tempio al centro del Mondo, a cura <strong>di</strong> Roberto Tottoli, Trieste 1992, in<br />

part. 95-98.<br />

2 Ve<strong>di</strong> AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 5-7. Su questa tra<strong>di</strong>zione, sulla tenda e sulla<br />

Pietra Nera in origine bianca ve<strong>di</strong> A.J. WENSINCK, The Ideas of the Western<br />

Semites Concerning the Navel of the Earth, Verhandleingen der Koninklijke<br />

Akademie van Wetenschappen te Amsterdam. Afdeeling Letterkunde. Nieuwe<br />

reeks 17/1 (1916) 45.55; C.-A. GILIS, La doctrine initiatique du pélerinage, Paris<br />

1982, 70-72; U. RUBIN, The Ka‘ba: aspects of its ritual functions and position in<br />

pre-Islamic background of Dīn Ibrāhīm, Jerusalem <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es in Arabic and Islam 8<br />

(1986) 97-133, p. 118.<br />

3 Figura chiave del primo islam (m. inizi dell’VIII secolo), <strong>di</strong> origine yemenita,<br />

fu autore <strong>di</strong> vari libri oggi perduti e spesso citato in tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> argomento<br />

cosmogonico o sui profeti.<br />

4 Sul significato del termine rukn, che designa gli angoli della Ka‘ba e anche la<br />

Pietra Nera, ve<strong>di</strong> G.R. HAWTING, The origins of the Muslim sanctuary at Mecca,<br />

in G.H.A. JUYNBOLL (ed.), <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es on the First Century of Islamic Society,<br />

Carbondale - Edwardsville 1982, 23-47, p. 44.


La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

raccolte poi canonizzate, ma comunque frequenti in alcune delle opere<br />

più antiche della letteratura musulmana, enumera gli <strong>oggetti</strong> <strong>di</strong> origine<br />

para<strong>di</strong>siaca portati con sé da Adamo all’uscita del para<strong>di</strong>so, e tra questi<br />

immancabilmente c’è la Pietra Nera: la sua origine è para<strong>di</strong>siaca,<br />

così come, va detto, altri <strong>oggetti</strong>, tra cui ad esempio il bastone <strong>di</strong> Mosé<br />

è tra i più frequentemente menzionati 5 .<br />

La sacralità della Pietra è ulteriormente sottolineata dagli avvenimenti<br />

che riguardano la Pietra Nera durante il <strong>di</strong>luvio: La Pietra Nera<br />

viene innalzata pro<strong>di</strong>giosamente da Dio in modo che le acque del<br />

Diluvio non la tocchino. Ma la tra<strong>di</strong>zione islamica aggiunge un ulteriore<br />

elemento <strong>di</strong> sacralizzazione del territorio meccano, in questo caso<br />

il monte Abū Qubays, oggi all’interno della città, quando afferma che<br />

fu custo<strong>di</strong>ta sopra <strong>di</strong> essa per non essere toccata dal Diluvio 6 . Il Dilu -<br />

vio spazzò via la Casa costruita dai <strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong> Adamo sui confini<br />

tracciati sulla tenda <strong>di</strong>scesa del para<strong>di</strong>so e così facendo, ci <strong>di</strong>ce la tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica, mo<strong>di</strong>ficò il luogo in cui si trovava finché non vi giunse<br />

Abramo e vi fu la sua costruzione a cui accenna anche il Corano, per<br />

la verità in due passi scarni e non chiarissimi.<br />

Sarà Dio poi a riportare da Abū Qubays la Pietra Nera, mentre<br />

Abramo e Ismaele stanno costruendo la Ka‘ba prendendo pietre dalle<br />

montagne più <strong>di</strong>verse della tra<strong>di</strong>zione sacra me<strong>di</strong>orientale (Sinai, Mon -<br />

te <strong>degli</strong> Ulivi, Libano, al-Jūdī e Ḥirā) 7 e con l’ausilio <strong>di</strong> angeli e altri<br />

interventi <strong>di</strong>vini. Manca però la Pietra angolare e allora, dopo che<br />

Abramo ha mandato a cercarla Ismaele, Dio stesso la porta, e la co -<br />

struzione è conclusa. Le tra<strong>di</strong>zioni islamiche sul tempo <strong>di</strong> Abramo<br />

accennano alle ulteriori vicissitu<strong>di</strong>ni che hanno colpito la Pietra e che,<br />

fino alla costruzione <strong>di</strong> Abramo luccicante <strong>di</strong> splendore para<strong>di</strong>siaco,<br />

l’hanno resa appunto nera. Qui la ricchezza <strong>di</strong> interpretazioni e la loro<br />

varietà è non solo interessante ma dai toni molto <strong>di</strong>versi. Ad esempio,<br />

si <strong>di</strong>ce che la Pietra fu resa nera dal fuoco che l’ha raggiunta durante il<br />

periodo preislamico e quello islamico. Un’altra, non meno frequentemente<br />

attestata e caratterizzante delle regole <strong>di</strong> purità islamiche, afferma<br />

che furono le tante donne mestruate, e quin<strong>di</strong> impure, che la toccarono<br />

a renderla nera.<br />

La Ka‘ba compare non da meno in queste tra<strong>di</strong>zioni ed accompa-<br />

5 Ve<strong>di</strong> ad es. AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 95; ulteriori riferimenti, da altre fonti,<br />

sono riportate nelle note al testo <strong>di</strong> al-Azraqī.<br />

6 AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 10.<br />

7 AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 25.<br />

73


74<br />

Roberto Tottoli<br />

gna le concezioni relative alla Pietra Nera. Anzi, come sottolineato da<br />

certi stu<strong>di</strong> 8 , gli attributi tra Pietra Nera e Ka‘ba tendono a sovrapporsi,<br />

a sottolineare come nella centralità sacra i due elementi per certi versi<br />

coincidano. Una tra<strong>di</strong>zione che risale a Ka‘b al-Aḥbār 9 <strong>di</strong>ce che la<br />

Ka‘ba fu schiuma sull’acqua prima che Id<strong>di</strong>o creasse cieli e terra, mentre<br />

per altre tra<strong>di</strong>zione la Ka‘ba era in origine un rubino cavo. La<br />

Ka‘ba fu creata prima che fosse creata qualsiasi cosa delle terre, anzi,<br />

la terra fu spianata a partire da una collinetta da cui fu poi fatta la<br />

Casa (ar. Bayt), sinonimo <strong>di</strong> Ka‘ba già nel Corano, ben duemila anni<br />

prima <strong>di</strong> ogni altra casa, con fondamenta che giungono fin sulla settima<br />

terra. Furono inoltre gli angeli a ricostruirla, segno tangibile, quin<strong>di</strong>,<br />

che il carattere primor<strong>di</strong>ale la pone ben prima delle vicende umane<br />

e del primo uomo e profeta Adamo e quin<strong>di</strong> anche dei profeti e pa -<br />

triarchi successivi: ad<strong>di</strong>rittura al tempo in cui Dio era contornato solo<br />

da angeli, che non solo la costruirono ma che anche ricevettero l’or<strong>di</strong>ne<br />

<strong>di</strong> girarle attorno, a dar inizio al rituale del pellegrinaggio in un<br />

tempo a-storico. La storia che farà seguito con Adamo e da Adamo in<br />

poi non può <strong>di</strong> conseguenza che portare il segno della sua origine primor<strong>di</strong>ale<br />

e accompagnare la Ka‘ba, e con essa la Pietra Nera, sempre<br />

più nelle vicende umanissime <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzioni e costruzioni, con un chiaro<br />

abbandono dei richiami al tempo astorico delle origini e con una<br />

conseguente de-mitologizzazione della presenza della Ka‘ba e della<br />

Pietra Nera tra gli uomini e nella comunità dei credenti.<br />

Questo immaginario, unito a tutti gli altri segni (ad esempio la<br />

cosiddetta Stazione <strong>di</strong> Abramo – maqām Ibrāhīm – che contiene l’impronta<br />

dei pie<strong>di</strong> del patriarca), unito a quanto la tra<strong>di</strong>zione islamica ci<br />

racconta su quel che trovò Muhammad all’indomani della conquista<br />

della Mecca, ci dà una connotazione della Ka‘ba quanto mai biblica e<br />

patriarcale: Abramo, la sua impronta <strong>di</strong> origine pro<strong>di</strong>giosa, lo spazio<br />

a<strong>di</strong>acente chiamato Ḥijr che conterrebbe innumerevoli tombe <strong>di</strong> profeti,<br />

e ad<strong>di</strong>rittura dei ritratti <strong>di</strong> Abramo, della Madonna e del Bambino,<br />

che Muhammad trovò al suo interno e <strong>di</strong> cui avrebbe or<strong>di</strong>nato solo una<br />

rimozione parziale. In questo immaginario, che rilegge l’ere<strong>di</strong>tà biblica<br />

in termini islamici, il carattere celeste e primor<strong>di</strong>ale della Pietra Nera e<br />

per estensione, della Ka‘ba, sono i fondamenti del significato e della<br />

funzione del rituale del pellegrinaggio.<br />

8 GILIS, La doctrine initiatique cit., 73. Sulle tra<strong>di</strong>zioni qui brevemente descritte,<br />

ve<strong>di</strong> al-Azraqī, La Ka‘bah cit., 1 sgg.<br />

9 Ebreo convertito all’islam (nel 638) e nome frequentemente utilizzato in relazione<br />

alla tra<strong>di</strong>zione biblica <strong>di</strong>ffusa nella letteratura islamica.


2. Muhammad e la Pietra Nera<br />

La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

Questa storia sacra prosegue nella prima età islamica. Ne è un<br />

esempio per eccellenza la tappa che vede protagonista il Profeta con la<br />

Pietra Nera prima della rivelazione. Una tra<strong>di</strong>zione storica atta a<br />

“costruire” la personalità eccellente <strong>di</strong> Muhammad prima della sua<br />

missione profetica ci racconta che, dopo una <strong>di</strong>struzione, tra l’altro<br />

tutt’altro che rara data la frequenza <strong>di</strong> alluvioni nelle vallate meccane,<br />

Muhammad fu protagonista della rie<strong>di</strong>ficazione della Ka‘ba. Muham -<br />

mad, per vincere le rivalità tribali e claniche, fece appoggiare la Pietra<br />

Nera su un telo, un sudario, preso per ogni angolo da una delle quattro<br />

tribù più importanti <strong>di</strong> Mecca e così trasportata nel luogo dove venne<br />

sistemata e si trova tuttora. Il trasporto congiunto aveva la funzione <strong>di</strong><br />

non privilegiare nessuno a <strong>di</strong>scapito <strong>di</strong> altri, e <strong>di</strong> frenare rivalità e possibili<br />

motivi <strong>di</strong> contrasto tribale. Secondo una tra<strong>di</strong>zione proprio nel<br />

momento della sistemazione della Pietra Nera il <strong>di</strong>avolo, Iblīs, sarebbe<br />

intervenuto per cercare <strong>di</strong> convincere la gente meccana a non concedere<br />

questo privilegio al Profeta 10 .<br />

Anni dopo, dopo la conquista <strong>di</strong> Mecca, attorno a queste reliquie,<br />

così centrali per la sensibilità islamica, Muhammad vi avrebbe trovato<br />

trecentosessanta idoli, numero quanto mai significativo, adatto a un<br />

calendario più che simbolico, idoli che or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere imme<strong>di</strong>atamente,<br />

a significare il netto rifiuto della nuova religione verso il culto<br />

idolatra e pagano in uso a Mecca e in tutta la penisola, e contro il<br />

quale l’islam si definisce, a contrario, come la religione del monoteismo<br />

più puro.<br />

L’irruzione del momento storico <strong>di</strong> ingresso della missione del Pro -<br />

feta Muhammad e quin<strong>di</strong> della nascita dell’islam trascina la Pietra<br />

Nera, e <strong>di</strong> conseguenza anche la Ka‘ba, in un or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> vicende <strong>di</strong>verse.<br />

Quando Muhammad ritorna da dominatore nella città natale, la Ka‘ba<br />

è, insieme, secondo la testimonianza storica musulmana stessa, un reliquario<br />

biblico <strong>di</strong> varia natura e un pantheon pagano. E allora, alla luce<br />

<strong>di</strong> ciò, dove porre la Pietra Nera quando il Profeta entra alla Mecca<br />

l’anno della riconquista: tra i reliquari accettati o assorbiti dall’islam<br />

oppure una sopravvivenza tra l’idolo cancellato e quello decapitato? In<br />

realtà la scelta era già stata fatta da Muhammad, o meglio dalla rivelazione<br />

coranica quando negli anni a cavallo della sua fuga a Me<strong>di</strong>na<br />

10 Ve<strong>di</strong>, su tutta la vicenda, AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 68-69.<br />

75


76<br />

Roberto Tottoli<br />

stabilì che la pratica tra<strong>di</strong>zionale araba del pellegrinaggio alla Ka‘ba a<br />

Mecca, già accennata ad<strong>di</strong>rittura da Erodoto, era in origine una pratica<br />

monoteistica, riven<strong>di</strong>cata da Abramo stesso e incarnata pienamente<br />

dalla Pietra Nera posta nell’angolo sud-orientale, assurta a simbolo<br />

della natura primor<strong>di</strong>ale dell’islam 11 .<br />

La svolta che ha portato all’assorbimento del culto del pellegrinaggio<br />

a Mecca è stata oggetto <strong>di</strong> varie interpretazioni, soprattutto da<br />

parte orientalistica. Famosa è stata, dalla fine dell’800 e almeno fino<br />

agli stu<strong>di</strong> più recenti, lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> C. Snouck Hurgronje 12 che giu<strong>di</strong>cò<br />

questa operazione una consapevole e quin<strong>di</strong> anche vincente scelta politica<br />

<strong>di</strong> Muhammad, il quale si risolse a cavalcare il prestigio del pellegrinaggio,<br />

superando le sue prime perplessità monoteistiche verso gran<br />

parte dei rituali che furono cancellati, per ricavarne comunque prestigio<br />

e andare incontro alle sensibilità arabe della penisola. Tale interpretazione,<br />

liquidatoria ovviamente delle concezioni islamiche, ci interessa<br />

qui perché evidenzia un problema, quello accennato sopra, sulla<br />

compatibilità dell’azione <strong>di</strong> Muhammad ispirata dalla parola coranica<br />

monoteistica e de-mitologizzante, con il credo pre-islamico intorno al<br />

pellegrinaggio, alla Ka‘ba e soprattutto alla Pietra Nera.<br />

3. La Pietra Nera<br />

La Pietra Nera alla fine si salvò alla conquista <strong>di</strong> Muhammad, e<br />

anzi, rimase il centro della sacralità meccana. E grazie a ciò ricevette la<br />

giusta attenzione nella tra<strong>di</strong>zione islamica la quale, però, lascia anche<br />

trasparire, come vedremo, tensioni <strong>di</strong> segno <strong>di</strong>verso. Ogni testo <strong>di</strong> storia<br />

<strong>di</strong> Mecca, già da quello, più importante e antico, <strong>di</strong> al-Azraqī, ma<br />

anche gran parte delle raccolte <strong>di</strong> detti del Profeta Muhammad o <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>scussione giuri<strong>di</strong>ca, includono capitoli sull’eccellenza della Pietra<br />

Nera, anche se queste opere sono più interessate a definire come agire<br />

concretamente con la Pietra Nera durante il pellegrinaggio e quin<strong>di</strong><br />

sull’obbligo <strong>di</strong> toccarla, esau<strong>di</strong>to, in caso <strong>di</strong> impossibilità, anche con<br />

un semplice cenno o sguardo, fatta salva una sana intenzione <strong>di</strong> compiere<br />

questo gesto 13 . In modo curioso alcune tra<strong>di</strong>zioni accennano al<br />

11 Ve<strong>di</strong> ad es. Cor. 22:26.<br />

12 C. SNOUCK HURGRONJE, Il pellegrinaggio alla Mecca, <strong>Torino</strong> 1989.<br />

13 Ve<strong>di</strong> AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 97-98.


La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

costume da parte del Profeta <strong>di</strong> toccare durante la circumambulazione<br />

della Ka‘ba sia la Pietra Nera che il cosiddetto angolo yemenita, l’altro<br />

posto a sud, quasi ad attenuare la singolarità rituale della Pietra Nera e<br />

la sua centralità nel rituale della circumambulazione. E lo stesso vale<br />

davanti alla <strong>di</strong>scussione dottrinale se baciare o meno la Pietra Nera<br />

durante il tocco, con l’altrettanto curioso atteggiamento <strong>di</strong> ‘Umar che<br />

avrebbe affermato davanti alla Pietra:<br />

«Tu sei solo una pietra e se non avessi visto l’Inviato <strong>di</strong> Dio, Dio lo<br />

bene<strong>di</strong>ca e gli conceda salvezza, baciarti neppure io ti bacerei» 14 .<br />

‘Umar alla fine seguì l’esempio del Profeta. In altre versioni sarebbe<br />

stato ‘Alī b. Abī Ṭālib a rintuzzare ‘Umar davanti all’affermazione<br />

ancora più dura che si trattasse <strong>di</strong> una Pietra che non arreca danno né<br />

giovamento. ‘Alī gli ricordò che in realtà si trattava <strong>di</strong> una Pietra che<br />

arrecava danno o vantaggio agli uomini. In questa rivalità tra alcuni<br />

dei compagni più importanti del Profeta Muhammad si evidenzia una<br />

tensione irriducibile tra monoteismo coranico e centralità religiosa dell’oggetto<br />

Pietra Nera calato dal cielo, in cui il carattere sacrale della<br />

parola coranica, increata, dovrebbe essere l’unico segno <strong>di</strong>vino dato<br />

agli uomini, mentre la tra<strong>di</strong>zione extra-coranica vi introduce un immaginario<br />

con connessa ritualità in odore <strong>di</strong> paganesimo.<br />

Altra letteratura tra<strong>di</strong>zionale prende una <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong>versa e non<br />

lascia spazio a dubbi <strong>di</strong> questo tipo. Certe tra<strong>di</strong>zioni affermano così<br />

che Pietra e la Stazione <strong>di</strong> Abramo (maqām Ibrāhīm) sono originarie<br />

del Para<strong>di</strong>so, due delle gemme del para<strong>di</strong>so. Alcune versioni citano<br />

però solo la Pietra Nera come originaria del para<strong>di</strong>so, a testimonianza<br />

che è da essa che ha origine questa virtù emblematica e significativa 15 .<br />

Furono però toccate da idolatri tanto da annullarne le virtù che permettevano<br />

ad ogni malato <strong>di</strong> guarire toccandola. È il Profeta Muham -<br />

mad stesso a <strong>di</strong>re alla moglie ‘A’isha che se non fosse stato per le impurità<br />

del periodo pre-islamico avrebbe conservato tale capacità. Era un<br />

bianco giacinto e <strong>di</strong>venne nera proprio perché Dio la protesse dalle<br />

malefatte dei peccatori che giungevano a toccarla. Secondo un’altra<br />

tra<strong>di</strong>zione, ad<strong>di</strong>rittura, la Pietra Nera avrebbe avuto persino occhi e<br />

14 MĀLIK IBN ANAS, al-Muwaṭṭa’. Manuale <strong>di</strong> legge islamica, a cura <strong>di</strong> Roberto<br />

Tottoli, <strong>Torino</strong> 2011, no. 1066.<br />

15 Ve<strong>di</strong> fonti citate in AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 112-113. Sullo scambio frequente<br />

<strong>di</strong> attributi anche tra Pietra Nera e Stazione <strong>di</strong> Abramo, ve<strong>di</strong> M.J. KISTER,<br />

Maqām Ibrāhīm: a stone with an inscription, Le Muséon 84 (1971) 477-491, p. 482.<br />

77


78<br />

Roberto Tottoli<br />

una lingua in grado <strong>di</strong> parlare e testimoniare su chi giungeva a farle<br />

visita, aggiungendo che è la Mano destra <strong>di</strong> Dio, scavalcando così a piè<br />

pari secoli <strong>di</strong> raffinati <strong>di</strong>battiti teologici sugli attributi <strong>di</strong>vini e tutta la<br />

tensione teologica che tale <strong>di</strong>scussione causò nella storia islamica 16 .<br />

Le tra<strong>di</strong>zioni curiose non finiscono qui: secondo alcune <strong>di</strong> queste,<br />

un’indefinita pietra, a volte identificata come la Pietra Nera, oppure la<br />

Stazione <strong>di</strong> Abramo, avrebbe contenuto una scritta (in siriaco) con una<br />

formula <strong>di</strong> bene<strong>di</strong>zione per il luogo e la gente del luogo 17 . Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong><br />

ogni, relativo, valore storico, <strong>di</strong> questa informazione, la segnalazione<br />

della scritta in siriaco, unita alla frequente partecipazione <strong>di</strong> copti o<br />

bizantini nella ricostruzione della Ka‘ba, sottolinea ben oltre il riferimento<br />

continuo al tempo biblico la stretta connessione con la sacralità<br />

<strong>di</strong> matrice ebraica e cristiana.<br />

La tra<strong>di</strong>zione islamica rivela anche particolari curiosi in relazione ai<br />

pro<strong>di</strong>gi attestati sulla Pietra Nera. Una tra<strong>di</strong>zione afferma che era talmente<br />

brillante che Dio la oscurò altrimenti avrebbe illuminato tutta la<br />

terra giorno e notte, con evidentemente problemi per gli uomini desiderosi<br />

<strong>di</strong> un riposo notturno. E infine troviamo persino una tra<strong>di</strong>zione,<br />

tarda eppure giunta fino alle attestazioni orali, che la Pietra sarebbe<br />

stata invece un angelo, l’angelo incaricato <strong>di</strong> impe<strong>di</strong>re ad Adamo <strong>di</strong><br />

mangiare dall’albero della conoscenza, fatto <strong>di</strong>scendere così in questa<br />

nuova forma e con una nuova funzione dopo il fallimento <strong>di</strong> quella sua<br />

prima missione 18 .<br />

Le tra<strong>di</strong>zioni islamiche nel loro insieme paiono quin<strong>di</strong> stabilire nei<br />

vari generi <strong>di</strong> letteratura che le raccolgono concezioni <strong>di</strong>verse, anche<br />

profondamente <strong>di</strong>verse sulla natura della Pietra Nera. Un’evidente<br />

linea <strong>di</strong> pensiero ne sancisce l’origine <strong>di</strong>vina e la colloca per aspetto<br />

originario e per storia e poteri in una posizione unica tra tutti gli<br />

<strong>oggetti</strong> terreni. Ricor<strong>di</strong>amo a tale proposito la tendenza sunnita tra<strong>di</strong>zionale<br />

a sacralizzare il tutto per attenuare la sacralità dei luoghi e dei<br />

tempi e per collocare così il singolo credente in una posizione peculiare<br />

del suo rapporto con Dio che è me<strong>di</strong>ato solo dalla parola coranica.<br />

Tali concezioni relative alla natura peculiare della Pietra Nera vanno in<br />

16 AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 95; su tali tra<strong>di</strong>zioni ve<strong>di</strong> M. GAUDEFROY-<br />

DEMOMBYNES, Le pèlerinage à la Mecque, Paris 1923, 47; GILIS, La doctrine initiatique<br />

du pélerinage cit., 67.<br />

17 AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 58.<br />

18 Ve<strong>di</strong> AL-AZRAQĪ, La Ka‘bah cit., 113.


La Pietra Nera e il culto della Ka‘ba a Mecca<br />

<strong>di</strong>rezione opposta. Da qui l’evidente emergere <strong>di</strong> tensioni e <strong>di</strong> valutazioni<br />

contrastanti, fin dalle prime tra<strong>di</strong>zioni. Già nelle raccolte <strong>di</strong> detti<br />

<strong>di</strong> Muhammad utilizzati per gli aspetti rituali del pellegrinaggio, troviamo<br />

infatti i pronunciamenti <strong>di</strong> ‘Umar e altre implicite perplessità<br />

sulla Pietra. Che siano il frutto <strong>di</strong> tendenze <strong>di</strong>verse o <strong>di</strong> polemici contrasti<br />

sullo status della Pietra o piuttosto sulla ritualità del pellegrinaggio<br />

non è facile da stabilire. Forse è un po’ <strong>di</strong> tutto questo, oppure il<br />

segno delle tensioni e problemi <strong>di</strong> vario tipo che trovano la loro espressione<br />

proprio nella Pietra Nera.<br />

4. Tensioni e problemi<br />

La Pietra Nera appare infatti una Pietra angolare <strong>di</strong> tensioni tra<strong>di</strong>zionali<br />

e teologiche, che risultano ancora più evidenti se poste all’incrocio<br />

<strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> relazioni, ad esempio in relazione al rapporto tra spazio<br />

sacro – e spazio non sacro, nelle <strong>di</strong>mensioni orizzontale e verticale.<br />

Ne abbiamo già accennato: nello sforzo <strong>di</strong> attenuazione della sacralità<br />

e soprattutto della sacralità dello spazio terreno, orizzontale, la<br />

Pietra Nera, la Ka‘ba e quin<strong>di</strong> il pellegrinaggio sono decisamente un<br />

punto <strong>di</strong> tensione. La Pietra Nera e per estensione il Tempio Sacro a<br />

Mecca che prende la sacralità non solo dalla presenza della Pietra<br />

Nera, ma da altro reliquiario, ma che ha nella Pietra Nera il suo luogo<br />

centrale, vanno contro la concezione islamica <strong>di</strong> una terra tutta come<br />

luogo <strong>di</strong> culto (tutta la terra è una moschea) in un processo <strong>di</strong> sacralizzazione<br />

che ha il preciso scopo, opposto, <strong>di</strong> de-sacralizzare i luoghi <strong>di</strong><br />

culto. Tendenza, va detto, come sempre spesso <strong>di</strong>sattesa e combattuta<br />

tra tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> segno opposto, ma comunque fondamentale nella concezione<br />

del rapporto tra uomo e luogo in cui vive. La Ka‘ba scavalca<br />

questo assunto, non solo perché contiene una Pietra Nera non umana,<br />

originaria del para<strong>di</strong>so, e a volte pro<strong>di</strong>giosamente dotata <strong>di</strong> poteri, ma<br />

anche per la sua corrispondenza con una Casa celeste omologa (la<br />

Casa Abitata), 19 che crea una relazione questa volta verticale ancor più<br />

caratterizzante e mitologizzante.<br />

Qui vi è l’altro evidente punto <strong>di</strong> tensione che fa i conti proprio con<br />

le tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> segno <strong>di</strong>verso che riflettono una contesa <strong>di</strong> sacralità nel<br />

mondo islamico e che richiamano anche grossi quesiti sulle origini del-<br />

19 Citata in Cor. 52:4.<br />

79


80<br />

Roberto Tottoli<br />

l’islam nel confronto tra fattore arabo e ra<strong>di</strong>ci ebraico-cristiane. La<br />

relazione sacrale verticale è sancita da questa Casa Abitata, che crea<br />

un asse peculiare con la Casa a Mecca e contribuisce così anche alla<br />

questione tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> rivalità e eccellenza dei luoghi più importanti<br />

per la religiosità islamica, risolvendo in maniera definitiva il primo<br />

confronto polemico, ampiamente attestato nella prima tra<strong>di</strong>zione islamica,<br />

tra Gerusalemme e Mecca. Lo risolve dopo un’ampia contesa,<br />

che deriva da detti del Profeta, come quello famoso che mette sullo<br />

stesso piano Mecca, Me<strong>di</strong>na e Gerusalemme, e anche quell’altro luogo<br />

<strong>di</strong> definizione <strong>di</strong> un ruolo privilegiato in un asse verticale e celeste che è<br />

rappresentato dalla tra<strong>di</strong>zione ricchissima del viaggio notturno e<br />

dell’Ascensione celeste (la scala) <strong>di</strong> Muhammad, che ebbe luogo a<br />

Gerusalemme.<br />

Fin qui per quanto concerne la ricezione islamica della sacralità<br />

pre-islamica del luogo. Vi è poi la fondamentale tensione nel rapporto<br />

monoteismo-idolatria. La presenza della Pietra Nera pone un quesito<br />

fondamentale, ovvero perché ricorrere a un betilo nella costruzione <strong>di</strong><br />

un puro monoteismo, quando la tra<strong>di</strong>zione islamica ha nel Corano il<br />

suo centro <strong>di</strong> comunicazione verticale Dio-uomo. È il Corano secondo<br />

il dogma sunnita parola increata <strong>di</strong> Dio, presente ab eterno accanto<br />

alla <strong>di</strong>vinità che garantisce questo canale <strong>di</strong> comunicazione unico. Esso<br />

è increato ma fu rivelato in un dato tempo e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>scese, e non a<br />

caso il verbo che esprime la rivelazione significa primariamente in<br />

arabo <strong>di</strong>scendere (anzala). È il logos il canale <strong>di</strong> comunicazione tra Dio<br />

e l’orizzonte terrestre della creazione, non certo una pietra.<br />

Tali quesiti e tali dubbi non hanno una risposta. Attestano solo il carattere<br />

composito e problematico <strong>di</strong> costruzione storica <strong>di</strong> aspetti del<br />

credo islamico, e l’immancabile tensione tra teologie e tra<strong>di</strong>zioni. La<br />

Pietra Nera ne è uno <strong>degli</strong> esempi più evidenti, perché data la natura<br />

dell’islam e del messaggio coranico rivelato a Muhammad, la presenza<br />

<strong>di</strong> un oggetto para<strong>di</strong>siaco nella comunità <strong>degli</strong> uomini non poteva che<br />

generare tensioni e arricchire la costruzione <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione ricca <strong>di</strong><br />

tendenze <strong>di</strong>verse e anche contrastanti. Tensioni che non mancheranno<br />

nel corso dei secoli <strong>di</strong> riaffacciarsi quando la devozione musulmana comincerà<br />

a popolare lo spazio e i luoghi musulmani <strong>di</strong> altri segni tangibili<br />

della presenza <strong>di</strong>vina, con pro<strong>di</strong>gi e attestazioni miracolose connesse a<br />

figure storiche dell’islam soprattutto mistico. La Pietra Nera ne rappresenta<br />

in fondo una sorta <strong>di</strong> emblematico esempio probante, per la sua<br />

natura e per la ricchezza <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zioni che l’ha circondata e la circonda.


IMPRONTE, RITRATTI E RELIQUIE DI PROFETI NELL’ISLĀM<br />

LUCA PATRIZI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Napoli «L’Orientale»<br />

Viṣṇu ha camminato a gran<strong>di</strong> passi nell’universo; ha appoggiato il suo piede<br />

per tre volte. (L’universo) si è raccolto attorno alla polvere (dei suoi passi).<br />

Tre passi ha camminato Viṣṇu, il protettore invulnerabile, quin<strong>di</strong> ha stabilito<br />

le leggi (dell’universo) 1 .<br />

È comune ad ogni civiltà la narrazione della storia sacra delle proprie<br />

origini attraverso dei miti cosmogonici. Nel RġVeda, il più antico<br />

testo in<strong>di</strong>ano, Viṣṇu compie tre passi fondatori nell’universo detti ‘trivikrama’<br />

che, nell’atto <strong>di</strong> misurare lo spazio, creano il mondo a partire<br />

dalla polvere generata dalle sue <strong>impronte</strong> 2 . I primi due passi sono visibili<br />

sulla terra, mentre il terzo è visibile solo in cielo, e «nessuno riesce a<br />

raggiungerlo, neppure gli uccelli dell’aria, dotati <strong>di</strong> ali» 3 . Oltre alla presenza<br />

‘pervasiva’ che questo atto riveste per i mon<strong>di</strong>, evidenziata dall’etimologia<br />

del nome Viṣṇu, esso si svolge contemporaneamente lungo<br />

l’Axis Mun<strong>di</strong>, permettendo in questo modo la comunicazione tra i <strong>di</strong>fferenti<br />

livelli dell’universo e soprattutto la <strong>di</strong>scesa della bene<strong>di</strong>zione celeste<br />

sulla terra 4 . Colui che compie il sacrificio rituale, nello Hindūismo<br />

1 H. BAKKER, The Footprints of the Lord, Devotion Divine, in D. L. ECK - F.<br />

MALLISON (edd.), Bhakti Tra<strong>di</strong>tions from the Regions of In<strong>di</strong>a: <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es in Honour<br />

of Charlotte Vaudeville, Groningen 1991, 19-37; cfr. anche The Hymns of the<br />

Rgveda. Translated with a Popular Commentary by Ralph T.H. Griffith, Benares<br />

1889, 1.22.<br />

2 I tre passi <strong>di</strong> Viṣṇu sono citati in vari passaggi del Rgveda: 1.22, 1.154, 1.155,<br />

6.49, 7.100, 8.12, 8.29, 8.96. Nel verso 1:146 è invece Agni a lasciare impressa la<br />

sua impronta nella terra. Nel Śatapatha-Brāhmana 6.7.4.7, si legge che «tramite i<br />

passi <strong>di</strong> Viṣṇu, Prajāpati creò il mondo», cfr. The Śatapatha-Brāhmana Accor<strong>di</strong>ng<br />

to the Text of the Mādhyan<strong>di</strong>na School, translated by Julius Eggeling, Oxford<br />

1882.<br />

3 The Hymns of the Rgveda, cit., 1.155.<br />

4 J. GONDA, Viṣṇu, in L. JONES (ed.), Encyclope<strong>di</strong>a of Religion, Second E <strong>di</strong>tion,<br />

Farmington Hills 2005, 9617-9619.<br />

81


82<br />

Luca Patrizi<br />

<strong>di</strong> matrice viṣṇaita, imita ritualmente l’atto <strong>di</strong> Viṣṇu e si identifica in esso.<br />

Con la pratica egli si rende gra<strong>di</strong>to alla <strong>di</strong>vinità, e il suo sacrificio<br />

può <strong>di</strong>ventare simile ad un’ascensione celeste: il primo passo avviene<br />

sulla terra, il secondo nell’aria, e il terzo infine nel cielo 5 . Anche il quinto<br />

avatāra <strong>di</strong> Viṣṇu, Vāmana, che ha la forma <strong>di</strong> un nano, secondo il<br />

Viṣṇu Purana si ingigantisce per compiere i tre passi nei tre mon<strong>di</strong> 6 , e<br />

secondo alcune versioni con il terzo passo preme la testa del re Bali<br />

spingendolo all’inferno 7 . Con il suo terzo passo nel cielo, inoltre, Viṣṇu<br />

crea un’apertura nel para<strong>di</strong>so dal quale sgorga sulla terra il fiume Gange<br />

8 . Sulle rive <strong>di</strong> questo fiume, nella regione <strong>di</strong> Uttarakhand in In<strong>di</strong>a,<br />

sorge Haridwar, una delle quattro se<strong>di</strong> del pellegrinaggio detto Kumbh<br />

Mela. Proprio qui, sul muro lambito dal fiume sacro, è venerata un’impronta<br />

attribuita a Viṣṇu. Il luogo è detto Har Ki Pauri, che significa «I<br />

passi del Signore» 9 .<br />

Un altro luogo nel quale è custo<strong>di</strong>ta una sacra impronta <strong>di</strong> Viṣṇu è il<br />

Viṣṇupāda Man<strong>di</strong>r, «il Tempio dell’Impronta <strong>di</strong> Viṣṇu», a Gaya, nella<br />

regione <strong>di</strong> Bihar 10 . Secondo la leggenda il tempio è stato costruito a<br />

partire da questa impronta, che è situata nel suo centro esatto, e si è<br />

prodotta nel momento in cui Viṣṇu ha soggiogato il demone Gayasur<br />

premendone il petto con il piede, narrazione che contiene senza dubbio<br />

reminiscenze della leggenda <strong>di</strong> Vāmana narrata precedentemente 11 .<br />

5 The Śatapatha-Brāhmana, cit. 1.9.3.8-12.<br />

6 The Vishnu Purana, A System of Hindu Mythology and Tra<strong>di</strong>tion, Translated<br />

from the Original Sanskrit and Illustrated by Notes Derived Chiefly from others<br />

Puranas by Horace Hayman Wilson, Londra 1864, III/1, 18-19, dove è riportato<br />

inoltre un passaggio interessante dal commentario <strong>di</strong> Durga della Nirukta <strong>di</strong><br />

Yāska, riferito ai tre passi <strong>di</strong> Viṣṇu: «He plants one foot on the ‘samarohana’<br />

(place of rising), when mounting over the hill of ascension; [another], on the<br />

‘vishnupada’, the meri<strong>di</strong>an sky; [a third], on the ‘gayasiras’, the hill of setting».<br />

7 W. J. WILKINS, Hindu Mythology, Ve<strong>di</strong>c and Purānic, Calcutta 1882, 130-135.<br />

8 I. VISWANATHAN PETERSON, Ganges River, in L. JONES (ed.), Encyclope<strong>di</strong>a of<br />

Religion, Second E<strong>di</strong>tion, Farmington Hills 2005, 3274-3275.<br />

9 C. A. JONES, Haridwar, in C. A. JONES AND J. D. RYAN (edd.), Encyclope<strong>di</strong>a<br />

of Hinduism, New York 2007, 180.<br />

10 BAKKER, cit., 19-25; P. DEBJANI, Antiquity of the Vishnupad at Gaya, East<br />

and West 35, 1-3 (1985) 103-141.<br />

11 Su questa impronta come Axis Mun<strong>di</strong> della geografia sacra <strong>di</strong> questa parte<br />

del territorio in<strong>di</strong>ano, oltre a BAKKER, cit., 21-22, cfr. R. P. B. SINGH, Cosmic<br />

Order and Cultural Astronomy: <strong>Sacre</strong>d Cities of In<strong>di</strong>a, Newcastle upon Tyne 2009,<br />

79-122, e R. P. B. SINGH, <strong>Sacre</strong>dscape, Manescape & Cosmogony at Gaya, In<strong>di</strong>a: A


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

I buddhisti venerano la stessa impronta attribuendola al Buddha Śā -<br />

kya muni, e, nella zona attorno a Gaya, dove si trova Bodh Gaya, sito<br />

del famoso albero sotto il quale egli raggiunse l’illuminazione secondo<br />

le tra<strong>di</strong>zioni, vi sono numerose <strong>impronte</strong> impresse nella roccia, la cui<br />

attribuzione è con<strong>di</strong>visa tra hindū e buddhisti 12 . Secondo il Canone pāli,<br />

appena nato il Buddha posa i pie<strong>di</strong> sulla terra compiendo sette passi<br />

e affermando <strong>di</strong> essere «il più alto del mondo, il migliore del mondo e il<br />

primogenito del mondo». Questi passi devono essere intesi in senso<br />

verticale secondo Mircea Eliade, come un’ascensione che avviene al<br />

Centro del Mondo. Il Bodhisattva <strong>di</strong>venta così contemporaneo alla<br />

creazione del mondo, abolendo il tempo. I suoi passi producono la civiltà,<br />

spianando e trasformando la terra sotto <strong>di</strong> essi 13 . Un’impronta<br />

del Buddha, molto venerata, detta Sri Pada, «Sacra Impronta», si trova<br />

in Sri Lanka in un santuario in cima al monte Samanala. Essa è attribuita<br />

dagli hindū a Śiva, dai cristiani a San Tommaso, e dai musulmani<br />

a Adamo. Secondo la leggenda Alessandro Magno dopo la conquista<br />

dell’In<strong>di</strong>a si sarebbe recato in pellegrinaggio verso questa sacra impronta,<br />

mentre in tempi più vicini a noi possiamo ricordare, tra le altre,<br />

la testimonianza della visita <strong>di</strong> Marco Polo (m. 1324) nel Milione, e del<br />

viaggiatore musulmano Ibn Baṭṭūṭa (m. 1368) 14 . Secondo la tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica, Adamo, primo uomo e primo profeta dell’umanità, espulso<br />

dal para<strong>di</strong>so, ‘cade’ proprio a Saran<strong>di</strong>b, nome arabo dello Sri Lanka.<br />

Dopo aver pianto a lungo, prima a causa della tristezza per la comprensione<br />

della sua <strong>di</strong>sobbe<strong>di</strong>enza, e poi per la gioia del perdono <strong>di</strong>vi-<br />

study in <strong>Sacre</strong>d Geography, National Geographical Journal of In<strong>di</strong>a 45, 1-4 (1999)<br />

32-61.<br />

12 J. N. KINNARD, The Polyvalent Pādas of Viṣṇu and the Buddha, History of<br />

Religions 40:1 (2000) 32-57. Sulle <strong>impronte</strong> in ambito buddhista, cfr. A. M.<br />

QUAGLIOTTI, Buddhapadas: An Essay on the Representations of the Footprints of<br />

the Buddha with a Descriptive Catalogue of the In<strong>di</strong>an Specimens from the 2nd<br />

Century B.C. to the 4 th century A.D., Kamakura 1998.<br />

13 M. ELIADE, Miti, sogni e misteri, Milano 1990, 96-100.<br />

14 A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del Me<strong>di</strong>o Evo, Milano 2002, 61-63;<br />

S. PARANAVITANA, The God of Adam’s Peak, Artibus Asiae, Supplementum 18<br />

(1958) 5-78; T. W. RHYS DAV I D S, Adam’s Peak in J. HASTINGS (ed.), The<br />

Encyclope<strong>di</strong>a of Religion and Ethics 1, E<strong>di</strong>nburgh 1908, 87; W. SKEEN, Adam’s<br />

Peak. Legendary, Tra<strong>di</strong>tional, and Historic Notices of the Samanala and Sri-Pada,<br />

with a Descriptive Account of the Pilgrims’ Route from Colombo to the <strong>Sacre</strong>d<br />

Foot-Print, Colombo 1870; IBN BAṬṬŪṬA, I Viaggi, <strong>Torino</strong> 2006, 661-663.<br />

83


84<br />

Luca Patrizi<br />

no, le sue lacrime, scese come ruscelli dai suoi occhi, generano una rigogliosa<br />

vegetazione. In seguito egli si alza in pie<strong>di</strong>: dotato <strong>di</strong> altezza<br />

considerevole la sua testa tocca il primo cielo, da dove può intendere le<br />

voci <strong>degli</strong> angeli. Inizia a camminare, e la sua processione comporta<br />

una progressiva decrescita. Ogni suo passo produce una città, con acqua<br />

e vegetazione rigogliosa, mentre lo spazio tra i suoi passi <strong>di</strong>venta<br />

deserto. Al termine egli è scortato dall’angelo Gabriele a Mecca, dove<br />

compie il primo pellegrinaggio 15 . A partire da simili miti <strong>di</strong> fondazione<br />

si è sviluppata nell’ambito <strong>di</strong> varie tra<strong>di</strong>zioni religiose la venerazione<br />

delle <strong>impronte</strong> sacre alle quali è attribuita un’origine acheropita, così<br />

come <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> fattura umana, prodotte in seguito ad ispirazione<br />

<strong>di</strong>vina, o come copie santificate <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> acheropiti 16 . Questi <strong>oggetti</strong><br />

sono inclusi nell’insieme dei cosiddetti petrosomatoglifi, «<strong>impronte</strong> del<br />

corpo sulla pietra», nel novero delle quali si contano anche le <strong>impronte</strong><br />

preistoriche e altre <strong>impronte</strong>, <strong>di</strong>ffuse in tutto il mondo, <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile identificazione<br />

temporale e <strong>di</strong> significato, sia umane che animali 17 . In ambito<br />

islamico possiamo trovare una serie <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> attribuite a <strong>di</strong>fferenti<br />

profeti, <strong>di</strong>sseminate in tutta l’area <strong>di</strong> influenza dell’Islām. Secondo<br />

alcune tra<strong>di</strong>zioni islamiche, il numero dei profeti dall’inizio della creazione<br />

varierebbe da 315, 1000, fino a 224.000, 25 dei quali trovano un<br />

nome nel Corano, da Adamo fino a Muḥammad, passando per molti<br />

profeti biblici a altri specificamente arabi o <strong>di</strong> dubbia attribuzione 18 .<br />

Proseguendo lungo la storia sacra della profezia nell’Islām alla ricerca<br />

<strong>di</strong> <strong>impronte</strong>, troviamo l’impronta attribuita ad Abramo, impressa in<br />

una pietra conservata dentro un tabernacolo alla Mecca accanto alla<br />

15 TABARI, I Profeti e i Re, Parma 1993, 10-12; C. W. ERNST, In<strong>di</strong>a as a <strong>Sacre</strong>d<br />

Islamic Land, in D. S. LOPEZ JR. (ed.), Religions of In<strong>di</strong>a in Practice, Princeton<br />

1995, 556-563.<br />

16 Cfr. ad esempio P. B. THOMAS, The Riddle of Ishtar’s Shoes The Religious<br />

Significance of the Footprints at ‘Ain Dara from a Comparative Perspective,<br />

Journal of Religious History 32/3 (2008) 303-319.<br />

17 Cfr. J. BORD, Footprints in Stone. The significance of foot- and hand-prints<br />

and other imprints left by early men, giants, heroes, devils, saints, animals, ghosts,<br />

witches, fairies and monsters, Avebury 2004.<br />

18 Sui profeti nell’Islām, cfr. R. TOTTOLI, I profeti biblici nella tra<strong>di</strong>zione islamica,<br />

Brescia 1999, e B. M. WHEELER, Prophets in the Quran: an introduction to the<br />

Quran and Muslim exegesis, London-New York 2002. Secondo il commentario<br />

coranico <strong>di</strong> al-Bayḍāwī il numero dei profeti è <strong>di</strong> 124.000, cfr. AL-BAYḌĀWĪ, Anwār<br />

al-tanzīl wa-asrār al-ta’wīl, Beirut 1988, 2:346.


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

Ka‘ba, e definita Maqām Ibrāhīm, significando la parola maqām allo<br />

tempo stesso luogo, posizione, rango spirituale e in senso esteso anche<br />

tomba, <strong>di</strong> un profeta o <strong>di</strong> un santo. Un versetto coranico invita i credenti<br />

a considerare questo luogo come un luogo <strong>di</strong> preghiera, e infatti<br />

delle preghiere rituali vengono eseguite <strong>di</strong> fronte ad esso 19 . Per sua natura<br />

la religione islamica è refrattaria a qualsiasi genere <strong>di</strong> venerazione<br />

al <strong>di</strong> fuori del culto <strong>di</strong> Dio, ma la venerazione <strong>di</strong> questa impronta trova<br />

riscontro nel Corano, come abbiamo visto, ed è dunque accettata, allo<br />

stesso modo della venerazione della Pietra Nera. Tuttavia gli ‘ulamā’, i<br />

dottori <strong>di</strong> scienza religiosa, si sono chiesti se con Maqām Ibrāhīm si dovesse<br />

intendere l’acheropito stesso oppure in senso più ampio il luogo<br />

in cui pregò Abramo. Secondo alcuni, esso sarebbe la pietra sulla quale<br />

Abramo salì per costruire la Ka‘ba, oppure per chiamare le genti al<br />

pellegrinaggio, mentre altre opinioni sostengono che esso rappresenti la<br />

<strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> preghiera (qibla) <strong>di</strong> Abramo, e che la pietra sia <strong>di</strong> origine<br />

<strong>di</strong>vina, come la Pietra Nera. Altri ‘ulamā’, come Ibn al-Jawzī (m. 1201),<br />

affermano che l’impronta è un simbolo per spingere i credenti a seguire<br />

l’esempio <strong>di</strong> Abramo, seguendo i suoi passi 20 . È interessante segnalare<br />

come alcune interpretazioni in ambito Hindū considerino La Mecca<br />

come un antico santuario ve<strong>di</strong>co e affermino che l’impronta sia da attribuire,<br />

secondo le opinioni, piuttosto a Viṣṇu, Śiva, Krishna o Brahma<br />

21 .<br />

Un’altra impronta <strong>di</strong> Abramo è venerata a Bani Na‘im, villaggio vicino<br />

a Hebron in Cisgiordania, nei pressi della tomba <strong>di</strong> Lot, nipote <strong>di</strong><br />

Abramo e profeta secondo l’Islām, luogo <strong>di</strong> sepoltura già segnalato da<br />

San Girolamo nel 4° secolo. Le fonti affermano che da qui Abramo osservò<br />

la <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Sodoma e Gomorra e la sua prosternazione <strong>di</strong><br />

fronte all’evento lasciò l’impronta dei suoi pie<strong>di</strong> sulla roccia 22 .<br />

19 «wa-ttakhidū min maqām Ibrāhīm muṣallan», Cor. 2:125.<br />

20 M. J. KISTER, Makām Ibrāhīm, Encyclope<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion,<br />

4:102, e M. J. KISTER, Maqām Ibrāhīm: a stone with an inscription, Le Muséon 84<br />

(1971), 477-91.<br />

21 Cfr. C. W. ERNST, Situating Sufism and Yoga, Journal of the Royal Asiatic<br />

Society 3/15:1 (2005) 25-26. In Internet, su alcuni siti <strong>di</strong> ispirazione Hindū, si possono<br />

trovare numerosi riferimenti a quelle che vengono definite le «ra<strong>di</strong>ci ve<strong>di</strong>che<br />

dell’Arabia preislamica».<br />

22 M. SHARON, Corpus Inscriptionum Arabicarum Palaestinae, 2, Leiden 1997,<br />

18-19.<br />

85


86<br />

Luca Patrizi<br />

Sono venerate anche <strong>impronte</strong> attribuite a Mosé: in prossimità della<br />

città <strong>di</strong> Damasco, nella cosiddetta Masjid al-Qadam, «la Moschea dell’Impronta»,<br />

è conservata in una teca un’impronta nella roccia ricondotta<br />

al profeta biblico 23 . Nelle antiche guide ai luoghi <strong>di</strong> pellegrinaggio<br />

sono segnalate altre <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Mosè, nella Masjid al-Qadam del<br />

Cairo, non più esistente 24 , e l’impronta dei due pie<strong>di</strong> del profeta biblico<br />

nel paese <strong>di</strong> Atfih, a sud del Cairo all’altezza dell’oasi <strong>di</strong> al-Fayyūm, <strong>di</strong><br />

cui si sono perse le tracce 25 . Un’altra impronta degna <strong>di</strong> nota è quella<br />

segnalata nel sud della Siria a Imtan: si tratterebbe dell’impronta lasciata<br />

dal bastone <strong>di</strong> Mosè, che è <strong>di</strong> origine soprannaturale, e attorno al<br />

quale sono sorte numerose leggende in Islām 26 . Si segnalano anche delle<br />

<strong>impronte</strong> attribuite ad Aronne, e precisamente a Salkhad, nel sud<br />

della Siria, nel punto esatto in cui sarebbe terminata per il profeta e suo<br />

fratello Mosè la peregrinazione nel deserto del Sinai 27 .<br />

Le <strong>impronte</strong> che la tra<strong>di</strong>zione islamica attribuisce al Profeta Muḥammad<br />

sono numerose. La più celebre è l’impronta conservata a Gerusalemme<br />

nella Cupola della Roccia (Qubbat al-Ṣakhra), prodottasi miracolosamente<br />

in occasione del viaggio celeste del Profeta, il mi‘rāj 28 . Essa<br />

si trova attualmente nell’angolo sud-ovest della Roccia, dentro a un reliquiario<br />

29 (Tav. 4). Altre <strong>impronte</strong> sono conservate a Ṭā’if in Arabia<br />

23 J. SOURDEL-THOMINE, Les anciens lieux de pèlerinage damascains d’après les<br />

sources arabes, Bulletin d’études orientales XIV (1952–4) 73, e AL-HARAWĪ, Guide<br />

des lieux de pélerinage, Damasco 1997, 31.<br />

24 AL-HARAWĪ, cit., 93.<br />

25 Ivi, 98.<br />

26 Ivi, 44. Sul bastone <strong>di</strong> Mosé, cfr. A. JEFFERY, ‘Aṣā, Encyclope<strong>di</strong>a of Islam<br />

Second E<strong>di</strong>tion, 1:701.<br />

27 Ivi, 43.<br />

28 T. W. ARNOLD, Ḳadam Sharīf (Ḳadam Rasūl Allāh), Encyclopae<strong>di</strong>a of<br />

Islam Second E<strong>di</strong>tion, 4:367. Sul Mi‘rāj, cfr. B. SCHRIEKE - J. E. BENCHEIKH - J.<br />

KNAPPERT - B. W. ROBINSON, Mi‘rādj, Encyclope<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion,<br />

7:97, e Il viaggio notturno e l’ascensione del Profeta, a cura <strong>di</strong> I. Zillio-Gran<strong>di</strong>,<br />

<strong>Torino</strong> 2010.<br />

29 G. NECIPOGLU, The Dome of the Rock as Palimpsest: ‘Abd al-Malik’s Grand<br />

Narrative and Sultan Süleyman’s Glosses, Muqarnas 25 (2008), 25, 29, 32, 58, 69-<br />

70; A. ELAD, Me<strong>di</strong>eval Jerusalem and Islamic worship: holy places, ceremonies, pilgrimage,<br />

Leiden 1995, 72-73, 166-167. Nella grotta sottostante la Roccia, alla<br />

qua le si accede con una scala, è segnalata inoltre un’impronta attribuita al profeta<br />

Idrīs, l’Enoch biblico, cfr. NECIPOGLU, cit. 58, 63.


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

Sau<strong>di</strong>ta sul monte Abū Zubaydah, una al Cairo nel mausoleo <strong>di</strong> Qā’it<br />

Bay, una a Tanta, nel delta egiziano, custo<strong>di</strong>ta all’interno del mausoleo<br />

del celebre sufi Aḥmad al-Badawī (m. 1260), e una nella Masjid al-<br />

Aqdām a sud <strong>di</strong> Damasco 30 . Nella moschea al-Karimiyya ad Aleppo,<br />

un’impronta attribuita al Profeta è posizionata in senso verticale, in modo<br />

da permettere a dell’acqua <strong>di</strong> percorrerne la superficie, prima <strong>di</strong> esser<br />

raccolta in un bicchiere, pronta per essere bevuta, nella ricerca della bene<strong>di</strong>zione<br />

che ne deriva 31 (Tav. 5). Due <strong>impronte</strong> sono custo<strong>di</strong>te nel palazzo<br />

Topkapi a Istanbul, assieme ad un gran numero <strong>di</strong> reliquie attribuite<br />

al Profeta, che i governanti islamici si sono tramandate attraverso<br />

la storia come segno <strong>di</strong> religiosità e potere. Si ritiene che una delle due<br />

sia stata provocata dalla pressione del piede del Profeta Muḥammad in<br />

occasione della ricostruzione della Ka‘ba (Tav. 6), ed è quin<strong>di</strong> in relazione<br />

con il Maqām Ibrāhīm, mentre la seconda è una copia dell’impronta<br />

impressa sulla Roccia a Gerusalemme 32 . Numerose <strong>impronte</strong> del<br />

Profeta sono segnalate infine nel subcontinente in<strong>di</strong>ano, in un contesto<br />

senza dubbio maggiormente pre<strong>di</strong>sposto a questo genere <strong>di</strong> venerazione.<br />

La più celebre è quella custo<strong>di</strong>ta nella moschea detta Qadam Sharīf, il<br />

«La Nobile Impronta» a Delhi, e quella a Lucknow, nell’Uttar Pradesh<br />

33 . Si segnala inoltre una venerazione per i sandali del Profeta, che ha<br />

analogie con pratiche simili soprattutto nel Buddhismo 34 . Prima <strong>di</strong> interrogarsi<br />

sul valore <strong>di</strong> queste <strong>impronte</strong>, bisogna segnalare anche la presenza<br />

<strong>di</strong> <strong>impronte</strong> attribuite a ‘Ali ibn AbīṬālib, genero del Profeta e suo<br />

quarto successore (khalīfa) nel governo dell’impero islamico. In questo<br />

caso, la particolarità è legata al fatto che si tratta <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> delle ma-<br />

30 WHEELER, cit., 78-79. Anche Ibn Baṭṭūṭa segnala la presenza dell’impronta<br />

dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Mosé in questa moschea, affermando inoltre che secondo alcune tra<strong>di</strong>zioni<br />

essa è ad<strong>di</strong>rittura costruita sulla tomba del profeta, cfr. IBN BAṬṬŪṬA, cit.,<br />

113-114.<br />

31 Testimonianza dell’autore. Su questa pratica, cfr. A. SCHIMMEL, And<br />

Muham mad Is His Messenger: The Veneration of the Prophet in Islamic Piety,<br />

Chapel Hill and London 1985, 42.<br />

32 WHEELER, cit., 78-79; H. AYDIN, The <strong>Sacre</strong>d Trusts: Pavilion of the <strong>Sacre</strong>d<br />

Relics, Topkapi Palace Museum, Istanbul, New Jersey 2010.<br />

33 J. BURTON-PAGE, Ḳadam Sharīf (Ḳadam Rasūl Allāh). In<strong>di</strong>a and Pakistan,<br />

Encyclopae<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion, 4:367; P. HASAN, The Footprint of the<br />

Prophet, Muqarnas 14 (1993) 335-343; A. WELCH, The Shrine of the Holy<br />

Footprint in Delhi, Muqarnas 14 (1997) 166-178.<br />

34 WHEELER, cit., 79-80.<br />

87


88<br />

Luca Patrizi<br />

ni. Esse sono <strong>di</strong>ffuse soprattutto nel contesto geografico <strong>di</strong> influenza<br />

sciita. Una <strong>di</strong> queste <strong>impronte</strong> è a Nisibis, una delle più antiche città assire<br />

al confine tra Turchia e Siria, nell’oratorio <strong>di</strong> Bab al-Rūm 35 , e un’altra<br />

a Qarqisiyya, vicino a Busayrah, sull’Eufrate, in Siria 36 . Nel museo <strong>di</strong><br />

Baghdad è conservata l’impronta della mano <strong>di</strong> ‘Alī che era incastonata<br />

nell’antico mirhab della moschea <strong>di</strong> Mosul 37 . Sempre a Baghdad, nella<br />

zona <strong>di</strong> un antico mercato, il Sūq al-Mirjāniyya, troviamo un’altra impronta<br />

delle <strong>di</strong>ta della mano <strong>di</strong> ‘Alī 38 . Questo elenco <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> in ambito<br />

islamico non è esaustivo, ed è limitato soltanto ad alcune tra le più<br />

rappresentative.<br />

Per trarre delle prime conclusioni a proposito del valore delle <strong>impronte</strong><br />

dei profeti nell’Islām si può affermare che, in maniera non <strong>di</strong>ssimile<br />

da quel che si potrebbe <strong>di</strong>re per altre tra<strong>di</strong>zioni religiose, esse rappresentino<br />

principalmente la riproduzione e la riattualizzazione <strong>di</strong> un<br />

mito cosmogonico, come abbiamo visto nella leggenda <strong>di</strong> Adamo in Sri<br />

Lanka e <strong>di</strong> Abramo e <strong>di</strong> Muḥammad alla Mecca. La conservazione<br />

delle <strong>impronte</strong>, così come la riproduzione <strong>di</strong> copie delle stesse o <strong>di</strong> modelli<br />

che si richiamano ad esse, è strettamente legata nell’Islām alla fondazione<br />

della civiltà: infatti non è raro trovare menzione <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici costruiti<br />

a partire da queste <strong>impronte</strong> o <strong>di</strong> governanti che si procurano a<br />

caro prezzo <strong>impronte</strong> da inserire nella fondazione <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici importanti<br />

al fine <strong>di</strong> legittimare il loro potere 39 . Possiamo dunque affermare che la<br />

<strong>di</strong>ffusione delle <strong>impronte</strong> del Profeta, così come delle reliquie, come vedremo,<br />

va <strong>di</strong> pari passo con la <strong>di</strong>ffusione della civiltà islamica. In secondo<br />

luogo le <strong>impronte</strong> rappresentano nel loro senso più elevato l’impressione<br />

sulla pietra, dunque su questa realtà, della traccia proveniente<br />

dalla realtà sottile, l’immagine provocata da una rottura <strong>di</strong> livello, e<br />

la formazione <strong>di</strong> un passaggio tra la terra e il cielo, sia nel caso in cui<br />

essa è prodotta in seguito ad una <strong>di</strong>scesa che ad un’ascensione celeste.<br />

In questa categoria rientrano le <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> ascensione dei profeti e le<br />

<strong>impronte</strong> lasciate da angeli e cavalcature celesti. Esaminando il caso<br />

dell’impronta attribuita al profeta Muḥammad sulla Roccia a Gerusalemme<br />

in occasione del mi‘rāj, l’Ascensione Celeste, possiamo notare<br />

35 AL-HARAWĪ, cit., 146.<br />

36 Ivi, 148.<br />

37 Ivi, 155.<br />

38 Ivi, 172.<br />

39 WHEELER, cit., 71-98.


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

che essa ha un antecedente importante: nella Cappella dell’Ascensione,<br />

sempre a Gerusalemme, il Cristianesimo venera l’impronta del piede <strong>di</strong><br />

Gesù, impressa su una roccia in occasione della sua ascensione in cielo.<br />

È interessante notare che assieme all’impronta del Profeta i musulmani<br />

venerano altre due <strong>impronte</strong> nell’area della Roccia: l’impronta della<br />

mano dell’angelo Gabriele, prodottasi mentre l’angelo cercava <strong>di</strong> bloccare<br />

a terra la Roccia che si stava alzando assieme al Profeta durante<br />

l’Ascensione, e la traccia lasciata dallo zoccolo del Burāq, la cavalcatura<br />

celeste che conduce a gran velocità il Profeta da Mecca a Gerusalemme,<br />

prima dell’Ascensione 40 .<br />

Inoltre, le <strong>impronte</strong> simboleggiano il cammino religioso e spirituale:<br />

se nel Buddhismo l’iconografia del Buddha che cammina e lascia<br />

un’impronta rappresenta il dharma, e i maestri talvolta lasciano in ere<strong>di</strong>tà<br />

ai loro <strong>di</strong>scepoli delle <strong>impronte</strong> dei loro pie<strong>di</strong> dopo la loro morte 41 ,<br />

anche nell’Islām le <strong>impronte</strong> rappresentano il cammino religioso, e l’azione<br />

del seguire l’esempio profetico e l’esempio dei santi, come abbiamo<br />

visto in occasione dell’interpretazione del significato del Maqām<br />

Ibrāhīm da parte <strong>di</strong> Ibn al-Jawzī 42 . La venerazione dei sandali del Profeta,<br />

<strong>di</strong>ffusa ad ogni latitu<strong>di</strong>ne nelle terre islamiche, può essere ricondotta<br />

a queste stesse motivazioni simboliche 43 .<br />

40 NECIPOGLU, cit., 58, 63. Un’altra impronta della mano dell’angelo Gabriele<br />

si trova nella grotta detta attualmente Qubbat al-arba‘īn sul Monte Qāsiyūn a<br />

Damasco, luogo sacro molto antico e venerato, dove, tra l’altro, si sarebbe consumato<br />

secondo la leggenda l’omici<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Caino da parte <strong>di</strong> Abele, cfr. N.<br />

ELLISSÉEFF, Ḳāsiyūn, Encyclopae<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion, 4:724, e W. BORK-<br />

QAYSIEH, Die Geschichte von Kain und Abel (Hābīl wa Qābīl) in der sunnitischislamischen<br />

Überlieferung, Berlino 1993, 86-130. A Buṣrā, in Siria, nella moschea<br />

detta al-Mabrak, si trova invece un’impronta sulla roccia prodotta dalle ginocchia<br />

della cammella del profeta Muḥammad, cfr. IBN BAṬṬŪṬA, cit., 127. Un’altra<br />

versione riporta che la cammella trasportava un esemplare del Corano: in<br />

entrambi i casi è la ‘pesantezza’ della Parola <strong>di</strong> Dio a imprimere la roccia. Questa<br />

caratteristica è evidente anche in altri resoconti, secondo i quali la <strong>di</strong>scesa della<br />

Parola <strong>di</strong> Dio causava l’aumento temporaneo del peso del Profeta, cfr. GRIL, cit.,<br />

42. 41 BAKKER, cit., 26-27. Nello Hindūismo, il rispetto per il maestro si esprime<br />

con lo stare «ai suoi pie<strong>di</strong>», talvolta toccandoli o baciandoli, cfr. J. STRONG, Relics<br />

of the Buddha, Princeton 2004, 85. La stessa cosa si può attestare nell’ambito del<br />

rapporto maestro-<strong>di</strong>scepolo nel Sufismo.<br />

42 Supra, 85.<br />

43 SCHIMMEL, cit., 40-42.<br />

89


90<br />

Luca Patrizi<br />

Infine, possiamo considerare questo genere <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> una particolare<br />

forma <strong>di</strong> aniconismo, dal momento che esse rappresentano il negativo<br />

<strong>di</strong> una figura piena. L’impronta del Buddha, ad esempio, è il primo<br />

motivo iconografico storico del Buddhismo, e nella sua fase aniconica,<br />

che secondo alcuni specialisti dura dall’inizio fino al 2° secolo a.C., è<br />

anche l’unico motivo iconografico utilizzato per descrivere il Buddha<br />

stesso, tanto da assurgerne a simbolo, come il pesce per il Cristo nel<br />

Cristianesimo aniconico delle origini 44 . Essendo l’Islām orientato all’aniconismo<br />

assoluto, così come l’Ebraismo, questa è una modalità <strong>di</strong><br />

rappresentazione che gli è certo congeniale.<br />

Sulla venerazione delle <strong>impronte</strong>, così come sulla venerazione delle<br />

reliquie più in generale, si sono originate molte polemiche in seno all’Islām,<br />

dal momento che, come abbiamo visto, esistono solo due <strong>oggetti</strong> la<br />

cui venerazione non può essere contestata in quanto legata ad un testo<br />

fondatore: il Maqām Ibrāhīm, e la Pietra Nera, venerata dal Profeta in<br />

vita, e legittimata da alcune tra<strong>di</strong>zioni profetiche. Per quel che concerne<br />

invece la venerazione delle altre <strong>impronte</strong>, non vi è unanimità tra gli<br />

‘ulamā’. Ibn Taymiyya, celebre ‘ālim morto a Damasco nel 1328, con<strong>di</strong>videva<br />

la stessa visione <strong>di</strong> Lutero nei confronti del culto delle reliquie, e<br />

secondo la sua opinione l’impronta lasciata dal Profeta sulla Roccia <strong>di</strong><br />

Gerusalemme sarebbe un falso 45 . Egli giunse fino a tentare <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere<br />

una <strong>di</strong> queste <strong>impronte</strong> a Damasco, e fu costretto a fuggire dalla folla<br />

inferocita, decisa a ven<strong>di</strong>care il suo tentativo ai loro occhi sacrilego 46 .<br />

In relazione all’aniconismo islamico è interessante soffermarsi brevemente<br />

sulla questione dei ritratti dei profeti nell’Islām. In ambito<br />

islamico ogni forma <strong>di</strong> riproduzione della Divinità, dei profeti, <strong>degli</strong><br />

uomini, e in generale <strong>di</strong> ogni cosa vivente è proscritta, mentre è lecito il<br />

ricorrere a motivi provenienti dalla natura o a motivi geometrici 47 .<br />

44 A. K. COOMARASWAMY, The Origin of the Buddha Image, Art Bulletin 9:4<br />

(1927) 287; per un’opinione più sfumata nei riguar<strong>di</strong> della teoria dell’aniconismo<br />

buddhista, cfr. S. L. HUNTINGTON, Early Buddhist Art and the Theory of<br />

Aniconism, Art Journal 49/4, (1990) 401-408.<br />

45 C. D. MATTHEWS, A Muslim Iconoclast (Ibn Taymīyyeh) on the ‘Merits’ of<br />

Jerusalem and Palestine, Journal of the American Oriental Society 56/1 (1936), 5.<br />

46 M. U. MEMON, Ibn Taymiyya’s Struggle against Popular Religion, The<br />

Hague 1976, 362 n. 301.<br />

47 A. J. WENSINCK, Ṣūra, Encyclopae<strong>di</strong>a of Islam Second E<strong>di</strong>tion, 9:925.<br />

Queste prescrizioni sono state seguite solo parzialmente in area persiana e turca,<br />

dove si è assistito ad uno sviluppo <strong>di</strong> un’arte figurativa incentrata anche su motivi


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

Il giorno della conquista della Mecca il profeta Muḥammad or<strong>di</strong>nò che<br />

gli idoli del culto preislamico che si trovavano all’esterno e all’interno<br />

della Ka‘ba venissero <strong>di</strong>strutti. Secondo le fonti islamiche, inoltre, all’interno<br />

della Ka‘ba erano conservate rappresentazioni <strong>di</strong> angeli e profeti,<br />

tra le quali è ricordata l’immagine <strong>di</strong> Abramo che tiene in mano<br />

delle frecce <strong>di</strong> <strong>di</strong>vinazione, ma soprattutto un’immagine <strong>di</strong> Gesù con la<br />

madre, che fu l’unica a non essere cancellata, secondo l’or<strong>di</strong>ne del Profeta<br />

48 . Si possono segnalare inoltre alcune interessanti tra<strong>di</strong>zioni islamiche,<br />

ma anche ebraiche, in relazione ai ritratti dei profeti, secondo le<br />

quali Dio mostrò ad Adamo l’immagine <strong>di</strong> tutti i profeti fino alla fine<br />

del mondo, egli compreso. Secondo altre tra<strong>di</strong>zioni Dio fece scendere<br />

sulla terra un tābūt, una scatola <strong>di</strong> legno raro intarsiata d’oro, munita<br />

<strong>di</strong> cassetti: Abramo la aprì, e vi trovò i ritratti <strong>di</strong> tutti i profeti, che <strong>di</strong>scendevano<br />

da Adamo, e i ritratti <strong>di</strong> tutti i faraoni e i governanti temporali,<br />

che <strong>di</strong>scendevano da Caino. Un’altra tra<strong>di</strong>zione narra che nel<br />

corso della famosa ambasciata inviata dal Profeta Muḥammad per invitare<br />

l’imperatore bizantino Eraclio all’Islām tramite una missiva,<br />

l’imperatore mostrò ai componenti meccani della delegazione una scatola<br />

con numerosi cassetti, dai quali estrasse i ritratti <strong>di</strong> tutti i profeti<br />

da Adamo fino a Muḥammad. Quando gli fu domandato in che modo<br />

fosse venuto in possesso <strong>di</strong> quell’oggetto, Eraclio rispose che esso era<br />

<strong>di</strong>sceso sulla terra per Adamo, e in seguito era stato ritrovato da Alessandro<br />

Magno assieme al leggendario Tesoro <strong>di</strong> Adamo, per passare in<br />

seguito <strong>di</strong> mano in mano fino a lui. Altre versioni simili <strong>di</strong> questi racconti<br />

si ritrovano in altre tra<strong>di</strong>zioni islamiche, mentre in due <strong>di</strong>fferenti<br />

cronache cinesi risalenti al 15° secolo è riportata la seguente storia,<br />

comune anche ad altre tra<strong>di</strong>zioni islamiche: un imperatore cinese<br />

contemporaneo <strong>di</strong> Muḥammad invitò il profeta in Cina; egli inviò in<br />

sua vece una sua immagine, che aveva la caratteristica <strong>di</strong> scomparire<br />

dopo un certo tempo, per evitare che in seguito essa potesse <strong>di</strong>ventare<br />

og getto <strong>di</strong> venerazione. Infatti, nel momento in cui l’imperatore Hi uan-<br />

Tsong si convertì e cominciò ad adorare il ritratto, esso scomparve 49 .<br />

sacri, che giunge fino a riprodurre le fattezze del profeta Muḥammad, cfr. P.<br />

SOUCEK, The Theory and Practice of Portraiture in the Persian Tra<strong>di</strong>tion, Mu qar -<br />

nas 17 (2000), 97-108.<br />

48<br />

WENSINCK, cit., 9:925; G. R. D. KING, The Paintings of the Pre-Islamic<br />

Ka‘ba, Muqarnas 21 (2004), 219-229.<br />

49 O. GRABAR, The Story of Portraits of the Prophet Muhammad, <strong>Stu<strong>di</strong></strong>a Isla -<br />

mi ca 96 (2003), 19-38.<br />

91


92<br />

Luca Patrizi<br />

Nell’Islām la scrittura prende il posto dell’iconografia, e dal momento<br />

che il Corano è Verbo <strong>di</strong> Dio fatto libro, la scrittura coranica prende il<br />

posto che nel Cristianesimo hanno l’Icona, soprattutto, e poi l'immagine<br />

del Cristo in genere. Al posto delle immagini, inoltre, vi è il ricorso<br />

alla descrizione fisica del profeta Muḥammad tratta da resoconti dei<br />

suoi compagni, che ha preso la forma canonica della cosiddetta Ḥilya,<br />

«Ornamento», una descrizione redatta con una cura particolare per la<br />

calligrafia, <strong>di</strong>ffusa soprattutto durante il periodo ottomano 50 . Per<br />

quanto riguarda le reliquie profetiche, anche se a prima vista sembrerebbe<br />

non trattarsi esattamente <strong>di</strong> acheropiti, esse sono venerate in<br />

realtà per la relazione che intrattengono con il soprannaturale. Infatti<br />

la dottrina islamica, a fianco <strong>di</strong> posizioni tendenti a privilegiare l’umanità<br />

del Profeta, propone anche posizioni che evidenziano il suo statuto<br />

particolare rispetto alle altre creature, sviluppate soprattutto nell’ambito<br />

delle dottrine legate al Sufismo. Secondo queste dottrine, oltre ad<br />

essere il Sigillo dei Profeti, ed oltre ad essere la prima creatura ad essere<br />

stata esistenziata, creatura dalla quale tutte le altre creature traggono la<br />

loro origine, essendo il suo corpo luogo della Teofania <strong>di</strong>vina, egli<br />

arriva quasi ad identificarsi con il Corano. Nelle dottrine più eso -<br />

teriche, poi, la sua natura interiore è identica alla Luce Divina, deno -<br />

minata al-nūr al-Muḥamma<strong>di</strong>yya, la «luce Muḥamma<strong>di</strong>ca» o al-ḥaqiqa<br />

al-Muḥamma<strong>di</strong>yya, la «realtà Mu ḥam ma<strong>di</strong>ca» 51 . Il suo corpo ha dunque<br />

uno statuto speciale: i compagni del Profeta, soprattutto in occasione<br />

della fine del pellegrinaggio, quando il rito impone la rasatura,<br />

conservarono i suoi capelli e i peli della sua barba, il suo sangue, la sua<br />

saliva, e anche gli <strong>oggetti</strong> che entravano in contatto con il suo corpo,<br />

come l’acqua delle abluzioni 52 . Inoltre sono stati conservati i capi <strong>di</strong> vestiario<br />

che gli appartenevano, le sue scarpe, e le sue spade. Alcuni compagni,<br />

come ad esempio il califfo Omayyade Mu‘āwīya I (m. 680), dopo<br />

aver raccolto e conservato queste reliquie, alla morte si facevano seppellire<br />

assieme ad esse, con dei capelli del Profeta sugli occhi, sulla bocca<br />

o sopra o sotto la lingua. Gran<strong>di</strong> guerrieri come Khālid Ibn al-Walīd<br />

(m. 642) si lanciavano in battaglia con delle reliquie del Profeta racchiuse<br />

in piccole urne attaccate a delle collane. I compagni hanno <strong>di</strong>ffu-<br />

50 SCHIMMEL, cit., 36-39.<br />

51 Ivi, 123-143.<br />

52 Cfr. D. GRIL, Le corps du Prophète, Revue des mondes musulmans et de la<br />

Mé<strong>di</strong>terranée 113-114 (2006) 37-57.


Impronte, ritratti e reliquie <strong>di</strong> profeti nell’Islām<br />

so le reliquie del Profeta in tutto il nascente impero islamico, ed esse sono<br />

state spesso utilizzate, come nel caso delle <strong>impronte</strong>, nella fondazione<br />

<strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici sacri e <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici pubblici, poste alle fondamenta 53 . Alcune<br />

reliquie si sono trasmesse <strong>di</strong> generazione in generazione, e come nel caso<br />

delle reliquie buddhiste e cristiane, si sono talvolta moltiplicate in<br />

maniera incontrollata. Gli esemplari più antichi e importanti sono conservati<br />

soprattutto nel museo del Palazzo Topkapi <strong>di</strong> Istanbul e nella<br />

moschea <strong>di</strong> al-Ḥusayn al Cairo 54 . Una <strong>di</strong> queste reliquie rientra tuttavia<br />

pienamente nella categoria <strong>degli</strong> acheropiti, almeno grazie alla sua leggenda:<br />

infatti la spada del Profeta ere<strong>di</strong>tata da suo padre ‘Abd Allāh<br />

denominata al-Ma’thūr e conservata ancora attualmente al Topkapi, risulta<br />

essere stata forgiata dai jinn, esseri che sfuggono alla percezione,<br />

assimilabili ai geni e ai demoni della tra<strong>di</strong>zione greco-romana. Per curiosità,<br />

si ritiene che un’altra delle spade possedute dal Profeta e oggi<br />

presenti al Topkapi sia una delle tre spade <strong>di</strong> origine antichissima che<br />

furono sottratte alle tribù israelite sconfitte, ed è quella che la tra<strong>di</strong>zione<br />

islamica afferma essere la stessa con cui il Cristo della seconda venuta<br />

sconfiggerà l’Anticristo 55 .<br />

Le reliquie <strong>di</strong> Muḥammad acquistano dunque la loro sacralità in relazione<br />

alla natura interiore del Profeta, soprattutto grazie al suo legame<br />

intimo con il Corano, l’acheropito per eccellenza nell’Islām: secondo<br />

la dottrina islamica infatti il Corano è ‘non-creato’, non soltanto<br />

nella sua essenza, ma anche nella sua forma materiale 56 . Discendendo<br />

nel Profeta, il Corano penetra dunque la sua natura interiore fino ad<br />

identificarsi con essa: è celebre il detto <strong>di</strong> ‘Ā’isha, una delle sue mogli,<br />

53<br />

WHEELER, cit., 81-98. Un analogo utilizzo delle reliquie nella costruzione<br />

<strong>degli</strong> e<strong>di</strong>fici sacri si può osservare nel caso dello Hindūismo e del Buddhismo, cfr.<br />

M. BÉNISTI, Étude sur le stūpa dans l’Inde ancienne, Bulletin de l’Ecole française<br />

d’Extrême-Orient 50/1 (1960) 37-116.<br />

54<br />

WHEELER, cit., 81-98.<br />

55 Ivi, 29-46.<br />

56 In conseguenza <strong>di</strong> ciò, come per la Torah in ebraico, un’attenzione rituale è<br />

applicata alla manipolazione <strong>degli</strong> esemplari cartacei del Corano, e colui che<br />

intende toccarne il testo deve trovarsi in stato <strong>di</strong> purità rituale in seguito ad abluzione.<br />

Attorno alla natura creata o increata del Corano si è prodotta in Islām un<br />

confronto teologico molto acuto, sfociato nell’Inquisizione (mihna) mu‘tazilita del<br />

califfo al-Ma’mūn (m. 833). L’analogia con le controversie teologiche in merito<br />

alla natura del Cristo nel Cristianesimo dei primi concili meriterebbero <strong>di</strong> essere<br />

approfon<strong>di</strong>te.<br />

93


94<br />

Luca Patrizi<br />

che interrogata a proposito del carattere del Profeta rispose: «Il suo carattere<br />

era il Corano» 57 .<br />

Anche per quel che concerne le reliquie, si può affermare che la loro<br />

<strong>di</strong>ffusione procede <strong>di</strong> pari passo con la <strong>di</strong>ffusione storica e geografica<br />

della civiltà islamica, ed esse rivestono quin<strong>di</strong> una funzione civilizzatrice<br />

e <strong>di</strong> legittimazione del potere temporale. La collezione <strong>di</strong> reliquie sacre<br />

custo<strong>di</strong>ta al Topkapi, ad esempio, ha certamente contribuito a legittimare<br />

il dominio ottomano su una parte del mondo arabo, allo stesso<br />

modo in cui l’In<strong>di</strong>a Moghul trasse la legittimazione del suo potere temporale<br />

dalle reliquie sottratte a Samarcanda, delle quali si era a sua volta<br />

impossessato Tamerlano durante la conquista del Me<strong>di</strong>o Oriente.<br />

Questo processo non è certo nuovo: anche nell’Egitto tolemaico i governanti<br />

ellenici riuscirono a imporre la loro autorità rispetto alle popolazioni<br />

locali grazie ad un pellegrinaggio compiuto verso tutte le<br />

città che conservavano interrate le <strong>di</strong>verse parti del corpo <strong>di</strong> Osiride 58 .<br />

In conclusione, possiamo affermare che i dati esposti nel corso <strong>di</strong> questa<br />

<strong>di</strong>ssertazione mostrino fino a che punto l’Islām s’iscriva nel solco<br />

simbolico, storico e sociale delle dottrine e delle religioni orientali che<br />

l’hanno preceduta, ere<strong>di</strong>tandone e rinnovandone le principali caratteristiche.<br />

57 «kāna khuluquhu al-Qur’ān», IBN ḤANBAL, Musnad, 25341, 25855; MUSLIM,<br />

Ṣaḥīḥ, 6:18 n. 746.<br />

58 WHEELER, cit., 91.


OGGETTI ‘CADUTI DAL CIELO’ NEL MONDO ANTICO:<br />

VALENZE RELIGIOSE E POLITICHE<br />

LELLIA CRACCO RUGGINI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> –<br />

Accademia Nazionale dei Lincei, Roma<br />

Secondo Schopenhauer materia della storia sarebbe il fatto particolare<br />

nella sua contingenza, cioè soltanto ciò che esiste <strong>di</strong> volta in volta.<br />

E in questa prospettiva la materia storica non gli appariva un oggetto<br />

degno <strong>di</strong> esame laborioso da parte dello spirito umano, che dovrebbe<br />

sempre scegliere l’infinito 1 (o quanto meno – come già scriveva Seneca<br />

nel I secolo d.C. – «ricercare ciò che si deve fare, piuttosto che quello è<br />

stato fatto» 2 ). Oggi, a circa un secolo e mezzo <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza da Schopenhauer,<br />

il modo <strong>di</strong> guardare alla storia è ra<strong>di</strong>calmente mutato; e anche<br />

questo Convegno parte dal presente (in parallelo con l’ostensione<br />

della Sindone a <strong>Torino</strong> dal 10 al 23 maggio 2010), indagando il fenomeno<br />

della devozione per le ‘<strong>Sacre</strong> Impronte’ nelle varie religioni (secondo<br />

formulazioni che variano molto a seconda del contesto culturale), ma<br />

evitando sempre – deliberatamente – qualsivoglia <strong>di</strong>battito sulla loro<br />

autenticità, aspetto del tutto estraneo sia all’indagine storico-<strong>di</strong>acronica<br />

(<strong>degli</strong> storici, <strong>degli</strong> storici delle religioni, <strong>degli</strong> storici dell’arte), sia<br />

all’apporto <strong>degli</strong> antropologi, dei filosofi, dei teorici della comunicazione<br />

visiva e così via.<br />

Io, qui, mi occuperò brevemente soltanto della preistoria del fenomeno,<br />

ossia <strong>degli</strong> ‘<strong>oggetti</strong> caduti dal cielo’ nell’antichità; e soltanto per<br />

sottolineare, attraverso alcuni esempî, il mutamento epocale che andò<br />

maturando anche in questo ámbito nel lento passaggio al me<strong>di</strong>oevo, in<br />

parallelo con l’affermarsi, sul tramonto del mondo pagano, del cristianesimo.<br />

1 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, II (Supplementi<br />

al III libro), cap. 38 (Sulla storia), trad. ital., Bari 1930, 537-546 (da Die<br />

Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig 1844 2 , la prima e<strong>di</strong>z. ted. ad avere i Supplementi).<br />

2 LUCIUS ANNAEUS SENECA, Naturales Quaestiones, III, Praef., 7: “Quanto satius<br />

est quid faciendum sit quam quid factum quaerere”.<br />

95


96<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

Durante l’età romana e bizantina – <strong>di</strong> cui mi occuperò principalmente<br />

in questa sede – tali <strong>oggetti</strong> furono presi in alta considerazione<br />

come talismani (assieme ad altri pignora imperii che dal cielo non erano<br />

caduti affatto 3 ), atti a garantire la sopravvivenza <strong>di</strong> un’entità statale che<br />

fin dalle origini si era profilata come unitaria, anche se non ancora<br />

‘mon<strong>di</strong>ale’ come sarebbe avvenuto in seguito. E il fatto <strong>di</strong> essere ‘<strong>oggetti</strong><br />

caduti dal cielo’ si spiega semplicemente con la loro antichità, che<br />

aveva fatto smarrire la nozione della loro origine storica: tali furono, in<br />

particolare, le caratteristiche sia dell’ancile (scudo) al tempo leggendario<br />

<strong>di</strong> Numa, sia del Palla<strong>di</strong>o o simulacro arcaico <strong>di</strong> Pallade Atena<br />

(quanto meno nella sua interpretazione romana). Si tratta dei due casi<br />

senz’altro più celebri e a noi meglio testimoniati in numerose varianti.<br />

Un aspetto comune a entrambi (e che sembra trovare pochi riscontri<br />

in altre religioni al <strong>di</strong> fuori del paganesimo e del cristianesimo, per ragioni<br />

<strong>di</strong>verse ma comprensibili) fu l’esistenza <strong>di</strong> numerose copie identiche,<br />

onde evitare sottrazioni sacrileghe, consentendo nel contempo <strong>di</strong><br />

poter sempre mettere in dubbio eventuali traslazioni <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> che si legavano<br />

alla sopravvivenza stessa dell’imperium e proprio per questo<br />

considerati segni del consenso <strong>di</strong>vino 4 .<br />

Nel cristianesimo, così come presso altre religioni, le ‘<strong>Sacre</strong> Impronte’<br />

rivestirono significati e finalità <strong>di</strong>fferenti: teologici innanzi tutto<br />

(con formulazioni <strong>di</strong>verse a seconda dei contesti), che la pubblica autorità<br />

concorse tutt’al più a garantire, pur non avendo partecipato alla loro<br />

‘invenzione’ (inventio). E questo era evidentemente frutto <strong>di</strong> situazio-<br />

3 Sette, enumerati anche dal SERVIUS AUCTUS (o DANIELINUS), Ad Vergilii Aeneidem,<br />

VII,18, in G. THILO - H. HAGEN (edd.), Servii grammatici qui feruntur in<br />

Vergilii Carmina Commentarii, Leipzig 1884 (rist. anast. Hildesheim 1961), II,<br />

141; A. PELLIZZARI, Servio. Storia, cultura e istituzioni nell’opera <strong>di</strong> un grammatico<br />

tardoantico, Firenze 2003, 51-52, n. 90: Ҡaius matris deum, quadriga fictilis<br />

Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, velum Ilionae, palla<strong>di</strong>um, ancilia”;<br />

sul Servio Danielino più in generale vd. ibid., 12-15, con bibliografia.<br />

4 Per il paganesimo vd. oltre (esistettero ovviamente anche altri <strong>oggetti</strong> creduti<br />

‘caduti dal cielo’ per via dello loro alta antichità: tale venne ritenuto ad esempio il<br />

simulacro <strong>di</strong> Artemide a Efeso, il cui culto, assimilato con quello della Gran Madre,<br />

risaliva almeno all’VIII secolo a.C., allorché venne eretto il primo tempio – al<br />

suo carattere «celeste» accennano Acta Apostolorum 19,35 –; ma esso ebbe un valore<br />

soprattutto religioso e regionale). Per il cristianesimo si conoscono due copie<br />

del man<strong>di</strong>lion <strong>di</strong> Edessa nel IX secolo, sempre in Oriente: vd. B. FLUSIN, L’image<br />

d’Édesse, Romain et Constantin, in questa stessa sede.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

ni capovolte rispetto alla precedente fase romana (meno, forse, rispetto<br />

al periodo greco arcaico, per quanto è dato saperne; e pour cause), allorché<br />

per la prima volta si era verificata la convergenza tra portentum<br />

(evento <strong>di</strong> per sé religioso) e vocazione politica ‘ecumenica’. Le entità<br />

statali in cui il fenomeno religioso in seguito si inscrisse furono invece<br />

sempre meno forti e unitarie delle Chiese che via via se ne eressero a custo<strong>di</strong>.<br />

Caso mai – ma non è certo mio compito occuparmene qui – sarebbe<br />

interessante investigare le ragioni a monte del comparire, persistere<br />

ovvero scomparire <strong>di</strong> queste devozioni in determinati perio<strong>di</strong> storici<br />

e non in altri: è per esempio significativa, nel cristianesimo, la comparsa<br />

d’immagini ‘acheropite’ non solo in contesti iconoduli, ma anche<br />

per un rilancio del culto <strong>di</strong> Cristo attraverso man<strong>di</strong>lia, Veroniche, Sindoni,<br />

a fronte <strong>di</strong> una devozione mariana sempre più forte.<br />

Ma torniamo all’ancile e al Palla<strong>di</strong>o, ossia ai due pignora imperii<br />

che, in età pagana antica e tardoantica, ebbero entrambi valenze in sostanza<br />

politiche, ma fortune in parte <strong>di</strong>verse sul finire della loro vicenda<br />

fra IV e VI secolo, per la natura stessa dei messaggi <strong>di</strong> cui entrambi gli<br />

<strong>oggetti</strong> erano portatori.<br />

Lo scudo ebbe infatti una sopravvivenza ‘popolare’ e folklorica <strong>di</strong><br />

lunga durata, specialmente in quanto connesso con festività della cui<br />

origine si era ormai persa la nozione, ma che rimasero a lungo un punto<br />

<strong>di</strong> riferimento importante nel calendario romano. Dell’ancile e delle<br />

sue vicende un funzionario palatino come Giovanni Lido, nell’Oriente<br />

greco dell’età giustinianea (VI secolo d.C.) – o la fonte antiquaria che<br />

certo gli sottostava – poteva ormai dare una spiegazione in parte opposta<br />

a quella tra<strong>di</strong>zionale: liberamente fantasiosa, ma certo più adatta<br />

alla mentalità prevalente nei nuovi tempi cristiani, come si vedrà meglio<br />

in seguito.<br />

Il secondo oggetto – il Palla<strong>di</strong>o – conobbe invece una fortuna legata<br />

soprattutto all’idea <strong>di</strong> sopravvivenza dell’imperium ecumenico <strong>di</strong> Roma;<br />

e quin<strong>di</strong> tramontò in Occidente con la conquista visigota dell’Urbe<br />

nel 410 5 , lasciando <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> sé imbarazzo e reticenze non casuali presso<br />

gli stessi Romani ormai fatti cristiani; mentre in Oriente tale fortuna si<br />

protrasse a lungo sul piano eru<strong>di</strong>to e antiquario grazie a un’idea <strong>di</strong><br />

translatio imperii il cui primo atto risaliva allo stesso fondatore ‘cristia-<br />

5 Vd. da ultimo L. CRACCO RUGGINI, I barbari e l’impero prima e dopo il 410,<br />

in Ambrogio e i Barbari (Accademia Ambrosiana - Classe <strong>di</strong> <strong>Stu<strong>di</strong></strong> Ambrosiani.<br />

Dies Academicus 2010, Milano, 26-27 aprile 2010), 21-28, in corso <strong>di</strong> stampa.<br />

97


98<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

no’ <strong>di</strong> Costantinopoli, Costantino il Grande. Per quanto si riferisce ai<br />

pontifices in quanto custo<strong>di</strong> del Palla<strong>di</strong>o, il pontificato massimo imperiale,<br />

benché ormai cristianizzato, si conservò per salvaguardare certe<br />

funzioni pubbliche ancora attive e connesse con l’istituzione<br />

pontificale 6 ; ma esse risultano del tutto assenti dalla tra<strong>di</strong>zione antica<br />

<strong>degli</strong> ‘<strong>oggetti</strong> caduti dal cielo’.<br />

Incominciamo dunque dall’ancile 7 . Ne parlano <strong>di</strong>ffusamente soprattutto<br />

i Fasti <strong>di</strong> Ovi<strong>di</strong>o in età augustea 8 e, circa un secolo dopo, Plutarco<br />

nella Vita <strong>di</strong> Numa 9 . Si favoleggiava infatti che questo re – cui si attribuivano<br />

del resto tutte le istituzioni religiose più antiche – durante una<br />

pestilenza che incrudelì in Italia e a Roma stessa nell’ottavo anno del<br />

suo regno si rivolgesse supplice agli dei; e ricevesse dal cielo uno scudo<br />

in bronzo <strong>di</strong> forma particolare, piccolo e oblungo (breve et rotundum,<br />

<strong>di</strong>rà ancora Isidoro <strong>di</strong> Siviglia fra VI e VII secolo, riferendo autori più<br />

antichi) 10 , per confortare i citta<strong>di</strong>ni scoraggiati con questa garanzia <strong>di</strong><br />

protezione <strong>di</strong>vina, accompagnata da un oracolo delle Muse secondo il<br />

quale Roma avrebbe perdurato nella sua grandezza finché l’ancile fos se<br />

rimasto in città (si trattava <strong>di</strong> un’arma <strong>di</strong> sola <strong>di</strong>fesa, si ba<strong>di</strong>, comparsa<br />

sotto il regno <strong>di</strong> un sovrano simbolo <strong>di</strong> pietà e <strong>di</strong> pace). Numa, per -<br />

tanto, ne fece tosto costruire altre un<strong>di</strong>ci copie, onde confondere eventuali<br />

ladri; e per custo<strong>di</strong>re i do<strong>di</strong>ci ancilia creò anche una confraternita<br />

6 L. CRACCO RUGGINI, “Pontifices”: un caso <strong>di</strong> osmosi linguistica, Cristianesimo<br />

nella storia 31 (2009) 363-384 = ora anche in P. BROWN - R. LIZZI (edd.), Pagani<br />

e cristiani in <strong>di</strong>alogo. Tempi e limiti della cristianizzazione dell’impero romano<br />

(IV-V secolo d.C.). Atti del Convegno Internazionale (Bose, 20-22 ottobre 2008),<br />

Berlin 2011, 403-423, in corso <strong>di</strong> stampa.<br />

7 Oltre a PELLIZZARI, Servio cit., 49-60, vd. specialmente P. HABEL, s.v. «Ancile»,<br />

Realencyclopä<strong>di</strong>e der classischen Altertumswissenschaft, I/2, Stuttgart 1894,<br />

2112-2113; Thesaurus linguae Latinae, II, Leipzig 1900-1906, s.v. «Ancile», 26-27;<br />

Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, VIII, Paris 1909, s.v. «Salii»,<br />

1014-1022; G. GIANNELLI, Enciclope<strong>di</strong>a Italiana, III, Roma 1929, s.v. «Ancili»,<br />

148-149, e XXX, Roma 1936, s.v. «Salî», 526-527.<br />

8<br />

OVIDIUS, Fasti, Libro III (marzo), vv. 1-398.<br />

9 13.<br />

10 Forma e <strong>di</strong>mensioni corrispondevano a quelle dello scudo arcaico, arrondato<br />

sopra e sotto e più stretto nel mezzo (amb(i) e caelo: ‘incavato da due parti’):<br />

VARRO, De lingua Latina, VII,43: “ancilia <strong>di</strong>cta ab ambecisu, quod ea arma ab<br />

utraque parte, ut Tracum, incisa”; SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, VIII, 664;<br />

ISIDORUS HISPALENSIS, Etymologiae, XVIII,12.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

<strong>di</strong> do<strong>di</strong>ci patrizî (che non potevano cumulare tale carica con nessun<br />

altro ufficio religioso): il collegio sacerdotale dei Salii Palatini (cui<br />

Tullo Ostilio avrebbe poi aggiunto altri do<strong>di</strong>ci Salii Collini, con sede sul<br />

Quirinale). L’esistenza <strong>di</strong> Salii Palatini e Collini riporta in ogni caso a<br />

un’età molto antica, in cui il sinecismo dei villaggi sui colli <strong>di</strong> Roma<br />

ancora non aveva avuto luogo (già Ovi<strong>di</strong>o, con ragione, pensava che il<br />

culto <strong>di</strong> Marte in varî centri italici riportasse a un’età anteriore alla<br />

fondazione <strong>di</strong> Roma). Sembra esserne conferma anche la raffigurazione<br />

più antica <strong>degli</strong> ancilia – quattro, portati da due Salii che reggevano<br />

le due estremità <strong>di</strong> un bastone – su <strong>di</strong> una gemma etrusca <strong>di</strong> età ar -<br />

caica 11 .<br />

Il nome dei Salii, <strong>di</strong>ce Plutarco con comprensibile sciovinismo filogreco,<br />

derivava da Salius, un uomo <strong>di</strong> Samotracia 12 o <strong>di</strong> Mantinea che<br />

per primo avrebbe insegnato a tali sacerdoti le loro danze (è comunque<br />

chiaro che il termine deriva piuttosto da salire, saltare, ossia ‘danzare’:<br />

a saltando, <strong>di</strong>ce infatti Varrone) 13 . L’artigiano romano che invece, con<br />

11 Sardonica – ora a Firenze – riprodotta in Dictionnaire des antiquités grecques<br />

et romaines cit., VIII, 1020, fig. 6045; esiste poi un timbro in cornalina, meno<br />

arcaico, con scena analoga (ibid. 1020, fig. 6046); per attestazioni <strong>di</strong> ancilia e <strong>di</strong><br />

Salii presso altre popolazioni dell’Italia centrale, vd. per esempio ibid. 1020, figg.<br />

6043-6044 (denarî della gens Procilia e della gens Cornificia a Lanuvio in età repubblicana;<br />

collegi sacerdotali <strong>di</strong> Salii sono noti anche ad Alba, Lavinio, Ariccia,<br />

Anagni, Tuscolo, Tivoli, oltre il Po a Pavia, Brescia, Verona, Padova, Oderzo, ecc.<br />

e fuori d’Italia per esempio a Sagunto durante il dominio romano. A Tibur i Salii<br />

erano il collegio sacerdotale <strong>di</strong> Ercole; ma al principio del secolo V d.C. Macrobio<br />

(Saturnalia, III,12) metteva in bocca a Vettio Agorio Prestato (defunto nel <strong>di</strong>cembre<br />

384: L. CRACCO RUGGINI, Il paganesimo romano tra religione e politica [384-<br />

394 d. C.]: per una reinterpretazione del “Carmen contra paganos”, Memorie dell’Accademia<br />

Nazionale dei Lincei, Classe <strong>di</strong> Scienze Morali, Storiche e Filologiche,<br />

s. VIII 23/1 [1979] 1-144) repliche a Evangelos – che accusava Virgilio <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione<br />

–, asserendo fra l’altro che, un tempo, Marte si era identificato con<br />

Ercole (ibid., § 5). La rappresentazione <strong>di</strong> due ancilia si trova ancora in età imperiale<br />

su <strong>di</strong> un nummo <strong>di</strong> Antonino Pio: Thesaurus linguae Latinae cit. (sopra, nota<br />

7). 12 Non sembra casuale che proprio a Samotracia – oltre che presso gli Etruschi<br />

e altri popoli – avessero luogo danze <strong>di</strong> guerra <strong>di</strong> origine arcaica: GIANNELLI, s.v.<br />

«Salî» cit. (sopra, nota 7).<br />

13 VARRO, De lingua Latina, V,85. Anche Dionigi <strong>di</strong> Alicarnasso (II,70), nell’affermare<br />

che, se avesse dovuto rendere in greco il termine Salii, lo avrebbe tradotto<br />

con Cureti, mostra come in età augustea si sapesse ormai ben poco circa le loro<br />

99


100<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

grande abilità, aveva fabbricato le un<strong>di</strong>ci copie dello scudo piovuto dal<br />

cielo si sarebbe chiamato Mamurio Veturio, e in luogo <strong>di</strong> qualsiasi altro<br />

premio avrebbe chiesto <strong>di</strong> essere ricordato nei carmina dei Salii Palatini,<br />

i sacerdoti <strong>di</strong> Marte Gra<strong>di</strong>vo custo<strong>di</strong> dei do<strong>di</strong>ci ancilia (forse nel sacrarium<br />

<strong>di</strong> Marte nella Regia). E, in effetti, tale nome ricorre più volte nei<br />

canti dei Salii assieme con quello <strong>di</strong> altre <strong>di</strong>vinità 14 . Mamers, però, era<br />

anche la forma osca <strong>di</strong> Mars, Marte; e gli stessi eru<strong>di</strong>ti antichi, pur facendo<br />

assai per tempo oggetto dei loro studî i canti dei Salii (uno dei<br />

più antichi monumenti della loro lingua nazionale), già li comprendevano<br />

soltanto in parte: sicché è ben possibile che quella <strong>di</strong> Mamurio<br />

Veturio sia soltanto un’invenzione dovuta all’incomprensione del testo<br />

originario 15 .<br />

Nel mese <strong>di</strong> marzo i Salii recavano gli scu<strong>di</strong> in processione per la<br />

città 16 , appesi al collo, danzando e cantando i loro carmina e ferman-<br />

origini, e l’unico aspetto sicuro fosse costituito dalle loro danze. Sulle varie eti -<br />

mologie <strong>di</strong> ancilia correnti nel mondo greco del II secolo d.C. vd. ad esempio l’elenco<br />

che ne dà Plutarco, rifacendosi a Giuba II <strong>di</strong> Mauretania (I secolo a.C.) e ad<br />

altre fonti (Numa, 13,9-10): «Quanto agli scu<strong>di</strong> – pevltai –, li chiamano ancilia per<br />

via della loro figura: essa non è un cerchio, né presenta la forma <strong>di</strong> un arco <strong>di</strong> cerchio<br />

come i soliti scu<strong>di</strong>, ma ha un intaglio sinuoso, le cui estremità si piegano all’in<strong>di</strong>etro<br />

e si congiungono fra loro nello spessore dello scudo, rendendo ricurva la<br />

figura – ajgkuvlon to; sch'ma poiou'sin –; oppure a causa del gomito – <strong>di</strong>a; to;n ajgkw'na<br />

– intorno al quale si portano. Queste etimologie le dà Giuba, che tende a con -<br />

siderare greco il nome. Ma esso potrebbe essere derivato anche dall’originaria caduta<br />

dall’alto – dΔ a]n th'" ajnevkaqen fora'" –, o dalla guarigione <strong>degli</strong> appestati –<br />

th'" ajkevsew" tw'n nosouvntwn –, o ancora dall’arresto delle sventure – th'" tw'n<br />

aujcmw'n luvsew" –, come gli Ateniesi chiamano “Anake" i Dioscuri, se proprio si<br />

deve ricondurre il nome alla lingua greca» (trad. <strong>di</strong> Mario Mafre<strong>di</strong>ni, in M. MAN-<br />

FREDINI – L. PICCIRILLI [edd.], Plutarco, Vite <strong>di</strong> Licurgo e <strong>di</strong> Numa, Milano 1980,<br />

119). Sulle fonti <strong>di</strong> Plutarco quivi, vd. spec. PICCIRILLI, Introduzione, ibid. XLII-<br />

XLIV.<br />

14 Agli inizî del V secolo Macrobio (Saturnalia, I,12,12) osservava l’assenza<br />

soltanto <strong>di</strong> Venere fra gli dei menzionati negli antichi carmi dei Salii (ov’erano invece<br />

sicuramente ricordati Marte Gra<strong>di</strong>vo e Quirino, Giano Quirino, Giove Lucezio,<br />

Saturno, Minerva, Giunone, Diana, Libero, Salus, Concor<strong>di</strong>a, Pax, cui in seguito<br />

si affiancarono alcuni <strong>di</strong>vi a incominciare da Augusto e alcuni Principi della<br />

famiglia imperiale).<br />

15 Varrone, per esempio (De lingua Latina, VI,49), interpretava l’espressione<br />

come memoria vetus.<br />

16<br />

POLYBIUS, Historiae, XXI,13. Le feste primaverili si consideravano concluse<br />

il 24 marzo.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

dosi ogni sera in varie stationes per rinfrescarsi, banchettare e riposare<br />

17 . I giorni più importanti, ancora secondo i Fasti <strong>di</strong> Filocalo attorno<br />

alla metà del IV secolo, sembra fossero il 9 marzo (arm[a] ancilia movent)<br />

18 , il 14/15 marzo (Mamuralia) e il 19 marzo (Quinquatria) 19 . Il 19<br />

ottobre, invece, le cerimonie si ripetevano, ma per un giorno soltanto.<br />

Nel tempo restante gli scu<strong>di</strong> venivano conservati sul Palatino; e, secondo<br />

una tra<strong>di</strong>zione ancora menzionata nella prima età imperiale, costituiva<br />

un presagio infausto intraprendere un atto pubblico riguardante<br />

la guerra quando gli ancilia non erano ancora tornati al loro posto 20 .<br />

Talora – in circostanze <strong>di</strong> particolare minaccia – gli scu<strong>di</strong> furono u<strong>di</strong>ti<br />

rumoreggiare e muoversi spontaneamente, quasi fossero impazienti <strong>di</strong><br />

essere rimessi in uso (ad esempio prima della guerra <strong>di</strong> Roma con i<br />

Cimbri): ancora ne fa menzione il De pro<strong>di</strong>giis <strong>di</strong> Giulio Ossequente,<br />

probabilmente nel IV secolo d.C. 21 .<br />

In ogni caso, sono soprattutto due gli aspetti che meritano <strong>di</strong> essere<br />

messi in luce. Uno è ben noto e tuttora <strong>di</strong>scusso, e riguarda il carattere<br />

<strong>di</strong> Marte: precipuamente agricolo, oppure guerriero? Per solito si suole<br />

insistere soprattutto sul secondo aspetto, certo prevalente in età storica;<br />

e si ricorda come le feste dei Salii coincidessero con la stagione <strong>di</strong><br />

17 Oggi non è più possibile identificarle nella maggior parte, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong><br />

quelle <strong>di</strong> altre processioni (ad esempio quella <strong>degli</strong> Argei). È tuttavia certa una<br />

statio presso il ponte Sublicio ligneo, il più antico costruito dai Romani sulla via<br />

che portava al Gianicolo, che allora rappresentava la città ostile (Antipolis); per<br />

l’iscrizione tarda <strong>di</strong> Roma (forse dell’avanzato IV secolo d.C.) menzionante le stationes<br />

<strong>degli</strong> ancilia, vd. oltre, nota 35. IUVENALIS, Saturae, II, v. 126, parla <strong>degli</strong><br />

ancilia come <strong>di</strong> un «sacro peso»; Luciano da parte sua, nonostante la consueta irriverenza<br />

in materia religiosa, arrivò ad affermare che le danze dei Salii erano da<br />

considerare la più santa delle arti perché in onore del Dio guerriero.<br />

18 Corpus inscriptionum Latinarum, I (Fasti <strong>di</strong> Filocalo nel 354 d.C. e Laterculus<br />

<strong>di</strong> Polemio Silvio nel 448/449).<br />

19 I Mamuralia vengono collocati il 14 marzo dal calendario <strong>di</strong> Filocalo (per il<br />

quale vd. sopra, nota 18), e il 15 marzo da Giovanni Lido (III,29 e IV,36, Corpus<br />

Scriptorum Historiae Byzantinae, 44 e 71).<br />

20 SUETONIUS, Otho, 8; TACITUS, Historiae, I,89 ss.<br />

21 Le tavole dei pro<strong>di</strong>gi dal 249 al 12 a.C. (la cui la prima parte – la più antica –<br />

è oggi perduta) si fondano sulla tra<strong>di</strong>zione liviana epitomata e ulteriormente contaminata,<br />

nonché sulle liste consolari; Giulio Ossequente viene per lo più ritenuto<br />

un autore pagano tardo, che giustificò il proprio credo nelle forme dell’antica fede;<br />

ma vi è anche chi lo ha collocato nel II secolo d.C.: The Prosopography of the<br />

Later Roman Empire, I, Cambridge 1971, s.v. «Iulius Obsequens», 636.<br />

101


102<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

apertura e <strong>di</strong> chiusura delle operazioni belliche, quando si purificavano<br />

le armi. Anche le loro danze sacre e altri gesti rituali svolgevano probabilmente<br />

un ruolo <strong>di</strong> propiziazione guerresca, come presso i Feziali 22 .<br />

Sembra tuttavia certo, per quanto ne sappiamo, che mai i Salii furono<br />

portati in battaglia dagli eserciti; che, secondo Catone il Vecchio, Marte-Silvano<br />

veniva invocato soprattutto per tenere lontani dalle fattorie<br />

il cattivo tempo, le malattie e altre calamità; e che proprio per questo<br />

tale <strong>di</strong>vinità fu la prima ad essere portata in processione attraverso i<br />

campi. Vi è quin<strong>di</strong> chi – come l’antropologo James George Frazer nell’e<strong>di</strong>zione<br />

dei Fasti ovi<strong>di</strong>ani – ha pensato soprattutto a primitive competenze<br />

agricole <strong>di</strong> Marte, in una età in cui coltivare i campi, in Italia,<br />

significava anche <strong>di</strong>fenderli con le armi dalle minacce dei vicini. Ed egli<br />

ha ritenuto che fosse molto vicino al vero William Ramsay nel pensarla<br />

proprio a questo modo. Con il supporto d’esempi moderni <strong>di</strong> varî popoli<br />

primitivi (in regioni dell’Africa, dell’In<strong>di</strong>a, ecc.) 23 , congiunto alle<br />

testimonianze <strong>di</strong> Ovi<strong>di</strong>o e <strong>di</strong> Varrone, Frazer ha pertanto ipotizzato che<br />

le cerimonie dei Salii avessero all’origine un carattere precipuamente<br />

agricolo, che mimava la cacciata dei demonî dell’infertilità e del vecchio<br />

Marte che li personificava, per far posto al Marte del nuovo anno; marzo<br />

e ottobre segnavano infatti anche l’inizio e la fine della stagione agricola.<br />

Propendo io pure, tutto sommato, per questa soluzione.<br />

Il secondo aspetto è invece stato fino ad oggi trascurato, ma nel contesto<br />

attuale mi sembra <strong>di</strong> particolare importanza, e vorrei quin<strong>di</strong> sottolinearlo<br />

in modo speciale: cioè la fortuna che le festività dei Salii tornarono<br />

a godere nel Tardoantico. Proprio le fonti <strong>di</strong> tale epoca, infatti,<br />

vi insistono, con particolari <strong>di</strong> comodo per lo più inventati vuoi per<br />

ignoranza storica vuoi per ragioni ideologiche (fino al IV/V secolo), ma<br />

sulla base <strong>di</strong> date che ancora vengono registrate nei calendarî <strong>di</strong> Filocalo<br />

(345 d.C.) e <strong>di</strong> Polemio Silvio (circa un secolo dopo), in<strong>di</strong>rettamente<br />

mostrando quin<strong>di</strong> come a quest’epoca tali feste avessero ancora un<br />

qualche significato. Un’iscrizione romana del IV secolo d.C. ricorda, da<br />

parte sua, il restauro delle stationes processionali a private spese dei<br />

pontifices Vestae, dopo un lungo periodo <strong>di</strong> trascuratezza 24 .<br />

22 Vd. in generale la bibliografia citata a nota 7.<br />

23 J.G. FRAZER – G.P. GOOD (edd.), Ovi<strong>di</strong>us, Fasti, Cambridge 1939 2 , Appen<strong>di</strong>x,<br />

385-421 e partic. 397-403.<br />

24 Per i calendarî <strong>di</strong> Filocalo e <strong>di</strong> Polemio Silvio vd. sopra, note 18-19 e oltre,<br />

nota 3; per l’iscrizione romana vd. sopra, nota 17, e oltre, nota 35.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

Probabilmente sul finire del IV secolo d.C. la Historia Augusta 25 ricorda<br />

come il giovane e corrotto imperatore Elagabalo, che veniva dalla<br />

Siria, appena entrato in Roma (luglio 219) si sarebbe preoccupato <strong>di</strong><br />

trasferire quivi il culto solare <strong>di</strong> Baal – venerato a Emesa e omonimo<br />

del nuovo imperatore (Helagabal) –, portando nell’Urbe la sua pietra<br />

sacra (un aerolito aniconico o pietra nera caduta dal cielo come quella<br />

della Mecca, già esistente nell’età preislamica politeista, sebbene la<br />

Ka’ba e i pellegrinaggi rituali venissero istituiti soltanto più tar<strong>di</strong>,<br />

quando gli Arabi, con Maometto, si convertirono all’unico Dio) 26 . Elagabalo<br />

costruì per il <strong>di</strong>o siriaco un tempio sul Palatino presso il palazzo<br />

imperiale 27 , con l’intenzione (studens) <strong>di</strong> portare in esso anche il si -<br />

mulacro della Gran Madre Cibele, il fuoco <strong>di</strong> Vesta (presagio funesto<br />

per la città qualora si fosse spento) 28 , il Palla<strong>di</strong>o, gli ancilia 29 e tutti gli<br />

altri <strong>oggetti</strong> sacri ai Romani, «in modo che a Roma fosse venerato soltanto<br />

Elagabalo». Egli aveva pure in animo <strong>di</strong> trasferire nel medesimo<br />

luogo i culti <strong>degli</strong> Ebrei, dei Samaritani e dei Cristiani, affinché «i sacerdoti<br />

<strong>di</strong> Helagabal <strong>di</strong>venissero i depositarî dei misteri <strong>di</strong> ogni altra religione»<br />

30 .<br />

Ciò trova una conferma almeno parziale in Ero<strong>di</strong>ano (molto più vicino<br />

a Elagabalo nel tempo, dal momento che scrisse la sua opera storica<br />

al tempo <strong>di</strong> Filippo l’Arabo, là dove questi afferma che l’imperatore<br />

avrebbe fatto trasferire a palazzo, nella propria camera da letto, il Palla<strong>di</strong>o<br />

o antica statua <strong>di</strong> Pallade, per unirla in ierogamia al <strong>di</strong>o orientale<br />

25 Scriptores Historiae Augustae, Antoninus Helagabalus 3,4 (questo libro è attribuito<br />

a Elio Lampri<strong>di</strong>o e de<strong>di</strong>cato a Costantino il Grande: ma l’opera sembra<br />

essere <strong>di</strong> un solo autore e non anteriore alla fine del IV secolo).<br />

26 Da ultimo F.A. PENNACCHIETTI, Processione attorno al santuario e purità rituale<br />

nel pellegrinaggio islamico, Rivista <strong>di</strong> Storia e Letteratura Religiosa 42<br />

(2006) 639-649. Si noti come il termine arabo per designare il pellegrinaggio sia<br />

ḥağğ, con una ra<strong>di</strong>ce e un tema nominale che in cananeo (ebraico) e in aramaico<br />

(siriaco) significano ‘festa’, ma anche ‘danza sacra’ (Ibid., p. 639 con nota 3).<br />

27 Un altro tempio venne eretto in onore <strong>di</strong> Helagabal nella parte orientale della<br />

città, presso i giar<strong>di</strong>ni della Spes Vetus.<br />

28<br />

HERODIANUS, Ab excessu <strong>di</strong>vi Marci, V,6,3-4; PELLIZZARI, Servio cit. (sopra,<br />

nota 3), 53.<br />

29 Stando a Plutarco (Numa, 13), le Vestali erano tenute a pulire quoti<strong>di</strong>anamente<br />

il loro tempio con l’acqua sacra che sgorgava da una fonte presso il luogo<br />

ove l’ancilium era sceso dal cielo e che Numa aveva consacrato alle Muse.<br />

30 Spec. T. OPTENDRENK, Die Religionspolitik des Kaisers Elagabal im Spiegel<br />

der “Historia Augusta”, Bonn 1969.<br />

103


104<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

<strong>di</strong> cui era il primo sacerdote. Senza dubbio si trattava <strong>di</strong> un gesto atto a<br />

sottolineare il legame fra sé e uno dei più significativi pignora imperii <strong>di</strong><br />

Roma; ma dovette avere una durata assai breve, dal momento che l’imperatore<br />

fece tosto rimuovere il simulacro <strong>di</strong> Pallade per sostituirlo con<br />

quello della dea africana Caelestis (o Urania) 31 . Tra IV e V secolo il Palla<strong>di</strong>o<br />

doveva già da tempo essere stato restituito alle Vestali se Prudenzio,<br />

parafrasando quanto aveva scritto anni prima Ambrogio <strong>di</strong> Milano<br />

in una celebre lettera a Teodosio, avrebbe ironizzato anche su ciò<br />

come su <strong>di</strong> un’ulteriore offesa nei confronti <strong>di</strong> una <strong>di</strong>vinità cara alle Vestali<br />

32 .<br />

Ma il passo della Historia Augusta, oltre un secolo dopo Ero<strong>di</strong>ano,<br />

sembra contenere un elemento ideologico in più (anche per il Palla<strong>di</strong>o e<br />

gli altri culti, del resto): ossia una sottesa polemica filopagana contro<br />

Costantino (il de<strong>di</strong>catario ‘ufficiale’ della Vita <strong>di</strong> Elagabalo scritta da<br />

‘Elio Lampri<strong>di</strong>o’), e contro la sua velleità <strong>di</strong> portare a Costantinopoli,<br />

nuova Roma, i sacra più antichi dell’Urbe, garanzie della sua stessa durata<br />

come entità politica superiore a tutte le altre. Si insinuava così copertamente,<br />

attraverso l’aperta riprovazione e la smentita nei confronti<br />

<strong>di</strong> Elagabalo, che anche il primo imperatore cristiano avesse portato<br />

nella sua nuova capitale soltanto una copia <strong>di</strong> questi due pignora imperi<br />

33 .<br />

Tra la fine del IV secolo e il V menzionano gli ancilia, come si è già<br />

veduto per la Historia Augusta e per Prudenzio, anche Servio nel suo<br />

commento all’Eneide, Macrobio nei Saturnaliorum libri per bocca <strong>di</strong><br />

Vettio Agorio Pretestato (pontifex Vestae, pontifex Solis, quindecemvir,<br />

31 Vd. spec. A. FRASCHETTI, La conversione da Roma pagana a Roma cristiana,<br />

Bari 1999, 42-44.<br />

32<br />

PRUDENTIUS, Contra Symmachum, I, v. 195; sempre in polemica antipagana,<br />

ma ad altro proposito, ID. Peristephanon, II, vv. 509-512 (sul martirio <strong>di</strong> Lorenzo);<br />

per l’iscrizione romana tarda (ma d’incerta datazione precisa) menzionante due<br />

pontifices Vestae vd. oltre, nota 35. Sulla dea Caelestis vd. L. CRACCO RUGGINI, Il<br />

Co<strong>di</strong>ce Teodosiano e le eresie, in <strong>di</strong> J.-J. AUBERT - PH. BLANCHARD (edd.), Droit, religion<br />

et société dans le “Code Théodosien” (Neuchâtel 15-17 Février 2007), Genève<br />

2009, 21-37 e spec. 30-34.<br />

33 R. TURCAN, Héliogabal précurseur de Costantin?, Bulletin de l’Association<br />

“Guillaume Budé” s. IV 47 (1988) 38-52; L. CRACCO RUGGINi, Elagabalo, Costantino<br />

e i «culti siriaci» nella “Historia Augusta”, in G. BONAMENTE – N. DUVAL<br />

(edd.), Historiae Augustae Colloquium Parisinum, Historiae Augustae Colloquia<br />

n. s. 1, Macerata 1991, 123-146.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

curialis Herculis. sacratus Libero, Eleusinis hierophanta, neocorus, tauroboliatus,<br />

pater patrum, morto alla fine del 384) 34 , un’iscrizione romana<br />

(oggi perduta) che celebrava il restauro a proprie spese <strong>di</strong> una mansio<br />

dei Salii Palatini da parte <strong>di</strong> due pontifices Vestae (Plotius Acilius e Vitrasius<br />

Praetextatus) 35 , il calendario cristiano <strong>di</strong> Filocalo nel 354 e poi<br />

ancora Polemio Silvio attorno alla metà del V secolo. Al tempo <strong>di</strong> Giustiniano<br />

poi, questa volta nella parte <strong>di</strong> lingua greca dell’impero, Giovanni<br />

Lido (un ex funzionario palatino <strong>di</strong> Costantinopoli) fu il solo a<br />

parlare ampiamente <strong>degli</strong> ancilia nel De mensibus, ma secondo una versione<br />

in parte opposta a quella tra<strong>di</strong>zionale. Egli racconta infatti che la<br />

cerimonia dei Salii (evidentemente ancor viva al tempo suo) intendeva<br />

punire Mamurio Veturio per avere fabbricato copie dello scudo sacro,<br />

dando inizio a una serie <strong>di</strong> mali per la città <strong>di</strong> Roma: per questa ragione<br />

sarebbe <strong>di</strong>ventato proverbiale chiamare Mamurio chi venisse percos-<br />

34 Corpus inscriptionum Latinarum, VI,1770 = Inscriptiones Latinae selectae,<br />

1259; CRACCO RUGGINI, Il paganesimo romano cit. (sopra, nota 11), 20-21, nota<br />

44. 35 Corpus inscriptionum Latinarum, VI, 2158 = Inscriptiones Latinae selectae,<br />

4944. L’iscrizione (romana) parla <strong>di</strong> stationes dei Salii Palatini erette per la custo<strong>di</strong>a<br />

delle armi sacre e restaurate, dopo essere state e lungo trascurate, a spese dei<br />

pontefici della Regia (pontifices Vestae). Essa si data sicuramente tra la fine III e<br />

quella del IV secolo d.C., sotto i promagistrati dei pontefici – contemporanei oppure<br />

in successione – Plozio Acilio Lucillo e Vitrasio Pretestato; una probabile attribuzione<br />

del titolo epigrafico all’avanzato IV secolo è stata proposta da Bartolomeo<br />

Borghesi, in quanto i due viri clarissimi e pontefici eseguono i restauri a spese<br />

proprie (come ad esempio anche Vettio Agorio Pretestato per il portico <strong>degli</strong> Dei<br />

Consentes: Corpus inscriptionum Latinarum, VI, 102 = Inscriptiones Latinae selectae,<br />

4003; vd. pure MACROBIUS, Saturnalia, III,1-9; CRACCO RUGGINI, Il paganesimo<br />

romano cit. [sopra, nota 11], note 270 e 298), forse quin<strong>di</strong> dopo la soppressione<br />

delle sovvenzioni a certi collegi sacerdotali da parte dell’Augusto cristiano Graziano,<br />

nel 382 (sui limiti <strong>di</strong> tali soppressioni R. LIZZI TESTA, Dal conflitto al <strong>di</strong>alogo:<br />

nuove prospettive sulle relazioni tra pagani e cristiani in Occidente alla fine del<br />

IV secolo, in U. CRISCUOLO – L. DE GIOVANNI [edd.], Trent’anni <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> sulla Tarda<br />

Antichità: bilanci e prospettive. Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 21-23<br />

novembre 2007, Napoli 2009, 167-190). Il cristiano Sozomeno (Historia Ecclesiastica,<br />

II,5,2) informa a sua volta, con accenti ano<strong>di</strong>ni, che già durante le confische<br />

costantiniane <strong>di</strong> preziosi pagani a Costantinopoli i sacerdoti avevano custo<strong>di</strong>to<br />

presso <strong>di</strong> sé in privato i beni più pregiati, tra cui i «cosiddetti <strong>oggetti</strong> caduti dal<br />

cielo» (ta; <strong>di</strong>opeth' kaloumevna) (con toni più drammatici, vd. pure il pagano Libanio<br />

nell’Oratio XXX, 6, Pro templis, nell’avanzato IV secolo).<br />

105


106<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

so (come il simulacro <strong>di</strong> Mamurio dai Salii armati <strong>di</strong> verghe) per avere<br />

procurato guai con le sue stesse mani: una versione, come si vede, molto<br />

più adatta alla corrente mentalità cristiana, forse <strong>di</strong>mentica della<br />

tra<strong>di</strong>zione più antica e, nel contempo, favorevole all’idea <strong>di</strong> una translatio<br />

imperii nella capitale romana d’Oriente 36 .<br />

Veniamo ora al Palla<strong>di</strong>o, sul quale mi soffermerò più brevemente in<br />

quanto ne ho già parlato altrove (né, in sostanza, ho finora cambiato<br />

idea) 37 . Si tratta, come nel caso dell’ancile, <strong>di</strong> un simulacro assai antico<br />

caduto dal cielo, in questo caso associato al culto <strong>di</strong> Pallade 38 : una piccola<br />

statua lignea della dea (breve est et latet, scrive Servio fra IV e V secolo:<br />

sembra fosse, <strong>di</strong> fatto, alta tre cubiti) 39 . Secondo Apollodoro, essa<br />

sarebbe <strong>di</strong>scesa nella Troade proprio mentre Ilo stava fondando Ilio,<br />

con funzione augurale (la leggenda non compare in Omero, ma, per testimonianza<br />

del neoplatonico Proclo nel V secolo d.C., era presente nella<br />

cosiddetta Piccola Iliade) 40 . Secondo tale versione, dunque, la statuetta<br />

si collegava a Troia e quin<strong>di</strong> anche al mito delle origini <strong>di</strong> Roma,<br />

della quale essa sarebbe stata la progenitrice leggendaria.<br />

La comparsa del Palla<strong>di</strong>o venne interpretata come omen favorevole<br />

per la nascente Ilio, la cui salvezza sarebbe poi <strong>di</strong>pesa appunto dalla<br />

conservazione del simulacro. Proprio per questo, durante la guerra con<br />

i Greci, i Troiani ne fecero una copia da esporre nel tempio, mentre l’originale<br />

rimaneva nascosto in luogo più sicuro. Ma secondo il mito greco<br />

– ripreso in età tardoantica anche da Servio 41 – Ulisse e Diomede<br />

36 IOHANNES LYDUS, De Mensibus, III,29 (sul mese <strong>di</strong> marzo) e IV,36 (dopo<br />

aver parlato <strong>di</strong> varie feste agricole, si ba<strong>di</strong>), Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae<br />

44 e 71 (vd. sopra, nota 19).<br />

37 Spec. L. CRACCO RUGGINI, Costantino e il Palla<strong>di</strong>o, in Roma Costantinopoli<br />

Mosca. Atti del I seminario internazionale <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> storici “Da Roma alla terza Roma.<br />

Documenti e stu<strong>di</strong>” (Roma, 21-23 aprile 1981), Napoli 1983, 241-251;<br />

EAD.,”Pontifices” cit. (sopra, nota 6).<br />

38 PELLIZZARI, Servio cit. (sopra, nota 3), 49-60, con fonti ivi; sulla controversa,<br />

incerta etimologia del nome vd. spec. ibid., 49 con nota 72.<br />

39 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, II, v. 227; APOLLODORUS, Bibliotheca, III,12,3<br />

(autore ateniese del II secolo a.C.); A. ADLER (ed.), Suidae Lexicon, s.v. «Pallav<strong>di</strong>on»,<br />

IV, 4-5. Un cubito equivaleva a 444 millimetri.<br />

40 PELLIZZARI, Servio cit. (sopra, nota 3), 49 con nota 74.<br />

41 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, II, v. 166. Molte città greche vantarono pertanto,<br />

a causa del proliferare delle copie, <strong>di</strong> possedere il vero Palla<strong>di</strong>o (Atene,<br />

Sparta, Argo, Anfissa, Lindo, Pellene).


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

riuscirono egualmente a impadronirsi del vero Palla<strong>di</strong>o, passando attraverso<br />

cunicoli e uccidendo i guar<strong>di</strong>ani del tempio in cui il simulacro<br />

era custo<strong>di</strong>to. Tuttavia, dopo molte peripezie, il Palla<strong>di</strong>o sarebbe stato<br />

portato a Enea in Italia, tramite un certo Naute, la cui famiglia avrebbe<br />

perciò avuto il privilegio <strong>di</strong> custo<strong>di</strong>re i sacra della dea Minerva (un tipico<br />

racconto eziologico pure questo, ancora a fine IV secolo d.C. raccolto<br />

da Servio).<br />

Secondo la versione romana dell’intera vicenda (forse la più <strong>di</strong>ffusa,<br />

e accettata anche da Dionigi <strong>di</strong> Alicarnasso in età augustea) 42 , il Palla<strong>di</strong>o<br />

autentico non sarebbe stato però quello rubato dai Greci ed esposto<br />

a Troia nel tempio, bensì la sua copia. Ed Enea avrebbe portato in<br />

Italia <strong>di</strong> persona l’originale, dopo averlo prelevato a Troia. Secondo<br />

Servio, invece, esso sarebbe rimasto fra le rovine della città fino al suo<br />

ritrovamento da parte <strong>di</strong> Gaio Flavio Fimbria, un amico <strong>di</strong> Mario che<br />

soggiornò a Ilio dopo aver guerreggiato contro Mitridate; e soltanto allora<br />

esso sarebbe stato trasferito definitivamente a Roma, continuando<br />

quivi a esercitare il proprio ruolo salvifico (inizî del I secolo a.C.) 43 . Pure<br />

a Roma se ne fecero quin<strong>di</strong>, come per l’ancile <strong>di</strong> Numa, alcune imitazioni,<br />

entrando tutte quante a far parte dei pignora imperii custo<strong>di</strong>ti nel<br />

tempio rotondo <strong>di</strong> Vesta all’estremità orientale del Foro Romano 44 .<br />

Se ne prese cura soprattutto il collegio dei pontefici romani, il cui<br />

nome si collegava forse al Palla<strong>di</strong>o in quanto, secondo una variante della<br />

tra<strong>di</strong>zione mitografica greca riferita anche dal Servius auctus, il simulacro<br />

<strong>di</strong> Pallade sarebbe caduto miracolosamente dal cielo su <strong>di</strong><br />

ponte presso Atene (gevfura; pontifices = gefuristaiv, gefuropoioiv) e da<br />

qui sarebbe poi arrivato a Troia soltanto in un secondo tempo 45 . Era<br />

42 DIONYSIUS HALICARNASSENSIS, Antiquitates Romanae, I,69,2-3.<br />

43 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, II, v. 166: “quod postea bello Mithridatico<br />

<strong>di</strong>citur Fimbria quidam Romanus inventum in<strong>di</strong>casse: quod Romam constat advectum”.<br />

44 SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, VII, v. 188; M. SORDI, Lavinio, Roma e il Palla<strong>di</strong>o,<br />

in M. SORDI (ed.), Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l’Oriente,<br />

Milano 1982, 65-78 e partic. 74 ss. Sul tempio <strong>di</strong> Vesta vd. S.B. PLATNER – T.<br />

ASHBY, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford 1929 (rist. anast.<br />

Roma 1965), 557; R.T. SCOTT, Lexicon topographicum Urbis Romae, V, s. v. «Vesta,<br />

aedes», Roma 1999, 125-128.<br />

45 SERVIUS eSERVIUS DANIELINUS, Ad Vergilii Aeneidem, II, v. 166: “<strong>di</strong>cunt sane<br />

alii, unum simulacrum caelo lapsum, quod nubibus advectum et in ponte depositum,<br />

apud Athenas tantum fuisse, unde et gefuristh;" <strong>di</strong>cta est (sic). Ex qua<br />

107


108<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

pertanto noto il salvataggio del Palla<strong>di</strong>o da due terribili incendî del<br />

tempio <strong>di</strong> Vesta: il primo nel 241 a.C. grazie al pontefice massimo Lucio<br />

Cecilio Metello, e il secondo sotto il regno <strong>di</strong> Commodo (161-180<br />

d.C.), allorchè il simulacro venne trasferito nel palazzo imperiale dalle<br />

Vestali in processione lungo la Via Sacra. Sicché, secondo Ero<strong>di</strong>ano,<br />

soltanto allora, per la prima volta, esso fu veduto anche dalla gente comune<br />

46 .<br />

Come per gli ancilia, secondo la Historia Augusta Elagabalo pensò a<br />

un trasferimento pure del Palla<strong>di</strong>o nel tempio da lui costruito sul Palatino<br />

in onore del <strong>di</strong>o Helagabal, come si è già in parte veduto; e nel caso<br />

del Palla<strong>di</strong>o, però, forse il giovane Principe qualcosa fece davvero<br />

(sempre secondo Ero<strong>di</strong>ano), anche se la biografia <strong>di</strong> fine IV secolo insinua<br />

che si trattava soltanto <strong>di</strong> una sua riproduzione 47 (cui accenna pure<br />

etiam causa pontifices nuncupatos volunt: quamvis quidam pontifices a ponte Sublicio,<br />

qui primus Tybri impositus est, appellatos tradunt, sicut Saliorum carmina<br />

loquuntur. Sed hoc Atheniense Palla<strong>di</strong>um veteribus Troianis Ilium translatum”.<br />

Plutarco (Numa, 9) enumera varie etimologie <strong>di</strong> pontivfike", correnti al tempo suo:<br />

o nel senso <strong>di</strong> dunatoiv, pothvnte", perché al servizio <strong>degli</strong> dèi che erano potenti (vd.<br />

pure VARRO, De lingua Lat. V,83, il quale riferisce l’opinione del pontifex maximus<br />

Quinto Scevola – console nel 95 a.C. – su pontifex da posse et facere, pur affermando<br />

<strong>di</strong> preferire personalmente la derivazione <strong>di</strong> pontifex da pontem facere); o<br />

perché addetti a <strong>di</strong>stinguere ciò che «era possibile» da ciò che non lo era nell’ámbito<br />

delle funzioni sacre; o perché gefuropoioiv, cioè costruttori dell’antichissimo<br />

ponte ligneo sul Tevere <strong>di</strong> cui erano custo<strong>di</strong> e sul quale eseguivano i riti sacri da<br />

tempo immemorabile (una spiegazione che Plutarco giu<strong>di</strong>ca comunque «risibile»<br />

in quanto non collegabile con Numa Pompilio, dal momento che il ponte Sublicio<br />

era stato completato – si credeva al tempo suo – soltanto da Anco Marcio nipote<br />

<strong>di</strong> Numa). Sull’argomento vd. approfon<strong>di</strong>menti in CRACCO RUGGINI, Costantino e<br />

il Palla<strong>di</strong>o cit. (sopra, nota 37); EAD., “Pontifices” cit. (sopra, nota 6); J. CHAM-<br />

PEAUX, Les pontifes romains et l’entretien du pont Sublicius, Bulletin de la Société<br />

Nationale des Antiquaires de France (2002 [2008]) 117-128; per meglio comprendere<br />

l’età <strong>di</strong> transizione giustinianea, più in generale M. MAAS, John Lydus and the<br />

Roman Past. Antiquarianism and Politics in the Age of Justinian, London-New<br />

York 1992; M. MAZZA, Giovanni Lido, “De magistratibus”: sull’interpretazione delle<br />

magistrature romane nella Tarda Antichità, in F. ELIA (ED.), Omaggio a Rosario<br />

Soraci. Politica, retorica e simbolismo del primato, Catania 2004, II, 219-258 = ID.,<br />

Tra Roma e Costantinopoli. Ellenismo Oriente Cristianesimo nella Tarda Antichità.<br />

Saggi scelti, Catania 2009, 269-299.<br />

46 CICERO, Pro M. Aemilio Scauro, 48; OVIDIUS, Fasti, VI, vv. 436-454; VALE-<br />

RIUS MAXIMUS, Factorum et <strong>di</strong>ctorum memorabilium libri, I,4,4; HERODIANUS, Ab<br />

excessu <strong>di</strong>vi Marci, I,14,4-5.<br />

47 Vd. sopra, testo corrispondente alle note 25-33.


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

Servio nei Commentarii, in anni probabilmente assai vicini e in un ambiente<br />

culturale romano assai simile a quelli dell’autore della Historia<br />

Augusta: filosenatorio, filopagano, tra<strong>di</strong>zionalista) 48 .<br />

Fosse o meno Vettio Agorio Pretestato il pontifex romano che, assieme<br />

al greco Sopatro come augure, l’11 maggio del 330 presiedette alla<br />

rifondazione sacra <strong>di</strong> Costantinopoli sull’antica Bisanzio, un Palla<strong>di</strong>o<br />

venne allora collocato alla base della colonna porfiretica che sorreggeva<br />

una statua solare <strong>di</strong> Costantino nella sua nuova capitale (che nella<br />

prima metà del XII secolo, secondo Zonara e Anna Comnena, sarebbe<br />

stata una statua <strong>di</strong> Apollo adattata e trasportata da Ilio), mentre un’altra<br />

copia – più in vista – adornava l’ippodromo 49 . Ma benché la tra<strong>di</strong>-<br />

48<br />

PELLIZZARI, Servio cit., spec. cap. I (Servio nella realtà storica e culturale del<br />

suo tempo), 5-31.<br />

49 C. BRENOT, Les monnaies au nom de “Populus Romanus” à Constantinople,<br />

«Quad. Ticinesi <strong>di</strong> numismatica e antichità classiche», 9 (1980) 299-313 (l’Autrice<br />

pubblica un deposito <strong>di</strong> mezzi nummi costantinopolitani da poco ritrovato nel sito<br />

del Bosco <strong>degli</strong> Arvali all’uscita <strong>di</strong> Roma – una trentina <strong>di</strong> esemplari in tutto –, sicuramente<br />

databili fra il 320 e il 335 e probabilmente attorno al 330, ossia poco<br />

dopo l’apertura dell’atelier nel 324 –, alcuni dei quali recano al verso l’immagine<br />

<strong>di</strong> un ponte, senza leggenda alcuna); CRACCO RUGGINI, Costantino e il Palla<strong>di</strong>o<br />

cit. (sopra, nota 37), spec. pp. 244-247 (ove l’Autrice ha posto ipoteticamente in<br />

relazione le monetine bronzee <strong>di</strong> Costantinopoli trovate a Roma – forse venute<br />

quivi con la delegazione sacerdotale al suo rientro nell’Urbe – con la fondazione<br />

sacra della capitale costantiniana nel 330). FRASCHETTI, La conversione cit. (sopra,<br />

nota 31), 42-47 e 65-70, come del resto il suo maestro Santo Mazzarino, non<br />

crede che il pontefice prescelto fosse allora Vettio Agorio Pretestato, e parla <strong>di</strong><br />

«affabulazione» meramente costantinopolitana, adducendo la seguente motivazione<br />

(a parte più <strong>di</strong>scutibili considerazioni cronologiche): che un pontefice romano<br />

mai avrebbe partecipato alla fondazione <strong>di</strong> una città che si preparava ad essere<br />

una potenziale rivale <strong>di</strong> Roma nel primato politico, economico e demografico. Ma<br />

il Costantino storico (che non si deve confondere con il modello <strong>di</strong> principe cristiano<br />

elaborato soprattutto nel V secolo e seguenti) al principio del IV secolo poteva<br />

benissimo voler adeguare a Roma la nuova capitale testé da lui fondata, pur<br />

senza trasportarvi il simulacro originale del Palla<strong>di</strong>o, ma solo una sua copia beneaugurante:<br />

in tale caso, un pontefice pagano <strong>di</strong> Roma non avrebbe avuto proprio<br />

nulla da obiettare (anzi!) circa una propria partecipazione alla inauguratio<br />

(senza dubbio tra<strong>di</strong>zionale) <strong>di</strong> Costantinopoli, da parte <strong>di</strong> un imperatore che nel<br />

330 del tutto cristiano ancora evidentemente non era. Esichio <strong>di</strong> Mileto, nella seconda<br />

metà del VI secolo, in un passo interpolato avrebbe poi alleggerito Costantino<br />

<strong>di</strong> ogni responsabilità attribuendo l’iniziativa all’intervento superstizioso dei<br />

senatori <strong>di</strong> Roma (così come Sozomeno, già intorno alla metà del V secolo, in proposito<br />

aveva incolpato invece i sacerdoti pagani <strong>di</strong> Costantinopoli: oiJ newkovroi<br />

109


110<br />

Lellia Cracco Ruggini<br />

zione patriografica costantinopolitana giurasse sull’autenticità del Palla<strong>di</strong>o<br />

sottostante alla colonna <strong>di</strong> Costantino (quando, tuttavia, prevaleva<br />

ormai la versione cristianizzata della rifondazione costantiniana elaborata<br />

dalle Storie Ecclesiastiche attorno alla metà del V secolo) 50 , non<br />

è affatto chiaro se il simulacro portato da Roma nella nuova capitale da<br />

Costantino fosse l’originale oppure soltanto una copia 51 .<br />

In verità, non si sa con certezza quando abbia incominciato effettivamente<br />

a <strong>di</strong>ffondersi la tra<strong>di</strong>zione letteraria della translatio costantiniana<br />

del Palla<strong>di</strong>o. Sono soltanto le fonti greco-orientali a parlarcene, a<br />

partire dal VI secolo. È comunque certo che nell’Occidente non solo cristianizzato,<br />

ma <strong>di</strong>venuto anche un regno romano-barbarico ormai abbandonato<br />

al proprio destino, non vi è alcuna traccia del Palla<strong>di</strong>o nelle<br />

ultime polemiche pagano-cristiane, specie dopo la conquista <strong>di</strong> Roma<br />

da parte dei Visigoti nel 410: un evento che ebbe un enorme impatto<br />

psicologico anche se, sul piano concreto, la città ricuperò abbastanza<br />

rapidamente. Le ultime battaglie ideologiche si svolsero piuttosto sul<br />

piano <strong>di</strong> un provvidenzialismo sempre più spinto 52 , per il quale il Palla<strong>di</strong>o<br />

non poteva essere <strong>di</strong> alcuna utilità nemmeno per gli ultimi pagani,<br />

nonostante il permanere, ancora al principio del V secolo, <strong>di</strong> qualche<br />

eco, per esempio in un grammatico come Servio, <strong>di</strong> una pubblicistica<br />

senatoria che, in funzione precipuamente anticostantinopolitana, si faceva<br />

vanto <strong>di</strong> detenere il Palla<strong>di</strong>o autentico. In ogni caso, a me sembra<br />

kai; oiJ iJerei'"; vd. oltre, nota 51): evidentemente l’autore bizantino non era semplicemente<br />

in grado <strong>di</strong> negare una translatio <strong>di</strong> cui dovevano allora sussistere tracce<br />

assai forti nella tra<strong>di</strong>zione locale, pur proclamandosi ormai Costantinopoli <strong>di</strong> fondazione<br />

cristiana: HESYCHIUS ILLUSTRIUS, Patria, in T. PREGER (ed.), Scriptores<br />

originum Constantinopolitanarum, Leipzig 1907, I, 17, in apparato; E. FOLLIERI,<br />

La fondazione <strong>di</strong> Costantonopoli: riti pagani e cristiani, in Roma, Costantinopoli,<br />

Mosca cit. (sopra, nota 37), 217-231 e spec. 223; PELLIZZARI, Servio cit. (sopra,<br />

nota 3), 55-57.<br />

50 Vd. spec. SOCRATES, Historia Ecclesiastica, I,17 (GCS, Neue Folge 1, 55-57);<br />

SOZOMENUS, Historia Ecclesiastica, II,3 (GCS 51-56); PHILOSTORGIUS, Historia<br />

Ecclesiastica, II,9 (GCS 20-21); MAZZA, Tra Roma e Costantinopoli cit. (sopra,<br />

nota 45), 161-191 (V: Costantino nella storiografia ecclesiastica [dopo Eusebio]) e<br />

partic. 180.<br />

51 Vd. sopra, testo <strong>di</strong> nota 49; e inoltre spec. IOHANNES MALALAS, Chronographia,<br />

XIII,6, Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, 320 (verso il 530). PEL-<br />

LIZZARI, Servio cit. (sopra, nota 3), 55-59 con note 109 e 122.<br />

52<br />

CRACCO RUGGINI, I barbari e l’impero prima e dopo il 410 cit. (sopra, nota<br />

5).


Oggetti ‘caduti dal cielo’ nel mondo antico<br />

che siffatte polemiche si debbano collegare piuttosto al problema <strong>di</strong><br />

una translatio imperii già in parte avverata, ma non ancora, forse, del<br />

tutto consolidata.<br />

Nel VI secolo uno storico bizantino come Procopio accenna sì alla<br />

presenza a Roma <strong>di</strong> un’immagine simile al Palla<strong>di</strong>o, che ancora al tempo<br />

suo veniva mostrata ai visitatori (lui stesso compreso) nel tempio<br />

della Fortuna; nel contempo però – testimonia – i Romani affermavano<br />

d’ignorare quale sorte fosse toccata al Palla<strong>di</strong>o della tra<strong>di</strong>zione 53 : una<br />

reticenza che rivela dunque fasti<strong>di</strong>o nei confronti delle crescenti fortune<br />

<strong>di</strong> Costantinopoli, ma soprattutto imbarazzo per un pignus imperii che<br />

chiaramente aveva mostrato <strong>di</strong> non funzionare più come portafortuna<br />

infallibile, e che per <strong>di</strong> più si legava alle credenze <strong>di</strong> un paganesimo ormai<br />

superato. E <strong>di</strong>fatti uno storico bizantino come Giovanni Zonara,<br />

alto funzionario palatino e poi monaco sul Monte Athos molti secoli<br />

dopo Procopio (prima metà del XII secolo), nel <strong>di</strong>scorrere del Palla<strong>di</strong>o<br />

avrebbe ad<strong>di</strong>rittura ignorato la fase romana della sua vicenda, affermando<br />

una provenienza <strong>di</strong>retta del simulacro da Troia a Costantinopoli<br />

attraverso al Bosforo 54 .<br />

Ciò che qui soprattutto importa notare è come pure nel caso del Palla<strong>di</strong>o,<br />

al pari <strong>di</strong> quello (più circoscritto) <strong>degli</strong> ancilia in Roma, siano<br />

state soprattutto le fonti più tarde a parlarne: nel caso del Palla<strong>di</strong>o o<br />

antica statua <strong>di</strong> Pallade rifacendosi, a livello d’intellettuali e <strong>di</strong> antiquarî,<br />

a varianti della leggenda che presentavano più evidenti agganci<br />

con il mondo greco e che erano affermazione <strong>di</strong> una evidente translatio<br />

imperii in atto (quin<strong>di</strong> per ragioni ancora una volta in prima istanza<br />

politiche, piuttosto che religiose); mentre, nel caso dello scudo arcaico<br />

come pignus imperii per Roma, ebbero una vita prolungata soltanto<br />

quelle festività calendariali <strong>di</strong> cui non si conoscevano più le origini, ma<br />

alle quali si era affezionati.<br />

Come simboli puramente religiosi (non già ideologici), questi <strong>oggetti</strong><br />

‘caduti dal cielo’ ebbero quin<strong>di</strong> una vita precaria, oscura e cronologicamente<br />

assai limitata.<br />

53 PROCOPIUS, De bello Gothico, I,15,11.<br />

54 ZONARAS, Epitome Historiarum, XIII,3,28 (Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae,<br />

Bonn 1897, III, 18). La statua solare <strong>di</strong> Costantino-Apollo cadde al suolo<br />

nel 1106, sotto il regno <strong>di</strong> Alessio Comneno: ZONARAS, Epitome Historiarum,<br />

XIII,3,27 (Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, III, 18).<br />

111


LE ACHEROPITE E I FONDAMENTI<br />

DELLA TEORIA DELL’IMMAGINE CRISTIANA<br />

GRAZIANO LINGUA<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Il più noto esempio <strong>di</strong> sacra impronta nel cristianesimo sono senza<br />

dubbio le immagini acheropite, immagini cioè che, come <strong>di</strong>ce il loro<br />

stesso nome, sono ottenute senza l’intervento della mano dell’uomo.<br />

Esse, come già aveva rilevato Ernst Kitzinger 1 , sono fondamentalmente<br />

<strong>di</strong> due tipi: immagini <strong>di</strong> Cristo, della Vergine o <strong>di</strong> un santo ritenute opera<br />

<strong>di</strong> una mano <strong>di</strong>versa da quella dei comuni mortali, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> origine<br />

<strong>di</strong>vina e a volte cadute dal cielo secondo la fattispecie dei <strong>di</strong>ipetes del<br />

mondo classico, oppure immagini ritenute <strong>impronte</strong> meccaniche prodottesi<br />

miracolosamente dall’originale, in particolare <strong>impronte</strong> del volto<br />

<strong>di</strong> Cristo, ma anche dell’intero corpo come nel caso dei lenzuoli sindonici<br />

o <strong>di</strong> parti <strong>di</strong> esso come l’immagine sulla colonna della flagellazione<br />

<strong>di</strong> cui ci parlano alcuni resoconti <strong>di</strong> pellegrinaggio a Gerusalemme<br />

del VI secolo 2 .<br />

Esse rappresentano un consistente capitolo della storia del culto cristiano<br />

che ha origine nel VI secolo in contesto bizantino, in cui si intrecciano<br />

due <strong>di</strong>stinti aspetti: da una parte le leggende che nascono e si sviluppano<br />

sull’origine <strong>di</strong> questi <strong>oggetti</strong> e dall’altra le immagini fisiche che<br />

vengono via via ad identificarsi e ad incorporare queste leggende. Il<br />

materiale relativo ad entrambi questi aspetti è ampio e <strong>di</strong>versificato, come<br />

si può ben vedere consultando la documentazione raccolta già alla<br />

fine dell’Ottocento da Ernst von Dobschütz nel suo Christusbilder 3 . Per<br />

1 E. KITZINGER, Il culto delle immagini. L’arte bizantina dal cristianesimo delle<br />

origini all’Iconoclastia, trad. it. <strong>di</strong> R. Garroni, Milano 1992, 44.<br />

2 Mi riferisco ai pellegrini Teodosio e Antonino da Piacenza che parlano nei<br />

loro resoconti <strong>di</strong> un’immagine <strong>di</strong> Cristo sulla colonna della Flagellazione. Cfr. E.<br />

KITZINGER, Il culto delle immagini, cit., 32.<br />

3 E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo, trad. it. <strong>di</strong> Giuliano e G. Rossi, Prefazione<br />

<strong>di</strong> G. Lingua, Milano 2006.<br />

113


114<br />

Graziano Lingua<br />

un primo orientamento in quanto <strong>di</strong>rò voglio almeno ricordare gli<br />

esempi più famosi <strong>di</strong> acheropite <strong>di</strong> Cristo. Nel contesto orientale innanzitutto<br />

l’immagine <strong>di</strong> Edessa che la tra<strong>di</strong>zione collega allo scambio <strong>di</strong><br />

lettere tra Gesù e il re Abgar <strong>di</strong> Edessa 4 e l’immagine <strong>di</strong> Camulia o Camuliana<br />

che secondo la leggenda viene ritrovata da una donna in una<br />

pozza d’acqua del suo giar<strong>di</strong>no e rappresenta un eloquente esempio <strong>di</strong><br />

immagine <strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina 5 . Nel contesto della chiesa latina il Velo della<br />

Veronica con l’articolata leggenda che lo circonda 6 , e le sindoni, tra<br />

cui in particolare la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> che <strong>di</strong>venterà con il tempo la più<br />

nota e venerata non solo in Occidente.<br />

Ho citato sinteticamente questi esempi soltanto per un primo orientamento<br />

sulla questione, perché non affronterò nel mio intervento una<br />

precisa ricostruzione delle leggende, né delle vicende storiche che le immagini<br />

fisiche considerate “non fatte da mano d’uomo” hanno avuto<br />

prima nella Chiesa d’Oriente e poi nella Chiesa latina. Il profilo con cui<br />

guardo alla questione è invece un profilo squisitamente filosofico: intendo<br />

cioè prendere in esame il ruolo che storicamente e concettualmente<br />

esse hanno giocato nello sviluppo della teoria cristiana dell’immagine<br />

e il contributo che il materiale agiografico e la riflessione teologica<br />

sulle acheropite possono offrire a questioni che ancora oggi sono<br />

filosoficamente centrali per pensare il ruolo delle immagini e la natura<br />

delle operazioni artistiche, non solo in ambito religioso. Quello che<br />

<strong>di</strong>rò si porrà quin<strong>di</strong> in una zona <strong>di</strong> confine dove l’ermeneutica dei dati<br />

storici incontra l’architettonica <strong>di</strong> una filosofia dell’immagine, considerata<br />

come tema <strong>di</strong> particolare rilevanza non solo per una ricostruzione<br />

della storia del pensiero cristiano, ma anche come genealogia del <strong>di</strong>battito<br />

contemporaneo sul visivo e le sue manifestazioni.<br />

4 Sull’immagine <strong>di</strong> Edessa oltre al materiale raccolto da von Dobschütz si possono<br />

vedere A. CAMERON, The History of the Image of Edessa: the Telling of a<br />

Story, Harvard Ukranian <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 7 (1983) 80-94; H. BELTING, Il culto delle immagini.<br />

Storia dell’icona dall’età imperiale al Tardo Me<strong>di</strong>oevo, trad. it <strong>di</strong> B. Maj, Roma<br />

2001, 257-269.<br />

5 Sull’immagine <strong>di</strong> Camulia cfr. E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo cit.,<br />

51-64; E. KITZINGER, Il culto delle immagini cit., 46-47.<br />

6 Sul Velo della Veronica si veda H. BELTING, Il culto delle immagini, cit., 269-<br />

277; G. WOLF, From Mandylion to Veronica: Picturing the “Disembo<strong>di</strong>ed” Face and<br />

Disseminating the True Image of Christ in the Latin West, in H. KESSLER - G.<br />

WOLF (edd.), The Holy Face and the Paradox of Representation, Bologna 1998,<br />

153-179.


Le acheropite<br />

È proprio perché le acheropite mi interessano in questa prospettiva<br />

genealogica che ritengo utile inserire la nascita o l’articolato sviluppo<br />

delle leggende sulle immagini “non fatte da mano d’uomo” all’interno<br />

del più complessivo problema dell’origine e della legittimazione delle<br />

immagini <strong>di</strong> culto in una religione come quella cristiana che nei suoi<br />

primi secoli <strong>di</strong> vita si è trovata schiacciata tra due atteggiamenti opposti:<br />

da una parte l’invadente uso <strong>di</strong> rappresentazioni visive delle religioni<br />

pagane da cui doveva <strong>di</strong>fferenziarsi e dall’altra il sospetto, se non la<br />

vera e propria avversione, verso l’utilizzo <strong>di</strong> immagini religiose ere<strong>di</strong>tato<br />

dall’ebraismo.<br />

Collocato in questo contesto <strong>di</strong> sviluppo della teologia cristiana dell’immagine<br />

la questione delle immagini “non fatte da mano d’uomo”<br />

mi conduce a proporre due tesi alla <strong>di</strong>scussione.<br />

La prima è che le acheropite assumano il ruolo <strong>di</strong> “mito fondatore”<br />

per la teologia dell’immagine bizantina in specifico e più in generale abbiano<br />

una funzione istitutiva per il concetto cristiano <strong>di</strong> immagine <strong>di</strong><br />

culto, perché sono autorizzate e garantite da Dio, quin<strong>di</strong> traggono la<br />

loro autorità non semplicemente dalla scelta umana <strong>di</strong> infrangere il comandamento<br />

<strong>di</strong> Esodo 20 (“Non ti farai idolo, né immagine alcuna…”),<br />

ma da una decisione <strong>di</strong> Dio stesso, operata attraverso il Gesù<br />

storico. Quando il materiale leggendario attribuisce a Gesù stesso la<br />

scelta <strong>di</strong> lasciare una traccia figurativa <strong>di</strong> sé offre ipso facto un argomento<br />

a favore <strong>di</strong> un’interpretazione non rigorista del comandamento,<br />

che non può più essere letto come un <strong>di</strong>vieto assoluto <strong>di</strong> produrre immagini.<br />

La seconda è che il concetto stesso <strong>di</strong> immagine “non fatta da mano<br />

umana” permette <strong>di</strong> pensare la natura dell’immagine cristiana secondo<br />

un modello in cui l’iniziativa iconica spetta a Dio stesso e all’artista<br />

non è concesso nessun ruolo creativo, ma tutt’al più la canonica ripetizione<br />

<strong>di</strong> questo gesto istitutivo originario. Da questo punto <strong>di</strong> vista il<br />

fatto stesso che le acheropite siano, nella maggior parte dei casi, considerate<br />

delle <strong>impronte</strong> determina una loro natura ambivalente perché fa<br />

essere questi <strong>oggetti</strong> sia immagini che raffigurano in modo in<strong>di</strong>cale il<br />

loro modello come un calco meccanico sia reliquie che, incorporando il<br />

sacro, costituiscono delle estensioni del potere <strong>di</strong>vino del loro modello.<br />

Questi due aspetti danno vita ad una <strong>di</strong>alettica interna al concetto stesso<br />

<strong>di</strong> acheropita, <strong>di</strong>alettica che attraverserà anche molta parte della <strong>di</strong>scussione<br />

sulle immagini “cheropite” <strong>di</strong> Cristo, specialmente nel pensiero<br />

cristiano orientale relativo all’icona. Nella teologia cristiana le immagini<br />

sono sempre qualcosa <strong>di</strong> più <strong>di</strong> una semplice raffigurazione per-<br />

115


116<br />

Graziano Lingua<br />

ché, se così non fosse, non se ne spiegherebbe il culto. L’immagine è anche<br />

una “presentificazione” <strong>di</strong> carattere operativo, un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> relazione<br />

con Dio e non solo uno schermo su cui vedere delle figure. E<br />

anche da questo punto <strong>di</strong> vista la letteratura che circonda le acheropite<br />

è molto interessante.<br />

Per affrontare queste due tesi ho or<strong>di</strong>nato questo mio intervento in<br />

due momenti. Innanzitutto cercherò <strong>di</strong> <strong>di</strong>re qualcosa sul ruolo che storicamente<br />

hanno avuto gli acheropiti nel loro contesto originario, quello<br />

bizantino e sulle cause del loro successo per vedere dall’interno come<br />

essi rispondano alla questione della legittimità delle immagini <strong>di</strong> culto.<br />

Successivamente analizzerò come questa <strong>di</strong>mensione fornisca a livello<br />

sistematico elementi <strong>di</strong> carattere più propriamente filosofico ed estetico,<br />

cercando <strong>di</strong> far emergere il contributo che queste immagini/traccia<br />

offrono ad una riflessione sulla teoria dell’immagine.<br />

In sede introduttiva prima <strong>di</strong> analizzare queste due tesi mi preme<br />

una breve contestualizzazione storico-critica <strong>di</strong> quello che <strong>di</strong>rò. Sostenere<br />

che le acheropite abbiano avuto un ruolo importante nello sviluppo<br />

della teologia dell’immagine cristiana e che il loro valore istitutivo<br />

connoti l’estetica dell’icona e contribuisca in modo significativo alla<br />

teoria cristiana dell’immagine implica <strong>di</strong> collocarsi in una prospettiva<br />

<strong>di</strong>fferente da quella che ha caratterizzato una certa tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>,<br />

inaugurata dal già citato lavoro <strong>di</strong> E. von Dobschütz. In Christusbilder,<br />

a cui dobbiamo una prima raccolta dell’ampio materiale leggendario<br />

sugli acheropiti, l’interesse principale dell’autore è chiaramente storicoricostruttivo<br />

e documentario, ma la ricostruzione lascia trasparire una<br />

precisa tesi interpretativa con cui il materiale narrativo è trattato 7 . Da<br />

allievo <strong>di</strong> A. von Harnack, l’autore è convinto che le immagini miracolose<br />

siano un tipico prodotto del processo <strong>di</strong> “ellenizzazione” del cristianesimo,<br />

perché esse introducono un elemento spurio rispetto allo<br />

spiritualismo <strong>di</strong> matrice ebraica che caratterizzerebbe i primissimi secoli<br />

cristiani. Il vero cristianesimo sarebbe rimasto aniconico, o per lo meno<br />

avrebbe evitato le immagini <strong>di</strong> carattere ritrattistico che richiamano<br />

<strong>di</strong>rettamente il culto idolatrico pagano, se dopo la svolta costantiniana<br />

insieme alle masse <strong>di</strong> fedeli non avesse fatto irruzione nella nuova religione<br />

anche “il culto superstizioso delle immagini” 8 . Questa convinzio-<br />

7 Riprendo qui alcune osservazioni sviluppate più <strong>di</strong>ffusamente in G. LINGUA,<br />

Pre fazione, in E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo cit., 5-12.<br />

8 Ivi, 45.


ne sta alla base della tesi <strong>di</strong> fondo del libro, l’idea cioè che il materiale<br />

agiografico che circonda le acheropite cristiane sia una trasposizione<br />

delle leggende pagane sui <strong>di</strong>ipetes e che quin<strong>di</strong> ci sia un legame causale<br />

tra i due. L’interesse comparativo e il debito nei confronti della teoria<br />

dell’ellenizzazione impe<strong>di</strong>scono così a Dobschütz <strong>di</strong> cogliere a pieno il<br />

fatto che le leggende sugli acheropiti non erano prive <strong>di</strong> motivazioni endogene<br />

al cristianesimo che potevano fungere da cause altrettanto rilevanti<br />

per il loro successo della semplice importazione della tra<strong>di</strong>zione<br />

esogena sugli “<strong>oggetti</strong> caduti dal cielo”. Esse non restarono appannaggio<br />

della religione popolare, ma entrarono nella letteratura controversistica<br />

<strong>degli</strong> iconofili per la loro forte carica apologetica a favore delle<br />

immagini <strong>di</strong> culto, anche perché in esse prendeva forma in modo incoativo<br />

l’asse portante della teoria cristiana dell’immagine, il fatto cioè che<br />

la legittimità delle icone e del culto ad esse tributato si fon<strong>di</strong> sull’incarnazione<br />

<strong>di</strong> Cristo. Le acheropite sono un fenomeno legato alla cristologia<br />

delle immagini nel doppio senso che la caratterizza: per un verso, in<br />

quanto reliquie visive, pretendono <strong>di</strong> essere una testimonianza <strong>di</strong>retta<br />

del Gesù storico, hanno quin<strong>di</strong> il carattere <strong>di</strong> una traccia documentale<br />

che prova la realtà dell’incarnazione e dall’altra in quanto giustificazione<br />

cristologica dell’immagine, perché si “autolegittimano” come volute<br />

<strong>di</strong>rettamente o in<strong>di</strong>rettamente da Gesù stesso.<br />

1.<br />

Le acheropite<br />

Fatta questa premessa veniamo al primo aspetto che mi interessa.<br />

Molte sono le ragioni che hanno fatto sì che intorno alla seconda metà<br />

del VI secolo si <strong>di</strong>ffonda in contesto bizantino il materiale leggendario<br />

sulle immagini “non fatte da mano umana” e le immagini fisiche ad esse<br />

collegate, come originali e come copie “manufatte” <strong>di</strong> questi originali<br />

9 .<br />

Può esserci una ragione largamente antropologico-religiosa, ricordata<br />

da Averil Cameron come “una persistente crescita <strong>di</strong> interesse per<br />

una documentazione la più <strong>di</strong>retta possibile su Cristo” 10 . Poiché la leg-<br />

9 Su questo aspetto si veda J. TRILLING, The Image not Made by Hands and the<br />

Byzantine Way of Seeing, in H. KESSLER - G. WOLF (edd.), The Holy Face and the<br />

Paradox of Representation, cit., 109-127.<br />

10 A. CAMERON, The History of the Image of Edessa: the Telling of a Story,<br />

Harvard Ukranian <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 7 (1983) 86.<br />

117


118<br />

Graziano Lingua<br />

genda faceva risalire le immagini al Gesù storico esse potevano servire<br />

come conferma della reale esistenza <strong>di</strong> Cristo in un corpo umano e come<br />

testimonianza ritrattistica del volto <strong>di</strong> Cristo, rendendolo così più<br />

vicino ai fedeli. Questa ragione va compresa nello sviluppo <strong>di</strong> interesse<br />

per la reliquie <strong>di</strong> Gesù che comincia già prima del VI secolo e nell’interesse<br />

per il vero ritratto <strong>di</strong> Cristo, interesse questo, che si va amplificando<br />

proprio negli stessi secoli della <strong>di</strong>ffusione delle immagini acheropite.<br />

Può esserci poi una ragione <strong>di</strong> natura politica. Come ricorda André<br />

Grabar, la lunga guerra persiana, a cui l’Impero bizantino doveva far<br />

fronte in quel periodo, può aver costituito un motivo scatenante per la<br />

nascita del culto <strong>di</strong> queste immagini perché richiedeva simboli <strong>di</strong> identificazione<br />

in uno scontro non solo militare, ma anche ideologico tra<br />

«l’impero cristiano e l’impero zoroastraiano» 11 . Fin dalla sua prima apparizione<br />

durante l’asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Edessa del 544, da parte del re persiano<br />

Cosroe 12 , l’acheropita <strong>di</strong> Edessa interviene in modo miracoloso contro<br />

i nemici e la sua funzione apotropaica è bene attestata dalla leggenda<br />

secondo cui una clausola della lettera <strong>di</strong> Gesù a Abgar avrebbe affermato<br />

che finché l’immagine fosse rimasta ad Edessa la città non sarebbe<br />

stata presa dai nemici 13 . La stessa funzione avrà dopo il trasferimento<br />

a Costantinopoli nel 944 come bene si vede nella descrizione del suo<br />

arrivo nella capitale offerta dalla Narratio de imagine Edessena 14 , attribuita<br />

all’Imperatore Costantino VII. E questo non vale soltanto per l’acheropita<br />

edesseno: l’imperatore Eraclio per esempio, usa un’immagine<br />

miracolosa <strong>di</strong> Cristo, probabilmente l’immagine <strong>di</strong> Camuliana, come<br />

palla<strong>di</strong>um durante la campagna contro i Persiani 15 .<br />

Accanto a queste ragioni voglio però soffermarmi su un motivo <strong>di</strong><br />

natura teologica che se non spiega <strong>di</strong>rettamente la nascita <strong>di</strong> queste leg-<br />

11 A. GRABAR, L’iconoclasme byzantin, Paris 1984, 32.<br />

12<br />

EVAGRIO, Historia Ecclesiastica, IV, 27.<br />

13 Narratio de imagine Edessena, 7, 20, cfr. M. GUSCIN, The Image of Edessa,<br />

Leiden 2009, 21.<br />

14 Il fatto che l’immagine venga trasportata lungo le mura o in processione all’interno<br />

della città viene infatti chiaramente interpretato nella Narratio come un<br />

gesto apotropaico. “Essi credevano in questo modo – <strong>di</strong>ce la Narratio riferendosi<br />

all’immagine <strong>di</strong> Edessa – che la città sarebbe <strong>di</strong>venuta più santa e più forte, e sarebbe<br />

stata conservata incolume e inespugnabile in ogni tempo”, cfr. Narratio de<br />

imagine Edessena, 28, 23-25, cfr. M. GUSCIN, The Image of Edessa, 57.<br />

15<br />

GIORGIO DI PISIDIA, De expe<strong>di</strong>tione Persica, I, 139 ss. Su questo cfr. E. KIT-<br />

ZINGER, Il culto delle immagini cit., 42.


Le acheropite<br />

gende, certamente contribuisce a giustificare la loro fama nei secoli successivi<br />

non solo all’interno del contesto bizantino, il contributo cioè<br />

che l’idea stessa <strong>di</strong> immagine “non fatta da mano d’uomo” poteva offrire<br />

al <strong>di</strong>battito sulla legittimità del culto delle immagini, <strong>di</strong>battito<br />

che – come è noto – non si limita soltanto ai secoli dell’iconoclastia, ma<br />

comincia prima ed ha la sua origine remota nel rapporto stesso <strong>di</strong> derivazione<br />

del cristianesimo dall’ebraismo.<br />

Per capire questo fatto devo richiamare brevemente il contesto del<br />

<strong>di</strong>battito sulle immagini nel cristianesimo delle origini. Va ricordato<br />

che i primi secoli cristiani evidenziano per lo meno una situazione paradossale<br />

su questo versante, perché se è vero che già a cavallo tra il II e<br />

il III secolo cominciano ad apparire immagini con esplicito contenuto<br />

religioso, tuttavia la letteratura patristica è rispetto alla legittimità dell’uso<br />

delle immagini abbastanza cauta, e in alcuni casi esplicitamente<br />

contraria fino al IV secolo inoltrato 16 . Il processo <strong>di</strong> giustificazione teorica<br />

delle immagini è piuttosto lungo e segue a gran<strong>di</strong> linee due <strong>di</strong>verse<br />

traiettorie che si possono raccogliere, l’una attorno all’idea che l’immagine<br />

sia legittima in quanto ha una funzione <strong>di</strong>dattico-narrativa e può<br />

contribuire alla <strong>di</strong>ffusione del messaggio cristiano grazie alla sua fruibilità<br />

e all’attrazione emozionale che esercita, e una seconda secondo cui<br />

essa non è solo legittima, ma anche essenziale all’economia salvifica,<br />

perché rappresenta un canale <strong>di</strong> comunicazione tra Dio e il mondo,<br />

grazie alla sua funzione rivelativa 17 . La prima linea trova la sua formulazione<br />

più chiara nel tema classico della Biblia pauperum e serve a giustificare<br />

le immagini con contenuto narrativo 18 , la seconda invece si svi-<br />

16 Ho analizzato questo aspetto in G. LINGUA, L’icona, l’idolo e la guerra delle<br />

immagini, Milano 2006, 43-62.<br />

17 Queste due traiettorie costituiscono anche una delle <strong>di</strong>fferenze più rilevanti<br />

tra la teoria dell’immagine del Cristianesimo occidentale e quella che prevarrà nel<br />

Cristianesimo orientale. Su questo aspetto si veda P. BERNARDI, I colori <strong>di</strong> Dio.<br />

L’immagine cristiana tra Oriente e Occidente, Milano 2007.<br />

18 La convinzione che le immagini abbiano un’utilità per il loro ruolo <strong>di</strong>dattico<br />

e per il contributo che possono offrire alla pre<strong>di</strong>cazione è presente nella letteratura<br />

patristica fin dalla seconda metà del IV secolo. Il tema trova però la sua compiuta<br />

sistematizzazione nelle lettere <strong>di</strong> Gregorio Magno al vescovo Sereno <strong>di</strong><br />

Marsiglia. Per una traduzione parziale del testo <strong>di</strong> Gregorio Magno si veda D.<br />

MENOZZI, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle<br />

origini ai nostri giorni, Cinisello Balsamo 1995, 79-80. Per una contestualizzazione<br />

è utile P.A. MARIAUX, L’image selon Grégoire le Grande et la question de l’art missionaire,<br />

Cristianesimo nella storia 14 (1993) 1-12.<br />

119


120<br />

Graziano Lingua<br />

luppa a giustificazione delle immagini ritrattistiche prive <strong>di</strong> contenuto<br />

narrativo e con esplicita funzione cultuale, come è il caso delle icone bizantine<br />

19 .<br />

È all’interno <strong>di</strong> questo secondo contesto che va visto il ruolo delle<br />

acheropite perché il materiale leggendario e l’utilizzo teologico che ne<br />

viene fatto contengono al proprio interno un implicito tentativo <strong>di</strong> risolvere<br />

alcuni problemi posti proprio dall’immagine <strong>di</strong> culto, priva <strong>di</strong><br />

carattere narrativo. In questo senso ho detto che esse possono fungere<br />

da “mito fondatore” dell’icona, perché rappresentano qualcosa come<br />

l’anello mancante tra il <strong>di</strong>vieto ebraico dell’idolatria e la scelta cristiana<br />

<strong>di</strong> produrre ritratti <strong>di</strong> Cristo, in quanto non solo il Dio invisibile ai cherubini<br />

si è fatto visibile nella persona storica <strong>di</strong> Gesù, ma anche la sua<br />

volontà <strong>di</strong> non essere rappresentato è stata una volta per sempre superata<br />

dal Gesù storico.<br />

D’altro canto l’idea stessa che possa esistere un’immagine “non fatta<br />

da mano d’uomo” contiene molti elementi utili all’apologia delle immagini<br />

<strong>di</strong> culto. Lo si può mostrare venendo ad alcuni testi dalla letteratura<br />

iconofila che si riferiscono alle acheropite come ad una prova<br />

della legittimità delle immagini, una prova così evidente da non richiedere<br />

un’articolata giustificazione teologica 20 . Qualche esempio. Giovanni<br />

Damasceno allude due volte all’acheropita <strong>di</strong> Edessa, l’una nella<br />

De fide orthodoxa e l’altra nei Contra imaginum calumniatores. Nel primo<br />

caso l’immagine <strong>di</strong> Edessa è usata come una testimonianza della<br />

tra<strong>di</strong>zione non scritta in riferimento alla quale la venerazione delle immagini<br />

può essere giustificata, anche se non è <strong>di</strong>rettamente autorizzata<br />

19 Questa seconda traiettoria <strong>di</strong> legittimazione non solo dell’uso delle immagini,<br />

ma anche del loro culto sta alla base della teologia bizantina dell’icona. Per seguire<br />

lo sviluppo teorico del <strong>di</strong>battito prima dello scontro iconoclastico resta fondamentale<br />

il lavoro <strong>di</strong> G. LADNER, The Concept of the Image in the Greek Fathers<br />

and the Byzantine Iconoclastic Controversy, Dumbarton Oaks Papers 7 (1953) 3-<br />

34. Per una introduzione sugli aspetti più propriamente filosofici e teologici del<br />

pensiero bizantino sulle immagini si vedano V.V. BIČKOV, L’estetica bizantina.<br />

Problemi teorici, trad. it. <strong>di</strong> F.S. Perillo, Bitonto 1983; M. BARASCH, Icon. <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es<br />

in History o Fan Idea, New York - London1992; M.-J. MONDZAIN, Image, icône,<br />

économie. Les sources byzantines de l’immginaire contemporain, Paris 1996; P. BER-<br />

NARDI, L’icona. Estetica e teologia, Roma 1998.<br />

20 Devo gli elementi fondamentali <strong>di</strong> questa breve carrellata al saggio <strong>di</strong> A. CA-<br />

MERON, The Mandylion and Byzantine Iconoclasm, in H. KESSLER - G. WOLF<br />

(edd.), The Holy Face cit., 33-54.


Le acheropite<br />

nella tra<strong>di</strong>zione scritta 21 . Nel secondo caso l’immagine è usata come<br />

prova concreta della liceità delle immagini e del loro gra<strong>di</strong>mento a<br />

Dio 22 e come documento per provare l’antichità dell’uso delle immagini<br />

nel cristianesimo. Questa questione dell’antichità è com’è noto uno <strong>degli</strong><br />

argomenti contrapposti dagli iconoclasti agli iconoduli. Le immagini<br />

e il loro culto sono secondo i primi un’usanza introdotta <strong>di</strong> recente,<br />

mentre l’argomento <strong>degli</strong> iconofili è che il tutto appartenga alla tra<strong>di</strong>zione<br />

più antica del cristianesimo. Ora, se le acheropite sono state generate<br />

<strong>di</strong>rettamente dal contatto con il corpo <strong>di</strong> Cristo, esse sono raffigurazioni<br />

contemporanee al Gesù storico che provengono dall’epoca apostolica<br />

e la loro antichità non può essere messa in dubbio.<br />

Nel Secondo Concilio <strong>di</strong> Nicea (787), ci ricorda Averil Cameron,<br />

l’immagine <strong>di</strong> Edessa è uno dei testimonia citato per <strong>di</strong>mostrare il miracoloso<br />

potere delle immagini; in questo periodo l’immagine, anche se<br />

non ancora presente a Costantinopoli sta gradualmente emergendo<br />

«come uno dei maggiori simboli iconofili bizantini» 23 , tanto che risulta<br />

<strong>di</strong>fficile affermare come fa Dobschütz che l’uso dogmatico <strong>di</strong> queste<br />

immagini sarebbe qualcosa <strong>di</strong> secondario 24 . È così che il riferimento all’immagine<br />

acquista maggiore spessore teologico negli iconofili successivi.<br />

La troviamo citata nel trattato a <strong>di</strong>fesa delle icone <strong>di</strong> Theodoro<br />

Abu Qurrah, in funzione anti-giudaica e anti-islamica come giustificazione<br />

della legittimità dell’uso <strong>di</strong> immagini, contro il <strong>di</strong>vieto antico-testamentario<br />

e i testi avversi alle immagini della tra<strong>di</strong>zione islamica 25 .<br />

21 GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa, 89, (ed. Kotter, vol. 2, Berlin<br />

1973, 208). In questo primo testo c’è da segnalare un aspetto interessante, che ritroviamo<br />

in <strong>di</strong>verse versioni della leggenda quali ad esempio la Narratio de imagine<br />

Edessena, già più volte citata. L’artista non è capace <strong>di</strong> <strong>di</strong>pingere a causa della<br />

gloria che splende dal volto <strong>di</strong> Cristo e Gesù stesso viene incontro al desiderio <strong>di</strong><br />

vedere <strong>di</strong> Abgar ponendo un himation sulla propria faccia e trasferendo su <strong>di</strong> esso<br />

la sua immagine. L’acheropita è tale quin<strong>di</strong> perché l’uomo non è capace con le<br />

proprie mani <strong>di</strong> fare ciò che fa Gesù stesso, cioè <strong>di</strong> produrre un’immagine <strong>di</strong> Cristo.<br />

22 GIOVANNI DAMASCENO, Contra imaginum calumniatores, I, 33; II, 29; III, 45<br />

(ed. Kotter, vol. 3, Berlin 1975) Cfr. G. DAMASCENO, Difesa delle immagini sacre,<br />

trad. it. <strong>di</strong> V. Fazzo, Roma 1983, 65 e paralleli.<br />

23 A. CAMERON, The Mandylion and Byzantine Iconoclasm cit., 41.<br />

24 E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo cit., 62.<br />

25 T. ABU QURRAH, Trattato sulla venerazione delle immagini, 23,2 (cfr. ID., La<br />

<strong>di</strong>fesa delle icone, trad. it. <strong>di</strong> Paola Pizzo, Milano 1995, 142-143). In particolare<br />

l’immagine <strong>di</strong> Edessa viene citata nella <strong>di</strong>scussione sul fatto che l’onore o il <strong>di</strong>-<br />

121


122<br />

Graziano Lingua<br />

Teodoro <strong>Stu<strong>di</strong></strong>ta cita le acheropite per giustificare la proskynesis, la venerazione<br />

contro la latreia, l’adorazione idolatrica 26 . Niceforo Costantinopolitano<br />

nei suoi Antirretici torna due volte sul volto lasciato da<br />

Cristo su un lenzuolo. Nel Primo Antiretico per legittimare il ritratto <strong>di</strong><br />

Cristo 27 e nel Terzo 28 , dove viene riportata per esteso la leggenda <strong>di</strong> Abgar.<br />

In questo secondo caso – come segnala M.-J. Mondzain 29 – Niceforo<br />

usa nei confronti dell’acheropita il termine homoioma, implicitamente<br />

attestando che essa risolve il problema della homoiosis (somiglianza<br />

formale) del ritratto <strong>di</strong> Cristo, anche se lo fa in termini metonimici<br />

e non simbolici come avviene invece nella immagini artistiche. L’acheropita<br />

può avere questo valore apologetico perché in esso si giustifica<br />

non soltanto un legame causale tra Cristo e la sua raffigurazione,<br />

ma la figura che è impressa sul velo riproduce esattamente i tratti della<br />

persona <strong>di</strong> Cristo realmente esistita e non un’idea generica <strong>di</strong> uomo <strong>di</strong>vino.<br />

La traccia prelevata <strong>di</strong>rettamente sul modello storico – si potrebbe<br />

<strong>di</strong>re proseguendo al <strong>di</strong> là del testo <strong>di</strong> Niceforo – riduce al minimo il<br />

rischio <strong>di</strong> inadeguatezza mimetica e quin<strong>di</strong> può essere considerata “ritratto<br />

autentico”.<br />

sprezzo tributato all’immagine passi al prototipo oppure no, altra questione centrale<br />

nel <strong>di</strong>battito sulla legittimità del culto delle icone. Abu Qurrah compara gli<br />

effetti dell’atteggiamento nei confronti dell’immagine <strong>di</strong> Edessa agli effetti che<br />

produrrebbe la venerazione o il <strong>di</strong>sprezzo dell’immagine dell’immagine del proprio<br />

padre: “Se qualche Cristiano si rifiutasse <strong>di</strong> venerarla, vorrei tanto raffigurare<br />

suo padre sulla porta della chiesa dell’immagine <strong>di</strong> Cristo. Quin<strong>di</strong> inviterei<br />

chiunque avesse venerato l’immagine <strong>di</strong> Cristo, a sputare quando esce, sul volto<br />

dell’immagine <strong>di</strong> suo padre, specialmente se fosse stato lui a trasmettergli <strong>di</strong> venerare<br />

la santa immagine, per vedere se costui si a<strong>di</strong>rerebbe per questo oppure no.<br />

Ma è indubbio che egli godrebbe <strong>di</strong> ripagare chi avesse agito così con l’immagine<br />

<strong>di</strong> suo padre fino al punto <strong>di</strong> togliergli la vita. Dopo<strong>di</strong>ché noi gli <strong>di</strong>remmo: se l’ira<br />

che ti prende per il <strong>di</strong>sprezzo reso all’immagine <strong>di</strong> tuo padre ti fa arrivare a tal<br />

punto, sappi che analogamente l’onore reso all’immagine <strong>di</strong> Cristo arreca a lui<br />

piacere ed Egli ricompensa colui che venera la sua immagine con tanto bene<br />

quanto è il male che tu hai fatto a colui che sputava sul volto dell’immagine <strong>di</strong> tuo<br />

padre e ancora <strong>di</strong> più, secondo la misura della sua magnanimità che trascende<br />

ogni immaginazione”. (ivi)<br />

26 TEODORO STUDITA, Epistulae, 409, 42 (ed G. FATOUROS, Corpus fontium historiae<br />

Byzantinae, Berlin 1992, 31,2).<br />

27 NICEFORO, Antirrhetici, PG 100, 260 A. Cfr. NICÉPHORE, Discours contre les<br />

iconoclastes, a cura <strong>di</strong> M.-J. Mondzain, Paris 1989, 97<br />

28 NICEFORO, Antirrhetici, PG 100, 461. Cfr. NICÉPHORE, Discours cit., 246-247.<br />

29 Cfr. NICÉPHORE, Discours cit., p. 247 nota 118.


2.<br />

Le acheropite<br />

Ora, perché le acheropite possono essere usate con tanta evidenza<br />

come testimoni a favore delle immagini? La risposta sta nel fatto che la<br />

loro natura stessa contiene al proprio interno alcuni elementi costitutivi<br />

della teoria cristiana dell’immagine. Ne evidenzierò sinteticamente<br />

due: il privilegio iconico <strong>di</strong> Dio, il fatto cioè che il vero attore dell’immagine<br />

cristiana è Dio stesso e non l’artista a cui spetta soltanto <strong>di</strong><br />

contribuire lasciando emergere una realtà che ha origini al <strong>di</strong> là del<br />

proprio arbitrio creativo, e la <strong>di</strong>alettica tra la funzione rappresentativa<br />

e la funzione ostensivo-rivelativa che fa dell’immagine nel cristianesimo<br />

un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> comunicazione con Dio e non soltanto uno schermo<br />

mimetico in cui vedere delle figure. Detto sinteticamente, la potenza<br />

apotropaica e taumaturgica <strong>degli</strong> acheropiti non deriva soltanto dal<br />

fatto <strong>di</strong> essere autentici ritratti <strong>di</strong> Cristo, ma da una presenza <strong>di</strong>vina che<br />

conservano al loro interno e che li rende “immagini viventi” che si comportano<br />

come reincarnazioni <strong>di</strong> Cristo compiendo miracoli e dando<br />

origine ad altre immagini anch’esse acheropite.<br />

Vengo al primo aspetto. Per cogliere a pieno il ruolo giocato dagli<br />

acheropiti nello sviluppo del culto delle immagini non si deve sottovalutare<br />

che proprio il “tratto cheropitico”, cioè l’intervento della mano<br />

dell’artista, costituisce un elemento problematico. Già nell’Antico Testamento<br />

o poi nei Padri dei primi secoli le operazioni artistiche <strong>di</strong><br />

messa in immagine sono considerate un pericoloso inganno. Per comprendere<br />

questo aspetto soffermiamoci sull’aggettivo acheiropoietos.<br />

Esso non deriva dal greco classico, ma è proprio della lingua della comunità<br />

cristiana delle origini ed è presente nel Nuovo Testamento in tre<br />

ricorrenze Mc 14,58; 2 Cor 2,11 e 1 Col 2,11, dove si riferisce a realtà (il<br />

tempio <strong>di</strong> Gerusalemme, il corpo glorioso e la circoncisione “non fatta<br />

da mani d’uomo”) che derivano <strong>di</strong>rettamente da un intervento <strong>di</strong> Dio.<br />

Per capire il motivo per cui questo termine possa essere stato trasferito<br />

alle immagini bisogna considerare il fatto che l’aggettivo cheiropoietos,<br />

su cui il termine è costruito per contrapposizione, a parte il suo significato<br />

generale <strong>di</strong> “creato dall’uomo” e connesso con l’ambito <strong>degli</strong> artefatti,<br />

aveva anche una specifica connotazione legata all’idolatria 30 . Acheiropoietos<br />

da questo punto <strong>di</strong> vista serve a connotare come non-idolatrico<br />

l’oggetto a cui viene attribuito. Hans Belting 31 suggerisce <strong>di</strong> con-<br />

30 E. KITZINGER, Il culto delle immagini cit., 93-94.<br />

31 H. BELTING, La vera immagine <strong>di</strong> Cristo, trad. it. <strong>di</strong> A. Cinato, <strong>Torino</strong> 2007.<br />

123


124<br />

Graziano Lingua<br />

siderare che già in Paolo l’aggettivo porterebbe in sé questo significato<br />

polemico contro l’idolatria ricordando l’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Atti 19 in cui si<br />

racconta che la pre<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> Paolo ad Efeso provocò un tumulto<br />

perché quest’ultimo aveva messo in <strong>di</strong>scussione l’operato dell’argentiere<br />

Demetrio che produceva tempietti <strong>di</strong> Artemide, Dea <strong>di</strong> cui la città<br />

pretendeva <strong>di</strong> avere un’immagine caduta dal cielo. Secondo le parole riportate<br />

da Demetrio Paolo aveva affermato che “non sono Dei quelli<br />

fatti con le mani” (<strong>di</strong>a cheiron ginomenoi, Att, 19,26).<br />

In questo testo troviamo l’idea antico-testamentaria che ci sia un legame<br />

stretto tra idolatria e produzione manuale <strong>di</strong> immagini. Quest’idea<br />

è presente non solo nel <strong>di</strong>vieto <strong>di</strong> Esodo 20, ma anche nella polemica<br />

profetica nei confronti <strong>degli</strong> idoli “opera <strong>degli</strong> artigiani” che come<br />

tale non possono pretendere <strong>di</strong> essere Dio (Ger 10, 3; Is 44,9; Os 14, 4).<br />

La stessa avversità all’operato <strong>degli</strong> artisti si ritrova per esempio in Tertulliano<br />

e in Clemente Alessandrino 32 . In questo senso si può meglio<br />

comprendere il motivo per cui questo termine può essere stato utilizzato<br />

per delle immagini: esso risultava utile per chi intendesse promuoverne<br />

il culto, «pur mantenendo allo stesso tempo l’ostilità paleocristiana<br />

nei confronti dell’artista e <strong>di</strong> ogni sua opera» 33 .<br />

Il legame <strong>di</strong> questo concetto con il sospetto <strong>di</strong> derivazione ebraica<br />

nei confronti delle operazioni <strong>di</strong> messa in immagine è sottolineato particolarmente<br />

da Marie-José Mondzain 34 . Perché – si domanda la<br />

Mondzain – produrre immagini dovrebbe essere una forza che minaccia<br />

la fede monoteista? In fondo le immagini sono soltanto rappresentazioni<br />

<strong>di</strong> falsi idoli che nulla possono <strong>di</strong> fronte al Santo. La risposta a<br />

questa domanda va cercata nello stretto intreccio che nella cultura dell’ebraismo<br />

biblico esiste tra la produzione <strong>di</strong> immagini e il desiderio<br />

senza limiti <strong>di</strong> vedere. Nell’ottica antico-testamentaria le immagini non<br />

sono in grado <strong>di</strong> dar vita ad operazioni <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione simbolica, ma<br />

soltanto ad operazioni <strong>di</strong> esposizione idolatrica del <strong>di</strong>vino, in quanto<br />

incorporano Dio nell’immagine, per cui lo sguardo dell’uomo si sod<strong>di</strong>sfa<br />

della rappresentazione senza transitare oltre. Ecco perché, è sempre<br />

la Mondzain a notarlo, le immagini hanno a che vedere con la morte,<br />

con il sangue delle vittime dei sacrifici idolatrici e quin<strong>di</strong> con la separa-<br />

32<br />

TERTULLIANO, De spectaculis, 23; CLEMENTE ALESSANDRINO, Cohortatio ad<br />

gentes, 46.<br />

33 E. KITZINGER, Il culto delle immagini cit., 94.<br />

34 Cfr. M.-J. MONDZAIN, Le commerce des regards, Paris 2002, 45-50.


Le acheropite<br />

zione tra puro e impuro. L’immagine, in quanto genera adorazione passionale,<br />

nell’ottica antico-testamentaria non potrà mai essere purificata.<br />

Neanche la presenza <strong>di</strong> immagini nel tempio <strong>di</strong> Salomone può considerarsi<br />

una purificazione dell’immagine e delle operazioni dell’artigiano<br />

perché esse non esprimono la passione dell’uomo, ma un comando<br />

dato <strong>di</strong>rettamente da Dio. Soltanto con il cristianesimo questa purificazione<br />

sarà possibile, ma passerà attraverso il superamento della<br />

Legge compiuto dal sangue del Figlio nato da una madre vergine e passato<br />

attraverso la morte violenta e l’effusione del sangue sulla croce. «È<br />

lui – conclude Mondzain – il produttore incontestato <strong>di</strong> macchie acheropite<br />

(il Santo Volto, la Sindone e la Veronica) e il modello sovrano<br />

delle icone cheropite perché egli ha purificato le mani purificando il<br />

sangue. Attraverso <strong>di</strong> lui l’immagine sarà salvata dall’impurità» 35 .<br />

Ora questo ultimo richiamo alle macchie acheropite fatto da Mondzain<br />

ci riporta al centro stesso del nostro tema. Il contributo <strong>di</strong> queste<br />

immagini al processo <strong>di</strong> redenzione operato dal cristianesimo nei confronti<br />

delle immagini artificiali passa attraverso a una forma paradossale<br />

<strong>di</strong> capovolgimento del <strong>di</strong>vieto antico-testamentario che pretende<br />

però <strong>di</strong> conservare la fedeltà nei confronti del suo spirito originario.<br />

Ciò che non viene intaccato dalle acheropite e che le costituisce come<br />

immagini istitutive, è proprio l’iniziativa iconica <strong>di</strong> Dio. Ci possono essere<br />

immagini <strong>di</strong> Cristo, nella sua doppia natura <strong>di</strong> uomo e <strong>di</strong> Dio, soltanto<br />

se è Cristo stesso che decide che ci siano, come già era avvenuto<br />

nell’Antico Testamento per le raffigurazioni del tempio <strong>di</strong> Salomone.<br />

In questo caso l’iniziativa iconica è persino più accentuata perché non<br />

entra in gioco l’azione della mano dell’artigiano, ma è Cristo stesso che<br />

produce miracolosamente l’immagine. Non è un caso allora che tali immagini<br />

acquistino in tutta la teologia dell’icona la funzione <strong>di</strong> archetipo<br />

che deve essere trasmesso e copiato fedelmente, perché la fedeltà<br />

della copia è tutta tesa a ridurre al minimo il ruolo della creatività dell’artista<br />

a favore della <strong>di</strong>mensione intrinsecamente rivelativa dell’immagine.<br />

Si comprende così quanto <strong>di</strong>ce Anca Vasiliu, ovvero che <strong>di</strong>etro ad<br />

ogni immagini ortodossa c’è un acheropita 36 perché, seppure in modo<br />

derivato, anche nella rappresentazione artistica, il primato delle immagini<br />

spetta a Dio e le mani impure dell’uomo possono entrare in gioco<br />

35 Ivi, 50.<br />

36 A. VASILIU, La traversé de l’image, Art et théologie dans les églises moldaves<br />

au XVI siècle, Paris 1994, 33.<br />

125


126<br />

Graziano Lingua<br />

solo all’interno <strong>di</strong> un preciso canone iconografico che impe<strong>di</strong>sce ogni<br />

arbitrio creativo 37 .<br />

Il tratto intrinsecamente rivelativo <strong>degli</strong> acheropiti ci conduce poi al<br />

secondo elemento concettuale che mi interessa analizzare, vale a <strong>di</strong>re la<br />

natura ambivalente <strong>di</strong> queste immagini che pretendono allo stesso tempo<br />

<strong>di</strong> essere veri ritratti <strong>di</strong> Cristo, in quanto <strong>impronte</strong> meccaniche dell’originale<br />

e reliquie che, incorporando il sacro, costituiscono delle<br />

estensioni del potere <strong>di</strong>vino del loro modello.<br />

Quando Niceforo segnala implicitamente che l’acheropita risolve il<br />

problema dell’adeguatezza della somiglianza formale e che quin<strong>di</strong> può<br />

essere considerato a tutti gli effetti il modello del ritratto <strong>di</strong> Cristo, egli<br />

accenna ad un problema che stimolerà non solo l’immaginario me<strong>di</strong>oevale.<br />

Che cosa c’è infatti <strong>di</strong> più affascinante dell’idea che esistano uno o<br />

più ritratti autentici <strong>di</strong> Gesù <strong>di</strong> Nazareth in grado <strong>di</strong> restituire il volto<br />

del Figlio <strong>di</strong> Dio nelle sue sembianze terrene o magari l’intero corpo<br />

come nel caso della Sindone. L’acheropita come impronta offre questo<br />

per la sua forza probativa, in quanto la figura si produce per un trasferimento<br />

meccanico, senza alcun intervento che lo possa alterare. Tuttavia<br />

alla proprietà fisiognomica dell’impronta si unisce nelle acheropite<br />

il fatto che nella maggior parte dei casi si tratta <strong>di</strong> reliquie <strong>di</strong> contatto,<br />

che come tali non sono importanti tanto per la loro <strong>di</strong>mensione mimetica,<br />

quanto per la loro potenza operativa ed istitutiva. Da questo punto<br />

<strong>di</strong> vista non è centrale la visibilità del tratto fisiognomico, quanto<br />

piuttosto la “visione” nel senso forte del termine, cioè la loro capacità<br />

<strong>di</strong> produrre il transito ad una <strong>di</strong>mensione invisibile che va al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ciò<br />

che si vede, pur operando in ciò che si vede.<br />

Questa <strong>di</strong>mensione operativa si vede bene in una caratteristica particolare<br />

delle acheropite: esse oltre a <strong>di</strong>ventare modelli per una serie notevole<br />

<strong>di</strong> copie, tendono a riprodursi automaticamente quasi che la loro<br />

funzione istitutiva dell’immagine sacra fosse ancora una volta intrinseca<br />

all’immagine stessa, come se l’immagine fosse ‘autoperformativa’. Il<br />

dato è ben presente nel materiale leggendario. L’immagine <strong>di</strong> Camuliana<br />

genera imme<strong>di</strong>atamente una propria copia sul tessuto in cui era stata<br />

avvolta 38 . Lo stesso accade per l’immagine <strong>di</strong> Edessa che si riproduce<br />

ben due volte su un mattone, keramion, la prima durante il tragitto che<br />

37 V. LOSSKY – L. OUSPENSKY, Le sens des icones, Paris 2003, 65.<br />

38 Cfr. E. KITZINGER, Il culto delle immagini cit., 46.


Le acheropite<br />

Anania compie dalla Palestina a Edessa 39 e la seconda quando il vescovo<br />

Eulalio ritrova l’immagine che era stata precedentemente murata 40 .<br />

Riprodursi da sé, compiere miracoli significa appartenere alla categoria<br />

delle “immagini viventi” 41 che si comportano come reincarnazioni<br />

presentificanti il proprio modello. Questo tratto è ben visibile se, come<br />

ha fatto George Di<strong>di</strong>-Hubermann, si analizza la fenomenologia<br />

particolare <strong>di</strong> queste immagini che ripresenta in altra forma la stessa<br />

<strong>di</strong>alettica a cui ho accennato. La tra<strong>di</strong>zione parla <strong>di</strong> esse contemporaneamente<br />

come immagini risplendenti e come semplici tracce in cui è<br />

poco quello che si vede, o in cui ciascuno vede quello che vi proietta,<br />

quasi la <strong>di</strong>mensione rappresentativa passasse in secondo or<strong>di</strong>ne per lasciare<br />

spazio invece alla <strong>di</strong>mensione transitiva ed operativa. Esse ripetono<br />

il faccia a faccia accecante <strong>di</strong> fronte all’invisibile proprio dell’insostenibile<br />

luce taborica che acceca gli occhi dei <strong>di</strong>scepoli al momento<br />

della Trasfigurazione. Ne è un esempio lo splendore accecante che secondo<br />

la leggenda avrebbe abbagliato Abgar quando Taddeo si presenta<br />

a lui tenendo l’immagine <strong>di</strong> Cristo <strong>di</strong> fronte alla propria faccia 42 .<br />

L’ambivalenza tra ritratto e reliquia si trasforma quin<strong>di</strong> nella <strong>di</strong>alettica<br />

tra vedere e non vedere che attraversa l’intera storia <strong>degli</strong> acheropiti.<br />

È sempre Di<strong>di</strong>-Hubermann a ricordarne alcuni esempi: l’immagine<br />

edessena da questo punto <strong>di</strong> vista viene definita da Giorgio <strong>di</strong> Pisi<strong>di</strong>a<br />

“grafica-agrafica” 43 quasi a costruire un enigma semiotico dove il carattere<br />

in<strong>di</strong>cale dell’immagine-traccia si accosta paradossalmente al carattere<br />

iconico dell’immagine-ritratto. La Veronica è allo stesso tempo<br />

irra<strong>di</strong>ante e oscura secondo quanto cantano gli inni liturgici Salve<br />

sancta facies che la descrive come impronta dello splendore e il Ave facies<br />

praeclara dove il Santo Volto è descritto come “pallida, denigrata et<br />

39 Narratio de imagine Edessena, 9, 13-16, cfr. M. GUSCIN, The Image of Edessa<br />

cit., 23<br />

40 Synaxarion, 17, 5-10, cfr. GUSCIN, The Image of Edessa cit., 105.<br />

41 Cfr. G. DIDI-HUBERMAN, Devant l’image, Paris 1990, 237-238.<br />

42 “Il re lo vide giungere da lontano e gli parve <strong>di</strong> vedere una luce splendente<br />

provenire dal suo volto, troppo brillante per essere guardata, emessa in realtà dall’immagine<br />

che lo ricopriva”, cfr. Narratio de imagine Edessena, 12, 19-21, cfr.<br />

GUSCIN, The Image of Edessa cit., 27. Si tratta in questo caso della seconda leggenda<br />

sull’origine dell’immagine <strong>di</strong> Edessa riportata nella Narratio, secondo cui<br />

l’immagine sarebbe stata portata ad Abgar dal <strong>di</strong>scepolo Taddeo inviato a guarirlo<br />

dopo la morte <strong>di</strong> Cristo.<br />

43<br />

GIORGIO DI PISIDIA, Expe<strong>di</strong>tio persica, I, 140.<br />

127


128<br />

Graziano Lingua<br />

sanguineo rigata” 44 . Per questo Dante nel Canto XXXI del Para<strong>di</strong>so<br />

può affermare che la fame <strong>di</strong> vedere le esatte sembianze <strong>di</strong> Cristo del<br />

pellegrino <strong>di</strong> Croazia che si reca in pellegrinaggio a Roma per la Veronica<br />

“non sen sazia”, non viene saziata.<br />

Conclusione<br />

Questa natura ambivalente e l’iniziativa iconica <strong>di</strong> Dio che ne declina<br />

la <strong>di</strong>mensione rivelativa costituiscono due elementi <strong>di</strong> grande interesse<br />

offerto alla riflessione filosofica dalle tra<strong>di</strong>zioni sulle immagini<br />

“non fatte da mano d’uomo” perché in esse l’immagine non è tanto<br />

uno schermo mimetico che conta per la sua visibilità o per la sua qualità<br />

artistica, ma piuttosto un <strong>di</strong>spositivo che mette in relazione lo spettatore<br />

con la realtà operante all’interno dell’immagine stessa. Da questo<br />

punto <strong>di</strong> vista entrambi gli aspetti che ho velocemente tratteggiato<br />

contribuiscono ad un allargamento del concetto <strong>di</strong> immagine, ben al <strong>di</strong><br />

là della concettualità a cui ci ha abituato l’estetica moderna. Parlare <strong>di</strong><br />

iniziativa iconica <strong>di</strong> Dio significa infatti riconoscere all’immagine una<br />

ulteriorità simbolica che entra in gioco anche quando l’immagine è fatta<br />

da mano umana, perché contesta la semplice identificazione tra operazione<br />

artistica <strong>di</strong> messa in immagine e creatività s<strong>oggetti</strong>va. Da qui la<br />

feconda ambivalenza tra visibilità e invisibilità che trova nell’idea cristiana<br />

<strong>di</strong> incarnazione il suo modello originario. Ora, come <strong>di</strong>cevamo<br />

all’inizio è sulla nozione <strong>di</strong> incarnazione che si gioca la svolta cristiana<br />

<strong>di</strong> legittimare le immagini <strong>di</strong> fronte al <strong>di</strong>vieto antico-testamentario. L’iniziativa<br />

iconica <strong>di</strong> Dio e l’ambivalenza ontologica e fenomenologica<br />

delle acheropite rappresentano da questo punto vista un vero e proprio<br />

racconto fondatore, che apre ad una concezione in cui ciò che conta è il<br />

<strong>di</strong>spositivo generale <strong>di</strong> messa in relazione proprio delle immagini, e non<br />

solo la loro funzione mimetica e la loro qualità artistica.<br />

44 Cfr. G. DIDI-HUBERMANN, La ressemblance par contact, Paris 2008, 89-90.


L’IMAGE-EMPREINTE, IDENTIFIANT VISUEL DU DIEU-HOMME<br />

(RÉFLEXIONS SUR LA TRACE, LE PORTRAIT ANTIQUE<br />

ET LE MANDYLION BYZANTIN)<br />

ANCA VASILIU<br />

Centre Léon Robin, CNRS Paris-Sorbonne<br />

Quelle soit volontaire comme l’imposition de la main fabricatrice ou<br />

involontaire comme la marque allègre d’un pas, la trace ou l’empreinte<br />

appartient à une structure visuelle et noétique particulière. Héritière<br />

d’une tra<strong>di</strong>tion immémoriale dont le contour des mains sur des parois<br />

de caverne porte encore le souvenir, l’empreinte a une fonction précise<br />

dans la pensée antique grecque : elle est censée capter un trait propre,<br />

recevoir une donnée singulière, unique, saisir dans son impact formel le<br />

passage d’un singulier immanent et immé<strong>di</strong>at, en situant aussitôt le<br />

résultat de ce double acte de passage et d’impression (fruit de l’union<br />

entre un support propice et un sceau ou une frappe) en rapport <strong>di</strong>rect<br />

avec les moyens de la connaissance et de la transmission. Si l’apparence<br />

formelle situe l’empreinte dans la famille des signes, cette appartenance<br />

doit aussitôt être amendée : en tant que signe, l’empreinte (ou la trace)<br />

a une fonction spécifique liée à son origine et à un régime de réalité<br />

particulière qui lui appartient exclusivement. Cette structure simple,<br />

articulant un support récepteur et un « signe » visible, a en effet la<br />

valeur d’un « original », alors qu’une image, aussi ressemblante soitelle,<br />

est d’emblée considérée comme une « copie ». Quant au signe proprement<br />

<strong>di</strong>t, il signifie, laissant sa présence réelle s’effacer aussitôt la<br />

signification saisie, tan<strong>di</strong>s qu’une trace demeure toujours dans ses<br />

contours et n’a pas de sens en dehors de ceux-ci. La trace partage donc<br />

certaines propriétés à la fois avec le signe et avec l’image, mais ne s’y<br />

confond guère.<br />

Cependant, ce n’est pas à l’égard du signe mais par <strong>di</strong>stinction avec<br />

le statut de l’image que le statut de la trace ou de l’empreinte se définit<br />

dans la pensée antique. De moindre valeur aléthique qu’une empreinte<br />

ou qu’une trace, l’image est d’emblée susceptible de fausseté puisqu’elle<br />

montre l’aspect et ne garantit en rien que cet aspect subsiste encore<br />

après qu’il ait été surpris et fixé, tan<strong>di</strong>s que la trace, témoignage palpable<br />

d’un passage, jouit au contraire d’un régime de réalité renforcée<br />

129


130<br />

Anca Vasiliu<br />

par la pérennisation de l’instant qui a capté le transit et par la certitude<br />

de son statut matériel qui, aussi minimal soit-il, conforte autant la vue<br />

que la sensation plus basique du toucher. Mais, de ce régime de réalité<br />

propre au statut de l’empreinte ou de la trace sourd aussi une aporie.<br />

Le caractère original d’une empreinte relève du particulier (une trace<br />

est toujours la trace d’un in<strong>di</strong>vidu ou d’un objet singulier), tan<strong>di</strong>s que<br />

l’intellection et le langage opèrent avec des catégories et visent la<br />

connaissance de l’universel non du particulier et de l’in<strong>di</strong>viduel.<br />

Difficile à surmonter pour la pensée antique, ce décalage entre l’information<br />

singulière d’une donnée sensible ponctuelle, propre à l’expérience<br />

sensitive dont relève la trace, et sa traduction en signe, voire en<br />

notion opératoire ou en concept, réclame alors l’aménagement d’un<br />

pacte. C’est le rôle privilégié accordé à la trace comme « sceau » de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

formel qui sauve pour un temps la mise aux dépens de l’image<br />

et de la ressemblance. Ce rôle, apparenté au témoignage, permet de<br />

dépasser le paradoxe tout en respectant sa rigueur : la trace est perçue<br />

comme articulant en un seul périmètre et sous un signe unique le particulier<br />

et le général, deux plans séparés ontologiquement pour les<br />

Anciens. Cette définition lui permet de jouer un rôle considérable à la<br />

fois dans la pensée théologique antique et dans les pratiques religieuses<br />

du moyen âge.<br />

1. Trace et image : témoignage du singulier et modes d’in<strong>di</strong>viduation<br />

L’usage récurrent de la notion de trace ou d’empreinte dans la philosophie<br />

ancienne recouvre donc le décalage signalé en faisant jouer à<br />

la trace ou à l’empreinte le rôle non seulement d’un signe mais de<br />

quelque chose de formel situé au-delà du signe dans l’ordre de la vérité.<br />

La trace ou l’empreinte ne signifie pas seulement mais témoigne audelà<br />

de toute signification : son rôle est donc aussi celui d’un argument<br />

par la preuve, et même d’un moyen de persuasion dans un processus<br />

cognitif qui n’opère pas seulement par démonstration ou par déduction<br />

mais joue en même temps sur l’effet irréfutable produit par la révélation,<br />

l’apparition, l’exposition et le témoignage, comme dans les<br />

récits, les mythes, le théâtre antique. Certes, l’objet ou l’être qui se<br />

dévoile dans une trace dépose en et par celle-ci un témoignage double :<br />

il témoigne de son passage certain en même temps que de son caractère<br />

propre, de son unicité, que cette dernière soit humaine ou <strong>di</strong>vine,<br />

immanente ou transcendante. Toutefois, la trace de cette singularité ne


L’image-empreinte<br />

parle pas des propriétés accidentelles de l’objet ou de l’être in<strong>di</strong>viduel<br />

mais certifie seulement de son caractère formel et de son appartenance<br />

à une espèce. L’empreinte de la main in<strong>di</strong>que un homme, la trace d’un<br />

sabot, le passage d’une biche ou d’un sanglier. Se fier à ce renseignement<br />

apporte des résultats cognitifs dès lors que l’empreinte, même si<br />

elle est irréductible au concept puisqu’elle est physique et particulière,<br />

est toujours située, par analogie structurelle, au cœur même des facultés<br />

de la connaissance. Elle n’est pas seulement extérieure, livrée à l’expérience<br />

sensorielle, ne consiste pas en une in<strong>di</strong>cation sans signification(s),<br />

mais elle est perçue <strong>di</strong>rectement en relation avec sa reproduction<br />

dans l’âme et dans le noûs, auprès desquels elle se déploie, révèle<br />

ses « secrets » et fait, là encore, office double : de témoignage de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

et de moyen spécifique de renseignement sur l’espèce et le genre.<br />

Et, là encore, l’empreinte ou la trace va plus au fond du processus<br />

cognitif que l’image dont se servent les facultés noétiques, l’imagination<br />

et la mémoire en particulier ; plus au fond, puisque la trace ou<br />

l’empreinte concerne physiquement l’in<strong>di</strong>vidu, le met en question <strong>di</strong> -<br />

rec tement au cours d’un processus unique par lequel un être s’approprie<br />

à la fois l’objet de la trace et la trace elle-même comme moyen<br />

emblématique de la connaissance. Ainsi la trace apparaît-elle comme le<br />

moyen le plus rapproché de la connaissance des formes para<strong>di</strong>gmatiques<br />

et en même temps comme le moyen le plus apparenté au processus<br />

de la mise en acte de l’expression cognitive, du langage qui reflète la<br />

saisie en soi-même des traces ou des empreintes de toutes les choses<br />

perçues.<br />

En somme, la trace assure une connaissance réservée aux choses particulières<br />

à partir des impressions que celles-ci produisent dans l’âme<br />

comme si cette dernière était en cire : il y a en nos âmes une cire imprégnable<br />

(ejn tai'" yucai'" hJmw'n ejno;n khvrinon ejkmagei'on), <strong>di</strong>t Platon dans le<br />

Théétète 191c ; ou à partir de ce qui se reflète sur la surface lisse et<br />

brillante du foie sur lequel, d’après les Anciens, des impressions reçues<br />

s’impriment et se donnent à voir sous une certaine forme, parakeivmenon<br />

ejkmagei'on (Timée 72c), laissant se deviner, par remontée à partir de la<br />

réflexion, le cours des événements et le sens que prennent les choses. Ou<br />

encore, comme chez Aristote et chez les Stoïciens, une connaissance qui<br />

se constitue à partir de ce qui se forme et s’imprime dans la mémoire,<br />

dans l’imagination et dans le noûs lui-même sous le mode des « représentations<br />

» : des phantasmata, des ennoiai ou des epinoiai.<br />

Ainsi, l’intellection et le langage, qui n’ont pas d’emblée un accès<br />

<strong>di</strong>rect à l’expérience que livre au regard la trace formelle spécifique<br />

131


132<br />

Anca Vasiliu<br />

d’un être singulier ou d’une chose particulière, inscrivent cette trace<br />

comme une affection, un pathos imprimé, et traduisent en mots le rapport<br />

à la chose singulière à partir de cette impression, comme si celle-ci<br />

était une sorte d’« image » signifiante, restaurée à partir de l’empreinte<br />

reçue dans l’âme et dans le noûs. Les traces ou les empreintes deviennent<br />

alors des intermé<strong>di</strong>aires entre l’expérience immé<strong>di</strong>ate, immaîtrisable<br />

comme telle, et le concept qui en réduit les contours pour l’ajuster<br />

au commun et à l’universel, en traduisant les traces ou les em -<br />

preintes reçues (ou encore les impressions) en langage 1 . Mais il y a<br />

dans ce processus une <strong>di</strong>alectique entre la trace formelle ou l’empreinte<br />

d’un sceau (ejkmagei'on) et un certain type d’image (eijkwvn, to; ei[kasma,<br />

ou encore oJmoivwma), une image qui est de l’ordre d’une ressemblance<br />

pure, factice, et qu’il convient de saisir comme telle pour pouvoir comprendre<br />

sur quel registre se situe la possibilité d’entretenir un rapport<br />

ou d’avoir un accès à l’identité d’un être singulier ou d’un objet particulier<br />

selon la <strong>di</strong>stinction bien établie entre sa trace et son aspect.<br />

Il me semble important de retenir cette <strong>di</strong>stinction, aussi brièvement<br />

soit-elle esquissée, car c’est sur le levier de celle-ci que va s’appuyer la<br />

culture byzantine en accordant un rôle considérable et philosophiquement<br />

novateur à l’image, un rôle qui englobe aussi, nécessairement, la<br />

fonction particulière réservée ja<strong>di</strong>s à la trace seule. Récupérant les fondements<br />

philosophiques sur lesquels s’étaient constitués les statuts<br />

complémentaires de l’image et de l’empreinte dans la pensée antique,<br />

1 Rappelons le début du De interpretatione, 16a 4-8, car c’est l’un des passages<br />

aristotéliciens qui décrit le plus clairement ce processus analogique entre connaissance<br />

et langage par des empreintes dans l’âme et leurs « traductions » par des<br />

signes, processus qui tente l’impossible articulation entre le singulier de l’impression<br />

produisant l’opinion, et l’universalité du signe imprimé, ici sous l’espèce du<br />

signe phonétique, produisant la vraie connaissance : « Les sons émis par la voix<br />

sont les symboles des affections [ou impressions] de l’âme (ejn th'/ yuch'/ paqhmavtwn<br />

suvmbola), et les mots écrits les symboles des mots émis par la voix. Et de même<br />

que l’écriture n’est pas la même chez tous les hommes, les mots parlés ne sont pas<br />

non plus les mêmes, bien que les affections [ou impressions] de l’âme dont ces<br />

expressions sont les signes immé<strong>di</strong>ats soient identiques à tous (w|n mevntoi tau'ta<br />

shmei'a prwvtw", taujta; pa'si paqhvmata th'" yuch'"), comme sont identiques aussi les<br />

choses dont ces affections [ou impressions] sont les copies [ou ressemblances] (kai;<br />

w|n tau'ta oJmoiwvmata, pravgmata h[dh taujtav). » Trad. J. Tricot (Paris 1994) légèrement<br />

retouchée ; pour le texte grec, H. P. COOKE, London 1973 6 .


L’image-empreinte<br />

ce rôle majeur de l’image devient culturellement formateur d’un nouveau<br />

para<strong>di</strong>gme, bien que le pouvoir institutionnel, politique et ecclésiastique,<br />

s’en soit emparé aussitôt pour en faire aussi un instrument<br />

stratégique redoutable. Il faut cependant souligner une inflexion, un<br />

point d’orgue qui permet de comprendre la profondeur où s’opère la<br />

mutation. Ce processus de changement de para<strong>di</strong>gme qui déborde les<br />

cadres stricts de l’image puisqu’il assimile à l’image, du moins conceptuellement,<br />

les traits caractéristiques de l’empreinte ou de la trace, s’appuie<br />

aussi sur l’équivocité propre au statut de l’empreinte ou de la trace<br />

– or cette équivocité concerne le sujet, le met en cause, le fait naître à<br />

lui-même en quelque sorte, et résout au niveau de celui-ci le paradoxe<br />

du singulier et de l’universel évoqué plus haut. Puisque la trace est<br />

trace du particulier, de sa singularité absolue d’in<strong>di</strong>vidu, et qu’elle est<br />

donc incompressible comme trace et irréductible comme unicité à l’homogénéité<br />

et à l’univocité des catégories, il n’y a alors qu’une solution<br />

pour faire sortir la connaissance fournie par la trace de l’aporie particulier-universel<br />

dans laquelle la pensée classique l’avait enfermée. Cette<br />

solution consiste à inverser le rapport : ce n’est pas la trace qui est<br />

garante de l’in<strong>di</strong>vidu à travers l’acte de passage dont elle témoigne et<br />

qui certifie l’existence outre le transit, mais c’est le statut de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

lui-même qui s’identifie dorénavant à la trace dès lors que celle-ci<br />

garantit à l’in<strong>di</strong>vidu qu’il est bien lui-même le lieu d’un passage et qu’à<br />

ce titre il conserve un lien propre avec l’origine de cette trace, avec son<br />

principe formateur et avec son modèle formel. L’in<strong>di</strong>vidu lui-même,<br />

plus exactement son âme, est déterminé(e) comme sujet de la trace,<br />

comme support (subiectum) de celle-ci (vestigium), et cette situation<br />

formalise le « propre » de l’in<strong>di</strong>vidu, i.e. son âme, en tant que singularité<br />

vivante ayant reçu le sceau universel de son modèle formel intelligible<br />

2 .<br />

2 Ce n’est que par souci de clarté que j’ai ajouté les termes latins subiectum et<br />

vestigium, plus familiers à la réflexion sur le substrat et la trace que leurs équivalents<br />

grecs hupokeimenon et ekmageîon. Il faudrait préciser que ces notions sont<br />

au cœur de la réflexion philosophique et théologique gréco-latine de l’antiquité<br />

tar<strong>di</strong>ve et du moyen âge car elles constituent la base des définitions de l’in<strong>di</strong>vidu,<br />

de la personne, de l’existence et de la connaissance du singulier en contre-point<br />

avec la connaissance par les universaux. Notre brève présentation théorique du<br />

statut antique de l’empreinte n’a pour but que d’in<strong>di</strong>quer les champs philosophiques<br />

et théologiques concernés, nullement de les résumer.<br />

133


134<br />

Anca Vasiliu<br />

Plotin, chez qui cette inversion du rapport semble servir précisément<br />

pour définir la singularité de l’in<strong>di</strong>vidu, décrit le sceau imprimé à l’aide<br />

d’un terme <strong>di</strong>fférent de celui employé par Platon. C’est le terme d’ikhnos,<br />

la trace du pas, la marque du passage, l’empreinte du transit dont<br />

Plotin se sert comme déterminant de l’âme in<strong>di</strong>viduelle recevant<br />

dans/sur la matière-substrat, comme une illumination préalable, la projection<br />

de la partie de l’âme du monde qui lui correspond 3 . Or le terme<br />

i[cno" comporte une toute autre détermination sémantique que le terme<br />

ejkmagei'on à l’égard de l’empreinte ou de la trace. Les deux termes, l’un<br />

à connotation dynamique l’autre suggérant la pérennisation du transit,<br />

désignent en effet de manière bien <strong>di</strong>stincte la singularité du sujet.<br />

Dans le premier cas le sujet est lui-même une trace et s’identifie au<br />

propre de celle-ci, à savoir au passage et à ce/celui qui met en route le<br />

mouvement de transit, à savoir la force aspirante du modèle imprimé ;<br />

la métaphore la plus usuelle est celle du pas <strong>di</strong>vin dans le sillage duquel<br />

s’inscrit par la volonté le vivant 4 . Dans le second cas, l’empreinte est un<br />

sceau formel qui fait que l’in<strong>di</strong>vidu puisse rejoindre l’espèce et se<br />

3 Ennéade VI, 7, 7 et 33 (T. 38) ; voir aussi V, 5, 5 (T. 10) pour la relation substrat-forme<br />

au niveau de l’âme in<strong>di</strong>viduelle (mais le terme ikhnos n’est pas utilisé<br />

dans ce second contexte). On retrouve certains échos de ces passages plotiniens<br />

chez Grégoire de Nysse, notamment dans De hominis opificio (V et XVI) à propos<br />

de l’inscription de la ressemblance de Dieu dans l’âme-image de l’homme, mais<br />

sous con<strong>di</strong>tion de l’espèce non de l’in<strong>di</strong>vidu.<br />

4 Suivre la trace du pas <strong>di</strong>vin est un topos homérique : à l’égard des <strong>di</strong>eux il<br />

convient de les suivre, comme Ulysse qui se met dans les pas d’Athéna – katovpisqe<br />

metæ i[cnion w{ste qeoi'o « je marche sur ses pas, je le suis à la trace comme un<br />

<strong>di</strong>eu ». Platon cite ainsi Homère dans le Phèdre (266b) : Ulysse est en train de<br />

suivre les pas, donc la volonté d’un <strong>di</strong>eu et non pas la sienne propre. A noter que<br />

le passage où apparaît cette citation est important dans l’économie du Phèdre car<br />

Socrate y définit la méthode <strong>di</strong>alectique comme moyen de donner la possibilité de<br />

parler et de penser (levgein te kai; fronei'n) par le biais de deux opérations du langage<br />

: la <strong>di</strong>vision et l’unification ou rassemblement, opérations qui permettent<br />

d’articuler, par les vertus du logos, l’un et le multiple. Voir pour les occurrences<br />

dans l’Odyssée les références citées par L. Brisson (trad. du Phèdre dans GF,<br />

Paris, 1997 2 , n. 358, p. 224). Sur l’usage du terme ikhnos par Plotin, avec un sens<br />

dynamique renvoyant à la fois à l’empreinte, au passage, au transit et à la danse,<br />

voir J.-L. CHRÉTIEN, Plotin en mouvement, in Reconnaissances philosophiques,<br />

Paris 2010, 21-25. Et pour la relation trace-signe, toujours chez Plotin, voir G.<br />

LEROUX, La trace et les signes. Aspects de la sémiotique de Plotin, in Sophiès<br />

Maiètores. Hommage à Jean Pépin, Paris 1992, 245-262.


L’image-empreinte<br />

reconnaître comme appartenant à elle, désapproprié de sa singularité<br />

mais s’appropriant en même temps l’universel comme une image de<br />

l’altérité même inscrite en lui. Cette seconde instance de la trace est<br />

privilégiée en raison de son glissement facile vers le domaine de l’image<br />

et de la ressemblance. La proximité avec l’image sous-entendue dans<br />

l’empreinte du sceau, permet de saisir de manière plus efficace le rapport<br />

au modèle comme un rapport de reflet imprimé et de lien de<br />

miroitement déterminant pour la constitution d’un sujet qui ne devient<br />

lui-même que lorsqu’il a aussi un moyen de se connaître lui-même audelà<br />

de sa présence visible pour les autres. Mais il faut aussi préciser un<br />

aspect conjoncturel qui justifie cette proximité. Le glissement sémantique<br />

depuis la trace ou l’empreinte vers l’image spéculaire, image qui<br />

se constitue à partir d’un reflet, est facilité conceptuellement par la<br />

théorie optique dominante dans toute l’antiquité classique et tar<strong>di</strong>ve,<br />

théorie qui stipulait la réception du reflet comme une empreinte véritable<br />

sur la surface catoptrique. Dès lors, un reflet est nécessairement<br />

une image imprimée dans/sur toute surface lisse et brillante préparée à<br />

recevoir un reflet, et à le recevoir en effet comme une trace de ce/celui<br />

qui se rend ainsi manifeste.<br />

2. Empreinte et portrait ; la nécessité du nom<br />

A partir de cette dualité terminologique de l’empreinte ou de la<br />

trace, et de cette situation de proximité conjoncturelle entre la trace et<br />

l’image, on constate plusieurs juxtapositions et superpositions de<br />

registres sémantiques qui étaient restés à <strong>di</strong>stance dans la pensée<br />

grecque classique et qui se trouvent désormais déplacés et re<strong>di</strong>stribués<br />

selon le nouveau para<strong>di</strong>gme imposé par le christianisme. Persiste<br />

d’abord un flottement conceptuel autour de la notion d’eikôn et une<br />

tendance à l’employer comme un quasi synonyme des notions de typos<br />

et de charactèr – des notions bien <strong>di</strong>stinctes mais qui relèvent toutes<br />

deux d’un processus générique d’impression. Ensuite, ce moment de<br />

flottement théorique autour du rôle que pourrait jouer l’image comme<br />

un plan de réflexion et d’impression assez facilement assimilable au<br />

rôle joué par le logos à l’égard du noûs, flottement dont les traits caractéristiques<br />

apparaissent au cours des débats trinitaires du IV e s. aussi<br />

bien en milieu grec que latin 5 , est dépassé lorsque se produit une véri-<br />

5 Cette esquisse, bien trop rapide, s’appuie sur certaines des conclusions pré-<br />

135


136<br />

Anca Vasiliu<br />

table superposition de la trace et de l’image-aspect, de l’empreinte et de<br />

l’apparence visuelle, superposition réclamée comme « preuve » par une<br />

théologie de l’Incarnation et par la défense acharnée de l’orthodoxie<br />

du dogme christologique à la suite du concile de Chalcédoine (451). A<br />

l’encontre de tous les adversaires de la double nature du Christ, cette<br />

superposition d’image et de trace, encore perçue comme paradoxale<br />

par les tenants d’une certaine rationalité théologique qui s’y opposent,<br />

est désormais présentée comme une « œuvre <strong>di</strong>vine ». Or trois siècles<br />

plus tard, en contexte de confrontation avec les iconoclastes, c’est précisément<br />

de cette « œuvre <strong>di</strong>vine », l’Incarnation du Fils, Dieu-<br />

Monogène, « œuvre <strong>di</strong>vine » unique et non-produite artificiellement,<br />

que le statut de l’icône se réclamera. Et dans la continuité <strong>di</strong>recte de<br />

cette « œuvre <strong>di</strong>vine » dont se réclamerait l’icône pour ses défenseurs,<br />

un objet unique, considéré comme « <strong>di</strong>vin » lui-aussi, viendra conforter<br />

par la « preuve » de l’empreinte du visage le témoignage « historique »<br />

d’un Dieu-homme unique, le Christ. Le témoignage de l’existence et les<br />

traits spécifiques du Christ seront alors présentés comme subsistant<br />

ailleurs, et mieux <strong>di</strong>t-on, que dans les Evangiles. L’entorse de la raison<br />

s’opère maintenant à l’égard du langage et tend à s’opposer à la domination<br />

cognitive, jusque là reconnue, du logos.<br />

L’empreinte devient dans ce cas totalement identique à une image,<br />

et cette image, icône, i.e. ressemblance par excellence, devient ainsi une<br />

réplique paradoxale du logos – paradoxale car à la fois une et multiple,<br />

originale et copie, inerte et pourtant vivante et donc absolument vraie,<br />

authentique, puisqu’elle relève <strong>di</strong>rectement de l’être vivant <strong>di</strong>eu et<br />

homme, puissance en même temps qu’actualisation physique et formelle<br />

de cette puissance sans forme. Seul le logos, expression parfaite du<br />

noûs, bénéficiait auparavant de ce statut. Désormais l’icône prend la<br />

relève <strong>di</strong>recte. Elle s’approprie le statut de la trace qui lui assure un<br />

sentées dans les travaux récemment publiés sur le rôle de l’image comme argument<br />

dans les débats trinitaires en milieux cappadocien et chez un auteur latin<br />

proche de la théologie grecque et précurseur d’Augustin. Voir : A. VASILIU, Eikôn.<br />

L’image dans le <strong>di</strong>scours des trois Cappadociens, Paris 2010 et EAD., L’argument de<br />

l’image dans la défense de la consubstantialité par Marius Victorinus, en cours de<br />

publication dans Les Etudes philosophiques, Paris 2011. Je prie le lecteur de bien<br />

vouloir excuser cette autoréférence et de considérer qu’elle me permet de faire ici<br />

l’économie de la bibliographie et d’une multitude de références textuelles impossibles<br />

à résumer en une seule note.


L’image-empreinte<br />

accès à l’identifiant du singulier, mais remplace ce qui dans l’imageempreinte<br />

(imago) relevait d’un objet inerte ou d’un cadavre, par une<br />

image-empreinte unique et absolument nouvelle, icône, trace et portrait<br />

à la fois, reproduisant les traits du vivant, c’est-à-<strong>di</strong>re la trace effective<br />

de l’être vrai. Je reviendrai sur quelques détails de cet objet étrange, de<br />

cet hapax devenu prototype de toute icône, objet qui se perçoit si -<br />

multanément comme une toile-imprimée (mandylion) et comme une<br />

image-portrait (le visage du Christ). Mais retenons l’essentiel : cette<br />

image, trace, relique, signe et portrait à la fois, prend le dessus aux<br />

dépens du langage dans la référence à Dieu puisqu’elle est considérée<br />

comme absolument vraie en tant que hapax et comme ajceiropoivhton –<br />

unique et tombée du ciel –, arguments ou plutôt preuves de vérité auxquel(le)s<br />

la parole évangélique n’avait jamais prétendu ni jamais fait<br />

appel.<br />

Le cas de cet objet est bien étrange et son histoire pleine encore de<br />

zones floues ; il est cependant si symptomatique qu’il est devenu incontournable<br />

dans l’étude des rouages qui articulent pensée théologique et<br />

pratiques religieuses en contexte chrétien. Le paradoxe qu’il soulève<br />

n’est d’ailleurs pas la seule contra<strong>di</strong>ction ou <strong>di</strong>storsion volontaire qui<br />

s’est produite dans ce contexte. En voici encore une, toujours au sujet<br />

de l’image, mais plus générique. Contrairement à l’empreinte qui provient<br />

d’un rapport intime avec l’in<strong>di</strong>vidu et qui en même temps lui survit,<br />

l’image, bien que saisie conceptuellement, définit en réalité l’extériorité<br />

caduque, l’apparence et les propriétés accidentelles, et dénote<br />

une incapacité certaine à retenir la nature substantielle et le caractère<br />

propre d’un in<strong>di</strong>vidu. Or la fonction qui sera assignée à l’image en<br />

contexte chrétien, et notamment byzantin, renverse justement cette<br />

situation et fait de l’image un argument de la nature substantielle et du<br />

caractère propre d’un in<strong>di</strong>vidu particulier. Ces deux modalités, la trace<br />

et l’image, ou l’empreinte et l’aspect, se trouvent par conséquent croisées<br />

et identifiées dans le périmètre d’un seul objet, l’icône, qui signale<br />

une identité particulière et qui signifie en même temps une approche<br />

universelle à travers cette même identité. Cette situation est valide dans<br />

le cas de toutes les icônes, qu’elle que soit leur époque et leur sujet.<br />

Tout être figurant dans une icône, la Mère de Dieu, un saint ou un<br />

archange, a sa présence physique propre inscrite dans le corps physique<br />

de l’image, en même temps qu’il montre ses traits spécifiques et signifie<br />

à travers ses traits, dans son aspect particulier même, l’empreinte universelle<br />

laissée dans le créé par l’Incarnation du Fils. Qu’elle soit ou<br />

non une réplique du Mandylion, l’icône est alors, et à ce titre, image et<br />

vestige simultanément.<br />

137


138<br />

Anca Vasiliu<br />

Nous savons, par ailleurs, que dans la pensée antique une identité<br />

in<strong>di</strong>viduelle est signalée prioritairement par le nom et qu’au nom<br />

s’ajoutent des traits caractéristiques qui situent l’in<strong>di</strong>vidu dans une<br />

catégorie et qui le décrivent à partir d’une typologie : roi, mage, athlète,<br />

héros mythologique, donateur, satyre, pleureuse etc., en ce qui concerne<br />

l’appartenance de l’in<strong>di</strong>vidu à une catégorie ; figure large au nez<br />

camus (Socrate) ou efféminée (Antinoos) etc., pour ce qui est d’une<br />

typologie particulière ; à quoi s’ajoutent des signalements particuliers,<br />

des « signes <strong>di</strong>stinctifs » comme la cicatrice sur la jambe pour Ulysse<br />

ou le côté percé pour le Christ, censés assurer l’assistance sur une identité<br />

précise contre les sosies ou les mauvais esprits, trompeurs et vagabonds.<br />

Or l’utilisation du trait imprimé, de l’encoche, du moulage, de<br />

la trace, de l’empreinte (hJ sfragiv", to; sfravgisma) sur/dans une matière<br />

propre à recevoir cette empreinte (ejkmagei'on) supplante les catégories,<br />

la nécessité absolue du nom propre et l’usage de l’image typologique à<br />

l’égard de l’identité d’un être, en signalant les deux aspects de sa réalité<br />

sensible telle qu’elle est saisie par le trait d’une impression : (1) que<br />

l’objet ou l’être qui a produit cette trace est un et seul, la trace étant la<br />

sienne – trace d’un objet particulier ou d’un in<strong>di</strong>vidu –, aspect dont j’ai<br />

déjà souligné les <strong>di</strong>fficultés d’articulation avec les moyens de la<br />

connaissance et de l’expression ; et (2) que la trace recueille sur un support<br />

<strong>di</strong>fférent de celui d’origine certaines propriétés qui sont certes<br />

accidentelles, mais qui constituent en même temps une preuve d’existence<br />

et de surcroît une preuve substantielle de ce que cet objet ou cet<br />

être a précisément d’unique et d’irremplaçable au moment même du<br />

passage où l’empreinte s’est produite. Or ce qu’un objet ou un être a<br />

d’unique et d’irremplaçable est l’entité précise de son corps. C’est en<br />

celle-ci que se révèle la relation formelle avec son prototype dans le cas<br />

d’un objet produit, et que se révèle aussi la relation avec l’âme comme<br />

forme in<strong>di</strong>viduelle et comme hypostase de l’âme cosmique dans le cas<br />

d’un être vivant particulier.<br />

Ces deux aspects, la preuve de la singularité et la <strong>di</strong>fférence de support-réceptacle,<br />

aspects qui semblent pour nous aller de soi et qui ne<br />

sont pas du ressort de l’image mais sont propres à la seule empreinte<br />

ou trace, soulèvent néanmoins des <strong>di</strong>fficultés de définition pour la pensée<br />

antique. J’ai déjà mentionné l’une d’entre elles : le rapport à l’in<strong>di</strong>vidu,<br />

la saisie du caractère in<strong>di</strong>viduel d’un être a lieu prioritairement à<br />

travers le nom, non à travers une image. Mais de là découlent encore<br />

d’autres embûches à la saisie de l’identité in<strong>di</strong>viduelle d’un être vivant.<br />

L’homme, outre son genre et son nom, est reconnu et déterminé selon<br />

son appartenance à une lignée parentale, à un métier, à un lieu, à une


L’image-empreinte<br />

situation. Dans un <strong>di</strong>alogue ou dans une pièce de théâtre, par exemple,<br />

l’in<strong>di</strong>vidu porte un nom ; ou alors, plus couramment encore, il est désigné<br />

par une fonction ou par le rôle qu’il incarne dans la société et qui<br />

lui assure un statut : roi, prêtre, philosophe, maçon, cordonnier, portier,<br />

berger, esclave métèque…. Si, de surcroît, un homme a droit à<br />

l’image pour des raisons de fonction ou de reconnaissance privée ou<br />

publique, s’il est donc roi, ancêtre, vainqueur, rhéteur, sauveur, mécène…,<br />

alors cette image relève moins des traits propres et davantage<br />

d’une typologie spécifique, liée précisément aux fonctions, au contexte<br />

de la demande et au but dans lequel un « portrait » est réalisé, conservé,<br />

voire érigé sur la place publique 6 . Il arrive dans ce cas qu’il y ait<br />

aussi des « portraits » de chevaux particuliers (vainqueurs de courses,<br />

par exemple), non seulement des « portraits » d’êtres humains. Des<br />

traits spécifiques y sont inscrits avec plus ou moins de soin pour une<br />

ressemblance « réaliste », mais ce qui prime dans la réception est le statut<br />

propre d’un « portrait », d’un objet à part, non la présence de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

lui-même par image interposée. Le rapport à l’être in<strong>di</strong>viduel<br />

lui-même à travers une image ne va pas de soi, car un être n’est perçu<br />

comme étant véritablement lui-même que dans son corps et dans sa vie<br />

durant. Autrement <strong>di</strong>t, l’être se confond avec son existence, or celle-ci<br />

est corporelle et elle lui appartient sans qu’il y ait aucune possibilité de<br />

dédoublement de l’être, ou de détachement d’une partie au moins de<br />

celui-ci, dans une image qui pourrait faire semblant de prendre la place<br />

de l’être ou du moins de le montrer comme existant en <strong>di</strong>fféré. L’être<br />

s’identifie entièrement à son corps animé et celui-ci est son unique<br />

image, c’est-à-<strong>di</strong>re sa seule visibilité réelle, <strong>di</strong>stincte, par ailleurs, de son<br />

apparence physique, de son simple aspect visuel particulier 7 . Tout support<br />

<strong>di</strong>fférent du corps vivant qui montre une ressemblance est perçu<br />

par conséquent comme un « objet » <strong>di</strong>fférent, adapté à d’autres besoins<br />

6 Sur le rapport entre fonction, masque et identité dans la pensée et dans l’iconographie<br />

grecques classiques, voir F. FRONTISI-DUCROUX, Du masque au visage.<br />

Aspects de l’identité en Grèce ancienne, Paris 1995.<br />

7 Un exemple typique et particulièrement clair puisqu’il est étayé par un<br />

important <strong>di</strong>spositif philosophique, est l’épisode du portrait de Plotin sur lequel<br />

s’ouvre la Vie de Plotin ré<strong>di</strong>gé par Porphyre. Il ne s’agit pas d’un refus du portrait<br />

mais d’un refus de la pose nécessaire à la réalisation du portrait. L’argumentation<br />

de Plotin, rapportée par Porphyre, consiste à considérer le corps comme la véritable<br />

image de l’être et le <strong>di</strong>scours philosophique devant les élèves comme seule<br />

expression qui mérite d’en garder la mémoire. J’y reviendrai.<br />

139


140<br />

Anca Vasiliu<br />

que ceux de la vie de l’in<strong>di</strong>vidu, même si des traits ressemblants rapprochent<br />

de manière <strong>di</strong>te « réaliste » le portrait de l’« original »,<br />

comme dans le cas du portrait républicain romain par exemple.<br />

La conséquence de cette situation est une <strong>di</strong>stinction nette entre la<br />

puissance de la trace qui relève de l’in<strong>di</strong>vidu et atteste précisément de<br />

son existence particulière, et une image qui « <strong>di</strong>t » quelque chose de<br />

l’homme en le contextualisant (selon le genre et le type), mais ne relève<br />

pas de l’être intime et singulier de celui-ci, aussi ressemblante soit-elle<br />

par ailleurs. En somme, le portrait n’est pas un relevé d’identité de<br />

l’être mais une forme de description ou de présentation visuelle qui met<br />

en lumière des propriétés, des fonctions, à la limite des attributs ou des<br />

instruments de ses actions spécifiques. Aussi caractéristique soit-il, le<br />

portrait n’est pas non plus une reproduction fidèle de l’aspect ; il ne<br />

relève pas de la manifestation apparitionnelle de l’in<strong>di</strong>vidu car celle-ci<br />

s’identifie à l’être vivant et ne peut pas se détacher de lui pour se présenter<br />

en son absence sous la forme d’une statue ou d’un tableau. Si<br />

une image (de type eidôlon) remplace un être vivant dans des con<strong>di</strong>tions<br />

exceptionnelles relatées par les mythes (comme dans le cas<br />

d’Hélène par exemple, selon Gorgias ou Euripide), cette image n’est<br />

pas définie comme un portrait mais comme un double de l’être vivant.<br />

En outre, le portrait n’appartient pas de droit à celui qui est représenté<br />

mais à celui qui l’a produit et qui le livre à la communauté comman<strong>di</strong>taire<br />

pour servir à des fins précises : sociales, religieuses ou politiques.<br />

Bien que le portrait soit donc lié nécessairement à un être, ni l’image ni<br />

l’objet produit ne relèvent de la sphère privée in<strong>di</strong>viduelle de cet être. A<br />

fortiori il ne concerne pas un quelconque rapport à « soi » de l’être qui<br />

définirait ainsi la conscience de sa singularité ; l’unicité et la nature<br />

propre de l’être en question se révèlent autrement et ailleurs. Qui plus<br />

est, un portrait n’est même pas le garant que l’être qu’il (re)présente ait<br />

jamais existé. Le portrait antique tient donc d’une fonction, constitue<br />

l’expression consacrée d’un état de faits ou d’une situation, et n’ouvre<br />

pas un accès à la « personne » ou au caractère propre de l’in<strong>di</strong>vidu<br />

dont il représente de manière fidèle ou fictive l’aspect.<br />

En ce qui concerne la trace, bien que visuelle comme signe, elle n’est<br />

pas perçue comme une forme et ne peut nullement, a priori, constituer<br />

un portrait. Ni eidos ni morphê, la trace ou l’empreinte appartient à<br />

une catégorie à part de signes visuels, bien <strong>di</strong>stincte de la catégorie des<br />

formes. Même quand une empreinte s’approche formellement d’un<br />

portrait, comme dans le cas d’un moulage, l’empreinte va chercher<br />

dans le formel ce que l’aspect, l’apparence, le trait peuvent apporter à


L’image-empreinte<br />

la connaissance d’un être au-delà de ce que présente un portrait conçu<br />

comme tel, dans le sens classique du terme. La trace peut-elle partager<br />

alors avec l’être lui-même quelque chose de la « sphère privée » de<br />

celui-ci, quelque chose qui serait ignoré ou occulté par le portrait ?<br />

Peut-elle participer du caractère unique et de la nature propre de cet<br />

être dont elle garde quelque chose de plus que le pur souvenir nominal<br />

de son existence perché sur un stemma généalogique ? Sans aucun<br />

doute, car la trace ne produit pas une altérité bâtarde de l’être, mi-figure<br />

mi-fonction comme le portrait, mais tient lieu de marque propre<br />

pour une identité précise, même quand la trace de cette identité est<br />

minime, voire méconnaissable à la limite. Bien qu’elle ne soit pas complète<br />

mais toujours fragmentaire, et parfois réduite à l’extrême, la trace<br />

touche néanmoins à l’essentiel, à ce qui constitue le noyau de subsistence<br />

de l’être lui-même : elle touche, ou plus exactement a touché une fois<br />

le corps animé. A partir de là, elle continue à se nourrir de la puissance<br />

inscrite une fois pour toutes dans l’existence même à laquelle elle a touché<br />

à un moment donné. La trace « retire » ou « retient » de ce contact<br />

physique quelque chose qu’elle fait apparaître ailleurs : elle fait acte de<br />

ritratto au sens premier du terme, alors qu’elle n’est justement pas un<br />

« portrait » mais tout au plus un moulage, voire une imago au sens premier<br />

du terme. Et ce que la trace « retient » de l’original, elle l’affirme<br />

et le montre aussitôt. Elle est la trace de quelque chose qui est ou du<br />

moins a été réellement : un vivant ou une chose existante. Une trace ou<br />

une empreinte est donc perçue comme une preuve d’existence corporelle<br />

non comme une représentation. Elle ne peut donc pas être forme<br />

elle-même – à la limite une trace est l’informel même –, mais elle révèle<br />

dans son intimité d’existence la forme de ce dont elle est la trace. En<br />

outre, une trace ou une empreinte est perçue comme le résultat d’une<br />

collaboration entre l’être (un geste produit par sa volonté, ou simplement<br />

par son existence de passage, comme dans la trace involontaire<br />

du pied sur la glaise ou sur le sable) et un support indépendant de l’être<br />

et structurellement <strong>di</strong>fférent de celui-ci : la glaise modelée, une pierre<br />

gravée, une paroi ou une toile maculée de crasse, de sueur, de sang, de<br />

couleurs naturelles, etc. Comme dans le cas d’une ombre ou d’un<br />

reflet, l’empreinte provient d’une rencontre entre la présence actualisée<br />

de l’être et un support matériel qui recueille un « restant » de cette<br />

actualisation ; sauf que l’empreinte n’est pas nécessairement attachée à<br />

la présence de l’être et n’est pas con<strong>di</strong>tionnée par ce lien, alors que<br />

l’ombre ou le reflet demeurent tant qu’un être s’y mire ou se trouve<br />

dans une lumière particulière, mais s’évanouissent aussitôt après.<br />

141


142<br />

Anca Vasiliu<br />

L’empreinte nécessite donc la présence, mais elle lui survit ; d’où son<br />

rôle de « témoin ». Toutefois, dans la rencontre elle-même et dans la<br />

collaboration entre une présence de passage et le réceptacle de sa trace<br />

se passe quelque chose d’essentiel qui transgresse les limites de la<br />

simple conservation fortuite d’une empreinte. A lieu en effet, comme<br />

dans le secret de toute rencontre, un transfert, un échange, un infléchissement<br />

réciproque qui est perçu par les Anciens comme un processus<br />

de révélation de la sphère privée de l’être et de son caractère singulier.<br />

Quelque chose comme une puissance provenant de la nature intime de<br />

l’être vivant survit dans sa trace et vient à l’entendement à partir de la<br />

rencontre nécessaire entre le toucher et la vue. Quelque chose de particulier,<br />

non de l’ordre d’une forme (eidos ou morphê) mais de l’ordre<br />

d’une dynamis, surgit et s’impose à partir de l’unité entre la consistance<br />

substantielle du corps et l’aspect, unité constitutive du statut même de<br />

la trace. Dans l’empreinte, cette unité substantielle entre la matière<br />

réceptrice et la dynamis donnée demeure dans l’objet lui-même, alors<br />

qu’une image se réalise dans la rupture affichée entre l’objet subsistant<br />

et la forme seule dont l’image tente de reproduire l’aspect.<br />

3. Un portrait en forme de trace ou le visage comme empreinte de l’être<br />

Ce bref rappel théorique du statut antique du portrait, de l’image et<br />

de la trace est censé souligner le caractère exceptionnel de l’empreinteportrait<br />

à laquelle nous avons affaire lorsque apparaît l’« objet » étrange<br />

évoqué plus haut, un genre d’objet jamais conçu jusque là : le visage<br />

d’un être singulier imprimé trait pour trait sur un tissu – trace imprimée<br />

qui est donc aussi un portrait et qui se confond totalement avec le<br />

support. L’objet ainsi produit est appelé « voile »: mandylion. Son<br />

caractère exceptionnel vient du fait que s’articulent dans le périmètre<br />

d’un objet unique deux genres <strong>di</strong>stincts de structures visuelles : la trace<br />

d’une part, le portrait de l’autre, les deux faisant ici corps commun en<br />

un seul et même objet qui est, de surcroit, un objet de voilement, de<br />

<strong>di</strong>ssimulation des apparences immé<strong>di</strong>ates. De la superposition d’une<br />

trace et d’un portrait naît ainsi, sous une entité unique, à la fois un<br />

type et un objet, car ce Mandylion relève de l’image autant que de la<br />

relique, de la révélation autant que du témoignage, du visuel autant<br />

que du haptique, du commun autant que du propre singulier, du générique<br />

autant que de l’in<strong>di</strong>viduel, du formel autant que de la puissance<br />

enfermée dans le conjoncturel. On comprend dès lors que le Mandy -


L’image-empreinte<br />

lion, quand il s’impose, au X e s., dans le monde byzantin, inscrit son<br />

caractère exceptionnel à la racine même des structures visuelles habituelles.<br />

C’est à partir de là qu’il tente de bouleverser le para<strong>di</strong>gme<br />

concernant l’accès à ce que signalait la singularité d’une identité in<strong>di</strong>viduelle<br />

: la dynamis inscrite dans la trace corporelle. Et c’est là qu’il<br />

situe aussi sa prétendue nouveauté, partant de l’accès à ce que l’existence<br />

même rendait manifeste de l’être humain selon l’anthropologie<br />

chrétienne, à savoir la révélation du visage comme image du caractère<br />

propre, image de l’âme dans laquelle s’était inscrit le mouvement de la<br />

ressemblance envers Dieu.<br />

Cette singulière association de trace et d’image porte en elle tout le<br />

trouble que devait encore susciter dans l’esprit des fidèles l’idée d’un<br />

Dieu visible. Au X e s., quand le Mandylion, transféré à Constanti nople,<br />

commence à essaimer des répliques et à être donc connu, l’indécision<br />

entre une trace imprimée (ejkmagei'on) et une image peinte (eijkwvn) persiste<br />

dans les appellations qui lui sont données. Cette indécision signale<br />

la <strong>di</strong>fficulté de voir deux structures visuelles aussi <strong>di</strong>fférentes se télescoper<br />

et s’unir en un seul et même objet. Le miracle est appelé à jouer<br />

alors son jeu. Mais les tra<strong>di</strong>tions sont tout aussi fortes pour <strong>di</strong>stinguer<br />

l’icône, qui est considérée comme « pareille » aux paroles des Evangiles<br />

(selon le Syno<strong>di</strong>kon du « Triomphe de l’Orthodoxie », 843), et les<br />

reliques proprement <strong>di</strong>tes qui sont des témoignages de la puissance<br />

<strong>di</strong>vine et qui n’ont de valeur que par leurs actions : guérisons, apparitions,<br />

défenses contre des agresseurs, mais qui n’agissent pas par leur<br />

simple aspect formel – à moins d’être encastrées dans des reliquaires<br />

(icônes, vases ou boîtes) qui sont eux-mêmes à la fois des supports<br />

visuels et des réceptacles de vestiges corporels. Le Mandylion, en<br />

revanche, fait office double : il est « icône », appelé ainsi dès les premiers<br />

textes byzantins qui en parlent 8 , et en même temps il est considéré<br />

comme une, voire la relique par excellence de celui qui n’a pas laissé<br />

de cadavre pour preuve de sa vie terrestre. Et comme relique, cette<br />

trace est avant tout une preuve d’existence à la fois de la vie terrestre de<br />

l’in<strong>di</strong>vidu singulier dont elle provient, et de la nature <strong>di</strong>vine de celui-ci,<br />

<strong>di</strong>vinité incarnée dans un être humain. Se télescopent ainsi au moins<br />

8 Dans la Vie de Saint Paul du Mont Latros (X e s.) : Cristou' eijkovni h{n suvnhqe"<br />

mandhvlion ; ou dans la Chronique de Michel le Syrien (XII e s.) : hJ eijkwnh; prwtovtupov"<br />

te kai; a[grafo". Cf. H. L. KESSLER, cité infra.<br />

143


144<br />

Anca Vasiliu<br />

trois significations. La première est proprement théologique et commune<br />

avec celle assignée à l’icône selon l’acception qui s’était imposée<br />

avec Nicée II et le Syno <strong>di</strong>kon de l’Orthodoxie (l’icône comme « preuve<br />

<strong>di</strong>vine » de l’Incar nation et de la double nature du Christ). La seconde<br />

signification est partagée avec celle dont relèvent aussi les pratiques<br />

religieuses dévolues aux reliques, aux amulettes et à tous les « objets<br />

magiques », « merveilleux », investis de « forces spirituelles » transmises<br />

par simple toucher à des lambeaux ou à des débris de matières<br />

(pravn<strong>di</strong>a). Enfin, une troisième signification est politique et provient<br />

du rôle que l’on fait dorénavant jouer au Mandylion en le considérant<br />

comme palla<strong>di</strong>um (investit du pouvoir apotropaïque qu’il avait joué<br />

auprès du roi Abgar, puis comme défenseur de la ville d’Edesse) et en<br />

même temps comme substitut du voile du Temple ancien dont il prend<br />

la relève, bien qu’il ne soit pas installé dans l’église d’apparat, à Sainte-<br />

Sophie, mais gardé dans une chapelle du palais sur le Bosphore 9 .<br />

Cependant, le plus troublant reste le statut du soi-<strong>di</strong>sant portrait<br />

(ou autoportrait) présenté sur un support souple et d’emblée inadéquat<br />

pour recevoir une image. Dans la plupart des représentations les plus<br />

anciennes (icône du Sinaï du temps de Constantin VII, manuscrits des<br />

X e -XII e s.), le tissu ne semble pas faire véritablement corps commun<br />

avec le portrait ou avec l’image qui devait y être imprimée. De toute<br />

évidence, la trace et l’image iconique font encore <strong>di</strong>fficilement ménage<br />

commun. L’icône est invincolata, incirconscriptible à la trame matérielle<br />

du textile. Le support est nécessaire à la réception d’une impression,<br />

mais, dans ce cas particulier, l’empreinte qui apparaît semble appartenir<br />

à une autre réalité que celle du support, une réalité que le regard<br />

doit, par conséquent, situer ailleurs que dans les pigments ou dans les<br />

restes délavés de couleurs prises entre les fibres d’une serviette. Cette<br />

situation particulière ne tient pas seulement de la définition canonique<br />

de l’icône du Christ comme icône de l’Incarnation « incirconscriptible<br />

» à la chair. Elle s’explique avant tout par ce statut ambigu du<br />

Mandylion qui, de concert avec les textes, ne <strong>di</strong>stingue pas et ne tranche<br />

pas clairement entre la réalité d’une trace et le genre d’une image-portrait.<br />

9 Selon les documents conservés le Mandylion ainsi que la lettre à Abgar se<br />

trouvaient dans la chapelle du Pharos. On en aurait perdu la trace après 1204.


L’image-empreinte<br />

Rappelons deux histoires para<strong>di</strong>gmatiques qui exprimaient dans le<br />

monde antique la possibilité de retrouver sur un support matériel la<br />

trace singulière de l’existence et d’avoir simultanément un accès visuel<br />

à une identité in<strong>di</strong>viduelle par portrait interposé : la légende concernant<br />

l’invention du portrait modelé en argile par le potier Butadès de<br />

Sicyone à partir d’une ombre projetée 10 , et l’histoire du portrait racontée<br />

par Porphyre au début de la Vie de Plotin 11 . On remarquera que<br />

dans ces deux histoires bien connues, autant dans la première, considérée<br />

comme « archaïque », que dans la seconde, située à la fin du III e s.<br />

après J. C., le rapport à l’original, à l’être vivant, passe nécessairement<br />

par un intermé<strong>di</strong>aire et se réalise par une empreinte prise sur cet intermé<strong>di</strong>aire<br />

: l’ombre sur une paroi, pour l’amant de la fille de Butadès,<br />

10 Histoire racontée par PLINE L’ANCIEN, Histoire naturelle, XXXV, chap.<br />

XLIII (12).<br />

11<br />

PORPHYRE, Sur la vie de Plotin et la mise en ordre de ses livres (VP), I.<br />

« Plotin, le philosophe qui vécut à notre époque, donnait l’impression d’avoir<br />

honte d’être dans un corps (ejwv/kei me;n aijscumevnw/ o{ti ejn swvmati ei[h). C’est en<br />

vertu d’une telle <strong>di</strong>sposition qu’il refusait de rien raconter sur ses origines, sur ces<br />

parents ou sur sa patrie (ou[te peri; tou' gevnou" aujtou' <strong>di</strong>hgei'sqai … ou[te peri; tw'n<br />

gonevwn ou[te peri; th'" patrivdo"). Supporter un peintre ou un sculpteur (zwgravfou<br />

… h] pla'stou) lui paraissait in<strong>di</strong>gne au point même qu’il répon<strong>di</strong>t à Amélius le<br />

priant d’autoriser que l’on fit son portrait (eijkovna aujtou') : ‘Il ne suffit donc pas<br />

de porter ce reflet [cette image] dont la nature nous a entourés (hJ fuvsi" ei[dwlon<br />

hJmi'n peritevqeiken)’, mais voilà qu’on lui demandait encore de consentir à laisser<br />

derrière lui un reflet de reflet ([une image de l’image] eijdwvlou ei[dwlon sugcwrei'n<br />

aujto;n), plus durable celui-là, comme si c’était là vraiment l’une des œuvres <strong>di</strong>gnes<br />

d’être contemplées (dhv ti tw'n ajxioqeavtwn e[rgwn) ! Aussi, devant le refus de Plotin<br />

qui n’acceptait pas de poser à cette fin, Amélius, qui avait pour ami Cartérius, le<br />

meilleur des peintres de l’époque, l’introduisit et le fit assister aux cours – qui en<br />

avait le désir pouvait en effet fréquenter les cours – ; Cartérius s’habitua à<br />

recueillir des impressions visuelles plus marquées (oJra'n fantasiva") grâce à une<br />

attention soutenue. Puis, lorsqu’il eut dessiné son ébauche à partir de l’image<br />

déposée dans sa mémoire (ejk tou' th'/ mnhvmh/ ejnapokeimevnou ijndavlmato" to;<br />

ei[kasma), et qu’Amélius eut corrigé avec lui l’esquisse pour parfaire la ressemblance<br />

(eij" oJmoiovthta), le talent de Cartérius permit la réalisation, à l’insu de<br />

Plotin (ajgnoou'nto" tou' Plwtivnou), d’un portrait de lui, très ressemblant (eijkovna<br />

aujtou' … oJmoiotavthn). » Je cite l’é<strong>di</strong>tion et la traduction du texte publié dans le<br />

volume collectif paru sous le titre cité supra chez Vrin (coll. « Histoire des doctrines<br />

de l’Antiquité classique »), Paris 1992. Voir aussi l’article de J. PÉPIN,<br />

L’épisode du portrait de Plotin, in PORPHYRE, La vie de Plotin, II (introd., éd.,<br />

trad., commentaires, notes, collectif), Paris 1992, 301-334.<br />

145


146<br />

Anca Vasiliu<br />

ou l’impression du visage de Plotin dans l’âme et dans l’imagination du<br />

peintre Cartérius, obligé d’assister au cours de philosophie et de retenir,<br />

à défaut de pose, l’expression de l’être vivant à partir de l’acte qui<br />

lui était propre, celui d’enseigner la philosophie. La mémoire et l’imagination<br />

du peintre, ainsi que celles du <strong>di</strong>sciple philosophe Amélius, collaborent<br />

pour réaliser un portrait très ressemblant, bien que réalisé à<br />

l’insu de Plotin, comme du dehors du sujet, puisque Plotin refuse de<br />

s’immobiliser et considère que son corps même est image, une image<br />

vraie, puisque existante, vivante, expression de l’acte même d’être. On<br />

pourrait <strong>di</strong>re, en respectant à la lettre la pensée de Plotin, que son<br />

corps animé est son seul et unique « autoportrait » véritable 12 . Le portrait<br />

réalisé ne peut, dès lors, qu’être un eijdwvlou ei[dwlon, l’image<br />

d’une image, selon l’expression de Porphyre, de même que l’homme luimême<br />

est défini dans les exégèses alexandrines ou cappadociennes du<br />

verset biblique (Gen. 1,26) qui raconte sa création comme une eikôn<br />

eikonos ou comme une imago imaginis. Cette expression apparaît donc<br />

aussi chez de nombreux exégètes gréco-latins : Philon, Grégoire de<br />

Nysse, Marius Victorinus, Jean Scot, etc. Le redoublement de l’image<br />

et l’inférence de l’une à l’autre qui s’installe nécessairement, apparaissent<br />

ainsi comme les conséquences de l’inscription corporelle de tout<br />

être existant.<br />

Or ces histoires, para<strong>di</strong>gmatiques pour le processus de structuration<br />

et d’objectivation du visuel qui nous intéresse ici, para<strong>di</strong>gmatiques en<br />

tout cas pour le rapport entre l’empreinte et le portrait, présentent des<br />

proximités frappantes avec la légende du portrait du Christ destiné au<br />

roi Abgar. Sans avoir évidemment rien d’historique, ces proximités<br />

in<strong>di</strong>quent toutefois une forte rémanence concernant à la fois les con<strong>di</strong>tions<br />

restrictives par lesquelles un être se laisse identifier, voire définir<br />

dans le périmètre de son portrait, et la possibilité d’accéder à quelque<br />

chose de propre à son identité vivante, à sa dynamis, en réduisant les<br />

traits du portrait à une empreinte singulière, spécifique et unique,<br />

propre à l’in<strong>di</strong>vidu. Certes, l’action de peindre ou d’imprimer le portrait<br />

dépend cette fois-ci <strong>di</strong>rectement du sujet représenté. Sauf que le<br />

Christ, faisant ainsi son « autoportrait », ne s’auto-imprime pas lui-<br />

12 Plotin parle à ce sujet du noyau indéfinissable de la forme même de l’être et<br />

désigne ce noyau par un terme d’autoréférence, comme dans l’exemple de Socrate<br />

qui n’est lui-même qu’en tant que Aujtoswkravth" : « ni Socrate ni l’âme de<br />

Socrate mais Socrate à l’égard de lui-même » (Ennéade V, 7, 1, 3 [T. 18]).


L’image-empreinte<br />

même sur le linge destiné à Abgar. Il imprime ou laisse apparaître sur<br />

le linge l’icône de l’icône du Père, l’icône de l’image qu’il est lui-même<br />

en tant que Fils eikôn tou Theou (Col. 1, 15, II Cor. 4, 4). Car le Christ<br />

est lui-même support d’une image imprimée dans son corps vivant ;<br />

non une image de lui-même seul, comme le corps vivant de Plotin est<br />

son image la plus fidèle en dehors de ses <strong>di</strong>scours, mais il est image<br />

d’une altérité, image du Père. Ce qui s’imprime alors est déjà une<br />

superposition d’impressions, une image unique mais à double fond,<br />

icône de celui qui est lui-même icône d’un autre. Et à partir de cette<br />

« impression double », paradoxale transparence visible imprimée sur le<br />

voile en raison de la propriété unique de cet être à la fois <strong>di</strong>eu invisible<br />

et incarné, l’image qui apparaît peut en effet se rédupliquer à l’infini<br />

car elle contient en elle-même la racine du dédoublement – cette superposition<br />

en abîme d’une empreinte corporelle particulière et d’un portrait<br />

qui montre quelque chose d’autre que les traits d’un être singulier.<br />

Partant de ce prototype iconique, toute image est dès lors considérée<br />

comme une « image de l’image », tou' tuvpou tuvpo", « impression de<br />

l’impression » ou « signe du signe », image générique et corps commun<br />

d’une empreinte et d’un visage spécifique. Le Mandylion est en tout cas<br />

appelé « icône de l’icône » par l’auteur même de la Narratio de imagine<br />

Edessena qui raconte, vers 945 probablement, l’histoire du transfert de<br />

l’image-empreinte (ejkmagei'on) d’Edesse à Constantinople 13 .<br />

13 Voir, pour une mise au point historique récente, l’article de H. L. KESSLER,<br />

Il Mandylion, dans le catalogue Il volto <strong>di</strong> Cristo, Milano 2000, 67-99. Pour la<br />

variante iconographique byzantine du Mandylion (les premières icônes connues<br />

sont du X e s.), voir la Légende d’Abgar V, roi d’Edesse, histoire, iconographie et<br />

bibliographie dans Lexikon der christlichen Ikonographie, vol. I, Freiburg 1968,<br />

col. 18-19. Pour la variante occidentale – le Voile de Véronique ou la Véronique –<br />

histoire, iconographie et bibliographie dans Iconography of Christian Art (G.<br />

SCHILLER), vol. 2, London 1972, 78-81, 173, 190-193. Pour les <strong>di</strong>scussions théoriques<br />

concernant le statut de l’image-icône-relique pendant et après la grande<br />

crise iconoclaste, voir les deux ouvrages de C. BARBER: Contesting the Logic of<br />

Painting, Art and Understan<strong>di</strong>ng in Eleventh-Century Byzantium, Leiden-Boston<br />

2007, surtout le chap. 1: “The Syno<strong>di</strong>kon of Orthodoxy and the ground of painting”<br />

(1-22) et Figure and Likeness. On the limits of Representation in Byzantine<br />

Iconoclasm, Princeton-Oxford 2002. Pour l’inscription spatiale de l’image et le<br />

rapport quasi organique entre le Mandylion et le statut des reliques dans la pensée<br />

et dans les pratiques religieuses byzantines, voir les articles réunis dans le volume<br />

Eastern Christian Relics, sous la <strong>di</strong>r. de A. LIDOV, Moscou 2003, dont : G. WOLF,<br />

The Holy Face and the Holy Feet : preliminary reflections before the Novgorod<br />

147


148<br />

Anca Vasiliu<br />

On comprend alors la superposition qui est savamment opérée : le<br />

corporel générique en tant qu’image de l’espèce donne lieu à une<br />

image-empreinte de l’in<strong>di</strong>vidu qui légitime du même coup la production<br />

sans fin de copies visuelles de cet unicum. Cependant, pour que la<br />

légitimation de l’image-copie soit en même temps une attestation<br />

d’identité propre de l’être singulier et non d’une espèce qui n’existe pas<br />

dans le cas du Christ, pour que l’image soit donc une attestation de<br />

l’être unique qui apparaît ainsi dans image, il faut y joindre encore le<br />

« cachet » personnel : la signature, le caractère propre imprimé, le touché<br />

fixé de manière indélébile, et non seulement exprimé à travers un<br />

geste, une expression ou une mé<strong>di</strong>ation comme l’ombre portée ou<br />

comme une parabole, une histoire racontée. C’est uniquement alors<br />

que l’icône devient « image » à proprement parler, objet visuel par<br />

excellence et non seulement un équivalent du logos, voire un substitut<br />

par défaut des paroles évangéliques. Pour remplir pleinement ce rôle, il<br />

faut que l’image soit justifiée par la preuve de la trace qui atteste une<br />

typologie particulière en l’imposant comme visage propre de l’être vrai,<br />

« authentique ». La fidélité envers cette typologie « originale » sera par<br />

la suite la con<strong>di</strong>tion de vérité de l’image, et donc le garant absolu de sa<br />

puissance qui lui permet de se substituer aussi, le cas échéant, à la<br />

parole révélée.<br />

Ce double statut de l’image inscrite sur le Mandylion ajceiropoivhton,<br />

icône d’une part, empreinte de l’autre, double statut qui suppose nécessairement<br />

un aller-retour du regard – découvrant la <strong>di</strong>ssemblance de<br />

toute image à l’égard du vrai vivant, pour retrouver ensuite sa ressemblance<br />

profonde, intime, naturelle presque, avec l’image in<strong>di</strong>viduelle<br />

imprimée dans l’âme comme sur un tissu ou dans une cire molle,<br />

impression qui correspond au visage de l’être vivant – s’exprime, théologiquement<br />

parlant, à travers le rapport qui s’établit dorénavant dans<br />

l’espace byzantin entre Incarnation et Eschatologie 14 . Entendons par<br />

Mandylion (281-287), A. LIDOV, The Mandylion and Keramion as an image-archetype<br />

of sacred space (249-280) et M. EMMANUEL, The Holy Mandylion in the iconographic<br />

programms of the churches at Mystras (291-304).<br />

14 Cette question, purement théologique, dépasse le cadre thématique de cette<br />

étude. Je ne fais ici qu’esquisser une ouverture pour comprendre les enjeux d’une<br />

image qui réunit sous un seul genre affiché, le portrait, deux con<strong>di</strong>tions <strong>di</strong>stinctes,<br />

et a priori séparées, d’une donnée visuelle : l’aspect et la trace. L’invention d’une


L’image-empreinte<br />

cette dernière le fait de situer l’homme et le corps de l’Eglise dans le<br />

royaume de l’Esprit à l’horizon de la Seconde Parousie. Cette relation<br />

entre l’Incarnation dont relève l’image du Christ, et l’Eschatologie<br />

dont le sens est donné par le corps de l’Eglise appelée « demeure de<br />

l’Esprit Saint », correspond d’ailleurs à un paragraphe bien connu du<br />

Horos de Nicée II. Il s’agit de la mise en commun des moyens du récit<br />

par lequel est proféré le message des Evangiles et de l’image relevée par<br />

la peinture (th'" eijkonikh'" ajnazwgrafhvsew"). La parole évangélique et<br />

la peinture qui la montre en image constituent la voie royale que nous<br />

pratiquons (th;n basilikh;n w{sper ejrcovmenoi trivbon), voie par laquelle<br />

sont respectés (suivis à la lettre, ejpakolouqou'nte") l’enseignement des<br />

<strong>di</strong>scours théologiques de nos saints Pères (th'/ qehgovrw/ <strong>di</strong>daskaliva/ tw'n<br />

ajgivwn patevrwn hJmw'n) et la tra<strong>di</strong>tion de l’Eglise universelle (kai; th'/ paradovsei<br />

th'" kaqolikh'" ejkklhsiva") en laquelle habite l’Esprit saint avec<br />

qui l’Eglise s’identifie (tou' ga;r ejn aujth'/ oijkhvsanto" ajgivou pneuvmato"<br />

ei\nai tauvthn ginwvskomen,…). Universelle, l’Eglise est ainsi reconnue<br />

comme identique (tauta) avec l’Esprit saint, lequel se confond avec<br />

l’Eglise universelle et en même temps est présent comme habitant dans<br />

ce lieu d’où s’est absenté, à l’Ascension, le Dieu incarné. Ainsi la « voie<br />

royale » (th;n basilikh;n w{sper ejrcovmenoi trivbon) doit conduire le fi -<br />

dèle du Fils à l’Esprit : des Evangiles vers l’Eglise, de l’idée d’in<strong>di</strong>vidu<br />

vers l’idée de communauté, de la conscience d’un soi propre (ego) vers<br />

une intégration du soi comme sujet d’une communauté demeurant jusqu’à<br />

la fin des temps 15 .<br />

telle image vise non seulement à faire se rejoindre deux registres de la réalité<br />

visuelle, mais principalement à s’approprier l’expérience de la foi dans l’exercice<br />

du double pouvoir, temporel et spirituel. Pour les significations et les illustrations<br />

de cette relation théologique particulièrement importante dans le <strong>di</strong>scours iconographique<br />

byzantin tar<strong>di</strong>f, voir les analyses de l’emplacement du Mandylion et les<br />

juxtapositions avec l’image de l’Agneau dans l’iconographie intérieure-extérieure<br />

des monastères de Moldavie aux XV e et XVI e s., dans A. VASILIU, La traversée de<br />

l’image (Paris 1994) et id. Les architectures de l’image. Monastères de Moldavie<br />

XIV e -XVI e s., Paris 1998 (trad. italienne, L’archittetura <strong>di</strong>pinta. Gli affreschi<br />

Moldavi nel XV e e XVI e secolo, Milan 1998).<br />

15 Touvtwn ou{tw" ejcovntwn, th;n basilikh;n w{sper ejrcovmenoi trivbon, ejpakolouqou'te"<br />

th'/ qehgovrw/ <strong>di</strong>daskaliva/ tw'n ajgivwn patevrwn hJmw'n, kai; th'/ paradovsei th'"<br />

kaqolikh'" ejkklhsiva", tou' ga;r ejn aujth'/ oijkhvsanto" ajgivou pneuvmato" ei\nai tauvthn<br />

ginwvskomen, … « Puisqu’il en est ainsi, comme si nous marchions sur la voie royale,<br />

suivant l’enseignement proclamé par Dieu et la tra<strong>di</strong>tion de l’Eglise universelle<br />

– nous savons qu’elle est l’Eglise de l’Esprit Saint qui habite en elle, … » Je cite<br />

149


150<br />

Anca Vasiliu<br />

4. Corps et visage (en guise de conclusion)<br />

Je voudrais revenir au point de départ pour boucler cette brève analyse<br />

théorique des enjeux philosophiques et théologiques de l’empreinte<br />

et de l’image, et cette <strong>di</strong>alectique entre la trace et le portrait présentée<br />

à l’œuvre dans une démarche intellectuelle orientée vers la saisie des<br />

ambiguïtés et des « impensables » de la foi. C’est sur ce terrain aux<br />

contours fuyants que la trace joue son rôle de preuve et d’expressiontémoin<br />

de la singularité d’une identité in<strong>di</strong>viduelle, expression dans<br />

laquelle est enfermée toute la puissance du caractère existentiel ou<br />

vivant de cette identité de l’être insaisissable autrement. Et c’est sur ce<br />

terrain aussi que l’invention du Mandylion, qui ne produit pas un<br />

simple objet « tombé du ciel » mais prend le soin de constituer un véritable<br />

mythe fondateur (ou re-fondateur) de la fonction sacrée assignée<br />

à Byzance à l’image-icône, vient situer dans le contexte d’une anthropologie<br />

christianisée la relation entre le corps et le visage.<br />

Le binôme « corps-visage » se présente comme une transposition<br />

anthropologique structurelle de ce qui était en contexte théologique le<br />

rapport entre la substance et la personne dans le cas d’une identité in<strong>di</strong>viduelle<br />

pourvue d’existence humaine ou <strong>di</strong>vine : un rapport controversé<br />

entre le substrat (partagé ou pas) et une constitution formelle qui y<br />

est inscrite et que nous définissons invisiblement par le caractère et<br />

visiblement par l’expression. La corporalité objective de l’image a fait<br />

de celle-ci un argument en faveur de la consubstantialité des Hy posta -<br />

ses dans les débats trinitaires grecs et latins du IV e s. L’aspect, sous le<br />

mode du « portrait », de même que sa traduction comme eikôn,<br />

comme une conjoncture de visibilité potentielle spécifique à l’unicité de<br />

l’in<strong>di</strong>vidu, viennent établir un équilibre avec l’argument de la substantialité<br />

de l’image, en faisant de cette dernière une preuve d’existence, et<br />

donc de l’acte par lequel l’être se dévoile. Le sémantisme théologique<br />

est certes complexe, mais il s’éclaire dès que s’opère son transfert sur le<br />

plan de la structure de l’homme. Le corps devient substance et forme<br />

de la nature commune du genre, tan<strong>di</strong>s que le visage, avec son expression<br />

in<strong>di</strong>cible mais figurable à partir d’un certains nombre de traits et<br />

l’é<strong>di</strong>tion MANSI XIII, 373D-380B (dans Conciliorum Œcumenicorum Decreta, Bologne<br />

1973, 135-37) et la traduction proposée par M.-Fr. Auzepy au début du volume<br />

Nicée II (sous la <strong>di</strong>r. de Fr. BŒSPFLUG et N. LOSSKY), Paris 1987. J’ai proposé<br />

dans le texte une traduction quasi littérale du passage.


L’image-empreinte<br />

de conventions, s’évertue à refléter l’existence et contient toute sa puissance,<br />

sans pouvoir en dévoiler toutefois le contenu effectif. Ce binôme,<br />

« corps-visage », ou corporéité du genre et portrait du singulier, circonscrit<br />

à travers les catégories du langage et de la pensée de l’être une<br />

forme de réciprocité entre Dieu et l’homme, une certaine réciprocité<br />

appelée parfois une homologie mais non une analogie, afin de pouvoir<br />

saisir l’unité et non la <strong>di</strong>vision.<br />

Si l’homme est image de Dieu mais n’est pas engendré comme l’est<br />

seul le Fils de Dieu, alors l’homme eijkwvn est le seul véritable ajceiropoivhto"<br />

pour le monde chrétien. Et dans ce cas, le Mandylion peut à la<br />

rigueur se définir comme une « preuve » de l’Incarnation, comme un<br />

témoin de la vie terrestre du Fils de Dieu en tant qu’homme, peut en<br />

somme se défendre comme un argument en faveur de l’historicité du<br />

Christ, mais ne légitime pas une « image vraie de Dieu ». D’où toute<br />

l’ambiguïté dans laquelle est pris le Mandylion : entre un statut d’empreinte<br />

et un statut d’icône, entre la relique, l’image et le voile, entre la<br />

figure et le signe – un trouble qu’expriment autant les textes les plus<br />

anciens que l’iconographie tar<strong>di</strong>ve. Cependant, l’invention impériale<br />

d’une « image vraie » n’a pas l’audace de se montrer comme une invention<br />

de toute pièce. Elle fait fond sur une structure visuelle bien établie<br />

et encore à l’œuvre dans la pensée byzantine, un régime qui <strong>di</strong>stingue<br />

clairement les registres sensible et conceptuel du visible : d’une part<br />

l’empreinte, trace ou image naturelle, qui mé<strong>di</strong>atise la puissance d’un<br />

étant singulier, du vivant en particulier ; de l’autre, le portrait comme<br />

genre de ressemblance typologique, qui permet à l’in<strong>di</strong>vidu de garder<br />

intouchable l’unicité, donc son accès à la transcendance contenue, inscrite,<br />

enfouie dans l’être même.<br />

Le plus troublant dans cette affaire n’est pas le mystère dont on a<br />

entouré cet objet étrange, d’un genre à l’évidence bâtard. Ni l’anecdotique<br />

de son invention ni l’attrait persistant que le Mandylion exerce<br />

pour le regard, ne frappe autant que l’éclairage apporté par cet objet<br />

sur les ressorts subtils dont le pouvoir politique est capable de se servir<br />

pour asseoir des certitudes en sa faveur en assignant un visage au <strong>di</strong>vin<br />

et en faisant reposer la transcendance sur des arguments figuratifs aux<br />

dépens du logos – quitte à inventer des miracles et des retombées du<br />

ciel en substituant et en inversant les règles des structures visuelles du<br />

réel et les modes de penser la singularité et l’universalité des vivants et<br />

des choses existantes.<br />

151


Tavole


Tav. 1: Svāyambhuvaliṅga.<br />

Tav. 2: Liṅga <strong>di</strong> ghiaccio <strong>di</strong> Amarnāth.


Tav. 3: Śālagrāma.<br />

Tav. 4: Roccia <strong>di</strong> Gerusalemme.


Tav. 5: Impronta del profeta Muḥammad ad Aleppo.


Tav. 6: Impronta del profeta Muḥammad al museo Topkapi <strong>di</strong> Istanbul.<br />

Tav. 7: Oggetti incisi a forma <strong>di</strong> conchiglia (ca. 15000 a. C.); calco <strong>di</strong> gasteropode<br />

fossile e altre ‘curiosità’ naturali raccolte in epoca Musteriana (da DIDI-HUBER -<br />

MAN, La somiglianza per contatto, p. 38).


Tav. 8: Cranio modellato con argilla e conchiglie ritrovato nei pressi <strong>di</strong> Gerico<br />

(VII-VI millennio a. C.).<br />

Tav. 9. Impronte <strong>di</strong> pie<strong>di</strong> incise e iscrizioni (sec. VI-V a. C.) su una roccia presso il<br />

santuario cretese <strong>di</strong> Athena Sammonia (da GUARDUCCI, Le <strong>impronte</strong> del «Quo<br />

Va<strong>di</strong>s», p. 311); Lavinium (Pratica <strong>di</strong> Mare), lastra marmorea con iscrizione de<strong>di</strong>catoria<br />

a Iside regina e <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> pie<strong>di</strong> incise (da DUNBABIN, «Ipsa deae vestigia»,<br />

p. 90).


Tav. 10: Impronte rocciose dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù all’interno dell’e<strong>di</strong>cola dell’Ascen -<br />

sione sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi (Gerusalemme).


Tav. 11: Le <strong>impronte</strong> del «Quo va<strong>di</strong>s» venerate a Roma presso la chiesa <strong>di</strong> S.<br />

Maria in Palmis ovvero del Domine quo va<strong>di</strong>s.<br />

Tav. 12: Roma, basilica <strong>di</strong> Santa Pudenziana, mosaico del catino absidale (fine IV<br />

secolo).


Tav. 13: Disegno della Rotonda dell’Ascensione (ca. 680 d. C.) nel De locis sanctis<br />

<strong>di</strong> Adamnano (da GEYER, Itinera hierosolymitana, p. 250).<br />

Tav. 14: München, Bayerisches Nationalmuseum, tavola eburnea (IV-V secolo)<br />

con scena dell’Ascensione (da Enciclope<strong>di</strong>a dell’arte me<strong>di</strong>evale, II, Roma 1991, p.<br />

573).


Tav. 16: London, British Museum, ms.<br />

Caligula A. XIV, fol. 18 (da SHAPIRO,<br />

The Image of the Disappearing Christ, p.<br />

145).<br />

Tav. 15: Launcells (Cornovaglia), chiesa<br />

parrocchiale <strong>di</strong> St Swithin, incisione sul<br />

fianco <strong>di</strong> una panca lignea (sec. XV-XVI)<br />

raffigurante i pie<strong>di</strong> e le <strong>impronte</strong> del Cristo<br />

durante l’Ascensione (da BORD, Footprints<br />

in Stone, p. 37).


Tav. 17: Monza, Tesoro del Duomo, ampolla argentea (sec. VII) con scena del<br />

Cri sto asceso al cielo (da A. GRABAR, Ampoules de Terre Sainte, Paris 1958, tav.<br />

III f. t.).<br />

Tav. 18: London, British Museum, lastra <strong>di</strong><br />

pietra calcarea (I sec. a. C.) raffigurante i<br />

Buddhapāda.


Tav. 19: Roma, S. Lorenzo fuori le mura, mosaico dell’arco trionfale.<br />

Tav. 20: Durrës (Dyrrachium), mosaico dell’anfiteatro.


Tav. 21: Roma, Seminario Romano, Collezione Zurla, medaglia bronzea.<br />

Tav. 22: New York, Metropolitan Museum of Art, Roger Found, 1918 (18.145.3),<br />

frammento <strong>di</strong> vetro dorato.


Tav. 23: Proposta <strong>di</strong> sistema <strong>di</strong> piegatura e fissaggio su tavola della Sindone (per<br />

cortesia <strong>di</strong> Ian Wilson).<br />

Tav. 24: Particolare del volto della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>.


Tav. 25: Man<strong>di</strong>lio. Affresco della chiesa del Salvatore <strong>di</strong> Spas-Nere<strong>di</strong>tsa, presso<br />

Veliky Novgorod.<br />

Tav. 26: Tende del Tabernacolo mosaico. Cod. Laurentianus Me<strong>di</strong>ceus Plutei<br />

9.28, f.109r.


Tav. 27. Man<strong>di</strong>lio. Affresco della chiesa della Panagia tou Arakou <strong>di</strong> Lagoudera,<br />

Cipro.<br />

Tav. 28: Miniatura del co<strong>di</strong>ce Scilitze. Madrid, Biblioteca Nacional, Vitr/26/2 (gr.<br />

347), f. 205r.<br />

Tav. 29: Reliquiario del Man<strong>di</strong>lio, secondo la<br />

miniatura del Libro d’ore della Sainte-Chapelle.


Tav. 30: Incisione del 1649 raffigurante il contenuto della Grande chasse della<br />

Sainte-Chapelle.<br />

Tav. 31: Incisione da S. J. MORAND, Histoire de la Ste-Chapelle Royale du Palais,<br />

Paris 1790, p. 40, raffigurante il reliquiario del Man<strong>di</strong>lio.


VESTIGIA CHRISTI. LE ORME DI GESÙ FRA TERRASANTA E<br />

OCCIDENTE LATINO<br />

LUIGI CANETTI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> Bologna<br />

È una tendenza antichissima, e ra<strong>di</strong>cata probabilmente negli schemi<br />

percettivi e operativi del processo <strong>di</strong> ominazione, quella <strong>di</strong> rilevare sulla<br />

superficie delle rocce naturali incavi o avvallamenti che richiamano la<br />

forma <strong>di</strong> esseri viventi o <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> fabbricati dall’uomo 1 . Tra le forme<br />

più ricorrenti, le <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> estremità umane o animali non a caso<br />

rappresentano anche i s<strong>oggetti</strong> più antichi dell’arte rupestre e preistorica<br />

2 . Come aveva chiarito Leroi-Gourhan, nelle prime collezioni umane,<br />

le più elementari concatenazioni operazionali inscenano, nel gioco <strong>di</strong><br />

matrice e impronta, la coesistenza del fare e dell’imitare, <strong>di</strong> tyche e <strong>di</strong><br />

techne, <strong>di</strong> ‘invenzione’ e <strong>di</strong> manipolazione 3 . Nelle grotte <strong>di</strong> Lascaux troviamo<br />

raccolte <strong>di</strong> conchiglie vere (ready made, prelievo dalla realtà) a<br />

fianco <strong>di</strong> conchiglie fossili (forme improntate naturali) e <strong>di</strong> forme imitate,<br />

cioè pietre scolpite a forma <strong>di</strong> conchiglia 4 [Tav. 7]. Difficile stabilire<br />

se l’acquisizione e la percezione <strong>di</strong> tali forme debba intendersi in or<strong>di</strong>ne<br />

logico o cronologico. Si crea qui, come nel caso <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> votivi, una<br />

1 Molto materiale, da valutare sempre con grande cautela, viene descritto e riprodotto<br />

nell’opera <strong>di</strong> J. BORD, Footprints in Stone, Loughborough 2004. La tendenza<br />

umana a scorgere una coerenza in una configurazione casuale è nota come<br />

apofenia, ed è un fenomeno rilevato fin dall’Antichità. Una sua variante, la pareidolia,<br />

è l’attitu<strong>di</strong>ne a riconoscere in configurazioni casuali personaggi universalmente<br />

noti, ed ha avuto numerose applicazioni artistiche; cfr. M. MESCHIARI,<br />

Nati dalle colline. Percorsi <strong>di</strong> etnoecologia, Napoli 2010, 27-33.<br />

2 Una buona panoramica viene ora offerta da A. D. ACZEL, Le cattedrali della<br />

preistoria. Il significato dell’arte rupestre, ed. it. a cura <strong>di</strong> A. ALESSANDRELLO, Milano<br />

2010 (ed. orig. 2009).<br />

3 A. LEROI-GOURHAN, Le geste et la parole, II. La mémoire et les rythmes, Paris<br />

1964, 206-216 (trad. it., Il gesto e la parola, II. La memoria e i ritmi, trad. it. <strong>Torino</strong><br />

1977, 421-429).<br />

4 G. DIDI-HUBERMAN, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e<br />

modernità dell’impronta, trad. it. <strong>Torino</strong> 2009 (ed. orig. 2008), 36 s.<br />

153


154<br />

Luigi Canetti<br />

sorta <strong>di</strong> collisione feconda tra i <strong>di</strong>fferenti mo<strong>di</strong> della somiglianza enunciati<br />

nella Poetica <strong>di</strong> Aristotele 5 ; quei mo<strong>di</strong> che il para<strong>di</strong>gma imitativo<br />

rinascimentale, basato sul mito vasariano del <strong>di</strong>segno dal vero e sul primato<br />

dell’idea che scalza la traccia per contatto, ha poi obliterato alla<br />

coscienza moderna 6 . Sembra però che il montaggio preceda l’immagine,<br />

la collezione inventi la forma perché, come scritto Di<strong>di</strong>-Huberman,<br />

«il prelievo si trasforma in forma quando <strong>di</strong>venta elemento <strong>di</strong> una<br />

struttura» 7 : il fiore vero deposto sulla tomba <strong>di</strong> un Neanderthaliano è<br />

già una sorta <strong>di</strong> ready made, prelievo e al tempo stesso intenzione e forma<br />

artistica, contatto e <strong>di</strong>stanza, segno sintagmatico e para<strong>di</strong>gmatico.<br />

Questa <strong>di</strong>alettica del fare e dell’imitare è già manifesta nelle incisioni<br />

seriali e propiziatorie <strong>di</strong> zampe animali a fianco <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> reali della<br />

selvaggina 8 . Per un’epoca più recente (sesto millennio a. C.), basti menzionare<br />

i famosi crani <strong>di</strong> Gerico, plasmati in argilla su veri teschi umani<br />

[Tav. 8], reificazione e contrario del mito <strong>di</strong> Pigmalione, come osservò<br />

acutamente Ernst Gombrich 9 .<br />

L’impronta, fin dalla preistoria, costituisce dunque tanto un motivo<br />

quanto un processo. Forma e racconto, immagine e al tempo stesso<br />

schema operazionale, essa realizza in maniera para<strong>di</strong>gmatica la <strong>di</strong>alettica<br />

tra contatto e assenza; esprime, anzi, il contatto <strong>di</strong> un’assenza. La<br />

ricerca del bizzarro e del fantastico nella natura (conchiglie, pietre antropomorfe<br />

e magari rilavorate dall’uomo, fossili, ossa, corna) è alla<br />

base delle prime collezioni e instaura, forse, il primo sentimento del sacro;<br />

articola una <strong>di</strong>alettica del contatto e della <strong>di</strong>stanza, un’aura che<br />

non è affatto sparita nell’età della tecnica, contrariamente a una certa<br />

vulgata <strong>di</strong> Benjamin 10 : nelle culture arcaiche, l’impronta – per matrice o<br />

5 ARIST. Poet. 1447a (I,15): le imitazioni (mimēseis) «<strong>di</strong>fferiscono l’una dall’altra<br />

per tre aspetti: o per il fatto <strong>di</strong> imitare con mezzi <strong>di</strong>versi, o cose <strong>di</strong>verse, o <strong>di</strong>versamente<br />

e non nello stesso modo» (cfr. ARISTOTELE, Poetica, trad. e cura <strong>di</strong> P.<br />

DONINI, <strong>Torino</strong> 2008, 5).<br />

6 Cfr. L. CANETTI, «Facendosi fare <strong>di</strong> cera». Euristica dell’eccedenza e della somiglianza<br />

tra Me<strong>di</strong>oevo ed Età moderna, in Finis corporis. Eccedenze, protuberanze,<br />

estremità nei corpi. Atti del convegno internazionale «Micrologus» (Lugano, <strong>Università</strong><br />

della Svizzera italiana, 28-30 maggio 2009), a cura <strong>di</strong> A. PARAVICINI BA-<br />

GLIANI, Firenze, in corso <strong>di</strong> stampa.<br />

7 DIDI-HUBERMAN, cit., 37.<br />

8 DIDI-HUBERMAN, cit., 44 s.<br />

9 E. H. GOMBRICH, Arte e illusione. <strong>Stu<strong>di</strong></strong>o sulla psicologia della rappresentazione<br />

pittorica, nuova ed. it., Milano 2002 (ed. orig. 1960), 112.<br />

10 DIDI-HUBERMAN, cit., 26 s., 74 s.


‘Vestigia Christi’<br />

per impressione – costituisce già una tecnica in cui coesistono, appunto,<br />

contatto e <strong>di</strong>stanza, <strong>di</strong>mensione tattile e <strong>di</strong>mensione ottica, appropriazione<br />

e <strong>di</strong>sseminazione 11 .<br />

Le reliquie cristiane e le più antiche immagini <strong>di</strong> culto, le acheropite,<br />

sono un caso para<strong>di</strong>gmatico <strong>di</strong> auratizzazione della traccia (vestigium),<br />

<strong>di</strong> riconoscimento e <strong>di</strong> messinscena rituale della potenza del contatto<br />

per impronta. Come nel conio monetale e nel sigillo, convivono in esse<br />

l’invisibile matrice auratica dell’autorità e la sua concreta possibilità <strong>di</strong><br />

manifestazione e <strong>di</strong>sseminazione. Nell’impronta vive dunque il paradosso<br />

della coesistenza <strong>di</strong> unicità e imitazione, della matrice e della sua<br />

infinita generazione, che non sminuisce l’autorità del modello. Sta qui,<br />

io credo, il nodo cognitivo e operazionale della peculiarità me<strong>di</strong>evale<br />

(ma <strong>di</strong>rei premoderna) della relazione immaginale e testuale tra modello<br />

e copia, tra imitazione e riproduzione, tra autore e citazione 12 . L’impronta<br />

costituisce dunque non soltanto l’alba della immagini, nel senso<br />

illustrato da Léroy-Gouhran, ma anche, come tutti sanno, il para<strong>di</strong>gma<br />

istitutivo dell’immagine cristiana. I paradossi che nell’impronta coesistono<br />

– polivalenza, reversibilità, polimorfismo: in sintesi, il suo carattere<br />

para<strong>di</strong>gmatico e, al tempo stesso, il suo essere <strong>di</strong>spositivo operazionale<br />

e processuale, metafora e metonimia, insomma – si accordano perfettamente<br />

ai paradossi concettuali dell’Incarnazione, e quin<strong>di</strong> anche ai<br />

paradossi e ai requisiti richiesti agli <strong>oggetti</strong> che la rappresentano. Testimonianza<br />

ed efficacia, memoria e riattivazione, passato e futuro, contatto<br />

e <strong>di</strong>stanza, appropriazione e <strong>di</strong>sseminazione. Seméion antilegómenon<br />

proprio come l’apparizione del Messia fra gli uomini secondo la<br />

profezia lucana messa in bocca a Simeone (cfr. Lc 2, 34).<br />

Tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti-Trenta del Novecento, i<br />

maggiori folkloristi, etnografi ed eru<strong>di</strong>ti (da Frazer a Sébillot, da Reinach<br />

a Saintyves fino a Deonna) documentarono, con larghi riferimenti<br />

ai miti e ai riti delle civiltà classiche ed extraeuropee, l’estrema <strong>di</strong>ffusione<br />

e la persistenza, nelle campagne e nelle aree rupestri delle gran<strong>di</strong><br />

nazioni coloniali, delle leggende che attribuivano le <strong>impronte</strong> megalitiche<br />

naturali o artificiali (rilavorate dall’uomo per adattarle agli schemi<br />

e ai racconti mitici tra<strong>di</strong>zionali) al passaggio o alla presenza <strong>di</strong> eroi e<br />

11 Cfr. M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, nuova ed. it. a cura <strong>di</strong> M.<br />

CARBONE, Milano 1999 (ed. orig. 1964), 149-152.<br />

12 Cfr. G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,<br />

<strong>Torino</strong> 1977, 85 s.<br />

155


156<br />

Luigi Canetti<br />

personaggi della fiaba e del mito. Peraltro, nel folklore moderno d’Europa,<br />

uno spazio considerevole in questa sorta <strong>di</strong> iknografia mitico-religiosa<br />

spettava ancora a Gesù, alla Madonna, al Diavolo (o ai demoni)<br />

e ai taumaturghi più venerati dell’agiografia cattolica 13 . Nel 1903, la<br />

Révue des tra<strong>di</strong>tions populaires, dopo un’inchiesta lanciata 17 anni prima,<br />

pubblicava sotto la rubrica «Empreintes merveilleuses» una lista <strong>di</strong><br />

ben 225 items in cui confluivano i materiali mitografici raccolti dai cinque<br />

continenti. A <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> un anno, Paul Sébillot, verificando le<br />

analogie con quanto già si sapeva dalle fonti sulle province dell’antica<br />

Gallia, proponeva un’ampia sintesi <strong>di</strong> temi e motivi documentabili in<br />

area francofona sulla base <strong>di</strong> una tipologia articolata in <strong>impronte</strong> antropomorfe<br />

(mani, pie<strong>di</strong>, talloni, ginocchia), tracce zoomorfe e, infine,<br />

utensili e <strong>oggetti</strong> 14 . Dopo più <strong>di</strong> un secolo, possiamo ormai <strong>di</strong>sporre <strong>di</strong><br />

una molteplicità <strong>di</strong> conoscenze archeologiche ed epigrafiche in relazione<br />

alle <strong>impronte</strong> epifaniche e artificiali a forma <strong>di</strong> piede umano presso<br />

le gran<strong>di</strong> civiltà me<strong>di</strong>terranee 15 . Sin dall’ultima fase del Paleolitico, le<br />

orme antropomorfe vennero prodotte, perfezionate o utilizzate dagli<br />

uomini secondo varie tecniche (incisione, scalfittura, incasso, rilievo<br />

ecc.) e in relazione a molteplici scopi e significati <strong>di</strong> natura rituale: attrazione<br />

o male<strong>di</strong>zione magica <strong>degli</strong> amanti o dei nemici; confezione <strong>di</strong><br />

ex voto anatomorfi; affermazione e riconoscimento <strong>di</strong> una memoria e<br />

<strong>di</strong> una presenza umana o <strong>di</strong> una epifania <strong>di</strong>vina in un luogo sacro (in<br />

questo senso, Iside, affiancata poi da Serapide, la farà da padrona fino<br />

al V secolo dell’èra cristiana). E ancora: auspicio del buon esito <strong>di</strong> un<br />

13 Dei vestigia <strong>di</strong> san Martino sappiamo qualcosa fin dall’epoca merovingia: si<br />

veda ancora il classico S. REINACH, Les monuments de pierre brute dans le langage<br />

et les tra<strong>di</strong>tions populaires, Révue Archéologique, 21 (1893), 223-226. Quando Philippe<br />

Berruyer, vescovo <strong>di</strong> Bourges, visitava le parrocchie della sua <strong>di</strong>ocesi verso la<br />

metà del XIII secolo, quelli che non riuscivano a toccare ed abbracciare i suoi pie<strong>di</strong><br />

si accontentavano <strong>di</strong> baciare le <strong>impronte</strong> lasciate dal suo cavallo (cfr. A. VAU-<br />

CHEZ, La saintété en Occident aux derniers siècles du Moyen Âge d’après les procès<br />

de canonisation et les documents hagiographiques, Rome 1988 2 [1981], 521).<br />

14 P. SÉBILLOT, Le Folk-lore de France, I. Le ciel et la terre, Paris 1904, 359-412;<br />

rist. in P. SÉBILLOT, Le folklore de France, II. La terre et le monde souterrain, a cura<br />

<strong>di</strong> C. METTRA, Paris 1983, 195-246.<br />

15 Cfr. L. CASTIGLIONE, Vestigia, Acta Archaelogica Academiae Scientiarum<br />

Hungaricae, 22 (1970), 95-132; B. KÖTTING, s. v. Fuß, in RAC, VIII, Stuttgart<br />

1972, 722-743; K. M. D. DUNBABIN, «Ipsa deae vestigia…». Footprints <strong>di</strong>vine and<br />

human on Graeco-Roman monuments, Journal of Roman Archeology, 3 (1990), 85-<br />

109.


‘Vestigia Christi’<br />

viaggio <strong>di</strong> andata e ritorno verso una meta <strong>di</strong> pellegrinaggio; proskynemata<br />

cioè atti <strong>di</strong> devozione scritti e figurati, <strong>di</strong>ffusi in tutto il bacino<br />

me<strong>di</strong>terraneo dall’epoca egizia del Nuovo Regno fino alla prima età bizantina<br />

[Tav. 9]; e infine, la ben nota assunzione paleocristiana dell’antichissimo<br />

simbolismo dei pie<strong>di</strong> come metafora figurata del viaggo nell’oltremondo<br />

16 .<br />

Tutto questo, però, resterà sullo sfondo. Qui, infatti, mi occuperò delle<br />

<strong>impronte</strong> dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù attestate per la prima volta a Gerusalemme<br />

da alcuni scrittori latini tra IV e V secolo [Tav. 10]. Quando si <strong>di</strong>scutono<br />

le testimonianze archeologiche e letterarie relative alle ultime tracce del<br />

Salvatore, che sarebbero rimaste impresse sulla roccia del Monte <strong>degli</strong><br />

Ulivi al momento dell’Ascensione, non si deve mai trascurare un aspetto<br />

cruciale. Per noi, oggi, sono scontate le ragioni per escludere la possibilità<br />

che si tratti delle vere orme dei pie<strong>di</strong> del Cristo risorto prima della<br />

sua risalita al cielo. Ma non bisogna <strong>di</strong>menticare che appena settant’anni<br />

fa, in ambiente cattolico, la questione sollevava ancora qualche scrupolo<br />

<strong>di</strong> irriverenza in una grande stu<strong>di</strong>osa come Margherita Guarducci<br />

17 , che esaminò e demolì da par suo l’autenticità delle famose <strong>impronte</strong><br />

romane del Quo Va<strong>di</strong>s conservate nella chiesetta eponima sulla via<br />

Appia antica [Tav. 11]. Detto questo, dev’essere poi imme<strong>di</strong>atamente<br />

chiarito che al cuore <strong>di</strong> un possibile <strong>di</strong>scorso storico sta proprio la genesi<br />

e la successiva vicenda <strong>di</strong> quella possibilità ovvero <strong>di</strong> una credenza che<br />

per molti secoli è stata quasi una certezza <strong>di</strong> fede, una prova fisica del<br />

passaggio terreno <strong>di</strong> Gesù e della sua risalita alla <strong>di</strong>mora del Padre, e<br />

quin<strong>di</strong> anche un pegno escatologico del suo ritorno.<br />

Lo scopo <strong>di</strong> questa ricerca è in primo luogo documentare, ma soprattutto<br />

tentare d’interpretare il complesso e mutevole significato storico<br />

delle più antiche attestazioni scritte e figurate <strong>di</strong> un mito, che ha<br />

16 Cfr. H. LECLERCQ, s. v. Pied, in DACL, XIV/1, Paris 1939, 818-822 (820); e<br />

inoltre, KÖTTING, cit., 738 s. Nessuna menzione del simbolismo del piede nel sontuoso<br />

repertorio iconografico <strong>di</strong> G.-H. BAUDRY, Les symboles du christianisme ancien<br />

(I er -VII e siècle), Paris 2009; cfr. invece il più agile M. FEUILLET, Lexique des<br />

symboles chrétiens, Paris 2004, 88.<br />

17 M. GUARDUCCI, Le <strong>impronte</strong> del Quo Va<strong>di</strong>s e monumenti affini figurati ed<br />

epigrafici, Atti della Pontificia Accademia Romana <strong>di</strong> Archeologia. Ren<strong>di</strong>conti,<br />

19 (1942-43), 305-344; a proposito dei vestigia apostolorum, <strong>di</strong> cui si parla nella<br />

Passio Sebastiani martyris, si vedrà l’accurata <strong>di</strong>samina linguistico-filologica <strong>di</strong> B.<br />

LUISELLI, In margine al problema della traslazione delle ossa <strong>di</strong> Pietro e Paolo, Mélanges<br />

de l’Ecole française de Rome. Antiquité, 98 (1986), 843-854 (848 ss.).<br />

157


158<br />

Luigi Canetti<br />

strutturato e plasmato l’immaginario cristiano per più <strong>di</strong> un millennio.<br />

In questo senso, è comunque opportuno non trascurare il fatto che le<br />

orme del Salvatore sull’Oliveto sono soltanto una delle molteplici evidenze<br />

mitiche relative alle ultime <strong>impronte</strong> lasciate sulla terra da eroi,<br />

esseri <strong>di</strong>vini, profeti, santi e fondatori <strong>di</strong> culti e <strong>di</strong> devozioni. Ciò non<br />

riguarda soltanto i paganesimi del mondo classico e le tre religioni<br />

abramitiche. Qui non è il caso <strong>di</strong> ri<strong>di</strong>scutere le note testimonianze <strong>di</strong><br />

Erodoto, Diodoro Siculo, Cicerone, Apuleio, Pausania e Luciano, relative<br />

alle sacre <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Iside, Eracle, Dioniso, Perseo, Prometeo ed<br />

altri personaggi semi<strong>di</strong>vini nonché dei loro animali, ad<strong>di</strong>tate nell’antichità<br />

tra i mirabilia eroici 18 . Ma è bene ricordare che proprio a Gerusalemme,<br />

nella Cupola della Roccia, sul tavolato dell’antico tempio <strong>di</strong> Salomone,<br />

l’Islam ha riconosciuto e venerato fin i primor<strong>di</strong> le <strong>impronte</strong><br />

lasciate da Maometto prima della sua ascesa al cielo, e già attribuite all’arcangelo<br />

Gabriele 19 . Benché su tale credenza abbia potuto stingere<br />

l’ormai solida mitopiesi cristiana delle orme <strong>di</strong> Gesù sul Monte Oliveto,<br />

in questo caso è probabile che si tratti della risignificazione del famoso<br />

lapis pertusus <strong>di</strong> cui parlò per primo l’Itinerarium Bur<strong>di</strong>galense 20 ,<br />

e dove ancora nel 333 sarebbe stato possibile riconoscere sul marmo<br />

dell’altare le tracce del sangue <strong>di</strong> Zaccaria (Mt 23, 35) nonché le vestigia<br />

dei chio<strong>di</strong> dei soldati che lo assassinarono, quasi si fossero impresse<br />

nella cera molle 21 .<br />

18 Cfr. DUNBABIN, cit., 96; J. BOARDMAN, Archeologia della nostalgia. Come i<br />

greci reinventarono il loro passato, trad. it. Milano 2004 (ed. orig. 2002), 104-109,<br />

242, 244, 246, 247; S. A. TAKÁCS, Divine and Humane Feet: Records of Pilgrims Honouring<br />

Isis, in J. ELSNER - J. RUTHERFORD (eds.), Pilgrimage in Graeco-Roman and<br />

Early Christian Antiquity. Seeing the Gods, Oxford 2005, 353-369 (358 s.).<br />

19 Mi sembra convincente l’ipotesi <strong>di</strong> CASTIGLIONE, cit., 98, secondo cui le <strong>impronte</strong><br />

rocciose palestinesi potrebbero avere rappresentato in epoca storica un<br />

possibile trait d’union, per via <strong>di</strong> obliterazione o <strong>di</strong> sostituzione, con l’antico culto<br />

sacrificale delle pietre in ambiente semitico.<br />

20 «Et in aede ipsa, ubi templum fuit, quem salomon ae<strong>di</strong>ficauit, in marmore<br />

ante aram sanguinem zachariae ibi <strong>di</strong>cas ho<strong>di</strong>e fusum; etiam parent uestigia<br />

clauorum militum, qui eum occiderunt, per totam aream, ut putes in cera fixum<br />

esse. Sunt ibi et statuae duae hadriani; est et non longe de statuas lapis pertusus,<br />

ad quem ueniunt iudaei singulis annis et unguent eum et lamentant se cum gemitu<br />

et uestimenta sua scindunt et sic recedunt.» (Itinerarium Bur<strong>di</strong>galense, 591, 1-3,<br />

ed. P. GEYER, Itinera hierosolymitana saeculi IV-VIII, in CSEL 39, Pragae-Vindobonae-Lipsiae<br />

1898, 21-22).<br />

21 Girolamo, cinquant’anni più tar<strong>di</strong>, avrebbe ironizzato sulle guide che ancora<br />

mostravano le tracce presunte del sangue <strong>di</strong> Zaccaria; cfr. HIER. Comm. in Matth.


‘Vestigia Christi’<br />

Mitologia e folklore, specie nei casi in cui l’eziologia delle <strong>impronte</strong><br />

leggendarie richiami i personaggi e le vicende della storia sacra 22 , ci<br />

aiutano meglio a comprendere come nell’immaginario europeo si sia<br />

potuta costituire e stratificare quella straor<strong>di</strong>naria alchimia <strong>di</strong> luoghi <strong>di</strong><br />

memoria, che nel giro <strong>di</strong> poche generazioni, tra Costantino e Teodosio,<br />

ha proiettato e reificato nella topografia dei luoghi santi i racconti biblici<br />

e la mitopoiesi fiorita intorno ad essi 23 . La percezione <strong>di</strong> un nuovo<br />

spazio cristiano, tra Oriente e Occidente, è stata a sua volta plasmata<br />

attraverso l’istituzione <strong>di</strong> segni, <strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> e significati incar<strong>di</strong>nati certo<br />

sulle coor<strong>di</strong>nate antropologiche del mondo classico, ma al tempo stesso<br />

veicolati in maniera decisiva dalla machina memorialis del grande co<strong>di</strong>ce<br />

scritturistico 24 .<br />

È quanto mai sintomatico che negli scritti <strong>di</strong> Eusebio <strong>di</strong> Cesarea noi<br />

troviamo <strong>di</strong>scussa per la prima volta in modo sistematico la possibilità<br />

<strong>di</strong> una reificazione spaziale delle profezie bibliche, in or<strong>di</strong>ne al loro<br />

compimento cristiano nei luoghi stessi in cui il Verbo <strong>di</strong> Dio si sarebbe<br />

incarnato. Nel VI libro della Dimostrazione evangelica (composta sicuramente<br />

prima dello scoppio della crisi Ariana, e databile agli anni 314-<br />

318 e comunque non oltre il 323 25 ), al capitolo XVIII, si analizza la famosa<br />

profezia <strong>di</strong> Zaccaria 14 sul saccheggio e la <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Gerusalemme,<br />

quando «metà della città sarà condotta in schiavitù, e quelli del<br />

mio popolo che resteranno non periranno». Allora «uscirà il Signore e<br />

si schiererà contro quelle nazioni» da lui stesso radunate contro la sua<br />

città, «e staranno sal<strong>di</strong> i suoi pie<strong>di</strong> in quel giorno, sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi,<br />

<strong>di</strong> fronte a Gerusalemme a oriente» 26 . Eusebio vede realizzati questi<br />

IV, 24, 15, ed. É. BONNARD in JÉRÔME, Commentaire sur saint Matthieu. Livres<br />

III-IV, Paris 1979 (SCh 259), 193 («simpliciores fratres inter ruinas templi et altaris<br />

siue in portarum exitibus quae siloam ducunt, rubra saxa monstrantes zachariae<br />

sanguine putant esse polluta.»).<br />

22 In Francia, ad esempio, erano ancora attestate ai primi del Novecento le<br />

tracce del passaggio della Sacra Famiglia durante la fuga da Nazareth in Egitto;<br />

cfr. SÉBILLOT, cit., 364 (199 s. della rist.).<br />

23 Cfr. M. HALBWACHS, La topographie légendaire des Evangiles en Terre Sainte,<br />

Paris 1941 (trad. it., Memorie <strong>di</strong> Terrasanta, a cura <strong>di</strong> F. CARDINI, Venezia 1988).<br />

24 Cfr. M. CARRUTHERS, Machina memorialis. Me<strong>di</strong>tazione, retorica e costruzione<br />

delle immagini (400-1200), trad. it. Pisa 2006 (ed. orig. 1998), 62-68.<br />

25 Cfr. P. CARRARA, Introduzione a EUSEBIO DI CESAREA, Dimostrazione evangelica,<br />

Milano 2000 (Letture cristiane del primo millennio, 29), p. 17, n. 21.<br />

26 Seguirò d’ora in poi la trad. it. <strong>di</strong> CARRARA, cit., 513 ss.<br />

159


160<br />

Luigi Canetti<br />

misteriosi eventi nei giorni della venuta <strong>di</strong> Cristo fra gli uomini e nelle<br />

successive tribolazioni della città santa, fra le guerre giudaiche <strong>di</strong> Tito e<br />

Adriano. Schieratosi fra gli stessi asse<strong>di</strong>anti, il Signore ha dunque mosso<br />

guerra contro la città e quella parte dei suoi abitanti che non lo ha<br />

riconosciuto. E il versetto sui pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Lui, che si fermeranno in quel<br />

giorno sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi, «cos’altro in<strong>di</strong>ca – sostiene Eusebio – se<br />

non l’istituzione e il rafforzamento della Chiesa […] la quale allegoricamente<br />

viene qui chiamata Monte <strong>degli</strong> Ulivi?» 27 . Si tratta ovviamente<br />

della chiesa delle nazioni, l’oliveto innestato sulle ra<strong>di</strong>ci apostoliche,<br />

piantato da Cristo «con piante vigorose, cioè anime sante e nutrite <strong>di</strong><br />

luce» e contrapposto alla «prima vigna» dell’antico Israele, che anziché<br />

uva produsse spine e generò ingiustizia 28 . Questo Monte <strong>degli</strong> Ulivi «fu<br />

costituito da Dio in luogo dell’antica Gerusalemme terrena e del suo<br />

culto dopo la <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Gerusalemme», ed è allora opportuno il rilievo<br />

del profeta, secondo cui i pie<strong>di</strong> del Signore «non si fermeranno su<br />

Gerusalemme», giacché, una volta <strong>di</strong>strutta la città, ciò non sarebbe<br />

più stato possibile 29 . Si fermarono invece <strong>di</strong> fronte alla città, sul Monte<br />

<strong>degli</strong> Ulivi, come confermerebbe anche il profeta Ezechiele (11, 22-23),<br />

che vide la gloria del Signore innalzarsi dal mezzo della città e fermarsi<br />

sul monte che è <strong>di</strong> fronte 30 . A questo punto viene la parte più interessante<br />

dell’intera sequenza tipologica 31 :<br />

A tutt’oggi, – osserva Eusebio, – si può vedere letteralmente compiuto il<br />

senso <strong>di</strong> questo passo, allorché tutti i fedeli <strong>di</strong> Cristo si sono raccolti da<br />

ogni parte della terra, non come un tempo per la festività in Gerusalemme,<br />

né per adorare il tempio che prima si ergeva in Gerusalemme, ma per recarsi<br />

a conoscere la <strong>di</strong>struzione e la desolazione <strong>di</strong> Gerusalemme, avvenute secondo<br />

la profezia, e per adorare sul monte <strong>degli</strong> Ulivi che è <strong>di</strong> fronte a Gerusalemme,<br />

dove fu presente la gloria del Signore, che aveva abbandonato la<br />

città <strong>di</strong> prima. Secondo l’esposizione che abbiamo fatto, veramente si fermarono<br />

i pie<strong>di</strong> del Signore e Salvatore nostro, dunque dello stesso Logos <strong>di</strong><br />

Dio, grazie a quell’abito umano che aveva indossato, sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi.<br />

Ciò avvenne presso quella grotta, che là viene mostrata – s’intende, evidentemente,<br />

ai pellegrini e ai devoti – quando pregò e trasmise ai suoi <strong>di</strong>scepoli,<br />

sulla cima del Monte <strong>degli</strong> Ulivi, i misteri del compimento della storia.<br />

27 EUS. Dem. ev. VI, XVIII, 17, ibid., 517.<br />

28 Ibid., 18-19, 517 s..<br />

29 Ibid., 20, 518.<br />

30 Ibid., 22, 518.<br />

31 Ibid., 23-25, 518 s.


‘Vestigia Christi’<br />

Di là, inoltre, salì ai cieli, come Luca negli Atti <strong>degli</strong> Apostoli ci insegna,<br />

<strong>di</strong>cendo che proprio sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi, alla presenza <strong>degli</strong> Apostoli che<br />

guardavano, egli fu innalzato, e una nube lo sottrasse ai loro occhi. E mentre<br />

fissavano il cielo, poiché egli si allontanava, ecco due uomini si presentarono<br />

loro in bianche vesti e <strong>di</strong>ssero: Uomini <strong>di</strong> Galilea, perché ve ne state guardando<br />

verso il cielo? Questo Gesù che è stato portato <strong>di</strong> fra voi in cielo ritornerà<br />

nel modo in cui lo avete visto andare verso il cielo (Atti 1, 1-11). A queste parole<br />

aggiunge: Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto <strong>degli</strong> Ulivi,<br />

che è <strong>di</strong> fronte a Gerusalemme» (Atti 1, 12).<br />

Dunque, conclude Eusebio, il senso più profondo <strong>di</strong> questo passo <strong>di</strong><br />

Zaccaria in<strong>di</strong>ca l’istituzione futura, e ormai compiuta, della santa<br />

Chiesa <strong>di</strong> Cristo, elevata in luogo della Gerusalemme caduta, e «a<br />

oriente <strong>di</strong> essa, in quanto illuminata per prima dai raggi della luce religiosa<br />

[…], e avvicinatasi a lui, Sole <strong>di</strong> giustizia»; una nuova Gerusalemme<br />

«che è stata resa degna dei pie<strong>di</strong> del Signore» 32 .<br />

Ano<strong>di</strong>na e implicita nei testi canonici (Luca 24, 50-2; Atti 1, 12),<br />

l’ambientazione dell’Ascensione <strong>di</strong> Cristo sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi, tra<strong>di</strong>zionale<br />

scenario e tribuna profetica da cui lo stesso Gesù avrebbe pronunciato<br />

il <strong>di</strong>scorso escatologico sulla grande tribolazione della città<br />

santa (Mt 24, 3; Mc 13, 3), si fa strada quasi naturalmente nell’immaginario<br />

cristiano probabilmente già tra I e II secolo. Inoltre, come ha tentato<br />

<strong>di</strong> provare Simon-Claude Mimouni riesaminando tutto il dossier<br />

archeologico e letterario sulle grotte giudeo-cristiane, non è improbabile<br />

che già prima del riconoscimento del cristianesimo da parte <strong>di</strong> Costantino<br />

la grotta dell’Ascensione costituisse un luogo <strong>di</strong> culto frequentato<br />

dai cristiani (lo lascia intendere anche il passo <strong>di</strong> Eusebio appena<br />

citato); uno dei pochi, dunque, sfuggiti al recupero pagano della città<br />

da parte <strong>di</strong> Adriano 33 . Non abbiamo però sufficienti elementi per <strong>di</strong>mostrare<br />

che si trattasse <strong>di</strong> un santuario giudeo-cristiano, anche se già nel<br />

II secolo è documentabile in quest’area la presenza <strong>di</strong> comunità ebionite<br />

34 . Va però rilevato che un testimone importantissimo sulla genesi del<br />

rinnovato interesse ai luoghi santi come Cirillo <strong>di</strong> Gerusalemme, nelle<br />

sue Catechesi prebattesimali (348), trattando dell’Ascensione del Si-<br />

32 Ibid., 26, 519 s.<br />

33 S.-CL. MIMOUNI, Le judéo-christianisme ancien. Essai historique, Paris 1998,<br />

347 -366.<br />

34 Cfr. ibid., 361.<br />

161


162<br />

Luigi Canetti<br />

gnore 35 , non associa mai questo evento ad un punto preciso sul monte<br />

<strong>degli</strong> Ulivi né tantomeno ad eventuali tracce materiali superstiti, quelle<br />

«testimonianze» che lui stesso, in riferimento alla croce, al Gòlgota, e<br />

alla roccia del sepolcro, chiama appunto i martyria della passione e della<br />

resurrezione 36 . Mi sembra dunque a fortiori probante il fatto che in<br />

Cirillo non vi sia alcuna menzione dei vestigia Christi, il che rappresenta<br />

un sicuro termine post quem per datare la nascita <strong>di</strong> questa nuova devozione<br />

alle orme <strong>di</strong> Gesù 37 .<br />

Dopo il 337, all’indomani dell’invenzione archeologica e mnemostorica<br />

della Gerusalemme cristiana, nel III libro della Vita <strong>di</strong> Costantino<br />

Eusebio celebrava il recupero e l’ornamentazione delle tre «grotte mistiche»:<br />

oltre a quella che testimonia la resurrezione del Salvatore, presso<br />

il santo sepolcro 38 , sono, nell’or<strong>di</strong>ne, l’antro della Natività a Betlemme<br />

ossìa quello della prima epifania del Salvatore, testimone della sua<br />

incarnazione; e infine, «lo speco che intese solennizzare il ricordo dell’Ascensione<br />

al cielo, che avvenne sulla cima del Monte» 39 . L’onore e lo<br />

sfarzo decorativo riservati da Costantino a queste due ultime grotte miravano<br />

a solennizzare e perpetuare il ricordo della madre Elena, allora<br />

(326-329/30) già avanti negli anni 40 :<br />

35 CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi XIV, 23 (cfr. CIRILLO E GIOVANNI DI<br />

GERUSALEMME, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, a cura <strong>di</strong> G. MAESTRI - V.<br />

SAXER, Milano 1994, 446-447).<br />

36 Ibid., XIII, 4 (387 s.); XIV, 22 (445 s.). Cfr. R. DESJARDINS, Les Vestiges du<br />

Seigneur au Mont des Oliviers. Un courant mystique et iconographique, Bulletin de<br />

Litterature Ecclesiastique, 73 (1972), 51-72 (54).<br />

37 È in ogni caso evidente, come ha ben suggerito F. HEIM (Virtus. Idéologie politique<br />

et croyances religieuses au IV e siècle, Bern-Frankfurt/M.-New York-Paris<br />

1991, 58 s.) che fin dagli anni della inventio costantiniana della Terrasanta, malgrado<br />

il filtro e il ‘freno’ della rilettura <strong>di</strong> Eusebio, tutti i martyria palestinesi racchiudevano<br />

e ricoprivano un determinato vestigium, oggetto o luogo che era stato<br />

in contatto <strong>di</strong>retto con il Salvatore e con la storia sacra. Ed è con vera passione e<br />

tenace determinazione che Costantino fa ricercare quei luoghi rivestendoli letteralmente<br />

con i nuovi monumenti cristiani.<br />

38 EUS. V. Const. III, 25-40; cfr. Eusebius von Caesarea De vita Constantini /<br />

Über das Leben Konstantins, eingeleitet von B. BLECKMANN, übersetzt und kommentiert<br />

von H. SCHNEIDER, Turnhout 2005 (Fontes Christiani, 83), 342-359; EU-<br />

SEBIO DI CESAREA, Sulla vita <strong>di</strong> Costantino, a cura <strong>di</strong> L. TARTAGLIA, Napoli 2001 2<br />

(1984), 137-144.<br />

39 Eus. V. Const. III, 41, 2 (d’ora in avanti seguirò, con qualche lieve mo<strong>di</strong>fica,<br />

la trad. <strong>di</strong> TARTAGLIA, cit., 144).<br />

40 Ibid. 42, 2 (trad. TARTAGLIA, cit., 145).


‘Vestigia Christi’<br />

mossa da giovanile sollecitu<strong>di</strong>ne [l’imperatrice] venne con straor<strong>di</strong>nario fervore<br />

a rendersi conto della Terrasanta, e a visitare con premura veramente<br />

imperiale le province orientali e tutte le popolazioni che le abitano. Dopo<br />

che ebbe reso la dovuta adorazione ai luoghi sui quali il Salvatore aveva impresso<br />

le sue orme [ovvero posato i suoi passi] conformemente a quel che <strong>di</strong>ce<br />

la parola dei profeti, prostriamoci nel luogo ov’egli pose i suoi pie<strong>di</strong> (Ps.<br />

131, 7b Sept. 41 ), subito ella volle lasciare ai posteri un frutto della propria<br />

religiosità.<br />

A questo punto Eusebio, in un paragrafo singolarmente contorto 42 ,<br />

che ha messo a dura prova l’acribìa <strong>di</strong> illustri traduttori ed esegeti <strong>di</strong><br />

queste pagine, dopo aver ricordato la munificenza <strong>di</strong> Elena nell’abbellire<br />

il tempio presso la grotta <strong>di</strong> Betlemme, celebra ancora la larghezza dei<br />

donativi costantiniani a favore <strong>degli</strong> e<strong>di</strong>fici fatti erigere dall’imperatrice<br />

madre sul Monte <strong>degli</strong> Ulivi a ricordo dell’Ascensione: «il sacro e<strong>di</strong>ficio<br />

<strong>di</strong> una chiesa sulla cima più alta del monte», e «un tempio <strong>di</strong> preghiera<br />

in onore del Salvatore» nel luogo in cui, «come afferma un racconto veri<strong>di</strong>co»<br />

(cfr. Mc 13, 3; Atti 1, 6-12), proprio «il Salvatore del mondo iniziò<br />

ai sacri misteri della fede i suoi <strong>di</strong>scepoli» 43 . Quest’ultima basilica a<br />

tre navi, con atrio delle stesse <strong>di</strong>mensioni, e innalzata sopra la grotta, era<br />

sicuramente già in pie<strong>di</strong> nel 333, come testimonia il pellegrino <strong>di</strong> Bordeaux<br />

44 , e nel 384 venne frequentata da Egeria durante i riti della settimana<br />

santa («ecclesia […] quae est in Eleona, id est in monte Oliveti, et<br />

41 Qui il riferimento letterale al Salmo 131, 7b Sept (proskunhvsomen eij" to;n tovpon,<br />

ou| e[sthsan oiJ povde" aujtou') non potrebbe intendersi se non come una giustificazione<br />

ancora molto ano<strong>di</strong>na del pellegrinaggio devozionale ai luoghi santi. In<br />

ogni caso è in<strong>di</strong>scutibile che il passo biblico non può essere assunto, nella prospettiva<br />

<strong>di</strong> Eusebio, come una esortazione a venerare le vestigia materiali (orme e<br />

quant’altro, insomma) della presenza <strong>di</strong> Gesù in Terrasanta. Più avanti si <strong>di</strong>rà<br />

qualcosa sull’esegesi questo passo in Girolamo e in Agostino proprio in riferimento<br />

al pellegrinaggio in Terrasanta e al culto delle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Gesù.<br />

42 EUS. V. Const. III, 43, 2-3 (ed. BLECKMANN - SCHNEIDER, cit., 361 s.).<br />

43 Ibid., 43, 3: pavlin dΔhJ me;n basilevw" mhvter th'" eij" oujranou;" poreiva" tou' tw'n<br />

o{lwn swth'ro" ejti; tou' tw'n ejlaiw'n o[rou" th;n mnhvmhn ejphrmevnai" oijkodomivai" ajnuv -<br />

you, a[nw pro;" tai'" ajkrwreivai" para; th;n tou' panto;" o[rou" korufh;n iJero;n oi\jkon<br />

ejkklhsiva" ajnegeivrasa, newvn te kajntau'qa proseukthvrion tw'/ ta;" aujtovqi <strong>di</strong>atriba;"<br />

eJlomevnw/ swth'ri susthsamevnh, ejpei; kajntau'qa lovgo" ajlhqh;" katevcei ejn aujtw'/<br />

a[ntrw/ tou;" aujtou' qiaswvta" muei'n ta;" ajporrhvtou" teleta;" to;n tw'n o{lwn swth'ra.<br />

44 Itinerarium Bur<strong>di</strong>galense, 595, 6-7: «Inde ascen<strong>di</strong>s in montem oliueti, ubi dominus<br />

ante passionem apostolos docuit: ibi facta est basilica iussu constantini.»<br />

(ed. GEYER, Itinera hierosolymitana, cit., 23); cfr. P. MARAVAL, Lieux saints et pèle-<br />

163


164<br />

Luigi Canetti<br />

ibi est spelunca illa in quo docebat Dominus» 45 ). Distrutta dai Persiani<br />

nel 614, fu a mala pena restaurata e sopravvisse a stento fino all’epoca<br />

delle Crociate 46 . Egeria, si ba<strong>di</strong>, non fa menzione alcuna <strong>di</strong> <strong>impronte</strong> dei<br />

pie<strong>di</strong> del Signore, e a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> Eusebio non parla <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> culto<br />

ubicati sulla cima del monte, da lei chiamato semplicemente Imbomon<br />

(ejn bounw'/, ‘sulla collina’), “id est [in eo] loco de quo ascen<strong>di</strong>t Dominus<br />

in caelis” 47 . L’Itinerarium descrive la processione liturgica dei rami <strong>di</strong><br />

palma che si snodava dall’Eleona all’Imbomon; e sempre lungo quel tragitto<br />

si celebravano i riti del cinquantesimo giorno successivo alla Pasqua,<br />

con la lettura dal Vangelo e dagli Atti «ubi <strong>di</strong>cit de ascensu Domini<br />

in celis post resurrectionem» 48 . Soltanto fra il 392 e il 395, come ha<br />

<strong>di</strong>mostrato Paul Devos 49 , sull’Imbomon verrà e<strong>di</strong>ficata una chiesa a<br />

pianta centrale finanziata dalla matrona Poemenia 50 , la nobildonna<br />

ispanica <strong>di</strong> stirpe teodosiana, che a quanto sembra fu oggetto <strong>degli</strong> stra-<br />

rinages d’Orient. Histoire et géographie. Des origines à la conquête arabe, Paris<br />

1985, 265.<br />

45 Itinerarium Egeriae, 30, 3; cfr. ÉGÉRIE, Journal de voyage, éd. P. MARAVAL,<br />

Paris 2002 (SCh 296), 272.19-20; ve<strong>di</strong> anche 43,6 (ibid., 302.41-43): «…itur ad illam<br />

ecclesiam, quae et ipsa in Eleona est, id est in qua spelunca sedens docebat<br />

Dominus apostolos»); e 25, 11 (ibid., 254.76-77), sui riti dell’Epifania («Quarta<br />

<strong>di</strong>e in Eleona, id est in ecclesia quae est in monte Oliueti, pulchra satis, similiter<br />

omnia ita ornantur et ita celebrantur ibi»).<br />

46 Sempre secondo l’anonimo <strong>di</strong> Bordeaux (Itin. Burd. 595.17-596.1, ed.<br />

GEYER, cit., 23), nell’e<strong>di</strong>ficio sulla cima del Monte si celebrava la memoria della<br />

Trasfigurazione; un dato non del tutto inesatto perché sembra corrispondere ad<br />

un uso liturgico della chiesa <strong>di</strong> Gerusalemme (cfr. MARAVAL, Lieux saints, cit.,<br />

265, n. 112).<br />

47 Cfr. Itinerarium Egeriae, 31, 1, ed. MARAVAL, cit., 272.5 (cfr. anche ibid., 69-<br />

70 del saggio introduttivo).<br />

48 Cfr. Itinerarium Egeriae, 43, 5, ed. MARAVAL, cit., 300.38-39.<br />

49 Cfr. P. DEVOS, Égérie n’a pas connu d’église de l’Ascension, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana,<br />

87 (1969), 208-212; le fini analisi testuali <strong>di</strong> Paul Devos hanno confermato<br />

l’intuizione del p. Virgilio Corbo (v. infra, nota 55), secondo cui al tempo <strong>di</strong> Egeria<br />

(384) non esisteva ancora alcuna chiesa dell’Ascensione sulla cima del monte<br />

Oliveto.<br />

50 Cfr. P. DEVOS, La servante de Dieu Poemenia d’après Pallade, la tra<strong>di</strong>tion copte<br />

et Jean Rufus, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana, 87 (1969), 189-208; J. R. MARTINDALE<br />

(ed.), PLRE, II (1980), 894 s.; E. D. HUNT, Holy Land Pilgrimage in the Later Roman<br />

Empire. A.D. 312-460, Oxford 1982, 47, 76-78, 160-163; R. L. WILKEN, The<br />

Land called Holy. Palestine in Christian History and Thought, New Haven-London


‘Vestigia Christi’<br />

li <strong>di</strong> san Girolamo per quella che gli appariva un’ostentazione itinerante<br />

della sua ricchezza («regius apparatus») 51 , ma più verosimilmente anche<br />

per i legami <strong>di</strong> lei con la rivale cerchia monastica olivetana <strong>di</strong> Rufino<br />

e Melania proprio nel momento in cui scoppiò la controversia origenista,<br />

che dal 393 al 397 (e dunque negli anni della fondazione del santuario<br />

olivetano) contrappose Girolamo a Rufino e al vescovo Giovanni<br />

<strong>di</strong> Gerusalemme 52 . Il ché, come ora vedremo, spiega forse il sospetto<br />

silenzio dello stesso Girolamo sul pro<strong>di</strong>gio olivetano delle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong><br />

Gesù. Verso la fine del V secolo, la chiesa sulla cima dell’Oliveto viene<br />

menzionata come «casa della Santa Ascensione» nella versione siriaca<br />

della Vita <strong>di</strong> Pietro Ibero dell’antiocheno Giovanni Rufo, che rievocando<br />

il viaggio a Gerusalemme compiuto dal protagonista tra il 437 e il<br />

439 attribuisce a Poemenia la fondazione del santuario e dei suoi annessi<br />

53 . Secondo un’ipotesi <strong>di</strong> André Grabar, ora non più accre<strong>di</strong>tata, la ro-<br />

1992, 152 s.; R. TEJA, Poemenia: una peregrina hispana de la familia de Teodosio I,<br />

in Homenaje a José María Blázquez, VI: Antigüedad: Religiones y Sociedades,<br />

Madrid 1998, 279-290.<br />

51 HIER. Ep. 54, 13 (a. 395), ed. I. HILBERG in CSEL 54, Wien 1910, 479 («Vi<strong>di</strong>mus<br />

nuper ignominiosum per totum orientem uolitasse: et aetas et cultus et habitus<br />

et incessus, in<strong>di</strong>screta societas, exquisitae epulae, regius apparatus neronis et<br />

sardanapalli nuptias loquebantur. Aliorum uulnus nostra sit cautio; pestilente flagellato<br />

stultus sapientior erit. Sanctus amor inpatientiam non habet; falsus rumor<br />

cito opprimitur et uita posterior iu<strong>di</strong>cat de priori. Fieri quidem non potest, ut absque<br />

morsu hominum uitae huius curricula quis pertranseat, malorumque solacium<br />

est bonos carpere, dum peccantium multitu<strong>di</strong>ne putant culpam minui peccatorum;<br />

sed tamen cito ignis stipulae conquiescit et exundans flamma deficientibus<br />

nutrimentis paulatim emoritur. si anno praeterito fama mentita est aut, si certe<br />

uerum <strong>di</strong>xit, cesset uitium, cessabit et rumor. haec <strong>di</strong>co. Non quo de te sinistrum<br />

quid metuam, sed quo pietatis affectu etiam. Quae tuta sunt, pertimescam. O si<br />

uideres sororem tuam et illud sacri oris eloquium coram au<strong>di</strong>re contingeret, cerneres<br />

in paruo corpusculo ingentes animos, au<strong>di</strong>res totam ueteris et noui testamenti<br />

suppellectilem ex illius corde feruere. Ieiunia pro ludo habet, orationem pro deliciis.»).<br />

Per la datazione, e l’identificazione <strong>di</strong> Poemenia, cfr. P. DEVOS, Saint Jérôme<br />

contre Poemenia?, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana, 91 (1973), 117-120.<br />

52 Cfr. J. N. D. KELLY, Jerome. His Life, Writings, and Controversies, New York<br />

1975, 195-209, 243-258; HUNT, cit., 155-179; B. BITTON-ASHKELONY, Encountering<br />

the <strong>Sacre</strong>d. The Debate on Christian Pilgrimage in Late Antiquity, Berkely-Los<br />

Angels-London 2005, 85-97; H. CROUZEL - E. PRINZIVALLI, Origenismo, in Nuovo<br />

<strong>di</strong>zionario patristico e <strong>di</strong> antichità cristiane, a cura <strong>di</strong> A. DI BERARDINO, II, Genova-Milano<br />

2007, 3681-86.<br />

53 Vita Petri Iberi, 43; cfr. John Rufus: The Lives of Peter the Iberian, Theodo-<br />

165


166<br />

Luigi Canetti<br />

tonda dell’Ascensione sarebbe stata raffigurata per la prima volta a Roma,<br />

verso la fine del IV secolo, nel grande mosaico absidale <strong>di</strong> Santa Pudenziana<br />

[Tav. 12], che ne mostrerebbe la primitiva articolazione con la<br />

basilica dell’Eleona nell’ambito <strong>di</strong> un’unica struttura architettonica 54 .<br />

Nel 1959, gli ultimi scavi <strong>di</strong> Virgilio Corbo confermarono che si trattava<br />

<strong>di</strong> una rotonda (e non <strong>di</strong> un ottagono, come ancora pensava Grabar)<br />

con tre portici concentrici a mo’ <strong>di</strong> gallerie coperte, e il centro a cielo<br />

aperto, per lasciare visibile il punto in cui si sarebbero posati sulla terra<br />

per l’ultima volta i pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù prima della sua ascesa al cielo 55 . La descrizione<br />

più dettagliata dell’e<strong>di</strong>ficio, pur con qualche forzatura e imprecisione,<br />

proviene in realtà dalla periegesi dei luoghi santi fornita intorno<br />

al 680 dal monaco Adamnano <strong>di</strong> Hy 56 , che accompagnò al suo<br />

scritto un <strong>di</strong>segno esplicativo <strong>di</strong> questa singolare struttura architettonica<br />

[Tav. 13].<br />

In una celebre tavola eburnea <strong>di</strong> produzione italica ma conservata a<br />

Monaco, e databile tra la fine del IV e gli inizi del V secolo [Tav. 14],<br />

viene raffigurata sul lato destro la scena dell’Ascensione sul Monte Oliveto,<br />

riconoscibile per la presenza, in alto a sinistra, <strong>di</strong> un grande olivo<br />

che sbuca da <strong>di</strong>etro l’e<strong>di</strong>cola del Santo Sepolcro, che però si trovava<br />

nell’area del Gòlgotha, il centro sacrale della nuova Gerusalemme cristiana.<br />

Che si tratti della rotonda costantiniana dell’Anastasis sembra<br />

acclarato dalla presenza <strong>di</strong> un milite astato, e soprattutto dalla scenetta<br />

dell’angelo che in<strong>di</strong>ca alle pie donne che Gesù è ormai risorto. Gli storici<br />

dell’arte tardoantica hanno rilevato in questo splen<strong>di</strong>do avorio la<br />

continuità <strong>degli</strong> schemi iconografici caratteristici dell’apoteosi imperia-<br />

sius of Jerusalem, and the Monk Romanus, eds. C. B. HORN-R. R. PHOENIX jr.,<br />

Leiden-Boston 2008, 58-61 (testo critico siriaco e traduzione inglese); MARAVAL,<br />

Lieux saints, cit., 266, n. 14; R. KRAUTHEIMER, Early Christian Architecture, New<br />

Haven-London 1986 4 , 75, sulla base <strong>degli</strong> scavi del p. Corbo (v. infra, nota 55), datava<br />

ancora l’e<strong>di</strong>ficio al 370.<br />

54 Cfr. A. GRABAR, Martyrium. Recherches sur le culte des reliques et l’art chrétienne<br />

antique, I: Architecture, Paris 1946 (= London 1972), 288-289; v. inoltre DE-<br />

VOS, Egérie n’a pas connu d’église de l’Ascension, 212, n. 2.<br />

55 V. C. CORBO, Ricerche archeologiche sul monte <strong>degli</strong> Ulivi, Gerusalemme<br />

1965 (<strong>Stu<strong>di</strong></strong>um biblicum franciscanum, 16), 97-104.<br />

56 ADAMNANI HIENSIS De locis sanctis I, 23: «Cuius uidelicet rotundae eeclesiae<br />

figura uili quamuis pictura sic depicta declaratur» (ed. GEYER, Itinera hierosolymitana,<br />

cit., 249; a p. 250 si riproduce il <strong>di</strong>segno della rotonda). Ritorno fra poco<br />

sul passo <strong>di</strong> Adamnano.


‘Vestigia Christi’<br />

le (si pensi alle monete postume <strong>di</strong> Costantino descritte da Eusebio) e il<br />

particolare, già proprio all’imaginario ebraico e pagano, della mano <strong>di</strong><br />

Dio protesa ad accogliere il profeta e il sovrano mentre risale ad astra; è<br />

stata poi notata la sovrapposizione con il tema della trasfigurazione, a<br />

sua volta tributario del motivo biblico dell’ascensus profetico 57 . Non<br />

bisogna <strong>di</strong>menticare che ancora al tempo <strong>di</strong> Egeria era sfuocata la <strong>di</strong>stinzione<br />

tra le festività liturgiche della glorificazione del Cristo 58 . Nessuno,<br />

a quanto mi consta, si è soffermato più <strong>di</strong> tanto sui peculiari dettagli<br />

narrativi <strong>di</strong> questa immagine: sono qui comprensenti, alle pen<strong>di</strong>ci<br />

dell’Oliveto, il momento della salita al cielo, con la mano del Padre affiorante<br />

dalle nubi, che accoglie un Cristo ancora ben piantato con i<br />

pie<strong>di</strong> per terra (e in effetti, per il gesto <strong>di</strong> un apostolo che si ripara il<br />

volto dalla luce abbagliante, l’episo<strong>di</strong>o sembra richiamare quello della<br />

Trasfigurazione); e infine, sul lato sinistro, un angelo che richiama da<br />

presso quel Cristo docente – a quell’epoca non ancora necessariamente<br />

rappresentato col nimbo 59 – che la tra<strong>di</strong>zione, accolta da Eusebio e da<br />

tutti gli autori successivi, riconduceva agli ultimi insegnamenti impartiti<br />

ai <strong>di</strong>scepoli <strong>di</strong> fronte alla grotta del monte Oliveto. Benché, come<br />

scrisse Krautheimer, «the Imbomon represented a variant on the plan<br />

of the Anastasis Rotunda» 60 , non intendo con ciò sostenere che l’e<strong>di</strong>ficio<br />

qui raffigurato sia effettivamente la rotonda dell’Ascensione, a quel<br />

57 Cfr. E. T. DEWALD, The Iconography of the Ascension, American Journal of<br />

Archaeology, 19 (1915), 277-319 (279); S. MACCORMACK, Arte e cerimoniale nell’antichità,<br />

trad. it. <strong>Torino</strong> 1995 (ed. orig. 1981), 179; una buona rassegna storica e<br />

tipologica viene fornita da V. M. SCHMIDT, Ascensione, in Enciclope<strong>di</strong>a dell’arte<br />

me<strong>di</strong>evale, II, Roma 1991, 572-577. Più <strong>di</strong> recente, B. BRENK, L’avorio Trivulzio e<br />

il suo significato, Felix Ravenna, 157-160 (2001-2004), 57-73 (ma in realtà il lavoro<br />

è stato presentato in occasione del seminario internazionale Il secolo dei <strong>di</strong>ttici.<br />

Temi <strong>di</strong> ricerca e spunti <strong>di</strong> riflessione sul V secolo d. C., Ravenna, 15-16 maggio<br />

2009), ha giu<strong>di</strong>cato il famoso <strong>di</strong>ttico Trivulzio della Resurrezione come «una nuova<br />

interpretazione dell’avorio <strong>di</strong> Monaco», ed «entrambi scolpiti nella stessa bottega<br />

più o meno contemporaneamente» (58) negli anni tra fine IV e inizio V secolo<br />

(71); i due artisti, dovendo raffigurare il sepolcro <strong>di</strong> Gerusalemme ma poco interessati<br />

ad una interpretazione esatta del testo dei Vangeli, avrebbero quin<strong>di</strong><br />

«scelto la rappresentazione <strong>di</strong> un mausoleo italico» (65).<br />

58 Cfr. in proposito DESJARDINS, cit., 53, e il prezioso ragguaglio liturgico <strong>di</strong><br />

MARAVAL (ed.) in ÉGÉRIE, Journal de voyage, cit., 300 s., n. 1.<br />

59 Cfr. BRENK, cit., 58.<br />

60 KRAUTHEIMER, cit., 75.<br />

167


168<br />

Luigi Canetti<br />

tempo forse ancora inesistente o tutt’al più in fase costruzione: la struttura<br />

sembra alludere – pur senza raffigurarla in senso mimetico – all’e<strong>di</strong>cola<br />

dell’Anastasis 61 , e la cupola, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quella dell’Ascensione,<br />

non è sormontata da quella croce, <strong>di</strong> cui parla anche san Girolamo,<br />

e che fu rimpiazzata da Eudocia dopo l’incen<strong>di</strong>o del 450 62 . Non escluderei<br />

però un certo grado <strong>di</strong> contaminazione nella mnemostoria dei<br />

due episo<strong>di</strong> evangelici, come sembra tra<strong>di</strong>re la <strong>di</strong>spositio qui sussunta<br />

dall’artista; una contaminazione orientata sia dai processi <strong>di</strong> trasmissione<br />

dell’immaginario evangelico <strong>di</strong> Terransanta sia dai canoni iconografici<br />

e dai vincoli compositivi.<br />

Nella superba lettera 108, o Epitaphium sanctae Paulae, in<strong>di</strong>rizzata<br />

ad Eustochio nel 404 per consolarla della morte della madre 63 , Gerolamo,<br />

nella scia <strong>di</strong> Eusebio e <strong>di</strong> Paolino, ma con singolare letteralità <strong>di</strong><br />

esegesi tipologica e topografica, evidenziava l’affinità e la corrispondenza<br />

tra la pratica del pellegrinaggio ai luoghi santi e l’esortazione<br />

contenuta nel Salmo 131 (7) a prostrarsi nel luogo «dove si posarono i<br />

pie<strong>di</strong> del Signore», pur senza che ciò implicasse un <strong>di</strong>retto riferimento<br />

al culto delle orme <strong>di</strong> Gesù impresse sulla roccia, le nuove reliquie dell’Ascensione<br />

che Gerolamo <strong>di</strong>fficilmente poteva ignorare qualora ne<br />

fosse stato a conoscenza, ma <strong>di</strong> cui – al <strong>di</strong> là del pudore a suffragare<br />

l’autenticità <strong>di</strong> un simile pro<strong>di</strong>gio – aveva forse tutto l’interesse a tacere,<br />

specie nelle circostanze documentate dall’epistola 58, in piena polemica<br />

origenista – siamo intorno al 395 64 . Tanto più che in tali frangenti Gerolamo<br />

assunse, e manifestò proprio al vescovo <strong>di</strong> Nola, che era a ri-<br />

61 Ve<strong>di</strong> supra, nota 57.<br />

62<br />

HIER. Ep. 108, 12 (a. 404), ed. I. HILBERG in CSEL 55, Wien 1912, 320.9;<br />

EIUSD. Comm. in Soph. 1, 15-16, ed. M. ADRIAEN in CCSL 76A, Turnhout 1970,<br />

673; cfr. DEVOS, La ‘servante de Dieu’ Poemenia, cit., 211; HUNT, cit., 162; MARA-<br />

VAL, Lieux saints, cit., 266, n. 117.<br />

63 Ed. HILBERG in CSEL 55, 306-351; cfr. BITTON-ASHKELONY, cit., 67 s., 70, 82<br />

s., 97.<br />

64 Ed. HILBERG in CSEL 54, 527-541. Nel Commento al profeta Zaccaria, Girolamo<br />

sembra invero riferirsi alla presenza allegorica –– non metonimica – del<br />

sole <strong>di</strong> giustizia, che si è posato ad oriente della città santa; cfr. HIER. Comm. in<br />

Zach. 3,14, ed. M. ADRIAEN in CCSL, 76A, cit., lin. 105 s.: «Et ipse mons Oliuarum<br />

in quo stant pedes Domini, contra Hierusalem est et ad orientem, unde oritur<br />

sol iustitiae, illis que oliuis consitus est, de quibus <strong>di</strong>citur: filii tui sicut nouellae<br />

oliuarum, in circuitu mensae tuae.»


‘Vestigia Christi’<br />

schio <strong>di</strong> subire l’influenza dei suoi avversari, l’entourage <strong>di</strong> Rufino e<br />

Melania inse<strong>di</strong>atosi proprio sul monte Oliveto, una posizione decisamente<br />

ostile al pellegrinaggio a Gerusalemme inteso in senso letterale.<br />

Una presa <strong>di</strong> posizione polemica, che ribaltava, fra l’altro, quanto ancora<br />

lui stesso auspicava nella lettera 47 a Desiderio, del 393, dunque<br />

appena due anni prima, laddove Gerolamo, sempre citando e interpretando<br />

alla lettera il Salmo 131 (il ‘canto delle salite’, ovvero il salmo<br />

messianico per l’anniversario della traslazione dell’Arca) si era spinto<br />

ad affermare, con sconcertante estremismo, che «adorasse ubi steterunt<br />

pedes Domini pars fidei est» 65 . L’apologia del pellegrinaggio, quasi<br />

specchio paradossale <strong>di</strong> una utopistica società <strong>di</strong> santi, aveva del resto<br />

trovato il suo apice, in quello stesso anno, nella famosa lettera in<strong>di</strong>rizzata<br />

a Marcella da Paola ed Eustochio (ma redatta dallo stesso Gerolamo),<br />

con l’esaltazione della grotta <strong>di</strong> Betlemme, del sepolcro e delle<br />

tracce fisiche del martirio del Signore, e l’insistenza sui guadagni spirituali,<br />

intellettuali e morali lucrati con la visita ai luoghi santi 66 . In effetti<br />

Gerolamo, nemmeno in questo caso si arrischiava a negare che anche<br />

altrove potessero darsi i santi e la santità, poiché «regnum dei intra nos<br />

esse». E quando <strong>di</strong>chiarava venerabile il sepolcro del Signore, egli non<br />

pensava certo ad un’appropriazione magica <strong>di</strong> luoghi e <strong>di</strong> reliquie, ma<br />

semmai esaltava il fatto che quegli stessi luoghi consentissero ancora <strong>di</strong><br />

vedere, cioè infine <strong>di</strong> coltivare un ricordo più vivido e meritorio del Signore<br />

che giace nel lenzuolo, con l’angelo assiso ai suoi pie<strong>di</strong> e il sudario<br />

ripiegato 67 . Del resto, nel suo commento a Matteo 23, 35, Gerolamo<br />

65 Ep. 47, 2, ed. HILBERG in CSEL 54, 346.4-9: «Itaque, quod uenerabilis Paula<br />

me est deprecata, ut facerem, sponte facio hortor que uos et precor per Domini<br />

caritatem, ut nobis uestros tribuatis aspectus et per occasionem sanctorum locorum<br />

tanto <strong>di</strong>tetis munere. Certe, si consortia <strong>di</strong>splicuerint, adorasse, ubi steterunt<br />

pedes Domini, pars fidei est et quasi recentia natiuitatis et crucis ac passionis ui<strong>di</strong>sse<br />

uestigia.» Si veda in proposito L. LUGARESI, “In spirito e verità”. La scoperta<br />

dei luoghi santi e l’inizio dei pellegrinaggi nel cristianesino antico, in Pellegrini e<br />

luoghi santi dall’Antichità al Me<strong>di</strong>oevo, a cura <strong>di</strong> M. MENGOZZI, Cesena 2000, 38-<br />

43; BITTON-ASHKELONY, cit., 81s. Nel Commento a Matteo Gerolamo propone<br />

un’interpretazione letterale, riferita alla Gerusalemme terrena, <strong>di</strong> Mt 27, 52-53<br />

(dopo la morte <strong>di</strong> Gesù i corpi dei santi escono dai sepolcri ed entrano nella città<br />

santa) anche in funzione della santificazione cristiana della città quale mèta del<br />

pellegrinaggio; cfr. la convincente lettura <strong>di</strong> BITTON-ASHKELONY, cit., 79 s.<br />

66 Ep. 46, ed. HILBERG in CSEL 55, 329-344.<br />

67 Cfr. LUGARESI, cit., 40 s.; BITTON-ASHKELONY, cit., 83-85.<br />

169


170<br />

Luigi Canetti<br />

faceva dell’ironia sui simpliciores fratres che ancora ai suoi tempi mostravano<br />

tra le rovine del tempio le pietre macchiate dal sangue <strong>di</strong> Zaccaria,<br />

figlio <strong>di</strong> Barachia, ucciso dagli ebrei 68 .<br />

La fonte cruciale per tutto il nostro <strong>di</strong>scorso è però costituita dal<br />

quarto paragrafo della celebre Epistola 31 inviata da Paolino <strong>di</strong> Nola a<br />

Sulpicio Severo, redatta nella primavera del 403, e riecheggiata a stretto<br />

giro <strong>di</strong> corrispondenza nelle Cronache dello stesso Severo, che aveva richiesto<br />

al vescovo nolano alcune reliquie <strong>di</strong> santi per la consacrazione<br />

della basilica <strong>di</strong> Primuliacum 69 . Paolino, che ne era sprovvisto, decise <strong>di</strong><br />

inviare all’amico aquitano, in un sontuoso astuccio d’oro, un frammento<br />

della Croce <strong>di</strong> Cristo che aveva ricevuto dal vescovo Giovanni <strong>di</strong> Gerusalemme<br />

tramite Melania Seniore. La lettera contiene il famoso racconto<br />

della inventio della vera Croce e la descrizione del ruolo centrale<br />

<strong>di</strong> Elena. È un episo<strong>di</strong>o che dà l’occasione a Paolino <strong>di</strong> soffermarsi sulle<br />

vicende <strong>di</strong> Gerusalemme tra la morte <strong>di</strong> Gesù, la profanazione adrianea<br />

della città santa, e l’avvento provvidenziale <strong>di</strong> Costantino e dell’augusta<br />

Elena. Costei «chiese al figlio <strong>di</strong> concederle <strong>di</strong> purificare tutti i<br />

luoghi calcati dalle orme del Signore (loca dominicis impressa vestigiis),<br />

e contrassegnati dal ricordo delle opere <strong>di</strong> Dio per noi, da ogni contagio<br />

<strong>di</strong> profana empietà, <strong>di</strong>struggendo i templi e gl’idoli, e <strong>di</strong> restituirli<br />

così al culto della sua religione, affinché la chiesa fosse finalmente glorificata<br />

nella terra delle sue origini». Attingendo a piene mani ai tesori<br />

imperiali «la regina ricoprì e adornò con la costruzione <strong>di</strong> basiliche tutti<br />

quei luoghi, in cui il nostro Signore e Redentore aveva compiuto per<br />

noi i misteri del suo amore e della nostra salvezza, con gli eventi santi<br />

della sua incarnazione, passione, risurrezione e ascensione» 70 . Tra questi<br />

e<strong>di</strong>fici, sottolinea Paolino 71 ,<br />

68 Ve<strong>di</strong> supra, nota 21.<br />

69<br />

PAUL. NOL. Ep. 31, 4, ed. G. HARTEL in CSEL 29, Pragae-Vindobonae-Lipsiae<br />

1894, 272.<br />

70 Da qui in poi, con qualche lieve mo<strong>di</strong>fica, citerò dalla trad. it. (con testo<br />

Hartel a fronte) a cura <strong>di</strong> G. SANTANIELLO: PAOLINO DI NOLA, Le Lettere, II, Napoli<br />

1992, 209.<br />

71 Cfr. ibid., 209-211; ed. HARTEL, cit., 272: «Mirum uero inter haec, quod in<br />

basilica ascensionis locus ille tantum, de quo in nube susceptus ascen<strong>di</strong>t, captiuam<br />

in sua carne ducens captiuitatem nostram, ita sacratus <strong>di</strong>uinis uestigiis <strong>di</strong>citur, ut<br />

numquam tegi marmore aut pauiri receperit semper excussis solo respuente quae<br />

manus adornan<strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o temptauit adponere. Itaque in toto basilicae spatio solus<br />

in sui cespitis specie uirens permanet et inpressam <strong>di</strong>uinorum pedum uenerationem<br />

calcati deo pulueris perspicua simul et adtigua uenerantibus harena conseruat,<br />

ut uere <strong>di</strong>ci possit: adorauimus ubi steterunt pedes eius.»


‘Vestigia Christi’<br />

è straor<strong>di</strong>nario il fatto che, nella basilica dell’ascensione, – come si <strong>di</strong>ce, –<br />

soltanto quel luogo, dal quale il Signore, avvolto da una nube, ascese al cielo,<br />

portando la nostra schiavitù prigioniera nella sua carne, fu così santificato<br />

dalle orme <strong>di</strong>vine (ita sacratus <strong>di</strong>vinis vestigiis) che mai permise <strong>di</strong> essere<br />

ricoperto <strong>di</strong> marmo o spianato: il suolo rifiutava ed allontanava da sé<br />

tutto ciò che la mano dell’uomo cercava <strong>di</strong> collocarvi per adornarlo. Pertanto,<br />

in tutto lo spazio della basilica, quel luogo soltanto si conserva verdeggiante<br />

nella bellezza della sua zolla erbosa e la sabbia, che è insieme<br />

chiaramente <strong>di</strong> polvere calpestata da Dio e accessibile ai fedeli che la venerano,<br />

conserva impresse le venerate <strong>impronte</strong> dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong>vini, così che veramente<br />

si può <strong>di</strong>re: Ci siamo prostrati ad adorare il luogo dove poggiarono i<br />

suoi pie<strong>di</strong> (Ps. 131, 7).<br />

Il miracolo delle orme <strong>di</strong>vine, benché Paolino non faccia cenno alla<br />

sua ubicazione sul Monte Oliveto (ma quando scrive la cosa era ormai<br />

risaputa), realizza dunque letteralmente la promessa messianica del<br />

Salmo 131 72 . Com’è già stato supposto 73 , è possibile che Paolino sia venuto<br />

a conoscenza del pro<strong>di</strong>gio dalla stessa Melania, sia perché la nobildonna<br />

faceva parte della famiglia olivetana sia perché, parente dello<br />

stesso Paolino 74 , si era recata a Nola poco prima del 403, e in quell’occasione,<br />

recandogli in dono il frammento della Croce da parte del ve-<br />

72 Cfr. anche PAUL. NOL. Ep. 49, 14, ed. HARTEL, 402: «Si ergo religiosa cupi<strong>di</strong>tas<br />

est loca uidere, in quibus Christus ingressus et passus est et resurrexit et unde<br />

conscen<strong>di</strong>t, et aut de ipsis locis exiguum puluerem aut de ipso crucis ligno aliquid<br />

saltem festucae simile sumere et habere, bene<strong>di</strong>ctio est: considera quanto maior et<br />

plenior gratia sit uiuum senem uel testimonio <strong>di</strong>uinae ueritatis inspicere? si praesepe<br />

nati, si fluuius baptizati, si hortus magistri, si atrium iu<strong>di</strong>cati, si<br />

columna <strong>di</strong>stricti, si spina coronati, si lignum suspensi, si saxum sepulti, si locus<br />

resuscitati euecti que memoria <strong>di</strong>uinae quondam praesentiae celebratur et ueterem<br />

ueritatem praesenti fide conprobant in rebus exanimis uiua documenta: quam<br />

religiose adspiciendus est hic, quem adloqui dei sermo <strong>di</strong>gnatus est, cui se facies<br />

<strong>di</strong>uina non texit, cui nunc martyrem suum, nunc semet ipsum Christus osten<strong>di</strong>t, in<br />

cuius uiuente terra dominici corporis uidemus inpressa uestigia, si fidelibus oculis<br />

et acie spiritali quod in eo sinus Christi, quod manus contigit perlegamus, et canitiem,<br />

quae saepe super domini genu iacuit, saepe domini sinu tepuit, nostra manu<br />

saepe mulcentes et auriculam saepe palpantes, quam caelestes <strong>di</strong>giti domino iocante<br />

traxerunt?».<br />

73 Cfr. DESJARDINS, cit., 57.<br />

74 Nell’Epistola 29, in<strong>di</strong>rizzata sempre a Severo nella primavera del 400, in<br />

occasione del primo rientro <strong>di</strong> lei in Italia, il vescovo <strong>di</strong> Nola ne tratteggiò una<br />

sorta <strong>di</strong> panegirico; cfr. SANTANIELLO in PAOLINO DI NOLA, Le Lettere, II, cit., 137<br />

ss.<br />

171


172<br />

Luigi Canetti<br />

scovo <strong>di</strong> Gerusalemme, gli aveva probabilmente narrato la storia della<br />

inventio, che nella lettera 31 segue imme<strong>di</strong>atamente il brano sulle sacre<br />

<strong>impronte</strong>.<br />

Sulpicio Severo, obliterando la cautela paoliniana del <strong>di</strong>citur, confermò<br />

<strong>di</strong> lì a poco che nel luogo in cui si potevano ancora vedere le<br />

tracce dei pie<strong>di</strong> del Signore – quei <strong>di</strong>vina vestigia che ormai, evidentemente,<br />

si mostravano ai pellegrini – il suolo avrebbe rifiutato il sontuoso<br />

rivestimento <strong>di</strong> lastre marmoree con le quali invano si tentò <strong>di</strong> abbellirlo;<br />

e aggiunse che più volte il marmo andò in frantumi sul volto <strong>degli</strong><br />

operai. Che Dio abbia camminato realmente su quella polvere, afferma<br />

poi Severo, è testimoniato dal fatto che le <strong>impronte</strong> sono ancora visibili:<br />

malgrado i fedeli gareggino nell’asportare quoti<strong>di</strong>anamente un po’<br />

della polvere calpestata dal Signore, la sabbia non ne subisce alcun<br />

danno, e la terra, come se fosse scolpita (signata) da quelle orme, conserva<br />

sempre la stessa immagine (species) 75 . Quasi, insomma, che il decus<br />

e il fasto delle materie preziose non bastasse o meglio, non servisse,<br />

a signare e a glorificare le tracce <strong>di</strong>rette dell’ultima presenza terrena del<br />

logos incarnato, prima della sua apoteosi celeste. Le orme dei pie<strong>di</strong> del<br />

Salvatore sono già in sé stesse un monumento e un in<strong>di</strong>ce, memoria e<br />

sineddoche, della potenza <strong>di</strong>vina <strong>di</strong> resurrezione; una preziosa reliquia<br />

per contatto o un calco statuario impresso, appunto, pro<strong>di</strong>giosamente<br />

nel luogo del sacro monte in cui, come voleva Eusebio, la gloria del Signore<br />

si è manifestata per l’ultima volta, e dal quale ritornerà fra gli<br />

uomini alla fine dei tempi. Questo, mi pare, potrebbe essere il significato<br />

implicito del mito eziologico delle sacre <strong>impronte</strong>, cristallizzatosi per<br />

la prima volta nei racconti letterari <strong>di</strong> Paolino e <strong>di</strong> Sulpicio, nei quali si<br />

rileva l’autenticità e, per quanto non si parli apertamente <strong>di</strong> miracoli, si<br />

attesta ormai l’efficacia reliquiale delle vestigia impresse sulla roccia e<br />

sulla sabbia dai pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù 76 .<br />

75 SULPICII SEVERI Chronicorum libri II, XXXIII, 3, ed. G. DE SENNEVILLE-GRA-<br />

VE in SULPICE SÉVÈRE, Chroniques, Paris 1999 (SCh 441), 302: «Illud mirum, quod<br />

locus ille, in quo postremum institerant <strong>di</strong>uina uestigia, cum in caelum Dominus<br />

nube sublatus, continuari pauimento cum reliqua stratorum parte non potuit, siquidem<br />

quaecumque applicabantur, insolens humana suscipere terra respueret,<br />

excussis in ora apponentium saepe marmoribus. Quin etiam calcati Deo pulueris<br />

adeo perenne documentum est, ut uestigia impressa cernantur, et cum coti<strong>di</strong>e confluentium<br />

fides certatim Domino calcata <strong>di</strong>ripiat, damnum tamen arena non sentiat,<br />

et eandem adhuc sui specie, uelut impressis signata uestigiis, terra custo<strong>di</strong>t.»<br />

76 Secondo Paolino, del resto, i luoghi in cui sono state traslate le reliquie dei<br />

santi recano impressi i vestigia della virtus <strong>di</strong>vina (cfr. PAUL. NOL. Carmina, XIX,


‘Vestigia Christi’<br />

Tra il 419 e il 421 (secondo altri, nel 414), Agostino pre<strong>di</strong>cò una serie<br />

<strong>di</strong> Omelie sul Vangelo <strong>di</strong> Giovanni. A chiarimento della figura dell’unico<br />

ovile e del solo pastore, inviato alle pecore perdute della casa d’Israele,<br />

il vescovo d’Ippona rileva che, se ai popoli pagani il Signore inviò<br />

gli Apostoli, al popolo d’Israele volle annunziare personalmente la<br />

buona novella «in modo che quanti lo <strong>di</strong>sprezzavano fossero più severamente<br />

giu<strong>di</strong>cati». «In quella terra – rimarca Agostino – egli abitò, lì<br />

si scelse la madre, lì volle essere concepito, volle nascere e versare il suo<br />

sangue; in quella terra anche adesso si venerano le orme che egli vi lasciò<br />

impresse prima <strong>di</strong> ascendere al cielo.» 77 Nonostante questo passo<br />

sia stato verosimilmente concepito e letto dopo la svolta pastorale del<br />

415 – con quanto essa implicava in fatto <strong>di</strong> accoglienza, da parte <strong>di</strong><br />

Agostino, <strong>di</strong> una prospettiva più sensibile all’efficacia miracolosa dei<br />

segni della presenza <strong>di</strong>vina, a partire dalle reliquie stefaniane <strong>di</strong> Uzalis<br />

– dubito che il cenno alle sacre <strong>impronte</strong> (che Agostino poté forse conoscere<br />

per il tramite dello stesso Paolino) debba intendersi come qualcosa<br />

<strong>di</strong> più <strong>di</strong> un richiamo simbolico, <strong>di</strong>rei tutt’al più la metafora impressa<br />

nella roccia, della presenza storica del Signore nella terra d’Israele.<br />

Del resto, in un’altra Omelia su Giovanni, egli vedeva nel gesto <strong>di</strong><br />

unzione dei pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù a Betania un’esortazione allegorica a condurre<br />

una vita degna del cristiano, seguire cioè le orme <strong>di</strong> Gesù: «Unge pedes<br />

Iesu: bene vivendo dominica sectare vestigia» 78 . In ogni caso, <strong>di</strong>versi<br />

anni prima, commentando il passo del Salmo 131 (7) Adorabimus in<br />

loco ubi steterunt pedes eius, Agostino intese quel passo come figura <strong>di</strong><br />

coloro che avranno perseverato sal<strong>di</strong> sino alla fine nella stabile <strong>di</strong>mora<br />

del Signore: «Ecco dove poggiano stabilmente i suoi pie<strong>di</strong>. Adora [Dio]<br />

dentro tale <strong>di</strong>mora. Sii cioè uno <strong>di</strong> coloro sui quali i pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Dio poggiano<br />

stabilmente» 79 .<br />

342-352, ed. G. HARTEL in CSEL 30, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1894, 130); si<br />

veda in proposito HEIM, cit., 56 s.<br />

77 «Ad Gentes non perrexit ipse, sed misit: ad populum vero Israel et misit, et<br />

venit ipse; ut qui contemnebant, maius iu<strong>di</strong>cium sumerent, quia et praesentia est<br />

illis exhibita. Ipse Dominus ibi fuit, ibi matrem elegit; ibi concipi, ibi nasci, ibi<br />

sanguinem fundere voluit; ibi sunt vestigia eius, modo adorantur, ubi novissime<br />

stetit, unde ascen<strong>di</strong>t in coelum: ad Gentes autem misit.» (AUG. In Ioh. Euang.<br />

Tractatus, 47, 4, ed. R. WILLELMS in CCSL 36, Turnholti 1954, lin. 13 ss.).<br />

78 In Ioh. Euang. Tractatus, 50, 6, ibid., lin. 11.<br />

79 AUG. Enarrationes in Psalmos, 131, 13 (Ippona 407/Cartagine 412): «… ecce<br />

in quibus steterunt pedes eius; in eo loco adora, id est, de talibus esto in quibus<br />

173


174<br />

Luigi Canetti<br />

Le attestazioni più interessanti, nella scia <strong>di</strong> Paolino e Sulpicio, sono<br />

quelle fornite dalla letteratura odoeporica e devozionale del primo Me<strong>di</strong>oevo.<br />

Curiosamente – e ancora non saprei darmene una ragione plausibile<br />

– l’Anonimo <strong>di</strong> Piacenza, intorno al 560-70, non fa alcun cenno<br />

alle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Cristo sul Monte Oliveto. Eppure si tratta <strong>di</strong> una delle<br />

fonti più sensibili a registrare i concreti dettagli topografici e taumaturgici<br />

<strong>di</strong> Terrasanta: si pensi solo alla celebre descrizione delle <strong>impronte</strong><br />

<strong>di</strong> Gesù sulla colonna della flagellazione, da cui i pellegrini traevano le<br />

mensurae attraverso una cor<strong>di</strong>cella appesa poi al collo a mo’ <strong>di</strong> filatterio<br />

reliquiale 80 ; o ancora, alla pietra quadrangolare su cui insistette Gesù<br />

durante l’interrogatorio con Pilato, e sulla quale sarebbero rimasti<br />

impressi i suoi vestigia pedum, anche se poi, sembra <strong>di</strong> capire, qualcuno<br />

ne <strong>di</strong>pinse il ritratto dal vivo e lo collocò nello stesso pretorio («pedem<br />

pulchrum, mo<strong>di</strong>cum, subtile […] statura communem, pulchram, capillos<br />

obanellatos, manum formosam, <strong>di</strong>gitas longa imago designat»); in<br />

ogni caso, anche dalle <strong>impronte</strong> dei pie<strong>di</strong> rimaste sulla pietra si ricavano<br />

le mensurae che poi vengono utilizzate «pro singulis languoribus et<br />

sanantur» 81 .<br />

In effetti, come ho già anticipato, è nella straor<strong>di</strong>naria Relatio de locis<br />

sanctis del monaco Adamnano (Adomnán), scritta intorno al 680,<br />

che ritroviamo la descrizione più dettagliata delle strutture architettoniche<br />

e dell’autentico <strong>di</strong>spositivo devozionale (confemato in gran parte<br />

dagli scavi <strong>degli</strong> anni Cinquanta del Novecento) attivo a quel tempo sul<br />

monte Oliveto intorno alle <strong>impronte</strong> miracolose dei pie<strong>di</strong> del Risorto.<br />

Oltre ai già noti particolari delle lastre rigettate e della sabbia raccolta<br />

dai pellegrini senza mai esaurirsi, viene descritta la famosa torretta <strong>di</strong><br />

bronzo che ricopriva le sacre vestigia, visibili da un pertugio nella parte<br />

superiore, e accessibili da una porticella per asportarne la polvere miracolosa<br />

82 ; inoltre, con tipica sensibilità tardoantica e altome<strong>di</strong>evale a un<br />

steterunt pedes domini.» (edd. E. DEKKERS - J. FRAIPONT in CCSL 38-40, Turnholti<br />

1956, lin. 39).<br />

80 Itinerarium Antonini Placentini, 22, 5, ed. C. MILANI, Itinerarium Antonini<br />

Placentini. Un viaggio in Terra Santa del 560-570 d. C., Milano 1977, 158.<br />

81 Ibid., 23, 3-6, ed. MILANI, 162-164.<br />

82 ADAMNANI HIENSIS De locis sanctis I, 23 (ed. GEYER, Itinera hierosolymitana,<br />

cit., 246-251). Che i fedeli asportassero la sabbia delle <strong>impronte</strong> <strong>di</strong> Gesù, garanzia<br />

del potere miracoloso attribuito a una preziosa reliquia da contatto (si pensi all’olio<br />

delle lampade del Santo Sepolcro, alla terra e alla polvere delle tombe sante<br />

ecc.), si ricollega probabilmente anche al valore magico delle orme nella cultura


‘Vestigia Christi’<br />

elemento caratterizzante dell’ornatus templare e del fasto litur gico 83 ,<br />

Adamnano presta molta attenzione ai complessi sistemi <strong>di</strong> luminarie<br />

allestiti nella rotonda dell’Ascensione. Sull’isoletta <strong>di</strong> Iona (I Chaluim<br />

Chille, in gaelico), nelle Ebri<strong>di</strong> interne, tra l’Irlanda e la Scozia, nel celebre<br />

monastero fondato da Columba, egli mise per iscritto, combinandole<br />

con nutrite citazioni dalle fonti più antiche (fra l’altro, anche i Chronica<br />

<strong>di</strong> Sulpicio Severo), le memorie del viaggio in Oriente del vescovo<br />

Arculfo 84 . Benché l’esistenza storica <strong>di</strong> questo personaggio sia stata<br />

<strong>di</strong> recente messa in <strong>di</strong>scussione 85 , è <strong>di</strong>fficile dubitare che la vividezza e<br />

la perspicuità topografica e narrativa <strong>di</strong> queste pagine siano figlie dell’esperienza<br />

<strong>di</strong>retta <strong>di</strong> uno che ha viaggiato, osservato, e certamente ha<br />

potuto ascoltare dal vivo molti racconti dei pellegrini <strong>di</strong> Terrasanta negli<br />

anni della prima occupazione islamica. In ogni caso, l’opera <strong>di</strong><br />

Adamnano, soprattutto grazie alla ricezione quasi letterale negli scritti<br />

<strong>di</strong> Beda 86 , ha avuto un’enorme fortuna e una straor<strong>di</strong>naria importanza<br />

nel plasmare l’immaginario devozionale dei luoghi santi nell’Occidente<br />

classica, attestato già nei famosi akousmata o symbola pitagorici (ed. F. BOEHM, De<br />

Symbolis Pythagoreis, Berolini 1905, 40-41, § 35). Osservazioni non scontate a proposito<br />

del possibile valore metonimico <strong>degli</strong> styboi <strong>di</strong> Elena al v. 411 dell’Agamennone<br />

eschileo (passi <strong>di</strong> Elena che si avvicina al letto nuziale op pure <strong>impronte</strong>, tracce<br />

lasciate dalla sposa sul letto ormai abbandonato?) si trove ranno in C. BRILLAN-<br />

TE, Metamorfosi <strong>di</strong> un’immagine: le statue animate e il sogno, in Il sogno in Grecia,<br />

a cura <strong>di</strong> G. GUIDORIZZI, Roma-Bari 1988, 17-33 (25 ss.), e in M. BETTINI, Il ritratto<br />

dell’amante, <strong>Torino</strong> 1992, 16-20. Sulla magia delle <strong>impronte</strong> nelle culture etnologiche,<br />

è ancora utile il classico J. FRAZER, Il ramo d’oro. <strong>Stu<strong>di</strong></strong>o sulla magia e la religione<br />

trad. it. <strong>Torino</strong> 1990 (ed. orig. 1922), 59-60.<br />

83 Ho <strong>di</strong>scusso <strong>di</strong> questi aspetti in L. CANETTI, Trésors et décor des églises au<br />

Moyen Âge. Pour une approche sémiologique des «ornamenta ecclesiae», in Du<br />

matériel au spirituel. Realités archeologiques et historiques des «depots» de la prehistoire<br />

a nos jours. XXIX e Rencontres internationales d’archeologie et d’histoire<br />

d’Antibes (Antibes, 16-18 octobre 2008), s. la <strong>di</strong>r. de S. BONNARDIN - C. HAMON -<br />

M. LAUWERS - B. QUILLIEC, Antibes 2009, 273-282.<br />

84 Cfr. Th. O’LOUGHLIN, Adomnan and the Holy Places. The Perception of an<br />

Insular Monk on the Locations of the Bibilical Drama, London-New York 2007,<br />

50-63.<br />

85 Cfr. N. DELIERNEUX, Arculfe «sanctus episcopus gente Gallus»: une existence<br />

historique <strong>di</strong>scutable, Révue Belge de Philologie et d’Histoire, 75 (1997), 911-941.<br />

86 BEDAE Liber de locis sanctis, VI, ed. GEYER, Itinera hierosolymitana, cit., 310-<br />

311; EIUSD. Historia ecclesiastica gentis Anglorum V, XVII, 1 (cfr. BEDA, Storia <strong>degli</strong><br />

Inglesi, a cura <strong>di</strong> M. LAPIDGE, II, Milano-Roma 2010, 402-404).<br />

175


176<br />

Luigi Canetti<br />

latino fino all’età Umanistica. Lo attesta, fra l’altro, il <strong>di</strong>ario del viaggio<br />

in Egitto e in Terrasanta composto da Michele <strong>di</strong> Figline Val d’Arno,<br />

un prete che nel 1490 vide sull’Oliveto «quel saxo dove Yhesu benedecto<br />

pose e’ pie<strong>di</strong> quan fu assunto en cielo» notando «la propria forma<br />

de’ pie<strong>di</strong> rossa in su quel masso biancho» 87 . Sono gli anni nei quali<br />

l’occupazione ottomana stava orientando la spiritualità europea alla<br />

traslazione e alla ‘invenzione’ autoctona dei Monti sacri, dei Calvari,<br />

<strong>degli</strong> Oliveti e delle nuove Gerusalemmi interiori 88 . Peraltro, a partire<br />

dal Duecento, e dunque in concomitanza con la nuova fortuna devozionale<br />

<strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> della passione ma anche col rinnovato interesse<br />

per le acheropite all’indomani della IV Crociata 89 , è possibile documentare,<br />

da molteplici attestazioni <strong>di</strong>rette e in<strong>di</strong>rette <strong>di</strong> una loro riproduzione,<br />

la crescente fortuna devozionale dei vestigia Christi nella religiosità<br />

dell’Occidente cristiano 90 [Tav. 15].<br />

Meyer Shapiro, in un pregevole articolo uscito nella Parigi occupata<br />

del ’43, ha <strong>di</strong>mostrato come la pagina <strong>di</strong> Adamnano sul pro<strong>di</strong>gio delle<br />

orme sull’Oliveto, tramite la sua ricezione in Beda e nei poemi e omiliari<br />

in lingua anglosassone <strong>di</strong> IX-X secolo, abbia esercitato un influsso<br />

profondo sull’iconografia dell’Ascensione testimoniata dai manoscritti<br />

insulari a cavallo del Mille 91 . In effetti, la singolare rappresentazione ot -<br />

87 M. MONTESANO, Da Figline a Gerusalemme. Viaggio del prete Michele in<br />

Egitto e in Terrasanta (1489-1490), Roma 2010, 114.<br />

88 Per una buona panoramica su questi temi basti rinviare qui a F. CARDINI, In<br />

Terrasanta. Pellegrini italiani tra Me<strong>di</strong>oevo e prima età moderna, Bologna 2002.<br />

89 Si veda in proposito H. BELTING, Die Reaktion des Kunst des 13. Jahrhunderts<br />

auf den Import von Reliquien und Ikonen, in Il Me<strong>di</strong>o Oriente e l’Occidente<br />

nell’arte del XIII secolo. Atti del XXIV Congresso C.I.H.A. (Bologna, 10-18 settembre<br />

1979), a cura <strong>di</strong> H. BELTING, Bologna 1982, 35-53; J. DURAND, Reliquie e<br />

reliquiari depredati in Oriente e a Bisanzio al tempo delle crociate, in Le Crociate.<br />

L’Oriente e l’Occidente da Urbano II a San Luigi (1096-1270), a cura <strong>di</strong> M. REY-<br />

DELQUÉ, Milano 1997, 378-389; L. CANETTI, Rappresentare e vedere l’invisibile.<br />

Una semantica storica <strong>degli</strong> «ornamenta ecclesiae», in Reli giosità e civiltà. Le comunicazioni<br />

simboliche (secoli IX-XIII). Settimane internazionali della Mendola.<br />

Nuova serie, 2007-2011 (Domodossola, Sacro Monte e Castello <strong>di</strong> Mattarella, 20-<br />

23 settembre 2007), a cura <strong>di</strong> G. ANDENNA, Milano 2009, 345-405 (375 ss.).<br />

90 DESJARDINS, cit., 67-72; SCHMIDT, cit., 576.<br />

91 M. SHAPIRO, The Image of the Disappearing Christ. The Ascension in English<br />

Art around the Year 1000, Gazette des Beaux-Arts, 85 (1943), 133-152 (rist. in M.<br />

SHAPIRO, Late Antique, Early Christian and Me<strong>di</strong>eval Art. Selected Papers, New<br />

York 1979, 267-287); si veda, inoltre, R. DESHMAN, Another Look at the Disap-


‘Vestigia Christi’<br />

tica dell’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Atti 1, 9 secondo lo sguardo dal basso dei <strong>di</strong>scepoli,<br />

con visibili i soli pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> Gesù che fuoriescono dalla nube [Tav. 16], ha<br />

inaugurato e anticipato <strong>di</strong> almeno due secoli un tratto compositivo e<br />

una sensibilità visuale che soltanto molto più tar<strong>di</strong> si sarebbero <strong>di</strong>ffusi<br />

anche nell’Europa continentale. È come se il mito e la sua localizzazione<br />

nelle sacre <strong>impronte</strong>, con<strong>di</strong>zionando la resa iconografica dello sguardo<br />

dal basso dei pie<strong>di</strong> Gesù, abbia sconvolto i due schemi più antichi secondo<br />

cui si raffigurava il miracolo dell’Ascensione: il tipo siro-palestinese,<br />

con il Cristo glorioso e trionfante dentro la mandorla e sovrastante<br />

gli Apostoli – così appariva alla fine del VI secolo sulle ampolle a eulogia<br />

conservate nel duomo <strong>di</strong> Monza [Tav. 17] –, e il tipo ellenistico ovvero<br />

l’ascensus ad astra favorito dalla mano <strong>di</strong>vina, qual era già evidente<br />

nell’avorio <strong>di</strong> Monaco 92 .<br />

Si ha la netta impressione che le più antiche testimonianze <strong>di</strong> un culto,<br />

o comunque <strong>di</strong> un’attenzione <strong>di</strong> tipo memoriale alle vestigia dei pie<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong> Gesù, non abbiano tanto a che fare con la questione dell’insorgere<br />

<strong>di</strong> eventuali surrogati aniconici dell’immagine interdetta del suo volto o<br />

della sua persona. Salvo, forse, l’aniconismo <strong>di</strong> Eusebio <strong>di</strong> Cesarea 93 , e<br />

ad eccezione della parentesi iconoclasta dell’VIII-IX secolo bizantino e<br />

carolingio 94 , tale questione non si è mai posta nel cristianesimo in ma-<br />

pearing Christ: Corporeal and Spiritual Vision in Early Me<strong>di</strong>aeval Images, Art Bulletin,<br />

79 (1997), 518-546.<br />

92 L’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> un tipo ‘ellenistico’ e occidentale (rappresentato dallo<br />

stesso avorio <strong>di</strong> Monaco e dal pannello del portale <strong>di</strong> S. Sabina), <strong>di</strong> uno ‘orientale’<br />

(articolato a sua volta nei tipi siriaco, palestinese e copto), e <strong>di</strong> un tipo ‘bizantino’<br />

erede <strong>di</strong> quello siro-palestinese (Evangeliario <strong>di</strong> Rabbula, ampolle devozionali <strong>di</strong><br />

Terrasanta), risale a DEWALD, cit., 279 ss., 282 ss., 291 ss. Tale tipizzazione non è<br />

più ricevibile nel suo schematismo geo-culturale, ancor refrattario all’ipotesi <strong>di</strong><br />

una complessa circolazione e reciproca interferenza tra i modelli e gli stili (è sintomatica<br />

la pretesa orientalità dell’arte bizantina, e il suo isolamento dalle matrici<br />

ellenistiche, che riguarderebbero invece Roma e l’Occidente). Per una visione ben<br />

più articolata e sfumata, si veda la splen<strong>di</strong>da sintesi <strong>di</strong> O. DEMUS, L’arte bizantina<br />

in Occidente, trad. it. <strong>Torino</strong> 2008 (ed. orig. 1970), 3-49.<br />

93 Si veda L. CANETTI, Costantino e l’immagine del Salvatore. Una prospettiva<br />

mnemostorica sull’aniconismo cristiano antico, Zeitschrift für Antikes Christentum<br />

/ Journal of Ancient Christianity, 13 (2009), 233-262 (244 ss.).<br />

94 Buone rassegne <strong>di</strong> fonti e <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> in proposito sono fornite da M.-F AUZÉPY,<br />

L’iconoclasme, Paris 2006, e da M. BETTETINI, Contro le immagini. Le ra<strong>di</strong>ci dell’iconoclastia,<br />

Roma-Bari 2006, 92-128. Quasi esclusivamente incentrato sull’età del-<br />

177


178<br />

Luigi Canetti<br />

niera così programmatica e <strong>di</strong>sciplinare, come è accaduto invece nel<br />

bud<strong>di</strong>smo, dove alle <strong>impronte</strong> ‘naturali’ e artificiali del Buddha<br />

(Buddhapāda, in sanscrito) fu attribuita precisamente, quantomeno fino<br />

ai primi secoli della nostra èra, una funzione <strong>di</strong> sostituto aniconico<br />

per aggirare il <strong>di</strong>vieto <strong>di</strong> riprodurre le fattezze del Risvegliato, <strong>di</strong>vieto<br />

che lui stesso avrebbe espresso 95 [Tav. 18]. Se ne contano più <strong>di</strong> un migliaio<br />

soltanto nello Sri Lanka, il paese che, nel santuario <strong>di</strong> Kandy, custo<strong>di</strong>sce<br />

anche il sacro dente, la più preziosa reliquia del fondatoree,<br />

mèta ancor oggi <strong>di</strong> assidui pellegrinaggi 96 ; ma se ne trovano a centinaia<br />

dalla Cina alla Thailan<strong>di</strong>a al Giappone, insieme ad altre reliquie <strong>di</strong>rette<br />

e in<strong>di</strong>rette, compresi i resti corporei della cremazione 97 . In effetti, anche<br />

a prescindere da una <strong>di</strong>scussione sulle ambiguità e le aporie che si celano<br />

spesso <strong>di</strong>etro la nozione <strong>di</strong> aniconismo – non tanto uno sta<strong>di</strong>o effettivo<br />

<strong>di</strong> civiltà quanto piuttosto, come ha mostrato Freedberg 98 , un mito<br />

della purezza originaria ovvero, come ritiene Assmann, una strategia<br />

teologico-politica dei gestori della potenza salvifica 99 –, basterà rilevare<br />

come i primi documenti scritti delle vestigia corporali dell’Ascensione<br />

siano perfettamente coevi (e, nel caso <strong>di</strong> Paolino, in pratica coincidano)<br />

con le più antiche testimonianze <strong>di</strong> un culto o comunque <strong>di</strong> un’ormai<br />

<strong>di</strong>lagante <strong>di</strong>ffusione delle immagini del Cristo, <strong>degli</strong> Apostoli e dei santi<br />

martiri nei luoghi pubblici, e poi sempre più anche in case private, in<br />

la Riforma protestante il sontuoso catalogo Iconoclasme. Vie et mort de l’image<br />

mé<strong>di</strong>évale, sous la <strong>di</strong>r. de C. DUPEUX - P. JETZLER - J. WIRTH, Zurich 2001.<br />

95 Secondo la leggenda, le <strong>impronte</strong> si sarebbero impresse sulla roccia dopo che<br />

il Buddha ottenne l’illuminazione. Si può sempre partire dal classico P. SAINTY-<br />

VES, Les reliques et les images légendaiores, éd. établie par F. Lacassin, Paris 1987<br />

(ed. orig. 1912 3 ), 923-925; ma cfr. ora l’ottimo J. S. STRONG, Relics of the Buddha,<br />

Princeton 2004, 85-97. Ciò non esclude che nel corso dei secoli, e negli svariati<br />

ambienti e occasioni <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusione delle reliquie, la percezione e l’utilizzo <strong>di</strong> queste<br />

ultime siano stati talvolta subor<strong>di</strong>nati a credenze e rituali <strong>di</strong> altro or<strong>di</strong>ne e significato<br />

(ideologico, politico, magico, terapeutico). Sul simbolismo del Darmacakra,<br />

la ‘Ruota-Parola’ ovvero la ‘Ruota-Mondo’ raffigurata all’interno dei pie<strong>di</strong> del Risvegliato,<br />

rinvio al classico A. K. COOMARASWAMY, L’albero, la ruota, il loto. Elementi<br />

<strong>di</strong> iconografia buddhista, trad. it. Roma-Bari 2009 (ed. orig. 1935), 35-51.<br />

96 Cfr. STRONG, cit., 190-196.<br />

97 Cfr. ibid., 8-12, 19 ss., 100 ss., 115 ss.<br />

98 Cfr. D. FREEDBERG, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e<br />

emozioni del pubblico, trad. it. <strong>Torino</strong> 1993 (ed. orig. 1989), 87-129.<br />

99 Cfr. J. ASSMANN, Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in<br />

Israele e in Europa, trad. it. <strong>Torino</strong> 2002 (ed. orig. 2000), 5-23, 247-263 e passim.


‘Vestigia Christi’<br />

tutta la cristianità, dal Crescente fertile all’estremo Occidente. L’intensificarsi,<br />

poi, delle attestazioni in concomitanza con il grande sviluppo<br />

del pellegrinaggio ai luoghi santi, tra IV e VIII secolo, accompagna a<br />

sua volta, e sembra confermare, l’intensificarsi <strong>di</strong> un culto per le immagini<br />

miracolose variamente associato alle reliquie del Cristo e dei martiri:<br />

una prassi devozionale che, al <strong>di</strong> là delle sfumature e delle <strong>di</strong>vergenze<br />

tra le varie posizioni <strong>degli</strong> stu<strong>di</strong>osi, viene ormai riconosciuta come<br />

una tra le cifre peculiari della religiosità <strong>di</strong> quei secoli 100 .<br />

100 Nel mare magnum della bibliografia, una sobria ed equilibrata rassegna è<br />

stata fornita da L. BRUBAKER, Icons before Iconoclasm?, in Morfologie sociali e<br />

culturali in Europa fra tarda antichità e alto me<strong>di</strong>oevo (Spoleto, 3-9 aprile 1997),<br />

Spoleto 1998, 1215-1254.<br />

179


L’IMMAGINE ACHEROPITA DI S. STEFANO: VISIONI, RIVELA-<br />

ZIONI, PICTURAE NELLA CHIESA AFRICANA DEL V SECOLO.<br />

1. Il problema<br />

ADELE MONACI CASTAGNO<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Nel dossier <strong>di</strong> fonti raccolte da Dobschütz, che costituisce ancora<br />

oggi un punto <strong>di</strong> riferimento negli stu<strong>di</strong>, la fonte <strong>di</strong> cui ci vogliamo occupare<br />

è menzionata, ma velocemente liquidata con un giu<strong>di</strong>zio piuttosto<br />

severo; pur dandole un certo rilievo, lo stu<strong>di</strong>oso tedesco afferma<br />

che «questa storia non smuove la nostra convinzione che la credenza e<br />

la dottrina teologica secondo cui le immagini sacre sono acheropiti,<br />

cioè non fatte da mano umana, siano circoscritte alla sola epoca <strong>di</strong><br />

Giustiniano» 1 . Nell’e<strong>di</strong>zione recente del De miraculis Sancti Stephani, il<br />

giu<strong>di</strong>zio non è più confortante: secondo Jean-Noel Michaud che de<strong>di</strong>ca<br />

uno stu<strong>di</strong>o all’episo<strong>di</strong>o, l’origine misteriosa dell’immagine «qui a quelque<br />

chose d’assez nettement byzantin» 2 sarebbe una pista falsa che non<br />

recita alcun ruolo nell’interpretazione del miracolo. Va subito detto<br />

che, secondo la classificazione proposta da Kitzinger 3 , si possono <strong>di</strong>stinguere<br />

due tipi <strong>di</strong> acheiropoietai: le immagini ritenute <strong>di</strong> mano <strong>di</strong>versa<br />

da quella dei comuni mortali oppure le immagini ritenute <strong>impronte</strong><br />

meccaniche e miracolose dell’originale: l’immagine <strong>di</strong> Uzalis appartiene<br />

naturalmente al primo tipo.<br />

Pur con queste delimitazioni, ritengo che questo testo meriti un approfon<strong>di</strong>mento:<br />

la sua precocità rispetto agli sviluppi più tar<strong>di</strong> in ambi-<br />

1 E. VON DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo, tr. it., Milano 2006, 49.<br />

2 J.-N. MICHAUD, Verum et velum: le miracle et l’image du miracle in Les<br />

Miracles de Saint Étienne: recherches sur le recueil pseudo-augustinienne (BHL<br />

7860-78619, avec é<strong>di</strong>tion critique, traduction et commentaire par J. MEYERS,<br />

Turnhout 2006, 188.<br />

3 E. KITZINGER, Il culto delle immagini. L’arte bizantina dal cristianesimo<br />

delle origini all’iconoclastia, tr. it., Firenze 1992, 44.<br />

181


182<br />

Adele Monaci Castagno<br />

to greco, il fatto che riguar<strong>di</strong> un’immagine relativa ad un martire e non<br />

a Cristo, l’area <strong>di</strong> provenienza latina ritenuta poco o nulla investita dai<br />

problemi che in Oriente crearono i presupposti per la ricezione delle<br />

immagini acheropite, sono, a mio avviso, tutti elementi che spingono<br />

ad analizzare il De miraculis dal punto <strong>di</strong> vista suggerito da questo nostro<br />

incontro, cercando, cioè, <strong>di</strong> far luce su come e perché, in un particolare<br />

ambiente e in particolari circostanze, l’idea <strong>di</strong> un’immagine miracolosa<br />

<strong>di</strong> provenienza <strong>di</strong>vina potesse farsi strada ed essere ritenuta<br />

plausibile. Si tratta insomma <strong>di</strong> mettere in luce un <strong>di</strong>spositivo in grado<br />

<strong>di</strong> illuminare in modo comparativo anche gli altri casi.<br />

Poco dopo il 424, Evo<strong>di</strong>o, vescovo <strong>di</strong> Uzalis, chiese ad un chierico o<br />

a un monaco della sua Chiesa 4 <strong>di</strong> mettere per scritto i miracoli compiuti<br />

da Stefano: «nostro patrono e primo martire» 5 . Evo<strong>di</strong>o fa parte <strong>di</strong><br />

quella cerchia <strong>di</strong> vescovi che, <strong>di</strong>scepoli e collaboratori <strong>di</strong> Agostino, con<strong>di</strong>visero<br />

le sue numerose battaglie e che, <strong>di</strong> concerto con il primate <strong>di</strong><br />

Ippona, si adoperarono ad assecondare e a guidare il culto del protomartire<br />

che si sviluppò a partire dall’arrivo delle sue reliquie in Occidente<br />

nel 416 6 . Come spesso avviene nelle opere appartenenti a questo<br />

genere letterario, fra cui però De miraculis S. Stephani è il testimone più<br />

antico, la redazione avvenne in più riprese: l’Anonimo raccolse nel primo<br />

libro una prima serie <strong>di</strong> miracula <strong>di</strong> cui alcuni avevano caratterizzato<br />

la presenza delle reliquie ad Uzalis ancor prima della loro presa in<br />

carico da parte della gerarchia ecclesiastica. Il vescovo decise poi <strong>di</strong> traslarle<br />

nella memoria appositamente costruita nella chiesa episcopale o<br />

in una cappella a<strong>di</strong>acente a questa da un’altra chiesa periferica de<strong>di</strong>cata<br />

ad altri martiri onorati ad Uzalis.<br />

4 L’A. poteva essere entrambi; Evo<strong>di</strong>o, seguendo l’esempio del suo maestro<br />

Agostino, fondò un monastero ove conduceva vita comune con i suoi sacerdoti,<br />

monastero che potrebbe essere quello citato da De miraculis 1,1, 2; 2,5,2. L’A.<br />

poteva appartenere al clero <strong>di</strong>ocesano, sul quale appare molto informato (Ibid.<br />

1,7; 2,4, 2; 2,5,2). Cfr. V. SAXER, Morts, martyrs reliques en Afrique chrétienne aux<br />

premiers siècles. Les témoignage de Tertullien, Cyprien et Augustin à la lumière<br />

de l’archéologie africaine, Paris 1980, 253 ; sul De miraculis in generale 245-254.<br />

Sulla storia del culto e le tra<strong>di</strong>zioni agiografiche su Stefano: F. BOVON, The<br />

Dossier on Stephen, Harvard Theological <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 96 (2003) 279-315. La datazione<br />

del De miraculis è congetturale, dopo l’estate del 424: Les miracles cit., 24.<br />

5 De miraculis 1, prol.<br />

6 A. MANDOUZE (ed.), Prosopographie chrétienne du Bas-Empire (=PCBE), T.<br />

I: Prosopographie de l’Afrique chrétienne (303-533), Paris 1982, 366-374.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

Questo primo libro venne fatto oggetto <strong>di</strong> una lettura pubblica nel<br />

corso <strong>di</strong> una liturgia de<strong>di</strong>cata al martire, una cerimonia durante la quale<br />

furono fatti salire sul pulpito anche i protagonisti <strong>di</strong> alcuni miracoli,<br />

a mano a mano che il resoconto dei miracoli che li riguardavano veniva<br />

letto all’assemblea. La descrizione <strong>di</strong> questa cerimonia che suscitò nei<br />

fedeli una profonda emozione è contenuta nel primo capitolo del secondo<br />

libro che, pur essendo anch’esso tutto de<strong>di</strong>cato ai miracula <strong>di</strong><br />

Stefano, ha rispetto al primo un carattere profondamente <strong>di</strong>verso in<br />

quanto destinato alla lettura (e all’ascolto) privato e non più liturgico.<br />

L’intento dell’A., che aggiunge questo secondo libro <strong>di</strong> sua iniziativa, è<br />

quello <strong>di</strong> lasciare una memorabilis historia dei miracoli compiuti fino ai<br />

“giorni nostri”. In chiusura del secondo libro, ne promette un terzo che<br />

non posse<strong>di</strong>amo e che avrebbe dovuto riunire i resoconti <strong>di</strong> altri miracoli<br />

che già circolavano sotto forma <strong>di</strong> piccoli libri (libelli) che li trattavano<br />

separatamente.<br />

Il racconto che ci interessa è nel secondo libro e narra una vicenda<br />

che si <strong>di</strong>stende in due tempi. In un giorno <strong>di</strong> mercato a Uzalis, il cielo<br />

sereno del mezzogiorno si oscurò improvvisamente e la folla vide in alto<br />

un drago <strong>di</strong> fuoco <strong>di</strong> immensa grandezza con il capo proteso dalle<br />

nubi 7 . Questi, stando sospeso, emetteva fiamme e gli astanti in preda<br />

all’angoscia lo vedevano già precipitare in mezzo alla città. Tutti abbandonano<br />

i loro commerci e si rifugiano «ad gremium Ecclesiae matris»<br />

per invocare la misericor<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Dio dopo essersi prostrati davanti<br />

alla memoria <strong>di</strong> Stefano. L’intercessione del martire invocato per rivolgere<br />

la sua preghiera a Cristo ottenne dalla clemenza <strong>di</strong>vina che «l’orribile<br />

massa cerulea cominciò a poco a poco a sottrarsi e a nascondersi<br />

alla vista <strong>degli</strong> uomini nel cerchio delle nubi e, con il ritorno del sereno<br />

là dove i venti si erano scatenati, venne <strong>di</strong>spersa e allontanata» 8 . Gli<br />

animi <strong>di</strong> tutti tornarono alla letizia e la scena si chiude sulla commossa<br />

gratitu<strong>di</strong>ne espressa a Dio e all’amico suo Stefano.<br />

Il giorno seguente avvenne – sono le parole dell’A. – «un miracolo<br />

ancora più straor<strong>di</strong>nario». «In loco Memblonitano», a circa <strong>di</strong>eci Km<br />

da Uzalis 9 , il sud<strong>di</strong>acono Semno della chiesa <strong>di</strong> Uzalis viene avvicinato<br />

7 De miraculis 2, 4.<br />

8 De miraculis 2,4, p. 242, 36-39: “Horrendus illius caerulei globus paulatim<br />

coepit a conspectu hominum inter nubium septa subtrahi atque abscon<strong>di</strong>, et qua<br />

uenti incubuerant, redeunte caeli serena facie, <strong>di</strong>scuti ac propelli”.<br />

9 C. HAMDOUNE, La vie quoti<strong>di</strong>enne à Uzalis, in Les Miracles cit., 113.<br />

183


184<br />

Adele Monaci Castagno<br />

da uno sconosciuto, un negotiator, che dopo essersi sincerato della sua<br />

identità gli consegna «uelum uariis pictum e cera coloribus» 10 . L’A. ritiene<br />

inoltre, ma su questo tornerò in seguito, che l’«ignotus homo»<br />

fosse un angelo.<br />

La pictura presente sul uelum ritraeva un soggetto articolato in più<br />

scene che l’A. descrive partendo dalla parte destra del tessuto:<br />

«Si vedeva il beato Stefano in persona in pie<strong>di</strong> che portava sulle sue spalle<br />

la croce gloriosa, lo si vedeva percuotere con la punta della croce la porta<br />

della città, dalla quale si scorgeva fuggire il drago spaventoso, evidentemente<br />

perché l’amico <strong>di</strong> Dio stava entrando. Ma quel serpente malevolo<br />

che non era al sicuro neppure con la fuga, lo si vedeva calpestato e schiacciato<br />

dal piede trionfante del martire <strong>di</strong> Cristo» 11 .<br />

Quando Semno portò il velo a Uzalis e lo sospese davanti alla memoria<br />

<strong>di</strong> Stefano, i fedeli <strong>di</strong> ogni età e sesso si misero a guardare e ad<br />

ammirare spectaculum grande : essi – aggiunge poco dopo l’A. – «vedevano<br />

per or<strong>di</strong>ne e per mano liberatrice <strong>di</strong> chi il drago era stato <strong>di</strong>strutto<br />

e il nemico vinto».<br />

10 Secondo il commentatore (367, n. 85) si farebbe qui riferimento alla tecnica<br />

dell’encausto secondo uno dei proce<strong>di</strong>menti descritti da Plinio, Hist. nat. 25, 39,<br />

122. Nei primi secoli, questa tecnica applicata a tessuti è testimoniata da alcuni<br />

ritratti appartenenti a mummie del Fayoum. Fa <strong>di</strong>fficoltà il fatto che il uelum<br />

farebbe pensare ad un supporto tessile <strong>di</strong> una certa <strong>di</strong>mensione se venne appeso<br />

davanti alla memoria come cortina o tenda usata per separare l’e<strong>di</strong>cola dai fedeli.<br />

Secondo J. TRILLING, The Image not made by Hands and the Byzantine Way of<br />

Seeing, in H.L. KESSLER - G. WOLF (edd.), The Holy Face and the Paradox of<br />

Representaion, Bologna 1998, 109-127, 115, si farebbe riferimento piuttosto ad<br />

una tecnica del tipo “a riserva”, per intenderci, ora più nota con il termine batik,<br />

che era conosciuta nel mondo tardo antico, ma non in più colori. In questo caso,<br />

visto che si trattava <strong>di</strong> tecnica che richiedeva una lunga lavorazione, la precisazione<br />

dell’A. non sarebbe priva <strong>di</strong> riferimento al carattere miracoloso dell’immagine,<br />

arrivata a Uzalis solo il giorno dopo <strong>degli</strong> avvenimenti.<br />

11 De miraculis 2,4, p. 344, 54-59: “In dextera ueli parte ipse sanctus Stephanus<br />

uidebatur adstare, et gloriosam crucem propriis repositam humeris baiulare, qua<br />

crucis cuspide portam ciuitatis uidebatur pulsare, ex qua profugiens draco taeterrimus<br />

cernebatur exire, amico Dei uidelicet aduentante. Verum ille serpens noxius<br />

nec in ipsa fuga tutissimus, sub triumphali pede martyris Christi contritus aspiciebatur<br />

et pressus”.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

2. La rappresentazione <strong>di</strong> Stefano in ambiente africano<br />

Il recente commento dell’episo<strong>di</strong>o, già citato e che è a mia conoscenza<br />

anche l’unico più approfon<strong>di</strong>to, sostiene che quando L’A. sottolinea<br />

il carattere miracoloso del secondo episo<strong>di</strong>o, non intenderebbe riferirsi<br />

all’origine <strong>di</strong>vina dell’immagine, ma alluderebbe ad un miracolo <strong>di</strong> natura<br />

spirituale: i fedeli osservando l’immagine avrebbero maturato una<br />

più chiara conoscenza della presenza del male nel mondo e della sconfitta<br />

<strong>di</strong> questo ad opera della croce 12 , secondo una chiave <strong>di</strong> lettura spiritualizzante<br />

che effettivamente affiora in altri racconti della stessa raccolta<br />

13 . Lo stesso stu<strong>di</strong>oso ammette che la sua interpretazione presuppone<br />

che l’immagine osservata con stupore e ammirazione dai fedeli <strong>di</strong><br />

Uzalis sarebbe stata in realtà un’immagine generica che rappresentava<br />

non Uzalis, ma una città qualunque, non Stefano, ma un martire qualunque<br />

o Cristo stesso recante la croce gloriosa: «On peut aussi supposer<br />

qu’un détail de la peinture permettait d’identifier le martyr et Uzalis.<br />

Mais ce serait une supposition gratuite et inutile car le texte met en<br />

place un <strong>di</strong>spositif d’interprétation qui n’aurait aucun sens si la peinture<br />

représentait Uzalis et non une cité quelconque» 14 . Tuttavia l’A. del<br />

De miraculis insiste molto sull’identificazione <strong>di</strong> Stefano: lo ripete ben<br />

tre volte nelle quattro righe <strong>di</strong> descrizione dell’immagine; a mio avviso,<br />

non è importante che cosa l’ignoto artista avesse voluto rappresentare,<br />

ma che cosa rendeva plausibile agli occhi dei fedeli <strong>di</strong> Uzalis e del redattore<br />

del De miraculis l’identificazione della scena rappresentata con<br />

quanto era successo il giorno prima. Naturalmente non possiamo sapere<br />

sull’immagine del telo più <strong>di</strong> quanto l’A. ci <strong>di</strong>ce ed egli non specifica<br />

i motivi che lo spingono a identificare nel personaggio raffigurato Stefano;<br />

tuttavia possiamo spingere un po’ più a fondo l’analisi, chiedendoci,<br />

in primo luogo, se nel suo ambiente esisteva un’iconografia relativa<br />

a Stefano e se il De miraculis in altri passi mostra <strong>di</strong> conoscerla e <strong>di</strong><br />

averla recepita.<br />

Di grande importanza è il luogo dove l’immagine si trovava esposta<br />

agli occhi dei fedeli: davanti alla memoria <strong>di</strong> Stefano, un’e<strong>di</strong>cola all’interno<br />

della chiesa episcopale o in luogo ad essa strettamente collega-<br />

12 MICHAUD, Verum cit., 188-191.<br />

13 G. DE NIE, Imaging Miracles in Early Fifth-century Uzalis, in <strong>Stu<strong>di</strong></strong>a<br />

Patristica XL, Leuven-Paris-Dudley 2006, 21-36.<br />

14 MICHAUD, Verum cit., 191,7; 189; cfr. anche più avanti p. 191.<br />

185


186<br />

Adele Monaci Castagno<br />

to 15 . Negli stessi anni, Agostino testimonia ad Ippona una pratica simile:<br />

in un’omelia pronunciata in onore del martire, il vescovo fa esplicito<br />

riferimento alla «dulcissima pictura» 16 che i fedeli potevano osservare e<br />

in cui era raffigurato Stefano mentre veniva lapidato e Saulo che custo<strong>di</strong>va<br />

le vesti <strong>di</strong> coloro che avevano testimoniato contro <strong>di</strong> lui, un’immagine<br />

dunque che corrispondeva a Atti 7, 58-59.<br />

In una Chiesa come quella africana, in cui si leggevano le passiones<br />

dei martiri nel giorno a loro de<strong>di</strong>cato 17 , quella <strong>di</strong> Stefano godeva <strong>di</strong><br />

un’autorità ancora più grande. Come fa osservare ancora Agostino 18 ,<br />

Stefano è l’unico martire la cui passio fa parte della Scrittura e il pre<strong>di</strong>catore,<br />

prendendo la parola dopo la lettura del passo <strong>degli</strong> Atti, non<br />

manca <strong>di</strong> richiamare l’attenzione dei fedeli sui dettagli per lui significativi<br />

del testo incoraggiandoli a farsene un’immagine mentale 19 .<br />

In At 6,1-6 si afferma che Stefano faceva parte <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> sette<br />

uomini scelti tramite l’imposizione delle mani dai do<strong>di</strong>ci per «il servizio<br />

delle mense» (<strong>di</strong>akonia); come osserva Agostino in un’omelia de<strong>di</strong>cata<br />

a Stefano, la traduzione esatta del termine greco <strong>di</strong>akonos è minister,<br />

ma – aggiunge – «Abbiamo ormai l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> usare termini in greco,<br />

al posto <strong>di</strong> quelli latini».Osserva, inoltre, che in alcuni co<strong>di</strong>ci dei Vangelo<br />

il termine <strong>di</strong>akonos, invece <strong>di</strong> «Ubi ego sum, illic et minister meus»<br />

(Gv 12,26), viene reso: «Ubi sum ego, illi et <strong>di</strong>aconus meus» 20 . Pertanto<br />

il pre<strong>di</strong>catore si sente autorizzato ad usare il termine <strong>di</strong>aconus e a sviluppare<br />

questo uso linguistico per mettere in luce come Stefano, «dopo<br />

gli Apostoli e dagli Apostoli or<strong>di</strong>nato primo <strong>di</strong>acono, ottenne la corona<br />

prima <strong>degli</strong> Apostoli» 21 .<br />

15 Y. DUVAL, Les monuments du culte d’Etienne à Uzalis, in Les miracles cit.,<br />

97-100.<br />

16 Aug., Serm. 316, 5.<br />

17 F. DE GAIFFIER, La lecture des Actes des Martyrs dans la prière liturgique en<br />

Occident. À propos du Passionaire hispanique, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana 72 (1954),<br />

143-145. V. SAXER, Morts, martyrs cit., 200-208.<br />

18 Serm. 315,1. Utilizzo la seguente e<strong>di</strong>zione: Sant’Agostino, Discorsi, vol. V<br />

(273-340/A), Sui Santi. Testo latino dell’e<strong>di</strong>zione maurina e delle e<strong>di</strong>zioni postmaurine.<br />

Introduzione <strong>di</strong> A. Quacquarelli. Traduzione, note e in<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> M.<br />

Recchia, Roma 1986.<br />

19 Serm. 315, 3: “Au<strong>di</strong>stis, et spectacula cor<strong>di</strong>s vi<strong>di</strong>stis. Sonus erat in auribus,<br />

visio in mentibus. Spectatis magnum agonem Sancti Stephani, qui in agone lapidabatur”.<br />

20 Serm. 319, 3.<br />

21 Serm. 317,1 e 316, 1.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

Nella Chiesa del V secolo il termine <strong>di</strong>aconus in<strong>di</strong>viduava un or<strong>di</strong>ne<br />

appartenente al sacerdozio ed è naturale che i fedeli comprendessero la<br />

<strong>di</strong>akonia apostolica <strong>di</strong> Stefano alla luce del <strong>di</strong>aconato del loro tempo e<br />

se ne facessero un’immagine mentale corrispondente. I fedeli <strong>di</strong> Uzalis<br />

erano inoltre visitati spesso in sogno da Stefano e il resoconto delle loro<br />

visioni conteneva, fra l’altro, «un portrait en mot» 22 : Stefano appare<br />

ai fedeli sempre come un giovane <strong>di</strong> aspetto bellissimo, vestito <strong>di</strong> una<br />

veste bianca, talvolta recante le insegne del <strong>di</strong>aconato 23 , talvolta vestito<br />

in modo da far pensare ad un giovane <strong>di</strong> rango elevato 24 .<br />

L’immagine <strong>di</strong> Stefano nell’aspetto <strong>di</strong> un bel giovane con i capelli<br />

corti e senza barba nel mosaico (ricostruito) <strong>di</strong> S. Lorenzo fuori le mura<br />

a Roma (Tav. 19), che risalirebbe al V sec. e in quello <strong>di</strong> una piccola<br />

cappella costruita all’interno dell’anfiteatro <strong>di</strong> Dyrrachium in Albania<br />

risalente al VI sec. (Tav. 20) 25 , può essere esempio <strong>di</strong> un’iconografia <strong>di</strong><br />

Stefano ampiamente <strong>di</strong>ffusa formatasi in corrispondenza al rilancio del<br />

culto <strong>di</strong> Stefano a partire appunto dal V sec. In entrambe le raffigurazioni<br />

Stefano veste la dalmatica con sopra una stola bianca.<br />

L’aspetto giovanile era già menzionato da Agostino 26 e potrebbe essere<br />

collegato alla carica <strong>di</strong> <strong>di</strong>acono che nel cursus honorum ideale era<br />

la più bassa <strong>degli</strong> or<strong>di</strong>ni sacerdotali oppure potrebbe riferirsi ad un modello<br />

angelico suggerito forse in At 6,15. Agostino, inoltre, insiste su un<br />

dettaglio che non è esplicitato dal testo <strong>degli</strong> Atti, ma che può essere<br />

22 L’espressione è <strong>di</strong> G. DAGRON, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique,<br />

Paris 2007, 155.<br />

23 De mirac. 1,4: “Amictum veste can<strong>di</strong>da, specie decora”; 1,6: “Juvene, can<strong>di</strong>da<br />

veste nitente, habitum <strong>di</strong>aconi praeferente”; 1,11: “Juvenili forma prae<strong>di</strong>tum,<br />

speciosa etiam ueste et habitu decorum”; 2, 2, 6: “Videt apparentem sibi insignem<br />

uirum uisu, <strong>di</strong>aconi praeferentem habitum”; Ibid.: “Videt illum decorum habitu<br />

juuenem, nivea veste fulgentem”.<br />

24 De mirac. 1, 14: “Per somnium uidet sibi apparere quemdam decorum juuenem,<br />

cujusdam honorati et primarii ciuitatis uiri nomine Uzalensis uultum habitumque<br />

praeferentem”; 2,2,9: “Ibique juuenem illum speciosum cerneret, can<strong>di</strong>da<br />

luce perfusum et insigni equo subvectum, lampadesque quamplures lucentes, ac<br />

praecedens ei splen<strong>di</strong><strong>di</strong>ssimum apparatum”; cfr. L. GRIGG, Making Martyrs in<br />

Late Antiquity, London 2004, 111-135.<br />

25 R. CORMACK, Writing in Gold. Byzantine Society and Its Icons, London<br />

1985, 84. G. NITZ, Stephan, in Lexikon der christlichen Ikonographie, Bd. 8 (1990),<br />

395-403.<br />

26 Ibid. c. 395.<br />

187


188<br />

Adele Monaci Castagno<br />

dedotto da esso, se si affronta il problema <strong>di</strong> come rendere la scena con<br />

un’immagine. Il testo afferma che Stefano si mise in ginocchio per rivolgere<br />

al Signore la preghiera <strong>di</strong> non imputare ai suoi persecutori il loro<br />

peccato. Di qui la deduzione che Stefano era in pie<strong>di</strong> (stans) quando,<br />

poco prima, pronunciava le altre sue parole: «Signore Gesù ricevi il mio<br />

spirito» (At 7,58). Nell’immagine <strong>di</strong> Ippona, Stefano era raffigurato<br />

così, altrimenti il vescovo avrebbe avuto qualche <strong>di</strong>fficoltà a farsi capire<br />

quando, nella stessa omelia cui accenna alla pictura, attira l’attenzione<br />

proprio sul fatto che Stefano, mentre pronuncia la preghiera è stans –<br />

in pie<strong>di</strong> –, mentre quando prega per i suoi persecutori si mette in ginocchio<br />

27 . Interessante è anche lo sviluppo esegetico collegato a tale osservazione<br />

che viene ripetuta anche altrove: «Perché – si domanda il pre<strong>di</strong>catore<br />

– raccomandò se stesso stando in pie<strong>di</strong>? Perché raccomandava<br />

un giusto», mentre si mise in ginocchio per pregare per dei malvagi 28 . È<br />

un giusto che prega per la sua giusta ricompensa 29 ; è, pur nell’apparente<br />

sconfitta della lapidazione, un vincitore 30 .<br />

Ritengo che una traccia <strong>di</strong> questi sviluppi esegetici agostiniani sia rimasta<br />

nella descrizione della pictura <strong>di</strong> Uzalis: «In dextera ueli parte<br />

ipse sanctus Stephanus uidebatur adstare». La precisazione riferita ad<br />

una figura che portava sulle spalle una “croce gloriosa” è ridondante e<br />

potrebbe essere la trascrizione “automatica” <strong>di</strong> un’immagine mentale<br />

plasmata dall’esegesi agostiniana. Il punto che mi preme sottolineare è<br />

che nei primi decenni del V secolo in ambiente africano esisteva un intreccio<br />

<strong>di</strong> testi, immagini, visioni, interpretazioni esegetiche che concorrevano<br />

a formare un’immagine mentale con<strong>di</strong>visa dell’aspetto <strong>di</strong><br />

Stefano 31 .<br />

In che misura la pictura <strong>di</strong> Uzalis descritta dall’A. rifletteva l’immagine<br />

<strong>di</strong> Stefano quale risulta dalla pre<strong>di</strong>cazione agostiniana e dalle visioni<br />

del De miraculis? La figura della pictura <strong>di</strong> Uzalis non doveva <strong>di</strong>scostarsene<br />

molto se l’A. ritiene che essa potesse essere plausibilmente<br />

27 Aug., Serm. 316, 3.<br />

28 Ibid. e Serm. 315, 3. 4.5: “Discrevi iustum a peccatoribus: pro iusto stans<br />

petebat, quia mercedem exigebat”.<br />

29 Serm. 315, 3. 4.5: “Discrevi iustum a peccatoribus: pro iusto stans petebat,<br />

quia mercedem exigebat”.<br />

30 Serm. 315,7. Cfr. anche Serm. 317, 5.<br />

31 Su questi intrecci DAGRON, Décrire cit., 86-93; J.M. SANSTERRE, Appa ritions<br />

et miracles à Ménouthis: de l’incubation païenne à l’incubation chrétienne, in A.<br />

DIERKENS (ed.), Apparitions et miracles, Bruxelles 1991, 69-83.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

collegata a Stefano, “santo”, “amico <strong>di</strong> Dio”, “martire <strong>di</strong> Cristo”; questo<br />

non significa, tuttavia, che chi aveva eseguito la pittura intendesse<br />

ritrarre proprio Stefano. Non si può non notare, ad esempio, che essa,<br />

se riferita ad un martire, rappresenterebbe, allo stato attuale della documentazione<br />

iconografica, un caso isolato. In primo luogo, va osservato<br />

che non si tratta <strong>di</strong> una scena <strong>di</strong> martirio che, nel periodo che va<br />

dall’ultimo quarto del IV sec. ai primi due decenni del V sec., sembra<br />

essere un modo già tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong> rappresentare i martiri stando almeno<br />

alle fonti letterarie che descrivono immagini per noi perdute: <strong>di</strong> questo<br />

tipo era la «pictura dulcissima» raffigurante Stefano a Ippona, le<br />

immagini <strong>di</strong> Cassiano e Ippolito descritte da Prudenzio e in Oriente<br />

quelle descritte da Asterio, da Gregorio <strong>di</strong> Nissa riguardanti rispettivamente<br />

i martìri <strong>di</strong> Eufemia e Teodoro 32 . Inoltre, la figura che reca sulla<br />

spalla la croce gloriosa come un trofeo e che calpesta il dragone corrisponde<br />

piuttosto all’iconografia <strong>di</strong> Cristo victor cui era spesso connessa<br />

la calcatio simboleggiante la sconfitta del <strong>di</strong>avolo 33 . Nelle raffigurazioni<br />

più antiche (IV- VI secc.) Cristo appare come un giovane guerriero<br />

imberbe 34 .<br />

L’azione della calcatio compare raffigurata talvolta in connessione<br />

con la raffigurazione del descensus <strong>di</strong> Cristo agli inferi: in questo caso la<br />

calcatio del nemico è inserita in una scena più complessa comprendente<br />

le porte aperte dell’inferno e la liberazione dei prigionieri – dei santi –<br />

che fino a quel momento vi erano rinchiusi, secondo un’iconografia il<br />

cui testimone più antico conosciuto è dell’inizio dell’VIII sec., ma che ha<br />

alla base una tra<strong>di</strong>zione letteraria molto più antica e <strong>di</strong>ffusa 35 . L’immagine<br />

<strong>di</strong> Uzalis potrebbe essere stata la raffigurazione <strong>di</strong> questa scena:<br />

Cristo con l’estremità della croce batte energicamente la porta, pulsare<br />

può in<strong>di</strong>care il semplice bussare, ma anche un’azione più violenta: il percuotere,<br />

battere spingere, un forzare, appunto, la porta 36 .<br />

32 F. BISCONTI, Dietro e intorno all’iconografia martiriale romana: dal ‘vuoto fi -<br />

gu rativo’ all’‘immaginario devozionale’, in M. LAMBERIGTS - P. VAN DEUN (edd.),<br />

Martyrium in Multi<strong>di</strong>sciplinary Perspective. Mémorial Louis Reekmans, Leuven<br />

1995, 247-292, cfr. 260-266.<br />

33 G. SCHILLER, Die Auferstehung und Erhöhung Christi, in Ikonographie der<br />

christlichen Kunst, Bd 3, Gütersloher 1971, 32-41.<br />

34 Ibid. Tav. 62; 63; 64.<br />

35 SCHILLER cit., 47-50. R. GOUNELLE, La descente du Christ aux enfers: institutionnalisation<br />

d’une croyance, Paris 2000.<br />

36 “Qua crucis cuspide portam ciuitatis uidebatur pulsare, ex qua profugiens<br />

189


190<br />

Adele Monaci Castagno<br />

Non sono note immagini <strong>di</strong> calcatio riferite a martiri; non ritengo<br />

sufficientemente argomentata l’interpretazione <strong>di</strong> Marucchi relativa a<br />

una medaglia devozionale in bronzo, datata fra V e VII secolo, raffigurante<br />

una figura nimbata recante sulla spalla una croce che calpesta un<br />

serpente attorcigliato, a suo <strong>di</strong>re unico esempio iconografico riferito ad<br />

un santo (Tav. 21) 37 . Il Marucchi, che non conosce il testo del De miraculis,<br />

la identifica con Lorenzo, per il particolare della croce, che in effetti<br />

caratterizza la più antica iconografia <strong>di</strong> Lorenzo come possiamo<br />

vederla in un frammento <strong>di</strong> vetro dorato del IV secolo (Tav. 22); in un<br />

affresco della catacomba <strong>di</strong> S. Senatore ad Albano Laziale (tardo V secolo);<br />

nella Basilica <strong>di</strong> Lorenzo fuori le Mura a Roma (Tav. 20) e infine<br />

nel Mausoleo <strong>di</strong> Galla Placi<strong>di</strong>a 38 . Egli esclude che possa riferirsi a Cristo,<br />

per il solo motivo che il personaggio è raffigurato con i capelli e<br />

barba corti, mentre nello stesso periodo il Salvatore sarebbe stato raffigurato<br />

con una capigliatura lunga e la barba lunga <strong>di</strong>visa. In realtà, la<br />

raffigurazione <strong>di</strong> Cristo <strong>di</strong> tipo semitico, secondo la classificazione proposta<br />

da Belting, è ancora <strong>di</strong>ffusa fra V e VII sec. 39<br />

Come ho detto prima, in<strong>di</strong>pendentemente da ciò che l’ignoto artista<br />

avesse inteso realmente raffigurare sul velum <strong>di</strong> Uzalis, la questione per<br />

noi significativa è cercare <strong>di</strong> comprendere che cosa rendesse plausibile<br />

agli occhi dell’A. del De miraculis e dei fedeli <strong>di</strong> Uzalis l’identificazione<br />

<strong>di</strong> Stefano nel personaggio che calpesta il dragone. Ora se vi poteva essere<br />

un ambiente ricettivo riguardo all’immagine <strong>di</strong> un martire che calpesta<br />

un draco questo era senza dubbio l’Africa <strong>di</strong> Agostino, ove una<br />

straor<strong>di</strong>naria venerazione circondava i martiri e ogni anno nel <strong>di</strong>es natalis<br />

<strong>di</strong> Perpetua si leggeva la sua Passio contenente il resoconto <strong>di</strong> una<br />

sua visione ove la donna afferma <strong>di</strong> aver visto se stessa in visione calpestare<br />

la testa <strong>di</strong> un draco, prima <strong>di</strong> cominciare a salire una scala simboleggiante<br />

il suo martirio 40 . Sulla base <strong>di</strong> questi elementi – un’immagine<br />

con<strong>di</strong>visa dei tratti caratteristici <strong>di</strong> Stefano, l’immagine del martire imi-<br />

draco taeterrimus cernebatur exire”. Ringrazio R. Gounelle, presente al Con ve -<br />

gno, <strong>di</strong> avermi suggerito questa pista <strong>di</strong> ricerca.<br />

37 O. MARUCCHI, Eine Medaille und eine Lampe aus der Sammlung Zurla,<br />

Romische Quartalschrift 1 (1887), 316-325, pl. X. n.1.<br />

38 GRIGG, Making Martyrs cit., 136 sgg.; L. PETZOLDT, Laurentius, in Lexikon<br />

der christlichen Ikonographie, vol. 7 (1990), 374-380.<br />

39 H. BELTING, Il culto delle immagini: storia dell’icona dall’età imperiale al<br />

tardo Me<strong>di</strong>oevo, tr. it., Roma 2001, 172-173.<br />

40 Passio Perpetuae 4,7; più avanti 10,11 un’altra visione <strong>di</strong> Perpetua, in cui ella


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

tatore <strong>di</strong> Cristo vittorioso sul demonio – non c’è, a mio avviso, un motivo<br />

fondato per non dare fiducia all’A., quando questi, pur senza ulteriori<br />

specificazioni, afferma <strong>di</strong> riconoscere nel velum il santo patrono<br />

Stefano in azione.<br />

3. Visione, realtà, verità<br />

Un altro aspetto da sottolineare è che l’A. ricorre a <strong>di</strong>versi accorgimenti<br />

per accre<strong>di</strong>tare l’idea che l’origine della pictura fosse miracolosa.<br />

Notiamo intanto che quello che poteva apparire come una normale<br />

transazione commerciale fra un ven<strong>di</strong>tore e un acquirente interessato<br />

ad acquistare un’immagine religiosa viene circondato da un’aura <strong>di</strong> mistero:<br />

l’A. insiste sul fatto che il negotiator si rivolge a Semno ultro – <strong>di</strong><br />

sua iniziativa – e che dopo aver appreso chi fosse, “subito” gli consegna<br />

il velo, quasi eseguisse un incarico della <strong>di</strong>uina <strong>di</strong>spensatio menzionata<br />

poco prima; insiste anche sul fatto che il negotiator non era mai stato<br />

visto prima “nella nostra regione”, che fosse homo ignotus. «Bisogna<br />

credere – conclude l’A. – che quest’uomo era un angelo in quanto non<br />

è cosa inau<strong>di</strong>ta, né fuori dall’esperienza… che i santi angeli si sono mostrati<br />

spesso sotto un’apparenza terrestre e una forma visibile» 41 . Il fatto<br />

poi che si fosse materializzata lontano da Uzalis, a un giorno <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza<br />

dagli avvenimenti, un’immagine dalle conseguenze così significative<br />

per interpretare proprio tali avvenimenti sottolinea ancora <strong>di</strong> più<br />

la sua origine misteriosa e <strong>di</strong>vina: l’avvenimento del giorno prima e<br />

l’immagine consegnata a Semno il giorno seguente è un geminum miraculum,<br />

come riba<strong>di</strong>rà l’A. alla fine del racconto.<br />

Tuttavia, non si tratta soltanto <strong>di</strong> questo: l’origine miracolosa dell’immagine,<br />

lungi da essere marginale nell’economia complessiva del<br />

racconto, è invece l’esito estremo, ma coerente, della rilevanza, specifica<br />

del De miraculis, del rapporto fra visione e realtà, fra l’immagine<br />

mentale <strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina e l’interpretazione <strong>di</strong> ciò che avviene nella<br />

realtà.<br />

Ponendosi nel solco del <strong>di</strong>scorso agiografico africano caratterizzato<br />

fin dalle Passiones più antiche dalla centralità delle visioni in stato <strong>di</strong><br />

combatte nell’arena contro un Egizio, simbolo del <strong>di</strong>avolo, presenta una seconda<br />

scena <strong>di</strong> calcatio.<br />

41 De miraculis 2,4, ll. 48-52.<br />

191


192<br />

Adele Monaci Castagno<br />

veglia o in sogno 42 , anche il nostro Anonimo riserva loro un ruolo <strong>di</strong><br />

primo piano, fin dal primo miracolo narrato che precede il rumor annunciante<br />

l’arrivo delle reliquie <strong>di</strong> Stefano nella Chiesa <strong>di</strong> Uzalis. Una<br />

«sacra famula Dei», che ha ascoltato una conversazione <strong>di</strong> «servi <strong>di</strong><br />

Dio» sulle reliquie <strong>di</strong> Stefano appena ricevute dall’Oriente, si chiede come<br />

si poteva essere certi che fossero proprio le reliquie del martire. Nella<br />

notte stessa ha una visione in cui un presbitero mette un’ampolla<br />

contenente «come delle gocce <strong>di</strong> sangue e delle spighe che la inducevano<br />

pensare a delle ossa» 43 in bocca <strong>di</strong> un monaco presente e subito dalle<br />

sue orecchie e dagli occhi erompono fiamme.<br />

Il miracolo, in questo caso, consiste nella coincidenza fra ciò che<br />

l’ancilla Dei vide «in somnii reuelatione» e ciò che avvenne poi «in<br />

ipsius rei manifestatione». Una coincidenza che per manifestarsi pienamente<br />

ha bisogno <strong>di</strong> un’esegeta, l’A. stesso, che riconosce, nell’ampolla<br />

sognata, quella realmente arrivata nelle mani del vescovo; nelle fiamme<br />

provenienti dall’ampolla, la prae<strong>di</strong>catio sulle sante reliquie da parte dei<br />

monaci e da questi propagate all’intero corpo della Chiesa <strong>di</strong> Uzalis;<br />

nel presbyter, il prete arrivato dall’Oriente – cioè Orosio – che parlò<br />

delle reliquie ai monaci, infiammandoli del fuoco sacro 44 .<br />

Ancora una visione accompagna un’altra tappa importante del ra<strong>di</strong>camento<br />

del culto <strong>di</strong> Stefano a Uzalis: una sacra virgo si vede in sogno<br />

percorrere una strada secondaria che porta alla chiesa periferica de<strong>di</strong>cata<br />

ai martiri Felice e Genna<strong>di</strong>o. Le viene incontro una folla immensa<br />

che, con ceri e lampade, accompagna «can<strong>di</strong>datum parvulum» acclamandolo<br />

come Confessore <strong>di</strong> Cristo. Giunti nella chiesa <strong>di</strong> Uzalis lo<br />

fanno salire sul pulpito e il fanciullo stendendo le mani <strong>di</strong>ce: «Ecco,<br />

avete un martire». Il miracolo consiste anche qui nella puntuale corrispondenza<br />

con quanto accadde dopo quaranta giorni, quando un corteo<br />

festante accompagnò – proprio su quella strada secondaria – il ve-<br />

42 M. DULAEY, Le rêve dans la vie et la pensée de Saint Augustin, Paris 1973,<br />

181-200 (sui sogni del De miraculis). Per l’A., i sogni non sono sogni or<strong>di</strong>nari ma<br />

vere e proprie “rivelazioni”; anche l’uso <strong>di</strong> video con la proposizione participiale<br />

(invece <strong>di</strong> visus + l’infinito) tende a suggerire la stessa cosa (DULAEY, Le rêve cit.,<br />

158); «Videt per somnium perductum se» (De miraculis 1,4, p. 280, 9; 1,11, p. 296,<br />

10 etc.).<br />

43 De miraculis 1,1, p. 270, 14: «Intra se habens sanguinis quamdam aspersionem<br />

et aristarum quasi ossuum significationem»; è l’unica descrizione presente<br />

nel testo delle reliquie.<br />

44 Ibid.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

scovo che, seduto su un carro con in grembo le reliquie <strong>di</strong> Stefano –<br />

«uelut paruulus can<strong>di</strong>datus», le traslò nella chiesa principale.<br />

Se nel sogno era stato il fanciullo stesso a manifestarsi come martire,<br />

nella realtà fu la lettura dal pulpito della lettera <strong>di</strong> Severo <strong>di</strong> Minorca in<br />

cui venivano raccontate le virtutes compiute dalle reliquie nella sua<br />

Chiesa a proclamare <strong>di</strong> fronte ai fedeli <strong>di</strong> Uzalis esultanti: «Ecce habetis<br />

martyrem» 45 . Anche in questo caso la corrispondenza è resa esplicita<br />

dall’esegeta che – secondo la propria cultura teologica – tratta le visioni<br />

come profezie il cui adempimento nella realtà può essere mostrato<br />

soltanto attraverso la decifrazione dei significati simbolici delle parti<br />

delle visioni meno realistiche 46 . La “realtà” per altro rivela la sua verità<br />

proprio nella misura in cui è interpretata alla luce della visione.<br />

Ancora una visione accompagna un’altra fase cruciale del ra<strong>di</strong>camento<br />

del culto <strong>di</strong> Stefano a Uzalis. Il vescovo decise <strong>di</strong> trasferire parte<br />

delle reliquie del martire in una chiesa <strong>di</strong>versa, ma ecco che, quando si<br />

<strong>di</strong>ffonde la notizia che si sta preparando il veicolo che avrebbe trasportato<br />

l’indomani il vescovo con le reliquie, la folla gli si fa intorno, lo<br />

stringe, lo obbliga a rimettere le reliquie al loro posto. Un tale episo<strong>di</strong>o<br />

avrebbe riverberato sul vescovo – la cui volontà era miseramente fallita<br />

– e sui suoi fedeli che l’avevano ostacolato con successo una luce negativa,<br />

se esso non fosse un altro anello della catena visione – compimento<br />

nella realtà costituita anche dagli altri episo<strong>di</strong>. In effetti due giorni<br />

prima del fatto due sacerdoti avevano avuto in visione chiari avvertimenti<br />

<strong>di</strong> non spostare le reliquie, ma non avevano ritenuto opportuno<br />

riferirli al vescovo. Uno dei due improvvi<strong>di</strong> fu preso a schiaffi e il vescovo,<br />

ora in grado <strong>di</strong> decifrare correttamente la volontà del santo, decise<br />

<strong>di</strong> riunire nella chiesa episcopale anche le reliquie che fino a quel momento<br />

si trovavano nel monastero episcopale 47 .<br />

Ritorniamo ora al nostro testo: in De Miraculis 2, 4 l’A. esprime la<br />

convinzione che il draco apparso alla folla <strong>di</strong> Uzalis non sia stato sol-<br />

45 I, 2; sulle traslazioni e le <strong>di</strong>verse fasi del culto <strong>di</strong> Stefano a Uzalis: Y. DU VAL,<br />

Le culte des reliques en Occident à la lumière du De miraculis, in Les miracles cit.,<br />

47-67, cfr. 56-58.<br />

46 J. MEYERS, Les citations bibliques dans le De miraculis, in Les miracles cit.,<br />

145-170, spec. 149-151: gran parte delle citazioni scritturistiche sono riferite a<br />

<strong>di</strong>versi eventi per <strong>di</strong>mostrare che la Scrittura ha trovato in essi la sua realizzazione.<br />

47 De miraculis 1,7; 8.<br />

193


194<br />

Adele Monaci Castagno<br />

tanto un preoccupante fenomeno atmosferico e neppure un evento da<br />

interpretare in modo simbolico. Insiste che si era trattato <strong>di</strong> un vero e<br />

proprio draco, in quanto i dracones esistono: lo testimonia non solo la<br />

«notitia popularis» ma anche la Scrittura, in quel punto dei Salmi in<br />

cui si <strong>di</strong>ce: «Lodate il Signore dalla terra, dragoni e tutti gli abissi, fuoco,<br />

gran<strong>di</strong>ne, neve, ghiaccio e venti <strong>di</strong> tempesta che compiono la sua<br />

parola» (148,7). Da questa citazione, l’A. ricava che i dracones sono<br />

reali come i fenomeni citati dopo e, come questi, sono s<strong>oggetti</strong> alla volontà<br />

<strong>di</strong> Dio. Una <strong>di</strong>fficoltà è rappresentata dal fatto che nella citazione<br />

biblica, il draco eleva la sua lode de terra, insieme agli abyssi, che normalmente<br />

in<strong>di</strong>cano le profon<strong>di</strong>tà marine, mentre la folla <strong>di</strong> Uzalis l’ha<br />

visto in cielo, ma l’A. suggerisce che abyssus è anche l’immensitas dell’aere<br />

tenebroso, denso dei vapori del mare e delle polveri della terra in<br />

cui si formano i fenomeni atmosferici.<br />

L’apparizione del draco è avvenuta «ex hac prouidentia <strong>di</strong>spensationis<br />

Dei». Nello sforzo <strong>di</strong> dare spessore <strong>di</strong> realtà a quanto ha impaurito<br />

la folla ricorrendo ad un’esegesi letterale della Scrittura, L’A. non <strong>di</strong>ce<br />

nulla <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso da quanto afferma Agostino commentando lo stesso<br />

versetto dei Salmi: anche per lui i dracones sono animali giganteschi in<br />

grado <strong>di</strong> librarsi in aria e creare fenomeni atmosferici violenti 48 .<br />

Malgrado il sollievo provato per la sparizione del draco e la gratitu<strong>di</strong>ne<br />

verso il Santo, coloro che avevano assistito alla spaventevole apparizione<br />

conservavano un’idea confusa su quanto in realtà era successo.<br />

La conoscenza piena arrivò soltanto quando i fedeli guardarono la pictura<br />

49 .<br />

Negli animi <strong>di</strong> tutti, la testimonianza (attestatio) del giorno successivo confermava<br />

l’atten<strong>di</strong>bilità <strong>degli</strong> avvenimenti del giorno prima. Infatti quello<br />

che veniva osservato con attenzione nel velo rendeva più cre<strong>di</strong>bile l’accaduto<br />

nella realtà. L’immagine concordava con la grazia, e il dono salutare del<br />

giorno prima proveniente da Dio tanto era fatto oggetto <strong>di</strong> rinnovata venerazione<br />

quanto più era riconosciuto dopo nell’immagine del velo; proprio<br />

la concordanza della veritas fra il prima e il poi, come fra le cose e le copie<br />

accendeva in molti tanto stupore, amore, ammirazione, gratitu<strong>di</strong>ne da farli<br />

esclamare con un’unica voce: ‘Veramente Dio ha liberato la città attraverso<br />

il suo amico e ha scacciato da noi una grande sciagura’ 50 .<br />

48 Aug. Exp. Ps. 148, 9.<br />

49 I, 4, p. 346, 77: i fedeli, vedendo l’immagine passano dal dubbio alla certezza.<br />

«Exinde non dubii, sed certi».<br />

50 De miraculis 2,4, p. 344, ll. 63-72: “Gestae quippe rei fidem praecedentis <strong>di</strong>ei


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

In conclusione: nei racconti precedenti a questo, il miracolo scaturiva<br />

dalla coincidenza della revelatio con la res ipsa; le visioni anticipavano<br />

e legittimavano la realtà e questa <strong>di</strong>ventava pienamente intelligibile<br />

soltanto alla luce delle visioni che la precedevano.<br />

Nell’episo<strong>di</strong>o del dragone l’or<strong>di</strong>ne dei fattori è invertito, ma la logica<br />

non cambia. Il punto <strong>di</strong> partenza non è la visione, ma un fatto vissuto,<br />

però ambiguo, bisognoso per essere compreso pienamente <strong>di</strong> una luce<br />

<strong>di</strong>vina che lo illumini; per questo è necessario che l’immagine abbia<br />

un’origine <strong>di</strong>vina, perché possa, come le visioni, farsi portavoce della<br />

verità.<br />

La pictura, in quanto a fedeltà all’accaduto è una «copia exemplaris»<br />

dell’«imago rerum», ma in quanto immagine non fatta da mano<br />

d’uomo, arrivata a Uzalis «procurante <strong>di</strong>uina <strong>di</strong>spensatione» – è più <strong>di</strong><br />

una copia della realtà, aiuta a deco<strong>di</strong>ficarla, ne costituisce la verità.<br />

Non è solo immagine, ma, in un certo senso, icona se, come <strong>di</strong>ce Dagron,<br />

«dans le domaine de la représentation, on pourrait <strong>di</strong>re que l’icône<br />

est un portrait plus vrai que réel, et qu’elle s’affranchit des contraintes<br />

de l’historicité pour trouver une autre cohérence, non celle de la ressemblance,<br />

mais celle de la reconnaissance» 51 .<br />

4. Tacita prae<strong>di</strong>catio: visualità e parola<br />

Il De Miraculis contiene anche un altro aspetto che lo rende interessante:<br />

un’inusuale esaltazione del “vedere” riguardo all’ascoltare e al<br />

leggere; un aspetto che potrebbe portare elementi <strong>di</strong> novità al <strong>di</strong>battito<br />

sul ruolo delle immagini nella Chiesa occidentale e su come in essa è<br />

stato articolato il tema del rapporto fra parola e immagine.<br />

Il secondo libro del De miraculis si apre con il resoconto <strong>di</strong> una ceri-<br />

commendabat in animis omnium attestatio sequentis <strong>di</strong>ei. Namque illud quod<br />

stu<strong>di</strong>osius cernebatur in uelo, hoc iam cre<strong>di</strong>bilius tenebatur in uero. Concurrebat<br />

enim pictura cum gratia, et iam <strong>di</strong>uinitus illud pri<strong>di</strong>e salutis beneficium recolebatur<br />

quam postea in ueli imagine aduertebatur. Denique ex ipsa congruentia <strong>di</strong>ei<br />

praecedentis atque sequentis ueritatis, et imagine rerum et quorundam exemplariorum,<br />

tantus in multis stupor pariterque amor, admiratio et gratulatio accendebatur<br />

ut a cunctis nihil aliud omnino uel <strong>di</strong>ceretur uel affirmaretur nisi hoc unum:<br />

«Vere quia per amicum suum Deus istam liberauit ciuitatem,et grandem a nobis<br />

depulit pestem»”.<br />

51 DAGRON, Décrire cit., 211.<br />

195


196<br />

Adele Monaci Castagno<br />

monia avvenuta nella chiesa <strong>di</strong> Uzalis in presenza dei fedeli, in un momento<br />

non precisato, ma successivo alla messa per scritto del I libro. In<br />

quella circostanza vennero letti dal pulpito alcuni miracoli del martire<br />

<strong>di</strong> Cristo «fideliter descripta et publica attestatione comprobata» tratti<br />

dal I libro del De miraculis. Chi descrive la scena è coinvolto dagli avvenimenti<br />

e partecipa alla cerimonia durante la quale viene letto il suo libro.<br />

In quella circostanza e secondo una pratica che troviamo descritta<br />

anche da Agostino ad Ippona 52 , vennero presentati all’assemblea le<br />

persone che avevano beneficiato della guarigione. Con la loro presenza<br />

e le loro <strong>di</strong>chiarazioni – <strong>di</strong>ce l’A. – «non solo testimoniarono a favore<br />

dei nostri scritti, ma si misero davanti perché guardaste la realtà e la<br />

certezza della verità». Tutto il capitolo è giocato sulla coppia ascoltare/vedere<br />

e sulla citazione del Ps. 47 (48), 9: «Sicut au<strong>di</strong>vimus, ita et vi<strong>di</strong>mus»,<br />

«ciò che abbiamo ascoltato, lo abbiamo anche visto», <strong>di</strong> cui<br />

quello che avvenne in quella circostanza è presentato come il compimento.<br />

All’effetto dell’ascolto della parola pronunciata viene accostata l’oculata<br />

fides derivante dal vedere con i propri occhi; dopo il sermo relativo<br />

al miracolo della restituzione della vista, fu offerta allo sguardo <strong>di</strong><br />

tutti la tacita prae<strong>di</strong>catio <strong>degli</strong> occhi guariti della donna; dopo la lectio<br />

relativa al paralitico, tutta la chiesa poteva vedere le sue membra integre<br />

come palpabilibus documentis; le cose scritte coincidevano mirabiliter<br />

con le res ipsae. In tale coincidenza fu visto un miracolo ancora<br />

maggiore da cui scaturì un’ondata <strong>di</strong> emozione nei presenti: se all’ascolto<br />

dei miracoli vi era stato un clamor gratulationis, il vedere scatenò<br />

maior exultatio e così, osserva l’A., «la fiamma del <strong>di</strong>vino amore penetrava<br />

nel cuore <strong>di</strong> ciascuno attraverso l’u<strong>di</strong>to e la vista». Con questa<br />

frase che richiama la visione dell’ampolla che infiammava le orecchie e<br />

gli occhi del monaco l’A. inserisce questo momento liturgico nella catena<br />

delle realizzazione profetiche; rende questa stessa cerimonia miracolo<br />

in un gioco <strong>di</strong> specchi sapientemente ricostruito.<br />

Ma è ancora la nostra immagine acheropita <strong>di</strong> Uzalis a rendere<br />

esplicito ancora <strong>di</strong> più il tema. Secondo l’A., la pictura è arrivata a<br />

52 Sermo 320 in onore <strong>di</strong> Stefano, presentando davanti ai fedeli Paolo miracolosamente<br />

guarito dalle reliquie «pro scriptura notitia, pro charta facies…»; questo<br />

sermone fa parte <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> quattro (320.323) de<strong>di</strong>cati alla guarigione <strong>di</strong><br />

Paolo e <strong>di</strong> sua sorella e alla loro presenza davanti ai fedeli nel momento in cui<br />

venne letto il libellus che li riguardava.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

Uzalis per volere <strong>di</strong>vino affinché «la fragilità umana ignorante <strong>di</strong> ogni<br />

cosa non mostrasse la sua gratitu<strong>di</strong>ne senza essere edotta in modo più<br />

chiaro ed evidente»; questo insegnamento è impartito da Dio stesso attraverso<br />

l’immagine “tacite”. Essa, <strong>di</strong> origine <strong>di</strong>vina, insegna senza parole<br />

e per quanto poi l’A. le presti le sue ad uso e consumo dei suoi lettori,<br />

egli descrive una situazione in cui tutti acquisiscono una conoscenza<br />

superiore attraverso la sola vista:<br />

E veramente fu in certo qual modo un <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Dio agli uomini quello<br />

che il velo senza parole significava chiaramente e <strong>di</strong>ceva: “O miseri mortali,<br />

da quale incen<strong>di</strong>o proveniente dal dragone siete scampati ieri e <strong>di</strong> quale avvocato<br />

è stata accolta l’intercessione a vostro favore comprendetelo oggi<br />

dall’immagine <strong>di</strong> questo velo e rallegratevi. Da questa confrontate nel vostro<br />

pensiero la prova <strong>di</strong> prima e la liberazione <strong>di</strong> poi e in seguito a questo<br />

liberati dai dubbi e sicuri rendete grazie a Dio vostro attraverso il mio amico.<br />

Ecco guardate il dragone messo in fuga ed espulso dalla città, ecco il<br />

primo mio martire che calpesta il suo capo, ecco il trofeo della croce con<br />

cui avete vinto il vostro nemico” 53 .<br />

Dai numerosi stu<strong>di</strong> che negli ultimi decenni si sono occupati del rapporto<br />

fra immagini e parole 54 emerge un quadro con<strong>di</strong>viso sia delle fonti<br />

ritenute pertinenti, sia dei principali no<strong>di</strong> interpretativi: la tra<strong>di</strong>zione<br />

orientale più precocemente <strong>di</strong> quella occidentale – e con minori riserve<br />

53 De miraculis 1,4, 344, ll. 73-80. “Et re uera Dei fuit ad homines quaedam illa<br />

allocutio in uelo tacite significantis admodum et <strong>di</strong>centis: «O miseri mortales,<br />

quale hesterna <strong>di</strong>e euaseritis draconis incen<strong>di</strong>um, uel cuius pro nobis aduocati<br />

suffragium fuerit acceptum, isto sequenti <strong>di</strong>e istius ueli figuratione intelligite,<br />

atque gaudete. Hinc destra et praecedentem tentationem et subsequente liberationem<br />

apud uosmetipsos conferte, exinde non dubii, sed certi, Deo uestro per amicum<br />

meum gratias agite. Ecce draconem de uestra ciuitate cernitis fugatum et<br />

expulsum, ecce conterentem caput eius primum martyrem meum, ecce Crucus<br />

tropaeum per quod uestrum uicistis inimicum»”.<br />

54 Non soltanto le immagini figurative, ma la ‘visualità’ in generale che comprende<br />

anche le immagini mentali formate dalle parole o immagini descritte dalle<br />

parole: G. FRANK, The Memory of Eyes. Pilgrims to Living Saints in Christian<br />

Late Antiquity, Berkeley-Los Angeles-London 2000, 17-29. Cfr. anche P. BROWN,<br />

Images as a Substitutes for Writing, in E. CHRYSOS - I. WOOD (edd.), East and<br />

West: Modes of Communication, Leiden-Boston-Köln 1999, 15-34; I. WOOD,<br />

Images as a Substitutes for Writing: a Reply in Ibid. 37-46; i due volumi Testo e<br />

immagine nell’alto Me<strong>di</strong>oevo (Settimane <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o del Centro italiano <strong>di</strong> stu<strong>di</strong><br />

sull’alto Me<strong>di</strong>oevo, 41) Spoleto 1994.<br />

197


198<br />

Adele Monaci Castagno<br />

– ha valorizzato il ruolo <strong>di</strong>dattico dell’immagine accanto alla parola o<br />

più efficacemente <strong>di</strong> questa: «Ciò che la parola del racconto offre all’u<strong>di</strong>to,<br />

la pittura lo mostra in silenzio attraverso la vista» 55 afferma Basilio<br />

in un’omelia de<strong>di</strong>cata alla celebrazione dei XL martiri, seguito da<br />

Gregorio <strong>di</strong> Nissa 56 . Queste testimonianze, almeno in parte, confluirono<br />

nel dossier <strong>di</strong> testi presenti nella trattatistica iconodula 57 durante le<br />

<strong>di</strong>verse fasi della crisi iconoclasta, durante la quale emersero posizioni<br />

iconodule a favore della superiorità delle immagini sulla parola, affermazioni<br />

ora però in parte considerate troppo legate alle fasi acute della<br />

controversia; analogamente, sarebbero da contestualizzare meglio anche<br />

le affermazioni iconoclaste sulla loro totale illiceità, dal momento<br />

che, almeno nella prima fase, si continuava a riconoscere ad alcune <strong>di</strong><br />

esse una funzione <strong>di</strong>dattica 58 .<br />

In ambito occidentale, a partire dalla fine del IV secolo, c’è un certo<br />

numero <strong>di</strong> testimonianze relative alla presenza <strong>di</strong> immagini nei luoghi<br />

<strong>di</strong> culto tra le quali anche quella <strong>di</strong> Stefano a Ippona, tuttavia, proprio<br />

Agostino, avanza importanti considerazioni che tendono a metterne in<br />

luce i limiti 59 o a circoscrivere il ruolo delle immagini sottolineandone<br />

l’inferiore efficacia <strong>di</strong> fronte alla parola (scritta o ascoltata), segno che<br />

nel suo ambiente questa concorrenza era già avvertita e considerata<br />

non priva <strong>di</strong> pericoli. Per esempio, egli rimprovera i cristiani che imparano<br />

dalle pareti, piuttosto che dai libri, e che, vedendo ritratti insieme<br />

a Cristo Pietro e Paolo, li considerano entrambi suoi <strong>di</strong>scepoli 60 .<br />

È significativo dell’atteggiamento <strong>di</strong> Agostino che, nella stessa memoria<br />

<strong>di</strong> Stefano a Ippona che ospitava la «dulcissima pictura», questi<br />

avesse voluto che fossero scritti «quattuor versus» da lui composti per<br />

guidare l’interpretazione dei fedeli anche in assenza della viva voce del<br />

vescovo e della lettura del testo biblico:<br />

55 Bas., Om. 19, 2, PG 31, 509 D.<br />

56 Greg. Nyss. De deitate Filii, PG 46, col. 572 C, e ID., In Theod. Mart. PG 46,<br />

737 D-740 A.<br />

57 Nella tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> tale dossier furono decisivi i Discorsi in <strong>di</strong>fesa delle immagini<br />

sacre <strong>di</strong> Giovanni Damasceno, che raccoglieva le principali testimonianze<br />

patristiche.<br />

58 M. SANSTERRE, La parole, le texte et l’image selon les auteurs byzantins des<br />

époques iconoclaste et posticonoclaste, in Testo e immagine nell’Alto Me<strong>di</strong>oevo cit.,<br />

197-243; G. CAVALLO, Testo e immagine: una frontiera ambigua, in Ivi, 31-64.<br />

59 Aug., In Iohann. 24, 2.<br />

60 Aug, De Consensus Evang. I,10.


L’immagine acheropita <strong>di</strong> S. Stefano<br />

A che scopo <strong>di</strong>re <strong>di</strong> più e parlarvi più a lungo? Leggete i quattro versi che<br />

ho fatto scrivere nella cappella (in cella), leggeteli, teneteli a mente, custo<strong>di</strong>teli<br />

in cuore. Infatti abbiamo voluto che fossero scritti lì proprio perché legga<br />

chi vuole, legga quando vuole. Perché tutti possano ricordarli, sono pochi,<br />

perché tutti possano leggerli, sono in vista <strong>di</strong> tutti. Non c’è bisogno <strong>di</strong><br />

consultare un co<strong>di</strong>ce: quella cappella (camera) è il vostro co<strong>di</strong>ce 61 .<br />

Le affermazioni <strong>di</strong> Gregorio Magno contenute nelle due Lettere a<br />

Sereno sull’utilità delle immagini per gli illetterati solo apparentemente<br />

sciolgono ogni riserva riguardo alle immagini come sostituti della parola<br />

scritta o ascoltata. Queste Lettere, interpretate troppo spesso alla luce<br />

del concetto me<strong>di</strong>evale della Biblia pauperum, cioè nel senso <strong>di</strong><br />

un’autonomia delle immagini rispetto ad altri me<strong>di</strong>a, si ra<strong>di</strong>cherebbero<br />

invece nel pensiero <strong>di</strong> Agostino, aperto all’importanza delle immagini e<br />

della visualità in generale, però sorvegliate e guidate dalla lettura e dall’ascolto<br />

della pre<strong>di</strong>cazione e dall’approfon<strong>di</strong>mento teologico 62 .<br />

Il De miraculis <strong>di</strong> cui ci stiamo occupando non è mai citato nel dossier<br />

tutto sommato limitato <strong>di</strong> testi occidentali; il rilievo tutto particolare<br />

rivestito in esso dall’autonomia del vedere, sullo sfondo <strong>di</strong> un’attenzione<br />

più generale riguardo alla ‘visualità’, rispetto al leggere o all’ascoltare,<br />

risalta ancora <strong>di</strong> più se collocato sullo sfondo proprio della<br />

riflessione agostiniana da cui, come abbiamo visto, per altri versi <strong>di</strong>pende.<br />

Tale <strong>di</strong>fferenza lascia trapelare nella cerchia <strong>di</strong> Agostino – all’interno<br />

dunque dello stesso clero – un punto <strong>di</strong> vista alternativo con cui<br />

egli si trova a confrontarsi e a reagire.<br />

61 Aug., Serm. 319,8; su questa iscrizione: G. SANDERS, Augustin et le message<br />

épigraphique: le Tétrastique en l’honneur de saint Etienne, Augustiniana 40 (1990)<br />

95-124.<br />

62 Greg. Mag., Ep. 9. 11; C. CHAZELLE, Pictures, Books and the Illitterate.<br />

Gregory ’s Letters to Serenus of Marseille, Word and Images 6 (1990), 138-153.<br />

199


LE ICONE ACHEROPITE A NICEA II E NEI LIBRI CAROLINI<br />

ESTER BRUNET<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>um Generale Marcianum, Venezia<br />

La crisi dell’iconoclasmo a Bisanzio rappresenta, a detta <strong>di</strong> Marie-<br />

Josè Mondzain, il contesto, drammatico e potente, in cui si definisce<br />

l’orizzonte <strong>di</strong> senso religioso e politico dell’immagine artificiale; il frangente<br />

culturale in cui si genera il pensiero sull’immagine <strong>di</strong> cui noi siamo<br />

oggi gli ere<strong>di</strong> 1 . La dottrina delle icone definitasi in quegli anni si avvale,<br />

apparentemente senza remore, dei racconti relativi alle immagini<br />

acheropite. Per un iconofilo, l’impronta miracolosa del volto <strong>di</strong> Cristo<br />

su panno è il segno <strong>di</strong> un consenso della <strong>di</strong>vinità all’immagine; prova<br />

della reale umanità <strong>di</strong> Cristo e insieme Rivelazione del <strong>di</strong>vino, essa rappresenta<br />

il ritratto prototipico che sigilla la legittimità incarnazionale<br />

dell’icona.<br />

Le testimonianze testuali sulle acheropite, in particolare sul Mandylion,<br />

la Camuliana e la Veronica, furono raccolte più <strong>di</strong> un secolo fa da<br />

Ernst von Dobschütz, in un libro che rimane imprescin<strong>di</strong>bile per le ricerche<br />

in questo settore 2 . Tuttavia ancora oggi, le attestazioni scritte<br />

dell’interesse suscitato dalle acheropite durante la prima stagione dell’iconoclasmo,<br />

oggetto del presente saggio, vengono prevalentemente impiegate<br />

dagli stu<strong>di</strong>osi per dare ragione della storia e dell’aspetto materiale<br />

<strong>di</strong> queste immagini 3 . Minor attenzione è stata data al ruolo gioca-<br />

1 M-J. MONDZAIN, Immagine Icona Economia. Le origini bizantine dell’immaginario<br />

contemporaneo, trad. it., Milano 2006 (e<strong>di</strong>z. orig. Image, icône, économie,<br />

Paris 1996).<br />

2 Cfr. E. VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen<br />

Legende, Leipzig 1899, <strong>di</strong> cui è stata recentemente tradotta la seconda e<strong>di</strong>zione<br />

del 1909, purtroppo priva del ponderoso apparato documentario (Immagini <strong>di</strong><br />

Cristo, Milano 2006).<br />

3 Si vedano a questo proposito le giuste considerazioni <strong>di</strong> A. CAMERON, The<br />

Mandylion and Byzantine Iconoclasm, in H. L. KESSLER - G. WOLF (edd.), The<br />

Holy Face and the Paradox of Representation, Bologna 1998, 37.<br />

201


202<br />

Ester Brunet<br />

to dallo statuto <strong>di</strong> ‘acheropitia’ nel pensiero iconodulo, e ancor meno a<br />

quelle che potremmo definire le ‘ragioni <strong>degli</strong> altri’, ossia alla visione<br />

che delle immagini acheropite avevano gli iconoclasti e chi non con<strong>di</strong>videva,<br />

con Roma e con l’Oriente fedele al culto delle icone, la linea teologica<br />

esplicitata, sul piano magisteriale, dal Concilio Niceno del 787.<br />

Mi riferisco, come in<strong>di</strong>cato nel titolo, non tanto alla voce dei vinti<br />

orientali (trà<strong>di</strong>ta a noi, per quanto riguarda la prima stagione della crisi<br />

iconoclastica, praticamente soltanto nell’Horos della Sinodo <strong>di</strong> Hieria<br />

[754], conservato negli Acta niceni, e in alcuni stralci delle Questioni<br />

dell’imperatore Costantino V 4 ), ma a quello straor<strong>di</strong>nario trattato occidentale<br />

sulle immagini che sono i Libri Carolini, prodotti su iniziativa<br />

<strong>di</strong> Carlo Magno nei primissimi anni Novanta del IX secolo in aperta<br />

polemica con la teoria iconologica nicena. Un confronto tra quest’opera<br />

e gli Acta del Settimo Concilio Ecumenico, che si faccia particolarmente<br />

attento ai tempi e ai mo<strong>di</strong> della trasmissione dei testi, permette<br />

<strong>di</strong> delineare per opposita il ruolo delle acheropite, nell’ottica <strong>di</strong> una definizione<br />

teorica tanto della legittimità quanto della <strong>di</strong>mensione cultuale<br />

delle immagini tout court.<br />

I padri del Niceno II fanno più <strong>di</strong> un riferimento alle immagini ‘non<br />

fatte da mano d’uomo’. Durante la quinta sessione, tutta de<strong>di</strong>cata alla<br />

lettura dei testimonia a favore del culto delle icone, vengono ricordate,<br />

in or<strong>di</strong>ne, le immagini camuliana ed edessena. Il <strong>di</strong>acono e cubiculario<br />

Cosma denuncia infatti la manomissione <strong>di</strong> un libro, forse un sinassario,<br />

da cui gli iconoclasti, definiti «falsificatori della verità» e «incen<strong>di</strong>ari<br />

dei libri», hanno strappato i fogli dove si parlava dell’acheropita<br />

<strong>di</strong> Camulia 5 . Secondo la leggenda <strong>di</strong> origine più antica, riportata dallo<br />

Pseudo-Zaccaria retore 6 , tale immagine era miracolosamente apparsa<br />

4 Definizione del Concilio <strong>di</strong> Hieria (754): J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum<br />

nova et amplissima collectio, XIII, Florentiae 1767, 205-328. Alcuni excerpta dell’opera<br />

dell’imperatore Costantino V si sono conservati negli Antirretici <strong>di</strong><br />

Niceforo (cfr. H. HENNEPHOF [ed.], Textus Byzantinos ad iconomachiam pertinentes<br />

in usum academicum, Leiden 1969, 52-57).<br />

5 MANSI, cit., 189: «Abbiamo trovato questo libro nella sagrestia delle pure<br />

chiese del patriarcato, contenente le lotte <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi martiri. Hanno strappato i fo -<br />

gli, dove si parlava dell’immagine acheropita <strong>di</strong> Camuliana. Ecco, lo faccio ve -<br />

dere a tutti» (trad.: P. G. DI DOMENICO [ed.], Atti del Concilio Niceno II Ecu -<br />

menico Settimo, Città del Vaticano 2004, II, 268).<br />

6 Ecclesiastica historia, a. 569. Il brano è riportato in C. MANGO, The Art of<br />

the Byzantine Empire 312-1453. Sources and Documents, Toronto 1986, 114-115.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

in una fontana nel giar<strong>di</strong>no <strong>di</strong> una donna pagana; estratta da quest’ultima<br />

ancora asciutta, l’icona si autoriproduce sulla veste della donna,<br />

rivelando in questo modo la propria provenienza celeste.<br />

L’acheropita <strong>di</strong> Camulia è completamente assorbita nelle <strong>di</strong>namiche<br />

della lotta dei testi; vi si allude per <strong>di</strong>mostrare l’acribia con cui gli iconoclasti,<br />

a detta dei padri conciliari, hanno cercato <strong>di</strong> cancellare i testimonia<br />

della venerazione delle immagini. Cosma prende il libro e lo mostra<br />

all’assemblea: non serve riba<strong>di</strong>re la storia dell’origine dell’immagine,<br />

che evidentemente egli ritiene tutti conoscano, o dare ragione delle<br />

sue implicazioni dottrinali: il gesto d’ostensione dello scritto violato accusa<br />

più <strong>di</strong> molte parole. Non credo anzi sia un caso che le due più illustri<br />

acheropite d’Oriente siano trattate entrambe e previamente sotto il<br />

profilo filologico: infatti, anche del passo tratto dalla Storia Ecclesiastica<br />

<strong>di</strong> Evagrio, il quale testimonia il potere miracoloso del Mandylion <strong>di</strong><br />

Edessa, il concilio specifica che è stato cancellato da un co<strong>di</strong>ce, che <strong>di</strong><br />

nuovo si mostra al consesso; salvo poi questa volta dare lettura del testimonium<br />

«da un libro <strong>di</strong> eguale forma» portato da uno dei partecipanti<br />

7 . Non sappiamo molto del modo con cui gli iconoclasti contrastassero<br />

il ricorso dottrinale all’acheropitia, ma non si può non concordare,<br />

almeno parzialmente, con Robin Cormack, che giu<strong>di</strong>ca l’appello<br />

al Mandylion da parte del partito iconodulo una strategia non priva <strong>di</strong><br />

rischi 8 ; non solo per i pericoli che comportava il far passare come avìta<br />

una tra<strong>di</strong>zione relativamente recente, ma anche per una irriducibile tensione<br />

dottrinale, che i racconti d’origine delle acheropite non sciolgono<br />

ed anzi mantengono intatta nella sua delicatissima complessità, insistendo<br />

molto, come è noto, sull’impotenza del pittore a <strong>di</strong>pingere il volto<br />

del Signore. Dal loro punto <strong>di</strong> vista, gli iconoclasti si saranno ben<br />

chiesti se il fallimento <strong>di</strong> Anania, inviato dal re <strong>di</strong> Edessa Abgar per ritrarre<br />

il taumaturgo ma, come racconta Giovanni Damasceno, impossibilitato<br />

a farlo «a causa del lucente splendore» 9 che emanava dal volto<br />

del Signore, non sottendesse la ra<strong>di</strong>cale impossibilità per l’uomo <strong>di</strong><br />

creare immagini del Verbo incarnato. Possiamo supporre dal tono <strong>di</strong><br />

alcune argomentazioni iconodule che per un avversario delle immagini<br />

7<br />

MANSI, cit., 189.<br />

8 Cfr. R. CORMACK, Painting the Soul. Icons, Death Masks, and Shrouds, Lon -<br />

don 1997, 114 ss.<br />

9 V. FAZZO (ed.), Giovanni Damasceno. La fede ortodossa, Milano-Roma 1998,<br />

285.<br />

203


204<br />

Ester Brunet<br />

non fosse poi così necessario negare l’esistenza o delegittimare lo status<br />

del Mandylion: il quale, considerato un unicum, impronta <strong>di</strong>retta e reliquia<br />

della <strong>di</strong>vino-umanità dell’«incomprensibile Verbo <strong>di</strong> Dio» 10 , sarebbe<br />

stato concesso da Dio all’uomo per mostrare, appunto, quanto<br />

qualsiasi altra rappresentazione artificiale fosse non soltanto indegna e<br />

superflua, ma anche impossibile dal punto <strong>di</strong> vista cristologico 11 . A ragion<br />

veduta la Mondzain ha pertanto definito lo statuto che l’immagine<br />

acheropita doveva avere agli occhi <strong>degli</strong> iconoclasti come <strong>di</strong> «impronta<br />

<strong>di</strong>retta e sacra del corpo, segno e memoriale dell’umanità <strong>di</strong>vina<br />

che vieta ogni altra rappresentazione» 12 . Il fatto è che le leggende, essendo<br />

historiae <strong>di</strong> un processo spirituale <strong>di</strong> produzione <strong>di</strong> immagine che ripete<br />

o si rifà al processo <strong>di</strong> Incarnazione stesso, non potevano non trattenerne<br />

anche tutta la paradossalità – <strong>di</strong> Infinito che si fa finito, <strong>di</strong><br />

Creatore che si fa creatura. Esiste una tensione interna, uno scarto logico<br />

incolmabile in questi tentativi leggendari <strong>di</strong> raccontare la messa in<br />

10 Definizione del Concilio iconoclastico <strong>di</strong> Santa Sofia (815): cfr. P. J. A -<br />

LEXAN DER (ed.), The Iconoclastic Council of St. Sophia and its Definition,<br />

Dumbarton Oaks Papers 7 (1953) 58-66; trad. D. MENOZZI, La Chiesa e le immagini.<br />

I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, trad. it.,<br />

Milano 1995 (e<strong>di</strong>z. orig. Les images. L’Église et les arts visuels, Paris 1991), 114.<br />

11 Niceforo ad esempio sembra rispondere a una precisa mozione <strong>degli</strong> iconoclasti<br />

quando <strong>di</strong>chiara «non vano» il processo <strong>di</strong> figurazione ritrattistica rispetto<br />

all’impronta lasciata da Cristo sul panno. Infatti Niceforo non nega il proprium<br />

<strong>di</strong> immagine al tempo stesso naturale e non consustanziale al modello dell’acheropita,<br />

che la <strong>di</strong>stingue dalle immagini artificiali. E tuttavia egli sposta l’accento<br />

su un’altra natura, quella del modello; perché secondo il teologo la domanda corretta<br />

da porsi in questo caso non è tanto se l’icona sia legittima o meno in quanto<br />

immagine non naturale, ma se era naturale in Cristo il farsi ritrarre. Infatti, «se<br />

Cristo era tale <strong>di</strong> sua natura, è vano accusare il pittore o lo spettatore: in effetti,<br />

non <strong>di</strong>pende dal <strong>di</strong>segno o dalla visione, e ancor meno dal pittore o dal riguardante,<br />

se così è stato, ma da colui che si è offerto alla visione e all’iscrizione, al<br />

quale tali proprietà appartengono naturalmente». La causa dell’icona non è la<br />

pittura, ma il fatto che Dio si sia reso visibile incarnandosi. Qui è chiaro che<br />

Niceforo si rifà all’acheropita per legittimare la rappresentazione <strong>di</strong> Cristo, contro<br />

l’idea iconoclastica che il Mandylion giustifichi l’esclusione della mano dell’uomo<br />

dalla produzione iconica. Cfr. NICEPHORUS PATRIARCHA, Antirrhetici, I,<br />

24 (Patrologia Graeca 100, 260); trad. francese: M.-J. MONDZAIN-BAUDINET,<br />

Nicephore, Discours contre les iconoclastes, Paris 1989, 97-98, cfr. specialmente n.<br />

88, 90.<br />

12 MONDZAIN, cit., 248 (corsivo mio).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

immagine <strong>di</strong> Dio, che li espone perennemente al rischio <strong>di</strong> una lettura<br />

separante <strong>di</strong> teologia e antropologia 13 .<br />

Va ricordato peraltro che il partito iconoclastico orientale, <strong>di</strong>versamente<br />

da quanto ancora spesso si legge, non si era mai <strong>di</strong>chiarato contrario<br />

<strong>di</strong> principio al culto dei santi (che <strong>di</strong>fende anzi esplicitamente in<br />

un anatematisma <strong>di</strong> Hieria 14 ) e delle reliquie, anche se è plausibile che<br />

queste ultime non siano rimaste immuni alla poderosa opera <strong>di</strong> ridefinizione<br />

dei confini del sacro attuata con particolare rigore dal Copronimo<br />

15 . Agli occhi <strong>degli</strong> iconoclasti meno integralisti, il Mandylion poteva<br />

subire un confortante ‘depotenziamento’ se valutato soltanto come<br />

reliquia <strong>di</strong> contatto, al pari <strong>di</strong> altre legate alla vicenda terrena <strong>di</strong> Gesù<br />

(la lancia <strong>di</strong> Longino, i frammenti della vera croce…) e non per le sue<br />

implicazioni iconologiche <strong>di</strong> para<strong>di</strong>gma istitutivo e «mito <strong>di</strong> fondazione»<br />

16 dell’immagine cristiana. Avremo modo <strong>di</strong> vedere come anche i Libri<br />

Carolini, pur non con<strong>di</strong>videndo le istanze della cristologia iconoclastica<br />

orientale, <strong>di</strong>stingueranno la potenziale venerabilità delle immagini<br />

miracolose dal culto delle icone in quanto tali.<br />

Ecco quin<strong>di</strong> che presentare i testimonia sulle acheropite entro il cono<br />

13 Va da sé che nelle leggende il fallimento del pittore non significa la negazione<br />

dell’arte dell’icona, ma l’estrinsecazione, sul piano narrativo, del primato <strong>di</strong><br />

Dio, la cui iniziativa non contrad<strong>di</strong>ce la libertà dell’uomo, ma ne è il presupposto:<br />

soltanto in questo modo l’arte può pretendere <strong>di</strong> simboleggiare il mistero, <strong>di</strong><br />

per sé inafferrabile, della <strong>di</strong>vino-umanità <strong>di</strong> Cristo, che sfuggirebbe ai soli sensi<br />

umani senza la previa con<strong>di</strong>scendenza <strong>di</strong>vina. Cfr. C. SCHÖNBORN, Les icônes qui<br />

ne sont pas faites de main d’homme, in Image et Signification. Rencontres de l’École<br />

du Louvre, Paris 1983, 214-215. Ho trattato più approfon<strong>di</strong>tamente questi temi<br />

in un saggio recentemente pubblicato: E. BRUNET, L’immagine dell’Uomo non<br />

fatta da mani d’uomo. Statuto dell’immagine e dell’arte nei racconti d’origine delle<br />

acheropite, Marcianum 6/2 (2010) 207-237.<br />

14 MANSI, cit., 348.<br />

15 Sulla generale tolleranza <strong>degli</strong> iconoclasti nei confronti delle reliquie, cfr. in<br />

special modo E. THUNØ, Image and relic. Me<strong>di</strong>ating the <strong>Sacre</strong>d in Early Me<strong>di</strong>eval<br />

Rome, Roma 2002, 151, con bibliografia precedente; P. BOULHOL, Claude de<br />

Turin: un évêque iconoclaste dans l’Occident carolingien; étude suivie de l’é<strong>di</strong>tion<br />

du Commentaire sur Josué, Paris 2002, 117 e 134-135.<br />

16 Con questa definizione è efficacemente titolata la sezione de<strong>di</strong>cata alle<br />

immagini acheropite in E. BURGIO (ed.), Racconti <strong>di</strong> immagini. Trentotto capitoli<br />

sui poteri della rappresentazione nel Me<strong>di</strong>oevo occidentale, Alessandria 2001. Sulle<br />

acheropite come ‘mito fondatore’ delle icone cristiane, cfr. il saggio <strong>di</strong> Graziano<br />

Lingua contenuto in questo volume.<br />

205


206<br />

Ester Brunet<br />

prospettico della manomissione dei testi significava <strong>di</strong>mostrare in via<br />

preliminare e nel modo più lampante quanto esse fossero un argomento<br />

temuto dagli iconoclasti: lo strappo dei fogli, le pagine erase, erano,<br />

agli occhi dei padri niceni, la prova che gli stessi iconoclasti considerassero<br />

le immagini non fatte da mano d’uomo un’arma particolarmente<br />

pericolosa dell’arsenale dei testi iconoduli.<br />

Entro qui solo brevemente nella questione relativa all’autenticità del<br />

passo <strong>di</strong> Evagrio, considerato da alcuni stu<strong>di</strong>osi, come Julian Chrysostomides<br />

e Han Drijvers, un’interpolazione successiva rispetto al testo<br />

originale della fine del VI secolo; interpolazione che risalirebbe proprio<br />

al VII Concilio Ecumenico 17 . Questa tesi è stata fortemente contrastata<br />

da Michael Whitby nella sua traduzione commentata dell’opera <strong>di</strong><br />

Evagrio, con argomentazioni circa la struttura del testo che risultano a<br />

mio parere convincenti 18 . Si potrebbe anzi considerare l’analisi <strong>di</strong><br />

Whitby l’ennesimo monito contro gli eccessi <strong>di</strong> una certa critica interpolazionistica,<br />

che nel caso specifico della crisi iconoclastica tende a<br />

sospingere qualsiasi riferimento a immagini miracolose e particolarmente<br />

venerate alla tarda fase della controversia. Ad ogni modo, va<br />

senz’altro rilevata la curiosa lacunosità <strong>di</strong> citazioni del passo <strong>di</strong> Evagrio<br />

fino alla lezione nicena che, come ha evidenziato Averil Cameron, è la<br />

prima e unica a noi nota che precede quella della Bibliotheca foziana 19 .<br />

Ma se consideriamo le argomentazioni «filologiche» e «paleografiche»<br />

del concilio – per <strong>di</strong>rla con von Harnack 20 – per ciò che probabilmente<br />

esse sono, ossia un’abile strategia retorica pur tuttavia fondata su elementi<br />

reali, occorre ammettere la possibilità che l’interesse rivolto da<br />

entrambi i partiti alla acheropita edessena abbia portato alla ribalta –<br />

forse durante i travagliati mesi tra la convocazione del concilio a Co-<br />

17 Cfr. J. CHRYSOSTOMIDES, An Investigation Concerning the Authenticity of the<br />

Letter of the Three Patriarchs, in ID. - J. A. MUNITIZ - E. HARVALIA-CROOK - C.<br />

DENDRINOS (edd.), The Letter of the Three Patriarchs to Emperor Theophilos and<br />

Related Texts, Camberley 1997, XXIV-XXVIII; H. J. W. DRIJVERS, The Image of<br />

Edessa in the Syriac Tra<strong>di</strong>tion, in KESSLER - WOLF, cit., 18 ss.<br />

18 Cfr. M. WHITBY (ed.), The Ecclesiastical History of Evagrius Scholasticus,<br />

Liverpool 2000, 323-326 (Appen<strong>di</strong>x II. The Image of Edessa). Lo status quaestionis<br />

è ben riassunto in M. GUSCIN, The Image of Edessa, Leiden 2009, 170-174.<br />

19 Cfr. CAMERON, The Mandylion cit., 42.<br />

20 A. VON HARNACK, History of Dogma, trad. ingl., IV, New York 1961, 261<br />

(e<strong>di</strong>z. orig. Lehrbuch der Dogmengeschichte, Freiburg 1886-1890).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

stantinopoli e il suo forzato <strong>di</strong>rottamento a Nicea – dei testi fino ad allora<br />

poco impiegati nel <strong>di</strong>battito; tanto più se apportatori <strong>di</strong> notizie<br />

originali come Evagrio, che rispetto alle <strong>di</strong>verse leggende sull’origine<br />

dell’immagine edessena, è quello forse più congeniale ai toni e agli<br />

orientamenti della raccolta <strong>di</strong> auctoritates conciliare, particolarmente<br />

attenta a mettere in luce l’attività miracolosa delle icone. Evagrio infatti<br />

dà per scontate le nozioni relative all’origine e all’arrivo dell’immagine<br />

a Edessa 21 , concentrandosi sul racconto <strong>di</strong> come l’acheropita avesse<br />

miracolosamente salvato la città dall’attacco persiano del 544, permettendo<br />

agli edesseni asse<strong>di</strong>ati l’impresa altrimenti impossibile <strong>di</strong> accendere<br />

un fuoco che bruciasse le travi <strong>di</strong> un rinterro nemico.<br />

Ora, secondo la teologia neoplatonica <strong>di</strong> Giovanni Damasceno è<br />

proprio <strong>di</strong> tutte le icone partecipare in un certo qual modo della dynamis,<br />

dell’‘energia’ del prototipo; non perché portatrici in sé della <strong>di</strong>vinità<br />

(altrimenti venerarle sarebbe idolatria), ma perché transitus a colui<br />

che vi è rappresentato. Esiste un legame effettivo ed efficace tra prototipo<br />

e immagine, che conferisce a quest’ultima un ruolo me<strong>di</strong>atore. Gli<br />

atti del Concilio Niceno II, pur rimarcando sempre la <strong>di</strong>fferenza ontologica<br />

tra icona e modello («i cristiani affermano che l’immagine è unita<br />

all’archetipo secondo il solo nome e non secondo l’essenza» 22 ), riportano<br />

<strong>di</strong>versi racconti agiografici in cui le immagini <strong>di</strong> Cristo, della<br />

Vergine o <strong>di</strong> un santo sono presentate come il mezzo tramite cui si esercita<br />

la loro potenza, quasi ne fungessero da sostituto in terra. I legati<br />

dei patriarchi d’Oriente e il concilio riconoscono espressamente alle immagini<br />

il potere <strong>di</strong> compiere miracoli («È stato <strong>di</strong>mostrato […] che le<br />

immagini dei santi sono miracolose e operano guarigioni»; «Gloria a<br />

te, o Dio che operi miracoli per mezzo delle sacre immagini» 23 ). L’acheropita,<br />

immagine-transitus e insieme reliquia <strong>di</strong> contatto, è oggetto eccezionale<br />

<strong>di</strong> presentificazione del sacro, ma è al tempo stesso esemplare<br />

21 Evagrio si limita a una breve descrizione dell’icona edessena: «immagine<br />

fatta da Dio, che mani umane non avevano <strong>di</strong>pinto, e che Cristo aveva mandato<br />

ad Abgar perché desiderava vederla» (Historia ecclesiastica, IV, 27; trad. F.<br />

CARCIONE, Evagrio <strong>di</strong> Epifania. Storia Ecclesiastica, Milano-Roma 1998, 233).<br />

22 MANSI, cit., 252 (trad. DI DOMENICO, cit., II, 304).<br />

23 MANSI, cit., 24 e 60 (trad.: DI DOMENICO, cit., II, 170 e 191). Cfr. M. F.<br />

AUZÉPY, L’iconodoulie: défense de l’image ou de la dévotion à l’image?, in F.<br />

BOESPFLUG - N. LOSSKY (edd.), Nicée 2., 787-1987: douze siècles d’images religieuses,<br />

Paris 1987, 157-165 (= L’histoire des iconoclastes, Paris 2007, 37-44).<br />

207


208<br />

Ester Brunet<br />

della funzione che ogni icona acheropita assolve in quanto figurazione<br />

simbolica.<br />

Da un punto <strong>di</strong> vista complementare, il miracolo è un dato iconologico,<br />

il mezzo tramite cui le immagini spiegano innanzitutto sé stesse,<br />

dando prova della loro cre<strong>di</strong>bilità <strong>di</strong> raffigurazione autentica 24 . Essendo<br />

il Mandylion l’immagine autentica per eccellenza, la salvaguar<strong>di</strong>a<br />

miracolosa della città, che nel racconto <strong>di</strong> Evagrio avviene soltanto dopo<br />

l’atto <strong>di</strong> venerazione da parte <strong>degli</strong> abitanti, è la prova della sua cre<strong>di</strong>bilità<br />

e il segno che Dio gratifica questo tipo <strong>di</strong> relazione cultuale:<br />

Evagrio stesso commenta <strong>di</strong>cendo che «la potenza <strong>di</strong>vina era scesa in<br />

soccorso della fede <strong>di</strong> quanti avevano agito in quel modo» 25 , <strong>di</strong> quelli<br />

cioè che avevano portato l’immagine sul luogo dell’attacco e l’avevano<br />

aspersa con acqua benedetta. I padri niceni compiono lo sforzo, che si<br />

manifesta a partire dall’oculata scelta dei testi, <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare nel<br />

Mandylion non tanto le caratteristiche che ne determinano l’eccezionalità<br />

rispetto ai manufatti, ma quelle che, al contrario, ne definiscono l’esemplarità:<br />

ecco quin<strong>di</strong> che l’origine miracolosa passa in secondo piano<br />

rispetto all’attività miracolosa dell’immagine, per quanto i due<br />

aspetti siano connessi, ed anzi il primo determini il secondo. Il racconto<br />

<strong>di</strong> Evagrio, inoltre, è congeniale perché, come si è visto, fa emergere<br />

con particolare evidenza il contesto cultuale del miracolo.<br />

Se per immagini acheropite inten<strong>di</strong>amo non soltanto quelle generate<br />

per contatto <strong>di</strong>retto con il volto o il corpo del Signore, ma anche le immagini<br />

apparse per ‘ierofania’ (la stessa Camuliana appartiene a questo<br />

gruppo), occorre completare la lista nicena con il racconto dell’origine<br />

<strong>di</strong> una croce d’oro e d’argento, che secondo quanto riporta una leggenda<br />

martiriale, fu miracolosamente decorata con le immagini del volto<br />

<strong>di</strong> Cristo e <strong>di</strong> due arcangeli. Si tratta <strong>di</strong> un brano tratto dalla Passione<br />

<strong>di</strong> san Procopio, <strong>di</strong> cui Stefano, segretario e referendario, dà lettura nel<br />

corso della quarta sessione conciliare 26 . La storia è ambientata durante<br />

la persecuzione <strong>di</strong> Diocleziano. Un giovane pagano <strong>di</strong> Gerusalemme<br />

chiamato Neania (sarà in seguito rinominato Procopio) viene inviato<br />

dall’imperatore ad Alessandria a capo <strong>di</strong> una missione militare contro i<br />

24 Cfr. H. BELTING, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale<br />

al tardo Me<strong>di</strong>oevo, trad. it., Roma 2001 (e<strong>di</strong>z. orig. Bild und Kult, München<br />

1991), 72.<br />

25 CARCIONE, cit., 233.<br />

26 MANSI, cit., 89 (trad. DI DOMENICO, cit., II, 207).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

cristiani. Durante il viaggio egli ha una visione della croce che lo converte;<br />

giunto a Scitopoli, in Palestina, chiede a un orefice <strong>di</strong> fabbricarne<br />

una che somigli a quella che gli è apparsa. Quando viene terminata e<br />

innalzata, appaiono su <strong>di</strong> essa tre immagini con relative iscrizioni in<br />

ebraico: sopra la figura dell’estremità superiore si trova scritto «Emmanuele»,<br />

ai termini del braccio orizzontale «Michele» e «Gabriele» 27 .<br />

L’artigiano non si capacita dell’accaduto, e tenta <strong>di</strong> cancellare le immagini,<br />

ma sarà punito da Dio con la paralisi della mano. Egli agisce non<br />

per zelo iconoclastico, ma perché, come lui stesso <strong>di</strong>rà giustificandosi<br />

<strong>di</strong> fronte a Neania, «non sa chi siano questi, e quale sia l’iscrizione»; infatti,<br />

<strong>di</strong>ce, le immagini «sono sorte» dopo che il suo lavoro è terminato,<br />

lasciandolo sgomento. Neania, capito che nella croce c’è una potenza,<br />

«la venera» (proskuvhsa"). In seguito, armato della croce miracolosa,<br />

metterà in fuga un esercito nemico 28 .<br />

Il racconto legato all’apparizione della croce fa parte <strong>di</strong> una versione<br />

della Passio <strong>di</strong>versa e accresciuta rispetto all’originale racconto riportato<br />

da Eusebio. Formatasi in età post-giustinianea 29 , questa versione,<br />

che si ispira chiaramente alla visione <strong>di</strong> Costantino, presenta delle<br />

caratteristiche tipiche dei racconti <strong>di</strong> immagini miracolose, ma anche<br />

alcuni interessanti tratti originali, spia delle molte varianti con cui nel<br />

corso del VI secolo si va componendo la tematizzazione letteraria dell’immagine<br />

non fatta da mani d’uomo. Sottolineo soltanto due aspetti.<br />

Innanzitutto, il rapporto tra opera <strong>di</strong> Dio e opera dell’uomo: anche in<br />

questo caso, l’immagine del volto <strong>di</strong> Cristo – e qui anche delle potenze<br />

angeliche – viene dall’iniziativa <strong>di</strong>vina, ma il manufactum (la croce) e il<br />

‘Deo factum’ (immagini e iscrizioni) coesistono in rapporto non esclusivo.<br />

La leggenda sotto questo aspetto sembrerebbe richiamare altre immagini<br />

celebri, <strong>di</strong> cui tuttavia abbiamo testimonianze parecchio più tarde,<br />

che si <strong>di</strong>fferenziano dal Mandylion e dalla Camuliana per un’idea<br />

molto più ibrida <strong>di</strong> acheropitia. È noto ad esempio quanto narra l’anonima<br />

relatio me<strong>di</strong>evale (XII sec.) dell’origine del Volto Santo <strong>di</strong> Lucca,<br />

secondo cui Nicodemo, dopo aver scolpito da sé il corpo del Crocifisso,<br />

si sarebbe trovato impossibilitato a riprodurne il volto, che fu portato a<br />

27 Cfr. H. DELEHAYE, Les légendes grecques des saints militaires, Paris 1909, 82<br />

ss., dove è riportata anche la contestata tesi del de Rossi che, sulla base dell’iconografia,<br />

scioglieva la formula epigrafica CMG in C(risto;") M(icah;l) G(abrihvl).<br />

28 Cfr. MANGO, cit., 144-145.<br />

29 Cfr. DELEHAYE, cit.<br />

209


210<br />

Ester Brunet<br />

termine soltanto in seguito per un intervento notturno <strong>degli</strong> angeli 30 .<br />

Similmente, l’antica icona del Salvatore al Laterano, definita acheropita<br />

nel Liber Pontificalis (metà dell’VIII sec.) 31 , secondo una leggenda più<br />

tarda fu <strong>di</strong>segnata da san Luca e <strong>di</strong>pinta dagli angeli 32 .<br />

Secondo aspetto: il devoto che <strong>di</strong> fronte all’icona compie i gesti co<strong>di</strong>ficati<br />

del culto lo fa, come già ho detto, nella convinzione che essa sia<br />

una porta <strong>di</strong> comunicazione con il mondo celeste; alla base c’è l’idea,<br />

desumibile dai molti testimoni letterari presentati al concilio e recepita,<br />

sul piano teologico, dalla teoria della partecipazione del Damasceno, <strong>di</strong><br />

un’ampia identificazione dell’icona con il proprio modello. Qui come<br />

in altri racconti, l’immagine mostra <strong>di</strong> essere ‘vicaria’ in terra del prototipo<br />

nella maniera più evidente, ossia a contrario: <strong>di</strong> fronte a una gestualità<br />

empia, il prototipo ‘presentificato’ dall’icona attacca il sacrilego,<br />

pur se, come nel nostro caso, inconsapevole della propria empietà 33 .<br />

Agire contro o a favore dell’acheropita, come del resto contro o a favore<br />

<strong>di</strong> tutte le sacre icone, significa agire contro o a favore del prototipo<br />

che essa ‘significa’; pertanto si può <strong>di</strong>re che «vedere l’icona miracolosa<br />

del Signore è vedere il Signore» 34 . Sotto questa luce si comprende come<br />

alcuni teologi iconoduli non esitino a parlare dell’apparizione della Camuliana<br />

in termini <strong>di</strong> vera e propria cristofania, paragonando Camulia<br />

a Betlemme, l’acheropita alla nascita del Verbo incarnato 35 . A Camulia<br />

come nel caso, ancorché soltanto letterario, della croce <strong>di</strong> Procopio,<br />

siamo <strong>di</strong> fronte a vere e proprie «immagini viventi» 36 .<br />

30 Cfr. G. SCHNÜRER, Über Alter und Herkunft des Volto Santo von Lucca,<br />

Römische Quartalschrift 34 (1926) 271-306.<br />

31 Cfr. L. DUCHESNE (ed.), Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire,<br />

I, Paris 1886 (rist. 1955), 442.<br />

32 Cfr. G. WOLF, Dal volto all’immagine, in ID. - G. MORELLO (ed.), Il volto <strong>di</strong><br />

Cristo, Milano 2000, 19.<br />

33 Si confronti sotto questo aspetto il racconto della croce <strong>di</strong> Procopio con la<br />

storia, riferita al concilio da Costantino <strong>di</strong> Costanza, <strong>di</strong> un saraceno <strong>di</strong> Gabala<br />

(cfr. MANSI, cit., 80), il cui occhio salta fuori dall’orbita dopo aver colpito l’occhio<br />

<strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> una icona. Cfr. AUZÉPY, L’iconodoulie, défense de l’image ou de la<br />

dévotion à l’image?, in BOESPFLUG - LOSSKY, cit., 161.<br />

34 SCHÖNBORN, cit., 210.<br />

35 Cfr. la versione della leggenda della Camuliana tra<strong>di</strong>zionalmente attribuita<br />

a Gregorio <strong>di</strong> Nissa ma sicuramente più tarda (VII-VIII sec.), contenuta in un<br />

sinassario (testo greco in NIKODĒMOS AGIOREITĒS, Synaxaristes, II, Athina 1929,<br />

307-308). Cfr. SCHÖNBORN, cit., 211-212; E. KITZINGER, The Cult of Images in<br />

the Age before Iconoclasm, Dumbarton Oaks Papers 8 (1954) 143-144.<br />

36 Cfr. G. DIDI-HUBERMAN, Face, proche, lointain: l’empreinte du visage et le


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

Questi dunque i riferimenti alle immagini acheropite negli atti <strong>di</strong> Nicea<br />

II. Una copia <strong>degli</strong> atti, approvati dai legati papali presenti al concilio,<br />

giunse quasi imme<strong>di</strong>atamente a Roma e fu recepita da papa Adriano<br />

I. Non entro qui nel merito della trasmissione <strong>degli</strong> atti a Carlo Magno,<br />

vicenda ancora in parte misteriosa. L’ipotesi più probabile è che il<br />

pontefice avesse voluto inviare a Carlo, tra il 788 e il 790, una traduzione<br />

latina, alla quale il sovrano reagì con inaspettata in<strong>di</strong>gnazione, criticando<br />

apertamente la teologia delle immagini confessata dal concilio 37 .<br />

Certamente a Carlo premeva più <strong>di</strong> ogni altra cosa il riconoscimento<br />

della propria autorità. In una fase <strong>di</strong> forte ascesa politica, non era nei<br />

suoi piani l’accettazione passiva <strong>di</strong> un concilio imperiale dell’Oriente,<br />

celebratosi senza previ accor<strong>di</strong> con il sovrano franco e la partecipazione<br />

<strong>di</strong> vescovi delle sue <strong>di</strong>ocesi. L’opposizione <strong>di</strong> Carlo portò alla redazione<br />

dei cosiddetti Libri Carolini 38 e alla convocazione della Sinodo <strong>di</strong><br />

Francoforte (794) 39 , che nelle intenzioni dei padri partecipanti (tra i<br />

quali una legazione papale) doveva essere un concilio ‘universale’ alternativo<br />

a Nicea II 40 . Il movente politico ed ecclesiologico, ovvero la protesta<br />

nei confronti <strong>di</strong> una concezione <strong>di</strong> Chiesa tutta centrata sull’asse<br />

lieu pour apparaître, in KESSLER - WOLF, cit., 95-108; ID., Devant l’image, Paris<br />

1990, 237-239.<br />

37 Questa ipotesi, la più convincente tra quelle sinora prodotte, si scontra tuttavia<br />

con la strana assenza <strong>di</strong> documentazione: non si conserva alcuna lettera<br />

accompagnatoria, e nessun accenno all’invio <strong>degli</strong> Acta si rinviene nella corrispondenza<br />

franco-papale del Codex Carolinus. Per questo punto controverso, si<br />

veda da ultimo T. F. X. NOBLE, Images, Iconoclasm, and the Carolingians,<br />

Philadelphia 2009, 160-161.<br />

38 Cfr. A. FREEMAN - P. MEYVAERT (edd.), Libri Carolini (sive Opus Caroli<br />

regis contra synodum), Monumenta Germaniae Historica, Concilia, 2, suppl. 1,<br />

Hannover 1998, 97-558.<br />

39 Cfr. A. WERMINGHOFF (ed.), Concilia Aevi Karolini (742-842). Pars 1,<br />

Monumenta Germaniae Historica, Concilia, 2,1, Hannoverae - Lipsiae 1906,<br />

110-171.<br />

40 Sul significato del termine ‘ecumenico’ e sulle prerogative ecclesiali del<br />

sovrano rinvenibili negli atti, cfr. specialmente V. PERI, L’ecumenicità <strong>di</strong> un concilio<br />

come processo storico nella vita della Chiesa, Annuarium Historiae Conci lio -<br />

rum 20 (1988) 231-232 (= Da Oriente e da Occidente. Le Chiese cristiane<br />

dall’Impero Romano all’Europa moderna. I: Sui Concili Ecumenici, Roma-Padova<br />

2002, 479-481); R. SAVIGNI, Giona d’Orléans. Una ecclesiologia carolingia,<br />

Bologna 1989, 118-120.<br />

211


212<br />

Ester Brunet<br />

Roma-Bisanzio, agì <strong>di</strong> pari passo con quello teologico e pastorale: i vescovi<br />

franchi parleranno sempre del culto delle icone come <strong>di</strong> una pratica<br />

orientale loro estranea 41 .<br />

Scritti da Teodulfo d’Orléans, i Libri Carolini rappresentano la confutazione<br />

argomentata delle decisioni <strong>di</strong> Nicea; non si può <strong>di</strong>re che essi<br />

rispecchino le posizioni <strong>di</strong> tutta la Chiesa franca, ma certamente quelle<br />

della sua corrente più influente e vicina al re. La documentazione relativa<br />

ai colloqui 42 <strong>di</strong> Parigi dell’825, in cui Ludovico il Pio e una ristretta<br />

cerchia <strong>di</strong> presuli si confrontarono sulla questione delle immagini, riferisce<br />

che un incontro simile si era già verificato per volere <strong>di</strong> Carlo Magno,<br />

al cui cospetto si dette lettura del materiale prodotto per sottoporlo<br />

alla sua approvazione. È molto probabile che questo consesso ebbe<br />

luogo a Regensburg nel 790 e fu l’occasione <strong>di</strong> un lavoro preliminare <strong>di</strong><br />

selezione e <strong>di</strong>scussione dei punti più controversi <strong>degli</strong> atti niceni, in vista<br />

<strong>di</strong> un rigetto formale delle definizioni della sinodo. La più antica attestazione<br />

manoscritta dei Libri Carolini (Vaticanus Latinus 7207) reca<br />

una serie <strong>di</strong> note tironiane (catholice, sapienter, acute, bene…) che sembrerebbero<br />

registrare questa prima fase, ossia la reazione <strong>di</strong> Carlo e<br />

«dei suoi» 43 al momento della lettura dei capitoli. Secondo la convincente<br />

cronologia <strong>di</strong> Ann Freeman 44 , i Libri Carolini furono scritti da<br />

Teodulfo nel corso del 792 sulla base del materiale selezionato a Regen-<br />

41 In più punti i Libri accusano le pratiche iconodule <strong>di</strong> essere una novità,<br />

senza vere ra<strong>di</strong>cazioni nella Scrittura e nella patristica. Cfr. a questo proposito<br />

M.F. AUZÉPY, Francfort et Nicée II, in R. BERNDT (ed.), Das Frankfurter Konzil<br />

von 794. Kristallisationspunkt karolingischer Kultur, Frankfurt am Main 1997,<br />

279-300 (= L’histoire, cit., 285-302).<br />

42 Uso il termine ‘colloqui’ e non più ‘sinodo’ sulla base della convincente<br />

analisi <strong>di</strong> NOBLE, Images cit., 263-268. In effetti, la documentazione connessa a<br />

vario titolo con questa assemblea <strong>di</strong> vescovi (lettere, Libellus, Epitome: cfr. A.<br />

WERMINGHOFF [ed.], Concilia Aevi Karolini (742-842). Pars 2, Monumenta<br />

Germaniae Historica, Concilia, 2,2, Hannoverae - Lipsiae 1908, 473-551) non<br />

parla mai <strong>di</strong> una sinodo o <strong>di</strong> un concilio, ma <strong>di</strong> un conventus. È probabile che si<br />

sia trattato dell’incontro a scopo consultivo <strong>di</strong> un ristretto gruppo <strong>di</strong> vescovi selezionati<br />

personalmente da Ludovico il Pio.<br />

43 Coram se suisque (WERMINGHOFF, Concilia, cit., 2, 481).<br />

44 Cfr. A. FREEMAN, Carolingian Orthodoxy and the Fate of the Libri Carolini,<br />

Viator 16 (1985) 105 (= Theodulf of Orléans: Charlemagne’s spokesman against<br />

the Second Council of Nicaea, Aldershot 2003, nr. III, 105).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

sburg; questo stesso materiale fu utilizzato anche per la composizione<br />

del cosiddetto Capitulare adversus synodum, un documento che non si<br />

conserva, ma che doveva essere una versione preliminare e molto più<br />

succinta dei Libri, contenente una prefazione e un commento ai capitoli<br />

più controversi del Concilio Niceno II. Come testimonia il Libellus <strong>di</strong><br />

Parigi 45 , il Capitulare fu inviato a Roma tramite Angilberto <strong>di</strong> Centula<br />

per sottoporlo al giu<strong>di</strong>zio del papa. Nel frattempo continuava la stesura<br />

dei Libri che, completati e corretti l’anno seguente, furono presentati<br />

a Carlo per l’approvazione poco prima che giungesse a corte la risposta<br />

<strong>di</strong> papa Adriano al Capitulare (autunno 793).<br />

Il Vaticanus Latinus 7207 è prezioso non solo perché conserva le note<br />

del re, ma anche perché rivela con eccezionale evidenza la presenza<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>verse fasi redazionali. La Freeman ha infatti <strong>di</strong>mostrato che il co<strong>di</strong>ce<br />

era il manoscritto <strong>di</strong> lavoro <strong>di</strong> Teodulfo, vagliato in seguito da almeno<br />

tre mani <strong>di</strong>verse, che intervennero apponendo numerose correzioni:<br />

Walther Schmandt ne ha contate circa 3.400 46 , particolarmente<br />

concentrate nel II libro, <strong>di</strong> cui si decise una drastica riduzione della lunghezza<br />

47 . Le correzioni sono tuttavia <strong>di</strong>ffuse in tutta l’opera, e coinvolgono<br />

anche le parti de<strong>di</strong>cate al Mandylion <strong>di</strong> Edessa, come tra poco si<br />

avrà modo <strong>di</strong> appurare. Purtroppo il co<strong>di</strong>ce vaticano è privo della prefazione,<br />

della parte iniziale del III libro e <strong>di</strong> tutto il IV libro. La ricostruzione<br />

dell’opera nel suo complesso è stata fatta ricorrendo ad un altro<br />

antico co<strong>di</strong>ce (Parigi, Bibl. de l’Arsenal 664), preparato su richiesta <strong>di</strong><br />

Incmaro <strong>di</strong> Reims nel corso <strong>degli</strong> anni Sessanta del IX sec. e conservatosi<br />

fortunatamente intatto. È chiaro tuttavia che per le parti mancanti<br />

del co<strong>di</strong>ce vaticano la ricostruzione del testo originale <strong>di</strong> Teodulfo si fa<br />

<strong>di</strong>fficile se non in molti punti impossibile.<br />

45 Cfr. WERMINGHOFF, Concilia, cit., 2, 481.<br />

46 Cfr. W. SCHMANDT, <strong>Stu<strong>di</strong></strong>en zu den Libri Carolini, Mainz 1966, 6.<br />

47 Il motivi per cui si procedette a una tale riduzione, che, secondo i calcoli <strong>di</strong><br />

Freeman, portò all’eliminazione <strong>di</strong> una trentina <strong>di</strong> folia (cfr. A. FREEMAN - P.<br />

MEYVAERT, Opus Caroli regis contra synodum: An Introduction, in FREEMAN,<br />

Theodulf cit., 56), non sono stati chiariti. È possibile che la responsabilità <strong>di</strong> questa<br />

decisione sia da attribuire a un teologo <strong>di</strong> corte particolarmente influente, che<br />

ritenne poco efficace l’ampiezza delle argomentazioni <strong>di</strong> Teodulfo. Si procedette<br />

pertanto all’eliminazione delle parti ritenute ripetitive, e alla sintesi <strong>di</strong> quelle che<br />

indugiavano in <strong>di</strong>ssertazioni retoriche (ivi, 59). Per una ricostruzione ipotetica<br />

dello schema originario del trattato, si veda K. MITALAITÉ, Philosophie et Théolo -<br />

gie de l’image dans les Libri Carolini, Paris 2007, 455-468.<br />

213


214<br />

Ester Brunet<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>osi come Jean Wirth, Kristina Mitalaité e, più recentemente,<br />

Thomas Noble 48 , hanno <strong>di</strong>mostrato, contro un’avversa tra<strong>di</strong>zione storiografica<br />

49 , la complessità e l’originalità della teoria dell’immagine<br />

espressa in questo scritto. Non dovendo contrapporsi, a <strong>di</strong>fferenza <strong>degli</strong><br />

iconoclasti orientali, a pratiche iconodule <strong>di</strong>ffuse, i Libri Carolini<br />

non condannano le immagini perché dannose o devianti, ma le ritengono<br />

essenzialmente inutili alla fede. Essi riprendono, ma con molte cautele,<br />

il leitmotiv gregoriano dell’efficacia pedagogica delle immagini, soprattutto<br />

delle historiae <strong>di</strong> impianto narrativo, ma dubitano che l’arte<br />

sia realmente in grado <strong>di</strong> veicolare il kerigma, l’essenza del messaggio<br />

cristiano. Secondo i Libri Carolini, l’immagine, non avendo alcuna funzione<br />

liturgica o devozionale, ha soltanto un uso estetico, <strong>di</strong> ornamentum<br />

dei luoghi <strong>di</strong> culto; al massimo, può sollecitare nel fedele la memoria<br />

delle opere <strong>di</strong> Cristo e dei santi, ma rimane pur sempre il simulacro<br />

dell’aspetto esteriore <strong>di</strong> un oggetto, dei lineamenti fisici <strong>di</strong> un uomo, a<br />

cui l’agostinismo <strong>di</strong> Teodulfo non riconosceva alcun significato sul piano<br />

della fede e del culto ‘in spirito e verità’. In tale contesto teologico<br />

<strong>di</strong> netta contrapposizione tra spirito e materia, il <strong>di</strong>sagio, <strong>di</strong>rei quasi<br />

l’irritazione, che prova Teodulfo <strong>di</strong> fronte all’argumentum delle immagini<br />

miracolose, in senso sia attivo – immagini che fanno miracoli – sia<br />

passivo – immagini che appaiono in circostanze miracolose – è palpabile.<br />

In risposta a Nicea II, i Libri Carolini de<strong>di</strong>cano un capitolo intero<br />

(IV, 10) alla contestazione dell’autorità dell’immagine <strong>di</strong> Edessa.<br />

Prima <strong>di</strong> affrontare l’analisi del testo, occorre però fare un passo in<strong>di</strong>etro,<br />

e chiedersi se i teologi <strong>di</strong> Carlo fossero già a conoscenza dei racconti<br />

d’origine del Mandylion edesseno, o se li classificassero tra le «pe-<br />

48 Cfr. J. WIRTH, L’image mé<strong>di</strong>évale: naissance et développements (VIe - XVe siècles),<br />

Paris 1989, 129-166; MITALAITÉ, cit.; NOBLE, Image cit., 158-243; ID.,<br />

Kings, Clergy and Dogma: the Settlement of Doctrinal Disputes in the Carolingian<br />

World, in S. BAXTER - C. KARKOV - J. NELSON - D. PELTERET (edd.), Early<br />

Me<strong>di</strong>eval <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es in Memory of Patrick Wormald, Farnham 2009, 237-252.<br />

49 Cfr. specialmente S. GERO, The Libri Carolini and the Image Controversy,<br />

Greek Orthodox Theological Review 18 (1973) 11; G. DUMEIGE, Nicée II<br />

(Histoire des Conciles Oecuméniques 4), Paris 1978, 155; con alcuni recentissimi<br />

epi goni: cfr. C. RUDOLPH, La resistenza all’arte nell’Occidente, in E. CASTEL -<br />

NUOVO - G. SERGI (ed.), Arti e storia nel Me<strong>di</strong>oevo. III: Del vedere. Pubblici, for me,<br />

funzioni, <strong>Torino</strong> 2004, 70, che definisce i Libri «un testo tanto mal in<strong>di</strong>rizzato<br />

nella sua foga quanto non autorevole».


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

ricolose novità» 50 <strong>di</strong> cui tacciavano il Concilio Niceno <strong>di</strong> essere ap -<br />

portatore. Senz’altro Teodulfo è a conoscenza dell’esistenza <strong>di</strong> immagini<br />

pretese acheropite, ‘semiacheropite’ o degne <strong>di</strong> particolare onore per<br />

le circostanze straor<strong>di</strong>narie in cui furono create. Si pensi ad esempio<br />

alla fama che a quel tempo godevano i racconti dei miracoli legati alla<br />

statua <strong>di</strong> Paneade; o al resoconto del viaggio in Palestina e a Costantinopoli<br />

<strong>di</strong> Arculfo, vescovo della Gallia, raccolto intorno al 680 dal -<br />

l’abate irlandese Adamnano <strong>di</strong> Iona nel suo De locis sanctis, ove si narra,<br />

oltre che <strong>di</strong> alcuni miracoli operati da immagini, anche <strong>di</strong> una veste<br />

tessuta da Maria recante i ritratti <strong>di</strong> Gesù e <strong>degli</strong> apostoli 51 . Senz’altro i<br />

teologi <strong>di</strong> Carlo non erano all’oscuro del particolare status che col<br />

tempo avevano assunto alcune antiche icone <strong>di</strong> Roma, prima fra tutte<br />

l’acheropita del Salvatore custo<strong>di</strong>ta nel sancta sanctorum del Late ra -<br />

no.<br />

Ma quali sono le fonti dei Libri Carolini sulla leggenda d’origine<br />

dell’acheropita <strong>di</strong> Edessa? Communis opinio tra gli storici è che i Libri<br />

tra<strong>di</strong>scano l’assenza <strong>di</strong> rapporti con il dossier patristico greco relativo<br />

alla controversia iconoclastica, ad eccezione <strong>di</strong> ciò che era stato reso loro<br />

accessibile tramite la versione latina <strong>degli</strong> Acta del VII Concilio Ecumenico<br />

52 . Tuttavia una lettura attenta dei testi fa trapelare l’esistenza <strong>di</strong><br />

almeno due fonti alternative, che nel caso dell’acheropita <strong>di</strong> Edessa si<br />

rivelano un nodo fondamentale per comprenderne la ricezione letteraria<br />

in ambito franco. La ricostruzione non è semplice, per via dei molti<br />

documenti andati perduti, e tuttavia non è impossibile.<br />

Sappiamo che nel 769 papa Stefano III convoca un concilio, nel tentativo<br />

<strong>di</strong> riallacciare l’alleanza franco-papale all’alba della deposizione<br />

dell’antipapa Costantino. Il consesso è certamente una delle più rilevanti<br />

assemblee conciliari italiane dell’VIII secolo, per l’alto numero <strong>di</strong><br />

presuli partecipanti, tra cui, a detta del Liber Pontificalis, una nutrita e<br />

50 Cfr. Libri Carolini: præfatio libri quarti (p. 485).<br />

51 L’opera è molto <strong>di</strong>scussa, tanto che oggi si dubita persino dell’esistenza <strong>di</strong><br />

Arculfo. Forse Adamnano venne a conoscenza dei racconti che riporta tramite i<br />

suoi contatti con la Northumbria, e quin<strong>di</strong> con Roma, o con la sede vescovile <strong>di</strong><br />

Canterbury, retta in quegli anni dal greco Teodoro <strong>di</strong> Tarso. Cfr. a questo proposito<br />

N. DELIERNEUX, Arculfe «sanctus episcopus gente Gallus»: une existence<br />

historique <strong>di</strong>scutable, Révue Belge de Philologie et d’Histoire 75 (1997) 911-941.<br />

52 Cfr. GERO, The Libri cit.; ID., Byzantine Iconoclasm During the Reign of<br />

Constantine V with Particular Attention to the Oriental Sources, Louvain 1977, 81.<br />

215


216<br />

Ester Brunet<br />

teologicamente attrezzata rappresentanza franca 53 . Gli atti 54 ci sono<br />

giunti in stato gravemente lacunoso, ma sufficiente per rivelarci che i<br />

vescovi riuniti si pronunciarono a favore del culto delle icone. A questo<br />

proposito, vennero letti vari testimonia favorevoli alle immagini, tra cui<br />

anche il testo, tradotto in latino, <strong>di</strong> una syno<strong>di</strong>ca fidei, che non si conserva,<br />

in<strong>di</strong>rizzata al predecessore <strong>di</strong> Stefano papa Paolo I e giunta a Roma<br />

il 12 agosto del 767 per il tramite <strong>di</strong> un presbitero inviato dal patriarca<br />

<strong>di</strong> Gerusalemme Teodoro. Nel documento, che era una risposta<br />

a precedenti epistole <strong>di</strong> quel pontefice, i patriarchi <strong>di</strong> Gerusalemme, <strong>di</strong><br />

Antiochia e <strong>di</strong> Alessandria, nonché numerosi altri vescovi <strong>di</strong> Chiese<br />

orientali, facevano solenne professione <strong>di</strong> fede ortodossa, e confermavano<br />

la loro piena adesione al culto delle immagini sacre. La sino<strong>di</strong>ca<br />

fu un documento chiave dell’argomentazione iconofila della Sinodo<br />

Lateranense del 769. La si lesse con molta solennità, e fu presentata come<br />

una sorta <strong>di</strong> ‘preambolo’ dottrinale alla definizione dogmatica <strong>di</strong><br />

quel concilio, che stabiliva un nesso necessario tra l’icona e l’economia<br />

incarnazionale.<br />

Ciò è testimoniato dalla lunga epistola che nel 793 papa Adriano I<br />

in<strong>di</strong>rizzava a Carlo Magno 55 , dopo che il sovrano, nell’attesa della stesura<br />

definitiva dei Libri Carolini, aveva fatto pervenire a Roma il Capi-<br />

53 I partecipanti franchi erano do<strong>di</strong>ci: cinque dai territori <strong>di</strong> Carlo e sette da<br />

quelli <strong>di</strong> Carlomanno; trentanove invece il numero dei vescovi italiani. Sul concilio,<br />

cfr. J. HERRIN, The Formation of Christendom, London 1989, 393-396; M.<br />

MCCORMICK, Textes, images et iconoclasme dans le cadre des relations entre<br />

Byzance et l’Occident carolingien, in Testo e immagine nell’Alto Me<strong>di</strong>oevo,<br />

Spoleto 1994, 131-133.<br />

54 Cfr. WERMINGHOFF, Concilia, cit., 1, 74-92.<br />

55 «Iste Thedorus patriarcha Ierosolimorum, cum ceteris praecipuis patriarchis,<br />

videlicet Cosmas Alexandriae Theodorus alius Anthiochie, dudum predecessori<br />

nostro sanctae recordationis quondam Paulo pape, emiserunt propriam<br />

eorum recte fidei syno<strong>di</strong>cam, in qua et de sacratissimis imaginibus subtili narratione,<br />

qualiter una cum nostra sancta catholica et apostolica universale Romana<br />

ecclesia ipsi vel ceteri orientales orthodoxi episcopi et christianus populus sentiunt,<br />

et in earundem sanctorum imaginum veneratione sincero mentis effectum<br />

ferventes in fide existunt, studuerunt intimandum. Quam syno<strong>di</strong>cam in Latino<br />

interpretatam eloquio predecessor noster quondam sanctissimus dominus Ste -<br />

phanus papa in suo concilio, quod et ipse pro sacris imaginibus una cum <strong>di</strong>versis<br />

episcopis partibus Francie seu Italie fecit, suscipientes ac relegentes, placuerunt<br />

tam de <strong>di</strong>versis sanctorum patrum testimoniis, quam de symbolo fidei, ubi facti<br />

sunt» (K. HAMPE [ed.], Epistolae selectae pontificum Romanorum Carolo Magno


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

tulare de imaginibus. Va innanzitutto sottolineato il fatto, <strong>di</strong> per sé interessante,<br />

che il Capitulare conteneva un riferimento polemico al<br />

Mandylion <strong>di</strong> Edessa, verso cui il papa istruisce una replica; ciò <strong>di</strong>mostra<br />

che l’acheropita era stata selezionata e inserita tra gli argumenta<br />

più controversi, che si volevano sottoporre all’attenzione del vescovo <strong>di</strong><br />

Roma. È proprio il locus della lettera adrianea che risponde alle critiche<br />

mosse dai Franchi nei confronti dell’immagine edessena, a conservare<br />

una preziosa citazione <strong>degli</strong> atti del Concilio Lateranense del 769,<br />

che sarebbe andata altrimenti perduta. Come in un gioco <strong>di</strong> scatole cinesi,<br />

il passo del Concilio Lateranense citato da Adriano cita a sua volta<br />

un breve stralcio della sino<strong>di</strong>ca orientale (de syno<strong>di</strong>ca trium patriarcharum,<br />

videlicet Cosme Alexandrie, Theodori Anthiochie et Theodori<br />

Hierosolime, quam in prae<strong>di</strong>cto concilio relecta) 56 . Il passo che Adriano<br />

riproduce rappresenta chiaramente la chiusa della lettera, dove soltanto<br />

si nomina l’acheropita <strong>di</strong> Edessa assieme agli alia aut similia sanctorum<br />

patrum, quelle autorità <strong>di</strong> chiara fama que et vos melius co -<br />

gnoscitis 57 . Tuttavia, le parole usate dal redattore (Restat mihi tempus<br />

enarran<strong>di</strong> de Abgaro Edeseno) potrebbero alludere alla presenza, per<br />

nulla inconsueta negli scambi epistolari del tempo 58 , <strong>di</strong> un allegato <strong>di</strong><br />

fonti patristiche e agiografiche, cui l’epistola rinvierebbe per una narrazione<br />

più puntuale delle origini dell’acheropita edessena.<br />

et Ludowico Pio regnantibus scriptae, in Epistolae karolini aevi. Tomus III, Monu -<br />

menta Gernaniae Historica, Epistolae, 5, Berolini 1899, 11).<br />

56 Ivi, 23.<br />

57 Di seguito il testo completo della citazione: «Restat mihi tempus enarran<strong>di</strong><br />

de Abgaro Edeseno, et alia aut similia sanctorum patrum, que et vos melius<br />

cognoscitis. Persevera, sanctissime pater, persevera in eadem bona fide, corroboratus<br />

super petram fidei, sicut deiloqua vox affata est apostolo Petro: “Tu es<br />

Petrus, et super hanc petram ae<strong>di</strong>ficabo ecclesiam meam; et porte inferi non<br />

praevalebunt adversus eam”. Vere non prevalebunt ei in saeculum saeculi.<br />

Cognitum facimus te sanctissimum dominum ego humilis Theodorus patriarcha<br />

Ierosolimorum, et hii, qui nobiscum sunt, Cosmas patriarcha Alexandriae et<br />

Theodorus patriarcha Antiochie ipsum intellegimus et cre<strong>di</strong>mus, sicut et vestra<br />

sanctitas patet» (ibid.).<br />

58 Si veda a questo proposito P. CONTE, Regesto delle lettere dei papi del secolo<br />

VIII. Saggi, Milano 1984, 75-76, che sottolinea l’importanza dei florilegi e dei<br />

documenti allegati alle epistole per la formazione, tra VII e VIII sec., <strong>di</strong> un dossier<br />

teologico comune a Roma e a Costantinopoli. Lo stu<strong>di</strong>oso cita opportunamente<br />

il caso del patriarca costantinopolitano Sergio, che nel 633-634 aggiorna papa<br />

Onorio sulla questione monoenergita inviandogli tutte le sue lettere in materia.<br />

217


218<br />

Ester Brunet<br />

Il testo della sino<strong>di</strong>ca non era nuovo al clero vicino a Pipino. Sappiamo<br />

infatti da una lettera conservata nel Codex Carolinus che nell’agosto<br />

del 767, quin<strong>di</strong> due anni prima la convocazione del Concilio Romano,<br />

l’antipapa Costantino non soltanto l’aveva fatto leggere pubblicamente,<br />

ma l’aveva pure inviato, all’inizio <strong>di</strong> settembre, al re dei Franchi,<br />

in versione greca e latina, come allegato a un’epistola che aveva lo<br />

scopo <strong>di</strong> giustificare la propria assunzione al soglio <strong>di</strong> Pietro 59 . Costantino<br />

<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> accludere copia della sino<strong>di</strong>ca <strong>di</strong> Teodoro affinché il sovrano<br />

conosca lo zelo per le sacre immagini che anima tutto l’Oriente. Come<br />

ha <strong>di</strong>mostrato Michael McCormick in un brillante e documentato<br />

intervento spoletino 60 , soltanto qualche mese prima si era avuto a Gentilly<br />

un incontro tra Pipino, rappresentanti del clero e della nobiltà<br />

franca e ambasciatori venuti da Roma e Costantinopoli, in cui si era <strong>di</strong>scusso<br />

tra l’altro della questione delle immagini. È possibile che con<br />

l’invio della sino<strong>di</strong>ca il papa avesse voluto riba<strong>di</strong>re a Pipino come le<br />

chiese d’Oriente, con la sola eccezione <strong>di</strong> Costantinopoli, fossero in linea<br />

con Roma nella comune <strong>di</strong>fesa dell’ortodossia. Molto probabilmente<br />

la prima conoscenza dell’esistenza del Mandylion in Occidente, a<br />

Roma come in Gallia, avvenne tra l’agosto e il settembre del 767 grazie<br />

a questa epistola.<br />

Durante il consesso del 769, papa Stefano avrà modo <strong>di</strong> sviluppare il<br />

<strong>di</strong>scorso intorno al Mandylion attingendo anche a un’altra fonte, come<br />

lui stesso specifica, ossia le relazioni, scritte o orali (relatione fidelium<br />

de partibus orientis advenientibus) in cui i pellegrini riportavano il racconto<br />

della straor<strong>di</strong>naria reliquia del volto del Signore, avendola potuta<br />

vedere con i propri occhi o avendone sentito parlare a Costantinopo-<br />

59 «Itaque innotescimus excellentiae vestrae, quod duodecimo <strong>di</strong>e preteriti<br />

Augusti mensis nunc transactae quintae in<strong>di</strong>ctionis coniunxit ad nos a sancta<br />

civitate quidam religiosus presbiter Constantinus nomine, deferens syno<strong>di</strong>cam<br />

fidei missam a Theodoro Hierusolimitano patriarcha ad nomen predecessoris<br />

nostri, domni Pauli papae; in quo et reliqui patriarchae, id est Alexandrinus et<br />

Antiocenus, et plurimi metropolitani episcopi orientalium partium visi sunt concordasse.<br />

Eamque cum magna lætitia suscipientes atque amplectentes, in populo<br />

in ambone relegi fecimus. Cuius exemplar in Latino et Greco eloquio vestrae<br />

excellentiae <strong>di</strong>reximus, ut agnoscatis, qualis fervor sanctarum imaginum orientalibus<br />

partibus cunctis christianis inminet» (W. GUNDLACH [ed.], Codex Caro linus,<br />

in Epistolae merowingici et karolini aevi. Tomus I, Monumenta Ger ma niae<br />

Historica, Epistolae, 3, Berolini 1892, 652-653).<br />

60 Cfr. MCCORMICK, cit., 113-131.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

li, dove già l’icona era famosa 61 . Edessa era <strong>di</strong>ventata importante meta<br />

<strong>di</strong> pellegrinaggi, sia da Oriente che da Occidente, sin dalla fine del IV<br />

sec. 62 ; la sua forza attrattiva andava in parallelo con la crescente <strong>di</strong>ffusione<br />

della leggenda <strong>di</strong> uno scambio epistolare tra Cristo e Abgar, tramandata<br />

per primo da Eusebio <strong>di</strong> Cesarea 63 e conosciuta in Occidente<br />

nella versione <strong>di</strong> Rufino. La risposta scritta <strong>di</strong> Cristo al toparca <strong>di</strong><br />

Edessa, un documento considerato autografo e preziosamente conservato,<br />

si ra<strong>di</strong>ca in una tra<strong>di</strong>zione testuale ben più antica <strong>di</strong> quella del<br />

Mandylion, ma non se ne <strong>di</strong>stacca, perché il racconto d’origine dell’immagine<br />

acheropita s’innesta nel medesimo complesso <strong>di</strong> leggende incentrate<br />

intorno alla figura <strong>di</strong> Abgar: sia la lettera che l’immagine risultano<br />

infine inviate da Gesù al re per rispondere alle sue richieste ed<br />

esau<strong>di</strong>re il suo desiderio <strong>di</strong> vedere il Signore 64 . Oltre alla lettera scritta<br />

da Gesù e all’acheropita, entrambe <strong>oggetti</strong> concreti e venerati – la seconda<br />

a partire almeno dalla fine del VI sec. 65 – la città conservava il<br />

prezioso corpo <strong>di</strong> Tommaso, apostolo dell’Asia. Non stupisce quin<strong>di</strong><br />

che più <strong>di</strong> un pellegrino <strong>di</strong> ritorno a Roma raccontasse <strong>di</strong> aver visitato<br />

Edessa, come aveva fatto a suo tempo Egeria, e che queste relazioni <strong>di</strong><br />

viaggio circolassero e fossero particolarmente apprezzate, se lo stesso<br />

papa Stefano ci tiene a specificare: sepe cognovimus.<br />

Il pontefice introduce il racconto dell’origine del Mandylion con una<br />

puntualizzazione sul rapporto tra Sacra Scrittura e Tra<strong>di</strong>zione della<br />

Chiesa: la Tra<strong>di</strong>zione non si accosta semplicemente alle Scritture, come<br />

fosse un canale alternativo della Rivelazione, ma le contiene. Infatti, <strong>di</strong>-<br />

61 Cfr. DOBSCHÜTZ, Immagini cit., 137-138.<br />

62 Cfr. J.B. SEGAL, Edessa: the Blessed City, Oxford 1970, 172-175.<br />

63 Cfr. EUSEBIUS CAESARIENSIS, Historia ecclesiastica, I, 13.<br />

64 Per un’analisi comparata <strong>di</strong> lettera e immagine, cfr. A. LIDOV, Holy Place,<br />

Holy Script, Holy Gate. Revealing the Edessa Para<strong>di</strong>gm in Christian Imagery, in<br />

A. R. CALDERONI MASETTI - C. DOFOUR BOZZO - G. WOLF (edd.), Intorno al<br />

Sacro Volto. Genova, Bisanzio e il Me<strong>di</strong>terraneo (secoli XI-XIV), Venezia 2007,<br />

145-162.<br />

65 Averil Cameron ha <strong>di</strong>mostrato che vi è coincidenza cronologica tra le prime<br />

attestazioni scritte dell’esistenza <strong>di</strong> immagini non fatte da mano d’uomo, ascrivibili<br />

tutte alla fine del VI secolo, e il venire alla luce dell’icona edessena. Cfr. A.<br />

CAMERON, The History of the Image of Edessa: the Telling of a Story, Harvard<br />

Ukrainian <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 7 (1983) 80-94 ( = C. MANGO - O. PRITSAK [edd.], Okeanos.<br />

Essays Presented to Ihor Ševčenko on his Sixtieth Birthday by his Colleagues and<br />

Students).<br />

219


220<br />

Ester Brunet<br />

ce il papa citando Giovanni, in quibus [scil. relationibus] licet evangelium<br />

sileat, tamen nequaquam in omnibus incre<strong>di</strong>bile fidei meritum, ex hoc adfirmantem<br />

de ipso evangelista: «Multa quidem et alia signa fecit Iesus,<br />

que non sunt scripta in libro hoc». Il racconto dell’immagine edessena è<br />

considerato quin<strong>di</strong> parte della Tra<strong>di</strong>zione non scritta, e non<strong>di</strong>meno altrettanto<br />

autorevole, ancor <strong>di</strong> più per il fatto che risale al Gesù storico.<br />

Tale inquadramento del Mandylion è molto significativo. Alludendo al<br />

fatto che i Vangeli non esauriscono tutta la vicenda storica <strong>di</strong> Cristo,<br />

ma che sono una componente (certo la più importante, ma non l’unica)<br />

del depositum fidei, papa Stefano schiude per la prima volta ai vescovi<br />

franchi presenti al consesso del 769 un argomento che non era affatto<br />

nuovo ai <strong>di</strong>fensori delle immagini sacre. Nella messa a punto della <strong>di</strong>mensione<br />

cultuale dell’immagine, che gli autori iconofili fino a Nicea II<br />

erano in gran parte orientati a fondare sui temi portanti della Tra<strong>di</strong>zione<br />

(Paradosis) e dell’autorità 66 , stupirebbe in effetti non trovare una seria<br />

istruzione del rapporto Scrittura/Tra<strong>di</strong>zione. Prima <strong>di</strong> papa Stefano,<br />

già Giovanni Damasceno aveva fatto un affondo in tal senso, proprio<br />

in <strong>di</strong>fesa della cre<strong>di</strong>bilità del racconto del Mandylion. Nel De fide<br />

orthodoxa il monaco teologo organizza con perizia il <strong>di</strong>scorso; il racconto<br />

dell’origine dell’acheropita <strong>di</strong> Edessa conclude una più articolata<br />

riflessione teorica sulle icone, e viene fatto seguire da una considerazione,<br />

scritturalmente fondata, sull’autorità della Tra<strong>di</strong>zione:<br />

È tramandata anche una narrazione su come Abgar, re <strong>di</strong> Edessa, inviò un<br />

pittore che raffigurasse l’immagine del Signore ma il pittore non poté a<br />

causa del lucente splendore del volto: il Signore stesso, avendo<br />

posto un mantello sul suo volto <strong>di</strong>vino e vivificante, vi impresse la sua immagine,<br />

e così inviò ad Abgar che desiderava. Che gli apostoli<br />

hanno tramandato moltissime cose anche senza scriverle, lo <strong>di</strong>ce Paolo,<br />

l’Apostolo delle genti: «Perciò, fratelli, state sal<strong>di</strong> e mantenete le tra<strong>di</strong>zioni<br />

che avete appreso così dalla nostra parola come dalla nostra lettera»; e ai<br />

Corinti: «Vi lodo, o fratelli, perché in ogni cosa vi ricordate <strong>di</strong> me, e conservate<br />

le tra<strong>di</strong>zioni così come ve le ho tramandate» 67 .<br />

66 Sul topos dell’antichità del culto delle icone e sulla teologia nicena come<br />

ritorno alla Tra<strong>di</strong>zione, cfr. in special modo AUZÉPY, Francfort cit., 291-293;<br />

EAD., La Tra<strong>di</strong>tion comme arme du pouvoir: l’exemple de la querelle iconoclaste, in<br />

J.-M. SANSTERRE (ed.), L’autorité du passé dans les sociétés mé<strong>di</strong>évales, Roma<br />

2004, 79-92 (= L’histoire, cit., 105-115).<br />

67 IOHANNES DAMASCENUS, De fide orthodoxa, IV, 16 (trad. FAZZO, cit., 285).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

In questo modo il ricorso alla Tra<strong>di</strong>zione – ovvero a tutto ciò che è<br />

stato trasmesso dagli Apostoli oltre le Scritture, ma che con queste è<br />

congruente e da queste riceve il suo senso più autentico – vale per dare<br />

concretezza veritativa sia alla trasmissione del racconto d’origine dell’immagine<br />

edessena sia, più in generale, al culto delle icone, cioè al<br />

contenuto <strong>di</strong> tutto il capitolo. Non è certamente il Damasceno – che<br />

peraltro si appella a Paolo e non a Giovanni – la fonte <strong>di</strong>retta <strong>di</strong> papa<br />

Stefano, ma il confronto risulta senz’altro utile per mettere a fuoco le<br />

strategie e i topoi argomentativi <strong>degli</strong> iconoduli circa le immagini acheropite.<br />

Ritorniamo agli atti della Sinodo Lateranense. Secondo quanto <strong>di</strong>ce<br />

papa Stefano – sulla base, come egli stesso specifica, <strong>di</strong> ciò che ha appreso<br />

dai pellegrini – la vicenda si svolse nei giorni precedenti la Passione,<br />

presumibilmente a Gerusalemme. Qui Gesù fu contattato dal re <strong>di</strong><br />

Edessa Abgar, che desiderava convincerlo a venire da lui per vederlo <strong>di</strong><br />

persona e godere dei suoi poteri taumaturgici, sottraendolo al contempo<br />

alle persecuzioni dei giudei. Gesù non accon<strong>di</strong>scese alla richiesta, ma inviò<br />

un panno con impresso il proprio volto; promise inoltre l’invio a<br />

Edessa <strong>di</strong> un apostolo, <strong>di</strong> cui non specifica l’identità, allo scopo <strong>di</strong> guarire<br />

la malattia <strong>di</strong> Abgar e convertire la città, ma soltanto dopo aver portato<br />

a termine la sua missione nel mondo 68 . Vanno senz’altro notate alcune<br />

specificità del racconto; in particolare il fatto che l’icona, contro la<br />

testimonianza <strong>di</strong> Eusebio, è menzionata nella lettera <strong>di</strong> Cristo 69 . Infatti<br />

così Stefano cita (o parafrasa) l’epistola <strong>di</strong> Cristo ad Abgar: «Se desideri<br />

conoscere il mio aspetto fisico, ecco che ti invio il mio volto impresso<br />

su un panno <strong>di</strong> lino (transformatam in linteo), così che si plachi il tuo fervido<br />

desiderio e tu capisca che ciò che hai u<strong>di</strong>to <strong>di</strong> me è vero». Per la verità,<br />

il papa non specifica se la risposta <strong>di</strong> Gesù fosse scritta o orale 70 ;<br />

68 «Redemptor humani generis, adpropinquante <strong>di</strong>e passionis, cuidam regi<br />

Etessene civitatis, desideranti corporaliter illum cernere et ut persecutiones Iu -<br />

daeorum aufugiens, ad illum convolaret et au<strong>di</strong>tas miraculorum oppiniones et<br />

sanitatum curationes illi et populo suo impertiret, respon<strong>di</strong>sset: “Quod si faciem<br />

meam corporaliter cernere cupis, en tibi vultus mei speciem transformatam in linteo<br />

<strong>di</strong>rigo, per quam et desiderii tui fervorem refrigeres, et quod de me au<strong>di</strong>sti<br />

inpossibile nequaquam fieri existimes. Postquam tamen conplevero ea, que de me<br />

scripta sunt, <strong>di</strong>rigam tibi unum de <strong>di</strong>scipulis meis, qui tibi et populo tuo sanitates<br />

impertiat et ad sublimitatem fidei vos perducat”» (ed. HAMPE, Epistolae, cit., 23).<br />

69 Lo notava già DOBSCHÜTZ, Immagini, cit., 105.<br />

70 Una risposta orale da parte <strong>di</strong> Gesù è testimoniata nella versione <strong>degli</strong> Atti<br />

221


222<br />

Ester Brunet<br />

avendo compen<strong>di</strong>ato il racconto, con la conseguenza <strong>di</strong> aver lasciato impliciti<br />

alcuni passaggi, <strong>di</strong>ce solo che Gesù «rispose» (respon<strong>di</strong>sset) a una<br />

richiesta <strong>di</strong> Abgar: che lo abbia fatto per iscritto o al cospetto <strong>di</strong> inviati<br />

– peraltro sempre presenti in tutte le varianti della leggenda anche se qui<br />

non esplicitamente citati – non è dato sapere con certezza. Mancando il<br />

riferimento agli ambasciatori del re, non si trovano poi altri due elementi<br />

presenti in entrambe le versioni della leggenda tramandate da Giovanni<br />

Damasceno 71 e in altri scritti anti-iconoclastici: la previa volontà<br />

del sovrano <strong>di</strong> ‘sostituire’ Gesù con la sua immagine qualora egli si fosse<br />

rifiutato <strong>di</strong> andare a Edessa; e il tentativo (fallito) del messaggero/pittore<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>pingere il volto <strong>di</strong> Cristo.<br />

Una versione dell’origine dell’immagine <strong>di</strong> Edessa, più succinta ma<br />

non troppo <strong>di</strong>ssimile da quelle circolanti in Oriente, era dunque presentata<br />

dal pontefice ai vescovi partecipanti alla Sinodo Lateranense del<br />

769. Il <strong>di</strong>scorso del papa non faceva che confermare quanto il clero<br />

franco aveva già potuto apprendere due anni prima dalla lettera sino<strong>di</strong>ca<br />

dei patriarchi orientali che, nominando la leggenda nel testo e forse<br />

riportandola a parte, avevano reso edotti i fratelli d’Occidente sull’esistenza<br />

dell’immagine ‘non fatta da mano d’uomo’ <strong>di</strong> Edessa.<br />

Combattendo l’opinione contraria, l’autore dei Libri Carolini procura<br />

su <strong>di</strong> essa un’incontestabile testimonianza. Il capitolo de<strong>di</strong>cato alla<br />

trattazione del Mandylion appartiene al IV Libro, ed è pertanto impossibile<br />

capire se il testo sia quello originale <strong>di</strong> Teodulfo o se abbia subito<br />

correzioni significative. Fluido e ben argomentato, sembrerebbe non essere<br />

stato oggetto <strong>di</strong> particolari decurtazioni, ma si rimane nel campo<br />

delle pure ipotesi. La maniera con cui i Libri Carolini trattano il racconto<br />

giustificativo dell’autenticità del Mandylion rivela che la contestazione<br />

è <strong>di</strong>retta non tanto agli argomenti del Niceno II, e quin<strong>di</strong> al testimonium<br />

tratto da Evagrio, quanto a quelli del Concilio Lateranense.<br />

<strong>di</strong> Addai (<strong>di</strong> incertissima datazione: VI-VIII sec.; cfr. C. TISCHENDORF [ed.], Acta<br />

Apostolorum Apocrypha, Lipsiae 1851, specialmente 262) e dell’Ammonizione <strong>di</strong><br />

un vecchio (Nouqesiva gevronto" peri; tw'n aJgivwn eijkovnwn; cfr. B. M. MELIO RANSKIJ<br />

(ed.), Georgij Kiprjanin i Ioann Ierusalimljanin, Sankt-Peterburg 1901, V-XXXIX),<br />

un’opera anch’essa <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile ascrizione cronologica ma presumibilmente compilata<br />

tra il 754 e il 787. Per un’analisi dei testi, cfr. GUSCIN, cit., 145-146, 153-154.<br />

71 Cfr. IOHANNES DAMASCENUS, De fide orthodoxa IV, 16; ID., De sacris imaginibus<br />

orationes, I, 33.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

Lo <strong>di</strong>mostra chiaramente la bordata <strong>di</strong> Teodulfo contro le ragioni della<br />

Tra<strong>di</strong>zione. Cito testualmente:<br />

Chi […] afferma l’autenticità <strong>di</strong> queste due epistole, una ricevuta dal Signore,<br />

l’altra dal lui inviata, <strong>di</strong>cendo che non tutto ciò che Gesù ha detto e fatto<br />

è stato riportato nei Vangeli, e per questo si rifà al passo giovanneo:<br />

“Molti altri segni ha fatto Gesù <strong>di</strong> fronte ai suoi <strong>di</strong>scepoli, che non sono<br />

stati scritti in questo libro”, sappia che qui si intende <strong>di</strong>re miracoli, e non<br />

epistole, segni, e non costituzioni 72 .<br />

Il destinatario della critica <strong>di</strong> Teodulfo è senza alcun dubbio papa<br />

Stefano; gli atti del concilio romano sono, per quanto attiene la leggenda<br />

dell’acheropita edessena, fonte e interlocutori principali.<br />

Le «due epistole» cui si riferisce Teodulfo sono ovviamente quelle<br />

che, secondo la più antica testimonianza <strong>di</strong> Eusebio, in seguito ripresa<br />

da altri autori come Egeria 73 , Procopio 74 ed Evagrio, s’inviarono Cristo<br />

e Abgar, e che papa Gelasio verso la fine del V sec., come puntualmente<br />

ricorda il Nostro, aveva <strong>di</strong>chiarato apocrife, minandone l’auctoritas 75 .<br />

La critica all’immagine edessena da parte <strong>di</strong> Teodulfo rispecchia in ciò<br />

una tendenza generale dei Libri Carolini, che è quella <strong>di</strong> un’attenzione<br />

puntigliosa ai testi e alla loro autorevolezza. L’acre<strong>di</strong>ne polemica dei<br />

Libri è tutta rivolta al <strong>di</strong>scre<strong>di</strong>to delle lettere, e la strategia argomentativa<br />

non è insensata, visto che era stato proprio papa Stefano ad inserire<br />

<strong>di</strong>rettamente nella risposta <strong>di</strong> Gesù i dati <strong>di</strong> creazione e invio dell’ache-<br />

72 «Si vero hi, qui […] easdem epistolas, unam a Domino susceptam, alteram<br />

missam, adfirmare velint <strong>di</strong>centes non omnia scripta in evangelio, quae a<br />

Domino <strong>di</strong>cta vel facta sunt, et utantur testimonio Iohannis <strong>di</strong>centis: “Multa<br />

quidem et alia signa fecit Iesus in conspectu <strong>di</strong>scipulorum suorum, quae non sunt<br />

scripta in libro hoc”, advertant hoc de miraculis, non de epistolis, de signis, non<br />

de constitutionibus intellegi posse» (ed. FREEMAN, Libri Carolini, cit., 511).<br />

73 Cfr. Itinerarium Egeriae, XIX (trad. P. SINISCALCO - L. SCARAMPI (edd.),<br />

Egeria. Pellegrinaggio in Terra Santa, Milano-Roma 20082 , 108-112).<br />

74 Cfr. J. HAURY - G. WIRTH (edd.), Procopius. Bellum Persicum, II, 26-27, 268<br />

ss.<br />

75 «Quae duae epistolae cum a sancti evangelii lectione sint penitus extraneae<br />

et a beato Gelasio, Romanae urbis antistite, vel a ceteris aeque catholicis et<br />

orthodoxis viris inter apochrifas scripturas prorsus deputatae, non sunt in testimonium<br />

quodammodo producendae, quia ad ea, quae in quaestionem veniunt<br />

adprobanda vel inprobanda, sicut et ceterae apochrifae scripturae minus sunt<br />

idoneae» (ed. FREEMAN, Libri Carolini, cit., 511).<br />

223


224<br />

Ester Brunet<br />

ropita, implicando l’immagine nello scritto. Per i Libri Carolini le lettere<br />

sono predominanti al punto tale che l’argomentazione ha del paradossale;<br />

non soltanto perché le due epistole, il cui reale contenuto Teodulfo<br />

probabilmente conosceva tramite la Storia ecclesiastica <strong>di</strong> Eusebio/Rufino<br />

o la Peregrinatio <strong>di</strong> Egeria, non accennano minimamente<br />

all’icona acheropita, ma anche perché la contro-argomentazione scritturale<br />

ispirata al passo giovanneo, se applicata agli scritti invece che all’immagine,<br />

perde tutto il suo senso: se infatti i Libri Carolini obiettano<br />

che Giovanni «intende <strong>di</strong>re miracoli, e non epistole, segni, e non costituzioni»,<br />

si potrebbe replicare che è appunto a un miracolo che gli iconoduli<br />

si riferiscono, ossia a quello dell’impressione del volto <strong>di</strong> Cristo<br />

sul panno.<br />

Pur presentando qualche aporia, la logica dei Libri Carolini è pervicace,<br />

ed è quella della demolizione del documentum, ergo del monumentum.<br />

Non a caso i Libri insistono ancora sull’apocrifia dello scambio<br />

epistolare tra Cristo e Abgar in un altro punto del testo (III, 30), tutto<br />

de<strong>di</strong>cato all’uso improprio <strong>di</strong> testimonia apocrifi negli Acta niceni. Sul<br />

capitolo tuttavia ci si deve purtroppo limitare a considerazioni molto<br />

generali, per via della grave decurtazione apportatavi dai correttori 76 .<br />

Teodulfo si spinge poi oltre l’orizzonte filologico, e chiama in causa<br />

un altro argomento cui sovente si appella, la non pertinenza dei testimonia<br />

alla questione della sacralità delle immagini. In un saggio molto<br />

penetrante, Jean-Marie Sansterre 77 ha messo bene in luce la logica esercitata<br />

da Teodulfo nei confronti delle immagini miracolose, che si gioca<br />

sempre sul piano previo della critica delle fonti, cui segue l’analisi teologica.<br />

Contro l’acheropita edessena Teodulfo procede con la stessa<br />

metodologia con cui esamina il racconto, che i padri niceni traggono<br />

dal Prato spirituale <strong>di</strong> Giovanni Mosco, dei miracoli attribuiti a un’ico-<br />

76 Dai foll. 189v.-190v., che contengono il capitolo in questione, sono state<br />

cancellate ben 10 righe (cfr. FREEMAN - MEYVAERT, Opus cit., n. 280). Il testo,<br />

parzialmente recuperato in una nota dell’e<strong>di</strong>tio critica, accenna alle epistole <strong>di</strong><br />

Cristo e Abgar definendole documenti non autentici. È possibile che il capitolo<br />

sia stato decurtato in questo punto perché lo si riteneva un’inutile ripetizione <strong>di</strong><br />

IV, 10, dove l’argomento è trattato <strong>di</strong>ffusamente.<br />

77 Cfr. J.-M. SANSTERRE, Attitudes occidentales à l’égard des miracles d’images<br />

dans le haut Moyen Âge, Annales. Histoire, Sciences Sociales 53/6 (1998) 1225-<br />

1228.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

na appartenente a un abate, anacoreta nei pressi <strong>di</strong> Gerusalemme, e riferiti<br />

all’autore da un presbitero della chiesa <strong>di</strong> Ascalona 78 .<br />

Per prima cosa i Libri mettono in dubbio il valore del testimonium in<br />

quanto tale: la tra<strong>di</strong>zione dell’acheropita è apocrifa, perché apocrifo è<br />

lo scambio epistolare tra Cristo e Abgar; ciò sarebbe <strong>di</strong> per sé sufficiente,<br />

secondo Teodulfo, a squalificare qualsiasi pretesa del partito iconodulo.<br />

Relativamente all’icona dell’anacoreta, l’autore sospetta la buona<br />

fede del testimone e lamenta alcune lacune narrative presenti nel testo.<br />

Come ha notato correttamente Sansterre, l’analisi critica delle fonti<br />

«non è una questione <strong>di</strong> pura forma. Essa esprime quella “paura carolingia<br />

per il nuovo, il falso e il dubbioso” che Marc van Uytfanghe ha<br />

recentemente messo in evidenza per spiegare la rarità <strong>di</strong> santi contemporanei»<br />

79 .<br />

Teodulfo poi si pone <strong>di</strong> fronte alla possibilità che i racconti siano veri.<br />

Come inquadrarli? Nel caso della testimonianza <strong>di</strong> Giovanni Mosco,<br />

egli collega in prima battuta il miracolo al luogo sacro in cui l’icona<br />

era conservata, «perché è più cre<strong>di</strong>bile che questo miracolo […] sia<br />

accaduto per rispetto allo spazio sacro piuttosto che per la presenza <strong>di</strong><br />

una qualche immagine»; c’è quin<strong>di</strong> il tentativo <strong>di</strong> leggere l’evento miracoloso<br />

come in<strong>di</strong>pendente dall’immagine. Il passo successivo consiste<br />

nel valutare l’ipotesi che l’immagine sia realmente implicata nel miracolo,<br />

ossia, per usare la terminologia dei Libri, che Dio abbia realizzato<br />

cose straor<strong>di</strong>narie per mezzo <strong>di</strong> immagini o nelle immagini 80 . Ciò significa<br />

forse che alle immagini sia dovuto il culto? Teodulfo specifica che<br />

la ‘veicolazione’ del miracolo da parte <strong>di</strong> una determinata immagine<br />

non implica la venerazione <strong>di</strong> tutte le immagini. Ciò risulta chiaro nel<br />

commento al passo <strong>di</strong> Giovanni Mosco:<br />

Se si stabilisce che il miracolo che secondo il prete <strong>di</strong> Ascalona si è verificato<br />

<strong>di</strong> fronte a un’immagine, avvenne a causa <strong>di</strong> quell’immagine, ciò non significa<br />

che si debbano adorare per questo motivo le immagini, ché non si<br />

creda <strong>di</strong> dover adorare tutto ciò per cui o in cui un miracolo è apparso. Se<br />

78 Cfr. Libri Carolini, IV, 12 ed. FREEMAN, cit., 514-515; Acta <strong>di</strong> Nicea II:<br />

MANSI, cit., 193-196.<br />

79<br />

SANSTERRE, Attitudes cit., 1225, che cita M. VAN UYTFANGHE, Le culte des<br />

saints et la prétendue “Aufklärung” carolingienne, in R. FAVREAU (ed.), Le culte des<br />

saints aux IXe - XIIIe siècles, Poitiers 1995, 157.<br />

80 Cfr. Libri Carolini, III, 25, ed. FREEMAN, cit., 452.<br />

225


226<br />

Ester Brunet<br />

adoriamo tutto ciò in cui o per cui certi miracoli sono apparsi, non resterà<br />

pressoché nulla che non sia adorabile 81 .<br />

Sembra che qui Teodulfo ponga una netta <strong>di</strong>stinzione tra le cose tramite<br />

le quali Dio ha operato – singole e determinate; per fare un esempio<br />

concreto cui altrove si appellano i Libri 82 , il roveto ardente, quel roveto<br />

attraverso cui Dio parlò a Mosè – e la categoria <strong>di</strong> enti /roveto/ –<br />

«esistiti, o esistenti o che esisteranno al mondo» 83 ; se del primo (‘quel’<br />

roveto) Teodulfo non contesta l’adorazione (ancorché mai la affermi<br />

esplicitamente 84 ), dei secon<strong>di</strong> (tutti i roveti) la nega recisamente 85 .<br />

Ed in effetti non potrebbe essere altrimenti, pena l’incoerenza con<br />

l’esaltazione della sacralità delle reliquie, che l’autore propugna con<br />

fervore in molti altri punti del testo. Secondo i Libri, le reliquie sono<br />

degne <strong>di</strong> particolare venerazione perché sono le vestigia mortali dei<br />

santi, il cui corpo è ‘tempio’ <strong>di</strong> Dio, od <strong>oggetti</strong> posseduti, usati o toccati<br />

da Cristo, e dai santi che ora si trovano presso Dio 86 . Le reliquie, memorie<br />

<strong>di</strong> vita mirabile e pegni <strong>di</strong> vita celeste, sono parte <strong>di</strong> quelle realtà<br />

venerabili, come le specie eucaristiche e i vasi sacri che le contengono, i<br />

81 «Si ergo id miraculum, quod Ascalonitanae ecclesiae praesbiter erga imaginem<br />

apparuisse retulit, ob eandem imaginem apparuisse constaret, non ideo imagines<br />

adorandæ forent, quoniam non omnia, per quae vel in quibus miracula<br />

apparuere, adoranda creduntur. Si ergo omnia, in quibus vel per quæ miracula<br />

quaedam apparuere, adoranda sunt, pene nihil remanebit, quod non adoretur»<br />

(ivi, 515). I corsivi del testo sono miei.<br />

82 Cfr. Libri Carolini, III, 25, ed. FREEMAN, cit., 454-455.<br />

83 U. ECO, Il segno, Milano 1980, 25.<br />

84 Cfr. SANSTERRE, Attitudes cit., 1228; MITALAITÉ, cit., 352.<br />

85 Scorgo un parallelo interessante tra i capitoli III, 25 e IV, 12 dei Libri<br />

Carolini e la polemica che il vescovo iconoclasta Clau<strong>di</strong>o <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> nel suo<br />

Apologeticum adversus Theutmirum abbatem (825) <strong>di</strong>rige contro il culto, a suo<br />

<strong>di</strong>re insensato, della croce. Clau<strong>di</strong>o replica ai suoi accusatori che «se vogliono<br />

adorare ogni legno a forma <strong>di</strong> croce, per il fatto che Cristo è rimasto appeso a una<br />

croce, converrà loro adorare molte altre cose da lui compiute durante la sua esistenza<br />

terrena». Ed infatti consiglia loro <strong>di</strong> adorare le vergini, «perché una vergine<br />

partorì Cristo»; gli asini, «perché andò a Gerusalemme sul dorso <strong>di</strong> un asinello»;<br />

le lance, «perché con delle lance i soldati lo ferirono sul capo»; e così via (P.<br />

ZANNA (ed.), Dungal, Responsa contra Clau<strong>di</strong>um. A Controversy on Holy Images,<br />

Firenze 2002, 278-283; corsivo mio). La logica è la stessa dei Libri Carolini, pur<br />

se declinata nella forma della reductio ad absurdum.<br />

86 Cfr. Libri Carolini, III, 24.


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

co<strong>di</strong>ci delle Scritture, la croce, l’Arca dell’Alleanza e anche le chiese 87 ,<br />

verso cui si rende lecito culto nonostante la loro materialità. È evidente<br />

che Teodulfo, confutando la testimonianza <strong>di</strong> Mosco, valuta le immagini<br />

come <strong>oggetti</strong> tra tanti, privi <strong>di</strong> un loro statuto specifico, e che ciò faccia<br />

emergere un interessante parallelo con le reliquie. Riprendendo l’esempio<br />

del roveto, cosa <strong>di</strong>stingue infatti il roveto-reliquia da tutti gli altri<br />

roveti esistenti, rendendolo degno <strong>di</strong> culto, se non il fatto <strong>di</strong> aver<br />

ospitato l’angelo del Signore in forma <strong>di</strong> fiamma – una speciale virtus,<br />

dunque, che non gli è propria in quanto essere, ma che gli è stata conferita?<br />

Così anche per le icone, il ragionamento <strong>di</strong> Teodulfo in<strong>di</strong>vidua in<br />

una causa esterna al loro essere immagini il motivo della loro eventuale<br />

venerazione. Non si tratta dell’ammissione, da parte <strong>di</strong> Teodulfo, della<br />

teoria della ‘partecipazione’ dell’icona al modello, sulla falsariga dell’iconologia<br />

del Damasceno, riconosciuta per quella particolare categoria<br />

<strong>di</strong> immagini miracolose. Semmai il contrario: considerando l’immagine<br />

alla stregua <strong>di</strong> un oggetto qualsiasi, che può, come altri, farsi in taluni<br />

casi tramite e strumento <strong>di</strong> grazia miracolosa, Teodulfo mostra <strong>di</strong> respingere<br />

in modo ra<strong>di</strong>cale la concezione <strong>di</strong> immagine sacra propugnata<br />

dagli iconoduli, che la considerano in sé stessa un <strong>di</strong>spositivo <strong>di</strong> comunicazione<br />

col <strong>di</strong>vino, un transitus al modello venerato, in poche parole<br />

un simbolo. Rispetto all’approccio iconodulo, i termini vengono totalmente<br />

ribaltati: se Teodulfo non nega che l’immagine possa essere strumento<br />

<strong>di</strong> teofania, ma in maniera in<strong>di</strong>stinguibile rispetto a un roveto,<br />

per gli iconoduli tutte le immagini sono in sé teofaniche e quin<strong>di</strong> potenzialmente<br />

miracolose, per la loro qualità iconologica intrinseca <strong>di</strong> ‘presentificazione’<br />

del modello; già si è visto come sotto questo aspetto le<br />

acheropite non siano immagini-eccezioni, ma ‘archetipi’ <strong>di</strong> tutte le icone.<br />

Altrove Teodulfo sembra quasi voler assestare il tiro, affermando<br />

che il miracolo, considerato come «realtà effimera e transitoria» 88 , non<br />

implica la sacralizzazione del luogo in cui si realizza 89 . Ma anche sugli<br />

<strong>oggetti</strong> miracolosi il suo giu<strong>di</strong>zio non è in realtà così netto, e lo si coglie<br />

– non a caso – proprio in relazione al Mandylion. Il passo è estremamente<br />

interessante. Teodulfo contesta ai padri del Niceno II che il racconto<br />

dell’acheropita possa essere considerato una prova a sostegno del<br />

87 Cfr. Libri Carolini, II, 26-30.<br />

88 MITALAITÉ, cit., 351.<br />

89 Cfr. Libri Carolini, IV, 13.<br />

227


228<br />

Ester Brunet<br />

culto delle immagini; ma non perché, come ci si aspetterebbe seguendo<br />

la logica della critica al passo <strong>di</strong> Giovanni Mosco, la sacralità dell’acheropita<br />

non sia estensibile alle immagini in quanto <strong>oggetti</strong> della stessa<br />

specie, ma perché da nessuna parte è specificato che «Abgar richiese al<br />

Signore un’immagine per adorarla, o che il Signore abbia destinato ad<br />

Abgar un’immagine per l’adorazione» 90 . La preoccupazione <strong>di</strong> Teodulfo<br />

è qui primariamente <strong>di</strong> contestare una lettura ‘tipologica’ dell’episo<strong>di</strong>o<br />

come giustificativa del culto delle icone. La tesi <strong>di</strong> fondo è quella<br />

che contrad<strong>di</strong>stingue i Libri Carolini nel loro complesso; nec adorare<br />

nec frangi: il volto del Signore può essere riprodotto in figura, ma ciò<br />

non implica che l’immagine vada adorata.<br />

Estesa al Mandylion, tuttavia, questa tesi adombra la presenza <strong>di</strong><br />

una contrad<strong>di</strong>zione interna: mettendo in <strong>di</strong>scussione l’intrinseca venerabilità<br />

<strong>di</strong> quella particolare immagine, che pure è morfologicamente riconducibile<br />

a una reliquia <strong>di</strong> contatto, Teodulfo sembrerebbe contrad<strong>di</strong>re<br />

quanto sostiene a proposito delle icone operanti miracoli, che ha<br />

precedentemente <strong>di</strong>stinto, almeno sul piano logico, da tutte le altre immagini.<br />

Il problema è che il racconto dell’origine dell’acheropita edessena<br />

mette Teodulfo <strong>di</strong> fronte a una questione <strong>di</strong>fficilmente <strong>di</strong>rimibile,<br />

ossia la perfetta e in<strong>di</strong>stricabile sovrapposizione, nell’immagine-traccia,<br />

<strong>degli</strong> aspetti reliquiale e immaginale. L’icona <strong>di</strong> Edessa rappresenta uno<br />

scoglio per la logica dei Libri, ed è forse questo il motivo sottaciuto per<br />

cui Teodulfo insiste molto sull’inautenticità dello scambio epistolare<br />

tra Cristo e Abgar, lasciando del tutto scoperto il versante <strong>di</strong> una riflessione<br />

ad hoc sulle implicazioni iconologiche dell’acheropitia.<br />

Nella relazione tra le reliquie e le <strong>di</strong>verse forme artistiche scorgiamo<br />

la via attraverso cui l’immagine <strong>di</strong> culto si farà strada a Nord delle Alpi.<br />

Secondo J.-C. Schmitt 91 , le somiglianze tra immagini e reliquie, la<br />

loro equanime partecipazione alla più ampia storia <strong>degli</strong> <strong>oggetti</strong> sacri,<br />

90 «Textus […] ab istis ob adorandarum imaginum errorem adstruendum in<br />

synodo adlatus, nec suis quidem vel tenuiter favet sequacibus, praesertim cum ibidem<br />

nequaquam Abgarus Domino imaginem quandam adoraturus postulasse<br />

legatur aut idem omnium Dominus eidem Abgaro quandam imaginem adorandam<br />

destinasse perhibeatur» (ed. FREEMAN, Libri Carolini, cit., 511).<br />

91 J.-C. SCHMITT, Les reliques et les images, in E. BOZÓKY - A.-M. HELVÉTIUS<br />

(edd.), Les reliques: objets, cultes, symboles, Turnhout 1999, 145-167 (= Le corps<br />

des images. Essais sur la culture visuelle du Moyen Âge, Paris 2002, 273-294, specialmente<br />

289-290).


Le icone acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini<br />

emergono per contrasto proprio in ambito carolingio, nel pieno della<br />

lotta ingaggiata da Clau<strong>di</strong>o <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> (780 ca. - 828) contro ogni me<strong>di</strong>azione<br />

materiale della trascendenza. Negando, secondo la lettura che<br />

ne danno i suoi oppositori Giona d’Orléans e l’irlandese Dungal 92 , assieme<br />

alla venerazione delle immagini anche quella dovuta alla croce e<br />

alle reliquie, Clau<strong>di</strong>o <strong>di</strong> fatto costringe come mai prima d’allora a una<br />

considerazione unitaria <strong>di</strong> questi <strong>oggetti</strong>, come modelli <strong>di</strong>versi <strong>di</strong> un’unica<br />

istanza <strong>di</strong> «presentificazione e visualizzazione del sacro» 93 . Ma già<br />

i Libri Carolini si erano posti il problema, sotto il profilo gerarchico e<br />

comparativo, in<strong>di</strong>viduando i motivi per cui il culto delle immagini rispetto<br />

alle res sacrae potesse <strong>di</strong>rsi indebitamente preteso.<br />

È però nei casi in cui immagini e reliquie si implicano reciprocamente,<br />

più che in una serie <strong>di</strong> caratteristiche comuni, che si in<strong>di</strong>vidua la corrente<br />

carsica da cui affiora l’immagine <strong>di</strong> culto. Il reliquiario decorato<br />

rappresenta a questo proposito il lien più imme<strong>di</strong>ato e palese tra arte e<br />

reliquia. Come ha acutamente rilevato Jean Wirth, i Carolingi dovevano<br />

fare i conti, nella pratica, con una sovrapposizione, sovente irrisolvibile,<br />

<strong>di</strong> <strong>oggetti</strong> venerabili e decorazione artistica: «poiché l’immagine <strong>di</strong><br />

Cristo poteva figurare su una croce […] e quella <strong>di</strong> un santo su un reliquiario,<br />

la <strong>di</strong>stinzione tra culto, lecito, della croce o delle reliquie, e culto,<br />

illecito, delle immagini, non era invero semplice» 94 . Credo che le<br />

acheropite rappresentino in certo senso l’altra faccia della medaglia del<br />

problema sollevato dai reliquiari, o meglio, uno dei due termini <strong>di</strong> quel<br />

perfetto chiasmo concettuale, che si instaura se consideriamo le sacre<br />

<strong>impronte</strong> delle imagines-reliquiae, e i reliquiari, in senso metonimico,<br />

delle reliquiae imaginatae. Ritengo che ci sia ancora modo <strong>di</strong> lavorare<br />

92 Cfr. DUNGAL, Responsa contra Clau<strong>di</strong>um, ed. ZANNA, cit., 2-251; IONAS<br />

AURELIANENSIS, De cultu imaginum (Patrologia Latina 106, 305-388).<br />

93 SCHMITT, cit., 275. Su come immagini e reliquie, pur se con i dovuti <strong>di</strong>stinguo,<br />

fossero oggetto del medesimo riconoscimento sacrale, esemplificato a Roma<br />

nel cerimoniale dell’unzione, cfr. da ultimo L. CANETTI, «Suxerunt oleum de<br />

firma petra». Unzione dei simulacri e immagini miracolose tra Antichità e<br />

Me<strong>di</strong>oevo, in ID. - M. CAROLI - E. MORINI - R. SAVIGNI (edd.) <strong>Stu<strong>di</strong></strong> <strong>di</strong> storia del<br />

cristianesimo per Alba Maria Orselli, Ravenna 2008, 61-87.<br />

94 J. WIRTH, Il culto delle immagini, in CASTELNUOVO - SERGI, cit., 12. Sul tema<br />

si veda anche il recente stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> L. CANETTI, Rappresentare e vedere l’invisibile.<br />

Una semantica storica <strong>degli</strong> «ornamenta ecclesiae», in G. ANDENNA (ed.),<br />

Religiosità e civiltà. Le comunicazioni simboliche (secoli IX-XIII), Milano 2009,<br />

345-405.<br />

229


230<br />

Ester Brunet<br />

proficuamente su crinale <strong>di</strong> questi due versanti, poiché è senza dubbio<br />

nell’ambito delle frizioni iconoclastiche, così come furono recepite e<br />

maturate in Occidente, che si gettarono le basi per la concezione dell’immagine<br />

<strong>di</strong> culto nell’Europa me<strong>di</strong>evale.


LES ORIGINES LITTÉRAIRES<br />

DE LA LÉGENDE DE VÉRONIQUEETDELASAINTE FACE :<br />

LA CURA SANITATIS TIBERII ET LA VINDICTA SALVATORIS<br />

RÉMI GOUNELLE<br />

Faculté de théologie protestante –<br />

Université de Strasbourg<br />

Comme l’a montré Ernst von Doschütz dans son magistral Christusbilder,<br />

la légende associant le portrait de Jésus à Véronique a partie liée<br />

avec une série de tra<strong>di</strong>tions littéraires sur Ponce Pilate, au point<br />

d’ailleurs qu’elle ne peut être correctement comprise hors de ce contexte<br />

1 . Ces tra<strong>di</strong>tions sont d’une grande complexité et souffrent d’avoir été<br />

quelque peu négligées par la recherche 2 . Plusieurs textes importants<br />

sont ainsi toujours dans l’attente d’une é<strong>di</strong>tion critique. Les quelques<br />

études qui ont été consacrées aux autres dans le courant du XX e siècle<br />

ont montré l’insuffisance des é<strong>di</strong>tions existances et ont complexifié le<br />

dossier. Les origines et les relations des <strong>di</strong>vers récits de l’Antiquité et du<br />

Haut Moyen Âge consacrés à Pilate et à Véronique – pour ne pas parler<br />

des enjeux dont ils sont porteurs – sont ainsi loin de pouvoir être élucidées.<br />

Il n’est dès lors pas surprenant que les études sur le culte de la<br />

« Sainte Face » soient relativement prudentes dès lors qu’elles s’aventurent<br />

avant le XII e siècle, date à partir de laquelle ce culte est relativement<br />

bien documenté 3 .<br />

1 E. VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende,<br />

Leipzig 1899, 197-262.<br />

2 On trouvera une présentation générale de ces textes dans Z. IZYDORCZYK,<br />

The Evangelium Nicodemi in the Latin Middle Ages, in Z. IZYDORCZYK (ed.), The<br />

Me<strong>di</strong>eval Gospel of Nicodemus. Texts, Intertexts and Contexts in Western Europe,<br />

Tempe (AZ) 1997, 43-101. Cf. aussi M. GEERARD, Clavis Apocryphorum Novi<br />

Testamenti, Turnhout 1992, s. n. 64-77.<br />

3 Cf. la synthèse d’A. CHASTEL, La Véronique, Revue de l’art 40-41 (1978) 71-<br />

82 et surtout H. BELTING, Image et culte. Une histoire de l’image avant l’époque de<br />

l’art (trad. F. Müller), Paris 1998, 292-300, à quoi s’ajoute le dossier de documents<br />

des pp. 728-733. Cf. aussi E. KURYLUK, Veronica and Her Cloth. History,<br />

Symbolism, and Structure of A « True Image », Cambridge MA 1991, 120-121,<br />

peu fiable, et J.-M. SANSTERRE, « Variation d’une légende et genèse d’un culte<br />

231


232<br />

Rémi Gounelle<br />

La présente contribution ne simplifera pas la question : en présentant<br />

de façon critique les deux récits les plus anciens conservés sur la<br />

« Sainte face » – la Cura sanitatis Tiberii et la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris –, elle<br />

fera surtout ressortir les points d’incertitude qui méritent d’être explorés<br />

par la recherche ultérieure et elle se gardera d’avancer des solutions<br />

définitives à des problèmes qui ne pourront être résolus tant que la tra<strong>di</strong>tion<br />

textuelle des <strong>di</strong>vers documents en cause n’aura pas fait l’objet<br />

d’études approfon<strong>di</strong>es 4 .<br />

I. La Cura sanitatis Tiberii<br />

D’un commun consensus, la recherche actuelle estime que le témoin<br />

le plus ancien de la légende de Véronique est la Cura sanitatis Tiberii,<br />

‘Guérison de Tibère’, dont E. von Dobschütz a proposé une é<strong>di</strong>tion critique<br />

dans son Christusbilder 5 sur la base de trente-cinq manuscrits 6 ,<br />

qu’il a répartis en deux recensions, en fonction de leur lien avec l’Evangile<br />

de Nicodème 7 .<br />

entre la Jérusalem des origines, Rome et l’Occident : quelques jalons de l’histoire<br />

de Véronique et de la Veronica jusqu’à la fin du XIII e siècle », in J. DUCOS – P.<br />

HENRIET (edd.), Passages. Déplacements des hommes, circulation des textes et<br />

identités dans l’Occident mé<strong>di</strong>éval, Paris, sous presse.<br />

4 Une étude des sources de ces tra<strong>di</strong>tions, notamment de leurs relations avec<br />

les tra<strong>di</strong>tions sur Abgar et avec celles de la Vita Sylvestri, qui atteste des images<br />

de Pierre et de Paul, en lien avec la guérison de Constantin, serait en particulier<br />

prématurée.<br />

5 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 157**-203**. La version du Parisinus lat.<br />

3338, fol. 166-168 – un manuscrit connu de E. von Dobschütz, qui lui a attribué<br />

le sigle 9 – a été é<strong>di</strong>tée par E. DARLEY, Les Acta Salvatoris, un Evangile de la<br />

Passion et de la Résurrection et une mission apostolique en Aquitaine. Suivis d’une<br />

traduction de la version anglo-saxonne, Paris 1913, 47-51. E. DARLEY a publié<br />

d’autres ouvrages relatifs au même sujet, notamment Les Actes du Sauveur, la<br />

Lettre de Pilate, les Missions de Volusien, de Nathan, la Vin<strong>di</strong>cte. Leurs origines et<br />

leurs transformations, Paris 1919. A. MASSER et M. SILLER, Das Evangelium<br />

Nicodemi in spätmittelalterlicher deutscher Prosa, Heidelberg 1987, 464-467 ont<br />

publié le texte de l’e<strong>di</strong>tio princeps de la Cura sanitatis Tiberii.<br />

6 A ces 35 manuscrits s’ajoutent les témoins des Actes de Pierre et de Paul et<br />

de l’Evangile de Nicodème que E. von Dobschütz a utilisés, de façon <strong>di</strong>scutable,<br />

pour é<strong>di</strong>ter la Lettre de Pilate à Claude (§16).<br />

7 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 194**. La recension B, qu’E. von Doschütz


1.1. Datation et localisation<br />

Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

La datation de la Cura sanitatis Tiberii peut être considérée comme<br />

relativement certaine. Un terminus ante quem sûr est en effet fourni par<br />

le plus ancien témoin manuscrit connu – Lucca, Bibl. capit. 490 –, qui<br />

date du VIII e siècle. Un terminus a quo est en outre fourni par la reprise<br />

de passages de l’Evangile de Nicodème au §6 du récit, ce qui exclut une<br />

datation antérieure au IV e siècle, voire au V e ou au VI e -VII e siècle 8 , si<br />

l’auteur de la Cura sanitatis Tiberii a connu le texte de la recension latine<br />

A de ce texte 9 . Il ne semble en tout cas pas y avoir de raison valable<br />

pour affirmer une datation au VI e siècle ou aux alentours de 600 comme<br />

le fait E. von Dobschütz dans Christusbilder 10 .<br />

La localisation de ce texte est plus douteuse. E. von Dobschütz en situait<br />

la rédaction en Italie du Nord, plus précisément en Toscane, en<br />

raison de la localisation de l’exil de Pilate à Tusciam, ciuitatem Ameriam<br />

(§11) : à ses yeux, seul un Toscan a pu situer dans sa région le bannissement<br />

du gouverneur romain ! 11 La plus grande prudence est de mise<br />

face à cette hypothèse, qui repose sur un in<strong>di</strong>ce bien fragile, que rien<br />

ne confirme par ailleurs.<br />

1.2. Le récit<br />

Dans la forme é<strong>di</strong>tée par Ernst von Dobschütz, la Cura sanitatis est<br />

composée de deux parties, reliées artificiellement l’une à l’autre par une<br />

semble considérer comme plus tar<strong>di</strong>ve que la forme A, regroupe les manuscrits<br />

où la Cura sanitatis accompagne l’Evangile de Nicodème.<br />

8 Sur le texte grec et les traductions de l’Evangile de Nicodème, voir R.<br />

GOUNELLE, Pilate (Acts of), in The Oxford Bible Dictionary (sous presse).<br />

9 Les allusions aux Actes de Pierre et de Paul composés au V e ou au VI e siècle,<br />

auxquels la seconde section (§15-20) a repris la Lettre de Pilate à Claude, sont<br />

moins probantes, dans la mesure où il n’est pas entièrement certain que la Cura<br />

sanitatis Tiberii primitive contenait les deux parties du récit actuel (voir plus<br />

loin). Sur la Lettre de Pilate à Claude, voir J.-D. DUBOIS – R. GOUNELLE, Lettre<br />

de Pilate à l’empereur Claude, in P. GEOLTRAIN – J.-D. KAESTLI (edd.), Ecrits apocryphes<br />

chrétiens, II, Paris 2005 (ci-après EAC II), 357-363.<br />

10 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 203** et 276*. E. von Dobschütz proposait<br />

plus prudemment une période entre le V e et le VIII e siècle, p. 213.<br />

11 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 214 ; cette localisation est reprise comme<br />

une certitude p. 217 et 203**.<br />

233


234<br />

Rémi Gounelle<br />

in<strong>di</strong>cation de temps 12 , mais certains manuscrits ne semblent contenir<br />

que la première section du récit (§1-14). Le récit a-t-il été abrégé ou au<br />

contraire amplifié au fil du temps ? La question mériterait d’être reprise<br />

à nouveaux frais 13 .<br />

La première section (§1-14) rapporte ce qui s’est passé sous le règne<br />

de Tibère et s’achève par la mort de l’empereur ; la seconde (§15-20) raconte<br />

les aventures de Pierre et de Paul sous le règne de Néron, jusqu’à<br />

la mort de ce dernier. Si ces deux récits, consacrés à Tibère et à Néron,<br />

font bien partie de l’état primitif de la Cura sanitatis Tiberii, son auteur<br />

semble avoir voulu compiler une sorte de chronique historique. L’histoire<br />

de Véronique se trouve dans la première section.<br />

L’action se déroule à peu près trois ans après la mort de Jésus 14 . Tibère,<br />

souffrant, envoie Volusien à Jérusalem à la recherche de Jésus, espérant<br />

obtenir de lui la guérison de son mal (§1-2 ; 4). Arrivé à destination,<br />

Volusien explique à Pilate l’objet de sa mission, ce qui suscite<br />

quelque trouble. Après s’être entretenu avec <strong>di</strong>verses personnes, Volusien<br />

met Pilate en prison, et part à la recherche d’une représentation figurée<br />

(similitudo) de Jésus (§9). Un certain Marcius dénonce alors Véronique,<br />

identifiée à la femme hémorroïsse (§9). Après l’avoir fait venir,<br />

Volusien lui demande l’image de Jésus – désignée par le terme latin imago<br />

ou par des transcriptions du grec eikôn –, mais Véronique affirme ne<br />

pas en avoir. Il la renvoie chez elle avec des soldats qui, au terme d’une<br />

fouille, trouvent l’image. Véronique et l’image, ainsi que Pilate, sont<br />

amenés à Rome (§10) ; l’empereur condamne le gouverneur romain<br />

12 Eodem tempore dans une recension ; post Clau<strong>di</strong>um uero dans l’autre. Cf.<br />

DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 182**.<br />

13 La présence d’un explicit à la fin de la première section (DOBSCHÜTZ,<br />

Christusbilder, cit., 182**) dans des témoins qui ne semblent plus cités dans la<br />

suite de l’apparat critique d’E. von Dobschütz suggère que tous les manuscrits ne<br />

contiennent pas l’intégralité du texte, mais le caractère négatif de cet apparat<br />

empêche d’en être certain. Pour le Parisinus lat. 3338, l’é<strong>di</strong>tion susmentionnée<br />

d’E. DARLEY n’est pas non plus claire sur ce point ; seuls les §1-14 y figurent,<br />

mais l’explicit in<strong>di</strong>qué dans le Catalogue général des manuscrits latins, V, Paris<br />

1966, 226 ne correspond pas à la fin du texte é<strong>di</strong>té par Darley; d’autre part,<br />

d’après ce catalogue, suit, au fol. 168, un paragraphe intitulé De mala uita et<br />

morte neron (p. 226), dont le rapport avec la suite de la Cura sanitatis mériterait<br />

d’être analysé.<br />

14 Cf. Cura sanitatis, §9.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

(§11), demande à voir le portrait de Jésus, est guéri et se convertit au<br />

christianisme, avant de mourir dans son lit (§12-14).<br />

1.3. Analyse<br />

L’origine du portrait de Jésus qui suscitera la guérison de Tibère est<br />

précisée dans l’intervention de Marcius, un personnage inconnu par<br />

ailleurs : « lorsqu’elle fut guérie, elle peignit pour elle par amour de lui<br />

son image (imaginem) alors qu’il restait dans son corps, et Jésus le savait<br />

» (§9). Ces informations sont reproduites dans la suite du récit avec<br />

quelques mo<strong>di</strong>fications par Volusien : Véronique « a fait peindre pour<br />

elle par amour l’image (imaginem) de Jésus à sa ressemblance (similitu<strong>di</strong>nem)<br />

» – la recension B ajoute : « du vivant de Jésus » (§12).<br />

1.3.1. Une oeuvre humaine<br />

Dans ces deux passages, le portrait de Jésus est explicitement présenté<br />

comme une oeuvre purement humaine : il a été peint par Véronique<br />

en personne. Le portrait de Jésus qui guérit l’empereur n’est donc clairement<br />

pas d’origine miraculeuse dans la Cura sanitatis Tiberii. Les allusions<br />

au récit de la création de l’être humain à l’image et à la ressemblance<br />

de Dieu (Genèse 1, 27), mises dans la bouche de Volusien au §12,<br />

sont toutefois là pour laisser percevoir la valeur de ce portrait, qui représente<br />

véritablement Jésus et qui, en tant que véritable « image » de<br />

lui, le rend présent, ce qui permet d’expliquer les guérisons dont ce portrait<br />

sera la source dans la suite du récit.<br />

1.3.2. Une peinture, mais sur quel support ? et que représente-t-elle ?<br />

Cette image faite de main d’homme est un portrait peint – c’est du<br />

moins ce que laisse entendre le recours au verbe depingere dans les deux<br />

citations 15 . La Cura sanitatis ne précise toutefois pas sur quel support<br />

cette peinture a été faite. Le passage du récit qui précise où Véronique<br />

conservait cette image (§9) ne permet pas d’en savoir plus ; la plupart<br />

des manuscrits, suivis par E. von Dobschütz, affirment que ce portrait<br />

15 Dans la première citation (§9), deux témoins de la recension B lisent depressit,<br />

mais ils ont conservé le verbe depingere dans la seconde occurrence de ce<br />

motif (§12).<br />

235


236<br />

Rémi Gounelle<br />

était dans la chambre de Véronique (in cubiculo), près de sa tête (ad caput<br />

eius), mais de rares témoins précisent qu’il était dans/sur sa couche<br />

(in cubili) ou dans/sur un oreiller (in cerbicale). Cette dernière variante<br />

laisse entendre qu’il s’agit d’une peinture sur un tissu, mais elle est clairement<br />

secondaire 16 . On ne peut donc savoir si, pour l’auteur de la Cura<br />

sanitatis, le portrait figurait sur un tissu, sur une planche de bois, sur<br />

un <strong>di</strong>sque en métal etc.<br />

Le récit ne précise non plus pas s’il s’agit d’un portrait en pied ou<br />

simplement d’une représentation du visage de Jésus. Peut-être l’emploi<br />

du terme imago, qui servait à désigner les portraits des ancêtres dans le<br />

monde classique, suggère-t-il plutôt une peinture se limitant au visage,<br />

mais il s’agit au mieux d’un in<strong>di</strong>ce, dont on aimerait trouver confirmation<br />

par ailleurs.<br />

1.3.3. Précisions de copistes<br />

Les imprécisions du récit n’ont pas satisfait tous les copistes. C’est<br />

ainsi que le plus ancien manuscrit de la Cura sanitatis, déjà mentionné,<br />

fait mention explicite du visage de Jésus 17 . L’auteur du De Veronilla et<br />

de imagine Domini in sindone depicta, une version abrégée de la Cura<br />

sanitatis Tiberii, peut-être composée au X e siècle et qui attend d’être<br />

é<strong>di</strong>tée de façon critique 18 , estime en revanche que l’image de Véronique<br />

16 Cette leçon est propre au manuscrit a, qui omet la relative suivante, bien<br />

attestée dans les autres manuscrits. La destinée de l’image ne permet pas d’en<br />

savoir davantage : elle est simplement « présentée » (praesentari) à Tibère, qui<br />

ordonne qu’elle soit enfermée dans un écrin d’or et de pierres précieuses (§13).<br />

17 Cf. au §12, l. 6, où le manuscrit a ajoute hominis uultum simile.<br />

18 Sur ce texte, é<strong>di</strong>té par H. F. MASSMANN, Der keiser und der kunige buoch<br />

oder <strong>di</strong>e sogennante Kaiserchronik, Ge<strong>di</strong>cht des zwölften Jahrhunderts, III, Quedlinburg,<br />

1854, 579-580, 605-606, cf. A. SCHÖNBACH, [Compte-rendu de C. von Tischendorf,<br />

Evangelia Apocrypha], Anzeiger für deutsches Alterthum und deutsche<br />

Litteratur 2 (1876), 149-212 (181-182) ; Christusbilder, cit., 278*; IZY DORCZYK,<br />

The Evangelium Nicodemi, cit., p. 63, qui mentionne quatre manuscrits. Faute<br />

d’avoir eu accès à l’é<strong>di</strong>tion de H. F. Massmann, j’ai utilisé le brouillon d’é<strong>di</strong>tion<br />

d’E. von Dobschütz, conservé dans le fonds « von Dob schütz » de l’Institut Romand<br />

des Sciences Bibliques (Lausanne) ; cette é<strong>di</strong>tion, qui n’a jamais paru, repose<br />

apparemment sur deux manuscrits : Stuttgart, Württembergische Landesbibliothek,<br />

Theol phil. 8°57, fol. 82 v -85 – utilisé par H. Massmann – et Einsiedeln,<br />

Stiftsbibliothek 249, p. 176-179 – ce dernier manuscrit, inconnu de Z. Izydorczyk,<br />

constituerait un cinquième témoin de ce texte.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

est bien un portrait en pied de Jésus, peint in una sindone ; ce faisant, il<br />

associe le récit avec une des reliques de la Passion, qui prétend préserver<br />

une image du corps de Jésus, de la tête aux pieds 19 .<br />

Si aucun de ces témoins ne fait de ce portrait une image acheiropoiete,<br />

un autre manuscrit de la Cura Sanitatis conservé à Graz 20 , s’est senti<br />

obligé de le faire ; le copiste de ce codex, daté de 1412, a en effet substantiellement<br />

complété la dénonciation de Volusien pour faire de<br />

l’image de Jésus son portrait, miraculeusement imprimé (§9) : « Jésus,<br />

exténué par son voyage, se ren<strong>di</strong>t auprès de (Véronique) avec ses <strong>di</strong>sciples<br />

et lui demanda un linge (linteum) pour essuyer la sueur de son visage.<br />

Elle accepta, et quand il mit le linge sur son visage, son visage peignit<br />

dessus toute sa forme (figuram) 21 ; il le ren<strong>di</strong>t à la femme et lui ordonna<br />

de le garder précieusement » 22 . Cet ajout, isolé et clairement secondaire,<br />

est proche de celui que l’on trouve dans la Bible en français de<br />

Roger d’Argenteuil (composée au plus tard à la fin du XIII e s.) 23 .<br />

II. La Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris<br />

A la <strong>di</strong>fférence de la Cura sanitatis Tiberii, la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris,<br />

‘Vengeance du Sauveur’ 24 , n’a pas encore fait l’objet d’une é<strong>di</strong>tion cri-<br />

19 Un portrait en pied de Jésus est conservé parmi les reliques de la Passion,<br />

comme le rappelle, à propos de la sixième station du chemin de croix, X.<br />

BARBIER DE MONTAULT, Iconographie du chemin de la croix, Annales archéologiques,<br />

1860-1865, republié in Oeuvres complètes, VIII : Rome. V – Dévotions<br />

populaires, troisième partie, Paris 1893, 208-209.<br />

20 Il s’agit du manuscrit Graz, Universitätbibliothek, (814) 35/2, qui porte le<br />

sigle g dans l’é<strong>di</strong>tion de von Dobschütz. Ce témoin, perdu pendant la seconde<br />

guerre mon<strong>di</strong>ale, contenait, avant la Cura Sanitatis Tiberii (fol. 288-292),<br />

l’Evangile de Nicodème (fol. 274-288); il aurait donc dû figurer parmi les témoins<br />

de la recension B dans l’é<strong>di</strong>tion citée (cf. note 7).<br />

21 Je traduits figura par « forme », mais il est possible que ce terme signifie<br />

déjà ici « figure », « visage ».<br />

22 Cette leçon est citée dans l’apparat au §9 l. 11 (DOBSCHÜTZ, Christusbilder,<br />

cit., 175**).<br />

23 Ce texte est cité dans DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 304*-305*. Sur les<br />

<strong>di</strong>verses tra<strong>di</strong>tions similaires en vieux français, voir l’introduction d’A. E. FORD,<br />

La Vengeance de Nostre-Seigneur. The Old and Middle-French Prose Version. The<br />

Version of Japheth, Toronto 1984, 1-8, 14-18.<br />

24 C’est bien à ce texte que renvoie P. PERDRIZET sous le titre Vin<strong>di</strong>cta Salo -<br />

237


238<br />

Rémi Gounelle<br />

tique satisfaisante. L’é<strong>di</strong>tion de Constantin von Tischendorf, qui n’a<br />

pas encore été remplacée, est éclectique et repose sur un nombre réduit<br />

de témoins latins, à quoi s’ajoute une traduction d’une version anglosaxonne,<br />

qu’il a parfois utilisée pour corriger les manuscrits latins 25 .<br />

Cette é<strong>di</strong>tion doit être utilisée avec d’autant plus de prudence que<br />

des recherches postérieures ont fait apparaître des formes du texte assez<br />

<strong>di</strong>vergentes. Ainsi Ernst von Dobschütz a-t-il recouru, dans son Christusbilder,<br />

au témoignage du Parisinus lat 5327, un manuscrit daté entre<br />

le IX e et le XI e siècle, qui se <strong>di</strong>stingue du texte é<strong>di</strong>té par C. von Tischendorf<br />

notamment par une finale originale. Plusieurs études sur les<br />

formes anglo-saxonnes de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris ont aussi apporté des<br />

informations nouvelles sur la tra<strong>di</strong>tion textuelle latine de ce texte. Ainsi<br />

E. Kölbing et Mabel Day ont-ils résumé, en 1932, la forme particulière<br />

que prend la Vin<strong>di</strong>cta dans trois manuscrits anglais et ont-ils publié le<br />

début d’un texte latin qui en est proche 26 . Soixante-cinq ans plus tard,<br />

plusieurs savants ont publié, sous la houlette de J. E. Cross, le texte latin<br />

du plus ancien manuscrit connu (St-Omer, Bibliothèque municipale,<br />

202) – un codex probablement d’origine anglaise, qui <strong>di</strong>verge de façon<br />

importante des textes connus jusqu’alors – et son parallèle en vieil-anglais<br />

27 .<br />

minis, dans son article De la Véronique et de sainte Véronique, Sbornik statej po<br />

archeologii i vizantinovedeniju [= Seminarium Kondakovianum. Recueil<br />

d’études. Archéologie. Histoire de l’art. Etudes byzantines], 5 (1932), 1-15 + 1 pl.<br />

(p. 8).<br />

25 C. von TISCHENDORF, Evangelia apocrypha, adhibitis plurimis co<strong>di</strong>cibus graecis<br />

et latinis, maximam partem nunc primum consultis atque ine<strong>di</strong>torum copia insignibus,<br />

Leipzig 1876 (18531 ) (ci-après TISCHENDORF), 471-486.<br />

26 E. KÖLBINGS – M. DAY, The Siege of Jerusalem. E<strong>di</strong>ted from Ms. Laud<br />

Misc. 656 With Variants From All Other Extant Mss., Londres 1932, XVI-XVII<br />

(résumé) et 83-85 (é<strong>di</strong>tion dans l’appen<strong>di</strong>ce II du début du texte latin parallèle).<br />

Sur la forme du texte mise au jour par ces savants, voir plus loin. Une nouvelle<br />

é<strong>di</strong>tion du texte en vieil-anglais a été publiée par R. HANNA – D. LAWTON, The<br />

Siege of Jerusalem, Oxford 2003.<br />

27 Two Old English Apocrypha and Their Manuscript Source. The Gospel of<br />

Nicodemus and The Avenging of The Saviour. E<strong>di</strong>ted by J. E. CROSS. With<br />

Contributions by D. BREARLEY, J. CRICK, T. N. HALL, A. ORCHARD, Cam bridge<br />

1996, 248-292 (ci-après CROSS). Une traduction annotée de ce texte a été publiée<br />

dans G. BESSON – M. BROSSARD-DANDRÉ – Z. IZYDORCZYK, Vengeance du<br />

Sauveur, in EAC II, 371-398. Le texte de ce manuscrit n’est pas unique ; dans le<br />

fonds von Dobschütz (voir n. 18) figure en effet la collation intégrale d’un témoin<br />

qui en est très proche, mais qu’il n’est pas possible d’identifier, en l’absence de


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

Ces travaux font ressortir les insuffisances de l’é<strong>di</strong>tion de C. von Tischendorf.<br />

Toute étude de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris se doit d’en revenir aux<br />

manuscrits. La présente étude exploitera ainsi les é<strong>di</strong>tions existantes de<br />

co<strong>di</strong>ces spécifiques et les collations iné<strong>di</strong>tes d’Ernst von Dobschütz 28 ,<br />

même si, en l’absence de toute étude d’ensemble de la tra<strong>di</strong>tion manuscrite,<br />

il s’agit d’un exercice périlleux.<br />

2.1. Les deux recensions de la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Le contenu de la Vin<strong>di</strong>cta ne peut être à l’heure actuelle considéré<br />

comme assuré. Comme l’ont relevé E. Kölbing et Mabel Day, certains<br />

manuscrits ne mentionnent en effet pas la figure de Volusien 29 ; ces co<strong>di</strong>ces<br />

se <strong>di</strong>stinguant des autres sous d’autres aspects dont il sera question<br />

plus loin, il est nécessaire d’y voir une recension spécifique de la<br />

Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris. Je <strong>di</strong>stinguerai cette forme, que j’appellerai la recension<br />

non volusienne, des états connus, désignés par recension volusienne<br />

(c’est-à-<strong>di</strong>re mentionnant Volusien).<br />

2.1.1. La Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris volusienne<br />

La recension qui fait mention de Volusien est la seule é<strong>di</strong>tée. Deux<br />

volets qui se répondent constituent une histoire unique 30 , située sous le<br />

toute mention de cote, de sigle et de folio ; il ne peut en tout cas pas s’agit du<br />

manuscrit de Saint-Omer, d’une part parce que E. von Dobschütz en ignorait<br />

l’existence, d’autre part parce qu’une variante dont il sera question plus loin<br />

prouve qu’il s’agit d’un autre témoin. D’après les collations iné<strong>di</strong>tes d’E. von<br />

Dobschütz, le manuscrit Cambridge, Corpus Christi College 288, fol. 54 v -60 r<br />

(XII e -XIII e s.) s’achève comme le témoin de Saint-Omer, mais il en <strong>di</strong>ffère sur<br />

plusieurs points en son début ; il en est moins proche que le manuscrit non identifié.<br />

28 Sauf in<strong>di</strong>cation contraire, toutes les in<strong>di</strong>cations sur des variantes manuscrites<br />

proviennent des collations contenues dans le fonds von Dobschütz (voir n.<br />

18). Je remercie G. BESSON (Ecole Normale Supérieure, Lyon), d’avoir procédé à<br />

quelques vérifications sur le Parisinus lat. 5327, utilisé par von Dobschütz.<br />

29 KÖLBING – DAY, cit., XVI-XVII. Les manuscrits concernés sont : Bristish<br />

Library, Royal 8 E XVII, Royal 9 A XIV et Harley 495.<br />

30 La Vin<strong>di</strong>cta est souvent considérée comme la combinaison superficielle de<br />

deux récits (ainsi IZYDORCZYK, The Evangelium Nicodemi in the Latin Middle<br />

239


240<br />

Rémi Gounelle<br />

règne de Tibère qui, seul, semble intéresser l’auteur de ce texte. La première<br />

section (§1-10) a pour protagoniste principal Tyrus, un officier<br />

d’Aquitaine atteint d’un chancre au visage qui, une fois converti au<br />

christianisme, trouve la guérison ; la seconde (§11-35) est consacrée au<br />

siège de Jérusalem par Tyrus (devenu Titus lors de son baptême) et Vespasien,<br />

à l’intervention de Volusien et à la guérison de Tibère, atteint de<br />

la lèpre, par le portrait de Jésus.<br />

Dans ces formes du récit, la première apparition de Véronique et du<br />

portrait de Jésus est abrupte : après avoir pris possession de la Judée,<br />

Titus et Vespasien cherchent à se procurer un portrait (uultus 31 ) du<br />

Christ (§18), sans que les raisons de leur quête ne soit explicitée ; ils découvrent<br />

qu’une femme nommée Véronique en possède un et jettent Pilate<br />

en prison (§18) 32 . Du sort accordé à la détentrice de ce portrait, qui<br />

avait été mentionnée par Nathan parmi les personnes guéries par Jésus<br />

(§6), rien n’est <strong>di</strong>t à ce stade de l’histoire. Titus et Vespasien demandent<br />

alors à l’empereur Tibère d’envoyer Volusien en Judée; ce dernier a<br />

pour mission de trouver un <strong>di</strong>sciple de Jésus qui puisse le guérir (§19).<br />

Une fois arrivé, Volusien interroge « tous ceux qui avaient connu le<br />

Christ » (§19), parmi lesquels Véronique (§22). Il cherche alors à se procurer<br />

le portrait du Seigneur, sans hésiter à faire usage de la force (§24).<br />

Véronique finit par céder à la torture et avoue l’avoir dans sa chambre 33<br />

et l’adorer chaque jour. Elle remet alors le portrait de Jésus à Volusien,<br />

qui se prosterne devant lui avant de le déposer, emballé « dans une étoffe<br />

de pourpre brochée d’or », dans un coffret qu’il scelle de son anneau<br />

(§24). Ce portrait provoquera la guérison et la conversion de Tibère<br />

(§33-35).<br />

Ages, cit., 60), mais l’homogénéité du texte est justement signalée dans EAC II,<br />

371 ; ces savants font commencer le second volet au §11.<br />

31 Ce terme est attesté dans le manuscrit de Saint-Omer, susmentionné, dans le<br />

Parisinus lat. 5327, le Vaticanus lat. 4363 et l’Ambrosianus B 57 inf. TISCHENDORF<br />

é<strong>di</strong>te : facie siue uultu. La même <strong>di</strong>fférence est constatable au §24.<br />

32 La recherche du portrait de Jésus est par erreur considérée comme la fin du<br />

§17 dans CROSS, 270 et, en conséquence, dans EAC II, 389.<br />

33 Le lieu dans lequel Véronique conserve le portrait fait l’objet de variantes.<br />

Cf. plus bas.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

2.1.2. La recension non volusienne<br />

Dans les formes non volusiennes, encore iné<strong>di</strong>tes 34 , le récit est plus<br />

simple et homogène. Le portrait de Jésus fait son apparition dans la<br />

bouche de Nathan ; après avoir raconté les faits et gestes de Jésus, et<br />

après avoir mentionné sa résurrection, le Juif précise en effet que Véronique<br />

avait été guérie d’une perte de sang et avait ensuite « représenté<br />

(figurauit) son visage (uultum) sur son pallium » (§7) 35 . Titus se convertit<br />

alors et promet à Nathan de venger la mort de Jésus (§9) ; puis il<br />

convoque Vespasien, présenté comme son frère ; suit le récit du siège de<br />

Jérusalem (§11-17) et la recherche du portrait de Jésus (§18). Titus et<br />

Vespasien trouvent Véronique et la renvoient à Rome, avec l’image et<br />

les ennemis du Christ qu’ils avaient arrêtés (§27) ; après avoir fait son<br />

rapport à Tibère, le légat de Titus et de Vespasien lui montre le portrait,<br />

qui guérit l’empereur (§33) ; Tibère se retourne alors contre Pilate et le<br />

met à mort (§35).<br />

2.1.3. Relations entre ces deux recensions<br />

Il peut sembler prématuré de déterminer laquelle de ces deux recensions<br />

est la plus ancienne, mais un élément important permet d’ores et<br />

déjà de trancher en faveur de la forme non volusienne : le récit sur Volusien<br />

qui en est absent est très proche de la Cura sanitatis Tiberii. C’est<br />

d’ailleurs sur la base de cette parenté que la recherche antérieure a cru<br />

voir dans la Cura sanitatis Tiberii un dérivé de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris 36 ,<br />

34 Seul le début du ms. Bristish Library, Harley 495 est é<strong>di</strong>té dans l’appen<strong>di</strong>ce<br />

de KÖLBING – DAY, cit. J’ai pu prendre connaissance intégrale, dans les archives<br />

d’E. von Dobschütz (cf. n. 18), d’une collation intégrale du ms. Londres, British<br />

Library, Royal 8 E XVII (fol. 123b), avec les variantes de trois autres témoins :<br />

Londres, British Library, Royal 9 A XIV (fol. 292b), Cambridge, Universitary<br />

Library, Dd.3.16 (Oo.VII.48) (f. 18b) et Oxford, Bodleian Library, Selden Supra<br />

74 (fol. 28a).<br />

35 Le texte du ms. British Library, Royal 8 E XVII est très proche de celui é<strong>di</strong>té<br />

par KÖLBINGS – DAY, cit., 83 (Quaedam uero femina nomine Veronica in terra nostra<br />

que fluxum sanguinis patiebatur per xii annos curauit non potuit nisi per ipsum.<br />

Et postea pro amore suo uultum suum figurauit in pallio suo. Et omnes ibi aduenientes<br />

infirmos ho<strong>di</strong>erna <strong>di</strong>e illum adorantes et osculantes mox sanitatem optimam<br />

suscipiunt). Sur le sens de pallium, voir plus loin, p. 249.<br />

36 TISCHENDORF, LXXXIV, considérait comme une évidence que la Vin<strong>di</strong>cta<br />

241


242<br />

Rémi Gounelle<br />

une des sources de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris 37 , ou encore un proche parent<br />

de ce texte 38 . Or, il est <strong>di</strong>fficile d’imaginer un copiste éliminant de la<br />

Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris les éléments concernant Volusien sans supprimer<br />

d’autres éléments du récit ou sans laisser des traces du texte qu’il supprimait.<br />

Il est par contre possible qu’un copiste ait complété un texte<br />

préexistant à l’aide de la Cura sanitatis Tiberii.<br />

Cette hypothèse est d’autant plus vraisemblable que les manuscrits<br />

connus de Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris volusienne posent des problèmes de cohérence<br />

: dans le texte é<strong>di</strong>té par C. von Tischendorf, l’image est découverte<br />

deux fois ; dans le manuscrit de Saint-Omer, où ce doublet n’apparaît<br />

pas tel quel, l’action se déroule de façon surprenante : Titus et<br />

Vespasien cherchent le portrait de Jésus et trouvent Véronique (§18),<br />

puis Volusien arrive et Véronique se présente à lui comme la femme hémorroïsse<br />

(§22) ; Volusien lui réclame alors le portrait de Jésus, dont il<br />

n’est pourtant pas censé connaître l’existence (§24). Ces problèmes de<br />

cohérence s’expliquent si le texte mentionnant Volusien résulte de la<br />

combinaison d’un récit proche de celui de Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris non volusienne,<br />

où figurent les détails du §18, et de la Cura sanitatis Tiberii, où<br />

la suite trouve des parallèles 39 . Les quelques contacts qui seront relevés<br />

Salvatoris était plus ancienne que la Cura sanitatis. A. de SANTOS OTERO, Los<br />

Evangelios Apócrifos, Madrid (1956 1 ) 1988 6 , 506, présente de son côté la Cura<br />

sanitatis Tiberii comme une réécriture d’une forme ancienne de la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Saluatoris.<br />

37 Pour VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 209-214, 217, 277*, la Cura sanitatis<br />

Tiberii est le témoin le plus ancien de la légende de Véronique et est une des<br />

sources de la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris. Bien que peu argumentée, cette hypothèse s’est<br />

imposée, au point d’être citée comme une évidence dans la recherche contemporaine;<br />

cf. par exemple EAC II, 375.<br />

38 En 1876, Anton SCHÖNBACH, cit., 185-186, tenta de montrer que la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Saluatoris – qu’il considérait comme le plus ancien des deux textes, comme C.<br />

von Tischendorf – et la Cura sanitatis Tiberii seraient deux réécritures indépendantes<br />

d’un texte plus ancien, la Mors Pilati (‘Mort de Pilate’), un texte é<strong>di</strong>té par<br />

TISCHENDORF, 456-458, traduit par J.-N. PÉRÈS et in EAC II, 401-413, et qu’il<br />

datait des VI e -VII e siècles (cf. le schéma récapitulatif d’A. SCHÖNBACH, cit., p.<br />

170, où la Cura sanitatis Tiberii porte le sigle B, la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris K et la<br />

Mors Pilati A). Comme l’a montré VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 230-238,<br />

cette théorie est intenable, car loin d’être un texte ancien, la Mort de Pilate est un<br />

extrait de la Légende dorée de Jacques de Voragine, et, par l’intermé<strong>di</strong>aire d’elle,<br />

d’une légende en prose sur Pilate largement <strong>di</strong>ffusée au Moyen Age (voir la présentation<br />

de la question par J.-N. PÉRÈS in EAC II, 401-405).<br />

39 Cf. Cura sanitatis, § 24.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

dans la suite de cette étude entre la Cura sanitatis Tiberii et la recension<br />

volusienne de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris vont en tout cas dans ce sens.<br />

Puisqu’enfin, la recension volusienne de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris<br />

semble accorder plus d’importance au portrait de Jésus, dont elle fait<br />

une véritable relique, que la recension non volusienne 40 , il y a toutes les<br />

chances qu’elle résulte d’une révision d’un texte antérieur, plus court,<br />

que conserve la forme non volusienne. Les relations précises entre ces<br />

deux recensions et la Cura sanitatis Tiberii ne pourront pas être déterminées<br />

tant qu’une é<strong>di</strong>tion critique n’en aura pas été élaborée, mais il<br />

semble donc d’ores et déjà possible d’affirmer que la forme la plus ancienne<br />

de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris ne dépend pas de la Cura sanitatis Tiberii.<br />

2.2. Datation et localisation<br />

La datation et la localisation de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris ont fait l’objet<br />

de quelques hypothèses qu’il convient de <strong>di</strong>scuter brièvement à la lumière<br />

de la tra<strong>di</strong>tion manuscrite.<br />

2.2.1. Un texte du sud de la Gaule ?<br />

Dans son étude sur les images du Christ, E. von Dobschütz a proposé<br />

de dater la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris de la période pré-carolingienne, en raison<br />

de son usage des données historiques ; sur la base de la finale du<br />

Parisinus lat 5327, il a situé la rédaction de ce texte dans le sud de la<br />

Gaule, peut-être au début du VIII e siècle 41 .<br />

Cette hypothèse a été prolongée et précisée par Gisèle Besson, Michèle<br />

Brossard-Dandré et Zbigniew Izydorczyk 42 : la finale du texte,<br />

telle qu’attestée par le Parisinus lat 5327, précise que Tibère s’est rendu<br />

à Agde, d’où il a pris l’Hérault et est parvenu « à la rivière appelée<br />

Tincta », c’est-à-<strong>di</strong>re la Thongue 43 . Or, une abbaye béné<strong>di</strong>ctine, dé<strong>di</strong>ée<br />

à un énigmatique saint Tibère, a été é<strong>di</strong>fiée au confluent de l’Hérault et<br />

de la Thongue vers 770. Cette coïncidence ne saurait être le fait du hasard<br />

: la construction de cette abbaye et la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris ont très<br />

probablement partie liée. Peut-être faudrait-il aller jusqu’à considérer<br />

40 Cf. plus loin.<br />

41 DOBSCHÜTZ, Christusbilder, cit., 216, 277*.<br />

42 Voir plus haut, n. 27.<br />

43 EAC II, 398.<br />

243


244<br />

Rémi Gounelle<br />

la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris comme une « histoire du patron de cette<br />

abbaye » 44 ; si tel était le cas, ce texte devrait être daté un peu plus tard<br />

que ne le proposait Ernst von Dobschütz – à la fin du VIII e siècle.<br />

De telles hypothèses ne sont toutefois valables que pour la forme<br />

longue attestée par le Parisinus lat 5327. Mais est-elle primitive ? On<br />

peut en douter, car elle ne figure ni dans le manuscrit le plus ancien<br />

connu, déjà mentionné, dont la fin courte se retrouve dans d’autres co<strong>di</strong>ces<br />

45 , ni dans les témoins é<strong>di</strong>tés par C. von Tischendorf ; dans ces manuscrits,<br />

rien n’est <strong>di</strong>t du baptême de Tibère (§35), du châtiment de Pilate,<br />

ni de la mort de Tibère, à la <strong>di</strong>fférence du Parisinus lat 5327.<br />

D’autres manuscrits contiennent un récit plus long que le codex de<br />

Saint-Omer et ses proches parents, mais il s’agit d’une autre fin que celle<br />

du Parisinus lat 5327 46 . D’autres encore contiennent un texte proche<br />

de celui de ce manuscrit, mais plus court 47 . Il est donc probable que la<br />

forme longue transmise par le Parisinus lat 5327 est le résultat d’une<br />

évolution progressive de la fin de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris 48 . Si tel était le<br />

cas, la datation et la localisation avancées par Ernst von Doschütz et<br />

approfon<strong>di</strong>e par Gisèle Besson, Michèle Brossard-Dandré et Zbigniew<br />

Izydorczyk ne vaudraient que pour la recension volusienne de la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Salvatoris, voire pour une sous-famille cette recension, à laquelle<br />

se rattacherait le Parisinus lat. 5327. Seule une étude de la tra<strong>di</strong>tion manucrite<br />

dans son ensemble, associée à une analyse littéraire du texte,<br />

permettra de trancher cette question.<br />

2.2.2. Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris et Evangelium Nicodemi<br />

Jusqu’il y a peu, un autre in<strong>di</strong>ce pouvait être utilisé pour dater la<br />

Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris: la forme é<strong>di</strong>tée par Constantin von Tischendorf cite<br />

explicitement au §21 le récit que l’Evangile de Nicodème latin donne<br />

44 EAC II, 378.<br />

45 Le codex inconnu (voir note 27) et le ms. Cambridge, Corpus Christi<br />

College 288 s’achèvent de la même manière.<br />

46 C’est le cas du ms. Oxford Bodleian Library 90 (XIII e s.), fol. 88 v -90 v et des<br />

manuscrits de la recension non volusienne.<br />

47 Tel semble être le cas du ms. Milan, Biblioteca Ambrosiana B 57 inf.<br />

48 Les auteurs de EAC II, 380 et 396, affirment que, dans le manuscrit de<br />

Saint-Omer, la fin a été « manifestement abrégée ». Cela n’est évident que pour<br />

les lecteurs habitués à un texte plus long.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

de la libération de Joseph d’Arimathée de prison 49 ; la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris<br />

ne pouvait donc être antérieure au VI e , voire au VII e siècle 50 . Mais la<br />

publication du manuscrit de Saint-Omer change à nouveau la donne :<br />

en lieu et place du récit de la libération miraculeuse de Joseph d’Arimathée,<br />

il contient un témoignage du même Joseph sur la descente de<br />

croix et la résurrection ; une apparition du ressuscité à Joseph y est<br />

certes mentionnée, mais sans aucune allusion claire à l’Evangile de Nicodème.<br />

Les collations iné<strong>di</strong>tes d’Ernst von Dobschütz montrent en<br />

outre que le Parisinus lat. 5327 suit le manuscrit de Saint-Omer sur ce<br />

point, tan<strong>di</strong>s que la recension non volusienne et le Bodleianus 90 ne<br />

font pas mention de Joseph d’Arimathée.<br />

Ce passage a donc manifestement été revu au fil du temps. La recherche<br />

sur la tra<strong>di</strong>tion textuelle de ce texte n’en étant qu’à ses balbutiements,<br />

il n’est à l’heure actuelle pas possible de déterminer si la citation<br />

de l’Evangile de Nicodème figurait ou non dans la forme la plus ancienne<br />

de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris. Il n’en est pas moins vrai que l’absence<br />

de ce passage dans la recension non volusienne, comme dans certains<br />

manuscrits de la recension volusienne, plaide pour un ajout secondaire<br />

dans certaines formes de cette dernière recension. La question devra<br />

être <strong>di</strong>scutée par la recherche ultérieure, mais, quels que soient les résultats<br />

auxquels elle parviendra, il est clair que le critère de datation que<br />

fournissait la citation de l’Evangile de Nicodème ne peut plus être retenu.<br />

2.2.3. Bilan<br />

La plus grande prudence est ainsi de mise sur l’origine de ce texte,<br />

qui ne pourra être déterminée que sur la base d’une véritable é<strong>di</strong>tion<br />

critique, prenant en compte les nombreux témoins manuscrits<br />

existants 51 . La seule certitude est que la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris est antérieure<br />

au IX e siècle, date du plus ancien manuscrit connu, et qu’elle a circulé<br />

sous <strong>di</strong>verses formes.<br />

49 Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris, §21.<br />

50 Cf. GOUNELLE, Pilate (Acts of), cit.<br />

51 Une soixantaine de témoins manuscrits a été identifiée par Z. Izydorczyk,<br />

dans le cadre de ses recherches sur la tra<strong>di</strong>tion manuscrite de l’Evangile de<br />

Nicodème (cf. Z. IZYDORCZYK Manuscripts of the Evangelium Nicodemi: A<br />

Census, Toronto 1994). E. von Doschütz n’en connaissait que quinze, qu’il mentionne<br />

dans son Christusbilder, cit., 276*-277*.<br />

245


2.3. Analyse<br />

246<br />

Rémi Gounelle<br />

Pour autant que la documentation <strong>di</strong>sponible permette d’en juger,<br />

les deux recensions s’accordent sur la nature de l’image. Dans un cas<br />

comme dans l’autre, il s’agit bien d’un véritable portrait, seul le visage<br />

(uultus ou facies) étant représenté ; Jésus n’est donc pas peint intégralement,<br />

comme dans le De Veronilla. Il s’agit, d’autre part, d’une œuvre<br />

de Véronique, non acheiropoiète, comme nous le montrerons plus loin.<br />

Cet accord de fond ne doit pas cacher des <strong>di</strong>vergences importantes<br />

entre les deux recensions.<br />

2.3.1. La Vin<strong>di</strong>cta volusienne : une relique<br />

A en croire l’é<strong>di</strong>tion de Tischendorf, l’image de Jésus était conservée<br />

par Véronique sur une fine étoffe pure (in sindone munda), que le récit<br />

<strong>di</strong>stingue de la fine étoffe d’or (in sindone aurea) dans laquelle l’enveloppe<br />

Volusien (§24). Les autres manuscrits de la recension volusienne<br />

auxquels j’ai eu accès ne dressent pas de parallèle similaire. Ils précisent<br />

bien que Volusien enveloppe le portrait de Jésus, mais ils emploient le<br />

terme pallium, et non sindon, pour désigner le tissu qui sert à protéger<br />

l’image et qui sera déployé par la suite devant Tibère pour la lui faire<br />

apparaître (§24, 33) 52 . Quant à Véronique, elle ne conserve pas le portrait<br />

sur un sindon, mais la tra<strong>di</strong>tion manuscrite ne permet pas à l’heure<br />

actuelle de reconstituer le terme exact employé 53 .<br />

52 Attesté dans le manuscrit de Saint-Omer, le terme pallium se retrouve dans<br />

le codex inconnu d’E. von Dobschütz (voir n. 29), et dans les témoins suivants :<br />

Cambridge, Corpus Christi College 288 ; Milan, Biblioteca Ambrosiana, B 57<br />

inf ; Oxford, Bodleian Library 90.<br />

53 Le manuscrit de Saint-Omer lit en effet : ego enim habeo incluso in cu[…]u<br />

meo (CROSS, 280). L’é<strong>di</strong>teur restitue in cubitu, ‘dans/sur ma couche’, sur la base<br />

de la traduction en vieil-anglais qui en dépend (CROSS, 281 : one mynre bredcofan).<br />

Le manuscrit collationné par E. von Dobschütz et qui est très proche du<br />

codex de Saint-Omer (voir n. 27) lit ici in cofinu, ‘dans la corbeille’, ‘dans le couffin’,<br />

ce qui n’est guère satisfaisant. Le ms. Oxford Bodleian Library 90 semble,<br />

quant à lui, ici corrompu ; dans sa collation, E. von Dobschütz in<strong>di</strong>que : in coctimo<br />

(?). Le Parisinus lat 5327, enfin, parle de coussin (cusinum), une leçon qui<br />

trouve un parallèle dans certains manuscrits de la Cura sanitatis Tiberii (§10), aux<br />

côtés de cubiculum, qui désigne la chambre à coucher. Le Vaticanus lat. 4363,<br />

quant à lui, a abrégé; il lit simplement : ego habeo illum.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

Tout aussi délicate à déterminer est la nature exacte de cette image.<br />

Il est clair, pour un certain nombre de témoins, qu’il s’agit d’une peinture.<br />

Ils s’accordent en effet avec la Cura sanitatis Tiberii pour rendre<br />

compte de la captation du visage de Jésus à l’aide du verbe pingere,<br />

‘peindre’ (§32) – mais cette précision est absente de plusieurs manuscrits<br />

54 . Les co<strong>di</strong>ces qui transmettent ce texte ne sont en outre pas toujours<br />

très clairs sur ce point. Ainsi le manuscrit de Saint-Omer lit-il: inuenerunt<br />

mulierem nomine Veronice qui pincxerat eum habens (§32) 55 ; le<br />

pronom relatif qui, bien qu’au masculin, renvoie ici très probablement<br />

à Véronique, le copiste procédant en d’autres endroits à des accords<br />

fautifs du même type 56 ; il faut donc vraisemblablement traduire : « une<br />

femme nommée Véronique qui l’avait, car elle l’avait peint » 57 . Même si<br />

l’attribution de la peinture à Véronique peut sembler peu cohérente<br />

avec le §26, où Véronique affirme que ce portrait lui a été donné par Jésus<br />

58 , cette interprétation est confirmée par le manuscrit Cambridge,<br />

Corpus Christi College 288, qui lit : inuenerunt mulierem nomine Veronicam<br />

quae pinctum eum habebat 59 .<br />

54 Cette précision est absente du texte é<strong>di</strong>té par C. von Tischendorf, comme de<br />

l’Ambrosianus B 57 inf. et du Bodleianus 90. Comme elle est présente dans la<br />

recension non volusienne, je pense qu’elle appartenait peut-être à la forme primitive<br />

de la recension volusienne, et qu’elle en a été éliminée par la suite, pour faire<br />

de ce portrait une image implicitement acheiropoiète. Une fois encore, il ne sera<br />

possible de trancher ce point qu’au terme d’une étude détaillée de la tra<strong>di</strong>tion<br />

manuscrite.<br />

55<br />

CROSS, 290.<br />

56 Cf. A. ORCHARD, The Style of the Texts and the Translation Strategy, in<br />

CROSS, 105-130 (108).<br />

57 EAC II, 395. Les auteurs des EAC II, 395, affirment : « le texte est ambigu<br />

et présente des variantes dans les manuscrits ; selon les cas, on peut comprendre<br />

que le portrait a été peint par Véronique ou par le Christ ».<br />

58<br />

CROSS, 282. Au §26, les manuscrits latins utilisés par C. von Tischendorf<br />

sont corrompus, mais ils ne laissent pas de trace du texte du manuscrit de Saint-<br />

Omer. Ces précisions sont absentes de la traduction en vieil-anglais é<strong>di</strong>tée par<br />

CROSS, mais il est <strong>di</strong>fficile d’en conclure quoi que ce soit, car le traducteur conteste<br />

la nature du tissu détenu par Véronique : il ne s’agit pas selon lui du portrait de<br />

Jésus, mais d’un morceau de ses vêtements – voir §18 ; CROSS, 273 ; §24, p. 381 ;<br />

l’absence de cette phrase dans la traduction en vieil-anglais est dès lors peut-être<br />

due à une censure du traducteur.<br />

59 Le texte du Vaticanus lat. 4363 est proche, mais la collation du fonds E. von<br />

Dobschütz n’est pas très claire sur ce point.<br />

247


248<br />

Rémi Gounelle<br />

Quoi qu’il en soit, la Vin<strong>di</strong>cta volusienne insiste sur la conservation<br />

de ce qui apparaît bel et bien comme une relique : à la <strong>di</strong>fférence de la<br />

Cura sanitatis Tiberii, mais comme la recension non volusienne, elle<br />

souligne l’importance que le portrait de Jésus joue pour Véronique, qui<br />

l’adore chaque jour (§24), y voyant le signe de la bonté de Jésus (§26).<br />

La dévotion de Véronique suscite celle des autres protagonistes : Volusien<br />

l’adore à son tour (§24) et l’emballe dans de l’or, avant que Tibère<br />

ne l’adore à son tour (§33). Le récit insiste également sur le coffre dans<br />

lequel a été transporté le portrait de Jésus et fait peut-être par là-même<br />

allusion aux caisses de bois dans lesquelles cette image aurait été transportée<br />

de Jérusalem à Rome ; de fait, deux églises romaines prétendent<br />

conserver de tels reliquaires : Saint Eloi des Forgerons (S. Eligio dei<br />

Ferrari) et Sainte Marie des Martyrs 60 . Il reviendra à la recherche ultérieure<br />

d’étu<strong>di</strong>er les éventuels rapports de la vénération accordée à ces<br />

reliquaires avec cette forme de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris.<br />

La transformation de l’image de Jésus en une véritable relique ne<br />

rend que plus surprenant le silence de cette recension sur sa destinée :<br />

ni le texte long du Parisinus lat 5327, ni les formes plus courtes auxquelles<br />

j’ai eu accès ne précisent ce que devient la relique. Le lecteur attentif<br />

aura certes noté que, dans cette forme du récit, le palais de Tibère<br />

est apparemment localisé au Latran (§27) 61 ; ce serait donc là que le<br />

portrait de Jésus est situé à la fin du récit. Cette in<strong>di</strong>cation fait peutêtre<br />

écho á la représentation Christ, réputée acheiropoiète, du Sancta<br />

Sanctorum de Saint-Jean-de Latran 62 , mais son caractère implicite empêche<br />

d’y voir un clair renvoi.<br />

60 Voir X. BARBIER DE MONTAULT, Reliques et souvenirs de la Passion de<br />

Notre-Seigneur à Rome, Revue de l’art chrétien 1888, 212-218, republié dans<br />

Oeuvres complètes, VII : Rome. V – Dévotions populaires, deuxième partie, Paris<br />

1893, 494-503 (où Sainte-Marie de la Rotonde désigne très probablement Sainte<br />

Marie des Martyrs, qui est l’ancien Panthéon). Cf. aussi les rubriques « Saint<br />

Eloi des Forgerons » et « Sainte Marie des Martyrs » dans X. BARBIER DE<br />

MONTAULT, Inventaire des principales reliques de chaque église [de Rome], Année<br />

liturgique à Rome, V, 130-162, réé<strong>di</strong>té dans Oeuvres complètes, VII, cit., 252-<br />

279.<br />

61 Les manuscrits ne parlant pas de Volusien mentionnent apparemment<br />

Rome, sans plus de précision.<br />

62 Sur cette image, voir G. WOLF La Veronica e la tra<strong>di</strong>zione romana <strong>di</strong> icone,<br />

in A. GENTILI et al. (edd.), Il ritratto e la memoria: materiali 2, Rome 1993, 9-35<br />

(19-21).


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

2.3.2. La Vin<strong>di</strong>cta non volusienne : une image miraculeuse<br />

Dans la recension non volusienne, le portrait de Jésus est présenté<br />

sans ambiguité comme l’oeuvre de Véronique en personne, qui a représenté<br />

(figurauit) le visage de son sauveur sur son pallium (in pallio suo),<br />

ce qui pourrait renvoyer non à une quelconque tenture, mais à son<br />

manteau. Si les miracles effectués grâce à l’image détenue par Véronique<br />

sont mentionnés – tous ceux qui se rendaient chez cette femme,<br />

adoraient l’image et l’embrassaient étaient guéris, précise le texte, bien<br />

avant de narrer la guérison de Tibère (§7) 63 – la puissance miraculeuse<br />

du portrait n’incite nullement l’empereur à le conserver : après avoir<br />

condamné Pilate pour avoir injustement mis à mort Jésus, Tibère rend<br />

à Véronique son image, la remercie en lui donnant de l’argent et des<br />

honneurs et la renvoie chez elle 64 .<br />

La Vin<strong>di</strong>cta non volusienne est donc en retrait par rapport aux<br />

formes volusiennes : non seulement la dévotion à l’image est beaucoup<br />

moins mise en valeur, mais encore le portrait de Jésus retourne à Jérusalem<br />

après avoir accompli la guérison de Tibère. Ces deux traits<br />

confirment la probable antériorité de cette forme du récit par rapport à<br />

la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris volusienne.<br />

III. Bilan<br />

Cette présentation des récits de la fin de l’Antiquité et du Haut<br />

Moyen Âge sur la légende de Véronique aura fait ressortir plus d’incertitudes<br />

que de certitudes, aussi bien sur la Cura sanitatis Tiberii – dont<br />

l’extension exacte dans les manuscrits n’est pas entièrement sûre et<br />

dont l’interprétation n’est pas aisée – que sur la Vin<strong>di</strong>cta Saluatoris –<br />

dont les textes é<strong>di</strong>tés pourraient être des réécritures d’une forme plus<br />

ancienne, encore iné<strong>di</strong>te, et qu’il serait nécessaire d’étu<strong>di</strong>er à nouveaux<br />

frais, sur la base de la soixantaine de manuscrits identifiés à l’heure actuelle.<br />

Il n’en reste pas moins que, même à la lumière d’un dossier aussi<br />

63 Cf. plus haut p. 241.<br />

64 Le manuscrit Bristish Library, Royal 8 E XVII lit : Imperator autem red<strong>di</strong><strong>di</strong>t<br />

Veronice uultum Domini et de<strong>di</strong>t maximas <strong>di</strong>uitias et honores et misit eam per (?),<br />

fideles seruos in terram suam.<br />

249


250<br />

Rémi Gounelle<br />

complexe et insuffisamment travaillé, certaines constantes apparaissent.<br />

D’une part, dans ces aucunes de ces tra<strong>di</strong>tions le portrait de Jésus<br />

n’est d’origine miraculeuse – si ce n’est dans des manuscrits isolés et<br />

tar<strong>di</strong>fs qui ont mis au goût du jour leur source –, mais il se transforme<br />

progressivement en relique ; par là-même, les <strong>di</strong>verses formes de la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Salvatoris constituent de précieux témoignages sur la préhistoire<br />

du culte de la Sainte Face. D’autre part, cette légende n’est pas liée à la<br />

passion du Christ dans les textes dont il a été question précédemment,<br />

mais à la guérison de Véronique ; il y a tout lieu de croire que c’est ce<br />

contexte initial qui explique que ce portrait ait des vertus miraculeuses :<br />

les guérisons qu’il opère prolongent en quelque sorte la guérison de Véronique.<br />

Les tra<strong>di</strong>tions dans lequelles le visage de Jésus est imprimé de façon<br />

miraculeuse sur un tissu ne proviennent ni de la Cura sanitatis Tiberii ni<br />

de la Vin<strong>di</strong>cta Salvatoris. Elles trouvent peut-être leur origine dans un<br />

récit apocryphe du VI e siècle, les Actes de Pierre et de Paul, dont Ernst<br />

von Dobschütz n’a peut-être pas assez perçu l’importance 65 : sur le chemin<br />

qui le mène à son martyre, l’apôtre Paul croise une femme, que la<br />

version grecque nomme Perpétue tan<strong>di</strong>s que la version latine appelle<br />

Plautilla ; il lui demande la pièce de tissu qu’elle a avec elle ; lors de la<br />

décapitation de Paul, ce tissu est mis sur les yeux de l’apôtre, dont le<br />

sang s’imprime sur le tissu, qui est miraculeusement renvoyé à sa propriétaire,<br />

pour la plus grande confusion de ceux qui assistent à la scène<br />

66 . Au vu de l’influence des Actes de Pierre et de Paul en Occident et<br />

de leur fréquente association avec les tra<strong>di</strong>tions autour de Pilate, il est<br />

possible que cette histoire explique que la légende de Véronique, originellement<br />

située bien avant la Passion, ait été par la suite localisée sur<br />

le chemin menant au Calvaire. La question, qui ne semble pas avoir été<br />

encore étu<strong>di</strong>ée de façon approfon<strong>di</strong>e, mériterait de l’être.<br />

La recherche sur la Cura sanitatis Tiberii et surtout sur la Vin<strong>di</strong>cta<br />

Saluatoris n’en est qu’à ses débuts. Elle aura nécessairement des répercussions<br />

sur les origines de la légende de Véronique, puisque les relations<br />

entre la Cura sanitatis Tiberii et de la Vin<strong>di</strong>cta sont désormais à<br />

65 Ce texte n’est mentionné par E. von Dobschütz dans Christusbilder, cit.,<br />

252 n. 4.<br />

66 Acta Petri et Pauli, 79 ; Passio sancti Pauli apostoli, 14-18, é<strong>di</strong>tés par R. A.<br />

LIPSIUS, Acta Petri. Acta Pauli, Acta Petri et Pauli…, Leipzig 1891 [réimpression :<br />

Hildesheim – Zürich – New York 1990], 38-42, 212-214.


Les origines littéraires de la légende de Véronique<br />

envisager sous un jour nouveau en fonction des nouvelles données que<br />

les archives d’E. von Dobschütz ont permis de mettre au jour ; il est, en<br />

outre, possible que la publication de la recension non volusienne de la<br />

Vin<strong>di</strong>cta conduise à envisager d’une nouvelle manière la question des<br />

sources des légendes mé<strong>di</strong>évales sur la « Sainte Face » ; enfin, la façon<br />

dont les <strong>di</strong>verses formes de ces textes parlent de l’image de Jésus gagnerait<br />

à être interprétée dans le cadre plus large des reliques de la Passion,<br />

sans se limiter aux images du visage du Christ conservé, comme la recherche<br />

a eu trop tendance à le faire.<br />

251


L’IMAGE D’ÉDESSE, ROMAIN ET CONSTANTIN<br />

BERNARD FLUSIN<br />

École Pratique des Hautes Études, Parigi<br />

L’image d’Édesse qu’on appelle or<strong>di</strong>nairement le mandylion 1 est<br />

l’image acheiropoiète du Christ la plus célèbre dans le monde byzantin.<br />

Elle occupe une place importante à l’époque iconoclaste et peu après,<br />

parce que les iconophiles l’invoquent pour soutenir leur position 2 . Une<br />

nouvelle phase de son histoire commence sous le règne de Romain Ier<br />

Lécapène lorsque, en 944, un siècle après le triomphe des images, elle<br />

est transférée d’Édesse à Constantinople en même temps que la lettre<br />

du Christ à Abgar 3 . Arrivée dans la capitale le 15 août, jour de la Dormition,<br />

elle est accueillie d’abord au grand sanctuaire marial des Blachernes<br />

4 , où se trouvent ce jour-là les empereurs : Romain et ses deux<br />

fils, ainsi que son gendre, Constantin Porphyrogénète 5 . Le lendemain,<br />

16 août, on organise une cérémonie au terme de laquelle la sainte ima-<br />

1 Comme le fait remarquer A. CAMERON, The mandylion and Byzantine Iconoclasm,<br />

in H. L. KESSLER - G. WOLF (edd.), The Holy Face and the Paradox of Representation,<br />

Bologna 1998, 33-54, ici 37, le terme ne devient commun dans les<br />

sources grecques qu’au XI e siècle. Nous conservons l’orthographe tra<strong>di</strong>tionnelle.<br />

En grec, la forme mantivlion (lat. mantile) est plus correcte, mais on remarquera<br />

que, dans le Skylitzès de Madrid, la légende de la miniature illustrant l’arrivée de<br />

l’image d’Édesse porte : to;; a{gion manduvl(ion).<br />

2 Voir CAMERON, cit. (n. 1).<br />

3 La lettre du Christ passe au second plan, mais son transfert est mentionné à<br />

de nombreuses reprises : Récit (B), §§ 44, 45, 46, 49, 50, 52, 53, 56, 62, éd. DOB-<br />

SCHÜTZ, cit. (n. 9), 73**-83**.<br />

4 Sur les Blachernes voir R. JANIN, La géographie ecclésiastique de l’empire byzantin.<br />

Première partie. Le siège de Constantinople et le patriarcat œcuménique.<br />

Tome III. Les églises et les monastères, Paris 1969 2 , 161-171. L’empereur s’y rend<br />

pour la fête de la Dormition : cf. De cerimoniis aulae Byzantinae, I,46, éd. A. VOGT,<br />

Le livre des cérémonies, tome I, Paris 1967 (réimpression de l’é<strong>di</strong>tion de 1935), 177.<br />

5 Cf. Récit (B), § 56, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 81**. Le Récit, comme nous le<br />

verrons, est loin d’être objectif, mais les dates données (15 août pour l’arrivée aux<br />

253


254<br />

Bernard Flusin<br />

ge est déposée dans le palais impérial. La translation de 944 est illustrée<br />

par plusieurs textes. Je me concentrerai sur l’un d’entre eux, dont je<br />

voudrais préciser la date et l’origine : le Récit sur la sainte image acheiropoiète<br />

de Jésus Christ notre Dieu, attribué à Constantin VII Porphyrogénète<br />

6 . Je chercherai ensuite ce que ce récit nous apprend sur l’objet<br />

lui-même. Enfin, je tenterai de dégager le sens que les Byzantins ont attribué<br />

à la translation de cette image si particulière, à la fois relique et<br />

icône, et de montrer comment, en très peu de temps, entre 944 à 945, ce<br />

sens a été profondément transformé.<br />

1. Le Récit<br />

Le Récit sur l’image acheiropoiète d’Édesse est accessible aujourd’hui<br />

dans l’é<strong>di</strong>tion récemment procurée par M. Guscin 7 . Cependant, ce travail,<br />

bien qu’il repose sur une base manuscrite assez large 8 , n’est pas à<br />

proprement parler critique. Aucun classement des manuscrits n’est proposé,<br />

l’é<strong>di</strong>teur utilisant in<strong>di</strong>fféremment, pour le texte du Récit, aussi<br />

bien des ménologes métaphrastiques que des témoins non métaphrastiques.<br />

Les problèmes principaux que pose l’histoire des textes ne sont<br />

pas évoqués, de sorte que cette é<strong>di</strong>tion, qui semble offrir une référence<br />

commode, ne peut guère servir de base au travail que nous nous proposons<br />

ici. Il faut, pour obtenir une image plus exacte des textes, recourir<br />

au livre classique de Ernst von Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen<br />

zur christlichen Legende, paru en 1899, qui, même s’il est en partie<br />

vieilli, reste le guide le plus sûr 9 . Rappelons que Dobschütz é<strong>di</strong>te deux<br />

Blachernes, 16 août pour la cérémonie) sont sûres, et correspondent au programme<br />

de Romain tel qu’on peut le reconstituer.<br />

6 BHG 794, 795, 796 (le rédacteur de ces notices considère Constantin VII<br />

comme l’auteur de BHG 794, et met à part la prière finale – BHG 795 – et le Traité<br />

liturgique ; il rappelle d’autre part avec raison que BHG 794 a été incorporée<br />

par Syméon dans son ménologe).<br />

7 M. GUSCIN, The Image of Edessa, Leiden-Boston 2009 (The Me<strong>di</strong>eval Me<strong>di</strong>terranean).<br />

8 Voir la liste des manuscrits dans GUSCIN, cit. (n. 7), 7. À la <strong>di</strong>fférence de<br />

Dobschütz, Guscin a eu un bon accès aux manuscrits conservés dans les monastères<br />

de l’Athos.<br />

9 E. VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende,<br />

I-II, Leipzig 1899-1900.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

formes du texte : la forme A, anonyme, qu’il juge initiale, et qu’il reprend<br />

dans le livre liturgique des Ménées ; la forme B, qui, d’après son<br />

titre, est une œuvre de Constantin VII, et que Dobschütz considère<br />

comme secondaire 10 . Parce qu’il travaillait à la fin du XIX e s., Dobschütz<br />

ne pouvait savoir que la forme A était en fait le texte qu’on trouve,<br />

pour le 16 août, dans le Synaxaire de Constantinople et que nous<br />

pouvons donc lire maintenant dans l’é<strong>di</strong>tion de Delehaye, parue en<br />

1902 11 . De même, Dobschütz n’était pas au courant des travaux d’Albert<br />

Ehrhard qui, de son côté, reconstituait la structure du grand ménologe<br />

que Syméon Métaphraste avait composé à la fin du X e siècle 12 .<br />

Or le texte B é<strong>di</strong>té par Dobschütz est en fait celui du ménologe métaphrastique<br />

13 . Précisons. On sait que, dans son ménologe, Syméon a ré-<br />

10 DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 38**-85** (é<strong>di</strong>tion de A et de B), 86**-92** (rapport<br />

des deux textes) ; voir les réserves de H. DELEHAYE, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana 19<br />

(1900) 214. Dobschütz réaffirmera plus tard sa position, contre Delehaye : E. VON<br />

DOBSCHÜTZ, Der Kammerherr Theophanes (Zu Konstantins des Purpurgeborenen<br />

Fespre<strong>di</strong>gt auf <strong>di</strong>e Translation des Christusbildes von Edessa), Byzantinische Zeitschrift<br />

10 (1901) 167.<br />

11 H. DELEHAYE, Synaxarium Ecclesiae Constantinopolitanae e co<strong>di</strong>ce Sirmon<strong>di</strong>ano,<br />

nunc Berolinensi a<strong>di</strong>ectis synaxariis selectis, Bruxelles 1902 (Propylaeum ad<br />

Acta Sanctorum Novembris), 893-901 : désormais Synax. CP. L’é<strong>di</strong>tion du texte<br />

A par GUSCIN, cit. (n. 7), 88-111, ne <strong>di</strong>stingue pas entre les <strong>di</strong>fférentes familles de<br />

Synaxaires.<br />

12 A. Ehrhard reconstitue dès 1897 la structure du ménologe métaphrastique,<br />

avec ses <strong>di</strong>x tomes et ses cent quarante-huit textes : A. EHRHARD, Die Legendensammlung<br />

des Symeon Metaphrastes und ihr ursprünglicher Bestand. Eine paläographische<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>e zur griechischen Hagiographie, in Festschrift zum elfhundertjährigen<br />

Jubiläum des deutschen Campo Santo in Rom, Rome 1897, 46-82 ; ID., Forschungen<br />

zur Hagiographie der griechischen Kirche vornehmlich auf Grund der hagiographischen<br />

Handschriften von Mailand, München und Moskau, Römische<br />

Quartalschrift 11 (1897) 67-205. Pour la tra<strong>di</strong>tion manuscrite du Ménologe métaphrastique,<br />

voir A. EHRHARD, Überlieferung und Bestand der hagiographischen<br />

und homiletischen Literatur der griechischen Kirche von den Anfängen bis zum Ende<br />

des 16. Jahrhunderts, II, Leipzig 1938 (Texte und Untersuchungen, 51), 306-709.<br />

Voir C. HØGEL, Symeon Metaphrastes. Rewriting and Canonization, Copenhagen<br />

2002.<br />

13 Dobschütz s’en apercevra plus tard lui-même et, dans un article où il répond<br />

en particulier aux réserves formulées par Delehaye, pourra se flatter d’avoir<br />

donné la première é<strong>di</strong>tion critique d’un texte métaphrastique : DOBSCHÜTZ, Der<br />

Kammerherr, cit. (n. 10), 167.<br />

255


256<br />

Bernard Flusin<br />

uni des textes de nature <strong>di</strong>fférente : des métaphrases à proprement parler,<br />

la vita ou la passion ancienne étant profondément réécrite, mais<br />

aussi des textes qui, parce qu’ils lui paraissaient satisfaisants, ont été repris<br />

tels quels, les manuscrits métaphrastiques pouvant dès lors être<br />

considérés comme une branche de la tra<strong>di</strong>tion <strong>di</strong>recte de chacun de ces<br />

textes 14 . Le Récit sur l’image appartient à la deuxième catégorie. Dans<br />

le ménologe métaphrastique, il n’a donc pas été réécrit, mais il a été retouché<br />

et il convient de chercher sous quelle forme il se présentait dans<br />

les ménologes prémétaphrastiques : l’utilisateur de l’é<strong>di</strong>tion Dobschütz<br />

doit lire attentivement l’apparat critique, et suivre en particulier les leçons<br />

des manuscrits V et X, qui donnent un texte non métaphrastique<br />

15 . Autre élément de complexité : Dobschütz, dans ces deux témoins<br />

du récit, a trouvé, avant la prière finale, un court traité liturgique<br />

sur la façon dont l’image acheiropoiète était honorée à Édesse. Il l’é<strong>di</strong>te<br />

à part, comme un appen<strong>di</strong>ce dont on ne comprend guère le statut 16 .<br />

Doit-on ou non considérer que ce traité fait partie du Récit ? Comme<br />

on le voit, nous n’avons pas affaire à un texte simple, puisqu’il faut tenir<br />

compte de trois formes <strong>di</strong>fférentes : A de Dobschütz, c’est-à-<strong>di</strong>re le<br />

texte des synaxaires, accessible maintenant dans l’é<strong>di</strong>tion de Delehaye<br />

et, moins clairement, dans celle de Guscin 17 ; B de Dobschütz, d’après<br />

les manuscrits non métaphrastiques (désormais B1), ou dans la recension<br />

métaphrastique (désormais B2). Pour parler du Récit, il faut préciser<br />

quelle forme on utilise et <strong>di</strong>stinguer entre A et B, et, quand il y a<br />

lieu, entre B1 et B2.<br />

14 EHRHARD, Überlieferung, cit. (n. 12), II, 697-699 ; cf. HØGEL, cit. (n. 12), 91-<br />

92 et 119. La présence du Récit sur l’image dans le 10 e tome du ménologe métaphrastique<br />

explique l’abondance exceptionnelle de sa tra<strong>di</strong>tion manuscrite.<br />

15 V : Vienne, Bibl. nat., hist. gr. 45 ; X : Paris, Bibl. nat., gr. 1474 (X est un<br />

ménologe métaphrastique, mais il contient un appen<strong>di</strong>ce de textes non métaphrastiques<br />

sur les images du Christ : EHRHARD, Überlieferung, cit. [n. 12], II,<br />

623-624 ; F. HALKIN, Manuscrits grecs de Paris : inventaire hagiographique,<br />

Bruxelles 1968 [Subsi<strong>di</strong>a hagiographica 44], 174-175). Dans son é<strong>di</strong>tion de B,<br />

Dobschütz réserve un apparat spécial à VX. Le manuscrit V appartient à la même<br />

famille que X, mais son texte est retouché. Le texte de X, lui-même, porte<br />

quelques traces d’un remaniement. Mais l’accord des deux donne souvent des leçons<br />

convaincantes.<br />

16 Ed. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 110**-114**. Sur ce point, l’é<strong>di</strong>tion Guscin, qui<br />

é<strong>di</strong>te ce traité à sa place, marque un progrès (cf. GUSCIN, cit. [n. 7], 60-68) : la forme<br />

du texte é<strong>di</strong>té est, pour l’essentiel, non métaphrastique.<br />

17 Synax. CP, cit. (n. 11), 893-901; GUSCIN, cit. (n. 7), 88-111.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

Il est commode, pour comprendre les principales <strong>di</strong>fférences entre<br />

ces trois formes, de partir de B1. Sa structure est simple : après un titre<br />

(sans nom d’auteur dans B1), le texte commence par un prologue, puis<br />

développe longuement une « archéologie 18 », c’est-à-<strong>di</strong>re un exposé sur<br />

les origines et l’histoire ancienne de l’acheiropoiète. Il raconte ensuite la<br />

translation de cette image d’Édesse à Constantinople, puis nous trouvons<br />

le traité liturgique, propre à B1, sur les cérémonies en l’honneur<br />

du mandylion à Édesse, et enfin une assez longue prière finale. Nous<br />

avons noté dans un tableau la présence (X) ou l’absence (0) des principaux<br />

éléments.<br />

Mention de l’auteur<br />

dans le titre<br />

Texte A<br />

(Synaxaire)<br />

Texte B1<br />

(prémétaphrastique)<br />

Texte B2<br />

(métaphrastique)<br />

0 0 X (Constantin<br />

Porphyrogénète)<br />

1. prologue 0 X X<br />

2. « Archéologie » :<br />

2a : le mandylion est<br />

apporté à Abgar par<br />

Ananias<br />

X X X<br />

2b : le mandylion est<br />

apporté à Ananias par<br />

Thaddée<br />

0 X X<br />

2c : redécouverte sous<br />

Eulalios et miracle lors<br />

du siège d’Édesse<br />

X X X<br />

2d : récit de miracle<br />

repris d’Evagre le<br />

Scholastique<br />

0 X X<br />

2e : guérison de la fille<br />

de Chosroès<br />

0 X X<br />

3. Translation X X X<br />

4. Traité liturgique 0 X 0<br />

5. Prière finale pour<br />

l’empereur<br />

0 X X<br />

18 Le terme ajrcaiologiva est employé dans le Récit (B), § 2, éd. DOBSCHÜTZ,<br />

cit. (n. 9), 41**, l. 7.<br />

257


258<br />

Bernard Flusin<br />

L’opposition entre A et B apparaît clairement : A n’a pas le prologue,<br />

ni la prière finale. Il ne porte pas de trace non plus du traité liturgique.<br />

La deuxième partie, « l’archéologie », est beaucoup plus brève<br />

dans A que dans B (absence de 2b, 2d, 2e). A ne connaît qu’un récit sur<br />

l’origine de l’image miraculeuse (2a), alors que le récit B en a deux (2a<br />

et 2b). De même, A ne contient qu’un récit de miracle à l’époque ancienne,<br />

lors de la guerre avec la Perse (2c) ; le récit B en comprend trois<br />

(2c, 2d, 2e). Pour cette première partie, les <strong>di</strong>fférences sont donc considérables.<br />

Pour le récit sur la translation, A est très semblable à B, dont<br />

il apparaît comme l’abrégé. L’origine et la nature de A restent obscures.<br />

Pour Dobschütz, cette forme du récit est première, et B n’en est qu’une<br />

amplification 19 . Cette position est à première vue surprenante : on attendrait,<br />

comme il est normal pour une notice du Synaxaire, que A soit<br />

un résumé. Il paraît probable cependant que, pour sa première partie<br />

(« l’archéologie »), A n’est pas un simple abrégé de B : on y trouve des<br />

détails qui montrent que le rédacteur peut avoir eu recours <strong>di</strong>rectement<br />

à une version des Actes de Thaddée, ou qu’il avait entre les mains un<br />

état du Récit antérieur à B 20 . Quant aux <strong>di</strong>fférences entre B1 prémétaphrastique<br />

et B2 métaphrastique, les plus importantes paraissent les<br />

deux suivantes : l’attribution à Constantin VII ne figure que dans les<br />

manuscrits métaphrastiques ; au contraire, le traité liturgique (4) ne figure<br />

que dans certains manuscrits non métaphrastiques.<br />

Nous sommes donc, pour dater ce texte et l’attribuer à un auteur,<br />

dans une situation inconfortable, puisque nous avons affaire à un texte<br />

qui a connu plusieurs états. La plupart des chercheurs travaillent, implicitement<br />

ou non, avec le texte B, en fait B2, laissant de côté, comme<br />

y incite l’é<strong>di</strong>tion de Dobschütz, le Traité liturgique. Nous accorderons<br />

plus d’importance à B1. Pour l’auteur et la date, rappelons que, pour le<br />

Récit B, l’opinion des chercheurs contemporains varie. I. Ševčenko,<br />

dans un article fondamental pour l’œuvre de Constantin, l’attribue à<br />

un collaborateur de l’empereur, le même qui a ré<strong>di</strong>gé la Vie de Basile 21 .<br />

Evelyne Patlagean, en 1995, se ralliait, sans arguments supplémen-<br />

19<br />

DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 86**-91** ; et encore, ID., Der Kammerherr, cit. (n.<br />

10), 167.<br />

20 Voir plus loin, et notes 85-86.<br />

21 I. ŠEVČENKO, Re-rea<strong>di</strong>ng Constantine Porphyrogenitus, in J. SHEPARD - S.<br />

FRANKLIN (edd.), Byzantine Diplomacy, Aldershot 1992, 167-195 (184-185 et n.<br />

46). Les ressemblances stylistiques notées par Ševčenko sont convaincantes.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

taires, à l’opinion de Dobschütz : l’attribution à Constantin VII est raisonnable,<br />

et une date haute, en 945, probable 22 . Mais Süsse Engberg,<br />

dans un article paru en 2004, remet en cause la datation du texte (B) et<br />

son attribution : parce qu’elle a de bonnes raisons, comme nous le verrons,<br />

de penser que l’image d’Édesse n’a pas été déposée au Pharos,<br />

comme le <strong>di</strong>t le Récit, elle est tentée d’abaisser la date de composition<br />

du Récit, dont l’autorité lui paraît contestable 23 . Voyons les pièces principales<br />

du dossier.<br />

Tout d’abord le titre, tel qu’on le trouve dans les manuscrits métaphrastiques<br />

(B2), et qui remonte donc aux années 980 24 : « De<br />

Constantin, basileus des Romains dans le Christ basileus éternel, récit<br />

compilé à partir de <strong>di</strong>verses histoires, sur la <strong>di</strong>vine image acheiropoiète<br />

de Jésus-Christ notre Dieu qui fut envoyée à Abgar, et sur son transfert<br />

d’Édesse dans cette ville très prospère où nous sommes, la Reine des<br />

villes, Constantinople 25 ». La solennité du titre impérial est frappante.<br />

Elle trouve des parallèles dans d’autres œuvres dont l’attribution à<br />

Constantin est beaucoup plus sûre. Ainsi par exemple pour le De cerimoniis<br />

: « De Constantin, ami du Christ, basileus dans le Christ lui-même,<br />

basileus éternel, fils de Léon, l’empereur très sage d’éternelle mémoire,<br />

un traité… 26 ». On notera aussi la similitude, pour la mention<br />

des sources, avec le titre de la Vie de Basile : « Récit historique… que<br />

Constantin… a réuni à partir de <strong>di</strong>fférentes narrations 27 … ». Non seu-<br />

22 E. PATLAGEAN, L’entrée de la sainte Face d’Édesse à Constantinople en 944,<br />

in A. VAUCHEZ (ed.), La religion civique à l’époque mé<strong>di</strong>évale et moderne (Chrétienté<br />

et Islam), Paris 1995, 21-35.<br />

23 S. G. ENGBERG, Romanos Lakapenos and the Man<strong>di</strong>lion of Edessa, in J. DU-<br />

RAND - B. FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques du Christ, Paris 2004 (Monographies<br />

17), 123-142, en particulier 135.<br />

24 Pour cette date, voir HØGEL, cit. (n. 12), 74-75.<br />

25 Kwnstantivnou ejn Cristw/' basilei' aijwnivw/ basilevw" jRwmaivwn <strong>di</strong>hvghsi" ajpo;<br />

<strong>di</strong>afovrwn ajqroisqei'sa iJstoriw'n peri; th'" pro;" Au[garon ajpostaleivsh" ajceiropoihvtou<br />

qeiva" eijkovno" ΔIhsou' Cristou' tou' Qeou' hJmw'n, kai; wJ" ejx ΔEdevsh" metekomivsqh<br />

pro;" th;n paneudaivmona tauvthn kai; basilivda tw'n povlewn Kwnstantinouvpolin,<br />

Récit (B), tit., éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**.<br />

26 Kwnstantivnou tou' filocrivstou kai; ejn aujtw/' tw/' Cristw/' tw/' aijwnivw/ basilei'<br />

basilevw", uiJou' Levonto" tou' sofwtavtou kai; ajeimnhvstou basilevw" suvntagmav ti<br />

kai; basileivou spoudh'" o[ntw" a[xion poivhma, De cerimoniis, éd. A. VOGT, cit. (n.<br />

4), I, 1.<br />

27 ÔIstorikh; <strong>di</strong>hvghsi"… h}n Kwnstanti'no"… ajpo; <strong>di</strong>afovrwn ajqroivsa" <strong>di</strong>hgh-<br />

259


260<br />

Bernard Flusin<br />

lement l’attribution à Constantin par un auteur aussi averti que le logothète<br />

du Drome Syméon Métaphraste ne peut être écartée légèrement,<br />

mais la forme même du titre que nous lisons dans les ménologes métaphrastiques<br />

a de bonnes chances d’être authentique.<br />

Venons-en à une deuxième pièce. Il s’agit du début du traité liturgique,<br />

tel qu’on le trouve dans plusieurs manuscrits non métaphrastiques<br />

(B1). Je cite le passage important : « Cela, notre très <strong>di</strong>vin et<br />

grand empereur Constantin Porphyrogénète l’a étu<strong>di</strong>é sans négligence,<br />

l’a recueilli, l’a écrit dans des livres et, afin d’ajouter une action louable<br />

à ses autres très grands exploits, l’a transmis à la république chrétienne,<br />

après avoir bien réfléchi à ce sujet et conçu, à propos des plus grandes<br />

choses, des pensées inspirées par Dieu et sublimes. Mais puisqu’il ne<br />

s’en est pas tenu là et qu’il a poussé plus loin la recherche, le présent récit<br />

exposera aussi en quel honneur elle était tenue par le peuple chrétien<br />

d’Édesse 28 . »<br />

Trois points retiennent l’attention. Premièrement, ce passage, et le<br />

Traité liturgique dans son ensemble, ne sont pas de Constantin Porphyrogénète,<br />

mais de proches de cet empereur, de collaborateurs, qui ré<strong>di</strong>gent<br />

et donnent une forme achevée aux recherches qu’il a menées. La<br />

forme prémétaphrastique du Récit (B1) n’est donc pas, ou pas tout entière,<br />

de Constantin. Deuxièmement, il ne fait pas de doute que ces collaborateurs<br />

écrivent sous le règne de Constantin VII et que leur texte, à<br />

plus forte raison celui qu’ils complètent, est à situer sous ce règne, avant<br />

959. Troisièmement, l’auteur, ou les auteurs anonymes du Traité, témoignent<br />

du rôle majeur qu’a joué Constantin dans l’élaboration du Récit :<br />

il a «étu<strong>di</strong>é sans négligence» (ouj parevrgw"… filoponhqevnta), « rassemblé»<br />

(sullegevnta), « écrit dans des livres » (bivbloi" ejnapografevnta).<br />

Leur témoignage rejoint ce que l’auteur du récit B, s’exprimant à la première<br />

personne, <strong>di</strong>t à la fin du prologue : « Ainsi donc, vous tous qui<br />

avez une foi droite et un zèle brûlant, rassemblez-vous, venez écouter, et<br />

je vous raconterai tout ce que j’ai pu établir avec exactitude, après avoir<br />

soumis chaque chose à une épreuve rigoureuse, sans épargner ma peine<br />

dans la recherche de la vérité, et que j’ai recueilli auprès des auteurs<br />

d’écrits historiques et de ceux qui sont venus de là-bas jusqu’à nous : des<br />

choses dont ils <strong>di</strong>saient que le souvenir s’était conservé auprès d’eux par<br />

mavtwn…, Vie de Basile, éd. I. BEKKER, Theophanes Continuatus, Ioannes Cameniata<br />

etc., V, Bonn 1838, 211.<br />

28 Traité liturgique, § 1, l. 10-19, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 110**-111**.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

des voies secrètes 29 . » La question semble donc tranchée, mais l’abondance<br />

même des expressions utilisées par les rédacteurs du traité liturgique<br />

peut laisser perplexe : Constantin a-t-il beaucoup fait, ou tout fait<br />

? Est-il l’auteur du Récit, au sens habituel du terme, et sous quelle forme<br />

exactement ? N’a-t-il pas plutôt fait faire ?<br />

On peut invoquer ici une troisième pièce. Il s’agit d’un passage de la<br />

prière finale, présente dans les deux formes du texte B. L’auteur<br />

s’adresse à l’image acheiropoiète : « Sauve et garde toujours celui qui<br />

règne sur nous dans la piété et la douceur et qui fête avec éclat la commémoration<br />

de ton arrivée, lui que, par ta présence, tu as fait monter<br />

sur le trône de son grand-père et de son père ! Garde son rejeton comme<br />

successeur de sa lignée et de son sceptre à l’abri de tout accident<br />

30 !»<br />

L’empereur, rétabli ainsi par l’image sur le trône de son père et de<br />

son grand-père, est évidemment Constantin Poprhyrogénète, relégué<br />

longtemps au dernier rang du collège impérial par Romain Ier et ses<br />

fils, et dont le règne personnel commence peu après l’arrivée de l’image.<br />

De ce fait, la prière finale, au moins, ne peut être de Constantin lui-même<br />

: l’expression « celui qui règne sur nous, to;n… hJmw'n basileuvonta »<br />

est décisive 31 . La question est alors de savoir si cette observation, qui<br />

rejoint celle que nous avions faite pour le Traité liturgique, s’étend à<br />

d’autres parties du Récit, voire à son ensemble. Autre remarque : l’auteur<br />

de la prière implore l’image pour Constantin, mais aussi pour son<br />

fils. Il est notable que celui-ci soit mentionné, dans ce contexte, sans<br />

titre impérial. On sait que la date du couronnement de Romain II, fils<br />

de Constantin VII, a fait l’objet de <strong>di</strong>scussions : V. Grumel, dans son<br />

traité de chronologie, la situait encore « au plus tard » au printemps<br />

948 32 , mais la datation peut être précisée. Certains – c’est le cas de Dob-<br />

29 Récit (B), § 3, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 41**.<br />

30 Sw'ze kai; frouvrei ajei; to;n eujsebw'" kai; pra/vw" hJmw'n basileuvonta kai; th;n th'"<br />

sh'" ejpidhmiva" ajnavmnhsin lamprw'" eJortavzonta, o}n th/' parousiva/ sou ejpi; to;n<br />

pappw/'on kai; patrw/'on qrovnon ajnuvywsa": fuvlatte to;n touvtou blasto;n eij" <strong>di</strong>adoch;n<br />

tou' gevnou" kai; tw'n skhvptrwn ajnwvleqron, Récit (B), § 65, éd. DOBSCHÜTZ, cit.<br />

(n. 9), 85**, l. 12-16. Voir Dobschütz (ibid., 96**), qui relève que la prière finale<br />

ne peut avoir été prononcée par Constantin VII.<br />

31 La première personne qu’on lit ibid., l. 11-12, ne renvoie donc pas, apparemment,<br />

à la même personne que celle du § 3 (cf. n. 29).<br />

32 V. GRUMEL, La chronologie, Paris 1958, 358.<br />

261


262<br />

Bernard Flusin<br />

schütz 33 – ont pensé que Constantin avait fait couronner son fils dès<br />

Pâques 945, mais V. Nazarenko en 1989, suivi plus récemment par C.<br />

Zuckerman, a montré que ce couronnement devait être daté de l’année<br />

suivante, 946, le 22 mars, jour de Pâques 34 . Si nous remarquons que la<br />

prière finale du Récit, comme l’in<strong>di</strong>que l’expression « celui qui… fête<br />

avec éclat la commémoration de ton arrivée, to;n… th;n th'" sh'" ejpidh -<br />

miva" ajnavmnhsin lamprw'" eJortavzonta », a été prononcée pour une fête<br />

commémorative de l’arrivée de l’image, alors que Constantin VII est<br />

seul empereur, alors, la date s’impose : la prière doit être datée du 16<br />

août 945, premier anniversaire de la translation, et le seul qui précède le<br />

couronnement de Romain II. Rappelons que 945 était la date que Dobschütz<br />

jugeait probable pour la rédaction du Récit lui-même 35 .<br />

Pour conclure sur ce point, nous avons devant nous des données <strong>di</strong>vergentes.<br />

D’une part, les témoignages attribuant à Constantin VII le<br />

Récit sont très forts. D’autre part, la prière finale et le Traité liturgique<br />

ne sont pas de Constantin, mais ont été composés sous son règne, et<br />

dans son entourage : la prière dès août 945, le Traité sans doute plus<br />

tard, mais peut-être encore avant le couronnement de Romain II, la<br />

prière finale étant reprise sans changements dans cette forme augmentée<br />

36 . Peut-on concilier ces données ? Il faut tout d’abord remarquer<br />

que cette situation n’est pas unique : elle rappelle celle que nous observons<br />

pour la Vie de Basile, qu’on hésite également à attribuer à<br />

Constantin VII, l’hésitation portant ici aussi sur la nature du travail de<br />

l’empereur : a-t-il pris l’initiative et réuni la documentation, ou bien encore<br />

ré<strong>di</strong>gé lui-même, ou ré<strong>di</strong>gé certaines parties ? Il est clair que, pour<br />

plusieurs œuvres impériales, c’est la notion d’auteur qui doit être reconsidérée<br />

: nous avons souvent affaire à des textes à plusieurs mains, ou<br />

33 DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 98** ; voir aussi, pour la même date, G. OSTRO-<br />

GORSKY et E. STEIN, Die Krönungsordnungen des Zeremonienbuches, Byzantion 7<br />

(1932) 198 ; voir aussi G. DE JERPHANION, La date du couronnement de Romain II.<br />

Les inconvénients d’un alinéa mal placé, Orientalia christiana perio<strong>di</strong>ca 1 (1935)<br />

490-495.<br />

34 C. ZUCKERMAN, Le voyage d’Olga et la première ambassade espagnole à<br />

Constantinople en 946, Travaux et mémoires 13 (2000) 669-670.<br />

35 DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 94**-100**.<br />

36 L’argument ne vaut pas bien sûr pour la recension métaphrastique B1, où la<br />

prière se retrouve : Syméon et ses collaborateurs n’avaient pas les mêmes raisons<br />

d’être sensible au titre de Romain II que Constantin VII et ses aides.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

même à plusieurs voix. C’est le cas du Récit. L’engagement personnel<br />

de Constantin VII dans sa rédaction est certain, même s’il a eu des collaborateurs.<br />

Il a fait ré<strong>di</strong>ger, ou ré<strong>di</strong>gé lui-même une première version,<br />

puis surveillé l’enrichissement de ce premier texte au moins jusqu’à l’intégration<br />

du Traité liturgique, c’est-à-<strong>di</strong>re jusqu’à la rédaction de la forme<br />

B1. Il est <strong>di</strong>fficile de <strong>di</strong>re quelle est la première forme du Récit. On a<br />

vu que, pour Dobschütz, la forme A, anonyme, était la forme initiale.<br />

Mais il est probable que ce que nous lisons dans les Synaxaires 37 n’est<br />

qu’une forme secondaire, même si le rédacteur peut avoir eu recours,<br />

pour la première partie, à une autre source, et il nous paraît même douteux<br />

que A puisse abréger un état du récit antérieur à B1. Quant au<br />

Récit B, sous sa forme prémétaphrastique (B1), il résulte d’un enrichissement<br />

par des collaborateurs de Constantin, du texte primitif (perdu<br />

pour nous) : ils ont ajouté le Traité liturgique ; peut-être ont-ils procédé<br />

à d’autres mo<strong>di</strong>fications qui ne sont plus décelables. Pour la date, B1<br />

est donc postérieur au 16 août 945, mais reste sans doute antérieur au<br />

22 mars 946, date du couronnement de Romain II. Enfin, la forme B<br />

métaphrastique (B2) représente, comme il est normal, un développement<br />

ultérieur : outre quelques mo<strong>di</strong>fications de détail, elle naît de B1<br />

par simple suppression du Traité liturgique, qui n’a pas intéressé le Métaphraste.<br />

Pour la suite, sauf exception signalée, nous renverrons au<br />

Récit B, et de préférence à la forme B1, qu’il est légitime de traiter<br />

comme une œuvre de Constantin VII, même si elle n’est pas (ou pas entièrement)<br />

de sa plume, et de dater du tout début de son règne personnel.<br />

2. L’image acheiropoiète<br />

Le Récit (B) ré<strong>di</strong>gé peu après la translation elle-même, et qui appartient<br />

à l’hagiographie officielle du règne du Porphyrogénète, montre ce<br />

qu’était la sainte image transférée d’Édesse à Constantinople le 15 août<br />

944. Le prologue développe un thème qui se retrouve, en d’autres<br />

termes, dans l’homélie de Grégoire le Référendaire 38 , celui du caractère<br />

37 À notre connaissance elle est absente de la recension constantinienne du Synaxaire,<br />

en tout cas du ms. Jérusalem, Bibl. patr., Sainte-Croix 40, malgré ce que<br />

peut faire penser l’apparat de Delehaye (Synax. CP, cit., [n. 11], 893-894).<br />

38 L’homélie de Grégoire (BHG 796g, éd. et trad. A.-M. DUBARLE, L’homélie<br />

263


264<br />

Bernard Flusin<br />

incompréhensible de la production de l’image d’Édesse : le Christ luimême<br />

est incompréhensible, et la plupart de ses actions le sont aussi. Il<br />

n’est donc pas bon, il est impie d’essayer de comprendre ce qu’est cette<br />

image et comment elle a été produite. Mais il est possible de s’interroger<br />

sur son origine et sur son histoire, même si les tra<strong>di</strong>tions, sur ce<br />

point, <strong>di</strong>vergent, l’important étant qu’elles soient d’accord sur l’essentiel<br />

39 .<br />

Il faut prêter attention au récit sur les origines parce qu’il nous renseigne<br />

sur ce qu’était concrètement la sainte image d’Édesse. Le Récit<br />

(B) présente successivement deux tra<strong>di</strong>tions. D’après la première, la<br />

plus répandue d’après B 40 , et la seule qui soit connue du texte des Synaxaires<br />

(A) 41 , le roi d’Édesse Abgar avait envoyé à Jésus, peu avant la<br />

Passion, un messager, Ananias, avec une lettre lui demandant de venir à<br />

Édesse. Comme Ananias était un peintre habile, il lui avait ordonné<br />

aussi de faire son portrait. Ananias vient en Palestine, trouve le Christ,<br />

qui répond à la lettre d’Abgar (c’est la fameuse lettre du Christ à Abgar),<br />

et qui, sachant qu’Ananias doit faire son portrait, le devance : « le<br />

Christ… se lava le visage avec de l’eau, essuya l’humi<strong>di</strong>té produite avec<br />

l’essuie-main (cheiromaktron) qu’on lui donna, et fit en sorte que ses<br />

traits (charaktèr) s’impriment sur cet essuie-main, d’une façon <strong>di</strong>vine,<br />

qui dépasse l’entendement. Il le donna à Ananias et lui enjoignit de le<br />

remettre à Abgar, afin qu’il l’ait pour apaiser à la fois son désir et sa<br />

mala<strong>di</strong>e 42 . » Ananias repart ensuite pour Édesse avec la lettre et le portrait<br />

miraculeux. Chemin faisant, devant Hiérapolis, l’image s’imprime<br />

miraculeusement sur une brique ou une tuile, conservée depuis dans<br />

cette ville 43 .<br />

de Grégoire le Référendaire pour la réception de l’image d’Édesse, Revue des études<br />

byzantines 55 [1997] 5-51 ; éd. et trad. GUSCIN, cit. [n. 7], 70-87), prononcée sans<br />

doute dès 944, peut avoir été utilisée par les rédacteurs du Récit. Les points de<br />

contact, cependant, peuvent s’expliquer par l’utilisation de sources communes. Le<br />

caractère miraculeux de l’image est le thème principal du prologue de Grégoire,<br />

dont le premier mot est Paravdoxo".<br />

39 Récit (B), §§ 1-2, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**-41**.<br />

40 Cf. Récit (B), § 16, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 53** : kai; ou|to" me;n oJ para;<br />

tw'n pleiovnwn legovmeno" lovgo".<br />

41 Récit (A), § 1-7, ibid., 40**-52** (le récit est plus court que celui de B, auquel<br />

il est parallèle).<br />

42 Récit (B), § 13, ibid., 49**-51**.<br />

43 Récit (B), § 14, ibid., 51**.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

La deuxième tra<strong>di</strong>tion, absente de A, est commune à B et à l’homélie<br />

de Grégoire le Référendaire 44 . L’image n’est plus remise à Ananias et<br />

elle a une autre origine. Nous sommes maintenant au jar<strong>di</strong>n des Oliviers,<br />

le soir précédant la crucifixion 45 . Je cite le Récit B : « Alors, <strong>di</strong>sent-ils,<br />

que le Christ était sur le point d’aller vers sa Passion volontaire,<br />

alors que, montrant la faiblesse qui est celle de l’homme, on le voyait<br />

s’inquiéter et prier, au moment où le récit de l’évangile note que ses<br />

sueurs coulaient comme des caillots de sang, alors, <strong>di</strong>t cette version,<br />

ayant reçu de l’un de ses <strong>di</strong>sciples ce morceau de tissu qu’on voit aujourd’hui,<br />

il y essuya les gouttes de ses sueurs et aussitôt s’imprima cette<br />

empreinte qu’on voit de cette forme déiforme. Il le remit à Thomas,<br />

auquel il ordonna de l’envoyer à Abgar par l’intermé<strong>di</strong>aire de Thaddée<br />

après qu’il serait monté au ciel 46 . »<br />

Cette seconde tra<strong>di</strong>tion <strong>di</strong>ffère nettement de la première, mais, pour<br />

les auteurs du Récit, cette <strong>di</strong>fférence est de peu d’importance 47 . Pour<br />

nous, nous voyons que, dans les deux cas, l’image produite miraculeusement<br />

est une empreinte du Christ vivant, plus précisément de son visage,<br />

et que le support de cette image est une serviette. Ce sont les<br />

points essentiels.<br />

Pour le vocabulaire désignant le support du portrait miraculeux<br />

dans nos textes, il faut noter que le terme mandylion (lat. mantile) n’est<br />

pas employé dans le texte constantinien 48 . Dans le Récit, sous les<br />

formes A et B, les termes sont assez variés. Il est question d’un tissu<br />

u{fasma 49 ; d’un petit morceau de tissu to; nu'n blepovmenon tou'to temavcion<br />

tou' uJfavsmato" 50 ; d’un tissu de lin tw/' ejk livnou uJfavsmati 51 ; d’une<br />

44 Récit (B), §§ 16-23, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 53**-59** ; GRÉGOIRE LE<br />

RÉFÉRENDAIRE, Homélie pour la réception de l’Image, §§ 9-10, éd. DUBARLE, cit.<br />

(n. 38), 19 ; éd. GUSCIN, cit. (n. 7), 74-76.<br />

45 Lc 43.<br />

46 Récit (B), § 17, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 53**.<br />

47 « À coup sûr, il n’y a rien d’étonnant à ce qu’avec tout ce temps, le récit<br />

s’égare bien souvent. En effet, pour l’essentiel du sujet, tous s’accordent semblablement,<br />

reconnaissant que c’est à partir du visage du Sauveur que la forme qu’il<br />

y a sur le tissu s’est imprimée ; mais, sur telle circonstance de l’affaire, c’est-à-<strong>di</strong>re<br />

sur le moment, ils <strong>di</strong>ffèrent, ce qui ne fait aucun tort à la vérité, que cela se soit<br />

produit avant ou après. » (Récit [B], § 16, éd. DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 53**).<br />

48 Voir n. 1.<br />

49 Récit (B), §§ 2, 14, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**, l. 20 ; 51**, l. 27.<br />

50 Récit (B), § 17, ibid., 53**, l. 22.<br />

51 Récit (B), § 2, ibid., 41**, l. 10.<br />

265


266<br />

Bernard Flusin<br />

toile fine ojqovnh 52 ; une fois, dans A, d’un morceau de lin, sindwvn 53 ;<br />

dans B, d’un « saint morceau d’étoffe » to; iJero;n ejkei'no rJavko" 54 , ou,<br />

dans A, d’un « morceau d’étoffe plié en quatre », rJavko" tetrav<strong>di</strong>plon 55 .<br />

Le terme rJavko", généralement péjoratif (chiffon, guenille), laisse penser<br />

que ce morceau de tissu n’avait rien de luxueux. L’adjectif tetrav<strong>di</strong>plon,<br />

qu’on trouve dans A, peut surprendre, mais nous semble trouver son<br />

explication dans le fait que le récit A utilise ici comme source les Actes<br />

de Thaddée, où, dans la forme du texte la plus ancienne, le terme tetrav<strong>di</strong>plon<br />

est employé comme substantif 56 . Il est probable qu’à l’époque<br />

mé<strong>di</strong>o-byzantine, ce mot rare était sorti de l’usage et que les rédacteurs<br />

de A l’ont conservé, mais comme adjectif. Il est question dans B, d’un<br />

essuie-mains, ceirovmaktron 57 . Ce dernier terme éclaire les autres :<br />

comme le montre le contexte, le Christ, pour s’essuyer, se sert d’une<br />

serviette. Ce qui est important, et bien sûr, pour des Byzantins, surprenant,<br />

c’est que le portrait du Christ n’est pas sur un support habituel,<br />

mais sur de l’étoffe.<br />

Cependant, lorsqu’elle arrive entre les mains des Byzantins, l’image<br />

d’Édesse n’est pas une simple serviette. Le roi Abgar, nous <strong>di</strong>t-on, afin<br />

de l’exposer à la vénération de tous à la porte de la ville, l’avait fait coller<br />

sur une planche et l’avait ornée d’or, et sur cet or, « qu’on voit aujourd’hui<br />

», avait été gravée une inscription 58 . Si cet « aujourd’hui »<br />

renvoie, comme il est naturel de le penser, à l’époque de la rédaction du<br />

Récit, c’est donc sur une planche, et avec un cadre en or, que l’image<br />

d’Édesse est arrivée entre les mains des Byzantins 59 . Nous savons enfin<br />

52 Récit (B), § 21, ibid., 57**, l. 12.<br />

53 Récit (A), ibid., 48**, l. 5.<br />

54 Récit (B), § 14, ibid., 51**, l. 11.<br />

55 Récit (A), § 5, ibid., 48*, l. 2.<br />

56 Actes de Thaddée, éd. R. A. LIPSIUS - M. BONNET, Acta Apostolorum Apocrypha,<br />

I, Leipzig 1891, 274, l. 16. Dans l’un des deux témoins du texte (P : Paris,<br />

Bibl. nat., gr. 548), tetrav<strong>di</strong>plon est un substantif. Dans le manuscrit de Vienne<br />

(V : voir plus haut, n. 15), l’expression est la même que dans le Récit A : rJavko" tetrav<strong>di</strong>plon.<br />

Il semble bien, sur ce point précis, que le Récit A ait utilisé les Actes de<br />

Thaddée indépendamment de B (où cette expression ne se retrouve pas). Quant<br />

aux rapports du Récit A avec la forme évoluée des Actes de Thaddée qu’on lit<br />

dans V, ils sont complexes, les Actes ayant à leur tour été influencés par le Récit<br />

(B), les deux textes étant présents dans V.<br />

57 Récit (B), § 13, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 51**, l. 2.<br />

58 Récit (B), § 25, ibid., 59**-61**.<br />

59 L’hésitation vient du fait qu’on lit la même expression dans le manuscrit V


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

par le traité liturgique que cette image était enfermée dans un reliquaire<br />

avec des volets qu’on ouvrait pour laisser entrevoir l’image-relique 60 .<br />

Une fois par an, cependant, le premier <strong>di</strong>manche du Carême, elle était<br />

sortie et exposée dans le sanctuaire de la Grande Église d’Édesse 61 . Le<br />

rédacteur du Traité liturgique parle de « l’ancien reliquaire 62 », ce qui<br />

fait penser que l’image n’a pas été transportée dans celui-ci, mais dans<br />

une châsse (qhvkh, skeu'o", sorov", ou, avec une référence scripturaire<br />

évidente, kibwtov" 63 ) faite pour cette occasion.<br />

Pour ce qu’il y avait sur le tissu, l’auteur de B recourt aux termes<br />

d’impression (ejktuvpwma, ejktuvpwsi" 64 ) de ressemblance ou de similitude<br />

(ejmfevreia 65 , oJmoivwma 66 ), mais surtout au vocabulaire de la représentation<br />

(ajpeikovnisma 67 , ejkmovrfwsi" 68 ) et de l’image, eijkwvn étant le terme<br />

le plus utilisé 69 . Que représentait cette image ? Certaines expressions<br />

peuvent laisser dans l’incertitude si on les isole : ainsi, peri; tou' ejktupwvmato"<br />

th'" qeandrikh'" touvtou morfh'" « l’empreinte de cette forme<br />

théandrique 70 », ou d’autres expressions semblables, où l’image reproduit<br />

la « forme » ou « l’aspect » morfhv 71 ou ei|do" 72 du Christ. Mais<br />

des Actes de Thaddée : th;n qeivan kai; ajceiropoivhton tauvthn eijkovna… ejpi; sanivdo"<br />

kollhvsa" kai; <strong>di</strong>a; tou' nu'n fainomevnou cristou' [lege crusou'] kallwpivsa" ajnevsthsen,<br />

éd. LIPSIUS-BONNET, cit. (n. 56), 276, dans l’apparat. Il est probable que nous<br />

avons affaire ici à un interpolateur, qui enrichit le texte ancien des Actes de Thaddée<br />

d’emprunts qu’il fait au Récit constantinien B (A mentionne la planche et<br />

l’inscription, mais pas l’or).<br />

60 Traité liturgique, § 4, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 112**, l. 18-24.<br />

61 Traité liturgique, § 2, ibid., 111**.<br />

62 Ibid., § 4, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 112**, l. 19.<br />

63 Récit (B), § 53 (qhvkh); § 58 (skeu'o") ; § 57-58 (kibwtov") ; § 60 (sorov"); éd.<br />

DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 79**, 81**, 83**.<br />

64 Récit (B), § 2 , 14, 17, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**, 51**, 53**.<br />

65 Récit (B), § 19 ; éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 55**.<br />

66 Récit (B), §§ 19, 20, 24, 32, 41, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 57**, 59**, 65**, 71**.<br />

67 Récit (B), §§ 14, 33, 49, 55, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 51**, 67**, 77**,<br />

79**.<br />

68 Récit (B), § 18, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 55**.<br />

69 Par ex., Récit (B), titre ; et, dans le texte, à partir du § 25 (§§ 25, 27, 28… );<br />

éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 59**, 61**, 63**.<br />

70 Récit (B), § 2, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**, l. 18-19.<br />

71 Récit (B), § 2, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 39**, l. 19 ; § 14, éd. DOBSCHÜTZ,<br />

cit. (n. 9), 51**, l. 28 ; § 16, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 53**, l. 5 ; § 21, éd. DOB-<br />

SCHÜTZ, cit. (n. 9), 57**, l. 13 ; § 24, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 59**, l. 10 ;<br />

72 Récit (B1), § 13, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 49**, l. 22 ; § 17, ibid., 53**, l. 24.<br />

267


268<br />

Bernard Flusin<br />

d’autres passages sont beaucoup plus précis. Dès le prologue, l’auteur<br />

du Récit B1 parle de « la forme du visage », to; tou' proswvpou ei\do" 73<br />

qui s’est imprimée miraculeusement sur le tissu de lin, et nous trouvons<br />

ailleurs d’autres expressions aussi nettes 74 . Pour les Byzantins, l’image<br />

d’Édesse est un portrait, une empreinte du visage du Seigneur, et rien<br />

que de son visage.<br />

Ajoutons que les contemporains de la translation connaissent bien la<br />

sainte image. Celle-ci, en effet, avait été copiée. Il ne s’agit pas ici des<br />

deux Saintes Tuiles, celle de Hiérapolis et celle d’Édesse, produites miraculeusement,<br />

et qui sont elles aussi évidemment des représentations du<br />

visage du Christ 75 . Mais lorsque Chosroès avait demandé qu’on lui envoie<br />

l’image, les gens d’Édesse, par prudence, avaient fait exécuter une<br />

copie parfaite, qu’ils lui avaient envoyée à la place de l’authentique et<br />

qui leur avait été restituée après avoir du reste efficacement délivré du<br />

démon qui la possédait la fille du Roi des rois 76 . Une autre copie était en<br />

possession, au X e s., de l’église nestorienne d’Édesse, de sorte que les envoyés<br />

byzantins avaient eu soin, lorsqu’on leur avait livré l’objet, de le<br />

confronter avec ses deux copies pour s’assurer qu’on ne les dupait pas 77 .<br />

On sait aussi qu’un ascète contemporain de Constantin VII, saint Paul<br />

du Latros, avait demandé au patrice envoyé par cet empereur de « placer<br />

sur l’image acheiropoiète de Christ qu’on appelle habituellement le saint<br />

mandylion une pièce de lin qui ait exactement la même <strong>di</strong>mension » (th/'<br />

ajceiropoihvtw/ tou' Cristou' eijkovni h}n suvnhqe" mandhvlion ojnomavzein<br />

a{gion ejpiteqh'nai aujth/' mevro" ojqovnh" ijsovmhke" ajkribw'"), et de le lui faire<br />

parvenir : il avait alors pu contempler, sur ce linge resté pourtant immaculé<br />

aux yeux de tout autre, la Face du Christ 78 . On voit que les té-<br />

73 Ibid., § 2, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 41**.<br />

74 Th;n ajceirovgrafon tou' kuriakou' proswvpou ejkmovrfwsin « la représentation,<br />

qui n’a pas été peinte par la main humaine, du visage du Seigneur », Récit (B1),<br />

§ 18, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 55**, l. 1-2 ; voir aussi § 16, ibid., 53**, l. 12-13<br />

(oJmologou'sin ajpo; tou' kuriakou' proswvpou th;n ejn tw/' uJfavsmati ejktupwqh'nai paradovxw"<br />

morfhvn). On peut signaler aussi, comme allant dans le même sens ; l’emploi<br />

du terme carakthvr, qui désigne les traits du visage : Récit (B), § 13, éd. DOB-<br />

SCHÜTZ, cit. (n. 9), 51**, l. 3.<br />

75 Récit (B), § 14 et 32, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 51** et 65**.<br />

76 Récit (B), § 40-41, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 71**-73**.<br />

77 Récit (B), § 47, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 75**.<br />

78 Vie de S. Paul du Latros, 37, éd. H. DELEHAYE, Vita S. Pauli Iunioris, in Th.<br />

WIEGAND, Der Latmos, Berlin 1913, 127.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

moignages sur l’image d’Édesse au siècle sont précis, contrôlés, et qu’on<br />

ne peut les écarter légèrement.<br />

À son arrivée à Constantinople aussi, la sainte image avait suscité la<br />

curiosité générale et, d’après le Ps.-Syméon, elle avait été examinée peu<br />

après en particulier par les jeunes empereurs, les fils de Romain Lécapène<br />

et son gendre Constantin : « Alors que tous examinaient les traits<br />

immaculés sur la sainte empreinte du Fils de Dieu, les fils de l’empereur<br />

<strong>di</strong>saient qu’ils ne voyaient rien qu’un visage. Mais Constantin, son<br />

gendre, <strong>di</strong>sait voir des yeux et des oreilles 79 .» On en déduira que l’image<br />

d’Édesse devait être passablement effacée. Mais surtout, comme l’explique<br />

le moine Serge, petit-neveu de Phôtios et confident de Romain<br />

Ier, cette perception <strong>di</strong>fférente de l’image, chez les jeunes empereurs, a<br />

un sens profond : « Le glorieux Serge leur <strong>di</strong>t : ‘Les uns et les autres,<br />

vous avez bien vu.’ Ils répliquèrent : ‘Et que signifie la <strong>di</strong>fférence entre<br />

chacun de nous et lui ?’ Il répon<strong>di</strong>t : ‘Ce n’est pas moi, mais le prophète<br />

David qui <strong>di</strong>t : Les yeux du Seigneur sont vers les justes et Ses oreilles<br />

écoutent leur prière. Mais le visage du Seigneur est vers ceux qui font le<br />

mal, pour effacer de terre leur mémoire 80 (Ps. 33. 16).’» L’image joue un<br />

rôle <strong>di</strong>scriminant, <strong>di</strong>stinguant les justes des méchants. Et comme elle<br />

opère cette <strong>di</strong>stinction entre des empereurs, son rôle de révélateur moral<br />

est éminemment politique.<br />

3. Un texte politique<br />

L’anecdote que transmet la chronique du Pseudo-Syméon montre<br />

bien que l’arrivée du mandylion à Constantinople en 944 intéresse la légitimité<br />

impériale et qu’elle révèle, parmi les empereurs de l’époque, celui<br />

qui peut à bon droit exercer le pouvoir. Le rôle de l’image d’Édesse<br />

est désormais plutôt celle d’une relique du Christ, qui rejoint à<br />

Constantinople d’autres reliques de même nature 81 . Sa valeur d’image,<br />

qui avait assuré sa notoriété à l’époque iconoclaste, tend à s’effacer.<br />

79 Pavntwn kaqistorouvntwn to;n a[cranton carakth'ra ejn tw'/ aJgivw/ ejkmageivw/ tou'<br />

UiJou' tou' Qeou', e[legon oiJ uiJoi; tou' basilevw" mh; blevpein ti h] provswpon movnon, oJ<br />

de; gambro;" Kwnstanti'no" e[legen blevpein ojfqalmou;" kai; w\ta, PS.-SYMÉON, Chronographia,<br />

52, éd. I. BEKKER, Theophanes Continuatus, Ioannes Cameniata etc.,<br />

Bonn 1838, 750.<br />

80 Ibid., 750-751 ; cf. Ps. 33. 16.<br />

81 C’est le mouvement décrit en Récit (B), § 46, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9),<br />

269


270<br />

Bernard Flusin<br />

Elle n’est pas entièrement perdue de vue par les contemporains de<br />

Romain et de Constantin : dans la prière finale du Récit par exemple, le<br />

choix des expressions témoigne bien d’une certaine virtuosité, au moins<br />

rhétorique, à parler de l’icône 82 . Mais l’époque iconoclaste est loin et,<br />

bien que l’auteur utilise la Lettre des trois patriarches 83 , l’atmosphère<br />

est autre, éloignée de toute polémique et de toute volonté apologétique.<br />

Cette tendance s’accentuera ainsi que le montre – après l’époque de<br />

Constantin 84 – un passage du récit A, c’est-à-<strong>di</strong>re du Synaxaire, où l’on<br />

voit que les rédacteurs sont peu sensibles aux questions que pose l’image<br />

du Christ. Dans la notice du Synaxaire, nous lisons en effet que le<br />

roi Abgar, envoyant Ananias porter au Christ sa lettre, lui avait demandé,<br />

parce qu’il le savait bon peintre, d’exécuter pour lui un portrait<br />

du Christ. Ananias, arrivé près du Christ, s’installe donc pour faire la<br />

peinture qu’on lui demandait, mais il ne le peut : « Ananias, après être<br />

parti pour Jérusalem, ayant remis au Seigneur la lettre, regardait attentivement<br />

vers lui. Comme il ne pouvait l’approcher à cause de la multitude<br />

qui avait afflué, il monta sur un rocher qui s’élevait un peu au-dessus<br />

de la terre et aussitôt, fixant les yeux sur le Seigneur et la main sur<br />

sa feuille, il cherchait à copier la ressemblance de ce qui lui apparaissait.<br />

Mais il ne pouvait absolument pas la saisir parce qu’elle apparaissait<br />

tantôt avec un visage, tantôt avec un autre, sous un aspect changé<br />

85 . » On voit ce qui se passe. Le rédacteur retrouve ici un motif ar-<br />

73**. Sur l’accumulation à Constantinople de reliques prestigieuses, en particulier<br />

celles de la Passion, voir B. FLUSIN, Construire une nouvelle Jérusalem :<br />

Constantinople et les reliques, in A. AMIR MOEZZI - J. SCHEID (edd.), L’Orient<br />

dans l’histoire religieuse de l’Europe. L’invention des origines, Turnhout 2000, 51-<br />

70. 82 On notera l’accumulation des expressions employées pour désigner l’image :<br />

ΔAllΔ w\ qei'on oJmoivwma tou' ajparallavktou patro;" oJmoiwvmato", w\ carakth;r tou'<br />

carakth'ro" th'" patrikh'" uJpostavsew", w\ septh; kai; pavntime sfragi;" tou' ajrcetuvpou<br />

kavllou" Cristou', Récit (B1), § 65, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 85**.<br />

83 Elle est citée explicitement (Récit B, § 35, éd. DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 69**).<br />

84 Apparaissant dans les recensions secondaires du Synaxaire de Constantinople,<br />

ce Récit A est postérieur au X e s.<br />

85 Récit (A), § 4, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 46** ; cf. Synax. CP, cit., (n. 11),<br />

896 ; GUSCIN, cit. (n. 7), 92 (la traduction anglaise, p. 93, - « he could not take<br />

down his form at all as Jesus kept looking here and there and moving his face<br />

from one side to another » – nous paraît trop rationnelle : Jésus ne bouge pas seulement<br />

; il change de visage et d’aspect. C’est bien ainsi que l’ont compris les lecteurs<br />

anciens : voir plus bas, et n. 86).


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

chaïque, celui de la polymorphie du Christ, qu’il associe à l’image d’Édesse<br />

86 , sans voir le danger : une telle tra<strong>di</strong>tion suppose en effet une<br />

christologie particulière, et surtout, elle montre que l’origine miraculeuse<br />

de l’image d’Édesse est liée à une conception selon laquelle une<br />

image naturelle du Christ est en fait impossible. C’est aller à contresens<br />

de l’utilisation iconophile du précédent que semble fournir le portrait<br />

réalisé par le Christ lui-même. Une autre version du Synaxaire, reprenant<br />

ce détail, le glose de façon intéressante : « Ananias arrive à Jérusalem,<br />

remet la lettre au Christ, s’efforce aussi de tracer sur une feuille sa<br />

forme <strong>di</strong>vine au moyen de couleurs matérielles, mais il ne le peut. En effet,<br />

il ne pouvait nullement saisir la forme de celui qui est incompréhensible<br />

en raison de sa <strong>di</strong>vinité 87 . » On voit vers quel danger l’on glisse : le<br />

Christ, parce qu’il est <strong>di</strong>vin, ne peut être représenté. Les rédacteurs de<br />

B, dans le passage parallèle 88 , n’ont pas ce détail, ou peut-être, plus<br />

prudents, l’ont-ils supprimé. Il n’est pourtant pas sans intérêt pour<br />

comprendre comment, initialement, le récit sur l’origine du saint mandylion<br />

était conçu et compris. Il n’a pu survivre, dans A, que parce que<br />

les enjeux théologiques de l’image d’Édesse étaient perdus de vue.<br />

L’iconologie, dans les textes du X e siècle, passe donc à l’arrière-plan<br />

et perd progressivement de sa netteté. L’intérêt se déplace vers un autre<br />

point : la relation entre les reliques du Christ et l’empereur, ou peutêtre,<br />

l’empereur, le Christ, et Constantinople. Il faut maintenant s’intéresser<br />

à celui qui organise cette translation spectaculaire – Romain Lécapène<br />

– et tenter de comprendre comment il l’a conçue.<br />

Les événements sont bien connus 89 . À la fin du règne de Romain Ier,<br />

l’armée byzantine, conduite par le grand général Jean Kourkouas, après<br />

avoir pris Dara le 18 mai 943, s’est avancée jusqu’à Édesse. Marius Ca-<br />

86 Le même motif se retrouve à propos d’une autre image acheiropoiète,<br />

conservée en Egypte cette fois (Pèlerin de Plaisance, 44, 2-3), de sorte qu’il semble<br />

y a voir un lien plus qu’accidentel entre ces images si spéciales et la polymorphie<br />

du Christ. On peut se demander comment le rédacteur de A a eu l’idée de ce détail<br />

: il ne figure pas dans la version ancienne des Actes de Thaddée (manuscrit P<br />

de Lipsius-Bonnet, p. 274 de l’é<strong>di</strong>tion; dans V, il s’agit sans doute d’une interpolation)<br />

; mais il est douteux qu’il l’ait inventé.<br />

87 Synax. CP, cit., (n. 11), 897-898 (manuscrit D, dans l’apparat).<br />

88 Récit (B), § 10, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 47**.<br />

89 Voir M. CANARD, Histoire de la dynastie des Hamdanides de Jazîra et de Syrie,<br />

Alger-Paris 1951, 747-753.<br />

271


272<br />

Bernard Flusin<br />

nard, utilisant les sources arabes, a bien montré qu’il ne s’agissait pas<br />

ici d’une guerre de conquête mais plutôt d’un grand raid, de sorte que<br />

l’armée lève le siège sans chercher vraiment à prendre la ville 90 . Cependant,<br />

Romain Lécapène saisit l’occasion pour tenter de se faire livrer le<br />

butin le plus précieux qu’il puisse espérer : le prestigieux mandylion et la<br />

lettre du Christ, qui protègent Édesse, et dont il espère enrichir sa capitale,<br />

renforçant ainsi son propre prestige de souverain victorieux. Il<br />

entre en négociation avec les autorités de la ville et avec le califat, auquel<br />

la question est soumise 91 . En même temps, pour faire pression, il<br />

envoie une deuxième fois Kourkouas et son armée dans la région, où ils<br />

s’emparent de Ras Ain le 13 novembre 943 92 . Au terme de tractations<br />

assez longues, Romain obtient enfin ce qu’il veut, en échange de la libération<br />

de deux cents prisonniers sarrasins (c’est l’argument qui a décidé<br />

le calife), d’une somme de douze mille pièces d’argent, peut-être destinées<br />

à l’Église d’Édesse, et de la promesse, confirmée par chrysobulle,<br />

de ne plus attaquer Édesse et trois autres villes de la région 93 .<br />

La translation de la précieuse relique, telle que la notent les chroniqueurs,<br />

a pour but de renforcer le prestige de l’empereur et de mettre en<br />

valeur ses victoires. Le thème est alors celui qu’on trouve exprimé dans<br />

un canon ancien, qui célèbre la translation de 944 94 . Il semble avoir été<br />

composé pour l’arrivée même de la relique comme le montrent certains<br />

passages qui se réfèrent à l’événement même plutôt qu’à sa commémoraison.<br />

Il s’agit en outre d’un chant très favorable à Romain Ier – même<br />

si celui-ci n’est pas nommé –, ce qui est plus facile à concevoir avant la<br />

chute de cet empereur qu’après 95 . L’opinion de Dobschütz, pour qui il<br />

90 Ibid., 748.<br />

91 Sur les négociations conduisant à cet échange, d’après les sources arabes,<br />

Ibid., 749-50.<br />

92 Ibid., 751.<br />

93 Les <strong>di</strong>spositions de l’accord sont reproduites par les rédacteurs du Récit (B),<br />

§ 45, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 73**-75** ; on peut penser qu’ils avaient<br />

connaissance du chrysobulle accordé par Romain à la suite de la demande de<br />

l’émir d’Édesse, chrysobulle qu’ils mentionnent explicitement (Récit [B], § 45, éd.<br />

DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 75**, l. 3).<br />

94 É<strong>di</strong>té par DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 120**-126**.<br />

95 L’empereur, au singulier, est comparé à David dansant devant l’arche : ode<br />

3, strophe 4 (éd. DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 121**, l. 10-13) ; il est inspiré par Dieu<br />

(qeovfrwn, ibid., 121**, l. 22), fidèle (pistov", ibid., 123**, l. 28), il a l’esprit puissant<br />

(krataiovfrwn, ibid., 121**, l. 30).


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

s’agit sans doute d’un canon composé dès 944, paraît donc justifiée 96 et<br />

le sens que cette hymne donne à l’événement qu’elle célèbre est celui<br />

qu’avait voulu lui donner Romain. Voici un passage caractéristique :<br />

«La force abandonne la dextre des fils d’Ismaël. En effet, armé de la<br />

Croix, le puissant basileus a jeté à terre le rempart qui la protégeait 97 . »<br />

Le thème, qui est repris dans une autre strophe 98 , est clair : c’est celui<br />

de la victoire impériale sur les Arabes et l’empereur qu’on célèbre est<br />

celui qui, triomphant, se réjouit « aujourd’hui 99 » d’accueillir la sainte<br />

image.<br />

Le thème de la victoire, très présent dans le canon, se retrouve<br />

quand on examine comment Romain Ier a conçu et organisé l’arrivée<br />

du mandylion. Au terme d’un assez long voyage, les reliques – l’image et<br />

la lettre – arrivent à Constantinople un jour qui a été évidemment choisi<br />

: le soir du 15 août, jour de la Dormition, les empereurs étant aux<br />

Blachernes. La déposition a lieu le 16 août. C’est le jour de la saint<br />

Diomède, mais surtout celui où l’Église de Constantinople célèbre la<br />

fin miraculeuse du siège de la Ville par les Arabes en 718. Il est <strong>di</strong>fficile<br />

d’y voir une coïncidence : la fête instaurée par Romain Ier redouble et<br />

masque celle qu’avait instaurée l’empereur iconoclaste Léon III l’Isaurien,<br />

et peut-être aussi, Constantinople, ville dé<strong>di</strong>ée à la Vierge, est-elle<br />

placée plus <strong>di</strong>rectement maintenant sous la protection de son fils 100 . Il<br />

96 DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), p. 119**-120**. La question est compliquée, du fait<br />

qu’il existe plusieurs canons pour la fête du mandylion. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), p.<br />

119**, en signale un autre, qui lui est resté inaccessible. V. Grumel, pour sa part,<br />

é<strong>di</strong>te un autre canon, lui aussi ancien, qui est remplacé par un autre à la fin du XI e<br />

s., à la suite de la condamnation de Léon de Chalcédoine (V. GRUMEL, Léon de<br />

Chalcédoine et le canon de la fête du saint man<strong>di</strong>lion, Analecta Bollan<strong>di</strong>ana 68<br />

[1950] = Mélanges Paul Peeters, II, 135-152). On peut se demander, du canon é<strong>di</strong>té<br />

par Dobschütz (dont Grumel ne tient pas compte) ou de celui é<strong>di</strong>té par Grumel,<br />

quel est le plus ancien. Les marques d’actualité, dans le canon Dobschütz,<br />

abondent. Voir par ex. ode 4, strophe 1 : « Alors que ta sainte empreinte, Sauveur,<br />

a quitté la terre du Levant pour gagner la nôtre, aujourd’hui, le pieux basileus la<br />

reçoit tan<strong>di</strong>s qu’elle approche » (éd. DOBSCHÜTZ, cit. [n. 9], 121**, l. 20-24). Nous<br />

sommes sensible aussi au fait que l’auteur du canon sait que la lettre du Christ est<br />

rapportée en même temps que la sainte image: cf. ode V, strophe 1 et 2. Bien que<br />

Dobschütz é<strong>di</strong>te cette hymne d’après les Ménées imprimés, il s’agit certainement<br />

d’un texte ancien.<br />

97 Ode 4, strophe 3, ibid., 121**, l. 28-31.<br />

98 Ode 7, strophe 2, ibid., 123**, l. 1-8.<br />

99 Ibid., 121**, l. 12.<br />

100 PATLAGEAN, cit. (n. 22).<br />

273


274<br />

Bernard Flusin<br />

s’agit du reste à peine d’un changement : les auteurs du canon pour la<br />

fête, dans les théotokia, invoquent in<strong>di</strong>fféremment l’intercession de la<br />

Vierge ou sa protection <strong>di</strong>recte en faveur de Constantinople, qui est, à<br />

leurs yeux, sa ville et son héritage 101 .<br />

Romain Lécapène ne s’est pas contenté de négocier la venue à<br />

Constantinople du mandylion et d’organiser une cérémonie qui, tout en<br />

rappelant ses victoires, montrait qu’il avait su enrichir le trésor des reliques<br />

qui protégeaient la Ville. Il a construit, pour y déposer l’image,<br />

une église spéciale. Sysse Engberg en effet, dans un bel article, a pu<br />

montrer que le mandylion, à son arrivée, n’avait pas été déposé, comme<br />

le <strong>di</strong>t le Récit constantinien, dans l’église du Pharos, mais dans une<br />

autre chapelle palatine 102 . Examinant les témoins anciens du prophètologion,<br />

elle relève que, le 16 août, l’Église de Constantinople célèbre in<strong>di</strong>ssociablement<br />

l’arrivée du saint mandylion et la dé<strong>di</strong>cace de l’église<br />

du Sauveur à la Chalkè. On sait que cette église, qui sera plus tard<br />

agran<strong>di</strong>e par Jean Tzimiskès, est une fondation de Romain Lécapène,<br />

qui l’avait é<strong>di</strong>fiée au-dessus de l’entrée principale du palais impérial, la<br />

Chalkè 103 . Nous savons maintenant qu’en construisant cette chapelle à<br />

cet endroit si particulier, Romain Ier envisageait d’y entreposer le mandylion,<br />

auquel il attribuait un rôle qui lui convenait bien : celui de protecteur<br />

des portes. Et il est probable que la dé<strong>di</strong>cace du Christ de la<br />

Chalkè a eu lieu le jour où l’on y a déposé l’image d’Édesse, le 16 août<br />

944.<br />

101 Pour la demande d’intercession, voir le théotokion de l’ode 4, éd. DOB-<br />

SCHÜTZ, cit. (n. 9), 122**, l. 1-3 : « Toute pure, intercède, nous t’en prions, pour<br />

que ta ville soit conservée intacte à l’abri des attaques barbares » ; pour le secours<br />

<strong>di</strong>rect, théotokion de la 5 e ode, ibid., l. 18-22 : «Arrête, Vierge sainte, les révoltes<br />

incessantes de nos ennemis, anéantis leurs plans. » Les expresssions « ta ville » et<br />

« ton héritage » se lisent ibid., 122**, l. 2 et 21.<br />

102 S. G. ENGBERG, Romanos Lekapenos and the Man<strong>di</strong>lion of Edessa, in J. DU-<br />

RAND - B. FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques du Christ, Paris 2004, 123-142.<br />

103 Voir JANIN, cit. (n. 4), 529-530. La construction de l’église du Sauveur de la<br />

Chalkè est attribuée à Romain l’Ancien par les Patria (éd. T. PREGER, Scriptores<br />

originum Constantinopolitanarum, II, Leipzig 1907, 282). Pour sa reconstruction<br />

par Jean Tzimiskès, voir LÉON LE DIACRE, éd. C. B. HASIUS, Historiae libri decem,<br />

Bonn 1828, 128-129 ; JEAN SKYLITZÈS, éd. J. THURN, Ioannis Scylitzae synopsis<br />

historiarum, Berlin 1973, 311. Pour la <strong>di</strong>sposition des lieux et leur histoire, voir C.<br />

MANGO, The Brazen House. A Study of the Vestibule of the Imperial Palace of<br />

Constantinople, Copenhagen 1959, 149-169.


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

C’est donc tout un programme de Romain Lécapène que les documents<br />

liturgiques en particulier permettent de reconstituer, et nous<br />

voyons l’importance qu’il entendait attribuer à cette translation. De ce<br />

programme, et en particulier de la fonction attribuée à l’église de la<br />

Chalkè, il ne reste presque rien, l’année suivante, dans le récit constantinien.<br />

La situation politique, en effet, change vite. Romain Ier, qui met en<br />

scène ses victoires, est renversé quatre mois plus tard par ses fils et par<br />

son gendre, Constantin, qui se débarrasse de ses beaux-frères peu après<br />

et devient seul empereur 104 . L’arrivée de la relique a eu un autre effet<br />

que celui qu’on attendait. Elle a <strong>di</strong>stingué et choisi le véritable empereur,<br />

qu’elle a rétabli, comme le <strong>di</strong>t la prière finale du Récit, sur le trône<br />

de son grand-père et de son père 105 . Sous la plume ou sous la surveillance<br />

de Constantin triomphant, le récit de la translation, dès 945,<br />

se transforme.<br />

Les auteurs du Récit ne passent pas sous silence le rôle qu’a joué Romain<br />

Lécapène. La première fois que celui-ci apparaît dans le texte, une<br />

périphrase semble bien marquer une certaine réticence à lui attribuer le<br />

titre impérial 106 , mais le terme basileus sera cependant employé plusieurs<br />

fois à son propos 107 . Le récit porte au cré<strong>di</strong>t de Romain Ier le zèle<br />

qu’il met à enrichir sa capitale de la précieuse relique 108 , mais on chercherait<br />

vainement un rappel de ses victoires sur les Arabes, à l’exception<br />

de la mention des captifs qu’il propose d’échanger contre l’image<br />

d’Édesse. Il paraît avoir simplement obtenu d’acheter celle-ci, non pas<br />

après une offensive victorieuse de son armée, mais au terme de plusieurs<br />

demandes adressées aux habitants d’Édesse. Le 15 août, il accueille<br />

l’image aux Blachernes, mais le 16, malade et alité, il ne participe<br />

pas à la cérémonie. Les rédacteurs du Récit, contraints de prendre<br />

104 Voir par ex. S. RUNCIMAN, The Emperor Romanus Lecapenus and His Reign.<br />

A Study of Tenth-Century Byzantium, Cambridge 19883 (réimpression de<br />

l’é<strong>di</strong>tion de 1929), 229-237.<br />

105 Récit (B), § 65, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 85**.<br />

106 ÔO th'" ÔRwmaivwn kurieuvwn ajrch'" ÔRwmanov", Récit (B), § 43, DOBSCHÜTZ, cit.<br />

(n. 9), 73**.<br />

107 Récit (B), §§ 45, 46, 54 ; cf. aussi § 57 : éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 75**, l. 4,<br />

13 ; 79**, l. 17 ; 81**, l. 16.<br />

108 Récit (B), § 43, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 43**.<br />

275


276<br />

Bernard Flusin<br />

en compte une réalité historique toute fraîche, n’ont pas frappé Romain<br />

de damnatio memoriae, mais ils l’ont relégué à l’arrière-plan, le montrant<br />

curieusement absent, jusque dans son palais, des cérémonies qu’il<br />

a pourtant organisées. La pointe du texte se trouve maintenant dans la<br />

prophétie placée dans la bouche d’un possédé, miraculeusement<br />

contraint à <strong>di</strong>re la vérité : « ‘Constantinople, <strong>di</strong>sait-il, reprends ta gloire<br />

et ta joie ; et toi, Constantin Porphyrogénète, reprends ton empire !’<br />

Quand ces paroles eurent été prononcées, l’homme fut guéri et délivré<br />

aussitôt de l’attaque du démon. » Toute la cour, nous <strong>di</strong>t-on, avait été le<br />

témoin de cette prophétie, en particulier le parakoimomène Théophane,<br />

le vainqueur des Russes, que Romain Ier avait envoyé jusque sur le<br />

Sangarios accueillir la relique 109 . Traité par l’auteur comme une <strong>di</strong>gression,<br />

cet épisode est porteur du sens nouveau qu’en 945, on attribue à<br />

la translation : le Christ, dans son image sainte, quitte la terre des infidèles<br />

pour retrouver son peuple ; à Constantinople, l’ordre est rétabli,<br />

l’héritier légitime reprenant place paisiblement sur le trône de ses pères.<br />

Pour achever la transformation, il suffira, sur la fin, d’opérer un dernier<br />

changement en composant quelque peu avec la vérité historique : l’image<br />

d’Édesse n’est plus déposée, avec la lettre, dans la chapelle dominant<br />

la Chalkè comme l’avait voulu Romain Lécapène. Elle n’occupe plus<br />

une place insigne, protégeant l’entrée du palais et rappelant trop <strong>di</strong>rectement<br />

le souvenir d’un empereur victorieux, mais elle vient prendre sa<br />

place parmi d’autres reliques, « dans l’église du Pharos 110 , dont nous<br />

avons parlé, dans la partie droite, vers l’est, pour la gloire des fidèles,<br />

pour la garde des empereurs, pour la sûreté de toute la Ville et de tout<br />

l’État des chrétiens 111 ».<br />

On voit quelle est la fonction du Récit constantinien. Si l’empereur<br />

devient hagiographe 112 , ce n’est pas parce qu’il se tient à l’écart du pou-<br />

109 Théophane, peu après, participera à une tentative de restauration de Romain<br />

Lécapène et sera exilé. Son rôle, de ce fait, sera minimisé, ou, au contraire,<br />

dans un curieux manuscrit, mis en valeur : voir DOBSCHÜTZ, Der Kammerherr cit.<br />

(n. 10).<br />

110 Sur cette chapelle du palais, voir P. MAGDALINO, L’église du Phare et les reliques<br />

de la Passion à Constantinople (VII e /VIII e -XIII e siècles), in J. DURAND - B.<br />

FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques du Christ, Paris 2004, 15-30.<br />

111 Récit (B), § 64, éd. DOBSCHÜTZ, cit. (n. 9), 85**.<br />

112 Voir B. FLUSIN, L’empereur hagiographe, in P. GURAN (éd.), L’empereur ha-


L’image d’Édesse, Romain et Constantin<br />

voir et partage noblement ses loisirs, ainsi que le <strong>di</strong>t Runciman, entre<br />

l’écriture, la peinture et le vin. L’hagiographie, ici comme dans d’autres<br />

cas 113 , répond sans doute, dans une mesure qu’il est bien <strong>di</strong>fficile d’évaluer,<br />

à un sentiment de piété personnelle. Mais elle est aussi, et surtout,<br />

propagande. Constantin, au début de son règne personnel, veut <strong>di</strong>ffuser<br />

des événements une image bien précise : l’empereur légitime, <strong>di</strong>gne<br />

d’accueillir l’image qui protégera la Ville, ce n’est pas Romain Lécapène,<br />

mais c’est lui.<br />

giographe. Culte des saints et monarchie byzantine et post-byzantine, Bucarest<br />

2001, 29-54.<br />

113 Voir B. FLUSIN, Constantin Porphyrogénète. Discours sur la translation des<br />

reliques de saint Grégoire de Nazianze (BHG 728), Revue des études byzantines 57<br />

(1999) 5-97.<br />

277


FORME E VICENDE DEL MANDILIO DI EDESSA SECONDO<br />

ALCUNE MODERNE INTERPRETAZIONI<br />

ANDREA NICOLOTTI<br />

<strong>Università</strong> <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

Ecco <strong>di</strong> nuovo un <strong>di</strong>vin giorno <strong>di</strong> solennità del Signore. Infatti colui che<br />

siede nell’alto dei cieli ci ha ora manifestamente visitati, per mezzo della<br />

sua augusta immagine. Colui che è lassù, invisibile ai Cherubini, vien visto,<br />

attraverso una figura, da coloro ai quali si è fatto somigliante, ineffabilmente<br />

plasmato dall’immacolato <strong>di</strong>to del Padre, a somiglianza propria.<br />

Noi, adorandola con fede e amore, ne riceviamo santificazione 1 .<br />

Mentre il coro intona questo stichērón, intercalando i versetti <strong>di</strong> un<br />

salmo, il clero si muove in processione attraverso la chiesa, incensandone<br />

ogni angolo, dopo che la navata, prima velata dalle tenebre, risplende<br />

illuminata dalle candele appena accese. È il solenne “lucernario”, il<br />

rito centrale del vespro bizantino col quale si celebra il simbolismo cristologico<br />

del passaggio dalla tenebra alla luce; il canto, che ogni 16 <strong>di</strong><br />

agosto si ripete in tutte le chiese che seguono l’antico rito costantinopolitano,<br />

è lo stichērón proprio della festa della santa acheropita <strong>di</strong><br />

Edessa.<br />

Esiste dunque, <strong>di</strong>ce l’innografo, una «augusta immagine», un ritratto<br />

visibile e tangibile, nel quale la figura del Cristo celeste ed incorporeo<br />

è resa palese agli occhi <strong>di</strong> tutti. Una vera “icona” che, in verità, è<br />

andata <strong>di</strong>spersa; ma anche se essa più non esiste, il carattere conservativo<br />

della liturgia orientale non impe<strong>di</strong>sce che la si continui a celebrare.<br />

Ciò che si commemora, peraltro, non è tanto l’immagine stessa quanto<br />

1 E. VON DOBSCHÜTZ, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende,<br />

Leipzig 1899, 125**, l. 30 - 126**, l. 5: pavlin despotikh'" pavresti panhguvrew"<br />

qeiva hJmevra. ÔO ga;r ejn uJyivstoi" kaqhvmeno" nu'n hJma'" safw'" ejpeskevyato <strong>di</strong>a; th'"<br />

septh'" aujtou' eijkovno": oJ a[nw toi'" ceroubi;m w]n ajqewvrhto" oJra'tai <strong>di</strong>a; grafh'"<br />

oi|sper wJmoivwtai patro;" ajcravntw/ daktuvlw/, morfwqei;" ajrrhvtw" kaqΔ oJmoivwsin<br />

th;n aujtou', h}n pivstei kai; povqw/ proskunou'nte" aJgiazovmeqa.<br />

279


280<br />

Andrea Nicolotti<br />

un preciso ed irripetibile evento della storia: il 16 agosto dell’anno 944<br />

quest’autentica rappresentazione <strong>di</strong>vina, conosciuta ai più come<br />

Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa, veniva trionfalmente esposta nel palazzo imperiale<br />

della capitale bizantina ed entrava a far parte del tesoro dell’imperatore<br />

2 . Romano I Lecapeno l’aveva fortemente desiderata per sé, e per<br />

poterla trasferire a Costantinopoli l’aveva acquistata a caro prezzo dal<br />

califfo ‛Umar ibn al-Khaṭṭāb che, a quel tempo, governava la città <strong>di</strong><br />

Edessa.<br />

La leggenda che riguardava il Man<strong>di</strong>lio (manduvlion, che in greco<br />

significa ‘fazzoletto’) era da tempo nota in tutto l’impero: per accontentare<br />

Abgar, un antico sovrano edesseno che desiderava vederlo,<br />

Gesù si sarebbe asciugato il volto su un panno, lasciando miracolosamente<br />

impressa su <strong>di</strong> esso l’immagine del proprio viso. E questa “sacra<br />

impronta” inviata al sovrano era <strong>di</strong>venuta al contempo simbolo e<br />

Palla<strong>di</strong>o della città <strong>di</strong> Edessa: una preziosa reliquia che si presentava<br />

come l’unica vera rappresentazione terrena del volto umano un tempo<br />

assunto dal Dio invisibile.<br />

Del “Salvatore acheropita” 3 ben presto furono in circolazione alcune<br />

copie su stoffa, ciascuna delle quali si presentava come quella autentica,<br />

o perlomeno come frutto <strong>di</strong> qualche miracolosa repli ca zione 4 .<br />

Quando Romano mandò a prenderla a Edessa, il vescovo <strong>di</strong> Samosata<br />

Abramio dovette esaminarne tre esemplari conservati in tre <strong>di</strong>verse<br />

chiese della città, e scegliere quella che gli sembrava autentica, scartando<br />

le altre due 5 . Ma <strong>di</strong> essa abbondavano soprattutto le rappresentazioni<br />

pittoriche, che raggiunsero il momento <strong>di</strong> massima fioritura dopo<br />

che il Man<strong>di</strong>lio fu traslato a Costantinopoli: da quel momento, quasi<br />

non vi è chiesa bizantina che non ospiti un affresco del panno acheropita.<br />

La tra<strong>di</strong>zione iconografica orientale, dopo un primo periodo<br />

2 Su questa traslazione A. A. VASILIEV, Byzance et les Arabes, tome 2/1: La<br />

dynastie macédonienne, Bruxelles 1968, 297-303; É. PATLAGEAN, L’entrée de la<br />

Sainte Face d’Édesse à Costantinople en 944, in A. VAUCHEZ (ed.), La religion<br />

civique à l’époque mé<strong>di</strong>évale et moderne (Chrétienté et Islam), Rome 1995, 21-35.<br />

3 È il nome che il Man<strong>di</strong>lio ha assunto tra gli ortodossi slavi: Спас<br />

Нерукотворенный.<br />

4 È quanto era già avvenuto, in ambito pagano, con il Palla<strong>di</strong>o caduto dal<br />

cielo, il cui originale molte città della Grecia pretendevano <strong>di</strong> possedere (si veda il<br />

contributo <strong>di</strong> Lellia Cracco Ruggini in questo stesso volume).<br />

5<br />

CONSTANTINUS VII PORPHYROGENITUS, Narratio de imagine Edessena, 40 e<br />

46-47 (ed. DOBSCHÜTZ, Christusbilder cit., 71** e 75**).


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

caratterizzato da una certa libertà <strong>di</strong> rappresentazione, ha sviluppato e<br />

cristallizzato una tipologia iconografica dell’immagine edessena abbastanza<br />

stabile e ripetitiva. Il man<strong>di</strong>lio, sostanzialmente, viene raffigurato<br />

come un panno <strong>di</strong> stoffa più o meno piccolo, <strong>di</strong> forma rettangolare<br />

o quadrata, <strong>di</strong> colore chiaro, il quale è identificabile dalla presenza <strong>di</strong><br />

tutti o <strong>di</strong> alcuni dei seguenti elementi: frange sui lati; pieghe sulla tela;<br />

bande colorate simmetriche che attraversano il tessuto e sfondo decorato<br />

(solitamente a rombi o losanghe, talora con motivi floreali o cruciformi,<br />

per ricordare l’intreccio dei fili che costituiscono il tessuto o<br />

l’ornamento del damasco). Al centro del panno si staglia l’immagine<br />

del volto <strong>di</strong> Gesù, abitualmente inscritto in un nimbo crocifero con<br />

croce patente, barbato, privo del collo, con gli occhi aperti e senza<br />

segni <strong>di</strong> sofferenza (<strong>di</strong>versamente dalla “Veronica” occidentale, che raffigura<br />

un santo volto straziato). Con queste caratteristiche l’iconografia<br />

del Man<strong>di</strong>lio ha attraversato i secoli ed è giunta fino ad oggi 6 .<br />

Sulla vera natura <strong>di</strong> questo oggetto – o per meglio <strong>di</strong>re sull’archetipo<br />

<strong>di</strong> questo oggetto – in questi ultimi anni è stata avanzata una proposta<br />

interpretativa la quale, pur avendo ottenuto poco cre<strong>di</strong>to da parte <strong>degli</strong><br />

stu<strong>di</strong>osi, ha ottenuto larga <strong>di</strong>ffusione al <strong>di</strong> fuori dell’ambito accademico.<br />

Ad avanzarla è stato lo scrittore inglese Ian Wilson in un libro del<br />

1978 de<strong>di</strong>cato ad un’altra immagine acheropita, quella ultima e più famosa:<br />

la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> 7 . Questo e i successivi contributi del medesimo<br />

autore sull’argomento 8 sono <strong>di</strong>venuti un punto <strong>di</strong> passaggio obbligato<br />

per tutti coloro che si occupano della storia della Sindone: uno<br />

<strong>degli</strong> elementi cruciali fu precisamente la proposta <strong>di</strong> identificare la reliquia<br />

torinese, <strong>di</strong> cui non vi sono testimonianze storiche anteriori al<br />

XIV secolo, con un’altra immagine acheropita, quella edessena, della<br />

quale invece abbiamo notizie almeno a partire dal V-VI secolo. Le due<br />

reliquie, secondo Wilson, sarebbero dunque lo stesso oggetto.<br />

Eppure, anche solo ad un primo sguardo, le <strong>di</strong>fferenze tra i due<br />

<strong>oggetti</strong> sono molte: il Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa era un piccolo asciugamano,<br />

un panno con il quale Gesù si sarebbe asciugato il viso, mentre la<br />

6 Sul modello iconografico consueto si può vedere G. GHARIB, Le icone. Sto -<br />

ria e culto, Roma 1993, 85.<br />

7 I. WILSON, The Shroud of Turin, New York 1978, subito tradotto: ID., Le<br />

Suaire de Turin, Paris 1978.<br />

8 L’ultima sua monografia è I. WILSON, The Shroud. The 2000-Year-Old<br />

Mystery Solved, London 2010.<br />

281


282<br />

Andrea Nicolotti<br />

Sindone è un lino sepolcrale lungo quasi quattro metri e mezzo e largo<br />

più <strong>di</strong> un metro e <strong>di</strong>eci, dal peso complessivo <strong>di</strong> più <strong>di</strong> un chilogrammo;<br />

il Man<strong>di</strong>lio recava l’immagine <strong>di</strong> un volto, mentre la Sindone<br />

mostra la duplice immagine, frontale e posteriore, dell’intero corpo <strong>di</strong><br />

un uomo; il Man<strong>di</strong>lio raffigurava il volto a colori del Cristo vivente,<br />

con gli occhi aperti e senza segni <strong>di</strong> tortura, mentre quello della<br />

Sindone è un cadavere insanguinato, monocromatico, con gli occhi<br />

chiusi e numerose ferite anche sul viso. Nonostante le palesi <strong>di</strong>fferenze,<br />

la pretesa identità fra le due reliquie è stata propagandata da molta<br />

parte dell’e<strong>di</strong>toria e dalla stampa più <strong>di</strong>vulgativa, passando sotto silenzio<br />

o superando le <strong>di</strong>fficoltà grazie ad una serie <strong>di</strong> congetture, talora<br />

davvero molto ar<strong>di</strong>te, e creando nei lettori l’impressione <strong>di</strong> un consenso<br />

storiografico che in realtà non è mai stato raggiunto.<br />

Nel presente contributo, a fronte della molteplicità <strong>degli</strong> argomenti<br />

che potrebbero essere trattati, mi occupo soltanto <strong>di</strong> alcune questioni<br />

particolarmente significative, sufficienti per formarsi un’opinione sul<br />

problema. È l’anticipazione <strong>di</strong> una ricerca molto più ampia, che prelude<br />

alla pubblicazione <strong>di</strong> una monografia interamente de<strong>di</strong>cata alla questione<br />

9 .<br />

1. L’immagine <strong>di</strong> Edessa<br />

Le varie fasi della creazione della leggenda dell’immagine <strong>di</strong> Edessa<br />

sono abbastanza note, e non è il caso <strong>di</strong> riprenderle qui in maniera<br />

approfon<strong>di</strong>ta 10 . Essa nacque, in sostanza, come appen<strong>di</strong>ce alla cosid-<br />

9 Un mio volume sulla storia della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> tra il XIII e il XIV secolo<br />

è fresco <strong>di</strong> stampa: A. NICOLOTTI, I Templari e la Sindone. Storia <strong>di</strong> un falso,<br />

Roma 2011. Seguirà a breve la monografia de<strong>di</strong>cata al Man<strong>di</strong>lio.<br />

10 Sulla storia e le vicende <strong>di</strong> questa acheropita, mi limito a segnalare: E. VON<br />

DOBSCHÜTZ, Immagini <strong>di</strong> Cristo, trad. ital., Milano 2006, 91-148 (e<strong>di</strong>z. orig.<br />

Christusbilder cit., 102-196); S. RUNCIMAN, Some Remarks on the Image of<br />

Edessa, Cambridge Historical Journal 3/3 (1931) 238-252; A. CAMERON, The<br />

History of the Image of Edessa: The Telling of a Story, Harvard Ukrainian<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 7 (1983) 80-94; EAD., The Mandylion and Byzantine Iconoclasm, in H. L.<br />

KESSLER - G. WOLF (edd.), The Holy Face and the Paradox of Representation,<br />

Bologna 1998, 33-54; H. L. KESSLER, Il mandylion, in G. MORELLO - G. WOLF<br />

(edd.), Il volto <strong>di</strong> Cristo, Milano 2000, 67-76; A. M. LIDOV, Святой Мандилион.<br />

История реликвии, in L. EVSEEVA - A. M. LIDOV - N. N. CHUGREEVA (edd.),<br />

Спас Нерукотворный в русской иконе, Moskva 2005, 12-39; A. N. PALMER, The


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

detta “leggenda <strong>di</strong> Abgar”, la cui prima testimonianza scritta è contenuta<br />

nella Storia ecclesiastica <strong>di</strong> Eusebio <strong>di</strong> Cesarea (311-325 circa).<br />

Secondo questo racconto – che costituisce il più antico tentativo <strong>di</strong><br />

riscrittura della storia dell’evangelizzazione cristiana in Osroene – alla<br />

prima metà del I secolo sulla città <strong>di</strong> Edessa regnava Abgar V Ukkāmā,<br />

il quale era afflitto da una terribile malattia. Avendo u<strong>di</strong>to delle meraviglie<br />

compiute da Gesù <strong>di</strong> Nazaret in Palestina, «gli si rivolse inviando<br />

una lettera tramite un corriere» <strong>di</strong> nome Anania, domandandogli la<br />

guarigione. Gesù non poté accontentarlo, al momento, ma «lo degnò<br />

almeno <strong>di</strong> una lettera personale, promettendogli che gli avrebbe inviato<br />

uno dei suoi <strong>di</strong>scepoli per la guarigione della sua malattia e, al contempo,<br />

per la salvezza sua e <strong>di</strong> tutti i suoi congiunti» 11 . Eusebio allega al<br />

suo racconto una traduzione greca, cavata da un supposto originale<br />

siriaco, sia della lettera <strong>di</strong> Abgar a Gesù, sia della risposta. Il racconto<br />

si conclude con la narrazione <strong>di</strong> quanto avvenne in seguito: la venuta<br />

presso Abgar <strong>di</strong> Taddeo, uno dei Settanta, che dopo averlo risanato si<br />

<strong>di</strong>ede all’evangelizzazione del paese.<br />

La leggenda è dunque attestata nel IV secolo, ma non conosce ancora<br />

l’immagine <strong>di</strong> Cristo <strong>di</strong> cui ci stiamo occupando: quest’ultima compare<br />

soltanto in un testo siriaco più tar<strong>di</strong>vo, risalente al V secolo, conosciuto<br />

come Dottrina <strong>di</strong> Addai 12 . Qui si narra che Anania non era un<br />

corriere, bensì un archivista. Anche in questo caso il contatto tra<br />

Abgar e Gesù si limita ad una corrispondenza epistolare, ma c’è una<br />

novità: «Quando Anania l’archivista vide che Gesù gli aveva parlato in<br />

quel modo, siccome era il pittore del re, prese e <strong>di</strong>pinse l’immagine <strong>di</strong><br />

Gesù con pigmenti scelti e la portò con sé al re Abgar suo sovrano»; e<br />

questi «la accolse con grande gioia e la collocò con grande onore in<br />

una delle stanze del suo palazzo» 13 .<br />

Il testo appena riportato costituisce la prima testimonianza dell’esi-<br />

Logos of the Mandylion: Folktale, or <strong>Sacre</strong>d Narrative?, in L. GREISIGER - C.<br />

RAMMELT - J. TUBACH (edd.), Edessa in hellenistisch-römischer Zeit, Beirut 2009,<br />

117-208.<br />

11 EUSEBIUS CAESARIENSIS, Historia ecclesiastica, I,13,2-5 (ed. E. SCHWARTZ,<br />

Eusebius Kirchengeschichte, Leipzig 1932).<br />

12 Su questo testo cfr. A. DESREUMAUX, Histoire du roi Abgar et de Jésus,<br />

Turnhout 1993; J. GONZÁLEZ NÚÑEZ, La leyenda del rey Abgar y Jesús, Madrid<br />

1995.<br />

13 Doctrina Addai, pp. 4-5 (ed. G. PHILLIPS, The Doctrine of Addai, the<br />

Apostle, London 1876).<br />

283


284<br />

Andrea Nicolotti<br />

stenza <strong>di</strong> un ritratto <strong>di</strong>pinto, nella città <strong>di</strong> Edessa, che raffigurava il<br />

Cristo. Nel VI secolo, però, in un’altra opera siriaca (gli Atti <strong>di</strong> Mar<br />

Mari) la prospettiva cambia ulteriormente: non c’è più l’archivista<br />

Anania, che ha lasciato il posto a un imprecisato numero <strong>di</strong> «abili pittori».<br />

Essi non agiscono più autonomamente perché Abgar stesso, si<br />

<strong>di</strong>ce, aveva or<strong>di</strong>nato loro «<strong>di</strong> pitturare e riportare con un <strong>di</strong>pinto il<br />

volto <strong>di</strong> nostro Signore, affinché egli potesse godere della sua immagine<br />

come se lo avesse incontrato». Così prosegue il racconto:<br />

Andarono dunque i pittori con gli ambasciatori del re, eppure non riuscivano<br />

a pitturare la pittura della venerabile umanità <strong>di</strong> nostro Signore.<br />

Nostro Signore, allora, quando nella conoscenza della sua <strong>di</strong>vinità vide l’amore<br />

<strong>di</strong> Abgar nei suoi confronti, avendo visto che i pittori si affaticavano<br />

per riuscire a pitturare un’immagine per come era, ma non riuscivano,<br />

prese un telo e lo premette sul proprio volto, il vivificatore del mondo, e<br />

[l’immagine] risultò come era 14 .<br />

Ecco dunque una nuova versione della leggenda: il ritratto edesseno<br />

non è più una bella pittura, ma si è trasformato in un’immagine miracolosa,<br />

un’acheropita realizzata da Cristo stesso. Anche lo scrittore<br />

antiocheno Evagrio Scolastico, negli ultimissimi anni del VI secolo,<br />

allude ad una «immagine fatta da Dio, non prodotta da mani d’uomo,<br />

che Cristo Dio ha inviato ad Abgar», e ad essa attribuisce la vittoria<br />

<strong>degli</strong> edesseni durante l’asse<strong>di</strong>o persiano del 544 15 . E pure Giovanni<br />

Damasceno, tra il 730 e il 750, è a conoscenza del miracolo grazie al<br />

quale Cristo imprime la propria immagine su un panno «accostandolo<br />

al volto» 16 .<br />

Le fonti, dunque, attestano chiaramente un lungo processo <strong>di</strong> rielaborazione<br />

<strong>di</strong> una leggenda che nel IV secolo non comprende alcuna<br />

14 Acta Mar Maris, 3:<br />

<br />

(ed. A. HARRAK, The Acts of<br />

Mār Mārī the Apostle, Atlanta 2005).<br />

15<br />

EVAGRIUS SCHOLASTICUS, Historia ecclesiastica, IV, 27 (ed. J. BIDEZ - L.<br />

PARMENTIER, The Ecclesiastical History of Evagrius, London 1898).<br />

16<br />

IOANNES DAMASCENUS, Orationes de imaginibus tres, I,33; anche ID.,<br />

Expositio fidei, 89 (ed. B. KOTTER, Die Schriften des Johannes von Damaskos, voll.<br />

2-3, Berlin 1973-1975).<br />

.<br />

<br />

. : <br />

. <br />

<br />

<br />

.<br />

:


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

immagine, nel V conosce un <strong>di</strong>pinto a colori, e solo a partire dal VI, da<br />

ultimo, una miracolosa immagine acheropita. L’identificazione tra la<br />

Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> e l’immagine edessena – o per meglio <strong>di</strong>re l’immagine<br />

edessena per come è descritta in quest’ultima fase della leggenda –<br />

mostra già ora, in prima istanza, un primo punto <strong>di</strong> debolezza: la genesi<br />

tar<strong>di</strong>va e la cangiante leggendarietà delle descrizioni dell’immagine<br />

edessena impe<strong>di</strong>scono <strong>di</strong> attribuir loro un valore storico. Le de scrizioni<br />

sono incompatibili tra loro, e <strong>di</strong>mostrano l’impossibilità che alla base<br />

dei racconti vi fosse un solo oggetto compatibile con la reliquia tori -<br />

nese. La Sindone, infatti, non ha nulla a che fare con l’antico ritratto<br />

tracciato «con pigmenti scelti», ma neppure è conciliabile con le ca -<br />

ratteristiche dell’acheropita: un’immagine del solo volto <strong>di</strong> Cristo,<br />

proprio quel «volto <strong>di</strong> nostro Signore» che Abgar si attendeva <strong>di</strong> ricevere;<br />

un Cristo vivo e senza segni <strong>di</strong> sofferenza o ferite, perché ancora<br />

ben lungi dall’essere arrestato e torturato dai romani. Sia che questi<br />

testi descrivessero una sola icona conservata a Edessa, sia che si riferissero<br />

ad icone <strong>di</strong>verse – le varie copie in circolazione, oppure le copie <strong>di</strong><br />

rimpiazzo che dovettero sostituire quelle eventualmente <strong>di</strong>sperse du -<br />

ran te le tremende inondazioni della città 17 – nessuno conosceva la Sin -<br />

done.<br />

2. Gli Atti <strong>di</strong> Taddeo<br />

In una data imprecisata fra il 609 e il 944 18 fu composto un racconto,<br />

in lingua greca 19 , che contiene una nuova versione della leggenda<br />

edessena. In essa ricompare la figura del solo Anania, inviato <strong>di</strong> re<br />

Abgar, ma non si fa più parola <strong>di</strong> <strong>di</strong>pinti:<br />

17 Siamo al corrente <strong>di</strong> almeno quattro inondazioni che sommersero la città e i<br />

suoi abitanti, facendo anche crollare le mura, avvenute negli anni 201, 203, 413 e<br />

525: cfr. A. PALMER, Procopius and Edessa, Antiquité tar<strong>di</strong>ve 8 (2000) 129-133.<br />

18 Andrew Palmer (Les Actes de Thaddée, Apocrypha 13 [2002] 63-84) propone<br />

il biennio 629-630.<br />

19 Il testo greco <strong>degli</strong> Atti non ha nulla a che vedere con quello siriaco della<br />

Dottrina <strong>di</strong> Addai; eppure Barbara Frale li confonde sistematicamente, ascrivendo<br />

ad uno frasi ed espressioni tratte dall’altro (B. FRALE, La Sindone e il ritratto <strong>di</strong><br />

Cristo, Città del Vaticano 2010, 79-81, 95, 98, 112).<br />

285


286<br />

Andrea Nicolotti<br />

Abgar aveva or<strong>di</strong>nato ad Anania <strong>di</strong> osservare accuratamente il Cristo, che<br />

apparenza avesse, l’età, i capelli, insomma tutto quanto. Partitosi Anania e<br />

consegnata la lettera, se ne stava fissando intensamente il Cristo, ma non<br />

era in grado <strong>di</strong> afferrarlo. Quando lui, come quegli che conosce i cuori, se<br />

ne accorse, chiese <strong>di</strong> lavarsi. Gli fu dato un tetrá<strong>di</strong>plon e, lavatosi, si asciugò<br />

il viso. Rimasta impressa la sua immagine nel tessuto, lo consegnò ad<br />

Anania […] Dopo aver ricevuto Anania, essersi prostrato e aver adorato<br />

l’immagine […] Abgar fu risanato dalla propria malattia 20 .<br />

Proprio dal termine tetrá<strong>di</strong>plon, che viene adoperato dagli Atti e<br />

ripreso da quei testi che da essi <strong>di</strong>pendono <strong>di</strong>rettamente 21 , è nata la<br />

teoria sindonologica <strong>di</strong> Ian Wilson. Consultando una e<strong>di</strong>zione inglese<br />

<strong>degli</strong> Atti <strong>di</strong> Taddeo, egli notò che il traduttore aveva segnalato in nota<br />

il significato letterale della parola tetrav<strong>di</strong>plon: ‘doubled in four’ 22 .<br />

Tenendo a mente la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, egli architettò una farraginosa<br />

ricostruzione: immaginando <strong>di</strong> piegare in quattro il lenzuolo della<br />

Sindone si potrebbe ottenere, come risultato, un tessuto a strati so vrap -<br />

posti; e sulla superficie esterna, su uno dei sue lati, potrebbero restare<br />

in vista soltanto la testa e una parte del busto dell’uomo su <strong>di</strong> essa raffigurato.<br />

Proprio in questo modo – sostiene Wilson – il tessuto sarebbe<br />

stato conservato nella città <strong>di</strong> Edessa chiuso all’interno <strong>di</strong> un reliquiario,<br />

impedendo ai fedeli <strong>di</strong> apprezzarne il reale contenuto. Ignari del<br />

fatto che le pieghe del lenzuolo nascondessero l’immagine <strong>di</strong> un corpo<br />

20 Acta Thaddaei, 2-4: paraggeivla" tw'/ ΔAnaniva/ oJ ”Abgaro" iJstorh'sai to;n<br />

Cristo;n ajkribw'", poiva" eijdeva" ejstivn, thvn te hJlikivan kai; trivca kai; aJplw'" pavnta.<br />

‘O de; ΔAnaniva" ajpelqw;n kai; dou;" th;n ejpistolh;n h\n ejpimelw'" ajtenivzwn tw'/<br />

Cristw'/, kai; oujk hjduvnato katalabevsqai aujtovn. ‘O de; wJ" kar<strong>di</strong>ognwvsth" gnou;"<br />

h[/thse nivyasqai: kai; ejpedovqh aujtw'/ tetrav<strong>di</strong>plon: kai; niyavmeno" ajpemavxato th;n<br />

o[yin aujtou'. ΔEntupwqeivsh" de; th'" eijkovno" aujtou' ejn th'/ sindovni ejpevdwken tw'/<br />

ΔAnaniva/ ª…º ‘O de; dexavmeno" to;n ΔAnanivan kai; pesw;n kai; proskunhvsa" th;n eijkovna<br />

ª…º oJ ”Abgaro" ijavqh ajpo; th'" novsou aujtou' (ed. R. A. LIPSIUS - M. BONNET,<br />

Acta Apostolorum Apocrypha, vol. 1, Leipzig 1903, 274. Nuova e<strong>di</strong>zione in<br />

PALMER, The Logos of the Mandylion cit., 171-175).<br />

21 Ad esempio una recensione della Narratio de imagine Edessena, poi rimaneggiata<br />

nel Sinassario costantinopolitano: CONSTANTINUS VII PORPHY RO GE -<br />

NITUS, Narratio de imagine Edessena, 5 (A), ed. DOBSCHÜTZ, Christusbilder cit.,<br />

48**, l. 2.<br />

22 A. ROBERTS - J. DONALDSON - A. C. COXE, The Ante-Nicene Fathers. The<br />

Writings of the Fathers Down to A.D. 325, vol. 8, Buffalo 1886, 558: “doubled in<br />

four”.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

intero, ed abituati a vedere solo ciò che il reliquiario permetteva loro <strong>di</strong><br />

scorgere – cioè una piccola superficie della stoffa, quella non nascosta<br />

dalla cornice avente un’apertura circolare al centro – tutti si sarebbero<br />

lasciati ingannare dalle apparenze. Così sarebbe nata la leggenda dell’immagine<br />

edessena la quale – come già visto – conosce <strong>di</strong>pinti o figure<br />

acheropite del solo volto <strong>di</strong> Cristo [Tav. 23 23 ].<br />

La spiegazione è francamente fantasiosa, e costruita a tavolino per<br />

adattare la leggenda <strong>di</strong> Abgar alla realtà <strong>di</strong> un oggetto del tutto <strong>di</strong>verso<br />

da quello che essa descrive. Eppure, complice molta letteratura sulla<br />

Sindone <strong>di</strong> carattere devozionale o solo apparentemente scientifico, a<br />

partire dal 1978 si sono moltiplicati i tentativi <strong>di</strong> accre<strong>di</strong>tare tale ricostruzione,<br />

nonostante le obiezioni. La prima obiezione risiede nel carattere<br />

assolutamente congetturale della teoria, che non ha alcun riscontro<br />

in tutta quanta la tra<strong>di</strong>zione sia sul Man<strong>di</strong>lio, sia sulla Sindone<br />

stessa. La seconda, nell’impossibilità <strong>di</strong> credere che l’autore <strong>degli</strong> Atti<br />

usasse con coscienza il termine tetrav<strong>di</strong>plon nel senso che si pretende,<br />

quando allo stesso tempo descrive l’immagine <strong>di</strong> Edessa in modo del<br />

tutto tra<strong>di</strong>zionale, cioè come un asciugamano coll’immagine <strong>di</strong> un volto;<br />

ed è lo stesso autore che, quando è chiamato a parlare dei teli sepolcrali<br />

<strong>di</strong> Gesù, non li mette in alcuna relazione con l’immagine miracolosa<br />

ed usa, per designarli, una terminologia del tutto <strong>di</strong>fferente 24 . Salta<br />

poi agli occhi quanto sia incompatibile l’evidenza <strong>di</strong> un lenzuolo recante<br />

l’immagine <strong>di</strong> un cadavere rispetto ad un racconto nel quale si parla<br />

<strong>di</strong> un Gesù vivente che imprime la sua immagine asciugandosi il viso<br />

davanti alla folla.<br />

Eppure i sostenitori dell’identità Sindone/Man<strong>di</strong>lio, ipotesi alla quale<br />

ha entusiasticamente aderito un crescente numero <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>osi della<br />

Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, hanno a loro volta escogitato una serie <strong>di</strong> controobiezioni<br />

ancor più congetturali, spesso insostenibili. Imma ginare che i<br />

testi abbiano potuto descrivere il Man<strong>di</strong>lio come un panno per asciugarsi<br />

il viso, pur avendo a mente un lenzuolo tombale, è evidente contrad<strong>di</strong>zione:<br />

si è dunque proposto che gli autori <strong>di</strong> quegli scritti abbiano<br />

mantenuto un deliberato silenzio, inscenando una sorta <strong>di</strong> “pia frode”<br />

o “devoto complotto” perché spinti da preoccupazioni teologiche.<br />

Nell’ambiente edesseno, dove predominavano le idee “monofisite”, i<br />

cristiani avrebbero avuto una concezione del Cristo che ne accettava la<br />

23 Ringrazio Ian Wilson per avermi concesso l’uso <strong>di</strong> questa immagine.<br />

24 Acta Thaddaei, 6, dove parla <strong>di</strong> ejntavfia.<br />

287


288<br />

Andrea Nicolotti<br />

sola natura <strong>di</strong>vina; a motivo <strong>di</strong> ciò, essi avrebbero avuto la tendenza a<br />

nascondere tutti quegli elementi che potessero <strong>di</strong>mostrare l’esistenza in<br />

lui <strong>di</strong> una vera umanità 25 . La Sindone sarebbe stata uno <strong>di</strong> questi elementi,<br />

perché con la sua impronta del cadavere <strong>di</strong> un Gesù ferito e sanguinante<br />

ne avrebbe inevitabilmente mostrato il lato più fragile ed umano.<br />

Ma questa spiegazione – che attribuisce al clero <strong>di</strong> Edessa il deliberato<br />

e colpevole nascon<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> una reliquia, allo scopo <strong>di</strong> favorire<br />

una cristologia erronea che tale reliquia chiaramente sconfessava ai loro<br />

occhi – non solo è ingenerosa nei confronti della cristianità edessena,<br />

ma denota altresì una completa ignoranza dell’ambiente teologico<br />

siro. È infatti ben noto e pacifico da almeno un secolo, perlomeno dopo<br />

i classici stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Joseph Lebon, che il cosiddetto “monofisismo”<br />

edesseno non prevedeva in alcun modo la negazione né della reale<br />

umanità del Cristo né della sua morte cruenta sulla croce 26 . Un nascon<strong>di</strong>mento<br />

del presunto telo funerario <strong>di</strong> Cristo, con le sue ferite sanguinanti<br />

che ne <strong>di</strong>mostravano la piena umanità, non può essere giustificato<br />

con questo argomento.<br />

D’altra parte non è necessario guardare l’intero corpo dell’uomo<br />

della Sindone per capire che si tratta dell’immagine <strong>di</strong> un cadavere ferito:<br />

è sufficiente vederne il solo volto, con quegli occhi chiusi e le numerose<br />

colature <strong>di</strong> sangue che scendono sulla fonte, sul capo e sui capelli<br />

[Tav. 24]. Nonostante quanti, contro ogni evidenza, hanno tentato <strong>di</strong><br />

replicare sostenendo che gli occhi sembrano chiusi ma potrebbero anche<br />

sembrare aperti, e che le macchie <strong>di</strong> sangue potrebbero essere confuse<br />

con ciocche <strong>di</strong> capelli 27 .<br />

Si è poi fatto ricorso ad altre presunte argomentazioni <strong>di</strong>mostrative:<br />

il fatto che certe raffigurazioni iconografiche bizantine abbelliscano lo<br />

sfondo del Man<strong>di</strong>lio con un motivo a rombi decorati, e vi <strong>di</strong>pingano<br />

sui lati una serie <strong>di</strong> frange annodate [Tav. 25 28 ], è stato interpretato<br />

25 Così, tra i tanti, B. FRALE, I Templari e la Sindone <strong>di</strong> Cristo, Bologna 2009,<br />

109.<br />

26 Cfr. J. LEBON, Le monophysisme sévérien, Lovanii 1909; ID., La christologie<br />

du monophysisme syrien, in A. GRILLMEIER - H. BATCH (edd.), Das Konzil von<br />

Chalkedon. Geschichte und Gegenwart, vol. 1, Würzburg 19622 , 425-580.<br />

27 I. WILSON, Le Suaire de Turin, Paris 1978, 160-164; W. BULST - H.<br />

PFEIFFER, Das Turiner Grabtuch und das Christusbild, vol. 1: Das Grabtuch.<br />

Forschungsberichte und Untersuchungen, Knecht 1987, 124.<br />

28 Affresco della chiesa del Salvatore <strong>di</strong> Spas-Nere<strong>di</strong>tsa, dell’anno 1199, presso<br />

Veliky Novgorod.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

come prova dell’esistenza del reliquiario ove la Sindone sarebbe stata<br />

chiusa ripiegata su se stessa: il motivo a rombi sarebbe un reticolato<br />

d’oro che proteggeva la Sindone, e le frange sarebbero in realtà i tiranti<br />

che servivano a fissarla su un supporto ligneo. Le terminazioni allargate<br />

delle frange (i no<strong>di</strong>) non sarebbero altro che la rappresentazione<br />

delle teste dei chio<strong>di</strong> usati per fermarla [Tav. 23]. Eppure sia le frange<br />

sia lo sfondo a reticolato sono attestati altrove – in affreschi, miniature<br />

ed icone – su stoffe che nulla hanno a che vedere con la Sindone o il<br />

Man<strong>di</strong>lio (ad esempio su una delle miniature del Cosma In<strong>di</strong>copleuste,<br />

quella che raffigura le tende del Tabernacolo mosaico [Tav. 26 29 ]); né si<br />

potrebbe <strong>di</strong>re che gli iconografi bizantini abbiano rappresentato sempre<br />

in quel modo le frange e lo sfondo del Man<strong>di</strong>lio, in quanto su altri<br />

<strong>di</strong>pinti le frange non hanno alle estremità alcun allargamento a forma<br />

<strong>di</strong> “chiodo” e spesso sul tessuto non vi è alcuna decorazione né geometrica<br />

né floreale, ma al massimo bande colorate perpen<strong>di</strong>colari [Tav.<br />

27 30 ] che si ritrovano tal quali in molti asciugamani dell’epoca sopravvissuti<br />

fino ai nostri giorni 31 .<br />

La stessa spiegazione del tessuto ‘piegato in quattro’ si presta ad<br />

obiezioni: perché la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> sia piegata fino ad assumere la<br />

forma voluta, quella che lascia visibile solo il volto, le piegature – per<br />

come vengono rappresentate graficamente dagli stessi sostenitori della<br />

teoria – sono evidentemente tre, e non quattro [Tav. 23]. Il risultato<br />

delle piegature è comunque quello <strong>di</strong> otto strati sovrapposti; e poiché<br />

quattro per due fa otto, l’ostacolo è stato superato proponendo <strong>di</strong> tradurre<br />

tetrav<strong>di</strong>plon non più come ‘piegato in quattro’ ma come ‘piegato<br />

quattro volte doppio’. Quale senso può avere un tal genere <strong>di</strong> denominazione,<br />

ove invece <strong>di</strong> <strong>di</strong>re ‘piegato in otto’ si sceglie <strong>di</strong> <strong>di</strong>re ‘piegato<br />

quattro volte doppio’? Trovandosi nella <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> spiegarlo, è stata<br />

escogitata una nuova ipotesi: per un certo periodo la Sindone sarebbe<br />

stata piegata solo due volte, a formare quattro strati sovrapposti, e con<br />

questa “piegatura” probabilmente sarebbe stata fissata a penzoloni sul<br />

labaro dell’imperatore Costantino (anche in questo caso nascosta alla<br />

29 Cod. Laurentianus Me<strong>di</strong>ceus Plutei 9.28, f.109r.<br />

30 Affresco dell’anno 1192 nella chiesa della Panagia tou Arakou <strong>di</strong> Lagou -<br />

dera, sull’isola <strong>di</strong> Cipro.<br />

31 Alcune immagini <strong>di</strong> tessuti antichi con queste bande perpen<strong>di</strong>colari si trovano<br />

in W. F. VOLBACH, I tessuti del Museo Sacro Vaticano, Città del Vaticano 1942.<br />

32<br />

BULST - PFEIFFER, Das Turiner Grabtuch cit., 124.<br />

289


290<br />

Andrea Nicolotti<br />

vista, però, da un altro «telo sfarzoso»). Successivamente, per sfuggire<br />

a Giuliano l’Apostata, sarebbe stata staccata dal labaro, portata a<br />

Edessa e piegata un’altra volta nel mezzo, creando dunque una serie <strong>di</strong><br />

otto strati, che le permettessero <strong>di</strong> entrare e rimanere nascosta in uno<br />

scrigno; <strong>di</strong> qui la <strong>di</strong>citura ‘piegato in quattro per due volte’, che sarebbe<br />

<strong>di</strong>ventata una sorta <strong>di</strong> «parola segreta» che solo certi cristiani, al<br />

corrente dei fatti, potevano capire 32 .<br />

A vanificare questi esercizi <strong>di</strong> fantasia, al <strong>di</strong> là del buon senso, potrà<br />

risultare utile esaminare i risultati <strong>di</strong> una perizia tessile effettuata sulla<br />

Sindone stessa: da essa risulta che «allo scopo <strong>di</strong> proteggere il suo prezioso<br />

contenuto, il telo è stato piegato per lungo con l’immagine all’interno<br />

e ciò è avvenuto, a quanto sembra, fin da un tempo assai lontano»:<br />

una piegatura unica in senso longitu<strong>di</strong>nale, quin<strong>di</strong> – come è d’uso,<br />

ancor oggi, quando si piegano le lenzuola – la quale attraversa l’immagine<br />

nel mezzo. E questo è incompatibile con quanto si vuole <strong>di</strong>mostrare.<br />

Mancano poi, sul lato della Sindone in cui vi è l’immagine, «zone<br />

sporche che starebbero ad in<strong>di</strong>care che una certa parte del telo è stata<br />

mostrata temporaneamente incorniciata da un passepartout o qualcosa<br />

<strong>di</strong> simile», ed anche questo particolare esclude la teoria della<br />

Sindone ripiegata in un reliquiario che ne lasciava esposta verso l’esterno<br />

solo la parte recante l’impronta del volto 33 . Quel reliquiario la cui<br />

apertura, secondo quell’interpretazione, sarebbe stata circolare e sarebbe<br />

all’origine, su tutte le icone, del nimbo che circonda la testa del<br />

Cristo acheropita.<br />

Resta ancora da spiegare il significato dell’aggettivo/sostantivo<br />

tetrav<strong>di</strong>plon, per il quale non sembra esserci altra attestazione anteriore<br />

a quelle legate al Man<strong>di</strong>lio. Sulla base <strong>di</strong> quali elementi si può <strong>di</strong>re<br />

che la traduzione ‘piegato in quattro’ debba essere scartata in favore <strong>di</strong><br />

‘piegato quattro volte doppio’? Se <strong>di</strong>plov" significa ‘doppio’ o ‘piegato<br />

due volte’, tetrav<strong>di</strong>plo" dovrà significare ‘piegato due per quattro<br />

volte’? I sostenitori della teoria del Wilson lo affermano, scomponendo<br />

la parola come tetrav-<strong>di</strong>-plo" e attribuendo al <strong>di</strong> un valore raddoppiativo<br />

– la qual cosa la renderebbe <strong>di</strong>stinta da tetra-plov" 34 . Ma sono pro-<br />

33 M. FLURY-LEMBERG, Sindone 2002. L’intervento conservativo, <strong>Torino</strong> 2003,<br />

39. 34 Ai nomi già elencati si può aggiungere K. DIETZ, Some Hypotheses Con -<br />

cerning the Early History of the Turin Shroud, Sindon 16 (2001) 17.<br />

35 D. DĒMĒTRAKOS, Mevga lexikovn ovlh" th" ellhnikhv" glwvssh", vol. 14, Athē?


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

prio i lessici della lingua greca a considerare tetrav<strong>di</strong>plo" come sinonimo<br />

<strong>di</strong> tetraplov", ed essi stessi lo definiscono come «ciò che è piegato<br />

quattro volte, ciò che ha quattro pieghe, pliche» oppure che è «quadruplice<br />

o quadruplo» 35 , laddove il suffisso -<strong>di</strong>plo" negli aggettivi composti<br />

«<strong>di</strong>chiara che la cosa determinata è piegata in tante parti quante ne<br />

esprime il numerale car<strong>di</strong>nale che fa da prefisso» 36 . Risultano dunque<br />

assai più corrette le traduzioni consuete: ‘piegato in quattro’, oppure<br />

‘composto <strong>di</strong> quattro strati’, ‘<strong>di</strong> quattro pieghe’, o ad<strong>di</strong>rittura ‘con<br />

quattro angoli’, ‘quadrato’ 37 . Anche la tra<strong>di</strong>zione religiosa greca<br />

moderna conferma quest’interpretazione: per Nicodemo l’Aghiorita,<br />

la cui parafrasi del Sinassario è nota in tutto il mondo greco-ortodosso,<br />

quello che fu dato a Gesù per asciugarsi fu «un panno piegato in<br />

quattro pieghe (panivon <strong>di</strong>plwmevnon me; tevssara" <strong>di</strong>vpla")» con il quale<br />

«si deterse il proprio <strong>di</strong>vino e intemerato volto» 38 .<br />

Andrew Palmer fornisce una chiave <strong>di</strong> lettura promettente: nell’ambiente<br />

<strong>di</strong> lingua siriaca che aveva dato origine alla ‘quadruplice’ armonia<br />

evangelica <strong>di</strong> Taziano (<strong>di</strong>a; tessavrwn), il ritratto <strong>di</strong> Cristo costituirebbe<br />

una sorta <strong>di</strong> parallelo “vangelo dell’immagine”. Ma convince<br />

ancor più il richiamo al Libro dell’Esodo (28,16 e 39,9) ove il pettorale<br />

<strong>di</strong> lino indossato dal Sommo Sacerdote è descritto come ‘quadrato’<br />

([:Wbr", tetravgwnon nei LXX) e ‘doppiato’ (lWpK", <strong>di</strong>plou'n): una specie <strong>di</strong><br />

sacca <strong>di</strong> stoffa dentro alle cui pieghe erano conservati gli strumenti <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>vinazione 39 . Il termine tetrav<strong>di</strong>plon tra<strong>di</strong>rebbe dunque un’origine<br />

siriaca, forse veterostestamentaria, il che spiegherebbe il motivo per cui<br />

in greco il termine fosse così raro e sia stato spesso soppiantato da<br />

qualcos’altro.<br />

nai 1964, 7169; cfr. P. DRANDAKĒS (ed.), Megavlh Ellhnikhv Egkuklopaivdeia, vol.<br />

22, Athēnai 1929, 901; A. THUMB, Handbuch der neugriechischen Volkssprache,<br />

Strassburg 1910, 78.<br />

36<br />

INSTITOUTO NEOELLĒNIKŌN SPOUDŌN (ed.), Lexikov th" koinhv"<br />

neoellhnikhv", Athēnai 1998, sub voce.<br />

37 Cfr. M. ILLERT, Die Abgarlegende. Das Christusbild von Edessa, Turnhout<br />

2007, 68, nota 286; P. A. GRAMAGLIA, Giovanni Skylitzes, il panno <strong>di</strong> Edessa e le<br />

“sindoni”, Approfon<strong>di</strong>mento Sindone 1/2 (1997) 8.<br />

38<br />

NIKODĒMOS AGIOREITĒS, Sunaxaristhv" tw'n dwvdeka mhnw'n, vol. 3, Venezia<br />

1819, 265.<br />

39<br />

PALMER, The Logos of the Mandylion cit., 205.<br />

40 P. L. BAIMA BOLLONE, Sindone, storia e scienza, Ivrea 2010, 53.<br />

291


3. Gregorio il Referendario<br />

292<br />

Andrea Nicolotti<br />

I testi che descrivono l’immagine edessena e il suo reliquiario, il cui<br />

significato è stato forzato allo scopo <strong>di</strong> renderlo compatibile con la teoria<br />

sindonologica, sono molti; ma ve n’è uno in particolare che viene<br />

costantemente citato come prova, «al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ogni ragionevole dubbio»,<br />

che «l’immagine <strong>di</strong> Edessa non recava soltanto l’immagine del<br />

volto visibile attraverso l’apertura del contenitore, ma che all’interno si<br />

trovavano ripiegate le altre parti <strong>di</strong> quello che è un lenzuolo su cui si<br />

rileva l’impronta dell’intero cadavere» 40 : un lenzuolo che, secondo quel<br />

testo, <strong>di</strong>mostrerebbe un evidente «carattere funebre» 41 . Eppure mai si<br />

parla <strong>di</strong> lenzuola funebri o <strong>di</strong> immagini intere e teli ripiegati in questa<br />

omelia che un certo Gregorio «arci<strong>di</strong>acono e referendario della grande<br />

chiesa <strong>di</strong> Costantinopoli» pronunciò in occasione della traslazione dell’immagine<br />

acheropita da Edessa a Constantinopoli 42 . Uno scritto che<br />

è testimone dell’ennesima evoluzione della leggenda edessena: il panno<br />

<strong>di</strong> Anania, secondo Gregorio, non è più la pezzuola con cui Gesù si<br />

asterge il viso appena lavato con l’acqua, bensì un asciugamano che gli<br />

serve per detergere quei sudori misti a sangue che, secondo il Vangelo<br />

<strong>di</strong> Luca, rigavano il suo viso nell’orto dei Getzemani (Lc 22,44).<br />

Nella sua omelia Gregorio allestisce attorno al panno acheropita<br />

edesseno un complesso <strong>di</strong>scorso allegorico, ricco <strong>di</strong> riman<strong>di</strong> biblici,<br />

considerazioni teologiche e reminiscenze patristiche. Egli paragona la<br />

traslazione del Man<strong>di</strong>lio all’uscita <strong>degli</strong> Ebrei dall’Egitto, o al ritorno<br />

in Gerusalemme dell’arca dell’alleanza sottratta ai Filistei; lo fa applicando<br />

all’argomento un’esegesi <strong>di</strong> contemplazione spirituale che egli<br />

stesso definisce qewriva, ove la lettura delle Scritture non si arresta al<br />

senso letterale ed imme<strong>di</strong>ato dei testi 43 . Volendo <strong>di</strong>stinguerla dai comuni<br />

ritratti, <strong>di</strong>pinti dagli uomini, il Referendario esalta l’immagine acheropita<br />

che<br />

si è impressa grazie ai soli sudori dell’agonia del volto vivificante, stillati<br />

41 I. RAMELLI, Dal Man<strong>di</strong>lion <strong>di</strong> Edessa alla Sindone: alcune note sulle testimonianze<br />

antiche, Ilu. Revista de ciencias de las religiones 4 (1999) 180.<br />

42 Ed. A. M. DUBARLE, L’homélie de Grégoire le Référendaire pour la réception<br />

de l’image d’Édesse, Revue des études byzantines 55 (1997) 5-51.<br />

43 Cfr. P. TARNANT, La qewriva d’Antioche dans le cadre des sens de l’Écriture,<br />

Biblica 34 (1953) 135-158; 354-383; 354-383; 456-486.<br />

44 GREGORIUS REFERENDARIUS, Homilia, 26: ejnagwnivoi" iJdrw'si proswvpou


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

come gocce <strong>di</strong> sangue, e grazie al <strong>di</strong>to <strong>di</strong> Dio. Sono queste le bellezze che<br />

hanno dato colore alla reale impronta <strong>di</strong> Cristo, perché anche ciò da cui<br />

vennero stillate è stato adornato dai goccioli del suo stesso costato.<br />

Entrambi sono carichi <strong>di</strong> dottrina: là sangue ed acqua, qui sudore e figura.<br />

Oh, quale uguaglianza <strong>di</strong> circostanze! Queste cose, infatti, [provengono] da<br />

uno solo e [sono] <strong>di</strong> uno solo 44 .<br />

Il sudore misto a sangue che il Cristo sofferente ai Getzemani si deterse<br />

nel panno, grazie all’intervento del «<strong>di</strong>to <strong>di</strong> Dio», cioè della sua<br />

potenza (cfr. Ex 8,5), ha dato origine alla miracolosa impressione dell’immagine<br />

sul Man<strong>di</strong>lio. Similmente anche il corpo <strong>di</strong> Cristo sulla croce,<br />

come già il panno <strong>di</strong> Abgar, è stato adornato dall’acqua mista a sangue<br />

proveniente dalla ferita del proprio costato. Entrambi gli <strong>oggetti</strong> –<br />

il corpo <strong>di</strong> Cristo ed il panno – sono stati dunque impreziositi dal sangue,<br />

in entrambi i casi proveniente «da uno solo», il medesimo Signore;<br />

ma nel primo caso ciò è avvenuto grazie ad un intervento soprannaturale,<br />

nel secondo, invece, per effetto naturale. Gregorio invita a contemplare<br />

le due <strong>di</strong>stinte effusioni <strong>di</strong> sangue, originate in due momenti <strong>di</strong>versi<br />

della passione. È Cristo la sorgente <strong>di</strong> entrambe: il suo volto stilla<br />

sudore misto a sangue, il suo costato trafitto getta sangue misto ad acqua.<br />

L’impronta miracolosa <strong>di</strong> Edessa – prosegue il racconto – è al<br />

contempo umana e <strong>di</strong>vina, perché «realtà straor<strong>di</strong>naria, sovrumana»<br />

ma anche «circoscritta, a misura d’uomo», visibile ed apprezzabile nei<br />

suoi contorni. Nel lasciare l’impronta del proprio volto, infatti, Cristo<br />

si è servito del proprio sudore, prodotto della natura umana che si è degnato<br />

<strong>di</strong> assumere: ha così miracolosamente trasferito «l’archetipo» (il<br />

suo volto) «sulla similitu<strong>di</strong>ne» (l’immagine sul panno).<br />

Nulla <strong>di</strong> nuovo, in sostanza: ma il fatto che l’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Gesù che si<br />

asciuga il viso sia stato collocato nei giorni della sua passione, permette<br />

a Gregorio <strong>di</strong> costruire un’allegoria tra il sudore misto a sangue dei<br />

Getzemani e l’acqua mista a sangue del Golgota. Eppure una <strong>di</strong>versa<br />

zwarcikou', toi'" wJsei; qrovmboi katastalavxasin ai{mato" ejntetuvpwtai, kai; daktuvlw/<br />

qeou'. Au|tai to; ejkmagei'on o[ntw" Cristou' aiJ crwmatourghvsasai<br />

wJraiovthte", o{ti kai; to; ajfæ ou| katestalavcqhsan, rJanivsi pleura'" ij<strong>di</strong>va" ejgkekallwvpistai.<br />

”Amfw dogmavtwn mestav: ai|ma kai; u{dwr ejkei' ejntau'qa iJdrw;" kai; morfhv.<br />

‘W pragmavtwn ijsovthto", ejk tou' eJno;" ga;r tau'ta kai; tou' aujtou'. Ringrazio Gino<br />

Zaninotto e Valerio Polidori per avermi procurato due fotografie del manoscritto.<br />

45 Cfr. G. ZANINOTTO, Orazione <strong>di</strong> Gregorio il Referendario in occasione della<br />

traslazione a Costantinopoli dell’immagine edessena nell’anno 944, in S. RODANTE<br />

293


294<br />

Andrea Nicolotti<br />

interpretazione <strong>di</strong> alcune parole del Referendario ha fornito a Gino<br />

Zaninotto ed André-Marie Dubarle, seguiti da molti altri, l’occasione<br />

per sostenere l’identità tra il panno edesseno qui descritto e la Sindone<br />

<strong>di</strong> <strong>Torino</strong>. Dove il testo <strong>di</strong>ce «sono queste le bellezze che hanno dato<br />

colore alla reale impronta <strong>di</strong> Cristo, perché anche ciò da cui vennero<br />

stillate (to; ajfΔ ou| katestalavcqhsan) è stato adornato dai goccioli del<br />

suo stesso costato», essi hanno proposto <strong>di</strong> tradurre in questo modo:<br />

«perché anch’essa [cioè l’impronta], dopo che esse vennero stillate, è<br />

stata adornata dalle gocce del suo stesso costato», come se Gregorio<br />

avesse voluto descrivere un lenzuolo con un’immagine bagnata dal sangue<br />

del fianco <strong>di</strong> Cristo» 45 . L’argo menta zione, per usare le parole <strong>di</strong><br />

Bernard Flusin, è «mal fondata» 46 . Ma soprattutto la traduzione è<br />

insostenibile: al posto del tov che Zaninotto e Dubarle riferiscono ad<br />

ejkmagei'on, ci dovremmo aspettare un tou'to, un tovde o un aujtov; e l’espressione<br />

ajfΔ ou| (‘da cui’) in quel contesto e in quella posizione non<br />

lascia pensare ad un ‘dopo che’. Anche un sindonologo come Mark<br />

Guscin, dopo avervi inizialmente aderito, ha rigettato questa forzata<br />

traduzione 47 .<br />

Essa, peraltro, <strong>di</strong>strugge quella ben calibrata «associazione contemplativa<br />

<strong>di</strong> due episo<strong>di</strong> ed immagini <strong>di</strong>verse» compiuta da Gregorio 48 :<br />

da una parte, cioè «là» (ejkei'), il corpo <strong>di</strong> Cristo macchiato dal sangue<br />

e dall’acqua fuoriuscite dal costato; dall’altra, cioè «qui» (ejntau'qa), il<br />

panno che ne raffigura i lineamenti, col suo sudore misto a sangue e la<br />

(ed.), La Sindone. Indagini scientifiche, Cinisello Balsamo 1988, 349; DUBARLE,<br />

L’homélie de Grégoire cit., 28.<br />

46 B. FLUSIN, Didascalie de Constantin Stilbès sur le mandylion et la sainte tuile<br />

(BHG 796m), Revue des études byzantines 55 (1997) 58. L’articolo <strong>di</strong> Flusin<br />

compare imme<strong>di</strong>atamente dopo l’e<strong>di</strong>zione del testo del Referendario pubblicato<br />

da Dubarle, nella medesima rivista.<br />

47 M. GUSCIN, The Image of Edessa, Leiden 2009, 85. Anche Emmanuel<br />

Poulle fa altrettanto, e rifiuta l’idea che il Man<strong>di</strong>lio e la Sindone siano la stessa<br />

cosa. Ma subito dopo – quasi a far rientrare dalla finestra ciò che è stato appena<br />

cacciato dalla porta – recupera la reliquia torinese ipotizzando che anch’essa si<br />

trovasse a Costantinopoli, e che il Referendario vi stia facendo implicito riferimento<br />

con le sue parole, pur senza menzionarla (Les sources de l’histoire du linceul<br />

de Turin, Revue d’histoire ecclésiastique 104/3-4 [2009] 765 e 754-755).<br />

48 P. A. GRAMAGLIA, Ancora la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, Rivista <strong>di</strong> storia e letteratura<br />

religiosa 27 (1991) 112.<br />

49 In questo stesso volume Bernard Flusin descrive la forma e le caratteristiche<br />

del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> cui parla la Narratio de imagine Edessena. Eppure anche in quel


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

forma impressa dal contatto col suo viso. Non ha quin<strong>di</strong> senso la contrapposizione,<br />

che è stata tentata, tra due zone della Sindone: «là» –<br />

cioè all’altezza del costato – sangue ed acqua, «qui» – all’altezza del<br />

volto – sudore e immagine, quasi come se Gregorio avesse davanti a sé<br />

una Sindone <strong>di</strong>stesa e ne in<strong>di</strong>casse, con il <strong>di</strong>to, due punti <strong>di</strong>stanti tra<br />

loro pochi centimetri. Contrapposizione poco evidente, ma anche inefficace:<br />

quando il Referendario descrive il Man<strong>di</strong>lio come impresso <strong>di</strong><br />

«sudore e figura» e lo contrappone al corpo del crocifisso che cola<br />

«sangue ed acqua», lo fa a buon <strong>di</strong>ritto; ma se volesse parlare <strong>di</strong> due<br />

punti della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, come potrebbe fare altrettanto? Tutta la<br />

Sindone è piena <strong>di</strong> sangue, e tutto il sangue sgorga dall’immagine,<br />

all’altezza del volto come all’altezza del costato: quale sarebbe la contrapposizione,<br />

quale sarebbe la <strong>di</strong>fferenza tra i due punti sul lenzuolo?<br />

C’è però molto <strong>di</strong> più. I sostenitori della teoria sindonologica omettono<br />

quasi regolarmente <strong>di</strong> fornire un quadro complessivo dei testi che<br />

adoperano, essendo adusi ad estrapolare brevi frammenti dalle fonti<br />

per corroborare la propria teoria 49 . È anche il caso dell’omelia del<br />

Referendario, che in più occasioni aveva descritto a chiare lettere la<br />

natura del Man <strong>di</strong>lio a cui essa è de<strong>di</strong>cata. Ecco ad esempio come<br />

Taddeo, secondo Gregorio, si rivolge a re Abgar per narrargli come l’acheropita<br />

si era formata:<br />

Quando Anania, al quale affidaste le lettere, <strong>di</strong>sse a viva voce che tu, oltre<br />

alla salute, aspiravi anche a vedere la rassomiglianza del suo volto visibile,<br />

[Gesù] lo esortò ad affrettarsi verso <strong>di</strong> te con la sua lettera […] Ed egli,<br />

quando era in angoscia per la propria volontaria passione, […] prendendo<br />

questo lino si deterse i sudori che, essendo angosciato, il suo volto aveva<br />

fatto colare come gocce <strong>di</strong> sangue. E subito, in modo sorprendente, come<br />

egli dal nulla aveva portato all’esistenza l’universo con la potenza della<br />

<strong>di</strong>vinità, così si rappresentò nel lino lo splendore della sua figura 50 .<br />

Il racconto è tra<strong>di</strong>zionale: Abgar vuole un ritratto del volto <strong>di</strong> Gesù,<br />

caso, secondo quei medesimi autori, si parlerebbe della Sindone.<br />

50 GREGORIUS REFERENDARIUS, Homilia, 11: ΔAnanivou w|/ ta;" ejpistola;" ejpisteuvsate<br />

zwvsh/ fonh'/ eijpovnto" meta; th'" uJgeiva" glivcesqaiv se ijdei'n kai; tou'<br />

oJrwmevnou proswvpou aujtou' th;n ejmfevreian, to;n me;n fqavsai pro;" se; proetrevyato<br />

meta; th'" ejpistolh'" aujtou' ª…º oJ dev, hJnivka pro;" to; eJkouvsion pavqo" aujtou' ajgwniw'n<br />

ª…º tauvth" th'" ojqovnh" labovmeno" ajnemavxato ou{“ ajgwniw'nto" wJsei; qrovmbou"<br />

ai{mato" iJdrw'ta" to; provswpon aujtou' ejpestavlassen. Kai; paradovxw" eujquv",<br />

w{sper ejk tou' mh; o[nto" oujsivwse qeovthto" ijscuvi> to; pa'n, ou{tw" ajnetupwvsato ejn th'/<br />

ojqovnh/ to; ajpauvgasma th'" morfh'" aujtou'.<br />

295


296<br />

Andrea Nicolotti<br />

e Gesù lo accontenta, imprimendo il proprio viso su un panno sul<br />

quale si asciuga il sudore. Quando Taddeo si incammina per consegnarlo<br />

ad Abgar, pone il volto acheropita al <strong>di</strong> sopra del proprio volto:<br />

egli desiderava che lo splendore che quel volto santo irraggiava potesse<br />

oscurare il proprio, in modo da mostrare ad Abgar «lo splendore del<br />

volto <strong>di</strong> colui che cercava». Senza lasciarsi fuorviare dalla vista <strong>di</strong><br />

Taddeo, Abgar avrebbe potuto – lo <strong>di</strong>ce Taddeo stesso – ascrivere questa<br />

luce «non al mio [volto], bensì a quello posto al <strong>di</strong> sopra [del<br />

mio]» 51 . E non si parla d’altro che <strong>di</strong> volti.<br />

In un altro punto, Gregorio il Referendario desidera contrapporre<br />

la particolarità inimitabile dell’immagine acheropita, che non è fatta <strong>di</strong><br />

pigmenti, a qualunque altra raffigurazione pittorica umana. Per farlo,<br />

descrive i colori che i pittori <strong>di</strong> icone adoperano per rappresentare le<br />

varie parti del volto: e menziona guance, labbra, barba, ciglia, occhi,<br />

orecchie, naso, mento e capelli. Non fa riferimento a nessun’altra parte<br />

del corpo umano, come è ovvio: egli sta istituendo un parallelismo fra<br />

due ritratti entrambi raffiguranti nient’altro che un volto. Sarebbe stato<br />

inutile, quin<strong>di</strong>, parlar d’altro.<br />

È dunque lapalissiano: il panno raffigurava un volto, e poteva stare<br />

comodamente <strong>di</strong>steso sul viso <strong>di</strong> Taddeo che camminava verso Edessa<br />

(cosa <strong>di</strong>fficile ad immaginarsi per un lenzuolo <strong>di</strong> quattro metri). E<br />

durante l’asse<strong>di</strong>o della città anche il metropolita Eulalio poté scacciare<br />

i nemici «mettendo tra le sue palme il lino nel quale aveva preso forma<br />

l’immagine non fatta da mani d’uomo» camminando con esso «sulla<br />

sommità delle mura sotto gli occhi dei citta<strong>di</strong>ni» 52 .<br />

Impossibile pretendere che il medesimo autore nella medesima<br />

opera abbia parlato dell’immagine edessena come ritratto del volto <strong>di</strong><br />

Cristo impresso su un asciugamano ai Getzemani, per poi alludere ad<br />

essa, poche righe dopo, avendo in mente un lenzuolo funebre con l’impronta<br />

<strong>di</strong> un cadavere. Se davvero avesse avuto per le mani una<br />

Sindone sepolcrale <strong>di</strong>stesa, con la doppia immagine <strong>di</strong> un corpo intero,<br />

Gregorio non avrebbe potuto esprimersi in quei termini per tutto il<br />

resto della sua opera 53 . Davanti a quest’evidenza appaiono in tutta la<br />

loro fragilità gli acrobatici tentativi <strong>di</strong> aggirare l’insormontabile osta-<br />

51 GREGORIUS REFERENDARIUS, Homilia, 13.<br />

52 GREGORIUS REFERENDARIUS, Homilia, 14.<br />

53 Eppure qualcuno sembra non percepire nemmeno questa stridente contrad<strong>di</strong>zione:<br />

ZANINOTTO, Orazione <strong>di</strong> Gregorio cit., 345; RAMELLI, Dal Man<strong>di</strong>lion <strong>di</strong><br />

E dessa cit., 181.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

colo: si è provato a sostenere che lo stesso lenzuolo sia stato usato in<br />

occasioni <strong>di</strong>verse e con funzioni <strong>di</strong>fferenti, prima nell’Orto <strong>degli</strong> Ulivi<br />

per detergere il sudore <strong>di</strong> Gesù (Sindone-asciugamano) per poi essere<br />

riutilizzato, da parte <strong>di</strong> Giuseppe d’Arimatea, per avvolgerne il corpo<br />

morto (Sindone-sudario), ed infine finire nelle mani <strong>di</strong> Taddeo e quin<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong> Abgar (Sindone-acheropita). Stupisce, oltre alla fantasia, la leggerezza<br />

con la quale viene trattata la leggenda edessena, quasi fosse un<br />

testo storicamente atten<strong>di</strong>bile. Oppure si è congetturato che Gregorio il<br />

Referendario abbia fatto un po’ <strong>di</strong> confusione perché avrebbe avuto<br />

<strong>di</strong>nanzi agli occhi, a Costantinopoli, la Sindone parzialmente <strong>di</strong>spiegata<br />

ma non completamente <strong>di</strong>stesa, e quin<strong>di</strong> avrebbe visto il costato<br />

insanguinato senza capire che oltre al costato c’era anche tutto il resto<br />

del corpo (!). O ancora, egli avrebbe visto la Sindone per intero comprendendo<br />

d’un tratto la sua vera natura, fino a quel momento occulta,<br />

ma ne avrebbe taciuto la vera identità per non dare scandalo (!),<br />

concedendosi solo qualche nebulosa allusione 54 .<br />

Questo modo <strong>di</strong> procedere ben mostra quali siano i meto<strong>di</strong> esegetici<br />

messi in atto dai sostenitori della teoria proposta dal Wilson, il cui<br />

risultato consiste nell’accumulazione, operata senza spirito critico, <strong>di</strong><br />

qualunque documento possa servire a <strong>di</strong>mostrare l’antichità e l’autenticità<br />

della reliquia a loro tanto cara.<br />

4. Il co<strong>di</strong>ce Scilitze<br />

A Madrid è conservato un bellissimo co<strong>di</strong>ce illustrato contenente il<br />

testo della sinossi della Storia <strong>di</strong> Giovanni Scilitze (tardo XI secolo) 55 .<br />

È con ogni probabilità un prodotto dello scriptorium del monastero <strong>di</strong><br />

San Salvatore a Messina; Vasiliki Tsamakda, però, ha convincentemente<br />

<strong>di</strong>mostrato che le miniature del co<strong>di</strong>ce costituiscono una copia <strong>di</strong><br />

54 DUBARLE, L’homélie de Grégoire le Référendaire cit., 12 ; ID., L’omelia <strong>di</strong><br />

Gre gorio il Referendario e il lenzuolo <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, Collegamento pro Sindone (mar -<br />

zo-aprile 1992) 45, 49 e 51.<br />

55 Madrid, Biblioteca Nacional, cod. Vitr/26/2 (gr. 347, olim N-2), f. 131r. Fac<br />

simile del manoscritto: Ioannes Scylitza, Synopsis historiarum incipiens a Nice -<br />

phori imperatoris a genicis obitu ad Isacii Commeni imperium, Athens 2000.<br />

56 Cfr. le conclusioni <strong>di</strong> V. TSAMAKDA, The Illustrated Chronicle of Ioannes<br />

Skylitzes in Madrid, Leiden 2002, 394-397.<br />

297


298<br />

Andrea Nicolotti<br />

cronache illustrate già esistenti, anteriori al XIII secolo 56 . Tra le varie<br />

miniature ve ne sarebbe una che rappresenta proprio la consegna del<br />

Man<strong>di</strong>lio all’imperatore da parte <strong>di</strong> Gregorio il Referendario. Così,<br />

almeno, <strong>di</strong>chiara Barbara Frale:<br />

Una splen<strong>di</strong>da miniatura bizantina trecentesca raffigura l’arrivo del Man -<br />

<strong>di</strong>lio a Costantinopoli, e l’imperatore Costantino VII riceve da Gregorio il<br />

Referendario non un semplice asciugamano, bensì un telo molto lungo<br />

dove si staglia l’immagine del Santo Volto 57 .<br />

Nessuna <strong>di</strong> queste informazioni, però, corrisponde a verità. Occorre<br />

innanzitutto osservare che nella miniatura menzionata – che è riprodotta<br />

nella copertina <strong>di</strong> questo libro – l’imperatore che riceve la reliquia<br />

non è Costantino VII, ma Romano I Lecapeno; l’immagine si trova<br />

infatti in quella parte del manoscritto che descrive i fatti avvenuti sotto<br />

il regno <strong>di</strong> Romano I (fogli 127-131). I personaggi <strong>di</strong>segnati si trovano<br />

all’interno <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio a volte: quasi sicuramente è il santuario<br />

costantinopolitano <strong>di</strong> Santa Maria delle Blacherne, ove sappiamo che<br />

l’icona edessena giunse la sera del 15 agosto 944. Alle spalle dell’imperatore<br />

sono raffigurati i suoi tre figli, cioè il patriarca Teofilatto,<br />

Stefano e Costantino.<br />

Gregorio il Referendario, <strong>di</strong>fferentemente da quanto affermato,<br />

nella miniatura non compare: l’uomo che offre il Man<strong>di</strong>lio a Romano<br />

è infatti il cubicularius Teofane 58 , colui che era stato inviato da Ro -<br />

mano stesso a riceverla sul fiume Sangario 59 . Lo <strong>di</strong>ce lo stesso Gio -<br />

vanni Scilitze, nel testo che affianca la miniatura: «La <strong>di</strong>vina raffigurazione<br />

fu consegnata e portata nella città imperiale; essa fu accolta dal<br />

sovrano con una splen<strong>di</strong>da ed appropriata scorta, per mezzo del<br />

parakoimwvmeno" Teofane» 60 .<br />

57 FRALE, I Templari cit., 108.<br />

58 Sul quale ve<strong>di</strong> E. VON DOBSCHÜTZ, Der Kammerherr Theophanes, Byzan ti -<br />

ni sche Zeitschrift 10 (1901) 166-181.<br />

59 Gli eventi sono narrati anche in THEOPHANES CONTINUATUS, Chro no -<br />

graphia, ed. I. BEKKER, Theophanes Continuatus, Ioannes Cameniata, Symeon<br />

Magister, Georgius Monachus, Bonn 1838, 432,4-24, e in LEO GRAM MA TICUS, ed.<br />

I. BEKKER, Leonis Grammatici Chronographia, Bonn 1842, 325,22 - 326,12.<br />

60 IOANNES SCILITZES, Synopsis historiarum, Vita <strong>di</strong> Romano I, par. 37 (ed J.<br />

THURN, Ioannis Scylitzae synopsis historiarum, Berlin 1973, 231-232).<br />

61 TSAMAKDA, The Illustrated Chronicle cit., 168.<br />

62 In verità quelle che ho visionato non sembrano lasciare dubbi in proposito.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> questi errori, quel che è più grave è che nel co<strong>di</strong>ce Scilitze<br />

matritense non esiste alcun «telo molto lungo dove si staglia l’immagine<br />

del Santo Volto». Sarebbe davvero degno <strong>di</strong> nota se questo lungo<br />

telo della Sindone, che così tanto ci si affanna a ritrovare in testi che<br />

avrebbero timore <strong>di</strong> parlarne, campeggiasse in<strong>di</strong>sturbato su una miniatura.<br />

Quel che si vede non è uno, bensì due tessuti sovrapposti: il primo<br />

è un lungo velo rosso, dello stesso colore del mantello dell’imperatore e<br />

<strong>di</strong> altri due personaggi, sopra il quale è poggiato il Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa,<br />

che è il consueto piccolo asciugamano bianco. Anche Vasiliki Tsa -<br />

makda, che ha stu<strong>di</strong>ato e descritto una ad una tutte le miniature del<br />

co<strong>di</strong>ce, ben <strong>di</strong>stingue il Man<strong>di</strong>lio che «ha la forma <strong>di</strong> un tessuto bianco<br />

rettangolare, con frange, sul quale il capo <strong>di</strong> Cristo è raffigurato con<br />

plasticità, come nelle altre figure», il quale viene offerto a Romano<br />

Lecapeno «da Teofane, le cui mani sono coperte da un lungo tessuto<br />

che pende dalle sue spalle» 61 . La funzione del tessuto sottostante è ben<br />

comprensibile: la lunga stoffa purpurea serviva da velo protettivo,<br />

affinché la reliquia non fosse a <strong>di</strong>retto contatto con le mani impure <strong>di</strong><br />

chi la sorreggeva.<br />

La confusione tra il Man<strong>di</strong>lio e il velo sottostante, che Frale propone,<br />

non è nuova, ed è stata a lungo sostenuta da alcuni stu<strong>di</strong>osi della<br />

Sindone (che non si chiedevano, però, perché essa fosse stranamente<br />

colorata <strong>di</strong> rosso!). Forse qualche scadente fotografia in bianco e nero<br />

potrebbe indurre qualcuno a confondere la stoffa bianca del Man<strong>di</strong>lio<br />

con lo sfondo sottostante altrettanto bianco 62 . Eppure fin dal 1990<br />

buone immagini a colori vennero fatte circolare proprio in ambienti<br />

sindonologici 63 , e già nel 1991 Pier Angelo Gramaglia aveva fatto notare<br />

l’errore interpretativo 64 . Eppure, nonostante questo, a fronte <strong>di</strong> mol -<br />

La più vecchia che ho trovato sta in A. GRABAR, La sainte face de Laon, Prague<br />

1931, tavola VI,5, dove le frange del Man<strong>di</strong>lio si <strong>di</strong>stinguono bene dal tessuto e<br />

dallo sfondo sottostante. Il manoscritto fu poi riprodotto per intero da S. CIRAC<br />

ESTOPAÑÁN, Skyllitzes matritensis. Reproducciones y miniaturas, Barcelona 1965.<br />

63 Al V Congresso nazionale <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> sulla Sindone <strong>di</strong> Cagliari, nell’aprile del<br />

1990, quando Bruno Bonnet-Eymard <strong>di</strong>stribuì a tutti i presenti un foglio recante<br />

una buona immagine a colori, e ne allegò copia alle stampe <strong>di</strong> un suo successivo libro.<br />

64 Subito segnalato da P. A. GRAMAGLIA, Ancora la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, Rivi sta<br />

<strong>di</strong> storia e letteratura religiosa 27 (1991) 99-101.<br />

65 Ad esempio, G. ZANINOTTO, Il presunto mandylion nel co<strong>di</strong>ce Skylitzès <strong>di</strong><br />

Madrid, Collegamento pro Sindone (marzo-aprile 1994) 22-38; P. DE<br />

299


300<br />

Andrea Nicolotti<br />

ti che riconobbero <strong>di</strong> essersi ingannati 65 permangono ancora coloro<br />

che non fanno alcun conto delle critiche (oltre a Frale, Ilaria Ramelli e<br />

Marco Tosatti 66 ) oppure cercano tortuose spiegazioni alternative: e<br />

così André-Marie Dubarle, davanti all’evidenza dei due panni <strong>di</strong>stinti,<br />

appena dopo aver rinnegato la spiegazione sindonologica sbagliata che<br />

fino ad allora aveva sostenuto, tenta ancora <strong>di</strong> interpretare il lungo<br />

velo protettivo come «in<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> una qualche tra<strong>di</strong>zione un po’ <strong>di</strong>menticata<br />

o mal compresa» del Man<strong>di</strong>lio come lunga Sindone 67 . Pier Luigi<br />

Baima Bollone, invece, al posto del Man<strong>di</strong>lion con le frange vede un<br />

contenitore della Sindone piegata in otto (dunque il viso <strong>di</strong> Cristo<br />

sarebbe <strong>di</strong>segnato sul contenitore?), salvo poi calcolare la lunghezza<br />

del tessuto protettivo purpureo sulla base della proporzione con l’altezza<br />

dei personaggi <strong>di</strong>segnati e ritrovarci, manco a <strong>di</strong>rlo, proprio la<br />

lunghezza della Sindone 68 . Anche Maria Grazia Siliato e Remi Van<br />

Haelst fanno ogni sforzo per ritrovarvi la Sindone in qualche forma,<br />

quest’ultimo ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong>cendo <strong>di</strong> vedere nella miniatura sia la<br />

Sindone sia il Man<strong>di</strong>lio, uno sopra l’altro, essendo confermato nelle<br />

sue opinioni dalle visioni <strong>di</strong> Anna Katharina Emmerick! 69 Nessuno <strong>di</strong><br />

questi autori ritiene strano che il miniaturista, volendo rappresentare<br />

la Sindone, abbia <strong>di</strong>segnato un Man<strong>di</strong>lio con un volto <strong>di</strong> Cristo vivo,<br />

con gli occhi aperti e le guance rubiconde, quando l’uomo della<br />

Sindone è morto, insanguinato e soprattutto intero.<br />

Dell’uso del manto purpureo a scopo protettivo-rituale abbiamo<br />

<strong>di</strong>retta conferma da altre miniature del medesimo co<strong>di</strong>ce. Al foglio 207<br />

verso è rappresentato Giovanni Orfanotrofo, fratello <strong>di</strong> Michele Pa fla -<br />

gone, mentre consegna all’eunuco Costantino Fagitze un’arca conte-<br />

RIEDMATTEN, Parcours personnel dans le manuscrit de Skylitzès, Montre-nous ton<br />

visage 30 (2004) 14-23.<br />

66<br />

RAMELLI, Dal Man<strong>di</strong>lion cit., 181; M. TOSATTI, Inchiesta sulla Sindone,<br />

Casale Monferrato 2009, 54.<br />

67 A. M. DUBARLE, Novità nella storia antica della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>, Sindon 2<br />

(1990) 47-48.<br />

68 P. L. BAIMA BOLLONE, Sindone o no, <strong>Torino</strong> 1990, 104.<br />

69 M. G. SILIATO, Sindone: mistero dell’impronta <strong>di</strong> duemila anni fa, Casale<br />

1997, 192-193; R. VAN HAELST, Un’altra occhiata al co<strong>di</strong>ce Skylitzes, Collega -<br />

mento pro Sindone (settembre-ottobre 1995) 38-39.<br />

70 Racconto in IOANNES SCILITZES, Synopsis historiarum, Vita <strong>di</strong> Michele IV,<br />

par. 3 (pp. 393-394).


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

nente sacre reliquie coprendosi le mani con un velo 70 . Un altro velo,<br />

lungo esattamente come quello della miniatura del Man<strong>di</strong>lio, sta al<br />

foglio 205 recto [Tav. 28]): Giorgio Maniace consegna ad un messo<br />

un’altra reliquia, la lettera <strong>di</strong> Cristo ad Abgar, e dall’altro lato della<br />

pagina si vede lo stesso messo che la rimette nelle mani dell’imperatore<br />

Romano III Argiro. Non credo che qualcuno voglia sostenere che la<br />

Sindone venisse usata regolarmente come tessuto <strong>di</strong> trasporto <strong>di</strong> tutte<br />

le reliquie <strong>di</strong> Costantinopoli.<br />

5. La fine del Man<strong>di</strong>lio<br />

Il 15 agosto 944, come già detto, il Man<strong>di</strong>lio da Edessa giunse a Costantinopoli,<br />

e <strong>di</strong> lì più non si mosse per quasi tre secoli. Accolto nel<br />

santuario delle Blacherne, fu traslato solennemente al palazzo del Bucoleone<br />

il giorno successivo e lì incoronato sul trono imperiale, per poi<br />

essere collocato probabilmente nella cappella del Salvatore alla Chalke,<br />

espressamente costruita da Romano Lecapeno per ospitare l’acheropita<br />

71 . Successivamente, con la salita al trono <strong>di</strong> Costantino VII Porfirogenito,<br />

fu traslato nella cappella della Vergine del Faro che si trovava all’interno<br />

del Bucoleone, nei pressi del crisotriclinio e <strong>degli</strong> appartamenti<br />

del sovrano 72 . In questo piccolo e<strong>di</strong>ficio l’imperatore poteva <strong>di</strong>sporre<br />

della più ricca collezione <strong>di</strong> reliquie <strong>di</strong> tutto l’impero, in particolare <strong>di</strong><br />

quelle legate alla passione <strong>di</strong> Cristo, quasi una Gerusalemme in miniatura<br />

73 .<br />

71 Così E. BALDWIN SMITH, Architectural Symbolism of Imperial Rome and the<br />

Middle Ages, Princeton 1956, 138, e S. G. ENGBERG, Romanos Lekapenos and the<br />

Man<strong>di</strong>lion of Edessa, in J. DURAND - B. FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques du<br />

Christ, Paris 2004, 123-142. Si veda anche il contributo <strong>di</strong> B. Flusin in questo<br />

volume.<br />

72 Sulla chiesa del Faro, J. EBERSOLT, Le grand palais de Constantinople et le<br />

livre des cérémonies, Paris 1910, 104-109; ID., Sanctuaires de Byzance. Recherches<br />

sur les anciens trésors des églises de Constantinople, Paris 1921, 17-30; R.<br />

GUILLAND, L’église de la Vierge du Phare, Byzantinoslavica 12 (1951) 232-234; S.<br />

MIRANDA, Les palais des empereurs byzantins, Mexico 1965, 104-107; R. JANIN,<br />

La géographie ecclésiastique de l’Empire byzantin, partie 1, t. 3: Les églises et les<br />

monastères, Paris 1969, 232-236; H. MAGUIRE (ed.), Byzantine Court Culture<br />

from 829 to 1204, Washington 1997, 55-57.<br />

73 Cfr. P. MAGDALINO, L’église du Phare et les reliques de la Passion à Cons tan -<br />

tinople (VII e /VIII e -XIII e siècles), in DURAND - FLUSIN (edd.), Byzance et les reliques<br />

du Christ cit., 25. Ve<strong>di</strong> anche B. FLUSIN, Construire une nouvelle Jérusalem:<br />

301


302<br />

Andrea Nicolotti<br />

La chiesa del Faro era servita da un clero alle <strong>di</strong>pendenze dell’imperatore.<br />

Quando nell’aprile 1204 i crociati si apprestarono ad assalire la<br />

città, stabilirono <strong>di</strong> risparmiare dal saccheggio i due palazzi imperiali,<br />

quello delle Blacherne e il Bucoleone: appena entrati, dunque, li requisirono<br />

e vi collocarono due corpi <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a, per impe<strong>di</strong>re alla truppa<br />

<strong>di</strong> farne preda 74 . Così il tesoro <strong>di</strong> reliquie rimase intatto e poté passare<br />

sotto la <strong>di</strong>retta proprietà del nuovo imperatore latino, Baldovino delle<br />

Fiandre, ed il servizio liturgico all’interno della Cappella del Faro fu<br />

subito garantito da un clero alle <strong>di</strong>rette <strong>di</strong>pendenze della Santa Sede.<br />

Ecco perché non è possibile – come invece fanno molti sostenitori dell’identità<br />

Sindone/Man<strong>di</strong>lio – immaginare che qualche singolo crociato<br />

o religioso abbia sottratto la reliquia dall’interno del palazzo, per giustificarne<br />

in tal modo l’allontanamento da Costantinopoli e l’arrivo in<br />

Occidente sotto forma <strong>di</strong> Sindone 75 .<br />

La conquista della capitale bizantina ebbe come effetto la spoliazione<br />

delle sue ricchezze e delle sue reliquie, che in gran parte furono traslate<br />

altrove (spesso dopo essere state vendute) 76 . Nessuno, però, poteva<br />

mettere le mani sulle reliquie del Faro, né Baldovino, per alcuni<br />

anni, si mostrò <strong>di</strong>sponibile a cedere il simbolico tesoro imperiale che<br />

aveva ere<strong>di</strong>tato. Soltanto a motivo delle ristrettezze economiche, e <strong>di</strong>e-<br />

Constantinople et les reliques, in M. A. AMIR-MOEZZI - J. SCHEID (edd.), L’Orient<br />

dans l’histoire religieuse de l’Europe: l’invention des origines, Turnhout 2000, 51-<br />

70; M. BACCI, Relics of the Pharos Chapel: A Wiew from the Latin West, in A.<br />

LIDOV (ed.), Восточнохристианские реликвии - Eastern Christian Relics,<br />

Moskva 2003, 234-248; H. A. KLEIN, <strong>Sacre</strong>d Relics and Imperial Ceremonies at<br />

the Great Palace of Constantinople, in F. A. BAUER (ed.), Visualisierungen von<br />

Herrschaft. Frühmittelalterliche Residenzen - Gestalt und Zeremoniell, Istanbul<br />

2006, 79-99.<br />

74 Cfr. A. CARILE, Per una storia dell’impero latino <strong>di</strong> Costantinopoli, Bologna<br />

19782 , 154 e 159-161: Si veda anche il racconto <strong>di</strong> Geoffroy de Villehardouin (La<br />

conquête de Constantinople, cap. 250) e <strong>di</strong> Robert de Clari (La conquête de<br />

Constantinople, capp. 93-94).<br />

75 Tutte queste teorie sono esposte in A. NICOLOTTI, I Templari e la Sindone.<br />

Storia <strong>di</strong> un falso, Roma 2011.<br />

76 Su questo, come punto <strong>di</strong> partenza, K. KRAUSE, Immagine-reliquia: da Bi -<br />

san zio all’Occidente, in G. WOLF - C. DUFOUR BOZZO - A. CALDERONI MASETTI<br />

(edd.), Mandylion. Intorno al Sacro Volto da Bisanzio a Genova, Milano 2004,<br />

209-235.<br />

77 Sulle reliquie della Sainte-Chapelle si veda l’eccellente J. DURAND - M. P.<br />

LAFFITTE (edd.), Le trésor de la Sainte-Chapelle, Paris 2001.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

tro pagamento <strong>di</strong> una cifra astronomica, alcuni anni dopo si vide<br />

costretto a cedere tutte le reliquie della cappella del Faro a Luigi IX, re<br />

<strong>di</strong> Francia, il quale per ospitarle fece e<strong>di</strong>ficare a Parigi la splen<strong>di</strong>da<br />

Sainte-Chapelle 77 . E per conservarvi al riparo i santi <strong>oggetti</strong>, fece<br />

costruire un imponente reliquiario ligneo, la Grande chasse, da collocare<br />

in posizione centrale sullo sfondo dell’abside 78 .<br />

Siamo in grado <strong>di</strong> sapere con precisione quali furono le reliquie<br />

cedute al sovrano francese perché ci è pervenuto il testo <strong>di</strong> una <strong>di</strong>chiarazione,<br />

datata giugno 1247, che le elenca una ad una:<br />

La sacrosanta corona <strong>di</strong> spine del Signore, e la santa croce; poi del sangue<br />

del Signore nostro Gesù Cristo; i panni dell’infanzia del Salvatore, con i<br />

quali fu avvolto nella culla; un’altra grande porzione del legno della santa<br />

croce; il sangue che, per stupefacente miracolo, stillò da un’immagine del<br />

Signore percossa da un infedele; poi la catena, o vincolo <strong>di</strong> ferro, fatto<br />

quasi in forma <strong>di</strong> anello, con il quale, si ritiene, nostro Signore fu legato; la<br />

santa tela inserita in una tavola; gran parte della pietra del sepolcro del<br />

Signore nostro Gesù Cristo; del latte della beata vergine Maria; poi il ferro<br />

della sacra lancia con il quale il fianco del Signore nostro Gesù Cristo<br />

venne trafitto; un’altra piccola croce, che gli antichi chiamavano croce<br />

trionfale, perché gli imperatori erano soliti portarla alle guerre per speranza<br />

<strong>di</strong> vittoria; la clamide scarlatta che i soldati misero addosso al Signore<br />

nostro Gesù Cristo, a suo scherno; la canna che gli posero in mano al<br />

posto dello scettro; la spugna piena d’aceto che gli sporsero quando era<br />

assetato sulla croce; parte del sudario con il quale il suo corpo fu avvolto<br />

nel sepolcro; poi il lino <strong>di</strong> cui si cinse quando lavò i pie<strong>di</strong> dei <strong>di</strong>scepoli, e<br />

con il quale asciugò i loro pie<strong>di</strong>; la verga <strong>di</strong> Mosè; la parte superiore della<br />

testa del beato Giovanni Battista, e le teste dei santi Biagio, Clemente e<br />

Simeone 79 .<br />

78 Cfr. R. BRANNER, The Grande chasse of the Sainte-Chapelle, Gazette des<br />

Beaux-Arts 77 (1971), 5-18<br />

79 BALDUINUS II, Epistula Ludovico IX: “sacrosanctam spineam coronam<br />

Domini, et crucem sanctam. Item de sanguine domini nostri Iesu Christi; pannos<br />

infantiae Salvatoris, quibus fuit in cunabulis involutus; aliam magnam partem de<br />

ligno sanctae crucis; sanguinem, qui de quadam imagine Domini ab infideli percussa<br />

stupendo miraculo <strong>di</strong>stillavit; catenam etiam, sive vinculum ferreum, quasi<br />

in modum annulli factum, quo cre<strong>di</strong>tur idem Dominus noster fuisse ligatus; sanctam<br />

toellam tabulae insertam; magnam partem de lapide sepulchri domini nostri<br />

Iesu Christi. De lacte beatae Marie virginis. Item ferrum sacrae lanceae quo<br />

perforatum fuit in cruce latus domini nostri Iesu Christi; crucem aliam me<strong>di</strong>ocrem,<br />

quam crucem triumphalem veteres appellabant, quia ipsam in spem victoriae<br />

consueverant imperatores ad bella deferre; clamidem coccineam quam cir-<br />

303


304<br />

Andrea Nicolotti<br />

Tra le reliquie della cappella del Faro che il futuro santo sovrano<br />

pose nella sua nella Sainte-Chapelle c’è dunque una sancta toella tabulae<br />

insertam, cioè una santa ‘tela’ (toella o tuella, in francese toelle o<br />

toille) inserita in una ‘tavola’, ‘pannello’ o ‘cornice’, oppure ‘scatola’,<br />

‘cofanetto’, ‘reliquiario’: tabula (in francese table, tableau, tablier) è il<br />

nome che si adoperava per designare un reliquiario solitamente in<br />

forma <strong>di</strong> pannello quadrato o rettangolare, talora con coperchio<br />

richiu<strong>di</strong>bile 80 . Con un’espressione del tutto compatibile, cioè touaile, il<br />

crociato Robert de Clari aveva designato il Man<strong>di</strong>lio quando si trovava<br />

ancora a Costantinopoli 81 , ed è questa la più ovvia spiegazione sulla<br />

natura <strong>di</strong> quella “tela” 82 . Non vi sono invece sindoni, ma solo una<br />

«parte del sudario con il quale il suo corpo fu avvolto nel sepolcro».<br />

Poiché la permanenza del Man<strong>di</strong>lio nella Sainte-Chapelle è inequivocabilmente<br />

<strong>di</strong>mostrata fino al XVIII secolo, <strong>di</strong>versi stu<strong>di</strong>osi della<br />

Sindone – pur continuando a sostenere l’identità con il Man<strong>di</strong>lio –<br />

hanno escluso che la sancta toella possa essere proprio quel Man<strong>di</strong>lio:<br />

ciò implicherebbe, infatti, il collasso dell’intera loro teoria. Il motivo è<br />

che la presenza del santo volto a Parigi si scontrerebbe con la <strong>di</strong>mostrata<br />

esistenza della Sindone, fin dal secolo XIV, a Lirey, Chambéry ed<br />

infine <strong>Torino</strong>. Si è allora tentato <strong>di</strong> togliere legittimità alle fonti parigine<br />

relative al Man<strong>di</strong>lio. Per Ian Wilson, ad esempio, sarebbe «inconce-<br />

cumdederunt milites domino nostro Iesu Christo, in illusionem ipsius; arun<strong>di</strong>nem<br />

quem pro sceptro posuerunt in manu ipsius; spongiam quam porrexerunt ei<br />

sitienti in cruce aceto plenam; partem sudarii quo involutum fuit corpus eius in<br />

sepulchro; linteum etiam quo praecinxit se quando lavit pedes <strong>di</strong>scipulorum, et<br />

quo eorum pedes extersit; virgam Moysi; superiorem partem capitis beati Ioannis<br />

Baptistae, et capita sanctorum Blasii, Clementis et Simeonis” (ed. S. J. MORAND,<br />

Histoire de la S te -Chapelle Royale du Palais, Paris 1790, Pièces justificatives, 7-8).<br />

80 Cfr. J. BRAUN, Die Reliquiare des christlichen Kultes, Freiburg 1940, 43-45.<br />

81 R. DE CLARI, La conquête de Constantinople, 83 : “Or avoit encore autres<br />

saintuaires en chele capele que nous vous aviemes evliés a <strong>di</strong>re, car il i avoit deus<br />

riches vaissiaus d’or qui pendoient en mi le capele a deus grosses caaines d’argent.<br />

En l’un de ches waissiaus, si i avoit une tuile, et en l’autre une touaile” (ed. J.<br />

DUFOURNET, Robert de Clari. La conquête de Constantinople, Paris 2004). La<br />

parola tuile in<strong>di</strong>ca il Keramion <strong>di</strong> Edessa, che è una copia miracolosa del<br />

Man<strong>di</strong>lio impressa sulla terracotta.<br />

82 Fin da P. RIANT, Exuviae sacrae constantinopolitanae, vol. 1: Fasciculus<br />

documentorum minorum, Genevae 1877, CLXXXI.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

pibile che un oggetto così illustre nella storia abbia conosciuto una<br />

sorte talmente oscura», in quanto, egli sostiene, un oggetto <strong>di</strong> tale<br />

importanza avrebbe dovuto godere <strong>di</strong> maggior fama e considerazione<br />

83 . I francesi, però, si <strong>di</strong>mostrano più interessati alla corona <strong>di</strong> spine,<br />

perché della leggenda tutta orientale del Man<strong>di</strong>lio sapevano assai<br />

poco; i greci, da parte loro, alla corona <strong>di</strong> spine preferivano la lancia <strong>di</strong><br />

Longino, alla cui adorazione de<strong>di</strong>cavano solenni liturgie, in quanto ciascuno,<br />

come è naturale, attribuisce alle reliquie un valore che <strong>di</strong>pende<br />

dalle proprie inclinazioni, dalla propria spiritualità e dal contesto liturgico,<br />

tra<strong>di</strong>zionale ed agiografico in cui è cresciuto. Ancor più inconcludente<br />

l’obiezione del sindonologo Mark Guscin, tutta basata sull’uso<br />

del termine toella: «Sarebbe strano se un nuovo termine fosse stato<br />

introdotto per denominare un oggetto che era così ben identificato<br />

come mandylion o come immagine acheiropoietos <strong>di</strong> Edessa» 84 . Ma non<br />

si è appena detto che proprio Robert de Clari, francese come Luigi IX,<br />

lo aveva chiamato touaile senza mai usare le parole mandylion o acheiropoietos?<br />

Di qui in avanti le fonti che ci informano sulla sorte del Man<strong>di</strong>lio<br />

sono tutte occidentali. Talvolta <strong>di</strong>mostrano l’incertezza <strong>di</strong> chi sapeva <strong>di</strong><br />

avere a che fare con un ritratto del volto <strong>di</strong> Cristo, ma non conoscendo<br />

la leggenda del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa si trovava costretto a ricorrere ad<br />

altre spiegazioni. Così, dopo il 1241, il monaco Gérard de Saint-<br />

Quentin-en-l’Isle nomina tra le reliquie della Sainte-Chapelle una tabula<br />

quedam quam, cum deponeretur Dominus de cruce, eius facies tetigit 85 ;<br />

e lo stesso avviene con un altro documento del 1327 da cui, tra l’altro,<br />

ricaviamo che il Man<strong>di</strong>lio fu traslato nella sua sede parigina esattamente<br />

nell’anno 1240 86 . Le sequenze liturgiche De sanctis reliquis<br />

(1250-1260 circa) alludono al Man<strong>di</strong>lio con le parole tabula, mappa e<br />

mappula, e anch’esse ben lo <strong>di</strong>fferenziano dal sudarium 87 . Il pellegrino<br />

83 I. WILSON, Le Suaire de Turin cit., 219.<br />

84 M. GUSCIN, The Image of Edessa, Leiden 2009, 189.<br />

85 G. DE SAINT-QUENTIN-EN-L’ISLE, Translatio sancte corone, in F. DE MÉLY,<br />

Exuviae sacrae constantinopolitanae, Paris 1904, 107.<br />

86 S. J. MORAND, Histoire de la S te -Chapelle Royale du Palais, Paris 1790, 121-<br />

122: “Quadam tabula quam tetigit facies Christi”.<br />

87 Cfr. K. GOULD, The Sequences De sanctis reliquiis as Sainte-Chapelle<br />

Inventories, Me<strong>di</strong>aeval <strong>Stu<strong>di</strong></strong>es 43 (1981) 315-341, specie 238, 331-332 e 338-340.<br />

Testi in R. J. HESBERT, Le Prosaire de la Sainte-Chapelle. Manuscrit du chapitre de<br />

Saint-Nicolas de Bari, Macon 1952.<br />

305


306<br />

Andrea Nicolotti<br />

Arnold von Harff, invece, negli ultimissimi anni del XV secolo descrisse<br />

il panno come «un pezzo <strong>di</strong> stoffa nel quale nostro Signore Gesù sudò<br />

sangue ed acqua» (scegliendo, dunque, una interpretazione identica a<br />

quella già incontrata nell’omelia <strong>di</strong> Gregorio il Referen dario) 88 .<br />

C’è poi una serie <strong>di</strong> inventari della Grande chasse perio<strong>di</strong>camente<br />

redatti su incarico del sovrano. Il primo è del marzo 1534 e sostanzialmente<br />

traduce in francese il documento del 1247, quando parla <strong>di</strong><br />

saincte toelle 89 inserée à la table, où est la face de Nostre Seigneur Jésus<br />

Christ», come precisano Michel Félibien e Arthur-Michel de Bois -<br />

lisle 90 . La tela è riposta in un grande reliquiario ma è consumata, e<br />

con serva soltanto più la apparence d’une effigie 91 . Tra il 1534 e il 1573<br />

un altro inventario parla <strong>di</strong> una Véronique 92 , <strong>di</strong>mostrando che il redattore<br />

dello scritto aveva compiuto la più ovvia identificazione tra il<br />

Man <strong>di</strong>lio e la sua corrispettiva occidentale, la Veronica rimasta im -<br />

pressa durante la sua passione. L’inventario del 30 agosto 1740 è il più<br />

chiaro, perché descrive il reliquiario come una scatola dorata <strong>di</strong> 60x40<br />

centimetri (non viene riportata la misura della sua profon<strong>di</strong>tà, che va<br />

ricavata dai <strong>di</strong>segni) con all’interno, nel mezzo, la représentation de la<br />

sainte face de Notre Seigneur, ou la Véronique 93 .<br />

Fortunatamente abbiamo anche qualche <strong>di</strong>segno del contenuto<br />

della Grande chasse: innanzitutto la bellissima miniatura del cosiddetto<br />

Libro d’ore della Sainte-Chapelle (dell’anno 1506) 94 dove, sotto la testa<br />

<strong>di</strong> san Giovanni Battista, c’è una scatola rettangolare che sulla base<br />

delle successive descrizioni possiamo ritenere essere il reliquiario del<br />

Man<strong>di</strong>lio [Tav. 29]. In un’incisione risalente al 1649, quella stessa sca-<br />

88 E. VON GROOTE (ed.), Die Pilgerfahrt des Ritters Arnold von Harff, Cöln<br />

1860, 245: “Item van deme sweyss doich, dae inne vnser here Jhesus wasser ind<br />

bloyt gesweist hat”.<br />

89 La lezione erronea treille o trelle, che spesso si incontra in luogo <strong>di</strong> toelle, va<br />

corretta: cfr. DURAND - LAFFITTE, Le trésor cit., 70.<br />

90 M. FÉLIBIEN, Histoire de la ville de Paris, tomo 3, Paris 1725, 150; M. DE<br />

BOISLISLE, Pièces justificatives pour servir à l’histoire des premiers présidents<br />

(1506-1791), Paris 1873, 48 (§59).<br />

91 A. VIDIER, Le trésor de la Sainte-Chapelle, Mémoires de la Société de<br />

l’Histoire de Paris et de l’Île-de-France 35 (1908) 190-192.<br />

92 VIDIER, Le trésor cit., 193 (inventario M).<br />

93 VIDIER, Le trésor cit., 297.<br />

94 Cfr. DURAND - LAFFITTE, Le trésor cit., 132-133.


Forme e vicende del Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa<br />

tola reca un’iscrizione che la identifica come S. toile enchassée en une<br />

table [Tav. 30] 95 .<br />

Con la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789 iniziò la crisi della<br />

cappella reale. Uno dei suoi canonici, Sauveur-Jérôme Morand, nel<br />

1790 pubblicò una corposa storia della Sainte-Chapelle, nella quale<br />

compare l’ultima incisione che rappresenta il contenuto della Grande<br />

chasse 96 . Il paragone con le precedenti raffigurazioni <strong>di</strong>mostra che in<br />

certi casi la <strong>di</strong>sposizione e la forma dei reliquiari era mutata: la cassetta<br />

con il Man<strong>di</strong>lio (n° 18) non si trova più sotto la testa <strong>di</strong> Giovanni<br />

Battista, ma sta a lato della corona <strong>di</strong> spine, sotto il reliquiario in<br />

forma <strong>di</strong> croce che contiene la punta metallica della lancia <strong>di</strong> Longino<br />

[Tav. 31]. Ma è ormai tempo che la chasse venga smembrata: dopo che<br />

gli effetti della Costituzione civile del clero avevano soppresso tutti i privilegi<br />

della Sainte-Chapelle, il sovrano Luigi XVI non desidera perdere<br />

le proprie reliquie ed ottiene che siano trasferite a Saint-Denis, ed un<br />

sommario inventario redatto il 10 marzo 1791 conferma il trasferimento<br />

anche della nostra sainte face 97 . Ma l’11 novembre, quando ormai la<br />

testa <strong>di</strong> Luigi è caduta, tutto ritorna a Parigi, compresa la boite à coulisse<br />

contenant un portrait: l’ultimo reliquiario del santo volto aveva<br />

dunque un coperchio scorrevole 98 , simile a quello che i bizantini adoperavano<br />

specie per le stauroteche.<br />

La Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> e il Man<strong>di</strong>lio <strong>di</strong> Edessa <strong>di</strong>fferiscono anche<br />

nella sorte: mentre la prima godeva <strong>di</strong> una crescente fama, prezioso<br />

patrimonio del Regno <strong>di</strong> Sardegna, per l’altro non ci fu scampo: quando<br />

la sua scatola fu smantellata e mandata a fondere, allo scopo <strong>di</strong><br />

ricavarne lingotti, evidentemente nessuno si prese la briga <strong>di</strong> interrogarsi<br />

in merito allo straccio consunto che essa conteneva.<br />

95 DURAND - LAFFITTE, Le trésor cit., 134-135.<br />

96 S. J. MORAND, Histoire de la S te -Chapelle Royale du Palais, Paris 1790, 40.<br />

97 VIDIER, Le trésor cit., 325 (inventario CC).<br />

98 P. LACROIX, Inventaires du trésor de l’abbaye de Saint-Denis, Revue universelle<br />

des arts 4 (1856) 136; cfr. VIDIER, Le trésor cit., 339.<br />

307


DALLE ACHEROPITE ALLA SINDONE<br />

GIAN MARIA ZACCONE<br />

Direttore scientifico del Museo della Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong><br />

È sempre complesso accostare la questione Sindone senza rischiare<br />

<strong>di</strong> cadere in equivoci o deludere le aspettative, e mi rendo conto che lo<br />

stesso titolo del mio intervento può risultare fuorviante o provocatorio.<br />

Questo perché intorno al Lenzuolo conservato a <strong>Torino</strong> ferve il <strong>di</strong>battito,<br />

essenzialmente concentrato sulla questione della cosiddetta “autenticità”<br />

– termine per altro inadeguato e impreciso a fronte della complessità<br />

dell’oggetto Sindone – che in verità monopolizza l’attenzione e<br />

spesso degenera in polemica. Una polemica insita nel fondamento stesso<br />

della realtà sindonica: il rimando alla figura <strong>di</strong> Cristo ed alla sua incarnazione,<br />

del quale compartecipa la caratteristica <strong>di</strong> signum contra<strong>di</strong>ctionis.<br />

E qui già mi sembra <strong>di</strong> scorgere un primo fondante punto <strong>di</strong> incontro<br />

con la realtà delle acheropite più risalenti. Similmente a quanto accadde<br />

a molte <strong>di</strong> queste ultime, sin dalla sua comparsa nella storia la<br />

Sindone è stata infatti oggetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussioni, interpretazioni ed approcci<br />

<strong>di</strong>fferenti quando non antitetici. Aggravati dal fatto che essa viene<br />

vissuta quale ultima acheropita <strong>di</strong> Cristo, ed in qualche modo carica su<br />

<strong>di</strong> sé esiti ed ere<strong>di</strong>tà della millenaria questione, attraversando epoche in<br />

cui il rapporto religione e società, ragione e fede conosce alterne fasi a<br />

volte fortemente problematiche, delle quali in un certo senso la Sindone,<br />

con la sua essenza religiosa e con la sua forma che interpella le<br />

scienze umane, <strong>di</strong>viene para<strong>di</strong>gma.<br />

Nel mondo moderno e post moderno le posizioni che si riscontrano<br />

nei suoi confronti sono certamente, rispetto ad epoche passate, ancora<br />

più complesse e variegate.<br />

Molti la considerano una reliquia, anzi la più significativa delle reliquie<br />

del passaggio <strong>di</strong> Cristo sulla terra, nel quale è dunque impressa la<br />

vera e unica effigie del Salvatore, impreziosita dal suo stesso sangue,<br />

dunque la vera ed unica acheropita. Alcuni si spingono ancora oltre, sino<br />

a voler trovare in essa le tracce fisiche della Sua gloriosa resurrezione.<br />

309


310<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Altri, prescindendo dalle proprie convinzioni circa la sua origine,<br />

sottolineano l’importanza <strong>di</strong> un oggetto il cui innegabile rimando alla<br />

Passione <strong>di</strong> Cristo ne fa una realtà unica dal punto <strong>di</strong> vista religioso,<br />

con enormi potenzialità pastorali e spirituali, ma anche capace <strong>di</strong> suscitare<br />

l’interesse <strong>degli</strong> stu<strong>di</strong>osi <strong>di</strong> tante <strong>di</strong>scipline.<br />

Altri ancora la bollano come un falso più o meno antico, comunque<br />

non meritevole <strong>di</strong> alcun interesse, o al massimo degno <strong>di</strong> comparire in<br />

un ipotetico museo dei gran<strong>di</strong> inganni della storia.<br />

Il contenuto <strong>di</strong> tali posizioni è qui necessariamente schematizzato,<br />

ma nella realtà è facile riscontrare come esse si intrecciano e sfumano<br />

l’una nell’altra, si confrontano, si scontrano, a testimonianza in ogni<br />

caso del fatto che l’incontro con la Sindone non lascia in<strong>di</strong>fferenti.<br />

Molto in questo senso hanno contribuito le ricerche scientifiche che<br />

a partire dall’inizio del secolo scorso si sono concentrate su <strong>di</strong> essa,<br />

coinvolgendo pesantemente le modalità <strong>di</strong> approccio. Oggi la questione<br />

è, se possibile, ancora più affascinante e nello stesso tempo <strong>di</strong>battuta se<br />

si considera che la maggior parte <strong>di</strong> tali stu<strong>di</strong>, pur non avendo chiarito<br />

le modalità <strong>di</strong> formazione dell’immagine, appaiono escluderne l’origine<br />

manuale, a fronte <strong>di</strong> un risultato <strong>di</strong> datazione che porrebbe l’origine del<br />

lenzuolo in epoca me<strong>di</strong>evale.<br />

Sino alla fine dell’Ottocento invece la ricerca sulla Sindone aveva<br />

praticato soprattutto i percorsi storici ed in parte teologici, ma tutto<br />

sommato il problema della “autenticità” – oggetto principale della ricerca<br />

scientifica – rimaneva limitato a <strong>di</strong>squisizioni tra dotti, che <strong>di</strong>fficilmente<br />

arrivavano ad interessare il vasto pubblico.<br />

Storicamente è stato l’aspetto devozionale, che più imme<strong>di</strong>atamente<br />

emerge dalla Sindone, ad avvicinare le genti al Sacro Telo, e le gran<strong>di</strong><br />

masse che si spostano per partecipare alle solenni ostensioni non sono<br />

generalmente spinte da curiosità intellettuale circa l’origine del Lenzuolo,<br />

ma sono mosse dal desiderio <strong>di</strong> ricerca <strong>di</strong> qualche cosa – <strong>di</strong> un<br />

volto, una figura –, dall’ansia dell’incontro con una realtà che fa parte<br />

dei più profon<strong>di</strong> e recon<strong>di</strong>ti affetti del proprio animo. Giustamente è<br />

stato affermato autorevolmente che l’incontro con la Sindone da parte<br />

dell’uomo, e a maggior ragione del fedele, è prescientifico 1 . Ancora una<br />

volta mi pare <strong>di</strong> poter affermare che, in quanto oggetto in grado <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare<br />

tali legittime attese, l’accostamento al significato delle acheropite<br />

sia legittimamente consentito, e <strong>di</strong>rei dovuto.<br />

1 G. GHIBERTI, Davanti alla Sindone, Cinisello Balsamo 2010.


Dalle acheropite alla Sindone<br />

Indagini compiute sui pellegrini delle ultime ostensioni, dal 1978 ad<br />

oggi, hanno confermato che ben pochi furono coloro che si mossero<br />

verso <strong>Torino</strong> facendo riferimento alla questione della “autenticità”, e<br />

che quin<strong>di</strong> pongono tale problema alla base <strong>di</strong> un rapporto con la Sindone.<br />

Molti più sono stati quelli che hanno spostato la loro attenzione<br />

verso la Sindone come “segno”, che <strong>di</strong>venta “mistero”, che “parla <strong>di</strong><br />

violenza e ingiustizia”, “l’immagine della pace, l’impronta della sofferenza”.<br />

Ma una sofferenza che non si esaurisce in se stessa: per il credente<br />

la me<strong>di</strong>tazione sulla morte <strong>di</strong> Cristo non può essere <strong>di</strong>staccata<br />

dalla gioia della Pasqua, e viceversa: la Sindone <strong>di</strong>venta quin<strong>di</strong> “immagine<br />

<strong>di</strong> vita e <strong>di</strong> risurrezione” 2 .<br />

Tale riflessione che va veramente al cuore della fede cristiana, è<br />

un’ulteriore <strong>di</strong>mostrazione della potenza catechetica della Sindone, che<br />

si riflette anche sulla sfera esistenziale: buona parte <strong>degli</strong> intervistati vede<br />

nella Sindone un forte richiamo verso sentimenti <strong>di</strong> pace e <strong>di</strong> amore,<br />

<strong>di</strong> carità fattiva ed un invito alla speranza. Troviamo qui, in forme certamente<br />

con<strong>di</strong>zionate da una particolare sensibilità attuale, i medesimi<br />

temi presenti nelle testimonianze e nei testi che illustrano il ruolo e significato<br />

delle icone.<br />

D’altra parte è innegabile che, proprio per la moderna sensibilità, la<br />

Sindone costituisca anche una “provocazione all’intelligenza” 3 , e che<br />

quin<strong>di</strong> esista un pur legittimo desiderio <strong>di</strong> indagarne le caratteristiche,<br />

per verificare la tra<strong>di</strong>zionale identificazione con il sudario <strong>di</strong> Cristo, soprattutto<br />

attraverso l’esame <strong>di</strong>retto, utilizzando le più moderne e sofisticate<br />

tecniche <strong>di</strong> indagine.<br />

Questo particolare approccio, a partire dall’inizio del secolo scorso,<br />

ha contribuito a rivestire la Sindone <strong>di</strong> una connotazione del tutto particolare,<br />

in quanto ha portato ad isolare la Sindone dalle <strong>di</strong>namiche<br />

consuete del <strong>di</strong>battito sul senso religioso e il fondamento storico e teologico<br />

dell’oggetto, come avvenuto per le immagini <strong>di</strong> Cristo, per farla<br />

<strong>di</strong>venire quasi un para<strong>di</strong>gma della moderna <strong>di</strong>alettica che investe il rapporto<br />

scienza\fede.<br />

Questo è probabilmente un tributo obbligato all’approccio moderno<br />

alla reliquia, ma che per la Sindone ha assunto connotazioni ra<strong>di</strong>cali,<br />

più <strong>di</strong> quanto avvenga per altre realtà. La pur importante questione<br />

2 Fondamentale rimane la ricerca <strong>di</strong> Garelli nel 1978. Cfr. F. GARELLI, Il volto<br />

<strong>di</strong> Dio. L’esperienza del sacro nella società contemporanea, Bari 1983.<br />

3 GIOVANNI PAOLO II, Venerazione della Sindone, 24 maggio 1998.<br />

311


312<br />

Gian Maria Zaccone<br />

delle reliquie <strong>di</strong> san Pietro ad esempio, o quella più recente dell’apostolo<br />

Paolo hanno destato un certo clamore, non certo comunque paragonabile,<br />

per imponenza e durata, a quello sviluppato sulla Sindone. Sicuramente<br />

perché quest’ultima non è, o non è solo, un ricordo, ciò che è<br />

rimasto, una pur importante “reliquia” ma è una presenza, viva, vitale,<br />

impressionante e coinvolgente. Termini tutti che si possono applicare<br />

egualmente alla percezione delle acheropite nel tempo.<br />

Come il monaco inglese Mattew Paris attribuisce a Innocenzo III il<br />

testo <strong>di</strong> una preghiera nella quale la Veronica romana è vista quale ricordo<br />

del passaggio <strong>di</strong> Cristo in terra e anticipazione dell’incontro alla<br />

fine dei tempi, così veramente la Sindone rende reale con la sua presenza<br />

l’attesa del compimento della promessa <strong>degli</strong> angeli al momento dell’ascensione:<br />

«Questo Gesù che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà<br />

un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo».<br />

Lo sviluppo e l’imporsi <strong>di</strong> questo ruolo provvidenziale dell’immagine<br />

<strong>di</strong> Cristo impressa sul Lenzuolo torinese è dato ritrovare nello svilupparsi<br />

dello stu<strong>di</strong>o della storia della Sindone. Con la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

abbandonare una impostazione legata alla questione “scientifica”, cioè<br />

utilizzando la storia come una delle leve per avallare o respingere la<br />

presenza del Lenzuolo nella sepoltura <strong>di</strong> Cristo. Purtroppo sino ad ora<br />

questa è stata la strada percorsa, anche in recenti saggi con pretese accademiche.<br />

In quest’ottica tra<strong>di</strong>zionalmente si <strong>di</strong>vide la cosiddetta storia<br />

della Sindone in due gran<strong>di</strong> perio<strong>di</strong>: quello precedente la comparsa<br />

in Europa (metà del XIV secolo), e quello successivo sino ad oggi. Questa<br />

perio<strong>di</strong>zzazione tiene conto della presenza o meno <strong>di</strong> documenti<br />

che consentano <strong>di</strong> identificare la Sindone oggi a <strong>Torino</strong> con <strong>oggetti</strong> presenti<br />

nelle varie epoche.<br />

Il fatto che non possono sorgere dubbi sull’identificazione della Sindone<br />

<strong>di</strong> Lirey con quella <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> giustifica la determinazione del secondo<br />

periodo. Il primo, invece, è connotato negativamente, nel senso<br />

che è caratterizzato dalla mancanza <strong>di</strong> documenti <strong>di</strong> qualsiasi tipo tali<br />

da consentire una certa identificazione dei <strong>di</strong>versi <strong>oggetti</strong> a cui viene attribuito<br />

un rapporto con la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong>.<br />

Personalmente ritengo che su tali basi ci si debba accontentare <strong>di</strong><br />

dare per assodato che abbastanza presto inizia a circolare la notizia<br />

della conservazione del corredo funerario <strong>di</strong> Cristo, compresa la sindone<br />

– in quanto citata nei Vangeli –, che forse esisteva anche una sindone<br />

figurata, che certo esistevano immagini <strong>di</strong> Cristo oggetto <strong>di</strong> grande<br />

venerazione. Ed è qui, su quest’ultimo termine, che si apre veramente la<br />

nuova prospettiva. Se non esistono documenti in grado <strong>di</strong> identificare<br />

la Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> con quella o quelle citate nell’antichità, tuttavia


Dalle acheropite alla Sindone<br />

un legame fortissimo c’è, ed è fondamentale: si tratta della storia della<br />

devozione e della pietà. In questa prospettiva credo che la storia della<br />

Sindone altro non sia che la storia della devozione ad un oggetto che<br />

nello stesso momento è ritenuto immagine ma anche reliquia – l’equilibrio<br />

ed il rapporto tra le due interpretazioni è alterno nel tempo –, immagine<br />

e reliquia <strong>di</strong> Cristo nel momento culminante del mistero dell’incarnazione:<br />

partecipa dunque della storia della pietà verso elementi<br />

car<strong>di</strong>ni della fede. Occorre pertanto ribaltare la prospettiva corrente.<br />

La devozione e la pietà verso la Sindone ere<strong>di</strong>tano ed in un certo senso<br />

<strong>di</strong>vengono para<strong>di</strong>gma <strong>di</strong> tutta una tra<strong>di</strong>zione della Chiesa sin dai primi<br />

secoli: dalle catechesi <strong>di</strong> Cirillo <strong>di</strong> Gerusalemme, alla <strong>di</strong>fesa delle immagini<br />

<strong>di</strong> Giovanni Damasceno, dalla devozione all’umanità <strong>di</strong> Cristo,<br />

connotata da san Bernardo e san Francesco, alla sistematizzazione Tridentina,<br />

alle nuove prospettive magistralmente delineate da Giovanni<br />

Paolo II nel 1998, alla profon<strong>di</strong>ssima me<strong>di</strong>tazione <strong>di</strong> Benedetto XVI nel<br />

2010. La storia della Sindone quin<strong>di</strong>, o meglio la vera essenza della storia<br />

della Sindone, la venerazione ad essa tributata, fa parte della più<br />

ampia storia della Chiesa, della storia della pietà in seno ad essa, sia<br />

spontanea sia co<strong>di</strong>ficata, entrando quin<strong>di</strong> nel campo della liturgia, della<br />

storia della ricerca delle fattezze umane <strong>di</strong> Cristo. Alla base della<br />

quale <strong>di</strong>venta in<strong>di</strong>spensabile un approccio teologico ed una chiara linea<br />

pastorale e catechetica, <strong>di</strong> cui possiamo con evidenza seguire gli sviluppi<br />

nelle successive trasformazioni e aggiornamenti che nel tempo sono<br />

stati apportati ai testi della liturgia concessa nel 1506.<br />

Ho più volte affermato – creando anche un certo scandalo nel mondo<br />

<strong>degli</strong> apologeti – che a mio avviso la Sindone, nel suo significato,<br />

non è autoreferenziante, ma presuppone due punti <strong>di</strong> riferimento ben<br />

precisi. La Sindone è stata – provvidenzialmente per il credente – posta<br />

sul cammino della storia perché gli uomini si confrontino con essa. La<br />

guar<strong>di</strong>no, perché è oggetto da guardare con gli occhi del corpo e con<br />

quelli della mente. Senza <strong>di</strong> essi, senza gli uomini, la Sindone non è in<br />

grado <strong>di</strong> esprimersi nella sua complessità e completezza. D’altra parte<br />

la Sindone non sarebbe nulla se non fosse «lo specchio del Vangelo» 4 ,<br />

quin<strong>di</strong> se non fosse riferimento straor<strong>di</strong>nario a Cristo. Senza Cristo la<br />

Sindone semplicemente non sarebbe. Evidentemente queste considerazioni<br />

sono ancora una volta applicabili alle acheropite.<br />

4 GIOVANNI PAOLO II, Venerazione della Sindone, 24 maggio 1998.<br />

313


314<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Ne consegue che per un approccio <strong>di</strong> questo tipo la perio<strong>di</strong>zzazione<br />

sin qui utilizzata <strong>di</strong>venta stretta ed anche fuorviante.<br />

Se la Sindone deve essere considerata nel suo rapporto con la storia<br />

<strong>degli</strong> uomini ed in particolare della Chiesa, è a questa che dobbiamo<br />

fare riferimento. È noto quanto le perio<strong>di</strong>zzazioni nella storia siano<br />

aleatorie e pericolose, soprattutto se legate a date precise. Tuttavia scegliendo<br />

alcuni momenti importanti della storia della Chiesa, soprattutto<br />

intesa come storia spirituale, possiamo isolare dei macroperio<strong>di</strong> che<br />

in maniera sod<strong>di</strong>sfacente consentono <strong>di</strong> seguire lo sviluppo <strong>di</strong> quelle<br />

forme <strong>di</strong> pietà e cultuali cui si accennava prima. Ci si potrà rendere<br />

conto <strong>di</strong> una caratteristica essenziale della Sindone. Essa ha attraversato<br />

epoche, culture, crisi, senza mai smettere <strong>di</strong> avere un significato, <strong>di</strong><br />

portare un messaggio. Credo che questo sia il risultato <strong>di</strong> quella funzione<br />

me<strong>di</strong>atrice e <strong>di</strong> referenze cui ho fatto cenno. Ma soprattutto è testimonianza<br />

per il credente del <strong>di</strong>segno provvidenziale che ne accompagna<br />

l’esistenza.<br />

Tornando dunque alla perio<strong>di</strong>zzazione, mi è parso <strong>di</strong> poter in<strong>di</strong>viduare<br />

alcuni intervalli <strong>di</strong> tempo che consentono <strong>di</strong> connotare <strong>di</strong>versi<br />

approcci alla Sindone, in particolare per quanto riguarda i secoli documentati<br />

5 . Da una parte si osserva una posizione della Chiesa istituzionale<br />

che da una iniziale cautela, per non <strong>di</strong>re <strong>di</strong>ffidenza, va poco per<br />

volta aprendosi, e dall’altra una tra<strong>di</strong>zione ininterrotta <strong>di</strong> devozione da<br />

parte delle genti, che sicuramente ha con<strong>di</strong>zionato lo stesso atteggiamento<br />

pur sempre attento dell’autorità, dando origine ad un caso forse<br />

unico, per articolazione, durata e interesse, nella storia della Chiesa.<br />

Un primo periodo è quello me<strong>di</strong>evale, che si sarebbe dovuto rivelare<br />

particolarmente accogliente, considerato il robusto sviluppo della devozione<br />

all’umanità <strong>di</strong> Cristo.<br />

Gli estremi della fase storica che chiamiamo Me<strong>di</strong>o Evo sono certamente<br />

molto ampi. Tuttavia si può in<strong>di</strong>viduare una coincidenza dello<br />

sviluppo <strong>di</strong> tale devozione, nei termini che qui ci interessano, ad iniziare<br />

da quel periodo che con felice espressione Léopold Génicot in<strong>di</strong>ca<br />

come il mezzogiorno della cristianità me<strong>di</strong>evale, in cui si colgono i primi<br />

frutti della riforma della Chiesa voluta da Gregorio VII.<br />

È un tempo molto delicato dal nostro punto <strong>di</strong> vista, in quanto è<br />

proprio nel momento più drammatico della storia della Chiesa me<strong>di</strong>e-<br />

5 Per una storia della Sindone mi permetto <strong>di</strong> rimandare al mio G.M. ZAC CO -<br />

NE, La Sindone. Storia <strong>di</strong> una immagine, Milano 2010.


Dalle acheropite alla Sindone<br />

vale – ed anche quello in cui la pietà verso i segni materiali corre seriamente<br />

il rischio <strong>di</strong> derive pericolose – che compare un segno complesso<br />

e inquietante come la nostra Sindone. Ed è per questo che la devozione<br />

verso la Sindone conosce serie <strong>di</strong>fficoltà, sino a raggiungere un livello<br />

<strong>di</strong> culto meramente tollerato da parte dell’Istituzione religiosa. La giustificazione<br />

<strong>di</strong> tale tolleranza, stabilita dal papa Clemente VII <strong>di</strong> Avignone<br />

contro il parere stesso <strong>di</strong> Pierre d’Arcis, Or<strong>di</strong>nario del luogo in<br />

cui compare la Sindone, consiste nel fatto che il Pontefice concentra<br />

l’attenzione sul valore iconico <strong>di</strong> quell’immagine, evitando il problema<br />

della realtà <strong>di</strong> reliquia. Ma è anche il periodo che sfocia nella normalizzazione<br />

del rapporto dei fedeli con la Sindone, attraverso un ulteriore<br />

intervento della Chiesa e la concessione del culto pubblico nel 1506,<br />

quando la Sindone, ormai inserita in un assetto stabile e garantito –<br />

una <strong>di</strong>nastia regnante – può finalmente essere oggetto <strong>di</strong> un culto pienamente<br />

accettato, la cui liturgia costringe la devozione all’interno <strong>di</strong><br />

forme precise e tutelate da abusi. Dal memoriale <strong>di</strong> Pierre d’Arcis e dalle<br />

prescrizioni <strong>di</strong> Clemente VII <strong>di</strong> Avignone ai provve<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> Giulio II<br />

sembra esserci un abisso, che invece non esiste se si considera il percorso<br />

alla luce della storia della Chiesa, dell’evoluzione della pietà e <strong>degli</strong><br />

eventi occorsi alla Sindone. Giova inoltre anche confrontare il rapporto<br />

fedele – immagine – reliquia in altre situazioni e contesti coevi, che<br />

gettano una luce <strong>di</strong>versa sulle questioni sindoniche dei primi tempi della<br />

sua esistenza nota.<br />

Il Concilio <strong>di</strong> Trento, ma soprattutto la sua applicazione da parte <strong>di</strong><br />

una Chiesa veramente ansiosa <strong>di</strong> riforma, in cui operarono altissime figure,<br />

imponenti per dottrina e spiritualità, sfociata nel periodo del<br />

trionfo barocco, ha poi influito in maniera determinante sull’approccio<br />

alla Sindone. I solenni apparati delle ostensioni – ma anche qui occorre<br />

considerare il parallelo con analoghe manifestazioni religiose –, la <strong>di</strong>ffusione<br />

iconografica e soprattutto la manualistica e l’omiletica tracciano<br />

una precisa linea pastorale che inserisce a pieno titolo la Sindone<br />

tra gli <strong>oggetti</strong> privilegiati <strong>di</strong> catechesi. A fianco della quale si pone l’intensa<br />

attività della <strong>di</strong>nastia proprietaria, i Savoia, interessati a <strong>di</strong>ffondere<br />

la conoscenza della loro “reliquia <strong>di</strong>nastica”, segno della legittimazione<br />

del proprio ruolo. È questo veramente il periodo trionfale della<br />

Sindone, in cui il culto da tollerato e accettato <strong>di</strong>viene vigorosamente<br />

promosso, e certamente il più ricco <strong>di</strong> testimonianze <strong>di</strong> una pietà totalmente<br />

trasversale negli strati sociali, compatti nell’inginocchiarsi <strong>di</strong><br />

fronte all’immagine dell’amore e del dolore.<br />

Il Settecento con le sue istanze razionaliste apre quel periodo che dal<br />

cosiddetto “Aufklärung cattolico” si snoda con la sua serrata critica si-<br />

315


316<br />

Gian Maria Zaccone<br />

no alla crisi modernista. Gli storici della Chiesa hanno vagliato sotto i<br />

più vari aspetti questa transizione. Quella che forse è mancata è una<br />

trattazione organica – ma mi rendo conto che lo stesso termine “organica”<br />

è qui fuori luogo – delle strade percorse dalla pietà in questi secoli,<br />

che spesso hanno <strong>di</strong>verso in maniera anche drammatica dal pensiero<br />

filosofico. È questo in effetti un periodo in cui lo stu<strong>di</strong>o del rapporto<br />

dei fedeli con la Sindone, come anche <strong>degli</strong> scritti su <strong>di</strong> essa, può portare<br />

ad intuire delle <strong>di</strong>namiche interessanti anche in un contesto più vasto<br />

<strong>di</strong> quello sindonico. Tra il libro del gesuita Sanna Solaro, <strong>di</strong>fensore<br />

della Sindone 6 e i testi profondamente critici dell’abate Chevalier 7 , coevi,<br />

quale è il rapporto? E lo straor<strong>di</strong>nario numero <strong>di</strong> pellegrini che si recano<br />

all’Ostensione del 1898 come si deve porre a fronte delle <strong>di</strong>struttive<br />

critiche verso la Sindone che vengono egualmente dal mondo laico e<br />

da parte <strong>di</strong> quello religioso? Non è inoltre un caso che dalla seconda<br />

metà del settecento le ostensioni subiscano un drastico ri<strong>di</strong>mensionamento,<br />

limitandosi praticamente a occasioni <strong>di</strong>nastiche.<br />

Segue il già citato periodo della scienza, nel quale ancora oggi viviamo.<br />

Dallo stu<strong>di</strong>o delle vicende della Sindone in quest’ottica emerge con<br />

chiarezza che preminente nel tempo è stato il ruolo <strong>di</strong> immagine.<br />

Un’immagine che offre possibilità <strong>di</strong> lettura a più livelli. Essa consente<br />

imme<strong>di</strong>atamente pre<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> tipo ascetico insistenti sulla me<strong>di</strong>tazione<br />

verso la Passione <strong>di</strong> Cristo, ma anche <strong>di</strong> affrontare argomenti <strong>di</strong><br />

carattere più mistagogico. È agile il passaggio dalla visione del cadavere<br />

martoriato sulla Sindone alla catechesi sulla morte <strong>di</strong> Cristo, e da questa<br />

alla resurrezione – mai, desidero riba<strong>di</strong>rlo – assente. Come pure <strong>di</strong><br />

affrontare questioni morali ed etiche. Ed anche <strong>di</strong> collegare temi scritturali.<br />

Il fatto che essa sia anche una reliquia – fatto dato per scontato<br />

nella totalità dei pre<strong>di</strong>catori fino agli anni Settanta del secolo scorso –<br />

serve tutto sommato solo a corroborare il significato dell’immagine,<br />

consentendo <strong>di</strong> affermare che non si parla <strong>di</strong> “un’immagine” ma <strong>di</strong><br />

“quell’immagine”, al più permettendo <strong>di</strong> inserire il tema del sangue <strong>di</strong><br />

6 G. SANNA SOLARO, La santa Sindone che si venera a <strong>Torino</strong>, <strong>Torino</strong> 1901.<br />

7 Ulysse Chevalier, con l’intento <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare su basi storiche l’origine me<strong>di</strong>evale<br />

della Sindone, ritornò più volte sul tema tra 1899 e il 1903. I suoi due lavori<br />

fondamentali sono: Étude critique sur l’origine du Saint Suaire de Lirey –<br />

Chambéry – Turin, Paris 1900, ed Autour des origines du Suaire de Lirey avec<br />

documents iné<strong>di</strong>ts, Paris 1903.


Dalle acheropite alla Sindone<br />

Cristo nella pre<strong>di</strong>cazione, tema per altro che conobbe un grande sviluppo<br />

in epoca tridentina e barocca. Però, ripeto, il punto nodale è l’im -<br />

magine. L’abate Fleury, al quale ho <strong>di</strong>mostrato appartenere la settecentesca<br />

<strong>di</strong>ssertazione contro l’autenticità della sindone <strong>di</strong> Besançon 8 , affermava:<br />

«Alla fine, anche se non si trattasse del vero sudario nel quale<br />

fu avvolto il corpo <strong>di</strong> Cristo, è sempre una toccante immagine del Salvatore<br />

che ci conduce a onorare molti dei suoi misteri», un pensiero<br />

completamente sovrapponibile a quanto affermato dal car<strong>di</strong>nal Ballestero<br />

dopo il responso del C14, frettolosamente – e con colpevole superficialità<br />

– bollato come una <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> resa, che chiarì come<br />

preminente per la Chiesa fosse la realtà <strong>di</strong> immagine, definendo la Sindone<br />

“veneranda icona”, intendendo con questo richiamare il profondo<br />

significato collegato con tale termine.<br />

Una definizione il cui valore veramente comprensivo della profonda<br />

realtà sindonica ha trovato quest’anno una vigorosa conferma straor<strong>di</strong>naria<br />

nella me<strong>di</strong>tazione <strong>di</strong> Benedetto XVI davanti alla Sindone, definita<br />

“Icona del Sabato Santo 9 ”.<br />

La Sindone, come ricordato da Giovanni Paolo II non è un articolo<br />

<strong>di</strong> fede 10 , e quin<strong>di</strong> la Chiesa non ha nessun dovere <strong>di</strong> ergersi a giu<strong>di</strong>ce<br />

della ricerca compiuta su <strong>di</strong> essa, lasciando libertà <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio.<br />

D’altra parte essa ha tutto il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> in<strong>di</strong>care in quell’immagine un<br />

oggetto che – come sancì il Concilio <strong>di</strong> Nicea nel 787 precisando una<br />

dottrina del culto dell’immagine immutata sino ad oggi – è venerabile<br />

privatamente e liturgicamente in quanto «l’onore attribuito all’immagine<br />

passa al prototipo e chi venera l’immagine, venera la persona che<br />

questa rappresenta» 11 . Sono persuaso – corroborato in ciò dalle parole<br />

dei due ultimi pontefici e dalla pastorale che in questi anni si è sviluppata<br />

intorno alla Sindone – che dal punto <strong>di</strong> vista del fedele sia questo<br />

8 G. M. ZACCONE, Le manuscrit 826 de la Bibliothèque municipale de Besan -<br />

çon, in Non fait de main d’homme. Actes du IIIe Symposium scientifique Interna -<br />

tional. Nice 1997, Paris 1998.<br />

9 BENEDETTO XVI, Venerazione della Sindone, 2 maggio 2010.<br />

10 Non è certamente un concetto introdotto a giustificazione <strong>di</strong> una posizione<br />

della Chiesa nei confronti della Sindone. Lo troviamo già espresso ad esempio in<br />

un testo fortemente agiografico come quello <strong>di</strong> G. LANZA, La Santissima Sindone<br />

del Signore, <strong>Torino</strong> 1898,<br />

11 H. DENZINGER - A. SCHÖNMETZER, Enchiri<strong>di</strong>on symbolorum, definitionum<br />

et declarationum de rebus fidei et morum, Barcinone etc., 1967 34 , *601.<br />

317


318<br />

Gian Maria Zaccone<br />

l’aspetto <strong>di</strong> maggior potenza evocativa e spirituale, e dunque la ragione<br />

fondante <strong>di</strong> interesse per la Sindone.<br />

Anche sotto questo aspetto mi sembra dunque <strong>di</strong> poter confermare<br />

che veramente esiste una profonda continuità con le immagini “acheropite”<br />

che hanno contrassegnato la storia dell’umanità credente.<br />

Una umanità che da sempre si è interrogata sulla fisicità del Verbo<br />

fatto Uomo, e ben presto si è de<strong>di</strong>cata a cercarne ricor<strong>di</strong>, reliquie e immagini.<br />

Soprattutto immagini perché è la prima volta nella storia che<br />

l’uomo ha potuto contemplare il suo Dio non antropomorfizzato, ma<br />

nella sua vera realtà <strong>di</strong> Dio che fatto uomo ha assunto una sua precisa<br />

in<strong>di</strong>vidualità non <strong>di</strong>sgiunta dalla <strong>di</strong>vinità “vero Dio e vero uomo”. Una<br />

realtà che però ha creato sin dai primi secoli, anche in questo campo,<br />

questioni, <strong>di</strong>spute e lacerazioni.<br />

Se infatti le reliquie come la croce – la più risalente <strong>di</strong> esse – non<br />

crearono grossi problemi circa la loro forma ed esistenza, e se qualche<br />

questione in più originò la raffigurazione del Crocefisso, a cui per altro<br />

non si chiedeva una somiglianza fisica con l’originale ma una rappresentazione<br />

prima evocativa e poi realistica del sacrificio espiatorio, non<br />

così accade per l’immagine, l’icona del Redentore.<br />

Qui infatti la questione assume connotazioni realmente critiche: si<br />

tratta <strong>di</strong> riprodurre le fattezze dell’uomo Dio, i suoi tratti, <strong>di</strong> rispondere<br />

materialmente alla biblica, spirituale, invocazione del salmista «Il tuo<br />

volto, signore, io cerco», a fronte della mancanza totale <strong>di</strong> descrizioni<br />

dell’aspetto fisico dell’uomo Gesù.<br />

La stessa tra<strong>di</strong>zione patristica ondeggia tra gli estremi del più bello<br />

dei figli dell’Uomo e dell’uomo deforme.<br />

Moltissimi sono i testi che trattano dell’aspetto storico-artistico della<br />

raffigurazione <strong>di</strong> Cristo. Relativamente meno quelli che affrontano la<br />

vera essenza dell’origine e del <strong>di</strong>battito sull’immagine, sulla sua liceità e<br />

sulla stessa possibilità <strong>di</strong> esistenza 12 . Il problema infatti, come sottolinea<br />

Schönborn, è squisitamente teologico:<br />

L’icona non solo tiene desta la memoria dell’incarnazione, ma ricorda costantemente<br />

anche il ritorno promesso <strong>di</strong> Cristo 13 . Per questo la Chiesa<br />

12 Sul primo aspetto si può utilmente consultare il catalogo della mostra giubilare<br />

a cura <strong>di</strong> G. MORELLO - G. WOLF, Il Volto <strong>di</strong> Cristo, Milano 2000, con la<br />

ricca bibliografia. Per il secondo inelu<strong>di</strong>bile è il rimando a C. SCHÖNBORN,<br />

L’icona <strong>di</strong> Cristo. Fondamenti teologici, Cinisello Balsamo 1988.<br />

13 Il car<strong>di</strong>nale <strong>di</strong> Vienna qui fa riferimento alla citata promessa <strong>degli</strong> angeli al


Dalle acheropite alla Sindone<br />

d’Oriente considera l’icona <strong>di</strong> Cristo un elemento imprescin<strong>di</strong>bile della<br />

confessione cristiana. Essa vede nell’icona una sintesi della confessione <strong>di</strong><br />

fede… Tutti i gran<strong>di</strong> enunciati della confessione cristologia della Chiesa antica<br />

sono riassunti in questo mistero. Di ciò erano pienamente consapevoli<br />

coloro che <strong>di</strong>fendevano le immagini. Per essi quin<strong>di</strong> la <strong>di</strong>fesa delle immagini<br />

e la loro venerazione non era una questione puramente pragmatico-pedagogica:<br />

ne andava invece del centro stesso della fede cristiana… La controversia<br />

iconoclasta è, dal punto <strong>di</strong> vista del contenuto, l’ultima fase della<br />

controversia cristologia della Chiesa antica 14 .<br />

Ne emerge che la questione della raffigurazione <strong>di</strong> Cristo, ed anche<br />

la storia <strong>di</strong> tale percorso, sia inelu<strong>di</strong>bile per un approccio corretto alla<br />

Sindone come alle acheropite.<br />

È poi evidente che una volta chiariti i fondamenti teologici esistono<br />

anche gli aspetti estetici, che tuttavia appaiono chiaramente subor<strong>di</strong>nati,<br />

a maggior ragione per quanto riguarda la <strong>di</strong>sputa iconoclasta, a<br />

quelli cristologici.<br />

In effetti quando i <strong>di</strong>fensori delle immagini opponevano agli iconoclasti<br />

che il Verbo eterno, realmente fatto carne, si è fatto anche “circoscrivibile”,<br />

ne giustificavano la rappresentabilità attraverso una immagine.<br />

Il problema semmai – e qui si lambisce la questione estetica – è<br />

«in qual misura il Figlio sia immagine perfetta del Padre, anche in<br />

quanto incarnato, cioè in qual misura un volto umano possa essere perfetta<br />

immagine <strong>di</strong> Dio. Solo dopo aver misurato, in modo approssimativo,<br />

questa <strong>di</strong>mensione della raffigurabilità, la questione delle “immagini<br />

sacre”, della possibilità per l’arte <strong>di</strong> attingere il mistero inattingibile,<br />

acquista tutta la sua portata» 15 . In questo mistero secondo Teodoro<br />

<strong>Stu<strong>di</strong></strong>ta si esprime sino in fondo l’originalità paradossale della fede cristiana,<br />

in cui la seconda Persona della <strong>di</strong>vina ed eterna Trinità, per sua<br />

stessa natura non visibile, è <strong>di</strong>venuta visibile in Gesù <strong>di</strong> Nazaret, come<br />

preciso in<strong>di</strong>viduo che ha camminato nella storia, che altri in<strong>di</strong>vidui<br />

hanno incontrato, con i quali ha parlato e mangiato, sofferto e gioito.<br />

momento dell’ascensione: «Questo Gesù che è stato tra voi assunto fino al cielo,<br />

tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo». Tale<br />

visione peraltro non è solo orientale. Ricordo il già citato testo della preghiera<br />

attribuito dal monaco inglese Mattew Paris ad Innocenzo III, nel quale la<br />

Veronica romana è vista come ricordo del passaggio <strong>di</strong> Cristo in terra e anticipazione<br />

della visione <strong>di</strong> Dio.<br />

14<br />

SCHÖNBORN, cit., 129-130.<br />

15 Ibid.<br />

319


320<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Da cui anche la questione artistico-estetica. Da dove ricavare i tratti <strong>di</strong><br />

questa in<strong>di</strong>vidualità, poiché nulla ce li ha tramandati? Chi poi è in grado<br />

<strong>di</strong> cogliere questi tratti sì umani, ma che coinvolgono immensi e insondabili<br />

misteri? Interrogativi che ebbero come esito l’iconografia simbolica,<br />

che in qualche modo elude il problema, e quella ritenuta verista<br />

che invece rischia <strong>di</strong> soffocare nel problema.<br />

Per rime<strong>di</strong>are all’impasse assistiamo parallelamente allo sviluppo<br />

della tra<strong>di</strong>zione acheropita, che da una parte legittima la venerazione<br />

dell’immagine, in quanto espressione della volontà dello stesso raffigurato,<br />

e dall’altra ne garantisce la corrispondenza all’originale. Immagini<br />

che, proprio per essere le “vere” immagini, godono del privilegio <strong>di</strong><br />

potersi riprodurre miracolosamente per contatto, a testimonianza del<br />

fatto che comunque la bellissima realtà del Dio fatto uomo non può essere<br />

umanamente riprodotta. Così ad esempio accadde al Mandylion<br />

<strong>di</strong> Edessa, ed anche alla Sindone <strong>di</strong> <strong>Torino</strong> fu attribuito tale comportamento.<br />

Al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> ipotesi che vorrebbero identificare queste due immagini –<br />

al momento <strong>di</strong>fficilmente percorribili – non si può negare che comunque<br />

il legame tra <strong>di</strong> esse è reale, profondo e per molti versi ben più fondante<br />

<strong>di</strong> una dubbia continuità materiale.<br />

Altra acheropita dove il legame con la Sindone appare palese è la<br />

Veronica, la cui tra<strong>di</strong>zione occidentale risulta per molti versi speculare<br />

a quella del Mandylion in Oriente.<br />

Come noto sin dall’inizio del XII secolo esistono notizie certe del fatto<br />

che il velo conservato a Roma racchiudesse l’immagine del Volto <strong>di</strong><br />

Cristo, secondo le fonti impresso dal sudore e sangue del Getzemani.<br />

Non sfugge il parallelismo sia con alcune interpretazioni del Mandylion<br />

dopo l’arrivo a Costantinopoli, come anche con l’immagine della<br />

Sindone «icona <strong>di</strong>pinta col sangue» 16 .<br />

Per molto tempo gli storici si sono interrogati su quale delle due leggende<br />

– Veronica e Mandylion – si fosse modellata l’altra. La questione<br />

non è qui <strong>di</strong> interesse. Importante è prendere atto che tutta la Cristianità<br />

anela ad identificare quel volto. Il Mandylion in Oriente e la Veronica<br />

in Occidente rappresentano due fondamentali espressioni dello<br />

stesso Volto, recepite secondo le più profonde attese delle <strong>di</strong>verse spiritualità.<br />

Ne è palese testimonianza il ruolo della Veronica nella pietà<br />

me<strong>di</strong>evale, ed in particolare il significato enorme rivestito nei Giubilei.<br />

16 BENEDETTO XVI, Venerazione della Sindone, 2 maggio 2010.


Dalle acheropite alla Sindone<br />

Le relazioni dei pellegrini, i testi letterari, le cronache liturgiche segnalano<br />

in maniera inequivocabile l’emozione della presenza <strong>di</strong> quel volto<br />

a Roma. E <strong>di</strong>co presenza perché non era certo la “visibilità” ciò che appagava<br />

il pellegrino. In effetti credo che ben pochi potessero <strong>di</strong>re <strong>di</strong> avere<br />

realmente potuto osservare le fattezze <strong>di</strong> quel volto – che oggi come<br />

noto non sembra più percepibile – visto rapidamente e da lontano, in<br />

mezzo ad una folla inverosimile. Ancora una volta si sottolinea il valore<br />

simbolico <strong>di</strong> queste immagini-reliquie, che hanno significato nell’immaginario<br />

devozionale appunto per la loro presenza, e non tanto per la loro<br />

percettibilità: presenza testimoniata dall’ostensione, che ne manifesta<br />

la fisicità piuttosto che i particolari. La stessa Sindone partecipa <strong>di</strong><br />

tale caratteristica. Le ostensioni al popolo infatti consentivano sicuramente<br />

<strong>di</strong> vedere il lenzuolo, forse ai meno lontani <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere qualche<br />

macchia <strong>di</strong> sangue, dopo il 1532 le bruciature, ma non certo <strong>di</strong> apprezzare<br />

le fattezze dell’impronta, privilegio destinato solo a categorie<br />

esclusive <strong>di</strong> persone in ostensioni private. Non <strong>di</strong>mentichiamo che in<br />

questo tardo me<strong>di</strong>oevo si stabiliscono delle azioni liturgiche destinate<br />

al “vedere”, per percepire materialmente una presenza, reclamate a<br />

gran voce dalla pietà popolare, quali l’elevazione, vera e propria ostensione<br />

del corpo <strong>di</strong> Cristo sotto le specie del pane e l’adorazione del<br />

Santissimo Sacramento in occasione della festa del Corpus Domini,<br />

anch’essa creazione me<strong>di</strong>evale – istituita nel 1246 a Liegi – che ebbe un<br />

successo enorme.<br />

Tra le acheropite registrate nella storia queste sono certamente quelle<br />

che maggiore influenza hanno avuto sulla pietà, anche perché ritenute<br />

coeve <strong>di</strong> Cristo.<br />

Ma per quanto riguarda il nostro assunto vorrei ancora ricordare<br />

l’icona <strong>di</strong> Beyrouth, per la sua importanza non tanto come immagine,<br />

quanto per l’introduzione <strong>di</strong> un tema che risulta fondamentale per la<br />

pietà me<strong>di</strong>evale verso l’umanità <strong>di</strong> Cristo e <strong>di</strong> riflesso anche verso la<br />

Sindone: il sangue. Si tratta infatti della leggenda <strong>di</strong> un’icona vilipesa, il<br />

cui costato lacerato avrebbe emesso sangue. Fonte della leggenda sarebbe<br />

una relazione, attribuita non a caso a sant’Atanasio 17 , letta al II<br />

17 Come noto Atanasio il Grande, dottore della Chiesa, fu strenuo <strong>di</strong>fensore<br />

della corretta dottrina circa l’incarnazione contro le eresie che mettevano in <strong>di</strong>scussione<br />

la realtà e l’unità delle due nature <strong>di</strong> Cristo. In questo caso l’icona sanguinante<br />

contribuisce a <strong>di</strong>mostrare la reale natura umana del Verbo incarnato.<br />

321


322<br />

Gian Maria Zaccone<br />

Concilio <strong>di</strong> Nicea. Il testo ci è tramandato in due versioni, greca e latina,<br />

connotati da alcune <strong>di</strong>vergenze che ben illustrano le <strong>di</strong>fferenti mentalità<br />

nell’affrontare la questione. Da sottolineare in questa leggenda il<br />

fatto che l’icona deve essere interpretata come una figura intera del<br />

Cristo, dalla tra<strong>di</strong>zione latina attribuita a Nicodemo. Tale caratteristica<br />

si desume dal fatto che il rito <strong>di</strong> profanazione avvenne infliggendo all’immagine<br />

tutti i tormenti della passione: dalla coronazione <strong>di</strong> spine,<br />

all’inchiodamento <strong>di</strong> mani e pie<strong>di</strong>, al colpo <strong>di</strong> lancia. Fu a questo punto<br />

che il costato iniziò ad emettere sangue ed acqua, che secondo la tra<strong>di</strong>zione<br />

latina venne raccolto – fu infatti in Occidente che ebbe particolare<br />

sviluppo la devozione al sangue <strong>di</strong> Cristo – e dal quale sarebbero<br />

derivate tutte le reliquie del sangue <strong>di</strong> Cristo, altro del quale in terra<br />

non si conserva, eccetto beninteso quello del sacrificio eucaristico.<br />

La questione della possibilità <strong>di</strong> permanenza in terra <strong>di</strong> tale sangue<br />

dopo la resurrezione sarà fonte <strong>di</strong> interminabili ed accese <strong>di</strong>spute teologiche.<br />

Questa leggenda propone una soluzione al problema, immaginando<br />

un momento successivo e miracoloso per giustificare la presenza<br />

<strong>di</strong> tali reliquie, tant’è che Roberto Bellarmino riterrà questa affermazione<br />

un’interpolazione più tarda, frutto delle <strong>di</strong>scussioni teologiche<br />

successive.<br />

Non <strong>di</strong>ssimilmente da quanto accadde per il Mandylion, la cui esistenza<br />

in quanto acheropita venne vittoriosamente opposta agli iconoclasti,<br />

la presenza <strong>di</strong> sangue sulla Sindone venne agitata quale inoppugnabile<br />

argomento dai sostenitori della possibilità <strong>di</strong> presenza <strong>di</strong> reliquie<br />

del sangue <strong>di</strong> Cristo.<br />

Non sfugge che nella tra<strong>di</strong>zione dell’icona <strong>di</strong> Beyrout si ritrovano<br />

elementi comuni alla leggenda del Santo Volto <strong>di</strong> Lucca. Conosciamo<br />

da molte fonti la grande venerazione che dal XII secolo circonda questo<br />

gigantesco crocifisso, che nel panorama delle reliquie della Passione occupa<br />

un posto singolare, meritevole <strong>di</strong> essere citato. Di per sé infatti<br />

non è altro che un’opera artistica, sulla cui origine è ampio il <strong>di</strong>battito.<br />

La sua preziosità come icona venne sancita sin dal XII secolo con l’attribuzione<br />

dell’opera miracolosamente giunta in Italia a Nicodemo,<br />

specificando però in questa tra<strong>di</strong>zione che il modello del <strong>di</strong>scepolo fu<br />

l’immagine del Signore impressa sulla Sindone. È evidente il richiamo<br />

comunque ad una acheropita che garantisce la realizzabilità dell’oggetto,<br />

e trovo interessante questa tra<strong>di</strong>zione, che potrebbe essere la più risalente<br />

testimonianza del fatto che una raffigurazione del Cristo martoriato<br />

impressa su <strong>di</strong> un lino potesse essere considerata materialmente<br />

possibile ed oggetto <strong>di</strong> venerazione. Un ulteriore legame con l’immagine<br />

<strong>di</strong> Beyrouth e con la Sindone, che fa dell’immagine del Crocefisso


Dalle acheropite alla Sindone<br />

anche una reliquia, mi pare ben visibile nel completarsi della leggenda<br />

con la scoperta al suo interno delle ampolle contenenti il sangue <strong>di</strong> Cristo.<br />

Credo dunque <strong>di</strong> poter concludere che effettivamente la Sindone<br />

può considerarsi un punto <strong>di</strong> arrivo al <strong>di</strong> là del quale la tra<strong>di</strong>zione delle<br />

acheropite non poteva più spingersi, ed in effetti non si è più spinta. In<br />

qualche modo essa ha raccolto gli esiti <strong>di</strong> tutta una tra<strong>di</strong>zione preesistente,<br />

si è posta nella storia dell’iconografia <strong>di</strong> Cristo quale icona definitiva<br />

nella sua completezza e complessità. Un’icona che ha consentito<br />

anche agli uomini moderni e contemporanei <strong>di</strong> proseguire sulla strada<br />

<strong>di</strong> pietà e devozione percorsa da milioni <strong>di</strong> credenti. Essa, ultima venuta,<br />

ha soppiantato nella spiritualità, ma anche nell’immaginario collettivo,<br />

ogni altra immagine precedente. Non per la sua bellezza materiale<br />

– vi sono icone la cui presenza estetica è superiore – ma per la sua<br />

realtà, e non solo realismo, che consente a chi le si avvicina <strong>di</strong> provare il<br />

senso <strong>di</strong> una presenza e non solo <strong>di</strong> una memoria, <strong>di</strong> una partecipazione<br />

e non solo <strong>di</strong> una contemplazione.<br />

323


Finito <strong>di</strong> stampare nel giugno 2011<br />

da DigitalPrint Service s.r.l. in Segrate (Mi)<br />

per conto delle E<strong>di</strong>zioni dell’Orso

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!