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Non un corso di scrittura e narrazione - Questionario

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<strong>Non</strong> <strong>un</strong> <strong>corso</strong> <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong><br />

<strong>di</strong> giulio mozzi<br />

Mille grazie a Gianni Bonina<br />

responsabile <strong>di</strong> Stilos<br />

Ormai più <strong>di</strong> <strong>un</strong> anno fa Gianni Bonina, responsabile del<br />

settimanale <strong>di</strong> cultura Stilos (esce ogni martedì allegato al<br />

quoti<strong>di</strong>ano La Sicilia), mi propose <strong>di</strong> pubblicare <strong>un</strong> <strong>corso</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong> a p<strong>un</strong>tate. Io accettai. Ne è venuta fuori<br />

<strong>un</strong>a cosa <strong>un</strong> po' bizzarra e sconclusionata. Che è questa qui.<br />

Chiacchierata numero 1<br />

Buongiorno. Questa è la prima p<strong>un</strong>tata <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>corso</strong> <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong><br />

e <strong>narrazione</strong> a p<strong>un</strong>tate. Cominciamo sgomberando il campo da<br />

qualche possibile equivoco.<br />

“Ma si può insegnare a scrivere?”. Questa domanda mi è stata<br />

fatta mille volte. Rispondo: si può insegnare tutta la parte<br />

tecnica dello scrivere e del narrare. A me la parte tecnica dello<br />

scrivere e del narrare è stata insegnata. Ho lavorato sette anni<br />

nell’ufficio stampa della Confartigianato del Veneto − avevo<br />

risposto a <strong>un</strong> ann<strong>un</strong>cio nel quoti<strong>di</strong>ano, mi avevano preso<br />

perché battevo a macchina velocissimo −, e lì alc<strong>un</strong>i giornalisti<br />

bravi e generosi mi hanno insegnato molte cose. Tra <strong>un</strong><br />

racconto d’amore o <strong>di</strong> suspance e <strong>un</strong> com<strong>un</strong>icato stampa sulle<br />

norme igieniche nella produzione del gelato c’è <strong>un</strong>a bella<br />

<strong>di</strong>fferenza; ma la tecnica che ci sta sotto, vi piaccia o no, è<br />

sempre quella.<br />

“Come mai questa nuova moda dei corsi <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>?”. <strong>Non</strong> è<br />

<strong>un</strong>a nuova moda. La tecnica <strong>di</strong> composizione del <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>, ossia<br />

la retorica, ossia la tecnica <strong>di</strong> argomentare e raccontare con<br />

efficacia, si insegna da sempre. I primi manuali <strong>di</strong> tecnica del<br />

<strong>di</strong>s<strong>corso</strong> li scrissero alc<strong>un</strong>i avvocati siracusani, riferisce<br />

Cicerone, più <strong>di</strong> quattrocent’anni avanti Cristo. Grammatica<br />

(cioè conoscenza della lingua) e retorica sono state per secoli<br />

le colonne portanti della cultura europea. Ovviamente la<br />

retorica d’oggi non è la stessa cosa della retorica <strong>di</strong><br />

duemill’anni fa. Ma vi assicuro che quando ho letto l’Institutio<br />

oratoria (“La formazione dell’oratore”) <strong>di</strong> Quintiliano,<br />

1


pubblicata tra il 90 e il 100 dopo Cristo, ho avuta l’impressione<br />

<strong>di</strong> leggere <strong>un</strong> libro scritto da <strong>un</strong> mio collega d’oggi. Le questioni<br />

<strong>di</strong>dattiche sono sempre le stesse.<br />

“Ma allora, se a scrivere e raccontare si insegna, dove sta <strong>di</strong><br />

casa il talento?”. Faccio <strong>un</strong> esempio. La cortesia (cioè il<br />

comportamento formalmente ineccepibile) può essere<br />

insegnata: è <strong>un</strong>a tecnica. La gentilezza d’animo non può essere<br />

insegnata: non è <strong>un</strong>a tecnica. Però la gentilezza d’animo può<br />

essere il frutto, si <strong>di</strong>ce, <strong>di</strong> <strong>un</strong>a buona educazione. Allora<br />

<strong>di</strong>ciamo che “insegnare” è tutt’altra cosa da “educare”. Il<br />

talento può essere “educato”: ci sono persone più giovani <strong>di</strong><br />

me, che secondo me sono dotate <strong>di</strong> talento, alle quali io<br />

volentieri offro tempo, <strong>di</strong>sponibilità a <strong>di</strong>scutere <strong>di</strong> qual<strong>un</strong>que<br />

cosa (in particolare dei loro tentativi <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>), libri in<br />

prestito (centinaia), complicità, sostegno morale, aiuto pratico<br />

(a <strong>un</strong>a <strong>di</strong> queste persone, l’altra settimana, ho prestata <strong>un</strong>a<br />

lampada). In sostanza, offro la mia amicizia, per quel che vale.<br />

Questo è, per me, il modo <strong>di</strong> occuparmi del loro talento.<br />

Ovviamente <strong>un</strong> laboratorio è tutta <strong>un</strong>’altra cosa. (Tuttavia<br />

succede che, a volte, <strong>un</strong>a squisita cortesia venga scambiata<br />

per gentilezza d’animo. A volte la tecnica può essere così<br />

raffinata da simulare il talento).<br />

“Si può <strong>di</strong>ventare scrittori frequentando <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong>?”. No. Come non si <strong>di</strong>venta Vittorio Gassman<br />

frequentando <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> teatro, né si <strong>di</strong>venta Novella<br />

Calligaris frequentando <strong>un</strong> <strong>corso</strong> <strong>di</strong> nuoto. Ma se <strong>un</strong>o è <strong>un</strong><br />

Vittorio Gassman potenziale, o <strong>un</strong>a Novella Calligaris<br />

potenziale, frequentar e<strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> teatro o <strong>un</strong> <strong>corso</strong> <strong>di</strong><br />

nuoto non gli/le farà certo male. Magari, semplicemente,<br />

porterà <strong>un</strong> risparmio <strong>di</strong> tempo.<br />

“Ma allora, se ciò che si insegna è tutta tecnica, dove stanno i<br />

sentimenti, la creatività, l’ispirazione?”. App<strong>un</strong>to. I sentimenti,<br />

la creatività, l’ispirazione hanno bisogno della tecnica. Se io<br />

non so scrivere nel senso più banale della parola, se sono<br />

analfabeta, dei sentimenti e della creatività e dell’ispirazione<br />

mi faccio poco. Oppure me ne farò tanto, ma non nella<br />

<strong>di</strong>rezione della <strong>scrittura</strong>. Racconterò a voce, <strong>di</strong>pingerò, farò<br />

salti e capriole, canterò: ma non scriverò. La cosa mi pare<br />

ovvia. Si tratta <strong>di</strong> accettare l’idea che esistano <strong>un</strong> abbiccì e <strong>un</strong>a<br />

grammatica della <strong>narrazione</strong>: e che senza abbiccì e<br />

grammatica non si può andare tanto avanti.<br />

“Ma per saper scrivere, bisogna leggere molto?”. Lo pensano<br />

in tanti. Io penso che la <strong>scrittura</strong> ha anche bisogno <strong>di</strong><br />

allenamento, come gli scacchi o il calcio o il pianoforte. Chi ha<br />

la patente ma non guida quasi mai, quando guida è <strong>un</strong> pericolo<br />

2


ambulante: lo sappiamo tutti. Invece chi guida tutti i giorni (se<br />

conosce la tecnica della guida, se non è del tutto privo <strong>di</strong><br />

talento…) è più sicuro, più tranquillo, più efficace − e alla fin<br />

fine più veloce, anche se guida piano. Ness<strong>un</strong>o penserebbe <strong>di</strong><br />

poter giocare seriamente a calcio senza <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> allenamenti,<br />

no?<br />

“Tanto, io scrivo per me”. “Io non faccio mai leggere a<br />

ness<strong>un</strong>o quello che scrivo”. Certamente si può scrivere solo per<br />

sé. È importante però capire che la <strong>scrittura</strong> “per sé” è <strong>un</strong>a<br />

cosa del tutto <strong>di</strong>versa dalla <strong>scrittura</strong> “per gli altri”. Tutti i libri<br />

che abbiamo letti (o quasi tutti) sono stati scritti perché altri li<br />

leggessero. Le nostre scritture private, quelle che teniamo per<br />

noi soli o, al massimo, per noi e per le persone che ci sono più<br />

care, sono veramente scritture d’altra specie. E f<strong>un</strong>zionano in<br />

tutt’altro modo. Se si vuole imparare a scrivere e narrare<br />

storie, è bene rendersi conto che non si narra a ness<strong>un</strong>o; si<br />

narra sempre a qualc<strong>un</strong>o. E quel qualc<strong>un</strong>o è importante, più<br />

importante <strong>di</strong> noi che raccontiamo. Infatti, se smette <strong>di</strong><br />

ascoltarci o <strong>di</strong> leggerci, è come se la nostra storia svanisse.<br />

***<br />

Bene. Questa era <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> premessa. La settimana<br />

prossima parleremo delle tre parti in cui si <strong>di</strong>vide la tecnica (o<br />

l’arte, <strong>di</strong>ce qualc<strong>un</strong>o; ma la parola greca “tèchne”, da cui<br />

“tecnica”, e la parola latina “ars”, da cui “arte” sono in realtà<br />

perfetti sinonimi) della <strong>scrittura</strong> e della <strong>narrazione</strong>:<br />

l’invenzione, l’organizzazione del <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>, lo stile. E poi, per<br />

<strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> settimane, parleremo dell’invenzione. Perché, sapete,<br />

quando qualc<strong>un</strong>o viene da me e mi <strong>di</strong>ce, colpendosi la fronte<br />

con <strong>un</strong> <strong>di</strong>to: “Sa, io la storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa”,<br />

la verità è (<strong>di</strong> solito) che in testa ha solo <strong>un</strong> germe della storia.<br />

Il germe va fatto germogliare: e cercherò <strong>di</strong> proporre dei<br />

sistemi. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 2<br />

Buongiorno. Dicevo la settimana scorsa: che quando qualc<strong>un</strong>o<br />

viene da me e mi <strong>di</strong>ce, colpendosi la fronte con <strong>un</strong> <strong>di</strong>to: “Sa, io<br />

la storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa”, la verità è (<strong>di</strong> solito)<br />

che in testa ha solo <strong>un</strong> germe della storia.<br />

Gli insegnanti <strong>di</strong> retorica − cioè <strong>di</strong> tecnica del <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> −<br />

3


dell’antichità <strong>di</strong>videvano la retorica stessa in cinque parti, i cui<br />

nomi latini sono: inventio, elocutio, <strong>di</strong>spositio, memoria e actio.<br />

Possiamo tradurli grosso modo così: trovare la materia, ornare<br />

lo stile, organizzare il testo, mandare a mente, saper <strong>di</strong>re con<br />

efficacia. Gli antichi insegnanti <strong>di</strong> retorica, ricor<strong>di</strong>amolo,<br />

insegnavano a pron<strong>un</strong>ciare <strong>di</strong>scorsi in pubblico; quin<strong>di</strong> anche il<br />

mandare a mente e il saper recitare con voce e gestualità<br />

efficaci facevano parte del loro insegnamento. Va detto però<br />

che la memoria non è solo <strong>un</strong> insieme <strong>di</strong> tecniche per<br />

ricordare, ma anche la capacità <strong>di</strong> “tenere sotto controllo” <strong>un</strong><br />

testo <strong>di</strong> <strong>un</strong>a certa l<strong>un</strong>ghezza (provate a scrivere <strong>un</strong> romanzo <strong>di</strong><br />

400 pagine, e vedrete se non vi servirà memoria); e l’actio,<br />

cioè la “presentazione” al pubblico per mezzo del gesto e della<br />

voce, può essere identificata, per noi che siamo produttori <strong>di</strong><br />

narrazioni scritte, con la “presentazione” grafica: <strong>un</strong> giornale,<br />

<strong>un</strong> libro, <strong>un</strong> dattiloscritto male impaginati o scorretti, non si<br />

lasciano leggere volentieri.<br />

Le parti importanti della retorica, com<strong>un</strong>que, erano le prime<br />

tre: inventio, elocutio, <strong>di</strong>spositio. Tuttavia, nei trattati <strong>di</strong><br />

retorica, l’inventio faceva spesso la parte del leone, a spese<br />

della <strong>di</strong>spositio: trovare gli argomenti, la materia, i contenuti,<br />

significa automaticamente già cominciare a organizzarli, a<br />

<strong>di</strong>sporli secondo logica, <strong>narrazione</strong> ed efficacia. Quanto<br />

all’elocutio, spesso si riduceva a <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> catalogo,<br />

tendenzialmente sterminato, <strong>di</strong> “bei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re”: figure<br />

retoriche, giri <strong>di</strong> frase, ritmi sonanti, parole belle, e così via.<br />

Insomma, più che <strong>di</strong> stile (lo stile dovrebbe essere, credo,<br />

qualcosa che agisce dentro la <strong>scrittura</strong>), quei trattati parlano <strong>di</strong><br />

ornamenti del <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> (e l’ornamento è qualcosa che si<br />

appiccica esternamente). Tutti noi sappiamo che non bastano<br />

gli ornamenti (abiti, gioielli, maquillage) a fare <strong>di</strong> <strong>un</strong>a donna<br />

<strong>un</strong>a donna elegante, cioè <strong>un</strong>a donna provvista <strong>di</strong> stile.<br />

Così, alla fin fine, il cuore della retorica è la prima delle sue<br />

cinque parti: l’inventio, il trovare la materia. E <strong>di</strong> questo, nelle<br />

prime p<strong>un</strong>tate <strong>di</strong> questo <strong>corso</strong>, parleremo molto.<br />

***<br />

La parola “inventare” deriva app<strong>un</strong>to dal latino invenire, che<br />

significa: trovare. Infatti ho tratto inventio con: trovare la<br />

materia. E noi <strong>di</strong>ciamo facilmente, nel linguaggio famigliare,<br />

“<strong>un</strong>a bella trovata” per <strong>di</strong>re “<strong>un</strong>a buona idea, <strong>un</strong>a buona<br />

invenzione”. Ma non è che le storie, gli argomenti, la materia,<br />

si trovino per caso o per fort<strong>un</strong>a. Chi cerca trova, si <strong>di</strong>ce; e chi<br />

dorme non piglia pesci. Ma cercare non basta: ci vuole del<br />

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metodo, del criterio, dell’abilità nel cercare. Ciasc<strong>un</strong>o <strong>di</strong> noi<br />

<strong>di</strong>spone <strong>di</strong> <strong>un</strong> cugino o <strong>di</strong> <strong>un</strong>a zia celebri per la loro incapacità<br />

<strong>di</strong> trovare alc<strong>un</strong>ché − le chiavi <strong>di</strong> casa, il libretto degli assegni,<br />

il telefono portatile − quand’anche l’abbiano sotto il naso.<br />

Si può imparare a inventare? Si può imparare a cercare? In<br />

linea <strong>di</strong> massima sì. O almeno: impegnandosi, ci si può<br />

migliorare. Si possono imparare dei meto<strong>di</strong> (ne proporrò alc<strong>un</strong>i<br />

seri, altri <strong>di</strong>vertenti o imbarazzanti). Ma a <strong>un</strong>a con<strong>di</strong>zione. Che<br />

è questa: accettare <strong>di</strong> considerare la fantasia come il nostro<br />

peggior nemico.<br />

I bambini, si <strong>di</strong>ce, hanno tanta fantasia. Spesso si inventano<br />

storie mirabolanti. Eppure, se ci pensate, i bambini vogliono<br />

sentirsi raccontare sempre le stesse storie (e guai a cambiare<br />

<strong>un</strong>a sola parola!). Infatti, le storie che s’inventano, cioè che si<br />

raccontano da sé, sono sempre le stesse storie. Il bambino<br />

ama la ripetizione. Il bambino che si racconta storie è, senza<br />

saperlo, <strong>un</strong> po’ come l’atleta che instancabilmente ripete,<br />

ripete, ripete il gesto o la serie <strong>di</strong> gesti che gli serviranno<br />

durante la competizione o la partita: si allena.<br />

La fantasia è, semplificando molto, la capacità <strong>di</strong> passare da<br />

<strong>un</strong>a cosa a <strong>un</strong>’altra per mezzo <strong>di</strong> somiglianze, vicinanze,<br />

<strong>di</strong>fferenze, opposizioni, appartenenze, con<strong>di</strong>visioni eccetera. Io<br />

<strong>di</strong>co: “Mela!” e tu mi rispon<strong>di</strong>: “Eva!”. Io <strong>di</strong>co: “Uva!” e tu mi<br />

rispon<strong>di</strong>: “Solarium!”. Io <strong>di</strong>co: “Solaris!” e tu mi rispon<strong>di</strong>:<br />

“Tardelli!”. Il bello della fantasia è che non produce<br />

necessariamente passaggi sensati: <strong>un</strong> passaggio può<br />

appoggiarsi sull’appartenenza a <strong>un</strong>a storia nota (da mela a<br />

Eva), su <strong>un</strong>’affinità materiale (mela e uva sono frutti), su <strong>un</strong><br />

equivoco (l’uva che si mangia è tutt’altra cosa dai raggi Uva),<br />

su <strong>un</strong>’appartenenza locale (i raggi Uva abbronzano, ci si<br />

abbronza nel solarium), su <strong>un</strong>a somiglianza <strong>di</strong> suono esibita<br />

(da Eva a uva, da solarium a Solaris) o nascosta (il regista <strong>di</strong><br />

Solaris è Tarkovskij, da cui Tardelli, il calciatore).<br />

Il <strong>di</strong>fetto della fantasia è che essa procede sempre per<br />

contiguità, passa da <strong>un</strong>a cosa alla cosa vicina, fa il minimo<br />

sforzo − e, soprattutto, non si guarda intorno e non pensa al<br />

futuro: è tutta concentrata lì, sul presente, sul passaggio che<br />

sta compiendo in quel momento. Inoltre la fantasia è<br />

involontaria: fa quello che vuole, non f<strong>un</strong>ziona a comando,<br />

quando decide <strong>di</strong> incrociare le braccia non c’è niente da fare.<br />

<strong>Non</strong> va.<br />

L’invenzione adopera, senz’altro, la fantasia; ma non si riduce<br />

alla fantasia. Dicevo: accettare <strong>di</strong> considerare la fantasia come<br />

il nostro peggior nemico. Era <strong>un</strong>a frase esagerata; l’ho detta<br />

così, per fare impressione; ma in fondo è quello che penso.<br />

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Perché la fantasia è invadente, pretende <strong>di</strong> comandare lei,<br />

s’intrufola dappertutto, anche quando non la si vuole: e fa fare<br />

errori.<br />

Piuttosto che <strong>di</strong> fantasia, quin<strong>di</strong>, l’invenzione si nutre <strong>di</strong><br />

immaginazione. Immaginare significa: produrre <strong>un</strong>a visione.<br />

Una visione è <strong>un</strong> oggetto <strong>un</strong> bel po’ più complesso e ricco <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

semplice passaggio da <strong>un</strong>a cosa a <strong>un</strong>’altra. Ma<br />

dell’immaginazione, e del suo essere <strong>un</strong>a facoltà razionale e<br />

rigorosa, parleremo la settimana prossima. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 3<br />

Buongiorno. Siamo ancora − dalla settimana scorsa − a quel<br />

p<strong>un</strong>to lì, <strong>di</strong> quello che <strong>di</strong>ceva, battendosi la fronte con il <strong>di</strong>to:<br />

“Sa, io la storia ce l’ho tutta qui, nella mia testa”. A chi mi <strong>di</strong>ce<br />

così, io in genere non gli credo. Soprattutto se subito dopo<br />

aggi<strong>un</strong>ge: “Il problema è che non so raccontarla. Mi manca la<br />

tecnica”.<br />

Noi viviamo immersi nelle storie. Torniamo a casa dal lavoro e<br />

qualc<strong>un</strong>o ci chiede: “Com’è andata?”; noi raccontiamo, e poi:<br />

“E a te, com’è andata?”. Pren<strong>di</strong>amo il treno e in trenta o<br />

trecento chilometri impariamo tutta la vita dei nostri compagni<br />

<strong>di</strong> viaggio. Leggiamo il giornale. Guar<strong>di</strong>amo la televisione.<br />

An<strong>di</strong>amo al cinema. Mentiamo alla moglie, all’amante, e anche<br />

a noi stessi. Raccontiamo storie, vere, storie false, storie<br />

inventate. Continuamente.<br />

Il raccontare è per tutti noi <strong>un</strong> comportamento normale, che<br />

facciamo senza neanche pensarci su: come il camminare, il<br />

guidare l’automobile, il fischiettare. Ci sono persone più o<br />

meno abili nel raccontare. Può succedere che <strong>un</strong>’emozione, <strong>un</strong>o<br />

spavento, <strong>un</strong> dolore ci rendano temporaneamente incapaci <strong>di</strong><br />

raccontare. Ci sono patologie che inibiscono la lingua o la<br />

capacità <strong>di</strong> articolare <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong>. Possiamo perdere la<br />

capacità <strong>di</strong> raccontare <strong>un</strong>a determinata cosa (abbiamo fatto <strong>un</strong><br />

incidente e non ci ricor<strong>di</strong>amo nulla; siamo state violentate e<br />

non siamo capaci <strong>di</strong> <strong>di</strong>rlo). Ma, insomma, me<strong>di</strong>amente,<br />

generalmente, credo che si possa <strong>di</strong>re: tutti sono capaci <strong>di</strong><br />

raccontare, bene o male, <strong>un</strong>a cosa che hanno in mente.<br />

Già: ma raccontare per iscritto è <strong>un</strong>a cosa <strong>di</strong>versa. In che<br />

cosa è <strong>di</strong>versa? In <strong>un</strong>a cosa sola è <strong>di</strong>versa: la <strong>narrazione</strong> scritta<br />

è <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> fissata e isolata. Parlando posso essere<br />

impreciso, posso correggermi o ricredermi, posso andare a<br />

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salti, posso giovarmi <strong>di</strong> gesti e facce, posso prendere<br />

sottobraccio l’ascoltatore, posso far conto sulle domande che<br />

lui mi farà (se <strong>di</strong>mentico <strong>un</strong> pezzo <strong>di</strong> storia, l’interlocutore<br />

interverrà), posso spiegarmi alla buona, posso girare intorno,<br />

posso essere poco chiaro, posso <strong>di</strong>re: “Sì, insomma, allora lui<br />

prese su <strong>un</strong>a <strong>di</strong> quelle robe là, come si chiamano? Quelle che ci<br />

hanno il coso sopra, hai presente?”, facendo <strong>un</strong> gesto con la<br />

mano destra, come per pulire <strong>un</strong> vetro, “che poi si prende da<br />

<strong>un</strong>a parte, e lo si gira”, con <strong>un</strong> gesto della mano sinistra,<br />

dall’alto al basso, verso l’esterno “e con l’affare sotto, giallo,<br />

quello mobile, no?”; e l’interlocutore, bene o male, mi capirà, o<br />

mi interrogherà finché non riuscirà a farmi spiegare.<br />

Una <strong>narrazione</strong> scritta invece è fissata e isolata. È lì per<br />

sempre, non può essere cambiata; e deve fare da sola, non<br />

può fare conto − se non entro limiti ristretti: ne parleremo −<br />

sulla cooperazione del lettore. Tutto ciò che nella <strong>narrazione</strong><br />

orale si improvvisa, si produce lì per lì, si fa e si <strong>di</strong>sfa, nella<br />

<strong>narrazione</strong> scritta dev’essere perfettamente calcolato.<br />

Questo perfetto calcolo è il lavoro dell’immaginazione.<br />

***<br />

Immaginare significa, prima <strong>di</strong> tutto, immaginare il lettore.<br />

Quando noi parliamo − non solo per raccontare, ma anche<br />

nella conversazione, in <strong>un</strong>a lezione, in <strong>un</strong> tentativo <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>ta,<br />

in <strong>un</strong> bisticcio, in <strong>un</strong>a <strong>di</strong>chiarazione d’amore, in <strong>un</strong>a trattativa<br />

− abbiamo sempre ben presente, davanti a noi, l’interlocutore.<br />

Regoliamo sull’interlocutore il nostro tono <strong>di</strong> voce, la scelta<br />

delle parole, il giro delle frasi, le cose che <strong>di</strong>ciamo e quelle che<br />

omettiamo, le formule <strong>di</strong> cortesia, gli eufemismi, le scorciature<br />

e le spiegazioni in dettaglio, i riass<strong>un</strong>ti e le <strong>di</strong>vagazioni.<br />

Guar<strong>di</strong>amo chi ci sta <strong>di</strong> fronte, ne interpretiamo le reazioni,<br />

ascoltiamo i suoi interventi, spiamo la sua faccia: letteralmente<br />

cuciamo addosso all’interlocutore il nostro <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> o la nostra<br />

<strong>narrazione</strong>.<br />

Quando raccontiamo per iscritto, cioè facciamo <strong>un</strong>a<br />

<strong>narrazione</strong> fissata e isolata, non c’è niente <strong>di</strong> tutto questo. Il<br />

lettore, ce lo dobbiamo immaginare. <strong>Non</strong> nel senso che<br />

dobbiamo immaginarci <strong>un</strong> lettore maschio, femmina, colto,<br />

incolto, amante dei classici o della letteratura dozzinale,<br />

esperto o inesperto, eccetera; o meglio: sì, ci immagineremo<br />

anche tutto questo − ne parleremo, ne parleremo − ma prima<br />

<strong>di</strong> tutto dobbiamo immaginarci il lettore come <strong>un</strong> qualc<strong>un</strong>o che<br />

segue la storia, vorrebbe intervenire, fare domande,<br />

contrad<strong>di</strong>rci, dubitare; e come <strong>un</strong> qualc<strong>un</strong>o che si appassiona,<br />

7


si <strong>di</strong>verte, si emoziona, ride, piange, si stanca, si stufa.<br />

Mentre scriviamo e raccontiamo dovremmo sentire il lettore.<br />

Soprattutto dovremmo sentire i suoi tempi. A volte <strong>di</strong>ciamo, <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> romanzo o <strong>di</strong> <strong>un</strong>a comme<strong>di</strong>a o <strong>di</strong> <strong>un</strong> film, che è troppo<br />

l<strong>un</strong>go o troppo corto, che non ha ritmo, che sembrano<br />

mancargli delle cose, che ci si perde nella <strong>narrazione</strong>. Bene:<br />

quando <strong>di</strong>ciamo questo, stiamo <strong>di</strong>cendo che, secondo noi, il<br />

romanziere o il drammaturgo o il cineasta non hanno saputo<br />

governare bene i tempi della <strong>narrazione</strong>. Cioè che non sono<br />

stati capaci <strong>di</strong> sentire il lettore.<br />

Il lettore, peraltro, siamo noi. E così vi assegno il primo<br />

esercizio <strong>di</strong> questo <strong>corso</strong> <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong> a p<strong>un</strong>tate:<br />

provate a osservarvi mentre leggete, mentre assistete a <strong>un</strong>a<br />

comme<strong>di</strong>a o guardate <strong>un</strong> film. <strong>Non</strong> c’è altro modo <strong>di</strong> imparare<br />

a immaginare il lettore, che provare a sentire noi stessi mentre<br />

siamo lettori. Per questo si <strong>di</strong>ce: “Se vuoi scrivere, devi<br />

leggere”. Perché noi siamo prima <strong>di</strong> tutto lettori, perché<br />

scriviamo in quanto abbiamo letto, abbiamo fatta l’esperienza<br />

del leggere.<br />

Una <strong>narrazione</strong> è, in fondo, <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> l<strong>un</strong>ga lettera inviata<br />

a <strong>un</strong>o sconosciuto. Così come, nello scrivere <strong>un</strong>a lettera alla<br />

persona che più amiamo, metteremmo moltissimo impegno<br />

nell’immaginare la reazione <strong>di</strong> questa persona a ogni nostra<br />

singola parola, similmente nel narrare dovremo mettere<br />

moltissimo impegno nell’immaginare la reazione a ogni nostra<br />

singola parola della persona che più amiamo: il nostro lettore,<br />

la nostra lettrice.<br />

Perché, in effetti, non si scrive mica per sé stessi; così come<br />

non ci si ama da sé. Si scrive per <strong>un</strong>’altra persona, molto più<br />

importante <strong>di</strong> noi; così come la persona che amiamo è molto<br />

più importante <strong>di</strong> noi. Ci risentiamo la settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 4<br />

Buongiorno. La situazione è questa: avete il desiderio <strong>di</strong><br />

raccontare <strong>un</strong>a certa cosa. Siete lì, pronti. Il tutto vi sembra<br />

abbastanza chiaro. Potreste <strong>di</strong>re, colpendovi la fronte con <strong>un</strong><br />

<strong>di</strong>to, le parole fati<strong>di</strong>che: “La storia ce l’ho tutta qui, nella mia<br />

testa; si tratta solo <strong>di</strong> scriverla”. Bene. Questo, ci cre<strong>di</strong>ate o<br />

no, è il momento buono per astenervi dallo scriverla.<br />

Le ragioni sono tante. Una è che spesso, molto spesso, ciò<br />

che sembra molto nitido finché è <strong>un</strong>’idea, <strong>di</strong>venta molto meno<br />

8


nitido quando si tratta <strong>di</strong> farlo <strong>di</strong>ventare quin<strong>di</strong>ci o cinquanta o<br />

trecento pagine, tutte piene <strong>di</strong> parole. Se abbiamo la<br />

sensazione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a grande chiarezza, se ci pare <strong>di</strong> avere a<br />

<strong>di</strong>sposizione la storia (e i personaggi, le scene, i luoghi, gli<br />

abbigliamenti, i <strong>di</strong>aloghi, i contesti ecc.) fin nei minimi dettagli:<br />

questo è senz’altro positivo. Però è bene che ne dubitiamo.<br />

Quante volte succede, <strong>di</strong> iniziare a scrivere magari con foga,<br />

con grande felicità, e <strong>di</strong> ritrovarsi poi − dopo quin<strong>di</strong>ci, o<br />

cinquanta, o trecento pagine − con la cosa fatta a mezzo, o a<br />

<strong>un</strong> terzo, o a tre quarti, e a non saper più che pesci pigliare?<br />

Succede perfino ai professionisti.<br />

La nettezza e completezza dell’idea iniziale è spesso illusoria.<br />

Conviene, per prudenza, trattenere l’impulso <strong>di</strong> mettersi a<br />

scrivere subito, <strong>di</strong> corsa, ininterrottamente: e mettersi<br />

piuttosto a immaginare ulteriori dettagli, a conoscere meglio i<br />

luoghi, ad approfon<strong>di</strong>re le conoscenze. Spesso le idee iniziali<br />

sono <strong>un</strong> po’ astratte. Un uomo è stato piantato brutalmente, il<br />

2 novembre, dalla donna che ha amata, credendosi riamato,<br />

per <strong>di</strong>eci anni; lei gli ha detto: “<strong>Non</strong> ti ho mai amato, tu per me<br />

sei stato <strong>un</strong>a <strong>di</strong>sgrazia”. Il nostro uomo si prende <strong>un</strong> mese <strong>di</strong><br />

ferie per metabolizzare l’accaduto. Domanda: chi, oggi, in<br />

Italia, può prendersi <strong>un</strong> mese <strong>di</strong> ferie, <strong>di</strong> p<strong>un</strong>to in bianco, in<br />

novembre? Che lavoro dovrà fare, quest’uomo, per potersi<br />

permettere <strong>un</strong>a pausa siffatta? L’idea iniziale tende a non<br />

preoccuparsi <strong>di</strong> questi dettagli. Ma non sono dettagli: perché<br />

decidere la professione d’<strong>un</strong> uomo significa decidere la sua<br />

con<strong>di</strong>zione sociale, il suo grado d’istruzione, il suo stile <strong>di</strong> vita,<br />

la sua morale, o sol<strong>di</strong> che può spendere, i mobili che ha in<br />

casa.<br />

Nei romanzi italiani il protagonista spesso non ha <strong>un</strong> lavoro<br />

preciso. Oppure fa <strong>un</strong>o <strong>di</strong> quei lavori vaghi − vaghi per chi non<br />

li fa − che sembrano <strong>di</strong>staccarlo dalla massa dei com<strong>un</strong>i<br />

mortali con problemi <strong>di</strong> mutuo: fa il “giornalista che non va mai<br />

in redazione”, il “regista che in questo momento non ha ness<strong>un</strong><br />

film da girare”, il “compositore <strong>di</strong> canzoni d’amore che campa<br />

componendone <strong>un</strong>a all’anno”, il “professore <strong>un</strong>iversitario in<br />

anno sabbatico”, l’“impren<strong>di</strong>tore che ormai non ha più bisogno<br />

<strong>di</strong> occuparsi dell’azienda” o infine lo “scrittore” o, peggio che<br />

peggio, l’“aspirante scrittore”. Io sospetto che <strong>di</strong>etro tante<br />

vaghezze si celino spesso due cose, l’<strong>un</strong>a o l’altra o tutt’e due:<br />

<strong>un</strong>a certa incapacità ad avere che fare con il mondo reale,<br />

come se il mondo reale fosse <strong>un</strong> impiccio, <strong>un</strong> peso, <strong>un</strong> fasti<strong>di</strong>o;<br />

e il pregiu<strong>di</strong>zio che le narrazioni siano più interessanti, più<br />

attraenti, se fanno evadere il lettore dal mondo reale anche<br />

proponendogli personaggi dai mestieri misteriosi e bizzarri.<br />

9


Fatto sta che proprio il corpo a corpo con il mondo reale, l<strong>un</strong>gi<br />

dall’essere <strong>un</strong> peso, può esaltare le nostre capacità <strong>di</strong><br />

immaginazione e fornire appigli e appoggi alla nostra storia.<br />

Nel momento in cui il vostro personaggio smette <strong>di</strong> essere “<strong>un</strong><br />

uomo” e <strong>di</strong>venta “il signor Pierermenegildo Bartezzaghi; non<br />

parente del Bartezzaghi dei cruciverba; nato a Cernusco sul<br />

Naviglio e residente a Milano nella zona <strong>di</strong> piazzale Gambare;<br />

trentaseienne; quasi laureato in ingegneria elettronica;<br />

sviluppatore <strong>di</strong> software per la contabilità in eterno co.co.co.;<br />

alto 1,72 e leggermente sovrappeso; piantato dalla prima<br />

fidanzata, quella dei vent’anni, dopo l’interrotta gravidanza <strong>di</strong><br />

lei (lui, naturalmente, voleva tenere il bambino, sposarla,<br />

eccetera); piantato dalla seconda fidanzata, quella <strong>di</strong> quando<br />

lui era studente-lavoratore e tutti i suoi coetanei erano studenti<br />

e basta (cioè lui aveva sol<strong>di</strong> in tasca, e gli altri no) in occasione<br />

<strong>di</strong> <strong>un</strong> memorabile capodanno in Valtellina con amici e amiche<br />

(lei, la sera dell’ultimo, si fece scopare da <strong>un</strong> bruto culturista);<br />

piantato dalla terza fidanzata, quella laureata in legge, app<strong>un</strong>to<br />

il giorno della <strong>di</strong> lei laurea, conseguita nel giugno dell’ultimo<br />

anno <strong>di</strong> <strong>corso</strong> (mentre lui, con <strong>un</strong> terzo <strong>di</strong> esami ancora da<br />

fare, stava al terzo fuori<strong>corso</strong>); rifugiatosi infine nella donna<br />

attuale, la quarta, quella che l’ha piantato solo ora, più o meno<br />

come <strong>un</strong> naufrago si rifugia in <strong>un</strong>’isola tropicale dove per avere<br />

riposo basta stendersi sulla sabbia, per avere cibo basta<br />

scuotere la palma, e l’attività più eccitante è la pesca all’amo”;<br />

bene, nel momento in cui il vostro “uomo” si concretizza in<br />

questo modo, tutto è più chiaro. E altrettanto si dovrà<br />

concretizzare la donna (e anche le donne che l’hanno<br />

preceduta; e anche la madre <strong>di</strong> lui, matrice <strong>di</strong> tutte le sue<br />

donne…). A questo p<strong>un</strong>to, inventare non è più <strong>di</strong>fficile. È più<br />

facile. Certo: dovrete imparare che cosa fa tutto il santo giorno<br />

<strong>un</strong>o sviluppatore <strong>di</strong> software per la contabilità, com’era il cielo<br />

<strong>di</strong> Cernusco sul Naviglio negli anni Settanta, come f<strong>un</strong>zionano i<br />

Centri <strong>di</strong> aiuto alla vita in Lombar<strong>di</strong>a negli anni Ottanta,<br />

eccetera. E imparare tutte queste cose − cioè,<br />

sostanzialmente, documentarvi sul mondo reale così come lo<br />

frequenta e attraversa il vostro personaggio − vi farà venire<br />

nuove idee, nuovi pensieri, nuovi personaggi, nuovi risvolti<br />

della storia, nuovi intrecci, nuove parole.<br />

***<br />

Ma perché, mentre si fa tutto questo, mentre si immagina, è<br />

bene astenersi dallo scrivere? Semplicemente perché lo scritto<br />

è vischioso. Ciò che è scritto, è scritto perché resti. Si può<br />

10


magari poi mo<strong>di</strong>ficarlo, correggerlo, aggiustarlo: ma la<br />

sostanza resterà sempre quella. <strong>Non</strong> ci saranno nuove<br />

invenzioni. Ma <strong>di</strong> questa vischiosità del già scritto, parleremo la<br />

settimana prossima. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 5<br />

Buongiorno a tutte e tutti. La settimana scorsa <strong>di</strong>cevo:<br />

quando si ha la sensazione <strong>di</strong> avere tutta <strong>un</strong>a storia in mente,<br />

mentre la nostra immaginazione lavora, mentre ci<br />

documentiamo − leggendo, visitando luoghi, rovistando in<br />

archivi, parlando con persone − per conoscere meglio possibile<br />

gli scenari della storia, la vita materiale dei personaggi, il<br />

contesto storico o politico o economico o <strong>di</strong> costume e così via;<br />

mentre facciamo tutto questo, <strong>di</strong>cevo, è bene astenersi dallo<br />

scrivere: perché lo scritto è vischioso. Mi spiego.<br />

Una pagina scritta, già scritta, ci oppone resistenza. Ogni<br />

giorno due o tre persone mi scrivono mandandomi dei racconti<br />

o <strong>un</strong> romanzo e chiedendomi <strong>di</strong> esprimere <strong>un</strong> parere (cosa che<br />

faccio quando posso e quando voglio: sono <strong>un</strong>a persona<br />

<strong>di</strong>sponibile, ma questo non autorizza ness<strong>un</strong>o presumere che la<br />

mia attenzione gli sia dovuta). Ogni settimana mi trovo<br />

effettivamente a <strong>di</strong>scutere con l’autore o l’autrice <strong>di</strong> <strong>un</strong> gruppo<br />

<strong>di</strong> racconti o <strong>di</strong> <strong>un</strong> romanzo. Quando sostengo questi colloqui è,<br />

in genere, perché penso che quei racconti o quel romanzo<br />

<strong>di</strong>mostrino la capacità dell’autore o autrice <strong>di</strong> scrivere cose<br />

interessanti e ben fatte; tuttavia, raramente sono<br />

completamente sod<strong>di</strong>sfatto <strong>di</strong> ciò che ho letto (e quin<strong>di</strong><br />

raramente sono <strong>di</strong>sponibile a presentarlo a <strong>un</strong> e<strong>di</strong>tore o ad<br />

accoglierlo in <strong>un</strong>a collana da me curata). La conversazione<br />

prende spesso <strong>un</strong>a curiosa piega. Io <strong>di</strong>co: “Questo che ho letto<br />

è interessante. Tuttavia, nel suo complesso, non mi sembra<br />

riuscito. Ora provo a <strong>di</strong>re perché non mi sembra riuscito. Mi<br />

interesserebbe, in futuro, leggere qualcosa d’altro scritto da<br />

te”. L’interlocutore mi ascolta pazientemente e poi <strong>di</strong>ce:<br />

“Allora, se lavoro in questo e in questo modo sul mio romanzo<br />

(sui miei racconti), si potrebbe pubblicarli?”. La situazione è<br />

ovviamente <strong>un</strong> po’ ricattatoria, ma non è questo il p<strong>un</strong>to. Il<br />

p<strong>un</strong>to è che raramente mi è successo <strong>di</strong> vedere <strong>un</strong> racconto o<br />

<strong>un</strong> romanzo complessivamente non riusciti trasformarsi,<br />

benché l’autore o autrice ce la metta tutta, in <strong>un</strong> racconto o <strong>un</strong><br />

romanzo riusciti.<br />

11


Questo non perché l’autore o autrice sia incapace. <strong>Non</strong> perché<br />

(spero) le mie osservazioni al testo siano sbagliate. Ma<br />

semplicemente perché, il più delle volte, <strong>un</strong> racconto o <strong>un</strong><br />

romanzo complessivamente non riusciti hanno − avrebbero,<br />

perché ness<strong>un</strong>o ha il coraggio <strong>di</strong> farlo − bisogno <strong>di</strong> essere non<br />

riveduti, non riscritti, ma ad<strong>di</strong>rittura re-immaginati. Mi sono<br />

accorto infatti che ciò che in genere mi lascia insod<strong>di</strong>sfatto, <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> racconto o <strong>un</strong> romanzo che leggo, non è <strong>un</strong>a carenza<br />

stilistica, o <strong>un</strong> <strong>di</strong>fetto nell’intreccio, o <strong>un</strong>’incongruenza<br />

materiale: è l’incompleta, imperfetta immaginazione. E allora,<br />

bisognerebbe ricominciare da capo: da quando quel romanzo o<br />

racconto ancora non era stato scritto.<br />

Chi ha voglia <strong>di</strong> buttare via, per ricominciare da capo,<br />

trecento pagine? Ness<strong>un</strong>o. Ma quasi ness<strong>un</strong>o ha voglia <strong>di</strong><br />

buttare via anche quin<strong>di</strong>ci pagine. Io stesso, quando fallisco <strong>un</strong><br />

racconto, faccio <strong>un</strong>a grande fatica a ricominciare da capo; ci<br />

riesco, a volte, se ci provo a grande <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo: due o<br />

tre anni, se non <strong>di</strong> più.<br />

***<br />

Ma non è solo <strong>un</strong> fatto <strong>di</strong> fatica. È che <strong>un</strong>a storia, <strong>un</strong>a volta<br />

scritta da cima a fondo, è per così <strong>di</strong>re esaurita, e la nostra<br />

immaginazione si è irrigi<strong>di</strong>ta. <strong>Non</strong> siamo più capaci <strong>di</strong> trovare<br />

possibilità alternative che non siano delle semplici variazioni <strong>di</strong><br />

quelle già scritte. <strong>Non</strong> siamo più capaci <strong>di</strong> trovare <strong>un</strong>’altra<br />

lingua. <strong>Non</strong> siamo più capaci <strong>di</strong> estrarre il cuore dal corpo della<br />

nostra storia, e <strong>di</strong> trapiantarlo in <strong>un</strong> altro corpo più adatto, più<br />

vivo, pronto a balzare in pie<strong>di</strong> e camminare.<br />

Faccio <strong>un</strong> esempio privato. Nella mia mente c’è da qualche<br />

anno (dal 1997, credo) <strong>un</strong> personaggio. Si chiama Santiago ed<br />

è a volte maschio, a volte femmina, generalmente ambiguo.<br />

Santiago è <strong>un</strong> personaggio che agisce con assoluta crudeltà:<br />

questa è la sua natura. È comparso, <strong>di</strong> sfuggita, in alc<strong>un</strong>i miei<br />

racconti; non ne è mai stato il protagonista, neanche <strong>un</strong><br />

comprimario: <strong>un</strong>a comparsa, al massimo <strong>un</strong> figurante. Queste<br />

sue rapide apparizioni mi hanno permesso <strong>di</strong> tenerlo vivo<br />

nell’immaginazione, senza peraltro che l’immaginazione si<br />

irrigi<strong>di</strong>sse. tre anni fa ho scritto <strong>un</strong> troncone <strong>di</strong> romanzo − <strong>un</strong><br />

centinaio <strong>di</strong> pagine − nel quale Santiago è al centro della<br />

storia. Il romanzo è fallito (l’ho interrotto, mi sembrava molto<br />

brutto, non sapevo più come venirne fuori). La mia<br />

immaginazione <strong>di</strong> Santiago si è irrigi<strong>di</strong>ta. Solo adesso, a<br />

<strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo, posso cominciare nuovamente a<br />

immaginarlo senza ridurmi a ripetere le immaginazioni<br />

12


precedenti. Sono convinto che il fallimento del romanzo sia<br />

dovuto a <strong>un</strong>’incompleta immaginazione <strong>di</strong> Santiago, e penso<br />

che se avessi pazientato <strong>un</strong> po’, ancora <strong>un</strong> anno o due,<br />

probabilmente oggi il romanzo <strong>di</strong> Santiago sarebbe ormai<br />

scritto; o com<strong>un</strong>que mi risulterebbe assai meno penoso<br />

scriverlo (ne sarebbe felice il mio e<strong>di</strong>tore, che come quasi tutti<br />

gli e<strong>di</strong>tori preferisce i romanzi ai racconti, e non ne può più <strong>di</strong><br />

me che scrivo, o almeno riesco a portargli, nient’altro che<br />

racconti).<br />

La situazione ideale è questa: quando la <strong>narrazione</strong> è ormai<br />

così completamente immaginata, che possiamo sederci a<br />

scriverla come se copiassimo. Naturalmente non succede così<br />

spesso; può succedere abbastanza facilmente per <strong>un</strong> racconto,<br />

<strong>di</strong>fficilmente succede per <strong>un</strong> romanzo (anche se conosco<br />

almeno <strong>un</strong>a persona capace <strong>di</strong> scrivere <strong>un</strong> romanzo, <strong>un</strong> buon<br />

romanzo, in cinque mesi scarsi: e <strong>di</strong> scriverlo tutto <strong>di</strong> fila come<br />

se copiasse). Ma senz’essere inutilmente ra<strong>di</strong>cali, credo che<br />

possiamo tenere per buona questa regola <strong>di</strong> comportamento:<br />

non precipitarsi a scrivere ogniqualvolta ci viene in mente<br />

qualcosa <strong>di</strong> apparentemente buono; <strong>di</strong>stinguere il tempo<br />

de<strong>di</strong>cato all’immaginazione dal tempo de<strong>di</strong>cato alla <strong>scrittura</strong>;<br />

non pensare che la prima soluzione che troviamo sia<br />

necessariamente, magari proprio in virtù della sua<br />

“spontaneità” o “naturalezza”, la soluzione più opport<strong>un</strong>a. Ma<br />

<strong>di</strong> questo, del trovare altre soluzioni, parliamo la settimana<br />

prossima. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 6<br />

Buongiorno a tutte e tutti. Dicevo la settimana scorsa: non<br />

pensiamo che la prima soluzione narrativa che troviamo sia<br />

necessariamente, magari proprio in virtù della sua<br />

“spontaneità” o “naturalezza”, la soluzione più opport<strong>un</strong>a. Una<br />

storia, questo è evidente, può essere raccontata in <strong>di</strong>versi<br />

mo<strong>di</strong>. Di solito, quando cominciamo a immaginare <strong>un</strong>a storia,<br />

siamo molto preoccupati della sua materia: che cosa succede,<br />

a chi, dove, perché, eccetera. Ma a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to −<br />

possibilmente prima <strong>di</strong> metterci a scrivere − dovremo<br />

cominciare a immaginare anche la forma della storia, il modo<br />

in cui organizzeremo l’intreccio, lo stile che adopereremo, il<br />

tipo <strong>di</strong> testo che produrremo. Certo: la storia ci è venuta in<br />

mente, abbiamo cominciato a immaginarla con <strong>un</strong>a certa<br />

13


forma: avremo la sensazione fortissima che quella forma sia<br />

in<strong>di</strong>ssolubilmente legata alla storia. Ma spesso non è così.<br />

Immaginare forme per <strong>un</strong>a storia è, tra l’altro, <strong>un</strong> gioco<br />

avvincente. Si può provare a farlo, per prova, con storie che<br />

tutti conoscono. In Pinocchio Carlo Collo<strong>di</strong> segue passo passo<br />

le avventure del suo burattino; la stessa storia potrebbe essere<br />

raccontata seguendo, invece, le peripezie <strong>di</strong> Geppetto. Certo:<br />

non sarebbe esattamente la stessa storia; anzi, sarebbe<br />

probabilmente <strong>un</strong>a storia completamente <strong>di</strong>versa: ma<br />

com<strong>un</strong>que frutto della stessa immaginazione. La storia <strong>di</strong><br />

Pinocchio implica la storia <strong>di</strong> Geppetto: sono in<strong>di</strong>spensabili<br />

l’<strong>un</strong>a all’altra; Collo<strong>di</strong>, per raccontare la storia <strong>di</strong> Pinocchio, ha<br />

dovuto immaginare anche la storia <strong>di</strong> Geppetto.<br />

Pia Piera ha scritto <strong>un</strong> libro che s’intitola Il <strong>di</strong>ario <strong>di</strong> Lo (ed.<br />

Marsilio), nel quale racconta la medesima storia che tutti<br />

hanno letta in Lolita <strong>di</strong> Nabokov, ma dal p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista <strong>di</strong><br />

Lolita: anzi, ad<strong>di</strong>rittura per mezzo della voce <strong>di</strong> Lolita, le parole<br />

del suo <strong>di</strong>ario. Nabokov ha scritto il suo libro tutto dal p<strong>un</strong>to <strong>di</strong><br />

vista dell’uomo, <strong>di</strong> Humbert Humbert; per Humbert Humbert<br />

Lolita rimane, dal principio alla fine del libro, sostanzialmente<br />

<strong>un</strong> mistero; ma non era <strong>un</strong> mistero per Nabokov, che doveva<br />

conoscerla bene − <strong>di</strong>ciamo così − per riuscire a raccontare<br />

come Humbert Humbert non capisse niente <strong>di</strong> lei. Di nuovo: la<br />

storia <strong>di</strong> Humbert Humbert implica la storia <strong>di</strong> Lolita, sono due<br />

storie contenute nella stessa immaginazione.<br />

Possiamo immaginare anche <strong>di</strong>verse possibilità ideologiche. I<br />

promessi sposi è <strong>un</strong> romanzo tutto scritto −<br />

paternalisticamente − dalla parte della “povera gente”; ma<br />

potremmo provare a cambiargli ideologia, e a riscriverlo tutto<br />

dalla parte dei potenti. Lucia allora non è più <strong>un</strong> esempio <strong>di</strong><br />

virtù, ma <strong>un</strong>a cretina che non si rende conto del vantaggio che<br />

potrebbe trarre dalla “protezione” <strong>di</strong> don Rodrigo; padre<br />

Cristoforo non è più <strong>un</strong> eroe ma <strong>un</strong> vigliacco che è sfuggito alla<br />

giustizia indossando il saio; Renzo è <strong>un</strong> se<strong>di</strong>zioso; l’Innominato<br />

è <strong>un</strong> uomo che era stato <strong>un</strong> grande, ma improvvisamente è<br />

impazzito; il car<strong>di</strong>nale è il <strong>di</strong>avolo; e don Abbon<strong>di</strong>o è il sud<strong>di</strong>to<br />

ideale, sempre pronto a servire. Oppure potremmo adottare<br />

<strong>un</strong>’ideologia nichilista: e quin<strong>di</strong> tutto ciò che nel romanzo<br />

accade, secondo Manzoni, grazie al silenzioso e misterioso<br />

intervento della <strong>di</strong>vina provvidenza, accadrà invece − come,<br />

tra l’altro, in tanti romanzi dell’epoca − per puro purissimo<br />

caso.<br />

Una vecchia vignetta <strong>di</strong> Altan mostrava <strong>un</strong>o dei suoi soliti<br />

omaccioni in poltrona che <strong>di</strong>ceva: “A volte ho dei pensieri che<br />

non con<strong>di</strong>vido”. Ora, non è detto che noi dobbiamo con<strong>di</strong>videre<br />

14


i pensieri della storia che raccontiamo. Così come posso<br />

immaginare <strong>un</strong> personaggio potente o nichilista, posso anche<br />

immaginarmi <strong>di</strong> essere io stesso <strong>un</strong> narratore nichilista o servo<br />

dei padroni. L’ideologia <strong>di</strong> fondo <strong>di</strong> <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> è essa<br />

stessa <strong>un</strong>’invenzione, <strong>un</strong>a nostra libera scelta <strong>di</strong> narratori.<br />

***<br />

È imprudente dare per scontato che la nostra storia debba<br />

essere per forza <strong>un</strong> romanzo o <strong>un</strong> racconto. Molte storie si<br />

raccontano meglio con forme teatrali, o con lo stile e i mo<strong>di</strong><br />

della sceneggiatura cinematografica, o ad<strong>di</strong>rittura in versi. Nelo<br />

Risi (fratello <strong>di</strong> Dino, e regista anch’egli) pubblicò negli anni<br />

Settanta <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> poesia intitolato: Di certe cose, che dette<br />

in versi suonano meglio che in prosa. Ecco: dovremmo sempre<br />

domandarci se la cosa che abbiamo in mente “suonerebbe<br />

meglio” in prosa o in verso, in romanzo o in racconto, in scena<br />

o al cinema.<br />

Ma, se deci<strong>di</strong>amo ad esempio che la misura giusta è quella del<br />

racconto, abbiamo ancora <strong>un</strong> sacco <strong>di</strong> possibilità tra le quali<br />

scegliere. Innanzitutto possiamo − e dobbiamo − scegliere il<br />

“genere” del nostro racconto: giallo, noir, fiaba, rosa, horror,<br />

novella, apologo, eccetera. Poi possiamo − e dobbiamo −<br />

scegliere se il nostro racconto avrà <strong>di</strong>aloghi o non ne avrà o<br />

sarà costituito interamente da <strong>di</strong>aloghi; se sarà lento o veloce<br />

o a ritmo variabile; se sarà dettagliato o sommario, realistico o<br />

evocativo, semplice o intricato (<strong>un</strong>a storia intricata può essere<br />

raccontata con semplicità, <strong>un</strong>a storia semplice può essere<br />

raccontata intricatamente), in prima seconda terza persona, e<br />

così via.<br />

E come se non bastasse, dobbiamo − possiamo − anche<br />

decidere proprio il tipo <strong>di</strong> testo. Un delitto, ad esempio, può<br />

essere raccontato con <strong>un</strong> normale racconto. Ma può essere<br />

raccontato anche con estratti dagli atti del processo, o con <strong>un</strong>a<br />

confessione, o con la sentenza (<strong>un</strong>a sentenza è anche <strong>un</strong>a<br />

meticolosa ricostruzione <strong>di</strong> fatti), o attraverso gli articoli dei<br />

giornali… Un amore può essere raccontato con <strong>un</strong> normale<br />

racconto, ma anche con le lettere (o le e-mail, o gli sms) che<br />

gli amanti si scambiano… Una follia può essere raccontata con<br />

<strong>un</strong> normale racconto, ma anche con <strong>un</strong>a cartella clinica, o con<br />

testi scritti dal folle stesso… Si può <strong>di</strong>re ad<strong>di</strong>rittura che è <strong>un</strong>a<br />

caratteristica propria del romanzo moderno, quella <strong>di</strong> essere<br />

costituito <strong>di</strong> materiali <strong>di</strong>versi provenienti da tutti i generi <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong> possibili e praticabili: il romanzo imita il mondo anche<br />

nel senso che imita tutte le scritture del mondo. Ma<br />

15


dell’imitazione, <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> importante e <strong>di</strong>fficile, cominciamo a<br />

parlare la settimana prossima. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 7<br />

Buongiorno, buongiorno. La settimana scorsa <strong>di</strong>cevo: il<br />

romanzo imita il mondo anche nel senso che imita tutte le<br />

scritture del mondo. Nei Fratelli Karamazov <strong>di</strong> Dostoevskij<br />

troviamo, incastonati dentro il romanzo, ad<strong>di</strong>rittura tre interi<br />

libri: la vita del santo monaco Zosìma, scritta da Aleksèj<br />

Karamazov (<strong>un</strong> libretto e<strong>di</strong>ficante, <strong>un</strong>’agiografia); il racconto<br />

del poema La leggenda del Grande Inquisitore (non leggiamo il<br />

poema che Ivan ha scritto, ma ascoltiamo il racconto che Ivan<br />

ne fa a Dimitri); la requisitoria del pubblico ministero al<br />

processo che conclude il libro (<strong>un</strong>’ottantina <strong>di</strong> pagine, nella mia<br />

e<strong>di</strong>zione). Quin<strong>di</strong>: <strong>scrittura</strong> agiografica, <strong>scrittura</strong> poetica o<br />

para-poetica, <strong>scrittura</strong> giuri<strong>di</strong>ca. Nel Moby-Dick <strong>di</strong> Melville<br />

troviamo infinite citazioni (vere, false) da testi che parlano <strong>di</strong><br />

balene e capodogli; ma troviamo anche (occupa due capitoli) la<br />

pre<strong>di</strong>ca d’<strong>un</strong> pastore sulla storia <strong>di</strong> Giona nel ventre della<br />

balena. Memoriale <strong>di</strong> Paolo Volponi è <strong>un</strong> romanzo che consiste<br />

tutto, app<strong>un</strong>to, <strong>di</strong> <strong>un</strong> “memoriale” scritto dal protagonista, <strong>un</strong><br />

operaio molto nevrotico: vi parla d<strong>un</strong>que la lingua della<br />

nevrosi. Del romanzo Vogliamo tutto l’autore, Nanni Balestrini,<br />

non ha scritta <strong>un</strong>a sola parola: racconta i moti <strong>di</strong> fabbrica dei<br />

primi anni Settanta incollando pezzi giornalistici, com<strong>un</strong>icati<br />

sindacali, volantini, interviste registrate a operai e <strong>di</strong>rigenti,<br />

documenti interni dell’azienda (la Fiat). Gadda, come noto,<br />

usava tutte le parole che gli capitavano a tiro. Pasolini faceva<br />

parlare i suoi “ragazzi <strong>di</strong> vita” in <strong>un</strong> italo-romanesco insieme<br />

degradato e poetico; Marco Franzoso in Westwood dee-jay<br />

sembra ripetere l’operazione con l’italo-veneto d’oggi; Aldo<br />

Nove attribuisce a certi suoi personaggi la lingua <strong>di</strong> Novella<br />

2000 o <strong>di</strong> Ok, il prezzo è giusto; Andrea Camilleri si <strong>di</strong>verte<br />

(nella Scomparsa <strong>di</strong> Patò e nella Concessione del telefono) a<br />

“far parlare i documenti”, costruendo narrazioni sotto forma <strong>di</strong><br />

dossier: articoli <strong>di</strong> giornale, relazioni <strong>di</strong> polizia, corrispondenza<br />

burocratica (ma, <strong>di</strong>versamente da Balestrini, Camilleri inventa<br />

− così sembra − i suoi materiali e li tiene ben <strong>di</strong>stinti, non li<br />

contamina tra loro). In somma, tutte le lingue che si parlano e<br />

si scrivono nel mondo possono entrare − citate, imitate,<br />

collageate, paro<strong>di</strong>ate, evocate, filologizzate − dentro il<br />

16


omanzo.<br />

“Nella pubblicità <strong>di</strong> <strong>un</strong> sapone si possono fare scoperte<br />

altrettanto preziose che nei Pensieri <strong>di</strong> Pascal”: non lo <strong>di</strong>ce Aldo<br />

Nove, lo <strong>di</strong>ce Marcel Proust (in Albertine scomparsa, cap. I):<br />

Proust, infatti, era <strong>un</strong> abilissimo paro<strong>di</strong>sta; e a ogni<br />

personaggio della Ricerca ha attribuita <strong>un</strong>a sua specifica lingua<br />

(sintassi, lessico, registro, intonazione, gestualità), anche a<br />

rischio <strong>di</strong> rendersi insopportabile (quando parla la signora<br />

Verdurin, vengono i brivi<strong>di</strong> tant’è sgradevole; la duchessa <strong>di</strong><br />

Guermantes parla più per toni <strong>di</strong> voce, piccoli suoni gutturali,<br />

che per parole e frasi compiute; nel signore <strong>di</strong> Charlus, invece,<br />

risplende la gloria della lingua francese; ecc.).<br />

***<br />

La prima imitazione che si attua nel romanzo è d<strong>un</strong>que<br />

l’imitazione delle lingue del mondo. È ovvio che per imitare<br />

bisogna conoscere; e per conoscere bisogna innanzitutto<br />

<strong>di</strong>stinguere. Colui che fa “scoperte preziose” tanto nella<br />

pubblicità d’<strong>un</strong> sapone quanto nei Pensieri <strong>di</strong> Pascal non è il<br />

lettore in<strong>di</strong>fferente, quello che “<strong>di</strong>gerisce tutto”: è invece il<br />

lettore che sa <strong>di</strong>stinguere i sapori e gli odori delle parole e dei<br />

giri <strong>di</strong> frase: non il lettore bulimico, ma il lettore bongustaio.<br />

A chi desideri raccontare storie suggerirei <strong>di</strong> esercitarsi − per<br />

gioco, per esercizio − nelle imitazioni e nelle paro<strong>di</strong>e. Anche<br />

tradurre può essere molto istruttivo. E perfino semplicemente<br />

copiare è <strong>un</strong>’attività molto utile. La lettura attentissima, lenta,<br />

che bisogna fare per copiare <strong>un</strong> testo è il modo più pratico per<br />

imparare come quel testo è fatto, come f<strong>un</strong>ziona la sua lingua.<br />

Ad esempio, se provate a copiare <strong>un</strong>a pagina dei Promessi<br />

sposi, vi accorgerete <strong>di</strong> quanta p<strong>un</strong>teggiatura vi si trovi dentro:<br />

p<strong>un</strong>teggiatura che, a <strong>un</strong>a lettura normale, quasi non si nota<br />

tanto è opport<strong>un</strong>a e ben sistemata.<br />

I <strong>di</strong>zionari; i <strong>di</strong>zionari etimologici; i repertori <strong>di</strong> “parole nuove”<br />

e <strong>di</strong> parole straniere entrate nell’uso italiano; le storie della<br />

lingua; le analisi sociolinguistiche; i manuali <strong>di</strong> linguaggio<br />

giornalistico, televisivo, cinematografico, ra<strong>di</strong>ofonico,<br />

pubblicitario, scientifico; le raccolte <strong>di</strong> frasi fatte, <strong>di</strong> lettere per<br />

tutte le occasioni, <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorsi da <strong>di</strong>re in questa o quella<br />

circostanza: sono tutti strumenti utili, utilissimi, specialmente<br />

se non li lasciamo sullo scaffale ma li tiriamo giù spesso per<br />

stu<strong>di</strong>arli e consultarli.<br />

Ness<strong>un</strong> manuale o <strong>di</strong>zionario, peraltro, potrà sostituire il puro<br />

e semplice go<strong>di</strong>mento della lettura o dell’ascolto <strong>di</strong> lingue<br />

<strong>di</strong>verse. Io m’incanto spesso, in treno − viaggio moltissimo in<br />

17


treno − ad ascoltare le persone che parlano. È molto bello<br />

ascoltare i bambini, vedere come pian piano s’impadroniscono<br />

della lingua, come si <strong>di</strong>vertono a usare le parole appena<br />

imparate (mio nipote Aldo, cinque anni, che <strong>di</strong>ce: “Giochiamo a<br />

chi <strong>di</strong>ce la parola più <strong>di</strong>versa”; sua sorella Anna, quattro anni,<br />

che gli chiede <strong>di</strong> farle spazio sul <strong>di</strong>vano − per guardare i<br />

cartoni della Pimpa − e, dopo essersi sistemata, gli <strong>di</strong>ce<br />

solennemente: “Sei proprio <strong>un</strong> gentiluomo”).<br />

Ma non si tratta solo <strong>di</strong> imitare delle lingue, <strong>di</strong> collezionare<br />

lessico e giri <strong>di</strong> frase; si tratta anche <strong>di</strong> imitare delle forme del<br />

<strong>di</strong>s<strong>corso</strong>. Se voglio scrivere <strong>un</strong>a storia nella forma d’<strong>un</strong><br />

memoriale o d’<strong>un</strong>a sentenza o d’<strong>un</strong> epistolario, dovrò<br />

approfon<strong>di</strong>re la conoscenza del memoriale, della sentenza o<br />

della lettera come genere letterario, come forma del <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>.<br />

Senza contare che non solo le lingue e le scritture possono<br />

essere imitate, ma anche le forme musicali, le forme grafiche,<br />

le forme architettoniche e urbanistiche (e infatti si parla spesso<br />

<strong>di</strong> “linguaggio” musicale, visivo, architettonico, urbanistico…).<br />

Ma <strong>di</strong> questo, con qualche esempio da Oceano mare <strong>di</strong><br />

Alessandro Baricco, parliamo la prossima settimana. A<br />

risentirci.<br />

Chiacchierata numero 8<br />

Buongiorno. La settimana scorsa avevo promesso qualche<br />

esempio <strong>di</strong> imitazione − <strong>di</strong> imitazione ben riuscita, s’intende −<br />

tratto da Oceano mare <strong>di</strong> Alessandro Baricco. Ma l’altro giorno,<br />

in <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> a Bergamo, ho parlato app<strong>un</strong>to <strong>di</strong><br />

imitazione − che è, avrete capito, <strong>un</strong> mio cavallo <strong>di</strong> battaglia<br />

−: e c’è stato <strong>un</strong> coro <strong>di</strong> proteste. “Ma se io imito”, mi è stato<br />

detto, “dove va a finire la mia originalità?”. L’originalità non<br />

c’entra, io penso. Ma per spiegarmi devo prenderla alla larga.<br />

Noi tutti scriviamo in <strong>un</strong>a lingua: la lingua italiana (si può<br />

anche scrivere in <strong>di</strong>aletto, o in lingue miste; ne riparliamo alla<br />

fine). Questa lingua, la lingua italiana, non ce la siamo mica<br />

inventata noi: l’abbiamo ricevuta, imparata. I genitori, gli<br />

adulti, i coetanei, i libri, i giornali, la televisione, la ra<strong>di</strong>o: tutti<br />

ci hanno insegnata la lingua italiana. È ovvio però che la lingua<br />

italiana la parliamo ciasc<strong>un</strong>o <strong>di</strong> noi a modo suo. Ogni scrittore<br />

ha <strong>un</strong>a sua lingua più o meno riconoscibile; ciasc<strong>un</strong>o <strong>di</strong> noi,<br />

anche nel parlato più intimo, familiare e incontrollato, ha suoi<br />

propri mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re, giri sintattici, parole, articolazioni del<br />

18


<strong>di</strong>s<strong>corso</strong>.<br />

Esiste poi <strong>un</strong> mito romantico: quello dello scrittore − del<br />

poeta, in particolare − che “reinventa” la lingua in cui scrive.<br />

Lo scrittore secondo l’immaginazione romantica non parla la<br />

lingua, per così <strong>di</strong>re, dei com<strong>un</strong>i mortali; parla <strong>un</strong>a lingua che<br />

gli viene dritta dal cuore, o dalla pancia, o dalla musa, o da<br />

<strong>di</strong>o, o dall’ispirazione, o da chissadove. Bene: questa<br />

immaginazione romantica era certamente opport<strong>un</strong>a a suo<br />

tempo: la lingua letteraria <strong>di</strong> allora, tra fine Sette e inizio<br />

Ottocento, era <strong>un</strong>a lingua molto stilizzata, molto regolata,<br />

molto scelta, e quin<strong>di</strong> anche molto limitata, molto ideologica<br />

(inconsapevolmente ideologica, ma ideologica), molto −<br />

<strong>di</strong>ciamolo − letteraria. Lo scrittore romantico sentiva<br />

giustamente il bisogno <strong>di</strong> trovare, ossia inventare, <strong>un</strong>’altra<br />

lingua letteraria: che fosse, app<strong>un</strong>to, meno letteraria, o<br />

ad<strong>di</strong>rittura per niente letteraria.<br />

Ma i tempi cambiano. Alessandro Manzoni fu <strong>un</strong>o scrittore<br />

romantico − vabbè, il romanticismo in Italia è stato <strong>un</strong>a cosa<br />

all’acqua <strong>di</strong> rose, in confronto agli sfracelli dei tedeschi: ma<br />

Alessandro Manzoni è stato romantico nei limiti del possibile in<br />

Italia: era già scandaloso, ricor<strong>di</strong>amocelo, che avesse eletto a<br />

protagonisti del suo romanzo due “vili meccanici”, due<br />

poveracci, anziché principi e re − e costruì <strong>un</strong>a lingua<br />

romantica così ben fatta, così efficiente, così ben f<strong>un</strong>zionante,<br />

che dopo lui tutti, o quasi tutti, <strong>di</strong>vennero manzoniani. La<br />

rivoluzione si era compiuta. Dopo il tempo dell’innovazione era<br />

venuto il tempo dello sfruttamento dell’innovazione acquisita:<br />

fino alla rivoluzione successiva... (ho <strong>un</strong> tantino semplificato;<br />

portate pazienza).<br />

Che c’entra questo con l’imitazione? C’entra tanto. La<br />

tra<strong>di</strong>zione letteraria − cioè il mucchio <strong>di</strong> tutti i testi scritti prima<br />

che noi scrivessimo i nostri − è <strong>un</strong>o sterminato magazzino <strong>di</strong><br />

parole, <strong>di</strong> frasi, <strong>di</strong> gi<strong>un</strong>ti sintattici, <strong>di</strong> forme della <strong>narrazione</strong>, <strong>di</strong><br />

metri, <strong>di</strong> rime; tutto questo magazzino, noi possiamo<br />

immaginarlo come <strong>un</strong>a lingua: la lingua della <strong>narrazione</strong> e della<br />

poesia. Ogni momento noi, anche quando ogni sera<br />

raccontiamo al coniuge com’è andata la giornata, attingiamo<br />

senza pensarci su, senza nemmeno accorgercene, a questo<br />

sterminato magazzino: esattamente come attingiamo ogni<br />

momento, senza pensarci su e senza nemmeno accorgercene,<br />

al magazzino delle parole.<br />

Naturalmente quando scriviamo, soprattutto se vogliamo<br />

scrivere <strong>un</strong>’opera letteraria, stiamo bene attenti alle parole che<br />

scegliamo. Ma quando usiamo, per <strong>di</strong>re, la parola “casa”, non è<br />

che ci sentiamo poco originali: la parola “casa” è stata usata da<br />

19


tutti gli scrittori d’Italia, per secoli, e noi li imitiamo usandola<br />

ancora; ma non sentiamo questo come <strong>un</strong>a per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong><br />

originalità. Possiamo, certo, scegliere <strong>di</strong> non usare proprio la<br />

parola “casa” bensì <strong>un</strong>’altra parola o espressione più adatta ai<br />

nostri scopi: “magione”, “<strong>di</strong>mora”, “e<strong>di</strong>ficio”, “abitazione”,<br />

“appartamento”, “nido familiare”, “cuccia”, “ostello”, “baracca”,<br />

“home sweet home”, “prigione”, “gabbia” ecc.: ma così<br />

facendo continuiamo ad attingere al grande magazzino del<br />

lessico italiano − o accettato in Italia −: ciasc<strong>un</strong>a <strong>di</strong> queste<br />

parole o espressioni è stata adoperata da altri scrittori e/o<br />

parlanti prima <strong>di</strong> noi.<br />

Allo stesso modo − così chiudo il ragionamento − possiamo<br />

pensare che quando imitiamo forme del testo, schemi narrativi,<br />

articolazioni della storia ecc., non facciamo altro che usare il<br />

magazzino delle narrazioni come se fosse <strong>un</strong> magazzino delle<br />

parole; e nel riusare, adattata alle nostre esigenze, <strong>un</strong>a forma<br />

<strong>di</strong> testo già usata, non facciamo niente <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso da quando<br />

<strong>di</strong>ciamo, come tanti altri hanno detto, “casa” o<br />

“appartamento”.<br />

Un paradosso: se volessimo parlare <strong>un</strong>a lingua veramente<br />

nostra, <strong>un</strong>a lingua che venga veramente dal cuore o dalla<br />

pancia o dalla musa o da <strong>di</strong>o, probabilmente parleremmo <strong>un</strong>a<br />

lingua comprensibile solo a noi stessi. Così, se volessimo usare<br />

forme <strong>di</strong> testo, schemi narrativi o articolazioni della storia che<br />

vengano <strong>di</strong>rettamente dal cuore ecc., probabilmente<br />

comporremmo <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> comprensibile solo a noi stessi.<br />

Si tratta, in somma, <strong>di</strong> pensare alla <strong>narrazione</strong> come a <strong>un</strong><br />

luogo <strong>di</strong> compromesso: tra la voce <strong>di</strong>vina che “<strong>di</strong>tta dentro” e<br />

l’elementare desiderio, o esigenza, che ciò che scriviamo sia<br />

comprensibile ad altri. Naturalmente possiamo prenderci delle<br />

libertà: possiamo miscugliare la lingua italiana con i <strong>di</strong>aletti o<br />

con altre lingue, possiamo articolare la storia in maniere strane<br />

e bizzarre, possiamo attingere a tra<strong>di</strong>zioni linguistiche e<br />

narrative <strong>di</strong>verse dalla nostra.<br />

***<br />

Queste cose ho dette nel laboratorio <strong>di</strong> Bergamo, domenica<br />

scorsa; e sembrava quasi che si fossero tutti convinti, finché<br />

non me ne sono uscito con questa parolaccia: “compromesso”.<br />

Apriti cielo! Ma del compromesso, per l’app<strong>un</strong>to, parleremo la<br />

settimana prossima; e quanto agli esempi da Oceano mare,<br />

aspetteranno. State bene.<br />

20


Chiacchierata numero 9<br />

Buongiorno, buongiorno. Scrivere questa p<strong>un</strong>tata è stato<br />

veramente <strong>di</strong>fficile, tra <strong>un</strong>’influenza e l’altra. Perciò se <strong>di</strong>co<br />

bestialità non prendétevela. Dicevo: se volessimo parlare <strong>un</strong>a<br />

lingua veramente nostra, <strong>un</strong>a lingua che venga veramente da<br />

dentro <strong>di</strong> noi (dal cuore o dalla pancia, o magari dalla musa o<br />

da <strong>di</strong>o…), probabilmente parleremmo <strong>un</strong>a lingua comprensibile<br />

solo a noi stessi. Esiste, e ricompare qua e là in continuazione<br />

(anche Dante s’interrogava su quale fosse la lingua <strong>di</strong> Adamo<br />

ed Eva…), il mito <strong>di</strong> <strong>un</strong>a lingua originaria, <strong>un</strong>a lingua profonda,<br />

<strong>un</strong>a pre-lingua com<strong>un</strong>e a tutte le persone esistite esistenti e<br />

future, seppellita dentro ciasc<strong>un</strong>o <strong>di</strong> noi, trasmessa − <strong>di</strong>remmo<br />

oggi − via Dna, sottostante a tutte le <strong>di</strong>fferenti lingue<br />

effettivamente parlate. Bene: colui che chiamo “l’artista<br />

romantico” va giusto in cerca <strong>di</strong> questa pre-lingua che, da<br />

ness<strong>un</strong>o effettivamente parlata, dovrebbe essere comprensibile<br />

a chi<strong>un</strong>que.<br />

Dove la trova, l’artista romantico, la pre-lingua? Ovvio:<br />

dentro <strong>di</strong> sé: nel profondo <strong>di</strong> sé. E come fa a trovarla? Ovvio:<br />

liberandola da tutte le post-lingue, scartavetratando le<br />

incrostazioni che la storia umana (la pre-lingua è quasi<br />

inevitabilmente pre-umana, esterna alla storia) le ha<br />

depositate sopra.<br />

Ecco allora due paradossi. Uno: l’artista romantico troverà<br />

dentro <strong>di</strong> sé, nel suo profondo, la lingua sua propria; e<br />

identificherà magicamente questa lingua sua propria con la<br />

pre-lingua che sottostà a tutte le lingue effettivamente parlate.<br />

Due: l’artista romantico <strong>di</strong>sprezzerà la lingua “com<strong>un</strong>e”, nel<br />

senso <strong>di</strong>: “quella che si parla e si scrive tutti i giorni”; e<br />

cercherà invece <strong>un</strong>a lingua “com<strong>un</strong>e”, nel senso <strong>di</strong>: “originaria<br />

e sottostante a tutte le lingue”.<br />

C’è insomma <strong>un</strong>a contrad<strong>di</strong>zione insanabile tra due desideri<br />

che stanno in chi racconta storie − come, credo, in qualsiasi<br />

artista −: il desiderio <strong>di</strong> esprimersi e il desiderio <strong>di</strong> com<strong>un</strong>icare.<br />

Con “esprimersi” intendo lo “spremere fuori da sé” (questa è<br />

l’etimologia) ciò che si ha dentro <strong>di</strong> più proprio, intimo e<br />

privato. Con “com<strong>un</strong>icare” intendo invece il “trovare qualcosa<br />

<strong>di</strong> com<strong>un</strong>e” con l’interlocutore (il lettore): ossia, a ben vedere,<br />

l’esatto contrario.<br />

Se mi pesto il <strong>di</strong>to col martello, urlo: l’urlo è certamente<br />

originario, com<strong>un</strong>e a tutti; appartiene certamente alla prelingua<br />

(l’urlo non è nemmeno <strong>un</strong>a vera e propria parola);<br />

21


esprime certamente ciò che in quel momento io ho <strong>di</strong> più mio,<br />

intimo e privato (<strong>un</strong> male cane). Possiamo d<strong>un</strong>que <strong>di</strong>re che con<br />

l’urlo io “mi esprimo”. Mia moglie, due stanze più in là, sentirà<br />

l’urlo: ma che significato gli darà? In fin dei conti <strong>un</strong> urlo <strong>di</strong><br />

“urrà!” non è così <strong>di</strong>verso da <strong>un</strong> urlo <strong>di</strong> dolore. E com<strong>un</strong>que,<br />

dall’urlo in sé, non si capisce <strong>di</strong> che dolore si tratti: <strong>un</strong> dolore<br />

fisico? <strong>un</strong> dolore morale? <strong>un</strong> dolore <strong>di</strong>vino? (Certo: prima i colpi<br />

<strong>di</strong> martello; poi l’urlo, e i colpi che si interrompono; mia moglie<br />

capisce tutto, non è mica scema; ma la sua mente sfrutta i dati<br />

<strong>di</strong> contesto, decifra non l’urlo ma la situazione − che contiene,<br />

come <strong>un</strong> oggetto e non come <strong>un</strong>a parola, anche l’urlo).<br />

Quando, due giorni dopo, racconto l’incidente a mio cognato<br />

esibendo il <strong>di</strong>tone imbozzolito <strong>di</strong> garze, naturalmente lo faccio<br />

sorridendo: perché, insomma, pestarsi <strong>un</strong> <strong>di</strong>to col martello<br />

nell’appendere <strong>un</strong> quadro, è da i<strong>di</strong>oti; e se non racconto la<br />

cosa sorridendo, se cioè non mi mostro superiore agli<br />

avvenimenti, se non eseguo <strong>un</strong> trattamento ironico della<br />

<strong>narrazione</strong> dell’incidente, se non metto <strong>un</strong>a <strong>di</strong>stanza tra il me<br />

che racconta e il me che agisce nel racconto, rischio <strong>di</strong> fare<br />

app<strong>un</strong>to la figura dell’i<strong>di</strong>ota. Con mio cognato, non deve<br />

succedere. Se racconterò bene, lui capirà tutto: capirà perfino<br />

che sto raccontando ironicamente perché non voglio passare<br />

da i<strong>di</strong>ota; ne dedurrà che io sono sì stato i<strong>di</strong>ota per <strong>un</strong> istante<br />

− quanto bastava per pestarmi <strong>un</strong> <strong>di</strong>to − ma che poi mi sono<br />

subito ripreso, e attualmente ho messa la testa a posto. <strong>Non</strong> lo<br />

farò più. Il mio racconto quin<strong>di</strong> “com<strong>un</strong>ica”, in quanto tiene<br />

conto dell’interlocutore, della mia relazione con lui, delle sue<br />

reazioni al mio stesso racconto, eccetera.<br />

***<br />

Nello scrivere, nel narrare, siamo continuamente tirati da<br />

questi due desideri: dal desiderio <strong>di</strong> esprimerci, ossia <strong>di</strong><br />

cacciare degli urli, e dal desiderio <strong>di</strong> com<strong>un</strong>icare, ossia <strong>di</strong><br />

intavolare <strong>un</strong>a relazione con il lettore. La contrad<strong>di</strong>zione non è<br />

sanabile; la volontà <strong>di</strong> sanarla produce afasia. Nemmeno il<br />

giusto mezzo, che è come <strong>un</strong>a neutralizzazione <strong>di</strong> entrambi i<br />

desideri, è <strong>un</strong>a soluzione sensata. La soluzione sensata è,<br />

secondo me: accettare la contrad<strong>di</strong>zione, accettare <strong>di</strong> essere<br />

tirati da due desideri contrad<strong>di</strong>ttori, tentare <strong>di</strong> farli coesistere.<br />

C’è chi è <strong>di</strong> natura più portato all’espressione, chi più alla<br />

com<strong>un</strong>icazione. Dante adopera tutte le parole che gli capitano<br />

a tiro, Petrarca seleziona scrupolosissimamente il suo lessico. Il<br />

Manzoni ci racconta la sua storia nel modo più normale<br />

22


possibile, il Gadda racconta le sue storie in mo<strong>di</strong> così bizzarri<br />

da non essere nemmeno capace <strong>di</strong> portarle a conclusione. Ma<br />

la scelta della com<strong>un</strong>icazione non impe<strong>di</strong>sce a Manzoni <strong>di</strong><br />

trovare <strong>di</strong> tanto in tanto espressioni fortissime (“La sventurata<br />

rispose”, cap. X); e la scelta dell’espressione non impe<strong>di</strong>sce a<br />

Dante <strong>di</strong> essere <strong>di</strong> tanto in tanto ad<strong>di</strong>rittura elementare (“La<br />

bocca le baciò tutto tremante”, nell’episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Paolo e<br />

Francesca: frase che potrebbe stare benissimo in <strong>un</strong> romanzo<br />

Harmony).<br />

Tutto questo che ho detto della lingua vale evidentemente,<br />

secondo il parallelismo che facevo la settimana scorsa, per le<br />

forme e i mo<strong>di</strong> della <strong>narrazione</strong>. Esistono in noi delle “preforme<br />

della <strong>narrazione</strong>”? Chi lo sa, io <strong>di</strong>co. Magari sì.<br />

Psicoanalisti e antropologi potrebbero avere delle idee in<br />

proposito. Possiamo cercare <strong>di</strong> sprofondare in noi per<br />

avvicinarle. In confidenza: ogni volta che ne troverete <strong>un</strong>a, <strong>di</strong><br />

pre-forma, vi accorgerete che ce ne sono altre molto più nel<br />

profondo…<br />

Basta, basta. Alla prossima settimana. Dove dovrò parlarvi<br />

del classicismo, e toccherà rimandare ancora gli esempi <strong>di</strong><br />

imitazione tratti da Oceano mare <strong>di</strong> Baricco. Pazienza.<br />

Chiacchierata numero 10<br />

Buongiorno. Scusate, ma devo sbrigare <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> posta. Un<br />

lettore mi ha scritto nei giorni scorsi, via posta elettronica:<br />

“Caro Mozzi, le sue chiacchierate su Stilos sono anche belle e<br />

simpatiche; però, devo <strong>di</strong>rle, ho l’impressione che lei stia<br />

menando il can per l’aia. A sentir lei, dovremmo essere sempre<br />

lì ad aspettare, a esitare, a farci mille domande, a immaginarci<br />

il possibile lettore, a cercare modelli da imitare, a riflettere<br />

sull’origine <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong>a parola o <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong>a formula narrativa<br />

che ci venga in mente; ma, come <strong>di</strong>re, prima o poi dovrà pur<br />

venire il momento <strong>di</strong> mettersi lì, ed effettivamente scrivere. O<br />

no? Mi <strong>di</strong>ca, sinceramente: ma lei, si comporta davvero così<br />

come ci suggerisce <strong>di</strong> comportarci? E poi: le cose che ci<br />

racconta, lei le ha sempre sapute, ancora da prima <strong>di</strong> scrivere<br />

il suo primo racconto, quando ha sentito <strong>di</strong> avere la vocazione<br />

del narratore, oppure le ha imparate nel tempo, a forza <strong>di</strong><br />

scrivere e scrivere? Perché, vede, può darsi che ciò che lei ci<br />

racconta sia giusto e sensato; però può anche darsi che certi<br />

mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> procedere, <strong>di</strong> ragionare e <strong>di</strong> immaginare, possano<br />

essere imparati solo a forza <strong>di</strong> fare, <strong>di</strong> agire, <strong>di</strong> scrivere;<br />

23


mentre potrebbe essere del tutto inutile sentirsene parlare<br />

così, preventivamente, astrattamente…”.<br />

Il lettore, come si vede, è persona <strong>di</strong> gran<strong>di</strong>ssimo buon senso.<br />

Ebbene sì, è vero: sto menando il can per l’aia. È vero: prima o<br />

poi deve pur venire il momento in cui ci si mette lì a scrivere, e<br />

succeda quel che succeda (purché succeda qualcosa). È vero,<br />

non sempre io mi comporto nei mo<strong>di</strong> in cui vi suggerisco <strong>di</strong><br />

comportarvi: a volte lavoro moltissimo prima <strong>di</strong> scrivere, altre<br />

volte mi siedo a scrivere il giorno stesso in cui l’idea mi è<br />

venuta in mente; a volte mi riempio <strong>di</strong> scrupoli realistici, altre<br />

volte tiro via dritto limitandomi a controllare le cose essenziali.<br />

È vero, tutto ciò che vi racconto non l’ho saputo da sempre,<br />

l’ho imparato <strong>un</strong> po’ per volta, a forza <strong>di</strong> scrivere e pubblicare;<br />

ma soprattutto l’ho imparato a forza <strong>di</strong> stare in aula − in<br />

innumerevoli “corsi” e “laboratori”, nonché “werkshops” e<br />

“cantieri” <strong>di</strong> “<strong>scrittura</strong>” − a cercare <strong>di</strong> insegnare ad altri come<br />

fare per benino qualcosa che a me, in fin dei conti, viene del<br />

tutto naturale.<br />

<strong>Non</strong> è vero, invece, che io abbia <strong>un</strong> giorno sentita la<br />

vocazione del narratore. Di questo, peraltro, parleremo <strong>un</strong>’altra<br />

volta.<br />

Ho cominciato a scrivere il mio primo racconto il 17 febbraio<br />

1991, all’età <strong>di</strong> trent<strong>un</strong> anni e mezzo. Il mio primo libro è<br />

uscito in libreria il 30 aprile 1993. Se penso a che cosa ero<br />

allora devo <strong>di</strong>re: ero <strong>un</strong> narratore ingenuo e sentimentale.<br />

Molto ingenuo, e sentimentale in <strong>un</strong>a maniera <strong>un</strong> po’<br />

cervellotica. Oggi, se rileggo quei racconti scritti <strong>di</strong>eci, do<strong>di</strong>ci<br />

anni fa, mi <strong>di</strong>co: “Ma come ho fatto a inventarmi queste cose?<br />

Da dove le ho tirate fuori?”; e, confesso, spesso non so<br />

rispondere. Mi sento <strong>di</strong>re a volte che quei miei primi racconti<br />

sarebbero più “amabili” <strong>di</strong> quelli che ho scritti poi. Io penso che<br />

quei primi racconti abbiano delle qualità che i racconti<br />

successivi non hanno più avute, proprio perché allora ero<br />

assolutamente ingenuo e in<strong>di</strong>fesamente sentimentale.<br />

Poi, come succede, sono <strong>di</strong>ventato adulto. I bambini hanno<br />

<strong>un</strong>a grazia che poi perdono. Io ho persa quella grazia − e forse<br />

ho perso ogni tipo <strong>di</strong> grazia, non so. Certo è che da tre anni<br />

abbondanti (l’ultimo mio libro <strong>di</strong> racconti è uscito nella<br />

primavera del 2001) io non invento più storie nuove;<br />

saltuariamente scrivo racconti su commissione, a tema, in <strong>un</strong>a<br />

situazione che è molto più quella del gioco − magari <strong>un</strong> gioco<br />

assai serio − che quella dell’invenzione. La cosa in sé non mi<br />

<strong>di</strong>spiace. Lavoro come consulente e<strong>di</strong>toriale, e occuparsi dei<br />

libri degli altri non è meno bello, interessante e <strong>di</strong>vertente; e<br />

forse è più utile. Dà molte sod<strong>di</strong>sfazioni.<br />

24


Occuparsi della <strong>scrittura</strong> degli altri, nei laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> o<br />

come consulente e<strong>di</strong>toriale, è <strong>un</strong> esercizio curioso. Bisogna, per<br />

così <strong>di</strong>re, uscire da sé stessi, <strong>di</strong>menticarsi il proprio gusto e il<br />

proprio modo <strong>di</strong> ragionare, lavorare perché la <strong>scrittura</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong>’altra persona <strong>di</strong>venti spiegatamente ciò che al momento è<br />

solo in potenza. Un po’ come il buon genitore, che lavora<br />

perché il figlio <strong>di</strong>venti ciò che può essere e non perché <strong>di</strong>venti<br />

ciò che lui, il genitore, desidera che sia. <strong>Non</strong> è semplice essere<br />

buoni genitori.<br />

In <strong>un</strong> romanzo <strong>di</strong> fantascienza che mi piace molto, D<strong>un</strong>e <strong>di</strong><br />

Frank Herbert, c’è <strong>un</strong>a battuta che <strong>di</strong>ce più o meno (vado a<br />

memoria): “Tutti sapevano che cosa dovevano fare. Lui non<br />

dava mai or<strong>di</strong>ni. Una volta che avesse dato <strong>un</strong> or<strong>di</strong>ne, sarebbe<br />

stato costretto a ripeterlo ogni volta”. Credo che le cose stiano<br />

più o meno così. Preferisco menare il can per l’aia −<br />

mettiamola così: dare l’impressione <strong>di</strong> star menando il can per<br />

l’aia − piuttosto che <strong>di</strong>re: “Fate così e cosà”. Preferisco<br />

proporre dei criteri, dei mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> pensare, piuttosto che<br />

compilare <strong>un</strong> elenco <strong>di</strong> regole o <strong>di</strong> consigli vincenti. Sbaglio?<br />

Può darsi. Ma, al momento, non mi viene niente <strong>di</strong> meglio.<br />

Devo però <strong>di</strong>re: tra i miei racconti ce n’è <strong>di</strong> migliori e <strong>di</strong><br />

peggiori, <strong>di</strong> quasi belli e <strong>di</strong> molto brutti (spesso, <strong>di</strong> quanto <strong>un</strong><br />

racconto sia brutto, me ne accorgo quando lo vedo stampato<br />

nel libro); e generalmente quelli che mi sembrano, anche a<br />

<strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo, più vali<strong>di</strong>, sono quelli in cui ho agito in mo<strong>di</strong><br />

simili a quelli che vi ho proposti fin qui. Magari ho agito in quei<br />

mo<strong>di</strong> prima <strong>di</strong> rendermi conto che erano dei mo<strong>di</strong>, prima <strong>di</strong><br />

riuscire a pensarli in astratto. Fatto sta che quei mo<strong>di</strong> ci sono.<br />

Ovviamente, possono esserci altri mo<strong>di</strong>. Cerco <strong>di</strong> trasmettere<br />

ciò che ho nella mia esperienza.<br />

***<br />

Altri lettori e altre lettrici mi domandano se insegno nel<br />

“laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>” che spesso pubblica inserzioni<br />

pubblicitarie in Stilos. Rispondo: no. È <strong>un</strong> laboratorio che non<br />

conosco.<br />

Per questa settimana, d<strong>un</strong>que, è tutto; gli esempi <strong>di</strong><br />

imitazione da Oceano mare sono ulteriormente rimandati, e<br />

siete autorizzati a dubitare che ve li proporrò mai. A rivederci.<br />

25


Chiacchierata numero 11<br />

Buongiorno. Sicuramente vi sarà successo, e non poche volte,<br />

<strong>di</strong> avere <strong>un</strong>a parola sulla p<strong>un</strong>ta della lingua - <strong>un</strong> nome <strong>di</strong><br />

persona, <strong>un</strong> titolo <strong>di</strong> libro - e <strong>di</strong> non saperlo <strong>di</strong>re. Dite: “Vabbè,<br />

mi verrà in mente dopo”; ed effettivamente, cinque minuti<br />

dopo, quando ormai state parlando d’altro, quella parola vi<br />

appare, e potete <strong>di</strong>rla. Vi sarà successo, anche, <strong>di</strong> non essere<br />

capaci <strong>di</strong> venire fuori da <strong>un</strong> problema, o <strong>di</strong> imparare <strong>un</strong>a cosa,<br />

o <strong>di</strong> scrivere <strong>un</strong> testo; lasciate perdere, stufi e irritati; e poi, in<br />

altro momento, a mente più sgombra, non più irritati, vi<br />

mettete lì e il problema si risolve da solo, la cosa si impara<br />

facilmente, il testo vi viene tutto dritto e pulito come se ve<br />

l’avesse dettato qualc<strong>un</strong>o.<br />

La nostra memoria e la nostra capacità <strong>di</strong> pensare, quin<strong>di</strong>,<br />

subiscono ogni tanto degli stop; e il più delle volte sembra che<br />

la cosa più opport<strong>un</strong>a non sia non incaponirsi, volere a tutti<br />

costi trovare ciò che ci manca: ma accettare lo stop e passare<br />

ad altro, se possibile a qualcosa <strong>di</strong> completamente <strong>di</strong>verso. Io,<br />

ad esempio, se sto lavorando a casa e sento <strong>di</strong> essere in <strong>un</strong>o<br />

stop, mi fermo e vado a fumare <strong>un</strong>a sigaretta in cortile.<br />

Guardo il muro, il tasso, le primule, le rose. Magari prendo su il<br />

giornale e mentre fumo leggo <strong>un</strong> articolo che ancora mi manca.<br />

Poi rientro. Se me lo posso permettere - cioè se non ho <strong>un</strong>a<br />

scadenza imme<strong>di</strong>ata - passo a <strong>un</strong> altro lavoro, oppure<br />

ad<strong>di</strong>rittura vado a fare quattro passi. È <strong>un</strong> sistema come <strong>un</strong><br />

altro.<br />

Quando stiamo lavorando all’invenzione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a storia, o alla<br />

redazione <strong>di</strong> <strong>un</strong> testo, è facile che càpitino <strong>di</strong> questi stop. Sono<br />

antipatici e fasti<strong>di</strong>osi, all’apparenza. In realtà sono molto utili.<br />

Abbiamo <strong>un</strong>o stop quando intuiamo che ciò che stiamo facendo<br />

non va bene, anche se non sappiamo perché non va bene - se<br />

lo sapessimo, probabilmente saremmo in grado <strong>di</strong> prendere<br />

<strong>un</strong>’altra via. Siamo nelle con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> <strong>un</strong> computer che si<br />

“impianta” (tutti i computer, più o meno spesso, si<br />

“impiantano”). Dobbiamo spegnere e riaccendere. Resettare,<br />

come orribilmente si <strong>di</strong>ce. Sembra quasi, in somma, che <strong>un</strong><br />

eccesso <strong>di</strong> concentrazione a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to richieda <strong>un</strong>a<br />

<strong>di</strong>strazione volontaria.<br />

Ora: uscire in giar<strong>di</strong>no a fumare <strong>un</strong>a sigaretta o fare quattro<br />

passi in centro sono senza dubbio delle tecniche <strong>di</strong> <strong>di</strong>strazione,<br />

facilmente praticabili e a <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> chi<strong>un</strong>que (i non<br />

fumatori possono dar l’acqua alle piante, o osservare i percorsi<br />

26


delle formiche); ma sembrano essere delle tecniche <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>strazione piuttosto grossolane. La domanda è: si possono<br />

trovare delle tecniche <strong>di</strong> <strong>di</strong>strazione-e-riconcentrazione più<br />

efficaci? La risposta è: sì, si può.<br />

***<br />

Brian Eno è, per chi non lo sapesse, <strong>un</strong> musicista e <strong>un</strong><br />

produttore musicale (nonché <strong>un</strong> artista visivo). È <strong>un</strong> uomo che,<br />

per carattere e per strategia artistica, preferisce stare <strong>di</strong>etro<br />

piuttosto che davanti. Heroes è per tutti <strong>un</strong>a canzone <strong>di</strong> David<br />

Bowie, forse la più famosa canzone <strong>di</strong> David Bowie; ma è <strong>un</strong>a<br />

canzone <strong>di</strong> David Bowie e Brian Eno. I <strong>di</strong>schi con i quali gli U2 o<br />

i Talking Heads si sono imposti come star mon<strong>di</strong>ali sono stati<br />

prodotti da Brian Eno. Si può <strong>di</strong>re che, nella storia del<br />

cosiddetto “rock progressivo” il nome <strong>di</strong> Briano Eno compaia<br />

ogniqualvolta avviene qualcosa <strong>di</strong> nuovo.<br />

Nel 1975 Brian Eno pubblicò <strong>un</strong> curioso oggetto, prodotto in<br />

coppia con il pittore Peter Schmidt (scomparso pochi anni<br />

dopo): <strong>un</strong> mazzo <strong>di</strong> 124 carte chiamate Oblique strategy,<br />

“strategie oblique”. Su ciasc<strong>un</strong>a carta è scritta <strong>un</strong>a frase: <strong>un</strong><br />

po’ come negli Imprevisti e nelle Probabilità del Monopoli. Le<br />

prime <strong>di</strong>eci carte, ad esempio, portano queste frasi: “Sempre<br />

dei primi passi”, “Una linea ha due estremi”, “Il minimo<br />

com<strong>un</strong>e denominatore”, “Respira più profondamente”, “<strong>Non</strong> è<br />

che <strong>un</strong>a questione <strong>di</strong> lavoro”, “A che cosa stai veramente<br />

pensando in questo momento”, “Cascate”, “La cosa più<br />

importante è quella più facilmente <strong>di</strong>menticata”, “Vi sono delle<br />

sezioni? Considera delle transizioni”, “Decora, decora”. (Se<br />

volete leggerle tutte, attaccatevi all’internet e scrivete in <strong>un</strong><br />

qualsiasi motore <strong>di</strong> ricerca: “Oblique strategy” o “Strategie<br />

oblique”).<br />

Così Eno e Schmidt spiegavano ragioni e mo<strong>di</strong> d’impiego delle<br />

carte: “Queste carte si sono sviluppate a partire<br />

dall’osservazione dei princìpi che regolano le nostre creazioni.<br />

Talvolta, esse furono riconosciute retrospettivamente […],<br />

talvolta scaturirono dall’azione, altre volte ancora si trattò <strong>di</strong><br />

semplici formule. Le si potrebbe impiegare come <strong>un</strong> tutto (<strong>un</strong>a<br />

serie <strong>di</strong> possibilità costantemente riportate alla memoria) o<br />

isolatamente, estraendo <strong>un</strong>a carta del gioco, mescolato il<br />

mazzo, ogniqualvolta si presentasse <strong>un</strong> <strong>di</strong>lemma nel <strong>corso</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong>a precisa situazione. In tal caso ci si rimette alla carta anche<br />

se non ne sia chiara l’applicazione. Le carte non danno<br />

responsi definitivi, nel senso che nuove idee si presenteranno<br />

spontaneamente, altre <strong>di</strong>verranno via via evidenti”.<br />

27


Che cosa sono d<strong>un</strong>que queste carte? Sono forse degli oracoli?<br />

Dei mezzi magici? No: sono semplicemente <strong>un</strong>o strumento <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>strazione. Quando ci troviamo in <strong>un</strong> <strong>di</strong>lemma, quando le<br />

parole o le invenzioni non ci vengono, quando ci pare <strong>di</strong> non<br />

saper che pesci pigliare, possiamo giocare questo gioco:<br />

peschiamo <strong>un</strong>a carta, e ci confrontiamo con ciò che <strong>di</strong>ce.<br />

Attenzione: non “accettiamo ciò che <strong>di</strong>ce”, ma “ci confrontiamo<br />

con ciò che <strong>di</strong>ce”. Confrontarsi significa: provare a vedere se<br />

l’istruzione o il consiglio dati dalla carta non possano, magari<br />

paradossalmente, magari irrealizzabilmente, applicarsi al<br />

nostro caso. Dai ragionamenti che faremo scaturirà forse<br />

qualcosa <strong>di</strong> bizzarro, raramente qualcosa <strong>di</strong> fattibile, spesso<br />

qualcosa <strong>di</strong> impensato.<br />

La logica della faccenda mi pare chiara: spingiamo<br />

deliberatamente il nostro ingegno e la nostra intuizione ad<br />

affrontare <strong>un</strong>a questione da <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista impensato o a<br />

partire da premesse impensate. Il risultato è che non solo ci<br />

<strong>di</strong>straiamo, ma anche, per così <strong>di</strong>re, ci rilanciamo.<br />

“Ma”, obietterà qualc<strong>un</strong>o, “f<strong>un</strong>ziona?”.<br />

Sì, f<strong>un</strong>ziona: f<strong>un</strong>ziona. Del dettaglio <strong>di</strong> come f<strong>un</strong>zioni, ne<br />

parliamo settimana prossima. Lo prometto. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 12<br />

Buongiorno. Parlavo la settimana scorsa della possibilità <strong>di</strong><br />

usare tecniche <strong>di</strong> <strong>di</strong>strazione per scampare agli eccessi <strong>di</strong><br />

concentrazione (gli attacchi <strong>di</strong> incaponimento, i blocchi creativi<br />

ecc.); e raccontavo delle Strategie oblique inventate da Brian<br />

Eno e Peter Schmidt: <strong>un</strong> mazzo <strong>di</strong> carte contenente consigli più<br />

o meno ambigui, giocosi o paradossali (da “Ascolta la dolce<br />

voce” a “Sopprimi le specificità e sostituiscile con delle<br />

ambiguità”). Delle Oblique strategies o Strategie oblique, al <strong>di</strong><br />

là <strong>di</strong> quel che si trova nella rete (qual<strong>un</strong>que motore <strong>di</strong> ricerca<br />

sarà felice <strong>di</strong> aiutarvi), parlano Fabio Destefani e Francesco<br />

Masson in <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> vent’anni fa che si trova a volte nelle<br />

librerie a metà prezzo (Brian Eno: “Strategie oblique”,<br />

Gammalibri 1983, pp. 226) e parla lo stesso Eno nel suo libro<strong>di</strong>ario<br />

Futuri impensabili (Gi<strong>un</strong>ti 1997, pp. 360, 17 euro).<br />

Naturalmente le frasi-stimolo inventate da Eno appartengono<br />

a lui e sono adatte a lui. La cosa migliore, d<strong>un</strong>que, è che<br />

ciasc<strong>un</strong>o si faccia il suo proprio mazzo <strong>di</strong> carte. A tutti sarà<br />

capitato <strong>di</strong> osservare nel proprio comportamento delle<br />

28


procedure particolarmente efficaci, che risolvono problemi<br />

specifici o problemi generali. Ad esempio: io sono <strong>un</strong>o scrittore<br />

<strong>di</strong> racconti, cioè <strong>di</strong> storie non particolarmente l<strong>un</strong>ghe, e ho<br />

qualche problema a controllare la “massa” del testo quando<br />

questa supera le venticinque pagine. Ho provato a farmi degli<br />

schemi, delle scalette: ed è stato <strong>un</strong> <strong>di</strong>sastro (io, le scalette, le<br />

o<strong>di</strong>o). Allora, piuttosto, se perdo il filo della storia o se non so<br />

più come uscire dalla situazione in cui mi sono cacciato, smetto<br />

<strong>di</strong> andare avanti e riparto dal principio: rileggo, inserisco nuove<br />

cose, completo descrizioni appena accennate, aggi<strong>un</strong>go parole:<br />

faccio <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> “gonfiatura” del testo (a sgonfiarlo ci<br />

penserò poi), che mi serve a vedere con più chiarezza le mie<br />

stesse immaginazioni. A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to, <strong>di</strong> solito due o tre<br />

capoversi prima <strong>di</strong> dove mi sono impantanato, trovo il modo <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>rizzare la storia da <strong>un</strong>’altra parte. Evidentemente non mi<br />

ero accorto, prima, che lì c’era <strong>un</strong> bivio; e avevo imboccata la<br />

strada meno produttiva. Così, <strong>un</strong>a delle mie personali Strategie<br />

oblique <strong>di</strong>ce: “Qual è l’ultima decisione che hai presa?”.<br />

Altre volte ho la sensazione che <strong>un</strong> racconto sia sì finito, ma,<br />

come <strong>di</strong>re?, <strong>un</strong> po’ vuoto. <strong>Non</strong> nel senso che sia fatuo: ma nel<br />

senso che non mi dà quella buona impressione <strong>di</strong> pieno<br />

(app<strong>un</strong>to) che <strong>un</strong> racconto dovrebbe dare (secondo me). Allora<br />

rileggo dal principio (io rileggo tantissimo, s’è capito) e cerco <strong>di</strong><br />

capire che cosa (o la mancanza <strong>di</strong> che cosa) mi dà questa<br />

sensazione <strong>di</strong> vuoto. Di solito finisco con l’accorgermi che in<br />

alc<strong>un</strong>e zone della <strong>narrazione</strong> corro troppo veloce, non mi<br />

soffermo abbastanza (io non sono esattamente <strong>un</strong> narratore<br />

d’azione: sono piuttosto <strong>un</strong> narratore contemplativo), non<br />

mostro ciò che devo mostrare con la dovuta intensità; allora<br />

intervengo lì, e cerco <strong>di</strong> fare meglio. Così <strong>un</strong>’altra carta <strong>di</strong>ce:<br />

“Controlla la velocità”.<br />

Altre volte ho il problema <strong>di</strong> passare da <strong>un</strong>a situazione a<br />

<strong>un</strong>’altra situazione: e non so bene che cosa metterci in mezzo.<br />

<strong>Non</strong> so come fare il transito. Di solito io produco delle masse <strong>di</strong><br />

testo piuttosto compatte, e i transiti avvengono per lenti<br />

slittamenti, a volte per smottamenti silenziosi, quasi per<br />

sonnambulismo. Tuttavia a volte si slitta, si smotta, si<br />

sonnambula, ma si resta sempre al palo. <strong>Non</strong> si arriva a <strong>un</strong> <strong>di</strong><br />

là. Allora rileggo, rileggo, rileggo, finché non trovo il p<strong>un</strong>to in<br />

cui posso inserire <strong>un</strong>a cesura: <strong>un</strong> “a capo” (parecchi miei<br />

racconti sono privi <strong>di</strong> “a capo”), <strong>un</strong>a riga bianca, ad<strong>di</strong>rittura <strong>un</strong><br />

andare a pagina nuova. Una cesura è fatta <strong>di</strong> tre parti: l’ultima<br />

frase, la riga bianca, la prima frase. Il problema è: che cosa<br />

legge, il lettore, nella riga bianca? Sono riuscito a costruire e<br />

avviare, nelle frasi che precedono la riga bianca, <strong>un</strong>a<br />

29


“macchina evocativa” tale che il lettore vedrà, nella riga<br />

bianca, tutto quello che deve vederci? Allora ho delle carte che<br />

<strong>di</strong>cono: “Una porta che si apre verso l’interno” e “Come <strong>un</strong>a<br />

notte <strong>di</strong> sogni non ricordati” (e c’è anche <strong>un</strong>a carta originale <strong>di</strong><br />

Eno, da me amatissima: “Ci sono delle sezioni? Considera le<br />

transizioni”).<br />

In somma, si tratta <strong>di</strong> osservare il proprio modo <strong>di</strong> procedere<br />

e <strong>di</strong> annotare, via via, le soluzioni efficaci. Le nostre personali<br />

Strategie oblique, tuttavia, non dovranno contenere consigli<br />

precisi, categorici, vere e proprie istruzioni: dovranno<br />

contenere, invece, dei “consigli vuoti”, cioè formulati in modo<br />

da poter essere applicati (nel modo che <strong>di</strong>cevo la settimana<br />

scorsa: cioè non pe<strong>di</strong>ssequamente, ma “per confronto”) a<br />

qual<strong>un</strong>que materia. Una carta che <strong>di</strong>ca: “Ren<strong>di</strong> più cre<strong>di</strong>bili i<br />

personaggi” è <strong>un</strong>’istruzione, applicabile solo a <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong>;<br />

<strong>un</strong>a che <strong>di</strong>ca: “Produci <strong>un</strong>a rete <strong>di</strong> relazioni” è invece <strong>un</strong><br />

“consiglio vuoto”, applicabile a <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> e ai personaggi<br />

così come alle forme <strong>di</strong> <strong>un</strong>’opera pittorica o a <strong>un</strong>’invenzione<br />

musicale (naturalmente, i personaggi <strong>di</strong>ventano più “cre<strong>di</strong>bili”<br />

nel momento in cui smettiamo <strong>di</strong> immaginarli come mòna<strong>di</strong><br />

isolate e li inseriamo ciasc<strong>un</strong>o nella sua rete <strong>di</strong> relazioni con<br />

altri personaggi; come avrò modo <strong>di</strong> raccontare <strong>un</strong>’altra volta,<br />

è mia convinzione che i personaggi non esistano: esistono le<br />

relazioni tra i personaggi).<br />

***<br />

Ci vuol poco, a questo p<strong>un</strong>to, per immaginare che più o meno<br />

qualsiasi repertorio <strong>di</strong> “consigli vuoti” possa essere adoperato<br />

come <strong>un</strong> mazzo <strong>di</strong> Strategie oblique. Il Castello dei destini<br />

incrociati <strong>di</strong> Italo Calvino, che contiene due storie fondate sui<br />

tarocchi, è lì per ricordarcelo. Ma anche il Libro della vita<br />

pubblicato dalle e<strong>di</strong>zioni Armenia (pp. 188, 13 euro), sorta <strong>di</strong><br />

raccolta <strong>di</strong> oracoli: basta formulare <strong>un</strong>a domanda precisa, <strong>di</strong>ce<br />

l’introduzione, e aprirlo a caso; si otterrà infallibilmente la<br />

risposta giusta. Penso <strong>un</strong>a domanda. Lo apro a caso. Leggo:<br />

“Una visione completa include sempre lo spazio in<strong>di</strong>spensabile<br />

per immaginare gli elementi mancati”. Interessante, no? Basta<br />

non prenderlo troppo sul serio. Ci sentiamo tra <strong>un</strong>a settimana.<br />

30


Chiacchierata numero 13<br />

Buongiorno. L<strong>un</strong>edì s<strong>corso</strong>, in <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> che si<br />

tiene nella mia città (Padova) ho parlato delle Strategie oblique<br />

<strong>di</strong> Brian Eno e Peter Schmidt (delle quali ho parlato nelle ultime<br />

due p<strong>un</strong>tate <strong>di</strong> questa rubrica). Come sempre succede, il<br />

gruppo (<strong>un</strong>a ventina <strong>di</strong> persone, tutte tra i venticinque e i<br />

trenta) ha reagito con <strong>un</strong>o scetticismo a <strong>di</strong>r poco pesante. “Ma<br />

in somma, queste cose New Age! Queste specie <strong>di</strong> magie!”. Ma<br />

no, ho detto. Niente cose New Age. Niente specie <strong>di</strong> magie. Le<br />

Strategie oblique sono <strong>un</strong> modo come <strong>un</strong> altro – è importante:<br />

<strong>un</strong> modo come <strong>un</strong> altro; più <strong>di</strong>vertente <strong>di</strong> altri; efficace tanto<br />

quanto altri – per raggi<strong>un</strong>gere <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> scopi: sbloccare la<br />

propria concentrazione (soprattutto quando si è in <strong>un</strong>a<br />

situazione <strong>di</strong> “incaponimento”), considerare altre possibilità.<br />

Questa, del considerare altre possibilità, è <strong>un</strong>a mia fissa.<br />

Quando mi viene in mente <strong>un</strong>a storia, la prima cosa che penso<br />

è: potrebbe andare <strong>di</strong>versamente; potrei raccontarla<br />

<strong>di</strong>versamente. La <strong>di</strong>rezione della storia che scelgo, esclude<br />

tutte le altre possibili <strong>di</strong>rezioni. La forma che scelgo per<br />

raccontarla, esclude tutte le altre forme. Se scrivo: “Guidava<br />

<strong>un</strong>a Peugeot bianca”, escludo tutti gli altri mezzi <strong>di</strong> trasporto<br />

(asino, carrozzella, motocicletta, pie<strong>di</strong>, elicottero…), escludo<br />

tutte le altre marche d’automobili, escludo tutti gli altri colori<br />

(però mi lascio aperta la scelta tra i vari modelli <strong>di</strong> Peugeot).<br />

Se impariamo a sentire ogni scelta non solo come<br />

<strong>un</strong>’opport<strong>un</strong>ità, ma anche come <strong>un</strong>’esclusione, questo ci sarà<br />

utile. Ovviamente <strong>di</strong>venteremo più indecisi. Ovviamente<br />

avremo più incertezze. Ovviamente avremo più ripensamenti.<br />

Ovviamente avremo più riscritture.<br />

E questo, in <strong>un</strong>’attività che tutto sommato può concedersi più<br />

o meno tutto il tempo che vuole, non è <strong>un</strong> problema. O lo è?<br />

***<br />

Eppure, nei vari corsi e laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> in cui insegno,<br />

vedo che c’è molta fretta. Fretta <strong>di</strong> finir <strong>di</strong> scrivere ciò che si<br />

sta scrivendo, fretta <strong>di</strong> avere tra le mani qualcosa <strong>di</strong> compiuto<br />

e definitivo, fretta <strong>di</strong> abbandonare <strong>un</strong> testo per passare a <strong>un</strong><br />

altro. Essendoci fretta, c’è anche ansia: l’ansia <strong>di</strong> non essere<br />

capaci, l’ansia <strong>di</strong> non sapersi inventare altro, l’ansia <strong>di</strong> non<br />

saper finire, l’ansia <strong>di</strong> non arrivare a <strong>un</strong> risultato… (e <strong>di</strong>co<br />

questo, mica <strong>di</strong> quelli che vogliono “<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong>o scrittore”,<br />

31


che sono <strong>un</strong>a categoria a parte; <strong>di</strong>co <strong>di</strong> quelli che, a sentir loro,<br />

“amano la <strong>scrittura</strong>”, “si <strong>di</strong>vertono con la <strong>scrittura</strong>”, “si sono<br />

iscritti al <strong>corso</strong> per curiosità, per fare <strong>un</strong>a cosa piacevole”.<br />

Io da circa tre anni non scrivo <strong>un</strong>a storia nuova. Ho scritte<br />

delle cose su commissione: delle descrizioni <strong>di</strong> luoghi, <strong>un</strong><br />

raccontino su <strong>un</strong> tema dato; ma questa è proprio la parte “da<br />

professionista” del mio lavoro; i risultati magari sono buoni, mi<br />

sod<strong>di</strong>sfano, ma non sono “<strong>un</strong>a storia nuova”. Bene: questo non<br />

mi preoccupa.<br />

Dal 1998 giace dentro il mio pc <strong>un</strong> mezzo tronco <strong>di</strong> romanzo.<br />

Ha <strong>un</strong> titolo imbarazzante (Introduzione ai comportamenti vili)<br />

e <strong>un</strong> contenuto che mi spaventa. <strong>Non</strong> sono capace, per ora, <strong>di</strong><br />

rimettermici sopra. Ogni tanto lo guardo, e <strong>di</strong>co: mah!… Un<br />

e<strong>di</strong>tore l’ha letto e ha detto: “È <strong>un</strong>a cosa terribile! <strong>Non</strong> oserei<br />

mai pubblicarla!”, intendendo non che si tratti <strong>di</strong> <strong>un</strong>a cosa mal<br />

fatta e mal scritta, ma <strong>di</strong> <strong>un</strong>a cosa spaventosa per il suo<br />

contenuto. Un altro e<strong>di</strong>tore ha detto: “Bello! Bellissimo!<br />

Quand’è che lo finisci?”, e continua a chiedermi quand’è che lo<br />

finisco più o meno ogni sei mesi, dal 1998.<br />

Io, non so se lo finisco.<br />

Il 16 maggio 2003 avrò la gioia <strong>di</strong> pubblicare, presso l’e<strong>di</strong>tore<br />

per il quale lavoro, <strong>un</strong> grosso romanzo scritto da <strong>un</strong>o dei miei<br />

più cari amici. (Sia chiaro: ci siamo conosciuti, nel 1995, per la<br />

<strong>scrittura</strong>; non è che pubblico solo i miei amici; è che sulla base<br />

della <strong>scrittura</strong> possono nascere, o non nascere, gran<strong>di</strong><br />

amicizie: in questo caso è nata). Io sono convinto che sia <strong>un</strong><br />

capolavoro. Il libro è stato scritto in tre anni, e fa 560 pagine.<br />

In questi tre anni ho visto il mio amico “entrare”<br />

progressivamente sempre <strong>di</strong> più dentro il libro. Da settembre<br />

dell’anno s<strong>corso</strong> fino all’altro ieri, credo che sostanzialmente<br />

nella sua vita non ci sia stato altro che il libro da fare. Certo:<br />

ha lavorato (campa con due lavori part-time). Certo: ha letto<br />

(ma sempre in f<strong>un</strong>zione del libro). Certo: ha avuta <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong><br />

vita sociale: se è vita sociale trovarsi e non parlare che del<br />

libro.<br />

La de<strong>di</strong>zione è <strong>di</strong>ventata, pian piano, e senza che il mio amico<br />

se ne avvedesse, davvero totale. Negli ultimi mesi, poi, la<br />

situazione si era fatta quasi <strong>di</strong>sperata. Il mio amico,<br />

semplicemente, non riusciva a finire. Il romanzo ha <strong>un</strong>a<br />

struttura molto complessa, e ogni giorno si scoprivano piccole<br />

cose che non tornavano, aggiustamenti necessari, riferimenti<br />

incrociati da far incrociare. Una notte, mi ricordo, eravamo già<br />

alla rilettura delle bozze, scoprimmo che la mancanza <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

virgola in <strong>un</strong>a delle prime pagine aveva completamente<br />

mo<strong>di</strong>ficata l’interiorità, verso pagina quattrocento, <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

32


personaggio non proprio secondario (fu necessario, per far<br />

tornare i conti, aggi<strong>un</strong>gere <strong>un</strong>a nota in calce qua, togliere <strong>un</strong><br />

passaggio là, inserire piccole varianti <strong>un</strong> po’ dappertutto).<br />

<strong>Non</strong> c’è stata fretta. Né da parte mia, che ero nel ruolo<br />

dell’e<strong>di</strong>tore; né da parte del mio amico, che in fin dei conti si è<br />

preso tutto il tempo del quale aveva bisogno. Certo: non siamo<br />

stati degli sconsiderati. Sapevamo che c’erano delle scadenze.<br />

Ma sapevamo, ad esempio, che potevamo cambiarle (e le<br />

abbiamo cambiate, infatti).<br />

Ecco, secondo me: essere <strong>di</strong>sponibili a considerare altre<br />

possibilità; aver voglia <strong>di</strong> collaudare altre forme oltre alla prima<br />

che ci è venuta in mente; non avere fretta <strong>di</strong> finire, <strong>di</strong><br />

consegnare, <strong>di</strong> avere <strong>un</strong> risultato; tutto questo è in<strong>di</strong>spensabile<br />

per rendersi conto che <strong>un</strong>’opera letteraria, per modesta e poco<br />

ambiziosa che sia, è com<strong>un</strong>que <strong>un</strong> oggetto complesso. Dove<br />

complesso significa, app<strong>un</strong>to, che la sparizione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a virgola a<br />

pagina sette cambia la psiche <strong>di</strong> <strong>un</strong> personaggio a pagina<br />

quattrocento. E <strong>di</strong> come, nel dettaglio, questo possa avvenire,<br />

parliamo la settimana prossima. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 14<br />

Buongiorno. Domandavo la settimana scorsa: come può<br />

avvenire che, in <strong>un</strong> romanzo, la sparizione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a virgola a<br />

pagina sette mo<strong>di</strong>fichi l’interiorità <strong>di</strong> <strong>un</strong> personaggio a pagina<br />

quattrocento? In realtà non saprei spiegarlo molto. La mia<br />

battuta ricalca <strong>un</strong>a battuta celebre, secondo la quale: il battito<br />

d’ali d’<strong>un</strong>a farfalla a Pechino può provocare il crollo d’<strong>un</strong> ponte<br />

a New York. Si fa questa battuta, <strong>di</strong> solito quando si cerca <strong>di</strong><br />

spiegare il significato della parola “olistico”.<br />

Dalla garzantina <strong>di</strong> filosofia: “Olismo, tesi epistemologica<br />

secondo cui l’organismo biologico o psichico deve essere<br />

stu<strong>di</strong>ato in quanto totalità organizzata (in greco hólos significa<br />

“tutto, intero”) e non in quanto somma <strong>di</strong> parti <strong>di</strong>screte”. In<br />

effetti è assai <strong>di</strong>verso considerare <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> <strong>un</strong>a “somma<br />

<strong>di</strong> parti <strong>di</strong>screte”, cioè <strong>di</strong> parti tranquillamente separabili,<br />

almeno nel pensiero, l’<strong>un</strong>a dall’altra (non solo <strong>un</strong> episo<strong>di</strong>o<br />

dall’altro ma anche, ad esempio, il registro linguistico dalla<br />

p<strong>un</strong>teggiatura, il <strong>di</strong>alogo dalla descrizione dei movimenti, il<br />

lessico dalla sintassi ecc.); e considerarla invece <strong>un</strong>a “totalità<br />

organizzata”, cioè <strong>un</strong> sistema nel quale ness<strong>un</strong> elemento è<br />

pensabile come separato dagli altri - nel quale, aggi<strong>un</strong>go, ogni<br />

33


elemento è <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> “precipitato” del sistema tutto (e il<br />

sistema tutto ha lo stesso grado <strong>di</strong> coesione e compattezza,<br />

nonché la stessa forma, <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong> elemento).<br />

In realtà, se io penso a <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> come a <strong>un</strong>a “totalità<br />

organizzata”, corro seriamente il rischio <strong>di</strong> non riuscire proprio<br />

a pensarla, perché potrei pensarla solo “tutta insieme” e “in<br />

tutta la sua profon<strong>di</strong>tà”: e chi è capace, <strong>di</strong>fronte a <strong>un</strong>a<br />

<strong>narrazione</strong> (come <strong>di</strong>fronte a qual<strong>un</strong>que cosa) <strong>di</strong> pensarla<br />

davvero “tutta insieme” e “in tutta la sua profon<strong>di</strong>tà”? C’è<br />

qualc<strong>un</strong>o capace <strong>di</strong> pensare “tutto insieme” e “in tutta la sua<br />

profon<strong>di</strong>tà” <strong>un</strong> romanzo come I fratelli Karamazov? Credo <strong>di</strong><br />

no; dubito assai che lo pensasse in tal modo lo stesso<br />

Dostoevskij, che pure l’aveva scritto. Ma anche <strong>un</strong>a barzelletta<br />

o la più semplice delle favole, non appena le prestiamo<br />

attenzione, rivelano profon<strong>di</strong>tà insondabili.<br />

E allora? Allora, secondo me è bene cercare com<strong>un</strong>que <strong>di</strong><br />

pensare olisticamente a ciò che an<strong>di</strong>amo scrivendo. Ora <strong>di</strong>co<br />

delle banalità. Sarebbe bello se, in ogni <strong>narrazione</strong>, la forma<br />

soggiacente a ogni singola frase, a ogni scelta <strong>di</strong> lessico, a ogni<br />

segno <strong>di</strong> p<strong>un</strong>teggiatura, a ogni svolta dell’azione, a ogni<br />

battuta <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo, a ogni spazio bianco interposto tra <strong>un</strong>o e<br />

l’altro episo<strong>di</strong>o ecc. - fosse sempre la stessa forma, e fosse<br />

pure la stessa forma generale <strong>di</strong> tutta la <strong>narrazione</strong>. È evidente<br />

che <strong>un</strong> simile grado <strong>di</strong> controllo è pressoché impossibile. Ma si<br />

può provarci, tendere a, andare verso. Molte gran<strong>di</strong> opere sono<br />

onorevoli tentativi, falliti.<br />

***<br />

Io scrivo la mia <strong>narrazione</strong> dal principio alla fine; ma<br />

continuamente, mentre progre<strong>di</strong>sco, torno in<strong>di</strong>etro, cambio,<br />

aggiusto, tolgo, rifaccio, sposto; e quando bene ho finito torno<br />

a lavorare sul tutto, e lavoro sulla mia <strong>narrazione</strong> come se<br />

fosse <strong>un</strong> oggetto; ne faccio degli schemi che osservo come<br />

osserverei <strong>un</strong>a piantina topografica; mo<strong>di</strong>fico il “peso” <strong>di</strong> fatti,<br />

parole, azioni, pause ecc. come se dovessi far raggi<strong>un</strong>gere lo<br />

stato <strong>di</strong> equilibrio a <strong>un</strong>a bilancia con non due soli, ma con<br />

duecento piatti.<br />

Ma il lettore che legge, non fa mica così. Il lettore che legge<br />

parte veramente dal principio e arriva veramente fino alla fine<br />

(se la mia <strong>narrazione</strong> non gli fa schifo). Per me che l’ho scritta<br />

la <strong>narrazione</strong> è <strong>un</strong> oggetto, <strong>un</strong>a topografia, <strong>un</strong>a stanza piena <strong>di</strong><br />

bilance; per il lettore che la legge la <strong>narrazione</strong> è <strong>un</strong> cammino,<br />

<strong>un</strong> filo, <strong>un</strong> “avvenne questo… e poi questo… e poi questo…”.<br />

Anche qualora io racconti più storie intrecciate, o riempia la<br />

34


<strong>narrazione</strong> <strong>di</strong> flash-back, o <strong>di</strong>ssemini i fatti nel <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne più<br />

assoluto, com<strong>un</strong>que per il lettore c’è dapprima pagina <strong>un</strong>o, poi<br />

pagina due, poi pagina tre… In fondo I fratelli Karamazov,<br />

come tanti romanzi dell’Ottocento, è stato pubblicato dapprima<br />

a p<strong>un</strong>tate nei giornali, e solo dopo raccolto in volume.<br />

Allora dobbiamo rassegnarci: per il lettore, la <strong>narrazione</strong><br />

come “totalità organizzata” è spesso impercepibile. O ne ha, al<br />

massimo, <strong>un</strong>a percezione inconsapevole, <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> “ombra<br />

d’intuizione”. Quando an<strong>di</strong>amo al cinema, e ne usciamo<br />

insod<strong>di</strong>sfatti del film ma senza saper <strong>di</strong>re perché ne siamo<br />

insod<strong>di</strong>sfatti, forse stiamo intuendo qualche falla nella “totalità<br />

organizzata” del film. La <strong>di</strong>fferenza tra il lettore com<strong>un</strong>e (o lo<br />

spettatore com<strong>un</strong>e) e il critico letterario (o cinematografico) è<br />

spesso qui: nella capacità <strong>di</strong> percepire la <strong>narrazione</strong> o il film<br />

come “totalità organizzata”.<br />

In somma: vi sto invitando a tentar <strong>di</strong> pensare le vostre<br />

narrazioni come “totalità organizzate”; vi avviso che è <strong>un</strong>a cosa<br />

<strong>di</strong>fficilissima; e, per confortarvi, vi <strong>di</strong>co che com<strong>un</strong>que, della<br />

“qualità organizzativa” della vostra “totalità”, se ne<br />

accorgeranno quattro gatti, al massimo qualche parruccone <strong>di</strong><br />

critico. Bene, è proprio così. E allora, santo cielo, perché farlo?<br />

Semplicemente perché l’<strong>un</strong>ica <strong>di</strong>fferenza che io sia riuscito a<br />

percepire, in vita mia, tra chi “è <strong>un</strong>o scrittore” e chi “non è <strong>un</strong>o<br />

scrittore”, riguarda la qualità dell’investimento personale nella<br />

<strong>scrittura</strong>. E l’investimento personale nella <strong>scrittura</strong> (la<br />

“de<strong>di</strong>zione”, potrei <strong>di</strong>re) non è qualcosa che possa essere<br />

incrementato <strong>di</strong>scretamente; a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to c’è <strong>un</strong> salto, e<br />

questo salto c’è chi lo fa e chi non lo fa. Il salto è: tentar <strong>di</strong><br />

pensare alle narrazioni come a “totalità organizzate”, oppure<br />

non farlo; e chi lo fa, cioè chi “è <strong>un</strong>o scrittore”, in quel<br />

momento smette <strong>di</strong> essere <strong>un</strong>a persona normale. <strong>Non</strong> voglio<br />

<strong>di</strong>re che <strong>di</strong>venti pazzo o asociale; no, smette <strong>di</strong> essere <strong>un</strong>a<br />

persona normale e, ad esempio, si concede <strong>un</strong>o smisurato<br />

egocentrismo; ossia, esclude dalla sua mente qual<strong>un</strong>que<br />

pensiero che non concerna il pensare la sua <strong>narrazione</strong> come<br />

“totalità organizzata”.<br />

Narratori così, ovviamente, ce n’è pochi. Io ne so tre, in<br />

Italia. Quanto a me, il salto non ho osato farlo. Troppa paura, e<br />

poi non ce l’avrei fatta. Alla prossima.<br />

35


Chiacchierata numero 15<br />

Buongiorno. Scrivevo la settimana scorsa, tra le altre cose (ho<br />

scritte troppe cose, la settimana scorsa; dovrò fare <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong><br />

riprese, per spiegarmi a p<strong>un</strong>tino); scrivevo d<strong>un</strong>que: il narratore<br />

compone la sua <strong>narrazione</strong> come <strong>un</strong> oggetto, <strong>un</strong>a struttura;<br />

lavora ora all’inizio, ora alla fine, ora al mezzo; torna in<strong>di</strong>etro,<br />

cambia, rifà, eccetera; ma poi il lettore parte dal principio e<br />

arriva (se va tutto bene) fino alla fine; per il lettore, nel<br />

momento in cui legge, <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> non è <strong>un</strong> oggetto, <strong>un</strong>a<br />

cosa che si possa guardare dall’alto o dal basso o da destra o<br />

da sinistra: per il lettore la <strong>narrazione</strong> è <strong>un</strong> filo, <strong>un</strong> per<strong>corso</strong>,<br />

<strong>un</strong>a sequenza, <strong>un</strong>a cosa in somma che ha <strong>un</strong>a sola <strong>di</strong>rezione e<br />

<strong>un</strong> solo verso.<br />

Poi, magari, a lettura compiuta, anche il lettore riesce a<br />

guardare la <strong>narrazione</strong> come <strong>un</strong> oggetto. Ma questa è <strong>un</strong>’altra<br />

faccenda.<br />

Bene. Ho qui sul tavolo, accanto alla mia mano sinistra, <strong>un</strong><br />

libro ancora avvolto nel cellophane. L’ho comperato ieri alla<br />

libreria Remainder’s <strong>di</strong> Milano, in galleria Vittorio Emanuele.<br />

L’ho pagato 2 euro e 7 centesimi. L’e<strong>di</strong>tore è Lerici. L’autore è<br />

<strong>un</strong> francese, Marc Saporta. Il titolo è: Composizione n. 1. E c’è<br />

scritto sotto: “romanzo”. L’esterno del libro è pieno <strong>di</strong><br />

istruzioni. C’è <strong>un</strong>a fascetta (bianca, con la scritta in rosso<br />

mattone) che <strong>di</strong>ce: “TANTI ROMANZI PER QUANTI SONO I<br />

LETTORI. L’or<strong>di</strong>ne delle pagine è casuale: mescolandole, a<br />

ciasc<strong>un</strong>o il “suo” romanzo”. Sulla copertina, in alto a sinistra, è<br />

scritto: “Si invita il lettore a mescolare queste pagine come <strong>un</strong><br />

mazzo <strong>di</strong> carte. Se gli fa piacere, può anche alzarle con la<br />

sinistra, come si fa dalla cartomante. In ogni caso l’or<strong>di</strong>ne in<br />

cui appariranno allora i <strong>di</strong>versi fogli determinerà il destino <strong>di</strong><br />

X”. Suppongo quin<strong>di</strong> che X sia il nome del protagonista.<br />

Sempre sulla copertina, in alto a destra, è riportata <strong>un</strong>a frase<br />

tratta dal quoti<strong>di</strong>ano Il Giorno: “La libertà del lettore <strong>di</strong> leggere<br />

il suo romanzo <strong>di</strong>sponendo come crede l’or<strong>di</strong>ne delle pagine è<br />

totale ed effettiva. Questa è <strong>un</strong>’opera che merita tutta la<br />

nostra attenzione, è <strong>un</strong>o dei più compiuti e veri romanzi che la<br />

letteratura francese ci abbia saputo proporre”. La quarta <strong>di</strong><br />

copertina <strong>di</strong>ce (stralcio, sennò mi mangio tutto lo spazio): “In<br />

<strong>un</strong>a vita il tempo e l’or<strong>di</strong>ne degli eventi contano assai più della<br />

natura, degli eventi stessi. […] Ma non è in<strong>di</strong>fferente sapere se<br />

[l’uomo] ha incontrato l’amante, Dagmar, prima o dopo il<br />

matrimonio; se ha abusato della piccola Helga da adolescente<br />

36


o da uomo maturo; se il furto <strong>di</strong> cui si è reso colpevole è stato<br />

commesso in nome della Resistenza o in tempi meno torbi<strong>di</strong><br />

[…] Dall’or<strong>di</strong>ne in cui si susseguiranno i singoli episo<strong>di</strong> <strong>di</strong>pende<br />

anche che la storia finisca bene o male. Una vita si compone <strong>di</strong><br />

parecchi elementi. Ma infinito è il numero delle possibili<br />

combinazioni”.<br />

Strappo il cellophane. Il libro è costituito d’<strong>un</strong> certo numero <strong>di</strong><br />

pagine non numerate, scritte da <strong>un</strong>a parte sola, non rilegate (è<br />

spesso due centimetri). Un pacchetto <strong>di</strong> schede, in somma. La<br />

copertina è <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> contenitore. È stato pubblicato in<br />

Francia nel 1961, in Italia nel 1962. Maneggio il tutto con<br />

estrema cura. Soprattutto, non voglio mescolare le<br />

pagine/schede. Perché, io, questo romanzo, lo voglio leggere<br />

dal principio alla fine. Perché, io, non ho ness<strong>un</strong>a voglia <strong>di</strong> quel<br />

tipo <strong>di</strong> libertà.<br />

***<br />

La verità è che ne ho comperate due copie. Una l’ho liberata<br />

dal cellophane, l’altra no. Numererò le pagine della copia che<br />

leggerò, man mano che progre<strong>di</strong>rò nella lettura. Quando avrò<br />

finito, aprirò anche l’altra copia: voglio sapere - ma tratterrò la<br />

mia curiosità fino a quel p<strong>un</strong>to - se in due copie <strong>di</strong>verse del<br />

libro l’or<strong>di</strong>ne delle pagine/schede è lo stesso. Presumo che sì;<br />

ho <strong>un</strong>’idea <strong>di</strong> quanto costa fare i libri; e produrre due o tre mila<br />

libri ciasc<strong>un</strong>o con <strong>un</strong> <strong>di</strong>verso or<strong>di</strong>ne delle pagine/schede, è <strong>un</strong><br />

costo da far venire i capelli bianchi.<br />

Tra chi frequenta corsi o laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, nonché tra i<br />

cosiddetti “aspiranti scrittori” che mi mandano i loro<br />

dattiloscritti, è <strong>di</strong>ffuso <strong>un</strong> pregiu<strong>di</strong>zio: che la <strong>narrazione</strong> sia <strong>un</strong><br />

semplice supporto, o ad<strong>di</strong>rittura <strong>un</strong>’occasione, per la libera<br />

attività fantasticante del lettore. “Io scrivo, ma poi il lettore<br />

deve essere libero <strong>di</strong> immaginare quello che vuole”: così mi<br />

viene detto, più o meno. E se faccio notare che <strong>un</strong>a scena è<br />

incompleta, che <strong>di</strong> <strong>un</strong> personaggio non si sa neanche se è<br />

maschio o femmina, che non si capisce se l’azione avviene a<br />

New York o a Berlino o a Giarre, eccetera; mi viene detto:<br />

“Voglio che il lettore sia libero <strong>di</strong> immaginarsi la scena come<br />

vuole, il personaggio come vuole, la città come vuole”.<br />

Ora; non so voi; ma io, quando leggo <strong>un</strong> libro, quando sono<br />

<strong>un</strong> semplice lettore, non voglio questo. Ho letto fin da<br />

bambino, ho cominciato con i romanzi <strong>di</strong> Salgàri e della<br />

baronessa Orczy, il libro d’avventure è per me il prototipo <strong>di</strong><br />

ogni libro. Certo: oggi sono <strong>un</strong> lettore più raffinato, mentre<br />

leggo vedo i meccanismi della <strong>narrazione</strong>, <strong>di</strong>stinguo nel giu<strong>di</strong>zio<br />

37


tra <strong>narrazione</strong> e <strong>scrittura</strong>, eccetera; ma per ri<strong>di</strong>ventare il<br />

lettore che ero quando avevo sei anni, mi bastano tre secon<strong>di</strong>.<br />

Se ho davanti a me due ore <strong>di</strong> treno e non ho con me niente da<br />

leggere, senza esitazione compero <strong>un</strong> Urania, <strong>un</strong> manga, <strong>un</strong><br />

Superpoket, <strong>un</strong> Mito (mai <strong>un</strong> giallo): e in treno leggo<br />

beatamente, come legge beatamente il più ingenuo dei lettori;<br />

salvo poi, arrivato a destinazione, buttare via il libro: perché<br />

mi basta uscire dalla lettura quel tanto che serve per smontare<br />

dal treno, per rendermi conto che ciò che stavo leggendo era<br />

<strong>un</strong>a schifezza. Ma fin che lo leggevo, accidenti!, sono stato al<br />

gioco.<br />

Questo per <strong>di</strong>re che io sono, come molti, come - spero - tutti,<br />

<strong>un</strong> lettore ingenuo. E, come tutti, voglio che mi si racconti <strong>un</strong>a<br />

storia: che cominci dal principio e finisca con la fine, che mi<br />

avvinca e mi rapisca, che riempia la mia immaginazione e non<br />

mi lasci più <strong>un</strong> solo pensiero mio.<br />

Tuttavia, il pregiu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> cui sopra contiene, come tutti i<br />

pregiu<strong>di</strong>zi, qualcosa <strong>di</strong> vero. E <strong>un</strong> libro come quello <strong>di</strong> Marc<br />

Saporta ha <strong>un</strong> suo senso. Ne parliamo tra <strong>un</strong>a settimana.<br />

Chiacchierata numero 16<br />

Buongiorno. Descrivevo, settimana scorsa, <strong>un</strong> libro che ho<br />

comperato <strong>un</strong>a libreria a metà prezzo: Composizione n. 1, <strong>di</strong><br />

Marc Saporta (pubblicato da Lerici nel 1961). Un libro<br />

composto non <strong>di</strong> pagine rilegate ma <strong>di</strong> fogli sciolti, ciasc<strong>un</strong>o<br />

recante <strong>un</strong>a scena o <strong>un</strong> breve episo<strong>di</strong>o; con in copertina<br />

l’avviso: “Si invita il lettore a mescolare queste pagine come<br />

<strong>un</strong> mazzo <strong>di</strong> carte. L’or<strong>di</strong>ne delle pagine è casuale:<br />

mescolandole, a ciasc<strong>un</strong>o il “suo” romanzo”. E <strong>di</strong>cevo,<br />

settimana scorsa: <strong>di</strong> questa libertà, della libertà <strong>di</strong> mescolare le<br />

pagine, non so che cosa farmene; io voglio <strong>un</strong>a storia con <strong>un</strong><br />

inizio e <strong>un</strong>a fine…<br />

Ve<strong>di</strong>amo.<br />

In quarta <strong>di</strong> copertina <strong>di</strong> quel libro c’è scritto: “Una vita si<br />

compone <strong>di</strong> parecchi elementi. Ma infinito è il numero delle<br />

possibili combinazioni”. È vero? Ma sì, è vero, si potrebbe <strong>di</strong>re;<br />

benché le combinazioni (delle pagine) siano non infinite ma<br />

moltissime (e parecchie <strong>di</strong> queste siano assai simili tra loro: se<br />

solo <strong>un</strong>a pagina cambia <strong>di</strong> posto, ho davvero <strong>un</strong> “altro”<br />

romanzo?). E invece, <strong>di</strong>rò, non è per niente vero.<br />

La mia vita (quarantadue anni, <strong>di</strong>eci mesi e <strong>di</strong>ciannove giorni,<br />

38


oggi che leggete questo pezzo) consiste in <strong>un</strong>’<strong>un</strong>ica<br />

combinazione. <strong>Non</strong> posso tornare in<strong>di</strong>etro e cambiare. Certo:<br />

posso, nel raccontare (a me stesso, a voi, a chi<strong>un</strong>que) la mia<br />

storia, introdurre spostamenti, cancellazioni, invenzioni; posso,<br />

in somma, mentire. Ma se leggo <strong>un</strong> romanzo, posso pensare<br />

che il narratore mi stia mentendo? No.<br />

Posso pensare che Zeno Cosini, protagonista della Coscienza<br />

<strong>di</strong> Zeno <strong>di</strong> Italo Svevo nonché autore del “memoriale” che<br />

costituisce il 99% del romanzo (ne resta fuori solo la<br />

brevissima introduzione firmata dallo psicoanalista <strong>di</strong> Zeno),<br />

menta a tutto spiano. E so benissimo che Italo Svevo ha scritto<br />

<strong>un</strong> romanzo, cioè “<strong>un</strong>a storia inventata” (per quanto possa<br />

aver fatto man bassa, per comporla, delle sue esperienze <strong>di</strong><br />

vita): e <strong>un</strong>’invenzione, della quale siamo tutti consapevoli che<br />

è <strong>un</strong>’invenzione, non è <strong>un</strong>a menzogna.<br />

Ma il narratore, che non è né Italo Svevo né Zeno Cosini, ma<br />

è <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> fantasma che io, durante la lettura, percepisco<br />

(in buona misura inconsapevolmente) come colui che mi<br />

racconta la storia e me la garantisce - no, lui non può mentire.<br />

Lui mi garantisce che ogni parola che leggo è esattamente<br />

come Zeno l’ha scritta. Mi garantisce che, fintantoché<br />

proseguirò nella lettura, continuerò a percepire Zeno come <strong>un</strong>a<br />

persona dotata <strong>di</strong> esistenza autonoma.<br />

Io, come lettore, sono <strong>di</strong>sposto ad accettare qual<strong>un</strong>que storia,<br />

anche la più improbabile. Accetto che il protagonista nasca<br />

povero, <strong>di</strong>venti ricco per caso, ritorni povero, scopra <strong>di</strong> essere<br />

figlio d’<strong>un</strong> re, incontri improvvisamente <strong>un</strong> fratello gemello del<br />

quale nulla si sapeva; accetto che i cattivi si rivelino buoni, che<br />

i buoni si rivelino cattivi, che tutti abbiano doppie e triple<br />

identità, che il castello in riva al lago sia in verità <strong>un</strong>a baracca,<br />

che l’oceano sia in realtà <strong>un</strong>a pozzanghera, che <strong>un</strong>a lucerna<br />

contenga <strong>un</strong> essere soprannaturale: tutto, tutto.<br />

Io, come lettore, sono <strong>di</strong>sposto ad accettare <strong>un</strong>a storia<br />

raccontata in qual<strong>un</strong>que modo. Si può partire dal principio,<br />

dalla fine, dal mezzo, da tre p<strong>un</strong>ti <strong>di</strong>versi, da ness<strong>un</strong> p<strong>un</strong>to; la<br />

<strong>narrazione</strong> può andare avanti nel tempo, in<strong>di</strong>etro nel tempo, a<br />

salti; posso avere due o tre tempi contemporaneamente; posso<br />

avere omissioni, ripetizioni, menzogne dei personaggi; posso<br />

avere <strong>un</strong> testo apocrifo, o composto da <strong>un</strong>a collezione <strong>di</strong><br />

apocrifi, scritto da <strong>un</strong> cane o da <strong>un</strong> cavallo, delirante, scritto in<br />

<strong>un</strong>a lingua inventata.<br />

Ma, in qual<strong>un</strong>que modo sia raccontata la storia, mi è<br />

necessario che la <strong>narrazione</strong> abbia <strong>un</strong> principio e <strong>un</strong>a fine. Una<br />

pagina 1 e <strong>un</strong>a pagina 242 con stampato in mezzo: “Fine”.<br />

Anche se, magari, in quella pagina 242, è raccontato il primo<br />

39


avvenimento della storia, il germe della storia stessa…<br />

L’importante è che, quando gi<strong>un</strong>gerò a pagina 242, il narratore<br />

mi <strong>di</strong>ca: ecco, la storia è andata proprio così; e io possa<br />

rispondere: sì, davvero, è andata proprio così.<br />

Perché la mia esperienza <strong>di</strong> vita, non è quella <strong>di</strong> <strong>un</strong> numero<br />

infinito delle combinazioni: è quella piuttosto, <strong>di</strong> <strong>un</strong> numero<br />

ben finito <strong>di</strong> fatti. Ci saranno state, magari infinite, le<br />

possibilità; ma la mia vita quale sarebbe potuta essere se le<br />

cose fossero andate <strong>di</strong>versamente, a chi interessa? A me no.<br />

Se <strong>un</strong>o mi <strong>di</strong>cesse: “Guarda, ora ti racconto come non sono<br />

andate le cose”, gli <strong>di</strong>rei che ho altro da fare. Anche <strong>un</strong><br />

romanzo come L’uomo nell’alto castello (altrimenti noto come<br />

La svastica sul sole) <strong>di</strong> Philip K. Dick, che ci racconta <strong>un</strong> mondo<br />

nel quale l’Asse ha vinta la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, non è<br />

<strong>un</strong>a storia che ci racconta come non sono andate le cose: ci<br />

racconta, casomai, che le cose sono effettivamente andate<br />

<strong>di</strong>versamente da come credevamo. Pretende in somma che,<br />

mentre leggiamo, cre<strong>di</strong>amo a quella storia come se fosse la<br />

storia vera.<br />

Il romanzo <strong>di</strong> Marc Saporta, d<strong>un</strong>que, con la sua stessa forma<br />

fisica, prima ancora che cominciamo a leggerlo, ci mette in<br />

forte imbarazzo.<br />

***<br />

Pier Vittorio Tondelli <strong>di</strong>ceva che lui, mentre scriveva,<br />

desiderava “schiavizzare il lettore”. Io preferisco <strong>di</strong>re: voglio<br />

esercitare <strong>un</strong> dominio sul lettore. Voglio che la sua mente<br />

assuma la forma della mia immaginazione. Certo: ogni lettore<br />

(lo <strong>di</strong>cevo la settimana scorsa) reagisce <strong>di</strong>versamente a <strong>un</strong>a<br />

<strong>narrazione</strong>. Ogni lettore è <strong>di</strong>verso da <strong>un</strong> altro lettore, e quin<strong>di</strong><br />

la mia <strong>narrazione</strong>, a contatto con ciasc<strong>un</strong> <strong>di</strong>verso lettore,<br />

produce <strong>di</strong>versi effetti. Ma questo non mi interessa. <strong>Non</strong> <strong>di</strong>co<br />

che sia <strong>un</strong> inconveniente: <strong>di</strong>co che non mi interessa. Se<br />

pensassi che è il lettore che fa il libro, dovrei fare <strong>un</strong> libro tutto<br />

<strong>di</strong> pagine bianche: così il lettore sarà libero <strong>di</strong> farci quello che<br />

vuole. Ma questo è <strong>un</strong> boomerang: niente è meno suggestivo<br />

<strong>di</strong> <strong>un</strong>a pagina bianca.<br />

Mi rendo conto che c’è <strong>un</strong> paradosso. Racconto <strong>un</strong>a storia<br />

sapendo che il lettore ne farà quel che vorrà, e tuttavia cerco<br />

<strong>di</strong> stabilire <strong>un</strong> dominio sul lettore.<br />

È come quando sono innamorato. Voglio che la persona<br />

amata sia liberamente sé stessa, e voglio che sia mia. Ne<br />

riparleremo.<br />

40


Chiacchierata numero 17<br />

Buongiorno. Interrompo il ragionamento della settimana<br />

scorsa (finivo accennando all’innamoramento come modello<br />

della relazione tra lo scrivente e il lettore; <strong>di</strong>cevo che come si<br />

hanno verso la persona amata sia il desiderio <strong>di</strong> possederla sia<br />

il desiderio che sia totalmente sé stessa, ossia libera, così lo<br />

scrivente desidera dominare l’immaginazione del lettore pur<br />

sapendo che il lettore, <strong>di</strong> ciò che egli scrive, farà ciò che<br />

vuole). Interrompo il ragionamento, <strong>di</strong>cevo, per <strong>di</strong>rvi che sono<br />

appena partito da Bologna (è martedì 13 maggio, sono le <strong>di</strong>eci<br />

e cinque del mattino) e sto andando a Napoli, dove arriverò<br />

alle due e mezza. Ho quattro ore abbondanti a <strong>di</strong>sposizione;<br />

quin<strong>di</strong> ho tirato fuori il portatile e mi sono messo a scrivere.<br />

L’altro giorno <strong>un</strong>a gentile giornalista, intervistandomi al<br />

telefono, mi ha domandato: “Ma lei, quando scrive?”. “Nei<br />

ritagli <strong>di</strong> tempo”, ho risposto. “Cioè?”. “Cioè quando posso. Ci<br />

sono certi mesi dell’anno che non scrivo nulla se non cose <strong>di</strong><br />

lavoro,” (questo è <strong>un</strong>o <strong>di</strong> quei mesi, e questo articolo è <strong>un</strong>a<br />

cosa <strong>di</strong> lavoro) “altri mesi che ci posso de<strong>di</strong>care le giornate. Poi<br />

ci sono mesi e mesi che non mi viene niente da scrivere”.<br />

“Quin<strong>di</strong> non ha l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> scrivere tutti i giorni, magari in<br />

certe ore?”. “Mi capita <strong>di</strong> scrivere la mattina presto, perché per<br />

costituzione sono <strong>un</strong>o che si sveglia presto. Ma altrettanto<br />

spesso mi capita <strong>di</strong> scrivere fino a notte tar<strong>di</strong>”. “E quando<br />

scrive, come si organizza?”. “Be’, mi metto lì e scrivo”. “Ascolta<br />

musica? Beve caffè? Fuma?”. “Ma no”, <strong>di</strong>co, “quando scrivo,<br />

scrivo. Mi ci concentro”. “E scrive su carta? Su fogli sciolti? Su<br />

quaderni? Con la penna? Con la matita?”. “Scrivo con il<br />

personal computer”. “Sempre? Anche le prime stesure?”.<br />

“Senta: mi sono seduto per la prima volta davanti a <strong>un</strong> pc nel<br />

1977, quando avevo 17 anni. Era <strong>un</strong> Apple IIe. Ho posseduto<br />

<strong>un</strong> Commodore 64, <strong>un</strong> Amstraad 1024, <strong>un</strong> Olidata formato<br />

lavatrice, <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> assemblati anonimi, e adesso finalmente<br />

ho <strong>un</strong> portatile. Nel 1982 ho cominciato a lavorare in <strong>un</strong> ufficio<br />

stampa, dove per prima cosa mi hanno messo davanti a <strong>un</strong><br />

terminale; e tre anni dopo siamo passati alla rete <strong>di</strong> personal,<br />

gli OS/2 dell’Ibm. In somma, ho attraversata <strong>un</strong> po’ tutta la<br />

storia della <strong>scrittura</strong> al pc, con qualche incursione nel mondo<br />

Apple. Per me la tastiera è il mezzo più naturale per scrivere”.<br />

Sento che la giornalista è perplessa. “Ho detto qualcosa che<br />

non va?”, domando. “No”, <strong>di</strong>ce, e aggi<strong>un</strong>ge: “Allora lei adesso,<br />

col portatile, scrive <strong>un</strong> po’ dove le capita”. “Ma, sì, mi ci sto<br />

41


abituando; è chiaro però che a casa mia lavoro meglio”. “In<br />

che stanza scrive?”. “Ho <strong>un</strong>o stu<strong>di</strong>olo incasinatissimo”. “Generi<br />

<strong>di</strong> conforto?”. “Ness<strong>un</strong>o”. “<strong>Non</strong> sente la nostalgia della carta,<br />

della penna che corre sulla carta?”. “No”. Altro silenzio della<br />

giornalista. Riattacco: “Guar<strong>di</strong>, se c’è <strong>un</strong>’esperienza poco<br />

mistica, per me, è proprio quella dello scrivere e del leggere.<br />

Viaggio parecchio, sempre in treno, e così il treno è <strong>di</strong>ventato<br />

la mia sala <strong>di</strong> lettura. E può essere sala <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>”. “Vuol <strong>di</strong>re<br />

che per lei il treno è <strong>di</strong>ventato necessario?”. “Ma no! Dico che è<br />

<strong>un</strong> posto come <strong>un</strong> altro, comodo per fare certe cose. Per<br />

lavarsi o mangiare non è comodo. Per telefonare nemmeno.<br />

Per leggere e scrivere sì”. “<strong>Non</strong> ha problemi a concentrarsi?”.<br />

“Quando lavoravo in ufficio stampa, eravamo quattro in <strong>un</strong>a<br />

stanza. Io ero la “macchina per scrivere” dell’ufficio, scrivevo<br />

quasi tutto. Il capo stava attaccato al telefono, perché il suo<br />

era lavoro <strong>di</strong> relazioni. Quello che impaginava le riviste girava<br />

attorno al tavolo luminoso, ritagliava, incollava, chiamava la<br />

tipografia, leggeva i testi a bassa voce per trovare i refusi.<br />

Quello della pubblicità (facevamo delle riviste tecniche,<br />

finanziate dalla pubblicità) stava anche lui sempre al telefono,<br />

quando non era in giro. Poi arrivava gente, parlava con me,<br />

con il capo, andava via. Lì dentro io confezionavo ogni giorno le<br />

mie <strong>di</strong>eci-quin<strong>di</strong>ci cartelle”. “Ma era <strong>un</strong>’alta cosa…”. “<strong>Non</strong> ci<br />

vuole meno concentrazione, per scrivere <strong>un</strong> articolo sulle<br />

nuove norme del ministero tedesco della sanità circa il<br />

confezionamento del gelato da passeggio, o per spiegare il<br />

meccanismo delle tariffe a forcella per l’autotrasporto <strong>di</strong><br />

collettame umido…”. “Ma che ufficio stampa era, scusi?”.<br />

“Un’associazione artigiana”.<br />

***<br />

Sono qui sul treno per Napoli, e scrivo. Attorno a me c’è<br />

gente che chiacchiera, telefona, fuma, va e torna dalla<br />

carrozza bar. Due bambini giocano agli in<strong>di</strong>ani. Due tipe<br />

quarantenni (l’età mia) si scambiano giornali tipo Chi e Oggi,<br />

commentando gli articoli. Tre napoletani giocano a carte<br />

strepitando. Un signore massiccio, a occhio sessantenne, alla<br />

mia sinistra, guarda fisso la ragazza che mi dormicchia <strong>di</strong>fronte<br />

(non più <strong>di</strong> ventiquattr’anni, maglietta rossa attillata, capezzoli<br />

prominenti). Una studentessa molla il libro e prende il gameboy,<br />

bip-bip-bpi. Più in là, quattro soldatini in licenza<br />

schiamazzano. Dietro <strong>di</strong> me <strong>un</strong> giapponese strilla nel telefono,<br />

velocissimo, a scatti, ripetendo tutto due volte (anche se è<br />

giapponese, capisco che ripete tutto due vole). In <strong>un</strong>a nota in<br />

42


fondo a Senza sangue Alessandro Baricco ringrazia l’istituzione<br />

che lo ha ospitato durante la stesura dello stesso Senza sangue<br />

(<strong>un</strong> museo stat<strong>un</strong>itense, se non ricordo male) per avergli<br />

garantito (cito a memoria, sono in treno) “quel silenzio senza il<br />

quale ness<strong>un</strong>a opera può nascere”.<br />

Dostoevskij scriveva tutto il giorno per le riviste, la sera si<br />

ubriacava <strong>di</strong> brutto, giocava e perdeva a carte, a volte gli<br />

veniva <strong>un</strong> attacco epilettico; sua moglie andava a raccoglierlo<br />

da sotto il tavolo dell’osteria, lo tirava a casa, gli metteva la<br />

testa sotto l’acqua fredda; e lui allora si metteva buono buono<br />

a scrivere i Karamazov. Che relazione ci sarà mai, tra il silenzio<br />

e il rumore, tra l’opera e il silenzio e il rumore? A me piacciono<br />

<strong>di</strong> più i libri scritti in mezzo al rumore, credo. E mi sembra <strong>di</strong><br />

sentirlo, mentre leggo. Viva il rumore! Sono le <strong>un</strong><strong>di</strong>ci e cinque,<br />

finito l’articolo. 6.000 battute esatte. A risentirci.<br />

Chiacchierata numero 18<br />

Buongiorno. Due settimane fa, prima <strong>di</strong> interrompermi per<br />

parlare del rumore, <strong>di</strong>cevo: che l’innamoramento può essere<br />

<strong>un</strong> modello della relazione tra lo scrivente e il lettore; e che<br />

come si hanno verso la persona amata sia il desiderio <strong>di</strong><br />

possederla sia il desiderio che sia totalmente sé stessa, ossia<br />

libera, così lo scrivente desidera dominare l’immaginazione del<br />

lettore pur sapendo che il lettore, <strong>di</strong> ciò che egli scrive, farà ciò<br />

che vuole.<br />

Mi imbatto continuamente, nei laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> che<br />

conduco, in persone che mi <strong>di</strong>cono: “Io scrivo soprattutto per<br />

me”. Bene. Scrivere per sé è <strong>un</strong>’attività completamente <strong>di</strong>versa<br />

dallo scrivere per <strong>un</strong> altro. <strong>Non</strong> voglio <strong>di</strong>re che lo scrivere per<br />

<strong>un</strong> altro sia più lodevole dello scrivere per <strong>un</strong> altro. Dico che<br />

sono due cose <strong>di</strong>verse. Potrei esagerare e <strong>di</strong>re che scrivere per<br />

<strong>un</strong> altro è letteratura, scrivere per sé non è letteratura. Questo<br />

non significa che testi scritti per sé non possano essere assai<br />

belli; né significa che testi scritti per <strong>un</strong> altro siano<br />

necessariamente belli.<br />

Mi imbatto continuamente anche in persone che mi <strong>di</strong>cono:<br />

“Scrivo per esprimermi”. Esprimersi significa, letteralmente,<br />

spremersi fuori, spremere qualcosa <strong>di</strong> sé fuori <strong>di</strong> sé. Ecco, io<br />

<strong>di</strong>rei che scrivere per <strong>un</strong> altro è l’attività esattamente opposta:<br />

è andare verso l’altro. E confesso che (io sono, come chi<strong>un</strong>que,<br />

prima <strong>di</strong> tutto <strong>un</strong> lettore) a me, <strong>un</strong>o tutto intento a spremersi<br />

43


fuori <strong>di</strong> sé, m’interessa poco. M’interessa poco perché, alla fin<br />

fine, mi pare che a lui interessi poco <strong>di</strong> me. Invece, <strong>un</strong>o che<br />

viene verso <strong>di</strong> me, m’interessa: proprio perché viene verso <strong>di</strong><br />

me.<br />

Nell’innamoramento ci sono, mi pare, entrambe le cose. C’è<br />

<strong>un</strong>o spremersi fuori <strong>di</strong> sé, e c’è <strong>un</strong> andare verso l’altro. Ma la<br />

prima cosa, è l’andare verso l’altro. Se io vado verso l’altra<br />

persona, l’altra persona può accettarmi. Quando l’altra persona<br />

mi avrà accettato, allora potrò - <strong>di</strong> tanto in tanto - spremermi<br />

fuori <strong>di</strong> me. Il mio andare verso l’altra persona avrà prodotta<br />

<strong>un</strong>a <strong>di</strong>sponibilità dell’altra persona verso <strong>di</strong> me; e dentro<br />

questa <strong>di</strong>sponibilità (aggi<strong>un</strong>go: nei limiti <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>sponibilità)<br />

io potrò spremermi fuori <strong>di</strong> me. Altrettanto accade all’altra<br />

persona: il suo accettarmi non è altro che <strong>un</strong> venire verso <strong>di</strong><br />

me; io allora la accetterò; e dentro questa mia accettazione,<br />

questa mia <strong>di</strong>sponibilità, l’altra persona potrà spremersi fuori <strong>di</strong><br />

sé.<br />

Quando comincio a raccontare, è necessario che io vada verso<br />

il lettore. Devo innanzitutto desiderare che il lettore esista. Poi<br />

dovrò desiderare la sua persona: la presenza, la compagnia,<br />

l’attenzione, la continuità. Poi dovrò desiderare <strong>di</strong> essere<br />

accettato da lui. Poi, se mi avrà accettato, dovrò esplorare<br />

questa sua accettazione: misurare la sua <strong>di</strong>sponibilità. A quel<br />

p<strong>un</strong>to, conoscerò i limiti entro i quali potrò anche esprimermi,<br />

spremermi fuori <strong>di</strong> me. Se io mi piazzassi là, subito, davanti a<br />

lui, e - trac! - mi spremessi fuori da me, il lettore<br />

probabilmente mi rifiuterebbe. <strong>Non</strong> saprei dargli torto.<br />

Le persone che, nei laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, parlano della<br />

propria <strong>scrittura</strong> come <strong>di</strong> <strong>un</strong>’espressione, fanno spesso <strong>un</strong><br />

paragone: tra la <strong>scrittura</strong> e il vomito. Quando questo succede,<br />

io <strong>di</strong>co: “Scusa, ma se queste pagine tu le hai “vomitate”,<br />

come <strong>di</strong>ci, per quale ragione io dovrei mettermi a leggere il tuo<br />

vomito? Che persona pensi che io sia, se mi dai da leggere il<br />

tuo vomito?”.<br />

***<br />

Certo: nell’innamoramento, la persona verso la quale andare<br />

è lì. Magari è inaccessibile, magari ci ha già scacciati <strong>un</strong>a<br />

dozzina <strong>di</strong> volte dalla sua presenza, magari è morta, magari<br />

non si accorge <strong>di</strong> noi; tuttavia, è lì. Il lettore, invece, dov’è?<br />

Chi l’ha visto? Com’è fatto?<br />

Ma io conosco il lettore. Infatti, come ho detto, e come<br />

chi<strong>un</strong>que, io sono <strong>un</strong> lettore. So che cosa mi succede, mentre<br />

leggo. Nella lettura faccio <strong>un</strong>o sdoppiamento: leggo, e guardo<br />

44


che cosa mi succede mentre leggo. Spio le mie reazioni. Mi<br />

conosco. Mi imparo. “Ma a questo p<strong>un</strong>to”, <strong>di</strong>rà qualc<strong>un</strong>o, “il<br />

lettore sei sempre tu! Quin<strong>di</strong> hai poco da parlare <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

<strong>scrittura</strong> che va verso l’altra persona!”. E invece no. Che<br />

conoscenza posso avere, io, dell’altra persona, se non<br />

attraverso la conoscenza che ho <strong>di</strong> me? Gesù <strong>di</strong> Nazareth<br />

<strong>di</strong>ceva, o si tramanda che abbia detto: “Ama il tuo prossimo<br />

come te stesso”; anche lui, quin<strong>di</strong>, che pure proponeva la<br />

de<strong>di</strong>zione all’altro come massima virtù, metteva al primo<br />

posto, come amore originario, in base al quale tutti gli altri<br />

amori si definiscono, l’amore verso <strong>di</strong> sé.<br />

“La prima volta che ho fatto all’amore”, mi ha detto <strong>un</strong>a volta<br />

<strong>un</strong> ragazzo, in <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, “non avevo la minima<br />

idea <strong>di</strong> che cosa fossero il desiderio, il piacere, il bisogno della<br />

ragazza con cui ero. Ho capito poi, che solo attraverso il<br />

desiderio il piacere il bisogno miei potevo arrivare a<br />

<strong>un</strong>’intuizione”.<br />

Essendo lettore, faccio d<strong>un</strong>que esperienza<br />

dell’innamoramento che colui <strong>di</strong> cui sto leggendo <strong>un</strong> testo ha<br />

verso <strong>di</strong> me. Su questa esperienza d’innamoramento subito, <strong>di</strong><br />

amore ricevuto - che è originaria - fondo la mia capacità <strong>di</strong><br />

innamoramento verso colui che leggerà ciò che io scrivo.<br />

Qualche scrittore banalmente <strong>di</strong>ce: “Scrivo i libri che mi<br />

piacerebbe leggere”. Ma questo è solo <strong>un</strong> primo passo: eleggo<br />

me lettore a modello <strong>di</strong> tutti i lettori. È ancora <strong>un</strong>a cosa molto<br />

egocentrica. Propongo <strong>di</strong> fare <strong>un</strong> passo avanti: adopero la mia<br />

esperienza <strong>di</strong> lettura per immaginarmi come possa essere<br />

l’esperienza <strong>di</strong> lettura <strong>di</strong> <strong>un</strong>’altra persona.<br />

Si <strong>di</strong>ce spesso: “Vuoi scrivere? Allora leggi!”. Il consiglio è<br />

buono: ma non perché leggere serva a imparare la buona<br />

forma, il lessico, l’arrotondamento delle frasi, l’abilità<br />

descrittiva, l’efficacia del <strong>di</strong>alogo, l’incatenamento della trama;<br />

sì, certo, leggere serve anche a questo; ma questa è la parte<br />

tecnica della faccenda; leggere serve prima <strong>di</strong> tutto a costituire<br />

la propria esperienza <strong>di</strong> lettore.<br />

Un lettore mi ha scritto: “Ho smesso <strong>di</strong> leggere la sua rubrica<br />

perché lei non arriva mai al d<strong>un</strong>que”. Bene: secondo me,<br />

questo è il d<strong>un</strong>que. Settimana prossima ci torno su. State<br />

bene.<br />

45


Chiacchierata numero 19<br />

Buongiorno. Dicevo la settimana scorsa, che lo scrivere per sé<br />

è <strong>un</strong>a cosa del tutto <strong>di</strong>versa dallo scrivere per <strong>un</strong>’altra persona.<br />

Dicevo che il lettore, non l’autore, costituisce il testo. Ciò che è<br />

scritto, esiste veramente in quanto viene letto. Queste sono<br />

cose nelle quali credo molto. Sono fermamente convinto che le<br />

persone che provano, vogliono, desiderano molto “scrivere”, e<br />

tuttavia scrivono cose bruttissime (sono tante, purtroppo),<br />

sono proprio persone che non riescono a concepire lo scrivere<br />

come <strong>un</strong> andare verso l’altro.<br />

Detto questo: nei giorni scorsi ho avviato <strong>un</strong> blog. <strong>Non</strong> sto a<br />

spiegare che cosa tecnicamente sia <strong>un</strong> blog: per sommi capi, si<br />

chiama blog <strong>un</strong>a tecnologia che permette <strong>di</strong> pubblicare nel web<br />

con estrema facilità. Pubblicare <strong>un</strong> testo nel proprio blog non è<br />

più complicato che spe<strong>di</strong>re <strong>un</strong>’e-mail (so che per molti anche le<br />

e-mail sono <strong>un</strong> mistero; ma non so che farci; non sono cose<br />

in<strong>di</strong>spensabili, come non è in<strong>di</strong>spensabile leggere questo<br />

articolo). Quasi tutti i portali italiani (Clarence, Virgilio ecc.)<br />

danno la possibilità <strong>di</strong> aprire dei blog (gratis). Basta iscriversi.<br />

Il bello del blog (che si chiama così, mi <strong>di</strong>cono, perché è <strong>un</strong>a<br />

contrazione <strong>di</strong> web log, “<strong>un</strong>a traccia nel web”) è che tutti i<br />

pezzi che pubblicate vengono impaginati automaticamente <strong>un</strong>o<br />

sotto l’altro, corredati <strong>di</strong> data e ora. Appena spe<strong>di</strong>te <strong>un</strong> pezzo<br />

nuovo, questo finisce in cima alla pagina; mentre gli altri<br />

scorrono verso il basso. Un po’ come certi<br />

espositori/<strong>di</strong>stributori <strong>di</strong> pacchetti <strong>di</strong> caramelle, per spiegarsi.<br />

Questo metodo d’impaginazione, se ci pensate, sembra fatto<br />

apposta per tenere <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario. E già, <strong>di</strong>rete voi: ma chi è che si<br />

mette a tenere <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario nel web? Risposta: <strong>un</strong> sacco <strong>di</strong> gente.<br />

Pare che in Italia ci siano già circa quin<strong>di</strong>cimila blog attivi.<br />

Vabbè: come in tutte le cose del web, facciamo conto che <strong>un</strong><br />

terzo siano già “morti”. <strong>Non</strong> tutti sono dei <strong>di</strong>ari. Io ne ho<br />

visitati <strong>un</strong> po’, ma sono ancora all’inizio dell’esplorazione. C’è<br />

<strong>un</strong> bel libro che parla <strong>di</strong> questo <strong>un</strong>iverso: Mondo blog. Storie<br />

vere <strong>di</strong> gente in rete, pubblicato da Hops Libri<br />

(www.hopslibri.it), e curato da La Pizia, da <strong>un</strong>a “blogger”<br />

(bloggatrice? mah!) assai popolare e stimata. Io ho la<br />

sensazione che la forma-<strong>di</strong>ario sia dominante. Il grande<br />

giornalista che ogni giorno, alle <strong>un</strong><strong>di</strong>ci del mattino, scrive nel<br />

suo blog quali articoli della stampa internazionale gli sono<br />

sembrati più interessanti, e mette eventualmente i link alle<br />

e<strong>di</strong>zioni on-line dei vari Financial Times o Le Monde: be’,<br />

46


questo giornalista non tiene <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario vero e proprio, ma<br />

sicuramente usa la forma del <strong>di</strong>ario.<br />

Tornando a noi: qualche giorno fa, <strong>di</strong>cevo, ho aperto <strong>un</strong> blog.<br />

<strong>Non</strong> so bene perché l’ho fatto. Io non ho mai tenuto <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario.<br />

Per <strong>un</strong> certo tempo, quando avevo 13-16 anni, scrivevo delle<br />

cose in certi quaderni. Ma non erano <strong>di</strong>ari. Com<strong>un</strong>que non li ho<br />

più. (Nei blog, tutto ciò che scrivete e pubblicate viene<br />

automaticamente archiviato per data, mese e anno: senza che<br />

voi dobbiate far nulla. Nulla va perduto, a meno che voi non lo<br />

cancelliate apposta). L’idea <strong>di</strong> tenere <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario mi è sempre<br />

sembrata <strong>un</strong>’idea bizzarra. Eppure ho aperto <strong>un</strong> blog, senza<br />

sapere bene perché lo facevo. E mi sono trovato, senza volerlo<br />

e quasi senza saperlo, a scrivere <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario.<br />

In realtà, sono anni che tengo <strong>di</strong>ari. Per anni mi sono scritto<br />

settimanalmente con <strong>un</strong>’amica (oggi ci sentiamo <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong><br />

meno, e soprattutto al telefono). Da anni telefono ogni giorno<br />

alla donna della mia vita (che abita abbastanza lontano da<br />

dove abito io) e ci raccontiamo più o meno che cos’è successo<br />

durante il giorno. La mia vita, le minuzie della mia vita, le<br />

racconto pur sempre, a ritmi più o meno fitti, a <strong>un</strong> certo<br />

numero <strong>di</strong> persone care. Così, nel momento in cui mi sono<br />

trovato <strong>di</strong>fronte la “Pagina Principale” del mio blog, non ho<br />

avuto esitazioni. Ho raccontato ciò che avevo appena finito <strong>di</strong><br />

raccontare a qualc<strong>un</strong> altro.<br />

Nel giro <strong>di</strong> poche ore (la cosa mi ha lasciato assai stupito,<br />

devo <strong>di</strong>re) qualche navigatore del web aveva beccata la mia<br />

pagina; e aveva depositata nella casella dei “commenti” (altro<br />

accessorio automatico del blog) qualche battuta <strong>di</strong> saluto o <strong>di</strong>,<br />

app<strong>un</strong>to, commento. Bene, mi sono detto: <strong>di</strong> nuovo, non sono<br />

solo. Questo che ho scritto, che scrivo, non è per me solo.<br />

***<br />

Ricapitolando: l’esperienza <strong>di</strong> raccontare le mie giornate,<br />

pressoché quoti<strong>di</strong>anamente, a qualc<strong>un</strong>o, mi ha messo in grado<br />

<strong>di</strong> iniziare <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario: il cui stile <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> ecc. ricalca, me ne<br />

accorgo bene, proprio questi racconti orali. D’altra parte, ho<br />

iniziato a tenere <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario solo quando mi sono reso conto che<br />

esisteva <strong>un</strong>o strumento per tenere facilmente <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario non<br />

privato, ma pubblico.<br />

<strong>Non</strong> è che io desideri migliaia <strong>di</strong> lettori per il mio <strong>di</strong>ario. <strong>Non</strong><br />

credo che i fatterelli della mia vita quoti<strong>di</strong>ana siano<br />

particolarmente interessanti (la lite col bigliettaio, la signora<br />

stramba incontrata in treno, la telefonata piena <strong>di</strong> equivoci: ciò<br />

che succede a tutti). Ma credo che <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario non pubblico, non<br />

47


sarei mai riuscito a tenerlo.<br />

Perché, app<strong>un</strong>to, <strong>un</strong>a <strong>scrittura</strong> che non presupponga <strong>un</strong><br />

lettore, non esiste.<br />

Dovrò confrontarmi con qualc<strong>un</strong>o, su queste cose. Ad<br />

esempio con il mio amico Giuseppe Caliceti, scrittore emiliano,<br />

che dal 14 luglio del 2000 tiene <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario in pubblico (non in<br />

forma <strong>di</strong> blog; ma questo non c’entra, è solo <strong>un</strong> aspetto<br />

tecnologico) nelle pagine <strong>di</strong> www.emilianet.it (per leggerlo,<br />

cliccare sulla <strong>di</strong>citura: “Pubblico/privato”), (e ne ha anche fatto<br />

<strong>un</strong> libro, Pubblico / Privato 0.1, e<strong>di</strong>to da Sironi). O con la<br />

scrittrice Francesca Mazzucato, blogger credo della prim’ora<br />

(http://francescamazzuccato.splinder.it), che anche lei ha fatto<br />

<strong>di</strong>ventare il suo blog <strong>un</strong> libro (Diario <strong>di</strong> <strong>un</strong>a blogger, Marsilio).<br />

Ma bisognerebbe fare tutto <strong>un</strong> <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>, sulla <strong>scrittura</strong> e le<br />

scritture nel web. Con calma. Buona settimana.<br />

(Ah, il mio blog? È all’in<strong>di</strong>rizzo<br />

http://giuliomozzi.clarence.com. Ma non aspettatevi gran<strong>di</strong><br />

cose. Magari potrei consigliarvi <strong>un</strong> blog per settimana, d’ora in<br />

poi. Se la cosa interessa. Fàtemi sapere).<br />

Chiacchierata numero 20<br />

Buongiorno. Mi pare che ci siamo <strong>un</strong> po’ persi, tra <strong>di</strong>scorsi<br />

sulla relazione con il lettore come relazione <strong>di</strong> seduzione e<br />

innamoramento, e chiacchiere sui blog, ossia sulle scritture<br />

<strong>di</strong>aristiche nella rete. Ma non ci siamo persi per nulla. Scrivere<br />

tutti i giorni qualcosa, in <strong>un</strong> luogo pubblico, significa dover risedurre,<br />

<strong>di</strong> volta in volta, il lettore (vale anche per questa<br />

rubrichetta settimanale).<br />

Qualche giorno fa <strong>un</strong>a tipa sconosciuta mi ha scritto per posta<br />

elettronica: “Senti, Giulio. Ho letto il tuo libro Il male naturale.<br />

Poi ho letto il tuo libro Il culto dei morti nell’Italia<br />

contemporanea. Ci ho pensato su. Bisogna assolutamente che<br />

noi scopiamo”, segue in<strong>di</strong>rizzo, telefono ecc. È curioso che<br />

questo cortocircuito avvenga (rileggete i titoli dei due libri)<br />

attraverso il coté più necrofilo della mia <strong>scrittura</strong> (voglio <strong>di</strong>re,<br />

sarebbe tutt’altra cosa essere presi <strong>di</strong> mira per aver scritto La<br />

felicità terrena, no?): d’altra parte so bene che <strong>un</strong>o dei due<br />

libri in questione, Il male naturale, che è il mio più brutto libro,<br />

è il mio più brutto libro perché è <strong>un</strong> libro che ho scritto per me.<br />

In <strong>un</strong>a noterella nell’ultima pagina, ho scritto ad<strong>di</strong>rittura:<br />

“Credo che fare questo libro mi abbia salvato la pelle e quin<strong>di</strong><br />

48


m’importa poco del male che potrà fare ad altre persone”.<br />

Eppure, anche <strong>un</strong> libro che io, sbagliando, ho scritto prima <strong>di</strong><br />

tutto per me, è riuscito a operare delle seduzioni. L’e-mail che<br />

ho ricevuta qualche giorno fa, ne è testimonianza. D’altra<br />

parte, mi pare indubbio che quella lettera è <strong>un</strong>a lettera<br />

impropria. Che risponde, suppongo, all’improprietà dell’atto <strong>di</strong><br />

com<strong>un</strong>icazione che ho compiuto io. Ho scritto prima <strong>di</strong> tutto<br />

per me, e il risultato è che il libro, per così <strong>di</strong>re, non è <strong>un</strong> libro.<br />

Un vero libro fa venire voglia al lettore <strong>di</strong> raccontare a sua<br />

volta delle storie, non <strong>di</strong> copulare con l’autore.<br />

Tutto questo per <strong>di</strong>re: che bisogna stare attenti con la<br />

seduzione. Se il lettore è il mio desiderio, è bene che io abbia<br />

<strong>un</strong>’idea <strong>di</strong> come è fatto il mio desiderio. Una buona relazione<br />

amorosa, lo sanno tutti tranne certi adolescenti e i quarantenni<br />

<strong>di</strong>sperati, non è “solo sesso” (e non è neanche, lo sanno tutti<br />

tranne gli altri adolescenti, “puro spirito”). Io ho fatta <strong>un</strong>a<br />

curiosa cosa, con i miei libri: in alc<strong>un</strong>i agisco verso il lettore <strong>un</strong><br />

desiderio “puro spirito”, in altri agisco verso il lettore <strong>un</strong><br />

desiderio “solo sesso”. I “puro spirito” sono meglio dei “solo<br />

sesso”; ciò non toglie che siano libri intimamente <strong>di</strong>fettosi.<br />

Chi<strong>un</strong>que conosce almeno <strong>un</strong>a “coppia perfetta”: lui e lei<br />

sembrano veramente in<strong>di</strong>ssolubili. <strong>Non</strong> che siano come i lui e le<br />

lei del mulino bianco: sono <strong>un</strong> lui e <strong>un</strong>a lei dotati <strong>di</strong> personalità,<br />

che litigano abbondantemente, che non sono d’accordo su<br />

nulla, e così via: però sembrano veramente in<strong>di</strong>ssolubili. Io,<br />

<strong>di</strong>fronte a coppie così, mi rendo conto che non sono capace <strong>di</strong><br />

capire. Eppure, a <strong>di</strong>rla, è <strong>un</strong>a cosa così semplice: sono persone<br />

che si amano integralmente. <strong>Non</strong> sono né “solo sesso” né<br />

“puro spirito”, non fanno <strong>di</strong>stinzioni <strong>di</strong> alc<strong>un</strong> tipo nel loro<br />

desiderio. Lui ama lei, desidera lei; lei ama lui, desidera lui. Lui<br />

non ama, che so, la dolcezza <strong>di</strong> lei, i begli occhi <strong>di</strong> lei, il ventre<br />

caldo <strong>di</strong> lei; lei non ama, che so, le chiappe sode <strong>di</strong> lui, la<br />

calma <strong>di</strong> lui, le orecchie buffe <strong>di</strong> lui: no, si amano<br />

integralmente.<br />

Allo stesso modo, ci sono degli scrittori che investono il<br />

lettore con <strong>un</strong> desiderio integrale. <strong>Non</strong> sono tanti. Qualche<br />

settimana fa parlavo <strong>di</strong> quei narratori che riescono a pensare le<br />

loro narrazioni come “totalità organizzate”; costoro, scrivevo,<br />

si concedono <strong>un</strong>o smisurato egocentrismo, ossia escludono<br />

dalla loro mente qual<strong>un</strong>que pensiero che non concerna il<br />

pensare la <strong>narrazione</strong> come “totalità organizzata”. Bene: <strong>un</strong><br />

narratore che riesce a pensare le sue narrazioni come “totalità<br />

organizzate”, è <strong>un</strong>o scrittore che investe il lettore con <strong>un</strong><br />

desiderio integrale. Egli non desidera, infatti, che il lettore sia<br />

avvinto da questa o quella cosa presente nel testo: desidera<br />

49


che il lettore sia avvinto da cima a fondo, per tutto il tempo<br />

della lettura.<br />

Il paradosso apparente è d<strong>un</strong>que questo: solo il narratore<br />

dotato <strong>di</strong> <strong>un</strong>o smisurato egocentrismo è capace <strong>di</strong> investire il<br />

lettore con <strong>un</strong> desiderio integrale. Come <strong>di</strong>re, che solo <strong>un</strong>a<br />

coppia <strong>di</strong> egocentrici smisurati può amarsi integralmente.<br />

D’altra parte, l’ho ricordato due settimane fa, ci fu <strong>un</strong>o che<br />

<strong>di</strong>sse: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Ossia: l’altruista<br />

assoluto, dovendo definire l’amore per l’altro, prende come<br />

modello l’amore per sé.<br />

***<br />

A chi mi <strong>di</strong>ce: “Ma, in somma, questo lettore del quale parli<br />

sempre, che cos’è? È <strong>un</strong> lettore ideale? È <strong>un</strong> “lettore modello”,<br />

così come definito da Umberto Eco? È “il pubblico”? È <strong>un</strong>a tua<br />

costruzione mentale? È il risultato della tua ormai pluriennale<br />

interazione, interna ed esterna ai libri, con i lettori? Che cos’è<br />

questo cavolo <strong>di</strong> lettore <strong>di</strong> cui parli sempre?”. Posso rispondere<br />

solo questo: è la proiezione del mio desiderio, del mio<br />

desiderio <strong>di</strong> <strong>un</strong> altro. Purtroppo io non sono tanto forte, e non<br />

sono nemmeno capace <strong>di</strong> concepire <strong>un</strong> completo desiderio <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> altro. Questo altro che desidero, è altro da me solo in parte,<br />

forse in piccola parte.<br />

Ma <strong>di</strong>cevo anche, qualche settimana fa, che <strong>di</strong> narratori<br />

capaci <strong>di</strong> pensare la <strong>narrazione</strong> come “totalità organizzata”,<br />

ossia <strong>di</strong> investire il lettore con <strong>un</strong> desiderio integrale, ossia <strong>di</strong><br />

concepire <strong>un</strong> completo desiderio <strong>di</strong> <strong>un</strong> altro, io ne conosco tre,<br />

in Italia. In parecchi mi hanno scritto per <strong>di</strong>rmi: “Fuori i nomi,<br />

e i titoli”. Allora: Antonio Moresco, Gli esor<strong>di</strong>, Feltrinelli;<br />

Vitaliano Trevisan, Un mondo meraviglioso, Theoria, appena<br />

ripubblicato da Einau<strong>di</strong>; Aldo Busi, Vita standard <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

ven<strong>di</strong>tore provvisorio <strong>di</strong> collant, Mondadori. E a questi tre<br />

aggi<strong>un</strong>gerei <strong>un</strong> quarto, che è <strong>un</strong>a mia personale scommessa:<br />

Umberto Casadei, Il suici<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Angela B., Sironi. Buone letture.<br />

(“Ehi, ehi! E la tipa dell’e-mail?”. “Le ho risposto: non se ne<br />

parla neanche”. “E il blog settimanale?”. “Sì. Visitate questo, vi<br />

piacerà: http://morenatartari.clarence.com”).<br />

50


Chiacchierata numero 21<br />

Buongiorno, buongiorno. Gianni Bonina, nella prima pagina<br />

dello s<strong>corso</strong> numero <strong>di</strong> Stilos, parlava <strong>di</strong> fotogafia cominciando<br />

così: “Chi, davanti alla macchina fotografica, guarda l’obiettivo,<br />

assume <strong>un</strong>a posa, atto che significa cedere volontariamente la<br />

propria immagine”. Poi Bonina faceva altre considerazioni; ma<br />

a me serve solo questa frase qui.<br />

Potrei <strong>di</strong>re: “Chi scrive <strong>un</strong> testo affinché (o con la speranza<br />

che) sia pubblicato, assume <strong>un</strong>a posa, atto che significa cedere<br />

volontariamente la propria immagine”. A me piacciono molto le<br />

fotografie con le persone messe in posa. Quando guardo <strong>un</strong>a<br />

fotografia presa al volo, ho la sensazione <strong>di</strong> vedere<br />

<strong>un</strong>’immagine rubata: <strong>un</strong>’immagine tutta <strong>di</strong> proprietà del<br />

fotografo, nella quale la responsabilità del fotografato è quasi<br />

nulla. Quando guardo la fotografia <strong>di</strong> <strong>un</strong>a persona messa in<br />

posa, ho la sensazione <strong>di</strong> vedere <strong>un</strong>’immagine, <strong>di</strong>ciamo così,<br />

cooperata: <strong>un</strong>’immagine <strong>di</strong> proprietà tanto del fotografo quanto<br />

del fotografato, nella quale la responsabilità è con<strong>di</strong>visa.<br />

Chi scrive <strong>un</strong> testo, si mette in posa da solo. È insieme il<br />

fotografo e il fotografato. La persona che si mette in posa<br />

davanti al fotografo, decide non solo <strong>di</strong> “cedere<br />

volontariamente la propria immagine”, ma anche <strong>di</strong> “offrire<br />

deliberatamente <strong>un</strong>a determinata immagine <strong>di</strong> sé”. Certo: ci<br />

sono fotografati più o meno consapevoli della faccenda, più o<br />

meno capaci <strong>di</strong> immaginare che fotografia uscirà fuori, più o<br />

meno in grado <strong>di</strong> immaginare i possibili significati che la<br />

fotografia produrrà. E ci sono fotografati che non sono in grado<br />

<strong>di</strong> immaginare né questo né quello.<br />

Tuttavia, ciò che mi interessa è soprattutto l’ass<strong>un</strong>zione <strong>di</strong><br />

responsabilità. “Ci mettiamo qui. No, lì. Guarda <strong>di</strong> qua. Alza il<br />

mento. Apri gli occhi. Guardami da sopra le spalle. Pensa a<br />

qualcosa <strong>di</strong> bello. <strong>Non</strong> aprire la bocca”: il fotografo potrà potrà<br />

manipolarmi quanto vuole; ma avrà sempre il mio consenso, e<br />

quin<strong>di</strong> la mia ass<strong>un</strong>zione <strong>di</strong> responsabilità.<br />

Ora: il contenuto della fotografia non è la persona ritratta; è<br />

l’ass<strong>un</strong>zione <strong>di</strong> responsabilità che la persona ritratta fa. Una<br />

fotografia non mi <strong>di</strong>ce che Tizio è fatto così e/o cosà; mi <strong>di</strong>ce<br />

che Tizio si prende questa e/o quella e/o quest’altra<br />

responsabilità.<br />

E non parlo <strong>di</strong> foto eccezionali, eh!: parlo <strong>di</strong> foto qual<strong>un</strong>que,<br />

normali.<br />

Chi scrive, mette in ciò che scrive la sua persona; ma quando<br />

51


io leggo ciò che Caio ha scritto, ciò che percepisco non è che<br />

Caio è fatto così e/o cosà; ma che Caio si prende questa e/o<br />

quella e/o quest’altra responsabilità. E non c’è neanche <strong>un</strong><br />

fotografo con cui con<strong>di</strong>viderla.<br />

<strong>Non</strong> sto parlando dell’autobiografia o dell’autobiografismo, sia<br />

chiaro. Oppure: Samuel Beckett, che scriveva quel che<br />

scriveva Samuel Beckett, <strong>di</strong>ceva: “In fondo, tutto è<br />

autobiografia”; solo in questo senso, se proprio volete, potrei<br />

<strong>di</strong>re che parlo <strong>di</strong> autobiografia. Ma preferisco evitare questa<br />

parola. Dico: sto parlando del mettere la propria persona in ciò<br />

che si scrive.<br />

Io racconto <strong>un</strong>a storia. Dico cose, ometto <strong>di</strong> <strong>di</strong>re cose. Uso<br />

<strong>un</strong>a certa retorica, ne uso <strong>un</strong>’altra. Faccio scelte: cioè, mi<br />

metto in posa; cioè, mi assumo <strong>un</strong>a responsabilità.<br />

Se <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> è <strong>un</strong> atto <strong>di</strong> com<strong>un</strong>icazione (e non venitemi<br />

a <strong>di</strong>re che non lo è) allora (secondo il vecchio motto che “il<br />

mezzo è il messaggio”) il vero contenuto della com<strong>un</strong>icazione è<br />

la posa che prendo, la responsabilità che assumo. Chi <strong>di</strong>ce: “Io<br />

non metto filtri alla mia mente quando scrivo… Lascio che passi<br />

tutto… <strong>Non</strong> do forme precostituite al mio testo…” e/o cose<br />

simili, <strong>di</strong>ce veramente: “<strong>Non</strong> mi prendo la responsabilità <strong>di</strong> ciò<br />

che ho scritto. Rivolgetevi al mio inconscio, o al massimo al<br />

mio pusher”.<br />

Se <strong>un</strong> testo è (immaginariamente, non realmente) come <strong>un</strong>a<br />

mia fotografia, allora c’è poco da girarci attorno; il materiale è<br />

quello, la carne è quella; tutto sta nella posa, nel come<br />

<strong>di</strong>sporrò la carne nello spazio dell’inquadratura.<br />

Che poi il testo produca davanti al lettore cose raccontate che<br />

vengono dalla cosiddetta realtà, dai cosiddetti vissuti personali,<br />

dalla cosiddetta vita vissuta; oppure cose raccontate <strong>di</strong> pura<br />

invenzione; non cambia niente. Beckett <strong>di</strong>rebbe: “In fondo, è<br />

pur sempre autobiografia”.<br />

***<br />

<strong>Non</strong> so voi; sarà che sono miope; ma io riconosco le persone,<br />

da <strong>un</strong> po’ lontano, soprattutto dalle posture e dai movimenti; il<br />

corpo e la faccia, li vedo dopo. Soprattutto il modo <strong>di</strong><br />

camminare, riconosco.<br />

Vi ricordate il professore del film L’attimo fuggente? Quello<br />

che portava i ragazzi a passeggiare in cortile, e <strong>di</strong>ceva loro (più<br />

o meno): l’andatura è lo stile, lo stile è l’uomo, l’andatura è<br />

l’uomo. Ecco: il vostro stile è l’andatura del vostro testo (che,<br />

immaginariamente, corrisponderà all’andatura del vostro<br />

corpo). Ma l’andatura <strong>di</strong> <strong>un</strong> testo è <strong>un</strong> effetto illusorio: perché il<br />

52


testo è fermo (si muove il lettore). Il testo è la fotografia <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

corpo in posa. L’essere in posa, postura, è, volendo costringere<br />

le parole a <strong>di</strong>re proprio quello che ci serve, <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong><br />

andatura da fermo.<br />

Dove voglio arrivare? Ma, voglio tornare al principio, alla frase<br />

<strong>di</strong> Bonina: “Chi, davanti alla macchina fotografica, guarda<br />

l’obiettivo, assume <strong>un</strong>a posa, atto che significa cedere<br />

volontariamente la propria immagine”. Guardate le singole<br />

parole. Macchina. Obiettivo. Assumere <strong>un</strong>a posa. Atto. Cedere.<br />

Volontariamente. Immagine. Paragonate ciasc<strong>un</strong>a <strong>di</strong> queste<br />

parole a ciò che avviene con il testo scritto. Pensate al lettore<br />

come a <strong>un</strong>a macchina. All’obiettivo come a ciò che serve al<br />

lettore per “mettere a fuoco” il vostro testo, ossia<br />

comprenderlo. All’assumere <strong>un</strong>a posa come a <strong>un</strong> assumere<br />

responsabilità. Al testo come a <strong>un</strong> atto. Alla lettura come a <strong>un</strong>a<br />

cessione. Alla volontarietà, non in<strong>di</strong>spensabilità, del vostro atto<br />

<strong>di</strong> scrivere e far leggere. Pensate al testo come a <strong>un</strong>’immagine<br />

<strong>di</strong> voi, carne e ossa: <strong>di</strong>stinta quin<strong>di</strong> da voi, poiché <strong>un</strong>’immagine<br />

è <strong>un</strong>’immagine e voi siete voi; della quale vi prendete la<br />

responsabilità; della quale, ciò che vedo io lettore, è<br />

soprattutto questa responsabilità che vi prendete. Ne<br />

riparleremo.<br />

Un blog da leggere: http://brekane.blogspot.com, assai bene<br />

scritto.<br />

Chiacchierata numero 22<br />

Buongiorno. Un giorno sì e <strong>un</strong> giorno no c’è <strong>un</strong> lettore (quasi<br />

mai <strong>un</strong>a lettrice: ne parliamo settimana prossima) che mi<br />

domanda: “Ma se io voglio mandare <strong>un</strong> dattiloscritto alle case<br />

e<strong>di</strong>trici, come devo presentarlo?”. La domanda sembra banale<br />

e non lo è. Io ricevo due o tre dattiloscritti al giorno (a casa<br />

mia; altrettanti ne arrivano in casa e<strong>di</strong>trice) e naturalmente<br />

non mi è possibile leggerli tutti integralmente. Ho imparato con<br />

l’esperienza che alc<strong>un</strong>e caratteristiche del dattiloscritto, anche<br />

caratteristiche fisiche, sono significative. Ogni tanto mi viene in<br />

mente che si potrebbe inventare <strong>un</strong>a <strong>di</strong>sciplina simile alla<br />

grafologia, ma per i dattiloscritti (“dattilografologia”?). Quin<strong>di</strong>,<br />

in somma, qui cerco <strong>di</strong> dare alc<strong>un</strong>i consigli per la presentazione<br />

dei dattiloscritti alle case e<strong>di</strong>trici. Cominciamo:<br />

1. Il dattiloscritto deve essere leggibile. Sembra <strong>un</strong> consiglio<br />

stupido per eccesso <strong>di</strong> ovvietà; ma non è così. Ricevo parecchi<br />

53


dattiloscritti quasi illeggibili. La leggibilità è assicurata da:<br />

corpo del carattere non troppo grande e non troppo piccolo<br />

(l’ideale è l’11 o il 12); carattere non troppo semplice e non<br />

troppo elaborato (Garamond e Times sono l’ideale; Arial,<br />

Helvetica e simili sono più faticosi da leggere; assolutamente<br />

da evitare i caratteri più complicati, in particolare quelli che<br />

imitano il corsivo); foglio con ampi margini (<strong>di</strong>ciamo 4<br />

centimetri per parte); interlinea normale, non più stretto né<br />

più largo <strong>di</strong> quello che il vostro sistema <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> propone<br />

come standard; rientro a inizio paragrafo (<strong>di</strong> 0,25 centimetri,<br />

in linea <strong>di</strong> massima). In particolare, spesso ricevo dattiloscritti<br />

con margini minimi, tipo <strong>un</strong> centimetro e mezzo: la riga <strong>di</strong><br />

testo risulta così l<strong>un</strong>ga che la lettura è faticosissima.<br />

Immaginate: se questo foglio <strong>di</strong> giornale non fosse impaginato<br />

sei colonne, ma fosse tutto <strong>un</strong> colonnone <strong>un</strong>ico, riuscireste a<br />

leggerlo?<br />

2. Sul dattiloscritto scrivete il vostro nome, cognome,<br />

in<strong>di</strong>rizzo, numero <strong>di</strong> telefono, e-mail, tutto quanto. Mi è<br />

successo <strong>di</strong> ricevere dattiloscritti senza i dati dell’autore.<br />

3. Mandate il dattiloscritto intero. <strong>Non</strong> mandate due capitoli<br />

scrivendo: “Se vi sembrerà interessante, chiedetemi pure i<br />

successivi: sarò felice <strong>di</strong> mandarveli”). <strong>Non</strong> esiste. <strong>Non</strong><br />

mandate <strong>un</strong>a lettera con <strong>un</strong>a “scheda” del vostro romanzo:<br />

mandate il romanzo.<br />

4. Se mandate il vostro dattiloscritto a <strong>un</strong>a casa e<strong>di</strong>trice, cioè<br />

a <strong>un</strong>’azienda, mandatelo pure senza preavviso. Se lo mandate<br />

a <strong>un</strong>a persona privata (ad esempio a me) e avete la possibilità<br />

<strong>di</strong> chiedere permesso (per telefono, via posta elettronica)<br />

fàtelo: è <strong>un</strong>a gentilezza.<br />

5. <strong>Non</strong> mandate <strong>un</strong> file via posta elettronica, a meno che vi<br />

sia esplicitamente richiesto. Già mi sobbarco l’onere <strong>di</strong><br />

leggervi, perché mai dovrei mettere io i sol<strong>di</strong> dell’inchiostro e<br />

della stampa? (<strong>Non</strong>ché il tempo per stampare).<br />

6. Mandate <strong>un</strong> dattiloscritto rilegato con la spirale <strong>di</strong> plastica,<br />

cioè con <strong>un</strong>a rilegatura che possa essere facilmente <strong>di</strong>sfata. In<br />

questo modo, se l’e<strong>di</strong>tore vorrà fotocopiarlo (per passarlo a più<br />

lettori, ad esempio), gli basterà sfilare la spirale e passare<br />

tutto nella copiatrice automatica. Se rilegate con graffe, colla,<br />

spirali <strong>di</strong> metallo ecc., l’e<strong>di</strong>tore dovrà far fotocopiare il libro<br />

pagina per pagina (in alternativa, sfascerà il vostro bell’oggetto<br />

rilegato).<br />

7. <strong>Non</strong> mandate dattiloscritti “per ricevere <strong>un</strong> giu<strong>di</strong>zio”. Se io<br />

comincio a leggere <strong>un</strong> testo, e a pagina 10 mi rendo conto che<br />

chi l’ha scritto non sa l’italiano, è chiaro che interrompo la<br />

lettura (magari sfogliacchio <strong>un</strong> po’, tanto per essere sicuro). A<br />

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quel p<strong>un</strong>to io so che quel testo non è leggibile; ma non posso<br />

emettere <strong>un</strong> “giu<strong>di</strong>zio”. Io sono pagato (dall’e<strong>di</strong>tore) per<br />

scegliere libri da pubblicare: non per fare il critico letterario su<br />

tutto ciò che mi arriva in casa. Oltretutto, il giu<strong>di</strong>zio è quasi<br />

sempre negativo (statistica: su mille dattiloscritti, non più <strong>di</strong><br />

cento sono leggibili; non più <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci sono davvero interessanti;<br />

<strong>un</strong>o o due sono pubblicabili). E ness<strong>un</strong> e<strong>di</strong>tore (nemmeno io)<br />

ha voglia <strong>di</strong> spendere tempo su <strong>un</strong> testo, nel momento in cui<br />

ha deciso che quel testo non è almeno davvero interessante. Io<br />

inizialmente cedevo: <strong>di</strong>cevo alla persona che cosa<br />

effettivamente pensavo <strong>di</strong> ciò che avevo letto. Quin<strong>di</strong> mi<br />

toccava <strong>di</strong>re: “Guar<strong>di</strong>, il suo romanzo mi è sembrato<br />

bruttissimo. È evidente che lei non ha la minima idea <strong>di</strong> che<br />

cosa sia la lingua italiana”, eccetera. In cambio ricevevo insulti.<br />

Vale la pena <strong>di</strong> conversare <strong>un</strong> po’ con l’autore, ed<br />

eventualmente <strong>di</strong> avviare <strong>un</strong> rapporto continuativo, se il testo,<br />

alla prova della lettura, sembra avere più potenzialità che<br />

risultati. Ma sono, al solito, assai pochi casi.<br />

8. È bene se <strong>un</strong>ite al dattiloscritto <strong>un</strong>a lettera <strong>di</strong><br />

autopresentazione. Dite chi siete, <strong>di</strong> che campate, se avete<br />

figli, cose così. Se avete vinto premi letterari per racconti e<br />

romanzi ine<strong>di</strong>ti, non scrivetelo. Se il vostro professore<br />

d’italiano del liceo <strong>di</strong>ceva che scrivevate benissimo, non<br />

scrivetelo. Se siete laureati, non fatevi fare <strong>un</strong>a lettera <strong>di</strong><br />

raccomandazione dal professore con cui avete fatta la tesi. Se<br />

avete pubblicato <strong>un</strong> libro a vostre spese, allegàtelo al<br />

dattiloscritto; ma non allegate gli articoli che sono usciti sui<br />

giornali locali. In somma, ricordàtevi <strong>di</strong> questo: il lettore<br />

professionista che legge il vostro dattiloscritto, è interessato<br />

solo al dattiloscritto.<br />

9. Scegliete bene la casa e<strong>di</strong>trice alla quale mandare il<br />

dattiloscritto. Andate in libreria, guardate che cosa pubblica<br />

l’e<strong>di</strong>tore Tale e che cos’altro pubblica l’e<strong>di</strong>tore Talaltro, e fate la<br />

vostra scelta. Mi ricordo <strong>di</strong> <strong>un</strong> tizio, <strong>di</strong> professione geometra,<br />

che aveva mandati i suoi romanzi agli e<strong>di</strong>tori Pirola e Maggioli.<br />

Pirola e Maggioli fanno libri <strong>di</strong> argomento legale, fiscale,<br />

economico, e<strong>di</strong>le: non certo romanzi. Ma lui, il geometra,<br />

conosceva solo Pirola e Maggioli. Sia Mondadori sia Einau<strong>di</strong> o<br />

Garzanti o Guanda fanno narrativa, ma non esattamente lo<br />

stesso tipo <strong>di</strong> narrativa. Se scrivete poesie, non mandatele a<br />

me: lavoro per <strong>un</strong> e<strong>di</strong>tore che fa solo prosa. E così via. Bene.<br />

Questo è tutto. Alla prossima. Arrivederci.<br />

55


Chiacchierata numero 23<br />

Buongiorno. Scrivo questo pezzo sabato 5 luglio, alle 9 <strong>di</strong><br />

mattina. Sono in Toscana, ospite d’<strong>un</strong> ragazzo che ha scritto<br />

<strong>un</strong> libro interessante e imperfetto. Sono qui per parlarne con<br />

lui. Abbiamo due giorni a <strong>di</strong>sposizione. Io naturalmente ho<br />

letto e riletto il libro. Sui margini del dattiloscritto ho segnate<br />

<strong>un</strong> sacco <strong>di</strong> cose: espressioni che non mi sembrano del tutto<br />

chiare o abbastanza efficaci; frasi che mi sembrano perfettibili;<br />

aggettivi sui quali ho da ri<strong>di</strong>re; svolte delle storie che mi<br />

lasciano <strong>un</strong> po’ perplesso; <strong>di</strong>aloghi che mi sembrano, volta a<br />

volta, troppo pesanti o troppo leggeri; eccetera eccetera. Ma <strong>di</strong><br />

queste cose, credo che non parlerò con M**.<br />

Il libro <strong>di</strong> M** è interessante. Si tratta <strong>di</strong> <strong>un</strong>a serie <strong>di</strong> racconti<br />

legati tra loro da <strong>un</strong>a questione (la parola “questione” mi<br />

sembra la più adatta). In ogni storia avviene qualcosa che è<br />

spiegabile in <strong>un</strong> solo modo: immaginando <strong>un</strong> intervento <strong>di</strong>vino.<br />

Eppure, i protagonisti (e i narratori) delle storie, a questo<br />

intervento <strong>di</strong>vino non possono credere. <strong>Non</strong> <strong>di</strong>co che non<br />

vogliono: non possono. Per cui ogni storia si chiude con <strong>un</strong><br />

movimento, ripetitivo ma ogni volta <strong>di</strong>verso, <strong>di</strong> “scarto”: la<br />

soluzione-<strong>di</strong>o viene scartata, aggirata, elusa, <strong>di</strong>menticata,<br />

lasciata in sospeso, messa in dubbio, nemmeno pensata -<br />

come se fosse <strong>un</strong>a cosa troppo terribile, pensarla.<br />

Già. Perché il <strong>di</strong>o che c’è e non c’è in queste storie, non è<br />

mica il <strong>di</strong>o-consolatore, il <strong>di</strong>o-buono. E’ piuttosto il <strong>di</strong>o-<strong>di</strong>o:<br />

quello le cui scelte sono imperscrutabili, e spesso francamente<br />

incomprensibili. Quello <strong>di</strong> Giobbe, per <strong>di</strong>re: che prima fa <strong>un</strong>a<br />

scommessa col <strong>di</strong>avolo (<strong>di</strong>o <strong>di</strong>ce al <strong>di</strong>avolo: “Guarda Giobbe<br />

come mi ama”; il <strong>di</strong>avolo <strong>di</strong>ce: “Per forza, lo hai coperto <strong>di</strong> beni<br />

e ricchezze; làscialo a me, che gli faccio qualche <strong>di</strong>sgrazia, e<br />

poi vedremo”; <strong>di</strong>o <strong>di</strong>ce: “Va bene, basta che non me<br />

l’ammazzi”) e poi, quando Giobbe s’alza in pie<strong>di</strong> e <strong>di</strong>ce: “Dio<br />

mio, perché mi hai fatto questo?”, <strong>di</strong>o prima se ne infischia, e<br />

poi s’alza in pie<strong>di</strong>, squarcia i cieli, guarda Giobbe e gli <strong>di</strong>ce:<br />

“Chi sei tu per chiedermi conto delle mie azioni?”.<br />

Un <strong>di</strong>o <strong>di</strong>fficile da <strong>di</strong>gerire, d<strong>un</strong>que, quello che apparescompare<br />

nelle storie <strong>di</strong> M**. E per questo, a mio avviso, <strong>un</strong><br />

<strong>di</strong>o interessante. Ma la cosa ancor più interessante, è che le<br />

storie che M** racconta non sono inventate. <strong>Non</strong> da lui,<br />

almeno. Nel suo libro M** (che è <strong>un</strong> appassionato <strong>di</strong> storia, <strong>di</strong><br />

fumetto, <strong>di</strong> narrativa fantasy e <strong>di</strong> soldatini) ha “rivisitate”,<br />

come si usa <strong>di</strong>re, <strong>un</strong> certo numero <strong>di</strong> storie già note, già<br />

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accontate. Storie che appartengono alla storia, storie che<br />

appartengono alla fantascienza o al fantasy, storie che<br />

appartengono alla tra<strong>di</strong>zione favolistica e leggendaria, e così<br />

via: dalla nascita <strong>di</strong> Gesù in Betlemme alla storia della legione<br />

romana scomparsa, dal pifferaio magico alla crociata dei<br />

bambini. Nel ri-raccontare tutte queste storie, M** ha fatto sì<br />

che, app<strong>un</strong>to, in ciasc<strong>un</strong>a venisse alla luce la “questione”: se<br />

<strong>di</strong>o sia, se <strong>di</strong>o intervenga nella storia, o se <strong>di</strong>o non sia, o<br />

magari sia ma non intervenga nella storia.<br />

È quasi come se (devo andarci cauto, perché questo è <strong>un</strong><br />

pensiero mio, non <strong>di</strong> M**) M** avesse voluto aggi<strong>un</strong>gere<br />

qualche storia alle storie, già numerosissime, della Bibbia. Solo<br />

che le storie <strong>di</strong> M** sono più parenti dei libri inquietanti della<br />

Bibbia (Giobbe, app<strong>un</strong>to, o il Qoèlet) che non <strong>di</strong> quelli<br />

confortanti. Se la Bibbia è la storia dell’incontro e della<br />

relazione amorosa tra <strong>di</strong>o e il suo popolo, le storie <strong>di</strong> M** sono<br />

storie <strong>di</strong> <strong>un</strong> incontro che per lo più non avviene: <strong>di</strong> sfioramenti,<br />

<strong>di</strong> occasioni mancate.<br />

Ogni storia poi ha <strong>un</strong> suo trattamento stilistico specifico. Una<br />

storia ha per protagonista Carlo Magno, è in forma drammatica<br />

ed è intessuta <strong>di</strong> citazioni shakespeariane. Una storia è <strong>un</strong>a<br />

storia <strong>di</strong> briganti toscani, ed è scritta in <strong>un</strong>o splen<strong>di</strong>do italiano<br />

contaminato dal parlato. Un’altra storia ricalca mo<strong>di</strong> borgesiani,<br />

<strong>un</strong>’altra ancora nasce da <strong>un</strong>a citazione <strong>di</strong> Ballard; e così via.<br />

***<br />

Che cosa farò con M**? Mi metterò, dattiloscritto alla mano, a<br />

<strong>di</strong>scutere <strong>di</strong> singole frasi, singole parole, microsvolte narrative,<br />

aggettivi, pronomi, consecutio temporum? <strong>Non</strong> credo.<br />

Con M**, parlerò <strong>di</strong> massimi sistemi. Del modo in cui la<br />

“questione” è venuta alla luce in lui. Del modo in cui si può fare<br />

“sentire” al lettore la profonda <strong>un</strong>itarietà del libro che Massimo<br />

ha composto, al <strong>di</strong> là della deliberata <strong>di</strong>versità stilistica. Del<br />

modo in cui si può far percepire al pubblico naturale <strong>di</strong> questo<br />

libro (i lettori <strong>di</strong> fantascienza, fantasy e annessi & connessi) la<br />

presenza della “questione”. Del modo in cui si può far “aprire”<br />

questo libro a lettori estranei al suo pubblico naturale (non<br />

parlo <strong>di</strong> marketing; parlo <strong>di</strong> azioni interne al libro). Del modo in<br />

cui si possono inserire, o far apparire con più risalto, dentro al<br />

libro, “segnali” che gui<strong>di</strong>no il lettore da <strong>un</strong>a storia all’altra, da<br />

<strong>un</strong> versante all’altro della “questione”, dallo scetticismo più<br />

assoluto al desiderio <strong>di</strong> <strong>di</strong>o.<br />

Ci metteremo quin<strong>di</strong> in giar<strong>di</strong>no, poseremo i dattiloscritti<br />

sull’erba (il mio, con tutti i miei segni da “maestria con la<br />

57


penna rossa”; il suo, con segnate tutte le cose che vorrà<br />

chiedermi), e preliminarmente parleremo dei massimi sistemi.<br />

Perché <strong>un</strong> libro è, sì, senz’altro, lavoro artigianale, connessioni,<br />

raffinatezza linguistica, coerenza narrativa, tutte quelle cose lì:<br />

ma è, prima <strong>di</strong> tutto questo, <strong>un</strong>’immaginazione che ha senso,<br />

dà senso, ha bisogno <strong>di</strong> senso. E tutto il resto, <strong>un</strong>a volta che <strong>di</strong><br />

questo senso si sia venuti a capo, è semplice lavoro.<br />

M** ha le idee chiare. Io, credo, anche. Dobbiamo esplorare<br />

ancora <strong>un</strong> po’ le nostre immaginazioni, per poter lavorare<br />

insieme. Perché io sono il suo e<strong>di</strong>tor. E devo entrare<br />

completamente nella sua immaginazione, imparare a simularla.<br />

Finché avrò la mia immaginazione attiva, a poco servirà<br />

parlare; e non si potrà <strong>di</strong>scutere nemmeno <strong>di</strong> virgole.<br />

Il mestiere dell’e<strong>di</strong>tor, detto in due parole, è questo:<br />

<strong>di</strong>ventare provvisoriamente <strong>un</strong> altro. Cosa assai <strong>di</strong>vertente, e<br />

affascinante. Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 24<br />

Buongiorno. Scrivo questo pezzo sabato 12 luglio, alle <strong>di</strong>eci <strong>di</strong><br />

mattina. Sono stato due giorni in Emilia, ospite <strong>di</strong> Luisa, che ha<br />

scritto <strong>un</strong> libro assai bello (avrò l’onore <strong>di</strong> pubblicarlo nel<br />

gennaio o febbraio prossimi). Il libro racconta la storia d’<strong>un</strong>a<br />

bambina. Ci parlano dentro molte voci. A volte parla la<br />

bambina: racconta al tempo presente la sua infanzia.<br />

Un’infanzia che sembra veramente d’altri tempi: si parla <strong>di</strong><br />

campagna, <strong>di</strong> terra, <strong>di</strong> bestie, <strong>di</strong> regole patriarcali, <strong>di</strong> fame.<br />

Eppure Luisa ha forse due, tre anni più <strong>di</strong> me. La voce della<br />

bambina è, ovviamente, scritta dalla donna adulta: ma la<br />

sensazione non è quella <strong>di</strong> leggere <strong>un</strong>a voce adulta che imita<br />

<strong>un</strong>a voce bambina; è piuttosto quella <strong>di</strong> leggere <strong>un</strong>a voce<br />

adulta occupata, invasa da <strong>un</strong>a voce bambina.<br />

Alla voce della bambina si alternano altre voci. La “voce delle<br />

fonti”, ad esempio: <strong>un</strong>a voce cronachistica, appena appena<br />

ironica, che riporta antiche filastrocche, cita dai quaderni <strong>di</strong><br />

scuola della bambina (Luisa - che ovviamente è e non è la<br />

bambina; come sempre avviene nelle narrazioni - ha<br />

conservato dozzine <strong>di</strong> quaderni, ritagli, giornaletti,<br />

scarabocchi), da vecchi giornalini, da ricor<strong>di</strong> dei genitori<br />

raccolti in età adulta (le preghiere e i canti latini storpiati, le<br />

vecchie storielle “da filò”, i “fatti” che si raccontavano). E poi,<br />

impressionanti, le fotografie dell’album <strong>di</strong> famiglia.<br />

58


La “voce amorevole”, invece, è <strong>un</strong>a voce che fa confusione<br />

con i pronomi. Si rivolge alla bambina dandole del tu. Poi <strong>di</strong>ce:<br />

io. Poi <strong>di</strong>ce: noi. Cose come: “All’asilo avevi paura. <strong>Non</strong><br />

avevamo giochi, all’asilo. <strong>Non</strong> vedevo l’ora <strong>di</strong> uscire, ma la<br />

mamma non veniva mai a prenderci”. La voce amorevole dà<br />

conforto, è vicina, consola. Tocca la bambina, la avvolge, la<br />

accarezza. <strong>Non</strong> bamboleggia mai, peraltro. Tutt’altro. A volte<br />

rimprovera o sollecita, ma sempre per rafforzare.<br />

Infine, a volte parla <strong>un</strong>a voce che Luisa ha chiamata “voce<br />

delle ra<strong>di</strong>ci”. Che è la voce più indecifrabile, per me.<br />

Apparentemente è <strong>un</strong>a voce che accusa i genitori, che chiede<br />

loro conto. Mi avete fatto questo e questo, <strong>di</strong>ce questa voce. E<br />

spesso racconta <strong>un</strong>a rivincita. Ma non si tratta mai <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

rivincita contro i genitori; è <strong>un</strong>a rivincita <strong>di</strong> <strong>un</strong>’altra <strong>di</strong>rezione.<br />

Quand’ero piccola e ogni tanto bagnavo il letto, racconta ad<br />

esempio, mi avete instillata la vergogna per i miei liqui<strong>di</strong>.<br />

Bene: oggi non me ne vergogno affatto, anzi; mi piace far pipì<br />

dappertutto, anche nei prati, nei parchi, nelle strade. Quando<br />

ne ho bisogno ne ho bisogno. “Come i gatti segnano il<br />

territorio”, ho detto a Luisa. Lei ha riso.<br />

Ma <strong>di</strong> libri che raccontano l’infanzia, ce n’è a palate. Che cosa<br />

fa, <strong>di</strong> speciale, questo libro <strong>di</strong> Luisa?<br />

Fa più o meno questo. La bambina è all’inizio <strong>un</strong> soggetto così<br />

trascurabile, per gli adulti, che nemmeno le viene dato il nome,<br />

così alieno che ness<strong>un</strong>o la toccava mai. Alla fine, dopo<br />

duecento e passa pagine, la bambina è <strong>di</strong>ventata - per l’adulta<br />

- <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> dea: <strong>un</strong>a dea me<strong>di</strong>atrice, che consente<br />

all’adulta <strong>di</strong> accogliere, anche amare, il tempo in cui ness<strong>un</strong>o le<br />

dava <strong>un</strong> nome e ness<strong>un</strong>o osava toccarla; pur senza cedere,<br />

mai, all’invito nostalgico.<br />

Luisa, in somma, ha costruito <strong>un</strong> vero mito personale. Che è<br />

anche, credo, <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> mito ctonio. È <strong>un</strong>a cosa non da tutti.<br />

***<br />

Lavorare con Luisa è molto bello. In questi due giorni<br />

abbiamo chiacchierato sulle generali, esaminate singole<br />

pagine, <strong>di</strong>scussi il senso e la lingua <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong>a delle “voci”,<br />

abbozzate soluzioni d’impaginazione.<br />

Abbiamo anche mangiato insalata <strong>di</strong> riso, melone, tigelle,<br />

borlenghi, formaggi, tagliolini.<br />

Abbiamo bevuta moltissima acqua.<br />

Siamo andati al parco del suo paese, dove c’è <strong>un</strong> laghetto con<br />

<strong>un</strong>a coppia <strong>di</strong> cigni bianchi. Quest’anno la coppia ha figliato: e<br />

infatti portavano in giro, <strong>un</strong> po’ nell’acqua <strong>un</strong> po’ sul prato,<br />

59


quattro bei cignottini grossi come galline, con il piumaggio<br />

ancora incerto e la camminata, sul prato, clownesca.<br />

Siamo andati a vedere il monumento agli scout def<strong>un</strong>ti, che è<br />

<strong>un</strong>a cosa che <strong>un</strong> vicino della Luisa ha costruita nel suo<br />

giar<strong>di</strong>no. Una sorta <strong>di</strong> muro irregolare, alto <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> metri e<br />

largo tre, pieno <strong>di</strong> nicchie e sporgenze, con incastonate dentro<br />

immagini sacre, <strong>un</strong> presepietto, piastrelle con motti e<br />

ammonimenti, crocefissi.<br />

Siamo andati a vedere la casa dell’infanzia della bambina:<br />

ossia <strong>un</strong> condominio/centrocommerciale in puro stile<br />

postmoderno emiliano (cioè postomoderno, ma con il mattone<br />

a vista), che giace lì dove c’era la casa dell’infanzia della<br />

bambina.<br />

Lavorare a <strong>un</strong> libro, <strong>di</strong>cevo anche settimana scorsa, significa<br />

tentar <strong>di</strong> con<strong>di</strong>videre <strong>un</strong>’immaginazione. Un’immaginazione è<br />

fatta anche <strong>di</strong> paesaggio, cibo, luoghi, alberi, monumenti agli<br />

scout def<strong>un</strong>ti, case che non esistono più.<br />

<strong>Non</strong> voglio <strong>di</strong>re che <strong>un</strong> buon e<strong>di</strong>tor dovrebbe sempre<br />

traslocare a casa dei suoi autori. Ma, ogni tanto, è proprio<br />

necessario. <strong>Non</strong> si può entrare nell’immaginazione <strong>di</strong> Luisa<br />

senza entrare anche, almeno per <strong>un</strong> po’, nei suoi luoghi. Io<br />

frequento abbastanza l’Emilia, al suo paese ero già stato, ma <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong>a gita d’<strong>un</strong> paio <strong>di</strong> giorni c’era proprio bisogno. <strong>Non</strong> mi è<br />

passato neanche per l’anticamera del cervello <strong>di</strong> farla salire a<br />

Padova o a Milano. No, sono sceso io.<br />

Poi, Luisa è <strong>un</strong>a donna. E il suo libro, si sarà capito, è <strong>un</strong> libro<br />

<strong>di</strong>fferente. Per me, che sono maschio, la faccenda non è<br />

semplice. Spesso, semplicemente non capisco. O non capisco,<br />

ad esempio, quanto <strong>di</strong> ciò che <strong>di</strong>ce e racconta Luisa appartenga<br />

al suo immaginario, e quanto invece appartenga al suo mondo<br />

reale. <strong>Non</strong> so nemmeno se l’immaginario, per me e per lei,<br />

siano la stessa cosa. Se la relazione col mondo, per me e per<br />

lei, siano la stessa cosa.<br />

È anche per questo, tra l’altro, che tengo molto a questo<br />

libro: perché mi sembra assai bello, ma mi sfugge.<br />

Succede anche questo, all’e<strong>di</strong>tor ambulante: inseguire, fino<br />

nel profondo dell’Emilia, <strong>un</strong> libro che gli sfugge. E poi <strong>di</strong>re,<br />

can<strong>di</strong>damente: “<strong>Non</strong> so ben che <strong>di</strong>re”. Perché <strong>un</strong>o dei compiti<br />

dell’e<strong>di</strong>tor, del non si parla mai, ma è <strong>un</strong>o dei più importanti, è<br />

questo: amare i libri futuri, amarne il mistero. Buona<br />

settimana.<br />

60


Chiacchierata numero 25<br />

Buongiorno. Scrivo questo pezzo giovedì 17 luglio, alle<br />

quattro meno venti (del pomeriggio). Ho appena tirata fuori la<br />

posta dalla casella, e ho trovato il nuovo numero della rivista<br />

Fernandel (n. 3/2003) pubblicata dalla casa e<strong>di</strong>trice Fernandel.<br />

La rivista Fernandel è sempre molto interessante, e anche i<br />

libri che fa la casa e<strong>di</strong>trice Fernandel sono molto interessanti<br />

(se vi interessa: http://www.fernandel.it). In questo numero<br />

della rivista Fernandel c’è <strong>un</strong>a interessante (e <strong>di</strong>vertente)<br />

intervista <strong>di</strong> Sergio Rotino a Tiziano Scarpa. Tiziano Scarpa ha<br />

appena pubblicato <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> racconti (Cosa voglio da te,<br />

Einau<strong>di</strong>: <strong>un</strong> bel libro) e Sergio Rotino gli fa delle domande sullo<br />

scrivere racconti, confrontato allo scrivere romanzi. “Scrivo<br />

contemporaneamente racconti e romanzi”, <strong>di</strong>ce a <strong>un</strong> certo<br />

p<strong>un</strong>to Tiziano Scarpa. E aggi<strong>un</strong>ge, parlando <strong>un</strong> po’ in generale:<br />

“I racconti sono scritti meglio, si possono correggere e<br />

riscrivere <strong>un</strong> mucchio <strong>di</strong> volte. Mentre è <strong>di</strong>fficile governare fino<br />

all’ultima virgola <strong>un</strong>a cosa <strong>di</strong> quattrocento pagine. E da <strong>un</strong> libro<br />

<strong>di</strong> racconti si possono escludere quelli meno riusciti, mentre<br />

magari <strong>un</strong> romanzo ha bisogno <strong>di</strong> alc<strong>un</strong>i capitoli <strong>di</strong> raccordo<br />

che possono essere meno potenti rispetto al resto del libro, ma<br />

necessari”.<br />

Proprio stamattina, mentre viaggiavo in treno da Milano a<br />

Padova, in <strong>un</strong> recente manuale <strong>un</strong>iversitario (Franco Brioschi,<br />

Costanzo <strong>di</strong> Girolamo, Massimo Fusillo, Introduzione alla<br />

letteratura, Carocci) leggevo quasi la stessa cosa, ma a<br />

rovescio (cioè dal p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista del lettore): “La <strong>di</strong>fferenza<br />

principale tra l<strong>un</strong>go e breve consiste probabilmente nel fatto<br />

che, nel genere breve, il lettore o l’ascoltatore ha la possibilità<br />

<strong>di</strong> <strong>un</strong> controllo mnemonico totale o pressoché totale degli<br />

elementi narrativi presentati, mentre questo non può avvenire<br />

nella stessa misura in <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> l<strong>un</strong>ga come <strong>un</strong> romanzo.<br />

Ma c’è anche <strong>un</strong>a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> modalità <strong>di</strong> ricezione: <strong>un</strong><br />

racconto può essere letto o ascoltato in <strong>un</strong>a volta, mentre la<br />

lettura o l’ascolto <strong>di</strong> <strong>un</strong> romanzo presuppone normalmente, per<br />

la sua estensione, delle pause” (p. 139).<br />

<strong>Non</strong> mi interessa, ora, qui, mettermi a <strong>di</strong>scutere della<br />

<strong>di</strong>fferenza tra racconto e romanzo (tra l’altro io, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong><br />

Tiziano Scarpa, so scrivere solo racconti; quin<strong>di</strong> sullo scrivere<br />

romanzi non ho alc<strong>un</strong>a competenza <strong>di</strong>retta). M’interessa<br />

mettervi sotto gli occhi questo semplice fatto: nel comporre<br />

<strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong>, l<strong>un</strong>ga o breve che sia, tener conto del tempo<br />

61


(del proprio tempo <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, del tempo <strong>di</strong> lettura),<br />

dell’attenzione (della propria attenzione, e <strong>di</strong> quella del<br />

lettore), della possibilità materiale (propria, e del lettore) <strong>di</strong><br />

tenere tutto il materiale narrativo sempre presente.<br />

Se io, nel comporre, faccio fatica a tenere sotto controllo tutto<br />

il materiale, a ricordare con precisione tutto ciò che faccio<br />

avvenire, a far durare le “sessioni <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>” abbastanza a<br />

l<strong>un</strong>go da scrivere ogni volta <strong>un</strong>a porzione significativa della mia<br />

<strong>narrazione</strong>, mi conviene pensare che esattamente gli stessi<br />

problemi, probabilmente, li avrà anche il lettore.<br />

Ieri sena, a cena con persone gentilissime, si <strong>di</strong>scuteva <strong>un</strong> po’<br />

sul serio e <strong>un</strong> po’ scherzando, su quanto tempo ci voglia a<br />

leggere <strong>un</strong> romanzo <strong>di</strong> ottocento pagine. Chi <strong>di</strong>ceva se<strong>di</strong>ci ore,<br />

chi <strong>di</strong>ceva <strong>di</strong>eci. E qualc<strong>un</strong>o ha detto: “Eh, era bello quando si<br />

era ragazzi, che si aveva il tempo <strong>di</strong> mettersi lì magari due<br />

giorni interi, da mattina a sera, e far fuori certi volumoni…”.<br />

Sono convinto che certe letture <strong>di</strong> grossi libri fatte da ragazzo,<br />

che mi sono rimaste impresse indelebilmente, mi siano rimaste<br />

impresse indelebilmente app<strong>un</strong>to perché potevo permettermi<br />

l<strong>un</strong>ghissime sessioni <strong>di</strong> lettura. Ricordo <strong>di</strong> aver letto Guerra e<br />

pace in neanche due settimane. Vabbè, avevo quattor<strong>di</strong>ci anni,<br />

ci capivo da qua fin là: però la storia, almeno quella, e certe<br />

situazioni (la morte del principe Andrej!) me le ricordo come se<br />

avessi chiuso il libro cinque minuti fa. Per leggere Alla ricerca<br />

del tempo perduto ci ho messo da novembre 2002 a febbraio<br />

2003: sono più pagine <strong>di</strong> Guerra e pace, certo, ma <strong>un</strong>a lettura<br />

<strong>di</strong>luita in quattro mesi, d’<strong>un</strong> libro peraltro che ha singole scene<br />

della durata anche <strong>di</strong> trecento pagine, è <strong>un</strong>a lettura veramente<br />

malfatta.<br />

E allora? Dicevo: mentre scrivo la mia <strong>narrazione</strong> devo<br />

pensare, <strong>un</strong>a volta <strong>di</strong> più, a chi la leggerà, e a come la leggerà.<br />

Ieri, in casa e<strong>di</strong>trice, <strong>di</strong>scutevo con Giorgio <strong>un</strong> suo testo che<br />

pubblicheremo all’inizio del 2004: è <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> racconti (anche<br />

se sono racconti per modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re: si potrebbe chiamarli “brani<br />

<strong>di</strong> testo descrittivi del mondo” e, bruttezza della formula a<br />

parte, si sarebbe più precisi) tutti centrati su <strong>un</strong> numero<br />

ristretto <strong>di</strong> ambienti situazioni tipologie <strong>di</strong> personaggi, ma<br />

variabilissimi nella forma, che lui nel suo dattiloscritto ha<br />

impaginati come se fossero paragrafi <strong>di</strong> <strong>un</strong> romanzo. Ci siamo<br />

trovati a <strong>di</strong>scutere l’opport<strong>un</strong>ità <strong>di</strong> questa scelta (sulla quale, a<br />

<strong>di</strong>re il vero, lui non aveva me<strong>di</strong>tato più che tanto). Ci piaceva<br />

l’idea che tutti questi racconti molto legati tra loro fossero sulla<br />

pagina quasi <strong>un</strong>a “colata” d’inchiostro (e <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>); d’altra<br />

parte ci pareva che fosse il caso <strong>di</strong> inserire, qua e là, quasi<br />

delle “pause caffè” per il lettore, dei possibili luoghi <strong>di</strong> sosta<br />

62


durante la lettura. Altrimenti, ci siamo detti, rischiamo <strong>di</strong><br />

ammazzarlo, questo povero lettore.<br />

Ecco: l’amore per il lettore (del quale ho parlato più volte, in<br />

queste pagine) consiste anche nel non chiedergli più <strong>di</strong> quanto<br />

chiederemmo a noi stessi. Se abbiamo composta <strong>un</strong>a pagina in<br />

cinque giorni <strong>di</strong> duro lavoro, ricor<strong>di</strong>amogli che lui (come anche<br />

noi, quando siamo lettori) si aspetta <strong>di</strong> poterla leggere in <strong>un</strong><br />

paio <strong>di</strong> minuti. Se abbiamo voglia <strong>di</strong> scrivere <strong>un</strong> romanzo con<br />

cinquecento personaggi, ricor<strong>di</strong>amoci che così come noi<br />

avremo il problema <strong>di</strong> ricordarceli tutti, lo stesso problema ce<br />

l’avrà anche il povero lettore. Perché, da questo p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista,<br />

come da altri, il narratore e il lettore, questo va detto, sono<br />

nella stessa barca. Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 26<br />

“Lei che è <strong>un</strong>o scrittore, che cosa farà durante le vacanze?”.<br />

“Ma, non lo so, mi pare già <strong>un</strong>a grazia che quest’anno vado in<br />

vacanza”. “Scommetto che ne approfitterà per scrivere<br />

qualcosa <strong>di</strong> nuovo”. “<strong>Non</strong> sono <strong>un</strong>o <strong>di</strong> quelli che riescono a<br />

scrivere come se fosse <strong>un</strong> lavoro”. “Allora leggerà”. “Se è per<br />

questo, leggo sempre”. “Ma in vacanza che cosa preferisce:<br />

leggere o rileggere?”. “<strong>Non</strong> vedo la <strong>di</strong>fferenza”. “<strong>Non</strong> so,<br />

qualcosa come rileggere i classici, o i libri voluminosi che<br />

durante l’inverno non è riuscito a leggere, oppure <strong>un</strong> libro al<br />

quale è affezionato e che rilegge spesso”. “Sinceramente:<br />

parto domani, ma non ho ancora pensato a che libri mettere in<br />

borsa. Ce n’è <strong>un</strong> paio che devo finire, e poi ne prenderò su<br />

qualc<strong>un</strong> altro. Un po’ a caso”. “Ma per lei la vacanza è <strong>un</strong><br />

momento d’ispirazione?”. “Anche fare la coda in posta per<br />

pagare le bollette può essere <strong>un</strong> momento d’ispirazione”.<br />

“D<strong>un</strong>que lo scrittore non va mai veramente in vacanza”. “Ma sì,<br />

vado in vacanza, vado a Pantelleria due settimane”. “No, nel<br />

senso che la sua mente, le sue piccole cellule grigie, anche<br />

durante la vacanza, saranno sempre lì a lavorare, a elaborare<br />

storie…”. “A <strong>di</strong>re il vero, mi piacerebbe proprio stare <strong>un</strong> po’<br />

senza far niente”. “In fondo la vita dello scrittore è tutta <strong>un</strong>a<br />

grande vacanza, no?”. “Come, scusi?”. “Sempre lì, a leggere,<br />

scrivere, me<strong>di</strong>tare, a conversare con altri scrittori, a<br />

confrontarvi ai convegni…”. “<strong>Non</strong> so che <strong>di</strong>rle. Stamattina ero a<br />

Verona, 82 chilometri in treno da Padova, mia città, sveglia alle<br />

5.45 del mattino, per quattro ore <strong>di</strong> lezione sul descrivere<br />

63


luoghi in <strong>un</strong> master per futuri “manager culturali”. L’altro ieri<br />

ero a Milano, 232 chilometri, sveglia sempre alle 5,45, a<br />

lavorare in casa e<strong>di</strong>trice, dove abbiamo <strong>di</strong>scusso alc<strong>un</strong>i aspetti<br />

contrattuali d’<strong>un</strong> autore, progettato <strong>un</strong> convegno da farsi in<br />

primavera prossima, pianificata la campagna stampa per <strong>un</strong><br />

libro che esce in settembre, inseguito <strong>un</strong> personaggio illustre<br />

dal quale vorremmo <strong>un</strong>a prefazione. Il giorno prima ancora ero<br />

a Lignano, sulla costa friulana, non so i chilometri, sveglia alle<br />

6 del mattino, per <strong>un</strong>a lezione sul lavoro e<strong>di</strong>toriale in <strong>un</strong>o stage<br />

<strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong>…”. “Insomma, non vorrà lamentarsi”.<br />

“No. Infatti. <strong>Non</strong> mi lamento. Voglio solo far notare che ciò <strong>di</strong><br />

cui vivo è <strong>un</strong> lavoro come <strong>un</strong> altro, <strong>un</strong>a libera professione come<br />

<strong>un</strong>’altra. Come tanti devo alzarmi spesso, raggi<strong>un</strong>gere il luogo<br />

<strong>di</strong> lavoro, fare quello che mi è stato chiesto <strong>di</strong> fare,<br />

possibilmente farlo bene, tornare a casa, e sperare che mi<br />

paghino. La mia esistenza non è <strong>un</strong>a grande vacanza. È<br />

l’esistenza <strong>di</strong> <strong>un</strong> libro professionista come <strong>un</strong> altro”. “Lei quin<strong>di</strong><br />

si considera <strong>un</strong> professionista”. “Sì, ma non del raccontare. Mi<br />

considero <strong>un</strong> professionista dell’insegnare a scrivere e narrare,<br />

del descrivere luoghi, dello scegliere libri da pubblicare<br />

(appren<strong>di</strong>sta professionista, in quest’ultimo caso)”. “E allora,<br />

quand’è che lei crea?”. “Quando càpita, se càpita. <strong>Non</strong> credo <strong>di</strong><br />

avere creato tanto spesso”. “<strong>Non</strong> faccia il falso modesto”. “<strong>Non</strong><br />

faccio il falso modesto. Di inventare davvero, forse mi è<br />

capitato due volte in vita”. “E il resto è tutta professionalità?”.<br />

“Il resto sono tentativi falliti, riusciti a metà, non riusciti per<br />

niente, non riusciti per <strong>un</strong> pelo, che quasi quasi ce la facevano,<br />

che ce l’avrebbero fatta se fossi stato capace <strong>di</strong> essere meno<br />

simile a me stesso…”. “Lei non è simile a sé stesso?”. “Io sono<br />

simile a me stesso. Ma per creare, certe volte, bisognerebbe<br />

<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong> altro”. “Lei non ha fiducia in sé stesso”. “Diciamo<br />

così: ho fiducia nella mia capacità <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare, <strong>di</strong> tanto in<br />

tanto, <strong>un</strong> altro”. “Una specie <strong>di</strong> dottor Jeckill e mister Hyde”.<br />

“Se vuole”. “A questo p<strong>un</strong>to, però, non mi ha ancora detto che<br />

cosa farà durante le vacanze”. “Sì che l’ho detto: quello che<br />

fanno tutti”. “Montagna o mare?”. “Mare”. “Le piace leggere<br />

sotto l’ombrellone?”. “Ci sono certi libri che sotto l’ombrellone<br />

vanno benissimo”. “Ad esempio?”. “I libri l<strong>un</strong>ghi”. “Le piacciono<br />

i libri l<strong>un</strong>ghi?”. “Sì. Se <strong>un</strong> libro è l<strong>un</strong>go, già solo per quello mi<br />

interessa”. “Legge i best-seller americani?”. “No, ci ho provato<br />

delle volte, ma mi annoio. Si capisce subito come finiranno le<br />

cose”. “Con qualche eccezione”. “Con qualche eccezione,<br />

d’accordo, ma l’idea <strong>di</strong> annoiarmi nove volte su <strong>di</strong>eci non mi<br />

entusiasma”. “Quin<strong>di</strong> in valigia metterà dei libri l<strong>un</strong>ghi?”. “<strong>Non</strong><br />

credo”. “E allora?”. “E allora, guar<strong>di</strong>, se proprio vuole: ho tirato<br />

64


giù dallo scaffale, proprio mentre parlavamo, La penombra che<br />

abbiamo attraversato <strong>di</strong> Lalla Romano, Einau<strong>di</strong>, che ho<br />

comperato <strong>un</strong>a vita fa ma non ho ancora letto; Gli esor<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

Antonio Moresco, Feltrinelli, che ho letto e vorrei rileggere; Il<br />

peccato e la paura, <strong>di</strong> Jean Delumeau, il Mulino, <strong>un</strong> saggio<br />

sull’idea <strong>di</strong> colpa tra Me<strong>di</strong>oevo e Rinascimento che ho<br />

cominciato tre volte senza mai venirne a capo; Paterson <strong>di</strong><br />

William Carlos Williams, Lerici, <strong>un</strong> poema che ho già letto tre o<br />

quattro volte; Jane Jacobs, Vita e morte delle gran<strong>di</strong> città,<br />

Einau<strong>di</strong>, <strong>un</strong> classico dell’urbanistica. Penso che potrebbero<br />

andare, e bastare”. “Qual è il più l<strong>un</strong>go?”. “Il Delumeau, che fa<br />

mille e otto pagine”. “Ma perché legge <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> mille pagine<br />

sul senso <strong>di</strong> colpa?”. “Dice che non dovrei?”. “No, non lo <strong>di</strong>co,<br />

ma mi sembra strano che <strong>un</strong>o scrittore legga <strong>un</strong> libro del<br />

genere”. “Perché strano?”. “Perché non è letteratura, è… è…<br />

non saprei neanche <strong>di</strong>re che cos’è, <strong>un</strong> libro del genere, <strong>di</strong> storia<br />

del senso <strong>di</strong> colpa. E quello <strong>di</strong> urbanistica, poi, che cosa se ne<br />

fa?”. “Ma, non lo so. <strong>Non</strong> è che me ne faccio qualcosa<br />

<strong>di</strong>rettamente. Sono <strong>un</strong>a persona umana, ho dei sensi <strong>di</strong> colpa,<br />

vivo in <strong>un</strong>a città, perché non dovrei imparare qualcosa sui<br />

sensi <strong>di</strong> colpa e sulle città?”. “Ma non <strong>di</strong>co che non dovrebbe. È<br />

che pensavo che gli scrittori leggessero solo libri <strong>di</strong> scrittori”.<br />

“E i farmacisti leggono solo libri <strong>di</strong> farmacia?”. “No, non faccia<br />

apposta a non capire”. “Infatti, ho capito benissimo”. “E che<br />

cos’ha capito?”. “No, meglio se non lo <strong>di</strong>co”. “No, lo <strong>di</strong>ca,<br />

invece”. “Lo <strong>di</strong>ca”. “No”. “Lo <strong>di</strong>ca, sì”. “No”. “Sì”. “No”.<br />

Chiacchierata numero 27<br />

Saluti a tutti. <strong>Non</strong> passa giorno senza che il postino non mi<br />

lasci nella cassetta delle lettere (o sul davanzale della finestra,<br />

se non ci stanno) almeno <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> bustoni con dentro<br />

dattiloscritti (romanzi, raccolte <strong>di</strong> racconti, saggi storici, poesie,<br />

sistemi filosofici). <strong>Non</strong> passa giorno senza che nella mia casella<br />

<strong>di</strong> posta elettronica non si riversino <strong>un</strong>o o due dattiloscritti.<br />

<strong>Non</strong> passa giorno senza che qualc<strong>un</strong>o mi telefoni per propormi<br />

<strong>un</strong> testo da leggere. Ogni tanto succedono cose curiose.<br />

Questa è successa il 21 luglio s<strong>corso</strong>.<br />

***<br />

65


Sono nel mio stu<strong>di</strong>o. Sono le sette e venti del mattino. Sto<br />

lavorando. Il telefono suona. Alle sette e venti del mattino mi<br />

telefonano solo gli amici, quin<strong>di</strong> rispondo fiducioso.<br />

“Buongiornoo, è il dottor Mozzii?”. Una voce maschile,<br />

voluminosa.<br />

“Buongiorno”, <strong>di</strong>co. “Sono Giulio Mozzi. Lei cercava Giulio<br />

Mozzi?”.<br />

In Padova, mia città, abita <strong>un</strong> altro Giulio Mozzi. Fa il<br />

car<strong>di</strong>ologo.<br />

“Cercavoo lo scrittoree, è leii?”, <strong>di</strong>ce la voce.<br />

“Sono io”, <strong>di</strong>co. Amen.<br />

“Ecco sentaa, io le telefonavoo perché avrei scrittoo due<br />

romanzii, cioè quattroo, ma due sono già stati pubblicatii, per<br />

le E<strong>di</strong>zioni dell’Antico Torchioo, lei ha presentee?”.<br />

Penso all’Antica Gelateria del Corso e rispondo: “No. Mai<br />

sentite nominare”.<br />

“Ecco sentaa, io con questi quii ho fatto due romanzii, noo?, e<br />

avrebbero anche venduto benee, se loro si fossero dati <strong>un</strong>a<br />

mossaa, invece hanno venduto solo duemila copiee, abbiamo<br />

fatto due e<strong>di</strong>zionii, e allora adessoo che ho qui due romanzii,<br />

volevo pubblicarli da leii”, <strong>di</strong>ce la voce.<br />

“Ma”, <strong>di</strong>co, “prima dovrò leggerli”.<br />

“Ecco sentaa, io passavo per Padova giovedìi, così glieli<br />

portoo, facciamo quattro chiacchieree”, <strong>di</strong>ce la voce.<br />

“Ma, vede”, <strong>di</strong>co, “anche se ci ve<strong>di</strong>amo, finché io non ho letti i<br />

testi, non è che abbiamo molto da <strong>di</strong>rci”.<br />

“Ecco sentaa, noo, è che le volevo spiegaree, perché sono<br />

romanzi che hanno <strong>un</strong> messaggioo particolaree, così non<br />

volevo essere fraintesoo, e poi così possiamo parlare degli<br />

aspetti commercialii, che sono importantii, noo?”, <strong>di</strong>ce la voce.<br />

“Ma, guar<strong>di</strong>”, <strong>di</strong>co, “quanto al messaggio contenuto nei<br />

romanzi, è proprio meglio se non ne parliamo prima: perché se<br />

il romanzo fa passare il suo messaggio, bene, ma se ha<br />

bisogno <strong>di</strong> spiegazioni <strong>di</strong> contorno, allora vuol <strong>di</strong>re che non<br />

basta a sé stesso. E quanto agli aspetti commerciali, mi pare<br />

<strong>un</strong> po’ prematuro”.<br />

“Ecco, sentaa, ad esempio io potrei portare degli sponsoor,<br />

come la Cassa <strong>di</strong> Cre<strong>di</strong>to Cooperativo del Tagliamentoo e del<br />

Piavee, che ha sponsorizzato anche gli altri due romanzii, e la<br />

Cantina Sociale <strong>di</strong> Sacilee, che ha sponsorizzato solo il<br />

secondoo, perché è arrivata tar<strong>di</strong>i, ma si è già detta<br />

interessataa al terzoo”, <strong>di</strong>ce la voce.<br />

“Ma, sa”, <strong>di</strong>co, “che ci sia o non ci sia <strong>un</strong>o sponsor, a me non<br />

interessa mica tanto. A me interessa consigliare all’e<strong>di</strong>tore<br />

buoni libri”.<br />

66


“Ecco, sentaa, io com<strong>un</strong>que sarei là giovedìi, le faccio <strong>un</strong>o<br />

squilloo, an<strong>di</strong>amo a mangiaree <strong>un</strong> bocconee”, <strong>di</strong>ce la voce.<br />

“Ma, ecco”, <strong>di</strong>co, “io giovedì non ci sono proprio. Sono a<br />

Milano, in casa e<strong>di</strong>trice”.<br />

L’uomo, mi aspettavo che rilanciasse su mercoledì o venerdì.<br />

Invece, e non me l’aspettavo, sta zitto qualche secondo.<br />

“A Milanoo, ha dettoo?”, <strong>di</strong>ce poi.<br />

“Sì”, <strong>di</strong>co. “A Milano. La casa e<strong>di</strong>trice per la quale lavoro è a<br />

Milano”.<br />

“<strong>Non</strong> è a Padovaa?”, <strong>di</strong>ce.<br />

“No”, <strong>di</strong>co. “Io abito a Padova, ma lavoro per <strong>un</strong>a casa<br />

e<strong>di</strong>trice <strong>di</strong> Milano”.<br />

“Ma allora è <strong>un</strong>a cosa milanesee”, <strong>di</strong>ce.<br />

“È <strong>un</strong>’azienda <strong>di</strong> Milano”, <strong>di</strong>co.<br />

“Quin<strong>di</strong> non vi interessaa, <strong>un</strong>o scrittore <strong>di</strong> Gradoo”, <strong>di</strong>ce.<br />

“Ma no!”, <strong>di</strong>co. “L’e<strong>di</strong>tore è <strong>di</strong> Milano, ma pubblica persone<br />

che abitano in ogni parte d’Italia. Abbiamo autori piemontesi,<br />

emiliani, pugliesi, napoletani...”.<br />

“Ecco sentaa, anche del Sud, alloraa?”, <strong>di</strong>ce.<br />

“Sì, certo”, <strong>di</strong>co, “anche del Sud. Anzi, in proporzione con le<br />

altre case e<strong>di</strong>trici, abbiamo parecchi autori del Sud”.<br />

“Ah bee, alloraa, mi scusi tantoo, ma non ci siamoo”, <strong>di</strong>ce.<br />

“Cioè?”, domando.<br />

“<strong>Non</strong> ci siamoo, non ci siamoo. Arrivederla, dottor Mozzii”,<br />

<strong>di</strong>ce.<br />

“Buona giornata”, <strong>di</strong>co.<br />

Clic.<br />

***<br />

Sono certo che l’anonimo telefonatore abbia veramente<br />

vendute migliaia <strong>di</strong> copie del suo romanzo stampato dalle<br />

E<strong>di</strong>zioni dell’Antico Torchio. Uno che è capace <strong>di</strong> telefonare a<br />

<strong>un</strong> perfetto sconosciuto alle sette e venti <strong>di</strong> mattina, sarebbe<br />

capace <strong>di</strong> vendere frigoriferi agli esquimesi. Li prenderebbe per<br />

sfinimento.<br />

E non mi fa neanche tanta impressione il razzismo. Che non è<br />

<strong>un</strong> razzismo verso il Sud (già Milano non andava bene): è<br />

razzismo verso chi<strong>un</strong>que non sia identico. Ed è, ovviamente,<br />

<strong>un</strong> razzismo-autogol: se si accetta <strong>di</strong> com<strong>un</strong>icare solo tra<br />

identici, è come non com<strong>un</strong>icare con ness<strong>un</strong>o.<br />

Mi spaventa più <strong>di</strong> tutto la velocità della decisione. Gli sono<br />

bastati pochi secon<strong>di</strong>, a quell’uomo, per chiudere la telefonata.<br />

Per escludere dall’orizzone questa realtà scomoda e fasti<strong>di</strong>osa,<br />

che è l’e<strong>di</strong>tore per il quale io lavoro. Sono stato bruciato con<br />

67


<strong>un</strong>a sola fiammata.<br />

Per carità: non abbiamo perso niente. Sono sicuro. Alla<br />

prossima.<br />

Chiacchierata numero 28<br />

Buongiorno. Com’è andato il Ferragosto? Spero bene. Bene.<br />

Un amico mi segnala <strong>un</strong>a lezione dello scrittore Sandro<br />

Veronesi (il suo ultimo romanzo: La forza del passato,<br />

Feltrinelli), tenuta durante <strong>un</strong> <strong>corso</strong> <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> organizzato a<br />

Roma dalla casa e<strong>di</strong>trice Minimum Fax, leggibile in<br />

“sbobinatura” nelle pagine web app<strong>un</strong>to <strong>di</strong> Minimum Fax<br />

(http://www.minimumfax.com/speciale.asp?specialeID=22&ns<br />

=2). In questa lezione Veronesi a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to <strong>di</strong>ce:<br />

“Quando soffrono, i professionisti, smettono <strong>di</strong> scrivere, e i<br />

<strong>di</strong>lettanti si mettono a scrivere”. Il “lavoro principale” dello<br />

scrittore “professionista” è, <strong>di</strong>ce Veronesi, “tenere pulito il<br />

proprio potenziale” da “tutti gli ingombri”: “la donna v’ha<br />

lasciato, i cazzi, i sol<strong>di</strong>, la monnezza, quello che volete”. “Il<br />

professionista lì si ferma, lotta con ‘sto vento, risolve, per quel<br />

che può, o vi è travolto, se non riesce a risolvere i problemi,<br />

poi, dopo, quando questo momentaccio è passato, scrive”. Al<br />

contrario, “il <strong>di</strong>lettante, invece, BUM, subito prende questo<br />

flusso <strong>di</strong> merda che gli arriva addosso, e, per terapia, per<br />

consolarsi, per reggere meglio l’urto e illudendosi ad<strong>di</strong>rittura<br />

che questo nobiliti il suo gesto, scrive”.<br />

Il concetto non è nuovo; ma mi sembra molto ben detto. Mi<br />

piace anche questo uso delle parole “<strong>di</strong>lettante” e<br />

“professionista”.<br />

Poi Veronesi continua: “Qual<strong>un</strong>que cosa consegua alla tua vita<br />

quoti<strong>di</strong>ana che finisce dentro la <strong>scrittura</strong> va vagliata e lavorata<br />

molto prima. Perché se tu hai <strong>un</strong> rapporto familiare, è ovvio<br />

che questo rapporto familiare finisce per formare quello che<br />

scriverai. Il <strong>di</strong>sagio, quello che non f<strong>un</strong>ziona nel tuo rapporto<br />

familiare, con i tuoi genitori, con tua moglie, con i tuoi figli,<br />

finirà per formare in <strong>un</strong> modo nell’altro quello che scrivi. Però<br />

c’è il rischio che dopo tu trasferisci sulla <strong>scrittura</strong> la soluzione<br />

del rapporto familiare. Se ti va bene il libro, perché lo<br />

pubblichi, perché viene anche apprezzato, rischi <strong>di</strong> non<br />

considerare più <strong>un</strong> problema familiare quello che è <strong>di</strong>ventato<br />

ad<strong>di</strong>rittura la chiave del tuo successo. Ecco, allora: <strong>un</strong><br />

professionista questo sbaglio non lo deve fare, perché è troppo<br />

68


fragile, lo capite, troppo fragile quello che costruisci. Ti appoggi<br />

su <strong>un</strong> problema, lo trasformi in soluzione senza avere toccato il<br />

problema…”.<br />

Perfetto. Devo <strong>di</strong>re che non ho mai sentito spiegare meglio<br />

perché e percome l’idea, così <strong>di</strong>ffusa, della “<strong>scrittura</strong> come<br />

terapia” è in buona parte <strong>un</strong>’idea sbagliata.<br />

Una persona assai amabile mi ha scritto, circa <strong>un</strong> mese fa: “Io<br />

sto scrivendo <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario, spinta dalla mia terapeuta… Adesso<br />

che ho quasi finito il mio <strong>di</strong>ario retrospettivo, inserito in quello<br />

attuale, mi chiedo che farne, oltre ad averne usufruito per<br />

chiarirmi, anche perché la mia terapeuta, a cui l'ho letto man<br />

mano, si è molto interessata nell'ascoltarlo e m'incoraggia a<br />

non tenerlo chiuso nel classico cassetto”. Qui si tratta <strong>di</strong> vera e<br />

propria “<strong>scrittura</strong> come terapia”, perché la <strong>scrittura</strong> nasce, e ha<br />

la sua prima esistenza, proprio all’interno <strong>di</strong> <strong>un</strong>a relazione<br />

terapeutica; potremmo <strong>di</strong>re, anzi, che qui non abbiamo <strong>un</strong>a<br />

“<strong>scrittura</strong> come terapia”, ma <strong>un</strong>a “terapia con <strong>scrittura</strong>”.<br />

Naturalmente può succedere che <strong>un</strong>a <strong>scrittura</strong> iniziata<br />

all’interno <strong>di</strong> <strong>un</strong>a relazione terapeutica poi si renda autonoma e<br />

<strong>di</strong>venti, <strong>di</strong>ciamo così, “<strong>scrittura</strong>-<strong>scrittura</strong>”. Cosa che auguro,<br />

senza azzardarmi in previsioni, all’amabile persona <strong>di</strong> cui<br />

sopra.<br />

L’importante è che, per usare il linguaggio <strong>un</strong> po’ brutale <strong>di</strong><br />

Sandro Veronesi, vi sia prima la “soluzione dei problemi”, e poi<br />

la <strong>scrittura</strong>. In me, ad esempio, la <strong>scrittura</strong> è nata durante <strong>un</strong>a<br />

relazione terapeutica, e all’interno <strong>di</strong> <strong>un</strong>a relazione amicale.<br />

Una situazione quasi ideale. Che però io sono riuscito a<br />

rovinare, qualche tempo dopo, perché senza rendermene ben<br />

conto ho fatto della <strong>scrittura</strong> <strong>un</strong> antagonista della relazione<br />

terapeutica. Dicevo: “C’è del lavoro che faccio nella relazione<br />

terapeutica, e c’è del lavoro che faccio per mio conto nella<br />

<strong>scrittura</strong>”; ciò che accadeva, invece, era che facevo del lavoro<br />

nella relazione terapeutica e, penelopescamente, lo <strong>di</strong>sfacevo<br />

nella <strong>scrittura</strong>. Se qualc<strong>un</strong>o fosse curioso <strong>di</strong> verificare la cosa in<br />

corpore vili, può andare a confrontare la felicità (psichica,<br />

morale, estetica) del mio primo libro <strong>di</strong> racconti (Questo è il<br />

giar<strong>di</strong>no, del 1993, ora negli Oscar Mondadori) con l’orrore<br />

(psichico, morale, estetico) del mio terzo libro <strong>di</strong> racconti (Il<br />

male naturale, del 1998, Mondadori).<br />

Dal p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> Sandro Veronesi, io sono <strong>un</strong>o scrittore<br />

“cattivo professionista”: perché a volte mi comporto come <strong>un</strong><br />

professionista, e a volte come <strong>un</strong> <strong>di</strong>lettante. Il mio ultimo libro<br />

<strong>di</strong> racconti (Fiction, del 2001, Einau<strong>di</strong>) è <strong>un</strong> libro da<br />

superprofessionista (non è <strong>un</strong> giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> qualità, è <strong>un</strong> giu<strong>di</strong>zio<br />

professionale), mentre la decisione, presa qualche mese fa, <strong>di</strong><br />

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tenere <strong>un</strong> <strong>di</strong>ario in pubblico (http://giuliomozzi.clarence.com) è<br />

sicuramente <strong>di</strong>lettantesca (o, almeno, presenta tutti i pericoli<br />

del <strong>di</strong>lettantismo).<br />

***<br />

Ma come si fa, a <strong>di</strong>ventare “professionisti” nel senso in<strong>di</strong>cato<br />

da Veronesi (cioè non nel senso <strong>di</strong> “vivere dei propri libri”;<br />

quella è <strong>un</strong>’altra faccenda)? Secondo me, e non saprei se<br />

Veronesi sarebbe d’accordo, si tratta <strong>di</strong> capire che la <strong>scrittura</strong> è<br />

<strong>un</strong>’attività <strong>di</strong> relazione. È <strong>un</strong>a cosa che ho già detta e ripetuta<br />

in questa rubrica. Si tratta quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> trovare, nella nostra<br />

esperienza <strong>di</strong> vita, delle relazioni-modello sulle quali basare la<br />

nostra idea <strong>di</strong> “<strong>scrittura</strong> come relazione”. La relazione<br />

terapeutica è per definizione <strong>un</strong>a relazione-modello; <strong>un</strong>a<br />

relazione amicale felice è naturalmente <strong>un</strong>a relazione-modello;<br />

ma anche le relazioni familiari, professionali, com<strong>un</strong>itarie<br />

possono servire da modello.<br />

Ci sono anche libri che fanno intravedere la loro relazionemodello.<br />

Ad esempio, La coscienza <strong>di</strong> Zeno: che esplicita, e<br />

paro<strong>di</strong>zza, la relazione terapeutica come relazione-modello. O i<br />

libri <strong>di</strong> Aldo Busi, che <strong>di</strong>ventano bellissimi quando la sua<br />

relazione con la madre emerge come relazione-modello.<br />

E voi, che relazione-modello avete? Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 29<br />

Buongiorno. Un collaboratore d’<strong>un</strong> quoti<strong>di</strong>ano mi chiede, <strong>un</strong><br />

paio <strong>di</strong> giorni fa, <strong>di</strong> segnalargli corsi e laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> che<br />

inizino nel mese <strong>di</strong> settembre. Io gli <strong>di</strong>co: “Mi <strong>di</strong>a <strong>un</strong> paio<br />

d’ore”; scartabello le mie carte, do <strong>un</strong>’occhiata ai miei archivi;<br />

poi mi attacco alla rete, visito <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> siti bene aggiornati;<br />

alla fine faccio <strong>un</strong>a lista <strong>di</strong> corsi e laboratori, e gliela giro.<br />

S’intende che non è <strong>un</strong>a lista completa; come ha chiesto a me,<br />

questo collaboratore d’<strong>un</strong> quoti<strong>di</strong>ano avrà chiesto ad altri.<br />

D<strong>un</strong>que.<br />

Girellando per la rete, volando <strong>di</strong> sito in sito a caccia <strong>di</strong> corsi e<br />

laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> dei quali mi fosse sfuggita la notizia,<br />

trovo questo ann<strong>un</strong>cio: “VUOI DIVENTARE UNO SCRITTORE?<br />

GRATIS? ALMENO PROVARE? Diventare scrittori gratis? Cosa<br />

significa? Significa che quest'anno, ad Arezzo Wave, apre, dal<br />

3 al 6 luglio WORD STAGE, puoi partecipare a laboratori <strong>di</strong><br />

70


<strong>scrittura</strong> gratuiti condotti da gente come Lucarelli, Nove,<br />

Scarpa, Montanari... E se aggi<strong>un</strong>gessi che tra coloro che<br />

partecipano ai laboratori sarà scelto il miglior racconto da<br />

inserire, assieme ai racconti <strong>di</strong> Scarpa, Evangelisti, Voltolini,<br />

Rigosi, Cornia, Nori... nell'antologia de “La Biblioteca <strong>di</strong><br />

Riccardo - Circolo Aurora”?”.<br />

Il <strong>corso</strong> è già scaduto; ma l’ann<strong>un</strong>cio mi fa impressione.<br />

D<strong>un</strong>que.<br />

“Diventare <strong>un</strong>o scrittore gratis” mi suona <strong>un</strong> po’ come<br />

“Perdere sette chili in sette giorni senza rin<strong>un</strong>ciare a sbafare <strong>di</strong><br />

tutto”. <strong>Non</strong> voglio <strong>di</strong>re che per “<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong>o scrittore” <strong>un</strong>o<br />

debba frequentare per forza <strong>un</strong> <strong>corso</strong> costosissimo. È che quel<br />

“gratis” mi sembra equivalere a <strong>un</strong> “senza fatica”, “in sette<br />

giorni”, eccetera.<br />

In realtà “Diventare <strong>un</strong>o scrittore gratis” suona come<br />

<strong>un</strong>’occasione, <strong>un</strong>’eccezione rispetto alla norma, che sarebbe:<br />

“Diventare <strong>un</strong>o scrittore pagando (caro)”. Quin<strong>di</strong> l’idea che sta<br />

<strong>di</strong>etro il “Diventare <strong>un</strong>o scrittore gratis” è: “Normalmente, per<br />

“<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong>o scrittore”, bisogna spendere molti sol<strong>di</strong> (e/o<br />

fare molta fatica); noi ti offriamo, occasione <strong>un</strong>ica ed<br />

eccezionale, <strong>di</strong> “<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong>o scrittore” senza spendere nulla,<br />

e facendo anche poca fatica”.<br />

Questa “offerta speciale”, in somma, non va contro, ma va a<br />

rafforzare l’idea che per “<strong>di</strong>ventare scrittori” sia necessario<br />

passare attraverso costosi corsi e laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>. Come<br />

<strong>un</strong> ann<strong>un</strong>cio che <strong>di</strong>cesse: “Vieni in vacanza nel nostro villaggio,<br />

per sette giorni potrai fare sesso con chi<strong>un</strong>que vorrai”; che ha<br />

come “sfondo” l’idea che tanti siano sessualmente repressi e<br />

insod<strong>di</strong>sfatti.<br />

Poi.<br />

“Tra coloro che partecipano ai laboratori sarà scelto il miglior<br />

racconto da inserire, assieme ai racconti <strong>di</strong> Scarpa, Evangelisti,<br />

Voltolini, Rigosi, Cornia, Nori…”. Ossia: noi ti forniamo<br />

l’occasione per <strong>di</strong>ventare (gratis) <strong>un</strong>o scrittore; però non è poi<br />

così facile; in realtà <strong>un</strong>o solo dei partecipanti <strong>di</strong>venterà <strong>un</strong>o<br />

scrittore; infatti <strong>un</strong>o solo dei partecipanti sarà ammesso a<br />

pubblicare al fianco <strong>di</strong> Scarpa, Evangelisti, Voltolini, Rigosi,<br />

Cornia, Nori eccetera, che sono già degli scrittori.<br />

Quin<strong>di</strong>, per essere considerati, o almeno considerarsi, “<strong>un</strong>o<br />

scrittore”, bisogna potersi idealmente sedere a fianco <strong>di</strong> Scarpa<br />

Evangelisti eccetera: che sono “Autori Autorizzati”, secondo la<br />

felice definizione dello stesso Scarpa (potete leggerla in rete,<br />

qui: http://www.nazionein<strong>di</strong>ana.com/archives/000089.html).<br />

“Diventare <strong>un</strong>o scrittore”, a questo p<strong>un</strong>to, è come ottenere <strong>un</strong><br />

patentino. E questo patentino si ottiene pagando, frequentando<br />

71


costosi corsi e laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>. Occasionalmente, <strong>un</strong>a<br />

volta l’anno, il patentino è <strong>di</strong>sponibile gratis. Una specie <strong>di</strong><br />

iniziativa promozionale.<br />

Che poi Scarpa, Evangelisti, Voltolini, Rigosi, Cornia, Nori<br />

eccetera, siano “<strong>di</strong>ventati scrittori”, ossia “Autori Autorizzati”,<br />

in tutt’altro modo e per tutt’altre vie; questo non conta. E non<br />

ha neanche senso <strong>di</strong>rlo, tutto sommato, perché le “vie<br />

d’accesso” alla pubblicazione, al “<strong>di</strong>ventare scrittori”, non sono<br />

per nulla co<strong>di</strong>ficate. <strong>Non</strong> c’è <strong>un</strong> per<strong>corso</strong> da fare, non serve <strong>un</strong><br />

<strong>di</strong>ploma, non ci sono concorsi che ti “laureino” scrittore. In<br />

assenza <strong>di</strong> percorsi riconoscibili, chi<strong>un</strong>que ha la possibilità <strong>di</strong><br />

metter fuori <strong>un</strong> ann<strong>un</strong>cio e <strong>di</strong>re: “Vuoi <strong>di</strong>ventare scrittore?<br />

Gratis?”.<br />

***<br />

Dove voglio arrivare? A questo:<br />

Esiste ormai <strong>un</strong> vasto mercato <strong>di</strong> corsi, laboratori, stage <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong>. Sono così tanti che ne perdo il conto. Di per sé non ci<br />

trovo niente <strong>di</strong> male. Esiste anche <strong>un</strong> vasto mercato <strong>di</strong> corsi <strong>di</strong><br />

salsa e merengue, <strong>di</strong> corsi <strong>di</strong> nuoto, <strong>di</strong> corsi d’inglese.<br />

Personalmente credo che sia <strong>un</strong> bene, se molte persone si<br />

accostano o riaccostano alla <strong>scrittura</strong>. Una delle ragioni per le<br />

quali mi piace questo mio mestiere <strong>di</strong> insegnante <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e<br />

<strong>narrazione</strong> è che lo trovo <strong>un</strong> mestiere utile.<br />

<strong>Non</strong> ho neanche problemi <strong>di</strong> concorrenza. Ho lavoro che mi<br />

basta.<br />

Però:<br />

Mi scoccia che circolino ann<strong>un</strong>ci come quello che ho riportato<br />

e <strong>di</strong>scusso. Mi scoccia davvero. Magari poi il laboratorio sarà<br />

stato, in sé e per sé, <strong>un</strong>a bella cosa. Guardo i docenti: Carlo<br />

Lucarelli è <strong>un</strong> insegnante strepitoso (l’ho visto in azione),<br />

Tiziano Scarpa idem, Aldo Nove e Raul Montanari non li ho mai<br />

visti in aula ma sono persone intelligenti e capaci.<br />

Il p<strong>un</strong>to non è la qualità del <strong>corso</strong>. Il p<strong>un</strong>to è la modalità <strong>di</strong><br />

presentazione.<br />

Due o tre persone al giorno mi scrivono per avere notizie <strong>di</strong><br />

corsi che si svolgano dalle loro parti, o per chiedermi<br />

<strong>un</strong>’opinione sulla “cre<strong>di</strong>bilità” <strong>di</strong> questo o quel <strong>corso</strong> al quale<br />

stanno pensando <strong>di</strong> iscriversi.<br />

Posso dare <strong>un</strong>a sola in<strong>di</strong>cazione. Tanto più è basso il profilo,<br />

tanto più è cre<strong>di</strong>bile la faccenda: <strong>un</strong> <strong>corso</strong> per “migliorare il<br />

proprio stile” è più cre<strong>di</strong>bile <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>corso</strong> per “<strong>di</strong>ventare<br />

scrittori”.<br />

E tanto più il prezzo vi pare congruo (rispetto alle ore, ai<br />

72


docenti reclutati ecc.), tanto più è cre<strong>di</strong>bile la faccenda (il<br />

troppo e il troppo poco sono cattivi segnali): tenendo conto che<br />

ci sono iniziative <strong>di</strong> enti pubblici (biblioteche, <strong>di</strong> solito) che per<br />

ragioni ovvie costano meno delle iniziative private.<br />

Se volete essere informati su più o meno tutti i corsi e i<br />

laboratori che si svolgono in Italia, vi consiglio le pagine web<br />

curate da Annamaria Manna, “guida” <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> creativa per il<br />

portale SuperEva: http://guide.supereva.it/<strong>scrittura</strong>_creativa.<br />

Buona settimana.<br />

Chiacchierata numero 30<br />

State <strong>un</strong> po’ a sentire: “Nel 1903 mia nonna Teresa, madre <strong>di</strong><br />

mio padre, si arrabbiò con Dio e anche con tutti gli ebrei <strong>di</strong><br />

Dnepropetrovsk, in Ucraina, perché continuavano a credere in<br />

Lui malgrado la mici<strong>di</strong>ale inondazione del fiume Dnepr. Durante<br />

l’alluvione era morto Giuseppe, il suo figlio preferito. Quando<br />

l’acqua aveva cominciato a invadere la casa, il ragazzo aveva<br />

spinto in cortile <strong>un</strong> arma<strong>di</strong>o e ci si era arrampicato sopra, ma il<br />

mobile non rimase a galla perché era gravato dai trentasette<br />

trattati del Talmud…”. Sono le prime righe <strong>di</strong> Quando Teresa si<br />

arrabbiò con Dio, romanzo <strong>di</strong> Alejandro Jodorowsky (1992;<br />

Feltrinelli 1996, ora nei tascabili). Conosco pochi inizi <strong>di</strong><br />

<strong>narrazione</strong> così fulminanti. Jodorowsky forse non se n’era reso<br />

conto (il titolo originale è Donde mejor canta <strong>un</strong> pàjaro), ma il<br />

traduttore (Gianni Guadalupi) e l’e<strong>di</strong>tore italiani sì: e dall’incipit<br />

ricavarono il titolo. Mi ricordo: vi<strong>di</strong> il libro, il titolo mi attirò,<br />

lessi il primo capoverso e senza esitare passai alla cassa. Due<br />

giorni dopo avevo già letto il libro. Ottimo.<br />

Le prime righe <strong>di</strong> <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> sono importanti tanto<br />

quanto il primo approccio in <strong>un</strong>a seduzione. In quanto lettori,<br />

lo sappiamo bene. Ma come è fatto <strong>un</strong> incipit efficace?<br />

Guar<strong>di</strong>amo qualche esempio.<br />

La sorpresa. “Gregorio Samsa, svegliandosi <strong>un</strong>a mattina da<br />

sonni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in <strong>un</strong> enorme<br />

insetto immondo”. F. Kafka, La metamorfosi. Raramente<br />

l’elemento fantastico entra così velocemente nella <strong>narrazione</strong>,<br />

e in maniera così naturale.<br />

Il conflitto. “La notizia arrivò all’Alto Commissariato britannico<br />

<strong>di</strong> Nairobi alle nove e trenta <strong>di</strong> <strong>un</strong> l<strong>un</strong>edì mattina. Per Sandy<br />

Woodrow fu come <strong>un</strong>a fucilata, che lo colpì <strong>di</strong>ritto nel suo cuore<br />

inglese <strong>di</strong>viso”. J. Le Carré, Il giar<strong>di</strong>niere tenace. Dove non<br />

73


conta tanto l’effetto <strong>di</strong> shock (“<strong>un</strong>a fucilata”) quanto<br />

l’immagine del “cuore inglese <strong>di</strong>viso”: noi già immaginiamo <strong>un</strong><br />

conflitto interno al personaggio.<br />

Il destino. “<strong>Non</strong> l’ho mai conosciuta da viva. Lei, per me,<br />

esiste solo attraverso gli altri, nell’evidenza delle loro reazioni<br />

alla sua morte. Scavando a ritroso e attenendomi ai fatti posso<br />

<strong>di</strong>re che era <strong>un</strong>a ragazza triste e <strong>un</strong>a puttana. Nella migliore<br />

delle ipotesi era <strong>un</strong>a fallita, <strong>un</strong>’etichetta che, del resto, potrei<br />

applicare a me stesso”. J. Ellroy, Dalia Nera. <strong>Non</strong> sappiamo<br />

ancora niente, ignoriamo chi sia lei e chi sia lui; ma<br />

presentiamo che non sapremo mai veramente chi è “lei”, e che<br />

alla fine del romanzo “lui” scoprirà <strong>di</strong> non sapere niente <strong>di</strong> sé.<br />

L’azione. “La signora Dalloway <strong>di</strong>sse che i fiori li avrebbe<br />

comperati lei. Quanto a Lucy aveva già il suo daffare. Si<br />

dovevano togliere le porte dai car<strong>di</strong>ni; gli uomini <strong>di</strong><br />

Rumpelmayer sarebbero arrivati tra poco. E poi, pensò Clarissa<br />

Dalloway, che mattina - fresca come se fosse stata appena<br />

creata per dei bambini su <strong>un</strong>a spiaggia”. La signora Dalloway <strong>di</strong><br />

V. Woolf non è certo <strong>un</strong> romanzo d’azione; tuttavia l’incipit ci<br />

offre già quel “narrare concitato” tipico <strong>di</strong> questo romanzo, in<br />

cui il turbinare <strong>di</strong> percezioni e pensieri ci avvolge e dà l’illusione<br />

<strong>di</strong> <strong>un</strong>’azione continua.<br />

Generalizzando, si potrebbe <strong>di</strong>re: <strong>un</strong> buon inizio <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong><br />

presenta velocemente <strong>un</strong>o o più personaggi determinati, in <strong>un</strong>a<br />

situazione determinata, posto o posti in <strong>un</strong> conflitto e/o<br />

<strong>di</strong>fronte a <strong>un</strong> avvenimento improvviso e/o misterioso. Questa<br />

generalizzazione, come sempre in questo campo, vale quel che<br />

vale.<br />

I demoni <strong>di</strong> F. Dostoevskij, ad esempio, inizia così:<br />

“Nell’accingermi alla descrizione degli avvenimenti tanto strani<br />

svoltisi or non è molto nella nostra città, in cui finora non era<br />

accaduto nulla <strong>di</strong> notevole, sono costretto, per la mia<br />

inesperienza, a rifarmi alquanto da lontano; e precisamente da<br />

alc<strong>un</strong>i particolari biografici intorno a Stepan Trofimovic<br />

Verchovenski, uomo rispettabilissimo e <strong>di</strong> molto ingegno.<br />

Questi particolari non serviranno che d’introduzione, mentre la<br />

storia che mi propongo <strong>di</strong> scrivere seguirà poi”. Il bello è che i<br />

“particolari biografici” occupano, nell’e<strong>di</strong>zione che ho qui, 210<br />

pagine su complessive 730 del romanzo. Sarà <strong>un</strong>a questione <strong>di</strong><br />

respiro: <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> venti pagine ha bisogno <strong>di</strong> <strong>un</strong> inizio più<br />

spiccio <strong>di</strong> <strong>un</strong> romanzo <strong>di</strong> 730; e <strong>un</strong> romanzo <strong>di</strong> 730 pagine avrà<br />

bisogno <strong>di</strong> imporre al lettore <strong>un</strong> ritmo <strong>di</strong> lettura pacato,<br />

piuttosto che convulso.<br />

O pensate ai Promessi sposi, che iniziano ad<strong>di</strong>rittura tre volte:<br />

prima c’è l’introduzione falso-seicentesca (“L’Historia si può<br />

74


veramente deffinire <strong>un</strong>a guerra illustre contro il Tempo, perché<br />

togliendoli <strong>di</strong> mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti<br />

cadaueri, li richiama in vita…”), poi c’è lo scorcio paesaggistico<br />

(ma anche storico-sociale) che tutti conoscono (“Quel ramo del<br />

lago <strong>di</strong> Como…”), e infine c’è l’inizio della <strong>narrazione</strong> vera e<br />

propria: “Per <strong>un</strong>a <strong>di</strong> quelle stra<strong>di</strong>cciole, tornava bel bello dalla<br />

passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre<br />

dell’anno 1628, don Abbon<strong>di</strong>o, curato d’<strong>un</strong>a delle terre<br />

accennate <strong>di</strong> sopra…”. Notiamo, tra l’altro, che l’incontro <strong>di</strong> don<br />

Abbon<strong>di</strong>o con i bravi <strong>di</strong> don Rodrigo è <strong>un</strong> inizio <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong><br />

che presenta <strong>un</strong> personaggio determinato, in <strong>un</strong>a situazione<br />

(tempo, spazio, contesto sociale) determinata, posto in <strong>un</strong><br />

conflitto e <strong>di</strong>fronte a <strong>un</strong> avvenimento improvviso e misterioso.<br />

***<br />

Leggete questa: “Ieri pomeriggio a Monteortone due giovani a<br />

bordo <strong>di</strong> <strong>un</strong>a motocicletta hanno rotto il vetro <strong>di</strong> <strong>un</strong>’auto<br />

parcheggiata in via Castello da <strong>un</strong>a coppia <strong>di</strong> turisti tedeschi e<br />

si sono impossessati della busta <strong>di</strong> plastica lasciata sul se<strong>di</strong>le.<br />

Fort<strong>un</strong>atamente c’erano solo fazzoletti <strong>di</strong> carta e cosmetici. Gli<br />

agenti della polizia m<strong>un</strong>icipale hanno accompagnato i due a<br />

sporgere den<strong>un</strong>cia ai carabinieri”. Questa notizia breve, uguale<br />

a tante altre, è già <strong>un</strong> <strong>di</strong>screto inizio <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>. Ci sono due<br />

personaggi determinati, c’è <strong>un</strong>a situazione determinata, c’è <strong>un</strong><br />

avvenimento improvviso (per quanto non grave) e, volendo,<br />

misterioso (perché rubare, considerato il molto rischio e il<br />

preve<strong>di</strong>bile minimo guadagno, <strong>un</strong>a busta della spesa?).<br />

Ma delle relazioni tra notizia e incipit, giornali e romanzi,<br />

parliamo settimana prossima. Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 31<br />

Martedì s<strong>corso</strong> finivo citando <strong>un</strong>a breve notizia <strong>di</strong> cronaca (dal<br />

Gazzettino, pagine provinciali <strong>di</strong> Padova). La ripeto: “Ieri<br />

pomeriggio a Monteortone due giovani a bordo <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

motocicletta hanno rotto il vetro <strong>di</strong> <strong>un</strong>’auto parcheggiata in via<br />

Castello da <strong>un</strong>a coppia <strong>di</strong> turisti tedeschi e si sono impossessati<br />

della busta <strong>di</strong> plastica lasciata sul se<strong>di</strong>le. Fort<strong>un</strong>atamente<br />

c’erano solo fazzoletti <strong>di</strong> carta e cosmetici. Gli agenti della<br />

polizia m<strong>un</strong>icipale hanno accompagnato i due a sporgere<br />

75


den<strong>un</strong>cia ai carabinieri”.<br />

Si può <strong>di</strong>re che la notizia è insignificante. Eppure contiene <strong>un</strong>a<br />

sorta <strong>di</strong> promessa <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>. A partire da questo fatto<br />

insignificante, potrebbe succedere <strong>di</strong> tutto. Perché mai due tizi<br />

in motocicletta dovrebbero rubare <strong>un</strong>a busta della spesa<br />

abbandonata sul se<strong>di</strong>le <strong>di</strong> <strong>un</strong>’automobile? O sono due sciocchi,<br />

o avevano qualche ragione <strong>di</strong> credere che in quella busta<br />

potesse esserci qualcosa d’importante. Avendo <strong>un</strong>a<br />

motocicletta, è molto più red<strong>di</strong>tizio <strong>un</strong>o scippo al volo (mal che<br />

vada si porta a casa <strong>un</strong> portafoglio) che <strong>un</strong>a simile rapina (<strong>di</strong><br />

pochissimo conto, ma sempre rapina è).<br />

Poi: chissà che cosa ci facevano, due turisti tedeschi, a<br />

Monteortone. Monteortone è, va l’assicuro, tra tutti i paesi<br />

della provincia <strong>di</strong> Padova, <strong>un</strong>o dei meno rilevanti<br />

turisticamente. <strong>Non</strong> c’è ness<strong>un</strong>a ragione precisa perché dei<br />

turisti debbano andare a Monteortone. E allora, che cosa ci<br />

facevano lì? E che cosa volevano veramente rubare i due<br />

motociclisti? E si è trattato veramente <strong>di</strong> <strong>un</strong> furto oppure <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

modo, per chissà quali ragioni così stabilito, <strong>di</strong> far passare <strong>di</strong><br />

mano <strong>un</strong> oggetto? In fondo, che dentro la busta ci fossero solo<br />

fazzoletti <strong>di</strong> carta e cosmetici, l’hanno detto i due turisti, non è<br />

mica <strong>un</strong> fatto accertato…<br />

Molti romanzi o racconti cominciano così: con <strong>un</strong> fatto banale,<br />

anche futile, che tuttavia apre <strong>un</strong>a promessa <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>:<br />

ossia, pur nella sua banalità, contiene qualcosa <strong>di</strong> inspiegabile,<br />

o almeno <strong>di</strong> illogico. L’abilità del narratore consiste, in questi<br />

casi, nel proporci <strong>un</strong> mondo nel quale le cose che avvengono<br />

sono banali (e perciò, va da sé, senza esitazione cre<strong>di</strong>bili) e<br />

tuttavia lievemente “sfasate” rispetto alla vera e autentica<br />

banalità (quella, per intenderci, che sperimentiamo nella nostra<br />

vita quoti<strong>di</strong>ana).<br />

La <strong>narrazione</strong> in somma ci propone avvenimenti<br />

perfettamente cre<strong>di</strong>bili, che però non sono davvero del tutto<br />

perfettamente cre<strong>di</strong>bili. Sono cre<strong>di</strong>bili, ma ci lasciano il<br />

sospetto che “ci sia sotto qualcosa”. Sono cre<strong>di</strong>bili, ma hanno<br />

<strong>un</strong> particolare che, a pensarci bene, è troppo strano per essere<br />

creduto così sui due pie<strong>di</strong>. Sono cre<strong>di</strong>bili, ma forse basterebbe<br />

osservarli da <strong>un</strong> altro p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista…<br />

***<br />

“Eravamo forse <strong>un</strong>a decina o qualc<strong>un</strong>o in più. Eravamo ai<br />

giar<strong>di</strong>ni pubblici. Era novembre. Era vino. Ce n’era tanto. Per<br />

tenersi cal<strong>di</strong>, per stare vicini. Qualc<strong>un</strong>o esagerò. Più <strong>di</strong><br />

qualc<strong>un</strong>o, a <strong>di</strong>re il vero. Poi <strong>un</strong>o corse ad abbracciare <strong>un</strong> albero<br />

76


enorme e iniziò a sgranare parole senza senso circa la<br />

fecondazione e gli elefanti in Indonesia”. Questo è l’incipit <strong>di</strong><br />

Come gli elefanti in Indonesia, romanzo assai bizzarro e non<br />

del tutto privo <strong>di</strong> qualità <strong>di</strong> Vanni Schiavoni, classe 1977, <strong>di</strong><br />

Manduria (e<strong>di</strong>zioni LiberArs, liberars@libero.it). Anche qui<br />

abbiamo <strong>un</strong>a situazione banale, nella quale irrompe <strong>un</strong> fatto<br />

inspiegabile. Che c’entrano gli elefanti, la fecondazione,<br />

l’Indonesia, con <strong>un</strong> normale pomeriggio <strong>di</strong> ragazzi che<br />

chiacchierano e bevono?<br />

Il fatto inspiegabile però qui è, se così si può <strong>di</strong>re, troppo<br />

inspiegabile. Può sembrare solo <strong>un</strong>’idea bislacca. Tuttavia<br />

anche l’incipit della Metamorfosi <strong>di</strong> Kafka (“Gregorio Samsa,<br />

svegliandosi <strong>un</strong>a mattina da sonni agitati, si trovò trasformato,<br />

nel suo letto, in <strong>un</strong> enorme insetto immondo”) può sembrare<br />

solo <strong>un</strong>’idea bislacca. È necessario quin<strong>di</strong> che il narratore,<br />

subito dopo aver presentato il fatto inspiegabile, faccia <strong>di</strong> tutto<br />

perché esso venga riclassificato (dal lettore) tra i fatti<br />

spiegabili, magari appena <strong>un</strong> po’ inspiegabili. <strong>Non</strong> per niente il<br />

grosso problema <strong>di</strong> Gregorio Samsa, risvegliatosi “trasformato<br />

in <strong>un</strong> enorme insetto immondo”, è sintetizzabile più o meno<br />

così: “Santo cielo, che cosa penserà il capufficio?”. E i suoi<br />

familiari reagiscono al fatto più o meno così: “Santo cielo,<br />

guarda come si è ridotto Gregorio!”. La realtà, “strappata” dal<br />

fatto inspiegabile, viene rapidamente “ricucita”.<br />

Nel romanzo <strong>di</strong> Vanni Schiavoni, questo “ricucimento” della<br />

realtà tarda ad arrivare. Così che il lettore legge e legge le<br />

prime pagine, e non capisce bene quale sia la promessa<br />

narrativa. Che c’entrano gli elefanti? A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to la<br />

risposta arriva, e la <strong>narrazione</strong> si fa leggere assai volentieri;<br />

tuttavia c’è stato <strong>un</strong>o iato, <strong>un</strong> momento <strong>di</strong> indecisione iniziale,<br />

<strong>un</strong> piccolo vuoto: proprio all’inizio, proprio lì dove, invece, il<br />

lettore dovrebbe (permettetemi questo verbo) essere<br />

incuriosito e irretito.<br />

Perché lo scopo <strong>di</strong> ogni <strong>narrazione</strong>, si sa, è questo: essere<br />

letta, o ascoltata, o guardata, dall’inizio alla fine.<br />

***<br />

Quando il fatto che irrompe è veramente inspiegabile, o<br />

almeno straor<strong>di</strong>nario, è necessario provvedere rapidamente a<br />

<strong>un</strong> “ricucimento” della realtà. Se il fatto che irrompe è<br />

sostanzialmente spiegabile, è necessario provvedere a instillare<br />

nel lettore il dubbio che così spiegabile in effetti non sia. Che<br />

cominciamo a raccontare in <strong>un</strong> modo o che cominciamo a<br />

raccontare in <strong>un</strong> altro, si arriva com<strong>un</strong>que a <strong>un</strong>o stesso p<strong>un</strong>to<br />

77


me<strong>di</strong>o: la presentazione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a realtà che è parzialmente<br />

spiegabile (e che quin<strong>di</strong> il lettore si spiega da sé) e<br />

parzialmente inspiegabile (e che quin<strong>di</strong> il lettore si aspetta che<br />

noi gli spieghiamo).<br />

Una realtà tutta inspiegabile, sarebbe rifiutata dal lettore<br />

come <strong>un</strong>a sciocchezza. Una realtà tutta spiegabile, non<br />

presenta il minimo interesse.<br />

L’incipit <strong>di</strong> <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong>, quin<strong>di</strong>, serve anche a questo: a<br />

promettere al lettore che, questa realtà dove qualcosa è<br />

inspiegabile, prima o poi gli sarà spiegata per filo e per segno.<br />

Promessa che, sia chiaro, non è poi così obbligatorio<br />

mantenere. Ma ne parliamo tra <strong>un</strong>a settimana.<br />

Chiacchierata numero 32<br />

Dicevo la settimana scorsa che ogni racconto o romanzo, già<br />

nelle prime righe, fa al lettore <strong>un</strong>a promessa <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>.<br />

Leggere le prime frasi o la prima pagina d’<strong>un</strong> libro, per capire<br />

se può interessarci, è <strong>un</strong>’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong>ffusa. Ma come f<strong>un</strong>ziona,<br />

nel dettaglio, questa promessa <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>? Io non lo so<br />

spiegare. Posso solo fare esempi.<br />

Quello che segue è l’incipit <strong>di</strong> Viaggio alle Incoronate, <strong>un</strong><br />

romanzo <strong>di</strong> Hans Kitzmüller. Kitzmüller è <strong>un</strong> germanista<br />

goriziano, <strong>un</strong> narratore, <strong>un</strong> prestigioso stu<strong>di</strong>oso e traduttore.<br />

Le Incoronate sono isole della Dalmazia. Io, tengo a precisarlo,<br />

non ho ancora letto il libro.<br />

“L’idea <strong>di</strong> partire finalmente, mi emozionava. Per andare sino<br />

alle Incoronate dovevo affrontare <strong>un</strong>a l<strong>un</strong>ga navigazione<br />

solitaria che poteva essere anche <strong>di</strong> tre, quattro giorni -<br />

<strong>di</strong>pendeva dal tempo e dal mare che avrei trovato. Mi<br />

pregustavo però anche la meraviglia e lo stupore <strong>di</strong> fronte a<br />

visioni straor<strong>di</strong>narie. Laggiù volevo gettare l’ancora in ogni baia<br />

sicura, ormeggiare ad ogni piccolo molo dell’arcipelago. E<br />

starmene lì, seduto o sdraiato nel se<strong>di</strong>le del pozzetto, cullato<br />

nella quiete dell’attracco a vivere intensamente il lieve nulla <strong>di</strong><br />

cui sono fatte le ore trascorse a bordo in certe sere silenziose e<br />

in certe notti luminose”.<br />

Questo incipit contiene tutto il programma d’<strong>un</strong> libro. Un<br />

uomo parte per <strong>un</strong> viaggio a l<strong>un</strong>go progettato, o più volte<br />

rimandato, com<strong>un</strong>que molto desiderato (“finalmente”), nel<br />

<strong>corso</strong> del quale egli prevede o progetta <strong>di</strong> entrare in <strong>un</strong>o stato<br />

d’animo speciale, anzi già vi sta entrando (“mi emozionava”),<br />

stato d’animo possibile in quanto il viaggio, grazie alle<br />

78


“incertezze” e alla “solitu<strong>di</strong>ne” che garantisce, si prospetta<br />

come alternativo alla vita or<strong>di</strong>naria del protagonista, che si<br />

presumerà “certa” e “affollata”, più o meno come potrebbe<br />

essere la vita <strong>di</strong> <strong>un</strong> professore <strong>di</strong> Lingua e letteratura tedesca<br />

all’Università <strong>di</strong> U<strong>di</strong>ne, quale Kitzmüller è. Naturalmente, che la<br />

<strong>narrazione</strong> sia autobiografica, o para-autobiografica, è <strong>un</strong>a<br />

supposizione. Ma siamo appena all’inizio, e abbiamo il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong><br />

fare supposizioni.<br />

La destinazione del viaggio è provvista d’<strong>un</strong> nome quasi<br />

magico: le Isole Incoronate fanno pensare all’Isola-non-trovata<br />

o all’Isola Fer<strong>di</strong>nandea. Come se ciò non bastasse, il signor<br />

Kitzmüller già ann<strong>un</strong>cia “meraviglia”, “stupore” e “visioni<br />

straor<strong>di</strong>narie”; meraviglia stupore e visioni, tuttavia, non<br />

terribili né inquietanti, bensì da godersi in “baie sicure”,<br />

“seduto o sdraiato”, “cullato nella quiete”. Il viaggio sarà quin<strong>di</strong><br />

estatico: non sarà il viaggio mistico del giovane che va incontro<br />

ai pericoli per mettersi alla prova e tentar <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare<br />

immortale, ma il viaggio estatico dell’adulto che cerca pace e<br />

straniamento per ritrovare, <strong>di</strong>ciamo così, la sua nascita.<br />

Nient’altro che <strong>un</strong>’estasi, infatti, è quel “vivere intensamente il<br />

lieve nulla” che sta nell’ultima frase. Viene in mente quel<br />

viaggiatore leggero e folle che fu Robert Walser: i cui<br />

personaggi spesso intraprendono viaggi a pie<strong>di</strong>, nel <strong>corso</strong> dei<br />

quali godono <strong>di</strong> ogni felicità.<br />

Che libro ci aspettiamo, d<strong>un</strong>que? <strong>Non</strong> certo <strong>un</strong>’avventura<br />

marinaresca. Ci aspettiamo che <strong>un</strong> professore <strong>di</strong> Lingua e<br />

letteratura tedesca, o com<strong>un</strong>que <strong>un</strong> personaggio immaginabile<br />

da <strong>un</strong> professore <strong>di</strong> Lingua e letteratura tedesca, passi alc<strong>un</strong>i<br />

giorni in mare; non in mezzo al mare, ovviamente, ma<br />

costeggiando; e che questi giorni si riempiano <strong>di</strong> eventi minimi,<br />

<strong>di</strong> “lievi nulla”; e che tra eventi minimi e “lievi nulla” irrompa<br />

qualcosa. Che cosa? Ma, sarà <strong>un</strong> passato, saranno dei passati.<br />

Il libro sarà <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> rievocazione. Creata per mezzo della<br />

“solitu<strong>di</strong>ne” <strong>un</strong>a tabula rasa, il nostro professore o personaggio<br />

aprirà la propria mente, lascerà libero il passaggio a tutto ciò<br />

che “il logorio della vita moderna” tiene invece a bada,<br />

<strong>di</strong>stante. Giusto? È più o meno questo, il libro che ci<br />

aspettiamo?<br />

La cosa <strong>di</strong>vertente è che il libro - passo dalla prima pagina<br />

all’ultima - finisce con queste parole:<br />

“Tutto, poi, è stato esattamente così”.<br />

***<br />

79


Ma la vera curiosità che ci farà leggere il libro è questa: il<br />

nostro navigante, in quei giorni <strong>di</strong> viaggio, incontrerà i mostri<br />

marini?<br />

“Che c’entrano i mostri marini?”, domanderà qualc<strong>un</strong>o.<br />

In effetti l’incipit non <strong>di</strong>ce nulla sui mostri marini; non li<br />

nomina, non li promette, ma nemmeno li nega. I mostri marini<br />

sono nella nostra immaginazione. Che cosa saranno, le “visioni<br />

straor<strong>di</strong>narie” <strong>di</strong> cui si parla? Saranno semplicemente paesaggi<br />

molto belli, o saranno i mostri marini? L’incipit, in effetti, mette<br />

avanti due cose che stanno in tensione. La promessa <strong>di</strong><br />

“meraviglia” e <strong>di</strong> “visioni straor<strong>di</strong>narie” è almeno all’apparenza<br />

incompatibile con la promessa <strong>di</strong> “lievi nulla”, <strong>di</strong> “quiete” e <strong>di</strong><br />

“sere silenziose”. Siamo ancora all’inizio della <strong>narrazione</strong>,<br />

siamo pronti a tutto: ma abbiamo cominciato, senza<br />

rendercene ben conto, a dare <strong>un</strong>a forma a questa nostra<br />

<strong>di</strong>sponibilità. In sostanza, ci stiamo preparando a sovrapporre<br />

le cose incompatibili: ad accettare che <strong>un</strong>a “sera silenziosa” sia<br />

fonte <strong>di</strong> “meraviglia”, che <strong>un</strong> “lieve nulla” si presenti come <strong>un</strong>a<br />

“visione straor<strong>di</strong>naria”. Stiamo imparando a rin<strong>un</strong>ciare ai<br />

mostri marini.<br />

Alla fin fine siamo abbastanza sicuri che Viaggio alle<br />

Incoronate sarà <strong>un</strong> libro <strong>un</strong> po’ noioso: perché non ci offrirà <strong>un</strong><br />

turbine <strong>di</strong> avvenimenti nitidamente esposti, come i libri<br />

d’avventure, ma tenterà invece <strong>di</strong> confondere la nostra visione.<br />

Ci saranno pagine nelle quali non capiremo bene se <strong>un</strong>a<br />

“visione straor<strong>di</strong>naria” o <strong>un</strong> “lieve nulla” si stia levando <strong>di</strong>nanzi<br />

ai nostri occhi.<br />

Ecco. L’incipit <strong>di</strong> Viaggio alle Incoronate è sicuramente <strong>un</strong><br />

bell’incipit, molto evocativo, <strong>un</strong> po’ magico. Fa al lettore <strong>un</strong>a<br />

promessa assai seria. E in effetti (nel frattempo l’ho letto) poi<br />

la mantiene. È <strong>un</strong> libro assai bello. Se v’incuriosisce, e non<br />

riuscite a trovarlo in libreria, potete rivolgervi <strong>di</strong>rettamente<br />

all’e<strong>di</strong>tore (Santi Quaranta, 0422.433.194). La settimana<br />

prossima faremo a pezzi qualche altro inizio <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>.<br />

Perché nella <strong>narrazione</strong>, così come nelle relazioni amorose,<br />

nell’inizio <strong>di</strong> solito c’è già tutto. Buona settimana.<br />

80


Chiacchierata numero 33<br />

Si parlava <strong>di</strong> incipit, e delle promesse che essi fanno al<br />

lettore. Uno degli incipit più invitanti degli ultimi anni è quello<br />

<strong>di</strong> Anime alla deriva <strong>di</strong> Richard Mason (Einau<strong>di</strong>). Il prologo<br />

comincia così:<br />

“Mia moglie si è sparata ieri pomeriggio.<br />

“O almeno questo è quanto ritiene la polizia, e io interpreto la<br />

parte del vedovo affranto con entusiasmo e con successo.<br />

Vivere con Sarah mi ha insegnato a ingannare me stesso, e<br />

l’ho trovato io, come lei, <strong>un</strong> eccellente modo per imparare a<br />

ingannare gli altri. Naturalmente io so che lei non ha fatto<br />

niente del genere. Mia moglie era troppo equilibrata, troppo<br />

ancorata al presente per pensare <strong>di</strong> farsi del male. È mia<br />

opinione che non si sia mai preoccupata <strong>di</strong> quello che aveva<br />

fatto. Era incapace <strong>di</strong> provare rimorso.<br />

“Sono stato io a ucciderla.<br />

“E non per i motivi che potreste immaginare. Il nostro non era<br />

affatto <strong>un</strong> matrimonio infelice, anzi”.<br />

Per questo incipit, <strong>un</strong>a grande promessa narrativa in poche<br />

righe, comperai il libro. Il marito omicida, mentitore, narratore<br />

brioso e cinico; Sarah, moglie perfetta anche nella crudeltà; <strong>un</strong><br />

inganno profondamente incistato nella vita <strong>di</strong> <strong>un</strong>a coppia<br />

“felice”; <strong>un</strong> avvenimento lontano nel tempo (“quello che aveva<br />

fatto”) che all’improvviso scatena la bufera; <strong>un</strong> bel porgere la<br />

storia al pubblico con il voi, come fossimo a teatro; la scelta <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>re subito come la storia va a finire, segno <strong>di</strong> olimpica<br />

sicurezza dell’autore…<br />

Il guaoio è che tutto questo regge per trentotto righe e<br />

mezza. Poi casca l’asino. Sentite:<br />

“Se mi conosceste, non <strong>di</strong>reste che sono il tipo dell’assassino.<br />

<strong>Non</strong> mi considero certo <strong>un</strong> uomo violento, e non penso<br />

che l’aver ucciso Sarah mo<strong>di</strong>ficherà questa mia opinione. Dopo<br />

settant’anni su questa terra, conosco i miei <strong>di</strong>fetti, e la<br />

violenza, perlomeno in senso fisico, non è tra questi. Ho ucciso<br />

mia moglie perché lo esigeva la giustizia; e uccidendola ho<br />

ristabilito almeno <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> giustizia. O no? I dubbi mi<br />

tormentano; le antiche ferite si riaprono. La mia ossessione per<br />

il peccato e la p<strong>un</strong>izione, messa a tacere in modo molto<br />

imperfetto tanto tempo fa, torna a farsi sentire. Mi scopro a<br />

chiedermi quale <strong>di</strong>ritto avessi <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>care Sarah, e quanto più<br />

duramente sarò giu<strong>di</strong>cato per aver giu<strong>di</strong>cato lei; per averla<br />

giu<strong>di</strong>cata e p<strong>un</strong>ita in <strong>un</strong> modo in cui io non sono mai stato<br />

81


giu<strong>di</strong>cato e p<strong>un</strong>ito”.<br />

L’asino casca, per l’esattezza, alle parole “O no?”. “Ma come”,<br />

mi vien da <strong>di</strong>re a Mason, “mi metti in scena questo bellissimo<br />

personaggio pieno <strong>di</strong> menzogne e <strong>di</strong> brio, e dopo trentotto<br />

righe e mezza senti già il bisogno <strong>di</strong> correggerlo, <strong>di</strong> incrinare il<br />

suo brio, <strong>di</strong> riparare le sue menzogne? Gli fai sentire il bisogno<br />

della verità e della giustizia? Gli fai <strong>di</strong>re la verità? Ma perché?<br />

Che cosa me ne faccio <strong>di</strong> <strong>un</strong>a storia in cui <strong>un</strong> personaggio<br />

profon<strong>di</strong>ssimamente menzognero mi racconta per davvero la<br />

verità?”.<br />

A pagina 38 smisi <strong>di</strong> leggere. Tutto era chiaro: c’era il nostro<br />

uomo, James, e c’era <strong>un</strong>a ragazza fascinosa e nevrotica, Ella,<br />

palesemente non sposabile. La storia poteva essere <strong>un</strong>a sola:<br />

Sarah, la perfetta e crudele moglie intravista nel prologo, fa<br />

fuori Ella per sposarsi James. James alla fine la scopre e la fa<br />

fuori.<br />

Un amico, lettore più <strong>di</strong>ligente <strong>di</strong> me, mi ha detto che ci ho<br />

quasi preso: Sarah e Ella sono cugine; Ella ruba <strong>un</strong> fidanzato a<br />

Sarah, e poi lo pianta per James; Sarah ammazza il padre <strong>di</strong><br />

Ella, suo zio, e la fa condannare per omici<strong>di</strong>o; Ella poi,<br />

<strong>di</strong>mostrando <strong>un</strong>a squisita sensibilità narrativa, si toglie <strong>di</strong><br />

mezzo impiccandosi in carcere.<br />

Ecco: questi sono gli ingranaggi della <strong>narrazione</strong>, i famosi<br />

“trucchi” che forniscono ogni personaggio <strong>di</strong> <strong>un</strong>a decente<br />

motivazione. Niente è più preve<strong>di</strong>bile degli ingranaggi.<br />

***<br />

Ma che fosse tutto troppo chiaro, deve averlo capito anche<br />

Mason. “C’è bisogno <strong>di</strong> qualcosa per tener su il mistero”, si<br />

sarà detto. E infatti, venticinque righe dopo quel rovinoso “O<br />

no?”, ecco che ci mette <strong>un</strong>a pezza:<br />

“Ho scelto l<strong>un</strong>edì pomeriggio per frugare nella sua [<strong>di</strong> Sarah]<br />

scrivania perché mia moglie [Sarah, app<strong>un</strong>to] era fuori a<br />

sorvegliare i lavori <strong>di</strong> ampliamento della biglietteria. E per puro<br />

caso ho trovato il cassetto in cui l’ha conservata per tutti questi<br />

anni”.<br />

La pezza è: “l’”. Che cosa ha conservato Sarah, “per tutti<br />

questi anni”, nel cassetto della scrivania? Il prologo si conclude<br />

senza <strong>di</strong>rcelo. Basta sfogliare <strong>un</strong> po’ per vedere che a pagina<br />

323 la scena si ripete pari pari, ma il particolare mancante<br />

viene finalmente esibito:<br />

“L<strong>un</strong>edì pomeriggio [Sarah] era fuori a sorvegliare i lavori <strong>di</strong><br />

ampliamento della biglietteria, così scelsi quel momento per<br />

andare a frugare nella sua scrivania. E assolutamente per caso<br />

82


ho trovato il cassetto in cui l’ha conservata per tutti questi<br />

anni. Un cassetto minuscolo, nascosto in <strong>un</strong>a voluta, che si<br />

apriva grazie a <strong>un</strong>a molla segreta.<br />

“Era <strong>un</strong>a strana chiave: pesante, grossa, ma fatta <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

acciaio lucente troppo moderno per quel <strong>di</strong>segno; era tagliata<br />

per <strong>un</strong>a serratura antica”.<br />

A pagina 330 James chiederà conto a Sarah <strong>di</strong> quella chiave;<br />

Sarah gli racconterà <strong>un</strong>a storia che ci porterà a reinterpretare<br />

tutto ciò che ci era stato raccontato fino a quel p<strong>un</strong>to; e a<br />

pagina 344, ultima del libro, finalmente James ammazzerà<br />

Sarah.<br />

Dire “la” trovai a pagina 4, e spiegare che cos’è quel “la” a<br />

pagina 323, significa chiedere davvero molto al lettore: non in<br />

termini <strong>di</strong> partecipazione, ma <strong>di</strong> indulgenza.<br />

Immaginate <strong>di</strong> essere al cinema. Vedete James che fruga<br />

nella scrivania della moglie, che intasca <strong>un</strong> oggetto senza che<br />

si capisca cos’è. C’è <strong>un</strong> mistero? No, ness<strong>un</strong> mistero:<br />

semplicemente, la chiave non è stata inquadrata. Una semplice<br />

omissione. E <strong>un</strong>’omissione così palese, così deliberata, non<br />

crea ness<strong>un</strong>a tensione narrativa. Pensate a Psycho. Anche lì<br />

l’assassino non viene inquadrato. Un espe<strong>di</strong>ente elementare.<br />

Ma sparsi per il film ci sono moltissimi altri elementi, <strong>di</strong><br />

tutt’altra specie, che creano tensione. In Anime alla deriva,<br />

invece, è tutto lì.<br />

In conclusione: se si fanno promesse, è bene mantenerle.<br />

<strong>Non</strong> basta nascondere per creare <strong>un</strong> mistero. Gli avvenimenti<br />

possono essere parzialmente intuibili, ma non del tutto<br />

preve<strong>di</strong>bili. E se <strong>un</strong> personaggio a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to <strong>di</strong>venta<br />

scomodo, non suicidatelo. Se ne accorgono tutti.<br />

Chiacchierata numero 34<br />

Sono tre settimane, se non quattro, che vi parlo <strong>di</strong> incipit, <strong>di</strong><br />

inizi <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>. Naturalmente c’è quello che prende la palla<br />

al balzo e mi scrive: “Caro Mozzi: mi compiaccio che in questo<br />

se<strong>di</strong>cente <strong>corso</strong> <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong> a p<strong>un</strong>tate lei abbia<br />

smesso <strong>di</strong> tergiversare. Magari, però, si potrebbe provare ad<br />

andare <strong>un</strong> po’ oltre l’inizio, vero? A spiegare <strong>un</strong> po’ come si<br />

scrive <strong>un</strong>a storia, tutta, da cima a fondo, no?”.<br />

Sono d’accordo. Una storia, d<strong>un</strong>que, si può scrivere <strong>un</strong>a volta<br />

che si siano decise due cose:<br />

prima cosa, qual è il conflitto alla base della storia stessa;<br />

83


seconda cosa, qual è la voce che racconta la storia.<br />

Queste due decisioni sono preliminari. <strong>Non</strong> c’è scampo. Se ho<br />

l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> riempire quaderni o hard <strong>di</strong>sk <strong>di</strong> app<strong>un</strong>ti abbozzi<br />

e tentativi, niente si concretizzerà finché non avrò decise<br />

queste due cose: qual è il conflitto, qual è la voce.<br />

La voce è <strong>un</strong>a cosa che il lettore deve sentire subito, dalla<br />

prima riga. E il conflitto, se viene imme<strong>di</strong>atamente presentato,<br />

imme<strong>di</strong>atamente accalappia il lettore.<br />

Si può <strong>di</strong>re, secondo me, che trovare l’incipit <strong>di</strong> <strong>un</strong>a storia,<br />

cioè <strong>un</strong> paragrafo nel quale si senta la voce <strong>di</strong> chi racconta (<strong>un</strong><br />

narratore esterno, <strong>un</strong> personaggio ecc.) e si percepisca<br />

l’esistenza <strong>di</strong> <strong>un</strong> conflitto (non necessariamente si capisca che<br />

conflitto è, quali sono i suoi esatti termini ecc.), significa<br />

veramente essere “a metà dell’opera”. Almeno per quanto<br />

riguarda il racconto. Per <strong>un</strong> romanzo, non so. Io non so<br />

scrivere romanzi, quin<strong>di</strong> non mi azzardo a <strong>di</strong>re. Credo che<br />

valga, quel che sto <strong>di</strong>cendo, oltre che per il racconto, per i<br />

romanzi che adoperano la prima persona. Ma non sono<br />

sicurissimo.<br />

Pren<strong>di</strong>amo <strong>un</strong>o degli incipit più belli che io conosca: quello del<br />

romanzo Memoriale <strong>di</strong> Paolo Volponi (ora nei tascabili Einau<strong>di</strong>):<br />

“I miei mali sono cominciati tutti alc<strong>un</strong>i mesi dopo il mio<br />

ritorno dalla prigionia in Germania, quasi che la terra materna,<br />

dopo tanto e così crudele <strong>di</strong>stacco, mi rigettasse. Io sono nato<br />

il 12 marzo 1919 ad Avignone, in Francia; ma sono italiano e <strong>di</strong><br />

genitori italiani, padre piemontese e madre veneta, nata nella<br />

campagna fra Padova e Treviso, in luoghi assai belli, ella mi ha<br />

sempre detto, che io non conosco. Oggi che scrivo ho già<br />

compiuto trentasei anni e i miei mali sono arrivati a <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to<br />

tale che non posso fare a meno <strong>di</strong> den<strong>un</strong>ciarli. Scrivo, stando a<br />

casa mia, a Can<strong>di</strong>a, nel Canavese, in provincia <strong>di</strong> Torino.<br />

Questa casa è fuori del paese, verso il piccolo lago <strong>di</strong> Can<strong>di</strong>a;<br />

ma <strong>un</strong> poco spostata a sinistra, tra pese e lago, verso la<br />

collina; è <strong>un</strong>a casa <strong>di</strong> campagna con <strong>un</strong> poco <strong>di</strong> orto, la sua<br />

loggia <strong>di</strong> mattoni rossi, il fienile e la stalla abbandonati, dove<br />

vivono in <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne alc<strong>un</strong>e galline, due galli e <strong>un</strong>a famiglia <strong>di</strong><br />

conigli, quasi selvatici. Io non curo la terra né gli animali da<br />

cortile, perché sono <strong>un</strong> operaio <strong>di</strong> <strong>un</strong>a fabbrica in città; <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

fabbrica grande più della stessa città”.<br />

La potenza <strong>di</strong> questo incipit mi lascia senza fiato. Mi ricordo<br />

che lessi questo romanzo per la prima volta andando ad<br />

Ancona, in treno. Lo aprii che il treno s’era appena mosso da<br />

Padova, mia città, e quando si trattò <strong>di</strong> scendere a Bologna per<br />

cambiare, quasi me ne <strong>di</strong>menticai. Perché, poi, tutto il libro<br />

continua con questo slancio, senza mai mutare l’andatura.<br />

84


Arrivai ad Ancona che era notte fonda, crollai a dormire nel<br />

letto della pensione, terminai <strong>di</strong> leggere la mattina del giorno<br />

dopo, mentre sbocconcellavo l’orribile croissant confezionato<br />

della colazione.<br />

***<br />

Da questo incipit appren<strong>di</strong>amo innanzitutto alc<strong>un</strong>e coor<strong>di</strong>nate<br />

spaziotemporali: dove siamo, che anni sono. Poi appren<strong>di</strong>amo<br />

<strong>un</strong>a quantità <strong>di</strong> cose materiali sul personaggio narratore: l’età,<br />

la con<strong>di</strong>zione sociale bassa (i genitori sono dovuti andare a<br />

cercar lavoro in Francia), l’origine conta<strong>di</strong>na, la prigionia in<br />

Germania ecc. Ma appren<strong>di</strong>amo soprattutto, e fin dalle<br />

primissime parole, molte cose sulla personalità <strong>di</strong> qust’uomo: e<br />

le appren<strong>di</strong>amo, app<strong>un</strong>to, attraverso la sua voce: le parole che<br />

usa, il modo in cui le mette insieme.<br />

L’espressione “i miei mali”, così indeterminata e<br />

onnicomprensiva, è propria <strong>di</strong> chi combatte contro <strong>un</strong> nemico<br />

invisibile: <strong>un</strong> <strong>di</strong>sperato, o <strong>un</strong> paranoico. La <strong>di</strong>chiarazione: “Io<br />

non curo la terra perché sono <strong>un</strong> operaio”, con il suo carattere<br />

<strong>di</strong> decisione assurdamente ra<strong>di</strong>cale, <strong>di</strong> esagerata adesione al<br />

ruolo sociale <strong>di</strong> operaio, rafforza l’impressione. La frase: “Una<br />

fabbrica grande più della stessa città” ci fa capire che il<br />

personaggio vive la fabbrica come luogo mitico e magico. In<br />

soldoni: il suo senso <strong>di</strong> realtà fa acqua.<br />

Ancora. La terra materna ha “quasi rigettato” il nostro uomo.<br />

La madre è nata in “luoghi assai belli”, e la casa e il luogo sono<br />

descritti con <strong>un</strong>a lingua materiale e amorosa. Ma ci accorgiamo<br />

subito che, questa terra bella e amata, è proprio il nostro<br />

uomo, nella frase sulla fabbrica, a rigettarla violentemente.<br />

La lingua è apparentemente calma, con frasi ampie; non è<br />

<strong>un</strong>a lingua parlata, ma <strong>un</strong>a lingua volutamente alta e nobile<br />

nella sintassi, benché molto semplice nel lessico. Il nostro<br />

uomo sta scrivendo <strong>un</strong> Memoriale (questo il titolo del libro)<br />

rivolto ancora non sappiamo a chi (ma possiamo immaginare:<br />

a chi, secondo lui, ha il potere <strong>di</strong> liberarlo dai suoi “mali”). È <strong>un</strong><br />

operaio, usa <strong>un</strong>a lingua semplice, ma la rende forte proprio<br />

attraverso le ampie volute delle frasi.<br />

Quin<strong>di</strong>: qui abbiamo <strong>un</strong>a imme<strong>di</strong>ata messa in scena della<br />

voce del personaggio, nonché del conflitto in atto. Che sarà,<br />

giustamente immaginiamo cominciando a leggere, <strong>un</strong> conflitto<br />

tra <strong>un</strong>a visione paranoica della realtà, propria dell’operaio che<br />

scrive, e <strong>un</strong>a visione “normale” della realtà, che sarà propria <strong>di</strong><br />

tutti gli altri - e in particolare, possiamo supporre, <strong>di</strong> coloro ai<br />

quali egli si rivolge per essere liberato dai suoi “mali”.<br />

85


E c’è anche <strong>un</strong> altro conflitto, sotterraneo. Perché il narratore,<br />

colui che sta <strong>di</strong>etro l’operaio che scrive e gli guida la penna, in<br />

realtà, così come anche noi faremo leggendo, sta dalla parte<br />

dell’operaio. La sua visione paranoica, ci fa intendere, è quella<br />

giusta. La realtà è paranoica.<br />

Corso a p<strong>un</strong>tate <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong>, 35<br />

Parliamo d<strong>un</strong>que della trama, dell’intreccio, del plot. In <strong>un</strong><br />

libro sulla sceneggiatura cinematografica che non possiedo più<br />

(l’ho prestato, come faccio sempre e non torna mai in<strong>di</strong>etro)<br />

c’era scritto che tutte le trame esistenti potevano essere<br />

ridotte (anche questo non ce l’ho più per lo stesso motivo)<br />

c’era <strong>un</strong>’appen<strong>di</strong>ce con l’elenco <strong>di</strong> tutte le trame esistenti: ed<br />

erano, se non ricordo male, trentatré. Qualche mese fa, sul<br />

Corriere della sera, ho letto <strong>un</strong> articolo secondo il quale le<br />

trame esistenti sono in tutto tre. <strong>Non</strong> <strong>un</strong>a <strong>di</strong> più. Sette,<br />

trentatré, tre. <strong>Non</strong> ha grande importanza il numero. Quello che<br />

mi incuriosisce è che com<strong>un</strong>que tutti e tre i testi sostengono<br />

che il numero delle trame esistenti (e quin<strong>di</strong>, si postula,<br />

possibili) sia finito ed anche abbastanza basso. La trama,<br />

sarebbe quin<strong>di</strong>, nelle narrazioni, l’elemento più ripetitivo e<br />

meno inventivo. Perfetto. Peccato però che sia proprio la<br />

trama, a quel che si <strong>di</strong>ce in giro, l’elemento determinante <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong>, ciò che ti fa leggere tutto fino in fondo.<br />

Qualche giorno fa, mentre <strong>di</strong>cevo più o meno queste cose in<br />

<strong>un</strong>’aula cal<strong>di</strong>ssima <strong>un</strong> tipo con i baffi si è alzato in pie<strong>di</strong> e mi ha<br />

interrotto <strong>di</strong>cendo: “Dicono così, perché non vogliono svelare i<br />

loro segreti”. Io ho detto: “Eh?”. “Sì”, ha insistito, la persona:<br />

“Quelli che sanno inventare le trame, poiché le trame hanno <strong>un</strong><br />

elevato valore commerciale, non vogliono che si sappia in giro<br />

come si fa ad inventarle . Così fanno circolare la voce che<br />

inventare le trame non sia <strong>un</strong> problema, che basti sceglierne<br />

<strong>un</strong>a da <strong>un</strong> catalogo <strong>di</strong> tre sette o trentatré. Invece loro, zitti<br />

zitti, ne inventano <strong>di</strong> sempre nuove. E se le fanno pagare<br />

bene”.<br />

L’idea devo <strong>di</strong>re mi è sembrata curiosa. Ho deciso <strong>di</strong><br />

tralasciare l’accusa implicita (“Tu non ci insegni a fare le trame<br />

perché vuoi tenerti tutti i sol<strong>di</strong>”). Allora ho detto, mentre il tipo<br />

con i baffi tornava a sedersi: “Bene, complimenti per<br />

l’ingenuità. Lei, caro signore, ha appena elaborata <strong>un</strong>a trama;<br />

e, senza rendersene conto, l’ha regalata a tutti”.<br />

86


“Quale trama?”, ha domandato <strong>un</strong> altro. “Ma è evidente”, ho<br />

detto. Mi sono avvicinato <strong>di</strong> due passi al pubblico, e ho<br />

cominciato: “Supponiamo che esista, a Hollywood tanto per<br />

cambiare, qualcosa come <strong>un</strong>a Società Segreta Degli Inventori<br />

Di Trame. Supponiamo che ne faccia parte <strong>un</strong> numero<br />

ristrettissimo <strong>di</strong> scrittori e sceneggiatori. Supponiamo che<br />

questa società segreta fornisca <strong>di</strong> tanto in tanto, a prezzi<br />

salatissimi, consulenze a sceneggiatori, narratori e registi in<br />

<strong>di</strong>fficoltà. Solo grazie a loro, ad esempio, Cameron è riuscito a<br />

portare a termine Titanic. È per aver rifiutato sdegnosamente i<br />

loro servigi che Kubrik non è stato capace <strong>di</strong> trovare <strong>un</strong> finale<br />

decentemente comprensibile a 2001 O<strong>di</strong>ssea nello spazio. Si<br />

sospetta che ci sia il loro zampino <strong>di</strong>etro i successi <strong>di</strong><br />

Shakespeare in Love e C’è post@ per te. Chiaro?”.<br />

Ness<strong>un</strong>o ha detto niente. Ho continuato. “Bene, supponiamo<br />

che <strong>un</strong> giorno la segretissima sede <strong>di</strong> questa società segreta<br />

venga violata, e qualche informazione importantissima (<strong>un</strong>o<br />

schema <strong>di</strong> storia, <strong>un</strong>a sceneggiatura intera, fate voi) sia stata<br />

sottratta. Immaginiamo <strong>un</strong>a porta scassinata, <strong>un</strong>a cassaforte<br />

aperta, <strong>un</strong>a borsa scippata in pieno giorno, <strong>un</strong> computer<br />

ramazzato da <strong>un</strong> hacker: ci sono tanti mo<strong>di</strong>. I nostri bal<strong>di</strong><br />

superinventori <strong>di</strong> storie si metteranno alla ricerca del ladro.<br />

Naturalmente loro, essendo dei superinventori <strong>di</strong> storie, sono<br />

bravissimi nell’ipotizzare che cosa sia successo. In effetti non<br />

fanno indagini (non possono peraltro, essendo <strong>un</strong>a società<br />

segreta, rivolgersi alla polizia): si siedono attorno a <strong>un</strong> tavolo<br />

e, come <strong>di</strong>rebbe <strong>un</strong> politico, elaborano degli scenari. Chi può<br />

essere stato? Perché? In che modo? Quando? Seduti attorno a<br />

<strong>un</strong> tavolo, i nostri uomini inventano storie su storie, nella<br />

convinzione che quando troveranno <strong>un</strong>a storia davvero<br />

convincente, allora potranno andare a colpo sicuro. Chi è stato,<br />

secondo voi, a rubare quelle informazioni segretissime?”. Un<br />

attimo <strong>di</strong> silenzio. “Uno <strong>di</strong> loro”, <strong>di</strong>ce <strong>un</strong>a tipa bionda in fondo<br />

all’aula. “Bene”, <strong>di</strong>co, rivolgendomi a lei. “E allora, che cosa<br />

succederà?”.<br />

“Be'”, <strong>di</strong>ce la tipa bionda, “a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to cercheranno <strong>di</strong><br />

sbranarsi tra loro”.<br />

“Ci sono altre ipotesi?”, domando, guardandomi in giro.<br />

“Un evento casuale”, <strong>di</strong>ce <strong>un</strong> ragazzo sui vent’anni,in terza<br />

fila.<br />

“Cioè?”, incalzo.<br />

“Cioè”, <strong>di</strong>ce il ragazzo, “è successo per caso, oppure<br />

effettivamente qualc<strong>un</strong>o ha fatto o tentato <strong>un</strong> furto, ma c’è<br />

stato <strong>di</strong> mezzo <strong>un</strong> evento casuale, per cui è impossibile<br />

ricostruire gli avvenimenti in forma narrativa coerente”.<br />

87


“Oppure?”, <strong>di</strong>co ancora.<br />

“Oppure”, <strong>di</strong>ce <strong>un</strong>a signora <strong>di</strong> mezz’età con due paia <strong>di</strong><br />

occhiali appese al collo, “chi è entrato nella loro sede non l’ha<br />

fatto per rubare <strong>un</strong>a sceneggiatura ma per altre ragioni”.<br />

“Ad esempio?”, <strong>di</strong>co.<br />

“Ma…”, <strong>di</strong>ce la signora <strong>di</strong> mezz’età. “Un hacker può entrare<br />

nel tuo computer anche per puro caso, senza sapere che tu sei<br />

tu”, <strong>di</strong>ce il ragazzo in terza fila.<br />

“Una storia d’amore”, <strong>di</strong>ce la signora <strong>di</strong> mezz’età. “Ci<br />

vorrebbe <strong>un</strong>a storia d’amore”.<br />

“Troviamola”, <strong>di</strong>co.<br />

“Una vecchia amante <strong>di</strong> <strong>un</strong>o degli sceneggiatori vuole<br />

recuperare <strong>un</strong> oggetto a cui tiene?”, <strong>di</strong>ce con molti dubbi la<br />

signora.<br />

“Mmh”, <strong>di</strong>co.<br />

“È stata la donna delle pulizie”, <strong>di</strong>ce il tipo con i baffi.<br />

“Spolverando la cassaforte l’ha aperta casualmente , e poi non<br />

ha più saputo richiuderla”.<br />

Qualc<strong>un</strong>o ride.<br />

“Allora”, ho detto. “Compiti per casa Provate a inventare<br />

qualche pezzo <strong>di</strong> questa storia, cercando <strong>di</strong> non introdurre<br />

elementi casuali. Potete anche manipolare la parte che ho<br />

detta io , non c’è problema”.<br />

“A che cosa serve questo esercizio?”, domanda <strong>un</strong> signore sui<br />

cinquanta.<br />

“Serve a <strong>di</strong>mostrarvi che non c’è niente da insegnarvi, a<br />

proposito <strong>di</strong> trame”, <strong>di</strong>co. “Sapete già tutto. Basta fare <strong>un</strong> po’<br />

<strong>di</strong> esercizio”.<br />

“<strong>Non</strong> vale!”, <strong>di</strong>ce il tipo con i baffi.<br />

“Sia chiaro per tutti”, <strong>di</strong>co: “Quest’aula è mia, e qui comando<br />

io”.<br />

Ri<strong>di</strong>amo tutti.<br />

Ci sentiamo tra <strong>un</strong>a settimana.<br />

Corso a p<strong>un</strong>tate <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong>, 36<br />

Si parlava <strong>di</strong> trame. E <strong>di</strong>cevo: in fatto <strong>di</strong> trame, c’è poco da<br />

imparare. E non credo che si possa insegnare gran che. Si può<br />

provare, forse, a in<strong>di</strong>care qualche regola generale. Che peraltro<br />

vale quel che vale.<br />

Una trama deve avere <strong>un</strong> capo e <strong>un</strong>a coda. Sembra <strong>un</strong>a<br />

banalità, e in effetti lo è. Ci sono capolavori della narrativa<br />

mon<strong>di</strong>ale che non hanno né capo né coda (Gargantua e<br />

88


Pantagruele <strong>di</strong> Rabelais, ad esempio; oppure Orlando <strong>di</strong><br />

Virginia Woolf): ma certe cose, in confidenza, lasciamole fare a<br />

chi se le può permettere. Che <strong>un</strong>a trama abbia <strong>un</strong> capo e <strong>un</strong>a<br />

coda, significa in pratica questo: la situazione che si produce<br />

alla fine deve essere in <strong>un</strong>a qualche relazione (narrativa,<br />

simbolica, allegorica, morale…) con la situazione dalla quale il<br />

racconto è partito. Se all’inizio abbiamo <strong>un</strong> giovinotto e <strong>un</strong>a<br />

giovinotta che vogliono sposarsi, e <strong>un</strong> cattivone che lo vuole<br />

impe<strong>di</strong>re, non possiamo avere alla fine i marziani che invadono<br />

la Patagonia. Tra le centinaia <strong>di</strong> dattiloscritti speranzosi <strong>di</strong><br />

pubblicazione che leggo, i casi così sono dozzine.<br />

Se quando si apre il sipario c’è <strong>un</strong> fucile da caccia appeso al<br />

muro, entro la fine della comme<strong>di</strong>a quel fucile dovrà sparare.<br />

Questa massima me l’hanno venduta come cechoviana. Mi<br />

sembra <strong>un</strong>a buona massima. Tutto ciò che entra nella<br />

<strong>narrazione</strong> deve avere <strong>un</strong>a ragione per stare lì. <strong>Non</strong><br />

necessariamente sarà <strong>un</strong>a ragione solo o esclusivamente<br />

narrativa, cioè legata all’azione: <strong>un</strong> fucile può avere mille<br />

buone ragioni per essere appeso a <strong>un</strong> certo muro; l’importante<br />

è che queste ragioni siano comprensibili al lettore, e che siano<br />

legate a ciò che si sta raccontando. Ho appena finito <strong>di</strong> leggere<br />

<strong>un</strong> dattiloscritto non del tutto brutto, nel quale tutti i<br />

personaggi hanno riproduzioni <strong>di</strong> quadri <strong>di</strong> Matisse appese alle<br />

pareti <strong>di</strong> casa. Ho domandato all’autore: “Ma perché tutti<br />

questi Matisse?”; e lui ha risposto: “A me piace Matisse”.<br />

Questa, spero sia chiaro, non è <strong>un</strong>a buona ragione.<br />

Una trama vive <strong>di</strong> azioni raccontate al tempo presente o al<br />

passato remoto. Leggo continuamente romanzi, o pretesi tali,<br />

in cui gran parte degli avvenimenti è raccontata all’imperfetto.<br />

“A quei tempi Mario abitava a Quingentole ed era innamorato<br />

<strong>di</strong> Maria. Gironzolava davanti casa sua tutte le sere, trovava<br />

<strong>un</strong>a scusa per attaccare bottone, le offriva <strong>un</strong> caffè al bar,<br />

casualmente si trovava nell’ufficio postale o dal droghiere<br />

quando lei doveva app<strong>un</strong>to spe<strong>di</strong>re <strong>un</strong>a raccomandata o<br />

comperare il detersivo”. Una <strong>narrazione</strong> all’imperfetto non<br />

racconta mai <strong>un</strong> fatto preciso, determinato, <strong>un</strong>ico; racconta<br />

avvenimenti ricorrenti; e non c’è niente <strong>di</strong> male a fare ri<strong>corso</strong>,<br />

<strong>di</strong> tanto in tanto, a queste “narrazioni condensate”: ma il<br />

regime dell’imperfetto non può essere dominante.<br />

Il tempo ha i suoi tempi. Le azioni hanno bisogno <strong>di</strong> tempo<br />

per avvenire. Umberto Eco, nelle “Postille” aggi<strong>un</strong>te, dalla<br />

prima e<strong>di</strong>zione in poi, al Nome della rosa, <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> aver calcolato<br />

i tempi <strong>di</strong> certe conversazioni tenendo conto del fatto che esse<br />

avvengono durante spostamenti dei personaggi da <strong>un</strong>a parte<br />

all’altra dell’Abbazia: spostamenti che richiedevano, secondo le<br />

89


<strong>di</strong>stanze, certi precisi tempi. Se <strong>un</strong> personaggio va da Roma a<br />

Bologna in treno, ci metterà quelle tre ore circa; se deve<br />

imparare l’inglese, avrà bisogno del suo tempo; se invecchia,<br />

gli servirà <strong>un</strong> certo numero d’anni. Anche questa è <strong>un</strong>a<br />

banalità; ma la vedo spesso <strong>di</strong>menticata.<br />

Una trama è <strong>un</strong> concatenamento <strong>di</strong> avvenimenti. <strong>Non</strong> è <strong>un</strong><br />

semplice susseguirsi. Don Rodrigo vuole possedere Lucia<br />

perché ha fatto scommessa con il conte Attilio, suo cugino;<br />

perciò manda i bravi a spaventare don Abbon<strong>di</strong>o; a causa della<br />

sua amicizia competitiva con il conte Attilio, non può rin<strong>un</strong>ciare<br />

alla cosa (gli importa molto meno <strong>di</strong> metter le mani su <strong>un</strong>a<br />

ragazza belloccia che <strong>di</strong> far brutta figura col cugino); perciò,<br />

man mano che le cose si fanno sempre più <strong>di</strong>fficili per lui,<br />

finisce con l’intricarsi in relazioni sempre più problematiche<br />

(arriva fino a quel grande boss della criminalità organizzata che<br />

è l’innominato). Il comportamento <strong>di</strong> don Rodrigo è guidato<br />

dalla legge dell’escalation, del continuo aumento della posta;<br />

ma, secondo questa legge, è rigorosamente conseguente.<br />

Renzo e Lucia vogliono sposarsi; hanno <strong>un</strong>a prima reazione<br />

emotiva che li porta a tentare il matrimonio clandestino;<br />

quando questo fallisce, solo allora capiscono che è meglio per<br />

loro fidarsi <strong>di</strong> fra’ Cristoforo che dei loro istinti; perciò fuggono<br />

e si separano, andando incontro a svariate avventure. Ora: che<br />

il cattivone debba persistere nella sua cattiveria, è <strong>un</strong>a regola<br />

generale: quando desistesse, la storia finirebbe lasciando tutti<br />

insod<strong>di</strong>sfatti. E che i due amanti debbano essere separati per<br />

vivere svariate avventure (e subire tentazioni, avere incidenti<br />

ecc.) lo sapevano già i romanzieri ellenistici, duemil’anni fa.<br />

Ma, in ogni <strong>narrazione</strong>, questi fatti che per così <strong>di</strong>re devono<br />

avvenire, devono avvenire per ragioni proprie, interne alla<br />

situazione <strong>di</strong> partenza. Devono essere, nel migliore dei casi,<br />

conseguenza <strong>di</strong> quel fucile che avevamo visto appeso al muro<br />

nella prima scena…<br />

Una <strong>narrazione</strong> è <strong>un</strong> montaggio. Nei film pornografici, la cosa<br />

essenziale è mostrare l’atto sessuale; tuttavia, le <strong>di</strong>verse scene<br />

in cui si realizza (con estrema facilità) l’atto sessuale, sono<br />

com<strong>un</strong>que “tenute assieme” da sia pur labilissime scene <strong>di</strong><br />

raccordo; e l’azione principale (l’atto sessuale in <strong>corso</strong>) è<br />

spesso interrotta, intercalata, da altre scene (con atti non<br />

sessuali), che hanno lo scopo <strong>di</strong> attizzare la curiosità dello<br />

spettatore sottraendogli ciò che più gli interessa. Se perfino nei<br />

film pornografici abbiamo scene <strong>di</strong> raccordo, montaggi alternati<br />

<strong>di</strong> scene della storia principale e scene delle storie collaterali, e<br />

così via, non potremo esimerci <strong>di</strong> usare questi strumenti nelle<br />

nostre narrazioni (che sono, o vogliono essere, mi auguro, più<br />

90


serie <strong>di</strong> <strong>un</strong> film pornografico). Ripren<strong>di</strong>amo il <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>, da<br />

questo p<strong>un</strong>to, tra sette giorni. Saluti.<br />

Corso a p<strong>un</strong>tate <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong>, 37<br />

Una <strong>narrazione</strong>, <strong>di</strong>cevo la settimana scorsa, è <strong>un</strong>a<br />

concatenazione <strong>di</strong> avvenimenti. La cosa è banale. Adesso <strong>di</strong>co<br />

<strong>un</strong>’altra cosa banale: <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> è <strong>un</strong>a selezione <strong>di</strong><br />

avvenimenti. Ve<strong>di</strong>amo <strong>un</strong> po’.<br />

C’è <strong>un</strong> esempio che Umberto Eco ha fatto in <strong>un</strong> qualche suo<br />

libro (non ricordo quale). Gli rubo l’esempio. In <strong>un</strong> film, <strong>di</strong>ceva<br />

Umberto Eco, noi ve<strong>di</strong>amo <strong>un</strong>a persona che si sveglia, si lava,<br />

si veste, esce <strong>di</strong> casa, sale in automobile, va, arriva dove deve<br />

arrivare, esce dall’automobile, entra in <strong>un</strong> palazzo. Bene. Noi<br />

però, nel film, non ve<strong>di</strong>amo tutte queste cose minuziosamente<br />

raccontate. Il film può mostrarci <strong>un</strong>a stanza buia con <strong>un</strong>a<br />

sveglia che suona; poi <strong>un</strong> tipo che si lava la faccia in bagno;<br />

poi lo stesso tipo che esce <strong>di</strong> casa e attraversa la strada per<br />

raggi<strong>un</strong>gere l’automobile; poi l’automobile in mezzo al traffico;<br />

poi l’automobile che si ferma e il tipo che ne esce fuori; poi il<br />

portone del palazzo con il tipo che ci entra dentro. Questo è<br />

normale.<br />

Noi ci accorgiamo che il film che stiamo guardando è <strong>un</strong><br />

brutto film, <strong>di</strong>ceva Umberto Eco, soprattutto se ci accorgiamo<br />

che questo montaggio <strong>di</strong> avvenimenti è sbagliato. Ad esempio,<br />

se <strong>un</strong> passaggio è troppo l<strong>un</strong>go o troppo corto; o se manca <strong>un</strong><br />

passaggio essenziale; o se è presente <strong>un</strong> passaggio<br />

inessenziale. In sostanza, concludeva Umberto Eco (ma qui sto<br />

usando parole mie, <strong>di</strong>verse dalle sue, che erano molto<br />

tecniche) <strong>un</strong>a buona <strong>narrazione</strong> è fatta <strong>di</strong> elisioni e <strong>di</strong> allusioni<br />

ben f<strong>un</strong>zionanti. Tutto ciò che per lo spettatore (o per il<br />

lettore: è uguale) è assolutamente ovvio, oppure ricostruibile a<br />

posteriori, può essere tranquillamente omesso: anzi, deve<br />

essere omesso, a meno che non si voglia costruire <strong>un</strong>a<br />

<strong>narrazione</strong> specificamente p<strong>un</strong>tata sugli avvenimenti ovvii,<br />

trascurabili, insignificanti. Nel qual caso, forse si potrà fare <strong>un</strong>a<br />

buona <strong>narrazione</strong>, probabilmente si farà <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> assai<br />

<strong>di</strong>fficile da leggere (sia chiaro: ness<strong>un</strong>o è tenuto a scrivere<br />

narrazioni facili da leggere; qui stiamo facendo dei <strong>di</strong>scorsi<br />

attorno alle narrazioni per così <strong>di</strong>re “me<strong>di</strong>e”).<br />

Allora: il p<strong>un</strong>to sta proprio nell’imparare a selezionare<br />

efficacemente gli avvenimenti da rappresentare, e nel saper<br />

91


valutare la capacità del lettore (o dello spettatore) <strong>di</strong> riempire i<br />

vuoti che lasciamo nella <strong>narrazione</strong>. Come si impara questo? In<br />

<strong>un</strong> solo modo: leggendo narrazioni che ci sembrino buone, e<br />

osservando in quali mo<strong>di</strong> il narratore che ci piace seleziona e<br />

monta gli avvenimenti. Proviamo, mentre leggiamo, a tenere<br />

d’occhio i vuoti della <strong>narrazione</strong>. Osserviamo come il narratore,<br />

narrandoci l’avvenimento A e l’avvenimento C, induca noi<br />

lettori a immaginare, tra A e C, l’avvenimento B che non viene<br />

raccontato. Osserviamo come il narratore continuamente<br />

alluda a cose che bene o male conosciamo, e come questo suo<br />

far ri<strong>corso</strong> alle nostre competenze gli permetta <strong>di</strong> correre via<br />

spe<strong>di</strong>to, senza fermarsi continuamente a precisare questo e<br />

quello. Osserviamo, soprattutto, non tanto quello che il<br />

narratore fa, quanto quello che facciamo noi lettori. Siamo noi<br />

che abbiamo in mente il filo della <strong>narrazione</strong>, che connettiamo<br />

tutto ciò che leggiamo per mezzo <strong>di</strong> questo filo, che riempiamo<br />

i vuoti, che interpretiamo tutto ciò che avviene nel testo sotto i<br />

nostri occhi (o sullo schermo davanti ai nostri occhi) come se<br />

facesse parte <strong>di</strong> <strong>un</strong>’azione <strong>un</strong>itaria, e non come se fosse <strong>un</strong>a<br />

sequenza <strong>di</strong> avvenimenti slegati.<br />

È dal nostro comportamento come lettori, in somma, che<br />

impariamo come dobbiamo comportarci come narratori.<br />

***<br />

Naturalmente ogni <strong>narrazione</strong> ha <strong>un</strong> modo tutto suo <strong>di</strong> elidere<br />

(cioè <strong>di</strong> non raccontare certe cose) e <strong>di</strong> alludere (cioè <strong>di</strong><br />

raccontare certe cose per sommi, sommissimi capi). Ma tutti<br />

questi mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi sfruttano lo stesso fatto: che il lettore<br />

mentre legge (o lo spettatore mentre guarda),<br />

automaticamente integra la <strong>narrazione</strong> e ne prevede gli<br />

svolgimenti.<br />

Nel film The others c’è <strong>un</strong>a scena curiosa. Nicole Kidman vive<br />

in <strong>un</strong>a casa che sembra infestata da fantasmi (a fine film si<br />

capirà che non è così; ma questo non è importante per<br />

l’esempio che voglio fare; e non so nemmeno se la scena fosse<br />

proprio così, magari non la ricordo esattamente; ma neanche<br />

questo è importante). A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to, nella casa si sente <strong>un</strong><br />

suono <strong>di</strong> pianoforte. Kidman corre alla stanza del pianoforte,<br />

ne spalanca la porta, e: nella stanza non c’è ness<strong>un</strong>o, e<br />

imme<strong>di</strong>atamente il suono del pianoforte tace. Kidman esce<br />

dalla stanza; la porta si chiude da sola e la musica riprende.<br />

Kidman cerca <strong>di</strong> riaprire la porta, ma questa non si apre. Tira e<br />

spingi, tira e spingi, la porta non si apre; finché Kidman non<br />

abbandona la presa e rimane lì, con aria impotente, <strong>di</strong>fronte<br />

92


alla porta chiusa.<br />

Io, sprofondato nella mia poltrona, pensai rapi<strong>di</strong>ssimamente:<br />

“Sì; è come nei film <strong>di</strong> Buster Keaton; ora la porta si aprirà <strong>di</strong><br />

colpo e sbatterà sul naso <strong>di</strong> Kidman”. In quell’istante la porta si<br />

aprì <strong>di</strong> colpo e sbatte sul naso <strong>di</strong> Kidman, mandandola l<strong>un</strong>ga<br />

<strong>di</strong>stesa per terra. L’intero cinema sobbalzò per lo spavento. Io<br />

mi feci scappare <strong>un</strong>a l<strong>un</strong>ga risata solista.<br />

Cos’era successo? Semplice: io, per puro caso o grazie alla<br />

mia abitu<strong>di</strong>ne a lavorare su narrazioni, ero stato capace <strong>di</strong><br />

prevedere l’avvenimento; <strong>di</strong> conseguenza, quando<br />

l’avvenimento si realizzò, lo percepii in maniera del tutto<br />

<strong>di</strong>versa da quella <strong>di</strong> tutti gli altri. Pensateci <strong>un</strong> attimo: la scena<br />

della porta che prima, per quanto tirata e spinta, non si apre, e<br />

poi si spalanca da sola colpendo in faccia il protagonista, non è<br />

forse <strong>un</strong>a scena classica da film <strong>di</strong> Fantozzi? Sì: in ogni film <strong>di</strong><br />

Fantozzi ci sono due o tre scene fatte esattamente in questo<br />

modo. Ma il regista <strong>di</strong> The others poteva tranquillamente far<br />

conto che, essendo The others <strong>un</strong> film molto <strong>di</strong>verso dai film <strong>di</strong><br />

Fantozzi (o <strong>di</strong> Buster Keaton), gli spettatori non si sarebbero<br />

aspettati <strong>un</strong>a “mossa” <strong>di</strong> quel tipo. Quanto a me, sono<br />

l’eccezione che conferma la regola.<br />

In sostanza: ogni volta che fate <strong>un</strong> passo avanti nella<br />

<strong>narrazione</strong>, immaginate che cosa potrebbe avvenire nella testa<br />

<strong>di</strong> <strong>un</strong> lettore. È davvero molto semplice, ed è tutto qui.<br />

Arrivederci.<br />

Corso a p<strong>un</strong>tate <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong>, 38<br />

L'altro giorno stavo in <strong>un</strong>a biblioteca, e facevo più o meno i<br />

<strong>di</strong>scorsi sulle trame che ho fatti nelle ultime settimane qui in<br />

Stilos. A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to <strong>un</strong>a ragazza bionda e con le guance<br />

rosse ha alzata la mano e <strong>di</strong>ce: “Ma insomma, in sostanza,<br />

come si fa a capire quando <strong>un</strong>a trama è <strong>un</strong>a buona trama?”.<br />

“<strong>Non</strong> ne ho idea”, <strong>di</strong>co io.<br />

L'aula si mette in agitazione.<br />

“Come sarebbe, che non ne ha idea?”, <strong>di</strong>ce <strong>un</strong> ragazzo con il<br />

maglione celeste. “Ci sta parlando da due ore e adesso ci viene<br />

a <strong>di</strong>re che non ha idea?”.<br />

“Be', sì”, <strong>di</strong>co. “È così”.<br />

E sto zitto. Perché io, quando voglio, sono <strong>un</strong>a peste.<br />

Il confabulamento aumenta. Tutti parlottanoon tutti. C'è aria<br />

<strong>di</strong> confusione, ma <strong>un</strong> po' anche <strong>di</strong> rivolta.<br />

93


“Senta”, <strong>di</strong>ce <strong>un</strong> ragazzo l<strong>un</strong>go l<strong>un</strong>go, alzandosi in pie<strong>di</strong>. “Ci<br />

ridarebbe in<strong>di</strong>etro i sol<strong>di</strong>?”.<br />

Risate. Che tipo <strong>di</strong> risate? Risate cor<strong>di</strong>ali, sdrammatizzanti?<br />

Risate ostili? Risate d'imbarazzo?<br />

“Posso rin<strong>un</strong>ciare al compenso che la biblioteca mi ha<br />

promesso”, <strong>di</strong>co, “ma se volete i sol<strong>di</strong> in<strong>di</strong>etro, dovete fare<br />

causa alla biblioteca. Io non so neanche quanto avete pagato”.<br />

“Trenta euro”, <strong>di</strong>ce <strong>un</strong>a signora sulla sessantina con i capelli<br />

bion<strong>di</strong> tinti.<br />

“Trenta euro per le quattro serate o trenta euro in tutto?”,<br />

domando.<br />

“Trenta euro in tutto”, <strong>di</strong>ce la signora.<br />

“E allora”, <strong>di</strong>co allargando le braccia, “che cosa pretendete<br />

per trenta euro? Se volete sapere come si fa a capire quando<br />

<strong>un</strong>a trama è <strong>un</strong>a buona trama, dovete spenderne almeno<br />

trecento. Forse tremila”.<br />

<strong>Non</strong> ride ness<strong>un</strong>o. Anzi, tutti ammutoliscono.<br />

“In che senso?”, sbotta <strong>un</strong> tipo dall'aria incazzata (ma aveva<br />

l'aria incazzata anche la volta prima: deve avere quest'aria <strong>di</strong><br />

suo).<br />

“Nel senso”, <strong>di</strong>co, prendendo il tono <strong>di</strong> quello che smorza i<br />

conflitti, “che magari in teoria si possono formulare delle<br />

regole, dei criteri. Ma poi, in fondo, è sempre <strong>un</strong> fatto <strong>di</strong><br />

esperienza e sensibilità”.<br />

“Insomma, la solita storia”, <strong>di</strong>ce il ragazzo col maglione<br />

celeste. “Sta per <strong>di</strong>rci che dovremmo spendere trecento o<br />

tremila euro in libri, farci le ossa leggendo, e allora poi<br />

magari…”, e fa <strong>un</strong> gesto in alto con la mano destra, come a<br />

<strong>di</strong>re: e poi magari chissà.<br />

“No”, <strong>di</strong>co. “<strong>Non</strong> voglio <strong>di</strong>re questo. Voglio <strong>di</strong>re che davvero<br />

certe cose non si insegnano, o almeno non si insegnano in<br />

situazioni come queste. Però si imparano. Ma si imparano se<br />

c'è davvero <strong>un</strong> investimento personale. Ad esempio: a me il<br />

cinema piace. Però non ci vado mai. <strong>Non</strong> trovo mai il tempo.<br />

Stasera sono qui con voi, domani sera sarò a Vercelli per <strong>un</strong><br />

incontro, poi vado a Milano, poi vado a Reggio Emilia… Chi ce<br />

l'ha, mi <strong>di</strong>co, il tempo <strong>di</strong> andare al cinema? E così, <strong>di</strong> fatto, non<br />

investo seriamente nel cinema. Mi piacerebbe anche scrivere<br />

<strong>un</strong> romanzo. So <strong>di</strong> che cosa avrei bisogno, per provare<br />

seriamente a scrivere <strong>un</strong> romanzo: <strong>di</strong> tre mesi <strong>di</strong> isolamento.<br />

Mi servirebbero per cominciarlo, per farmi <strong>un</strong>'idea sulla quale<br />

potrei poi lavorare anche non in isolamento. E tre mesi <strong>di</strong><br />

isolamento, potrei anche prendermeli. Me li posso permettere,<br />

nonostante il mutuo”. (Ridono. Bene). “Però non me li prendo,<br />

questi tre mesi <strong>di</strong> isolamento. Avrei anche la solidarietà <strong>di</strong><br />

94


tutti: la mia compagna, le persone con cui lavoro, eccetera, se<br />

<strong>di</strong>cessi loro: guardate, mi servono tre mesi <strong>di</strong> isolamento per<br />

cominciare <strong>un</strong> romanzo, cercherebbero <strong>di</strong> agevolarmi. Ne sono<br />

sicuro. Però io non lo faccio. E così resto quello che sono: <strong>un</strong>o<br />

scrittore <strong>di</strong> racconti”.<br />

Vedo che sono impressionati. Bene.<br />

“E perché ci fa questo <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> proprio a proposito delle<br />

trame?”, <strong>di</strong>ce la signora sulla sessantina con i capelli bion<strong>di</strong><br />

tinti.<br />

“Ma”, <strong>di</strong>co, “potevo farlo anche a proposito d'altro. Me lo<br />

tenevo <strong>di</strong> scorta, per quando qualc<strong>un</strong>o mi avesse chiesto <strong>di</strong><br />

formulare delle regole, dei criteri certi. È del tutto normale<br />

desiderare dei criteri certi”, <strong>di</strong>co rivolgendomi alla ragazza<br />

bionda e con le guance rosse (non voglio metterla sotto<br />

accusa), “ma in certi casi bisogna adattarsi all'idea che non se<br />

ne possono avere. Che bisogna farne a meno. Che bisogna<br />

provare e riprovare, e vedere che cosa succede. I trecento o i<br />

tremila euro”, e qui mi volto verso il ragazzo col maglione<br />

celeste, “potranno anche servirvi per comprare libri, oppure<br />

per andare al cinema, o per visitare mostre e musei - che sono<br />

tutte cose altrettanto utili e istruttive - ma intendevo <strong>di</strong>re,<br />

prima, soprattutto, visto che si <strong>di</strong>ce che il tempo è denaro, che<br />

vi occorre tempo. Dovete trovare il tempo <strong>di</strong> provare e<br />

riprovare. Di scrivere e <strong>di</strong> riscrivere. Di fare e <strong>di</strong> buttare via. Di<br />

costruire e poi guardare che cosa avete costruito. Lei”, mi<br />

rivolgo al tipo incazzoso, “quanto tempo de<strong>di</strong>ca,<br />

settimanalmente, a esercitarsi nella <strong>scrittura</strong> e nella<br />

<strong>narrazione</strong>?”.<br />

“<strong>Non</strong> saprei”, <strong>di</strong>ce il tipo.<br />

“Cinque ore?”, incalzo, “Dieci ore”.<br />

“No, no”, <strong>di</strong>ce il tipo. “Magari <strong>un</strong> paio d'ore la settimana. Una<br />

sera la settimana, ecco”.<br />

Tutti capiscono che probabilmente il tempo è ancora <strong>di</strong> meno.<br />

“E lei?”, <strong>di</strong>co al ragazzo l<strong>un</strong>go l<strong>un</strong>go.<br />

“Più o meno siamo lì”, <strong>di</strong>ce.<br />

“E lei”, <strong>di</strong>co a <strong>un</strong>a ragazza con i capelli nerissimi e gli occhiali<br />

ton<strong>di</strong>, “quant'era l<strong>un</strong>ga, la cosa più l<strong>un</strong>ga che ha scritta?”.<br />

La ragazza esita, poi <strong>di</strong>ce: “Quattro pagine”.<br />

“E lei?”, <strong>di</strong>co a <strong>un</strong> ragazzo con tre peli <strong>di</strong> barba, ma<br />

l<strong>un</strong>ghissimi.<br />

“Eh”, <strong>di</strong>ce, con <strong>un</strong> enorme sospiro, “qualcosa <strong>di</strong> più… Anche<br />

quin<strong>di</strong>ci pagine… Tutte cose non finite, com<strong>un</strong>que”.<br />

“Ecco”, <strong>di</strong>co.<br />

Tutti tacciono. Tira <strong>un</strong>'aria da esame <strong>di</strong> coscienza collettivo.<br />

Per <strong>un</strong> istante mi attraversa il ricordo dei campi scuola<br />

95


dell'Azione Cattolica.<br />

“Io ho scritto trecento pagine”, <strong>di</strong>ce rompendo il silenzio <strong>un</strong><br />

signore con i capelli bianchi e le rughe.<br />

“Quanto ci ha messo?”, domando.<br />

“Eh, forse cinque anni. È la storia <strong>di</strong> tutta la mia vita”.<br />

“E ha <strong>un</strong>a buona trama?”, insisto.<br />

Il signore ride. “No. Ma chi se ne importa. La leggeranno i<br />

miei nipoti. L'ho scritta per loro. <strong>Non</strong> è <strong>un</strong>a vita avventurosa, è<br />

solo…”, ha <strong>un</strong>'esitazione piccolissima, “è solo la mia vita, ecco.<br />

La vita del loro nonno. Adesso mi saltano sulle ginocchia,<br />

quando saranno gran<strong>di</strong> e io non ci sarò, mi conosceranno. Mi<br />

pare <strong>un</strong>a cosa bella”.<br />

“Cinque minuti <strong>di</strong> pausa”, <strong>di</strong>co.<br />

Corso a p<strong>un</strong>tate <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong>, 39<br />

Una scuola me<strong>di</strong>a superiore <strong>di</strong> Treviso mi ha invitato a tenere,<br />

per <strong>un</strong> gruppo <strong>di</strong> insegnanti d'italiano, <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> incontri <strong>di</strong><br />

aggiornamento su “La nuova narrativa italiana”. Sono andato<br />

fin lì, ho fatto quello che dovevo, ho parlato <strong>di</strong> Piervittorio<br />

Tondelli e <strong>di</strong> Enrico Palandri, <strong>di</strong> Marco Lodoli, <strong>di</strong> Aldo Busi,<br />

dell'"ondata emiliana" degli anni Ottanta e dell'"ondata veneta"<br />

degli anni Novanta, dei narratori-poeti romani, dei siciliani che<br />

secondo me non sono nemmeno italiani (nel senso che la<br />

letteratura siciliana, secondo me, è davvero <strong>un</strong>a cosa per conto<br />

suo, con logiche e ragioni sue, che procede e si autogenera<br />

senza chiedere permesso a ness<strong>un</strong>o), dei narratori cannibali<br />

che in realtà non sono mai esistiti, e così via. Una serie <strong>di</strong> voci<br />

<strong>di</strong> enciclope<strong>di</strong>a snocciolate con garbo. Cose che quelle trenta<br />

persone che avevo davanti avrebbero potuto apprendere<br />

leggendo <strong>un</strong> qualsiasi buon saggio (ad esempio quello <strong>di</strong> Filippo<br />

La Porta, La nuova narrativa italiana, pubblicato qualche anno<br />

fa da Boringhieri e successivamente aggiornato). Ma, si sa,<br />

sentirsi raccontare <strong>un</strong>a cosa e leggerne, è tutt'altro affare.<br />

“Lei ha usato spesso <strong>un</strong>a curiosa <strong>di</strong>stinzione”, ha detto <strong>un</strong>a<br />

signora con la faccia larga durante la <strong>di</strong>scussione conclusiva.<br />

“Di certi libri ci ha detto che sono belli, o molto belli; <strong>di</strong> altri<br />

che sono storicamente importanti, a prescindere dal fatto che<br />

siano belli o non belli. Vuole spiegarsi meglio?”.<br />

“Mi sembra chiarissimo”, ho detto. “Altri libertini <strong>di</strong> Tondelli e<br />

Boccalone <strong>di</strong> Palandri sono libri storicamente importanti perché<br />

hanno, per così <strong>di</strong>re, sturato il Vaso <strong>di</strong> Pandora: <strong>un</strong>a<br />

96


significativa porzione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a generazione ci si è riconosciuta, e<br />

ha cominciato a scrivere, a raccontarsi e a raccontare,<br />

partendo da quei due libri là: soprattutto, <strong>di</strong>rei, da Boccalone. I<br />

due libri sono quin<strong>di</strong> importanti dal p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista storico. Poi,<br />

secondo me, Altri libertini è <strong>un</strong> libro assai più bello <strong>di</strong><br />

Boccalone, che è davvero molto molto ingenuo; mentre <strong>un</strong><br />

altro libro <strong>di</strong> Tondelli che a me sembra più bello <strong>di</strong> Altri<br />

libertini, e cioè Pao Pao, è <strong>un</strong> libro che mi sembra storicamente<br />

quasi inerte. Tondelli farà <strong>un</strong> altro libro storicamente<br />

importante, e cioè Camere separate, che è <strong>un</strong> cappello dal<br />

quale sta uscendo tutta <strong>un</strong>'altra generazione <strong>di</strong> narratori (ve<strong>di</strong><br />

Il mondo senza <strong>di</strong> me del giovane Marco Mancassola) e che ad<br />

alc<strong>un</strong>i sembra bruttissimo e ad altri sembra bellissimo. A me<br />

sembrò bellissimo quando lo lessi appena uscito: oggi ci andrei<br />

<strong>un</strong> po' cauto”.<br />

“Ma insomma”, ribatte la signora con la faccia larga, “se noi<br />

volessimo leggerci quel che serve leggere per capire la nuova<br />

narrativa italiana, che cosa dovremmo privilegiare? I libri che<br />

lei chiama belli, o quelli che chiama storicamente importanti?”.<br />

“Ma signora”, <strong>di</strong>co, “è <strong>un</strong> po' come chiedere a <strong>un</strong> bambino se<br />

vuole più bene alla mamma o al papà. Veda <strong>un</strong> po' lei”.<br />

Interviene <strong>un</strong> tipo barbuto. “Noi non dobbiamo insegnare<br />

letteratura”, <strong>di</strong>ce, “ma storia della letteratura. Quin<strong>di</strong><br />

l'influenza storica <strong>di</strong> <strong>un</strong> testo ha la meglio sul giu<strong>di</strong>zio<br />

squisitamente estetico”.<br />

“Se ragionassimo così”, <strong>di</strong>co, “allora forse ci toccherebbe<br />

leggere Bonvesin de la Riva, in quanto inventore del genere<br />

"viaggio all'inferno e ritorno", e lasciar perdere Dante: che in<br />

fondo è soltanto <strong>un</strong> epigono”.<br />

“Sta scherzando?”, sbotta il preside: che siede in prima fila e<br />

del quale ho già sperimentato, nelle ore precedenti, l'assoluta<br />

mancanza <strong>di</strong> umorismo.<br />

“Sto portando alle estreme conseguenze l'argomento fornito<br />

dal professore”, <strong>di</strong>co in<strong>di</strong>cando il tipo barbuto, “per far vedere<br />

come non sia poi così sicuro”.<br />

Il tipo barbuto fa per ribattere, ma per fort<strong>un</strong>a interviene <strong>un</strong>a<br />

signora con i capelli bianchi cortissimi e la voce roca da<br />

fumatrice accanita (durante la conferenza è uscita <strong>un</strong> paio <strong>di</strong><br />

volte). “Ma questi suoi giu<strong>di</strong>zi, <strong>di</strong> valore storico o <strong>di</strong> valore<br />

estetico, su che cosa sono fondati?”, <strong>di</strong>ce. “Lei non ci ha fornita<br />

ness<strong>un</strong>a in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> bibliografia critica”.<br />

“<strong>Non</strong> è che ci sia molta bibliografia critica da citare”, <strong>di</strong>co. “Io<br />

ho attraversata, da lettore, la narrativa <strong>di</strong> questi anni; e vi <strong>di</strong>co<br />

quel che mi sembra sensato. <strong>Non</strong> sono né <strong>un</strong> critico né <strong>un</strong><br />

storico: sono <strong>un</strong> lettore e <strong>un</strong> narratore”.<br />

97


“Ma se lei non è <strong>un</strong> critico”, insiste la signora con i capelli<br />

bianchi cortissimi, “su che cosa fonda i suoi giu<strong>di</strong>zi?”.<br />

Subodoro la mina, ma non riesco a intuire dove la piazzerà.<br />

Dico: “Signora, io ho letti questi libri. Sono <strong>un</strong>a persona nel<br />

pieno possesso delle sue facoltà mentali. Esprimo dei giu<strong>di</strong>zi.<br />

In cinque ore complessive non abbiamo certo avuto il tempo <strong>di</strong><br />

fare delle gran<strong>di</strong> analisi. Sostanzialmente vi ho detto: questi<br />

libri sicuramente vale la pena <strong>di</strong> leggerli, per <strong>un</strong>a ragione o per<br />

l'altra; e questi altri forse non vale la pena”.<br />

Vedo che c'è dello sconcerto. Aggi<strong>un</strong>go: “Voi vi rendete conto,<br />

spero, che è possibile formulare dei giu<strong>di</strong>zi basandosi<br />

<strong>un</strong>icamente sulle proprie competenze e sul proprio<br />

sentimento”.<br />

“Così, autocraticamente?”, <strong>di</strong>ce il tipo barbuto.<br />

“Mica voglio imporre dei giu<strong>di</strong>zi”, <strong>di</strong>co. “Ma dopo che ho letto<br />

<strong>un</strong> libro, avrò il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> pensare che sia <strong>un</strong> libro buono o<br />

cattivo. O devo aspettare che me lo <strong>di</strong>ca qualc<strong>un</strong> altro?”.<br />

L'u<strong>di</strong>torio ondeggia. Sembra incerto tra le proprie abitu<strong>di</strong>ni e il<br />

buon senso.<br />

“Ma ci sono due autori che lei non ha citati”, riprende<br />

imperterrita la signora con i capelli bianchi corti. “Eppure sono<br />

importantissimi. Invece, tutti quelli che lei ha citati, io non li ho<br />

mai sentiti nominare. E, ba<strong>di</strong>”, <strong>di</strong>ce agitando l'in<strong>di</strong>ce della<br />

mano destra, “io sono <strong>un</strong>a che s'informa, non sono <strong>un</strong>a<br />

sprovveduta”.<br />

“Faccia i nomi”, <strong>di</strong>co.<br />

“Lei non ci arriva?”, <strong>di</strong>ce la signora.<br />

“Senta”, <strong>di</strong>co, “non facciamo gli indovinelli. Faccia i nomi”.<br />

La signora si prende <strong>un</strong>a pausa drammatica. Poi scan<strong>di</strong>sce:<br />

“Diego Cugia, Fabio Volo”.<br />

Respiro a fondo.<br />

“Signora, Diego Cugia e Fabio Volo hanno scritto dei libri <strong>di</strong><br />

valore letterario bassissimo. Soprattutto Fabio Volo”.<br />

“Però in televisione e nei giornali, è <strong>di</strong> loro che si parla”, <strong>di</strong>ce<br />

la signora, trionfante, guardandosi attorno.<br />

“Lei ha letti i loro libri, signora?”, domando.<br />

“No”, <strong>di</strong>ce la signora.<br />

98


Chiacchierata numero 40<br />

Buongiorno. Ultimamente faccio molta fatica a leggere. Io ho<br />

sempre letto molto, fin da bambino; ho sempre letto <strong>di</strong> tutto,<br />

fin da bambino. Uno dei miei libri preferiti <strong>di</strong> quando avevo<br />

sette od otto anni (cioè del 1967/68), era <strong>un</strong> libro sui pesci: Il<br />

mondo vivente nei mari italiani, <strong>di</strong> Enrico Tortonese, Paravia.<br />

Tortonese è stato <strong>un</strong> grande biologo (ricercatore, <strong>di</strong>rettore del<br />

Museo <strong>di</strong> Scienze Naturali <strong>di</strong> Genova, <strong>di</strong>rettore <strong>di</strong> importanti<br />

collane <strong>di</strong> libri scientifici). Il mondo vivente era <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong><br />

"romanzo <strong>di</strong>dattico", secondo <strong>un</strong> modello molto in voga, specie<br />

nei libri scolastici, tra fine dell'Ottocento e primi del Novecento.<br />

Un gruppo <strong>di</strong> ragazzini in vacanza al mare incontra <strong>un</strong> giovane<br />

naturalista, che <strong>di</strong>venta la loro guida all'esplorazione del mare.<br />

La vita del mare mi attirava, naturalmente, anche perché<br />

vivevo in <strong>un</strong> paese sul mare (Sottomarina <strong>di</strong> Chioggia), e mio<br />

padre si occupava professionalmente <strong>di</strong> vita del mare (biologo<br />

anche lui).<br />

Un altro libro che da ragazzino ho letto e riletto decine <strong>di</strong><br />

volte, era <strong>un</strong> libro sulle pietre. <strong>Non</strong> mi ricordo l'autore, il titolo,<br />

l'e<strong>di</strong>tore. Qualche anno fa, volendolo regalare ai miei nipoti,<br />

l'ho cercato e non l'ho più trovato. C'era, ad esempio, <strong>un</strong><br />

bellissimo capitolo sull'ossi<strong>di</strong>ana. Tutto quello che so<br />

sull'ossi<strong>di</strong>ana, l'ho imparato lì. C'erano poi Dall'aquilone<br />

all'astronave, del quale pure non ricordo l'autore (ma ricordo<br />

benissimo che nell'agosto del 1972 lo <strong>di</strong>menticammo a San<br />

Daniele nel Friuli, a casa <strong>di</strong> mia nonna paterna che ci aveva<br />

ospitati per due settimane; ricordo il <strong>di</strong>spiacere, e la rabbia,<br />

l'anno dopo, quando ritornammo lì e non riuscimmo più a<br />

trovarlo).<br />

Mi piaceva leggere libri che mi insegnavano delle cose. Anche<br />

adesso mi piace leggere libri che mi insegnano delle cose. Mi<br />

piaceva leggere libri che mi raccontavano delle cose vere.<br />

C'erano anche i libri che raccontavano storie inventate, ma<br />

quelli mi interessavano <strong>di</strong> meno. Preferivo Le avventure <strong>di</strong><br />

Robinson Crusoe nell'isola deserta a I viaggi <strong>di</strong> Gulliver: era<br />

troppo evidente che Gulliver, quei favolosi viaggi, se li era<br />

inventati <strong>di</strong> sana pianta! Invece Robinson, quello era <strong>un</strong>o che si<br />

era trovato veramente nei guai, e se l'era cavata ottimamente!<br />

A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to capii che c'erano libri che raccontavano<br />

storie in tutto e per tutto, o per molta parte, inventate; e che<br />

tuttavia sembravano raccontare storie vere. Robinson Crusoe<br />

era <strong>un</strong>o <strong>di</strong> questi. Ma anche La luce che si spense <strong>di</strong> Kipling o<br />

99


Michele Strogoff <strong>di</strong> Verne. La cosa mi creò dei problemi. “Se<br />

<strong>un</strong>o racconta <strong>un</strong>a storia che non è vera”, <strong>di</strong>cevo a mia<br />

mamma, “dovrebbe avvisare prima. <strong>Non</strong> va bene, che <strong>un</strong>o se<br />

ne debba accorgere a metà libro, perché succede qualcosa <strong>di</strong><br />

impossibile”. Mia mamma <strong>di</strong>ceva: “Ma Giulio, le storie dei<br />

romanzi sono tutte inventate”. “Ma perché?”, <strong>di</strong>cevo io. “Ma<br />

perché sì”, <strong>di</strong>ceva lei, <strong>di</strong>sorientata dal mio infantile furore<br />

epistemologico, “i romanzi sono così. Sembrano veri, ma sono<br />

inventati”.<br />

In somma, persi la mia ingenuità. Cominciai a guardare i<br />

romanzi con sospetto. Com<strong>un</strong>que li leggevo, perché leggevo<br />

qual<strong>un</strong>que cosa. Finché non incappai in <strong>un</strong>a sequenza<br />

tremenda: I ragazzi della via Pal, Senza famiglia e Incompreso.<br />

Quando riconsegnai Incompreso a mia mamma, perché lo<br />

restituisse alla Zia Prestatrice Di Libri (c'era questa zia,<br />

maestra elementare in pensione, che possedeva tutti i romanzi<br />

per ragazzi, ness<strong>un</strong>o escluso: quin<strong>di</strong>cinalmente mia mamma<br />

passava da lei, restituiva i quattro o cinque libri che avevamo<br />

letti nella quin<strong>di</strong>cina - eravamo in tre - e ne prelevava<br />

altrettanti), le <strong>di</strong>ssi solennemente: “Io, questo libro, non lo farò<br />

mai leggere a mio figlio”. Ero così devastato che mia mamma<br />

si preoccupò, e per <strong>un</strong> certo tempo mi <strong>di</strong>rottò su letture meno<br />

pericolose: La grande avventura <strong>di</strong> <strong>un</strong> piccolo baco da seta, I<br />

gran<strong>di</strong> animali delle savane, I gran<strong>di</strong> inventori dell'Ottocento<br />

(tutte cose gran<strong>di</strong>, per noi piccoli!), e così via.<br />

Ultimamente, <strong>di</strong>cevo, faccio molta fatica a leggere. Incontro<br />

continuamente libri che raccontano storie inventate in maniera<br />

perfettamente cre<strong>di</strong>bile. <strong>Non</strong> serve neanche che vada a cercarli<br />

in libreria: me li spe<strong>di</strong>scono a casa, <strong>un</strong>a dozzina per settimana.<br />

Essere <strong>un</strong>o scrittore ha anche <strong>di</strong> questi privilegi. E io,<br />

sinceramente, non ne posso più. <strong>Non</strong> mi <strong>di</strong>sturba leggere storie<br />

inventate. Ho appena finito <strong>di</strong> rileggere, per puro e purissimo<br />

<strong>di</strong>letto, l'Orlando furioso. Ma le storie inventate raccontate in<br />

maniera perfettamente verosimile, quelle ormai mi danno sui<br />

nervi.<br />

“C'è scritto sopra: Romanzo”, ha <strong>di</strong>chiarato salomonicamente<br />

<strong>un</strong> amico, grande lettore e fumatore <strong>di</strong> pipa, con il quale, giorni<br />

fa, <strong>di</strong>scutevo animatamente <strong>di</strong> queste cose.<br />

“Sì, vabbè”, ho detto io. “Ma tu non consideri l'altra faccia<br />

della questione”.<br />

“Quale faccia?”, ha detto l'amico mor<strong>di</strong>cchiando la pipa.<br />

“Ad esempio”, ho detto io, “che a forza <strong>di</strong> leggere storie vere<br />

che sembrano verosimili e storie inventate che sembrano<br />

altrettanto inverosimili, si comincia a fare confusione”.<br />

“Siamo tutti adulti”, ha <strong>di</strong>chiarato l'amico esalando <strong>un</strong>a<br />

100


grande quantità <strong>di</strong> fumo.<br />

“I bambini no”, ho detto.<br />

“Ecco”, ha detto l'amico allargando le braccia, “tra cinque<br />

minuti comincerai a parlare male <strong>di</strong> Berlusconi”.<br />

“No”, ho detto io. “Ma a te non viene in mente <strong>di</strong> domandarti<br />

come mai i nostri narratori si de<strong>di</strong>chino quasi tutti a scrivere<br />

storie inventate che sembrano vere?”.<br />

“Gli scrittori l'hanno sempre fatto”, ha detto l'amico scrutando<br />

il fornelletto della pipa.<br />

“<strong>Non</strong> è vero”, ho detto. “Gli inventori del romanzo, Cervantes,<br />

Rabelais, Ariosto, quelli lì, fino a Sterne, hanno scritto romanzi<br />

che sono storie inventate che non fanno ness<strong>un</strong>o sforzo per<br />

non sembrare inventate. Il romanzo verosimile è <strong>un</strong>'invenzione<br />

Ottocentesca”.<br />

“E allora?”, ha bofonchiato l'amico, <strong>di</strong>stratto dalle operazioni<br />

<strong>di</strong> riaccensione della pipa.<br />

“E allora, accidenti!”, ho strillato, “perché quando parlo <strong>di</strong><br />

queste cose non c'è mai ness<strong>un</strong>o che mi <strong>di</strong>a retta<br />

seriamente?”.<br />

“Perché sono cose pericolose”, ha detto l'amico, brandendomi<br />

contro, accusatorio, la pipa fumante.<br />

Ne riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 41<br />

Buongiorno. La settimana scorsa, riferendo <strong>un</strong> frammento <strong>di</strong><br />

conversazione con <strong>un</strong> amico, giravo attorno a <strong>un</strong>a questione:<br />

“Oggi come oggi, quando si parla <strong>di</strong> letteratura s'intende quasi<br />

automaticamente la <strong>narrazione</strong>, quando si parla <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong><br />

s'intende quasi automaticamente il romanzo, e quando si parla<br />

<strong>di</strong> romanzo s'intende automaticamente, senza quasi, <strong>un</strong>a storia<br />

inventata, quin<strong>di</strong> non vera, raccontata con verosimiglianza.<br />

<strong>Non</strong> è forse bizzarro? <strong>Non</strong> è bizzarro che la principale forma<br />

letteraria della modernità consista nella <strong>narrazione</strong> <strong>di</strong> storie<br />

non vere? <strong>Non</strong> è bizzarro che, quando accademici critici<br />

pedagoghi e soloni vari raccomandano "ai giovani" la "lettura <strong>di</strong><br />

buoni libri", sostanzialmente intendono raccomandare loro la<br />

lettura <strong>di</strong> libri che raccontano storie inventate, ossia non<br />

vere?”.<br />

Di solito, quando pongo questa questione (in corsi <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong><br />

e <strong>narrazione</strong>, in convegni, in cenacoli <strong>di</strong> scrittori, in piazza, a<br />

insegnanti <strong>di</strong> lettere ecc.), mi viene risposto più o meno: “Ma<br />

101


la letteratura porta con sé <strong>un</strong>a verità che è più vera della verità<br />

delle cose reali”. Provo a collaudare la risposta. È noto che<br />

Alessandro Manzoni, nel costruire la trama dei Promessi sposi,<br />

si ispirò ad alc<strong>un</strong>i fatti avvenuti realmente nella Lombar<strong>di</strong>a del<br />

Seicento. Sono stati rintracciati anche gli atti <strong>di</strong> <strong>un</strong> processo a<br />

<strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> don Rodrigo dell'epoca, che quasi certamente<br />

furono nella <strong>di</strong>sponibilità <strong>di</strong> Manzoni. Bene. Manzoni decise <strong>di</strong><br />

raccontare <strong>un</strong>a storia inventata: che cioè attingeva a piene<br />

mani dalla documentazione, ma con assoluta libertà. Tutto nei<br />

Promessi sposi è "storico": l'abbigliamento dei bravi, il modo <strong>di</strong><br />

salutare e riverire, il contesto socioeconomico, le leggi e i<br />

ban<strong>di</strong>, i fatti <strong>di</strong> Milano (rivolta per il pane, peste), i libri della<br />

biblioteca <strong>di</strong> don Ferrante, e così via. Tuttavia la storia, benché<br />

ispirata a eventi documentati, è liberamente inventata.<br />

Ora: perché mai i Promessi sposi sarebbero <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong><br />

che porta con sé <strong>un</strong>a verità più vera <strong>di</strong> quella che porterebbe<br />

con sé <strong>un</strong> buon lavoro storiografico? C'è <strong>un</strong>a serie <strong>di</strong> risposte,<br />

che mi sento regolarmente dare, e che mi sembrano futili:<br />

“Perché i personaggi sono più vivi, perché l'immaginazione è<br />

più colpita, perché la <strong>narrazione</strong> è più vivace, perché la forza<br />

della magnifica <strong>scrittura</strong> <strong>di</strong> Manzoni entra nel profondo dei<br />

nostri cuori”, eccetera. Futilità, secondo me. La risposta giusta,<br />

e che mi sento dare raramente, è secondo me questa: “Perché<br />

Manzoni, nel raccontare quella storia <strong>di</strong> amore, fede e sopruso,<br />

la inscrive dentro <strong>un</strong> <strong>un</strong>iverso governato (misteriosamente, ma<br />

governato) dalla Provvidenza. La Provvidenza non si può<br />

vedere, toccare, u<strong>di</strong>re; la Provvidenza si può solo intuire. I<br />

Promessi sposi sono <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> che ci guida all'intuizione<br />

della Provvidenza, che è <strong>un</strong>a realtà trascendente, <strong>un</strong>a realtà<br />

"soprareale"”. Qual<strong>un</strong>que opinione si abbia della Provvidenza,<br />

questa mi sembra <strong>un</strong>a buona risposta.<br />

Si può <strong>di</strong>re anche così: Manzoni non rappresenta, non imita<br />

questo mondo. Manzoni inventa <strong>un</strong> altro mondo: <strong>un</strong> mondo<br />

<strong>di</strong>verso da quello dove abitiamo, e nel quale la Provvidenza<br />

non solo si lascia intuire, ma ad<strong>di</strong>rittura si <strong>di</strong>spiega e dà forma<br />

a tutto il mondo stesso. La verosimiglianza, la meticolosa<br />

ricostruzione storiografica, la cura dei particolari, servono solo<br />

a produrre <strong>un</strong>a illusione <strong>di</strong> realtà, o meglio, <strong>un</strong>a illusione <strong>di</strong><br />

esistenza <strong>di</strong> questo altro mondo.<br />

E, tanto per andare terra terra: a che cosa serve mai,<br />

inventare <strong>un</strong> altro mondo? Serve, semplicemente, a farlo<br />

<strong>di</strong>ventare reale. Il mondo dei Promessi sposi, oggi come oggi,<br />

piaccia o non piaccia, è nel novero delle realtà <strong>di</strong>sponibili.<br />

Mettiamo che io sia <strong>un</strong> uomo <strong>di</strong>sperato. Mettiamo che<br />

qualc<strong>un</strong>o mi consigli <strong>di</strong> leggere i Promessi sposi. Mettiamo che<br />

102


io li legga, e che rimanga folgorato. “È così”, mi <strong>di</strong>co. “La c'è,<br />

la Provvidenza!”. In quell'istante, io smetto <strong>di</strong> vivere nel<br />

mondo in cui vivevo prima, e comincio a vivere nel mondo dei<br />

Promessi sposi. Da quell'istante, vivrò in <strong>un</strong> mondo nel quale la<br />

Provvidenza non solo si lascia intuire, ma ad<strong>di</strong>rittura si <strong>di</strong>spiega<br />

e dà forma a tutto il mondo stesso.<br />

A chi mi domanda: “A che cosa serve la letteratura?”, io<br />

rispondo: “A inventare mon<strong>di</strong> alternativi”.<br />

C'è <strong>un</strong>'obiezione frequente: “Ma allora tu assegni ai Promessi<br />

sposi più o meno lo stesso senso che assegni al Manifesto del<br />

Partito Com<strong>un</strong>ista <strong>di</strong> Marx ed Engels o alla Città <strong>di</strong> Dio <strong>di</strong><br />

sant'Agostino!”.<br />

“Be'”, <strong>di</strong>co in questi casi, “sì”.<br />

***<br />

Milan K<strong>un</strong>dera ha scritto da qualche parte (non chiedetemi<br />

dove) che “il romanzo ha e<strong>di</strong>ficato la coscienza europea”. Noi<br />

abbiamo la possibilità <strong>di</strong> essere Europa, intende <strong>di</strong>re K<strong>un</strong>dera,<br />

perché tanti romanzi hanno inventato dei mon<strong>di</strong> nei quali<br />

l'Europa, <strong>un</strong>a cosa che prima non c'era, c'era. Prima<br />

dell'Europa c'era stata la Cristianità. Prima della Cristianità<br />

c'era stato l'Impero romano. Europa, Cristianità, Impero<br />

romano, sono i nomi <strong>di</strong> <strong>un</strong>a cosa sola: i nomi del mondo,<br />

inteso come <strong>un</strong>a totalità dotata <strong>di</strong> senso.<br />

A questo p<strong>un</strong>to, definire il romanzo come <strong>narrazione</strong><br />

verosimile, non è più così banale. Potremmo <strong>di</strong>re che il<br />

romanzo è <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> verosimile, ma che il vero al quale<br />

tale <strong>narrazione</strong> desidera essere simile non è il vero<br />

dell'esperienza, bensì il vero del desiderio, o il vero<br />

dell'intuizione, o il vero della fede, o il vero del futuro, o altri o<br />

tutti questi insieme. La verosimiglianza rispetto all'esperienza è<br />

<strong>un</strong> semplice strumento, è per così <strong>di</strong>re <strong>un</strong> grado minimo della<br />

verosimiglianza: e il suo scopo è la produzione dell'illusione <strong>di</strong><br />

esistenza del mondo desiderato, intuito, creduto o previsto.<br />

Quando ci mettiamo a raccontare <strong>un</strong>a storia, dovremmo<br />

pensare a questo. Ogni tentativo <strong>di</strong> raccontare <strong>un</strong>a storia è <strong>un</strong><br />

tentativo <strong>di</strong> inventare il mondo.<br />

Mi si <strong>di</strong>rà: “Certo, ti sei trovato l'esempio comodo. I Promessi<br />

sposi andavano proprio bene. Ma se prendessimo come<br />

esempio l'Assommoir, Nana o il Para<strong>di</strong>so delle signore <strong>di</strong> Emile<br />

Zola, le cose andrebbero <strong>di</strong>versamente”.<br />

<strong>Non</strong> è vero, secondo me. Ma ho finito lo spazio, e l'esempio<br />

con Zola lo faccio tra sette giorni. Arrivederci.<br />

103


Chiacchierata numero 42<br />

Buongiorno. Ho letto L'Assommoir <strong>di</strong> Émile Zola<br />

(L'Ammazzatoio, si potrebbe trdurre, più o meno; ma, essendo<br />

il nome d'<strong>un</strong>a bettola, in italiano <strong>di</strong> solito viene lasciato come in<br />

francese) durante l'ultimo anno del liceo. Faceva parte <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

scelta <strong>di</strong> letture romanzesche extraitaliane che ci aveva<br />

proposta l'insegnante <strong>di</strong> italiano: <strong>un</strong>a ventina <strong>di</strong> libri, dei quali<br />

si doveva leggerne due. Io, per praticità, e visto che avevo il<br />

tempo, li lessi tutti. Ma L'Assommoir mi impressionò più <strong>di</strong><br />

tutti. Quando ne parlammo in aula feci <strong>un</strong> intervento <strong>di</strong> venti<br />

minuti al termine del quale l'insegnante <strong>di</strong>sse: “Sì, va bene,<br />

però secondo me non hai capito niente”. In quei venti minuti<br />

avevo parlato <strong>di</strong> <strong>un</strong>a cosa sola: del fatto che c'è <strong>un</strong> capitolo <strong>di</strong><br />

quaranta pagine, nell'Assommoir, dove si parla solo <strong>di</strong> ciò che<br />

c'è sulla tavola al pranzo <strong>di</strong> matrimonio. Quaranta pagine in cui<br />

i personaggi mangiano e basta, e tutto quello che mangiano ci<br />

viene detto e mostrato.<br />

Era vero che non avevo capito niente. Mi sarei dovuto<br />

accorgere, leggendo L'Assommoir, dell'ideologia <strong>di</strong> Zola. Mi<br />

sarei dovuto accorgere (era anche spiegato nell'introduzione,<br />

eh!) della "macrostoria" dentro la quale Zola collocava la<br />

"microstoria" dell'Assommoir. L'Assommoir fa parte <strong>di</strong> <strong>un</strong> ciclo<br />

<strong>di</strong> romanzi nei quali viene raccontata la storia <strong>di</strong> <strong>un</strong>a grande<br />

famiglia francese. La faccenda è accuratamente progettata da<br />

Zola in modo che dentro questa famiglia si ritrovi, per così<br />

<strong>di</strong>re, tutta la Francia: quella metropolitana e quella<br />

campagnola, quella proletaria e quella borghese, quella<br />

femminile e quella maschile, e così via. Questa famiglia è la<br />

Francia. Ogni romanzo è <strong>un</strong>o snodo <strong>di</strong> albero genealogico.<br />

Che cosa tiene insieme tutti questi romanzi? Il determinismo<br />

genetico. Un'idea parascientifica (molto para e poco scientifica;<br />

ma bisogna ricordarsi che, nell'Ottocento, il pensiero cosiddetto<br />

positivistico o scientistico fu portatore <strong>di</strong> bufale oggi incre<strong>di</strong>bili)<br />

che credeva <strong>di</strong> appoggiarsi alla teoria darwiniana<br />

dell'evoluzione della specie me<strong>di</strong>ante la selezione naturale e la<br />

sopravvivenza del più adatto. La grande opera <strong>di</strong> Zola,<br />

composta <strong>di</strong> non so quanti romanzi, è <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> storia<br />

evolutiva <strong>di</strong> <strong>un</strong>a famiglia francese esemplare. Dove c'è chi sa<br />

adeguarsi alle trasformazioni dell'ambiente, e chi invece non sa<br />

adeguarsi: e muore senza riprodursi.<br />

Questa logica è applicata non solo ai personaggi, ma anche<br />

alle formazioni sociali. Nel Para<strong>di</strong>so delle signore (Au Bonheur<br />

104


des dames), ad esempio, viene descritta proprio in termini <strong>di</strong><br />

darwinismo sociale la competizione tra i gran<strong>di</strong> magazzini e le<br />

vecchie botteghe. Tra il personale del grande magazzino, che si<br />

chiama app<strong>un</strong>to Il Para<strong>di</strong>so delle signore, la competizione è<br />

fortissima: e ci sono alc<strong>un</strong>i personaggi che hanno la f<strong>un</strong>zione <strong>di</strong><br />

selezionare, promuovere, licenziare: sono la Natura Sociale<br />

fatta personaggio.<br />

Se io permetto che la mia immaginazione si lasci prendere<br />

dall'opera <strong>di</strong> Émile Zola, non c'è scampo: la mia<br />

immaginazione si lascerà prendere da questa ideologia. Io ero<br />

affascinato, quella volta in ultima classe <strong>di</strong> liceo, dalle<br />

descrizioni che trovavo nell'Assommoir, che erano la cosa più<br />

materialistica che mai avessi incontrata; ma non mi ero<br />

accorto che quelle descrizioni così potenti erano collocate<br />

dentro <strong>un</strong> mondo, accuratamente inventato da Émile Zola, in<br />

cui tutto f<strong>un</strong>zionava secondo le regole del suo concetto <strong>di</strong><br />

darwinismo sociale. Così che quel concetto era passato in me<br />

senza che me ne accorgessi.<br />

Ciò che mi sembrava supermaterialistico, era ciò che serviva<br />

a far passare in me, a rendere cre<strong>di</strong>bile per me, <strong>un</strong>a<br />

rappresentazione superidealistica del mondo (come si <strong>di</strong>ce<br />

com<strong>un</strong>emente) o <strong>un</strong> mondo superidealizzato (come preferirei<br />

<strong>di</strong>re io). Idealizzato, sì. Perché <strong>un</strong> mondo nel quale c'è <strong>un</strong><br />

principio <strong>un</strong>ico che regge tutto, e questo principio si lascia<br />

perfettamente conoscere, non saprei chiamarlo se non: <strong>un</strong><br />

mondo idealizzato.<br />

***<br />

La settimana scorsa parlavo, <strong>di</strong>cendo più o meno le stesse<br />

cose (portate pazienza) dei Promessi sposi. La <strong>di</strong>fferenza che<br />

m'interessa, ora come ora, tra i Promessi sposi e l'Assommoir,<br />

è questa: che nell'Assommoir la posizione <strong>di</strong> Colui Che Crea E<br />

Dà Senso Al Mondo è occupata da <strong>un</strong>a Legge <strong>di</strong> Natura: che,<br />

peraltro, viene data come perfettamente conosciuta. Quin<strong>di</strong><br />

l'Assommoir non ci parla <strong>di</strong> nulla che sia fuori dal territorio del<br />

senso; non ci parla <strong>di</strong> <strong>un</strong> là fuori. Ci offre con la destra <strong>un</strong><br />

mondo inventato e con la sinistra, senza che neanche serva<br />

chiederla, <strong>un</strong>a completa e compatta spiegazione del senso <strong>di</strong><br />

questo mondo. I Promessi sposi, invece, nella posizione <strong>di</strong><br />

Colui Che Crea e Dà Senso Al Mondo mettono Dio (o, piuttosto,<br />

la sua Presenza nel mondo e nella storia, ossia la Provvidenza).<br />

Solo che <strong>di</strong> Dio non si ha la stessa conoscenza che si può avere<br />

<strong>di</strong> <strong>un</strong>a Legge <strong>di</strong> Natura. Tutt'altro. Dio non è nel mondo, è fuori<br />

dal mondo, e fa quello che vuole. Bisogna sempre ricordarsi <strong>di</strong><br />

105


Giobbe. Dopo che il Diavolo, avendo avuta mano libera dal<br />

Signore, ha tolto tutto a Giobbe e gli ha fatti morire i figli e le<br />

mogli e i servi, Giobbe interroga il Signore: “Perché l'hai fatto,<br />

a me che sono <strong>un</strong> uomo giusto?”; e il Signore risponde:<br />

“Perché io sono il Signore, e faccio quello che voglio. Dov'eri<br />

tu, quando io creavo il cielo e la terra?”. E Giobbe <strong>di</strong>ce: “Mi<br />

scusi”.<br />

Allora, quella cosa banale che si <strong>di</strong>ce dei romanzi, che “creano<br />

<strong>un</strong> mondo”, penso che si possa ri<strong>di</strong>rla con <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> ricchezza in<br />

più: i romanzi inventano <strong>un</strong> mondo e, pur senza uscire da<br />

questo mondo, alludono, da dentro quel mondo, a qualcosa<br />

che c'è là fuori; e in questo <strong>di</strong>rigere i nostri occhi verso il là<br />

fuori c'è, forse, quella che si chiama “la verità della<br />

letteratura”.<br />

Émile Zola non lo sapeva, che i suoi libri mi sarebbero serviti<br />

a imparare a guardare le cose. Io non ho più guardato il cibo<br />

come lo guardavo prima, dopo aver letto l'Assommoir.<br />

Credeva, Émile Zola che il là fuori che i suoi romanzi<br />

ad<strong>di</strong>tavano fosse la Legge <strong>di</strong> Natura. Macché.<br />

Ma sapere tutto questo, a noi che vogliamo raccontare storie,<br />

a che cosa serve? Ne parliamo tra <strong>un</strong>a settimana.<br />

Chiacchierata numero 43<br />

Buongiorno. Finivo il mio pezzo, la settimana scorsa,<br />

scrivendo: “Quella cosa banale che si <strong>di</strong>ce dei romanzi, che<br />

creano <strong>un</strong> mondo, penso che si possa ri<strong>di</strong>rla con <strong>un</strong> po' <strong>di</strong><br />

ricchezza in più: i romanzi inventano <strong>un</strong> mondo e, pur senza<br />

uscire da questo mondo, alludono, da dentro quel mondo, a<br />

qualcosa che c'è là fuori; e in questo <strong>di</strong>rigere i nostri occhi<br />

verso il là fuori c'è, forse, quella che si chiama la verità della<br />

letteratura” E buttavo là la domanda: “Ma sapere tutto questo,<br />

a noi che vogliamo raccontare storie, a che cosa serve?”.<br />

Qualche mese fa ho tentato <strong>di</strong> scrivere <strong>un</strong> racconto in forma<br />

<strong>di</strong> lettera (mi piace molto la forma della lettera) <strong>di</strong> <strong>un</strong>a figlia al<br />

padre. La figlia scrive al padre, rispondendo a <strong>un</strong>a lettera che il<br />

padre le ha inviato e che lei non ha voluto leggere: non ha<br />

nemmeno aperta la busta. Il lettore non conosce, ovviamente,<br />

il contenuto della busta. Il f<strong>un</strong>zionamento del racconto è<br />

chiaro: c'è <strong>un</strong>a voce che parla (la figlia), rispondendo a <strong>un</strong><br />

<strong>di</strong>s<strong>corso</strong> (la lettera del padre) del quale noi non sapremo mai<br />

niente (la figlia sta scrivendo al padre, mica a noi). Al centro <strong>di</strong><br />

tutto ci sarà sempre questa busta non aperta: non <strong>un</strong> "non<br />

106


detto", ma <strong>un</strong> "non letto".<br />

<strong>Non</strong> sono riuscito a finire il racconto. Ho scritte <strong>un</strong>a dozzina <strong>di</strong><br />

pagine senza riuscire a intravedere <strong>un</strong>a conclusione. Tuttavia il<br />

testo, anche così com'è, mi intriga. Allora, qualche settimana<br />

fa, ho deciso <strong>di</strong> pubblicare la lettera, incompleta com'è, nel mio<br />

<strong>di</strong>ario pubblico in rete<br />

(http://giuliomozzi.clarence.com/archive/040559.html).<br />

Dopo aver letto, <strong>un</strong> amico mi ha scritto: “Quello che mi ha<br />

insegnato il tuo racconto […] è che la prosa non può<br />

rappresentare le emozioni o le esperienze a nudo. Mi è parso<br />

chiaro che la letteratura si deve inoltrare in tutto quel territorio<br />

che sta nei <strong>di</strong>ntorni della verità (nostra, che vogliamo<br />

rappresentare), ma non deve mai volgere lo sguardo verso il<br />

centro, verso la verità stessa. Se ne deve solamente percepire<br />

la presenza. La verità, intesa anche come insieme dei nostri<br />

sentimenti, non è inesprimibile, ma irrappresentabile agli altri.<br />

Ecco che la <strong>narrazione</strong> compie <strong>un</strong>’opera <strong>di</strong> finzione stando alla<br />

larga dall’immagine che noi abbiamo della verità, della nostra<br />

emotività, mette in campo tutt’al più la nostra cosmogonia, il<br />

nostro <strong>un</strong>iverso simbolico, che poi è a stretto contatto con la<br />

nostra storia più intima.<br />

“Tutto questo ho pensato a causa <strong>di</strong> quella lettera non aperta<br />

del tuo racconto, a quel insistente modo <strong>di</strong> esporla, <strong>di</strong> tenerla<br />

nella storia, <strong>di</strong> erigerla a protagonista. È lì che ho capito che<br />

avevi intrapreso <strong>un</strong> sentiero <strong>di</strong>verso dalla strada principale che<br />

portava alla verità, che altrimenti sarebbe stata scritta come<br />

<strong>un</strong>a mera notizia <strong>di</strong> cronaca. La lettera era il tuo girare intorno<br />

alla verità, <strong>un</strong> rappresentarla per immagini <strong>di</strong>verse, <strong>un</strong> girare<br />

per corridoi senza mai varcare ness<strong>un</strong>a soglia. Ecco, forse la<br />

letteratura è tutto questo vagare su percorsi che non portano<br />

in ness<strong>un</strong> luogo, ma che sono attigui alla verità che sentiamo il<br />

bisogno <strong>di</strong> raccontare”.<br />

L'amico si chiama Alberto Bogo (il suo <strong>di</strong>ario in rete si trova<br />

qui: http://www.upsaid.com/palomar), e sono felice che mi<br />

abbia permesso <strong>di</strong> usare le sue parole. La frase: “Girare per<br />

corridoi senza mai varcare ness<strong>un</strong>a soglia” mi fa venire in<br />

mente <strong>un</strong> film <strong>di</strong> Luis B<strong>un</strong>uel, L'angelo sterminatore. In quel<br />

film (che ho visto credo vent'anni fa, e che quin<strong>di</strong> potrei<br />

ricordare tutto <strong>di</strong>verso da come è) succede questo: c'è <strong>un</strong>a<br />

festa o <strong>un</strong> party, nel salone <strong>di</strong> <strong>un</strong>a villa; al momento <strong>di</strong><br />

andarsene, ness<strong>un</strong>o riesce ad andarsene; tutti arrivano fino<br />

alla porta d'ingresso (che è aperta), si guardano attorno, e<br />

decidono <strong>di</strong> non uscire. Arriva la notte, poi il giorno successivo,<br />

eccetera; la gente dorme nel salone, litiga, s'innamora, tratta<br />

affari, <strong>di</strong>scute <strong>di</strong> politica o <strong>di</strong> teologia, gioca a scacchi, fa <strong>di</strong><br />

107


tutto. <strong>Non</strong> so quanto tempo le soglie del salone restino<br />

inviolabili (tra l'altro, ness<strong>un</strong>o può neanche entrare); dopo <strong>un</strong><br />

po' <strong>di</strong> giorni, com<strong>un</strong>que, <strong>un</strong> personaggio si avvicina alla porta<br />

d'ingresso, che è sempre aperta, la guarda, e grida:<br />

“Guardate! È aperta!”. Tutti escono, e il film finisce: l'ultima<br />

immagine è <strong>un</strong> gregge <strong>di</strong> pecore, e si sentono le campane.<br />

Facile lettura allegorica: il salone è la vita; i personaggi però<br />

pensano che la vera vita sia quella fuori; quando bene riescono<br />

a uscire dalla vita, entrano davvero nella vera vita: cioè<br />

muoiono, come agnelli portati al sacrificio.<br />

Il narratore, allora, secondo me, è colui che sta dentro nella<br />

sala, come tutti gli altri, che come tutti gli altri crede <strong>di</strong> essere<br />

prigioniero nella sala, e che la vera vita sia fuori, e che <strong>un</strong><br />

giorno, <strong>di</strong>versamente da tutti gli altri, accostandosi alla porta o<br />

a <strong>un</strong>a finestra, e guardando fuori, si accorge che fuori c'è<br />

davvero la vera vita, ossia che uscendo dalla sala si muore.<br />

Il narratore non è colui che ci spiega che là fuori c'è qualcosa<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>verso da quello che abbiamo sempre immaginato. Il<br />

narratore è colui che ci spiega che là fuori c'è proprio quello<br />

che abbiamo sempre immaginato: però cambiato <strong>di</strong> segno. La<br />

vera vita è davvero la vera vita, ossia la vita oltre la vita,<br />

quin<strong>di</strong> implica la morte.<br />

Il narratore è colui che coglie il non-letto. Ciò che tutti hanno<br />

avuto sott'occhio.<br />

***<br />

Questi ragionamenti, a chi voglia raccontare storie, servono<br />

molto.<br />

Servono a capire che l'immaginazione realistica è<br />

l'immaginazione più visionaria che si possa concepire. Tutti<br />

sono capaci <strong>di</strong> immaginare quello che non c'è (allora: <strong>un</strong> f<strong>un</strong>go<br />

alto due metri, <strong>un</strong> nano vestito <strong>di</strong> rosso, <strong>un</strong>'aragosta con i<br />

jeans, <strong>un</strong> ombrello e <strong>un</strong>a macchina da cucire <strong>di</strong>stesi sopra <strong>un</strong><br />

tavolo anatomico; ecco fatto, ecco immaginato); la cosa<br />

<strong>di</strong>fficile è immaginare quello che c'è.<br />

La figlia del mio racconto sa benissimo (adesso lo so anch'io,<br />

perché me l'ha spiegato Alberto…) che non le servirà a nulla,<br />

leggere la lettera del padre. Immaginarla, invece, immaginare<br />

questa cosa che c'è, ecco cos'è importante.<br />

Perché il mondo non va mica imitato. Va inventato. Ma ne<br />

riparleremo.<br />

108


Chiacchierata numero 44<br />

Buongiorno. Finivo il mio pezzo, la settimana scorsa,<br />

scrivendo: “Perché il mondo non va mica imitato. Va inventato.<br />

Ma ne riparleremo”. Ne riparleremo, ma non oggi. Oggi ho<br />

voglia <strong>di</strong> raccontarvi <strong>un</strong>’altra cosa. Che com<strong>un</strong>que c’entra.<br />

Oggi, cioè sabato 13 <strong>di</strong>cembre (giorno in cui materialmente<br />

scrivo il pezzo, alle <strong>un</strong><strong>di</strong>ci e mezza <strong>di</strong> sera), sono a Palermo.<br />

Leonora Cupane dell’associazione Città Invisibili mi ha invitato<br />

a condurre <strong>un</strong> piccolo laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>: la sera del<br />

venerdì, le intere giornate <strong>di</strong> sabato e domenica. Una ventina<br />

<strong>di</strong> partecipanti. Titolo del laboratorio: “Narrare vuol <strong>di</strong>re<br />

<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong> altro”.<br />

Questa del “<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong> altro” è <strong>un</strong>a delle mie fisse.<br />

Mi sono accorto (mi è anche stato fatto notare…) che ormai in<br />

tutte le occasioni che ho <strong>di</strong> parlare o scrivere (se converso con<br />

gli amici, se faccio lezione, se scrivo per Stilos o nel mio <strong>di</strong>ario<br />

in rete, e così via) finisco col parlare o scrivere sempre delle<br />

stesse cose. Ci sono dei pensieri che mi occupano per<br />

settimane e mesi, e per settimane e mesi letteralmente non<br />

sono capace <strong>di</strong> pensare ad altro.<br />

Il problema è che io non penso. Pensare significa, credo, stare<br />

lì da soli, e far f<strong>un</strong>zionare il cervello. Magari si può nel<br />

contempo fare qualcosa per <strong>di</strong>strarre il corpo o i sentimenti:<br />

passeggiare ai giar<strong>di</strong>ni pubblici o in alta montagna, ascoltare<br />

buona musica che sappiamo praticamente a memoria, pulire la<br />

casa, lavorare al tornio. Io però questo non lo so fare. Da solo,<br />

non so pensare. So pensare solo scrivendo. Ultimamente,<br />

ad<strong>di</strong>rittura, solo parlando.<br />

Nei corsi e laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> il mio lavoro è sempre<br />

accuratamente preparato. Come è ovvio che sia. C’è sempre<br />

<strong>un</strong> certo spazio per l’improvvisazione (quando si leggono e<br />

commentano i testi prodotti dai partecipanti, non si può<br />

ovviamente che improvvisare; e càpita <strong>di</strong> trovarsi davanti <strong>un</strong><br />

gruppo che ha bisogni imprevisti od offre opport<strong>un</strong>ità che<br />

sarebbe <strong>un</strong> peccato non cogliere).<br />

Tuttavia, sempre più spesso accade che nel bel mezzo <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

<strong>corso</strong> o <strong>di</strong> <strong>un</strong> laboratorio (oppure <strong>di</strong> <strong>un</strong>a conferenza o <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

conversazione) io perda all’improvviso la Trebisonda e cominci<br />

a parlare non dell’argomento previsto, bensì del mio pensiero<br />

dominante <strong>di</strong> quel periodo.<br />

La cosa mi preoccupa.<br />

Qualche anno fa ho fissato questo pensiero: “Quando scrivo,<br />

109


io non svelo, io non scopro me stesso. Quando scrivo, io<br />

produco me stesso. Prima che scrivessi, non c’ero; dopo che ho<br />

scritto, ci sono”. In questi mesi ho fatto <strong>un</strong> piccolo<br />

cambiamento, e <strong>di</strong>co: “Quando scrivo, io invento me stesso”.<br />

Naturalmente, c’è <strong>un</strong>a contrad<strong>di</strong>zione. Basterebbe<br />

domandare: “Scusa, ma chi inventa te stesso? Se tu vieni<br />

inventato, vieni inventato da qualc<strong>un</strong>o; e questo, chi è? E se<br />

sostieni che vieni inventato da te stesso, allora vuol <strong>di</strong>re che ci<br />

sei già, prima <strong>di</strong> inventarti”.<br />

Ho deciso <strong>di</strong> accettare la contrad<strong>di</strong>zione.<br />

Quando scrivo, invento <strong>un</strong> me stesso che non è esattamente<br />

me stesso. Invento <strong>un</strong> altro me stesso. Senza questo altro me<br />

stesso, non sarei capace <strong>di</strong> scrivere. Naturalmente ogni attività<br />

<strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> richiede l’invenzione <strong>di</strong> <strong>un</strong>o specifico me stesso.<br />

Anche per scrivere questo pezzo per Stilos, devo inventare <strong>un</strong><br />

altro me stesso. Peraltro questa è la quarantaquattresima<br />

p<strong>un</strong>tata, e il me-stesso-autore-dei-pezzi-per-Stilos è ormai <strong>un</strong><br />

soggetto abbastanza stabilizzato.<br />

Quin<strong>di</strong>: per scrivere, devo inventare <strong>un</strong> altro me stesso, e<br />

dopo averlo inventato devo <strong>di</strong>ventarlo. Devo quin<strong>di</strong>, in<br />

sostanza, <strong>di</strong>ventare <strong>un</strong> altro; <strong>un</strong> altro inventato da me, <strong>un</strong> altro<br />

me stesso, ma pur sempre <strong>un</strong> altro.<br />

[Stavo raccontando giusto queste cose, oggi (mentre scrivo,<br />

sono ormai le <strong>un</strong><strong>di</strong>ci <strong>di</strong> sera), quando a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to <strong>un</strong><br />

signore simpatico (<strong>un</strong>o dei signori più simpatici che mi sia mai<br />

capitato <strong>di</strong> incontrare in queste situazioni) ha levate le braccia<br />

al cielo e ha detto: “Aiuto!”. E poi ha aggi<strong>un</strong>to: “Ma se io<br />

comincio a pensare a questo, a pensare che tra me e ciò che<br />

scrivo c’è sempre <strong>un</strong> altro, c’è questo me stesso che fa per così<br />

<strong>di</strong>re da me<strong>di</strong>atore, e che per ogni testo che scrivo c’è <strong>un</strong><br />

<strong>di</strong>stinto me stesso che me<strong>di</strong>a, eccetera eccetera, sai che cosa<br />

succede?”.<br />

“Sì”, ho detto. “Che smetti <strong>di</strong> scrivere, e stop”.<br />

“Ecco, app<strong>un</strong>to”, ha detto il signore simpatico. “E allora?”.<br />

“E allora” ho detto, “tu pensi mentre gui<strong>di</strong> l’automobile?”.<br />

Il signore simpatico ha riso. “Sì, penso. Ed è per questo che<br />

vado sempre a sbattere <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là”.<br />

“Ma pensi a guidare o pensi ad altro?”, ho detto.<br />

“Penso ad altro”, ha detto il signore simpatico, ridendo.<br />

“Ecco”, ho detto allora. “Tu gui<strong>di</strong> senza pensare a quello che<br />

fai mentre gui<strong>di</strong>. È questione <strong>di</strong> addestramento”.<br />

“Mah”, ha detto il signore simpatico.]<br />

Ma che cosa sono, questi altri me stesso? Sono dei complessi<br />

<strong>di</strong> mo<strong>di</strong> stilistici, <strong>di</strong> parole, <strong>di</strong> p<strong>un</strong>ti <strong>di</strong> vista sul mondo, <strong>di</strong> forme<br />

narrative, <strong>di</strong> contenuti narrativi e <strong>di</strong> pensiero, eccetera<br />

110


eccetera.<br />

Quando <strong>di</strong>co queste cose, c’è sempre qualc<strong>un</strong>o che salta fuori<br />

a <strong>di</strong>re: “Vabbè, ci stai semplicemente <strong>di</strong>cendo che per ogni<br />

tipologia <strong>di</strong> testo che fai, installi nella tua mente <strong>un</strong>a proiezione<br />

<strong>di</strong> te come scrittore dotata <strong>di</strong> specifiche caratteristiche<br />

stilistiche e narrative”.<br />

Magari è così. Magari questo è il modo più economico per <strong>di</strong>re<br />

la cosa. Ma non mi sod<strong>di</strong>sfa. Perché questi altri me stesso, io<br />

non me li sento mica come delle f<strong>un</strong>zioni del testo. Me li sento,<br />

piuttosto, come dei veri e propri me<strong>di</strong>atori, che mi consentono<br />

<strong>di</strong> fare cose che in loro assenza non saprei fare.<br />

E allora mi vien da <strong>di</strong>re che la primaria, e forse principale,<br />

attività del narratore, consiste nell’inventare e nel produrre<br />

intorno a sé <strong>un</strong> certo numero <strong>di</strong> altri se stessi, <strong>di</strong> me<strong>di</strong>atori in<br />

somma, ciasc<strong>un</strong>o dei quali si rende <strong>di</strong>sponibile nel momento in<br />

cui c’è bisogno <strong>di</strong> lui.<br />

Bene. In questo momento, d<strong>un</strong>que, sono invaso da questo<br />

genere <strong>di</strong> pensieri. Per questo ho deciso <strong>di</strong> parlarne oggi.<br />

Peraltro la cosa c’entra con l’argomento promesso la settimana<br />

scorsa. Tra inventare altri se stessi, inventare altre persone,<br />

inventare me<strong>di</strong>atori, e inventare mon<strong>di</strong>, non è che ci sia poi<br />

tanta <strong>di</strong>fferenza. La prossima settimana, com<strong>un</strong>que,<br />

ripren<strong>di</strong>amo il filo.<br />

Chiacchierata numero 45<br />

Questa sera (ieri sera, per voi che leggete questo pezzo in<br />

Stilos) andrò a leggere <strong>un</strong> Racconto <strong>di</strong> Natale in <strong>un</strong>a serata <strong>di</strong><br />

Racconti <strong>di</strong> Natale. Mi hanno invitato <strong>di</strong>cendomi: “Può fare<br />

come vuole, può leggere <strong>un</strong> Racconto <strong>di</strong> Natale scritto da lei o<br />

scritto da altri, e<strong>di</strong>to o ine<strong>di</strong>to, come vuole. Basta che, quando<br />

ha deciso, ci avvisi: così evitiamo che due persone decidano <strong>di</strong><br />

leggere lo stesso Racconto <strong>di</strong> Natale”. Io ho risposto: “Poiché<br />

ne ho scritto <strong>un</strong>o, leggerò <strong>un</strong> Racconto <strong>di</strong> Natale scritto da<br />

me”. Mi hanno detto: “Bene”.<br />

Poi ho parlato <strong>un</strong> po' della cosa con <strong>un</strong> amico che, a<br />

<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> me, è <strong>un</strong> grande esperto <strong>di</strong> Racconti <strong>di</strong> Natale; e<br />

così ho scoperto che il mio racconto è sì <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> Natale,<br />

ma non è <strong>un</strong> Racconto <strong>di</strong> Natale. Gli manca <strong>un</strong>a maiuscola.<br />

“I Racconti <strong>di</strong> Natale Standard”, mi ha spiegato l'amico, “sono<br />

racconti <strong>di</strong> redenzione. Sono racconti nei quali <strong>un</strong> evento<br />

improbabile, inatteso, ad<strong>di</strong>rittura casuale, produce nel cuore <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> protagonista solitamente freddo, generalmente<br />

111


mal<strong>di</strong>sposto, eventualmente anche cattivo, <strong>un</strong> certo<br />

riscaldamento. Ma il Perfetto Racconto <strong>di</strong> Natale è quello in cui<br />

<strong>un</strong> qualc<strong>un</strong>o che non possiede nulla riesce a fare,<br />

<strong>di</strong>sinteressatamente e quasi senza accorgersene, <strong>un</strong> donodella-vita<br />

a <strong>un</strong> qualc<strong>un</strong>o che possiede tutto, o quasi tutto, o<br />

com<strong>un</strong>que desidera possedere tutto”.<br />

“Che cosa inten<strong>di</strong> per dono-della-vita?”, ho domandato<br />

all'amico.<br />

“Intendo quel dono che ti cambia la vita”, ha risposto l'amico.<br />

“Quel dono che consiste, detto nel modo più semplice e<br />

brutale, nella Rivelazione della Verità”.<br />

Nel mio racconto <strong>di</strong> Natale, minuscolo, non perfetto e<br />

nemmeno standard, non succede questo. Succede dell'altro.<br />

Ma pazienza: è com<strong>un</strong>que <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> Natale, e questa sera<br />

lo leggerò. Tuttavia, per sicurezza, per controllare se ho capito<br />

bene, sono andato a rileggermi il Canto <strong>di</strong> Natale <strong>di</strong> Charles<br />

Dickens. Che, se non è quello il Perfetto Racconto <strong>di</strong> Natale, ho<br />

pensato, quale racconto lo è?<br />

Allora: non vi riassumo il Canto <strong>di</strong> Natale, che tanto lo sapete<br />

tutti (e se non lo sapete, datevi <strong>un</strong>a mossa e leggetelo). Ma vi<br />

ricordo il succo della storia. Il succo della storia è che <strong>un</strong> uomo<br />

viene guidato a scoprire che i poveri sono poveri; che essere<br />

poveri significa non avere niente, nemmeno il possesso della<br />

propria vita; che le persone povere sono persone.<br />

Nel Canto <strong>di</strong> Natale il protagonista cattivo e mal<strong>di</strong>sposto viene<br />

guidato a fare <strong>un</strong>a esperienza <strong>di</strong> verità. A <strong>di</strong>rla tutta: viene<br />

guidato a fare <strong>un</strong>a esperienza, a fare per la prima volta nella<br />

sua vita <strong>un</strong>a esperienza del mondo. Il mondo, fino al giorno<br />

prima, per il cattivo e mal<strong>di</strong>sposto Uncle Scrooge, non<br />

esisteva: non ne aveva mai fatta esperienza. Aveva fatta<br />

esperienza <strong>di</strong> <strong>un</strong> "mondo" tra virgolette: il "mondo" prodotto<br />

da lui, il "mondo" delle sue (scarse) relazioni sociali, il "mondo"<br />

dell'astrazione monetaria, eccetera eccetera. Mai, proprio mai,<br />

aveva fatta esperienza del mondo senza virgolette.<br />

È <strong>un</strong> po' come Matrix. Uncle Scrooge se ne stava nella sua<br />

cella-culla, a dormire e a sognare <strong>di</strong> essere ricco in <strong>un</strong> mondo<br />

nel quale la ricchezza (la sua ricchezza) era la cosa più<br />

desiderabile che ci fosse; e all'improvviso qualc<strong>un</strong>o lo sveglia,<br />

lo conduce a fare esperienza del mondo senza virgolette (del<br />

mondo senza Matrix) e a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to, quando finalmente la<br />

miseria del mondo è <strong>di</strong>spiegata sotto gli occhi <strong>di</strong> Uncle<br />

Scrooge, gli <strong>di</strong>ce: “Benvenuto nel deserto del Reale!”.<br />

Ma, c'è <strong>un</strong>a <strong>di</strong>fferenza. Perché Matrix, con tutta la sua buona<br />

volontà, non è <strong>un</strong> Racconto <strong>di</strong> Natale.<br />

La <strong>di</strong>fferenza è che il Perfetto Racconto <strong>di</strong> Natale, dopo aver<br />

112


condotto il protagonista a fare <strong>un</strong>'esperienza del mondo senza<br />

virgolette, mica lo abbandona lì. Tutt'altro. Provvede, invece, a<br />

fornirgli delle altre virgolette: <strong>di</strong>verse. Il protagonista esce dal<br />

"mondo", fa esperienza del mondo, e viene condotto in <strong>un</strong><br />

“mondo”.<br />

Queste virgolette sono in<strong>di</strong>spensabili. Il mondo senza<br />

virgolette è incomprensibile, è orrore. Abbiamo bisogno <strong>di</strong><br />

virgolette. Se il Velo <strong>di</strong> Maya ci separa dal deserto del Reale,<br />

abbiamo tutto il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> desiderare <strong>di</strong> sapere che cosa c'è al <strong>di</strong><br />

là del Velo <strong>di</strong> Maya; ma abbiamo anche il dovere <strong>di</strong> sapere che<br />

il Velo <strong>di</strong> Maya, <strong>un</strong> Velo <strong>di</strong> Maya, è in<strong>di</strong>spensabile. Senza Velo<br />

<strong>di</strong> Maya, senza virgolette, saremmo esposti all'orrore del Reale.<br />

Un paio <strong>di</strong> settimane fa scrivevo: “Quella cosa banale che si<br />

<strong>di</strong>ce dei romanzi, che creano <strong>un</strong> mondo, penso che si possa<br />

ri<strong>di</strong>rla con <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> ricchezza in più: i romanzi inventano <strong>un</strong><br />

mondo e, pur senza uscire da questo mondo, alludono, da<br />

dentro quel mondo, a qualcosa che c'è là fuori; e in questo<br />

<strong>di</strong>rigere i nostri occhi verso il là fuori c'è, forse, quella che si<br />

chiama la verità della letteratura”.<br />

Potrei aggi<strong>un</strong>gere, adesso, che la verità della letteratura è<br />

forse non solo nel <strong>di</strong>rigere i nostri occhi verso il là fuori, oltre<br />

Veli e virgolette; ma anche nel riportare poi il nostro sguardo<br />

in <strong>un</strong> dentro. Perché là fuori, semplicemente, non si può<br />

vivere.<br />

Ci provo ancora (vi sarete accorti che tutto questo mio parlare<br />

è <strong>un</strong> girare intorno, <strong>un</strong> tentar <strong>di</strong> provocare intuizioni; non è <strong>un</strong><br />

procedere tanto razionale). Ci provo <strong>di</strong>cendo: la letteratura ci<br />

fornisce esperienze immaginarie (anche la poesia, eh!, mica<br />

solo la narrativa). Ci consente quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> sperimentare<br />

situazioni, con<strong>di</strong>zioni, pensieri che ci farebbero morire, senza<br />

che ci sia pericolo <strong>di</strong> morte. E in questo modo ci permettere <strong>di</strong><br />

includere la morte, senza averla sperimentata, dentro la nostra<br />

esperienza.<br />

Il Perfettissimo Racconto <strong>di</strong> Natale è, naturalmente, quello<br />

contenuto nei Vangeli. Che cosa succede nel Perfettissimo<br />

Racconto <strong>di</strong> Natale? Succede che il là fuori più là fuori che ci<br />

sia, la persona <strong>di</strong>vina (che, avendo creato il mondo, non può<br />

che essere fuori dal mondo), decide <strong>di</strong> entrare dentro il mondo.<br />

Il Perfettissimo Racconto <strong>di</strong> Natale <strong>di</strong>ce che ciò che avviene<br />

tutti i giorni immaginariamente nella Letteratura, è avvenuto<br />

<strong>un</strong>a volta (<strong>un</strong>'azione singolare, <strong>un</strong> p<strong>un</strong>ctum) nella Storia. Che<br />

c'è quin<strong>di</strong> <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to dove il dentro e il là fuori coincidono: <strong>un</strong><br />

p<strong>un</strong>to dove il Reale appare, e non è <strong>un</strong> deserto.<br />

113


Chiacchierata numero 46<br />

Come tutti (spero), anch'io ho compilata la mia lista <strong>di</strong> buoni<br />

propositi per l'anno nuovo.<br />

Voglio leggere i romanzi inglesi. Sono sempre stato prevenuto<br />

contro il romanzo inglese. <strong>Non</strong> so quando ho cominciato. Potrei<br />

<strong>di</strong>re che ho sempre pensato che il romanzo inglese è<br />

insopportabile. Mi sono scoperto anche, a volte, a sostenere<br />

che gli <strong>un</strong>ici romanzi inglesi buoni, li hanno scritti gli irlandesi<br />

(da Swift a Joyce) o al massimo gli stat<strong>un</strong>itensi (James).<br />

Invece non è così vero. La verità è che trovo pallosissimo<br />

Thomas Hardy (ma, ho scoperto, sono in tanti a trovarlo<br />

pallosissimo), che le sorelle Brontë mi fanno venire il latte alle<br />

ginocchia, e che trovo l'ironia <strong>di</strong> Jane Austen geniale per<br />

quattro pagine, e insopportabile per più <strong>di</strong> quattro pagine <strong>di</strong><br />

fila. E non sopporto (veramente non sopporto: sbuffo, strèpito,<br />

<strong>di</strong>vento nervoso) i vari celebratissimi contemporanei Ian<br />

McEwan, Jonathan Coe, eccetera eccetera: quando li leggo<br />

sento il ronzio e il cricchettio <strong>di</strong> tutte gli ingranaggetti narrativi,<br />

ed è <strong>un</strong>a cosa che mi dà sui nervi.<br />

Però il Tristram Shandy <strong>di</strong> Lawrence Sterne è <strong>un</strong>o dei romanzi<br />

più belli che abbia mai letto. Però Tom Jones <strong>di</strong> Henry Fiel<strong>di</strong>ng,<br />

che sto leggendo in questi giorni su pressante suggerimento <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> amico (me l'ha regalato) mi sembra <strong>un</strong> capolavoro <strong>di</strong> grazia<br />

e cor<strong>di</strong>alità. E allora? E allora, bisogna che vada in cerca <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

certo romanzo inglese, quello che può piacermi e intrigarmi. Ad<br />

esempio, ho come il sospetto che Middlemarch <strong>di</strong> George Eliot<br />

possa intrigarmi…<br />

Voglio scrivere <strong>un</strong>a trage<strong>di</strong>a. Sissignori: <strong>un</strong>a trage<strong>di</strong>a come<br />

quelle greche, con il coro, i monologhi, i messaggeri, e tutte<br />

quelle robe lì. Lo voglio fare dal 1999. E non mi ci sono messo<br />

mai seriamente. La storia c'è. Ce l'ho. E non ve la <strong>di</strong>co. Anche<br />

se l'ho già usata per <strong>un</strong> racconto. È <strong>un</strong> dramma familiare. Una<br />

cosa tosta. Con tanto <strong>di</strong> cadavere in scena, per tutto il tempo.<br />

Una sorella gemella scomparsa, <strong>un</strong> fratello gemello che<br />

nemmeno sa dell'esistenza della sorella... Forse il modello<br />

potrebbe essere più Seneca che i greci, a <strong>di</strong>re il vero. <strong>Non</strong> lo<br />

so. Il fatto è che io <strong>un</strong>a trage<strong>di</strong>a non sono capace <strong>di</strong> scriverla.<br />

Però posso impegnarmi, no? Posso impegnarmi anch'io. Basta<br />

traccheggiare.<br />

Voglio andare al cinema. Sembra facile, vero? Eppure io non<br />

ci riesco. <strong>Non</strong> ci vado quasi mai. Devo cominciare ad andarci.<br />

Almeno Fin<strong>di</strong>ng Nemo, in somma, voglio vederlo. E anche<br />

Opopomoz. <strong>Non</strong> per niente ho cinque nipotini sotto i <strong>di</strong>eci anni.<br />

114


Serviranno pure a qualcosa. Con tutti i libretti che gli regalo,<br />

troveranno il tempo <strong>di</strong> accompagnarmi al cinema.<br />

Voglio smettere <strong>di</strong> perdere i biglietti da visita. Quando<br />

qualc<strong>un</strong>o mi dà il suo biglietto da visita, io lo perdo. Sempre.<br />

Questa cosa deve finire.<br />

Voglio scrivere la sceneggiatura cinematografica che non ho<br />

mai scritta. Il soggetto l'ho già scritto. È <strong>un</strong>a storia <strong>un</strong> po' alla<br />

Signori e signore: <strong>un</strong>a comme<strong>di</strong>a all'italiana, forse. In <strong>un</strong> paese<br />

veneto (mettiamo del vicentino, va') c'è <strong>un</strong> gruppo <strong>di</strong> notabili<br />

(il sindaco, il <strong>di</strong>rettore della filiale della Banca popolare, il<br />

farmacista, il costruttore…) che s'inventa <strong>di</strong> fare le apparizioni<br />

della Madonna. Niente <strong>di</strong> strano. Quando in <strong>un</strong> paese comincia<br />

ad apparire la Madonna, nasce subito <strong>un</strong> business:<br />

immaginette, acque benedette, bancarelle, pasti per sfamare i<br />

pellegrini, pullman per trasportarli, e così via. “Facciamo <strong>un</strong>a<br />

bella apparizione”, <strong>di</strong>cono questi qua, “e poi pren<strong>di</strong>amo in<br />

mano la gestione <strong>di</strong> tutto”. Reclutano <strong>un</strong> poveraccio, lo<br />

straccino del paese, naturalmente indebitato con tutti,<br />

ricattabilissimo, con sei bocche da sfamare a casa, e lo<br />

istruiscono per bene. Lo straccino comincia ad avere le visioni.<br />

Il business si mette in moto. Tutto va bene. Solo che <strong>un</strong><br />

giorno, il figlio del sindaco fa <strong>un</strong> volo con la moto. Si spacca la<br />

testa. Finisce all'ospedale, in coma. È dato per spacciato. La<br />

moglie del sindaco (che non sa nulla della truffa, che crede che<br />

veramente la Madonna appaia ecc.) va dallo straccino e gli<br />

<strong>di</strong>ce: “Adesso te, che sei così in confidenza con la Madonna,<br />

vieni con me in chiesa, e preghiamo finché mio figlio non si<br />

salva”. Lo straccino, ovviamente, è terrorizzato. Com<strong>un</strong>que va<br />

con la moglie del sindaco, s'inginocchia in chiesa, prega.<br />

“Madonna mia”, prega lo straccino, “vi prego, anche se ho<br />

partecipato a questa truffa condotta in vostro nome, toglietemi<br />

da questo guaio. Salvate la pelle a quel ragazzo, che poi vi<br />

prometto, svelerò tutto”. Il ragazzo, miracolosamente, si salva.<br />

Si fa festa in tutto il paese. Lo straccino viene convocato dal<br />

Vescovo. Davanti al Vescovo, lo straccino cerca <strong>di</strong> confessare.<br />

Ma il Vescovo, che prima era stato scettico, ora è entusiasta<br />

delle apparizioni. Abbraccia lo straccino. Lo loda. Lo<br />

riabbraccia. Gli propone ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> farsi prete. Lo straccino<br />

non confessa. È più spaventato che mai.<br />

Un paio <strong>di</strong> settimane dopo, solenne cerimonia <strong>di</strong><br />

ringraziamento al paese. Messa grande, col Vescovo. Lo<br />

straccino siede accanto a lui. A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to, la Madonna gli<br />

appare davvero. “Madonna mia!”, <strong>di</strong>ce lo straccino, “come<br />

potrete perdonarmi ora?”. “Ma va'”, gli <strong>di</strong>ce la Madonna, “che<br />

<strong>un</strong> po' mi sono anche <strong>di</strong>vertita”. “Ma io vi ho ingannata!”, si<br />

115


accusa lo straccino in lacrime. “Ah, be', sì, d'accordo”,<br />

ammette la Madonna, “ma quella volta in chiesa, mi pregavi<br />

sinceramente”. “Sì, ma per paura, più che per vera fede!”, <strong>di</strong>ce<br />

lo straccino. “Mah”, conclude la Madonna, “paura, fede…<br />

Queste sottigliezze… La misericor<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Dio non ci bada tanto…<br />

Stai tranquillo, va'. E non peccare più”. E qui, con <strong>un</strong> primo<br />

piano dello straccino, mentre la Madonna scompare, dovrebbe<br />

finire il film.<br />

Ecco. Io <strong>di</strong> scrivere <strong>un</strong>a sceneggiatura non sono mica capace.<br />

<strong>Non</strong> rubatemi l'idea, eh! Però se c'è qualc<strong>un</strong>o che vuol darmi<br />

<strong>un</strong>a mano…<br />

Voglio fare 365 fotografie. Una al giorno. Per ricordarmi bene.<br />

Con la Polaroid, che mi piace <strong>un</strong> sacco. Perché io, sapete, sono<br />

<strong>un</strong>o che tende a <strong>di</strong>menticarsi.<br />

Bene. Questi sono i miei propositi. Quelli che c'entrano con la<br />

cosiddetta letteratura, naturalmente. Poi ci sono gli altri, quelli<br />

seri. Ma oggi non sono serio. Buon anno nuovo.<br />

Chiacchierata numero 47<br />

Bene. Buon anno ancora (fino all'Epifania si può fare gli<br />

auguri, si <strong>di</strong>ce dalle mie parti; dopo, porta male). <strong>Non</strong> so bene<br />

<strong>di</strong> che cosa abbiamo parlato, nelle settimane scorse; ero<br />

partito con la faccenda del plot, della trama, dell'intreccio; e<br />

poi, non so nemmeno io come, mi sono ritrovato a <strong>di</strong>re cose<br />

fumose sulla verità della letteratura e cose simili. Portate<br />

pazienza. Com<strong>un</strong>que credo <strong>di</strong> avere scritto su plot trama e<br />

intreccio più o meno tutto quello che so, cioè quasi niente; e<br />

così considero chiuso l'argomento. Continuo quin<strong>di</strong> con le cose<br />

fumose.<br />

Ciò <strong>di</strong> cui comincio a parlare oggi, è: l'autore. Ne ho già<br />

parlato <strong>di</strong>verse volte; ma ora cerco <strong>di</strong> andare con or<strong>di</strong>ne.<br />

Chi è l'autore <strong>di</strong> questo articolo? “Be', sei tu”, mi <strong>di</strong>rete voi. E<br />

ci avete pure ragione. D'altra parte, esistono certo <strong>di</strong>verse<br />

maniere <strong>di</strong> "fare l'autore". Nel primo capoverso <strong>di</strong> questo<br />

articolo io "ho fatto l'autore" in <strong>un</strong> certo modo. Potevo farlo<br />

anche in <strong>un</strong> altro modo.<br />

Pensate al povero Alessandro Manzoni. Lui finge <strong>di</strong> essere <strong>un</strong><br />

semplice trascrittore, <strong>un</strong> traduttore in italiano contemporaneo<br />

(dei suoi tempi) <strong>di</strong> <strong>un</strong> manoscritto anonimo, nel quale si<br />

racconta la storia <strong>di</strong> Renzo, Lucia e tutti gli altri. Questo gli<br />

consente, <strong>di</strong> tanto in tanto, e <strong>di</strong>rei abbastanza spesso, <strong>di</strong><br />

prendere le <strong>di</strong>stanze da ciò che racconta, e financo dai<br />

116


capoversi sfacciatamente moraleggianti che qua e là gli<br />

scappano. Naturalmente ness<strong>un</strong>o dei lettori crede che ci sia<br />

davvero <strong>un</strong> autore anonimo dal quale Manzoni si limita a<br />

trascrivere.<br />

È <strong>un</strong> gioco? Sì, certo, è <strong>un</strong> gioco. Che Manzoni a suo<br />

piacimento sospende: quando abbandona l'anonimo e si<br />

prende due capitoli per raccontare, da storiografo e non da<br />

romanziere, la peste <strong>di</strong> Milano; o quando termina la storia <strong>di</strong><br />

Gertrude con il famoso: “La sventurata rispose”, che <strong>di</strong>ce tutto<br />

e non <strong>di</strong>ce niente, e non si ferma nemmeno cinque minuti,<br />

come sarebbe naturale, a notare come l'autore anonimo, tanto<br />

ricco <strong>di</strong> particolari fino a quel p<strong>un</strong>to, sia improvvisamente<br />

ammutolito. E noi, che sappiamo giocare al gioco che Manzoni<br />

ci propone, non battiamo ciglio.<br />

Ma <strong>di</strong>re: “È <strong>un</strong> gioco” mi sembra, per quanto sia vero, <strong>un</strong> po'<br />

poco. Anche perché spesso, quando si parla <strong>di</strong> "giochi<br />

letterari", ci si <strong>di</strong>mentica che i "giochi letterari" sono sempre<br />

giochi <strong>di</strong> relazione: <strong>di</strong> relazione con il lettore.<br />

In queste settimane ho letto <strong>un</strong> romanzo settecentesco, il<br />

Tom Jones <strong>di</strong> Henry Fiel<strong>di</strong>ng (scritto tra il 1745 e il 1749), e<br />

me ne sono innamorato (consiglio, a chi fosse interessato,<br />

l'e<strong>di</strong>zione nei Gran<strong>di</strong> Libri Garzanti; e colgo l'occasione per<br />

ringraziare l'amico Leonardo che me l'ha regalato).<br />

Il Tom Jones comincia così: “L'autore dovrebbe considerare se<br />

stesso non come <strong>un</strong> gentiluomo che offra <strong>un</strong> pranzo in forma<br />

privata o d'elemosina, bensì come il padrone d'<strong>un</strong>a taverna<br />

aperta a chi<strong>un</strong>que paghi. Nel primo caso, colui che invita offre<br />

naturalmente il cibo che vuole, e quand'anche questo sia<br />

me<strong>di</strong>ocre e magari sgradevole ai loro gusti, gli ospiti non<br />

debbono protestare; ché l'educazione impone loro d'approvare<br />

e lodare qual<strong>un</strong>que cosa venga loro posta <strong>di</strong>nanzi. Proprio il<br />

contrario accade al padrone d'<strong>un</strong>a taverna. Quelli che pagano<br />

vogliono dar sod<strong>di</strong>sfazione al proprio palato, anche quando<br />

questo sia raffinato e capriccioso, e se non è tutto <strong>di</strong> loro<br />

gusto, si sentono in <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> criticare, <strong>di</strong> protestare, d'imprecar<br />

magari contro il pranzo, senz'alc<strong>un</strong> ritegno”.<br />

Manzoni non avrebbe mai paragonato il proprio romanzo a<br />

<strong>un</strong>a taverna, credo; piuttosto a <strong>un</strong>a civile conversazione; ma,<br />

se ci pensate, il "gioco" che lui fa con noi lettori e con il suo<br />

autore anonimo, è proprio questo. Manzoni interloquisce con<br />

l'autore, lo prende garbatamente in giro, mette in dubbio ciò<br />

che <strong>di</strong>ce, lo corregge, lo scorcia, in somma: non fa il chiasso da<br />

taverna prospettato da Fiel<strong>di</strong>ng ma, mettendosi nei panni del<br />

trascrittore e quin<strong>di</strong>, per così <strong>di</strong>re, del "primo lettore" del<br />

manoscritto dell'autore anonimo, provvede per conto nostro (<strong>di</strong><br />

117


noi lettori) a “criticare, protestare, imprecar magari contro il<br />

pranzo”. Con <strong>un</strong> certo ritegno, però.<br />

A questo p<strong>un</strong>to provo a <strong>di</strong>re: l'autore è <strong>un</strong> modo <strong>di</strong> relazione<br />

con il lettore. Il signor Alessandro Manzoni si inventa, per stare<br />

in relazione con il lettore, <strong>di</strong> "fare l'autore" in <strong>un</strong> certo modo.<br />

Così come io, per stare in relazione con voi, mi sono inventato<br />

<strong>di</strong> "fare l'autore" in <strong>un</strong> certo modo.<br />

Ecco, l'importante è questo, secondo me: ricordarsi che<br />

l'autore è <strong>un</strong>'invenzione, e che questa invenzione serve a stare<br />

in relazione con il lettore.<br />

***<br />

Naturalmente, <strong>un</strong>o stesso autore può "fare l'autore" in mo<strong>di</strong><br />

molto <strong>di</strong>versi. Ci sono autori che "fanno l'autore" sempre nello<br />

stesso modo, in tutte le loro opere; e autori che si <strong>di</strong>vertono a<br />

"fare l'autore" in mo<strong>di</strong> sempre <strong>di</strong>versi. Italo Calvino, ad<br />

esempio, era <strong>un</strong>o <strong>di</strong> questi. Palomar, Se <strong>un</strong>a notte d'inverno <strong>un</strong><br />

viaggiatore e Il visconte <strong>di</strong>mezzato, a me non sembrano<br />

nemmeno scritti dalla stessa persona, benché non siano poi<br />

così <strong>di</strong>versi, nella <strong>scrittura</strong>, l'<strong>un</strong>o dall'altro. Il che mi fa pensare<br />

a volte che Calvino, come il visconte d'<strong>un</strong> suo altro romanzo,<br />

sia per così <strong>di</strong>re <strong>un</strong>o scrittore inesistente. E allora devo <strong>di</strong>re<br />

che, alla fin fine, Calvino "fa l'autore" sempre allo stesso<br />

modo: fa l'autore inesistente.<br />

Invece Susanna Tamaro, pur avendo scritti tutti (mi pare) i<br />

suoi romanzi e racconti in prima persona, ed essendosi<br />

inventata quin<strong>di</strong> <strong>un</strong>a grande quantità <strong>di</strong> "io", <strong>di</strong> "personaggi<br />

narratori" molto <strong>di</strong>versi tra loro, "fa l'autore" sempre nello<br />

stesso modo, e cioè suscitando <strong>un</strong>a forte empatia nel lettore:<br />

tanto che, quando ha voluto dar voce a <strong>un</strong> personaggio orribile<br />

e <strong>di</strong>sgustoso (la Olga <strong>di</strong> Va' dove ti porta il cuore: “Una donna<br />

acuta, crudele, <strong>di</strong> <strong>un</strong>a crudeltà che spesso sfiora il cinismo, […]<br />

confusa, egoista”, come l'ha definita la stessa Tamaro in<br />

Famiglia Cristiana del 22.1.97) ha ottenuto l'effetto<br />

paradossale <strong>di</strong> farlo percepire come amabile.<br />

Ma <strong>di</strong> questi incidenti che possono capitare a <strong>un</strong> autore, vero<br />

o inventato che sia, esistente o inesistente che sia, parleremo<br />

con comodo nelle prossime settimane. Di nuovo buon anno.<br />

118


Chiacchierata numero 48<br />

Buondì a tutti. Promettevo, settimana scorsa, che avrei<br />

parlato delle <strong>di</strong>savventure che possono capitare a <strong>un</strong> autore:<br />

vero o inventato che sia.<br />

Cominciamo da qualche <strong>di</strong>savventura facile e non troppo<br />

impegnativa.<br />

Accendete il computer, attaccatevi all'internet. Cercate<br />

http://kimota.clarence.com. Kimota (che si pron<strong>un</strong>cia con<br />

l'accento sulla i: è l'inverso <strong>di</strong> Atomik, <strong>un</strong> personaggio <strong>di</strong><br />

cartoni animati) è colui che si firma Kimota. Il blog (ossia il suo<br />

"<strong>di</strong>ario" in rete, nel quale lui pubblica pressoché<br />

quoti<strong>di</strong>anamente) <strong>di</strong> Kimota è il blog <strong>di</strong> Kimota. L'autore <strong>di</strong><br />

questo blog <strong>di</strong>fficilmente si chiamerà davvero Kimota (nei<br />

giorni scorsi ho conosciuto <strong>un</strong> Neill, <strong>un</strong>a Soranza e <strong>un</strong> Theresio<br />

con l'h; ma Kimota mi pare davvero troppo). E, per quel che ne<br />

sappiamo, niente ci autorizza a pensare che colui che si firma<br />

Kimota ci racconti, con parole e fotografie (fotografie assai<br />

belle, secondo me) ciò che davvero accade, giorno per giorno,<br />

a colui che si firma Kimota.<br />

L'internet consente <strong>di</strong> queste cose. Di scegliersi <strong>un</strong> nome e <strong>di</strong><br />

costruirci attorno <strong>un</strong>a persona.<br />

Allora, succede che <strong>un</strong> bel giorno la rivista La l<strong>un</strong>a <strong>di</strong> traverso<br />

(che ha anche <strong>un</strong>o spazio in rete:<br />

http://www.lal<strong>un</strong>a<strong>di</strong>traverso.it), pubblicata a Parma grazie<br />

all'infaticabile Guido Conti, pubblica <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> Kimota. Che<br />

viene stampato con sopra il suo nome. Il suo nome vero, non<br />

Kimota. E succede questo, come racconta Kimota stesso nel<br />

suo blog/<strong>di</strong>ario<br />

(http://kimota.clarence.com/archive/054702.html):<br />

“Vi posso raccontare <strong>di</strong> come, letto finalmente il mio primo<br />

racconto pubblicato, abbia avuto luogo con metà dei miei<br />

parenti il seguente scambio <strong>di</strong> battute:<br />

“- Hm, è bello, però... non è... non è... <strong>un</strong> po'...<br />

“- Un po' ambiguo?<br />

“- Sì, ecco... <strong>un</strong> po' gay...<br />

“- Be', in fondo il tema della rivista è "Equivoci".<br />

“- Sì, ho capito, ma qua racconti in prima persona <strong>di</strong> quello<br />

che hai fatto con questo Carlo. E tu... tu non sei... vero? Vero?!<br />

“- <strong>Non</strong> "io". Cioè: io sono l'autore del racconto, ma non il<br />

narratore. Quello, o quella, che racconta i vari avvenimenti non<br />

sono io. Dico "quello o quella" visto che ho evitato <strong>di</strong> connotare<br />

sessualmente tale narratore. Potrebbe anche essere <strong>un</strong>a<br />

119


donna.<br />

“- Ah, ecco, meno male”.<br />

Altro esempio. Marco Can<strong>di</strong>da è <strong>un</strong> giovane ed eccellente<br />

narratore. <strong>Non</strong> ha pubblicato ness<strong>un</strong> libro (per il momento),<br />

ma è com<strong>un</strong>que <strong>un</strong> giovane ed eccellente narratore. Anche lui<br />

ha <strong>un</strong> blog: http://marco2.clarence.com). In questo blog ha<br />

pubblicato, ai primi <strong>di</strong> gennaio, <strong>un</strong> Resoconto Capodanno<br />

Camogli 2004 veramente spassoso<br />

(http://marco2.clarence.com/archive/055778.html).<br />

Raccontava della gita a Camogli insieme a <strong>un</strong>a certa F., <strong>di</strong><br />

cazzeggi e scioccezzuole varie, eccetera eccetera. Qualche<br />

pagina davvero piacevole. Pochi giorni dopo ha dovuto<br />

pubblicare <strong>un</strong>a Precisazione: “Il resoconto su Camogli è frutto<br />

<strong>di</strong> invenzione. Questo non significa che non sono stato a<br />

Camogli a Capodanno ma significa che F. nella realtà non c'é.<br />

Questo non significa che ero solo a Camogli e che non fossi con<br />

<strong>un</strong>a donna ma non significa che con quella donna io abbia<br />

avuto qualcosa <strong>di</strong> più che <strong>un</strong> semplice rapporto <strong>di</strong> amicizia”<br />

(http://marco2.clarence.com/archive/056353.html). Che<br />

cos'era successo? Era successo che qualche buontempone,<br />

intervenendo nel blog nello spazio dei "commenti", aveva<br />

cominciato a fare illazioni (banalucce e antipaticucce) su<br />

questa certa F. Notiamo però come la "precisazione" <strong>di</strong> Marco<br />

Can<strong>di</strong>da non sia esattamente <strong>un</strong>a smentita. Nega che F. esista.<br />

Ma lascia aperta la possibilità che <strong>di</strong>etro lo "schermo" <strong>di</strong> F. vi<br />

sia <strong>un</strong>a persona; e lascia aperta la possibilità ("non significa<br />

che" vuol <strong>di</strong>re: "potrebbe anche essere, ma non <strong>di</strong>co né sì né<br />

no") che con quella donna ci sia stato "qualcosa <strong>di</strong> più che <strong>un</strong><br />

semplice rapporto <strong>di</strong> amicizia".<br />

(Se a questo p<strong>un</strong>to siete <strong>di</strong>sorientati, e vi state domandando<br />

che cosa <strong>di</strong>avolo sia <strong>un</strong> blog, provate a leggere ad esempio<br />

qui: http://www.splinder.it/node/view/24, o a sfogliare in<br />

libreria questo libro: Eloisa <strong>di</strong> Rocco, Mondo blog. Storie vere <strong>di</strong><br />

gente in rete, Hops Libri).<br />

Allora: Kimota e Marco Can<strong>di</strong>da "fanno l'autore" in modo<br />

<strong>di</strong>verso. Kimota, quando pubblica il suo blog/<strong>di</strong>ario, "fa<br />

l'autore" in <strong>un</strong> certo modo (parla in prima persona ma cela la<br />

sua identità, usa più le fotografie che le parole, si esprime<br />

sempre con <strong>un</strong> ammirabile <strong>di</strong>stacco, e così via). Lo stesso<br />

Kimota, quando pubblica <strong>un</strong> racconto con il suo vero nome e<br />

cognome (qui non posso <strong>di</strong>rlo, per le evidenti ragioni) si trova<br />

in <strong>un</strong>a situazione <strong>di</strong>versa: e prova <strong>un</strong> certo imbarazzo. La cosa<br />

<strong>di</strong>vertente è che il Kimota in rete, <strong>di</strong>versamente dal narratore<br />

del racconto pubblicato in La l<strong>un</strong>a <strong>di</strong> traverso, somiglia davvero<br />

molto alla persona che in rete si firma Kimota, e che ho avuto<br />

120


il piacere <strong>di</strong> conoscere <strong>di</strong> persona. In sostanza: quest'uomo si<br />

espone autenticamente per mezzo <strong>di</strong> <strong>un</strong>o pseudonimo (<strong>un</strong><br />

nome non autentico), mentre firma con il suo nome autentico<br />

<strong>un</strong> racconto in cui espone <strong>un</strong> narratore che non è lui (cioè "fa<br />

l'autore" fingendo <strong>di</strong> non essere colui che è, ma <strong>un</strong> altro<br />

<strong>di</strong>verso da lui).<br />

Però.<br />

Marco Can<strong>di</strong>da, invece, è più giocherellone. Si firma con <strong>un</strong><br />

nome e <strong>un</strong> cognome che sono il suo nome e cognome,<br />

racconta delle storie che sembrano tranquillissimamente<br />

avvenimenti capitati a lui, stuzzica la curiosità (magari<br />

volgaruccia, vabbè) del lettore; e poi, quando ben il lettore ha<br />

identificato il Marco Can<strong>di</strong>da che firma il blog con il Marco<br />

Can<strong>di</strong>da reale, e quin<strong>di</strong> la ragazza F. con <strong>un</strong>a ragazza reale che<br />

con Marco Can<strong>di</strong>da si suppone abbia fatte certe cose (nel<br />

Resoconto Capodanno, però, non c'è niente <strong>di</strong> esplicito), allora<br />

se ne viene fuori a precisare introducendo confusione, a<br />

smentire ambiguamente. Imbarazzo? Poca capacità <strong>di</strong> "fare<br />

l'autore"? No. Semplicemente voglia, e buona capacità, <strong>di</strong><br />

prendere in gioco il lettore. Che non è come “prendere in giro”,<br />

peraltro.<br />

Per concludere: lo scopo <strong>di</strong> questa p<strong>un</strong>tata era, come sarà<br />

risultato evidente, invitarvi a leggere questi due blog, <strong>di</strong><br />

Kimota e <strong>di</strong> Marco Can<strong>di</strong>da, che a me sembrano molto<br />

interessanti. Ma intanto vi ho raccontata qualche <strong>di</strong>savventura<br />

dell'autore. A tra poco.<br />

Chiacchierata numero 49<br />

Buongiorno, buongiorno. Avevamo cominciato, nelle<br />

settimane scorse, a parlare delle avventure e <strong>di</strong>savventure che<br />

possono capitare a <strong>un</strong> autore. Oggi vorrei fare <strong>un</strong>a<br />

<strong>di</strong>vagazione. Per tornare però, alla fine, esattamente<br />

sull'argomento.<br />

Un'avventura che può capitare a <strong>un</strong> autore, è questa:<br />

interrogarsi su ciò che fa, sul perché lo fa, sull'utilità e<br />

l'opport<strong>un</strong>ità <strong>di</strong> ciò che fa. E se anche <strong>un</strong> autore non si<br />

interroga su questo, a interrogarlo ci pensa il pubblico: che gli<br />

domanda: “Perché scrivi?”. <strong>Non</strong> è necessario aver pubblicato<br />

libri, per sentirsi fare questa domanda. Basta che qualc<strong>un</strong>o vi<br />

chieda perché uscite poco la sera, e che voi rispon<strong>di</strong>ate: “Sto<br />

cercando <strong>di</strong> scrivere <strong>un</strong> romanzo”. Entro tre minuti <strong>di</strong><br />

121


conversazione arriverà la domanda: “Perché lo fai?”.<br />

Vittorio Bianchi è <strong>un</strong> uomo circa della mia età; ha <strong>un</strong> paio<br />

d'anni <strong>di</strong> più. Da quando aveva ventiquattro anni, e quin<strong>di</strong> da<br />

più <strong>di</strong> vent'anni, è ospite <strong>di</strong> quello che <strong>un</strong>a volta si chiamava<br />

Ospedale psichiatrico, e oggi si chiama Com<strong>un</strong>ità terapeutica<br />

residenziale protetta (Ctrp). A Padova, la mia città.<br />

Qualche anno fa <strong>un</strong> mio conoscente mi <strong>di</strong>sse: “Senti, c'è <strong>un</strong>o<br />

che ti vorrebbe conoscere”; e mi presentò Guido Solerti. Guido<br />

mi spiegò in quattro e quattr'otto perché mi voleva conoscere:<br />

insegnava da alc<strong>un</strong>i anni nel "<strong>corso</strong> <strong>di</strong> alfabetizzazione" interno<br />

alla Ctrp <strong>di</strong> Padova; lì aveva conosciuto Vittorio Bianchi, che<br />

del <strong>corso</strong> era <strong>un</strong>o dei più fedeli frequentatori; e Vittorio<br />

Bianchi, mi <strong>di</strong>sse Guido, scriveva delle cose assai interessanti.<br />

“Fammi vedere”, <strong>di</strong>ssi.<br />

Guido mi fece vedere.<br />

Un anno e mezzo dopo usciva il libro <strong>di</strong> Vittorio. L'e<strong>di</strong>tore era<br />

Theoria (<strong>un</strong> e<strong>di</strong>tore allora glorioso, oggi def<strong>un</strong>to). Il libro era<br />

<strong>un</strong> "montaggio" <strong>di</strong> tanti brevi testi, <strong>di</strong> tanti "temi" che Vittorio<br />

aveva scritto nel <strong>corso</strong> <strong>di</strong> qualche anno. I "temi" erano stati a<br />

volte proposti da Guido, altre volte Vittorio se li era<br />

autoproposti. Guido e io leggemmo tutti i quadernoni <strong>di</strong><br />

Vittorio, in<strong>di</strong>viduammo alc<strong>un</strong>i filoni (la storia delle vita prima<br />

dell'internamento, le relazioni con i me<strong>di</strong>ci e gli infermieri, gli<br />

effetti dei farmaci, le amicizie, riflessioni morali e religiose,<br />

favolette), scegliemmo <strong>un</strong>'ottantina <strong>di</strong> "temi"; e senza troppa<br />

fatica venne fuori app<strong>un</strong>to <strong>un</strong> libro.<br />

Come introduzione al libro ponemmo <strong>un</strong> "tema" dal titolo: Il<br />

piacere <strong>di</strong> scrivere.<br />

“Io amo scrivere molto, specialmente se faccio<br />

corrispondenza postale. Ho sempre desiderato (e tutt’ora<br />

desidero) scrivere lettere o cartoline ai miei parenti ed amici.<br />

Come e quanto è bello, fare così!! Provo molta sod<strong>di</strong>sfazione<br />

ed anche coloro che ricevono i miei scritti, provano<br />

sod<strong>di</strong>sfazione. Cosa pensano loro, se scrivo mie notizie?<br />

Certamente, pensano che io sia attivo e che li tengo sempre<br />

aggiornati; pensano anche, che per me, è <strong>un</strong> piacere e che lo<br />

faccio volentieri. Quando scrivo, espongo le mie idee,<br />

avvenimenti, sentimenti, problemi, ecc. Così facendo, loro mi<br />

comprendono e mi rispondono. Più scrivo, meglio è! Secondo<br />

me, lo scrivere ad <strong>un</strong>a o più persone, è <strong>un</strong>a manifestazione<br />

d’affetto (specialmente se scrivo ad <strong>un</strong>a persona cara, a cui<br />

voglio bene). Sono scrittori anche i poeti. Essi amano molto<br />

scrivere. Di solito, i poeti compongono poesie; qualsiasi tipo <strong>di</strong><br />

poesie, a seconda delle loro idee, aspirazioni o sentimenti<br />

dell’animo, a tal p<strong>un</strong>to da coinvolgere, commuovere, esaltare,<br />

122


ecc. <strong>un</strong>a persona che è intenta a leggere <strong>un</strong>a determinata<br />

poesia. I poeti, trascorrono la maggior parte della loro giornata<br />

(anche a costo della vita) componendo poesie; che fascino!<br />

Che bellezza! Che incanto e con quanta tenerezza! (nel caso,<br />

scrivano poesie d’amore). Eppure, essi non si stancano mai!<br />

Quanta intelligenza! Quanta bravura e che stile! Anch’io, vorrei<br />

essere <strong>un</strong> poeta, ma, per fort<strong>un</strong>a, non lo sono, perché non amo<br />

comporre poesie. Se scrivo, mi <strong>di</strong>letto a comporre lettere, o<br />

temi. Mi piacerebbe, scrivere <strong>un</strong> libro, cioè, descrivere la mia<br />

vita vissuta”.<br />

Il libro uscì, e s'intitolò: “Io, avrei voluto essere come quel<br />

passero”. Fu recensito ampiamente in <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> settimanali<br />

"per lettori forti" (<strong>un</strong> bellissimo articolo <strong>di</strong> Mauro Covacich in<br />

Diario, <strong>un</strong>o <strong>di</strong> Alberto Casadei in Avvenimenti), ebbe qualche<br />

segnalazione qua e là, dopo<strong>di</strong>ché, come succede a molti libri,<br />

morì.<br />

Vittorio ci guadagnò anche <strong>un</strong>a partecipazione al Maurizio<br />

Costanzo Show. Per felice coincidenza, infatti, poche settimane<br />

dopo la pubblicazione del libro cadeva il ventesimo<br />

anniversario della legge Basaglia. Costanzo de<strong>di</strong>cò<br />

all'argomento <strong>un</strong>a p<strong>un</strong>tata. Mi chiamarono dalla redazione. Con<br />

mille cautele, Vittorio,Guido e <strong>un</strong> infermiere affrontarono il<br />

viaggio fino a Roma, al Teatro dei Parioli. Costanzo, come<br />

allora gli succedeva talvolta, condusse la faccenda assai bene.<br />

Vittorio fece <strong>un</strong>'ottima figura, si <strong>di</strong>vertì moltissimo, e incontrò<br />

Haeter Parisi al bar.<br />

Oggi Vittorio abita sempre al Ctrp. <strong>Non</strong> scrive più, se non<br />

qualche lettera a Guido. Ha conservata la passione per la lirica.<br />

Canta bene, suonicchia il pianoforte, ha <strong>un</strong>a <strong>di</strong>screta collezione<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>schi e videocassette.<br />

Guido non lavora più al Ctrp, ma vede spesso Vittorio.<br />

Io incontro Vittorio ogni tanto, al bar del Ctrp. <strong>Non</strong> mi<br />

riconosce.<br />

Allora, la domanda è questa: Vittorio è <strong>un</strong> autore?<br />

Sicuramente ha scritto <strong>un</strong> libro, sia pure con l'aiuto <strong>di</strong> due<br />

e<strong>di</strong>tor <strong>un</strong> po' speciali (che, peraltro, si sono limitati alla scelta<br />

dei pezzi e alla correzione <strong>di</strong> due o tre errori <strong>di</strong> ortografia);<br />

sicuramente il libro è scritto in <strong>un</strong>a lingua fuorinorma; forse<br />

Vittorio riprenderà a scrivere, <strong>di</strong>fficilmente farà <strong>un</strong> altro libro.<br />

Il pezzo Il piacere <strong>di</strong> scrivere mostra che Vittorio aveva ben<br />

chiaro il senso <strong>di</strong> ciò che faceva: “Secondo me, lo scrivere ad<br />

<strong>un</strong>a o più persone, è <strong>un</strong>a manifestazione d’affetto<br />

(specialmente se scrivo ad <strong>un</strong>a persona cara, a cui voglio<br />

bene)”. E se non sapeva usare alla perfezione il mezzo della<br />

lingua, la sua istanza com<strong>un</strong>icativa era abbastanza intensa da<br />

123


farglielo usare com<strong>un</strong>que: piegandolo e storcendolo, se<br />

serviva, fino a fargli <strong>di</strong>re ciò che aveva da <strong>di</strong>re.<br />

Vittorio Bianchi è <strong>un</strong> autore? Io <strong>di</strong>co <strong>di</strong> sì. Ne riparliamo la<br />

settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 50<br />

Continuiamo a parlare <strong>di</strong> avventure e <strong>di</strong>savventure<br />

dell’autore. Ma faccio <strong>un</strong>a <strong>di</strong>vagazione. La settimana scorsa<br />

avevo finito con <strong>un</strong>a domanda; settimana prossima tenterò<br />

<strong>un</strong>a risposta. Oggi voglio parlare <strong>di</strong> quest’altra cosa qui.<br />

Il settimanale L’Espresso ha pubblicato <strong>un</strong> pezzo <strong>di</strong> Mauro<br />

Covacich intitolato: “Ho le vertigini da fiction”. Covacich scrive<br />

tra le altre cose: “La nostra è <strong>un</strong>'epoca <strong>di</strong> meraviglie. Il cielo si<br />

è abbassato al p<strong>un</strong>to che gli aerei entrano nelle costruzioni più<br />

alte. Maestri <strong>di</strong> scuola si vestono <strong>di</strong> tritolo e salgono sugli<br />

autobus per farsi brillare. Attori <strong>di</strong>ventano governatori.<br />

Cantanti <strong>di</strong>ventano primi ministri. Presidenti della Camera<br />

<strong>di</strong>ventano conduttrici televisive. […] Ogni cosa per essere reale<br />

dev'essere trasmessa, ma non solo - questa ormai è roba<br />

vecchia - anche ogni esperienza <strong>di</strong> vita è reale solo se pensata<br />

da chi la vive coi ritmi, le sequenze e le inquadrature <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

fiction. Il concetto la vita come <strong>un</strong> romanzo ha cambiato più<br />

volte faccia fino ad arrivare a la vita come <strong>un</strong> reality show”. E<br />

poi interroga: “Perché gli scrittori italiani si sottraggono a tutto<br />

ciò? Perché lo ignorano mentre raccontano le loro storie? […]<br />

Perché non riusciamo a prendere il mondo per le corna? Perché<br />

non riusciamo a raccontare storie - non importa se inventate,<br />

vere, realistiche, surreali - in grado <strong>di</strong> spremere la vita, <strong>di</strong><br />

metterla sotto torchio?”.<br />

Mauro Covacich è <strong>un</strong>o scrittore che pubblica dal 1993. I suoi<br />

libri sono tradotti in varie lingue. Il suo ultimo romanzo, A<br />

per<strong>di</strong>fiato, uscito nel 2003 per Mondadori, è stato ampiamente<br />

lodato. Il suo pezzo, in sostanza, riprende <strong>un</strong>o dei “<strong>di</strong>scorsi<br />

circolari” della società letteraria italiana; <strong>un</strong> <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> che<br />

perio<strong>di</strong>camente risp<strong>un</strong>ta, e che è l’esplicitazione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong><br />

“complesso d’inferiorità” della narrativa italiana rispetto alle<br />

altre narrative, soprattutto quella anglosassone; l’inferiorità<br />

consistente, volta a volta, nella minore capacità <strong>di</strong> produrre<br />

solide trame, nello scollamento con la società reale, nella<br />

mancanza <strong>di</strong> senso epico, nell’elitarismo bellettristico o, come<br />

nella versione esposta da Covacich, nell’incapacità <strong>di</strong><br />

“spremere la vita, metterla sotto torchio”: mentre gli scrittori<br />

124


stat<strong>un</strong>itensi, si <strong>di</strong>ce, non fanno altro tutto il giorno.<br />

Nei giorni scorsi ho riass<strong>un</strong>to e commentato il pezzo <strong>di</strong><br />

Covacich nel mio <strong>di</strong>ario in rete<br />

(http://giuliomozzi.clarence.com). Le reazioni, tra i lettori del<br />

<strong>di</strong>ario, sono state le più varie. Ne riporto alc<strong>un</strong>e, scegliendole<br />

tra quelle che esprimono <strong>di</strong>saccordo.<br />

Un lettore che si firma Mario Zero scrive: “Ma siamo davvero<br />

sicuri che nei libri cerchiamo brani <strong>di</strong> realtà? Io non ne sono<br />

affatto convinto. Leggiamo forse Dante o Shakespeare o Tolstoi<br />

per avere <strong>un</strong>'immagine precisa del me<strong>di</strong>oevo o dell'Inghilterra<br />

elisabettiana o dellka Russia dell'Ottocento? <strong>Non</strong> mi pare. La<br />

letteratura è l'opposto della realtà. Nella realtà, soprattutto in<br />

quella "sociale", tutto appare confuso, insensato, mentre<br />

nell'arte le parole formano <strong>un</strong>a bellezza, <strong>un</strong> senso, ed è per<br />

questo che le amiamo. Il mondo è <strong>un</strong>o sgabuzzino soffocante,<br />

l'arte prova ad aprire <strong>un</strong>a finestra, ad aggi<strong>un</strong>gere aria e <strong>un</strong><br />

senso ulteriore. L'arte, da sempre, partecipa al regno dello<br />

spirito, non a quello della baraonda sociale. […] Agli artisti<br />

chiedo <strong>di</strong> aprire il mondo, non <strong>di</strong> raddoppiarlo”.<br />

Una lettrice che si firma Anonima Sequestrata scrive: “A<br />

Mauro Covacich <strong>di</strong>rei che, naturale, <strong>di</strong>cesse, facesse e<br />

pensasse quel che vuole. Soprattutto gli <strong>di</strong>cevo <strong>di</strong> curarsi <strong>di</strong><br />

casi suoi […] sforzandosi lui stesso, in qualità <strong>di</strong> scrittore, <strong>di</strong> far<br />

lo scrittore nel modo che più lo aggrada, giusto scrivendo. La<br />

domanda che si fa per mestiere perché richiesto da <strong>un</strong> giornale<br />

letto da migliaia, […] m’augurerei che se la ritorcesse,<br />

principalmente quando pensa gratis tra sé e sé, mo<strong>di</strong>ficandola<br />

d<strong>un</strong>que in questa quasi identica: perché mi sottraggo a tutto<br />

ciò? Perché lo ignoro mentre racconto le mie storie?”.<br />

Un lettore che si firma Demetrio scrive: “Cosa manca, agli<br />

autori italiani? Forse l'onestà. <strong>Non</strong> so ma tutte le volte che<br />

leggo […] noto <strong>un</strong> deficit <strong>di</strong> onestà. Dire la cosa che conta.<br />

Dare <strong>un</strong> segno alla realtà, darne <strong>un</strong>a voce. Organizzare <strong>un</strong>a<br />

storia che abbia <strong>un</strong>a voce che sia sentita reale da parte <strong>di</strong> chi ci<br />

legge. Forse dovremmo avere più tempo e meno impegni. La<br />

<strong>scrittura</strong> e il gesto dello scrivere è <strong>un</strong>'azione lenta e antica. E<br />

forse questo tempo sdegnato e veloce non ci permette <strong>di</strong><br />

trovare il giusto ritmo e la giusta voce. Essere onesti forse è<br />

quello che manca agli scrittori. Onesti nel <strong>di</strong>re: abbiamo gran<strong>di</strong><br />

pensieri, magnificenti concetti del vivere, ma caro lettore noi<br />

an<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> fretta e quello che possiamo offrirti è questo testo.<br />

Così. Smozzicato, spizzicato e storticato. E' il massimo che<br />

possiamo offrirti. Forse questo nostro atto (<strong>di</strong>co nostro nel<br />

senso più ampio) <strong>di</strong> umiltà potrebbe darci la forza <strong>di</strong> scrivere<br />

<strong>un</strong> testo che morda la realtà”.<br />

125


Un lettore che si firma Ar<strong>di</strong>to Piccar<strong>di</strong> (don Ar<strong>di</strong>to Piccar<strong>di</strong> era<br />

il protagonista del romanzo Il cielo e la terra <strong>di</strong> Carlo Coccioli)<br />

scrive: “Dato che la realtà è il segno utilizzato dalla verità per<br />

manifestarsi. Dato che la verità non si capisce ma si incontra.<br />

L'importante è che lo scrittore sia onesto. Onesto, artista, e per<br />

il resto libero <strong>di</strong> essere così com'è. Il mondo può <strong>di</strong>scutere, ma<br />

poi nella vita ci si innamora <strong>di</strong> <strong>un</strong>a donna brutta e stronza, <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> uomo che ci stava sulle palle, e si scopre <strong>un</strong> libro che ci<br />

tocca nervi sconosciuti. Credo si debba solo <strong>di</strong>stinguere tra<br />

letteratura e virtuo-trucchetti-simil-questo-o-quello. Se <strong>un</strong>o<br />

scrittore dà il sangue, quello è <strong>un</strong>o scrittore, anche se alla<br />

shampista non piace”.<br />

Che cosa, d<strong>un</strong>que, intendo suggerire, allineando questi<br />

estratti <strong>di</strong> reazioni al pezzo <strong>di</strong> Mauro Covacich? Una cosa sola.<br />

Quando l’autore si interroga su ciò che fa, e si azzarda a<br />

manifestare questo interrogarsi in pubblico, stia attento.<br />

Perché spesso l’autore si fa, su ciò che il suo lavoro è per i<br />

lettori, delle idee <strong>un</strong> pochettino immaginarie. Ma anche <strong>di</strong><br />

questo riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 51<br />

Buongiorno, buon febbraio. Ho due <strong>di</strong>scorsi in sospeso da<br />

riprendere. Sempre a proposito delle avventure e delle<br />

<strong>di</strong>savventure dell'autore.<br />

Due settimane fa vi parlavo <strong>di</strong> Vittorio Bianchi, autore del<br />

libro Io avrei voluto essere come quel passero (Theoria 1998).<br />

Vittorio Bianchi è ospite della Com<strong>un</strong>ità terapeutica<br />

residenziale protetta (Ctrp), ossia <strong>di</strong> quello che <strong>un</strong>a volta si<br />

chiamava Ospedale psichiatrico, <strong>di</strong> Padova. Il libro è composto<br />

<strong>di</strong> brevi testi, "temi" che Vittorio Bianchi ha composti durante<br />

le ore <strong>di</strong> <strong>un</strong> "<strong>corso</strong> <strong>di</strong> alfabetizzazione" svoltosi tra le mura del<br />

Ctrp.<br />

Concludevo domandando: “Vittorio Bianchi è <strong>un</strong> autore?”. La<br />

mia risposta è: “Sì, lo è”. La prefazione a quel libro, firmata da<br />

me e da Guido Solerti, insegnante <strong>di</strong> Vittorio Bianchi nel <strong>corso</strong><br />

<strong>di</strong> alfabetizzazione, cominciava con <strong>un</strong>'affermazione perentoria:<br />

“Vittorio Bianchi, ospite dell’ex Ospedale psichiatrico <strong>di</strong> Padova,<br />

oggi Com<strong>un</strong>ità terapeutica residenziale protetta, è <strong>un</strong>o<br />

scrittore”. Quella frase, nel <strong>corso</strong> <strong>di</strong> alc<strong>un</strong>i incontri che feci per<br />

promuovere il libro, suscitò reazioni piuttosto contrariate.<br />

“<strong>Non</strong> è <strong>un</strong>o scrittore”, mi si <strong>di</strong>ceva. “È <strong>un</strong> malato: <strong>un</strong> malato<br />

<strong>di</strong> mente”.<br />

126


Io m'incazzavo <strong>di</strong> brutto: “È <strong>un</strong>a persona umana o no? E se è<br />

<strong>un</strong>a persona umana, gode o non gode <strong>di</strong> tutti i <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

persona umana?”.<br />

“<strong>Non</strong> è questione <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto”, mi si rispondeva. “È che <strong>un</strong>a<br />

persona malata <strong>di</strong> mente non può avere quella serenità,<br />

quell'or<strong>di</strong>ne mentale, quella superiorità morale eccetera, che<br />

fanno <strong>di</strong> <strong>un</strong>a persona <strong>un</strong> autore, <strong>un</strong>o scrittore”.<br />

Era come invitarmi a nozze. Mi ero preparata <strong>un</strong>a lista <strong>di</strong><br />

artisti celeberrimi e acclamatissimi, nonché mentecatti,<br />

<strong>di</strong>sonesti, criminali, maniaci, alcolisti, tossici, pervertiti e così<br />

via. Ma c'era sempre quello che si alzava a <strong>di</strong>re: “Pren<strong>di</strong>amo<br />

Nietszche, ad esempio. A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to impazzì. Una volta<br />

impazzito, fu rinchiuso e non filosofò più”. Applausi dal<br />

pubblico.<br />

Mi giocavo l'ultima cartuccia: “Ma Nietszche non filosofò più<br />

perché era <strong>di</strong>ventato pazzo, o perché fu rinchiuso?”. La<br />

risposta era, solitamente: “Eh?”. Allora io passavo a illustrare il<br />

regime farmacologico me<strong>di</strong>o <strong>di</strong> <strong>un</strong> ospite <strong>di</strong> Ctrp, finendo con la<br />

storia (che non so se sia leggenda o verità) <strong>di</strong> quel poveretto<br />

che, avendo mangiato troppo panettone il giorno <strong>di</strong> Natale,<br />

ricevette <strong>un</strong>a bella purga il giorno <strong>di</strong> Santo Stefano; e, per la<br />

vischiosità farmacologica tipica <strong>di</strong> quegli ambienti, continuò poi<br />

a ricevere la purga, tutte le sere che <strong>di</strong>o mandava in terra, per<br />

anni.<br />

“Vittorio Bianchi è già dentro, però”, commentava sempre<br />

qualc<strong>un</strong>o. “E nonostante sia già dentro, ha scritte queste belle<br />

cose”. Perché, ovviamente, sulla bellezza (per quanto ingenua<br />

e strana) dei testi <strong>di</strong> Vittorio Bianchi, ness<strong>un</strong>o aveva niente da<br />

ri<strong>di</strong>re.<br />

Io stavo in silenzio. Lasciavo corda. E pian piano, usciva fuori<br />

<strong>un</strong>'altra ragione per cui non sembrava possibile, ai più,<br />

considerare Vittorio Bianchi <strong>un</strong> autore: “<strong>Non</strong> ha consapevolezza<br />

<strong>di</strong> quello che fa”.<br />

“Come, non ha consapevolezza!”, strillavo. “Ma sa benissimo<br />

quello che fa! Vi ho pur letto quel pezzo, dove <strong>di</strong>chiarava le sue<br />

intenzioni: "Quando scrivo, espongo le mie idee, avvenimenti,<br />

sentimenti, problemi, ecc.", "Secondo me, lo scrivere ad <strong>un</strong>a o<br />

più persone, è <strong>un</strong>a manifestazione d’affetto", "Mi piacerebbe,<br />

scrivere <strong>un</strong> libro, cioè, descrivere la mia vita vissuta"!”.<br />

“Sì, vabbè”, <strong>di</strong>ceva allora qualc<strong>un</strong>o. “Ma questa non è mica<br />

letteratura”.<br />

“Eh?”, <strong>di</strong>cevo io.<br />

“Ma sì”, continuava quello, “esporre idee, sentimenti,<br />

problemi, rivolgersi con affetto a qualc<strong>un</strong> altro, descrivere la<br />

propria vita vissuta!… <strong>Non</strong> è mica questo, la letteratura”.<br />

127


“E che cos'è, allora?”, <strong>di</strong>cevo io.<br />

“La letteratura è… è…”, la risposta magari non arrivava<br />

subito. Ma arrivava com<strong>un</strong>que presto, ed era sempre quella.<br />

“La letteratura è creazione, ecco! Ed esprime dei valori<br />

<strong>un</strong>iversali, in cui tutti si riconoscono!”.<br />

A quel p<strong>un</strong>to, domandavo quali fossero i valori <strong>un</strong>iversali. E<br />

veniva fuori: l'amore, l'amicizia, l'onestà, il coraggio, la<br />

purezza… E io allora <strong>di</strong> nuovo tiravo fuori l'elenco degli scrittori<br />

mentecatti e farabutti, e <strong>di</strong> nuovo si ricominciava a litigare…<br />

Perché, d<strong>un</strong>que, Vittorio Bianchi non riusciva a essere<br />

accettato come autore, scrittore? Secondo me, perché a<br />

Vittorio Bianchi, ospite del Ctrp <strong>di</strong> Padova, vivo e vegeto,<br />

vicino, talvolta presente a quegli incontri, risultava<br />

inapplicabile <strong>un</strong> equivoco. Quell'equivoco grazie al quale si<br />

concepisce l'autore, lo scrittore, come <strong>un</strong> essere <strong>di</strong>stante,<br />

“antropologicamente <strong>di</strong>verso dal resto dell'umanità” (come<br />

<strong>di</strong>rebbe l'attuale presidente del Consiglio dei ministri), più alto<br />

della me<strong>di</strong>a, circonfuso <strong>di</strong> luce, con i riccioli naturali eccetera.<br />

Equivoco che è ben ra<strong>di</strong>cato nel popolo dei lettori, e che molti<br />

autori ben volentieri coltivano. Equivoco che davvero, a volte,<br />

mi sembra più forte della realtà. Basta che pensi a quante sono<br />

le persone che si stupiscono che i cosiddetti scrittori abbiano<br />

<strong>un</strong> lavoro, <strong>un</strong> mutuo da pagare, la spesa da fare al Billa, dei<br />

problemi <strong>di</strong> prostata, dei figli che danno da pensare, e così via.<br />

Lo scrittore pazzo, criminale, o umanamente <strong>di</strong>sgustoso, non<br />

scalfisce questo equivoco se è sufficientemente <strong>di</strong>stante: se è<br />

morto da tempo, se abita a New York, se è ricchissimo <strong>di</strong><br />

famiglia, se va nella prima pagina <strong>di</strong> Gente e così via. Allora,<br />

grazie alla <strong>di</strong>stanza (umana, sociale ecc.) viene percepito come<br />

<strong>un</strong>o che fa certe cose perché è <strong>un</strong> artista, e ovviamente agli<br />

artisti si perdona tutto.<br />

Il povero Vittorio Bianchi, invece, non ha speranza. Poiché lui<br />

è lì, è visibile, è ospitato in quel determinato Ctrp, poiché ha in<br />

somma <strong>un</strong>a sua concretezza inequivocabile, non potrà mai<br />

<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong>o che fa certe cose perché è <strong>un</strong> artista. È, e<br />

continuerà a essere, <strong>un</strong> povero malato <strong>di</strong> mente. Quin<strong>di</strong> non gli<br />

si perdona niente: e anche il suo scrivere, il suo rivolgersi ad<br />

altri (la letteratura non è altro che questo: rivolgersi ad altri,<br />

non a me stesso ma ad altri) viene catalogato come pura e<br />

semplice curiosità, <strong>un</strong> lusus naturae. E lui non è <strong>un</strong>o scrittore,<br />

bensì <strong>un</strong> caso umano.<br />

L'altro <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> sospeso, lo ripiglio settimana prossima.<br />

128


Chiacchierata numero 52<br />

Buongiorno. Il tema è ancora: avventure e <strong>di</strong>savventure<br />

dell'autore. Un paio <strong>di</strong> settimane fa riferivo brevemente <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

articolo polemico (“Ho le vertigini da fiction”) pubblicato da<br />

Mauro Covacich nel settimanale L'Espresso (nel numero che è<br />

in e<strong>di</strong>cola da venerdì s<strong>corso</strong> trovate <strong>un</strong>a bella risposta <strong>di</strong> Carla<br />

Benedetti, eccellente critica letteraria); raccontavo <strong>di</strong> averlo<br />

s<strong>un</strong>teggiato e commentato nel mio <strong>di</strong>ario in rete (il cui in<strong>di</strong>rizzo<br />

è: http://giuliomozzi.clarence.com; ma credo che cambierà<br />

prossimamente, a causa <strong>di</strong> <strong>di</strong>sastri informatici non miei ma del<br />

portale Clarence, che non sto qui a contarvi); e infine riportavo<br />

alc<strong>un</strong>e reazioni <strong>di</strong> lettori.<br />

Il pezzo <strong>di</strong> Covacich <strong>di</strong>ceva in sostanza: Nel nostro tempo<br />

succede <strong>di</strong> tutto, sconvolgimenti sociali ed economici e politici,<br />

eppure pare che “gli scrittori italiani si sottraggono a tutto ciò”.<br />

E domandava Covacich: “Perché lo ignorano mentre<br />

raccontano le loro storie? […] Perché non riusciamo a prendere<br />

il mondo per le corna? Perché non riusciamo a raccontare<br />

storie - non importa se inventate, vere, realistiche, surreali - in<br />

grado <strong>di</strong> spremere la vita, <strong>di</strong> metterla sotto torchio?”.<br />

In alc<strong>un</strong>e delle reazioni <strong>di</strong> lettori che riportavo, compariva la<br />

parola: onestà. Ma che cos'è l'onestà per <strong>un</strong> narratore? (A<br />

parte l'ovvio: non passare col rosso, pagare giuste le tasse,<br />

non rapinare i supermercati, non spillare sol<strong>di</strong> agli assessorati<br />

in cambio <strong>di</strong> sinecure ecc.). Il lettore/scrittore che si firmava<br />

Demetrio, ad esempio, la definiva così: “Organizzare <strong>un</strong>a storia<br />

che abbia <strong>un</strong>a voce che sia sentita reale da parte <strong>di</strong> chi ci<br />

legge”.<br />

Ragioniamo: <strong>un</strong>a voce; che sia sentita reale; da parte <strong>di</strong> chi<br />

legge. Demetrio non <strong>di</strong>ce: <strong>un</strong>a voce che racconti <strong>un</strong>a storia<br />

reale, <strong>un</strong>a storia vera. Dice: <strong>un</strong>a voce che sia sentita reale.<br />

Conta la “realtà” della voce, non delle cose raccontate. Le cose<br />

raccontate potranno essere invenzione pura; la voce non deve<br />

essere contraffatta. Può sembrare <strong>un</strong> paradosso. Io, che sono<br />

capace <strong>di</strong> <strong>di</strong>re la verità e <strong>di</strong> mentire senza la minima <strong>di</strong>fferenza<br />

nella voce, ho il sospetto che sia davvero <strong>un</strong> paradosso.<br />

Tuttavia, a proposito <strong>di</strong> “realtà”, <strong>un</strong> altro lettore, che si<br />

firmava Mario Zero, <strong>di</strong>ceva: “La letteratura è l'opposto della<br />

realtà. Nella realtà, soprattutto in quella sociale, tutto appare<br />

confuso, insensato, mentre nell'arte le parole formano <strong>un</strong>a<br />

bellezza, <strong>un</strong> senso, ed è per questo che le amiamo”. E mi viene<br />

il dubbio che Mario Zero, in questa forma apo<strong>di</strong>ttica, esprima<br />

<strong>un</strong> desiderio che è il contrario <strong>di</strong> quello espresso da Demetrio;<br />

129


come se Mario Zero <strong>di</strong>cesse: voglio <strong>un</strong>a voce che non sia<br />

confusa e insensata, <strong>un</strong>a voce opposta alla realtà. Forzando:<br />

<strong>un</strong>a voce irreale.<br />

Ma <strong>un</strong> altro lettore, che si firmava con il nome <strong>di</strong> Ar<strong>di</strong>to<br />

Piccar<strong>di</strong>, sacerdote protagonista del romanzo <strong>di</strong> Carlo Coccioli Il<br />

cielo e la terra, tagliava corto e <strong>di</strong>ceva: “Se <strong>un</strong>o scrittore dà il<br />

sangue, quello è <strong>un</strong>o scrittore”. E mi par <strong>di</strong> capire che il “dare il<br />

sangue” sarebbe app<strong>un</strong>to il segno dell'onestà. Un'onestà<br />

ra<strong>di</strong>cale: che non si definisce, <strong>di</strong>rei, nel rispetto per gli altri;<br />

ma piuttosto nel rispetto per sé stessi quali creature e<br />

immagini <strong>di</strong> <strong>di</strong>o. Mi viene il dubbio che la parola “santità”<br />

potrebbe, a questo p<strong>un</strong>to, sostituire la parola “onestà”.<br />

D<strong>un</strong>que? Che strane richieste rivolgono i lettori agli autori, mi<br />

viene da pensare ogni volta che leggo cose del genere. Che<br />

strane richieste. Mi si chiede <strong>di</strong> essere onesto. Ma il romanzo<br />

non è per statuto <strong>un</strong>a finzione? E se fingo <strong>un</strong>a storia, non potrò<br />

fingere <strong>un</strong>a voce? L'esperienza della <strong>scrittura</strong> mi <strong>di</strong>ce: niente è<br />

più <strong>di</strong>vertente che fingere <strong>un</strong>a voce che suoni autentica; e<br />

niente è più istruttivo (per chi scrive e per chi legge) che<br />

fingere <strong>un</strong>a voce che suoni autentica (ossia: niente è più<br />

istruttivo che tentare, provvisoriamente e per finta, <strong>di</strong> essere<br />

<strong>un</strong> altro); e poche cose sono <strong>di</strong>fficili come fingere <strong>un</strong>a voce che<br />

suoni autentica. Potrei metterla così: sono <strong>di</strong>sponibile ad<br />

accettare l'onestà come <strong>un</strong> impegno verso il lettore. Ma vorrei<br />

tanto sapere come fa, <strong>un</strong> lettore, a decidere se la mia voce è<br />

“reale” o no.<br />

Mi si chiede <strong>di</strong> non ripetere la realtà, e <strong>di</strong> fornire piuttosto<br />

qualcosa che sia dotato <strong>di</strong> “bellezza” e “senso”. Il presupposto<br />

è che la “realtà” sia brutta e insensata. Ma allora sembra che ci<br />

sia <strong>un</strong> mondo reale <strong>di</strong> qua, valle <strong>di</strong> lacrime nella quale siamo<br />

costretti a vivere, e <strong>un</strong> mondo dell'arte <strong>di</strong> là, luogo <strong>di</strong> bellezza<br />

e <strong>di</strong> senso. E io vado in bestia. Perché se questo mondo è <strong>un</strong>a<br />

valle <strong>di</strong> lacrime, io vorrei farlo <strong>di</strong>ventare luogo <strong>di</strong> bellezza e <strong>di</strong><br />

senso. Se scrivendo produco <strong>un</strong>a bellezza e <strong>un</strong> senso che non<br />

si trovano nel mondo, mi sento come <strong>un</strong> profeta: <strong>un</strong>o che vede<br />

ciò che potrebbe essere. Ma ho imparato che i profeti non sono<br />

coloro che vedono (in anticipo) ciò che non è ancora; sono<br />

piuttosto coloro che vedono (qui, ora) ciò che è sotto gli occhi<br />

tutti e sfugge agli occhi <strong>di</strong> tutti.<br />

E infine, a chi mi chiede <strong>di</strong> dare il sangue, mi viene quasi da<br />

dare <strong>un</strong> rispostaccia. Perché non so quante volte sono stato<br />

avvicinato da lettori e lettrici che mi <strong>di</strong>cevano: “Ti sono grato,<br />

perché vedo che in quel tal libro, in quel tale racconto, in<br />

quella tal pagina, veramente hai dato il sangue” (o: hai messa<br />

a nudo la tua anima, eccetera; espressioni equivalenti). E io,<br />

130


naturalmente, sapevo che quel tal libro, quel tale racconto,<br />

quella tal pagina erano magari stati prodotti con <strong>un</strong> gioco<br />

combinatorio. Quegli stessi lettori e lettrici, poi, tendevano a<br />

dare per scontato che qual<strong>un</strong>que storia io avessi raccontata,<br />

fosse <strong>un</strong>a storia accaduta a me. E allora <strong>di</strong>co: sospetto che<br />

questa richiesta <strong>di</strong> “dare il sangue” sia semplicemente <strong>un</strong>a<br />

richiesta <strong>di</strong> “uscire dalla letteratura” e “<strong>di</strong>re la verità<br />

dell'esperienza”.<br />

Di quest'ultima cosa riparliamo tra <strong>un</strong>a settimana. E poi<br />

cercherò <strong>di</strong> tirare le fila <strong>di</strong> questa questione, che in sostanza si<br />

può riassumere così (credo): com'è che i lettori si immaginano<br />

che la <strong>scrittura</strong> sia per gli scrittori <strong>un</strong>a certa cosa, e gli scrittori<br />

(io compreso) invece <strong>di</strong>cono che è tutt'altra cosa? Come fanno<br />

a essere così <strong>di</strong>fferenti, le due esperienze? Arrivederci.<br />

Chiacchierata numero 53<br />

Saluti a tutti e tutte. La settimana scorsa finivo il mio pezzo<br />

con questa domanda. “Com'è che i lettori si immaginano che la<br />

<strong>scrittura</strong> sia per gli scrittori <strong>un</strong>a certa cosa, e gli scrittori (io<br />

compreso) invece <strong>di</strong>cono che è tutt'altra cosa? Come fanno a<br />

essere così <strong>di</strong>fferenti, le due esperienze?”.<br />

Magari voi vi aspettate che io sappia la risposta alla domanda.<br />

E invece no. Ci ho pensato su (ci ho pensato, in particolare,<br />

mercoledì mattina tra le sette e le nove - mentre andavo a<br />

Milano in treno - e domenica mattina tra le <strong>un</strong><strong>di</strong>ci e le quattro -<br />

mentre tornavo da Napoli in treno), e non mi è venuta in<br />

mente <strong>un</strong>a risposta sensata.<br />

In altri momenti della settimana ho provato ad affrontare la<br />

questione <strong>di</strong>versamente: ho domandato a <strong>un</strong> certo numero <strong>di</strong><br />

lettori puri che cosa pensassero che fosse, per <strong>un</strong>o scrittore, in<br />

generale, la <strong>scrittura</strong>: l'attività dello scrivere. E ho ricevute<br />

risposte così <strong>di</strong>verse, da non sapere che cosa concluderne.<br />

Allora provo a improvvisare, in parte ripetendo cose che ho<br />

già dette nelle prime p<strong>un</strong>tate (<strong>un</strong> anno fa!) <strong>di</strong> questa rubrica.<br />

A tanti sarà capitato <strong>di</strong> sentirsi <strong>di</strong>re: “Se vuoi scrivere, allora<br />

leggi!”. Che è <strong>un</strong>'affermazione sacrosanta, ma sacrosanta fino<br />

a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to.<br />

Giacomo Leopar<strong>di</strong> faceva <strong>di</strong>re a <strong>un</strong> personaggio delle sue<br />

Operette morali: “A conoscere perfettamente i pregi <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong>’opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace veramente<br />

dell’immortalità, non basta essere assuefatto a scrivere, ma<br />

bisogna saperlo fare quasi così perfettamente come lo scrittore<br />

131


medesimo che hassi a giu<strong>di</strong>care. […] L’uomo non gi<strong>un</strong>ge a<br />

poter <strong>di</strong>scernere e gustare compiutamente l’eccellenza degli<br />

scrittori ottimi, prima che egli acquisti la facoltà <strong>di</strong> poterla<br />

rappresentare negli scritti suoi: perché quell’eccellenza non si<br />

conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell’uso e<br />

dell’esercizio proprio, e quasi, per così <strong>di</strong>re, trasferita in se<br />

stesso”.<br />

Allo stesso modo si potrebbe <strong>di</strong>re (e faccio questi esempi<br />

perché l'affermazione del personaggio <strong>di</strong> Leopar<strong>di</strong> non suoni<br />

troppo bizzarra) che solo <strong>un</strong> cuoco potrà apprezzare fino in<br />

fondo la qualità <strong>di</strong> certi piatti, e solo <strong>un</strong> calciatore potrà<br />

apprezzare fino in fondo la qualità <strong>di</strong> <strong>un</strong> dribbling.<br />

Ma, <strong>di</strong> nuovo, an<strong>di</strong>amo a sbattere contro <strong>un</strong>a tautologia<br />

(tautologia è il <strong>di</strong>re la stessa cosa in altri termini). Le due<br />

esperienze, della lettura e della <strong>scrittura</strong>, sono <strong>di</strong>fferenti. Su<br />

questo non ci piove. Chi pratica, magari intensivamente o<br />

professionalmente, <strong>un</strong>a certa attività, saprà osservare la stessa<br />

attività, svolta da altri, con particolare attenzione e<br />

comprensione.<br />

A questo p<strong>un</strong>to mi domando perché la domanda posta alla<br />

fine del pezzo della settimana scorsa, e all'inizio <strong>di</strong> questo<br />

stesso pezzo, m'importi così tanto.<br />

E mi viene <strong>un</strong>a risposta non tanto simpatica. Però siccome mi<br />

è venuta, e siccome ci ho girato attorno tutta la settimana,<br />

decido <strong>di</strong> <strong>di</strong>rla.<br />

La <strong>scrittura</strong> è probabilmente il mezzo <strong>di</strong> produzione artistica<br />

più economico. Bastano carta e penna, basta <strong>un</strong> computer che<br />

oggi ce l'hanno tutti. Basta avere tempo. <strong>Non</strong> servono tanti<br />

sol<strong>di</strong>. La scultura è decisamente più onerosa, per non parlare<br />

del cinema; e così via.<br />

La <strong>scrittura</strong>, poi, è probabilmente anche il mezzo <strong>di</strong><br />

produzione artistica più ibrido. <strong>Non</strong> si scrive solo per fare<br />

produzione artistica; si scrive per centomila altre ragioni. Io<br />

stesso, qui, mentre scrivo questo articolo - che spero venga<br />

bene perché mi sono preso tar<strong>di</strong> e lo sto facendo <strong>di</strong> corsa, non<br />

ho tanto tempo per pensare a quello che <strong>di</strong>co - non ho certo in<br />

mente <strong>di</strong> fare dell'arte. Sto scrivendo <strong>un</strong> articolo. E stamattina<br />

ho scritte altre cose, avendo in mente <strong>di</strong> tutto fuorché <strong>di</strong> fare<br />

dell'arte.<br />

Difronte ai miei amici pittori, io devo confessare: non riesco a<br />

immaginare che cosa passi loro per la testa. L'altra sera ho<br />

visto <strong>un</strong> film nel quale ho avuta <strong>un</strong>a particina (Primo amore <strong>di</strong><br />

Matteo Garrone; con Michela Cescon e Vitaliano Trevisan<br />

protagonisti; molto bello, secondo me) e mi sono reso conto<br />

che, anche se sono stato <strong>un</strong> po' sul set, anche se ho visto <strong>un</strong><br />

132


po' (<strong>un</strong> po') lavorare gli sceneggiatori (gli stessi Garrone e<br />

Trevisan, più Massimo Gau<strong>di</strong>oso), com<strong>un</strong>que non sono in grado<br />

<strong>di</strong> immaginare che cosa passi per la testa del regista. Quando<br />

giravamo le due scenette in cui ci sono anch'io, vedevo il<br />

regista andare <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là, aprire e chiudere porte, muovere<br />

la macchina; e non capivo che cosa succedeva. Il risultato<br />

visivo <strong>di</strong> quelle due scene, visto al cinema, non c'entra niente<br />

con ciò che io avevo visto sul set mentre provavamo e<br />

riprovavamo.<br />

Invece, mi rendo conto che questa sensazione <strong>di</strong> non riuscire<br />

a immaginare, ben pochi ce l'hanno nei confronti della<br />

<strong>scrittura</strong>. Ogni volta che, iniziando <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong>,<br />

faccio ai partecipanti quelle due o tre domande che servono a<br />

conoscersi, a <strong>di</strong>re perché si è lì e che cosa ci si aspetta, mi<br />

rendo conto che quasi ness<strong>un</strong>o pensa al narrare e allo scrivere<br />

come ad attività misteriose. No: per quasi tutti il narrare e lo<br />

scrivere sono cose ben chiare; e a me, conduttore del<br />

laboratorio, si chiede solo <strong>di</strong> insegnare <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> “trucchi del<br />

mestiere”. Dicono così: “trucchi del mestiere”.<br />

E allora azzardo <strong>un</strong>a doppia risposta, magari <strong>un</strong> po'<br />

paradossale.<br />

I cosiddetti scrittori <strong>di</strong>fendono la specificità del loro mezzo <strong>di</strong><br />

produzione artistica, sostanzialmente in<strong>di</strong>stinguibile dalla<br />

<strong>scrittura</strong> che com<strong>un</strong>emente tanti usano, ammantandolo <strong>di</strong><br />

mistero. Hanno bisogno <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che la loro <strong>scrittura</strong> è <strong>un</strong>'altra<br />

cosa, è sempre <strong>un</strong>'altra cosa; perché devono <strong>di</strong>stinguerla dalla<br />

<strong>scrittura</strong> <strong>di</strong> tutti.<br />

E i lettori, da parte, loro, cadono nell'inganno simmetrico: <strong>di</strong><br />

identificare troppo imme<strong>di</strong>atamente la <strong>scrittura</strong> come mezzo <strong>di</strong><br />

produzione artistica con la <strong>scrittura</strong> che più o meno tutti, per<br />

<strong>un</strong> verso o per l'altro, per <strong>un</strong>o scopo o per <strong>un</strong> altro,<br />

pratichiamo. E quin<strong>di</strong> non vedono le <strong>di</strong>fferenze per eccesso <strong>di</strong><br />

sbrigatività.<br />

Ma mi viene il dubbio <strong>di</strong> avere scritte delle fesserie. Perciò<br />

invito chi sia arrivato a leggere fin qui, a scrivermi che cosa ne<br />

pensa. Usate la posta elettronica, l'in<strong>di</strong>rizzo è:<br />

giuliomozzi@libero.it. Buona settimana.<br />

133


Chiacchierata numero 54<br />

Buondì. La settimana scorsa finivo il mio pezzo rilanciando la<br />

domanda: “Com'è che i lettori si immaginano che la <strong>scrittura</strong><br />

sia per gli scrittori <strong>un</strong>a certa cosa, e gli scrittori (io compreso)<br />

invece <strong>di</strong>cono che è tutt'altra cosa? Come fanno a essere così<br />

<strong>di</strong>fferenti, le due esperienze?”.<br />

Ho ricevute alc<strong>un</strong>e risposte.<br />

Adriana Di Grazia scrive tra le altre cose: “La passione per la<br />

<strong>scrittura</strong> o si ha o non si ha. <strong>Non</strong> si può inventare. Si inizia sui<br />

banchi <strong>di</strong> scuola a scoprire quell’inclinazione che poi si<br />

sostanzia riempendo pagine bianche <strong>di</strong> quaderni o <strong>di</strong> <strong>di</strong>ari, <strong>di</strong><br />

emozioni traboccanti, costruendo storie che si vorrebbe vivere,<br />

volando con la fantasia. Io ritengo che la <strong>scrittura</strong> sia <strong>un</strong>a<br />

forma <strong>di</strong> rigenerazione. Penso che lo scrittore, narrando <strong>un</strong>a<br />

storia, realmente accaduta o tratta dalla fantasia, si incarni nei<br />

personaggi ritrovandosi a vivere <strong>un</strong>’altra vita, dal principio alla<br />

fine, con tutte le passioni e i sentimenti che sono celati<br />

nell’animo. Praticamente, a mio avviso, allo scrittore è<br />

concesso vivere <strong>un</strong>a, due <strong>di</strong>eci, cento vite attraverso<br />

personaggi <strong>di</strong>versi, arrivando ad essere ciò che sarebbe voluto<br />

essere e non è stato, assaporando quasi la vita e le emozioni<br />

che avrebbe voluto provare e che non ha provato e non<br />

proverà mai. Ed alla fine della storia, sentirsi appagato, ed<br />

avere voglia <strong>di</strong> ricominciare nuovamente. Ciò è proprio <strong>di</strong> chi<br />

non si accontenta <strong>di</strong> vivere <strong>un</strong>a sola vita”.<br />

Gabriella dell'Aria scrive tra le altre cose: “Da <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> anni<br />

scrivo, ho iniziato per mettermi alla prova, per vedere se<br />

riuscivo a creare <strong>un</strong>a storia, a portarla avanti in modo coerente<br />

per <strong>un</strong> centinaio <strong>di</strong> pagine ed a concluderla, l'ho fatto. Ne ho<br />

iniziata <strong>un</strong>'altra. Esiste <strong>un</strong>a profonda <strong>di</strong>fferenza tra ciò che ho<br />

scritto "dando il sangue" e quello che invece é stato elaborato<br />

freddamente dal cervello; nel primo caso si tratta <strong>di</strong> frasi brevi,<br />

essenziali, che fissano emozioni senza che chi le legga possa<br />

"sentirle", così non è per le seconde. Allora mi viene da<br />

chiedere: non è forse scrivendo con il massimo impegno<br />

intellettivo l'<strong>un</strong>ico modo <strong>di</strong> "dare il sangue"? […] Mi domando<br />

che tipo <strong>di</strong> lettrice sono: non ho mai letto <strong>un</strong> romanzo<br />

chiedendomi quali pensieri attraversassero la mente <strong>di</strong> colui<br />

che, con la sua maestria, sta momentaneamente irretendo la<br />

mia, né prima, né durante né tantomeno dopo che avesse<br />

scritto, posso chiedermelo per <strong>un</strong>a poesia, per <strong>un</strong> quadro, ma il<br />

romanzo credo nasca da <strong>un</strong> progetto più ampio e complesso<br />

che può essere molto <strong>di</strong>verso da quello che ogn<strong>un</strong>o <strong>di</strong> noi<br />

134


percepisce leggendolo, in ciasc<strong>un</strong>o tocca corde <strong>di</strong>verse”.<br />

Mauro Mirci mi scrive <strong>un</strong>a l<strong>un</strong>ga e bella lettera, dalla quale<br />

estraggo solo le tre “risposte elementari” (<strong>un</strong>a principale, e due<br />

<strong>di</strong> riserva) conclusive: “Se scrivere è <strong>un</strong>’attività misteriosa,<br />

praticata da iniziati per il tramite <strong>di</strong> altrettanto misteriosi riti,<br />

allora solo chi ha partecipato - anche inconsapevolmente - a<br />

tali riti sarebbe legittimato a <strong>di</strong>rsi scrittore. Resterebbero<br />

esclusi gli altri, gli scriventi, capaci <strong>di</strong> scrivere, sì, ma non <strong>di</strong><br />

trasmettere per il tramite della <strong>scrittura</strong>. Ma se è misteriosa<br />

l’attività, e sono misteriosi i riti, allora in base a quali<br />

<strong>di</strong>scriminanti lo scrivente sarebbe in grado <strong>di</strong> percepire il<br />

proprio transito alle qualità <strong>di</strong> scrittore?<br />

“La mia prima risposta elementare. <strong>Non</strong> è possibile<br />

in<strong>di</strong>viduare tali <strong>di</strong>scriminanti con sicurezza: trattandosi <strong>di</strong><br />

attività misteriosa è impossibile determinarne i parametri<br />

fondamentali.<br />

“Risposte <strong>di</strong> riserva.<br />

“La mia seconda risposta elementare. La domanda è mal<br />

posta. Riformularla.<br />

“La mia terza risposta elementare. Abbiamo imparato<br />

l’alfabeto a scuola. Serve a com<strong>un</strong>icare. Trasmettere è <strong>un</strong>’altra<br />

cosa. Conosco molte persone che sono capaci <strong>di</strong> trasmettere in<br />

maniera incre<strong>di</strong>bilmente efficace, e alc<strong>un</strong>e <strong>di</strong> esse sono, o sono<br />

state, analfabete. Sono state perché morte, o perché hanno poi<br />

imparato a leggere, scrivere e far <strong>di</strong> conto. <strong>Non</strong> ti sei mai<br />

chiesto quali incre<strong>di</strong>bili e misteriose qualità possegga <strong>un</strong> bimbo<br />

in fasce per trasmetterti i suoi bisogni? Trasmetterti, non solo<br />

com<strong>un</strong>icarti. Quando <strong>un</strong> bambino trasmette <strong>un</strong> bisogno non lo<br />

fa solo attraverso <strong>un</strong>a forma <strong>di</strong> com<strong>un</strong>icazione (il pianto) ma<br />

anche ingenerando nel genitore ansia, paura, irrequietezza.<br />

Coinvolge, cioè, il suo interlocutore nella maniera più assoluta<br />

e intima. <strong>Non</strong> fa o stesso lo scrittore?”.<br />

<strong>Non</strong> penso che lo scrivere sia <strong>un</strong>a “attività misteriosa,<br />

praticata da iniziati”. Sono convinto ad<strong>di</strong>rittura che solo chi<br />

riesce a pensare allo scrivere e al narrare senza percepire<br />

ness<strong>un</strong> mistero nello scrivere e nel narrare, anzi<br />

immaginandoselo come <strong>un</strong> fatto molto pratico, come <strong>un</strong>a cosa<br />

che normalmente si fa, abbia la possibilità <strong>di</strong> fare <strong>un</strong>o scatto in<br />

avanti.<br />

<strong>Non</strong> so se il narratore si “incarni nei personaggi ritrovandosi a<br />

vivere <strong>un</strong>’altra vita”. La mia esperienza è piuttosto il contrario<br />

(ma forse è solo <strong>un</strong>a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> formulazione): nel momento<br />

in cui mi sono reso conto che era la mia vita, quella che si<br />

esponeva nella <strong>narrazione</strong>, e che quanto più mi davo da fare<br />

con l'invenzione tanto più era la mia persona (<strong>un</strong> fantasma<br />

135


della mia persona) che si ritrovava ricostruita nella pagina, in<br />

quel momento mi è sembrato che cambiasse tutto, e che il<br />

narrare <strong>di</strong>ventasse <strong>un</strong>a cosa seria.<br />

E ho il sospetto che sì, che forse davvero “scrivere con il<br />

massimo impegno intellettivo è l'<strong>un</strong>ico modo <strong>di</strong> "dare il<br />

sangue"”. La lingua, le forme della <strong>narrazione</strong>, sono cose della<br />

mia mente. Sono separate dal mio corpo. Finché non vedo<br />

questa separazione, finché non le percepisco come attrezzi e<br />

strumenti, protesi del corpo (e pertanto <strong>di</strong>stinte dal corpo,<br />

fabbricate), io resto nella confusione.<br />

Un esempio sciocco. Una volta <strong>un</strong>a signora protestò perché mi<br />

aveva inviati dei racconti, e io non l'avevo degnata <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

risposta. Io <strong>di</strong>ssi che ritenevo mio <strong>di</strong>ritto rispondere a chi mi<br />

pareva. Qualche minuto dopo la signora parlò dei suoi scritti in<br />

termini <strong>di</strong> “vomitature” della sua anima. Questo è <strong>un</strong> esempio<br />

<strong>di</strong> confusione.<br />

Chi volesse intervenire mi scriva: giuliomozzi@libero.it.<br />

Chiacchierata numero 55<br />

Buondì. Va bene, va bene, si cambia argomento. Qualche<br />

lettore mi ha fatto notare che il tema "avventure e<br />

<strong>di</strong>savventure dell'autore" era <strong>un</strong> tantino vago e decisamente<br />

poco pratico. Sono d'accordo. È che credo che ogni tanto, nel<br />

parlare <strong>di</strong> come e <strong>di</strong> perché (“perché” sia nel senso <strong>di</strong>: “per<br />

quale ragione”, sia nel senso <strong>di</strong> “con quale scopo”) si scrive, ci<br />

si possa concedere il lusso <strong>di</strong> andare <strong>un</strong> po' a campi, <strong>di</strong> avviare<br />

riflessioni delle quali non si conosce l'esito, <strong>di</strong> interrogarsi sui<br />

massimi sistemi. E quin<strong>di</strong> su questa o su altre questioni<br />

generalissime, capiterà <strong>di</strong> tornarci.<br />

Oggi però, per compensazione, proviamo ad andare sul<br />

pratico. Parliamo del <strong>di</strong>alogo. La domanda: “Come si fa a fare<br />

<strong>un</strong> buon <strong>di</strong>alogo?” è tra quelle che più spesso mi sento<br />

rivolgere. Provo a rispondere con <strong>un</strong> esempio. Quello che<br />

segue è <strong>un</strong> brano <strong>di</strong> <strong>un</strong> romanzo ine<strong>di</strong>to (e ancora incompiuto,<br />

a <strong>di</strong>re il vero) scritto da <strong>un</strong> giovane secondo me piuttosto<br />

bravo (e che ha data la sua autorizzazione a questo esercizio<br />

pubblico).<br />

Quando Juan uscì dalla camera, spettinato e assonnato venne<br />

in cucina per riempirsi <strong>un</strong> bicchiere con dell’acqua del<br />

rubinetto.<br />

“Guarda che ho comprato da bere” gli <strong>di</strong>co<br />

136


Con gli occhi assonnati mi guarda “Che c’è da bere?”.<br />

“Ma ve<strong>di</strong> <strong>un</strong> po’ te… Martini, Gin, vino bianco, dovrebbe<br />

essere avanzata della crema al wiskey”.<br />

“Qualcosa che non contenga alcol, che so Coca cola, <strong>un</strong>a<br />

Fanta, cedrata?”.<br />

“Senti caro apri il frigo, gli analcolici li portano le ragazze, fai<br />

<strong>un</strong> salto giù e chie<strong>di</strong> a loro”.<br />

Juan prende <strong>un</strong> bicchiere dalla credenza si versa del Martini e<br />

apre la porta <strong>di</strong> casa e scende le scale.<br />

Lascia la porta aperta e sento le sue ciabatte <strong>di</strong> plastica che<br />

sbattono per i gra<strong>di</strong>ni.<br />

Dopo qualche minuto risale, ha in mano <strong>un</strong>a bottiglia <strong>di</strong><br />

gassosa, si siede su <strong>un</strong>a se<strong>di</strong>a in cucina e mescola la gassosa<br />

al Martini.<br />

“C’è <strong>un</strong>’aria <strong>un</strong> po’ tesa giù” <strong>di</strong>ce<br />

“Che succede?” gli chiedo.<br />

“Boh… e che ne so, io sono solo andato in cucina a prendere<br />

questa bottiglia, le ragazze erano in salotto come se stessero<br />

in ri<strong>un</strong>ione, parlavano <strong>di</strong> sol<strong>di</strong>”.<br />

“Ma tu non hai chiesto niente? Che ne so’ <strong>un</strong>a cosa così per<br />

<strong>di</strong>re, tanto per gentilezza”.<br />

“Ma io sono sceso solo per la gassosa” mi risponde<br />

mescolando il suo drink.<br />

“Va beh ci <strong>di</strong>ranno tra <strong>un</strong> po’, anzi fai <strong>un</strong>a cosa scen<strong>di</strong> giù <strong>di</strong><br />

nuovo e vai a <strong>di</strong>re che se vogliono qui è pronto e possono<br />

salire”.<br />

“Adesso?” chiede Juan<br />

“Sì adesso, dai sono quasi le nove”.<br />

“Va beh aspetta che finisco il mio sbattutino”.<br />

“Dai Juan butta giù tutto in <strong>un</strong> sorso e valle a chiamare” <strong>di</strong>co<br />

mentre porto in tavola del grana e del salame.<br />

Juan butta giù e poi apre la bottiglia <strong>di</strong> Gin, si versa <strong>un</strong> paio <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ta sullo stesso bicchiere, riapre la porta, scende le scale con<br />

lo stesso rumore <strong>di</strong> poco prima, risale le scale, chiude la porta<br />

con il gomito perché in <strong>un</strong>a mano ha il bicchiere con il Gin e<br />

nell’altra <strong>un</strong>a bottiglia <strong>di</strong> coca, si siede al tavolo della cucina,<br />

versa <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> coca nel bicchiere e mescola.<br />

“Juan le hai chiamate o sei solo andato a prenderti la coca?”.<br />

“Le ho chiamate arrivano appena finiscono” mi risponde<br />

mentre mescola con <strong>un</strong> cucchiaino il suo gin e cola.<br />

“Finiscono cosa?” chiedo<br />

“Finiscono la loro ri<strong>un</strong>ione” risponde<br />

“Ah ma allora è <strong>un</strong>a cosa seria, boh chissà cosa sarà<br />

successo”.<br />

137


E questo è lo stesso brano riveduto e corretto:<br />

Quando Juan uscì dalla camera, spettinato e assonnato venne<br />

in cucina per riempirsi <strong>un</strong> bicchiere con dell’acqua del<br />

rubinetto.<br />

“Guarda che ho comprato da bere” gli <strong>di</strong>co<br />

Mi guarda con gli occhi assonnati.<br />

“Martini, Gin, vino bianco”, gli <strong>di</strong>co. “Dovrebbe essere<br />

avanzata della crema al wiskey”.<br />

“Qualcosa che non contenga alcol?”.<br />

“Gli analcolici li portano le ragazze. Fa'i <strong>un</strong> salto giù e chie<strong>di</strong> a<br />

loro”.<br />

Juan prende <strong>un</strong> bicchiere dalla credenza, si versa del Martini e<br />

apre la porta <strong>di</strong> casa.<br />

Sento le sue ciabatte <strong>di</strong> plastica che sbattono per i gra<strong>di</strong>ni.<br />

Dopo qualche minuto risale, ha in mano <strong>un</strong>a bottiglia <strong>di</strong><br />

gassosa, si siede su <strong>un</strong>a se<strong>di</strong>a in cucina e mescola la gassosa<br />

al Martini.<br />

“C’è <strong>un</strong>’aria <strong>un</strong> po’ tesa giù” <strong>di</strong>ce<br />

“Che succede?” gli chiedo.<br />

“Le ragazze erano in salotto come se stessero in ri<strong>un</strong>ione,<br />

parlavano <strong>di</strong> sol<strong>di</strong>”.<br />

“Ma tu non hai chiesto niente”.<br />

“Io sono solo andato in cucina a prendere questa bottiglia”,<br />

mi risponde mescolando il suo drink.<br />

“Fa' <strong>un</strong>a cosa: scen<strong>di</strong> giù <strong>di</strong> nuovo e vai a <strong>di</strong>re che se vogliono<br />

qui è pronto”.<br />

“Adesso?” chiede Juan<br />

“Sono quasi le nove”.<br />

“Finisco il mio sbattutino”.<br />

“Dai Juan, valle a chiamare” <strong>di</strong>co mentre porto in tavola del<br />

grana e del salame.<br />

Juan butta giù e poi apre la bottiglia <strong>di</strong> Gin, si versa <strong>un</strong> paio <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ta sullo stesso bicchiere, riapre la porta, scende le scale con<br />

lo stesso rumore <strong>di</strong> poco prima, risale le scale, chiude la porta<br />

con il gomito perché in <strong>un</strong>a mano ha il bicchiere con il Gin e<br />

nell’altra <strong>un</strong>a bottiglia <strong>di</strong> coca, si siede al tavolo della cucina,<br />

versa <strong>un</strong> po’ <strong>di</strong> coca nel bicchiere e mescola.<br />

“Le hai chiamate o sei solo andato a prenderti la coca?”.<br />

“Arrivano appena finiscono” mi risponde mentre mescola con<br />

<strong>un</strong> cucchiaino il suo gin e cola.<br />

“Finiscono cosa?” chiedo<br />

“La ri<strong>un</strong>ione” risponde.<br />

“Ma allora è <strong>un</strong>a cosa grave”.<br />

138


La prima versione del brano conta 1.811 battute. La seconda,<br />

1.475. Circa il 19% <strong>di</strong> meno.<br />

Che cosa è stato eliminato? Dal p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista del senso,<br />

niente. Sono state eliminate solo le ridondanze. Le ridondanze<br />

sono quelle battute <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo che possiamo presumere che il<br />

lettore si "fabbricherà" da sé; e che quin<strong>di</strong> non c'è bisogno <strong>di</strong><br />

mettere nero su bianco. Oppure quelle battute che non portano<br />

ness<strong>un</strong>a informazione: né per il loro contenuto, né per ciò che<br />

rivelano sul comportamento dei personaggi.<br />

Ad esempio: la continua riluttanza <strong>di</strong> Juan a rispondere<br />

<strong>di</strong>rettamente alle domande che il personaggio-narratore gli fa,<br />

è <strong>un</strong> tratto caratteristico del personaggio. Quin<strong>di</strong> se le ultime<br />

battute fossero state risolte in <strong>un</strong>o scambio del tipo: “Arrivano<br />

appena finiscono la ri<strong>un</strong>ione”, “Ma allora è <strong>un</strong>a cosa grave”,<br />

non avremmo persa ness<strong>un</strong>a informazione sul contenuto, ma<br />

avremmo persa <strong>un</strong>'informazione sul comportamento <strong>di</strong> Juan.<br />

Ma è possibile stabilire le regole <strong>di</strong> <strong>un</strong> buon <strong>di</strong>alogo? Ci<br />

proveremo la settimana prossima.<br />

Chiacchierata numero 56<br />

Buongiorno a tutte e tutti. Avevamo cominciato a parlare <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>alogo. An<strong>di</strong>amo avanti. Prima <strong>di</strong> tutto facciamo <strong>un</strong>a<br />

<strong>di</strong>stinzione. È <strong>un</strong> po' accademica, ma portate pazienza.<br />

Una <strong>narrazione</strong> è <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong>. Quando <strong>di</strong>co: “Cappuccetto<br />

Rosso uscì <strong>di</strong> casa alle <strong>di</strong>eci del mattino e s'incamminò,<br />

attraverso il bosco, verso casa della nonna”, è chiaro che sto<br />

narrando.<br />

Ma quando <strong>di</strong>co: “"Sai nonna", <strong>di</strong>sse Cappuccetto Rosso alla<br />

nonna, "l<strong>un</strong>go la strada ho incontrato <strong>un</strong>o strano tipo che mi<br />

ha fatto <strong>un</strong> sacco <strong>di</strong> domande"”, che cosa sto facendo? Sembra<br />

chiaro: sto narrando <strong>di</strong> Cappuccetto Rosso che <strong>di</strong>ce… Che cosa<br />

<strong>di</strong>ce? Dice quel che ha detto: l'ho sentito con le mie orecchie<br />

(ero <strong>un</strong>a mosca nella stanza, avevo <strong>un</strong> microregistratore). Le<br />

frasi tra virgolette (ma se le virgolette, per <strong>un</strong>a bizzarria mia,<br />

mancassero, la cosa non sarebbe <strong>di</strong>versa) in cui è scritto ciò<br />

che Cappuccetto Rosso <strong>di</strong>sse, hanno <strong>un</strong>o statuto <strong>di</strong>verso dalle<br />

frasi in cui il narratore (<strong>un</strong> narratore anonimo, oppure <strong>un</strong> "io"<br />

che racconta: è uguale) <strong>di</strong>ce che Cappuccetto Rosso fece<br />

questo e fece quello, ubbidì e <strong>di</strong>subbidì alla mamma.<br />

In che senso le frasi tra virgolette hanno <strong>un</strong>o statuto <strong>di</strong>verso?<br />

Be', perché sono parole <strong>di</strong> Cappuccetto Rosso: mica parole del<br />

narratore.<br />

139


Provo a spiegare con due esempi. Primo esempio: “"Ciò,<br />

nóna”, <strong>di</strong>sse Cappuccetto Rosso alla nonna, "a gò incrozà par<br />

via <strong>un</strong> mèco stranbo, c'al me gà impenìo de questióni”. Questo,<br />

perdonate il regionalismo, è <strong>un</strong> Cappuccetto Rosso che parla<br />

pressappoco in lingua veneta. Il narratore, invece, parla in<br />

lingua italiana. Si potrebbe anche invertire l'esempio: “"Sai<br />

nonna", gà <strong>di</strong>to Baréta Rossa, "l<strong>un</strong>go la strada…"” eccetera.<br />

La lingua del narratore e la lingua del personaggio, in<br />

sostanza, possono essere molto <strong>di</strong>verse.<br />

Secondo esempio. Molti hanno letto, e forse tutti i lettori<br />

avranno almeno sfogliato, quel romanzo <strong>di</strong> Hermann Hesse che<br />

s'intitola Il lupo della steppa (Oscar Mondadori). Il lupo della<br />

steppa è <strong>un</strong> libro che contiene <strong>un</strong> altro libro: che s'intitola,<br />

curiosamente, Il lupo della steppa. Oppure: Ivan Karamàzov è<br />

autore d'<strong>un</strong> poema intitolato Il grande inquisitore, e Alësa<br />

Karamàzov è autore <strong>di</strong> <strong>un</strong>a biografia del santo monaco Zosìma.<br />

Ambedue i testi (quello <strong>di</strong> Alësa riportato pari pari, quello <strong>di</strong><br />

Ivan "raccontato in prosa" da Ivan al fratello Dimitri) nel libro<br />

<strong>di</strong> Fëdor Dostoevskij I fratelli Karamàzov.<br />

Ora, chi sono gli autori <strong>di</strong> questi libri, poemi e agiografie? “Ma<br />

è evidente”, <strong>di</strong>rà qualc<strong>un</strong>o, “gli autori sono Hermann Hesse e<br />

Fëdor Dostoevskij”. E invece no. <strong>Non</strong> voglio negare che quelle<br />

pagine siano state scritte materialmente da Hermann Hesse e<br />

Fëdor Dostoevskij. Fatto sta che loro non ne sono gli autori. Gli<br />

autori sono questo e quel fratello Karamàzov, nel caso <strong>di</strong><br />

Dostoevskij, e non-mi-ricordo-più-come-si-chiama nel caso <strong>di</strong><br />

Hermann Hesse (portate pazienza: ho appena cambiato casa, i<br />

libri sono ancora tutti negli scatoloni).<br />

Facciamo <strong>un</strong> piccolo sforzo: e ci ren<strong>di</strong>amo conto che anche le<br />

battute <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>di</strong>alogo, benché siano state materialmente scritte<br />

da colui che firma il romanzo, hanno come autori i personaggi<br />

che le pron<strong>un</strong>ciano. Cappuccetto Rosso è autore delle sue<br />

battute, il lupo delle sue, la nonna delle sue, e così via.<br />

“Bene”, <strong>di</strong>rà il qualc<strong>un</strong>o <strong>di</strong> cui sopra, “e a che cosa mi serve<br />

sapere questo? Sapevo già che ogni personaggio deve parlare<br />

con <strong>un</strong>a voce sua”. Oh, in somma, adesso lo sappiamo meglio.<br />

E <strong>di</strong>sponiamo anche <strong>di</strong> <strong>un</strong>a terminologia che <strong>di</strong>ce chiara la<br />

cosa:<br />

- le parti del testo in cui a parlare è il narratore, o <strong>un</strong> "io<br />

narrante", com<strong>un</strong>que colui che si assume la responsabilità<br />

generale del testo stesso, si possono chiamare, con <strong>un</strong><br />

termine accademico, <strong>di</strong>egetiche, o più banalmente<br />

narrative (o propriamente narrative);<br />

- le parti del testo in cui a parlare non è colui che si assume la<br />

responsabilità generale del testo stesso, bensì parla <strong>un</strong><br />

140


personaggio o <strong>un</strong> documento (la voce della televisione, <strong>un</strong>a<br />

lettera, <strong>un</strong> libro ritrovato, <strong>un</strong>a scritta sul muro, <strong>un</strong><br />

ann<strong>un</strong>cio alla ra<strong>di</strong>o, <strong>un</strong>a battuta <strong>di</strong> film…) si possono<br />

chiamare, con termine accademico, mimetiche, o più<br />

banalmente imitative.<br />

E qui, per l'app<strong>un</strong>to, mi serviva arrivare. A questa parola:<br />

imitazione.<br />

Il <strong>di</strong>alogo (<strong>di</strong>versamente dalla <strong>narrazione</strong> vera e propria) si<br />

pone come imitazione <strong>di</strong> <strong>un</strong> testo che sta fuori del testo. Se<br />

scrivo: “L'autobus era grosso e arancione”, tutti capiscono che<br />

sto cercando <strong>di</strong> far vedere l'autobus al lettore; ma ness<strong>un</strong>o<br />

pensa che io lo stia imitando. Invece, se faccio <strong>di</strong>re a <strong>un</strong><br />

personaggio: “Scusi, è già passato il 16?”, la battuta viene da<br />

tutti percepita come imitazione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a battuta reale - o<br />

almeno, imitazione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a battuta possibile.<br />

Fate <strong>un</strong> esperimento. Procuratevi <strong>un</strong> registratore. Registrate<br />

<strong>un</strong>a conversazione: <strong>un</strong>a normale conversazione a tavola, la<br />

conversazione <strong>di</strong> quando rientrate a casa e vi raccontate la<br />

giornata con il coniuge, la conversazione al bar: quello che<br />

volete.<br />

Riascoltate la conversazione. Trascrivétela.<br />

Vi accorgerete che, come conversazione scritta, fa schifo. E<br />

così comprenderete che riproduzione e imitazione sono due<br />

cose molto <strong>di</strong>verse.<br />

Fate <strong>un</strong> secondo esperimento. Andate al cinema. Già che ci<br />

siete, andate a vedere Primo amore <strong>di</strong> Matteo Garrone, visto<br />

che ci recito anch'io (sono lo psicologo della mutua). Potrete<br />

osservare che durante tutto il film i personaggi non vanno mai<br />

<strong>di</strong> corpo, mangiano pochissimo (non solo lei, che nella storia è<br />

app<strong>un</strong>to colei che non mangia; ma anche lui), fanno compere<br />

<strong>un</strong>a volta sola, e non puliscono la casa.<br />

La <strong>narrazione</strong> del film, che <strong>di</strong>versamente dalla <strong>narrazione</strong><br />

scritta è per così <strong>di</strong>re tutta imitativa, è <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong>imitazione<br />

molto ellittica, elusiva, allusiva. Osservate quante<br />

domande, nei <strong>di</strong>aloghi dei film, restano senza risposta. A<br />

quante domande viene risposto con <strong>un</strong> gesto. Quanti <strong>di</strong>aloghi<br />

sono incompleti, quante azioni stesse sono incomplete.<br />

Perché questa incompletezza? Ma perché il lettore (lo<br />

spettatore) sa fare la sua parte. Intuisce che cosa manca.<br />

Riempie i vuoti. Attinge alla sua esperienza <strong>di</strong> vita, e completa<br />

il quadro.<br />

Ne riparliamo settimana prossima.<br />

141


Chiacchierata numero 57<br />

Buona settimana. Parliamo ancora <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo. Eravamo rimasti<br />

alla <strong>di</strong>stinzione: il <strong>di</strong>alogo scritto non è <strong>un</strong>a riproduzione del<br />

<strong>di</strong>alogo parlato, bensì <strong>un</strong>a imitazione. Se vogliamo scrivere <strong>un</strong><br />

<strong>di</strong>alogo che risulti "realistico", non dobbiamo fare <strong>un</strong>a<br />

riproduzione.<br />

La <strong>di</strong>fferenza tra la riproduzione e l'imitazione, nel <strong>di</strong>alogo<br />

scritto, riguarda soprattutto i tempi. Se ascoltiamo (come<br />

settimana scorsa suggerivo <strong>di</strong> fare) <strong>un</strong> <strong>di</strong>alogo registrato, ci<br />

accorgiamo subito come esso sia pieno <strong>di</strong> battute e parole che<br />

non fanno passare ness<strong>un</strong>a informazione (parole vuote,<br />

potremmo chiamarle), nonché <strong>di</strong> battute e parole che ripetono<br />

e riba<strong>di</strong>scono informazioni già date o com<strong>un</strong>que implicite<br />

(parole ridondanti). Ora, il buon <strong>di</strong>alogo scritto è quello che<br />

non contiene né parole vuote né parole ridondanti; a meno che<br />

esse, come <strong>di</strong>cevo due settimane fa, non siano utili a<br />

caratterizzare <strong>un</strong> personaggio.<br />

Ecco <strong>un</strong> esempio da <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> Federigo Tozzi, L'ombra<br />

della giovinezza. Un uomo che vive in campagna, Orazio,<br />

s'innamora <strong>di</strong> <strong>un</strong>a ragazza <strong>di</strong> città, Marsilia. “Gli piaceva<br />

parlarle”, scrive Tozzi, “perché ella, anche quando egli stava<br />

zitto a posta, capiva tutto quel che aveva pensato; ed egli non<br />

sapeva come facesse”. I <strong>di</strong>aloghi tra i due sono quin<strong>di</strong><br />

curiosamente asimmetrici:<br />

Qualche volta, egli stava anche <strong>un</strong>a settimana senza tornare<br />

in città; e quando andava a ritrovarla, aveva paura ch'ella lo<br />

rimproverasse; ma ella gli <strong>di</strong>ceva, come se avesse voluto<br />

suggerirgli la risposta:<br />

“Hai avuto molto da fare?”.<br />

Egli stava per <strong>di</strong>rle la verità; ma, pensando che fosse inutile,<br />

le prometteva soltanto <strong>di</strong> vederla ormai tutti i giorni. Allora ella<br />

si metteva a ridere; ed egli le chiedeva:<br />

“Mi avevi aspettato?”.<br />

Ella gli rispondeva:<br />

“Ti aspetto sempre”.<br />

“Ora, che sono con te, non andrei più via”.<br />

“Basta che tu mi voglia bene. Come ci si sta in campagna?”.<br />

“Io starei più volentieri in città”.<br />

“Ed io, invece, verrei volentieri con te in campagna”.<br />

“<strong>Non</strong> ci sei stata mai?”.<br />

“Una volta, andavamo in villeggiatura; ma non lontano”.<br />

“Te ne ricor<strong>di</strong> sempre?”<br />

142


“Sempre”.<br />

“Ti <strong>di</strong>vertivi?”.<br />

“Mi faceva bene”.<br />

“E io invece avrei bisogno <strong>di</strong> stare in città. Per cambiare,<br />

forse”.<br />

“Sceglieremo dove vuoi tu”.<br />

“Ma non sarà possibile; non posso lasciare la fattoria”.<br />

E s'egli si metteva a raccontarle come viveva insieme con il<br />

fratello, ella stava attenta come per capire bene e per far<br />

piacere a lui; ma da sé non gli chiedeva mai niente e né meno<br />

voleva sapere quand'egli l'avrebbe sposata. Pareva che non<br />

gliene importasse, rimettendosi del tutto alla volontà <strong>di</strong> lui.<br />

Questo è <strong>un</strong> <strong>di</strong>alogo fatto quasi tutto <strong>di</strong> parole vuote, frasi<br />

convenzionali, e per <strong>di</strong> più ridondanti. Eppure è <strong>un</strong> eccellente<br />

<strong>di</strong>alogo, perché ci <strong>di</strong>ce tutto quel che c'è da sapere (è a due<br />

pagine dall'inizio del racconto, che ne fa quasi quaranta; ed è<br />

l'<strong>un</strong>ico <strong>di</strong>alogo tra i due amanti che venga riferito) sulla<br />

relazione tra i due. Tozzi doveva avere ben chiare le<br />

informazioni da passare al lettore: la <strong>di</strong>sponibilità <strong>di</strong> Marsilia,<br />

l'irresolutezza <strong>di</strong> Orazio; la sensazione <strong>di</strong> Orazio che Marsilia gli<br />

leggesse dentro, mentre in realtà lei scriveva dentro <strong>di</strong> lui: gli<br />

forniva dei pensieri pensabili, dei pensieri che lui non era in<br />

grado <strong>di</strong> pensare da solo (trasferirsi in città, sposarla…) e che<br />

infatti, quando lui era lontano da lei, si <strong>di</strong>ssolvevano; nonché<br />

l'incapacità <strong>di</strong> Orazio a leggere dentro Marsilia, culminante in<br />

quel “Pareva che non gliene importasse”, che non è opinione<br />

del narratore bensì il pensiero <strong>di</strong> Orazio (è <strong>un</strong>a frase, per così<br />

<strong>di</strong>re, "in soggettiva").<br />

Ci sono d<strong>un</strong>que dei <strong>di</strong>aloghi che non servono a far passare al<br />

lettore le informazioni letteralmente contenute nelle battute,<br />

ma a rappresentare il tipo <strong>di</strong> relazione esistente tra i<br />

personaggi. Questi <strong>di</strong>aloghi potranno tranquillamente essere<br />

farciti <strong>di</strong> parole vuote, <strong>di</strong> ridondanze, <strong>di</strong> frasi convenzionali<br />

eccetera: perché forse (non sono sicurissimo <strong>di</strong> quello che sto<br />

per <strong>di</strong>re) proprio nelle zone più inconsistenti della<br />

conversazione si annidano i segnali della relazione.<br />

Un altro esempio. Questo è preso da <strong>un</strong>a pagina del mio<br />

<strong>di</strong>ario in rete.<br />

“Biglietto, prego”, <strong>di</strong>ce il controllore.<br />

Mi sveglio. Vedo la schiena del controllore.<br />

Guardo nel portafoglio, niente, apro la tasca grande dello<br />

zaino, niente, apro la tasca me<strong>di</strong>a dello zaino, niente.<br />

“Biglietto, prego”, <strong>di</strong>ce il controllore.<br />

143


È per me.<br />

“Un momento”, <strong>di</strong>co.<br />

Nella tasca piccola dello zaino, niente.<br />

“Quanto le ci vuole?”, <strong>di</strong>ce il controllore.<br />

Tiro giù il cappotto dalla reticella.<br />

“Stavo dormendo”, <strong>di</strong>co. “Stavo anche sognando”.<br />

Nelle tasche del cappotto, niente.<br />

“Ce l'ha o no?”, <strong>di</strong>ce il controllore.<br />

“L'ho fatto alla macchinetta automatica”, <strong>di</strong>co, continuando a<br />

frugare in tutte le tasche possibili.<br />

“Me lo faccia vedere”, <strong>di</strong>ce il controllore.<br />

“Certo”, <strong>di</strong>co io. Ormai mi sto frugando anche nelle mutande.<br />

“Se non ce l'ha”, <strong>di</strong>ce il controllore, “fa prima a <strong>di</strong>rlo subito”.<br />

“Ce l'ho”, <strong>di</strong>co, ricominciando il giro delle tasche.<br />

“Me lo faccia vedere”, <strong>di</strong>ce il controllore.<br />

“Arrivo”, <strong>di</strong>co.<br />

“Ce l'ha o non ce l'ha?”, <strong>di</strong>ce il controllore.<br />

In quel momento mi accorgo che il biglietto è sul se<strong>di</strong>le. Ci ho<br />

dormito sopra.<br />

Qui il <strong>di</strong>alogo è, se possibile, ancora più vuoto e ridondante. Il<br />

suo senso è, ancora, <strong>di</strong> mostrare la relazione tra i due<br />

personaggi (controllore e viaggiatore). Il controllore parla la<br />

lingua aggressiva dell'autorità; il viaggiatore cerca <strong>di</strong> sgusciare<br />

via, fornisce inutili assicurazioni della sua buona fede (“L'ho<br />

fatto alla macchinetta automatica”), dà risposte incongrue<br />

(“Stavo anche sognando”), ma nella sostanza accetta<br />

l'aggressione dell'autorità; e manifesta l'accettazione<br />

agitandosi tutto in cerca del biglietto, cercandolo “anche nelle<br />

mutande”: cioè mettendo tutto il suo corpo, simbolicamente<br />

denudato dal frugarsi, a <strong>di</strong>sposizione dell'autorità.<br />

Nel <strong>di</strong>alogo quin<strong>di</strong> non contano solo le battute scambiate:<br />

contano anche i gesti, i movimenti dei personaggi; gesti che<br />

sono in parte <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> "p<strong>un</strong>teggiatura" del <strong>di</strong>alogo, ma che<br />

possono anche <strong>di</strong>ventare <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> "contro<strong>di</strong>alogo":<br />

"<strong>di</strong>cendo" cose che le parole non <strong>di</strong>cono. Ma ne parliamo tra<br />

<strong>un</strong>a settimana.<br />

144


Chiacchierata numero 58<br />

Buondì. Settimana scorsa <strong>di</strong>cevo che nel <strong>di</strong>alogo non contano<br />

solo le battute scambiate ma anche i gesti, i movimenti dei<br />

corpi: che costituiscono <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> "p<strong>un</strong>teggiatura" del<br />

<strong>di</strong>alogo, ma possono anche <strong>di</strong>ventare <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong><br />

"contro<strong>di</strong>alogo", "<strong>di</strong>cendo" ciò che le battute non <strong>di</strong>cono. Vi<br />

propongo <strong>un</strong> altro esempio da Federigo Tozzi. Si tratta del<br />

racconto “Gli amanti”:<br />

Lui: Perché non vieni a baciarmi?<br />

Lei: Tu cominceresti a volermi bene, ma non c’è più tempo.<br />

Lui: <strong>Non</strong> è vero!<br />

Lei: Io non voglio parlare <strong>di</strong> come tu: ti sei comportato con<br />

me.<br />

Lui: Hai ragione tu; e mi puoi rimproverare.<br />

Lei: È troppo tar<strong>di</strong>; t’ho detto.<br />

Lui: E pure, ieri sera ti sei lasciata baciare! E mi baciavi anche<br />

tu.<br />

Lei: Perché io sono sempre stata la stessa con te.<br />

Lui: E perché stamani non sei più?<br />

Lei: Devi pentirti. Esci. Puoi andartene.<br />

Lui: Mi devi perdonare.<br />

Lei: Tu ancora non sei sicuro del tuo pentimento.<br />

Lui: Se tu vuoi, stamani me ne vado, ma oggi torno. Te lo<br />

prometto.<br />

Lei: Quando sono stata sola, ed io soffrivo della mia<br />

solitu<strong>di</strong>ne, tu non ti sei fatto vedere. Tu sei venuto soltanto<br />

quando avevi per me <strong>un</strong> desiderio sensuale. <strong>Non</strong> è vero, forse?<br />

Tu lo sapevi che io soffrivo!<br />

Lui: No.<br />

Lei: T’immaginavi che io non avessi avuto bisogno <strong>di</strong> te?<br />

Lui: …<br />

Lei: Tu non tornerai, per ora. <strong>Non</strong> mi vedrai mai più.<br />

Lui: …<br />

Lei: Ho troppo sofferto.<br />

Lui: Perché, d<strong>un</strong>que, stanotte m’hai fatto dormire nel tuo<br />

letto?<br />

Lei: Perché tu imparassi <strong>di</strong> più a conoscere quale donna tu<br />

per<strong>di</strong>. Ho voluto castigarti così. E stamani tu soffri. È quello che<br />

ti meriti. Lo sapevo che stamani ti sarebbe <strong>di</strong>spiaciuto a<br />

lasciarmi; mentre fino a ieri sera eri stato quasi <strong>un</strong> mese senza<br />

farti vedere. Se tu mi ami, devi capire tutto il male che hai<br />

fatto; sopra a tutto a te stesso.<br />

145


Lui: Ma se tu mi hai fatto dormire con te, ho creduto che mi<br />

volessi bene!<br />

Lei: Ti voglio bene, è vero; ma è necessario che non ci<br />

ve<strong>di</strong>amo più. Mentre tu dormivi, stanotte, io pensavo; e non<br />

trovavo ness<strong>un</strong>a scusa per te. Tu sei venuto a trovarmi<br />

soltanto perché ti faceva comodo.<br />

Lui: Allora, se devo andarmene, vado subito.<br />

Lei: Vattene pure.<br />

Curioso, vero? Un racconto fatto tutto e solo <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo.<br />

Naturalmente c'è il trucco. Ho preso <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> Tozzi e ho<br />

tolto tutto, lasciando solo il <strong>di</strong>alogo. Ecco <strong>un</strong> frammento<br />

(tutt'intero non mi sta in questo spazio) del vero racconto <strong>di</strong><br />

Tozzi:<br />

[…] Ella, allora, indovinando quel che egli sentiva, si volse <strong>un</strong><br />

poco a lui e gli <strong>di</strong>sse:<br />

–Tu cominceresti a volermi bene, ma non c’è più tempo.<br />

Egli sapeva ch’ella aveva ragione, ma il desiderio <strong>di</strong> non<br />

perderla gli fece rispondere:<br />

– <strong>Non</strong> è vero!<br />

Ella si voltò tutta a lui; ed egli, per non essere costretto ad<br />

abbassare gli occhi, finse <strong>di</strong> pensare ad altro e <strong>di</strong> non aver<br />

capito. Era quasi sicuro ch’ella gli avrebbe risposto con bontà,<br />

ma aveva paura <strong>di</strong> compromettersi <strong>di</strong> più parlandole; perché<br />

sarebbe stato costretto ad ammettere la verità. Ma, pure<br />

ch’ella non fosse stata troppo esigente, egli era <strong>di</strong>sposto anche<br />

a commuoversi; quant<strong>un</strong>que non si sentisse ancora capace ad<br />

amarla da vero. Egli, allora, le prese il viso e le fece <strong>un</strong>a<br />

carezza; ma ella trasse a <strong>di</strong>etro la testa, si levò dal collo <strong>un</strong>a<br />

treccia mandandola più in là con <strong>un</strong>a mano; e gli <strong>di</strong>sse:<br />

– Io non voglio parlare <strong>di</strong> come tu ti sei comportato con me.<br />

A lui <strong>di</strong>spiaceva ch’ella avesse ragione; quasi la invi<strong>di</strong>ava; ma<br />

le rispose:<br />

– Hai ragione tu; e mi puoi rimproverare.<br />

– È troppo tar<strong>di</strong>; t’ho detto.<br />

Egli si avvicinò a lei; ma ella lo respinse mettendogli <strong>un</strong>a<br />

mano su la bocca. Egli le <strong>di</strong>sse:<br />

– E pure, ieri sera ti sei lasciata baciare! E mi baciavi anche<br />

tu.<br />

– Perché io sono sempre stata la stessa con te.<br />

– E perché stamani non sei più?<br />

– Devi pentirti. Esci. Puoi andartene.<br />

Ma egli allora la prese da <strong>di</strong>etro le spalle e la costrinse a<br />

restare così abbracciata. Ella <strong>di</strong>venne più risoluta, e teneva il<br />

146


viso lontano. Allora, egli la lasciò. Si sentiva pigliare dall’ira,<br />

ma sentiva anche ch’ella aveva ragione e ch’era più buona <strong>di</strong><br />

lui. Perciò attese, a capo basso, qualche parola meno brusca.<br />

Come si pentiva <strong>di</strong> non averla amata! Ma perché, s’egli si<br />

pentiva, ed ella doveva avvedersene, non era possibile che lo<br />

perdonasse? Doveva essere possibile.<br />

La nebbia cominciava ad andarsene; e le cupole grigie e<br />

turchinicce erano fra i tetti e le terrazze. I fiori sul balcone<br />

sgocciolavano come se fosse piovuto. […]<br />

La cosa interessante è questa: il racconto, tutto sommato, sta<br />

in pie<strong>di</strong> anche se ridotto al nudo <strong>di</strong>alogo. Si capisce che cosa<br />

succede e qual è la relazione tra i due personaggi, e si intuisce<br />

che cosa può essere accaduto prima (anche nel racconto vero,<br />

nulla si sa della storia precedente dei due amanti; il racconto si<br />

limita a mettere in scena la <strong>di</strong>scussione e la separazione). E<br />

allora si vede bene che cosa aggi<strong>un</strong>gono, al nudo <strong>di</strong>alogo, le<br />

altre parti del testo: aggi<strong>un</strong>gono qualche scorcio sull'interiorità<br />

dei personaggi, ma soprattutto gesti, movimenti,<br />

allontanamenti e avvicinamenti, contatti <strong>di</strong>i corpi solo<br />

immaginati, proposti, accettati o rifiutati.<br />

Volendo, si potrebbe ridurre il racconto quasi ai soli gesti, alle<br />

cose visibili. Provate a farlo con il frammento che ho riportato<br />

sopra. Vi accorgerete che la relazione tra i personaggi resta<br />

perfettamente comprensibile, anche se è <strong>un</strong> po' più arduo<br />

capire esattamente che cosa stia succedendo.<br />

A che pro questo bizzarro esercizio <strong>di</strong> smembramento d'<strong>un</strong><br />

racconto? Semplicemente per far vedere come in <strong>un</strong> racconto il<br />

<strong>di</strong>alogo e la <strong>narrazione</strong> vera e propria si intreccino, si<br />

sovrappongano, esistano quasi autonomamente l'<strong>un</strong>o dall'altro,<br />

e tuttavia cooperino efficientemente a <strong>un</strong>o stesso scopo:<br />

trasportare nella mente del lettore non solo la storia<br />

immaginata dal narratore, ma tutta la sua immaginazione,<br />

comprensiva delle parole dette, dei movimenti dei corpi, e<br />

financo l'interiorità dei personaggi (che è, però, la parte meno<br />

autonoma del testo).<br />

Per scrivere <strong>un</strong> buon <strong>di</strong>alogo, quin<strong>di</strong>, bisogna soprattutto<br />

immaginare gli spazi dell'azione, e il movimento dei personaggi<br />

in questi spazi. Ne parliamo la prossima settimana.<br />

147


Chiacchierata numero 59<br />

Saluti a tutti. Dicevo la settimana scorsa: per scrivere <strong>un</strong><br />

buon <strong>di</strong>alogo bisogna immaginare gli spazi dell'azione, e il<br />

movimento dei personaggi in questi spazi.<br />

Questo è <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to chiave.<br />

Nel momento in cui si pensa al <strong>di</strong>alogo, è bene immaginare la<br />

<strong>narrazione</strong> come <strong>un</strong>a messa in scena. Avete mai visto <strong>un</strong> film o<br />

<strong>un</strong>a pièce teatrale in cui gli attori stiano sempre fermi? No.<br />

(Be', se vi piace Beckett, forse sì; ma Beckett non fa testo). Gli<br />

attori si muovono nello spazio della scena, il regista muove la<br />

macchina da presa: mentre il <strong>di</strong>alogo avviene, tutto è in<br />

movimento.<br />

Ma a che cosa serve tutto questo movimento? “A rendere più<br />

espressivo il <strong>di</strong>alogo”, si potrebbe <strong>di</strong>re. Ma non è così. Il<br />

<strong>di</strong>alogo ideale è <strong>un</strong> <strong>di</strong>alogo che sta in pie<strong>di</strong> da solo; è<br />

ad<strong>di</strong>rittura quel <strong>di</strong>alogo che, pur privato <strong>di</strong> tutto il contorno <strong>di</strong><br />

inquadrature e movimenti (come facevo la settimana scorsa<br />

bistrattando <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> Federigo Tozzi), e ridotto alla sola<br />

parte imitativa, sta in pie<strong>di</strong> da solo: e non ha bisogno <strong>di</strong> gesti<br />

che lo rendano più espressivo.<br />

E allora?<br />

Allora, si può <strong>di</strong>re che i movimenti e le inquadrature servono<br />

più che altro a far passare il tempo. E il modo migliore <strong>di</strong> far<br />

passare il tempo, tenendo conto che avete lì <strong>un</strong> lettore che vi<br />

legge, è <strong>di</strong> dargli qualcosa da guardare. Un gesto, <strong>un</strong><br />

movimento, <strong>un</strong>o sguardo fuori dalla finestra, <strong>un</strong>a smorfia.<br />

Un frammento da <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> Raymond Carver, “Di cosa<br />

parliamo quando parliamo d'amore” (dal libro omonimo;<br />

questa è la traduzione <strong>di</strong> Livia Manera, ed. Garzanti):<br />

“E allora la vecchia coppia?”, <strong>di</strong>sse Laura. “<strong>Non</strong> hai finito la<br />

storia che avevi cominciato”.<br />

Laura faceva <strong>un</strong>a gran fatica ad accendersi la sigaretta. Le si<br />

spegnevano continuamente i fiammiferi.<br />

Ora nella stanza la luce era <strong>di</strong>versa, stava cambiando,<br />

<strong>di</strong>ventava più tenue. Ma le foglie fuori dalla finestra luccicavano<br />

ancora, e io contemplai le forme che <strong>di</strong>segnavano sui vetri e<br />

sul ripiano <strong>di</strong> formica. <strong>Non</strong> erano gli stessi <strong>di</strong>segni,<br />

naturalmente.<br />

“E allora, la vecchia coppia?”, <strong>di</strong>ssi.<br />

“Più vecchia ma più saggia”, <strong>di</strong>sse Terri.<br />

Mel le p<strong>un</strong>tò gli occhi in faccia.<br />

Terri <strong>di</strong>sse: “Va' avanti con la tua storia, tesoro. Stavo solo<br />

148


scherzando. Che cosa è successo dopo?”.<br />

“Terri, certe volte”, <strong>di</strong>sse Mel.<br />

“Per favore, Mel”, <strong>di</strong>sse Terri. “<strong>Non</strong> essere sempre così serio,<br />

amore. <strong>Non</strong> sai stare allo scherzo”.<br />

“Dov'è lo scherzo?”, <strong>di</strong>sse Mel.<br />

Teneva il bicchiere in mano e guardava fisso sua moglie.<br />

“Cos'è successo?”, <strong>di</strong>sse Laura.<br />

Mel p<strong>un</strong>tò gli occhi su Laura. “Laura, se non avessi Terri e se<br />

non la amassi tanto, e se Nick non fosse il mio migliore amico,<br />

mi innamorerei <strong>di</strong> te. Ti porterei via con me, tesoro”, <strong>di</strong>sse.<br />

“Racconta la tua storia”, <strong>di</strong>sse Terri. “Poi an<strong>di</strong>amo in quel<br />

nuovo posto, va bene?”.<br />

“Va bene”, <strong>di</strong>sse Mel. “Dov'ero rimasto?”, <strong>di</strong>sse. Fissò la<br />

tavola e poi riprese a parlare.<br />

Che cosa succede, in questa breve scena, tra le due coppie <strong>di</strong><br />

personaggi? (Nick, che è il narratore, e Laura; Mel e Terri).<br />

<strong>Non</strong> succede quasi niente: se non, per così <strong>di</strong>re, <strong>un</strong> leggero<br />

aumento della tensione tra Mel e Terri. Carver (che è<br />

probabilmente, da vent'anni in qua, il narratore che ha subiti<br />

più tentativi d'imitazione in Italia) coglie <strong>un</strong> momento morto,<br />

<strong>un</strong> incaglio nella conversazione <strong>di</strong> queste due coppie.<br />

Teoricamente, questa dovrebbe essere la meno interessante<br />

delle scene. Eppure si fa leggere: perché noi abbiamo sempre<br />

qualcosa da vedere. Laura che cerca <strong>di</strong> accendersi <strong>un</strong>a<br />

sigaretta, e non ci riesce (tutti e quattro i personaggi hanno<br />

bevuto). Nick lascia vagare la sua attenzione, e ciò che entra<br />

quasi casualmente nell'attenzione <strong>di</strong> Nick. Mel che guarda<br />

Terri, stringe il bicchiere, poi guarda Laura, poi fissa la tavola.<br />

“Minuzie”, si potrebbe <strong>di</strong>re. Ma sono le minuzie che tengono su<br />

tutto. Se questa scena fosse <strong>un</strong> piccolo film, avremmo <strong>un</strong>a<br />

grande quantità <strong>di</strong> inquadrature: non solo sui visi dei<br />

personaggi che parlano, com'è d'uso, ma anche sulle loro<br />

mani, sui loro bicchieri, sui personaggi silenziosi, sul tavolo e<br />

su ciò che si vede<br />

Ora: è importante rendersi conto che questa breve scena non<br />

può esistere senza <strong>un</strong>a precisa immaginazione dello spazio nel<br />

quale si svolge. Abbiamo <strong>un</strong>a stanza, <strong>un</strong>a tavola col ripiano<br />

ricoperto <strong>di</strong> formica, quattro persone sedute attorno alla<br />

tavola, <strong>un</strong>a finestra con fuori delle foglie e <strong>un</strong> tipo particolare<br />

<strong>di</strong> luce. A me viene da pensare (vabbè, è banale) a certi quadri<br />

<strong>di</strong> Hopper, dominati dalla luce che entra da <strong>un</strong>a grande finestra<br />

- o, al contrario, rinchiusi negli spazi <strong>di</strong> luce creati da lampade<br />

o tubi al neon.<br />

Nella stanza ci sarà stato anche altro (chi volesse leggersi il<br />

149


acconto intero, vedrà che c'è anche altro). Ma non è<br />

importante, per Raymond Carver, nominare tutto ciò che c'è<br />

dentro la stanza: e non lo fa, infatti. È importante, piuttosto,<br />

avere <strong>un</strong>a precisa immaginazione della stanza; <strong>di</strong> ciò che<br />

<strong>un</strong>isce e insieme <strong>di</strong>vide i personaggi; della luce che c'è; dei<br />

gesti che ciasc<strong>un</strong>o compie.<br />

<strong>Non</strong> si può <strong>di</strong>re, credo, che quando Carver scrive: “Teneva il<br />

bicchiere in mano e guardava fisso sua moglie”, questo<br />

aggi<strong>un</strong>ga espressività al personaggio. Se c'è <strong>un</strong>a sensazione<br />

che dà, semmai, questa notazione del narratore, è che Mel sia<br />

incapace <strong>di</strong> qual<strong>un</strong>que espressività. Ma con questa frase Carver<br />

colloca in <strong>un</strong>a certa posizione Mel, dà <strong>un</strong>a <strong>di</strong>rezione al suo<br />

sguardo, <strong>di</strong>rige Mel come <strong>un</strong> regista <strong>di</strong>rigerebbe <strong>un</strong> attore (<strong>un</strong><br />

regista, immagino, molto antiespressionista): mi vien da <strong>di</strong>re,<br />

con questa notazione Carver scolpisce Mel, ce lo offre come la<br />

scultura <strong>di</strong> <strong>un</strong> uomo che tiene il bicchiere in mano e guarda<br />

fisso sua moglie. Laura, invece, che “fa <strong>un</strong>a gran fatica ad<br />

accendersi la sigaretta”, più che <strong>un</strong>a scultura sembra <strong>un</strong>a<br />

performer impegnata nell'esecuzione <strong>di</strong> <strong>un</strong> gesto insignificante<br />

- sfregare <strong>un</strong> fiammifero, tentare <strong>di</strong> accendere la sigaretta -<br />

ripetuto e insistito fino al p<strong>un</strong>to da renderlo misteriosamente<br />

ipersignificante.<br />

E notiamo, infine, come ciasc<strong>un</strong>o dei gesti <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong><br />

personaggio - così come ogni loro battuta - non fa che<br />

ridefinire la relazione <strong>di</strong> quel personaggio con gli altri, o con<br />

almeno <strong>un</strong> altro. Ma ripren<strong>di</strong>amo il <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> tra <strong>un</strong>a settimana.<br />

Chiacchierata numero 60<br />

Buongiorno, buongiorno. Ancora sul <strong>di</strong>alogo. È possibile, a<br />

questo p<strong>un</strong>to, fissare dei criteri per scrivere <strong>un</strong> buon <strong>di</strong>alogo?<br />

Possiamo provarci: con la raccomandazione, però, <strong>di</strong> prendere<br />

questi criteri non come delle regole, ma come semplici<br />

in<strong>di</strong>cazioni. Tant'è che alc<strong>un</strong>i <strong>di</strong> questi criteri, come vedremo<br />

subito, ne limitano e correggono altri. Cominciamo:<br />

1. Un buon <strong>di</strong>alogo è fatto <strong>di</strong> tante parole piene e <strong>di</strong><br />

pochissime parole vuote (ve<strong>di</strong> p<strong>un</strong>tata 57). Le interiezioni, le<br />

esclamazioni, i saluti, le frasi <strong>di</strong> circostanza, le battute<br />

insignificanti: tutto questo appartiene alla conversazione reale,<br />

ma non alla conversazione scritta nelle narrazioni.<br />

2. Tuttavia, le parole vuote possono essere fondamentali,<br />

ad<strong>di</strong>rittura costitutive del <strong>di</strong>alogo, quando aiutano a mettere in<br />

luce la relazione esistente tra i personaggi: l'ossequiosità <strong>di</strong><br />

150


<strong>un</strong>o, la reticenza dell'altro, vengono mostrate soprattutto<br />

dall'uso e dall'abuso <strong>di</strong> parole vuote.<br />

3. Il primo nemico del buon <strong>di</strong>alogo è la ridondanza. Ogni<br />

volta che scrivo <strong>un</strong>a battuta, vado a capo, e mi accingo a<br />

scriverne <strong>un</strong>'altra, devo domandarmi: “Ciò che B risponde ad<br />

A, può essere intuito dal lettore?”. Se la risposta è: “Sì, da ciò<br />

che A <strong>di</strong>ce, da ciò che si sa <strong>di</strong> B, dalle circostanze eccetera, il<br />

lettore può intuire, già sa, che cosa B risponderà ad A”; se la<br />

risposta è questa, allora la risposta <strong>di</strong> B è semplicemente<br />

superflua.<br />

4. Un <strong>di</strong>alogo avviene sempre tra almeno due personaggi, in<br />

<strong>un</strong>o spazio. Esso quin<strong>di</strong> è costituito anche dagli sguar<strong>di</strong> <strong>di</strong> A<br />

verso B, ci C verso A; dai movimenti dei personaggi,<br />

soprattutto dagli avvicinamenti e dagli allontanamenti, dai<br />

contatti <strong>di</strong> corpo, dagli incroci <strong>di</strong> sguar<strong>di</strong>. Questi avvicinamenti,<br />

allontanamenti, contatti e incroci, <strong>di</strong>penderanno anche dallo<br />

spazio nel quale avviene il <strong>di</strong>alogo. Bisogna quin<strong>di</strong> immaginare<br />

bene lo spazio e gestire i personaggi come se fossimo dei<br />

registi <strong>di</strong> teatro alle prese con degli attori.<br />

5. I movimenti <strong>di</strong> cui al p<strong>un</strong>to 4 f<strong>un</strong>zionano <strong>un</strong> po' come <strong>un</strong>a<br />

p<strong>un</strong>teggiatura del <strong>di</strong>alogo. Ma possono essere usati anche<br />

come <strong>un</strong>a antip<strong>un</strong>teggiatura: cioè per far <strong>di</strong>re ai personaggi<br />

(con il corpo, con il moto) cose <strong>di</strong>verse da quelle che <strong>di</strong>cono<br />

con le parole. Un certo grado <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione tra parole e<br />

corpo rende più saporito il personaggio, lo fa essere meno<br />

tutto d'<strong>un</strong> pezzo, più cre<strong>di</strong>bile.<br />

6. Se <strong>un</strong>a battuta <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo può essere sostituita da <strong>un</strong> gesto,<br />

è opport<strong>un</strong>o sostituirla con <strong>un</strong> gesto. Il lettore ha bisogno <strong>di</strong><br />

cose da vedere, e <strong>un</strong> gesto sarà sempre più visibile della più<br />

azzeccata delle battute. Naturalmente non deve trattarsi <strong>di</strong><br />

gesti-parola (“Fece segno <strong>di</strong> no con la testa”) ma <strong>di</strong> gesti che<br />

prendono il significato <strong>di</strong> <strong>un</strong>a risposta in quel determinato<br />

contesto.<br />

7. I personaggi “<strong>di</strong>cono”, “domandano”, “sussurrano”,<br />

“bisbigliano”, “urlano”, “gridano”, “strillano”, e così via. I<br />

personaggi non “esclamano con voce rotta dall'angoscia”, non<br />

“<strong>di</strong>cono con voce flautata”, non “mugolano con le lacrime agli<br />

occhi”, non “confessano torcendosi le mani”, e così via. Il<br />

<strong>di</strong>alogo ideale è quello in cui si usa sempre il più semplice dei<br />

verbi, “<strong>di</strong>ce”, “<strong>di</strong>sse”; e l'intonazione <strong>di</strong> voce si capisce dalle<br />

parole stesse e dal contesto.<br />

8. Un buon <strong>di</strong>alogo si scrive e si rilegge: nel rileggerlo si toglie<br />

almeno <strong>un</strong> venti per cento del testo.<br />

9. Il <strong>di</strong>alogo serve a due cose: a definire la relazione tra i<br />

personaggi (ve<strong>di</strong> il p<strong>un</strong>to 2) o a far progre<strong>di</strong>re l'azione. Le cose<br />

151


non devono accadere durante il <strong>di</strong>alogo, ma nel <strong>di</strong>alogo.<br />

Soprattutto, il <strong>di</strong>alogo non serve a informare il lettore <strong>di</strong> cose<br />

che sono accadute fuori scena o in precedenza.<br />

10. Nel <strong>di</strong>alogo ogni personaggio parla la sua propria lingua, il<br />

suo i<strong>di</strong>oletto. Questo non vuol <strong>di</strong>re che l'i<strong>di</strong>oletto <strong>di</strong> ogni<br />

personaggio vada creato scientificamente, con intento<br />

realistico. I napoletani non sono tenuti a parlare in napoletano,<br />

i veneti non sono tenuti a <strong>di</strong>re ciò, bòcia e sgnàpa ad ogni piè<br />

sospinto. La maggior parte dei personaggi dei romanzi italiani<br />

si esprime in <strong>un</strong> italiano me<strong>di</strong>o, e questo va bene. Bisogna<br />

stare attenti però a non attribuire varianti regionali ai<br />

personaggi sbagliati. Quello che per <strong>un</strong> lombardo è l'oratorio,<br />

per <strong>un</strong> veneto è il patronato. Quello che per <strong>un</strong> milanese è la<br />

brioche, per <strong>un</strong> romano è il cornetto. Un salernitano e <strong>un</strong><br />

u<strong>di</strong>nese usano <strong>di</strong>versamente parole come tinello, terrina,<br />

giovane (sostantivo), melone. Un vicentino non <strong>di</strong>ce assai, <strong>un</strong><br />

siciliano sì; e se al vicentino scappa <strong>di</strong> <strong>di</strong>re assai, intende<br />

qualcosa <strong>di</strong> <strong>un</strong> po' <strong>di</strong>verso da ciò che intende il siciliano.<br />

Quin<strong>di</strong>: se tutti parlano in italiano me<strong>di</strong>o, va bene; se <strong>un</strong><br />

personaggio usa espressioni dell'italiano regionale, stare<br />

attenti che siano dell'italiano regionale suo; se si vuole che<br />

parli <strong>di</strong>aletto, che la cosa abbia <strong>un</strong>a sua giustificazione (e sia<br />

fatta con perizia: va da sé). Analogamente, se in <strong>un</strong> romanzo<br />

italiano c'è <strong>un</strong> personaggio inglese che parla italiano, non sarà<br />

tenuto a <strong>di</strong>re well e by Jove!.<br />

11. Nel <strong>di</strong>alogo la p<strong>un</strong>teggiatura va dosata bene. È giusto<br />

inserire p<strong>un</strong>ti e virgole tenendo conto più <strong>di</strong> <strong>un</strong> ipotetico<br />

parlato che della sintassi e della logica. È sbagliato esagerare<br />

con i segni <strong>di</strong> intonazione (esclamativi, interrogativi): come già<br />

detto (p<strong>un</strong>to 7) l'intonazione dovrebbe intuirsi dalle parole<br />

stesse e dal contesto.<br />

12. Nei <strong>di</strong>aloghi in cui <strong>un</strong> personaggio parla molto e l'altro sta<br />

ad ascoltare, è bene che <strong>di</strong> tanto in tanto il soliloquio dell'<strong>un</strong>o<br />

sia interrotto: non necessariamente da interventi dell'altro, ma<br />

anche da gesti, movimenti eccetera (p<strong>un</strong>ti 4 e 5). Segnalo<br />

<strong>un</strong>'eccezione gigantesca: Lord Jim <strong>di</strong> Conrad.<br />

13. Nelle liti, il lettore deve avere ben chiaro quale sia<br />

l'oggetto del contendere.<br />

14. Negli equivoci, il lettore deve capire subito chi sta<br />

equivocando (e su che cosa si equivoca).<br />

15. Nelle scene d'affetto, lasciate parlare il corpo.<br />

16. Se in <strong>un</strong>a stanza ci sono otto personaggi, che parlino<br />

tutti: o, se qualc<strong>un</strong>o non parla, che almeno faccia qualcosa.<br />

Magari dorma.<br />

E si potrebbe proseguire: ma stiamo davvero sconfinando dai<br />

152


criteri alle regolette. E perciò, per oggi, basta.<br />

Chiacchierata numero 61<br />

Buondì. Settimana scorsa mi sono azzardato a fornire se<strong>di</strong>ci<br />

criteri (criteri, non regole) per la gestione del <strong>di</strong>alogo. Avrei<br />

potuto fornirne <strong>di</strong> più, o <strong>di</strong> meno. Alc<strong>un</strong>i sono più importanti,<br />

altri meno. Vorrei soffermarmi su <strong>un</strong>o (il numero 9): “Il <strong>di</strong>alogo<br />

serve a definire la relazione tra i personaggi o a far progre<strong>di</strong>re<br />

l'azione”. Della prima cosa abbiamo già parlato (in particolare<br />

nella p<strong>un</strong>tata LVII); ora parliamo della seconda. Cominciamo<br />

con <strong>un</strong> esempio: <strong>un</strong> brano da La donna <strong>di</strong> scorta, romanzo<br />

d'esor<strong>di</strong>o (assai bello) <strong>di</strong> Diego De Silva (<strong>di</strong>sponibile ora nei<br />

Tascabili Einau<strong>di</strong>). I personaggi sono Livio, uomo sposato con<br />

Laura, e Dorina. Da poco tempo Livio e Dorina sono amanti. La<br />

scena è a casa <strong>di</strong> Dorina.<br />

Dorina era <strong>di</strong>stesa sul fianco e si cingeva la vita con <strong>un</strong><br />

braccio. Livio all<strong>un</strong>gò la mano e le carezzò i capelli. <strong>Non</strong> era<br />

sicuro che fosse sveglia, ma provò ugualmente a parlarle.<br />

“Dormi?”.<br />

Lei tirò l'aria col naso e poi <strong>di</strong>sse no.<br />

“Forse è meglio che ci alziamo”, <strong>di</strong>sse Livio portando la voce<br />

appena sotto il normale livello <strong>di</strong> conversazione.<br />

“Ma che ore sono?” rispose lei a occhi chiusi, anche se<br />

l'iniziativa <strong>di</strong> Livio l'aveva già mezza strappata al torpore.<br />

Livio si alzò a sedere e prese l'orologio dal como<strong>di</strong>no.<br />

“Le <strong>un</strong><strong>di</strong>ci”.<br />

“Lo pren<strong>di</strong> il caffè?” continuò, visto che lei non aveva aggi<strong>un</strong>to<br />

altro.<br />

“Eh, quasi quasi”.<br />

“Allora rimani, te lo porto”.<br />

Dorina affondò la testa nel cuscino tutta contenta <strong>di</strong> non<br />

doversi alzare subito.<br />

Livio si mise in pie<strong>di</strong> e fece per rivestirsi. Aveva appena<br />

raccolto la camicia dalla se<strong>di</strong>a quando Dorina uscì dal letto e lo<br />

interruppe.<br />

“Aspettaspetta”.<br />

“Aspettare che?”.<br />

Dorina aprì l'arma<strong>di</strong>o, prese <strong>un</strong>a busta e ne tirò fuori dei<br />

panni.<br />

“Tieni”, <strong>di</strong>sse, e glieli lanciò insieme. Sembravano due. Mentre<br />

gli volavano incontro nella penombra, a Livio sembrò <strong>di</strong> vedere<br />

153


<strong>un</strong>a cor<strong>di</strong>cella.<br />

“E questa che è?”. Sapeva benissimo <strong>di</strong> avere tra le mani <strong>un</strong>a<br />

tuta da ginnastica.<br />

“L'ho presa ieri al mercato, per te. Credo che la misura sia<br />

giusta. <strong>Non</strong> mi andava <strong>di</strong> vederti in giro per casa vestito come<br />

<strong>un</strong> ospite”.<br />

Lusingato, Livio se la infilò.<br />

Andò a preparare il caffè.<br />

Notiamo, preliminarmente, come questo <strong>di</strong>alogo sia<br />

abbondantemente "p<strong>un</strong>teggiato" dai gesti (ve<strong>di</strong> la p<strong>un</strong>tata LIX<br />

e i criteri 4 e 5 della p<strong>un</strong>tata scorsa). Ogni gesto vale come<br />

<strong>un</strong>a battuta <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo e ogni battuta <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo vale come <strong>un</strong><br />

gesto. Al p<strong>un</strong>to che, quando Livio prende su la camicia dalla<br />

se<strong>di</strong>a, De Silva scrive: “Dorina uscì dal letto e lo interruppe”,<br />

come se lo avesse interrotto a metà <strong>di</strong> <strong>un</strong>a frase (se De Silva<br />

avesse scritto: “lo bloccò”, non avremmo avuto questo effetto).<br />

In questo breve episo<strong>di</strong>o c'è azione? Sì, certo. Azione banale:<br />

<strong>un</strong>a coppia si sveglia, lui si alza per fare il caffè, sta per<br />

rivestirsi, lei lo interrompe e gli offre <strong>un</strong> dono: <strong>un</strong>a tuta da<br />

casa. È così?<br />

No, non è così. Dorina in realtà propone a Livio <strong>un</strong> rito <strong>di</strong><br />

passaggio, e Livio lo accetta “lusingato”. Indossando la tuta<br />

Livio smette <strong>di</strong> essere “<strong>un</strong> ospite” e <strong>di</strong>venta, per così <strong>di</strong>re, <strong>di</strong><br />

casa. La casa lo accetta come suo proprio, e Livio accetta <strong>di</strong><br />

sentirsi a casa sua in quella casa. Che questo avvenga per<br />

mezzo <strong>di</strong> <strong>un</strong>a vestizione, è <strong>un</strong> classico dei riti <strong>di</strong> passaggio<br />

(pensate al vestito della prima com<strong>un</strong>ione, ai vestiti degli<br />

sposi…). Che l'abito indossato da Livio sia <strong>un</strong> abito per stare in<br />

casa, e non <strong>un</strong> abito per uscire <strong>di</strong> casa, è segno della natura e<br />

del limite della relazione tra Livio e Dorina: la clandestinità.<br />

L'offerta dell'abito da parte <strong>di</strong> Dorina è però preceduta da <strong>un</strong>a<br />

avance da parte <strong>di</strong> Livio: “Lo pren<strong>di</strong> il caffè? Rimani, te lo<br />

porto”. Come <strong>di</strong>cesse: “Ormai sono <strong>di</strong> casa, posso muovermi in<br />

questa casa, compiere <strong>un</strong>'azione così intima, così da coppia,<br />

come fare il caffè e portartelo a letto; non merito forse <strong>un</strong>a<br />

risposta da parte tua? Qualcosa che consacri il mio essere <strong>di</strong><br />

casa?”.<br />

Potremmo <strong>di</strong>re che in questa scena si svolge <strong>un</strong>'azione rituale.<br />

E il <strong>di</strong>alogo ha effettivamente <strong>un</strong> f<strong>un</strong>zionamento rituale:<br />

quando Livio capisce <strong>di</strong> avere tra le mani <strong>un</strong>a tuta, e<br />

ugualmente <strong>di</strong>ce: “E questa che è?”, lo fa per permettere a<br />

Dorina <strong>di</strong> <strong>di</strong>re: “L'ho presa ieri al mercato, per te”. Dove <strong>un</strong>a<br />

parola chiave è “ieri”. Come Dorina <strong>di</strong>cesse: “Ieri non eravamo<br />

insieme, eppure ve<strong>di</strong>: pensavo a te, d<strong>un</strong>que eravamo insieme”.<br />

154


L'altra parola chiave è: “mercato”. <strong>Non</strong> nel chiuso <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

negozio, è stata acquistata la tuta: ma all'aria aperta del<br />

mercato. L'evocazione dell'aria aperta del mercato è <strong>un</strong>a<br />

avance <strong>di</strong> Dorina: che non vorrebbe la loro relazione confinata<br />

nella clandestinità. Livio non se ne rende conto, e<br />

probabilmente nemmeno Dorina: la cui parte razionale accetta<br />

<strong>di</strong> essere <strong>un</strong>a “donna <strong>di</strong> scorta”, ma la parte emotiva no. E<br />

preann<strong>un</strong>cia, l'evocazione dell'aria aperta del mercato, la scena<br />

del definitivo <strong>di</strong>stacco tra Livio e Dorina (pp. 125 sgg.): che<br />

avviene app<strong>un</strong>to in <strong>un</strong> luogo pubblico, <strong>un</strong> ristorante dove Livio<br />

e Dorina cenano insieme e nel quale arrivano dei conoscenti <strong>di</strong><br />

Livio. Livio <strong>di</strong>ssimula. Dorina capisce che la loro relazione non<br />

uscirà mai dalla clandestinità. Ci sarà ancora <strong>un</strong> incontro - <strong>un</strong>o<br />

strascico - e basta. Nemmeno <strong>un</strong> ad<strong>di</strong>o.<br />

Qual è d<strong>un</strong>que il progresso dell'azione, in questo episo<strong>di</strong>o? È<br />

questo: Livio e Dorina, fino a quel momento "amanti non<br />

impegnati", <strong>di</strong>ventano "amanti impegnati"; e questo loro<br />

impegnarsi già contiene il germe della loro futura separazione.<br />

La cosa poteva essere narrata senza <strong>di</strong>alogo? Ma, forse sì. Ma<br />

avrebbe comportato dei gesti-parola, interpretabili dal lettore<br />

come vere e proprie battute <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo: quin<strong>di</strong>, non può essere<br />

narrata senza <strong>di</strong>alogo.<br />

Si può <strong>di</strong>re, certo, che tutto ciò che avviene in questa scena è<br />

<strong>un</strong> mutamento nella relazione tra i personaggi; e che essendo<br />

la storia raccontata in La donna <strong>di</strong> scorta <strong>un</strong>a storia <strong>di</strong><br />

relazione tra personaggi, in questo caso i due scopi del <strong>di</strong>alogo,<br />

definire la relazione e far progre<strong>di</strong>re l'azione, sostanzialmente<br />

coincidono. <strong>Non</strong> c'è dubbio. Ma se in questa scena si compie <strong>un</strong><br />

rito, si consacra <strong>un</strong> mutamento, allora questa scena è il p<strong>un</strong>to<br />

in cui <strong>un</strong> mutamento <strong>di</strong>venta <strong>un</strong> fatto, quin<strong>di</strong> azione. Ma ne<br />

riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 62<br />

“D<strong>un</strong>que si va avanti sì o no? Corpo <strong>di</strong> Giove! È impossibile<br />

che noi siamo caduti come tanti stupi<strong>di</strong> su <strong>un</strong> banco”.<br />

“È impossibile avanzare, signor Yanez”.<br />

“Che cos'è d<strong>un</strong>que che ci ha fermati?”.<br />

“<strong>Non</strong> lo sappiamo ancora”.<br />

“Per Giove! Era ubriaco il pilota? Bella fama che si acquistano<br />

i Malesi! Ed io che li avevo creduti, fino a stamane, i migliori<br />

marinai dei due mon<strong>di</strong>! Sambigliong, fa spiegare dell'altra tela.<br />

Il vento è buono e chissà che non riusciamo a passare”.<br />

155


“<strong>Non</strong> faremo nulla, signor Yanez, perché la marea cala<br />

rapidamente”.<br />

“Che il <strong>di</strong>avolo si porti all'inferno quell'imbecille <strong>di</strong> pilota!”.<br />

Così comincia Il re del mare, <strong>un</strong>o dei romanzi <strong>di</strong> Emilio Salgàri<br />

appartenente al "ciclo della Malesia", ossia al ciclo <strong>di</strong><br />

Sandokan, Yanez, Marianna, Tremal-Naik, Kammamuri e tutti<br />

gli altri. Yanez, a questo p<strong>un</strong>to, fa chiamare il pilota.<br />

“Padada”, <strong>di</strong>sse l'europeo con voce secca, mentre appoggiava<br />

la destra sul calcio d'<strong>un</strong>a delle sue pistole, “come va questa<br />

faccenda? Avevi detto che conoscevi tutti i passi della costa<br />

bornese ed è solo per ciò che ti ho imbarcato”.<br />

“Ma, signore…”, balbettò il malese con aria imbarazzata”.<br />

“Che cosa vuoi <strong>di</strong>re?”, chiese Yanez che per la prima volta in<br />

vita sua sembrava avesse perduta la sua flemma abituale.<br />

“Questo banco non esisteva prima”.<br />

“Briccone, vuoi tu che sia sorto stamane dal fondo del mare?<br />

Sei <strong>un</strong> imbecille! Tu hai dato <strong>un</strong> colpo falso <strong>di</strong> barra per<br />

arrestare la Marianna”.<br />

“A quale scopo, signore?”.<br />

“Che ne so io? Potrebbe darsi che tu fossi d'accordo con quei<br />

misteriosi nemici che hanno sollevato i dayachi”.<br />

“<strong>Non</strong> ho avuto altri rapporti che coi miei compatriotti,<br />

signore”.<br />

“Cre<strong>di</strong> che ci potremo <strong>di</strong>sincagliare?”.<br />

“Sì, all'alta marea”.<br />

“Vi sono molti dayachi sul fiume?”.<br />

“<strong>Non</strong> credo”.<br />

“Sai che abbiano buone armi?”.<br />

“<strong>Non</strong> ho veduto presso <strong>di</strong> loro che qualche fucile”.<br />

“Chi può essere stato a sollevarli?”, borbottò Yanez. “Vi è <strong>un</strong><br />

mistero qui sotto che non riesco a spiegare, quant<strong>un</strong>que la<br />

Tigre della Malesia si ostini a vedere in tuttociò la mano<br />

degl'Inglesi. Speriamo <strong>di</strong> gi<strong>un</strong>gere in tempo e <strong>di</strong> ricondurre<br />

Tremal-Naik e Darma a Mompracem, prima che i ribelli<br />

invadano le loro piantagioni e <strong>di</strong>struggano le loro fattorie.<br />

Ve<strong>di</strong>amo se possiamo lasciare questo banco prima che la<br />

marea abbia raggi<strong>un</strong>to la sua massima altezza”.<br />

Voltò le spalle al malese e si rivolse verso prora, curvandosi<br />

sulla murata del castello.<br />

156


Sulla qualità della <strong>scrittura</strong> <strong>di</strong> Emilio Salgàri si può <strong>di</strong>scutere.<br />

Ma la sua qualità <strong>di</strong> narratore, come sa chi<strong>un</strong>que sia stato<br />

ragazzino, è altissima. Certo: <strong>un</strong> narratore non proprio<br />

innovativo. Ma <strong>un</strong> narratore che sapeva usare con <strong>di</strong>sinvoltura<br />

tutti gli strumenti della narrativa popolare. <strong>Non</strong>ché <strong>un</strong> grande<br />

immaginatore, che con Sandokan ha creato <strong>un</strong>o dei pochi<br />

personaggi della letteratura italiana che restino nel tempo.<br />

Salgàri cominciava spesso i suoi libri con l<strong>un</strong>ghi <strong>di</strong>aloghi. Era<br />

<strong>un</strong> modo per introdurre il lettore <strong>di</strong>rettamente nel vivo<br />

dell'azione: perché il <strong>di</strong>alogo, per Salgàri, è soprattutto azione.<br />

Guar<strong>di</strong>amo quante informazioni vengono date al lettore nel<br />

<strong>di</strong>alogo riportato sopra: impariamo che i nostri eroi sono in<br />

nave, nel Borneo, incagliati in <strong>un</strong> banco <strong>di</strong> sabbia; che la nave<br />

si è recata nel Borneo per imbarcare Tremal-Naik e Darma;<br />

che la meta del viaggio è Mompracem, la mitica isola dei pirati.<br />

Ma impariamo anche che c'è in <strong>corso</strong> <strong>un</strong>a rivolta, e che Yanez è<br />

costretto a non fidarsi <strong>di</strong> ness<strong>un</strong>o: nemmeno del pilota della<br />

nave. E impariamo infine che quel banco <strong>di</strong> sabbia è<br />

misterioso: fino a poco prima non c'era.<br />

Osserviamo i movimenti del <strong>di</strong>alogo. Yanez convoca Padada, il<br />

pilota. Qual è il problema <strong>di</strong> Yanez? <strong>Non</strong> solo capire se e<br />

quando ci si potrà <strong>di</strong>sincagliare; ma scoprire se l'incagliamento<br />

non faccia parte <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>di</strong>segno altrui. Interpella d<strong>un</strong>que<br />

Padada. L'inizio è soft: Yanez mette in dubbio la competenza <strong>di</strong><br />

Padada: “Avevi detto che conoscevi tutti i passi della costa<br />

bornese”. Padada dà, esitando, <strong>un</strong>a risposta alla quale Yanez fa<br />

fatica a credere: “Questo banco non esisteva prima”. D'altra<br />

parte <strong>un</strong>a risposta <strong>di</strong>sarmante può essere cre<strong>di</strong>bile proprio in<br />

quanto tale. In fondo, è vero che vicino alla voce d'<strong>un</strong> fiume<br />

(scopriremo due pagine dopo, <strong>di</strong> essere vicino alla foce d'<strong>un</strong><br />

fiume) si possono creare rapidamente banchi <strong>di</strong> sabbia. E poi<br />

c'è sempre l'azione delle maree, delle tempeste, e così via.<br />

Quin<strong>di</strong> Padada, rispondendo così, e non accampando altre<br />

giustificazioni, si espone all'ira <strong>di</strong> Yanez, ma non dà<br />

l'impressione <strong>di</strong> essere <strong>un</strong> tra<strong>di</strong>tore. Yanez deve com<strong>un</strong>que<br />

metterlo alla prova: lo insulta, cerca <strong>di</strong> fargli saltare i nervi, lo<br />

accusa esplicitamente: “Tu hai dato <strong>un</strong> colpo falso <strong>di</strong> barra per<br />

arrestare la Marianna”. Padada risponde nel migliore dei mo<strong>di</strong>:<br />

non <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> no, <strong>di</strong>ce: “A quale scopo?”. In sostanza, costringe<br />

Yanez a esplicitare la sua accusa implicita. Cosa che Yanez fa:<br />

“Potrebbe darsi che tu fossi d'accordo con quei misteriosi<br />

nemici…”.<br />

Padada non risponde <strong>di</strong>rettamente. Dice: “<strong>Non</strong> ho avuto altri<br />

rapporti che coi miei compatriotti”. <strong>Non</strong> si <strong>di</strong>chiara fedele a<br />

Yanez (cosa inutile, visto che in questo momento Yanez non sa<br />

157


se fidarsi o no <strong>di</strong> lui); si <strong>di</strong>chiara fedele a <strong>un</strong>a fedeltà più<br />

grande, quella per la razza e la patria. E invita Yanez a<br />

rendersi conto <strong>di</strong> persona: faccia pure <strong>un</strong>'inchiesta, scoprirà<br />

che il buon Padada non ha mai parlato con ness<strong>un</strong> dayaco…<br />

Però Padada non <strong>di</strong>ce: “<strong>Non</strong> sono in combutta con i dayachi”.<br />

Yanez lo invita a <strong>un</strong>a negazione, e lui si scansa.<br />

Yanez si ritiene sod<strong>di</strong>sfatto della risposta (o finge <strong>di</strong> ritenersi<br />

sod<strong>di</strong>sfatto) e cambia <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>. “Cre<strong>di</strong> che ci potremo<br />

<strong>di</strong>sincagliare?”. Padada è nuovo il suo pilota. Come <strong>di</strong>re:<br />

l'incidente è chiuso, mi fido <strong>di</strong> te, <strong>di</strong>mmi come facciamo a<br />

toglierci <strong>di</strong> qui. Ma <strong>un</strong> attimo dopo, la domanda: “Sai che<br />

abbiano buone armi?” è insi<strong>di</strong>osa. Se Padada fosse troppo bene<br />

informato, i sospetti ritornerebbero. Padada è cauto: “<strong>Non</strong> ho<br />

veduto presso <strong>di</strong> loro che qualche fucile”. “<strong>Non</strong> ho veduto”.<br />

<strong>Non</strong> “Ho sentito <strong>di</strong>re”, ad esempio, che implicherebbe <strong>un</strong>a<br />

relazione. “<strong>Non</strong> ho veduto”, come <strong>di</strong>re: “Avrai visto anche tu,<br />

anche tu li ve<strong>di</strong>”.<br />

E Yanez, con tutti i suoi sospetti, resta a bocca asciutta. Alla<br />

settimana prossima.<br />

Scriptorium 63<br />

Bene. Ho de<strong>di</strong>cate otto p<strong>un</strong>tate al <strong>di</strong>alogo. <strong>Non</strong> ne posso più.<br />

E poiché non ho voglia <strong>di</strong> mettermi a parlare<br />

dell'ambientazione, dei tempi delle scene, dell'articolazione<br />

della trama, dei colpi <strong>di</strong> scena e <strong>di</strong> tutte quelle robe lì che si<br />

trovano nei manuali (ad esempio in Scrivere <strong>un</strong> romanzo:<br />

come strutturare personaggi e storie in modo efficace, <strong>di</strong><br />

Donna Levin, Dino Au<strong>di</strong>no E<strong>di</strong>tore, www.au<strong>di</strong>noe<strong>di</strong>tore.it, 188<br />

pagine per 18 euro); allora mi metterò a parlare d'altro.<br />

Sabato 24 aprile ero a Bolzano per <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong><br />

intitolato Cose che succedono mentre si fa la spesa al<br />

supermercato, organizzato presso l'Università popolare delle<br />

Alpi Dolomitiche da Giovanni Accardo.<br />

Che cosa si fa, in <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> intitolato Cose che<br />

succedono mentre si fa la spesa al supermercato? Per<br />

cominciare, si parla del supermercato.<br />

“Qual è la vostra relazione con il supermercato?”, ho<br />

domandato ai ventotto bal<strong>di</strong> corsisti. “Quando ci andate? Come<br />

ci andate? Che cosa ci comperate?”, eccetera. Com'era<br />

preve<strong>di</strong>bile, è uscito fuori <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> tutto: da “Io non ci vado<br />

mai, nemmeno se mi pagano” a “Ah, com'è bello il<br />

158


supermercato!… Lo amo proprio!”.<br />

Avevo bisogno <strong>di</strong> capire che cosa intendevano <strong>di</strong>re i miei bal<strong>di</strong><br />

corsisti (e le mie balde corsiste) quando pron<strong>un</strong>ciavano la<br />

parola: “supermercato”. L'Italia è l<strong>un</strong>ga, come si usa <strong>di</strong>re. I<br />

supermercati non sono tutti uguali ov<strong>un</strong>que. Nella Libera<br />

Provincia <strong>di</strong> Bolzano, ad esempio, non ci sono ipermercati: è<br />

<strong>un</strong>a precisa scelta politica. Così abbiamo chiacchierato <strong>un</strong> po'.<br />

Poi, <strong>un</strong>o stop improvviso. “Prendete carta e penna”, ho detto.<br />

Ho dettato i titoli <strong>di</strong> quattro esercizi, da eseguirsi ciasc<strong>un</strong>o in<br />

sette/<strong>di</strong>eci minuti: Lode del supermercato (da eseguire in<br />

versi), Registrazione dei pensieri <strong>di</strong> <strong>un</strong>a cassiera<br />

quarantacinquenne in attesa <strong>di</strong> recarsi, finito il turno, presso<br />

l'avvocato <strong>di</strong>vorzista, Autobiografia passionale <strong>di</strong> <strong>un</strong> vasetto <strong>di</strong><br />

marmellata <strong>di</strong> prugne senza zuccheri aggi<strong>un</strong>ti, Opinioni sul<br />

cosmo <strong>di</strong> <strong>un</strong> salamino Negroni a basso contenuto <strong>di</strong> grassi, e<br />

così via.<br />

“Questi esercizi sono stupi<strong>di</strong>”, ha detto <strong>un</strong> baldo corsista.<br />

“È vero”, ho ammesso.<br />

Gli esercizi erano effettivamente stupi<strong>di</strong>, ma avevano il loro<br />

senso. Si trattava, per me, <strong>di</strong> spostare l'attenzione dei bal<strong>di</strong><br />

corsisti dal loro vissuto-del-supermercato al vissuto-delsupermercato<br />

<strong>di</strong> qualc<strong>un</strong> altro: e in particolare, al vissuto-delsupermercato<br />

dei prodotti, delle merci.<br />

“Perché?”.<br />

Pazienza, ci arrivo.<br />

Quando ben gli esercizi sono stati grosso modo eseguiti (quasi<br />

ness<strong>un</strong>o è arrivato fino al salamino), allora ho cominciato a<br />

raccontare.<br />

Ho raccontata la favola dei giocattoli: quelli che a mezzanotte,<br />

magicamente, <strong>di</strong>ventano vivi e cominciano a parlare tra loro.<br />

Ho raccontata l'operetta <strong>di</strong> Leopar<strong>di</strong> Dialogo tra Federico<br />

Ruysch e le sue mummie, dove grazie a <strong>un</strong>a singolarissima e<br />

rarissima congi<strong>un</strong>zione astronomica le mummie conservate<br />

nello stu<strong>di</strong>o del suddetto Federico Ruysch, celeberrimo (a quei<br />

tempi) anatomista e preparatore, iniziano a cantare:<br />

Sola nel mondo eterna, a cui si volve<br />

Ogni creata cosa,<br />

In te, morte, si posa<br />

Nostra ignuda natura;<br />

Lieta no, ma sicura<br />

Dall'antico dolor.<br />

Ruysch si precipita nello stu<strong>di</strong>o, inizia a parlare con le<br />

mummie, le interroga (ovviamente) su che cosa sia il morire,<br />

159


le mummie rispondono che non ne hanno idea, che loro hanno<br />

del morire più o meno il ricordo che da vive avevano del<br />

nascere, e poi alla fine il tempo scade e le mummie ripiombano<br />

nel silenzio.<br />

Quello che è successo nel quarto d'orda successivo non me lo<br />

ricordo tanto. Ho cominciato a parlare delle merci, dei prodotti,<br />

come <strong>di</strong> esseri che a mezzanotte si risvegliano, parlano; mi<br />

sono interrogato sulla lingua delle merci (se le prugne parlano<br />

la loro lingua, la marmellata <strong>di</strong> prugne che lingua parlerà?<br />

forse <strong>un</strong>a linguaprugna frullata, sminuzzata, ridotta a grumi <strong>di</strong><br />

fonemi?), sull'eventuale pluralità <strong>di</strong> lingue (il fustino <strong>di</strong><br />

detersivo parla come le ciliegie sotto spirito?); e poi ho parlato<br />

del desiderio delle merci, del loro sporgersi, protendersi dagli<br />

scaffali verso <strong>di</strong> noi, del loro voler essere scelte, elette,<br />

acquistate… <strong>Non</strong> siamo noi che desideriamo le merci, ho detto,<br />

sono loro che desiderano noi… Che desiderano noi in quanto<br />

loro destino, in quanto noi daremo loro <strong>un</strong>a fine, e quin<strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

senso…<br />

Una balda corsista ha detto: “Basta così, altrimenti non ci<br />

vado più, io, al supermercato”.<br />

Allora ho detto: “Bene, an<strong>di</strong>amo tutti al supermercato”.<br />

E ci siamo andati. Con bloc-notes e penna biro. “Guardate le<br />

parole”, ho detto ai bal<strong>di</strong> corsisti, “guardate che cosa c'è scritto<br />

sopra le merci, che cosa c'è scritto sui cartelli, ascoltate che<br />

cosa <strong>di</strong>ce la gente, ascoltate la ra<strong>di</strong>o…”.<br />

Siamo tornati in aula dopo <strong>un</strong>'ora abbondate. Abbiamo parlato<br />

delle parole trovate. Più d'<strong>un</strong>o o d'<strong>un</strong>a ha detto: “<strong>Non</strong> mi ero<br />

mai accorto della tale o talaltra cosa, che ho sempre avuta<br />

sott'occhio”. Bene. Abbiamo scoperto che sopra le merci sono<br />

scritte cose incre<strong>di</strong>bili.<br />

Esercizio. “Provate a scrivere dei pensieri fatti dalle merci.<br />

Ipotizzando che la lingua a <strong>di</strong>sposizione delle merci sia<br />

composta sostanzialmente dalle parole che gli uomini hanno<br />

scritte sopra le merci stesse”. Qualc<strong>un</strong>o ha protestato. “Che<br />

razza <strong>di</strong> esercizio è?”. “Suvvia”, ho detto, “proviamo”.<br />

Abbiamo provato. Qualc<strong>un</strong>o non è riuscito a venirne a capo.<br />

Qualc<strong>un</strong>o si è <strong>di</strong>vertito assai a giocare con la lingua. Sono<br />

uscite delle cose a metà tra la Fontana malata <strong>di</strong> Palazzeschi e<br />

i libri <strong>di</strong> Ballard. Bene. Ormai eravamo a fine giornata. Ho<br />

assegnati i compiti: “Scrivete”. “Che cosa?”. “Eh, cose attinenti<br />

al tema: Cose che succedono mentre si fa la spesa al<br />

supermercato”. “Sì, vabbè, ma…”. “Vi do dei modelli. I<br />

Frammenti <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> amoroso <strong>di</strong> Roland Barthes, le Città<br />

invisibili <strong>di</strong> Italo Calvino, il Catalogo dei giocattoli <strong>di</strong> Sandra<br />

Petrignani. Saluti a tutti, ci si vede tra <strong>un</strong> mese”.<br />

160


Bisognerebbe interrogarsi, a questo p<strong>un</strong>to, sulla sensatezza <strong>di</strong><br />

fare <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong> de<strong>di</strong>cato ai<br />

supermercati. Secondo me è cosa sensatissima. Ma ne<br />

parliamo tra <strong>un</strong>a settimana.<br />

Chiacchierata numero 64<br />

Buondì. Raccontavo, settimana scorsa, <strong>di</strong> <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong> che si sta svolgendo a Bolzano. Il tema del laboratorio<br />

è: Cose che succedono mentre si fa la spesa al supermercato. I<br />

corsisti (che rivedrò tra <strong>un</strong> mese) hanno già cominciato a<br />

mandarmi testi: il più interessante è, finora, <strong>un</strong> breve racconto<br />

avente per oggetto (parole dell'autrice): “Il suici<strong>di</strong>o, visto<br />

attraverso gli occhi <strong>di</strong> <strong>un</strong>a scatoletta <strong>di</strong> pomodoro”. Un'altra<br />

persona mi ha scritto: “Sto rizzando i sensi quando vado a far<br />

la spesa... Gli stimoli si sono moltiplicati”. Una terza persona<br />

invece mi ha scritto: “<strong>Non</strong> so che <strong>di</strong>rle. Credevo <strong>di</strong> essermi<br />

iscritto a <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> creativa. Che cosa c'entra il<br />

supermercato?”.<br />

Bene. In tanti anni che ci lavoro (più <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci), mi sono ormai<br />

fatto qualche idea su ciò che si intende normalmente per<br />

“laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> creativa”. Si intende, in linea <strong>di</strong><br />

massima: <strong>un</strong>'occasione per sentirsi raccontare delle cose su <strong>un</strong><br />

certo preciso numero <strong>di</strong> argomenti (la costruzione della trama,<br />

la formazione del personaggio, la contestualizzazione, il p<strong>un</strong>to<br />

<strong>di</strong> vista, il trattamento del <strong>di</strong>alogo…), per scrivere qualche<br />

pagina su <strong>un</strong> tema dato e/o con delle forme date, per leggere o<br />

dare in lettura dei propri testi e sentire l'opinione del docente.<br />

Io stesso ho fatte <strong>di</strong> queste cose: che vanno benissimo, sono<br />

utili, servono. Però, in tutta sincerità, mi hanno stufato. Sulla<br />

costruzione della trama ci sono dei bellissimi libri, per capire<br />

come si fa <strong>un</strong> buon <strong>di</strong>alogo non c'è niente <strong>di</strong> meglio che<br />

leggere attentamente <strong>un</strong> <strong>di</strong>alogo che ci sembri buono, il p<strong>un</strong>to<br />

<strong>di</strong> vista è <strong>un</strong>a questione quasi sempre (non so perché)<br />

enfatizzata ma <strong>di</strong>fatto banale, la contestualizzazione è <strong>un</strong>a<br />

cosa che o <strong>un</strong>o capisce che è fondamentale (e allora se la sa<br />

cavare da solo) o non vuol capire che è fondamentale (e allora<br />

collocherà le sue storie, come tanti fanno, in contesti vaghi,<br />

indefiniti o standard); eccetera. Scrivere su <strong>un</strong> tema dato non<br />

è <strong>un</strong>a cosa <strong>di</strong> per sé particolarmente interessante (tranne in <strong>un</strong><br />

caso, e ne parlo poi), scrivere in <strong>un</strong>a forma data è puro e<br />

semplice esercizio (“Vi spiegherò il madrigale, dopo<strong>di</strong>ché<br />

scriveremo tutti dei madrigali…”). Discutere i testi è, sì, <strong>un</strong>a<br />

161


cosa interessante; per me, che avrò <strong>di</strong>scusso migliaia <strong>di</strong><br />

racconti o poesie o tentativi <strong>di</strong> romanzo, resta <strong>un</strong>a cosa<br />

interessante. Ma in <strong>un</strong> laboratorio si producono esercizi; e<br />

<strong>di</strong>scutere gli esercizi non è, secondo me, particolarmente<br />

interessante. Un esercizio al massimo si corregge: “Sì, il tuo<br />

madrigale è venuto bene; no, non hai fatte le rime giuste”,<br />

eccetera.<br />

Dicevo, che c'è <strong>un</strong> caso in cui mi sembra interessante scrivere<br />

su <strong>un</strong> tema dato. Il caso è questo: quando le in<strong>di</strong>cazioni del<br />

docente siano estremamente costrittive. Mi sarà sicuramente<br />

capitato <strong>di</strong> <strong>di</strong>re - in qualc<strong>un</strong>a <strong>di</strong> queste chiacchierate che ormai<br />

non fanno più ness<strong>un</strong> tentativo <strong>di</strong> farsi passare per <strong>un</strong> <strong>corso</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong> a p<strong>un</strong>tate - mi sarà sicuramente capitato <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che le<br />

costrizioni aguzzano l'ingegno e stimolano l'invenzione. Tra<br />

<strong>di</strong>re: “Ora scriveremo <strong>un</strong> racconto sul tema: Cose che<br />

succedono mentre si fa la spesa al supermercato”, e fare tutto<br />

l'ambaradam che ho raccontato nella precedente p<strong>un</strong>tata, la<br />

<strong>di</strong>fferenza è tutta qui: nel grado <strong>di</strong> costrizione. Quando arrivo a<br />

<strong>di</strong>re: “Provate a scrivere dei pensieri fatti dalle merci.<br />

Ipotizzando che la lingua a <strong>di</strong>sposizione delle merci sia<br />

composta sostanzialmente dalle parole che gli uomini hanno<br />

scritte sopra le merci stesse”, so benissimo che sto imponendo<br />

<strong>un</strong> esercizio impossibile da eseguire o, se preferite, <strong>un</strong><br />

esercizio che può essere eseguito solo in maniera fallimentare.<br />

E infatti ho detto, lì a Bolzano, come sempre <strong>di</strong>co: “Scrivere <strong>un</strong><br />

esercizio che sia anche <strong>un</strong>a cosa bella, è impossibile”. A me<br />

interessa che le persone ci provino. Che ci <strong>di</strong>ano dentro. Che<br />

arrivino al p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> fare cose che mai avrebbero fatto, pur <strong>di</strong><br />

venire a capo dell'esercizio, pur <strong>di</strong> potermi <strong>di</strong>re: “Ecco, tu hai<br />

cercato <strong>di</strong> fregarmi con <strong>un</strong> esercizio impossibile, ma io l'ho<br />

fatto lo stesso”.<br />

Ma c'è <strong>un</strong>'altra cosa che riesce a rendere interessante <strong>un</strong><br />

esercizio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, ed è l'azzeccare <strong>un</strong> tema che imponga <strong>di</strong><br />

rifocalizzare qualcosa che appartiene all'esperienza com<strong>un</strong>e:<br />

<strong>un</strong> tema, in altre parole, che spinga, che forzi a gettare su cose<br />

che sempre guar<strong>di</strong>amo <strong>un</strong>o sguardo nuovo. Spesso, ad<br />

esempio, comincio <strong>un</strong> laboratorio con degli esercizi che chiamo<br />

“<strong>di</strong> sgranchimento” ma che sono, ahimè, dei veri esercizi <strong>di</strong><br />

provocazione. Dico: “Prendete carta e penna. Tema: La mia<br />

mamma”. Tutti sghignazzano. Io sto serio, finché qualc<strong>un</strong>o non<br />

mi domanda: “Va bene, apprezziamo lo scherzo, ma qual è il<br />

vero titolo dell'esercizio?”; e io riba<strong>di</strong>sco: “Tema: La mia<br />

mamma”. Al quale seguono altri temi dello stesso genere quali:<br />

“Il mio compagno <strong>di</strong> banco”, “La strada nella quale abito”, “Una<br />

giornata piacevole”, “Le mie feci”.<br />

162


“Alt!”, <strong>di</strong>rà qualc<strong>un</strong>o. “"Le mie feci" non è <strong>un</strong> tema dello<br />

stesso genere”.<br />

<strong>Non</strong> è vero. È proprio <strong>un</strong> tema dello stesso genere. O<br />

quantomeno, produce <strong>un</strong> effetto del genere: mette in<br />

imbarazzo. Costringe ad addentrarsi nel territorio dell'ovvio (in<br />

quello che si presume essere il territorio dell'ovvio) per poi<br />

scoprire che quello non è per nulla il territorio dell'ovvio. E fa<br />

scoprire che, spesso, per parlare delle cose più semplici e<br />

prossime, letteralmente non abbiamo parole. Ho visto interi<br />

gruppi <strong>di</strong> aspiranti narratori andare in tilt <strong>di</strong>fronte al compito<br />

improbo <strong>di</strong> scrivere <strong>un</strong>a paginetta sulla mamma.<br />

Le merci del supermercato, questo è il p<strong>un</strong>to d'arrivo, sono<br />

come la mamma. Appartengono alla nostra vita, così come alla<br />

vita <strong>di</strong> tutti i personaggi delle storie che raccontiamo. Le<br />

guar<strong>di</strong>amo (anche attentissimamente, per sceglierle) tutti i<br />

santi giorni. Eppure, così come la mamma e le feci, raramente<br />

ne percepiamo le potenzialità narrative. Per <strong>di</strong>rla tutta: quasi<br />

mai, nei vari corsi e laboratori che vado facendo, incontro<br />

persone che ne percepiscano le potenzialità narrative.<br />

Ma, ovviamente, non si tratta solo <strong>di</strong> questo. Ne riparliamo<br />

tra sette giorni.<br />

Chiacchierata numero 65<br />

Allora, stavo parlando dei supermercati e delle merci. Ho letto<br />

in questi giorni (me l'ha segnalato Vitaliano Trevisan) <strong>un</strong><br />

piccolo libro molto bello: Requiem per <strong>un</strong> albero, <strong>di</strong> Matteo<br />

Melchiorre (E<strong>di</strong>zioni Spartaco, <strong>corso</strong> De Carolis 18, 81055<br />

Santa Maria Capua Vetere [Ce], www.e<strong>di</strong>zionispartaco.it). È <strong>un</strong><br />

libro che parla <strong>di</strong> <strong>un</strong> albero: <strong>un</strong> grande olmo (chiamato<br />

l'Alberón) che sorgeva nel paese <strong>di</strong> Tomo, in provincia <strong>di</strong><br />

Vicenza:<br />

“Era <strong>un</strong> cumulo davanti agli occhi <strong>di</strong> ver<strong>di</strong> forati da luci<br />

azzurre. Il tronco, cinque metri <strong>di</strong> circonferenza. Corteccia<br />

grigiobr<strong>un</strong>a e muschio a macchie. Tre rami, come alberi<br />

normali. In su, <strong>un</strong>a casacata <strong>di</strong> rami e rametti barocchi. Foglie<br />

pesanti. La chioma, quin<strong>di</strong>ci, venti metri. Qualche ramo dei più<br />

alti ingrigito, scortecciato da frustate <strong>di</strong> fulmine”.<br />

Il libro inizia con la caduta dell'alberón: “Un colpo <strong>di</strong> vento e il<br />

terreno inzuppato <strong>di</strong> pioggia sono bastati a buttare giù<br />

l'Alberón. Ma sembrava più solido della roccia. Una frana <strong>di</strong><br />

tuono, senz'altro, ma che ness<strong>un</strong>o ha sentito. L'Alberón è<br />

rimasto rovesciato, le ra<strong>di</strong>ci nude alle intemperie, i rami alti,<br />

163


che non vedevi, spezzati sull'erba fresca, avviliscono. Il<br />

pomeriggio del 4 maggio mi sono trovato davanti a <strong>un</strong> gigante<br />

antico, al suolo”.<br />

Tutto il libro è <strong>un</strong> viaggio attorno all'Alberón: che davanti ai<br />

nostri occhi <strong>di</strong> lettori si trasforma, pian piano, da <strong>un</strong> semplice<br />

“grande olmo” in <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> <strong>di</strong>vinità ctonia, in <strong>un</strong> simbolo<br />

della com<strong>un</strong>ità <strong>di</strong> Tomo, in <strong>un</strong>'allegoria della fine del mondo<br />

premoderno. Attraverso la storia dell'Alberón Matteo Melchiorre<br />

racconta tutta la storia <strong>di</strong> <strong>un</strong>a com<strong>un</strong>ità, <strong>di</strong> <strong>un</strong> cosmo e <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

tempo che non esistono più.<br />

Bene. Se avete tempo e voglia, leggete questo libro: che,<br />

ripeto, è molto bello (e costa solo 10 euro). Se conoscete i libri<br />

<strong>di</strong> Luigi Meneghello, vi accorgerete che l'aria che tira è più o<br />

meno quella: e anche la qualità della <strong>scrittura</strong>.<br />

Sento già la domanda: “Che cosa c'entra l'Alberón con i<br />

supermercati?”. App<strong>un</strong>to. Se la storia dell'Alberón è la storia <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong>a com<strong>un</strong>ità, <strong>di</strong> <strong>un</strong> cosmo e <strong>di</strong> <strong>un</strong> tempo che non esistono più,<br />

allora la questione è: chi, o che cosa, oggi, nelle nostre<br />

com<strong>un</strong>ità, nei nostri cosmi, nei nostri tempi, può essere ciò che<br />

per quelle com<strong>un</strong>ità quei cosmi e quei tempi che non esistono<br />

più erano gli Alberoni che, essi pure, non esistono più o, se<br />

ancora r-esistono, sono <strong>di</strong>ventati insensati?<br />

Una dozzina d'anni fa a Padova, la città dove abito, fu<br />

costruito il primo ipermercato della zona. Io, come tutti, <strong>un</strong>o<br />

dei primi giorni d'apertura, andai a vederlo. Poi non ci andai<br />

più per <strong>un</strong> pezzo: non ne avevo bisogno, la piazza del mio<br />

quartiere offriva, in termini <strong>di</strong> merci, più o meno tutto quello<br />

che mi serviva. C'era il fruttivendolo, il negozio <strong>di</strong> alimentari, il<br />

macellaio, la cartoleria, il bar, la pasticceria, la merceria, il<br />

meccanico da biciclette, il meccanico da motorini, la trattoria, il<br />

negozio <strong>di</strong> articoli per la casa, il riparatore <strong>di</strong> elettrodomestici,<br />

l'idraulico, l'elettrauto, l'e<strong>di</strong>cola, il fiorista, il barbiere, il<br />

tabaccaio.<br />

Ho cominciato a frequentare l'ipermercato da quando le<br />

botteghe hanno cominciato a sparire dalla piazza: oggi non ci<br />

sono più il fruttivendolo, il macellaio, la merceria, il riparatore<br />

<strong>di</strong> elettrodomestici, l'idraulico, l'elettrauto, il barbiere, il<br />

tabaccaio; la trattoria e il bar hanno nuove gestioni e sono stati<br />

trasformati; il negozio <strong>di</strong> articoli per la casa si è rimpicciolito e<br />

ha ceduto parte del proprio spazio a <strong>un</strong> solarium.<br />

Penso che si possa paragonare la caduta dell'Alberón e la<br />

scomparsa delle botteghe. Le botteghe, ovviamente, non erano<br />

solo luoghi dove potevo comperare le cose: erano luoghi <strong>di</strong><br />

incontri, <strong>di</strong> conversazione, <strong>di</strong> per<strong>di</strong>ta del tempo, <strong>di</strong><br />

informazione sulla vita del quartiere, e così via. Per me,<br />

164


“andare in piazza” significava uscire, star fuori <strong>un</strong>'oretta o<br />

<strong>un</strong>'oretta e mezza, tornare a casa con qualche acquisto,<br />

eventualmente, ma soprattutto con tante conversazioni nella<br />

testa.<br />

Io ho bisogno <strong>di</strong> andare in piazza. Quando non sono in<br />

viaggio per lavoro, alle sei del pomeriggio esco e vado in<br />

piazza. <strong>Non</strong> posso farne a meno.<br />

Quando ho cominciato, per necessità, a frequentare<br />

l'ipermercato, ho scoperto che per molti miei concitta<strong>di</strong>ni<br />

l'ipermercato era <strong>di</strong>ventato ciò che per me era sempre stata la<br />

piazza. Nell'ipermercato si passeggia, si mangia il gelato, si<br />

fanno andare i bambini sulle giostrine, si conversa, si perde<br />

tempo, si legge il giornale al bar. E tutta questa vita sociale<br />

avviene in <strong>un</strong> luogo deputato all'esposizione e alla ven<strong>di</strong>ta delle<br />

merci, <strong>un</strong> luogo tutto foderato <strong>di</strong> merci, <strong>un</strong> luogo nel quale, mi<br />

viene da <strong>di</strong>re, anche il nostro perderci tempo <strong>di</strong>venta merce,<br />

noi stessi <strong>di</strong>ventiamo merce.<br />

Se è giusto parlare dell'Alberón (ed è sicuramente giusto<br />

parlare dell'Alberón) per le stesse ragioni è giusto parlare degli<br />

ipermercati e delle merci: ed è giusto parlarne nello stesso<br />

modo, ossia come luoghi e cose che manifestano la com<strong>un</strong>ità,<br />

il cosmo e il tempo che oggi esiste.<br />

In <strong>un</strong> suo romanzo breve, Crampi, Marco Lodoli racconta a <strong>un</strong><br />

certo p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> <strong>un</strong> personaggio che va a mangiare in <strong>un</strong> negozio<br />

dove “davano da mangiare pane e carne” (cito a memoria: il<br />

libro è sepolto da qualche parte, negli scatoloni non ancora<br />

aperti dopo il trasloco). Che cosa è mai, <strong>un</strong> negozio dove<br />

danno da mangiare pane e carne? Facile: è <strong>un</strong> fast-food,<br />

probabilmente <strong>un</strong> McDonald's. Ma allora, perché Marco Lodoli<br />

<strong>di</strong>ce “pane e carne” e non “hamburger”? Forse perché è <strong>un</strong><br />

purista e la parola “hamburger” gli fa schifo?<br />

No. Marco Lodoli <strong>di</strong>ce “pane e carne” perché ha capito tutto.<br />

Perché ha capito che <strong>un</strong>a delle cose che le merci ci fanno, è<br />

impe<strong>di</strong>rci <strong>di</strong> nominare le cose con il loro nome naturale.<br />

Ovviamente l'esistenza <strong>di</strong> nomi naturali delle cose è <strong>un</strong> mito. Il<br />

problema è che per i quin<strong>di</strong>cenni d'oggi il nome naturale del<br />

“pane e carne” è per l'app<strong>un</strong>to “hamburger”. Esattamente<br />

come per molti pensionati il mondo è quella cosa che si vede in<br />

televisione e per molti single la verdura è quella cosa che si<br />

estrae dalle buste surgelate. Ne riparleremo.<br />

165


Chiacchierata numero 66<br />

Saluti a tutti. Ultimo giorno nel quale vi parlo <strong>di</strong> supermercati.<br />

Voi tutti conoscete (se non li avete letti, sapete sicuramente<br />

che cosa sono) questi tre libri: Can<strong>di</strong>do <strong>di</strong> Voltaire, Don<br />

Chisciotte <strong>di</strong> Cervantes, La signora Bovary <strong>di</strong> Flaubert. Ciò <strong>di</strong><br />

cui forse non vi siete accorti è che raccontano tutti e tre la<br />

stessa storia.<br />

In Can<strong>di</strong>do c'è il filosofo Pangloss, che ha letto Leibniz e ne ha<br />

capita <strong>un</strong>a cosa sola: che il mondo nel quale viviamo è il<br />

migliore dei mon<strong>di</strong> possibili. Del concetto dà l'interpretazione<br />

ottimistica (sapete la barzelletta: l'ottimista è convinto <strong>di</strong><br />

vivere nel migliore dei mon<strong>di</strong> possibili; e il pessimista, ahimè,<br />

anche lui) e perio<strong>di</strong>camente si impegna, soprattutto quando il<br />

gruppo dei protagonisti si trovi veramente nella merda, a<br />

<strong>di</strong>mostrare che meglio <strong>di</strong> così non poteva andare.<br />

In Don Chisciotte c'è <strong>un</strong> uomo che a forza <strong>di</strong> leggere romanzi<br />

cavallereschi s'è convinto che il mondo sia davvero tale e quale<br />

nei romanzi cavallereschi è descritto: perciò si procura <strong>un</strong><br />

cavallo, <strong>un</strong>o scu<strong>di</strong>ero, <strong>un</strong>a lancia, <strong>un</strong> elmo, e se ne parte alla<br />

ricerca della bella Dulcinea del Toboso, combattendo contro<br />

giganti e maghi.<br />

Nella Signora Bovary c'è <strong>un</strong>a povera donna che, insod<strong>di</strong>sfatta<br />

della vita in paese accanto al noiosissimo marito Charles, si<br />

rifugia nell'immaginario dei romanzi rosa: e quando trova <strong>un</strong><br />

uomo che in quell'immaginario si muove a suo agio, se ne<br />

lascia manipolare.<br />

Questi tre libri raccontano d<strong>un</strong>que la stessa storia: la storia <strong>di</strong><br />

chi sostituisce all'esperienza del mondo <strong>un</strong>a immaginazione del<br />

mondo appresa dai libri. Che la fonte siano i saggi filosofici <strong>di</strong><br />

Leibniz, i poemi cavallereschi o la letteratura rosa, la questione<br />

non cambia.<br />

Perché questi tre libri sono (per noi) interessanti? Perché noi<br />

consideriamo false le immaginazioni del mondo fornite da<br />

Leibniz, dalla letteratura cavalleresca e dalla letteratura rosa.<br />

Quin<strong>di</strong> troviamo drammatico il conflitto tra <strong>un</strong> personaggio<br />

portatore <strong>di</strong> <strong>un</strong>'idea <strong>di</strong> mondo falsa e il mondo (che noi<br />

riteniamo essere) vero.<br />

Ovviamente, se noi ritenessimo, d'accordo con Pangloss, che<br />

viviamo nel migliore dei mon<strong>di</strong> possibili; che la cavalleria è la<br />

vera sostanza del mondo; e che l'amore è quella cosa <strong>di</strong> cui<br />

parla nei romanzo rosa; non troveremmo per nulla interessanti<br />

questi tre libri. Anzi, ci darebbero non poco sui nervi.<br />

Bene.<br />

166


Ora, la domanda è: noi, in quale immaginazione del mondo<br />

viviamo? Se tra cent'anni <strong>un</strong> Voltaire, <strong>un</strong> Cervantes, <strong>un</strong><br />

Flaubert volesse raccontare la nostra storia come storia <strong>di</strong><br />

persone che vivevano dentro <strong>un</strong>'immaginazione falsa del<br />

mondo, quale sarebbe la fonte <strong>di</strong> questa immaginazione?<br />

Di solito, quando nei miei laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> arrivo a fare<br />

questa domanda, la risposta è: “La televisione”. In qualche<br />

caso la risposta è: “Il mercato”.<br />

Facciamo conto che queste risposte siano giuste (non sono<br />

del tutto convinto che siano giuste; ma possono andare,<br />

almeno provvisoriamente). Allora dobbiamo immaginare che la<br />

televisione o il supermercato siano, per chi li frequenta<br />

patologicamente (sia chiaro: Pangloss, Chisciotte, Bovary, sono<br />

personaggi patologici), dei veri e propri sostituti del mondo.<br />

In questi giorni sto lavorando con <strong>un</strong>a compagnia teatrale a<br />

<strong>un</strong> lavoro sui “miti nella contemporaneità” (ve ne parlerò nelle<br />

prossime settimane, perché è <strong>un</strong> lavoro molto istruttivo anche<br />

per me). Inevitabilmente sono saltati fuori la televisione e il<br />

supermercato. Nel mio lavoro <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e nelle<br />

improvvisazioni degli attori si trovano battute <strong>di</strong> questo tipo:<br />

“Il supermercato è nella mia mente. La mia mente è il<br />

supermercato”.<br />

“La mia televisione ha novecentonovantanove canali. La mia<br />

vita ha novecentonovantanove possibilità”.<br />

Da cui risulta evidente che per i personaggi della pièce che<br />

stiamo costruendo (personaggi "smitizzati", alla ricerca <strong>di</strong><br />

"nuovi miti") il supermercato o la televisione sono più o meno<br />

ciò che erano i libri <strong>di</strong> filosofia per Pangloss, i poemi<br />

cavallereschi per don Cisciotte, i romanzi rosa per la signora<br />

Bovary.<br />

L'importanza <strong>di</strong> libri come Can<strong>di</strong>do, Don Chisciotte, La signora<br />

Bovary, sta proprio nell'averci restituito l'immaginario <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

certo ceto sociale in <strong>un</strong>a certa epoca e in <strong>un</strong> certo luogo. Sono<br />

libri realistici, ad<strong>di</strong>rittura iperrealistici, non perché ci descrivano<br />

accuratamente l'Europa dei tempi <strong>di</strong> Voltaire, la Spagna dei<br />

tempi <strong>di</strong> Cervantes, la provincia Francese dei tempi <strong>di</strong> Flaubert;<br />

tutt'altro; la vera Europa, la vera Spagna, la vera provincia<br />

Francese appaiono, in questi libri, solo come delle ombre o<br />

delle larve, destinate a soccombere <strong>di</strong>fronte alla potenza<br />

dell'immaginario. Anche la signora Bovary, tutto sommato,<br />

riesce a procurarsi <strong>un</strong>a bella morte da eroina romantica.<br />

<strong>Non</strong> ho certo l'intenzione <strong>di</strong> sostenere che tutto ciò che fanno<br />

le narrazioni sia <strong>di</strong> restituire più o meno criticamente (tanto<br />

l'umorismo <strong>di</strong> Voltaire quanto la comicità <strong>di</strong> Cervantes o il<br />

minuzioso naturalismo <strong>di</strong> Flaubert sono operazioni critiche) gli<br />

167


immaginari collettivi: questa è <strong>un</strong>a delle cose che le narrazioni<br />

fanno; ma mi sembra che sia <strong>un</strong>a delle più importanti e che<br />

avvenga ad<strong>di</strong>rittura automaticamente, e spesso all'insaputa<br />

dell'autore. Quin<strong>di</strong>, tanto vale tuffarcisi dentro.<br />

Il problema è che esiste <strong>un</strong>a vasta nube <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorsi<br />

vagamente sociologici/antropologici sul supermercato e sulla<br />

televisione. Qual<strong>un</strong>que intellettuale è pronto a <strong>di</strong>rvi che la<br />

televisione è brutta, fa schifo, rincretinisce la gente, e così via;<br />

e che il supermercato è brutto, fa schifo, rincretinisce la gente,<br />

e così via. Tuttavia questi <strong>di</strong>scorsi, buoni per tutte le occasioni,<br />

sono generalmente accom<strong>un</strong>ati da <strong>un</strong>a spaventosa genericità.<br />

Che <strong>un</strong> telefilm come Giovanni e il Magico Alverman o<br />

Vacanze sull'isola dei gabbiani sia ciò che hanno in com<strong>un</strong>e due<br />

quarantenni d'oggi, ossia letteralmente la lingua com<strong>un</strong>e della<br />

quale essi possono <strong>di</strong>sporre per parlarsi; e che esattamente la<br />

stessa f<strong>un</strong>zione "accom<strong>un</strong>ante", forse ad<strong>di</strong>rittura "com<strong>un</strong>itaria"<br />

possa essere svolta dalla Nutella o dai biscotti Bucaneve o<br />

dall'omino Bialetti: questo non è trascurabile.<br />

Noi, ci piaccia o non ci piaccia, siamo fatti <strong>di</strong> queste cose.<br />

Chiacchierata numero 67<br />

Oggi è l<strong>un</strong>edì 31 maggio 2004. Sono le <strong>un</strong><strong>di</strong>ci e <strong>di</strong>eci del<br />

mattino. Entro mezzogiorno devo consegnare questo pezzo. È<br />

colpa mia, mi sono preso in ritardo. Avrei dovuto scriverlo e<br />

spe<strong>di</strong>rlo venerdì mattina, così sarei partito per Tortona<br />

tranquillo tranquillo. Invece mi sono detto: “Ma no, dài, che<br />

mentre sono a Tortona lo trovo, il tempo <strong>di</strong> scrivere il pezzo<br />

per Stilos. Lo trovo senz'altro”. E in effetti il tempo l'avrei<br />

avuto. <strong>Non</strong> avevo invece <strong>un</strong> pc sul quale scriverlo e <strong>un</strong>a<br />

connessione alla rete per spe<strong>di</strong>rlo.<br />

Così, dopo aver finito <strong>di</strong> parlare <strong>di</strong> supermercati, e prima <strong>di</strong><br />

cominciare a parlarvi del teatro, oggi mi prendo <strong>un</strong>a pausa e vi<br />

parlo d'altro.<br />

Sono stato a Tortona, sabato 29 e domenica 30 maggio, per<br />

<strong>un</strong> cosiddetto <strong>corso</strong> <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> (organizzato da Marco Can<strong>di</strong>da:<br />

http://marco2.clarence.com). In realtà siamo stati due giorni a<br />

fare esercizio <strong>di</strong> lettura su tre racconti e <strong>un</strong> frammento <strong>di</strong><br />

romanzo. I racconti erano: “Gli amanti” <strong>di</strong> Federigo Tozzi (ve<strong>di</strong><br />

la p<strong>un</strong>tata 58), “Progetti per <strong>un</strong>a visita a mia moglie” <strong>di</strong><br />

Romolo Bugaro (da In<strong>di</strong>anapolis e altri racconti, Theoria) e la<br />

novella <strong>di</strong> Federigo degli Alberighi dal Decamerone del<br />

Boccaccio (giornata quinta, nona novella). Il frammento <strong>di</strong><br />

168


omanzo era il capitolo 14 <strong>di</strong> La donna <strong>di</strong> scorta <strong>di</strong> Diego De<br />

Silva (ve<strong>di</strong> la p<strong>un</strong>tata 61).<br />

A me piace molto fare esercizi <strong>di</strong> lettura. <strong>Non</strong> si tratta <strong>di</strong><br />

niente <strong>di</strong> speciale: si legge il testo (scelgo per lo più <strong>un</strong><br />

racconto, tanto per avere <strong>un</strong>a cosa <strong>di</strong> senso compiuto; oppure<br />

<strong>un</strong> passo da <strong>un</strong> romanzo noto a tutti, tipo I promessi sposi o<br />

Pinocchio; e cerco <strong>di</strong> proporre cose <strong>di</strong> autori italiani, tanto<br />

antichi quanto contemporanei), poi io faccio la domanda <strong>di</strong> rito<br />

(“Che cosa ve ne pare, <strong>di</strong> questo che abbiamo letto?”), e si<br />

comincia a <strong>di</strong>scutere.<br />

Il p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> partenza sono i giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> valore. “Bello”. “<strong>Non</strong> mi è<br />

piaciuto”. “Si sente che è <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> settant'anni fa” (che è<br />

<strong>un</strong> giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> valore, sebbene mascherato). “Un po' legnoso”.<br />

Oppure le reazioni emotive: “Che paura!”. “Che mostro,<br />

quell'uomo”. “Angosciante”. “Mi sono commossa”, e così via.<br />

In genere, nei corsi, le reazioni sono piuttosto libere. Quasi<br />

ness<strong>un</strong>o si fa scrupolo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che ciò che ho proposto non gli<br />

piace. (Io stesso cerco <strong>di</strong> non proporre cose troppo<br />

in<strong>di</strong>scutibili: è utile alla <strong>di</strong>scussione che nel gruppo il testo<br />

proposto piaccia ad alc<strong>un</strong>i e ad altri no). Vedo che quando<br />

propongo Manzoni o Boccaccio c'è chi alza gli occhi al cielo: ma<br />

credo che <strong>un</strong>a delle mission (così si <strong>di</strong>ce oggi, nevvero?) del<br />

mio lavoro sia anche quella <strong>di</strong> ricuperare i libri stu<strong>di</strong>ati a scuola<br />

a <strong>un</strong>a lettura tranquilla, libera, <strong>di</strong>sinibita, curiosa.<br />

Sui giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> valore (che sono sempre giu<strong>di</strong>zi sintetici,<br />

complessivi) e sulle reazioni emotive (che in genere sono<br />

reazioni a <strong>un</strong> singolo elemento del testo letto) si può costruire<br />

la <strong>di</strong>scussione. Basta che io <strong>di</strong>ca: “Perché? Perché è bello, non<br />

ti piace, si sente che è <strong>di</strong> settant'anni fa, ti sembra legnoso?<br />

Perché hai avuta paura, quell'uomo ti è parso <strong>un</strong> mostro, ti è<br />

venuta l'angoscia, ti sei commosso?”.<br />

Qui bisogna avere <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> pazienza. È più semplice<br />

formulare <strong>un</strong> giu<strong>di</strong>zio sintetico che <strong>un</strong>o analitico. È <strong>di</strong>fficile<br />

spostare la propria attenzione dal singolo elemento che ci ha<br />

colpiti fino a investire l'intero testo. Il mio lavoro, come<br />

conduttore del gruppo, consiste in due cose: guidare le<br />

persone a esplicitare i propri giu<strong>di</strong>zi e le proprie reazioni, ad<br />

argomentare, a fornire gli esempi, a motivare; e tenere<br />

d'occhio quelle due o tre cose che si possono imparare da quel<br />

determinato testo (cioè: le due o tre cose <strong>di</strong> cui quel testo è <strong>un</strong><br />

buon esempio). Lavoro quin<strong>di</strong> in parte improvvisando (certi<br />

testi suscitano pressappoco sempre le stesse reazioni: ma,<br />

app<strong>un</strong>to, pressappoco; uso regolarmente <strong>un</strong>a certa batteria <strong>di</strong><br />

testi, ma mi piace anche cambiarli, se non altro per non<br />

annoiarmi io stesso) e in parte secondo degli in<strong>di</strong>rizzi che ho in<br />

169


mente.<br />

A Tortona, ad esempio (dove il gruppo era bello, vivace e<br />

vario) ho dovuto improvvisare parecchio. Il che è bene anche<br />

per me. La lettura è <strong>un</strong> esercizio continuo, e da <strong>un</strong> testo che si<br />

crede <strong>di</strong> conoscere a mena<strong>di</strong>to (quante volte avrò proposto<br />

quel racconto <strong>di</strong> Bugaro? Forse <strong>un</strong>a dozzina; e quello <strong>di</strong> Tozzi<br />

anche <strong>di</strong> più) possono sempre saltare fuori cose nuove.<br />

Ecco: tutto sommato, credo che l'insegnamento più<br />

importante che queste giornate <strong>di</strong> esercizio <strong>di</strong> lettura possono<br />

trasmettere, sia l'idea che la lettura è <strong>un</strong> lavoro inesauribile. A<br />

me fanno <strong>un</strong> po' impressione le persone che leggono tanto, che<br />

leggono tutto. Per carità, non è che io legga sempre lo stesso<br />

libro. Ma credo che, dal p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> chi vuole migliorare le<br />

proprie capacità <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, non sia così importante leggere<br />

tanti testi. È importante leggere con attenzione, è importante<br />

esercitarsi a capire che cosa avviene nel testo che si sta<br />

leggendo: e <strong>di</strong>co “che cosa avviene” intendendo non la trama e<br />

l'azione, ma tutto ciò che produce in noi giu<strong>di</strong>zi e reazioni<br />

emotive.<br />

A me che voglio continuamente migliorare le mie capacità <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong>, non serve tanto sapere se, poniamo, Tuo figlio <strong>di</strong><br />

Gian Mario Villalta è <strong>un</strong> bel libro o no (è <strong>un</strong> bel libro, secondo<br />

me: pubblicato da Mondadori): mi interessa leggerlo, avere<br />

delle reazioni emotive, farmi <strong>un</strong>'opinione (<strong>un</strong> giu<strong>di</strong>zio sintetico)<br />

e poi riflettere e <strong>di</strong>scutere, <strong>di</strong>scutere e riflettere, fintantoché<br />

non avrò capito quali cose, dentro il libro, producono in me il<br />

tal giu<strong>di</strong>zio e le tali reazioni emotive (a me, ad esempio, Tuo<br />

figlio è sembrato <strong>un</strong> libro molto maschile; e devo ancora capire<br />

bene perché: sono sicuro che non è solo perché ci sono tanti<br />

personaggi maschi; e forse dovrei <strong>di</strong>re che mi sembra <strong>un</strong> libro,<br />

in effetti, più che maschile, virile…).<br />

Ma prima ho scritto: “Dal p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> chi vuole migliorare<br />

le proprie capacità <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>…”. Che non è il p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista <strong>di</strong><br />

chi vuole godere della bellezza <strong>di</strong> <strong>un</strong> testo; né il p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista<br />

<strong>di</strong> chi vuole comprendere perfettamente <strong>un</strong> testo. Mi rendo<br />

conto che sembra poco cre<strong>di</strong>bile: ma le tre cose sono<br />

<strong>di</strong>sgi<strong>un</strong>te. Volevo fare solo <strong>un</strong>a pausa, ma mi sa che dovrò<br />

riprendere il <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> settimana prossima.<br />

170


Chiacchierata numero 68<br />

Dicevo settimana scorsa che leggere <strong>un</strong> testo per goderne la<br />

bellezza è cosa <strong>di</strong>versa dal leggerlo per migliorare le proprie<br />

capacità <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>. Analogamente, leggere <strong>un</strong> testo per<br />

goderne la bellezza è cosa <strong>di</strong>versa dal leggerlo per<br />

comprendere <strong>un</strong> contesto letterario, storico, politico, sociale.<br />

Leggere I promessi sposi come episo<strong>di</strong>o importante nella storia<br />

della formazione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a coscienza nazionale italiana, ad<br />

esempio, o all'interno del <strong>di</strong>battito filosofico romantico su<br />

natura e scopi della storiografia e della letteratura, è altra cosa<br />

che leggere I promessi sposi per il piacere <strong>di</strong> leggerli.<br />

Potrei anche esagerare, e <strong>di</strong>re che leggere <strong>un</strong> testo per<br />

goderne la bellezza è cosa <strong>di</strong>versa dal leggerlo per capirlo.<br />

Nei mesi scorsi ho letti tutti i libri pubblicati in Italia <strong>di</strong><br />

Thomas Pynchon, narratore stat<strong>un</strong>itense. Pynchon è <strong>un</strong><br />

cosiddetto narratore postmoderno; io ho fatta questa<br />

campagna <strong>di</strong> lettura perché dovrò seguire, nei prossimi mesi,<br />

come e<strong>di</strong>tor, la pubblicazione <strong>di</strong> <strong>un</strong> libro molto ma molto<br />

postmoderno. E, in somma, non posso lavorare su <strong>un</strong> libro se<br />

non conosco almeno decentemente la tra<strong>di</strong>zione sulla quale si<br />

innesta.<br />

Gli amici mi avevano avvertito: “Attento: nei libri <strong>di</strong> Pynchon<br />

non si capisce nulla”. Io comincio a leggerli, ed effettivamente<br />

non capisco nulla. Leggo Mason & Dixon, leggo Vineland, leggo<br />

V., leggo L'incanto del lotto 49, leggo Entropia e, in coscienza,<br />

posso <strong>di</strong>re: non ci ho capito nulla.<br />

Tuttavia, questi libri li ho letti. Magari sbuffando e mandando<br />

al <strong>di</strong>avolo l'autore, ma li ho letti: trovandoci dentro pagine o<br />

episo<strong>di</strong> assai belli e <strong>di</strong>vertenti e altre pagine o episo<strong>di</strong> da<br />

tagliarsi le vene (soprattutto in V., del quale mi sento <strong>di</strong> <strong>di</strong>re,<br />

alla fin fine, che è <strong>un</strong> libro proprio brutto: a parte le scene <strong>di</strong><br />

ubriacature collettive e <strong>di</strong> rissa, nella quali Pynchon è <strong>un</strong><br />

maestro). Quin<strong>di</strong> questi libri, pur senza che io ci capissi nulla,<br />

mi procuravano piacere. Ero capace <strong>di</strong> godermeli, magari solo<br />

a tratti, a pezzi, ma ero capace.<br />

Io sono <strong>un</strong> ragazzo <strong>di</strong>ligente. Ma non sono <strong>un</strong>o <strong>di</strong> quelli che<br />

per principio finiscono tutti i libri che cominciano. No, no: se<br />

<strong>un</strong>a cosa non mi va, la pianto lì. Dovevo conoscere <strong>un</strong>a<br />

tra<strong>di</strong>zione, è vero, leggevo per lavoro, ma alla meno peggio<br />

potevo farmela raccontare dai libri <strong>di</strong> storia della letteratura.<br />

Per ogni cosa c'è <strong>un</strong> bignami.<br />

Finché sono arrivato all'ultimo romanzo, del quale sapevo che<br />

è considerato il capolavoro <strong>di</strong> Thomas Pynchon: L'arcobaleno<br />

171


della gravità. Che in effetti è l<strong>un</strong>ghissimo (968 pagine: lo<br />

trovate nella Biblioteca Universale Rizzoli per appena 11 euro e<br />

36), <strong>di</strong>vertentissimo, bellissimo, e si capisce tutto.<br />

Mi sono domandato, ovviamente, se dell'Arcobaleno della<br />

gravità mi è sembrato <strong>di</strong> capire tutto perché è <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> cui si<br />

capisce tutto; o perché è effettivamente <strong>un</strong> capolavoro rispetto<br />

al quale gli altri libri <strong>di</strong> Pynchon sono da considerarsi<br />

esperimenti, tentativi e fallimenti; o perché, dài e dài, ormai mi<br />

ero addestrato a leggere Pynchon. La risposta, secondo me, è<br />

la seconda.<br />

Leggendo L'arcobaleno della gravità il piacere è stato<br />

intensissimo. Certo: intensificato, rispetto alla lettura degli altri<br />

libri <strong>di</strong> Pynchon, dal sentirmi a mio agio, dalla sensazione <strong>di</strong><br />

capire perfettamente che cosa mi stava accadendo davanti agli<br />

occhi. Ma avevo provato piacere, seppure non così<br />

continuativamente, anche leggendo gli altri libri.<br />

Sto andando fuori tema? Ma no, ci arrivo subito. Adesso,<br />

dovendo cominciare a lavorare su questo benedetto romanzo<br />

<strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zione postmoderno-pynchoniana, mi sono messo a<br />

rileggere l'Arcobaleno. Mi sono detto: “Bene. Sono <strong>di</strong>ventato<br />

<strong>un</strong> lettore <strong>di</strong> questo genere <strong>di</strong> letteratura. Ho scoperto che mi<br />

piace pure. Ho letto questo romanzo come avrei letto <strong>un</strong><br />

qualsiasi altro romanzo più tra<strong>di</strong>zionale, con facilità e piacere.<br />

Adesso cerchiamo <strong>di</strong> capire come è fatto, o meglio: <strong>di</strong> capire<br />

come si fa a farlo, <strong>un</strong> romanzo così. Perché è <strong>di</strong> questo che ho<br />

bisogno, per lavorare su <strong>un</strong> romanzo che in qualche modo gli<br />

somiglia”.<br />

Dal <strong>di</strong>re al fare, c'è <strong>di</strong> mezzo il mare. Sto sguazzando da <strong>un</strong><br />

paio <strong>di</strong> mesi dentro l'Arcobaleno, e devo ammettere che no,<br />

non ho ancora capito come si fa a fare <strong>un</strong> romanzo del genere.<br />

Saprei raccontarvelo, saprei descrivervelo minutamente, saprei<br />

spiegarvi <strong>un</strong> bel po' <strong>di</strong> pieghe dell'intreccio e delle allusioni e<br />

dei giochetti linguistici scemi che Pynchon si <strong>di</strong>verte a<br />

<strong>di</strong>sseminarci dentro, eccetera, ma non saprei minimamente<br />

<strong>di</strong>rvi come si fa a fare <strong>un</strong> romanzo del genere.<br />

La <strong>di</strong>fferenza tra la comprensione della letteratura che si<br />

apprende a scuola, e quella che serve per produrre letteratura,<br />

è proprio questa. A scuola <strong>un</strong> bravo insegnante fa leggere,<br />

guida gli allievi al go<strong>di</strong>mento della bellezza, e mostra loro come<br />

è fatto <strong>un</strong> testo. Qui si ferma. Ma del come si fa a farlo, <strong>un</strong><br />

testo, per lo più non si parla. E, curiosamente, le relazioni tra<br />

come <strong>un</strong> testo è fatto e come si fa a farlo non sono poi tante.<br />

Provate a descrivere <strong>un</strong>a bicicletta, <strong>un</strong> piatto <strong>di</strong> pasta alla<br />

Norma, <strong>un</strong> mattone, <strong>un</strong> cd-rom. Potreste riuscire a descriverli<br />

assai bene, spiegando la f<strong>un</strong>zione <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong>a delle parti che li<br />

172


compongono, e così via. Ma da qui a sapere come si fa a farli,<br />

c'è <strong>un</strong>a bella <strong>di</strong>stanza. E naturalmente, tutti questi oggetti,<br />

soprattutto la pasta alla Norma, è possibilissimo usarli senza<br />

capirli minimamente e senza avere la minima idea <strong>di</strong> come si fa<br />

a farli.<br />

Mi domando: ma perché ho tirato fuori questo <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>?<br />

L'altro giorno, durante la presentazione d'<strong>un</strong> libro, <strong>un</strong>a<br />

signora del pubblico si rivolse a me (che facevo il bravo<br />

presentatore) e cominciò a contestarmi <strong>un</strong>'affermazione<br />

<strong>di</strong>cendo: “Si vede che lei legge poco”. La signora è <strong>un</strong>a signora<br />

che legge moltissima letteratura, sicuramente molta più <strong>di</strong> me<br />

(io leggo soprattutto d'altro). Ma il p<strong>un</strong>to non è questo. Il<br />

p<strong>un</strong>to è che questa signora e io, mentre parlavamo <strong>di</strong> <strong>un</strong> certo<br />

libro, sembrava ad<strong>di</strong>rittura che non parlassimo dello stesso<br />

libro. <strong>Non</strong> perché <strong>un</strong>o avesse capito, e l'altro no. No. Perché ne<br />

parlavamo da p<strong>un</strong>ti <strong>di</strong> vista completamente <strong>di</strong>versi: lei da<br />

analista <strong>di</strong> testi, io da produttore. Ma ci torneremo su.<br />

Chiacchierata numero 69<br />

L’appren<strong>di</strong>sta teatrante, 1. Sono alla Corte ospitale<br />

(www.corteospitale.org) <strong>di</strong> Rubiera, <strong>un</strong> paesino tra Modena e<br />

Reggio Emilia. La Corte ospitale è <strong>un</strong> antico e<strong>di</strong>ficio, molto<br />

semplice e molto bello, collocato su quella che <strong>un</strong> tempo era la<br />

via dei pellegrini che andavano a Roma. I pellegrini potevano<br />

trovarvi <strong>un</strong> giaciglio, del cibo, <strong>un</strong>a stalla per i cavalli. Qualche<br />

anno fa <strong>un</strong>’illuminata amministrazione com<strong>un</strong>ale ha deciso <strong>di</strong><br />

ricuperare la Corte per collocarvi dentro delle attività culturali.<br />

Oggi vi hanno sede l’associazione <strong>di</strong> fotografi “Linea <strong>di</strong> confine<br />

per la fotografia contemporanea” (<strong>un</strong> gruppo <strong>di</strong> fotografi<br />

idealmente allievi <strong>di</strong> Luigi Ghiri), il Parco naturale del fiume<br />

Secchia, e <strong>un</strong> centro <strong>di</strong> produzione teatrale.<br />

Io sono qui perché il regista Franco Brambilla mi ha proposto<br />

<strong>di</strong> scrivere i testi per <strong>un</strong>’opera teatrale. Il debutto sarà al<br />

festival <strong>di</strong> Castiglioncello, il 15 luglio; il 25, 26 e 27 giugno si<br />

svolgeranno, nel chiostro della Corte, le cosiddette “prove<br />

aperte”.<br />

L’opera teatrale (non riesco a trovare parole migliori per<br />

definirla: non è né <strong>un</strong>a comme<strong>di</strong>a né <strong>un</strong>a trage<strong>di</strong>a; forse si<br />

potrebbe <strong>di</strong>re che è <strong>un</strong> dramma allegorico) ha per ora questo<br />

titolo: Miti, oggi. Con Brambilla abbiamo cominciato a parlarne<br />

nel <strong>di</strong>cembre s<strong>corso</strong>. Abbiamo poi fatte due sessioni <strong>di</strong> lavoro<br />

con gli attori (Elsa Bossi, Tony Contartese, Anna Coppola,<br />

Sergio Pala<strong>di</strong>no), ciasc<strong>un</strong>a <strong>di</strong> due settimane circa. Ora stiamo<br />

173


provando.<br />

Per me si è trattato <strong>di</strong> <strong>un</strong>’esperienza del tutto nuova. Avevo<br />

già lavorato per il teatro: per Fantaghirò, <strong>un</strong>a compagnia della<br />

mia città (Padova) che fa soprattutto, ma non solo, teatro per<br />

bambini e ragazzi. Per loro ho scritto: <strong>un</strong>a riduzione del Mago<br />

<strong>di</strong> Oz <strong>di</strong> L. Frank Baum, <strong>un</strong>a comme<strong>di</strong>a originale intitolata Il<br />

mercato <strong>di</strong> Trella, e <strong>un</strong> atto <strong>un</strong>ico ricavato da Uomini in fuga <strong>di</strong><br />

Carlo Coccioli e destinato a <strong>un</strong>a campagna per la prevenzione<br />

dell’alcolismo promossa dall’Arci. Ma con Fantaghirò il lavoro<br />

era stato assai <strong>di</strong>verso. C’erano delle esigenze narrative e<br />

<strong>di</strong>dattiche ben precise: esigenze che, in realtà, facilitavano<br />

molto il lavoro. Io poi scrivevo, facevo, provavo, e la<br />

compagnia con molta libertà riscriveva, tagliava, rifaceva. La<br />

situazione ideale per <strong>un</strong> principiante.<br />

Per questo Miti, oggi, invece, le cose sono state per me assai<br />

<strong>di</strong>fficili. Si partiva da <strong>un</strong> tema, anziché da <strong>un</strong>a storia; e su<br />

questo tema, per <strong>di</strong> più, non è che ci fosse <strong>un</strong> approccio <strong>un</strong>ico.<br />

Per me, ad esempio, il mito è <strong>un</strong>’esigenza naturale della<br />

persona e delle collettività. La parola “mito” significa in origine:<br />

“<strong>narrazione</strong>”. I gran<strong>di</strong> miti sono le narrazioni delle origini (e<br />

della futura fine) del mondo; i piccoli miti sono le narrazioni<br />

delle origini <strong>di</strong> più o meno qual<strong>un</strong>que cosa: del cibo che si<br />

mangia, della me<strong>di</strong>cina che si usa, <strong>di</strong> ogni uso e costume, della<br />

<strong>di</strong>sposizione delle stanze nella casa, e così via. La cosiddetta<br />

civiltà occidentale sta tentando da qualche secolo<br />

(dall’Illuminismo in poi) <strong>di</strong> scacciare i miti dal proprio<br />

perimetro. Il territorio del mito si è oggettivamente ristretto, e<br />

sempre più spazio ha, nella nostra vita, la razionalità. O<br />

almeno così cre<strong>di</strong>amo: io, personalmente, ci credo poco; credo<br />

piuttosto a <strong>un</strong> travestimento razionalistico del mito; e credo<br />

che potremmo vivere meglio se accettassimo l’idea che, si<br />

voglia o non si voglia, il mito scacciato dalla porta tende<br />

sempre a rientrare dalla finestra.<br />

A fronte <strong>di</strong> questo mio approccio alla faccenda, c’era chi<br />

invece stava nella posizione illuministica: secondo la quale il<br />

mito è ciò che impe<strong>di</strong>sce all’uomo e alla collettività la precisa e<br />

veritiera conoscenza del mondo e delle cose; e la smitizzazione<br />

del mondo, con il conseguente progresso della scienza, è<br />

quanto <strong>di</strong> meglio l’Occidente abbia saputo offrire. Se poi alla fin<br />

fine, dopo avere ben bene smitizzato il mondo, ci si trova soli e<br />

nu<strong>di</strong> su questo pianeta vagante negli spazi siderei, bene: non<br />

sarà bello, ma è quel che è.<br />

L’elaborazione <strong>di</strong> <strong>un</strong> testo per questo spettacolo (scusate la<br />

l<strong>un</strong>ga premessa: ma è necessaria per parlare <strong>di</strong> ciò che è il<br />

tema <strong>di</strong> queste chiacchierate) è avvenuta così. Prima abbiamo<br />

174


parlato, parlato, parlato. Ci siamo confrontati sui nostri <strong>di</strong>versi<br />

approcci al mito. Abbiamo pescato nei nostri immaginari e nelle<br />

nostre memorie, ricuperando avvenimenti, ricor<strong>di</strong> personali,<br />

storie, romanzi, film, pièce, nei quali il mito (il bisogno <strong>di</strong> mito,<br />

il superamento del mito, la negazione del mito…) avesse<br />

importanza.<br />

Poi abbiamo presa <strong>un</strong>a decisione: che l’opera teatrale avrebbe<br />

raccontata la storia <strong>di</strong> quattro personaggi (perché quattro sono<br />

gli attori) che si ritrovano all’improvviso senza-storia, senzamito,<br />

senza-cosmo. I quattro gi<strong>un</strong>gono ciasc<strong>un</strong>o per conto<br />

proprio, secondo itinerari che non hanno importanza, a <strong>un</strong>a<br />

casa. In questa casa si confronteranno: <strong>un</strong>o esibirà il proprio<br />

rifiuto del mito, come esperienza fallimentare; <strong>un</strong> altro<br />

esprimerà il proprio bisogno <strong>di</strong> mito e la propria <strong>di</strong>sponibilità ad<br />

aderire a più o meno qual<strong>un</strong>que mito gli si presenti; <strong>un</strong> altro<br />

presenterà la propria nostalgia <strong>di</strong> <strong>un</strong> tempo in cui il mito c’era,<br />

era vivo e lottava insieme a noi; l’ultimo avrà invece <strong>un</strong><br />

atteggiamento opport<strong>un</strong>istico: non <strong>di</strong>sponibile ad aderire a <strong>un</strong><br />

mito, ne riconoscerà tuttavia <strong>un</strong>a certa qual in<strong>di</strong>spensabilità, e<br />

tenterà <strong>di</strong> proporre <strong>un</strong> improbabile modo <strong>di</strong> credere ai miti per<br />

immaginazione: <strong>di</strong> crederci come si crede alla fort<strong>un</strong>a e alla<br />

sfort<strong>un</strong>a, alla possibilità <strong>di</strong> vincere al lotto, all’amore<br />

romantico, alla squadra del cuore: con l’immaginazione da <strong>un</strong>a<br />

parte e la razionalità dall’altra.<br />

A questo p<strong>un</strong>to, avevamo quattro personaggi e <strong>un</strong>’occasione<br />

<strong>di</strong> storia. <strong>Non</strong> avevamo però <strong>un</strong>a storia. La storia,<br />

naturalmente, era il compito mio. Ma abbiamo deciso che ce ne<br />

saremmo occupati con calma. Intanto si trattava <strong>di</strong> definire<br />

meglio i personaggi. Abbiamo così prodotti, <strong>un</strong> po’ per <strong>scrittura</strong><br />

mia e <strong>un</strong> po’ con improvvisazioni degli attori, alc<strong>un</strong>i monologhi:<br />

non necessariamente destinati a entrare nel testo definitivo,<br />

ma utili per mostrare ogni personaggio in tutta la sua natura.<br />

Il séguito alla prossima p<strong>un</strong>tata.<br />

Chiacchierata numero 70<br />

L’appren<strong>di</strong>sta teatrante, 2. Raccontavo, ormai due settimane<br />

fa, della mia pressoché prima esperienza dello scrivere per il<br />

teatro. Riassumo: mi sono trovato a lavorare per <strong>un</strong> regista<br />

(Franco Brambilla) e per quattro attori, sul tema generico Miti,<br />

oggi. Al centro della faccenda c’era d<strong>un</strong>que <strong>un</strong> tema, non <strong>un</strong>a<br />

storia; c’erano com<strong>un</strong>que, necessariamente, almeno quattro<br />

175


personaggi. Il primo lavoro è stato: scrivere dei monologhi,<br />

delle sparate, dei <strong>di</strong>aloghi a due, per tentar <strong>di</strong> definire quale<br />

fosse la natura <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong> personaggio.<br />

Due attrici, due attori. Uno degli attori, per scelta del regista,<br />

era <strong>un</strong> attore acrobata; e il progetto <strong>di</strong> scenografia prevedeva<br />

<strong>un</strong> grande trave in alto, appeso al quale l’attore avrebbe<br />

volteggiato, passeggiato a testa in giù, recitato e<br />

(eventualmente) cantato. Per amor <strong>di</strong> simmetria, decidemmo<br />

che <strong>un</strong>a delle due attrici avrebbe abitato sotto il palco. Il palco<br />

<strong>di</strong>ventava quin<strong>di</strong> <strong>un</strong> pavimento pieno <strong>di</strong> buchi. L’altro attore e<br />

l’altra attrice avrebbero posati i pie<strong>di</strong> per terra in modo<br />

normale. E fu abbastanza automatico pensare che questi due<br />

sarebbero stati <strong>un</strong>a coppia: <strong>un</strong>o sposo e <strong>un</strong>a sposa, <strong>un</strong> Adamo<br />

e <strong>un</strong>a Eva, qualcosa del genere.<br />

Per l’attore acrobata (detto anche: l’uomo appeso) scrissi <strong>un</strong><br />

monologo sull’osservazione (per trarne auspici) del volo degli<br />

uccelli. Per la sposa, scrissi invece <strong>un</strong>a cosa che si chiamava:<br />

Osservazioni sul volo degli yogurt. L’idea era: trarre auspici dal<br />

volo degli uccelli significa pensare che nel mondo tout se tient,<br />

che l’<strong>un</strong>iverso è compatto e sensato; oggi però ness<strong>un</strong>o si<br />

mette a interpretare il volo degli uccelli; tutti, invece (e non<br />

credo che sia <strong>un</strong>a cosa tanto <strong>di</strong>versa) interpretiamo gli<br />

andamenti dei mercati finanziari o le offerte speciali al<br />

supermercato. Al fondo, c’è sempre la convinzione (la<br />

speranza, l’illusione…) che ogni cosa nel mondo sia legata alle<br />

altre cose.<br />

Di questi due monologhi, nel testo finale, non è quasi rimasta<br />

traccia. Ma sono stati utili per mettere a fuoco i due personaggi<br />

dell’uomo appeso e della sposa; nonché per definire che cosa<br />

sarebbe materialmente successo sulla scena.<br />

Sulla scena sarebbe successo questo: i personaggi avrebbero<br />

provato a dare corpo, con le parole e con l’azione, al loro<br />

bisogno <strong>di</strong> sentire che l’<strong>un</strong>iverso è compatto e sensato;<br />

avrebbero cercato quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> allestire dei miti, <strong>di</strong> proporre degli<br />

atteggiamenti mitici, <strong>di</strong> agire come persone che credono a <strong>un</strong><br />

mito. Tutti questi tentativi sarebbero stati fallimentari. Un loop,<br />

insomma: <strong>un</strong> continuo tentare e fallire.<br />

<strong>Non</strong> volevamo però produrre sulla scena eventi che<br />

rimandassero più che tanto a ciò che com<strong>un</strong>emente viene<br />

chiamato: mito. <strong>Non</strong> volevamo, in somma, né Deucalione e<br />

Pirra né i sette giorni della creazione; ma nemmeno i miti della<br />

rivoluzione proletaria o della parusia, del calcio o <strong>di</strong> Hollywood.<br />

Volevamo qualcosa <strong>di</strong> più elementare.<br />

Nelle infinite <strong>di</strong>scussioni preparatorie, a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to<br />

apparvero due parole chiave: deserto e Antigone. Deserto: nel<br />

176


primo film della trilogia Matrix, quando l’eroe finalmente riesce<br />

a sciogliersi dalla macchina e a gi<strong>un</strong>gere in quello che si<br />

suppone essere il mondo vero (e che naturalmente appare<br />

come <strong>un</strong> posto orrendo), viene accolto con <strong>un</strong>a battuta<br />

sarcastica: “Benvenuto nel deserto del reale!”. La battuta è<br />

<strong>di</strong>ventata anche titolo d’<strong>un</strong> libro del filosofo Slavoj Žižek (e<strong>di</strong>to<br />

in Italia da Meltemi). Che cos’è, nell’interpretazione <strong>di</strong> Žižek, il<br />

“deserto del reale”? È, grosso modo, <strong>un</strong>a sorta <strong>di</strong> reale puro,<br />

<strong>un</strong> reale <strong>di</strong>fronte al quale siamo <strong>di</strong>sarmati; <strong>un</strong> reale senza<br />

mito, senza fantasmi, senza ideologia, senza niente: nude<br />

cose, e stop. In questa idea <strong>di</strong> deserto abbiamo identificata la<br />

con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> partenza dei nostri personaggi.<br />

Antigone: durante le improvvisazioni, quando i quattro attori<br />

(vita dura, quella dell’attore) stavano lì a pensare che erano in<br />

<strong>un</strong> deserto e dovevano inventarsi qualcosa da fare, a <strong>un</strong> certo<br />

p<strong>un</strong>to saltò fuori il picnic. La cosa più elementare, app<strong>un</strong>to:<br />

siamo quattro, siamo qui, il primo passo per uscire dal deserto<br />

non può essere che quello <strong>di</strong> stabilire <strong>un</strong>a minima relazione tra<br />

noi; ed ecco, cos’altro possiamo fare se non mangiare insieme?<br />

E se non c’è niente da mangiare, non ha importanza: può<br />

essere più che sufficiente mimare <strong>un</strong> pasto insieme, mettere<br />

insieme qualcosa che potrebbe sembrare <strong>un</strong>a tovaglia con<br />

qualcosa che potrebbe sembrare <strong>un</strong> piatto, sedersi <strong>un</strong>o vicino<br />

all’altro. <strong>Non</strong> è importante l’evento reale (che si mangi), è<br />

importante l’evento simbolico (siamo insieme per mangiare,<br />

per ricordare quando si mangiava, per profetizzare che<br />

mangeremo ecc.). Così i nostri personaggi <strong>di</strong>ventavano quattro<br />

Antigoni a picnic: perché Antigone è colei che <strong>di</strong>fende, anche a<br />

costo della vita, contro la realpolitik dello zio Creonte, il <strong>di</strong>ritto<br />

<strong>di</strong> agire sempre e com<strong>un</strong>que secondo il volere degli dèi: anche<br />

se gli dèi, nel tempo della realpolitik, sono <strong>di</strong>ventati irreali.<br />

La preparazione del picnic è <strong>di</strong>ventata quin<strong>di</strong> il primo tentativo<br />

dei nostri quattro personaggi <strong>di</strong> evocare <strong>un</strong> mito, <strong>un</strong>o “stare<br />

insieme” antico (e magari iniziale) sul quale costruire.<br />

Naturalmente il tentativo fallisce: perché <strong>un</strong>o dei personaggi,<br />

la donna sotterrata, fa saltare tutto. Stiamo solo facendo finta,<br />

<strong>di</strong>ce agli altri. <strong>Non</strong> è importante, le rispondono. E invece sì,<br />

<strong>di</strong>ce lei, ciò che stiamo facendo non è reale. E insiste tanto, da<br />

<strong>di</strong>silludere anche gli altri.<br />

La seconda “azione mitica”, dopo il fallimento del picnic,<br />

l’abbiamo trovata nel dare i nomi alle cose (ciò che fece Adamo<br />

subito dopo essere stato creato). Lo sposo, sobillato dall’uomo<br />

appeso, crede <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare nella donna sotterrata colei che<br />

può dargli l’autorità <strong>di</strong> dare il nome alle cose; la donna prima si<br />

rifiuta, poi alla fine (solo per levarsi <strong>di</strong> torno quel rompiballe <strong>di</strong><br />

177


<strong>un</strong>o sposo) gli dà <strong>un</strong> nome derisorio, lo chiama app<strong>un</strong>to<br />

“Adamo”; lo sposo non percepisce la derisione, è tutto fiero del<br />

suo nome nuovo, si gonfia come <strong>un</strong> pavone, e istantaneamente<br />

battezza “Eva” la donna sotterrata; la quale, ovviamente, non<br />

gra<strong>di</strong>sce affatto…<br />

Così, <strong>un</strong> po’ alla volta, abbiamo ideate le scene dello<br />

spettacolo. Ma del resto vi racconto tra <strong>un</strong>a settimana.<br />

Chiacchierata numero 71<br />

L'appren<strong>di</strong>sta teatrante, 3. Con oggi finisco, spero, <strong>di</strong><br />

raccontarvi questa mia breve avventura teatrale. A <strong>un</strong> certo<br />

p<strong>un</strong>to avevamo, d<strong>un</strong>que: la storia (<strong>un</strong>a storia piuttosto esile,<br />

trattandosi sostanzialmente d'<strong>un</strong> dramma allegorico), le scene,<br />

i raccor<strong>di</strong> tra le scene, più o meno tutto il testo. E c'erano lo<br />

spazio (<strong>un</strong> palco all'aperto, inclinato verso il pubblico, con sei<br />

buchi dai quali poteva andare e venire la donna sotterrata, e<br />

<strong>un</strong> arco metallico dal quale poteva andare e venire l'uomo<br />

appeso), le due attrici, i due attori.<br />

A quel p<strong>un</strong>to, io sono entrato nel panico. Perché ho dovuta<br />

affrontare, <strong>di</strong> colpo, la grande <strong>di</strong>fferenza tra la pagina e la<br />

scena.<br />

Una volta ho scritto <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong> venticinque pagine in cui<br />

da pagina <strong>un</strong>o a quattro raccontavo cose che avvenivano, al<br />

presente, in <strong>un</strong> tempo <strong>di</strong> circa sei minuti; da cinque a do<strong>di</strong>ci<br />

raccontavo cose avvenute in <strong>un</strong> tempo precedente, nell'arco <strong>di</strong><br />

circa <strong>un</strong><strong>di</strong>ci anni; da tre<strong>di</strong>ci a se<strong>di</strong>ci raccontavo cose che<br />

avveniva, al presente, in circa due ore; da <strong>di</strong>ciassette a<br />

ventiquattro raccontavo cose avvenute in <strong>un</strong> tempo<br />

precedente, nell'arco <strong>di</strong> circa venticinque anni; nelll'ultima<br />

pagina raccontavo, al presente, cose avvenute in circa <strong>di</strong>eci<br />

minuti.<br />

Quanto si racconta sulla pagina, si fa sempre così. Il tempo è<br />

elastico, malleabile, <strong>di</strong>sponibile a tutto. Si può andare avanti,<br />

andare in<strong>di</strong>etro, ripetere, all<strong>un</strong>gare, accorciare, manipolare,<br />

falsificare: si può fare tutto. C'è chi sostiene, ad<strong>di</strong>rittura, che<br />

l'invenzione del romanzo coincida, più o meno, con l'invenzione<br />

<strong>di</strong> questa inesauribile elasticità del tempo.<br />

Bene: sulla scena, è tutto <strong>di</strong>verso. <strong>Non</strong> <strong>di</strong>co che si debbano<br />

rispettare le classiche <strong>un</strong>ità <strong>di</strong> tempo e <strong>di</strong> luogo. Ma c'è poco da<br />

fare: <strong>un</strong>'ora <strong>di</strong> scena racconta <strong>un</strong>'ora <strong>di</strong> tempo. Sì, d'accordo, si<br />

possono inventare degli stacchi, si può fare questo e quello.<br />

178


Ma, per esempio, il tempo va sempre avanti. E, cosa ancor più<br />

stupefacente, viaggia alla stessa velocità per tutti i personaggi:<br />

mentre, nella <strong>narrazione</strong> sulla pagina, il tempo ha<br />

normalmente velocità <strong>di</strong>verse per ciasc<strong>un</strong> personaggio.<br />

Un'altra volta ho scritto <strong>un</strong> racconto nelle cui prime tre pagine<br />

ho minuziosamente descritta l'abitazione del protagonista.<br />

Facevo <strong>un</strong>a specie <strong>di</strong> lenta carrellata l<strong>un</strong>go le pareti; poi<br />

concludevo con <strong>un</strong>o zoom in<strong>di</strong>etro grazie al quale l'abitazione,<br />

composta <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>un</strong>ico locale, appariva finalmente tutta intera, e<br />

<strong>un</strong>o zoom avanti che terminava su <strong>un</strong> primo piano del<br />

protagonista, seduto al suo tavolo al centro della stanza.<br />

Ho usati termini tecnici del cinema: carrellata, zoom in<strong>di</strong>etro,<br />

zoom avanti. E infatti il cinema somiglia molto <strong>di</strong> più alla<br />

<strong>narrazione</strong> sulla pagina che alla <strong>narrazione</strong> sulla scena teatrale.<br />

Il cinema ha, esattamente come la <strong>narrazione</strong> sulla pagina<br />

(scritta, ma anche <strong>di</strong>segnata: i fumetti), la possibilità <strong>di</strong><br />

produrre focalizzazioni precisissime. Pensate, ad esempio, alla<br />

scena d'apertura <strong>di</strong> Donne sull'orlo <strong>di</strong> <strong>un</strong>a crisi <strong>di</strong> nervi <strong>di</strong> Pedro<br />

Almodòvar: la cinepresa si muove più o meno come si<br />

muoveva il mio occhi nel racconto <strong>di</strong> cui sopra, e si fermava su<br />

<strong>un</strong> primo piano <strong>di</strong> <strong>un</strong>'arancia, enorme in tutto lo schermo.<br />

Bene: sulla scena teatrale, è ancora tutto <strong>di</strong>verso. Certo: i<br />

gesti, le luci soprattutto, possono "ritagliare" lo spazio,<br />

concentrare l'attenzione su questo o quel particolare od<br />

oggetto. Ma se anche io piombo la scena nell'oscurità, e lascio<br />

solo <strong>un</strong>a luce che illumini il teschio sulla mano protesa <strong>di</strong><br />

Amleto, ho sì <strong>un</strong>a focalizzazione molto intensa: ma non ho, per<br />

così <strong>di</strong>re, <strong>un</strong> teschio grande come tutto <strong>un</strong>o schermo da<br />

cinema.<br />

Per <strong>di</strong> più, il regista era fermamente intenzionato a far restare<br />

gli attori in scena per tutto il tempo. Sì, ogni tanto l'uomo<br />

appeso si appartava là in cima, ogni tanto la donna sotterrata<br />

si sotterrava per qualche momento: ma lo sposo e la sposa, ad<br />

esempio, erano sempre lì. Magari si appartavano, si sedevano<br />

su <strong>un</strong>a chaise-longue o sulla se<strong>di</strong>a volante (c'era <strong>un</strong>a se<strong>di</strong>a<br />

volante, in scena), si facevano per <strong>un</strong> po' i fatti loro: ma, alla<br />

fin fine, erano sempre tutti lì.<br />

E così ho assistito, con crescente ammirazione, a quel lavoro<br />

che il regista chiamava: "montaggio". Una cosa molto<br />

semplice: <strong>un</strong> po' alla volta, attraverso pazientissime ripetizioni<br />

(ho scoperte le doti fondamentali dell'attore: memoria gestuale<br />

e pazienza) il tempo <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong> attore veniva riempito. Era<br />

come se il regista avesse in corpo <strong>un</strong> metronomo (e <strong>di</strong>fatti, lo<br />

scartafaccio sul quale l'assistente registrava passi, intonazioni,<br />

gesti, velocità eccetera, lo chiamava partitura), <strong>un</strong>a sensibilità<br />

179


minuziosissima per il tempo. E vedevo che, pian piano,<br />

davvero il tempo si riempiva. Quando abbiamo fatte, <strong>un</strong>a<br />

settimana fa, le prime prove aperte, il pubblico ha visto <strong>un</strong>o<br />

spettacolo ancora in fieri, largamente imperfetto (anche sul<br />

piano del testo), ma com<strong>un</strong>que metronomicamente esatto. Su<br />

quel palco, ciasc<strong>un</strong>o degli attori stava per <strong>un</strong>'ora e cinque: e<br />

viveva per <strong>un</strong>'ora e cinque, senza buchi, senza rallentamenti (e<br />

senza, inten<strong>di</strong>àmoci, irragionevoli accelerazioni).<br />

Mi viene in mente quello che scrivevo, qualche settimana fa, a<br />

proposito del <strong>di</strong>alogo (dalla p<strong>un</strong>tata 55 alla p<strong>un</strong>tata 63).<br />

Raccomandavo insistentemente la rapi<strong>di</strong>tà delle battute, la<br />

connessione tra battute e gesto, il controllo del tempo, e così<br />

via. Ho scoperto nei giorni scorsi che scrivere <strong>un</strong> buon <strong>di</strong>alogo<br />

interno a <strong>un</strong>a <strong>narrazione</strong> è <strong>un</strong>o scherzo, rispetto allo scrivere<br />

<strong>un</strong>a scena per il teatro: e questo non perché nel teatro bisogna<br />

far passare quasi tutto nella parola detta dai personaggi; ma<br />

perché, app<strong>un</strong>to, nel teatro il tempo e la focalizzazione<br />

f<strong>un</strong>zionano in modo completamente <strong>di</strong>verso.<br />

Sulla base <strong>di</strong> quest'<strong>un</strong>ica esperienza non posso certo<br />

permettermi <strong>di</strong> <strong>di</strong>spensare consigli. Ma mi sento <strong>di</strong> <strong>di</strong>re (ne ho<br />

parlato a l<strong>un</strong>go, ovviamente, con Franco Brambilla, regista<br />

dello spettacolo) che le cose da apprendere, da sperimentare,<br />

sono app<strong>un</strong>to queste: tempo e focalizzazione. E sospetto che ci<br />

sia <strong>un</strong> sistema solo: provare e riprovare, guardar lavorare chi<br />

già sa. Grazie alla Corte ospitale (www.corteospitale.org),<br />

produttrice dello spettacolo, ho avuta questa opport<strong>un</strong>ità. Tutta<br />

la mia gratitu<strong>di</strong>ne.<br />

Chiacchierata numero 72<br />

I mestieri dello scrittore, 1. Quando, terminata la conferenza<br />

sulle magnifiche sorti e progressive della narrativa italiana,<br />

an<strong>di</strong>amo tutti all'osteria a bere qualcosa (io, ad addentare <strong>un</strong><br />

panino: in corpo ho solo il caffè delle sei <strong>di</strong> mattina), il signore<br />

con la barba a <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to <strong>di</strong>ce: “Eh, beato lei!”.<br />

“Beato perché?”, domando.<br />

“Perché fa la bella vita!”, <strong>di</strong>ce sorridendo il signore con la<br />

barba. “Se ne sta sempre tranquillo, nella sua cameretta, a<br />

scrivere, si perde nelle sue fantasie…”.<br />

“Veramente”, <strong>di</strong>co, “in questo momento la mia cameretta è<br />

<strong>di</strong>stante tre ore e mezza <strong>di</strong> treno”.<br />

Arrivano le birre.<br />

“Ma sì”, insiste sempre sorridendo il signore con la barba, “lei<br />

180


gira il mondo, oggi qui, domani là, senza pensieri…”.<br />

“Si decida”, <strong>di</strong>co. “Lei mi immagina sempre chiuso nella mia<br />

cameretta o sempre in giro per il mondo?”.<br />

Il signore con la barba ha <strong>un</strong> attimo <strong>di</strong> esitazione.<br />

“Be'”, <strong>di</strong>ce, “<strong>un</strong> po' questo e <strong>un</strong> po' quello. Fatto sta che è <strong>un</strong>a<br />

bella vita, no?”.<br />

“Ah”, <strong>di</strong>co, “che sia bella non <strong>di</strong>scuto. È com<strong>un</strong>que la vita che<br />

mi sono cercato. Ma che sia bella per quelle ragioni lì, ne<br />

dubito”.<br />

Il signore con la barba decide che lo sto provocando, e fa la<br />

faccia <strong>un</strong> po' incazzata.<br />

“Insomma, mi <strong>di</strong>ca”, <strong>di</strong>ce, “mi <strong>di</strong>ca che cosa vuole <strong>di</strong>re”.<br />

“Voglio <strong>di</strong>re”, <strong>di</strong>co, “che la mia vita è <strong>un</strong>a vita abbastanza<br />

com<strong>un</strong>e. Un po' lavoro in casa, parecchio vado in giro. Andare<br />

in giro non è particolarmente <strong>di</strong>stensivo: pensi lei, oggi ho<br />

preso il treno alle tre e quaranta, grazie a <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> ritardo<br />

sono arrivato che erano quasi le otto, alle otto e mezza ero già<br />

nella sala della conferenza. Domani ho il treno alle sei e <strong>un</strong><br />

quarto…”.<br />

“Ma chi gliela fa fare”, mi interrompe il signore con la barba,<br />

visibilmente seccato. “Può partire anche <strong>un</strong> po' più tar<strong>di</strong>, no? O<br />

lo fa apposta per farsi compatire?”.<br />

I compagni <strong>di</strong> tavolata, mi accorgo, sono tutti zitti. Stiamo<br />

dando spettacolo.<br />

“Posso partire alle <strong>di</strong>eci e mezza”, <strong>di</strong>co. “Però poi ho <strong>un</strong><br />

problema col cambio, e il viaggio mi dura quasi <strong>un</strong>'ora <strong>di</strong> più,<br />

arrivo alle tre del pomeriggio. Invece partendo alle sei e <strong>un</strong><br />

quarto posso far conto <strong>di</strong> essere a casa per le <strong>di</strong>eci e mezza:<br />

ho ancora mezza mattinata che posso lavorare”.<br />

“E che lavoro fa?”, domanda il signore con la barba.<br />

“Secondo lei”, domando io a lui, “quello che ho fatto questa<br />

sera è lavoro o no?”.<br />

Rimane <strong>un</strong> attimo interdetto.<br />

“No”, <strong>di</strong>ce. “Lei questa sera si è limitato a parlare delle cose<br />

che sa”.<br />

“Quin<strong>di</strong> non è lavoro?”.<br />

“No”, <strong>di</strong>ce il signore con la barba tutto sod<strong>di</strong>sfatto.<br />

“Quin<strong>di</strong>”, riepilogo pedantemente, “uscire <strong>di</strong> casa alle tre del<br />

pomeriggio, prendere l'autobus, arrivare in stazione, fare <strong>un</strong><br />

tot <strong>di</strong> ore <strong>di</strong> treno, saltare la cena, parlare per due ore <strong>di</strong> cose<br />

che so”, e qui calco la voce, “perché le ho stu<strong>di</strong>ate, cenare con<br />

<strong>un</strong> panino all'osteria, dormire in pensione, ripartire alle sei e <strong>un</strong><br />

quarto <strong>di</strong> mattina, eccetera: questo, per lei, non è lavorare?<br />

<strong>Non</strong> è fatica?”.<br />

Sono stato troppo pedante. Gli ho dato il tempo <strong>di</strong> preparare<br />

181


<strong>un</strong>a risposta pronta.<br />

“<strong>Non</strong> <strong>di</strong>co che non è fatica”, <strong>di</strong>ce. “Ma non è lavoro”.<br />

“Che cosa è lavoro?”, domando subito.<br />

“Lavoro è…”, e si perde per due, tre, quattro secon<strong>di</strong>. Ma si<br />

riprende. “Lavoro è produrre”.<br />

“E io non ho prodotto niente”.<br />

“Ha solo parlato”.<br />

“Lei, adesso, dopo avermi sentito parlare”, <strong>di</strong>co, “ha<br />

l'impressione <strong>di</strong> saperne <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> più sulla narrativa italiana?”.<br />

“So quello che mi ha detto lei”, <strong>di</strong>ce <strong>di</strong>ffidente il signore con la<br />

barba. “Solo quello che mi ha detto lei”.<br />

“Lei pensa che io abbia raccontate panzane?”, domando<br />

<strong>di</strong>retto.<br />

“No”, <strong>di</strong>ce il signore con la barba, con la faccia <strong>di</strong> chi avrebbe<br />

voglia <strong>di</strong> <strong>di</strong>re “Sì”, ma non ne ha il fegato.<br />

“Lei pensa che io abbia raccontate cose che non servono a<br />

niente?”, insisto, prevedendo la risposta.<br />

“Sì, ecco”, <strong>di</strong>ce il signore con la barba, <strong>di</strong>cendo la risposta<br />

prevista. “<strong>Non</strong> è che sia proprio <strong>un</strong>a cosa che serve a tanto, la<br />

letteratura”.<br />

“Quin<strong>di</strong> lei <strong>di</strong>ce che quello che io faccio, qual<strong>un</strong>que cosa<br />

faccia”, <strong>di</strong>co, “non è <strong>un</strong> lavoro, perché non serve a niente?”.<br />

“Sì”, <strong>di</strong>ce.<br />

Lo guardo bene fisso in faccia.<br />

“Cioè”, comincia a <strong>di</strong>re, “non è che voglio <strong>di</strong>re…”.<br />

Lo interrompo alzando entrambe le mani. “<strong>Non</strong> voleva <strong>di</strong>re<br />

quello che ha detto?”.<br />

“Sì”, <strong>di</strong>ce, “no…”.<br />

“Lei perché è qui?”, gli domando.<br />

“Come, perché sono qui?”, mi domanda.<br />

“Le chiedo perché è qui”, insisto. “Perché è venuto alla<br />

conferenza stasera, perché si è anche fermato qui, ora,<br />

all'osteria”.<br />

“Ma”, abbozza, “perché pensavo che lei fosse <strong>un</strong>a persona<br />

interessante”.<br />

“E lo sono?”, domando sorridendo, più ingenuo che posso.<br />

“Ma che cosa vuole da me?”, <strong>di</strong>ce l'uomo con la barba,<br />

alterandosi, alzando <strong>un</strong> po' la voce.<br />

“Ma”, <strong>di</strong>co allargando le braccia, “lei viene qui a <strong>di</strong>rmi che la<br />

cosa alla quale ho de<strong>di</strong>cata la mia esistenza è <strong>un</strong>a cosa che<br />

non serve a niente, e io sono curioso <strong>di</strong> sapere perché lei”, e gli<br />

p<strong>un</strong>to l'in<strong>di</strong>ce destro sul petto, “perché lei viene fin qui a<br />

sentire <strong>un</strong>o parlare <strong>di</strong> <strong>un</strong>a cosa che non serve a niente”.<br />

“Lei è <strong>un</strong> maleducato”, <strong>di</strong>ce il signore con la barba.<br />

“Può darsi”, <strong>di</strong>co. “Ma ha cominciato lei”.<br />

182


“Cominciato cosa?”, quasi grida l'uomo con la barba.<br />

“Ha cominciato lei”, <strong>di</strong>co ripigliando il tono pedante, “a<br />

scocciarsi perché la mia vita è fatta in <strong>un</strong> certo modo, cioè è<br />

<strong>un</strong>a vita <strong>di</strong> lavoro come quella <strong>di</strong> tutti, mentre lei avrebbe<br />

preferito (e perché lo avrebbe preferito, io non lo so) che la<br />

mia vita fosse fatta in <strong>un</strong> altro modo, fosse stata <strong>un</strong>a bella vita,<br />

tutta consacrata all'arte e ai go<strong>di</strong>menti…”.<br />

“Io non ho detto questo!”, <strong>di</strong>ce secco l'uomo con la barba.<br />

“Ah no?”, <strong>di</strong>co con il tono del finto tonto.<br />

A questo p<strong>un</strong>to, dopo avere assistito all'escalation senza<br />

sapere bene che fare, intervengono i compagni <strong>di</strong> tavolata, in<br />

primo luogo l'organizzatore dell'incontro. L'uomo con la barba<br />

cambia platealmente posto, va a mettersi quattro se<strong>di</strong>e più in<br />

là. Intanto arriva il mio panino, comincio a masticare.<br />

L'organizzatore si scusa, io gli <strong>di</strong>co tra <strong>un</strong> boccone e l'altro che<br />

non c'è nulla <strong>di</strong> cui si debba scusare. Dopo <strong>un</strong> po' l'uomo con la<br />

barba si alza, lascia cinque euro sul tavolo, se ne va salutando<br />

vagamente e <strong>di</strong>rigendo lo sguardo ov<strong>un</strong>que tranne che dalla<br />

mia parte.<br />

Io penso: “Anche oggi mi sono guadagnata la giornata”.<br />

Chiacchierata numero 73<br />

I mestieri dello scrittore, 2. Mercoledì s<strong>corso</strong> a Milano ho fatto<br />

conoscenza con Gianni Bion<strong>di</strong>llo, autore <strong>di</strong> Per cosa si uccide<br />

(Guanda), che è <strong>un</strong> libro assai <strong>di</strong>vertente e piacevole da<br />

leggere: quattro storie poliziesche milanesi, <strong>un</strong> commissariato<br />

<strong>di</strong> periferia, dei poliziotti sgangherati, <strong>un</strong> veloce alternarsi <strong>di</strong><br />

scene da ridere (se vi piacciono le freddure loffie), da<br />

commuoversi <strong>di</strong> brutto e da stare col fiato sospeso. Ma non ho<br />

conosciuto Gianni Bion<strong>di</strong>llo nella sua qualità, per così <strong>di</strong>re, <strong>di</strong><br />

"scrittore": l'ho conosciuto nella sua qualità <strong>di</strong> architetto.<br />

Gianni Bion<strong>di</strong>llo, infatti, è <strong>un</strong> giovane (e cor<strong>di</strong>alissimo)<br />

architetto.<br />

Mentre pranzavamo al ristorante cinese (menù fisso, 6 euro a<br />

testa: <strong>un</strong> involtino primavera, <strong>un</strong> riso da scegliere tra quattro<br />

tipi, <strong>un</strong> piatto <strong>di</strong> carne da scegliere tra do<strong>di</strong>ci tipi, acqua, caffè)<br />

s'è parlato della ragione del nostro incontro (mi sto<br />

interessando a <strong>un</strong>a villa forse progettata da Gio Ponti, a<br />

Sermide, in provincia <strong>di</strong> Mantova; abbandonata da vent'anni, e<br />

che forse varrebbe la pena <strong>di</strong> ricuperare; e Gianni si era<br />

interessato al mio interessamento); ma, ovviamente, s'è<br />

parlato anche d'altro.<br />

183


A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to Gianni Bion<strong>di</strong>llo ha detto: “Dopo che ho<br />

pubblicato il libro, qualche mese fa, mi è successo più volte <strong>di</strong><br />

sentirmi <strong>di</strong>re dagli amici: ma come, hai pubblicato <strong>un</strong> libro, fai<br />

ancora l'architetto? Perché l'idea corrente è questa: che chi<br />

pubblica <strong>un</strong> libro, <strong>di</strong>venta istantaneamente miliardario”.<br />

Più o meno <strong>un</strong>a volta la settimana parlo (o mi scambio email)<br />

con qualche giovinotto <strong>di</strong> belle speranze che <strong>di</strong>ce, chiaro e<br />

netto: “Voglio <strong>di</strong>ventare <strong>un</strong>o scrittore professionista”. Dove<br />

“professionista” significa, secondo me (e anche secondo loro):<br />

che vive del proprio lavoro <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>. E, tra l'altro, che ci vive<br />

anche bene: i “professionisti” sono persone come gli avvocati, i<br />

notai, i commercialisti; nella parola “professionista” è implicita,<br />

mi pare, l'idea <strong>di</strong> qualc<strong>un</strong>o che guadagna bene.<br />

Io vivo <strong>di</strong> parecchi lavori. Il principale, oggi, è il contratto <strong>di</strong><br />

collaborazione coor<strong>di</strong>nata e continuativa con l'e<strong>di</strong>tore Sironi. Il<br />

mio compito è trovare buone opere <strong>di</strong> narrativa italiana da<br />

pubblicare. Poi, vabbè, essendo l'azienda <strong>un</strong>'azienda piccola, si<br />

finisce col fare tante cose. Da lì viene circa la metà <strong>di</strong> quanto<br />

mi serve per campare.<br />

Faccio corsi e laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong>. Per <strong>un</strong> certo<br />

periodo ho vissuto solo <strong>di</strong> quelli. Lavoravo furiosamente,<br />

saltavo da <strong>un</strong>a città all'altra. Sono arrivato a fare ad<strong>di</strong>rittura 28<br />

ore settimanali in aula (che, sommate alle ore necessarie per<br />

preparare le lezioni, sono <strong>un</strong>a bella botta). Oggi sto cercando<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>minuire questi impegni.<br />

Ci sono anche gli inviti estemporanei. Mi chiamano qua e là<br />

per <strong>un</strong>a conferenza, <strong>un</strong>a lettura, <strong>un</strong> incontro con <strong>un</strong>a classe o<br />

con i frequentatori <strong>di</strong> <strong>un</strong>a biblioteca. Ogni invito è <strong>un</strong> viaggio,<br />

ogni viaggio è <strong>un</strong> piccolo introito. In qualche caso molto<br />

piccolo, in qualche caso (raro) assurdamente alto. A volte mi<br />

viene chiesto ad<strong>di</strong>rittura <strong>di</strong> organizzare degli eventi, e allora<br />

può essere <strong>di</strong>vertente: ma, quando si organizza, si finisce con<br />

lo sfacchinare tantissimo.<br />

Ci sono i lavori con i miei amici architetti e fotografi. Si tratta<br />

sostanzialmente <strong>di</strong> fare descrizioni <strong>di</strong> luoghi. Una volta l'anno,<br />

<strong>un</strong> lavoro <strong>di</strong> questi càpita. Ci si prende <strong>di</strong> più o <strong>di</strong> meno, a<br />

seconda.<br />

Poi, ogni anno c'è qualcosa <strong>di</strong> speciale. Quest'anno c'è stato il<br />

lavoro per il teatro, del quale vi ho raccontato fin troppo nelle<br />

scorse settimane. L'anno s<strong>corso</strong> fu <strong>un</strong> lavoro assai interessante<br />

per l'Istituto trentino <strong>di</strong> cultura: si trattava <strong>di</strong> scrivere <strong>un</strong>a<br />

storia a partire da <strong>un</strong> affresco allegorico; questa storia sarebbe<br />

poi stata messa in musica da <strong>un</strong> compositore… Mi <strong>di</strong>vertii<br />

molto. La cosa speciale è <strong>di</strong> solito la cosa più bella dell'anno, la<br />

più istruttiva.<br />

184


Qualche giorno fa, <strong>di</strong>scutendo in <strong>un</strong> blog, <strong>un</strong> certo Massimo<br />

mi ha buttato là: "È vero che se fosse solo per i libri pubblicati,<br />

voi scrittori fareste la fame?". Be', io sicuramente sì. Pubblico<br />

libri dal 1993: dal 1993 a oggi ho guadagnato, in <strong>di</strong>ritti<br />

d'autore, circa 31 mila euro: 2.700 euro l'anno (lor<strong>di</strong>,<br />

s'intende).<br />

I miei guadagni annui totali corrispondono, tanto per dare<br />

<strong>un</strong>'idea, a <strong>un</strong>a rem<strong>un</strong>erazione mensile netta (pagate le tasse,<br />

le spese per la produzione del red<strong>di</strong>to, gli innumerevoli viaggi,<br />

l'Inps) <strong>di</strong> circa 1.500/1.600 euro, per do<strong>di</strong>ci mensilità. <strong>Non</strong><br />

calcolo, per principio, tra le “spese per la produzione del<br />

red<strong>di</strong>to”, le spese per acquisto <strong>di</strong> libri; ci calcolo invece la<br />

bolletta del telefono (che due bimestri fa ha sfiorato i 600<br />

euro).<br />

La maggior parte dei miei amici narratori campa onestamente<br />

(spero) del suo lavoro: che siano architetti o avvocati,<br />

pubblicitari o cassieri <strong>di</strong> supermercato, professori o maestri,<br />

proiezionisti o callcentristi, f<strong>un</strong>zionari dell'Usl, <strong>di</strong> banca o <strong>di</strong><br />

qualche ministero. C'è <strong>un</strong>a prevalenza <strong>di</strong> professioni<br />

intellettuali, com'è ovvio (nota: come è ovvio, non come è<br />

giusto). Quasi tutti vogliono bene al loro lavoro; qualc<strong>un</strong>o<br />

preferirebbe farne <strong>un</strong> altro; qualc<strong>un</strong>o vorrebbe guadagnare <strong>un</strong><br />

po' <strong>di</strong> più faticando <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> meno; qualc<strong>un</strong>o preferirebbe non<br />

lavorare: c'è, in somma, la varietà <strong>di</strong> opinioni che si può<br />

trovare in qual<strong>un</strong>que bar.<br />

Due <strong>di</strong> loro stanno tentando <strong>di</strong> vivere <strong>di</strong> sola <strong>scrittura</strong>.<br />

Entrambi hanno scelto <strong>di</strong> vivere molto modestamente, perché<br />

solo vivendo molto modestamente possono assicurare a sé<br />

stessi la propria libertà.<br />

Io ho scelto <strong>di</strong> campare <strong>di</strong> cose tutte connesse con la <strong>scrittura</strong><br />

e la <strong>narrazione</strong>; ma per me è importante campare <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse<br />

cose. Se, per <strong>di</strong>re, io <strong>di</strong>pendessi in tutto e per tutto dai <strong>di</strong>ritti<br />

d'autore, mi sentirei (e sarei effettivamente) ostaggio del mio<br />

e<strong>di</strong>tore. Se <strong>di</strong>pendessi in tutto e per tutto dall'e<strong>di</strong>tore Sironi, mi<br />

sentirei a <strong>di</strong>sagio (anche se lì ho incontrate alc<strong>un</strong>e tra le<br />

migliori persone che io abbia incontrate in vita).<br />

Io credo, sinceramente, che l'autonomia <strong>di</strong> <strong>un</strong>a persona sia<br />

soprattutto (qui, dalle nostre parti, almeno) autonomia<br />

economica. E credo che, <strong>un</strong>o scrittore, questa autonomia<br />

dovrebbe cercarsela.<br />

Ne riparliamo.<br />

185


Chiacchierata numero 74<br />

I mestieri dello scrittore, 3. Qualche sera fa <strong>un</strong> cosiddetto<br />

giovane scrittore, ossia <strong>un</strong> ragazzo che qualche mese fa ha<br />

pubblicato <strong>un</strong> romanzo presso <strong>un</strong>a casa e<strong>di</strong>trice <strong>di</strong>gnitosa, mi<br />

ha detto:<br />

“Ma, secondo te, io dovrei mettermi a fare tutte quelle cose<br />

che fanno gli altri?”.<br />

Erano le <strong>di</strong>eci e mezza <strong>di</strong> sera. Eravamo seduti sul bordo del<br />

marciapiede, fuori da <strong>un</strong> cinema. Aspettavamo <strong>un</strong> amico che ci<br />

lavora, e che circa a quell'ora doveva finire <strong>di</strong> lavorarci, per<br />

fare quattro passi e bere qualcosa <strong>di</strong> fresco.<br />

“Quali cose?”, gli ho detto.<br />

Il giovane scrittore, questo va precisato, tende a rivolgersi a<br />

me più o meno come se io fossi <strong>un</strong>o scrittore anziano. Si<br />

aspetta sempre che io trovi delle risposte risolutive.<br />

“Ma sì”, ha insistito, “quelle che fanno tutti gli altri scrittori”.<br />

“Tipo?”.<br />

“Scrivere nei giornali, collaborare con le case e<strong>di</strong>trici, lavorare<br />

per il cinema, andare in televisione… Quelle cose lì”.<br />

“Be'”, ho detto, “non è che siano cose obbligatorie. <strong>Non</strong> è che<br />

se non le fai non sei <strong>un</strong> vero scrittore”.<br />

“Giulio, ascolta, non è questione <strong>di</strong> essere o non essere <strong>un</strong><br />

vero scrittore. È questione <strong>di</strong> sol<strong>di</strong>”.<br />

“Ah”, ho detto. (E ho pensato: "Come se non lo sapessi").<br />

“Ma, sì, sicuramente, a fare quelle cose lì ci si guadagna, a<br />

volte anche seriamente”.<br />

“Per esempio, a scrivere nei giornali?”.<br />

“Quello non lo so”, ho detto.<br />

“Ma tu non scrivi nei giornali?”.<br />

“Io scrivo per il supplemento letterario <strong>di</strong> <strong>un</strong> quoti<strong>di</strong>ano<br />

siciliano. Faccio <strong>un</strong>a rubrica, <strong>un</strong>a volta alla settimana”.<br />

“Ecco. E quanto pren<strong>di</strong>?”.<br />

“Niente”, gli <strong>di</strong>co. “<strong>Non</strong> prendo niente, perché è già <strong>un</strong><br />

miracolo che quel supplemento letterario esista. Il giornalista<br />

che l'ha inventato se lo deve <strong>di</strong>fendere con i denti. Dovesse<br />

anche pagare tutti i collaboratori, chiuderebbe subito”.<br />

Il giovane scrittore è perplesso.<br />

“Ma tu, allora”, <strong>di</strong>ce, “perché hai accettato <strong>di</strong> scriverci gratis?”<br />

“Perché quel supplemento letterario mi piace. Perché il<br />

giornalista che se l'è inventato mi è sembrato <strong>un</strong> giornalista<br />

bravo. Perché mi lascia parlare <strong>di</strong> cose che mi interessano e nel<br />

modo che più mi piace. Ti basta?”.<br />

Il giovane scrittore tace. Ha capito perfettamente, ma si vede<br />

186


che questa cosa del gratis non gli va tanto giù.<br />

“E le collaborazioni con gli e<strong>di</strong>tori?”, ripiglia.<br />

“Guarda”, gli <strong>di</strong>co, “io lavoro con <strong>un</strong> e<strong>di</strong>tore serio dal 2001.<br />

Ho <strong>un</strong> contratto da cococò, e ci tiro fuori più o meno metà <strong>di</strong><br />

quello che mi serve per campare. Però era dal 1996, che<br />

cercavo <strong>di</strong> lavorare per <strong>un</strong> e<strong>di</strong>tore. Ci ho provato e ci ho<br />

riprovato, e poi ho rin<strong>un</strong>ciato. Nel momento in cui ho<br />

rin<strong>un</strong>ciato, <strong>un</strong> e<strong>di</strong>tore al quale mai e poi mai avrei pensato mi<br />

ha telefonato”.<br />

“Hai fatto <strong>un</strong>a frase con <strong>un</strong> sacco <strong>di</strong> ato”, <strong>di</strong>ce ridendo il<br />

giovane scrittore.<br />

Rido anch'io. Tiriamo fuori le sigarette. Fumiamo le stesse: io<br />

la versione strong, lui quella light. Ma lui ne fuma il triplo <strong>di</strong><br />

me.<br />

“Insomma”, riprende, “è <strong>di</strong>fficile lavorare per gli e<strong>di</strong>tori”.<br />

“Guarda, proprio non saprei se è <strong>di</strong>fficile”, <strong>di</strong>co. “Persone che<br />

mi chiedono come si può fare a entrare in <strong>un</strong>a casa e<strong>di</strong>trice, ce<br />

n'è tante. A tutte mi tocca rispondere: non lo so. Insistendo,<br />

ecco: insistendo”.<br />

“Ma anche cose da poco, tipo leggere dattiloscritti, correggere<br />

bozze, fare l'e<strong>di</strong>tor, cose così”.<br />

Mi rendo conto che il giovane scrittore, pur avendo<br />

pubblicato il suo libro per <strong>un</strong>a casa e<strong>di</strong>trice <strong>di</strong>gnitosa, non ha<br />

ben capito quali sono le professionalità dentro <strong>un</strong>a casa<br />

e<strong>di</strong>trice. Ma non ho voglia <strong>di</strong> profondermi in spiegazioni: è<br />

mercoledì, sono ormai le <strong>un</strong><strong>di</strong>ci <strong>di</strong> sera, siamo seduti in<br />

braghette corte sull'orlo del marciapiede, fumiamo, e siamo<br />

sudati come bestie. La vita ha le sue esigenze.<br />

“Per <strong>un</strong> certo tempo ho letto dattiloscritti per conto <strong>di</strong><br />

Einau<strong>di</strong>”, ho detto. “Dovevo leggere, e poi scrivere <strong>un</strong>a scheda<br />

<strong>di</strong> valutazione secondo <strong>un</strong> certo schema. Mi davano centomila<br />

lire a dattiloscritto”.<br />

“Così poco?”.<br />

“Lorde”, sottolineo. “Centomila lorde”.<br />

“Ma non è giusto!”, insorge il giovane scrittore. Si alza in<br />

pie<strong>di</strong>, butta la sigaretta, la schiaccia sotto il tacco. Noto la<br />

cosa. Io, le sigarette, le ho sempre schiacciate sotto la p<strong>un</strong>ta.<br />

“Giusto o non giusto”, <strong>di</strong>co, “non è che gli altri e<strong>di</strong>tori, che io<br />

sappia, pagassero <strong>di</strong> più”.<br />

“È <strong>un</strong>a miseria”, afferma deciso il giovane scrittore.<br />

“Fa' <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> conti”, gli <strong>di</strong>co. Ho finita la sigaretta anch'io. La<br />

lancio, becco giusto il tombino. “Per l'esperienza che ho io, i<br />

libri pubblicabili, tra i dattiloscritti che arrivano nelle case<br />

e<strong>di</strong>trici, sono più o meno <strong>un</strong>o o due su mille”.<br />

“Stai scherzando”.<br />

187


“Intendo tra quelli che arrivano dal nulla. Quelli segnalati da<br />

agenti, da altri scrittori, eccetera, quella è <strong>un</strong>'altra cosa: non è<br />

tutto oro, figuriàmoci, ma la percentuale <strong>di</strong> cose interessanti è<br />

più consistente. Però, tra quelli che arrivano dai perfetti<br />

sconosciuti, pubblicabili sono <strong>un</strong>o o due su mille. Chiaro?”.<br />

“Chiaro”.<br />

“Quin<strong>di</strong>, se ciasc<strong>un</strong>o <strong>di</strong> questi mille dattiloscritti viene letto, e<br />

se per ciasc<strong>un</strong>a lettura si spendono centomila lire, ossia<br />

cinquantadue euro…”.<br />

“Fanno cinquantaduemila euro”.<br />

“Naturalmente, alc<strong>un</strong>i <strong>di</strong> questi dattiloscritti potranno non<br />

essere letti, perché magari arrivano da pazzi riconosciuti, o<br />

perché ci si accorge a pagina due che l'autore non sa<br />

nemmeno dove stanno <strong>di</strong> casa la grammatica e la sintassi; altri<br />

invece potranno essere letti due volte, tre volte, da persone<br />

<strong>di</strong>verse, nel <strong>corso</strong> della procedura <strong>di</strong> selezione. Chiaro?”.<br />

“Chiaro”.<br />

“Bene”, <strong>di</strong>co accendendo <strong>un</strong>'altra sigaretta. “Ho fatto <strong>un</strong> po' <strong>di</strong><br />

conti, e secondo me quel singolo dattiloscritto che si pubblica,<br />

che <strong>di</strong>venta <strong>un</strong> libro, viene a costare all'incirca<br />

sessantacinquemila euro”.<br />

“Come, viene a costare?…”.<br />

“Sì: si spendono sessantacinquemila euro per scegliere <strong>un</strong><br />

dattiloscritto in mezzo ad altri mille. Capisci che, se si pagasse<br />

<strong>di</strong> più per ogni lettura, i costi salirebbero ancora…”.<br />

Il giovane scrittore è in trance. So benissimo a cosa sta<br />

pensando. Sta pensando ai pochissimi euro che gli sono stati<br />

dati per il libro che ha fatto. Si sta rendendo conto,<br />

all'improvviso, <strong>di</strong> quanti sol<strong>di</strong> ci siano <strong>di</strong>etro i suoi pochi sol<strong>di</strong>.<br />

In quel momento, l'amico che aspettavamo, è uscito. Siamo<br />

andati a bere qualcosa <strong>di</strong> fresco.<br />

Chiacchierata numero 75<br />

I mestieri dello scrittore, 4. “In somma”, <strong>di</strong>ce il giovane<br />

scrittore mentre ci <strong>di</strong>rigiamo verso le piazze (sono le <strong>un</strong><strong>di</strong>ci <strong>di</strong><br />

sera passate, fa <strong>un</strong>'afa collosa, siamo in cerca <strong>di</strong> <strong>un</strong>a bevanda<br />

fresca), “io non <strong>di</strong>co che ci voglio vivere, facendo lo scrittore,<br />

ma portare a casa <strong>un</strong> guadagno decente, ne avrò il <strong>di</strong>ritto,<br />

no?”.<br />

No, mi viene da <strong>di</strong>rgli. Il <strong>di</strong>ritto no.<br />

“Senti”, gli <strong>di</strong>co invece, “<strong>di</strong> <strong>di</strong>ritti d'autore io non ho mai<br />

188


campato; non sono mai stato capace <strong>di</strong> vendere più che tanto;<br />

non ho mai fatto né film né programmi televisivi; non ho<br />

collaborazioni lussuose con quoti<strong>di</strong>ani e mensili illustrati…”.<br />

“No”, mi interrompe il giovane scrittore, “non volevo <strong>di</strong>re…”.<br />

“Aspetta”, gli <strong>di</strong>co. “Il p<strong>un</strong>to è: se c'è qualc<strong>un</strong>o che non è in<br />

grado <strong>di</strong> darti consigli precisi, in questa materia, quello sono io.<br />

Tu ve<strong>di</strong> come campo: corro <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là, <strong>un</strong> contrattino su, <strong>un</strong><br />

contrattino giù, e metto insieme la mesata. Vuoi campare<br />

come me?”.<br />

“No. Io voglio scrivere”.<br />

“Perfetto”, <strong>di</strong>co. “Allora non prendere esempio da me”.<br />

Il terzo amico che è con noi, è lui pure <strong>un</strong> cosiddetto giovane<br />

scrittore; anche se non è più tanto giovane, visto che va per la<br />

quarantina; ma ha pubblicato <strong>un</strong> libro, <strong>un</strong> primo libro, circa <strong>un</strong><br />

anno fa, e quin<strong>di</strong> anche lui è <strong>un</strong> giovane scrittore.<br />

“Ascolta”, <strong>di</strong>ce il terzo amico, “se vuoi stare tranquillo, tròvati<br />

<strong>un</strong> lavoro”.<br />

Lui, naturalmente, <strong>un</strong> lavoro ce l'ha; anzi ne ha due. Di<br />

pomeriggio fa il cassiere in <strong>un</strong> ipermercato, <strong>di</strong> notte fa il<br />

proiezionista in <strong>un</strong> cinemino dei preti.<br />

“Ma non è umiliante?”, <strong>di</strong>ce il giovane scrittore. “<strong>Non</strong> vi<br />

sembra umiliante?”, insiste (lui, invece, <strong>un</strong> lavoro preciso non<br />

ce l'ha; ogni tanto fa delle cose per l'Arci, per il Progetto<br />

giovani della sua città, e ci prende qualche soldo). Ora fa <strong>un</strong><br />

passo davanti a noi, si volta, si ferma e ci guarda. “Guardàtevi.<br />

Lavorate <strong>un</strong> sacco <strong>di</strong> ore al giorno per campare, e non scrivete.<br />

<strong>Non</strong> sarà mica giusto? Tu, almeno tu”, <strong>di</strong>ce rivolto a me, “che<br />

<strong>di</strong> libri ne hai pubblicati <strong>un</strong> bel po', e che ormai sei <strong>un</strong> valore<br />

consolidato, non <strong>di</strong>co me e lui”, in<strong>di</strong>cando il terzo amico, “che<br />

siamo immigrati appena sbarcati a Lampedusa, ma almeno tu,<br />

che della Repubblica delle Lettere sei citta<strong>di</strong>no con pieni <strong>di</strong>ritti,<br />

dovresti poter stare tranquillo e beato, senza bisogno <strong>di</strong><br />

correre <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là”.<br />

“A me piace lavorare”, <strong>di</strong>co.<br />

“Mica dovresti sempre stare a grattarti!”, <strong>di</strong>ce il giovane<br />

scrittore. “È <strong>un</strong>a questione <strong>di</strong> ruolo sociale”, insiste<br />

accalorandosi. “Tu dovresti essere celebrato, ad esempio, in<br />

questa città, essere <strong>un</strong> fiore all'occhiello. Dovresti essere<br />

almeno assessore alla cultura. E invece? <strong>Non</strong> ti si fila ness<strong>un</strong>o,<br />

se proprio va bene ti trattano come <strong>un</strong>a merda”.<br />

Visualizzo <strong>un</strong> doppiopetto blu; la giacca del doppiopetto; il<br />

bavero; l'occhiello del bavero; e, che sp<strong>un</strong>ta dall'occhiello, <strong>un</strong><br />

fiore sovrappeso, sudato e in braghette corte. Cerco <strong>di</strong> restare<br />

impassibile.<br />

“A-ha”, <strong>di</strong>co, “<strong>di</strong> ciò che non ho cercato <strong>di</strong> avere non ho avuto<br />

189


nulla”.<br />

“Eh”, <strong>di</strong>ce il terzo amico, “da Baudelaire in poi, non è più<br />

così”.<br />

“Cosa vuoi <strong>di</strong>re?”, <strong>di</strong>ce il giovane scrittore.<br />

In questo istante nelle piazze ci sono tutti i padovani che non<br />

sono andati in vacanza, cioè circa centoventicinquemila.<br />

Zigzaghiamo tra i tavolini del bar Gancino, del bar del Duomo,<br />

del bar Oro e Verde, del Caffè dell'orologio, del bar Nazionale,<br />

del bar dell'Angolo. Tutto pieno.<br />

“Baudelaire”, <strong>di</strong>ce il terzo amico, “lo <strong>di</strong>co così,<br />

approssimativamente, quasi simbolicamente, è stato il primo<br />

letterato che si è messo spontaneamente ed esplicitamente<br />

nelle mani del mercato”.<br />

“Hai fatto quattro mente <strong>di</strong> fila”, <strong>di</strong>ce il giovane scrittore.<br />

“Lui ha voluto essere in<strong>di</strong>pendente”, continua il terzo amico<br />

senza badargli (il giovane scrittore fa segno: “Cinque”, aprendo<br />

le <strong>di</strong>ta della mano destra), “e così si è trovato nella necessità <strong>di</strong><br />

rispondere non a <strong>un</strong> feudatario, o a <strong>un</strong> qualche riccastro o<br />

nobilastro, o a <strong>un</strong> qualche ceto <strong>di</strong> riferimento: no, si è trovato<br />

a rispondere al mercato”.<br />

“E allora?”, <strong>di</strong>ce il giovane scrittore.<br />

“E allora è così”, <strong>di</strong>ce il terzo amico. “Finché lo scrittore è <strong>un</strong><br />

cortigiano, allora ha dei serissimi doveri ai quali corrispondono<br />

dei precisi <strong>di</strong>ritti. Quando lo scrittore va sul mercato, non ha<br />

più doveri verso ness<strong>un</strong>o; e in cambio non ha ness<strong>un</strong> <strong>di</strong>ritto.<br />

Ciò che lui fa, è merce tra le altre merci”.<br />

“Ma il ruolo sociale dello scrittore, allora, dov'è finito?”, <strong>di</strong>ce il<br />

giovane scrittore.<br />

Ho trovato <strong>un</strong> tavolino libero. Lo occupiamo<br />

baldanzosamente. La ragazza rumena arriva in trenta secon<strong>di</strong>.<br />

Tre Slalom me<strong>di</strong>e, due bionde e <strong>un</strong>a rossa. Sfoderiamo i<br />

pacchetti, accen<strong>di</strong>amo tre sigarette.<br />

“E allora?”, sollecita il giovane scrittore.<br />

“Ma che cazzo <strong>di</strong> ruolo sociale vuoi avere!”, sbotta il terzo<br />

amico. “Ma non ve<strong>di</strong>? <strong>Non</strong> ve<strong>di</strong>? Guàrdati attorno, accidenti!”.<br />

Attorno c'è tutta <strong>un</strong>'umanità maschile in braghette corte che<br />

suda, fuma e beve birre; e tutta <strong>un</strong>'umanità femminile in<br />

pinocchietti e top che fuma, beve succhi Ace e apparentemente<br />

non suda.<br />

“Vuoi avere <strong>un</strong> ruolo sociale per questi qui?”, <strong>di</strong>ce il terzo<br />

amico.<br />

“Ma non lo so”, <strong>di</strong>ce il giovane scrittore. “Sto facendo delle<br />

domande”.<br />

Troppo comodo, penso. Allora <strong>di</strong>co: “Ascolta. Un ruolo sociale,<br />

qual<strong>un</strong>que cosa sia e qual<strong>un</strong>que cosa tu intenda per ruolo<br />

190


sociale, è qualcosa che esiste e ha senso solo in relazione a <strong>un</strong><br />

gruppo sociale ben definito. È chiaro?”.<br />

“Sì”, <strong>di</strong>ce il giovane scrittore. Il terzo amico annuisce.<br />

“Rispetto a questo gruppo sociale tu dovresti essere, come io<br />

e lui dovremmo essere”, continuo, “organico. Dovresti esser<br />

organico, ossia consapevolmente o inconsapevolmente, ma<br />

credo che sia meglio consapevolmente, portatore degli<br />

interessi (magari solo simbolici, eh!), dei desideri, dei<br />

sentimenti, dei conflitti <strong>di</strong> classe, eccetera <strong>di</strong> questo gruppo<br />

sociale. Dovresti essere, in somma, colui che sa <strong>di</strong>re ciò che gli<br />

altri sanno solo agire. È chiaro?”.<br />

È chiaro.<br />

“Bene”, <strong>di</strong>co. “Rispetto a quale gruppo sociale tu sei in questa<br />

posizione?”.<br />

“Ness<strong>un</strong>o”, <strong>di</strong>ce il giovane scrittore, palesemente irritato,<br />

frantumando la sigaretta nel posacenere. “L'artista è libero per<br />

definizione”.<br />

Arriva la ragazza rumena, scarica sul tavolino le tre birre.<br />

Chiacchierata numero 76<br />

I mestieri dello scrittore, 5. “E, prima <strong>di</strong> fare lo scrittore, che<br />

cosa faceva?”.<br />

Osservo la tipa. Avrà trent'anni, anche se io mi sbaglio<br />

sempre sull'età delle persone. Faccio <strong>un</strong> calcolo: mi ha già<br />

detto che si è laureata in letteratura inglese, che ha lavorato<br />

“<strong>un</strong> paio d'anni” per <strong>un</strong>'azienda <strong>di</strong> ceramiche, che ha preso al<br />

volo <strong>un</strong> <strong>corso</strong> della Regione Lombar<strong>di</strong>a sulla com<strong>un</strong>icazione in<br />

rete, e che adesso è contentissima <strong>di</strong> lavorare nel web <strong>di</strong><br />

questa grande azienda <strong>di</strong> filati e maglieria, dove le hanno<br />

appena rinnovato il contratto annuale. Sì, trent'anni ce li ha,<br />

ma non <strong>di</strong> più.<br />

“Ma”, rispondo, “facevo quello che fanno tutti: lavoravo”.<br />

“In che senso?”, <strong>di</strong>ce la tipa, sorridendo.<br />

Mi preparo. Seduti attorno alla tavola siamo in otto. C'è chi si<br />

conosce da tempo, ed è già avviato in conversazioni che io non<br />

sono in grado né <strong>di</strong> capire né <strong>di</strong> seguire. C'è chi è seduto qui<br />

per me, perché pensa che cenare con me sia <strong>un</strong>'esperienza<br />

interessante (mah!), e tra chi è seduto qui per me c'è questa<br />

tipa che, evidentemente, vuole cavare dalla rapa (che sono io)<br />

tutto il sangue che si può.<br />

“Ho lavorato sette anni in <strong>un</strong> ufficio stampa”, le <strong>di</strong>co. “E altri<br />

sette in <strong>un</strong>a libreria scientifica”.<br />

191


“L'ufficio stampa <strong>di</strong> <strong>un</strong>a casa e<strong>di</strong>trice?”.<br />

“No, <strong>di</strong> <strong>un</strong>'associazione sindacale datoriale”.<br />

La parola “datoriale” <strong>di</strong>vide il mondo in due: chi la sa, e chi<br />

non la sa.<br />

La tipa, che continua a sorridere, è vagamente perplessa.<br />

“Di datori <strong>di</strong> lavoro. Lavoravo in Confartigianato. Una specie<br />

<strong>di</strong> Confindustria delle imprese artigiane, le imprese piccole. Ci<br />

occupavamo <strong>di</strong> camionisti, gelatieri, parrucchieri, e<strong>di</strong>li,<br />

<strong>di</strong>pintori, estetiste, falegnami, cose così”.<br />

“E lei era nell'ufficio stampa?”.<br />

“Ci facevo lavoro <strong>di</strong> segreteria. Mi hanno preso perché avevo<br />

<strong>un</strong> <strong>di</strong>ploma <strong>di</strong> dattilo<strong>scrittura</strong> veloce, metodo Scheidegger.<br />

Rispondevo al telefono, <strong>di</strong>cevo attenda, prego, ora le passo il<br />

dottore, con l'Ibm a testina rotante copiavo in bella copia gli<br />

articoli e i com<strong>un</strong>icati stampa, spe<strong>di</strong>vo i fax, leccavo i<br />

francobolli da appiccicare sulle buste”.<br />

La tipa sembra delusa. Ne approfitto per pescare dal piatto<br />

centrale <strong>un</strong>'altra dose <strong>di</strong> baccalà mantecato. Danno sempre<br />

troppo poca polenta, penso. La tipa ha davanti <strong>un</strong> piatto <strong>di</strong><br />

insalatina. Questi sono gli antipasti, poi si vedrà.<br />

“Sono stato lì sette anni”, continuo, “e pian piano ho<br />

cominciato a scrivere anch'io, poi ho trovato chi mi ha<br />

insegnato, eccetera eccetera. Ho fatta <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> carriera<br />

interna, in somma”.<br />

“Allora già scriveva!”, <strong>di</strong>ce la tipa, trionfante.<br />

“Come no?”, <strong>di</strong>co. Faccio il tono <strong>di</strong> voce da cinegiornale. “Ieri<br />

pomeriggio alle 15 si è ri<strong>un</strong>ito, presso la sede della Federazione<br />

regionale dell'artigianato veneto, Frav/Confartigianato, il<br />

<strong>di</strong>rettivo dell'Urvaat, l'Unione regionale veneta artigiani<br />

autotrasportatori. Il <strong>di</strong>rettivo ha approvato all'<strong>un</strong>animità <strong>un</strong><br />

documento, illustrato dal presidente dell'Urvaat Tal Deitali, nel<br />

quale si avanzano alc<strong>un</strong>e osservazioni critiche sul Progetto<br />

Regionale per lo sviluppo del Settore Secondario, in merito alla<br />

politica dei trasporti. Ci lascia sconcertati, ha <strong>di</strong>chiarato Tal<br />

Deitali…”.<br />

“Ma è <strong>un</strong>a cosa orribile!”, quasi grida la tipa.<br />

“Ba', in somma”, <strong>di</strong>co, “è la prosa delle agenzie <strong>di</strong> stampa,<br />

degli articoli <strong>di</strong> cronaca”.<br />

“Ma è tremenda!”, insiste la tipa.<br />

“Ci ho campato per sette anni”, <strong>di</strong>co secco. “E le assicuro che<br />

i nostri com<strong>un</strong>icati stampa erano i migliori della regione”<br />

“Cioè?”.<br />

“Erano scritti bene. Facevamo il possibile per evitare il<br />

sindacalese. E ci riuscivamo anche abbastanza”.<br />

“Quin<strong>di</strong>”, <strong>di</strong>ce la tipa, “c'era già lo scrittore in lei…”.<br />

192


“No, non c'entra. Era <strong>un</strong>a questione <strong>di</strong> <strong>di</strong>gnità. Volevamo<br />

scrivere ciò che dovevamo scrivere - e che riguardava sempre<br />

materie come contratti <strong>di</strong> lavoro, sicurezza nelle aziende,<br />

politiche regionali, legislazione, cose così - volevamo scrivere<br />

sempre dei testi che non ci <strong>di</strong>sgustassero. Che si lasciassero<br />

leggere, che fossero comprensibili. Testi che noi, da lettori dei<br />

giornali, avremmo letto volentieri”.<br />

“Ah”, <strong>di</strong>ce la tipa.<br />

C'è <strong>un</strong> momento <strong>di</strong> pausa. All'altro capo del tavolo stanno<br />

parlando male <strong>di</strong> Mario Luzi. Mi verso da bere e intanto penso<br />

che non ho mai sentito parlare bene <strong>di</strong> Mario Luzi. Dev'esserci<br />

<strong>un</strong>a congiura.<br />

“E perché ha smesso <strong>di</strong> lavorare lì?”.<br />

“Mi sono stufato. Lavoravo do<strong>di</strong>ci ore al giorno, e per <strong>di</strong> più a<br />

Venezia: che è bella da vedere, ma lavorarci è <strong>un</strong> delirio. Poi<br />

succedevano strane cose, e io volevo cavarmi fuori”.<br />

“Strane cose?”.<br />

“Tangentopoli è arrivata dopo”, <strong>di</strong>co, “ma se lì fosse arrivata<br />

quattro o cinque anni prima, trovava pane per i suoi denti”.<br />

Mentre la <strong>di</strong>co, mi rendo conto che sto facendo <strong>un</strong>a frase<br />

assurda.<br />

“E allora ha messo su <strong>un</strong>a libreria”, ripiglia la tipa.<br />

“<strong>Non</strong> ho messo su <strong>un</strong>a libreria”, preciso. “Sono andato a<br />

lavorare in <strong>un</strong>a libreria, come fattorino”.<br />

La tipa tenta <strong>di</strong> salvare il salvabile. “Be', com<strong>un</strong>que era<br />

sempre in mezzo ai libri”.<br />

“Come no? Era <strong>un</strong>a libreria tecnico-scientifica e <strong>un</strong>iversitaria.<br />

Vendevamo i libri <strong>di</strong> testo agli studenti <strong>di</strong> chimica, fisica,<br />

farmacologia, ingegneria, biologia. E vendevamo libri scientifici<br />

e tecnici a docenti <strong>un</strong>iversitari e professionisti vari. Sa qual era<br />

il nostro best-seller, tolti i libri adottati?”.<br />

“No”, <strong>di</strong>ce.<br />

“Andreini, La conduzione degli impianti a vapore, Hoepli”.<br />

<strong>Non</strong> è vero. Pprobabilmente il best-seller vero era il manuale<br />

dell'Autocad, nelle sue <strong>di</strong>verse release, pubblicato da Tecniche<br />

Nuove. Ma l'Andreini fa sempre il suo effetto. Ness<strong>un</strong>o, tranne<br />

chi deve saperlo, sa che cosa sia la conduzione degli impianti a<br />

vapore. E chi non lo sa, si immagina sempre che sia <strong>un</strong>a cosa<br />

stranissima.<br />

La tipa cambia <strong>di</strong> posto a qualche foglia d'insalatina nel suo<br />

piatto. Sta zitta per troppo tempo. Mi viene il dubbio <strong>di</strong> averla<br />

offesa. A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to posa la forchetta, mi guarda dritto in<br />

faccia. Parla:<br />

“Lei vuole darmi da intendere che non gliene è mai fregato<br />

niente della letteratura. Questo l'ho capito. Ma io non ci casco,<br />

193


sa. Sarà <strong>un</strong>a sua <strong>di</strong>fesa, questa. Io non ci credo. Chi <strong>di</strong>sprezza<br />

compra, si <strong>di</strong>ce. Lei va pazzo per la letteratura. Si sente. Si<br />

vede. Lei trasuda letteratura da tutti i pori”.<br />

Chiacchierata numero 77<br />

Lo scrittore in vacanza, 1. Che cosa fa <strong>un</strong>o scrittore in<br />

vacanza? Fa quello che fanno tutti gli altri. Va a spasso, prende<br />

il sole, nuota, si arrampica, visita i musei, compera ricor<strong>di</strong>ni e<br />

specialità, fa foto, dorme più del solito, legge libri l<strong>un</strong>ghissimi.<br />

Poi, gli càpitano delle strane avventure.<br />

Il 6 agosto s<strong>corso</strong>, a Fermo (Ap), al mercatino delle cose<br />

vecchie ho comperato questo libro: Manuale <strong>di</strong> lettura per lo<br />

stu<strong>di</strong>o pratico dei vari generi <strong>di</strong> componimenti letterari, ad uso<br />

del ginnasio superiore dell'Istituto tecnico e della Scuola<br />

normale, compilato da Alcibiade Vecoli e Guido Paliotti, G.<br />

Barbèra E<strong>di</strong>tore, Firenze 1909. Un bel librotto <strong>di</strong> 647 pagine,<br />

piuttosto malmesso, reincollato alla bell'e meglio.<br />

L'ho comperato per tre ragioni: primo, perché compero<br />

compulsivamente tutti i manuali <strong>di</strong> questo tipo, soprattutto<br />

quelli tra fine Otto e inizio Novecento; secondo, perché<br />

sfogliandolo ci ho trovati dentro dei componimenti poetici <strong>di</strong><br />

Andrea Orcagna, Pieraccio Tedal<strong>di</strong>, Bernar<strong>di</strong>no Zendrini e<br />

Antonio Guadagnoli (accostati a Dante Alighieri, Francesco<br />

Petrarca, Torquato Tasso e Giacomo Leopar<strong>di</strong>: e la cosa<br />

m'incuriosiva); terzo, perché costava quattro euro.<br />

Naturalmente me lo sono leggiucchiato, il mio Manuale, tra<br />

<strong>un</strong>a passeggiata e <strong>un</strong> riposino; e sentite che cosa mi è capitato<br />

<strong>di</strong> leggere nella prefazione:<br />

“Tra i vari insegnamenti teorici che sono, per così esprimersi,<br />

tra<strong>di</strong>zionali nella scuola italiana, ce n'è <strong>un</strong>o il quale, più d'ogni<br />

altro, ha resistito all'azione demolitrice e innovatrice de' tempi:<br />

vogliamo <strong>di</strong>re l'insegnamento dei <strong>di</strong>versi generi <strong>di</strong><br />

componimenti letterari tanto in poesia quanto in prosa. […] E<br />

qui può esserci rivolta la domanda: L'avere persistito nel<br />

mantenere <strong>un</strong> tale insegnamento teorico è, secondo voi, <strong>un</strong><br />

bene o <strong>un</strong> male?. Rispon<strong>di</strong>amo: Può, a seconda dei casi, essere<br />

l'<strong>un</strong>a cosa e l'altra. È <strong>un</strong> male se - come in altri tempi - si<br />

presume anch'oggi <strong>di</strong> apprendere ai giovani la ricetta infallibile<br />

per architettare <strong>un</strong> poema epico, o per isciogliere il volo a<br />

<strong>un</strong>'alata ode pindarica; per colorire <strong>un</strong>a storia sentenziosa, o<br />

per tessere con bella simmetria <strong>un</strong>'eloquente orazione<br />

ciceroniana. Che la razza <strong>di</strong> quest'ingenui spacciatori <strong>di</strong> ricette<br />

194


letterarie non s'è ancora spenta, ne fanno sicura fede certi libri<br />

<strong>di</strong> testo, che tuttora continuano a deliziare le nostre scuole,<br />

dove stroppiano i cervelli <strong>di</strong> tanti studenti, inculcando loro il<br />

convincimento che esista <strong>un</strong>a larga strada maestra, <strong>un</strong>ica e<br />

ben determinata, per ascendere alle alte vette dell'Arte;<br />

mentre invece i sentieri per gi<strong>un</strong>gere ai giar<strong>di</strong>ni incantati della<br />

grande ammaliatrice [che sarebbe app<strong>un</strong>to l'Arte, beninteso]<br />

sono, per chi abbia forti i garetti, infiniti <strong>di</strong> numero, come i<br />

raggi che dalla circonferenza vanno al centro del circolo. Ma è<br />

al contrario <strong>un</strong> bene, ove tale insegnamento venga impartito<br />

col fine modestissimo <strong>di</strong> far conoscere ai giovani quale sia<br />

l'origine delle forme principali della letteratura nostra; a quali<br />

norme abbiano esse obbe<strong>di</strong>to, e a quali mo<strong>di</strong>ficazioni siano<br />

andate via via soggette” (pp. V-VI).<br />

Oggi come oggi gli esempi sarebbero <strong>di</strong>versi: ness<strong>un</strong>o (credo)<br />

aspira a comporre poemi epici, o<strong>di</strong> pindariche, storie<br />

sentenziose od orazioni ciceroniane; ma se al posto <strong>di</strong> questi<br />

generi letterari ci mettiamo quelli in voga al nostro tempo (il<br />

romanzo con tutti i suoi sottogeneri: thriller, horror, fantasy,<br />

rosa, storico, d'azione e così via; le novelle in versi con musica,<br />

ossia - detto così, all'ingrosso - le canzoni cantautorali; la<br />

poesia lirica pura - praticata da molti nostri poeti, nonché da<br />

molti autori <strong>di</strong> canzoni non cantautorali; il <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> efficace, dal<br />

fondo <strong>di</strong> quoti<strong>di</strong>ano alla pubblicità a tutte le varie forme <strong>di</strong><br />

com<strong>un</strong>icazione; eccetera), non mi sembra che cambi molto. E<br />

ness<strong>un</strong>o, credo, oggi come oggi, ar<strong>di</strong>rebbe parlare <strong>di</strong> Arte con<br />

la A maiuscola o, peggio, <strong>di</strong> “grande ammaliatrice” (la<br />

maiuscola spetterebbe casomai al Successo, e ad ammaliare<br />

sono piuttosto le Sirene del Mercato); tuttavia, <strong>di</strong> nuovo, mi<br />

sembra che non cambi molto.<br />

Mi ha consolato, mentre spilluzzicavo il mio Manuale tra <strong>un</strong><br />

riposino e <strong>un</strong>a passeggiata, pensare che novantasei anni fa i<br />

suoi autori avevano che fare con le stesse obiezioni e accuse<br />

con le quali ho che fare io oggi: che insegnare a scrivere e<br />

raccontare non è possibile; che le se<strong>di</strong>centi scuole <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e<br />

<strong>narrazione</strong> illuderebbero gli ingenui inculcando loro<br />

semplicistiche e, app<strong>un</strong>to, illusorie ricette “infallibili” per<br />

comporre Capolavori <strong>di</strong> Successo; che le stesse se<strong>di</strong>centi<br />

scuole <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> e <strong>narrazione</strong> produrrebbero <strong>un</strong>'omologazione<br />

(“<strong>un</strong>a larga strada maestra, <strong>un</strong>ica e ben determinata”) dei<br />

lavori letterari (tutti gli scrittori <strong>di</strong> racconti sarebbero<br />

carveriani, tutti gli scrittori <strong>di</strong> romanzi sarebbero baricchiani,<br />

eccetera).<br />

Mi ha consolato, e insieme mi ha sconsolato. In questi giorni<br />

<strong>di</strong> vacanza mi è capitato anche <strong>di</strong> rileggere <strong>un</strong> <strong>di</strong>alogo <strong>di</strong><br />

195


Platone, il Gorgia: dove il grande rétore sofista viene<br />

elegantemente infinocchiato da Socrate che già nelle prime<br />

pagine lo mette alle strette sulla questione: quale sia l'oggetto<br />

della retorica (ossia, in termini moderni, della “teoria e tecnica<br />

della composizione del <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> argomentativo e narrativo”).<br />

Gorgia dapprima afferma che oggetto della retorica è più o<br />

meno tutto ciò <strong>di</strong> cui si può parlare, in quanto se ne parla; ma<br />

Socrate lo incalza, gli domanda se la retorica si occupi d<strong>un</strong>que<br />

<strong>di</strong> me<strong>di</strong>cina, <strong>di</strong> fitness (“ginnastica”, nel testo greco), <strong>di</strong><br />

e<strong>di</strong>lizia, <strong>di</strong> arte militare, e Gorgia deve rispondere che no,<br />

evidentemente no; e <strong>un</strong>a volta esclusi praticamente tutti i<br />

campi del sapere, in quanto ciasc<strong>un</strong>o è dotato <strong>di</strong> <strong>un</strong> contenuto<br />

specifico che in quanto tale non compete al rétore, Gorgia è<br />

costretto a forza ad ammettere che la retorica è <strong>un</strong>a <strong>di</strong>sciplina<br />

priva <strong>di</strong> oggetto, o com<strong>un</strong>que della quale l'oggetto è<br />

indefinibile.<br />

Triste il destino <strong>di</strong> chi ha la pretesa <strong>di</strong> insegnare (o <strong>di</strong> educare<br />

a) raccontare e argomentare. Preso in mezzo tra l'accusa <strong>di</strong><br />

vendere fumo e quella <strong>di</strong> insegnare <strong>un</strong>a <strong>di</strong>sciplina senza<br />

contenuto, cioè il nulla. Ne riparleremo.<br />

Chiacchierata numero 78<br />

Lo scrittore in vacanza, 2. Settimana scorsa cominciavo dalla<br />

domanda: “Che cosa fa <strong>un</strong>o scrittore in vacanza?”. Lo scrittore,<br />

<strong>di</strong>cevo, quand’è in vacanza, legge molto.<br />

Ci sono dei libri che <strong>un</strong>o, dopo che li ha comperati, li guarda<br />

per <strong>un</strong> po’, li sfoglia per <strong>un</strong> po’, li leggiucchia per <strong>un</strong> po’; e alla<br />

fin fine li posa e <strong>di</strong>ce a sé stesso: “Bene. Questo libro lo<br />

leggerò in vacanza”. Anche lo scrittore, come ogni lettore,<br />

talvolta fa così. Solitamente si tratta <strong>di</strong> libri l<strong>un</strong>ghissimi,<br />

<strong>di</strong>fficilissimi e <strong>di</strong> grande formato. Quin<strong>di</strong>: pesanti da<br />

trasportare, duri da leggere, e scomo<strong>di</strong> da maneggiare sulla<br />

se<strong>di</strong>a a sdraio.<br />

Lo scrittore porta con sé in vacanza questi libri soprattutto a<br />

causa del suo senso <strong>di</strong> colpa. “Come posso prendere la parola”,<br />

si <strong>di</strong>ce lo scrittore, “se prima non ho letto tutto ciò che è stato<br />

scritto? Come posso scrivere <strong>un</strong> romanzo sugli anacar<strong>di</strong> se non<br />

ho prima letto tutto ciò che è stato scritto sugli anacar<strong>di</strong>?<br />

Come posso ambire a <strong>di</strong>ventare <strong>un</strong> classico se prima non ho<br />

letti tutti i libri ritenuti classici?”, e così via. Quasi tutti gli<br />

scrittori si fanno <strong>di</strong> queste domande, e <strong>di</strong> conseguenza, hanno<br />

dei sensi <strong>di</strong> colpa. Perché, com’è noto, leggere tutto non è<br />

196


possibile.<br />

Fort<strong>un</strong>atamente lo scrittore, benché in vacanza e dotato <strong>di</strong><br />

sensi <strong>di</strong> colpa, tende a conservare la sua naturale intelligenza.<br />

E così, a prescindere dai libri p<strong>un</strong>itivi che ha portato con sé, gli<br />

capita <strong>di</strong> comperare, mentre vacanzeggia qua e là, altri libri,<br />

molto più effettivamente vacanzieri: che finirà col leggere<br />

avidamente, scordando gli altri e tamponando a suon <strong>di</strong><br />

go<strong>di</strong>mento il senso <strong>di</strong> colpa.<br />

Io, ad esempio, ho comperato, al mercatino dei bambini <strong>di</strong><br />

Porto san Giorgio (Ap), <strong>un</strong> interessantissimo libretto intitolato:<br />

I pro<strong>di</strong>giosi panini <strong>di</strong> S. Nicola da Tolentino. Pubblicato dalle<br />

E<strong>di</strong>zioni Agostiniane nel 1960, il libretto è <strong>di</strong> piccolo formato,<br />

ha solo 32 pagine, ed è ornato da <strong>un</strong>a bella, benché scolorata,<br />

immagine <strong>di</strong> san Nicola da Tolentino.<br />

Il libretto raccoglie <strong>un</strong>a quantità <strong>di</strong> testimonianze <strong>di</strong> persone<br />

che, rivoltesi a san Nicola, hanno ricevuto <strong>un</strong> aiuto. Le grazie<br />

sono <strong>di</strong>vise con <strong>un</strong>a classificazione rigorosa: ci sono prima le<br />

“Grazie spirituali”, poi gli “Aiuti provvidenziali”, la “Sospirata<br />

prole”, i “Bambini graziati” e, per ben <strong>di</strong>eci pagine, le<br />

“Sorprendenti guarigioni”. Le testimonianze sono brevi, poche<br />

righe; quasi mai c’è <strong>un</strong>a data o <strong>un</strong> luogo.<br />

“Senza figli. Ero da molti anni sposata e non avevo figli.<br />

Avendo sentito parlare delle grazie fatte da S. Nicola, mi rivolsi<br />

a lui domandandogli <strong>un</strong> bambino che rallegrasse il mio<br />

focolare; e subito il Santo mi ascoltò e oggi abbiamo <strong>un</strong><br />

bambino al quale abbiamo dato il nome <strong>di</strong> Nicola come segno<br />

<strong>di</strong> riconoscenza”.<br />

“I panini sotto il cuscino. Un babbo racconta: Mio figlio<br />

appena nato fu giu<strong>di</strong>cato dai me<strong>di</strong>ci in imminente pericolo <strong>di</strong><br />

vita senza speranza <strong>di</strong> salvarlo. Sono andato dai Padri che<br />

m’hanno dato le preghiere per la novena <strong>di</strong> S. Nicola ed alc<strong>un</strong>i<br />

panini benedetti che ho messi sotto il cuscino <strong>di</strong> mio figlio. Con<br />

mia moglie e con gli altri figli abbiamo fatto la novena e da<br />

quel giorno il nostro beniamino guarì”.<br />

È curioso notare come san Nicola, per venire incontro alle<br />

esigenze dei suoi devoti, non <strong>di</strong>sdegni <strong>di</strong> servirsi <strong>di</strong> mezzi molto<br />

terreni: per esempio, delle vincite alla lotteria:<br />

“Aiuto economico. Con grande devozione stavo facendo i<br />

l<strong>un</strong>edì <strong>di</strong> S. Nicola per varie mie necessità, fra cui quella<br />

economica. Acquistai <strong>un</strong>a cartella della lotteria e offrii <strong>un</strong>a<br />

buona elemosina per la costruzione del suo altare. La cartella<br />

con grande mia gioia ebbe il premio maggiore. Grato, compio<br />

la mia promessa con la pubblicazione <strong>di</strong> <strong>un</strong> tanto favore”.<br />

“Molti debiti. Trovandomi in <strong>un</strong>a situazione <strong>di</strong>fficilissima per i<br />

molti debiti che mi opprimevano e non avendo altri rifugio, mi<br />

197


ivolsi pieno <strong>di</strong> fede a S. Nicola da Tolentino, eseguendo la<br />

devozione dei l<strong>un</strong>edì senza interruzione. Comprai alc<strong>un</strong>e<br />

cartelle della Lotteria <strong>di</strong> Medellìn e S. Nicola mi favorì<br />

facendomi vincere il primo premio del prezzo <strong>di</strong> ventimila<br />

pesos e così mi liberai dai debiti. Grazie infinite a S. Nicola”.<br />

Ma, <strong>di</strong>rete voi, perché mai <strong>un</strong>o scrittore in vacanza si mette a<br />

leggere <strong>di</strong> questa roba? Rispondo: perché lo scrittore in<br />

vacanza, dopo avere preso in mano in libretto a causa del suo<br />

titolo curioso (che cosa saranno mai, questi “pro<strong>di</strong>giosi<br />

panini?”) si è reso conto <strong>di</strong> avere davanti <strong>un</strong> campione (anzi,<br />

<strong>un</strong>a collezione <strong>di</strong> campioni) <strong>di</strong> <strong>un</strong> genere letterario del tutto<br />

particolare.<br />

Nei ringraziamenti a san Nicola (e penso che la faccenda si<br />

possa estendere a tanti altri santi e sante) le circostanze sono<br />

sempre vaghe, vaghissime. C’è chi è pieno <strong>di</strong> debiti, chi è in<br />

prigione, chi è malato, chi viene osteggiato dalla famiglia, chi<br />

gli rubano l’automobile, chi ha <strong>un</strong>a malattia che ness<strong>un</strong> me<strong>di</strong>co<br />

può curare: ma niente mai viene detto sulla provenienza del<br />

male o sulle cause della <strong>di</strong>sgrazia. Tutti coloro che scrivono e<br />

ringraziano sembrano, per così <strong>di</strong>re, appena nati. Sono appena<br />

nati, e sono pieni <strong>di</strong> debiti (o accusati ingiustamente o malati<br />

eccetera). Si rivolgono a san Nicola, con enorme fede (e da<br />

dove verrà loro questa fede? non viene detto), e san Nicola<br />

provvede. <strong>Non</strong> c’è altro.<br />

La purezza <strong>di</strong> questi racconti, io la trovo commovente.<br />

Sembrano dei minuscoli soggetti da film - da film che si piange<br />

<strong>un</strong> sacco, naturalmente, e poi alla fine però si risolve tutto e si<br />

sorride.<br />

Mi viene in mente Dino Buzzati. Che, <strong>un</strong> bel giorno, s’inventò,<br />

essendo buon pittore oltre che eccellente scrittore, <strong>di</strong> <strong>di</strong>pingere<br />

<strong>un</strong>a sequenza <strong>di</strong> ex voto (i brevi testi del mio libretto sono, per<br />

così <strong>di</strong>re, degli ex voto scritti). Ne <strong>di</strong>pinse <strong>un</strong>a trentina che<br />

<strong>di</strong>ventarono, con l’aggi<strong>un</strong>ta <strong>di</strong> note filologiche <strong>di</strong> dubbia<br />

cre<strong>di</strong>bilità, prima <strong>un</strong>a mostra e poi <strong>un</strong> libro (oggi quasi<br />

introvabile) intitolati entrambi I miracoli <strong>di</strong> val Morel. Ma ne<br />

riparleremo.<br />

Intanto, se volete sapere qualcosa <strong>di</strong> più sui “pro<strong>di</strong>giosi<br />

panini”, vi consiglio <strong>un</strong>’escursione nel web: all’in<strong>di</strong>rizzo<br />

http://www.sannicoladatolentino.it troverete tutte le<br />

informazioni.<br />

198


Chiacchierata numero 79<br />

Lo scrittore in vacanza, 3. È <strong>di</strong>fficile me<strong>di</strong>tare su <strong>un</strong> tema<br />

come: “Lo scrittore in vacanza” senza ripensare alle celebri<br />

(credo, almeno, che siano celebri) pagine <strong>di</strong> Pier Vittorio<br />

Tondelli intitolate: “Frammenti dell’autore inattivo” (in<br />

L’abbandono, Bompiani). In effetti Tondelli non parlava della<br />

vacanza. Parlava dell’inattività.<br />

“Può trattarsi <strong>di</strong> <strong>un</strong> periodo conseguente alla pubblicazione <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> testo, periodo in cui egli [lo scrittore] non scrive <strong>un</strong> po’ per<br />

riposarsi, <strong>un</strong> po’ per riprendersi dalle fatiche delle stesure, <strong>un</strong><br />

po’ per godersi i frutti e le chiacchiere <strong>di</strong> ciò che ha fatto. In<br />

questo caso l’inattività, cioè la mancanza <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, appare<br />

<strong>un</strong> momento assai piacevole. […] Nei momenti <strong>di</strong> inattività è<br />

probabile che […] <strong>un</strong>o scrittore, lavori semplicemente al<br />

recupero <strong>di</strong> se stesso, a ricostruire quello che la <strong>scrittura</strong> gli ha<br />

frantumato dentro”.<br />

Tondelli, in questo come in altri testi, racconta la <strong>scrittura</strong><br />

come <strong>un</strong>a faccenda che si affronta <strong>di</strong> petto. <strong>Non</strong> <strong>un</strong> relax, <strong>un</strong>o<br />

svago, <strong>un</strong> concedersi al piacere <strong>di</strong> fare: ma <strong>un</strong>a cosa che si può<br />

affrontare solo mettendo in gioco la persona intera, come in<br />

<strong>un</strong>a guerra, <strong>un</strong>a cosa che ti fa <strong>di</strong>menticare il mondo e le altre<br />

persone, nella quale ti immergi, in solitu<strong>di</strong>ne, e dalla quale<br />

riemergi, se tutto è andato bene, dopo <strong>un</strong> certo tempo (mesi,<br />

anni), forse felice ma soprattutto stremato e bisognoso <strong>di</strong><br />

riposo.<br />

Conosco alc<strong>un</strong>i miei “colleghi” che vivono lo scrivere in questo<br />

modo. Le loro immersioni a volte mi spaventano. E quando<br />

emergono, e hanno la faccia e i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> vita <strong>di</strong> chi sembra<br />

appena scampato alla morte, mi spavento altrettanto.<br />

Io (sarà che da più <strong>di</strong> vent’anni sono abituato, per i vari<br />

mestieri che ho fatti, a scrivere ogni giorno, e talvolta a<br />

scrivere parecchio ogni giorno; sarà, più probabilmente, che<br />

loro sono degli scrittori veri, delle persone con la vocazione<br />

dello scrittore; mentre io sono <strong>un</strong>o al quale è capitato, in <strong>un</strong><br />

certo momento della vita, <strong>di</strong> avere delle cose da raccontare e,<br />

per circostanze fortuite, quel minimo <strong>di</strong> capacità tecnica che<br />

serve a raccontare), io non me la vivo così. Conosco però,<br />

nonostante l’abitu<strong>di</strong>ne a scrivere ogni giorno, l’altra forma<br />

dell’inattività. Tondelli:<br />

“Nel secondo caso, l’inattività dello scrittore è cosa assai<br />

<strong>di</strong>versa. <strong>Non</strong> scrive perché non riesce a scrivere. <strong>Non</strong> scrive<br />

perché non ne ha voglia. […] La sua inattività che in <strong>un</strong> primo<br />

199


momento, come si è detto, era <strong>un</strong> ritorno alla vita, alla luce,<br />

<strong>di</strong>venta ora <strong>un</strong> ritorno nell’ombra. <strong>Non</strong> scriveva prima, e non<br />

scrive ora. Per gli altri, non fa <strong>di</strong>fferenza. Ma per lui sì. Il riposo<br />

è <strong>di</strong>ventato ozio, e l’ozio nevrosi, e la nevrosi impossibilità <strong>di</strong><br />

amare, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> scrivere e <strong>di</strong> lavorare”.<br />

Conosco <strong>un</strong> sacco <strong>di</strong> scrittori inattivi che scrivono moltissimo.<br />

Io stesso sono <strong>un</strong> buon caso. Scrivo settimanalmente queste<br />

paginette per Stilos (<strong>un</strong> vero piacere), scrivo quasi tutti i giorni<br />

il mio <strong>di</strong>ario in pubblico (che si legge qui:<br />

http://www.giuliomozzi.com), scrivo spesso (su commissione)<br />

brevi racconti o descrizioni <strong>di</strong> luoghi o <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici (<strong>un</strong>a mia<br />

specialità, quest’ultima); eppure, eppure, ormai da <strong>di</strong>versi anni<br />

sono <strong>un</strong>o scrittore inattivo.<br />

C’è <strong>un</strong> segnale ben preciso, del quale anche Tondelli parla. In<br />

tanti si sentono liberi <strong>di</strong> farti, così all’improvviso, la domanda<br />

fati<strong>di</strong>ca: “Che cosa stai scrivendo?”. “Imbarazzati”, scrive<br />

Tondelli, “si può rispondere che si sta facendo altro, oppure<br />

che si sta stu<strong>di</strong>ando o leggendo dei manoscritti”. Io me la cavo<br />

<strong>di</strong>cendo: “Be’, scrivo il <strong>di</strong>ario”, che è <strong>un</strong>a risposta quasi<br />

perfetta: perché il <strong>di</strong>ario, fino a controprova, è pur sempre<br />

<strong>scrittura</strong> (anche se, ultimamente, grazie a <strong>un</strong>a macchina<br />

fotografica <strong>di</strong>gitale vinta in <strong>un</strong> con<strong>corso</strong> delle Ferrovie dello<br />

stato, sempre più spesso mi appoggio alle immagini…).<br />

Il mio ultimo libro <strong>di</strong> racconti è uscito nel 2001. L’ultimo<br />

racconto l’ho scritto alla fine del 1999. Da allora, questo è il<br />

p<strong>un</strong>to, non ho più immaginato <strong>un</strong> preciso progetto <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>.<br />

Il <strong>di</strong>ario in pubblico, nonostante la sua mole (dal 26 maggio<br />

2003 al 29 agosto 2004, giorno in cui scrivo questo articolo, ci<br />

ho pubblicati dentro 695 tra annotazioni, pagine <strong>di</strong> <strong>di</strong>ario,<br />

raccontini, riflessioni, commenti all’attualità, poesiole eccetera)<br />

è tutto fuorché <strong>scrittura</strong> progettata.<br />

Immaginate <strong>un</strong> musicista che tutti i giorni prenda lo<br />

strumento e per due ore suoni, suoni, liberamente<br />

improvvisando. Lui suona, no? Fa musica, no? Però da quattro<br />

anni non mette per iscritto <strong>un</strong>a sola nota, da quattro anni non<br />

registra le sue improvvisazioni per riascoltarle ed,<br />

eventualmente, scegliere le più riuscite per compilare <strong>un</strong> <strong>di</strong>sco;<br />

in somma, da quattro anni si tiene lontano dalla <strong>di</strong>mensione<br />

progettuale della <strong>scrittura</strong>.<br />

Mi succede spesso <strong>di</strong> parlare con persone che <strong>di</strong>cono: “Ah, io<br />

non so fare a meno della <strong>scrittura</strong>. Io bisogna che tutti i giorni<br />

scriva qualcosa, anche più volte al giorno. Ho sempre con me<br />

questo quadernino, vede?, che ogni volta che mi viene in<br />

mente qualcosa ce la scrivo dentro”. Queste persone, mi pare,<br />

identificano la compulsione alla <strong>scrittura</strong> con la vocazione alla<br />

200


<strong>scrittura</strong> (e sbagliano); e in più non si rendono conto che<br />

proprio tutto quel loro gran fervore <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, in quanto è<br />

<strong>un</strong>a negazione della <strong>di</strong>mensione progettuale della <strong>scrittura</strong>, è<br />

tendenzialmente nullo.<br />

In queste settimane <strong>di</strong> vacanza, l’incontro con alc<strong>un</strong>e scritture<br />

del tutto prive <strong>di</strong> arte (come quelle <strong>di</strong> cui parlavo ieri: i<br />

ringraziamenti dei beneficati da san Nicola da Tolentino) è<br />

stato per me ristoratore. Ho la sensazione che, forse, sto<br />

uscendo da questa l<strong>un</strong>ga inattività iperattiva. La cosa, devo<br />

<strong>di</strong>rlo, mi conforta.<br />

Ho sempre detto: “Perché ho fatto <strong>un</strong> libro o due, non sarò<br />

mica condannato a fare lo scrittore per tutta la vita”. Oggi<br />

comincio a pensare che dalla <strong>scrittura</strong> o ci si libera del tutto, o<br />

se ne fa <strong>un</strong>a questione <strong>di</strong> vita o <strong>di</strong> morte. Confesso che <strong>di</strong>fronte<br />

a questo mio pensiero sono riluttante, e preferirei evitarlo. Ma<br />

tant’è: ormai è <strong>un</strong> pensiero fatto, è dentro la mia testa, e sarà<br />

ben <strong>di</strong>fficile farlo uscire.<br />

Perché i pensieri, come noto, godono <strong>di</strong> vita propria.<br />

Chiacchierata numero 80<br />

Libri che insegnano a scrivere, 1. Comincio questa settimana<br />

<strong>un</strong>a rassegna <strong>di</strong> libri che parlano, con intenzioni più o meno<br />

<strong>di</strong>dattiche, dello scrivere. Negli ultimi <strong>di</strong>eci anni ne sono stati<br />

pubblicati (scritti appositamente da autori italiani o tradotti)<br />

moltissimi. Alc<strong>un</strong>i dei libri dei quali parlerò sono facilmente<br />

trovabili. Altri sono più <strong>di</strong>fficili da trovare in libreria (per il<br />

mercato e<strong>di</strong>toriale, <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> tre anni fa è vecchio), ma<br />

probabilmente <strong>di</strong>sponibili in biblioteca.<br />

Giuseppe Conte è <strong>un</strong> notevole poeta. Nel 1995 ha pubblicato<br />

per l’e<strong>di</strong>tore Guanda <strong>un</strong> Manuale <strong>di</strong> poesia. Se volete avere<br />

<strong>un</strong>’idea della poesia <strong>di</strong> Conte, prima <strong>di</strong> prendere in mano il suo<br />

manuale, vi consiglio la raccolta L’Oceano e il ragazzo, Tea<br />

(costa sette euro e venti). Il Manuale <strong>di</strong> poesia dovrebbe<br />

essere ancora in commercio; se non lo trovate in libreria,<br />

provate a or<strong>di</strong>narlo. Io, che credevo <strong>di</strong> averlo ma non me lo<br />

trovavo più in casa (sapete, sono <strong>un</strong>o <strong>di</strong> quello che presta i<br />

libri), l’ho or<strong>di</strong>nato e mi è arrivato in due settimane.<br />

Il Manuale <strong>di</strong> poesia è <strong>di</strong>viso in due parti. La prima parla<br />

dell’ispirazione; la seconda, della tecnica della <strong>scrittura</strong> poetica.<br />

Di solito, nei manuali <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, si dà per scontato che<br />

l’ispirazione sia <strong>un</strong>a cosa della quale è imbarazzante parlare;<br />

201


<strong>un</strong>a cosa, per <strong>di</strong>rla tutta, che non si sa bene <strong>di</strong> che specie sia<br />

e nemmeno se esista davvero; <strong>un</strong>a cosa che, com<strong>un</strong>que, o c’è<br />

o non c’è, o ce l’hai o non ce l’hai; e c’è poco da girarci<br />

attorno. Quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> solito, i manuali <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> liquidano la<br />

faccenda dell’ispirazione in poche righe, con espressioni del<br />

tipo: “È evidente che l’ispirazione non si può insegnare”,<br />

oppure: “Come <strong>di</strong>ceva <strong>Non</strong>sochì, l’arte è per il 5% ispirazione e<br />

per il 95% traspirazione”, ossia lavoro e sudore; eccetera.<br />

Giuseppe Conte no: delle 140 pagine del suo libro, 64 sono<br />

de<strong>di</strong>cate all’ispirazione.<br />

Bene. E che cosa <strong>di</strong>ce, dell’ispirazione, Giuseppe Conte?<br />

Più che la parola “ispirazione”, Conte adopera la parola:<br />

“Voci”. E <strong>di</strong>ce: “Le Voci che spingono a scrivere poesia ci<br />

raggi<strong>un</strong>gono da non sappiamo dove. È <strong>di</strong>fficile capire se<br />

arrivino da lontananze misteriose, e ci entrino dentro come<br />

p<strong>un</strong>te <strong>di</strong> frecce, o se stiano addormentate nella zona oscura<br />

della nostra anima. […] Quello che importa è che le Voci<br />

parlino e che noi sappiamo innanzitutto ascoltarle. Se non<br />

cre<strong>di</strong>amo che le cose apparentemente inanimate o mute<br />

possano parlarci, <strong>di</strong>fficilmente ci accingeremo al lavoro della<br />

poesia. Voci possono essere […] quelle delle stelle […]. Voci<br />

quelle dei fiori. […] Voci quelle dell’amore più puro ma anche<br />

dell’amore più violento e brutale. Voci quelle dell’o<strong>di</strong>o, del<br />

corrompimento, dell’assenza e della presenza <strong>di</strong> Dio o degli<br />

dèi. Scriviamo spinti da queste Voci, da Tumulti, Domande,<br />

Stati <strong>di</strong> alterazione dell’Anima, da Visioni che le Voci<br />

contribuiscono a far balenare in noi” (pp. 16-17).<br />

Conte sa benissimo che parlando <strong>di</strong> Voci (e <strong>di</strong> tutte quelle<br />

altre cose con l’iniziale maiuscola), e poche pagine dopo<br />

ad<strong>di</strong>rittura delle Muse, fa <strong>un</strong> <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> decisamente inattuale. E<br />

allora intitola apposta <strong>un</strong> paragrafo: “Dove incontrare le Muse<br />

oggi” (p. 18). Dove, d<strong>un</strong>que? Nei “più desolati sobborghi” o<br />

nella “più silenziosa biblioteca”, o nel “teatro più fastoso”, tra<br />

le collezioni d’arte “più raffinate”. Praticamente ov<strong>un</strong>que,<br />

sembra <strong>di</strong> capire, purché si tratti <strong>di</strong> <strong>un</strong> luogo “più”: <strong>un</strong><br />

“sobborgo desolato” o <strong>un</strong> “teatro fastoso” non bastano, ci<br />

vogliono <strong>un</strong> “sobborgo più desolato” o <strong>un</strong> “teatro più fastoso”.<br />

Badate, non sto prendendo in giro Giuseppe Conte. Questi<br />

suoi “più” sono probabilmente la spia <strong>di</strong> <strong>un</strong>a percezione<br />

estetizzante della vita. Bene, Giuseppe Conte ci sta <strong>di</strong>cendo<br />

che per scrivere poesia bisogna avere <strong>un</strong>a percezione<br />

estetizzante della vita; o, almeno, che per riuscire a sentire le<br />

Voci bisogna avere il coraggio <strong>di</strong> abbandonarsi, <strong>di</strong> tanto in<br />

tanto, a <strong>un</strong>a percezione estetizzante della vita. (Che la<br />

percezione estetizzante della vita abbia le sue perversioni e il<br />

202


suo kitsch, Conte lo sa benissimo; e gli pare così ovvio che<br />

queste perversioni e questo kitsch siano tutt’altra cosa da ciò<br />

<strong>di</strong> cui sta parlando, che non spende neanche <strong>un</strong>a riga a<br />

segnare la <strong>di</strong>fferenza).<br />

Ma poiché <strong>un</strong> manuale è <strong>un</strong> manuale, ecco che Conte fa <strong>un</strong>a<br />

cosa stupefacente: ci dà ad<strong>di</strong>rittura, in <strong>un</strong><strong>di</strong>ci brevi paragrafi,<br />

“Un<strong>di</strong>ci suggerimenti” per riuscire ad ascoltare le Voci. Èccoli:<br />

(pp. 23-29): “Aprire varchi nel muro compatto della realtà.<br />

Guardare le cose sempre con meraviglia. Accettare la<br />

solitu<strong>di</strong>ne. Praticare la buona conversazione. Leggere ad alta<br />

voce poesia. Essere liberi da ogni pregiu<strong>di</strong>zio morale e<br />

ideologico. Bene<strong>di</strong>re le passioni. Avere il gusto degli estremi.<br />

Accettare il vuoto. Camminare. Aprirsi all’infinito”.<br />

La poesia d<strong>un</strong>que per Conte non è <strong>un</strong>a “materia”, bensì <strong>un</strong>a<br />

“<strong>di</strong>sciplina”. Le sue <strong>un</strong><strong>di</strong>ci formule possono essere, credo,<br />

riass<strong>un</strong>te in <strong>un</strong>a sola, abbastanza zen: “Sii <strong>di</strong>sponibile”. Se<br />

sarai <strong>di</strong>sponibile, forse le Voci ti parleranno. Se non sarai<br />

<strong>di</strong>sponibile, sicuramente le Voci non ti parleranno. Tutto qui.<br />

“Tutto qui?”, <strong>di</strong>rà sicuramente qualc<strong>un</strong>o. “Tutto così semplice<br />

e insieme impossibile, tutto così profondamente arcaico e così<br />

modernamente new age?”. Sì, mi pare <strong>di</strong> poter <strong>di</strong>re; tutto qui.<br />

E credo che sia <strong>un</strong> bel merito quello <strong>di</strong> Giuseppe Conte, che ci<br />

mette a confronto con questo “Tutto qui”.<br />

Probabilmente non si può voler essere poeti. Càpita <strong>di</strong><br />

esserlo. Anche perché l’essere poeti, secondo Conte, comporta<br />

<strong>un</strong> bel po’ <strong>di</strong> rin<strong>un</strong>cia al voler essere (all’ideologia, ad esempio;<br />

mentre “Bene<strong>di</strong>re le passioni” significa accettare qualcosa che<br />

incontrollabilmente ci càpita).<br />

C’è qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>sgustoso, ho pensato rileggendo il libro <strong>di</strong><br />

Conte per scrivere questo pezzo, c’è qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>sgustoso<br />

nell’immagine del poeta, o piuttosto del Poeta, che esce da<br />

queste pagine. D’altra parte Giuseppe Conte, con tutto che ha<br />

scritte molte poesie bellissime, mi pare <strong>un</strong> uomo che sprigiona<br />

da ogni poro antipatia.<br />

Ma che c’entra? Forse il Poeta è davvero <strong>un</strong> Completamente<br />

Diverso. Uno che suscita inquietu<strong>di</strong>ne, antipatia e <strong>di</strong>sgusto.<br />

<strong>Non</strong> <strong>un</strong>o come noi.<br />

203


Chiacchierata numero 81<br />

Libri che insegnano a scrivere, 2. Settimana scorsa ho<br />

p<strong>un</strong>tato verso l'alto, scrivendo del Manuale del poeta <strong>di</strong><br />

Giuseppe Conte: <strong>un</strong> libro che parla <strong>di</strong> Voci, Muse, Ispirazione e<br />

compagnia briscola. Oggi p<strong>un</strong>tiamo verso il basso, con <strong>un</strong> bel<br />

libretto <strong>di</strong> Bice Mortara Garavelli: Prontuario <strong>di</strong> p<strong>un</strong>teggiatura<br />

(Laterza, 153 pagine, 10 euro). È uscito l'anno s<strong>corso</strong> ed è<br />

quin<strong>di</strong> trovabile dappertutto.<br />

“Prontuario” è <strong>un</strong>a parola ancora più umile, più <strong>di</strong>screta <strong>di</strong><br />

“manuale”. E infatti il Prontuario <strong>di</strong> Bice Mortara Gavavelli si<br />

apre con <strong>un</strong>a <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> prudenza tra le più prudenti che<br />

abbia mai lette: “Questo libro contiene <strong>un</strong>a scelta <strong>di</strong> in<strong>di</strong>cazioni<br />

pratiche accompagnate da chiarimenti teorici essenziali [che<br />

significa: “ridotti all'essenziale, all'osso”; e non “fondamentali,<br />

<strong>di</strong> grande importanza”, ndr] sui fenomeni e gli usi interp<strong>un</strong>tivi.<br />

Chi lo ha scritto non ha preteso <strong>di</strong> accampare ipotesi innovative<br />

o <strong>di</strong> offrire <strong>un</strong>a panoramica sullo stato degli stu<strong>di</strong> e delle<br />

conoscenze in materia. Ha avuto solo la (modesta) ambizione<br />

<strong>di</strong> fare qualcosa <strong>di</strong> utile, sulla base <strong>di</strong> <strong>un</strong>'ovvietà e <strong>di</strong><br />

ragionevoli constatazioni. È ovvio che con la p<strong>un</strong>teggiatura<br />

abbia a che fare chi<strong>un</strong>que voglia e sappia scrivere. È<br />

ragionevole prendere atto che sono abbastanza frequenti i<br />

dubbi e le curiosità su <strong>un</strong>a pratica aperta a incertezze, a<br />

problemi per i quali talvolta si improvvisano soluzioni arbitrarie<br />

- ma non è detto che l'arbitrio e l'improvvisazione portino<br />

necessariamente ad errori” (pp. vii-viii).<br />

Tanta prudenza non è fuori luogo. La prima impressione, per<br />

chi si metta a riflettere sulla p<strong>un</strong>teggiatura, è che se ne possa<br />

<strong>di</strong>re tutto e il contrario <strong>di</strong> tutto.<br />

Alle scuole elementari mi avevano insegnato (e ho scoperto<br />

negli anni che queste definizioni sono <strong>un</strong> patrimonio<br />

abbastanza <strong>di</strong>ffuso) che la virgola in<strong>di</strong>ca “<strong>un</strong>a piccola pausa” e<br />

il p<strong>un</strong>to e virgola “<strong>un</strong>a pausa più l<strong>un</strong>ga”; che i due p<strong>un</strong>ti<br />

“precedono <strong>un</strong>a spiegazione, <strong>un</strong> elenco o <strong>un</strong> <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> <strong>di</strong>retto”,<br />

e non se ne possono mai mettere due consecutivi; che il p<strong>un</strong>to<br />

(o p<strong>un</strong>to fermo, per la maestra Raule che era più pignola) sta<br />

“alla fine della frase”; che si va a capo quando “<strong>un</strong>a parte del<br />

<strong>di</strong>s<strong>corso</strong> è conclusa”; e così via.<br />

Ma provate a fare <strong>un</strong> esperimento. Provate a registrarvi<br />

mentre leggete. L'ideale sarebbe registrarsi senza sapere <strong>di</strong><br />

essere registrati, ma se lo fate da voi stessi è cognitivamente<br />

complicato. Scegliete <strong>un</strong> testo non troppo semplice, magari <strong>un</strong><br />

testo dalla p<strong>un</strong>teggiatura ricca (<strong>un</strong>a bella pagina manzoniana,<br />

204


ad esempio: l'ad<strong>di</strong>o ai monti o la madre <strong>di</strong> Cecilia) ma non<br />

delirante (evitate Marinetti, in somma). Prima <strong>di</strong> registrarvi<br />

fate delle prove, sempre a voce alta. Cercate <strong>di</strong> leggere bene:<br />

immaginate <strong>di</strong> avere davanti <strong>un</strong> pubblico che non conosca quel<br />

testo, e <strong>di</strong> doverglielo far capire e gustare. Registrate d<strong>un</strong>que,<br />

poi mettete tutto da pare qualche giorno (il tempo sufficiente<br />

per <strong>di</strong>menticare dove erano messe le virgole nel testo che<br />

avete letto), e infine trascrivete il testo dalla vostra<br />

registrazione. A questo p<strong>un</strong>to, confrontate con l'originale.<br />

Scommetto (vado sul sicuro, l'ho fatto tante volte) che la<br />

p<strong>un</strong>teggiatura della trascrizione non corrisponderà, se non<br />

all'ingrosso, a quella originale. Una volta che feci questo<br />

esercizio in <strong>un</strong> laboratorio <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, <strong>un</strong> signore l<strong>un</strong>go l<strong>un</strong>go<br />

con <strong>un</strong>a camicia gialla davvero orribile commento: “Sono cose<br />

che fanno pensare”.<br />

Il Prontuario <strong>di</strong> Bice Mortara Garavelli è quin<strong>di</strong> tutto cosparso<br />

<strong>di</strong> formule prudenziali: “Si usa <strong>di</strong>re… Ma l'esperienza mostra…”<br />

(p. 17); “Un'altra ragione sintattica che in<strong>di</strong>rizzerebbe a<br />

separare con <strong>un</strong> segno d'interp<strong>un</strong>zione…” (p. 18); “L'uso della<br />

<strong>di</strong>sgi<strong>un</strong>tiva "o" può ricadere sotto con<strong>di</strong>zioni analoghe a quelle<br />

<strong>di</strong> "sia"” (p. 20); “Si tende, prevalentemente, a evitare la<br />

virgola quando…” (p. 21); “La presenza o l'assenza <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

virgola davanti a <strong>un</strong> pronome relativo non dovrebbero essere<br />

casuali” (p. 26); e così via.<br />

“Ma a che cosa serve”, potrebbe domandare qualc<strong>un</strong>o, “<strong>un</strong><br />

prontuario che non ti <strong>di</strong>ce mai chiaramente fa' così che fai<br />

bene, ma ti riempie la testa <strong>di</strong> forse, <strong>di</strong> prevalentemente,<br />

eccetera eccetera?”. La risposta è facile. Ciasc<strong>un</strong>o <strong>di</strong> noi tende<br />

a usare la p<strong>un</strong>teggiatura in modo tutto sommato automatico. È<br />

raro che si torni in<strong>di</strong>etro a spostare <strong>un</strong>a virgola, a sostituire <strong>un</strong><br />

p<strong>un</strong>to con <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to e virgola, a controllare la quantità <strong>di</strong><br />

p<strong>un</strong>tini <strong>di</strong> sospensione che abbiamo <strong>di</strong>sseminati nel testo.<br />

Leggere questo Prontuario produce, e non è poco, l'effetto <strong>di</strong><br />

costringerci a pensare ogniqualvolta mettiamo giù <strong>un</strong>a virgola,<br />

<strong>un</strong>a parentesi, <strong>un</strong> a capo.<br />

Faccio <strong>un</strong> esempio. Io produco <strong>un</strong>a varietà <strong>di</strong> testi scritti:<br />

lettere, email, articoli per Stilos, progetti <strong>di</strong>dattici, recensioni <strong>di</strong><br />

libri, lezioni, racconti, pagine del mio <strong>di</strong>ario in rete, e così via.<br />

Ultimamente ho assaporato la gioia dello scrivere i verbali<br />

dell'assemblea <strong>di</strong> condominio (ho preteso <strong>di</strong> fare il segretario<br />

verbalizzante: sono pur sempre l'<strong>un</strong>ico scrittore del<br />

condominio). Ciasc<strong>un</strong>a <strong>di</strong> queste tipologie <strong>di</strong> testi fa<br />

riferimento, in maniera più o meno esplicita e più o meno<br />

rigida, a convenzioni linguistiche: che riguardano il lessico, la<br />

sintassi, e anche la p<strong>un</strong>teggiatura.<br />

205


In <strong>un</strong>a email a <strong>un</strong>'amica posso scrivere come mi pare. In <strong>un</strong><br />

pezzo per Stilos, no: sarei scortese, se lo facessi. Ma non<br />

posso nemmeno scrivere piatto-piatto e banale-banale, come<br />

fa (se è bravo) il giornalista <strong>di</strong> cronaca: chi legge questa<br />

rubrica si aspetta, credo, anche <strong>un</strong>a <strong>scrittura</strong> vivace. Nei<br />

verbali dell'assemblea <strong>di</strong> condominio scrivo piatto-piatto e<br />

banale-banale; nei progetti <strong>di</strong>dattici per le scuole me<strong>di</strong>e<br />

superiori scrivo in perfetto scolastichese; e, in somma, questo<br />

è il p<strong>un</strong>to della questione, ciasc<strong>un</strong>a <strong>di</strong> queste scritture richiede<br />

<strong>un</strong> certo lessico, <strong>un</strong>a certa sintassi, e <strong>un</strong>a certa p<strong>un</strong>teggiatura.<br />

Lo stu<strong>di</strong>o del Prontuario <strong>di</strong> Bice Mortara Garavelli (che è<br />

autrice anche <strong>di</strong> <strong>un</strong> ottimo e chiaro Manuale <strong>di</strong> retorica,<br />

pubblicato da Garzanti) ha acuita la mia sensibilità. Ha fatto <strong>di</strong><br />

me <strong>un</strong> p<strong>un</strong>teggiatore più pignolo ma anche più variabile, più<br />

"personale" ma anche più adattabile. Il che non mi <strong>di</strong>spiace<br />

affatto.<br />

Chiacchierata numero 82<br />

Libri che insegnano a scrivere, 3. Due settimane fa ho<br />

presentato <strong>un</strong> manuale <strong>di</strong> poesia, settimana scorsa <strong>un</strong><br />

prontuario <strong>di</strong> p<strong>un</strong>teggiatura, oggi tocca a <strong>un</strong> libro<br />

sull'argomentare. Le p<strong>un</strong>tate <strong>di</strong> questa rubrica de<strong>di</strong>cate ai “libri<br />

che insegnano a scrivere” saranno parecchie; e, tanto per non<br />

annoiare lettori e lettrici eventualmente <strong>di</strong>sinteressati/e alla<br />

poesia o alla prosa o alla <strong>narrazione</strong> o all'argomentazione<br />

eccetera, saltabeccherò <strong>di</strong>sinvoltamente, <strong>di</strong> p<strong>un</strong>tata in p<strong>un</strong>tata,<br />

da <strong>un</strong> argomento all'altro.<br />

Il gioco dell'argomentare <strong>di</strong> Cristina Pennavaja (Franco Angeli<br />

1997, 190 pagine) è <strong>un</strong> buon libro semplice e introduttivo. Ha<br />

<strong>un</strong> sottotitolo che può stupire: Per<strong>corso</strong> creativo per migliorare<br />

lo stile, la <strong>scrittura</strong>, la vita. “Lo stile e la <strong>scrittura</strong>, vabbè”, <strong>di</strong>rà<br />

qualc<strong>un</strong>o, “ma la vita? <strong>Non</strong> è <strong>un</strong> po' troppo, per <strong>un</strong> manuale<br />

sull'argomentazione, pretendere <strong>di</strong> migliorare la vita?”.<br />

Ebbene, no, non è <strong>un</strong> po' troppo; è semplicemente<br />

in<strong>di</strong>spensabile. Poi vedremo perché.<br />

I pregi del libro sono: or<strong>di</strong>ne, chiarezza, completezza<br />

nell'essenzialità, efficacia degli esercizi, umiltà, moralità. La<br />

teoria dell'argomentazione è <strong>un</strong>a <strong>di</strong>sciplina antichissima (il suo<br />

nome più nobile è “retorica”), che per molti secoli ha sofferto <strong>di</strong><br />

elefantiasi della materia e <strong>di</strong> ipertecnicismo del linguaggio:<br />

Pennavaja riesce a esporla con or<strong>di</strong>ne e chiarezza, sfrondando<br />

206


con intelligenza, introducendo i tecnicismi solo quando servono<br />

davvero.<br />

Un paio <strong>di</strong> esempi. Il capitolo “Le sei f<strong>un</strong>zioni fondamentali<br />

della com<strong>un</strong>icazione verbale” (pp. 31-37) non comincia<br />

(<strong>di</strong>versamente da pressoché tutti gli altri manuali che conosco)<br />

con l'elenco e la definizione delle sei f<strong>un</strong>zioni, bensì con <strong>un</strong>a<br />

breve scena <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo in cui tutte le f<strong>un</strong>zioni entrano in gioco;<br />

prosegue con la presentazione e spiegazione <strong>di</strong> alc<strong>un</strong>i termini<br />

in<strong>di</strong>spensabili (contesto, messaggio, co<strong>di</strong>ce, canale) e con il<br />

davvero inevitabile schemino “Emittente-Messaggio-<br />

Destinatario”; torna alla scena <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo, la analizza e fa<br />

vedere le sei f<strong>un</strong>zioni in azione; e si conclude con altri brevi<br />

esempi p<strong>un</strong>tualizzanti. Pennavaja poi non chiama le sei<br />

f<strong>un</strong>zioni non con i nomi in uso nei trattati <strong>di</strong> linguistica e <strong>di</strong><br />

retorica, ma con nomi più intuitivi: la f<strong>un</strong>zione “conativa”<br />

<strong>di</strong>venta così “persuasiva”, la f<strong>un</strong>zione “fàtica” <strong>di</strong>venta “<strong>di</strong><br />

contatto” (i nomi tecnici, com<strong>un</strong>que, sono in nota).<br />

Altro esempio. C'è <strong>un</strong> capitolo sulle figure retoriche. Si<br />

intitola: “Gli effetti delle figure retoriche nel testo” (pp. 92-<br />

102). Pennavaja non si cura della natura delle figure retoriche,<br />

va <strong>di</strong>ritta al sodo occupandosi degli effetti che il loro impiego<br />

produce sul lettore o ascoltatore del testo. Così tutto risulta<br />

molto più chiaro che nei tra<strong>di</strong>zionali trattati <strong>di</strong> linguistica e <strong>di</strong><br />

retorica, dove le figure sono <strong>di</strong> solito, ahimè, catalogate<br />

secondo la loro natura (figure <strong>di</strong> parola, <strong>di</strong> pensiero, <strong>di</strong><br />

posizione, <strong>di</strong> sostituzione eccetera), in<strong>di</strong>pendentemente da ciò<br />

a cui servono: come se in <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> cucina le ricette non<br />

fossero or<strong>di</strong>nate secondo la f<strong>un</strong>zione dei singoli piatti all'interno<br />

del pasto (antipasti, primi, secon<strong>di</strong>, contorni, dolci) ma<br />

secondo gli ingre<strong>di</strong>enti necessari a confezionarli.<br />

Dicevo: questo è anche <strong>un</strong> libro umile. A pagina 28, ad<br />

esempio, Pennavaja cita in nota il Trattato dell'argomentazione<br />

<strong>di</strong> Chaϊm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (“opera<br />

fondamentale, purtroppo talora <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile lettura”) e i Saggi <strong>di</strong><br />

linguistica generale <strong>di</strong> Roman Jakobson, e <strong>di</strong>ce: “Il mio testo si<br />

propone <strong>di</strong> esporre in modo semplice gran parte della teoria <strong>di</strong><br />

Perelman, saldandola con il modello delle f<strong>un</strong>zioni com<strong>un</strong>icative<br />

<strong>di</strong> Roman Jakobson. Ritengo infatti che attraverso questa<br />

saldatura cada finalmente la separazione fra retorica delle<br />

argomentazioni e retorica delle figure <strong>di</strong> stile”. Pennavaja<br />

presenta il suo lavoro, in somma, quasi come se fosse <strong>un</strong><br />

"bignami"; in realtà la materia del Trattato <strong>di</strong> Perelman (che è<br />

davvero fondamentale ed è davvero <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile lettura; ne<br />

parlerò prossimamente) è nel libro <strong>di</strong> Pennavaja<br />

completamente riorganizzata; e la “saldatura con il modello<br />

207


delle f<strong>un</strong>zioni com<strong>un</strong>icative” è <strong>un</strong>'innovazione, quantomeno a<br />

livello <strong>di</strong>dattico, non da poco.<br />

Dicevo infine che Il gioco dell'argomentare è anche <strong>un</strong> libro<br />

morale. Sempre a pagina 28 leggiamo la seguente<br />

<strong>di</strong>chiarazione: “Questo libro vuole essere soprattutto la prova<br />

che tutti possono imparare ad argomentare in maniera<br />

adeguata, utilizzando pensieri e parole aperti al <strong>di</strong>alogo con il<br />

prossimo, senza cadere nel ri<strong>di</strong>colo né mettere in ri<strong>di</strong>colo<br />

l'altro, evitando <strong>un</strong>a inutile modestia e abbracciando invece la<br />

fruttuosa umiltà”. La retorica, ai suoi inizi, fu guardata spesso,<br />

e non a torto, con <strong>di</strong>ffidenza. I temibili “sofisti” erano filosofi, o<br />

retori, che si <strong>di</strong>chiaravano <strong>di</strong>sponibili a sostenere<br />

in<strong>di</strong>fferentemente <strong>un</strong>a causa o la causa opposta, ad affermare<br />

in<strong>di</strong>fferentemente la verità o la falsità <strong>di</strong> qual<strong>un</strong>que testi.<br />

Nell'antica Atene poteva accadere che <strong>un</strong> uomo politico <strong>di</strong><br />

primo piano fosse ostracizzato, ossia mandato in esilio,<br />

semplicemente a causa delle sue gran<strong>di</strong> capacità retoriche:<br />

perché chi è troppo bravo a convincere, chi è <strong>un</strong> troppo bravo<br />

ven<strong>di</strong>tore <strong>di</strong> sé stesso e delle proprie idee, chi ha con l'altro <strong>un</strong><br />

approccio non <strong>di</strong>alogante ma manipolatorio, mina la<br />

democrazia.<br />

Diffidate, vi prego, <strong>di</strong> qual<strong>un</strong>que libro che parli <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>,<br />

<strong>narrazione</strong>, argomentazione, poesia, drammaturgia eccetera in<br />

termini <strong>di</strong> pura tecnica. Anche scrivere <strong>un</strong> ann<strong>un</strong>cio del tipo:<br />

“Nel mese <strong>di</strong> agosto l'e<strong>di</strong>cola dei giornali resterà aperta solo<br />

nell'orario mattutino” richiede, magari in misura minima, <strong>un</strong>a<br />

riflessione morale.<br />

In questo, d<strong>un</strong>que, consiste il “miglioramento della vita”<br />

auspicato da Caterina Pennavaja nel sottotitolo del Gioco<br />

dell'argomentazione: nell'imparare a percepire, in tutti gli atti<br />

<strong>di</strong> com<strong>un</strong>icazione che concernono decisioni, e in generale in<br />

tutti gli atti <strong>di</strong> com<strong>un</strong>icazione della vita quoti<strong>di</strong>ana, la presenza<br />

<strong>di</strong> <strong>un</strong>a questione morale interna alla com<strong>un</strong>icazione stessa, ai<br />

suoi mo<strong>di</strong> e al suo stile.<br />

208


Chiacchierata numero 83<br />

Libri che insegnano a scrivere, 4. Un libro nuovo, nuovissimo:<br />

Come si fa <strong>un</strong> blog <strong>di</strong> Sergio Maistrello (Tecniche Nuove, pp.<br />

173, euro 9,90). In questa rubrica ho parlato varie volte dei<br />

blog. Ma ripigliamo il <strong>di</strong>s<strong>corso</strong> dal principio. Che cos'è <strong>un</strong> blog?<br />

Maistrello: “Un blog è <strong>un</strong> sito Web che richiede al suo autore<br />

capacità tecniche minime per pubblicare contenuti. Ti consente<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare e<strong>di</strong>tore <strong>di</strong> te stesso nel giro <strong>di</strong> pochi minuti”. E:<br />

“La parola blog nasce dall'<strong>un</strong>ione e contrazione <strong>di</strong> Web e log,<br />

dove log è il termine inglese che identifica i registri in cui sono<br />

annotati gli eventi. La traduzione utilizzata più <strong>di</strong> frequente è<br />

<strong>di</strong>ario <strong>di</strong> bordo, <strong>un</strong>a definizione coerente con la metafora della<br />

navigazione utilizzata a proposito <strong>di</strong> Internet e fedele alla<br />

predominanza dell'elemento temporale in questo genere <strong>di</strong><br />

pubblicazioni” (pp. 1-2).<br />

Immaginatevi <strong>un</strong> programma televisivo o ra<strong>di</strong>ofonico,<br />

quoti<strong>di</strong>ano, della durata <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci minuti. Immaginate <strong>di</strong> essere<br />

voi gli autori e i conduttori <strong>di</strong> questo programma. Immaginate<br />

che la struttura del programma sia semplicemente questa: che<br />

voi andate in onda, e <strong>di</strong>te quello che vi pare. Un giorno<br />

raccontate <strong>un</strong>a cosa che vi è successa. Un giorno raccontate<br />

<strong>un</strong>a storia inventata. Un giorno esprimete <strong>un</strong>'opinione su<br />

qualcosa che è accaduto dall'altra parte del mondo o a vostro<br />

cugino. Un giorno leggete <strong>un</strong> articolo <strong>di</strong> giornale e lo<br />

commentate. Un giorno parlate <strong>di</strong> <strong>un</strong> libro che avete letto e che<br />

vi ha entusiasmati o <strong>di</strong>sgustati. E così via.<br />

Negli ultimi tre-quattro anni, migliaia <strong>di</strong> persone in Italia<br />

hanno cominciato a pubblicare dei blog. Altri, parecchi, sono in<br />

forma <strong>di</strong> <strong>di</strong>ario; altri si occupano <strong>di</strong> argomenti specifici (molti<br />

sono de<strong>di</strong>cati alla letteratura, al cinema, alla musica); altri<br />

contengono esclusivamente poesie; altri commentano<br />

l'attualità; altri sono luoghi d'incontro per piccole com<strong>un</strong>ità;<br />

eccetera.<br />

La cosa interessante della tecnologia blog, nonché la ragione<br />

per cui vi parlo <strong>di</strong> questo libro, è che con essa si <strong>di</strong>venta<br />

facilissimamente, come <strong>di</strong>ce Maistrello, “e<strong>di</strong>tori <strong>di</strong> se stessi”.<br />

Ma attenzione: nell'essere “e<strong>di</strong>tori <strong>di</strong> se stessi”, non c'è solo la<br />

libertà; c'è anche la responsabilità.<br />

Lo scrittore che vede il suo libro pubblicato da <strong>un</strong> e<strong>di</strong>tore, <strong>di</strong><br />

fatto gli delega <strong>un</strong>a serie <strong>di</strong> questioni (il rischio economico, ad<br />

esempio; la confezione grafica; la <strong>di</strong>stribuzione); chi si fa<br />

e<strong>di</strong>tore <strong>di</strong> sé stesso deve arrangiarsi. Se il pubblicare <strong>un</strong> blog<br />

209


costa qualcosa (in termini <strong>di</strong> bolletta telefonica per la<br />

connessione all'internet; ma anche come acquisto <strong>di</strong> spazio in<br />

<strong>un</strong> server, abbonamenti a certi servizi, eccetera: tutte cose che<br />

Maistrello spiega assai bene nel suo libro), il rischio economico<br />

è tutto dell'autore-e<strong>di</strong>tore. Difficilmente si faranno sol<strong>di</strong> con <strong>un</strong><br />

blog; ma l'autore-e<strong>di</strong>tore è com<strong>un</strong>que costretto a confrontare<br />

ciò che spende (denaro, tempo) e il risultato che ottiene.<br />

Quando si apre <strong>un</strong> blog si possono acquistare, o anche<br />

ottenere gratis, delle “gabbie grafiche” preconfezionate: ma è<br />

così facile, trasformare e manipolare le pagine web (Maistrello<br />

dà <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> consigli e <strong>di</strong> istruzioni), che <strong>di</strong>fatto l'autore-e<strong>di</strong>tore<br />

è responsabile anche dell'aspetto grafico del suo prodotto.<br />

Pubblicare nel web significa aprirsi a “<strong>un</strong>a platea potenziale <strong>di</strong><br />

milioni <strong>di</strong> persone”, ma l'autore-e<strong>di</strong>tore scoprirà quanto è<br />

<strong>di</strong>fficile (e, quin<strong>di</strong>, quanta sod<strong>di</strong>sfazione dà) trovarsi dei lettori,<br />

affezionarli, convincerli a visitare il suo blog ogni volta che ci<br />

pubblica qualcosa <strong>di</strong> nuovo.<br />

Il libro <strong>di</strong> Sergio Maistrello, tra i tanti che sono stati pubblicati<br />

sull'argomento in questi ultimi anni (e consiglio a tutti<br />

Mondoblog <strong>di</strong> Eloisa <strong>di</strong> Rocco, Hops Libri), ha il pregio <strong>di</strong> essere<br />

introduttivo, bene scritto, assai bene equilibrato tra faccende<br />

prettamente tecniche e questioni inerenti app<strong>un</strong>to l'essere<br />

autore ed e<strong>di</strong>tore <strong>di</strong> sé stesso. Tutta la sezione <strong>di</strong> Come si fa<br />

<strong>un</strong> blog intitolata “Come si gestisce <strong>un</strong> blog” è de<strong>di</strong>cata a<br />

questi argomenti. Scrive Maistrello: “Il blog è <strong>un</strong> atto <strong>di</strong><br />

generosità verso te stesso e verso gli altri. Consideralo prima<br />

<strong>di</strong> tutto <strong>un</strong> servizio a quanti verranno a visitare il tuo sito:<br />

scrivendo <strong>di</strong> te, della tua esperienza, delle tue competenze,<br />

metti a <strong>di</strong>sposizione <strong>un</strong> patrimonio <strong>di</strong> informazioni che prima o<br />

poi potrebbe essere utile a qualc<strong>un</strong> altro. […] Rileggendo a<br />

mesi <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza i tuoi archivi [dove si conservano i materiali<br />

pubblicati] ti renderai conto <strong>di</strong> quanto de<strong>di</strong>care del tempo al<br />

sito ti avrà arricchito: noterai l'evoluzione dello stile <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong>, rileggerai i tuoi stessi sp<strong>un</strong>ti biografici in <strong>un</strong>a nuova<br />

prospettiva dopo averli lasciati decantare per qualche tempo,<br />

costruirai <strong>un</strong>'identità <strong>di</strong>gitale che farà da specchio alla tua vita<br />

reale, metterai or<strong>di</strong>ne nelle tue idee e nel modo <strong>di</strong> presentarle<br />

al prossimo” (p. 115).<br />

In altri termini: scrivere e pubblicare in rete costringe a<br />

pensare alla <strong>scrittura</strong>, sia essa informativa o narrativa,<br />

<strong>di</strong>aristica o cazzeggistica, tecnica o poetica, come a <strong>un</strong>a attività<br />

relazionale. Scrivere e pubblicare nella rete costringe a pensare<br />

al lettore, a capire come l'oggetto in<strong>di</strong>spensabile al testo non<br />

sono tanto io, l'autore, quanto l'altro, il lettore. Nei blog, tra<br />

l'altro, è possibile permettere ai lettori <strong>di</strong> inserire, in calce alle<br />

210


cose scritte dall'autore-e<strong>di</strong>tore, dei cosiddetti “commenti”.<br />

Potrà capitare, quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> esprimere <strong>un</strong>'opinione e <strong>di</strong> trovarsi<br />

pochi minuti dopo a <strong>di</strong>scuterla con altri; <strong>di</strong> raccontare la<br />

propria giornata e <strong>di</strong> incontrare qualc<strong>un</strong>o che <strong>di</strong>ce: “Ma guarda,<br />

anche a me è successo…”; <strong>di</strong> pubblicare <strong>un</strong>a poesia e <strong>di</strong><br />

trovarsi coperti <strong>di</strong> elogi o <strong>di</strong> sberleffi.<br />

Ma prima <strong>di</strong> aprire <strong>un</strong> blog, magari conviene andarsene a<br />

leggere <strong>un</strong> po'. Ecco qualche arbitrarissimo consiglio: il blog <strong>di</strong><br />

Sergio Maistrello, http://www.sergiomaistrello.it; il blog <strong>di</strong><br />

Eloisa Di Rocco (l'autrice <strong>di</strong> Mondoblog), http://x.lapizia.net; il<br />

blog <strong>di</strong> Princess Proserpina, http://www.pproserpina.net; il<br />

blog collettivo Macchianera, http://www.macchianera.net; il<br />

blog letterario Nazione In<strong>di</strong>ana,<br />

http://www.nazionein<strong>di</strong>ana.com; e il blog del simpaticisssimo<br />

Gattostanco: http://gattostanco.<strong>di</strong>ludovico.it.<br />

Chiacchierata numero 84<br />

Libri che insegnano a scrivere, 5. Ai bambini, si sa, i libri<br />

piacciono parecchio. Il bambino italiano me<strong>di</strong>o legge più libri<br />

dell'adulto italiano me<strong>di</strong>o. Magari, specie se è <strong>un</strong> bambino<br />

piccolo, ciò che fa con i libri non è esattamente leggere:<br />

manipola, guarda, gioca, succhia, mor<strong>di</strong>cchia, lancia in aria o in<br />

terra, eccetera. Fa' quello che deve fare, in somma.<br />

Il libro dei libri <strong>di</strong> Niccolò Barbiero e Giulia Orecchia (Salani,<br />

pp. 151, euro 9,50) è, come <strong>di</strong>ce il sottotitolo, <strong>un</strong> Manuale per<br />

giocare a costruire libri. <strong>Non</strong> è quin<strong>di</strong> esattamente <strong>un</strong> libro che<br />

“insegna a scrivere”; ma poiché chi<strong>un</strong>que si metta d'impegno a<br />

scrivere <strong>un</strong> romanzo o <strong>un</strong> poema o <strong>un</strong>a collezione <strong>di</strong> liriche o <strong>di</strong><br />

racconti (o qual<strong>un</strong>que altra cosa) ha generalmente lo scopo <strong>di</strong><br />

arrivare prima o poi a fare <strong>un</strong> libro, tanto vale esercitarsi a<br />

fare libri fin da piccoli.<br />

Attenzione: c'è <strong>un</strong>a bella <strong>di</strong>fferenza tra scrivere <strong>un</strong> libro, e<br />

farlo. Per fare <strong>un</strong> libro bisogna occuparsi <strong>di</strong> carta, <strong>di</strong> inchiostro,<br />

<strong>di</strong> caratteri e corpi (oggi si chiamano font), <strong>di</strong> copertina, <strong>di</strong><br />

illustrazioni, <strong>di</strong> paratesti (risvolto, quarta <strong>di</strong> copertina, biografia<br />

dell'autore) e così via; senza contare poi che <strong>un</strong>a volta fatto il<br />

libro bisogna <strong>di</strong>stribuirlo e venderlo, ed è tutta <strong>un</strong>'altra storia.<br />

Nel mio ormai pluriennale lavoro <strong>di</strong> lettore <strong>di</strong> dattiloscritti<br />

ine<strong>di</strong>ti, e destinati nella stragrande maggioranza a restare<br />

ine<strong>di</strong>ti, mi sono reso conto che ci sono persone che si rendono<br />

conto <strong>di</strong> che cos'è <strong>un</strong> libro, e persone che non se ne rendono<br />

conto. Basta, app<strong>un</strong>to, guardare il dattiloscritto. Un<br />

211


dattiloscritto curato, leggibile, ben marginato, con <strong>un</strong> font non<br />

bizzarro, stampato senza tirchieria d'inchiostri, fotocopiato con<br />

cura, appartiene sicuramente a <strong>un</strong>a persona che sa che cos'è<br />

<strong>un</strong> libro. Ed è molto <strong>di</strong>verso, nei casi in cui si decide <strong>di</strong> “fare il<br />

libro”, avere che fare con <strong>un</strong> autore che sa che cos'è <strong>un</strong> libro o<br />

con <strong>un</strong>o che non sa che cos'è.<br />

Un libro è <strong>un</strong> oggetto che altre persone prenderanno in mano;<br />

e soppesandolo dovranno decidere se acquistarlo o no, se<br />

leggerlo o no. Il libro quin<strong>di</strong> deve essere, per così <strong>di</strong>re,<br />

rappresentativo <strong>di</strong> sé stesso (deve dare l'idea <strong>di</strong> essere <strong>un</strong>a<br />

certa cosa, ed essere effettivamente quella cosa); deve essere<br />

comodo e maneggevole nella giusta misura; deve essere<br />

leggibile; deve avere delle partizioni interne che corrispondano<br />

ai preve<strong>di</strong>bili tempi <strong>di</strong> lettura; deve essere illustrato<br />

efficacemente, se è <strong>un</strong> libro che prevede illustrazioni; deve<br />

giustificarsi da sé, saper stare al mondo, avere <strong>un</strong>'evidenza<br />

propria, occupare sensatamente il proprio posto sullo scaffale o<br />

sul tavolo.<br />

Ecco: fabbricare libri, significa imparare tutte queste cose. E<br />

cominciare dai libri per bambini non è <strong>un</strong>a cattiva idea. I libri<br />

per bambini sono oggetti assai più ricchi e liberi dei libri per<br />

adulti. Un libro per bambini può essere rotondo o ad<strong>di</strong>rittura<br />

sferico, può avere il becco, può suonare o fare le puzze, può<br />

avere forma <strong>di</strong> scatola o <strong>di</strong> balena, può essere più grande del<br />

suo lettore o più piccolo <strong>di</strong> <strong>un</strong> pacchetto <strong>di</strong> fiammiferi svedesi.<br />

Fabbricare libri per i bambini (meglio ancora: con i bambini)<br />

porta ad assaporare questa grande libertà, e a capire che non<br />

è certo <strong>un</strong>a libertà sfrenata: perché com<strong>un</strong>que, come <strong>di</strong>cevo,<br />

<strong>un</strong>a volta fabbricato il libro dovrà, almeno ogni tanto (è lecito<br />

concedere i bambini <strong>di</strong> conservare i libri fabbricati da loro<br />

stessi) andare incontro a <strong>un</strong> lettore estraneo, od almeno non<br />

coincidente con l'autore stesso.<br />

Finito tutto questo pistolotto, del Libro dei libri devo <strong>di</strong>re che<br />

mi sembra assai ben fatto. La varietà <strong>di</strong> libri proposta non è né<br />

eccessiva né scarsa. Le idee sono per lo più tra<strong>di</strong>zionali (il che<br />

va benissimo), con qualche innovazione (bene!). I <strong>di</strong>segni sono<br />

chiarissimi (migliori dei testi, che sono com<strong>un</strong>que assai buoni).<br />

Ogni proposta per fare <strong>un</strong> libro contiene <strong>un</strong>a vivace descrizione<br />

<strong>di</strong> come dovrà essere il lavoro finito, l'elenco dei materiali<br />

necessari, le istruzioni per costruire, suggerimenti per variare o<br />

ampliare il modello.<br />

Io sono particolarmente affezionato al Libro postale: “Ogni<br />

pagina <strong>di</strong> questo libro è in realtà <strong>un</strong>a busta dove si raccolgono<br />

banconote <strong>di</strong> <strong>un</strong> certo valore, <strong>un</strong> dente caduto in battaglia,<br />

lettere segrete, fotografie e anche biglietti del treno usati o<br />

212


nuovi. Le buste possono essere i <strong>di</strong>verse <strong>di</strong>mensioni, <strong>di</strong><br />

plastica, trasparenti o colorate, basta che la copertina del Libro<br />

postale sia più grande <strong>di</strong> tutte le altre buste. Una volta pronto,<br />

il libro si chiude in <strong>un</strong>a busta ancora più grossa e ce lo si può<br />

spe<strong>di</strong>re a casa” (p. 52). Per non parlare del Libro ingessato, il<br />

Libro 007, il Libro da appendere, il Libro con la bocca, il Libro<br />

teatro, e chi più ne ha più ne metta. Ovviamente il Libro dei<br />

libri si occupa prevalentemente del supporto: che cosa ci vada<br />

scritto o <strong>di</strong>segnato dentro, in questi libri, è affare secondario<br />

(ci sono però buoni suggerimenti e stimoli curiosi).<br />

Dopo pagina 100 il Libro dei libri abbandona, come se ne<br />

avesse abbastanza, il tema della produzione dei libri, e va a<br />

toccare velocemente vari altri aspetti: inventare <strong>un</strong> marchio<br />

e<strong>di</strong>toriale (“E<strong>di</strong>zioni Asino chi legge” mi pare il suggerimento<br />

più grazioso), applicare ai libri etichette <strong>di</strong> genere o <strong>di</strong><br />

proprietà, <strong>di</strong>stricarsi tra l'enorme varietà <strong>di</strong> alfabeti a stampa,<br />

fabbricare segnalibri personalizzati, prodursi da sé la carta<br />

(riciclando altra carta), organizzare <strong>un</strong>a mostra-mercato delle<br />

proprie opere. E non manca <strong>un</strong> adeguato repertorio <strong>di</strong> mostremercati<br />

<strong>di</strong> libri per bambini, nonché <strong>un</strong>'interessante scelta <strong>di</strong><br />

pubblicazioni nel web interamente o parzialmente consacrata<br />

all'arte <strong>di</strong> fare libri con i bambini (da affrontare con <strong>un</strong> adulto<br />

accanto, anche perché parecchie sono in lingua inglese).<br />

In somma, questo Libro dei libri mi è sembrato proprio <strong>un</strong> fior<br />

<strong>di</strong> libro, utile e <strong>di</strong>vertente. E ne consiglierei la lettura non solo<br />

ai piccoli, ma anche ai gran<strong>di</strong>. Perché si rendano conto <strong>di</strong><br />

quanto lavoro, <strong>di</strong> quanti sforzi <strong>di</strong> invenzione e <strong>di</strong> armonia, ci<br />

siano dentro quel parallelepipedo <strong>di</strong> carta stampata che<br />

chiamiamo “libro”.<br />

Alla prossima.<br />

Chiacchierata numero 85<br />

Libri che insegnano a scrivere, 6. Questa settimana non vi<br />

parlo <strong>di</strong> <strong>un</strong> libro, ma <strong>di</strong> <strong>un</strong>a rivista. Si chiama Quaderni <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>dattica della <strong>scrittura</strong>, è <strong>un</strong> semestrale, e il numero 1 è<br />

appena uscito (146 pp., e<strong>di</strong>tore Carocci, <strong>un</strong> numero 16 euro,<br />

per abbonamenti: 06 420 142 60, riviste@carocci.it). I<br />

Quaderni sono curati dal Dipartimento <strong>di</strong> scienze pedagogiche<br />

e <strong>di</strong>dattiche dell'Università <strong>di</strong> Bari, presso il quale è attivo da<br />

più <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci anni <strong>un</strong> “Corso <strong>di</strong> alta formazione in <strong>di</strong>dattica della<br />

<strong>scrittura</strong>”; non si rivolgono all'aspirante scrittore ma ai<br />

professionisti della <strong>scrittura</strong> (giornalisti, saggisti), agli<br />

213


insegnanti <strong>di</strong> Italiano delle scuole me<strong>di</strong>e superiori e ai docenti<br />

<strong>un</strong>iversitari.<br />

Il primo Quaderno contiene delle cose piuttosto interessanti.<br />

Lo scrittore Raffaele Nigro racconta in <strong>un</strong> l<strong>un</strong>go intervento<br />

(“Così ho scritto, così scrivo”) il suo "per<strong>corso</strong> <strong>di</strong><br />

avvicinamento" alla <strong>scrittura</strong> attraverso contrad<strong>di</strong>ttorie<br />

esperienze letterarie e antropologiche (dalla trascrizione delle<br />

fiabe tra<strong>di</strong>zionali agli entusiasmi neoavanguar<strong>di</strong>stici, per<br />

approdare a quello stile quasi ipnotico, raffinato e popolare<br />

insieme, che gli è caratteristico). Roberto Maragliano (già<br />

autore <strong>di</strong> <strong>un</strong> importante Manuale <strong>di</strong> <strong>di</strong>dattica multime<strong>di</strong>ale<br />

pubblicato da Laterza) affronta con piglio <strong>di</strong>namico e tono <strong>un</strong><br />

po' profetico la questione dell'“Insegnare a scrivere con il<br />

computer”, in<strong>di</strong>viduando nella <strong>scrittura</strong> con il computer tre<br />

tratti nettamente <strong>di</strong>stintivi rispetto alla <strong>scrittura</strong> con carta e<br />

penna: la perfettibilità, la connettività e la <strong>di</strong>alogicità. Il saggio<br />

<strong>di</strong> Pasquale Guaragnella “Apologia e confutazione nella prosa <strong>di</strong><br />

Galileo”, <strong>di</strong> taglio sostanzialmente storico-descrittivo, è <strong>un</strong> bel<br />

saggio istruttivo e <strong>di</strong>vertente, ma è <strong>un</strong> saggio che sarebbe<br />

potuto apparire in qual<strong>un</strong>que rivista <strong>di</strong> storia e critica<br />

letteraria.<br />

La sezione “Interventi ed esperienze” si apre con <strong>un</strong> saggio <strong>di</strong><br />

Giuseppe Fiori (“Una penna per gli <strong>un</strong>der 18”) che pone <strong>un</strong>a<br />

questione assai interessante: “Oggi non è facile per <strong>un</strong>o<br />

scrittore per adulti vestire i panni dello scrittore per l'infanzia o<br />

per i giovani. Perché si è abituati ad <strong>un</strong>'altra <strong>scrittura</strong>, ma<br />

soprattutto perché il mondo dell'infanzia <strong>di</strong> oggi cambia più<br />

rapidamente <strong>di</strong> quello <strong>di</strong> cento anni fa. <strong>Non</strong> è facile essere<br />

aggiornati sui mutevoli miti, giochi e linguaggi delle nuove<br />

generazioni. Segnatamente è <strong>di</strong>fficile (anche per gli psicologi)<br />

comprendere lo spettro percettivo che <strong>un</strong> bambino/ragazzo ha<br />

del mondo e che gli arriva attraverso i me<strong>di</strong>a, l'elettronica, per<br />

non parlare delle "rivoluzioni" private familiari e sociali<br />

(<strong>di</strong>soccupazione, emigrazione, nuove povertà, separazioni<br />

ecc.)” (p. 63). Giuseppe Fiori, <strong>un</strong> po' a volo d'uccello (questo è<br />

<strong>un</strong> saggio che sembra proprio <strong>un</strong> assaggio), prova a vedere<br />

come si sono posti il problema, e quali soluzioni hanno<br />

adottate, alc<strong>un</strong>i narratori <strong>di</strong> successo, da Tahar Ben Jello<strong>un</strong> a<br />

Daniel Pennac, da Roddy Doyle a J. K. Rowling.<br />

Il cospicuo saggio <strong>di</strong> Loredana Perla (“Competenza e<br />

<strong>scrittura</strong>”, 25 pagine) tenta con successo <strong>di</strong> fare il p<strong>un</strong>to<br />

sull'approccio d'ispirazione cognitivistica alla <strong>di</strong>dattica della<br />

<strong>scrittura</strong> (senz'altro il più proficuo), passato nel giro <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

ventennio circa da <strong>un</strong>a “concezione ipertroficamente<br />

intellettuale dei processi connessi all'appren<strong>di</strong>mento dello<br />

214


scrivere” a <strong>un</strong>a più opport<strong>un</strong>a considerazione dei “fattori<br />

motivazionali” (p. 82). La mia impressione è che questo saggio<br />

fissi i p<strong>un</strong>ti <strong>di</strong> riferimento <strong>di</strong> tutto il Quaderno.<br />

“Criteri e in<strong>di</strong>cazioni per la tesi <strong>di</strong> laurea” <strong>di</strong> Vanna Zaccaro<br />

prende le mosse dal celeberrimo Come si fa <strong>un</strong>a tesi <strong>di</strong> laurea<br />

<strong>di</strong> Umberto Eco (Bompiani) e, sinceramente, ho l'impressione<br />

che non vada molto più in là. “Scrivere l'attimo, ovvero il<br />

telegiornale” <strong>di</strong> Francesco Giorgino è <strong>un</strong>'introduzione<br />

all'argomento molto brillante e suggestiva, ricca <strong>di</strong> molte<br />

informazioni in poche pagine. “In treno con il block-notes”, <strong>di</strong><br />

Daniele Giancane, è <strong>un</strong> testo curioso e on<strong>di</strong>vago. “Scrivere in<br />

treno è <strong>un</strong>a delle cose più belle e naturali del mondo, perché<br />

viaggiare in treno vuol <strong>di</strong>re osservare l'umanità attorno a noi e<br />

al contempo il paesaggio che corre dal finestrino. Visto che si<br />

deve star fermi, o quasi, è <strong>un</strong> buon tempo per riflettere, fare<br />

bilanci, persino me<strong>di</strong>tare. Forse pregare” (p. 126). Partendo da<br />

qui, Giancane arriva… <strong>Non</strong> ho capito. <strong>Non</strong> ho capito dove<br />

arriva. Verso la fine scrive: “La mia finalità è quella <strong>di</strong> riflettere<br />

sulla <strong>scrittura</strong> in <strong>un</strong> non-luogo come il treno; sulla sua<br />

possibilità e la sua "bellezza", anzitutto per chi la pratica.<br />

Scrivere (nel mio caso poesie) sul treno può sembrare quasi<br />

incre<strong>di</strong>bile - per chi ha <strong>un</strong>a concezione "classica" della <strong>scrittura</strong>,<br />

perlomeno nel senso anche dei mezzi e dei luoghi […]. Può<br />

sembrare atto quasi sacrilego scrivere <strong>un</strong>a poesia in treno, <strong>un</strong>a<br />

"caduta" dalla serietà dello scrittoio attorniato da <strong>un</strong>a robusta<br />

biblioteca (ogn<strong>un</strong>o pensa alla biblioteca <strong>di</strong> casa Leopar<strong>di</strong>) alla<br />

vile laicità <strong>di</strong> <strong>un</strong>o scompartimento” (p. 132). Ma, non so. Ho<br />

l'impressione che si sfon<strong>di</strong>no porte aperte. Il primo Quaderno<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>dattica della <strong>scrittura</strong> si conclude infine con <strong>un</strong> racconto <strong>di</strong><br />

Raffaele Crovi.<br />

In sostanza: come in ogni rivista ci sono cose più interessanti<br />

e altre meno, ma credo che soprattutto gli insegnanti <strong>di</strong><br />

Italiano nelle scuole me<strong>di</strong>e superiori farebbero bene a dare<br />

<strong>un</strong>'occhiata a questo Quaderno, e magari ad abbonarsi. Io mi<br />

sono abbonato. Di <strong>un</strong>a rivista come questa, da anni sentivo la<br />

mancanza.<br />

***<br />

La settimana scorsa ho parlato del Libro dei libri. Manuale per<br />

giocare a costruire libri <strong>di</strong> Niccolò Barbiero e Giulia Orecchia<br />

(Salani). Avrei dovuto almeno citare (me ne sono <strong>di</strong>menticato)<br />

<strong>un</strong> altro aureo libretto sullo stesso argomento: Guida pratica<br />

per fare libri con i bambini, <strong>di</strong> Maria Pia Alignani (ed. Sonda,<br />

pp. 102, euro 10,50). La Guida (<strong>di</strong>versamente dal Libro dei<br />

215


libri) non si rivolge <strong>di</strong>rettamente ai bambini bensì agli adulti, e<br />

si ispira al Book Art Project <strong>di</strong> Paul Johnson, è a sua volta<br />

autore dell'ottimo Facciamo <strong>un</strong> libro (ugualmente pubblicato da<br />

Sonda). Ma su libri & bambini riprenderemo il <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>.<br />

Chiacchierata numero 86<br />

Libri che insegnano a scrivere, 7. Credo che il libro <strong>di</strong> cui vi<br />

parlo oggi sia assai <strong>di</strong>fficile da trovare. La persona che me l'ha<br />

prestato l'ha trovato in <strong>un</strong>a libreria <strong>di</strong> libri usati. L'e<strong>di</strong>tore non<br />

esiste più. Si tratta <strong>di</strong> Come scrivere romanzi rosa. Guida alla<br />

narrativa sentimentale: personaggi, ambienti, <strong>di</strong>aloghi,<br />

sentimento, passione, conflitto, <strong>di</strong> Phyllis Taylor Pianka (Spazio<br />

Libri E<strong>di</strong>tori, 1993 [ma l'e<strong>di</strong>zione originale americana è del<br />

1988], pp. 160, 28.000 lire). Il libro è interessante, secondo<br />

me, per tre ragioni: primo, perché non mi risulta che esistano<br />

in lingua italiana altri manuali <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> relativi a questo<br />

genere <strong>di</strong> romanzi (ma, se sapete l'inglese, lo potete<br />

comperarlo per soli due dollari su www.amazon.com);<br />

secondo, perché è <strong>un</strong> libro interessante e <strong>di</strong>vertente; terzo,<br />

perché i romanzi rosa sono <strong>un</strong> genere letterario sempre<br />

denigrato, e a me invece stanno simpatici.<br />

La signora Pianka è <strong>un</strong>'autrice, da quel che ho potuto capire,<br />

abbastanza affermata (ma non tradotta in Italia). Ha<br />

pubblicato qualche dozzina <strong>di</strong> romanzi quasi tutti <strong>di</strong> genere<br />

rosa, <strong>di</strong>stribuiti tra i vari sottogeneri: rosa contemporaneo,<br />

rosa d'ambientazione storica, rosa-gotico, e così via. È in<br />

somma <strong>un</strong>a seria professionista. E infatti il libro fa capire fin<br />

dalla prima pagina che il romanzo rosa è, prima <strong>di</strong> tutto, <strong>un</strong><br />

prodotto industriale: “I romanzi <strong>di</strong> "genere" vengono <strong>di</strong> solito<br />

stampati in particolari collane, con <strong>un</strong> preciso numero <strong>di</strong> titoli,<br />

sono pubblicati mensilmente e si rivolgono a <strong>un</strong>a precisa fascia<br />

<strong>di</strong> lettori. […] Si tratta <strong>di</strong> libri <strong>di</strong> formato ridotto, <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

l<strong>un</strong>ghezza standard che varia dalle 55 mila alle 85 mila parole.<br />

[…] Alc<strong>un</strong>e case americane si avvalgono dei servizi <strong>di</strong><br />

produttori e<strong>di</strong>toriali […]: si tratta <strong>di</strong> società che presentano<br />

all'e<strong>di</strong>tore pacchetti per le nuove serie, nuovi libri o<br />

semplicemente nuove idee. Se l'e<strong>di</strong>tore decide <strong>di</strong> acquistare,<br />

offre al produttore e<strong>di</strong>toriale <strong>un</strong>a cifra prefissata per la<br />

produzione dei libri. Il produttore ingaggia allora degli autori<br />

per scrivere i libri, <strong>di</strong> solito in conformità con le <strong>di</strong>rettive o le<br />

trame da lui stesso fornite” (p. 13). Queste cose possono<br />

sembrare bizzarre all'aspirante narratore italiano. Proprio per<br />

216


questo gli farà bene impararle.<br />

Ciò detto, il libro della signora Pianka è, tutto sommato, <strong>un</strong><br />

libro assai ben fatto. L'articolazione in capitoli è piuttosto<br />

chiara ed efficace: accanto a capitoli che potreste trovare in<br />

qualsiasi manuale <strong>di</strong> <strong>narrazione</strong> (“Il p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> vista”, “I<br />

personaggi”, “Come scrivere <strong>di</strong>aloghi cre<strong>di</strong>bili”, ecc.), ci sono<br />

quelli specifici: “Costruire la trama romantica”, “Sensualità e<br />

sessualità”, “Il romanzo rosa storico”, e così via.<br />

La signora Pianka non si fa scrupoli ad essere severamente<br />

prescrittiva. Nel capitolo “La costruzione delle scene” (pp. 88-<br />

100) elenca nove “tipi <strong>di</strong> scene” che “dovrebbero essere<br />

presenti in ogni racconto rosa”: la scena d'apertura, le scenesituazione<br />

(dove “si organizzano dati informativi sull'antefatto<br />

principale” e “si impostano personaggi per giustificare l'azione<br />

che logicamente seguirà”), le scene <strong>di</strong> verifica (dove dovremo<br />

“vedere al lavoro” il personaggio, qual<strong>un</strong>que sia il suo lavoro),<br />

le scene <strong>di</strong> conflitto (il conflitto è “la messa in f<strong>un</strong>zione <strong>di</strong> idee<br />

o desideri incompatibili”), le scene <strong>di</strong> arresto e scene <strong>di</strong><br />

progressione (“nel condurre i personaggi verso <strong>un</strong>a meta,<br />

l'autore dovrà evitare <strong>di</strong> semplificare eccessivamente la<br />

trama”), la scena del voltafaccia (“definita anche "il momento<br />

più cupo", poiché si pone come se non ci fosse soluzione al<br />

problema”), il flashback e il flashforward (due “tecniche per<br />

fermare il tempo”), la scena clou (“ove viene a ricomporsi il<br />

conflitto e ove le mete vengono raggi<strong>un</strong>te”), la scena<br />

conclusiva (“il p<strong>un</strong>to dove il bandolo della matassa si <strong>di</strong>pana,<br />

ove si dà ragione <strong>di</strong> tutti gli in<strong>di</strong>zi <strong>di</strong>sseminati qua e là, in cui il<br />

lettore viene appagato dal finale gratificante”). Queste scene ci<br />

devono essere, spiega la signora Pianka, non c'è scampo: se<br />

non ce le mettete, il vostro romanzo rosa non viene bene - o vi<br />

viene <strong>un</strong> romanzo che non è esattamente <strong>un</strong> romanzo rosa.<br />

Il capitolo “Sensualità e sessualità” è utilissimo per capire<br />

come si incontrano e si legano, nella produzione del romanzo<br />

rosa, i desideri delle lettrici, gli obiettivi <strong>di</strong> mercato delle case<br />

e<strong>di</strong>trici, e la fantasia delle autrici e degli autori. Dopo avere<br />

descritta la morale <strong>un</strong> po' bacchettona vigente nel romanzo<br />

rosa fino a tutti gli anni Settanta, la signora Pianka scrive:<br />

“Poi, con gli anni Ottanta, caddero molte barriere. Una collana<br />

<strong>di</strong> rosa, ad esempio, richiedeva che ci fosse <strong>un</strong>a scena <strong>di</strong> letto<br />

verso il terzo capitolo, ed almeno tre scene <strong>di</strong> letto in tutto il<br />

libro. Uso il termine scena <strong>di</strong> letto con leggerezza, poiché la<br />

competitività tra gli autori era feroce, e si cercava chi riuscisse<br />

a inventare il posto più esotico (e scomodo) ove gli amanti<br />

potessero <strong>un</strong>irsi. […] Ma le mode cambiano e fanno il loro<br />

tempo. Vi furono delle persone più sagge alla <strong>di</strong>rezione<br />

217


e<strong>di</strong>toriale e si convenne che, in effetti, la fantasia aveva<br />

oltrepassato il romantico per sconfinare nel ri<strong>di</strong>colo. Vennero<br />

redatti nuovi orientamenti e<strong>di</strong>toriali, ove si <strong>di</strong>ceva che non era<br />

proprio logico che i personaggi saltassero su <strong>di</strong> <strong>un</strong> letto dopo<br />

essersi conosciuti da appena <strong>un</strong>'ora. […] La tendenza al<br />

realismo trova spazio in questi libri, ma il loro centro <strong>di</strong> gravità<br />

resta sempre e com<strong>un</strong>que la fantasia, ove <strong>un</strong>a storia d'amore<br />

perfetta ha il ruolo principale. […] Ness<strong>un</strong>o <strong>di</strong> noi deve<br />

scordarsi il motivo per cui questi libri godono <strong>di</strong> così vasta<br />

popolarità: […] perché ci permettono <strong>un</strong>'evasione dal<br />

quoti<strong>di</strong>ano. Benché essi siano parte integrante del mondo in cui<br />

si vive, e riflettano il mutato ruolo della donna e il<br />

cambiamento dei sogni delle donne stesse, non dovranno<br />

essere <strong>un</strong>a riproduzione minuziosa <strong>di</strong> quel mondo, altrimenti<br />

cesseranno <strong>di</strong> avere la loro f<strong>un</strong>zione nelle aspirazioni delle<br />

lettrici” (pp. 102-104).<br />

Avere <strong>un</strong>a f<strong>un</strong>zione nelle aspirazioni delle lettrici. Ecco<br />

qualcosa a cui l'aspirante narratore, <strong>di</strong> qual<strong>un</strong>que genere egli<br />

sia, pensa (secondo me) troppo poco spesso.<br />

Chiacchierata numero 87<br />

Libri che insegnano a scrivere, 8. La pianta del riso <strong>di</strong> Raffaele<br />

Palma (sottotitolo: Guida alla <strong>di</strong>dattica dello humour) non è<br />

esattamente <strong>un</strong> libro che insegna a scrivere. (D’altra parte, la<br />

maggior parte dei libri che insegnano a scrivere sono, secondo<br />

me, libri che parlano <strong>di</strong> tutto fuorché <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>: ma <strong>di</strong> questo<br />

parleremo <strong>un</strong>’altra volta). Il libro mi è stato regalato da<br />

<strong>un</strong>’amica <strong>di</strong> Torino insieme a <strong>un</strong>a scelta <strong>di</strong> prodotti<br />

gastronomici piemontesi: e forse c’entrerà, non saprei <strong>di</strong>re (si<br />

tratterebbe, in quel caso, <strong>di</strong> <strong>un</strong>a freddura), il fatto che in<br />

Piemonte (nel Vercellese soprattutto) le risaie abbondano.<br />

Chissà.<br />

<strong>Non</strong> so esattamente chi sia Raffaele Palma. Nella quarta <strong>di</strong><br />

copertina del libro, Maria Valabrega scrive: “A ridere, o almeno<br />

a sorridere, si impara. Da anni Raffaele Palma è impegnato in<br />

questa non facile battaglia. Ha cominciato ad esprimere le sue<br />

proteste con mascheroni satirici, con ingombranti e complesse<br />

sculture realizzate con i materiali più svariati, per passare poi<br />

alla satira <strong>di</strong>segnata. Composizioni graffianti, <strong>un</strong> po’ ciniche,<br />

mai troppo cattive, per sottolineare le ingiustizie sociali, per<br />

riflettere con pochi tratti nervosi il velenoso mondo che ci<br />

circonda. Perché non insegnare agli altri l’arte liberatoria della<br />

218


satira? Così Palma ha fondato il C. A. U. S., Centro Arti<br />

Umoristiche e Satiriche. Di qui sono partire le iniziative: corsi<br />

per adulti, per ragazzi, mostre, stu<strong>di</strong> con me<strong>di</strong>ci ed esperti per<br />

capire fino a che p<strong>un</strong>to <strong>un</strong>a buona risata sia anche <strong>un</strong>a buona<br />

me<strong>di</strong>cina”. Il libro, in sostanza, raccoglie le sintesi <strong>di</strong> alc<strong>un</strong>e<br />

relazioni tenute a <strong>un</strong> convegno intitolato “Sorriso e salute”<br />

(organizzato da Palma a Torino nel 1989), integrati da <strong>un</strong>a<br />

serie <strong>di</strong> esercizi <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, <strong>di</strong>segno e <strong>scrittura</strong> con <strong>di</strong>segno.<br />

Il tutto, va detto, è <strong>un</strong> po’ goliar<strong>di</strong>co e confuso. Nella frenesia<br />

<strong>di</strong> far stare <strong>di</strong> tutto dentro il piccolo libro (139 pagine) Palma<br />

ha stipati i materiali all’inverosimile. Parecchi esercizi <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong> sono spiegati così sbrigativamente che, anche a<br />

pensarci e ripensarci, non ci si capisce nulla. Alc<strong>un</strong>i capitoli<br />

pretendono <strong>di</strong> trattare tutte insieme delle forme <strong>di</strong> testo che a<br />

me sembrano molto <strong>di</strong>fferenti tra loro (ve<strong>di</strong> il capitolo do<strong>di</strong>ci:<br />

“Slogans, massime, aforismi, proverbi, quiz, test”. Altri capitoli<br />

hanno titoli che promettono molto e poi, alla prova della<br />

lettura, lasciano delusi e anche <strong>un</strong> po’ sbigottiti: ve<strong>di</strong> il<br />

<strong>di</strong>ciassettesimo capitolo, “Didattica dell’umorismo nelle carceri<br />

minorili”, dove dal titolo <strong>un</strong>o si aspetta la relazione accurata (e<br />

anche <strong>un</strong> po’ tecnica, per<strong>di</strong>ana!) <strong>di</strong> <strong>un</strong>’esperienza, e si trova<br />

invece <strong>un</strong> app<strong>un</strong>tino <strong>di</strong> <strong>un</strong>a paginetta e mezza.<br />

Com<strong>un</strong>que, fatte al libretto tutte le pulci che vanno fatte,<br />

bisogna ammettere che è in fin dei conti <strong>un</strong> libretto<br />

interessante: e per più ragioni.<br />

La prima ragione è che, come altre pubblicazioni simili, La<br />

pianta del riso è <strong>un</strong> considerevole serbatoio <strong>di</strong> cose che si<br />

possono fare. Io l’ho ricevuto in dono <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> settimane fa, e<br />

ho già cominciato ad adoperare in aula esercizi ed esercizietti<br />

che ci ho trovati dentro. Niente <strong>di</strong> speciale, per carità: ma il<br />

lavoro <strong>di</strong> insegnare a scrivere (così come quello <strong>di</strong> imparare)<br />

ha bisogno anche <strong>di</strong> queste cose. L’esempio calzante,<br />

l’esercizio <strong>di</strong>vertente, l’aneddoto appropriato, sono strumenti<br />

che sveltiscono il lavoro dell’intuizione e facilitano la<br />

memorizzazione. Ovviamente, sono utili quando si parli, in<br />

aula, della tecnica dello scrivere; non quando si parli <strong>di</strong> tutto<br />

quell’altro, che è la parte minore per massa e maggiore per<br />

peso, e che non è tecnica.<br />

La seconda ragione è che La pianta del riso è stato scritto con<br />

<strong>un</strong> entusiasmo che tutto travolge. <strong>Non</strong> si parla, in questo libro,<br />

<strong>di</strong> allegria letizia felicità: no, si parla del riso proprio come fatto<br />

fisico, come movimento improvvisamente e provvisoriamente<br />

ingovernabile <strong>di</strong> certi muscoli della faccia e della pancia. Se<br />

<strong>un</strong>a mens sana produce <strong>un</strong> corpus sanum, sembra presupporre<br />

tutto il libro, allora <strong>un</strong> corpus sanum produrrà senza scampo<br />

219


<strong>un</strong>a mentem sanam. E sano per definizione è quel corpo che<br />

ride. Magari questa sarà, che ne so, <strong>un</strong>a psicosomatica da<br />

quattro sol<strong>di</strong>, ma è com<strong>un</strong>que utile per ricordare a chi scriva o<br />

voglia scrivere, che non solo la mente e la ragione del lettore<br />

vanno catturate, ma pure il suo corpo e la sua anima.<br />

La terza ragione è che il libro è, <strong>di</strong> per sé, allegramente<br />

go<strong>di</strong>bile. Porto ad esempio, scegliendo tra centinaia, questo<br />

microracconto onomastico-commerciale, cioè basato su nomi <strong>di</strong><br />

prodotti in ven<strong>di</strong>ta nei supermercati (nello specifico, amari e<br />

altri liquori): “Era il 18 Isolabella dell’anno Stock 84 e i due<br />

nobili Don Bairo e Don Perignon scendevano la China Martini<br />

del Montenegro dopo la vista alla cappella <strong>di</strong> San Marzano. Si<br />

fermarono in <strong>un</strong> P<strong>un</strong>t e Mes e Don Bairo <strong>di</strong>sse: “Chivas tu da<br />

Julia?”. Don Perignon, piuttosto Maraschino in volto, in<strong>di</strong>cando<br />

la sua Gambarotta rispose: “<strong>Non</strong> ci voleva quello scivolone su<br />

quella Petrus maledetta… Ma Jesus sa quanto vorrei con ella<br />

stare, ma con questo Pastis mi sarebbe <strong>di</strong>fficile far Ferrochina<br />

come vorrei”. “Aperol, potresti darci tu <strong>un</strong>a Batida al posto<br />

mio!”. “Jaegermeister”, rispose don Bairo, “sono in partenza<br />

per la Cynar”. Ma, il giorno seguente, scivolando in <strong>un</strong>a<br />

Sambuca, si frantumò il Bocchino. Ne ebbe per tre mesi in <strong>un</strong><br />

ospedale del Lucano e non si perdonò mai <strong>di</strong> non aver<br />

accettato l’invito dell’Unicum suo amico” (p. 50). Se tutto<br />

questo vi fa sorridere, allora La pianta del riso fa per voi. Se<br />

non vi <strong>di</strong>ce nulla, le possibilità sono due: o siete troppo giovani<br />

(il libro è dei primi anni Novanta; e molti liquori allora <strong>di</strong> moda<br />

sono oggi oggetti d’antiquariato), e allora siete perdonati,<br />

oppure proprio non siete dotati per le attività inutili e sciocche,<br />

e allora non c’è niente da fare.<br />

La cosa più <strong>di</strong>fficile, probabilmente, è procurarsi il libro.<br />

L’e<strong>di</strong>tore è l’assessorato all’Istruzione del Com<strong>un</strong>e <strong>di</strong> Torino. Il<br />

Centro Arti Umoristiche e Satiriche è ben rappresentato in<br />

Google. E poi i libri, come noto, a chi li cerca ostinatamente,<br />

prima o poi gli cascano in braccio.<br />

220


Chiacchierata numero 88<br />

Libri che insegnano a scrivere, 9. Un lettore mi scrive: “Caro<br />

Mozzi, le confesso de da quando ha cominciato a consigliare i<br />

"libri che insegnano a scrivere" mi lascia <strong>un</strong> po' perplesso. <strong>Non</strong><br />

dubito che i libri che lei consiglia siano ottimi libri (lei è tra<br />

l'altro abbastanza accurato da in<strong>di</strong>carne anche i limiti): ma mi<br />

sembra che lei proceda <strong>un</strong> po' a caso in<strong>di</strong>cando ora <strong>un</strong> libro<br />

d'<strong>un</strong> tipo e ora <strong>un</strong> libro d'<strong>un</strong> altro, senza <strong>un</strong> sistema preciso, e<br />

soprattutto privilegiando libri molto specifici (la p<strong>un</strong>teggiatura,<br />

il romanzo rosa, come far fabbricare libri ai bambini…), <strong>un</strong> po'<br />

paradossali, ad<strong>di</strong>rittura marginali, talvolta per sua stessa<br />

ammissione introvabili; mentre a chi la legge farebbe comodo,<br />

magari, <strong>un</strong> elenchino ragionato dei libri in qualche modo<br />

"fondamentali" - che ci saranno, immagino. Oppure in questo<br />

campo tutta la bibliografia è fatta <strong>di</strong> libri strani e bizzarri?”.<br />

Il lettore ha naturalmente ragione, molta ragione. <strong>Non</strong> ci<br />

vorrebbe molto a fare <strong>un</strong>a lista breve (<strong>un</strong> “elenchino”, come<br />

<strong>di</strong>ce lui) <strong>di</strong> libri veramente fondamentali. Ma io non ne ho<br />

voglia.<br />

La pratica della <strong>scrittura</strong> si può <strong>di</strong>videre (l'ho già detto più<br />

volte, ma portate pazienza) in tre parti. C'è <strong>un</strong>a parte <strong>di</strong><br />

tecnica, <strong>un</strong>a <strong>di</strong> consapevolezza, e <strong>un</strong>a <strong>di</strong> genio. Sul genio (o<br />

talento, o bernoccolo, o che altro: dàtegli il nome che volete)<br />

c'è poco da <strong>di</strong>re. C'è chi le Muse gli parlano, e chi no. Certo:<br />

tra chi ha il genio della <strong>scrittura</strong> ci sarà chi ha <strong>un</strong> genio grande<br />

e chi ha <strong>un</strong> genio piccolo; ma queste sono variazioni <strong>di</strong> grado;<br />

la <strong>di</strong>fferenza sta chi il genio talento bernoccolo ce l'ha, e chi no.<br />

Il genio non è insegnabile: sp<strong>un</strong>ta dove vuole e quando vuole.<br />

La tecnica è ciò che può essere insegnato a chi<strong>un</strong>que non sia<br />

stupido. Ovviamente si possono raggi<strong>un</strong>gere <strong>di</strong>versi livelli nel<br />

padroneggiamento della tecnica. Possono esservi scrittori<br />

dotati <strong>di</strong> molto genio e poca tecnica, o <strong>di</strong> poco genio e molta<br />

tecnica, <strong>di</strong> poco <strong>di</strong> questo e <strong>di</strong> quella, <strong>di</strong> molto <strong>di</strong> questo e <strong>di</strong><br />

quella.<br />

La consapevolezza è la consapevolezza <strong>di</strong> <strong>un</strong>a cosa: che la<br />

<strong>scrittura</strong> è <strong>un</strong>'attività relazionale. Che non si scrive per sé per<br />

l'Arte o per i posteri o per il mercato o per il pubblico o per il<br />

proprio analista o per sfogarsi eccetera, ma si scrive<br />

(banalmente: ma spesso questa banalità risulta <strong>di</strong>fficile da<br />

accettare) perché altre persone leggano - perché almeno<br />

<strong>un</strong>'altra persona legga. Che l'oggetto in<strong>di</strong>spensabile,<br />

nell'esistenza <strong>di</strong> <strong>un</strong>a <strong>scrittura</strong>, non è colui che scrive: bensì<br />

colui che legge.<br />

221


Ora, <strong>di</strong> manuali che insegnano la tecnica ce n'è tanti; e si<br />

trovano facilmente nelle librerie. Volendo fare l'“elenchino”, e<br />

cercando <strong>di</strong> in<strong>di</strong>care pochi titoli <strong>di</strong> facile lettura e buona qualità,<br />

<strong>di</strong>rei: Come si fa <strong>un</strong>a tesi <strong>di</strong> laurea <strong>di</strong> Umberto Eco (tascabili<br />

Bompiani: che è <strong>un</strong>'introduzione generale alla produzione e<br />

all'organizzazione <strong>di</strong> <strong>un</strong> testo, saggistico o narrativo che sia); Il<br />

grande manuale <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> creativa (<strong>di</strong> vari autori, e<strong>di</strong>zioni<br />

Nord: traduzione <strong>di</strong> <strong>un</strong>'opera stat<strong>un</strong>itense, quin<strong>di</strong><br />

continuamente riferito a <strong>un</strong>a letteratura molto <strong>di</strong>versa dalla<br />

nostra, ma utile onesto e chiaro); il Manuale <strong>di</strong> retorica <strong>di</strong> Bice<br />

Mortara Garavelli (tascabili Bompiani: mi raccomando <strong>di</strong><br />

controllare che sia l'ultima e<strong>di</strong>zione, riveduta e ampliata - e,<br />

<strong>di</strong>rei, resa più accessibile); e L'arte della narrativa <strong>di</strong> David<br />

Lodge (anche questo nei tascabili Bompiani: non è <strong>un</strong> caso, ma<br />

il risultato della quarantennale collaborazione tra questo<br />

e<strong>di</strong>tore e Umberto Eco). Fine dell'“elenchino”. Si impara tutta<br />

la tecnica che serve, da questi quattro libro? No: la tecnica è<br />

sterminata. E che altro bisognerebbe leggere, allora? Di tutto,<br />

<strong>di</strong>rei. Bisognerebbe leggere <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> tutto. Anche fumetti o<br />

libretti d'istruzione o programmi <strong>di</strong> sala o <strong>di</strong>scorsi elettorali o il<br />

co<strong>di</strong>ce civile eccetera. Ma questo, evidentemente, è <strong>un</strong> altro<br />

<strong>di</strong>s<strong>corso</strong>.<br />

***<br />

Sod<strong>di</strong>sfatto in questo modo (o almeno spero) l'esigente<br />

lettore, passo a <strong>di</strong>re che a volte si compera <strong>un</strong> libro pensando<br />

che sia <strong>un</strong> libro e poi, quando lo si legge, si scopre <strong>di</strong> averne<br />

comperati tre. Questo mi è successo con Il filo d'Arianna (dalla<br />

parola al testo) scritto da Susanna Nugnes, Pier Antonio Par<strong>di</strong><br />

e Alessandro Scarpellini (E<strong>di</strong>zioni Ets, pp. 221, euro 10,33.<br />

Sulla copertina c'è scritto anche: Quaderno <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> creativa<br />

I, ma non mi risulta che questo terzetto d'autori abbia prodotto<br />

<strong>un</strong> secondo quaderno; benché nel sito dell'e<strong>di</strong>tore<br />

(www.e<strong>di</strong>zioniets.com) si possano rintracciare altre<br />

pubblicazioni, soprattutto <strong>di</strong> Par<strong>di</strong>, nate nell'ambito dell'attività<br />

<strong>di</strong> “Officina”, <strong>un</strong> laboratorio fondato a Pisa dallo stesso Par<strong>di</strong>.<br />

I tre libri sono d<strong>un</strong>que questi: Il “Trattatino enigmisticogrammaticale”<br />

<strong>di</strong> Nugnes (pp. 9-67), “C'era <strong>un</strong>a volta… <strong>un</strong>a<br />

pagina bianca” <strong>di</strong> Par<strong>di</strong> (71-131), e “Scrittura profonda /<br />

Scrittura sensoriale” <strong>di</strong> Scarpellini (135-218). L'obiettivo<br />

com<strong>un</strong>e, <strong>di</strong>chiarano gli autori, è <strong>di</strong> “far entrare i ragazzi nei<br />

labirinti magici della <strong>scrittura</strong> in <strong>un</strong> modo giocoso e<br />

leggermente trasgressivo, lavorando sulla parola e sulle sue<br />

infinite e impreve<strong>di</strong>bili applicazioni”. Direi che l'obiettivo è<br />

222


aggi<strong>un</strong>to.<br />

In sostanza, Il filo d'Arianna è <strong>un</strong>o dei tanti libri che legano<br />

l'appren<strong>di</strong>mento dell'uso della lingua nella <strong>scrittura</strong> al gioco:<br />

gioco enigmistico, gioco verbale, gioco narrativo, gioco <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong>. È <strong>un</strong>o dei tanti, ma tra tutti quelli che ho letti a me<br />

sembra quello più utile e interessante: <strong>un</strong> po' perché non è<br />

estremistico (provate a leggere l'Atlante <strong>di</strong> letteratura<br />

potenziale dell'Oulipo, pubblicato in Italia dalla Clueb, e ne<br />

uscirete con la convinzione che gli autori fossero tutti pazzi),<br />

<strong>un</strong> po' perché non eccede nel puro lu<strong>di</strong>smo (con <strong>un</strong>a “d” sola,<br />

ossia: “accentuazione degli aspetti lu<strong>di</strong>ci”), ma soprattutto<br />

perché è ben consapevole <strong>di</strong> ciò che è e <strong>di</strong> ciò che non è. È <strong>un</strong><br />

libro che “fa entrare nei labirinti magici della <strong>scrittura</strong>”, ma si<br />

guarda bene dal promettere <strong>di</strong> tirarvene fuori; è <strong>un</strong> libro<br />

“trasgressivo” sì, ma solo “leggermente”; è de<strong>di</strong>cato “alla<br />

parola e alle sue infinite e impreve<strong>di</strong>bili applicazioni” ma, per il<br />

solo fatto <strong>di</strong> avere <strong>un</strong>a mole ragionevole, con ogni evidenza<br />

non pretende <strong>di</strong> esaurirle tutte.<br />

Chiacchierata numero 89<br />

Libri (e altre cose) che insegnano a scrivere, 10. In questa<br />

p<strong>un</strong>tata non parlo <strong>di</strong> libri. Parlo <strong>di</strong> due pubblicazioni in rete.<br />

Una volta le “pubblicazioni in rete” si chiamavano “siti web”.<br />

Credo peraltro che si chiamino ancora “siti web”. Però secondo<br />

me “pubblicazione in rete” è meglio <strong>di</strong> “sito web” (che paraltro<br />

vuol <strong>di</strong>re, più o meno, “pubblicazione in rete”).<br />

D<strong>un</strong>que, parlo <strong>di</strong> due pubblicazioni in rete. Una si chiama Il<br />

mestiere <strong>di</strong> scrivere (http://www.mestiere<strong>di</strong>scrivere.com) ed è<br />

curata da Luisa Carrada. L'altra non ha <strong>un</strong> vero e proprio<br />

nome, e consiste delle pagine sulla <strong>scrittura</strong> creativa curate da<br />

Annamaria Manna all'interno del portale SuperEva<br />

(http://guide.supereva.it/<strong>scrittura</strong>_creativa).<br />

“Il mestiere <strong>di</strong> scrivere”, spiega Luisa Carrada, “è il sito che<br />

mi sarebbe piaciuto trovare su Internet per fare meglio il mio<br />

lavoro. E siccome non c'era, alla fine ho deciso <strong>di</strong> farlo io.<br />

Lavoro come copywriter ed e<strong>di</strong>tor in <strong>un</strong>a grande azienda hightech,<br />

<strong>un</strong> lavoro <strong>di</strong>vertente e ingrato, che consiste nel far<br />

esprimere e com<strong>un</strong>icare l'azienda al meglio attraverso le<br />

parole. In pratica, significa scrivere, curare, correggere,<br />

seguire <strong>un</strong>a quantità <strong>di</strong> testi su tanti strumenti <strong>di</strong><br />

223


com<strong>un</strong>icazione <strong>di</strong>versi: brochure, documenti interni,<br />

presentazioni, pubblicità, <strong>di</strong>scorsi del management, la intranet<br />

aziendale, il sito Internet, il bilancio annuale. Ma significa farlo<br />

dando all'azienda <strong>un</strong>'<strong>un</strong>ica voce, <strong>un</strong> <strong>un</strong>ico stile, coerenti con il<br />

suo modo <strong>di</strong> essere, con i suoi obiettivi, con i suoi valori,<br />

persino con i suoi problemi.<br />

“Quando ho cominciato, <strong>di</strong>eci anni fa, il mestiere proprio non<br />

lo conoscevo. […] Qualche idea sulla com<strong>un</strong>icazione […]<br />

l'avevo, ma mi ero sempre occupata <strong>di</strong> arte e letteratura, al<br />

massimo <strong>di</strong> cronaca e problemi sociali. Di informatica e<br />

tecnologia non sapevo nulla e com<strong>un</strong>que ciò che mi si chiedeva<br />

allora era soprattutto <strong>di</strong> "scrivere bene in italiano".<br />

“Naturalmente capivo che questo non bastava. Ho cercato <strong>di</strong><br />

guardarmi intorno e <strong>di</strong> leggere il più possibile sulla<br />

com<strong>un</strong>icazione <strong>di</strong> impresa, ho seguito corsi con titoli altisonanti<br />

[…], ma era tutto terribilmente teorico. I "ferri del mestiere" -<br />

perché <strong>di</strong> mestiere si tratta - me li sono costruiti sul campo,<br />

giorno per giorno.<br />

“Poi è arrivata Internet. Era l'estate del 1994, e l'ho passata a<br />

scoprire questo mondo nuovo, a leggere avidamente su<br />

monotoni fon<strong>di</strong> grigi ciò che altri, in tutto il mondo, scrivevano<br />

sui problemi della mia professione. Anzi, della nostra<br />

professione, perché mi sono sentita finalmente parte <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

com<strong>un</strong>ità professionale più vasta. […] Ho conosciuto altre<br />

persone che avevano moltissime cose da insegnarmi, ma<br />

soprattutto ho cominciato a riflettere su questo strano e nuovo<br />

mezzo <strong>di</strong> com<strong>un</strong>icazione, che mi chiedeva <strong>di</strong> lavorare e scrivere<br />

in modo del tutto <strong>di</strong>verso.<br />

“Da allora non mi sono più fermata. Nella mia azienda mi<br />

sono de<strong>di</strong>cata soprattutto alla com<strong>un</strong>icazione online,<br />

collaborando a mettere in pie<strong>di</strong> il sito internet e <strong>un</strong>'intranet che<br />

ormai f<strong>un</strong>ziona egregiamente da cinque anni. Tutto questo<br />

mentre proseguiva la mia esplorazione <strong>di</strong> Internet alla ricerca<br />

<strong>di</strong> stu<strong>di</strong>, suggerimenti, riflessioni, o <strong>di</strong> altre persone che<br />

vivevano le mie stesse avventure.<br />

“A <strong>un</strong> certo p<strong>un</strong>to ho pensato che tutto questo lavoro poteva<br />

<strong>di</strong>ventare <strong>un</strong> sito, <strong>un</strong> sito italiano, forse il primo, de<strong>di</strong>cato alla<br />

<strong>scrittura</strong> professionale. Utile agli e<strong>di</strong>tor come me e a chi vuole<br />

<strong>di</strong>ventarlo, ma anche a chi nel suo lavoro deve scrivere molto e<br />

vuole com<strong>un</strong>icare bene.<br />

“Nel Mestiere <strong>di</strong> scrivere ci sono le mie letture e le mie<br />

esperienze concrete del lavoro <strong>di</strong> tutti i giorni”.<br />

Il Mestiere <strong>di</strong> scrivere si <strong>di</strong>vide in varie sezioni, alc<strong>un</strong>e<br />

de<strong>di</strong>cate alla <strong>scrittura</strong> in generale e altre alla <strong>scrittura</strong> per la<br />

rete in particolare. Assai interessanti sono i Quaderni del<br />

224


Mestiere <strong>di</strong> scrivere, ossia brevi monografie in formato Pdf,<br />

scaricabili gratuitamente.<br />

***<br />

SuperEva è l'<strong>un</strong>ico portale italiano che offra le “guide”. Tutti i<br />

portali, quale in <strong>un</strong> modo quale in <strong>un</strong> altro, offrono censimenti<br />

e classificazioni <strong>di</strong> pubblicazioni in rete: si propongono, per così<br />

<strong>di</strong>re, come in<strong>di</strong>ci della rete. Le “guide <strong>di</strong> SuperEva” sono<br />

persone che, appassionate a <strong>un</strong>a materia o a <strong>un</strong>a <strong>di</strong>sciplina o a<br />

<strong>un</strong>'arte o a qual<strong>un</strong>que cosa, non solo curano degli in<strong>di</strong>ci e delle<br />

pagine <strong>di</strong> segnalazioni particolarmente accurate, ma anche<br />

<strong>di</strong>alogano con navigatori e navigatrici, rispondo a richieste,<br />

propongono iniziative.<br />

Annamaria Manna, che dall'estate del 2000 (se non ricordo<br />

male) è la “guida <strong>di</strong> SuperEva” per la “<strong>scrittura</strong> creativa”, è<br />

riuscita a <strong>di</strong>ventare il p<strong>un</strong>to <strong>di</strong> riferimento italiano per tutte le<br />

attività che ruotano attorno alla cosiddetta “<strong>scrittura</strong> creativa”.<br />

Della quale fornisce ad<strong>di</strong>rittura <strong>un</strong>a “definizione ufficiale”: “Lo<br />

scopo della <strong>scrittura</strong> creativa è <strong>di</strong> sviluppare la nostra capacità<br />

<strong>di</strong> costruire testi in modo creativo ed efficace. Attraverso<br />

<strong>un</strong>'esplorazione attiva e <strong>di</strong>vertente della lingua italiana, si può<br />

migliorare la qualità della <strong>scrittura</strong> <strong>di</strong> ciasc<strong>un</strong>o. Affrontare <strong>un</strong><br />

per<strong>corso</strong> <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> creativa significa calarsi in <strong>un</strong> laboratorio<br />

che prevede sperimentazioni brevi e mirate, alla portata <strong>di</strong><br />

tutti, <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>di</strong>verso stile <strong>di</strong> composizione. Ci si riappropria così,<br />

con <strong>un</strong> nuovo spirito decisamente più attivo e protagonista, <strong>di</strong><br />

tutte le tecniche <strong>di</strong> composizione, <strong>di</strong> ogni genere testuale<br />

(narrativo, poetico, saggistico, ecc.) e <strong>di</strong> tutte le fasi del<br />

processo <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, dall'ideazione, alla redazione, alla<br />

correzione”.<br />

La rete è <strong>un</strong> mare magnum, nel quale è molto più facile<br />

perdere il proprio tempo che trovare ciò che si cerca.<br />

L'eccellente lavoro <strong>di</strong> Annamaria Manna, che instancabilmente<br />

segnala tutto ciò che in Italia avviene, si fa, si <strong>di</strong>ce, si pubblica<br />

in carta o in rete, attorno alle pratiche della <strong>scrittura</strong>, è <strong>di</strong><br />

gran<strong>di</strong>ssima utilità. A tutti coloro che sono alla ricerca <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

pubblicazione (<strong>di</strong> carta o in rete), <strong>di</strong> <strong>un</strong> laboratorio, <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>corso</strong><br />

<strong>un</strong>iversitario, in somma <strong>di</strong> <strong>un</strong>a qualsiasi occasione formativa<br />

per la <strong>scrittura</strong> e la <strong>narrazione</strong>, non posso che <strong>di</strong>re: rivolgetevi<br />

ad Annamaria.<br />

225


Chiacchierata numero 90<br />

Libri che insegnano a scrivere, 11. “<strong>Non</strong> occorre aver passato<br />

molto tempo a rivedere e giu<strong>di</strong>care articoli <strong>di</strong> cronaca per avere<br />

chiara <strong>un</strong>a cosa: <strong>un</strong> articolo non f<strong>un</strong>ziona non per lo stile<br />

sciatto, le citazioni sbagliate o la costruzione scadente, ma<br />

perché non sono state fatte ricerche adeguate. Nel<br />

giornalismo, non c'è linguaggio elaborato che possa<br />

nascondere questo fatto: o avete la materia prima su cui<br />

lavorare oppure no”. Così si legge a pagina 64 <strong>di</strong> Il giornalista<br />

quasi perfetto (The Universal Journalist) <strong>di</strong> David Randall<br />

(Laterza 2004, pp. 338, 12 euro, traduzione <strong>di</strong> Br<strong>un</strong>a Tortorella<br />

e Br<strong>un</strong>o Giovagnoli), <strong>un</strong> libro appena pubblicato in Italia (e<br />

che, confesso, forse non ho letto del tutto; perché non l'ho<br />

letto dal principio alla fine, ma l'ho spilluzzicato qua e là,<br />

durante <strong>un</strong> l<strong>un</strong>go viaggio notturno in treno, riprendendolo il<br />

giorno dopo all'alba, e quello dopo ancora a sera tar<strong>di</strong>, talvolta<br />

leggendo due volte le stesse pagine, talvolta saltandone altre)<br />

e che mi è sembrato, lo <strong>di</strong>co <strong>di</strong> cuore, <strong>un</strong> gran bel libro.<br />

David Randall è caporedattore dell'Independent, <strong>un</strong><br />

quoti<strong>di</strong>ano inglese che è <strong>di</strong> fatto ciò che è <strong>di</strong> nome:<br />

in<strong>di</strong>pendente; che esiste credo da <strong>un</strong>a dozzina d'anni; e che,<br />

<strong>di</strong>versamente da come accade in Italia, si è conquistato <strong>un</strong><br />

pubblico non grazie alla posizione etico-politica che<br />

rappresenta (benché non sia privo <strong>di</strong> <strong>un</strong>a posizione eticopolitica)<br />

ma grazie alla qualità del suo lavoro d'inchiesta (io<br />

visito quasi tutti i giorni l'e<strong>di</strong>zione in rete:<br />

http://www.independent.co.uk).<br />

Quando leggo i manuali <strong>di</strong> giornalismo, spesso mi viene da<br />

pensare: “Accidenti, ma qui si sta spiegando l'ovvio”. E in<br />

effetti è così: i manuali <strong>di</strong> giornalismo spiegano che ci sono<br />

varie fonti delle notizie, che <strong>un</strong> articolo si scrive così e così, che<br />

con le fonti istituzionali ci si relaziona in <strong>un</strong> certo modo e con le<br />

fonti non istituzionali (o anti-istituzionali) ci si relaziona in <strong>un</strong><br />

altro, che ogni informazione va controllata nei limiti dell'umano<br />

possibile, che non è la stessa cosa "passare" <strong>un</strong>'agenzia o dare<br />

<strong>un</strong>'informazione <strong>di</strong> prima mano, eccetera. Tutte cose che<br />

chi<strong>un</strong>que, a pensarci due minuti, ci arriva.<br />

Ma il libro <strong>di</strong> Randall ha <strong>un</strong> titolo sbagliato. <strong>Non</strong> è, infatti, <strong>un</strong><br />

libro sul lavoro del giornalista. È, più precisamente, <strong>un</strong> libro sul<br />

lavoro del cronista. Comincia con queste parole: “Gli eroi del<br />

giornalismo sono i cronisti. Quello che fanno è scoprire le cose.<br />

Arrivano per primi, nel caos del presente, battendo alle porte<br />

226


chiuse, a volte correndo dei rischi, e catturano l'inizio della<br />

verità. Se non lo fanno loro, chi dovrebbe farlo? I <strong>di</strong>rettori? I<br />

commentatori? C'è <strong>un</strong>a sola alternativa ai cronisti: accettare la<br />

versione ufficiale, quella che i poteri economici, i burocrati e i<br />

politici scelgono <strong>di</strong> darci. Dopotutto, senza i cronisti, che cosa<br />

saprebbero i commentatori?” (p. 3). E finisce (cito le ultime<br />

parole del capitolo “Letture consigliate”) raccomandando così la<br />

lettura <strong>di</strong> quello che Randall definisce “il più acuto libro sulla<br />

stampa che io abbia mai letto”, A Mathematician Read The<br />

Newspaper (Un matematico legge i giornali) <strong>di</strong> John Allen<br />

Paulos: “Avendo abbinato all'amore per la matematica <strong>un</strong><br />

innato interesse per la stampa, Paulos va a caccia <strong>di</strong> errori<br />

logici e statistici nei giornali e ne trova numerosi esempi.<br />

Questo libro vi spiegherà il nesso tra la teoria del caos e il<br />

valore <strong>di</strong> notizia, mo<strong>di</strong>ficando per sempre il vostro modo <strong>di</strong><br />

leggere <strong>un</strong> articolo” (p. 332).<br />

Randall è <strong>un</strong> cronista nato. Il suo problema è: come faccio a<br />

sapere il più possibile attorno all'avvenimento X? come faccio a<br />

controllare che ciò che so sull'avvenimento X sia vero o almeno<br />

decentemente probabile? come faccio a trovare notizie<br />

sull'avvenimento X al <strong>di</strong> fuori delle fonti ufficiali? come faccio a<br />

valutare la qualità delle informazioni che le fonti <strong>di</strong> parte mi<br />

danno sull'avvenimento X?<br />

E, cosa molto importante: come faccio, io che sono (in quanto<br />

giornalista, cronista, uomo dei me<strong>di</strong>a) sostanzialmente <strong>un</strong><br />

me<strong>di</strong>atore, <strong>un</strong>o che riporta, <strong>un</strong> reporter, a gestire la <strong>di</strong>ffusione<br />

delle notizie con responsabilità, sfuggendo al pericolo (oggi più<br />

che ieri concreto) <strong>di</strong> essere manipolato dalle fonti <strong>di</strong> notizie, <strong>di</strong><br />

essere abbagliato dal desiderio dello scoop ad ogni costo, <strong>di</strong><br />

servire come utile i<strong>di</strong>ota poteri dei quali nemmeno sospetto<br />

l'esistenza?<br />

Il giornalista quasi perfetto è <strong>un</strong> libro tutto intriso <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

moralità squisitamente anglosassone. Il cronista, per Randall, è<br />

per definizione <strong>un</strong> uomo libero: ma non nel senso che egli sia<br />

libero, <strong>di</strong>ciamo così, per natura e per principio; piuttosto nel<br />

senso che egli deve ogni giorno, a ogni ora, ogni volta che<br />

riceve e vaglia <strong>un</strong>'informazione, ogni volta che decide che cosa<br />

mettere o non mettere in pagina, che cosa scrivere o non<br />

scrivere nel pezzo, egli deve senza sosta “invigilare sé stesso”<br />

(rubo la formula a Benedetto Croce), porsi in grado <strong>di</strong><br />

garantire prima app<strong>un</strong>to a sé stesso, e poi a tutti i suoi lettori,<br />

<strong>di</strong> avere agito e scritto come uomo libero, non influenzato<br />

nemmeno inconsapevolmente, uomo autonomo sia<br />

materialmente sia spiritualmente.<br />

A chi<strong>un</strong>que voglia scrivere romanzi e racconti, io consiglierei<br />

227


la lettura <strong>di</strong> questo libro. Che il lavoro del narratore sia<br />

tutt'altra cosa dal lavoro del cronista, questo si può concedere.<br />

Ma ho il sospetto che la responsabilità del narratore verso i<br />

propri lettori sia simile alla responsabilità del cronista verso i<br />

propri lettori. Certo: il narratore narra fatti inventati, il cronista<br />

riferisce fatti accaduti. Ma il lettore si aspetta dal narratore <strong>un</strong>a<br />

parola <strong>di</strong> verità, oltre la finzione e (paradossalmente: ma è<br />

così) per mezzo <strong>di</strong> essa; così come il lettore del giornale si<br />

aspetta dal cronista che gli racconti <strong>un</strong>a cosa avvenuta così<br />

come è avvenuta, così come è stato possibile, adoperandosi al<br />

proprio meglio, scoprire che è avvenuta.<br />

Saranno <strong>di</strong>verse qualità <strong>di</strong> “parola <strong>di</strong> verità”; non <strong>di</strong>scuto;<br />

sarà anche <strong>di</strong>versa l'attenzione che il lettore pone al giornale o<br />

al libro; non <strong>di</strong>scuto; ma se i narratori si arrogano la capacità<br />

(spesso lo fanno) <strong>di</strong> raccontare verità <strong>di</strong> <strong>un</strong> or<strong>di</strong>ne superiore a<br />

quello della banale cronaca, la loro responsabilità sarà pure <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> or<strong>di</strong>ne superiore. O no?<br />

Chiacchierata numero 91<br />

Libri che insegnano a scrivere, 12. Oggi vi parlo <strong>di</strong> <strong>un</strong> libro<br />

pressoché introvabile. “Ma se è introvabile”, <strong>di</strong>rete voi, “perché<br />

mai ce ne parli?”. Come libro, non è neanche niente <strong>di</strong><br />

speciale. “Ma se non è <strong>un</strong> niente <strong>di</strong> speciale”, <strong>di</strong>rete voi,<br />

“perché ce ne parli? Perché non ci parli, piuttosto, <strong>di</strong> qualche<br />

libro veramente importante - e, magari, che si riesca anche a<br />

trovare in libreria o in biblioteca?”.<br />

Rispondo: perché mi piace tormentarvi, cari miei, e perché il<br />

mio vero scopo non è farvi leggere questo o quel libro: quanto<br />

persuadervi che <strong>di</strong> libri che insegnano a scrivere ce n'è <strong>un</strong><br />

sacco, e <strong>di</strong> generi e specie che voi nemmeno vi immaginavate.<br />

Bene. Il libro è questo: Renato Cesari, Il libro dei <strong>di</strong>scorsi,<br />

Salani 1928 (pp. 420). L'ho comperato per due sol<strong>di</strong>,<br />

ovviamente usato, a <strong>un</strong>a festa del libro a Como.<br />

Il signor Cesari è molto chiaro nei suoi intenti. Scrive nella<br />

prefazione: “<strong>Non</strong> tutti possono essere oratori, ma quasi tutti<br />

possono <strong>di</strong>ventarlo. Molti sentono agitarsi nel cuore i più<br />

generosi sentimenti, nella mente affollarsi le più belle idee, ma<br />

non trovano la parola adatta ad esprimerli com<strong>un</strong>icandone agli<br />

altri il calore e la forza persuasiva. D'altra parte a tutti può<br />

capitare <strong>di</strong> dover parlare e a ness<strong>un</strong>o piace o <strong>di</strong>chiarare la<br />

propria incapacità rifiutandosi, o far meschine figure<br />

accettando. Ebbene, con questo libro, compilato con delicato<br />

228


senso <strong>di</strong> opport<strong>un</strong>ità, e frutto in gran parte <strong>di</strong> personale<br />

esperienza, abbiamo voluto offrire a tutti il mezzo <strong>di</strong> sottrarsi<br />

all'imbarazzante <strong>di</strong>lemma sod<strong>di</strong>sfacendo con onore a questa<br />

necessità della vita moderna: il parlare in pubblico. Ma<br />

soprattutto abbiamo voluto soccorrere coloro ai quali la loro<br />

con<strong>di</strong>zione sociale consente meno che ad altri <strong>di</strong> de<strong>di</strong>car tempo<br />

e fatica allo stu<strong>di</strong>o e alla preparazione. Il nostro libro, utile a<br />

tutti, è per questi in<strong>di</strong>spensabile” (p. 5). Seguono alc<strong>un</strong>e veloci<br />

in<strong>di</strong>cazioni (<strong>un</strong>a paginetta e via) su come leggere, come<br />

atteggiare il corpo durante l'orazione, che espressione tenere<br />

nel volto.<br />

I <strong>di</strong>scorsi sono <strong>di</strong>visi in quattro gran<strong>di</strong> gruppi: “Vita <strong>di</strong><br />

famiglia” (fidanzamento, matrimonio, nozze d'argento, nozze<br />

d'oro, battesimo, cresima, prima com<strong>un</strong>ione, or<strong>di</strong>nazione<br />

sacerdotale, feste varie); “Discorsi f<strong>un</strong>ebri”; “Vita <strong>di</strong><br />

associazione” (circolo ricreativo, società sportiva, circolo<br />

patriottico, istituzioni varie, <strong>di</strong>scorsi vari); “Discorsi per<br />

circostanze varie”. Alc<strong>un</strong>i esempi <strong>di</strong> “circostanze varie”: “Per<br />

l'inaugurazione <strong>di</strong> <strong>un</strong> monumento ai caduti <strong>di</strong> guerra”, “Per la<br />

partenza <strong>di</strong> <strong>un</strong> collega trasferito” (con <strong>un</strong>a “Risposta del<br />

partente”), “Per il felice esito <strong>di</strong> <strong>un</strong> processo a <strong>un</strong> amico<br />

cal<strong>un</strong>niato” (con <strong>un</strong>a “Risposta dell'amico festeggiato”), “Al<br />

pranzo <strong>di</strong> ad<strong>di</strong>o a <strong>un</strong> amico che parte per per l'America” (o, in<br />

alternativa, “in onore <strong>di</strong> <strong>un</strong> amico reduce dall'America”), e così<br />

via. I “Discorsi f<strong>un</strong>ebri” sono <strong>di</strong>visi nelle seguenti tipologie:<br />

“Davanti alla salma <strong>di</strong> <strong>un</strong> amico”, “<strong>di</strong> <strong>un</strong> collega”, “del<br />

principale”, “<strong>di</strong> <strong>un</strong> superiore”, “<strong>di</strong> <strong>un</strong> subalterno”, “<strong>di</strong> <strong>un</strong> operaio<br />

morto sul lavoro”, “<strong>di</strong> <strong>un</strong> eroe civile”, “<strong>di</strong> <strong>un</strong> automobilista<br />

perito in <strong>un</strong>a corsa”, “<strong>di</strong> <strong>un</strong> alpinista perito in <strong>un</strong>'ascensione”,<br />

“<strong>di</strong> <strong>un</strong> morto in guerra”, “<strong>di</strong> <strong>un</strong> giovinetto” (<strong>un</strong>a bizzarra<br />

tassonomia delle morti, mi viene da <strong>di</strong>re…).<br />

“Ma perché”, voi insisterete, “ci parli <strong>di</strong> questo libro? E ce ne<br />

leggi dettagliatamente l'in<strong>di</strong>ce?”. Vi parlo <strong>di</strong> questo libro perché<br />

è <strong>un</strong> libro in<strong>di</strong>spensabile. Oggigiorno ness<strong>un</strong>o (quasi ness<strong>un</strong>o)<br />

scrive più <strong>di</strong>scorsi. Nelle occasioni più svariate si vedono<br />

oratori decisamente inetti improvvisare, buttar fuori qualche<br />

banalità, impappinarsi, scar<strong>di</strong>nare logica e sintassi, aggrapparsi<br />

ai luoghi com<strong>un</strong>i. Se vi capiterà <strong>di</strong> dover fare dei <strong>di</strong>scorsi, e se<br />

non siete dei Ciceroni naturali, vi consiglio <strong>di</strong> prepararvi con<br />

cura. Questo libro è <strong>un</strong>a raccolta <strong>di</strong> esempi; <strong>di</strong> esempi datati,<br />

peraltro (ma vi sfido a trovare <strong>un</strong>a raccolta recente <strong>di</strong> esempi<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>scorsi); ma pur sempre esempi. Il signor Renato Cesari,<br />

del quale non so nulla, è <strong>un</strong> compilatore senza infamia e senza<br />

lode; abbonda <strong>di</strong> retorica in certe circostanze ed è stringato e<br />

limpido in altro, con <strong>un</strong> buon senso dell'opport<strong>un</strong>ità; ha <strong>un</strong><br />

229


uon senso dei tempi, <strong>di</strong>ce quello che nelle varie circostanze va<br />

effettivamente detto, ogni tanto ha qualche guizzo d'ingegno<br />

(nella chiusa del “Dis<strong>corso</strong> per richiamare i soci d'<strong>un</strong> circolo a<br />

<strong>un</strong>a maggiore attività”, prima minaccia l'esplusione degli ignavi<br />

e poi concede: “Voglio sperare che ness<strong>un</strong>o aspetterà la pedata<br />

dell'espulsione per questa volta rimasta a mezz'aria…”, e io<br />

m'immagino l'oratore in bilico s'<strong>un</strong> piede solo).<br />

Poi, il libro certamente vi tornerebbe utile se vi saltasse in<br />

capo <strong>di</strong> raccontare <strong>un</strong>a storia ambientata negli anni Trenta. Nel<br />

primo Novecento (per tacer dell'Ottocento) la vita familiare e<br />

sociale era tutta segnata da <strong>di</strong>scorsi. Oggi, quando a <strong>un</strong> certo<br />

p<strong>un</strong>to della festa tutti cominciano a gridare “Dis-cor-so! Discor-so!”,<br />

il festeggiato per lo più si alza e <strong>di</strong>ce, se va bene (se<br />

non è ubriaco, ad esempio, o se non è terrorizzato dalla<br />

prospettiva <strong>di</strong> sposarsi l'indomani), quattro parole in croce.<br />

Settant'anni fa le cose andavano <strong>di</strong>versamente. Come vi<br />

preoccupereste, per il vostro romanzo d'epoca, <strong>di</strong> informarvi<br />

sugli avvenimenti storici, sulla moda femminile (come veste la<br />

protagonista?), sulle abitu<strong>di</strong>ni alimentari eccetera, similmente<br />

dovreste informarvi sulle modalità <strong>di</strong> esecuzione <strong>di</strong> questa<br />

allora frequentissima performance sociale: il <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>.<br />

Ma, naturalmente, tutto questo che ho detto finora l'ho detto<br />

quasi per scherzo. La verità è che volevo invitarvi a frugare<br />

nelle bancarelle dell'usato, a cercare e collezionare (<strong>di</strong> solito<br />

costano pochissimo, sono libri popolari) repertori <strong>di</strong> frasi fatte,<br />

<strong>di</strong>scorsi, lettere. Perché sono letture <strong>di</strong>vertentissime, perché<br />

portano la traccia linguistica <strong>di</strong> situazioni e relazioni sociali<br />

delle quali non abbiamo memoria personale, perché leggerli è il<br />

modo più pratico per imparare la più vieta retorica. Quella della<br />

quale dobbiamo liberarci, ma solo chi la conosce sa<br />

liberarsene.<br />

Chiacchierata numero 92<br />

Libri che insegnano a scrivere, 13. Settimana scorsa vi ho<br />

parlato <strong>di</strong> <strong>un</strong> manuale <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorsi del 1928. Questa settimana<br />

ho voglia <strong>di</strong> parlarvi <strong>di</strong> <strong>un</strong> libro che s'intitola ad<strong>di</strong>rittura<br />

Oratoria sacra, <strong>di</strong> Alfredo Bonfatti (Morcelliana 1964, pp. 233).<br />

Che naturalmente non è più in commercio, ma in qualche<br />

biblioteca, magari <strong>di</strong> seminario o vescovile, si troverà. Io l'ho<br />

comperato per 6 euro, qualche tempo fa, alla libreria<br />

Remainder's in Galleria a Milano; non ricordo se ne fossero<br />

altre copie; ma credo <strong>di</strong> no perché, quando trovo libri del<br />

230


genere, e <strong>di</strong>fficili da trovare, spesso ne prendo più <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

copia, con l'idea che prima o poi troverò qualche complice,<br />

interessato alla faccenda quanto me, a cui regalarlo.<br />

Ma qui devo raccontare <strong>un</strong> po' <strong>di</strong> fatti miei. Da qualche anno<br />

ho cominciato a tormentare i librai cattolici d'Italia. Ogni volta<br />

che avvisto <strong>un</strong>a libreria cattolica mi ci fiondo dentro, mi piazzo<br />

davanti al banco, e domando sfacciatamente: “Buongiorno. Ce<br />

l'avreste mica, <strong>un</strong> trattato <strong>di</strong> omiletica?”.<br />

L'“omiletica” sarebbe, per spiegarsi, la <strong>di</strong>sciplina che stu<strong>di</strong>a<br />

come si fanno le omelie, volgarmente dette: “pre<strong>di</strong>che”. Un<br />

nome più alla moda per l'omiletica, <strong>un</strong> po' in stile <strong>corso</strong> <strong>di</strong><br />

laurea in Scienza delle com<strong>un</strong>icazioni, potrebbe essere<br />

qualcosa come: “Teorica e tecnica della pre<strong>di</strong>cazione liturgica e<br />

pastorale”.<br />

Ora, io non so se voi frequentate le messe. Io sì. E non ne<br />

posso più, da anni, <strong>di</strong> sentire pre<strong>di</strong>che fatte male. <strong>Non</strong> parlo<br />

dei contenuti (avrei anche da ri<strong>di</strong>re sui contenuti, a volte; ma<br />

non è questo il luogo), ma della forma. Vedo preti che senza<br />

neanche saper bene l'italiano sovrabbondano (quasi per<br />

ipercorrettismo) nell'ornato; sento pre<strong>di</strong>che <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nate, con<br />

l'or<strong>di</strong>ne degli argomenti sconvolto, o ad<strong>di</strong>rittura senza né capo<br />

né coda; vedo accumulazioni <strong>di</strong> luoghi com<strong>un</strong>i (non loci<br />

comm<strong>un</strong>es, quei “p<strong>un</strong>ti <strong>di</strong> com<strong>un</strong>e accordo”, quei “minimi<br />

com<strong>un</strong>i denominatori dell'opinione” sui quali il buon oratore<br />

e<strong>di</strong>fica il proprio persuasivo <strong>di</strong>s<strong>corso</strong>: proprio luoghi com<strong>un</strong>i nel<br />

senso più banale del termine), metaforeggiamenti bizzarri,<br />

sentimentalismi fuori luogo, patetismi ri<strong>di</strong>coli. Un campionario<br />

del <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne oratorio.<br />

(Una volta il mio parroco buonanima, che peraltro era <strong>un</strong><br />

<strong>di</strong>screto pre<strong>di</strong>catore e <strong>un</strong> sanissimo pensatore, nel commentare<br />

<strong>un</strong>a parabola evangelica esclamò: “Questa parabola, è<br />

ad<strong>di</strong>rittura <strong>un</strong>'iperbole!”. E a me toccava pure stare serio).<br />

Ma vi <strong>di</strong>cevo: che tormento i librai cattolici d'Italia. Smetterei<br />

<strong>di</strong> tormentarli, vi assicuro, se <strong>un</strong>o <strong>di</strong> loro riuscisse a mettermi<br />

sotto il naso il tanto sospirato trattato <strong>di</strong> omiletica. Invece no.<br />

Niente da fare. Tirano fuori le raccolte <strong>di</strong> pre<strong>di</strong>che svolte<br />

(uguali in tutto alle raccolte “temi svolti” che saccheggiavamo<br />

alle me<strong>di</strong>e), i libri con i commenti ai Vangeli del giorno, i cdrom<br />

ipertestuali con le pre<strong>di</strong>che in scatola <strong>di</strong> montaggio;<br />

tentano <strong>di</strong> farmi abbonare alla Palestra del clero, più che<br />

centenaria rivista, a suo modo meravigliosa, che pubblica<br />

settimanalmente pre<strong>di</strong>che svolte, spiegazioni delle letture e<br />

tutto ciò che possa servire al povero prete infacondo; e alla<br />

fine, dopo tante mie insistenze, gettano le armi e <strong>di</strong>chiarano:<br />

che no, <strong>un</strong> trattato <strong>di</strong> omiletica non ce l'hanno, neanche<br />

231


vecchissimo, sono decenni che non ne vedono <strong>un</strong>o.<br />

(Ho provato a cercare anche in rete. E l'ho trovato, <strong>un</strong><br />

trattato <strong>di</strong> omiletica online: <strong>un</strong> e-book <strong>di</strong> omiletica. La cosa<br />

<strong>di</strong>vertente è che è in rumeno. Se non ci credete, andate a<br />

vedere qui:<br />

http://www.<strong>un</strong>ibuc.ro/eBooks/Teologie/omiletica/cuprins.htm<br />

).<br />

Per <strong>un</strong> paio d'anni ho lavorato accanto a <strong>un</strong> prete <strong>di</strong><br />

eccezionali qualità morali, <strong>di</strong> grande sensibilità umana e <strong>di</strong><br />

scarsissima istruzione. Questo prete si chiudeva in stu<strong>di</strong>o tutti i<br />

sabati mattina, tirava giù dallo scaffale i libri <strong>di</strong> pre<strong>di</strong>che svolte,<br />

consultava la Palestra del clero della settimana, e cominciava a<br />

darsi da fare. Che cosa faceva? Copiava. E non c'è da<br />

scandalizzarsi per questo: vorrei vedervi, io, voi, a inventarvi<br />

ogni settimana (e pensate sotto le feste!) <strong>un</strong>a pre<strong>di</strong>ca nuova. Il<br />

guaio è che quel povero prete, secondo me per <strong>un</strong> qualche<br />

oscuro senso <strong>di</strong> colpa, non aveva il coraggio <strong>di</strong> prendere la<br />

pre<strong>di</strong>ca che gli sembrasse più adatta e ben fatta tra quelle<br />

<strong>di</strong>sponibili, e <strong>di</strong> mandarla a mente. No. Lui doveva scriverla, la<br />

pre<strong>di</strong>ca. E così, con tre o quattro libri e riviste aperti davanti,<br />

penna in mano e quaderno sotto il naso, prendeva <strong>un</strong>a frase<br />

qui, <strong>un</strong>a frase lì, <strong>un</strong> concetto a destra, <strong>un</strong> exemplum a sinistra,<br />

e confezionava la sua pre<strong>di</strong>ca. Potete immaginarvi quanto<br />

coerente e comprensibile. Un vero pasticcio. Per fort<strong>un</strong>a, col<br />

tempo, prese sicurezza e smise <strong>di</strong> consultare i bignami. Oggi è<br />

<strong>un</strong> pre<strong>di</strong>catore eccellente, perché è <strong>un</strong> pre<strong>di</strong>catore semplice.<br />

Tutto questo per arrivare a <strong>di</strong>re che l'omelia, o pre<strong>di</strong>ca, è <strong>un</strong><br />

genere letterario ahimè davvero trascurato. Benché decine <strong>di</strong><br />

migliaia <strong>di</strong> preti tutte le domeniche si dannano (ma forse non è<br />

il verbo più adatto) a recitare la loro brava pre<strong>di</strong>ca; ma non<br />

ricevono (più; <strong>un</strong>a volta sì) ness<strong>un</strong>a formazione specifica, non<br />

hanno testi teorici <strong>di</strong> riferimento, ness<strong>un</strong> teorico della<br />

letteratura stu<strong>di</strong>a analizza viviseziona i testi che essi<br />

producono…<br />

Conoscere il “genere letterario omelia” è utile come è utile<br />

conoscere qual<strong>un</strong>que genere letterario. Perciò <strong>un</strong>'occhiatina a<br />

<strong>un</strong> trattatello <strong>di</strong> omiletica, se riuscite a trovarlo in biblioteca del<br />

seminario, io ve lo consiglierei. Il libro <strong>di</strong> Alfredo Bonfatti a me<br />

è sembrato bello, perché non è <strong>un</strong> "manuale pratico" ma<br />

davvero <strong>un</strong> trattatello in compen<strong>di</strong>o, <strong>un</strong>a omiletica in nuce; ed<br />

è scritto da <strong>un</strong> uomo <strong>di</strong> ampia (e anche assai laica) cultura. La<br />

questione centrale, quella che ritorna in ogni capitolo, è: quale<br />

“rapporto” e quale “tensione” vi siano tra “<strong>un</strong> messaggio<br />

<strong>di</strong>vino” e la sua “stilizzazione in <strong>un</strong> linguaggio umano, regolato<br />

dalla retorica”. E molto interessante è, all'interno <strong>di</strong> <strong>un</strong>a<br />

232


succinta storia della pre<strong>di</strong>cazione, la connessione tra la qualità<br />

del “sentimento religioso” e “le con<strong>di</strong>zioni della cultura riflessa<br />

in cui esso si esprime”. Ovvero come il sentimento religioso,<br />

nel suo mutare storico, incontri (o inventi) specifici mezzi<br />

retorici per <strong>di</strong>rsi.<br />

Chiacchierata numero 93<br />

Libri che insegnano a scrivere, 14. Scusate, la settimana<br />

scorsa non c'ero. Portate pazienza. Stavo assai poco bene.<br />

Niente <strong>di</strong> grave, parecchio <strong>di</strong> fasti<strong>di</strong>oso. Com<strong>un</strong>que tutto<br />

passato. Mi <strong>di</strong>spiace: non ho potuto farvi gli auguri <strong>di</strong> Natale. E<br />

non posso neanche <strong>di</strong>re: “Sarà per <strong>un</strong>'altra volta”, perché<br />

questa rubrica (c'è già chi prepara i festeggiamenti) al numero<br />

100 si interromperà.<br />

Quest'oggi decido <strong>di</strong> fare pubblicità a <strong>un</strong>a cosa mia e <strong>di</strong> fare<br />

pubblicità a <strong>un</strong>a pubblicità. <strong>Non</strong> so quante regole del buon<br />

giornalismo sto violando, ma suppongo che a Natale si possa<br />

(e com<strong>un</strong>que io non sono <strong>un</strong> giornalista; sono stato iscritto<br />

all'Or<strong>di</strong>ne, in qualità <strong>di</strong> pubblicista, per qualche anno; ma da<br />

almeno <strong>di</strong>eci anni non lo sono più). Come scusante posso solo<br />

<strong>di</strong>re: sono due cose, queste alle quali intendo fare pubblicità,<br />

che a modo loro insegnano a scrivere.<br />

La pubblicità alla cosa mia è questa. Fino a poco più <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

anno fa mi <strong>di</strong>vertivo a fare <strong>un</strong>a cosa che si chiamava vibrisse, e<br />

che era <strong>un</strong> “bollettino <strong>di</strong> letture e scritture” <strong>di</strong>ffuso<br />

gratuitamente, ogni settimana, via posta elettronica. Bastava<br />

chiederlo. Un numero <strong>di</strong> vibrisse conteneva, <strong>di</strong> solito, da due a<br />

quattro articoli: sulla <strong>scrittura</strong>, sulla lettura, sulla <strong>di</strong>dattica<br />

della <strong>scrittura</strong> e della lettura, eccetera; poi conteneva <strong>un</strong> certo<br />

numero, assai variabile, <strong>di</strong> notizie su incontri pubblici,<br />

conferenze, corsi e laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong>, festival, eccetera; poi<br />

conteneva recensioni e brevi saggi letterari, eccetera; poi<br />

conteneva delle rubriche, la più apprezzata delle quali era<br />

Dopo Carosello, de<strong>di</strong>cata alla <strong>scrittura</strong> per la pubblicità; e poi<br />

c'erano altre cose, eccetera eccetera. Poco più <strong>di</strong> <strong>un</strong> anno fa,<br />

quando gli abbonati erano circa duemilacinquecento, ho dovuto<br />

sospendere le spe<strong>di</strong>zioni. Ragioni tecniche, ragioni <strong>di</strong> problemi<br />

con i servizi <strong>di</strong> posta elettronica, eccetera; non mi <strong>di</strong>l<strong>un</strong>go.<br />

Fattostà che nei giorni scorsi, dopo l<strong>un</strong>ga preparazione,<br />

vibrisse è rinato. <strong>Non</strong> più nella forma <strong>di</strong> bollettino inviato via<br />

posta elettronica, ma nella forma <strong>di</strong> pubblicazione nel web.<br />

233


L'in<strong>di</strong>rizzo è: www.vibrissebollettino.net. Dentro ci trovate le<br />

cose che ho dette prima. E, naturalmente, è tutto gratis.<br />

La pubblicità alla pubblicità, invece, è questa che ora scrivo.<br />

In questi giorni ho visto sui tavoli <strong>di</strong> molte persone <strong>un</strong> piccolo<br />

libro <strong>di</strong> formato quasi quadrato, intitolato: TuttiAUTORI.<br />

Stampa il tuo libro; e sottotitolato: Guida per e<strong>di</strong>tare,<br />

stampare e pubblicare con facilità <strong>un</strong> libro in proprio. Include<br />

<strong>un</strong> CD-Rom con modelli ed esempi. Pubblicato da: E<strong>di</strong>trice<br />

Bibliografica & Lampi <strong>di</strong> stampa. Costo: 12 euro. Pagine:79.<br />

“Bene”, pensavo, vedendo questo libretto, “prima o poi bisogna<br />

che me la prenda anch'io, 'sta cosa qua”. E l'altro giorno ho<br />

provveduto.<br />

TuttiAUTORI non è <strong>un</strong> libro che spiega come si fa a e<strong>di</strong>tare,<br />

stampare e pubblicare con facilità <strong>un</strong> libro in proprio. Sì, fa in<br />

parte anche questo; ma lo fa quasi per sbaglio. Ma per capire<br />

la faccenda, bisogna prima imparare che cos'è Lampi <strong>di</strong><br />

stampa. Nel sito dell'E<strong>di</strong>trice Bibliografica si legge: “Ogni anno<br />

aumenta il numero dei libri esauriti o posti fuori catalogo dagli<br />

e<strong>di</strong>tori. Ma oggi, con la stampa <strong>di</strong>gitale si possono riproporre a<br />

prezzi convenienti, opere in tiratura limitata: perfino stampare<br />

<strong>un</strong> libro <strong>un</strong>a copia per volta. Lampi <strong>di</strong> stampa è <strong>un</strong>a società che<br />

si è costituita per offrire a tutti questo servizio innovativo. I<br />

partner dell'iniziativa sono: E<strong>di</strong>trice Bibliografica; Legoprint,<br />

<strong>un</strong>a delle maggiori aziende grafiche italiane e con <strong>un</strong> ruolo<br />

importante anche nel mercato europeo, assieme al Gruppo<br />

L.E.G.O. <strong>di</strong> cui la società fa parte; Messaggerie Libri, il<br />

maggiore <strong>di</strong>stributore italiano. Inoltre Lampi <strong>di</strong> stampa in<br />

collaborazione con la società Libuk offre la possibilità <strong>di</strong><br />

pubblicare le opere <strong>di</strong> autori esor<strong>di</strong>enti in formato elettronico (e<br />

Book) e cartaceo (print on demand e microtiratura). L'offerta<br />

prevede <strong>un</strong> pacchetto <strong>di</strong> servizi e<strong>di</strong>toriali integrati e modulari<br />

che partono dalla fornitura <strong>di</strong> servizi e<strong>di</strong>toriali <strong>di</strong> base per la<br />

pubblicazione e la ven<strong>di</strong>ta delle opere in formato elettronico<br />

con la possibilità <strong>di</strong> scegliere servizi aggi<strong>un</strong>tivi (es. e<strong>di</strong>ting)”.<br />

E TuttiAUTORI è semplicemente <strong>un</strong> manualetto che spiega<br />

come si usufruisce del servizio <strong>di</strong> microtiratura <strong>di</strong> Lampi <strong>di</strong><br />

stampa. <strong>Non</strong> che non sia scritto, eh!, nella quarta <strong>di</strong> copertina.<br />

Ma com<strong>un</strong>que mi sembra curiosa l'idea <strong>di</strong> vendere in libreria la<br />

pubblicità al proprio servizio. Fino ad oggi non mi era mai<br />

capitato, <strong>di</strong> pagare per acquistare della pubblicità. E<br />

sinceramente ci sono rimasto piuttosto male. Mi sono sentito<br />

fregato. Speravo che nel libretto ci fosse qualcosa d'altro,<br />

qualcosa in più delle pure e semplici istruzioni per usare i<br />

servizi <strong>di</strong> Lampi <strong>di</strong> stampa. E invece no.<br />

Ché poi, tra l'altro, c'è la retorica del “tutti autori” che mi dà<br />

234


sui nervi. La quarta <strong>di</strong> copertina <strong>di</strong>ce: “TuttiAUTORI è [e mi fa<br />

impressione, quella parola “AUTORI” scritta in tutto maiuscolo;<br />

come se <strong>di</strong>ventando degli “AUTORI” (<strong>di</strong> <strong>un</strong> libro<br />

autopubblicato) si <strong>di</strong>ventasse, che so: più alti, più importanti,<br />

più belli, più autoriali…] <strong>un</strong> set composto da <strong>un</strong>a guida e <strong>un</strong><br />

CD-Rom che permette a chi<strong>un</strong>que <strong>di</strong> stampare con facilità il<br />

proprio libro. Un prodotto/servizio appositamente pensato per<br />

aspiranti scrittori con <strong>un</strong> romanzo nel cassetto, stu<strong>di</strong>osi e<br />

docenti <strong>un</strong>iversitari autori <strong>di</strong> saggi e <strong>di</strong>spense, <strong>di</strong>rigenti<br />

d'azienda con relazioni da <strong>di</strong>ffondere”, e seguono le<br />

informazioni commerciali.<br />

Ora, sia chiaro che a <strong>un</strong> “aspirante scrittore con <strong>un</strong> romanzo<br />

nel cassetto”, farsi stampare il libro da Lampi <strong>di</strong> stampa è più o<br />

meno come farselo stampare dalla copisteria all'angolo. Sarà<br />

<strong>un</strong> lavoro fatto meglio, per carità. Ci sarà la pubblicità nel sito<br />

www.lampi<strong>di</strong>stampa.it. Il libro (se non ho capito male) sarà<br />

reso <strong>di</strong>sponibile presso InternetBookShop (www.ibs.it), la più<br />

nota web-libreria italiana. Ma tutto questo serve a poco, molto<br />

poco. Sicuramente non serve a <strong>di</strong>ventare “autori”.<br />

Quanto agli “stu<strong>di</strong>osi e docenti <strong>un</strong>iversitari, <strong>di</strong>rigenti<br />

d'azienda” eccetera: probabilmente Lampi <strong>di</strong> stampa è per loro<br />

<strong>un</strong> ottimo servizio. <strong>Non</strong> l'<strong>un</strong>ico in Italia, peraltro.<br />

Buon anno nuovo.<br />

Chiacchierata numero 94<br />

Libri che insegnano a scrivere, 15. Duccio Demetrio è <strong>un</strong><br />

professore dell'Università statale <strong>di</strong> Milano che da tempo si<br />

occupa <strong>di</strong> pedagogia della memoria e <strong>di</strong> educazione degli<br />

adulti. Un suo libro che è stato molto letto tra chi si occupa <strong>di</strong><br />

<strong>scrittura</strong> è Raccontarsi. L'autobiografia come cura <strong>di</strong> sé<br />

(Raffaello Cortina 1996, 13 euro): <strong>un</strong>a bella introduzione alla,<br />

app<strong>un</strong>to, pedagogia della memoria, e al racconto<br />

autobiografico. Demetrio ha girato attorno a questi temi in<br />

parecchi libri: alc<strong>un</strong>i <strong>di</strong> taglio <strong>di</strong>vulgativo (come quello citato),<br />

altri più accademici, altri più bizzarri e stravaganti. Tra questi<br />

ultimi (che sono quelli in fondo più interessanti) citerei: Di che<br />

giar<strong>di</strong>no sei? Conoscersi attraverso <strong>un</strong> simbolo (Meltemi 2000,<br />

23 euro) Album <strong>di</strong> famiglia. Scrivere i ricor<strong>di</strong> <strong>di</strong> casa (Meltemi<br />

2002, 24 euro), due libri riccamente e suggestivamente<br />

illustrati che propongono, in maniera molto pratica e - insieme<br />

- con profon<strong>di</strong>tà teorica, dei percorsi <strong>di</strong> memoria, conoscenza<br />

235


<strong>di</strong> sé, racconto e <strong>scrittura</strong>.<br />

Ma quest'oggi vorrei parlare in particolare del più bizzarro e<br />

stravagante <strong>di</strong> tutti i libri <strong>di</strong> Duccio Demetrio: Il gioco della<br />

vita. Kit autobiografico. Trenta proposte per il piacere <strong>di</strong><br />

raccontarsi (Guerini e Associati 1999, 16 euro). In effetti non si<br />

tratta <strong>di</strong> <strong>un</strong> puro e semplice libro; forse non si tratta neanche,<br />

propriamente parlando, <strong>di</strong> <strong>un</strong> libro, ma piuttosto <strong>di</strong> <strong>un</strong><br />

“quaderno attivo” (come quelli che usavamo alle scuole<br />

elementari, sì).<br />

Ma proce<strong>di</strong>amo con or<strong>di</strong>ne.<br />

Il “quaderno” contiene trenta proposte <strong>di</strong> esercizi, o giochi, <strong>di</strong><br />

memoria. Alc<strong>un</strong>i sono molto semplici (da descrivere; da fare, è<br />

<strong>un</strong> altro paio <strong>di</strong> maniche). Ad esempio il gioco numero 3, “La<br />

prima volta che…”, propone <strong>di</strong> rievocare alc<strong>un</strong>e “prime volte”:<br />

“La prima volta che vi siete accorti <strong>di</strong> essere al mondo, che<br />

avete pensato a qualche cosa <strong>di</strong> importante, che avete fatto<br />

qualche cosa degno <strong>di</strong> nota per voi o per gli altri, che avete<br />

voluto bene a qualc<strong>un</strong>o, che vi siete sentiti liberi, che avete<br />

provato dolore, che avete scoperto l'ingiustizia, che avete<br />

scoperta la bellezza…”, e così via. Oppure il gioco numero 17,<br />

quello delle “coincidenze”: “<strong>Non</strong> tutto ciò che ci accade è frutto<br />

della volontà o del caso. Talvolta sembra si stabilisca <strong>un</strong>a<br />

curiosa alleanza tra la prima e il secondo, come se si venissero<br />

incontro a nostro vantaggio o svantaggio. È il momento allora<br />

<strong>di</strong> passare in rassegna le circostanze in cui avete provato<br />

questa sensazione, piacevole o spiacevole, che possiamo anche<br />

chiamare senso del destino…”.<br />

Sono esercizi molto semplici, d<strong>un</strong>que, apparentemente anche<br />

banali. Ma la cosa interessante è la proposta <strong>di</strong> Demetrio <strong>di</strong><br />

affrontare questi esercizi non come esercizi, ma come “giochi”:<br />

da farsi, per <strong>di</strong> più, in società. Con gli amici. Con i familiari.<br />

Con i compagni <strong>di</strong> <strong>un</strong> qualche tipo <strong>di</strong> esperienza (i vostri<br />

colleghi, i partecipanti alle attività <strong>di</strong> <strong>un</strong>'associazione…). Il<br />

“quaderno” non fa che proporre <strong>un</strong>a trentina <strong>di</strong> “giochi” (ma c'è<br />

<strong>un</strong>'utile introduzione che spiega la logica <strong>di</strong> tutta la faccenda),<br />

toccherà poi all'inventiva del gruppo allargarli, variarli,<br />

abbandonarli e riprenderli, mescolarli, stravolgerli e<br />

reinventarli.<br />

E sono giochi utili alla <strong>scrittura</strong>. <strong>Non</strong> solo alla <strong>scrittura</strong> <strong>di</strong> sé,<br />

autobiografica, intimistica. Ma alla <strong>scrittura</strong> tout-court. <strong>Non</strong> per<br />

niente quasi ogni gioco fa venire in mente <strong>un</strong>'opera letteraria<br />

che ne sembra per così <strong>di</strong>re l'esemplificazione. Il “gioco della<br />

prima volta” richiama irresistibilmente il celebre Mi ricordo <strong>di</strong><br />

Georges Perec (Bollati Boringhieri 1998, 13 euro), libro tutto<br />

composto con minimi, irrilevanti e importantissimi ricor<strong>di</strong>: “Mi<br />

236


icordo che <strong>un</strong> amico <strong>di</strong> mio cugino Henri quando preparava gli<br />

esami restava tutto il giorno in vestaglia. - Mi ricordo del pane<br />

giallo che c’è stato per qualche tempo dopo la guerra. - Mi<br />

ricordo i vecchi numeri dell’Illustration. - Mi ricordo che <strong>un</strong><br />

giorno mio cugino Henri visitò <strong>un</strong>a fabbrica <strong>di</strong> sigarette e ne<br />

riportò <strong>un</strong>a sigaretta l<strong>un</strong>ga come cinque sigarette. - Mi ricordo<br />

<strong>di</strong> avere ottenuto al Parc des Princes <strong>un</strong> autografo <strong>di</strong> Louison<br />

Bobet. - Mi ricordo gli spettacoli del giovedì pomeriggio al<br />

cinema Royal-Passy. C’era <strong>un</strong> film che si intitolava I tre<br />

desperados, e <strong>un</strong> altro, Le cinque pallottole d’argento, che<br />

prevedeva cinque episo<strong>di</strong>. - Mi ricordo i foulard in seta <strong>di</strong><br />

paracadute”: e così via, in <strong>un</strong>o sprofondamento nella memoria<br />

che solo a prima vista può apparire futile e del tutto privato:<br />

bastano due o tre pagine perché il testo ci rapisca e ci porti con<br />

sé fino alla fine del libro (e, tanto per far vedere che<br />

l'imitazione non è <strong>un</strong>a pratica sconsigliabile, vale la pena <strong>di</strong><br />

citare l'amabilissimo Mi ricordo <strong>di</strong> Matteo B. Bianchi, appena<br />

pubblicato da Fernandel, 10 euro).<br />

Mentre il “gioco delle coincidenze” fa venire in mente, senza<br />

scampo, La musica del caso <strong>di</strong> Paul Auster (Guanda 2003, 7,50<br />

euro), romanzo tutto costruito (come parecchi scritti <strong>di</strong> Auster,<br />

a <strong>di</strong>re il vero, ad esempio Esperimento <strong>di</strong> verità, Einau<strong>di</strong> 2001,<br />

9,30 euro) proprio come <strong>un</strong> impressionante avvitamento su sé<br />

stessi, se così posso <strong>di</strong>re, dell'intenzione e del caso.<br />

Il libro <strong>di</strong> Demetrio contiene poi anche <strong>un</strong> <strong>di</strong>vertentissimo ed<br />

emozionantissimo “Gioco dell'oca”. Che è <strong>un</strong> normalissimo<br />

gioco dell'oca, solo che, come spiegano le istruzioni, “ogni<br />

casella è contrassegnata da <strong>un</strong>a parola e da <strong>un</strong>'immagine; il<br />

giocatore deve raccontare l'episo<strong>di</strong>o della sua vita che quella<br />

parola gli rievoca. <strong>Non</strong> è il gioco della verità: si può raccontare<br />

anche <strong>un</strong>a storia inventata, purché risulti verosimile agli altri<br />

giocatori”. Io l'ho collaudato giocando con <strong>un</strong> gruppo <strong>di</strong> amici,<br />

e sono venute fuori cose sorprendenti. Ci siamo <strong>di</strong>vertiti molto,<br />

e ci siamo raccontati con leggerezza, tranquillità, e <strong>un</strong> pizzico<br />

d'invenzione, cose <strong>di</strong> noi che, altrimenti, sarebbero rimaste<br />

nascoste nei doppi fon<strong>di</strong> dei cassetti interiori…<br />

Duccio Demetrio ha anche fondato ad Anghiari, insieme a<br />

Saverio Tutino, <strong>un</strong>a ormai celebre “Libera <strong>un</strong>iversità<br />

dell'autobiografia”, sulla quale si possono trovare<br />

abbondantissime notizie nel sito www.lua.it.<br />

237


Chiacchierata numero 95<br />

Libri che insegnano a scrivere, 16. Anche questa settimana,<br />

come ho fatto altre volte, vi proporrò <strong>un</strong> paio <strong>di</strong> libri che,<br />

almeno a prima vista, con lo scrivere hanno poco che fare. Il<br />

primo è <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> Massimo Picozzi e Angelo Zappalà e<br />

Massimo Picozzi; s'intitola Criminal profiling. Dall'analisi della<br />

scena del delitto al profilo psicologico del criminale, è<br />

pubblicato da McGraw-Hill (pp. 412, euro 29). Dei due autori,<br />

almeno Picozzi dovreste averlo già sentito nominare: è stato<br />

perito in alc<strong>un</strong>i gran<strong>di</strong> processi recenti, è passato (mi <strong>di</strong>cono)<br />

qualche volta in televisione, insieme a Carlo Lucarelli ha scritto<br />

<strong>un</strong> libro intitolato Serial killer. Storie <strong>di</strong> ossessione omicida<br />

(Oscar Mondadori, euro 8.40) che, per gli appassionati del<br />

genere, è sicuramente <strong>un</strong>a lettura interessante.<br />

Ma, a <strong>un</strong>o che voglia raccontare storie, io raccomanderei<br />

soprattutto <strong>di</strong> leggere Criminal profiling. Innanzitutto spiego<br />

che cos'è. Il criminal profiling è <strong>un</strong> insieme <strong>di</strong> meto<strong>di</strong> e<br />

procedure che permette <strong>di</strong> ricavare dall'esame della scena <strong>di</strong><br />

<strong>un</strong> delitto informazioni sulle caratteristiche psicologiche<br />

dell'autore del delitto stesso. Così come, per <strong>di</strong>re, dalla<br />

<strong>di</strong>mensione delle impronte <strong>di</strong> scarpe la polizia scientifica può<br />

ricavare <strong>un</strong>a stima dell'altezza del criminale (sempre che quelle<br />

impronte siano state impresse dalla scarpa del criminale),<br />

similmente l'esperto <strong>di</strong> criminal profiling può ipotizzare, ad<br />

esempio, se il criminale era in quel momento sobrio o in preda<br />

a qualche droga, se è <strong>un</strong> tipo meto<strong>di</strong>co o casinista, se il delitto<br />

è stato accuratamente preparato o no, se la personalità del<br />

criminale è patologica o no, eccetera. Incrociando le ipotesi<br />

(che sono solo ipotesi, sia chiaro) dell'esperto <strong>di</strong> criminal<br />

profiling con le ipotesi (che sono anch'esse ipotesi) della polizia<br />

scientifica, spesso si ricavano informazioni utili alle indagini.<br />

Se volete farvi <strong>un</strong>'idea approssimativa, ma non inesatta, del<br />

lavoro dell'esperto <strong>di</strong> criminal profiling, potete andare<br />

all'e<strong>di</strong>cola e comperare Julia, <strong>un</strong> fumetto della Bonelli che ha<br />

per protagonista Julia Kendall, <strong>un</strong>a criminologa consulente<br />

dell'immaginaria procura <strong>di</strong> Garden City. Il personaggio <strong>di</strong> Julia<br />

Kendall, inventato da Giancarlo Berar<strong>di</strong>, è molto bello; e nel<br />

complesso il fumetto è, secondo me, <strong>un</strong>o dei migliori in<br />

circolazione. Nel numero attualmente in e<strong>di</strong>cola, intitolato La<br />

storia <strong>di</strong> Jason, Julia Kendall fa <strong>un</strong> vero e proprio lavoro <strong>di</strong><br />

criminal profiling osservando il filmato <strong>di</strong> <strong>un</strong> delitto (registrate<br />

da <strong>un</strong> telecamera <strong>di</strong> sorveglianza), parlando con i familiari e i<br />

colleghi <strong>di</strong> lavoro del criminale, stu<strong>di</strong>andone l'ambiente sociale<br />

238


e così via. Si tratta <strong>di</strong> <strong>un</strong> caso <strong>un</strong> po' particolare, perché<br />

l'identità del criminale è nota fin dall'inizio; ma spesso ciò che<br />

si chiede all'esperto <strong>di</strong> criminal profiling non è solo: “Chi è il<br />

criminale?”, ma è anche, e credo soprattutto: “Come agirà ora<br />

il criminale? Che cosa possiamo aspettarci da lui?”.<br />

Torniamo al libro <strong>di</strong> Picozzi e Fragalà. Il libro si apre con<br />

<strong>un</strong>'appassionata <strong>di</strong>fesa del criminal profiling (come <strong>un</strong> po' tutte<br />

le <strong>di</strong>scipline criminologiche, è considerato da molti investigatori<br />

come <strong>un</strong>a roba da appren<strong>di</strong>sti stregoni); prosegue raccontando<br />

la storia del criminal profiling e della sua progressiva<br />

accettazione da parte degli investigatori, <strong>di</strong>ffondendosi<br />

nell'esposizione <strong>di</strong> qualche caso celebre (ci fu qualche<br />

criminologo che riuscì ad<strong>di</strong>rittura ad azzeccare il colore della<br />

cravatta del criminale…); e infine arriva al sodo. Alle tecniche.<br />

Ed è questo che, a chi vuole raccontare storie, interessa <strong>di</strong> più.<br />

Una storia avviene sempre in <strong>un</strong> luogo (o in più luoghi).<br />

L'esperto <strong>di</strong> criminal profiling lavora su <strong>un</strong> luogo dove “<strong>un</strong>a<br />

storia è avvenuta”, e dal luogo ricava informazioni sulla storia.<br />

Sulla sua <strong>di</strong>namica, sui personaggi (il criminale, ma anche la<br />

vittima: <strong>un</strong> intero capitolo è de<strong>di</strong>cato alla “vittimologia”), sugli<br />

avvenimenti collaterali che possono aver provocato, aiutato,<br />

intralciato l'avvenimento principale. Chi vuole raccontare storie<br />

deve fare il lavoro inverso. Ha la storia, deve costruire le<br />

relazioni tra la storia che ha in mente e il luogo (i luoghi) dove<br />

essa avviene. Certo: non tutte le storie raccontano crimini. Ma<br />

l'accuratezza scientifica che l'esperto <strong>di</strong> criminal profiling mette<br />

nello "smontare" la scena del delitto, il narratore deve metterla<br />

nel "costruire" la scena della sua <strong>narrazione</strong>.<br />

Durante i laboratori <strong>di</strong> <strong>scrittura</strong> che conduco, spesso provoco i<br />

partecipanti, durante la <strong>di</strong>scussione dei loro racconti,<br />

domandando: “Ma <strong>di</strong> che colore ha i calzini, questo<br />

personaggio? E quest'altro, sotto i pantaloni porta mutande<br />

elastiche o braghette <strong>di</strong> tela?”. Ecco. Queste sono domande<br />

che <strong>un</strong> qualsiasi esperto <strong>di</strong> criminal profiling si pone. E che si<br />

pone anche qual<strong>un</strong>que narratore esperto. Magari non sa<br />

nemmeno che se le pone: ha <strong>un</strong> tale senso della realtà, che<br />

istintivamente mette ogni cosa al posto giusto. Però se le pone.<br />

Fate <strong>un</strong> esercizio. Andatevi a leggere le pagine <strong>di</strong> Delitto e<br />

castigo dove Raskolnicov ammazza la vecchia. Poi prendete<br />

carta e matita, e provate a <strong>di</strong>segnare la scena che potrebbero<br />

essersi presentata agli investigatori. E, <strong>di</strong> nuovo, a ritroso,<br />

provate a immaginare (come se foste già esperti <strong>di</strong> criminal<br />

profiling) quali informazioni sulla personalità dell'ignoto<br />

criminale potevano raccogliere, dalla scena del delitto, questi<br />

investigatori; e quale profilo psicologico del criminale essi<br />

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potevano ipotizzare.<br />

Poi, naturalmente, confrontate questo profilo psicologico con<br />

ciò che, avendo letto per intero (mi raccomando) Delitto e<br />

castigo, sapete sul conto <strong>di</strong> Raskolnicov. Al <strong>di</strong> là del suo<br />

aspetto vagamente macabro, vi assicuro che è <strong>un</strong> esercizio<br />

interessante.<br />

Per l'altro libro mi restano poche righe. S'intitola Raccontare<br />

delitti. Il ruolo della narrativa nella formazione del processo<br />

criminologico; a cura <strong>di</strong> A. Francia, A. Verde e J. Birkhoff,<br />

Franco Angeli, pp. 221, euro 17.50. È <strong>un</strong> po' la controprova <strong>di</strong><br />

ciò che vi ho detto finora: <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> saggi che raccontano<br />

come l'abilità immaginativa dei narratori abbia arricchito<br />

l'immaginazione dei criminologi. Ma magari ne parlo <strong>un</strong>'altra<br />

volta.<br />

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