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<strong>Dalle</strong> <strong>certezze</strong><br />
<strong>alla</strong> <strong>Certezza</strong><br />
Custode di Terra Santa<br />
di Pierbattista Pizzab<strong>alla</strong><br />
«Il padre Lot si recò dal padre Giuseppe a dirgli: ‘Abba, io faccio come posso la mia<br />
piccola liturgia, il mio piccolo digiuno, la preghiera, la meditazione, vivo nel raccoglimento,<br />
cerco di essere puro nei pensieri. Che cosa devo fare ancora?’. Il vecchio,<br />
alzatosi, aprì le braccia verso il cielo, e le sue dita divennero come dieci fiaccole.<br />
‘Se vuoi – gli disse – diventa tutto di fuoco’.» 1<br />
25<br />
«La realtà è Cristo». San Paolo lo afferma con disinvoltura, come la cosa più scontata<br />
che esiste all’universo, su cui non c’è nulla da discutere.<br />
Lo fa parlando ai Colossesi (Col 2,16), nella parte centrale della sua lettera. All’inizio,<br />
come sempre, c’è la parte dogmatica, dove Paolo parla, come spesso fa, di ciò<br />
che gli sta più a cuore, ovvero della salvezza che ci è data in Cristo. Alla fine, come<br />
sempre, c’è la parte parenetica, dove descrive la vita nuova dei salvati. Nella parte<br />
centrale della lettera vi è una sezione che qualche Bibbia intitola: «Fare attenzione<br />
agli errori», ed è come una porta che ci aiuta a passare d<strong>alla</strong> prima <strong>alla</strong> seconda<br />
parte.<br />
Di quali errori parla? Si riferisce probabilmente a una falsa religiosità, che è solo<br />
parvenza, solo apparenza della vera fede, e non serve ad altro che a soddisfare la<br />
carne (Col 2,23), perché dove l’uomo basta a se stesso, non c’è bisogno di salvezza,<br />
e manca l’accesso <strong>alla</strong> croce di Cristo. E dunque Dio cosa può fare?<br />
Questo è vivere nell’apparenza. La realtà, invece, è Cristo. Se la realtà è Cristo, allora<br />
noi siamo persone bisognose della sua salvezza, salvate, che non hanno bisogno<br />
di fare distinzione tra questo o quello, o di escludere niente d<strong>alla</strong> vita. Tutto è<br />
in Lui.<br />
Paolo parla di due mondi, di due modi di concepire la vita, la fede, e tutto il resto:<br />
quello delle <strong>certezze</strong> – dove sai cosa fare e cosa non fare, «non prendere, non gustare,<br />
non toccare» (Col 2,21) –, e quello della <strong>Certezza</strong>, dove non necessariamente<br />
sai cosa fare, ma accade che semplicemente ricevi la Vita. È sempre Paolo a dirlo:<br />
chi si stringe al capo, riceve sostentamento e coesione, e cresce secondo il volere di<br />
Dio (Col 2,19). È il mondo della salvezza.<br />
Il legame tra realtà e libertà<br />
Ed è significativo che qui, dentro questo discutere tra reale e apparenza, Paolo at-
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<strong>Dalle</strong> <strong>certezze</strong><br />
<strong>alla</strong> <strong>Certezza</strong><br />
tiri il nostro sguardo su un legame fondamentale, ovvero quello tra realtà e libertà.<br />
Come dire: le <strong>certezze</strong> portano all’apparenza, la <strong>Certezza</strong> dona la libertà. Meglio<br />
ancora: l’apparenza, il modo di vivere che parte da se stessi, porta <strong>alla</strong> schiavitù,<br />
perché riporta a se stessi, e il circolo diventa vizioso. Il reale, invece, è possibilità di<br />
libertà, perché apre <strong>alla</strong> vita intera. La libertà è capacità di un’apertura totale nella<br />
propria relazione con il mondo. Gesù ne parla nel Discorso della montagna: se<br />
qualcuno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra, se vuole la tunica,<br />
dagli anche il mantello, se ti costringe a fare con lui un miglio, tu fanne due (cfr<br />
Mt 5,39). E annuncia così una libertà da tutto e apre così la porta a una relazione<br />
«totale» con tutto ciò che è altro, con il mondo. Tale libertà fa accogliere il reale, e<br />
rende sempre più liberi. È un dinamismo di vita che infrange le piccole <strong>certezze</strong><br />
delle nostre sintesi parziali.<br />
Tra questi due mondi – quello che è Cristo e quello che non è tutto il resto (o che è<br />
solo parvenza di realtà, direbbe Paolo) – bisogna solo passare per un abisso, e<br />
l’abisso è la croce di Cristo, cioè il fuoco del padre Giuseppe. È come se ci venisse<br />
chiesto di lasciare un mondo, fatto del mio piccolo digiuno, della mia piccola liturgia,<br />
per consegnarsi, nudi, <strong>alla</strong> vita e quindi allo Spirito, fuoco di Dio.<br />
Ma chi può fare questo? Solo chi non sa cosa significa amare non ha paura di questo<br />
fuoco. E solo chi va fino in fondo nell’avventura dell’amore sa che non esiste<br />
altro di reale se non questo bruciare, che tutto ricapitola in sé. Perché si tratta<br />
semplicemente di perdere tutto, di giocarsi tutto per rispondere <strong>alla</strong> chiamata <strong>alla</strong><br />
vita. Di perdersi nell’Altro e nell’altro, per cui, se al centro non ci sei più tu, metti in<br />
gioco la tua identità. Se ami, chi sei? Come definire qualcuno che vive per qualcun<br />
altro? Come definire qualcuno che si dona tutto? Cosa resta di lui?<br />
Anche Gesù ha avuto lo stesso «problema». Nei primi passi della Sua vita pubblica,<br />
il Padre stesso si è impegnato a definire la Sua identità: Tu sei mio Figlio, il prediletto,<br />
l’amato. E anche in altri momenti, questa identità è stata riaffermata. Sulla<br />
croce, tuttavia, il Padre tace, e Gesù non è più nessuno. L’uomo che ama è un uomo<br />
perso, che entra nel silenzio di Dio e nel silenzio della storia. Rimane solo l’amore,<br />
rimane il fuoco.<br />
Chi ama è questo. Ma chi è l’altro? L’altro è colui che finalmente può nascere, che<br />
nell’amore di chi ama trova finalmente la possibilità di esistere. Nel perdersi dell’altro,<br />
lui trova l’accoglienza che lo fa vivere. L’altro è qualcuno che io non costringo<br />
a vivere per me: la mia libertà permette la sua, in qualche modo la genera.<br />
Chi vive a Gerusalemme sa che tutto è nato qui, che la croce è madre del mondo<br />
reale. Madre, ovvero spazio vuoto di sé che permette l’esistenza dell’altro, così<br />
com’è. Che lo riconosce e si offre di custodirlo comunque, prima di chiedergli qualsiasi<br />
cosa. E solo la croce può essere questo, perché è sul Golgota, per la prima<br />
volta e per sempre, che la morte ha aperto l’accesso <strong>alla</strong> vita. Dunque solo la croce<br />
è madre, non c’è altra fecondità possibile: se non si ama così, non si genera nulla.<br />
Trovare la via<br />
Ma quando e come l’uomo può abitare tutto il reale, senza fuggire nulla? Ebbene,<br />
noi possiamo stare così nella vita solo a una condizione, ovvero che la fede diventi
Il reale ogni volta<br />
ci sfida sul senso<br />
e sull’affidabilità<br />
della promessa<br />
in cui crediamo.<br />
davvero via. «Via» si autodefinisce Gesù stesso (Gv 14,6), facendoci intuire che solo<br />
dentro la relazione con Lui abbiamo libero accesso <strong>alla</strong> vita del Padre.<br />
Perché il reale è minaccioso, e ci viene incontro sempre come una domanda. Ogni<br />
volta ci sfida sul senso e sull’affidabilità della promessa in cui crediamo, quella per<br />
cui Dio avrebbe salvato tutta la storia dell’uomo.<br />
È minaccioso il reale che sta fuori di noi: un mondo che va troppo in fretta, che<br />
non ci aspetta, un mondo violento, un mondo impostato su una logica che ci<br />
sfugge, un mondo che sentiamo estraneo e poco ospitale…<br />
È minaccioso anche il mondo che sta dentro di noi, per cui siamo noi stessi i primi<br />
a non capirci, a non accoglierci, lasciandoci ferire da emozioni devastanti, desideri<br />
inappagabili, paure…<br />
E quando queste due minacce si incontrano, non è raro il caso che ci si senta per lo<br />
meno smarriti. Lì giunge la fede che ci aiuta a porre la giusta questione.<br />
La fede deve innanzitutto stimolarci a porci la domanda, perché la prima via di<br />
fuga da questa tensione è fingere che non esista, e stordirci in altro. Tutto può diventare<br />
una via di fuga…<br />
La domanda corretta non è come uscirne il prima possibile, senza farsi troppo del<br />
male, ma come questo reale, a volte così minaccioso, incontrandomi, diventa la<br />
strada che mi porta a Dio. Tutto l’umano, tutto il reale diventa questa strada.<br />
Se questo non accade, vuol dire che la morte non è stata vinta, e vana è la nostra<br />
fede, che si riduce a quella religiosità apparente di cui ci parlava Paolo: sembriamo<br />
salvati, ma la vita rimane una minaccia. Ma non è così.<br />
A volte noi abbiamo un’idea vaga e astratta di salvezza. Ne parliamo come se fosse<br />
qualcosa che accadrà un giorno, per cui, nell’attesa, si cerca di fare il meglio che si<br />
può. Non è questa la salvezza cristiana. I Vangeli ci parlano di una salvezza molto<br />
concreta, e di un Dio che arriva esattamente dove lo scorrere della vita si è ingorgato.<br />
Lui ne riapre il passaggio e la vita ritorna a scorrere. La vita cambia non perché<br />
chi crede è esente d<strong>alla</strong> complessità e dal dramma, ma perché, sempre e<br />
ovunque, la strada è aperta.<br />
La salvezza non è qualcosa che accade nonostante quello che ci capiti. Non è neppure<br />
il fatto che sappiamo rassegnarci ad accogliere la realtà con una particolare<br />
pazienza e sottomissione. La salvezza è che dentro questi eventi io trovo la strada<br />
per incontrare Dio, che essi stessi sono questa strada, che questa è la strada per<br />
me… E questo accade ogni volta, in modo nuovo, in modo unico e personale: è la<br />
mia storia con Lui.<br />
Se la fede non è questo, se rimane rilegata a qualche pratica o a qualche momento<br />
della giornata, se non diventa uno sguardo attento e curioso sulla vita, se quindi<br />
non trasforma tutta l’esistenza, la realtà sarà sempre una minaccia. E anche l’altro<br />
lo sarà. Perché niente di ciò che accade porta in sé alcuna garanzia di vita. Solo chi<br />
la vita l’ha già persa e ritrovata avrà il gusto di cercare ancora le tracce della Pasqua<br />
nel nuovo che ci attende.<br />
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Il reale diventa certezza quando la fede diventa via. Anzi: in questo senso la fede è<br />
certezza, perché è via, perché riapre ogni possibile cammino.<br />
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<strong>Dalle</strong> <strong>certezze</strong><br />
<strong>alla</strong> <strong>Certezza</strong><br />
È bello ascoltare la Parola con questa chiave, trovando in essa la via, la risposta <strong>alla</strong><br />
storia dell’uomo che ha bisogno di salvezza. La Bibbia è la storia di un mondo reale,<br />
come il nostro, oggi: vi troviamo gli stessi problemi, le stesse fatiche, lo stesso peccato,<br />
gli stessi desideri, le stesse minacce. E vi troviamo la via che Dio ha aperto per<br />
questo uomo e per questa storia, indicandogli con pazienza che se si abbandona<br />
<strong>alla</strong> sapienza di Dio, se accetta di fidarsi senza costruirsi un altro mondo, la storia<br />
diventa il luogo dove incontrarsi.<br />
Se l’uomo scopre il grido che lo abita e che abita la storia, se ha l’audacia di non<br />
tenerselo chiuso nel cuore, ma di gridarlo a Lui, questa è la strada.<br />
Allora si fa la scoperta strana di un Dio che ci ha preceduti, che aveva da sempre<br />
una conoscenza così intima delle sue creature, che ha voluto per tutto ciò che li<br />
abita aprire una strada. Dio ha risposto e risponde. Si fa la scoperta strana che il<br />
reale, così com’è, è ciò che ci è necessario per questo incontro con Lui. È la sapienza<br />
della Pasqua, quella che Gesù insegna ai discepoli di Emmaus: «Non bisognava<br />
che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc<br />
24,27).<br />
Celebrare la via<br />
Allora non rimane che celebrare.<br />
Nella Bibbia, ogni uomo che incontra sulla propria strada la salvezza di Dio, si<br />
ferma a celebrare: costruisce steli o altari, dà un nome al luogo dove la salvezza è<br />
accaduta e, se può, ci ritorna per fare memoria. Perché gli è accaduto qualcosa che<br />
non si aspettava, e cioè che esattamente sulla strada del proprio fuggire, ritrova<br />
Dio, e ritrova se stesso. Dio sa trasformare anche le nostre fughe in cammini di<br />
Esodo: a Giacobbe, a Elia, e a molti altri è successo proprio questo.<br />
La verità nuova di chi si converte <strong>alla</strong> vita è il fermarsi a celebrare la salvezza,<br />
segno di un passaggio da una vita che basta a se stessa a un’altra che si riceve e<br />
non può far altro, una vita che può solo accogliere ciò che radicalmente non è e<br />
non ha, e per cui radicalmente è creata. Con lo stupore di chi vede che la salvezza è<br />
accaduta qui, ora, a me; e con la fede di chi sa vedere che questa salvezza è all’opera<br />
ovunque, e sa farsi voce di tutta la storia, di tutti i popoli e di tutto il<br />
creato.<br />
Celebrare, dunque, non è solo il modo cristiano – e umano – per stare dentro il<br />
reale, ma è anche il compimento di ogni esistenza. L’uomo è creato per questo, e<br />
questa sarà l’opera che ci attende in Cielo: basta leggere l’Apocalisse per rendersene<br />
conto.<br />
Celebrare è riconoscere il primato e l’iniziativa di un Altro, e la Sua continua, fedele<br />
offerta di entrare in relazione con noi, in ogni momento e in ogni luogo di questa<br />
storia. Celebrando diciamo la verità di Dio, e la nostra, e ci rimettiamo al posto giusto,<br />
dentro la relazione con Lui, e tra di noi; salvati d<strong>alla</strong> tentazione di essere noi
Se l’uomo scopre il<br />
grido che lo abita e<br />
che abita la storia,<br />
se ha l’audacia di<br />
non tenerselo<br />
chiuso nel cuore, ma<br />
di gridarlo a Lui,<br />
questa è la strada.<br />
stessi il centro di tutto, salvati dall’idolatria di chi al centro ci mette tutt’altro...<br />
E celebrare è anche il movimento contrario in cui tutto, misteriosamente, viene restituito<br />
a Dio, e quindi salvato. Tutto viene trascinato dentro un movimento di gratitudine<br />
e di festa e, in qualche modo, viene rigenerato <strong>alla</strong> verità di se stesso, del<br />
proprio essere da Dio e per Dio.<br />
Celebrare è anche il modo di Gesù di stare nella storia: quante volte Lui prende in<br />
mano un pezzetto di umanità, e rende grazie, benedice e offre a Dio. Lo stesso farà<br />
di se stesso, della propria vita, insegnandoci che il sacrificio di se stessi è il cuore e<br />
il senso di ogni liturgia, è dare la vita per amore<br />
Qui, in Terra Santa, i cristiani non possono fare molto altro. E sembrerebbe ad alcuni<br />
una testimonianza monca, quella che non può più di tanto avventurarsi sulle<br />
strade dell’annuncio esplicito del Vangelo.<br />
Ma non è proprio così.<br />
Con la sua vocazione quasi forzatamente contemplativa, qui la Chiesa celebra la<br />
salvezza nei luoghi della salvezza, e tiene vivi i luoghi dove tutto è accaduto, continuando<br />
ad ascoltare il messaggio vivo di cui ancora i luoghi parlano.<br />
E mentre ovunque si cerca, giustamente, di riprendere negoziati, di trovare strategie<br />
nuove per arrivare <strong>alla</strong> pace, noi, semplicemente, prima di ogni altra cosa, celebriamo.<br />
Ovvero annunciamo che la pace è già venuta, cantiamo una salvezza già donata. E,<br />
celebrandola, ce ne imbeviamo, per portarla nella nostra carne, stupendoci noi per<br />
primi della sua efficacia in noi e intorno a noi, della sua capacità di fare nuove<br />
tutte le cose.<br />
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1<br />
L. Mortari (a cura di), Vita e detti dei Padri del deserto, Città Nuova, Roma 1975, p. 274