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ORLANDO
FURIOSO
500 ANNI
COSA VEDEVA ARIOSTO
QUANDO CHIUDEVA
GLI OCCHI
ORLANDO FURIOSO 500 ANNI
COSA VEDEVA ARIOSTO QUANDO CHIUDEVA GLI OCCHI
Ferrara, Palazzo dei Diamanti
24 settembre 2016 / 8 gennaio 2017
Mostra organizzata da
Fondazione Ferrara Arte
Ministero dei beni e delle
attività culturali e del turismo
a cura di
Guido Beltramini
Adolfo Tura
Comitato scientifico
Andreas Beyer
Francesca Borgo
Howard Burns
Maria Cristina Cabani
Marco Collareta
Isabelle de Conihout
Daniela Delcorno Branca
Flora Dennis
Vincenzo Farinella
Daniele Ferrara
David Freedberg
Davide Gasparotto
Barbara Guidi
Tina Matarrese
Cristina Montagnani
Bruno Racine
Olivier Renaudeau
Giovanni Sassu
Barbara Maria Savy
Ugo Soragni
Paolo Trovato
Vladimiro Valerio
Alessandra Villa
Ministero dei beni e delle
attività culturali e del turismo
Direzione generale Musei
Direttore generale
Ugo Soragni
Direttore Servizio I
Collezioni museali
Antonio Tarasco
Direttore Servizio II
Gestione e valorizzazione dei
musei e dei luoghi della cultura
Manuel Roberto Guido
Rapporti internazionali
Federica Zalabra
Ufficio Garanzia di Stato
Antonio Piscitelli
Direzione generale
archeologia, belle arti
e paesaggio
Direttore generale
Caterina Bon Valsassina
Direzione generale
biblioteche e istituti
culturali
Direttore generale
Rossana Rummo
Direzione generale archivi
Direttore generale
Gino Famiglietti
Segretariato Regionale del
Ministero dei beni e delle
attività e del turismo
dell’Emilia-Romagna
Direttore
Sabina Magrini
Opificio delle Pietre Dure
Direttore
Marco Ciatti
con la collaborazione di
Francesca Ciani Passeri
Ministero dell’Economia
e delle Finanze
Dipartimento Ragioneria
dello Stato
Ispettorato generale del bilancio
Ufficio XIII
Dirigente
Aldo Lamberti
Collaboratori
Sebastiano Verdesca
Carla Russo
Luisa Gasperini
Corte dei Conti
Ufficio di Controllo sugli atti del
Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca,
del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, del Ministero
della Salute e del Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali
Consigliere
Roberto Benedetti
Collaboratore
Lina Pace
Fondazione Ferrara Arte
Presidente
Tiziano Tagliani
Consiglio di amministrazione
Massimo Maisto
Matteo Ludergnani
Soci fondatori
Comune di Ferrara
Provincia di Ferrara
Direttrice della mostra
e delle Gallerie d’Arte Moderna
e Contemporanea
Maria Luisa Pacelli
Coordinamento scientifico
Barbara Guidi
Conservatori
Chiara Vorrasi (responsabile
servizi educativi)
Giuseppe Di Natale
Registrar
Tiziana Giuberti (responsabile)
Ilaria Mosca
Roberta Colla
Ufficio editoriale
Federica Sani (responsabile)
Francesca Gavioli
Rossella Merighi
Laura Quaggia
Vasilij Gusella
Segreteria di direzione
e rapporti con la stampa
Alessandra Cavallaroni
Comunicazione e marketing
Giulia Bratti
con la collaborazione di
Dino Buffagni
Biblioteca
Laura Schiavina
Inventari e documentazione
dei musei
Paola Janni
Dirigente gestione
e controllo servizi culturali
Lara Sitti
Amministrazione
Barbara Rizzati
Valeria Storari
Gloria Franzoni
Cosetta Rimondi
Bookshop
Daniela Vacchi
con la collaborazione di
Paolo Callegari
Personale
Valeria Giovannini
Patrizia Caselli
Giuseppe Cestari
Sicurezza
Valeria Giovannini
Giuseppe Cestari
Tecnico informatico
Loris Mauro
Informazioni e prenotazioni
mostre e musei
Federica Novelli (responsabile)
Silvia Affaticati
Cristina Lago
Manuela Pereira
Progetto di allestimento
Antonio Ravalli Architetti
Tecnici allestitori
Gianni Marani
Stefano Carraro
Riccardo Catozzi
Amir Scharif Pour
Progetto illuminotecnico
Studio Pasetti Lighting Design
Tecnico luci
Marco Cazzola
con la collaborazione di
Luca Mondin
Infografiche in mostra
Studio Fludd
tuta
Trasporti
Mauro Malossi
Enrico Nigro
Supporto logistico
Paola Finchi
Custode
Rita Berselli
Ufficio stampa
Studio Esseci di Sergio
Campagnolo, Padova
organizzatori
ente promotore
con il patrocinio di
con il sostegno di
partner della mostra e partner
unico del progetto didattico
A cavallo dell’Ippogrifo
sponsor tecnici
si ringraziano
Prestatori
Ringraziamenti
Avignone
Musée du Petit Palais
Bassano del Grappa
Musei Civici
Bergamo
Fondazione Accademia Carrara
Berlino
Staatliche Museen,
Kupferstichkabinett
Staatsbibliothek
Bologna
Biblioteca Universitaria
Brescia
Museo di Santa Giulia
Cambridge
The Fitzwilliam Museum
Città del Vaticano
Biblioteca Apostolica Vaticana
Ferrara
Biblioteca Comunale Ariostea
Museo della Cattedrale
Firenze
Biblioteca Marucelliana
Biblioteca Medicea Laurenziana
Biblioteca Nazionale Centrale
Gabinetto Disegni e Stampe degli
Uffizi
Galleria Palatina
Galleria degli Uffizi
Museo Nazionale del Bargello
Genova
Trust Doria Pamphilj
Londra
The British Library
The British Museum
The National Gallery
Victoria and Albert Museum
Madrid
Museo Arqueológico Nacional
Museo Nacional del Prado
Museo Thyssen-Bornemisza
Milano
Biblioteca Nazionale Braidense
Castello Sforzesco, Civica Raccolta
delle Stampe Achille Bertarelli
Pinacoteca di Brera
Veneranda Biblioteca Ambrosiana
Modena
Archivio di Stato
Biblioteca Estense Universitaria
Galleria Estense
Napoli
Museo Nazionale di Capodimonte
Parigi
Bibliothèque de l’Arsenal
Bibliothèque nationale de France
Musée de l’Armée
Musée du Louvre
Musée Jacquemart-André, Institut
de France
Roma
Biblioteca dell’Accademia
Nazionale dei Lincei e Corsiniana
Galleria Borghese
Musei Capitolini
Tolosa
Musée Paul-Dupuy
Torino
Biblioteca Nazionale Universitaria
Musei Reali, Galleria Sabauda
Palazzo Madama, Museo Civico
d’Arte Antica
Venezia
Biblioteca Nazionale Marciana
Fondazione Giorgio Cini, Galleria
di Palazzo Cini
Fondazione Querini Stampalia
Museo Correr
Vienna
Kunsthistorisches Museum
Österreichische Nationalbibliothek
Windsor
The Royal Collection / Sua Maestà
la regina Elisabetta II
Wolfenbüttel
Herzog August Bibliothek
Bibliothèque Jean Bonna
Un ringraziamento speciale va a Cristina Cabani e Cristina Montagnani per il loro preziosissimo aiuto, come pure
ad Alessandra Villa, che con disponibilità e finezza ha accompagnato sin dall’inizio la riflessione dei curatori.
Il confronto continuo con Marco Collareta è stato incoraggiante e fecondo oltre ogni dire.
Un grazie sincero va a quanti hanno contribuito all’organizzazione dell’esposizione:
Cristina Acidini, Ornella Agrillo, Paolo Airenti, Mauro Alberti, Sébastien Allard, Grace Allwood, Angela Ammirati,
Ebe Antetomaso, Eugenia Antonucci, Marián Aparicio, Jean-Pierre Babelon, Katia Bach, Martina Bagnoli, Simone
Baiocco, Christian Baptiste, Luca Massimo Barbero, Guglielmo Bartoletti, Annalisa Battini, Anna Maria Bava,
Sylvain Bellenger, Gabriella Belli, Luca Bellingeri, Gino Belloni, Marta Bencini, Isabel Bennasar Cabrera, Cristina
Bersani, Yvonne Besser, Mons. Danillo Bisarello, Beatriz Blanco, Lina Bolzoni, Mirna Bonazza, Jean Bonna, Mar
Borobia, Jessica Bourges, Ruth Bowler, James Bradburne, Federica Brivio, Annalisa Bruni, Massimo Bruttomesso,
Marco Buonocore, Peter Burschel, Mons. Franco Buzzi, Caroline Campbell, Francesca Cappelletti, Silvia Cappelletti,
Angela Carbonaro, Giorgio Ettore Careddu, Andrea Carletti, Andrés Carrettero Pérez, Mons. Ivano Casaroli, Diego
Cauzzi, Matteo Ceriana, Marie-Pierre Chaumet-Sarkissian, Alessandro Checchi, Ilaria Ciseri, Lynda Clark, Martin
Clayton, Anna Coliva, Giorgia Corso, Hélène Couot-Echiffre, Patrizia Cremonini, Pierre Curie, Guido Curto,
Emanuela Daffra, Paola D’Agostino, Amalia D’Alascio, Elisabetta Dal Carlo, Brigitte Daprà, Emma Denness, Charlotte
Denoël, Rita de Tata, Luigi Maria Di Corato, Andrea Di Meo, Nathalie Dioh, Rosanna Di Pinto, Federico Disegni,
Daniele Donà, Larence Engel, Marzia Faietti, Miguel Falomir, Anna Rita Fantoni, Daniele Ferrara, Francesco
Ferretti, Gabriele Finaldi, Hartwig Fischer, Federico Fischetti, Marina Francini, Natascia Frasson, Cristina Fregnan,
Silvia Fusco, Natalia Gastelut, Massimo Gabriele Gatti, Marina Geneletti, Flaminia Gennari Sartori, Lucio Ghilardi,
Maria Goffredo, Nickos Gogolos, Marta Golik-Gryglas, Maria Dolores Gómez de Aranda, María Ángeles Granados
Ortega, Marco Guardo, Sergio Guarino, Sabine Haag, Rudolf Hopfner, Ruth Janson, Ilse Jung, Daragh Kenny, Tim
Knox, Diana Korak, Sieglinde Kunst, Marigusta Lazzari, Giovanni Lenzerini, Tomàs Llorens, Michele Losacco,
Véronique Malouin, Marino Marini, Olimpia Marini Clarelli, Rosanna Marozzi, Jonathan Marsed, Jean-Luc
Martinez, Alessandro Martoni, Marie Mayot, Dominique Mazel, Martina Mazzotta Lanza, Neil McGregor, Barry
McLoughlin, Maurizio Messina, Giuliano Mezzadri, Konstanze Mittendorfer, Sara Mittica, Francesca Montanaro,
Francesca Morandini, Giovanna Mori, Alessandro Moro, Patrizia Moscatelli, Begoña Muro Martín-Corral, Mauro
Natale, Antonio Natali, Barbara Nepote, Valentina Oliverio, Eef Overgaauw, David Packer, Enrica Pagella, Chiara
Pagliettini, Roberto Pancheri, Francesco Paparella, Claudio Parisi Presicce, Stephen Parkin, Ombretta Pasetti, Mons.
Cesare Pasini, Milly Passigli, Anna Pegoretti, Nicholas Penny, Patricia Perez, Matthias Pfaffenbichler, Anna Maria
Piccinini, Federica Pietrangeli, Carla Pinzauti, Susi Piovanelli, Patrizia Piscitello, Paolo Plebani, Antonella Poleggi,
Vincent Pomarède, Paolo Pontari, Lauren Porter, Franca Porticelli, Giacomo Maria Prati, Emilie Prud’hom, Cristina
Quattrini, Bruno Racine, Johanna Rachiger, Paulus Rainer, Mauro Ranzani, Ida Rao, Daniele Ravenna, Olivier
Renaudeau, Ingrid Rieck, Sofia Rinaldi, Gianni Roncaglia, Pierre Rosenberg, Elena Rossoni, Martin Roth, Agata
Rutkowska, Francis Saint-Genez, Nicolas Sainte Fare Garnot, Xavier Salomon, Claudio Salsi, Nicola Salvioli, Eike
Schmidt, Birgit Schultschik, Heinrich Schulze Altcappenberg, Pietro Sebastiani, Anna Selleri, Mario Setter, Anna
Sheppard, Guillermo Solana, Eva Soos, Maria Assunta Sorrentino, Vérène de Soultrait, Enrico Spinelli, Alessandra
Tadini, Antonio Tarasco, Francesca Tasso, Dominique Thiébaut, Marcello Toffanello, Gianluca Tormen, Giovanni
Valagussa, Uberto Vanni d’Archirafi, Lorenzo Vatalaro, Dominique Vingtain, Mauro Zobbi, Miguel Zugaza
e a tutti coloro che hanno preferito mantenere l’anonimato.
Cinquecento anni fa veniva data alle stampe a Ferrara, nella bottega tipografica di Giovanni Mazzocchi,
la prima delle tre edizioni dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, ultimo tra i romanzi cavallereschi
e primo tra i moderni. Palazzo dei Diamanti celebra questa ricorrenza con una mostra, organizzata
dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, che restituisce
il clima culturale, artistico e ideale nel quale venne concepito e scritto questo straordinario
capolavoro letterario, al quale Ariosto cominciò a lavorare almeno dal 1507 e che non abbandonò mai
per tutta la vita. Dipinti, sculture, arazzi, libri, incunaboli, manoscritti miniati, strumenti musicali,
armi e oggetti preziosi sono raccolti in un unico percorso che illustra con rigore scientifico e capacità
divulgativa il reale e l’immaginario dell’epoca alla corte estense, fonti di ispirazione per la feconda
vena creativa di un poeta che alle lettere associò costantemente l’impegno politico, amministrativo e
diplomatico per conto del ducato.
Si tratta di una mostra di enorme importanza, che gode di prestiti dai maggiori musei del mondo tra i
quali è doveroso menzionare il Museo del Prado, che ha consentito il ritorno temporaneo in Italia del
capolavoro Il baccanale degli Andrii, dipinto da Tiziano per il Camerino delle pitture di Alfonso d’Este
e passato, dopo la fine del dominio estense su Ferrara nel 1598, prima agli Aldobrandini e poi ai Ludovisi
per essere infine donato a Filippo IV di Spagna. Tutto ciò testimonia quanto fu grande il riverbero
della produzione culturale estense, capace di irradiare per secoli la propria luce, frutto dell’ingegno di
grandi autori che lavorarono in una delle più importanti corti del Rinascimento italiano. Tra questi
Ariosto, tradotto in tutta Europa sin dalla metà del Cinquecento, è uno dei più grandi esponenti.
Dario Franceschini
Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo
Ludovico Ariosto è senza dubbio uno dei padri della letteratura moderna e l’Orlando furioso rappresenta
nell’immaginario comune, insieme alla Divina Commedia dantesca, uno dei poemi più noti di tutti i tempi.
Scritto per celebrare la corte degli Estensi e pubblicato a Ferrara per la prima volta nel 1516, questo capolavoro
della letteratura mondiale, ispirato ai cicli carolingi e bretoni, è la chiave di lettura per comprendere
tutta la cultura del Rinascimento, non solo ferrarese.
Nell’anno del quinto centenario dalla sua pubblicazione per la nostra città è un onore, oltre che un atto
dovuto, celebrare Ludovico Ariosto e il poema che lo ha reso immortale con una grande mostra dal taglio
inedito. La rassegna, infatti, non si focalizza solo sull’apparato documentale, né affronta i temi riguardanti
la fortuna pittorica del poema, ma si pone l’obiettivo ambizioso di proporre una ricostruzione dell’universo
di visioni che popolavano la mente di Ariosto al tempo della scrittura del poema.
Per la città di Ferrara questo anniversario è segnato, inoltre, da un fatto di grande rilevanza: per volontà
testamentaria di Cesare Segre, la raccolta dello studioso di edizioni antiche di opere di Ariosto è andata ad
arricchire il patrimonio librario della Biblioteca Ariostea, ampliando in maniera significativa per numero
e pregio il nutrito fondo librario dedicato al poeta. Nell’accogliere questo lascito con gratitudine ed emozione,
vorremmo che la mostra dedicata al Furioso fosse in primo luogo un omaggio a questo uomo e
questo studioso eccezionale, che ha condotto un lavoro insuperabile per qualità e passione sui testi ariosteschi,
una ricerca senza la quale oggi non saremmo in grado di avvicinarli con la stessa chiarezza e capacità
di intendimento.
In concomitanza con l’apertura della mostra, Ferrara sarà, inoltre, teatro di molte iniziative di approfondimento,
tra cui convegni, letture pubbliche del poema e appuntamenti legati alla storia e alla cultura di quel
periodo. A ciò si aggiungono le manifestazioni che in tutta Italia, durante tutto il 2016, sono state dedicate
al Furioso e al suo cantore. È quindi motivo di grande soddisfazione che questa nostra esposizione costituisca
uno degli eventi di punta delle celebrazioni promosse dal Comitato Nazionale per il V Centenario
dell’Orlando furioso.
Siamo grati a quanti hanno contribuito a rendere possibile un risultato così alto, primi fra tutti i curatori il
cui impegno scientifico ha fatto sì che questa rassegna e il suo catalogo prendessero forma secondo gli
intenti che ne hanno ispirato la nascita. Desideriamo ringraziare il Ministero dei beni e delle attività culturali
e del turismo che ha condiviso con noi l’organizzazione dell’esposizione e che ha permesso l’ottenimento
di prestiti di straordinario valore, anche grazie alla generosità dimostrata dai musei statali. Un ringraziamento
particolare e doveroso va a tutti i musei e le biblioteche prestatori, primi fra tutti Sua Maestà
la regina Elisabetta II che ha eccezionalmente concesso alla rassegna un disegno di Leonardo da Vinci e il
Museo del Prado per aver reso possibile il ritorno in Italia per la prima volta dopo quasi cinquecento anni
del Baccanale degli Andrii di Tiziano, capolavoro realizzato per i Camerini di Alfonso, ma anche, tra gli
altri, il Louvre per lo splendido Mantegna, gli Uffizi, la Galleria Estense di Modena, il Victoria and Albert
Museum di Londra e il Museo di Capodimonte per lo spettacolare arazzo che chiude l’esposizione.
Ciò che ci auspichiamo è che questa mostra e il suo catalogo possano essere due validi strumenti non solo
per la comprensione dell’Orlando furioso e delle fonti che ne hanno ispirato la scrittura, ma che siano
anche in grado di far rivivere nei visitatori e nei lettori i sogni, i desideri e le fantasie di quella società delle
corti italiane del Rinascimento di cui Ariosto fu cantore sensibilissimo.
Tiziano Tagliani
Sindaco di Ferrara
Sommario
–
14 Prefazione
Maria Luisa Pacelli
DENTRO LA MOSTRA
DENTRO IL FURIOSO
18 Cosa vedeva Ariosto quando
chiudeva gli occhi
Guido Beltramini e Adolfo Tura
Opere in mostra
30 «Continuando la inventione
del conte Matheo Maria Boiardo»
38 La giostra e la battaglia
64 Lo specchio della corte
100 L’immagine del cavaliere
128 Il meraviglioso
150 Orlando in campo
182 Un capolavoro in trasformazione
Approfondimenti
212 Le arti visive negli scritti di
Ariosto: opere, idee, protagonisti
Marco Collareta
222 Ariosto e l’ottava sui pittori
Barbara Maria Savy
230 Ariosto e Mantegna, che nella
pittura «tiene lo impero»
Vincenzo Farinella
236 Ariosto e Tiziano
Miguel Falomir
242 La Musa come amante
Ulrich Pfisterer
250 «Sicuro in su le carte verrò,
più che su legni, volteggiando»
Vladimiro Valerio
256 Il Furioso e l’arte della battaglia:
Ariosto immagina la guerra
Francesca Borgo
266 Ariosto e la tradizione
epico-romanzesca delle armi
incantate
Daniela Delcorno Branca
272 L’illustrazione dei codici
cavallereschi di Bernabò Visconti
Pier Luigi Mulas
280 Il poema e la corte
Alessandra Villa
286 Autore e lettore: la partita
truccata dell’intreccio
Cristina Montagnani
296 1516-1532: le trasformazioni
dell’Orlando furioso
Alberto Casadei
304 Ariosto in cerca della lingua.
Il primo, il secondo e il terzo
Furioso
Paolo Trovato
314 Cosa udiva Ariosto quando
chiudeva gli occhi. Musica e
suono nel Furioso
Flora Dennis
320 Alberti in Ariosto
Lucia Bertolini
326 Vite parallele. Ariosto
e Castiglione
Maria Cristina Cabani
332 Ludovico Ariosto, il poema
e la storia
Marco Dorigatti
–
342 Bibliografia
Prefazione
Come altri grandi poemi epici della storia della letteratura occidentale, l’Orlando furioso s’inserisce in
una lunga tradizione, prima perlopiù popolare, poi letteraria. Il racconto delle gesta mitiche dei paladini
di Carlo Magno, fiorito in Francia all’epoca delle Crociate, si diffuse in Italia grazie alla narrazione
dei cantori di gesta nel corso dei secoli successivi, per poi «risalire dalle piazze agli ambienti
colti» (Italo Calvino) alle soglie del XVI secolo. Fu tuttavia a Ferrara, in seno a una delle corti più vitali
del Rinascimento, espressione di una società raffinata, elegante e interessata alle arti della guerra, che
l’epica cavalleresca trovò stabile dimora per oltre un secolo, sviluppandosi in senso moderno nei
grandi poemi di Boiardo, Ariosto e Tasso.
Con la mostra Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi ci si è proposti
di indagare la fitta trama di relazioni esistenti tra il poema e il contesto storico e culturale in cui nacque,
rivolgendo particolare attenzione al panorama figurativo ad esso precedente e contemporaneo,
con l’intento di rintracciare le fonti visive che hanno nutrito l’immaginazione del suo autore. Di concerto
con i curatori, Guido Beltramini e Adolfo Tura, e con un autorevole comitato scientifico composto
da studiosi di letteratura e storici dell’arte che ci ha accompagnato in questi anni di lavoro, sono
stati rigorosamente selezionati opere e oggetti preziosi, noti ad Ariosto o coerenti con la tradizione
figurativa a lui familiare: manoscritti miniati, arazzi, libri illustrati, incisioni, ricercati manufatti,
armi, dipinti e sculture.
questo luogo, Il baccanale degli Andrii di Tiziano, che si conclude il racconto della mostra e la sequenza
di opere chiamate a rendere testimonianza del fecondo intreccio tra arte e letteratura che ha caratterizzato
le fasi più alte del nostro Rinascimento. Opera emblematica dello sforzo comune al poeta e
all’artista moderno di forgiare una classicità del tutto nuova, questa tela straordinaria torna oggi a
Ferrara per la prima volta dopo quasi cinquecento anni dalla sua creazione, grazie alla generosità del
Museo del Prado.
Ad accompagnare questa esposizione è, infine, una pubblicazione che mira a dare conto e approfondire
temi ed argomenti salienti legati al poema di Ariosto e alla stagione in cui vide la luce. Per la sua
realizzazione sono stati chiamati a intervenire insigni studiosi del poeta e storici dell’arte, oltre che
specialisti dei numerosi ambiti cui fanno riferimento gli oggetti convocati in mostra.
Se è stato possibile realizzare un progetto così ambizioso lo si deve al lavoro scrupoloso e appassionato
dei curatori, al costante sostegno del comitato scientifico, alla competenza di coloro che hanno contribuito
al catalogo, alla generosità e alla fiducia dei prestatori, agli enti promotori e organizzatori della
rassegna e, non ultima, all’esperienza e alla dedizione dei colleghi della Fondazione Ferrara Arte e
delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara che hanno lavorato instancabilmente a
questa esposizione. A tutti loro va il mio più sincero ringraziamento.
Grazie alla fiducia e alla generosità di musei e istituzioni di tutto il mondo, dal Musée du Louvre al
Prado, dalla Galleria degli Uffizi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, dalla British Library alla
Bibliothèque nationale de France, solo per citarne alcuni, la mostra, voluta dalla Fondazione Ferrara
Arte e realizzata grazie alla fondamentale collaborazione del Ministero dei beni e delle attività culturali
e del turismo, ha ottenuto prestiti di assoluto rilievo e valore. Si tratta di opere d’arte, libri e oggetti
straordinari che, dialogando tra loro negli spazi di Palazzo dei Diamanti, permettono di entrare nel
ricchissimo universo del poema e, al contempo, di raccontare il panorama in cui questo è nato e si è
successivamente trasformato, dalla prima alla terza e ultima edizione del 1532. Un lasso di tempo relativamente
breve che ha tuttavia prodotto cambiamenti profondi nell’assetto politico e sociale italiano
ed europeo, investendo le stesse pagine del Furioso.
Maria Luisa Pacelli
Direttrice delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara
Attraverso un allestimento suggestivo ma rigoroso, studiato con l’intento di restituire la dimensione
fantastica del poema e di valorizzare le opere esposte, la rassegna propone un percorso articolato in
sezioni tematiche. Queste alternano le fonti dell’immaginario ariostesco – dall’eredità del Boiardo, al
ricchissimo repertorio di rappresentazioni della battaglia, fino alle molteplici immagini di cavalieri,
donne guerriere, maghi e principesse diffuse al tempo – all’universo cui fa riferimento il libro, ad
esempio il raffinato ambiente delle corti d’inizio Cinquecento o il nuovo assetto politico che si delinea
tra il secondo e il terzo decennio del secolo. Uno scorcio di anni che, oltre a segnare l’evoluzione del
Furioso, a Ferrara coincide con la realizzazione di una delle imprese figurative più celebri del Rinascimento,
il Camerino delle pitture di Alfonso I d’Este. Ed è proprio con uno dei capolavori creati per
DENTRO
LA MOSTRA
–
COSA VEDEVA ARIOSTO
QUANDO CHIUDEVA
GLI OCCHI
–
GUIDO BELTRAMINI
ADOLFO TURA
uesta mostra nasce da un incarico e da
un azzardo: celebrare il quinto centenario
della stampa a Ferrara della
prima edizione dell’Orlando furioso,
grande capolavoro della letteratura rinascimentale.
Nel 1933, in occasione delle celebrazioni
per il IV centenario ariostesco, Nino Barbantini
sfruttò l’occasione per una “Esposizione
della pittura ferrarese del Rinascimento”,
un’operazione oggi non più proponibile dopo
le grandi mostre su Dosso nel 1998, sugli Este
nel 2004, su Tura e Cossa nel 2007.
La nostra scelta di curatori è stata porre l’Orlando
al centro, tenendo sullo sfondo la fortuna
del poema nell’arte, tema compulsato con cura
e scienza in tempi recenti. Ciò ha significato
fare una mostra che lavora sull’immaginario
visivo dell’autore mentre scrive il poema. In
altre parole quello che Ariosto vedeva quando
chiudeva gli occhi, convocando in mostra
opere che egli poté effettivamente conoscere,
ma anche pezzi coerenti con la tradizione che
nutrì il suo immaginario, ricordando che il
Furioso è il sogno divertito di un antico mondo
cavalleresco medievale mai esistito se non nella
letteratura. In particolare abbiamo rivolto la
nostra attenzione a quelle tipologie di oggetti
che, all’epoca di Ariosto, si ponevano come veri
e propri veicoli d’immagini: arazzi, manoscritti
miniati, libri a stampa con illustrazioni silografiche,
bronzetti – per citarne alcune. Del tutto
estranei alla mentalità di Ariosto furono la
smania e il perenne scontento del collezionista,
quali invece trapelano nella corrispondenza di
Pietro Bembo. Ma se il desiderio di possesso
non lo tormentava, possiamo indovinare quale
avidità guidasse i suoi occhi a impadronirsi
d’immagini per trarne poi spunto alle proprie
fantastiche costruzioni. Queste premesse ci
hanno condotto lungo la strada ardua di una
filologia dell’immaginario ariostesco limitatamente
alle fonti visive, cioè a una paziente
ricognizione delle tradizioni figurative familiari
al poeta: filologia dell’immaginazione
che non rischia di diventare fantafilologia
finché si mantenga la consapevolezza che –
tranne rarissimi casi – sarebbe velleitario e
sostanzialmente fuorviante tentare di rintracciare
nel poema di Ariosto una trama di puntuali
citazioni di opere figurative. Anche solo
rimanendo nell’ambito dell’architettura, si è
sempre rivelato fragile ogni tentativo di individuare
modelli e riferimenti in edifici reali
per le immaginifiche invenzioni spaziali ariostesche,
che non si preoccupano di una plausibilità
costruttiva o compositiva e sono spesso
in continuità con tradizioni ecfrastiche precedenti.
Come osserva Marco Collareta nel suo
Fig. 1
Bonifacio Bembo
Il Matto, Tarocchi Visconti,
c. 1450-80
Miniatura su pergamena,
mm 173 x 87
New York, The Morgan
Library & Museum
18
saggio in questo catalogo (p. 216), l’affinità fra
il castello di Soria nel XVII canto ed il palazzo
Ducale di Urbino consiste non tanto in equivalenze
formali – disposizioni planimetriche,
uso di materiali o disegno di dettagli – quanto
sul piano strategico dell’invenzione di una
loggia aperta da cui dominare il paesaggio
circostante.
La mostra si apre con il “salto degli Orlandi”,
per usare il titolo di un bel racconto di Marco
Santagata. Già per Torquato Tasso l’Orlando
innamorato e il Furioso costituivano un unico
poema, con Ariosto che usa gli stessi personaggi
e prosegue le stesse linee narrative del Boiardo
«benché meglio annodate e meglio colorite».
Il percorso ha inizio quindi dalle pagine dell’Inamoramento
de Orlando, esposto in un esemplare
mitico in quanto il più antico esistente,
unico sopravvissuto fra tutte le copie stampate
delle prime due edizioni (Tav. 1). Accanto al
volume, un labirinto e un bivio. Il primo è ricamato
sulla giubba di un giovane cortigiano, che
sarebbe stato a suo agio alla corte di Ferrara al
tempo di Borso e di Ercole, dipinto da Bartolomeo
Veneto (Tav. 2). Il secondo è evocato nella
cornice intagliata di uno specchio di provenienza
estense (Tav. 3), con la lettera pitagorica
Y a separare il settore circolare dominato dal
BONUM da quello dominato dal MALUM. Già
nel 1984 Remo Ceserani aveva proposto questi
due modelli culturali e figurativi concorrenti
nell’intreccio dell’Innamorato e nel Furioso: il
labirinto della selva dove i protagonisti si smarriscono
e i continui bivi, concreti e morali, fra i
quali debbono costantemente scegliere. 1
Con la sezione dedicata alla battaglia entriamo
nel vivo del racconto delle immagini. Va detto
che la cultura della guerra è parte integrante
del mondo delle corti padane fra Quattro e
Cinquecento, ed esperienza personale del
vissuto di ciascuno. Le battaglie di Polesella
(1509) e soprattutto quella di Ravenna (1512)
sono eventi che scuotono profondamente le
coscienze. A Ravenna ciò che impressiona non
è solamente la distesa di morti sul campo di
battaglia, che Ariosto vede così fitta da rendere
impossibile camminare senza calpestare
i corpi, ma anche l’evento cupo della morte
del nipote del re di Francia, Gaston de Foix, il
terribile sacco della città, persino la nascita di
un feto deforme – il mostro di Ravenna (Fig.
2), con ali di pipistrello e lettere misteriose
impresse nella carne – che sembrava aver anticipato
la tragedia. La guerra contemporanea –
che nella Ferrara di Ariosto e Alfonso significa
anche tecnologia delle armi da tiro e degli
ordigni di scoppio – non ha particolare fortuna
nel Furioso. Nel poema, i cui eventi sono
ambientati nell’VIII secolo, Ariosto aveva concesso
estrema libertà alla propria immaginazione.
Gli arazzi stessi (Tav. 4, Fig. 3), veicolo
principe delle immagini dell’epopea carolingia
insieme ai manoscritti illustrati (Tav. 6),
non erano fonti primarie ma sedimentazioni
successive. La fantasia di Ariosto si nutriva di
altre fantasie, un mondo di ipotesi costruito su
ipotesi precedenti. Del resto anche l’olifante
di Orlando (Tav. 5), che pure è ritenuto tale
da molti secoli, non è mai risuonato a Roncisvalle.
Un mondo d’invenzione, dove giganti
combattono contro elefanti fra scoppi di granate,
è anche quello del disegno, conservato
a Windsor (Tav. 11), di mano di Leonardo da
Vinci, il quale si era invece misurato a fondo
Fig. 2
Il Mostro di Ravenna
in François Ynoi,
Les avertissemens es
trois estatz du monde
Valence, Jean Belon, 1513
Forlì, Biblioteca Comunale,
Raccolta Piancastelli
Fig. 3
Arazzo detto del torneo,
XV secolo
Arazzo in lana, seta,
argento e oro, cm 497 x 579
Valenciennes, Musée des
Beaux-Arts
sulla storia nella disfida con Michelangelo per
le pitture murali della battaglia di Anghiari in
Palazzo Vecchio a Firenze. Nel mondo delle
corti padane le immagini di battaglia erano
ovunque, di certo molto diverse fra loro e
sedimentatesi in modi differenti nel secolo
precedente. Nella Ferrara di Leonello d’Este il
fascino era tutto nelle nuove rappresentazioni
dall’antico, fossero i corpi nudi dei sarcofagi
romani (Fig. 4) o le loro riletture nelle opere
degli artisti. Negli anni del suo ducato Borso,
invaghito di cultura cavalleresca, apprezzava
maggiormente le rappresentazioni nordiche,
più sanguinarie e meno intellettualistiche,
incurante che il fratello le definisse «ineptiae».
Sicuramente un’esperienza diretta di Ariosto è
anche la cultura del duello (Fig. 5), una presenza
concretamente percepibile nella città,
con la risonanza data dai cartelli di sfida affissi
sui muri. Mediata dall’esperienza letteraria,
invece, è quella della giostra, fatta rivivere sulla
base dei romanzi arturiani, esperienza “pubblica”
perché, per definizione, è spettacolo che
avviene al cospetto delle dame (Tav. 14).
Nell’ultimo canto, ad accogliere la nave
dell’autore rientrata finalmente in porto c’è la
corte: la prima e privilegiata cerchia dei lettori
(e ascoltatori?), soprattutto della prima
edizione. È la metafora dello specchio a gui-
20 21
dare l’allestimento della sala di questa sezione
della mostra: il lettore di corte ritrova nel
romanzo cavalleresco uno stile di vita basato
sull’eleganza, dalla caccia con lo sparviero al
gioco degli scacchi (Tav. 23). Al tempo stesso il
Furioso è strutturato intorno alle logiche della
vita cortigiana. Come Machiavelli nel Principe
offrirà un’anatomia dei meccanismi del
dominio politico, così nel Furioso, pur su un
registro letterario, non vi è evasione rispetto
alla realtà ma interpretazione delle dinamiche
della vita associata, cioè del mondo della corte
che è luogo di ambizioni e di giochi di potere.
Una commedia umana di cui Ariosto conosce
a fondo tutti gli aspetti e di cui nelle Satire non
esita a mettere alla berlina l’asineria (Tav. 27).
Ma come evocare la corte in un modo che non
sia interscambiabile con qualsiasi altra mostra
sul Rinascimento? Certamente con opere specifiche,
come il ritratto di Leonello d’Este di
Pisanello (Tav. 16), in omaggio all’intento
dinastico della prima edizione del poema,
ma in più concentrandoci sullo specifico del
meccanismo di rispecchiamento, là dove il
Furioso assorbe – anche criticamente – elementi
di quel mondo. Abbiamo così accostato
l’albero in sembianze umane della Minerva
di Mantegna (Tav. 19), appartenuto a Isabella
Gonzaga, ad una lira da braccio antropomorfa
realizzata a Verona negli stessi anni (Tav. 20),
con sullo sfondo il lamento di Astolfo trasformato
in pianta di mirto parlante nel VI canto
del Furioso. Allo stesso modo abbiamo convocato
un dipinto dal camerino di Eleonora
d’Aragona, madre di Isabella, che componeva
un trittico di donne illustri dell’antichità (Tav.
22) e che preannuncia quello del palazzo del
cavaliere del nappo nel XXXVIII canto dell’edizione
del 1532.
Senza scordare ciò che a Ferrara ha una
importanza cruciale: il teatro. La corte è di
per sé un luogo teatrale, vive di una continua
rappresentazione di se stessa, attraverso le
proprie immagini di vita elegante. Quanto al
teatro vero e proprio, se a Roma gli umanisti
come Fedra Inghirami (Tav. 28) si dilettavano
a mettere in scena le commedie antiche recitando
in latino, a Ferrara è percorsa un’altra
strada: nel gennaio 1486 vengono rappresentati
nel cortile di Palazzo ducale i Menechini
e prende il via una stagione di teatro volgare
all’antica che, passando per il Cefalo di Niccolò
da Correggio (Tav. 31), giungerà alle commedie
di Ariosto come I Suppositi (Tav. 33).
Come si presentavano, nella fantasia del poeta,
Orlando e gli altri cavalieri che popolano il
Furioso? Un artista, dovendo rappresentare un
re guerriero medievale, si trovava costretto a
precisarne l’aspetto: è il caso, negli stessi anni
in cui Ariosto elabora la prima stesura del
poema, di Albrecht Dürer che progetta alcune
sculture per il monumento funebre di Massimiliano
I a Innsbruck (Tav. 40). Al contrario,
uno scrittore poteva esimersi da ogni descrizione
ed è questa la via scelta da Ariosto. Noi
Fig. 4
Fronte di sarcofago con
scena di battaglia tra Greci
e Amazzoni
Marmo, cm 228 x 62,5 x 12
Mantova, Palazzo Ducale
Fig. 5
Fiore dei Liberi
Il fior di battaglia,
XV secolo
New York, The Morgan
Library & Museum
però possiamo identificare le tradizioni figurative
che certamente premevano alla porta
della sua immaginazione e, ad un tempo, a
quella dei suoi primi lettori, i quali supplivano
alla vaghezza del testo attingendo alle
proprie fantasie e alla propria cultura visiva.
Come si distinguevano alla vista i cavalieri cristiani
e i pagani che incrociano i loro destini
nelle pagine del Furioso? Così come Ariosto
non scrive nulla che differenzi i paesaggi del
Medio Oriente da quelli di Francia, nulla dice
di distintivo nemmeno delle vesti e dell’equipaggiamento
dei cavalieri giunti dall’Africa.
Ma i lettori potevano fantasticare e noi possiamo
fare ipotesi. Come non pensare alle
innumerevoli e diversissime raffigurazioni
di san Giorgio (Tav. 35), che s’incontravano
ovunque a Ferrara? Parliamo di un mondo
in cui le immagini di cavalieri incombevano
dappertutto, in una eteroclita stratificazione
che abbiamo deciso di sondare attraverso
alcune proposte di altissima qualità formale
e i cui estremi temporali sono rappresentati
in mostra dal Maestro dei Mesi (Tav. 34) e da
Antonio Lombardo (Tav. 42), passando attraverso
profili verrocchieschi dei grandi condottieri
dell’antichità (Tav. 37) o bronzi come
quello di Filarete che raffigura l’eroe troiano
Ettore a cavallo (Tav. 39), quest’ultime oggetto
di bramosa contesa fra i cavalieri del Furioso.
Le donne guerriere sono una delle grandi
invenzioni di Boiardo riprese da Ariosto; e
animate così vivacemente da diventare degli
emblemi del valore femminile, se in pieno Cinquecento
la grande poetessa lionese Louise
Labé si paragonerà a Marfisa e Bradamante:
«Pour Bradamante, ou la haute Marphise, /
seur de Roger, il m’ust, possible, prise» (Per Bradamante
o l’alta Marfisa, / sorella di Ruggiero,
mi avrebbe forse presa).
22 23
Sul versante delle fonti visive Ariosto poteva
certo conoscere alcune rappresentazioni di
Amazzoni, a cominciare dai sarcofagi antichi
(Tav. 7). Di particolare suggestione è il magnifico
disegno di Marco Zoppo, con una testa di
guerriera fantasiosamente all’antica (Tav. 36).
Nella letteratura cavalleresca in cui il Furioso
s’inserisce sono le armi a costituire l’identità di
ogni cavaliere, come quelle esibite dal giovane
guerriero di Giorgione (Tav. 44). C’è almeno
un episodio riferito a queste in cui Ariosto
sembra ispirarsi direttamente alla cultura
figurativa del suo tempo: è quello di Zerbino
che raccoglie pietosamente le armi di Orlando
e le compone come trofeo appese ad un albero:
Quivi Zerbin tutte raguna l’arme,
e ne fa come un bel trofeo su ’n pino;
e volendo vietar che non se n’arme
cavallier paesan né peregrino,
scrive nel verde ceppo in breve carme:
- Armatura d’Orlando paladino;
come volesse dir: nessun la muova,
che star non possa con Orlando a prova. 2
L’immagine della panoplia era certamente
familiare al poeta, più che per la vista di
reperti archeologici, per le riprese antiquarie
di primo Cinquecento, delle quali le lesene del
monumento funebre di Gaston de Foix sono
un esempio di qualità eccelsa (Tav. 43).
La letteratura arturiana è un mondo di maghi,
d’incantesimi, di fate. Le avventure sono collocate
in un passato leggendario, quasi di
sogno, e avvolte in un’atmosfera favolistica
affine a quella che ritroviamo, sapientemente
suscitata, nel san Giorgio parigino di Paolo
Uccello (Tav. 47). Il meraviglioso trovava spazio
nelle illustrazioni delle edizioni a stampa
di romanzi francesi che Ariosto leggeva (Fig.
6): illustrazioni che (in alcuni casi è lecito ipotizzarlo)
sembrano per se stessi aver mosso
la sua fantasia, autonomamente rispetto ai
testi. È il caso, ci pare, almeno della Mélusine
(Tav. 48). Nella fantasia di Ariosto il meraviglioso
si nutre sia delle «cortesie» e delle
«audaci imprese» di quel mondo remoto, sia
delle favole mitologiche antiche, come quella
della liberazione di Andromeda (Tav. 53),
replicata nell’episodio della liberazione di
Angelica e, più tardi, di Olimpia. Ma il meraviglioso
si manifestava anche, ai suoi giorni,
nell’eco delle grandi scoperte geografiche,
da Colombo a Vespucci (Tavv. 54, 55), e nelle
relazioni di viaggi: l’Itinerario di Ludovico
Vartema (Tav. 56), ad esempio, era certamente
ben noto alla corte di Ferrara.
È a questo punto che entra in campo l’Orlando
del 1516. Nel poema il desiderio muove
ogni cosa e la sala si incentra su di esso. La
donna incarna emblematicamente l’oggetto
del desiderio e noi, in linea con l’esaltazione
ariostesca della nudità femminile, la rappresentiamo
con una Venere pudica, il Botticelli
della Galleria Sabauda (Tav. 58). Perché
Botticelli? Perché, come ha proposto Fredi
Chiappelli, 3 la concezione della bellezza
femminile quale si evidenzia nella prima edizione
del Furioso, nelle descrizioni di Alcina
e di Angelica, si risolve in una “cristallizzazione”
della visione mediceo-ficiniana della
bellezza: forse «una cristallizzazione censoria,
in cui non sarebbe nemmeno assente un
filo di disamore» (Alcina sta per l’illusione). 4
Ma oggetto del desiderio non è solo la donna:
può essere una spada, un cavallo o un elmo,
greco come le armi di Ettore contese fra i
paladini (Tav. 59).
Fig. 6
Christine de Pisan
L’Epître d’Othéa,
XV secolo, f. 4v
Parigi, Bibliothèque
nationale de France
A differenza dell’Innamorato, nel Furioso ogni
personaggio è portatore di un desiderio: che lo
lega al proprio destino, lo imprigiona e di fatto
gli toglie il senno. Perché se Orlando impazzisce,
Rinaldo si aggira «con senno non troppo
più saldo» (XXVII, 8, 5) e il poeta stesso non
si vuole esempio di assennatezza: «Voi scusarete,
che per frenesia, / vinto da l’aspra passïon,
vaneggio. [...] Non men son fuor di me,
che fosse Orlando». 5 Come rende esplicito il
richiamo all’Hercules furens cui è fatto luogo
nel titolo stesso del poema ariostesco, la follia
di Ercole nella tragedia senecana (Tav. 60)
si associa nella mente di Ariosto alle figure di
follia individuale della tradizione cavalleresca,
quelle di Lancillotto e Tristano. 6 Ma nel
Furioso la follia «si ritrova nel cuore di ogni
comportamento umano», 7 «abita [...] dentro
tutti i personaggi». 8 Ariosto partecipa della
visione umanistica per la quale ogni individuo
perde il senno al mondo:
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opere di pittori,
et altri in altro che più d’altro aprezze. 9
Siamo sulla linea dell’intercenale Defunctus di
Leon Battista Alberti:
Politropo – Che novità porti? Cosa succede
tra i mortali?
Neofrono – Ah, ah, ah! Farneticano.
Politropo – Davvero? Ma in che senso?
Neofrono – In infiniti modi: ardono d’amore,
bruciano d’odio, oppure, da pazzi, affrontano
fatiche, ferite e tutti i pericoli più estremi per
un po’ di denaro, per farsi un nome, per assecondare
le loro voglie e per ogni inezia di questo
tipo. 10
È il tema del Moriae Encomium di Erasmo
(capp. XL-XLIV), che affiora anche in Castiglione
(Libro del Cortegiano, I, 8: «E chi è
riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in
amore, chi in danzare, chi in far moresche,
chi in cavalcare, chi in giocar di spada»). È un
tema che nelle corti padane circolava anche in
una veste umoristica nella raccolta di sonetti
di Baldassarre da Fossombrone (Tav. 63), che
veniva intesa come una serie di “pazzie”. Al
folle mondo degli uomini Ariosto oppone la
luna, in tutto simile alla Terra: «Sol la pazzia
non v’è poca né assai» (XXXIV, 81, 7).
L’anziano evangelista Giovanni vi conduce
Astolfo attraverso un viaggio che mima quello
di Dante e Virgilio (Tav. 65). Non è facile rappresentare
in una mostra la luna di Ariosto.
È stato notato che il «metafisico scenario
[lunare] rappresenta l’ideale punto di approdo
del processo di progressiva astrazione intellettualistica
percorso dall’inchiesta». 11 Effettivamente
il testo che narra l’esperienza di
Astolfo è visivamente assai parsimonioso,
giocato piuttosto su un registro allegorico e
ispirato all’intercenale Somnium di Alberti. 12
Ciò che Ariosto dice della luna è che la superficie
del pianeta è lucida e riflettente – quale
si può assimilare alle «palle dorate poste nella
sommità degli alti edifizi»: 13 sono parole di
Leonardo da Vinci, che ci hanno indotto a
esporre il globo di bronzo che Ariosto poteva
vedere in cima all’obelisco vaticano (Tav. 66).
Non abbiamo tuttavia resistito al fascino del
paesaggio “extraterrestre” del san Giovanni di
Tura (Tav. 64), l’evangelista che guida Astolfo.
Il tema variegato e ricchissimo della fortuna
del Furioso è stato oggetto di ottimi studi e
anche di mostre recenti. Per questa ragione
abbiamo pensato di riassumerlo in questa
mostra con due soli testimoni, che ne documentano
l’apprezzamento precoce di Machiavelli
(Tav. 68) e di Dosso Dossi (Tav. 69). La
maga Melissa dipinta da quest’ultimo sembra
uscire dai versi dell’VIII canto, intenta
ad annullare il sortilegio della maga malvagia
Alcina che ha trasformato i cavalieri in
fiori, alberi e animali. In una prima versione
del dipinto, però, Melissa è in realtà con Bradamante
alla tomba di Merlino, dove – nel II
canto del Furioso – sfilano davanti a loro gli
spiriti della progenie estense sino ad arrivare
ad Alfonso e Ippolito d’Este. Guardando di
persona il dipinto, quindi, il duca e suo fratello
idealmente lo completavano, in un rinnovato
gioco di specchi fra finzione letteraria, pittura
e vita della corte.
24 25
Cosa cambia nelle edizioni del Furioso nel
passaggio fra la prima edizione del 1516, che
celebriamo quest’anno, e le successive del
1521 e del 1532? Il Furioso del 1516 è un poema
estense, un’epopea dinastica, quello del 1532
è da tutti i punti di vista, anche linguistico,
un capolavoro italiano. Senza dubbio cambia
anche il mondo intorno ad Ariosto, e – ancor
di più di quanto non fosse successo nella
prima edizione – le trasformazioni entrano
nel poema. Nel febbraio del 1525 la battaglia
di Pavia capovolge la geopolitica europea:
Francesco I è sconfitto e catturato, la sua
spada è trofeo di guerra (Tav. 79), che abbiamo
voluto in mostra di fronte all’arazzo di Capodimonte
che documenta lo scontro (Tav. 78).
Da allora in avanti Carlo V dominerà la politica
italiana, costringendo anche la corte estense ad
un diplomatico riposizionamento. Sul campo
di battaglia gli organizzati plotoni di fucilieri
contribuiscono con i loro archibugi alla sconfitta
francese, dando la dimostrazione di un
cambio radicale nell’arte della guerra iniziato
trent’anni prima nella battaglia di Cerignola.
Nei canti aggiunti all’edizione del 1532 Ariosto
introduce l’episodio della maledizione del “ferrobugio”
che viene gettato nel mare da Orlando,
maledicendone il potere livellante (Tav. 71).
Un altro elemento di novità nella terza edizione
del poema è l’inserimento, nel XXXIII
canto, di un omaggio ai grandi pittori del passato
e del presente, riconoscendo così, da letterato,
il nuovo status conquistato dagli artisti,
che onorano i territori d’origine con la propria
fama. L’elenco disegna un panorama artistico
che va oltre la dimensione municipale, per
divenire compiutamente italiano, costruito
sulla diarchia Raffaello – Michelangelo.
Del resto anche nei gusti del duca Alfonso i
campioni della generazione precedente sono
sopravanzati da Michelangelo (Tav. 80) – di
cui lo stesso Ariosto aveva ammirato la volta
Sistina e il suo Giona – da Tiziano e da Raffaello,
in morte del quale il poeta compone un’elegia
latina (Fig. 7). Di questa nuova stagione,
analizzata nel suo complesso da Barbara Savy
in catalogo, la mostra richiama l’eloquente
episodio del Baccanale degli Andrii (Tav. 81),
una delle opere più significative del Camerino
delle pitture del duca realizzata nel 1522-24.
Nel dipinto la figura femminile addormentata
Polidoro Caldara da
Caravaggio
Rotella da parata
(part. dell’interno di
Tav. 77), c. 1525-27
Olio su legno, diametro
cm 60
Torino, Palazzo Madama,
Museo Civico d’Arte Antica.
Su concessione della
Fondazione Torino Musei
Fig. 7
Ludovico Ariosto
Elegia in morte di Raffaello,
in Carmina, post 1520
Manoscritto cartaceo,
f. 12r
Ferrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
1. Ceserani 1984.
2. Of X XIV, 57.
3. Chiappelli 1985.
4. Ibid., p. 337.
5. Of XXX, 3, 3-4; 4, 1; si veda anche IX, 2, 1-4
e XXIV, 3.
6. Segre 1989.
7. Ferroni 1975, p. 82.
8. Ferroni 1996, p. 439.
9. Of XXXIV, 85, 1-6.
10. Alberti 2012, p. 359. Abbiamo mutato con
«in infiniti modi» la locuzione «in svariati
modi» dei traduttori per echeggiare il latino
(«modis quidem infinitis»).
in primo piano unisce la monumentalità di una
statua antica alla fragrante sensualità di una
donna contemporanea, profondamente diversa
dalla bellezza idealizzata del dipinto botticelliano
che abbiamo ammirato accanto alla prima
edizione del 1516. È il grande talento di Tiziano,
capace con le sue donne di far girare la testa a
Giovanni Della Casa, ma qualcuno pensa anche
allo stesso Ariosto, almeno a voler leggere l’insistita
descrizione del morbido corpo nudo di
Olimpia sfuggita all’orca, aggiunto nella edizione
del 1532 (Tav. 70), rispetto alla figura di
Angelica, preziosa e fredda come una scultura
«o d’alabastro o marmori più illustri», in un’analoga
scena nella prima edizione. 14
Abbiamo aperto con un libro, e con un altro la
mostra si chiude: è il Don Chisciotte di Cervantes
(Tav. 82), l’ultimo romanzo di cavalleria. Qui
il salto non riesce, ma proprio qui a sorpresa
troviamo la spia di una comprensione profonda
della qualità sostanziale del Furioso, che va cercata
innanzitutto nella sua scrittura, capace di
assorbire dalle tradizioni le più varie a sperimentazioni
recenti in un tutto armonioso. Uno
dei personaggi, il curato, visitando la biblioteca
di Don Chisciotte sbotta: «Se tra questi libri c’è
il poema di Ariosto e parla una lingua che non
è la sua, non gli porterò nessun rispetto; ma se
è nella sua lingua, me lo porrò sul capo». Come
ogni opera d’arte, intraducibile...
11. Zatti 1990, p. 47.
12. Si veda il saggio di Lucia Bertolini in questo
catalogo pp. 320-325.
13. Richter 1883, vol. II, § 896.
14. Si veda Padoan 1978; Albonico 2012, pp.
21-22.
26 27
OPERE
IN MOSTRA
–
«CONTI-
NUANDO
LA INVEN-
TIONE DEL
CONTE
MATHEO
MARIA
BOIARDO»
–
1. Matteo Maria Boiardo
Inamoramento de Orlando (Libri I-II)
Venezia, Piero de’ Piasi, 19 febbraio 1486 [= 1487]. 4°
Privo delle carte a1 e 96
Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Inc. Ven. 671
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo
Bibliografia: Accurti 1936, n. 85; Harris 1986; Harris
1988, I, pp. 18-22, n. 2; Tissoni Benvenuti e Montagnani
1999, pp. xlvi-liii.
Perduta la prima edizione del poema (collocabile
fra l’aprile 1482 e il febbraio 1483), è questa – di cui
si espone l’unico esemplare superstite, appartenuto
a Gaetano Melzi – la stampa più antica giunta fino
a noi, preziosissima anche dal punto di vista filologico
essendo «l’unica priva di riscritture più o meno
sistematiche e di volontari adeguamenti linguistici»
(Tissoni Benvenuti 1998, p. 927). L’articolazione in tre
libri non è peraltro imputabile all’autore perché questa
edizione comprende solo i primi due libri e si deve
probabilmente ricondurre a un’iniziativa dell’editore
(Montagnani 1992, p. 53).
Adolfo Tura
32 33
2. Bartolomeo Veneto
Ritratto di gentiluomo, c. 1510-15
Olio su tavola, cm 72,8 x 54,3
Cambridge, The Fitzwilliam Museum
Inv. 133
Provenienza: Milano, Reale Accademia; Julius Charles
Hare (13 settembre 1795 – 3 gennaio 1855), arcidiacono
di Lewes, Sussex; donato al museo da Mrs Hare nel 1855.
Bibliografia: Crowe e Cavalcaselle 1871 (ed. 1912), I, p.
300; Colvin 1895, p. 12; Venturi 1900, p. 107; Beard 1927,
pp. 232-234; Berenson 1932, p. 51; De Tervarent 1958,
p. 230; Goodison e Robertson 1967, pp. 7-8; Santarcangeli
1967, pp. 277-278; Gilbert 1973, p. 12; Kern 1981, pp.
266-267; C. Bon Valsassina in Roma 1988, pp. 104-106;
Hackenbroch 1996, pp. 101-104; Pagnotta 1997, pp. 72-74,
194; U. Sansoni in Desenzano e altre 1998, p. 156; San
Diego 2002, p. 44.
Nonostante numerosi e dotti tentativi di interpretazione,
rimane a tutt’oggi sconosciuta l’identità di questo gentiluomo,
così come l’intrigante rebus iconografico nascosto
nei decori e negli accessori del suo abbigliamento. Il
labirinto che campeggia sulla veste è certo forma archetipica
che ricorre, quale metafora di un percorso individuale
e di ricerca, anche nel Furioso, sebbene in accezione
diversa. Mentre il Palazzo di Atlante, la selva o, in
un certo senso, la struttura stessa del poema alludono ai
diversi labirinti del desiderio e dell’inganno nei quali i
protagonisti vagano realizzando in negativo il duplice
senso dell’“errare”, il vistoso simbolo qui rappresentato
configura piuttosto un percorso di iniziazione e di conoscenza
interiore (Brion 1952; Santarcangeli 1967; Kern
1981). Concettualmente connessi al labirinto sono infatti
i nodi di Salomone ricamati all’intorno e sul “giupone”
e la piccola pigna verde, scrigno di virtù e simbolo di
resurrezione (Levi d’Ancona 1977, p. 306, n. 8), collocata
alla sommità e circondata da sette perle. A questa divisa
si associa, come complemento e commento figurativo, la
medaglia appuntata con un ciuffo di penne bianche sulla
tesa del cappello, dove è dipinta una scena di naufragio
con il motto “Esperance me guide” inscritto su un cartiglio.
Si tratta di un emblema, già collegato ad un sonetto
di Matteo Maria Boiardo (Amorum Libri Tres, I, 18, ed.
1998, p. 11; si veda Hackenbroch 1996, p. 101), che è però –
va detto – a sua volta esemplato sulle Rime di Petrarca
(R.V.F., 189, 323; si veda Baldassari 2007, pp. 188-191).
Petrarchesca è infatti l’immagine della nave quale metafora
dell’esperienza sentimentale e poetica dell’anima
che trova in Laura/alloro speranza di salvezza. Un
importante precedente iconografico quasi sovrapponibile
al nostro caso va segnalato allora nella miniatura
che introduce il Petrarca effigiato nel 1476 da Francesco
d’Antonio del Chierico per Lorenzo il Magnifico, donato
a Carlo VIII re di Francia nel 1494 ed oggi alla Biblioteca
Nazionale di Parigi (Ms. Ital. 548; Garzelli 1985, I, p. 122;
Laffitte 1992, pp. 161-162). La sola nave in tempesta, inoltre,
è tema di larga fortuna, particolarmente nell’ambito
dell’emblematica e delle imprese ed è illustrata sotto il
motto Spes proxima da Alciato (Emblemata, 1531 e 1534,
ed. 2009, pp. 203-207; più in generale sulla tradizione
visiva della navigatio e del naufragio si veda Malke
2005-06, pp. 197-206; Torre 2012, pp. 246-264, 335-349).
Tra le varie proposte di identificazione si distinguono
quelle in direzione della famiglia Gonzaga dove si
incontra, oltre all’insegna della nave, anche quella del
labirinto, senza che si sia riusciti a stringere però su un
personaggio specifico (per i vari tentativi di interpretazione
si veda Pagnotta 1997, p. 85 nota 55; alla stessa,
pp. 72-74, 194, si rimanda per l’intera vicenda critica e
interpretativa).
Il ritratto è databile agli anni tra primo e secondo decennio
del Cinquecento, tuttavia un certo arcaismo, proprio
del linguaggio dell’artista e qui particolarmente evidente
nella rigidità d’impianto e d’espressione, nonché
l’uso di riferimenti simbolici e letterari, declinati con
gusto allegorico-moraleggiante, ritengono ancora molto
della cultura cortigiana quattrocentesca, richiamando la
stagione dell’Innamorato, piuttosto che i nuovi valori e
mezzi espressivi del Furioso.
Barbara Maria Savy
34 35
3. Intagliatore attivo a Ferrara
Cornice per specchio, c. 1505-10
Legno di noce parzialmente dorato, diametro cm 62
Londra, Victoria and Albert Museum
Inv. 7694-1861
Provenienza: Parigi-Tolosa, collezione Soulages, 1830-
1840; Londra, Victoria and Albert Museum (già South
Kensington Museum), 1861.
Bibliografia: Robinson 1857, pp. 177-178, cat. 670; Pollen
1874, pp. 185-187; Detroit e Fort Worth 1985, pp. 154-155,
cat. 42b; Powell e Allen 2010, pp. 180-184, n. 20; Farinella
2014a, p. 69 e nota 188.
Questa cornice per specchio è un pregevole intaglio
ligneo attribuibile a un artista attivo nel primo decennio
del Cinquecento presso la corte di Alfonso I, verosimilmente
identificabile in Bernardino da Venezia o in Stefano
di Donna Bona (Farinella 2014a, p. 69 e nota 188).
La superficie decorata rappresenta tralci d’acanto
popolati di figure che mettono a fronte Bene e Male
nelle due metà del tondo: a sinistra la parola BONUM
si sviluppa lungo gli elementi vegetali incontrando
esseri positivi, quali la figura femminile che fugge dal
drago, il falcone, l’unicorno, il leone e l’angelo; a destra,
MALUM procede tra entità negative, quali il caprone,
il topo, la scimmia, il lupo e la morte. Le due parti sono
tra loro collegate, e allo stesso tempo disgiunte, dalla Y
pitagorica (collocata in basso), simbolo del bivio, della
scelta tra il Bene e il Male, tra la virtù e il vizio, e dalla
granata svampante (posta in alto), emblema di Alfonso.
Il tema raffigurato nell’intaglio associato allo specchio
può essere ricondotto all’idea dell’immagine riflessa
come rivelatrice dell’anima e all’azione dettata dalla
“Prudenza” (il cui attributo simbolico è, appunto, lo
specchio), che può essere riferita sia al duca sia a sua
moglie Lucrezia Borgia. Questo concetto compare in
un passo dell’Orlando furioso, in cui Ruggiero si rispecchia
nelle mura gemmee della rocca della fata Logistilla,
sede di verità e bellezza, e trasparente allusione
al Palazzo dei Diamanti: «Di tai gemme qua giù non si
favella: / et a chi vuol notizia averne, è d’uopo / che
vada quivi; che non credo altrove, / se non forse su in
ciel, se ne ritruove. / Quel che più fa che lor si inchina e
cede / ogn’altra gemma, è che, mirando in esse, / l’uom
sin in mezzo all’anima si vede; / vede suoi vizii e sue virtudi
espresse, / sí che a lusinghe poi di sé non crede, /
né a chi dar biasmo a torto gli volesse: / fassi, mirando
allo specchio lucente / se stesso, conoscendosi, prudente»
(X, 58-59).
Il riferimento allo specchio quale rivelatore di moralità
fa pensare che il tema fosse familiare alla corte estense,
certamente in grado di cogliere le allusioni a un oggetto
di questo tipo.
Paolo Parmiggiani
36 37
LA GIOSTRA
E LA
BATTAGLIA
–
4. La battaglia di Roncisvalle, c. 1475-1500
Arazzo in lana e seta, cm 253,5 x 338,5
Londra, Victoria and Albert Museum
Inv. T.95-1962
Provenienza: acquisto da Sotheby & Co. 18 maggio 1962;
collezioni del Victoria and Albert Museum.
Bibliografia: Londra 1921, n. 59; Göbel 1923, I, p. 273, II,
p. 216; Ackerman 1933, pp. 79-80, n. XII; Crick-Kuntziger
1956, pp. 17-19, n. 3, figg. 4-5; Heinz 1963, p. 73, figg. 42-43;
S.P. Asselberghs in Tournai 1967, p. 25, catt. 10-13; Masschelein-Kleiner,
Znamensky-Festraets e Maes 1967-68;
Digby 1980, pp. 18-19, n. 15; Forti Grazzini 1982, pp.
23-24; Cavallo 1993, p. 242; Rapp Buri e Stucky-Schürer
2001, p. 384.
Questo frammento appartiene a un arazzo, probabilmente
tessuto nell’ultimo quarto del XV secolo a
Tournai, che verosimilmente faceva parte di una serie
dedicata alla Storia di Carlo Magno. Gli episodi della
serie erano tratti dalle cronache delle gesta di Carlo
Magno e Orlando redatte nel XII secolo e note come
“Pseudo-Turpino”.
Nel 778, al ritorno dalla guerra contro gli Arabi di Spagna,
la retroguardia dell’esercito di Carlo Magno fu annientata
in un’imboscata tesa dai baschi, alleati dei saraceni,
sui Pirenei, presso Roncisvalle. Nell’arazzo i protagonisti
sono identificabili grazie alle iscrizioni. L’evento principale
è rappresentato sulla destra: Orlando uccide con la
spada Durlindana il re saraceno Marsilio. In questa scena
cruenta egli sembra tagliare l’uomo a metà, mentre nella
Chanson gli amputa solo un braccio, poi gli giustizia il
figlio. Al centro vediamo il compagno di Orlando, Oliviero,
che brandisce la spada sopra un soldato, il quale si
difende con uno scudo incastonato di gemme. Dietro l’albero
è raffigurato un evento precedente, secondo la convenzione
compositiva comune agli arazzi medievali: vi si
scorge Bevon, duca di Beaune, a concilio con i Franchi,
suoi compagni d’armi.
Negli inventari estensi sono menzionate tre serie di
arazzi che erano di proprietà del marchese di Ferrara
nel 1436. Due di esse trattavano di battaglie e, di queste,
una era dedicata alle imprese eroiche del padre di
Carlo Magno, Pipino il Breve. È possibile che tra queste
composizioni ci fosse anche una scena legata alle
vicissitudini di Orlando. Certo gli arazzi estensi di
soggetto guerresco dovevano somigliare a questa Battaglia
di Roncisvalle, con scene di scontri armati sovraffollate
e cruente, secondo la caratteristica iconografia
tardo-medievale.
Zofia Jackson
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5. Italia meridionale (?)
Olifante detto “Corno di Orlando”, circa XI secolo
Avorio, lunghezza cm 50, diametro cm 13
Tolosa, Musée Paul-Dupuy
Provenienza: Tolosa, Tesoro della basilica di San Saturnino;
Tolosa, Musée Paul-Dupuy.
Bibliografia: Tolosa 1989, p. 245, cat. 346; Roma 1994,
pp. 457-458, cat. 217; Caen 1995, p. 16, cat. 53; Shalem
2004; Shalem e Glaser 2014, I, pp. 264-270, II, pp.
70-71; Rosser-Owen 2015, pp. 15-58.
Gli olifanti erano corni d’avorio ricavati da zanne d’elefante,
capaci di produrre un suono potente. Benché
vi sia disaccordo tra gli studiosi, i dati circostanziali
e stilistici suggeriscono che tra la fine dell’XI secolo
e la fine del XII ne furono prodotti molti nell’Italia
meridionale. Il termine “olifante” deriva dall’antico
francese olifant (elefante) e appare per la prima
volta nel poema cavalleresco La Chanson de Roland,
le cui prime versioni scritte risalgono alla metà del
XII secolo. Il poema narra della battaglia di Roncisvalle
del 778, quando la retroguardia dell’esercito
dei Franchi cadde in un’imboscata tesa dai Saraceni
su un valico dei Pirenei. Orlando, ferito a morte, dà
fiato al suo olifante per richiamare Carlo Magno e il
suo soffio produce un suono così forte da spezzare
il corno. Egli usa il suo strumento come arma anche
negli ultimi istanti di vita, danneggiandolo ulteriormente
quando colpisce un soldato saraceno che cerca
di sottrargli la spada.
L’olifante divenne un simbolo del sacrificio di Orlando
e finì per rappresentare, in senso più generale, i trionfi
dei crociati.
Pur essendo stato fabbricato circa tre secoli dopo la
battaglia di Roncisvalle, l’olifante in mostra, a causa del
suo evidente danneggiamento, è per tradizione identificato
con quello di Orlando.
La sua decorazione si snoda su cinque fasce di incisioni
a bassorilievo, con due vani lisci per le cinghie
da trasporto: accanto ad animali reali – come leoni,
cani e uccelli – vi figurano bestie fantastiche come il
grifone, la sfinge e l’unicorno. Si riteneva che l’olifante
di Orlando fosse stato portato nella basilica di San
Severino a Bordeaux da Carlo Magno e posto sull’altare
come sacra reliquia. Questo olifante è documentato
nell’inventario del 1489 del Tesoro della basilica di
San Saturnino, a Tolosa, dove veniva esposto ai fedeli
durante la Settimana Santa.
Agli olifanti si attribuivano proprietà sacre, quasi magiche,
e nel tardo Medioevo i sovrani e gli ecclesiastici
ne facevano dono alle chiese; si dice che un olifante
pendesse sopra l’altare maggiore in San Pietro a Roma.
La rarità dell’avorio – materiale costoso –, le sue connotazioni
esotiche e il simbolismo suggerito dalle sue
caratteristiche (il colore bianco, la naturale luminosità,
la durezza, che lo rendeva difficile da intagliare, e la
durevolezza), insieme alla sua capacità di produrre un
suono potente, contribuirono ad aumentare il prestigio
e la mistica di questo oggetto. Non vi è dubbio che ad
esso si ispirò Ariosto quando introdusse nell’Orlando
furioso il corno magico di Astolfo.
Flora Dennis
42 43
6. Maestro del Lancelot
Galaad viene in soccorso di Perceval
in Gautier Map, Lancelot du Lac, ultimo quarto del XIV secolo
Pergamena, [I] + 113 ff., mm 392 x 274
Parigi, Bibliothèque nationale de France, Fr. 343, ff. 25v-26r
Bibliografia: Toesca 1912 (ed. 1966), pp. 159-162; Pellegrin
1955, p. 274; Salmi 1955, pp. 873-874; R. Cipriani in
Milano 1958, p. 30, cat. 72; Quazza 1965; F. Avril in Parigi
1984, p. 98, cat. 84; Sutton 1991; Castelfranchi Vegas
1993; A. Quazza in Alessandria 1999; F. Moly in Bollati
2004, pp. 542-543; Avril e Gousset 2005, pp. 66-71, n. 30.
Il codice è una compilazione di tre frammenti arturiani,
la Quête du Graal, il Roman de Tristan e La Mort le roi
Artu. Il copista è identificato con Albertolus de Porcelis,
noto per avere sottoscritto nel 1383 un libro d’ore oggi a
Modena (Avril e Gousset 2005, p. 71).
«Quaterni quatuordecim in carta [pergamena] in gallico
historiati…»: così il Lancelot è descritto nel 1426
nella biblioteca viscontea di Pavia, in fascicoli protetti
da una coperta in cuoio. Vi figura ancora nel 1488 e la
nota apposta in fine del volume – Pavye au Roy Loys
XIIe – indica che ne uscì col bottino riunito dai Francesi
nel 1499 alla caduta del ducato (Pellegrin 1955, p. 274;
Albertini Ottolenghi 1991, p. 114).
L’illustrazione del codice non fu mai completata: delle
centoventidue miniature, alcune mostrano solo gli
strati preparatori di colore, altre il disegno a penna. Poiché
sono rimasti vuoti anche i due stemmi al foglio 1r
ignoriamo il nome del committente dell’impresa, che
potrebbe essere Bernabò Visconti. La sua morte nel 1385
fornirebbe allora causa e terminus ante quem dell’interruzione
del lavoro (Sutton 1991).
A partire da Toesca (1912, ed. 1966, pp. 159-162), il Lancelot
e i suoi vari miniatori sono riconosciuti come milanesi.
Benché desuma alla lettera gruppi di figure dal Guiron
(Quazza 1965 e in Alessandria 1999, p. 167), il codice
appartiene per stile ad un gruppo omogeneo più tardo,
ricostruito intorno al libro d’ore-messale di Bertrando
de’ Rossi, funzionario di Bernabò poi di Gian Galeazzo
Visconti (Parigi, BnF, lat. 757; già Salmi 1955, pp. 873-
874). Il gruppo segna l’affermazione dell’ouvraige de
Lombardie e del suo sfavillante linguaggio cortigiano,
nel quale il fascino per la miniatura gotica francese si
fonde a curiosità mondane e a interessi naturalistici che
fanno di questi codici testimonianze iconografiche preziosissime
di moda, interni e costumi contemporanei.
Nella scena esposta, le armi dipinte sugli scudi identificano
i cavalieri: croce rossa in campo bianco per Galaad,
trinciato d’oro e di rosso per Perceval. L’argento delle
armature, steso su una preparazione ocra, è rifinito con
l’inchiostro. Il terreno è segnato dalle orme degli zoccoli
ferrati, come già nel Guiron (Tav. 23).
Pier Luigi Mulas
44 45
7. Lastra di sarcofago con amazzonomachia, 220-230 d.C.
Marmo bianco a grana media con venature grigie, cm 100 x 165 x 15
Brescia, Museo di Santa Giulia
Inv. MR10710
Provenienza: Brescia, basilica di San Salvatore, reimpiegato
capovolto nel pavimento (recupero 1998).
Bibliografia: Morandini 2000a; Morandini 2000b; Morandini
2007; Morandini 2014.
La lastra presenta un intricato rilievo nel quale, in uno
scontro, sette Amazzoni – alcune delle quali in groppa a
destrieri – affrontano sei guerrieri nudi. Le mitiche donne-guerriere,
di origine orientale, sono caratterizzate
dal berretto frigio, dal mantello, dal chitone che scopre
la spalla e il seno destro e da alti calzari con il bordo
risvoltato (embades).
La scena è definita nella parte superiore da un fregio
con ovoli e lancette e, in quella inferiore, da un listello
liscio, sul quale si appoggiano le figure; al di sotto di esso
è scolpita una gola rovescia coperta di foglie d’acanto e
una fila di dentelli capovolti.
Le figure che compongono il rilievo, drammaticamente
intricate e scandite su più piani a suggerire la profondità
del campo in cui si svolge la scena, sembrano avere
un punto focale e gerarchico nella coppia al centro della
lastra, costituita dal guerriero nudo che trattiene per i
capelli la donna inginocchiata ai suoi piedi, mentre con
il braccio destro sta per sferrare il colpo mortale.
Nel rilievo non è possibile identificare un episodio specifico
delle numerose battaglie sostenute dalle Amazzoni
e narrate dal mito; vi si potrebbe ravvisare l’uccisione
di Pentesilea da parte di Achille e l’innamoramento del
guerriero, o un momento della lotta alle pendici dell’acropoli
di Atene tra Amazzoni e ateniesi, quando le
guerriere si recarono ad Atene per liberare Antiope, loro
regina, rapita e sposata da Teseo; o, secondo un’altra versione
del mito, quando Antiope stessa si recò nella città
per vendicarsi di essere stata ripudiata dall’eroe ateniese
a favore di Fedra.
Del resto, scene di lotta simili a questa ricorrono su
numerosi esemplari di sarcofagi prodotti in Attica e,
molto probabilmente, questo schema iconografico, piuttosto
diffuso, può essere considerato uno dei tanti che,
partendo da archetipi scultorei famosi, venivano utilizzati
per scene di battaglia generiche. Queste andarono
a loro volta a costituire un modello per raffigurazioni
analoghe dall’età rinascimentale in poi.
Il tipo di marmo, il solco a trapano corrente che stacca le
figure dal piano di fondo, i calchi iconografici di alcune
di esse, con diverse declinazioni in altri esempi, inducono
a ritenere questo sarcofago un originale di produzione
attica databile tra il 220 e 230 d.C. circa.
Francesca Morandini
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8. Bertoldo di Giovanni
Scena di battaglia, c. 1480
Bronzo, cm 45 x 99
Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. 258 B
Provenienza: Firenze, Palazzo Medici nel 1492; Guardaroba
Medicea, almeno dal 1560; Galleria degli Uffizi, dal
1769; Museo Nazionale del Bargello dal 1873-79.
Bibliografia: Lisner 1980; Bober e Rubinstein 1986; Draper
1992.
L’entusiasmo degli artisti rinascimentali per i sarcofagi
antichi è ben testimoniato dal celebre episodio vasariano
riferito a Brunelleschi, che se ne sarebbe partito
«in zoccoli» da Firenze verso Cortona per ritrarne
uno «bellissimo» che gli era stato decantato dall’amico
Donatello (Vasari 1568, ed. 1971, III, p. 151, e ora F. Paolucci
in Firenze e Parigi 2013, pp. 312-313, cat. III.13). Per
realizzare il suo rilievo in bronzo Bertoldo di Giovanni,
creato di Donato, prese invece spunto da un’altra cassa
marmorea antica, conservata nel Camposanto di Pisa e
anch’essa esistente ancor oggi, che mostra una battaglia
tra soldati romani e guerrieri barbari, a piedi e a cavallo
(inv. n. C 21 est: Arias, Cristiani e Gabba 1977, pp. 151-
152): furono certamente i vistosi danni subiti dall’originale,
forse in epoca medievale, a sollecitare la creatività
dello scultore, che li reintegrò trasformando la generica
scena di combattimento in un’esemplare «storia… di più
cavagli e gnudi», soggetto in gran voga nella Firenze
dell’ultimo trentennio di Quattrocento, che avrebbe
molto impressionato anche il giovane Michelangelo
(Draper 1992, poi M. Collareta in Firenze 1987, pp. 25-27,
cat. 5, e M. Hirst in Firenze 1992b, pp. 52-62, cat. 12).
Bertoldo mantenne la strutturazione con file sovrapposte
di cavalieri tra vittorie alate del rilievo di fine II
secolo d.C., anche se ne dimezzò le misure, per fare del
proprio bronzo – come all’epoca usava – un elemento
d’arredo: eseguito attorno al 1480 per Lorenzo il Magnifico,
nel 1492 figurava infatti nell’appartamento di questi
nel palazzo di famiglia in via Larga ad ornamento di un
camino (ciò spiega l’aumento dell’aggetto delle figure
dei registri superiori, funzionale ad una visione dal
basso). Sostituendo le spade e le lance del prototipo con
primitive clave, l’artista trasferì la scena in una dimensione
atemporale; ridusse inoltre l’abbigliamento delle
figure a sottilissimi panni (quando non l’eliminò tout
court): valorizzando le anatomie, attenuò le distinzioni
individuali tra i combattenti, dando vita ad una superficie
animata da un ininterrotto guizzare di muscoli, indifferentemente
umani e animali, ottenendo effetti plastici
all’antica più che nello stesso modello di partenza.
L’azione ad ogni modo s’impernia al centro: là dove in
origine nel sarcofago aveva trovato spazio l’imperator
vittorioso, un possente cavaliere, barbato e col capo
coperto da un peculiare elmo a doppia ala, carica un
gruppo di avversari. Come ben vide Margrit Lisner,
si tratta di Ercole, mitico protettore dell’ordine civile
contro la tirannia e in quanto tale oggetto, nella Firenze
repubblicana, di una sorta di culto laico di cui i Medici,
com’è noto, si appropriarono prontamente; qui tuttavia
l’eroe è rappresentato a cavallo secondo un’iconografia
di sapore ancora cortese, inconsueta sull’Arno ma frequentata
in ambito estense, in particolare in un famoso
ciclo di arazzi nel castello di Ferrara (Lisner 1980;
Hessert 1991 passim; Caglioti 2000, I, p. 261, e inoltre
Syson 2004 e Campbell 2004): nella produzione di Bertoldo
il singolare soggetto ritorna in un bel bronzetto
oggi nella Galleria Estense di Modena, in origine probabilmente
montato su un basamento cui erano associate
due figure «d’uomini selvatici» reggenti scudi (conservate
una a Vaduz e l’altra a New York: J.D. Draper in
Firenze 1986, pp. 261-262, cat. 109).
Maria Beltramini
48 49
9. Antonio del Pollaiolo
Battaglia di dieci nudi, c. 1465
Incisione su rame, secondo stato, mm 395 x 586, 404 x 607
Firenze, Biblioteca Marucelliana, Stampe vol. I, n. 13
Provenienza: Firenze, Biblioteca Marucelliana.
Bibliografia: Vasari 1550 e 1568 (ed. 1966-87), III, pp.
506-507; Anonimo Magliabechiano ed. 1892, p. 81;
Berenson 1896, pp. 54-55; Cleveland 2002; Landau 2003;
Galli 2005, pp. 18-19, 88; Wright 2005, pp. 152, 170, 176-
181, 506-507 n. 4; G. Marini in Padova 2006, pp. 270-272,
n. 6; Olszewski 2009; P. Refice in Arezzo 2011, pp. 356-
357; Galli 2014-15, pp. 34, 47, 56-58; G. Donati in Milano
2014-15, pp. 178-181, cat. 9 (con bibliografia precedente).
La cosiddetta Battaglia di dieci nudi rappresenta uno dei
capolavori dell’incisione italiana del Quattrocento (e non
solo), tanto da far apparire quasi ovvio che, nella tabula
ansata sulla sinistra, compaia la firma «OPVS / ANTONII
POLLA / IOLI FLORENT / TINI», riconosciuta da tempo
quale la più antica apposta a definire la proprietà intellettuale
e materiale di una stampa. La presenza di una simile
sottoscrizione testimonia dunque di per sé che agli occhi
dell’artista e dei contemporanei la Battaglia di dieci nudi
assumeva il carattere quasi di un manifesto dimostrativo
delle potenzialità tecniche e delle risorse espressive del
maestro, fin nella scelta di rappresentare una lotta senza
quartiere di dieci personaggi ignudi, variamente armati
e non meglio caratterizzati nell’iconografia. Peraltro,
la difficoltà di riconoscere il vero soggetto della Battaglia,
malgrado i tentativi anche recenti (ultimo quello di
Olszewski 2009), non ne ha affatto impedito l’apprezzamento:
già l’Anonimo Magliabechiano (ed. 1892) la
ricordava tout court come «una forma di rame di gnudi di
diverse attitudini e mirabili», mentre poco dopo Giorgio
Vasari (1550 e 1568, ed. 1966-87), osservando che il Pollaiolo
«s’intese degli ignudi più modernamente che fatto
non avevano gli altri maestri inanzi a lui», e che anzi «fu
primo a mostrare il modo di cercare i muscoli, che avessero
forma e ordine nelle figure», passava senza soluzione
di continuità a segnalare – non troppo precisamente –
come «di quegli [ignudi], tutti cinti d’una catena, intagliò
in rame una battaglia». Dunque era stata individuata in
nuce già nel Cinquecento quella combinazione di competenza
anatomica e dinamico vitalismo che diventerà
la sigla della comprensione dell’arte pollaiolesca, proprio
tramite la magistrale lettura della Battaglia fornita da
Bernard Berenson (1896). Quanto più conta, tuttavia, è
che nella sua presentazione esemplare di una gamma di
corpi in azione la stampa poteva evidentemente riuscire
autosufficiente anche ad un pubblico quattrocentesco,
non ancora avvezzo a simili tour de force. Il successo
dell’impresa è assicurato anche dall’esistenza di due copie
xilografiche ancora quattrocentesche, l’una firmata da tal
«Johannes de Francfordia» e l’altra siglata dal fiorentino
Lucantonio degli Uberti (si veda da ultimo S.R. Langdale
in Cleveland 2002, p. 53).
La datazione della Battaglia è ancora discussa, tanto
più legata com’è a doppio filo alla vexata quaestio della
priorità del Pollaiolo o del Mantegna nelle soluzioni
tecniche dell’incisione su rame; ci sono tuttavia buone
ragioni per credere che si tratti di un’opera realizzata
ancora nel settimo decennio del secolo (da ultimo Galli
2014-15). Sappiamo infatti che era appartenuto al pittore
padovano Francesco Squarcione, morto nel 1468,
un «cartonum cum quibusdam nudis Poleyoli» (Lazzarini
e Moschetti 1908, pp. 110-111, 295-296). Anche se
non pare, come è stato proposto, che un pezzo definito
«cartonum» possa identificarsi con la nostra incisione,
rimane invece aperta la possibilità che circolasse un
grande disegno pollaiolesco, verosimilmente il medesimo
da una porzione del quale un anonimo padovano
ricavò la stampa designata – nel suo secondo e ultimo
stato – quale Battaglia di Ercole coi dodici giganti (sulla
quale si veda da ultimo G. Marini in Padova 2006, p. 276,
cat. 62). Come ha dimostrato Lilian Armstrong (2003),
la Gigantomachia – ovvero il disegno alla sua base –
era già nota e sfruttata in Veneto entro il 1470, e sembra
convincente, sul piano stilistico, che tale datazione spinga
verso una cronologia all’incirca coeva anche la nostra Battaglia.
È facile immaginare, in sostanza, che Pollaiolo si
avvicinasse all’incisione proprio in conseguenza di una
prima e dirompente propagazione delle sue idee grafiche,
con l’intento di sfruttare il nuovo medium in risposta ad
una vasta domanda di adattabili invenzioni all’antica.
Gabriele Donati
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10. Ercole de’ Roberti
Scena di battaglia, c. 1490
Matita nera, penna, pennello e inchiostro nero su pergamena, mm 195 x 290
Venezia, Museo Correr
Inv. 21
Provenienza: Venezia, acquistato da Teodoro Correr
(1750-1830); Venezia, Museo Correr.
Bibliografia: Longhi 1934 (ed. 1956), p. 104, n. 89; Salmi
1960, p. 24; Ruhmer 1963, p. 620; T. Pignatti e G. Romanelli
in New York 1985, p. 49, cat. 1; Manca 1992, pp. 141-
142, n. 20; Molteni 1995, pp. 223-224, n. 97 (con bibliografia
precedente).
La concitata scena di battaglia è attribuita ad Ercole
de’ Roberti dalla maggior parte della critica (New York,
1985, p. 89; Manca 1992, pp. 141-142), ad eccezione di
Longhi (1934, ed. 1956, p. 104) e Molteni (1995, pp. 223-
224) che ritengono il disegno non autografo ma opera di
uno suo stretto seguace, che utilizza e rielabora motivi
desunti dalle opere più tarde del maestro. Per spiegare
l’intenso movimento dell’affastellata composizione
dal gusto archeologizzante sono state di volta in volta
richiamate suggestioni mantegnesche (Ruhmer 1963, p.
620), il ricordo delle composizioni affollate del Pollaiolo
(Salmi 1960, p. 24), influssi delle stampe nordiche e di
Schongauer. Il foglio del Correr, tuttavia, sembra spiegarsi
soprattutto con la riflessione del pittore, negli anni
della maturità, sul movimento e, nello stesso tempo,
sulla «necessità di comunicare direttamente coi sentimenti»,
raggiungendo risultati «da non trovare, ai quei
tempi, altro paragone di valore che in Leonardo» (Longhi
1934, ed. 1956, p. 45). La Battaglia presenta numerose
analogie, in particolare, con le predelle con le scene della
Passione di Cristo della Gemäldegalerie di Dresda e con
l’intreccio di cavalieri e cavalli dell’Abramo e Melchisedec,
conservato in origine nelle collezioni estensi, di cui
esisteva in collezione privata una copia antica (Manca
1992, p. 142). L’intensità dei volti dei soldati che si trasmette
ai musi come umanizzati dei cavalli, il viluppo
inestricabile di corpi in piedi o riversi a terra, di zampe
sollevate, di scudi, elmi e vessilli al vento di queste composizioni
di Ercole de’ Roberti appartengono a quel
mondo figurativo quattrocentesco di cui «l’Ariosto si
era certo nutrito» (Gnudi 1994, p. 15) e che sembra suggestionare
il poeta, ancora, in diversi passi del Furioso,
laddove, per esempio, nella battaglia di Parigi Rinaldo
«urta, apre, ruina e mette in volta» la schiera dei nemici
(XVIII, 40, 6), e «Con fanti in mezzo e cavallieri allato, /
re Carlo spinse il suo popul gagliardo», tra «rumor di
timpani e di trombe» (XVIII, 41, 5-8).
Marialucia Menegatti
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11. Leonardo da Vinci
Una battaglia fantastica con cavalli e elefanti, c. 1515-18
Pietra nera, pietra rossa, preparazione in polvere di pietra rossa su carta, mm 148 x 206
Windsor, The Royal Collection / Sua Maestà la Regina Elisabetta II
Inv. RCIN 912332
Provenienza: Pompeo Leoni, c. 1582-90; Thomas Howard,
conte di Arundel, ante 1630; Royal Collection, ante 1690.
Bibliografia: Müntz 1899, p. 532; Seidlitz 1911, p. 273, n. 74;
Venturi 1920, pp. 130-131; Popp 1928, pp. 11-12, 52; Sirén
1928, III, tav. 166; Suida 1930, pp. 145-146; Lessing 1934;
Möller 1934, pp. 89-90; Clark 1935, pp. 25-26; Berenson
1938, n. 1230; Popham 1945, pp. 64-65; Clark 1968, p.
30; Clark 1969, pp. 15-17; Clark in Londra 1969-70, p. 32;
Washington, Houston e San Francisco 1985-86, pp. 71-72,
cat. 46; Pedretti 1987, p. 117; M. Kemp in Londra 2006,
p. 156, cat IV.17; Vecce 2012, 29; Borgo 2015, pp. 231-233;
Brown 2015, p. 162.
In questa veduta di un campo di battaglia uno sciame di
corpi combatte con furia lungo il margine inferiore del
foglio, mescolandosi in una mischia in cui si distinguono
a fatica cavalieri e fanti armati di lunghe aste. La zuffa è
sovrastata dalla massa di sei enormi animali, uno dei quali
porta sul dorso una lettiga carica di soldati e lunghi stendardi
a fiamma che sventolano nella corsa; subito a destra
si intravede una figura che brandisce un’ascia, disegnata
in scala più grande (un tratto a pietra nera ne segnala il
retro del capo). L’avanzare verso sinistra è frenato dall’esplosione
di due bombarde, appena leggibili sullo sfondo
rosso, che mandano i pachidermi gambe all’aria con contorsioni
quasi feline.
La nube di polvere che invade la scena è suggerita dalle
morbide volute che si alzano dal gruppo principale, ed
evocata dalla terra rossa diluita di cui è ricoperto il foglio.
La qualità sfuggente ed elusiva del disegno non è accidentale,
ed è anzi rafforzata dalla tecnica scelta, che riduce il
contrasto tra fondo e figure, così che le forme sembrano
affondare in una spessa caligine. Leonardo torna a definire
alcuni dettagli con una maggiore pressione della
mano, forse inumidendo la punta della pietra rossa, e
infine con pochi brevi tratti di pietra nera.
Il disegno è stato interpretato in vario modo: come uno
studio preparatorio per la Battaglia di Anghiari (Sirén
1928, Suida 1930, Venturi 1920), un combattimento di animali
fantastici (Popp 1928, Berenson 1938), uno scontro
tra l’esercito romano e Pirro (Müntz 1899, Seidlitz 1911),
una caccia di elefanti selvatici (Möller 1934), una battaglia
con elefanti (Popham 1945, Clark 1935, Kemp in Londra
2006, Brown 2015) e un gigante (Pedretti 1987), una zuffa
di uomini e cavalli rappresentati con variazioni di scala
(Lessing 1934, Clark 1969). L’indeterminatezza del soggetto
si è prestata a farne un’allegoria della guerra come
«pazzia bestialissima» (Libro di pittura, § 177), ed è con
questo titolo che ci si riferisce talvolta al disegno, l’unico
di Leonardo tuttora conservato che mostri un campo di
battaglia nella sua interezza, anziché concentrarsi sui singoli
accidenti dell’azione, come negli schizzi per la Battaglia
di Anghiari.
Leonardo possedeva alcuni testi storici e cavallereschi
che avrebbero potuto evocare una scena simile a questa: il
Guerrin Meschino, ad esempio, descrive elefanti messi in
fuga dal fuoco (II, 28-29), mentre il Ciriffo Calvaneo racconta
di uno scontro tra giganti ed elefanti (VI, 20, 3-8).
Nel suo Livio volgarizzato avrebbe poi potuto leggere di
battaglie tra Romani e Cartaginesi in cui elefanti spaventati
travolgono la cavalleria numida; dei danni spesso causati
dagli animali impauriti parla anche Plinio (VIII, 1-10).
Altri testi di arte militare della biblioteca di Leonardo
descrivono l’uso di elefanti in guerra: Valturio (De re militari,
X) nomina lo «scalpro», un ferro usato per ferire gli
animali, che riappare anche tra gli appunti dell’artista
(ms. B, f. 9r), mentre Cornazzano (Dell’arte militare, III,
2) specifica che i tanto temuti elefanti di Pirro sarebbero
bersagli troppo facili per le artiglierie moderne. Nel
marzo del 1516, a Roma, Leonardo aveva poi sicuramente
assistito ai festeggiamenti in onore di Giuliano de’ Medici,
e aveva quindi potuto vedere Hanno, l’elefante donato a
Leone X, imbizzarrirsi e far cadere il palanchino carico
di uomini armati fissato al suo dorso: un incidente che le
cronache contemporanee interpretano come presagio di
cattiva sorte (Bedini 1997, pp. 108-109).
A dispetto di queste possibili letture, non si può ignorare
la natura esplicitamente immaginativa del foglio,
che intrattiene una relazione non normativa con fonti e
modelli, qui liberamente rielaborati. La componente fantastica
è rafforzata dal contrasto di scala tra il brulicare
delle schiere del margine inferiore e il gigantismo delle
figure della parte superiore, indistinte nella nebbia. Leonardo
potrebbe essere partito, al centro del foglio, da uno
studio di cavalli in movimento (si veda il contemporaneo
RL 12331), e poi, con l’aggiunta della torma di guerrieri
lillipuziani, il soggetto sarebbe diventato altro, secondo
un procedimento di riconfigurazione iconografica che di
certo non gli era estraneo (Nagel 2014). Nel denso garbuglio
di linee del groppo di elefanti, ad esempio, sembra
continuamente di poter scorgere delle proboscidi: ma il
disegno disattende puntualmente l’aspettativa dell’occhio,
impegnato nella vana ricerca di segni che indichino univocamente
la natura degli animali. L’identità delle figure
è instabile: avvolti nella nebbia e nel garbuglio di linee,
un cavallo può diventare un elefante, un soldato si trasforma
in un gigante, gli stendardi si dissolvono in volute
di fumo. Leonardo non giunge a determinare un soggetto
preciso, uno scontro chiaramente identificabile: la battaglia,
sospesa nella nebbia, è trattenuta in una fase preiconografica,
di libero dominio della fantasia; i soldati possono
essere arruolati per interpretare personaggi diversi:
romani in battaglia contro Pirro o Annibale, cacciatori di
elefanti, allegorie dell’insensata brutalità della guerra.
Francesca Borgo
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12. Grande elmo con cimiero, metà del XIV secolo
Ferro e cuoio, dorato e argentato, cm 73 x 24,5 x 29
Vienna, Kunsthistorisches Museum, Rüstkammer
Inv. B 74
Provenienza: Abbazia di Seckau, diocesi di Graz; trasferito
all’Armeria imperiale di Vienna nel 1878.
Bibliografia: Thomas e Gamber 1976, I, pp. 37-38.
Il grande elmo della famiglia Von Prankh, che oggi fa
parte della collezione di armi del Kunsthistorisches
Museum di Vienna, risulta essere il più antico ad aver
conservato il proprio cimiero. Esso fu affidato, a titolo di
deposito funerario, all’Abbazia di Seckau, in Stiria, dove
erano inumati due bambini della famiglia Von Prankh,
stirpe aristocratica austriaca originaria della regione.
L’elmo fu creato per essere usato nelle giostre e per
questa ragione la parte che proteggeva il lato sinistro
del volto è particolarmente rinforzata. È sormontato
da un cimiero che riprende lo stemma dei Von Prankh,
a forma di grandi corna di bufalo con l’aggiunta di un
largo bordo frastagliato. Ornamenti spettacolari di questo
genere, inutilizzabili in battaglia, si potevano rimuovere
ed erano fatti con materiali leggeri; in questo caso
cuoio sagomato, dorato e argentato. All’inizio del XVI
secolo cimieri di questo tipo non erano più in uso in
Italia, mentre in area germanica continuavano a essere
assai popolari, soprattutto per la Gestech, un tipo di “giostra
di pace” che prevedeva ancora l’utilizzo del pesante
e soffocante grande elmo. Nelle decorazioni araldiche,
invece, erano ancora diffusi e spesso coronavano le insegne
nobiliari nelle loro diverse raffigurazioni. In particolare
ornavano le riproduzioni di elmi collocate sulle
tombe degli aristocratici ed erano tra gli accessori dei
rituali di sepoltura.
Olivier Renaudeau
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13. Artista dell’Italia settentrionale (Friuli o Tirolo)
Sella da parata con le armi di Ercole I d’Este, dopo il 1474
Legno, osso e cuoio, cm 45 x 58 x 44
Modena, Galleria Estense. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. 2461
Provenienza: Ferrara, collezioni Estensi, post 1474;
Modena, Palazzo Ducale, 1598-prima metà del Seicento;
Modena, Palazzo dei Musei, 1894.
Bibliografia: Ferrari Moreni 1867; Venturi 1882, pp.
47-52; Londra 1984 (ed. 1985), pp. 138-139; Bernardini
2006, pp. 87-88; D. Gasparotto in Casciu 2015, pp. 82-84.
La sella da parata di Ercole I, recante lo stemma del duca
e il motto «Deus fortitudo mea» (rispettivamente collocati
sulla guardia dell’arcione anteriore e sui cartigli di
quello posteriore), è un’importante testimonianza della
presenza dei temi amoroso-guerreschi, e quindi cavallereschi,
presso gli Este anche precedentemente al ducato
di Alfonso I. Giovanni Francesco Ferrari Moreni, nel trattare
(1867) questo notevole manufatto realizzato da un
ignoto artista del Friuli o del Tirolo, ravvisava una continuità
tra le storie intagliate negli elementi d’osso che rivestono
i lati dei due arcioni della sella e i celebri versi che
aprono l’Orlando furioso: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli
amori / le cortesie, l’audaci imprese io canto». Gli episodi
amorosi sono raffigurati sulla parte anteriore: Innamoramento,
Innamoramento corrisposto, Colloquio e Abbraccio;
quelli guerreschi sulla posteriore: Ercole che uccide il
leone, sotto al quale è raffigurato il soggetto venatorio del
falconiere, e San Giorgio che uccide il drago, sotto al quale
è raffigurata una donna che tiene in mano una rosa, forse
allusione a Rovigo (Rhodigium dal greco rhodon, “rosa”),
città insidiata dalla Repubblica di Venezia (che la conquistò
nel 1482). A Rovigo Ariosto dedicò questi versi del
poema: «il cui produr di rose / le diè piacevol nome in greche
voci» (III, 41, 1-2; si veda Ferrari Moreni 1867, pp. 4-5).
Da alcuni passi dell’Orlando si può ricavare come una
sella decorata e preziosa fosse espressione della dignità
del cavaliere, la cui eleganza si accordava con la bellezza e
la fedeltà della donna (qualità che, occorre rilevare, Ariosto
non ritrae secondo le convenzioni cortesi): «Il cavallier
[Pinabello] su ben guernita sella, / di lucide arme e di
bei panni ornato, / verso il fiume venía, da una donzella /
e da un solo scudiero accompagnato. / La donna ch’avea
seco era assai bella, / ma d’altiero sembiante e poco grato, /
tutta d’orgoglio e di fastidio piena, / del cavallier ben
degna che la mena» (XX, 110). In un altro canto Bradamante
prepara assieme ad alcune donne i decori per la
sella di Frontino, il cavallo di Ruggiero: «Ogni sua donna
tosto, ogni donzella / pon seco in opra, e con suttil lavoro /
fa sopra seta candida e morella / tesser ricamo di finissimo
oro; / e di quel cuopre ed orna briglia e sella / del
buon destrier» (XXIII, 28).
Paolo Parmiggiani
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14. Olivier de la Marche
Le Chevalier délibéré
[Gouda, “tipografo del Chevalier délibéré” (Collaciebroeders?),
dopo il 31 ottobre 1489]. 2°
Bibliothèque Jean Bonna
Bibliografia: Picot e Stein 1923, pp. 324-328; Arnim
1984, II, pp. 431-438, n. 205; Norimberga 1987, n. 37;
Speakman Sutch 2004; Le Chevalier... 2006, pp. 29-35;
Parigi 2015a, pp. 20-24, cat. 3.
Esemplare unico di questa edizione (ILC 1403) del
poema allegorico di Olivier de la Marche, illustrato da
legni di una qualità straordinaria che ne fanno uno dei
più insigni monumenti della storia della silografia.
Gli stessi legni furono reimpiegati a Schiedam dallo
“stampatore della Vita Lydwinae” (Otgier Nachtegael?)
in un’edizione del poema databile 1498-1505 (ILC
1404), di cui si conoscono tre esemplari, oltre che in
una stampa del 1503 della traduzione di Jan Pertcheval.
Nel 1973 Lotte e Wytze Hellinga hanno ritenuto
di poter provare, grazie a un argomento di critica
testuale, che la successione delle stampe di Gouda e
Schiedam andasse invertita (Bruxelles 1973, p. 518). Nel
suo recente repertorio delle silografie contenute negli
incunaboli olandesi, Ina Kok si conforma a quest’avviso
(Kok 2013, I, pp. 625, 631). Di fatto l’argomento testuale
addotto dai coniugi Hellinga non è probante, mentre
l’usura dei legni nell’edizione di Schiedam dimostra
irrefragabilmente che questa è successiva alla stampa
di Gouda (Speakman Sutch 2004, p. 137 in nota).
L’esemplare fu colorato a mano conformemente alle
istruzioni dell’autore quali ci sono trasmesse nel manoscritto
fr. 1606 della Bibliothèque nationale de France
(edite da Picot e Stein 1923, pp. 313-319).
Adolfo Tura
60 61
15. Niccolò Silva
Armatura da giostra e da battaglia, c. 1510-15
Ferro forgiato, inciso e dorato, cm 188 x 59 x 50
Parigi, Musée de l’Armée
Inv. G 7
Provenienza: Parigi, antica collezione del Musée
d’Artillerie.
Bibliografia: Boccia e Coelho 1967, pp. 232-236; Pyhrr
1983, pp. 111-121.
Questo pezzo fa parte di una “piccola guarnitura”,
insieme composto da un’armatura da combattimento,
un equipaggiamento da giostra e vari elementi supplementari
che consentivano l’adattamento a diversi tipi
di torneo. È stato concepito per l’uso in battaglia, ma
gli spallacci – deputati alla protezione della parte alta
del braccio –, il lato sinistro della gorgiera e l’elmo, rinforzato
nella parte anteriore e in corrispondenza della
visiera con elementi di notevole spessore, sono piuttosto
destinati all’esercizio sportivo.
Splendidamente forgiata in un metallo accuratamente
polito, questa armatura è decorata con motivi incisi e
dorati che ne sottolineano le bordure, mentre una vivida
scena di battaglia si dipana sulla guardastanca, la parte
rialzata dello spallaccio sinistro che doveva deviare i
colpi di lancia mirati alla gola del combattente. A questa
decorazione guerresca si accosta un’invocazione alla
Vergine, «o mater dei memento mei», ripetuta anche sul
piastrone dello spallaccio.
Il marchio a forma di compasso e le iniziali incise in
due diversi punti permettono di attribuire questa bella
armatura a Niccolò Silva, armiere milanese citato negli
archivi della città lombarda tra il 1511 e il 1549, del quale
si conoscono quattro armature firmate (oltre a quella
esposta in questa mostra, una destinata al combattimento
a piedi e un’altra probabilmente appartenuta al
sovrano portoghese Manuele I detto il Fortunato), tutte
conservate al Musée de l’Armée.
Questo pezzo di Niccolò Silva è rappresentativo dell’eccellenza
raggiunta dagli armieri milanesi all’epoca in cui
Ariosto componeva l’Orlando furioso; la sobrietà delle loro
realizzazioni magistralmente forgiate contrasta con gli
equipaggiamenti cosparsi di raggi di carbonchio e carichi
di ornamenti ed emblemi di cui il poeta dota i suoi eroi.
Olivier Renaudeau
62 63
LO
SPECCHIO
DELLA
CORTE
–
16. Antonio di Puccio Pisano detto Pisanello
Ritratto di Leonello d’Este, 1441
Tempera su tavola, cm 28 x 19
Iscrizione sul retro della tavola: C·G·B C
Bergamo, Fondazione Accademia Carrara
Inv. 919
Provenienza: Ferrara, collezioni estensi, dal 1441; (?)
Ferrara, Ludovico Carbone, 1460; Ferrara, collezione
Costabili, 1835; Londra, collezione Alexander Barker,
1871; Bergamo, collezione Giovanni Morelli; Bergamo,
Accademia Carrara, dal 1891, con il legato Morelli (Mattaliano
1998, p. 122, n. 406).
Bibliografia: Baxandall 1963, pp. 314-315; C. Badini in
Milano 1991, Catalogo, pp. 162-165, cat. 38; Rosenberg
1991, p. 46, n. 36; Franceschini 1993, p. 209, docc. 461t,
461v; Cordellier 1995, pp. 96-97, doc. 38, pp. 170-171, doc.
78; F. Rossi in Verona 1996, pp. 388-391, cat. 88; L. Syson
e D. Gordon in Londra 2001, pp. 87-93; C. Cavalca in Ferrara
2004a, pp. 252-253, cat. 45; Valagussa 2008; Farinella
2016, pp. 42-43.
Questo dipinto fu eseguito in occasione di una gara tra
Pisanello e Jacopo Bellini, chiamati a realizzare un ritratto
di Leonello d’Este, signore di Ferrara dal dicembre 1441 al
1450 (F. Rossi in Verona 1996, pp. 388-391; L. Syson e D.
Gordon in Londra 2001; C. Cavalca in Ferrara 2004a, pp.
252-253). Il Pro insigni certamine di Ulisse degli Aleotti
racconta che Pisanello, occupato per sei mesi a «cuntender
cum natura» e a «convertir l’immagine in pictura»,
fu sconfitto da Bellini cui Nicolò, padre di Leonello e
arbitro della gara, assegnò il primo premio (Cordellier
1995, pp. 96-97, doc. 38). I versi di Aleotti e i pagamenti
erogati dalla contabilità estense per ricondurre, rispettivamente,
Pisanello a Mantova e Bellini a Venezia il 15
e il 26 agosto 1441 (Franceschini 1993, p. 209, docc. 461t,
461v), permettono dunque di datare la tavoletta entro la
prima metà dell’anno. I due ritratti erano ancora a corte
quando, intorno al 1450, Angelo Decembrio compose il
dialogo De politia litteraria in cui Leonello sentenzia che
Pisanello e Bellini avevano «discordato» nel rappresentare
il suo volto, il primo aggiungendo «alla bianchezza
della mia carnagione una magrezza più intensa, l’altro mi
ha raffigurato più pallido ma non più esile» (Baxandall
1963, pp. 314-315; trad. dal latino in Milano 1991, Catalogo,
p. 165). Il dipinto di Bellini risulta oggi disperso; la
storia del Ritratto bergamasco fino alla sua apparizione
nella galleria Costabili è piuttosto oscura, ma è probabile
un suo passaggio nello studiolo dell’umanista Ludovico
Carbone che nell’Oratio pro nepote Galeotti Assassini, del
1460 circa, sostiene di possedere un’immagine di Leonello
dipinta da Pisanello tanto simile al vero da suscitare
commozione (Cordellier 1995, pp. 170-171, doc. 78).
La tavoletta ritrae il marchese a mezzo busto, di profilo,
a imitazione dei ritratti classici, “all’antica”. Il restauro,
che ha individuato la cresta originaria della pittura lungo
il perimetro del dipinto, ne ha recuperato la raffinatissima
gamma cromatica (Valagussa 2008), dallo sfondo
blu scuro del cielo al roseto registrato con la precisione
di un botanico, dal farsetto finemente ricamato su cui
spiccano i bottoni argentati al niveo volto indagato con
assoluta precisione. L’elaborata acconciatura, resa con
cura lenticolare, ha probabilmente il duplice scopo di
sottolineare la nobiltà di Leonello (Manca 1991, p. 53,
suggerisce che il biondo dei capelli, forse artificiale, vada
inteso come un «mark of nobility») e il suo valore di condottiero,
dal momento che il taglio “a cappelliera”, folto
e all’indietro, era spesso usato dagli uomini d’arme per
ammortizzare i movimenti degli elmi (Rossi in Verona
1996, p. 390). Pisanello restituisce un’immagine del marchese
aderente al vero e nel contempo carica di valori
simbolici, quasi una legittimazione visiva del potere e
del diritto alla successione di Leonello, figlio naturale
di Nicolò, preferito ai figli legittimi. Cavaliere, erudito e
mecenate illuminato, Leonello fu salutato dagli umanisti
di corte come colui che aveva fatto di Ferrara la dimora
delle Muse, «foecunda» di principi giusti e di cittadini
dotati di eloquenza, unica a godere delle pace mentre
altrove regna Marte, dio della guerra (J. Pannonius in
Rosenberg 1991, p. 46, n. 36). Nel Furioso, celebrando la
stirpe estense, Ariosto riconoscerà in Borso, primo duca
di Ferrara, l’ideale compimento della politica pacificatrice
di Leonello: «Vedi Leonello, e vedi il primo duce, /
fama de la sua età, l’inclito Borso, / che siede in pace,
e più trionfo adduce / di quanti in altrui terre abbino
corso. / Chiuderà Marte ove non veggia luce, / e stringerà
al Furor le mani al dorso» (III, 45, 1-6; sull’ottava,
forse allusiva statua bronzea di Borso realizzata da Niccolò
Baroncelli, si veda Farinella 2016, pp. 42-43).
Marialucia Menegatti
66 67
17. Isabella d’Este
Lettera a Ippolito d’Este, Mantova, 3 febbraio 1507
Modena, Archivio di Stato
Inv. Letterati, Ariosto, b.3
Bibliografia: Mosti 1892, p. 171; Luzio e Renier 1900, pp.
228-230, 244-245; Catalano 1930-31, II, pp. 78-79; Güntert
1982, pp. 445-454; Bologna 1993, II, p. 11; Kolsky
1994, pp. 45-69; Calitti 2007, pp. 709-712; Dorigatti 2011,
pp. 6-7.
Prima notizia dell’elaborazione dell’opera, la lettera
della marchesa di Mantova al fratello segna la «data di
nascita ufficiale dell’Orlando furioso» (Dorigatti 2011, p.
6). Isabella ringrazia Ippolito di averle inviato Ariosto
per felicitarsi con lei della nascita del figlio Ferrante.
Ariosto conosce senz’altro Isabella, di cui è coetaneo, dai
tempi della comune giovinezza ferrarese, e le si presenta
quindi come messo di Ippolito ma anche come amico e
soprattutto come poeta. La lettera reca infatti il segno
dell’intervento della marchesa che, al di là delle formule
protocollari di ringraziamento, precisa di aver gradito
la scelta dell’ambasciatore «per che, ultra che ’l me sia
stato acetto, representando la persona di la S. V. R.ma,
luy anche per conto suo mi ha adduta gran satisfactione
havendomi, cum la naratione de l’opera che ’l compone,
facto passar questi dui giorni non solum senza fastidio,
ma cum piacer grandissimo».
Nessun dubbio che l’opera in questione sia il Furioso,
ma nessuna certezza sullo stato della redazione. Il termine
«naratione» potrebbe indicare sia la declamazione
di ottave stese per iscritto, sia il racconto di un progetto
narrativo. La prima ipotesi è più probabile e, insieme ad
altri elementi, attesta che esisteva una fruizione orale
del poema, almeno nella sua fase embrionale, come
indica anche, a Ferrara, la coeva testimonianza di Agostino
Mosti.
Andrebbe anche chiarito quale fosse la natura dei «rasonamenti»
cui Isabella accenna lodando il fratello «ché in
questa, come in tutte le altre actione sue ha havuto buon
judicio ad elegere la persona in lo caso mio. De gli rasonamenti
che ultra la visitacione havemo facti insieme, m.
Ludovico renderà cunto alla S. V. R.ma».
Può trattarsi di affari di Stato o personali tra i due fratelli;
ma non va escluso che il termine indichi un dialogo
intorno all’opera con cui Ariosto ha rallegrato Isabella
per due giorni. Sono note la passione della marchesa
per i romanzi cavallereschi, la sua promozione di traduzioni,
le sue insistite attenzioni per l’Inamoramento de
Orlando. Ma non è necessario immaginare che Ariosto
abbia chiesto a Isabella una qualche consulenza poetica.
È possibile che i «rasonamenti», se davvero riguardarono
il Furioso, abbiano toccato questioni genealogiche,
gli elogi degli Este (ipotesi che potrebbe corroborare il
fatto che il poeta avrebbe riferito a Ippolito i dettagli del
colloquio) o le lodi, notevolissime nel poema, di Isabella.
Dorigatti (2011, pp. 6-7) ipotizza che Ariosto abbia
potuto già leggere alla marchesa la profezia di Melissa
(AB XI, 59-61; C XIII). Altri due elogi di Isabella compaiono
poi in AB XXXVIII, 81-82 (C XLII, 84-85) e in AB
XXXVII, 67 (C XLI, 67); ma l’acme della celebrazione
isabelliana sono la vicenda di Zerbino e Isabella (che
inizia proprio nel canto A XI) e l’esaltazione delle virtù
di quest’ultima, il cui martirio è premiato da Dio con la
promessa che ogni donna che porterà il nome dell’eroina
avrà le sue virtù.
L’omaggio era ancor più marcato nella prima edizione,
dove il clou dell’episodio era collocato in XXVII, 27,
clin d’æil ad una delle imprese favorite di Isabella d’Este.
Né è secondario il fatto che Dio esalti Isabella sopra
quella «la cui morte a Tarquinio il regno tolse»: Lucrezia
romana, paragone della pudicizia femminile, ma anche,
nel gioco di specchi tra exempla e realtà, Lucrezia Borgia,
cognata e rivale di Isabella.
Alessandra Villa
68 69
18. Andrea Mantegna
Tre divinità, c. 1495
Penna e inchiostro bruno, acquerello bruno, carminio e blu, tracce di biacca su carta bianca scurita, mm 363 x 316
Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings
Inv. PD 1861,0810.2
Provenienza: Venezia, poi Londra, collezione John
Strange, dal 1785 al 1798 circa; Londra, Conrad Martin
Metz, dal 1798 al 1801; Londra, vendita della collezione
Metz, 6 maggio 1801; Londra, William Young Ottley, fino
al 1814; Londra, vendita della collezione Ottley, 13 giugno
1814; Londra, collezione John Heywood Hawkins,
fino al 1861; Londra, The British Museum, dal 10 agosto
1861 (A. Mazzotta e V. Romani in Parigi 2008).
Bibliografia: Catalogue... 1801, p. 21; Popham e Pouncey
1950, I, pp. 94-95, n. 156; D. Ekserdjian in Londra e New
York 1992, pp. 449-450, cat. 146; De Nicolò Salmazo
2004, pp. 227, 259; Agosti 2005, p. 81; Ballarin 2007, p.
CXXXIX; A. Mazzotta e V. Romani in Parigi 2008, pp.
346-348, cat. 143 (con bibliografia precedente); V. Farinella
in Mantova 2011, pp. 190-191, cat. 5; Farinella 2014a,
p. 368; Menegatti 2014, pp. 735-739, 745-748.
Lo splendido foglio inglese appartiene al periodo più
tardo dell’attività di Mantegna, databile tra il 1495 e il
1500 (A. Mazzotta e V. Romani in Parigi 2008, pp. 346-
348) o forse più oltre, viste le somiglianze tra le movenze
delle tre divinità e quelle delle figure attorno al dio
Como nel dipinto del Louvre eseguito da Lorenzo Costa
all’indomani della morte di Mantegna, nel 1506, su disegni
del maestro (Ballarin 2007, p. CXXXIX). Da sinistra
a destra, una fanciulla in piedi tiene tra le mani un arco
e una fiaccola con la fiamma rivolta contro la terra; al
centro, seduta, una figura maschile impugna nella destra
una lancia e nella sinistra uno scettro, il piede sinistro
sull’elmo che poggia sulla spada, lo scudo e l’armatura
deposti a terra; una giovane in piedi, avvolta in un drappo
blu, volge lo sguardo verso lo spettatore. Alla vendita
della collezione Metz, il disegno fu dubitativamente
interpretato come un Ercole al bivio (Catalogue... 1801,
p. 21), ma l’ipotesi fu accantonata a favore dell’identificazione
delle tre figure come Diana, Marte e Venere
quando nel 1861 il foglio fu acquisito dal British Museum
(A. Mazzotta e V. Romani in Parigi 2008, p. 346). Alla
proposta, che gode tuttora di ampi consensi, va affiancata
quella secondo cui la donna sulla destra sarebbe
Iride, messaggera degli dèi, riconoscibile dall’arco alle
sue spalle, un arcobaleno, suo convenzionale attributo
(Popham e Pouncey 1950, I, pp. 94-95; De Nicolò Salmazo
2004, pp. 227, 259). La figura di Marte è ripetuta
pressoché fedelmente nella tela riferibile alla bottega
di Mantegna in collezione privata milanese, frammento
di una composizione in origine più ampia (Agosti 2005,
p. 81), il cui significato è illuminato da un volumetto
ottocentesco corredato da un’incisione, dove si legge
tra l’altro che il piede poggiato sullo scudo e sull’elmo
è «indizio non dubbio di fresca pace» (V. Farinella in
Mantova 2011, p. 190). Anche la fiaccola riversa impugnata
da Diana potrebbe alludere alla pace, tema forse
particolarmente caro al destinatario del disegno che,
vista l’accuratissima rifinitura, fu probabilmente concepito
come opera compiuta. Se i colori bianco, cremisi e
blu, oltre che indubbia prova della creatività e dell’abilità
di Mantegna nel campo della grafica (A. Mazzotta e V.
Romani in Parigi 2008, p. 348), fossero davvero un’allusione
araldica (D. Ekserdjian in Londra e New York 1992,
pp. 449-450, che tuttavia erra nel riferirli ai Gonzaga, i
cui colori erano bianco, rosso, verde), la committenza
potrebbe essere ricercata nell’ambito della corte estense
i cui colori araldici erano appunto, il bianco, il rosso e il
blu scelti anche da Ruggiero, progenitore della casata,
quando affronta il rivale Leone Augusto (Of XLIV, 77;
Farinella 2014a, p. 368). Il disegno potrebbe essere associato,
naturalmente, al nome della marchesa Isabella ma
anche a quello del padre, il duca Ercole I, i cui rapporti
con Mantegna sono ben documentati e che era particolarmente
interessato, allo scadere del Quattrocento, a
trasmettere di sé un’immagine di principe giusto e portatore
di quiete. La capacità di garantire la pace al ducato
estense fu infatti uno dei maggiori meriti del duca che, in
occasione della calata dei francesi in Italia nel 1494 e nel
1499, riuscì a mantenere una rigorosa neutralità (Menegatti
2014, pp. 735-739, 745-748), facendo sì che Ferrara
«quando la gallica face / per tutto avrà la bella Italia
accesa, / si starà sola col suo stato in pace, / e dal timore e
dai tributi illesa» (Of III 49, 3-6).
Marialucia Menegatti
70 71
19. Andrea Mantegna
Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù, c. 1497-1502
Tempera su tela, cm 160 x 192
Parigi, Musée du Louvre
Inv. 371
Provenienza: Mantova, studiolo d’Isabella d’Este nel
castello di San Giorgio, quindi in Corte Vecchia (1502-39);
Mantova, collezioni Gonzaga, fino al 1627 circa; Château
de Richelieu, collezione del cardinale Armand Jean du
Plessis, almeno dal 1632 al 1642; Château de Richelieu,
collezione dei duchi Du Plessis; Parigi, Musée central des
arts (poi Musée du Louvre), dal 1801 (Pittadella e Romano
in Parigi 2008, pp. 349-351).
Bibliografia: Rajna 1900 (ed. 1975); Bertoni 1919, p. 115;
Romano 1981, pp. 29, 37-39; Lightbown 1986, pp. 186-209,
440-443, cat. 40; De Nicolò Salmazo 2004, pp. 224-227,
254; Agosti 2005, pp. 56-58, 72; M. Lucco in Mantova
2006, pp. 106-109, cat. 20; Ballarin 2007, pp. XVII-XXIV;
C. Pittadella e G. Romano in Parigi 2008, pp. 349-351; Farinella
2011, pp. 203-215, cat. 145; Lucco 2013, pp. 348-350, n.
55; Farinella 2016, pp. 43-44; Menegatti 2016.
La Minerva, concepita come pendant del Parnaso di
Mantegna oggi al Louvre (Romano 1981, p. 29), fu ultimata
entro l’estate del 1502 e appesa alla parete opposta
al Parnaso anche dopo il trasferimento dello studiolo in
Corte Vecchia (Ballarin 2002-07, V, pp. XVII-XXIV). Il
soggetto dagli intenti moraleggianti e didascalici fu forse
suggerito dall’umanista Paride da Ceresara (Lucco 2013,
pp. 348), ma è possibile che Mantegna, particolarmente
angustiato dal tema dell’ignoranza che domina il mondo,
abbia avuto un qualche ruolo nella sua elaborazione (De
Nicolò Salmazo 2004; Agosti 2005, p. 56). Nel giardino
già abitato dalle Virtù, rifugiatesi nel cielo solcato da nubi
antropomorfe dove sono riconoscibili Giustizia, Fortezza
e Temperanza, irrompe da sinistra Minerva che impugna
lo scudo e una lancia spezzata. Alle sue spalle, una figura
umana trasformata in alloro, identificabile nella Virtus
deserta, alza le braccia al cielo e il cartiglio avvolto al
suo tronco invita i compagni delle Virtù ad allontanare
i Vizi che ora popolano il giardino. L’apparire della dea
provoca scompiglio negli amorini con le ali di farfalla e
negli eroti notturni dai musi di civetta e di barbagianni;
fuggono, spaventate, una satiressa che tiene in braccio
tre piccoli fauni e uno per mano, e due fanciulle, forse
adepte di Venere (Lightbown 1986, pp. 205-206; Ballarin
2007, p. xxxvii). Un centauro parzialmente immerso
nello stagno, un tempo fonte purissima, trasporta un’imperturbabile
e bellissima giovane, personificazione della
Lussuria madre di tutti i Vizi, mentre due donne fanno
capolino tra Lussuria e l’amorino con due fiaccole, simbolo
del fuoco della passione (Farinella 2011, p. 201).
Come nell’incisione della Virtus combusta realizzata da
Giovanni Antonio da Brescia intorno al 1500-05 su invenzioni
del maestro, i Vizi sono riconoscibili grazie a iscrizioni.
Nello stagno, Inerzia trascina il molle Ozio, nudo
e senza braccia; la scimmiesca personificazione di Odio,
Frode e Malizia, Sospetto e Gelosia porta quattro borse
contenenti i semi («Semina»), del male («Mala), del peggio
(«Peiora), del male estremo («Pessima»); il satiro
dalle fattezze forse leonine, probabilmente identificabile
nella Concupiscenza o Lascivia (Lucco in Mantova
2006, p. 108), regge una pelle di animale e un amorino
cui sono state strappate le ali; Avarizia e Ingratitudine
sostengono la pingue e coronata Ignoranza. All’estrema
destra, imprigionata nel muro, la Prudenza madre delle
Virtù (Ballarin 2007, p. XXVII) affida a un cartiglio l’invocazione
di aiuto agli dèi. L’assimilazione di Isabella
con la casta Minerva è rafforzata dal dettaglio della lancia
spezzata, allusione alla lancia spezzata che Francesco
Gonzaga donò alla moglie dopo la battaglia di Fornovo
(Farinella 2011, p. 214), e riecheggia nella lode di Ariosto
alla «saggia e pudica, / liberale e magnanima» marchesa
dall’inviolabile castità (XIII, 59-60). La conoscenza dello
studiolo di Isabella, maturata nel 1507 (Farinella in questo
catalogo, pp. 230-235) o tra il 1504 e il 1505, ancora
vivo Mantegna, in occasione dei prolungati soggiorni a
Mantova del cardinale Ippolito (Menegatti 2016), spiega
i puntuali riferimenti alla Minerva (Rajna 1900, ed. 1975,
p. 650; Farinella 2011) e alla Virtus combusta (Farinella
2016, p. 43) nell’invenzione della «strana torma» di creature
ibride o alate, di centauri e satiri che sbarra il passo
a Ruggiero, diretto all’isola di Logistilla (A VI, 61-63).
Meno utile per spiegare i versi del Furioso è il Quadriregio
di Federico Frezzi, poema didascalico-allegorico
che narra il viaggio dell’autore in compagnia di Minerva
attraverso i regni d’Amore, di Satanasso, dei Vizi e delle
Virtù fino alla visione di Dio. Dell’opera, dalla notevole
fortuna editoriale tra il 1481 e il 1511, esisteva una versione
manoscritta appuntata forse da Ariosto che in corrispondenza
di un passo in cui Frezzi descrive creature a
più teste avrebbe scritto «Questi monstri potranno servire
per lo Palazo d’Alzina nella batt.a di Rug.ro allo mio VI»
(Bertoni 1919, p. 115; Rajna 1900, ed. 1975, pp. 175-176). Il
Quadriregio, tuttavia, potrebbe forse essere incluso tra le
fonti letterarie utilizzate nell’elaborazione della Minerva,
oltre a quelle già individuate quali il dialogo Virtus di Leon
Battista Alberti e il De calamitatibus temporum di Battista
Spagnoli (C. Pittadella e G. Romano in Parigi 2008, p. 350).
Marialucia Menegatti
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20. Giovanni d’Andrea Veronese
Lira da braccio, 1511
Corpo: legno di latifoglia (acero?); tavola armonica: legno di conifera; cordiera: ebano, avorio, osso; 5 corde tastate,
2 corde di bordone, cm 81 x 26 x 7
Etichetta stampata: Johannes . andreae. veronen . / … 1511
Iscrizione su placca d’avorio: ΛYΠHΣ IATPOΣ EΣTIN ANΘPOΠOIΣ ΩΔH (per gli uomini il canto è il medico del
dolore)
Vienna, Kunsthistorisches Museum, Sammlung alter Musikinstrumente
Inv. SAM 89
Provenienza: Padova, collezione Obizzi al Catajo.
Bibliografia: Schlosser 1920, pp. 65-66; Winterniz 1967, pp.
185-201; Winterniz 1982, pp. 265-266; Jones 1995, pp. 56-57;
Cremona e Vienna 2000-01, pp. 143, 147; Canguilhem 2001,
pp. 41-54; Bugini 2004, pp. 43-63; D. Gasparotto in Padova
2013, pp. 205-206 (con bibliografia precedente).
La lira da braccio era lo strumento più usato per accompagnare
la poesia cantata, tra la fine del Quattrocento
e il Cinquecento. In genere aveva sette corde, cinque
tastate, da suonare premendo la tastiera, e due di bordone,
esterne alla tastiera stessa. Poteva essere suonata
pizzicando le corde o usando un archetto, e grazie al
ponticello lievemente arcuato era in grado di produrre
non solo melodie ma anche accordi, e questo la rendeva
adatta ad accompagnare il canto.
Sembra che lo strumento sia stato chiamato “lira” proprio
per evocare quello usato dai poeti dell’antichità.
Esistevano già degli strumenti ad arco di foggia analoga,
ma nella seconda metà del Quattrocento il termine “lira”
finì per indicare specificamente quello che si usava per
accompagnare il canto di poesia per voce sola.
La lira da braccio godeva di un grande favore nelle corti,
dove l’élite intellettuale amava organizzare rappresentazioni
in “stile antico” di poesia cantata. Se è vero che
cantanti e strumentisti professionisti la usavano per
accompagnare il canto di poesie vernacolari contemporanee
o di versi latini per un pubblico aristocratico, il suo
legame con l’antichità ne faceva uno strumento molto
amato dai musici dilettanti dell’élite.
La lira da braccio era usata anche nelle rappresentazioni
teatrali: personaggi come Apollo od Orfeo cantavano il
prologo delle commedie accompagnandosi con questo
strumento ed esso divenne un attributo immediatamente
riconoscibile di queste figure nelle arti visive
contemporanee. Ma era anche uno strumento di strada,
usato da cantimbanchi e cantastorie per accompagnare
il canto di poesie, comprese le varie versioni dell’Orlando
furioso, per un pubblico di passanti che si radunava
al momento.
Oggi restano pochi esemplari della lira da braccio.
Quella qui esposta è decorata con uno straordinario
motivo intagliato, quasi erotico, che allude in modo giocoso
al corpo umano: due volti espressivi sono scolpiti
sulla cavigliera e due morbidi busti su entrambi i lati
dello strumento, con un mascherone sovrimposto a
quello posteriore.
Il primo proprietario dello strumento è sconosciuto, ma
l’iscrizione in greco antico su una placca d’avorio indica
un suo possibile coinvolgimento con la cultura classica,
oltre a ricordarci il potere che il canto esercita sia sul
musicista che sull’ascoltatore.
Flora Dennis
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21. Canzoni, sonetti, strambotti e frottole. Libro IV
Roma, Andrea Antico e Niccolò De Giudici, 15 agosto 1507 [recte 1517]. 8° oblungo
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Landau-Finaly Mus. 11
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Bibliografia: Cavicchi 2011; Dorigatti 2011, pp. 25-26.
In questa raccolta musicale, di cui si espone l’unico
esemplare conosciuto, è recato uno strambotto a tre voci
del Tromboncino sui versi del lamento di Orlando (Of
AB XXI, 126 = C XXIII, 126). Si è congetturato che l’ottava
sia stata musicata nel periodo in cui il Tromboncino
si trovò assieme ad Ariosto al servizio d’Ippolito d’Este,
tra il novembre 1511 e il giugno 1512 (Prizer 1985, p. 24).
Il testo differisce da quello che si legge nella stampa del
Furioso dell’anno prima ed è testimonianza di una fase
redazionale anteriore, di cui non sopravvivono testimonianze
manoscritte:
Queste non son più lachryme, che fore
spargo per gli ochi con sì larga vena.
Non suppliron le lachryme al dolore:
finîr, che a mezo era el dolor a pena.
Dal foco spinto, hor el vital humore
fugge per questa via che agl’ochi mena;
e se qualche si versa, trarà, insieme
con la doglia, la vita al’hore extreme.
Di sicuro rilievo sono le varianti lessicali (vv. 2, 6-8),
mentre le divergenze grafiche (pur esaminate da Dorigatti
2011, p. 26) non dicono molto, siccome la grafia di
questa stampa non può essere imputata ad Ariosto.
Adolfo Tura
76
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22. Ercole de’ Roberti e Giovan Francesco Maineri
Lucrezia, Bruto e Collatino, c. 1486-93
Olio su tavola, cm 49 x 38,5
Modena, Galleria Estense. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. GE 50
Provenienza: Ferrara, collezioni estensi, fino al 1598;
Roma, collezione del cardinale Alessandro d’Este, citato
nell’inventario dell’eredità del 1624 senza indicazione
dell’autore: «Un quadro di Lucretia Romana dipinta su
l’assa suttile ma schiappata in due parti con cornice di
noce» (Campori 1870, p. 72); Modena, collezioni ducali
estensi; Modena, Galleria Estense, dal 1854 (Castellani
Tarabini 1854, p. 13, con attribuzione a Mantegna).
Bibliografia: Baruffaldi 1697-1730 (ed. 1844-46), I, p.
140; Venturi 1882, pp. 34-38; Bentini e Curti 1993, p. 90;
Wilkins Sullivan 1994, pp. 610-612; Molteni 1995, pp.
177-178, n. 41 (con bibliografia precedente); Cox 2009,
pp. 61-101; M. Toffanello in Torino 2014, pp. 110-111, cat.
9 (con bibliografia precedente); Cavicchioli 2015, pp.
41-42; Farinella 2016, pp. 53-54.
La tavola pervenne con ogni probabilità a Giulia, figlia
del duca Cesare d’Este, nel 1624 con l’eredità del cardinale
Alessandro e potrebbe avere fatto parte della
decorazione di un camerino con soffitto a lacunari del
palazzo Ducale di Modena, allestito per la stessa Giulia o
per Isabella di Savoia, sposa dal 1608 di Alfonso III d’Este
(Cavicchioli 2015, pp. 41-42). Analogie di soggetto,
dimensioni ed esecuzione pittorica suggeriscono che il
dipinto, il Bruto e Porzia del Kimbell Art Museum di Fort
Worth e la Moglie di Asdrubale della National Gallery
di Washington costituissero originariamente un’unica
serie, forse identificabile nelle «storie romane» di Ercole
Grandi ricordate da Baruffaldi nel palazzo Ducale di
Sassuolo (ed. 1844-46, vol. I, p. 140; Venturi 1882, pp.
35-36). Solitamente respinta vista la genericità dell’indicazione
(Molteni 1995, p. 176), l’ipotesi va riconsiderata
almeno per la Lucrezia, vista la presenza nell’Inventario
della robba del palazzo di Sassuolo, redatto nel 1663, di
«Un quadro con Lucrezia romana cornice dorate e nere»
(Bentini e Curti 1993, p. 90). All’ipotesi che le tre tavole
fossero parte di un cassone, forse realizzato tra il 1489
e il 1490 per le nozze tra Francesco Gonzaga e Isabella
d’Este (Molteni 1995, pp. 176-177), è preferibile quella
che appartenessero a un ciclo di eroine dell’antichità
destinato a un camerino dell’appartamento in Castello
della duchessa Eleonora d’Aragona commissionato al
pittore di corte Ercole de’ Roberti, che ne avrebbe eseguito
il disegno, mentre l’esecuzione spetterebbe a Giovan
Francesco Maineri, allora attivo nella bottega del
maestro (M. Toffanello in Torino 2014, p. 110). La tavola
modenese rappresenta la matrona romana Lucrezia,
moglie di Collatino, nell’atto di suicidarsi alla presenza
del marito e di Lucio Giunio Bruto dopo avere confessato
la violenza subìta da Sesto Tarquinio. Il ciclo, basato
sui Factorum et dictotorum memorabilium libri IX di
Valerio Massimo (Wilkins Sullivan 1994, pp. 610-612) e
certamente elaborato da un umanista di corte, propone
una serie di exempla di donne che hanno preferito il suicidio
al disonore o, secondo una più recente ipotesi, di
eroine antiche dalle marcate virtù, oltre che morali, politiche
e oratorie (Cox 2009), che bene si adatta alla probabile
committente del ciclo, la «splendida», «saggia»,
«pudica» Eleonora d’Aragona (Of XIII, 68, 1-3) figlia del
re di Napoli Ferrante, donna di grande tempra morale
che più volte guidò con successo il ducato estense in
vece del marito Ercole I. Le antiche eroine di Ercole
de’ Roberti e della sua bottega potrebbero avere ispirato
Ariosto nell’invenzione del palazzo del cavaliere del
nappo in riva al Po, adorno di rilievi e dipinti destinati a
esaltare le donne «di virtude amiche» sia del passato che
del mondo contemporaneo (Of A XXXIX, 15, 5-8, e 16;
Farinella 2016, pp. 53-54).
Marialucia Menegatti
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23. Maestro del Guiron
Re Artù e Faramon giocano a scacchi, mentre Bliobéris di Gaunes riceve un messaggio
del re; Bliobéris racconta un’avventura al re Artù e a Faramon
in Guiron le Courtois, c. 1375
Pergamena, 92 ff., mm 380 x 275
Parigi, Bibliothèque nationale de France, Nouv. acq. fr. 5243, ff. 3v-4r
Bibliografia: Toesca 1912 (ed. 1966), pp. 162-163; R. Cipriani
in Milano 1958, p. 28, cat. 69; Volpe 1983, pp. 302-304; F.
Avril in Parigi 1984, pp. 94-95, cat. 82; Sutton 1989; Avril
1990; Sutton 1991; Castelfranchi Vegas 1993; A. Lauby in
Milano 1999, pp. 96-101; F. Moly in Bollati 2004, pp. 515-517;
Molteni e Wahlen 2014.
Acquistato per la Bibliothèque nationale nel 1891, il codice
contiene due frammenti dei tre principali romanzi in prosa
del ciclo Guiron le Courtois. Assenti il Roman de Guiron e la
Suite, vi figurano uno dei sei testimoni italiani del Roman
de Meliadus e l’unica attestazione della Continuation de la
Suite Guiron. Probabilmente trascritti da un antigrafo difettoso,
i testi sono acefali e incompleti, circostanza comune
ai codici arturiani italiani ma priva di conseguenze sulle
ambizioni del ciclo illustrativo richiesto dal committente
(A. Lauby in Milano 1999, pp. 96-101; Molteni e Wahlen
2014). Questi è identificato in Dominus Bernabos (Vicecomes)
dalle iniziali che affiancano la biscia viscontea entro
un’iniziale filigranata al f. 46v (Sutton 1989).
Fu a Milano che il Guiron di Bernabò fu allestito: le iniziali
filigranate e quelle ornate sono infatti attribuite alla
bottega che ornò per Francesco Petrarca l’Iliade che il
poeta dice miniata e rilegata a Milano nel 1369 (BnF, ms.
Lat. 7880/1; Avril 1990; Sutton 1991), bottega che si ritiene
diretta da Magister Benedictus (da Como? Donato 2001).
Nei margini inferiori dei fogli, cento miniature a penna,
velate d’impalpabile camaïeu o tinte d’acquarello, prive di
cornici, si estendono a intercolunni, margini laterali e fin
dietro le colonne del testo, in anticipo di un secolo sull’illusionismo
prospettico del Quattrocento, ma la fantasia
impaginativa di tradizione emiliana è qui retta da un pensiero
«indicibilmente lucido» (Volpe 1983, pp. 302-304).
Maestro nel trasfigurare poeticamente la verità di spazi,
luci, gesti, sguardi, animali, il miniatore rievoca con rara
penetrazione psicologica l’atmosfera di condivisione degli
ideali cavallereschi che informa i protagonisti della storia,
ambientata in una corte contemporanea che allude al
sogno visconteo di rivivere l’epopea romanzesca. Con questo
monumento della pittura tardomedievale, palestra dei
miniatori del Lancelot du Lac (Tav. 6), il Maestro del Guiron,
sodale di Altichiero, spalanca le porte della miniatura
tardogotica lombarda, che raramente ritroverà lo stesso
equilibrio tra poesia dei sentimenti e mondanità cortigiana,
perché presto divenuta «attività un po’ troppo di serra e di
studiolo» (Longhi 1958, p. XXVI).
Pier luigi Mulas
80 81
24. Lancelot du Lac
Parigi, Antoine Vérard, 30 aprile 1494. 2°
Membranaceo
Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Sammlung von Handschriften und alten Drucken, Ink 5.C.11.
Bibliografia: Macfarlane 1900, pp. 17-18, n. 35; Pächt e
Thoss 1977, pp. 170-173, figg. 354-364; Pickford 1980, pp.
277-285; Winn 1997; Conihout 2012; sulla legatura: Gottlieb
1910, n. 48; Conihout 2013.
Questo sontuoso esemplare del più celebre romanzo
cavalleresco del Medioevo, stampato su pergamena e
illustrato con miniature contemporanee all’edizione, contiene
le «storie di Carlo Magno e di Artù, nate in epoca
medievale, cui gli stampatori del Quattro-Cinquecento
diedero una seconda vita» (Nicole Cazauran). Si tratta
della seconda edizione (1494) del Lancelot in prosa
(ovvero il Lancelot vero e proprio, seguito dalla Quête
du Saint-Graal e La Mort le roi Artu), curata dal grande
libraio parigino Antoine Vérard, che dominò l’editoria in
Francia tra il 1485 e il 1512. L’edizione del 1488 del Lancillotto,
probabilmente realizzata a spese di Vérard – benché
il suo nome non vi compaia – era illustrata unicamente da
quattro grandi xilografie. Quella del 1494 invece è corredata
da ben ventinove incisioni.
Non è noto a chi fosse destinato il presente esemplare,
uno dei sei su pergamena di cui si ha conoscenza, con le
sue iniziali dipinte in oro su fondo rosso o bruno, le grandi
incisioni, colorite o ritoccate dal maestro di Jacques di
Besançon nei primi due volumi, dal maestro di Robert
Gaguin nel terzo (per queste attribuzioni sono debitrice
a Caroline Zöhl).
I tre volumi dell’esemplare di Vienna sono stati legati
a Parigi attorno al 1570. Queste straordinarie legature
in marocchino bruno portano decorazioni a grottesca;
i motivi – candelabri, vasi, fogliame, maschere, figure
umane e ibridi animali – sono incardinati su un asse centrale
posato su un personaggio affiancato da due satiri, il
quale sorregge un cesto di frutta da cui fuoriescono due
vistosi viticci a volute terminanti in erme femminili. La
fonte di questa decorazione non è nota (forse una stampa
ornamentale?) ma va senza dubbio sottolineata la sua
straordinaria qualità.
L’uso spettacolare dei motivi a grottesca – teste, maschere,
erme e ghirlande di frutta – è alquanto tardivo. Nella legatura
francese non si conoscono che due rari e preziosi
esempi di tale repertorio della Scuola di Fontainebleau:
quattro legature, che formano due coppie, corrispondendo
quindi a due disegni. Il primo, risalente alla fine
del regno di Enrico II, è un motivo formato da due erme,
una maschile e una femminile, unite in corrispondenza
delle spalle e della guaina a tortiglione, e orna la legatura
di una traduzione di Plutarco di Jacques Amyot del 1559
(Cambridge, Trinity College, Sel. a. 55.4). Più tardi questo
motivo fu ripreso, con esito meno felice, da Grolier (legatura
del “Last Binder”, Biblioteca municipale di Vesoul).
Il secondo, di poco successivo, è questa straordinaria
decorazione sui tre volumi di Lancillotto. Anche di questo
si conosce una replica meno bella, sulla legatura di una
Bibbia parigina incompleta, datata 1566 (BnF, Rés A 2221).
L’uso di maschere ed erme, come l’impiego del pigmento
nero per tracciare i volti, scomparvero in seguito dall’arte
della legatoria parigina, per ricomparire a Ginevra.
Secondo la tradizione, il Lancillotto di Vienna sarebbe
appartenuto a Caterina de’ Medici, ma ciò è dovuto a un
errore in cui incorse Le Roux de Lincy nell’Ottocento
(1858, p. 931); questi, a torto, aveva assegnato a Caterina
un antico inventario della Biblioteca reale, ma il suo
errore fu corretto già da Léopold Delisle (1868, p. 211). L’identità
del committente è tuttora ignota, ma gli appassionati
del genere, che nella Parigi della seconda metà degli
anni Sessanta del Cinquecento avrebbero potuto ordinare
l’opera, non sono molti. Da questa rosa di nomi si può
escludere Nicolas Moreau d’Auteuil (1544-1619), noto per
la sua passione per i romanzi cavallereschi, poiché questi
esibiva abitualmente il suo ex libris o il suo stemma (Hobson
1993). Va escluso altresì Claude Laubespine (si veda
Conihout e Ract-Madoux 2004, pp. 63-88, n. 1). L’ipotesi
più verosimile è che si trattasse di un anonimo appassionato
di legature scoperto di recente, un diplomatico o
dignitario della corte degli Asburgo che attorno al 1570,
probabilmente in occasione del matrimonio di Carlo IX
con Elisabetta d’Austria, fece legare a Parigi alcuni libri di
storia e di viaggi in francese (Conihout 2015, pp. 371-373).
Isabelle de Conihout
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25. Nicola di Maestro Antonio e anonimo coloritore
Tarocchi Sola Busca, 1491
Stampe su carta da incisioni a bulino miniate a colori e oro, mm 144 x 78
Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto dei Disegni
Invv. 7690, 7696, 7706, 7732, 7733
Provenienza: Venezia, Marin Sanudo il Giovane (1466-
1536), dal 1491; Milano, marchesa Busca, almeno dal
1802; Milano, conte Sola, almeno dal 1948; Milano, Pinacoteca
di Brera, dal 2009 (Gnaccolini 2012-13).
Bibliografia: Marsilli 1987, pp. 95-102; M. Faietti in
Milano 1991, Catalogo, pp. 262-277, cat. 71bis; Calvino
1994, p. VII; Sberlati 1994, pp. 86-88; C. Albonico in Ferrara
2004a, p. 350, cat. 112; G. Sassu in Ferrara 2007, pp.
482-485, cat. 159-160; De Marchi 2012-13, pp. 62-63; L.P.
Gnaccolini in Milano 2012-13, pp. 77-78, cat. 1.
Il mazzo di tarocchi è l’unico al mondo risalente al XV
secolo di cui si conservano integralmente le quattordici
carte, numerate, di ciascun seme e le ventidue carte figurate
o “trionfi”. Si è supposto che le carte potessero avere,
oltre che quello del gioco, anche finalità didattica, poiché
Cavalieri, Regine e Re di ogni serie portano i nomi di personaggi
classici o biblici, così come le carte trionfali, ad
eccezione del Matto che ha la tradizionale raffigurazione
(Albonico in Ferrara 2004a, p. 350). Il lungo dibattito critico
sull’autore, per lo più orientato verso l’area ferrarese,
fino a proporre di riconoscervi la mano di Francesco del
Cossa (M. Faietti in Milano 1991, Catalogo, pp. 264-265;
Urbini 2006, pp. 22-36), è stato recentemente sciolto a
favore del pittore anconetano Nicola di Maestro Antonio
(De Marchi 2012-13, pp. 62-63). L’umanista marchigiano
Ludovico Lazzarelli fu probabilmente il responsabile
della complessa iconografia, disseminata di figure allegoriche,
di riferimenti al mondo classico quasi a volere
creare attraverso la raffigurazione dei condottieri antichi
una serie di exempla virtuosi come nei cicli di “Uomini
famosi”, nonché di riferimenti ai temi alchemici ed ermetici
desunti dai trattati di Ermete Trismegisto, mitico
fondatore dell’alchimia, che nel Quattrocento conobbero
grande fortuna. L’ideazione del mazzo ebbe forse una
genesi piuttosto lunga, tra il 1470 e il 1480 (G. Sassu in
Ferrara 2007, p. 484); stampato probabilmente a Ferrara,
fu miniato a Venezia nel 1491, come risulta dalla combinazione
delle iscrizioni presenti su alcune carte. L’iscrizione
del Bocho, assieme ad altre nei Tarocchi III. Mario e
nei Tarocchi XV. Metelo hanno permesso anche di individuare
il possessore del mazzo in Marin Sanudo, lo storico
e diplomatico veneziano autore dei celebri Diari (Gnaccolini
2012-13, anche per lettura iconografica, attribuzione,
datazione e bibliografia precedente). La diffusione e il
successo dei tarocchi presso le corti rinascimentali, compresa
quella estense, sono ampiamente documentati. Alla
corte di Leonello d’Este è legata la prima testimonianza
nota di un mazzo da carte «da trionphi», datata 1442, e
numerosi sono i riferimenti letterari alla fortuna del gioco
in ambito ferrarese, dai Cinque Capituli di Matteo Maria
Boiardo, alla più tarda Invettiva contra il giuoco del tarocco
di Flavio Alberto Lollio, stampata nel 1550, seguita dalla
risposta, in difesa del gioco, di Vincenzo Imperiali (Marsilli
1987, pp. 95-102), oltre che nella Cassaria di Ariosto,
dove Crisobolo si lamenta dei governanti che «perdono /
il tempo a scacchi o sia a tarocco o a tavole» (Ariosto 2007,
I, p. 229, vv. 1917-1918). Le dimensioni ermetico-alchemiche,
magico-divinatorie, erano certo tra gli aspetti del
gioco più graditi alle corti rinascimentali, e riflesso di una
cultura ancora fiduciosa di poter fondere cristianesimo
ed ermetismo, autori classici e cabala, senza sconfinare
dall’ortodossia (Gnaccolini 2012-13, p. 52). La stessa struttura
narrativa del Furioso è fortemente radicata nelle arti
magico-divinatorie, astrologiche e alchemiche (Sberlati
1994, pp. 86-88), così come il fitto intreccio di personaggi
e situazioni del poema sembra ispirarsi, anche, alla portentosa
immaginazione del mondo dei tarocchi. Dalla
fascinazione del gioco, combinata a quella del Furioso,
nasce il Castello dei destini incrociati di Italo Calvino, pubblicato
nel 1969 nel volume Tarocchi. Il mazzo visconteo
di Bergamo e New York, corredato dalle riproduzioni dei
Tarocchi miniati da Bonifacio Bembo custoditi tra l’Accademia
Carrara di Bergamo e la Morgan Library di New
York. Nella successiva edizione del 1973, Calvino spiegando
la genesi del suo lavoro scrisse: «Il riferimento
letterario che mi veniva spontaneo era l’Orlando furioso:
anche se le miniature di Bonifacio Bembo precedevano di
quasi un secolo il poema di Ludovico Ariosto, esse potevano
ben rappresentare il mondo visuale nel quale la fantasia
ariostesca s’era formata» (1994, p. VII).
Marialucia Menegatti
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26. Lorenzo Spirito
Libro della ventura
Milano, Pietro Mantegazza per Giovanni da Legnano, 2 settembre 1500. 2°
Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, Est. 472
Bibliografia: De Marinis 1940, pp. 76-77, n. 5.
Nell’inventario, redatto nel 1502, delle suppellettili possedute
da Lucrezia Borgia da poco giunta sposa a Ferrara,
troviamo «uno libro de ventura vechio» (Bertoni 1903, p.
93). Doveva trattarsi di un manoscritto del tipo di quello
che conserva il codice miscellaneo Naz. II.II.83 della
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ff. 240v-250r. Il
14 agosto 1508 Girolamo Zilioli mandava a Isabella d’Este
«il libro de la ventura» che la marchesa aveva chiesto
«per qualche ricreatione» (Luzio e Renier 1899, p. 35):
forse una recente edizione a stampa dell’opera di Lorenzo
Spirito. Certo è che quest’ultima ebbe, nei primi due
decenni del Cinquecento, una popolarità che nessun altro
libro di sorti rivaleggiò (Urbini 2006). Tali libri, al pari
dei Losbücher tedeschi, richiedevano un tiro di dadi iniziale
grazie al quale si avviava un tortuoso percorso tra le
pagine fino al reperimento di una sentenza predittiva da
applicarsi alla sorte del giocatore. L’intrattenimento era
ampiamente diffuso in area padana già nel Quattrocento
se il Menzoniero di Baldassarre da Fossombrone (Tav. 63),
all’origine semplice raccolta di stramberie in forma di
sonetti, non tardò a prestarsi a un simile uso: lo testimonia
l’inventario dei beni del cardinale Francesco Gonzaga
del 27 ottobre 1483, nel quale l’opera appare come «Bosadrello
in carta de sonetti per la ventura», così come una
lettera del vescovo di Mantova Ludovico Gonzaga del 14
giugno 1484 in cui ancora vien menzionato «lo Bosadrello
da li dati» (Crimi 2010, pp. 16-17).
Caratteristica peculiare del Libro dello Spirito, che
dovette non poco contribuire alla sua fortuna, è la ricchezza
dell’apparato illustrativo. Suggestivo, in riferimento
a un ambiente in cui si leggeva appassionatamente
l’Inamoramento de Orlando, è il fatto che, nella sinossi
di figure di re antichi e leggendarî che occupa le prime
pagine, le immagini di re Carlo e di re Artù stiano fianco a
fianco. La straniante promiscuità di personaggi che popolano
il gioco di sorti non è senza affinità con il mondo del
Furioso, attraversato indifferentemente da paladini carolingi,
da figure della storia sacra (l’Evangelista, l’arcangelo),
da personificazioni di disparata natura (la Discordia,
il Silenzio).
L’incunabolo del 1500, di cui si espone l’unico esemplare
(Pellechet 7124 [7181]), è la più antica edizione milanese
conosciuta. Il tipografo Mantegazza reimpiegò la silografia
di Carlo – alla carta a2v della presente edizione – nella
pagina di titolo della Historia di Alessandro Magno, stampata
nel 1503 (Sandal 1981, p. 35, n. 451).
Adolfo Tura
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27. Albrecht Dürer
La ruota della fortuna
in Sebastian Brant, Das Narrenschiff
Basilea, Johann Bergmann von Olpe, 12 febbraio 1499. 4°
Silografia
Londra, The British Library, IA. 37957, f. 5v
Nella VII Satira, ai versi 46-54, Ariosto descrive con
molta precisione un’iconografia della ruota della fortuna:
Quella ruota dipinta mi sgomenta
ch’ogni mastro di carte a un modo finge;
tanta concordia non credo io che menta.
Quel che le siede in cima si dipinge
uno asinello: ognun lo enigma intende,
senza che chiami a interpretarlo Sfinge.
Vi si vede anco che ciascun che ascende
comincia a inasinir le prime membre,
e resta umano quel che a dietro pende.
Si conoscono effettivamente tarocchi corrispondenti a
tale iconografia, ad esempio la carta del mazzo Visconti
alla Morgan Library di New York. Ad assicurare un’ampia
divulgazione dell’immagine fu il suo inserimento
nell’apparato illustrativo della Nave dei folli di Sebastian
Brant, finita di stampare per la prima volta da Johann
Bergmann von Olpe l’11 febbraio del 1494 (GW 5041): la
maggior parte dei legni di questa edizione, tra cui quello
della ruota della fortuna, sono opera del giovane Dürer
(Winkler 1951). La stampa del 1499 che qui si espone (GW
5047), dovuta allo stesso Bergmann, reimpiega i legni
dell’edizione del 1494.
Nell’esemplare della British Library una mano coeva ha
posto nel margine inferiore della pagina una citazione
tratta dai Prolegomena in canones isagogicos dello Scaligero:
«Simii arbores celsas scandendo sperant ad altiora
eniti posse. Postquam ad cacumen perventum est, nihil
quam glabras nates spectantibus ostendunt», che prosegue
con un epigramma greco dello stesso tenore. L’accostamento
è dovuto a una pura associazione d’immagini
(l’arrampicarsi della scimmia e l’asino assiso sulla cima
della ruota).
Non si può escludere che qualche edizione, forse latina
o francese, della Nave dei folli sia capitata sotto gli occhi
di Ariosto, sebbene sia da osservare, per quanto riguarda
la concezione della follia, che lo scritto di Brant non ha
a che vedere con la corrente umanistica che suggerisce
un’assimilazione della condizione umana tout court alla
pazzia: in Brant la nave dei folli non vuol essere un’immagine
del mondo (Klein 1975, p. 485).
La stessa iconografia della ruota della fortuna si ritrova
in altri libri a stampa che Ariosto avrebbe potuto conoscere,
ad esempio alla pagina di titolo delle edizioni parigine
(Michel Le Noir, 1505 e 1519) dell’Estrif de Fortune
et de Vertu di Martin Le Franc.
Adolfo Tura
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28. Raffaello Sanzio
Ritratto di Tommaso Inghirami detto “Fedra”, c. 1510
Olio su tavola, cm 89,5 x 62,8
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. Pal. 1912 n. 171
Provenienza: Roma, Fedra Inghirami, fino al 1516; Volterra,
casa Inghirami, fino al 1640 (Batistini 1994-95);
Firenze, collezione del cardinale Leopoldo de’ Medici,
1663-67; Firenze, Tribuna degli Uffizi, dal 1671; Firenze,
Palazzo Pitti, dal 1697.
Bibliografia: Fischel 1948, p. 364; Fischel 1962, p. 84;
Dussler 1971, pp. 28-29; Oberhuber 1982, p. 104; M. Chiarini
in Firenze 1984, pp. 134-143; Shearman 1995, pp. 130-
131; Oberhuber 1999, p. 125; De Vecchi 2002, pp. 231-232;
S. Padovani in Chiarini e Padovani 2003, II, pp. 321, 520;
C.L. Frommel in Roma 2011-12, p. 277, cat. 31; Padovani
2014, pp. 343-350 (con bibliografia precedente).
Tra i numerosi personaggi della società e della cultura
contemporanea menzionati nel Furioso non pochi
ebbero un posto di rilievo nella ritrattistica di Raffaello.
Tra questi è Tommaso Inghirami (Volterra 1470 – Roma
1516), il «Fedro» che Ariosto presenta nell’ultimo canto
del poema (XLVI, 13) come capofila di una compagnia
di letterati, tutti legati alla figura di Alessandro Farnese.
Molti di loro erano già morti all’altezza dell’edizione del
1532, ma i loro nomi furono mantenuti in modo da proiettare
il lettore verso una dimensione temporale passata,
corrispondente alla Roma di Giulio II e di Leone X
(Casadei 1986, pp. 64-65). Qui Inghirami, formatosi alla
scuola di Pomponio Leto, si era affermato come poeta ed
oratore, ricoprendo vari incarichi di prestigio, tra i quali
nel 1510 la nomina a prefetto della Biblioteca Vaticana
(Benedetti 2004 con bibliografia precedente). Il soprannome
“Fedra” gli era derivato, com’è noto, dall’aver ricoperto
tale ruolo nel 1486 in una rappresentazione dell’Ippolito
di Seneca, distinguendosi per le sue doti sceniche
e per essere riuscito a intrattenere il pubblico, durante
un’interruzione dello spettacolo, improvvisando versi
in latino. L’episodio e l’appellativo di Cicerone del suo
secolo sono ricordati in un’epistola di Erasmo (Cruciani
1980, pp. 350-377; sulla questione della polemica
anticiceroniana di Erasmo, invece, si veda Gualdo Rosa
1985 e Bolzoni 2012, pp. 237-238). Divenuto insegnante
di retorica presso l’Accademia (1498), il nostro continuò
ad occuparsi di teatro e di apparati scenici all’antica:
nel 1513, durante le feste romane in onore di Giuliano
de’ Medici, diresse il Poenulus plautino, ideando i «quadri»
dipinti della storia; nel 1514 organizzò una sfilata
di diciotto carri, per ognuno dei quali stabilì il tema e
il pittore che l’avrebbe svolto (sui due episodi e relative
fonti Settis 1981, ed. 2010, pp. 3-13). Come consulente
iconografico, inoltre, il suo nome è tra quelli indiziati
nella stesura del programma per la Stanza della Segnatura,
dove si è proposto di riconoscere un suo ritratto,
molto idealizzato, nell’Epicuro della Scuola d’Atene
(Künzle 1964, p. 499). È da credere che l’attività teatrale,
non meno di quella poetica, e i rapporti con un comune
ambiente artistico e letterario favorirono le occasioni
d’incontro con Ariosto, durante i soggiorni di questi a
Roma (Catalano 1930-31, I, p. 371), ma sono documentati
anche contatti tra Fedra e l’ambiente estense: «bon
servidor et laudatore delle singulari virtù» di Isabella,
secondo la testimonianza di Mario Equicola (Luzio e
Renier 1899, I, p. 8), compose un carme per le nozze tra
Alfonso I e Lucrezia Borgia nel 1501 (in Pescetti 1932, pp.
77-83), e nel 1507 segnalò ad Ippolito un’osservazione di
Archimede sui falconi da aggiungere ad un passo dell’Equicola
in cui si menzionava un falcone del cardinale,
«falconem celebrans tuum» (Bertoni 1919, p. 136). Il riferimento
è evidentemente al De opportunitate pubblicato
a Napoli nello stesso anno, in cui il letterato campano
aveva illustrato l’impresa di Ippolito con il falcone che
regge tra gli artigli i contrappesi di un orologio (su questo
motivo da ultimo Schirg 2015).
La fisicità corpulenta del prelato, ricordata anche in
due epigrammi di Angelo Colocci (Ad Leonem de Phedri
corpulentia e In Phedrum corpulentum), ed il vistoso
strabismo furono abilmente colti da Raffaello in questa
effige come cifra caratterizzante e rafforzativa della
personalità dell’umanista, così da conferire nuova energia
e vitalità interiore all’atto della scrittura e alla resa
dello stato psichico dell’ispirazione, dove l’irregolarità
dello sguardo sporgente e rivolto verso l’alto si trova ad
essere sottolineata e, allo stesso tempo, abilmente dissimulata.
Tale aspetto fu apprezzato già da Burckhardt
(1855, ed. 1952, p. 992) e quindi da Crowe e Cavalcaselle
(1882-85, ed. 1884-91, II, pp. 270-273) che avvertirono in
questa impostazione influenze nordiche e fiamminghe,
nonché rimandi all’iconografia degli evangelisti, più
90 91
volte poi alternativamente invocati negli studi, ma di cui
Shearman (1995, pp. 130-131) ha per primo evidenziato
il nuovo significato in rapporto alla “presenza” dello
spettatore. Dal punto di vista dello stile questi caratteri
orientano verso una datazione dell’opera a cavallo tra la
Stanza della Segnatura e quella di Eliodoro (Oberhuber
1999, p. 125), dove la pienezza plastica e l’animazione
delle figure si legano ad una maggiore ricerca di individuazione
realistica e ad una stesura più ricca del colore,
sebbene non siano mancate anche di recente proposte
di datazione leggermente più avanzate (C.L. Frommel
in Roma 2011-12, p. 277: c. 1513). Nella valutazione del
dipinto, d’altronde e nella lunghissima discussione critica,
che non è possibile ripercorrere in questa sede, ha
interferito a lungo l’esistenza di un’altra versione del
ritratto, pure proveniente da casa Inghirami ed oggi
all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, in rapporto
alla quale ci si è interrogati persino sull’originalità
dell’esemplare Pitti. La qualità del dipinto fiorentino e
le indagini effettuate in occasione degli ultimi restauri
ne hanno però confermato la piena autografia (Padovani
2014, pp. 343-348 cui si rimanda per il riepilogo degli
studi e la bibliografia).
Barbara Maria Savy
29. Tito Maccio Plauto
Comoediae, inizi del XVI secolo
Codice membranaceo
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 36.36
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo
Bibliografia: Questa 1968 (ed. 1985), pp. 223-228; Tontini
2010, pp. 33-34, n. 3.
Il codice, composto da 42 quinioni preceduti da un
bifolio, contiene l’intero corpus delle commedie plautine
ed è vergato dalla mano di Fedra Inghirami. Questi
ha riportato nei margini alcune varianti di collazione
oltreché proprie congetture, alcune delle quali si rivelano
felici (Romano 1985).
Si tratta di un manoscritto calligrafico confezionato
per proprio uso, come attestano le armi dell’Inghirami
poste nel margine inferiore della prima pagina (arricchite
dell’aquila imperiale, di cui Massimiliano I aveva
concesso l’insegna a Fedra nel 1497). La stessa pagina
è miniata con finezza: il titolo dell’Amphitruo iscritto
in una tabella all’antica, il margine interno decorato da
un trofeo, le armi racchiuse da cornucopie e delfini e
affiancate da putti.
Adolfo Tura
92 93
30. Aetheria, fine XV secolo – inizio XVI secolo
Manoscritto cartaceo
Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, A 55 inf.
Bibliografia: Stäuble 1968, pp. 132-139.
Contenuto in una miscellanea eterogenea (ff. 84r-105v),
il manoscritto è l’unico testimone della commedia umanistica
Aetheria, composta – probabilmente sul finire del
Quattrocento – in senari giambici da un ignoto autore. Si
tratta della copia (non autografa) che questi fece avere a
Tommaso Inghirami per riceverne suggerimenti utili a
qualche modifica: la mano di Fedra si riconosce infatti
nelle numerose postille aggiunte al testo (Tura 2005,
pp. 206-207), il cui tenore rivela in più punti l’intento
di prestare consiglio all’autore (sia pure con una certa
svogliataggine).
Adolfo Tura
31. Niccolò da Correggio
Fabula de Cefalo, 1497
Manoscritto membranaceo
Londra, The British Library, Add. 16438
Bibliografia: Tissoni Benvenuti 1970.
È questo – elegantemente copiato da Alberto Maffoni –
il solo manoscritto conosciuto a contenere la Fabula
de Cefalo di Niccolò da Correggio (ff. 1r-21r), cui segue
l’Orfeo del Poliziano terminato di copiare il 18 agosto
1497. Nel 1793 il codice era stato visto nella biblioteca
del conte Briganti a Tivoli da Dionigi Strocchi, il quale
non vi seppe tuttavia identificare l’opera di Niccolò
(Strocchi 1868, p. 39). Il codice fu segnalato come testimone
di questa per la prima volta da Antonia Tissoni
Benvenuti nel 1970.
Il Cefalo venne rappresentato il 21 gennaio 1487 su un
palco allestito nel cortile del Palazzo ducale di Ferrara,
lì dove un anno prima aveva avuto luogo la famosa
messa in scena dei Menechini.
Adolfo Tura
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32. Donato Bramante
Scena prospettica, fine XV secolo – primo quarto del XVI secolo
Incisione a bulino, mm 258 x 380
Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli
Inv. Art. prez. M 275
Bibliografia: Courajod e Geymüller 1874; Malaguzzi
Valeri 1915, II, p. 309; Arrigoni 1942, p. 209, cat. 21;
Baroni 1942, p. 509; Hind 1948, pp. 105-106, n. 2b; Krautheimer
1948, p. 340; Arrigoni 1957, pp. 708-709; Samek
Ludovici 1960, pp. 33-34; Murray 1962, pp. 38-40; Neiiendam
1969, p. 156; Stein 1969, p. 11; Milano 1984, pp.
44-46, cat. 33; Bruschi 1987, p. 326; Pochat 1990, p. 280;
Petrioli Tofani 1994, pp. 530-531, cat. 163.
La stampa in questione, la cui datazione è ascrivibile
al tardo Quattrocento o forse ai primi anni del Cinquecento,
costituisce la più antica raffigurazione di scena
prospettica teatrale rinascimentale pervenutaci.
Di quest’opera sono note più versioni tratte da tre
diverse lastre, due delle quali presentano gli edifici in
posizione speculare e con alcune varianti. La paternità
bramantesca del disegno è indicata nell’iscrizione posta
in alto al centro (BRAMANTI AR / CHITECTI / OPVS),
scritta che, tuttavia, non compare su tutti gli esemplari e
su cui la critica si è espressa in modo discorde, arrivando
ad avanzare i nomi di Cesare Cesariano – alcuni disegni
del quale recano l’attestazione Bramantus f[ecit] –
quale effettivo autore dell’invenzione grafica e di Zoan
Andrea o di Giovanni Antonio da Brescia per la sua trasposizione
su lastra.
Altrettanto dubbia resta la datazione, collocata da Hind
tra il 1475 e il 1500-10 sulla base di considerazioni stilistiche;
il primo termine cronologico troverebbe piena
corrispondenza con la data manoscritta su un esemplare
a stampa della Pinacoteca di Bologna, che tuttavia va
considerata con le dovute cautele.
Per quanto riguarda la composizione della scena, Arrigoni
osserva la stretta analogia della stampa con le tavole
dell’edizione del De Architectura commentata e illustrata
da Cesariano, nonché l’esistenza di reminiscenze
e citazioni più tarde – visibili, ad esempio, nelle due raffigurazioni
di scena comica e scena tragica inserite da
Sebastiano Serlio nel Libro Secondo dell’Architettura o
in un affresco di Giannolo di Paolo nella cappella di San
Giovanni Battista annessa al Collegio del Campo di Perugia
– che denoterebbero una certa fortuna goduta dal
disegno bramantesco nella prima metà del Cinquecento.
Se la scelta del mezzo è esplicativa della volontà di far
circolare tale immagine, resta tuttavia ignota la sua
reale finalità: senza dubbio, come giustamente osserva
Petrioli Tofani, non è da intendersi come un foglio preparatorio
per un determinato allestimento e altrettanto
poco verosimilmente potrebbe trattarsi della memoria
di una scena realmente costruita. Al contrario, l’ipotesi
più ragionevole è che si tratti di una sorta di “capriccio
architettonico” assemblato come esercizio scenico,
come una riflessione su un tema spaziale svincolata da
un’effettiva realizzazione e da una reale committenza.
Ad ogni modo, a prescindere dalla sua finalità, è una
testimonianza significativa dell’interesse di Bramante
per il teatro, già documentata da altre fonti e in particolare
da una lettera datata 15 maggio 1495 – dunque
cronologicamente vicina all’opera in esame – in cui Bartolomeo
Calco informa Ludovico il Moro di aver incaricato
l’architetto di comporre «qualche digna fantasia da
mettere in spectaculo».
Nello spazio relativamente ridotto di un quadrivio (o
forse una piazza da cui si diparte una via che percorre
l’asse prospettico) a cui fa da quinta una porta urbica
si concretizza una specifica concezione architettonica
e urbana pregna di riferimenti alla cultura umanistica
del tempo, indubbiamente tanto legata alla trattatistica
di soggetto architettonico, quale il De re aedificatoria
di Leon Battista Alberti (1485) e l’editio princeps del
De Architectura di Vitruvio (1486) quanto influenzata,
nell’impianto geometrico che norma la planimetria e
nella rigidità della costruzione prospettica, dal De prospectiva
pingendi di Piero della Francesca (c. 1474-82) e
dalle opere a questa successive.
Francesco Marcorin
96 97
33. Raffaello Sanzio
Studio di una quinta prospettica per una scenografia, 1518-19
Penna, inchiostro marrone su preparazione a matita nera, mm 618 x 287
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. 560 A
Bibliografia: Geymüller 1884, pp. 56-57 nota 22; Ferri 1885,
pp. XXI, 24; Oberhuber 1966, p. 242 nota 34; Marchini
1968, pp. 491-492; Frommel 1974, pp. 183-185; Oberhuber
1983, pp. 637-638; S. Ferino in Firenze 1984, pp. 321-323;
Frommel 1984, pp. 226-228; C.L. Frommel in Mantova
1989, p. 290; Bruschi 1994, pp. 179-180, 182; Petrioli Tofani
1994, pp. 531-532; Jung 1998; R. Sassi in Urbino 2012, p. 268.
Il 6 marzo 1519 vengono messi in scena a Roma I Suppositi
di Ariosto in una sala della residenza vaticana del nipote
del papa, il cardinale Innocenzo Cybo. Leone X in persona
assiste alla commedia e la apprezza tanto da commissionarne
un’altra ad Ariosto per il carnevale dell’anno successivo,
incarico che non andrà a buon fine. Dalle fonti
sappiamo che le scene per I Suppositi sono progettate da
Raffaello e dal racconto di uno spettatore apprendiamo
che vi si riconosceva la città di Ferrara: «fu fento una
Ferara et […] fu fata Ferara precise come la è». (Cruciani
1983, p. 457). Un documento dell’agosto del 1521 fa riferimento
a Raffaello per forniture di legno «per li sedili della
commedia» quasi certamente le gradinate per il pubblico
erette nella residenza Cybo (Shearman 2003, p. 702).
Nel 1964 Oberhuber identificò come scenografia il foglio
qui presentato, attribuendolo a Raffaello. Accettando la
proposta, non essendovi notizia di altri apparati teatrali
progettati da Raffaello, nel 1984 Frommel propose che questo
disegno potesse essere messo in relazione con la rappresentazione
ariostesca del 1519. Osservò che le dimensioni
della scena, ipotizzabili dal disegno della quinta (privo di
scala di misura), sono in linea di massima compatibili con
la grande sala della residenza Cybo. Sottolineò anche come
Vitruvio differenzi la scena comica (adeguata a I Suppositi)
da quella tragica per la presenza di elementi definiti
«mignani» nella traduzione che Fabio Calvo appronta per
Raffaello. Il termine latino corrispondente è tradotto dagli
esegeti vitruviani Philandrier e Baldi come «pergola sporgente»:
un elemento simile a quello che appare nel disegno.
Da allora non sono emersi nuovi elementi che consentano
di andare oltre Frommel, anche dopo i successivi studi di
Jung del 1998 sulla costruzione prospettica del disegno.
Sylvia Ferino e Annamaria Petrioli Tofani hanno ribadito
con decisione l’autografia di Raffaello sul piano dello stile,
tenendo conto dalla singolare storia materiale del foglio.
La notevole estensione in altezza, oltre sessanta centimetri,
è raggiunta infatti incollando insieme due carte (più
una striscia sulla destra ad aumentare la larghezza). Le due
carte sono di grammatura diversa: la superiore è più sottile
e di riciclo. Essa porta sul verso uno studio per il cortile di
palazzo Branconio, certamente uscito dalla bottega di Raffaello,
probabilmente di mano di Giulio Romano (Pagliara
1984, pp. 205-206). Alla differente consistenza del supporto
nella parte superiore e inferiore, si è aggiunta una
diversa storia conservativa, perché il disegno è stato successivamente
tagliato in due lungo una linea spezzata che
segue la cornice che separa i due piani. Verrà ricomposto
nell’Ottocento da Ferri, su indicazione di Geymüller. Tutto
ciò è responsabile di una sensibile differenza di qualità del
disegno nelle due metà del foglio, a scapito di quella superiore,
più deteriorata.
L’invenzione architettonica è finalizzata alle esigenze
della rappresentazione teatrale, talvolta a scapito della
logica costruttiva e compositiva. Come osservato già da
Geymüller, la parte superiore del “meniano” mostra un
linguaggio maturo dove le edicole delle finestre, affiancate
da incassi rettangolari poco profondi e con la loro
trabeazione che continua schiacciata sulle pareti, rimandano
al progetto di Raffaello per il piano nobile di palazzo
Pandolfini a Firenze, concepito fra il 1516 e il 1517. È
possibile che l’omaggio a Giannozzo Pandolfini, vescovo
di Troia e intimo di Leone X, sia legato ad una sua presenza
fra gli spettatori de I Suppositi. La parte sottostante
mostra, invece, una campata con gli archi impostati su
frammenti di trabeazione sostenuti da colonne libere, una
soluzione meno aggiornata e che forse si potrebbe azzardare
collegata alla rappresentazione di una città padana.
Si devono ad Arnaldo Bruschi nel 1994 riflessioni sulla funzione
di questo disegno nel processo di progettazione di
una scenografia prospettica. I due disegni di Peruzzi per
la Cassaria del 1531 (U 268 A e 269 A) mostrano in cosa
consista un primo stadio di studio, con la costruzione di un
alzato scorciato a partire dalla planimetria. Anche nel foglio
di Raffaello i fori che punteggiano una linea posta a metà
del terzo gradino del pianterreno devono essere i registri di
allineamento con una pianta sottostante. Ma in questo caso
ci troviamo in una fase più avanzata del processo di progettazione:
non più studio personale ma disegno di grandi
dimensioni realizzato per guidare l’azione dei realizzatori,
con crocette e cerchi sulle paraste che «sembrano costituire
contrassegni in rapporto a problemi di esecuzione»
(Bruschi). A partire da un disegno come questo, gli artigiani
avrebbero costruito la quinta vera e propria (un
«telero» come scrive Peruzzi sulla pianta per la Cassaria),
sulla quale potevano essere realizzate anche aperture
forando la tela, come potrebbe qui indicare la presenza di
una figura appena abbozzata che si affaccia alla porta.
Guido Beltramini
98 99
L’IMMAGINE
DEL CAVA-
LIERE
–
34. Maestro dei Mesi
Cavaliere (Maggio), 1225-30
Pietra di Verona, cm 87 x 35 x 62
Ferrara, Museo della Cattedrale
Inv. MC024
Provenienza: Ferrara, Cattedrale, Porta dei Pellegrini
detta anche dei Mesi, fino al 1728; Santa Maria di Bocche,
dal 1736; Palazzo dei Diamanti, atrio; Museo della Cattedrale,
dal 1929.
Bibliografia: Baruffaldi 1697-1722 (ed. 1844-46), I, pp.
13-14; Giovannucci Vigi 2001, p. 30; Tigler 2010, pp. 56-89
(con bibliografia precedente).
«Vedevasi nella parte meridionale di esso Duomo, detta
comunemente la porta de’ mesi, perché nell’architrave
di essa, e nell’arco stavano di tutto rilievo scolpite le faccende
per lo più rusticali, che far si sogliono alla campagna
in ciascun mese dell’anno» (Baruffaldi 1697-1722,
ed. 1844-46, pp. 13-14). I rilievi a cui Baruffaldi fa riferimento
sono le formelle dei Mesi che decoravano l’imbotte
dell’arco inferiore del monumentale protiro della Porta
dei Pellegrini sul fianco meridionale del Duomo ferrarese
e risalente all’epoca di Nicholaus (1135 circa). Secondo
una tendenza che voleva aggiornare anche Ferrara alla
nuova moda antelamica di inserire il ciclo dei mesi nei
sottarchi dei portali o nelle volte dei protiri, furono realizzate
dall’anonimo Maestro dei Mesi a partire dal secondo
decennio del XIII secolo.
Le formelle rimasero in situ sino al 1717 quando il complesso
della Porta dei Mesi verrà a poco a poco demolito.
Da quella data le sculture inizieranno tre diversi percorsi:
alcune verranno sistemate sul fianco meridionale del
Duomo, detto Loggia dei Merciai, altre utilizzate come
pavimentazione dell’atrio, altre ancora – è il caso del
nostro Cavaliere – collocate nel cimitero della chiesa di
Santa Maria di Bocche (passando poi al Lapidario Civico,
quindi a Palazzo dei Diamanti) salvo infine, a partire dal
1929, trovare definitiva sistemazione presso il museo della
Cattedrale (Tigler 2010, pp. 56, 78, n. 8).
Tra le formelle, per raffinatezza e sensibilità di esecuzione,
spicca il Maggio – mese della caccia, dei tornei,
delle guerre ma anche dei pellegrinaggi – che è ricordato
dalla critica come uno dei capolavori della serie (Tigler
2010, pp. 64-73).
La scultura rappresenta un cavaliere a tutto tondo, coperto
da un grande scudo a mandorla con al centro l’umbone
rilevato come una borchia e un mantello che gli ricade
dalla spalla (Giovannucci Vigi 2001, p. 30). L’opera è connotata
da un vibrante naturalismo in cui la fondamentale
lezione di Antelami e della cultura figurativa d’Oltralpe
si fa più cordialmente analitica e descrittiva. Qui l’ignoto
maestro, infatti, si rivela un appassionato indagatore delle
più minute realtà dell’uomo e della natura: i capelli stretti
al capo e raccolti da un caratteristico ricciolo alla nuca del
cavaliere, l’attenzione ai dettagli anatomici del cavallo e
la straordinaria perizia nello scolpire e definire la vegetazione
che vediamo ai piedi dell’animale. L’insieme di questi
elementi danno dunque la misura dell’efficacia e della
forza stilistica e formale del Cavaliere che dovette colpire,
v’è da credere, anche Ludovico Ariosto che «nel passeggiar
fra il Domo e le due statue de’ Marchesi miei» (Satire,
VII, 151) poté ammirare la scultura prendendola magari
come modello iconografico allorché, chiudendo gli occhi,
immaginava gli uomini d’arme del suo Orlando furioso.
Vasilij Gusella
102 103
35. Cosmè Tura
San Giorgio, c. 1460-65
Olio su tavola, cm 21,6 x 13
Iscrizione sul retro della tavola: C·G·B C
Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Galleria di Palazzo Cini
Provenienza: Ferrara, collezione Francesco Rizzoni,
1782; Ferrara, collezione Giovan Battista Costabili, 1838;
Londra, collezione Barker, fino al 1874; Londra, collezione
conte di Rosebery, fino al 1940; New York, collezione
Siegfried Kamarsky, 1946; Firenze, collezione
Gualtiero Volterra fino al 1954; Venezia, collezione Vittorio
Cini, dal 1954 (Mattaliano 1998, p. 19).
Bibliografia: Longhi 1940 (ed. 1956), pp. 126-127; Salmi
1957, pp. 52-53; Ruhmer 1958, pp. 170-171; Bacchi 1990,
pp. 4-5; Mattaliano 1998, p. 19, n. 23; S.J. Campbell in
Boston 2002, pp. 207-208, cat. 6; M. Toffanello in Ferrara
2007, pp. 312-316, cat. 65 (con bibliografia precedente).
La tavoletta condivide con il San Maurelio del Museo
Poldi Pezzoli una più antica appartenza alla collezione
Costabili. L’ipotesi di Longhi (1940, ed. 1956, pp. 126-
127) che le due tavolette e la Vergine Annunciata della
Galleria Colonna di Roma, analoghe per formato,
dimensione e stile, costituissero un’unica serie è accettata
dalla critica, tuttavia divisa sulla loro originaria
collocazione – secondo Longhi pilastrini esterni di un
polittico distrutto, per Ruhmer (1958, pp. 170-171) parte
della predella della Madonna con il Bambino e santi del
Musée Fesch di Ajaccio. I tre dipinti sono, più probabilmente,
quanto rimane delle portelle di un altarolo che
all’esterno presentava l’Annunciazione (manca, dunque,
l’Angelo annunciante) e all’interno i santi protettori
di Ferrara (Salmi 1957, pp. 52-53; Bacchi 1990, pp.
4-5). L’altarolo fu forse commissionato da un Estense,
come lasciano supporre le colonnine verdi, bianche, e
rosse – colori della divisa estense, che contrassegnavano
le vesti dei paggi e gli altri oggetti della corte –,
la stessa preziosità delle tavolette, quasi «opere in
miniatura, concepite per un godimento privato e ravvicinato»
(M. Toffanello in Ferrara 2007, pp. 312-313) e
l’eleganza tutta cortese, in particolare, del san Giorgio,
qui rappresentato secondo un’iconografia piuttosto
inusuale che ha talvolta portato a confonderlo con un
san Michele. Giorgio è infatti appiedato e còlto nell’atto
conclusivo della vicenda raccontata nella Legenda
aurea, mentre recide con la spada la testa del drago.
Tura veste il santo con la lorica degli antichi romani,
guardando probabilmente ai soldati di Mantegna nella
cappella Ovetari a Padova, e al San Giorgio bronzeo di
Nicolò Baroncelli e Domenico di Paris, realizzato tra il
1453 e il 1456 per la cattedrale ferrarese, che rivestito di
antica corazza trafigge il mostro riverso ai suoi piedi.
Rispetto al San Giorgio che Tura dipinge nel 1469 per
le ante dell’organo del duomo, di ben altra temperie
drammatica, il santo Cini è, prendendo a prestito un
verso ariostesco, «un gentil cavallier, bello e cortese»
(Of V, 15, 7) dalla vermiglia armatura che con un elegante
gesto ad arco delle braccia impugna fodero e
spada, mentre le frange della lorica si aprono «come un
fiore di cardo» e il drago, colpito mortalmente, richiude
i rebbi delle ali (Longhi 1940, ed. 1956, p. 127).
La datazione delle tavolette è incerta: alla collocazione
tra il 1470 e il 1480 (Bacchi 1990, p. 6; S.J. Campbell in
Boston 2002, p. 207), è da preferire quella a ridosso
di opere giovanili quali la pala di Ajaccio e il disegno
della Madonna con il Bambino e quattro santi del British
Museum di Londra, del 1460 circa, ancora molto vicine
all’ambiente artistico padovano degli anni Cinquanta
(M. Toffanello in Ferrara 2007, p. 316).
Marialucia Menegatti
104 105
36. Marco Zoppo
Profilo di donna guerriera con elmo, 1448-78
Penna e inchiostro marrone su pergamena, mm 171 x 120
Iscrizione nell’elmo, all’interno del caduceo: PAX
Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings
Inv. PD 1891,0617.25
Provenienza: Londra, collezione Charles Fairfax Murray;
acquisito dal Museo nel 1891.
Bibliografia: Popham e Pouncey 1950, p. 165, n. 265; Ruhmer
1966, p. 68, n. 51; Armstrong 1993, p. 83; H. Chapman
in Londra 1998, p. 69, cat. 17 (con bibliografia precedente);
Fletcher 1999, pp. 86-87.
Il disegno raffigura una giovane donna, di profilo e a
mezzo busto, le spalle leggermente ruotate e il braccio
tronco come a volere riprodurre un frammento scultoreo,
che indossa un elmo su cui sono avvolti morbidi
nastri e da cui fuoriescono i capelli. Le numerose affinità
che il foglio presenta con le teste “all’antica” di guerrieri
e guerriere nel Rosebery Album di Zoppo dello stesso
British Museum confermano l’attribuzione all’artista,
generalmente condivisa dalla critica (H. Chapman in
Londra 1998, p. 69). Dell’accuratissimo disegno, forse
concepito come opera autonoma, colpisce soprattutto
l’elmo che la giovane indossa, una delle tante declinazioni
al tema degli elmi fantastici che contraddistingue
anche il Rosebery Album: il repertorio “romano” messo
a punto da Mantegna, con la visiera, la protezione per la
nuca, un motivo a voluta sopra l’orecchio, nel punto in
cui la visiera è fissata al corpo dell’elmo, si arricchisce in
Zoppo di particolari fantasiosi. In questo caso, la voluta
diventa un serpente con la testa di uomo, la visiera una
sorta di mostro con coda sporgente che sorregge un nano
(Armstrong 1993, p. 83). Il significato del caduceo alato
in cui è leggibile l’iscrizione “PAX” è piuttosto oscuro
(Popham e Pouncey 1950, p. 165); l’ipotesi che il profilo
maschile nella voluta sopra l’orecchio sia l’autoritratto
dell’artista e che l’iscrizione alluda al «pax tibi Marce»
riferito all’evangelista, patrono della città dove Zoppo a
lungo operò e morì (Fletcher 1999, p. 86), è suggestiva
ma forse un po’ troppo ingegnosa. Il disegno di Zoppo
restituisce una delle rare immagini quattrocentesche di
una figura, quella della donna guerriera, che in campo
letterario riscuoteva ampio successo, da Antea e Meridiana
del Morgante di Luigi Pulci, a Bradamante e Marfisa
dell’Orlando innamorato di Boiardo, riprese e sviluppate
da Ariosto nel Furioso. L’indomita Marfisa indossa,
sia in Boiardo che in Ariosto, un elmo che pare memore
delle invenzioni fantastiche di Zoppo: nel cimiero un
drago verde che sputa fuoco secondo la descrizione di
Boiardo (Oi I, 13, 4-5), «sopra l’elmo una fenice» in Ariosto
(Of XXXVI, 17, 8).
Marialucia Menegatti
106 107
37. Bottega di Andrea della Robbia
Scipione l’Africano, primi anni del XVI secolo
Terracotta invetriata, diametro cm 63
Vienna, Kunsthistorisches Museum
Inv. KK491
Provenienza: Firenze, collezione di Tommaso Gherardini,
ante 1798; Battaglia Terme (Padova), Catajo, collezioni
Obizzi, 1798; collezione dell’arciduca Francesco
Ferdinando d’Austria d’Este, 1890; Vienna, Kunsthistorisches
Museum, 1922-23.
Bibliografia: Tormen 2007, pp. 92 note 43-46, 93; Caglioti
2008, pp. 67-83; Caglioti 2011, pp. 520-521; Tormen 2016,
nota 37.
Lo Scipione viennese è giunto al museo austriaco assieme
agli oggetti raccolti da Tommaso degli Obizzi, che lo
acquistò nel 1798 dalla collezione del pittore fiorentino
Tommaso Gherardini (Tormen 2007, pp. 92 e note 43-46,
93). Il tondo raffigura Scipione secondo la moda dei profili
all’antica avviata nella Firenze del secondo Quattrocento,
di cui Desiderio da Settignano fu il maggior
esponente. Nel 1455, questi lavorava a una serie di profili
d’imperatori dell’antichità, probabilmente destinati
al re di Napoli Alfonso il Magnanimo, che nei decenni
successivi vennero reinterpretati da allievi e imitatori.
Gregorio di Lorenzo, uno dei più stretti collaboratori
di Desiderio, nel 1472 scolpì un ciclo di profili analogo,
destinato alla corte di Ferrara, mentre Andrea del Verrocchio,
stando a Giorgio Vasari, intorno al 1477 realizzò
due profili bronzei, raffiguranti Alessandro e Dario,
che Lorenzo il Magnifico inviò al re d’Ungheria Mattia
Corvino. Lo Scipione viennese, incorniciato da una ghirlanda,
deriva da un rilievo rettangolare di marmo conservato
al Louvre (di cui esiste una derivazione in stucco
conservata a Londra al Victoria and Albert Museum),
che può essere stilisticamente inquadrato nella scultura
fiorentina tra Desiderio e Verrocchio (Caglioti 2008, pp.
67-83; Caglioti 2011, pp. 520-521).
Scipione è raffigurato di profilo, vestito di una fantasiosa
armatura, che reca sul petto una testa simile a una
Gorgone. L’elmo, dal quale partono nastrini svolazzanti,
ha una struttura a conchiglia e presenta ricchi ornati e
forme affilate culminanti in riccioli decorativi. Il cimiero
è a forma di drago, le cui ali sono affini allo spallaccio
squamato. Questo tipo di raffigurazione attesta come a
inizio Cinquecento per ritrarre Scipione si ricorresse ai
modelli elaborati dai grandi scultori quattrocenteschi.
Certamente Ariosto conosceva bene gli analoghi rilievi
presenti alla corte estense, specialmente quelli di Gregorio
di Lorenzo, che a Ferrara, prima delle grandi imprese
scultoree di Antonio Lombardo, costituivano un raro
modello di iconografia all’antica.
Paolo Parmiggiani
108 109
38. Iniziale miniata raffigurante il profilo di un condottiero
in Formulario di epistole volgari, settimo decennio del XV secolo
Manoscritto membranaceo miniato, mm 185 x 130
Confezione collocabile tra il 31 ottobre 1461 (data di una delle lettere, f. 60v) e il 12 marzo 1468 (morte del dedicatario,
Astorgio Manfredi)
72 ff. (l’ultimo reciso al margine interno), composto di 10 fascicoli (rispettivamente di 4 ff., 6 ff., 8 ff., 2 ff., 6 ff., 8
ff., 8 ff., 10 ff., 10 ff., 10 ff.)
Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 226, f. 1r
Bibliografia: Gentilini 2006, p. 433; Guernelli 2009, pp.
65-73.
Come si apprende dalla Exhortation de Bartolomio
da Ferrara al libro suo, il quale lo racommandi al principe
a cui se driça (ff. 3v-4r), l’autore di questa raccolta
di modelli epistolari è un Bartolomeo da Ferrara. Un
formulario vicino a questo venne peraltro stampato a
Bologna da Ugo Ruggeri con data 20 aprile 1485 sotto il
nome di Bartolomeo Miniatore con dedica a Ercole d’Este
(IGI 6435), e nuovamente con data 23 giugno sotto
il nome di Cristoforo Landino (IGI 5650). È verosimile
che autore della raccolta e miniatore del manoscritto
coincidano e, sul finire degli anni Novanta, Massimo
Medica ha suggerito che questo sia da identificare nel
ferrarese Bartolomeo da Benincà, il quale soggiornò a
tratti a Bologna durante il settimo decennio del Quattrocento
(Medica 1997, p. 74; Medica 1998, p. 77).
Il profilo di condottiero racchiuso nell’iniziale non
sembra ritrarre Astorgio Manfredi, vista la poca somiglianza
fisiognomica con il busto di Mino da Fiesole
conservato alla National Gallery di Washington. Si
tratta piuttosto di una fantasia, affine ai profili verrocchieschi
degli stessi anni. Con riguardo a questi –
peraltro divulgati in numerosi nielli bolognesi –, va detto
che erano certamente familiari ad Ariosto: il manoscritto
parigino della raccolta epigrafica di Michele Ferrarini
reca la testimonianza di un rilievo pseudo-antico con
profilo di condottiero appartenente alla stessa tipologia
incassato in un muro del duomo di Reggio (lat. 6128, f.
5r), tuttora conservato (CIL XI-1, n. 127).
Adolfo Tura
110 111
39. Antonio Averlino detto Filarete
Ettore a cavallo, 1456
Bronzo, cm 27,5 x 25,5 x 12,5
Sul fronte della base: hector hic est priami trovm / frotissimvs heros et danais / terror primvs / qvo concidit
/ hercles dardaniae lvcem (il testo s’interrompe); all’interno della base: opvs antoni / 1456
Madrid, Museo Arqueológico Nacional
Inv. 52173
Provenienza: Madrid, Museo de Antiguedades de la
Biblioteca Nacional, almeno dal 1847 e fino al 1867;
Museo Arqueológico Nacional, dal 1867.
Bibliografia: Keutner 1964, pp. 139-156; Coppel 1987, pp.
801-804; H. Keutner in Berlino 1995, pp. 134-135, cat. 3;
A. Litta Modignani in Brescia 2003, pp. 140-141, cat. 25.
Secondo le genealogie cortigiane estensi (di cui tanto
Boiardo nell’Innamorato che Ariosto nel Furioso dettero
le proprie versioni), la stirpe dei signori di Ferrara risaliva,
tramite il pagano Ruggiero, nientemeno che al leggendario
Ettore omerico e a suo figlio Astianatte, il quale
anziché venir ucciso per estinguere definitivamente la
linea paterna, come narrano le fonti più note, si sarebbe
salvato riparando in Sicilia e lì avviando, appunto, una
propria discendenza. Il valoroso principe troiano, già
celebrato da Virgilio nell’Eneide, conobbe grande fortuna
anche per tutto il lungo Medioevo cortese specie
in Francia, figurando tra l’altro all’inizio della serie dei
Neuf Preux, cioè il più famoso canone eroico profano del
mondo cavalleresco (Donato 1985).
Un poemetto franco-italiano in ottonari, Le Roman
d’Hector et d’Hercule, composto tra la fine del XIV e il
primo quarto del XV secolo e diffuso in area padana (Le
Roman... 1972; il codice da cui è tratta l’edizione, ora a
Parigi, BnF, Fr. 821, è attestato nella biblioteca viscontea
di Pavia sin dal 1426, Albertini Ottolenghi 1991), raccontava
di come l’eroe da giovane avesse sfidato a duello e
ucciso addirittura il gigantesco Ercole, colpevole dell’assassinio
di suo nonno Laomedonte: come è stato dimostrato
da Herbert Keutner, è proprio questo episodio ad
essere illustrato ai lati della base del fierissimo Ettore a
cavallo oggi a Madrid, che lo studioso attribuiva magistralmente
a Filarete su base stilistica (attribuzione puntualmente
confermata vent’anni più tardi col ritrovamento
di firma e data: Keutner 1964, Coppel 1987; ancora
Keutner in Berlino 1995, pp. 134-135, cat. 3 e ora anche
Litta Modignani in Brescia 2003, pp. 140-141, cat. 25).
Considerando la raffinata rarità del soggetto e l’eleganza
piena d’energia della sua fattura, è chiaro che il
bronzetto venne prodotto per un committente d’alto
rango. Filarete, che nel 1465 doveva donare a Piero de’
Medici l’altro suo cavaliere di piccolo formato (il ben più
antiquario Marco Aurelio oggi a Dresda: A. Nesselrath
in Roma 2005, pp. 312-313, cat. III.2.2), l’indirizzò nel
1456 probabilmente a Francesco Sforza, magari a ideale
risarcimento del fallito progetto di monumento equestre
a grande scala che a Cremona solo due anni prima
si era voluto dedicare al neo Signore di Milano, sempre
per sua mano (Visioli 2008); oppure al primogenito di
lui, Galeazzo Maria, che quando l’opera veniva modellata
aveva pressoché l’età dell’enfant Hector. L’elegante
armatura indossata dal giovane guerriero e la sua sella
decorata, entrambe alla moderna, sottolineano come
l’eroe antico fosse termine di paragone per il valore del
destinatario dell’oggetto, evidentemente in grado di
superare una prova immane (qui la lotta con un gigante,
per giunta semidio) pur in condizione di svantaggio (per
età e stazza): il tema, certo caro ad un condottiero divenuto
duca e alla sua casata, ritorna in un altro bronzo
filaretiano di soggetto omerico, la placchetta con la
Lotta di Ulisse e Iro, che andrà pertanto datata anch’essa
al periodo milanese dell’artista (M. Leithe-Jasper in
Washington, Los Angeles e Chicago 1986-87, pp. 48-50,
cat. 1, Cannata 1989, S.G. Casu in Atene 2004, pp. 162-163,
cat. I.49 e C. Kryza-Gersch in Firenze 2006, pp. 202-203,
cat. 114).
Maria Beltramini
112 113
40. Albrecht Dürer
Odoberto d’Asburgo (recto), due figure maschili (verso), 1515-16
Penna bruna su carta, mm 252 x 156
Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett
Inv. 4260
Provenienza: Berlino, Kupferstichkabinett, acquisito nel
1986.
Bibliografia: Oberhammer 1935; Anzelewsky 1986, pp.
67-73; Koreny 1989, pp. 127-148; Wood 2005, pp. 1160-
1165; Silver 2008, pp. 70, 251 nota 106.
Il disegno sul recto del foglio è lo schizzo di un personaggio
in armatura, che la nota manoscritta in basso a
destra identifica con “Ottoprecht Fürst”, ossia Odoberto
d’Asburgo (Koreny 1989, p. 127). La storiografia artistica
ha ricondotto l’immagine a una serie di studi che
Albrecht Dürer realizzò per le statue bronzee volute
da Massimiliano I d’Asburgo per la propria tomba nella
Hofkirche di Innsbruck. La figura è simile a quella di
Alberto d’Asburgo abbozzata da Dürer su un foglio conservato
alla Walker Art Gallery di Liverpool (oggi in
cattivo stato di conservazione e conosciuto attraverso
riproduzioni fotografiche), la cui traduzione in bronzo
nel monumento fa comprendere quale fosse la destinazione
di questi disegni. Rispetto al progetto iniziale
di quaranta statue che dovevano raffigurare la genealogia
imperiale asburgica (secondo la concezione del
giurista Jakob Mennel), alla fine ne furono realizzate
ventotto, tra le quali non è presente quella di Odoberto
(Oberhammer 1935; Koreny 1989, pp. 127, 146-148).
Il foglio testimonia l’attenzione di Dürer per la raffigurazione
delle armature e, più in generale, degli abiti, come
attesta anche il verso, che ritrae due figure maschili in
vesti italiane. Come indicato dalla nota manoscritta dello
stesso artista sulla parte alta del foglio, il disegno deriva
da un ritrovamento archeologico avvenuto nel 1516 a
Celje, in Slovenia, ossia una statua di pietra che, verosimilmente,
raffigurava un personaggio vestito di corazza
(Koreny 1989, p. 127; Wood 2005, pp. 1160-1165). I caratteri
derivati da ricerche archeologiche e da modelli antichi
e medievali, così come da un gusto fantastico molto
affine agli esiti dei pittori e degli scultori italiani (e che
ritroviamo nell’immaginazione multiforme di Ariosto),
sono rivelatori dell’arte düreriana. Sebbene il monogramma
AD dell’autore e la data 1515 paiano aggiunti
in epoca successiva alla realizzazione del disegno, in
discordanza con la data 1516 riferita al ritrovamento
sloveno (Koreny 1989, pp. 127-130), non v’è motivo di
dubitare che questo disegno sia legato alla complessità
dei lavori che nel terzo lustro del Cinquecento il pittore
avviò per celebrare e raffigurare la genealogia imperiale,
culminanti nel celebre Arco trionfale (1515-17) composto
di 192 xilografie.
Paolo Parmiggiani
114 115
41. Le battaglie del Danese
Milano, Giovann’Angelo Scinzenzeler, 12 maggio 1513. 4°
Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Sammlung von Handschriften und alten Drucken, *35.S.70
Bibliografia: Kristeller 1913, n. 125,2; Balsamo 1959, n.
109.
Questa edizione del Danese, uno dei poemi cavallereschi
di maggiore popolarità nella stagione precedente
all’apparizione del Furioso (si veda Villoresi 1994; Villoresi
2005, pp. 38-74), presenta al titolo la figura stante
di un uomo d’arme. Il legno è di notevole qualità e difficilmente
collegabile alla restante produzione milanese
di primo Cinquecento. È stato Lamberto Donati a
osservare l’affinità, anzitutto fisiognomica, della figura
in questione con il noto disegno a punta d’argento di
Leonardo del British Museum raffigurante il profilo di
un guerriero (1895,0915.474): «L’eroe catafratto, uscito
vittorioso dalla battaglia, si riposa appoggiandosi allo
scudo e brandendo la spada con gesto retorico. Caratteristico
è il lungo corsaletto, non a maglia di ferro ma a
piastre rettangolari. Ancor più caratteristica è la faccia
dall’espressione feroce: il labbro inferiore prominente,
il mento scavato, il naso ondulato e allungato colle
profonde pliche naso-labiali, il sopracciglio corrugato
e lo sguardo nel vuoto. Tutta la faccia magra e rugosa
esprime lo sforzo della lotta recente e la profonda stanchezza;
soprattutto ci dice che ci troviamo in presenza
d’un ritratto, che ora non possiamo riconoscere ma che
ai contemporanei era noto. Lo rivediamo in un superbo
disegno di Leonardo conservato nel Museo Britannico»
(Donati 1963, pp. 121-122). Per la verità il naso mostra
una rispondenza assai più notevole col profilo di Dario
in stucco già al Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino
(disperso nel 1945), copia di un originale verrocchiesco
inviato a Mattia Corvino (Caglioti 2011, p. 546)
Quello che si espone è, per dimensioni e freschezza, il
più bell’esemplare conservato di questo prezioso libro.
L’esemplare della Biblioteca Nazionale Braidense (AB.
XI.35) è privo della prima carta, recante la pagina di
titolo; in quello della British Library (C.62.b.10) la stessa
carta è rifilata, mentre nel volume della Bibliothèque
nationale de France (Rés. Yd 224, con nota di possesso di
Jacopo Corbinelli), la silografia è scarabocchiata.
Adolfo Tura
116 117
42. Antonio Lombardo
Marte, c. 1513-15
Marmo, cm 44,9 x 36,8 x 10
Modena, Galleria Estense. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. 2054
Provenienza: Ferrara, collezioni Estensi, c. 1513-15 (?),
documentato nel 1629; Modena, Villa Pentetorri, 1684;
Modena, Palazzo dei Musei, 1894.
Bibliografia: Markham Schulz 1998, pp. 76, 242-243; A.
Sarchi in Ferrara 2004b, pp. 265-267, cat. 67; D. Gasparotto
in Torino 2014, p. 116, cat. 12; Farinella 2014a, pp.
389-398.
Il Marte, attribuibile ad Antonio Lombardo, è documentato
nelle collezioni estensi fin dal 1629. Verosimilmente, fu
scolpito nel secondo decennio del Cinquecento, durante il
ducato di Alfonso I, in armonia con i temi mitologici del
Camerino d’alabastro del Castello ferrarese. La storiografia
artistica ha anche proposto di riferirlo a Giammaria
Mosca (o a uno scultore della sua cerchia, si veda Markham
Schulz 1998) e ad Aurelio Lombardo (A. Sarchi in
Ferrara 2004b, pp. 265-267, con una datazione al 1525).
L’opera è un mezzorilievo marmoreo raffigurante Marte
nudo accanto alle armi e agli abiti militari. Il dio è seduto
su un plinto, che reca un’iscrizione in esametro: «NON
BENE MARS / BELLVM POSITA NI / SI VESTE MINIS /
TRO» (Io, Marte, non guerreggio bene se non ho deposta
la veste). Verosimilmente, il tema guerresco di Marte
poteva essere accompagnato da un pendant, quale il
rilievo bronzeo lombardesco raffigurante la Pace conservato
alla National Gallery of Art di Washington (forse
derivato da un originale marmoreo). Questa ipotesi troverebbe
rispondenza storica nel cessato conflitto tra il
ducato di Ferrara e il papato – e nel periodo di tranquillità
che seguì la morte di Giulio II, avvenuta nel 1513 –
e porterebbe a datare il rilievo a questi anni. In base a ciò,
è plausibile che l’opera fosse destinata alla Delizia del
Belvedere, ove circa un decennio dopo, Dosso Dossi, nel
ritrarre Giove pittore di farfalle (Fig. 56), avrebbe potuto
rifarsi al Marte per la figura di Mercurio seduto accanto a
Giove (Farinella 2014a, pp. 389-398).
Un’ipotesi alternativa vede nell’opera il riferimento a
una battaglia amorosa, e pertanto un diverso pendant,
plausibilmente una Venere, richiamando dunque il mito
del tradimento di Venere e Marte ai danni di Vulcano. La
postura del dio presenta molte analogie con quella dell’incisione
Venere, Marte e Cupido realizzata da Marcantonio
Raimondi nel 1508 (A. Sarchi in Ferrara 2004b, p. 266).
Il mito era presente nella cultura figurativa estense, dato
che compariva già nel Settembre degli affreschi nel Salone
dei Mesi a Schifanoia, completato nel 1470. Rispetto ai
modi propri dei pittori attivi alla corte ferrarese di Borso
d’Este, il Marte estense è improntato alla cultura antiquaria
cinquecentesca di cui Antonio Lombardo era finissimo
interprete. La fortuna del racconto al tempo di Alfonso I è
riflessa nelle rime dell’Orlando furioso e nell’abile fusione
dei temi cavallereschi e mitologici elaborata da Ariosto.
Nel quindicesimo canto del poema, ricco di riferimenti
storici e politici, si narra della rete fabbricata da Vulcano
per catturare gli amanti, la quale, giunta poi in Egitto nelle
mani del gigante Caligorante, è recuperata da Astolfo e da
questi ceduta al degno Sansonetto da Meca (moro convertito
da Orlando al cristianesimo), «giovene gentil […] oltre
l’etade, / ch’era nel primo fior, molto prudente; / d’alta
cavalleria, d’alta bontade / famoso, e riverito fra la gente /
[…] Avea in governo egli la terra, e in vece / di Carlo
[Magno] vi reggea l’imperio giusto» (95, 2-6; 97, 1-2), che
riecheggia non casualmente la figura, le virtù e il ruolo
attribuiti dal poeta al duca Alfonso: «ch’in così acerba età,
che non eccede / dopo il vigesimo anno ancora il sesto, /
l’imperator [Carlo V] l’esercito gli crede» (29, 3-5).
Paolo Parmiggiani
118 119
43. Agostino Busti detto Bambaia
Lesena con trofei, 1515-23
Marmo, cm 96,5 x 31 x 9
Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica. Su concessione della Fondazione Torino Musei
Inv. 466/PM
Provenienza: Milano, Santa Marta, 1516-1631; Torino,
Palazzo Reale, 1631; Torino, Museo Civico, 1871.
Bibliografia: Vasari 1568 (ed. 1984), V, pp. 433-434; Mallé
1965, pp. 175-176; Agosti 1990, pp. 9, 147; Fiorio 1990, pp.
54-55; Zani 2012, pp. 161-163; Cupperi 2013, pp. 35-36.
La lesena appartiene al monumento di Gaston de Foix
dello scultore lombardo Agostino Busti, detto Bambaia,
destinato al convento di Santa Marta a Milano, rimasto
incompiuto e poi smembrato nel Seicento. Gaston, duca
di Nemours, nipote del re francese Luigi XII, nel 1512
morì ventitreenne nella Battaglia di Ravenna alla guida
dell’alleanza, di cui faceva parte anche Alfonso I con la
sua artiglieria, contro la Lega Santa di papa Giulio II.
All’episodio bellico Ariosto dedicò alcune ottave dell’Orlando,
rievocando l’uccisione in battaglia del capitano
francese: «Quella vittoria fu più di conforto / che d’allegrezza;
perché troppo pesa / contra la gioia nostra il
veder morto / il capitan di Francia e de l’impresa» (XIV,
6, 1-4). Il monumento fu commissionato da Francesco I,
che volle onorare Gaston con un’opera di grande fasto
e impegno scultoreo. La qualità degli intagli marmorei
è esaltata da un celebre passo delle vite di Giorgio
Vasari, che, impressionato, lo esaminò a lungo: «E per
dirlo brevemente, ell’è tale quest’opera, che mirandola
con stupore, stetti un pezzo pensando se è possibile
che si facciano con mano e con ferri, sì sottili e maravigliose
opere, veggendosi in questa sepoltura fatti con
stupendissimo intaglio fregiature di trofei, d’arme di
tutte le sorti, carri, artiglierie e molti altri instrumenti
da guerra» (Vasari 1568, ed. 1984, V, pp. 433-434). Le
parole del biografo aretino descrivono espressamente i
motivi all’antica della lesena, la quale, assieme ad altre
simili, intervallava rilievi figurati dedicati alle imprese
di Gaston. Nello spirito cavalleresco ormai tramontato, i
trofei della lesena ricordano passi dell’Orlando dedicati
alla commemorazione di grandi guerrieri: «Tristano, /
Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano, / et altri cavallieri
e de la nuova / e de la vecchia Tavola famosi: / restano
ancor di più d’una lor pruova / li monumenti e li trofei
pomposi» (IV, 52-53); ma anche il perduto senno di
Orlando, la dissoluzione delle sue virtù di cavaliere
manifestatasi con l’abbandono delle vesti, del cavallo,
delle armi: «Vide [Fiordiligi] con gli occhi il miserabil
caso, / e n’ebbe per udita anco novella; / che similmente
il pastorel narrolle / aver veduto Orlando correr folle. /
Quivi Zerbin tutte raguna l’arme, / e ne fa come un bel
trofeo su’ n pino; / e volendo vietar che non se n’arme /
cavallier paesan né peregrino, / scrive nel verde ceppo in
breve carme: / – Armatura d’Orlando paladino» (XXIV,
56-57).
Paolo Parmiggiani
120 121
44. Giorgio da Castelfranco detto Giorgione
Ritratto di guerriero con scudiero detto “Gattamelata”, c. 1501
Olio su tela, cm 90 x 73
Firenze, Galleria degli Uffizi. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. 1890 n. 911
Provenienza: Firenze (?), casa de’ Nobili (Vasari 1568, ed.
1976, IV, p. 43); Urbino (?), Palazzo Ducale, fino al 1631;
Praga, collezione del Castello, 1718; Vienna, Gallerie Imperiali,
1781; Firenze, Galleria degli Uffizi, dal 1821.
Bibliografia: A. Ballarin in Parigi 1993, pp. 313-316 (con
bibliografia precedente); Lucco 1995, p. 95; Anderson 1996,
p. 326; S. Ferino-Pagden in Vienna 2004, pp. 208-211; Dal
Pozzolo 2009, pp. 168, 174 (con bibliografia precedente); S.
Facchinetti in Londra 2016, pp. 56-57.
Il giovane condottiero che, con un intreccio sofisticato
delle braccia, sostiene l’elsa preziosa dello spadone e indica
la celata sul primo piano, mentre alle spalle lo scudiero di
profilo regge l’asta dello stendardo e gli porta la “barbozza”
(altro componente dell’armatura), rappresenta forse Clito,
amico fraterno e luogotenente di Alessandro Magno, che
si affretta a montare a cavallo (gli speroni sono sul davanzale)
per andare in guerra e domanda l’elmo all’armigero. Si
tratterebbe, seguendo un’ipotesi assai suggestiva, del rifacimento
moderno di un dipinto di Apelle, in base all’ecfrasi
di un passo di Plinio, noto dal volgarizzamento del Landino
(Ballarin 1979, pp. 8-10). Al magistero del grande pittore
greco si ispirano, secondo la medesima lettura, la resa
luministica e, in particolare, i riflessi sulle armature che
culminano nel virtuosismo della linea sottile sulla mazza
in primo piano, restituzione quasi “filologica” della tecnica
dello splendor, ovvero della costruzione della forma e del
rilievo tramite la luce, e del potenziamento e controllo di
tali effetti attraverso l’atramentum, una vernice nera trasparente
che – sempre in base alla lezione pliniana – aveva
anche la funzione di conservare la pittura. Questa interpretazione,
stimolata da un magistrale saggio di Gombrich
(1976), colloca il dipinto in una stagione precisa della storia
di Giorgione, di seguito all’incontro con Leonardo a Venezia
nel 1500 e alle nuove problematiche da questi sollevate in
merito alla diversa natura della luce (lo splendor contrapposto
al lumen), all’eredità degli antichi e al paragone pittura/
scultura. Questo capitolo cruciale nella storia dell’artista e
dell’avvio della Maniera moderna in laguna, si apre con la
pala di Castelfranco (1500), dove il santo in armatura costituisce
un primo esercizio sul tema, e promuove negli anni
successivi l’invenzione di una nuova ritrattistica “neoplatonica”
e “stilnovista”, maturata a contatto con l’ambiente
cortigiano e letterario della “Compagnia degli amici”, celebrato
anche nella poesia del giovane Pietro Bembo. Rispetto
alle teste verrocchiesche all’antica, vicine alla tradizione
umanistica della scultura o delle medaglie (Tav. 37), il volto
fiero e androgino di questo condottiero, l’eleganza dei suoi
gesti e la ricercatezza della luce esemplificano un diverso
ideale, cavalleresco e romantico, giocato sul registro della
grazia (la proverbiale charis di Apelle), della bellezza stilizzata
e del languore sentimentale cari all’estetica cortigiana,
così come la preziosa armatura, offerta sul primo piano
all’esercizio dei lustri. Giorgione fonda in questo modo
una nuova tipologia di ritratto d’uomo in armi destinata ad
ampia fortuna nel Cinquecento e che, sotto molti aspetti,
ci appare sottesa all’immaginario figurativo e all’orizzonte
formale e di linguaggio del primo Furioso.
Come la maggior parte delle opere del maestro di Castelfranco,
il dipinto ha avuto una vicenda critica tormentata
e tuttora controversa, sebbene sia stata ricondotta all’ambito
giorgionesco da un’autorevole tradizione di studi (sulla
linea indicata da Justi 1908 e 1926; proseguita da Longhi
1946, ed. 1978; Ballarin 1979, 1983 e in Parigi 1993, pp. 313-
316), mentre la discussione è declinata ai margini intorno
all’eventualità che si tratti di un originale (concordi Lucco
1990, p. 89, e 1995, p. 95, e Dal Pozzolo 2009, pp. 168, 174),
una copia o una derivazione da parte di un seguace del
decennio successivo (per esempio Anderson 1996, p. 326,
Ferino-Pagden in Vienna 2004, pp. 208-211). La recente
esposizione della tela a Londra tra il Francesco Maria della
Rovere di Vienna e il Doppio ritratto di Palazzo Venezia,
appare a chi scrive una conferma, contrariamente ai dubbi
espressi in catalogo (Facchinetti in Londra 2016, pp. 56-57),
dell’autografia e della sequenza strettissima di queste opere
entro una fase sperimentale e pre-tizianesca della pittura
moderna che si gioca nei primissimi anni del secolo. Tra i
possibili confronti interni si può far caso a come nel Della
Rovere, più vicino alla pala di Castelfranco (S. Ferrari in
Padova 2013, pp. 193-194), l’elmo presenti qualche retaggio
ancora “fiammingo” nella decorazione e nella specchiante
lucentezza, rispetto a quello del nostro condottiero, in cui
l’artista si misura più decisamente con la tecnica della pittura
antica.
Barbara Maria Savy
122 123
45. Vincenzo Catena
Giuditta con la testa di Oloferne, c. 1525
Olio su tela, cm 81,5 x 64
Venezia, Fondazione Querini Stampalia
Inv. 1/72
Provenienza: Venezia, Giovanni Querini Stampalia,
legato del 1868.
Bibliografia: Crowe e Cavalcaselle 1871 (ed. 1912), I, p.
262; Berenson 1894; Burckhardt 1898 (ed. 1995), vol.
IV, p. 137; Jacobsen 1909, pp. 217-218; Venturi L. 1913,
p. 228; Venturi 1915, p. 568; Pinacoteca 1925, p. 45;
Venturi L. 1928, p. 51; Van Marle 1936, p. 400; Venezia
1945, p. 71, cat. 78; Waterhouse 1952; Robertson 1954,
pp. 36, 67; Venezia 1955, p. 148, cat. 66; Berenson 1957, I,
p. 63; Heinemann 1962, III, p. 105; Mucchi 1978, p. 70;
Pignatti 1978, pp. 72, 151; Anderson 1979, p. 157; Dazzi e
Merkel 1979, p. 37; Anderson 1997, p. 318; Daniele 2000,
p. 59; Daniele et al. 2000, p. 4; Reineke 2003, p. 43; Dal
Pozzolo 2006, pp. 83-104 (con bibliografia precedente);
Kaplan 2007, p. 291; Dal Pozzolo 2009, p. 291.
Dalle nobili Bradamante e Marfisa, esperte nelle arti
cavalleresche, alle più ostili e selvagge donne d’Alessandria,
le guerriere che popolano il mondo dell’Innamorato
e del Furioso rispondono ad un topos largamente
attestato nella tradizione romanza, del quale è
stata già rilevata la discendenza da modelli mitologici
e di storia antica che Ariosto volutamente rievoca
(Minerva, le bellicose Amazzoni, le donne di Lenno o le
sette eroine del canto XXXVII, 5), nella prospettiva di
un’abile contaminazione tra leggende medioevali, elementi
classici e riferimenti alla storia contemporanea
(si vedano dopo Rajna 1900, ed. 1975, pp. 31-35, 163-165,
almeno Baldan 1981; Musacchio 1983, pp. 141-145; e i più
recenti Andres 2001, pp. 150-153; Farnetti 2004, p. 379).
Nell’immaginario e nelle arti figurative rinascimentali
un altro ideale di donna guerriera, dotata di virtù
e coraggio unite a beltà e fascino seduttivo, è quello
di Giuditta, in questo caso raffigurata con un assetto
compositivo di tre quarti e a mezza figura di chiara
matrice giorgionesca, come notato già da Carlo Ridolfi
(1648, ed. 1914-24, I, p. 83), e che si è ritenuto derivi da
un originale perduto del maestro di Castelfranco. Una
Giuditta a mezza figura «lavorata su la via di Giorgione
con spada in mano e il capo d’Oloferne» fu vista,
infatti, in casa di Bartolomeo della Nave a Venezia dal
Ridolfi che la ritenne opera di Vincenzo Catena. Lo
stesso dipinto passò nella collezione dell’arciduca Leopoldo
e poi a Vienna con un’attribuzione alternante tra
Catena e Giorgione, per finire sotto il più celebre nome
del secondo nella traduzione a stampa incisa da Lucas
Vorsterman per il Theatrum pictorium di David Teniers
(1658, pl. 13). Quella Querini Stampalia è oggi dai più
ritenuta una variante dell’esemplare già a Vienna che
sarebbe dunque perduto, anche se le differenze con
la riproduzione a stampa (soprattutto nell’abito della
donna) potrebbero essere imputabili all’incisore che
spesso traeva spunto non dagli originali, ma da copie
dello stesso Teniers. Le misure riportate negli inventari
(palmi 3 x 4; Waterhouse 1952, pp. 1-23) e sulla
stampa (palmi 4 x 5), d’altronde, non sembrano poi così
discoste dal dipinto oggi a Venezia, essendo suscettibili
di diverse interpretazioni a seconda della misura
del palmo.
L’opera di Catena riprende, in ogni modo, nella dolcezza
idealizzata del viso e nel modo in cui la donna si
pone oltre il parapetto con la mano sul grande spadone,
invenzioni di certa paternità giorgionesca, nel genere
dei ritratti in armi o del David con la testa di Golia, documentato
dalla copia oggi a Vienna (Anderson 1979, pp.
156-157; Dal Pozzolo 2006, p. 83 e 2009, p. 291 che nota
nella stessa testa di Oloferne una citazione dalla Giuditta
a figura intera di Giorgione, oggi all’Ermitage di
San Pietroburgo). L’impianto largo della figura, girata
di tre quarti e il rapporto con la finestra aperta sul paesaggio
guardano altresì, senza mai dismettere del tutto
la lezione belliniana, ad esempi della pittura lagunare
del secondo decennio del secolo e alla fortuna del tema
delle mezze figure femminili tra Tiziano, Sebastiano
del Piombo e Palma il Vecchio, cui si riferisce un’antica
iscrizione sul verso della tavola (Robertson 1954,
p. 67). Rispetto alla ricostruzione del percorso dell’artista,
la datazione si è orientata verso la fase estrema
caratterizzata da una sorta di «neogiorgionismo classicizzante»
(M. Lucco in Parigi 1993, p. 274), con consistenti
oscillazioni tra la prima e la seconda metà del
terzo decennio del secolo (si veda Dal Pozzolo 2006, p.
103 nota 201).
Barbara Maria Savy
124 125
46. Spada detta “di Boabdil”, fine del XV secolo
Ferro forgiato, inciso e dorato, legno intagliato, cm 85 x 12 x 4
Parigi, Musée de l’Armée
Inv. 680 P0
Provenienza: antica collezione di Georges Pauilhac;
acquisita dal Musée de l’Armée, 1964.
Bibliografia: Parigi 2011, pp. 37, 66.
Quando Ariosto descriveva gli epici combattimenti tra i
Mori e i paladini di Carlo Magno, la presenza musulmana
nell’Europa occidentale era ancora di assoluta attualità.
Erano trascorsi soltanto ventiquattro anni dalla caduta
del sultanato dei Nasridi di Granada nelle mani dei
sovrani cattolici e la resa il 2 gennaio 1492 del suo ultimo
emiro, Maometto XII (noto in Europa come Boabdil),
figurava ancora nelle cronache.
L’eco di questi avvenimenti, che coincisero con l’inizio
dell’espansione mondiale della Spagna, è durata fino ai
nostri giorni e la maggior parte delle spade dei Nasridi a
noi pervenute sono ancor oggi arbitrariamente assegnate
a Boabdil, che ha legato il proprio nome a questo genere
di arma del tutto caratteristico.
Questa prestigiosa, per quanto erronea, attribuzione è
toccata in sorte anche all’esemplare del Musée de l’Armée,
così come a quelli conservati alla Bibliothèque nationale
de France, a Parigi, e alla Real Armería di Madrid.
Queste spade a lama dritta, dette jineta, sono spesso
sontuosamente decorate e a renderle riconoscibili è la
particolare conformazione dell’elsa: le due estremità del
gavigliano escono dalla bocca di una genetta (un piccolo
mammifero maculato) per scendere parallelamente alla
lama, e i pomelli sferici si prolungano ciascuno in un elemento
conico. Tali armi evocano quell’aristocrazia cavalleresca
musulmana che si contrappose a quella cristiana,
pur condividendo con essa gli stessi ideali legati alla corte,
al valore e all’onore.
Olivier Renaudeau
126 127
IL
MERAVI-
GLIOSO
–
47. Paolo di Dono detto Paolo Uccello
San Giorgio e il drago, c. 1440
Tempera su tavola, cm 52 x 90
Parigi, Musée Jacquemart-André, Institut de France
Inv. MJAP-P 2248
Provenienza: Firenze, antiquario Stefano Bardini, almeno
dal 1890 fino al 1899 (Scalia e De Benedictis 1984, p. 102);
Londra, vendita della collezione Bardini, 7 giugno 1899:
«Paolo Uccello. St. George and the Dragon: a view of a
town in the back-ground, and an extensive garden in the
middle distance. On panel - 23 ½ in. by 40 in.» (Catalogue...
1899, p. 72, n. 488); Parigi, collezione Nélie Jacquemart
(1841-1912), dal 1899; Parigi, Musée Jacquemart-André.
Bibliografia: Vasari 1568 (ed. 1971), III, p. 69; Loeser 1898,
p. 89; Tongiorgi Tomasi 1971, p. 98; Beck 1979, p. 3; Sberlati
1994, p. 83; Berti 2004, p. 11; Hudson 2008, pp. 295-297, n.
27 (con bibliografia precedente); Sainte Fare Garnot 2013,
p. 44.
Il dipinto, appartenuto alla collezione fiorentina dell’antiquario
Bardini (Sainte Fare Garnot 2013, p. 29) fu venduto
nel 1899 con l’attribuzione a Paolo Uccello avanzata da
Loeser l’anno prima e da allora generalmente condivisa
dalla critica (Loeser 1898, p. 89; Hudson 2008, pp. 295-
297), propensa a ritenere l’opera completamente autografa,
ma divisa sulla sua datazione e su come scalare
crolonogicamente la tavola parigina rispetto alle altre
versioni dello stesso soggetto realizzate dal pittore, il San
Giorgio della National Gallery di Londra e quello della
National Gallery of Victoria di Melbourne. Anche l’ipotesi
di connettere il quadro parigino alla tavola eseguita da
Paolo Uccello nel 1465 per il mercante fiorentino Lorenzo
di Matteo Morelli (Beck 1979, p. 3; Hudson 2008, p. 391, n.
46) non trova concordi gli studiosi; con ogni probabilità la
tavola parigina è comunque un esempio della produzione
evidentemente copiosa di quadri di piccole dimensioni
riservata ai privati, tanto che Giorgio Vasari testimoniava,
un secolo dopo, che «in molte case di Firenze sono assai
quadri in prospettiva per vani di lettucci, letti ed altre
cose piccole»» di Uccello (1568, ed. 1971, III, p. 69).
Il San Giorgio mette in scena il noto episodio tratto dalla
Legenda aurea di Jacopo da Varagine, in cui si narra che
il pestifero drago che da tempo costringe la città libica
di Selene a sacrificargli pecore e giovani estratti a sorte
viene trafitto dal cavaliere Giorgio proprio mentre si
appresta a divorare la figlia del re. In primo piano, di
profilo, i tre protagonisti, la principessa che in piedi assiste
alla scena con le mani giunte in atto di preghiera, il
drago con le ali spiegate e la bocca spalancata entro cui si
è confitta la lancia, Giorgio rivestito dell’armatura, in sella
a un cavallo bianco bardato di rosso. L’imponente massa
della caverna, tana del drago, separa il primo piano dallo
sfondo, dividendo in due la successione di campi coltivati
attraversata sulla sinistra dal lungo viale che conduce
alla città circondata da mura e inerpicata sulla collina. La
particolarità della costruzione spaziale contribuisce ad
accentuare l’atmosfera da favola del dipinto (Berti 2004,
p. 11), quasi il pittore voglia creare «an Alice-in-Wonderland-like
world» (Hudson 2008, p. 227): le tre figurine
sono come stilizzate e congelate nelle loro movenze, l’esile
principessa straordinariamente composta, il drago più
spaventato che spaventoso, il cavaliere colpisce la bestia
senza alcuno sforzo, come se non ci fosse stata tra loro
battaglia. Semplificata di qualsiasi elemento possa distogliere
dalla scena rappresentata in primo piano, e tuttavia
fitta di un complicato simbolismo allusivo alla vittoria del
bene sul male, della luce sulle tenebre, la tavola parigina
«straordinariamente moderna, davvero paleosurrealista»
costituisce, assieme a quella londinese, «l’archetipo di
tutti i San Giorgio del Rinascimento con tanto di drago
annesso» (Sberlati 1994, p. 83). In nuce sono qui racchiusi
anche i grandi temi dell’immaginario ariostesco: raffigurato
senza nimbo, il cavaliere Giorgio anticipa i tanti
“cavallier” «di bello armato e lucido metallo» (XLII, 53, 2)
che popolano il Furioso, il drago le orribili creature che
minacciano cavalieri e donzelle, come lo «strano mostro»
con la coda a forma di «lungo serpe» che combatte contro
Rinaldo e che esce «fuor d’una caverna oscura» (XLII, 46,
7), la principessa precorre le figure di Angelica e Olimpia,
sottratte alle fauci di un’orrenda creatura dal salvifico
intervento di Ruggiero e Orlando. La croce rossa sull’armatura
del santo ribadisce il ruolo tradizionalmente
attribuito a Giorgio, che converte la pagana Selene al
cristianesimo e salva la fanciulla dal drago, di difensore
e paladino della cristianità, e trova naturalmente corrispondenza
nel grande tema che fa da sfondo e da filo
conduttore del Furioso, la guerra tra l’esercito cristiano di
Carlo Magno e quello saraceno di Agramante.
Marialucia Menegatti
130 131
48. Jean d’Arras
Le Livre de Mélusine
Ginevra, Adam Steinschaber, agosto 1478. 2°
Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, XV.IV.20
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Si espone la prima edizione a stampa del romanzo di
Jean d’Arras (GW 12649; Lökkös 1978, n. 2; IGI 5098), i
cui legni sono ispirati a quelli della precedente edizione
del testo tedesco di Thüring von Ringoltingen, compiuta
a Basilea nella tipografia di Bernhard Richel (GW
12656, Harf-Lancner 1989b; Bock 2013). Si tratta del
primo romanzo francese a stampa. L’esemplare torinese
è privo della prima e dell’ultima carta (entrambe
bianche), nonché della penultima recante il colophon.
Già Rajna ipotizzò una conoscenza della Mélusine da
parte di Ariosto (Rajna 1900, pp. 586-587), in particolare
per ciò che concerne la leggenda della trasformazione
delle fate in serpi (immancabile nell’iconografia
melusiniana, si veda Clier-Colombani 2001), riecheggiata
nelle parole di Manto (XLIII, 98, 7-8: «Ch’ogni
settimo giorno ogniuna è certa / che la sua forma in
biscia si converta»). Ma un’altra osservazione può
essere fatta. Nel testo di Jean d’Arras il cadavere del
gigante Grimault, abbattuto da Geoffroy «dal lungo
dente», è posto su un carretto: nell’edizione ginevrina
del 1478 (come nelle più tarde lionesi GW 12651-12652,
che riutilizzano i legni di quella di Basilea) il gigante
sul carretto appare vispo e sconsolato. La vicenda di
Astolfo che conduce prigioniero al Cairo, tra la meraviglia
della folla, il gigante Caligorante ha una singolare
assonanza con queste immagini. Suggestivo è il confronto
della stampa di Ginevra, c. [23]4v, con i versi di
Ariosto (XV, 61, 1-6):
Anche il precedente episodio dell’uccisione del gigante
Guédon da parte di Geoffroy mostra, nelle illustrazioni,
assonanza con la cattura di Caligorante. Astolfo
si serve del corno per impaurire il gigante e, nel
romanzo francese, dopo aver tagliato la testa a Guédon,
Geoffroy suona il corno per darne avviso: le più antiche
silografie lascerebbero quasi credere che sia il suono
del corno ad aver sopraffatto il gigante. Si direbbe
insomma che Ariosto abbia fantasticato, più che sul
testo, sulle immagini che corredavano una delle prime
edizioni della Mélusine.
Adolfo Tura
Tutto il popul correndo si traea
per vedere il gigante smisurato.
– Com’è possibil – l’un l’altro dicea
– che quel piccolo il grande abbia legato? –
Astolfo a pena inanzi andar potea,
tanto la calca il preme da ogni lato.
132 133
49. Historia di Merlino
Venezia, Luca di Domenico, 1 febbraio 1480. 2°
Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, AN.XIII.18
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo
Divisa in sei libri, la Historia di Merlino è un adattamento
delle Prophecies de Merlin, salvo il primo libro,
basato piuttosto sul Merlin in prosa (Visani 1994,
pp. 26-27). È questa la più antica edizione (IGI 6373),
dovuta a quel Luca di Domenico cui si deve un’ampia
produzione di testi cavallereschi (Harris 1987, pp.
72-74). Si tratta della prima stampa di materia arturiana
in Italia.
Come riconosciuto già da Rajna, la Historia di Merlino
è la fonte di Ariosto per l’episodio di Bradamante nella
grotta di Merlino nel III canto del Furioso (Rajna 1900,
p. 132; Delcorno Branca 1998, pp. 77-78).
Adolfo Tura
134 135
50. Maestro dei cassoni Campana
Teseo e il Minotauro, c. 1510-15
Olio su tavola, cm 66 x 155
Avignone, Musée du Petit Palais, deposito del Musée du Louvre, Parigi, 1976
Inv. MI 528
Provenienza: Roma, collezione Campana; Parigi, Musée
Napoleon III, 1862; Musée du Louvre, 1863; in deposito al
museo di Marsiglia, dal 1872 al 1957; in deposito ad Avignone,
dal 1976.
Bibliografia: Fahy 1976, pp. 200-202; Zeri 1976; Mirimonde
1978, pp. 92-95; Laclotte e Moench 2005, pp. 150-
151, nn. 138-141 (con bibliografia precedente); Bernacchioni
2011; Seidel 2015.
Questo pannello costituisce il terzo elemento d’un ciclo
di quattro tavole, in origine ornamento d’un arredo
domestico (spalliere, piuttosto che cassoni: Laclotte e
Moench 2005), provenienti dalla collezione romana del
marchese Giampietro Campana e rappresentanti con
antefatti e conseguenze l’intero mito di Teseo, Arianna e
il Minotauro. Dopo avere illustrato nei primi due dipinti
il mostruoso amore maturato da Pasifae, moglie di
Minosse sovrano di Creta, per uno splendido toro bianco,
e l’assedio e la conquista di Atene da parte di Minosse,
con il conseguente tributo di giovani vite da sacrificare al
Minotauro nato dall’unione del toro con Pasifae, il pittore
rappresenta nella nostra tavola l’arrivo a Creta di Teseo
– figlio del re di Atene – con la nave dei giovani destinati
alla creatura; il suo incontro con le figlie di Minosse,
Arianna e Fedra, la prima delle quali gli rivela lo stratagemma
del filo per orientarsi nel labirinto del Minotauro;
la sconfitta del mostro e la successiva partenza di Teseo
a Creta con le due donne. L’ultimo scomparto della serie
mostra l’abbandono di Arianna a Nasso e il suo incontro
con Dioniso (per la lettura iconografica delle tavole si
ricorra a Mirimonde 1978, peraltro non molto più dettagliato
di Zeri 1976).
I cosiddetti “cassoni Campana” costituiscono il nucleo
d’un problema filologico impostato indipendentemente,
e con conclusioni non identiche, da due illustri conoscitori:
Federico Zeri ed Everett Fahy. Il corpus dellano-
nimo maestro che li dipinse è stato infatti ricostruito con
divergenze sul catalogo e soprattutto una diversa interpretazione
della sua personalità: mentre lo studioso americano
– che denomina l’artista Maestro di Tavernelle da
una sua pala conservata in quella località toscana lo
ritiene un fiorentino formatosi sulla scia di Ghirlandaio
e specialmente di Filippino Lippi, Zeri analizzava lintrigante
connubio di italianismi e nordicismi del maestro
proponendo di riconoscervi un pittore francese attivo in
Toscana al principio del Cinquecento. Lipotesi di Zeri ha
riscosso un successo maggiore: sulla sua onda, è recente
il tentativo – assolutamente congetturale – di identificare
l’anonimo nella persona anagrafica del pittore Antonio di
Jacopo, detto Antonio Gallo (l’appellativo richiama un’origine
d’Oltralpe), documentato a Firenze fra 1503 e 1527
(Bernacchioni 2011). Quel che è palese, è che il duplice
binario espressivo del maestro, fra tradizione nordica
e gusto italiano, così bene individuato da Zeri specialmente
nella cultura stilistica dei cosiddetti cassoni Campana
(si guardi, nella nostra tavola, l’aspetto ibrido degli
edifici insieme gotici e all’antica), ben si adatterebbe ad
uno straniero con diretta conoscenza dell’arte toscana fra
Quattro e Cinquecento, fra Filippino, Signorelli e Piero
di Cosimo. Come evidenziato dallo studioso, l’anonimo
maestro affronta il tema classico con uno spirito che, più
che allantichità vera e propria, sembra guardare alle sue
rielaborazioni medioevali: da qui «il sapore, quanto mai
courtois, da Tavola Rotonda, che sostiene le scelte figurative
di certi passi, e per cui Teseo, tutto chiuso nella armatura
moderna, minutamente descritta dallelmo piumato
sino alla corazza, ai cosciali e alle manopole, somiglia più
a un Orlando o a un Lancillotto che a un eroe greco» (Zeri
1976, p. 82). Un modo brioso di accordare materia classica
e forma cavalleresca che forse non sarebbe dispiaciuto
neppure allo stesso Ariosto, se non aveva smesso di
affascinare i committenti toscani del nostro pittore.
Gabriele Donati
136 137
51. Evangelista Fossa
Libro di Galvano
Venezia, Melchiorre Sessa, 28 febbraio 1508. 4°
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. E.6.7.29
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo
Bibliografia: Delcorno Branca 1992, pp. 79-80; Visani
1997; Delcorno Branca 1998, pp. 216-220.
L’Innamoramento di Galvano, poema in ottave di materia
arturiana, fu composto dal servita cremonese Evangelista
Fossa a Venezia tra il 1494 e i primi del 1497. Perduta
la prima edizione, quattrocentina (Canova 1992, p. 675),
si conservano oggi due stampe di primo Cinquecento,
una milanese priva di data (Kristeller 1913, n. 152; Sandal
1981, p. 36, n. 461) ma assegnabile al 1505-09 (Bonomi
1983, p. 45), e questa che si espone: non è accertato quale
preceda.
Il poema, ispirato ai cantari di Astore e Morgana e della
Ponzela Gaia, è caratterizzato da una massiccia presenza
della magia e delle pratiche necromantiche (Visani 1997,
p. 96; Delcorno Branca 1998, p. 220).
Adolfo Tura
138 139
52. Luigi Pulci
Morgante Maggiore
Firenze, [Antonio Tubini] per Piero Pacini da Pescia, 22 gennaio 1500 [=1501]. 4°
Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Sammlung von Handschriften und alten Drucken, Ink 5.G.9
Bibliografia: Kristeller 1897, n. 347a.
La fortuna del Morgante in terra padana fu immediata.
Del 16 agosto 1478 è la lettera che Rodolfo Gonzaga
manda dal campo dei fiorentini, presso Poggibonsi, al
fratello marchese Federico: «Il libro del gigante intitulato
Morgante lo mando a Vostra Illustrissima Signoria
per lo cavallaro, advisandola che dal dicto cavalaro ho
havuto la ziffra me ha mandata; prego ben quella che
quanto più presto la pò, voglia fare trascrivere il dicto
libro, perché questi signori hanno piacere assai haverlo
apresso» (Kent 1993, pp. 209-210). Si tratta probabilmente
di un esemplare a stampa, che veniva inviato a
Mantova per poter essere copiato a mano (Harris 2006,
p. 93). L’11 novembre dello stesso anno Ercole d’Este
richiede ad un suo fiduciario a Firenze di procuragli
appunto un Morgante (Tissoni Benvenuti 1987, p. 23).
Tale vigorosa fortuna non doveva estinguersi nemmeno
dopo l’apparizione dei poemi di Boiardo e di Ariosto, se
il 30 ottobre 1531 Federico Gonzaga scrive «ex castris» al
proprio segretario: «Ippolito. Mandane Orlando furioso,
lo Inamoramento di Orlando e Morgante mazor, advertendo
che tutti siano di bona stampa e di lettere un poco
grossette e ben legibile» (Canova 1999, p. 81). Anche
Ariosto gustò la lettura del poema pulciano, di cui si ravvisano
riprese linguistiche nel Furioso (Blasucci 1976,
ed. 2014).
Quello che si espone è il solo esemplare completo della
più antica edizione illustrata che ci è pervenuta (un’edizione
fiorentina precedente, dotata dello stesso ciclo
illustrativo, è andata perduta, si veda Tura 2004, p. 75).
Adolfo Tura
140 141
53. Piero di Cosimo
La liberazione di Andromeda, c. 1510
Olio su tavola, cm 70 x 120
Firenze, Galleria degli Uffizi. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. 1890, 1536
Provenienza: nel 1568 è attestato in proprietà di Sforza
Almeni; Firenze, Palazzo Strozzi, nel 1589 è già nelle raccolte
medicee.
Bibliografia: Vasari 1568, ed. 1976, IV, p. 67; Craven 1975, pp.
575-576; L. Berti in Firenze 1980, p. 163, cat. 370; Geronimus
2006, pp. 108-115; E. Capretti in Roma 2011, p. 164, cat. 31;
S. Ferrari in Riva del Garda 2013, pp. 60-63, cat. 1; Capretti
2015, pp. 101-104; D. Parenti in Firenze 2015, p. 330, cat. 56
(con bibliografia precedente); Parenti 2015, pp. 163-168; D.
Geronimus in Washington 2015, pp. 202-205, cat. 33.
Questo capolavoro dell’avanzata maturità di Piero di
Cosimo illustra fedelmente l’episodio della liberazione
di Andromeda dal mostro marino quale è narrato nel
libro quarto delle Metamorfosi di Ovidio (vv. 663-764).
Il dipinto è descritto con entusiasmo da Giorgio Vasari
nell’edizione giuntina delle Vite: «Un quadro di figure
piccole, quando Perseo libera Andromeda dal mostro, che
v’è dentro certe cose bellissime; […] non fece mai Piero
la più vaga pittura né la meglio finita di questa, attesoché
non è possibile veder la più bizzar[r]a orca marina né la
più capricciosa di quella che si immaginò di dipignere
Piero, con la più fiera attitudine di Perseo che in aria la
percuote con la spada. Quivi fra ’l timore e la speranza si
vede legata Andromeda, di volto bellissima, e qua inanzi
molte genti con diversi abiti strani sonando e cantando,
ove sono certe teste che ridano e si rallegrano di vedere
liberata Andromeda, che sono divine; il paese è bellissimo
et un colorito dolce e grazioso: e quanto si può unire e
sfumare colori, condusse questa opera con estrema diligenza»
(Vasari 1568, ed. 1976, p. 67). Il biografo mette in
luce qui alcuni elementi che saranno ripresi dalla critica
moderna: la qualità e la originalità delle invenzioni, ad
esempio negli abbigliamenti e negli (improbabili) strumenti
musicali; la sapienza per così dire “registica” nel
comporre la storia, con i gruppi di astanti che ne accompagnano
i momenti topici tramite il loro disporsi e variato
atteggiarsi, come in una scenografia festiva; la peculiare
condotta pittorica, morbida e sfumata, che caratterizza
sia il paesaggio che le figure umane, e per cui occorre
senz’altro richiamare il rinnovato soggiorno fiorentino di
Leonardo (1501-06) – un apporto così palese che nel 1589
il dipinto veniva registrato nella Tribuna degli Uffizi
quale «di mano il disegno di Lionardo da Vinci e colorito
da Piero di Cosimo» (Gaeta Bertelà 1997, p. 42, n. 492 e
note 341-342).
Il dipinto fu con ogni probabilità destinato alla camera
nuziale di Filippo Strozzi il Giovane (1489-1538) e di Clarice
de’ Medici in Palazzo Strozzi, dacché formato e soggetto
della Liberazione di Andromeda ben si adattano al
contesto matrimoniale ed all’ornamento di una spalliera –
anche se il nostro dipinto sembra essere nato in autonomia,
mentre normalmente tali arredi comprendevano un ciclo
di più tavole. Alcuni documenti confermano che fra il settembre
del 1510 ed il febbraio 1511 Filippo provvide all’arredo
della propria stanza nuziale incaricandone il legnaiolo
Baccio d’Agnolo (si citano espressamente «due cassoni
con le spalliere») e pagando Piero di Cosimo «per parte
del lavoro di camera mia» (Craven 1975; Geronimus 2006,
p. 276, nn. 19-20). Peraltro l’ipotesi di interpretare l’intero
dipinto in chiave di propaganda medicea – e di legarlo
dunque al rientro dei Medici e al carnevale del 1513 –
parte dalla presunta allusione all’impresa medicea del
Broncone nel tronco che occupa il centro della scena (L.
Berti in Firenze 1980), che illustra invero l’eziologia ovidiana
del corallo (IV, vv. 740-752); per cui mi sembra sano, a
proposito, lo scetticismo di Geronimus (2006, pp. 113-115).
La liberazione di Andromeda avrebbe certo potuto attrarre
l’attenzione di Ariosto, poiché tale mito narrato da Ovidio
è rievocato dal Furioso negli episodi della liberazione
di Angelica da parte di Ruggiero (X, 92-111) e di quella –
concepita quasi in controcanto – di Olimpia da parte di
Orlando (XI, 30): entrambe le fanciulle erano state offerte
in pasto ad un mostro marino e proditoriamente salvate
da un eroe. È peraltro certo che ad Ariosto non erano sconosciute
alcune opere di Piero di Cosimo: questi aveva
dipinto in casa di Giovanni Vespucci a Firenze il ciclo pittorico
di «storie baccanarie» descritto da Vasari (da identificare
nella Storia di Sileno di Cambridge e nella Scoperta
del miele di Worcester); ebbene, il poeta ferrarese durante
il suo soggiorno fiorentino fu ospitato in casa di Niccolò
Vespucci, figlio di Giovanni, e fu in rapporti pure con altri
membri della famiglia; proprio in casa Vespucci conobbe
inoltre l’amata Alessandra Benucci.
Gabriele Donati
142 143
54. Anonimo portoghese
Charta del navicare per le isole novamente trovate in la parte de l’India (detta del Cantino),
1501-02
Manoscritto a inchiostro e tempera su pergamena in sei pezzi giuntati, mm 1050 x 2200
Modena, Biblioteca Estense Universitaria, C.G.A. 2
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Bibliografia: Cortesão e Teixeira da Mota 1960, pp. 7-13;
del Capo Verde e sulla penisola del Deccan, e risultano
Attirano l’attenzione parecchi elementi extra carto-
Guinea, e un paesaggio con alberi e acque azzurre che
La Roncière e Mollat du Jourdin 1984, pp. 214-215, tav.
tangenti al centro dell’Africa dove è posizionata una
grafici quali le due vedute di Gerusalemme e di Vene-
fanno da sfondo a tre coloratissimi pappagalli nella
25 (ed. it. 1992, pp. 209-211); Frabetti 1985; Milano E.
complessa ed estremamente decorativa rosa dei venti,
zia (quest’ultima in una veritiera rappresentazione dal
costa del Brasile, toccata da Pedro Alvarez Cabral
1991; I. Luzzana Caraci in Genova 1992, pp. 683-686,
con trentadue direzioni.
bacino di San Marco), il “Castello damina”, importante
nell’aprile del 1500.
736-737; Milano E. 1994; Battini 2001; Alegria et al.
Oltre alla perfezione cartografica e al suo valore sto-
fortilizio fondato dai portoghesi nel 1484 nel golfo di
Vladimiro Valerio
2007, pp. 992-994 e ad indicem.
rico-scientifico (vi è anche tracciata la “Raya”, linea
di demarcazione tra l’area di influenza portoghese e
La carta del Cantino è così denominata da Alberto Can-
quella spagnola, stabilita nel trattato di Tordesillas nel
tino, ambasciatore presso la corte portoghese di Ercole
giugno del 1494) il documento si presenta come una
I d’Este, che gliel’aveva commissionata per essere al
vera e propria opera d’arte, una “Carta per il Principe”.
corrente dei viaggi di esplorazione nel nuovo mondo.
L’autore è un anonimo cartografo portoghese, probabilmente
attivo nella Casa da India a Lisbona, che
la eseguì tra il dicembre del 1501 e l’ottobre del 1502.
La carta è certamente copia di una mappa ufficiale
aggiornatissima.
Si tratta di uno dei più noti e celebrati monumenti cartografici
del Rinascimento, tra i primi a registrare le
scoperte nel nuovo mondo a seguito dei primi tre viaggi
di Cristoforo Colombo (1492, 1493 e 1498) e l’apertura
di una nuova via marittima verso le Indie, effettuata da
Vasco da Gama nel 1497. Proprio le scoperte di nuove
terre verso occidente e di un collegamento diretto tra
l’Oceano atlantico e l’Indiano, mediante la circumnavigazione
dell’Africa, modificano profondamente la
forma e i limiti delle terre conosciute, e rivoluzionano
la concezione del mondo, che si fondava sui testi classici
e in primis sull’opera geografica di Claudio Tolomeo.
Tra i pochi residui della tradizione tolemaica si
registrano i “Montes Lune”, ove erano posizionate le
sorgenti del fiume Nilo.
La costruzione della carta è basata su un sistema di
rose dei venti, provenienti dalla tradizione nautica
medievale; due sistemi di rose sono centrati sulle isole
144 145
55. Claudio Tolomeo
Cosmographia (traduzione latina dal greco di Jacopo Angeli da Scarperia)
Incisione su rame acquarellata, mm 44 x 31, 5
Bologna, Domenico de’ Lapi, 23 giugno [1477] (in colophon, erroneamente, 1462)
Modena, Biblioteca Estense Universitaria, a.C.3.14
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Bibliografia: Sighinolfi 1908; Lynam 1941; Skelton 1963;
Campbell 1987, pp. 129-130; Firenze 1992c, pp. 217-219;
Shirley 2004, I, pp. 819-820; Valerio e Spagnolo 2014, I,
p. 95.
Si tratta del primo atlante geografico a stampa e della
prima raccolta di immagini (le 26 mappe) incise su rame.
Il solo testo della Geographia di Claudio Tolomeo, erroneamente
intitolata Cosmographia dai primi umanisti,
fu pubblicato a Vicenza nel 1475, senza alcun corredo di
carte.
L’edizione bolognese si basa sulla traduzione latina di
Jacopo Angeli da Scarperia, effettuata a Firenze nei
primi anni del XV secolo, rivista e corretta da Filippo
Beroaldo e Angelo Vado secondo quanto dichiarato
nell’epistola al lettore, che chiude il testo tolemaico.
L’iniziativa di tale pubblicazione nacque dalla volontà
e dalla collaborazione di Filippo Balduino e di quattro
stampatori e librai: Giovanni degli Accursi, Ludovico
e Domenico de Ruggeri e il pittore e miniaturista Taddeo
Crivelli (1425-1479), che è ritenuto autore delle
carte, trasferito a Bologna da Ferrara dopo la morte di
Borso d’Este nel 1471. Secondo gli accordi stabiliti con
il tipografo Domenico de’ Lapi, firmato nell’aprile del
1477, furono stampate 500 copie del testo e delle mappe;
attualmente ne sono censite solo 26 delle quali venti
recano un’acquarellatura contemporanea.
Quasi tutti i rami furono rimaneggiati, tra il 1477 e il
1479, segno di un aggiornamento o di un completamento
di essi avvenuto in corso d’opera, con l’aggiunta di onde,
navi e mostri marini. A questa edizione fecero seguito,
nel corso del Quattrocento, un’edizione romana (1478)
con carte finemente incise su rame ed una fiorentina
(1482) con testo volgare in terza rima di Francesco
Berlinghieri.
Tra le particolarità delle mappe contenute nell’edizione
bolognese della Geographia di Tolomeo va certamente
menzionata la proiezione utilizzata per la redazione
delle carte regionali. Si tratta di una proiezione conica
con paralleli curvilinei e meridiani convergenti, della
quale non vi è menzione nel testo tolemaico né vi è traccia
in alcuna altra copia sia manoscritta che a stampa,
frutto, probabilmente, dell’intervento degli astrologi
Girolamo Manfredi e Pietro Bono Avogaro.
Vladimiro Valerio
146 147
56. Ludovico Vartema
Itinerario in Egitto, Arabia Felice, Persia, India, Borneo, Etiopia, c. 1510
Manoscritto membranaceo, mm 295 x 210
Berlino, Staatsbibliothek, Ms. Hamilton 652
Bibliografia: Pagliaroli 2016.
Dopo aver appreso l’arabo a Damasco, il bolognese
Ludovico Vartema, di cui quasi nulla è noto, intraprese
per puro amore dell’avventura un viaggio che, tra 1503
e 1507, lo condusse fin nel cuore dello Yemen. Al suo
ritorno compose in volgare, dedicandolo ad Agnese di
Montefeltro (moglie di Fabrizio Colonna), l’Itinerario
nello Egypto, nella Sura ecc. Non si tratta di una semplice
relazione di viaggio, ma – grazie alla qualità della
scrittura – di un’opera di considerevole pregio narrativo
(Pozzi 1998), che conobbe un successo vastissimo.
L’Itinerario fu stampato la prima volta a Roma sul finire
del 1510 dai tipografi Étienne Guillery ed Ercole Nani ad
istanza di Ludovico degli Arrighi (Barberi 1983, pp. 16,
24). Fino ad oggi si conosceva un solo testimone manoscritto,
di mano dello stesso Arrighi, ma disgraziatamente
mutilo di parecchi fogli: il Landau-Finaly 9 della
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, confezionato
come dono a Vittoria Colonna (Casamassima 1962).
Recentemente il testo è stato identificato nel codice
Ham. 652 della Biblioteca di Stato di Berlino (che non
contiene altro) da Stefano Pagliaroli, il quale vi ha altresì
riconosciuto la mano dell’Arrighi.
Adolfo Tura
148 149
ORLANDO
IN CAMPO
–
57. Ludovico Ariosto
Orlando furioso
Ferrara, Giovanni Mazzocchi, 22 aprile 1516. 4 o
Londra, The British Library, G 11061
Bibliografia: Ermini 1909-13; Catalano 1930-31; Ariosto
1960; Caretti 1976; Segre 1976a; Beer e Ivaldi 1986; Ariosto
2006; Dionisotti 2003; Scianatico 2005; Pellegrini
2009; Dorigatti 2011; Matarrese 2016.
Dei dodici esemplari superstiti della princeps il londinese
qui esposto è, dal punto di vista bibliografico,
quello «maggiormente perfetto», integro di tutte le
carte. «Si distingue dagli altri esemplari anche per la
presenza di un numero significativo di fogli di prima
tiratura, portatori di lezioni antiche in limine tra manoscritto
e stampa». Mentre l’esemplare conservato nella
Biblioteca Ariostea (Tav. 72) si distingue per portare «un
numero statisticamente elevato di fogli nello stato corretto»,
dovuto ad alcuni interventi dell’autore in corso
di stampa; ed è servito da copy-test e da esemplare di
controllo all’edizione critica curata da Marco Dorigatti
(2006), la prima in assoluto dell’opera, dalla cui Introduzione
provengono le citazioni precedenti.
All’Orlando furioso del 1516 è mancata, nella sua storia
editoriale, una operazione come quella che ha portato
alla riscoperta ottocentesca del Boiardo ad opera di
Panizzi, che ha segnato «l’inizio di una rigogliosa fioritura
editoriale e critica», mentre il suo erede più diretto
ha continuato a rimanere nell’ombra, eclissato dal fratello
maggiore, l’edizione del 1532, ampliata di quei
nuovi episodi che fanno del poema, passato dai 40 ai
46 canti, un’opera in parte ideologicamente diversa. Di
nessun rilievo è la pubblicazione ferrarese del 1875, «a
ridosso del quarto centenario della nascita del poeta [...],
priva di qualsiasi valore testuale, essendo stata dettata
da motivazioni e finalità commemorative anziché filologiche»
(Ariosto 2006, pp. XXIV-XXV). A fini di raffronto
variantistico rispondeva invece la pubblicazione
di Filippo Ermini, tra il 1909 e il 1911, che presentava in
colonne raffrontate e in trascrizione diplomatica i testi
della prima edizione (A) e della seconda del 1521 (B),
seguiti dalla terza (C) nel 1913.
Fino a pochi anni fa dunque il testo della princeps lo si
ricavava in negativo dall’apparato dell’edizione definitiva
del 1532 (Ariosto 1960). L’edizione Dorigatti ha reso
finalmente leggibile l’opera nella sua integrità, recuperandola
«alla conoscenza e all’ammirazione», come
auspicato a suo tempo da Cesare Segre e da studiosi
come Carlo Dionisotti e Lanfranco Caretti, concordi nel
ritenere la prima redazione «un capolavoro assoluto»,
dotato di una «sua autentica forza espressiva» (Dionisotti
2003, p. 87, e Caretti 1976, p. 105). Se con l’ultima
edizione vediamo pienamente realizzata l’aspirazione
a una lingua letteraria «nobile e limpida, chiara ed elegante»
secondo i criteri rinascimentali (Segre 1976a),
nella prima possiamo cogliere nel suo momento di «freschezza
vitale» l’invenzione ariostesca, la sua maggior
libertà ed escursione linguistica, espressione di «uno dei
momenti più alti della civiltà municipale estense» (Dorigatti
in Ariosto 2006, p. VIII). Occorre peraltro considerare
la distanza temporale che la separa dall’ultima edizione,
i veloci cambiamenti che segnano nel frattempo la
letteratura volgare, e i forti rivolgimenti che interessano
la penisola e coinvolgono Ferrara e la casa d’Este. E l’Orlando
furioso è «il primo e forse l’unico romanzo cavalleresco
a far parte tanto larga, tra le “fole di romanzi”,
alla narrazione di fatti bellici realmente accaduti» (Beer
e Ivaldi 1986, p. 92), «assimigliando» «alle antique le
moderne cose» (A XXII, 2; C XIV; sulla presenza della
storia contemporanea nell’Orlando furioso, si vedano
Scianatico 2005 e Matarrese 2016).
Alla composizione del poema Ariosto si dedica a partire
dal 1505: il racconto epico cavalleresco ha maturato una
tale ricchezza di esperienze, da una parte il Morgante,
dall’altra l’Inamoramento de Orlando con le sue importanti
novità di strutturazione narrativa, da poter ambire
all’alta letterarura. E Ariosto riprendendo la «inventione
del conte Matheo Maria Boiardo», raccoglie una
eredità specificamente estense, portandola a nuovi traguardi
letterari. Poema dunque “estense”, non solo per
l’aspetto celebrativo, connaturato del resto al genere,
ma per l’intersecarsi delle vicende estensi con le storie
fantastiche e una partecipazione alla politica degli
Estensi, che lascia un segno ben preciso in particolare
nella stesura della prima redazione (Dorigatti 2011),
per la dimensione più familiare, e potremmo dire più
municipale che caratterizza il suo disegno. Al centro di
questa dimensione più estense con cui Ariosto guarda
alla storia contemporanea ci sono le figure di Ippolito
e Alfonso d’Este, con le loro imprese. Per fare qualche
esempio, prendiamo la battaglia della Polesella, vinta da
Ippolito (1509) e rievocata nella narrazione del grande
scontro navale tra Agramante e Dudone (XXXVI 1-5 in
A): Ariosto, che in quella occasione si trovava a Roma
in missione diplomatica, appresa la notizia si affrettò a
rallegrarsene con il cardinale, annunciandogli che «la
sua Musa haverà historia da dipingere nel padiglione»
delle nozze di Ruggiero: una testimonianza alta di un
luogo specifico del poema appartenente all’ultimo canto
(Dorigatti 2011, pp. 10-14). Quanto ad Alfonso, e alla celebrazione
delle sue imprese, ricordiamo quella relativa
alla vittoria di Ravenna sul papa e sugli Spagnoli (1512):
«Costui serà, col senno e con la lancia, / ch’avrà ne la
pinifera campagna / gloria d’aver l’esercito di Francia /
vincitor fatto contra Iulio e Spagna» (A III 55). E in un
memorabile proemio, quello del canto XII (C XIV), la
sanguinosa vittoria dei Saraceni a Parigi rievoca la vittoria
dei Francesi e dei Ferraresi guidati da Alfonso
d’Este, nello scontro di Ravenna: vittorie a caro prezzo,
in quanto entrambe «così sanguinose, / che lor poco
avanzò di che allegrarse» (XII, 2): battaglia, quella di
Ravenna, seguita dall’orribile saccheggio della città da
parte delle truppe francesi. E Ariosto che aveva visitato
il campo il giorno dopo il saccheggio, apostrofa il re di
Francia Luigi II, invitandolo a punire gli abusi commessi
dai suoi soldati:
Bisogna che proveggia il re Luigi
di nuovi capitani alle sue squadre,
che per onor de l’aurea Fiordiligi
castighino le man rapaci e ladre,
che sore e frati, e bianchi, neri e bigi,
vïolati hanno, e sposa e figlia e madre;
E nel compiangere la «misera Ravenna» ricorda la
vicenda dei Vespri Siciliani, il «sangue che fu spanto / al
vespro ch’intonò l’orribil canto» (A XII, 8-9); versi cambiati
nelle successive edizioni in «quanti per simil torti /
stati ne sian per tutta Italia morti». Più esplicito, e sottolineato
dall’«orribil canto», è dunque il riferimento ai
Vespri Siciliani nella prima edizione, la cui stesura avrà
certo risentito della vicinanza a quegli avvenimenti.
Un altro luogo speciale al riguardo è quello del canto
XV di A (XVII di C), in cui il poeta nel toccare le condizioni
dell’Italia invasa dagli stranieri, li richiama al
loro dovere di andare a liberare il Santo Sepolcro. In un
primo tempo il suo sdegno si sarebbe espresso in una
invettiva contro il papa Giulio II, che «per diverse vie»
aveva favorito la presenza degli stranieri in Italia (cfr.
Pellegrini 2009, pp. 105-116) e che i Ferraresi s’erano trovati
di fronte a Ravenna:
Ma tu, gran padre, ch’esser déi il primiero
a cacciar da l’Italia queste arpie,
perché, lasciato il dritto e ver sentiero,
ivi le chiami per diverse vie?
Perché non segui il bon Silvestro e Piero?
Che fan tanti cavalli e fanterie?
Ohimè, ch’or mett’Italia in tanti affanni,
ch’uscir non ne potrà molt’e molt’anni!
Non ti diede a portar Dio questa verga
perché sua greggia divorar tu lassi;
ma perché la diffenda, se le terga
lupi le preman d’ogni pietà cassi.
Deh, non esser cagion che si summerga
l’Italia in maggior danni, sì che i sassi
mova a pietà; ch’a te sol si conviene
trarla d’affanni, e non aggionger pene.
Le due stanze erano previste, secondo Dorigatti che le
ha portate all’attenzione, dopo l’arringa contro i principi
cristiani e dopo la novella del re Norandino e di Lucina,
scampati al terribile Orco, il “mostro cieco” che teneva
prigionieri i due sposi e si nutriva di carne umana: un
“pastore”, dietro al quale potrebbe celarsi ben altro
“pastore”, cioè Giulio II, che aveva lasciato che i “lupi”
dilaniassero la sua “greggia”, “lupo” lui stesso verso gli
Estensi, che come vicari papali appartenevano alla sua
“greggia” (Dorigatti 2011, pp. 29-33). Morto nel frattempo
quel papa, le due stanze sarebbero state sostituite
nel corso della prima redazione da una nuova e diversa,
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154
155
la stanza 79, contenente un appello al nuovo pontefice,
Leone X, con l’auspicio di una politica più conciliante
(«Tu, gran Leone, a cui premon le terga / de le chiavi
del ciel le gravi some, / non lasciar che nel sonno si
summerga / Italia, se la man l’hai ne le chiome. / Tu sei
Pastore; e Dio t’ha quella verga / data a portar, e scelto il
fiero nome, / perché tu ruggia, e che le braccia stenda, /
sì che da’ lupi il gregge tuo difenda» (XV, 79). Resta
qualche dubbio sulla paternità delle due stanze: esse si
trovano in un testo musicale del compositore fiammingo
Jacquet de Berchem (Iachetto), stampato a Venezia nel
1561 e contenente 91 ottave dell’Orlando furioso secondo
la redazione del ’32 (Dorigatti 2011, pp. 29-33). Le ottave
hanno un ordine grosso modo tematico, e alcune riguardano
l’Italia «preda ai tramontani», tutte precedute da
una sorta di titolo, ad eccezione delle due che ci interessano,
ciò che induce a qualche cautela sulla attribuzione:
siamo in anni ricchi di una varia pubblicistica critica verso
quel papa guerrafondaio. Siano o no di Ariosto quelle
ottave – le rime rare della seconda ottava (verga e terga)
che si ritrovano in quella che la sostituisce, deporrebbero
a favore della paternità ariostesca –, il luogo dice quanto
l’elaborazione del poema s’incroci con i fatti storici.
Un caso simile di avvenimenti contemporanei che si
intersecano con la stesura del testo, ci riporta ai re francesi,
verso i quali la politica estense era stata fino a un
certo punto favorevole. Morto Luigi XII il primo gennaio
del 1515, il suo successore Francesco I scende in
Lombardia e a Marignano sconfigge gli svizzeri, riconquistando
Milano e rovesciando quella che era stata la
politica di Giulio II. In Italia più che come invasore il
nuovo re sarà visto come un liberatore, diversamente
dall’immagine che aveva accompagnato la discesa di
Carlo VIII. Bellezza, ingegno e magnanimità sono gli
attributi che lo accompagnano nelle cronache storiche
dell’epoca. Uno storico dei nostri giorni lo descrive
come «il monarca più carismatico del Rinascimento
francese, bramoso di compiere grandi imprese con la
spada in pugno onde poter essere consacrato cavaliere
sul campo di battaglia»; e ciò puntualmente avvenne con
una cerimonia che «fornì spunti da leggenda per la biografia
di quello che ancor oggi viene ricordato come il
cavaliere del Rinascimento francese» (Pellegrini 2009,
pp. 145-149). Anche Ariosto ne rimane affascinato, tanto
da allargare la tela del suo poema già completato, introducendone
un elogio con la menzione della vittoria di
Marignano del 13-14 settembre 1515, proprio all’ultimo
minuto, un mese prima che il manoscritto vada in tipografia
(Dorigatti 2011, p. 38). Lo inserisce nel luogo giusto:
nel canto XXIV, un canto sulla liberalità che esordiva
con un apprezzamento delle donne dell’antichità,
«che le virtù, non le ricchezze amaro». Gli eventi del
racconto ci portano presso una fontana istoriata con
immagini profetiche di personaggi politici del secolo
XVI, distintisi per la loro liberalità; e in prima fila è
Francesco I per la sua lotta contro il mostro della cupidigia:
«Poi si vedea d’imperïale alloro / cinto le chiome
un cavallier venire [ ... ] // L’un ch’avea sin a l’elsa ne la
pancia / la spada immersa alla maligna fiera, / Francesco
primo, avea scritto, di Francia» (A XXIV, 34-35; C
XXVI). E più avanti, all’ottava 43, si ribadisce che non
vi sarà nessun altro più molesto al mostro della cupidigia,
di «Francesco re de’ Franchi». A lui Ariosto affidava,
a questa altezza, le speranze di pace per l’Italia. E non
sarà un caso se un esemplare prezioso del primo Furioso
risulta appartenuto a Francesco I: fu Ariosto, racconta
Catalano, a far spedire sul finire del maggio 1516 (il libro
era uscito il 22 aprile) varie «partite di Orlandi», tra cui
una «in Francia, alla corte del cavalleresco re Francesco,
ove la cultura italiana era molto diffusa» (Catalano 1930-
31, vol. I, p. 433; Dorigatti in Ariosto 2006, p. XCVI).
Un campione, Francesco I, di quella liberalità che costituisce
un tema centrale del poema. E con questo spirito
di liberalità e cortesia per eccellenza cavalleresco, si presenta
come più in sintonia il primo Furioso, in cui a Ruggiero
non è richiesto, per avere Bradamante in sposa,
alcun titolo nobiliare e neppure averi; mentre nell’ultimo
Furioso Ruggiero prima di sposare Bradamante
dovrà affrontare nuove difficoltà, che gli guadagneranno
un titolo regale, quello di re di Bulgaria.
Tina Matarrese
156 157
58. Alessandro Filipepi detto Sandro Botticelli e bottega
Venere pudica, c. 1485-90
Tempera e olio su tavola trasferita su tela, cm 174 x 77
Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. 172
Provenienza: Londra, reverendo Walter Davenport Bromley,
acquistata a Firenze nel 1844; Londra, vendita collezione
Davenport Bromley, 1863, acquistata da Lord
Ashburton; ceduta allo scultore Carlo Marochetti (1805-
67); Torino, acquistata da Riccardo Gualino; Torino, esposta
alla Galleria Sabauda, dal 1928; donazione ufficiale
della raccolta Gualino, 1930.
Bibliografia: Waagen 1857, p. 166; Crowe e Cavalcaselle
1864-66, II, pp. 427-428; Horne 1908, p. 153; Venturi 1928,
tav. 23; Gabrielli 1971, p. 79, n. 656 (con bibliografia precedente);
Lightbown 1978, II, pp. 121-122; G. Dette in Francoforte
2009-10, pp. 236-239, catt. 34-35; S. Mascalchi,
in Firenze 2011-12, p. 228, cat. 7.20; F. Fiorelli Malesci in
Pechino 2012-13, p. 164, cat. 29; F. Gualano in Torino e altre
2014, p. 42, cat. 7; Körner 2015, pp. 75, 80, 84-85; L. Sebregondi
in Tokyo 2015, p. 146, cat. 81; R. Rebmann in Berlino
e Londra 2015-16, p. 328, catt. 169-170.
Fin da quando fu avvistata da Gustav Waagen nella raccolta
londinese del reverendo Walter Davenport Bromley
(1857, con attribuzione a Botticelli), e quindi poi studiata
da Giovan Battista Cavalcaselle (1864-66: «Not of the best
style by Botticelli»), la Venere che passò con la collezione
di Riccardo Gualino alla Galleria Sabauda nel 1930 è stata
ricondotta al maestro fiorentino o al suo ambito; con un’oscillazione,
nei giudizi dei critici, fra prevalente intervento
del maestro e prevalente intervento della bottega, che
è in qualche modo connaturata alla natura del pezzo: la
Venere è infatti una replica, isolata su fondo scuro, dell’omonima
protagonista della celeberrima Nascita di Venere
degli Uffizi. Secondo Lionello Venturi (1928), a dire il
vero, tale rapporto andava interpretato a tutto vantaggio
della tavola Gualino, forse lo «studio dal vero», assolutamente
autografo, da cui era nata la composizione fiorentina.
Già Waagen, peraltro, accostava al nostro pezzo
l’analoga Venere della Gemäldegalerie di Berlino, mentre
una terza Venere, assimilabile alle precedenti per grado
d’autografia e stile ma di diversa iconografia, era pure
entrata a far parte della collezione Davenport Bromley
ed è ancora oggi in mani private. La posizione critica
divenuta vieppiù maggioritaria – ma non esclusiva –
durante il Novecento ritiene tutt’e tre le Veneri prodotte
essenzialmente dai collaboratori del maestro, a partire
dalle invenzioni di quest’ultimo (così già Horne 1908, che
pure credeva distrutte due di esse; una recente discussione
dei rapporti fra gli esemplari si trova nella scheda
di G. Dette in Francoforte 2009-10). Le piccole varianti
che contraddistinguono le due Veneri torinese e berlinese
rispetto al loro prototipo degli Uffizi (capigliatura, mani,
la veste trasparente del pezzo Gualino) ci assicurano
peraltro che la “riproduzione” d’un’iconografia di grande
successo non avveniva in maniera esclusivamente meccanica,
benché con l’ausilio di cartoni, ma anche cercando
di applicare all’esemplare prodotto un seppur minimo
grado di originalità. Ad ogni modo, questa sorta di riduzione
“ad uso domestico” d’un monumentale quadro di
soggetto mitologico-allegorico (recentemente analizzata
da Körner 2015 nei suoi presupposti e conseguenze) attesta
una modalità del progressivo diffondersi di dipinti dal
soggetto profano se non proprio lascivo – quelli contro cui
si sarebbe scagliato a fine secolo il Savonarola – nelle case
dei fiorentini: il Libro di Antonio Billi, fra le opere di Botticelli,
registra «più femmine igniude, belle più che alchuno
altro» (ed. 1892, p. 29, versione Petrei); l’Anonimo Magliabechiano,
«più femine gnude bellissime» (ed. 1892, p. 105);
e anche Vasari (1550 e 1568, ed. 1971, III, p. 513) ricordava
che «per la città in diverse case fece […] femmine ignude
assai», ricollegandosi subito ai due grandi dipinti oggi agli
Uffizi (La nascita di Venere e la Primavera).
Quanto Botticelli ideava le sue «femmine ignude»,
mascherandole da divinità antiche, Ludovico Ariosto era
ancora un fanciullo; ai tempi della maturità del poeta,
tali iconografie avevano ormai preso campo, ad esempio
nella pittura veneziana, con ben altra intensità e soprattutto
sensualità. È stato giustamente osservato come,
rispetto alla descrizione della nudità di Angelica liberata
dal mostro marino già presente nella prima redazione del
Furioso (1516), quella analoga della liberazione di Olimpia,
discinta, aggiunta nell’edizione del 1532 presupponga
proprio un confronto con l’arte coeva, rilevando altresì
quanto «il tocco del descrittore si avvalga di tonalità che
non del tutto irragionevolmente potrebbero definirsi
figurative, e che nella loro fulgida nitidezza evocano il
mondo tizianesco» (Padoan 1980, pp. 97-98).
Gabriele Donati
158 159
59. Elmo corinzio, seconda metà del VI secolo a.C.
Bronzo fuso, imbutito e inciso, altezza cm 25, diametro cm 30
Bassano del Grappa, Musei Civici, collezione Chini
Inv. 537
Provenienza: i dati sulla provenienza del manufatto sono
incerti; sembra sia stato rinvenuto nell’area di Gioia del
Colle; pervenuto al Museo civico di Bassano del Grappa
nel 1978 grazie alla donazione di Virgilio Chini.
Bibliografia: Bottini 1988, p. 118 nota 12; Bottini 1990, p.
26 nota 4; Andreassi et al. 1995, pp. 187-190, cat. 5.2.1.
L’elmo si presenta con calotta arrotondata, paragnatidi
(coperture delle guance) rigide separate nella parte centrale
e il paranuca a falda che lungo il margine conserva
ancora parte dei piccoli chiodi che avevano la funzione
di fissare un’estensione in materiale deperibile come
stoffa o pellame.
Il manufatto, realizzato in bronzo fuso, è impreziosito
da una raffinata decorazione incisa lungo i bordi e nella
parte anteriore, sulla fronte e sul lato sinistro eseguita
con solchi più o meno profondi. Nello specifico i bordi
presentano una decorazione geometrica composta da
una fila di piccoli cerchi tra due coppie di linee che
vicino ai fori oculari e delle paragnatidi si arricchisce
con motivi vegetali a foglie che si dipartono da una
duplice linea. A marcare le arcate sopraccigliari invece
è presente un motivo a due “S” convergenti, unite al
centro, formato da una doppia linea con una nervatura
centrale decorata all’interno con un motivo a “spina di
pesce” che termina con elementi fitomorfi.
La decorazione diviene più complessa sopra le sopracciglia,
anche se ora è scarsamente visibile: due cinghiali
resi di profilo posti specularmente verso il centro
dell’elmo dove è presente un decoro fitomorfo con
fiori, girali e serpenti. Sulla paragnatide sinistra infine si
scorge appena, per la leggerezza dell’incisione, una coppia
di teste di grifo.
Originariamente la superficie della calotta era rivestita
di tessuto, di cui restano tracce della trama emerse, e
lasciate visibili, durante il restauro del 1981.
Le fattezze della calotta e del paranuca portano a collocare
l’elmo in una fase cronologica avanzata delle produzioni
arcaiche e a ricondurlo all’area meridionale apula,
probabilmente appartenuto ad un esponente di un ceto
guerriero aristocratico insediato nelle Murge, sul Monte
Sannace a pochi chilometri da Gioia del Colle.
La tipologia di decorazione figurata al centro della
fronte appare dalla seconda fase della classificazione di
Pflug (Lotus-Gruppe): proprio per la presenza del fiore
di loto sulla fronte e per confronti con altri elmi di area
apula Enzo Lippolis (Andreassi et al. 1995, p. 189) propone
una datazione alla seconda metà del VI secolo a.C.
Federica Millozzi
160 161
60. Lucio Anneo Seneca
Tragoediae (con il commento di Nicola Trevet), XIV secolo
Manoscritto membranaceo, mm 355 x 245
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. lat. 355, f. 1v
Bibliografia: C.M. Monti in Città del Vaticano 1996-97, p.
226, cat. 50.
L’avvicendarsi nella scrittura di mani francesi e italiane
ha suggerito che il codice sia stato esemplato alla corte
papale di Avignone. Il testo delle tragedie è accompagnato
dal commento del domenicano inglese Nicola
Trevet, compiuto prima del 31 luglio 1317 (Marchitelli
1999, pp. 42-43).
La miniatura di f. 1v, di mano italiana, raffigura la
messa in scena dell’Hercules furens in un teatro antico.
Il poeta che legge i versi, il coro, i personaggi (tra cui
spicca Ercole impellicciato – compreso il capo – nella
leontè), il pubblico, tutti sono disposti in accordo con la
descrizione del teatro antico data da Nicola Trevet nel
suo commento: «Et nota quod tragedie et comedie solebant
in theatro hoc modo recitari: theatrum erat area
semicircularis, in cuius medio erat parva domuncula,
que scena dicebatur, in qua erat pulpitum super quod
poeta carmina pronunciabat; extra vero erant mimi,
qui carminum pronunciationem gestu corporis effigiabant
per adaptationem ad quemlibet ex cuius persona
loquebatur. Unde cum hoc primum carmen legebatur
mimus effigiabat Iunonem conquerentem et invitantem
Furias infernales ad infestandum Herculem» (f. 5v =
Trevet 1959, pp. 5-6) – «E nota che tragedie e commedie
venivano recitate in questo modo: il teatro era una
piattaforma semicircolare nel cui mezzo era una piccola
casetta, detta “scena”, dove si trovava un leggio sopra il
quale il poeta proferiva i versi; al di fuori si trovavano
i mimi, che col movimento del corpo fingevano di pronunciare
le battute a seconda del personaggio che parlava.
Così, mentre veniva letto il primo brano di versi, il
mimo impersonava Giunone quando questa si lamenta e
incita le Furie infernali ad infestare Ercole.»
Come notato da Silvia Longhi (2005), è soprattutto nei
comportamenti che contrassegnano l’impazzimento
che la figura di Orlando nel Furioso echeggia l’Ercole
senecano.
Adolfo Tura
162 163
61. Giuliano Giamberti detto Giuliano da Sangallo
Figura maschile in piedi che lacera un cartiglio (Lucrezio?), c. 1510
Penna e inchiostro, pennello e inchiostro diluito, biacca, pietra nera naturale su carta, mm 394 x 274
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e
del turismo
Inv. 155 F
Bibliografia: Fabriczy 1902; M. Fossi Todorow in Firenze
1955, p. 28, cat. 75; C. Sisi in Firenze 1992a, pp. 58-59, cat.
2.16; C. Casoli in Firenze 2011, pp. 180-181, cat. 39 (con
bibiografia precedente); Casoli 2012.
Questo splendido disegno, perfettamente finito, rappresenta
un individuo anziano, con barba e capelli fluenti,
rivestito – ma con ampie porzioni denudate – d’un mantello
dal panneggio tempestoso, nell’atto di stracciare
quasi forsennatamente, con entrambe le mani, due lunghi
cartigli, mentre ai suoi piedi giace un libro aperto ma
rovesciato; sulla sinistra, l’unica notazione ambientale è
quella d’una grande roccia.
Di Giuliano da Sangallo, legnaiolo e architetto fiorentino
dalla carriera lunga e onorata, ci resta un ricco e vario
corpus grafico, che comprende due interi taccuini di
rilievi architettonici dall’antico e vari fogli sparsi, che
esibiscono tuttavia soltanto in piccola parte disegni di
figura. Nondimeno l’attribuzione del nostro esemplare
a Giuliano, avanzata oltre un secolo fa da Cornelius von
Fabriczy (1902), e talora messa in dubbio dagli studiosi
successivi, è stata recentemente confermata in un’esaustiva
scheda da Cristina Casoli (2012), che lo ha accostato
per tecnica e stile ad un altro foglio attribuito a
Giuliano con un Gruppo di guerrieri antichi (Firenze,
GDSU, inv. 616 Orn), che costituiva in origine un’unità
con il Generale che legge un messaggio dell’Albertina di
Vienna (inv. 48). Questa composizione ricostruita «sembra
collegarsi, nell’ambientazione, al nostro foglio 155 F»
(Casoli 2012). Sul piano stilistico, data anche l’altissima
qualità esecutiva, la figura disegnata del Sangallo s’intona
perfettamente ad un artista legato a doppio filo al
clima colto e raffinato della Firenze laurenziana, fra Botticelli
e Filippino Lippi, cui rimanda anche il gusto per
la combinazione di pose complesse e tono nobilmente
patetico – che qui, però, pare davvero ispirata, come
propose Maria Fossi Todorow (1955), al Laocoonte, alla
cui riscoperta Giuliano poté assistere personalmente
a Roma nel 1506. Il riferimento, rifiutato da Sisi (in
Firenze 1992a), è stato poi ripreso dalla Casoli (2012), la
quale tuttavia richiama l’esistenza di altri Laocoonti precedenti
alla riscoperta del gruppo statuario.
Il soggetto del disegno non di facile individuazione:
un’ipotesi di Carlo Sisi (in Firenze 1992a) vuole che si
tratti del poeta latino Tito Lucrezio Caro, del quale San
Girolamo descrive la subentrata follia a causa di un
filtro amoroso, nonché il suicidio («[Lucretius] amatorio
poculo in furorem versus, cum aliquot libros per
intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero
emendavit, propria se manu interfecit»). Va osservato
che, benché la figura e l’opera di Lucrezio fossero ben
conosciute e apprezzate nella Firenze del Rinascimento
(Brown 2010), la pur suggestiva proposta rimane allo
stato attuale priva di riscontri; fra l’altro, Girolamo non
accenna al fatto che Lucrezio distruggesse i suoi scritti,
né il disegno sembra accennare in modo diretto – ad
esempio tramite la pozione – alla causa della “pazzia”
dell’effigiato.
Gabriele Donati
164 165
62. Ludovico Ariosto
Orlando furioso
Venezia, 31 agosto 1526. 8°
Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, AB.VIII.49
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo
Bibliografia: Agnelli e Ravegnani 1933, n. 26.
Questa stampa popolareggiante, della quale s’ignora il
tipografo, reca all’inizio del testo (c. a2r) una silografia
di grossolana fattura divisa in quattro scomparti in
cui sono rappresentate, in raccapricciante sequenza, le
scene dell’impazzimento di Orlando. La scelta di privilegiare
la pazzia del paladino ponendone una raffigurazione
all’inizio, sebbene in pieno accordo col titolo
del poema, è un unicum tra le edizioni illustrate del
Cinquecento.
Adolfo Tura
166 167
63. Baldassarre da Fossombrone
Il Menzoniero o Bosadrello
[Ferrara], Severino Ferrarese, [non dopo il 1475]. 4°
Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Misc. 4136.7
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo
La più antica edizione a stampa dell’opera di Baldassarre
da Fossombrone (IGI 1166), di cui si conserva, oltre a
questo, un solo altro esemplare, in mano privata (Martini
1934, n. 178). Nell’iniziativa di stampa ebbe un coinvolgimento
finanziario Felice Feliciano (Contò 1995, pp.
304-305).
Il testo consiste in una raccolta di astrusi sonetti che
narrano fatti strampalati; alla fine di ognuno si connette
alla sirima, tramite la formula «Questa non fu busia»,
una coda faceta di due versi. Per chi si dilettava a leggerlo,
si trattava insomma di una sequela di “pazzie”.
In una missiva del 15 agosto 1470 l’oratore mantovano
Zaccaria Sagi così si esprime: «L’officiale da Soncino ha
scritto oggi la magior patia del mondo: [...] a Bressa s’è
levato il popolo a romore e li retthori si sonno ridutti ne
la garzetta, che mi par una de le novelle del Bosadrello di
ser Baldesaro» (Crimi 2010, p. 13).
I sonetti del Bosadrello divennero presto la base di un
gioco di sorti, di quelli che incominciavano con un tiro
di dadi, e le edizioni del Cinquecento sono dichiaratamente
informate a questo utilizzo.
Adolfo Tura
168 169
64. Cosmè Tura
San Giovanni a Patmos, c. 1470-75
Olio su tavola, cm 27 x 32
Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza
Provenienza: (?) Ferrara, collezione Giovan Battista
Costabili, 1835; Genova, collezione Gnecco; Milano, collezione
Dal Pozzo; Milano, collezione De Angeli-Frua;
Lugano, barone Hans Thyssen-Bornemisza, dal 1976;
Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, dal 1993 (Manca
2000, p. 133).
Bibliografia: N. Barbantini in Ferrara 1933a, p. 65, cat.
70bis; Longhi 1934 (ed. 1956), p. 26; Ruhmer 1958, pp. 38,
175; F. Todini in Londra 1984 (ed. 1985), pp. 74-75, cat. 2;
Mattaliano 1998, p. 146, n. 501; Molteni 1999, pp. 169-170;
Manca 2000, pp. 133-134, n. 20 (con bibliografia precedente);
Ciani Passeri e Ciatti 2003, p. 161; Sgarbi 2003,
pp. 188-189; Toffanello 2007, p. 140.
La tavoletta fu presentata per la prima volta a Ferrara
all’Esposizione del 1933 con attribuzione a un «ferrarese,
affine al Tura» (Barbantini in Ferrara 1933a, p. 65);
dopo il sicuro pronunciamento di Longhi (1934, ed. 1956,
p. 26) a favore del maestro, l’autografia è stata generalmente
accettata dalla critica, concorde nel ritenerla
opera matura del pittore (Molteni 1999, p. 170; Manca
2000; Toffanello 2007, p. 140). La sua provenienza dalla
collezione Costabili merita ulteriori approfondimenti:
l’identificazione del quadro di Madrid con l’unico di
analogo soggetto presente nella collezione, descritto
come «S. Giovanni nell’Isola di Patmos. Tavola piccola
bislunga che era in Casa» e attribuito ad autore incerto
del XVI secolo di scuola fiorentina (Mattaliano 1998, p.
146, n. 501) desta qualche perplessità, parendo strano
che il Catalogo del 1835 possa avere equivocato sia sul
periodo che sull’autore del dipinto, che presenta inconfondibili
cifre turiane. Le affinità stilistiche e compositive
del San Giovanni con il San Luca di Tura già nella
collezione Martelli di Firenze e oggi agli Uffizi suggeriscono
la loro appartenenza a un medesimo complesso
decorativo raffigurante i quattro evangelisti (Sgarbi
2003, p. 189). L’ipotesi che i due Santi fossero parte della
predella del perduto polittico eseguito da Cosmè per la
chiesa ferrarese di San Luca, con figurine di santi nei
vari comparti già smembrati nel Settecento in quadretti
autonomi (Ciani Passeri e Ciatti 2003, p. 161), è difficilmente
verificabile, vista la genericità delle informazioni
trasmesse dalle fonti settecentesche e la conseguente
impossibilità di stabilire se in effetti il polittico fosse di
Cosmè, nonché d’immaginarne l’assetto originario.
Le condizioni conservative della tavoletta non offuscano
l’incanto del paesaggio roccioso, del verde del prato,
dell’azzurro del cielo attraversato da sottilissime nubi
dorate, né rendono meno leggibile la mirabile tranquillità
del santo, placidamente sdraiato, la testa avvolta in
un copricapo orientaleggiante le cui pieghe sembrano
ricalcare quelle delle rocce circostanti, e su cui poggia
il cerchio del nimbo. L’aquila, appollaiata sul braccio
destro e come immersa nella lettura del libro, conferisce
vivacità e movimento a una scena altrimenti sospesa
nello spazio e nel tempo. L’isola di Patmos in cui Giovanni
è stato esiliato e in cui compone l’Apocalisse si
trasforma, nella fantasia di Tura, in un paesaggio favoloso,
quasi non terrestre (F. Todini in Londra 1984, ed.
1985, p. 74), o simile alla «strana visione di un deserto
dell’Arizona» (Ruhmer 1958, p. 38). La temperatura
fantastica del San Giovanni di Tura evoca uno dei passi
più celebri e ricchi d’incanto del Furioso, quello dell’incontro
nel Paradiso terrestre tra Astolfo e l’evangelista,
immaginato come un vegliardo vestito di rosso e
di bianco, bianchi i capelli, bianca la «folta barba ch’al
petto discorre» (XXXIV, 54, 4), che lo guiderà sulla luna
per recuperare il senno di Orlando «in un vallon fra
due montagne istretto, / ove mirabilmente era ridutto /
ciò che si perde o per nostro difetto, / o per colpa di
tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, là si raguna»
(XXXIV, 73, 4-8).
Marialucia Menegatti
170 171
65. Maestro delle Vitae Imperatorum
Dante e Virgilio scendono verso le Malebolge in groppa a Gerione
in Guiniforte Barzizza, Commento all’Inferno di Dante, c. 1440
Pergamena, 381 ff., mm 320 x 215
Parigi, Bibliothèque nationale de France, It. 2017, ff. 198v-199r
Bibliografia: Toesca 1912 (ed. 1966), pp. 219-220; Pellegrin
1955, p. 392; R. Cipriani in Milano 1958, pp. 67-68,
cat. 208; Brieger, Meiss e Singleton 1969, I, pp. 38-39; F.
Avril in Parigi 1984, pp. 149-151, cat. 130; Bandera Bistoletti
1984; Roddewig 1984, n. 574; Bellomo 2004, pp. 134-
139; F. Lollini, M. Besseyre e M. Perani in Baruzzi e Mirri
2006, pp. 75-89, n. 6.
L’unico esemplare miniato del commento all’Inferno
redatto da Guiniforte Barzizza verso il 1438 appartenne
al duca di Milano Filippo Maria Visconti, committente
del testo (Bellomo 2004). Le sue oltre cento miniature
d’origine ne facevano uno dei testimoni figurati più ricchi
del poema (Brieger, Meiss e Singleton 1969, I, pp.
38-39), ma nell’Ottocento, in Francia, alcuni mini furono
asportati, e si conservano oggi a Imola (F. Lollini, M. Besseyre
e M. Perani in Baruzzi e Mirri 2006, pp. 75-89, n. 6).
Nel frammento parigino cinquantanove scene incorniciate
introducono i versi del poema, intercalati alla
glossa. In groppa a Gerione, Dante e Virgilio scendono il
burrone che li porterà a Malebolge allontanandosi dagli
usurai, seduti sul sabbione arroventato e sferzati da una
pioggia di fiamme. Il dannato che porta al collo una
borsa con la scrofa azzurra in campo argenteo (ossidato)
è uno Scrovegni: è identificato con Reginaldo, padre di
Enrico, il committente padovano di Giotto. Dante gli
parla nella miniatura precedente, al f. 196r: le due scene
condividono la rappresentazione di un identico sfondo,
che però nella seconda è tagliato all’estremità sinistra
ed ampliato a destra, come se lo sguardo del lettore si
spostasse orizzontalmente nello spazio per seguire i due
protagonisti. La scena è ambientata sotto la crosta terrestre,
ma la vegetazione dorata sul fondo rosso ha un
semplice valore decorativo. Altrove è sostituita da fondi
geometrici, di gusto francese.
L’anonimo “Maestro delle Vitae Imperatorum”, prolifico
miniatore caro a Filippo Maria Visconti (F. Lollini
in Bollati 2004, pp. 587-589), forza in chiave grottesca
il registro comico del poema, attribuendo ai suoi personaggi
una mimica enfatica. Dotato di un’affabile vena
narrativa, gli è invece estraneo il gusto del demoniaco,
così che anche il mostruoso Gerione è disegnato con
tratto fluido e un volto convenzionale. Sempre densa, la
tavolozza del maestro sfrutta qui il contrasto tra i grigi
del terreno e il rosso del fuoco, attingendo progressivamente
a tonalità più livide che rendono lo squallore
degli ultimi gironi. In tutto il codice le nudità dei personaggi
sono state grattate.
Pier Luigi Mulas
172 173
66. Globo dell’obelisco vaticano, prima metà del I secolo d.C.
Bronzo dorato, diametro cm 80,5
Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori
Inv. MC 1066
Bibliografia: C. Parisi Presicce in Roma 2008-09, p. 257,
cat. 145 (con bibliografia precedente).
L’imponente globo in bronzo dorato, databile al I secolo
d.C., è stato per secoli sulla sommità dell’obelisco fatto
trasportare a Roma da Caligola per collocarlo nel Circo
Vaticano. Ancora agli inizi del Duecento il monumento
si trovava nella posizione originaria, rialzato su un piedistallo
formato dai corpi di quattro leoni in bronzo. Era
considerato la tomba di Giulio Cesare, sulla base di una
tradizione documentata già nel XII secolo e supportata
dalle presenza dell’iscrizione dedicatoria Divo Caesari
Divi Iulii. Secondo la credenza medievale, le ceneri
dell’imperatore erano conservate nel globo sommitale
– come pure si riteneva che la sfera dell’obelisco in
Aracoeli contenesse le ceneri di Augusto – in una evidente
ma infondata analogia con la sepoltura di Traiano
nell’omonima colonna. Nel 1586 l’obelisco venne traslato
ad opera di Domenico Fontana nell’attuale posizione
al centro di piazza San Pietro e una croce venne posta
a sostituire la sfera. Quest’ultima era quindi ben visibile
negli anni dei soggiorni romani di Ariosto. Sulla sua
superficie sono tuttora distinguibili i danni dei colpi sparati
dagli archibugi dei lanzichenecchi durante il Sacco
di Roma del 1527. Il pyramidion dorato, estraneo al manufatto
originale, fu probabilmente inserito nell’Ottocento,
quando si posizionò la sfera sull’attuale base marmorea.
Nella immaginazione di Ariosto, la luna è una sfera
metallica: «Come un acciar che non ha macchia alcuna»
(XXXIV, 73, 4). In questo si avvicina all’idea di Leonardo
che, all’incirca negli stessi anni (1506-08), nel descrivere
la luna come una palla d’oro brunito — polita, lustra e
densa — che riflette lo splendore del sole, va implicitamente
con la memoria alla palla del Verrocchio sulla
lanterna della cupola della cattedrale fiorentina: «Come
manifestamente c’insegnia le palle dorate poste nelle
sommità delli alti edifizi» (Codice Arudel, f. 94v). Commissionata
nel 1486, la sfera di rame di oltre due metri
di diametro era stata costruita e montata in cima alla
lanterna nel 1471, quando Leonardo era entrato da poco
nella bottega del Verrocchio; un’impresa prodigiosa che
ancora ricorda con nostalgia nel 1515, ormai vecchio, a
Roma (ms. G, f. 84v): «Ricordati delle saldature con che
si saldò la palla di Santa Maria del Fiore» (Maffeis 2015).
Guido Beltramini
174 175
67. Maestro di Evert Zoudenbalch
Ruota della fortuna
in De natuurkunde van het geheelal, XV secolo
Manoscritto cartaceo eterogeneo, mm 215 x 150
Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, Cod. Guelf. 18.2 Aug. 4°, f. 123r
Bibliografia: Heinemann 1900 (ed. 1965), n. 3133; Jansen-Sieben
1968, pp. 153-163; H.L.M. Defoer in Utrecht e
New York 1989-90, pp. 208-209, cat. 64; per una descrizione
codicologica Jansen-Sieben 1968, pp. 155-158.
Il codice esposto contiene vari testi, tra cui la Descriptio
de tota terra promissionis cum Jherusalem di Willem
Walter van Zierixsee (ff. 1r-43r), l’Itinerarium di Odorico
da Pordenone (ff. 43r-105r), un trattato di flebotomia (ff.
106r-110v, inc. «Fleubotomia est vene recta incisio et sanguinis
moderata effusio» = TK 798k) e l’anonimo poema
didattico del XIII secolo in medio-olandese noto come
De natuurkunde van het geheelal (ff. 115r-151v). Quest’ultimo,
vergato attorno al 1465-70, è corredato da illustrazioni
dovute al Maestro di Evert Zoudenbalch (Defoer in
Utrecht e New York 1989-90, pp. 198-211). La miniatura
di f. 123r raffigura la ruota della fortuna. Questa viene
mossa da un asino tenuto al laccio dalla Fortuna, i cui
capelli le coprono interamente il viso – secondo un’iconografia
che trova già attestazione nel Conte du Graal (vv.
4578-4579 Méla: «Ha! Percevaus, fortune est chauve /
darriere et devant chevelue») e riaffiora nell’Amorosa
visione (redazione B, canto XXXI, vv. 22-23: «Horribile
in la fronte sol avea / li capei volti»). Alla sommità della
ruota è una volpe, sulla sinistra si sta arrampicando
una scimmia, a destra si vede scendere un levriero;
sotto la ruota si trova un leone. La particolarità dell’iconografia
sta soprattutto nel fatto che la ruota appare
solidale a un crescente di luna. Questo si spiega per l’associazione
tra la mutabilità della fortuna e la variazione
delle fasi lunari (tipica testimonianza l’adagio «est rota
fortunae variabilis ut rota lunae: crescit, decrescit, in
eodem sistere nescit»: si veda Wackernagel 1848, p. 143;
Appuhn-Radtke 2005, p. 300). In modo spiccatamente
visionario, alla parte in ombra del corpo celeste è data la
parvenza di un volto umano di profilo, di tinta cilestrina,
con labbra vermiglie socchiuse e grandi occhi marroni
dallo sguardo perplesso, che fa da sfondo all’immagine
della Fortuna e della ruota.
Adolfo Tura
176 177
68. Niccolò Machiavelli
Lettera a Lodovico Alamanni, 17 dicembre 1517
Bifolio cartaceo, mm 290 x 220
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Aut. Pal. Mach. I.52.
Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
La lettera di Machiavelli a Lodovico Alamanni del 17
dicembre 1517, della quale si espone l’autografo, contiene
la più antica testimonianza che ci sia pervenuta di
apprezzamento dell’Orlando furioso da parte di un letterato.
Nell’edizione delle Lettere di Machiavelli curata
da Franco Gaeta il passo in questione si legge così: «Io
ho letto a questi dì Orlando Furioso dello Ariosto, e
veramente el poema è bello tutto, et in di molti luoghi
è mirabile. Se si truova costì, raccomandatemi a lui, e
ditegli che io mi dolgo solo che, avendo ricordato tanti
poeti, che m’abbi lasciato indreto come un cazo, e ch’egli
ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non
farò a lui in sul mio Asino» (Machiavelli 1984, p. 498).
La curiosa frase «che m’abbi lasciato indreto come un
cazo» si trova parimenti in tutte le più accreditate edizioni
del Novecento a partire da quella di Mazzoni e
Casella del 1929 (Machiavelli 1929, pp. 898-99; Machiavelli
1971, p. 1195; Machiavelli 1999, p. 357) e ricorre tale
e quale sotto la penna di molti insigni studiosi (si veda,
per esempio, Blasucci 1964, p. XXVIII; Martelli 2009,
p. 209; Bausi 2005, p. 145; Bruscagli 2008, p. 35) e nelle
storie letterarie (Ferroni 2009, p. 36; Asor Rosa 2009,
I, p. 546). Nessuno si è mai soffermato sulla stranezza
della locuzione, la cui singolarità è confermata dal fatto
che il Dizionario di Battaglia registra, per cazzo, un’accezione
di «individuo oltremodo sciocco, citrullo»
(GDLI, II, p. 935) a suffragio della quale viene allegata
soltanto la frase di Machiavelli (sulla base dell’edizione
di Mazzoni e Casella).
Tutte le stampe da me consultate precedenti al 1929,
dalla seconda metà del Settecento e per buona parte
dell’Ottocento, omettono la parola da leggersi dopo
«come un» e segnalano la lacuna con dei puntini. Nel
1883 uscì l’edizione di Edoardo Alvisi, in cui per la
prima volta venne completata la frase: «come un cane»
(Machiavelli 1883, p. 403); lezione che, presto sopraffatta
da quella vulgata da Mazzoni e Casella, ebbe fortuna
brevissima.
Valga l’autografo. Questo, per cominciare, è custodito in
una cartellina sulla cui prima facciata si legge, di mano
di un bibliotecario di primo Ottocento, la seguente
osservazione: «È pubblicata fra le Familiari (Opere t.
VIII, pag. 152) [il riferimento è a Machiavelli 1813]. La
parola lasciata in bianco nella stampa a pagina 154 v.
1 sembra che nel presente ms. dica ciuco». Una mano
più tarda ha chiosato: «Mi pare invece chiarissimo che
dica altrimenti». Venendo con ciò all’autografo, al f. 1v l.
5 si legge distintamente (se si abbia dimestichezza con
le corsive di primo Cinquecento) «come un cane» (cāe).
Gloria all’Alvisi!
Adolfo Tura
178 179
69. Giovanni Luteri detto Dosso Dossi
Melissa, c. 1518
Olio su tela, cm 176 x 174
Roma, Galleria Borghese. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. 217
Provenienza: Roma, palazzo in Borgo (oggi Giraud Torlonia),
residenza del cardinale Scipione Borghese, 1611; Roma,
villa Borghese, 1650; Roma, Giovanni Battista Borghese
1693; Roma, quadreria Borghese nel palazzo a Campo Marzio,
1790; fedecommesso Borghese, 1833.
Bibliografia: Ballarin 1994-95, I, p. 40; Romani in Ballarin
1994-95, I, p. 312, n. 372 (con bibliografia precedente); Yarnall
1994, pp. 116-118; Roberts 1996, p. 188; Coliva 1998, pp.
74-76; P. Humfrey in Ferrara, New York e Los Angeles 1998,
pp. 114-118, cat. 12; K. Hermann Fiore in Bruxelles 2003, p.
257, cat. 180; Kilpatrick 2004; Macioce 2004; Wood 2006;
Fumagalli 2007, pp. 177-178, 181; Fiorenza 2008, pp. 101-126;
Morel 2008, pp. 232-239; Farinella 2014a, pp. 440-464;
Caneparo 2015, pp. 31-34.
La favolosa incantatrice seduta al centro di un cerchio
magico è stata a lungo identificata con una generica
«maga», poi con la temibile Circe omerica, prima di
essere riconosciuta come una delle figure protagoniste
del poema, quella della maga Melissa in atto di annullare
il sortilegio della malvagia Alcina, «imagini abbruciar,
sugelli torre, e nodi e rombi e turbini disciorre» per liberare
Ruggiero e i cavalieri che questa aveva trasformato in
fiori, alberi e animali (VIII, 14). L’immagine, interpretata
da Julius von Schlosser (1898, pp. 129-130; 1900, pp. 268-
169) sulla base del canto VIII, è tuttavia qualcosa di più
della traduzione di uno specifico episodio, è un compendio
dell’intera vicenda che attinge a diversi punti del poema
per celebrare questo personaggio, al quale Ariosto affida
il ruolo di buona madrina e profetessa della discendenza
estense (Ballarin 1994-95, I, p. 40). Una svolta importante
nell’interpretazione dell’opera ha offerto in questo senso
la radiografia della tela (Coliva 1998, pp. 74-76), rivelando
la presenza in origine di una figura armata sul lato sinistro
rivolta verso la protagonista, successivamente occultata
dal pittore. A partire da questo nuovo elemento è stato
possibile prospettare una più articolata ipotesi di lettura
riconoscendo nel cerchio magico ai piedi della maga, entro
il quale si trovava anche la seconda figura, un elemento
proprio del racconto e della tradizione figurativa del canto
III (Farinella 2008, 2012, 2014a, pp. 440-464). In questo
Melissa conduce Bradamante, presso la tomba di Merlino,
la cui voce rivela l’origine troiana della stirpe che nascerà
dall’unione dei due paladini; poco dopo gli spiriti della progenie
estense, evocati dalla maga, sfilano intorno al «sacro
cerchio» uno dopo l’altro fino ad arrivare ad Alfonso e al
fratello Ippolito. La presenza del duca e dei suoi familiari
al cospetto del dipinto costituiva dunque l’ideale completamento
della composizione (Caneparo 2015, p. 33).
La fortuna di Melissa, come nume tutelare e celebrativo
degli Este, è attestata da altri esempi, tra i quali un dipinto
perduto, ma descritto dalle fonti, realizzato da Jean Boulanger
per il palazzo Ducale di Sassuolo (Farinella 2008, p.
209). È dunque probabile che la figura armata rappresentasse
Bradamante, ma, giocando sul filo di una più sottile
allusione, il pittore avrebbe deciso di eliminarla e di introdurre
altri elementi riferibili al canto VIII, dove la maga
interviene in favore dell’altro capostipite degli Este. Se le
piante, gli animali, l’armatura e le piccole figure umane di
cera appese all’albero rimandano dunque ai sortilegi della
malvagia Alcina, il cespuglio di rose, avrebbe la funzione
di antidoto, secondo un passo dell’Asino d’oro di Apuleio
citato nel dialogo sulla stregoneria di Gianfrancesco Pico
(Morel 2008, pp. 242-249; Farinella 2014a, p. 455).
Dal punto di vista stilistico l’opera è da collocare intorno al
1518, ponendosi a pochissimi anni dall’uscita del Furioso,
come il primo esempio in assoluto della sua secolare fortuna
figurativa. Nessun dipinto di diretta ispirazione ariostesca,
tuttavia, è forse in grado come questo di Dosso di tradurre
contenuti e forme della prima redazione del poema
nel linguaggio dell’arte. La temperatura fantastica accesa di
sontuoso cromatismo nel paesaggio, come nella veste della
maga e negli oggetti che la circondano (la lucente corazza,
il braciere, l’intenso molosso dal pelo argentato), declina
le possibilità espressive del giorgionismo e del tizianismo
di terraferma, che avevano caratterizzato le prime prove
dell’artista, reinterzato poi da umori eccentrici e transalpini
intorno al 1516-17. Entro questa atmosfera, però,
la figura si pone con un’ampiezza ed una monumentalità
che guardano ormai al classicismo di Tiziano quanto di
Raffaello, assumendo l’atteggiamento più che di una maga,
di una antica Sibilla. Sulla Sibilla Cumana, d’altronde, e
sull’intero canto VII dell’Eneide lo stesso Ariosto aveva
scelto di esemplare la profezia di Melissa.
Barbara Maria Savy
180 181
UN CAPO-
LAVORO IN
TRASFOR-
MAZIONE
–
70. Ludovico Ariosto
Frammento manoscritto autografo dell’Orlando furioso
Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, SP33, n. 3
Bibliografia: Ariosto 1937; Contini 1947; Ariosto 2010.
Della composizione dell’Orlando furioso non ci sono
rimaste testimonianze manoscritte dell’autore, ad eccezione
di alcuni frammenti riguardanti le aggiunte al
testo del 1532. I più importanti sono quelli relativi alla
storia di Olimpia e a quella di Ruggiero e Leone; meno
rilevanti sul piano strutturale i manoscritti riguardanti
le avventure di Bradamante nella Rocca di Tristano e
l’episodio di Marganorre. Tali autografi sono divisi tra
la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara, che ne conserva
la maggior parte (54 carte), la Biblioteca Ambrosiana
di Milano (2 carte) e la Biblioteca Nazionale di
Napoli (un foglio), e costituiscono un corpo unico, come
ha magistralmente ricostruito Santorre Debenedetti,
trascrivendoli nella loro disposizione originaria che
rende conto dell’andamento della scrittura ariostesca,
e pubblicandoli nel 1937 (si veda Ariosto 1937). Sono
stati recentemente ripubblicati da Cesare Segre con una
sua Premessa. Le due carte qui esposte contengono una
parte dell’episodio di Olimpia e ne costituiscono la copia
definitiva, a parte qualche ulteriore ritocco in fase di
stampa (vedi Tav. 75): un documento pertanto preziosissimo
in quanto frammento dell’«unico manoscritto –
quello che fu poi consegnato all’editore dell’ultima
redazione, Francesco Rosso da Valenza», come sottolinea
Cesare Segre (in Ariosto 2010, p. IX). Si tratta dunque
della copia in pulito delle stanze IX 1-11, 92-94 e X
3-7, le cui precedenti fasi di elaborazione si trovano nei
manoscritti conservati a Ferrara, dai quali si può avere
un esempio di come procedeva la scrittura ariostesca,
delle sue difficoltà e delle sue felici soluzioni: «versi ora
appena abbozzati, poi abbandonati, ora invece animati
da un entusiasmo gioioso, che ci dicono tutto su ogni
fase di composizione» (Ibid., p. IX), fino ad arrivare
alla stesura definitiva rappresentata dai manoscritti qui
esposti. Gli autografi ci introducono dunque nel laboratorio
dell’Orlando furioso, mostrandoci «come lavorava
l’Ariosto», secondo le parole con cui Gianfranco Contini
ha intitolato il suo articolo-recensione ai Frammenti
autografi di Debenedetti, articolo che segna l’avvio di
quella «critica delle varianti (d’autore)», diventata centrale
nell’attività critica continiana; autografi che aiutano
a farci conoscere il percorso inventivo e la perizia
di Ariosto nel creare una poesia che non denuncia le
fatiche della elaborazione che le sta dietro, «una poesia
che diresti nata senza alcun travaglio, agevole come i
prodotti della natura» (Ibid., p. IX).
Tina Matarrese
184 185
71. Archibugio a ruota, c. 1520-25
Ferro, ottone e legno, cm 85,3 x 15 x 8
Parigi, Musée de l’Armée
Inv. 794 PO M
Provenienza: collezione Georges Pauilhac, acquisito dal
Musée de l’Armée nel 1964.
Bibliografia: Reverseau 1982, pp. 91-92.
Per te son giti ed anderan sotterra
Tanti signori e cavallieri tanti,
Prima che sia finita questa guerra,
Che ’l mondo, ma più Italia ha messo in pianti
Orlando furioso, XI, 27, 1-4
Con queste parole Orlando si rivolge all’archibugio,
arma del vile re di Frisia. Nel mettere in campo questo
strumento letale, Ariosto evoca quell’epoca turbolenta
in cui il moltiplicarsi delle armi da fuoco andava trasformando
il modo di guerreggiare. Eppure nel 1516, nonostante
le espressioni accorate del poeta, l’archibugio
non era una novità: era conosciuto e usato da circa due
secoli. Recente era invece la creazione di reparti organizzati
dotati di tale arma, il cui contributo in termini
tattici cominciava a rivelarsi importante: nella battaglia
di Cerignola del 1503 gli archibugieri spagnoli del
Gran Capitán Gonzalo de Cordoba avevano sopraffatto
i cavalieri francesi, e nel 1525, nella battaglia di Pavia,
sarebbe stato un reparto dotato di armi da fuoco a tempestare
di colpi i gendarmi di Francesco I, contribuendo
alla sconfitta del re di Francia.
Gli archibugi della prima metà del XVI secolo sono
molto rari; l’esemplare conservato al Musée de l’Armée
è dotato di un meccanismo a ruota, che ne fa una delle
più antiche armi da fuoco di tipo francese che si siano
conservate. La polvere da sparo, inserita nella canna
con il proiettile, veniva accesa mediante lo sfregamento
di una rotella dentata contro un pezzo di pirite fissata
nelle ganasce del cane. Questo meccanismo, complesso,
costoso e fragile, era riservato soprattutto alle armi di
lusso: i semplici fantaccini avevano in dotazione degli
archibugi a miccia, in cui il sistema di accensione rendeva
necessario portare con sé una funicella impregnata
di salnitro per assicurare la combustione lenta. Un
archibugiere ben addestrato poteva sparare un proiettile
di piombo di 15-18 mm di calibro ogni quaranta-cinquanta
secondi, portando con sé fino a una trentina di
cariche di polvere.
Olivier Renaudeau
186 187
72. Ludovico Ariosto
Orlando furioso
Ferrara, Giovanni Mazzocchi, 22 aprile 1516. 4°
Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, S 16.1.21
Il 22 aprile del 1516 del calendario giuliano fu pubblicata
a Ferrara la prima edizione del poema di Ludovico Ariosto:
l’Orlando furioso, il cui incipit fu stampato, nei due
versi iniziali, in caratteri capitali «Di donne e cavallier li
antiqui amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto». L’editio
princeps del Furioso, composta in ottave e costituita
da quaranta canti, reca, a c. 2r, il privilegio di stampa
del pontefice Leone X (al secolo Giovanni de’ Medici)
datato Roma, 27 marzo 1516, sottoscritto dal segretario
dei Brevi Iacopo Sadoleto, che diverrà cardinale, sotto
Paolo III, nel concistoro del 22 dicembre 1536. Seguono
altri privilegi: Similemente il Christianissimo Re di Francia
[Francesco I], et la Illustrissima Signoria de Venetiani
et alcune altre potentie prohibiscono che ne le lor terre a
nessuno sia licito stampare, ne far stampare, ne vendere,
ne far vendere questa opera senza expressa licentia del suo
authore, sotto le gravissime pene che ne li ampli lor privilegi
se contengono.
Al verso della c. 2 è presente una xilografia raffigurante
api che sciamano da un ceppo posto sul fuoco, nella cui
cornice, ricorrono, otto volte, martello e scure legati da
una serpe e il motto, in capitale, dell’autore «Pro bono
malum». La stessa iconografia della cornice, connessa
al motto, fu utilizzata anche in altre edizioni temporalmente
inseribili tra la prima e la definitiva. La si
ritrova, infatti, in una rarissima edizione del Furioso –
che dal Censimento nazionale delle edizioni italiane del
XVI secolo risulta essere conservata, in Italia, solo dalla
Biblioteca Ariostea di Ferrara – stampata a Venezia il 13
marzo 1530 dal tipografo Girolamo Penzio, originario di
Lecco. Tuttavia nell’edizione veneziana la suddetta iconografia
è associata al frontespizio, impresso ad inchiostro
rosso e nero, e non all’“impresa” delle api.
Ludovico Ariosto, che dedicò l’opera al cardinale Ippolito
I d’Este (c. 3r), fece stampare la prima edizione del
poema da Giovanni Mazzocchi da Bondeno, figlio di
Pellegrino, libraio e tipografo attivo a Ferrara fra il 1509
e il 1517. Mazzocchi, la cui marca tipografica è costituita
da una corona con in basso le iniziali I M in cornice
(c. 1r n.n.), aveva la propria bottega, a Ferrara, in via dei
Sabbioni – attuale via Mazzini – nella contrada di san
Romano. In seguito, fra il 1519 e il 1520, esercitò la sua
attività anche a Mirandola chiamato, nel 1518, da Giovanni
Francesco Pico.
Del poema, il 13 febbraio del 1521 fu editata a Ferrara,
per i torchi del milanese Giovanni Battista della Pigna,
la seconda edizione con varianti ma sempre in quaranta
canti; la terza, definitiva, in quarantasei canti, di cui la
Biblioteca Ariostea possiede tre copie, fu stampata a Ferrara
da Francesco Rossi il 1 ottobre 1532 con privilegio
del pontefice Clemente VII del 31 gennaio 1532.
Vicenda appassionante l’acquisizione dell’esemplare
“ferrarese” della princeps ricostruibile da varia documentazione
dell’Otto-Novecento, manoscritta e a
stampa, conservata nelle collezioni della Biblioteca. Per
la favorevole mediazione del conte Leopoldo Cicognara
(1767-1834), l’esemplare della princeps fu acquisito dalla
Biblioteca Pubblica ferrarese nel dicembre 1802. Oggetto
di transazione, la preziosa cinquecentina fu data dalla
Biblioteca di Brera – ora Biblioteca Nazionale Braidense –
in cambio di un prezioso codice membranaceo, con
iniziali in oro, del secolo XV, contenente il De Officiis
di sant’Ambrogio e l’opera di Omero, Iliade ed Odissea,
in greco, dai torchi fiorentini di Bernardo e Nerio
Nerli, non prima del 13 gennaio 1488 (IGI 4795; ISTC
ih00300000). Una vera rarità la prima edizione, di cui
già Giuseppe Faustini ne diede conto affermando di
conoscere in tutto tre esemplari, da lui stesso esaminati,
di cui quello ferrarese «è il solo ben conservato e perfetto»
(Brevi notizie delle tre originali edizioni dell’Orlando
Furioso di Lodovico Ariosto nobile ferrarese, Ferrara,
Biblioteca Comunale Ariostea, ms. Classe I 560,
fasc. 2a, cart., aut., sec. XIX, c. 4v). Negli Annali Agnelli
e Ravegnani individuano con certezza otto esemplari
superstiti dell’editio princeps. Attualmente, se ne contano
in tutto il mondo dodici, di cui quattro in Italia.
L’esemplare ferrarese, che presenta una legatura settecentesca
in pergamena con fregi in oro, è stato restaurato
nel novembre 2008.
Mirna Bonazza
188 189
73. Ludovico Ariosto
Orlando furioso
Ferrara, Giovanni Battista della Pigna, 1521. 4°
Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, 132 G 1.
In questo esemplare il frontespizio è sostituito da una
carta (a 1 ) su cui è stata realizzata a mano, in inchiostro
color seppia, una composizione di diversi elementi. Al
centro è riprodotta la marca tipografica con due serpenti
ed una mano armata di forbici. Nei quattro angoli della
cornice che delimita questa immagine si trova il motto
DILEXISTI/MALITIAM/SUPER/BENIGNITATE.
L’immagine (senza cornice) ed il motto (in un cartiglio)
si trovano nell’edizione del 1532 (Zappella 1986, I,
n. CCXXI, r, II, n. 1054; Masi 2002). Il titolo ORLANDO
FURIOSO DI / LUDOVICO ARIOSTO / MDXXI è inquadrato
da una cornice molto simile a quella presente nel
frontespizio tipografico. Nei quattro angoli il motto
ariostesco PRO/BONO/MA/LUM; sul margine destro è
scritto «Vetustatis in obsequium ob viventem AREOSTI
memoriam Bononiensis pinxit Asellus 1650». L’intera
carta a 1 risulta quindi una composizione di motivi decorativi
diversi (marche tipografiche, scritte, cornici), assemblata
dopo la metà del XVII secolo, come l’indicazione
del 1650 sembra suggerire. La sostituzione di questa carta
implica la mancanza nella copia corsiniana del privilegio
di Leone X (27 marzo 1516) che doveva trovarsi a c. a 1 v.
La carta a 8 è sostituita da una carta manoscritta, con testo
su due colonne in inchiostro color seppia, molto probabilmente
allestita contemporaneamente al frontespizio. L’esemplare
corsiniano presenta tracce di lettura in diverse
carte (esercizi di copiatura delle lettere, prove di penna),
indice di una lettura non colta.
La copia corsiniana ha una legatura in cuoio con impressioni
dorate e tassello con il titolo sul dorso.
In un elenco di libri rilegati dalla bottega del legatore e
libraio Toussaint Lhuillier (Petrucci 1961, in particolare
pp. 177-179) tra il 12 settembre 1731 e l’8 febbraio 1732
(ms. Cors. 2628) si trova citato anche «Ariosto, Orlando
Furioso». Si tratta della nostra copia, che è quindi presente
nella raccolta fin dal 1731 e che in quell’anno viene
fornita di una nuova legatura. Il volume entra in Corsiniana
con l’acquisto della biblioteca del cardinale Filippo
Antonio Gualterio l’anno precedente, nel 1730, come si
evince dalla lettura dell’inedito inventario dell’eredità
Gualterio (Roma, Archivio di Stato, Trenta notai capitolini,
notaio Giovanni Paolo Capponi, 1728, c. 1146 r). È
questa una prima, importante, acquisizione sulla provenienza
del volume.
Della rarità sembrano prendere consapevolezza i bibliotecari
corsiniani nel corso dell’Ottocento: nel catalogo
manoscritto annotano che si tratta di un’«edizione arcirarissima»,
espressione già usata in uno dei primi studi sulle
edizioni ariostee (Guidi 1861, p. 6). Questa descrizione è
preziosa perché sembra confermare che il volume entra
in Corsiniana già con il frontespizio e carta a 8 sostituiti.
Nel 1882 il bibliofilo Giacomo Manzoni dà notizia della
presenza in Corsiniana di quest’esemplare e segnala la
volontà di riprodurre, con i metodi dell’eliotipia, la prima
e la ottava carta («Il Bibliofilo», 3, agosto-settembre 1882,
p. 113). L’intenzione non ha seguito. Qualche anno più
tardi, nel 1891, il volume servirà da modello per integrare,
con la riproduzione fotografica, l’esemplare della
biblioteca Angelica di Roma, mutilo di alcune carte (C.A.
Girotto in Tivoli 2016, pp. 158-159, cat. 2) a testimonianza
di una rinnovata attenzione per questa impresa editoriale.
La storia di questo volume è anche storia di una progressiva
consapevolezza della rarità dell’edizione (ancora nel
1933 il repertorio di Agnelli-Ravegnani segnalava come
una scoperta recente il volume della Corsiniana). Oltre
alla due copie romane (Fahy 1989; Spagnolo 2008) e a
quella del Trinity College di Dublino (già citata nel 1861
da Ulisse Guidi), segnalo l’esemplare della Biblioteca Universitaria
di Dresda (coll. S.B. 699) ed il fatto che lo studio
ottocentesco di Guidi citi almeno due esemplari presenti
in biblioteche settecentesche mai individuati. L’edizione
del 1521 rimane, tra quelle realizzate vivente Ariosto, la
meno documentata e la più frettolosa. Dedicata al cardinale
Ippolito d’Este, come quella del 1516, fu stampata
infatti in soli tre mesi, tra il novembre del 1520 ed il febbraio
del 1521, e questo non giovò alla correzione del testo
che infatti presenta molti errori, segnalati nell’errata corrige
del volume insieme a un invito rivolto ai lettori affinché
correggano a loro volta. Particolarmente interessante
risulta in questo senso una delle notazioni a mano presenti
nella copia corsiniana: a carta I 4 r tra gli errori emendati
è stato aggiunto con lo stesso inchiostro «cede chiede
c. 8st.i.u.j». Si riferisce infatti alla carta manoscritta e
sembra far intravvedere difficoltà di accedere ad un testo
corretto e certo. L’esame delle due copie romane, rivela
l’esistenza di almeno due varianti di stato (Spagnolo 2008,
pp. 82-87), indice forse, anche questo, di un lavoro veloce
che se, da un punto di vista testuale, non modifica molto
l’edizione del 1516 avvia però quella complessa e consapevole
revisione linguistica e di stile che culminerà nell’edizione
del 1532 (C.A. Girotto in Tivoli 2016, pp. 160-161, cat.
3; Casadei 2001, pp. 91-111)
Diversi e tutti molto intriganti sono i percorsi di ricerca
aperti dallo studio della copia corsiniana, non ultimo
quello relativo alla circolazione di un’opera che ebbe un
immediato e travolgente successo editoriale. L’edizione
del 1521 risulta forse particolarmente significativa e documenta
una fase intermedia del lungo processo di revisione
ed ampliamento dell’opera da parte di Ludovico Ariosto.
Se da una parte infatti l’edizione del 1521 nasce soprattutto
dall’esigenza di rimettere in circolazione copie del poema
che a quella data cominciavano a scarseggiare, come sembra
testimoniare la lettera del poeta a Mario Equicola del
novembre 1520, dall’altra il coinvolgimento diretto di Ariosto,
economico ed editoriale, ripropone un modus operandi
che era già stato sperimentato nel 1516 e che verrà riproposto,
ampliato ed arricchito anche da una precisa strategia
di distribuzione delle copie, in occasione dell’edizione del
1532 (C.A. Girotto in Tivoli 2016, pp. 160-161, cat. 3).
Ebe Antetomaso
190 191
74. Pietro Bembo
Prose della volgar lingua
Venezia, Giovanni Tacuino, settembre 1525. 2°
Bologna, Biblioteca Universitaria, Raro D. 29
Bibliografia: Bologna 1998, cat. 16 (per la legatura).
Come osservava già Stella (1976), Ariosto anticipa nel
Furioso del 1516 alcune statuizioni delle Prose della volgar
lingua – il che può addursi a riprova del fatto che non
è agevole, parlando di Bembo, rispondere alla domanda
«in che misura la sua grammatica recepì tendenze già
in atto, e in che misura determinò l’assetto dell’italiano
che si stabilizzò diciamo verso la fine del Cinquecento?
Non lo sappiamo con precisione, anche se sulle Prose si
è scritto molto» (Tavoni 1999, p. 227). Non c’è comunque
dubbio che la lettura delle Prose abbia accompagnato
Ariosto nella revisione linguistica del poema che trova
attestazione nella stampa del 1532 (Bigi 1961, ed. 1967,
pp. 167-169), confortandolo soprattutto per le scelte
morfologiche. Nel trentasettesimo canto (15, 1-4) si legge
un esplicito omaggio a Bembo:
Là Bernardo Capel, là veggo Pietro
Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro,
levato fuor del volgare uso tetro,
qual esser dee, ci ha col suo esempio mostro.
Non si creda però che il gusto di Bembo abbia mai dettato
legge al poeta. Già lo notava Luigi Blasucci misurando
l’ampiezza del debito lessicale di Ariosto verso Dante
(vera e propria cartina di tornasole): «E così l’immagine
piuttosto astratta di un Ariosto felicemente approdato
alla stilizzazione petrarchesca, consule Bembo, esce
seriamente ridimensionata. Si può anzi rilevare in proposito
che nell’ultima edizione del Furioso [...] i prestiti
dalla Commedia tendono a infittirsi: né solamente per le
aggiunte dei nuovi episodi, ma anche per alcune correzioni
alla stampa precedente, dirette a introdurre nuove
espressioni dantesche. È questo, se vogliamo, un altro
aspetto della indipendenza ariostesca nei riguardi del
gusto bembiano» (Blasucci 1968, ed. 2014, p. 74).
Si espone un esemplare in legatura bolognese coeva
(in un cerchio al centro del piatto posteriore, tra hederae,
è iscritto il nome del primo possessore: «Alexandro
Sassone»).
Adolfo Tura
192 193
75. Ludovico Ariosto
Orlando furioso
Ferrara, Francesco Rosso da Valenza, 1 ottobre 1532. 4°
Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, S, 16.1.21
Bibliografia: Ariosto 1928; Ariosto 1960; Fahy 1989; Harris
1997; Casadei 1998.
Dei 24 esemplari superstiti del poema nell’edizione del
1532 quello qui esposto è il più corretto, corrispondente
all’“esemplare ideale” dell’opera, che porta l’ultima volontà
dell’autore. Il volume è entrato di recente a far parte del
patrimonio librario della Biblioteca Ariostea, come dono di
Cesare Segre, che ne era proprietario.
La prima edizione dell’opera in 40 canti, apparsa nel 1516
(indicata con A), ha il pregio di essere basata su un manoscritto
autografo, mentre quella del 1521, stampata pure
a Ferrara da Giovanni Battista della Pigna, il 13 febbraio
1521 (B) e la terza e ultima (C), si fondano sulle precedenti
edizioni annotate o interfogliate per le aggiunte o
le correzioni che le interessano. È importante che Ariosto
fosse finanziatore delle tre edizioni e interessato ovviamente
al loro smercio, attento quindi a richiedere i privilegi
di stampa a tutela della sua opera. La scelta di Ferrara
invece che di Venezia, centro dell’industria tipografica
italiana, per la stampa di tutte tre le edizioni, può essere
stata influenzata dal fatto che gli Este avevano interessi
economici pur se indiretti nella editoria locale, e nel caso
del Furioso ne seguivano la pubblicazione «se non forse
con partecipazione da lettori appassionati, almeno con
compiacimento da padroni» (Fahy 1989, pp. 95-96). Ma è
risaputa la passione per i racconti di cavalleria di Isabella
d’Este, che aveva potuto godere di una lettura precoce del
poema; e pure del marchese di Mantova che aveva manifestato
il desiderio di poter leggere quel libro ancora in una
fase di prima stesura. Comunque sia, Ariosto trasse vantaggio
dalle possibilità di controllo offerte dalla stampa
dell’opera sotto i suoi occhi, potendo intervenire, forse col
tacito consenso dei signori, nelle varie fasi della composizione
e apportarvi correzioni e modifiche. Già la stampa
della princeps era stata seguita con particolare attenzione
da Ariosto (vedi scheda Tav. 57); e anche quella della successiva
edizione, che vede cambiamenti linguistici e stilistici,
e qualche soppressione e aggiunta, pur restando di
40 canti. Ma la fretta con cui fu stampata la versione del
’21 non lasciò gran spazio alla revisione dell’autore, per cui
risulta, fra le edizioni ferraresi del Furioso, la più scorretta
e insoddisfacente, come mostra il cospicuo errata corrige
aggiunto. A partire poi dal 1524 erano cominciate ad
apparire edizioni non autorizzate, nonostante i privilegi
ottenuti a protezione fin dalla stampa del 1516 dal papa, da
Venezia e da altri centri, oltre che dal re di Francia. Da qui
la decisione di rimettere mano al poema, dedicando particolare
cura alla sua stampa; per cui oltre a correggere i
difetti della precedente edizione, l’autore interviene capillarmente
sulla lingua e lo stile, tenendo anche conto, liberamente
e secondo il suo gusto di poeta, dei suggerimenti
del Bembo, di cui erano nel frattempo uscite le Prose della
volgar lingua (1525): un testo dunque nuovo e accresciuto
di altri episodi, quelli di Olimpia, della Rocca di Tristano, di
Marganorre e di Ruggiero e Leone, che portano il poema a
46 canti. Ariosto interviene non solo sulle bozze ma anche
sul testo a tiratura inoltrata o per completare il lavoro
correttorio, o per nuovi ripensamenti, arrivando fino alla
sostituzione di un intero foglio di stampa. Sono interventi
microscopici, come su dui corretto in duo e due, sul dittongo
(truova / trova); o sulla parola con apocope o piena
se seguita da parola iniziante per vocale (lasciar il campo
> lasciare il canpo); o macroscopici con la sostituzione di
uno o più versi, come nel luogo famoso della «verginella
è simile alla rosa», il cui verso seguente suona nelle prime
due edizione «che ’n un chiuso orto in la nativa spina», e
nella terza nel più scorrevole e letterario «ch’in bel giardin
su la nativa spina» (vedi i saggi di Casadei e Trovato
in questo catalogo). I diversi interventi hanno comportato
l’esistenza di esemplari con varianti. Alcune copie con la
lezione definitiva l’autore ebbe, però, l’avvertenza di farle
stampare per ultime: copie speciali quindi, in carta più
grande e con filigrana diversa, destinate a se stesso e ai suoi
amici. Su una di queste copie si fonda il testo messo criticamente
a punto da Santorre Debenedetti, che ebbe il merito
di aver saputo cogliere la natura delle varianti e individuare
l’esemplare “ideale”, quello portatore dell’ultima volontà
del poeta (Debenedetti in Ariosto 1928). Tale edizione è
stata successivamente riveduta e integrata con l’apparato
delle lezioni delle precedenti edizioni e una Nota al testo
da Cesare Segre (in Ariosto 1960). Il processo di stampa è
stato poi ulteriormente analizzato attraverso i metodi della
filologia dei testi a stampa (textual bibliography) da Conor
Fahy, che ha preso in esame altri esemplari superstiti di C
oltre quelli utilizzati da Debenedetti, illuminando più precisamente
il percorso di revisione (Fahy 1989).
Tina Matarrese
194 195
76. Sebastiano Luciani detto del Piombo
Ritratto di Andrea Doria, 1526
Olio su tavola, cm 153 x 107
Genova, Villa del Principe – Palazzo di Andrea Doria
Fc. 671
Provenienza: Roma, Galleria Doria Pamphilj, fino al 1996.
Bibliografia: Vasari 1568, ed. 1984, V, p. 95; Bernardini
1908, pp. 50-51; D’Achiardi 1908, pp. 232-234; D’Achiardi
1909; Crous 1940; Dussler 1942, pp. 67-68, 140, n. 48;
Pallucchini 1944, p. 168; Lucco 1980, p. 116, n. 69; Hirst
1981, pp. 65, 89, 91, 105-106; Boccardo 1989; Leoncini
1993; Lucco 1996, pp. 334-335; Brock 2003; Cieri Via
2003; Costamagna 2003; Irlenbusch 2004, pp. 61-62,
900; Gorse 2005; Agosti B. 2008, p. 46; Barbieri 2008, pp.
55-56; R. Contini in Roma e Berlino 2008, p. 208, cat. 46;
De Marchi 2010; Colonna 2012, pp. 189-198; De Marchi
2016, pp. 341-342.
«Questo è quel Doria che fa dai pirati / sicuro il vostro
mar per tutti i lati» (XV, 30, 6): è l’inizio del lungo elogio
dell’ammiraglio Andrea Doria (Oneglia 1466 – Genova
1560) che Ariosto inserisce al canto XV del Furioso
nell’edizione del 1532. Il contesto è quello della profezia
di Andronica che per volere di Logistilla, la buona
maga rappresentante la ragione, accompagna Astolfo in
viaggio per mare, rivelandogli la sfericità della terra, le
future scoperte transoceaniche e l’avvento dell’impero
di Carlo V, che il poeta presenta come una nuova età
dell’oro. Tra i «capitani invitti», provvidenziali alleati di
Carlo, a Doria è riconosciuto un ruolo preminente, non
solo nella lotta ai pirati, ma per aver aperto la strada alla
incoronazione imperiale di Bologna (1530), ottenendo in
cambio in luogo di favori personali la garanzia di libertà
per la Repubblica di Genova. Rispetto alle precedenti
edizioni, l’aggiunta di queste ottave (XV, 18-36) rientra
nella «dimensione imperiale» del terzo Furioso più
volte sottolineata dalla critica (Yates 1978; Caretti 1977;
Casadei 1988; Santoro 1989), corrispondente alla svolta
filospagnola della politica estense e più in generale al
nuovo assetto politico delle corti italiane, e che va di pari
passo col prevalere, nella revisione letteraria del testo,
del modello epico e classicistico su quello romanzesco
di tradizione medioevale e quattrocentesca (Zatti 1990).
La cronologia del dipinto di Sebastiano è accertata da
una lettera del 29 maggio 1526 di Francesco Gonzaga
da Roma al padre Federico, duca di Mantova, nella
quale si fa riferimento al recente incontro tra Doria e
Clemente VII e all’esecuzione del ritratto che il papa
volle «appresso sé, che è signo de lo amore che li porta»
(Luzio 1908, p. 370). L’episodio si colloca, quindi, a
monte dell’alleanza con Carlo V, quando il Doria era al
comando della flotta pontificia, avanti il drammatico
Sacco del 1527.
Il dipinto, ricordato anche da Vasari come «cosa mirabile»
(Vasari 1568, ed. 1984, V, p. 95), si avvicina per
l’imponente monumentalità, la capacità di sintesi psicologica
e di resa emblematica ad altri esempi della
ritrattistica romana di Sebastiano in quegli stessi anni.
La sagoma nera e severa di Andrea vi si staglia proiettando
sul fondo grigio un’ombra cupa, come quella che si
addensa sul volto evidenziandone l’aspetto “saturnino”,
mentre la mano con gesto imperioso indica il parapetto
sul primo piano. I sei elementi che vi sono raffigurati e
che sono stati puntualmente identificati (àncora, acrostolion,
rostro di prora, timone, protome di poppa, aphlaston)
riprendono liberamente l’antico rilievo un tempo
presso la basilica di San Lorenzo fuori le mura, ampiamente
ricopiato e citato dagli artisti del Rinascimento
e illustrato anche nel Poliphilo (Crous 1940). Il motivo
assolve una funzione geroglifico-antiquariale che, al di
là delle diverse interpretazioni, rimanda alla dimensione
marittima e di comando del grande ammiraglio
genovese.
Barbara Maria Savy
196 197
77. Polidoro Caldara da Caravaggio
Rotella da parata, raffigurante l’Assedio di Cartagena (esterno) e un episodio mitologico
allusivo a Diana e Atteone (interno), c. 1525-27
Olio su legno, diametro cm 60
Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica. Su concessione della Fondazione Torino Musei
Inv. 387/D
Provenienza: collezione di Emanuele Tapparelli D’Azeglio,
ante 1890.
Bibliografia: Mallé 1963, pp. 160-161; Boccia 1980, pp.
403-404; S. Béguin in Parigi 1983-84, pp. 127-129; Pyhrr
e Fahy 1992, pp. 96, 130-140; Leone de Castris 2001, pp.
197-206.
La rotella è un notevole esemplare di scudo da parata
dipinto da Polidoro da Caravaggio, verosimilmente
in collaborazione con Maturino da Firenze, secondo
temi e modelli della bottega di Giulio Romano già in
uso intorno alla metà degli anni venti del Cinquecento
(Leone de Castris 2001, p. 204). La faccia esterna mostra
il celebre episodio dell’Assedio di Cartagena, secondo un
disegno molto simile a quello – oggi conservato al Louvre
– che Giulio realizzò per il ciclo di arazzi dei Trionfi
di Scipione tessuto a Bruxelles tra il 1532 e il 1535, destinato
a Francesco I di Francia (Boccia 1980, pp. 403-404;
Béguin in Parigi 1983-84, pp. 127-129). La presenza dello
stemma dei Della Rovere sullo scudo del personaggio
che raggiunge la sommità delle mura grazie a una scala,
ha fatto ipotizzare che l’Assedio sia stato reimpiegato
per rappresentare la conquista di Pesaro (1512) a opera
del duca d’Urbino Francesco Maria I della Rovere, o,
sempre per mano dello stesso, l’assedio di Pavia (1525)
(Mallé 1963, p. 161; Boccia 1980, p. 403; Pyhrr e Fahy
1991, p. 130). La faccia interna presenta un episodio allusivo
al mito di Diana e Atteone, dipinto a monocromo,
diviso nelle due metà superiore e inferiore, raffiguranti
rispettivamente Diana con le sue compagne e un cacciatore
condotto da Cupido; al centro è dipinto uno spazio
rettangolare rosso, incorniciato da un motivo a rami
attorti, destinato a posizionare l’avambraccio che brandisce
lo scudo.
La compresenza di temi bellici e amorosi appartiene al
genere della produzione di armi da parata e risponde
allo spirito cavalleresco che informa l’Orlando furioso fin
dai primi versi. L’usanza dei cavalieri di ornare i propri
scudi con immagini e simboli amorosi, si ritrova nell’episodio
della giostra indetta da Norandino, re di Damasco
e della Siria, per la ricorrenza della liberazione da
un Orco della diletta Lucina. Ariosto così presenta l’arrivo
dei cavalieri nella lizza: «Giunsero in piazza, e trassonsi
in disparte, / né pel campo curâr far di sé mostra, /
per veder meglio il bel popul di Marte, / ch’ad uno, o a
dua, o a tre, veniano in giostra. / Chi con colori accompagnati
ad arte letizia / o doglia alla sua donna mostra; /
chi nel cimier, chi nel dipinto scudo / disegna Amor, se
l’ha benigno o crudo» (XVII, 72). Sebbene lo scudo torinese
non sia mai stato protagonista di vicende analoghe
a quelle ariostesche, esso testimonia la sopravvivenza
dell’immaginario cortese nel Rinascimento, che all’Amore
congiungeva l’impeto guerriero ben rappresentato
nella scena dell’Assedio di Cartagena, concitata congerie
di strumenti d’assalto e uomini incuranti del pericolo nel
furore della battaglia.
Paolo Parmiggiani
198 199
78. Manifattura fiamminga su disegno di Bernard van Orley
Battaglia di Pavia con la cattura del re di Francia, 1528-31
Arazzo in lana, seta, argento e oro, cm 435 x 789
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Inv. IGMN 144489
Provenienza: donato all’imperatore Carlo V dagli Stati
Generali di Bruxelles nel marzo 1531; presente al castello
di Binche, agosto 1549; presente nel palazzo reale di Bruxelles,
febbraio 1556; portato in Spagna da Maria d’Ungheria
nel 1556 e lasciato, alla sua morte nel 1558, a Don
Carlos; lasciato da questi a Francesco Ferdinando d’Alvalos,
marchese di Pescara (1568-71), ed elencato nel suo
inventario del 1571; venduto alla famiglia Grassi all’inizio
del XVIII secolo; venduto a Daniele Delfin, nobile veneziano,
nel 1774; acquistato da Tommaso d’Avalos ed esposto
a Palazzo D’Avalos a Napoli prima del 1815; lascito di
Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, alla Pinacoteca di
Napoli nel 1862; trasferito nel 1882 al Museo Borbonico.
Al centro della composizione si scorgono due cavalieri
imperiali che si affiancano a un personaggio in sontuosi
abiti civili, da alcuni studiosi identificato con Carlo III
Borbone. Nell’angolo destro due lanzichenecchi sembrano
commentare animatamente degli eventi, mentre
alle loro spalle irrompe la cavalleria imperiale guidata
durante la battaglia da Carlo di Borbone. In secondo
piano, sulla sinistra, un cavaliere francese viene brutalmente
ucciso da due nemici a cavallo, mentre più indietro
la fanteria svizzera in assetto di guerra è pronta a
intervenire. Nella sua avanzata la cavalleria di Carlo V
supera un edificio fortificato e alcune case coloniche
visibili al centro della scena, mentre a destra marcia la
fanteria imperiale di Borgogna sventolando la bandiera.
Quella di Pavia è stata definita la prima battaglia moderna
per la gran varietà di armi letali che vi furono
impiegate, prive ormai delle connotazioni rituali degli
armamenti medievali. Mentre Ariosto si impegnava ad
esaltare le virtù cavalleresche di Alfonso d’Este, la
guerra andava trasformandosi nell’antitesi degli ideali
cortesi. Si chiudeva un’epoca: il mondo cavalleresco,
l’ambiente cortese e i nobili principi dell’aristocrazia
appartenevano ormai al passato. Inoltre nel 1535 sarebbe
morto senza lasciare eredi l’ultimo duca di Milano,
Francesco II Sforza, e il ducato sarebbe caduto nelle
mani dell’imperatore.
Zofia Jackson
Bibliografia: Müntz 1878-85, p. 37; Wauters 1878 (ed. 1973),
pp. 95-98; Guiffrey 1886, pp. 187-188; Morelli 1899; Beltrami
1896; Guiffrey 1911, pp. 146-148; Hunter 1915; Gagliardi 1916;
Hunter 1925, pp. 127-129; Göbel 1923, I, pp. 102, 415-416;
Steinberg 1935; Crick-Kuntziger 1943, pp. 71-93; Dhanens
1953; D’Hulst 1960, pp. 147-156; Brassat 1992, pp. 169-170;
Casali, Fraccaro e Prina 1993; Napoli 1994-95; Delmarcel
1999, pp. 98-99; Parigi 1999; Spinosa 1999; Forti Grazzini
2000; Spinosa e Guadalupi 2000; Buchanan 2002; New
York 2002, pp. 321-328; Knauer 2006, p. 253; New York e
Madrid 2007-08, pp. 321-328; Paredes 2014.
Questo arazzo appartiene a una serie che commemora
la vittoria dell’esercito imperiale di Carlo V su quello
francese di Francesco I nella battaglia di Pavia del 1525,
durante la Guerra d’Italia, evento che portò a un radicale
mutamento degli equilibri di potere in Europa.
I sette arazzi, disegnati da Bernard van Orley e tessuti
nella bottega di William Dermoyen a Bruxelles, furono
donati a Carlo V dagli Stati Generali dei Paesi Bassi nel
1531. Essi raffiguravano eventi contemporanei e molti
dei personaggi erano identificabili grazie ad iscrizioni.
In quello qui esposto assistiamo al momento cruciale
della battaglia: la cattura di Francesco I dopo che il
suo cavallo è stato colpito. In primo piano a sinistra il
sovrano viene fatto smontare dalla sua cavalcatura da un
gruppo di soldati. Presso il margine sinistro il generale
dell’esercito imperiale, Carlo di Lannoy, osserva la scena
scendendo di sella.
200 201
79. Piero Antonio Cataldo o Chataldo (lama), manifattura francese o italiana (guardia)
Spada di Francesco I, c. 1505-10
Acciaio forgiato, inciso e dorato, bronzo, oro cesellato e smaltato, cm 94 x 14 x 6
Parigi, Musée de l’Armée
Inv. 993/J 376
Provenienza: Madrid, Real Armería; trasferita in Francia
per ordine di Napoleone I nel 1808.
Bibliografia: Boccia e Coelho 1975, p. 361; Parigi 2015b,
pp. 90-92; Ecouen 2015-16, p. 68.
Date le sue finissime decorazioni in oro smaltato, va
escluso che questa spada potesse essere utilizzata in battaglia,
nonostante l’ottima qualità della lama che porta
incisa nella scanalatura la firma del suo artefice: CHA-
TALDO ME FECIT. La grafia arcaicizzante di questa
iscrizione ha suggerito l’ipotesi, errata, che la lama fosse
anteriore al resto dell’arma di una quarantina d’anni.
L’elsa conserva la forma a croce delle spade medievali.
L’anima in bronzo, forgiata assai grossolanamente – come
rivela un’importante lacuna nel rivestimento su un intero
lato del pomolo – è ricoperta da una spessa foglia d’oro
lavorata a sbalzo, cesellata, decorata con elementi a filigrana
e impreziosita da un motivo a smalto rosso, blu
(meno ben conservato) e bianco. Una citazione dal Magnificat,
+FECIT+POTENTIAM+ / +IN+BRACHIO+SVO+
(ha spiegato la potenza del suo braccio), sottolineata
con smalto bianco opaco, occupa l’intera lunghezza dei
due bracci della guardia. Lionello Giorgio Boccia sottolinea
l’analogia tra la citazione latina incisa sulla spada di
Pavia e il motto della città di Cremona, Fortitudo mea est
in Bracchio, suggerendo che l’arma fu forse un dono della
città lombarda al giovane principe di Valois. Il codolo
smaltato in bianco e rosso è ornato, su entrambe le facce,
con un delicatissimo motivo a candelabro in cui figura la
salamandra degli Angoulême distesa tra le fiamme.
L’assenza della corona reale sopra questo rettile sembra
indicare che la spada fu fabbricata prima dell’ascesa
al trono di Francesco I e che questi la conservò come
oggetto personale fino alla disfatta di Pavia del 1525. In
effetti, dopo la cattura del re francese, il generale Juan de
Aldana, comandante delle truppe italiane al servizio di
Carlo V, prese la spada dalla tenda del sovrano fatto prigioniero.
Nel 1808 Murat la prelevò dalla Real Armería
di Madrid per ordine di Napoleone I, il quale l’avrebbe
conservata nel suo studio alle Tuileries fino al 1815.
Nell’ultima versione dell’Orlando furioso, pubblicata nel
1532, Ariosto rievoca la sconfitta del re-cavaliere a Pavia.
Prestigioso trofeo perduto e riconquistato due volte,
quest’arma meravigliosa, di sapore ancora medievale,
ricorda le mitiche spade – Durlindana, Balisarda, la flamberga
– che i grandi eroi della leggenda si disputarono.
Olivier Renaudeau
202 203
80. Michelangelo Buonarroti (copia da)
Leda e il cigno, dopo il 1530
Olio su tela, cm 105,4 x 141
Londra, The National Gallery. Dono del duca di Northumberland, 1838
Inv. 1868
Provenienza: Althorp, John Spencer, 1736; Londra, sir
Joshua Reynolds (vendita 1795, n. 87); Lord Berwick; donato
alla National Gallery dal duca di Northumberland, 1838.
Bibliografia: Roy 1923, pp. 65-82; De Tolnay 1970, pp. 192-193;
Barocchi 1950, pp. 78-80, 246-247; Gould 1962, pp. 97-99;
Bober e Rubinstein 1986, p. 54; Washington 1987, pp. 318-
327; Falciani in Vinci 2001, pp. 164-165, cat. IV.5; Haarlem
e Londra 2005-06, p. 189; Natali 2006, pp. 230-233; Nanni e
Monaco 2007, p. 100; Farinella 2014a, pp. 683-715.
Il ricercato intreccio tra il nudo monumentale della fanciulla
e il dio Giove in sembianza di cigno ripete, in quanto
copia antica, la composizione perduta, ma che sappiamo
ideata da Michelangelo per il duca di Ferrara tra il 1529 ed
il 1530. È noto che il desiderio di possedere un’opera dell’artista
da parte di Alfonso risaliva a molti anni prima. Le
prime richieste di un dipinto espressamente realizzato per
la corte furono avviate a quanto sembra nel luglio del 1512,
quando il duca, recatosi a Roma per riconciliarsi col papa,
si era intrattenuto sui ponteggi della Sistina, e qui, stando al
racconto dell’agente locale di Isabella d’Este, «non si poteva
satiar di guardar quelle figure, et assai careze li fece» (Menegatti
2007, pp. 12-13). La promessa rimasta disattesa sembrò
concretizzarsi soltanto nell’estate del 1529, in occasione di
un soggiorno del Buonarroti a Ferrara, per consultarsi col
duca in materia di costruzioni militari. Sia Condivi (1553, ed.
1998, pp. 39-40, 42-43) che Vasari (1568, ed. 1987, VI, p. 56)
raccontano dettagliatamente la vicenda della commissione
allora della Leda, raffigurante anche Castore e Polluce mentre
escono dall’uovo, cui l’artista lavorò l’anno dopo a Firenze
«a tempera» e che Alfonso mandò a ritirare, in una data che
i carteggi ducali fissano all’ottobre del 1530. Qui cadono
l’imperdonabile gaffe compiuta dal messo ducale, che osò
definire l’opera «poca cosa», e la reazione indispettita di
Michelangelo che rifiutò di consegnare il dipinto e lo regalò
ad un suo discepolo, Antonio Mini, il quale lo vendette di lì a
poco al re di Francia Francesco I. Il destino finale dell’opera,
a quanto pare, fu la messa al rogo per motivi moralistici (Cox
Rearick 1995, pp. 237-241, 277, e in Firenze 2002, pp. 174-175).
Anche se non giunse mai a Ferrara la Leda “mancata” appare
comunque intimamente legata a quella corte e più in particolare
alle passioni di Alfonso celebrate nel Furioso. Il
soggetto è anzitutto ispirato all’ecfrasi dell’arazzo di
Aracne, secondo le Metamorfosi di Ovidio (VI, 109) e le
loro versioni volgarizzate, e poteva assumere per gli Este
un duplice valore di celebrazione dinastica alludendo,
attraverso la figura di Elena (una delle figlie di Leda), alla
discendenza troiana della stirpe e, attraverso Castore e Polluce,
agli stessi Alfonso e Ippolito, paragonati ad esempio ai
«figli del Tindareo cigno» proprio nel canto III del poema
(Rosenberg 2000, p. 94). Alla data del dipinto tuttavia,
morto ormai Ippolito da quasi un decennio, il riferimento
ai Dioscuri potrebbe avere assunto anche un altro significato
alludendo alla nascita tra il 1527 ed il 1530 di due figli
maschi che il duca Alfonso ebbe da Laura Dianti, la bella e
giovane amante del duca che Ariosto non manca di celebrare
nel XLVI canto (Farinella 2014a, pp. 673-713). L’uovo
di Elena, assente nel nostro dipinto e nella descrizione
delle fonti, compare invece nell’incisione cinquecentesca
di Cornelis Bos, da cui derivano probabilmente quelle di
Nicolas Béatrizet e di Etienne Delaune e che sembra essere
tratta dal dipinto originale (Wilde 1957, pp. 276-279).
Alla Leda sono legati anche alcuni disegni autografi, tra i
quali uno studio per la testa, oggi a Casa Buonarroti a Firenze
(inv. 7F; si veda P. Ragionieri in Torino e Bonn 2007), nonché
numerose repliche e varianti che attestano la larga fortuna di
questa invenzione. Tra queste, la nostra tela, già attribuita a
Rosso Fiorentino, è una delle più antiche e in grado di rappresentare
in mostra l’idea di un confronto da parte di Michelangelo
con gli Andrii di Tiziano (Tav. 81) e con quelle stesse
tematiche erotiche e ovidiane che sottendono sia al camerino
di Alfonso sia al poema ariostesco. L’argomento è stato
più volte ripreso dagli studi che hanno rilevato l’interpretazione
tutta fiorentina del tema nel disegno dell’anatomia che
rimanda a prototipi classici (Michaelis 1885) e al precedente
della stessa Notte michelangiolesca nella cappella Medicea
(Wind 1985, pp. 202-203). È anche vero che nonostante la
ricercatezza del movimento sinuoso della Leda l’amplesso
è restituito in termini decisamente sensuali, tanto che, per
dirla con Aretino, «non si può non invidiare il cigno che ne
gode con affetto tanto simile al vero che pare, mentre stende
il collo per basciarla, che le voglia essalare in bocca lo spirito
de la sua divinità» (Aretino 1542, ed. 2002, II, p. 20).
Barbara Maria Savy
204 205
81. Tiziano Vecellio
Il baccanale degli Andrii, 1522-24
Olio su tela, cm 175 x 193
Firmato «Ticianus. F.»
Madrid, Museo Nacional del Prado
Inv. P00418
Provenienza: commissionato da Alfonso I d’Este per il
Camerino delle pitture, nella Via Coperta che collega
il Palazzo Ducale al Castello Estense; requisito dal cardinale
Pietro Aldobrandini nel 1598; Roma, Ludovico
Ludovisi, 1623; Roma, Olimpia Aldobrandini, 1626;
principe Niccolò Ludovisi, 1633; donato dal Ludovisi a
Filippo IV di Spagna nel 1637 in segno di riconoscenza
per la concessione del principato di Piombino; conservato
nella collezione reale spagnola fino al suo trasferimento
al Museo del Prado nel 1821.
Bibliografia: Crowe e Cavalcaselle 1877-78, I, pp. 170-195,
225-232; Gould 1959, pp. 102-107; Wethey 1975, pp. 37-41,
151-153; Campbell 2003; P. Humfrey in Washington e
Vienna 2006, pp. 176-177, cat. 33 (con bibliografia precedente);
Farinella 2014a, pp. 563-573.
Il tema del baccanale degli Andrii, trattato in una delle
«fabule o vero hystorie» che compongono le Immagini
di Filostrato il Vecchio (III secolo d.C.), venne scelto
da Alfonso d’Este e Mario Equicola per la decorazione
del Camerino delle pitture. La scena (Immagini I, 25) si
svolge sull’isola di Andros, luogo prediletto da Bacco,
dove il vino scorre in forma di ruscello. Secondo Filostrato,
il vino «rende gli uomini ricchi, dominanti nelle
assemblee, generosi con gli amici, prestanti e alti quattro
cubiti». Lo stesso concetto è espresso nella partitura,
raffigurata al centro del dipinto in basso, del canone
«Qui boyt et ne reboyt / ne seet qui boyre soit» (chi beve
e non beve nuovamente non sa cosa sia il bere) attribuito
ad Adriaen Willaert, compositore fiammingo al
servizio di Alfonso. Tiziano, interessato al senso della
narrazione di Filostrato più che a una sua trasposizione
letterale, si concede varie licenze; per esempio,
non raffigura Bacco – presumibilmente imbarcato sulla
nave che sta prendendo il largo – e inserisce nella composizione
diversi personaggi consoni al tema, come il
putto che fa pipì o la bellissima ninfa addormentata.
Quest’ultima non è Arianna – che non fu abbandonata
ad Andros, bensì a Nasso – ma riflette una sua descrizione
contenuta in un altro passo delle Immagini (I, 15):
«Osserva anche Arianna, guarda come dorme: nuda
dalla cintola in su, la testa reclinata che rivela il collo
morbido, l’ascella destra completamente in vista mentre
la mano sinistra è nascosta sotto la tunica». Tiziano
raffigura anche alcuni personaggi in abiti contemporanei,
che potrebbero essere membri delle “Compagnie
della calza”, confraternite assai popolari tra i giovani
aristocratici veneziani, di cui fece parte anche Alfonso
d’Este. C’è senz’altro qualcosa di contemporaneo in
questa composizione – dalla musica all’abbigliamento –
che manca negli altri dipinti del Camerino.
Si è tentati di interpretare il Baccanale di Tiziano “a
confronto” con il Festino degli dei di Giovanni Bellini
(Fig. 13): entrambi celebrano il vino e tra le due opere si
notano dei parallelismi compositivi deliberati, come la
profusione di oggetti in ceramica e in cristallo, o la simmetria
tra le figure femminili nude sulla destra e altre
figure che portano recipienti sulla sinistra. Ma Tiziano
trionfa nel paragone con Bellini per il dinamismo della
sua composizione: i movimenti delle figure e la giustapposizione
di aree cromatiche contrastanti trasmettono
efficacemente l’ebbrezza e la sensualità sottese al soggetto.
Nel quadro di Bellini l’elemento più dinamico è di
fatto il paesaggio, che Tiziano rimaneggiò per adattarlo
a quello del Baccanale.
Per alcune figure Tiziano si è ispirato alla scultura classica
o all’arte contemporanea (Michelangelo), mentre
altre tradiscono lo studio dal vero: in un lettera dell’aprile
1522 l’agente di Alfonso d’Este segnalava che l’artista
non desiderava recarsi a Ferrara perché a Venezia
disponeva di prostitute e di uomini che gli servivano da
modelli per i nudi.
Secondo Gould il Baccanale è considerato l’ultimo contributo
di Tiziano alla decorazione del Camerino, ma noi
crediamo – con Crowe e Cavalcaselle, e più di recente
Humfrey – che esso preceda il Bacco e Arianna (Fig.
18). La luminosità della composizione e la monumentalità
delle figure nella tela londinese non si trovano nei
dipinti del Prado, eseguiti da Tiziano in precedenza per
il Camerino, ovvero l’Omaggio a Venere e il Baccanale.
Miguel Falomir
206 207
82. Miguel de Cervantes
El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha
Madrid, Juan de la Cuesta, 1605. 8°
Londra, The British Library, G. 10170
Nel VI capitolo barbiere e curato visitano la biblioteca
di don Chisciotte, passando in rassegna i molti volumi
di letteratura cavalleresca e portando un giudizio su
questo e quello. Venendogli in mente il nome di Ariosto,
il curato afferma: «Al cual, si aquí le hallo, y que
habla en otra lengua que la suya, no le guardaré respeto
alguno, pero, si habla en su idioma, le pondré sobre mi
cabeza» («Quest’ultimo poi, se lo trovo qui a parlare
altra lingua che non sia la propria, non riceverà da me
mostra di rispetto alcuno, però, se parla nel proprio
idioma, me lo porrò sulla testa», Cervantes 2013, p. 101).
Francisco Rico suggerisce che quest’affermazione
tenda a colpire la traduzione di Jerónimo Jiménez de
Urrea del 1549 (Ibid., p. 2035). Ma se un’allusione a
questi è fatta più avanti nel testo («avremmo perdonato
volentieri il signor capitano se non l’avesse portato in
Spagna e fatto castigliano, privandolo di gran parte del
suo valore naturale», Ibid., p. 101), la locuzione «en otra
lengua que la suya» di per sé non designa il castigliano:
in qualsiasi traduzione il Furioso perderebbe il proprio
maggior pregio, «cosa questa che, del resto, toccherà in
sorte a chiunque decida di tradurre ad altra lingua un
libro in versi» (Ibid., p. 101). Non c’è dubbio, insomma,
che Cervantes faccia consistere la bellezza del poema
non nelle avventure dei personaggi o nell’intricarsi
della narrazione, ma nella qualità della scrittura di
Ariosto. Si espone la prima edizione della prima parte
del Quijote.
Adolfo Tura
208 209
LE ARTI VISIVE
NEGLI SCRITTI DI ARIOSTO:
OPERE, IDEE, PROTAGONISTI
–
MARCO COLLARETA
Nella canzone che introduce le Rime, Ludovico Ariosto rievoca il suo primo incontro con
Alessandra Benucci a Firenze il 24 giugno 1513. 1 La vista, che tradizionalmente gioca un
ruolo importante anche in più segrete situazioni damore, costituisce qui lunico strumento
con cui il poeta mette a fuoco, nel caos della città in festa, quella che diverrà la donna della
sua vita. Il bel volto, i capelli biondi e spessi raccolti in una rete sottile, lincarnato eburneo messo
in evidenza dalla veste di seta nera, ricamata con un motivo di viti intrecciate non meno simbolico
della corona d’alloro sulla fronte serena: tutto ci parla di un movimento lento, concentratissimo
degli occhi dell’amante che inizia ad impossessarsi dell’oggetto del suo amore. Se si aggiunge
l’attenzione con cui viene registrata l’ombra leggera tra il collo e le guance, e l’analogo effetto
nel ricamo nero su nero dell’abito elegantissimo, non sfuggirà la profonda sintonia tra questo
squisito ritratto letterario ed i più tipici ritratti pittorici della maniera moderna (Fig. 9). Come
tanti tra gli artisti toccati dal genio di Leonardo, anche Ariosto mantiene un perfetto equilibrio
tra la caratterizzazione individuale dell’effigiata ed il suo monumentale isolamento. Il lettore
dimentica presto la chiassosa folla femminile ed i rapidi scorci urbani evocati dal poeta nei versi
precedenti. Limmagine di Alessandra gli simprime nella mente con lassertività di un ritratto a
figura intera su fondo neutro. Lhic et nunc dellincontro sè definitivamente trasformato in qualcosa
di eterno, qualcosa di assoluto. Ancora nell’Orlando furioso Alessandra apparirà nobile e
bella nella sua veste scura, come l’archetipo di un ideale muliebre evocato una volta per tutte
davanti ai nostri occhi. 2
Il tono sentimentale, e riflessivo insieme, che marca la lirica come genere letterario ha molto a
che fare con quanto appena detto. Passando dalle Rime alle Commedie, merita dunque ricordare
subito che queste ultime obbediscono a convenzioni e regole totalmente altre rispetto a quelle
prime. Non la persona singola e la relazione esclusiva che ha con essa il poeta, ma l’azione oggettiva
di uno o più personaggi che si succedono sul palco per un dato lasso di tempo guida la penna
dello scrittore. Lopera di costui è supportata di fatto da quella degli attori, dei costumisti, degli
scenografi che intrecciano i loro diversi linguaggi visivi a quello puramente verbale del testo.
Operoso in una città che con il De spectaculis di Pellegrino Prisciani aveva dato un contributo
importante alla concezione del teatro come fatto strettamente legato alla visione, Ariosto ha perfetta
coscienza di ciò ed arriva fin a chiamare i fruitori delle sue commedie non lettori o uditori,
Fig. 8
Michelangelo Buonarroti
Giona, c. 1511-12
Città del Vaticano, Musei
Vaticani, Cappella Sistina
212
ma «guardatori». 3 Proprio per questo i suoi testi contengono solo sporadici richiami ai messaggi
che gli occhi degli spettatori dovevano cogliere autonomamente nel Gesamtkunstwerk teatrale.
L’espressione del volto, il gesto del corpo, il costume diverso per sesso e per classe sociale, i segni
di riconoscimento, gli spazi pubblici o privati sono espressi a parole solo quando servono a chiarire
lo svolgimento dei fatti.
Si pensi, in particolare, ai problemi generati dall’impiego della scena fissa rinascimentale. Le
parti dell’azione che si svolgono davanti ai nostri occhi accadono sempre nello stesso luogo e
vanno dunque integrate con quelle raccontate dagli attori come accadute, o prossime ad accadere,
altrove. Quando la vicenda è ambientata in una città pressoché mitica come Metellino o
Sibari nella Cassaria in prosa e in versi, i riferimenti possono essere vaghi, ma quando si decide
di ambientarla nell’amata e conosciutissima Ferrara, tutto deve prevedere il vaglio della verifica.
Nelle due versioni dei Suppositi come nella Lena i dialoghi evocano con precisione cartografica le
piazze, le vie, le case, le chiese, i dintorni stessi della città degli Este, che lo sguardo dello spettatore
non ha davanti a sé. 4 Quello che la scenografia del tempo gli propone è infatti un luogo generico,
genericamente connotato come cittadino dallaccavallarsi di elementi edilizi diversi, che
corrispondono alle serie nominali ariostesche sul tipo «porte, finestre, vie, templi, teatri» della
canzone ricordata più sopra (Fig. 10). 5 Non a caso, presentando nel 1529 la seconda redazione del
suo Negromante in versi, il nostro sorvegliatissimo drammaturgo si sentì in dovere di giustificare
Fig. 9
Giovanni Antonio Boltraffio
Studio di figura femminile,
c. 1498-1502
Carboncino e pastelli
colorati su carta
preparata, mm 544 x 404
Milano, Veneranda
Biblioteca Ambrosiana
con un lambiccato discorso l’utilizzo, per l’ambientazione cremonese di quella commedia, della
stessa scena utilizzata l’anno prima per l’ambientazione ferrarese della Lena. 6 Il suo amico Niccolò
Machiavelli se lera sbrigata in maniera più rapida, quando nel prologo della Mandragola
aveva indicato agli spettatori il solito fondale, aggiungendo sornionamente: «questa è Firenze
vostra, / unaltra volta sarà Roma o Pisa, / cosa da smascellarsi dalle risa». 7
Le istanze realistiche che Ariosto dimostra anche nelle opere d’invenzione sollecitano una rapida
verifica nelle Lettere. Significativo allora che, a parte una descrizione di abiti degna più dellestensore
di un identikit poliziesco che di un costumista teatrale, queste risultino talmente estranee
al mondo dei manufatti che l’unica considerazione estetica in esse presente risale alla giovanile
attività di cortigiano e concerne un paio di «bellissimi» cani da caccia. 8 Evidentemente Ariosto
non è Bembo, nel cui epistolario pulsa intensissimo un desiderio di possesso anche artistico che
al nostro fu sempre estraneo. E non è Bembo perché non è un seguace di Cicerone, ma di Orazio, e
da questultimo ha appreso e fatto suo lideale dellaurea mediocritas. 9 Parva sed apta mihi, la casa
che messer Ludovico sè procurato col suo lavoro costituisce il manifesto di quest’etica di radice
aristotelica, venata più di genuino epicureismo che di stoicismo di scuola. Difficile immaginare
in quelledificio qualcosa di più di ciò che è necessario o almeno utile ad una vita tutta dedita agli
affetti ed al lavoro intellettuale. 10 Come l’anonimo che in un ritratto lucchese del tempo ostenta
una tabella col motto Ne quid nimis (Fig. 11), così il nostro poeta deve essere rimasto indifferente
alle lusinghe di un costoso collezionismo, che contagiavano tanti suoi contemporanei. Nell’Orlando
furioso la passione smodata per le «gemme» e le «opre di pittori» è espressamente citata
tra le cause della perdita di senno. 11 Si può intendere larte anche senza desiderarne il possesso,
o semplicemente considerando quest’ultimo come una prerogativa di altre persone o altre categorie
sociali.
Il punto è nodale per noi e trova piena conferma nelle limpide terzine delle Satire. Destinate
alla pubblicazione o comunque a una diffusione ben maggiore che non le lettere in prosa, le più
originali tra le opere minori di Ariosto ci presentano il loro autore in netto contrasto con la corte
di cui pure fa parte. In effetti, l’aurea mediocritas può andare bene per chi ha deliberatamente
scelto unesistenza incentrata sul privato. Per chi la fortuna ha collocato ai vertici della società
dantico regime, il privato semplicemente non esiste e la virtù più importante è, sin dalla sua teorizzazione
aristotelica, la magnificenza, virtù politica per eccellenza e vero “motore immobile”
del mecenatismo rinascimentale. I suoi prodotti sono guardati da Ariosto con la stessa affettuosa
ironia con cui guarda agli uomini di potere. A Ferrara, ci confessa, passeggia felice «fra il Domo /
e le due statue dei Marchesi miei». 12 Riandando poi alla strepitosa carriera promessagli a Roma
da papa Leone X, ironizza sulla possibilità che «tante mitre e diademe / mi doni, quante Iona
di Cappella / alla messa papal non vede insieme». 13 I perduti monumenti bronzei di Niccolò III
e Borso d’Este acquistano ai nostri occhi l’aria di vecchie fotografie di famiglia e il seminudo,
sdegnoso profeta collocato da Michelangelo nel punto più visibile della Sistina (Fig. 8) si sporge
curioso a sbirciare la folla di avidi prelati ammassati ai suoi piedi per ottenere ancora qualcosa
dal vicario di Cristo.
Nulla di altrettanto genialmente scanzonato, di altrettanto in sintonia con l’ottica graffiante e
bonaria insieme di un Romanino o di un Dosso, connota le lunghe ekphraseis dell’Orlando furioso.
Radicate in una consuetudine che risale fin alle origini dell’epica europea, tali parentesi descrittive
si distinguono certo come utili pause di contemplazione nel travolgente ritmo narrativo del
poema, ma restano un fatto squisitamente letterario di cui è più agevole riscontrare gli esiti che
non i presupposti artistici effettivi. E tuttavia, leggendo di quei palazzi fatati, di quelle sale misteriose
visitate alla luce delle fiaccole, di quelle simboliche fontane, di quei padiglioni profetici, non
di rado s’affaccia alla nostra mente l’impressione che Ariosto scriva con una qualche cognizione
di causa. I materiali impiegati, i metodi di lavorazione, lorganizzazione compositiva, le stesse
modalità di fruizione trovano una formulazione verbale così precisa e pertinente che pare difficile
negare al poeta una diretta esperienza di ciò che, da un po’ di tempo in qua, malamente si
214 215
divide tra “arte” ed “architettura”. Giova allora tener presente che Ariosto viaggiò più di quanto
non lasci pensare la ben nota consuetudine con le tavole di Tolomeo 14 e che in quei viaggi daffari
e dufficio non mancò di consolarsi con qualche giro turistico. Se nellOrlando furioso questa
opportunità è virgilianamente attribuita ai personaggi stessi del poema, 15 nelle Rime è il poeta in
persona a compilare un denso inventario delle bellezze di Firenze, 16 mentre nelle ancor più personali
Satire trova diretta espressione il desiderio di ripercorrere le antichità dellUrbe sotto la
guida di uno dei dotti letterati di curia, «che, col libro in mano, / Roma in ogni sua parte mi divida
[...]». 17 Per altre città visitate da Ariosto mancano simili testimonianze dirette, ma la notizia che
lo attesta ad Urbino nel 1507 è preziosa per intendere la singolare affinità che con quel mirabile
palazzo, costruito per traguardare dalle sue alte logge la campagna, sembra presentare lo «splendido
castello» collocato dal nostro autore nella sua favolosa Soria. 18
Lasciando le arti monumentali per quelle che sarebbero diventate di lì a poco le “arti minori”,
limpatto dei dati di realtà sullimponente tradizione letteraria si fa ancor più evidente. Non che
gli arazzi, i tappeti, il vasellame prezioso che incontriamo nellOrlando furioso non conoscano
numerosi precedenti nella lunga storia del poema epico, alla quale Ariosto costantemente s’ispira.
Ma ora interviene qualcosa che tocca direttamente la sensibilità del poeta e gli fa aprire
gli occhi con inusitata curiosità. Ci riferiamo in particolare a quel settore delle arti tessili cui
è demandata la produzione dellabito e degli accessori che ad esso saccompagnano. Se ci ricordiamo
da dove siamo partiti, non è difficile riandare al nome di Alessandra Benucci ed al ruolo
centrale che costei ebbe nella vita del poeta. La donna non solo vestiva con grande raffinatezza,
ma eseguiva ella stessa lavori di cucito e ricamo variamente attestati nelle poesie e nelle lettere di
messer Ludovico. 19 Anche l’Orlando furioso reca tracce dell’interessamento del poeta per questa
Fig. 10
Sebastiano Serlio
Secondo Libro di
Architettura
Parigi, Jean Barbe, 1545
Ferrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
Fig. 11
Zacchia il Vecchio
Ritratto di uomo con
motto iscritto, c. 1519
Olio su tavola,
cm 57,7 x 46,6
Lucca, Pinacoteca
Nazionale di Palazzo
Mansi
gentile occupazione femminile. Tra esse basterà menzionare qui il passo in cui, con raffinato
chiasmo cromatico, la candida mano dell’amata che lacera il cuore rosso d’amore dell’amante
viene paragonata al nastro purpureo che divide in comparti una bella tela d’argento. 20
Fuori delle calde mura domestiche, una simile implicazione emotiva nei confronti del manufatto
risulta difficilmente immaginabile. Bisogna tuttavia riconoscere che anche i meglio conservati
tra i nostri numerosi “centri storici” restituiscono oggi solo una parte della vasta produzione artistica
cui poteva attingere, all’epoca, la fervida fantasia di Ariosto. Bastava infatti varcare la soglia
di una chiesa qualsiasi e ci si trovava di fronte qui ad un ex voto dipinto come quelli pronosticati
dal poeta per la beata Beatrice d’Este, lì ad una statua votiva verosimilmente vestita di tutto
punto come quella con cui vien confrontato Leone, più in là ancora ad un’arca marmorea sollevata
su colonne come quella fatta costruire da Drusilla per Olindro. 21 Scorrendo poi i cicli santorali
dispiegati sulle pareti o nelle predelle delle pale daltare, non sarà stato difficile imbattersi
nella rappresentazione di un idolo pagano issato anch’esso sopra una colonna, motivo che Ariosto
ripropone nella sua descrizione del tempio dellImmortalità e che Teofilo Folengo deforma da
par suo nel grottesco sabba che conclude il Baldus. 22 Si toccano con mano qui le complesse radici
dell’Orlando furioso e di tutta la cultura del suo tempo, che avviano la modernità nella misura in
cui guardano sì allantichità, ma senza interrompere la naturale continuità col medioevo. Viene
alla mente il passo in cui il nostro poeta registra il magistrale colpo di spada con cui uno dei suoi
paladini taglia in due il proprio avversario. 23 Lo stupore è analogo a quello espresso da Platone
216 217
quando nel Convito descrive la divisione dell’androgino archetipico, 24 ma mentre per il filosofo
greco il riferimento artistico è al mezzo rilievo delle stele funerarie attiche a figura intera, per
Ariosto lo è alle mezze figure a tutto tondo, in cera o argento, che i devoti del tempo solevano
offrire per grazia ricevuta. Apparentemente limitata al solo effetto visivo, la differenza concerne
in realtà qualcosa di più profondo, che tocca da presso la concezione del ritratto, e dunque dello
stesso essere umano nel suo rapporto col mondo e con la divinità.
Il discorso perde ogni residuo di vaghezza non appena s’intenda affrontare l’ut pictura poesis
ariostesco secondo la sua giusta prospettiva storica. Per quanto antica e specificamente oraziana,
25 quella formula si ripresenta infatti in età rinascimentale carica dei nuovi significati che
le hanno conferito secoli di riflessione cristiana. In pratica l’idea di un dio creatore, combinata
con quella dell’uomo creato a sua immagine e somiglianza, porta con sé una potente rivalutazione
del fare umano anche nei suoi aspetti manuali, una rivalutazione che non ha mancato di avere
un impatto importante nella considerazione sociale delle arti visive. Ariosto trovava certamente
nelle fonti greco-romane sistematici confronti tra i metodi ed i risultati dei pittori e degli scultori
da un lato e quelli dei poeti dall’altro, ma non consta che egli abbia condiviso lo sprezzante
senso di superiorità, che quelle stesse fonti documentano, da parte di chi maneggia le parole nei
confronti di chi maneggia le tele ed i marmi. Nel suo presentarsi come tessitore di racconti sentiamo
così uneco non solo delletimologia della parola textus o della sua personale passione per le
belle stoffe, ma anche dell’orgoglio con cui San Paolo aveva dichiarato di mantenersi fabbricando
tende. 26 Dobbiamo essere consapevoli di ciò quando ci viene propinata una lettura meramente
retorica dei passi in cui il poeta paragona il proprio lavoro a quello degli artisti figurativi. Dopo
tutto è la Bibbia, non Omero, che estende a questi ultimi il privilegio dell’ispirazione divina, che
classicamente si tenderebbe a riconoscere solo ai poeti ed ai musicisti. E ciò deve pure aver contato
qualcosa in anni di platonismo dilagante.
Una lunga tradizione assegnava del resto alla pittura e alla scultura un indiscusso primato nella
rappresentazione della bellezza fisica. L’Orlando furioso cita espressamente l’aneddoto di Zeusi e
delle fanciulle di Crotone, che di quel tema costituisce il locus classicus, 27 ma più importante per
noi è il passo in cui uno dei personaggi sperimenta dal vivo il senso stesso di quellaneddoto, cioè
la felice fusione in un unico corpo di donna delle grazie che la natura distribuisce di norma in più
corpi. 28 Una simile irruzione della più sana sensualità maschile va tenuta presente quando altrove
nel poema leggiamo di Olimpia, che si mostra ad Orlando con quell’istintivo, provocante pudore
con cui pittori e scultori rappresentano Diana mentre cerca di cacciare con l’acqua Atteone. 29 È da
questo felice intreccio di cultura e di vita che sorgono le più celebri descrizioni di Alcina, «tanto
ben formata / quanto me’ finger san pittori industri», e della nuda Angelica, avvinta allo scoglio
come una «statua finta / o d’alabastro o d’altri marmi illustri». 30 I richiami artistici non dipendono
qui solo dalla tradizione letteraria classica, quale essa s’esprime ad esempio nelle lettissime
Metamorfosi di Ovidio. Presuppongono anche una consuetudine diffusa a guardare al corpo
umano, e al nudo femminile in particolare, attraverso il filtro di un’arte, come quella del primo
Cinquecento veneto, che quei soggetti aveva innalzato a bandiera della sostanziale autonomia del
piacere estetico. Il pensiero corre ad Antonio Lombardo, a Tiziano e agli altri straordinari maestri
le cui opere Alfonso I aveva indefessamente sollecitato per i Camerini d’alabastro ed analoghi
spazi della sua favolosa reggia. 31
Nel 1532, quando uscì ledizione definitiva dell’Orlando furioso dalla quale citiamo, i fatti d’arte
cui abbiamo appena fatto riferimento erano ormai storicizzati. L’arrivo in Italia settentrionale,
prima e dopo il Sacco di Roma del 1527, di artisti come Giulio Romano, Michele Sammicheli,
Jacopo Sansovino aveva provocato un profondo rimescolamento delle carte ed accentuato come
mai prima il carattere nazionale dell’arte italiana. Vi è una ragione dunque se, rielaborando il suo
capolavoro secondo i principi fissati nel 1525 dalle Prose della volgar lingua del Bembo, Ariosto
introduce a capo della lunga descrizione delle pitture della Rocca di Tristano quellottava dei
pittori nella quale suole sintetizzare gli interessi artistici del poeta la diffusa attitudine a veder
Fig. 12
Raffaello Sanzio,
Il Parnaso, 1509-10
Città del Vaticano, Musei
Vaticani, Stanza della
Segnatura
larte solo là dove se ne riconoscano i protagonisti. 32 I nomi di persona si susseguono con mirabile
larghezza di ritmo nei versi centrali della strofe: «Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino, /
duo Dossi, e quel cha par sculpe e colora, / Michel, più che mortale, Angel divino; / Bastiano,
Rafael, Tizian chonora / non men Cador, che quei Venezia e Urbino.» Le indicazioni di luogo
sottendono una geografia non tanto di scuole artistiche, quanto di neutre porzioni di suolo occasionalmente
toccate dal soffio dello spirito. Se per un verso si pensa al dibattito antico sulla città
dorigine di un poeta quantaltri mai nazionale come Omero, per laltro sembra vedersi profilare a
un orizzonte non troppo lontano il costume dellItalia post-unitaria di innalzare monumenti alle
personalità di spicco proprio nelle località in cui avevano visto la luce, piuttosto che in quelle in
cui avevano operato.
È stato giustamente osservato che il canone degli artisti moderni presenti nelledizione definitiva
dellOrlando furioso riecheggia quello pubblicato nel 1528 da Castiglione nell’edizione a stampa
del suo Cortegiano, ugualmente debitrice delle teorie linguistiche di Bembo. 33 Come ovvio in
un testo in prosa teso a simulare un dialogo avvenuto oltre vent’anni prima alla corte d’Urbino,
l’elenco si configura qui come una nuda serie di nomi propri: «Leonardo Vincio, il Mantegna,
Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco.» Si tratta di cinque persone distinte a fronte
delle nove che si contano nel passo di Ariosto. Leonardo ed il Mantegna introducono in entrambi
i casi la sequenza. Raffaello e Michelangelo sono pure comuni, sebbene con un ordine inverso,
alluno e allaltro testo. Giorgione compare solo nel Castiglione, perché nellAriosto viene sdoppiato
in quelli che il Vasari chiamerà i suoi creati, Tiziano e Sebastiano del Piombo. 34 Se ciò
richiama lattenzione sul fatto che l’Orlando furioso non ha il problema di storicizzare la situazione
narrativa come il Cortegiano, l’inserimento nell’“ottava dei pittori” dei fratelli Dosso e
Battista Dossi evidenzia una diversa ma altrettanto significativa preoccupazione da parte del
suo autore. Si tratta dell’amor di patria, che impone ad Ariosto la menzione dei principali artisti
218 219
operosi a Ferrara presso la corte estense. Giovanni Bellini, la terza new entry artistica del poema,
era stato pure attivo per Alfonso I, ma il suo nome compare nell’Orlando furioso soprattutto perché
celebrato nelle Rime del Bembo come quello di Simone Martini lo era stato a suo tempo nel
Canzoniere del Petrarca. 35
Ma proseguiamo nel confronto tra la serie di artisti proposta dal Castiglione e quella proposta da
Ariosto. I nomi del Cortegiano costruiscono un solenne arco a tutto sesto, le cui spalle poggiano
saldamente sul genio di Vinci e quello di Castelfranco, e la cui chiave di volta innalza come un
vessillo il genio di Urbino. I versi dell’Orlando furioso delineano un analogo andamento parabolico,
ma trovano il loro modello non nella statica simmetria di una struttura architettonica, bensì
nel mosso profilo di un’altura naturale, sulla quale i personaggi evocati sembrano disporsi con
estrema libertà. Questa similitudine si deve ad uno dei più profondi interpreti di Ariosto, che ha
acutamente richiamato l’immagine archetipica del Parnaso, 36 pensando forse a quello celeberrimo
di Raffaello nella Stanza della Segnatura (Fig. 12) o alla sua variante a stampa. Al posto del
dio Apollo siede il “divino” Michelangelo, ai lati del quale si distribuiscono liberamente, sui due
versanti del monte, gli artisti che hanno sviluppato uno stile sostanzialmente indipendente dal
suo e quelli che palesemente ne hanno subito l’indelebile influsso.
Sarebbe improprio dedurre da questa straordinaria visualizzazione della storia della più eletta
arte rinascimentale una personale preferenza di Ariosto per il genio di Caprese. 37 Come osservato
da più parti, il cuore del poeta dellarmonia avrà battuto per artisti meno intransigenti del
Buonarroti, ben rappresentati, peraltro, anche tra quelli espressamente menzionati nell’“ottava
dei pittori”. Se ci limitiamo ad esplicitare qui il nome di Raffaello, non è certo per un tardivo
omaggio al Bembo, che nella sua opera più importante per lOrlando furioso individua appunto
nel Sanzio ed in Michelangelo i due soli artisti moderni degni di eterna menzione; 38 è perché,
a tanti secoli di distanza da quei fatti capitali della nostra storia culturale, solo il principe dei
pittori ci sembra poter reggere, in tutto e per tutto, il passo col principe dei poeti. Il comparabile
peso storico delle due personalità, o se si preferisce la loro comparabile pervasività culturale, non
esclude del resto l’esistenza di unaffinità più cordiale e profonda tra le medesime. E qui, oltre ai
contatti diretti di cui sono prove eminenti la scena disegnata da Raffaello per la recita romana
dei Suppositi (Tav. 33) ed il bellissimo epitafio latino di Ariosto per l’amico scomparso, 39 un vasto
campo di ricerca si apre a chi sappia riconoscere nel pittore e nel poeta un analogo atteggiamento
di fronte al mondo ed alla propria arte.
Si pensi anche solo al denso, cruciale rapporto con la donna amata. Senza voler invadere un campo
su cui altri interviene in questa stessa sede (pp. 242-249), merita ribadire con forza che esso poggia
su una sostanziale parità di genere sia per il ritrattista della Fornarina che per il cantore di
Alessandra Benucci. Uscita dal fianco dell’uomo e postagli accanto, la donna che costoro hanno
distillato dalla più eletta antropologia umanistica tiene i piedi sulla terra, dove li tiene lui, e volge
lo sguardo al cielo, come lo volge lui. In questa perfetta integrazione di anima e corpo, di spirito
e materia, non vè posto per la donna angelicata della più frusta tradizione poetica, ma nemmeno
per la donna oggetto di tanta brutta realtà. Quando Raffaello era ormai morto, giunse tra le mani
di Ariosto una copia dei Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino illustrati da Giulio Romano. La presa di
distanza da quella greve pubblicazione, che il poeta esprime nel prologo dei Suppositi in versi, 40 è
tanto sobria quanto netta. Piace pensare che egli parlasse anche per Raffaello, altrettanto sicuro nel
distinguere i luminosi diritti dellamore dai cupi soprusi della pornografia. Non era una questione
di generazione, ma di temperamento. Ed il temperamento, nei due, era straordinariamente solare.
Poco aggiungono a quanto detto le occorrenze artistiche che lAriosto inserì nei Cinque canti,
unici testimoni compiuti di una volontà poi abortita di ampliare lopus maximum. Le descrizioni
di edifici, suppellettili, vestiti sono variazioni intorno a temi già noti, e così gli effetti stranianti
di certi mirabolanti colpi di spada. Più interessante il passo in cui la maga Gloricia disegna
nella polvere una nave che magicamente prende vita e sinnalza nel cielo col suo ricco bottino
di cavalieri. 41 Il repertorio dei luoghi comuni resta evidente, ma il suo caleidoscopico utilizzo si
trasforma nel consapevole paradigma di una poetica tesa a rivendicare il primato assoluto del
libero fantasticare. Per quanto applicato all’arte della costruzione navale, il vero riferimento è
qui, orazianamente, al quidlibet audendi che accomuna pittura e poesia. 42 La cosa va tenuta presente
quando si passa a considerare i nomi «d’Alberto, di Bramanti e di Vitruvi» richiamati qualche
ottava prima dal poeta a proposito del solito «bel palagio». 43 La declinazione plurale di due
nomi su tre, non meno che l’indifferenza per la loro sequenza storica, delineano una concezione
dell’architettura nella quale la regola generale fa chiaramente aggio sulla licenza individuale.
Significativo allora che le personalità così genericamente evocate siano di architetti di cui possediamo
dei trattati, come Vitruvio e l’Alberti, o che quali autori di trattati sono noti alle fonti
cinquecentesche, come Bramante. Per grammatici di tal fatta, non diversamente che per Bembo,
Ariosto provava profondo rispetto ma non profonda simpatia. Il suo mondo modellato con estro,
colorato con straordinaria vivacità, resta estraneo al compasso ed alla livella. Solo il genio di un
Vignola saprà restituirne un’immagine architettonica nella fantastica villa-fortezza-eremo laico
di Caprarola. Ma questa, che riguarda la fortuna e non la cultura visiva di Ariosto, è davvero tutta
un’altra storia e noi dobbiamo accontentarci qui di un breve accenno.
In memoria della passione di mio padre Pietro per Ariosto, di mio fratello Pierantonio per Rabelais
1. Canzoni, I, vv. 84-116.
2. Of XLII, 83.
3. Negromante, prima redazione, atto V, scena 3.
4. I Suppositi, in prosa, atto I, scena 1, scena 3;
atto II, scena 1, scena 2; Lena, atto II, scena
1, scena 3; atto III, scena 2, scena 9. Nell’Orlando
furioso, III, 48, un accenno all’“addizione
erculea”.
5. Canzoni, I, v. 78.
6. Negromante, in versi, seconda redazione,
prologo.
7. Niccolò Machiavelli, Mandragola, prologo.
8. Si vedano rispettivamente la lettera 87 e la
lettera 4 in Ariosto 1984.
9. Orazio, Carmina, II, x, v. 4.
10. Catalano 1930-31, I, pp. 565-571.
11. Of XXXIV, 85.
12. Satire, VII, vv. 152-153. La statua del duca
Borso è ricordata anche nella Lena, atto II,
scena 3.
13. Satire, III, vv. 190-192.
14. Satire, III, vv. 61-63.
15. Of XXVIII, 55, chiaramente memore di Virgilio,
Aeneis, I, vv. 418-468.
16. Capitoli, XI, vv. 23-51. Questa canonica lode
di “Firenze bella” può essere utilmente confrontata
con il grottesco rovesciamento del
topos operato da François Rabelais, Gargantua
et Pantagruel, IV, 11.
17. Satire, VII, vv. 131-132.
18. Of XVII, 119-120. Per la presenza di Ariosto
ad Urbino nel 1507 si veda Catalano 1930-31,
vol. I, p. 317.
19. Si vedano ad esempio le lettere 192, 194, 205,
207, 208, 209, 214 in Ariosto 1984 e Sonetti,
XXVI.
20. Of XXIV, 66.
21. Si vedano nell’ordine Of XIII, 64; XLVI, 38;
XXXVII, 68.
22. Of XXXV, 16, da confrontare con Teofilo
Folengo, Baldus, XXIV, vv. 180-182.
23. Of XIX, 86.
24. Platone, Convito, XVI, 193.
25. Orazio, Ars poetica, v. 361.
26. Si confronti Atti, XVIII, 3 con 2 Tessalonicesi,
III, 6-10.
27. Of XI, 71, da confrontare con Cicerone, De
inventione, II, i, 1 o Plinio il Vecchio, Naturalis
historia, XXXV, 64.
28. Of VI, 47.
29. Of XI, 58-59.
30. Si veda rispettivamente Of VII, 11 e X, 96.
31. Basti per tutti il rinvio a Farinella 2014a,
vera summa degli studi sul mecenatismo di
questo importante principe rinascimentale.
32. Of XXXIII, 2.
33. Barocchi 1970, vol. I, pp. 388-405, in particolare
pp. 388-389, con rinvio a Baldassarre
Castiglione, Il libro del cortegiano, I, 37.
34. Giorgio Vasari, Vita di Giorgione da Castelfranco,
in fine, sia nell’edizione del 1550 che
in quella del 1568.
35. Si vedano, a confronto, Pietro Bembo, Rime,
XIX-XX e Francesco Petrarca, Canzoniere,
LXXVII-LXXVIII.
36. Croce 1946, p. 69.
37. I vari, spesso difformi collegamenti che la
critica ha via via proposto tra la poesia di
Ariosto e l’arte dei pittori a lui contemporanei
sono acutamente recensiti da Ceserani
1985, pp. 145-166.
38. Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, III,
I.
39. Si vedano Catalano 1930-31, vol. I, pp. 376-
379 da un lato e Ludovico Ariosto, Carmina,
LXI dal’altro.
40. I Suppositi, in versi, prologo, dove sarà da
notare anche il riferimento ad Elefantiade,
già presente nel 1509 in Suppositi, in prosa,
prologo.
41. Cinque canti, I, 86-87.
42. Orazio, Ars poetica, vv. 9-10.
43. Cinque canti, I, 78.
220 221
ARIOSTO E L’OTTAVA
SUI PITTORI
–
BARBARA MARIA SAVY
E quei che furo a’ nostri dì, o sono ora,
Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,
duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora,
Michel, più che mortale, angel divino;
Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora
non men Cador, che quei Venezia e Urbino;
e gli altri di cui tal l’opra si vede,
qual de la prisca età si legge e crede
Orlando furioso, XXXIII, 2
Sono nove i nomi che Ariosto elegge ed incastona nella celebre ottava sui pittori moderni al
canto XXXIII del Furioso. Il valore di affermazione di un nuovo canone che essi vengono a
delineare è stato giustamente misurato dagli studi in relazione ai precedenti di Baldassarre
Castiglione – che nel Cortegiano aveva definito «eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna,
Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco» 1 – e di Paolo Giovio, autore delle biografie di
Leonardo, Michelangelo e Raffaello e di acuti giudizi di merito su Dosso, Sebastiano del Piombo
e Tiziano. 2
L’elogio delle loro opere viene prospettato da Ariosto in base ad un criterio d’eccellenza e di
paragone con quelle dei pittori antichi, ricordate nella stanza precedente, la cui fama perdura,
nonostante il tempo e le distruzioni materiali, «mercé degli scrittori». Questi artisti sono dunque
selezionati e consacrati esplicitamente in relazione al genere ecfrastico e all’interno di un canone
classicizzante con riferimento alle discussioni teoriche sulla diversa natura e sul rapporto tra arti
figurative e letteratura. 3 Non è un caso che quest’aggiunta compaia solo nell’edizione del 1532,
successiva alla pubblicazione delle Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo e caratterizzata
dal confronto con i principi estetici e normativi del classicismo bembesco. Bembo stesso Fig. 13
aveva espresso in tale direzione le proprie predilezioni artistiche e nel proemio alla terza parte
della sua opera aveva indicato negli artisti della Roma di Leone X, specificamente in Raffaello e
Michelangelo, i campioni di un nuovo linguaggio basato sulla lezione dell’antico, in anticipo sulla
stessa – e ben inteso superiore – arte dello scrivere. 4
Giovanni Bellini
e Tiziano Vecellio
Festino degli dei, 1514-29
Olio su tela, cm 170,2 x 188
Washington, National
Gallery of Art, Widener
Collection
222
Non va d’altronde dimenticato che le stanze dei pittori antichi e moderni sono costruite quale
premessa alla finzione profetica degli affreschi nella Rocca di Tristano, ove si trovano effigiate,
ad opera della magia di Merlino, guerre e disfatte dei francesi in Italia nell’arco di mille anni, fino
al tragico epilogo del Sacco (1527). Il nodo che si stringe in questa serie di strofe (XXXIII, 1-58)
tra la presa d’atto di un mutamento politico definitivo nella storia d’Italia e d’Europa e alcune
questioni cruciali nel dibattito culturale di quegli anni, cui si è accennato, è significativo del
nuovo e più ampio orizzonte entro cui si colloca l’intera revisione del poema. Si intende che la
«sprovincializzazione dell’opera non è un fatto circoscritto alle scelte linguistiche» e formali 5 e
che questa ed altre aggiunte dedicate a personaggi ed eventi contemporanei (le ottave sui grandi
scrittori e sulle scrittrici, sui nuovi Argonauti ecc.), al di là dell’encomio contingente, mirano a
coinvolgere e celebrare l’intera società del Rinascimento, modello di civiltà destinato ad essere
riconosciuto nei secoli a venire. 6
Allo stesso tempo è indubbio che l’ottava ariostesca rifletta anche scelte personali e d’ambiente,
occasioni di incontro e rapporti concreti di Ariosto con la cultura figurativa del proprio tempo. 7
Da questa non univoca, ma articolata prospettiva andrebbe valutata, ben oltre lo spazio qui concesso,
la sequenza degli eletti. Ci limiteremo di volta in volta ad alcune osservazioni a partire da
Leonardo, che Ariosto, come Castiglione, pone ad apertura della sua rassegna, ruolo che dalle
biografie gioviane – dove la triade con Michelangelo e Raffaello riflette forse il canone letterario
delle “tre corone” – si consoliderà nel successivo disegno vasariano. 8
Rispetto al problema del rapporto con l’antico, è opportuno distinguere chiaramente la posizione
di Leonardo da quella dei suoi compagni di “stanza”, per il carattere propriamente anticanonico
e sperimentale del suo percorso, entro il quale si collocano tuttavia affermazioni quali: «l’imitazione
delle cose antiche è piú laudabile che quella delle moderne». 9 Larga eco aveva avuto poi
presso le corti settentrionali l’impresa della statua equestre a Francesco Sforza, che, nell’arco
della sua lunga e incompiuta elaborazione, e soprattutto nella seconda versione del progetto con
il cavallo “al passo” (c. 1490-93), aveva comportato un crescente impegno nello studio dei modelli
antichi e moderni, aprendo la strada al topos del paragone tra Leonardo e i grandi scultori
greci che si incontra nella poesia di Baldassarre Taccone e poi nel De divina proportione di Luca
Pacioli, per il quale anche di fronte al Cenacolo «Apelle, Mirone, Policreto e gli altri» conviene
che cedano. 10 Nel 1501 da Ferrara il duca Ercole I d’Este cercava di ottenere la forma in argilla
del Cavallo, mentre da Mantova la figlia Isabella interpellava l’artista, quale esperto di oggetti
antichi, in merito ad alcuni vasi provenienti dal tesoro mediceo. 11 Leonardo aveva già realizzato
nel breve passaggio per la corte dei Gonzaga alla fine del 1499 il seducente Ritratto della marchesa
a punte colorate oggi al Louvre (Département des arts graphiques, inv. MI 753), che tuttavia era
stato poco dopo dato in dono e probabilmente Ariosto non ebbe modo di vedere. Altre possibili
Fig. 14
Dosso Dossi
Enea e la Sibilla nei Campi
Elisi, c. 1520-21,
Olio su tela, cm 58,4 x 167,8
Ottawa, National Gallery
of Canada
occasioni di incontro con l’artista il poeta le avrebbe potute avere attraverso Ippolito d’Este, arcivescovo
di Milano sin dal 1498 e in contatto con Leonardo nel 1507; quindi tra il 1513 e il 1516 a
Roma, quando il maestro alloggiava presso Giuliano de’ Medici in Belvedere. 12 Ma il ruolo di
capofila assegnatogli nell’ottava ha per noi un forte significato in relazione al tema guerresco che
domina le strofe successive, tenendo conto che proprio il confronto tra Leonardo e Michelangelo
per la decorazione della Sala del Gran Consiglio in Palazzo Vecchio (1503-06) aveva rifondato nei
primi anni del secolo l’immaginario visivo della battaglia e che il clamore delle rispettive invenzioni
aveva immediatamente scavalcato, anche tramite copie e disegni, le mura di Firenze, dove
peraltro Ariosto si trovò ripetutamente a soggiornare. 13
Per il pubblico delle corti di Mantova e di Ferrara e per Ariosto stesso i nomi di Mantegna e di
Giovanni Bellini attivavano immediatamente il rimando a scenari assai più familiari. 14 Per quanto
riguarda il primo, l’attenzione è stata giustamente puntata sullo studiolo di Isabella d’Este che
il poeta ebbe modo di visitare durante i suoi ripetuti soggiorni a Mantova, proprio negli anni in
cui andava sviluppando la materia del poema. Nelle intenzioni della marchesa i due anziani maestri
avrebbero dovuto confrontarsi sul tema delle allegorie mitologiche e della cultura antiquaria
all’interno di questo ambiente, ma il tentativo di coinvolgere anche il veneziano, attraverso la
mediazione di Pietro Bembo, non andò in porto. Bellini si trovò invece ad aprire nel 1514 con il
Festino degli dei oggi a Washington (Fig. 13) la decorazione del Camerino delle pitture di Ferrara,
impresa che segna il trapasso ad un nuova stagione del Rinascimento di corte. 15 Il nesso con lo
studiolo mantovano va dunque al di là della citazione rilevata nel poema dalla tela di Mantegna
con Minerva che scaccia i Vizi oggi al Louvre (Tav. 19) 16 e si allarga a comprendere una fetta
importante della cultura figurativa e letteraria di Ariosto al tempo del primo Furioso, quando
una traduzione dal greco del Filostrato, di proprietà di Isabella, già impiegata per l’iconografia
dello studiolo, viaggiava da Mantova a Ferrara, per essere utilizzata, insieme ai testi di Ovidio,
Luciano, Catullo nell’invenzione più libera ed organica di sei «fabule» per il Camerino di Alfonso
I, elaborate già nel 1511 da Mario Equicola. 17
I versi successivi registrano un immediato aggiornamento, tanto del canone quanto delle esperienze
visive dell’artista e del suo pubblico, sulla situazione del secondo decennio. La citazione
dei due Dossi (con Battista accanto al fratello) rimanda ad imprese condotte insieme, proprio a
partire dal fregio per il camerino delle pitture, dove le Storie di Enea, ed in particolare l’episodio
dei Campi Elisi (Fig. 14), rivestono lo stesso significato encomiastico della genealogia estense
celebrato nel Furioso. 18
Nella struttura aurea della strofe, Ariosto conferisce a Michelangelo una posizione centrale, isolando
il suo nome rispetto agli altri e conferendogli particolare risalto poetico attraverso due
elementi, destinati a diventare altrettanti topoi della fortuna letteraria: l’equivalenza tra scultura
e pittura, che era stata già espressa da Giovio e che tocca un altro capitolo del paragone tra le arti,
e l’uso dell’aggettivo “divino”, ricevuto per la prima volta dall’artista proprio in questo luogo.
Non è un caso che l’unica opera d’arte del tempo citata in maniera esplicita da Ariosto in una delle
sue Satire (III, 191) sia proprio quel profeta Giona che vede tante «mitre e diademe» dall’alto della
Sistina (Fig. 8). 19 Il poeta, al pari del suo duca e di molti altri suoi contemporanei, doveva essere
rimasto sinceramente colpito dalla nuova concezione della volta che egli aveva avuto modo di
ammirare forse già in corso di esecuzione durante i ripetuti soggiorni nell’Urbe tra il 1509 e il
1510 e certamente nel marzo del 1513, quando si recò a rendere omaggio al nuovo papa Leone X.
Chissà se, oltre al ricordo vivo di quella potente figura, egli fu in grado di apprezzare il grandioso
sistema che lega in tensione le diverse parti e l’impeto eroico dei protagonisti maschili e femminili
nel movimento continuo della Storia. Meno difficile è immaginare un suo interesse verso le
figure dei veggenti, rivissute, nel Furioso come nell’epopea cristiana della volta, attraverso l’immaginario
classico e mitologico.
Dal canto suo Alfonso aveva inseguito per quasi vent’anni il desiderio di possedere un’opera di
Michelangelo. Alle sue collezioni egli aveva acquisito, con esibito significato politico, la testa
224 225
bronzea di Giulio II già appartenente al monumento realizzato da Buonarroti a Bologna e trasferita,
subito dopo l’abbattimento dello stesso (dicembre 1511), a Ferrara, dove il resto della statua
era stato fuso e trasformato in una colubrina, chiamata “La Giulia”. 20 Quindi a Roma, sotto la
volta Sistina nel 1512, aveva iniziato ad “accarezzare” l’artista e l’ambizione di un dipinto fatto
apposta per la sua corte. Soltanto nell’estate del 1529, com’è noto, profittando dei soggiorni di
Buonarroti a Ferrara per ispezionare su incarico della signoria di Firenze le fortificazioni e le
artiglierie estensi, il duca era riuscito a commissionare una Leda che tuttavia, all’atto della consegna
nell’ottobre del 1530, gli venne negata a causa di un malaccorto commento del suo emissario
(Tav. 80). Forse quando Ariosto iniziò a scrivere l’ottava riteneva ancora possibile l’arrivo del
dipinto, per il quale doveva essere montata certamente a corte grande aspettativa, o forse, con
sottile compiacimento, volle regalare al duca con la sua poesia ciò che il pittore gli aveva rifiutato.
Il verso che tiene insieme Sebastiano, Raffaello e Tiziano meriterebbe di essere declinato in tre
distinti capitoli, chiamando a raccolta per esempio tutte le opere di Raffaello che Ariosto ebbe
modo di vedere, dopo essere entrato a servizio di Ippolito nel 1502 (a cominciare dal Ritratto del
cardinale, oggi a Budapest, c. 1505), 21 a Urbino già nel 1507 (i ritratti dei duchi, ma anche il dittico
del Louvre o il San Giorgio di Washington); poi certamente durante le sue trasferte romane,
tra le Stanze, la Stufetta e la Farnesina. 22 Riguardo a quest’ultima si può almeno ricordare l’arrivo
nell’agosto del 1511 di Sebastiano al seguito del banchiere papale Agostino Chigi, che, rientrando
da un lungo soggiorno a Venezia, aveva inteso portare con sé un pupillo di Giorgione e
Fig. 15
Raffaello Sanzio
Studio per Enea ed
Anchise, c. 1514
Matita rossa su carta,
mm 300 x 173
Vienna, Albertina,
Graphische Sammlung
coinvolgerlo nella decorazione della sua nuova villa suburbana. Ariosto, forse già nel marzo del
1513, ebbe modo di visitare la Farnesina e di ammirare gli affreschi della Loggia di Galatea, con
il ciclo astrologico del soffitto realizzato da Baldassarre Peruzzi, le storie ovidiane delle lunette
dipinte da Sebastiano e il Ciclope Polifemo ritratto da quest’ultimo sulla parete mentre brama
inutilmente la bella Galatea, dipinta da Raffaello nel riquadro di fianco e in atto di fuggire col suo
cocchio marino e il suo corteo di ninfe e di tritoni. Il poeta era probabilmente a conoscenza del
programma generale della sala messo in carta da quel Blosio Palladio ricordato nel canto XLVI
(13, 5) e persino dei motivi per i quali il ciclo era stato inizialmente concepito e poi lasciato interrotto.
Tra le ipotesi più convincenti è quella di un legame con la proposta di matrimonio avanzata
da Chigi in favore di Margherita Gonzaga nel 1511 e già sfumata entro la fine del ’12, sufficiente
tuttavia per mandare a monte l’amore sincero e la promessa tra la figlia del duca di Mantova e
Alberto Pio da Carpi, e a spingere la bella Margherita verso il convento, vicenda certamente ben
nota nell’ambiente delle corti e ad Ariosto. 23
In ogni modo la fama di Sebastiano ed il suo stesso credito letterario dipendevano soprattutto
dal rapporto di amicizia con Michelangelo e dalle doti riconosciute di ritrattista del veneziano.
Giovio, che – si è detto – costituisce una fonte importante per lo stesso Ariosto, ricorda anch’egli,
in stretta sequenza rispetto all’elogio dell’opera di Michelangelo, l’eccellenza di Sebastiano
in quest’ambito («In humanis vultibus, quos egregie Sebastianus exprimit, suaves et liquidos
tractus blandissimis coloribus convelator intuemur»). 24
Tornando a Raffaello e riducendo il fuoco alle testimonianze più oggettive, limitiamo ora sulla
fine del secondo decennio. Sul versante della biografia ariostesca sono l’allestimento da parte
dell’artista della scenografia dei Suppositi nel 1519 (Tav. 33) e l’elegia in latino del poeta per la
morte dell’urbinate nell’aprile del 1520 (De Raphaeli Urbinate, Carmina, LXI). Sul versante del
mecenatismo di Alfonso sono questi gli anni dell’arrivo a Ferrara di opere, come il modello per il
Trionfo indiano di Bacco, destinato al Camerino, o alcuni cartoni inviati in omaggio al duca, uno
relativo alla stanza dell’Incendio, l’altro per il San Michele di Francesco I. 25 Tra questi ultimi, in
particolare, quello per la stanza dell’Incendio si identifica con ogni probabilità con il gruppo di
Enea e Anchise, che, perduto il cartone, è documentato dal foglio originale a matita rossa conservato
all’Albertina di Vienna (inv. 4881; Fig. 15). A Ferrara il soggetto assumeva, come sappiamo,
valore encomiastico in relazione alla supposta discendenza degli estensi dai troiani e non
è escluso che lo stesso Raffaello lo avesse scelto consapevolmente come un dono gradito per il
duca. Ma l’invenzione raffaellesca diventa addirittura cruciale in relazione al modo in cui tale
spunto viene sviluppato nel Furioso, dove il riferimento al poema virgiliano riveste un valore più
ampio e normativo. Inoltre, la rievocazione da parte di Raffaello di queste figure a latere dell’episodio
medioevale dell’Incendio riflette una strategia allusiva molto simile a quella in atto nel
poema ariostesco, dove la materia cavalleresca viene reinventata in senso rinascimentale attraverso
continui riferimenti a episodi mitologici, di storia antica e contemporanea, che attingono
ad un immaginario letterario e visivo condiviso e sono per questo capaci di accendere immediatamente
la fantasia del pubblico.
Il nesso Ariosto-Tiziano, non meno di quello Ariosto-Raffaello, ha rivestito un ruolo centrale
nelle discussioni intorno ai pittori dell’ottava. Già nella trattatistica cinquecentesca si evidenziano
due distinti orientamenti che caratterizzano successivamente la fortuna e lo sviluppo del
tema. L’uno condotto sul piano delle analogie stilistiche è inaugurato da Lodovico Dolce (1557),
che propose la fata Alcina come modello di bellezza per i pittori, nell’ottica dell’ut pictura poesis e
dell’Ariosto “colorista”. L’altro, di carattere più storico e biografico, risale a Giorgio Vasari (1568)
che collega all’attività e ai soggiorni di Tiziano presso la corte ferrarese, a partire dal 1516, l’occasione
di un’amicizia tra l’artista e il poeta, nonché dell’elogio tributato al primo con la nostra
ottava nell’edizione del 1532, la stessa in cui compare un ritratto dell’autore inciso su disegno
di Tiziano (Fig. 47). 26 Nel tempo questi argomenti sono stati diversamente ripresi e commentati,
superando le più generiche assonanze di stile e le credenze tradizionali. L’attenzione si è
226 227
concentrata soprattutto sull’impresa del Camerino delle pitture e sui celebri baccanali realizzati
da Tiziano per quell’ambiente, sottolineando l’esistenza di un concreto e articolato rapporto con
il poema ariostesco.
È stato notato, in particolare, che l’episodio dell’abbandono di Olimpia da parte di Bireno nel X
canto, pure aggiunto nel 1532, appare direttamente calcato su quello di Arianna, intrecciando le
stesse fonti letterarie classiche utilizzate nel ciclo del Camerino (a partire da Catullo, Filostrato,
Ovidio). Anche nelle imprese di Ippolito d’Este istoriate sul padiglione nuziale di Ruggiero e Bradamante
nel XLVI canto, già nell’edizione del 1516, è stato colto il rimando alla coperta nuziale
di Peleo e Teti sulla quale è ricamata la storia di Arianna descritta da Catullo. 27 Secondo John
Shearman sarebbe stato proprio Ariosto, passato al servizio del duca nel 1517, l’autore delle istruzioni
fornite a Tiziano per il Bacco e Arianna (Fig. 18), oggi a Londra, proveniente dal Camerino. 28
Questa ipotesi nasceva dall’idea che il dipinto fosse entrato solo a quel punto nel progetto e che
non vi fosse un disegno unitario del ciclo, messo in carta invece proprio da Mario Equicola già
nel 1511. Una lettura coerente delle sei «hystorie» ideate dal letterato campano per il Camerino
di Alfonso è stata invece ribadita ed analizzata in tempi più recenti, anche alla luce del ritrovamento
presso il Prince of Wales Museum di Mumbay della «baccanaria d’uomini» di Dosso Dossi
vista da Vasari in quella stanza. Secondo tale ricostruzione la storia della passione di Bacco per
Arianna rappresenta non il soggetto di un singolo dipinto, ma il tema di fondo dell’intero programma
iconografico, inteso come un percorso attraverso i vari gradi dell’amore che parte e si
conclude nel giardino della Venere Urania, e al quale si connette il fregio dossesco del registro
superiore con le storie di Enea. Nella sequenza e nella concatenazione delle tele viene ora bene in
evidenza un principio dinamico e di sviluppo narrativo, nel quale il mito classico è fatto rivivere,
a partire da descrizioni letterarie, combinando con disinvoltura testi antichi e moderni, e attraverso
la citazione consapevole di un immaginario figurativo di ispirazione antiquaria, che viene
rielaborato però in forme moderne, pienamente rinascimentali, e chiamato ad esprimere nuovi
significati intellettuali e contenuti encomiastici. 29 In questo contesto, il rapporto tra Ariosto e
Tiziano non si risolve quindi nel riferimento pur puntuale al soggetto né nell’uso delle stesse
fonti letterarie, probabilmente già contemplate dal primo iconologo salvo successivi aggiustamenti,
ma si sostanzia ancora una volta nel confronto che poeta ed artista ingaggiano da fronti
diversi con i modelli antichi e che entrambi traducono in una nuova capacità di racconto e di rappresentazione,
provocatoriamente allusiva verso i gusti e le esperienze di Alfonso I, della corte
ferrarese e della sua rete sociale e intellettuale. Fra i tre baccanali tizianeschi, quello degli Andrii
(Tav. 81), ultimo in ordine di tempo, rivela il maggiore impegno dell’artista sul versante della
reinvenzione ecfrastica di un’opera antica e sul registro “alto” del riecheggiamento dei classici,
lo stesso che guida Ariosto nella revisione del poema. Il nudo femminile in primo piano, da alcuni
studiosi identificato proprio con Arianna abbandonata e di fatto ispirato al modello scultoreo
dell’Arianna (Cleopatra) del Belvedere e ai sarcofagi dionisiaci, si offre sensualmente all’occhio e
al desiderio dello spettatore, così come il nudo di Olimpia a quello del lettore. 30 Allo stesso modo
il luogo che accoglie il suo riposo e la festa degli Andrii restituisce nella tradizione del paesaggio
moderno veneziano l’immaginario letterario del locus amoenus quale spazio mentale di sosta e
di svago, lo stesso che nel poema Ariosto mostra di saper alternare sapientemente alla selva o al
Palazzo di Atlante nel quale fuggono e si perdono i suoi inquieti protagonisti.
Al termine di questa panoramica riemergono dunque, rispetto ai versi dell’ottava e al tema del
paragone, la centralità e la precedenza del Camerino di Alfonso, quale luogo nel quale si era cercato
di realizzare consapevolmente nel corpo a corpo della pittura un confronto tra le diverse
maniere del Rinascimento italiano basato sull’imitazione dell’antico, lo stesso che, forse proprio
in rapporto al primo progetto del duca nel 1511, Agostino Chigi promuove a sua volta e a stretto
giro nella villa sul Tevere. 31 L’esperienza del Camerino e del soggiorno ferrarese è stata d’altronde
richiamata quale incentivo per lo stesso Giovio nella trattazione degli artisti contemporanei e per
intendere il suo elogio delle abilità paesaggistiche di Dosso. 32 Il rapporto tra i due umanisti viene
dunque a configurarsi in termini non tanto di dipendenza dell’uno dall’altro, bensì di mutuo
scambio. Rispetto a Giovio, però, Ariosto, formula il suo canone tracciando l’intero arco di esperienze
che tra la prima e l’ultima redazione del poema avevano condotto dallo studiolo di Mantova
al Camerino di Ferrara alla maturazione di questo confronto e delle sue ambizioni di classicità,
consacrando alla poesia ciò che «Cloto» avrebbe ancora disperso.
1. Barocchi 1970, p. 388. Il catalogo degli artisti
è già presente nella seconda redazione
dell’opera del 1518-20, prima della stampa
del 1528, in ogni modo con riferimento a
conversazioni ambientate nel 1507 (Agosti
2005, p. 169).
2. Oltre al fondamentale Barocchi 1970, già
citato, si vedano almeno Dionisotti 1995,
pp. 120-121; Savarese 1984, p. 57; Romano
1981, pp. 5-85; Shearman 2003, vol. I, pp.
873-875, 1532/6; Bartalini 1996, pp. 135-145;
Agosti 2005, pp. 169, 191 nota 57, 287-288,
335 nota 53 e 454. In particolare per il ruolo
e la disamina delle pagine di Giovio, Maffei
(in Giovio 1999) e Agosti B. 2008, che a p. 51
argomenta la composizione delle biografie
sul 1525-26.
3. Tra i contributi recenti Gareffi 2012 (con
bibliografia).
4. Su Bembo e le arti del Rinascimento si veda
ora il catalogo della mostra, Padova 2013
(nella sua interezza con relativa bibliografia).
5. Zatti 1997, p. 37.
6. Segre 1966, pp. 34-35.
7. Gnudi 1994, pp. 38-40; Ceserani 1985.
8. L’osservazione è in Agosti B. 2008, p. 49,
che ricorda come la selezione fosse presente
nella Veneziade (1521) dell’umanista romagnolo
Publio Francesco Modesti (il passo
citato in Agosti 1996, pp. 79-80), noto a Giovio
e, si può aggiungere, con ogni probabilità
anche ad Ariosto.
9. Agosti, Farinella e Settis 1987, p. 533. Alle
riflessioni di Leonardo sul magistero delle
fonti letterarie antiche è stato riconosciuto
da tempo un peso nell’avvio verso
la maniera moderna di Giorgione intorno
all’anno 1500 (Ballarin 1979, pp. 230-231).
10. Questa e altre citazioni si possono leggere
in Marani 2007-08, pp. 20-21. Per questa
fase dell’attività di Leonardo, Ballarin 2010.
11. Agosti, Farinella e Settis 1987, p. 533.
12. Un primissimo incontro potrebbe risalire
all’agosto del 1493 tra Milano e Pavia, dove
Ariosto è al seguito del duca Ercole per recitare
in una commedia plautina (Catalano
1930-31, vol. I, pp. 122-123).
13. Il fascino esercitato dai resti del murale leonardesco
allora visibile in Palazzo Vecchio
è testimoniato, tra gli altri, da Paolo Giovio
(1999, p. 235). Le osservazioni di Leonardo
sulla superiorità della pittura nella rappresentazione
della battaglia (Leonardo 2002,
pp. 200-201) sono state più volte richiamate
in relazione al dibattito sul paragone tra le
arti e al tema dell’ecfrasi. Un tentativo di
cogliervi delle affinità con la mobilità dello
spazio ariostesco è in Praloran 2007, pp.
232-242. Per una più approfondita disamina
dell’argomento rimando al saggio di Francesca
Borgo in questo volume.
14. Su entrambi, in relazione alle attestazioni
letterarie del paragone con gli antichi, si
vedano Agosti 2005 e 1996, ed. 2009.
15. Tra le nuove pitture erotiche del vecchio Bellini
all’altezza del Festino di Ferrara, Giovanni
Agosti (1996, ed. 2009, pp. 33-35) ricorda, oltre
alla Nuda di Vienna, il doppio ritratto di una
donna insidiata da un giovane che le tocca
il seno ricordato da Niccolò Liburnio nelle
Selvette dedicate nel 1513 a Isabella d’Este.
La descrizione mi fa pensare ad un possibile
modello, accanto alla Laura di Giorgione, per
il dipinto di Dosso oggi alla Galleria Palatina
(c. 1515-16), la cui interpretazione come Angelica
e Orlando, proposta da Simari (in Firenze
1986-87, n. VI.11) e da Ballarin (1994-95, p. 34)
sembra confermata dalle indagini effettuate
nel corso del più recente restauro (Navarro in
Tivoli 2016, pp. 201-215).
16. Farinella 2011; un affondo su Ariosto e
Mantegna è anche nel saggio dello stesso
studioso in questo volume con relativa
bibliografia, pp. 230-235.
17. Per questo e i successivi riferimenti nel
testo all’impresa del Camerino e al suo
rapporto con quella dello studiolo rimando
soprattutto a Ballarin 2002-07 e a Farinella
2014a (con bibliografia).
18. Farinella 2014b, pp. 37-38 nota 60 e nello
stesso volume il saggio di A. Pattanaro,
sull’attività dei due fratelli fino agli affreschi
di Trento con espliciti riferimenti
all’ottava ariostesca (2014, p. 197).
19. Monti 1867, p. 30; Ceserani 1985, p. 153.
20. Su tutta questa vicenda si veda ora Farinella
2014a, pp. 688-691.
21. Ballarin 2010, pp. 990-1000.
22. A partire da Panofsky (1954), Arcangeli
(1963), Gnudi (1994), Raffaello è stato uno
degli artisti più invocati (insieme a Tiziano,
Dosso, Mantegna o Piero di Cosimo) alla
ricerca di paralleli stilistici tra codice figurativo
e codice poetico.
23. Thoenes 1986.
24. Giovio 1984, p. 237. Una testimonianza della
presenza a Ferrara di opere dell’artista è
il Ritratto di Renata di Francia, andata in
sposa ad Ercole d’Este nel 1528 (nel giugno
di quell’anno Sebastiano è a Venezia), dato
in dono dalla stessa duchessa a Madame
de Soubise di ritorno in patria nel 1536
(Gorris 1997, p. 152; Pattanaro 2000, pp.
21, 77). Altro candidato è un San Giovanni
Battista a mezza figura attribuito a «Bastianello»
nell’inventario di Ippolito II del 1535
(Menegatti 1998-99, p. 152). Nelle collezioni
estensi di Modena si trovava nel 1663 anche
il Ritratto giovanile oggi a Budapest (Curti
1993, p. 66).
25. Ballarin 2002-07, vol. I, pp. 328-336. Su
altre opere realizzate da Raffaello per Ferrara,
come la Madonna del passeggio del
1514 circa, oggi ad Edimburgo, si soffermano
Caramanna e Menegatti 2013, pp.
54-55.
26. Sull’esistenza di una effigie del poeta
dipinta dallo stesso artista si vedano da
ultimi Venturi 2012 e Cogotti, Farinella e
Preti in Tivoli 2016, pp. 14-15.
27. Rajna 1900, pp. 117-119, 209; Ballarin 2002-
07, vol. I, pp. 156-157.
28. Shearman 1995, pp. 256-258.
29. Il riferimento per questa interpretazione
del ciclo e dei suoi significati è principalmente
a Ballarin 2002-07, vol. I, pp. 63-353,
che ricorda l’importanza delle aperture
di Wind (1948) in questa direzione. Una
diversa lettura in chiave più decisamente
politica è prospettata ora da Farinella
2014a, pp. 487-672.
30. Senza ammettere un’influenza diretta o
mediata Padoan 1980, pp. 97-98, rileva però
nella nudità di Olimpia, a confronto con
quella di Angelica, tonalità figurative che
evocano il mondo tizianesco, ricordando
proprio la nuda degli Andrii. L’argomento è
ripreso da Albonico 2012.
31. La valutazione di questo ciclo in rapporto
alle vicende di Chigi e al progetto di Alfonso
è ampiamente illustrata da Ballarin 2002-
07, vol. I, pp. 241-249.
32. Longhi 1940, ed. 1956, p. 157; Agosti B. 2008,
pp. 78-81.
228 229
ARIOSTO E MANTEGNA,
CHE NELLA PITTURA
«TIENE LO IMPERO»
–
VINCENZO FARINELLA
Nel 1974 Cesare Gnudi presentava al Convegno Internazionale su Ludovico Ariosto, organizzato
in occasione del quinto centenario della nascita del poeta, un’ampia relazione
dal titolo L’Ariosto e le arti figurative: 1 in questo consuntivo sul «rapporto, che certo
esistette, intimo e profondo, fra l’Ariosto e le arti figurative del suo tempo», Mantegna veniva
ad occupare un posto fondamentale, rappresentando, per così dire, l’artista di riferimento per
gli anni giovanili del poeta, prima che si accingesse, a partire dall’aprirsi del Cinquecento, all’ideazione
e alla composizione del Furioso: «Era questo, del Pisanello, come quello del Quattrocento
ferrarese, un mondo culturale di cui l’Ariosto si era certo nutrito, ma che ora lasciava dietro
di sé, guardando piuttosto al Mantegna come a colui che indicava la via di un rinascimento
umanistico e classico anche nelle arti figurative, parallelo a quello che il Bembo, a Ferrara, già
negli anni 1498-99 gli indicava per la lingua e la letteratura.» 2
Una posizione ribadita ulteriormente da Gnudi, là dove rifletteva sulle ragioni delle inclusioni
(e delle esclusioni) dei nomi degli artisti moderni nella celebre ottava inserita nel 1532 nella
definitiva edizione del poema (XXXIII, 2): «Altro discorso [rispetto a Giovanni Bellini] si deve
fare per Andrea Mantegna. Per lui, morto nel 1506, la citazione può ben avere un significato
più ampio e retrospettivo, riferito al complesso delle sue opere e non solo alle sue ultime, come
i dipinti per il Camerino di Isabella a Mantova. Mantegna, di cui l’altissima fama correva nelle
corti e negli ambienti culturali nei quali il giovane Ariosto visse e si formò e le cui opere capitali
erano raccolte nella corte mantovana, può ben essere stato da lui considerato il maggior pittore
vivente ai tempi della sua prima giovinezza, sul finire del secolo; e anche in seguito egli dovette
continuare a vedere in lui (a fianco dell’Alberti per l’architettura) il maggiore dei quattrocentisti,
il fondatore di una cultura classica e umanistica nelle arti figurative, oltre che un superbo e
immaginoso inventore di finzioni prospettiche e spaziali.» 3
La fama di Mantegna, in effetti, correva molto alta a Ferrara, negli anni in cui Ariosto stava
formandosi come intellettuale e come poeta: 4 apprezzato a corte già a partire dagli anni del
Andrea Mantegna
Minerva che scaccia i Vizi
dal giardino delle Virtù
(part. di Tav. 19),
c. 1497-1502
Tempera su tela,
cm 160 x 192
Parigi, Musée du Louvre
230
Andrea Mantegna. Sempre nell’ultimo decennio del secolo si data una serie di stampe mantegnesche
raffiguranti alcune fatiche di Ercole, pensate con ogni probabilità, come suggerito
dalle dediche («DIVO HERCULI INVICTO»), come un omaggio al secondo duca di Ferrara.
Un’occasione fondamentale per approfondire la conoscenza delle opere mantovane di Mantegna
fu sicuramente offerta ad Ariosto dal soggiorno, nel momento in cui era immerso nell’ideazione
del primo Furioso, presso la corte dei Gonzaga: il 30 gennaio 1507 il cardinale Ippolito
scrive due lettere alla sorella Isabella e a Francesco Gonzaga, marchesi di Mantova, per
congratularsi della nascita, avvenuta il 28 gennaio, del figlio Ferrante, e per pregarli di accogliere
benevolmente Ludovico Ariosto e di «audirlo cum piena fede come faria me proprio»; il
3 febbraio entrambi rispondono al cardinale estense, per ringraziarlo del fraterno interessamento;
celebre è la lettera inviata a Ferrara da Isabella (Tav. 17), testimonianza cruciale non
solo della preistoria del poema, ma anche del rapporto di amichevole complicità che d’ora in
avanti legherà il poeta alla marchesa mantovana: «Et per la lettera della S. V. R.ma et a boccha
da m. Ludovico Ariosto ho inteso quanta leticia ha conceputa dal felice parto mio. Il che mi
è stato summamente grato, cussì la ringratio de la visitacione et particularmente di havermi
mandato il dicto m. Ludovico per che, ultra che ’l me sia stato acetto, representando la persona
di la S. V. R.ma, luy anche per conto suo mi ha addutta gran satisfactione havendomi, cum la
naratione de l’opera che ’l compone, facto passare questi dui giorni, non solum senza fastidio,
ma cum piacere grandissimo, che in questa, come in tutte le altre actione sue, ha avuto buon
Iudicio ad elegere la persona in lo caso mio. De li rasonamenti che, ultra la visitacione, havemo
facti insieme, m. Ludovico renderà cunto alla S. V. R.ma, alla quale mi raccomando.» 5
Ovviamente durante questi giorni mantovani Ariosto dovette avere modo, in compagnia di Isabella,
di vedere con agio i capolavori che Mantegna aveva compiuto per la corte dei Gonzaga,
e in particolare i dipinti realizzati per lo studiolo della marchesa; uno, in particolare, dovette
colpirlo particolarmente e imprimersi nella sua poetica fantasia, e cioè la Minerva che scaccia
i Vizi dal giardino delle Virtù (Tav. 19). Come già argomentato in altre occasioni, 6 tre ottave del
sesto canto del poema (A VI, 61-63) sembrano aver trovato proprio nella raffigurazione dei
mostruosi Vizi messi in fuga dall’irrompere di Minerva/Isabella nel giardino delle Virtù (e in
un dettaglio di un’altra composizione mantegnesca, l’incisone Virtus combusta / Virtus deserta,
dove è raffigurata l’obesa ed ebbra personificazione dell’Ignoranza seduta su una sfera, Fig. 16)
una fonte d’ispirazione, tratta in questo caso non dagli innumerevoli testi compulsati e contaminati
dal poeta, ma da precise e riconoscibili opere figurative:
marchese Leonello, sarà nell’ultimo decennio del Quattrocento che la fortuna dell’artista giungerà
al suo apice nella città degli Este. A questa altezza cronologica il pittore padovano, assunto
ed adottato dai Gonzaga, è diventato l’esempio del perfetto “artista di corte”, capace di illuminare
di gloria riflessa perfino i più illustri committenti: non solo i marchesi di Mantova, i duchi
di Ferrara o Lorenzo il Magnifico, ma anche il pontefice o il re di Francia. Nel 1498 il medico
di corte del duca Ercole I, Francesco da Castello, si dichiarava pronto a «pagarlo da re», pur
di avere una sua opera autografa per il proprio studiolo. Nessun artista ferrarese, nemmeno
il grande Ercole de’ Roberti, che pure aveva saputo dialogare senza alcuna sudditanza con
Mantegna, veniva ritenuto al suo livello. Lo dimostra un episodio avvenuto nel novembre 1494:
volendo assicurarsi il favore di Carlo VIII mediante il dono di uno spettacolare padiglione da
campo, il duca estense chiese che, per l’invenzione e la decorazione del palo di sostegno, ci si
rivolgesse a Mantegna, “prestato” in quell’occasione dai Gonzaga agli Este. Nel marzo del 1499,
scomparso ormai Ercole de’ Roberti, viene nominato come arbitro, per valutare il ciclo di affreschi
di Lorenzo Costa, Niccolò Pisano e di un anonimo maestro modenese destinato a decorare
l’abside del duomo ferrarese, proprio il «magnificum virum integerrimumque dominum»
Fig. 16
Andrea Mantegna
Virtus combusta (Allegoria
della caduta dell’umanità)
(part.), c. 1500
Penna, inchiostro e punta
di metallo su fondo bruno,
lumeggiato di bianco,
sfondo nero su rosso,
mm 286 x 441
Londra, The British
Museum, Department of
Prints and Drawings
Non fu veduta mai più strana torma,
più monstruosi volti et peggio fatti:
alcun’ dal collo in giù d’huomini han forma
col viso poi di can, di simie o gatti;
stampano alcun’ co piè caprigni l’orma,
alcuni son centauri agili et atti;
son gioveni impudenti et vecchi stolti,
chi nudi et chi di strane pelli involti.
Chi senza freno s’un caval galoppa,
chi lento va con l’asino o col bue;
altri salisce ad un centauro in groppa,
molti hanno sotto aquile, struzzi et grue;
ponsi altri a bocca il corno, altri la coppa;
chi femina è, chi maschio, e chi amendue;
chi porta uncino, chi scala di corda,
chi pal di ferro et chi una lima sorda.
232 233
La ricomparsa del nome di Mantegna nella celeberrima ottava sugli artisti moderni, inserita da
Ariosto nella terza definitiva edizione del poema (1532), 9 si spiega così non solo come un segno
della fama nazionale conseguita dall’artista gonzaghesco per tutto il Cinquecento (testimoniata
anche, qualche anno prima, dalla ricorrenza del suo nome nel canone di artisti presenti
nel Cortegiano di Baldassare Castiglione, pubblicato nel 1528 ma ambientato nel 1507), 10 ma
anche come un attestato di una predilezione maturata da Ariosto negli anni giovanili: predilezione
sopravissuta a lungo, anche quando Raffaello, Michelangelo e Tiziano avevano ormai
conquistato un definitivo primato, capace di offuscare la fama di chi, a fine Quattrocento,
poteva ancora apparire come colui che nella pittura «tiene lo impero» 11 o che, per rimanere in
un contesto ferrarese, «porta la corona de questo mestere de depinzere». 12
Di questi il capitan se vedea
c’havea gonfiato il ventre, e ’l viso grasso;
et sopra una testugine sedea
che con gran tardità mutava il passo.
Havea di qua e di là chi lo reggea,
perché egli era ebro et tenea ’l ciglio basso;
altri la fronte gli sciugava e ’l mento,
altri i panni scuotea per fargli vento. 7
L’interesse per le composizioni mantegnesche si colloca, nel primo Furioso, in un contesto di
interessi figurativi che può ancora essere definito come essenzialmente “cortigiano”: informato
cioè sull’orizzonte culturale delle corti frequentate da Ariosto (Ferrara, Mantova e
Urbino) e solo tiepidamente aggiornato, a queste date (ottobre 1515), sulle rivoluzionarie novità
della “maniera moderna” incrociate durante i soggiorni fiorentini e romani: anche nell’ultimo
canto del poema (A XL, 50-72), il fantastico padiglione approntato dalla maga Melissa per le
nozze di Ruggiero e Bradamante, dove Cassandra aveva profeticamente effigiato, ricamandoli
con l’ago e col filo, gli eventi più significativi della vita di Ippolito d’Este, potrebbe aver trovato Fig. 17
una fonte d’ispirazione visiva nel padiglione affidato nel 1494 alle capacità inventive di Mantegna,
intagliato e dipinto «ad istorie cum animali» e arricchito da «ocellitti» talmente vivi che
pareva di sentirli cantare (documentati forse da due disegni di Mantegna raffiguranti uccellini
impegnati a beccare una mosca o delle bacche, Fig. 17), per blandire il re di Francia che stava
minacciosamente scendendo con il suo esercito lungo la penisola. 8
Andrea Mantegna
Uccello su un ramo che
mangia una mosca, c. 1494
Penna e inchiostro bruno
su carta, mm 128 x 88
Londra, The British
Museum, Department of
Prints and Drawings
1. Gnudi 1975, pp. 331-401; il saggio è stato
ripubblicato da ultimo in Reggio Emilia
1994, pp. 13-47 (da cui si cita).
2. Ibid., p. 15.
3. Ibid., p. 39.
4. Per quello che segue si veda Gruyer 1897,
vol. II, pp. 31-32, 141-142; Toffanello 2010,
pp. 26-30; Farinella 2010, pp. 351-382.
5. Catalano 1930-31, vol. II, pp. 77-79 docc.
127-130.
6. Farinella 2011; Farinella 2016, pp. 43-44.
Approfitto di questa occasione per sottolineare
un dato di fatto che mi era sfuggito:
come mi ha fatto amichevolmente notare
Marialucia Menegatti, già Pio Rajna aveva
cautamente avanzato l’ipotesi di un possibile
influsso del dipinto di Mantegna per
Isabella su questi versi di Ariosto. Non
nella prima edizione (1876) del suo ormai
classico studio sulle Fonti dell’Orlando
furioso, ma nella postilla aggiunta in calce
alla seconda edizione corretta e accresciuta
(1900). Per quanto riguarda «il pensiero di
rappresentare le mostruosità morali come
mostruosità fisiche» nel passo ariostesco
in questione, Rajna così precisa: «Elementi
di confronto fornisce la cacciata dei vizi
dipinta dal Mantegna per lo “studiolo” di
Isabella Gonzaga ora al Louvre» (Rajna
1900, ed. 1975, p. 650, nota a p. 180 riga 1).
7. Ariosto 2006, pp. 123-124.
8. Su questa “incredibile” invenzione mantegnesca
si veda la bibliografia citata in Farinella
2016, p. 57.
9. Su questa ottava si veda da ultimo Shearman
2003, vol. I, pp. 873-875, 1532/6; Agosti
2005, pp. 169, 191 nota 57, 287-288, 335 nota
53 e 454; Gareffi 2012, pp. 119-141; Farinella
2014b, pp. 37-38 nota 60.
10. Agosti 2005, pp. 168-170.
11. Per i versi di Giovanni Santi, il padre di
Raffaello, in lode di Mantegna si veda Santi
1985, vol. II, p. 676.
12. Il passo del memoriale di Francesco Mazzoni,
segretario di Albertino Boschetti,
conte di San Cesario sul Panaro (uno dei
congiurati del 1506 che verranno giustiziati
sulla pubblica piazza di Ferrara), è citato in
Agosti 2005, p. 109.
234 235
ARIOSTO
E TIZIANO
–
MIGUEL FALOMIR
La questione del rapporto tra Ariosto e Tiziano ebbe origine quando il pittore era ancora in
vita e fu alimentata dalla sua cerchia, in particolare da Lodovico Dolce, finché Carlo Ridolfi
non ne fece addirittura un mito. 1 Per come si è consolidata tra Cinque e Seicento, essa si
articolava su tre fattori: l’amicizia che avrebbe legato l’artista e il poeta, la familiarità con Alfonso I
d’Este di cui entrambi godettero, e i “prestiti” o le analogie tra le forme pittoriche dell’uno e quelle
letterarie dell’altro.
Che Tiziano e Ariosto si conoscessero è fuor di dubbio: operarono nello stesso periodo alla corte
di Alfonso e l’artista eseguì almeno due ritratti del poeta. 2 Sul fatto che fossero amici – o sul
grado della loro amicizia – gli storici hanno espresso per lo più scetticismo, a partire da Crowe
e Cavalcaselle, che hanno notato come la corrispondenza di Ariosto sia priva di indizi in merito,
assenti anche nelle fonti tizianesche coeve. 3 Non meno dubbia è la pretesa parità che Alfonso
d’Este avrebbe attribuito ad Ariosto e Tiziano, e che secondo Ridolfi era sancita da una delle
tele che avrebbero decorato il catafalco, progettato ma mai realizzato, del cadorino, nella quale
erano raffigurati Alfonso e i suoi cortigiani in atto di ascoltare Ariosto che declamava i suoi versi
mentre Tiziano dipingeva. 4 Le passioni estetiche di Alfonso sono ben documentate, come lo è la
costellazione di ingegni di cui egli si circondò, ma, come già osservava Paolo Giovio nella Vita di
Alfonso da Este duca di Ferrara (Firenze 1553), tra questi ingegni Ariosto occupava una posizione
dominante. 5
Il rapporto d’amicizia e la frequentazione degli stessi ambienti avrebbero generato, secondo gli
estimatori del pittore, un fecondo scambio di idee tra i due. Dice Ridolfi che Ariosto consultava
Tiziano sulle proprie invenzioni, 6 ma gli storici moderni non accolgono questa affermazione, così
come nulla comprova il ruolo del poeta come “consulente iconografico” di Tiziano per i Camerini
d’alabastro, anche se Shearman gli accredita la sofisticata fusione di fonti letterarie sottesa
al Bacco e Arianna del maestro veneziano (Fig. 18). 7 Fuori dall’ambito dei Camerini, c’è una sola
opera di Tiziano che riprende una scena descritta da Ariosto, il disegno Paesaggio con Ruggiero
Fig. 18
Tiziano Vecellio
Bacco e Arianna, c. 1520-23
Olio su tela, cm 176,5 x 191
Londra, The National
Gallery
236
e Angelica (Fig. 19), eseguito parecchio tempo dopo la morte del poeta, che, curiosamente, si
distingue per la sua libertà nei confronti della fonte letteraria. 8 E proprio la sua non letteralità
mette in luce uno dei tratti condivisi da Ariosto e Tiziano: la tendenza a rielaborare le fonti in
maniera disinibita e spesso ironica, ma senza smentire la conoscenza delle tradizioni poetiche e
pittoriche precedenti. 9 Le affinità tra i due vanno cercate nelle rispettive posizioni e concezioni
estetiche, più che nella puntualità tematica, e da questa prospettiva si possono in effetti rilevare
concomitanze plausibili. Come fa Lodovico Dolce nel suo Dialogo della pittura (Fig. 20), quando,
riprendendo l’oraziano ut pictura poesis, afferma a proposito della bellezza di Alcina: «Qui l’Ariosto
colorisce, et in questo suo colorire dimostra essere un Titiano». 10 Una simile osservazione
assume un senso pieno quando si tengono presenti gli altri parallelismi tra pittori e letterati
tracciati da Dolce: Dante e Michelangelo, Petrarca e Raffaello. Alla “difficoltà” rappresentata
dal binomio Dante/Michelangelo egli contrappone la “facilità” di Petrarca/Raffaello e Ariosto/
Tiziano, creatori di un’arte volta a procurare piacere ai suoi fruitori, e per ciò stesso superiore: «I
migliori sono i più facili». Altrettanto calzante appare l’accostamento tra Ariosto e Tiziano compiuto
da Giovanni Paolo Lomazzo nel suo Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura
(1584), motivato dal dispiego di varietas o, come stabilisce la moderna storiografia artistica, dal
comune ricorso al non finito come mezzo espressivo e argomentativo. 11
Per concludere mi soffermerò sull’espressione «eroica maestà», coniata da Dolce per definire le
figure di Tiziano, che secondo Roskill costituiva un’alternativa alla «terribilità» michelangiolesca.
12 Già nella sua Apologia contra ai detrattori dell’Ariosto, pubblicata in appendice alla ristampa
del 1535 dell’Orlando furioso, Dolce aveva usato queste parole per descrivere l’eleganza linguistica
del poeta: «Non è lettori il verso dell’Ariosto gonfio & aspero, ma alto e grave, e quello a
punto si conviene all’Heroica Maestà». Questa «heroica maestà» è stata assimilata, a mio parere
Fig. 19
Tiziano Vecellio
Paesaggio con Ruggiero e
Angelica, c. 1550
Penna e inchiostro bruno
su carta, mm 256 x 405
Bayonne, Musée
Bonnat-Helleu
Fig. 20
Lodovico Dolce
Dialogo della pittura
Venezia, Gabriele
Giolito, 1557
Venezia, Biblioteca
Nazionale Marciana.
Su concessione del
Ministero dei beni e delle
attività culturali e del
turismo
felicemente, ai ritratti imperiali di Tiziano (nella sua Vita di Carlo V, del 1561, Dolce allude alla
«bellezza eroica del corpo» dell’imperatore), 13 e questo suggerisce un’ulteriore considerazione:
Ariosto, in quanto prototipo del letterato cortigiano, dovette costituire un modello perfetto per
Tiziano, divenuto artista di corte.
Dalle fonti cinque-seicentesche si deduce che l’accostamento tra Tiziano e Ariosto ebbe origine
nel XVI secolo. I vantaggi per Tiziano, al di là di questo luogo comune del loro apparentamento,
appaiono evidenti. L’inserimento del suo nome nel XXXIII canto della terza edizione dell’Orlando
furioso (1532) fu determinante per la sua fortuna critica. Per la prima volta egli figurava accanto
ai grandi pittori del passato e del presente, proprio nel momento in cui cercava il riconoscimento
della corte imperiale, quella stessa che nel 1532 presenziò a Mantova alla donazione da parte di
Ariosto a Carlo V di una copia del poema. Non arriverei ad affermare che il riconoscimento da
parte di Ariosto influì su ciò che Carlo concesse a Tiziano un anno dopo – vale a dire il titolo di
cavaliere palatino –, ma certo esso fornì al pittore una sorta di certificazione di cui ancora non
godeva quando incontrò l’imperatore per la prima volta nel 1529. Inoltre, per circa un ventennio
i versi di Ariosto furono il maggiore elogio a stampa ricevuto dall’artista, e ciò spiega la considerazione
di cui godette nel suo ambiente. Basti dire che Dolce, scrivendo del suo adorato Ariosto
nel Dialogo della pittura, equiparò Tiziano ad artisti come Sebastiano del Piombo o i Dossi e si
spinse fino a conferirgli l’appellativo di «divino», che Ariosto aveva riservato a Michelangelo. 14
Dal canto suo Tiziano – e con lui il suo entourage – era pienamente consapevole dell’importanza
di quei versi. Lo straordinario successo che l’Orlando furioso ebbe in tutta Europa (ben superiore
al favore riscosso da qualunque trattato artistico) fece sì che il suo nome, affiancato a quelli di
238 239
Raffaello e Michelangelo, giungesse là dove non lo avrebbero portato i suoi dipinti; anche dove
le sue opere affluivano in gran numero, come in Spagna, Ariosto e il suo poema furono cruciali
nell’assicurargli fama e prestigio. 15
Se Ariosto contribuì in misura notevole a diffondere il nome di Tiziano, quest’ultimo ebbe un
ruolo cruciale nel tramandare l’immagine del poeta attraverso i suoi ritratti. Merita un breve
commento quello inserito, in versione incisa, nell’edizione definitiva dell’Orlando furioso del 1532
(Fig. 47). 16 Si tratta di un profilo che ricalca la tipologia delle monete antiche, ma si differenzia
dai precedenti esempi italiani per la mancanza di attributi o simboli riferiti allo status di poeta
del modello. Tiziano sfrutta invece la calvizie di Ariosto per dare risalto alla sua fronte ed enfatizzare
così la sua vis intellettuale. È quasi impossibile guardare questo ritratto senza pensare a
quello di Philip Melanchton eseguito da Dürer nel 1526, ed è innegabile che esso fissò un modello
per i ritratti di scrittori veneziani che sarebbero seguiti nei decenni successivi. Ci si può inoltre
domandare se, raffigurandosi di profilo nel suo ultimo autoritratto – conservato al Museo del
Prado – Tiziano non mirasse a stabilire una definitiva identificazione tra sé e Ariosto.
1. La bibliografia è assai vasta e dovrò limitarmi
a citare solo qualche titolo. Per un’impostazione
generale rimando a Padoan
1980.
2. Il tema dei ritratti di Ariosto è trattato in
Paoli 2015.
3. Vedi Crowe e Cavalcaselle 1877-78, vol. I,
pp. 146-147.
4. La scena conteneva l’iscrizione Titianus
Ferrariam ductus ab Alphonso I. ipsus
Ludouicique Ariosti intima usus familiaritate;
Ridolfi 1648 (ed. 1914-24), vol. I, p. 214.
Sull’attendibilità della testimonianza di
Ridolfi si veda Land 2004.
5. Checa 2013, p. 79.
6. Ridolfi 1648 (ed. 1914-24), vol. I, p. 162.
7. Shearman 1992, pp. 256-261.
8. Freedman 2001.
9. Tra gli altri vanno segnalati Fehl 1992, pp.
24-25, e Rosand 2004, pp. 35-44.
10. Questa e la citazione seguente sono tratte
da Dolce 1557 (ed. 1960), pp. 173, 196.
11. Barolsky 1998, p. 461.
12. Dolce 1557 (ed. 1960), p. 145. Roskill 2000, p. 225.
13. S. Arroyo Esteban in Dolce 2010, pp. 28-29.
14. Dolce 1557 (ed. 1960), p. 150.
15. Selig 1973, p. 310 nota 7.
16. Si tratta di una xilografia ricavata da un
disegno di Tiziano, come attesta una lettera
di Giovanni Maria Verdizzotti a Orazio
Ariosto del 27 febbraio 1588; Crowe e Cavalcaselle
1877-78, vol. I, p. 171. Per quanto
riguarda il ritratto, vedi Venezia 1976, pp.
193-194.
240 241
LA MUSA
COME AMANTE
–
ULRICH PFISTERER
In amore Ariosto è furioso quasi come Orlando. Già nella seconda ottava del poema, l’autore
paragona il folle amore di Orlando per Angelica ai propri sentimenti per l’amata, e invoca
quest’ultima come fonte d’ispirazione della sua opera: «Se da colei che tal quasi m’ha fatto, /
ch’el poco ingegno ad hor ad hor mi lima.» 1 Questa nuova forma di invocatio musae suscitò giudizi
contrastanti già nei contemporanei di Ariosto. Alcuni vi vollero vedere un richiamo al modello
virgiliano, del resto piuttosto comune per questo genere di testo, altri invece sottolinearono la
novità e la singolarità di questo appello, che racchiude in sé la confessione di sentimenti tanto
impetuosi. 2 In ogni caso si annuncia già nel proemio, e non solo in esso, una diversa concezione
dell’amore (cortese), amore che Ariosto innalza a uno dei temi centrali del poema stesso. 3 L’atto
creativo, la scrittura poetica trovano la loro principale motivazione in un desiderio amoroso di
natura mondana e sensuale. La musa astratta e quasi incorporea di Virgilio si trasforma in Ariosto
in un’amante vera, in grado di privare il poeta della sua capacità di raziocinio; né è significativo,
dal punto di vista dell’efficacia di questi versi, il fatto che il lettore sia a conoscenza della
relazione sentimentale che legava Ariosto ad Alessandra Benucci, o che piuttosto presti fede alla
dimensione finzionale del testo letterario. In verità, l’immagine di un’amante reale in veste di
musa esisteva fin dall’antichità e, per avvicinarsi al tempo di Ariosto basti pensare all’esempio di
Dante e Petrarca. Da questo punto di vista il gruppo dei “contemporanei” avrebbe potuto a sua
volta citare una tradizione consolidata e contestare così la presunta novità introdotta dai versi
della seconda ottava. Eppure, Ariosto attribuisce all’ispirazione amorosa una qualità nuova, una
forza che domina spirito e corpo oltre i limiti fino a quel momento consentiti.
È l’idea provocatoria di un’ispirazione di natura sensuale ed erotica che, negli anni intorno al 1500,
avvia una trasformazione dell’immagine delle muse, o meglio, che fa apparire la musa in veste di
amante e al contempo l’amante in veste di musa. Si tratta di un procedimento estetico che, in ultima
istanza, conduce a un obiettivo incerto: non è chiaro, infatti, se sia l’immagine personificata ad
essere “naturalizzata”, cioè resa presente e concreta, o se non sia invece la donna reale ad essere
elevata al rango di figura idealizzata. 4 Cercheremo quindi di delineare quel processo che, intorno
al 1500, vide da un lato la progressiva “incarnazione” delle muse e l’acquisto da parte loro di qualità
erotiche sempre più spiccate, dall’altro le donne reali comparire nel ruolo di muse. Esemplare di
questo contesto è la cosiddetta Fornarina di Raffaello.
Fig. 21
Raffaello Sanzio
La Fornarina, 1518-19
Olio su tavola, cm 87 x 63
Roma, Galleria Nazionale
d’Arte Antica.
Su concessione del
Ministero dei beni e delle
attività culturali e del
turismo
242
Nel 1503 Jacopo de’ Barbari firma e data un dipinto che rappresenta una donna seduta, vestita
con un abito dalla foggia antichizzante, la testa appoggiata sulla mano in una posa triste e malinconica;
dietro di lei, un vecchio sta per avvolgerla in un mantello, o forse glielo toglie dalle spalle
(Fig. 22). 5 Realizzati ancora a Norimberga, oppure già alla corte del principe elettore di Sassonia,
tutti i dipinti di Jacopo de’ Barbari di questo periodo sono da intendere come una sorta di
“autoritratto” con cui l’artista veneziano espone ai nuovi committenti il suo programma estetico.
Nel caso di questa tavola di piccolo formato, è essenziale rendersi conto che il soggetto rappresentato
non è semplicemente una coppia mal assortita. La giovane donna appoggia il braccio su
una sorta di cerchio o di sfera. Questo elemento a prima vista curioso rivela il suo significato se lo
si interpreta come “sphaíra”, vale a dire come attributo della musa, quale compare, ad esempio,
nelle raffigurazioni dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna. 6 Qui l’obiettivo del pittore non è solo
impressionare il pubblico tedesco attraverso soggetti iconografici antichizzanti. La vera provocazione
sta nelle sue allusioni ironiche: da un lato, la musa non appare felice per il suo trasferimento
nel freddo nord, quel trasferimento che gli umanisti tedeschi del tempo invocavano come
una translatio artium verso le Germanie. E ancora meno entusiasta appare il vecchio che le si
avvicina. La figura maschile potrebbe contenere un impertinente rimando a quello che era considerato
il massimo cultore della poesia d’amore in terra tedesca, l’ormai anziano Konrad Celtis,
che nel 1502 aveva pubblicato i suoi Amores. Pur senza entrare nel dettaglio, vogliamo citare l’elemento
decisivo a sostegno della nostra argomentazione: l’efficacia del dipinto di De’ Barbari si
basa sul fatto che, per l’osservatore, la distinzione tra personificazione astratta in veste antichizzante
e donna reale e sensuale (dal seno scoperto) tende a confondersi. Il letterato o erudito, ormai
anziano, si propone alla giovane donna anche come amante, ma il suo tentativo non può che concludersi
con una delusione. Il pittore gioca insomma con la doppia natura delle personificazioni
femminili, che ora il realismo della pittura rinascimentale poteva efficacemente mettere in luce.
Questa ambivalenza era già stata trattata più volte da Boccaccio in tono sarcastico. Si pensi a
Fig. 22
Jacopo de’ Barbari
Anziano poeta e musa, 1503
Olio su tavola,
cm 40,3 x 32,4
Philadelphia Museum
of Art, John G. Johnson
Collection, 1917
Fig. 23
Leonardo da Vinci
(copia da)
Profilo di giovane donna
con ghirlanda di edera,
c. 1490-1510
Incisione su carta,
mm 136 x 130
Londra, The British
Museum, Department of
Prints and Drawings
quando scrive, per esempio, che le muse nude possono ispirare, ma anche indurre al desiderio
della carne (Teseida 12, 84); che muse e donne appaiono senz’altro simili le une alle altre, ma
alle muse il poeta non ha dedicato un solo verso, alle donne invece migliaia (Decameron 4, 35);
che, seppur esistano tante cose buone femminili o personificate al femminile, rimane sempre tra
loro una differenza decisiva: «Tutte sono femmine, ma non pisciano» (Il Corbaccio). 7 Nei dipinti
dedicati alle muse e realizzati a Ferrara intorno agli anni 1455-60 per lo studiolo di Leonello
d’Este a Belfiore, è possibile osservare, forse per la prima volta, laccentuazione degli elementi
corporei, che a volte assumono addirittura una valenza erotica. 8 Ma se in queste opere la carnalità
delle muse è ancora poco più che unallusione, una delle calcografie della «ACH[ADEMI]
A LE[ONARDI] VI[NCI]», risalente alla fine del Quattrocento, presenta una giovane donna dal
seno scoperto che difficilmente può essere intesa altrimenti che come una figura erotica, a un
tempo ispiratrice e dea protettrice del circolo maschile degli artisti (Fig. 23). 9 Negli stessi anni,
in ogni caso prima del 1499, Tullio Lombardo si raffigura in un rilievo, sotto forma di autoritratto
idealizzato, accanto ad una musa con il seno scoperto (può davvero trattarsi della moglie, come
suggerito?). 10
Anche la concezione del rapporto di Petrarca con Laura sembra sottoposta, a partire dal 1500, a
una sorta di traslazione: da questo periodo cominciano ad apparire delle miniature in cui Laura
e il poeta sono rappresentati nudi e in foggia antichizzante; e anche le commedie del XVI secolo
alludono apertamente alla dimensione erotico-carnale della loro relazione. 11
Al contrario, almeno dal tardo Quattrocento si verificano situazioni in cui una donna reale
assume un ruolo analogo a quello di una musa. Si pensi per esempio all’orazione tenuta da Cassandra
Fedele all’Università di Padova nel 1487: nella xilografia che Dürer dedica all’episodio,
la celebre erudita si china dalla cattedra per deporre sulla testa di due congiunti, inginocchiati
davanti a lei, il cappello dottorale; la composizione della scena ricorda da vicino l’immagine delle
muse attorniate dai loro ammiratori maschi negli studioli di Urbino e di Gubbio. 12
244 245
Se a nord delle Alpi Jacopo de’ Barbari sperimenta forme nuove e osa un’immagine erotica e
sensuale delle muse, in Italia Giorgione – o il giovane Tiziano? – si cimenta in modo esplicito con
questo tema. È evidente, per esempio, che nella scena immaginaria illustrata dal Concerto campestre
del Louvre le due ninfe nude non sono visibili ai musicanti, perché appartengono a un diverso
ordine di realtà; eppure esse evocano nell’osservatore un ambiente naturale carico di erotismo, lo
stesso che ispira evidentemente le fantasie dei due giovani uomini nel dipinto.
Nello stesso contesto si inserisce, e a maggior ragione, il ritratto della giovane donna raffigurata
con un arbusto di alloro, dal quale ha tratto il nome con cui è comunemente noto, Laura. 13 Con
sguardo pacato, la giovane si scopre il seno, sotto il mantello rosso foderato di pelliccia. Non vi
sono altri attributi che facciano pensare a una tela realizzata per la celebrazione di un matrimonio
o che identifichino la figura. La chiave interpretativa più convincente appare quella di
valorizzare di nuovo la tensione tra donna concreta, erotico-carnale, e femminilità ideale, sulla
base del concetto di ispirazione petrarchesca: l’amata come musa o l’immagine desiderata di una
musa dalle qualità erotiche come stimolo estetico ed espressione della tensione spirituale di un
ricco erudito e letterato.
Il cosiddetto “ritratto della Fornarina” dipinto da Raffaello intorno al 1520 si inserisce appieno
in questo contesto (Fig. 21). 14 Il dipinto mostra una donna dal busto scoperto, sullo sfondo un
cespuglio di mirto e un ramo di cotogno. Fu probabilmente Leonardo a dare una dimensione
nuova, nella Roma del 1513-16, al tema del nudo femminile, con un dipinto che ritraeva l’amante
di Lorenzo de’ Medici (“Monna Vanna”). 15 Anche se l’originale è andato perduto, diverse copie
Fig. 24
Scuola di Leonardo
da Vinci
La Gioconda nuda detta
Monna Vanna, c. 1515
Gesso nero su carta,
mm 724 x 540
Chantilly, Musée Condé
Fig. 25
Jan Sander van Hemessen
Allegoria (Natura come la
balia dell’arte), c. 1550
Olio su tavola, cm 159 x 189
L’Aia, Mauritshuis, in
prestito a lungo termine
al Rijksmuseum di
Amsterdam
presunte e opere di analogo soggetto permettono di ricostruirne i tratti più importanti (Fig. 24).
Anche Raffaello si ispirò a questo dipinto, solo che la Fornarina è molto più di un semplice ritratto.
La tavola ha suscitato una ridda di ipotesi sull’identità della donna raffigurata; più aumenta il
divario temporale, più precise e dettagliate sembrano farsi le informazioni a supporto dell’una
o dell’altra tesi: amante di Raffaello, anonima cortigiana, fidanzata e sposa, dea Venere. È stato
accertato che le prime fonti scritte che identificano la donna ritratta come un’anonima amante
di Raffaello risalgono all’inizio del Seicento. Il nome “Fornarina” compare per la prima volta in
un’incisione del 1772, mentre si deve attendere il 1897 per identificare la modella con una donna
di nome Margherita Luti. 16 L’ipotesi che si tratti dell’amante del pittore sarebbe avvalorata, oltre
che dalla smodata passionalità attribuita da Vasari a Raffaello, anche dal bracciale che cinge il
braccio della donna e reca l’iscrizione «RAPHAEL VRBINAS». Con questo bracciale, Raffaello
non si limita a firmare l’opera e affermare le sue prerogative nei confronti della donna; il monile
simboleggia un legame amoroso simile a quello celebrato dal Cantico dei Cantici (8, 6): «Mettimi
come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio». Per quanto sia convincente l’interpretazione
del bracciale come pegno d’amore per l’amata, esso racchiude in sé un significato sovrapersonale.
Un ornamento simile si trova nelle statue classiche della dea Venere, a cui rimandano
anche la posa del braccio e, per certi aspetti, la forma del viso. In quest’ottica, la Fornarina è un
perfetto connubio tra donna reale e creatura idealizzata. Infine bisognerebbe riflettere in che
misura il braccialetto abbia qualità altrimenti attribuite a gioielli affini e al pegno d’amore per
eccellenza, l’anello. Già nel Medioevo era nota la leggenda secondo la quale una statua di Venere,
con l’aiuto di un anello magico, avrebbe soggiogato un giovane uomo. 17 Ariosto si serve di un
anello del diavolo per un greve scherzo misogino nella sua Satira V: il pittore Galasso desidera,
come ricompensa per aver dipinto il diavolo con belle fattezze, ricevere da quest’ultimo un mezzo
246 247
che gli permetta di controllare la fedeltà della moglie. In sogno il diavolo gli infila un anello al
dito. La morale del racconto si rivela al pittore al suo risveglio: «Lieto ch’omai la sua senza fatica /
potrà guardar, si sveglia il mastro, e truova / che ’l dito alla moglier ha ne la fica. / Questo annel
tenga in dito, e non lo muova / mai chi non vuol ricevere vergogna / da la sua donna.» 18
C’è un altro elemento decisivo del ritratto che non è stato finora preso in considerazione. Se la
posa del braccio rimanda a un gesto di pudicizia diffuso nell’antichità classica, l’intento di Raffaello
potrebbe essere un altro: la donna mostra il petto all’osservatore premendosi leggermente
il seno. 19 Questo gesto, per quanto discreto, fa innegabilmente riferimento a un motivo pittorico
sviluppato in modo particolarmente esplicito dalla bottega di Botticelli: in questo caso non solo
la musa si preme il seno, ma dal suo seno sgorga il latte ispiratore. Intorno alla metà del Cinquecento
il pittore fiammingo Jan Sander van Hemessen raffigura anche un poeta o cantore sul cui
strumento musicale cadono stille di latte dal seno di una musa (Fig. 25). La potenza del latte delle
muse è stata celebrata già dai poeti classici (Antologia Palatina 16, 217), secondo una tradizione
che lo stesso Dante riprende nel descrivere Omero (Purgatorio XXII, 11): «Che le Muse lattar più
ch’altro mai». Nel poema La Plainte du désiré di Jean Lemaire de Belges del 1504 (dato alle stampe
nel 1509), per la prima volta una personificazione dell’arte descrive alcuni pittori – Leonardo da
Vinci, Giovanni Bellini e Perugino – definendoli «mes beaux enfants nourris de ma mamelle». 20
E lo stesso Vasari, nel delineare le personalità antitetiche di Raffaello e Michelangelo, attribuisce
un’importanza decisiva al fatto che Raffaello fosse stato allattato dalla propria madre mentre
Michelangelo fosse stato affidato a una balia di Settignano, villaggio di scultori e scalpellini. 21
Lo sguardo insolitamente diretto della Fornarina richiama alla mente tutte queste riflessioni:
l’azione ispiratrice dello sguardo non si esplica all’interno dello spazio figurativo, la sua forza scaturisce
con immediatezza dal dipinto, suscitando una reazione nella persona che lo contempla.
È ormai impossibile stabilire con certezza chi fosse in origine il destinatario di questo sguardo.
Tuttavia il nuovo gruppo degli “amanti dell’arte” deve aver riconosciuto nella sensualità discinta
della donna ritratta da Raffaello una personificazione dell’amore per le opere d’arte, più volte
celebrato all’inizio del Cinquecento. 22 D’altro canto, l’insolita composizione e il bracciale con la
firma dell’Urbinate sostengono l’ipotesi che il principale destinatario fosse il pittore stesso. Alla
luce della crescente importanza attribuita alla pittura, innalzata al rango di arte libera e sorella
della poesia, l’intenzione di Raffaello potrebbe esser stata quella di rivendicare una musa a essa
dedicata. Questa ipotesi appare tanto più verosimile se si considera che proprio artisti a lui vicini,
intorno al 1520, dipinsero la prima personificazione della pittura. 23 In definitiva, tanto la raffigurazione
di un’amante in veste di musa quanto l’immagine idealizzata di una personificazione
a cui vengono conferite le attrattive di un’amante rispondono perfettamente ai tentativi, portati
avanti nella cerchia di Raffaello, di indagare il potenziale di un linguaggio figurativo erotico, se
non addirittura pornografico. 24 Sia che simboleggi la rivendicazione, da parte dell’urbinate, di
una musa dedicata alla sola pittura, oppure che sia, più genericamente, il ritratto di una musa-amante
in carne e ossa, La Fornarina si colloca nello stesso orizzonte rappresentativo nel quale
Ariosto apre il suo poema dichiarando il suo amore folle: «Se da colei che tal quasi m’ha fatto, /
ch’el poco ingegno ad hor ad hor mi lima».
1. Of A I, 2, 5-6.
2. Si veda il commento di Girolamo Ruscelli:
Ludovico Ariosto, L’Orlando furioso… Con le
Annotationi, gli Avvertimenti, & le Dichiarationi
di Ieronimo Ruscelli, Venezia 1568, p. 8
e seg.: «Questi due versi, detti di sopra, cio e,
Se da colei, & c. sono l’invocatione dell’Autore,
& non sta però così di piatto ò nascosta,
nè è cosi nuova ò insolita, come pare a
qualche bello spirto. Percioche per certo
assai chiara & aperta sta ella, & con molta
leggiadria ad imitation di Virgilio.»
3. Tema trattato recentemente in modo esauriente
in Steigerwald 2014, pp. 285-302.
4. Sul tema della figura femminile segnalo le
interessanti riflessioni metodologiche condotte
da Elizabeth Cropper (1995) e Lina
Bolzoni (2010).
5. Philadelphia Museum of Art; su questo
dipinto si vedano Ferrari 2006, p. 99 e
segg., cat. 12; Dal Pozzolo 2008, p. 51 e segg.;
Böckem 2012.
6. Questa interpretazione è presentata in
modo esauriente in Pfisterer 2014a, pp.
75-101.
7. Giovanni Boccaccio, Opere, vol. V, Bari
1940, pp. 217 e segg.; a questo proposito si
veda Foster Gittes 2008.
8. Campbell 1995.
9. Sulle incisioni di questo gruppo si veda
Bambach Cappel 1991.
10. Doppio ritratto, Venezia, Ca’ d’Oro, Galleria
Giorgio Franchetti, vedi Luchs 1989;
un’altra interpretazione è proposta in Kryza-Gersch
2007.
11. Trapp 2001; Philipps-Court 2010.
12. Schweinfurt 2002, pp. 70-72.
13. Vienna, Kunsthistorisches Museum;
Brouard 2012; Helke 1999. Per l’interpretazione
del dipinto come esempio della virtù
coniugale si veda Lüdemann 2008.
14. Per informazioni esaustive sul dipinto e
sullo stato attuale degli studi al riguardo si
rimanda a Mochi Onori 2002 e Meyer zur
Capellen 2008, pp. 144-149, cat. 78; si veda
inoltre Arasse 1990, pp. 13-24; Craven 1994.
15. Per una disamina completa sul ritratto di
Leonardo si rimanda a Brown e Oberhuber
1978.
16. Per le fonti si rimanda all’appendice in
Pfisterer 2012, pp. 62-83; vedi anche i più
recenti tentativi di identificazione in Ferrigno
2013.
17. Hinz 1989; per la tradizione classica si veda
Bettini 1992.
18. Ariosto 1954, pp. 548-560, vv. 298-328.
La figura del pittore potrebbe riferirsi a
Galasso Galassi da Ferrara. Questa Satira è
ispirata alla Facetia 133 di Poggio Bracciolini.
Ringrazio sentitamente Marco Collareta
per l’indicazione.
19. Si veda il frammento di un dipinto di Paris
Bordon più tardo e esplicito in New York e
Fort Worth 2008-09, pp. 323 e seg., cat. 149;
più in generale su questo tema si vedano
Bertelli 2002, pp. 65-112 e Sperling 2013.
20. Lemaire de Belges 1885 (ed. 1969), p. 162.
21. Vasari 1550 e 1568 ed. 1966-87, vol. IV, p. 156
e seg. e vol. VI, p. 5.
22. Sull’importante tematica dell’“amore per
l’arte” si veda Pfisterer 2014b.
23. Kliemann 1985, pp. 73-82; Pommier 2001;
Culatti 2007.
24. Talvacchia 1999.
248 249
«SICURO IN SU LE CARTE
VERRÒ, PIÙ CHE SU LEGNI,
VOLTEGGIANDO»
–
VLADIMIRO VALERIO
Un poema come l’Orlando furioso, che ha come teatro di rappresentazione scenica l’intero
globo terracqueo e la cui trama si sviluppa sovente con lunghe descrizioni di terre
percorse a gran velocità da vari eroi su un ippogrifo, non può che fondarsi su una conoscenza
quantomeno letteraria e figurata del mondo.
Il riconoscimento dei luoghi e le fonti geografiche dell’opera di Ariosto sono da sempre state un
terreno di studio e di confronto, che ha portato gli studiosi alle analisi dei più minuti particolari
delle lunghe descrizioni di luoghi e ha messo anche a dura prova le loro capacità interpretative
e le loro conoscenze storico-geografiche. 1 Terre dai nomi misteriosi, fantasiosi, trasposizioni
di nomi reali, o semplicemente uso di fonti ignote, rendono ancora oggi la lettura dei percorsi
geografici degli eroi del Furioso affascinante, non senza qualche vena di turbamento. 2
Si sa per certo che Ariosto avesse mappe geografiche dinanzi a sé, altrimenti alcuni percorsi,
per quanto frutto anche di invenzione poetica sarebbero stati difficilmente realizzabili in versi.
L’uso di carte da parte di autori di viaggi, fantasiosi o meno, è una tradizione che può dirsi consolidata
dal Medioevo in poi. E quando non si disponeva di carte cui affidarsi se ne inventavano
o disegnavano di apposite: si va dalla Utopia di Thomas More 3 alla Città del Sole di Campanella, 4
passando per l’inesistente isola di Frisland di Nicolò Zeno, 5 e giù per i secoli fino alle avventure
di Robinson Crusoe del 1719 e ai viaggi di Gulliver del 1726. 6 C’è poi chi ne ha fatto una cifra
del proprio linguaggio, come Joseph Conrad, che unisce viaggi realmente esperiti e mappe
realizzate sui luoghi. 7 Un variegato uso e abuso delle mappe per localizzare avvenimenti o per
rendere il racconto più veritiero o, al contrario, più fantastico e avvincente.
I poemi fatti di guerre, inseguimenti e conquiste, anche solo dell’anima, si prestano a questo
tipo di uso delle mappe e ciò vale tanto per la stesura, nella fase dell’invenzione narrativa,
quanto per la lettura critica, nella fase di ricostruzione dell’opera. Quanto la mappa o la descrizione
di un viaggio reale sia strutturale al racconto e faccia parte della costruzione stessa della
trama, realizzata attraverso apposite ricerche dell’autore, e quanto sia invece solo un elemento
aggiuntivo, posteriore o posticcio, è spesso difficile dire.
Anonimo portoghese
Charta del navicare
(detta del Cantino)
(part. di Tav. 54), 1501-02
Manoscritto a inchiostro
e tempera su pergamena,
mm 1050 x 2200
Modena, Biblioteca
Estense Universitaria. Su
concessione del Ministero
dei beni e delle attività
culturali e del turismo
250
Vi può essere un uso di mappe e descrizioni geografiche in letteratura, ma vi è anche un uso e
un condizionamento della letteratura nella descrizione dei luoghi. La visione dei luoghi è non
solo frutto dei sensi, poiché questi sono sempre sottoposti alla lente deformante della letteratura,
delle conoscenze del viaggiatore, o semplicemente delle sue aspettative. Una classica
invenzione nella letteratura di viaggio è il canto dell’usignolo che Cristoforo Colombo dice di
aver sentito nell’isola che egli battezza Hispaniola, e che descrive in una lettera del febbraio del
1493: «y cantava el ruiseñor y otros paxaricos» ma, è stato osservato, «l’usignolo di cui egli credette
di sentir risonare le foreste di Haiti non è mai esistito in quelle regioni», 8 il suo canto era
solo il frutto di una sua trasposizione letteraria, di quanto la sua cultura gli imponeva di vedere
e di sentire in quei luoghi, geograficamente prossimi al paradiso terrestre. 9
Insomma, il rapporto tra descrizione autoptica dei luoghi e versione letteraria è sempre complesso
e in qualche modo finto.
Nel caso di Ludovico Ariosto, egli stesso non fa mistero dell’utilizzo di mappe per «volteggiar»
i mari del mondo e ci mette sull’avviso della sua propensione all’uso di mappe e della sua dimestichezza
con esse (Fig. 26). Nella terza Satira, 10 dedicata a suo cugino Annibale Malagucio,
descrivendo la sua predisposizione verso i piccoli piaceri domestici («meglio una rapa / ch’io
cuoca [...] che all’altrui mensa tordo, starna o porco / selvaggio»), accenna ai vari appetiti degli
uomini ai quali «a chi piace la chierca, a chi la spada, / a chi la patria a chi li strani liti», mentre,
conclude, «a me piace abitar la mia contrada».
Questo non vuol dire disinteresse per la conoscenza geografica dei luoghi, quanto piuttosto la
Fig. 26
Mappamondo di Johannes
Ruysch, 1507
Incisione su rame,
mm 405 x 535
Collezione privata
Fig. 27
Claudio Tolomeo
Cosmographia, tavola
decima dell’Asia
Bologna, Domenico de’
Lapi, [1477]
Modena, Biblioteca
Estense Universitaria.
Su concessione del
Ministero dei beni e delle
attività culturali e del
turismo
proposizione di una sua personale “via” al viaggio, da letterato cui piace più «di posar le poltre /
membra, che di vantarle che alli Sciti / sien state, agli Indi, a li Etiopi, et oltre».
Dichiara di aver visto «Toscana, Lombardia, Romagna, / quel monte che divide e quel che serra /
Italia, e un mare e l’altro che la bagna». E ciò gli è sufficiente perché, se volesse visitare altri
luoghi «il resto della terra, / [...], andrò cercando / con Ptolomeo», e tutto questo lo potrà fare
«senza mai pagar l’oste» e «sia il mondo in pace o in guerra». Potrà anche viaggiare sul mare
perché «sicuro in su le carte / verrò, più che sui legni, volteggiando», e senza dover raccomandar
l’anima a dio.
La frase sembra riprendere un topos letterario caro alla cultura antica, di guardar da terra, in
tutta sicurezza, la furia del mare. Famosi i versi di Lucrezio, nell’incipit del secondo libro del De
Rerum Natura, allorché l’autore osserva come sia dolce «mentre nel grande mare i venti sconvolgono
le acque, guardare dalla terra la grande fatica di un altro; non perché il tormento di qualcuno
sia un giocondo piacere, ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.» 11
Versi dai quali Ariosto sembra trarre una trasposizione autobiografica, caratteriale, direi.
Egli propone insomma dei viaggi sicuri, da studioso amante del proprio scrittoio. 12
Le date definite dall’abbozzo del poema, tra il 1504 e il 1507, e la stesura pronta per la prima
edizione dell’opera nel 1516, pongono dei limiti temporali molto precisi alle possibili fonti grafiche
di Ariosto. Inoltre la citazione di Tolomeo nella Satira III, realizzata nel 1518, ci conferma
l’uso di un’edizione della Geografia realizzata ben prima di quella data e certamente utilizzata
per la prima redazione dell’Orlando furioso. 13 Volendo restringere l’ambito alle sole opere a
252 253
stampa (i manoscritti risultavano anche di grande formato e poco maneggevoli), al 1504 risultano
pubblicate in Italia quattro edizioni della Geografia di Tolomeo: una a Vicenza, nel 1472,
ma priva di mappe, una a Bologna nel 1477 (Fig. 27), una a Roma nel 1480 e un’altra a Firenze,
nel 1482, ma in versi e con testo completamente rivisto, e di ardua lettura.
Le ultime tre edizioni erano corredate di immagini cartografiche con nomi di città, regioni,
monti, fiumi e popoli, a costituire una fonte di ineguagliabile stimolo di enorme impatto visivo.
È probabile che Ariosto avesse a disposizione una copia dell’edizione bolognese (vedi Tav. 55)
realizzata da personaggi vicini alla corte Estense, quali il miniaturista Taddeo Crivelli, incaricato
della realizzazione delle mappe.
Altre mappe che potessero stimolare la fantasia ed essere usate per la ricerca di nomi e di luoghi
ve ne erano alla corte ferrarese, e tra queste certamente si impone, per importanza documentaria
e per bellezza, la cosiddetta carta del Cantino (Tav. 54), realizzata a Lisbona nel 1502,
ove per la prima volta compaiono le terre del nuovo mondo. Almeno un verso del poema, nel
canto quindicesimo, dove si esprime la profezia di Andronica, potrebbe rimandare a questa
carta: «Veggio la santa croce, e veggio i segni / imperial nel verde lito eretti.» 14 Sulla carta del
Cantino compaiono i vessilli di Castiglia sulle terre recentemente scoperte in occidente e risultano
colorate di un intenso verde. 15 1. Accenni alla realtà geografica dell’Orlando
furioso sono già nel quasi contemporaneo
Fornari 1549, mentre il primo studio
sugli aspetti geografici e cartografici veri
e propri è in Bolza 1866. Da ultimo si veda
Doroszlaï 1998 con ampia bibliografia.
2. Ulteriori precisazioni e indagini suoi luoghi
geografici sono in Rajna 1900, Vernero 1913,
Milanesi 1978, Rossi 2006 e, da ultimo ma
non di minore interesse, Furlan 2011.
3. L’Utopia vide la luce nel 1516, stesso anno
dell’Orlando furioso.
4. Pubblicata nel 1602, non fu corredata di
alcuna mappa, ma la descrizione accurata la
rende perfettamente riproducibile.
5. Un’isola di questo nome compare per la
prima volta nella Carta da navegar de Nicolo
et Antonio Zeni, pubblicata a Venezia da un
discendente dei due fratelli, Nicolò Zeno,
nel 1558 e riprodotta in un singolo foglio,
dal titolo “Frisland”, nella bottega di Antonio
Lafreri a Roma intorno al 1570.
6. Entrambe le opere furono corredate di
mappe: “Pictorial map of Robinson Crusoe’s
island”, nell’edizione del 1720, mentre
5 mappe comparvero già nella prima
edizione dei Travels into Several Remote
Nations of the World.
7. «Carte reali, ma anche immaginarie, opere
di cartografi oppure da lui stesso disegnate
nel corso del suo viaggiare [...] Disegnare un
percorso per poterlo poi raccontare, e, viceversa,
raccontare a partire da ciò che si è già
in precedenza visto e disegnato», si veda
Saracino 2006, p. 166.
8. Olschki 1937, p. 19.
9. Su questo si vedano le straordinarie pagine
di Olschki 1937, pp. 11-21.
10. I passi di seguito riportati sono tutti relativi
alla Satira III, 43-66 (Ariosto 1954, p. 526).
11. «Suave, mari magno turbantibus aequora
ventis / e terra magnum alterius spectare
laborem; / non quia vexari quemquamst
iucunda voluptas, / sed quibus ipse malis
careas quia cernere suavest», Lucrezio, II
1-4.
12. Sul tema del viaggiatore da studiolo si veda
anche Greppi 1984.
13. Per la presenza nell’Orlando furioso della
Geografia di Tolomeo e delle carte ad essa
allegate, si rimanda al dovizioso Doroszlaï
1998.
14. Of XV, 23. Si tratta di aggiunte che compaiono
solo nella terza redazione del 1532 ma
la citazione sembra oltremodo pertinente
con la carta del Cantino presente alla corte
Estense già dal 1502.
15. L’osservazione di Luciano Serra è citata in
Doroszlaï 1998, pp. 58-59.
254 255
IL FURIOSO E L’ARTE
DELLA BATTAGLIA:
ARIOSTO IMMAGINA
LA GUERRA
–
FRANCESCA BORGO
Ma ritornando ove aspettar mi denno
quei che la sala hanno a veder dipinta,
dico ch’a uno scudier fu fatto cenno,
ch’accese i torchi; onde la notte, vinta
dal gran splendor, si dileguò d’intorno;
né più vi si vedria, se fosse giorno.
Quel signor disse lor: - Vo’ che sappiate,
che de le guerre che son qui ritratte,
fin al dì d’oggi poche ne son state;
e son prima dipinte, che sian fatte.
Chi l’ha dipinte, ancora l’ha indovinate.
Quando vittoria avran, quando disfatte
in Italia saran le genti nostre,
potrete qui veder come si mostre.
Orlando furioso, XXXIII, 5-6
Dopo cena, alla luce delle fiaccole – i «torchi» dei versi citati qui in epigrafe – gli ospiti della
Rocca di Tristano osservano, affrescati sulle pareti del castello, mille anni di guerre e
invasioni della penisola. Guidati nella visita dalle parole del signore della Rocca, incantati
dalla terribile bellezza e dalla varietà delle storie, gli invitati non riescono a separarsi dalle
immagini: «Tornano a rivederle due e tre volte, / né par che se ne sappiano partire; / e rilegon più
volte quel ch’in oro / si vedea scritto sotto il bel lavoro» (XXXIII, 58).
Il ciclo di battaglie della Rocca di Tristano sostituisce, nella versione finale del poema, quello che
Ariosto aveva in precedenza immaginato effigiato sullo scudo dorato che Ullania, messaggera
della regina d’Islanda, porta con sé come dono per Carlo: l’unico superstite di dodici scudi fabbricati
dalla Sibilla Cumana che illustravano le future guerre d’Italia. Abbandonata l’idea, nell’edizione
del 1532, lo scudo di Ullania diventa muto: le battaglie che Ariosto aveva immaginato
lavorate a sbalzo e smalti, sono ora dipinte a fresco sulle pareti di un castello. 1
Il salto non è solo, come è stato notato, da un topos antico – l’ecfrasi virgiliana dello scudo di
Enea – a un precedente quattrocentesco – quello della loggia di Febosilla nell’Innamorato –, ma
segna anche lo scarto tra un modello squisitamente letterario e uno invece profondamente radicato
nella cultura figurativa contemporanea. Nel descrivere una serie di battaglie eseguite ad
Fig. 28
Leonardo da Vinci
(copia da)
La battaglia di Anghiari
(part.), ante 1563
Olio su tavola, cm 86 x 144
Firenze, Museo di Palazzo
Vecchio
256
l’incarico di dipingere due scene guerresche per il ciclo del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale,
mentre le battaglie di Palazzo Vecchio a Firenze – dipinte nell’altra grande sala consiliare dell’Italia
cinquecentesca – erano affidate nei primi anni del secolo successivo a Leonardo e Michelangelo.
7 Durante i frequenti e prolungati soggiorni a Firenze del 1512-16, Ariosto avrebbe potuto
facilmente osservare quello che ancora rimaneva visibile, nella sala, della Battaglia di Anghiari di
Leonardo (Fig. 28). 8 Come è stato dimostrato di recente, i rapporti tra l’artista e Ippolito d’Este,
al cui servizio in questi anni era Ariosto, erano andati intensificandosi verso il 1506-07, mentre
Leonardo era impegnato a gestire le pretese che la Signoria ancora avanzava sul completamento
dell’opera. 9 È importante poi tenere conto delle frequentazioni fiorentine di Ariosto con Giovanni
e Niccolò Vespucci: oltre ad apparire nelle Vite vasariane come committenti e promotori
di artisti importanti, i due cugini sono vicini ad Agostino Vespucci, estensore di una lettera che
Leonardo invia a Ippolito nel 1507 e autore di un riassunto sullo svolgimento dello scontro di
Anghiari che ancora si conserva nel Codice Atlantico, tra le carte di Leonardo. 10
Ospite prima di Niccolò Vespucci e poi, nel marzo del 1513, di Giuliano de’ Medici, Ariosto avrebbe
anche potuto vedere, nel Palazzo in Via Larga, le tre grandi tavole della Battaglia di San Romano
di Paolo Uccello, qui ricollocate poco dopo il 1512 (Fig. 29). 11 Un confronto tra queste incruente
battaglie senza pathos né sangue, immerse in un’atmosfera da giostra, e la drammatica intensità
di espressioni e pose dell’annodato gruppo leonardesco – grande incunabolo della nuova pittura
di battaglia su scala monumentale – avrebbe inevitabilmente fatto risaltare il potenziale espressivo
a cui i pittori moderni (quelli ricordati nel canto XXXIII del Furioso del ’32) sapranno spingere
il genere figurativo.
affresco, disposte in ordine cronologico e corredate da iscrizioni, Ariosto difficilmente avrebbe
potuto non pensare ai cicli di gesta che sempre più frequentemente, come consigliava Leon Battista
Alberti, decoravano le pareti dei palazzi pubblici e le case dei cittadini illustri. 2
Per analizzare l’immaginario bellico del Furioso, all’annosa questione de «l’Ariosto soldato» 3 –
il tentativo cioè di determinare quanto l’esperienza più o meno diretta dei campi di battaglia
contemporanei pesi rispetto alla tradizione letteraria del genere – sarà quindi da affiancare una
domanda diversa, che ha a che fare con la battaglia sub specie imaginis: bisognerà cioè indagare
lo statuto della scena guerresca come soggetto artistico assiduamente riproposto in tecniche
diverse e sui supporti più vari. Ma anche, nella teoria artistica coeva, come genere figurativo
privilegiato per misurare le possibilità proprie del mezzo pittorico, spesso in un paragone serrato
con la poesia e con un particolare riguardo alle battaglie antiche, descritte già da Plinio come
soggetti particolarmente impegnativi, e quindi adatti a testare la grandezza di un artista. 4
2. Tra le pugnaci signorie dell’Italia settentrionale l’affermazione del potere si accompagna
spesso, in questo periodo, alla celebrazione di vittoriose imprese belliche: nel palazzo di Gonzaga,
fuori Mantova, Francesco II commissiona nel 1495-96 una «sala delle victorie», che doveva
comprendere un ciclo di affreschi con i fatti d’arme del suo avo, Ludovico II. Le imprese militari
di Francesco erano invece rappresentate nel palazzo di San Sebastiano, dove si conservava anche
un secondo ciclo di fasti gonzagheschi, che andrà poi a includere La cacciata dei Bonacolsi di
Domenico Morone (Mantova, Palazzo Ducale) e una perduta Battaglia di Fornovo di Francesco
Bonsignori. 5 In questi stessi anni a Milano, per le doppie nozze Este-Sforza del 1491, quelle di
Ludovico con Beatrice e di Alfonso con Anna, le pareti del castello di Porta Giovia sono ricoperte
da tele dipinte con «tutte le victorie et gesti memorabili» di Francesco Sforza. Un ciclo di battaglie
era già nel palazzo milanese del condottiero Francesco Bussone, conte di Carmagnola, mentre
nella residenza padovana di un altro capitano di ventura, il Gattamelata, il giovane Mantegna
aveva lasciato delle storie ad affresco con le imprese militari svolte a servizio della Serenissima. 6
Proprio a Venezia, alla fine del Quattrocento, Giovanni Bellini e Pietro Perugino ricevevano
Fig. 29
Paolo Uccello
La battaglia di San
Romano, c. 1435-41
Tempera su tavola,
cm 181 x 322
Firenze, Galleria degli
Uffizi. Su concessione del
Ministero dei beni e delle
attività culturali e del
turismo
3. Le scene di battaglia di questo periodo non compaiono però solo in cicli monumentali a soggetto
storico. Temi bellici – classici, cavallereschi, biblici e contemporanei – si dispiegano abitualmente
anche sulle fronti dei cassoni dipinti, soprattutto a partire dalla seconda metà del
Quattrocento, quando la committenza dei forzieri nuziali passa a essere competenza del marito,
imprimendo una svolta “marziale” nella scelta dei soggetti rappresentati. 12 In queste battaglie i
soldati vestono elaborati cimieri da giostra e colorati abiti quattrocenteschi, mentre le sfavillanti
armature sono rese con uso estensivo di lamine metalliche e rifiniture rilevate in pastiglia. 13 Pur
nelle varietà locali, il racconto di queste guerre si arricchisce d’infiniti particolari, con lance che
si spezzano e meticolose descrizioni di ferite che danno alla narrazione un andamento divagante
e impigliano lo sguardo invitando a una visione lenta e ravvicinata.
Anche le scene di battaglia intessute su arazzo offrono continue notazioni macabre e di costume;
le «coltrine» che la corte estense importa dalle Fiandre – interi cicli sfarzosamente intessuti,
istoriati con le gesta di eroi dell’antichità o del ciclo carolingio – compaiono con frequenza negli
inventari di corte. Qui si trovano elencate una «coltrina de razo morelo a figure et a bataie chiamada
del re Pepin», quasi sicuramente una battaglia combattuta dal padre di Carlo Magno, e
un’altra «lauorada a figure combatente», collegabile alla voga franco-fiamminga per gremite
scene di battaglia che prende piede nella seconda metà del Quattrocento, 14 come si osserva in un
frammento di arazzo con la Battaglia di Roncisvalle (Tav. 4), parte di un ciclo di gesta di Carlo
Magno tessuto a Tournai nell’ultimo quarto del quindicesimo secolo. L’arazzo offre un tipo di
esperienza visiva che Ariosto descrive spesso nel Furioso: quella di scontri tra soldati in cui il
campo – di battaglia, ma anche quello pittorico – è talmente stipato di figure in lotta da non
lasciare nemmeno intravedere il terreno sottostante. Sono le iscrizioni ad assistere lo sguardo
nel caos della mischia, guidandolo verso i protagonisti: sulla destra, Rolando – alla sua ultima
battaglia, già ferito, con il sangue che gocciola da sotto l’elmo – cala la lama dell’enorme spada
Durlindana sulla testa del re Marsilio, dividendolo in due e liberando un fiotto rossastro. Poco
distante, la «rubiconda riga» che il sangue disegna sull’armatura lucida dei cavalieri (come nel
Furioso: XXIV, 65; XXX, 63; XLVI, 121) si riassorbe nella circostante opulenza dei colori, mentre
la foresta di picche ed elmi dello sfondo suggerisce l’estensione degli eserciti.
258 259
In un dialogo composto e ambientato presso la corte ferrarese, il De politia litteraria di Angelo
Decembrio (c. 1460), lo sfoggio di ornamenti e colori tipico degli arazzi nordici è criticato per
bocca di Leonello d’Este, che dice di preferire a queste «ineptiae» importate dalla Gallia oltremontana
la rappresentazione all’antica di corpi nudi e ben proporzionati. 15 Nel giudizio del marchese
si avverte già chiaramente il gusto per quelle battaglie di nudi realizzate in diretto confronto
con l’antico, spesso al di là di una precisa intenzione iconografica: dall’incisione (Tav. 9) e
dal perduto rilievo bronzeo di Antonio del Pollaiolo, alla Battaglia di Bertoldo di Giovanni – ricostruzione
filologica di un lacunoso sarcofago antico (Tav. 8) – alla Centauromachia di Michelangelo
(Firenze, Casa Buonarroti), fino alle due scene di combattimento di Vittore Camelio (Venezia,
Ca’ d’Oro). Questi nudi sofisticati, anatomicamente inappuntabili e nutriti di modelli antichi,
incarnano un nuovo ideale figurativo: spogli di ogni inezia e ornamento, sono impreziositi solo
dall’invenzione e dalla bravura esibite dai loro artefici.
4. Nelle dimore estensi non c’è traccia di cicli pittorici di imprese militari tratte da episodi di
storia recente, ma non mancano rappresentazioni di battaglie antiche, cortesi e classiche, purtroppo
tutte perdute. Poco si sa, oltre al nome, delle due sale «de’ paladini» – una a Fossadalbero
e una nel palazzo di corte a Ferrara – citate nei documenti della seconda metà del Quattrocento. 16
Nel dialogo di Decembrio c’è poi un accenno a un ciclo di storie di Scipione e Annibale, in cui si
è voluto leggere un riferimento agli affreschi che, secondo Giorgio Vasari, Piero della Francesca
avrebbe dipinto durante il suo soggiorno in città, nel 1446-48. 17 La tradizionale identificazione di
due dipinti oggi a Londra e Baltimora (Figg. 30-31) come presunte copie delle perdute battaglie
ferraresi di Piero è però ipotesi da rivedere, considerata l’indiscutibile presenza di modelli cinquecenteschi:
non è stato ad esempio notato che il cavaliere di destra nel gruppo in primo piano
del dipinto di Baltimora è un indiscutibile conio leonardesco dalla Battaglia di Anghiari (Fig. 28),
da cui, oltre alla posa del guerriero di destra, riprende persino le pieghe sul collo del cavallo
e l’assenza di finimenti. È possibile poi rintracciare anche la persistenza di alcune formule
Fig. 30
Artista ferrarese (?)
Scena di battaglia, 1530-40
Olio su tavola,
cm 71,1 x 94,6
Londra, The National
Gallery
Fig. 31
Artista ferrarese (?)
Scena di battaglia, c. 1540
Olio su tavola,
cm 85,2 x 72,6
Baltimora, The Walters
Art Museum
arcaizzanti, tipiche delle battaglie quattrocentesche: il gusto decorativo, quasi da orefice, nella
resa minuziosa dei cimieri che innalzano dragoni, ali di cigno e pantere; l’indugiare in dettagli
sanguinolenti, terribili nella loro precisione, ma sempre circoscritti; gli scorci arditi e spesso
incongrui dei corpi caduti; le armi rotte o perdute; l’affastellarsi delle figure in un cumulo dalla
cui sommità spuntano elmi, braccia che impugnano spade, stendardi astati.
La stessa percezione di un groviglio di figure si ritrova in un passo sul paragone tra poesia e
pittura del De politia litteraria, in cui Decembrio accenna proprio alla corretta rappresentazione
della figura umana in scene di guerra, dove – scrive – i corpi dei soldati devono essere raffigurati
sovrapposti e intrecciati tra loro, e non pedestremente ritratti sempre nella loro interezza. 18 Non
si usa notare che l’idea è tratta da Filostrato, impegnato a descrivere come, in un dipinto dell’assedio
di Tebe, il pittore abbia giustamente mostrato alcune figure solo parzialmente, per far sì
che gli occhi dello spettatore fossero ingannati dall’illusione di profondità, e invitati a esplorare
la battaglia partecipando, con il loro movimento, al movimento dell’azione rappresentata: anche
questi soldati sono quindi visibili «per metà, di altri si vede solo il petto, di altri ancora si vedono
gli elmi o la punta delle lance». 19
Questa complessità compositiva, tipica delle scene di guerra, che richiedono al lettore-spettatore
di ripercorrere con lo sguardo l’intreccio confuso della lotta, è un tema ricorrente nella tradizione
epica, in cui la battaglia è tradizionalmente un luogo privilegiato per saggiare la forza espressiva
del racconto, ma anche un esercizio sulla pluralità caotica dei movimenti, sulla difficoltà di conciliare
azione di massa e innumerevoli singoli exploit. 20 Il problema diventa ancora più pressante
in ambito artistico, dove più centri d’azione devono convivere in uno spazio unificato: da tempo
Alberti aveva messo in guardia i pittori contro il rischio di riempire la composizione di troppe
260 261
figure, «nulla lassando vacuo», disseminando un senso di confusione, proprio come nell’arazzo
di Roncisvalle. In un trattato del 1504 dedicato a Ercole d’Este, Pomponio Gaurico consigliava
quindi, per rappresentare affollate scene di guerra, di abbandonare una visione frontale e adottare
invece un punto di vista elevato, evitando così che l’occhio si smarrisca nel numero eccessivo
di dettagli. 21 Questa vista dall’alto – in tutto simile alla teichoscopia, lo sguardo sul campo di battaglia
tipico dell’epos, in cui gli spettatori osservano lo scontro dall’alto delle mura – si affermerà
presto sulle composizioni a fregio orizzontale delle battaglie quattrocentesche di Piero della
Francesca e Paolo Uccello, per culminare poi nelle proiezioni topografiche dei paesaggi militari
seicenteschi. 22 È la forza di questa nuova immagine di guerra, in grado di “squadernare” l’intera
materia guerresca nell’icasticità di un’unica, panoramica visione, che per Leonardo sancisce la
superiorità della pittura sulla poesia, a cui quest’ultima altro non potrebbe opporre se non un
tedioso elenco di gesta. 23
5. Dipinta sui cassoni o sulle pareti delle sale d’onore, cucita sugli arazzi, fusa in bronzo, modellata
su piccoli cofanetti in pastiglia profumata, scolpita, miniata, stampata nelle illustrazioni dei
cantari e dei poemetti bellici in ottava rima: 24 la battaglia era ovunque. La rappresentazione di
scontri tra cavalieri, battaglie campali, assedi e duelli godeva di un’altissima pervasività nella
cultura visiva del tempo, e costitutiva già, alla fine del Quattrocento, un genere a sé stante, definito
e codificato, come testimonia anche un commento di Lorenzo de’ Medici che elenca «battaglie
o terrestri o marittime e simili cose marziali e fere» in una lista di possibili soggetti figurativi.
25 Questo immaginario guerresco, modellato da necessità celebrative e propagandistiche, da
requisiti stilistici e formali, era lontano dalla realtà dei campi di battaglia, che rimanevano spesso
oltre l’esperienza diretta della popolazione urbana, mediati dai resti abbandonati sul terreno –
come a Ravenna, le cui montagne di cadaveri sono in molti, come Ariosto, ad andare a vedere – o
dal ritorno trionfale dell’esercito in città con le spoglie dei nemici vinti, come a Ferrara dopo la
vittoria della Polesella. 26
È difficile immaginare che la ricerca ariostesca sulla tecnica narrativa delle scene guerresche
andasse elaborandosi in un contesto totalmente svincolato da quella, parallela, delle arti figurative.
Del resto sono già gli interpreti cinquecenteschi del Furioso che tessono le lodi di “Ariosto
pittore” a insistere sulle scene di guerra come sommo esempio della capacità del poeta di seguire
un importante precetto della retorica antica: quello di mettere la materia narrata davanti agli
occhi del lettore, come in un dipinto, e quindi anche – indirettamente – a paragone con la pittura
di battaglia contemporanea. 27 Pochi anni ancora e il confronto diventerà addirittura esplicito,
come si legge ne Il Figino (1591) di Gregorio Comanini, poeta presso la corte dei Gonzaga, che
propone di contrapporre una tela con il duello fra Rinaldo e Sacripante all’ottava ariostesca che
descrive il combattimento fra i due (II, 9). 28
Avvicinare due filoni di ricerca tradizionalmente separati, quello sull’immaginario bellico del
Furioso e quello su Ariosto e le arti visive, permetterà dunque di rilevare la fortuna, figurativa
e verbale, di determinati motivi. La particolare «densità formulaica» 29 delle scene di battaglia
del Quattrocento – l’attingere costante a un repertorio di modelli ricorrenti, accostati paratatticamente
in narrazioni a fregio – si presta facilmente a un confronto con la rappresentazione,
altrettanto schematica e convenzionale, della gestualità guerresca nell’epos cavalleresco. Nel
caso del duello corpo a corpo tra Mandricardo e Orlando, ad esempio, il rimando a Ercole che
stringe al petto Anteo soffocandolo (XXXIII, 85) è esplicitato dallo stesso poeta: non è si tenuto
conto di quanto il soggetto goda in questi stessi anni di una straordinaria fortuna in campo figurativo,
dove i nudi abbracciati nella lotta offrono l’opportunità di esibire conoscenze anatomiche
e antiquarie, come nella tavoletta (Firenze, Uffizi) e nel bronzetto (Firenze, Bargello) di Antonio
del Pollaiolo, nel gruppo dell’Antico per Isabella D’Este (Fig. 32), e in numerose incisioni mantegnesche
di larga diffusione (Fig. 33). 30 Il “tagliatore di teste” che afferra l’avversario per i capelli
prima del colpo di grazia è un’altra citazione antica (nella Colonna Traiana e in diversi sarcofagi
Fig. 32
Pier Jacopo Alari Bonacolsi
detto l’Antico
Ercole e Anteo, 1511-19
Bronzo, altezza cm 43,5
Vienna, Kunsthistorisches
Museum
Fig. 33
Scuola di Andrea Mantegna
Ercole e Anteo, c. 1450-1500
Incisione a stampa su
carta, mm 340 x 234
Londra, Victoria and Albert
Museum
classici, Tav. 7) che riappare in innumerevoli battaglie quattrocentesche (nel rilievo di Bertoldo,
Tav. 8, in Piero della Francesca ad Arezzo, nel rilievo e nell’incisione di Pollaiolo, Tav. 9, in Leonardo,
Fig. 28), ed è utilizzata anche da Ariosto tra le varie “tecniche di presa” dei paladini in
combattimento, 31 assieme al soldato con la gola forata dalla punta di una lama, 32 alle teste tagliate
di netto che rotolano a terra, 33 alle spade che tingono di vermiglio il nemico, 34 al verde del terreno
che si colora di rosso: 35 tutte formule guerresche tipiche delle scene di lotta contemporanee, che
si ritrovano ad esempio elencate in una tela dei primi del Cinquecento, opera di un artista dell’Italia
settentrionale (Fig. 34). 36
Oltre alla compresenza di certe Pathosformeln, è però anche nella scelta della tecnica compositiva
che il nesso con la battaglia dipinta diventa importante. Come proponeva cautamente Marco Praloran,
la raffinata e consapevole sperimentazione ariostesca sullo spazio e il tempo della narrazione
di guerra sembra rispondere agli scritti di Leonardo sul primato delle arti, in cui linguaggio
visivo e verbale vengono testati proprio sulla rappresentazione di una scena di battaglia. La sfida
compositiva è sempre la stessa: rappresentare una moltitudine di azioni simultanee una dopo
l’altra (in poesia), o una accanto all’altra (in pittura). 37 Tuttavia queste riflessioni, come si è visto,
non sono limitate a Leonardo (con cui non è peraltro da escludersi Ariosto abbia avuto uno scambio),
38 ma elaborate piuttosto in un clima comune, che risente del prestigio del tema guerresco
nelle fonti antiche, delle recenti conquiste dei pittori moderni (le battaglie di Leonardo e Michelangelo
a Palazzo Vecchio), e di una diffusa riflessione teorica (ad esempio in Decembrio, Alberti,
Gaurico) sul modo di figurare una battaglia, un tema che diventerà ricorrente nella trattatistica
d’arte del secondo Cinquecento.
262 263
sulla rappresentabilità stessa di un evento – per definizione – impossibile da rappresentare, come
già disperava Omero nell’Iliade («è ben difficile che come un dio tutto questo io possa narrare»)
e come ripete anche Ariosto («non fu, Signor, di sorte, non fu in guisa / ch’imaginar, non che
descriver possa», XXVII, 31), utilizzando un paradosso retorico che fa del silenzio la più efficace
espressione dell’orrore del combattimento. 40 Questa radicale inintelligibilità della guerra è un
motivo che la successiva tradizione letteraria e artistica varierà di continuo: la vera battaglia – in
immagini – resterà invisibile, inenerrabile in versi.
6. Visibilità e temporalità della scena di lotta erano del resto due nodi affrontati proprio da Leonardo
in alcuni appunti intitolati Modo di figurare una battaglia (c. 1492, Ms. A, ff. 111r-110v, ),
poi confluiti nella seconda parte del Libro di pittura. 39 Come dichiara il titolo, il testo fornisce
una serie di precetti utili alla raffigurazione di una scena di guerra, aprendosi però, inaspettatamente,
con una immagine inusuale, del tutto assente nella tradizione figurativa precedente:
quella di un campo di battaglia avvolto nella polvere e nel fumo delle artiglierie. L’esperienza
visiva della battaglia è quindi necessariamente difettiva: da facoltà rivelatrice, quale è spesso
in Leonardo, la vista diventa qui fonte di paura, dubbio e incertezza. Il testo evidenzia i limiti
dell’occhio, incapace di distinguere con chiarezza lo svolgersi dell’azione; l’insistenza sui valori
soggettivi della percezione è tematizzata dalle azioni dei soldati, che sono descritti mentre si
ripuliscono gli occhi («nettandosi co’ le due mani gli occhi e le guance ricoperti di fango fatti
dal lacrimare degli occhi per causa della polvere»), li schermano dal sole («co’ le ciglia aguzze
facendo a quelle ombra co’ le mani»), o li proteggono con la mano per non vedere la fine avvicinarsi
(«l’una delle mani faccia scudo ai paurosi occhi, voltando il di dentro verso l’inimico»).
Nell’unico disegno leonardesco che mostra un campo di battaglia nella sua interezza (Tav. 11) lo
scontro è ugualmente invisibile e non figurabile: tutto è ricoperto da un velo di polvere e fumo
in cui si distingue a fatica un numero indefinibile di figure. L’esperienza visiva che se ne ricava
è sfuggente e allusiva, e corrisponde all’effetto che nei suoi appunti Leonardo raccomandava al
pittore di ricercare: «Farai in prima il fumo dell’artiglieria mischiato infra l’aria insieme con la
polvere mossa dal movimento de’ cavalli e de’ combattitori […]. I combattitori, quanto più fieno
infra detta turbolenza, meno si vedranno […]. L’aria sia piena di saettume di diverse ragioni […]».
Il nesso con il Furioso qui non è solo nella compresenza di un motivo (l’offuscamento è, anche
nella descrizione della battaglia di Parigi, un conio virgiliano: «Grande ombra d’ogn’intorno il
cielo involve, / nata dal saettar de li duo campi; / l’alito, il fumo del sudor, la polve / par che
ne l’aria oscura nebbia stampi», XVI, 57, si veda Aen. II, 251), o una tecnica compositiva (l’accento
su una percezione soggettiva, interna allo scontro), ma anche la volontà di interrogarsi
Fig. 34
Scuola dell’Italia
settentrionale
(Vicenza o Padova)
Scena di battaglia, c. 1500
Tempera e olio su tela,
cm 61 x 108
New York, Brooklyn
Museum
1. Sulle Stanze per la Storia d’Italia si veda
Casadei 1997, pp. 87-112.
2. Alberti 1966, vol. II, pp. 804-805.
3. Sull’argomento: Traversari 1905; Catalano
1930-31, vol. 1, pp. 313-325; Pampaloni 1971;
La Monica 1985; Henderson 1992; Murrin
1994, pp. 79-92; Scarano 1996; Bolzoni 2002,
pp. 213-228; Bolzoni 2011; Valleriani 2011;
Larivaille 2011; Matarrese 2014; Matarrese
2016.
4. Summers 2007.
5. Brown 1997; Brown e Lorenzoni 1996. Nel
Palazzo Ducale di Mantova erano anche le
scene di torneo affrescate da Pisanello, per
cui rimando a Woods-Marsden 1988 e ad
Allaire 2014b per una bibliografia aggiornata
(ma si tenga conto che si tratta di un
ciclo cavalleresco, e pertanto distinto dagli
esempi a soggetto storico elencati in questa
sezione).
6. Un accenno a questi esempi, con ulteriori
rimandi, in Kliemann 1993. La citazione si
legge in Carlevaro 1982, p. 115.
7. Per le battaglie di Punta Salvore e di Spoleto,
commissionate in sostituzione dei
rovinati affreschi della prima serie: Wolters
1987; Agosti 1986. Per Cascina e Anghiari,
da ultimo: Cole 2014.
8. Per un riesame delle fonti sulla sopravvivenza
della battaglia leonardesca nella Sala
si veda Frosinini 2015.
9. Schirg 2015.
10. I due testi si leggono in Richter e Pedretti
1977, vol. I, pp. 381-382, n. 669; vol. II, pp.
298-302, n. 1348. Per Agostino Vespucci/
Nettucci e Giovanni (1478-1549) si veda
González Germain 2015, che ringrazio
per il riferimento. Su Niccolò (1474-1535):
Ekserdjian 2000; su Ariosto e la famiglia
Vespucci: Catalano 1930-31, vol. I, pp. 395-
401. Ricordo che Leonardo era conosciuto
e apprezzato a Ferrara già dai tempi del
suo primo soggiorno milanese: nel 1501
Ercole d’Este chiede al suo agente a Milano
di adoperarsi per ottenere il modello del
cavallo che Leonardo aveva realizzato per
la fusione del monumento equestre a Francesco
Sforza, lasciato incompiuto; si veda
Bernardoni 2007, p. 67.
11. Qui lo incontra Mario Equicola, che cena
con Ariosto nel palazzo, si veda Carrai 1999,
p. 146. Per Paolo Uccello a Palazzo Medici:
Caglioti 2000, p. 273.
12. Hughes 1997, p. 97.
13. Dei preziosi cassoni nuziali che Ercole
de’ Roberti realizza per il matrimonio di
Isabella d’Este e per quello della sorella
Beatrice non conosciamo il soggetto della
decorazione, ma la ricchezza dei materiali
si ricostruisce facilmente dai pagamenti per
foglie d’oro, lacche, colori (Manca 1992, pp.
199-206).
14. Forti Grazzini 1982, pp. 23-24.
15. Baxandall 1963.
16. Tuohy 1996, pp. 68-69, 215.
17. Battisti 1992, pp. 44-53. Da ultimo: Arezzo
2007, pp. 34-35, 214.
18. «Nempe subtilium poetarum pictorumque
eadem fere ars, haec eadem rerum politia:
non ut omnes omnium vultus eorum,
quos describunt, hominum aut pecudum,
non manus, non pedes, non omnis denique
corporis imagines ostentent, sed alias aliis
implicitas, latentes, aversas, pronas, iacentes,
alias patentes penitus et arrectas, ut
in proeliorum picturis saepe videmus», in
Decembrio 2002, p. 178 (Libro I, cap. XI, 5).
19. Filostrato Maggiore 2010, pp. 30-31 (IV).
Per Filostrato in Decembrio: Webb 1992, pp.
169-170, ma senza riferimenti al passo qui
analizzato.
20. Da ultimo: Lovatt e Vout 2013.
21. Sinisgalli 2006, p. 203; Gaurico 1999, pp.
206-209. Una riflessione sul punto di vista
doveva essere diffusa, se anche nella dedica
del Principe Machiavelli ricorda che «coloro
che disegnano e’ paesi», per considerare la
natura dei luoghi bassi, si dovranno porre
«in alto sopra monti»; si veda Bock 1986.
22. Warnke 1992; sulla teichoscopia: Miniconi
1981.
23. Leonardo 1995, cap. 15 (p. 140), c. 1500-05;
cap. 19 (p. 143), c. 1492.
24. Per un repertorio rimando a Guerre...
1988-89.
25. «[...] alcuni si dilettano di cose allegre, com’è
animali, verzure, balli e feste simili; altri vorrebbono
vedere battaglie o terrestri o marittime
e simili cose marziali e fere; altri paesi,
casamenti e scorci e proporzioni di prospettiva;
altri qualche altra cosa diversa», in De’
Medici 1939, vol. I, p. 68; si vedano Firenze
1987, p. 26, e Summers 2007.
26. Sulla scollatura tra battaglia e rappresentazione:
Starn e Partridge 1984. Sul fenomeno
dei visitatori al campo di Ravenna: Niccoli
2008. Per un revisione del concetto di battaglia
campale e della sua portata storiografica:
Harari 2007.
27. Ad esempio Girlandi Cinzio (1548). Sull’argomento
si veda Ferretti 2016, pp. 166-167.
28. Comanini 1591, f. 86.
29. L’espressione è di Starn e Partridge 1984,
pp. 43-44.
30. Per questi e numerosi altri esempi e derivazioni
si veda Simons 2008.
31. Of XIV, 128; XV, 71.
32. Of XVIII, 54, 175; XIX, 9; XXIII, 60; XLI,
99; XLIV, 87.
33. Of XIV, 121; XXXIX, 13; XLII, 9.
34. Of IX, 70; XXX, 63; XLI, 92, 95.
35. Of XVI, 58; XVIII, 17; XXXIV, 29; XXXI,
89; XXXIII, 40; XXXVIII, 13.
36. Il dipinto ha una tradizionale attribuzione a
Bernardo Parentino: si veda Cieri Via 1995,
che considera la tela una memoria del perduto
ciclo ferrarese di Piero della Francesca;
per una diversa ipotesi e una bibliografia
aggiornata: Vinco 2012, pp. 177-178.
37. Praloran 2009, pp. 125-148. Per un riflesso
in Ariosto via Jean Lemaire de Belges si
veda Tura 2014.
38. Giovanissimo, a Pavia, nell’estate del 1493,
quando fa parte della compagnia teatrale
che mette in scena quattro commedie
plautine per Ludovico il Moro, e Leonardo
segue la corte sforzesca tra Milano e Pavia
occupandosi anche di apparati scenici; più
tardi, tramite Ippolito d’Este, con cui Leonardo
è in contatto nel 1507; infine a Roma,
nel 1513-16, mentre l’artista è al servizio di
Giuliano de’ Medici.
39. Leonardo 1995, cap. 148 (pp. 207-208), c.
1492. Per un commento: Vecce 2012.
40. Omero, Iliade, XII, 176 (ed. 1996), p. 657. Sui
«topoi dell’inesprimibile» si veda Curtius
2006, pp. 180-182. Per l’inesprimibile guerresco:
Scarry 1985; Virilio 1984.
264 265
ARIOSTO E
LA TRADIZIONE
EPICO-ROMANZESCA
DELLE ARMI
INCANTATE
–
DANIELA DELCORNO BRANCA
militare (spada, elmo, scudo, lancia e cavallo) non è per il cavaliere
un accessorio indifferente: in particolare la spada ricorda la sua investitura e i solenni
L’equipaggiamento
impegni assunti in quella occasione. Questi elementi costituiscono quasi la sua seconda
pelle, in particolare la spada e il cavallo sono alleati e compagni inseparabili: così Durindana,
la spada di Orlando, alla quale il paladino nella Chanson de Roland rivolge un commosso saluto
prima di morire, Baiardo o Rondello, straordinari destrieri fedeli e intelligenti che accompagnano,
fin dalla più antica tradizione, rispettivamente Rinaldo e Buovo d’Antona. 1 Le armi sono
una sorta di carta di identità dell’eroe, si caricano della sua progressiva gloria in quanto ricordano
le sue imprese soprattutto quando si tratta di strapparle a potenti avversari, com’è il caso
di Durindana e del restante equipaggiamento tolti al re saraceno Almonte dal giovane Orlando
nella guerra di Aspramonte.
A volte però tali oggetti presentano un esplicito legame col mondo soprannaturale, magico o
religioso. Sono le spade che sottolineano un eccezionale destino, un’investitura voluta dall’Alto.
Tale è la spada conficcata in un petrone galleggiante e apparsa improvvisamente a corte, che
solo il predestinato riesce a estrarre: sia il giovinetto orfano Artù, rivelandosi così il legittimo
monarca (Merlin, Micha 1980, cap. 82-87), sia lo sconosciuto figlio di Lancillotto, Galaad, al quale
Dio affida il compimento dell’Inchiesta del Santo Graal (Fig. 35). 2 Nella tradizione delle fiabe
numerosissimi sono i doni magici dovuti a fate, e fra questi armi e cavalli con proprietà meravigliose,
3 ma la narrativa epico-cavalleresca (Chanson de Roland, Entrée d’Espagne, Lancelot, Tristan)
pare preferire altri campi per il meraviglioso, il dono di oggetti magici diversi dalle armi,
forse per non dare al cavaliere un identikit personale di valore di origine allotria. La fata è nella
fiaba il classico “aiutante magico” e il suo dono (armi o altro) serve positivamente al protagonista
per superare le prove che deve affrontare. 4 Nei romanzi arturiani il ruolo della fata è ambiguo, e
ambigui sono di conseguenza i suoi doni. Un fondamentale studio di Laurence Harf-Lancner ha
ripercorso la complessa filiazione delle fate arturiane dalle antiche tradizioni classica, cronachistica
e folklorica fino ai romanzi in prosa francesi del XIII secolo, e il suo cristallizzarsi in due
modelli principali, l’uno negativo, Morgana (fata amante e segregatrice), e l’altro positivo, Melusina
(fata madrina). 5 Ma l’indagine sottolineava anche una serie di contaminazioni fra positivo e
negativo: Morgana insidia continuamente gli amori di Lancillotto e Ginevra e la corte del fratello
Artù, ma è anche quella che raccoglie il re morente e lo porta nell’isola di Avalon ad attendere il
Fig. 35
Bottega di Bonifacio
Bembo
Galaad, il predestinato
a compiere l’impresa del
Graal, estrae la spada
conficcata in un petrone
galleggiante, c. 1446
Palatino 556, f. 108r
Firenze, Biblioteca
Nazionale Centrale.
Su concessione del
Ministero dei beni e delle
attività culturali e del
turismo
266
favoloso ritorno; Viviana è la discepola di Merlino che inganna il maestro chiudendolo nel sepolcro,
ma è anche – per alcuni testi – colei che alleva il fanciullo Lancillotto preparandolo alla sua
splendida carriera.
I doni di queste fate possono dunque essere positivi o negativi. Nei romanzi arturiani in prosa, in
particolare Lancelot, Tristan e Guiron – che sono i testi familiari ai nostri poeti del Rinascimento – 6
«les enchantements de Bretagne» sono all’ordine del giorno, quasi cifra identitaria del genere:
sono situazioni in cui si imbattono i personaggi, a volte anche oggetti donati, ma raramente si
tratta di armi. Viceversa i nostri autori, Ariosto e già prima Boiardo, all’atto di riproporre l’antica
Fig. 36
Nicolò dell’Abate
La flotta di Alcina è abbagliata
dallo scudo magico di Atlante
durante la fuga di Ruggiero,
c. 1548
Affresco trasportato su tela,
cm 401 x 253
Bologna, Pinacoteca
Nazionale. Su concessione
del Ministero dei beni e delle
attività culturali e del turismo
tradizione epica secondo i valori e le strutture narrative del romanzo cortese arturiano, 7 sembrano
recuperare decisamente il tema fiabesco-folklorico del dono delle armi incantate da parte
di una fata, che quei testi avevano messo in sordina.
L’Innamorato si apre con Argalia, fratello di Angelica, che possiede una lancia magica tale da
abbattere l’avversario appena lo tocca (I, i-iii); la fata Febosilla incanta cavallo e armi di Brandimarte
(II, xxvi, 16-19); la fata Falerina costruisce una spada fatata per uccidere il suo nemico
Orlando (II, iv, 6-8). 8 Nel Furioso la lancia di Argalia verrà ricordata, ma l’interesse si concentra
piuttosto su altri elementi, appartenenti al mago Atlante: il cavallo alato, l’ippogrifo (II, 37, 48-49;
IV, 16-19 e passim), e lo scudo che abbaglia l’avversario quando si toglie il drappo che lo copre (II,
55-57 e passim). Come dimostrano una serie di puntuali riscontri entra qui in gioco la tradizione
tutta italiana, propria della Tavola Ritonda (= T.R.) e di vari cantari in ottave (Lasancis; Falso
scudo = F.S.; Astore e Morgana = A.M.) che svolgevano, con molteplici varianti, la vicenda del
“Cavaliere dalle armi incantate”. 9 Si trattava di testi tre-quattrocenteschi ben diffusi in area
padana fino al primo Cinquecento: Astore e Morgana fu riutilizzato da Evangelista Fossa da Cremona
nel suo poema Innamoramento de Galvano (Tav. 51), stampato a Venezia negli ultimi anni
del Quattrocento; la Tavola Ritonda conosce una versione padana trasmessa dal ms BNCF Pal.
556, copiato nel 1446, legato all’area gonzaghesca e illustrato da raffinati disegni della bottega
di Bonifacio Bembo (Fig. 35). 10 La vicenda vede una malvagia fata nemica di Artù che invia a
corte un cavaliere provvisto di armi magiche al fine di vincere i migliori cavalieri e distruggere
la Tavola Rotonda. Quando ormai tutti sono stati abbattuti, arriva il liberatore (Galasso/Galaad
in F.S. e A.M.; Tristano in T.R.). Al di là delle variazioni ed elaborazioni dei vari testi, è evidente
l’identico schema narrativo che contrappone il positivo (la corte di Artù e i suoi cavalieri) al negativo
(la fata malvagia e i suoi demoniaci collaboratori). L’episodio in cui il cavaliere è Lasancis
(attestato anche da un cantare frammentario) è assolutamente sconosciuto ai testi tristaniani e
fu inserito nella Tavola Ritonda, adattando a gloria del protagonista Tristano il canovaccio precedente
dove il vincitore era invece il cavaliere-eremita Galasso.
È questa indubbiamente la versione che ha lasciato tracce evidenti sia nell’Innamorato che nel
Furioso. Argalia e Angelica si presentano a corte con intenzioni maligne e la lancia incantata ha
esattamente gli stessi effetti di quella di Lasancis, come già rilevarono gli spogli cinquecenteschi
della Tavola Ritonda fatti in servizio del Vocabolario della Crusca. 11 In un accesso di furore Argalia
dimentica la lancia magica appoggiata a un albero (Oi I, i, 90), esattamente come Lasancis nel
romanzo italiano (T.R., cap. LXXXVII, Heijkant 1997, p. 360). Nel Furioso l’arma incantata è in
particolare lo scudo (come nel cantare del Falso Scudo, anche se con potere diverso), uno scudo che
abbaglia quando viene tolta la fodera che lo copre. Se ne serve, con intenzioni a suo parere benefiche,
il mago Atlante per catturare Ruggiero e altri cavalieri (II, 55-57; IV, 17-25): quest’arma,
venuta in possesso di Ruggiero assieme all’ippogrifo (IV, 42-47), diventa in qualche modo problematica.
Può un cavaliere servirsene senza venir meno alle regole della lealtà cavalleresca? Allorché
deve affrontare i mostri dell’isola di Alcina, Ruggiero decide di non usarlo, e l’autore lo loda:
«e forse ben, che disprezzò quel modo / perché virtude usar volle e non frodo» (VI, 67, 7-8). Ma
la tipica medietas ariostesca in materia di comportamenti, mostra che invece questo uso è lecito
in casi di forza maggiore, quando sono in gioco valori superiori: come per fuggire dall’isola di
Alcina (con quanto di fortemente allegorico è implicato in questo episodio: VIII, 10-11 e X, 49-50;
Fig. 36) o liberare Angelica dall’Orca marina (X, 107-110). Successivamente, però, alla Rocca di
Pinabello, un colpo dell’avversario squarcia la fodera e lo scudo esercita inopinatamente il suo
potere, mettendo fine allo scontro: gli avversari cadono abbacinati e Ruggiero si ritrova improvvisamente
vincitore. «Via se ne va Ruggier con faccia rossa / che, per vergogna, di levar non osa: /
gli par ch’ognuno improverar gli possa / quella vittoria poco gloriosa. / “Ch’emenda poss’io
fare, onde rimossa / mi sia una colpa tanto obbrobriosa? / che ciò ch’io vinsi mai, fu per favore, /
diran, d’incanti, e non per mio valore”» (XXII, 90). L’unica soluzione è distruggere lo scudo:
Ruggiero lo getta in un pozzo profondo, dove nessuno potrà ritrovarlo (XXII, 91-94: Fig. 37).
268 269
prende l’arma e la distrugge gettandola questa volta in fondo al mare (IX, 88-91). Le parole che
accompagnano il gesto sono un’esplicita condanna, simile a quella già formulata da Tristano nel
distruggere le armi incantate del suo avversario: «Qual è quello cavaliere che si diletti d’esser
tenuto pro’ nella opera e avere ardimento di cuore, e sia forte di membra, savio e ingegnoso nello
combattere; e non affalsi sue prodezze con incantate armadure» (T.R., cap. LXXXVII, Heijkant
1997, pp. 363-364 e si veda Of IX, 90). 13
Lo scudo di Atlante gettato nel pozzo non sarà più ritrovato (XXII, 94): appartiene alla tradizione
romanzesca. Invece, vanamente Orlando ha tentato di distruggere l’archibugio, moderno
corrispettivo della lancia incantata, strumento di morte del presente che ha sancito la decadenza
degli originari valori cavallereschi (XI, 21-28): nell’elaborazione del poema, l’antico paradigma
tristaniano e canterino viene decisamente riletto da Ariosto alla luce della realtà contemporanea.
È un gesto emblematico che ricalca quello di Tristano nella Tavola Ritonda (cap. LXXXVII, Heijkant
1997, pp. 363-364), che non vuole saperne delle armi incantate donategli dal vinto Lasancis
e le distrugge gettandole in una fornace. Se si considera che nel Furioso Ruggiero, futuro progenitore
degli Estensi, è in qualche modo un personaggio, anzi un principe, in formazione, dal
comportamento non sempre irreprensibile (si pensi ai cedimenti prima ad Alcina e poi alle grazie
di Angelica), questo rifiuto delle armi incantate, anche rispetto al loro precedente uso moderato,
sembra segnare una tappa positiva di perfezionamento cavalleresco. 12
Boiardo si era divertito a variare l’antico tema del cavaliere dalle armi incantate facendo capitare
la lancia magica in mano ad Astolfo, simpatico paladino poco abile in duello, che, ignaro, crede
che gli infallibili colpi di quell’arma siano dovuti al suo valore (Oi I, ii, 17-19 e 65-68; iii, 1-30).
Ariosto torna all’originario giudizio che vede le armi incantate come un oggetto anticortese e
sleale (analogamente alla freccia), qualche cosa che oppone frode a virtù, che vanifica ogni superiorità
dovuta a personale valore. Nella terza redazione del Furioso (1532) riprende significativamente
il problema: fra le giunte che tendono a riequilibrare e ad accentuare il parallelismo
di Orlando con Ruggiero, vi è quella doppia liberazione di Olimpia da parte del paladino, che
prima di salvarla dall’Orca la sottrae al perfido Cimosco, possessore dell’archibugio, a tutti gli
effetti arma incantata di origine diabolica, introdotta con effetto straniante nella narrazione.
Anche Orlando, come già Tristano vincitore di Lasancis o Ruggiero dopo la Rocca di Pinabello,
Fig. 37
Giacomo Mancini detto
El Frate
Ruggiero distrugge lo
scudo magico di Atlante
gettandolo in un pozzo,
c. 1545
Maiolica, diametro cm 39,7
Londra, The Wallace
Collection
1. Delcorno Branca 1973, pp. 57-103.
2. Si veda Micha 1980, cap. 82-87; Pauphilet
1949, pp. 5-12.
3. Thompson 1966: si veda ad esempio D 1086;
D 1101; F 343.9; F 3433.10.1.
4. Propp 1966, pp. 31-70; 132-134.
5. Harf-Lancner 1989a.
6. Per la circolazione in Italia dei romanzi arturiani:
Allaire e Psaki 2014; per le fate della
tradizione arturiana nell’Innamorato e nel
Furioso, si veda Delcorno Branca 2012 e 2014.
7. Per i rapporti di Boiardo e Ariosto con questa
letteratura, si veda Praloran 1990, 1999
e 2009.
8. Boiardo 1999: si cita per libro, canto e
ottava.
9. Per l’analisi che segue si veda Delcorno
Branca 1998, pp. 201-223. I testi dei cantari
sono editi in Delcorno Branca 1999; la
Tavola Ritonda in Heijkant 1997 (si cita per
capitolo e pagina).
10. Per il ms BNCF Pal. 556 si veda Cardini
2009; per la redazione padana della Tavola
Ritonda, Delcorno Branca 1998, pp. 99-113
e Delcorno Branca 2009.
11. Punzi 1997, p. 150.
12. Delcorno Branca 1973, pp. 94-96.
13. Sul problematico rapporto fra la condanna
delle armi da fuoco nell’episodio aggiunto
nel 1532 e le menzioni non negative di esse
nelle precedenti edizioni del poema (1516 e
1521), si veda Henderson 1992.
270 271
L’ILLUSTRAZIONE
DEI CODICI CAVALLERESCHI
DI BERNABÒ VISCONTI
–
PIER LUIGI MULAS
Accanto ai ben noti fenomeni di produzione letteraria originale, la circolazione di
romanzi cavallereschi stimolò nella penisola un’importante produzione artistica, nel
campo della scultura oltre che della pittura, in cicli parietali e naturalmente sui fogli
dei manoscritti miniati. I codici arturiani francesi – i primi risalgono all’inizio del XIII secolo –
adottavano di preferenza iniziali istoriate o miniature incorniciate, disposte nei margini
superiori dei fogli o entro le colonne di scrittura. 1 Sono le stesse formule impaginative che
ricorrono anche in alcuni dei più antichi codici italiani, come La Mort le roi Artu, copiato nel
1281 e miniato da un artista di cultura pisana o genovese. 2 Ma presto negli scriptoria italiani
vennero messi a punto schemi illustrativi diversi, ispirati ai testi in volgare e alle cronache
della penisola: le miniature occupano allora il margine inferiore dei fogli, come nei numerosi
codici cavallereschi che si riconducono a Genova, illustrati da disegni schematici tracciati con
l’inchiostro sul neutro della pergamena e poi velati di colore (Roman de Tristan, 1300 circa). 3
Più avanti nel tempo, arricchendo il racconto figurato di sfondi architettonici, di descrizioni
di interni, di dettagli di moda, gli illustratori della Penisola ambientano le avventure cavalleresche
nel mondo contemporaneo, che non può essere se non quello dei signori, divoratori
accaniti di questa letteratura, che amano rispecchiarsi nei valori degli eroi arturiani. 4 Perché
se le attività dei mercanti italiani in Francia e nelle Fiandre contribuirono alla diffusione
dei romanzi cavallereschi, le corti svolsero un ruolo centrale in questa circolazione: quella dei
Savoia, quella angioina di Napoli, quelle padane. Nel 1407 l’inventario di Francesco I Gonzaga
enumera quarantatré romanzi cavallereschi, altri sono elencati nel 1436 in quello degli Este, i
cui archivi restituiscono un incessante flusso di esemplari prestati e resi (e bisognosi di riparazioni
alle legature). 5 E i Visconti?
Fig. 38
Guiron le Courtois,
c. 1375, f. 19r
Parigi, Bibliothèque
nationale de France
272
De Sanguine graduali in galico volumen magnum et grossum, Liber unus Troiani in gallico, Liber
unus in gallico regis Artusii cum aliquibus historiis, Liber unus Tristantis in gallico historiatus,
ecc.: 6 nel 1426, nella biblioteca che i Visconti hanno fondato a Pavia, gli ottantasette manoscritti
in lingua gallica superano in numero quelli in volgare italiano, e quelli cavallereschi sono
una decina, anche illustrati. 7 Emblematicamente, la loro provenienza riflette origine e acclimatazione
dei modelli. Il primo dei quattro qui citati contiene infatti il Saint Graal di Robert
de Boron, è il più prezioso esemplare di romanzo arturiano del Duecento e fu miniato a fine
secolo in un atelier del Nord della Francia. 8 L’ultimo, italiano, è il più ricco illustrato tra quelli
noti del Tristan (Fig. 39), conta trecentoventi miniature e fu allestito probabilmente per i Bonacolsi
di Mantova prima del 1325, poi giunse ai Gonzaga e di qui, entro il 1426, ai Visconti (per
dono?). 9 Quella pavese era riconosciuta come una raccolta prestigiosa, se ancora nel 1470 Borso
d’Este domandava agli Sforza la lista dei libri scripti more francorum ex vetere Tabula vel nova
(saranno tredici). 10 Di sicuro comprendeva il Lancelot du Lac qui esposto (Tav. 6).
Forse però c’era stato o c’era ancora il Guiron le Courtois (Tav. 23, Figg. 38, 40), anche se non
è mai precisamente identificabile negli inventari principali della biblioteca. 11 Tracce araldiche
hanno permesso tuttavia di collegare a Bernabò questo monumento dell’arte del Trecento,
porta d’accesso trionfale alla stagione della miniatura tardogotica lombarda. 12 Del signore
di Milano (1354-85) si conosce un solo altro manoscritto, di contenuto astrologico – il Liber
iudiciorum et consiliorum d’Alfodhol de Merengi, arabo del IX secolo – fregiato dell’impresa
del leopardo sulle fiamme che fu di Bernabò. 13 Due libri possono sembrare pochi, ma conosciamo
male i primi codici viscontei e la loro araldica. E poi, dietro il ritratto a tinte fosche del
tiranno medievale di fattura ottocentesca, Bernabò riemerge oggi come uno degli artefici della
Fig. 39
Le Roman de Tristan,
prima del 1325, ff. 150v-151r
Parigi, Bibliothèque
nationale de France
Fig. 40
Guiron le Courtois,
c. 1375, f. 50r
Parigi, Bibliothèque
nationale de France
magnificentia milanese, committente del monumento equestre eretto in san Giovanni in Conca,
del palazzo urbano rivestito di illusionistiche crustae marmoree, delle sottigliezze prospettiche
degli affreschi nel castello di Pandino 14 . Le fonti contemporanee, nuovamente censite, concordano
sulla sua cultura: Geoffrey Chaucer, che fu a Milano nel 1378, celebra la grandezza del
principe, che gli Annales mediolanenses dicono doctissimus; poco dopo il 1385, l’ambasciatore
274 275
Honoré Bonet, lamentando col re Luigi d’Orléans gli scarsi interessi culturali dei principi,
adduce come esempio opposto, con Carlo V e Roberto d’Angiò, proprio Bernabò che, più sensibile
all’oro che alla scienza, tuttavia «fit escripre plusieurs beaulx livres»; ancora Biondo Flavio
è colpito dalla dimora del principe, degna degli antichi. 15 Il gusto del Visconti per la letteratura
cavalleresca passa ai figli: nel 1371 Ambrogio chiede a Mantova una copia dell’Aspremont, nel
1378 Luchino vuole un romanzo de Tristano vel Lanzaloto, aut de aliqua alia pulcra et delectabili
materia, da leggere in viaggio. 16 La passione riecheggia nell’onomastica degli illegittimi:
Palamede, Ginevra, Isotta, Lionello, Lancellotto (ma già suo fratello Galeazzo doveva il nome a
Galaad, il figlio di Lancillotto, che porta armi bianche alla croce di rosso, come la città di Milano).
Aggiungiamo dunque alla grandeur di Bernabò quello splendido gigante che è il Guiron,
che oggi ci appare meno isolato che in passato. Il dibattito sulla genesi del manoscritto e sulla
cultura del suo artista si è infatti arricchito con gli studi interdisciplinari condotti su un esemplare
del testo già in collezione Rothschild – noto come X, disperso – del quale sopravvive una
parziale campagna fotografica. Indizi di natura linguistica, iconografica e stilistica collocano
X in anni precedenti l’allestimento del Guiron visconteo e in ambito veneto, forse padovano. 18
Per quanto ardua ne sia la decifrazione, le rigidità del tratto, le incongruenze proporzionali, gli
accenti drammatici dell’azione, le licenze nell’impaginazione, situano il ciclo scomparso su un
piano espressivo inferiore rispetto al colto naturalismo di misura classica del Guiron seriore,
che non sembra mai citare alla lettera le illustrazioni di X (almeno quelle note), se non in qualche
dettaglio topico dell’illustrazione cavalleresca. François Avril ha ancorato l’allestimento
del Guiron visconteo a Milano, riconoscendo nelle iniziali filigranate il lavoro del calligrafo al
quale, nel 1368-69, affidò due suoi codici Francesco Petrarca. 19 Le affinità stilistiche tra i due
cicli illustrativi di X e del Guiron di Bernabò inducono a ricondurli a una stessa bottega. È allora
nel rapporto di filiazione dei due codici che si cela il segreto della formazione del Maestro del
Guiron, del quale è più difficile cogliere le premesse che non i frutti, osservabili non tanto
nelle illustrazioni del Lancelot, che ne derivano qualche composizione, quanto nei disegni del
Taccuino di Bergamo di Giovannino de Grassi, la cui formazione, non a caso, è stata legata al
Maestro del Guiron. 20 1. Per una sintesi, si veda Parigi 2009-10 e, in
particolare, Stones 2009-10. Più in generale
Allaire 2014b.
2. Chantilly, Musée Condé, ms. 649. T. D’Urso
in Chantilly 2014, pp. 48-51, cat. 3.
3. Modena, Biblioteca Estense Universitaria,
ms. α.T.3.11 (Est. 59). S. Castronovo in Alessandria
1999, p. 162, cat. 5.
4. Per un bilancio sulla ricezione dei testi, Delcorno
Branca 1998, pp. 13-48; Allaire 2014a.
5. Braghirolli 1880. Rajna 1873 e Antonelli 2013.
6. Pellegrin 1955, pp. 117, 267, 266, 283. Si veda
ora anche Albertini Ottolenghi 2001.
7. Nel 1459 i codici francesi saranno ottantadue,
Thomas 1911.
8. Parigi, Bibliothèque nationale de France,
fr. 95. A. Stones in Parigi 2009-10, pp. 69-70,
cat. 3.
9. Parigi, Bibliothèque nationale de France,
fr. 755. Zanichelli 1997, p. 41; Avril e Gousset
2005, pp. 16-26, n. 1; Medica 2012, pp.
106-109.
10. Motta 1884, pp. 217-218; Delcorno Branca
1998, p. 35.
11. Potrebbe corrispondergli un Guiron con
storie di Meladux elencato nella lista del
1470 (Delcorno Branca 1998, p. 41, pensa
di riconoscerlo anche nell’inventario del
1459), ma la descrizione è troppo generica
per giungere a conclusioni fondate.
12. Sutton 1991.
13. Parigi, Bibliothèque nationale de France,
lat. 7323, f. 5r. Pellegrin 1969, p. 28, tavv.
94-95.
14. Si vedano rispettivamente Vergani 2001;
Pagliara 2014; Romano 2013.
15. Si vedano rispettivamente Romano 2011, p.
642; Sutton 1991, p. 322; Pagliara 2014, p. 97
e segg.
16. Novati 1890, pp. 171-173, 174 nota 1; Delcorno
Branca 1998, p. 31.
17. Su onomastica e araldica arturiana, Pastoureau
2009-10.
18. Leonardi et al. 2014, Molteni e Walhen 2014.
19. Avril 1990.
20. Rossi 1995, p. 11 e passim. Boskovits 1992,
p. 395, pensava che il Maestro del Guiron
potesse essere il giovane Giovannino.
276 277
DENTRO
IL FURIOSO
–
278 279
IL POEMA
E LA CORTE
–
ALESSANDRA VILLA
Benché fin dal 1516 Ariosto destinasse il suo poema a un pubblico ben più ampio e vario di
quello costituito dai signori, cortigiani e amici a cui il narratore si rivolge regolarmente e
che nell’ultimo canto accoglie il poeta al ritorno dalla sua impresa, non va minimizzato il
fatto che questo gruppo più ristretto costituisce la prima e privilegiata cerchia dei lettori, e forse
ascoltatori, in particolare della princeps. 1 Se la genealogia fantastica celebrata nel Furioso onora
gli Este e se la gionta conferma la supremazia ferrarese nel campo della produzione cavalleresca,
le storie «non dette in prosa mai né in rima» non solo divertono i cortigiani, a Ferrara e nelle corti
“sorelle”, ma tendono loro lo straordinario specchio in cui un’intera società si riflette.
Filtrano, infatti, nel poema molti aspetti dei costumi e della cultura delle corti che Ariosto frequenta:
i passatempi più in voga, come il gioco dei motti rivelatori dei segreti amorosi, la moda
delle imprese, le tecniche di combattimento nei duelli e nei tornei, le armi; 2 e ancor più penetrano
profondamente nel Furioso le quaestiones che animavano le conversazioni cortigiane dell’epoca,
sulla donna, sull’onore, sulla fedeltà alla parola data, sui rapporti tra cortigiani e signori, tutti
temi su cui il poeta prende la parola negli esordi dei canti, ma che irrorano poi in maniera ben
più capillare il corpo stesso della fictio, producendo così una sorta di sincronizzazione morale del
poema con il suo pubblico cortigiano.
Ma il filtro agisce anche in senso opposto, dato che il Furioso stesso penetra rapidamente nella
vita delle corti: materialmente, in quanto oggetto di citazione e riuso sempre più frequente nelle
lettere e nella musica, negli oggetti d’arte e nelle armi; 3 ma anche in quanto strumento e motore
del dibattito cortigiano sui temi che il poema sviluppa, divenendo esso stesso, con le sue storie e
con le sue argomentazioni, il terreno di un esercizio di riflessione morale da parte dei suoi lettori,
come era già accaduto ai romanzi e ai poemi cavallereschi predecessori del Furioso.
La relazione tra il poema e la corte è quindi bidirezionale, in un gioco di specchi ininterrotto, in
un dialogo continuo tra la realtà che imita la finzione e la finzione che imita la realtà, e che va
ben al di là del parallelismo già chiaramente impostato da Boiardo tra i cavalieri e le dame della
«glorïosa Bertagna la grande» e la corte di Ercole d’Este, dove «chi più l’un e chi più l’altro honora /
come vivi tra noi fossero anchora». 4
Fig. 41
Sebastian Brant
La nave dei folli
Johann Bergmann von
Olpe, Basilea, 1499, f. L6v
Londra, The British Library
280
Tuttavia, il Furioso non restituisce al pubblico cortigiano un’immagine neutra, ma agisce come
lo speculum di un mondo su cui il poeta riflette e che a sua volta è invitato a riflettere su se stesso.
Il distacco ironico ormai leggendario negli studi sul Furioso, che Ariosto applica alla corte intesa
come sistema e come realtà estense, impregna le considerazioni del poeta tanto sulle questioni
sociali, come il rapporto tra i due sessi, quanto su quelle politiche, come il legame che vincola
signore e cortigiano o la responsabilità del principe nei confronti del popolo. 5
L’uso dell’ironia non può essere disgiunto dall’invenzione eclatante della persona ariostesca, che
si plasma sulla lezione oraziana già assimilata nel Furioso, ben prima della sperimentazione delle
Satire, e che conferisce al poeta uno spazio di parola eccezionalmente ampio, anche se non privo
di autocensure e cautele. 6
L’esercizio di questa libertà di parola ha un fine eminentemente morale e si esprime in modo
sia diretto, tramite le intrusioni del poeta nell’opera, sia indiretto, tramite il dialogo serrato tra
fictio e commento, tra fictio e fictio, tra commento e commento, 7 secondo una tecnica dell’«“aggiustamento
del tiro”», basata sulla costruzione di sequenze di affermazione-contraddizione. 8
Le incertezze, le ambiguità e i paradossi che risultano dalla scelta di questo procedimento, non
ignaro della retorica erasmiana, possono senz’altro rivelarsi tali in certi casi; ma la loro applicazione
sistematica nel poema li erige a metodo di indagine della realtà. L’ironia ariostesca non è
cioè un fine in sé, ma è un mezzo per avvicinarsi e per delimitare con prudenza i confini mutevoli
e complessi della verità.
Se l’ironia del Furioso prende di mira la corte e i suoi mali, non è necessario postulare un’acrimonia
di Ariosto nei confronti dell’universo in cui egli stesso, nonostante l’ironico understatement
delle Satire (Fig. 42), ha un ruolo non disprezzabile, e anche se lungo il percorso che dalla princeps
Fig. 42
Ludovico Ariosto
Satire, 1518, cc. 7v-8r
Ferrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
Fig. 43
Baldassarre Castiglione
Il Cortegiano
Venezia, Aldo
Manuzio, 1528
Bologna, Biblioteca
Comunale
dell’Archiginnasio
porta alla ne varietur passando dai Cinque canti, è innegabile che un velo di pessimismo e di sfiducia
cali su certi passi del Furioso. 9 Tuttavia, la pedagogia ariostesca non si schiera contro la corte,
ma con la corte e a suo beneficio.
Nonostante le orgogliose rimostranze della prima satira e ancor più malgrado le conclusioni paradossali
che il lettore è invitato a trarre dall’episodio lunare, le rivendicazioni ariostesche non si
fondano sulla pur eccezionale affermazione della dignità dello statuto di poeta contro un mecenate
rozzo e incapace di apprezzare la perla che gli è capitata tra le mani, ma sul dialogo con un signore
colto, rispondente piuttosto al ritratto tratteggiato da Castiglione nel Cortegiano (Fig. 43), che sa
interpretare fin nei dettagli le allusioni poetiche e il gioco letterario dei ruoli assegnati nel Furioso
al suo personaggio e a quello del suo «umil servo», e che condivide la weltanschauung ariostesca.
Nell’episodio lunare, Ariosto non ride alle spalle di Ippolito, ma approfitta dello spazio che alla
corte del cardinale viene concesso al ludus letterario per divertire ed educare il lettore. Se in questo
caso il gioco è portato al suo limite estremo, è difficile immaginare che il veleno secreto dall’episodio
non trovi il suo antidoto nel piacere del gioco stesso, a cui tutta la corte partecipa e assente, e
che addirittura non si trasformi in medicina, se inoculato in un lettore sufficientemente preparato.
Gli esordi dei canti VII e VIII consacrano proprio questa solidarietà tra il poeta e quel pubblico
privilegiato, che possiede il «lume del discorso», l’«annello d’Angelica», oggetto di una lode che
appare ironica se ci si ferma al primo di questi canti, e che si rivela invece una celebrazione doppiamente
vera alla luce dell’esordio del canto seguente, in cui Ariosto onora quei lettori che sanno
andare al di là della lettera della fictio, e che quindi sono capaci di muoversi con prudenza anche
tra le finzioni e gli artifici della vita reale.
282 283
Il lettore avvertito del Furioso non concede dunque al poeta la libertà di parola come la tollererebbe
in un giullare per rispetto della sua follia, anche se naturalmente non è un caso che la
follia sia la prima caratteristica del narratore del Furioso, ma perché in sostanza riconosce ad
Ariosto lo statuto di saggio. 10 Che poi i signori e i cortigiani facessero realmente tesoro della
lezione del Furioso è un altro discorso, ma non c’è dubbio che Ariosto, ben al di qua della moralizzazione
e dell’allegorizzazione a cui sarà poi sottoposta l’opera, abbia concepito le avventure
del suo poema in stretta connessione con un discorso morale vario, complesso ed articolato,
che valorizza la sua persona, e se possibile la sua posizione di cortigiano, giovando nel contempo
almeno a una parte del suo pubblico.
Nei paragrafi iniziali del Cortegiano, prima che la compagnia decida di «formar con parole un
perfetto cortegiano», vengono proposti diversi giochi: uno di questi appare come una formidabile
chiave di lettura, intenzionale o meno che fosse, della dimensione di serio ludere che il Furioso
acquista in particolare di fronte ai suoi lettori cortigiani. Cesare Gonzaga propone infatti ai suoi
compagni di confessare di quale tipo di pazzia ognuno di loro impazzirebbe, se dovesse un giorno
impazzire (Cortegiano I, viii). La proposta doveva risultare familiare alla brigata urbinate dato
che, presentando il gioco, il cugino di Castiglione ricorda che mille pazzie sono già state scoperte
in quella corte, grazie alla «nostra diligenza», cioè ad una sorta di esorcismo della follia in cui
molti cadono, «chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare,
chi in giocar di spada, ciascun secondo la miniera del suo metallo» (Fig. 41). L’esorcismo, la cui
messa in opera coinvolge tutta la corte, funziona come la cura che si credeva guarisse i tarantolati,
come quella musica che, stimolando l’umore all’origine della malattia, spinge il malato a
danzare fino allo stremo e così, purgandolo, lo libera dalla malattia.
Allo stesso modo, alla corte di Urbino, quando in qualche cortigiano vengono individuati i sintomi
della pazzia, essi sono esacerbati «tanto suttilmente e con tante varie persuasioni» che alla
fine, resa pubblica e pubblicamente derisa, la follia viene guarita. La proposta di Cesare Gonzaga
ha quindi un fine morale, dato che «in questo nostro gioco ritrarremo frutto ciascun di noi di
conoscere i nostri difetti, onde meglio ce ne potrem guardare».
Come i giochi in cui si rivelava, copertamente, il proprio amore, anche il gioco della follia doveva
essere noto, nella pratica o quantomeno nella teoria, alle corti “sorelle”, e non è difficile immaginarlo
praticato da Isabella d’Este o dai cortigiani di Ippolito, magari nei freddi inverni ungheresi.
Il meccanismo del magistero morale del Furioso si basa sul medesimo principio. Il poeta confessa
senza esitare la propria pazzia perché i lettori, come i compagni di gioco che riconoscono e accettano
le regole del ludus, ammettano poi le loro: il gioco del Furioso non serve solo a divertire e a
far passare piacevolmente il tempo, ma a riflettere e ad esorcizzare la pazzia.
1. Si veda Ferroni 1989, pp. 321-337. Alla lettura
in pubblico di romanzi alla corte estense
accenna Agostino Mosti, che ricorda in particolare
«la Poesia del Conte Matteo Maria
Bojardo, e la prima bozzatura di Orlando
Furioso dell’Areosto» (Solerti 1892, p. 171).
Celeberrima è poi la lettera del 1507 (Tav.
17) in cui Isabella d’Este ricorda come Ariosto
l’abbia rallegrata «cum la narratione de
l’opera che ’l compone» (Catalano 1930-31,
vol. II, pp. 78-79).
2. Si veda Curti 2006, p. 196; Boccia 1994, pp.
48-59; Gusmano 1987, pp. 85-102. Più in
generale, su questi temi, è ancora utile Bertoni
1919.
3. Per il caso delle maioliche urbinati, ispirate
al Furioso già prima del 1532, si veda Wilson
2011. Per il precoce riuso in musica,
Haar 1981 e Dorigatti 2011. Per la corazza
di Filippo Negroli, forse ispirata a quella di
Rodomonte, si veda Boccia 1994.
4. Per la gustosissima disputa ingaggiata
proprio nel 1491 tra Isabella d’Este, che
«honora» Rinaldo, e un suo corrispondente
milanese, che parteggia invece per Orlando,
si veda Luzio e Renier 1890, pp. 100-107.
5. Sul concetto di ironia ariostesca, Rivoletti
2015.
6. Sul delicato problema del posizionamento
morale del narratore del Furioso, oltre a
Petrocchi 1972, pp. 261-275, e La Penna 1991,
pp. 200-205, si vedano Santoro 1983, pp. 133-
151, Casadei 1993, p. 79, e Honnacker 2002.
7. Tutte queste combinazioni argomentative
sono impiegate ad esempio nel discorso
sulla questione femminile, che attraversa
l’intero poema, condotto ora sotto forma
di arringa, negli esordi che sono dedicati al
tema e che non esitano a contraddirsi esplicitamente,
ora in forma drammatizzata, in
particolare negli episodi di Rinaldo e Ginevra,
del cavaliere del nappo e del giudice
Anselmo. Per il funzionamento del discorso
ariostesco sulla fedeltà alla parola data,
Ascoli 2003.
8. Segre 1987, p. 14.
9. Per Cossutta 1995, pp. 433-437, Boiardo
esprime nel suo poema un accordo solidale
con la corte di Ercole, all’interno della
quale distingue diverse qualità di fruitori
della sua opera, sui quali può esercitare
un’ironia «selettiva», senza volontà di critica.
Nelle prime fasi dell’elaborazione del
Furioso, Ariosto sarebbe stato particolarmente
vicino a questo sentimento boiardesco,
allontanandosi però sempre più, con
il progredire della crisi storica e sociale a
cui assiste a corte, a Ferrara, in Italia, dalla
corte ideale del suo nobile predecessore. Di
qui, l’esercizio di un’ironia più pungente
che è la misura della sua, almeno parziale,
desolidarizzazione dagli ideali e dagli orizzonti
del suo pubblico.
10. Sulla figura del poeta come giullare nell’Inamoramento
de Orlando e in particolare a
proposito di certe critiche alla vita di corte
si veda Alexandre-Gras 1978, vol. I, pp. 5-21.
284 285
AUTORE E LETTORE:
LA PARTITA TRUCCATA
DELL’INTRECCIO
–
CRISTINA MONTAGNANI
«In principio fu Boiardo»: sarebbe forse una degna epigrafe per un saggio sulla tecnica
narrativa di Ariosto. Molti elementi, come gli studi ci hanno ampiamente mostrato, 1
differenziano la gionta dall’Inamoramento, primo fra tutti il mutato clima politico
dell’Italia, che conosce da presso l’orrore delle invasioni straniere e delle guerre sul territorio
nazionale, e in cui, per un tessuto tramato di incanti come quello del poema boiardesco, non
sembra esserci più spazio. «Pro bono malum», come recita il motto che accompagna l’emblema
delle api all’inizio del poema: i personaggi e la vicenda sono gli stessi, ma scavando appena sotto
la superficie tutto ci appare diverso.
Tutto, appunto, tranne la modalità di costruzione del racconto; e non è poco. Se n’era accorto
già un lettore acuto come il Tasso, che nei Discorsi del poema eroico scriveva: «Ma si dee, come
ho detto, considerare l’Orlando Innamorato e ’l Furioso non come due libri distinti, ma come un
poema solo cominciato da l’uno e con le medesime fila, benché meglio annodate e meglio colorite,
da l’altro poeta condotto al fine; ed in questa maniera risguardandolo, sarà intiero poema,
a cui nulla manchi per l’intelligenza de le sue favole.» 2 La metafora della tessitura, donde la
menzione delle «fila», allude senza dubbio alla tecnica di costruzione dell’intreccio, identica
nei due poemi. Sarà subito da notare che, già per i lettori cinquecenteschi (come per esempio
il Salviati), 3 proprio l’immagine dei fili armoniosamente e sapientemente intrecciati traduce la
téchne, l’abilità e anche l’artificio con cui Ariosto sviluppa il suo poema. Il poeta stesso allude
abbastanza spesso alla elaborazione della trama, sottolineando soprattutto la necessità di introdurre
frequenti variazioni per non annoiare mai il lettore: «Non convien che sempre io dica, / né
ch’io vi occupi sempre in una cosa» (VIII, 21) 4 e poco oltre: «Far mi convien come fa il buono /
sonator […] / che spesso muta corda, e varia suono» (VIII, 29).
Di questa tecnica strutturale l’entrelacement costituisce il meccanismo fondante. A grandi linee:
nel racconto entrelacé una struttura narrativa molto complessa viene organizzata intrecciando
Fig. 44
Sala delle Asse, c. 1498
Pittura su muro a secco
Milano, Castello Sforzesco
286
fra loro le storie dei vari personaggi, che non sono raccontate di seguito, ma a tratti, per segmenti;
il “fuoco” della narrazione si sposta sui vari protagonisti, senza che mai nessuno, per
troppo tempo, resti in primo piano sulla scena. Il lettore segue lo svolgersi delle avventure
come se fosse di fronte a un’opera polifonica, in cui l’accordo fra le diverse voci dà forma alla
totalità; in questo suo “ascolto” è ovviamente guidato dall’autore, che suggerisce, ammonisce e
soprattutto soccorre la memoria, permettendo al fruitore del testo di riprendere il filo là dove
era stato interrotto. Si tratta di un percorso di cui solo chi scrive tiene le fila, mentre il lettore,
parecchie volte, viene tratto in inganno, come dagli artifici di un mago; ma di questo più
avanti. La sorpresa e l’emozione sono i sentimenti forti indotti da un modello narrativo aperto,
Fig. 45
Ludovico Ariosto
Orlando furioso,
illustrazione canto I
Venezia, Vincenzo
Valgrisi, 1556
Ferrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
dove, letteralmente, a ogni angolo di strada si possono spalancare nuove prospettive, capaci di
gettare una luce inusitata anche sugli avvenimenti già narrati: il mondo dell’entrelacement è
precario e instabile, sempre sottoposto alla fortuna e ai suoi capricci.
Questo artificio narrativo è stato inizialmente studiato da Ferdinand Lot nei grandi romans
francesi in prosa del primo Duecento, e soprattutto nel Lancelot; 5 nel Novecento resta fondamentale
il contributo di Eugène Vinaver, cui si devono le importanti riflessioni sul concetto di
«acentric», ovvero “senza fuoco narrativo”, come elemento caratteristico della forma entrelacée.
6 È stato infine Marco Praloran, fra gli italiani, a studiare a fondo la ripresa del meccanismo
da parte di Boiardo e poi di Ariosto. 7
Tenui, per non dire assenti, sono invece le presenze di racconti entrelacés sia in testi francesi
successivi ai primi romans, sia negli sviluppi canterini della materia di Francia in Italia: le doti
richieste al narratore demiurgo sono notevoli, e solo gli scrittori migliori sembrano in grado di
affrontare l’impresa. A ciò si aggiunga la forte presenza della materia bretone, e dell’ideologia
bretone, nelle corti del Nord e segnatamente a Ferrara; nella Firenze comunale e poi medicea,
e dunque nei cantari toscani e nel romanzo del Pulci, i paladini di Carlo trovano certo dimora,
e alla materia carolingia spesso si intreccia quella bretone, ma la struttura dell’entrelacement
non è presente. D’altro canto, al di là della indubbia preminenza ferrarese nella ricezione delle
pulcherrime ambages arturiane, la costruzione intrecciata non è solo un elemento di carattere
diegetico, ma anche, e soprattutto, etico. La ripresa sul piano orizzontale delle avventure consente
infatti il confronto fra i diversi paladini, e dunque fra i diversi statuti morali sottesi alle
loro azioni: questo è il senso profondo dell’entrelacement, ed è senza dubbio un interesse che
non rientra nell’orizzonte di un canterino, e neppure in quello del Pulci, a tacere dell’influsso
del cosiddetto Orlando laurenziano, e dunque di un cantare popolare, sulla genesi del Morgante.
Chiudo il panorama delle assenze, per così dire, rimarcando come fra i prosecutori di Boiardo
(Niccolò degli Agostini, Raffaele Valcieco da Verona e Pierfrancesco de’ Conti) solo il primo
usi – parcamente – l’entrelacement per rilanciare in avanti la narrazione, per costruire nuovi
mondi possibili: gli altri, turbati dalle possibili implicazioni dello sviluppo orizzontale del racconto,
si affrettano a troncare tutti i fili rimasti sospesi per assicurare un finale, in genere
neppure troppo lieto, alla vicenda. Il Mambriano del Cieco da Ferrara, seppure in maniera
piuttosto timida, senza alcuna ricaduta sull’ethos dei personaggi, utilizza invece lo strumento
boiardesco, lasciando la narrazione sospesa e spostando il fuoco da un personaggio all’altro,
soprattutto in chiusa di canto.
L’impiego ariostesco dell’entrelacement rispecchia le caratteristiche di quello boiardesco, ma,
come vedremo, ne spinge ancora più avanti l’oltranza; già nell’Inamoramento il trattamento
del tempo era spesso illusorio, e parecchi avvenimenti narrati non reggevano alla prova della
realtà effettuale. La rottura dell’oggettività temporale è caratteristica anche di Ariosto: non
esiste un tempo esterno, in cui i racconti delle imprese dei cavalieri vengono calati, ma solo
un tempo interno all’opera, controllato dall’autore. Questa è del resto la vera differenza fra
l’entrelacement medievale e quello moderno: nei romanzi del Duecento francese tutto torna
sul piano della cronologia e il narratore non manipola gli avvenimenti, si limita a distenderli
in sequenze non lineari ma sempre coerenti. In qualche modo aiuta il lettore a comprendere
la successione dei fatti, a entrare nella grande opera-mondo che gli si staglia di fronte, gli permette
di decodificare la realtà. Boiardo e Ariosto, invece, fanno il contrario: nel caso di Boiardo
lo stravolgimento del tempo oggettivo ha soprattutto lo scopo di aumentare la suspence, di
infondere nuova vita al materiale narrativo. Per Ariosto, forse, il processo è più sottile, e comporta
anche la rilettura diretta dei romanzi francesi antichi: 8 la disgregazione del tempo, in cui
tutti i rapporti causa effetto saltano, fa sì che il lettore del Furioso si muova davvero a fatica
su un terreno vastissimo, di cui solo il poeta detiene le chiavi. Mi pare anche evidente che il
profondo pessimismo ariostesco permea di sé questa rappresentazione del reale, inconoscibile
e ingovernabile, non giocosamente pieno di sorprese com’era quello dell’Inamoramento.
288 289
È ora arrivato il momento, però, di affrontare più da vicino i modi secondo i quali Ariosto utilizza
la forma entrelacée nello sviluppo del Furioso: 9 procederò, necessariamente, per esempi.
Nella prima parte dell’opera l’artificio è utilizzato poco, rispetto a Boiardo, ma in ragione delle
condizioni in cui la trama era arrivata al momento della morte dell’autore: l’enorme estensione
narrativa del secondo libro dell’Inamoramento e dell’inizio del terzo fanno sì che il poema sia in
bilico, a grave rischio di fallimento. La storia non può più essere controllata: certo non dai lettori,
ma talvolta parrebbe neppure dallo stesso narratore, e inoltre la vicenda avanza lentissima,
per la necessità di mantenere in tensione tanti fili diversi. A ciò si aggiunga che, da quello che
ci è rimasto del terzo libro, Boiardo sembra lontanissimo dall’aver trovato una conclusione. O
forse un romanzo come il suo avrebbe stentato a chiudersi: ogni conclusione richiede dei sacrifici,
delle perdite, come emerge chiarissimo nel disegno del Furioso, 10 e in Boiardo, lo sappiamo,
tendenzialmente non ci sono perdite, non ci sono lutti. Nessuno è malvagio e dunque nessuno
è sacrificabile. Con qualche eccezione, o meglio con due sole eccezioni: Argalia e Agramante.
Quando Ariosto riprende la vicenda non sembra avere in mente il finale, però pare consapevole
che uno sviluppo illimitato costituisce un rischio anche per un narratore di grande abilità. Per
questo riparte dall’assedio di Parigi: perché il fuoco narrativo concentrato in un solo luogo gli
permette di chiudere per un tratto il racconto entrelacé, o almeno di circoscriverlo. Solo dopo
il canto XI la tessitura orizzontale riprende a crescere, dilatandosi enormemente sino al canto
XXIX, e Ariosto sperimenta, a sua volta, nuove tecniche di entrelacement.
Penso soprattutto a una forma di “stacco” che era sconosciuta ai romanzi medievali e anche a
Boiardo: nella modalità classica del racconto entrelacé il tempo dei personaggi, mentre non erano
sotto la lente della narrazione diretta, continuava a scorrere. Quando il lettore li ritrovava, veniva
aggiornato da loro, e dunque dal narratore, su cosa fosse successo nel frattempo; Ariosto talvolta
non lo fa, e lo vediamo per esempio in un episodio famosissimo, un vero pilastro del poema su
cui torneremo più volte: Angelica in XII, 65 trova un «giovinetto […] fra due compagni morti […]
ch’era ferito in mezzo il petto»; mille ottave più avanti, quando il fuoco della narrazione torna su
di lei, la donna è sempre lì, non è successo niente e il suo tempo ha cessato di scorrere: «questa, se
non sapete, Angelica era, / del gran Can del Catai la figlia altiera» (XIX, 17).
A partire dal XXIV canto la tendenza a una dilatazione sempre più spinta viene contrasta dall’incalzare
di eventi drammatici: dopo la morte di Zerbino per mano di Mandricardo, si innesta nel
romanzo una linea che ne blocca lo sviluppo e apre la possibilità di un finale, anche lontano.
Come è stato più volte sottolineato dalla critica più avvertita, 11 alla dimensione orizzontale e
tendenzialmente illimitata del racconto romanzo si viene sostituendo l’impalcatura verticale
dell’epica classica, Eneide in testa, che tende sempre e comunque a un fine, e a una fine.
Cerco ora di avvicinarmi di più alla trama, segnalando i principali fili dispiegati dall’entrelacement,
con qualche beneficio di inventario, date le dimensioni del poema. 12
Come appena ricordato, Ariosto non riprende esattamente dalla conclusione del III libro dell’Inamoramento
(e cioè dalla maliziosa avventura di Bradamante e Fiordespina), ma riallaccia il
filo più indietro, dalla battaglia di Parigi interrotta dal terremoto (IO VIII, 52), ovvero da un
luogo circoscritto e in cui l’azione è sospesa. In questo modo possono rientrare nel racconto
voci che da tempo erano lontane, per esempio Angelica e Ranaldo, nel nuovo poema diventato
Rinaldo. L’interruzione della battaglia indotta dal terremoto consente ad Ariosto una lunga
pausa, che blocca l’intreccio e tiene “fermi” parecchi interpreti. In questo modo l’autore comincia
a dipanare i suoi nuovi fili, a partire dai personaggi che si allontanano da Parigi e che sono
protagonisti del primo canto.
L’esordio del poema è velocissimo, con almeno nove cambiamenti di focalizzazione, che si articolano
attorno al grande tema della fuga di Angelica: una velocità che consente alla struttura
lasciata interrotta dall’Inamoramento di svilupparsi nuovamente in forma dinamica. Ma è solo
un effetto di apertura: cattura l’attenzione del lettore e consente all’autore di preparare la sua
“macchina”, che comincerà a muoversi nel canto successivo.
I tre fili principali del racconto, già individuati dai lettori cinquecenteschi, e cioè l’amore di
Orlando per Angelica, quello fra Ruggiero e Bradamante e la guerra fra l’esercito di Agramante
e quello di Carlo in realtà scorrono paralleli e non si incrociano quasi mai: Ruggiero e Orlando
si trovano di fronte solo al canto XLII, Bradamante e Angelica, dopo essersi sfiorate nel canto
I, resteranno separate; Orlando incontra Bradamante alla fine del poema e Ruggiero incrocia
Angelica unicamente nel celebre episodio dell’orca. La battaglia fra i due eserciti, che scorre
lungo tutto il poema, vede la partecipazione del solo Orlando e solo dopo che Angelica è uscita
dall’orizzonte testuale. La funzione dell’entrelacement in questa macrostruttura è quella di
permettere all’autore di controllare la materia, di fare avanzare il complesso sistema narrativo,
e di giungere infine a una conclusione. O meglio, alle varie conclusioni: la storia dell’amore di
Orlando si chiude al canto XXXIX con la guarigione del paladino; la guerra si risolve a Lipadusa,
al canto XLII, e il matrimonio fra Ruggiero e Bradamante, posticipato nella redazione del
1532, segna la fine del poema. Il vero intreccio sembra non riguardare i tre assi portanti della
narrazione, quanto piuttosto gli episodi che vanno a incastrarsi dentro il reticolato maggiore.
La prima tranche propriamente narrativa del poema si apre, dicevamo, dopo la “giostra” del
primo canto, e si caratterizza per l’assenza di Orlando, cui si giustappone la presenza di quattro
voci principali impegnate in inchieste singolari. Non vediamo quindi svilupparsi la dialettica
tipicamente boiardesca fra avventura del personaggio e scontro d’armi collettivo, ma quattro
protagonisti che scandiscono con le loro imprese il tempo del racconto: Angelica, Rinaldo,
Bradamante e Ruggiero. Vicende separate fra le quali Ariosto si muove tramite entrelacement:
Rinaldo in Scozia, su ordine di Carlo Magno, Bradamante alla ricerca di Ruggiero, che, rapito
dall’ippogrifo, approda nel regno di Alcina. Ad Angelica tocca il destino più inquietante: abbandonata
sullo scoglio e destinata all’orca, «morte aspettava abominosa e tetra» (VIII, 66). Solo
a questo punto nella narrazione si inserisce Orlando, la voce principale del poema, per lungo
tempo assente, ma la cui attesa condiziona non poco le aspettative del pubblico dei lettori.
Il secondo tempo della narrazione è quello che si apre con l’inchiesta autunnale («Tra il fin
d’ottobre e il capo di novembre»; IX, 7) di Orlando alla ricerca di Angelica: un racconto lungo,
a tratti drammatico, che prende avvio in un momento indeterminato dell’assedio di Parigi, e
quindi in uno spazio cronologico più arretrato rispetto al punto a cui sono arrivati gli altri protagonisti.
La successiva marca cronologica dell’avventura di Orlando si colloca in primavera
(«per neve sciolta e per montane piove»; IX, 8): Orlando incontra Olimpia, la aiuta a salvare
Bireno, poi riparte alla ricerca di Angelica. In parallelo Ruggiero, nel viaggio di ritorno dall’isola
di Alcina, vede Angelica legata alla roccia (la stessa su cui sarà poi incatenata Olimpia),
la libera, cerca poco onorevolmente e con poco profitto di violentarla, e riprende poi il suo
viaggio. La tranche dedicata al giovane pagano si chiude su una azione con tre protagonisti:
Ruggiero, un gigante e un cavaliere suo prigioniero; il cavaliere è Bradamante e l’azione si
interrompe sull’inseguimento di Ruggiero, determinato a liberare la donna amata. Stacco su
Orlando, che libera a sua volta Olimpia, uccide l’orca, 13 e prosegue la sua inchiesta, incontrando
un cavaliere che trascina via una dama che ha le sembianze di Angelica. Sulle loro orme, entra
nel castello incantato di Atlante, dove poco dopo lo raggiunge Ruggiero, alla ricerca di Bradamante:
ci troviamo (canto XII) di fronte a uno dei grandi topoi della narrazione arturiana (e
boiardesca), il luogo-non luogo che per un certo lasso di tempo incatena e immobilizza gli eroi
e la narrazione delle loro vicende.
Si apre ora nel poema il grande spazio della guerra: la battaglia di Parigi, che era rimasta
sospesa dalla fine dell’Inamoramento. Prima, però, Ariosto lancia due fili destinati ad essere
ripresi molto più avanti, con un uso ardito dell’intreccio: Angelica, sempre in fuga, incontra
un cavaliere ferito (XII, 65), che solo in seguito, come già si è detto, scopriremo essere Medoro
(XIX, 17), e viene introdotto il personaggio di Isabella (XII, 86), che poi Orlando restituirà
all’amante Zerbino (XXIII, 62). Anche Ruggiero e Bradamante vengono per ora abbandonati:
prigionieri nel castello di Atlante e inconsapevoli l’uno dell’altra, ma non del loro reciproco
290 291
desiderio. Rinaldo è assente, ormai da tempo, dalla scena: il suo ruolo di cavaliere errante è
stato assunto da Orlando (secondo un modello forte, che deriva dall’Inamoramento). In questa
parte centrale la cronologia interna degli avvenimenti è difficile da seguire: le azioni belliche
vengono aperte e richiuse per cinque volte, senza che mai ci vengano offerti indizi cronologici,
e ai fatti d’arme si intrecciano eventi magici e amorosi, anch’essi acroni. L’unico dato indiscutibile
è quello costituito da Angelica e Medoro: lo spazio fra XII e XIX canto non esiste, e tutto
quanto narrato nella corrispondente sezione del poema non ci porta avanti lungo l’asse cronologico.
La guerra deve arrivare allo stesso punto a cui erano giunte le vicende che leggendo il
testo avevamo creduto anteriori, ma erano state semplicemente narrate prima.
Impossibile ripercorrere qui le cosiddette “storie minori” della parte centrale del poema: Mandricardo
e Doralice, il viaggio di Astolfo sull’ippogrifo, Grifone, Orrigille e Martano, per ricordare
solo le più note, che si insinuano nelle pieghe della battaglia di Parigi, sino alla avventura
notturna di Cloridano e Medoro, al ferimento del giovane e al suo incontro con Angelica.
È qui che il lettore moderno realizza appieno che, affascinato dalla narrazione ariostesca, è
assolutamente incapace di controllare la seriazione dei fatti: ogni incontro lo sorprende, ogni
epifania lo sgomenta. Spesso il narratore lo inganna, perché possiede informazioni che non
condivide. Un esempio chiarissimo è nello stesso canto XIX, che innesta la sequenza cosiddetta
della “pazzia di Orlando”: dopo il soggiorno felice presso il pastore, Angelica e Medoro
si avviano verso l’Oriente e pensano di fermarsi per qualche giorno a Barcellona, in attesa di
una nave. Prima di entrare in città, però, vengono assaliti da un «uom pazzo» (XIX, 42) che
«[…] diè loro noia, e fu per far lor scorno» (Ibid.). Il lettore non ha alcun indizio sul fatto che
l’uomo possa essere Orlando, ma leggendo le disavventure del conte, più avanti, se la memoria
lo soccorre, il collegamento diventa possibile, e la rivelazione al canto XXIX dell’identità
dell’assalitore non lo sorprende più di tanto. Nel momento in cui legge dell’aggressione, però,
ogni decodificazione di quanto narrato gli è preclusa.
Fig. 46
Ludovico Ariosto
Orlando furioso,
illustrazione canto XII
Venezia, Giovanni Andrea
Valvassori, 1553
Reggio Emilia, Biblioteca
Panizzi
La sequenza XIX-XXIX è di straordinaria complessità: al suo centro, che è anche il centro del
poema nella sua stesura definitiva, si colloca l’episodio della pazzia (canti XXIII e XXIV), anticipato
dall’incontro fra Angelica e Medoro ferito (al canto XIX, con ripresa dal XII come già
più volte ricordato) e seguito dalla aggressione di Orlando, che non riconosce gli sposi, al canto
XXIX. Il trattamento cronologico è simile a quello già sperimentato nell’incontro di Angelica
(che è un vero pivot dell’entrelacement) con Medoro al canto XII, e poi al XIX: le diverse
vicende, soprattutto quella di Orlando, devono raggiungere il vissuto letterario di Angelica.
Attorno alla storia del paladino se ne intrecciano altre due, anch’esse recuperate da un punto
più arretrato del Furioso: quella di Isabella e Zerbino (dal canto XIII) e quella di Doralice,
Mandricardo e Rodomonte (dal canto XIV); vicende amorose, che con tutta evidenza fanno
ancora più risaltare il sentimento impossibile che lega il paladino ad Angelica. A complicare
ulteriormente la zona centrale intervengono i racconti di Ricciardetto (Ariosto chiude così, con
l’invenzione del gemello maschio, la storia di Fiordespina innamorata di Bradamante, l’ultima
rimasta sospesa dall’Inamoramento), e della malvagia Gabrina, che pagherà il fio delle sue colpe
al canto XXIV. Con il canto XXIX le vicende narrate raggiungono una sostanziale coincidenza
cronologica e, soprattutto, le vicende a latere rispetto alla pazzia di Orlando sono tutte chiuse:
il poema può ripartire esibendo una struttura, da qui innanzi, molto meno complicata.
Potremmo anzi dire che nel Furioso si comincia a intravedere il senso di una conclusione, la
necessità, come prima ricordavo, di verticalizzare la vicenda per consentirle di finire. E sono
proprio le tre storie principali a farsi avanti sul proscenio: al canto XXIX Orlando è ancora
pazzo, ma al XXXIX, grazie ad Astolfo, ha riacquistato l’intelletto; Agramante si ritira dalla
Francia e Ruggiero, ferito, non può soccorrerlo; l’amore fra Ruggiero e Bradamante viene
ancora posposto per effetto della gelosia di Marfisa. I protagonisti, in qualche modo, si preparano
alle ultime fasi: Orlando e Bradamante recuperano il senno; Marfisa si converte e promette
di far fare lo stesso a Ruggiero; i cavalieri pagani e cristiani rientrano quasi tutti nelle
rispettive armate. Rimangono ancora, è vero, azioni secondarie, come quella di Brandimarte e
Fiordiligi, o episodi isolati, come la Rocca di Tristano, Lidia e Marganorre, ma la linea principale
del récit appare ben evidente. E lo vediamo proprio dal riemergere di Orlando: lo avevamo
lasciato, completamente pazzo, a XXX, 15, lungo una spiaggia su cui si profila una massa di
uomini. Lo ritroviamo, sempre pazzo, a XXXIX, 37 mentre fa strage in mezzo all’esercito di
Astolfo, l’«esercito infinito» e affatto sconosciuto di XXX, 15. Astolfo e i compagni lo abbattono
come un toro infuriato e lo costringono a inspirare il senno recuperato sulla luna.
In tutta la narrazione che abbiamo visto dipanarsi sin qui, questa è la quarta volta che Ariosto
va “in presa diretta” su Angelica o su Orlando: i due protagonisti non sono spesso di scena
(Angelica anzi se n’è allontanata definitivamente), ma ogni volta la loro apparizione è come
un tuffo nella realtà, che permette di parametrare cronologicamente tutto quanto è avvenuto
nel frattempo. Anche in questo caso, come nei precedenti, la narrazione non è in realtà
andata avanti, Ariosto ha solo raccolto e dipanato fili che erano rimasti più indietro di quello di
Orlando. Riprendendo una bella immagine di Praloran, 14 potremmo dire che il lettore si muove
nell’intreccio del Furioso come in un labirinto: a ogni svolta narrativa non solo cambia ciò che
ha di fronte, ma il labirinto muta alle sue spalle, la storia si riorienta e si modifica, anche quella
che sembrava di poter dare per assodata.
La conclusione dell’opera, come tutti ricordiamo, si snoda in maniera piuttosto lineare, anche
se Ariosto, con le addizioni del 1532, sentì evidentemente la necessità di rallentarla, procrastinando
le nozze di Ruggiero e Bradamante con l’episodio di Leone. I protagonisti vengono via
via collocati su uno stesso asse cronologico, che consenta loro intanto di combattere a Lipadusa
(XLI), e in seguito di convergere verso la riconciliazione finale (XLIII); notevole anche la
ricomparsa di Rinaldo, in qualche modo simmetrica alla sua presenza all’inizio della storia, ai
canti IV-VI: al canto XLII beve alla fonte dell’odio e dimentica l’amore per Angelica. Anch’egli,
in qualche modo, rinsavisce, e segue le tracce degli altri protagonisti passando per Lipadusa
292 293
in tempo per piangere la morte di Brandimarte. Negli ultimi tre canti, infine, l’entrelacement è
assente e la narrazione, modellata su archetipi classici, è lineare: assistiamo solo al recupero di
un personaggio lasciato indietro dall’autore, come tante altre volte abbiamo visto. Qui è Rodomonte,
che Ariosto aveva abbandonato a XXXVI, 52, sconfitto da Bradamante: novello Turno,
sfiderà Ruggiero e con la sua morte (una delle tante necessarie a chiudere la narrazione) consentirà
ad Ariosto, che a differenza di Orlando non ha perso la bussola della sua vita e della sua
storia, di condurre la nave del poema all’approdo felice vaticinato in apertura del canto XLVI.
1. La bibliografia ariostesca è davvero sconfinata,
e quello dei rapporti con l’Inamoramento
è da sempre un tema centrale. A far
tempo da Rajna 1876, poi via via lungo il
Novecento; un regesto esaustivo delle corrispondenze
fra i due poemi è stato allestito
da Sangirardi 1993.
2. Tasso 1964, p. 123.
3. Notevolissima anche la consapevolezza
ermeneutica presente nelle illustrazioni
del poema di metà secolo (Figg. 45-46):
nell’edizione Valvassori (Orlando furioso di
M. Lodovico Ariosto, ornato di nove figure,
e allegorie in ciascun canto, Venezia, Giovanni
Andrea Valvassori, 1553), l’immagine
iniziale del canto XII illustra a partire dal
primo piano, posto nella parte bassa, l’arrivo
di Orlando al palazzo di Atlante (XII,
4, 5-8 e 15), la fuga di Angelica inseguita da
Orlando, Sacripante e Ferraù (XII, 33), il
duello tra Orlando e Ferraù (XII, 46, 5-8 e
53, 1-4), la partenza di Orlando verso Parigi
(XII, 68-85) e infine, nella parte più alta
della scena, Orlando nella grotta dei malandrini
(XII, 88, 3-8 e 92). Da L’“Orlando
Furioso” e la sua traduzione in immagini:
http://www.ctl.sns.it/collezioni.html#.
Ancora più complessa l’articolazione figurativa
dell’edizione Valgrisi (Orlando furioso
di M. Lodovico Ariosto, tutto ricorretto,
et di nuove figure adornato…, Venezia, Valgrisi,
1556), dove l’illustrazione iniziale del
canto I si propone di rendere la complessità
dell’intreccio costruito da Ariosto: a differenza
che nell’edizione Valvassori, non
sempre ciò che accade in apertura del canto
è collocato in primo piano, ma le diverse
scene si succedono con un movimento a spirale,
a partire da Carlo che affida Angelica
a Namo di Baviera (I, 5-9, vv. 1-4; in alto a
sinistra), poi il duello tra Rinaldo e Ferraù e
la fuga di Angelica (I, 16-22; a metà pagina,
da sinistra a destra), l’incontro tra Ferraù e
il fantasma di Argalia (I, 23, vv. 7-8 - 26, vv.
1-5; in primo piano, a destra), l’incontro tra
Angelica e Sacripante (I, 35, 2-8 - 48; in alto,
a destra), Sacripante disarcionato da Bradamante
(I, 63-69; in alto, al centro della
tavola), Sacripante che si avvicina a Baiardo
(I, 72-76; subito sopra alla precedente), e
infine il duello tra Rinaldo e Sacripante (II,
3-12, vv. 1-4; sopra alle due precedenti). Da
L’“Orlando Furioso” e la sua traduzione in
immagini: http://www.ctl.sns.it/collezioni.
html.
4. Tutte le citazioni ariostesche sono tratte da
Ariosto 1960.
5. Lot 1918.
6. Vinaver 1971.
7. Nei suoi tre importanti volumi Praloran
1990, 1999 e 2009, cui vanno riaccostati
saggi più specifici su questioni puntuali.
8. È la tesi – non da tutti condivisa – più volte
sostenuta da Praloran, sulla scorta di Rajna
1876; sulla diffusione dei testi francesi in
Italia resta fondamentale Delcorno Branca
1998.
9. Non mi sottraggo al problema posto dagli
incrementi narrativi fra 1516 e 1532: là dove
le aggiunte incidono sulla struttura, farò
riferimento anche all’assetto del 1516.
10. Penso soprattutto al duello di Lipadusa e
alla morte di Brandimarte (oltre che di Gradasso):
si veda M. Praloran, Vedere, patire,
agire, in Praloran 1999, pp. 127-142.
11. Penso soprattutto a Bruscagli 1983, Zatti
1990, Javitch 1991 e più recentemente a Delcorno
Branca 2007.
12. La scansione interna si può articolare in
vari modi, tutti più o meno plausibili. Io
seguo, almeno in parte, la proposta di Praloran
1999, che mi sembra più funzionale alla
partizione cronologica degli avvenimenti
narrati.
13. Solo nella redazione del 1532, con l’evidente
intento di porre ancora in maggior rilievo
il riprovevole comportamento di Ruggiero.
14. Praloran 1990, p. 55.
294 295
1516-1532:
LE TRASFORMAZIONI
DELL’ORLANDO
FURIOSO
–
ALBERTO CASADEI
Tre diverse redazioni dell’Orlando furioso furono pubblicate a Ferrara, sotto la sorveglianza
dell’autore, rispettivamente il 22 aprile 1516 (Giovanni Mazocco dal Bondeno), il
13 febbraio 1521 (Giovanni Battista della Pigna) e il 1 ottobre 1532 (Francesco de’ Rossi da
Valenza). Ci sono pervenuti inoltre un lungo frammento detto Cinque canti, probabilmente destinato
ad ampliare la seconda edizione ma poi accantonato e pubblicato solo postumo (1545 e 1548);
numerosi abbozzi autografi, riguardanti soprattutto alcuni episodi aggiunti nella terza edizione;
altri abbozzi minori, in qualche caso noti solo attraverso stampe o manoscritti non autografi.
Delle varianti (ossia modifiche) fra le tre stampe ci dà conto l’edizione critica pubblicata nel 1960
a cura di Santorre Debenedetti e Cesare Segre, 1 ma numerose precisazioni sulle caratteristiche
tipografiche della terza sono state apportate da Conor Fahy. 2 L’edizione originale è stata invece
riproposta autonomamente nel 2006 per le cure di Marco Dorigatti, che ha ricostruito fra l’altro
la storia della dozzina di copie superstiti della prima stampa. 3
Questi dati materiali non rendono certo conto delle tante trasformazioni apportate da Ariosto
al suo poema ormai edito (e oltretutto, bisogna ricordare che quasi nulla sappiamo della lunga
gestazione cominciata intorno al 1505 e finita nel 1515). Nell’insieme, si tratta di un cammino
durato più di venticinque anni, che spesso è stato inteso come un tentativo di raggiungere una
sempre maggiore perfezione linguistica e formale. Ma la critica più recente ha precisato questa
visione troppo semplificata mettendo a fuoco i vari progetti legati alle tre edizioni, e soprattutto
a quelle del 1516 e del ’32, dato che quella intermedia, benché non priva di modifiche significative,
si presenta piuttosto affrettata. 4 Per comprendere le varie tappe di questo lungo cammino
occorre comunque indagare il rapporto fra il capolavoro ariostesco e i contesti storici e culturali
in cui è stato scritto e letto.
Alcuni tentativi di analisi delle varianti si registrano già nel Cinquecento, a opera di commentatori
e di letterati quali Lodovico Dolce, Giovan Battista Giraldi Cinzio, e soprattutto Giovan Battista
Nicolucci detto il Pigna, che fornì un elenco di modifiche nei suoi Scontri de’ luoghi mutati
dall’autore..., terzo libro dell’opera I romanzi, edita a Venezia nel 1554; e anche Girolamo Ruscelli,
Fig. 47
Ritratto di Ludovico Ariosto
Xilografia in Orlando
furioso, 1532
Ferrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
296
che, nella premessa al Furioso da lui curato (Venezia 1556), asserì fra l’altro di aver visto una copia
del 1532 corretta da Ariosto stesso in vista di una quarta edizione, poi impedita dalla sua morte (6
luglio 1533). A parte la scarsa precisione di molti di questi tentativi, l’interesse per le varianti fu
unicamente linguistico o stilistico: si voleva infatti dimostrare la maggiore purezza della lingua
oppure la migliore costruzione retorica della terza redazione.
Dopo una lunga fase di lavori parziali o filologicamente poco corretti, una nuova fase nello studio
delle varianti d’autore fu segnata, nel Novecento, dall’edizione critica dei Frammenti autografi
dell’“Orlando Furioso”, curata da Santorre Debenedetti. 5 Pur riguardando soltanto le varianti fra
manoscritti e stampa dell’ultima redazione, questa magistrale edizione diede spunto a numerosi
studi, primo fra tutti il celebre articolo di Gianfranco Contini intitolato Come lavorava l’Ariosto,
nel quale furono posti alcuni princìpi fondamentali riguardo al modo di esaminare le varianti. 6
Negli anni Sessanta, oltre all’edizione critica del poema, uscirono altri contributi che riportarono
l’attenzione sull’importanza di un esame diacronico delle tre redazioni: in particolare, un lavoro
di Carlo Dionisotti sui Cinque canti indusse fra l’altro a riconoscere che la redazione del 1516 è già
«un capolavoro assoluto». 7
Da quell’epoca, numerosi sono stati i critici che si sono pronunciati sulle caratteristiche delle
varie fasi dell’opera, da Cesare Segre e Lanfranco Caretti, a Emilio Bigi, Remo Ceserani e Sergio
Zatti, sino a Giuseppe Sangirardi, Giulio Ferroni e Stefano Jossa, autori di alcune recenti e autorevoli
monografie. 8 Ma le analisi puntuali continuano a essere necessarie per determinare con la
massima esattezza le differenze effettive tra le redazioni del Furioso, senza rischiare di proporre
etichette generiche: per questo sono frequenti gli studi dedicati a specifici aspetti compositivi e
variantistici. 9
2. L’avvio della composizione del Furioso è fissato, con buona probabilità, intorno al 1505. 10 Di
certo Ariosto raccontò una parte dell’opera a Isabella d’Este, sposa di Francesco Gonzaga, all’inizio
del 1507: infatti, il 3 febbraio di quell’anno la signora di Mantova scrisse al fratello Ippolito,
dedicatario del poema, per fargli sapere che la narrazione delle nuove vicende di Orlando e dei
paladini le aveva procurato grande piacere (Tav. 17). Altre notizie sulla composizione del Furioso
si registrano negli anni successivi (specie nel 1509 e nel ’12), fino a quando, nel settembre del 1515,
cominciano i preparativi della prima stampa, poi conclusa il 22 aprile 1516.
La decisione di proseguire l’Orlando innamorato (o Inamoramento de Orlando, come si legge in
alcune fra le stampe più antiche) è sembrata a molti critici sorprendente, dato che l’incompiuto
poema di Matteo Maria Boiardo risultava fuori moda rispetto alle tendenze più forti della letteratura
primocinquecentesca. Ma la sua fama era ancora notevole quando, nel 1505, fu pubblicata
a Venezia la sua prima continuazione, il Quarto libro di Niccolò degli Agostini. Si trattava principalmente
di un’operazione commerciale, che, rivolgendosi a un vasto pubblico, toglieva agli Este
il privilegio di vedere nell’Innamorato un’opera dedicata alla loro celebrazione.
Ariosto aveva appena iniziato o forse iniziò proprio in quell’anno il suo Furioso: certamente l’impresa
fu vista subito con il massimo favore nella corte di Ferrara. Questo poeta ancora piuttosto
giovane, molto incline alle riscritture di opere classiche e recenti, nell’Innamorato si ritrovava
già ben selezionato il materiale della tradizione cavalleresca, 11 e soprattutto erano molti gli episodi
rimasti interrotti che potevano essere completati o addirittura re-interpretati: ad Ariosto
era perciò possibile unire modelli classici e moderni, per concludere una vicenda pensata da
Boiardo utilizzando, magari, Ovidio o Virgilio. Insomma, il prosecutore aveva un dominio assoluto
riguardo alla materia e di fatto esercitò nei confronti dell’Innamorato non solo una rispettosa
imitazione, bensì anche una forte emulazione o addirittura varie forme di parodia: questi aspetti
contribuirono a creare il famoso tono ironico che contraddistingue il nuovo poema.
3. Al termine di un’elaborazione almeno decennale, il primo Furioso si presentava in 40 canti,
anziché in 46 come l’ultimo: nel 1532 infatti vennero inseriti nella compagine del poema gli
Fig. 48
Ludovico Ariosto
Frammenti autografi
del canto XI
Ferrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
episodi di Orlando e Olimpia (fra i canti IX-X-XI, Fig. 48), della Rocca di Tristano (XXXII-
XXXIII), di Marganorre (XXXVII), di Ruggiero e Leone (XLIV-XLV-XLVI), per un totale di più
di settecento ottave. L’edizione del 1516 fu stampata da Giovanni Mazocco dal Bondeno, già attivo
da tempo a Ferrara; venne richiesta ottima carta e la tiratura ammontò a circa 1300 esemplari. 12
La veste grafica risultò accurata, con alcuni aspetti abbastanza innovativi per un poema cavalleresco,
come la chiara partizione fra la fine di un canto e l’inizio del successivo. Sin dalla seconda
carta, inoltre, compariva una xilografia (rappresentante un nugolo di api cacciate col fuoco da un
ceppo d’albero) in una cornice, ai cui angoli si leggeva il motto «Pro bono malum», cioè «Il male
in cambio del bene»: elementi elegantemente allusivi, che sono stati ben presto oggetto di varie
interpretazioni. 13
Venendo al testo, per quanto riguarda la lingua va detto che la prima edizione presenta un
discreto numero di tratti dialettali padani; 14 tuttavia, queste forme sono sensibilmente meno frequenti
rispetto all’Innamorato. In effetti, già nel ‘16 si registra un forte distacco dalle forme più
tipiche dell’Italia settentrionale: Ariosto si distingueva dai suoi predecessori indirizzandosi decisamente
verso la lingua toscana, benché non sempre utilizzasse le forme corrette, anche a causa
della mancanza di norme grammaticali chiare e univoche. Da un punto di vista metrico-sintattico,
risultano evidenti alcuni tratti distintivi rispetto all’Innamorato: per esempio, un’attenzione
costante alla ritmicità e alla simmetria nella strutturazione delle ottave, e un uso ampio della
subordinazione, che permette di creare periodi sintattici di quattro e a volte di sei versi. Tutto
questo provoca un notevole cambiamento nello sviluppo della narrazione, che risulta molto più
fluida e scorrevole rispetto a quella di Boiardo. 15 Solo un commento puntuale al primo Furioso
potrà delineare ulteriormente questi aspetti; 16 comunque, si può sinteticamente affermare che
298 299
nel 1516 la fisionomia linguistico-retorica e metrica del poema è già ben definita ed è frutto di
scelte che Ariosto non modificherà mai in modo radicale, anche se le correggerà da vari punti di
vista (vedi § 5).
Un discorso più complesso va fatto riguardo alla strutturazione narrativa, che non è ricavabile
semplicemente sottraendo al terzo Furioso gli episodi sopra indicati. In particolare, l’inserimento
della vicenda di Ruggiero e Leone allontana parti del testo prima strettamente unite fra loro,
che formavano nel ’16 un finale del poema assai diverso da quello del ’32. Per esempio la lunga
sequenza che vede per protagonista Rinaldo (XXXVIII, 28 e segg.), in buona parte ambientata in
territori padani fra Mantova e Ferrara, era collocata subito prima dell’ultimo canto del poema e si
presentava come una sorta di commento a tutte le sue vicende, a cominciare da quelle legate alla
pazzia d’amore. Rinaldo infatti, dopo essersi liberato della “rabbia” dovuta alla gelosia per Angelica,
affrontava varie prove di saggezza, che costituivano per il lettore una serie di annotazioni
morali: mai però moralistiche, perché improntate alla delicata ironia oraziana.
Si arrivava così direttamente al canto finale (XL), nel quale si scioglievano uno dopo l’altro i
nodi narrativi lasciati ancora insoluti: i paladini rientravano tutti a Parigi, Astolfo liberava l’ippogrifo,
si celebrava finalmente il matrimonio di Ruggiero e Bradamante, con una grande festa
alla corte di Carlo Magno. Quest’ultima situazione riconduceva l’intera storia all’inizio dell’Innamorato,
che presentava appunto il re a banchetto con i suoi paladini: una sorta di “chiusura ad
anello” di tutte le vicende romanzesche, che però costituiva solo un momentaneo happy ending. A
esso seguiva infatti il celebre duello tra Ruggiero e Rodomonte, modellato soprattutto su quello
tra Enea e Turno che chiude l’Eneide. Tutte queste vicende non scomparvero nel ’32, ma furono
dislocate in vari canti per dare spazio a un episodio che nobilitasse ulteriormente Ruggiero. Nella
sequenza originaria, però, esse chiudevano il testo con maggior compattezza, e nel contempo lo
avvicinavano con evidenza al pubblico estense e delle corti padane, al quale Ariosto si rivolgeva
prioritariamente.
4. La seconda edizione del Furioso uscì a Ferrara il 13 febbraio 1521 dalla tipografia di Giovanni
Battista della Pigna, uno stampatore milanese noto solo per questa edizione (Fig. 49). Essa fu
preparata in gran fretta, come si deduce da una lettera dell’8 novembre 1520 al cortigiano mantovano
Mario Equicola, nella quale Ariosto afferma che la prima edizione è esaurita ma non dice di
averne in previsione una nuova. Dunque l’edizione fu stampata in poche settimane e per questo
essa si presenta più scorretta della prima, come dimostra anche un lungo errata corrige stilato
dallo stesso Ariosto, che peraltro intervenne più volte in bozza. La sua tiratura fu piuttosto limitata,
forse di 500 esemplari, dei quali solo quattro ci sono pervenuti. 17 In questa redazione Ariosto
aggiunse 11 ottave ma ne tolse altrettante, e corresse 2.912 versi su 32.944. In molti casi si trattò
di modifiche dovute a errori locali, ma Ariosto seguì anche alcune linee correttorie più generali,
sulle quali è opportuno soffermarsi brevemente.
Da un punto di vista linguistico si registra l’eliminazione di qualche forma padana e di parecchi
latinismi (a volte interpretabili anche come dialettismi); inoltre, vengono soppressi alcuni vocaboli
troppo triviali o comici, spesso derivati dall’Innamorato: 18 essi risultavano poco dignitosi
perché le regole dovute alle “buone maniere” andavano facendosi più rigide in quegli anni, e
per questo molti vocaboli troppo espliciti venivano banditi dalla conversazione e dalla poesia. 19
A livello metrico-sintattico, sono eliminati numerosi enjambements che creavano ritmi troppo
prosastici (simili a quelli sperimentati, dopo il 1517, nelle Satire); sono inoltre corrette varie frasi
poco perspicue nei nessi subordinativi.
Le varianti strutturali risultano, come si è detto, minime, perché Ariosto si è limitato ad aggiungere
una stanza o due là dove andavano spiegati meglio alcuni dettagli della narrazione. In un
caso però le ottave inserite sono di un certo interesse. Ci si riferisce a quelle riguardanti la battaglia
di Lipadusa (cioè Lampedusa) nel canto XXXVIII, in cui il narratore si rivolge direttamente
a un personaggio reale, il nobile Federico Fregoso, per rispondere a una sua obiezione sulla
Fig. 49
Ludovico Ariosto
Orlando furioso
Ferrara, Giovanni Battista
della Pigna, 1521
Roma, Biblioteca Angelica
verosimiglianza del racconto: è un tipico commento metanarrativo, che si adatta al modo ironico
di trattare la materia cavalleresca, di cui si è già parlato per il primo Furioso.
Nel complesso la fisionomia della seconda redazione testimonia alcune linee correttorie che corrispondono
a nuove esperienze linguistiche e letterarie di Ariosto. Tuttavia, rispetto al 1516, la
parte di testo non modificata è di molto superiore a quella modificata (in proporzione quasi 9 a 1):
probabilmente però il secondo Furioso sarebbe stato molto diverso, se il poeta avesse completato
una prosecuzione della quale ci rimangono soltanto i già citati Cinque canti (Fig. 50). Si tratta di
un’aggiunta che, secondo le interpretazioni più accreditate, sarebbe stata collocata dopo l’ultimo
canto della prima redazione e che riguardava le trame di Gano e dei Maganzesi per dividere
Carlo Magno dai suoi paladini, mettendo in difficoltà soprattutto Rinaldo e Ruggiero. Sebbene
la prima ideazione risalga quasi certamente al 1519-20, questo episodio fu rimaneggiato almeno
sino al 1526-28, quando fu accantonato per dare spazio alle aggiunte poi introdotte nel 1532. 20
Al di là di alcuni particolari, ancora sottoposti a verifiche, i critici sono nel complesso concordi
nel considerare questi canti improntati a un gusto piuttosto arcaico, vicino a Pulci oltre che a
Boiardo, ma nello stesso tempo notano molti riferimenti ad autori poco presenti nella redazione
del 1516, come Lucano con la sua epica cupa e drammatica: uno dei temi di fondo dei Cinque canti
era infatti, come nella Farsaglia, la lotta per il potere, attuata soprattutto attraverso intrighi di
corte e a causa della stoltezza dell’imperatore.
5. Nel 1525 Carlo V sconfisse Francesco I nella battaglia di Pavia e prese così il sopravvento in
Italia. Dopo ulteriori scontri, culminati nel Sacco di Roma del 1527, Carlo fu incoronato imperatore
a Bologna nel 1530. Questi avvenimenti, a volte meravigliosi a volte tragici, lasciarono una
profonda traccia nell’immaginario collettivo, e infatti compaiono più o meno esplicitamente pure
nelle aggiunte del terzo Furioso. Ariosto si rende conto che il mondo cavalleresco, nel 1516 ancora
300 301
rappresentato da Francesco I e dalla sua corte francese, è ormai in declino, e lo fa intuire in
numerose modifiche di carattere storico-politico. Più in generale, il poema abbandona la dimensione
municipale e cortigiana in cui era nato, per indirizzarsi decisamente verso una dimensione
nazionale e, anche simbolicamente, imperiale. Ciò non implica che i riferimenti alla corte ferrarese
vengano cancellati: essi sono quasi tutti conservati, ma vengono affiancati da altri che
riguardano la storia italiana ed europea, come nel canto XV, con un’aggiunta dedicata alle scoperte
geografiche e ai conquistadores, o nell’esordio del canto XXXIII, sulle guerre combattute
dai Francesi in Italia.
Sempre nel 1525, si registra un avvenimento decisivo nel campo letterario: l’uscita delle Prose
della volgar lingua di Pietro Bembo. Fra i tanti effetti, la loro pubblicazione sancì l’avvento di
nuove e precise regole grammaticali e stilistiche, basate com’è noto sui modelli di Petrarca e Boccaccio.
Ariosto ritenne opportuno seguire queste nuove regole, anche se mai pedissequamente, e
dovette perciò correggere alcune migliaia di versi per rispettarle: basti pensare ai cambiamenti
introdotti per evitare incontri di consonante+s implicata (tipo “il scudo” e simili). Altre varianti
linguistico-stilistiche derivarono invece da scelte autonome dell’autore, per esempio allo scopo
di rendere più simmetriche le dittologie e le elencazioni. 21
Ma le Prose di Bembo provocarono anche nuovi giudizi di valore riguardo ai generi letterari: il
poema cavalleresco, che dopo il 1516 era stato praticato da scrittori mediocrissimi, fu sempre
Fig. 50
Ludovico Ariosto
Cinque canti
Venezia, Gabriele
Giolito, 1548
Ferrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
1. Ariosto 1960.
2. Fahy 1989.
3. Ariosto 2006.
4. Per una sintesi si veda Jossa 2009.
5. Ariosto 1937.
6. Contini 1937 (ed. 1974).
7. Dionisotti 1961, p. 375.
8. Per una bibliografia completa, si veda il commento
di Bigi in Ariosto 2012.
9. Casadei 1988 e 2001; Montagnani 2007;
Dorigatti 2009 e 2011.
più considerato umile e volgare, cosicché Ariosto si trovò quasi a dover difendere il suo Furioso,
per farlo accettare pure nelle nuove élites culturali. Predispose un’edizione lussuosa (addirittura
con il suo ritratto, preparato in xilografia da Tiziano Vecellio, Fig. 47) e la curò fin nei minimi
particolari presso lo stampatore Francesco de’ Rossi da Valenza, correggendola molte volte prima
della sua uscita il 1 ottobre 1532. 22 Negli episodi aggiunti adottò spesso uno stile elevato, senza
concedere quasi niente al comico. Inoltre, in questi episodi spiccano le vicende di tipo moralmente
nobile, nelle quali i paladini sono impegnati contro personaggi immorali e crudeli, come
Cimosco o Marganorre. Rispetto a quello della prima edizione (vedi § 3), il nuovo finale risulta
molto più complesso, perché da un lato aumentano i riferimenti a Virgilio o ad altri modelli epici,
dall’altro si leggono inedite e drammatiche avventure cavalleresche di Ruggiero, al quale viene
assegnato il titolo di re dei Bulgari, probabilmente per nobilitarlo presso il nuovo pubblico delle
corti italiane ed europee. Di certo si può affermare che in questa aggiunta, come in tutte le altre
del ’32, si hanno pochissime tracce dell’ironia che dominava le prime due redazioni.
Il testo dell’ultimo Furioso presenta insomma alcune parti più dissonanti e tetre rispetto alle
versioni precedenti. Non si può tuttavia attribuire questa situazione a una crisi puramente personale,
né alle conseguenze delle crisi storiche, peraltro almeno in parte superate nel 1530. Piuttosto
si dovrà pensare a un’evoluzione interna al genere cavalleresco 23 e a una nuova tendenza
di tipo classicistico ma non soltanto antiquario. 24 Di certo la redazione del 1532 risulta al passo
con la storia, così come, in modi diversi, lo erano quelle precedenti: è per questo che, seguendo
i cambiamenti del poema ariostesco, si ricostruisce un diagramma significativo della fase più
importante del Rinascimento italiano.
Tuttavia l’analisi delle trasformazioni del Furioso contribuisce anche a cogliere le potenzialità di
una letteratura che, pur nascendo dal grande semenzaio dell’Umanesimo quattrocentesco, aspirava
a costruire un “mondo possibile” autonomo e autoconsistente. Nelle prime due redazioni,
dominava l’aspirazione a far comprendere, attraverso la piacevolezza delle vicende dei paladini,
quale atteggiamento si poteva tenere davanti all’incostanza e alla contraddittorietà delle passioni
umane a cominciare dall’amore, in grado di far impazzire persino il saggio e casto Orlando. Nella
terza, Ariosto chiede al suo lettore di confrontare le nuove avventure con le vicende realmente
accadute, che avevano persino prodotto la caduta di un re valoroso come Francesco I. Di fatto,
al di là delle convinzioni personali dell’autore (non soltanto pessimistiche), nell’ultimo Furioso
l’instabilità etica e quella storica risultano ancora più nette, in significativa analogia per esempio
con le riflessioni introdotte nella versione del 1530 dei Ricordi guicciardiniani. 25
10. Per le notizie biografiche si fa riferimento a
Catalano 1930-31.
11. Si veda Sangirardi 1993.
12. Per i dati si veda Ariosto 2006.
13. Vedi Masi 2002.
14. Si veda da ultimo Vitale 2012.
15. Vedi Blasucci 2014 e Cabani 1990a.
16. Come primo esempio si veda Matarrese e
Praloran 2010.
17. Si veda Fahy 1989 e Spagnolo 2008.
18. Oltre alla sintesi in Trovato 2004, si veda
Boco 2005.
19. Vedi Mazzacurati 1985.
20. Casadei 2001.
21. Casadei 2008.
22. Sulla complessa storia dell’edizione si veda
Fahy 1989, pp. 102-175.
23. Bruscagli 2003; Praloran 2009; Ascoli 2014.
24. Si veda Javitch 2012 e, per una ricca contestualizzazione
storico-artistica, Farinella
2014a.
25. Su questi aspetti si veda Casadei 2016.
302 303
ARIOSTO IN CERCA
DELLA LINGUA.
IL PRIMO, IL SECONDO
E IL TERZO FURIOSO
–
PAOLO TROVATO
Gli ultimi decenni del Quattrocento e i primi del Cinquecento sono,
com’è noto, decisivi per la storia della lingua italiana, perché in essi il
toscano letterario diventa di fatto la lingua letteraria di tutta la penisola.
Caratteristico esempio di passaggio da un volgare illustre di tipo
regionale, che potremmo chiamare «padano», al toscano letterario è
quello di Ludovico Ariosto.
Bruno Migliorini
Nel 1552 un protagonista dell’editoria cinquecentesca come Girolamo Ruscelli, curatore-correttore
responsabile di tante riedizioni fiorentineggianti di autori quattro e primocinquecenteschi,
ci offre una notevole, anche se non imparziale, testimonianza della
svolta o crisi linguistica che si era consumata nel corso del Cinquecento: «Non era a’ tempi del
Collenucio ancor molto abbraciata per l’Italia la lingua toscana, et usavasi una lor lingua che
chiamavano cortegiana, la qual però in chi più et in chi meno s’avicinava alla Toscana vera, che
pur era riconosciuta per la migliore, ma non erano ancora stati alcuni che l’havessero ridotta in
regole […], onde si vede l’Innamoramento d’Orlando del Boiardo, et ancora quelle historie d’Erodoto
ch’ei tradusse dal greco et così anco quei primi Cortegiani del Castiglione a penna et altri
scritti di persone chiare in que’ tempi che usarono quella lingua.» 1
Tra le opere scritte in lingua cortegiana figuravano, dunque, testi di notevole interesse storicoculturale,
come i volgarizzamenti del Boiardo, ma anche il capolavoro dello stesso Boiardo, l’Inamoramento
de Orlando (citato, si noti, con il titolo originario: dunque da un’edizione molto antica)
e i «primi Cortegiani del Castiglione a penna» (il Cortegiano «a penna» non adeguatamente fiorentinizzato
che Ruscelli avrà potuto leggere sarà stato probabilmente la copia manoscritta di
Vittoria Colonna, che tanto preoccupava il Castiglione, o un suo derivato).
L’apparizione di grammatiche a stampa del fiorentino trecentesco come le Regole grammaticali
della volgar lingua del Fortunio (1516, Fig. 51) e le Prose della volgar lingua del Bembo (1525, Tav.
74) è giustamente individuata da Ruscelli come il punto di non ritorno della rottura da lui denunciata
(«in chi più et in chi meno [la lingua] s’avicinava alla Toscana vera, che pur era riconosciuta
per la migliore, ma non erano ancora stati alcuni che l’havessero ridotta in regole»).
Per la verità, la svolta delle grammatiche era stata anticipata, in buona misura, dalle scelte di
editori di punta come Aldo Manuzio e di autori di avanguardia come Bembo e Sannazaro. Aldo –
che disponeva d’altronde di un socio-consulente d’eccezione come lo stesso Bembo – aveva
Fig. 51
Giovanni Francesco
Fortunio
Regole grammaticali
della volgar lingua
Ancona, Bernardino
Vercellese, 1516
Bologna, Biblioteca
Universitaria
304
pubblicato nel 1501 e nel 1502 un Petrarca e un Dante immuni dai tratti settentrionali normali
nelle edizioni del tempo. Sannazaro e Bembo avrebbero mostrato nel biennio 1504-05, rispettivamente
nell’Arcadia e negli Asolani, che la lingua più appropriata per l’alta letteratura non
era quella delle corti e nemmeno il fiorentino contemporaneo, ma era invece il fiorentino dei
grandi trecentisti, Petrarca, Boccaccio e (ancora senza le riserve avanzate dal Bembo nelle Prose
della volgar lingua, II 20) Dante. 2 Ma non dobbiamo farci suggestionare dalla precocità di queste
iniziative. Perché questi orientamenti diciamo pure classicistici, che applicavano al volgare le
procedure dell’umanesimo cosiddetto ciceroniano, diventassero prevalenti tra i letterati d’avanguardia
(e innanzi tutto tra i lirici) occorre aspettare la fine del terzo decennio del Cinquecento
(tra 1529 e 1530 appaiono a stampa molte raccolte di rime di grande rilievo). 3
E Ariosto? Non ci sono dubbi (basterebbe ricordare il fatto che il primo Vocabolario degli Accademici
della Crusca, quello del 1612, lo include, unico ferrarese, nel suo canone di autori fiorentini)
sulla pertinenza del terzo Furioso (1532) a questa fase linguisticamente nuova della letteratura
italiana, largamente modellata sulla lingua delle Tre Corone. Basta, e avanza, per rendersi conto
dell’entità del cambiamento, confrontare l’attacco dell’Inamoramento, punteggiato di padanismi
ai suoi tempi normalissimi come diletose, bela, oldir, gli indicativi adunati e vedereti, gli imperativi
stati e ascoltati:
Signori e cavallier che ve adunati
per oldir cose diletose e nove
stati atenti e quïeti et ascoltati
la bela historia che il mio canto move;
et odereti i gesti smisurati,
l’alta fatica e le mirabil prove
che fece il franco Orlando per amore
nel tempo de il re Carlo imperatore.
con quello, fiorentinamente impeccabile, del Furioso C:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori
Le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si dié vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator Romano.
Ma la redazione B del Furioso, apparsa nel 1521? E quella A, ancora più remota, pubblicata nel
1516?
2. Nel 1946 Bruno Migliorini pubblicò su «Italica» un articoletto dei suoi (tutti fatti, raccordati
con sobrie, meditatissime frasi di commento) intitolato Sulla lingua dell’Ariosto, da cui proviene,
tra l’altro, l’epigrafe di queste pagine. 4 Da allora molti auspici di Migliorini si sono realizzati: non
è più vero, per esempio, che «manca un saggio linguistico sul volgare illustre delle corti padane,
quello per intenderci che si potrebbe identificare nei carteggi estensi e gonzagheschi, quello
che (raffinato letterariamente) troviamo nell’Orlando innamorato del Boiardo»; 5 e molti studiosi
hanno ripreso a studiare la lingua di Ariosto. 6 Di più, disponiamo di strumenti di lavoro preziosi
come l’edizione del Furioso C «con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521», l’edizione
critica del Furioso A e il Rimario diacronico del poema. 7 Ma la validità di molte se non di tutte le
indicazioni del Migliorini rimane inalterata, cosicché quel breve saggio può funzionare anche
come un metro per misurare i progressi degli studi ariosteschi.
A giudizio di Migliorini, il testo del 1516 «teneva ancor molto» del padano illustre, «benché fosse
già ben più toscano che l’Orlando innamorato o il Mambriano. Nel vocalismo notiamo forme dialettali
o latineggianti come gionco, artifice, pontifice, depingere, argumento, suspiro. Nel consonantismo,
v’è ancora grandissima incertezza nell’uso delle doppie; si hanno numerose oscillazioni
tra c e z (roncino più frequente di ronzino); sporadico è l’uso di sc, ignoto alle parlate padane
(settro, samito, trassinare, ecc., ma scevra, sdruscito); usuale è il tipo giaccio, giara, giotto, e così
pure il tipo iumenta, iusto, Iove (tuttavia anche giocondo).» 8
«Già durante la stampa di A – continua Migliorini – il poeta è preso da qualche pentimento; così
nell’errata corrige egli rifà due versi in cui aveva adoperato in rima mano al plurale: una volta
mutando tutti e tre i versi in rima, la seconda trasformando il plurale in singolare. Un terzo esempio
(XIV, 65) gli sfugge, ma lo troveremo corretto nella seconda edizione.» 9
La recente monografia di Maurizio Vitale sulla lingua del primo Furioso arricchisce e precisa, ma
non stravolge, il disegno miglioriniano. 10
3. Per quanto riguarda la redazione B, è ancora Migliorini a osservare: «I ritocchi di lingua e di stile
per l’edizione del 1521 sono relativamente assai parchi, e del resto anche le aggiunte e le modificazioni
d’altro genere. Notiamo fra i ritocchi volgo mutato in vulgo, sfochi cambiato in sfuochi, ciucca
cambiato in zucca, perse mutato in perdette, espona (congiuntivo) eliminato; è corretto il passato
remoto cacciorno, ecc. […]. Quasi più interessanti, direi, che le correzioni del testo sono quelle elencate
nell’errata corrige. Giunto alla fine dell’opera, il poeta vede quanto essa si scosti dal proprio
ideale e dalle pretese che i grammatici cominciano ad avere, e insieme alla correzione di alcuni
grossi errori di stampa e a parecchi miglioramenti singoli egli enumera quelli che riconosce come
difetti di lingua: oltre ad avvertenze troppo generiche (“una consonante per due, due per una”), v’è
una lista di riconoscimenti specifici: egli vorrebbe avere scritto non summo ma sommo, non reverire
ma riverire, non distino ma destino, non raccorda ma ricorda, non devere ma dovere, non volontieri ma
volentieri, non parangone ma paragone; non gli piacciono più de per di e dil per del, ecc.» 11
La nostra maggior consapevolezza delle specificità dei procedimenti tipografici in generale e in
particolare le importanti ricerche di Irene Torregrossa sulle varianti presentate dai pochi esemplari
superstiti della ’21, riconducibili a interventi ariosteschi in tipografia, ci permetterebbero di
arricchire un po’ il quadro ricostruito da Migliorini. 12 Ma è innegabile che una serie molto significativa
di pentimenti fonomorfologici e di microsintassi (per esempio, il stanco > lo stanco, in li salsi
> nei salsi…) viene introdotta da Ariosto solo in C, cioè nel 1532, dopo una meditata lettura del libro
grammaticale delle Prose della volgar lingua. La prova regina di questa attenta lettura rimane ancora
quella individuata dal grandissimo Debenedetti nel 1930, ossia la correzione sistematica dell’avverbio
presto (ignoto alla lingua del Trecento in cui presto ha invariabilmente il valore aggettivale
di “pronto, preparato”) con il suo corrispondente aureo tosto: 13 appunto a norma di Prose, III 60. 14
4. Nel saggio del 1946 Migliorini propone anche una valutazione d’insieme del lessico del Furioso,
già nella redazione A molto ricco e saldamente orientato verso il fiorentino letterario: «Nel lessico
abbondano i latinismi: cicada (VIII, 20), crebro, dicare, difensione, mal dolato (XI, 37), erradicare,
esicio, formidato, hara, hirondine, proceri, tumente, tuto, ecc. Pochissimi sono invece i veri e propri
dialettalismi: intendo dire i vocaboli di area dialettale non toscana, e non quelli che esistevano,
con lievi varietà fonetiche o morfologiche, anche in Toscana: tale per esempio giava “stanza di
deposito nelle navi”.» 15
Ma anche a non tener conto di qualche imprecisione del benemerito Migliorini, che non disponeva
dei nostri sussidi elettronici e nemmeno di concordanze cartacee del Furioso, 16 si ha l’impressione
che sul lessico (che in uno scrittore raffinato come Ariosto vuol dire anche intertestualità, prelievo
puntuale di materiali da autori modello) ci sia ancora parecchio da lavorare.
306 307
Come ogni autore non fiorentino del suo tempo, Ariosto si appropriò del fiorentino letterario con
lo stesso metodo impiegato dagli umanisti per affinare il loro latino, sottolineando e riportando
nel margine dei suoi libri vocaboli e costrutti dei testi canonici e «collegando con rinvii da carta a
carta quelli ripetuti o simili». 17 Ma nonostante lavori importanti come quelli di Cesare Segre e altri
sull’influsso di Dante, 18 di Luigi Blasucci sul Morgante (1976), 19 di Maria Cristina Cabani su Petrarca
e il petrarchismo, 20 di Giuseppe Sangirardi su Boccaccio e Boiardo, 21 di Stefano Jossa e altri su Poliziano,
22 il palchetto dei «testi di lingua» usati da Ariosto per fiorentinizzare come si doveva il suo
poema è stato ricostruito solo parzialmente.
Per cominciare, la decisione ariostesca di scrivere un poema che esplicitamente si proponeva come
una continuazione dell’Inamoramento de Orlando, implica una diffusa assunzione di parole, iuncturae,
clichés ritmici, similitudini di Boiardo, quando non genericamente cavallereschi o canterini. Al
livello meno significativo della interdiscorsività (il riuso di tratti comuni a un’epoca o a un genere,
ma non riconducibili a un autore specifico) non meritano particolare attenzione formule e clausole
tipiche di quella tradizione, come, per esempio, «la gente saracina» (2 occorrenze nella Spagna ferrarese
o SF, 7 nell’Inamoramento de Orlando o IO), «la gente pagana» (5 occorrenze + 2 di «pagana
gente» in SF, 0 + 3 in IO) e la «negra gente» (2 occorrenze in IO), cui corrisponde per esempio,
nel campo avverso, «la cristiana gente» (0 occorrenze + 2 «gente cristiana» in SF, 1 occorrenza di
«gente cristiane» in IO), «la gente battezzata», ecc.
Non occorrerebbe dire (e comunque ci torneremo più sotto) che travasi massicci da un sistema stilistico
all’altro non significano che i due sistemi siano pienamente sovrapponibili. Un controllo sulle
prime 200 occorrenze di gente in SF e IO e sulle prime 100 nel Furioso rivela semmai che, mentre il
pur colto e inventivo Boiardo non si preoccupa troppo della frequente ricorrenza delle formule epiche,
il classicista Ariosto è generalmente attento a evitare le ripetizioni (tra le numerose variazioni:
la «nera gente», la «gente Cirenea», la «gente maura» ecc.).
Sempre dello stesso tipo, ossia, per usare la comoda opposizione di Segre, interdiscorsive, cioè tipiche
della tradizione cavalleresca, ma non intertestuali, sono le iuncturae formate da sostantivi +
epiteti come «spada tagliente» o da coppie di sostantivi come «pedoni e cavallieri» o «trabacche e
padiglioni».
Di nuovo si può verificare come, a fronte della formularità della Spagna:
Sotto suo sbergo la spada tagliente
con Durlindana, sua spada tagliente
con Altachiera, sua spada tagliente
e dello stesso Inamoramento:
de arme a diffensa e di spada tagliente
mena a fracasso la spada tagliente
quando menava sua spada tagliente,
Ariosto si produce in una virtuosistica serie di variazioni, dislocando la formula o i suoi due componenti
in sedi sempre diverse, fino all’enjambement:
può la tagliente spada, ove s’incappi
Ecco vibrando la spada tagliente
Ed indi van con la tagliente spada
Non si presto però, che la tagliente
spada fuggisse…
e via enumerando.
Va notato inoltre che, nonostante la sua ampia disponibilità nei confronti della tradizione, e
specialmente di Boiardo, Ariosto non arriva a condividerne la, come dire?, tendenziale asemanticità
di certi epiteti in rima, «caratteristici di un genere di narrazione che subordina […] il
significato […] alla preoccupazione di colmare la struttura strofica» (i cavalieri e gli imperatori
adorni, i giovani e i baroni fioriti ecc.). 23 Anche a forza di iniezioni dagli auctores latini (Ovidio,
Virgilio, ma anche Catullo, Tibullo ecc.), Ariosto vuole, in qualche misura, rifondare il genere
cavalleresco, renderlo classico. Il suo pubblico ideale non si aduna più per oldire cose nuove
lette ad alta voce, in piazza o nel palazzo, ma legge, silenziosamente, a casa propria. 24
5. Come ha mostrato Sangirardi (che si è occupato però anche di riprese tematico-situazionali),
proprio Boiardo fornisce alla fabbrica del Furioso una gran quantità di materiale
prefabbricato, pronto per essere “rimontato” in un altro poema. 25 Ne darò qualche esempio,
ricorrendo, per comodità di esposizione, a una griglia collaudata una quarantina d’anni fa,
ma senza preoccuparmi di documentare i tipi ai due estremi dell’elenco: parole isolate, sintagmi
minimi o emistichi, sequenze semplici (versali), sequenze complesse (trans-versali),
sistemi di rime. 26
Vediamo dunque come fin dal 1516 Ariosto riutilizza, con minimi ritocchi (Franza > Francia,
cridando > gridando...), qualche emistichio del Boiardo, spesso decontestualizzandolo:
come fanno, di regola, i grandi autori nelle riprese di natura formale (eventuali varianti delle
redazioni A e B, precedute dal segno /</, sono incolonnate sotto le parole corrispondenti del
Furioso C).
con la gente di Francia e de Lamagna OF I, 5, 7
< e d’Alemagna A
de l’Ongheria, di Franza e de la Magna IO II, XXIII 15 1.3
gridando la donzella ispaventata I 15, 2
cridando la donzella ad alta voce IO I, XXII 4.2
pur come avesse l’elmo, ardito e baldo (: caldo: Rinaldo) I 16, 4
viddero un cavalliero ardito e baldo (: caldo: Ranaldo) IO II, XX 47.4
non che le piastre e la minuta maglia I 17, 3
coperto è a piastre et a minuta maglia IO II, X 8.8
Riporterò ora qualche esempio di ripresa formale di versi interi o comunque coincidenti per
sequenze superiori all’emistichio. Avverto una volta per tutte che, quanto più aumenta la
massa sillabica coinvolta nella ripresa, tanto più il gioco classicistico dell’imitatio-emulatio
impone strategie di occultamento della “fonte” quali inversioni, sostituzioni di lessico rilevato
ecc.:
e per la selva a tutta briglia il caccia I 13, 2
< briglia caccia AB
e per la selva in abandono il caccia IO I, III 53.8
questo di quel, né quel di questo dotto I 18, 4
questo con quello e quel con questo ha zuffa IO XXX 51.8
temea Rinaldo aver sempre alle spalle (: valle) I 33, 8
sempre Marfisa aver crede alle spalle (: valle) IO II, XVI 8.8
308 309
6. Come si è visto, dal momento che già la lingua poetica del Boiardo è orientata verso il toscano
letterario, una parte non trascurabile del materiale che confluisce nel Furioso è già anche linguisticamente
in linea con le incipienti esigenze di fiorentinizzazione del linguaggio letterario.
Come se non bastasse e come gli umanisti facevano con Virgilio, Cicerone ecc., Ariosto “osserva”
scrupolosamente i testi dei grandi fiorentini del Trecento.
Sempre servendomi della mia griglia, offro qualche esempio di riprese formali da Dante, come
ho già detto studiatissime, o da Petrarca, di cui Ariosto tesaurizza sia il Canzoniere sia i Triumphi
(mi limito a scegliere tra i tanti passi ben accostati da Cabani). Con sempre maggior sicurezza gli
studi recenti hanno riconosciuto, in molti di questi travasi, aspetti di raffinatissima arte allusiva
o di distorsione parodica, «dalla citazione introdotta in contesti che ne alterano il senso, agli
interventi sul significante, miranti a contraffare la lettera […] con sostituzioni verbali, parafrasi,
contaminazioni ecc.» 27
Sintagmi minimi:
di gir cercando il bel viso sereno II, 27, 3
per non turbare il bel viso sereno RVF CCXXXVI 6
Splende lo scudo a guisa di piropo (: uopo: dopo) II, 56, 1
< Fiammeggia il scudo… AB
Poi fiammeggiava a guisa d’un piropo (: uopo: dopo) T.F. I 43
discinta et scalza, e sciolte aveva le chiome III 8, 7
discinta et scalza, et desto avea ’l carbone RVF XXXIII 6
e di sua legge ogni maestro e donno XII 59, 6
questi pareva a me maestro e donno Inf. XXXIII 28
a quella intenzion provida e saggia XXXIX 78, 2
ma quella intenzion casta e benigna T.C. I 112
Riprese versali:
e cada come corpo morto cade II 55.7
e caddi come corpo morto cade Inf. V 142
Non credo ch’un si grande Apulia n’abbia (: labbia) VII, 4, 1
Maremma non cred’io che tante n’abbia (: labbia) Inf. XXV 19
cercato Francia avea dentro e d’intorno (: giorno) XII, 5, 8
< avea cercato invan per quei contorni (: giorni) AB
Vago già di cercar dentro e dintorno (: giorno) Purg. XXVIII 1
Al mondo, di gridar mercè già roco XXVI, 42, 5
Tu eri di mercé chiamar già roco T.M. II 142
rendea la notte chiara, oscuro il die XLIII 21.3
po’ far chiara la notte, oscuro il giorno RVF CCXV 13
e turbar vide il bel viso sereno XLVI, 125, 4
per non turbare il bel viso sereno RVF CCXXXVI 6
Per dare almeno un’idea della finezza di certe analisi, che ho impietosamente tagliato, riporto
il commento di Blasucci al primo esempio della seconda serie, «e cada come» ecc.: «A parte l’effetto
già ricordato di “svalutazione” semantica, prodotto dalla trasposizione di quel verso in un
contesto narrativo così eterogeneo, non potrà sfuggire al lettore un effetto altrettanto evidente
di svalutazione ritmica: […] alludiamo […] alla specifica trasposizione di quel verso dalla sua sede
privilegiata di clausola [“verso finale del canto”] a quella subordinata di settimo verso dell’ottava,
preparatorio del volo ritmico del verso finale. “e cada come corpo morto cade / e venga al negromante
in potestade”». 28
7. Un altro importante repertorio linguistico-stilistico del Furioso, studiato in modo impeccabile
dallo stesso Blasucci, è il Morgante del Pulci, che «imprime al poema cavalleresco […] una carica
di vitalità linguistica alla cui suggestione nessun narratore in ottave potrà più sottrarsi». 29 Al
solito, offro qualche esempio dei due tipi più frequenti.
Sintagmi minimi:
Se giungea Orlando, di cavargli il core II 18, 8
E vo’ con le mie man cavargli il core Morg. XI 71
partito / quel colpo gli avria il capo come un torso XXVI 126, 6
Lo tagliò nel mezzo come un torso Morg. XVII 85
Riprese versali:
Ma ben fo, a chi lo vol, caro costallo II 3, 4
pertanto io ti farò caro costallo Morg. XX 11
e farò forse lor caro costallo Morg. XXI 87
se non che caro ti farò costallo Morg. X 83
Piegò Aldigier ferito a poggia e ad orza XXVI 76, 6
Che lo fece piegare a poggia e ad orza XLI 70, 3
< poggia et orza AB
Uggier piegossi ora a poggia ora a orza Morg. VIII 64
e su la lancia fe’ le spalle gobbe (: Iobbe: conobbe) XXVI 92, 3
fece le spalle pel gran duol più gobbe (: Iobbe: conobbe) Morg. XI 93
Bisogna ch’io castighi questo matto XXIX 42, 5
A gastigar, Terigi, questo matto Morg. XII 45
Come è stato notato, il Morgante non è solo un repertorio di locuzioni idiomatiche come appunto
“fare le spalle gobbe”, “fare caro costallo [sc. costarlo]”, “castigare questo matto”, ma anche un
prezioso serbatoio di lessemi rari e tecnici come sfere, talacimanno ecc.
8. In questo quadro, tutto sommato omogeneo, riveste particolare interesse l’insieme dei prelievi dal
Decameron, per i quali (non tenendo, ovviamente, conto delle riprese ideologiche o tematiche) mi
limito a scegliere tra i riscontri addotti da Sangirardi qualche esempio di recupero lessicale esteso:
però che quella parte del palagio / risponde verso alcune case rotte, / dove nessun mai passa o
giorno o notte V, 10, 6-8
< …passa giorno o notte AB
310 311
Era il palagio […] alto molto, e quella finestra […] guardava sopra certe case dall’impeto del mare
fatte cadere, nelle quali rade volte o non mai andava persona Dec. II 7, 54
…e restò il vel suttile e rado, / che non copria dinanzi né di dietro / più che le rose o i gigli un chiaro
vetro VII, 28, 6-8
< …che più non la copria dinanzi e dietro / che rosa o giglio un bel vaso di vetro AB
Non altramenti li lor corpi candidi nascondeva [sc. il laghetto] che farebbe una vermiglia rosa un
sottil vetro Dec. VI Concl. 30
i bianchi gigli e le vermiglie rose / […] / di che son sparse le polite membre X, 95, 6
il viso ritondetto con un colore vero di bianchi gigli e di vermiglie rose Dec. IV Concl. 4
Ferì con una lancia sopra mano / al supplicante il delicato petto XIX 13.3-4
E pien di mal talento si rivolse / al cavallier che fe’ l’impresa ria XIX 14, 3-4
< Trasse la spada e per punir si volse / il cavalier che fe’ la mala incetta AB
Fellone e pieno di maltalento, con una lancia sopra mano gli uscì addosso Dec. IV 9, 11
Sangirardi osserva a ragione che, per lo più, le riprese «interessano due settori: quello degli usi
metaforici […]; e quello della fraseologia» (tra gli esempi, «innanzi tratto», «a tentone»). 30 E conclude:
«Le riprese dal Decameron sono generalmente a basso coefficiente di caratterizzazione
stilistica: piuttosto che emergere dal tessuto linguistico […] vi si mimetizzano, direi, per virtù
propria. Se il modello dantesco […] va incessantemente aggiustato e costretto nelle misure di una
scrittura poetica che, pur accogliendo in sé materiali diversissimi, non ammette escursioni di
tono, i codici linguistico e tematico del Decameron si offrono già omogenei alla fruizione ariostesca.»
31 E ancora: «Come è poco allusiva, così la memoria del Decameron è tendenzialmente
non-parodica.» 32
Detto così, sembrerebbe però che tutto fili liscio per una qualche curiosa proprietà del linguaggio
boccacciano. In realtà, Ariosto seleziona con estrema attenzione i suoi prelievi, ignorando tanto
le zone di stile basso quanto le punte sublimi del Decameron (non a caso vari recuperi interessano
la cornice, di tono prevalentemente medio-alto).
9. Sta di fatto che, come ho già accennato, nemmeno sommando il lessico toscano di Boiardo,
quello delle Tre Corone, quello del Morgante si arriva a dar conto della ricchezza e della precisione
della fiorentinità del Furioso.
Il modo più comodo per dimostrare questo assunto consiste nel far tesoro degli insegnamenti
della linguistica computazionale ed estrarre da una lista di frequenza le parole più lunghe (qui,
quelle di 5 o più sillabe) che sono, in ogni lingua, quelle più rare e riconoscibili. Se ripuliamo
l’elenco così ottenuto dei casi meno significativi (avverbi in –mente, composti con suffissi molto
produttivi come -mento, verbi più enclitici come adormentosse, parole di evidente tradizione dantesca
o boccacciana come abbarbicata, omiciattolo, sceleraggini ecc.), possiamo concentrarci su
quello che resta, che è tutto materiale significativo: per esempio, aborrevole, accaneggiato, attorcigliato,
avvantaggiato, contestabile, decapitati...
Per ragioni di spazio, mi soffermo su due versi soltanto, «immansueto tauro accaneggiato»
(XVIII, 19, 3), che esibisce in rima un toscanismo raro come accaneggiato “accanito, inferocito”,
e «e che dai sacerdoti ebbe eleisonne» (XLIII, 181,3; il leisonne AB), che espone in rima il grecismo
eleison, però con epitesi fiorentina (veramente, centro-meridionale) di -e. Salvo errore, per
trovare nella poesia italiana prima di Ariosto un altro eleisonne (in rima con colonne: giansonne:
diaquilonne), bisogna risalire allo straordinario funambolismo lessicale del Burchiello, sonetto
Nominativi fritti e mappamondi, v. 3: «cantavan tutti Kirieleisonne». Come si ricava dall’edizione
Zaccarello, si tratta di un sonetto che ha goduto di una tradizione larga, manoscritta e a stampa. 33
Ringrazio per i loro suggerimenti Sergio Bozzola,
Maria Cristina Cabani e Alberto Casadei.
1. Girolamo Ruscelli, Brieve discorso, in Compendio
dell’historie del Regno di Napoli, composto
gia da m. Pandolfo Collenuccio da Pesaro, et
nuouamente alla sincerità della lingua uolgare
ridotto, et tutto emendato da Girolamo Ruscelli.
Con un brieue discorso del medesimo sopra l’istesso
autore. Et con una tauola de’ nomi di
tutti i seggi, et delle casate nobili di Napoli, et
d’altre terre principali di quel regno, Venezia,
per Giouan Maria Bonelli, 1552. Il passo è
discusso in Trovato 1991 (ed. 2009), pp. 269
e segg., e Trovato 1994 (ed. 2012), pp. 96-100.
2. Paragonato, come si sa, da Bembo a «un bello
e spazioso campo di grano […] tutto d’avene e
di logli e d’erbe sterili e dannose mescolato»
(cito dall’edizione Pozzi 1978, p. 162).
3. Per un’analisi di insieme delle varie opzioni
linguistiche primocinquecentesche mi permetto
di rinviare a Trovato 1994 (ed. 2012),
e specialmente al cap. VI (La “questione della
lingua” e la fissazione della norma).
4. Migliorini 1946 (ed. 1957).
5. Ibid., p. 178 nota. Basti pensare agli studi di
Mengaldo sulla lingua del Boiardo lirico, di
Ghinassi sul mantovano, di Vitale e Bongrani
sulla cancelleria milanese, per non citare che
pochi lavori ormai classici.
6. Ricorderò soltanto Stella 1976; Trovato 1994
(ed. 2012), pp. 292-297; Boco 2005; Vitale
2012.
Per quanto riguarda, invece, accaneggiato, nell’intero corpus digitale dell’Opera del Vocabolario
Italiano (il più affidabile per la nostra lingua antica), ne trovo 3 esempi soltanto: due al singolare
e uno al plurale: «Lo porco ferito e accaneggiato» (Guido da Pisa, Fiore d’Italia, ante 1337); «più
fier che accaneggiato verro od orso» (Pucci, Centiloquio, ante 1388); «l’oste, vedendoli così feriti
e accaneggiati, si maravigliava dicendo: “Chi v’ha così conci?”» (Sacchetti, Trecentonovelle, XIV
secolo). Davvero, come ho accennato, molto lavoro rimane ancora da fare in quest’ambito.
10. Un pensiero per concludere. Quando Ariosto scrive il Furioso non si limita a cercare una lingua,
come suggerisce il titolo di queste pagine, ma cerca anche uno stile, che non vuole schiacciarsi
sul lessico aulico di Petrarca o su una koiné dantesco petrarchesca. Il fatto che Ariosto
innesti nel poema sostanziose iniezioni di lessico della prosa, riconducibile a Boccaccio, o frasi
fatte di livello comico ricavate dal Morgante (per esempio, «bisogna ch’io castighi questo matto»,
«e come il conducessero alla mazza», «che di vetture vuol vivere a macco») non è un dato irrilevante.
Significa che, in una tradizione – la nostra – a lungo ossessionata dalla gravità e dalla
magniloquenza, cerca di differenziarsi dai precedenti trecenteschi assumendo un tono, meglio
ancora uno stile medio. 34
Gli esempi potrebbero essere molto numerosi, ma ne propongo uno soltanto, all’apparenza banale,
ma, come ho già notato, significativo (e del resto non sfuggito alla perspicacia di Stella). Nel primo
Furioso Ariosto scrive di Angelica come avrebbe potuto fare una maestrina, ben inteso di prima
nomina, di cinquant’anni fa: «Tanto vagò che giunse a una rivera» (I, 13, 8). In B e in C le varianti
vagò e giunse sono abbandonate al loro destino di doppioni inutilmente sostenuti e Ariosto parla,
ha imparato a parlare una lingua più fresca, che ce lo rende, se non nostro contemporaneo, vicino,
il più vicino dei grandi antenati: «Tanto girò che venne a una riviera». 35
7. Ariosto 1960; Ariosto 2006; Segre 2012a.
8. Migliorini 1946 (ed. 1957), p. 179.
9. Ibid., p. 180.
10. Vitale 2012.
11. Migliorini 1946 (ed. 1957), pp. 180-181.
12. Per l’analisi dei procedimenti tipografici
è d’obbligo il rinvio a Fahy 1988 e 1989 (si
vedano anche le raccolte curate da P. Stoppelli
e A. Sorella, che testimoniano la ricezione del
magistero di Fahy nella nostra tradizione di
studi). Quanto agli studi di Irene Torregrossa,
anticipazioni dalla sua tesi di dottorato sono
state fornite in alcune giornate di studio (per
esempio, Liegi, 2015; Ferrara, 2015).
13. Debenedetti 1930.
14. Pozzi 1978, pp. 257-258.
15. Migliorini 1946 (ed. 1957), pp. 179-180.
16. Per esempio, dicare è introdotto in C 28,96,8,
difension e formidato e (h)irondine rimangono
fino a C. Una lista di dialettalismi più ampia,
ma allargata in qualche caso a parole «che esistevano,
con lievi varietà fonetiche o morfologiche,
anche in Toscana», è offerta da Vitale
2012.
17. Dionisotti 1938, p. 249.
18. Segre 1966, pp. 51-83; Blasucci 1969, pp. 121-
162 (= Blasucci 2014, pp. 55-97); Ossola 1976.
19. Blasucci 1976 (ed. 2014, pp. 99-119).
20. Cabani 1990b.
21. Sangirardi 1992 e 1993.
22. Da ultimo Jossa 1996, pp. 90-124.
23. Cabani 1990a, p. 121. Con le sue parole:
«Rispetto alla tradizione la sua scelta [di
Ariosto] è […] decisamente antiformulare,
ed è questo aspetto di radicale innovazione
quello che […] deve per primo essere messo in
luce»; «Ciò non comporta la totale scomparsa
dei moduli canterini. […] ampiamente accolti
nel Furioso, ma preliminarmente sottoposti
ad un processo di risemantizzazione o di
revisione parodica» (p. 117). E si veda l’intero
paragrafo L’eredità formulare canterina, pp.
116-124.
24. Trovato 1994 (ed. 2012), p. 128.
25. Sangirardi 1993.
26. Trovato 1979.
27. Cabani 1990b, p. 104.
28. Blasucci 1969, p. 151 (ed. 2014, p. 86).
29. Blasucci 1976 (ed. 2014, p. 100).
30. Sangirardi 1992, pp. 38-39.
31. Ibid., p. 65.
32. Ibid., p. 65.
33. Burchiello 2000, p. 10.
34. Sintomatica la correzione dell’iperletterario
A VIII 78, 1, «oh misero! che chero / se non
morir…?», che già in B è appianato nel più colloquiale
«che voglio / se non morir…?».
35. Trovato 1994 (ed. 2012), p. 296. In C le attestazioni
di venne, 96, sono il doppio di quelle di
giunse e quelle di vagare si contano sulle dita
di una mano, mentre sono numerose le attestazioni
dell’aggettivo vago (11 occorrenze;
vaga, 8 occ.; vaghi, 8 occ.; vaghe, 1 occ.). L’amico
Alberto Casadei, che di nuovo ringrazio,
suggerisce quindi che abbia contato anche la
repulsione di Ariosto per gli omografi.
312 313
COSA UDIVA ARIOSTO
QUANDO CHIUDEVA
GLI OCCHI.
MUSICA E SUONO
NEL FURIOSO
–
FLORA DENNIS
Dopo la morte di un barbiere veneziano avvenuta nel 1589, fu compilato un inventario del
contenuto della sua bottega. Insieme a una «fogera» e a un «lavello da barbier», figuravano
«do lauti rotti» e un «retratto dell’Ariosto». 1 Oggi può stupire che nella bottega di
un barbiere si trovassero, insieme agli arnesi del mestiere, il ritratto di un poeta e alcuni strumenti
musicali, ma per quei tempi non era nulla di eccezionale. Nel XVI secolo i versi di Ariosto
erano recitati non solo nelle corti e nelle alte accademie, ma anche nelle piazze cittadine e negli
ambienti rurali; 2 li si cantava, come scrisse il compositore e umanista Giovanni Bardi nel 1583,
«in sulla cetera per le taverne e nei barbieri […] per la bocca d’ognuno». 3
Negli anni successivi alla sua pubblicazione, l’Orlando furioso acquistò una grande popolarità e
a questa contribuì non poco quella che veniva percepita come la sua musicalità: «Li suoi versi […]
pieni di ritmo, e di suono.» 4 La forma in ottave ben si prestava all’esecuzione musicale e il poema
entrò nel flusso dell’antica tradizione orale della poesia cantata. Le molte interpretazioni di raffinati
musicisti di corte, di istrionici cantastorie e di dilettanti appassionati (che «tutto il giorno
distratiare i versi del Furioso, & impararne qualche stanza à mente per poter la poi biscantare sù
la ribeca, ò su’l gracivembalo») 5 affrancarono il testo dalla pagina stampata e lo dotarono di una
mobilità e di una portata incomparabili.
Ariosto lavorò a contatto con il sofisticato e fertile ambiente musicale della corte ferrarese. 6
Nei primi decenni del XVI secolo la cappella ducale, benché non fosse più l’istituzione gloriosa
dei tempi di Ercole I, attirava ancora compositori e cantanti franco-fiamminghi d’alto livello. 7
Alfonso I impiegò musicisti di fama, e i suoi fratelli – il cardinale Ippolito I d’Este e Sigismondo –
nonché la sua consorte, Lucrezia Borgia, disponevano di un proprio ensemble musicale composto
da nomi celebri. 8 Dunque Ariosto doveva conoscere una gran varietà di forme e stili musicali,
dal mottetto sacro alla chanson francese, dalla frottola, ossia una poesia cantata con accompagnamento
improvvisato al liuto e sempre più spesso alla lira da braccio (Fig. 52), fino alle danze.
Se quindi vogliamo domandarci che cosa vedesse il poeta quando chiudeva gli occhi, dovremmo
altresì chiederci che cosa udissero le sue orecchie, ovvero quale sia il rapporto tra i suoni del
mondo da lui immaginato nella sua opera e quelli da cui era circondato quando la scriveva.
Considerato il fecondo clima musicale in cui fu composto l’Orlando furioso, sorprende che la
musica abbia così poco spazio nel poema. I versi d’apertura rispettano la convenzione retorica
dell’epica “cantata” dal narratore, tradizione che dai rapsodi della Grecia antica, interpreti dei
Fig. 52
Filippino Lippi
Ritratto di musico (Uomo
accorda una lira da
braccio), c. 1480
Tempera e olio su tavola,
cm 51 x 36
Dublino, National Gallery
of Ireland
314
poemi omerici, arrivava fino ai cantari cavallereschi del Medioevo franco-italico. 9 In linea di
principio questo connoterebbe il poema come “musicale”, sia che fosse letto – ad alta voce o mentalmente
– o che fosse effettivamente cantato. Ma solo pochi episodi sembrano attingere direttamente
alle esperienze dello stesso Ariosto in fatto di musica. Uno di questi è la visita di Rinaldo a
un lussuoso palazzo nella Pianura Padana, dove si trova un’elaborata fontana formata da otto statue
femminili, ciascuna sorretta da due altre figure che ne cantano le lodi: «Con la bocca aperta
facean segni / ch’el canto e l’harmonia lor dilettasse.» 10 La statua di Lucrezia Borgia poggiava su
quelle dei poeti Antonio Tebaldi ed Ercole Strozzi, «un Lino et uno Orpheo», 11 mentre Lucrezia
Bentivoglio era sorretta dal poeta bolognese Camillo Paleotti, che «di costei canta con suave e
chiara / voce». 12 Tra le altre figure vi erano Isabella d’Este ed Elisabetta e Leonora Gonzaga. Questo
gruppo di donne abitava uno spazio temporale paradossale, poiché si trattava di personaggi
contemporanei che all’epoca dei fatti narrati non esistevano, resi al tempo stesso eterni dalla loro
trasposizione scultorea. Chi leggeva o ascoltava questo passo del poema sentiva indubbiamente
risuonare nella mente il tipo di lode in forma cantata che era in uso all’epoca, di cui ben conosceva
la forma musicale. 13
In due momenti importanti della narrazione il poeta trasmette il potere della musica di evocare
l’ultraterreno. Nel palazzo di Alcina il suono delle note crea un’inebriante atmosfera incantata,
gravida di promesse amorose: «Nanzi alla mensa Cìthare, Arpe et Lyre, / et diversi altri dilettevol
suoni / faceano intorno l’aria tintinire / d’harmonia dolce et di concenti buoni; / non vi mancava
chi, cantando, dire / d’Amor sapesse gaudi et passïoni, / o con inventïoni et poesie / rappresentasse
grate fantasie.» 14 E quando Brandimarte viene ferito, la musica segna il momento cruciale
Fig. 53
Francesco Xanto Avelli
Astolfo suona il corno
magico, 1532
Terracotta invetriata,
diametro cm 26,1
Londra, The British
Museum
Fig. 54
Versi posti a Pasquillo
ne l’anno 1513
Roma, Etienne
Guillery, 1513
Vienna, Österreichische
Nationalbibliothek
Fig. 55
Giulio Cesare Croce
Lamento dei poveretti
Bologna, Bartolomeo
Cochi, 1614
Bologna, Biblioteca
Comunale
dell’Archiginnasio
della sua morte evocando l’assunzione in cielo della Vergine, con accompagnamento di angeli
musicanti, così com’era spesso rappresentata nella pittura dell’epoca: «E voci e suoni in l’aria
andar concordi / de l’angeli s’udîr, tosto ch’uscìo / l’alma beata del corporeo velo, / e fra dolce
armonia salire al cielo.» 15
Ma questi brevi interludi musicali sono quasi sommersi dal frastuono che pervade il poema. 16
La cacofonia prodotta dai rumori della natura determina l’atmosfera dei luoghi in cui si svolge
l’azione, che si tratti di tranquille radure nella boscaglia o di mari in tempesta. E i protagonisti
emettono tutta una serie di suoni che esprimono emozioni intense, dalle grida nell’infuriare della
battaglia, fino al pianto e ai sospiri. 17 Inoltre, con una suggestiva descrizione dei suoni, il poeta
rende vividamente il clangore delle armi negli scontri corpo a corpo o tra eserciti. In antitesi alle
dolci note associate al divino o alla magia, i corni, le trombe e gli altri strumenti marziali, insieme
alle grida di furore e di dolore, trasmettono la violenza della battaglia di Parigi: «L’alto rumor
de le sonore trombe, / timpani, corni et barbari stromenti, / giunti al continuo suon d’archi, di
frombe, / Di diserrate machine e tormenti; / E quel, di che più par che ’l ciel rimbombe, / gridi
et tumulti, gemiti et lamenti, / rendeno un alto suon che a quel s’accorda, / con che i vicin il Nil,
cadendo, assorda». 18 Le dissonanze infernali della lunga battaglia di Parigi – «tanti metalli, / tanti
tamburi e tanti varii suoni, / tanti annitriri in voce de cavalli, / tanti gridi e tumulti di pedoni» – 19
fungono esse stesse da arma letale, tanto da costringere i Saraceni a fuggire.
In alcuni passi dell’Orlando furioso il suono è protagonista, e sostiene e connota i fatti violenti che
si susseguono a ritmo serrato. Per esempio, il corno magico di Astolfo (presente nel poema solo
nelle edizioni successive a quella del 1516) – dono di Logistilla, la fata buona sorella di Alcina –
incarna la potenziale carica distruttiva del fragore (Fig. 53), 20 che può diventare offensivo quanto
un’arma: «Di sì orribil suono, / ch’ovunque s’oda, fa fuggir la gente: / non può trovarsi al mondo
un cor sì buono, / che possa non fuggir come lo sente: / rumor di vento e di termuoto, e ’l tuono, /
a par del suon di questo, era niente.» 21 Grazie alla voce spaventosa del suo corno, Astolfo mette
in fuga il gigante Caligorante che rimane impigliato nella sua stessa rete, 22 ottiene l’evacuazione
della cittadella nel golfo di Laiazzo, 23 si salva dal negromante Atlante 24 e libera il castello di re
Senapo dalle arpie (dopo avergli fatto turare le orecchie con la cera). 25 In quanto simbolo della
potenza cristiana, questo oggetto ricorda l’olifante che Orlando, nella Chanson de Roland, suona
subito prima di morire nella battaglia di Roncisvalle del 778 (Tav. 5). 26
316 317
L’opposto sia della musica che del rumore è il Silenzio, che Ariosto introduce come personificazione,
precisando che è ormai così raro «che ’l ritrovarlo ti serìa ventura». 27 Se il clamore della
guerra è reso mediante la descrizione di armi e armature, l’assenza di suoni è trasmessa attraverso
immagini come le scarpe di feltro indossate dal Silenzio o l’«alta nebbia» in cui esso avvolge
l’esercito di Rinaldo così che possa entrare a Parigi senza esser visto. 28
Se la musica non riveste un ruolo di primo piano nell’universo immaginario dell’Orlando furioso,
è certo che all’epoca contribuì notevolmente a rendere popolare il poema. Che si trattasse di
«uomini di alto ingegno» o di «uomini di piccolo intendimento e idioti», 29 coloro che di fatto cantarono
«Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori», diffondendo l’opera oralmente, furono non meno
importanti delle sue copie stampate.
Due filoni – distinti ma non del tutto disgiunti – della tradizione musicale servirono da veicolo al
poema: quello dell’improvvisazione e quello della musica scritta. Chi cantava poemi con accompagnamento
improvvisato si esibiva tanto a corte quanto al cospetto di un pubblico di contadini
o di un variegato uditorio urbano. Poteva trattarsi di improvvisatori esperti che si accompagnavano
al liuto o alla lira da braccio (Tav. 20) – la cui presenza alla corte ferrarese è regolarmente
documentata a partire dai primi del Quattrocento – 30 o, all’opposto, di quei cantastorie o “cantimbanchi”
che, come scrisse Giovan Battista Giraldi Cinzio, «per le piazze, et per gli luochi publici
[…] con la lira in braccio cantano le lor fole, cosi guadagnano il pane». 31 Spesso questi ultimi, dopo
essersi esibiti, vendevano libretti con il testo delle loro canzoni, ispirando così ulteriori esecuzioni.
32 In genere i cantastorie sapevano muoversi tra la corte e la piazza, 33 e in molti ambienti
diversi avevano luogo interpretazioni dell’Orlando furioso su musica improvvisata, ad opera di
musicisti di ogni genere. Racconta Giovan Battista della Pigna che un giorno Ariosto sentì dei
giovani cantare per strada «Oh gran contrasto in giovenil pensiero», invece di «È gran contrasto
in giovenil pensiero», e provvide a correggere il suo testo. 34
Per cantare il Furioso gli improvvisatori si servivano di melodie semplici e riconoscibili che si
potevano modificare o elaborare per trasmettere meglio il significato di particolari brani. Il musicista
e teorico cinquecentesco Gioseffo Zarlino fa riferimento a questi motivi musicali «sopra i
quali cantiamo al presente li Sonetti o Canzoni del Petrarca, overamente le Rime dell’Ariosto», 35
e il fatto che essi affiorino ripetutamente anche nelle composizioni scritte indica che finirono per
essere specificamente associati all’Orlando furioso. 36 Tali melodie o frammenti costituiscono l’unica,
concreta testimonianza sonora che ci resta di una tradizione dell’improvvisazione musicale
un tempo viva e dinamica.
Alcune pubblicazioni che si sono conservate dimostrano che brani del testo ariostesco furono
musicati prima che il poema andasse in stampa. Il celebre compositore e musicista Bartolomeo
Tromboncino servì Ippolito d’Este contemporaneamente ad Ariosto nel 1511-12, nel corso di una
carriera che lo vide all’opera anche per Isabella d’Este e Lucrezia Borgia a Mantova e a Ferrara. 37
Queste non son più lacrime, la sua versione in musica del lamento di Orlando per la perdita di
Angelica, fu pubblicata da Andrea Antico nel 1517 in Canzoni, sonetti, strambotti e frottole. Libro
IV ed è il più antico spartito stampato dedicato al poema (Tav. 21). In questa frottola – duttile
forma musicale in strofe, assai diffusa nelle corti del Nord d’Italia ai primi del Cinquecento –
Tromboncino si serve di un testo assai diverso da quello pubblicato nel 1516, il che fa pensare che
avesse accesso a una versione precedente del poema.
La pubblicazione della terza edizione del Furioso, nel 1532, diede l’avvio a un proliferare di madrigali,
spesso comprendenti una sola strofa, che proseguì fino alla fine del secolo. 38 Molto popolari
per il loro pathos erano i lamenti: quelli di Orlando per Angelica, di Olimpia (aggiunto in quell’edizione),
di Isabella per la morte di Zerbino, e di Bradamante. 39 A partire dalla metà del secolo
si cominciò a musicare brani più lunghi: l’esempio più ambizioso è il Capriccio di Giachetto Berchem,
che comprende più di novanta versi. 40 La portata narrativa di queste composizioni preparò
il terreno al successo che il poema avrebbe riscosso, come fonte tematica, presso i musicisti del
Sei-Settecento, tra cui Vivaldi e Händel.
1. ASVe, Cancelleria inferiore, Miscellanea
notai diversi, inventari, b. 43, n. 6.
2. Si vedano le numerose citazioni di autori
cinquecenteschi che hanno trattato dei
contesti sociali in cui il poema era noto in
Fenlon 2016, p. 95 e Welch 2012, pp. 31-33.
3. Giovanni Bardi, In difesa dell’Ariosto, 24 febbraio
1583, in Discorsi dell’Accademia degli
Alterati, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale,
ms Magl. VI. 168, cc. 60v-63r; citato e
discusso in Cavicchi 2011 e Haar 2004.
4. G. Bardi, In difesa dell’Ariosto, citato in
Cavicchi 2011, p. 287.
5. Giuseppe Malatesta, Della nuova poesia:
overo delle difese del Furioso, dialogo, Verona,
Sebastiano dalle Donne, 1589, p. 147.
6. Si vedano Cavicchi 2011 e Lockwood 1981.
7. Sul tema della musica all’epoca d’oro di Ferrara
rimando a Lockwood 2009.
8. Cavicchi 2011, pp. 266-271.
9. Welch 2012, pp. 30-32; Fenlon 2016, p. 89.
10. Of A XXXVIII, 78, 3-4 (C XLII, 81, 3-4). Le
citazioni dalla princeps del 1516 sono tratte
da Ariosto 2006, quelle dell’edizione del
1532 da Ariosto 1960.
11. Of A XXXVIII, 80, 7-8 (C XLII, 83, 7-8).
12. Of A XXXVIII, 85, 5-6 (C XLII, 88, 5-6).
13. Per esempio il mottetto d’autore anonimo
Lucrecia pulchra è, probabilmente dedicato
a Lucrezia Borgia, di cui tratta Cavicchi
2011, pp. 73-75.
14. Of A VII, 19, 1-8 (C VII, 19, 1-8, con la
Il ruolo svolto dalla musica nel consolidare la fama dell’Orlando furioso fu oggetto di controversie.
Il fascino evidentemente universale e la “cantabilità” dell’opera – «manegiata dai vecchi, letta
dai gioveni, havuta cara da gli huomini, pregiata dale Donne, tenuta cara da i dotti, cantata da
gl’indotti» – 41 furono un’arma a doppio taglio, usata da alcuni per sminuire il suo pregio artistico,
da altri per equiparare il suo autore ai grandi poeti epici, come Omero. 42 I versi di Ariosto, accompagnati
al liuto o alla lira da braccio (Figg. 54-55), furono un fenomeno culturale travolgente, che
stimolò dibattiti sulla poesia e la musica antiche sia nelle accademie letterarie che per la gioia dei
clienti dei barbieri.
variante «A quella mensa» invece di «Nanzi
alla mensa»).
15. Of A XXXVIII, 14, 5-8 (C XLII, 14, 5-8, con la
variante «E voci e suoni d’angeli concordi /
tosto in aria s’udir, che l’alma uscìo; / la qual
disciolta dal corporeo velo / fra dolce melodia
salì nel cielo»).
16. Sui suoni nell’Orlando furioso si veda
Mirollo 1988; Rolfs 1978, pp. 151-169.
17. Mirollo 1988.
18. Of A XIV, 56, 1-8 (C XVI, 56, 1-8, con la
variante «L’alto rumor de le sonore trombe /
de’ timpani e de’ barbari stromenti, / giunti
al continuo suon d’archi, di frombe, / di
machine, di ruote e di tormenti; / e quell
di che più par che ’l ciel ribombe, / gridi,
tumulti, gemiti e lamenti; / rendeno un alto
suon ch’a quell s’accorda, / con che i vicin,
cadendo, il Nilo assorda»).
19. Of A XXIX, 86, 1-4 (C XXXI, 87, 1-4).
20. Of C XV, 14-15.
21. Of C XV, 15, 1-6.
22. Of C XV, 53-4.
23. Of C XX, 88-94.
24. Of C XXII, 20-22.
25. Of C XXXIII, 119-125.
26. Vedi la bibliografia a corredo della scheda
(Tav. 5), in particolare Shalem 2004, pp. 4-5
e Shalem e Glaser 2014, vol. I, pp. 264-270,
vol. II, pp. 70-71.
27. Of A XII, 90, 4 (C XIV, 90, 4).
28. Of A XII, 97, 3 (C XIV, 97, 3).
29. Bardi, In difesa dell’Ariosto, citato in Cavicchi
2011, p. 287.
30. Ibid., pp. 268-270, 280-282.
31. Giovan Battista Giraldi Cinzio, Discorso
intorno al comporre dei romanzi, Venezia,
Gabriele Gioliti de Ferrari, 1554, pp. 6-7.
32. Fenlon 2016, pp. 86-87; Cavicchi 2013; Salzberg
e Rospocher 2012.
33. Cavicchi 2011, p. 284; vedi anche Fenlon
2016 e Salzberg e Rospocher 2012.
34. Giovanni Battista Pigna, Scontri de’ luoghi,
(Osservazione LII), Libro III di I romanzi,
Venezia, Valgrisi, 1554, citato in Cavicchi
2011, p. 285, e Fenlon 2016, p. 95.
35. Gioseffo Zarlino, Le istitutioni harmoniche
(Venezia, Francesco dei Franceschi, 1559),
III. 79, citato in Haar 2004, p. 179 e Fenlon
2016, p. 92.
36. Haar 2004, pp. 179-180; Haar 1981, pp.
31-46; Fenlon 2016, p. 89; Cavicchi 2011, pp.
278-280.
37. Prizer 1985, p. 24.
38. Haar 1981, p. 40.
39. Si veda Balsano 1981b, pp. 50-78; Haar 2004,
p. 184.
40. Jacquet de Berchem, Capriccio… con la
musica da lui composta sopra le stanze del
furioso (1561), si veda Haar 2004, p. 41.
41. Francesco Caburacci, Defence of Orlando
Furioso, 1580, citato in Javitch 1991, p. 14.
42. Si veda Welch 2012, pp. 31-32, e Fenlon 2016,
p. 95.
318 319
ALBERTI
IN ARIOSTO
–
LUCIA BERTOLINI
Sul finire del 1462, o all’inizio dell’anno successivo, Carlo di Lorenzo Alberti, il fratello del
più noto architetto e scrittore, lamentando di essere affetto dalla gotta, inneggiava in un
breve e malcerto epigramma alla scoperta del petrolio e all’illustrazione che dei presunti
poteri farmacologici del nuovo ritrovato aveva fatto Francesco (Peregrino) di Princivalle Ariosto
(c. 1415-84) nel suo De oleo Montis Zibinii. 1 L’episodio (niente più che una coincidenza) non
riguarda Leon Battista Alberti, né Ludovico Ariosto né, infine, il ramo familiare di quest’ultimo
(il Francesco di cui trattasi non è infatti lo zio di Ludovico, figlio di Rinaldo), eppure
esso risulta emblematico del panorama entro il quale inscrivere la questione della presenza di
Alberti in Ariosto, che, a limitarsi alle menzioni esplicite, si ridurrebbe alla citazione esemplare
dell’architetto, le cui invenzioni pure non avrebbero potuto competere con il palazzo che
«fece far Gloricia incantatrice» nei Cinque canti (I, 78, 5-8: «L’oro di Creso, l’artificio e ’l senno
/ d’Alberto, di Bramanti, di Vitrui, / non potrebbono far, con tutto l’agio / di ducent’anni, un
così bel palagio»).
Come dimostra l’episodio da cui siamo partiti e che coinvolge Carlo Alberti, l’incistamento di
Leon Battista (Fig. 57) e della sua famiglia a Ferrara vanno ben al di là dei contatti più noti e
spesso citati, di carattere pubblico: l’invio o la dedica del Theogenius e del De equo animante,
e prima ancora la seconda redazione della Philodoxeos fabula a Leonello (cui si aggiunga la
probabile scrittura a Ferrara, forse su impulso di Leonello, di una prima idea di trattato architettonico
che sfocerà alfine nel De re aedificatoria); la scrittura su commissione di Meliaduse
degli Ex ludis rerum mathematicarum; a livello più privato la dedica degli Apologi centum a
Fig. 56
Dosso Dossi
Giove pittore di farfalle,
c. 1524
Olio su tela, cm 111,3 x 150
Cracovia, Castello Reale
del Wawel
320
Francesco Marescalchi. Episodi che posero le basi sia per la presenza di quei testi nelle biblioteche
di corte e private (testimonianza dunque documentariamente accertata di letture non
episodiche o occasionali di una produzione, per solito, poco diffusa), sia per il riuso a Ferrara
di quelle e altre opere albertiane (e basterà ricordare, per il secondo Quattrocento e per gli inizi
del Cinquecento, i nomi di Pandolfo Collenuccio, Pellegrino Prisciani, Boiardo e Celio Calcagnini).
2 L’epigramma di Carlo Alberti insomma accenna a possibili rapporti diretti o indiretti
dell’Alberti maggiore anche con quello staff di officiali ferraresi al quale appartenne Francesco
Peregrino Ariosto 3 e conferma la costante presenza di Ferrara nel panorama mentale di
Leon Battista (basti citare una delle sue “profezie” registrate nella Vita: «Ferrariensibus, ante
edem qua per Nicolai Estensis tyranni tempora maxima iuventutis pars eius urbis deleta est
“O amici, – inquit – quam lubrica erunt proximam per estatem pavimenta hec, quando sub his
tectis multe impluent gutte!”» [Disse a dei cittadini di Ferrara, trovandosi davanti all’edificio
in cui, al tempo del principe Niccolò d’Este, la parte più ragguardevole della gioventù ferrarese
era stata uccisa: – O amici, quanto saranno sdrucciolevoli questi pavimenti la prossima estate,
allorché gocce (di sangue) pioveranno dentro questi tetti!]). 4
In questo quadro (di natura storico-documentaria e storico-letteraria), che il Quattrocento
aveva predisposto, si accampa, ormai nell’età di Ercole I e Alfonso I, l’esperienza “albertiana”
di Ariosto. Eppure, a ben guardare, è proprio la presenza, sullo sfondo, di quel panorama (che
Fig. 57
Ritratto di Leon Battista
Alberti, 1435
Placchetta in bronzo,
cm 19,7 x 13,3
Parigi, Bibliothèque
nationale de France,
Département des
Monnaies, médailles et
antiques
Fig. 58
Ludovico Ariosto
Orlando furioso,
illustrazione canto XXXIV
Venezia, Zoppino, 1536
Ferrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
pure concreta l’esperienza dell’autore più antico da parte del più moderno) a rendere malagevole
la piena definizione di un rapporto diretto.
Più ampio spazio e maggior agio sarebbe necessario per render conto dei diversi gradi di pertinenza
degli affioramenti e delle pezze d’appoggio. Il dossier relativo ai rapporti intertestuali
fra la produzione dell’umanista quattrocentesco e le scritture del poeta ferrarese fu inaugurato
nel 1964, subito a ridosso della scoperta e pubblicazione di un manipolo consistente di intercenales
fino ad allora ignote; un dossier, al suo aprirsi, scarno quanto sicuro (la dipendenza
dall’intercenale Somnium dell’episodio del Furioso che vede Astolfo, in sella all’ippogrifo,
impegnato a recuperare sulla luna il senno di Orlando impazzito per amore: XXXIV 73-85,
Fig. 58); 5 nel medesimo dossier, in contemporanea, fu inserita la scheda che voleva il proemio
al VII libro delle Intercenales fonte di un passo della III satira di Ariosto (scheda più di recente
revocata in dubbio dallo stesso proponente che ha rintracciato un riscontro più preciso nel
Tristan en prose per spiegare Satira III 208-231). 6 Dieci anni dopo Leonzio Pampaloni rendeva
sistematico lo spoglio delle intercenales (e di altre opere albertiane, ivi compresa l’Ecatonfilea)
in prospettiva ariostesca, 7 annotando, insieme al riuso, le «profonde trasformazioni operate
dall’Ariosto sulla fonte» e distinguendo, con apprezzabile cautela, quanto rappresentava solidi
riscontri formali e quanto, viceversa, sfumava in assonanze anche spiegabili altrimenti, in convergenze
tematiche e in altri paralleli «narrativi», contenutistici e filosofici. Niente (se non ci
inganniamo) di altrettanto sicuro quanto il puntuale riscontro letterale fra Somnium e il viaggio
lunare di Astolfo si è aggiunto a quel che sappiamo sulla effettiva conoscenza delle opere
albertiane da parte di Ludovico; e nonostante che le proposte di assonanze, riscontri tematici o
affinità filosofiche siano andate nel tempo a infoltire il dossier e abbiano ormai coinvolto quasi
tutte le tappe della carriera dell’Alberti scrittore. 8
Se è utile stabilire una gerarchia fra riscontri letterali e di situazione, fra riprese formali e di
sentire, fra consonanze sorrette da appigli intertestuali e consonanze di idee, occorre anche
ricordare che la gerarchia funziona soltanto in relazione al grado, maggiore o minore, dell’evidenza
della prova. Qualche anno fa Piermario Vescovo ha accennato alla «scivolosità» di certi
raffronti, 9 e senz’altro va accolto l’invito a tener distinte le precise prove di letture di prima
mano, le riprese consapevoli dai riscontri inconsapevoli che possono anche essere determinati
322 323
dalla particolare situazione di Ferrara («la bella terra che siede sul fiume», Of III 34, 2, destinata
nella prefigurazione giovannea di quel canto a divenire, da «umil [...] e piccol borgo» «la
più adorna / di tutte le città d’Italia [...], / non pur di mura e d’ampli tetti regi, / ma di bei studi
e di costumi egregi»); insomma da quella humus intellettuale, profondamente inseminata dalle
opere albertiane, in cui Ariosto fu educato. È però altrettanto vero che, per comprendere e
valutare appieno la persistenza e/o la coniugazione di temi albertiani (primo fra tutti quello
della follia) nella maggior opera ariostesca bisogna fare i conti con l’una e con l’altra tipologia
di concordanze. Perché è proprio in tale più ampia prospettiva, che accondiscende a minor
selezione dal punto di vista filologico, che meglio risalta, accanto alle affinità tematiche, la
differente ideologia espressiva dei due autori, la cui immagine ormai criticamente invecchiata
(solida e tetragona per il più antico, aerea e ironica per il secondo) gli studiosi moderni hanno
riconnotato sottolineando in entrambe la convivenza di elementi di disagio e di risentimento. 10
Ma mentre per Alberti la disposizione delle due componenti è per così dire orizzontale (la parte
costruttiva, socialmente impegnata, del pensiero si organizza in forme letterarie e in generi
tendenzialmente separati da quelli in cui si dà sfogo all’estro umorale e dissacratorio), in Ariosto
i due elementi si dispongono in verticale nel medesimo contenitore, l’irritazione e l’amarezza
costituiscono la faglia profonda su cui si stende il sovrano armonioso distacco, rotto da affioramenti
in apparenza occasionali, che però avvertono della soggiacente e ineliminabile presenza.
1. L’epigramma è stato di recente pubblicato
in Carlo Alberti 2015, p. 201 (per il testimone
che lo tramanda e il commento si
vedano rispettivamente anche le pp. 137-138
e 395-396).
2. Per la presenza delle opere albertiane a Ferrara
vedi da ultimo Tissoni Benvenuti 2007.
Dagli inventari antichi risulta che alla fine
del Quattrocento nella biblioteca di corte
erano conservati il Canis, la Musca, la Philodoxeos,
il De equo animante, la Deiphira, il
Theogenius, gli Ex ludis e forse il De re aedificatoria;
ma fra gli intellettuali ferraresi è
certa la circolazione del De pictura latino
e del De re aedificatoria ormai stampato,
che Boiardo lesse a Ercole nel 1488 (ibid.
pp. 272-274). Per i personaggi citati a testo
nel loro rapporto con le scritture albertiane
vedi ancora Tissoni Benvenuti 2007
e Zanato 2007. La bibliografia relativa al
più generale rapporto fra Alberti e Ferrara,
anche in relazione agli aspetti artistici,
potrà essere recuperata dai saggi presenti
in Furlan e Venturi 2010.
3. Sulla verosimiglianza che anche Leon Battista
conoscesse Francesco di Princivalle
Ariosto si veda l’introduzione di A. Martelli
in Carlo Alberti 2015, p. 53; per gli officii,
soprattutto esterni, rivestiti da Francesco
Ariosto si rinvia a Quattrucci 1962.
4. Cito il testo dell’autobiografia albertiana (§
76) da Alberti 2010, p. 995, ma offro una mia
traduzione, qua e là divergente da quella
proposta dal curatore, Roberto Cardini.
5. Martelli 1964, p. 168: «Non solo l’idea centrale,
la bizzarra affascinante fantasia
di raccogliere in un paese immaginario
tutto ciò che si perde in terra, è all’Ariosto
suggerita dal dialogo dell’Alberti; ma
molti fra i simboli del Somnium ritornano
puntualmente nelle ottave del Furioso; e
perfino certi particolari, che potrebbero
sembrare di secondaria importanza, l’Ariosto
ritiene utile d’imitare, svelandoci
nello stesso tempo quale profonda impressione
avesse fatta su di lui la lettura della
prosa albertiana.» Si veda anche Segre
1965 (ed. 1966).
6. Segre 1965 (ed. 1966); poi Segre 1986 (ed.
1990) e Segre 1988 (ed. 1990).
7. Pampaloni 1974; la successiva citazione a p.
318.
8. Un resoconto aggiornato delle varie proposte
(che coinvolgono sul versante volgare i
Libri de familia, l’Ecatonfilea, Theogenius, e
sul versante latino il Momus e le intercenales,
comprese anche le due bilingui Uxoria e
Naufragus) è in Dorigatti 2010, con i rinvii
alla bibliografia precedente.
9. Vescovo 1999, p. 419 nota 4: «Sul fronte della
critica ariostesca [...] si è tentato di saggiare
l’allargabilità dei rapporti con l’Alberti
delle Intercenali oltre a Somnium, scivolando
talora dai riscontri testuali a meno
facilmente comprensibili tentativi di istituire
linee di una continuità “ideologico /
tematica”». Si veda per contro Villa 2000.
10. Troppo nota la vicenda critica dei due autori
perché sia necessario produrre in extenso
una bibliografia di dimensioni ormai molto
ampie; valgano, a titolo esemplare, i nomi di
Eugenio Garin per l’Alberti e di Lanfranco
Caretti per Ariosto.
324 325
VITE PARALLELE.
ARIOSTO E
CASTIGLIONE
–
MARIA CRISTINA CABANI
Baldassarre Castiglione nasce a Casatico (Mantova) nel 1478 e muore a Toledo, dove risiedeva
come ambasciatore del papa presso Carlo V, nel 1529 (Fig. 59); Ludovico Ariosto
nasce a Reggio Emilia nel 1474 e muore a Ferrara, al ritorno da un viaggio intrapreso al
servizio di Alfonso, nel 1533 (Fig. 60). Entrambi muoiono un anno dopo la pubblicazione dell’opera
a cui hanno lavorato per almeno venti anni: la prima redazione del Furioso risale al 1516,
la terza al 1532 (del 1521 è la seconda); Castiglione inizia a lavorare al Cortegiano dal 1508 e lo
completa nel 1524, ma lo pubblicherà solo nel 1528. Nella lunga vicenda compositiva e nell’intenso
lavorio variantistico che contraddistinguono i due capolavori gioca un ruolo determinante
l’uscita nel 1525 delle Prose della volgar lingua di Bembo. In effetti, pur arrivando a soluzioni
linguistiche in gran parte diverse, Ariosto e Castiglione rivedono i loro testi secondo una precisa
direzione “italiana”. Le loro vite, dunque, corrono parallele: frequentano corti molto simili e,
spesso, intrecciano rapporti con le stesse persone. Anche la veste editoriale con la quale furono
stampate mostra che le loro opere erano destinate a uno stesso pubblico; in esse, insomma, si
respira quella che potremmo definire un’aria comune. Tuttavia, la vulgata secondo la quale i due
autori sarebbero stati legati da sentimenti di amicizia e di stima non trova riscontro nei fatti e
neppure negli scritti, che lasciano trapelare, piuttosto, una cortese dissimulazione e una sostanziale
volontà di ignorarsi.
L’incontro fra i due può essere avvenuto a Urbino, nella primavera del 1507, quando Ariosto,
diretto a Roma, sostò presso i Montefeltro. È probabile che in quell’occasione Ludovico abbia
letto brani del poema che stava scrivendo, e proprio nel 1507 è ambientato il Cortegiano, ma nella
sua ultima redazione, benché il dialogo sia affollato di personaggi famosi, Ariosto è assente. Ciò
non toglie che le testimonianze certe di una loro reciproca conoscenza si ricavino proprio dagli
scritti. Nella seconda redazione Castiglione citava «messer Ludovico Ariosto» fra i «chiari ingegni
che sono ora al mondo». 1 Lo citava, dopo Bembo (che è pure uno dei dialoganti) e Sannazaro,
entro una serie nutrita di poeti cortigiani: Postumo, Tebaldeo, Bendedei, Muzzarelli, Fausto Maddalena.
Non sappiamo a quale Ariosto Castiglione pensasse; probabilmente a quello, certo non il
migliore, delle Rime. Lo lascia credere il fatto che lo elogi fra coloro che hanno pigliato «subbietto
solamente dalla bellezza e virtù delle donne»: una caratterizzazione, questa, che potrebbe valere
tanto per l’Ariosto delle Rime quanto per quello del poema se non fosse che il suo inserimento in
Fig. 59
Raffaello Sanzio
Ritratto di Baldassarre
Castiglione (part.), 1514-15
Olio su tela, cm 82 x 67
Parigi, Musée du Louvre
326
quel gruppo fa pensare piuttosto al poeta lirico. Nell’ultima redazione del dialogo, però, Ariosto
non compare più. È vero che qui Castiglione elimina anche gli altri autori che nella precedente
aveva menzionato insieme a lui; se però si ritiene che la loro cancellazione sia dipesa dal fatto che
essi, in gran parte defunti, a quell’altezza cronologica erano ormai da considerarsi «fantasmi» di
una «effimera stagione della letteratura cortigiana» (Quondam 2000), allora quella di Ariosto,
ancora vivo e ormai famoso, appare quasi oltraggiosa.
Nello stesso periodo in cui Castiglione lavora alla seconda redazione, Ariosto nella Satira III,
90-94, pur senza nominarlo, lo ricorda insieme a Bembo e agli altri personaggi della «feltresca
corte» «sacri al divo Apollo» con la definizione: il «formator del cortigiano». Un concetto che poi
Ariosto ripeterà, quasi con le stesse parole, nella rassegna di autori che hanno celebrato le donne
collocata nell’esordio del canto XXXVIII (aggiunto nella terza redazione) del Furioso, rassegna
nella quale Castiglione non sarà nominato ma reso riconoscibile proprio dalla perifrasi: «c’è chi,
qual lui / vediamo, ha tali i cortigian formati». Lo nominerà invece nel canto XLII (87, 1) ancora
una volta come «elegante» celebratore delle donne famose, in compagnia di una serie di poeti
gravitanti intorno alla corte di Mantova.
Non sappiamo se le ottave del canto XXXVIII sono state aggiunte prima o dopo la morte di Castiglione.
È certo, però, che Ariosto, mentre sembra mostrarsi generoso, lodando Castiglione come
«formatore del cortegiano» nasconde nell’elogio un fondo di veleno. La stessa definizione, infatti,
Fig. 60
Palma il Vecchio
Ritratto di poeta
(Ludovico Ariosto?), c. 1516
Olio su tela, cm 83,8 x 63,5
Londra, The National
Gallery
Fig. 61
Francesco del Cossa
Marzo (part.), 1469
Affresco
Ferrara, Palazzo
Schifanoia, Salone dei
Mesi, parete est
essendo ricavata da Castiglione («avendo noi a formar un cortegiano», Il Cortegiano, XVI), solo in
apparenza è oggettiva ed esente da implicazioni negative. In realtà è anch’essa, come altre analoghe
definizioni ariostesche, un esempio di “sprezzatura” degno di un perfetto cortigiano: Ariosto
ama schermarsi dietro le citazioni, se ne serve per prendere le distanze, per dire e non dire.
Si pensi a quando, nell’esordio del canto XLVI, omaggia Pietro Aretino con l’epiteto «divino».
Benché quell’appellativo iperbolico fosse diffusissimo (e lo stesso Aretino se ne compiacesse), è
difficile ritenere che Ariosto, così diverso per cultura e per etica dal discusso Pietro, lo condividesse
effettivamente. Considerazioni analoghe si possono fare per l’espressione «il flagello /
dei principi» del canto XLVI (14, 3-4). È noto che il vanitoso Aretino proclamava di esserlo, ma
sulla sincerità dell’elogio ariostesco c’è da dubitare. Questi si limita ad assecondare la vox populi.
D’altra parte, non mancano altri esempi nei quali Ariosto ricorre a formule fatte che gli consentono
di non esprimere un giudizio personale favorendo una presa di distanza che sta al lettore
interpretare. Proprio Aretino fu uno dei primi a riprendere, con una tempestività che prova il suo
fiuto, la formula del «formar il cortegiano», dandone però una interpretazione letterale. La Cortigiana
del 1525 allude sfacciatamente, fin dal titolo, al dialogo castiglionesco ancora inedito ma
328 329
già circolante e oggetto di discussione: la “cortigiana” del titolo, infatti, è la corte di Roma che si
prostituisce. A essa approda lo stupido messer Maco per lasciarsi «formare» cortigiano da chi, in
realtà, vuole farsi gioco di lui facendogli credere che uno possa diventare cortigiano assumendo
quella “forma” grazie agli stampi conservati in un bagno termale. Con la sua feroce satira, che
demolisce ogni mito cortigiano, la commedia rappresenta il negativo del quadro idillico della
corte urbinate. Nessun intento satirico, invece, si cela nella definizione ariostesca di Castiglione;
è indubbio, però, che essa doveva già essere diventata un luogo comune, e non sempre positivo,
come mostra Aretino.
L’elogio del Furioso non coincide del tutto con quella della satira. Mentre in questa Ariosto parla
di una «feltresca corte» nella quale «col formator del cortigiano, / col Bembo e gli altri sacri al
divo Appollo, / [Giuliano de’ Medici] facea l’essilio suo men duro e strano» (III 90-3), nel Furioso,
elencando per nome gli elogiatori delle donne, allude a Castiglione con una formula leggermente
diversa perché modificata da un’aggiunta: «qual lui / vediamo, ha tali i cortigian formati», vale a
dire, ha formato i cortigiani avendo a modello se stesso. Quell’inciso («qual lui vediamo»), di per
sé ambiguo, perché il lettore non è in grado di capire se implichi un giudizio negativo o positivo,
ha alle spalle una storia che aiuta a precisarne il senso. Alla fine della lettera di dedica a Michel de
Silva, Castiglione scriveva: «Alcuni ancor dicono ch’io ho creduto formar me stesso, persuadendomi
che le condizioni, ch’io al cortegiano attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio
già negar di non aver tentato tutto quello ch’io vorrei che sapesse il cortegiano; e penso che chi
non avesse avuto qualche notizia delle cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato,
mal avrebbe potuto scriverle; ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi
presuma saper tutto quello che so desiderare.»
Con queste parole rispondeva indirettamente a Vittoria Colonna, che in una lettera indirizzatagli
il 20 settembre 1524 aveva osservato: «Che [lei] abbia ben formato un perfetto cortegiano non
me ne meraviglio, ché con solo tenere uno specchio denanzi et considerare le interne et externe
parti sue, posseva descriverlo qual lo ha descritto; ma essendo la maggior difficoltà che habbiamo
conoscer noi stessi, dico che più difficile li è stato formar sé che un altro.»
Quello che nelle intenzioni della Colonna quasi sicuramente voleva essere un elogio, forse non
era stato del tutto gradito da Castiglione, se egli ritenne opportuno inserirlo fra le “accusazioni”
alle quali rispondere nella lettera di dedica: «alcuni dicono ch’io ho creduto formar me stesso».
Con la sprezzatura che gli è consueta, in quel contesto Castiglione si scherma dietro una doppia
negazione («A questi tali non voglio già negar») per poi negare di aver voluto fare un ritratto
di se stesso allegando un topos modestiae («non presumo di avere tanti doti quante ne immagino
nel mio cortigiano»). Ma è il tono risentito della lettera, che inizia proprio con un’accusa
diretta a Vittoria Colonna, colpevole di aver fatto trascrivere parti dell’opera a insaputa dell’autore,
a generare il sospetto che Castiglione non avesse gradito i complimenti della Marchesa e li
avesse recepiti piuttosto come «accusazioni». Mi chiedo allora se il malizioso Ariosto fosse del
tutto innocente quando inserì in enjambement un inciso che sembrava ribadire proprio quell’«accusazione».
Mi chiedo inoltre se per Ariosto il termine «cortigiano» abbia davvero quel valore
positivo che sicuramente gli attribuisce colui che si presenta come «formatore del perfetto cortigiano».
Anche di ciò è possibile dubitare. Prescindendo dalle Satire, quando nel Furioso parla
della corte e dei suoi funzionari Ariosto non abbandona mai il tono sarcastico, per non dire che
la corte vi è descritta come un luogo di invidia, di falsità e di ingannevoli rapporti (Fig. 61). Lui
stesso, cortigiano suo malgrado, manifesta in più occasioni il proprio disagio nei riguardi del
potere dal quale dipende.
Un’irriverenza più grave nei riguardi di Castiglione è l’averlo escluso dalla rassegna di personaggi
del canto XL (poi divenuto, nel ’32, il XLVI): una rassegna vasta, generosa di nomi e in
progressivo accrescimento. Non ammesso nel ’16 e nel ’21, Castiglione non lo sarebbe stato nemmeno
nel ’32, tre anni dopo la sua morte. Le scelte fatte in quest’ultima redazione del poema,
dunque, non potevano più interessarlo, ma ci dicono qualcosa sulla stima che Ariosto ne aveva,
1. In una redazione ancora precedente l’elogio
era un po’ più esplicito. Infatti, anche
se nemmeno in quel contesto Castiglione
nominava il Furioso, faceva pensare che ad
soprattutto al confronto con il trattamento riservato a Pietro Bembo. Nella prima redazione,
assenti entrambi dalla rassegna finale, i due comparivano appaiati nel canto XXXVIII («Iacobo
Sadoleto e Pietro Bembo. / Uno elegante Castiglione», 83-84). Ma nel 1532 il nome di Bembo
troneggia isolato e disteso ampiamente nell’enjambement: «là veggo Pietro / Bembo, che ’l puro
e dolce idioma nostro, / levato fuor del volgare uso tetro, / qual esser dee, ci ha col suo esempio
mostro» (15), mentre quello di Castiglione continua a essere assente. Si noti che Bembo, già celebrato
per due volte come poeta d’amore, qui è elogiato come normatore dell’italiano idioma. Se
l’affermata centralità di Bembo come legislatore linguistico va interpretata come una presa di
posizione di Ariosto sulla questione della lingua, è possibile che l’esclusione di Castiglione sia
in qualche modo legata a un rifiuto delle sue scelte linguistiche e a quanto della questione egli
scrive nel dialogo e nella lettera prefatoria. Ma se fosse così, perché Ariosto avrebbe fatto spazio
a un Mario Equicola («Mario d’Olvito» morto nel 1525), scrittore demodé, orientato verso scelte
linguistiche ormai sorpassate e ripetutamente ridicolizzate proprio dal suo vicino nella rassegna,
il terribile Aretino? In realtà, uno dei criteri che hanno guidato le scelte di Ariosto è stato quello
dell’amicizia, tanto è vero che nella rassegna nomi illustri allignano accanto a poeti minori o,
addirittura, a improvvisatori, del genere di quell’Andrea Marone, compagno di Ariosto al servizio
di Ippolito. Ebbene, anche questo criterio non sembra esser valso per Castiglione, nonostante
lo stretto legame che lo aveva unito ad Alfonso Ariosto, cugino di Ludovico. 2
Castiglione non è il solo illustre escluso dalla rassegna del canto XL, anche Machiavelli non è vi
nominato. E proprio il caso di Machiavelli, il quale non si era astenuto dal commentare subito
la propria esclusione – lamentandosi con Lodovico Alamanni nel 1517 scriveva di essere stato
lasciato indietro «come un cazo» (cfr. Tav. 68) – dimostra quanto gli scrittori fossero sensibili a
quel genere di riconoscimento. Castiglione, più elegantemente, si limitò a ignorare Ariosto fino a
cancellare il suo nome dall’ultima redazione del Cortegiano.
esso si riferisse quanto aggiungeva a fianco
del nome di Ariosto: «che in un solo ci dà
Omero e Menandro».
2. La tradizione riferisce che Ariosto avesse
progettato di scrivere una satira alla morte
di Alfonso, dopo il 1525, e di dedicarla a
Castiglione. Ma di essa non si ha traccia.
330 331
LUDOVICO ARIOSTO,
IL POEMA E LA STORIA
–
MARCO DORIGATTI
Una vicenda esistenziale ricca di affetti ma costellata da delusioni, quella del poeta. Un
periodo storico in cui risuonano eventi locali come pure di rilevanza europea. Fattori,
l’uno e l’altro, che si imprimono nella storia compositiva del poema, la cui prima edizione
uscì a Ferrara il 22 aprile 1516 facendosi, al suo apparire, specchio di un’epoca e di una
società uniche e irripetibili. 1 In essa si possono distinguere tre momenti o fasi che hanno una
valenza sia storica che autobiografica: la stagione di Ippolito, l’eroe della Polesella (1509), quella
di Alfonso, il vincitore a Ravenna (1512), e quella di Francesco I, la cui discesa in Italia (1515)
segna un momento di grande aspettativa con il quale si cala il sipario sul primo Furioso. A queste
tre fasi se ne deve aggiungere una quarta, che è l’epoca di Carlo V durante la quale fu completata,
nel 1532, la redazione finale del poema in 46 canti. Quattro stagioni fortemente caratterizzate ma
accomunate da un unico punto di osservazione: lo sguardo di un poeta non soltanto spettatore ma
anche partecipe delle vicende che stiamo per raccontare.
1. Nel segno di Ippolito
Indeterminato l’inizio della composizione, variamente fissato tra il 1504 e il 1506. La data di
nascita dell’Orlando furioso per così dire ufficiale, quella che ci fornisce la prima notizia dell’opera,
è il 3 febbraio 1507, giorno in cui Isabella d’Este inviava una missiva al fratello Ippolito per
ringraziarlo di aver mandato a Mantova, in occasione della nascita del figlio Ferrante, Ludovico
Ariosto (Tav. 17). Alla puerpera, nota appassionata di letteratura cavalleresca, il poeta aveva letto
dei brani del manoscritto che aveva portato con sé. Il quale, faceva sapere Isabella, «mi ha adduta
gran satisfactione havendomi, cum la naratione de l’opera che ’l compone, facto passare questi
dui giorni, non solum senza fastidio, ma cum piacere grandissimo». 2 Il poeta ne diede un saggio
anche ad Ottaviano Fregoso ad Urbino, proprio al tempo delle amene conversazioni del Cortegiano
in cui figura tra gli interlocutori. 3
Il 1509 è l’anno in cui la storia vi entra di forza, con una serie di eventi che si direbbero registrati
in presa diretta, a partire dalla carneficina di Agnadello sull’Adda (14 maggio) con cui Luigi XII
metteva freno alle ambizioni espansionistiche della Repubblica di Venezia (Of AB XV 4, 5-8; C
XVII). 4 Poi, in una pausa tra le stragi sanguinose, si colloca (5 luglio) una lettera del duca Alfonso
nella quale richiedeva ad Ippolito copia di «quella gionta fece m. Lud. co Ariosto a lo Innamoramento
de Orlando», 5 che presumeva nelle sue mani. Ma perché Alfonso si rivolgeva a lui e non
Fig. 62
Tiziano Vecellio (copia da)
Ritratto di Alfonso I d’Este,
XVI secolo
Olio su tela,
cm 154,7 x 123,3
Firenze, Gallerie degli
Uffizi, Galleria Palatina.
Su concessione del
Ministero dei beni e delle
attività culturali e del
turismo
332
direttamente ad Ariosto? Questo ci fa intuire che il cardinale non solo era al corrente dell’opera
che impegnava il suo familiare, ma anche la seguiva da vicino. A questo proposito occorre sfatare
l’immagine di un cardinale, dispotico e sordo alle ragioni dell’arte, quale sarà cristallizzata
dalle Satire postume al primo Furioso (la prima in special modo), sancendo di fatto una damnatio
memoriae del prelato estense. In realtà, il severo giudizio del poeta non trova riscontro prima
del 1515. La figura di Ippolito – dedicatario, personaggio e interlocutore –, connaturata com’è
all’impianto dell’Orlando furioso, lo sovrasta e non è rimovibile, e la voce del poeta – occorre credere
– non meno cordiale nei suoi confronti che verso Isabella. La richiesta di Alfonso conferma
comunque che la voce di una “gionta” ariostesca già circolava nella corte estense.
Nello stesso anno (1509) va registrato un episodio legato alla guerra della Lega di Cambrai.
Padova, conquistata dalla Serenissima, era assediata da Massimiliano I d’Austria e sottoposta
ad un pesante bombardamento (15-30 settembre), il che forniva al poeta lo spunto per un inciso,
rivolto al cardinale, che funge da paragone alla forza distruttiva di Rodomonte: «Signor, havete a
creder che bombarda / mai non vedeste a Padoa così grossa / che tanto muro possa far cadere, /
quanto fa in una scossa il Re d’Algiere» (AB XIV 27, 5-8; C XVI). L’inciso fa appello ad un ricordo
personale («vedeste»). All’evento, infatti, Ippolito era presente di persona, inviatovi da Alfonso
con una scorta di soldati.
Di altro evento, svoltosi due mesi dopo sulle rive del Po nel corso dell’annosa guerra tra Ferrara e
Venezia, testimone oculare fu il poeta stesso (30 novembre), che assistette («vidi») all’atto coraggioso
di due combattenti estensi: l’adolescente Ercole Cantelmo che sotto gli occhi trepidanti del
padre (Sigismondo, duca di Sora) si spinse oltre le linee nemiche al seguito del proprio capitano,
Alessandro Faruffino: «Salvossi il Faruffin, restò il Cantelmo. / Che cor, Duca di Sora, che consiglio
/ fu allhora il tuo, che trar vedesti l’elmo / fra mille spade al generoso figlio, / e menar preso
a nave, e sopra un schelmo / troncarli il capo?» (XXXIII 7, 1-6 AB; XXXVI C). L’impresa di Ercole
e Alessandro – invero tragica, ma riscattata poeticamente tanto da rendere i due protagonisti dei
novelli Cloridano e Medoro – entra così a far parte della leggenda estense che il poeta andava
costruendo.
Tre settimane dopo, su quelle stesse rive, in quella terra del Polesine da sempre contestata fra
Venezia e Ferrara, si sarebbe svolto uno scontro decisivo: la battaglia della Polesella (22 dicembre).
Si tratta della prima di due battaglie formanti un dittico elevato dal poeta alla stregua del
mito, l’una in lode di Ippolito, e l’altra – la vittoria di Ravenna del 1512 – in lode di Alfonso. Un
mito che, partendo dalla storia recente e rispecchiando con precisa simmetria la gestione diarchica
del potere, fonda la gloria della moderna dinastia estense. Nel caso di Ippolito, l’elogio fa
presa su un fatto particolarmente brillante, ossia la cattura di quindici galee veneziane, un’impresa
che si inscrive nel poema già a partire dal canto terzo:
costui con pochi a piedi e meno in sella
veggio uscir mesto, e poi tornar iocondo,
che quindeci galee mena captive,
oltra mill’altri legni, alle sue rive.
ABC III 57, 5-8
È un motivo encomiastico che consente al poeta infinite variazioni, dando rilievo di volta in volta
a qualche particolare diverso, realistico o suggestivo. E tutto questo nonostante che Ariosto (a
dispetto del «veggio» di III 57, 6) non potesse essere presente all’evento, avendo dovuto precipitarsi
«con molta fretta e molta a i piedi santi / del gran pastore – intendasi Giulio II – a dimandar
soccorso» (AB XXXVI 3, 3-4; C XL) per Ferrara, stremata dal conflitto al punto da dover impegnare
i gioielli della duchessa Lucrezia. 6 Fu qui che il 25 dicembre Ariosto apprese la notizia
della vittoria estense, e lo stesso giorno mandò un dispaccio al cardinale con cui se ne congratulava:
«Me ne sono alegrato, ché oltra l’util pu‹blico la mia Musa ha›verà historia da dipingere nel
padiglione del mio ‹Ruggiero a nova la›ude de V. S.». 7 Dove si osserverà anzitutto il tono cordiale
e partecipe, indizio di un rapporto che a questa data si manteneva ancora aperto e fiducioso; da
parte sua, il cardinale doveva quantomeno conoscere il luogo del poema a cui Ariosto accennava
senza altro preambolo. E si noterà anche un altro particolare: secondo la lettera (e così nella
realtà) la vittoria militare fu ottenuta da Ippolito «insieme col Duca», grazie cioè al contributo
non indifferente della sua artiglieria. Ma nel poema Ippolito è presentato come il solo protagonista:
sua ed esclusivamente sua, in questo caso, la palma della vittoria. Ciò è evidente anche
nella nuova «historia» che Ariosto prometteva di inserire nel padiglione di Ruggiero, secondo
cui Ippolito sconfigge l’armata veneziana «et al fratel captiva / la dà con ogni preda» (AB XL 70,
5-6; C XLVI 97). È l’inserto che, aggiungendosi alla vita di Ippolito ricamata sul padiglione (ivi,
A 57-71; B 57-70; C 85-97), ne consacra la memoria iscrivendola sotto il titolo di pater patriae («del
nome herede / che Roma a Ciceron libera diede», AB 68, 7-8; C 95).
2. È di scena Alfonso
Il 15 febbraio 1510 Giulio II firmava la pace con gli ambasciatori veneziani, creando le basi di
un’alleanza di stati italiani in funzione antifrancese (poi consolidatasi nella Lega Santa) che per
Ferrara, fedele a Luigi XII e alla Francia, avrà conseguenze disastrose. L’ex alleata del papa ad un
tratto diveniva sua nemica. Dopo aver intimato al cardinale Ippolito di presentarsi al suo cospetto
e aver scomunicato Alfonso, il 22 settembre il pontefice si metteva alla testa di un esercito con cui
si stringeva la morsa attorno a Ferrara. Toccò ad Ariosto anche stavolta recarsi a Roma e tentar
di rappacificarlo, in tre missioni diplomatiche dimostratesi vane (24 maggio, 10 e 21 agosto); ma
alla terza venuta Sua Beatitudine montò su tutte le furie, e il povero postulante – riferisce il cardinale
– «fu minazato d’essere butato in fiume se non se le toleva denante». 8 Quest’esperienza, a
cui Ariosto farà risalire l’inizio della sua malattia, lo segnò profondamente: «andar più a Roma in
posta non accade / a placar la grande ira di Secondo». 9 E forse, causa l’intensa attività diplomatica,
la composizione andò a rilento.
Ma se fin qui l’attenzione di Ariosto si era appuntata quasi esclusivamente su Ippolito, occorreva
ora (1511), onde ripristinare l’immagine di una più simmetrica diarchia (secondo il binomio «el
giusto Alphonso e Hippolyto benigno», ABC III 50, 2), portare in primo piano la figura del principe
che ancora restava nell’ombra. Ciò fa sì che d’ora in avanti il riflettore si punti su Alfonso, il
protagonista della nuova fase (Fig. 62). La prima immagine che di lui ci presenta il poema è un’istantanea
che lo coglie nel clima di pericolo, caratteristico di questo periodo:
A grande uopo gli fia l’esser prudente
e di valor assimigliarsi al padre,
che se ritrovarà con poca gente
da un lato haver le Venetiane squadre,
colei da l’altro, che più giustamente
non so se devrà dir matrigna o madre;
ma se pur madre, a lui poco più pia
che Medea a’ figli o Progne stata sia.
ABC III 52
Quello che si instaura col voltafaccia papale è un clima di instabilità, di alleanze rovesciate, di
comportamenti etici e politici sempre nuovi e imprevedibili. Ne dà prova il proemio al canto
XXXV A (1-10), soppresso nelle redazioni successive (BC), in cui si profila per la prima volta la
figura del cardinale Giovanni de’ Medici, inviato a Bologna da Giulio II, suo zio, nel ruolo di
legato pontificio (1 ottobre) onde coordinare di lì l’esercito della Lega Santa.
All’inizio del 1512 ferveva lo scontro sotto la fortezza di Bastia, tenuta dalle truppe ispano-pontificie,
allorché si verificò un incidente. Un masso proveniente da un merlo della fortezza colpì
334 335
Alfonso sulla fronte (13 gennaio) facendolo credere morto. Ariosto se ne servirà per ampliare il
suo mito, trasformando una potenziale tragedia in un motivo di trionfo. Ecco allora che l’infortunio
del duca cambia l’esito della battaglia, rovesciandolo a suo favore: a quella vista i soldati ferraresi
si scagliano contro la guarnigione spagnola con tale ferocia da non lasciarne vivo neppure
uno (cfr. III 54, 5-8 e XXXVIII 3-5). La rappresaglia delle milizie estensi fu invero crudele, ma
secondo il poeta non imputabile ad Alfonso. Il fatto che questi si trovasse tramortito lo scagiona
da ogni responsabilità: «Se in piedi erate voi, forse minore / licentia havriano havute le lor spade»
(ivi, 4, 3-4). Con ciò Ariosto regalava ad Alfonso sia una vittoria bellica che una vittoria morale:
un atto così inumano sarebbe stato indegno di un principe cavaliere.
Di lì a soli tre mesi Alfonso si trovava ad affrontare l’impresa suprema, quella che gli darà gloria
imperitura: la battaglia combattuta nei pressi di Ravenna la domenica di Pasqua (11 aprile 1512)
tra l’esercito francese e le forze ispano-pontificie della Lega Santa. Alfonso vi partecipò con un
contingente di trecento soldati; ma furono le sue famose artiglierie, a quel tempo le più avanzate
d’Europa, a determinare l’esito del conflitto. Eppure, non così il fatto apparirà ad Ariosto nel
momento di iscriverlo nel Furioso: qui il ruolo dell’artiglieria viene sottaciuto di proposito (preludio
a quella che, nella redazione C, si farà aperta polemica contro le armi da fuoco) e la vittoria è
ottenuta «col senno e con la lancia». Nel poema, cioè, diventa impresa cavalleresca:
Costui serà, col senno e con la lancia,
c’havrà nela pinifera campagna
gloria d’haver l’exercito di Francia
vincitor fatto contra Iulio e Spagna […].
ABC III 55
Grave fu il colpo inflitto alla “superba febbre” di Giulio II; se quel giorno non fu sconfitto «il
Giglio» (di Francia, ma è anche emblema estense), a lui «si deve il triomphal alloro» (XII 4, 5).
Con questa «gran vittoria» di cui si coronava la fronte Alfonso, Ariosto completava il dittico di
battaglie estensi, allineando il fatto d’arme alfonsino all’altro, non meno memorabile, del fratello,
cui fa da pendant.
In estate giunse ad Ariosto una nuova richiesta dell’opera, stavolta da parte del marchese di Mantova
Francesco Gonzaga. Rispondendogli (14 luglio), Ariosto si diceva dispiaciuto di non poterla
soddisfare perché «el libro […] è anchora scritto per modo, con infinite chiose e liture e trasportato
di qua e de là, che fôra impossibile che altro che io lo legessi». 10 Di ciò poteva far fede la
marchesa, «alla quale (quando fu a questi giorni) a Ferrara» egli ne aveva letto «un poco», da cui
si deduce la seconda lettura documentata fatta ad Isabella d’Este. Se o quando la copia richiesta
dal suo consorte gli fosse inviata, non si sa. Ma non v’è dubbio che ormai una nuova redazione
del poema, la seconda, avesse cominciato a circolare. Lo prova un documento d’eccezione, che
ce ne conserva un’ottava, ossia il più antico lacerto testuale di quello che sarà l’Orlando furioso.
E questo grazie ad un musicista rinascimentale, Bartolomeo Tromboncino (1470-1535), che tra il
novembre 1511 e il giugno 1512, cioè nel periodo in cui si trovava al servizio di Ippolito, compose
uno strambotto a tre voci sul testo di un’ottava ariostesca, Queste non son più lachryme (Tav. 21). 11
Intanto Alfonso aveva lasciato Ferrara (23 giugno) per recarsi a Roma dove era stato assolto dalla
scomunica (9 luglio); ma allorché il papa pretese anche la liberazione di Giulio e Ferrante nonché
la cessione del dominio di Ferrara, Alfonso si diede alla fuga (19 luglio) e per quasi tre mesi restò
latitante, impegnato in un tortuoso quanto fortunoso viaggio di ritorno. A settembre Ariosto si
unì alla scorta di Alfonso e insieme si fermarono a Firenze dove era da poco caduta la Repubblica.
Ciò aveva permesso il rientro dei Medici, tra cui quel cardinale Giovanni, legato pontificio.
Nei mesi seguenti la situazione di Ferrara precipitò. Lo stato estense aveva quasi cessato di
esistere. Non restava che la città, tragicamente sola nell’ora del pericolo. Nella primavera del
1513 Giulio II ordinava l’offensiva finale e stavolta Alfonso non aveva scampo. Dentro la città
accerchiata il duca «si preparò virilmente alla resistenza. Fece tregua coi Veneziani, fortificò la
capitale e raccolse un buon numero di armati». 12 Già si attendeva l’irruzione dell’esercito nemico
quand’ecco, la notte tra il 20 e 21 febbraio, un miracolo insperato: a Roma una febbre violenta
assalì e sconfisse il papa battagliero. La fama vuole che spirasse con una maledizione sulla bocca:
«Fuori d’Italia, Franzesi; fuori, Alfonso d’Este!». 13
Era giunto il momento lungamente atteso da Giovanni de’ Medici. L’11 marzo «venne il dì che la
Chiesa fu per moglie / data a Leone» (Sat., VII 58-59), e il 12 Ariosto fu inviato prima a Firenze
e poi a Roma allo scopo di rendere omaggio al novello “sposo”: l’accoglienza deludente che gli
riservò l’amico improvvisamente sublimato «al sommo degli uffici» (Sat., III 87) sarebbe divenuta
uno degli episodi più memorabili della sua biografia. 14
Ora, non molto dopo l’elezione di Leone X (se ne vedrà la ragione), Ariosto fece un intervento sul
manoscritto; espunse due ottave e le sostituì con una che racchiude un accorato appello al nuovo
pontefice: «Tu, gran Leone, a cui premon le terga / de le chiavi del ciel le gravi some […]» (AB XV
79; C XVII). In esso risuonava più d’una canzone del Petrarca, tra cui la celebre Italia mia (RVF
128), venendo così a convergere con l’exhortatio ai Medici affinché si mettessero a capo della liberazione
dell’Italia dagli stranieri, con cui si conclude Il Principe di Machiavelli.
A questo punto occorre osservare che quella operata nel canto XV non è un’aggiunta, ma una
sostituzione. La sorte ha voluto che la parte sostituita, consistente in due ottave, si sia salvata,
restituendoci il profilo del canto anteriore all’intervento ariostesco. E anche questa volta la
lezione del manoscritto (α) ci è stata preservata da un musicista, il compositore fiammingo Jacquet
de Berchem, detto anche Iachetto Berchem (c. 1505-65), attivo alla corte di Alfonso II verso
la metà del secolo. Di lui resta il Capriccio (1561) contenente le due ottave cassate:
Ma tu, gran padre, ch’esser déi il primiero
a cacciar da l’Italia queste Harpie,
perché, lasciato il dritto e ver sentiero,
ivi le chiami per diverse vie?
Perché non segui il bon Silvestro e Piero?
Che fan tanti cavalli e fanterie?
Ohimè, c’hor mett’Italia in tanti affanni,
ch’uscir non ne potrà molt’e molt’anni! […]. 15
XV 79a a
Giulio II si rivela pertanto il Bonifacio ariostesco, colui che aveva lasciato che i «lupi» dilaniassero
la sua «greggia», lupo egli stesso e non già Leone, che stava per prenderne il posto. Grazie a
Iachetto, torna alla luce l’aspro rimprovero con cui il poeta incriminava il «gran padre» per i mali
che affliggevano l’Italia. Reso anacronistico dalla scomparsa di Giulio II, esso veniva sostituito
da un nuovo appello a Leone X. Ciò che premeva ad Ariosto era che il poema continuasse ad
essere specchio del presente.
3. La discesa di Francesco I
Il 1 gennaio 1515 moriva a Parigi Luigi XII e il 25, a Reims, veniva incoronato Francesco I, il quale
non tardava a rilanciare il progetto del suo predecessore e tornare alla conquista di Milano. In
agosto, varcate le Alpi con una grande armata, scendeva in Lombardia e poneva il campo nei
pressi di Marignano: lì si sarebbe svolta (13-14 settembre) quella che il comandante di parte francese
Gian Giacomo Trivulzio avrebbe definito «battaglia non d’uomini ma di giganti». Battaglia
invero cruenta quanto eclatante sarà la sconfitta degli Svizzeri. Ma sua – di Francesco I – la vittoria,
sapiente, calcolata, meritata.
In Italia Francesco I non è visto come un invasore, bensì un liberatore. «Francesco I – osserva
Anne Denis – appare in ogni senso il contrario di Carlo VIII. La sua bellezza impressiona e
336 337
rassicura perché è conforme ai canoni in voga». 16 Il vincitore di Marignano, insomma, aveva conquistato
l’Italia anche col suo fascino. Che anche Ariosto ne rimanesse ammaliato, non sorprende.
È nel canto XXIV che il poeta allargherà la tela per far posto ad un inserto (30-49 AB; XXVI C) in
sua lode – a non più di un mese e mezzo dalla consegna del manoscritto in tipografia (da fissarsi
a ridosso del 25 ottobre). Il luogo in cui viene intercalata l’aggiunta non è casuale. Si tratta del
canto in cui Malagigi e Viviano, tenuti in ostaggio dai Saracini, stanno per essere consegnati ai
Maganzesi in cambio di un ingente riscatto in oro. Liberati da Ruggiero e compagni, festeggiano
lo scampato pericolo presso «una de le fonti di Merlino» (XXIV 30, 1), adornata da bassorilievi
che hanno per tema la lotta contro la cupidigia, raffigurata come bestia «odiosa e brutta». Ciò
permette all’autore di mettere Francesco I in prima fila tra i principi cristiani che sconfiggono la
«bestia horrenda»:
Poi si vedea d’Imperïale alloro
cinto le chiome un cavallier venire
con tre gioveni a par, che i gigli d’oro
tessuti havean nel lor real vestire […].
AB XXIV 34, 1-4; C XXVI
Jossa (che vede nel Furioso del ’32 «l’adesione al sogno dell’Impero universale»). 20 Questa lettura
non pare tuttavia convincente. Anzitutto è da notare che Ariosto non sopprime, quindi non
ritratta, quanto già scritto, mantenendo intatto, pur integrandolo, l’impianto ideologico quale si
presentava all’altezza di AB. Inoltre, il suo elogio è ambiguo. «In effetti – osserva Sangirardi – la
lezione di storia profetica impartita da Andromaca ad Astolfo termina con un elogio di Andrea
Doria (60, 6-35) d’un vigore e d’una ampiezza perfino superiori a quelle di Carlo V». 21 Ma non è
tutto. Hempfer ci ricorda che «Francesco I viene elogiato anche nell’aggiunta del 1532 per la sua
vittoria sugli svizzeri a Marignano nel 1515 (XXXIII, 43)», 22 mentre per Segre, forse colui che è
andato più a fondo nella questione, «è chiaro che il suo cuore è tutto dalla parte del re francese»; 23
«A Carlo V, del resto, […] l’Ariosto rinfaccia soprattutto, pur non nominandolo, il sacco di Roma
(1527)». 24
Se così, il poeta visse gli anni che videro la messa a punto del terzo Furioso in intimo disaccordo
con le posizioni assunte dalla politica estense, nel suo cuore restando fedele ad un re sia pure
sconfitto dalla storia ma esempio vivente di cavalleria, il valore supremo del poema ariostesco.
I «tre gioveni» al suo seguito sono Massimiliano d’Austria, Carlo di Borgogna (il futuro Carlo V)
e Enrico d’Inghilterra, ma vi è anche Leone X. Si tratta di un drappello di principi uniti da una
causa comune: la sconfitta dell’abominevole «Mostro» ossia il trionfo della liberalità.
Chissà se con questo encomio Ariosto avrà guardato alla Francia come ad un possibile rifugio,
aggiungendosi a quella schiera di intellettuali che di lì a poco avrebbero trapiantato il Rinascimento
italiano alla corte di Francesco I. Dietro le speranze del poeta sta l’amara delusione che
gli aveva fatto subire Leone X ed anche – è giunto il momento di avvertire – Ippolito d’Este, il
quale non figura in prima fila e nemmeno in seconda, ma in coda. Evidente, ormai, la riluttanza di
Ariosto a concedere ad Ippolito un qualsivoglia posto onorevole nella gara di liberalità. Di contro,
Francesco I si rivela il vero eroe dell’Orlando furioso.
4. L’età di Carlo V
Ciò che colpisce in questo percorso è la caparbietà con cui Ariosto cerca di sincronizzare il presente
della storia con l’orizzonte del poema. Sorvolando sull’edizione del 1521, che registra scarsi
cambiamenti, egli cercherà di farlo anche in quella del 1532, da cui emerge un dato interessante.
Sono mutate le alleanze ufficiali («Fan lega hoggi Re, Papi e Imperatori; / diman seran nemici
capitali», AB XL 13, 3-4; C XLIV 2, 3-4), ma Ariosto non se la sente di passare dalla parte imperiale,
filospagnola.
A suggerirlo è un inserto (C XV 18-36; manca AB) aggiunto all’ultima redazione, un segmento narrativo
che – in apparenza – è una celebrazione di Carlo V e del suo ruolo provvidenziale, paragonato
al ritorno di Astrea. Con forte accento religioso (insolito in Ariosto), Carlo è detto «il più saggio
imperatore e giusto, / che sia stato o sarà mai dopo Augusto» (24, 7-8), ragion per cui la divina Bontà
«vuol che sotto a questo imperatore / solo un ovile sia, solo un pastore» (26, 7-8), secondo quanto sta
scritto nell’apostolo Giovanni (X 16: «et fiet unum ovile et unus pastor»).
Ma si tratta di una nuova posizione assunta da Ariosto all’indomani del convegno di Bologna
(novembre 1529), oppure di un omaggio a Carlo V che in realtà nasconde un che di freddo nei
suoi confronti? I pareri degli interpreti sono discordi. Secondo taluni si assisterebbe ad un atto
di integrazione ovvero di rassegnata adesione alla politica imperiale da parte di Ariosto: così
pensano, ad esempio, Rajna («È questo uno dei pochi elogi sinceri e propriamente meritati che
ci accada di ascoltare nel Furioso»), 17 Moretti (che ne deduce la rinuncia al sogno di concordia
europea accarezzato nella prima edizione), 18 Casadei (secondo cui sarebbe «la grande operazione
ideologico-culturale condotta da Carlo e dai suoi consiglieri a trovare disponibile Ariosto») 19 e
1. Per una trattazione più approfondita si
rimanda a Dorigatti 2011.
2. Isabella d’Este ad Ippolito, 3 febbraio 1507,
in Catalano 1930-31, vol. II, pp. 78-79.
3. Ad Ottaviano Fregoso, 27 febbraio 1516: si
veda Ariosto 1984, n. 17, p. 159.
4. Le sigle designano le tre edizioni originali
dell’Orlando furioso: A = Ferrara 1516; B =
Ferrara 1521; C = Ferrara 1532. Le citazioni
dalla redazione A sono tratte da Ariosto
2006; B e C da Ariosto 1960.
5. Alfonso I al cardinale Ippolito, 5 luglio 1509,
in Catalano 1930-31, vol. II, p. 93.
6. Ibid., vol. I, p. 323 n.
7. Al cardinale Ippolito d’Este, 25 dicembre
1509, in Ariosto 1984, n. 5, pp. 138-139.
8. Minute del cardinale Ippolito I, 31 agosto
1510, in Catalano 1930-31, vol. II, p. 107.
9. Sat., I 152-153: si veda Ariosto 1987.
10. Al marchese Francesco Gonzaga, 14 luglio
1512, in Ariosto 1984, n. 12, p. 151.
11. Si veda Canzoni, sonetti, strambotti et frottole.
Libro quarto, Roma 1517, cc. 3v-4r.
12. Catalano 1930-31, vol. I, p. 351.
13. Ibid.
14. Si veda la lettera a Benedetto Fantino del 7
aprile, in Ariosto 1984, n. 14, p. 154; e Satire,
III 175-186 e VII 64-69.
15. Primo, secondo et terzo libro del Capriccio di
Iachetto Berchem con la Musica da lui composta
sopra le Stanze del Furioso, Venezia
1561, pp. 66-67.
16. Denis 1998, p. 264; traduzione mia.
17. Rajna 1876, p. 261.
18. Moretti 1987.
19. Casadei 1988, p. 13.
20. Jossa 2009, p. 124.
21. Sangirardi 2012, § 18; mia la traduzione di
questo e del passo successivo.
22. Hempfer 1998, p. 234.
23. Segre 2012b, p. 206.
24. Ibid., p. 207, e si veda C XXXIII 55 (manca
AB): «Vedete gli omicidii e le rapine / in
ogni parte far Roma dolente; / e con incendi
e stupri le divine / e le profane cose ire
ugualmente [...].»
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Ferrara 1933b
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Ferrara 2004a
Gli Este a Ferrara. Una corte nel Rinascimento, a
cura di J. Bentini, catalogo della mostra (Ferrara,
Castello Estense, 14 marzo – 13 giugno 2004),
Cinisello Balsamo 2004.
Ferrara 2004b
Il camerino di alabastro. Antonio Lombardo e la
scultura all’antica, a cura di M. Ceriana, catalogo
della mostra (Ferrara, Castello Estense,
14 marzo – 13 giugno 2004), Cinisello Balsamo
2004.
Ferrara 2007
Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a
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Natale, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo
dei Diamanti e Palazzo Schifanoia, 23 settembre
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Capolavori e restauri, a cura di A. Forlani
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della mostra (Firenze, Gabinetto Disegni e
Stampe degli Uffizi, 8 aprile – 5 luglio 1992),
Milano 1992.
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Il giardino di San Marco. Maestri e compagni del
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catalogo della mostra (Firenze, Casa Buonarroti,
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geografia nel ’400 fiorentino, a cura di S. Gentile,
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Medicea Laurenziana, 1992), Firenze 1992.
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della mostra (Firenze, Galleria dell’Accademia,
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Firenze 2006
L’uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e
le arti a Firenze tra ragione e bellezza, a cura di
C. Acidini e G. Morolli, catalogo della mostra
(Firenze, Palazzo Strozzi, 11 marzo – 23 luglio
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Firenze 2011
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a Leonardo, a cura di H. Chapman e M. Faietti,
catalogo della mostra (Firenze, Galleria degli
Uffizi, 8 marzo – 12 giugno 2011), Firenze 2011.
Firenze 2011-12
Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo
delle vanità, a cura di L. Sebregondi e T. Parks,
catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi,
17 settembre 2011 – 22 gennaio 2012), Firenze
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Firenze 2015
Piero di Cosimo 1462-1522. Pittore eccentrico fra
Rinascimento e Maniera, a cura di E. Capretti et
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Uffizi, 23 giugno – 27 settembre 2015), Firenze
2015.
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La primavera del Rinascimento. La scultura e le
arti a Firenze 1400-1460, a cura di B. Paolozzi e
M. Bormand, catalogo della mostra (Firenze,
Palazzo Strozzi, 23 marzo – 18 agosto 2013;
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Fig. 22
Reggio Emilia, © Fototeca della
Biblioteca Panizzi: Fig. 46
Roma, Galleria Borghese, su
concessione del MiBACT: Tav. 69
Roma, © Sovrintendenza Capitolina ai
Beni Culturali, Archivio Fotografico
dei Musei Capitolini, foto Giuseppe
Schiavinotto: Tav. 66
Tolosa, © Musée Paul-Dupuy / Daniel
Molinier: Tav. 5
Torino, Biblioteca Nazionale
Universitaria, © foto Federico
Disegni: Tav. 48
Torino, Palazzo Madama, Museo
Civico d’Arte Antica, © foto Paolo
Robino 2016: Tavv. 43, 77
Venezia, © 2016 Archivio Fotografico,
Fondazione Musei Civici di Venezia:
Tav. 10
Venezia, Biblioteca Nazionale
Marciana, © foto Shylock e-solutions:
Tavv. 1, 63; Fig. 20
Venezia, © Fondazione Giorgio Cini /
Matteo De Fina: Tav. 35
Vienna, © 2016 Kunsthistorisches
Museum: Tavv. 12, 20, 37; Fig. 32
Washington, © 2016 National Gallery
of Art: Fig. 13
Windsor, Royal Collection Trust /
© Sua Maestà la Regina Elisabetta II
2016: Tav. 11
L’editore è a disposizione di eventuali detentori di diritti che non sia stato possibile rintracciare.
Didascalie
pp. 2-3: La battaglia di Roncisvalle
(part. di Tav. 4), c. 1475-1500
p. 8: Pisanello, Ritratto di Leonello
d’Este (part. di Tav. 16), c. 1441
p. 11: Maestro del Lancelot, Galaad
viene in soccorso di Perceval (part. di
Tav. 6), ultimo quarto del XIV secolo
p. 15: Sebastiano del Piombo, Ritratto
di Andrea Doria (part. di Tav. 76), 1526
pp. 16-17: Tiziano Vecellio, Il baccanale
degli Andrii (part. di Tav. 81), 1522-24
pp. 28-29, 129: Piero di Cosimo,
La liberazione di Andromeda
(part. di Tav. 53), c. 1510
p. 31: Bartolomeo Veneto, Ritratto di
gentiluomo (part. di Tav. 2), c. 1510-15
p. 39: Grande elmo con cimiero (part.
di Tav. 12), metà del XIV secolo
p. 65: Maestro del Guiron, Re Artù e
Faramon giocano a scacchi, mentre
Bliobéris di Gaunes riceve un
messaggio del re (part. di Tav. 23),
c. 1375
p. 101: Antonio Lombardo, Marte
(part. di Tav. 42), c. 1513-15
p. 151: Sandro Botticelli e bottega,
Venere pudica, c. 1485-90 (part. di
Tav. 58)
p. 183: Michelangelo Buonarroti
(copia da), Leda e il cigno (part. di
Tav. 80), dopo il 1530
pp. 210-211: Andrea Mantegna,
Minerva che scaccia i Vizi dal giardino
delle Virtù (part. di Tav. 19),
c. 1497-1502
pp. 278-279: Paolo Uccello, San
Giorgio e il drago (part. di Tav. 47),
c. 1440
pp. 340-341: Manifattura fiamminga
su disegno di Bernard van Orley,
Battaglia di Pavia con la cattura del re
di Francia (part. di Tav. 78), 1528-31
Traduzioni
Mary Archer: saggi e schede di
Isabelle de Conihout,
Flora Dennis, Miguel Falomir,
Zofia Jackson, Olivier Renaudeau
Barbara Baroni: saggio di
Ulrich Pfisterer
© 2016 Fondazione Ferrara Arte
Tutti i diritti riservati
ISBN 978–88–89793–35–0
www.palazzodiamanti.it
Finito di stampare
nel mese di settembre 2016
da Sate Srl, Ferrara