Psicologia dei Tarocchi

INTRODUZIONE ALLE LAME

Spesso e volentieri, durante una lettura o un corso, ci vengono chiesti lumi sul significato di questa o quella carta. Abbiamo pensato quindi di mettere qui sul sito quindi una sorta di “schemino” riassuntivo che bossa servire da base a chi voglia poi approfondire o, per chi non fosse interessato ad andare oltre, a dare almeno un’idea di cosa si sta dicendo. Un “per iniziare” insomma, suscettibile certamente di essere integrato, o anche interamente soppiantato, man mano che si acquisisce familiarità con questo strumento.

Il mazzo di Tarocchi preso come riferimento è quello “restaurato” da Jodorowsky.

Il mazzo è acquistabile qui

Per chi invece fosse interessato ad approfondire, il libro di Jodorowsky è acquistabile qui.

  1. LAMA 0: il Matto.
  2. LAMA 1: il Bagatto.
  3. LAMA 2: la Papessa.
  4. LAMA 3: l’Imperatrice.
  5. LAMA 4: l’Imperatore.
  6. LAMA 5: il Papa.
  7. LAMA 6: gli Amanti.
  8. LAMA 7: il Carro.
  9. LAMA 8: la Giustizia.
  10. LAMA 9: l’Eremita.
  11. LAMA 10: la Ruota della Fortuna.
  12. LAMA 11: la Forza.
  13. LAMA 12: l’Appeso.
  14. LAMA 13: la Morte.
  15. LAMA 14: la Temperanza.
  16. LAMA 15: il Diavolo.
  17. LAMA 16: la Torre.
  18. LAMA 17: le Stelle.
  19. LAMA 18: la Luna.
  20. LAMA 19: il Sole.
  21. LAMA 20: il Giudizio.
  22. LAMA 21: il Mondo.

IL MATTO

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Con questa carta inizia (e re-inizia) il percorso iniziatico dei 22 Arcani Maggiori, che altro non è che il Percorso Individuativo concepito da Jung.

La figura qui rappresentata è appunto il Matto, lo stolto, il folle: l’Incosciente. Il percorso iniziatico tratterà del passaggio dall’assoluta inconscietà (il Matto) alla graduale (e mai veramente conclusa: per questo parlavamo di “re-inizio”) scoperta del Sé (il Mondo).

Il Matto va senza sapere né dove, né perché, senza una vera meta (non ne è cosciente): Jodorowsky suggerisce addirittura che, facendo perno sul bastone, ruoti in fondo su se stesso.

Questo suo andare così, senza meta, è però tanto un sintomo di vacuità quanto di disponibilità (nel comune mazzo di carte il Matto è diventato il Joker, con tutto quel che ne consegue in termini di “algebricità” della figura). Non dobbiamo inoltre trascurare che spesso, chi ha un basso quoziente intellettuale si ritrova tra le mani, sulla bocca, improvvise “intuizioni” dai tratti anche geniali (come provenienti da un altrove, quell’altrove che è l’inconscio).  È poi il “diverso”, il non-integrabile (come il giullare medioevale: colui che può dire però ogni cosa). Suoi attributi classici sono il bastone e il fardello (che può contenere di tutto: il passato, i rimorsi, il denaro-talento che non sa ancora come impiegare, ecc). Questo fardello è legato ad un bastone che sembra un cucchiaio di legno (simbolo di ricettività: il Matto è disponibile, aperto). A seguirlo un animale (è l’impulso a intraprendere il percorso: non ha né meta né scopo ma è come se sentisse di “dover andare”, di doversi incamminare: il Matto non è fermo su se stesso).

Il Matto è la carta senza numero (sempre perché non ha coscienza del suo ruolo nel mondo) e questa sua qualità può essere intesa sia in senso negativo che positivo: negativo appunto nel senso di “esclusione”, dispersione di energie scialacquate in maniera improduttiva, positivo nel senso che senza numero può essere qualsiasi cosa (l’algebricità del Joker di cui parlavamo prima). Il Matto è il grande portatore di energia e, con il suo andare, di messa in comunicazione.

È il mondo infinito delle possibilità (il Bagatto poi si incaricherà di compiere delle scelte: se il Bagatto può essere visto, come vedremo, come un giovane Iniziato, magari un neolaureato, il Matto è allora un adolescente o un pre-adolescente, che sonda i propri molteplici interessi in ogni direzione).

IL BAGATTO

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Questa è la carta del “giovane Iniziato”, di colui cioè che si avvicina ad un percorso, non necessariamente di tipo esoterico o spirituale, può anche essere uno studente universitario o un giovane neolaureato (a cui manca comunque l’esperienza “sul campo”). Il suo rapporto con le cose è tutto “di testa” (il suo cappello ha la forma della lemniscata, l’8 rovesciato, il simbolo matematico del concetto di infinito a simboleggiare le infinite possibilità della mente). È pieno di idee e attitudini (tra i suoi riccioli, che già rappresentano idee e possibilità che si diramano in ogni direzione, ci sono delle specie di bacche dorate, i semi delle attitudini che possono sbocciare). Sul suo tavolo ci sono alcuni oggetti che richiamano i quattro semi delle carte ( un coltello: le spade, una specie di bicchiere: le coppe, le monete e infine il bastone) cioè i quattro elementi (le spade rappresentano i pensieri, le coppe le emozioni, i bastoni l’energia vitale o la libido, i denari le capacità materiali, pratiche) di cui si servirà per il suo sviluppo (per il percorso di individuazione direbbe Jung). Questi semi, questi elementi andranno giustamente “dosati”, il che non significa che dovranno esserci in parti uguali (Gurdjieff era solito citare l’esempio della cottura del pane per spiegare un concetto analogo: servono farina, acqua e fuoco, ma non in parti uguali: solo l’esatto dosaggio produrrà del pane, un dosaggio errato produrrebbe o una pappetta o un qualcosa di bruciato e via dicendo). Lo scopo del Bagatto è quindi di cominciare a predisporre i suoi strumenti (ed è quello che in fondo compie un neolaureato: predisporre gli strumenti, le conoscenze adatte, per il proprio percorso, lavorativo e non).

Questi elementi sono disposti su un tavolo (sottomano e sotto controllo, visto che sono ”apparecchiati”) il quale però ha tre gambe perché le sue basi non sono ancora “solide” (manca appunto l’esperienza sul campo) e perché una parte del tavolo finisce fuori scena (ha cioè una gamba in qualcosa che è altro e che allora potrebbe suggerire che ci sono ancora da conquistare delle “conoscenze” che non stanno sul piano razionale del tavolo). Il suo sguardo è rivolto alla nostra sinistra (cioè verso il passato). È da notare, immediatamente sotto il tavolo, tra le sue gambe, una specie di “fogliolina” che ricorda piuttosto evidentemente il sesso femminile. Sia lo sguardo al passato che questo orifizio ci riportano al ventre materno, all’ambiente famigliare, da cui il Bagatto è ancora attratto (semplicemente perché non è ancora sicuro del fatto suo e ha bisogno di “conforto” oppure perché è schiacciato da un complesso che purtroppo non gli permetterà di svilupparsi). All’altezza dell’ombelico tiene in mano una moneta (che come abbiamo detto è legata alle capacità materiali, alle disponibilità economiche anche, ed è qui associata all’ombelico e quindi al cordone ombelicale, il che può significare una dipendenza diretta, più o meno stringente, con l’imprinting famigliare, sia esso letteralmente relativo al conto in banca ma anche a “capacità” trasmesse dall’ambiente famigliare stesso: il figlio di un imprenditore è spesso più “capace” di fare impresa del figlio di un impiegato, ma non la si prenda per una “condanna”) e in mano un bastone, il classico collegamento tra cielo e terra caro agli Alchimisti (il legame tra macrocosmo e microcosmo, l’essere comunque parte di un qualcosa, l’avere una “funzione”  e un “funzionamento”).

LA PAPESSA

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La figura qui rappresentata è quella della “Papessa”, intesa ovviamente come Somma Sacerdotessa. Nelle religioni antiche era piuttosto frequente che al culto di Dei maschi fossero associati sacerdoti mentre a Dee femmine venissero associate sacerdotesse, tuttavia è consuetudine piuttosto diffusa ricondurre questo personaggio a quello leggendario della Papessa Giovanna: è vero che poco prima che le carte dei Tarocchi rinascimentali facessero la loro comparsa questo mito si diffuse, ma, al netto di implicazioni storico-socio-politiche, la vicenda cade nell’aneddotico ed è scarsamente rilevante come figura “archetipica”: è quindi probabile che abbia fatto semplicemente da spunto e nient’altro.

È invece interessante notare che il ruolo delle sacerdotesse iniziò a declinare conseguentemente all’avanzare del sacerdote-re, cioè con l’affermarsi di un sistema di valori (e conoscenze) facilmente riconducibile a quello che archetipicamente è l’universo maschile. Ecco allora che la Papessa-sacerdotessa incarna tutto quel sistema di valori e saperi escluso, tradizionalmente riconducibili all’archetipo femminile: il regno dell’Intuizione (quel conoscere prima di sapere), il “sentire diffuso” (non da monade, ma perfettamente sinergico all’Universo intero), il biologico (un sentire di “pancia”, tutt’altro che da demonizzare come spesso si fa oggi).

Il biancore della sua pelle è riconducibile al concetto di “verginità” delle dee dell’antica Grecia (Artemide) le quali erano così definite non in virtù della loro irrilevante castità bensì dalla loro autonomia e autosufficienza (nel senso che bastavano a se stesse, proprio per quelle caratteristiche su citate). Si noterà un uovo alla sua sinistra, è evidentemente un simbolo di “gestazione” (qualcosa sta maturando: ricordiamo che proprio nel corpo della donna, durante il principale processo di trasformazione-maturazione, cioè durante l’adolescenza, avvengono i più grandi cambiamenti al cui confronto quelli maschili sembran poco o nulla, proprio perché non c’è una vera e propria soluzione di continuità).

Tra le mani regge un libro, è il libro della Conoscenza ma a lei non serve (la Papessa, come dicevamo, già conosce prima di sapere). Questo fatto diventa tuttavia estremamente negativo quando lei “non si fida” di questo suo sapere e resta in attesa di qualcuno che gli decifri il libro (soggiacerà ad un potere che di fatto la snaturerà). Questo libro è color carne (la Conoscenza deve essere “incarnata”) ed ha 17 righe (il numero potrebbe rimandare alla carta delle Stelle e al suo significato di “trovare il proprio posto nel mondo”).

L’IMPERATRICE

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Per iniziare a capire questa carta può essere utile ricordare quanto diceva Gurdjieff a proposito della Legge del Tre: esistono tre forze in campo, la positiva, la negativa e la neutralizzante. La prima forza, quella positiva, è quella che ci spinge in avanti, ci fa intraprendere un percorso ad esempio, quella negativa costituisce invece in qualche modo una resistenza (mettiamo che il percorso che abbiamo deciso di intraprendere sia un percorso conoscitivo: la prima forza è, poniamo, l’entusiasmo, la seconda la”resistenza” è, spesso e volentieri, tutto l’apparato di conoscenze preconcette che ci portiamo dietro e che ci mostrano le cose nella medesima prospettiva, talché, il suddetto percorso conoscitivo finisce per essere solo un mero processo di acquisizioni di conferme). La forza neutralizzante è quella forza che ci permette di superare le antinomie aprendo a nuove prospettive (rispetto all’esempio citato, può essere una nuova scoperta o un nuovo modo di vedere le cose, che rende del tutto o in parte superati i modelli precedenti: per esempio la psicologia freudiana, la teoria della relatività di Einstein, ecc. ma anche, e giova notarlo in una società materialista e pragmatica come la nostra, “l’assunzione di una prospettiva spirituale” , o anche psicologica, che ci consenta di vedere lo scontro tra le altre due forze in maniera diversa permettendoci di superare i conflitti).

Questa carta è insomma la carta della creatività, nel senso di qualcosa che si dischiude. La  forza positiva è espressa dallo sguardo in avanti (alla nostra destra cioè verso il futuro), dai suoi capelli sciolti (i pensieri, le intuizioni, le idee, le emozioni ed i sentimenti che si irraggiano, che fluiscono) mentre la forza negativa è espressa da una certa forma di insicurezza rappresentata dallo stringere a sé lo scudo (non lo usa però come arma di difesa, lo stringe semplicemente a sé, in maniera quasi infantile), dal tenere non proprio saldamente in mano lo scettro ma anche, se ci badate bene, dal pomo di Adamo (che in una donna è un evidente contraddizione ma che esprime in maniera straordinaria il concetto di introiezione di un sistema di valori altrui: questa donna ha interiorizzato a tal punto il modello di valori maschile da arrivare ad incarnarlo, sia pure parzialmente). La forza neutralizzante è quello che a questo punto bisogna cercare (si noterà alla base dello scettro una fogliolina verde: qualcosa sta germogliando). Al di là delle paure espresse, questa è una carta permeata di vitalità.

L’IMPERATORE

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La figura qui rappresentata, più che del grande monarca assoluto stile Luigi XIV, sembra assomigliare ad un “comandante in capo”, ad un guerriero. È comunque l’incarnazione del “maschile” nell’accezione più classica (dal punto di vista della simbologia alchemica, non si può non far caso al fatto che le due braccia formano la base di un triangolo il cui vertice è la testa, sotto questo triangolo sta poi la croce composta dalle gambe incrociate cosicché l’insieme rappresenta il simbolo dello zolfo alchemico).

La folta barba fluente ci suggerisce l’idea di un uomo maturo, posato. Lo scettro brandito con estrema sicurezza (a differenza dell’Imperatrice che lo appoggia al ventre) ci da l’impressione di un carattere deciso e volitivo.

È la carta di chi sa il fatto suo insomma, di chi ha realizzato quanto si era proposto all’inizio del percorso ( se ipotizziamo un parallelismo tra il Bagatto e la figura di un neolaureato potremmo allora vedere nell’Imperatore un professore universitario, colui cioè che conosce e domina perfettamente la materia).

La mano sulla cintura suggerisce invece un controllo di quelle che sono le passioni e le emozioni (niente colpi di testa, niente azioni d’impulso).

Le gambe incrociate, secondo alcuni studiosi, si ricollegano all’attività dei giudici medievali i quali erano soliti assumere quella posizione affinché le gambe stesse fungessero da appoggio-tavolino, il che ci fa pensare ad una “spiccata” capacità di giudizio e decisione (ma, con il sembrare in qualche modo “a riposo”, ci suggerisce anche che il personaggio “domina” talmente bene la materia da non “affaticarsi” nemmeno più).

Il suo sguardo è rivolto però alla nostra sinistra, cioè al passato (il suo “dominio” è tutto su cose acquisite) segno che le cose potrebbero non spingersi oltre, che questo potrebbe essere il massimo (se ci si accontenta):  è questo il caso non solo del professore universitario citato come esempio, ma anche di un padre di famiglia che si “accontenta” del tran tran famigliare, di un imprenditore pago della stabilità dell’attività commerciale avviata (non vuole spingersi oltre, acquisire altre “fette di mercato”), ecc.

Lo scudo, strumento di difesa, è appoggiato per terra perché l’Imperatore è sicuro del fatto suo e non ne ha più bisogno, tuttavia l’aquila ha deposto un uovo, la possibilità cioè di qualcosa che può ancora avvenire, qualcosa in gestazione, deposta, che può svilupparsi in futuro.

L’Imperatore è perfettamente di profilo, quindi di lui se ne vede solo una metà, l’altra è totalmente in ombra: c’è tutta una parte nascosta che può (deve?) essere esplorata (ha a che fare con l’uovo?)

IL PAPA

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In questa carta, per la prima volta nel percorso, appaiono più di un personaggio: in mezzo ad altri due, vistosamente più grande, sta la figura che da il nome alla carta, quella del Papa.

Il Papa, o meglio ancora il Pontefice (colui che “getta un ponte”, che collega cielo e terra), aprirà percorsi nuovi (il suo sguardo va alla nostra sinistra, cioè al futuro, ed in questo si distingue nettamente tanto dall’Imperatore che immediatamente lo precede, e che rappresentava il dominio del presente laddove, appunto, il Papa è invece apertura verso il nuovo, quanto dalla Papessa perché lei era depositaria del “conoscere prima di sapere”, cioè di tutto quanto “l’altro”, delle leggi “fuori dal tempo e dello spazio” mentre per il Papa l’acquisizione del Sapere è indagine continua e continua esplorazione, interrogazione, scoperta: dottrina, anche nel suo aspetto negativo di saccenza e pedanteria, di dogma).

Questo suo essere collegamento tra cielo e terra è simboleggiato dalle due mani: una color carne (la Terra, la materia), l’altra guantata e azzurra (il Cielo, lo Spirito, il Sacro).

La barba è facilmente identificabile come un simbolo di saggezza, il triregno ci dice invece del “terreno” su cui si esplica la sua “indagine” esplorativa: terra-cielo-mare, minerale-vegetale-animale, corpo-spirito-mente, ecc.

Il suo mantello rosso ci dice quanto “la passione lo avvolga”.

Ai suoi piedi due accoliti, il loro copricapo riporta la figura di una sorta di vortice (le idee che il Papa sta trasmettendo loro “vorticano” nella loro testa, nella loro mente). Jodorowsky suggerisce che il fatto che siano due potrebbe stare a rappresentare i due diversi aspetti dell’apprendimento: quello della “scimmietta ammaestrata” che impara tutto a memoria senza capire e “digerire” nulla (e che in futuro sarà magari la figura dogmatica cui accennavamo sopra) e quella di chi medita, ci rimugina sopra facendo “propri” i concetti, introiettandoli sentitamente.

Anche lo sguardo del Papa merita attenzione, sembra guardare quasi “maliziosamente”, ironicamente verso altrove, come se mettesse in crisi i presupposti stessi dell’interlocutore (alla maniera di Socrate, per intenderci). Se il Bagatto abbiamo potuto paragonarlo ad un neolaureato e l’Imperatore ad un professore universitario, il Papa rappresenta allora quel qualcosa in più che scatta in chi ha raggiunto il vertice (l’Imperatore), il bisogno di esplorare altro (un professore di matematica che sente la necessità di esplorare le correnti esoteriche, uno scrittore che realizza un film).

GLI AMANTI

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Questa è la carta della scelta. È la prima in cui i personaggi raffigurati sono delle stesse dimensioni (significa che la faccenda ora è tra pari, il confronto con il mondo è diretto e non più mediato da “astrazioni” come la cultura o la metafisica).

Vediamo tre personaggi interagire, o meglio vediamo il personaggio centrale diviso tra altri due personaggi. È la classica rappresentazione dell’Ercole al bivio: la scelta appunto. I due personaggi possono rappresentare qualsiasi cosa: l’amore sacro e l’amor profano, l’impegno culturale (ma può anche essere politico o sociale) rappresentato dalla figura alla nostra sinistra (che ha in capo una specie di corona di alloro, tipica dei laureati appunto) o il fattore estetico e/o artistico (la donna di sinistra è piuttosto agghindata), o più banalmente il dovere e il piacere (ma non si sottovaluti questa scelta, in un epoca di estremo narcisismo la risposta potrebbe apparire scontata ma non lo è).

Indipendentemente dalla posta in gioco non possiamo non notare il curioso “gioco di mani” dei vari personaggi, si fatica cioè a ricondurli esattamente al loro proprietario (si fa fatica a determinare esattamente le due opzioni, perché spesso sono più interrelate di quel che non si creda, quasi mai infatti si tratta di scegliere tra bianco e nero ma tra diverse sfumature di grigio, siamo creature analogiche e non digitali: chi unilateralizza, cioé punta ad uno degli estremi, va incontro ad un “disastro”, lo stesso Jung indicava proprio nell’unilateralizzazione una delle principali cause scatenanti della nevrosi, quale essa sia).

Lo stesso vestito del personaggio al centro è diviso in bande colorate parallele, segno della sua indecisione, così come la posizione delle gambe e dei piedi, posizionati in direzioni diverse e opposte (è l’aspetto negativo della carta, quello appunto che ci mette davanti alla nostra eterna, improduttiva, indecisione). Nella parte alta della carta troviamo Cupido, nell’atto di scoccare una delle sue famose frecce. Oltre l’ovvio riferimento all’amore che è cieco, ecc questo personaggio (proprio perché divino, cioè oltre il “razionale”) ci spinge a considerare l’intuizione, il sesto senso e tutte quelle cose che, appunto, esulano da una valutazione esatta e circostanziata. La carta potrebbe allora anche suggerirci di aspettare quest’intuizione prima di compiere la fatidica scelta. Alejandro Jodorowsky in verità suggerisce anche di bendarsi gli occhi e scegliere così, a caso. È forse un po’ estremo, ma alle volte, perché no? Potrebbe essere la soluzione giusta per uscire da un’empasse: se ci troviamo sempre a fare le stesse scelte, abbiamo bisogno di qualcosa di più (e di “imprevisto”) per uscirne che non le nostre “risorse” (che sono invece, evidentemente la causa di questo “repeat”: ciò che “siamo” ci ha portato “dove siamo” e non poteva essere altrimenti, dice un vecchio adagio), ecco allora che la scelta “a caso”, bypassando il nostro “software” e le nostre sovrastrutture, ci permette di resettare e ripartire da un campo sgombro.

IL CARRO

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Questa carta rappresenta il “carro trionfante” cioè rappresenta le “nostre vittorie” portate in trionfo. É la carta della possibilità di realizzazione dei nostri progetti, ci sprona a portarli avanti, ad avanzare.

Tuttavia, osservando bene certi dettagli, notiamo delle cose che ci portano a fare alcune riflessioni. Per come è disegnato il carro sembra fermo, addirittura impantanato. Il guidatore non ha le redini in mano e il suo sguardo sembra gettato lontano ignaro di quanto sta accadendo lì sotto (l’impantanamento). Se osserviamo ulteriormente noteremo che sulle spalle del personaggio ci sono le classiche maschere che da sempre rappresentano il Teatro (e del resto la carta sembra divisa in due parti dal pianale rosso con la parte superiore che ricorda proprio un teatro con le colonne che fanno da boccascena e le stoffe da sipario e quinte).

Questo potrebbe significare che stiamo “recitando”, stiamo portando in trionfo una “maschera” più che noi stessi. E potrebbe significare che è questa “maschera” (magari nella configurazione di uno stereotipo che abbiamo introiettato, di un modello assunto acriticamente e passivamente) a guidare il carro e a guidare noi (da lì l’assenza di redini).

Questa è perciò anche la carta di chi “se la racconta”, di chi porta avanti (sul carro e in trionfo…) un’immagine stereotipata e fasulla invece che la propria natura autentica e i propri progetti. Ecco allora la necessità di riprendere le redini in mano, di smetterla di idealizzare e sognare ad occhi aperti (lo sguardo che si perde in lontananza), di abbandonare la recita, il “teatrino”, la subalternità a modelli spesso imposti. Il carro ci chiede quindi di assumerci le nostre responsabilità, di diventare adulti e padroni della nostra vita, di non delegare ad altri (le redini) la soluzione dei nostri conflitti e delle nostre paure. Una nota metafora Gurdjieffiana accennava proprio ad una carrozza in cui i cavalli sono rappresentazioni delle emozioni, la carrozza del corpo (il carro è color carne), il guidatore della mente e il passeggero dell’anima. Abbiamo qui due cavalli che tirano in direzione falsamente opposta (considerati come forze vettoriali la risultante  traina conseguentemente in avanti il carro): non sono i “sentimenti contrastanti” e le emozioni contraddittorie a bloccarci… facciamo attenzione ai “falsi problemi”. Sempre prendendo spunto dalla metafora gurdjieffiana non possiamo non confermare la lettura che abbiamo dato del guidatore (e l’assenza del passeggero-anima conferma l’introiezione di un modello altro rispetto alla nostra natura, nella rappresentazione appunto, tristemente assente).

LA GIUSTIZIA

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Questa carta incarna più l’Archetipo della Giustizia, l’idea astratta più che la sua realizzazione pratica (le leggi, i tribunali). Il personaggio raffigurato, in un certo senso, presiede proprio alla differenza tra “l’Idea” (principio) e “l’Azione” (messa in pratica), dove quest’ultima può esser vista come uno “scadimento” del principio generale (la famosa affermazione: “giustizia giusta”, che presupponendo al suo opposto una “giustizia ingiusta”, ne contraddice il principio).

La figura è assisa, in posizione monumentale, con lo sguardo diritto (il piccolo cerchio in alto potrebbe essere un “terzo occhio”, un di più di “imparzialità” al netto di ogni passione essendo astratto e “senz’anima”), regge in mano una spada ed una bilancia.

Quest’ultima, in tutta evidenza, serve a soppesare i pro e i contro, a misurare le diverse poste in gioco (in altri mazzi, spesso, i piatti recano incisi i simboli dell’alfa e dell’omega, come se a dover essere soppesato fosse tutto lo scibile). La spada è l’aspetto “esecutivo” (la condanna) di questo giudizio (il soppesare), si noti però che è leggermente pendente, come a simboleggiare la possibilità di “un’ingiustizia”, di un qualcosa che alteri il normale processo. L’interpretazione di questa carta cambia molto in base a quale altra gli viene accostata e dove (se alla sua sinistra, la carta aggiunta incontra quindi la spada e allora la Giustizia suggerisce verosimilmente un’interdizione, se a destra, incontrando la bilancia, può suggerire il bisogno di una più attenta valutazione).

Spesso viene interpretata anche come l’Archetipo della Madre, poiché si deve a quest’ultima il primo e basilare imprinting ricevuto sul concetto di “giustizia” (ecco allora però che la carta può essere interpretata come un blocco dettato dalla paura del “giudizio materno”).

La forte dissimetria (la spada storta, lo schienale specularmente diverso e assimetrico) confermano l’attrito tra il principio e la sua realizzazione. Questa carta mette inoltre in guardia da ogni eccesso di Giustizia: l’ossessione di dover giudicare tutto, il “bizantinismo” cioè il perdersi in dispute infinite ma di poco conto, la pretestuosità e la cavillosità.

L’EREMITA

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Questa figura di vecchio rimanda non tanto alla “solitudine” intesa come disagio sociale e/o esistenziale, bensì alla solitudine intesa come “distacco” dalle cose, come di chi ha capito perfettamente le “regole del gioco” e si pone, rispetto ad esse, in posizione di piena autonomia.

Tutta la “stoffa” che lo ricopre rappresenta la diversa “stratificzione” della sua esperienza, la capacità di leggere i più livelli della realtà fino alla loro essenza più intima (ne sono spia i diversi colori: il blu spirituale/il rosso “vitale” che è insieme passione, sangue, emozioni/ il color carne della materia corporea, la realtà dei bisogni/ il verde del rapporto con la natura/ ma c’è anche il rapporto con i processi alchemici: verde: viriditas, rosso: zolfo, ecc del resto la scritta sotto riporta HERMITE in luogo del più corretto Ermite, chiaramente derivandolo da HERMES Trismegisto).

Rappresenta un punto d’arrivo rispetto alle diverse tappe precedenti (come il Papa ha una mano guantata di azzurro) e per questo motivo guarda al passato (alla nostra sinistra), tuttavia Jodorowsky suggerisce che questo personaggio possa marciare all’indietro, talmente libero (autonomo) dalle dalle “costrizioni” da poter accettare qualsiasi incognita (il viaggiare all’indietro è viaggiare alla cieca).

La sua lanterna è la luce della Conoscenza, che è Coscienza, gettata sulle cose (è in grado di vedere attraverso e grazie a questa “fonte” di luce), ed è un attributo del Viandante (chi va alla ricerca), del minatore (chi sonda l’oscurità del profondo), del marinaio (che attraversa il mare in tempesta), nonché del Faro (la guida, il punto fermo, il Maestro).

Questa figura non è quella di un Maestro in senso stretto però poiché non “insegna” cosa fare ma il senso del fare: è l’Archetipo che ti spinge a cercare questo tipo di Maestro o a intraprendere un percorso iniziatico, di scoperta  e di ricerca personale.

L’Eremita non rappresenta una liberazione da qualcosa, ma la libertà stessa, individuale (come Diogene che si liberò prima della schiavitù, poi dei condizionamenti culturali e sociali rivendicando infine una propria autonomia di pensiero nei confronti di ogni cosa): l’Eremita è spesso presentato come un monaco: monaco da “monos” che vuol dire si solo ma anche Unico, ecco allora che la carta può spronarci a coltivare la nostra Unicità. Un pericolo invece può essere rappresentato dalla “misantropia”: il vedere a fondo, nei recessi più oscuri, può favorire un disprezzo generalizzato.

LA RUOTA DELLA FORTUNA

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Il significato immediatamente percepibile dietro questa figura è dei più vecchi e consolidati: l’alternarsi delle vicende, delle fortune appunto (in altri mazzi alle tre figure sono associate delle scritte che chiariscono il concetto in maniera ancora più esplicita: regnerò, regno, ho regnato).

La prima considerazione da fare è che questo alternarsi è ciclico (si tratta di una ruota) e non è un banale processo di ascesa-e-caduta (il più delle volte riesumato per reprimere anche solo l’ipotesi di “mobilità sociale”).

La seconda considerazione è che c’è una manovella che mette in moto il meccanismo (questo rimanda tanto ad una dimensione “trascendentale”, di cui non solo non abbiamo controllo ma che nemmeno possiamo arrivare a conoscere, quanto al nostro essere “in balia” degli avvenimenti e al nostro non poter farci nulla, proprio nulla).

Noterete che questa struttura poggia sull’acqua e ciò associa questa instabilità al nostro inconscio e alle nostre emozioni (di questa instabilità noi abbiamo paura, ci rende insicuri e, in alcuni casi, “nichilisti” quando ci domandiamo “allora a che serve?”).

Tuttavia, se il perimetro della ruota, la parte esterna dove si aggrappano gli “animaletti”, è in balia del movimento altalenante, non così si può dire del centro, del perno dove agisce la manovella. Ed è questo il punto.

Occorre essere “distaccati” dagli avvenimenti (in questo la carta dell’Eremita dovrebbe esserci venuta in aiuto a suo tempo), trovare quello che Gurdjieff chiamava il Centro di Gravità Permanente (essere se stessi indipendentemente da quel che accade: banalmente non entrare in crisi per un tono sgarbato con qualcuno si è rivolto a te o ancora più banalmente per il clima avverso…certo alcune circostanze sono più gravi di quelle citate e ben più devastanti, tuttavia il processo non è ovviabile, pena appunto il rimanere in “balia”…). Come abbiamo detto,questa carta, chiude un ciclo e ne apre un altro (la manovella da mettere in moto spesso allude anche ad una “forza”  che dovrà intervenire per rimettere in moto il meccanismo: a questo proposito può essere interessante ricordare come si mettevano in moto le automobili all’inizio del ‘900, con quei piccoli giri di manovella…).

LA FORZA

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Questa carta, la prima del secondo ciclo e quindi speculare alla numero I (il Bagatto), è quella che chiarisce meglio il “senso” di questo secondo ciclo. Se nella carta del Bagatto avevamo una figura giovane che predisponeva i suoi “strumenti” (compiva cioè un apprendistato) qui abbiamo una figura che invece “agisce”, “mette in pratica”.

La persona ritratta questa volta è una donna, più matura del ragazzo nella carta del Bagatto, che ha sempre però come copricapo un cappello con la forma della lemniscata (il simbolo matematico del concetto di infinito, come abbiamo detto). Sul collo vediamo una linea che sembra suggerire in qualche modo una testa separata dal corpo, aggiunta in maniera posticcia.

Tutto ciò  può può proporci due considerazioni: da un lato il bisogno di completezza (l’aprirsi cioè a quanto ci vien dal corpo, ai suoi bisogni: ricucire quel “taglio” insomma) dall’altro al bisogno di “mettere in pratica” quanto progettato, di agire insomma e non fermarsi all’immaginazione (magari nella forma dell’eterno desiderio la cui soddisfazione vien procrastinata a data da destinarsi, eternamente).

Vediamo questa donna spalancare le fauci di un leone (la cui bocca è all’altezza della vita della figura, sancendo così un rapporto associativo con quanto avviene nelle “parti basse”, dalla vita in giù appunto, con i bisogni più profondi e, frequentemente, rimossi: sesso, emozioni, appetiti vari).

Nel compiere questo gesto non sembra fare alcuna fatica (spesso è solo la paura o la nostra immaginazione ad ingigantire i “problemi”, incarnati qui dal leone, un leone che, appunto, è invece piuttosto docile).

Non di rado però, nel leggere questa carta, ci si ferma a questa ipotesi interpretativa, trascurandone un’altra egualmente importante.

Il Bagatto infatti, come abbiamo detto, ha acquisito tutta una serie di competenze, che ora però si tratta di mettere in pratica. La carta della Forza è la carta dell’azione (come si dice in molti ambienti “motivazionali” ci devono sempre essere più di trenta centimetri tra il tuo sedere e la sedia, cioè non stare seduto a parlare, agisci, metti in pratica, “doma il leone”).

La Forza è anche, evidentemente, quella di Volontà (devi “voler” domare il leone per andare avanti, devi “affrontare” i problemi insomma, non fuggire). Si noterà inoltre una piccola deformità in questa donna, il piede ha infatti sei dita e non cinque. Questa carta, oltre a rappresentare appunto l’affrontare i propri istinti, ci sprona a “radicarci” (per questo un’unghia è smaltata di rosso, per “indirizzare” l’energia verso il basso) nel senso loweniano del termine (il cosiddetto “grounding”), ad avere i “piedi per terra” (non si tratta di “non immaginare” si tratta di essere “collegati”).

L’APPESO

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Capita non di rado che questa carta venga banalmente letta come un “blocco” (con tutta la superficialità che l’uso-abuso di questo termine ormai comporta). Potrebbe forse essere più pertinente leggerla invece come un “invito a fermarsi”, a riflettere, a mettere in “gestazione” qualcosa (come accade per la Papessa, e del resto l’Appeso porta non a caso il numero 12: cioè un 10 più 2, il numero della Papessa appunto). Abbiamo notato più volte quanto i capelli siano irradiazioni di pensieri, idee o emozioni e qui li vediamo fluire sciolti verso il basso: non si tratta di irradiare per il mondo quindi, ma di riflettere ed approfondire, di prender coscienza fino in fondo di queste nostre istanze (i capelli scendono nel profondo di una buca nel terreno, che è insieme inconscio e materia, nel senso di “biologico”: spesso occorre fermarsi ad “ascoltare il corpo” proprio perché in esso, prima che a livello razionale ci se ne renda conta, l’inconscio “parla”). L’essere appeso a testa in giù suggerisce di osservare le cose da un altro punto di vista (forse addirittura capovolto, arrivando magari ad un ribaltamento radicale del proprio punto di vista, scardinando così le gerarchie di valori precedenti). Questo personaggio, di tutta la serie dei Tarocchi, è l’unico a mostrare un orecchio, segno che bisogna “mettersi in ascolto”, essere cioè ricettivi (non è tempo di agire, anzi, la carta, suggerendo che le mani siano legate dietro la schiena sembra invitarci a “mollare la presa” nelle nostre corse e affanni quotidiani).

Delle cose andranno sacrificate in questo momento (i rami tagliati in cui si vede una superficie di colore rosso come se stessero sanguinando).

La posizione sembra quella di un qualcuno che cerca un equilibrio (gurdjieffianamente, un “centro di gravità permanente”), probabilmente perché  questo momento di “autospensione” serve proprio a capire cosa funzione e cosa no (la carta successiva sarà la numero 13, l’Arcano senza nome comunemente chiamato la Morte, che farà piazza pulita di quanto ormai non ci funziona più). È in fondo un momento di autoconoscenza profonda (l’ascolto di cui parlavamo sopra è anche e soprattutto ascolto di sé).

L’Appeso è di fatto “sospeso” sulla soglia tra conscio e inconscio, accedendo così alla visuale del suo passaggio interiore, immergendosene senza esserne inghiottito.

È una sorta di souplesse, di momento estatico anche e può durare a lungo.

Certo il rischio è di rimanere appesi in eterno, ma questo accade se non si va fino in fondo (se si rimane fermi per paura): come il feto che non porta a termina la gestazione e nasce morto: un aborto.

LA MORTE

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Questa carta, come quella dell’Appeso e della Torre, è vittima di un’interpretazione spesso ingenerosa e controproducente.

Per essere esatti non porta nemmeno il nome della morte, è infatti l’Arcano senza nome, tuttavia una relazione con il concetto di morte evidentemente lo ha.

Non si tratta però della morte in senso stretto, della fine di tutto, bensì di una sorta di “potatura” dei “rami secchi” che chiunque abbia anche solo una vaga dimestichezza con i principi dell’agricoltura sa quanto sia determinante ai fini della salute della pianta.

Vediamo in questa lama una sorta di scheletro armato di falce.

Lo scheletro è la “struttura” fissa, quello che ci costituisce e ci caratterizza (l’ossatura…), la falce e il falciare sono  l’operazione da compiere (rapida! e spietata, quello che non ci appartiene più va falciato: le scarpe di quando eravamo bambini non possiamo più calzarle, è inutile tenerle così come è inutile tenere in piedi rapporti, percorsi ormai esauriti: i “rami secchi” di cui parlavamo sopra). Questo scheletro agisce su un campo dal colore nero, è l’inconscio (nero, perché si sottrae alla vista, è sconosciuto e inconoscibile per definizione): bisogna lavorare in profondità (la campitura nera è difatti molto estesa). Noteremo ai suoi piedi due teste (un uomo, coronato, ed una donna) sono gli archetipi del Padre e della Madre (falciarli significa prenderne le distanze, diventare adulti: ad essere falciata è la dipendenza, la subalternità a quei modelli, a quei diktat).

Si noteranno anche mani e piedi, sono le azioni (mani) e i percorsi (piedi) esauriti anch’essi e che non ci funzionano più a rimanere sul terreno.

La posizione della figura dello scheletro può ricordare da vicino quella del Matto, come se dicesse che è necessaria una gran quantità di energia (il grande portato di quell’Arcano) per portare a termine il lavoro. I colori della falce (rosso: energia vitale, azzurro:energia spirituale) sono gli stessi della colonna vertebrale come se l’operazione di “potatura” che si va compiendo fosse indissolubile dal processo di crescita (la spina dorsale sembra una spina di grano che sta maturando).

LA TEMPERANZA

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La prima cosa che in genere si nota di quest’angelo al centro della lama è la sua posa “monumentale” (da monumento funebre suggerisce Jodorowsky) cosa questa che acquista un senso soprattutto se messa in relazione con la carta che la precede, quella dell’arcano senza nome comunemente detto la Morte: questa carta sembra allora attestare il bisogno di un momento, anche lungo (ma non eterno…), di “riposo”, di “convalescenza”  dopo il momento, rapido e spietato, dei “tagli” e dei cambiamenti dalla numero 13 imposti.

Come suggerisce lo stesso nome però, l’attributo più importante è quello di “temperare” cioè di “mediare” tra diverse istanze (l’abito che l’angelo indossa è diviso in due bande colorate opposte, la sua attività è quella di mescolare il contenuto di due brocche).

Le brocche rappresentano le diverse istanze che vanno valutate, tenendo sempre a mente che la realtà non ha mai un solo aspetto (quello che sembra esser una verità per l’uno può essere il contrario per l’altro: un esempio potrebbe essere la scoperta dell’America che ha un aspetto per Cristoforo Colombo e ne ha un altro per gli indigeni che l’abitavano già). La ragione non sta mai da una parte sola (ricordiamo inoltre che per Jung la causa di una nevrosi è spesso l’unilateralizzazione, cioè lo sviluppo abnorme e univoco di un aspetto a scapito di tutti gli altri: un’evidente assenza di “temperanza”).

Come l’Imperatore (anch’esso un 4) la Temperanza guarda al passato, nel quale sa scrutare con attenzione e profondità (ne sono spia gli occhi gialli, come se illuminassero essi stessi quello che vedono) ma non sa, e forse neppure vuole, andare oltre (anche qui, come nell’Imperatore, il “vedere” si riferisce sempre a “fatti della coscienza”, tutto quanto attiene a quello che Jung chiamava l’ombra esula dal seminato, dall’acquisito, dal “sotto controllo”). Questo angelo possiede le ali ma non ha l’aria di voler volare.

L’acqua che circola tra le due brocche è sempre la stessa e questo potrebbe voler dire che gira e rigira si è sempre in un circuito chiuso, che le energie in campo sono sempre le stesse, con tutto quello che ne consegue in termini di asfissia (ma anche qui, c’è chi  potrebbe “accontentarsi” della solita routine). La forma che il flusso d’acqua tra le due brocche assume può inoltre ricordare una sorta di cordone ombelicale (e il rapporto, magari irrisolto, con la componente materna e famigliare potrebbe essere la causa dell’assenza del volo o dell’incapacità ad uscire dal circolo vizioso delle solite energie in campo).

IL DIAVOLO

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Ci troviamo di fronte alla carta “centrale” di tutto il percorso, non perché ne sia il culmine bensì perché ne rappresenta l’obiettivo. Per capire questo concetto bisogna prendere questa carta e sovrapporgli quella del Giudizio: facendo scorrere quest’ultima sull’altra ecco che sembra comparire dalle figure del Giudizio quella del Diavolo. Il senso dei Tarocchi è tutto qui: tirare fuori quello che c’è sotto, sia esso il “rimosso”, il “non visto”, il “non valorizzato”o, meglio ancora, esplorare il proprio Sé.

Come il Papa (numero 5) era “apertura al nuovo” e “ponte”  verso altre sponde (di conoscenza), il Diavolo (numero 15 cioè 5 della seconda decade) è “esplorazione del profondo”, “ponte” non verso un’altra sponda ma verso se stessi (anche in questa definizione la carta ci aiuta a capire il senso di questa seconda decade).

Speculare al Papa (là il Sacro, qui il Profano, là il collegamento con il Cielo e la Spiritualità, qui con la materialità degli istinti profondi) anche il Diavolo ha due “accoliti” ai suoi piedi (sono legati ed hanno le mani bloccate perché chi non guarda in faccia il proprio “lato oscuro”, lo nega e lo rimuove se lo vede rispuntare fuori in altra forma: le nevrosi, i comportamenti coatti e tutto quel bell’apparato di fatti e pensieri, vincolanti come pochi, di cui, guarda caso, non ci si sa spiegare l’origine…)

Il Diavolo, di tutto il ciclo di personaggi, è l’unico che ride (esplorare il proprio”lato oscuro” non significa cedergli, il “riso” sancisce il giusto distacco).

Il suo corpo porta i segni di entrambi i sessi (l’Anima e l’Animus Junghiani) ed ha occhi un po’ dovunque. Le ali da pipistrello ci dicono che il suo regno è la notte (l’oscurità di ciò che è stato rimosso o ci è oscuro: del resto il basamento su cui sta poggia su una campitura nera, l’inconscio, con alle spalle un flusso d’acqua, i desideri e le emozioni). Facile a molti è l’identificazione-banalizzazione di questa figura con il sesso, concetto-passpartout buono per tutte le occasioni (mondane). Il Diavolo è espressione di energia, qualsiasi tipo di energia (ma anche di talento-vocazione: il Diavolo è contro ogni forma di castrazione e soprattutto di autocastrazione ed è pronto a spronarci con il fuoco della sua torcia ogni volta che “non ci crediamo all’altezza”, che ci tiriamo indietro e non “abbiamo il coraggio”, ci castriamo appunto, perché questa sensazione di “inadeguatezza” si affaccia solo sul terreno dei nostri desideri, non su quello che ci è indifferente, non riguarda cioè quello che esula veramente da quello che potremmo essere in grado di fare e di essere).

LA TORRE

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Questa è la carta su cui pesa, in genere, un’interpretazione quantomeno ingenerosa, la si associa infatti alla distruzione, alla perdita di qualcosa.

Può essere, ma è un caso estremo. Se la leggiamo nell’ottica del percorso che stiamo illustrando, questa carta, che viene dopo quella del Diavolo (con tutto quello che ha rappresentato nei termini di scoperta ed esplorazione dei lati profondi e nascosti) non può non farci pensare ad un’esplosione sì, ma vitale (Jodorowsky vi legge, produttivamente, un pene in piena eiaculazione: quale migliore espressione di “esplosione vitale”?).

Certo, se quest’esplosione non riusciamo a controllarla (o ci limitiamo a “buttar fuori” e basta) finiremo presto “distrutti”, confermando quindi la lettura negativa cui accennavamo più sopra.

La Torre però è anche simbolo dell’Ego e/o di quello che Jung chiamava l’inflazione dell’io (una sorta di “dilatazione senza misura”) e, in questo caso, il processo di “distruzione” lo si può associare all’abbattimento di quest’ultimo. Ecco allora che la Torre che crolla non è altro che la “ristrutturazione” profonda della nostra personalità, a seguito del percorso evolutivo compiuto, del processo individuativo intrapreso, della scoperta del Sé che ci ha permesso di liquidare i vecchi “ruoli”, le maschere che abbiamo indossato (anche e sopratutto nei nostri confronti si badi bene, perché le peggiori menzogne le indirizziamo a noi stessi).

Il fulmine che colpisce la cima della Torre può essere letta in vari modi: la prima, visto che la parte che “salta” è simile ad una sorta di corona, potrebbe essere intesa come un abbattimento della nostra “superbia” (l’inflazione di cui parlavamo sopra: la dilatazione dell’Io oltremisura porta spesso a considerarsi ben più “grandi” di quel che si è in realtà), la seconda, per la natura stessa del fulmine, potrebbe essere ricondotta al concetto di “folgorazione” (simile a quella che colpì San Paolo sulla via di Damasco, che lo convertì, da quell’acceso e irrazionale anticristiano che era, ad un devoto “sostenitore” della causa del cristianesimo).

Un’ulteriore interpretazione della Torre può essere quella di “trattenere” fino al crollo, cioè il “reggere”, “tenere dentro”, “controllare” (ma, se il Diavolo ha avuto effetto, il “crollo” e il “buttar fuori” sono una conseguenza improcrastinabile…tuttavia il percorso non sempre è lineare, ed allora ci si può ritrovare facilmente in situazioni come queste).

Il crollo può anche farci da stimolo a non vedere le cose solo dall’alto (per Hillman crescere è discendere: si evolve nella vallata, nel confronto con gli altri, non sulla montagna…e questa potrebbe essere la ragione per cui i due personaggi che sembrano cadere sembrano anche cercare qualcosa per terra: non si limitano ad osservare, vogliono toccare con mano). I due personaggi che cadono possono però essere anche le maschere e i “personaggi” che abbiamo recitato e che, come abbiamo già detto, dopo l’esplosione, cadono miseramente. Ma possono essere anche incarnazioni di nostri fallimenti precedenti che vengono eliminati come scorie (si impara sbagliando, giova ricordarselo).

LE STELLE

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Perfetto contraltare della carta del Carro (in cui abbiamo rilevato la necessità da un lato di “sconfiggere” lo “stereotipo”che abbiamo dentro e quindi e solo allora, dall’altro lato, di portare in trionfo noi e i nostri progetti) abbiamo qui la carta di chi “coltiva se stesso” senza falsi inganni (la figura è infatti nuda).

Inginocchiata (ha trovato il suo posto nel mondo), tra terra e acqua (tra concretezza materiale e impeti delle emozioni e dell’inconscio) versa acqua (innaffia, coltiva, fertilizza, nutre) da due brocche in entrambi gli ambienti (quello che era un circuito chiuso nella carta della Temperanza si è qui dischiuso a innaffiare a largo raggio: le problematiche di quella carta sono ora materiale fertilizzante, vivo).

Il suo ventre e i suoi seni sembrano un volto umano (anche la dicotomia mente-corpo è superata, il corpo stesso è in grado di esprimersi, ha un volto, in perfetta sinergia con tutto il resto, come se quanto è stato “tirato fuori” con la carta del Diavolo avesse finito con l’incarnarsi, con il manifestarsi in maniera del tutto naturale).

Le stelle invece (quelle piccole sono sette e divise in due gruppi che geometricamente rappresentano un triangolo azzurro che compenetra un quadrato giallo, simbolo questo di spirito e materia che si “coniugano” perché, entrambe, fanno parte della vita e concorrono al benessere) rappresentano il “destino”, lo scopo della nostra vita, inteso non come “fatalità” ma come il portare a compimento le nostre vocazioni. Le stelle inoltre, con la loro luce che trapunta la notte oscura, sono anche i primi barlumi del Processo di Individuazione junghiano che si va compiendo (da qui la necessità di “coltivarsi” innaffiando).

La grande stella centrale è proprio la stella che ci fa da guida, come la stella cometa per i re magi (ricordiamo che nel Vangelo non si parla di cometa, la quale fu invece una riuscita quanto efficace “invenzione” di Giotto). Talvolta però questa carta sottolinea degli aspetti negativi: la donna può sembrare che getti con indifferenza (lo sguardo può apparire un po’ perso nel vuoto e a tratti può sembrare apatico) il contenuto delle due brocche ( i colori diversi possono significare lo sperpero di acqua e di vino) per terra, simboleggiando quindi lo sperpero che si sta facendo della propria vocazione e dei propri talenti.

LA LUNA

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Questa è la carta strutturalmente più complessa, divisa com’è in tre differenti “zone” ognuna con il suo significato specifico.

In basso abbiamo una “vasca” d’acqua (un lago o meglio un mare vista la presenza di onde) che rimanda facilmente all’inconscio e al mare dei desideri profondi e ancestrali (ma anche al liquido amniotico). Sul fondo di questo mare giace un gambero (l’animale che procede all’indietro, a ritroso) che è proprio “il mostro” che abbiamo dentro, la fase “arcaica” della nostra psiche, quell’animale (avete presente la canzone omonima di Battiato?) che vive e agisce dentro di noi.

Attenzione però a non interpretarlo frettolosamente in maniera negativa (tra le chele porta in serbo due perle, qualcosa di prezioso).

Nel mezzo abbiamo il “lato terreno” composto da una coppia di cani latranti e due torri: i cani sono i nostri “istinti” mentre le torri “il principio di realtà” con cui dobbiamo confrontarci (sono entrambi diversi l’uno dall’altro perché incarnano anche i diversi principi del maschile e del femminile: il principio di realtà che afferisce al maschile si distingue non poco da quello che afferisce al femminile, così pure per il regno degli istinti).

Questo percorso terreno è percorribile anche in profondità, “tridimensionalmente”, come se la carta ci suggerisse di andare al di là delle torri, delle colonne d’Ercole da esse rappresentate. Dopo che la carta delle Stelle ci ha rivelato la nostra “vocazione”, il nostro destino (che, come diceva Jung è già in qualche modo scritto nell’inconscio, di cui allora il gambero è portatore) il viaggio, il percorso di individuazione, può e deve avere inizio.

In alto, in cielo, abbiamo la Luna (dietro di lei si intravedono però i raggi del Sole). La luce delle Luna può essere letta sia come la capacità di vedere le cose sotto un’altra luce (questa carta è tradizionalmente associata alla Poesia, all’Arte e a tutte quelle forme di espressione in grado di “trasfigurare”) sia (per la fallacità straniante che la visione sotto questa luce comporta) come il vedere le cose “falsate” (il raccontarsela, l’immaginare oltre misura, talvolta anche ad un passo dal patologico).

IL SOLE

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Questa è la carta della piena coscienza che si dispiega in tutta la sua forza.

È la carta dell’Illuminazione, intesa come comprensione di quello che si è (nel processo di individuazione è il raggiungimento del Sé, o più verosimilmente una sua approssimazione).

In basso vediamo due bambini, uno con i piedi sulla terra (di colore bianco), l’altro in acqua. Quello in acqua ha la coda, quello sulla terra sembra aiutarlo ad uscire dall’acqua.

È come se si volesse narrativizzare figuralmente il portare alla luce (del Sole, quindi della Coscienza)  un aspetto “mostruoso” e nascosto (il bambino con la coda), il trarlo fuori dal mare dell’inconscio.

Tutto in questa carta suggerisce il bisogno di “portare alla luce”, di prendere coscienza (il Sole che ci guarda in faccia ricorda molto il volto del Diavolo, quasi a confermaci che quanto si trovava nel buio dell’oscurità ora è in piena luce).

Il muretto dietro è una costruzione ben più solida di quella della Torre (si sviluppa in orizzontale, non esibisce la vanità verticalizzante dell’Io) ed è come se fosse un pezzetto del perimetro di un ipotetico mandala (che per Jung rappresenta proprio il Sé).

Il fatto che i bambini siano due suggerisce la natura dialettica di questo “ragionare” alla luce del Sole (un po’ come accade in certe opere pirandelliane).

L’essere “illuminati” che il Sole propone non coincide però con il mero “razionale” (il troppo Sole del resto secca, uccide…e acceca) ma con il saper discernere la sempre duplice natura delle cose: spirituale e materiale (due i bambini). Come tra corpi illuminati (dalla ragione che osserva la materia) e corpi illuminanti (lo spirito che irraggia). Rispetto all’’Eremita (anch’esso numero 9) che possedeva la luce si, ma rinchiusa in una lanterna: la differenza è evidente, il Sole si caratterizza per un’assoluta prodigalità (non si ritira in solitudine per esplorare, irraggia verso tutto e tutti, non illumina una porzione di superficie ma tutto indistintamente, buono o cattivo che sia).

IL GIUDIZIO

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Più che al Giudizio Universale questa carta sembra alludere ad una sorta di Resurrezione (o del Risveglio di alcune religioni orientali ma anche delle “rinascite” di varie fiabe tipo Biancaneve o Cenerentola).

Ma cosa vuol dire tutto ciò? In che senso Risveglio?

In verità non si tratta di altro che quello che Jung chiamava Processo di Individuazione. Vuol dire quindi “denudarsi” di tutta l’inconscietà dell’Io (e della sua finta lucidità: come diceva qualcuno “la consapevolezza non è che un parvenza cognitiva”) e seguire il progetto profondo del Sé.

Detto in altri termini ognuno deve essere quello che è, e la carta del Giudizio, spingendoci a perseguire il “progetto inconscio del Sé”, ci invita a strutturarci così come siamo e a non seguire una finta libertà, il falso “libero arbitrio” (noi siamo in un modo preciso e non possiamo essere altrimenti, fisicamente ma anche psicologicamente e moralmente, non siamo”liberi” di andare contro le nostre “convinzioni” profonde): questo è quello che si intende per Processo di Individuazione. Questo è alla base del percorso tarologico che andiamo illustrando.

Il romanzo Il Processo di Franz Kafka è una straordinaria illustrazione della negazione  e del rifiuto di compiere questo processo (sotto le mentite spoglie di un processo giudiziario se ne nasconde uno psicologico, così come dietro “l’arresto” si nascondono i “blocchi” psicologici): fondamentalmente il protagonista non fa altro che negare questo processo, fare finta che non ci sia, continuare come se niente fosse (l’inconscietà cui si accennava più sopra). Ad un certo momento gli viene raccontata la “favola” intitolata Davanti alla Legge che racconta di un uomo che attende tutta la vita davanti ad una Soglia (che è lì solo per lui) finché in punto di morte il guardiano preposto gli rivela appunto che solo lui era titolato ad entrare (il che significa che attraverso la Legge che abbiamo dentro di noi e a cui siamo vincolati, possiamo varcare la Soglia Iniziatica che altro non è che il varco che ci porta ad “essere quello che siamo”). Così come Kafka fa dire ai giudici che nessuna sentenza è mai certa, il Processo Individuativo non ha mai termine. Al centro della scena troviamo un individuo, di spalle, di colore azzurro (chiaro richiamo alla Spiritualità, alla “completezza”) circondato da due figure, una maschile e una femminile (l’Anima e l’Animus junghiani). La figura emerge da una tomba (che rappresenta il “sonno” in cui giaceva). Sopra un Angelo suona la Tromba (il Risveglio).

IL MONDO

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Questa carta chiude il ciclo degli Arcani Maggiori, ma non è una fine bensì un re-inizio (la mandorla in cui è inscritta la donna è una figura geometricamente circolare, continua che, in altri mazzi, è non a caso sostituita dall’Uroboros).

Ai quattro lati vediamo quattro figure che rimandano iconograficamente ai quattro Evangelisti e alle loro rappresentazioni simboliche, ma anche ai  contenuti simbolici che saranno anche dei quattro semi degli Arcani Minori:

Aquila=Spade=Intelletto

Angelo=Coppe=Emozioni

Toro=Denari=Materia

Leone=Bastoni=Energia Vitale (libido, da NON intendersi però in chiave esclusivamente sessuale poiché l’energia si associa anche ad altri istinti come la fame, la paura, ecc).

Queste quattro figure fungono da coordinate, ci danno la misura di cosa abbiamo sviluppato e cosa no, ci dicono a che punto del percorso noi siamo. La figura nuda al centro siamo noi, o meglio è il nostro Sé.

La circolarità della mandorla è l’antitesi esatta dell’unilateralità (che Jung indicava come premessa ad ogni forma di nevrosi). È perciò importante valutare, rendersi conto dei nostri disequilibri. Con ciò non si vuol dire che tutto debba esserci in pari misura (per fare il pane ci vogliono tot farina, tot lievito e tot calore, non certo in parti eguali).

La nudità è ovviamente la spoliazione da qualsiasi sovrastruttura (maschera).

È fondamentale però rendersi conto che il processo di Individuazione è un PERCORSO e NON UNA META: è quindi suscettibile sempre di un re-inizio.

Arrivare al Sé non significa che questo diventi cosciente e razionale (sempre e solo per simboli possiamo interagire con lui: per questo abbiamo qui ricorso ai Tarocchi).

Nel percorso intrapreso abbiamo abbracciato tanto le nostre caratteristiche manifeste quanto integrato le nostre “ombre” nella loro “globalità” (Mondo).

La mandorla, rispetto al cerchio, ha due fuochi: il Sè e l’Io.

Il Sè è magmatico, è un continuo ribollire simultaneo, per questo non lo si può “razionalizzare” né tantomeno raggiungere definitivamente (in questo senso l’immagine della Donna sembra un riflesso ad uno specchio: visibile ma intangibile). La donna al centro tiene inoltre in mano due oggetti che rimandano all’universo del Maschile e del Femminile, dell’Attività e della Passività (da intendersi sempre come “ricettività” e non come “subalternità”).