2070 anni fa Cesare pronunciò il famoso "dado è tratto!"

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Rimini, 10 gen. (Chiamamicittà) - “Alea iacta est!” è la frase attribuita da Svetonio  a Gaio Giulio Cesare, che l’avrebbe proferita dopo aver varcato il Rubicone alla testa di un esercito nella notte del 10 gennaio del 49 a.C.. Lo fece violando apertamente la legge che proibiva l’ingresso armato dentro i confini dell’Italia e dando il via alla seconda guerra civile.

Cesare era alla guida di una sola legione, la XIII Gemina, appena 5.000 uomini e 300 cavalieri. Un’unità formata appositamente per la vittoriosa campagna nelle Gallie transalpine, dove militavano alcuni che erano cittadini romani da poche generazioni e molti, fra gli ausiliari, che speravano di diventarlo combattendo.

Erano anch’essi di origine celtica: abitanti della Gallia Cisalpina, la pianura padana, allora provincia romana il cui confine con la Repubblica vera e propria era segnato appunto dal Rubicone.

Nel tardo autunno del 50 a.C., dopo la pur trionfale campagna gallica, il Senato romano aveva ordinato a Cesare di congedare l’esercito, rimettere il mandato di governo sulla provincia della Gallia Cisalpina e recarsi inerme a Roma per subire un’inchiesta.

Cesare si avvide che il Senato si stava orientando a mettere fuori legge il partito dei populares che egli capeggiava. Temendo per la sua stessa vita, rifiutò, rimanendo accampato nella provincia che gli era stata assegnata, in una zona non distante dall’odierna Cervia.

Sempre secondo il racconto di Svetonio, prima di risolversi al gravissimo passo sembra che abbia esitato. Presa alfine a sua decisione avrebbe pronunciato in latino (e quindi, più correttamente di quanto tramandato, alea iacta esto (“il dado sia tratto”) un antico modo di dire ellenico. Invece Plutarco scrive che Cesare avrebbe proferito il detto direttamente nel suo originale greco: ἀνεῤῥίφθω κύβος.

Oggi il motto appare sia nello stemma del Comune di Rimini che in quello della provincia di Forlì-Cesena. Ma. curiosamente, in due versioni differenti: il Comune sceglie lo Jacta est alea preso alla lettera da Svetonio, mentre la Provincia opta per l’Alea iacta est divenuto di uso corrente.

Secondo altre fonti antiche, come rammenta lo storico Luciano Canfora, quella notte Giulio Cesare a un certo punto si smarrì nelle tenebre della campagna romagnola, perdendo il contatto con il grosso delle truppe. Le ritrovò solo seguendo un contadino che conduceva un carretto tirato da un somaro.

Non si trattava “solo” di un golpe politico, ma di un autentico sacrilegio, perché sacri e garantiti dagli dei erano i confini della Repubblica romana.

Una volta compiuto il gesto, Ariminum gli aprì subito le porte: la città parteggiava per i populares fin dai tempi di Gaio Mario (cognato del padre di Cesare) e per questo aveva dovuto subire le ire del vincitore della prima guerra civile, Lucio Cornelio Silla. La città era un fondamentale presidio militare e in tanti avevano militato o militavano nelle legioni cesariane. Qui fu raggiunto dai Tribuni delle Plebe fuggiti dalla Roma in mano a Pompeo e al partito senatorio, ottenendo una parvenza di legittimazione per il suo atto fatale.

Nel foro di Ariminum, l’odierna piazza Tre Martiri, Giulio Cesare avrebbe arringato truppe e cittadini per spiegare le sue motivazioni e incitarli alla lotta. In realtà Cesare, nel De Bello Civili, afferma di aver parlato ai soldati non a Rimini ma a Ravenna, prima di attraversare il Rubicone. In tal modo egli si presentava come un generale democratico che coinvolgeva i propri compagni d’arme prima di prendere così inaudite decisioni.

Ciò naturalmente non esclude che Cesare, dopo un atto tanto grave, abbia parlato al popolo e ai soldati anche nel foro di Ariminum; anzi la cosa appare assai probabile. La tradizione di questa arringa riminese è comunque molto antica ed è commemorata dal cippo cinquecentesco che ancora vediamo nella piazza.

Qual’è il “vero” Rubicone? La controversia va avanti da secoli  senza che si sia arrivati a una conclusione definitiva. I candidati tradizionali erano il Pisciatello e il Fiumicino, ciascuno sostenuto da argomenti plausibili, ma non risolutivi.

Ma soprattutto, argomenti di parte: non era solo una disputa erudita, ma conteneva implicazioni molto concrete. Se infatti il Rubicone con Augusto cessò di essere il confine della Repubblica romana (che avanzò con lui fino alle Alpi), era però ormai atavica norma che segnasse quello fra i territori di Rimini e Cesena, con tutte le conseguenze del caso.

Ecco quindi i Riminesi a tifare per il Pisciatello, più distante possibile alla loro città, ed i Cesenati schierarsi all’opposto per il Fiumicino. Alla confusione contribuirono sia l’incerto tracciato dei fiumi e fiumiciattoli di questa area, in origine paludosa e soggetta ad alluvioni disastrose, sia le denominazioni spesso simili per corsi d’acqua differenti.

Nel medio evo Riminesi e Cesenati non mancarono di cercare di risolvere la faccenda dandosele di santa ragione in più di una guerricciola. Mentre papa Pio VI, nel 1777, provvide a spostare Longiano, Montiano, “il Bosco” (Gambettola) e altri centri minori dalla diocesi di Rimini a quella di Cesena; dove incidentalmente era nato lui.

Alla fine, il 4 agosto 1933 Benito Mussolini decise d’imperio che il Rubicone era il Fiumicino e quindi il dado era stato tratto dove la via Emilia lo attraversa, ovvero a Savignano di Romagna, da allora Savignano sul Rubicone.

Una recente, suggestiva ipotesi, sostenuta soprattutto da Lorenzo Braccesi, individua però il Rubicone nell’attuale Uso e il punto del fatidico guado a San Vito. Ne sarebbe prova e puntazz di cui restano le vestigia accanto all’antica Pieve. In origine era un maestoso ponte ad almeno otto arcate (tre in più del Ponte di Tiberio), del tutto sproporzionato per quel piccolo corso d’acqua. Secondo questa tesi, il ponte sul “Rubicone”, così come l’Arco e il Ponte di Rimini,  avrebbero manifestato la rinnovata pace non solo fra i cittadini romani, ma anche fra Roma stessa e gli dei. Cancellando così il vulnus del sacrilegio cesariano.

Da: www.chiamamicitta.it

Fonte foto: Wikimedia