Analisi logica del nulla

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PREFAZIONE

 

LETTORE: Cosa significa Analisi logica del nulla?

AUTORE:  Significa analizzare logicamente il nulla.

LETTORE: E perché fare questa analisi?

AUTORE:  Perché al mondo c’è chi preferirebbe essere nulla piuttosto che essere.

LETTORE: E perché fare un’analisi logica?

AUTORE:  Perché il nulla è meno inquietante del niente.

 

In questo dialogo immaginario tra me e il lettore sta la risposta al perché di questo scritto; una risposta che forse è tutta comprensibile, tranne che per la differenza tra niente e nulla, ma di questo parleremo tra poco.

Io sono tra quelli che preferirebbero non essere venuti al mondo. Non so se questo significhi necessariamente che io desidero essere nulla, perché non so se sia proprio il  nulla che desidero, o il niente; io so solo che non vorrei essere. Se non essere è essere nulla, allora vorrei essere nulla, se non essere è essere niente, allora vorrei essere niente. Ma, siccome sono sostanzialmente allergico all’essere in generale, se nulla e niente sono delle forme di essere, mi sa che persino loro potrebbero risultarmi indesiderate.

Il nulla è il non essere? Il non essere è il niente?

Da questa domanda nasce l’esigenza di questo mio scritto. Per quel che ne so di filosofia, solo due autori mi hanno aiutato in questa ricerca: Henri Bergson e Martin Heidegger. Il primo con una risposta logica al problema del «nulla», il secondo con una risposta non logica al problema del «niente». La distinzione è, linguisticamente, una mia proposta. Quale possa essere la differenza tra niente e nulla è presto per dire. Al momento, diciamo solo che «non logico» non significa illogico, e che quindi la risposta di Heidegger alla domanda sul niente non è campata in aria, è semplicemente non logica. Per cui la risposta di Bergson, essendo logica, è più facilmente comprensibile. Però, se si ammette che la comprensibilità è per definizione eminentemente logica perché è capita dall’Intelletto, der Verstand, risulterà che potrebbe anche esserci una comprensibilità non intellettuale e pur non meno ragionevole, e questa potrebbe essere quella della Ragione, die Vernunft.

La mente umana forse non è così semplice da poter essere divisa in due parti nette, Intelletto e Ragione, alla maniera di Kant, ma questo è quanto la filosofia più autorevole ci ha trasmesso, e a noi non resta che prenderne atto. Insomma: ci sono sostanzialmente due modi di affrontare la domanda circa il nulla/niente, o in modo razionale o in modo ragionevole; il primo modo è l’approccio logico dell’Intelletto al nulla, il secondo è quello non logico della Ragione al niente.

Quale sia la differenza tra i due “approcci” lo spiega bene Heidegger, in Was ist Metaphysik? (Che cos’è metafisica?) (1929). L’approccio di Heidegger è l’approccio al niente, e la domanda sul niente è risolta dicendo che

 

il niente è l’origine della negazione, non viceversa [Heidegger]

 

L’approccio logico al nulla postula, al contrario, una frase del tipo

 

la negazione è l’origine del nulla, non viceversa [Cantino]

 

Ora, io credo che, prima di discutere sul niente o sul nulla sia opportuno capire bene come la logica intenda il nulla del niente: per capire l’approccio logico al niente è meglio parlare di nulla, piuttosto che di niente. Non voglio suggerire, al momento, nessun’altra differenza tra niente e nulla se non quella che è già emersa in queste poche righe; voglio solo usare il termine «nulla» e fare attento il lettore alla sua radice etimologica: il nulla non esisterebbe senza la «n» con cui inizia, per cui nulla è n-ulla, n + ulla. Ora, una volta capito che la «n» nega «ulla», resta da vedere cosa sarà mai un ulla, o una ulla (perché non si sa se sia femminile o maschile; forse è neutro, ma l’italiano non ha il genere neutro).

Per capire come un approccio non logico possa intendere la “negatività” del nulla basta leggere questo passo di Heidegger, il quale, dopo aver scritto, come s’è visto, che « il niente è l’origine della negazione, non viceversa», prosegue:

 

«E se, così, vien fiaccata la potenza dell’intelletto nell’ambito della questione intorno al niente e all’essere, allora si decide con ciò anche il destino della signoria della Logica dentro la filosofia». [Martin Heidegger: Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pag. 26]

 

È evidente che se il niente è indagabile dalla Ragione, questa indagine non logica sancisce la fine della signoria della logica nella filosofia. Io mi sono ostinato a voler fare, tuttavia, una analisi logica del nulla, ma senza “far finta di niente”, senza ignorare, cioè, che il niente potrebbe anche essere la vera identità del nulla.

Parlare di un giudizio non logico sul nulla, cioè parlare del niente, significa sia affermarne la non logicità sia negarne la logicità: Kant ci ha esaurientemente spiegato che i giudizi, considerati nella loro qualità, oltre che affermativi e negativi, possono anche essere infiniti:

 

  1. AFFERMATIVO: Niente è nulla
  2. NEGATIVO: Niente non è nulla
  3. INFINITO: Niente è non-nulla

 

Potevo anche scegliere il termine niente, ma ho scelto nulla perché, nel terzo giudizio, esce quel suggestivo non-nulla, che in italiano esiste come nonnulla.

 

  • Se niente è nulla, di esso si può dare un giudizio razionale.
  • Se niente non è nulla, di esso si può dare un giudizio irrazionale.
  • Se niente è non-nulla, di esso si può dare un giudizio non-razionale.

 

Che differenza c’è tra irrazionale e non razionale?

C’è la differenza che passa tra qualcosa di non spiegabile logicamente e qualcosa di spiegabile non logicamente; a dire che fra la cognizione razionale e quella irrazionale potrebbe esserci un’infinità di altre possibilità cognitive. Il giudizio infinito lascia semplicemente la porta aperta a ciò che potrebbe esserci al di là (o al di qua) di ciò che si afferma e di ciò che si nega.

L’Intelletto ondeggia continuamente tra l’affermazione e la negazione: come l’energia elettrica in un circuito chiuso. La Ragione ne esce e cerca altre possibilità. Il circuito chiuso è confortante, sicuro, ma è un carcere. Si è sempre indecisi sulla scelta fondamentale della vita: accontentarsi delle ore d’aria nel carcere di sicurezza dell’Intelletto o evadere nell’aria aperta della Ragione. Evadono coloro ai quali sta stretta la libertà condizionata; evadono coloro che vogliono entrare nella libertà incondizionata: Heidegger è fra questi.

Io, dal canto mio, voglio solo evadere dall’essere:

 

  • Se essere è essere vivo, voglio morire
  • Se essere è non essere non-essere, voglio essere non-essere: nulla o niente?

 

Heidegger definì l’essenza del nostro essere, in quanto esistenti, come «l’uscir fuori dall’essente, per vederlo dall’alto»; noi, essenti, e-sistiamo perché siamo in grado di “star” sia fuori (es- = ex) sia dentro (-sistenza = sistentia): teniamo il piede in due staffe, in due scarpe: da una parte viviamo e dall’altra ci vediamo vivere (cosa che l’animale non può fare). Siamo naturalmente portati su, dalla fisica alla meta-fisica: possiamo vedere ed anche stare a guardare il nostro vedere.

L’Intelletto vede e la Ragione guarda il “suo” Intelletto mentre questi vede; ma l’Intelletto è della Ragione e la Ragione è dell’Intelletto, perché, a ben vedere, sono la stessa facoltà che agisce in ambiti e modi diversi. Se io guardo il mio Intelletto vedo il mio essere ente che è (= essente) ente fra enti; se poi, guardando il mio ente, lo desidero non essente, mi resta il dubbio su cosa questo desiderio aneli, effettivamente.

Parlavo di circuito chiuso. La domanda che mi ha sempre ossessionato, da che sono in grado di pensare (non ho detto di ragionare) è: c’è una via di fuga dall’essere? Un’uscita di sicurezza per evadere dal carcere della vita? Non mi si risponda che questa uscita è la morte, perché non sono così sicuro che essa sia un’uscita di sicurezza: a sentire i cristiani, il trapasso per quella porta è porta in quanto porta comunque alla vita; si danno solo due possibilità: o vita in paradiso o vita all’inferno. La vita eterna la si può scegliere in una sola di queste due forme. I filosofi di professione ritengono poco serio, cioè poco professionale, tirare in ballo il catechismo, quando si fa filosofia; io credo però che il catechismo, di qualsiasi religione esso sia, influisce, e molto, sulla nostra educazione metafisica, anche se siamo filosofi, più o meno professionisti. Lo stesso Heidegger, pur avendo fatto molta attenzione a non tirare in ballo la sua educazione cattolica, ha fatto comunque i conti con essa, a dire che una tal educazione per lui ha contato, comunque.

E se uno non la volesse, la vita eterna? E sa a uno la vita non piacesse, in nessuna forma, in nessun modo, né eterna né non eterna? Dal momento che si nasce si è costretti a vivere per sempre, dannati o salvati? Prendere o lasciare? Oppure si viveva anche prima di nascere, e allora la vita è eterna come si dice essere Dio, senza scampo? Insomma: c’è, da qualche parte, un nulla o un niente nel quale sperare di poter finire?

Io sono un insegnante, e, talvolta, non sarà educativo, ma mi succede di farlo: dico ai miei allievi che se ci fossero due pulsanti, uno verde per rimanere “in essere” e uno rosso per non rimanere “in essere”, io schiaccerei subito il pulsante rosso; e chiedo a loro quale dei due schiaccerebbero. Mi interessa vedere quali ragioni a favore dell’essere mi danno questi ragazzi; sì, magari alla loro età sarà difficile dare un giudizio maturo sulla vita, ma continua a piacermi sentire le ragioni che adducono a favore della vita. Mai nessuna ragione mi ha convinto, però, fra quelle a favore della vita. Più ascolto le risposte a favore del pulsante verde e più mi convinco che l’essere umano non è ancora abbastanza esistente, cioè non è ancora abbastanza capace di uscire fuori dal circuito chiuso della propria intellezione animale per guardare ragionevolmente la propria condizione umana.

L’«essere» mi sembra un enorme contenitore, una specie di scatola nera nella quale avviene di tutto; il cielo in una stanza, per citare il titolo di una famosa canzone. Cioè, dentro a questa scatola con il soffitto dipinto d’azzurro sono vissuti, e tutt’ora vivono, una miriade di esseri che credono veramente (o vogliono credere) di poter vedere il cielo in quel falso cilestrino che affresca la volta del loro scatolone! Questi esseri, inscatolati, questi esseri in scatola, che siamo tutti noi, pigiati come acciughe, non si sognano mai di vedere un apriscatole, in quel contenitore rompiscatole? E le stelle, che stanno a guardare? Tutto, in questo scatolone, viola la privacy. Questi esseri inscatolati passano tutta la vita a reclamare la propria libertà e il diritto alla loro privacy, spaccano il capello in quattro su diritti e doveri contenuti nello scatolone,  e poi, sulla questione fondamentale, che è appunto il loro diritto/dovere di essere o non essere inscatolati, cioè di mettere in discussione il contenitore, di questo non fanno quasi mai questione? Come è possibile? Costoro mi sembrano dei forzati che spacciano l’ora d’aria per aria libera, il soffitto per il cielo, lo scatolone per lo spazio infinito. Essere inscatolati dalla vita per finire in pasto alla morte, come delle sardine!

Spero che il lettore capisca la mia speranza di uscire dallo scatolone senza dover entrare in un altro; uscire e basta, a costo di finire nel nulla, o nel niente, senza nessuno che apra la scatola per ingoiarti e defecarti da qualche altra parte dell’universo. Penso che a Dio non piaccia la carne in scatola, ed è per convincermene che ho scritto quanto segue.

 

INTRODUZIONE

 

In Einführung in die Metaphysik (1953), tradotta da Giuseppe Masi per i tipi della Mursia con il titolo Introduzione alla metafisica, si legge che per Heidegger il problema si pone circa «la domanda» sulla «apertura» dell’essere; domanda che rientra nel quesito più ampio esposto subito, in apertura:

 

Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?

 

Questa era la domanda già posta da Leibniz nella Monadologia; in Les principies de la nature et de la grace fondés en raison, al § 7, si legge infatti:

 

pourquoi il y a plus tôt quelque chose que rien?

 

Henri Bergson si pose la stessa domanda, prima ancora di Heidegger, nel IV capitolo de L’évolution créatice (1907):

 

D’où vient, comment comprendre que quelque chose existe?

 

E anche, posto un principio,

 

comment, pourquoi ce principe existe-t-il, plutôt que rien ?

 

Personalmente, anche dopo aver letto parecchie opere di Heidegger, non posso dire di essere riuscito a far veramente mia la sua risposta alla domanda cruciale sopra esposta. Invece devo dire che Bergson è riuscito, seppur intellettualmente, a darmi una soluzione accattivante; soluzione che può non essere condivisa, ma almeno una soluzione chiara.

Se Bergson ha ragione, la mia speranza di finire nel nulla è vana, ché il nulla non sta da nessuna parte. Se invece ha ragione Heidegger, allora nel nulla ci vivo da quando sono nato, visto che, a suo parere, esso è quel niente in cui da sempre siamo. Credere in Heidegger significa non avere più (un) nulla da sperare: se il nulla non c’è e il niente è ciò in cui si è… Con Bergson si deve credere nell’eternità dell’Essere fuori del nulla. Con Heidegger si deve credere nell’eternità dell’Esserci nel niente.

L’analisi logica del nulla ha il pregio di non condurre al nichilismo, ma ha il difetto di non lasciare nessuna speranza circa la possibilità di non essere, che è poi la mia speranza. Quando si parla di nichilismo ci si deve intendere, perché la sua definizione non è così univoca come può sembrare di primo acchito. Si prenda questa famosa definizione di Heidegger:

 

Nella dimenticanza dell’essere promuovere solo l’ente: questo è nichilismo.

 

A prima vista questa sembra tutto, tranne che la definizione di nichilismo, perché il nostro mondo non ci ha mai abituati a considerare nichilista chi si riempie la vita di lui, del mondo, appunto; chi è mondano non è nichilista, per il mondo; piuttosto, nichilista è considerato colui che non tiene in nessun conto gli enti intramondani. Errore. Come può, un “uomo di mondo”, essere nichilista? È questo il paradosso heideggeriano: gli enti, considerati nell’ottica mondana, sono il vero nihil dal quale deriva il nichilismo. Un ente è niente, se non lo si vede nel più ampio pan-orama del suo essere Essere. Il niente di Heidegger è ni-ente, come il nulla di Bergson è n-ulla.

Ed io? Sono nichilista?

Chi, come me, desidera non essere, è nichilista?

Tutto dipende da come si considera il non-essere: se come «non-essere» o non piuttosto come «non essere».

 

  • «NON ESSERE». Scritto così, il non essere sembra come il nulla di Bergson: qualcosa che non c’è veramente, perché è solo la negazione dell’essere, ma l’essere non può non essere.
  • «NON-ESSERE». Scritto così, il non-essere pare essere il niente di Heidegger: qualcosa che c’è veramente, perché non è solo una negazione dell’essere: è un essere che può essere non-essere.

 

Se il nulla è «non essere» non potremo mai sparire dalla faccia dell’universo, ma, al massimo, solo dalla faccia della terra. E con che faccia, poi?

Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia Leopardi scriveva:

 

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell’esser mio frale,

qualche bene o contento

avrà fors’altri; a me la vita è male.

 

Queste ultime parole mi si sono impresse nella mente da quando ho l’età della ragione: «a me la vita è male»; mi si sono impresse nella mente perché anch’io, come Leopardi (e come altri esseri umani) ho sempre sentito e conosciuto la vita come un male, checché ne dicano tanti altri esseri chiamati “umani”, come me, e che pur, loro sì, hanno qualche bene o contento, dalla vita. Conosciuto e sentito. Si faccia attenzione al primo verso che ho citato: «Questo io conosco e sento»… Forse non a caso Leopardi ha usato due verbi: conoscere e sentire. Un conto è conoscere ed un altro sentire. Heidegger, in Einleitung zu «Was ist Metaphysik?» (Introduzione a: «Che cos’è metafisica?») (1949), scrisse che

 

…col termine Dasein vien chiamato ciò che originariamente viene sperimentato, e poi in conseguenza pensato, come posizione, ossia come il luogo proprio, della verità dell’essere. [Martin Heidegger: Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia Editrice, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pag. 74]

 

La casa editrice Adelphi, nel volume 464 della sua Piccola Biblioteca, pubblicò, nel 2001, lo stesso testo tradotto da Franco Volpi, che suona:

 

…con il termine «esserci» è nominato ciò che deve ancora essere esperito e poi corrispondentemente pensato come posto (Stelle), cioè come la località della verità dell’essere. [Martin Heidegger: Che cos’è metafisica? – Adelphi, Milano 2001 – Piccola Biblioteca 464 –   Traduzione di Franco Volpi, pag. 101]

 

Si evince che ci sono due livelli:

 

  1. Intuizione noetica
  2. Intellezione dianoetica

 

C’è un percepire immediato e sensibile sul quale, dopo, si costruisce un sapere mediato e intellettivo; l’essere umano è l’unico essere in grado di porsi, per il fatto di e-sistere, nella “bidimensionalità del senso”, come propongo di chiamarla, cioè nel senso che comincia dai sensi e finisce nel significato (= senso). Mi pare che non a caso il termine «senso», dal latino sensus all’italiano senso, abbia entrambi gli esiti.

Henri Bergson disse la stessa cosa, quando scrisse che

 

Se, per arrivare all’idea di essere, si passa (consapevolmente o meno) attraverso l’idea del nulla, si perviene a un essere la cui essenza risulta logica o matematica, e quindi intemporale. E allora si impone una concezione statica del reale: tutto sembra dato una volta per sempre, nell’eternità. Ma è necessario pensare l’essere direttamente, senza giri viziosi, senza prima rivolgersi al fantasma del nulla che si frappone tra lui e noi. Occorre sforzarsi, qui, di vedere per vedere, e non di vedere per agire. Allora l’assoluto si rivela vicinissmo a noi e, in certa misura in noi. La sua essenza è psicologica, e non matematica o logica. Esso vive con noi. E, come noi – ma per certi aspetti infinitamente più concentrato e raccolto su di sé – dura. [Henri Bergson: L’evoluzione creatrice – Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 – Saggi – Traduzione di Fabio Polidori, pag. 244]

 

Al termine di Nachwort zu «Was ist Metaphysik?» (Poscritto a «Che cos’è metafisica?») (1943) Heidegger scrisse che

 

  • Il Niente come altro dall’ente è il velo dell’essere.

(Trad. Franco Volpi)

  • Il niente, come «altro» dall’essente, è il velo dell’Essere.

(Trad. Armando Carlini)

 

Carlini traduce Essere con la «E» maiuscola perché viene dal Seyn, e non dal semplice Sein: è noto che Heidegger finì con lo scrivere Seyn l’Essere; Carlini e Volpi traducono, l’uno con «essente» e l’altro con «ente», il Seiendes di Heidegger. Ne risulta un percorso del tipo:

 

Ente            –        Niente         –        Essere

 

Cioè:

 

                            Seiendes     –        Nichts         –        Seyn

 

Ma

 

Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts?

 

Perché v’è soprattutto il Seiendes e non piuttosto il Nichts? L’unica cosa che appare, dal percorso sopra riportato è che per arrivare all’Essere bisogna “passare” per l’assenza dell’ente, cioè per il Niente; il Niente heideggeriano non è un banale niente, come potrebbe essere un oggetto in movimento, che dapprima si vede e poi non si vede più, no: esso è il vestibolo dell’Essere, il pronao del Seyn, l’unico adito possibile all’ontologia; solo un ente può dar adito all’Essere: comparendo e poi sparendo.

E va bene. Io, al pari di tutti gli altri esseri umani, ho visto passare davanti ai miei occhi un’infinità di enti, e li ho visti andarsene, così com’erano venuti… Ho sempre creduto che non è negli enti che potevo vedere l’Essere che cercavo, perché, ben che vada, gli enti possono mostrare il loro essere, se lo sappiamo vedere, ma mai l’Essere. Tutto il mio essere (umano) è da tempo proteso sul vuoto, sull’assenza degli enti, da quando ho capito che dovevo superarli, per vedervi di più; superarli senza snobbarli, tuttavia, perché solo gli enti, per quanto limitati, possono fare da “traduttori” dell’essere, prima loro e poi dell’Altro. No, non si illuda il mio lettore: non sto pensando a Dio.

Io non so se la mia vista è mai riuscita a togliersi il velo di davanti agli occhi, il velo che separa l’assenza dell’ente dalla presenza dell’Essere, il non più dal non ancora. Solo una cosa so, come mio “fratello” Leopardi: che la mia intuizione noetica è un senso assai spiacevole; mi trattengo al massimo dal lasciarla passare nella dimensione dianoetica, e pure, nonostante i miei sforzi, essa trapassa di là, e la sua intellezione si trasforma immancabilmente sempre nello stesso pensiero: che la vita è male. Talvolta mi viene da invidiare gli altri esseri umani: quelli che (e sono la gran parte), vivendo «innazitutto e per lo più» – come ama dire Heidegger – in faccende affaccendati, si evitano quella «deficienza dell’aver-a-che-fare col mondo prendendone cura», che pur pare essere l’unica salvezza.

 

L’essere-nel-mondo, in quanto prendersi cura, è coinvolto nel mondo di cui si prende cura. Perché il conoscere, in quanto considerante determinazione di semplici-presenze, sia possibile, occorre in primo luogo una deficienza dell’aver-a-che-fare col mondo prendendone cura. [Martin Heidegger: Essere e tempo – Longanesi, Milano 1976 – Traduzione di Pietro Chiodi, § 13, pag. 86]

 

«Innanzitutto e per lo più» – zunächst und zumeist – io penso di essere riuscito ad evitare  «lo scadimento dell’esserci», das Verfallen des Daseins, che «la deiezione», die Geworfenheit, tende a causare: per quanto gettato in questo mondo, io da tempo cerco di prenderne le distanze, almeno quel tanto che mi permette di guardarlo dall’alto, o dal basso, insomma: da fuori, ex, in ossequio all’omen che il nomen esistenziale porta con sé: ex sistentia. La vista metafisica è veramente molto simile alla vista fisica: se si è troppo vicini, così come se si è troppo lontani dall’ente che si guarda, si finisce col non vedere più nulla; o più niente?

 

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Henri Bergson, nella quarta parte di Evoluzione creatrice, occupandosi del nulla e trattando il concetto di «inesistente» scrisse che, posto un oggetto A considerato esistente, questa idea di oggetto A esistente non è altro che la rappresentazione pura e semplice di questo oggetto,

 

«poiché non ci si può rappresentare un oggetto senza attribuirgli con ciò stesso una certa realtà. Tra pensare un oggetto e pensarlo esistente non c’è assolutamente alcuna differenza: Kant ha fatto piena luce su questo punto nella sua critica dell’argomento ontologico. Ma, allora, cosa significa pensare l’oggetto A inesistente? Rappresentarselo inesistente non può significare sottrarre all’idea dell’oggetto A l’idea dell’attributo “esistenza” giacché, va ripetuto, la rappresentazione dell’esistenza dell’oggetto è inseparabile dalla rappresentazione dell’oggetto e fa tutt’uno con essa». [Henri Bergson: L’evoluzione creatrice – Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 – Saggi – Traduzione di Fabio Polidori, pag. 233]

 

Si noti, da una parte l’idea dell’oggetto A, dall’altra l’idea dell’attributo “esistenza”.  L’esistenza può essere l’attributo di un oggetto, dal momento che già ce lo siamo rappresentato? Per Bergson no: «poiché la rappresentazione di un oggetto è necessariamente quella di un oggetto esistente». La differenza tra possibile (= esistenza pensata) e reale (= esistenza constatata) viene, direi, azzerata, da Bergson, dal momento che, come s’è visto, anche solo il pensare qualcosa in quanto possibilità pura di un’irrealtà (= pura idea) è già concepirne l’esistenza. La concezione è concepimento, quando è così “immacolata”?

In italiano esiste la parola N-ULLA, nella quale la N nega l’ULLA; ma, in italiano, non esiste l’ULLA. Esiste invece in latino, che ha sia ullum sia nullum: il n-ullum è la negazione dell’ullum. Il fatto che l’italiano abbia perso – chissà perché? – la metà positiva della realtà, l’ulla, è forse sintomo linguistico dell’imperante nichilismo che oggi imperversa: solo la metà negativa, il nulla, si presenta agli occhi di chi non vede più come il nulla non potrebbe esistere senza l’ulla. Per argomentare questa tesi è necessario riabilitare, nella lingua italiana, questa paroletta bislacca: ulla; e perciò, in questo mio scritto, io la userò come nome proprio della realtà positiva di contro alla realtà negativa, cioè negata. «Ma allora, da cosa deriva il fatto che ci si ostini a porre l’affermazione e la negazione sullo stesso piano e a dotarle di un’uguale oggettività?», domanda Bergson.

A ben vedere, non è la stessa cosa parlare di «realtà negativa» e di «realtà negata»: nel primo caso si ammette, soggettivamente, con una proposizione affermativa, l’esistenza dell’irrealtà (= non-essere), nel secondo caso si nega, oggettivamente, con una proposizione affermativa, l’esistenza dell’irrealtà; una realtà, se è negativa, è una realtà, ma se è solo una realtà negata, non è reale.

Bergson distingue tra

 

  • GIUDIZIO ESISTENZIALE
  • GIUDIZIO ATTRIBUTIVO

 

Un giudizio esistenziale nasce dal fatto «che si siano provate le sensazioni specifiche che stanno alla base di questa rappresentazione», cioè della rappresentazione della quale si dà il giudizio esistenziale: è un giudizio di una realtà. Se ci si fa caso, un giudizio attributivo può nascere  solo se si ha la facoltà di immaginare la possibilità di contro alla realtà. L’esempio di Bergson è quello che oppone due giudizi del tipo:

 

  • Il terreno è secco
  • Il terreno non è umido

 

Bergson nota che il primo giudizio è reale, esistenziale, perché nasce dalla constatazione empirica, sensibile, del secco; il secondo giudizio non è esistenziale, perché attribuisce al terreno una qualità non esperita sensibilmente, ma solo concepita intellettualmente: chi giudica non-umido un terreno non mostra di averne sentito la siccità, perché dimostra senza mostrare alcunché. I due verbi, mostrare e dimostrare, da me già alquanto usati in altri miei scritti, continuano a sembrarmi l’espressione più adeguata delle due dimensioni di ci stiamo occupando: la mostrazione – altra parola che non esiste in italiano, ma che si dovrebbe usare – è una percezione sensibile di primo grado, diretta; la dimostrazione lo è solo in secondo grado, indirettamente: è una costruzione irreale fatta su una realtà decostruita in possibilità concettuale ma inconcepibile. Contra factum non valet argumentum. La mostrazione è un fatto, la dimostrazione è solamente l’argomentazione, positiva o negativa, di tal fatto; la mostrazione è l’ulla, l’argomentazione negativa è nulla. Questo mi pare il parere di Bergson.

Un giudizio sul nulla è, per Bergson, un giudizio attributivo, perché attribuire l’inesistenza a qualcosa è un’operazione possibile solo in un secondo tempo, cioè solo dopo che si è dato, in un primo tempo, un giudizio esistenziale: prima giudico esistente qualcosa e dopo le tolgo l’esistenza, come se l’esistenza fosse un attributo; «e così, invece di giudicare una cosa, si giudicherà un giudizio».

In Il tradimento del corpo, pubblicato da Edizioni Mediterranee, lo psichiatra e psicoanalista Alexander Lowen, allievo di Wilhelm Reich, in un paragrafo intitolato L’immagine contro la realtà, scrisse che «il termine ‘immagine’ si riferisce a simboli e concezioni mentali in opposizione alla realtà dell’esperienza fisica»: «un’immagine è reale quando è connessa al sentimento o alla sensazione»; lo stesso autore fa poi notare che la scissione tra immagine e realtà dà luogo a patologie di tipo schizoide: la spersonalizzazione porta alla schizofrenia, al conflitto tra l’io e il corpo.

Bergson definisce «puro spirito» quello «che se ne sta di fronte agli oggetti»: mi pare che questo “atteggiamento” sia esattamente quello di uno spirito che non «tradisce» il proprio corpo, per dirla con Lowen; è la “postura gnoseologica” di «una persona e un oggetto posti l’una di fronte all’altro». «Ciò che esiste può essere registrato, ma non può essere registrata l’inesistenza dell’esistente», dice Bergson. Come se il nulla fosse una specie di silenzio che nessun registratore può registrare, e l’ulla fosse un qualsiasi rumore, o suono, avvertibile da un registratore. Lowen afferma che «quando c’è salute emotiva la personalità è unificata e in pieno contatto con la realtà. Nella schizofrenia la personalità è divisa e ritirata dalla realtà»; e dunque, per dirla ancora con Bergson, in condizioni di salute emotiva, «si affermerà che la tal cosa è, e non si affermerà mai che una cosa non è».

Pare che affermazione e negazione non abbiano lo stesso “peso” sulla bilancia dell’equilibrio psicosomatico. Se la pesatura delle proposizioni, affermative o negative, viene fatta sulla bilancia della logica formale, allora non c’è differenza: il peso specifico dell’affermazione vale tanto quanto quello della negazione; ma Bergson crede, invece, che la negazione pesi molto meno, anzi, nulla, se fa da contrappeso ad una affermazione: diciamo pure che la negazione è un contrappeso immaginario, inventato dalla logica formale quando equipara il si e il no. «È un’operazione assolutamente intellettuale, indipendente da ciò che accade fuori della mente»: «da essa non nascerà alcuna idea», dice Bergson.

La mente mente: quando nega l’esistente, fa finta di non rammentare di averlo affermato esistente poco prima: «per una mente che seguisse il puro e semplice filo dell’esperienza, – scrive Bergson – non potrebbe esistere il vuoto, non potrebbe esistere il nulla, nemmeno relativo o parziale, né ci sarebbe negazione possibile». La mente e il rammentare – sostiene Bergson – sono assonanti non solo linguisticamente: la memoria, in quanto «tiene a mente», è la condizione imprescindibile di ogni operazione mentale. Pare che la memoria sia dunque la facoltà della mente; ora, se la mente, considerata come der Verstand, è la facoltà intellettuale dell’uomo, ecco che l’intelletto è la facoltà che opera sul «tenere a mente», sul ricordare: sul ritenere. Ma ritenere vuol dire due cose: ricordare e anche credere, opinare (es. io ritengo che…); ora, con Bergson, se è vero che «mentre l’affermazione riguarda direttamente la cosa, la negazione mira alla cosa solo indirettamente e attraverso un’affermazione interposta», allora si dà che ogni negazione è possibile solo nella dimensione temporale, cioè in una dimensione che che concede all’u-topia una collocazione topografica nella realtà. L’u-topia, il non-luogo del nulla, per continuare l’assunto bergsoniano, è possibile solo a patto di intendere questo non-luogo come la memoria, il ricordo di un luogo che non è più: l’assenza è la dimenticanza, conscia o inconscia, di una presenza, perché solo nella misura in cui è possibile far finta di dimenticare una presenza la si può convertire in assenza. L’assenza del tutto, il nullum, è una presenza artificiale, direbbe – credo – Bergson, in quanto creata in provetta, è una realtà da laboratorio, laddove il laboratorio è l’intelletto: solo dopo essere stato in un luogo, andandomene via, io posso poi dire che il luogo, senza di me, è disabitato. Ma, crede Bergson, la realtà, nella misura in cui è presenza, abita sempre il luogo in cui la vediamo, per non dire in cui “si trova”.

 

«La negazione differisce dunque dall’affermazione propriamente detta in quanto è un’affermazione di secondo grado: afferma qualcosa di un’affermazione, la quale, a sua volta, afferma qualcosa di un oggetto». [Henri Bergson: L’evoluzione creatrice – Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 – Saggi – Traduzione di Fabio Polidori, pag. 235]

 

Ma se la memoria, nella quale la mente opera, è la conditio sine qua non si può dare il nulla, e se l’esperienza non è una memoria, ma è ciò che si può percepire solo nella sensazione noetica diretta e immediata della percezione, allora non v’è dubbio che il nulla può solo essere il ricordo di una memoria negata; in questo senso, il nulla sarebbe ciò che non si vede più se si chiudono gli occhi su ciò che si era visto con gli occhi aperti: Tizio ha Caio davanti a sé, lo vede, e dice «Caio esiste»; poi mettiamo che Tizio chiuda gli occhi e dica «Caio non esiste»: è chiaro che Tizio potrebbe essere in buona fede solo se, nell’atto di chiudere gli occhi avesse perso del tutto la memoria; in caso contrario, Tizio avrebbe piuttosto dovuto dire «Caio sembra non esistere più».

Il mio lettore sa che mi sta molto a cuore l’indagine dello stato dell’uomo prima del cosiddetto peccato originale, e che non perdo l’occasione di chiarirmela ogni volta che posso; orbene, nel libro, sopraccitato, Il tradimento del corpo, v’è un capitolo, il settimo, intitolato Illusione e realtà, nel quale si legge:

 

La disperazione genera l’illusione. La persona disperata si crea delle illusioni per sostenere il suo animo nella lotta per la sopravvivenza. […] Il ricorso all’illusione è promosso dall’impotenza ad affrontare la realtà esterna. Ma diventa patologico quando l’impotenza deriva dal sentirsi inadeguati indipendentemente dalla realtà esterna. [Alexander Lowen: Il tradimento del corpo – Edizioni Mediterranee, Roma 1967 – traduzione di Licia Mingione, pagg. 117-118]

 

Mi pare di poter sostenere, bergsonianamente, che il nulla è dunque un’illusione: il credere reale ciò che non lo è. Ora, come potrebbe, il nulla, essere più consolante dell’ulla? Come può darsi che l’illusione del nulla possa costituirsi psicologicamente come un riparo dalla realtà dell’ulla? Mi pare questa la questione, e mi sembra che essa vada posta in questi termini: ci sono persone che non riescono a sopportare il peso della vita, del male di vivere, e che fanno press’a poco questo ragionamento: se la vita è essere, e se la vita non mi piace, tra l’essere (in vita) e il non-essere (in-vita) preferirei il non-essere: al che, o ci si suicida o si vive per tutta la vita nella nostalgia del non-essere. Il desiderio del nulla è possibile solo in chi ritiene il nulla una alternativa reale all’ulla. Ma se, con Bergson, crediamo che questo nulla non esiste, di fatto, da nessuna parte, viene da chiedersi dove pensano di finire, coloro che anelano al nulla, al finire nel nulla…

Il nulla è il «finire» della realtà? Sì? Ma allora c’è un luogo che si prolunga oltre la realtà? E dov’è il confine? E come lo si passa? Trapassando? Morendo? Sono domande tutt’altro che scontate e banali. Io credo che il nichilismo dei nostri tempi possa essere considerato, con l’aiuto di Bergson, alla stregua di un’utopia: una sorta di memoria negata di una realtà rifiutata. Si dice che la morte è entrata nel mondo con il peccato. Del resto, la morte non poteva entrare nell’Eden e rimanervi, ché là niente era nulla. Il grande pregiudizio dei nostri progenitori fu forse proprio quello derivante dal non aver ancora potuto giudicare, cioè dal non aver ancora potuto tagliare (= teilen) in due la realtà: da una parte l’ulla e dall’altra il nulla. Se la caratteristica precipua della gnoseologia edenica fu, come San Tommaso d’Aquino lascia intendere, una sorta di “presa diretta” con la realtà, una visione immediata del reale, allora certo non si può nemmeno ipotizzare un Adamo, o una Eva, che pensano l’assenza dell’ulla, che pensano il nulla. Il nulla, in una conoscenza analitica del reale, è inconcepibile, perché ogni realtà si presenta in tutta la sua totalità, per quel che è, senza lasciare spazio a un qualche angolo vuoto. Adamo ed Eva percepivano la totalità del reale e per ciò sapevano farsene una ragione. Una Ragione, però, che non nasceva da una facoltà di giudizio; meglio chiamarla Intelletto, questa Ragione.

Il nulla è il paradiso artificiale in cui vorrebbero rifugiarsi quelli che, come me, non vogliono vivere. La più brutta conseguenza del casus originalis fu, a mio parere, l’aprirsi della falla nichilistica, dello spazio apparentemente vuoto che si apre nella voragine aperta dal fallo primordiale: un errore, magari, ma è l’errore – se Bergson ha ragione – di chi crede di poter credere con pari opportunità nel nulla come nell’ulla. Come se ulla e nulla fossero due alternative praticabili allo stesso modo, seppur opposte. Se questo discorso ha un senso, parrebbe di poter dire che, prima del casus, il nulla era visto per quel che è: illusione utopica. Col casus nel paradiso terrestre è apparso il miraggio di un altro paradiso: l’antiparadiso, il nulla; e questo antiparadiso è la vita terrena, di contro a quella edenica.

 

Disperazione ed illusione formano un circolo vizioso, in cui l’una porta all’altra. Più l’illusione rifiuta la realtà, più disperato diventa lo sforzo di sostenerla. Quando l’illusione diventa il fondamento stesso dell’esistenza, come nella condizione schizoide, dev’essere difesa e sostenuta contro la realtà. [Alexander Lowen: Il tradimento del corpo – Edizioni Mediterranee, Roma 1967 – traduzione di Licia Mingione, pag. 118]

 

Torniamo nell’Eden. Il malum che pende dal lignum scientiae è allettante, perché sembra promettere una conoscenza bidimensionale, la «bidimensionalità del senso»: la possibilità, cioè, di poter leggere la realtà in un modo diverso da quello solito, in un secondo modo, oltre a quello già sperimentato nel paradiso terrestre. Insomma, l’anelito ad una, sconosciuta, alternativa gnoseologica. E Dante direbbe: state contenti, umane genti, al quia (Purgatorio, III). Il quia è tutto ciò che possiamo conoscere come reale: state contente, umane genti, all’ulla, avrebbe forse scritto il padre Dante, se solo avesse potuto prevedere l’avvento del nichilismo, della fede nel nulla. Il nichilismo è insito nel malum, è il frutto del lignum scientiae. La tentazione fu quella di credere che la realtà non fosse tutta nel reale, che potesse esserci una realtà anche più reale, o almeno altrettanto reale, in quella dimensione, ignota prima del casus, baluginante come un miraggio nel sibilo demoniaco. Spesso cerchiamo nel favoloso, nel sorprendente, nello straordinario, uno scenario alternativo.

Quando Bergson, riferendosi alla conoscenza immediata dell’ulla, dice che essa «vivrebbe nell’attuale, e se fosse in grado di giudicare affermerebbe sempre e soltanto l’esistenza del presente», mi sembra di sentirlo descrivere la conoscenza dell’homo in primo statu. Si tratta di una conoscenza “smemorata”, immemore, cioè di una conoscenza che non astrae dal ricordo dell’ulla la sua esistenza; una conoscenza attuale, nel senso che pone semplicemente nel presente il momento della sua attuabilità. Ecco, se noi non potessimo avere l’idea di passato (e di futuro) non potremmo nemmeno avere l’idea del nulla. A questo punto, c’è un aggettivo che ben spiega questa modalità di conoscenza: estemporaneo, da intendersi come ex(tra) tempore, fuori dal tempo. Il nulla può essere immaginato come realtà solo da chi può ex sistere, stare fuori, e in questo stare fuori da sé c’è anche lo stare fuori dal tempo; forse è la stessa cosa. L’ex-sistenza è ex-temporanea. Ma essere è tempo, dice Heidegger.

Forse il tempo non è una realtà sostanziale; probabilmente esso è solo coscienza della durata: coscienza di un essere che vive come se fosse nel tempo: lignum scientiae e lignum vitae hanno la stessa radice: la durata temporale. Se, come credo, coscienza e conoscenza sono due facce della stessa cosa, allora non si può dire che il tempo «non esisteva» in primo statu, né che «esiste» adesso, in secundo statu: è che, forse, i nostri progenitori non avevano coscienza del tempo e guardavano la realtà come si guarda un film al cinema: guardavano secondo quel meccanismo cinematografico che Bergson ha così ben descritto nell’ultima parte di Evoluzione creatrice. La realtà, se vivisezionata, perde la sua organicità e assume le fattezze della meccanicità; solo che la meccanicità non rende ragione della vita reale: la pellicola fotografica è composta di tanti fotogrammi, ma vedere il film è vedere questa pellicola nel suo scorrere, cioè in un movimento (= cinema) in cui non si distinguono le singole foto-grafie: cinema-to-grafo è, letteralmente, “scrittura di movimento”, sì, ma, appunto, in movimento.

Il nulla è concepibile solo se si dimentica che esso deriva dal presente dell’ulla al quale si è chiesto il sacrificio di farsi da parte: il nulla può essere tale solo a condizione di rinnegare l’ulla; infatti è la negazione di un ulla. Il nulla è il sacrificio di un presente che si immola sull’altare del passato. Peccato originale fu voler vedere il film della pellicola edenica fotogramma per fotogramma: cercare di conoscere sinteticamente quella realtà che filava liscia analiticamente. La conoscenza sintetica della pellicola edenica annidò in ogni fotogramma già proiettato il rischio del nulla; solo i fotogrammi non ancora visti potevano andare immuni da questo rischio. Noi, oggi, possiamo vedere la pellicola terrestre e farla a brani, sbranarla, spacciando per nulla ogni brandello già proiettato. Già, la proiezione…

In fondo, il nulla è una proiezione: diciamo che la vita scorre come una pellicola nella quale ogni fotogramma è un ulla, per cui lo scorrere della vita si prospetta come

 

ulla + ulla + ulla + ulla + ulla + ulla + ulla + ulla + ulla

 

diciamo che l’Essere è il proiettore che proietta la sua luce su questi ulla, i quali, scorrendo davanti all’Essere, proiettano i vari ulla (= vite) su quello schermo che è la rappresentazione dell’Essere: la Vita. Questa metafora potrebbe sembrare simile al mito della caverna di Platone, ed in effetti, noi esseri umani siamo esseri che si vedono nella luce che l’Essere proietta su di noi: così come San Tommaso d’Aquino diceva che Adamo ed Eva vedevano in ogni essere (= ulla) l’Essere (= Dio) e quindi la ragion d’essere di ogni essere appariva chiara e distinta come conoscenza analitica. Erano tempi, quelli, nei quali fra soggetto ed attributo non v’era differenza, perché ogni qualità attribuita al soggetto reale era intesa come identica al soggetto stesso. Non c’era la possibilità di vedere un soggetto ulla e attribuirgli l’esistenza come un attributo: se si vedeva un ulla voleva dire che ulla esisteva, per il fatto stesso di vederlo. Una cosa del tipo: cogito, ergo sum.

Cogito, ergo est: lo penso dunque esiste, doveva essere ciò che passava per la mente dei nostri progenitori quando vedevano una cosa qualsiasi, loro stessi inclusi. Erano, quelli, tempi beati, in cui fra pensare e vedere non c’era differenza: si vedeva ciò che si pensava e si pensava ciò che si vedeva. Mai una volta che si pensasse di vedere! La proiezione della pellicola ontologica era fatta in tempo reale, senza vuoti di memoria. E se il nulla fosse solo un vuoto di memoria? Un vuoto creato dalla memoria? Se sulla pellicola ontologica vi fossero dei vuoti, essa non potrebbe far vedere il film della vita senza soluzione di continuità (= morte?): ci sarebbero dei salti, ma natura non facit saltus. Mi verrebbe da pensare a quei vecchi grammofoni, la cui puntina saltava spesso e volentieri: il sound della vita in hoquetus… Se la vita fosse un suono perpetuum, e se i vuoti innaturali del suo sound fossero silenzi, ognuno di questi silenzi sarebbe paragonabile al vuoto di memoria della pellicola ontologica: il nulla. Il nulla è il silenzio dell’Essere. Infatti la nostra pellicola ontica (non ontologica) è piena di silenzi dell’Essere: fra ente ed ente, fra ulla e ulla, s’annida la minaccia del nulla, del non-essere. Forse perché la proiettiamo noi, e non più l’Essere… Noi proiettiamo la pellicola ontologica fotogramma per fotogramma, e la vediamo come pellicola ontica perché non vediamo il film ontologico ma delle immagini sparse e senza senso: dia-positive. Il senso delle immagini si ha nella veduta totale del film, senza interruzioni, e invece noi dobbiamo continuamente applicare il fermo immagine per poter vedere i fotogrammi uno per uno, ma così non li vediamo tutti insieme. Chissà quante persone entrerebbero in una sala cinematografica nella quale si proiettasse il film della vita? Già, ma di quale vita? Della Vita? O delle varie vite umane? Siamo portati a voler vedere sempre e solo la nostra vita, senza riuscire a considerarla come uno dei tanti fotogrammi della pellicola ontologica, della pellicola della Vita. E così non capiamo più il senso della nostra vita. Probabilmente fu questo il casus originalis: voler conoscere ogni ulla a prescindere dalla sua posizione nella pellicola ontologica. Pensate cosa succederebbe se, un bel momento, i fotogrammi di una pellicola, nel bel mezzo della sua proiezione, decidessero di cambiare la loro posizione sulla pellicola stessa: il primo fotogramma, putacaso, decide di prendere il posto dell’ultimo, l’ultimo se ne va a prendere il posto del primo e così via… la conseguenza, in sala, sarebbe che gli spettatori non capirebbero più niente di quel film perché esso non avrebbe più né capo né coda. La trama, il senso dipende dalla posizione dei fotogrammi: è dia-cronico perché ogni fotogramma è una dia-positiva.

A questo punto il lettore potrebbe dire: sì, la posizione, va bene, ma se lo spettatore non avesse anche la memoria dei fotogrammi, le loro posizioni non potrebbero costituirsi come trama, perché è evidente che una storia della quale non ci si ricorda nulla non è più una storia. Nulla… La pellicola ontologica scorre fuori del tempo; la pellicola ontica scorre nel tempo. È evidente che, nel paragone poc’anzi fatto si faceva riferimento ad una pellicola come le nostre, di quelle che scorrono nel tempo: ci vuole tempo, per capire un film, ci vuole il tempo necessario alla pellicola per il suo scorrere. Nel tempo è essenziale ricordare, avere la memoria dei fotogrammi, sennò non si capisce più niente. Non si capisce più nulla. Nulla… Ma la pellicola ontologica, nell’Eden, scorreva fuori del tempo: questo può significare che ogni fotogramma conteneva in sé anche tutti gli altri fotogrammi, e Adamo ed Eva, quando andavano al “cinema”, non avevano bisogno di vedere tutti o qualcuno dei fotogrammi, perché in ogni fotogramma, anche in uno solo, si vedevano anche tutti gli altri fotogrammi della pellicola. Sono i vantaggi del cinema edenico! E probabilmente succedeva proprio così: la visione analitica dei fotogrammi consisteva nel poter cogliere il tutto nella parte: questa è una pellicola che scorre fuori del tempo, scorre ma non passa.

Noi, invece, guardando il nostro film ontico, se non facciamo bene attenzione a non dimenticare i fotogrammi già visti, rischiamo di credere che essi non sono mai esistiti… è così che si affaccia l’idea del nulla. O perché ci si dimentica del presente passato, o perché si vuole considerare passato un tale presente; nel primo caso si ha il vuoto di memoria, nel secondo caso si ha la memoria del vuoto. In realtà, dice Bergson, non si può, onestamente, avere memoria del vuoto, perché se il vuoto non esiste, esso non si può nemmeno ricordare. Il vuoto è un ricordo in mala fede, il vuoto è il silenzio immemore del nulla.

Una mia allieva, mi ha dato da vedere un film, molto bello, del 2011: Midnight in Paris, regia di Woody Allen, che a ben vedere non fa che “proiettare” quanto ho appena detto: il passato è sempre presente, perché solo chi lo considera passato può avere la tentazione di rifugiarvisi, nostalgicamente, come se esso fosse un tiepido ed accogliente nulla in cui non succede mai niente di spiacevole, mai… (e già: non succede niente perché succede nulla). In realtà il presente non è più accogliente né confortevole del passato, se solo lo si considera come un passato del suo stesso futuro prossimo. Il passato è il futuro anteriore del presente e il presente è il passato prossimo del futuro. Questa dovrebbe essere la visione della pellicola ontologica se solo la si immagina così come scorre: fuori del tempo. Ma come si fa ad augurare una buona visione a coloro che guardano una pellicola ontica? Una visione è certamente sempre buona solo a patto di vederla come ho detto nel grassetto fantasioso sopra esposto: vederla come contemporaneità estemporanea. Ogni fotogramma è contemporaneo a quelli che lo precedono così come a quelli che lo seguono; ma, si faccia attenzione, un conto è dire «contemporaneo a» ed un altro è dire «contemporaneo di»:

 

  • Contemporaneo a?
  • Contemporaneo di?

 

Propongo di intendere «contemporaneo a» come simultaneo, sincronico, cioè come qualcosa che succede contemporaneamente, nello stesso tempo; in realtà, lo sappiamo bene, ogni evento ontico “succede” (1° significato) perché “succede” (2° significato) ad un altro, per cui questo “succedere” è sempre, nella nostra pellicola ontica, un succedere dopo, un succedere a; allora propongo di intendere «contemporaneo di» come succedente, succedaneo, diacronico, che succede nel tempo della pellicola, anche se non nello stesso tempo. Noi possiamo restaurare la pellicola ontica cercando di riportarla al suo primigenio splendore di pellicola ontologica solamente se sappiamo vedere ogni fotogramma come contemporaneo di tutti gli altri fotogrammi della pellicola: la contemporaneità sincronica della pellicola ontologica ci è preclusa, ma la contemporaneità diacronica dipende dal nostro punto di vista.

Credo che il nulla prenda corpo nella misura in cui ci ostiniamo a vedere un ulla passato come un non più, non più nostro contemporaneo: un nulla, appunto. La diacronicità, se non si nutre costantemente alla fonte della sincronicità, dilania la nostra vita ontica in lacerti senza vita. Nell’ottica diacronica il passato è morto perché è stato staccato da quella specie di cordone ombelicale che è il ricordo: la visione sincronica non ha bisogno del ricordo, quella diacronica sì. Se si dimentica l’essere (stato) presente dell’ulla passato lo si vede come nulla e non si capisce più niente dell’ulla presente (e futuro): l’essere stato è uno stato, uno stato dell’Essere. Mi sembra interessante una riflessione sulla parola «stato». Lo stato sincronico è sempre tutto contemporaneo a se stesso, lo stato diacronico deve essere sempre contemporaneo di se stesso; essere e dover essere. La parabola della vite e dei tralci, con il suo invito a rimanere nell’Essere, probabilmente è un invito a non perdere di vista il Tutto quando si guarda una parte di esso. Perdere di vista è non vedere, e sulla pellicola ontica ciò che non si vede rischia di sembrare inesistente. La perdita di senso succede al perdere di vista. Lo scenario della parte non è il pan-orama del tutto, è solo un punto di vista, un punto di una retta (osservazione). La pellicola ontologica vista in modo sincronico dai nostri progenitori era di tal fatta: che ogni suo fotogramma era come un capitolo di un libro che aveva, in apertura tutto il riassunto dei capitoli precedenti e, in chiusura, tutta la predizione dei capitoli seguenti, in modo tale che ogni frammento di ulla non rischiava mai di finire nel nulla.

Il nulla è deprimente perché è il silenzio dell’Essere: il silenzio dell’Ulla. Ma, ci rassicura Bergson, l’essere parla sempre, siamo noi che talvolta ci turiamo le orecchie. Il vuoto di memoria è in realtà spesso una specie di tappo nelle orecchie che deriva dal considerare accidentale ciò che è sostanziale. Consideriamo l’Essere, diacronicamente “fatto” di stati ontici: si danno due punti di vista

 

  • essere stato
  • essere stato

 

Il lettore trasecolerà, e penserà ad un errore, ché i due casi sembrano identici; invece… pensi, il lettore, ai due significati che può assumere la locuzione «essere stato»:

 

  1. Uno stato che fu, nel passato, fu un essere stato
  2. Uno stato che è, nel presente, è un essere-stato

 

Il secondo è, tutt’ora, al presente, «stato», anche se passato, anche se futuro, perché la sua sostanza è quella di essere uno stato, di essere stato. Lo stato che è, sincronicamente, presente passato e presente futuro, è certamente qualcosa di molto simile alla sostanza, o al sostrato, che gli antichi Greci teorizzarono; e io mi sono sempre chiesto se fra questa sostanza ontologica e la sua proiezione logica, il sostantivo, vi sia qualche affinità. In altre parole, mi chiedo: si può dire che un sostantivo è la proiezione logica della sostanza? Proiezione logica di una realtà ontologica? Parlare di questo è parlare della possibilità o meno di una relazione, di un rapporto fra l’analisi logica e l’analisi ontologica. Ho appena ipotizzato che la sostanza possa avere un suo correlato logico nel sostantivo, che sarebbe allora la sostantivazione della sostanza in ambito logico; il che potrebbe sembrare ragionevole, se si pensa che sia la sostanza sia il sostantivo fanno riferimento al prefisso sub, che in latino vuol dire sotto: si sa che questa sotterraneità parla di una immutabilità (= immobilità?) paragonabile all’assenza di turbolenza esistente nel fondo del mare quando sopra, magari, c’è tempesta o alla turbolenza esistente nell’atmosfera quando sopra, nello spazio, c’è bonaccia; è il vecchio luogo comune espresso nel paragone della ruota, la quale, pur girando ad alta velocità in superficie, cioè ai margini della sua forma, che è il cerchio, presenta tuttavia una parvenza di immobilità al centro: man mano che si scende attraverso i “raggi” al cuore delle cose si intravede la permanenza ontologica dell’essere che origina il loro divenire.

Diciamo che, con l’entrare del Tutto nella dimensione della diacronicità, la sostanza ontologica continua dell’Essere si è “incarnata” in una sostantivazione ontica discreta la cui visibilità ha preso l’aspetto di un sostantivo: ogni stato dell’Essere, se considerato a sé, è un sostantivo che sostantiva la sostanza dell’Essere stesso. Ogni stato, se considerato presente, non è difficile analizzarlo come un sostantivo, ed infatti l’analisi logica definisce sostantivo tutto ciò che si propone come sostantivazione propositiva: ogni ulla, ogni nonnulla, può essere considerato sostantivo, se è il centro della nostra prospettiva. In fondo, è la prospettiva che definisce l’analisi logica di un ulla che si propone come proposizione. Si prenda in considerazione il seguente binomio:

 

  • l’essere è stato
  • lo stato è essere

 

Nel primo caso si attribuisce all’essere lo stato, nel secondo caso si attribuisce allo stato l’essere: logicamente considerate, le due proposizioni sono contraddittorie, perché in esse lo stato risulta essere prima attributo poi sostantivo, così come l’essere, che nel primo caso è sostantivo e nel secondo attributo. Ma chi è sostantivo? L’essere o lo stato?

La proposizione «lo stato è essere» mi sembra più probabile sentirla in bocca all’uomo in primo statu, perché, se è vero che egli vedeva in ogni stato dell’essere l’Essere stesso, per lui l’Essere non poteva mai apparire attributo accidentale dello stato. Il sostantivo sta alla sostanza come l’attributo sta all’accidente:

 

SOSTANTIVO : SOSTANZA = ATTRIBUTO : ACCIDENTE

 

Se questa proporzione è vera significa che c’è una proiezione possibile del mondo ontologico “sul” mondo ontico, e allora l’analisi logica può diventare analisi ontologica. Il sostantivo, in quest’ottica, sarebbe veramente la proiezione ontica della sostanza ed allora per proiezione ontica potremmo intendere proiezione logica: una sorta di traslato diacronico della sincronicità ontologica.

Ma torniamo alla coppia di proposizioni poc’anzi esposte. Dire che «l’essere è stato» è un dire che può pronunciare solo chi, come noi, in secundo statu, può vedere una differenza realmente esistente tra essere e stato: una differenza esistente – si noti, e-sistente – tra i due, come se l’uno potesse sistere fuori dall’altro – sì, proprio così, sistere –: se v’è un e-sistere è perché vi fu un sistere. Così come se c’è un n-ulla è perché vi fu un ulla. Sistere, come ulla, sono due termini che l’italiano dovrebbe reintegrare da quel latino che fu, e che talvolta dovrebbe tornare ad essere.

Fra essere e stato non v’era differenza, in origine. Oggi, purtroppo, talvolta, ciò che è stato non è, o non sembra essere. Se l’essere è analizzato, logicamente, come un attributo del suo stato, questo stato non si capisce bene come possa essere. Eppure, l’essere che esiste, cioè lo stato, lascia sempre, tra se stesso e il suo essere, un tempo di reazione sufficiente a perdere di vista la loro causalità, cioè il vincolo di antecedenza e conseguenza che li serra a doppia mandata. Se lo stato è il sostantivo di cui l’essere è l’attributo, cadendo lo stato cade anche l’essere. Se un aggettivo si può solo attribuire ad un sostantivo, di cosa sarà attributo, un aggettivo senza sostantivo? Bergson cerca di confutare la realtà del nulla proprio tentando di mostrare che un accidente senza sostanza è come un attaccapanni senza panni, un aggettivo senza sostantivo: un attributo vuoto, nullo.

Non avere sostanza. La sostanza dell’Essere è l’Essere stesso: è una identità. La sostanza dello stato esistente è anch’essa l’Essere, ma

 

Essere (Creatore) = essere (creato)

 

è una uguaglianza, non un’identità. L’essere sistente è a immagine dell’Essere e l’essere esistente è a somiglianza dell’Essere. Adesso, al di là delle variazioni linguistiche, più o meno suggestive, che possono essere evocate dai passi biblici di Genesi, in cui l’uomo si dice essere stato fatto appunto ad immagine e somiglianza di Dio, s’impone l’asserzione che il nulla, come negazione dell’ulla, non ha sostanza: né è né esiste. Il punto cruciale, sul quale Bergson fa leva per alzare la sua tesi contro il nulla, è che la negazione non può darsi che come negazione di una affermazione; l’affermazione è l’ulla negando la quale la negazione si erge come nulla. Ma può, da sé, una affermazione, proporsi come negazione? Per Bergson no, non può: se una proposizione afferma non può negare, e tantomeno se stessa.

L’affermazione non è una funzione logica, come potrebbe esserlo un segno matematico: il meno (–) sottrae, il più (+) aggiunge, eccetera; l’affermazione non è una funzione, è una sostanza: è l’Essere che si afferma come stato, come ente; l’affermazione dell’Essere è la manifestazione, il fenomenizzarsi della sostanza. Credere che la negazione non può darsi realmente come affermazione significa credere che essa non è autonoma, che ha bisogno di un’affermazione preesistente per potersi dare. Questo è ciò che Bergson ci vuol far credere. Io invito il lettore a riflettere sull’affermazione che ho appena fatto: «la negazione non è autonoma». È come dire: in principio vi fu l’affermazione, non la negazione. È come identificare l’affermazione nel logos giovanneo del protovangelo. Ma allora va da sé che la negazione è la cattiva coscienza dell’affermazione, il suo diavolo, il suo male… il malum, il malum del lignum scientiae e del lignum vitae. Non sarà che “mangiare” il malum è introdurre la negazione nel mondo dell’affermazione? Non sarà che il pericolo di quel malum consisteva nel dare la possiblità di vedere il nulla in modo reale?

«La forma negativa della negazione – scrive Bergson – beneficia dell’affermazione che la fonda: cavalcando il nucleo di realtà positiva cui è connesso, questo fantasma si oggettiva»: è “cavalcare” un serpente, più che un cavallo. La negazione sarebbe, in tal senso, solamente l’oggettivazione indebitamente presentata come postuma, di una affermazione, in realtà, mai defunta: le affermazioni, nella realtà, non si negano mai, almeno da se stesse. La negazione non viene dall’affermazione, viene da fuori; è estranea all’affermazione, viene da qualcosa di estraneo («un nemico ha fatto questo», Matteo 13, 24-30). E allora, chi è che nega l’affermazione? Sicuramente una facoltà che può considerare l’affermazione da fuori: la Ragione. Il “tempo delle mele” finisce col casus e “trapassa” nell’età della ragione. Il nulla è la proiezione che la ragione fa dell’ulla: una proiezione intellettuale, la quale divide (dia-bolus?) lo stato dall’essere; ho già detto più volte che dividere è giudicare: il giudizio originale (= Urteil) è a mio parere quello che impropriamente viene chiamato peccato originale. Solo chi è in grado di giudicare può considerare separatamente essere e stato, essere ed ente, a rischio di fare del niente un reale essere ni-ente.

L’età della ragione è l’età del giudizio, è cioè l’età nella quale una Stellung, una posizione, si mette vor, davanti, a dire che la rappresentazione, Vorstellung, è il frutto (mela?) di un distacco, quasi placentare, fra un modo di vedere ed un altro, di cui il primo è, potremmo dire, una noscenza e l’altro una conoscenza; noscenza è un altro termine che l’italiano dovrebbe riabilitare, dal latino, noscentia, visto che in latino esiste anche il verbo (g)nosco, oltre al verbo cognosco. La conoscenza è una coscienza diversa della noscenza primitiva ed originale; diversa nel senso che vede l’essere e l’ente in modo bidimensionale: non sincronico ma diacronico. La beata incoscienza della felicità edenica era forse beata noscenza: una scienza che non era ancora co-scienza. Che rapporto c’è tra scienza e co-scienza?

Per rispondere a questa domanda la lingua italiana non ci soccorre un granché; io non conosco molte lingue, ma col tedesco ci bazzico da un po’, e quindi propongo una risposta analizzando i termini della questione in tedesco: das Bewußtsein è la coscienza. Questa parola è scomponibile, al fine dell’analisi, in Bewußt + sein. Bewußt vuol dire sciente, conscio, noto e sein è l’infinito del verbo essere; quindi: essere sciente. Volendo approfondire ulteriormente l’analisi linguistica della “coscienza tedesca”, ci sarebbe ancora da dire che Be-wußt è voce del verbo wissen, sapere, che si sostantiva allo stesso modo: das Wissen è il sapere. Bewußt è il… risaputo. Detto ciò, la conoscenza è quindi la «coscienza del sapere»: quella che pendeva dal lignum scientiae, a portata di mano. Ma allora la conoscenza che precedeva la conoscenza afferrabile col malum era noscenza, scienza incosciente. Il che non va contro quanto scrisse San Tommaso d’Aquino: i nostri progenitori erano tutt’altro che ignoranti, ma non erano coscienti del loro sapere, perché non dovevano mai verificarlo alla prova della verità.

 

Il bambino nasce senza illusioni e senza conoscenza del bene e del male. Alla nascita è un organismo animale che ha per fine la soddisfazione dei bisogni fisici e del desiderio del piacere. Bene e male acquistano significato quando gli si insegna a resistere alla tentazione del piacere fisico e a tenere a freno l’aggressività. Il bravo bambino obbedisce e si sottomette, il bambino cattivo si ribella e si afferma. Se l’autorità parentale è preponderante, ripudierà i suoi istinti animali nell’interesse della sopravvivenza. Li seppellirà nella cavità del suo ventre, imprigionandoli con la contrazione muscolare. [Alexander Lowen: Il tradimento del corpo – Edizioni Mediterranee, Roma 1967 – traduzione di Licia Mingione, pag. 138]

 

Poche righe dopo, Lowen scrive:

 

I demoni umani sorgono dallo stesso meccanismo psicologico che ha creato il diavolo originale, Lucifero. Lucifero era in origine uno degli angeli di Dio, cacciato dal Cielo nell’Inferno perché si era ribellato contro l’autorità di Dio. Prima della sua ribellione tutto era pace in Cielo, cioè nel Paradiso. L’espulsione di Lucifero corrisponde alla perdita della grazia da parte dell’uomo che cedette alla tentazione del serpente e mangiò il frutto dell’albero della conoscenza. Sia Lucifero che l’uomo trasgredirono al volere di Dio, ma Lucifero fu gettato nell’abisso, mentre l’uomo, espulso dal Giardino dell’Eden, rimase sospeso tra il Cielo e l’Inferno.

C’è un interessante parallelo tra le idee che assegnano il diavolo alle viscere della terra e la mia ipotesi che il diavolo umano abbia sede nella cavità del ventre. [Alexander Lowen: Il tradimento del corpo – Edizioni Mediterranee, Roma 1967 – traduzione di Licia Mingione, pag. 139]

 

Poco oltre, Lowen scrive che «l’azione demoniaca, a differenza di quella normale, non è ego-sintonica; è fatta contro il volere dell’io, in opposizione al desiderio dell’io, e non è, perciò, la libera espressione di un sentimento. […] Il termine diabolico denota un comportamento che nega l’intenzione di agire nel medesimo tempo che lo fa». Il tradimento del corpo è la negazione intellettualoide della sua percezione: «il demoniaco è disgraziatamente la voce dell’esperienza del corpo», conclude laconicamente Alexander Lowen.

Henri Bergson, a un certo punto della sua Evoluzione creatrice, apre uno squarcio interessante che io sintetizzerei nella seguente proporzione:

 

ULLA : NULLA = AZIONE : RAPPRESENTAZIONE

 

Nelle prossime righe cercherò di spiegare il contenuto di questa proporzione; dalla quale derivano i due accoppiamenti

 

  • ulla – azione → noscenza
  • nulla – rappresent-azione → conoscenza

 

Per Bergson l’azione viene prima della rappresentazione. Cioè, nel cammino evolutivo dell’umanità, prima vi fu l’azione e poi la rappresentazione. L’azione è il movimento della noscenza primigenia, quella che non aveva tempi di reazione, non essendoci nulla tra azione e reazione. Avete letto bene? Non essendoci NULLA…

 

Noi siamo fatti per agire, tanto quanto, e più, che per pensare; o meglio: quando seguiamo il movimento della nostra natura, è per agire che pensiamo. Non ci si deve dunque stupire del fatto che le abitudini dell’azione prevalgano su quelle della rappresentazione, e che la nostra mente colga sempre le cose nello stesso ordine in cui siamo soliti figurarcele quando ci proponiamo di agire su di esse. [Henri Bergson: L’evoluzione creatrice – Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 – Saggi – Traduzione di Fabio Polidori, pag. 243]

 

Prima dell’uomo-che-pensa vi fu dunque l’uomo-che-agisce: l’homo faber prima dell’homo sapiens. Solo che un’azione, compiuta senza cognizione di causa, è un’azione non cosciente, e se si ipotizza un essere umano ante litteram che agiva senza pensare, incoscientemente, si fa il quadro di un uomo molto simile all’animale. La volontà dell’animale non è infatti libera proprio perché l’animale non si pone altri scopi che quelli dettati dal bisogno, il quale è perseguito dall’istinto senza alcun pensiero: dal bisogno alla soddisfazione del bisogno.

Lo scenario che si apre dall’analisi di Bergson è quello che vede la storia dell’umanità divisa sostanzialmente in due fasi: una prima fase nella quale l’intelletto aveva una immediata intellezione dell’azione più utile per il soddisfacimento istintuale del bisogno, e una seconda fase nella quale a questo intelletto si associa una ragione che considera questa intellezione in modo metacognitivo; chiamo metacognizione il ragionamento che la ragione fa sull’intellezione intellettuale perché, veramente, la ragione si pone sopra l’intelletto, quando ragiona su un atto voluto dall’intelletto. Forse non a caso si dice «ragionare su qualcosa» come si dice «pensarci su». L’intellezione non ci pensa su: individua lo scopo e comanda al corpo di agire in vista di quello scopo; e il suo scopo è sempre il soddisfacimento di un bisogno. Nella dimensione cognitiva della intellezione non c’è spazio per la libertà.

Ma nella dimensione metacognitiva del ragionamento c’è la possibilità di vedere l’azione e rappresentarsela come se fosse stata agita da un altro; ecco che allora l’azione sale al rango della rappresentazione, la quale ultima altro non è che la riflessione sull’azione. La noscenza intellettiva porta all’azione e la conoscenza razionale conduce alla riflessione, alla speculazione, al pensiero. Delineandosi in questo modo due “piani”, per così dire, dell’essere umano, ne deriva che ogni noscenza dell’Intelletto può essere rielaborata come conoscenza della Ragione. Vediamo come. È lo stesso Bergson a suggerircelo, e lo fa proponendo il percorso dall’assenza della soddisfazione del bisogno (= tensione) alla presenza di tal soddisfazione (= distensione); il percorso potrebbe essere, per esempio:

 

FAME → CIBO → MANGIARE → SAZIETÀ

 

La fame è il movente istintituale che fa individuare all’intelletto il cibo più conveniente e poi lo fa raggiungere dall’azione che nel mangiare raggiunge lo scopo insito nella fame: la sazietà. Tra la fame e la sazietà v’è l’oggetto (= cibo) cui il soggetto (= animale) tende nella sua azione di cacciare per mangiare al fine di raggiungere la cessazione dello stimolo (= fame).

E allora poniamo il caso che questo animale abbia mangiato e adesso se ne stia lì, in panciolle, a godersi la pancia piena; se questo animale non ha ancora raggiunto l’età della ragione, nessuna noia, nessun tedium vitae verrà mai a turbargli la digestione, ma, diversamente, la digestione non avverrà senza qualche acidità di stomaco. È proprio a stomaco pieno che la ragione “sente” il vuoto della vita. Non a caso gli umani fanno di tutto per riempirsi la vita, come fosse uno stomaco; ma gli esseri umani che credono di poter colmare il vuoto esistenziale come si riempie uno stomaco vuoto sono proprio quelli che più di tutti sentono il vuoto della vita. Il vuoto è la momentanea assenza del bisogno, della necessità di agire. Personalmente, mi hanno sempre dato molto fastidio quelle persone che, di fronte al mio male di vivere, mi hanno suggerito, anche ironicamente, di riempire il vuoto esistenziale dandomi un po’ più da… fare! Queste persone non hanno ancora capito che solo gli animali potrebbero pensare di riempirsi la vita dandosi da fare: ma, intanto, non possono pensare, e poi, proprio perché non possono pensare, non hanno alcun bisogno di riempirsi la vita. Direi che le persone che mi hanno dato questo consiglio pensano peggio di quanto non possano pensare gli animali stessi. Invece, no: prendi un uomo, togligli tutti i bisogni, tutti i fastidi pratici, e poi mettilo lì, fermo, da solo, a pensare con la sua pancia piena, poi vedrai cosa succede. Succede che, se questo uomo è poco poco più ragionevole degli animali, subito comincia a provare un fastidio insopportabile, che Heidegger ha definito die Angst, l’angoscia.

Leopardi lo chiamava tedio, perché lui sapeva così bene il latino da non voler tradire l’originale tedium. Sono tutti “tediati”, gli esseri umani che hanno e sanno usare la ragione, perché razionalizzano l’assenza del bisogno come conoscenza razionale, e non solo come noscenza animale: se per l’animale la soddisfazione dell’assenza del bisogno è nosciuta come quiete, per l’uomo essa è co-nosciuta come inquietudine, in quanto solo la noscenza del pieno (stomaco) è sensazione dell’assenza come piacere; al contrario, la conoscenza del pieno (stomaco) è sentimento dell’assenza come dispiacere; quest’ultima è stomachevole. L’assenza del bisogno implica l’assenza del bisogno di agire, cioè l’assenza dell’azione: l’inattività è la condizione nella quale solo chi non è in grado di pensare può provar piacere; e per convincersene basta osservare cosa succede alla maggior parte dei lavoratori quando vanno in pensione.

L’elogio del lavoro è la grande bufala, borghese ed ipocrita, del perbenismo: non è vero che il lavoratore lavora sempre e solo per adempiere un dovere di chissà quale valore etico (o per non deludere la maledizione edenica), la verità è che spesso e volentieri chi lavora lo fa, oltre che per guadagnarsi il pane, soprattutto per impedirsi di pensare; di questi tempi, con la crisi economica, molti si suicidano per la perdita del lavoro: con tutto il rispetto, non so se questi suicidi siano tutti causati dalla paura di perdere i soldi e dallo spettro di dover vivere in povertà… non lo so; a me pare che la povertà di questi suicidi risieda più nella loro mente che non nel loro portafogli.

 

La nostra vita trascorre così nel colmare dei vuoti, che la nostra intelligenza concepisce sotto l’influsso extraintellettuale del desiderio e del rimpianto, sotto la pressione delle necessità vitali; e, se per vuoto si intende un’assenza di utilità e non di cose, è possibile dire che – in senso assolutamente relativo – che procediamo costantemente dal vuoto al pieno. Questa è la direzione in cui procede la nostra azione. La nostra speculazione non può impedirsi di fare altrettanto e, naturalmente, passa dal senso relativo al senso assoluto, in quanto si esercita sulle cose stesse e non sull’utilità che possono avere per noi. Si corrobora così in noi l’idea che la realtà colmi un vuoto, e che il nulla, concepito come un’assenza di tutto, preesista – di diritto, se non di fatto – a tutte le cose. [Henri Bergson: L’evoluzione creatrice – Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 – Saggi – Traduzione di Fabio Polidori, pag. 243]

 

Sentirsi inutili. Quante volte questa sensazione è sopportata dagli esseri umani, specie se anziani, come una tortura straziante, come il peggiore dei mali. Perché? Perché lo stato dell’inutilità, metti di un pensionato abbandonato in un ospizio, è pensata come vuoto esistenziale; ed è pensata come tale perché la ragione non sa colmare questo vuoto che l’intelletto amplia continuamente, come una metastasi, quando nessuna azione si presenta all’orizzonte istintuale per suggerire e prefiggersi uno scopo di qualche utilità. Il tedium nasce in fatti proprio dalla meta-stasi: da una stasi che non è più nel circuito chiuso della instintualità animale per il fatto di esser(si) posta oltre, fuori, di esso: metà-.

Se la ragione è debole, mal preparata e non allenata a considerare metafisicamente e metacognitivamente il vuoto intellettuale causato dall’assenza di bisogni, ecco l’animal triste di cui la letteratura latina è piena; e, affinché nessun anziano o nessun pensionato si senta offeso, ricordo che in latino animal vuol dire essere vivente prima ancora che animale. È molto più eroico e meritevole dover stare a casa senza poter far niente che sbattersi tutto il giorno al lavoro ostentando una antipaticissima e bulimica mancanza di tempo. L’Essere, ce lo ha spiegato esaurientemente Heidegger, è angosciante perché è sconcertante, e lo sconcerto nasce dal fatto di essere completamente spiazzati, di fronte a Lui: quando attorno a noi non c’è più nessun ente a “segnare” nel nostro ambiente i confini rassicuranti della sua abitabilità, ecco che l’ambiente diventa subito poco abitabile, e a noi sembra di non esserci mai ambientati ad esso, e ci sentiamo spaesati, come degli Adamo ed Eva sulla terra. Ambientarsi è piegare l’essere alla nostra esigenza di abitabilità.

La realtà dell’ente è spesso fittizia, perché è una nostra costruzione artificiale del suo essere, una proiezione su di esso del nostro bisogno di quantificare concretamente la sua astrazione. Quella di poter trovare negli enti addomesticati dalla nostra attività domestica, piegati al nostro uso e consumo, la realtà del vero ulla, è tanto falsa quanto è vera la percezione del nulla che da questo addomesticamento deriva. Non per niente, nella sua Introduzione alla metafisica, Heidegger ci ha lasciato quella bella definizione di nichilismo che suona:

 

Nella dimenticanza dell’essere promuovere solo l’ente: questo è nichilismo.

 

Addomesticare equivale a domare nel senso di riportare a casa, alla domus, cioè accasare. Ma l’uso domestico degli enti non li lascia essere quel che “sono”, quel che sarebbero veramente, al di fuori della mansioni cui sono aggiogati. Questa è la lezione di Heidegger. La casa dell’Essere non è la domus entis. L’intellettualizzazione degli enti, degli ulla, è un modo di addomesticare l’Essere, un modo di riportarlo ai più miti consigli della sua pesudoonticità. Chi lascia essere l’ente non vede mai il nulla, perché ogni ente è un ulla, cioè un non-nulla; il che non è poco, dacché in latino nonnullum vuol dire appunto qual-cosa, e non bazzecole. Ma per «lasciar essere gli enti», cioè per essere in grado di ascoltare la voce, sempre affermativa e mai negativa, della loro presenza, bisogna – e torniamo ad Alexander Lowen – evitare la scissione tra livello del corpo e livello dell’io. «Un diavolo è in agguato dietro ogni illusione, ammantato di raziocinio», scrive Lowen, e «il corpo vitale ha vita propria. Ha una motilità indipendente dal controllo dell’io che si manifesta nella spontaneità dei gesti e nella vivacità dell’espressione. Freme, vibra, risplende, è carico di emozioni. La prima difficoltà che si incontra con pazienti in cerca di identità è che non sono consapevoli che il loro corpo manca di vitalità. Sono così abituati a pensare al corpo come a uno strumento o a un arnese della mente che ne accettano la relativa inerzia come uno stato normale. Lo pesano e lo misurano e lo paragonano a forme ideali, ignorando completamente che ciò che è importante è come si sente il corpo»; e: «Il quesito da affrontare per ogni paziente è: può lasciar guidare dai sentimenti il suo comportamento o li deve rimuovere a vantaggio di un approccio razionale? Per loro natura i sentimenti sono irrazionali, che non significa inappropriati. L’irrazionale ha radici più profonde di quelle della ragione. L’irrazionale è sempre in opposizione al ragionevole perché parla per il corpo, mentre il ragionevole parla per la società» Il che, per dirla con Heidegger, suonerebbe:

 

«Perché, in generale, l’essente e non piuttosto niente?». Posto che qui non si pensa più, dentro la Metafisica, all’usanza metafisica abituale, ma si pensa, movendo dall’essenza di essa e dalla sua verità, alla verità dell’essere, quella domanda può valer questa: Come avviene che l’essente abbia la preminenza, tanto che si appropria di ogni «è», mentre ciò che non è un essente, il niente così inteso, cioè l’essere stesso, resta dimenticato? Come avviene che, mentre esso a paragone dell’essere è, propriamente un niente, il niente propriamente non compare? Non vien di qui l’inconcussa apparenza a tutta la Metafisica che l’«essere» sia cosa ovvia, e che per conseguenza anche il niente è cosa più ovvia dell’essente? Così, infatti, è per l’essere e per il niente, e, se la cosa stesse altrimenti, allora Leibniz non potrebbe aggiungere alle parole su citate: «Car le rien est plus simple et plus facile que quelque chose» [Martin Heidegger: Ritorno al fondamento della metafisica in Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pagg. 86-87]

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La supremazia della «Logica» si può mettere in dubbio? Non è l’intelletto realmente l’arbitro supremo in questa questione intorno al niente? È ben col suo aiuto che noi riusciamo a determinare il niente in generale, e a porlo come un problema, sia pure come un problema che annulla se stesso. Poiché il niente è la negazione di tutto l’essente, l’assoluto non-essente, noi portiamo, così, il niente sotto la superiore determinazione di ciò che è affetto di nullità, e però negato. Ma il negare è, secondo la dominante e mai messa in dubbio teoria della «Logica», una speciale operazione dell’intelletto. Come possiamo, dunque, noi volere, nella questione del niente, anzi nella questione della sua questionabilità stessa, mettere da parte l’intelletto? [Martin Heidegger: Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pag. 12]

 

La risposta di Heidegger a questa domanda retorica è, ovviamente, che la supremazia della Logica si può mettere in dubbio e che non è l’Intelletto a poter concepire il niente. Questa è una critica implicita al metodo del Bergson, che poneva la questione in modo intellettuale.

Torniamo ai due verbi leopardiani sui quali ci siamo soffermati qualche pagina fa: conoscere e sentire. Cosa, io conosco e sento? Il nulla (concetto) o il niente (percetto)? Io posso conoscere il n-ulla, certo, ma non lo posso sentire (= noscere), direbbe Bergson; mentre posso sentire il niente, dice Heidegger. Il quale, al riguardo, scrisse una frase lapidaria e laconica che val la pena di memorizzare:

 

L’angoscia rivela il niente.

 

Die Angst, l’angoscia. La gente comune, anche quella che non ha studiato filosofia, conosce e ripete talvolta la locuzione «angoscia esistenziale», o «vuoto esistenziale», ma non sa cosa veramente significhi. Queste formulette sono entrate a far parte del comune sentire per colpa di eccessive sintetizzazioni ad uso didattico presenti sui libri di scuola in quei capitoli che trattano dell’esistenzialismo, che per molti è solo un “credo” del secolo scorso professato da gente depressa e pessimista sempre sull’orlo della disperazione.

Beh, certo, dire che l’angoscia è il sintomo del niente non depone molto a favore del niente: nessuno a questo mondo vuole essere angosciato, se non è masochista; e allora bisogna cercare di capire bene cosa vuol dire, Heidegger, quando individua nell’angoscia il “sentimento” del niente. L’angoscia di cui parliamo non deriva da una conoscenza intelletta, ma da un noscenza intuita. L’Angst è inconcepibile ma è percepibile; però, percepibile non semplicemente in modo psicologico, come qualunque altro sentimento dell’io. L’angoscia esistenziale non è uno psicologismo.

 

Spesso l’angoscia è condizionata «fisiologicamente». Questo fatto costituisce, nella sua effettività, un problema ontologico e non soltanto un problema relativo alla sua causa e alle modalità del suo decorso sul piano ontico. L’insorgenza fisiologica dell’angoscia è possibile solo in quanto l’Esserci si angoscia nel fondo stesso del suo essere. [Martin Heidegger: Essere e tempo – Longanesi, Milano 1976 – Traduzione di Pietro Chiodi, pag. 238]

 

Piuttosto, bisogna saper distinguere tra «pensiero categoriale» e «pensiero esistenziale»: il pensiero categoriale è quello intellettivo, raziocinante, che considera ulla e nulla come contraddizioni irriducibili, mentre il pensiero esistenziale è quello intuitivo, ragionevole, che considera il niente come premessa ontologica di ogni discorso sull’essere.

Si faccia attenzione: pre-messa ontologica. Tutti gli equivoci che nascono quando si parla di questo niente derivano dal fatto che lo si interpreta in modo razionale, come una realtà intellettuale e intelligibile. Non è così. Il niente è semplicemente la condizione che si ottiene quando si arriva a dire: ogni ente «non è che» un essente. Non è che… spesso non riflettiamo abbastanza sui nostri modi di esprimerci: ci si faccia caso, a questo «non è che…»; è ben curioso, che, per affermare qual-cosa, si possa usare la negazione (non è…) di una cosa (…che). «Un ente non è che…»: cosa non è? Non è l’essere, e per questo non è che un ente, non è che ciò che è. Del resto, si sa: omnis determinatio negatio (est), ogni determinazione è una negazione, nel senso che, de-terminando qualcosa si finisce sempre per terminare, per tagliar fuori tutto ciò che quel qualcosa non è. De-finire è in ogni caso un far finire qualcosa fuori della de-finizione. E allora, il niente non è che assenza di entità essenti. E, fin qui, questa definizione potrebbe sembrare uguale a quella bergsoniana di n-ulla, ma non lo è, se si pensa che, appunto, la determinazione del niente è definizione in quanto eliminazione assoluta di ogni concettualizzazione categoriale della totale entità dell’essente: il niente si “vede” quando gli enti non compaiono più nella loro singolarità concettualizzata dal rapporto pregiudiziale di soggetto e oggetto, ma appaiono finalmente liberi da qualsivoglia giudizio che l’osservatore può attribuire loro. Quando gli ulla non si guardano più nell’ottica dell’uso e consumo, quando non servono più, allora non contano più nulla: questo nulla è il niente, che infatti elude la mentalità raziocinante del computo, del calcolo, del contare. La ratio raziona la totalità del Tutto in enti razionali e questa razionalità decide in che misura gli enti “contano”. Il fatto è che, in se stessi, gli enti non sono determinabili in quantificazioni di questo genere: è l’uomo, ente fra enti, che fa contare più o meno gli ulla mondani in una scala di valori che va dal nulla al tutto. Ebbene, se si riesce ad evitare di guardare la realtà come una “banca dati” da valutare razionalmente, i dati si mostrano per quel che sono, senza un valore assegnato sul mercato della mondanità, dati (= sostantivo) in quanto dati (= verbo), e basta; in questro mostrarsi “per quel che sono” non è implicito un valore basso, e nemmeno alto: «per quel che sono» vuol semplicemente dire «per il fatto che sono», «per il fatto di essere». L’essere non è mercificabile, non è mercenario, non si vende all’uomo e l’uomo non può venderlo, perché non lo possiede come una proprietà privata. Il mercimonio dell’essere non è il commercio degli enti, l’essere si nientifica non appena l’ente che lo rappresenta se ne considera il detentore: gli enti sono rappresentazioni dell’essere, ma l’essere si presenta, senza presentazioni, proprio quando le sue rappresentazioni non si presentano più.

Il libro più famoso di Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito (1961), contiene già nel titolo una specie di spiegazione a quanto ho appena scritto: l’infinito (dell’essere) non è dato dalla totalità (degli enti). Tutto qui. La somma delle parti è inferiore al Tutto; la somma è solo una espressione categoriale del tutto, ma non è il Tutto. Il Tutto è superiore alla somma delle parti. Diciamo che l’infinito è una capienza. Non come può averla un recipiente col suo spazio interno, ma capienza come possibilità di “capire” ciò che può essere “capito”. Si legga questa frase nel doppio senso che hanno i due termini:

 

  • capire =       contenere
  • capito =       contenuto

 

V’è una espressione esistenziale del Tutto, e questa è l’Essere. L’espressione categoriale è ontica, l’espressione esistenziale è ontologica. Gli enti sono dei capìti a tutti gli effetti: “capìti” dall’Intelletto; e per ciò sono dei “contenuti” (si noti sempre il doppio senso). L’essere umano può afferrare dei contenuti, cioè degli enti, perché può capirli, ma l’essere, il suo stesso essere, umano, non essendo un contenuto, non può capirlo.

Al che siamo di nuovo nell’Eden prima del Giudizio Originale. Sì, perché afferrare è capire nel senso di carpire, e non è chi non veda come il casus originalis si fondi proprio su un afferrare, sull’afferrare il malum dal lignum scientiae. Io, l’ho già scritto un po’ da tutte le parti, ho coniato un motto che mi piace particolarmente, al riguardo:

 

Afferrarono per conoscere

ed ora conoscono senza afferrare.

 

Il soggetto della frase è duplice: dapprima homo in primo statu (= Adamo ed Eva) e poi homo in secundo statu (= noi tutti). Il verbo latino carpo (= afferro) arriva dal sostantivo maschile greco karpòs (= frutto). La conoscenza dianoetica della Ragione è conoscere, mentre la noscenza noetica dell’Intelletto è noscere. La conoscenza dianoetica può astrarre da tutti i capìti e considerare astrattamente, cioè formalmente, solo la capienza. Il niente è questa capienza degli enti. E tuttavia si sbaglierebbe di grosso chi intendesse tal capienza come uno spazio fisico, esterno ed estraneo al capìto, che contiene il contenuto come un bicchiere può contenere un liquido; essa è piuttosto una condizione per il verificarsi di un ente: propongo di chiamarla condizione di verificabilità.

Il niente è la condizione alla quale un essere può verificarsi come essente. Occhio, ancora, al doppio senso: un conto è verificarsi un altro verificare. L’uso riflessivo del verbo verificare ci parla di un succedere che è un capitare, mentre l’uso transitivo, non riflessivo, ci parla di un «fare vero»: verum facere (veri – ficare). La verifica degli enti si ha alla prova del niente. Il niente diventa così la condizione preliminare della verificabilità dell’entità ontologica degli enti; quanto all’entità ontica, basta, da solo, l’Intelletto a verificarla.

Per quanto un paragone non regga mai fino in fondo, immaginiamo un contenitore: avrà una certa capienza. Immaginiamo che sia di vetro, cioè trasparente, e che sia pieno di sabbia. Mettiamo poi il caso che noi si debba misurare lo spazio interno, la capienza di questo contenitore, e che lo si possa fare solo facendoci entrare dentro una speciale macchina che misura questo tipo di contenitori occupandone tutto lo spazio vuoto in una sorta di espansione che aderisce ai margini della capienza occupandola tutta. Bene, cosa dovremo fare, innanzitutto, per poter far entrare in questo contenitore la nostra macchina? Svuotarlo, è ovvio. Fuor di metafora, questo contenitore siamo noi, esso è la nostra capienza ontologica, e noi potremo verificarla solo svuotandola di tutti i contenuti ontici che essa “capisce”. Immaginiamo ora che questo contenitore possa essere svuotato solo facendo passare tutto il suo contenuto, la sabbia, in un altro contenitore della stessa capienza che comunica con il primo attraverso una strettoia che restringe il capito ma lo allarga subito nuovamente nel secondo: avremo una clessidra, coi suoi due bulbi. Se, infine, consideriamo che la clessidra è per antonomasia uno strumento di misurazione del tempo, non sarà difficile immaginare che il trapasso da una all’altra delle due capienze è simbolo del trapasso dall’essere all’ente e viceversa come trapasso «fuori dal» e «dentro al» tempo; viceversa, se poi la clessidra si rovescia, la conversione si inverte.

Il punto più stretto della clessidra, quello del trapasso da una capienza all’altra, è il luogo in cui sia l’essere sia l’ente sono ancora niente; dopodiché, quale sia il senso di marcia lo decide il rovesciamento della clessidra stessa. Ma, si noti, il “senso” è dato dalla marcia, dalla direzione, cioè, che prende l’essere, o l’ente, nel suo trapasso di qua o di là. Vediamo.

 

ESSERE ↔ NIENTE ↔ ENTE

 

Il senso dell’andare dall’essere all’ente è il nientificarsi dell’essere per lasciare “spazio” all’ente; è fin troppo facile pensare all’incarnazione del Cristo così come la spiegano i cristiani: il Figlio di Dio si è fatto uomo (= ente) per fare l’uomo figlio di Dio (= essere). Il senso dell’andare dall’ente all’essere è invece il nientificarsi dell’ente per fare “posto” all’essere. V’è quindi una specie di andata e ritorno, nel tragitto dall’essere all’ente e dall’ente all’essere. La lettura cattolica di questa “andata e ritorno” è, com’è noto, la creazione della creatura (= andata) e il ritorno al Creatore della creatura stessa (= ritorno): genesi e palingenesi.

La libertà che, si dice, Dio lascia all’uomo, che altro sarebbe, se non questo spazio vuoto per l’ente che l’essere decide di lasciare? Ma il sacrificio, anche per l’essere, è quello di farsi niente, di annullarsi. Quanto all’uomo, il sacri-ficio è quello che la mistica chiama «fare deserto», o «notte oscura», che altro non è, a mio parere, se non l’heideggeriano «niente» nel “senso” di marcia dell’ente da sé verso l’essere. Ed ora riflettiamo un po’ sulle due espressioni:

 

  • lasciare spazio
  • fare posto

 

Sulle prime, dall’analisi dei sostantivi – spazio e posto – verrebbe da dire che lo spazio è un posto, un posto vuoto, una capienza pronta a ricevere dei capìti. Dall’analisi dei due verbi – lasciare e fare – verrebbe poi da dire che il primo è dell’ente e il secondo è dell’essere: l’ente lascia spazio all’essere e l’essere fa posto all’ente. È abbastanza irrilevante a quale dei due affidare le due coppie, se all’essere o all’ente; comunque, si potrebbe dire che il “senso” di marcia dall’essere all’ente si ha solo “posto che” l’uno lasci e l’altro faccia. A condizione che… Posto che… Ecco, di nuovo, il niente è la condizione di verificabilità nel trapasso del “doppio senso” (di marcia) poc’anzi descritto. L’ente e l’essere si incontrano nella strettoia del niente e, ad ogni trapasso (= travaso), la clessidra si rovescia di nuovo. Il punto, immaginario, della strettoia, in cui spazio e tempo si azzerano, potremmo chiamarlo il punto del «cambiamento di stato».

Il sacrificio si consuma nella strettoia del niente: è la porta stretta di cui parla il vangelo? Come si può vedere, sto considerando tutti questi argomenti senza dimenticare la mia educazione cattolica, a differenza di Heidegger, che pur cercando di dimenticarla, non c’è riuscito. La filosofia di Heidegger è, a mio parere, tutta una mal celata rielaborazione della dottrina cattolica, un catechismo cattolico sotto mentite spoglie. C’è più spiritualità nel Nichts della filosofia heideggeriana che in tutto il nihil della filosofia nichilista. Ed è per questo che, con mio grande disappunto, nemmeno Heidegger, col suo «niente», mi apre un’uscita di sicurezza, una via di fuga dell’essere e dall’ente. Questo niente è il simbolo sia dell’entrata nel mondo sia dell’uscita dal mondo, almeno mi pare. Torniamo alla clessidra.

 

  • In entrata. Il Creatore travasa tutta la sua realtà nella possibilità: l’Essere, che è atto puro, pura attualità, si travasa tutto in pura possibilità. La realtà in atto si annienta diventando possibilità in potenza.

 

  • In uscita. La creatura travasa tutta la sua possibilità nella realtà: l’ente, che è potenza pura, pura possibilità, si travasa tutto in pura realtà. La possibilità in potenza si annienta diventando realtà in atto.

 

Il cerchio si chiude quando l’ente “restituisce” all’essere la realtà che questi gli ha dato in dono… “per dono” (?). Il dono dell’Essere è di dare un essere che l’ente deve ricostituire, ricostruire nella sua realtà; la fatica di questa ricostruzione è il lavoro, e l’energia ne rappresenta la forza alchemica, al lavoro, appunto (en érgon).

Il catechismo insegna che l’uscita (= la morte) ottiene questi effetti solo se l’ente raggiunge la salvezza: il paradiso è l’attuazione perfetta della potenzialità umana. La salvezza è la verifica del verificarsi finale dell’ente: se la salvezza si verifica è segno che l’ente ha saputo, nella sua esistenza terrena, nientificarsi nel crogiuolo doloroso della kénosis; non è un caso che kenós, in greco, significhi «vuoto». In questo senso, veramente, il niente è una «esperienza fondamentale», come scrive Heidegger.

Il passaggio attraverso il niente è la condizione della transustanziazione dell’ente, e ivi inizia la sua trascendenza. Il niente non è un’ens rationis virtuale, un concetto vuoto privo di oggetto, come il n-ulla, ma è un sensus sui reale, come la coscienza: «sentirsi in mezzo all’essente nella sua totalità», dove per totalità si intende l’entità di tutti gli enti pan-oramicamente vista al di là dell’utilità specifica di ogni ente; la totalità lascia gli enti liberi di essere: è l’intendimento di un trascendimento. La trascendenza consiste nel “sollevare” l’ente dall’incarico affidatogli dagli altri enti.

 

Sì. Quando noi, nel quotidiano affaccendarci, ci attacchiamo esclusivamente a questo o quell’essente, sembra come ci fossimo perduti in questo o quel cerchio dell’essente. Ma, per quanto possa apparire frantumata la vita quotidiana, essa mantiene pur sempre l’essente in una «unità della totalità», sia pur questa nell’ombra. Anche quando (anzi proprio allora) noi non siamo particolarmente occupati dalle cose e da noi stessi, ci viene addosso questo «tutto», per es. nella noia propriamente detta. Essa è ancora lontana finché quel che ci cambia è questo libro o quello spettacolo, quella occupazione o questa oziosità. Essa affiora quando «a uno prende la noia». La noia profonda, che si insinua serpeggiando nelle profondità della nostra esistenza come nebbia silenziosa, stringe insieme tutte le cose, gli uomini e l’individuo stesso con esse, in una singolare indifferenza. Questa è la noia che rivela l’essente nella totalità. [Martin Heidegger: Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pagg. 16-17]

 

Il niente si rivela nell’otium, che è assenza di neg-otium, com’è noto. Il niente è vacanza: libertà da ogni occupazione; non so se il mio lettore ha mai notato quanto il sostantivo «occupazione» occupi uno spazio, un posto; quanto sia “ingombramte”: la capienza, per fare spazio o per lasciare posto, non deve essere occupata. Se l’essere umano è occupato dalla sua entità ontica non fa posto all’Essere, non gli lascia spazio. Se l’Essere divino è occupato dalla sua entità ontologica non fa posto all’ente, non gli lascia spazio. Chi è sempre occupato «in qualcosa» o «da qualcosa» è colui che non fa mai l’esperienza del niente.

Vedrà bene, il mio lettore, che non era il caso di demonizzare così tanto il niente heideggeriano; sì, è vero, la noia, e l’angoscia, sono sintomi preoccupanti, e saremmo portati a considerarli l’effetto di una causa da evitarsi, ma se si pensa che questa noia, o questa angoscia, furono compagne di illustri personaggi della storia dell’umanità – Leopardi in primis – si vedrà che esse non sono poi così indegne dell’essere umano. Piuttosto, il problema sta nel modo di superare, o di non superare, una tal noia o una tal angoscia.

Il niente di cui si parla qui è il non-essente, non è il non-essere; è perdere di vista gli enti nella loro singolarità per comprenderli in un pan-orama totalizzante, omnicomprensivo. E comunque, a conferma del fatto che per Heidegger l’esperienza del niente non è solamente assimilabile alla noia e all’angoscia, basta leggere il passo che segue:

 

Un’altra possibilità di tale rivelazione può offrirla la gioia che ci viene dalla presenza dell’esistere di un essere amato (non della sua persona semplicemente). [Martin Heidegger: Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pag.17]

 

e:

 

L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. […] L’aver paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato. […] L’angoscia non fa più nascere tale perturbamento: essa, anzi, apporta seco una caratteristica quiete. [Martin Heidegger: Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pag.18]

 

L’indeterminazione di ciò per cui noi ci angosciamo è qualcosa di simile al leopardiano «naufragar m’è dolce»: per quanto il naufragio non sia un’esperienza desiderabile in senso determinato, nella sua indeterminatezza esso è pur dolce, tuttavia.

Anch’io vagheggio il naufragio nell’infinito, a patto però che questo infinito non sia un’altra forma di vita o di esistenza, da qualche altra parte, ma sia l’annullamento totale ed assoluto del mio io, di me stesso. Temo però, purtroppo, che nemmeno il niente di Heidegger possa condurmi a questo “mare della tranquillità”. Mi pare di aver capito che il niente heideggeriano porta all’essere, non altrove. E pure, se essere è tempo, e se con la morte si esce dal tempo, come può, l’essere, essere senza tempo? Certo – mi si dirà – è un altro essere, un altro modo di essere, ma

ho già detto che non mi interessano alternative di tipo ontologico: a me interessa capire se l’essere si può eludere, se se ne può uscire, in qualche modo, o se si è costretti a rimanervi dentro, per sempre. Una fuga?

 

Nell’angoscia c’è un retrocedere innanzi a… che, in vero, non è più un fuggire, ma una fascinosa quiete. [Martin Heidegger: Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pag. 23]

 

Di Angst si parla anche nel § 40 di Sein und Zeit (Essere e tempo) (1927), e si dice chiaramente che la vera fuga è quella del nostro Esser-ci «davanti a se stesso»: «nella deiezione l’Esserci diverge da se stesso»; si tratta di una «conversione verso l’ente intramondano per rifugiarsi presso di esso». L’inautenticità è la conseguenza più lampante di tal fuga. Ora, io penso di essere fuggito, al contrario, proprio dagli enti e non da me stesso; anzi, dopo essermi rivolto solo a me stesso, ho cercato di capire, poi, da cosa avrei dovuto ancora fuggire per evitare anche me stesso. Questa seconda fuga non è contemplata, da Heidegger, perché, in ultima analisi, egli ha ancora una gran fiducia nell’essere e non si sogna nemmanco di volergli sfuggire; al contrario, sogna di andargli totalmente in braccio.

«Il davanti-a-che dell’angoscia è l’essere nel mondo come tale», scrive Heidegger nel § 40 di Essere e tempo; l’angoscia non ha paura di questo o di quell’ente: ha paura solo della munditas, nome latino con cui io traduco la Weltlichkeit, che Pietro Chiodi rende con «mondità»; solo la paura ha paura di un ente, l’angoscia no. L’angoscia si angoscia per «la dimensione esistenziale del mondo», come viene definita la mondità.

 

Perciò l’angoscia non ha occhi per «vedere» un determinato «qui» o «là» da cui si avvicina ciò che è minaccioso. Ciò che caratterizza il «davanti-a-che» dell’angoscia è il fatto che il minaccioso non è in nessun luogo. L’angoscia non «sa» che cosa sia ciò-davanti-a-cui essa è angoscia. «In nessun luogo» non equivale però a «nulla», poiché proprio in esso si radica… [Martin Heidegger: Essere e tempo – Longanesi, Milano 1976 – Traduzione di Pietro Chiodi, pag. 234]

 

«Il davanti-a-che dell’angoscia è il mondo come tale».

La munditas si vede quando gli enti si manifestano emancipati dalla loro significatività utilitaristica: la pura possibilità dell’utilizzabile, svincolata da una ben precisa e reale utilizzzabilità è ciò che spiazza e sconcerta chi osserva la munditas; l’effetto di un tal guardare le cose è lo spaesamento, con relativa angoscia. Eppure è solo a questo prezzo che gli enti, le cose, si manifestano per quel che sono. «Ciò davanti a cui l’angoscia è tale, è nulla di utilizzabile nel mondo»; «Il nulla di utilizzabilità si fonda in “qualcosa” di assolutamente originario nel mondo». Per cui, «ciò dinanzi a cui l’angoscia è tale, è l’essere-nel-mondo stesso».

Insomma, l’angoscia è la «situazione emotiva» (= Befindlichkeit) per eccellenza che rivela l’autenticità del guardare; la paura, di contro, è la «situazione emotiva» tipica dell’inautenticità del guardare.

 

Nell’angoscia l’utilizzabile intramondano e l’ente intramondano in generale sprofondano. Il «mondo» non può più offrire nulla, e lo stesso il con-Esserci degli altri. [Martin Heidegger: Essere e tempo – Longanesi, Milano 1976 – Traduzione di Pietro Chiodi, pag. 235]

 

L’angoscia apre l’Esserci come esser-possibile. Ricordate la clessidra? Quando essa va dall’Essere all’ente nientifica la sua realtà infinita in possibilità temporale: il senso di marcia della creazione, dopo il Giudizio Originale, è questo. L’angoscia credo sia esattamente quella che Adamo ed Eva provarono quando il mondo apparve per la prima volta ai loro occhi senza più la certezza della realtà che essi vedevano riflessa in Dio; un mondo solamente più possibile, tutto da “costruire”. È la parabola del figliol prodigo, al quale il Padre dà la sua stessa “sostanza” come eredità anticipata, e il figlio la dilapida. È ovvio che l’angoscia sia la situazione emotivamente più originale: è quella dei nostri progenitori!

«Nell’angoscia ci si sente “spaesati”». Ma lo spaesamento, qui in terra, è causato dal non vedere più negli enti il significato dato loro dall’utilizzabilità umana. Distinguiamo bene tra s-paesamento e paesamento:

 

  • Paesamento: in primo statu, tutto il mondo era paese, perché l’Eden era l’universo intero; l’uomo si riconosceva in ciò che nosceva proprio perché non conosceva No-scere era scere (= scire) l’ente nel suo essere.
  • Spaesamento: in secundo statu, tutto il mondo non è paese, perché la Terra non è l’universo intero; l’uomo non si riconosce in ciò che conosce proprio perché non nosce più. Co-noscere è non scere (= scire) l’ente nel suo essere.

 

Se nell’Eden il sentirsi a casa propria era dovuto all’intimità con Dio rispecchiato in ogni ente, qui sulla terra l’intimità è data dalla cura che si ha verso gli enti quando li si soggioga per il proprio uso e consumo: negli enti si rispecchia, anzitutto e perlopiù, solamente l’uomo, ente anch’esso, che manipola enti. Lo sfruttamento degli enti intramondani è la maledizione edenica insita nel soggiogare il mondo. «Dato il predominio della deiezione e della pubblicità, un’angoscia “autentica” è rara».

 

…l’angoscia racchiude la possibilità di un’apertura privilegiata per il fatto che isola. Questo isolamento va a riprendere l’Esserci dalla sua deiezione e gli rivela l’autenticità e l’inautenticità come possibilità del suo essere. Nell’angoscia le possibilità fondamentali dell’Esserci, che è sempre mio, si rivelano in se stesse, senza l’intrusione dell’ente intramondano a cui l’Esserci si aggrappa innanzi tutto e per lo più. [Martin Heidegger: Essere e tempo – Longanesi, Milano 1976 – Traduzione di Pietro Chiodi, pagg. 238-239]

 

È suggestivo pensare che la deiezione terrestre sia cominciata dalla deiezione edenica: deiezione edenica sarebbe la cacciata dell’uomo dall’Essere e deiezione terrestre sarebbe la cacciata dell’uomo dall’essere (attenzione alla e / E di essere). Sembra che la storia dell’umanità non sia altro che una continua cacciata! Sembra che col Giudizio Originale l’uomo abbia dovuto togliersi le pantofole, mettersi le scarpe (per non dire gli scarponi), e cominciare a camminare (per non dire correre), al fine di scappare continuamente, prima dal suo Creatore, poi da se stesso. Sembra che l’uomo sia stato creato per starsene comodamente a casa sua (quella che i cristiani chiamano “casa del padre”) nella beata immobilità del riposo, in panciolle, e che poi qualcosa non abbia funzionato, donde l’inizio di un tour de force frenetico e stressante in quella corsa contro il tempo che è la deiezione; l’uomo in secundo statu è l’uomo in perenne tournée, il quale, da che è nel tempo, paradossalmente non ha mai tempo.

O mio buon lettore, vero che anche tu non hai mai tempo? Vero che sei sempre alla ricerca del tempo perduto? C’è anche il tempo ritrovato, non solo quello perduto… la deiezione è proprio l’effetto più spiacevole dell’essere tempo. Ma siamo ancora in tempo per non essere tempo? Se essere è tempo, come uscire dal tempo? E tu, lettore, tu non vuoi uscire dal tempo? No, vero? E perché? Perché ti piace starci dentro? Ti piace così tanto? Allora non ti lamentare più; guai a te se ti sento lamentare! Non voglio più sentire più nessuno che si lamenta della vita. Chi si lamenta deve uccidersi, per coerenza. Solo chi non si lamenta è degno di vivere. Io mi lamento, ma io non voglio vivere. Non ti piace il dono della vita? Restituiscilo!

Il lettore è stupito dalla gran quantità di stili che uso in questo mio scritto? Sì, è vero, uso tanti stili, ma io non scrivo per essere pubblicato e quindi non devo assoggettarmi a nessuno stile particolare; del resto, cos’è questo mio scritto? l’unica cosa sicura è che è uno scritto, perché l’ho scritto, quod scripsi scripsi… ma non so se sia un saggio, o un romanzo, o uno sfogo, o una confessione, o… non so cos’è e non mi interessa, so solo che è quello che doveva essere quando l’ho scritto, e ciò mi basta. Una cosa sola so: che vorrei uscire dall’essere, ma non per entrare in un altro essere, bensì per non essere più. Solo, mi chiedo: cosa sarà mai questo «nessun altro essere» che mi può permettere di «non essere più»? Nell’istante in cui lo definisco «nessun altro essere» di nuovo pronuncio la parola essere: ma possibile che non se ne possa uscire? Possibile che anche quando parliamo di non essere dobbiamo tirare in ballo l’essere? Esiste da qualche parte dell’universo un mondo in cui non si deve essere per essere?

I cristiani sono sempre lì a desiderare la vita eterna. Ma perché? Secondo me perché hanno paura di non essere, di non essere più (e non solo in vita). Dal momento che nascono, gli esseri umani, si attaccano alla vita, che è il loro essere, con le unghie e coi denti: abbarbicati all’essere come un amante alla sua amata, con una possessività che soffoca solo a vederla. È come quando dai una mano a qualcuno, che poi si prende anche il braccio…. Io credo che l’Essere, se esiste, non ne può più della confidenza che gli esseri si sono presa con Lui; Lui ha dato loro una mano e loro si sono presi anche il suo braccio… cosa sia il braccio dell’Essere non lo so, ma il detto recita così, facendone una questione di mano e di braccia, e io sto al gioco.

Ora basta, la ricreazione è finita e bisogna tornare al lavoro, al duro lavoro della riflessione (filosofica? teologica?); la letteratura impegnata, come quella che ho fatto nelle ultime righe (!?), è la ricreazione della filosofia da se stessa. A proposito, che differenza c’è tra creazione e ricreazione? L’Essere crea l’ente e l’ente ricrea l’Essere procreando il proprio essere? È cosi? L’ente crea per conto (= pro) del Creatore? Non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio? E dunque l’ente procrea l’essere? No, forse solo l’essente… l’essente è l’ente in quanto è… ma può un ente non essere essente?

Per Heidegger l’autenticità dell’ente in quanto essente consiste nel suo essere essente, ma per vedere questa dimensione dell’ente, cioè il rapporto tra il suo essere essente e il suo essere, bisogna sollevare l’essere dal suo incarico di ente per lasciarlo libero di essere essente, in piena “vacanza”. Complicato? Certo, Heidegger è complicato. Comunque, in poche parole dobbiamo salvaguardare l’essenza delle cose, degli enti, e questa essenza è il loro essere; dobbiamo fare le «sentinelle del niente» per poter fare le «sentinelle dell’essere»: salvaguardando l’indipendenza degli enti dal loro incarico ontico ne conserviamo la dipendenza dal loro “carico” ontologico. Salvaguardare è «guardare per salvare»: la sentinella, per fare la guardia, deve infatti guardare, ma guardando difende, salvaguarda, e così salva ciò che guarda. Il mio carico è dolce… L’ente ritiene leggero, il carico dell’essere, del suo essere ente?

Io, se sono un ente – ma temo proprio di esserlo – come il mio lettore sa già, non ritengo affatto leggero il carico del mio essere. Se fosse per me, me lo toglierei dalle spalle (o da dove diavolo si trova) e lo butterei via, il più lontano possibile. È una soma, questo essere, e non per il fatto di essere corpo: non credo che il peso dell’essere sia una questione somatica; e nemmeno psichica. E poi non ha una grande importanza, se sia psico o somatico, questo peso; l’unica cosa che importa è che pesa, molto. Non la si augura nemmeno a un somaro, una soma del genere (a proposito, il somaro si chiama così perché porta la soma? Chissà!).

Sono tutti somari, secondo me, coloro che vogliono portare la soma, il soma. Ho forse offeso il mio lettore? Ma no, magari lui sta leggendo queste righe proprio per cercare di capire come io sono riuscito ad evitare la soma, il soma; nessuna illusione: dico subito che non ci sono ancora riuscito. Ho il soma e la soma, insieme. Persino Nietzsche mi diventa insopportabile, quando continua a ripetere il suo invito a dire di sì alla vita… il sì, in tedesco, suona ja, ja, ja: sembra il verso del somaro. Ma non se n’è accorto, Nietzsche, che ci ha fatto la figura del somaro, con questo suo sì, sì, sì; doveva accorgersene, che in tedesco, col suo sì, stava ragliando! Nietzsche nichilista? Ma che storie! In realtà lui predica la schiavitù, l’asservimento alla catena: alimentare, sessuale e pure sociale. Mi vuole forse far credere che siamo condannati all’eterno ritorno di questa soma? di questo soma? Nietzsche è quello che più di tutti mi fa venire la disperazione: siccome la mia speranza è quella di uscire dal circolo vizioso dell’eterno ritorno, è disperante, per me, pensare di non poterne uscire. La verità è che nessuno ne sa niente… i buddisti vanno cianciando di reincarnazioni, i cristiani di incarnazione… ognuno se ne sta ben ben attaccato al suo soma, alla sua soma, pur di potersela portare in un’altra vita… come gli egiziani, che mettevano nella bara tutto il necessario per l’altra vita, convinti che il defunto ne avrebbe potuto usufruire… il viatico…

Basta! Non mi interessano le opinioni di questo e di quello: sono tutti bulimici, strafogàti di vita. Chi di vita ferisce, di vita perisce; vi piace questo slogan? Anche Heidegger è innamorato della vita, si sente… persino uno intelligente come lui, c’è cascato. Ma cos’è questo suo niente? Non è un’uscita. Piuttosto un’entrata. È la dogana dell’essere, il dazio dell’ente. A me quello che angoscia non è il niente di Heidegger, è la sua impossibilità di diventare nulla. Se il nulla di Bergson potesse diventare niente, allora sì che potremmo uscire, dall’essere. Invece non c’è scampo! Non c’è scampo? Veramente non c’è?

Ho cercato a lungo, nella mia vita, se vi fosse qualcosa di simile al non-essere da me vagheggiato, e solo nello stato onirico, nel sonno, posso dire di avervi trovato un equivalente. Sono cosciente del fatto che già Amleto c’era arrivato, al dormire, sognare… ma, al riguardo, devo anche dire che il non-essere da me “sognato” è un sonno rigorosamente senza sogni. Non è una grande novità nemmeno questa – lo so –  perché ci hanno pensato già in molti, al sonno senza sogni come metafora del non-essere; e, pure, non si trova di meglio, quando si cerca, nel proprio bagaglio esistenziale, un’esperienza simile al non-essere.

Se ci si fa caso, nel sonno senza sogni, tra l’inizio del sonno – l’addormentarsi – e la fine del sonno – il risvegliarsi – pur essendoci sempre un innegabile, più o meno lungo, lasso di tempo, tuttavia alla nostra coscienza esso non è presente; il momento in cui ci si sveglia sembra essere immediatamente successivo a quello in cui ci si è addormentati, così successivo che sembra non esserci differenza, fra i due, sembrano essere sincronici, contemporanei, simultanei: possono essere passate anche otto o dodici ore, dal risveglio al momento in cui ci si è addormentati, ma non è tuttavia la durata temporale a definire, a determinare la distanza fra i due momenti estremi di questa esperienza. Un’esperienza che facciamo tutti, ma forse alla quale non si pensa mai abbastanza. Io ho imposto al mio apparato psichico di non sognare mai, e ci sono riuscito: raramente sogno, o, meglio, mi ricordo un sogno (perché si dice, da più parti, che quando si dorme si sogna sempre); desidero talmente fare ogni notte la mia esperienza di non-essere che la mia psiche mi accontenta, almeno in questo: rimuove accuratamente ogni sogno, sicché, al risveglio, è sempre tabula rasa. E meno male, perché, tanto, quando me li ricordavo, si trattava quasi sempre di brutti sogni, per non dire di incubi veri e propri!

Quindi, prendiamo il sonno senza sogni. Penso si possa dire che di esso non si ha la percezione della durata. Il sonno senza sogni è tremendamente simile all’essere fuori del tempo. Però, se essere è tempo, essere fuori del tempo non è essere:

 

  • Essere = Tempo
  • Non-Essere = Non-Tempo

 

Ma cos’è il «Non-Tempo»?

Forse sta qui, l’uscita di sicurezza, nel non-tempo, perché sembra che l’unica possibilità che il non-essere ha (di essere) è nel non-tempo. Mi soccorre ancora Bergson:

 

Ma siamo in grado di pensare la vera durata? Anche in questo caso sarà necessaria una presa di possesso diretta. Non si raggiunge la durata attraverso giri viziosi: bisogna arrivarci immediatamente. Ed è quanto l’intelligenza, il più delle volte, si rifiuta di fare, abituata com’è a pensare la realtà mobile attraverso la mediazione dell’immobile.

Il compito dell’intelligenza è infatti quello di presiedere a delle azioni. Ora è il risultato dell’azione che ci interessa; posto che lo scopo venga raggiunto, i mezzi contano poco. Per questo motivo, noi siamo interamente tesi al fine da realizzare, puntando il più delle volte su di esso affinché da idea si trasformi in atto. E sempre per lo stesso motivo, solo il termine raggiunto il quale la nostra attività potrà quietarsi si ritrova a essere esplicitamente rappresentato alla nostra mente: i movimenti costitutivi dell’azione stessa, o sfuggono alla nostra coscienza oppure le arrivano solo confusamente. [Henri Bergson: L’evoluzione creatrice – Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 – Saggi – Traduzione di Fabio Polidori, pag. 244]

 

Avete fatto caso a quel «quietarsi»? E ricordate, quando Heidegger aveva definito l’angoscia come quiete? Sembra un ossimoro, che l’angoscia sia quiete, ché ce la immaginiamo sempre inquieta. E, pure, nel sonno senza sogni si vive quella quiete che deriva dal trascendere gli enti e la nostra azione su di essi, che poi è la stessa cosa, perché trascendere è bypassare l’azione. Prova ne è che quando ci poniamo di fronte agli enti in maniera inattiva, questa inazione ci porta alla quiete angosciosa dell’Angst: la quiete è assenza di quella iperattività che investe sugli enti. Investire è parola assai ricca di connotazioni psicanalitiche: la filosofia di Heidegger invita al disinvestimento ontico perché esorta all’investimeno ontologico. Ma l’uomo investe, anzitutto e per lo più, nell’azione tutta la sua carica vitale. La vita della gran parte degli uomini è un investire sul mercato azionario degli enti. Il commercio intramondano è l’investimento degli enti sul mercato azionario. Il niente di Heidegger è l’inizio dell’investimento ontologico e la fine dell’investimento ontico.

Ma torniamo all’ultima citazione di Bergson. La vera durata non si può dunque pensare; essa è quell’impensato al quale pur pensiamo sempre quando pensiamo al sonno senza sogni. Si tratta di non «pensare la realtà mobile attraverso la mediazione dell’immobile», come fa l’intelletto. Non è l’intelletto che ci può aiutare a trovare l’uscita di sicurezza dall’essere, questo è poco ma è sicuro. Senza intellezione l’uomo percepirebbe al pari di un animale, credo. Ora, durante il sonno senza sogni non è che la nostra vita non continui più a durare, ma è che noi, mentre dormiamo senza sognare, questa durata non la avvertiamo più. Esse est percipi? È una bella anestesia, il sonno senza sogni, e forse per questo Morfeo ne è il dio: perché è la morfina più efficace contro il male di vivere (sempre ammesso che la parentela etimologica fra morfina e Morfeo sia attendibile).

Se essere è percepire, mi chiedo come possano, i cristiani, sperare in una vita ultraterrena, dal momento che senza il soma non si percepisce più la durata. A meno che la durata della vita eterna non si percepisca; ma allora si danno due casi:

 

  1. o la vita eterna non dura
  2. o la vita eterna non è nel tempo

 

Assenza di durata = Assenza di tempo?

Può durare qualcosa, fuori del tempo? O c’è una durata infinita che è tempo infinito? Se il sonno senza sogni non finisse mai si potrebbe dire di esso che è uno splendido coma vigile: una bella avventura nella durata senza tempo. E, al riguardo, le analisi freudiane sull’es parlano di una dimensione appunto sganciata da tutto ciò che è categoriale: spazio, tempo, eccetera… Il viaggio nel sonno senza sogni è forse l’esperienza più simile al non-essere. Il sonno con sogni è invece, a mio parere, qualcosa di molto simile alla vita eterna sognata dai cristiani: un’improbabile accordo di assenza di sonno e presenza di sogni; un sogno ad occhi aperti, insomma. L’assenza della durata può essere, categorialmente intesa, almeno due cose: o durata infinita o durata nulla. La coincidentia oppositorum che il pensiero rappresentativo mostra al riguardo rende paradossale una durata assente. Se la durata è presente essa dura, deve durare, sennò non sarebbe durata. Ma come potrebbe durare, se non nel tempo? Allora se esiste una vita eterna essa è fuori del tempo, ma fuori del tempo la durata non può darsi…

Non pretendo di venire a capo di questi discorsi. E manco mi interessa. Io ho un asso nella manica che spesso gli altri esseri viventi non hanno: a ma non interessa essere, e quindi non devo scervellarmi per venire a capo del problema dell’essere. Non se ne esce. Invece, mi interesserebbe sapere come uscire dall’essere, questo sì. No, non si preoccupi il lettore, non mi suiciderò mai: ho troppa paura di soffrire, per farlo. Mi fa paura l’ultimo respiro: non dev’essere piacevole. E per ciò vado sognando i due famosi pulsanti, o bottoni: uno verde e uno rosso; perché immagino il pulsante rosso come la possibilità sicura di annientamento immediato e indolore. Perché rosso? Perché Dio non vuole, a quanto dicono i cristiani, e il rosso è simbolo del proibito: non si passa con il rosso. La via d’uscita dall’essere ha sempre un semaforo rosso ad impedirne l’accesso. Staccare la spina non si può, nemmeno per evitare di vedere quella insopportabile luce rossa. Non si può, non si deve… Ma non si può perché non si deve, o non si può perché non è possibile? Se anche non si dovesse, ma si potesse, io la staccherei subito, questa spina; a patto però di non soffrire.

Penso sia giunto il momento di spiegare al lettore le mia teoria di WHITE-IN. «White-in» è il contrario di «Black-out». A «nero fuori» si oppone «bianco dentro». Che significa?

Mi è venuto in mente leggendo il seguente passo:

 

La metafisica pensa l’ente in quanto ente. Ovunque si chieda che cos’è l’ente, in vista è sempre l’ente come tale. Il rappresentare metafisico deve questa sua vista alla luce (Licht) dell’essere. La luce, ovvero ciò che un tale pensiero esperisce come luce, non rientra a sua volta nella vista di questo pensiero, perché esso si rappresenta l’ente sempre e solo guardando all’ente. Ponendosi da questo punto di vista, il pensiero metafisico domanda però della fonte esistente e di un autore della luce. Questa luce, a sua volta, la si ritiene sufficientemente chiarita per il solo fatto che essa concede a ogni vista sull’ente la sua trasparenza. [Martin Heidegger: Introduzione a: «Che cos’è metafisica?» in Che cos’è metafisica? – Piccola Biblioteca Adelphi 464, Milano 2001 – Traduzione di Franco Volpi, pagg. 89-90]

 

Ricordate il cinematografo di Bergson?

Torniamo al cinema. Un film è dato dallo scorrere nel tempo di una pellicola. Senza tempo non si vede come potrebbe girare, questa pellicola. Senza tempo non vedremmo nessun film. Almeno per una cosa dobbiamo essere grati al tempo: che ci permette di vedere dei film. Ma, a parte questo, quello che importa adesso considerare non è il tempo, ma il proiettore. Il proiettore permette la visione del film proiettando luce sulla pellicola, si sa. Ora, niente luce niente film, come niente tempo niente visione. Ma, vi siete accorti quanta luce c’è nella citazione da Heidegger poc’anzi fatta? C’è una luce che fa chiaro sull’ente, che chiarisce l’ente rendendolo visibile, come la luce del proiettore rende visibili quegli enti chiamati diapositive: i fotogrammi della pellicola. L’ente è una specie di slide che l’essere proietta sullo schermo delle nostre rappresentazioni.

Il pensiero metafisico si chiede da dove arrivi la luce dell’essere e ipotizza un autore della luce; Dio? Non importa come si chiama: si ipotizza un autore della luce. Io preferisco parlare di fonte della luce, così non sono costretto a porre il proiettore fuori del cinema. Adesso fate attenzione: siccome Heidegger esorta sempre a non guardare troppo gli enti, ma ad andare oltre la loro visione, per godersi la visione della luce che questa visione rende possibile, io mi chiedo cosa possa essere, questo andare oltre, se riferito a una visione cinematografica, e più ci penso più concludo che essa potrebbe essere qualcosa di questo tipo: guardare uno schermo sul quale non si proietti altro che luce. Luce. Guardare la luce è vedere la possibilità della realtà oltre il suo effettuarsi.

Chi andrebbe al cinema a vedere la luce del proiettore? Si paga il biglietto di un film per vedere solo la luce che questo film dovrebbe proiettare? Pensate un po’… una sala piena di filosofi, cioè di gente che è giunta a godere della visione della luce, senza le immagini che essa dovrebbe proiettare… che schermo è uno schermo sul quale non c’è rappresentazione alcuna? qualcosa di simile alla parete vuota che i buddisti fissano biascicando suoni incomprensibili, così simili al farfugliare devozionale che nelle chiese si sente talvolta… comunque sia, se anche esistesse al mondo gente in grado di accontentarsi della sola luce sullo schermo, comunque questa gente dovrebbe restare in sala, per poterla vedere.

Ecco: Heidegger mi sembra uno che predica l’abolizione della rappresentazione in favore della visione pura della luce. Ma non se ne esce! Non basta, perché comunque bisogna restare nel cinema, nel movimento: anche solo per proiettare luce, il proiettore non va spento. E così si resta lì, dentro (= in) a vedere il bianco (= white) insulso della luce. Capito? E, per giunta, questa luce va guardata nel buio della sala. Nemmeno la luce può essere vista, senza buio. Ma se ne rende conto, la luce, che senza il suo odiato buio, non potrebbe nemmeno esistere? L’aveva già detto Hegel, e prima di lui altri filosofi, di quelli che vanno al cinema per non vedere il film, che la luce, senza buio, è morta. E allora, viene prima la luce o il buio? La luce non deve montarsi troppo la testa, perché, senza il buio, non so come farebbe.. comunque…

Per farla breve, ci sono due cose che non mi vanno, nel film che piace ad Heidegger: che bisogna guardare la luce, e che bisogna restare nel cinema per poterlo fare. Tutti i cinema, da quando molti spettatori sono morti nel fuoco della loro luce, sono dotati di uscite di sicurezza. È d’obbligo, oggi. Quelle belle porte a spinta, che non devi nemmeno toccare la maniglia per poterle aprire: basta appoggiarvisi ed è fatta, si apre. Nemmeno Aladino avrebbe potuto desiderare di meglio. I film che piacciono ad Heidegger si vedono in dei cinema che non si sa nemmeno se hanno delle uscite di sicurezza: un po’ perché nel buio della sala esse non si vedono, e un po’ perché quel genere di spettatori – quelli come Heidegger – alle uscite di sicurezza non ci pensano nemmeno, non ci pensano proprio… a loro piace così tanto quel film di luce, che nessuno s’è mai sognato di uscire…

Io no. Al buio di quelle sale preferirei il buio che magari c’è fuori, se il film lo sono andato a vedere di notte. Non mi piace il buio artificiale del niente… non mi va di stare al buio del niente per poter vedere la luce dell’essere… essere cosa, poi? Se è solo luce? Venire al mondo è venire alla luce, tant’è che le due espressioni sono sinonime. Lo vedete, cos’è la luce? I fim che piacciono ad Heidegger sono quelli che si vedono in una specie di regressione assurda: sembrano films che si vedono nella pancia della mamma, i films che forse abbiamo visto tutti prima di nascere, quando ancora ce la spassavamo come feti beati. Siamo dovuti venire alla luce per vedere il mondo. Ma non sarebbe stato meglio restare al buio per non vederlo? Mi viene in mente il vangelo: e gli uomini preferirono le tenebre alla luce… con tutto il rispetto per la luce del mondo, quello che i vangeli dicono essere Gesù Cristo, preferirei non aver bisogno di questa luce, se essa è causata da un buio sul quale non possiamo far luce da soli. E siamo alle solite. Non ci si salva da soli, eccetera eccetera… sempre le solite raccomandazioni dei cristiani. Sono anche buoni, talvolta, questi cristiani, ma quando si mettono a parlare di speranza, diventano insopportabili. La speranza è per i disperati, ed è meglio non mettersi in condizione di trovarsi nella disperazione piuttosto che doverla poi “curare” con la speranza. Preferisco non dover essere salvato, che aver bisogno della salvezza.

E dunque: basta col niente. Voglio il buio. Se per vedere la luce devo restare dentro, ebbene, io mi accontento di vedere il buio (= black), fuori (= out). Non mi permetterei mai di staccare la spina al proiettore, se non altro per rispetto nei confronti di coloro che, in sala, quel film vogliono continuare a vederlo. Ma se a me non piace, quel film? Perché devo continuare a restare in sala? Se lo meriterebbero veramente, costoro, gli starebbe bene, se qualcuno (non io) andasse a staccare la spina del proiettore. Già me la vedo la faccia che farebbero: ma com’è? Com’è che non si vede più la luce sullo schermo? Ridateci la luce! O almeno togliete il buio in sala… accendete le luci in sala… luci in sala! Già. Costoro, qualora si trovassero a non vedere più la luce del loro film preferito, forse si troverebbero costretti a desiderare la luce artificiale delle lampadine, piuttosto di non vedere il buio sullo schermo. È tutta gente che non sa fare a meno della luce.

Spero che il mio lettore capisca la metafora di cui sto favoleggiando. È una specie di mito, quello che sto scrivendo; per carità, la sala cinematografica non è una caverna, ma è anche vero che io non sono Platone. Andiamo avanti. Li vedete, quelli spettatori, lì, in sala, che non sanno spiegarsi come sullo schermo non vi sia più luce, chiedersi l’un l’altro quale black-out può aver causato l’interruzione della proiezione? Sono tutti lì, alla luce artificiale delle lampadine della sala, a rimpiangere la luce della loro rappresentazione preferita: la rappresentazione della luce pura. Bene. Adesso immaginate che improvvisamente quelle lampadine si spengano. Non chiedetemi il perché: si sono spente, si sono spente e basta. Tutti, dentro al cinema, sono rimasti al buio. Che non è più quel buio buono che permetteva loro di vedere il film, cioè la luce, fino a poco tempo prima. No, questo è un buio cattivo, un buio da babàu, come quello di cui avevamo tanta paura da piccoli: è il buio che non vuoi e che pure ti avvolge, spaventoso. Ad ogni modo: loro, quelli in sala, sono lì angosciati dal buio, a rimpiangere la luce, mentre io me ne sto felicemente fuori, nel mio buio naturale, senza nessuna nostalgia della luce. Cosa preferirebbe, francamente, il mio lettore, se dovesse, e, soprattutto, se potesse scegliere fra il buio in sala e il buio fuori sala?

Dev’essere tremendo, restare bloccati in una sala al buio… penso che quegli stessi spettatori che prima non cercavano le uscite di sicurezza, adesso stiano palpando terrorizzati il muro, per vedere di trovarne una… quel buio che prima gli piaceva tanto, quando si crogiolavano nell’angoscia del suo niente, adesso s’è fatto improvvisamente tutto un altro: sembra più un nulla che un niente. Ma non un nulla concettuale, come quello di Bergson, no: sembra un nulla vero, di quelli che senti sulla tua pelle, e non di quelli che ti senti in testa quando ragioni… il nulla che hai in testa non fa paura… è quello che hai attorno a te che spaventa.

Mi pare di sentire qualche lettore… sì, lo sento… dimmi pure, caro lettore… ma, anzi, prima, dimmi chi sei, presentiamoci, prima…

 

– Sono un prete.

– Ah, piacere, io sono un insegnante.

– Volevo dirle, anzi, dirti, perché vedo che dai del tu ai tuoi lettori, che anche tu hai paura del buio, dal momento che hai evitato il buio in sala.

– Già. Innanzitutto vorrei dirle che sono un gran sostenitore del lei, ma che mi adeguo alla moda imperante oggi, anche se non lo faccio volentieri. Però a un lettore prete do subito del lei, guardi, e glielo dimostro subito. Quindi le chiedo: lei pensa che sia più nobile il buio in sala del buio fuori? Per nobile intendo un buio più degno di essere sopportato.

– No. Il buio è buio. Ma tu, anzi lei – guarda che puoi anche darmi del lei, anche se sono prete – comunque, tu, lei, insomma, tu hai abbandonato la sala, ti sei escluso dal consesso umano, hai lasciato i tuoi fratelli in difficoltà, quando potevi aiutarli a trovare una di quelle uscite che sei tanto bravo a trovare.

– Lei lo sa benissimo che ai miei fratelli non interressa quel genere di uscite. E per questo non li considero fratelli. Neanche a lei interessa un’uscita del genere, lo ammetta…

– Certo che no. Il film va visto tutto, fino in fondo, anche se ci si annoia. Non tutti sono ancora arrivati ad amare la luce del mondo.

– Vuol dire Gesù Cristo?

– Ma sì, lo chiami pure Gesù Cristo…

– Lei crede veramente che questo povero Cristo impedirebbe a chicchessia di cercare un’uscita di sicurezza?

– Ma, mi scusi, se ho capito bene, questa uscita di sicurezza, come la chiama lei, sarebbe un’uscita dalla vita…

– Dall’essere…

– E quindi anche dall’essere in vita, no?

– Certo.

– E allora no: solo l’autore della vita può decidere quando possiamo uscirvi.

– Vede? Lei mette in bocca a Gesù Cristo la solita solfa del dono della vita. Guardi, io glielo dico subito: un dono di questo tipo non mi interessa; non mi interessa perché non mi piace.

– Ma perché?

– È proprio quello che mi chiedo: perché certa gente, come lei, continua a vedere bello un regalo così brutto!

– Lei pretende di non portare la croce?

– Prima di nascere, nessuno mi ha mai detto che avrei dovuto portare la croce; se me l’avessero detto non sarei uscito dalla pancia di mia madre. Avrei piuttosto continuato a vedere quel film muto che si gira nel grembo materno. E infatti volevo restare a vedere quel film, ma una forza più forte di me mi ha sbattuto fuori, fuori da quella sala, la prima sala cinematografica nella quale entriamo da che siamo concepiti. A lei non piaceva, quel film?

– Sì, no, non lo so… Ma, è immaturo, da parte sua, desiderare di non venire alla luce…

– Quale luce? Quella dell’altra sala cinematografica? Di questa sala?

– Ne parla come se l’essere fosse una multisala.

– Lo è, a quanto pare. Ma non cambi discorso, e mi risponda: lei preferisce la luce che ha visto quando è venuto alla luce, la preferisce al buio che vedeva prima di venire alla luce? Sia sincero.

– Ma non è questione… Non si può non venire alla luce.

– Infatti, è proprio questo che non fa della vita un dono. Un dono, a quel che ne so, non si impone: è gratuito e libero per definizione. Il cosiddetto dono della vita mi sembra tanto una proiezione – e adesso lo dico in senso psicanalitico – del buio placentare. Solo chi proietta il buio prenatale dopo la nascita può vederlo come luce, ma è una proiezione a rovescio.

– Lei dunque preferisce le tenebre alla luce?

– Preferisco non essere che essere in questa luce; e mi chiedo se non essere è essere nel buio. Che ne dice, lei? Logicamente, se essere è essere nella luce, non essere dovrebbe essere stare al buio, non le pare?

– Non lo so. È che continuo a non capire perché lei ce l’abbia tanto con la vita.

– La vita mette in luce delle cose che è meglio non vedere. Il buio è più compassionevole, lui, almeno, non fa luce su certe cose.

– Va bene, il buio non lascia vedere le cose brutte, ma impedisce anche di vedere le cose belle…

– Si ricorda quel bel film, Schindler’s List? Si ricorda di quella frase: chi salva una vita salva il mondo intero? Ebbene, io credo, che, al contrario, chi perde una vita perde il mondo intero. Sempre che perdere sia il contrario di salvare. Voglio dire, non vedo perché questa frase debba valere solo in senso positivo. E mi spiego. Se è vero che una sola cosa bella vale la vita intera, dev’essere anche vero che una sola cosa brutta vale a…

– Perché si interrompe, continui, professore, che mi interessa…

– Ma come faccio a continuare, reverendo, non sente?

 

(Si sente pianto e stridor di denti)

 

– Sì, adesso che me lo dice, sento…

– Poveretti! Non sente un po’ di compassione, proprio lei che è un cristiano, un sacerdote…

– Il black-out li ha terrorizzati. Cosa possiamo fare? È soltanto mancata la luce!

– Lei dice? E comunque non possiamo fare più niente, niente.

– Come, niente?

– Niente, se non spiegargli che non si tratta di un black-out ma di un black-in.

– Ma cosa dice? Le sembra il momento di giocare con le parole?

– Non è un gioco di parole, e dovrebbe saperlo bene, lei, che ha passato tutta la vita a predicare il white in.

White in? Ma se nemmeno so cos’è!

– Sì, che lo sa… white-in è la rappresentazione del bianco (white) in (in) sala: lei, e tutte le sue pecorelle, sono rimaste chiuse dentro l’ovile, e adesso, al buio, non la riconoscono più come pastore perché non vedono più quella luce che lei predicava. Lei infatti non potrà mai andare a liberarle, perché lei è dentro, come loro, dentro a quella sala dove il bianco natale della sua luce non si vede più. Quando predicava il white-in, avrebbe dovuto anche mettere in guardia le sue pecorelle dal black-in: chiunque vuole restare nella sala deve sapere, a sua tutela, che può sempre correre il rishio del black-in. Perché, voi preti, non la predicate mai, la cattiva novella del black-in, magari dopo aver predicato la buona novella del white-in? Chi vuole rimanere in sala corre questo rischio, bisogna dirglielo.

– Va bene, ma basta, adesso, smettiamola di parlare: non sente che inferno, là dentro? Se non posso andare io, ci vada lei, a liberarli, vada ad aprire quelle uscite di sicurezza…

– Non posso.

– E perché mai?

– Perché l’uscita di sicurezza si apre solo dall’interno, non da fuori, e io sono fuori, out, capisce? Fuori, in quel buio che lei ha sempre aborrito come l’anti-Cristo e che adesso mi salva ben più della luce, spenta, che come black-in fa lentamente morire le sue pecorelle senza ucciderle mai. Lei è un prete, e lo sa che quella è un’agonia nella quale non si muore mai: un inferno, un vero inferno. Lei ha voluto che restassero nell’ovile nonostante sapesse che non avrebbe potuto fare niente, per loro, in caso di black-in, quindi adesso non chieda a me di fare qualcosa: né io né lei possiamo fare niente; in questo siamo uguali, con la differenza che io non sono colpevole di questa tragedia, lei sì.

– Ma che dice? Io? Non ho fatto altro che predicare la buona novella, io…

– Certo, lo so, ma ogni buona novella ha delle cattive notizie delle quali bisogna pur parlare, se non altro per onestà intellettuale. Le sue pecorelle sono rimaste nella chiesa – è vero – sono rimaste nell’ovile di cui lei è il buon pastore, ma proprio per il fatto di essere rimaste dentro, in, alcune di esse hanno trovato la morte eterna, black. Non se lo ricorda il Dies irae? Libera me Domine de morte aeterna, in die illa tremenda…

– Sì…

– Ecco, è il black-in: la condanna che rischia chiunque voglia restare dentro a quella sala in cui non si proietta altro che white-in: vita eterna, luce pura… C’è la vita eterna ma c’è anche la morte eterna, non l’ha spiegato mai ai suoi fedeli? Beh, capisco, per farlo avrebbe dovuto far interrompere la proiezione del film, magari far fare un intervallo, o due, nei quali spiegare gli effetti collaterali di tutta la buona novella. Capisco. Al proiettore c’è uno che non obbedisce a lei, perché è un suo superiore. E poi, la programmazione, il palinsesto… ci sono ragioni più alte. Capisco. E pure, lei avrebbe dovuto, avrebbe dovuto parlarne, del black-in, a costo di distogliere dalla visione del film e disturbare la visione stessa. Sa, non tutti possono godere di questo tipo di visioni, non a tutti è consentita la visione della luce, per cui sarebbe stato onesto, da parte sua, parlare almeno a quelli che su quello schermo non capivano cosa diavolo si stesse proiettando (e mi scusi per il diavolo). Ci sono persone, come me, alle quali non basta vedere la luce, per essere contenti; o che non riescono a vedere la luce, pur volendolo; costoro almeno avrebbero potuto cercare un’uscita di sicurezza, come ho fatto io, e magari avrebbero potuto anche loro essere fuori, out, al buio, black, come me, senza il panico orribile che la claustrofobia fa nascere quando ci si sente in gabbia. In gabbia e al buio: che inferno!

– No, no… senta: non urlano più… sente? Sente anche lei che non urlano più?

– Sì, pare anche a me.

– E guardi: si sono di nuovo seduti; ma sì, guardi: la visione è ripresa; proiettano di nuovo il film! Vede?

– Vedo.

 

(Gli spettatori si sono seduti, ma non tutti guardano lo schermo)

 

– Reverendo, si è accorto che non tutti stanno guardando il film?

– Sì. C’è qualcuno che si sta guardando ancora intorno, come se avesse ancora bisogno di uscite di sicurezza… perché? Il pericolo è passato!

– Io, al loro posto, sarei tra quelli che non guardano più il film.

– Ma perché!? Piaceva tanto a tutti, quel film…

– Ho qualche dubbio. Lo guardavano perché non avevano nessun’altra possibilità, nessun’altra speranza di salvezza, come dite voi preti. A pochi viene in mente di uscire, quando si guarda un film come questo. E comunque, adesso, vede, non basta più la luce proiettata sullo schermo a farli stare buoni e attenti, a dare un senso alla proiezione. Mi ascolti, la prego, ascolti quanto le sto per dire. Quel black-in, o black-out, come lo chiama lei, che ha impedito la proiezione del film, ha reso gli spettatori consapevoli di una realtà assai più grande della visione del film stesso: la realtà, atroce, di non avere vie di fuga in caso di black-out, che poi è in, perché avviene in sala. Capisce, reverendo? Questo incidente di percorso è stato una specie di prova generale, di simulazione, sa, di quelle che si fanno, per la sicurezza, anche nelle scuole… insomma: gli spettatori adesso sanno di non avere uscite di sicurezza, sanno che non sono liberi di uscire dalla sala, che non sono liberi. Nessun film, per quanto bello, si può guardare in queste condizioni. Del resto, guardi lei stesso: non vede che adesso tutti quelli che non guardavano più lo schermo si sono alzati? Guardi, guardi lei stesso: non vede che hanno ripreso a cercare le uscite di sicurezza, come quando erano al buio, ed anche più di prima? Non vede?

– Sì, vedo, vedo… ma cosa fanno? Così si ammazzano l’uno con l’altro! No, guardi quel bambino, lo stanno calpestando… ma… hanno perso la testa?

– Sono in un panico ancora più grande di quello di prima, e il suo film non basta più a distrarli.

– No, noo, nooo… fratelli! Cosa fate?

– Fanno l’unica cosa che si può fare in quella situazione: cercano un’uscita di sicurezza; ma è tardi per cercarla. L’uscita va preparata, sennò se ne esce male. E lei lo sa, reverendo.

– Ma, la porta stretta, la porta stretta che ho sempre predicato, loro sanno dov’è…

– Quella porta è già difficile trovarla quando si tratta di entrare, si figuri per uscire, e poi in condizioni come questa… non è una porta antipanico, quella che predicate voi preti.

– Ma così si salveranno in pochi.

– Infatti.

 

(Adesso tutti sono in piedi e la disperazione prende anche quelli che ancora guardavano il film)

 

Si dice che, dopo quella tragedia, la chiesa cattolica abbia cominciato a predicare il white-out: una strana salvezza, una salvezza posta fuori, non più dentro. Ma questa è un’altra storia, molto delicata, per cui non posso parlarvene.

Ma posso parlarvi di ciò che è successo dopo quella tragedia, pochi giorni dopo, il reverendo (al quale non ho mai voluto chiedere il nome) mi telefonò (non so come abbia fatto ad avere il mio numero) e mi disse:

– Professore, mi scusi, se la disturbo, ma è che… insomma, c’è una cosa che vorrei  dirle… è da tanto che ci penso…

– Dica, reverendo, non disturba mica, si figuri, mi dica.

– Ecco, volevo dirle: ma come sarà potuto succedere che in quella sala cinematografica, mentre si consumava la tragedia, nessuno sia riuscito a trovare le uscite di sicurezza? Me lo chiedo continuamente… secondo lei, come sarà stato possibile?

– Mah! Non lo so reverendo, perché pensa che io possa saperlo?

– No, non lo so, non è che pensi che lei lo sappia, è che volevo sentire la sua, al riguardo…

– Chissà… la porta stretta qualcuno l’ha trovata, ed è uscito, grazie a lei…

– Non faccia dell’ironia, la prego. Sì, è vero, ma tutti gli altri sono morti.

– Lo so. Bah… guardi, mi viene in mente una cosa sola, e non è nemmeno originale, è già stata detta, non so più da chi, ma è già stata detta… Che si trova solo ciò che si conosce.

– Cosa intende dire? Che quei disgraziati non conoscevano l’esistenza delle uscite di sicurezza?

– Per l’appunto.

– Ma come è possibile? E poi, non è nemmeno necessario conoscerle, in un pigia-pigia come quello che si verifica in quei momenti basta che uno si appoggi al muro, anche al buio, e prima o poi va a spingere una di quelle porte, che si apre…

– Eppure non è successo.

– Per l’appunto! Come è potuto succedere? …ehm, cioè: non succedere?

– Reverendo, cosa vuole che le dica? Voi preti citate sempre quella frase evangelica: bussate e vi sarà aperto… non è così?

– Sì, è così, e allora?

– A quale porta voi insegnate a bussare? A tutte? O ce ne sono alcune privilegiate?

– Non saprei, non lo so…

– Vede, forse è qui il punto: non sarà che la vita va spesa innanzitutto per cercare di conoscere il più possibile la porta dalla la quale ci tocca uscire?

– A quale porta pensa?

– A quella della morte, per esempio, da quella ci passiamo tutti, no?

– Sì.

– Il problema è, secondo me, cercare di capire il più possibile a cosa si va incontro uscendo da una porta, perché non credo che tutte le porte portino nella stessa stanza…

– …ma dalla porta della morte ci dobbiamo passare tutti…

– …già, infatti credo che prima ancora di pensare a quella porta là sarebbe meglio pensare alla porta per la quale siamo entrati, a questa porta qua: alla porta attraversando la quale non possiamo più fare a meno di attraversare quella porta là. Almeno due porte le dobbiamo oltrepassare, no? Una per nascere e una per morire. Ora, se noi siamo liberi di evitare l’ingresso; una volta entrati, la porta d’uscita non la possiamo più evitare, il dado è tratto. Sembra banale, eppure nessuno mette in discussione l’entrata; tutti si lamentano dell’uscita, ma nessuno la mette in relazione all’entrata! Perché? Nessuno vuole uscire ma tutti devono entrare? Si rende conto?

– …

 

Non mi rispose più nulla. Mi salutò frettolosamente, attaccammo il telefono e non lo sentii né lo vidi più. Era un buon prete, tutto sommato, ma non aveva mai pensato seriamente ai punti deboli della sua fede, o forse si ostinava a non fare luce su quei punti, magari per paura di perdere la fede, non lo so…

Autore: damnātus

È meglio preservare il sonno prima del risveglio, che conservare la veglia dopo il risveglio.

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