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P:01

MORSI DALLA

COLLEZIONE GIANNELLI

frenatus

Equus

P:03

Equus frenatus

P:05

Antiqua quæ nunc sunt,

fuerunt olim nova!

A mia moglie Sandra,

che mi ha sostenuto con pazienza

in questa iniziativa.

P:07

MORSI DALLA

COLLEZIONE GIANNELLI

frenatus

Equus

P:08

In sovraccoperta

Pisanello (Antonio di Puccio di Giovanni da Cerreto, 1395[?] – 1455[?])

Cavallo imbrigliato, la testa di fronte, con morso pendente

cm 26,8 x 16,8

Museo del Louvre (Parigi), Dipartimento delle Arti Grafiche – Inv. 2360.

(per gentile concessione del Louvre).

Sul retro della sovraccoperta

Guardia di morso del Luristan.

VIII secolo a.C. circa.

Ideazione e progetto editoriale

Claudio Giannelli

Progetto grafico

Guglielmo Losio

Impaginazione e stampa

Tipografia Camuna S.p.A.

Crediti fotografici

© Michele Ostini - Lugano (CH)

Si ringraziano

gli Autori e tutti coloro che hanno appoggiato

con entusiasmo questa iniziativa.

ISBN 978-88-97562-14-6

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa

in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro

senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’autore.

© 2015 Claudio Giannelli

Tutti i diritti riservati

Finito di stampare nel mese di settembre 2015

a cura di:

Breno/Brescia

Informazione ecologica

pubblicazione stampata con assenza di esalazioni alcooliche

Sistema Cesius® brevettato Philip Borman Italia

www.tipografiacamuna.it

P:09

In ricordo di Angelo Pecorelli ............................................ 8

Ezio Lodetti

Presentazione della Fondazione .......................................... 9

Francesco Bettoni, Stefano Capretti

Presentazione del Club International d’Eperonnerie ........................... 10

Pierre Drugmand

Introduzione ....................................................... 11

La bocca del cavallo e la sua evoluzione con l’età ............................. 13

Domenico Bergero

Breve storia delle imboccature ......................................... 19

Claudio Giannelli

I morsi bronzei nel Vicino Oriente antico ................................... 41

Manuel Castelluccia

La cavalleria greca .................................................. 91

Giuseppe Cascarino

Le imboccature in Grecia ............................................ 105

Claudio Giannelli

Il rapporto tra uomo e cavallo nel mondo villanoviano ed etrusco ................ 115

Chiara Martinozzi

La cavalleria romana................................................. 125

Giuseppe Cascarino

Il Medioevo ....................................................... 147

Patrizia Arquint

Il Cavallerizzo di Claudio Corte ......................................... 161

Mario Gennero

I morsi in ferro, magici connubi di tecnica ed estetica ......................... 181

Alessandro Cesati

Il morso, dal Rinascimento al secolo dei Lumi ............................... 193

Pierre-Marie Desclos

Note biografiche degli autori.......................................... 223

Glossario........................................................ 227

Bibliografia ...................................................... 243

INDICE

P:10

8

Ho conosciuto il dr. Angelo Pecorelli da neo laureato in medicina veterinaria

e da subito ne ho riconosciuto il fascino e le sue notevoli capacità indirizzate

a far grande quella Medicina Veterinaria che amava ed in cui credeva.

Nato economista, per i suoi eccelsi meriti fu insignito della laurea in

Medicina Veterinaria “honoris causa”.

Oggi, a 10 anni dalla sua morte e trovandomi nella condizione di collaborare

come direttore scientifico nella Fondazione da lui creata, sono in grado

di apprezzare ancora di più la sua felice intuizione.

A tutti coloro che sono chiamati a proseguire il cammino da lui tracciato

rimane l’obbligo ed il dovere di continuare ad interpretare il suo pensiero

con lo stesso incredibile entusiasmo che non lo ha mai abbandonato.

Prof. Ezio Lodetti

Direttore Scientifico

FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE E ZOOTECNICHE

BRESCIA

IN RICORDO DI ANGELO PECORELLI

P:11

9

Nel 60° anniversario della sua istituzione, la Fondazione ha accolto con

entusiasmo la proposta del Prof. Ezio Lodetti, nata da un’idea del Prof.

Memo Maddaloni, di affidare a Claudio Giannelli l’incarico di allestire questo

“Quaderno” che può definirsi – a pieno titolo – un libro d’arte unico nel suo

genere.

Claudio Giannelli ha accumulato vaste esperienze nel variegato ed

affascinante mondo del Cavallo ed il suo curriculum ci dà solo un’idea delle

conoscenze di quello che possiamo definire un vero “uomo di cavalli”.

Tra le sue collezioni a tema equino, frutto di cinquant’anni di ricerche

appassionate, spicca quella di imboccature, ritenuta la più importante al

mondo in alcuni ambiti, come quello del Luristan o del periodo italico.

Ricca di circa 500 pezzi, spazia dai primi esemplari in corno di cervo databili

intorno al II millennio a.C., tocca zone e popolazioni che ebbero contatti

privilegiati con il cavallo e giù fino ai nostri giorni, su di un arco temporale di

circa 4.000 anni.

Le note storico-geografiche di illustri esperti e le splendide fotografie

testimoniano dell’evoluzione di questo misconosciuto quanto fondamentale

accessorio che media il legame tra uomo e cavallo.

Questo “Quaderno” dà un tocco d’arte e di storia alla collana editoriale della

Fondazione che, com’è noto, ha privilegiato le trattazioni scientifiche e con

esso raggiunge le 100 pubblicazioni.

Il 60° della Fondazione ed il ricordo del suo fondatore, Angelo Pecorelli,

nel 10° anniversario della morte, rappresentano l’omaggio al lavoro ed

all’impegno profuso in tanti anni di servizio per la comunità scientifica.

Dr. Francesco Bettoni Dr. Stefano Capretti

Presidente Segretario Generale

FONDAZIONE INIZIATIVE ZOOPROFILATTICHE E ZOOTECNICHE

BRESCIA

P:12

10

Creato nel 1986 in Francia, il Club International d’Epéronnerie conta

attualmente una cinquantina di membri sparsi nel mondo intero. Alcuni di

loro, anche grandi collezionisti, sono dei veri specialisti nel campo dei morsi,

delle staffe, degli speroni, delle selle e dei libri, e le loro conoscenze sono

spesso utili tanto a privati come ad istituzioni pubbliche.

Il Musée du Cheval di Saumur, il Musée du Cheval di Chantilly, il Musée du

Cheval di Beaucaire, i Musées Royaux d’Art et d’Histoire di Bruxelles, il Musée

Départemental di Dobrée-Nantes, les Collections Hermes a Parigi, The

Horse Museum di Tuxford ed il Metropolitan Museum di New York sono tutti

membri del CIDE.

Il Club è lieto e onorato di annoverare tra i suoi Soci Claudio Giannelli, la cui

erudizione nel campo del cavallo in generale ed in quello delle imboccature

in particolare ne fanno persona da noi tutti grandemente apprezzata.

Con questo libro, che pubblica una parte della sua collezione, senz’altro un

unicum nel suo genere, ha voluto portare il suo contributo alla conoscenza

ed alla storia dell’evoluzione del morso attraverso le epoche e non v’è

dubbio che tanto il profano quanto l’uomo di cavalli più esperto potranno

meglio conoscere questo strumento indispensabile alla condotta della più

nobile conquista dell’uomo: il Cavallo.

Pierre Drugmand

Presidente del Club International d’Eperonnerie

P:13

11

INTRODUZIONE

L’interesse fondamentale di questo libro è la pubblicazione della finora inedita

collezione Giannelli di morsi da cavallo. Per la sua ampiezza e ricchezza, questa raccolta è – in molti settori chiave – la più importante a livello mondiale.

Le serie di morsi italici e del Luristan presentate sono ineguagliabili per la loro

rarità e la loro bellezza.

Ampiamente illustrato e corredato di commenti scientifici, questo testo si propone di offrire un serio contributo alla storia del cavallo ed una documentazione preziosa per i ricercatori.

Il morso, questo misconosciuto oggetto, è stato uno degli elementi fondamentali del rapporto uomo-cavallo a tal punto che per troppo tempo si è pensato che esso fosse di per sé la soluzione d’ogni problema equestre.

Ogni civiltà, ogni epoca, ogni terra ha contribuito all’elaborazione del morso.

Nel corso dei secoli i fabbri hanno prodotto degli oggetti a volte simili, ma più

sovente molto diversi. Spesso tanto artigiani quanto artisti, i fabbri hanno accompagnato la storia dell’equitazione producendo oggetti che vanno ben al

di là della semplice funzione di strumento di comunicazione tra il cavaliere ed

il suo cavallo.

Il morso, oltre che simbolo di potere, è stato spesso un mezzo estetico di

ostentazione della ricchezza, una chiave di indentificazione e riconoscimento

sociale ed anche oggetto rituale.

Il gran numero di trattati antichi sull’equitazione dedicati esclusivamente al

morso dimostra che anche gli oggetti apparentemente più semplici sono più

complessi di quanto sembri. Tenuto conto della diversità delle origini e del lunghissimo periodo storico rappresentati nell’opera, ogni capitolo è redatto da

un esperto altamente specializzato.

Le collezioni di Claudio Giannelli spaziano su molti temi del variegato mondo

del cavallo ed in particolare quella di imboccature, ricca di oltre 500 pezzi, è

considerata la più importante al mondo per ampiezza cronologica, tipologica

e per l’alto livello qualitativo. Essa copre un arco temporale di circa 4.000 anni.

P:14

12

Strettamente connessa a questa, la raccolta di libri, forte di circa 600 titoli,

comprende sia i primi testi rinascimentali dei grandi maestri (Grisone, Pignatelli, Fiaschi, Ferraro, ecc.) sia una vasta saggistica sul vicino oriente, come pure opere di veterinaria, alimentazione, istruzione, arte e quant’altro connesso

al mondo equestre.

E, sempre ovviamente su questo tema, sono anche rimarchevoli sia le sue collezioni d’arte (dipinti, incisioni, disegni, sculture) come pure quelle di particolari e rari accessori quali ipposandali e falere d’epoca romana, staffe in legno

scolpito sud-americane, campanelline da cavallo in bronzo mesopotamiche e

molto altro ancora. Tutto a testimonianza di una forte passione e di uno sconfinato amore per il cavallo.

P:15

La bocca del cavallo e la sua evoluzione con l’età 13

Non è casuale il fatto che la bocca del cavallo sia utilizzata per veicolare informazioni dall’uomo all’animale: questo distretto ha infatti caratteristiche molto particolari, di sensibilità da un

lato e di posizione dall’altro, che rendono questa scelta quasi automatica.

Certo, questa scelta non è obbligata, né semplice, né univoca; è tuttavia efficace e questo

giustifica il fatto che sia stata molto utilizzata, in passato e nel presente.

Vediamo dunque quali sono le caratteristiche che rendono la bocca del cavallo così speciale.

Da un punto di vista generale, la bocca può essere definita come una cavità, compresa

tra le due mascelle, che occupa la metà anteriore della faccia. Si estende infatti dalle labbra,

in avanti, alle fauci, nella parte posteriore, che la mettono in comunicazione con la faringe.

Strutturalmente, la bocca consta delle pareti e presenta centralmente la lingua. Le pareti sono costituite dalle labbra, dalle guance, dal palato, dal pavimento sotto la lingua (che si dice,

appunto, sottolinguale); quest’ultima è invece un organo muscolare molto mobile. Sono presenti, inoltre, organi particolari, indispensabili per la masticazione, i denti, accolti negli alveoli dentali delle mascelle.

La bocca è rivestita da una membrana, più propriamente una mucosa, che si continua,

da una parte, con la pelle, a livello del margine libero delle labbra, dall’altra con la mucosa

faringea, interrompendosi solo a livello degli alveoli dentali. Questa mucosa si presenta come

particolarmente robusta, rivestita di un tessuto fibroso (cheratinizzato), adatto a resistere ai

possibili insulti derivanti dalla prensione e masticazione di alimenti anche particolarmente fibrosi, e quindi a volte duri, a volte con presenza di margini affilati o appuntiti.

Le labbra sono due pieghe muscolo-membranose, distinte in superiore ed inferiore, che

circondano l’apertura esterna della bocca; i tratti in cui le labbra si uniscono tra di loro prendono il nome di commessure. Negli equini le labbra sono sottili e mobili, particolarmente

adatte alla prensione degli alimenti.

Le guance si presentano come due pareti muscolo-membranose che chiudono la bocca

sui lati e che si estendono dalla commessura delle labbra al margine inferiore delle mandibole, ad una sporgenza ossea chiamata “cresta facciale” in alto ed al margine anteriore del

massiccio muscolo massetere, il più importante per la masticazione, che si presenta molto sviluppato nel cavallo. Esternamente le guance sono rivestite dalla pelle ed internamente dalla

mucosa boccale.

La cavità della bocca è delimitata in alto dal palato, organo lungo circa 27-28 cm, che si

divide in palato duro e palato molle. Il palato duro presenta una base ossea ed è delimitato ai

lati dalle arcate degli alveoli dentali superiori; la mucosa che riveste queste ossa presenta una

sporgenza centrale (rafe mediano) e da 15 a 20 creste traversali. Il palato molle o velo palatino

La bocca del cavallo e la sua evoluzione con l’età

Domenico Bergero

P:16

14 Domenico Bergero

è un organo muscolo-membranoso che rappresenta la continuazione del palato duro. Lungo

circa 14-15 cm, delimita assieme a due pieghe – che si staccano una per lato dalla sua parte

anteriore e si portano alla radice della lingua – la comunicazione tra la bocca e la faringe, detta istmo delle fauci. Il margine libero del palato molle si prolunga da ciascun lato in una piega

che si dirige sulla faringe. Il velo palatino è rivestito nella faccia verso la bocca dalla mucosa

buccale e da una mucosa di tipo respiratorio, meno robusta, nella faccia detta faringea. Il palato molle è considerabile come la “valvola” che regola il transito faringeo, ed è molto sviluppato negli equidi, tanto da impedire a questo animale di respirare dalla bocca, come invece è

possibile all’uomo o al cane.

Il pavimento sottolinguale è delimitato dall’arcata dentale inferiore e ricoperto, a riposo,

dalla lingua.

La lingua, particolarmente lunga, circa 40 cm, è un voluminoso organo muscolare che, allo stato di riposo, ricopre tutto il pavimento sottolinguale e riempie la cavità della bocca propriamente detta, quando le mascelle sono ravvicinate. È costituita da una parte mobile, anteriore, detta apice ed una parte fissa, posteriore, che si suddivide in corpo e radice. La parte

superiore è rivestita da una mucosa molto robusta provvista di strutture di forma e di numero

variabile, le papille linguali, che sono la sede degli organi del gusto, ed è provvista di notevole

sensibilità tattile. È questo uno dei presupposti per l’uso dell’imboccatura.

Fig. 1.

Tavola tratta da Über

die Reutterei (“Della

cavalleria”), 1609, di Georg

Engelhard von Löhneysen

(1552-1622).

P:17

La bocca del cavallo e la sua evoluzione con l’età 15

Fig. 2.

Alcuni esempi di

“giocattoli”.

La parte della mucosa boccale che riveste le arcate alveolari prende il nome di gengiva.

Questa si spinge anche negli spazi interdentali e circonda il dente in corrispondenza della sua parte inferiore. Tra i denti incisivi ed i premolari dell’arcata inferiore e superiore vi

sono spazi privi di denti, le barre, dove il margine superiore della mandibola diventa più

sottile e nel maschio, nella parte più anteriore, accoglie i canini. Le barre sono rivestite da

mucosa gengivale.

Dunque, una struttura particolarmente complessa, delicata ma al tempo stesso adatta anche a sopportare sollecitazioni meccaniche notevoli, pur mantenendo la giusta sensibilità. Del

resto, si tratta di una struttura viva, molto frequentemente in movimento (il cavallo in libertà

impiega sino a 16 ore al giorno del suo tempo nell’attività di scelta, prensione e masticazione

degli alimenti), ricca di vasi sanguigni e di terminazioni nervose. Proprio i nervi sono alla base della sensibilità più volte ricordata.

I principali rami nervosi che interessano la bocca derivano da un importante tronco nervoso, il nervo trigemino, che costituisce il V paio di nervi cranici (ovviamente, ne esiste uno

per lato, per questo si parla di “paia” di nervi cranici), che origina da una struttura cerebrale

molto antica, il ponte, mediante due radici, una sensitiva, ed una più esile, mista. Il trigemino è costituito da tre nervi, l’oftalmico, il mascellare ed il mandibolare. È un nervo misto; la

componente sensitiva è presente in tutti e tre i nervi, mentre la componente motoria è propria del nervo mandibolare.

I “giocattoli”

Su alcune imboccature si notano cannoni avvolti da rondelle più o meno numerose, di vari

formati, oppure dotati di placchette girevoli con dei pendaglietti: sono i cosiddetti “giocattoli”. La

loro funzione era infatti quella di far giocare la lingua del cavallo su di essi al fine di stimolare la

salivazione, per rendere più gradevole l’imboccatura stessa, e favorire la decontrazione.

In alcuni casi questi accessori erano di materiali diversi dal ferro come – ad esempio – bronzo,

rame e, qualche volta, addirittura argento. I due metalli, bagnati dalla saliva contenente per natura

una certa acidità, producevano un leggerissimo effetto galvanico: si veniva a creare, cioè, una

lieve corrente elettrica che contribuiva anch’essa ad aumentare la produzione salivare.

2

P:18

16 Domenico Bergero

Fig. 3.

I peli tattili.

Il nervo oftalmico si divide in tre rami, il

nervo lacrimale, il nervo frontale ed infine, il

nervo nasociliare.

Il nervo mascellare si divide invece in nervo zigomatico, nervo pterigopalatino, che origina il nervo palatino minore che si distribuisce

alla mucosa del palato molle, ed il nervo palatino maggiore che innerva i due terzi posteriori del palato duro. L’ultimo ramo del mascellare

è il nervo infra-orbitale, da cui originano i rami

alveolari per i denti dell’arcata superiore e rami

nasali esterni, nasali interni e labiali che innervano le narici, il labbro superiore ed i corrispondenti peli tattili (quelli che, purtroppo, vengono

spesso tagliati per questioni estetiche tipicamente umane, vedi fig. 3). Il nervo mandibolare a

sua volta origina vari rami, il nervo masticatorio,

che stacca una branca per il muscolo massetere,

il nervo pterigoideo, il nervo per il muscolo tensore del timpano e per il velo del palato. Origina

ancora il nervo buccale, importante perché innerva la parete buccale della guancia, ed il nervo auricolo-temporale che, oltre a dirigersi nella

regione temporale, manda rami sensitivi anche

alla pelle che riveste il massetere. Inoltre, quest’ultimo nervo, emette un ramo comunicante

con il nervo facciale, altro importante nervo della testa; infine, origina il ramo linguale, che si

porta alla lingua.

Il nervo mandibolare, si divide ancora in nervo linguale, sempre destinato al corpo ed all’apice della lingua; nella stessa zona, peraltro, agiscono anche le terminazioni del nervo ipoglosso, (i due nervi del lato destro e sinistro compongono il XII paio di nervi cranici) e nervo misto;

ultimo ramo del mandibolare, il nervo alveolo-mandibolare, che stacca i rami dentali per l’arcata dentaria inferiore e rami destinati alle gengive; lo stesso nervo, successivamente, diventa

nervo mentoniero che innerva la regione del mento e la pelle e la mucosa del labbro inferiore.

Un altro nervo importante, oltre al trigemino, è il nervo facciale, (che sui due lati, analogamente a quanto descritto sopra, compone il VII paio di nervi cranici), nervo misto. Il suo

decorso in avanti diventa superficiale tra la mandibola e la parotide e dà origine ai rami buccali, destinati ai muscoli della guancia, alle labbra, al naso ed alla pelle corrispondente. La

sensibilità di queste parti, deriva anche da una parte di fibre sensitive che derivano dal nervo

trigemino mediante il citato ramo comunicante del nervo mandibolare.

Ovviamente, all’interno della bocca sono alloggiati i denti.

Un cavallo adulto ha una dentizione che comprende da 36 a 44 denti. Tutti i cavalli hanno infatti, normalmente, 6 incisivi inferiori e 6 superiori (3 sul lato destro e 3 sul lato sinistro),

chiamati, a partire da quello più centrale verso i lati, picozzi, mediani e cantoni. Dopo i cantoni iniziano le barre, già descritte. Gli incisivi sono particolarmente utili per la prensione degli

alimenti, infatti tagliano e strappano l’erba che verrà poi masticata. Nella parte anteriore delle

barre, i maschi presentano anche 4 canini, detti scaglioni, 2 superiori e 2 inferiori. Anche un

numero limitato di femmine (circa il 10%) ha uno o più scaglioni, e per questo vengono dette

scaglionate. Oltre le barre, posteriormente, vi sono i premolari ed i molari, che sono addetti

alla masticazione fine degli alimenti. In particolare, i premolari normalmente sono 3 per lato, sia sulle arcate inferiori che sulle superiori, ed altrettanti sono i molari, quindi nel cavallo

P:19

La bocca del cavallo e la sua evoluzione con l’età 17

normale contiamo 24 denti addetti alla masticazione in tutto. A questi vanno aggiunti, in oltre

metà della popolazione equina, da uno a quattro denti premolari posizionati subito davanti

agli altri normalmente presenti (si tratta, in realtà, dei denti “primi premolari”), che sono di

dimensioni molto più ridotte, e che vengono chiamati denti di lupo o lupini. I denti di lupo,

specie inferiori, sono spesso chiamati in causa per spiegare alcune reazioni avverse all’imboccatura, e vengono allora tolti, senza che questo rechi alcun problema al cavallo.

All’interno della bocca, l’imboccatura rimane normalmente appoggiata sulla lingua e, di

lato, sulla mucosa gengivale che riveste le barre delle mandibole inferiori. Questa mucosa, in

un cavallo adulto, è normalmente sottile ed è ancorata ad uno strato fibroso di soli 2 mm, al

di sopra dell’osso. Indirettamente, l’azione meccanica viene trasmessa anche al naso, al mento

ed alla nuca. Dunque, sono le terminazioni nervose sopra citate che permettono la comunicazione cavallo – cavaliere, ma sono anche le responsabili delle possibili azioni troppo violente

o punitive – e delle conseguenti reazioni dei cavalli – che conseguono ad un uso inappropriato delle imboccature.

P:21

Breve storia delle imboccature 19

Quando le strade dell’uomo e del cavallo si incontrarono i destini di entrambi furono per sempre reciprocamente condizionati e, come in una sorta di “convergenze parallele”, la vita e l’evoluzione dell’uno hanno

influenzato e condizionato quelle dell’altro. Ogni momento della storia dell’uomo testimonia la vicinanza

di questo splendido animale: dal mito alla religione,

dall’arte alla guerra, dall’agricoltura allo sport. Non

dimentichiamo che, nel corso dei millenni e sino a

tempi relativamente recenti, il suo possesso e corretto uso ha spesso decretato la supremazia o il crollo di

interi popoli e civiltà. Esemplare, in proposito, il consiglio dello storico ed ipparco greco Polibio allorché

affermava che per avere la chiave della vittoria bisognasse entrare in battaglia con il doppio della cavalleria nemica e con la metà della fanteria!

Non abbiamo dati assoluti sul luogo esatto dove

è iniziata una vera convivenza tra uomo e cavallo né

su quali furono quelle popolazioni che tentarono, per

prime e con successo, la sua domesticazione.

Ampi studi ed il fatto che, quasi certamente, il

nostro attuale cavallo derivi dall’antico Tarpan possono fornirci alcune indicazioni ormai condivise da

molti specialisti. Si tratterebbe, infatti, di una sorta di immensa fascia a mezzaluna che dalle

steppe dell’Ucraina a quelle del Turkestan, dal lago Aral, abbracciando tutta la Russia sud-occidentale, arriverebbe sino ai Monti Altai e forse oltre (fig. 1).

Si concorda nel ritenere che popolazioni mongole addomesticarono il cavallo intorno al

V millennio a.C. e le scoperte archeologiche, coadiuvate da tecnologie sempre più sofisticate, si susseguono con frequenza, fornendoci dati sempre più precisi. L’incertezza, comunque,

è sempre possibile, come fu il caso del teschio di uno stallone trovato in una sepoltura dalle

caratteristiche rituali a Dereivka, villaggio al sud dell’Ucraina, che presentava chiare ed inequivocabili tracce di usura sui denti, dovute certamente all’uso di una qualche imboccatura.

Nella stessa sepoltura furono anche rinvenute due corte asticciole in osso, forate, certamente

le barre laterali della stessa.

Breve storia delle imboccature

Claudio Giannelli

1

P:22

20 Claudio Giannelli

Figg. 2,3.

Bassorilievi assiri dal

Palazzo Reale di Ninive,

VIII secolo a.C. circa.

2

3

P:23

Breve storia delle imboccature 21

Fig. 4.

Guardia in osso con protome

antropomorfa o animale

(manca un terminale), prima

metà del II millennio a.C..

Cm 8.

La datazione di alcuni manufatti fittili ivi rinvenuti, ottenuta con il test della termoluminescenza, avrebbe fatto risalire il

tutto anteriormente al 4000 a.C..

Per lunghi anni questo dato fu ritenuto attendibile, traendo

in inganno moltissimi studiosi, finché, in tempi recenti, ulteriori

analisi dimostrarono che quella sepoltura era stata utilizzata almeno tre volte nel corso dei secoli e che cavallo e accessori andavano ringiovaniti di un paio di millenni.

A tutt’oggi la testimonianza più antica dell’uso di un’imboccatura si ritrova su alcuni teschi equini, recanti evidenti segni e

scalfitture sui premolari, rinvenuti in alcuni insediamenti della

cosiddetta cultura Botai in Kazakhstan, databili intorno alla prima metà del IV millennio a.C..

Il problema più importante e difficile che si pose a quei primi uomini che tentarono, con successo, l’addomesticamento del

cavallo fu, anzitutto, quello del contenimento e poi, una volta

attaccato ad un carro e successivamente montato, quello di una

corretta ed adeguata gestione dell’impulso e del poterlo indirizzare nella direzione voluta.

Nasce da qui l’idea di usare lacci in cuoio o corda passanti,

inizialmente, attorno al collo e poi attraverso la bocca (figg. 2,3).

Per migliorare l’azione di questa correggia ed evitare uno

sfregamento laterale che certamente feriva la commessura delle

labbra, essa fu fermata lateralmente da corte astine in legno o,

più spesso, in osso o corno di cervo lunghe circa una dozzina di

centimetri e recanti altri due buchi ove far passare i montanti

della briglia (figg. 4,5,6).

Di questi primi, rozzi imbrigliamenti non ci sono pervenuti

molti reperti, stante la grande deperibilità dei materiali organici

usati, ma abbiamo conferma e documentazione del loro utilizzo

attraverso vari oggetti d’arte (fig. 7).

Li troviamo diffusi in tutta l’Europa centrale ed anche in

Italia, soprattutto nella cosiddetta area terramaricola, vasta zona

della pianura padana, per tutto il II millennio a.C. sino ai primi

secoli del successivo.

Con la scoperta del bronzo e del ferro ecco apparire le prime imboccature metalliche che

sono andate via via evolvendosi, con il passare del tempo, grazie alle esperienze che venivano

maturate ed al miglioramento delle conoscenze tecniche e di esecuzione.

Si è usato fin qui il termine di “imboccatura” ma questo porta a dover fare una necessaria

premessa e puntualizzazione perché anche dizionari ed enciclopedie non sempre hanno definizioni univoche. Per semplificare diciamo che un’imboccatura è costituita da alcuni pezzi di

metallo che mettiamo nella bocca del cavallo e, più precisamente, in quello spazio esistente

tra incisivi e premolari inferiori che prende il nome di “barre”.

Nelle pubblicazioni si nota che molti autori, sia antichi che moderni, considerano spesso

i termini “imboccatura” e “morso” quali sinonimi e ciò ingenera, in una materia ancora relativamente poco conosciuta e studiata come questa, una certa confusione anche nelle traduzioni.

La terminologia della moderna equitazione con il termine generico di “imboccatura” definisce quel mezzo di contenimento, posto nella bocca del cavallo ed al quale sono attaccate

le redini, mediante il quale il cavaliere può ottenere il controllo dell’animale regolandone, come detto, velocità e direzione.

4

P:24

22 Claudio Giannelli

5

6

P:25

Breve storia delle imboccature 23

Fig. 5.

Guardia in corno di cervo,

II millennio a.C..

Cm 12 x 2,5.

Fig. 6.

Guardia in corno di

cervo con decorazioni

geometriche,

II millennio a.C..

Cm 11,5 x 2.

Fig. 7.

Frammento di bassorilievo

assiro con cavallo imbrigliato

con guardie in corno di

cervo, IX-VIII secolo a.C..

Cm 17,5 x 15.

La forma di questo oggetto ricorda, grosso modo, una larga “H”: la parte orizzontale

centrale, cioè quella che sta proprio in bocca al cavallo, si chiama “cannone” o anche “barra”, dal nome della parte anatomica ove poggia, e può essere in un solo pezzo rigido oppure

in due o più parti.

I due elementi laterali sono detti “guardie” (o “aste”, “stanghe” o “branche”) e possono

assumere varie forme e dimensioni: leggermente ricurve o ad “S”; dritte (nel Rinascimento

hanno raggiunto perfino i 60 centimetri!) o con complesse raffigurazioni morfologiche come

nel caso di quelle del Luristan o villanoviane-etrusche.

Alle guardie sono fissate nella parte inferiore le redini ed il quella superiore i montanti

della briglia, cioè cinghie di cuoio che, passando sopra la nuca del cavallo ed essendo regolabili, permettono il corretto posizionamento del cannone nella bocca.

Tecnicamente le imboccature possono essere genericamene divise in due gruppi: i morsi ed i filetti.

I morsi sono caratterizzati da guardie più o meno lunghe e dalla presenza del barbozzale, sorta di catenella di varie fogge e formati, che, passando sotto quella parte inferiore della mandibola detta “barbozza”, permette un’azione di leva più o meno dura a seconda della

lunghezza delle guardie.

I filetti hanno cannoni rigidi o snodati di varie tipologie e terminano lateralmente con

anelli che possono essere solidali o meno con essi.

Stante questa premessa, si constata oggi, nell’uso corrente, il prevalere della parola “morso” per definire ogni tipo di imboccatura, salvo una specifica attribuzione, e quindi si ritiene

indifferente l’uso dei due termini1

.

Riusciti, dunque, nell’addomesticamento del cavallo, i cosiddetti popoli delle steppe, dei

quali ben poco sappiamo in quanto a credenze, lingua ed origini, cominciarono lentamente

il loro spostamento verso sud ed a sedentarizzarsi. Questo lungo processo portò anche società agrarie semi-nomadi a gerarchizzarsi ed all’apparizione dei re-eroi e delle città-stato. È

difficile seguire l’evoluzione delle numerose popolazioni succedutesi

o accavallatesi in queste vaste aree e la loro relazione con l’uso del

cavallo dal momento che nella sola zona mesopotamica se ne contano circa una trentina.

Tutti i vasti territori limitrofi delle città-stato mesopotamiche attestano, inoltre, l’esistenza di floridi e numerosissimi

scambi commerciali, come, ad esempio, con il Luristan, la

Bactriana, i popoli del Caucaso, ma anche con le Cicladi e

tutto il bacino mediterraneo.

È da questa vasta area che provengono i primi e più

antichi esemplari di imboccature metalliche, come pure

dalla Grecia, in particolare da Micene, città del Peloponneso, da Cipro e da Creta, poiché l’arte del bronzo si svipuppò anche in quelle zone all’incirca dalla seconda metà del III

millennio a.C.. Per un inquadramento cronologico, l’Età del

Bronzo è convenzionalmente divisa in tre fasi: il bronzo antico

circa dal 2300 al 1500 a.C., il bronzo medio circa dal 1500 al

1200 a.C. e il bronzo finale dal 1200 al 700 circa a.C..

1 – Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana: “Morso: parte della briglia con

cui si dirigono i movimenti del cavallo, costituita da tre elementi metallici disposti ad

H con accoppiamenti snodabili”.

– Garzanti, Dizionario della lingua italiana: “Morso: arnese in ferro che si pone

in bocca al cavallo ed a cui si attaccano le redini”.

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24 Claudio Giannelli

Fig. 8.

Filetto snodato in bronzo

della tipologia in uso tra Iran

del Nord e Caucaso all’inizio

dell’età del ferro,

XII-IX secolo a.C..

Cm 25, ø cm 4,5.

Fig. 9.

Carro di Agrab, 2700 a.C.

circa.

Questi primi reperti pervenutici sembrerebbero risalire all’incirca dal XIV secolo a.C. e

sono dei semplici filetti snodati in bronzo dalla tipologia sostanzialmente simile a quella che

si ritrova in uso, in epoche successive, presso numerose altre culture o popolazioni (fig. 8).

In questa veloce cavalcata attraverso i secoli non possiamo non accennare brevemente

ad almeno tre popolazioni che tanto influsso ebbero sullo sviluppo dell’equitazione: Sumeri,

Ittiti e Sciti.

I Sumeri, dalle origini ancora oscure, furono probabilmente tra i primi

rappresentanti di una civiltà sedentaria ed abitarono la Mesopotamia meridionale all’incirca dalla metà del IV alla fine del III millennio a.C.. A loro si devono due ritrovamenti importanti a dimostrazione dell’alto grado raggiunto nell’addomesticamento e nell’uso del cavallo: il cosiddetto “Carro di

Agrab”, piccola scultura in terracotta, ora nel museo di Bagdad, raffigurante un carro trainato da quattro equidi, databile intorno al 2700 a.C.,

ed il famoso “Stendardo di Ur”, sorta di pannello a mosaico policromo,

di un paio di centinaia d’anni più tardo, che rappresenta anch’esso un tiro

a quattro, forse di onagri.

Non è chiaro, tuttavia, se indossassero un’imboccatura od una museruola o entrambe ma quel che è certo è che per arrivare a questo livello d’uso, ovvero un tiro con un così

alto numero di animali, sono stati necessari certamente molti secoli, anche se i carri sumeri

appaiono tutti eguali per centinaia d’anni senza alcuna evoluzione (fig. 9).

Un grande passo avanti fu fatto, invece, dagli Ittiti ai quali si deve molto del progresso

nell’impiego del cavallo sia attaccato che montato.

Questa popolazione indo-europea, probabilmente proveniente dalle steppe della Russia meridionale, ebbe il suo epicentro in Anatolia e Siria, espandendosi dall’Asia Minore fino

all’Eufrate, arrivando a conquistare perfino Babilonia, in un arco temporale che va all’incirca dal III millennio al 1200 a.C.. Gli Ittiti usarono carri molto più leggeri e veloci ed avevano

una cavalleria montata, come si evince, ad esempio, sia dai rilievi tebani raffiguranti la battaglia contro il faraone Seti I verso il 1300 a.C. sia da quelli egiziani rappresentanti la famosa battaglia di Kadesh tra il faraone Ramesse II ed il re ittita Muwatalli, avvenuta intorno al

1280 a.C.. Battaglia che fu all’origine di uno dei primi falsi storici abilmente mediatizzato: gli

Egiziani la descrissero come una grandiosa vittoria quando, invece, con molta probabilità, si

trattò di una sconfitta dovuta proprio all’abilità bellica della cavalleria ittita.

Della grande perizia ittita fa testo anche il primo trattato ippico completo che si conosca,

dal significativo titolo “L’addestramento dei cavalli”. Scritto in cuneiforme, all’incirca tra il

1375 e il 1335 a.C. da Kikkuli, cittadino di Mitanni, regno assoggettato dagli Ittiti e ritrovato nella loro capitale H˘

attuša, tratta dell’allenamento del cavallo per portarlo al meglio della

condizione e della resistenza.

8

9

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Breve storia delle imboccature 25

Fig. 10.

Tavoletta in cuneiforme

del testo di Kikkuli,

1375-1335 a.C. circa.

Il suo metodo è descritto con meticolosa precisione, giorno per giorno per 184 giorni, ed è tuttora di una modernità incredibile: anticipa, ad esempio, l’“interval-training”,

in uso oggi da qualche decina d’anni, e sbalordisce per la precisione del metodo, per le

conoscenze teoriche e per le esperienze pratiche che contiene (fig. 10).

Terzo popolo gli Sciti, genti indo-europee che conglomeravano diverse tribù nomadi e seminomadi, con comune matrice economico-culturale, che occuparono un

immenso territorio che spaziava dall’Ucraina ai Monti Altai, dal Danubio alla Siberia

nel primo millennio a.C..

È grazie alle loro sepolture, dette Kurgani, che ci è giunta una notevole quantità

di imboccature molto ben documentate tipologicamente e cronologicamente.

Quando poi questi Kurgani venivano a trovarsi in zone coperte dal permafrost

(suolo gelato permanentemente) abbiamo spettacolari ritrovamenti di intere bardature riccamente decorate poiché i capi o gli alti dignitari si facevano seppellire con i

loro cavalli facendo, a volte, vere stragi: in una sola tomba ne furono rinvenuti 184!

I più sontuosi addobbi sono, senz’altro, quelli trovati nella zona della cosiddetta

“Cultura di Pazyrik”, ai piedi degli Altai, con briglie e finimenti ricoperti di piastre

d’oro e con maschere per cavallo ornate di corna di cervo anch’esse dorate. Espressione fastosa sia della creatività e dell’investimento estetico di cui il cavallo faceva oggetto, come pure di lusso e ricchezza.

Tutte le imboccature sono in bronzo, e le più antiche con guardie separate in legno,

ma non si sono mai trovate, finora, quelle in oro massiccio descritteci dagli scrittori greci, in

particolare da Erodoto.

Il concetto base delle imboccature scite era quello del semplice filetto snodato e, agli inizi, le guardie non erano solidali con le due barre del filetto stesso ma vi venivano fissate con

legami organici e ne troviamo una grande varietà anche desinenti con protomi equine sia fortemente stilizzate sia tendenti verso un maggiore naturalismo (fig. 11).

Le imboccature più ammirevoli mai realizzate dall’uomo sono, senza dubbio, quelle del

Luristan, provincia del nord-ovest iraniano che si estende lungo le valli che costituiscono la

parte centrale dei Monti Zagros.

Lavorate in bronzo fuso con il procedimento della cera persa, avevano quasi sempre cannone rigido in barrette tonde o squadrate che venivano appiattite ed arrotolate su se stesse

alle estremità, ma la loro eccezionalità era costituita dalle guardie laterali figurate di rara bellezza e varietà.

Dopo una prima fase geometrico-stilizzata, anche con semplici filetti simili a quelli di altre culture, vengono ad aggiungersi protomi animali o fantastiche sempre più eleganti e complesse.

I toreuti locali, in un arco di tempo che va circa dal 1200 al 700 a.C., sono riusciti a creare un’infinità di tipologie: cavalli, buoi, stambecchi, galli, animali mitologici, sono solo alcuni

esempi della fantasia di questi veri e propri artisti. Gli esemplari più straordinari sono quelli

con la raffigurazione del cosiddetto “Maìtre des animaux”, strana figura antropomorfa che,

a braccia aperte, stringe con le mani animali o piante e che alcuni studiosi identificherebbero

con Gilgamesh, leggendario re della città sumera di Uruk e protagonista del più importante

poema mesopotamico.

Pressoché tutte le guardie delle imboccature del Luristan sono dotate, nella parte interna,

di acuminate punte, lunghe circa un centimetro, ed in quasi tutti i testi sulla materia si afferma che servissero per meglio dirigere il cavallo.

Teoria quantomeno discutibile in quanto, solo dopo pochi minuti d’uso, la commessura

delle labbra e i suoi delicati dintorni sarebbero diventati una massa sanguinolenta e l’animale

molto meno docile. È probabile, piuttosto, che tali punte dovessero fermare rondelle di feltro o cuoio atte a proteggere sia la bocca che l’imboccatura stessa: non dimentichiamo che

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Fig. 11.

Guardie di imboccature scite

in bronzo: due stilizzate

e due con protome equina,

IX-III secolo a.C. circa.

Da cm 13 a cm 16,5.

Fig. 12.

Morso in bronzo a

barra rigida con guardie

raffiguranti un capride alato.

Luristan, X-VIII secolo a.C..

Cm 19 x 14 x 11.

oggi vediamo questi oggetti coperti da una patina verdastra ma in origine il bronzo riluceva

come oro e, con la saliva, avrebbe potuto sporcarsi ed ossidarsi, perdendo così il suo splendore (fig. 12).

Si impongono, a questo punto, due brevi considerazioni: la prima è che, a volte, gli studiosi, raramente veri “uomini di cavallo”, hanno tratto conclusioni di carattere ritenuto generale partendo da visioni parziali dei quesiti; la seconda riguarda il grave problema della

decontestualizzazione, comune a molti reperti archeologici che ci giungono privi di ogni riferimento all’area in cui sono stati ritrovati, cosa che pone, come nel caso per molti pezzi della

presente collezione, notevoli problemi di datazione ed identificazione geografica e culturale.

È per questo motivo che molte ipotesi cronologiche devono essere prese con cautela, anche se oggi, grazie anche alla moderna tecnologia, nel nostro campo si tende piuttosto a retrodatare invece dell’inverso, come in genere fatto sinora.

Alle imboccature greche è dedicato un breve capitolo a parte ove si tratta della cavalleria di quel paese, ma si possono fare alcune considerazioni preliminari malgrado la scarsità di

oggetti specifici e relativo materiale letterario pervenutoci.

A partire all’incirca dal V secolo a.C. si nota un interesse particolare da parte di alcuni

colti studiosi ad occuparsi di cavalli ed equitazione, sia per quanto concerne l’allenamento, la

scelta, la morfologia o la tecnica, sia dal punto di vista veterinario.

Simone d’Atene, medico veterinario vissuto intorno al V secolo a.C., fu l’autore del primo vero trattato ippiatrico greco, dal titolo”Sull’equitazione”, che ci è pervenuto, purtroppo,

solo frammentariamente.

Ad esso, probabilmente, si ispirò il più noto ed importante scrittore di cose equestri

dell’epoca, il grande Senofonte, vissuto tra circa il 430/425 ed il 355 a.C., che, a dimostrazione dell’autorevolezza di Simone, lo cita ben due volte nei suoi libri (fig. 13).

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Fig. 13.

Il trattato di Senofonte nella

traduzione di Giuseppe

Cascarino.

Fig. 14.

Alcuni esempi di

imboccature villanovianoetrusche.

IX-V secolo a.C..

Alle due pagine seguenti:

Fig. 15.

Alcuni esempi di

imboccature d’epoca

romana.

Degno di nota anche Magone da Cartagine, scrittore del III secolo

a.C., autore di una monumentale opera in 28 volumi sull’agricoltura, ove

dedica ampio spazio al cavallo, che sarà poi tradotta dal punico in greco dal

suo coetaneo Cassio Dionisio (o Dionigi) da Utica.

Siamo, in un certo qual modo, agli albori di quella vasta saggistica volta

allo sviluppo delle conoscenze equestri che vedrà il suo apogeo nel Rinascimento e, in particolare, nel XVII secolo durante il quale, nei vari paesi europei, si pubblicarono centinaia di trattati diversi, poco meno di 200 nelle

sole Italia e Francia.

Un vasto ed interessante panorama ci è offerto dalle imboccature delle

cosiddette civiltà preromane: la Villanoviana e l’Etrusca.

La prima appare intorno al XII secolo a.C. e su questa si sovrapporrà

la seconda che, a sua volta, sarà assorbita da quella romana.

La civiltà Villanoviana ebbe il suo fulcro nell’Emilia-Romagna e deve

il suo nome ad un piccolo centro vicino Bologna ove il famoso archeologo

G. Gozzadini trovò le prime tombe intorno alla metà del XIX secolo. Tracce della cultura villanoviana/etrusca le troviamo sparse per tutti i territori

da loro occupati che si estendevano circa dal basso Friuli a Campobasso.

Per entrambe queste culture è rilevante la differenziazione dei riti funebri:

nella prima fase villanoviana è più comune l’incinerazione con interramento in piccole tombe a pozzetto, con scarsi ritrovamenti, mentre, successivamente, si ricorrerà al’inumazione con ricchi corredi funebri, ivi compresi cavalli, spesso in

coppia, carri e bardature complete.

Le imboccature sono generalmente costituite da semplici filetti in bronzo snodati o,

più raramente, a barra rigida e gli esemplari più ricchi hanno guardie raffiguranti uno o

più cavalli (fig. 14).

Non vi é certo quella proliferazione fantasiosa e fantastica di soggetti come nel Luristan

ma, anche se si tratta solo di guardie con motivi geometrici o cavalli, abbiamo un’originalità

che non sembrerebbe mutuata da altre culture, anche se non si può escludere a priori un’influenza del vicino oriente. Sono, comunque, tutte tipologie dolci e del tutto prive di quella

durezza vista in alcune d’epoca greca e che, purtroppo, ritroveremo spesso nella successiva

epoca romana.

La cavalleria romana era molto spesso formata da popoli sottomessi quali, ad esempio,

Danubiani, Celti, Numidi, e non era quasi mai usata come massa d’urto frontale ma prevalentemente per coprire i fianchi delle legioni, per azioni d’esplorazione, per l’inseguimento dei

nemici in fuga e, soprattutto, per il controllo e la difesa dei confini. Per questo motivo gran

parte dei reperti è stata rinvenuta fuori d’Italia.

Scomparse ormai le imboccature totalmente in bronzo, nel periodo romano troviamo, essenzialmente, due distinte tipologie. Da una parte semplici filetti in ferro snodati con cannoni

quasi sempre muniti di cilindrettti e dischetti girevoli per favorire la salivazione, dotati spesso di guardie formate da placchette quadrate o circolari, anche in bronzo; dall’altra cannoni

sempre snodati e, sulla falsariga di alcuni di quelli greci, con grossi e spessi dischi e rondelle,

anche acuminate, ma dotati di lunghe guardie, centralmente riunite da una barretta, che anticipano idealmente quelle che troveremo più tardi in epoca rinascimentale (fig. 15).

Alcuni ritengono che spetterebbe ai romani l’aver iniziato l’uso del morso con barbozzale, forse inventato dai Celti di Tracia già intorno al III secolo d.C., ma non abbiamo prove

certe a conforto di tale ipotesi.

Poco si sa delle imboccature dei cavalli delle varie popolazioni che si succedettero durante le invasioni barbariche che portarono nel 476 d.C. alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente ma, dagli scarsi reperti giuntici, possiamo dedurre che usassero dei semplici filetti sno13

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Fig. 16.

Filetti tardo celtico-romani

/ barbarici in ferro (uno è

stato per metà inglobato da

una radice).

Fig. 17.

Particolare della celebre

“Tapisserie de Bayeux”,

che descrive la vittoria di

Guglielmo il Conquistatore

su Harold nella Battaglia

di Hastings del 14 ottobre

1066.

Tessuto ricamato,

Normandia o Inghilterra,

seconda metà dell’XI secolo.

M 70 x 0,50, kg 350.

dati in ferro come quelli impiegati a lungo da Celti e Longobardi (fig. 16). Quest’ultimi, grazie

ai contatti avuti con il mondo bizantino dal quale avevano anche importato artisti, avevano

appreso la tecnica dell’ageminatura e molti dei loro filetti ne sono elegantemente ed abilmente decorati, pur se di estrema semplicità.

È nei cosiddetti “secoli bui” dell’Alto Medioevo che le cose sono più vaghe e complesse

poiché non si sa l’esatta origine delle imboccature che vediamo raffigurate nei manoscritti e

nell’arte dell’epoca. Un’ascendenza barbarica o longobarda dovrebbe escludersi data la semplicità dei loro filetti, mentre è più probabile una certa ripresa di modelli tardo romani riveduti e corretti, in particolare quelli del tipo a guardie “oscillanti” (fig. 18).

Alla grande scarsezza di reperti di questo periodo, ovvero sino all’incirca alla fine del XIV

secolo, fanno un po’ da contrappunto alcune raffigurazioni letterarie ed artistiche (fig. 17).

Alcuni importanti trattati di mascalcia come quello di Giordano Ruffo della prima metà

del 1200 o quello di Lorenzo Rusio, vissuto tra XIII e XIV secolo, oppure il famoso “Dei cavalli” di Mastro Bonifacio degli inizi del ‘400, ci forniscono alcuni disegni delle imboccature

in uso all’epoca.

Queste imboccature medievali vanno a scomparire verso la fine del XIV secolo e non le

ritroviamo più raffigurate nell’arte, mentre gli inizi del XV segnano l’affermarsi ormai definitivo della briglia rinascimentale con morso e barbozzale, come la vediamo raffigurata in infiniti dipinti, divenendo anche un vero e proprio “status symbol” come, ad esempio il morso

d’oro di Massimiliano II esposto a Vienna.

Con Federico Grisone, vissuto tra la fine del XV secolo e la seconda metà del XVI,

nasce alla corte di Napoli la prima importante Accademia Equestre ed il suo trattato “Gli

Ordini di Cavalcare”, stampato per la prima volta nel 1550, resta una pietra miliare nella

storia dell’equitazione e nella documentazione delle imboccature e la sua notorietà è confermata dalle 21 edizioni italiane e dalle numerose traduzioni in francese, tedesco, inglese

e spagnolo (fig. 19).

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Fig. 18.

Morso romano in ferro del

cosiddetto tipo “oscillante”.

Periodo dell’Impero, ma

presumibilmente in uso sin

verso la fine del I millennio.

Cm 29 x 14.

Fig. 19.

Edizione tascabile, forse

per uso di maneggio, degli

“Ordini di cavalcare” di

Federico Grisone.

Venezia, 1582.

Cm 16 x 11.

(Coll. C.G.).

Fig. 20.

Cavallo in lavoro

“accademico”: la cosiddetta

“epaule en dedans”.

(Coll. C.G.).

A lui seguiranno altri importanti maestri quali Cesare Fiaschi, Giovan Battista Pignatelli

ed, in Francia, Antoine de Pluvinel e via via un’infinita schiera di seguaci grandi e piccoli, più

o meno famosi, innovatori veri o semplici copisti.

L’insegnamento viene codificato nei grandi trattati e l’equitazione diviene, a quel punto,

veramente un’arte. La ricerca della riunione del cavallo e del piego della sua incollatura diventano elementi indispensabili per ottenere le migliori prestazioni (fig. 20).

Il prestigio ed i relativi benefici goduti alle varie corti da questi maestri li portava, inevitabilmente, a dover, a tutti i costi, inventare sempre nuove imboccature per potersi dimostrare

più bravi della concorrenza e questo ebbe come conseguenza il proliferare parossistico, dal

XV al XVIII secolo, di tipologie di morsi e, soprattutto, dei loro cannoni (figg. 21,22).

Si cerca anche di trovare ispirazione fuori dall’Europa, come è il caso del morso spagnolo

“alla Ginetta” o “Ginetto” (fig. 25 a pag. 219), nome derivante dalla tribù berbera d’Algeria

degli Zeneti, discendenti di quei Numidi che seminarono il panico nelle legioni romane e che,

in origine, erano usi montare senza alcuna imboccatura e con un semplice collare.Infatti Virgilio, nell’Eneide al canto IV, li definisce “infreni”, ovvero privi di morso (“frenum” in latino).

Se fino circa alla metà dell’Ottocento si sentivano ancora gli influssi delle epoche precedenti, seppur mitigati nella loro durezza, è sopratturro all’entrata del nuovo secolo che abbiamo una vera e propria svolta.

Agli inizi del XX secolo l’uso militare del cavallo va sempre più ad affievolirsi, malgrado

le due guerre mondiali ne abbiano fatto strage, e viene alla ribalta in modo preponderante

quello sportivo.

È grazie alla genialità di un italiano, il Capitano Federico Caprilli (1868-1907), che comincia a diffondersi la cosiddetta “equitazione naturale”, ovvero una monta leggera, in equilibrio ed armonia con l’animale, che dalla Scuola di Pinerolo si diffonderà letteralmente in

tutto il mondo (fig. 23).

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Fig. 21.

Elegante morso in ferro

forgiato, traforato e inciso.

Germania, XVI-XVII secolo.

(Vedi Zschille e Forrer

“Die Pferdetrense”,

tav. XIX, fig. 1).

(Vedi anche fig. 2 a pag. 184

e fig. 11 a pag. 204).

Fig. 22.

Vari tipi di cannoni

da “Cavallo Frenato” di

Pirro Antonio Ferraro,

Venezia, 1620, ove ne sono

raffigurati oltre 100!

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Fig. 23.

Il capitano di cavalleria

Federico Caprilli (1868 –

1907) su “Piccola Lark”.

Fig. 24.

Filetto snodato in bronzo

(cm 15,5) databile al periodo

della dinastia degli Zhou

occidentali (1100-771 a.C.

circa. Uno identico fu

trovato nel villaggio di

Yuntang, Contea Fufeng,

provincia dello Shaanxi, e si

trova esposto nello Shaanxi

Fufeng County Museum.

Fig. 25.

Filetto snodato in bronzo

(cm 20) databile al

cosiddetto periodo

Primavera e Autunno degli

Zhou orientali (770-476 a.C.

circa).

Esemplari simili sono stati

trovati negli scavi effettuati

nel 1992 nel villaggio

Yimen, città di Baoji,

provincia dello Shaanxi,

da un gruppo archeologico

locale.

Figg. 26-27.

Coppia di filetti snodati in

bronzo incisi a tortiglione

(cm 23).

Periodo Han (206 a.C. -

220 d.C. circa).

Fig. 28.

Eccezionale e raro filetto

snodato sino-tibetano [Tibet

occidentale - Derghe ?]

in ferro con intarsi dorati

e protomi animali, forse

“makara”, mitologico mostro

marino (cm 29 x 17).

XIV-XVI secolo.

Stile paragonabile ad un

esemplare simile nella

collezione E. e G. De la

Boisselière ed a un battente

da porta della collezione F.

Cesati.

Ritornano in auge imboccature più dolci che privilegeranno il semplice filetto snodato o,

tutt’al più, morsi con grossi cannoni, sempre centralmente arcuati per un agevole passaggio

di lingua, e con guardie corte per rendere più lieve l’effetto leva.

Tra le nefaste conseguenze della II guerra mondiale vi è anche, praticamente, la sparizione della cavalleria militare, ultima depositaria delle tradizioni e di una vera cultura equestre.

Scomparso anche dall’utilizzo agricolo, il cavallo ritrova fortunatamente nell’uso sportivo

un nuovo splendore e può dimostrare ancora tutto il suo valore, non solo atletico.

L’indotto commerciale di cui è fonte è, per certi Paesi, di enorme valore, per non parlare

del grande rilievo sociale quale elemento aggregante ed anche terapeutico.

A questo punto le varie discipline come salto, addestramento e completo, solo per citare

le più note, tendono sempre più a specializzarsi, richiedendo ognuna imboccature specifiche

come anche imposto dai regolamenti della Federazione Equestre Internazionale. Si torna, sostanzialmente, all’uso sempre più diffuso di semplici filetti snodati anche se con numerose

varianti ed in leghe sempre più sofisticate.

La cosiddetta briglia completa, ossia composta da un sottile filetto snodato abbinato ad

un morso a cannone rigido con passaggio di lingua e con guardie corte, resta in uso ormai

solo per le gare di addestramento di alto livello, in quanto obbligatoria, o per cavalli particolarmente difficili.

Ogni tanto, però, qualche famoso cavaliere, sia per accrescere la sua notorietà sia per mera speculazione commerciale, si inventa qualche nuova imboccatura che va di moda per un

certo periodo ma che poi viene abbandonata dai più fino… alla prossima trovata!

Anche se suffragati da scarsa documentazione in merito, almeno nelle lingue europee, è

doveroso, prima di concludere, un breve accenno alla Cina, ove l’uso del cavallo è certamente attestato all’incirca dalla metà del IV millennio a.C. durante la Dinastia Fu-Hso, come testimoniato da alcune statuette fittili.

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I primi ritrovamenti di imboccature in bronzo risalgono alla Dinastia degli Zhou occidentali (circa 1100-771 a.C.) e sono molto simili ai filetti sciti, forse a dimostrazione di influenze

reciproche, e dotati, qualche volta, di guardie con un’elegante decorazione.

Quelli che sono stati trovati sui cavalli in terracotta del famoso esercito sepolto del primo

imperatore della Cina, Quin Shi Huang (260-210 a.C.), sono apparentemente complessi ma

i cannoni sono dei semplici cilindri o filetti snodati. Si notano guardie a forma di “S”, motivo che si ritrova, in seguito, anche nei filetti della Dinastia Tang (618-917) o in quelli tibetani

del XIV/XV secolo.

In seguito poco o nulla è cambiato, non certo a dimostrazione di un certo immobilismo

culturale bensì, probabilmente, a riprova di una notevole abilità equestre che non rendeva

necessario l’uso di marchingegni più complicati. I cinesi, infatti, non sono stati influenzati dagli eccessi del Rinascimento europeo o dagli insegnamenti di quelle scuole ed hanno limitato

l’uso del cavallo in modo semplice alla sola guerra o al trasporto.

Non si può concludere senza ripetere come sia affascinante ed interessante l’estrema modernità dei filetti più antichi, molto simili e concettualmente identici a quelli dei giorni nostri,

a dimostrazione del loro giusto valore funzionale.

Oggi si ha, dunque, una sorta di ritorno alle origini con un uso sempre più frequente del

normale filetto snodato, l’imboccatura senz’altro più dolce e rispettosa della delicata bocca

del cavallo, purché sempre abbinato alla pazienza, ad un lavoro progressivo e, soprattutto,

all’amore.

Non bisogna mai dimenticare che già Senofonte propugnava quella leggerezza di mano

che costituisce e costituirà sempre uno dei cardini fondamentali di una corretta equitazione.

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I morsi bronzei nel Vicino Oriente antico 41

Introduzione

I morsi della Collezione Giannelli ascrivibili alle culture del Vicino Oriente antico rappresentano uno spaccato eccezionale dell’alto livello qualitativo raggiunto dalla toreutica delle variegate popolazioni abitanti la Mesopotamia e le terre limitrofe.

Delineare lo sviluppo del morso di cavallo, metallico e non, nel Vicino Oriente antico risulta però alquanto difficile a causa della scarsità della documentazione archeologica disponibile. Questa difficoltà è inoltre strettamente legata ad un’altra problematica di ben più ampio

respiro, ossia l’introduzione e la domesticazione del cavallo. Nonostante l’enorme mole di studi a riguardo prodotti in oltre un secolo di ricerche, non vi è ancora tra gli studiosi un’opinione generale condivisa. Le fonti, numerose e varie, sono, nella maggioranza dei casi, ambigue,

indefinibili o parziali. Le evidenze principali per ricostruire la storia della domesticazione del

cavallo, così come la nascita e sviluppo del morso equino, provengono da tre generi di fonti

differenti: osteologiche, filologiche e figurative.

L’ambito osteologico è sicuramente l’evidenza maggiormente determinante, in quanto

le alterazioni dello scheletro e dei denti dell’animale sono un fattore di analisi oggettivo.

Purtroppo i dati archeologici disponibili per i secoli antecedenti l’Età del Ferro, periodo in

cui le tombe di cavalli sono largamente attestate, sono molto scarsi, in particolar modo per

tutta l’Età del Bronzo. Migliore è invece la situazione per le epoche preistoriche, nel Neolitico e nel Calcolitico. Dallo studio dei resti alimentari rinvenuti nel famoso sito di Çatalhöyük, nella Turchia centro-meridionale, è stata messa in luce la presenza di ossa equine

ma queste non rappresentano che il 3% di tutte le ossa animali ivi rinvenute. All’interno di

questa percentuale, i cavalli erano meno del 10% mentre le restanti ossa appartenevano ad

onagri (Equus hemionus) o ad un’altra specie di equide, successivamente estinta, l’Equus

hydruntinus.

Anche per quanto riguarda i riferimenti nelle abbondanti fonti scritte mesopotamiche

permangono varie difficoltà nella corretta traduzione e interpretazione dei numerosi termini

tecnici presenti. L’ambito di maggior rilievo è dato quindi da tutto l’insieme di evidenze figurative. Queste sono particolarmente abbondanti sin dall’Età del Bronzo matura ma si scontrano, purtroppo, nella corretta distinzione tra cavallo e asino selvatico (onagro). Le raffigurazioni, infatti, sono spesso corrotte dalla comune stilizzazione delle figure, nonché dallo spazio

ristretto dei supporti utilizzati dagli artigiani, nei quali spesso non è possibile riconoscere con

precisione i caratteri marcanti e differenzianti delle due specie, ossia la coda e la criniera. Sarà

solo con l’impero neoassiro e con i suoi eccellenti ortostati decorati, come ad esempio i basI morsi bronzei nel Vicino Oriente antico

Manuel Castelluccia

P:44

42 Manuel Castelluccia

Il cosiddetto “Stendardo

di Ur” è composto di

pannelli lignei ricoperti

di bitume su cui, con

una tecnica ad intarsio

di vari materiali (pietre,

conchiglie, lapislazzuli), sono

raffigurate varie scene di vita

quotidiana.

Datato intorno al 2500 a.C.

deve la sua importanza non

solo al fatto di essere una

delle prime raffigurazioni

dell’uso della ruota ma,

soprattutto, a quello di

illustrare un carro trainato

da ben quattro equidi,

probabilmente degli onagri.

sorilievi del Palazzo Nord di Ashurbanipal a Ninive (668-627 a.C.) che si

avrà una dettagliata raffigurazione e distinzione tra le varie specie.

È ormai opinione largamente diffusa che la maggioranza delle raffigurazioni dell’Antica e Media Età del Bronzo (3300-1600 a.C.) rappresentino

in realtà onagri; questi venivano usati esclusivamente per il traino di carri

da trasporto e cerimoniali, come ben raffigurato, ad esempio, sul famoso

“Stendardo di Ur” (fig. 1). Bisogna infatti specificare che l’uso di un animale da traino non richiede necessariamente l’utilizzo di morsi, ma può

benissimo svolgere la sua funzione attraverso museruole, collari o anelli.

La situazione cambiò radicalmente a partire dalla seconda metà del

II millennio, ossia con il Tardo Bronzo (1600-1200 a.C.), quando l’utilizzo del cavallo si diffuse largamente in Egitto, in Anatolia, nella Mesopotamia e nel Levante;

esso portò ad un deciso cambio nell’arte della guerra nel Vicino Oriente grazie all’emergere

di nuove popolazioni e tecnologie. I principali protagonisti di questa novità sono gli Hurriti

(a cui si affiancano anche i primi nuclei di popolazioni iraniche), popolo dalle origini sconosciute, ma con probabile provenienza euro-asiatica, i quali erano comunque già presenti in

Mesopotamia sin dal III millennio.

Attraverso un processo di graduale statalizzazione, le popolazioni hurrite formano un

regno confederato, passato alla storia con il nome hittita di Regno di Mitanni, estendendo la

propria egemonia sulla Mesopotamia settentrionale. Essi divennero uno degli attori principali della lotta tra i grandi stati territoriali della Mesopotamia, scontrandosi con gli altri regni

del periodo, ossia l’Egitto faraonico del Nuovo Regno, l’Impero Ittita in Anatolia centrale e il

Regno di Babilonia nella Mesopotamia meridionale. Il Regno di Mitanni fu il principale innovatore nell’arte bellica vicino-orientale. Precedentemente, infatti, gli eserciti erano composti

esclusivamente da corpi di fanteria e arcieri; ora, invece, si introduce il carro da guerra leggero, guidato dall’élite nobiliare e guerriera, di probabile provenienza indo-ariana, dei maryannu. L’utilizzo del carro per l’impiego bellico, ma anche venatorio, ben presto si diffonde in

tutto il bacino del Mediterraneo. Eccellenti esempi figurati si trovano, tra l’altro, sul ben noto

rilievo di Ramses II a Tebe raffigurante l’epica battaglia di Qadesh.

L’innovazione militare richiese conseguentemente una parallela innovazione tecnologica.

L’utilizzo del morso equino si rese ora indispensabile per garantire una sempre migliore manovrabilità del carro. Nonostante oltre un secolo di ampi e ben documentati scavi archeologici,

i rinvenimenti di morsi equini in bronzo dalla Mesopotamia e dal Levante siro-palestinese per

l’Età del Bronzo (3300-1200 a.C.) sono quindi estremamente scarsi; essi sono ancora principalmente composti da guardie laterali in corno od osso che fermano lo scorrimento della correggia che passa nella bocca del cavallo e diventa a sua volta redini, mentre quelli in metallo

sono estremamente rari e si limitano a ben pochi esemplari provenienti principalmente da siti

in Egitto (Tell el-Amarna/Akhetaton), dalla costa siriana (Ras Shamra/Ugarit) e da alcune località greche quale, ad esempio, Micene. L’abbondante corpus iconografico del periodo mostra

una chiara predominanza del cavallo utilizzato come traino di carri da guerra. Gradualmente,

sul finire del millennio, cominciano però ad apparire anche le prime raffigurazioni di animali

montati, anticipando quindi il grande sviluppo della cavalleria nel millennio successivo.

Sarà solo con l’Età del Ferro (1200-550 a.C.) e l’emergere di nuovi protagonisti che la

diffusione della cavalleria, e quindi dei morsi in bronzo, raggiunse infatti il suo apice. Non

furono però le millenarie culture della Mesopotamia o dell’Egitto i responsabili, bensì quel

variegato insieme di popolazioni abitanti il “mondo esterno”, ossia tutta la fascia montana

gravitante intorno alle pianure del Tigri e dell’Eufrate. Per poter meglio circoscrivere il problema, si rende necessario esporre una breve digressione storica.

Il passaggio dall’Età del Bronzo alla successiva Età del Ferro è marcato principalmente

dal collasso dell’intero sistema politico del Vicino Oriente. Fattori esterni (invasioni di nuove

1

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I morsi bronzei nel Vicino Oriente antico 43

popolazioni) e interni (crisi demografica e agricola, crollo dei commerci) sono concause della

caduta dei regni di Mitanni, degli Hittiti con i loro vassalli levantini, e della forte ritrazione

dei regni assiro, babilonese ed egizio. Le popolazioni abitanti gli altopiani anatolico orientale,

armeno e iranico occidentale escono dall’anonimato della Storia nel quale le fonti mesopotamiche le avevano relegate nei secoli precedenti, in quanto considerati esclusivamente luoghi

selvaggi abitati da “barbari”.

Quando si parla di inizio dell’Età del Ferro nell’Altopiano iranico e anatolico bisogna tenere presente che esso non denota, paradossalmente, lo sviluppo dell’utilizzazione del ferro.

Esso si diffonderà a partire soltanto dal IX-VIII secolo in poi mentre nell’area caucasica il suo

utilizzo è di un paio di secoli più antico.

L’inizio della nuova era è quindi marcato principalmente da grossi cambiamenti culturali. Uno degli elementi più importanti è l’ingresso delle popolazioni iraniche, che vanno ad

occupare, in taluni casi sovrapponendosi o affiancandosi agli elementi autoctoni preesistenti,

larghi spazi lungo da dorsale dei monti Zagros e in altre zone dell’Altopiano iranico. Si assiste alla costituzione di entità “nazionali” a base etnica che fondano la loro coesione interna su

legami tribali ed etno-linguistici, con una forte compattezza gentilizia e sociale. Queste nuove

entità politiche (Medi, Mannei, ecc.) intraprendono un processo di avanzamento socio-politico verso forme protostatali, abbandonando quindi i rigidi e limitati sistemi tribali precedenti.

Evidenza tangibile di questo processo di organizzazione sociale è rappresentato specialmente

dalla diffusione, lungo tutto l’arco montano dall’Anatolia orientale sino allo Zagros centrale,

di insediamenti fortificati, vere e proprie fortezze ciclopiche, anche di notevoli dimensioni,

sedi di entità politiche regionali. A questo carattere marcatamente “militare” dell’organizzazione spaziale si affianca, inoltre, una massiccia diffusione di necropoli e sepolture con ricchi

corredi di oggetti in bronzo e ferro, i quali vanno a denotare, per i defunti di sesso maschile,

la presenza di un carattere marcatamente “bellico”.

Questa organizzazione sociale, basata evidentemente sul ruolo e predominio di una élite

militare, riuscirà ad evolvere anche in una forma statale completa, ossia il Regno di Urartu

(che riprende, con vocalismo alterato, il ben noto termine biblico e geografico “Ararat”), il

quale si diffuse in Anatolia orientale, Transcaucasia e Iran settentrionale tra IX e VII secolo

a.C., rivaleggiando a lungo con il potente Impero neoassiro.

È in questo contesto socio-politico e geografico, ossia la periferia degli imperi mesopotamici, che vede luce un’altro importante fenomeno dell’Età del Ferro, ossia la massiccia produzione di oggettistica in bronzo, nella quale i morsi equini coprono spesso un ruolo primario.

Nascono così una serie di centri di produzione metallurgica, definiti precisamente dal termine

anglosassone “bronzeworking centres”, che vanno a coprire tutto l’arco montano dall’Anatolia fino alla regione del Golfo, ma che hanno come cuore pulsante la Transcaucasia e l’Iran

occidentale, andando ad influenzare anche le ben più sviluppate culture mesopotamiche e levantine. È possibile pertanto delineare l’esistenza di una sorta di koinè culturale nella quale la

produzione metallurgica nelle alte terre montane ricoprì un ruolo primario; è questo un ruolo diretto principalmente alla legittimazione delle élites dominanti; oltre alla Transcaucasia

classica, altri importanti esempi sono il ben noto Regno di Urartu, così come il regno frigio e

la sua capitale Gordion, i ricchi quanto misteriosi tesori di Ziwiye e del Luristan, per arrivare

infine ai grandi tumuli sciti e pre-sciti della Russia meridionale.

A riguardo bisogna però specificare che l’attuale evidenza archeologica potrebbe, in taluni casi, non rispecchiare la reale produzione antica. Ben poco sappiamo, infatti, della bronzistica assira (così ben espressa dai rilievi figurati) visto il destino a cui andarono incontro le

sue grandi capitali, quali Ninive e Assur, saccheggiate da Medi e Babilonesi sul finire del VII

secolo. Altresì poco sappiamo della lunga tradizione toreutica levantina ed egizia. Questa disparità di evidenze dipende in particolar modo dalla dicotomia delle pratiche mortuarie. Le

popolazioni dell’arco montano, infatti, solevano utilizzare l’inumazione, specialmente sin-

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44 Manuel Castelluccia

Il Vicino Oriente antico

nell’Età del Ferro.

gola, e accompagnare il defunto con

un ricco e variegato corredo di oggettistica in bronzo, ferro e ceramica. Nelle società secolarizzate e statalizzate del Vicino Oriente, invece,

le sepolture sono nella maggioranza dei casi estremamente povere, e

le stesse necropoli scavate sono limitate, e questo spiega l’enorme

disparità di evidenza di oggetti toreutici provenienti della Mesopotamia rispetto alle terre montane. Il

metallo stesso era presumibilmente

meno disponibile nelle pianure alluvionali e quindi più soggetto a fenomeni di riutilizzo; una più rigida

organizzazione amministrativa degli

stati mesopotamici prevedeva verosimilmente una grande concentrazione di metallo grezzo nei depositi palatini e templari, dove furono

in molti casi saccheggiati a seguito

del collasso degli imperi neoassiro e

achemenide.

Anche per quanto riguarda i

morsi equini siamo in presenza della medesima disparità di evidenze.

Morsi in bronzo con contesto archeologico provenienti dalla Mesopotamia sono, ad oggi, decisamente scarsi, mentre dagli altopiani a settentrione e oriente della Mesopotamia proviene un’eccezionale quantità di dati.

Questi sono spesso accompagnati da un contesto di provenienza ben documentato, rappresentato principalmente da sepolture. L’evidenza funeraria offre ottimi spunti di analisi per lo

studio delle credenze cultuali e l’organizzazione sociale; la ricostruzione cronologica, specialmente in mancanza di datazioni assolute al Radiocarbonio, non offre, invece, la stessa completezza assicurata invece dai contesti archeologici di siti abitati. Questi ultimi, infatti, permettono, grazie alla creazione di seriazioni ceramiche sulla base delle sequenze stratigrafiche, di

delineare livelli cronologici con un maggiore grado di attendibilità. Benché in realtà non siano molti i siti scavati e ben documentati di tutto l’arco montano, essi offrono il miglior punto

di ancoraggio per classificare e datare i materiali provenienti dalle tombe oppure per quelli

privi di contesto documentato.

Bisogna infatti specificare che qualsiasi tentativo di datazione di un oggetto trova maggior attendibilità sulla base dell’analisi del contesto archeologico e non sulla mera analisi stilistica dello stesso.

Lo studio della bronzistica dell’Età del Ferro di provenienza anatolica e iranica, e tra

questi anche lo studio dei morsi equini, ha attratto un gran numero di eccellenti studiosi, tra

i quali vale la pena di menzionare i nomi di E. Porada, J.A.H. Potratz, P.R.S. Moorey, O.W.

Muscarella, i quali hanno realizzato dettagliate catalogazioni di oggetti. Questi studi sono stati

prodotti principalmente tra gli anni ’60 e ’80 del Dopoguerra, quando i dati relativi agli scavi

erano estremamente limitati; l’analisi si è pertanto basata principalmente su considerazioni stilistiche, spesso usando come metro di paragone il dato proveniente dal rilievo figurato assiro.

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Un problema analogo ha interessato anche l’evidenza archeologica proveniente dalle terre

della Transcaucasia, oggigiorno suddivisa tra Armenia, Georgia e Azerbaijan, che per lungo

tempo è stata solo superficialmente conosciuta. Questo dipese principalmente da ben note

problematiche politiche, in quanto terre all’epoca facenti parte dell’Unione Sovietica, appannaggio quindi esclusivo di studiosi sovietici, le cui pubblicazioni, per difficoltà logistiche e

linguistiche, erano ben poco conosciute in Occidente.

La situazione è fortunatamente migliorata negli ultimi decenni. La caduta dell’impero

sovietico ha permesso finalmente di accedere all’enorme mole di materiale prodotto in quasi

un secolo di ricerche, gettando completa luce sull’eccellente produzione metallurgica delle

popolazioni caucasiche e su quelle degli Sciti. Anche per quanto riguarda l’Altopiano iranico l’evoluzione politica ha dato, paradossalmente, un aiuto alla conoscenza diretta. La Rivoluzione Islamica ha da un lato chiuso per lungo tempo la ricerca occidentale sul campo, ma

dall’altro ha stimolato, o reso necessario, il concentrarsi su tutto il materiale raccolto ma mai

pubblicato in decenni di scavi in Iran. Sono così usciti i lavori completi delle missioni americane, danesi e belghe nel Luristan, la pubblicazione completa dell’importantissimo sito di

Marlik, sulla costa del Mar Caspio, nonché numerosi progressi sono stati fatti (e continuano

ancora oggigiorno) sullo studio del sito di Hasanlu, nell’Iran nord-occidentale.

L’eccellente corpus di morsi equini della collezione Giannelli si inserisce proprio in questo contesto culturale, geografico e temporale. A molti di questi morsi, che verranno trattati

analiticamente nei paragrafi successivi, è difficile dare una paternità contestuale ben precisa, in quanto forme e tipologie furono in uso, con piccole variazioni, in un ambito geografico

e cronologico piuttosto ampio, sempre però all’interno dell’arco montano durante la prima

metà dell’Età del Ferro. Esistono però alcuni contesti culturali e artistici ben identificabili grazie alla peculiarità di forme e stili iconografici; essi sono rappresentati dal corpus dei cosiddetti “Bronzi del Luristan” nonché dall’ampia produzione metallurgica ascrivibile alle popolazioni scite. Data l’originalità e l’eccezionalità di questi contesti culturali, essi verranno trattati

singolarmente. Per quanto concerne il restante corpus dei morsi, verranno invece raggruppati

a seconda della loro tipologia.

Filetti semplici con cannone a spirale

Questi morsi appartengono alla categoria snodata, avendo due cannoni indipendenti uniti nel

mezzo tramite due ganci di forma circolare. I bracci presentano una decorazione a spirale o

intrecciata, ottenuta direttamente tramite fusione (figg. 2,3,4). Ad essi spesso si affiancavano

separatamente anche due barre laterali che, solitamente per questa tipologia, erano rappresentate da due elementi rettangolari allungati e privi di decorazione.

Questa tipologia di morsi, con talune variazioni, è largamente diffusa in tutta la fascia

montana dall’Anatolia orientale sino alla dorsale centrale degli Zagros. Esemplari simili sono

stati rinvenuti nella zona Caucasica, nel Regno di Urartu, nell’area del Mar Caspio, nell’Iran

settentrionale e in Grecia. Sono invece rari nel Luristan, regione dell’Iran centro-occidentale,

da dove provengono soltanto due esemplari di cui uno, rinvenuto a Tepe Baba Jan, è singolarmente in ferro.

Anche il raggio cronologico è piuttosto ampio. Diversi esemplari datano già alle fasi iniziali dell’Età del Ferro (XII-X secolo a.C.) per proseguire poi sino alle fasi più tarde, intorno

alla metà del millennio.

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Morsi con cannone e barre laterali

Anche questi morsi presentano il cannone snodato unito al centro tramite due anelli, presentando quindi una similitudine tipologica con la categoria precedente. Differiscono però

da questi ultimi per avere le barre laterali direttamente connesse con il cannone. È possibile

però identificare diversi sottogruppi, caratterizzati innanzitutto dalle modalità di unione tra

i due elementi. Essi possono essere snodati quando i cannoni entrano in un foro della barre

e possono ruotare, oppure essere rigidi quando i due elementi sono direttamente fusi assieme. Ulteriori elementi di caratterizzazione sono dati dalla presenza di elementi decorativi,

in particolar modo nella resa stilistica delle parti terminali del cannone oppure delle barre.

Queste ultime, inoltre, presentano diverse variazioni strutturali. Le barre possono essere infatti diritte oppure piegate verso il basso o l’esterno, mentre le differenze principali si incontrano nella disposizione e forma dei fori e degli anelli di attacco dei due corti cinghietti

(cm 10 circa ciascuno), che formavano una sorta di triangolo a cui veniva attaccato il montante della briglia.

Sulla base di tutti questi elementi diagnostici, quest’ampia categoria di morsi è stata suddivisa in vari sottogruppi.

Il primo gruppo è formato dai morsi stilisticamente più semplici, ossia privi di elementi

decorativi. Il cannone si inserisce nelle barre laterali tramite un foro, lasciando quindi una certa mobilità al movimento dei vari elementi. Il primo esemplare presenta le barre laterali forate

(fig. 5), mentre i restanti due mostrano invece l’aggiunta di anelli di sospensione (Figg. 6-7).

Figg. 2,3,4.

Alcuni esempi di filetti

snodati con barre lavorate a

tortiglione.

Figg. 5,6,7.

Alcuni esempi di filetti

snodati con guardie laterali.

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Figg. 8,9.

Morsi a barre laterali.

Figg. 10,11.

Due morsi a guardie laterali

terminanti con protomi

animali.

Anche questa tipologia di morsi,

come la precedente, è largamente diffusa nell’ambito cronologico e geografico già precedentemente esposto.

Esse rappresentano infatti la tipologia standard di morsi equini in uso

nei primi secoli dell’Età del Ferro.

Molti esemplari sono stati rinvenuti

in tombe, anche in associazione diretta con ossa equine deposte insieme al

defunto.

Il secondo sottogruppo è tipologicamente affine al precedente, differenziandosi però per la presenza

di alcuni elementi decorativi. Il primo morso, tra il foro di passaggio dei

montanti e l’estremità delle barre laterali, presenta una serie di incisioni scanalate e la punta è inoltre caratterizzata da un elemento di forma

grossomodo conica, sormontato da

uno addizionale di forma semisferica (fig. 8).

Questo morso trova eccezionali paralleli da simili oggetti rinvenuti

nella necropoli urartea di Nor-Areš,

sita in prossimità del grande centro

amministrativo di Erebuni, ai margini di Erevan, attuale capitale dell’Armenia, nonché dal sito di Mingecˇaur,

nell’Azerbaijan nord-occidentale.

Questi contesti sono datati alla seconda metà dell’VIII secolo e pertanto anche questo morso si inserisce

verosimilmente nella stessa fase cronologica.

Il successivo morso presenta una

decorazione più complessa (fig. 9). Tutte e quattro le estremità delle due barre laterali sono

infatti decorate con una terminazione a protome animale fortemente stilizzata. Questa si sviluppa naturalmente dalla barra, senza una forte rottura con la simmetria della stessa. È possibile identificare la presenza di alcuni elementi fisiognomici dell’animale, quali due grandi

occhi circolari e due orecchie a punta rivolte all’indietro. Alla base della testa, tra occhi e orecchie, si stacca una coppia di piccoli anelli di sospensione, applicati successivamente alla colata

principale del morso. Anche la bocca dell’animale, forse un cavallo, è stilisticamente espressa

tramite l’appiattimento della terminazione.

Un terzo sottogruppo si caratterizza principalmente per la forma delle barre laterali, leggermente più ricurve verso il basso: anche per questi morsi il passaggio dei montanti può avvenire sia tramite fori nella barra (fig. 10) oppure attraverso anelli di sospensione ottenuti molto

probabilmente direttamente con la fusione (fig. 11).

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Figg. 12,13,14,15.

Alcuni esempi di morsi

con protomi in forma

di mano umana.

Entrambi i morsi presentano delle protomi animali alle terminazioni delle barre. Anche

in questo caso si tratta di elementi fortemente stilizzati in cui è possibile però identificare con

chiarezza la presenza delle orecchie, sempre rivolte all’indietro, una testa di forma grosso modo circolare e un muso allungato, più pronunciato nel primo esemplare, di forma tubolare.

Date le analogie fisiognomiche con il morso sopra descritto è verosimile ipotizzare trattarsi,

anche in questo caso, di rappresentazioni di equini o di conigli.

Questo genere di decorazioni delle protomi animali trova fortunatamente diversi corrispettivi con contesto archeologico. Un morso in bronzo con terminazioni a testa di serpente

fu infatti rinvenuto nel ben noto sito di Hasanlu, nell’Iran settentrionale, in livelli archeologici datati tra IX e VIII secolo a.C. Altri morsi con protomi animali provengono dal Regno di

Urartu ma questi presentano uno stile artistico piuttosto differente. Mancando altri corrispettivi chiari, possiamo ipotizzare quindi una medesima attribuzione cronologica e geografica, tenendo sempre ben presente però l’eventualità, così ben attestata in numerosi altri contesti toreutici, della diffusione e continuazione di forme stilistiche tra le popolazioni degli altopiani.

L’elemento diagnostico del quarto sottogruppo è la presenza di una protome in forma

di mano umana raffigurata nell’atto di stringere l’anello delle redini. Nel primo esemplare le

barre laterali piegano fortemente verso il basso (fig. 12), in quelli successivi la piega è più sfumata (figg. 13,14), mentre nel restante queste sono diritte (fig. 15). I primi tre hanno inoltre

degli anelli di sospensione esterni mentre l’ultimo presenta dei fori nelle barre.

La differenza principale consiste però nella resa della mano. Nei primi tre esemplari essa

è infatti realizzata in un blocco unico direttamente a fusione. Le scanalature rappresentanti le

dita vennero verosimilmente modellate e incise successivamente. Il quarto esemplare, invece,

si denota per la tecnica qualitativamente più elevata. La mano è resa, infatti, con un filo continuo piegato su se stesso sovrapposto alla barra del cannone.

Esemplari analoghi sono ben noti in numerosi musei e collezioni private e sono considerati generalmente provenienti dal Luristan, benché nessun esemplare provenga da scavi regolari. Morsi della medesima tipologia furono rinvenuti invece nella necropoli di Tepe Sialk B,

sita più a occidente rispetto al Luristan. Il contesto di rinvenimento di questi morsi è generalmente datato intorno all’VIII secolo a.C., fornendo quindi un’ottima ancora cronologica

per questi tre morsi.

I morsi facenti parte del quinto e ultimo sottogruppo sono abbastanza eterogenei ma presentano però una caratteristica tipologica comune: essi, infatti, presentano il cannone e le barre

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52 Manuel Castelluccia

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I morsi bronzei nel Vicino Oriente antico 53

Fig. 16.

Morso a barre laterali

integrate al filetto con

protomi equine.

Figg. 17,18.

Morsi a barre laterali

integrate al filetto.

laterali fusi assieme. Ciò porta il morso stesso ad essere molto più compatto e, di conseguenza, anche meno mobile.

Il primo morso è stilisticamente piuttosto simile a quelli precedentemente descritti. Presenta infatti la medesima tipica forma ad “H” e due grandi anelli circolari per il passaggio

delle redini alle estremità del cannone (fig. 16). I fori per il passaggio dei montanti sono però

ricavati in posizione diversa, non più a mezza distanza tra l’estremità e il cannone, bensì in

prossimità di quest’ultimo. Solo due estremità presentano una decorazione: si tratta di una

protome animale estremamente stilizzata con la testa ricurva verso l’esterno, forse un cavallo.

È interessante notare come i bracci del cannone non siano simmetrici come la maggior parte

dei restanti morsi. Vi è infatti una sproporzione nella lunghezza tra i due elementi del cannone. Date le forti analogie con i morsi precedenti, anche questo oggetto si inserisce cronologicamente nello stesso periodo.

Anche il secondo morso illustra diverse peculiarità degne di nota. Le barre presentano un

profilo curvo, regolare e continuo, con le estremità rivolte verso l’esterno. Alla fine di queste ultime si trovano degli elementi decorativi di forma sferica. Gli anelli di sospensione si trovano tutti

in prossimità dell’unione tra barre e cannone, uniti parzialmente assieme all’anello centrale, più

grande rispetto agli altri (fig. 17).

I bracci del cannone presentano una scanalatura centrale a sviluppo orizzontale continuo

e le due estremità degli stessi sono decorate con una fitta serie di piccole incisioni parallele a

sviluppo verticale.

Il terzo e ultimo morso è tipologicamente simile al precedente ma è privo di decorazioni.

Le barre laterali sono tendenzialmente diritte con solo una piccola asimmetria verso l’esterno,

mentre gli anelli di sospensione sono di forma semicircolare (fig. 18).

Questi ultimi due morsi sono a mio avviso più tardi rispetto ai precedenti. La tendenza

di spostare gli anelli di sospensione in prossimità dell’unione tra cannone e barre si ritrova,

infatti, nei morsi di periodo achemenide. La decorazione a piccole incisioni verticali sul cannone ricorre inoltre spesso in morsi di tipo scita, o di culture affini, dando quindi un buon

inquadramento cronologico tra VIII e VI secolo a.C..

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Luristan

Per l’ampiezza della problematica e la qualità degli oggetti, il capitolo dei cosiddetti “Bronzi

del Luristan” è forse uno degli aspetti più complessi, ambigui e oscuri di tutta l’archeologia vicino orientale e il mistero perdura ancora oggi sull’origine e significato di tali capolavori. Ma

innanzitutto, che cosa si intende, in realtà, per “Bronzi del Luristan”? Questa etichetta designa

una serie di oggetti in bronzo decorati in un peculiare stile locale, principalmente asce, morsi

equini, idoli, stendardi, spilloni, datati generalmente all’Età del Ferro (1300-1250 / 700-650

a.C.). La saga di questi bronzi cominciò grosso modo intorno al 1930, quando fu riconosciuto

che un assortimento di oggetti in bronzo, di varie forme e funzioni, che circolava in quantità

nel mercato antiquario iraniano ed europeo, proveniva da tombe saccheggiate della regione.

È impossibile stimare il numero di bronzi conservati in musei e collezioni private, ma è ragionevole pensare che siano diverse migliaia; purtroppo solo una piccola parte ha un contesto

archeologico di provenienza. Per questa ragione, ad oggi, è impossibile scrivere una storia archeologica dei bronzi del Luristan e forse essa non verrà mai scritta. Domande basilari per la

ricerca scientifica, come ad esempio quali furono le popolazioni che produssero questi oggetti?

Che interpretazione dare alle decorazioni? Erano oggetti di uso quotidiano o di pregio? Sono

tutte domande che rimangono ancora senza risposte soddisfacenti.

L’etichetta “Bronzi del Luristan” è stata spesso in passato erroneamente usata, di solito

per ragioni commerciali, per designare oggetti provenienti in realtà anche da altre regioni. Per

anni infatti oggetti di provenienza orientale venivano generalmente e sommariamente definiti

come “Bronzi del Luristan”. Grazie però all’eccellente lavoro degli studiosi precedentemente citati sono stati messi chiaramente in luce i caratteri assolutamente peculiari della toreutica del Luristan. Tipico di queste forme artistiche è la forte stilizzazione nella concezione di

figure umane e animali, le quali vengono spesso fuse tra loro creando così una serie di crea-

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ture fantastiche. Le raffigurazioni a tutto tondo vengono realizzate principalmente a fusione

in stampo oppure con il metodo della cera persa, mentre la tecnica a sbalzo è impiegata sulle

superfici piane.

Tipico di questi bronzi sono le forme idiosincratiche con molte variazioni, ossia creazioni

artistiche limitate a un ambito culturale e geografico ben delimitato (la regione del Luristan)

e realizzate senza una forte influenza delle regioni esterne: in pratica, possiamo intendere con

questo termine l’originalità degli artigiani locali nell’elaborazione di oggetti e forme stilistiche secondo il proprio gusto artistico e fantasia che non trova paralleli in nessun altra cultura

del Vicino Oriente.

Ma dove si trova questo famoso Luristan? Esso è una regione storica situata al centro

della dorsale dei monti Zagros, facente parte oggigiorno delle provincie iraniane di Loresta¯n

e Ila¯m, e abitata principalmente dal popolo dei Luri (Luristan, o Loresta¯n, significa infatti “la

terra dei Luri”).

È un territorio prevalentemente montuoso, circondato da ampie montagne, situato però

in una zona strategicamente importante. La disposizione trasversale (da nord-ovest a sudest) degli Zagros, infatti, ostacola le comunicazioni tra Mesopotamia e Iran, che si accentrano

quindi sulla “via del Khorasan”, un’importante strada carovaniera che da Baghdad entrava

nell’altopiano iranico in prossimità proprio del Luristan e proseguiva sino al Khorasan. Questa regione confina con l’attuale Iraq ad ovest, con la piana della Susiana a sud, le aree intorno

a Naha¯vand e K_orrama¯ba¯d ad oriente e infine con le pianure di Ma¯hı¯dašt e Harsı¯n a settentrione. La catena del Kabı¯rku¯h separa la zona orientale, conosciuta come Pı¯š-e Ku¯h, da quella

occidentale, il Pošt-e Ku¯h (lett. il “davanti” e il “dietro” della montagna).

Benché alcuni archeologi ed esploratori siano passati per il Luristan tra fine ’800 ed inizio

’900, tra cui ricordiamo l’inglese Henry Rawlinson, decifratore dell’iscrizione di Behistun, oppure il francese Jacques de Morgan, all’epoca direttore della Délégation Archéologique Française en Iran e direttore degli scavi di Susa, il Luristan rimase sostanzialmente escluso dalla

prima grande fase delle ricerche archeologiche in Oriente. La situazione cambiò però radicalmente intorno al 1930 quando il mercato antiquario e museale Occidentale venne letteralmente invaso da una serie di peculiari oggetti in bronzo, di oscura origine, che stimolarono

nei primi studiosi una serie di interpretazioni di paternità geografiche differenti.

Quando venne pubblicato il primo canonico “Bronzo del Luristan”, due barre laterali

in bronzo di un morso ottenuto a Bombay da una famiglia di Parsi, le prime interpretazioni,

infatti, lo collegarono all’Armenia. Nel 1922 M. Rostovtzeff attribuì un piccolo gruppo di oggetti in bronzo del Luristan e altro materiale alla Cappadocia, in Turchia, inseriti nell’ambito

culturale dei Cimmeri o Sciti. Nel 1926 O.M. Dalton considerò invece i morsi di Bombay come provenienti dal Caucaso. Altri studiosi accettarono la versione di Rostovtzeff oppure proposero Arabia, Urartu o Iran settentrionale come luogo di origine. Nessuno prese originariamente in considerazione la regione del Luristan in quanto essa era virtualmente sconosciuta e

difficilmente raggiungibile. Era infatti un periodo di semi-anarchia, l’epoca immediatamente

successiva alla caduta della dinastia Qajar e la formazione di un nuovo governo nazionalista

guidato di Reza Shah. Il nuovo potere centrale persiano aveva poca autorità nelle aree tribali

e il Luristan, protetto da una fortezza di montagne, si rese semi-indipendente, governato dai

propri leader tribali (che erano anche quelli che gestivano il mercato illecito).

Il primo ad effettuare un soggiorno nella regione fu il francese André Godard, direttore

del Servizio Archeologico Iraniano, il quale riportò le prime informazioni. Riuscì inoltre a recuperare diversi bronzi presentando una prima catalogazione nel suo libro “Les bronzes du

Luristan”. A Godard va il merito di aver finalmente chiarito l’origine di questo misterioso corpus di bronzi. Data la fama che essi avevano in Occidente, cominciò la ricerca di bronzi direttamente sul campo. Anche l’avventuriera inglese Freya Strak si mosse alla ricerca dei bronzi,

incoraggiando i locali a scavare tombe per ritrovarne, ma i suoi sforzi furono vani. Anche il

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56 Manuel Castelluccia

grande archeologo ed esploratore ungherese, naturalizzato britannico, Aurel Stein indagò diversi siti nel Luristan nel 1936 ma non riuscì a recuperare nessun bronzo, messo volutamente

sulla strada sbagliata dalle informazioni fornitegli dal nipote del Khan di K_a¯ra che controllava

la maggioranza del traffico illecito. I francesi Georges Contenau e Roman Ghirshman scavarono nel 1932-33 a Tepe Giyan e a Tepe Jamšidi, nel nord est del Luristan, portando alla luce

numerose tombe e oggetti in bronzo, anche se nessuno di questi era nel canonico stile locale.

La prima vera missione archeologica nel Luristan fu la “Holmes Expedition” organizzata

dall’Istituto Americano per l’Arte e l’Archeologia Persiana, chiamata così dal nome del principale

sponsor, e diretta da Erich Schmidt. Egli combinò sia la survey che lo scavo, affiancandovi anche

tecniche pionieristiche come la ricognizione aerea. Il risultato più importante fu sicuramente lo

scavo del sito di Surkh Dum. Vi lavorò solo per 17 giorni, portando alla luce un santuario all’interno del quale fu rinvenuta una massiccia quantità di ex-voto e altri oggetti in bronzo, tra cui diversi

tipici bronzi del Luristan, specialmente spilloni. A Khatunban, inoltre, portò alla luce diverse tombe, una delle quali conteneva un supporto in bronzo associato al tipico “idolo” del Luristan.

Tra il 1962-64, una spedizione danese condusse diverse indagini a Tepe Guran e Tang-e

Hamamlan. Vari oggetti in bronzo, tra cui un morso di cavallo, furono rinvenuti ma in un contesto non archeologico non ben documentato.

Il London Institute of Archaeology combinò survey estensiva e scavo nel sito di Tepe Baba Jan, un insediamento fortificato con un complesso religioso annesso, abbandonato alla fine

dell’età del bronzo e rioccupato nel Ferro II. Un idolo tubolare fu rinvenuto nei livelli datati

all’ VIII-VII secolo nonché un morso equino in ferro.

Il contributo principale alla comprensione della cultura artistica della regione fu dato senza dubbio dalla Missione Archeologica Belga in Iran (BAMI), diretta da Louis Vanden Berghe, il quale indagò estensivamente la regione del Pošt-e Kuh tra 1965 e 1979. Furono esplorati diversi cimiteri del Calcolitico, dell’Età del bronzo e del Ferro; ciò permise finalmente di

stabilire una prima cronologia generale basata sul record archeologico. L’età del ferro nel Luristan venne divisa in tre fasi: Ferro I intorno al 1000 a.C., Ferro II 900/800-750, e Ferro III

750/725-650. Gli scavi di Vanden Berghe hanno fortunatamente permesso di abbandonare la

mera analisi artistica per la datazione in favore del ben più sicuro dato archeologico. In verità

egli non pubblicò i lavori completi in vita; fu merito di due altri studiosi belgi, A. Haenrick e

B. Overalaet che portarono a compimento la pubblicazione di numerose monografie concernenti i lavori di Vanden Berghe nella regione. Sulla base dell’ampio materiale prodotto, essi

furono in grado di stabilire la cronologia definitiva dei materiali del Luristan. È stato dimostrato come, in realtà, la maggioranza dei canonici bronzi del Luristan datino alla prima Età

del Ferro mentre nelle fasi successive sono estremamente rari.

Ma chi erano gli abitanti del Luristan che pensarono e realizzarono questi bronzi? La ricostruzione del paesaggio archeologico e della relativa organizzazione sociale è un ambito piuttosto complesso data la vastità della tematica.

Nel Luristan, come in altre aree degli altopiani, sono stati purtroppo scavati quasi esclusivamente complessi funerari e non siti abitati; inoltre, le tecniche di ricognizione di superficie del territorio non erano sviluppate come ai giorni nostri, né vi era una forte sensibilità tra

gli studiosi stessi alla ricostruzione del paesaggio antico. Non sappiamo pertanto se gli antichi

abitanti erano sedentari oppure nomadi. Il livello qualitativo e quantitativo della produzione

dei bronzi propende però per una struttura sedentaria benché sia più plausibile ipotizzare una

coesistenza dei due ambiti come, in fin dei conti, avviene ancora ai giorni nostri.

Anche la lingua parlata rimane un mistero. Il popolo dei Luri odierni parla una lingua iranica, parente stretta del Farsi e del Curdo. Non vi è però certezza se anche gli antichi abitanti

fossero etnicamente e linguisticamente iranici poiché nessun oggetto iscritto è stato trovato né

alcun bronzo di alcun tipo conserva iscrizioni. Sin dall’inizio diversi studiosi hanno proposto

un’affiliazione culturale ed etnica ai creatori dei bronzi, quando le informazioni disponibili

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I morsi bronzei nel Vicino Oriente antico 57

erano poche e si cercava, quasi disperatamente, di affidare una paternità forzata guardando

agli ambiti geografici e cronologici affini. Sono stati pertanto chiamati in causa i Cassiti, i Cimmeri oppure i Medi; tutte queste ipotesi sono assolutamente prive di alcun dato archeologico

documentato e quindi mancano di ogni fondamento oggettivo.

Non conosciamo inoltre l’esistenza di centri amministrativi né possediamo dati sufficienti

per la ricostruzione dell’organizzazione politica e sociale. L’identità e il carattere delle popolazioni che produssero i bronzi sono difficili da stabilire. Le fonti scritte mesopotamiche nel

I millennio citano l’esistenza di Ellipi, uno stato confederato presente nelle regione del Pı¯š-e

Ku¯h. Fonti assire inoltre menzionano il termine Parnakians, indicante forse una popolazione

del Ferro II-III nel Pošt-e Kuh.

La mancanza sia di fonti scritte proprie, sia di informazioni più precise sull’organizzazione politica e sociale limita inoltre la ricostruzione del contesto organizzativo alla base della produzione dei bronzi. Non bisogna dimenticare infatti le difficoltà connesse all’approvvigionamento delle materie prime. Mentre il rame è largamente diffuso in Anatolia, Caucaso

e Iran, lo stagno è invece estremamente raro e prezioso. Le aree di sfruttamento sono poche

e spesso lontane, localizzate principalmente alla periferia più orientale dell’altopiano iranico

(l’area dello Zarafshan in Uzbekistan o il Badakhshan in Afghanistan ad esempio). Vi è ancora oggi un forte dibattito tra gli studiosi sulla ricostruzione delle vie di approvvigionamento del bronzo, nonostante i ricchi archivi palatini degli imperi mesopotamici ci illustrino con

chiarezza l’estremo grado di organizzazione che stava alla base di tale approvvigionamento.

L’assenza di alcun genere di testo dal Luristan non permette in alcun modo di ricostruire l’acquisizione e la distribuzione delle materie prime. La recente scoperta di piccoli depositi di

stagno presso Deh Hosse, con tracce di sfruttamento antiche, potrebbe però rappresentare

una eccezione in tal senso.

L’ultimo aspetto da trattare concerne il valore sottointeso alla produzione e al possesso di

questi bronzi, nonché all’eventuale significato delle figure rappresentate.

Il primo dato importante è il luogo di rinvenimento. Per la maggior parte dei casi essi sono riservati all’ambito funerario, il che rende difficile uno studio funzionale sugli oggetti stessi. Erano pertanto un elemento decisivo nel rituale funerario. Avevano altresì un significato

religioso e tale ipotesi è suffragata dalla ricorrenza di bronzi nel santuario di Surkh Dum. Vi è

comunque una bipartizione di rinvenimenti tra i due ambiti, quello cultuale e quello funerario. Dal santuario di Surkh Dum provengono solo spilloni a disco, placchette cultuali, figurine e bracciali. Le tombe scavate, invece, hanno fornito un ricco repertorio di armi, stendardi,

idoli, vari elementi ornamentali e morsi equini.

In mancanza di precise conoscenze teologiche e mitologiche sulle popolazioni del Luristan, tutte le possibili interpretazioni religiose, in cui in passato si sono viste influenze indo-europee, vediche o zoroastriane, rimangono speculazioni. La ricorrenza però di figure di demoni

e animali nel materiale da Surkh Dum, nonché su numerosi oggetti senza contesto, lascia però

intendere la presenza di spiriti, se non proprio divinità, legate al mondo animale. È stato ipotizzato che almeno gli idoli a stendardo in bronzo fossero una sorta di divinità della famiglia

oppure un simbolo di appartenenza ad un clan ben preciso. Il fatto che tali idoli siano stati

trovati solo in tombe maschili associati ad armi supporta questa ipotesi.

Nei rari casi documentati, i bronzi ricorrono principalmente in tombe di un certo livello, andando quindi a denotare un carattere importante al defunto ivi deposto. È difficile però

stabilire se si trattava di oggetti pre mortem, ossia che avevano accompagnato il possessore

anche in vita, oppure fossero post mortem, oggetti prodotti esclusivamente per accompagnare

il defunto nell’oltretomba. Il dato archeologico non è sufficientemente abbondante per confermare o escludere alcuna delle due ipotesi.

È certo comunque che questi furono pensati e prodotti per elementi del luogo. Questi

bronzi erano infatti esclusi dai circuiti del commercio internazionale. Non ne sono stati tro-

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Figg. 19,20.

Morsi a “X” con protomi

animali.

vati infatti al di fuori della regione iraniana, eccetto che sporadici oggetti rinvenuti nel tempio

di Hera a Samos e a Fortesa, a Creta. È altamente probabile che venissero usati come simboli

di legittimazione delle élites dominanti, che sicuramente avevano una forte connessione con

l’ambito militare e, probabilmente, con la cavalleria.

Dopo aver ampiamente inquadrato i vari aspetti sottointesi alla concezione e produzione dei canonici “Bronzi del Luristan”, andiamo ora ad esporre la natura del morso equino.

Il tipico morso del Luristan si caratterizza per la barra centrale rigida, con le terminazioni appiattite e ripiegate su se stesse e quasi sempre in opposta direzione. Le barre laterali sono rappresentate da placche metalliche, generalmente di forma grosso modo rettangolare, raffiguranti figure animali, umane e fantastiche. È usata principalmente la tecnica

della fusione per poi essere affiancata, nella realizzazione dei profili e dettagli, dall’incisione e dal repoussé.

Non è ben chiaro, purtroppo, se questi morsi ebbero un uso reale oppure se furono realizzati semplicemente come oggetti da parata oppure come dono funerario. Diversi esemplari conservano chiari segni di usura negli anelli attraverso cui passava il cannone e la presenza

sul lato interno di spuntoni lascia supporre un qualche ruolo funzionale. È stato largamente

ipotizzato che questi spuntoni servissero come guide dell’animale, ma tale ipotesi, in verità, è

probabilmente da escludere. Questi spuntoni sarebbero andati infatti a conficcarsi nella carne

dell’animale rendendone impossibile la guida. Inoltre, se veramente oggetti d’uso, è da escludere che la lamina bronzea aderisse direttamente alla pelle del cavallo vista la forte abrasione

a cui sarebbe stata soggetta quest’ultima e all’ossidazione del manufatto a contatto con la saliva. Bisogna forse ipotizzare che il lato interno fosse rivestito di materiale deperibile, feltro o

cuoio, e che gli spuntoni servissero in realtà a fare aderire meglio questa sorta di imbottitura,

probabilmente incollata. Questa tesi è condivisa da importanti studiosi quali Potraz e Azzaroli (e sostenuta dal proprietario della presente collezione!).

Sulla base di confronti con altri oggetti in bronzo con contesto è possibile però stabilire che la maggioranza di questi bronzi predati il periodo del Ferro III (750/725-650 a.C.). È

possibile inoltre ravvisare una evoluzione delle forme stilistiche, da quelle più naturalistiche

per divenire progressivamente più complesse e stilizzate. Guardie laterali naturalistiche sono

inoltre rappresentate sui bassorilievi neoassiri del tempo di Sennacherib (704-681 a.C.) anche

se, stilisticamente, differiscono dai canonici bronzi del Luristan ma è presumibile che ne siano

stati influenzati. Lo stendardo di Samos è inoltre datato tra VIII e VII secolo a.C.

Pochi sono i morsi con contesto archeologico, ma nessuno di questi ha rappresentazioni iconografiche. Esponiamo di seguito quelli conosciuti. Un morso con muflone alato è stato confiscato dalle autorità iraniane a Khatunban nella valle di Badavar. Successive indagini

hanno portato alla luce altri quattro morsi semplici. Un morso a forma di “X” è stato scoperto a Tang-i Hamamlan. Il contesto non è ben noto ma probabilmente viene da una tomba. Morsi in ferro provengono dalla regione di Pusht-i Kuh e da Tepe Giyan. L’unica tomba

scavata di cavallo viene dal sito di Tepe Baba Jan dove fu rinvenuto anche un morso di ferro e altri annessi.

Morsi a forma di “X”

Questi morsi sono caratterizzati dalla presenza di due placche bronzee contrapposte di forma

triangolare e convergenti con il vertice verso l’interno. Aperture di forma triangolare parallele

al profilo della placca si trovano su ogni lato. Presso la giuntura delle due placche è ricavato

un foro circolare per il passaggio della barra rigida.

Sulla base delle caratteristiche stilistiche, questi quattro morsi possono essere organizzati

in due coppie distinte.

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Figg. 21,22.

Due esempi di morsi

a “X”.

La prima coppia si caratterizza innanzitutto per la presenza, sul lato interno, di quattro

spuntoni, uno all’altezza di ogni angolo del triangolo. Una protome animale, lavorata finemente, si sviluppa, proiettata in avanti, nell’angolo superiore di ogni placca. Il primo animale, con

la testa abbassata, presenta due corna tipiche del muflone o dell’ibex (fig. 19). Il secondo, con

gli occhi, la criniera e le orecchie a punta all’indietro, è presumibilmente un cavallo (fig. 20).

Gli ultimi due esemplari si caratterizzano invece per l’assenza di protomi animali, benché

siano della stessa forma (figg. 21,22). Entrambi però presentano due ulteriori anelli di sospensione sul lato superiore della placca. Due protuberanze di forma triangolare si sviluppano al

di sopra e al di sotto della giuntura con la barra al centro del morso. Nell’ultimo esemplare

un’ulteriore barra taglia orizzontalmente lo spazio vuoto della placca. Una serie di linee incise, solitamente due, si sviluppa continuativamente lungo le barre della placca.

Questa tipologia di morsi è ben rappresentata da un gran numero di esemplari conservati in musei e collezioni private. Fortunatamente un esemplare simile proviene anche da un

contesto archeologico. Esso fu rinvenuto infatti dalla missione danese nel sito di Tang-i Hamamlan, nel Luristan. Anche se il contesto di rinvenimento non è in verità ben noto, esso viene generalmente datato all’inizio del I millennio a.C..

Morsi con animale reale

I morsi rappresentanti animali reali sono uno degli elementi distintivi dell’arte del Luristan e

dell’altopiano iranico in generale. Essi si denotano specialmente per l’alto livello artistico della figura, ottenuto tramite una combinazione di differenti tecniche di esecuzione, fusione, incisione e repoussé. Presentano tutti una struttura simile. L’animale è rappresentato intero, di

profilo, stante sulla linea del terreno. La disposizione delle zampe dell’animale conferisce un

senso di movimento alla figura. Alcune variazioni concernono la rappresentazione della testa

dell’animale; essa può essere rappresentata di profilo, in asse con il corpo, oppure girata, di

fronte. Le uniche due eccezioni nella posizione delle figure sono date da un esemplare di bovino, rappresentato acquattato, e da quella di un felino, in posizione di balzo.

È possibile inoltre osservare una certa distinzione nella resa dei particolari, alcuni dei quali sono evidenziati con un forte senso naturalistico: caratterizzazione dei muscoli, rotondità

delle forme, contorni meno netti e arrotondati, e dettagli quali la criniera, le corna, la bocca e

infine le orecchie possono presentare un alto grado di precisione da parte del toreuta. In altri

casi, invece, essi sono rappresentati in maniera più sommaria.

Il retro della placca è solitamente cavo, specialmente in prossimità del corpo dell’animale, mentre corna e zampe sono a profilo continuo.

Il corpo dell’animale presenta spesso alcune ulteriori raffigurazioni. Rosette o altri motivi

geometrici sono spesso incisi sulle cosce e spalle dell’animale; queste ultime sono rese a sbalzo, conferendo così alla figura un certo grado di tridimensionalità. Questi motivi presentano

diverse forme e varianti. La forte ricorrenza di questi simboli, specialmente la rosetta, sia su

animali reali che fantastici, porta a considerarla quale portatrice di un valore simbolico piuttosto che una mera aggiunta decorativa. La rosetta, infatti, è un elemento decorativo largamente

diffuso in tutto il Vicino Oriente, dove è spesso collegata a simboli solari.

I primi tre morsi rappresentano un bovino (figg. 23,24,25); il corpo è realizzato di profilo e la testa girata di fronte. Solo il secondo animale è rappresentato acquattato. Le corna dei

primi due esemplari hanno una forma semicircolare, tipica dei bovini, mentre nel terzo animale esse piegano leggermente verso il basso.

Il successivo e maggiore gruppo di animali reali è formato da cavalli. Essi si riconoscono

chiaramente tramite la presenza di un lungo collo, delle orecchie a punta, della caratterizzazione della criniera, del muso allungato dell’animale e della lunga coda cadente all’indietro

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Figg. 23,24.

Due morsi rappresentanti

bovini.

Fig. 25.

Morso rappresentante

un bovino o un capride.

Alle due pagine seguenti:

Figg. 26-31.

Vari esempi di morsi

raffiguranti cavalli.

parallela alle zampe. È chiaramente riconoscibile una pluralità di stili, dovuta verosimilmente ad una certa differenza spaziale e temporale delle realizzazioni. I morsi delle figure 26 e 27

sono, infatti, stilisticamente più grezzi e schematici. Essi presentano pochi elementi decorativi

aggiuntivi e la resa delle proporzioni dell’animale è piuttosto stilizzata. Un esemplare analogo

al morso della figura 26 è stato infatti rinvenuto nella necropoli di Marlik, nella zona del mar

Caspio, in una tomba datata all’inizio dell’Età del Ferro (anteriore o intorno al I millennio

a.C.). Anche per gli altri esemplari è pertanto possibile considerare un ambito cronologico,

se non anche geografico, simile. I restanti morsi invece mostrano chiaramente una evoluzione

verso forme più complesse. Vi è una progressiva presenza di elementi aggiuntivi, come rosette

e altre incisioni geometriche lungo il corpo dell’animale, e anche le proporzioni dell’animale

raggiungono livelli di più alto naturalismo. Questo è particolarmente evidente nel morso della

figura 30, dove gli elementi fisiognomici del cavallo sono ben bilanciati ed è inoltre osservabile la perizia tecnica dell’artigiano nella raffigurazione del muso dell’animale, con un’ottima

resa della criniera, degli occhi e della bocca.

L’ultimo morso raffigurante equidi presenta grosso modo il medesimo stile dei precedenti

anche se si differenzia per la struttura dell’intera composizione (fig. 32). Ogni singola placca

è infatti formata da una coppia di animali simmetrici ad andamento opposto, in cui le teste

degli animali dipartono dal medesimo corpo.

Il successivo esemplare è sicuramente uno dei più rilevanti per la singolarità della raffigurazione. Esso infatti rappresenta chiaramente un felino, mostrato nell’atto di compiere un

balzo (fig. 33). Questo senso di movimento è stato espresso mediante la raffigurazione delle

zampe dell’animale piegate, in tutto ben cinque, e il corpo leggermente incurvato verso il basso. L’attribuzione di questo animale come felino si rafforza tramite la resa della coda, corta e

arricciata, e grazie specialmente alla rappresentazione del muso dell’animale, raffigurato con

le fauci aperte, e delle zampe.

La presenza del felino non deve comunque sorprendere: tigri, leoni e leopardi erano largamente diffusi lungo l’altopiano iranico sino a mezzo secolo fa. Ora sopravvive solo il leopardo in poche aree protette. La presenza del felino è inoltre un tema molto comune nell’arte iranica e caucasica dell’Età del Ferro, anche se la sua ricorrenza è attestata principalmente

su cinture bronzee, vasi e placche in

metallo, mentre le rappresentazioni a

tutto tondo sono estremamente rare.

L’ultimo morso raffigurante animali reali si discosta senza dubbio da

tutti gli altri per quello che è uno dei

più alti livelli qualitativi di tutta la

collezione, nonché per la sua peculiare struttura (fig. 34).

Questo esemplare, infatti, è impostato su di uno schema cruciforme,

in cui i bracci sono espressi tramite

uno stambecco o muflone, fortemente stilizzati, in cui la componente animale è espressa soltanto dal capo della creatura da cui dipartono le tipiche

lunghe corna semicircolari. Quelle

disposte lungo l’asse verticale sono

più lunghe e regolari di quelle orizzontali, che presentano la terminazione con la punta ricurva e un maggior 25

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Alle due pagine precedenti:

Figg. 32,33,34.

Morsi con figure zoomorfe.

Figg. 35,36.

Morsi con animali fantastici.

grado di stilizzazione. Le curve delle corna formano un profilo incredibilmente armonioso

nella composizione dell’intera figura. Il circolo delle corna racchiude inoltre all’interno un

altro quadrupede di dimensioni più piccole. Non presenta particolari attributi ma, sulla base di paralleli con altri oggetti, è possibile interpretarlo come un orso. La raffigurazione di

questo animale è un evento estremamente raro. Benché le popolazioni degli altopiani e della

Mesopotamia abbiano spesso trovato ispirazione al mondo animale circostante, rappresentando chiaramente la maggior parte delle specie reali del loro ambiente, l’orso vi è praticamente

sempre escluso. Non è purtroppo possibile stabilire se alla base di questa scelta vi sia una ragione di carattere cultuale.

Morsi con animali fantastici

I morsi raffiguranti mischwesen, ossia figure fantastiche, rappresentano chiaramente uno dei

più alti livelli qualitativi raggiunti dagli artisti del Luristan. Essi mostrano anche la forte influenza avuta dalla ben più variegata cultura artistica mesopotamica. La rappresentazione di

figure fantastiche, ottenute tramite la giustapposizione di parti di animali reali, fa parte di una

tradizione iconografica ben consolidata in Mesopotamia e nel Levante sin dall’Antico Bronzo.

Viene rispettato il medesimo schema dei morsi con animali reali. La figura è rappresentata

di profilo, le zampe in movimento, e la testa rivolta generalmente in avanti. Solo le sfingi e un

felino alato girano la testa di lato. Anche su questi morsi il retro delle figure è generalmente

cavo e vi sono spesso presenti due spuntoni.

La resa stilistica delle figure si denota inoltre per l’alto livello qualitativo, in cui viene rispettata la resa naturalistica delle proporzioni con i vari elementi fisiognomici ben bilanciati.

Essa non evolve quindi verso forme fortemente stilizzate tendenti quasi all’astrattismo. Il rispetto per proporzioni ed elementi reali permette inoltre una più facile attribuzione di queste creature fantastiche. Quelle presenti nei morsi della collezione Giannelli sono la sfinge, il

grifone, il cavallo, il toro, il gallo e il felino alati, tutte figure che ricorrono ampiamente nel

repertorio artistico del Luristan.

La sfinge è una figura mitologica ampiamente diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo,

con poche variazioni: esse riguardano più che altro la resa della testa, che può essere di falco,

di capra o umana. I toreuti del Luristan useranno principalmente la più comune androsfinge.

Tipico di queste sfingi è la resa del lungo collo su cui è impostata una faccia umana completa, apparentemente priva di barba (figg. 35,36). Vi è una precisa caratterizzazione tramite

incisione degli occhi, della bocca e delle orecchie. Il naso è piuttosto prominente. Sulla sommità entrambe le figure portano una corona da cui dipartono un paio di piccole corna semicircolari. Le orecchie della prima sfinge sono di forma circolare con una decorazione a spirale,

mentre nella seconda figura esse non sono facilmente riconoscibili. Altra caratteristica della

prima figura è la presenza della doppia coda, una rivolta all’indietro sopra il corpo mentre

l’altra cade verso il basso parallela alle zampe. Il corpo di entrambe è quello di un quadrupede però non chiaramente identificabile. Le ali dipartono dalla schiena con sviluppo all’insù.

Tramite varie linee incise si rende la disposizione delle piume.

Basandosi sui numerosi paralleli conosciuti nelle culture antiche mediterranee la sfinge

è solitamente una divinità femminile, probabilmente connessa con culti legati alla fertilità.

Il terzo morso è sicuramente uno dei più notevoli per la qualità e complessità della decorazione (fig. 37). Esso raffigura infatti una tripla sfinge: tre teste, infatti, dipartono verticalmente dal medesimo corpo. Le teste di queste figure umanoidi hanno un lungo collo, il

viso intero caratterizzato, con estrema precisione, da un naso prominente e due grandi occhi

circolari. Al di sopra dipartono due lunghe orecchie a punta e un paio di piccole corna semicircolari. Il corpo dell’animale è quello di un quadrupede massiccio, con quattro zampe al di

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Fig. 37.

Morso raffigurante una

coppia di triple sfingi.

Fig. 38.

Morso raffigurante un

grifone.

Alle due pagine seguenti:

Figg. 39-42.

Vari morsi con animali

fantastici.

sotto delle due sfingi laterali. Quella centrale invece sembra impostarsi al di sopra di un’altra

figura umanoide più piccola: probabilmente un uomo quello a gambe chiuse, ed una donna

quella a gambe aperte, ove si potrebbero anche ipotizzare attributi genitali femminili. L’intera figura composta è arricchita ulteriormente da un insieme di incisioni a “spina di pesce”

lungo il collo, la spalla e la coscia della figura. In prossimità di quest’ultima si trovano inoltre

due simboli geometrici a bassorilievo che richiamano probabilmente un motivo solare. Degno

di nota è il fatto che questo morso, a differenza della maggior parte di quelli provenienti dal

Luristan, appartiene alla categoria snodata, avendo infatti due cannoni mobili uniti al centro

tramite anelli e non la consueta barra rigida.

Il quarto esemplare mostra molto probabilmente un grifone: corpo di quadrupede e testa di uccello con un caratteristico becco a punta rivolto verso il basso (fig. 38). Il muso ad

uccello presenta due grandi occhi di forma ovale e tre protuberanze a sviluppo verticale sul

capo. Le ali sono di notevoli dimensioni, con una dettagliata caratterizzazione del piumaggio. Dalla criniera e dalle ali si sviluppano due anelli di sospensione. La coda forma un semicerchio unendosi all’ala. Particolarmente degna di nota è anche la precisa resa degli artigli.

Anche il grifone è una delle creature maggiormente raffigurate nell’arte del Vicino Oriente

nell’Età del Ferro, mentre esso ricorre raramente in altri morsi in bronzo provenienti dal Luristan o da altre regioni limitrofe.

I restanti morsi seguono il medesimo stile, in parte già osservato nel paragrafo concernente i morsi con animali reali (figg. 39,40,41,42). Essi infatti raffigurano tutti creature dell’ambiente reale, quali cavallo, felino e muflone, a cui viene dato un tocco di fantasia tramite il

posizionamento delle ali al di sopra della schiena. La resa dei dettagli è anche pertanto la medesima dei morsi precedenti, dove si raggiunge un buon di grado di naturalismo.

Degno di nota è sicuramente il morso della figura 43, il quale raffigura chiaramente un

felino con il corpo di profilo. Esso gira la testa di lato, mostrando le fauci aperte, dove è possibile notare la grande perizia tecnica nella resa dei denti. Altrettanto interessante è la decorazione incisa aggiuntiva. Al di sopra della muscolatura della spalla e della coscia, resa a basso profilo, sono incisi due chiari motivi geometrici di ispirazione solare. Motivi solari ad otto

punte sono largamente noti nel modo neoassiro, dove questo motivo è strettamente legato alla

rappresentazione della dea Ishtar. Anche le ali della creatura, singolarmente piuttosto larghe,

presentano una fitta trama di incisioni a zigzag e a triangoli.

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Figg. 43,44.

Due morsi con animali

fantastici.

Fig. 45.

Morso raffigurante un

capride alato, che poggia

su un basamento formato

da due conigli contrapposti

con al centro una testa

umanoide.

Più difficile dare un’attribuzione precisa al successivo esemplare (fig. 44). Benché il corpo

dell’animale sia rappresentato con un buon grado di naturalismo, il capo dello stesso è soggetto ad una più netta trasformazione; difficile quindi stabilire che cosa rappresentino in realtà

i tre elementi verticali sulla testa dell’animale, così come l’ulteriore elemento ricurvo rivolto

all’indietro. Potrebbe però trattarsi di una creatura fantastica, corpo di quadrupede e testa di

gallo. In tal caso questi elementi fisionomici troverebbero la loro giusta collocazione, essendo

essi il piumaggio del capo e il becco dell’animale. Forse un “hippalektryon”, figura fantastica

greca metà cavallo e metà gallo.

L’ultimo gruppo di morsi mostra invece un capride, caratterizzato dalle ampie corna di

forma semicircolare con le punte rivolte verso il basso. Essi sono tutti rappresentati con la testa

girata verso l’esterno. Si raggiunge un alto grado di naturalismo nelle proporzioni e nella resa

dei particolari, come ben si evince dalla caratterizzazione del muso e delle corna (figg. 45-48).

Due morsi però si differenziano dagli altri per la presenza di importanti peculiarità. Il

primo è quello della figura 45, qualitativamente uno dei più notevoli. Ma non è l’alta resa stilistica il suo elemento unico, bensì la presenza, alla base delle zampe sull’ipotetica linea di

terreno, di due animali fortemente stilizzati contrapposti con al centro una figura umanoide.

Sulla base di paralleli con altri esemplari provenienti dal Luristan, è stato proposto trattarsi di

lepri oppure di ibex (tutto dipende da come si considerano le due lunghe protuberanze che

dipartono dal capo all’indietro, ossia orecchie o corna).

Questo particolare morso trova un parallelo molto stretto con un analogo oggetto sequestrato dalle autorità iraniane subito dopo essere stato scavato illegalmente nel sito di Khatunban, nel Luristan. Successive indagini archeologiche hanno esplorato una necropoli, portando alla luce, tra l’altro, alcuni morsi semplici a forma di “H” ma nessun morso figurato.

Sulla base del materiale presente è però possibile datare il complesso intorno al X-IX secolo

a.C. Di conseguenza anche questo morso si inquadrerebbe cronologicamente nello stesso periodo, tenendo però ben presente la non completezza del contesto di rinvenimento.

Il secondo morso degno di nota è mostrato nella figura 48. Esso presenta, infatti, una figura umana fortemente stilizzata stante sugli arti inferiori sopra la schiena dell’animale. Gli

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Figg. 46,47.

Morsi raffiguranti un

capride.

Fig. 48.

Morso raffigurante un

capride con un personaggio

stilizzato sulla groppa.

Alle pagine seguenti:

Figg. 49-52.

Morsi raffiguranti il “Signore

degli Animali”.

arti superiori sono levati in alto, le cui estremità si uniscono alle corna e alla coda. È plausibile considerarla una figura umanoide con alcuni tratti zoomorfici. Basti notare la presenza di

due orecchie a punta o corna sul capo del soggetto.

Morsi con “Signore degli Animali”

Il “Signore degli Animali” è uno dei soggetti maggiormente utilizzati dagli artigiani del Luristan e trova paralleli in un gran numero di oggetti, quali faretre metalliche e stendardi in

bronzo, alcuni dei quali provenienti da contesti archeologici documentati. Anche questo popolare soggetto è un chiaro elemento di derivazione mesopotamica, visto che nelle terre alluvionali esso affonda le sue radici nelle epoche più antiche. È stato proposto lungamente che

in origine esso potesse essere una trasposizione iconografica di mitologie mesopotamiche, prima di tutte il ben noto mito di Gilgamesh, benché altri studiosi si siano mostrati dubbiosi al

riguardo. Queste diatribe non hanno comunque molto valore al fine della nostra discussione

in quanto, data la mancanza di fonti scritte dalla regione, non siamo in grado di stabilire se il

motivo conosciuto dai toreuti del Luristan avesse mantenuto il medesimo eventuale significato d’origine. Esso potrebbe infatti essere anche una rielaborazione locale di miti e tradizioni

cultuali e mitologiche a noi ignote.

Il tratto caratteristico di queste rappresentazioni è l’unione tra figura antropomorfa agli

animali affiancati simmetricamente. La mancanza di chiari attributi fisiognomici non permette una sicura distinzione tra l’ eventuale soggetto maschile e quello femminile; sulla base di

ulteriori oggetti dal Luristan conservati in vari musei e collezioni sembra vi fosse una compresenza di entrambi.

È stato proposto che queste figure antropomorfe siano dei “demoni della natura”, piuttosto diffusi nell’Altopiano iranico, dove appaiono già su cilindri a stampo delle epoche più antiche. La presenza di corna e figure metà umane e metà animali ricorre inoltre nell’arte elamita

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Figg. 53,54.

Morsi con raffigurazione del

“Signore degli Animali”.

Fig. 55.

Probabile forte stilizzazione

del “Signore degli Animali”.

del II-I millennio. È quindi probabile che il regno della piana della Susiana, sita a sud del Luristan, abbia rappresentato la fonte a cui si ispirarono gli artefici del Luristan anche se la mancanza di fonti scritte locali non ci permette di discernerne il significato simbolico sottointeso.

Queste placche presentano tutte grosso modo la medesima struttura. Al centro si erge una

figura umanoide, resa di fronte, di stili diversi: esso può essere una creatura con il corpo e testa umani ma gli arti inferiori animali (fig. 49), totalmente animali (fig. 50), totalmente umana

(figg. 51, 54), oppure una sfinge (figg. 52, 53). Ai suoi lati si stagliano due figure animali, reali

o fantastiche, in posizione araldica e rese di profilo.

La figura umanoide tiene sollevati gli arti superiori, proiettati verso gli animali che si

estendono paralleli e simmetrici ai suoi lati. L’atto di sottomissione è espresso dal fatto che la

figura umanoide stringe per il collo le creature affini.

Si raggiunge in taluni casi un elevato grado di stilizzazione e di trasformazione delle figure. È possibile però riconoscere sia animali reali, come felini, cavalli o uccelli, sia creature

fantastiche alate.

L’ultimo morso (fig. 55) presenta una struttura singolare. Sono rappresentati due animali in posizione araldica con al centro un elemento verticale a terminazione circolare. La presenza di due lunghe corna scanalate all’indietro porta a considerare questi due animali come

dei capridi. L’elemento centrale, non identificabile, potrebbe essere un’estrema stilizzazione

di “Signore degli Animali”.

Morsi a forma di “V”

Questi morsi si caratterizzano per la tipica forma a “V”, ottenuta mediante l’unione di due

protomi animali addossate con testa e collo uniti alla base. Le protomi sono fortemente stilizzate. Nel primo morso rappresentano forse un felino, nel secondo un cavallo, nel terzo e

quarto un volatile, probabilmente un galliforme (figg. 56-59).

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Figg. 56-59.

Morsi raffiguranti animali

fantastici.

Morsi con una struttura simile, ma raffiguranti cavalli, sono stati rinvenuti in Grecia (Delfi e Olimpia) e forse derivano in concezione dagli oggetti del Luristan.

Purtroppo nessuno di questi è mai stato trovato in alcun contesto archeologico e pertanto la datazione può essere solamente ipotetica, circa X-VIII secolo a.C..

Il primo morso è quello maggiormente degno di nota, data la presenza di una figura

femminile, riconoscibile grazie alla caratterizzazione dei seni, stante alla base dell’unione

delle due protomi animali (fig. 56). Interessante anche il successivo esemplare, dove sono

raffigurate due teste di equini, espresse però in maniera differente. Una presenta la bocca

aperta mentre l’altra è chiusa. Anche la caratterizzazione della criniera segue schemi differenti (fig. 57).

Gli Sciti

Sciti, Saka, Skudra, Ashkuz, Skuthes, Cimmeri, Gimirru, Massageti, Yuezhi. Molti sono i nomi presenti nelle fonti antiche, specialmente greche, achemenidi e mesopotamiche, così come

nelle cronache cinesi, utilizzati per descrivere quel variegato insieme di popolazioni indoeuropee, appartenenti perlopiù all’ethnos iranico, abitanti le pianure euro-asiatiche nella prima

metà dell’Età del Ferro.

Grazie agli ampi resoconti degli autori classici e agli eccellenti rinvenimenti nei kurgani

(tombe a tumulo) dell’Ucraina e della Russia meridionale, è possibile delineare oggigiorno un

quadro esaustivo sulla cultura materiale delle popolazioni nomadi, conosciute nella letteratura come Sciti, abitanti le pianure dell’Europa orientale, e quindi a più diretto contatto con le

colonie greche lungo la costa del Mar Nero. In verità, l’etichetta “Scita”, pur con varie sfumature, si applica ad una serie di culture archeologiche differenti, comprese tra il VII e III secolo a.C., localizzate lungo le steppe, montagne e foreste dei territori dell’Ucraina, Russia, Kazakistan, Mongolia e Cina nord-occidentale. Benché presentino numerose peculiarità, queste

culture sono tutte accomunate da elementi comuni, prima di tutto uno stile di vita basato sul

nomadismo, nonché sulla comune appartenenza al ceppo linguistico indo-europeo. Anche la

cultura materiale mostra numerose affinità. Elemento marcante è la cosiddetta “triade scita”,

ossia tre gruppi distinti di oggetti fortemente caratteristici. Essa è formata da peculiari tipologie di armi (asce, spade corte e punte di freccia), morsi di cavallo e oggetti decorati secondo

il cosiddetto “stile animalista”.

Considerando l’ampio spazio temporale e geografico in esame, è più corretto pensare che

non esistesse una sola “Cultura Scita”, bensì una serie di culture differenti all’interno di un

ben più ampio “Universo Scita”.

Tralasciando le mitologiche origini fornite dagli autori greci dell’epoca, in primis Erodoto, l’origine di queste popolazioni “scite” si inserisce grosso modo tra il IX e l’VIII secolo

a.C. Numerose tombe scavate nella Russia meridionale registrano, a partire da questo periodo, l’emergere di elementi della cultura materiale comuni, espressi principalmente dalla “triade” enunciata poc’anzi.

Il periodo scita classico, ossia quello maggiormente documentato, data tra i secoli VI e IV,

grazie ai numerosi scavi di kurgani della Russia e Ucraina che hanno fornito un gran numero

di oggetti, specialmente in metallo prezioso, molti dei quali realizzati secondo un tipico gusto

“ellenico” chiaramente ispirato, e spesso pure prodotto, dalle maestranze greche che vivevano nelle colonie lungo la costa settentrionale del Mar Nero.

È ben noto che gli Sciti erano esperti cavalieri. Abitando le vaste pianure euroasiatiche,

come i Sarmati, gli Unni o i Mongoli dei secoli successivi, basavano la propria arte bellica

sulla cavalleria, in particolar modo sull’ampio utilizzo di arcieri a cavallo. Non deve pertanto sorprendere l’alto livello qualitativo raggiunto da taluni morsi ascrivibili a questa cultura.

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Figg. 60-63.

Alcuni esempi di filetti sciti.

Figg. 64,65.

Due filetti sciti con guardie

separate.

Analogamente a quella in uso presso gli Assiri, gli Sciti utilizzavano principalmente la briglia “a cavezza”, composta da pezzi nasali, da guancia, da fronte e da nuca, fissati da fibbie

sul muso del cavallo. I vari pezzi delle briglie venivano spesso decorati con placche e falere in

bronzo e oro; le fibbie erano di osso mentre i morsi in bronzo o in ferro lavorato.

I morsi presenti nella collezione Giannelli ascrivibili a questo variegato mondo “scita”

trovano numerosi corrispettivi da contesti archeologicamente documentati. Questi contesti

sono localizzati ai piedi del versante settentrionale del Caucaso e tra i bacini dei fiumi Volga

e Don, in un periodo compreso tra IX e VII secolo a.C.

Il primo gruppo presenta morsi molto simili tra di loro (figg. 60-63). Appartengono alla

categoria dei morsi snodati, essendo formati da due bracci indipendenti uniti al centro tramite

un anello. Ad entrambe le estremità sono attaccati, tramite anelli, due ulteriori elementi simili

ai bracci del cannone, ma di dimensioni minori. Essi terminano con un elemento di forma circolare, con quattro aperture che conferiscono a questo elemento un aspetto cruciforme. L’ultimo morso appartenente a questo gruppo presenta invece l’elemento terminale privo di cavità. Tutti e quattro hanno la superficie dei cannoni decorata con una serie di incisioni oblique.

I successivi due morsi sono tipologicamente differenti. Benché i cannoni del filetto presentino la medesima decorazione a linee incise, in questo caso sono presenti delle guardie indipendenti, ognuna delle quali presenta tre fori. Quelli esterni per il passaggio dei montanti

della briglia, mentre quello centrale per introdurre il cinghietto di fissaggio all’anello portaredini del filetto (figg. 64,65). Degne di nota sono sicuramente le guardie del secondo morso,

che presentano ad una estremità una protome di testa di cavallo, dettagliatamente espressa.

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L’ultimo gruppo da prendere in considerazione è formato da sole coppie di guardie,

senza il morso corrispettivo. Sulla base di numerosi paralleli da contesti archeologici, è

altamente probabile che il morso fosse della categoria snodata, affine a quello delle figure 64 e 65.

I primi tre esemplari (figg. 66,67,68) presentano una delle estremità decorate con una

protome equina. Degno di nota è l’alto livello naturalistico raggiunto dalla resa dei particolari della testa del cavallo, in cui si distinguono chiaramente gli occhi, la bocca, le orecchie e

la criniera. L’ultimo esemplare, invece, presenta solo degli elementi aggiunti di forma sferica

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Figg. 66-69.

Alcuni esempi di coppie di

guardie di filetti sciti.

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Fig. 70.

“Parure” in sette pezzi

di decorazioni per

bardatura scita.

lungo la parte ricurva di una delle estremità (fig. 69). Forse sono un richiamo fortemente stilizzato ad una testa equina con criniera.

Di notevole interesse la “parure” delle figure 70 e 71 in quanto composta da filetto, guardie laterali stilizzate, una serie di cinque falere quadrangolari, una rotonda e una piccola fibbia a “V”, tutti in bronzo, che si ritiene provengano dalla stessa tomba a tumulo.

Tutte le imboccature che illustrano il presente articolo sono databili tra il XII e il VI secolo a.C..

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Fig. 71.

Filetto scita a guardie

separate.

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La cavalleria greca 91

Il cavallo fu introdotto in Grecia in tempi relativamente recenti, probabilmente non prima del

secondo millennio avanti Cristo. Proveniente dalle lontane pianure del settentrione balcanico,

dovette lasciare nei primi Greci un’impressione profonda e del tutto particolare, come si può

dedurre dalla complessa e articolata mitologia che lo riguarda. Basti pensare alla leggenda dei

Centauri, gli esseri immaginari e selvaggi, metà uomini e metà cavalli, contro i quali combatte

il celebre eroe ateniese Teseo; o al mito di Pegaso, il cavallo alato, nato dal terreno bagnato dal

sangue della Medusa e sottratto a Zeus dall’eroe Bellerofonte per combattere la Chimera e le

Amazzoni, o a quello di Arione, il cavallo immortale più veloce del vento, figlio di Demetra e

di Poseidone. Il sole sorge e tramonta grazie ai quattro splendidi destrieri (Eòo, Eto, Flegonte e Piròo) che trainano il carro di Apollo. Ed è un cavallo di legno il supremo inganno degli

Achei ai danni della città di Troia.

Il cavallo, i cui protettori tradizionali erano Atena, la dea guerriera, e Poseidone, dio del

mare e dei terremoti, ha sempre suscitato passione e ammirazione nel mondo antico, in virtù

delle sue caratteristiche più evidenti: la forza, la velocità e la bellezza fiera e selvaggia. Il cavallo è da sempre vanto e prerogativa dei ricchi e dei potenti, il regalo preferito dai re, l’oggetto

di ammirazione di poeti e artisti. Il cavallo è inoltre simbolo di benessere e di prestigio sociale: in tutta la storia greca, ed antica in generale, la condizione sociale elevata è misurata dalla

capacità di possedere e mantenere un cavallo, ed in guerra gli appartenenti alle classi sociali

benestanti militano immancabilmente nella cavalleria. I corredi tombali degli uomini ricchi e

potenti contengono quasi sempre, assieme ad armi ed oggetti preziosi di vario genere, morsi

e finimenti per cavalli, in alcuni casi addirittura ruote e parti di carri da guerra. I nomi stessi

delle famiglie più antiche e influenti sono composti con il termine “hippos”, come a rimarcare un elemento fondamentale di distinzione e di orgoglio sociale. Col trascorrere dei secoli i

cavalieri, gli hippeis, diventeranno gli equites a Roma, e il titolo onorifico verrà trasmesso fino ai giorni nostri dai cavalieri medievali, eredi di quelle tradizioni e creatori a loro volta di

simboli e leggende.

Anche nell’arte greca il cavallo conquista rapidamente un ruolo centrale: sono cavalli le

prime figure, sia pure semplici e stilizzate, che compaiono nelle pitture vascolari del periodo

miceneo. In seguito, con il perfezionamento della tecnica figurativa, assieme alle rappresentazioni classiche del mito come i Centauri e le Amazzoni, trovano posto persino figure fantastiche e misteriose come quella dell’hippalektryon, una strana creatura metà cavallo e metà gallo. Attorno al VI e V secolo avanti Cristo, durante l’età d’oro delle città-stato greche, dipinti

e sculture di cavalli raggiungono livelli artistici di rara perfezione. Gli splendidi bassorilievi

del fregio del Partenone, oltre alle grandi statue in bronzo di eroi e condottieri che arricchiLa cavalleria greca

Giuseppe Cascarino

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92 Giuseppe Cascarino

Fig. 1.

Disegno raffigurante un

particolare del fregio del

Partenone.

Atene, V secolo a.C.

(447-432).

scono l’Agorà ateniese, immortalano, nella ricerca dell’armonia e del

dinamismo delle forme, l’ammirazione e la sensibilità tutta greca per

un’idea di purezza e di bellezza che solo il cavallo è in grado di evocare (fig. 1).

Il cavallo, sia montato che al traino di carri, è anche il protagonista assoluto delle cerimonie pubbliche e delle feste popolari, ed è

l’oggetto dell’ammirazione e dell’entusiasmo del pubblico durante le

gare circensi e in occasione dei Giochi Olimpici, il cui invidiato vincitore, oltre a gloria e ricchezze, conquista l’eterna gratitudine della

propria pòlis.

Ma dove il cavallo mette in mostra le sue qualità migliori, la forza

e la velocità, è nel momento della guerra: e sebbene il suo apporto sia

raramente decisivo per gli esiti di una battaglia, il suo ruolo è sempre

quello di indiscusso protagonista.

Senofonte, lo storico dei Diecimila dell’Anabasi, avventuroso e orgoglioso esponente della

classe dei cavalieri, non nasconde la sua passione profonda e quasi irrazionale per il cavallo,

sia in pace che in guerra, tanto da dedicargli due trattati, l’Arte della Cavalleria e il Manuale

del Comandante della Cavalleria, ancora oggi di grande interesse per chi ama questo magnifico compagno di avventure dell’uomo.

Dall’insieme delle evidenze storiche si può dedurre che in Grecia il cavallo compare in

epoca micenea (XVI secolo a.C.), principalmente a Creta e a Cnosso, nei primi tempi solo

aggiogato a dei carri da guerra, mentre le rappresentazioni di cavalli montati risultano piuttosto rare. L’uso dei carri da guerra appare peraltro piuttosto sporadico, data la natura prevalentemente montuosa del territorio della Grecia e la mancanza di grandi spazi aperti. Del

resto i carri di epoca micenea, a differenza di quelli hittiti, appaiono scarsamente idonei per

essere usati come veicoli da combattimento a causa di una serie di particolari strutturali, tra

i quali ad esempio la posizione centrale dell’asse delle ruote, che mal si presta ad effettuare

veloci cambi di direzione. Il carro da guerra rimase tuttavia un simbolo di prestigio e di distinzione sociale anche nei secoli successivi, e fu esportato anche in altre culture come quelle

Etrusca e Romana.

I primi riferimenti letterari all’uso del cavallo in guerra sono contenuti nell’Iliade e risalgono alla guerra di Troia (tarda età del Bronzo - XIII secolo a.C.): Ulisse e Diomede fuggono in

groppa a dei cavalli dopo averli rubati (Iliade, X, 513), mentre Aiace sfoggia la propria abilità

saltando ripetutamente dal dorso di un cavallo ad un altro (Iliade, XV, 679). Si tratta comunque di episodi marginali, narrati da un Omero che scrive 500 anni dopo il periodo in questione e con evidenti anacronismi: nell’opera non esistono infatti riferimenti a forze di cavalleria o

ad un uso diffuso del cavallo montato, ma solo all’impiego di carri da guerra, usati non come

piattaforma mobile per colpire il nemico a distanza ravvicinata, quanto piuttosto come un mezzo riservato ai guerrieri più nobili per raggiungere il campo di battaglia e combattere a piedi.

Mentre la corsa dei cavalli montati venne introdotta per la prima volta nei giochi olimpici nel 648 a.C., le prime evidenze di un uso militare del cavallo, a parte alcune statuette di

terracotta e alcuni graffiti del periodo miceneo (1300 a.C.), sono rintracciabili nelle pitture

vascolari successive all’VIII secolo a.C.: anche qui si tratta con ogni probabilità di guerrieri

aristocratici che usano il cavallo esclusivamente come mezzo di trasporto. Più che di cavalieri è dunque corretto parlare di fanti montati, riconoscibili soprattutto dall’ingombrante elmo

corinzio, praticamente inservibile per chi avrebbe dovuto combattere stando a cavallo, e dalla

panoplia tipica del fante dell’epoca, ovvero l’oplita, composta da scudo pesante, corazza e lancia. Solo a partire dal VI secolo a.C. su vasi e pitture sono riconoscibili cavalieri veri e propri,

che appaiono equipaggiati in modo assai più leggero, in genere con un semplice mantello, o

al più con un corsetto di lino, e con due piccoli giavellotti.

1

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La cavalleria greca 93

Si può presumere che l’introduzione dell’equitazione militare in Grecia sia avvenuta principalmente ad opera dei popoli del nord, Sciti, Traci e Sarmati, che da tempi immemorabili popolavano le steppe oltre il Danubio; questi immensi territori, ricchi di pascoli naturali, costituivano un habitat ideale per la proliferazione e l’allevamento del cavallo. Plinio ritiene (Historia

Naturalis, VII, 202) che furono i Tessali i primi in Grecia a combattere a cavallo, e che per questo venissero chiamati Centauri: i vasti altopiani erbosi della Tessaglia risultavano infatti i più

adatti di tutta la Grecia per l’allevamento e la riproduzione dei cavalli. Anche le pianure della

Macedonia e della Beozia, seppure di dimensioni più contenute, si prestavano discretamente allo scopo, e non a caso le cavallerie macedone e tebana ebbero sempre fama di eccellenza.

Nella tradizione scritta la prima istituzione di un reparto militare di cavalleria viene tuttavia attribuita a Licurgo, il mitico legislatore di Sparta, e potrebbe essere datata attorno alla metà del IX secolo. Secondo la Costituzione degli Spartani, descritta da Senofonte e da

Plutarco, Licurgo istituì, oltre alle sei more (battaglioni) di fanteria oplitica, la formazione di

sei squadroni di cavalleria, detti oulamoi, composti da 50 uomini ciascuno, che in battaglia

si disponevano in altrettanti quadrati. L’efficienza bellica di questi reparti non dovette essere

altissima: in realtà la classe dei cavalieri, ovvero la nobiltà che aveva l’obbligo di mantenere

un cavallo, preferiva combattere a piedi ed affidare il proprio cavallo ad altri. I nobili spartani costituivano di fatto la guardia personale del re, e lo accompagnavano a piedi in battaglia.

Nel VI secolo a.C. Solone istituì ad Atene un corpo di 300 cavalieri reclutati tra le classi

dei cittadini più abbienti, che erano i pentacosiomedimni (ovvero i cittadini con un reddito

superiore ai 500 medimni di frumento all’anno) e gli hippeis, i cavalieri propriamente detti,

ovvero quelli che potevano mantenere un cavallo avendo un reddito annuo compreso tra i

300 e i 500 medimni. Il cavallo era dunque un lusso riservato a pochi: attorno al 400 a.C. un

cavallo costava in media 500 dracme (con punte anche di 1.000-1.200), quando la paga media

giornaliera di un lavoratore era di appena una dracma.

La tecnica equestre

Non è possibile definire con esattezza la razza o la tipologia del cavallo greco dell’epoca classica. Qualche studioso ha ritenuto di poterla identificare in alcune razze di piccola taglia, autoctone di alcune isole dell’Egeo, che si ritiene possano aver evitato incroci nel corso dei secoli,

ma è altamente improbabile che in tremila anni non si siano verificate variazioni genetiche

anche profonde. Di certo l’altezza al garrese della media di tali cavalli doveva essere piuttosto ridotta (135-150 cm), l’equivalente di poco

più di un pony attuale (vedi fig. 2). La conclusione

è ricavabile non solo dall’analisi della maggior

parte delle testimonianze iconografiche (pitture vascolari e rilievi, come il celebre fregio

del Partenone), ma anche da recenti esami

delle ossa di animali rinvenute in alcuni siti

archeologici. Alcune centinaia di tavolette

del IV e III secolo a.C., rinvenute ad Atene

tra il 1965 e il 1975, registrano il valore e le

caratteristiche di almeno 50 tipi diversi di

cavalli, e ognuno di essi è marchiato da una

provenienza ben precisa: si contano cavalli

degli allevamenti di Farsalo, Larissa e Fere

in Tessaglia (della famosa razza “bucefalo”,

2 il cavallo di Alessandro), cavalli macedoni,

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94 Giuseppe Cascarino

Fig. 3.

Esempio di una tipica briglia

greca.

Fig. 4.

Disegno del più famoso

morso greco, conservato

al Museo Archeologico di

Atene, 480 a.C. circa.

Fig. 5.

Filetto snodato in bronzo

con “echinoi”.

Barre desinenti in protomi

d’uccello stilizzate.

VII-IV secolo a.C. circa.

Cm 25 x 21.

di Corinto e di Sicione. I cavalli migliori erano ritenuti quelli provenienti dagli allevamenti

della Macedonia e della Tessaglia.

Le staffe erano sconosciute nell’antica Grecia, e lo rimasero per quasi tutta l’antichità,

fino alle grandi migrazioni dei popoli delle steppe del VI secolo d.C.. Questa mancanza comportava per il cavaliere un equilibrio più instabile, che doveva essere compensato con opportuni accorgimenti, il primo dei quali era un contatto molto stretto delle cosce con i fianchi e

il dorso del cavallo. Le raccomandazioni di Senofonte privilegiano quindi la scelta di cavalli

leggeri e agili, con i fianchi stretti per consentire alle gambe del cavaliere una miglior presa,

mentre la caldeggiata curvatura “doppia” del dorso del cavallo aveva l’obiettivo di agevolare

la stabilità del cavaliere in senso longitudinale.

Nell’iconografia non appaiono raffigurazioni di selle, e spesso neanche di semplici coperture o gualdrappe, ma è noto che le rappresentazioni tendevano ad esaltare, come per le figure

umane, soprattutto la bellezza dei cavalli e la nudità delle forme. Considerando l’assenza delle staffe, la funzione della sella poteva anche apparire meno importante di quanto non lo sia

oggi: tuttavia l’ephippion menzionato da Senofonte non poteva avere il semplice scopo

di evitare il contatto con il dorso del cavallo, per il quale sarebbe bastato un semplice tessuto. Quando infatti nella Ciropedia (VIII, 8, 19) Senofonte critica

i Persiani perché “… sui cavalli hanno più coperte che sui letti, e non

hanno a cuore il cavalcare quanto lo star seduti comodamente…”, usa il

termine stromata, che significa “copertura”. Inoltre l’ephippion deve

essere fissato con delle cinghie di cuoio (HIP, VIII, 4), deve essere rinforzato “…per consentire al cavaliere di sedere con maggior sicurezza e

senza danneggiare il dorso del cavallo…”(PHI, XII, 9), e serve anche

come protezione del ventre del cavallo, ritenuto il punto più vulnerabile. Tante precisazioni lasciano ipotizzare che una sorta di sella

vera e propria, sia pure più semplice di quelle moderne, fosse tutt’altro che sconosciuta, e venisse usata prevalentemente per la guerra.

I sistemi di controllo del cavallo del mondo antico erano alquanto diversi dagli attuali. In figura 3 è rappresentata la ricostruzione semplificata di uno dei vari tipi di finimenti utilizzati con il

morso greco.

La particolare conformazione del morso e dei finimenti è riconoscibile in numerose rappresentazioni, anche relative ad epoche più antiche.

Il funzionamento del morso greco (csalivós), che Senofonte non descrive in dettaglio, dando la sua conoscenza per scontata, può essere ricostruito sulla base

di alcuni ritrovamenti archeologici: in figura 4 è rappresentato un morso

risalente al 480 a.C., rinvenuto ad Atene nel 1888 e conservato nel locale

museo archeologico.

Il morso era composto da due pezzi collegati da una coppia di anelli

(sumbolai); gli assi (axones) del morso che il cavallo teneva tra le barre erano dotati di spine (echinoi) (fig. 5) più o meno arrotondate che avevano lo scopo di

impedire al cavallo di trattenere il morso con le mascelle e di dischi (trochoi)

di dimensione variabile che dissuadevano anch’essi il cavallo dal mordere il

morso e aumentavano la sensibilità attorno agli angoli della bocca. Le

due barre laterali delle guardie erano collegate al montante della briglia mediante una coppia di cinghiette che assicuravano il posizionamento stabile del morso; alle estremità dell’asse del morso era fissato un gancio per il collegamento delle redini (eniai). Una serie di

piccoli anelli (daktulioi) aveva lo scopo di incoraggiare la salivazione

del cavallo (fig. 4). 4

3

P:97

La cavalleria greca 95

5

P:98

96 Giuseppe Cascarino

Fig. 6.

Filetto snodato in ferro con

guardie ricurve e cannone

formato da due “8” muniti

alle estremità di ganci

portaredini.

(Un esemplare simile

è conservato al Museo

Archeologico di Atene).

V-III secolo a.C. circa.

Cm 18 x 14.

Questo tipo di morso, pur privo di leve, era da considerarsi senz’altro molto severo rispetto ai sistemi di controllo moderni, e costringeva il cavallo a mantenere quasi costantemente la

bocca aperta (particolare visibile in quasi tutte le rappresentazioni): in assenza di staffe e di

selle moderne era però uno dei pochi strumenti disponibili per garantire un controllo efficace

del cavallo, esigenza quanto mai sentita in battaglia e nelle situazioni critiche.

Gli speroni (muops) erano conosciuti e usati regolarmente, mentre spicca nella cavalleria

greca l’assenza della ferratura, pratica che si affermerà solo in tarda età romana. Questa particolarità imponeva la necessità di curare con attenzione la salute dei piedi del cavallo, come

del resto Senofonte non manca mai di ricordare. Molti esperti hanno in realtà osservato che

nei climi caldi e asciutti, come quelli delle regioni mediterranee, la ferratura poteva risultare

non necessaria in virtù di una maggior durezza dell’unghia dello zoccolo; ancora oggi in Nordafrica i cavalli nelle campagne non vengono ferrati.

6

P:99

La cavalleria greca 97

L’impiego della cavalleria

Nella storia delle città-stato greche si trovano scarsi riferimenti all’uso della cavalleria in guerra fino al V secolo a.C., nonostante numerose evidenze iconografiche (pitture vascolari, monete, sculture) ne attestino l’impiego fin dal IX secolo a.C.. Nei resoconti di battaglie e di

campagne militari quasi mai la cavalleria viene considerata determinante, mentre ne vengono

sottolineate spesso le deludenti prestazioni, probabilmente anche a causa di una abilità equestre dei cavalieri non ancora sufficientemente sviluppata. Atene e Sparta, in particolare, non

avvertirono in quegli anni la necessità di migliorare la qualità o la consistenza della cavalleria

e in battaglia si affidarono sempre alla sola falange di fanteria. L’uso del cavallo in guerra restò

confinato a lungo tra le prerogative dei ceti aristocratici, come un simbolo di distinzione sociale e magari come un mezzo per raggiungere più rapidamente il campo di battaglia, mentre

l’esito dello scontro veniva deciso dall’urto violento tra due schieramenti oplitici armati pesantemente. Un sistema di convenzioni tacitamente condivise ne fissava le regole: lo scontro

avveniva in una pianura, a viso aperto, senza l’uso di riserve o di attacchi sui fianchi, con un

unico e violento assalto, in modo da giungere ad una conclusione nel più breve tempo possibile. La cavalleria e la fanteria leggera (che era costituita sostanzialmente dai fanti peggio armati) svolgevano ruoli secondari e di appoggio, anche perché secondo l’etica guerriera non

era considerato leale colpire il nemico a distanza.

Anche le città greche della Sicilia disponevano di valide forze di cavalleria, come aveva

dimostrato Gelone di Siracusa nella battaglia di Imera (480 a.C.) contro i Cartaginesi: questa

tendenza era nata, a differenza del contesto relativamente circoscritto dei popoli della penisola greca, dalla necessità dei Greci d’occidente di misurarsi con altre culture, in primo luogo

quella siciliana indigena e quella punica.

Nella madrepatria greca l’utilizzo efficace del cavallo in guerra non ebbe altrettanta fortuna. Nelle guerre tra Sparta e Messene dell’VIII e VII secolo a.C. le cavallerie furono impiegate

in battaglia solo perché in alcune occasioni la configurazione del terreno non rese possibile lo

scontro diretto tra le falangi oplitiche: appare subito evidente come la cavalleria, quando era

disponibile, veniva utilizzata al più come una riserva, senza alcuna funzione tattica.

Durante le guerre persiane (490-479 a.C.) l’utilizzo della cavalleria da parte dei Greci

restò probabilmente limitato a compiti di ricognizione e collegamento: nei resoconti della

battaglia di Maratona (490 a.C.) contro i Persiani di Dario non c’è il minimo accenno all’impiego di un reparto di cavalleria da parte della coalizione greca, e così in quella di Platea

(479 a.C.), sebbene i Persiani e i loro alleati opponessero forze di cavalleria non trascurabili. Appare evidente che, se anche fossero stati schierati, i cavalieri greci non ebbero alcun

ruolo significativo. Va osservato tuttavia che in entrambi gli eventi un’opportuna scelta del

terreno da parte dei Greci, con lo scopo di massimizzare l’efficacia della forza di fanteria

oplitica, assieme ad alcuni accorgimenti tattici, resero probabilmente ininfluente l’intervento della cavalleria persiana.

Dagli scarni resoconti degli episodi di battaglia appare evidente che l’impiego tattico dei

reparti di cavalleria dell’epoca consisteva in una serie ripetuta di veloci cariche in direzione

dello schieramento oplitico nemico, in un lancio di giavellotti a distanza di sicurezza e in altrettanto rapide ritirate: l’azione veniva ripetuta con diversi squadroni fino a quando il nemico eventualmente cedeva o si ritirava, il che avveniva raramente, in attesa dell’urto risolutivo

tra gli schieramenti di fanteria. Al di là del lancio a distanza di uno o più giavellotti, in una

battaglia regolare il cavaliere ben difficilmente veniva chiamato ad affrontare il nemico rimanendo a cavallo: in caso di necessità di un contatto ravvicinato non gli sarebbe rimasto altro

che smontare e combattere a piedi. La cavalleria non aveva insomma alcuna speranza di mettere in difficoltà formazioni di fanteria compatte e motivate come quelle che costituivano la

falange greca classica, ma poteva rivelarsi preziosa per una serie di funzioni belliche accesso-

P:100

98 Giuseppe Cascarino

rie, come colpire le linee di collegamento con veloci incursioni, effettuare azioni a sorpresa e

inseguimenti, proteggere ritirate o effettuare diversivi.

Negli anni successivi, sulla base dell’esperienza maturata durante le guerre persiane, si

registrò nelle città greche un interesse verso la creazione di una forza di cavalleria più consistente, in particolare ad Atene, dove attorno al 430 a.C. il contingente, che contava trecento

uomini, fu portato a mille elementi: la decisione fu influenzata anche dalla scarsa affidabilità

politica di alcuni alleati, come i Tessali, ai quali Atene aveva fino a quel momento, di fatto,

appaltato la propria cavalleria.

Gli Spartani invece non cambiarono idea tanto presto: la natura montuosa del territorio

del Peloponneso, le caratteristiche dei loro vicini e potenziali nemici, nonchè un certo conservatorismo nella pratica della guerra, erano ancora sufficienti per indurli a confidare quasi

esclusivamente nella loro potente falange.

In realtà non tutte le città-stato nutrivano in quegli anni questa scarsa propensione all’uso

massiccio delle forze di cavalleria. Diverse altre città, come Argo, Tebe, e soprattutto le città

della Tessaglia e della Macedonia, poterono disporre di numerose e tradizionalmente efficienti

forze di cavalleria; il fatto che poco si sappia di esse risiede nella scarsità, a differenza dei casi di Sparta e Atene, degli elementi storici e documentari finora pervenuti. Tucidide (II, 100)

osserva ad esempio che nessuno resisteva ai macedoni, “cavalieri valorosi e armati di corazza”,

che caricavano i nemici anche in condizioni di inferiorità numerica.

La guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) rappresentò per la cavalleria greca un momento di maturazione e di cambiamento. Lo stratego ateniese Pericle, per fronteggiare la superiorità numerica e tattica degli Spartani e dei loro alleati, decise di evitare la battaglia aperta,

concentrando la popolazione dentro le mura di Atene ed affidandosi all’attività della flotta

per colpire il nemico. Apparve ormai evidente che la convenzione tacitamente riconosciuta

fino ad allora nel mondo greco, di lasciare che il conflitto venisse deciso da un’unica prova

di forza delle fanterie oplitiche, non era più accettata: la cavalleria cominciò ad esercitare un

ruolo diverso, più dinamico e indipendente. La cavalleria ateniese, da poco riorganizzata, si

rivelò estremamente utile per condurre rapide azioni di alleggerimento a lungo raggio, in particolare lungo le coste del Peloponneso, dove veniva trasportata da veloci incursioni navali: fu

proprio per contrastare queste azioni che gli Spartani furono costretti a dotarsi di una forza

di cavalleria di 400 uomini.

Durante le battaglie campali la cavalleria veniva posizionata quasi sempre sulle ali dello

schieramento oplitico, con il compito di proteggerne i fianchi assieme alla fanteria leggera. Se

non intervenivano circostanze particolari, il suo ruolo non risultava quasi mai decisivo, come

si verificò a Mantinea (418 a.C.), dove le sorti dello scontro furono decise esclusivamente dalle

fanterie, mentre alle cavallerie, pur consistenti, fu lasciato il compito di contenere l’avanzata

nemica sulle rispettive ali sinistre degli schieramenti.

Negli anni che seguirono, sia gli Ateniesi che gli Spartani dimostrarono di aver compreso l’importanza di una adeguata forza di cavalleria nell’economia della guerra: se anche poteva non essere decisiva per le sorti di una battaglia, poteva influire in misura determinante

sull’esito di un’intera campagna. Era ormai evidente che una forza oplitica composta da cittadini, per quanto valida e motivata, non era più sufficiente a garantire la vittoria sul campo

e tantomeno la conclusione positiva di una guerra, come era sempre avvenuto in passato. La

cavalleria, e con essa una forza adeguata di fanteria leggera (composta da arcieri, frombolieri e lanciatori di giavellotto) erano diventate ormai elementi indispensabili sul campo di

battaglia, alla pari della presenza di generali preparati e capaci di coordinarle e di cogliere

le opportunità tattiche dettate dal terreno e dalle forze in campo. Va comunque considerato

che, dati i costi necessari per armare un cavaliere, pari a circa quattro volte quelli di un oplita, molte città-stato preferirono spesso armare come forze di appoggio reparti consistenti di

fanteria leggera.

P:101

La cavalleria greca 99

Nel complesso le qualità combattive delle cavallerie del quarto secolo erano decisamente

migliorate: i cavalieri non si limitavano più a lanciare giavellotti da lontano, ma erano sempre

più propensi ad impegnare combattimenti corpo a corpo, soprattutto con i cavalieri nemici.

Nel 338 a.C. con la battaglia di Cheronea il regno di Macedonia conquistò l’egemonia nel

mondo greco. Fin dalle prime campagne di espansione l’esercito macedone di Filippo II aveva evidenziato un’ottima capacità di cooperazione tra la falange e la cavalleria. Il duro addestramento e l’adozione da parte della fanteria delle sarisse, aste lunghe più di 5 metri da tenere a due mani, avevano conferito alla falange macedone un potenziale nettamente superiore a

quello delle falangi greche classiche, ma anche in teoria una minore manovrabilità, e quindi la

necessità di una più attenta copertura da parte della cavalleria. Filippo venne assassinato nel

336 a.C., lasciando in eredità al figlio Alessandro un formidabile strumento bellico integrato,

falange più cavalleria, che avrebbe influenzato profondamente l’arte della guerra nei secoli

successivi: fu proprio l’accorto e originale utilizzo della cavalleria che permise ad Alessandro

di esprimere appieno il suo genio tattico, attribuendole, per la prima volta, un ruolo determinante sui campi di battaglia.

Quando nel 334 a.C. Alessandro invase l’Asia Minore con appena 30.000 fanti e 5.000

cavalieri, di cui solo 1.800 Macedoni, gli eserciti persiani che tentarono di sbarragli la strada,

pur enormemente superiori in numero e appoggiati da consistenti forze di cavalleria, si trovarono ad essere pesantemente e sistematicamente sconfitti. La tattica preferita di Alessandro

consisteva sostanzialmente nel riservare alla falange di fanteria un ruolo di “tenuta” del campo di battaglia e alla cavalleria quello, molto più dinamico, di colpire con la massima forza

disponibile il punto debole dello schieramento avversario, a volte creandolo con diversioni

e movimenti che inducevano il nemico a rompere la compattezza dello schieramento, a volte

sfruttando al meglio la superiore velocità, manovrabilità e disciplina dei suoi squadroni. L’azione decisiva era sempre riservata agli squadroni di cavalleria di elìte degli hetairoi (i “Compagni”), che Alessandro guidava all’attacco di persona.

Questa tattica si basava su alcune importanti innovazioni. In primo luogo, a differenza di

quella persiana, abituata secondo tradizione a combattere a distanza con frecce e giavellotti

leggeri, la cavalleria macedone era stata duramente addestrata al combattimento ravvicinato

con lancia e spada. Nella battaglia del Granico (334 a.C.) “… sebbene il combattimento avvenisse a cavallo, assomigliava più ad una battaglia di fanteria, con uno scontro cavallo contro cavallo, uomo contro uomo…” (Arriano, Anabasi di Alessandro, I, 15, 4). Appare piuttosto singolare la circostanza che il cavaliere macedone non fosse protetto con particolari corazzature

ed in più non facesse uso dello scudo, dimostrando in questo, oltre ad una superiore aggressività, un livello di addestramento, di disciplina e di esperienza che non aveva rivali all’epoca.

Dalle ricostruzioni appare evidente soprattutto il diverso uso della lancia rispetto agli avversari

persiani: invece dei giavellotti leggeri i cavalieri macedoni usavano come arma principale lo

xyston, una lancia più lunga e pesante, per colpire l’avversario a distanza ravvicinata, e poi ricorrere eventualmente alla spada. Questa lancia, di cui non ci è pervenuta una descrizione dettagliata, doveva essere lunga dai due ai tre metri ed essere facilmente maneggiabile per vibrare

colpi sottomano o sopramano a brevissima distanza, adatta cioè ad essere usata in una mischia densa e spesso confusa, come quelle delle battaglie descritte dagli storici di Alessandro.

La cavalleria di Alessandro non si dimostrò solo superiore sul piano dell’aggressività e

dell’armamento: venne utilizzata in modo innovativo e diversificato anche sotto il profilo tattico. Alessandro si avvalse infatti per la prima volta di particolari reparti di cavalleria, i prodromoi, come di una sorta di cavalleria leggera con compiti speciali. Questi cavalieri erano

certamente macedoni, poichè non vengono mai confusi con i contingenti di cavalleria alleati

come i Tessali e i Peoni, e non dovevano differire di molto in armamento e protezione dai cavalieri degli squadroni degli hetairoi: la loro funzione verrebbe oggi definita specialistica, di

interdizione, di inseguimento e di diversione. In molte battaglie, ad esempio a Gaugamela, i

P:102

100 Giuseppe Cascarino

Fig. 7.

Cavaliere greco con

mantello, cappello ed

alti stivali, armato di due

giavellotti.

prodromoi furono impiegati per distogliere la cavalleria persiana, per logorarla e per consentire agli squadroni degli hetairoi di effettuare l’attacco decisivo. In alcune circostanze i prodromoi vengono chiamati anche sarissophoroi (ovvero: portatori di sarissa), ma non è chiaro

se il termine venisse usato in senso generico o se derivasse da un’adozione specifica dell’arma

per un impiego tattico.

La cavalleria dei regni ellenistici viene descritta da Polibio (VI, 25) e non appare molto

diversa da quella di Alessandro, se non per la comparsa dello scudo, che viene descritto come

lungo e ovale. Quando nel secondo secolo a.C. i Romani dovettero dotarsi di una cavalleria

più efficiente, si ispirarono largamente a quella dei successori di Alessandro, incontrata sui

campi di battaglia, e non poterono fare scelta migliore: fu così che la cavalleria greca, da quel

momento incorporata con le sue gloriose tradizioni nella cavalleria ausiliaria romana, scomparve per sempre.

Equipaggiamento ed armamento

L’abbigliamento del cavaliere greco era piuttosto semplice e leggero (vedi fig. 7):

una corta tunica, il chitone, e un mantello leggero, la clamide, costituivano il vestiario abituale, mentre erano molto in voga un cappello a falde larghe, il petasos,

e degli alti stivali di cuoio spesso, gli embades. In inverno poteva essere necessario un mantello più pesante, l’himation.

Secondo i trattati di Asclepiodoto, di Eliano e di Arriano, che scrivevano

tra il I e il II secolo d.C. ma che si basavano ampiamente sugli usi militari dei

secoli precedenti, esistevano tre tipologie di cavalieri, a ciascuna delle quali

corrispondeva un diverso tipo di armamento.

Il primo gruppo era costituito dai cavalieri pesanti, i katafractoi, che erano protetti da un’armatura in corrispondenza del tronco, da un elmo avvolgente e da protezioni varie sulle gambe e sulle braccia. Anche il cavallo era protetto con delle bardature, mentre le armi offensive consistevano in una lancia lunga e in una spada pesante.

La seconda tipologia comprendeva i cavalieri che combattevano esclusivamente a

distanza, come gli arcieri a cavallo (ippotoxotai, detti anche “Sciti”), i più famosi dei quali erano i Cretesi.

La terza categoria, di tipo intermedio, comprendeva i cavalieri leggeri o schermagliatori

(acrobolistai), che, schierati generalmente sulle ali e forniti di protezione leggera, combattevano sia con l’arco che con giavellotti corti (akontion) da scagliare a distanza. Quelli armati

con giavellotti venivano chiamati anche Tarantini, e ne esistevano di due tipologie: una che si

limitava a lanciare giavellotti da lontano (e per questo chiamati anche ippakontistai, o Tarantini propriamente detti), e una in grado di ingaggiare il combattimento ravvicinato, con spada

o ascia, e i cavalieri venivano detti “leggeri” (elaphroi).

In realtà appare difficile operare una distinzione così netta considerando la molteplicità

delle terminologie trasmesseci dai diversi storici, che erano legate principalmente al tipo di

lancia in dotazione e al loro uso: Arriano enumera ad esempio doriforoi, kontoforoi, e lonchoforoi. La lonche era una lancia corta che si poteva anche scagliare a breve distanza, mentre il

doru e il kontos erano più lunghe e adatte anche come aste da urto. Plutarco (Alexandros, 33)

usa il termine xyston per indicare la lancia pesante usata dalla cavalleria di Alessandro, mentre altri usano il termine sarissa, lo stesso che indicava la lunga lancia della falange di fanteria,

anche se probabilmente la sarissa da cavalleria non doveva essere più lunga di 4 metri.

L’armamento ideale del cavaliere descritto da Senofonte sembra rientrare solo parzialmente nella categoria del cavaliere pesante, in quanto contempla, invece della lancia col manico lungo (doru kamakinon), l’uso di due giavellotti corti (palta) di tipo persiano in legno di

7

P:103

La cavalleria greca 101

Fig. 8.

Morso in ferro con anelli

porta-redini ad “8”.

Le guardie venivano

introdotte negli anelli del

filetto creando anche un

effetto di “pinzatura” della

mascella inferiore.

IV-II secolo a.C..

Cm 19 x 16.

corniolo, uno per essere lanciato a distanza, l’altro per il combattimento ravvicinato. Questa

configurazione è del resto in perfetto accordo con quanto emerge dalla maggior parte delle

evidenze figurative, che mostrano il cavaliere armato quasi sempre con due giavellotti corti.

Resta il fatto che la lancia costituiva l’armamento più importante del cavaliere, così come lo

era per l’oplita.

Senofonte ritiene l’elmo beotico il più adatto per un cavaliere, perché consente la migliore

protezione senza impedire una visuale completa. Un esemplare di questo elmo, ritrovato nel

1854 nel fiume Tigri, e largamente rappresentato nell’iconografia delle imprese di Alessandro,

sembra rispondere alla sua descrizione.

Altre raffigurazioni mostrano l’uso di elmi di tipo corinzio con riferimento ai periodi più

antichi, in cui il cavaliere era essenzialmente un oplita a cavallo, e di tipo tracio o frigio, soprattutto quelli impiegati dalla cavalleria macedone.

L’armatura (thorax) deve essere ben proporzionata al corpo, per non appesantire il cavaliere e per consentirgli tutti i movimenti. Poteva essere in ferro o in bronzo, dello stesso tipo

di quella oplitica. Arriano (IV, 1) elenca corazze a scaglie (pholidotois), costituite probabilmente da lamine di ferro o di bronzo, ma anche corazze in lino o in corno. Uno dei rari modelli

di corazza metallica pervenutaci presenta un vistoso rialzo delle estremità inferiori, realizzato

proprio per consentirne un uso agevole a cavallo.

Nelle rappresentazioni più recenti appare un uso molto diffuso del classico corsetto di

lino pressato, la protezione tradizionale più leggera dell’oplita. Gli scavi in quella che si ritiene fosse la tomba di Filippo II a Vergina (Macedonia) hanno portato alla luce un corsetto del

tutto simile nella forma a quelli di lino, ma costituito da lamine di ferro.

Quanto alla spada, Senofonte suggerisce l’uso della machaira (o kopis), una sciabola ricurva piuttosto pesante adatta per colpire di taglio dall’alto, anziché dello xiphos, la spada diritta generalmente usata dalla fanteria. Il kopis, termine persiano per indicare un’arma derivata

dalla romphaia di origine trace, era usata anche dalla fanteria oplitica in mischia serrata per

colpire con forza l’avversario al di sopra dei grandi scudi circolari, ed aveva un profilo studiato in modo tale da spostare la massa della spada verso il punto di più probabile impatto, cioè

la punta: l’ideale per colpire un avversario protetto da uno scudo con fendenti dall’alto verso

il basso. Fu con una spada di questo genere che, nella battaglia del Granico, Clito fu in gra8

P:104

102 Giuseppe Cascarino

do di tagliare di netto il braccio di un nemico che minacciava la vita di Alessandro (Arriano,

Anabasi di Alessandro, I, 15, 8).

La protezione del collo, ritenuto una delle parti più vitali, veniva assicurata da una bardatura che partiva dal retro dell’armatura. Per proteggere il fianco sinistro, che in assenza dello

scudo era la parte più esposta del corpo, Senofonte consiglia un particolare elemento di armatura, la “mano” (cheira), che copre spalla, braccio e dita della mano: di questo elemento

non è però rimasta alcuna immagine o descrizione dettagliata. L’avambraccio destro deve essere protetto da un elemento simile allo schiniere. Il basso ventre e i genitali sono protetti da

opportune “ali” (pteryges) di cuoio o tessuto imbottito.

Anche il cavallo deve essere dotato di adeguate bardature sulla fronte (prometopidion),

sul petto (prosternidion), e sui fianchi (parameridion), ma soprattutto nei punti deboli come

il ventre e le cosce. Una gualdrappa pesante (l’ephippion, una sorta di sella imbottita) aiuta a

migliorare la protezione del ventre dell’animale.

Nel testo di Senofonte non esistono riferimenti all’uso di uno scudo, ma in epoca ellenistica doveva essere presente, perché Polibio (VI, 25) sostiene che i Romani adottarono, oltre

alla lancia, anche lo scudo (tyreos) usato dalla cavalleria greca.

Dall’analisi dell’iconografia disponibile si deve tuttavia presumere che buona parte degli

elementi descritti nel testo non fosse di largo uso; si può quindi ipotizzare che Senofonte abbia

in realtà prescritto, sulla base delle esperienze condotte personalmente, un equipaggiamento

ideale, che non tutti erano in grado di adottare.

L’impiego tattico

Gli unici riferimenti alle formazioni adottate dalla cavalleria si trovano nei trattati teorici di

Asclepiodoto (I secolo a.C.), Eliano e Arriano (II secolo d.C.), mentre sono scarsi e frammentari gli accenni da parte degli storici dell’epoca. Altre informazioni sono fornite da Polibio

(II secolo a.C.).

L’ordinamento più comune e tradizionale (Asclepiodoto VII, 4), utilizzato sia dai Greci

che dai Persiani, era lo schieramento quadrato (tetragonos) o rettangolare (eteromekos). Con

il suo ampio fronte consentiva una linea di tiro più ampia al momento del contatto con il nemico, per cui era possibile lanciare nello stesso tempo un maggior numero di giavellotti e ripiegare in ordine, lasciando spazio alle file successive.

In genere il fronte dello schieramento veniva formato con un numero di colonne doppio rispetto a quello delle file, ad esempio dieci cavalieri di fronte per cinque in profondità,

oppure dodici per sei, e così via, considerando l’ingombro longitudinale del cavallo pari al

doppio di quello frontale. In realtà non esisteva una regola precisa (Asclepiodoto ad esempio

considera più adeguato in lunghezza uno spazio triplo della larghezza), ma la tendenza fu comunque quella di non schierare mai molte file in profondità: come infatti ricordato anche da

Arriano (XVI, 14), a differenza di quello che avviene nel caso della fanteria, la forza d’urto

della cavalleria non aumenta in proporzione alla profondità delle file, mentre un certo schieramento in profondità può essere utile solo per fornire una maggiore solidità e compattezza

dello schieramento. Anche quando le formazioni venivano disposte su molte file (secondo Polibio, che però scrive nel II secolo a.C., la formazione si disponeva abitualmente su otto file) è

probabile che l’assalto non avvenisse mai impiegando l’intera profondità dello schieramento,

ma a scaglioni, utilizzando ad esempio un primo blocco di quattro o cinque file per il primo

attacco e lasciando un secondo blocco come seconda ondata o come riserva. Era inoltre di

importanza vitale lasciare degli opportuni spazi tra i quadrati, per consentire il ripiegamento (perispasmos) dei primi scaglioni e lasciare spazio ai secondi per l’assalto successivo. L’impiego tattico più classico consisteva in una serie ripetuta di veloci cariche in direzione dello

P:105

La cavalleria greca 103

Fig. 9.

Filetto snodato in bronzo.

La patina azzurrognola è

dovuta agli umori prodotti

dalla decomposizione del

corpo, umano o animale, cui

era a contatto.

Area ellenistica,

IV-II secolo a.C..

Cm 18.

schieramento oplitico nemico, in un lancio di giavellotti a distanza di sicurezza e in un rapido

ripiegamento (anastrofè).

La formazione a quadrato consentiva inoltre un rapido ammassamento delle file e delle

colonne: durante la marcia infatti, come consigliato da Senofonte, i reparti di cavalleria avanzavano separati da opportuni intervalli, sia per consentire l’inserimento di gruppi di fanteria

leggera d’appoggio, sia per permettere un più agevole dispiegamento in battaglia durante il

passaggio dalle colonne alle file.

Secondo Eliano e Arriano, i Tessali furono i primi ad organizzare la cavalleria in squadroni disposti a forma di rombo (romboeidon) o di cuneo (embolon). Il rombo, o losanga, aveva

lo scopo di eseguire veloci movimenti attorno al nemico, ed aveva il vantaggio di poter cambiare direzione in qualsiasi momento dietro la guida del caposquadrone, favorendo con la sua

forma l’eventuale penetrazione nello schieramento nemico. Il comandante o caposquadrone,

detto ilarca, si posizionava alla testa del cuneo; dal lato opposto chiudeva lo schieramento il

capo della retroguardia, l’ouragos, mentre le due estremità erano occupate da cavalieri esperti detti plaghiofulakes, o guardafianchi. I migliori cavalieri si disponevano all’esterno, lungo

la linea che univa questi quattro punti. Questa formazione era tuttavia adatta solo per piccoli

gruppi. Nel trattato di Asclepiodoto il rombo è costituito da 61 cavalieri, con le posizioni assegnate in ordine per file e colonne, oppure sfalsate tra loro per favorire la compattezza del

gruppo: in questo caso il cavallo della fila seguente si disponeva con la testa allineata con la

spalla del cavallo davanti. È interessante notare come con il secondo tipo di formazione sia

possibile creare un gruppo di 64 cavalieri, ovvero il numero esatto che costituiva l’unità base

(l’ile) secondo Arriano (XVIII, 2).

Questo tipo di formazione era senz’altro più adatto per una tattica più dinamica e aggressiva, che prevedeva uno sfondamento dello schieramento nemico e un combattimento

ravvicinato.

Il cuneo, che consisteva sostanzialmente in un mezzo rombo, era la formazione preferita

dagli Sciti e successivamente dai Traci. Anche Filippo di Macedonia addestrò la sua cavalleria con questa formazione, che schierava all’esterno i migliori elementi, ritenendola più pratica della formazione a rombo, perché consentiva a tutti i cavalieri di osservare costantemente

e di seguire prontamente gli spostamenti del caposquadrone, “… come avviene nel volo delle

gru…” (Asclepiodoto, VII, 3).

Arriano ricorda tuttavia che non esiste uno schieramento in assoluto più valido degli altri, ma che ognuno può rivelarsi il più adatto in determinate circostanze.

Nella tabella che segue è riportata l’organizzazione dei reparti di cavalleria secondo Asclepiodoto, Eliano e Arriano:

9

P:106

104 Giuseppe Cascarino

Nome dell’unità Equivalenza N° di cavalieri Note

1 ile 64 equivalente all’oulamos spartano di 50 uomini (2 turmae Romane)

1 epilarchia 2 ilai 128 equivalente al phile ateniese di 100 uomini

1 tarantinarchia 2 epilarchie 256

1 ipparchia 2 tarantinarchie 512 equivalente all’ala Romana (16 turmae da 32 uomini)

1 epipparchia 2 ipparchie 1.024

1 telos 2 epipparchie 2.048

1 epitagma 2 teloi 4.196

In figura 10 sono rappresentati il lessico

e la tipologia dei movimenti del singolo cavaliere, così come vengono riportati da Polibio

(X, 23) quando descrive le esercitazioni della

Lega Achea agli ordini dell’ipparco Filopemene (210 a.C.).

10

11

Fig. 11.

Filetto snodato in bronzo.

Area ellenistica,

VII-IV secolo a.C..

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Le imboccature in Grecia 105

Il cavallo appare introdotto in Grecia, in particolare a Creta, solo verso la fine del Medio-Minoico, vale a dire poco anteriormente al 1580 a.C., data con cui si fa tradizionalmente coincidere l’inizio dell’epoca Tardo-Minoica, e, come in altri paesi, esso verrà usato prima per il

traino di carri e poi per essere montato.

Ma la cavalleria si sviluppò in modo molto irregolare: di più nelle regioni pianeggianti atte

al suo impiego e dove l’aristocrazia mantenne per più tempo la supremazia politica, due cose spesso strettamente correlate, e molto meno nelle regioni montuose o in rapida evoluzione

democratica dove le fu preferita la borghese fanteria degli opliti costituente la famosa falange.

Si può affermare che una vera e importante cavalleria nacque intorno al XII secolo a.C.,

ma è solo all’inizio del V secolo a.C. che gli ateniesi si decisero a rafforzare tale arma che raggiunse, intorno alla prima metà di quel periodo, circa 1.200 elementi, tutti provenienti dalle

famiglie più nobili e ricche.

È proprio in questo vivaio aristocratico che intorno al 430 a.C. vede i natali Senofonte,

che apparteneva alla classe dei cavalieri. È infatti a costoro che sono destinati i suoi due scritti, tra il tecnico-militare ed il pedagogico, ovvero “L’Ipparco”, rivolto più che altro ai comandanti, e “Sull’Equitazione”, per il miglioramento dei cavalieri e del cavallo, nei quali infuse

tutto il suo orgoglio per l’arma.

Senza dilungarci troppo in percentuali che variavano molto da regione a regione, si può

stimare che il rapporto cavalieri/fanti nel corso della storia greca si situò mediamente da 1

contro 2 nel migliore dei casi, come ad esempio in Tessaglia, sino ad 1 contro 120 o se non addirittura azzerato come avvenne a Sparta intorno all’VIII-VII secolo a.C. allorquando la stessa

guardia a cavallo del re fu appiedata, conservando però il titolo di “ippeis”.

Pare, comunque, che il massimo numero realmente raggiunto sia stato di circa 6.000 cavalieri nell’esercito della Lega Tessalica nel IV secolo a.C., anche se alcune fonti letterarie citerebbero cifre superiori.

Comunque sia, tutti questi cavalli per essere diretti dovevano avere un’imboccatura che i

greci chiamavano “csalivòs”, bellissimo etimo dell’italiano “saliva”, forse per la bianca schiuma che esso produceva nella bocca del cavallo, mentre l’arte di fabbricarne era l’elegante

“csalivo poietichè”.

Per poter parlare concretamente di imboccature dobbiamo basarci sui rari reperti giunti fino a noi che sono, purtroppo, molto scarsi. Ci si potrà chiedere corne mai una civiltà durata un migliaio di anni abbia potuto lasciarci cosi poche tracce di tali manufatti che spesso

venivano messi a corredo di sepolture, rendendone più agevole e frequente il ritrovamento.

Le imboccature in Grecia

Claudio Giannelli

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106 Claudio Giannelli

In Grecia, fortunatamente, oltre le sepolture che, come vedremo, non sempre ci sono

state utili, ci sono venuti in aiuto anche i santuari dove sono state effettuate le scoperte più

numerose e interessanti.

A questo punto, però, si impone una breve digressione per un accenno relativo al culto

dei morti presso i greci che risale a tempi antichissimi. Nelle tombe dell’Età Micenea ritroviamo il cadavere corredato di abbondante suppellettile a gratificazione della sua anima. Il

pensiero dei greci pre-omerici che la vita di quest’ultima sopravvivesse al decesso destava un

certo terrore e di qui il desiderio di ingraziarsela.

Ma già in tarda Epoca Micenea, il cui tramonto puo collocarsi all’incirca intorno al XII

secolo a.C., si rinvengono le prime testimonianze di un rito mortuario nuovo, ovvero quello

dell’incinerazione.

Questa era la logica conseguenza del nuovo concetto dell’assoluta separazione dell’anima – che sta passiva nell’Ade – dal mondo dei viventi e della sua impossibilità ad entrare in

contatto con questi ultimi: nessuna necessità quindi di doni propiziatori.

Alla fine dell’età omerica, ossia all’incirca dall’VIII secolo a.C. in poi, rinacque, però, la

fede in una vita attiva dell’anima nell’Ade e quindi si riattivò l’antico culto dell’inumazione

con abbondante vasellame ed altra suppellettile. Ma questo corredo funebre andò sempre più

diminuendo sino al punto che nelle tombe attiche del V secolo a.C. si trovano solamente le

tipiche leciti contenenti le ceneri del defunto.

È molto interessante, a questo proposito, confrontare queste date con la tabella crono-tipologica dell’età dei ritrovamenti pubblicata nella tesi di dottorato della Dottoressa H. Donder, a tutt’oggi miglior testo in materia1

.

Da detta tabella si evince che le maggiori scoperte archeologiche risalgono a due periodi

ben definiti: il primo copre un arco approssimativo di più o meno 200 anni tra circa la metà

del XIV secolo a.C., data dei primi reperti, e la prima metà del XII; il secondo – più lungo –

va tra il IX e la fine del IV secolo a.C..

È interessante notare che dal III secolo a.C. in poi non vi sono più in Grecia testimonianze di imboccature né come oggetti archeologici né in pittura o scultura (fig. 1).

Riassumendo, dunque, abbiamo più reperti nei momenti in cui prevale l’inumazione che

in quelli dell’incinerazione, anche se tutto va sempre inteso con una certa prudente elasticità. Non va dimenticato, in proposito, che disponiamo di scarsa letteratura specifica e, forse,

molto materiale non ancora classificato giace nei depositi dei vari musei, per non parlare di

quello ancora da scavare. Si ritiene che i pezzi più o meno integri che ci sono noti siano circa

un centinaio in tutto il mondo e non vi è alcuna distinzione tra quelli usati per i cavalli attaccati e quelli montati.

Non ci vengono certo in aiuto le numerosissime ma poco precise raffigurazioni di cavalli

nei vasi fittili poiché si tratta di espressioni artistiche, anche fantasiose, con tecnica bidimensionale e poco dettagliate anche a causa del loro piccolo formato.

Il materiale che veniva usato per le imboccature era essenzialmente il bronzo ed il ferro in

epoca più tarda, ma abbiamo anche notizie letterarie dell’uso di metalli preziosi come argento

e oro, anche se non ci è mai pervenuto, finora, alcun reperto del genere2

.

La Dottoressa Donder, come si puo notare nella sua tavola, ha classificato le imboccature note in una decina di tipologie in base, soprattutto, all’aspetto e conformazione delle guardie laterali.

Si potrebbe azzardare un’ulteriore semplificazione, anche se estrema: da una parte filetti con semplici cannoni, quasi sempre snodati (figg. 2, 7), e con guardie formate da semplici

1 Tesi discussa in Heidelberg alla Facoltà di Scienze Antiche ed Orientali con il Prof. Hampe nel gennaio 1976 e

pubblicata con il titolo “Zaumzeug in Griechenland und Cypern” da O. Beck, Monaco 1980. 2 Virgilio nell’Eneide dice “fulvum mandunt sub dentibus aurum”, ed anche Pindaro nelle “Odi olimpiche” ci racconta che Bellerofonte riuscì a domare il cavallo alato Pegaso solo grazie ad un morso d’oro donatogli dalla Dea Atena.

2

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Le imboccature in Grecia 107

TIPO

a.C.

1

Tabella crono-tipologica dei ritrovamenti greci della dr.ssa Donder

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Fig. 2.

Filetto snodato in bronzo del

tipo Miceneo con guardie

rettangolari munite di 4 fori

per l’attacco dei montanti

della testiera. Cannoni

formati ognuno da un’unica

barretta piegata e ritorta,

desinente in numerose volute

a formare l’anello per il

fissaggio delle redini.

XIII secolo a.C. circa.

Cm 33 x 16 x 3.

Un esemplare simile

è esposto nel Museo

Archeologico di Atene.

Fig. 3.

Grande filetto in bronzo con

“echinoi”(punte acuminate)

sulle barre, ovvero, come

traduce il Calonghi, “morso

munito di punte in forma di

denti di lupo”.

VII-III secolo a.C. circa.

Cm 20 x 22.

Alcuni pezzi simili

sono esposti nel Museo

Archeologico di Atene.

2

barrette dritte, ricurve o, più raramente, figurate, con evidenti influenze di culture limitrofe quando non addirittura importati; dall’altra dei morsi che, seppur privi di barbozzale,

avevano pur sempre una sorta di duplice effetto sia di leva che di stringimento della mandibola del cavallo.

In alcuni casi, per indurirne l’effetto, i cannoni di entrambi i tipi erano più corti, tozzi ed

irti di punte (“echinoi”)3

(fig. 3) e, in più, in alcuni morsi a lunghe guardie laterali a forma di

“S”, venivano aggiunte rondelle, catenelle e dischetti (“trochoi”, vedi pag. 94, fig. 4). Altro

non erano che i precursori dei cosiddetti “giocattoli”, tanto diffusi sia sui morsi celtico-romani che sui morsi rinascimentali, la cui funzione era appunto quella di far giocare la lingua del

cavallo su di essi al fine di stimolare la salivazione per rendere più gradevole, o sarebbe meglio dire meno dolorosa, l’imboccatura stessa (vedi pag. 15).

Altra funzione di questi marchingegni era quella di impedire al cavallo di serrare le mascelle e di prendere il morso tra i denti, rendendo cosi inefficace ogni comando.

Del resto le sempre maggiori esigenze dell’equitazione e del combattimento favorivano

l’uso di mezzi sempre più severi, necessari per avere il cavallo con un maggiore equilibrio sulle anche ed altamente reattivo. È evidente che alcune imboccature, usate da mani inesperte o

violente, potevano trasformarsi in veri e propri strumenti di tortura, ma non bisogna dimenticare che il fermarsi solo venti centimetri più avanti del necessario poteva voler dire averne

altrettanti di spada o lancia avversaria nel proprio corpo.

3 I latini lo definivano “frenum lupatum”.

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Le imboccature in Grecia 109

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110 Claudio Giannelli

Fig. 4.

Museruola in bronzo a

lamine sottili.

Grecia / Magna Grecia.

VI-IV secolo a.C..

Cm 17 x 13 x 14.

Fig. 5.

Museruola traforata in

bronzo.

Grecia / Magna Grecia.

VI-IV secolo a.C..

Le museruole metalliche, eredi dei primi esemplari in materiali deperibili quali corda o

cuoio, sembrerebbero essere state inventate nelle regioni del centro-nord della Grecia e diffusesi anche in Magna Grecia.

Usata sia in associazione all’imboccatura che singolarmente, la museruola (“peristomion”)

era un oggetto metallico di varie fogge che cingeva il muso del cavallo ed il cui concetto può

in un certo senso essere correlato al “kapistrion” (“capestrum’’ – cavezza).

Tutte appese a dei montanti per tenerle in posizione, possono essere divise in tre tipologie

fondamentali: quelle che serrano la bocca con una sottile lamina frontale, decorata centralmente,

e con sottili barrette laterali desinenti sotto la barbozza con profilo appiattito e allargato (fig. 4);

quelle che avvolgono il muso come una sorta di cestino elegantemente traforato (fig. 5); quelle

formate da una larga fascia frontale avvolgente, spesso decorate con falere ed incisioni (fig. 6).

È probabile, comunque, che molti cavalieri dell’antichità montassero molto meglio di

quanto spesso erroneamente ritenuto.

Del resto lo stesso Senofonte nel suo trattato “Sull’Equitazione”, destinato tuttavia a cavalieri già esperti, propugnava la “non violenza”, non solo della mano, e consigliava imboccature dolci.

Egli è stato, dunque, non solo un grande “uomo di cavalli” nel senso più lato e nobile del

termine ma molti suoi insegnamenti sono tuttora validissimi e di una modernità sbalorditiva.

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Fig. 6.

Museruola in bronzo con

fascia frontale.

Grecia / Magna Grecia.

VI-IV secolo a.C..

Fig. 7.

Grande filetto snodato

in ferro.

IV-II secolo a.C. circa.

Cm 17,5, ø 11.

Fig. 8.

Filetto con guardie ed anelli

portaredini in bronzo.

Cannone composto da due

“8” in ferro.

V-III secolo a.C. circa.

Cm 21 x 19.

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114 Claudio Giannelli

Alcuni estratti dai capoversi IX e X del trattato di Senofonte “Sull’equitazione”

(Perì ippichés) nella traduzione dell’Ing. G. Cascarino

…Quanto ai morsi, quelli dolci sono più indicati di quelli severi; ma se ne viene messo uno severo, dovrà assomigliare ad uno dolce per la leggerezza della mano. È bene anche che il cavaliere si abitui a rimanere calmo egli stesso, soprattutto con un

cavallo nervoso, e a toccarlo il meno possibile con altro che non siano le parti che

danno stabilità all’assetto.

…Ma se si insegna al cavallo ad andare con il morso leggero, a tenere il collo alto

e a piegarlo ad arco a partire dalla testa, in questo modo si ottiene che il cavallo

farà le cose che lo soddisfano e di cui si compiace.

…Per cominciare si devono possedere almeno due morsi. Uno di questi deve essere liscio ed avere i dischi di discrete dimensioni, mentre l’altro deve avere i dischi pesanti e bassi e le spine appuntite, in modo che, quando il cavallo lo riceve, lo respinge

soffrendo la sua ruvidità; quando invece gli viene messo il morso liscio può apprezzare la sua levigatezza, e può fare con quello liscio le cose che è stato addestrato

a fare con quello ruvido.

Nel caso tuttavia che, rimanendo insensibile alla levigatezza, vi si appoggi sopra

spesso, aggiungiamo allora dei dischi grandi sul morso liscio in modo che, costretto da questi ad aprire la bocca, rilasci l’imboccatura. È possibile realizzare il morso

ruvido secondo varie forme, così come si possono stringere i montanti delle briglie.

…Ad ogni modo, qualunque sia il tipo di morso, tutti devono essere flessibili. Quando infatti un cavallo ne afferra uno rigido, lo tiene interamente contro le barre, in

modo analogo ad uno spiedino che, da qualunque parte lo si prenda, si solleva tutto

intero. L’altro tipo di morso agisce invece come una catena: solo la parte che si tiene

rimane rigida, mentre il resto rimane lento. Poiché il cavallo cerca continuamente

di afferrare la parte che gli sfugge nella bocca, egli lascia cadere il morso dalle

barre; è questo il motivo per cui vengono fatti pendere dei piccoli anelli nel mezzo

degli assi del morso, per fare in modo che il cavallo, inseguendoli con la lingua e

con i denti, venga distolto dal tenere il morso contro le barre.

Nel caso non sia noto il significato dei termini flessibile e rigido applicati ad un

morso, spiegheremo anche questo: “flessibile” significa che gli assi hanno gli anelli

di collegamento larghi e lisci in modo che si pieghino facilmente; e se tutti i pezzi

che si trovano attorno agli assi hanno aperture larghe, e non strette, risultano più

flessibili. “Rigido” significa invece che ognuno dei pezzi del morso si muove e si lega

con difficoltà. Qualunque sia il tipo, bisogna servirsene sempre allo stesso modo, se

si vuole che il cavallo abbia proprio l’aspetto che si è descritto.

La bocca del cavallo non deve essere tirata all’indietro così duramente da fargli

girare la testa, né così delicatamente da non accorgersene; non appena solleva il

collo dopo essere stato tirato indietro, gli va subito allentato il morso. E per il

resto, come non abbiamo mai smesso di ripetere, si deve ricompensare il cavallo ogni

qualvolta si comporta bene.

E quando ci si rende conto che al cavallo piace il portamento alto del collo e la

leggerezza della mano, non bisogna comportarsi con severità con lui come per costringerlo a lavorare, ma accarezzarlo come quando si vuole che smetta il lavoro;

in questo modo infatti andrà ad un passo veloce con la massima disinvoltura.

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Il rapporto tra uomo e cavallo nel mondo villanoviano ed etrusco 115

Fin dall’antichità il cavallo è stato un’icona di prestigio e di potere, uno strumento indispensabile nello svolgimento di attività fondamentali quali il trasporto e la circolazione, il lavoro

dei campi, ma anche un fidato compagno per la caccia e la guerra, una nobile cavalcatura

nei giochi e nelle manifestazioni religiose. Il possesso di un cavallo era considerato un segno

di distinzione sociale e, già dalla prima Età del Ferro, comincia ad affermarsi un’aristocrazia

definita, a buon diritto, equestre. Di pari passo con la differenziazione della struttura sociale

delle prime comunità urbane, le sepolture delle classi più elevate si arricchiscono di numerosi morsi, finimenti e bardature equine, puntali e sonagli da carro, fibule ed oggetti vari a

forma di cavallo, in certi casi di carri e persino di cavalli stessi. Questo fenomeno è legato da

un lato all’affermarsi del binomio fondamentale tra cavallo e cavaliere, dall’altro all’identificazione tra cavalleria e classe dominante costituita, appunto, dai proprietari di carri e cavalli. Nonostante la solidità di questo legame uomo-animale, i reperti archeologici, quali morsi

e finimenti vari, non sono molto frequenti soprattutto per quanto riguarda le fasi più antiche. È per questo che gli oggetti che compongono la collezione oggetto di questa pubblicazione risultano particolarmente significativi per l’approfondimento e la comprensione degli

aspetti pratici e quotidiani alla base del rapporto collaborativo tra il cavallo ed il cavaliere.

Dopo una semplice descrizione delle caratteristiche fondamentali delle civiltà villanoviana ed etrusca, questo contributo, senza voler essere esaustivo per la complessità dell’argomento, si sofferma su alcuni ritrovamenti archeologici utili a evidenziare l’importanza che i

cavalli rivestivano nel mondo preromano, mostrando le attività che li vedevano protagonisti.

La civiltà Villanoviana. Cenni storico-archeologici

La civiltà Villanoviana è una delle più importanti della prima Età del Ferro (IX-VIII secolo

a.C.). Confusa per molto tempo dagli archeologi con quella etrusca, assunse una propria identità con la scoperta di importantissimi reperti presso la città di Villanova, da cui la civiltà prese

il nome, a pochi chilometri da Bologna. Verso la metà del XIX secolo venne infatti alla luce

una necropoli che subito attrasse l’attenzione dei dotti del Congresso Preistorico Internazionale riunito a Bologna nel 1871. Si trattava di tombe ad incinerazione a pozzetto contenenti

un cinerario e numerosi oggetti di corredo. Dopo questa eccezionale scoperta si tentò di operare una distinzione tra questa civiltà e quella etrusca, intervento non sempre facile visto che,

in mancanza di fonti storiografiche, gli unici indizi del popolo villanoviano restano i reperti.

Inoltre tutte le aree in cui si sono ritrovate tracce di questa popolazione sono state in seguito

Il rapporto tra uomo e cavallo nel mondo villanoviano ed etrusco

Chiara Martinozzi

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Il rapporto tra uomo e cavallo nel mondo villanoviano ed etrusco 117

Figg. 1,2.

Coppia di filetti snodati in

bronzo identici.

Cm 22 x 5 x 4,5.

Fig. 3.

Filetto snodato in bronzo

con guardie a forma di

cavallo stilizzato.

Gambe desinenti in anelli

porta ornamenti.

Cm 21 x 10,5 x 6.

Fig. 4.

Filetto in bronzo a barra

rigida con porta redini

munito di anelli per

appendere ornamenti,

uno dei quali con piccola

protome equina stilizzata.

Cm 17 x 5,5 x 4,7.

Fig. 5.

Filetto snodato in bronzo

con porta redini munito

di anellini per appendere

ornamenti.

Cm 18 x 5,5 x 6,2.

abitate dagli Etruschi, cosicché molti studiosi vedono proprio nel mondo villanoviano il substrato da cui si sviluppò la cultura etrusca.

Le più note aree di frequentazione villanoviane si trovano entro la città stessa di Bologna

e lungo la vallata superiore del Reno, in molte località dell’imolese, nel riminese, ma anche in

Etruria, a Chiusi, Cortona, Volterra, Tarquinia, Vetulonia, Montenero ed entro la città stessa

di Firenze.

A partire dal IX secolo a. C. tra Emilia, Toscana, Lazio ed in alcune aree della Campania,

sorsero numerosi insediamenti costruiti in particolare sulle colline adatte alla difesa e poste

vicino a fonti d’acqua. Altri abitati compaiono, in numero minore, anche nelle zone costiere

e nelle zone montuose appenniniche di transumanza. Gli insediamenti villanoviani erano capillarmente distribuiti in buona parte dell’Italia centrale e risultano culturalmente piuttosto

omogenei sulla base dei reperti archeologici.

Le capanne e le altre strutture abitative, per quanto è dato evincere dalle tracce emerse

dagli scavi e dalle urne conformate a capanna, avevano pianta ellittica, circolare, rettangolare

o quadrata. Erano costruite in legno e rifinite con argilla. Avevano una porta sul lato più corto, abbaini sul tetto per l’uscita del fumo del focolare e talvolta anche finestre.

La società villanoviana era inizialmente dedita all’agricoltura e all’allevamento, ma progressivamente le attività artigianali specializzate (particolarmente la metallurgia e la ceramica)

favorirono accumulo di ricchezza e determinarono la stratificazione sociale.

Nelle vicinanze degli abitati si trovavano le aree funerarie, caratterizzate da tombe a pozzetto, tombe a fossa e tombe a cassetta, dette anche

“a cassone”. Le urne cinerarie erano costituite prevalentemente da vasi biconici, modellati a tornio lento con la bocca coperta da una ciotola capovolta. Le

decorazioni incise erano costituite da meandri, da

motivi a cerchietti concentrici, da altre forme geometriche o da svastiche. Particolarmente abbondanti furono i ritrovamenti di reperti di bronzo e di ferro come asce, coltelli, rasoi a forma di mezza luna.

Non di minore importanza erano gli oggetti di ornamento tra cui spilloni, fibule, braccialetti e anelli.

Un altro tipo di cinerario, comune all’area di cultura laziale, è l’urna a capanna, attestata nell’Etruria

costiera e meridionale interna, che si ritiene fosse

riservata al pater familias. Le urne cinerarie erano

chiuse da scodelle rovesciate nel caso di sepolture

femminili o da elmi per alcune sepolture maschili.

Il corredo funerario poteva comprendere morsi di cavallo, rasoi a forma di mezza luna, fibule,

spilloni e armi per gli uomini, oppure elementi

di cinturoni, fibule ad arco, spirali per capelli ed

elementi del telaio per le donne. Nelle deposizioni villanoviane risulta poco diffusa la presenza di

elementi ceramici diversi dall’urna cineraria e dal

coperchio. I corredi funebri delle sepolture sia a

cremazione che a inumazione, riferite alle fasi villanoviane più evolute, si presentano più abbondanti

e lussuosi di quelli del villanoviano antico; col passare del tempo si colgono i segni di una stabile differenziazione sociale.

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Fig. 6.

Filetto snodato in bronzo

con anelli porta montanti

ornati da protomi equine

fortemente stilizzate.

Cm 17,5 x 7,5 x 5,7.

Fig. 7.

Filetto snodato in bronzo

con guardie a forma di

cavallo stilizzato, munito

nella parte inferiore di

tre anelli per appendere

ornamenti; portaredini a

barretta.

Cm 19,5(+7) x 7 x 8,5.

Fig. 8.

Filetto snodato in bronzo

con guardie a forma di

grande cavallo ornato sopra,

sotto e davanti, da altri tre

cavallini, tutti stilizzati; due

anelli porta ornamenti in

basso.

La civiltà etrusca. Cenni storici

“Credo che i Tirreni non fossero dei coloni Lidi: infatti non parlavano la loro lingua né

conservavano alcun segno dell’antica patria [...]. Perciò mi sembra sia più vicino alla verità

chi sostiene che questo popolo non sia venuto da fuori, ma sia indigeno [...]. È possibile che i

Greci abbiano dato loro il nome di Tirreni […] ma il nome con cui questo popolo chiamava

se stesso è Rasenna, dal nome di un loro condottiero”1

.

Così scriveva lo storico Dionigi di Alicarnasso riferendosi agli Etruschi e mettendo in

dubbio, già nel I secolo a.C., la teoria erodotea della migrazione del popolo etrusco. Lo

storico greco Erodoto sosteneva, infatti, che gli Etruschi fossero giunti dalla Lidia a seguito di una tremenda carestia e che si fossero stabiliti nell’Italia centrale2

. Questa suggestiva

teoria storica ha diviso la comunità scientifica per decenni e continua anche oggi a mietere consensi nonostante importanti risultati provenienti non solo dalla ricerca archeologica

ma anche dalle indagini genetiche. Queste ultime, condotte in anni recenti, sembrano avvalorare definitivamente la genesi autoctona degli Etruschi, relegando le altre ipotesi alla

dimensione leggendaria.

Superato il problema delle origini sappiamo che, intorno alla metà del VII secolo a.C., gli

Etruschi si presentano come un popolo dotato di una forte identità che occupava una vasta

area della penisola italiana, dall’attuale Campania fino alla Toscana del nord. Il loro influsso

andava però molto oltre questi confini: gli Etruschi infatti erano eccellenti navigatori e intrat1 Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, Libro I, 30. 2 Erodoto, Le Storie, libro I, 94.

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Figg. 9,10.

Coppia di filetti snodati

in bronzo con anelli porta

montanti trilobati.

Cm 21 x 5,5 x4,5.

Figg. 11,12.

Coppia di filetti snodati

in bronzo con anelli porta

montanti trilobati (2 rotti).

Cm 20 x 5,5 x4,8.

tenevano rapporti commerciali con tutto il Mediterraneo ed anche con i territori al di là delle

Alpi e oltremare fino alla Corsica. La civiltà etrusca, nata come una civiltà agricola, in seguito

aveva infatti sviluppato una fiorente attività commerciale marittima e terrestre. Molto fiorente

fu anche l’estrazione del ferro proveniente dalle miniere dell’Isola d’Elba, lavorato a Populonia, e la lavorazione dei metalli in generale.

L’organizzazione politica etrusca si fondava su un sistema di città-stato riunite in una lega

di dodici città, la dodecapoli: una potente alleanza di carattere economico, religioso e militare. Facevano parte di questa unione le città di Veio, Caere (Cerveteri), Tarchna (Tarquinia),

Velch (Vulci), Russel (Roselle), Vetluna (Vetulonia), Popluna (Populonia), Velathri (Volterra),

Velzna (Orvieto), Clevsin (Chiusi), Perusna (Perugia) e Aritim (Arezzo). Ogni anno i rappresentanti delle città si incontravano presso il Fanum Voltumnae, forse situato nel territorio della città di Orvieto, per eleggere il capo della federazione, lo zilath mech rasnal, per discutere

degli affari politici ed economici e per onorare le divinità comuni. Durante le celebrazioni

religiose e le assemblee aveva luogo anche un importante mercato, occasione di interscambio

economico e culturale.

A partire dal VII secolo a.C. gli Etruschi estesero il loro dominio verso nord, più precisamente in Emilia, Lombardia, creando una regione che viene indicata come “Etruria padana”. Il momento di massima fioritura dei territori padani si colloca alla metà del VI secolo

a.C.; con la conquista di Atri e la fondazione di Spina, Marzabotto e del Forcello di Bagnolo,

gli Etruschi stabiliscono una rete di traffici che viene a collegare la Grecia, attraverso i porti adriatici, l’asse fluviale Po-Mincio, i laghi ed i passi alpini, con le terre dei Celti d’oltralpe.

Nell’Etruria padana venne probabilmente istituita una dodecapoli, in analogia alla dodecapoli

centro meridionale, ma non si ha la certezza di quali città ne facessero parte. Appartennero

certamente alla dodecapoli padana le città di Felsina (Bologna), Spina e Marzabotto, mentre

si possono fare delle supposizioni per città quali Ravenna, Cesena, Rimini, Modena, Parma,

Piacenza, Mantova e forse Milano.

Le città-stato erano autonome, anche se accomunate dalla lingua e dalla religione. Fu

proprio la loro mancanza di unità la causa della loro decadenza che ebbe inizio tra V e IV

secolo a.C.. Le città del nord furono conquistate dai Celti; quelle del Sud furono conquistate dai coloni della Magna Grecia e dai Sanniti e quelle del centro caddero, una dopo l’altra,

sotto il dominio dei Romani che stavano prendendo il sopravvento sulle altre popolazioni

centro italiche.

L’indebolimento dei commerci marittimi si fece drammatico quando, nel 453 a.C., il tiranno di Siracusa Gerone occupò la ricca Isola d’Elba, provocando di fatto un blocco dei porti,

con l’eccezione di Populonia. Sull’Adriatico le città etrusche vennero contemporaneamente

attaccate dai celti e dai siracusani, in piena espansione. Conquistata la vicina Veio nel 396 a.C.

dopo una guerra durata quasi un secolo, Roma si espanse nell’Etruria meridionale e, dopo

la decisiva battaglia di Sentino (295 a.C.) nel giro di qualche decennio tutte le città etrusche

furono assoggettate a Roma. Le comunità etrusche, all’inizio del I secolo a.C., ottennero uno

status particolare, cioè la cittadinanza latina che presupponeva minori diritti rispetto a quella

romana che fu loro concessa mediante la Lex Julia dell’89 a.C..

Ritrovamenti archeologici

Le necropoli villanoviane bolognesi: il caso di Verrucchio (inizi VII secolo a.C.)

Nelle tombe più ricche di epoca villanoviana la figura del cavallo è una costante, sia attraverso la deposizione di oggetti connessi alla sua bardatura o al carro, sia sotto forma

di raffigurazioni in ceramica o in metallo. Gli studiosi affermano che si tratta di una figura che presenta due valenze inscindibilmente legate, quella di indicatore sociale di perso-

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Il rapporto tra uomo e cavallo nel mondo villanoviano ed etrusco 123

Fig. 13.

Filetto snodato in bronzo del

tipo cosiddetto “geometrico”

con porta redini a barretta.

Cm 18(+8) x 6 x 12.

naggi di alto rango e quella di simbolo del viaggio nell’oltretomba. Gli ultimi studi sulle testimonianze della prima Età del ferro ad ovest di Bologna hanno fatto emergere una

connotazione specifica, leggibile a livello di testimonianze funerarie, legata all’uso e all’esibizione del cavallo e del carro da parte di individui eminenti all’interno delle comunità

dislocate nelle valli del Samoggia, del Reno e del Panaro. Numerose tombe restituiscono

infatti morsi equini, oggetti legati alla bardatura del cavallo nonché riferimenti più o meno espliciti al suo possesso.

Carri e finimenti

L’uso di seppellire carri da guerra nelle necropoli etrusche era abbastanza frequente soprattutto nelle fasi arcaiche. Tra tutte, la necropoli di San Cerbone (Populonia) è particolarmente ricca di reperti che rimandano all’uso del cavallo. Famosissima è la Tomba dei carri (VII

secolo a.C.) dove sono stati rinvenuti, tra gli oggetti del corredo funebre, due carri da parata

decorati con lamine in bronzo dorato raffiguranti leoni e motivi geometrici e due morsi da

cavallo in bronzo.

Nella stessa necropoli si trovava una fossa rettangolare contenente i resti metallici di un

carro a due ruote e i resti scheletrici di due cavalli (fine VI secolo a.C.). La tipologia della

fossa e l’assenza di resti umani e di altri elementi di corredo indicano che non si trattava

di una sepoltura, ma probabilmente di una buca scavata per accogliere le offerte votive di

un sacrificio in un rituale di sepoltura aristocratica. Il carro ritrovato era costituito da una

cassa rettangolare in legno di quercia con due ruote a quattro raggi in ferro di più di due

metri di diametro. Non si trattava di un carro da guerra, ma di un veicolo leggero, veloce, stabile, adatto alla corsa. Il terminale del timone era decorato con una testa di ariete in

bronzo, mentre alla parte alta dei parapetti erano fissate piastre bronzee semilunate e rettangolari con motivi vegetali e teste di serpente barbato o teste di satiro. Altro ritrovamento populoniese che riporta all’ambito equestre è la sonagliera bronzea a pettorale decorata

con placchette rotonde (“tintinnabulum”) ed una miniatura infantile. Questi finimenti erano sicuramente usati in tempo di pace per abbellire le cavalcature da parata, ma nascono

come elementi bellici. Infatti la struttura a placche mobili faceva sì che il cavallo, lanciato

al galoppo, producesse un grande frastuono metallico che aumentava l’aspetto aggressivo

del cavaliere. Questi ritrovamenti tracciano un ritratto assai vivido degli antichi abitanti di

Populonia, descrivendoli particolarmente dediti alle attività belliche e dunque, non a caso,

nominati i Principi guerrieri di Maremma.

Rappresentazioni di cavalli nell’arte funeraria e sacra

Moltissime sono le raffigurazioni di cavalli nell’arte etrusca che dimostrano quanto questo

animale e i suoi molteplici utilizzi fossero importanti per la vita quotidiana di questo popolo. Di seguito sono riportati alcuni dei numerosissimi esempi in cui i cavalli sono riprodotti

in svariate situazioni. Negli affreschi che decorano le pareti della Tomba della Scimmia e della Tomba del Colle (necropoli di Chiusi), databili tra la fine del VI secolo e i primi anni del

V a.C., sono rappresentate scene tratte dalle celebrazioni dei giochi funebri organizzati in

onore dei defunti: tra scene di lotta, hanno grande risalto le bighe lanciate in velocità e tirate

da cavalli dai manti di vario colore. Particolarmente interessante è vedere come nel mondo

etrusco il lancio dell’asta, o meglio della lancia, si svolgesse a cavallo, forse per indicare lo

stretto legame di questa specialità atletica con l’attività venatoria. Il cavallo era sicuramente un compagno indispensabile durante la caccia come dimostrano le decorazioni affrescate

nella Tomba della Querciola o della caccia al cinghiale (VI secolo a.C., necropoli etrusca di

Tarquinia) dove i cacciatori, sia a piedi che a cavallo, inseguono la preda.

Le tracce iconografiche che attestano l’utilizzo del cavallo in battaglia sono molto frequenti anche per quanto riguarda le fasi etrusche più antiche. Risale al VI secolo a.C. la raf-

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124 Chiara Martinozzi

figurazione stilizzata di cavallo e cavaliere graffita su una brocca in ceramica etrusco-corinzia

esposta al Museo archeologico di Pitigliano.

Particolarmente degne di nota sono le statue in terracotta che costituivano la decorazione del frontone del tempio di Talamone (II secolo a.C., Caserma Umberto I, Orbetello) in cui

si vede, ritratto a dimensione naturale, un auriga alla guida di una biga trainata da due cavalli

con chiara e precisa rappresentazione del morso e delle briglie. Lo stesso interesse per i finimenti del cavallo si ritrova nel gruppo scultoreo in terracotta policroma proveniente da Pyrgi

(Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia), o nel famosissimo alto rilievo fittile dei cavalli alati

del tempio dell’Ara della Regina a Tarquinia (Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia),

entrambi databili al IV secolo a.C..

(Tutte le imboccature che illustrano il presente articolo appartengono al periodo Villanoviano-Etrusco e sono databili

tra il IX ed il V secolo a.C.).

P:127

La cavalleria romana 125

Secondo la tradizione Romolo costituì il primo esercito dell’Urbe con 3.000 fanti e 300 cavalieri (equites), questi ultimi reclutati tra i nobili in grado di mantenere un cavallo e titolari di

un reddito superiore ai 100.000 assi.

La proporzione di uno a dieci rispetto alla fanteria rimase sostanzialmente invariata per

secoli, quasi a testimonianza di una estrazione puramente censitaria della cavalleria, come del

resto fu sempre tradizione del mondo classico. I cavalieri erano organizzati in 10 squadroni

detti turmae, ognuno al comando di un decurione. Il loro comandante, detto tribunus celerum,

dipendeva direttamente dal rex. In guerra il comandante della cavalleria fu sempre sottoposto

al comandante dell’esercito di fanteria.

Anche sotto il profilo della funzione tattica la cavalleria romana in epoca regia e per buona parte del periodo della Repubblica ebbe per molti aspetti una funzione analoga a quella

dei Greci: i suoi compiti principali erano quelli di avanguardia e di esplorazione, di scorta, di

intrapresa di azioni di disturbo e soprattutto, in caso di esito positivo dello scontro, di inseguimento del nemico. In buona sostanza il cavallo serviva soprattutto per spostarsi rapidamente

sul campo di battaglia e per supportare la fanteria in difficoltà: in quel caso il cavaliere, raggiunto il punto del campo di battaglia in cui era richiesto l’intervento, scendeva dal cavallo e

combatteva a piedi.

Va detto che i Romani non furono mai per tradizione dei grandi cavalieri. Come per i

Greci e per gli Etruschi il cavallo aveva un valore simbolico, e assai più spesso indicativo del

livello di ricchezza e di potere di chi lo possedeva, piuttosto che una funzione tattica utile per

la guerra. Ancora meno era possibile vedere un cavallo aggiogato ad un carro, se non nelle

gare che si svolgevano nei circhi: il carro rimase un elemento simbolico fondamentale solo

nella cerimonia del trionfo, quando trasportava il generale vittorioso verso il tempio di Giove in Campidoglio.

Il nerbo della macchina militare romana era e rimase per secoli la legione, con la quale

sul campo di battaglia, grazie alla forza e alla disciplina dei suoi fanti pesanti, risultava pressoché invincibile. Sin dai tempi più antichi i Romani, per svolgere le funzioni connesse con

l’impiego della cavalleria, si affidarono soprattutto agli alleati italici (i socii), e quando questi,

con la concessione della cittadinanza romana, non furono più disponibili, agli alleati, con cui

affrontarono le guerre di conquista al di fuori dell’Italia. Scipione sconfisse Annibale con il

fondamentale contributo della cavalleria numidica, dopo aver portato dalla sua parte un nemico fino ad allora estremamente insidioso, mentre Cesare sconfisse definitivamente Vercingetorige ad Alesia grazie all’intervento della cavalleria mercenaria germanica, reclutata appena

al di là del Reno (e a cui aveva fornito i propri cavalli).

La cavalleria romana

Giuseppe Cascarino

P:128

126 Giuseppe Cascarino

La cavalleria legionaria romana rimase sempre quantitativamente contenuta, con compiti di appoggio e di supporto alla legione, tanto che durante il periodo di massima espansione

dell’Impero, con le guerre di Traiano, finì quasi per scomparire, delegando tutte le sue funzioni alle formazioni ausiliarie e a quelle fornite dagli alleati.

L’armamento tipo della cavalleria romana rimase piuttosto leggero almeno fino al periodo

delle guerre puniche, in linea con le antiche tradizioni delle cavallerie greco-italiche. Polibio

(VI, 25) ricorda che prima di allora i cavalieri erano privi di corazza e che combattevano in tunica: questa carenza, se poteva costituire un vantaggio per montare e smontare rapidamente

da cavallo, li esponeva gravemente nelle mischie. Le lance in dotazione erano molto sottili e

fragili, con una sola punta, con il risultato che dopo il primo colpo non erano più utilizzabili;

avevano inoltre un piccolo scudo fatto di pelle di bue, il popanum, “del tutto simile alle focacce

ombelicate che si offrono nei sacrifici”, che non solo era poco resistente, ma quando si inumidiva diventava completamente inservibile. Nel rilievo del I secolo a.C. riprodotto in figura 1

sono riconoscibili la forma e le dimensioni del tipico popanum da cavalleria.

A seguito dei gravi rovesci subiti contro le cavallerie di Annibale, assai più attrezzate ed

agguerrite, i Romani corsero ai ripari adottando l’armamento tipico delle cavallerie dei regni

ellenistici, dotate di lance pesanti con doppia punta e di solidi scudi in legno. Sul monumento di Emilio Paolo a Delfi i cavalieri appaiono tutti protetti con una corazza di anelli di ferro,

mentre sull’altare di Domizio Enobarbo il cavaliere di spalle sembra indossare un tipico elmo

beotico, il caratteristico elmo della cavalleria macedone. Anche i cavalieri avevano in dotazione il gladius hispaniensis (Livio, XXXI, 34), particolarmente efficace in ragione della sua

considerevole lunghezza, tanto che il profilo dell’arma, che finì per chiamarsi semplicemente

spatha, rimase sostanzialmente invariato anche nei secoli successivi.

Anche l’equipaggiamento e i finimenti sembrano per diverso tempo ancora ispirati alla tradizione greca, ma con l’espansione verso il nord e verso le Gallie, attorno alla fine del I secolo,

cominciarono a diffondersi tecniche e pratiche di derivazione celtica, introdotte dai sempre

più numerosi contingenti di Galli che entravano a far parte della cavalleria ausiliaria romana.

L’organizzazione

Fino alla riforma augustea le forze di cavalleria più consistenti erano fornite da popoli alleati

e si configuravano come corpi combattenti autonomi, con proprie strutture e spesso con propri comandanti. Con la progressiva assimilazione del modello organizzativo romano, la cavalleria si trovò ad essere inquadrata nelle unità ausiliarie dell’esercito romano, principalmente

secondo due specifiche tipologie di unità:

1) L’ ala di cavalleria, suddivisa secondo il modello romano in un certo numero di turmae;

2) La cohors equitata, unità mista di fanteria e cavalleria.

Fig. 1.

Il piccolo scudo

(“popanum”) in dotazione

alla cavalleria romana.

Fig. 2.

Morso romano in ferro.

1

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La cavalleria romana 127

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128 Giuseppe Cascarino

Fig. 3.

Filetto romano in ferro con

guardie ed anelli porta redini

in bronzo.

Sia l’ala che la cohors potevano disporre di un organico di circa cinquecento uomini, e in

questo caso si definiva quingenaria, oppure di poco meno di mille, e assumeva il nome di milliaria: queste ultime furono costituite e si diffusero prevalentemente attorno alla fine del I secolo.

L’ala di cavalleria era costituita, sempre secondo le indicazioni di Igino, da 16 turmae nella

configurazione quingenaria e da 24 turmae in quella milliaria. Secondo Arriano (Tattica, 18) e

Vegezio (II, 14), ogni turma era composta da 32 cavalieri ed era comandata da un decurione

(decurio). L’incarico di decurione era spesso affidato a figure provenienti dai ruoli legionari, ed

il suo rango era considerato superiore a quello di centurione di coorte ausiliaria. Ogni turma

aveva inoltre un comandante di retroguardia con funzioni equivalenti a quelle dell’optio nella

fanteria con trattamento da duplicarius (doppia paga), un sesquiplicarius (con paga una volta

e mezzo quella ordinaria), ovvero un graduato con compiti forse logistici e amministrativi, e

un signifer, portatore di insegna dell’unità. Ogni ala era comandata da un praefectus equitum

(praefectus alae dopo Tiberio), cittadino romano di rango equestre in genere all’apice della

propria carriera militare, ed aveva un proprio stendardo, affidato ad un vexillarius.

La cohors equitata era un’unità mista di fanteria e cavalleria, composta nella configurazione quingenaria da 480 fanti, inquadrati in 6 centurie, e da 120 cavalieri distribuiti in 4 turmae; nella configurazione milliaria era composta da 800 fanti (10 centurie) e 240 cavalieri (8

turmae). La sua creazione fu probabilmente ispirata dall’osservazione delle tecniche classiche

di battaglia delle tribù germaniche, basate spesso su di uno stretto coordinamento tra fanti e

cavalieri durante il combattimento.

Sul piano dell’impiego tattico la cohors equitata svolgeva tuttavia un ruolo limitato di solito a compiti di importanza secondaria come la ricognizione, il pattugliamento e il presidio

del territorio, ed era pertanto considerata di rango inferiore a quello dell’ala di cavalleria ve3

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La cavalleria romana 129

ra e propria: le paghe erano più basse di quelle riconosciute alle alae (Tacito, Hist., IV, 19) e

anche le posizioni di comando e le dinamiche di carriera erano considerate più accessibili. È

probabile che i cavalieri delle cohortes equitatae fossero in realtà dei fanti montati, con minori

abilità equestri e con cavalcature di qualità inferiore.

Nello schema seguente sono riassunti gli organici teorici dei diversi tipi di unità:

Unità Fanti Centurie Cavalieri Turmae

Ala quingenaria - - 512 16

Ala milliaria - - 768 24

Cohors equitata quingenaria 480 6 120 4

Cohors equitata milliaria 800 10 240 8

In figura 4 è schematizzata la composizione teorica delle unità ausiliarie

di cavalleria e miste (ogni quadrato rappresenta una centuria o una turma).

Dall’analisi dei frammenti dei rapporti delle diverse unità ausiliarie si evince tuttavia come l’organico delle varie unità fosse del tutto teorico, rimanendo

nella realtà quotidiana ben al di sotto di quello nominale, e raggiungendolo,

e a volte superandolo, solo in circostanze particolari come quella di una guerra in corso.

Il comando di un’unità ausiliaria era considerato un’esperienza indispensabile per la carriera militare dei quadri di rango equestre. La trafila delle tres

militiae aveva inizio con un comando di coorte ausiliaria di fanteria, in genere

quingenaria, per terminare con quello di un’ala di cavalleria; più raramente il

comando di un’unità ausiliaria veniva affidato a membri della classe senatoriale, in genere destinati direttamente al comando di unità legionarie.

L’armamento e l’equipaggiamento

L’iconografia, consistente soprattutto in un discreto numero di lapidi funerarie, fornisce una

preziosa fonte di informazioni sull’armamento e sull’equipaggiamento della cavalleria. La

maggior parte delle rappresentazioni ritrae la figura del cavaliere mentre, saldamente in sella,

colpisce con la lancia un barbaro atterrato (vedi fig. 5); altre lapidi mostrano separatamente il

cavaliere in abiti civili di cittadino benestante e un cavallo riccamente bardato che viene condotto da uno schiavo o da uno stalliere.

Le dimensioni dei cavalli utilizzati nell’antichità erano in linea con quelle

già esaminate nel caso della cavalleria greca. L’altezza al garrese, misurata dalle

ossa di alcuni cavalli rinvenute in contesti militari dell’epoca, variava tra i 120 e

i 140 cm, contro i 160-180 cm di buona parte dei cavalli attualmente disponibili.

Anche la capacità di carico di questi animali era proporzionalmente più ridotta

rispetto ad oggi, e si aggirava secondo alcuni studi attorno ai 100 kg.

L’armamento offensivo più diffuso era costituito da una lancia (lancea) lunga dai 180 ai 200 cm, che poteva essere scagliata a breve distanza oppure usata

per colpire sopramano, come visibile nella maggior parte dei rilievi. Era inoltre

molto diffusa l’adozione di una faretra, portata appesa alla sella, contenente tre

o quattro giavellotti corti (iacula) da lanciare a distanza ravvicinata (Giuseppe Flavio, BJ, III, 96). La spada più comune era la cosiddetta spatha, un’arma

a doppio taglio lunga dai 65 ai 90 cm, usata per colpire soprattutto di taglio e

portata sul fianco destro.

4

5

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130 Giuseppe Cascarino

Fig. 6.

Esempio di sella romana a

quattro corni (scordiscum).

Fig. 7.

Placca in bronzo per

abbellire il fronte di un corno

anteriore. Questo esemplare

reca sul retro una scritta

puntiforme evidenziatasi con

esami ai raggi X.

I secolo a.C. - V secolo d.C..

Fig. 8.

Filetto romano in ferro con

guardie e anelli porta redini

in bronzo.

Fig. 9.

Morso romano in ferro.

6

La protezione della figura del cavaliere era affidata ad un elmo e ad una corazza ad anelli (lorica hamata) o a scaglie (lorica squamata), le uniche in grado di consentire un’adeguata

capacità di movimento a cavallo: le spalle erano ulteriormente protette con una mantellina

aggiuntiva ad anelli o con una serie di fasce metalliche, visibili in alcuni rilievi e assicurate

in un modo che è possibile solo ipotizzare. Lo scudo (clipeus) era piatto e leggero, di forma

ovale o esagonale, e di solito veniva portato appeso obliquamente alla sella (Giuseppe Flavio, BJ, III, 96). Altre protezioni potevano essere costituite da schinieri, utili per proteggere le gambe soprattutto negli scontri con la fanteria nemica, e da analoghe protezioni sulle

braccia, mentre cosce e basso ventre erano protetti da opportune “ali” (pteryges) di cuoio o

tessuto imbottito.

L’equipaggiamento della cavalleria romana fino al I secolo a.C. non doveva essere molto diverso da quello di ispirazione greca descritto da Polibio: la sella era probabilmente ancora costituita dall’ephippion menzionato da Senofonte, una leggera copertura di cuoio che

proteggeva parzialmente anche il ventre del cavallo. Lo stesso Cesare

osserva (DBG, IV, 2) che gli abili cavalieri germani non facevano uso

della sella perché considerata segno di debolezza.

Il contatto con le valide e sperimentate cavallerie celtiche, contro

le quali Cesare dovette misurarsi arruolando contingenti galli e germani, introdusse una serie di innovazioni importanti, tra le quali l’adozione della sella a quattro corni (vedi fig. 6).

La sella a quattro corni (scordiscum) era costituita da un telaio di

legno rinforzato con profili di bronzo e rivestito di cuoio. La presenza dei quattro corni, due davanti inclinati verso l’esterno, a contatto

con le cosce del cavaliere, e due dietro, verticali e all’altezza delle reni, aveva lo scopo di consolidare l’equilibrio del cavaliere impedendogli di scivolare dal dorso del cavallo a seguito di urti o di movimenti

improvvisi, supplendo in qualche modo all’assenza delle staffe, ancora sconosciute. Come segno distintivo e di ricchezza, la parte esterna

di questi corni veniva talvolta decorata con placche bronzee (fig. 7).

La sella veniva appoggiata su una gualdrappa (tapetum) e assicurata

all’animale con una serie di cinghie ventrali e pettorali. Questo tipo di

sella appare rappresentata per la prima volta sul mausoleo di Glanum

in epoca cesariana e costituirà una dotazione costante della cavalleria

romana fino all’avvento delle staffe nel VI secolo, ben oltre la caduta

dell’impero d’Occidente.

Anche il resto della selleria e dei finimenti di epoca imperiale, come, in parte, anche di quella precedente, appare di derivazione o comunque di influenza celtica.

Il morso (“frenum”) comunemente utilizzato era essenzialmente

di due tipi: un filetto in ferro snodato, o più raramente a barra rigida, ma molto spesso dotato di cilindretti e rondelle per migliorare la

salivazione (i cosiddetti “giocattoli”); l’altra frequente imboccatura,

molto più complessa e “dura”, era costituita da barre snodate, ma

sempre piene di rondelle d’ogni forma, e da lunghe guardie fermate

al centro da una barretta, sia in ferro che ricoperta di bronzo, la quale veniva a posizionarsi sotto al mento come una sorta di barbozzale,

ma senza permettere alle guardie di effettuare azione di leva. Spesso

al montante della testiera veniva applicata, anche per semplice decorazione, una sorta di museruola metallica detta psalion (figg. 12, 15)

che, circondando tutto il muso, aveva lo scopo di impedire al cavallo 7

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Fig. 10.

Morso romano in ferro

con barra ferma-guardie

ricoperta in bronzo.

Fig. 11.

Filetto romano in ferro con

guardie tonde in bronzo

traforato a motivi geometrici.

Fig. 12.

Inbrigliatura con psalion.

Fig. 13.

Esempio di morso

“oscillante”.

Fig. 14.

Alcuni esempi di speroni

romani. Ferro e bronzo.

Alle due pagine seguenti:

Fig. 15.

Due psalia in bronzo di

epoca romana.

Fig. 16.

Due frontalini in bronzo

di epoca romana. Quello

in basso elegantemente

cesellato.

di aprire la bocca e di sfuggire al morso. Questo tipo di imboccatura era piuttosto severo per il cavallo, ma consentiva al cavaliere di ottenere uno stretto

controllo dell’animale anche tenendo le redini con una sola mano, di solito

quella sinistra, che era la stessa con cui reggeva lo scudo (fig. 12).

In epoca tardo-romana notiamo un morso detto “basculante” o “a guardie

oscillanti” (fig. 13) perché le guardie non sono connesse direttamente all’anello

di attacco dei montanti, ma vi è tra i due una sorta di ulteriore anello oblungo-rettangolare. Questo permette infatti un movimento dondolante prima che

il cannone possa agire sulla bocca del cavallo ed è, probabilmente, il precursore dei primi morsi medievali (vedi fig. 18 a pag. 34 e fig. 13 a pag. 156).

Esisteva, inoltre, il “capistrum”, simile per aspetto, funzione e materiali

all’odierna cavezza.

I Celti si erano a loro volta avvalsi di molti elementi ed innovazioni tecniche provenienti dall’Europa centrale: gli speroni (calcaria) ad esempio,

malgrado già in uso in Grecia da tempo, sembra siano stati introdotti dalla Boemia attorno

al II secolo a.C. e venivano messi solo al piede sinistro, come ne abbiamo evidenza da varia statuaria. Due i probabili motivi: dovendo salire al volo in assenza di staffe il cavaliere

avrebbe potuto, inavvertitamente, colpire il fianco destro del cavallo con suo conseguente

scatto destabilizzante; inoltre, dovendo duellare di destro, doveva spingere l’animale verso

questa parte (fig. 14).

Anche il cavallo era spesso dotato di adeguate protezioni, in cuoio o metalliche, sulla

fronte (prometopidion, vedi fig. 29), sugli occhi, sul petto (prosternidion) e sui fianchi (parameridion) per proteggere punti deboli come il ventre e le cosce. Spesso queste protezioni svolgevano un ruolo meramente decorativo come durante le parate.

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e C

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Fig. 17.

Esempio di bardatura

completa di un cavallo

di epoca romana.

Fig. 18.

Decorazioni per finimenti

(da una parure di sei

pendagli e tre falerine).

Ferro, bronzo traforato con

tracce di lamina d’oro.

La bardatura tradizionale del cavallo comprendeva inoltre una serie di phalerae ornamentali di bronzo, anche argentato, dorato o stagnato, assicurate sulla cinghia pettorale (antilena)

e caudale (postilena), una serie di pendenti e talvolta una fascia pettorale più o meno decorata

(vedi figg. 17,18).

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L’impiego tattico

La cavalleria dell’esercito romano poteva offrire un’ampia variabilità di impiego, in funzione delle specificità delle singole unità. Le categorie dei cavalieri enunciate da Asclepiodoto, da Eliano e da Arriano (i pesanti o katafractoi, i leggeri o acrobolistai, e gli arceri a cavallo o ippotoxotai) continuarono

probabilmente ad avere attualità e impiego tattico diffuso per tutta l’epoca

dell’Alto Impero.

La cavalleria pesante propriamente detta nacque dalla necessità di contrastare sulla frontiera del Danubio i cavalieri corazzati (cataphractarii) dei Sarmati Roxolani. Questi erano protetti da pesanti corazzature composte da scaglie

metalliche o da placche di cuoio indurito (Tacito, Hist. I, 79; Ann., VI, 35) che

coprivano anche i cavalli, ed erano armati con una pesante lancia da urto tenuta

a due mani, il contus. La cavalleria romana si adattò prontamente costituendo

alcune unità di cataphractarii, che impiegò anche sulla frontiera orientale contro i Parti e successivamente contro i Persiani, chiamandoli anche clibanarii: il

nome derivava secondo alcuni dal nome greco del forno (klibànos), ma più probabilmente

dal termine persiano grivban, che indicava una caratteristica gorgiera di ferro. Naturalmente i

cavalli impiegati con questa finalità dovevano essere più robusti e di taglia superiore rispetto

a quelli comunemente impiegati.

Il grosso della cavalleria continuò tuttavia ad impiegare un equipaggiamento ed un armamento piuttosto leggero, adatti per il combattimento ravvicinato ma tali da consentire velocità

ed ampia libertà di movimento (vedi fig. 19).

La cavalleria leggera dei Mauri (vedi fig. 20), erede della cavalleria numidica che aveva

combattuto nelle guerre puniche, era composta da elementi che montavano piccoli cavalli veloci, privi di sella e di finimenti, con il solo ausilio di un collare, con i quali conducevano rapidi ed efficaci attacchi di disturbo delle linee nemiche, lanciando piccoli giavellotti.

Non mancavano unità di arcieri a cavallo (alae sagittariorum) di provenienza orientale,

nate per contrastare sul loro terreno i Parti, ma anche in questo caso si trattava di unità specializzate e poco diffuse.

Le formazioni impiegate dalle unità di cavalleria romana sono citate solo

marginalmente dalle fonti e possono essere ricostruite dall’analisi di una serie

di documenti, tra cui i trattati di Asclepiodoto, di Arriano e di Eliano. Secondo lo Strategikon (VI secolo) in battaglia le forze di cavalleria romane venivano abitualmente schierate in drungi, o globi, ovvero formazioni compatte indipendenti e di consistenza variabile, e comunque su non meno di due o tre

file. In ogni caso la cavalleria non veniva impiegata per attaccare frontalmente fanterie organizzate, ma per colpire i fianchi delle formazioni, per minarne

la compattezza con rapidi e ripetuti attacchi, e infine per inseguire la fanteria

o la cavalleria nemica in ritirata. Per raggiungere questo scopo le formazioni

dovevano essere in grado di eseguire veloci movimenti e rapidi cambiamenti

di direzione, mantenendo la formazione compatta dietro la guida di un caposquadrone (il decurione): le formazioni più indicate allo scopo, descritte da

Arriano (Tattica, XVIII, 2), erano il cuneo (èmbolon) e il rombo (romboèidon). In figura 21 è illustrata la possibile formazione d’attacco a cuneo di una

turma, composta da 32 cavalieri.

La formazione a rombo (ile) descritta da Arriano poteva essere costituita

da due turmae, come proposto in figura 22. I fianchi delle formazioni dovevano essere composti con i migliori cavalieri, in modo da mantenere il gruppo

compatto e seguire prontamente i movimenti del caposquadrone.

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Fig. 24.

Morso in ferro d’epoca

romana a guardie libere.

Il tardo impero

Con il tardo impero l’armamento e l’equipaggiamento della cavalleria non presentano variazioni di rilievo rispetto a quelli in uso durante l’alto impero, continuando a rimanere differenziati in funzione del “peso” delle diverse tipologie di cavaliere. Le loricae hamatae dei cavalieri

tendono generalmente ad allungarsi fino al ginocchio, mentre le parti basse delle gambe, le più

vulnerabili all’offesa da parte della fanteria, vengono sempre più spesso

coperte da protezioni di vario genere, soprattutto a segmenti metallici.

Questa tendenza all’appesantimento culminò nel IV secolo in una

maggiore aliquota della cavalleria catafratta, o clibanaria, potenziata

per affrontare gli scontri con l’omologa cavalleria pesante persiana,

ma utilizzata anche sui fronti occidentali. Ecco come Ammiano (XVI,

10, 8) descrive i clibanarii nel 357: “…Venivano in ordine sparso i cavalieri catafratti, detti clibanari, con le maschere sul volto e rivestiti di corazza sul torace, con le membra fasciate di ferro tanto che

non sembravano uomini ma statue scolpite da Prassitele. Erano coperti in ogni parte del corpo da sottili anelli di ferro, adattati in modo

che, qualunque movimento facessero, l’armatura si piegava per effetto delle giunture così ben connesse…”.

La cavalleria pesante catafratta adottava inoltre in buon numero le

corazze lamellari, di tipica provenienza orientale, cosiddette perché costituite da lamelle cucite con lacci di cuoio su un supporto tessile, come

visibile in alcuni graffiti di Dura Europos (vedi fig. 23).

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Fig. 25.

Morso in ferro d’epoca

romana con barra fermaguardie ricoperta di bronzo.

Le corazze lamellari continueranno ad essere impiegate ancora per secoli, anche dai popoli a cavallo che invasero l’Europa dopo la caduta dell’impero d’Occidente: sebbene lo Strategikon non

ne faccia menzione, è logico presumere che fossero ben conosciute fin dalla fine del V secolo, essendo state ampiamente impiegate

in particolare dagli Avari.

L’arma principale in dotazione ai catafratti, o clibanarii, era il

contus, una pesante lancia lunga dai 3 ai 4 metri, da sostenere a due

mani al momento dell’urto con la cavalleria nemica (vedi fig. 26).

La cavalleria leggera era armata invece con un certo numero di

giavellotti corti da lancio (kontàrion). Gli hippotoxotai, ovvero gli

arcieri a cavallo, generalmente non portavano la lancia, ma un piccolo scudo da portare infilato nel braccio sinistro per proteggersi

mentre si tendeva l’arco.

I cavalli dei catafratti, ovviamente,

venivano dotati anch’essi di adeguate protezioni su fronte (prometopidion, vedi fig. 29), petto (prosternidion, o peristèrnion o stetistèrion) e fianchi (parameridion).

Quest’ultima funzione veniva svolta di solito con l’impiego di

una gualdrappa pesantemente corazzata con protezioni a scaglie

metalliche (vedi figura 27), che avvolgeva quasi interamente la figura del cavallo, lasciando scoperto solo lo spazio per il fissaggio

della sella.

Dal VI secolo il cavallo poteva essere dotato di protezioni metalliche aggiuntive anche sul collo (peritrakèlion). Lo Strategikon

prescrive inoltre che i cavalli vengano decorati con piume (touphìa)

o nastrini sia sui finimenti anteriori (antelinòs) che posteriori (opistelinòs).

La sella a quattro corni continuò ad essere usata fino al V secolo, quando iniziarono a diffondersi selle in legno più semplici di

provenienza orientale, probabilmente introdotte per la prima volta dagli Unni (vedi fig. 28).

La loro forma non modifica sostanzialmente la tecnica equestre dell’epoca, che in assenza

delle staffe continua a basarsi su un delicato equilibrio del cavaliere sulla sella; le staffe non

compariranno infatti prima del VI secolo.

È opinione comune tra gli studiosi che l’uso delle

staffe (skàlai) da parte della cavalleria romana, che viene menzionato per la prima volta dallo Strategikon (I, 2),

si sia diffuso a partire dalla fine del VI secolo a seguito

del contatto con gli Avari. Alcuni osservano che l’autore

non fa cenno della provenienza àvara di questo elemento, che pure per l’epoca avrebbe dovuto essere considerato recente e innovativo, e soprattutto che la raccomandazione di usare per le selle staffe di ferro (skàlas sideràs)

lascia dedurre che dovessero esistere almeno da qualche

tempo staffe non metalliche, di cuoio o di legno. In realtà

anche i Persiani sembrano adottare le staffe verso la fine

del VI secolo, e anche loro apparentemente a seguito delle guerre con le popolazioni nomadi dell’Asia centrale, in particolare gli Unni Bianchi e gli Eftaliti. L’innovazione non doveva

essere tuttavia considerata decisiva per l’uso che i cavalieri ne facevano all’epoca: gli Arabi

ad esempio consideravano le staffe un segno di debolezza, e le adottarono solo un secolo più

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Fig. 29.

Frontale a lamelle

(prometopidion) con psalion

solidale.

Bronzo, epoca romana.

Fig. 30.

Paio di paraocchi

elegantemente traforato.

Bronzo, epoca romana.

tardi, verso la fine del VII o agli inizi dell’VIII secolo, mutuandole dai Turchi, anch’essi provenienti dal Caucaso.

In ogni caso sull’eventualità che i Romani conoscessero le staffe prima dell’arrivo degli Avari non esistono al momento prove definitive o indizi convincenti. Procopio non ne

fa cenno nei resoconti delle sue Guerre, e anzi riferisce di frequenti rovinose cadute da

cavallo in occasione delle mischie di cavalleria. Anche l’adozione delle staffe da parte dei

Persiani in epoche anteriori al VI secolo non sembra dimostrabile in base alle fonti e all’iconografia disponibile. Non è tuttavia possibile escludere l’adozione di un qualche tipo

semplificato di staffe di cuoio per migliorare l’equilibrio del cavaliere e il controllo del

cavallo, soprattutto a seguito della scomparsa della tradizionale sella a quattro corni, che

sembra avvenire tra il IV e il V secolo; con l’arrivo degli Unni, e con la progressiva diffusione della sella unna, priva di corni e di sistemi per mantenersi in equilibrio con la parte

interna delle gambe, doveva necessariamente diffondersi un sistema alternativo e quindi

una sorta di staffa.

Non è quindi da escludere che, a dispetto di una scarsa testimonianza storica, letteraria e

figurativa, l’uso di una qualche forma rudimentale di staffa, utile più che altro per facilitare la

salita a cavallo, non potesse essere largamente diffusa già dalla fine del V secolo.

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Fig. 31.

Quattro esempi di

ipposandali in ferro.

I due inferiori sono

dotati di ramponi

antiscivolo.

Fig. 32.

Modo di fissaggio di un

ipposandalo.

Fig. 33.

Tipico esempio di

bardatura completa di

un cavallo da guerra del

VII secolo.

Fig. 34.

Psalion in bronzo.

Porta montanti

desinenti in forma di

zoccoli con i peli della

corona ben evidenziati.

Frontale traforato con

pavoni e delfini con tracce di

argentatura.

II-I secolo a.C..

Anche se molto probabilmente già scoperta secoli prima dai Celti, i cui sacerdoti, i Druidi, ne detenevano l’invenzione e il segreto, la ferratura dei cavalli appare in forma piuttosto

saltuaria a partire dal IV-V secolo, mentre l’uso dell’ipposandalo (pètalon, in latino solea ferrea o hipposolea) (fig. 31), una sorta di scarpa metallica fissata agli zoccoli dei cavalli con dei

legacci in cuoio (fig. 32), resta limitato principalmente per uno scopo terapeutico e come misura di protezione contro i triboli, i micidiali chiodi a quattro punte seminati dal nemico per

ostacolare cavalli e fanti (Strategikon, IV, 3). Quando dotati inferiormente di grosse punte, gli

ipposandali venivano anche usati per aumentare l’aderenza dei cavalli adibiti al tiro sui bordi

fangosi dei fiumi (diffusissimo il trasporto fluviale) e, raramente, sui terreni ghiacciati.

L’aspetto di un tipico cavallo da guerra del VII secolo è rappresentato in figura 33.

(Tutte le imboccature che illustrano il presente articolo vengono genericamente indicate “d’epoca romana” stanti le

notevoli difficoltà di stabilire oggettive e precise datazioni, dato anche l’ampio territorio di provenienza ed il mantenimento in uso di una stessa tipologia per diversi secoli).

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Nel 476 l’Impero romano d’Occidente cessò formalmente di esistere. L’imperatore in carica,

Romolo Augusto, fu deposto dal germano Odoacre, e non sostituito. Odoacre rimandò le insegne imperiali all’imperatore romano di Oriente e dichiarò che avrebbe governato l’Impero

romano d’Occidente – ovvero quello che al momento ne rimaneva: il territorio italiano, più o

meno, e un’exclave nella Gallia che sarebbe stata di lì a poco perduta – come “patrizio”, cioè

come comandante supremo dell’esercito.

Questo avvenimento si prende come data di inizio di quel periodo storico – non breve:

un millennio – che si è d’accordo di chiamare Medioevo. E in effetti la data del 476 segna una

cesura: da quel momento non ci furono più imperatori romani d’Occidente, dunque non si

sarebbe più potuto parlare di impero. Nei fatti, però, nulla cambiò in modo percettibile. Il

potere militare apparteneva già da tempo ai generali di stirpe germanica – qual era Odoacre

– che comandavano le truppe nominalmente imperiali, e l’egemonia sociale continuò ad essere appannaggio dell’antica aristocrazia senatoria romana, interessata a un’integrazione non

traumatica di Romani e Germani.

Altre date e altri avvenimenti, nel processo di dissoluzione dell’Impero, avevano altrimenti segnato delle tappe nella storia e avevano altrimenti colpito l’opinione pubblica.

Ma andiamo con ordine.

Romani e Germani si erano fronteggiati, sulle due sponde del Reno, da quando Giulio

Cesare, verso il 50 a.C., aveva conquistato la Gallia.

I Germani erano un insieme di popoli in origine nomadi, più tardi seminomadi, variamente aggregatosi e suddivisosi nei due millenni intercorsi tra l’espansione indoeuropea in

Europa e la nascita di Cristo. Al tempo in cui i loro territori erano venuti in contatto coi territori di Roma, i Germani erano allevatori (e razziatori) di bestiame, soprattutto cavalli e bovini, e praticavano anche l’agricoltura, benché con metodi poco efficienti che li costringevano a

spostarsi periodicamente in cerca di terreni fertili. Erano organizzati in tribù che formavano

aggregati più o meno stabili nel tempo, a seconda degli spostamenti da un territorio all’altro,

delle guerre che li opponevano tra loro e delle alleanze che li legavano.

Anche coi vicini Romani, i Germani avevano fatto guerre e stipulato alleanze. Il tentativo

dell’Impero, ai tempi di Augusto e di Tiberio, di fare della Germania una provincia, non aveva

avuto successo duraturo, da cui la necessità di continuare a garantire il confine del Reno con

le armi e anche con la diplomazia. I Germani, da parte loro, erano stati esposti all’influenza

dei Romani: avevano intrattenuto con loro rapporti commerciali, avevano potuto conoscere i

loro costumi raffinati e la loro complessa organizzazione statale, avevano infine, nel IV secolo, cominciato a convertirsi alla nuova religione dell’Impero, il cristianesimo.

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Anche, gruppi di Germani avevano cominciato a stabilirsi nei territori a ovest del Reno:

già nel I secolo Roma, nella necessità di presidiare il confine contro i bellicosi vicini, aveva

fatto ricorso ai vicini stessi, arruolandoli nelle proprie legioni (per lo più nella cavalleria) e insediandoli nelle zone spopolate secondo l’istituzione dell’hospitalitas, ovvero assegnazione di

terre in cambio di servizio militare. In seguito, la pressione dei Germani sui confini sarebbe

stata sempre crescente e la loro presenza nell’esercito e nei territori dell’Impero – che ne era

una conseguenza – sarebbe stata sempre più numerosa. Difatti i Germani subivano a loro volta l’espansione dei popoli nomadi provenienti dalle steppe dell’Asia centrale. Si trattava di un

fenomeno di dimensione tale da interessare l’intero continente asiatico: i popoli delle steppe

stavano invadendo disastrosamente l’Impero sasanide di Persia, sottraendogli territori, avrebbero devastato l’Impero indiano dei Gupta, provocandone la caduta e già avevano provocato,

nel IV secolo, la frammentazione dell’Impero cinese.

Verso occidente, dunque, l’espansione dei popoli delle steppe investiva i Germani, spingendoli verso i territori dell’Impero romano. Nel 378 un mal condotto tentativo di far stabilire entro i confini dell’Impero gli alleati Visigoti sconfitti e cacciati dagli Unni, fece sì che

Visigoti e Romani venissero alle armi presso Adrianopoli (adesso Edirne, nella Turchia europea). L’esercito imperiale fu annientato e lo stesso imperatore Valente cadde sul campo: quae

pugna, nelle parole del contemporaneo Rufino d’Aquileia, initium mali romano Imperio tunc

et deinceps fuit”1

.

Com’è noto, gli storici moderni si sono molto interrogati sui motivi della caduta dell’Impero romano d’Occidente (quello d’Oriente sarebbe durato ancora un millennio), e molto

hanno discusso se la crisi finale sia stata determinata più dai molti elementi di debolezza interni – fuga dalle campagne, disavanzo della bilancia commerciale verso l’Oriente, incapacità

e disonestà della classe dirigente, crescita abnorme della spesa pubblica e inflazione – oppure

piuttosto da irresistibili forze ostili esterne – le invasioni barbariche.

Di fatto è anche un esercizio utile domandarsi perché l’Impero, di fronte a difficoltà potenzialmente distruttive, non cadde prima, ma riuscì a lungo a mantenere un sostanziale equilibrio tra le proprie declinanti forze e la sempre crescente pressione dei barbari sul confine.

Tale equilibrio fu recuperato anche dopo il disastro di Adrianopoli. Il successore di Valente,

l’imperatore Teodosio, nuovamente stipulò un’alleanza con i Visigoti e promosse una politica

di apertura verso i Germani, promuovendone l’ingresso nell’esercito imperiale, anche nelle

alte cariche, il che non mancò di suscitare forti resistenze nell’elemento romano.

Ad un certo punto, però, non sarebbero bastate né le armi né la diplomazia.

La notte di San Silvestro del 406, il confine del Reno, sguarnito perché le truppe imperiali erano impegnate altrove a fronteggiare Ostrogoti e Visigoti, fu attraversato da tribù di

barbari: Vandali, Alani e Svevi, poi Burgundi e Franchi.

Questa data segna veramente una svolta della storia: gli invasori – interi popoli, con i loro capi e le loro istituzioni – si sarebbero definitivamente stabiliti nei territori dell’Impero.

Di fatto, benché anche stavolta subito inquadrati secondo l’hospitalitas, erano incontrollabili

dall’autorità centrale, e subito cominciarono a espandersi al di fuori dei territori loro formalmente assegnati, contendendo tra loro e sopraffacendo i residui centri di autorità imperiale.

Nella penisola italiana, intanto, erano scesi i Visigoti capeggiati da re Alarico, i quali, dopo

una lunga vicenda di scontri armati con le forze dell’imperatore Onorio e reiterate alleanze,

nel 410 arrivarono a Roma e la saccheggiarono: capitur Urbs – scrisse San Gerolamo dal suo

monastero di Betlemme – quae totum cepit orbem2

. Roma già non era più la capitale dell’Impero, trasferita a Milano e poi a Ravenna, tuttavia il suo valore simbolico permaneva immutato e l’impressione suscitata dal saccheggio fu enorme.

1 ‘E questa battaglia fu l’inizio dei mali dell’Impero romano allora e poi’ (Rufino d’Aquileia, Historia Ecclesiastica, II, 13). 2 ‘È conquistata la città che aveva conquistato tutto il mondo’ (San Gerolamo, Epistola 127).

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Il Medioevo 149

Fig. 1.

Filetto in ferro d’epoca

longobarda.

Cm 14, ø 5,5.

Alle due pagine seguenti:

Fig. 2.

Vari esempi di filetti in ferro

a cannone rigido o snodato.

Periodo romano-celtico /

barbarico.

Seconda metà del I millennio

circa.

Da cm 16,5 a 18.

Fig. 3.

Filetto snodato ad aste, in

ferro.

VIII-X secolo a.C..

Cm 26,5 x 13,5.

(Un esemplare simile è

conservato nel Museo

Storico-Etnografico di

Vilnius).

Fig. 4.

Filetto snodato ad aste,

in ferro con tracce di

ageminatura in argento.

Periodo longobardo.

Cm 20 x 13 x 5.

Nei decenni successivi al crollo della frontiera del Reno, i Franchi e i Burgundi stabilirono i loro regni in Gallia, i Visigoti e gli Svevi nella penisola iberica, i Vandali nell’Africa settentrionale.

Con la deposizione dell’ultimo imperatore e la presa di potere di Odoacre, anche l’Italia

diventò uno dei regni romano-barbarici in cui si stava drammaticamente riorganizzando il territorio dell’Impero. Abbiamo accennato al fatto che la transizione avvenne all’insegna di una

sostanziale continuità. Lo stesso si può dire anche del successivo passaggio di poteri, quando,

nel 489, Teoderico re degli Ostrogoti eliminò Odoacre e si stabilì in Italia con il suo popolo.

Teoderico conservò istituzioni e struttura sociale dell’Impero e la situazione nella penisola

italiana fu, fino a questo punto, migliore che altrove. Si deteriorò quando l’Impero d’Oriente, dopo aver conosciuto una drastica contrazione dei suoi territori, tornò, con l’imperatore

Giustiniano, a espandersi. Dopo una lunga guerra, l’Impero d’Oriente riconquistò, nel 555,

un’Italia devastata e spopolata, per perderne poi gran parte poco dopo, nel 568, in seguito

all’invasione dei Longobardi.

I Longobardi, provenienti dalla Pannonia (precisamente da un’area a ovest del Danubio

attualmente in Ungheria), avevano avuto, a differenza dei Goti, pochi contatti con l’Impero

romano e conservavano istituzioni tradizionalmente germaniche: erano organizzati in gruppi

capeggiati da un duca e i duchi eleggevano un re, la cui autorità era però limitata dalla struttura tribale della società. La conquista d’Italia, condotta da gruppi non coordinati tra loro,

fu parziale, e i ducati longobardi che ne risultarono non erano contigui tra loro. I confini tra

parte bizantina e parte longobarda della penisola italiana sarebbero rimasti visibili nella carta

politica dell’Italia fino al XIX secolo.

L’arrivo dei Longobardi in Italia interruppe quanto di continuità c’era stato, fino a quel

momento, tra Impero romano e regno romano-goto. La popolazione romana fu del tutto

estromessa dalla classe dirigente e il sistema amministrativo delle circoscrizioni romane e di

quelle ecclesiastiche che su quelle romane erano state conformate, territorialmente smembrate tra le aree tenute dai Bizantini e quelle conquistate dai Longobardi, e in queste ultime tra

ducati diversi, cessò di funzionare.

Roma aveva saputo unificare in sé terre e popoli: fecisti patriam diversis gentibus unam3

,

nelle commosse parole di Rutilio Namaziano. Le città dell’Impero erano state popolosi centri

3 ‘Avevi fatto un’unica patria per popoli diversi’ (Rutilio Namaziano, De reditu suo, I, 63).

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Fig. 5.

Filetto snodato in ferro.

Età merovingia-carolingia.

V-IX secolo circa.

Cm 13, ø 4.

Fig. 6.

filetto snodato in ferro ad

aste.

Età merovingia-carolingia.

V-IX secolo circa.

Cm 18 x 11,5 x 6.

culturali e amministrativi; un’architettura evoluta, capace di fabbricare edifici maestosi, acquedotti, ponti e strade, aveva permesso un elevato tenore di vita, e una grande rete viaria,

su un territorio punteggiato di villaggi e regolato da canali, argini e terrazzamenti, aveva permesso un’intensa circolazione di merci e persone.

Alla caduta dell’Impero, questo patrimonio materiale e culturale fu rapidamente dilapidato.

Dunque, il periodo storico che tradizionalmente chiamiamo Medioevo esordisce con una

compresenza, molto dinamica, mai facile e spesso drammatica, di popoli diversi sul territorio

già dell’Impero: gli originari Romani, ovvero le diversae gentes di Rutilio Namaziano (Latini,

Celti, Iberi, i Greci dell’Italia meridionale...) e i nuovi arrivati Germani, i quali anch’essi, nonostante un’affinità d’origine, erano popoli differenti per lingua e cultura (Visigoti, Ostrogoti, Longobardi...)

Dal nostro punto di vista – la cultura materiale, in particolare i morsi per cavalli – ciò significa il concorrere di una molteplicità di tradizioni e dunque di usi e costumi.

Dei Germani, sempre dal nostro particolare punto di vista, abbiamo una buona quantità di informazioni. La loro tradizionale usanza di inumare i defunti con un ricco corredo di

oggetti – anche morsi da cavallo, nel caso di sepolture maschili – fornisce adesso agli studiosi

una ricca messe di reperti databili con buona esattezza e ben riconducibili ai loro utilizzatori.

A giudicare dai pezzi archeologici che ci pervengono, i popoli germanici usavano quel tipo di imboccatura che modernamente si chiama filetto, ovvero, nella sua forma più essenziale,

una sbarretta di metallo, intera o snodata, con anelli alle due estremità cui fissare le redini: un

oggetto molto semplice, che esisteva prima delle invasioni barbariche e sarebbe esistito dopo,

e tutt’altro che esclusivo dei Germani: lo si trova anche a ovest dei loro originari territori –

nella Gallia romano-celtica per esempio – e ad est, nelle steppe e fino in Cina.

È consentito immaginare che il filetto, nella sua essenzialità ed efficienza, sia stato molto precocemente ideato quando l’uomo domesticò il cavallo (sul quando e il dove questo sia

avvenuto, le indagini sono da considerarsi ancora all’inizio), e non è da escludere che lo si sia

potuto inventare in più luoghi indipendentemente.

Il filetto si ritrova allora, come ora, in molteplici varianti (fig. 2): la sbarretta poteva essere in un pezzo solo oppure divisa in due parti articolate tra loro, poteva essere singola oppure duplice, poteva avere superficie liscia oppure variamente scanalata o ritorta. Se sottile,

l’imboccatura poteva essere molto severa. Infine oltre al filetto semplice, che è quello sopra

descritto, si trova quello che modernamente si chiama filetto ad aste: un filetto semplice con

due elementi – semplici aste dritte, o curve, oppure lastrine variamente sagomate o altro –

disposti perpendicolarmente alle estremità dell’imboccatura, per garantirne la stabilità nella

bocca del cavallo impedendo scorrimenti laterali (figg. 3,4)4

.

Le opere d’arte coeve, per quanto sia possibile dare un valore documentario a trattazioni

tanto fortemente stilizzate, paiono confermare. Così – per citare noti esempi di arte barbarica, che richiamiamo alla memoria del lettore con disegni al tratto – si direbbe del cavaliere di

Bräunlingen (fig. 7)5 o del cavaliere di Hornhausen (fig. 8)6

. Si può – cautamente – osservare

4 Cfr. Lionello Giorgio Boccia, Alessandra Melucco Vaccaro, Cavallo, in Enciclopedia dell’arte medievale, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991-2002, e ulteriore bibliografia; John Clark, Bits, in John Clark (edited by),

The Medieval Horse and its Equipment, c. 1150-c. 1450, Woodbridge (Suffolk), The Boydell Press, 2004; Lidia Paroli (a

cura di), La necropoli altomedievale di Castel Trosino: bizantini e longobardi nelle Marche, [Cinisello Balsamo], Silvana,

[1995]; Lidia Paroli, Marco Ricci, La necropoli altomedievale di Castel Trosino, Borgo San Lorenzo, All’insegna del giglio, 2007; Johannes A. H. Potratz, Die Pferdetrensen des alten Orient, Roma, Pontificium Institutum Biblicum, 1966;

Cornelia Rupp, Das Langobardische Gräberfeld von Nocera Umbra. 1. Katalog und Tafeln, Borgo San Lorenzo, All’insegna del giglio, 2005. 5 Disco ornamentale in bronzo trovato a Bräunlingen (Baden-Württemberg, Germania) in una tomba alamannica,

VI sec. Badisches Landesmuseum Karlsruhe. 6 Lastra di pietra scolpita proveniente da Hornhausen (Magdeburgo, Germania), VIII sec. Halle (Saale), Landesmuseum für Vorgeschichte.

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Fig. 7.

Cavaliere di Bräunlingen,

VI secolo.

Fig. 8.

Cavaliere di Hornhausen,

VIII secolo.

Fig. 9.

Salterio di Stoccarda, prima

metà del IX secolo.

Fig. 10.

Salterio di Stoccarda, prima

metà del IX secolo.

che in queste e similari opere le redini vanno direttamente alla commessura delle labbra del

cavallo, ossia l’artista non sembra sentire il bisogno di stilizzare una qualche parte d’imboccatura che sporga per una certa lunghezza fuori dalla bocca del cavallo: questo fa pensare che

filetti siano stati gli originari modelli dell’artista e non morsi con guardie rigide come quelli

che si usano anche ora o morsi ‘a guardie oscillanti’ come usavano gli antichi romani. Su entrambe queste tipologie di morsi torneremo tra poco.

Non tutti i regni romano-barbarici ebbero uguale fortuna: il regno dei Vandali in Africa

fu presto riconquistato dall’Impero d’Oriente e quello dei Visigoti in Spagna sarebbe stato

cancellato dall’invasione islamica. Il regno dei Franchi, invece, durò e crebbe. Nel corso del

V secolo era venuto a inglobare tutta la Gallia, sotto la dinastia dei Merovingi (donde la denominazione, che talvolta si trova usata anche per i territori estranei alla Gallia, di età merovingia

per il periodo intercorrente tra la caduta dell’Impero romano d’Occidente e la metà dell’VIII

secolo). Aveva poi conosciuto un periodo di crisi e frammentazione, finché alla dinastia merovingia, ormai inefficiente, si era sostituita la casata dei Pipinidi, maestri di palazzo (cioè alti

funzionari) del regno merovingio di Austrasia.

Pipino il Breve fu incoronato re nel 751. Col figlio di Pipino, Carlo detto poi Carlomagno,

il regno dei Franchi, che già arrivava al di là del Reno, si estese ulteriormente verso est. Carlomagno bloccò ai Pirenei l’espansionismo dell’Impero islamico e conquistò nel 774 il regno

longobardo d’Italia. Nell’800, dopo aver assunto il ruolo di protettore della Chiesa di Roma,

fu dal papa incoronato imperatore: imperator Romanorum gubernans Imperium7

, a riprova

di come la memoria dell’estinto Impero romano fosse, tre secoli dopo, viva nella mentalità.

L’età carolingia fu un periodo di riorganizzazione civile e di cambiamenti sociali. Accenneremo soltanto al fenomeno che più c’interessa: la nascita della cavalleria (figg. 5,6)8

.

Presso i Franchi, originariamente, l’esercito era formato da tutti gli uomini liberi (cioè

non servi), i quali, in caso di necessità, interrompevano le loro attività del tempo di pace (per

lo più l’agricoltura) e prendevano le armi. Questa era l’antica usanza germanica. Nell’età carolingia i guerrieri cominciarono invece a diventare una classe specializzata, distinta da quella

degli agricoltori. I Pipinidi, infatti, che erano di fatto degli usurpatori, trovarono opportuno

dotarsi di una clientela fedele e ben armata. Bisognava poi difendersi da nemici quali gli Unni,

che erano abili cavallerizzi, oppure i Vichinghi e i Saraceni, che erano pirati, e per contrastare le loro fulminee e devastanti scorrerie erano necessari guerrieri mobili – dunque montati a

cavallo – e molto efficienti – dunque armati alla pesante. Tale equipaggiamento era comples7 ‘Imperatore che governa l’Impero romano’.

8 Cfr. Franco Cardini, Cavalleria, in Enciclopedia dell’arte medievale, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,

1991-2002, e ulteriore bibliografia.

7 8 9 10

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so e – a cominciare dal cavallo – costoso, e necessitava, per servirsene efficacemente, di un

addestramento specifico, da cominciarsi in giovane età e protrarsi poi. Il guerriero di età carolingia fu dunque dedito esclusivamente all’esercizio delle armi, legato ad un signore da un

giuramento di fedeltà e ricompensato con l’assegnazione di rendite fondiarie.

Dell’equipaggiamento del nuovo cavaliere continua a far parte il filetto. Il dato archeologico corrisponde a quanto appare in opere d’arte del periodo, in questo caso i codici miniati. In minima rappresentanza di un gran numero di raffigurazioni di cavalli e cavalieri, riportiamo qui due vignette tratte da particolari del Salterio di Stoccarda, miniato nell’Abbazia di

Saint-Germain-des-Prés nella prima metà del IX secolo (figg. 9,10)9

. Nella seconda (fig. 10)

si potrebbe ravvisare un filetto ad aste.

L’unità dell’impero carolingio sopravvisse di poco al fondatore. Carlomagno morì nell’814

e nel 887 l’impero si frammentò definitivamente in tre regni: Francia, Germania e Italia. L’autorità statale peraltro era debole, incapace di garantire l’amministrazione e la difesa del territorio, il che lasciò ampio spazio allo sviluppo dei poteri locali: i grandi feudatari, i vescovi, le

grandi comunità monastiche.

Nell’ultimo scorcio del X secolo, però, una restaurazione dell’impero fu promossa dalla

stirpe dei duchi di Sassonia, eletti re di Germania e poi, a partire da Ottone I, anche re d’Italia e, per investitura papale, imperatori di quello che si sarebbe in seguito chiamato Sacro

Romano Impero.

La dinastia ottoniana – ovvero Ottone I e due suoi diretti discendenti entrambi di nome

Ottone – avrebbe avuto un ruolo egemone nell’Europa nel torno di tempo dell’Anno Mille,

promuovendo un riordinamento civile e una rinascita culturale, di nuovo ispirata agli indimenticati modelli dell’antichità classica.

Già in moto nella seconda metà del X secolo, comincia nell’XI un periodo di spettacolare

sviluppo: la popolazione aumenta velocemente, l’agricoltura, grazie all’applicazione di nuove

tecniche, diventa più produttiva, il territorio si arricchisce di strade e villaggi, le città tornano

a essere ricche e vitali sedi di commerci e artigianato, le arti fioriscono. Vengono fabbricate

le grandi cattedrali: erat enim instar ac si mundus ipse ... passim candidam ecclesiarum vestem

indueret10, nelle parole di Rodolfo il Glabro.

Intorno alla suggestiva data dell’anno Mille, qualcosa di nuovo affiora anche nel nostro

campo. Le miniature dei codici dell’XI secolo registrano un mutamento: si vedano per esempio le nostre vignette tratte da due dei vari codici che ci trasmettono il commentario all’Apocalisse di Beato di Liébana: il Beatus di Saint-Sever, miniato nell’Abbazia di Saint-Sever in

Aquitania nella seconda metà del XI secolo (fig. 11)11 e il Beatus di Osma, miniato a Sahagún

(Spagna) nel 1086 (fig. 12)12. Al solito si tratta di raffigurazioni estremamente stilizzate, ma

stavolta, alla base del lavoro dei due miniatori pare esserci un modello con guardie o qualcosa del genere, in ogni caso non un semplice filetto.

L’indizio è confermato dall’archeologia, che ci fornisce, per gli anni intorno al Mille, il

morso del tipo della figura 13. Al momento si conoscono, oltre a questo, pochissimi esemplari completi, dei quali quello trovato nel sito archeologico di Colletière in Delfinato (fig. 20)13

dimostra con certezza che il tipo esisteva già prima del 1040. In questa data, infatti, l’insedia9 Stoccarda, Württembergische Landesbibliothek, Cod. Bibl. 2. 12; cc. 59r e 72r.

10 ‘Era infatti come se il mondo … volesse rivestirsi di un bianco mantello di chiese’ (Rodolfo il Glabro, Historiarum libri quinque, III, 13). 11 Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 8878; c. 108v. 12 El Burgo de Osma, Archivo de la Catedral, Cod. 1; c. 85v. 13 Cfr. Brigitte Prévot, Bernard Ribémont, Le cheval en France au Moyen Âge. Sa place dans le monde médiéval; sa

médecine: l’exemple d’un traité vétérinaire du XIVe siècle, la «Cirugie des chevaux», Orléans, Paradigme, 1994; p. 162; e

http://www.culture.fr/sites-thematiques/grands-sites-archeologiques/les-fouilles-du-site-de-colletiere (11/8/2014).

P:158

156 Patrizia Arquint

13

P:159

Il Medioevo 157

Fig. 11.

Beatus di Saint-Sever,

seconda metà dell’XI secolo.

Fig. 12.

Beatus di Osma, XI secolo

(1086).

Fig. 13.

Rarissmo morso a “guardie

oscillanti” in ferro con vaste

tracce di doratura.

Le attaccaglie ferma redini

si ritrovano identiche sul

morso romano in fig. 25 a

pag. 140.

X-XII secolo.

Cm 32(15+17) x 13,5 x 4,5.

Fig. 14.

Modena, Duomo, Porta

della Pescheria, archivolto,

1099-1106.

Fig. 15.

Codice Vat. Pal. lat. 927,

XII secolo (1181).

mento di Colletière, fondato circa 30 anni prima sulle sponde del lago Paladru e presto reso

inabitabile da un innalzamento del livello delle acque, fu definitivamente abbandonato.

Questo morso ha un elemento superiore, destinato ad andare nella bocca del cavallo, e

un elemento inferiore, articolato col primo, al quale erano poi collegate le redini.

Morsi di struttura analoga erano esistiti già presso gli antichi romani, sicuramente presso

i romano-celti. Lefebvre de Noëttes ha definito questa tipologia, descrivendola nella versione romano-celta, ‘a guardie oscillanti’14 e ha sottolineato come essa, a differenza del moderno

morso con guardie rigide e barbozzale, non abbia effetto di leva: la sua parte inferiore, infatti, quella che sta fuori della bocca del cavallo, non è rigidamente collegata a quella superiore,

ma semplicemente appesa (vedi fig. 18 a pag. 34).

Non sapremmo al momento ricostruire se e come il tipo di Colletière sia una diretta filiazione del tipo romano o romano-celtico ‘a guardie oscillanti’. Quel che però si vede in tutta

chiarezza, nelle testimonianze iconografiche dall’XI secolo in poi, è che si usano largamente

– prevalentemente, si direbbe – morsi con guardie. Solo tre esempi, tre particolari di opere

distribuite fra il XII e XIII secolo: la Porta della Pescheria del Duomo di Modena (fig. 14)15,

una miniatura del codice vaticano Pal. lat. 927 (fig. 15)16 e un affresco della recentemente riscoperta aula gotica dei Santi Quattro Coronati a Roma (fig. 16)17.

Al solito le fonti iconografiche non permetterebbero di stabilire se i modelli che sottostanno all’ispirazione degli artisti fossero morsi ‘a guardie oscillanti’ o morsi con guardie rigide,

ma, a datare dalla metà del XIII secolo la documentazione sui morsi per cavalli si arricchisce

di un elemento importante: la letteratura tecnica. Trattati di mascalcia (cioè, diremmo ora, di

veterinaria dei cavalli) erano esistiti nell’antichità romana e bizantina18 e si erano continuati

a tramandare nel Medioevo, ma riguardavano unicamente la cura delle malattie. Pochi anni

dopo il 1250, Giordano Ruffo di Calabria, alla corte dell’Imperatore Federico II di Svevia,

compone un fortunatissimo trattato di mascalcia in cui la materia medica è preceduta da alcuni capitoli sull’allevamento e sulla doma del cavallo, nei quali si descrivono anche alcuni

modelli di morsi19. Un capitolo dedicato ai morsi si trova anche in un altro fortunato trattato

di mascalcia, quello del romano Lorenzo Rusio, composto una cinquantina di anni dopo, ai

14 “À branches ballottantes” (R. Lefebvre des Noëttes, L’attelage, le cheval de selle à travers les âges. Contribution

à l’histoire de l’esclavage, Paris, A. Picard, 1931; tome I, p. 86). 15 Modena, Duomo, Porta della Pescheria, archivolto, bassorilievo, 1099-1106. 16 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica, Pal. lat. 927, sec. XII (1181); c. 122r. 17 Roma, Basilica dei Santi Quattro Coronati, Aula gotica, affresco, sec. XIII metà. 18 Cfr. Marcello Aprile, L’ippiatria tra l’Antichità e il Medio Evo: la trasmissione dei testi, in La veterinaria antica e

medievale (testi greci, latini e romanzi). Atti del II Convegno internazionale, Catania, 3-5 ottobre 2007, a cura di Vincenzo Ortoleva e Maria Rosaria Petringa, s. l., Athenaion, [2009]. 19 Jordani Ruffi calabriensis Hippiatria, a cura di Girolamo Molin, Padova, Tipografia del Seminario, 1818; pp. 13-14.

11 12 14 15

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158 Patrizia Arquint

primi del XIV secolo20. Segue, databile alla metà del XIV secolo un’anonima raccolta di disegni di morsi per cavalli con brevi didascalie21.

Questi testi e illustrazioni documentano molto bene il tipo ‘a guardie oscillanti’ dei secoli

XIII e XIV (detto a quei tempi freno)22. Alla figura 21 ne presentiamo un esemplare conservato al Museo Stibbert di Firenze: è lo stesso modello che si riconosce negli affreschi di Pietro Lorenzetti ad Assisi (fig. 17)23, di Bonamico Buffalmacco a Pisa, di Ambrogio Lorenzetti

a Siena e in molte altre opere di quella straordinaria fioritura artistica.

Nel XV secolo, nell’estremo scorcio di quello che tradizionalmente chiamiamo Medioevo,

il tipo ‘a guardie oscillanti’ viene abbandonato, sostituito dal tipo a guardie rigide. Lo possiamo conoscere da una letteratura tecnica ormai abbondante e riconoscere nelle opere d’arte:

la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (fig. 18)24, gli affreschi di Piero della Francesca

ad Arezzo (fig. 19)25, il San Giorgio di Cosmè Tura etc.

20 La mascalcia di Lorenzo Rusio. Volgarizzamento del secolo XIV messo per la prima volta in luce da Pietro Delprato, aggiuntovi il testo latino per cura di Luigi Barbieri, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1867; pp. 68, 70. 21 Uno dei codici che tramandano questo repertorio è stato pubblicato in facsimile: Dei cavalli. La Pratica di Maestro Bonifazio dei morbi naturali e accidentali dei cavalli, trascrizione a cura di Paola Di Pietro, presentazione di Luigi

Gianoli, Firenze, Nardini, 1988; cc. 49r-54r. 22 Cfr. Patrizia Arquint, “Poi che ponesti mano alla predella”. Studio sui freni per cavalli ai tempi di Dante, “Studi

di Filologia Italiana”, LXII (2003). 23 Pietro Lorenzetti, Crocifissione, affresco, Assisi, Basilica inferiore di San Francesco, 1315 ca. 24 Paolo Uccello, Battaglia di San Romano. Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini, tempera su tavola, Londra,

National Gallery; 1456 ca. 25 Piero della Francesca, Battaglia di Eraclio e Cosroe, affresco, Arezzo, San Francesco; 1452-66.

Fig. 16.

Roma, Basilica dei Santi

Quattro Coronati, Aula

gotica, metà del XIII secolo.

Fig. 17.

Pietro Lorenzetti,

Crocifissione, 1315 ca.

Fig. 18.

Paolo Uccello, Battaglia di

San Romano. Niccolò da

Tolentino, 1456 ca.

Fig. 19.

Piero della Francesca, Storie

della vera Croce. Battaglia di

Eraclio e Cosroe, 1452-66.

Fig. 20.

Freno di Colletière, 1008/10-

1040. Grenoble, Musée

Dauphinois.

Fig. 21.

Freno medievale, XIV

secolo. Firenze, Museo

Stibbert.

16 17 18

19

20 21

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Il Medioevo 159

Fig. 22.

Filetto snodato in ferro a

guardie piatte con estremità

desinenti in motivo floreale

o a cuore.

XIII-XV secolo.

Cm 20 x 15,5 x 6,5.

(Uno simile è conservato

nel Museo Archeologico

Nazionale di Kaunas).

Ancora un poco e il morso quattrocentesco si evolverà nell’elegante morso del Cinquecento, di quel secolo cioè in cui gli stati italiani si troveranno in posizione subalterna rispetto

ai grandi stati nazionali di Francia e Spagna e la cavalleria perderà la sua importanza sui campi di battaglia, però l’Italia manterrà un ruolo di primato culturale, e l’equitazione, coi grandi

trattati italiani, diventerà arte equestre.

(Disegni di Domenico Balducci).

22

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Il Cavallerizzo di Claudio Corte 161

Nei secoli XV e XVI in Italia e poi in Europa si respira un’aria nuova. Un nuovo periodo della

civiltà investe tutti gli aspetti della vita, soprattutto nella produzione artistica: il Rinascimento.

Come scrisse Eugenio Garin, “fin dalle origini l’idea di ‘rinascere’ a nuova vita, accompagnò

come un programma e un mito vari aspetti del movimento stesso… Quello che ‘rinasce’, che

si afferma, non è solo e non tanto, il mondo dei valori antichi, classici, greci e romani, a cui

si ritorna programmaticamente, ma… è innanzitutto una rinnovata affermazione dell’uomo,

dei valori umani, nei vari campi, dalle arti alla vita civile”1

. La civiltà del Rinascimento trova

la sua più alta espressione nell’arte intesa nel senso più estensivo del termine. Ogni momento

dell’attività umana viene nobilitato ad espressione artistica.

L’artista rinascimentale non è solo artefice di opere d’arte originali, ma, con la sua attività, trasforma la sua posizione sociale, interviene nella vita della città, caratterizza i rapporti

con gli altri, insegna a “vivere” una nuova vita.

Se nel Medioevo Dante si era innalzato fino ai cieli più alti grazie all’aiuto di tre donne,

l’uomo “nuovo”, animato dalla sicurezza in se stesso, ben conscio delle proprie capacità, procede da solo sulle vie della terra dove si trova a proprio agio. La natura, in tutta la sua bellezza, fa da scenario al suo trionfo ed appare sotto una visione diversa, “bella di una giovanile

bellezza”.

La civiltà del periodo storico che abbraccia i secoli XV e XVI si espresse compiutamente

nelle ottave del Poliziano e di Ludovico Ariosto, negli affreschi di Raffaello, nei marmi di Michelangelo, negli scritti politici di Machiavelli, nell’architettura di Leon Battista Alberti, nel Libro

del Cortigiano di Baldassarre Castiglione… o nelle Accademie equestri di Napoli e di Ferrara. In

questa rinascita anche il cavallo trova la sua piena realizzazione proprio in Italia dove, nel secolo XVI, a Napoli, l’abituale gesto di montare a cavallo si trasforma in “arte equestre”. Per la prima volta l’equitazione, insegnata e tramandata per secoli dalla tradizione orale e con l’esempio,

da padre a figlio, da maestro ad allievo, si fonda sugli scritti. Federico Grisone (fig. 2)2

pubblica

la prima opera sull’addestramento del cavallo, seguita da quella di Cesare Fiaschi (fig. 4)3

e di

1 Eugenio Garin, L’uomo del Rinascimento, Bari, Laterza, 1988. 2 Federico Grisone, Gli ordini di cavalcare di Federigo Grisone, gentiluomo napoletano, Napoli, Giovanni Paolo

Suganappo, 1550. 3 Cesare Fiaschi, Trattato dell’imbrigliare, maneggiare et ferrare cavalli, diviso in tre parti, con alcuni discorsi sopra la

natura di cavalli, con disegni di briglie, maneggi et di cavalieri a cavallo et de’ ferri d’esso, di M. Cesare Fiaschi gentiluomo

ferrarese, Bologna, Anselmo Giaccarelli, 1556.

Il Cavallerizzo di Claudio Corte

Mario Gennero

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162

Mario

Gennero

1

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Il Cavallerizzo di Claudio Corte 163

Fig. 1.

Rarissimo manoscritto di

veterinaria del Maniscalco

Michele Ionini di Rimini,

1774.

(Coll. C.G.).

Alle due pagine seguenti:

Fig. 2.

Edizione del Grisone in

Pesaro del 1558.

(Coll. C.G.).

Fig. 3.

Morso della prima metà

del ’500 con “pignatella”

e barbozzale a maglie

progressive.

Claudio Corte4

. Pasquale Caracciolo5

manderà alle stampe una vera “enciclopedia” dedicata

al cavallo. Altre opere giacciono ancora oggi nei manoscritti conservati nei conventi o nelle

biblioteche. Si pubblicano opere dedicate a questa nuova “arte”. Si traducono e si leggono

i classici che hanno trattato del cavallo, a partire da Senofonte, il “padre” dell’equitazione”.

I maestri più colti, quelli “letterati” che sapevano leggere e scrivere, offrono ai posteri il

loro sapere.

Nel Cinquecento si assiste ad una radicale trasformazione dell’equitazione, vista fino a

quel momento soltanto nella prospettiva utilitaristico-militare della Cavalleria o del quotidiano duro lavoro nei campi o nei trasporti. Da questo disegno originale il montare a cavallo si

trasforma in “arte” a se stante. Si impara ad andare a cavallo nel chiuso delle cavallerizze, nelle

Accademie equestri, sotto la guida di illustri maestri, contesi dalle corti, sia italiane sia europee. A Napoli e poi a Ferrara, a Padova, a Milano… affluiscono giovani cavalieri provenienti

da tutti i Paesi europei per imparare la nuova disciplina per poterla poi trasmettere in patria. Il

“giovin signore” tra le sue molteplici occupazioni, dedica molto tempo alla nuova espressione

artistica. Giova ricordare però che l’arte dell’equitazione, oltre che costituire un divertimento

ed un piacevole passatempo, nel Rinascimento era ancora considerata una preparazione per la

guerra. Lo stesso Baldassarre Castiglione lo ricorda al suo Cortegiano: “Sono ancor molti altri

esercizi, i quali, benché non dependano drittamente dalle arme, pur con esse hanno molta convenienza e tengono assai d’una strenuità virile; e tra questi parmi la caccia [da intendere quasi

sempre quella a cavallo] esser de’ principali, perché ha una certa similitudine di guerra…”6

.

Corte inserisce l’arte di andare a cavallo “nel numero dell’arti buone, piena tutta di destrezza, bellezza, misura e ingegno e che cerca utilità grande, non solo in particolare a ciascuno, ma in generale alle città, a gli Stati, alle Repubbliche, a i Regni e a gl’Imperatori”.

Il cavallo diventa prepotentemente il protagonista nelle arti figurative, nelle pitture di Pisanello, di Paolo Uccello, di Andrea del Castagno, nelle sculture equestri di Donatello e del

Verrocchio. Leonardo dapprima e poi Carlo Ruini ne studiano l’anatomia. Mentre all’estero si continua a curare i cavalli invocando la protezione di Sant’Eligio, di Sant’Uberto o di

Sant’Antonio, in Italia si studiano le cause e si cercano i rimedi, si formano i “maniscalchi”, i

primi “veterinari” ante litteram (fig. 1).

Gli editori che avevano fino ad allora pubblicato soltanto opere di “mascalcia”, intesa come cura dei cavalli, offrono ora libri sull’equitazione, intesa nel senso moderno del termine.

Tra gli autori che hanno scritto sul cavallo fa spicco anche la figura di Enea Silvio Piccolomini, il futuro Papa Pio II, autore di un breve trattato, scritto in latino, dal titolo di De natura

et cura equorum7

.

Anticipatore dei più importanti scrittori del Cinquecento deve essere annoverato Leon

Battista Alberti, conosciuto soprattutto come letterato ed architetto, autore di una breve, ma

quanto mai significativa opera sul cavallo De equo animante8

, dedicata all’umanista e mecenate Lionello d’Este, Principe di Ferrara. Come l’autore stesso scrive, l’opera non intende essere un trattato di ippologia o di mascalcia, ma un omaggio, visto con l’occhio del letterato,

al cavallo, all’allevamento, all’addestramento, in vista del suo impiego in guerra e nei tornei.

4 Claudio Corte, Il Cavallerizzo di M. Claudio Corte di Pavia, nel qual si tratta della natura de’ cavalli, del modo

di domarli et frenarli, et di tutto quello che a’ cavalli et a buon cavallerizzo s’appartiene, Venezia, Giordano Ziletti, 1562. 5 Pasquale Caracciolo, La gloria del cavallo. Opera dell’illustre S. Pasqual Caracciolo divisa in dieci libri, ne’ quali

oltra gli ordini pertinenti alla cavalleria, si descrivono tutti i particolari che sono necessari nell’allevare, custodire, maneggiare

et curare cavalli, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1566. 6 Baldesar Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Vittorio Cian, Firenze, Sansoni, 1947; libro I, 22. 7 Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II), De naturis equorum, in Enee Silvii Piccolominei epistolarium seculare:

complectens “De duobus amantibus”, “De naturis equorum”, “De curialibus miseriis”, post Rudolf Wolkan iterum recognovit

edidit Adrianus van Heck, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2007; n° 154, pp. 349-376. 8 Leonis Baptistae Alberti, viri doctissimi, de Equo animante: ad Leonellum Ferrariensem principem libellus, Michaelis

Martini Stellae cura ac studio inventus et nunc demum per eundem in lucem editus, Basileae, s. t., 1556.

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Gennero

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Fig. 4.

Edizione del Fiaschi del

1628 in Padova.

(Coll. C.G.).

Alle due pagine seguenti:

Fig. 5.

Morso a olive liscie con

anelletti e sous barbe

lanceolata.

XVIII secolo.

Fig. 6.

Morso a scaccia con

cappione a collo d’oca.

XVII secolo.

Tra gli autori più importanti del Cinquecento è da segnalare la figura di Claudio Corte

per la sua cultura classica e per la sua scrittura. Corte, oltre che essere “uomo di cavalli”, è anche “uomo di lettere”, come si può dedurre dal lungo Proemio all’opera. La sua conoscenza

equestre, in senso ampio, spazia dagli autori greci, latini a quelli medioevali. È il rappresentante più colto della storia dell’equitazione rinascimentale. Sorpassa di gran lunga gli altri autori

della sua epoca, incarna la tipica figura dell’uomo del Rinascimento, conoscitore e studioso

del mondo classico, greco e latino. Scrive a tal proposito: “…nello scrivere di quest’opera mi

sono servito d’Aristotile, di Plinio, di Senofonte, di Lorenzo Roscio… Ho cavato ancora da

Pietro Crescentio, da Alberto Magno, da Columella (fig. 7), da Varrone, da Palladio, da Nemisiano, da Plutarco, da Horatio, da Virgilio e da molt’altri che lungo sarebbe il raccontarli, e

nel successo del libro chiaramente si potrà vedere”9

. Le citazioni, dirette o di seconda mano,

di questi e di altri autori sono molto frequenti, rappresentano un punto fermo, in tutta l’opera. A volte il loro pensiero contribuisce a dar forza e validità ad una sua affermazione. Tutte le

loro opere costituivano una pietra di paragone, non si poteva avanzare alcun dubbio o critica.

Oltre ai classici Corte asserisce di aver fatto riferimento ai maestri e cavallerizzi contemporanei, attingendo dalla loro scienza, dalla viva voce e dai loro esempi considerando

che gli scritti erano alquanto modesti di numero e come erano altrettanto coloro i quali

erano in grado di scrivere e di leggere. L’analfabetismo raggiungeva cifre altissime, anche

fra le classi elevate. “…Nello scrivere mi sono servito d’alcuni auttori moderni ancora, ma

etiandio del bon giuditio d’alcuni miei predecessori cavallieri, che furno veramente nell’arte

del cavalcare eccellentissimi e senza pari…”10. Tra questi vengono citati Messer Evangelista

“dei miei di Corte”, Messer Giovan Angelo da Carcano, “gentilhomo Milanese”, M. Giovanmaria della Girola “così detto ma dei nobili di Corte di Pavia, il quale fu mio padre e

maestro”11. “A questo aggiungo havermi giovato ancora il buon giudicio d’alcuni Cavallieri

amici miei e massime quello del molto magnifico Messer Horatio figlio del Capitan Mutio

Muti, il qual Horatio nelle bone lettere e altre virtù è molto raro”12. Tra i Maestri da ricordare figura pure un religioso, il “Commendador fra Prospero cavallier certamente degno di

molte virtù e con pochi pari al mondo nel cavalcare…”13. Del suo padre e maestro Giovan

Maria della Girola, probabilmente il primo ad averlo avviato verso quest’arte, dice poi: “fu

Cavallarizzo il padre mio in quell’età felice, nella quale i cavalli erano veramente boni e i

boni Cavallarizzi erano in grande stima e benissimo remunerati…”14.

Essere un buon “cavallerizzo” al servizio di qualche principe o altro rappresentante della nobiltà costituiva una redditizia fonte di guadagno, considerando che l’antica abitudine di

montare, di impiegare l’animale per viaggiare, per andare alla guerra o per il duro lavoro dei

campi, nel Rinascimento si trasforma in una forma artistica e, di conseguenza, “l’arte d’un

9

Corte, op. cit., proemio. Di Aristotele, Corte cita soprattutto (ma non solo), le operette sugli animali (Storia degli

animali, Le parti degli animali, Il movimento degli animali, La generazione degli animali etc.); di Plinio (il Vecchio), l’Historia

naturalis; di Senofonte l’Ippica (un trattato di equitazione) e l’Ipparco (sulle funzioni del comandante di cavalleria). Lorenzo

Roscio, meglio noto come Lorenzo Rusio, è stato autore, nei primi anni del XIV secolo, di un trattato di veterinaria. Pietro

Crescenzio o de’ Crescenzi (inizio XIV secolo), Columella (I secolo d.C.), Varrone (I secolo a.C.), Palladio (IV secolo d.C.)

hanno scritto trattati sull’agricoltura.... Alberto Magno (XIII secolo) ha scritto un trattato De animalibus. Nemisiano,

meglio noto come Nemesiano (III secolo d.C.), ha scritto un poema didascalico sull’arte della caccia - Cynegetica - dove

si parla anche di cavalli. Di Plutarco, Corte cita non solo dalle opere, nei Moralia, dedicate agli animali (Bruta animalia

ratione ovvero Gli animali usano la ragione, o De Sollertia animalium ossia L’intelligenza degli animali), ma anche dalle Vite

e da tutta la vasta opera di questo autore, traendone aneddoti storici o mitologici attinenti ai cavalli per arricchire e dare

validità al suo scritto. Ugualmente Orazio non ha scritto opere dedicate specificamente al cavallo, ma Corte se ne serve per

aneddoti e simili. Allo stesso modo Corte, di Virgilio, cita le Georgiche, dove si parla fra l’altro di cavalli, ma anche l’Eneide. 10 Corte, op. cit., proemio. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Ibidem. 14 Ibidem.

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Fig. 7.

Traduzione in francese del

celebre trattato di Columella,

scrittore latino del I secolo

d.C., De re rustica.

Parigi, 1551.

(Coll. C.G.).

vero cavallarizzo è eccellentissima e utilissima, e veramente degna d’essere abbracciata e tenuta molto cara”15.

Senza voler parlare di “ippoterapia” ante litteram Corte considera l’equitazione un “rimedio” per molti mali e cita a questo proposito il pensiero di Aetio16 il quale aveva asserito

che “l’uso di cotal arte sopra tutti gl’altri essercitii fortifica lo spirito e tutto il corpo e massime lo stomaco, purga i sensi e li rende assai più acuti e allegri…”17. Sperimentò direttamente su se stesso i benefici di andare a cavallo. Corte in gioventù aveva dedicato gran parte della sua formazione alla letteratura tanto da rovinarsi la salute, riacquistata grazie alla pratica

dell’equitazione come confessa al suo interlocutore del “Dialogo terzo”: “circa poi al mio esser debile di corpo e infermaccio… per li studi havendo lasciato l’aggitar de’ cavalli, m’havea

guasto la complessione; dove riasumendo queste tali aggitationi, me la sono se non in tutto,

in bona parte racconcia”18.

Fu l’editore Giordano Ziletti a pubblicare, a Venezia, nel 1562 Il Cavallerizzo di M. Claudio Corte di Pavia, nel qual si tratta della natura de’ cavalli, del modo di domarli et frenarli, et

di tutto quello che a’ cavalli et a buon cavallerizzo s’appartiene. Il titolo venne poi modificato (o corretto) in Cavallerizzo nelle successive edizioni di Venezia del 1573 e di Lione dello

stesso anno.

Contrariamente all’opera di Federico Grisone, che fu tradotta nelle principali lingue europee, quella di Corte conobbe una sola traduzione all’estero. Thomas Bedingfield la tradusse

in inglese e fu edita a Londra da H. Denham con il titolo di The Art of Riding nel 1584. La sua

fama però era ben nota nelle principali corti europee, in Inghilterra e Francia soprattutto19.

Il libro è dedicato “All’Illustriss. Et Rever. Gran Cardinale Allessandro Farnese”.

Lo scrittore nella stesura dell’opera non impiega il latino, la lingua “colta” dell’epoca,

ma “la lingua nostra commune italiana, accioché ciascuno mediocremente instrutto possi

intendere agevolmente con questa lettione molte cose belle e utili scritte e sparse in diversi

auttori Latini, Greci e Italiani di simil suggetto”20. Il suo Italiano è quello parlato in Lombardia, infatti Corte si premura a sottolineare che non ha inteso curarsi “di toscanizzarlo,

per esser io Lombardo…”21. Un’analisi linguistica un po’ approfondita del testo conferma

la sua affermazione.

Negli intenti dell’Autore il libro è destinato ad un vasto pubblico, anche quello poco o

nulla istruito. Nel primo “dialogo” del terzo libro Corte lamenta che “la maggior parte de’

cavallarizzi hoggidì sappino non che poco o niente di filosofia e lettere latine, ma neanco leggere bastevolmente, e nondimeno sono pure eccellentissimi e istimati molto”22. Molto severo è il giudizio circa l’ignoranza dei cavallerizzi tanto da scrivere: “…a’ cavallarizzi del tutto

ignoranti si potrebbe anco dire quell’adaggio over proverbio che dice: sono più ignoranti di

Filonide, che fu tra gl’ignoranti ignorantissimo”23.

15 Ibidem. 16 Aezio (o Ezio) di Amida, medico bizantino del V secolo.

17 Corte, op. cit., proemio. 18 Ivi, c. 128r (nella stampa erroneamente numerata 127). 19 La fama e la notorietà dell’opera di Claudio Corte continuarono nei secoli successivi. In una copia conservata alla

Biblioteca Nazionale di Parigi si legge un commento, manoscritto, del generale Alexis L’Hotte: “L’opera più completa

dell’epoca e che contiene la migliore delle dottrine equestri professate nell’Italia del 16° secolo”, come riporta Giovanni

Battista Tomassini, Le opere della cavalleria. La tradizione italiana dell’arte equestre durante il Rinascimento e nei secoli

successivi, Frascati, Cavour Libri, 2013. 20 Corte, op. cit., proemio. 21 Ibidem. 22 Ivi, c. 113v. 23 Ivi, c. 115v.

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Il Cavallerizzo di Claudio Corte 171

7

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Fig. 8.

Morso a cannone rialzato.

XVII secolo.

Il vocabolo “cavallarizzo” – poi “cavallerizzo” – era utilizzato al tempo nel significato di

“cavaliere”, di colui che andava a cavallo, che praticava l’equitazione. Oggi, nel linguaggio

equestre, è collegata al mondo circense per indicare “colui che esegue esercizi arditi di equitazione”24 sotto il tendone del circo.

Lo stesso Corte nel lungo Proemio-dedica presenta il suo lavoro, articolato in tre libri:

“Hor l’ordine che teneremo nel presente libro, il qual piacemi d’intitolare il Cavallarizzo, sarà

tale che, diviso in tre capi [libri] principali, nel primo si ragionerà della natura de’ cavalli,

del modo di tener razza, dell’alevar gli poledri, del farne scelta, del governo loro e di molt’altre cose utili e necessarie circa questo; nel secondo ragioneremo del modo del cavalcare e di

frenare e d’altro a questo e al cavalliere appartinente; nel terzo e ultimo diremo quello che a

buon cavallarizzo si conviene, lasciando a dietro quella parte del medicare e di ferrare come

propria (secondo il mio giuditio) del marescalco e del ferraro”25.

Il terzo libro, scritto sotto forma di dialogo, meno tecnico, più discorsivo, accattivante e

piacevole nella lettura, è suddiviso a sua volta in tre “dialoghi”. L’autore s’immagina di trovarsi a Roma, un mattino a cavallo con altri illustri cavalieri “nel dilettevole giardino d’Agostini Ghisi [Chigi], nel quale ancora molte volte venivamo a diporto, a correr lancie, maneggiar cavalli nelle sue belle, dilettevoli e ombrose strade per fuggire la malvagità del caldo e

esser solamente tra noi, sequestrati dalla moltitudine giudicatrice ben spesso delle operationi

altrui vanissima”26. Il colloquio verte sugli argomenti trattati da Corte nella sua opera. Funge

da interlocutore il “Commendador Fra Prospero Ricco, gentilhuomo Milanese molt’honorato

e nel mestiere che ad ottimo cavallerizzo s’appartiene molto eccellente”27. Tra i presenti figurano personaggi di spicco nella storia dell’equitazione come Roberto Mantoano “cavallarizzo molto eccellente e persona molto affabile e piacevole”28, il Signor Giambattista Pignatello

“gentiluomo Napoletano e veramente non men faceto e cortese che nel mestier del cavalcar

molto raro”29, il cavallier Seloro “gentilhuomo non men dolce nella conversatione che saggio

nel governo di cavallarizza”30, il Signor Giovan’Antonio Catamusto, il Signor Giovan Aloigi

di Ruggero, il Signor Giulio Orsino, il Signor Pompeo Colonna. Tutti questi personaggi assistono al “dialogo”, protratto per tre mattine, tra l’Autore ed il Commendador Prospero. Tema della “disputa” letteraria è la figura del “cavallerizzo”.

L’autore è ben consapevole che la sua fatica sarà sottoposta a critica. Altri cavalieri, altri

maestri non concorderanno con le sue affermazioni, ma questi “voglio che sappino che poco

importano i lor biasimi, considerato che i ciechi non hanno a giudicare de i colori!”31.

Lo scritto rappresenta il frutto di una lunga frequentazione con i cavalli e con cavalieri,

noti e meno noti, ma uniti tutti da una stessa passione. Corte desidera puntualizzare che “al

comporre poi di quest’opera dico ch’io non l’ho composta [s]pinto da forza di vanagloria e

da cieca opinione di me stesso, né meno per acquistarne oro e argento, havendo io sempre

dispensato il mio largamente e rifiutato anco gl’honori e le rendite, come il ritratto della vita mia e gl’amici miei ne possono far fede… ma solo l’ho composta per disiderio di giovar al

mondo nel miglior modo”32.

Il cavallerizzo presentato da Claudio Corte è la rappresentazione del gentiluomo del Rinascimento, colto, istruito e raffinato, come si ricava dalla lunga descrizione trattata nel terzo libro. Per Corte non è sufficiente essere un bravo cavaliere, saper montare bene a cavallo,

24 Aldo Gabrielli, Dizionario della lingua italiana. Milano, Carlo Signorelli Editore, 1993. 25 Corte, op. cit., proemio. 26 Ivi, c. 111r. 27 Ibidem. 28 Ibidem. 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ivi, proemio. 32 Ibidem.

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Mario

Gennero

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Fig. 9.

Trattato di Nicola e Luigi

Santapaolina.

Padova, 1696.

(Coll. C.G.).

istruire cavalli e cavalieri. Tuttavia, rivolgendosi al suo interlocutore, precisa: “io non vi niego

che uno non possi cavalcar bene e far anco ben governare una cavallarizza col buono ingegno

naturale e lunga pratica e memoria tenace, senza sapere a mala pena leggere e anco senza, ma

vi dico ben questo: che costui farà le sue cose senza stabile fondamento, ancor che n’habbi

una gran pratica, e durerà doppia fatica, per bisognarli havere non che tenace memoria ma

tenacissima…”33.

In più riprese Corte ribadisce il concetto che “…quelli che sanno non solamente ben leggere e scrivere, ma hanno ancora lettere latine, e non solamente hanno buona humanità, ma

filosofia ancora, sapranno anco meglio conoscere la natura de’ cavalli e isprimere li loro concetti…”34.

Secondo Corte “potrassi diffinire il cavallarizzo perfetto essere homo che ha vera cognizione della natura de’ cavalli, per la quale gl’indrizza sì nel maneggio come nel governo e altre

cose che se gl’apartengano…”35. Per essere un bravo cavallerizzo non è sufficiente essere un

“uomo di cavalli”. Altre doti si richiedono da lui. “Et io già vi ho detto che il cavallerizzo col

corpo bello deve havere l’animo bellissimo”36. “…Sia principalmente di animo bello, cioè bono e ben qualificato… sia sagace, prudente, patiente e temperato”37. E ancora: “Pò adunque

il cavallarizzo far ogni cosa per amore della virtù e dell’honore…”38.

Una delle virtù richieste ad un bravo cavallerizzo è la pazienza, necessaria per trattare sia

con i cavalli sia con gli allievi. “…Ho detto che [il cavallerizzo] vuol essere patiente, perché

havendo a far con cavalli e sovente con huomini che hanno il discorso peggio che bestie, e in

sentir questi e quelli mormorare delle sue attioni sì a cavallo come a piede, se non sarà ornato

di questa virtù della patientia, mal la potrà fare con cavalli e peggio con gl’huomini. E certo

è verissimo che con questa virtù, il più delle volte, meglio si vince e riduce a quel che si vuole

un cavallo di grande e gentil animo, ancora che sia superbo e disdegnoso, che con le battiture

e con i sgridamenti pieni d’impatientia…”39.

Dopo aver discorso a lungo delle qualità del Cavallerizzo l’interlocutore, protagonista del

terzo libro, il cavalier Prospero, conclude che “…con queste virtù lo vogliate fare fratello del

Cortegiano”40. La figura del Cavallerizzo di Corte ben si accosta a quella del “cortegiano” di

Baldassarre Castiglione, citato dallo stesso nel primo “dialogo” del terzo libro. L’autore de Il

libro del Cortegiano41 scriveva: “Però voglio che ’l nostro cortegiano sia perfetto cavalier d’ogni

sella, ed oltre allo aver cognizion di cavalli e di ciò che al cavalcare s’appartiene, ponga ogni

studio e diligenza di passar in ogni cosa un poco più avanti che gli altri, di modo che sempre

tra tutti sia per eccellente conosciuto. E come si legge d’Alcibiade che superò tutte le nazioni presso alle quali egli visse, e ciascuno in quello che più era suo proprio, così questo nostro

avanzi gli altri, e ciascuno in quello di che più fa professione. E perché degli Italiani è peculiar laude il cavalcare bene alla brida, il maneggiar con ragione massimamente cavalli asperi,

il correr lance e ’l giostrare, sia in questo de’ migliori Italiani; nel torneare, tener un passo,

combattere una sbarra, sia bono tra i migliori Franzesi; nel giocare a canne, correr tori, lanzar

aste e dardi, sia tra i Spagnoli eccellente. Ma sopra tutto accompagni ogni suo movimento con

un certo bon giudicio e grazia, se vole meritar quell’universal favore che tanto s’apprezza”42.

33 Ivi, c. 113v. 34 Ivi, c. 113v. 35 Ivi, c. 114r. 36 Ivi, c. 123v (nella stampa erroneamente numerata 127). 37 Ivi, c. 121r (nella stampa erroneamente numerata 125). 38 Ivi, c. 121r-v (nella stampa erroneamente numerata 125). 39 Ivi, c. 121v (nella stampa erroneamente numerata 125). 40 Ivi, c. 121r (nella stampa erroneamente numerata 125). 41 Prima edizione Venezia, nelle case d’Aldo Romano e d’Andrea d’Asola, 1528.

42 Baldesar Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Vittorio Cian, Firenze, Sansoni, 1947; libro I, cap. 21.

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176 Mario Gennero

Fig. 10.

Morso a scaccia rialzata con

ferma guardie rigido.

XVIII secolo.

Come tutti i Maestri dell’epoca Claudio Corte dedica molta attenzione alle imboccature

ed alla loro scelta, anche se non è certamente soltanto il morso che contribuisce ad addestrare un cavallo. Coletta Respino, cavallerizzo napoletano del Cinquecento, scriveva infatti: “…

sono molti che si dilettano cavalcare e imbrigliare, ma non sapranno dare raggione di bocche

di cavalli, e meno sanno imbrigliare. Alcuni sono che imbrigliano per prattica, mettendo hora

una briglia e hora un’altra, finché l’indovinano, e meno l’imbrigliano per dovero. Alcuni altri

dicono che con ogni briglia si potrà imbrigliare, tenendo allenato il cavallo con la scola che se

li dà di continuo: quando sta bene, lo lascio considerare alle Signorie Vostre. Io, per me, dico

che costoro non hanno cognitione di questa arte, né meno mai faranno cosa al proposito…”43.

Giovan Battista Galiberto ripeteva il pensiero dei suoi predecessori scrivendo: “…io dico

che un Cavagliero, il quale sappi ben cavalcare e conoscer ogni sorte di cavalli, deve anco saper ben imbrigliare… ma l’importanza è il saper bene conoscer le bocche de’ cavalli… e sappi

che col provare molti morsi si guastano le bocche de’ cavalli e non si fa bene…”44.

Pirro Antonio Ferraro (fig. 11) trattò a lungo il tema delle imboccature nella sua opera.

Scriveva al proposito: “lungo sarebbe il discorso s’io volessi ridurvi a memoria l’opinioni degli antichi professori, alcuni de’ quali volsero con poche lettioni e briglie gagliarde castigare e

por su l’anche i loro Cavalli; il che da sé solo, senza vera e continova disciplina, adduceva più

tosto offesa alle bocche di quelli, che in essi giustezza alcuna, laonde i moderni e nostri maestri hanno con ragione contradetto, tenendo che prima si dee con vera dottrina disciplinare il

Cavallo e al fine, con quanto meno ferro si potrà, aiutare e castigare…”45.

“Se le imboccature avessero le medesime proprietà miracolose di fare la bocca di un cavallo e di renderlo obbediente, il cavaliere ed il cavallo non avrebbero più problemi appena

usciti dalla bottega del fabbricante di morsi”, scriveva un allievo di Pignatelli riportando una

sua celebre frase46.

Corte tratta dell’argomento “imboccature” nel secondo libro, dal capitolo 28 al capitolo

4147. Questo suo lungo discorso sull’ “imbrigliare” segue l’indirizzo dato da Federico Grisone, il primo autore ad aver trattato diffusamente di questo argomento. Oltre a descrivere le

imboccature, Grisone le presenta in disegni. Sono cinquanta le tavole allegate agli Ordini di

cavalcare (Napoli 1550). Ogni figura reca una sommaria descrizione. A questo proposito Grisone annota: “perché non solo col tempo si mutano i nomi delle cose minime particolari…

mi è parso, per non venir meno all’utilità dei posteri, non fidarmi ai nomi delle briglie… che

facilmente si potrebono variare, ma per maggior intelligenza ho voluto, così ordinatamente

come avante l’ho scritte, tali quali elle si siano, una per una con ogni minutia, qui appresso

farvele dipingere; che, con la figura, in ogni tempo e in ogni etade non si potrà errare la vera

forma di esse…”48. Corte si limita invece alla semplice descrizione. Se ne scusa con i suoi lettori a causa della fretta che gli hanno messo per la pubblicazione del libro.

Claudio Corte, come Grisone e gli altri maestri dell’epoca, attribuisce fondamentale importanza alla conoscenza della bocca del cavallo e di questo se ne deve occupare il “cavallerizzo”, “il quale fa di mestieri molto ben sappia la natura, la bocca, la testa, il collo, la schena

e le gambe del cavallo, oltra la forza e virtù de’ morsi, se vuole ben imbrigliarlo e come si deve”49. Nel corso del tempo il numero delle imboccature è andato via via aumentando. Ogni

Maestro si vantava di averne inventato uno, infallibile, adatto ad ogni tipo di cavallo, anche a

43 Coletta Respino, Trattato sopra l’imbrigliare cavalli e di conoscer ogni qualità di bocche, opera inedita (Parigi,

Bibliothèque Nationale de France, cod. Ital. 1528). 44 Giovan Battista Galiberto, Il cavallo da maneggio, Vienna, Giovan Giacomo Kyrneri, 1650; p. 63. 45 Pirro Antonio Ferraro, Cavallo frenato di Pirro Antonio Ferraro napoletano, cavallerizzo della Maestà Cattolica di

Filippo II Re di Spagna N. S., nella Real Cavallerizza di Napoli…, Napoli, Antonio Pace, 1602; p. 15. 46 Antoine de Pluvinel, L’instruction du Roy, en l’exercice de monter a cheval, Paris, Abel l’Angelier, 1625. 47 Corte, op. cit., cc. 80r-87r. 48 Grisone, op. cit.; c. 125r (e cfr. errata corrige). 49 Corte, op. cit., c. 80r.

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Gennero

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Fig. 11.

Il celebre trattato di Pirro

Antonio Ferraro, Cavallo

frenato.

Venezia, 1620.

(Coll. C.G.).

quello più restio. Giovan Battista Pignatelli ha legato il nome a tre morsi, molti simili fra loro,

elogiati dai suoi allievi, utilizzati per molto tempo. Queste imboccature sono state riportate

e descritte nei particolari da Pirro Antonio Ferraro nella sua opera Cavallo frenato (fig. 11).

Dal momento che “i morsi, over freni sono quasi senza numero”50, Corte volutamente si

limita a descrivere quelli più comuni. Non intende scrivere un trattato su questo argomento.

“Non vorrei farne un volume particolare e grande e confondere i lettori. Andarò ristringendoli ad un numero più breve e scelto che sarà possibile, accioché meglio ciascun possi mandarli alla memoria e adoperarli, e anco accioché molti ignoranti non solo nel sapere imbrigliare, ma star a cavallo ancora, i quali come nasuti vogliono anch’essi giudicare, siano conosciuti

quello che sono”51.

50 Ibidem. 51 Ivi, c. 80r-v.

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I morsi in ferro, magici connubi di tecnica ed estetica 181

Sfogliando le pagine di alcuni importanti trattati di cavalleria apparsi fra la metà del quindicesimo e la metà del diciassettesimo secolo1

, non si può non rimanere affascinati di fronte a

quelle sequenze di tavole illustrate – così estese da prevalere spesso rispetto al testo – che documentano innumerevoli modelli di morsi da cavallo, testimoniando così l’enorme entusiasmo

rivolto in Europa al tema dell’imboccatura in età rinascimentale e barocca.

Osservando con attenzione quelle tavole dall’innegabile carattere tecnico-progettuale è

interessante soprattutto notare l’assoluto protagonismo del soggetto rappresentato: ciascun

morso occupa infatti l’intera pagina e molto spesso viene disegnato al vero, con una meticolosa attenzione ai dettagli tecnici e decorativi, che lo distinguono talora anche solo di poco

da quello della pagina precedente; tavole da cui traspare un preciso intento tassonomico, che

si manifesta sorprendentemente in largo anticipo rispetto a quello spirito enciclopedico che

culminerà intorno alla metà del ’700 con la grande impresa dell’Encyclopedie di Diderot et

d’Alembert.

La breve scritta che compare in basso sotto ogni singolo disegno qualifica il modello raffigurato con un nome preciso. Agruppido, Olivetti, Feretto, Fiasco, Meza stroppa, Stroppa, Falsa stroppa, Spoletta con Montada, Meza Fregna, Chiappone, Ginetto, Fregna Intera, Ginetto

Chiuso, Meloni, Ginetto Aperto, e cosi via: ecco solo alcuni dei termini tecnici con i quali, ad

esempio in un trattato stampato a Padova nel 1628 (vedi fig. 4 a pag. 167)2

, vengono identificati alcuni tipi di imboccatura in rapporto al diverso tipo di ‘cannone’, cioé l’elemento orizzontale che sta propriamente in bocca al cavallo.

Se i ‘cannoni’ vengono disegnati con grande precisione, cura certamente non inferiore viene riservata al profilo delle ‘guardie’ (le aste verticali alle quali il ‘cannone’ è collegato), spesso

adorne di riccioli, volute, sagomature, trafori, protomi animali e altri decori .

Fra i documenti storici più rilevanti sul tema in questione va ricordata anche un’altra

opera che non è propriamente un trattato ma uno straordinario ‘album’ realizzato nel 1554

dall’italiano Filippo Orso3

– di cui sopravvivono solo tre esemplari – che consiste in una fol1 Fra i più celebri trattati di cavalleria vanno ricordati: Bonifatius, La pratica dei morbi naturali e accidentali, segni

e cura, de’ cavalli tratto dai libri di Ippocrate e di Damasceno. Accedunt vari frenorum typi, 1440-50; F. Grisone, Ordine di

cavalcare e modi di conoscere le nature dei cavalli, Venezia 1569; A. Pirro Ferraro, Cavallo frenato, Venezia 1620; Cesare

Fiaschi, Trattato dell’imbrigliare, atteggiare e ferrare cavalli, Padova 1628. 2 Cesare Fiaschi, op. cit., pag. 35. 3 Filippo Orso, pittore mantovano dal vago contorno biografico, è noto alla storia per questo suo volume di disegni

tramite il quale desiderava diffondere i suoi ‘modelli’. Al fine di ottenere una diffusione più capillare avrebbe in realtà

preferito far circolare delle stampe tratte dai suoi disegni ma non essendo in grado di sostenere i costi di un incisore, fu

costretto a riprodurli a mano libera in pochi esemplari.

I morsi in ferro, magici connubi di tecnica ed estetica

Alessandro Cesati

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182 Alessandro Cesati

Figg. 1,1a

Eccezionale morso

rinascimentale in ferro

battuto, traforato e inciso.

Trova paragone con i due

soli esemplari al momento

conosciuti: il primo,

illustrato nel libro del 1893

di Zschille & Forrer, Die

Pferdetrense…, faceva parte

della collezione dello stesso

dr. Zschille, scomparsa

durante l’ultima Guerra

Mondiale, ove era descritto

“Prussia orientale, ca. 1600”

(tav. XV, n°1-1a e tav. XX,

n°2); l’altro si trova nel

Musée des Invalides a Parigi,

ove è esposto come “Regalo

al Re di Francia, ca. 1550”.

gorante serie di disegni in-folio dedicati ad elmi, else di spade, cavalli bardati ma soprattutto

a quelli che – secondo il termine latino ancora in vigore all’epoca – venivano chiamati ‘freni’:

oltre duecento diversi morsi da cavallo disegnati a penna ed inchiostro che rappresentano una

sorta di catalogo ideale delle più belle imboccature immaginabili intorno alla metà del ’500.

In quest’opera, come nei vari trattati di cui abbiamo appena fatto cenno, non si parla mai

esplicitamente del materiale impiegato per costruire quegli splendidi morsi ma noi ben sappiamo che – tranne poche eccezioni – stiamo parlando quasi esclusivamente di morsi in ferro,

il materiale comunemente utilizzato per costruirli in Europa dal Medioevo in poi.

L’utilizzo del ferro per scopi sia bellici che civili affonda le proprie radici in un passato

preistorico relativamente recente e più esattamente fra il 2000 ed il 1500 a.C.4

. In questo arco temporale viene convenzionalmente collocato l’inizio della cosiddetta ‘età del ferro’ ma in

realtà dovranno passare altri duemila anni circa prima che la tecnologia di questo metallo riesca ad affermarsi e quindi a prevalere rispetto a quel bronzo la cui cultura rimane in sostanza

dominante – in ambito metallurgico – per tutto il mondo antico, condizionando innumerevoli

ambiti della vita dell’uomo, ivi compresa anche la produzione dei morsi da cavallo.

4 La nascita della siderurgia è documentata nel corso del II millennio a.C nel Caucaso meridionale, terra allora abitata dai Calibei e dagli Ittiti. Questi popoli escogitano per primi una tecnica di ‘produzione’ del ferro, rimasta insuperata

sino alla Rivoluzione industriale moderna, basata su di un semplice procedimento: riscaldando dei pezzetti di minerale

di ferro insieme a del carbone di legna, si otteneva una massa spugnosa che poi veniva battuta e ribattuta più volte, per

essere liberata dalle impurità e renderla più compatta, ottenendo quindi un materiale concretamente utile alla realizzazione di oggetti.

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Alessandro C

e

sati

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Fig. 2.

Morso rinascimentale in

ferro battuto, traforato e

inciso.

Germania, XVII secolo.

Un esemplare simile

in Zschille & Forrer,

Die Pferdetrense…,

tav. XIX, n°1 e 1a.

(Vedi anche fig. 21 a pag. 36

e fig. 11 a pag. 204).

Alle due pagine seguenti:

Fig. 3.

Morso rinascimentale in

ferro forgiato, traforato e

inciso.

XVI secolo.

Questo esemplare ben

illustra l’abilità degli artigiani

nella sofisticata realizzazione

sia delle guardie che del

cannone con giocattoli.

Fig. 4.

Morso in ferro a guardie

dritte, detto “alla calabrese”,

finemente scolpito e inciso.

Seconda metà del XVII

secolo.

Se pensiamo tanto alla straordinaria ricchezza decorativa dei morsi del Luristan – per

quanto concerne l’ area mediorientale – che alla sobria essenzialità e purezza degli esemplari di cultura villanoviana, etrusca o romana – relativamente alle culture del mediterraneo – il

materiale utilizzato per realizzarli è stato principalmente il bronzo.

A dire il vero – stando ai reperti emersi dagli scavi – le imboccature in ferro esistevano

già nel mondo greco; e poi numerosi ‘filetti’ e morsi in ferro sono stati trovati in diversi scavi

archeologici – soprattutto dell’Europa centrorientale – di età romana imperiale e tardo romana. Analogamente in diverse culture orientali, come ad esempio quella mongola o cinese, sono

emersi dagli scavi tanto di età preistorica che storica diversi manufatti in ferro fra cui anche

alcuni semplici morsi, oltre a quelli più comuni in bronzo.

Va peraltro ricordato che in genere i reperti in ferro provenienti dal mondo antico sono

oggettivamente scarsi, in quanto rari e miracolosi sono i casi in cui giungono sino a noi poiché

di solito se un oggetto in ferro finisce sottoterra, ben presto si ossida e si corrode progressivamente sin spesso a dissolversi completamente mentre a parità di condizioni un oggetto in

bronzo può resistere magnificamente, traendo addirittura vantaggio dalle ossidazioni di vario

genere che lo ricoprono tanto da garantirne spesso una perfetta conservazione.

In ogni caso i morsi in ferro del mondo antico sono tutti accomunati dal fatto di essere

dei manufatti piuttosto grezzi e rudimentali sia formalmente che esteticamente, segno indiretto di una tecnologia del metallo ancora molto incerta e poco evoluta.

Per poter parlare di un’‘età del ferro’ in senso più ampio ed articolato bisogna di fatto

attendere il XII-XIII secolo. Solo a cominciare da questo periodo la produzione di oggetti

artigianali tanto per uso civile che militare conoscerà in Europa uno sviluppo significativo e

crescente, come logica conseguenza di grandi e decisivi progressi nella lavorazione di tale metallo che andrà via via affermandosi per le sue molteplici qualità – fra cui principalmente la

durezza e la resistenza – rivestendo un ruolo sempre più importante – soprattutto nell’ambito

delle culture occidentali – in molteplici e diversi aspetti della vita dell’uomo.

Mentre agli albori dell’età medievale per la realizzazione di un’imboccatura – come di tanti altri oggetti – l’uomo è costretto ad impiegare un ferro ancora piuttosto grezzo ed impuro,

ben presto, in virtù degli avanzamenti della siderurgia che proprio in quei secoli progredisce

velocissima, egli può contare su di un materiale sempre più raffinato e resistente, tale da consentire, al di là della forgiatura e di una prima sagomatura necessarie, anche interventi decorativi sempre più diffusi quali modanature, incisioni, trafori e abbellimenti diversi.

Se ancora nel corso del ’400 per molte produzioni di oggetti d’uso non pare avvertirsi

una differenza qualitativa così netta e marcata rispetto ai secoli immediatamente precedenti,

nel breve periodo che intercorre fra la fine del secolo e l’inizio di quello successivo vengono

perfezionate, fra le altre, tre tecniche fondamentali come l’acciaiatura, la tempera ed il rinvenimento5

, in virtù delle quali si può ora contare non solo su di un ferro ‘acciaiato’ e dunque

ancora più duro oltre che inossidabile rispetto a prima, ma con un siffatto materiale i fabbri

più abili ed esperti – una volta terminate le operazioni di sagomatura a caldo – possono ora

intervenire su di un oggetto lavorandolo a freddo con tutta una serie di tecniche quali il traforo, lo sbalzo, l’incisione, la cesellatura, e così via ottenendo risultati straordinari sul piano

qualitativo, di cui anche molte delle bellissime imboccature riprodotte in questo volume sono chiara testimonianza.

5 Questi procedimenti noti già ai Calibei ed agli Ittiti, padri della siderurgia, sono stati essenziali per l’affermazione

storica del ferro e costituiscono da soli un sapere piuttosto complesso ed articolato : con l’acciaiatura si riscalda un pezzo

di ferro insieme a del carbone di legna determinando l’incorporo di carbonio nel blocco metallico con un conseguente

aumento della resistenza meccanica e della durezza; la tempera, passaggio successivo all’acciaiatura, si ottiene raffreddando velocemente in un liquido un oggetto in ferro ‘acciaiato’ ottenendo un materiale più duro ma anche tendenzialmente più fragile; con il rinvenimento, che consiste nel riscaldare di nuovo il ferro a media temperatura lasciandolo poi

raffreddare lentamente si riduce un poco la durezza diminuendone però la fragilità.

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186 Alessandro Cesati

3

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4

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188 Alessandro Cesati

Fig. 5.

Monso in ferro forgiato e

inciso con cannone a meloni

rigati arricchito da giocattoli

e barbozzale a maglia

particolarmente complessa.

XVI secolo.

Alle due pagine seguenti:

Fig. 6.

Morso in ferro forgiato,

traforato e inciso con

cannone arricchito da

giocattolo a rondellette e

guardie dritte con volute.

XVII secolo.

Fig. 7.

Morso in ferro forgiato,

traforato e inciso, montato

“a trabocchetto”.

A coronamento del lavoro, un oggetto in ferro, quindi anche un’imboccatura, può infine

‘subire’ due diversi ed ulteriori trattamenti di finitura che, seppur in modo diverso, hanno il

comune intento di evitare la lieve ossidazione cui il ferro pur ‘acciaiato’ può andare incontro:

la brunitura e la stagnatura. La prima consiste nello sfregamento di tutta la superficie dell’oggetto con un materiale più duro del ferro, in genere l’agata, che compatta e lucida, mentre la

seconda, chiaramente riconoscibile su molti esemplari, consiste in un leggero bagno a base di

stagno, che conferisce al manufatto un inconfondibile colore grigio brillante, come si nota –

soprattutto in ambito tedesco – anche in altri manufatti in ferro particolarmente esposti all’aria aperta e alle intemperie quali serrature e cerniere.

Con il sapiente utilizzo di alcuni semplici e minuti attrezzi come lime, trapani a mano,

bulini, l’artefice di un morso da cavallo ha dunque adesso la possibilità di trasformare quello

che sino a uno o due secoli prima aveva principalmente l’aspetto di un mero oggetto funzionale in qualcosa di artisticamente significativo, dando vita a dei manufatti che paiono delle

piccole sculture in ferro: oggetti d’arte a volte così raffinati da far dimenticare quasi del tutto

la funzione originaria dell’oggetto.

La maggiore cura estetica di certe imboccature rinascimentali e barocche è certamente

riscontrabile nelle ‘guardie’ dove l’artefice si esibisce in un gioco di sagomature, smussi, trafori e volute talora davvero sorprendenti; ma anche nei ‘cannoni’, nei quali i vincoli funzionali

sono chiaramente maggiori, si rileva spesso una notevole ricerca tecnico-formale ed estetica

che certuni esemplari manifestano poi massimamente quando al normale ‘cannone’ l’artefice

decide di aggiungere i cosiddetti ‘giocattoli’. Alcune imboccature particolarmente sofisticate sono infatti contraddistinte da cannoni arricchiti da una serie di elementi aggiuntivi consistenti in rondelle più o meno numerose, piccoli pendagli, placchette sagomate e via dicendo

(vedi fig. 2 a pag. 15).

Un aspetto intrigante e al tempo stesso misterioso dei morsi in ferro di qualità è indubbiamente quello legato all’identità dei loro creatori.

Tanto dei magnifici esemplari riprodotti in questo volume – come dei morsi in generale –

si può dire che non si evidenzino praticamente mai i nomi dei fabbri che li realizzano: nessun

morso reca di fatto firme o sigle riconducibili ad un artefice preciso. Eppure, data la ricca e

significativa produzione occidentale di cui sussiste traccia concreta fra il ’500 ed il ’700, è lecito ipotizzare che – a differenza dell’età medievale in cui il morso da cavallo viene verosimilmente prodotto nella bottega di un fabbro generico – ad un certo punto l’evoluzione tecnica

ed estetica abbia portato alla nascita di officine specializzate.

A conferma di questa verosimile ipotesi non esistono grandi testimonianze scritte tranne forse quella contenuta in un’opera a stampa che rappresenta nel suo insieme una sorta di

straordinario affresco della vita quotidiana e produttiva della seconda metà del ’500: la ‘Piazza universale’ di Tommaso Garzoni6

, in cui l’autore dedica alcune specifiche righe al tema dei

morsi e dei loro costruttori.

Nel Discorso XLVI, dal titolo Fabri in generale, in cui passa in rassegna le varie specializzazioni dell’arte fabbrile, cita infatti esplicitamente: ‘i morsari coi lor lavori che son freni - detti

capistri da Martiale in quel verso: Paret purpureis aper capistris – staffe, speroni ne’ quali porta

il vanto la città di Trevigi’; e poco oltre ‘et così le maniere de’ freni, cioè il filetto, lo squarciabocca, il cannone, il chiappone, il morso siciliano, il morso da mula, da corsiere, da cavallo sboccato, da cavallo duro di bocca et gli altri de’ quali parlo più alla lunga nel Discorso de’ Cozzoni ’

7

.

Dunque alla metà del XVI secolo esistevano in Italia delle botteghe di ‘morsari’ nate

evidentemente per soddisfare una domanda in crescita. Giunge lecito a questo punto interrogarsi su come siano nate queste botteghe o meglio in che ambito si siano formati e spe6 T. Garzoni, Piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia 1585. 7 T. Garzoni, op.cit., Discorso XLVI.

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cializzati questi ‘morsari’ che – a giudicare dalle tavole illustrate nei trattati di cui abbiamo

accennato all’inizio – erano capaci di realizzare manufatti talora estremamente ricchi e sofisticati. L’ipotesi più plausibile è che questa competenza specifica sia nata all’interno delle botteghe degli armaioli, e cioè di quei fabbri che nella storia dell’occidente raggiungono – non per

caso proprio fra la fine del quindicesimo e la metà del diciottesimo secolo – la più alta padronanza nella lavorazione del ferro cogliendo certi insuperabili vertici tecnici e decorativi, spronati in questa direzione dalla forte committenza della ricca nobiltà europea.

Siamo in quella lunga stagione storica in cui per le famiglie d’alto ed altissimo rango il cavallo costituisce un vero e proprio simbolo di potere ed il morso, non assolvendo più soltanto – già dal tardo Medioevo – ad una funzione eminentemente pratica di contenimento del

cavallo, acquisisce una crescente valenza estetico-simbolica connessa alla figura del cavaliere,

come peraltro avverrà anche per la staffa e per lo sperone8

.

Il morso è di fatto parte integrante della bardatura del cavallo la quale nel suo complesso

contraddistingue e qualifica l’importanza del cavaliere. Cavaliere e cavallo tanto in torneo come in guerra sono quasi una cosa sola e conseguentemente anche gli abbigliamenti dell’uno e

dell’altro devono rispettare i criteri di quella che oggi si definirebbe ‘immagine coordinata’.

E poiché l’abito del cavaliere coincide con l’armatura, è abbastanza verosimile supporre

che lo ‘stilista’ del cavaliere e cioè l’armaiolo, che fra l’altro già realizza anche la testiera del

cavallo e le sue protezioni, sia naturalmente destinato a realizzare anche il morso.

D’altro canto, osservando con attenzione alcuni spettacolari morsi in ferro della collezione Giannelli raffigurati in queste pagine, non v’è dubbio che il ferro impiegato per realizzarli

sia molto spesso quel medesimo materiale di primissima qualità utilizzato dagli armaioli, che

come abbiamo già detto consente anche i virtuosismi più estremi: lo stesso armaiolo che trafora l’elsa di una spada può comodamente esercitare la stessa abilità nel sagomare, incidere e

traforare le ‘guardie’ di un morso; e parimenti certe difficoltà costruttive che il morso presenta, ad esempio nella realizzazione degli snodi fra il cannone e le guardie, nella costruzione del

barbozzale o nel movimento delle catenelle, sono certamente più facili da superare da parte

di un fabbro specializzato in armi ed armature che da chiunque altro.

Abbiamo così sinteticamente delineato la cornice storica e culturale caratteristica del

mondo occidentale entro la quale si sviluppano i processi di creazione e produzione delle imboccature da cavallo, principalmente in Europa centrale e meridionale, fra la fine del XV e la

metà del XVIII secolo: due secoli e mezzo durante i quali insieme alle centinaia di esemplari

di basso e medio livello vedono la luce anche imboccature di notevole qualità, sino a raggiungere livelli mai più eguagliati in seguito.

Come anche in altre tipologie di manufatti in ferro con una specifica funzionalità pratica

quali chiavi e serrature o picchiotti da porta, anche nelle imboccature da cavallo rimane sorprendente notare questo: tanto nella realizzazione di un semplice ‘filetto’, così come in quella

di un morso più complesso e spesso costituito da decine di elementi, l’artefice riesca a far convivere le esigenze di una funzionalità spesso sofisticata con una estrema eleganza decorativa.

Ed ecco allora che moltissimi morsi dell’ampia e notevole raccolta illustrata in questo volume rappresentano una dimostrazione concreta e lampante di come quegli splendidi disegni

di imboccature di cui abbiamo parlato in apertura non siano rimasti come si usa dire ‘sulla

carta’ ma siano stati tradotti da abilissimi ‘morsari’ in oggetti concreti di grande qualità e raffinatezza; manufatti che vanno non solo osservati ed apprezzati pensando alla loro originaria

funzione pratica ed al loro ruolo di accessori del corredo di un cavallo, ma ammirati anche come autonomi oggetti d’arte, portatori di un messaggio storico, artistico ed estetico di enorme

fascino, vivide espressioni di uno speciale e magico connubio di tecnica ed estetica.

8 Vedansi, ad esempio, lo sfarzo del morso e staffe in oro dell’Imperatore Massimiliano II d’Absburgo conservati

a Vienna (Waffensammlung des Kunsthistorischen Museums).

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Il morso, dal Rinascimento al secolo dei Lumi 193

Alle pagine seguenti:

Fig. 1.

Bel morso rinascimentale

con imboccatura a meloni

rigati e doppi giocattoli.

XVI secolo.

Fig. 2.

Pagina tratta dall’Opera

di Giuseppe D’Alessandro,

Napoli, 1723. Cap. 2,

Intorno alle guardie, p. 191.

(Coll. C.G.).

Fig. 3.

Morso rinascimentale

con tipiche guardie

cinquecentesche ed

imboccatura “a mezza

fregna”.

Fig. 4.

Morso del XVI secolo con

imboccatura a rondellette

e “trabocco” con “nocella”

in cima.

Fig. 5.

Il morso più lungo

attualmente conosciuto: cm

54! Uno simile, leggermente

più corto, si trova nel Museo

Nazionale di Monaco di

Baviera.

XVI secolo.

Fig. 6.

Morso tardo rinascimentale

con imboccatura a “pere

rovesciate” e “pignatella”.

Anatomia del morso del Rinascimento

Nel campo della bardatura del cavallo, il Rinascimento apporta un nuovo tipo di morso, ben

più potente: il morso di briglia (morso ad effetto di leva). Su questo periodo disponiamo di

una letteratura abbondante e adeguata poiché dei grandi cavalieri sono divenuti grandi autori. Restiamo colpiti dall’importanza che i maestri di equitazione dell’epoca, che si definivano

“moderni professori dell’imbrigliare1

” (v. bibliografia), accordano al morso nelle loro opere e

dalla proliferazione dei trattati e raccolte (es: i “bissbuch” tedeschi) dedicati esclusivamente

al morso. Alcune opere sono poco illustrate, altre lo sono abbondantemente e infine altre sono solo collezioni di disegni.

Il morso di briglia del Rinascimento è essenzialmente composto dall’assemblaggio di tre2

elementi (guardia, imboccatura e barbozzale), ognuno teoricamente selezionato in funzione

dell’anatomia e del carattere del cavallo: per esempio guardia più o meno lunga o “ardita”,

imboccatura più o meno complessa e barbozzale più o meno aggressivo. Nei primi trattati

(es: Grisone) i morsi sono rappresentati completi, ma più tardi3

le guardie, le imboccature e i

barbozzali sono illustrati separatamene.

Malgrado l’abbondante iconografia della letteratura dell’epoca, la terminologia dei

differenti tipi di morso e dei loro componenti pone un serio problema al lettore di oggi4

.

L’evoluzione dell’equitazione ha reso obsoleti questi oggetti e i loro differenti componenti da molto tempo. Spesso non abbiamo quindi altra possibilità che utilizzare la terminologia dell’epoca. Notiamo sostanziali variazioni vernacolari tra le varie regioni dell’Italia

rinascimentale.

Il predominio dell’Italia in Europa nel campo dell’equitazione (“certamente l’Italia nostra

senza dubbio alcuno ottiene il principato, e non solo dell’imbrigliare i cavalli”5

) era tale che, nel

suo insieme, la terminologia italiana degli artigiani specializzati è stata largamente adottata in Eu1

Ferraro, Cavallo frenato, Libro primo. 2

La Broue ne designa quattro e non tre, perché scompone la guardia in due parti (il basso della guardia e l’alto della

guardia) La lunghezza dell’alto (e dunque la posizione dell’occhio) ha effettivamente un’importanza sul funzionamento

della leva che costituisce il morso (Le cavalerice François). 3

La Broue spiega bene perché la sua opera non rappresenta morsi completi ma componenti individuali. Libro Terzo, Cap XII, p. 103. 4

Vedi il Glossario a fine libro.

5 Corte, Il Cavallarizzo, Cap 28, p. 81. Massari condivide questa opinione: “l’Italiani sono esatti professori dell’esercizio cavalleresco”, Compendio dell’eroica arte di cavalleria, Precetto Terzo, p. 22.

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Fig. 7.

Morso settecentesco con

imboccatura “a specchio” e

borchie in ottone.

Fig. 8.

Raro esempio di guardie di

morso cinquecentesco non in

ferro ma in bronzo, detto “di

prova” per la possibilità di

cambiare imboccatura.

Alle pagine seguenti:

Fig. 9.

Morso cinquecentesco con

tipiche guardie “a coscia di

gallina” e imboccatura

a “scacce rigate”.

Fig. 10.

Morso secentesco da parata

con eleganti borchie in

bronzo dorato.

Fig. 11.

Quattro esempi di alta abilità

e creatività nella decorazione

delle guardie.

Bottega tedesca del XVII

secolo.

(Vedi anche fig. 21 a pag. 36

e fig. 2 a pag. 184).

Figg. 12,13.

Due esempi di morsi

rinascimentali a guardie

dritte dette “alla calabrese”.

Fig. 14.

Morso rinascimentale a

guardie dritte con belle

borchie a conchiglia in

bronzo dorato.

ropa occidentale 6, ad eccezione della Spagna, paese già molto avanzato, e perfino precursore,

in questo campo. In effetti, al di là dell’adozione di una terminologia comune, si è di fatto creata all’epoca un’Europa della tecnologia del morso7

abbastanza omogenea e gli esperti sanno

quanto sia difficile da identificare oggi l’origine geografica dei morsi di questo periodo.

Attualmente la maggioranza di questi morsi per le loro guardie e le loro imboccature ci

appaiono enormi e sproporzionati e nessun vero cavaliere oserebbe provarli. All’epoca questa

osservazione era fatta raramente. Menziona nondimeno Ferraro la “grandissima gagliardezza

(durezza) e sproportionata difformità”8

…. dei morsi tedeschi.

Appoggiandosi sulla vasta selezione di questo periodo della collezione Giannelli, è facile

compilare un catalogo dei principali componenti del morso utilizzati all’epoca.

Le imboccature

Per imboccatura intenderemo la parte del morso che si posiziona nella bocca del cavallo9

e

non l’insieme del morso, come si intende talvolta. È sicuramente in questa parte importante10

che la creatività degli artigiani si è espressa più liberamente. Nelle loro teorie delle imboccature gli autori del Rinascimento giustificano la straordinaria varietà di morsi che raccomandano, riferendosi alla diversità anatomica della bocca dei cavalli11 (spessore della lingua e delle

gengive, spessore e configurazione delle labbra, etc.), alle diverse caratteristiche comportamentali (cavallo che tira, che incensa…), nonché alla razza (cavallo, spagnolo, fiammingo, tedesco…). Si deve aggiungere che in certi casi non si esitava ad intervenire chirurgicamente

per meglio alloggiare questi morsi ingombranti nella bocca del cavallo, ad esempio tramite

estrazione degli scaglioni (Ruse lo giustificava già: “perché è quasi impossibile avere un buon

cavallo con una buona bocca se non gli sono estratti i denti pieni che si chiamano scaglioni12) o

tagliando le lingue giudicate troppo lunghe13. La maggior parte delle imboccature del Rinascimento erano piuttosto brutali. Lo stesso vocabolario dell’epoca sorprende: in Ferraro soprattutto sembra che le due parole più ricorrenti della sua opera siano “gagliardezza” (ovvero

durezza) e “castigo”.

I progressi ulteriori dell’equitazione hanno dimostrato chiaramente al meglio l’inutilità e

al peggio la nocività di queste accumulazioni di “artifici di ferro14” nella bocca di un cavallo

(vedi appresso l’opinione di Newcastle). Alcuni dei componenti di queste imboccature sono

spariti rapidamente (es: la siciliana), altri invece sono rimasti a lungo in uso (es: la pignatella)

e alcuni fino ai nostri giorni, ma con dimensioni ridotte: la paletta, le olive, i giocattoli, etc.

Benché abbia corredato la sua opera di una cinquantina di illustrazioni di morsi, Grisone dice che la maggior parte dei cavalli possono “essere corretti” senza ricorrere a tante diverse imboccature “ma solo con l’arte e con queste tre qualità di briglie. La prima è il cannone, la

seconda è la scaccia, chiuse o veramente svenate. La terza sara il cappione15…». Cinquant’anni

dopo, Ferraro tiene più o meno lo stesso discorso ambiguo: descrive più di 140 imboccature

6

La situazione è particolarmente evidente in Francia e lo stesso La Broue lo riconosce rendendo un omaggio diretto alla terminologia italiana (Le cavalerice François, 1er Livre p. 10). 7

E in parecchi altri campi, v. John Hale, The Civilisation of Europe in the Renaissance. 8

Ferraro, parlando delle imboccature tedesche, Cavallo frenato, Libro primo, p. 118. 9 “L’imboccadura è quella parte del freno, che sta in bocca al cavallo” Corte, Il cavallarizzo, cap 31. 10 “L’imboccatura, parte si principale della briglia”, Ferraro, Cavallo frenato, Libro primo, p. 46. 11 “…più sono le diverse qualità di bocche che non sono le spetie di freni”, Ferraro, Cavallo frenato, Libro primo, p. 16. 12 Ruse, La Mareschalerie, 1583. Fiaschi riprova questa usanza in Trattato dell’imbrigliare, Cap XVII. 13 Le opinioni variano: Caracciolo la utilizza, ma solo dopo aver tentato tutte le altre soluzioni; Fiaschi è contrario,

salvo casi estremi (Trattato dell’imbrigliare, Cap IX) ma Pavari (Escuirie [108], Corte (Il cavallarizzo, Cap 31, Cap 38) e

La Broue (Le cavalerice François) non vi trovano inconvenienti. 14 Grisone, Ordini di Cavalcare, Libro Terzo, p. 170. 15 Grisone, Ordini di Cavalcare, Libro Terzo, p. 142.

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Figg. 15,16

Vari esempi di borchie in

bronzo dorato, bronzo o

ottone su morsi di vario tipo

dal XVII al XIX secolo.

pesantemente sovraccariche, ma raccomanda l’uso di “quelle che con minor magistero di ferro, maggior opera fanno”.

Questo arsenale di morsi complessi non era comunque utilizzato da tutti i maestri di equitazione dell’epoca, come testimoniano gli allievi francesi del grande maestro d’equitazione napoletano G.B. Pignatelli: “Ciò che mi ha fatto un tempo ammirare il suo sapere…poiché rendeva

i cavalli così obbedienti e così giustamente maneggevoli…senza servirsi tuttavia d’altri morsi che

di un comune cannone … Le sue regole e la sua esperienza dovevano avere molta più efficacia

della maniera di fare di tutti coloro che si adoperano tanto all’artifici di un’infinità di briglie 16“.

A questo proposito bisogna menzionare il tipo di passaggio di lingua articolato concepito da

Pignatelli, utilizzato molto a lungo in Europa e che rappresentò all’epoca un vero progresso.

È impossibile elencare in poche righe l’incredibile varietà di imboccature inventate nel

XVI e XVII secolo. Per classificarle Ferraro si riferisce innanzi tutto al passaggio di lingua,

“tutte le imboccature, qualunque elle si sieno, si dividono in due modi, …, le serrate e le aperte”17. Egli precisa in seguito che fra le imboccature chiuse alcune offrono comunque una certa libertà di lingua (scapola). Identifica poi i cinque componenti dell’imboccatura da cui, secondo lui, derivano tutti gli altri: cannone, melone, campanella, fallo (anello) e bottone. Oggi

la classificazione si farebbe piuttosto tra imboccature snodate e non. In effetti lo strumento

del rinascimento è molto più complesso in quanto incorpora altri componenti che collegano

le due guardie del morso al di sopra dell’imboccatura propriamente detta (imboccatura a più

prese) talché la siciliana e i filetti (bracciali) che collegano la parte alta del passaggio di lingua

all’alto della guardia. Aggiungiamo la cucchiara, la bevagna, (con o senza nocella) etc. I due

16 La Broue (allievo del celebre G.-B. Pignatelli), Le cavalerice François. 17 Ferraro, Cavallo frenato, “Quante sono le spetie delle imboccature”, p. 43.

15

Alle pagine seguenti:

Fig. 17.

Vari esempi di borchie in

bronzo dorato, bronzo o

ottone su morsi di vario tipo

dal XVII al XIX secolo.

Fig. 18.

Morsi a scaccia snodata.

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Fig. 19.

Diversa lunghezza di guardie

in morsi del XVIII secolo.

principali tipi di passaggio di lingua sono il “piè di gatto” (quadrato) e il “collo d’oca” (arrotondato), con o senza giocattoli. L’eventuale articolazione centrale è fatta “a chiappo”, “a perno” o con la “pizzetta”. Il numero di combinazioni possibili di tanti elementi spiega in parte

le lunghe dissertazioni degli autori rinascimentali.

Grisone fissa un limite all’altezza del passaggio di lingua: “Ora tutte queste briglie svenate e aperte si potrano fare piu o meno alte di monte … e sappiate che la piu grande altezza che si

debba dar al monte sarà solo quanto basta a liberar la lingua et che non offenda il palato a niun

modo, altrimenti sarebbe errore gravissimo; il che molti anni sono era in uso18”. Anche in questo campo Grisone è lontano dall’essere stato sempre seguito.

Le guardie

Le guardie create all’inizio del Cinquecento resteranno in uso fino alla fine del Seicento. Grisone, Fiaschi e Pavari utilizzano praticamente gli stessi modelli geometrici: «a coscia di gallina19» o «Calabrese20 (dritta)». Le variazioni di Orsoni riguardano più la decorazione che la

geometria funzionale. Alla fine del XVI secolo e all’inizio del XVII si notano tuttavia leggere

modifiche con Ferraro, La Broue, D’Aquino e soprattutto Massari21 che presenta “una raccolta di briglie più moderne”. Il basso della guardia si allarga “alla Mantovana”22. La sezione

della guardia resta spigolosa e triangolare. Diventerà circolare solo alla fine del XVII secolo23.

Molto spesso il morso viene percepito come elemento chiave dell’eleganza e della ricchezza

della bardatura. La guardia essendo la sola parte apparente del morso, è logicamente quella

che gli artigiani si sono più dedicati a decorare (vedi fig. 11). La Broue sottolinea: “la guardia

del morso è una delle parti che più appaga la vista di colui che si arresta facilmente di fronte alla

bellezza di un tal animale”24.

“La guardia, in quattro modi formar si potrà, fiacca, gagliarda, lunga e corta”25. Come per

le imboccature, gli autori del rinascimento si riferiscono ai differenti parametri anatomici del

cavallo per raccomandare un tipo o una configurazione di guardia, ad esempio lunghezza e

grossezza del collo.26 Lunghe e lunghissime nel Cinquecento, le guardie si accorciano progressivamente fino a raggiungere, alla fine del Settecento, le lunghezze che conosciamo attualmente. Il cavaliere di oggi non può che essere sorpreso dalla lunghezza delle guardie dei morsi

del rinascimento, ma bisogna contestualizzare: Caracciolo, ad esempio, apprezzava le guardie

corte perché permettevano al cavallo di bere più facilmente in campagna, ma le sconsigliava per dei motivi di utilizzazione militare in combattimento di contatto27. Il Grisone stesso a

metà del XVI sec consigliava che la lunghezza delle guardie fosse adatta al cavallo a cui erano destinate, ma pensava anche che spesso esse fossero troppo lunghe. Egli è stato evidentemente poco ascoltato all’epoca, ma la storia gli ha dato ragione e dalla fine del XVIII secolo

18 Grisone, Ordini di Cavalcare, Libro Terzo, p. 33. 19 Ferraro, Cavallo frenato, Libro primo, p. 38; Massari Malatesta, Discorso della ragione e modi d’imbrigliar Cavalli,

p. 12; d’Alessandro, Pietra di paragone de’ cavalieri, p. 194. 20 “ancho quest’altra, nominata la Calabrese, che si potrà dire del tutto diritta” Ferraro, Cavallo frenato, Libro primo, p. 51. 21 Della ragione e modi d’imbrigliar Cavalli, 1613. 22 Ferraro, Cavallo frenato, Libro primo, p. 107. 23 Solleysel rimpiange nel 1664 di veder arrivare delle guardie tonde e le trova ridicole (sic) perché troppo facili da

realizzare! Le parfait maréchal, Cap LXXXV p. 355. 24 La Broue, Le cavalerice François, Terzo libro, p. 85. 25 Ferraro, Cavallo frenato, Libro primo p. 40. 26 Fiaschi, Trattato dell’imbrigliare, Cap XXXII. 27 Nella mischia del combattimento il cavallo ha tendenza a sollevare la testa per proteggersi dai colpi e potrebbe

rovesciarsi… In una tale situazione, le guardie corte sono meno efficaci di quelle lunghe per mantenere la testa in posizione normale. Caracciolo, La gloria del cavallo, Lib V, p. 346.

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Fig. 20.

Vari esempi di barbozzali

rinascimentali.

Fig. 21.

Raro esempio di morso

datato (1719) e siglato.

Alle pagine seguenti:

Fig. 22.

Morso a scaccia snodata con

borchie argentate.

XVIII secolo.

Fig. 23.

Morso a cannone montante.

Notevole l’altezza della parte

alta della guardia.

XVIII secolo.

Fig. 24.

Morso a guardie molto

lunghe.

XVII secolo.

in generale la lunghezza delle guardie non eccede “la larghezza di un palmo”, come egli raccomandava allora28.

Tutti gli autori hanno riflettuto molto sulle proporzioni che dovevano avere i due bracci

della leva che costituiscono il morso di briglia29. Le discussioni più lunghe si sono avute intorno alla posizione dell’occhio, in termini equestri: “l’occhio della briglia essendo alto rileva il

collo e la testa del cavallo e per opposito l’effetto sarà contrario30” o in termini meccanici: “dunque più basso che sarà l’occhio, da forza maggiormente predominante sarà retto il cavallo… per

quelle ragioni che… sumministrano le Meccaniche31”.

Le borchie hanno solo funzione decorativa (e più tardi di appartenenza ad un reggimento o ad una casata). Le borchie argentate o dorate non sono rare. Sono esse stesse veri oggetti d’arte decorativa ed è interessante collegarli alle varie correnti artistiche (dal geometrico al

barocco, vedi figg. 15,16,17).

Il barbozzale

Col Rinascimento compare un nuovo componente funzionale del morso: il barbozzale, che

fornisce un punto d’appoggio alla leva. I grandi autori gli dedicano numerosi capitoli, spiegando come possa essere aggressivo (come ad esempio con le maglie di sezione quadrata32) e come

regolarlo (vedi fig. 20). Con i maestri spagnoli il barbozzale rigido (ginetta) è stato importato

in Italia, senza però che l’uso ne diventi altrettanto frequente che in Spagna.

28 «Voglio che rare volte sia piu lunga d’un palmo», Grisone, Ordini di Cavalcare, Libro Terzo, p. 33. 29 Il morso di briglia è una leva di secondo genere: la forza resistente essendo costituita dalle barre (o dalla lingua)

del cavallo. 30 Grisone, Ordini di Cavalcare, Libro Terzo, p. 33. 31 D’Aquino, Disciplina del cavallo, Dialoghi, p. 204. 32 Pavari lo prova, Escuirie de Mr de Pavari, 1581.

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Fig. 25.

Raro esempio di

ginetta bastarda tardo

rinascimentale.

Alle pagine seguenti:

Fig. 26.

Morso con guardie

“à jarret”.

Borchie in bronzo dorato

e barbozzale a catena

imperniata.

Fine XVII secolo - XVIII.

Fig. 27.

Sontuosa parure da parata in

bronzo dorato a mercurio.

Francia, Restaurazione.

Quando non è montato sulle guardie classiche spagnole, ma su guardie «a coscia di gallina» si parla di “ginetta bastarda” (fig. 25).

Il secolo dei Lumi

L’Illuminismo nel campo del morso di cavallo comincia con Newcastle33, nel 1658, che consiglia, fra l’altro di “mettere poco ferro nella bocca del vostro cavallo”. La sua critica degli autori che lo hanno preceduto, soprattutto gli Italiani, è chiara e senza equivoci. È un grande

cavaliere che conosce bene i difetti dei cavalli e che ridimensiona la possibilità di rimediarvi

attraverso i morsi. “Si trova anche un’infinità di disegni nel libro di Pirro Antonio [Ferraro]

tutti molto inutili e anche altrettanto capaci di rovinare le barre che di disarmarle… Tutti questi difetti (dei cavalli) hanno creato un bel po’ di preoccupazione e un grande imbarazzo a quei

signori maestri italiani con molte ricerche curiose e invenzioni particolari di diversi modelli di

morsi per ovviare e rimediare a questi difetti: hanno creduto questi difetti così considerevoli che

ne hanno scritto abbastanza per fare interi volumi, benché in verità la più parte di questi morsi

per rimediare a queste imperfezioni fanno più danni che gli stessi vizi che vogliono correggere34”.

L’opera fondamentale di Newcastle presenta solo tre morsi, ma bisogna notare che, malgrado la sua critica dei maestri italiani, uno dei morsi è comunque montato con una “pignatelle”, dispositivo che egli apprezza. Le guardie restano abbastanza lunghe e la loro sezione

non è ancora circolare.

La Guérinière prosegue nel 1786 con un’opera fondamentale35 che diviene il canone

dell’equitazione francese. Nella seconda parte del XVIII secolo il cambiamento è consolidato

e i morsi presentati nell’Enciclopedia, da Garsault, Gaspard de Saunier, e Brezé sono assai simili tra loro e molto diversi da quelli del secolo precedente. Una variante (un gomito a mezza

guardia) appare in Francia nella seconda metà del XVIII secolo: il “jarret ou genoux” (“garretto o ginocchio”) (fig. 26)36. Notiamo a questo proposito che già da un certo tempo i francesi

si sono affrancati dal vocabolario italiano.

L’Enciclopedia riassume bene la conclusione di questo periodo: la scelta delle imboccature si riduce notevolmente ed esse sono più dolci, le guardie sono più corte e spesso dritte,

le guardie fiacche spariscono e la decorazione resta essenzialmente riservata alla borchia. Tra

le altre novità di questa epoca: lo studio più approfondito dei morsi degli attacchi e l’inizio

della standardizzazione dei morsi militari.

All’inizio del XVI secolo il morso era considerato come uno strumento onnipotente in

grado di risolvere molti, anzi la maggior parte, dei problemi comportamentali del cavallo. Era

uno strumento pesante, complesso e aggressivo. Alla fine del Settecento, il morso resta un

elemento chiave, ma è comunque solo un aiuto all’equitazione. È più leggero, più corto e soprattutto la sua imboccatura è molto meno aggressiva. Non è la fine dell’evoluzione del morso, ma certamente una tappa importante.

33 Méthode et invention nouvelle de dresser les chevaux, Guillaume de Newcastle Cavendish, 1658. 34 Méthode et invention nouvelle de dresser les chevaux, Newcastle, Cap XXVI pp. 299 e 301. 35 Ecole de cavalerie, 1736. 36 Vedi Solleysel, Le parfait maréchal, 1764, Seconda parte, Cap LXXXV, p. 358 e Eisenberg, L’art de monter à

cheval ou description du manège moderne dans sa perfection, 1759, morsi n° 2, 4 et 6.

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PATRIZIA ARQUINT

Nata a Firenze nel 1955.

È dottore di ricerca in filologia romanza ed è esperta di antichi testi attinenti al cavallo.

Ha curato, insieme a Mario Gennero, le edizioni critiche di tre opere cinquencentesche inedite: L’arte

veterale di Giovan Battista Pignatelli, l’Escuirie di Marco Pavari e l’Ippica di Senofonte nel primo volgarizzamento italiano ad opera di Evangelista Ortense.

Ha pubblicato articoli sul cavallerizzo cinquecentesco Federico Grisone, sull’ippiatra trecentesco Dino di Piero Dini, uno studio su un repertorio di briglie cinquecentesco falsamente attribuito a Cesare

Fiaschi e uno studio sui freni per cavalli ai tempi di Dante.

Ha in preparazione le edizioni critiche del Trattato dell’imbrigliare, maneggiare et ferrare cavalli di Cesare Fiaschi (XVI sec.), del volgarizzamento occitanico del Liber de medicina equorum di Giordano Ruffo

(XIII sec.) e dell’opera del cavallerizzo napoletano Alfonso Ruggieri (XVI sec.)

È stata dilettante di equitazione.

DOMENICO BERGERO

Già cavaliere di concorso ippico, si laurea in Medicina Veterinaria nel 1984. Libero professionista ippiatra ed ufficiale veterinario, intraprende la carriera universitaria nel 1990 nel ramo della Nutrizione

ed Alimentazione Animale presso l’Ateneo di Torino. Diplomato dello European College of Veterinary and Comparative Nutrition. Direttore di Dipartimento dal 2006 al 2012, dal 2013 Direttore della

Struttura Didattica Speciale Veterinaria dell’Università di Torino.

È stato responsabile scientifico e didattico del Centro Internazionale del Cavallo (Parco La Mandria,

Druento, Torino), Presidente della Società Italiana di Ippologia, Presidente della European Society of

Veterinary and Comparative Nutrition. Ha al suo attivo molte pubblicazioni divulgative in materia di

ippologia, nonché circa 200 pubblicazioni scientifiche, in gran parte riguardanti l’alimentazione e la

nutrizione del cavallo sportivo e la fisiologia del lavoro del cavallo.

GIUSEPPE CASCARINO

Nato a Padova nel 1958.

Ingegnere e dirigente industriale, vive e lavora in Umbria, dopo aver trascorso molti anni a Roma. Appassionato di storia militare antica, in particolare greca e romana, di ricostruzioni storiche e di archeologia sperimentale, è il fondatore della Società Italiana per gli Studi Militari Antichi, e di Decima Legio, l’unico gruppo di ricostruzione storica dedicato esclusivamente allo studio dell’esercito romano di epoca repubblicana.

Ha curato la prima traduzione italiana dello Strategikon, Manuale di arte militare dell’Impero Romano

d’Oriente (2006), e de L’arte della Cavalleria di Senofonte (2007). È autore inoltre dei quattro volumi

dell’opera L’esercito romano: armamento e organizzazione (2007-2012), e dei saggi specialistici Castra:

campi e fortezze dell’esercito romano (2010) e Tecniche della Falange (2011).

Il secondo volume di L’esercito romano: armamento e organizzazione: da Augusto ai Severi (2008) è stato inserito dal prof. Giovanni Brizzi dell’Università di Bologna come testo integrativo per l’insegnamento di Storia Militare Romana.

NOTE BIOGRAFICHE DEGLI AUTORI

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MANUEL CASTELLUCCIA

Nato a Cividale del Friuli (Udine) il 29 agosto 1981.

Nel 2007 si laurea in Archeologia presso l’Università di Udine ove nel 2009 ottiene anche la laurea

Specialistica sempre in Archeologia. Nel 2013 ottiene il Dottorato in “Turchia, Iran e Asia Centrale”

presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. Ha compiuto studi anche presso l’Università Heidelberg

in Germania, presso l’Università di Berkeley negli Stati Uniti, presso la Ludwing-Maximilians Universität di Monaco di Baviera in Germania e presso l’Università Statale di Mosca ed Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze nella Federazione Russa.

I suoi interessi di ricerca vertono sull’Archeologia e Storia del Vicino Oriente Antico, del Caucaso,

dell’Iran, del Regno di Urartu e sulla metallurgia dell’Età del ferro.

Ha partecipato e condiretto varie campagne di scavo in Italia, Armenia, Georgia, Oman e Siria ed ha

al suo attivo come relatore varie conferenze e seminari, più di una decina di pubblicazioni ed ha tenuto corsi presso l’Università di Udine.

Attualmente è ricercatore, afferente all’ISMEO – Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente.

ALESSANDRO CESATI

Si è laureato in architettura al Politecnico di Milano con una tesi sulla storia della chiave. Parallelamente alla sua trentennale attività di antiquario svolta a livello nazionale ed internazionale, conduce

anche un’intensa attività di ricerca e di studio nel campo delle opere d’arte in metallo, con uno specifico interesse per i manufatti in ferro.

Ha organizzato varie mostre tematiche fra cui: Congegni mirabili (1989), Incudini (1990), Morsi da

cavallo (1993). È stato frai curatori e coordinatori del catalogo dell’importante rassegna Ferro Civile, tenutasi a Bergamo nel 1991 presso la Galleria Lorenzelli. È autore di diverse pubblicazioni e volumi monografici fra cui: Clavis. Chiavi serrature e forzieri dalla Collezione Conforti (Franco Maria

Ricci, 1992); Fire steels (Umberto Allemandi, 1996); Locks-Serrature (Cesati&Cesati, 2007); Doorknockers-Picchiotti da porta (Cesati&Cesati, 2009); Tools-Utensili (Cesati&Cesati, 2013).

PIERRE-MARIE DESCLOS

Ingegnere, professore, conferenziere e consulente presso società ed organizzazioni internazionali, è un

esperto internazionale del legno e dei prodotti forestali, autore di numerose pubblicazioni e comunicazioni (www.desclos.eu – [email protected]).

Nato in una famiglia di allevatori di cavalli da corsa, è cresciuto a stretto contatto col mondo del cavallo, cui è rimasto sempre vicino.

Cavaliere e collezionista, è appassionato di storia e tecnologia delle imboccature. Riprendendo la parola greca “xalivos”, si definisce “calinologo”.

I suoi numerosissimi viaggi l’hanno aiutato a costruire un’importante collezione sistematica (un migliaio di pezzi) che copre i differenti tipi di morsi e, sopratutto, a mettere insieme uno dei più grandi

data-base di documentazione storica esistenti sul soggetto.

Contribuisce di frequente all’identificazione ed alla datazione di morsi ed ha partecipato alla classificazione di varie collezioni private e pubbliche, tra cui recentemente quella del nuovo Museo del Cavallo di Chantilly.

È membro fondatore del Club International d’Epéronnerie, a cui partecipa con articoli e conferenze.

È stato insignito della “Legion d’Onore”.

MARIO GENNERO

Laureato in lingue e letterature straniere presso l’Università degli Studi di Torino, studioso di storia

dell’equitazione, ha dedicato la sua attenzione – in particolare – sul periodo Caprilliano e su quello

del XVI secolo pubblicando diversi lavori sull’argomento.

Ha collaborato a diverse riviste specializzate ed ha organizzato convegni per conto della Facoltà di Veterinaria di Torino presso il Centro Internezionale del Cavallo di Venaria Reale (Torino).

È Giudice Internazionale di salto ostacoli e Candidato Giudice Internazionale di attacchi della FEI –

Federazione Equestre Internazionale, mentre nell’ambito regionale del Piemonte ricopre il ruolo di

Consigliere con molteplici incarichi.

Monta regolarmente quasi tutti i giorni.

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CLAUDIO GIANNELLI

Nato a Roma nel 1946.

Dopo gli studi classici e giuridici, nel 1969 viene assunto dal Consolato Generale d’Italia in Lugano

(Svizzera) ove crea e dirige l’Ufficio Notarile.

Dimessosi nel 1986, si dedica da allora al commercio di antiquariato ed arte, sua passione da sempre.

Figlio di un Ufficiale del Savoia Cavalleria è messo a cavallo a 4 anni, sviluppa un grande amore per i

cavalli e il loro mondo e riesce a creare un’importante collezione di imboccature d’ogni epoca e di altri oggetti attinenti l’equitazione.

Ha tenuto conferenze in varie Università sulla storia delle imboccature, ha organizzato mostre sul mondo del cavallo e scritto per varie riviste.

È membro del CIDE – Club International d’Eperonnerie e collabora al suo periodico trimestrale “La

Lettre”.

Dal 1976 è Presidente di Giuria di salto ostacoli della Federazione Svizzera Sport Equestri; nel 1993

è nominato dalla Federazione Equestre Internazionale prima Chief Steward per le discipline del salto,

dressage, completo ed endurance, e poi Giudice Internazionale di Salto.

È stato Presidente del Circolo Ippico di Lugano, Vice Presidente della Federazione Ippica Ticinese,

organizzatore di concorsi ippici nazionali ed internazionali e membro del comitato d’organizazzione

dei Giochi Equestri Mondiali di Roma nel 1998.

È membro fondatore del Musée du Cheval di La Sarraz (Svizzera). Durante gli anni Ottanta, per circa

un lustro, comproprietario di una scuderia di galoppo e come cavaliere ha partecipato a gare nazionali

ed internazionali di salto, dressage e, soprattutto, di completo (fino a 3 stelle), disciplina che, malgrado l’età, lo vede ancora gareggiare.

CHIARA MARTINOZZI

Diplomata alla Scuola di Specializzazione in Archeologia presso l’Università degli studi di Pisa, si è

formata sotto la guida del prof. Marco Milanese, docente di Metodologia della ricerca archeologica

e Archeologia Medievale presso l’università di Pisa, partecipando a numerose campagne di scavo ed

attività di laboratorio, inizialmente come studente e, a partire dal 2003, come collaboratrice nelle attività di scavo e di documentazione archeologica, maturando esperienza nelle tecniche di scavo archeologico e di documentazione (fotografia archeologica, rilievo e disegno) e nella conoscenza tecnologica

e tipologica della ceramica medievale e post-medievale.

Dal 2004-2005 svolge attività didattica in qualità di esperto esterno presso il Liceo Ginnasio Statale

“G. Carducci” di Piombino (Li), con il progetto Fare Storia con l’Archeologia.

Dal 2006 al 2009 ha collaborato con lo Studio Archeologico Associato InArcheo di Viareggio nella realizzazione di scavi urbani di emergenza, ricognizioni ed attività di ricerca in Toscana e Liguria.

Nel 2007/2008 ha partecipato, sotto la direzione scientifica del prof. Sauro Gelichi, docente di Archeologia Medievale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, al Progetto Interreg transfrontaliero adriatico, nell’ambito delle attività di catalogazione, studio e pubblicazione dei reperti ceramici rinvenuti

nella città di Faenza e conservati presso il Museo internazionale della Ceramica in Faenza.

Ha collaborato con la prof.ssa Giovanna Bianchi dell’Università di Siena per lo studio e la pubblicazione dei reperti ceramici provenienti dallo scavo del monastero di San Quirico di Populonia e delle

fasi più recenti dello scavo del castello di Donoratico (Li).

Dal 2009 lavora come guida presso i parchi archeologici e naturalistici gestiti dalla Parchi Val di Cornia

s.p.a. collaborando anche nella realizzazione di vari laboratori di archeologia sperimentale (conoscenza e realizzazione della tecnica mosaico in pietra di epoca romana e della decorazione della ceramica

medievale) destinati sia alle scolaresche che agli adulti.

Dal 2010 collabora con l’Associazione Culturale Past in Progress al progetto Archeodig nelle attività di

didattica, scavo e documentazione presso lo scavo archeologico della villa romana di Poggio del Mulino di Piombino (Li) e della necropoli etrusca di San Cerbone (loc. Baratti, Piombino, Li).

Dal 2011 collabora con lo Studio Archeologico Associato Hera di Livorno, per le attività di sorveglianza archeologica e documentazione sui cantieri per la risistemazione idrico fognaria del Golfo di

Baratti a Piombino (Li) e dell’area portuale di Portoferraio (Li) sotto la direzione scientifica del dott.

Andrea Camilli e della dott.ssa Lorella Alderighi (Soprintendenza Beni Archeologici della Toscana).

Dall’anno accademico 2013-2014 è docente di Archeologia Medievale presso l’Università della terza

età della Val di Cornia.

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GLOSSARIO*

(Da P. Arquint - M. Gennero, Escuirie de M. de Pavari venitien, Lione 1581. Ristampa anastatica, Ed. Chiaramonte 2008).

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Libro de la natura di cavalli et el modo di rilevarli, G.B. Sessa, Venezia, 1502.

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NELLA STESSA COLLANA SONO STATI PUBBLICATI I SEGUENTI VOLUMI:

l - 1979 Infezioni respiratorie del bovino

2 - 1980 L’oggi e il domani della sulfamidoterapia veterinaria

3 - 1980 Ormoni della riproduzione e Medicina Veterinaria

4 - 1980 Gli antibiotici nella pratica veterinaria

5 - 1981 La leucosi bovina enzootica

6 - 1981 La «Scuola per la Ricerca Scientifica» di Brescia

7 - 1982 Gli indicatori di Sanità Veterinaria nel Servizio Sanitario Nazionale

8 - 1982 Le elmintiasi nell’allevamento intensivo del bovino

9 - 1983 Zoonosi ed animali da compagnia

10 - 1983 Le infezioni da Escherichia coli degli animali

11 - 1983 Immunogenetica animale e immunopatologia veterinaria

12 - 1984 5° Congresso Nazionale Associazione Scientifica di Produzione Animale

13 - 1984 Il controllo delle affezioni respiratorie del cavallo

14 - 1984 1° Simposio Internazionale di Medicina veterinaria sul cavallo da competizione

15 - 1985 La malattia di Aujeszky. Attualità e prospettive di profilassi nell’allevamento suino

16 - 1986 Immunologia comparata della malattia neoplastica

17 - 1986 6° Congresso Nazionale Associazione Scientifica di Produzione Animale

18 - 1987 Embryo transfer oggi: problemi biologici e tecnici aperti e prospettive

19 - 1987 Coniglicoltura: tecniche di gestione, ecopatologia e marketing

20 - 1988 Trentennale della Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia, 1956-1986

21 - 1989 Le infezioni erpetiche del bovino e del suino

22 - 1989 Nuove frontiere della diagnostica nelle scienze veterinarie

23 - 1989 La rabbia silvestre: risultati e prospettive della vaccinazione orale in Europa

24 - 1989 Chick Anemia ed infezioni enteriche virali nei volatili

25 - 1990 Mappaggio del genoma bovino

26 - 1990 Riproduzione nella specie suina

27 - 1990 La nube di Chernobyl sul territorio bresciano

28 - 1991 Le immunodeficienze da retrovirus e le encefalopatie spongiformi

29 - 1991 La sindrome chetosica nel bovino

30 - 1991 Atti del convegno annuale del gruppo di lavoro delle regioni alpine per la profilassi delle mastiti

31 - 1991 Allevamento delle piccole specie

32 - 1992 Gestione e protezione del patrimonio faunistico

33 - 1992 Allevamento e malattie del visone

34 - 1993 Atti del XIX Meeting annuale della S.I.P.A.S., e del Convegno su Malattie dismetaboliche del suino

35 - 1993 Stato dell’arte delle ricerche italiane nel settore delle biotecnologie applicate alle scienze veterinarie e

zootecniche - Atti 1a

conferenza nazionale

36 - 1993 Argomenti di patologia veterinaria

37 - 1994 Stato dell’arte delle ricerche italiane sul settore delle biotecnologie applicate alle scienze veterinarie

e zootecniche

38 - 1995 Atti del XIX corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento

39 - 1995 Quale bioetica in campo animale? Le frontiere dell’ingegneria genetica

40 - 1996 Principi e metodi di tossicologia in vitro

41 - 1996 Diagnostica istologica dei tumori degli animali

42 - 1998 Umanesimo ed animalismo

43 - 1998 Atti del Convegno scientifico sulle enteropatie del coniglio

44 - 1998 Lezioni di citologia diagnostica veterinaria

45 - 2000 Metodi di analisi microbiologica degli alimenti

46 - 2000 Animali, terapia dell’anima

47 - 2001 Quarantacinquesimo della Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia, 1955-2000

48 - 2001 Atti III Convegno Nazionale di Storia della Medicina Veterinaria

49 - 2001 Tipizzare le salmonelle

50 - 2002 Atti della giornata di studio in cardiologia veterinaria

51 - 2002 La valutazione del benessere nella specie bovina

52 - 2003 La ipofertilità della bovina da latte

53 - 2003 Il benessere dei suini e delle bovine da latte: punti critici e valutazione in allevamento

54 - 2003 Proceedings of the 37th international congress of the ISAE

P:256

55 - 2004 Riproduzione e benessere in coniglicoltura: recenti acquisizioni scientifiche e trasferibilità in campo

56 - 2004 Guida alla diagnosi necroscopica in patologia suina

57 - 2004 Atti del XXVII corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento

58 - 2005 Piccola storia della Medicina Veterinaria raccontata dai francobolli

59 - 2005 IV Congresso Italiano di Storia della Medicina Veterinaria

60 - 2005 Atti del XXVIII corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento

61 - 2006 Atlante di patologia cardiovascolare degli animali da reddito

62 - 2006 50° Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche di Brescia, 1955-2005

63 - 2006 Guida alla diagnosi necroscopica in patologia del coniglio

64 - 2006 Atti del XXIX corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento

65 - 2006 Proceedings of the 2nd International Equitation Science Symposium

66 - 2007 Piccola storia della Medicina Veterinaria raccontata dai francobolli - II edizione

67 - 2007 Il benessere degli animali da reddito: quale e come valutarlo

68 - 2007 Proceedings of the 6th International Veterinary Behaviour Meeting

69 - 2007 Atti del XXX corso in patologia suina

70 - 2007 Microbi e alimenti

71 - 2008 V Convegno Nazionale di Storia della Medicina Veterinaria

72 - 2008 Proceedings of the 9th World Rabbit Congress

73 - 2008 Atti Corso Introduttivo alla Medicina non Convenzionale Veterinaria

74 - 2009 La biosicurezza in veterinaria

75 - 2009 Atlante di patologia suina I

76 - 2009 Escherichia Coli

77 - 2010 Attività di mediazione con l’asino

78 - 2010 Allevamento animale e riflessi ambientali

79 - 2010 Atlante di patologia suina II - Prima Parte

80 - 2010 Atlante di patologia suina II - Seconda Parte

81 - 2011 Esercitazioni di microbiologia

82 - 2011 Latte di asina

83 - 2011 Animali d’affezione

84 - 2011 La salvaguardia della biodiversità zootecnica

85 - 2011 Atti I Convegno Nazionale di Storia della Medicina Veterinaria

86 - 2011 Atti II Convegno Nazionale di Storia della Medicina Veterinaria

87 - 2011 Atlante di patologia suina III

88 - 2012 Atti delle Giornate di Coniglicoltura ASIC 2011

89 - 2012 Micobatteri atipici

90 - 2012 Esperienze di monitoraggio sanitario della fauna selvatica in Provincia di Brescia

91 - 2012 Atlante di patologia della fauna selvatica italiana

92 - 2013 Thermography: current status and advances in livestock animals and in veterinary medicine

93 - 2013 Medicina veterinaria (illustrato). Una lunga storia. Idee, personaggi, eventi

94 - 2014 La medicina veterinaria unitaria (1861-2011)

95 - 2014 Alimenti di origine animale e salute

96 - 2014 I microrganismi, i vegetali e l’uomo

97 - 2015 Alle origini della vita: le alghe

98 - 2015 Regimen Sanitatis Salerni

99 - 2015 Atti del VI Congresso Nazionale di Storia della Medicina Veterinaria

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