Quando Carlo Rovelli si trasferì da Pittsburgh all’università di Marsiglia nel 2000, il suo nuovo direttore di dipartimento gli chiese: «non crederai davvero che i buchi neri esistano nella realtà?». Il fisico veronese lo racconta nel suo ultimo saggio Buchi bianchi (Adelphi) e restituisce bene la diffidenza che ancora pochi anni fa aleggiava tra gli specialisti su uno dei più affascinanti corpi celesti.

Un buco nero è un aggregato di materia talmente denso che l’attrazione gravitazionale non permette nemmeno alla luce di allontanarsene, rendendolo invisibile. Si formano quando una stella, alla fine della sua storia, smette di bruciare e la sua massa viene compressa dalla forza di gravità. Potrebbe essercene uno al centro di ogni galassia. Quello nel nucleo della nostra Via Lattea è nella costellazione del Sagittario.

UN VENTENNIO DOPO i dubbi del direttore di dipartimento marsigliese, disponiamo di ottime evidenze della loro esistenza, a partire dalla celeberrima foto che mostra la materia ruotare all’impazzata attratta da una macchia nerissima, vuota solo in apparenza. Anche del buco nero del Sagittario oggi abbiamo un’immagine. I buchi neri furono ipotizzati già alla fine del Settecento, ma l’ipotesi all’epoca non sconvolse nessuno. Quando Albert Einstein nella prima metà del Novecento scoprì che la materia era in grado di accelerare e rallentare anche lo scorrere del tempo, si capì che nella singolarità di un buco nero anche passato, presente e futuro potevano confondersi. Fu allora che iniziammo a comprenderne la natura ma anche a esserne spaventati: difficile ammettere che nell’universo vi siano zone in cui – letteralmente – non si sa che senso abbia il tempo.

Grazie agli strumenti dell’astrofisica oggi osserviamo buchi neri in regioni dello spazio e del tempo sempre più estese. Di molti abbiamo ricostruito la storia. Ma invece di chiarirci le idee, ci imbattiamo in nuovi interrogativi.
L’ultimo riguarda i buchi neri primordiali. Grazie al James Webb Space Telescope, un telescopio spaziale lanciato il giorno di Natale del 2021 capace di scrutare il cosmo con una sensibilità finora sconosciuta, riusciamo a studiare galassie situate a oltre tredici miliardi di anni-luce dalla Terra. Significa che la luce ha impiegato più di tredici miliardi di anni per raggiungerci, e quindi che è partita oltre tredici miliardi di anni fa. In altre parole, le immagini che riceviamo descrivono scene accadute nell’universo giovanissimo, quando dal Big Bang erano trascorse solo poche centinaia di milioni di anni e le prime stelle si stavano formando.

GRAZIE A QUESTO formidabile strumento, una collaborazione internazionale a cui partecipano anche i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) ha scoperto un gigantesco buco nero – ha una massa dieci milioni di volte più grande del Sole – che sta risucchiando la materia circostante. Lo studio per ora è online ma è stato proposto per una pubblicazione sull’Astrophysical Journal. Secondo gli astronomi, quel buco nero risale a un’epoca lontanissima dalla nostra e prossima alla nascita dell’universo: stiamo osservando com’era l’universo appena 570 milioni di anni dopo il Big Bang.

«Un buco nero così grande nell’universo così giovane non era mai stato avvistato ed è difficile da spiegare» spiega Adriano Fontana, un astronomo dell’Osservatorio astronomico di Roma che ha partecipato allo studio. I buchi neri che conosciamo si formano alla fine della storia di una stella. Per ingoiare abbastanza materia e raggiungere una massa così elevata hanno bisogno di un periodo di tempo che quello appena scoperto non sembra aver avuto. «Quell’oggetto è così vicino al Big Bang» dice Fontana. «Ci si chiede come si sia formata tutta quella massa in così poco tempo». Dalla risposta a questa domanda potrebbero derivare nuove conoscenze sull’inizio dell’universo.
«I buchi neri non possono crescere così velocemente» spiega Fontana. «Esiste un limite alla loro velocità di accrescimento, il cosiddetto “tasso di Eddington” che può essere superato per brevi periodi ma non per un tempo indefinito».

OLTRE ALL’IPOTESI che il buco nero abbia superato il limite di velocità, ce ne sono altre più realistiche. La più plausibile è che l’oggetto osservato abbia una natura radicalmente diversa da quelli conosciuti: potrebbe essere l’evoluzione di un buco nero «a collasso diretto», come lo chiamano gli astronomi.
Questi particolari buchi neri non sono stelle morte. Si formano quando una nube di atomi di idrogeno viene compressa dalla sua stessa forza di gravità ma non riesce ad innescare le reazioni nucleari che danno vita a una stella a causa del disturbo proveniente dall’ambiente circostante, un po’ come quando si tenta di accendere un fiammifero in una giornata ventosa. In questo ambiente ostile, il collasso gravitazionale non trova ostacoli e la nube sparisce in un enorme buco nero, senza dover aspettare i miliardi di anni necessari al ciclo di vita di una stella.

Nell’universo iniziale abbondavano dense nubi di idrogeno spazzate da intensissime radiazioni elettromagnetiche: era l’ambiente ideale per la formazione di questi particolari buchi neri. Per questo, grazie al James Webb Space Telescope, i ricercatori si aspettano di osservarne altri, ancora più giovani e grandi. «Se l’accrescimento inizia già da una grande massa densa, come quella presente subito dopo il Big Bang, allora è possibile che il buco nero raggiunga una grande massa in un tempo relativamente breve», spiega Fontana. Si tratta comunque solo di un’ipotesi tutta da confermare con osservazioni altrettanto difficili di questa.

NON ABBIAMO INFATTI speranza di fotografare buchi neri a collasso diretto più vicini a noi, da studiare più in dettaglio. «La densità di materia necessaria alla loro formazione nell’universo a noi vicino non c’è», dice Fontana. Solo con il nuovo telescopio possiamo dunque sperare di capire cosa succedeva nell’epoca turbolenta seguita al Big Bang, assai prima che l’universo si adagiasse nella placida conformazione odierna.
La teoria dei buchi neri a collasso diretto non è l’unica in campo per spiegare questi giovani giganti invisibili. Altre ipotesi invocano la misteriosa «materia oscura», una sostanza ancora sconosciuta ma che potrebbe rappresentare la gran parte della massa dell’universo. Senza la materia oscura, infatti, non sappiamo spiegare fenomeni ben noti come la rotazione delle galassie e le mega-strutture cosmiche a cui danno vita a meno di non mettere in discussione le leggi della relatività generale di Einstein, come una minoranza di scienziati sta cercando di fare. Un’ipotesi è che le particelle di materia oscura possano far crescere in tempi brevi i buchi neri giganti.

Una teoria ancora più immaginativa, sviluppata dall’astronomo inglese Bernard Carr, prevede che i buchi neri primordiali, più piccoli di quello osservato, siano nati prima del tempo stesso. Secondo questa teoria, il Big Bang sarebbe stato preceduto da un «Big Crunch», una grande contrazione di un altro universo preesistente. I buchi neri dell’universo primordiale sarebbero in realtà oggetti nati nell’universo precedente e sopravvissuti alla contrazione. Nemmeno il telescopio James Webb riesce a guardare così lontano. Per ora.