Poco si sa della biografia di Ugo Celada, che, per rivendicare a sé la tradizione rinascimentale, scelse, come Archimede Bresciani da Gazoldo e altri suoi contemporanei, d’apporre al suo nome quello della sua cittadina natale, «da Virgilio». Poche le notizie, scarsi gli epistolari, sicché a parlare di lui, come degli antichi maestri, rimangono soprattutto i quadri, dei quali possiamo adesso ammirare l’eccellente selezione fatta da Cristian Valenti per la mostra Ugo Celada da Virgilio Enigma antico e moderno, allestita con raffinatezza da Maddalena Casalis negli spazi del Labirinto della Masone (fino al 17 settembre) e dotata, per le edizioni Franco Maria Ricci, di un magnifico catalogo a tavole montate, cosa oggi pressocché unica.

Ugo Celada da Virgilio, “Natura morta con panettone”, s.d., collezione privata

Ugo Celada da Virgilio mosse i primi passi intorno alla fine degli anni dieci. Era quello il tempo della riscoperta di Giotto e dei trecentisti, e in cui Soffici andava stabilendo una continuità fra Cézanne e i nostri primitivi. Sembrò allora che gli artisti, dopo esser stati molte cose, scuotitori, pamphlettisti, intellettuali, volessero tornare a essere semplici artieri o «fabbri del parlar materno», secondo la famosa espressione dantesca che certo non sarebbe dispiaciuta loro. Era il ritorno alle vigne e alle botteghe dopo le febbri della Notte di San Giovanni. Si parlava di valori dimenticati, di attrezzi lasciati colpevolmente in disuso. C’era chi, come Lorenzo Viani, copiava le formelle del Duomo di Lucca. Poi, anche quest’epoca trascorse, e molte scuole e idee si avvicendarono.

Osserviamo adesso Celada nel suo Autoritratto con manichino. È un’opera del 1945. Il pittore si è voluto raffigurare nell’atto di dipingere. La posa ricorda quella di Ingres nel famoso autoritratto a 24 anni, il manichino abbandonato ci rimanda a de Chirico. Basterebbero questi due riferimenti per dire come, se i gusti, le abitudini mutavano, Celada, quasi un Faust assorto nelle sue alchimie, non lo sentiva. Il tempo raffinava la sua pittura, come i ciottoli un corso d’acqua. Talora ne esasperava i contrasti e qualche suo lavoro riusciva di un virtuosismo teso, bizzarro, specie nel contrasto fra porzioni di quadro risolte in una maniera più rustica e sintetica e altre, al contrario, più polite; ma i termini della sua arte rimanevano immobili, conchiusi, e tali restarono anche più avanti, nel dopoguerra e negli anni sessanta, al punto da rendere difficile un’esatta datazione di molte sue opere.

Per la verità, un momento nel quale Celada intervenne con piglio diretto nelle diatribe della propria età ci fu. Era il 1931, ed egli vergò, assieme ad altri pittori mantovani, una lunga lettera a Farinacci, affinché ponesse fine all’egemonia del gruppo Novecento. Ma si trattò di una di quelle classiche rondini che non fanno primavera. Gli stessi rapporti con De Chirico, con Sciltian, con Cagnaccio di San Pietro (per limitarsi ad alcuni di quelli suggeriti in mostra) poggiano più sul confronto fra i rispettivi esiti che non su una qualche testimonianza scritta; e fu in questo, Celada, tanto più esteta di molti corifei dell’arte per l’arte: ché la sua vita appartata costituì, specie dopo la guerra, quasi uno specchio perfetto di quella sua pittura di nature morte o still life, come si dice in inglese, di vita silente, cioè, immota, che permea le cose senza agitarle.

Certo, per un qualche tempo la corrente del Realismo magico, come più tardi il gruppo dei Pittori Moderni della Realtà, dovette offrirgli un punto di dialogo: alle sue forme inconcusse, sottratte alla caducità, ai suoi vasi, ai suoi violini, ai suoi fiori che una mano invisibile sembra aver disposto in uno studiato disordine, più stringente di qualsivoglia simmetria (Composizione con violino e mandolino, Drappo blu, Fiori), le tele del Donghi o Casorati possono dare un efficace termine di paragone. Eppure, anche qui, quante differenze!

Cagnaccio di San Pietro fu forse il pittore a lui più prossimo. Il suo Il Pescatore assomiglia al quadro omonimo di Celada: la stessa luce che non si sa bene da dove venga, a tal punto intride di sé l’ambiente circostante, e quello stacco fra il piano e lo sfondo, come di cammeo. Ma il tratto è qui più duro; ma la luce è andata ben oltre nel levigare quella figura d’umile lavoratore del mare, fino quasi a spolparla, come fa la corrente delle ossa di Phlebas il Fenicio nei versi di Eliot. Anche Casorati non gli è in fondo accostabile che fino a un certo punto. Platonico, anzi per meglio dire, pitagorico l’uno, «rigoroso e astrattivo al punto da divenire quasi schematico», come disse con una frase assai indovinata Bontempelli, incline l’altro ad accarezzare d’una luce limpida la superficie degli oggetti, la grana della pelle, in un amor sensuale delle cose che traspare assai bene dai suoi nudi, squisiti nell’incarnato, delicati come frutti marini, sopra drappi preziosi: Nudo disteso, Nudo su velluto rosso, Nudo di Resi.

Ed è proprio la bellezza della linea di questi dipinti, così morbidamente ondulata, unita alla soda grazia del colore, a richiamare, prima ancora che il Rinascimento, i maestri del Cinquecento, come il Bronzino, al cui Ritratto di giovane uomo Celada ispirò il suo Conte di Castelbarco. Impasti levigati e secchi, come di marzapane, («une sorte de tempera lisse et émaillée, qui donne par endroits des sécheresses à la Bronzino», scrisse d’una sua opera, oggi perduta, Émile Bernard in un resoconto della XV Biennale di Venezia del 1926), austera tenerezza dei toni, che, alleandosi «alla fermezza dei contorni», dovevano produrre quel medesimo «effetto di polpa di frutti ghiacciati» che Mario Praz notava appunto nel manierista fiorentino.

Una sensualità disincarnata era, d’altra parte, quanto più si conveniva a una pittura la cui aspirazione era quella di attingere a una condizione di metafisico candore. Forse, nelle intenzioni di Celada, la vita quotidiana, spogliata di ogni riferimento feriale, avrebbe dovuto somigliare a uno di quei vetri di Venini che si scorgono sullo sfondo della Donna allo specchio di Archimede Bresciani da Gazoldo, artista a lui tanto vicino. Il che non stupirebbe, se è corretta, come credo, l’osservazione di Valerio Terraroli che «la concezione lussuosa» del Dèco «trova precisi addentellati con la sensibilità realistico-magica, in quanto desidera disincarnarsi dalla realtà corrente, in specie politica, cercando un senso di incanto e di magia, di atmosfera sospesa, di preziosità, di mistero, di intelligente e stupita ironia».

Non fu un pittore semplice, malgrado tutto, Celada. Sulle tavole, i suoi gruppi di frutti, di coltelli e di brocche nascondono prospettive bizzarre che fan pensare a seicentesche anamorfosi; nelle stanze dei personaggi ritratti, fra le loro dita stranamente sottili, come quelle del Parmigianino, o sparsi sul pavimento, vediamo spesso libri d’arte e disegni, attraverso i quali l’artista dichiara i propri modelli. Mises en abyme, dunque, metapitture e prospettive alterate, quasi a sbeccucciare il duro carapace di mimetismo del dipinto: tutto l’inverso di quel che si chiederebbe a un pedissequo copiatore del visibile. Al punto che, forse, anche questi commendatori e cavalieri del lavoro, che vediamo sfilare superbi di sé, non senza ironia sono stati rappresentati nella posa di principi e dogi della Rinascenza. Forse, come l’illusionismo geometrico delle composizioni di fiori e di bottiglie, anche la loro eternità è sottilmente contraddetta. Ed essi non sapevano, nella loro vanità, di star posando per una vanitas.