I Sotterraneo, al centro Daniele Villa

«Giochiamo insieme, in modo anche feroce, domandandoci quanto questo mondo sia sull’orlo dell’abisso». Le parole del drammaturgo Daniele Villa, tra i fondatori della compagnia fiorentina Sotterraneo, potrebbero sembrare cupe e apocalittiche. Nulla di più distante dall’estetica del gruppo, votato all’ironia e al coinvolgimento dello spettatore lavorando su interrogativi che riguardano la quotidianità condivisa. È un teatro che può dirsi «sociale», con un abilità rara nel far convivere semplicità e complessità. Sotterraneo porta ora in tournée l’ultimo spettacolo, L’angelo della storia, in programma fino a domenica al Teatro India di Roma e poi in questo stesso mese a Udine, Rubiera e La Spezia. La regia è firmata da Villa insieme a Sara Bonaventura e Claudio Cirri, fondatori e performer della compagnia, a testimonianza di un approccio realmente collettivo alla creazione; questi ultimi saranno in scena insieme a Lorenza Guerrini, Daniele Pennati e Giulio Santolini per un affondo sulle interpretazioni sempre parziali di cui siamo vittima nostro malgrado, con l’ausilio speciale di Walter Benjamin.

Siete impegnati in una ricerca che abbraccia la complessità umana da diversi punti di osservazione. Come si è declinata ne «L’Angelo della storia»?

Ci affascinano i comportamenti di specie, ciò che riguarda le trasformazioni della società attraverso il tempo, il «brodo» di cultura in cui ci muoviamo. Nel caso de L’angelo della storia abbiamo affrontato tutto questo da un punto di vista che interseca filosofia, storia e neuroscienze, abbiamo lavorato su una caratteristica specifica dei Sapiens che è quella di trasformare la realtà in una narrazione. I fenomeni che ci si presentano nella realtà circostante sono complessi, contraddittori, spesso l’intuizione ha problemi a fornire una lettura e quindi li trasformiamo in un racconto, che fondamentalmente si basa sui nostri preconcetti. La storia è il susseguirsi di tutte le narrazioni collettive, come scrive Noah Harari, e noi con lo spettacolo abbiamo provato ad indagare questa attitudine umana a percepire la realtà come un racconto, credendo alla fine più a quest’ultimo che ai fatti.

Un discorso che, nella nostra contemporaneità, si lega alla questione delle fake news.

Siamo programmati così, se una narrazione è efficace tenderemo ad abbracciarla e a rifiutare ciò che la contraddice. Questo vale per le fake news, ma anche per le distorsioni della realtà più in generale.

Come hai interpretato l’immagine dell’angelo di Walter Benjamin nella tua scrittura?

È un’idea che si trova nelle tesi Sul concetto di storia, ispirata da un quadro di Paul Klee. L’angelo vola dando le spalle al futuro e guardando il passato, che Benjamin definisce come un insieme di ascese e crolli; la figura vorrebbe ricomporre il contrasto, quindi ri-narrare la storia in senso politico e rivoluzionario, ma una tempesta la trascina in avanti impedendo la ricomposizione. Questa tempesta per il filosofo è il progresso, a sua volta una narrazione che consiste nell’idea che la storia sia destinata ad andare avanti, in un processo di miglioramento delle condizioni di vita. Una visione che per Benjamin è quella dei vincitori e che estromette quella dei vinti e degli oppressi. Ciò che noi abbiamo «rubato» da questo discorso è l’idea di ricomporre la storia non in modo cronologico e lineare ma piuttosto attraverso delle «costellazioni», ovvero scegliendo dei momenti che risuonano tra di loro e col nostro presente, così da tentare una nuova narrazione. Ci siamo concentrati su aneddoti storici paradossali, situazioni in cui qualcuno ha creduto o fatto qualcosa di disallineato rispetto alla realtà. Abbiamo raccolto circa 200 aneddoti che corrispondevano alle caratteristiche che ci interessavano, poi li abbiamo portati in sala prove e alla fine ne sono sopravvissuti venti, quelli che per noi meglio si accendevano in teatro.

Spesso parlate del lato «pop» del vostro lavoro. In cosa consiste?

Lo spettacolo sembra partire da presupposti filosofici complessi ma poi di fatto si traduce in un susseguirsi di brevi racconti intervallati da danze e canti. Ci interessano il dinamismo e l’ironia per dare vita a una complicità critica col pubblico, tutto è accessibile e stratificato allo stesso tempo, sta a chi guarda la scelta di quanto andare in profondità. Il teatro permette di simulare la realtà per analizzarla, questo ci interessa, evitando però di dare qualsiasi lezione.

Siete reduci da una personale al Piccolo di Milano, dove siete anche artisti associati: un traguardo importante per una compagnia indipendente. È un buon segno per il teatro italiano?

Ci piace pensare che questo «supergruppo» di artisti associati sia chiamato a contribuire a un allargamento dell’immaginario e dell’ecosistema teatrale, in Italia manca un sano equilibrio tra tradizione e ricerca e noi nel nostro piccolo partecipiamo a dei progetti che tentano di alimentare la biodiversità.