È uscita da poco la terza edizione de I mondi di Miyazaki, libro curato da Matteo Boscarol e che raccoglie una serie di interventi che delineano percorsi per meglio comprendere l’opera dell’artista giapponese, nell’ambito dell’animazione ma non solo. L’uscita di questa terza edizione è propizia, perché in concomitanza con quella dell’ultimo film del giapponese, Il ragazzo e l’airone (da noi a gennaio). Ma lo è anche perché ci permette di avere a disposizione un buon modello per l’approccio al cinema d’animazione, di Miyazaki come di altri/altre.

In primo luogo, il volume mostra come sia sempre necessario una specie di bilanciamento tra una prospettiva focalizzata su opere specifiche e una più a zig-zag nel toccare più di un elemento. Il libro difatti contempla un buon numero di pezzi dedicati a singoli film e opere, incluso un nuovo contributo rispetto alle precedenti edizioni (a firma di Boscarol, e proprio su Il ragazzo e l’airone). Nello stesso tempo presenta considerazioni più trasversali, che includono per esempio riflessioni sul ruolo della tecnica ma anche su possibili consonanze tra determinate reti di riferimenti culturali «alti» e l’opera del nostro.

Inoltre, il libro presenta saggi che non solo offrono letture originali in merito agli argomenti che trattano, ma si articolano anche tramite riflessioni ricche di sottigliezze. Come quella di Alberto Brodesco che, nel trattare il penultimo film del giapponese, Si alza il vento (2013), affronta di petto tutti i possibili nodi politici che l’opera può far emergere. Oppure si potrebbe citare Marco Bellano il quale, sulla scorta delle sue competenze musicali, analizza l’uso della musica di Hisaishi proprio in Si alza il vento.

Ma vista l’uscita recente del manga di Miyazaki, Il viaggio di Shuna (Bao Publishing), si può menzionare anche l’intervento di Massimo Soumaré. Presente fin dalla prima edizione de I mondi di Miyazaki, è un testo che contestualizza il manga citato come un elemento in grado di dirci molto sulla poetica dell’artista giapponese.

Ora, a tutto questo appassionati/e di animazione giapponese delle ultimissime generazioni – attivi sul web, su X e con propri blog, e molto dentro questioni tecniche – potrebbero obiettare che manchi un contributo mirato a spiegare nel dettaglio il linguaggio animato di Miyazaki. Vero. Nel libro, una cosa del genere mancherebbe. Ma un tecnicismo di questo tipo può essere facilmente fine a sé stesso e quindi può essere un’arma a doppio taglio se non si ha poi chi, da un discorso tecnico, sa fare un «salto quantico». Cioè se non si ha chi sa riuscire a spiegare cosa possono raccontare in senso estetico e teorico determinate scelte.
Altrimenti si rimane nel campo dello specialismo autoriflessivo (se va bene) e della masturbazione mentale (se va male). Se non si ha qualcosa del genere a disposizione, meglio, allora, evitare.

Detto questo, il lavoro di Boscarol e dei suoi collaboratori potrebbe comunque servire alle ultimissime generazioni (e non solo) proprio per mostrare qualcosa di utile per ricerche e pubblicazioni future, e che si potrebbe chiamare «funzione Miyazaki». E cioè la possibilità che lo studio di un’opera stratificata come quella del regista di Principessa Mononoke (1997) possa chiamare in causa un approccio all’animazione (giapponese) al tempo stesso trasversale nei temi, rigoroso nei modi, e che alla fine sappia parlare a un pubblico globale, cosa che l’accademismo e i «fandom» di oggi non sanno, non vogliono o non riescono a fare. Una volta individuati animatori/animatrici contemporanei e futuri di proprio interesse, questo approccio porterebbe ad analizzare il lavoro e l’opera di questi autori come se ci si trovasse di fronte a quanto fatto dal grande giapponese. Questa mentalità aiuterebbe a far maturare la nostra pubblicistica sull’animazione e il discorso pubblico al riguardo, senza alcun dubbio.