In fondo i Beatles non sono quasi mai esistiti qui e ora. I grandi album della seconda metà degli anni ‘60, Revolver, Sergent Pepper’s, il White Album, erano il prodotto di notti e giorni passati nello Studio Due di Abbey Road, come se fosse ogni volta un grande happening surrealista radiofonico. Più di metà della loro discografia è un’opera d’avanguardia per nastri magnetici, rock’n’roll, nonsense dada. Più di metà della loro discografia ha l’ambizione di rifare daccapo lo spazio e soprattutto il tempo, perché all’epoca la parola “rivoluzione” aveva ancora un senso. Tutti mormoravano ancora di quando a Parigi i comunardi spararono sugli orologi. Tutti ricordavano la storia dell’orologio del Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie. «Per quanto tempo è per sempre?», chiedeva Alice. E lui :«A volte solo un secondo». I Beatles, si potrebbe dire, sono ora e sempre.

SE LA VOCE di John Lennon, chiara e fragile come non mai – il rovescio esatto di tutta la sua studiata spavalderia rock’n’roll – canta in questi giorni Now and then, «ora e allora/ voglio che tu ci sia per me/ che torni da me», siamo ancora in grado di sentire la nostalgia di quella messa in discussione del tempo e della sua direzione crudele, il profumo out of joint di un secondo soltanto di eternità? Il ritornello è stato ricostruito con la voce e il basso di Paul McCartney, una chitarra registrata da George Harrison nel 1995 e un suo assolo imitato da McCartney oggi, frammenti di cori di vecchie canzoni, gli archi scritti da Giles Martin, il figlio di George, il quinto Beatle, l’orchestratore di Eleanor Rigby (che un po’ gli somiglia). Fin qui siamo nell’ambito del pastiche. In sol maggiore, la tonalità della canzone, confusa di proposito nello svagato incedere in minore delle strofe, pervase di nostalgia.

Folla di fan a New York per l’arrivo dei Beatles foto Getty Images

«So che è così,/ tutto grazie a te/ Se ce la faccio/ è grazie a te». Siamo nel 1977, Lennon è chiuso all’ultimo piano di casa sua nello studio del Dakota Building, un maniero neogotico di fronte a Central Park dove vive con Yoko Ono e il figlio Sean appena nato. Ha di fronte un pianoforte e un boombox Jvc, quegli affari luccicanti che i ragazzini rapper si portano in giro per il Bronx. Troppo lontano per lui. A quasi quarant’anni ha deciso di mettere da parte la musica, la carriera di rockstar e fare il padre, l’uomo di casa mentre degli affari si occupa Yoko. La canzone suggerirebbe che abbia deciso di scontare la colpa di aver portato alla momentanea rottura il rapporto più importante della sua vita, dopo una storia durata più di un anno con la sua assistente May Peng. Se infine – come raccontano le biografie più impiccione – davvero si trascini nelle dipendenze da droghe e in una devastante depressione, non sappiamo bene.

A UN CERTO PUNTO, tra i suoi nastri registrati ne saltò fuori uno che cominciava come una specie di autobiografia, e finiva così: «Ho 39 anni guardo fuori dalla finestra del mio hotel e mi chiedo se buttarmi di sotto o tornarmene a letto. Torno a letto».

L’incantesimo dei Beatles non l’ha abbandonato mai veramente. Sono loro, forse il solo Paul McCartney, il vero destinatario della canzone? Nel 1976 era morto Mel Evans, che aveva seguito come roadie e tuttofare il gruppo fin dai tempi del Cavern a Liverpool. Forse incapace di far fronte al vuoto, caduto nell’alcolismo e nella follia, era stato ucciso dalla polizia a Los Angeles dove abitava il giorno che aveva minacciato con un fucile di uccidere moglie e figlia. Aveva scritto un diario, dicevano conservasse segreti indicibili in una valigetta, non era vero niente. La verità è che la morte violenta di Evans impressionò profondamente Lennon, sempre più incline alla paranoia. In un sovrappiù di coincidenze macabre le sue ceneri andarono perdute nel viaggio di ritorno in Inghilterra. Lennon, conoscitore del Libro tibetano dei morti e delle conseguenze che toccano alle anime che si staccano violentemente dai corpi non perse tuttavia il gusto della battuta: «L’anima di Mal è finita nell’ufficio pacchi smarriti», esclamò.

E LA VOCE DI LENNON, dov’è finita? Dove vanno a finire le voci nei nastri magnetici quando non le ascolta più nessuno? La voce, ha scritto il filosofo Mladen Dolar, è l’anima del corpo. Si chiama “Mel” il software di machine learning (insomma, l’intelligenza artificiale) col quale il regista Peter Jackson, meraviglioso cerimoniere dell’ora e allora dei Beatles, ha lavorato prima al restauro del film Get Back, poi alla ripulitura dell’album Revolver, oggi a questa canzone ritrovata. “Mel”, in onore allo sfortunato tuttofare dei Beatles. Durante la sua autoreclusione al Dakota Building, Lennon aveva inciso ore e ore di canzoni e prove, poi pubblicate in bootleg già noti agli appassionati dalla fine degli anni ‘80 col titolo di Dakota Tapes o Lost Tapes. Quando Now and then era arrivata nelle mani di Paul McCartney e di George Harrison intenti a lavorare a una nuova antologia, la registrazione si era scoperta non solo di cattiva qualità, col pianoforte molto sopra la voce, ma pure funestata da un ronzio elettrico.

PETER JACKSON è pur sempre il regista di una delle più grandi saghe fantasy di sempre, esperto di maghi e soprannaturale: ha tirato fuori la voce di Lennon dall’incantesimo, indovinando con l’aiuto dell’algoritmo di Mel quel che sarebbe potuta essere. Nel 2018 aveva realizzato il documentario They shall not grow old (Non invecchieranno), ridando colore, suono e soprattutto voce a vecchi reel girati durante la prima guerra mondiale: un’esperienza sconvolgente per chi lo ricorda al cinema, la sensazione di abbattere la barriera del tempo, ora e allora. Oggi, per il videoclip di Now and then ricostruisce pezzo per pezzo una performance dei Beatles in uno studio di registrazione, in un presente eterno che sembra lo spaziotempo della copertina di Sergent Pepper.

Non so se Now and then è bella o, come sostiene qualcuno, niente di che, l’ombra sbiadita di quel che già sappiamo. Ogni canzone è la ricerca di una felicità perduta, che continua a vivere in un nastro abbandonato mentre una voce ripete: «Ora e allora/ mi manchi». La coincidenza più dolorosa di questi giorni è ascoltarla mentre in tv passano le immagini della guerra a Gaza. All you need is Love, il massimo dell’utopia di quegli anni, andò in mondovisione via satellite nel 1967, una settimana esatta dopo la Guerra dei Sei Giorni.