From spaces to places | Francesco Armato, Stefano Follesa

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francesco armato stefano follesa introduzione di

ugo la pietra

From Spaces to Places #Product#People#City


La serie di pubblicazioni scientifiche Ricerche | architettura, design, territorio ha l’obiettivo di diffondere i risultati delle ricerche e dei progetti realizzati dal Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze in ambito nazionale e internazionale. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata al Comitato Scientifico Editoriale del Dipartimento di Architettura. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire non solo la diffusione ma anche una valutazione aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze promuove e sostiene questa collana per offrire un contributo alla ricerca internazionale sul progetto sia sul piano teorico-critico che operativo. The Research | architecture, design, and territory series of scientific publications has the purpose of disseminating the results of national and international research and project carried out by the Department of Architecture of the University of Florence (DIDA). The volumes are subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to the Scientific Publications Committee of the Department of Architecture. Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which not only favors their diffusion, but also fosters an effective evaluation from the entire international scientific community. The Department of Architecture of the University of Florence promotes and supports this series in order to offer a useful contribution to international research on architectural design, both at the theoretico-critical and operative levels.


ricerche | architettura design territorio


ricerche | architettura design territorio

Coordinatore | Scientific coordinator Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy Comitato scientifico | Editorial board Elisabetta Benelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Marta Berni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Stefano Bertocci | Università degli Studi di Firenze, Italy; Antonio Borri | Università di Perugia, Italy; Molly Bourne | Syracuse University, USA; Andrea Campioli | Politecnico di Milano, Italy; Miquel Casals Casanova | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Marguerite Crawford | University of California at Berkeley, USA; Rosa De Marco | ENSA Paris-LaVillette, France; Fabrizio Gai | Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Italy; Javier Gallego Roja | Universidad de Granada, Spain; Giulio Giovannoni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Robert Levy| Ben-Gurion University of the Negev, Israel; Fabio Lucchesi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Pietro Matracchi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy; Camilla Mileto | Universidad Politecnica de Valencia, Spain | Bernhard Mueller | Leibniz Institut Ecological and Regional Development, Dresden, Germany; Libby Porter | Monash University in Melbourne, Australia; Rosa Povedano Ferré | Universitat de Barcelona, Spain; Pablo RodriguezNavarro | Universidad Politecnica de Valencia, Spain; Luisa Rovero | Università degli Studi di Firenze, Italy; José-Carlos Salcedo Hernàndez | Universidad de Extremadura, Spain; Marco Tanganelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Maria Chiara Torricelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Ulisse Tramonti | Università degli Studi di Firenze, Italy; Andrea Vallicelli | Università di Pescara, Italy; Corinna Vasič | Università degli Studi di Firenze, Italy; Joan Lluis Zamora i Mestre | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Mariella Zoppi | Università degli Studi di Firenze, Italy


francesco armato stefano follesa introduzione di

ugo la pietra

From Spaces to Places #Product#People#City


Il volume è testimonianza di un percorso nella didattica e nelle ricerca condotto presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Alcuni dei saggi presenti nel libro costituiscono la rielaborazione degli interventi degli autori presentati al Convegno Internazionale From Spaces To Places, a cura di Francesco Armato e Stefano Follesa che si è svolto presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze presso la sede del Design-campus e on line.

in copertina inunvaso030 Disegno di Ugo La Pietra

editing Angela Maria Columpsi impaginazione Anqi Cheng e Martina Corti Laboratorio DSR

didapress

progetto grafico

Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121

didacommunicationlab

© 2023 ISBN 978-88-3338-187-9

Federica Giulivo

Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset


sommario

Introduzione Abitare la città 11 Ugo La Pietra Presentazione From spaces to places 17 Francesco Armato

Temi della ricerca I luoghi del design Stefano Follesa

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La giusta azione che trasforma lo spazio in luogo: il Design Francesco Armato

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Design del fuori luogo Gianpiero Alfarano

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L’arte dello spazio pubblico: murale ed intervento pittorico Marilaine Pozzatti Amadori

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The Image-thinker Kangaroo Giovanna Caimmi

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Constructive biology. From urban acupuncture to biourbanism Marco Casagrande

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Interspaces within the installations. ‘Incidentally Insights’ & ‘Round a Roundabout’ 81 Patrick Ceyssens Some offbeat talk about urban spaces Jean-Pierre Charbonneau

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The research of correlation between soundscape and soundmarks is analyzed from acoustic 93 Mingqiu Du Una voce di pietre e mattoni. Un’etnografia di emplacement e marginalizzazione rurale 101 Michele Filippo Fontefrancesco Spazi, luoghi Vincenzo Alessandro Legnante

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Una riflessione psico - antropologica sullo spazio e sui luoghi dell’abitare Giuseppe Licari

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from spaces to places • francesco armato, stefano follesa

Hybrid proximity Giuseppe Lotti

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Il dolore dell’ antropocentrismo Edoardo Malagigi

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Altrove. Estetica di un’idea Andrea Mecacci

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La musica nello spazio urbano Nino Mezzapelle, Antonella Maurer

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La percezione dello spazio è un’esperienza multisensoriale Paolo Pecile

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The function of art in urban spaces, streets, etc Katy Piccione

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Proyectos Antonio Castañeda Saldaña

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The history and future of urban furniture Shude Song

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Laboratorio di Design degli Spazi di Relazione Contributi di ricerca Luoghi inquieti: l’immaginario e lo spazio Stefano Follesa

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Design dello spazio temporaneo Francesco Armato

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Street Art: forma un senso di luogo nello spazio urbano di Firenze Peian Yao, Anqi Cheng

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La Biomimetica come rimedio alla transizione spaziale Martina Corti, Paria Bagheri Moghaddam

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Urban Post-it. Abitanti, luoghi e azioni nella città (con)temporanea Lucetta Petrini

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Il pensiero laterale nel progetto di nuovi scenari per il design Jurji Filieri

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Conclusioni: il senso di un libro Stefano Follesa

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from spaces to places • francesco armato, stefano follesa

ogni città è un palinsesto, un documento sul quale si continua a scrivere, giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, senza che nulla venga davvero perduto.


sommario •

magari nel nome di una via, nella pietra angolare di un edificio, nei ricordi dei suoi abitanti; la memoria, nelle città, non si fa tempo, si fa spazio. Gianni Biondillo -Sentieri Metropolitani

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introduzione: abitare la città Ugo La Pietra

Designer, Artista, Ricercatore

inunvaso 066 Disegno di Ugo La Pietra

Già dai primi anni ottanta abbiamo assistito all’aggregazione di individui (per lo più giovani) che “stavano” in città dall’ora dell’aperitivo fino alle 3, alle 4 del mattino: stavano insieme! Stavano insieme per stare insieme, una condizione che a molti (soprattutto ai più anziani) appariva curiosa, in quanto qualsiasi forma di aggregazione di persone nella città normalmente era dovuta a qualche scopo, accidente, avvenimento… Ad un’analisi, anche superficiale, della città in cui viviamo, abbiamo sempre saputo che il momento “del ritrovarsi” (la possibilità cioè di creare scambi tra gli individui) di fatto non si poteva realizzare poiché non esistevano strutture e situazioni atte a favorire l’incontro e il dialogo tra i cittadini. In pratica, fino a pochi decenni fa, la città era suddivisa in tre grandi parti, tutte indispensabili: la prima legata ai processi produttivi, la seconda legata allo sviluppo dell’organizzazione familiare, la terza legate alle forme di evasione. Questi tre momenti della vita del singolo cittadino erano uniti da un tessuto capillare che permetteva il passaggio da una parte all’altra senza la possibilità di inciampare in una anche minima alterazione, tale da provocare reazioni utili all’acquisizione di una maggiore consapevolezza della quotidianità. Del resto, per quale motivo un individuo avrebbe dovuto sentire la necessità di trovare “nell’estraneo” una fonte di arricchimento della propria conoscenza? Soprattutto in una società, come di fatto era, organizzata a sostenere un sistema impegnato a rendere il più possibile uniformi e ripetitivi gli eventi che si presentavano all’esperienza del cittadino. Solo l’eccezione e l’imprevisto erano in grado di modificare l’abitudine all’isolamento. Poche le occasioni che la nostra società ci concedeva: le manifestazioni collettive (parate, maratone, fiere di quartiere, festival di partiti) quasi sempre erano “l’incidente” che provocava l’aggregazione di persone. Oggi è ormai una pratica quotidiana, riferita a diverse aree urbane “lo stare insieme per stare insieme”: l’aggregazione di persone che passa sotto la definizione di “movida urbana”. ugo la pietra


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Viviamo affollate solitudini. Con questa definizione ho cercato di spiegare, ormai da tempo, il fenomeno sempre più crescente dei cittadini che esprimono il bisogno di stare insieme, alla ricerca quindi di luoghi e momenti di collettivizzazione. Una pratica che prescinde dalla definizione di “strutture”. Un fenomeno che si spiega attraverso alcune considerazioni: il numero crescente di “single” (a Milano il 40% delle famiglie è composta da una sola persona), la famiglia è sempre meno unita, il quartiere con le sue relazioni ha perso la sua identità (dovuta a sempre più importanti presenze di gruppi sociali disomogenei di diverse etnie, rispetto alla precedente comunità). A parte alcune iniziative che hanno organizzato “cene collettive” (cittadini invitati a cena in un importante spazio cittadino con l’impegno di portare tavoli, sedie, vettovaglie e cibi) nessuna iniziativa progettuale (spazi, rituali, attrezzature…) è nata per dare valore e significato a questa crescente necessità di collettivizzazione urbana. Prima del Covid la movida era un fenomeno sempre più in crescita, fenomeno che stava creando sempre più difficoltà all’interno dello spazio urbano, poi tutto si è fermato per un lungo periodo di sofferenza collettiva attraverso le chiusure “sanitarie”. Poi la Regione e il Comune, per venire incontro al sistema commerciale di ristoro, hanno dato la possibilità di aprire i locali (bar e ristoranti) nello spazio collettivo e la città si è riempita di locali sui marciapiedi, sulle isole pedonali, sui percorsi ciclabili, in piazze, piazzette, giardinetti… e la movida è ripresa con più accanimento. Oggi la città è “piena di gente” un fenomeno che all’apparenza è percepito come un fatto positivo, ma dietro questa immagine animata si celano grandi problemi ancora tutti da affrontare. Dove e come la nostra società urbanizzata scaricherà le tensioni sempre più crescenti? Quali progettisti (architetti, designer, artisti) riusciranno a dare risposte a tutte quelle persone che hanno sempre più bisogno di “stare insieme”? E quali strumenti verranno realizzati per “abitare la città” vale a dire strumenti capaci di consentire la personalità dell’individuo, o del gruppo sociale, e per dare così identità e significato ai luoghi? Vi ricordate, alla fine degli anni ottanta, l’entusiasmo per la nascita della nuova disciplina “Arredo urbano”, disciplina che oltre che nelle Università è stata portata anche all’interno della struttura comunale delle nostre città. Malgrado ciò, per molti anni, gli elementi che hanno caratterizzato il nostro spazio urbano sono stati, quasi sempre, strumenti per la segnaletica: attrezzature che segnano violenza e separatezza. Al dispetto di tutto ciò che non veniva realizzato nelle nostre città fiorivano gli studi: sul colore delle facciate delle case (cercando di dare limiti, regole e suggerimenti estetici), sulle inse-


introduzione: abitare la città • ugo la pietra

gne commerciali, sulle vetrine, sui gazebo (edicole, pensiline…), sull’illuminazione e sulle strutture “di servizio”, necessarie per un minimo di comfort (per non dire per la sopravvivenza quotidiana in città come bere, evacuare, riposare), fino a progetti sul verde urbano. Per decenni bravi professori e diligenti allievi hanno elaborato tesi di tanti progetti, progetti… e ancora progetti! È passato tanto tempo e città come Milano (capitale morale, città europea, modello per molte nostre città) è ancora sprovvista di un progetto di illuminazione urbana (ogni strada e ogni piazza ha un tipo di struttura e sistema di lampioni diversi, collocati nel tempo da diversi assessori) e inoltre, per ciò che riguarda la fornitura stradale, facendo un rapido calcolo possiamo elencare circa quaranta modelli diversi di dissuasori (da quelli classici in ghisa, a quelli in granito con diverse forme, fino a dissuasori in cemento, in pietra scalpellata, levigata, dipinta…) per non parlare della segnaletica, pensata e realizzata solo per il traffico: nessun progetto per l’informazione e la comunicazione! Negli ultimi decenni, l’unico progetto sulla comunicazione urbana, è quello lodevolissimo sulle “pietre d’inciampo”. La città è cresciuta, negli spazi collettivi, attraverso un processo sempre più aggressivo del sistema commerciale. Un’immagine che rappresenta in modo fisicamente esplicito la mancanza di un progetto ambientale, ma soprattutto culturale, della struttura urbana. Un progetto culturale che la città di Milano, in particolare, si vanta di avere e di voler esportare: “il fuori salone”, l’occasione temporanea di fare di Milano un grande palcoscenico commerciale per l’esposizione e la vendita di oggetti, occupando tutti gli spazi pubblici e privati disponibili per proporre qualsiasi prodotto “basta pagare”! Ma dove Milano sta dando il meglio della sua capacità di vendersi alla forza commerciale tra le più aggressive, è quella dei sempre più invasivi allestimenti per l’esterno di bar e ristoranti. Un’aggressività che si manifesta nella capacità di sfruttare ogni possibile spazio al di fuori dei localiche non è pari alla loro capacità creativa. Il bar e ristorante urbano a cielo aperto è oggi una delle tipologie costruttive e arredative che caratterizza ogni strada, ogni piazza. La capacità di adattare il territorio (il comune spazio collettivo) con strutture adatte a definire “luoghi dell’accoglienza per consumare” è una pratica creativa che impegna ogni giorno uno stuolo di improvvisati professionisti/progettisti di abitacoli, gazebo, casotti, pergolati, tendaggi, finte serre… a cui naturalmente si aggiungono i tanti (più che si può!) tavolini, sedie, strutture di servizio. Troppe volte, in questi tempi, si è cercato di dare la colpa dei disastri urbanistici delle nostre città e delle nostre periferie, a certe categorie di progettisti e alle loro scale d’intervento. Non esiste la scala che risolve meglio i problemi progettuali; esistono invece diversi livelli

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di attenzione verso problemi ambientali. L’errore è spesso quello di privilegiarne uno a scapito degli altri. Gli spazi relativi ai luoghi per “Abitare la città” devono essere organizzati e attrezzati come luoghi da fruire nel senso più completo della parola: spazi per sostare, spazi per educare, spazi per informare, spazi incuriosire, spazi per sorprendere, spazi per “espandere la propria personalità” e spazi per stare bene! Pensare e progettare seguendo queste aspirazioni, secondo me, vuol dire contribuire alla nascita di un “nuovo ambito disciplinare”. Un’area disciplinare dove in pratica si cerca di dare una risposta a come definire luoghi, strutture, strumenti per “abitare la città”. Attenzione, il concetto di abitare spesso viene confuso con quelli di usare: si abita lo spazio domestico della propria casa, si usa lo spazio della camera d’albergo. Abitare vuol dire “connotare lo spazio”, e connotare non vuol dire necessariamente trasformare. Mi piace chiudere con un esempio che uso spesso, e che credo chiarisca molto bene questo concetto: gli antichi pellerossa abitavano il loro territorio possedendolo così bene tanto da non doverlo nemmeno trasformare. Ad esempio: facevano dei buchi sotto i mocassini dei propri figli perché insegnavano loro che in questo modo, toccando con il palmo del piede la terra, toccavano in realtà la polvere delle ossa dei propri antenati.




presentazione: from spaces to places Francesco Armato

Architetto, PhD, Ricercatore e Docente Direttore del Laboratorio Mediterranean Inclusive Design - MID - Lab Università Mediterranea di Reggio Calabria - ITALIA

Gruppo 9999 The Vegetable Garden House 1973

“Progetto quello che i miei occhi e miei sensi percepiscono, distanze minute che posso abbracciare con un semplice sguardo, verifico le quantità riconoscendo l’aspetto fisico delle cose. [...]” (Passeggiando con il prof. Paolo Galli dopo la lezione del mercoledì sera, 2002, Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Firenze).

Il volume raccoglie un lavoro di ricerca iniziato anni fa con la collaborazione di studiosi indipendenti e ricercatori provenienti da diversi atenei: Firenze, Bologna, Cremona, Milano, Palermo, Reggio Calabria, Tuscia, Helsiki, Hasselt, Parigi, Shanghai, Taipei, Santa Fè, Bogotà, San Paolo, Suzhou. Il continuo e fertile scambio di idee e di progetti ha trovato sintesi nella conferenza internazionale, From Space To Places, che si è tenuta tramite Webinar nel 2021 con sede organizzativa Dipartimento DIDA, Università di Firenze. From Spaces to Places nasce dalla voglia di trovare nuove riflessioni e nuove risposte di come utilizzare gli spazi dell’incontro e dello stare insieme, ma soprattutto come poter amplificare il benessere negli spazi dislocati tra gli edifici della città. From Spaces to Places è il risultato delle diverse contaminazioni che si sono susseguite negli ultimi anni, attraverso la frequentazione di gruppi di ricerca multidisciplinari, in Italia con la rivista Narrare i Gruppi (Etnografia dell’interazione quotidiana - Prospettive cliniche e sociali – Design), le ricerche effettuate all’interno del Laboratorio “Design degli spazi di relazione”, Dipartimento DIDA, Università di Firenze e gli studi Spatial Design portati avanti negli ultimi mesi dal Laboratorio “Mediterranean Inclusive Design”, Dipartimento PAU, Università Mediterranea di Reggio Calabria. All’estero con i workshop e seminari con la Suzhou Art Design Technology Institute, in Cina. Una città pulita, curata e funzionale diviene una città ospitale, un luogo che si predispone nella sua essenza per incontrare uno sconosciuto, l’altro, l’alterità. Una città dove la gente possa sentirsi in armonia con gli altri e con le fisicità che sono disposte intorno a loro. Una francesco armato


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città che non esclude l’altro, che non crea disuguaglianze, disgregamento del Welfare State: “danni collaterali” così come li definisce Zygmunt Bauman. I contributi raccolti in questo volume sono il risultato di studi e di ricerche di diversi operatori della città, Artisti, Architetti, Antropologi, Musicisti, Psicologi, Estetologi e Designers che si interrogano su come amplificare il benessere negli spazi misurabili della città, attraverso le loro conoscenze, per migliorare lo spazio che noi tutti abitualmente frequentiamo per i nostri spostamenti. Ugo La Pietra con la sua osservazione sugli spazi della città e con la sua intensissima produzione sperimentale ha mostrato un’altra lettura degli spazi urbani e come essi si trasformano in luoghi attivi, dove gli uomini svolgono parte della propria vita quotidiana. Da uomo libero (Italian Radical) rompe i rigori disciplinari mettendo al centro del suo operato la libertà e la creatività individuale, ogni individuo deve vivere lo spazio a suo piacimento. Considerare lo spazio fisico un insieme di punti connessi tra di loro che si intrecciano per creare un giusto equilibrio tra natura e uomo è la riflessione di Giuseppe Lotti. Lo spazio a cielo aperto è per antonomasia il luogo del divertimento e delle relazioni sociali, dove le diverse etnie, le diverse culture si incontrano e dialogano tra di loro per “gustare” momenti di vita quotidiana senza che una cultura prevarichi l’altra. Kaith Haring è stato uno dei primi artisti a concepire la città un grande contenitore Open Air, una galleria d’arte dove raccontare ed esprimere in modo naturale il proprio pensiero, affermando che è un diritto collettivo e sociale. Haring aveva un desiderio: la rinascita dei quartieri degradati delle città attraverso l’arte. Artisti e designer con interventi puntiformi, un ago che ricuce il tessuto urbano, contribuiscono a rendere attivi e partecipi gli abitanti all’interno della vita del quartiere, una “scossa” energetica, concentrata in diversi punti degli spazi tra gli edifici della città e che si espande come un’onda d’urto, investendo i sentimenti e gli animi di chi vive le strade e le piazze, ma anche gli spazi più angusti della città. L’Urban Acupuncture, un fenomeno energetico e vitale che prepara la città alla Terza generazione, nasce per contrastare la crisi dell’urbanistica. Il contributo dell’architetto designer Marco Casagrande apre la questione tra natura, artificio e partecipazione attiva degli abitanti nelle scelte progettuali, prendendo come esempio l’insediamento di Treasure Hill: l’opera dell’uomo si integra e si innesta con la natura e con le strutture antropizzate, intervento collocato vicino a Taipei, un sito bio-urbano esempio di agopuntura urbana. Quando i luoghi non sono animati e non sono vissuti, sono solamente spazi, luoghi spenti, stanze buie dove non è possibile orientarsi, si perdono i riferimenti e non si


presentazione: from spaces to places • francesco armato

leggono più i contorni e con essi i suoni e gli odori, “luoghi afoni”. Marc Augè ci parla di Non luoghi, spazi anonimi, senza nessuna conformazione identitaria, luoghi pensati a prescindere dalle relazioni con gli altri. Spazi che non comunicano, non coinvolgono il passante. Luoghi che non raccontano e non trasmettono emozioni, spazi dove non si riesce a creare relazioni. I murales di Katy Piccione, artista italo-americana, raccontano come la Street Art comunica e diventa il collante tra spazio e luogo, l’arte come dialogo e coesione tra le diverse comunità. Le relazioni che si instaurano fra tridimensionale e bidimensionale affinché si possa creare un rapporto di equilibrio tra contenuto e contenitore è il contributo di Marilaine Pozzatti Amadori, docente dell’Universidade Federal de Santa Maria, Brazil, un rapporto di non facile realizzazione, in quanto tutti gli elementi in gioco devono comporre un’armonia, una proporzione e una maggiore qualità estetica. L’osservatore diventa l’elemento di congiunzione in quanto attore, ma in questo caso spettatore della scena urbana. Osservare lo spazio tra le architetture della città come un insieme di rapporti proporzionali che si legano tra di loro, questo era il pensiero e il fare di Leon Battista Alberti, geometrie, misure e figure che si liberano nello spazio osservato. Spesso questi spazi vengono presi “d’assalto” dagli artisti e dai designers che se ne prendono cura gettando un seme di vitalità in alcuni punti nevralgici, rivitalizzandoli e rendendoli luoghi ‘vivaci’, per dare dignità, identità e riconoscibilità, Marco Casagrande utilizzerebbe il termine Urban Acupuncture. Portare Arte e Cultura a quegli spazi assenti dove prima non c’era nulla, in alcuni casi il vuoto assoluto, durante e dopo gli interventi spingerebbe le persone a partecipare e ad usarli, perché riconoscono in quegli spazi il luogo. Il recupero dei luoghi, che hanno perso il loro significato partecipativo all’interno del tessuto urbano, ritagli che possono essere reclutati ad una nuova vita è il pensiero di Jean-Pierre Charbonneau, dare nuova energia agli spazi dimenticati. Spingere, stimolare il diritto alla città, nel 1968 Henri Lefebvre, scriveva che il diritto alla città non proviene da un potere costituito, ma deve essere conquistato attraverso l’uso, la frequentazione, in modo da sviluppare il senso di appartenenza, sentirsi a casa tra le vie della città. La città vista da Paolo Pecile, sociologo, “una esperienza sensoriale” che arricchisce la società giorno dopo giorno con la sua innumerevole stratificazione storica, politica e sociale. Occorre avere una visione più complessa, più inclusiva e più strategica dove ogni singolo spazio o frazione di vuoto possa essere un’esperienza di vita comunitaria. Il dialogo tra lo spazio come vuoto da riempire e il luogo come quantità fisica dedicata all’in-

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contro è la letteratura che “spinge” Vincenzo Legnante a definire i cinque punti per una città migliore. Lo spazio fisico come luogo dell’osservazione, realtà complessa dove si intrecciano una moltitudine di qualificazioni, ed è proprio per questo che lo spazio si trasforma in luogo di identità. Giuseppe Licari, psicoantropologo, “visita” questo fenomeno attraverso gli occhi di Bachelard, Augé e Merleau-Ponty con la “fenomenologia della percezione”, facendo una raffinata distinzione tra lo spazio geometrico e lo spazio antropologico, lo spazio praticato luogo di conoscenza e di esperienza. Cambio di scala, non solo dalla città alla casa e viceversa, ma anche i prodotti possono essere assimilati e paragonati tra loro, lampioni o lampada da terra che occupano lo spazio e con la loro forma lo identificano per assegnare una funzione precisa, identitaria e temporale. Un trasposizione di due spazi, interno ed esterno che diventano luoghi con l’inserimento di prodotti di arredo, questa è la definizione e il contributo di Shude Song. “Abitare è essere ovunque a casa propria” (La Pietra, 1977). “Ho sempre pensato che un essere umano garantisce la propria sopravvivenza attraverso la modificazione dell’ambiente in cui vive ed opera, non solo ma ho sempre creduto che abitare un luogo vuol dire poterlo capire, amare, odiare, esplorare…” Ugo La Pietra.

Il viaggio poetico di Giovanna Caimmi, pittrice, ci accompagna tra il tempo e lo spazio attraverso una narrazione esploratrice che anima il contesto, dare dignità ricostruendo i luoghi. Il passaggio da spazio a luogo attraverso le manifestazioni umane, dove la società possa sentirsi accolta dallo spazio che la circonda, le strade, le piazze, gli slarghi … e le pratiche sociali che quotidianamente si sviluppano nello spazio della città possono lasciare una traccia, dei segni di momenti vissuti. L’opera costruita dagli scarti della città è l’intervento di Edoardo Malagigi, artista-designer, che narra come gli innumerevoli rifiuti urbani derivati dal consumismo sfrenato dell’epoca contemporanea, lasciati negli spazi della città possono assumere, attraverso opere o performance, una posizione identitaria forte dando forma a nuovi luoghi; dove, la costruzione, vede una importante partecipazione di tutti. Il luogo come momento di interattività tra la popolazione e gli artisti. Interventi minuziosi nella scala urbana possono riempire lo spazio dando una connotazione di luogo come il suono. Spazi sonori di Tu Mingqiu, Architetto del suono (Tongji University), “ecologia acustica” attraverso la progettazione di piccoli spazi sonori disseminati nello spazio antropizzato per preservare e recuperare i suoni preziosi del passato.


presentazione: from spaces to places • francesco armato

La musica, veicolo di emozioni e di informazioni sensoriali, è l’idea di Antonella Maurer e Nino Mezzapelle, rispettivamente, Vocalist e Musicista, il progetto musica per le vie della città, riempire lo spazio con il suono e con il corpo, una performance che diventa pausa e ritmo, luogo di inclusione, le quinte della città diventano palcoscenico di vita quotidiana. Lo spazio inteso come quantità fisica e geometrica e dove spesso si percepisce l’assenza o il vuoto è la letteratura che viene espressa da Giampiero Alfarano, Architetto-Designer, attraverso un excursus tra la filosofia e la matematica. Una stratificazione di segni che possano definire il carattere e l’identità di un luogo. Gli spazi Riattivati <Re-Activated> accolgono la gente e diventano luoghi frequentati, allo stesso tempo la gente garantisce anche un certo controllo sociale, “l’occhio sulla strada degli abitanti” (Jean Jacobs, 1961). Il luogo come fruizione dello spazio è il percorso descrittivo di Michele Fontefrancesco, Antropologo, una narrazione che si stratifica attraverso il tempo e l’ascolto, sistemi materiali e immateriali che si compongono per dare vita allo spazio umano. Lo spazio è l’entità dove corpi, persone e oggetti, trovano la giusta collocazione dove muoversi ed esprimersi: l’essere in un luogo (Heidegger), è il contributo di Stefano Follesa. Muoversi all’interno del territorio urbano è una continua scelta di percorsi, spesso non si è portati a fare il percorso più breve, ma quello più stimolante, segni e odori possono far cambiare la traiettoria, una comunicazione fisica reale che sollecita i sensi e la percezione visiva. L’estetologo Andrea Mecacci fa una disquisizione sulla parola estetica rispetto al luogo. Un’esamina su quello che trasforma lo spazio in luogo. L’estetica come un atto mutevole che racchiude in sè il carattere transitorio delle cose, l’arte applicata alla vita, la monumentale che si trasforma nel ricordo e nella rappresentazione figurativa di se stessa. Le costruzioni artistiche nello spazio urbano creano una pausa, uno spazio intermedio, forse sarebbe più appropriato dire un luogo dove la percezione viene sospesa dalla presenza dell’opera. Una cornice temporale è la definizione temporale di Patrick Ceyssens, Artista e docente University College Hasselt, che descrive in maniera minuziosa i suoi lavori ubicati nello spazio fisico: “La vaghezza crea anche un punto di riposo perché dobbiamo prenderci il nostro tempo per capire questo spazio”. Pertanto la costruzione del paesaggio urbano condiziona in modo significativo la qualità della vita, provocando un senso di benessere, di felicità, di angoscia, di malumore. Lo spazio esterno è un collettore energetico di varia natura, quando queste vengono percepite con un senso di appartenenza e di aggregazione condivisa, questi luoghi comunicano una grande voglia di muoversi fra gli spazi della città, per camminare, per chiacchierare, per scambiare idee e opinioni.

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Il contributo di Antonio Castaneda Soldana, artista indipendente Colombiano, mette in evidenza il dialogo tra arte e comunità, trasformare la visione dello spazio tra le gli edifici, soprattutto quelli abbandonati, attiva il senso di appartenenza e di accettazione rendendo lo spazio un luogo inclusivo, innescando l’ecosistema urbano “in un museo delle persone”. Strutturare lo spazio urbano con progetti di piccola entità ma diffusi, interventi di chirurgia urbana li definisce Jaime Lerner (2007), mettere l’individuo al centro del progetto, entità fisica e bisogni emozionali, cercare l’intimità dello spazio aperto e progettarlo a misura d’uomo, spazi di aggregazione dove è possibile riconoscersi e spazi facilmente raggiungibili possibilmente a piedi o in bicicletta, corpo e mente insieme al sistema del contorno-spazio. Per Chris Ryan (2018) lo stare bene in città emerge da una indagine approfondita di diversi settori disciplinari che partecipano a costruire un mondo nuovo utilizzando l’esistente, dall’economia al design fino ad arrivare al prodotto. La soluzione va trovata nel progetto di piccola scala, per passare Dagli Spazi ai Luoghi. Un progetto di Outdoor Interior Design dove la pianificazione della forma non è l’elemento esclusivo, ma inclusivo, la costruzione dello spazio deve essere desiderio del fruitore, della comunità senza trascurare le necessità, il bello e la funzione.


presentazione: from spaces to places • francesco armato

Bibliografia Conklin, T. R. (2012). Street Art. Ideology and public space, Master of Urban Studies.Portland: Portland State University. De Nardi, A. (2012). Paesaggio, identità e senso di appartenenza ad un luogo: indagine tra gli adolescenti italiani e stranieri. Rivista geografica italiana, n. 119 Jacobs, J. (1961). The Death and Life of great American cities, New York Vintage Books, 1961, trad. it. (2009). Vita e morte nelle grandi città. Torino: Einaudi. Lotti, G. (2016) Interdisciplinary Design. Progetto relazioni tra saperi. Firenze: Dida Press Università di Firenze. Lerner, J. (2007). Acupunctur Urbaine. Parigi: Harmattan. Valtolina, G. (2003). Fuori dai margini, esclusione sociale e disagio psichico. Milano: Franco Angeli.

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Temi della ricerca

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i luoghi del design Stefano Follesa

Ricercatore Università degli Studi di Firenze - ITALIA

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luogo [luò-go] pop. logo; dial., poet. loco s.m. (pl. -ghi) Parte di spazio, idealmente o materialmente determinata, che un corpo può occupare. Posto dove accade o è accaduto qualcosa

Tra i diversi significati della parola luogo alcuni rimandano al definirsi di un senso dello spazio, al determinarsi di un significato e di un ruolo che lo spazio assume a seguito dell’operato dell’uomo. Il luogo è il posto dove è accaduto o accade qualcosa che, proiettata nel tempo, diventa il tramite tra lo spazio e le persone e ne definisce le interazioni fisiche sensoriali e intellettive. A differenza dello spazio che ha valenza geometrica, il luogo ha valenza sociale, è lo spazio vissuto nel quale si intrecciano rapporti emotivi e accadimenti, in un gioco di interazioni nel quale sia le persone che lo spazio definiscono una propria identità. Doreen Massey (2005,1) introduce una ricomposizione tra i due concetti quale chiave di lettura della città contemporanea; un superamento della dicotomia tra un’idea di luogo, quale dominio esclusivo del vissuto, concreto e sensibile, e di spazio, quale dimensione astratta, lontana e separata dalle istanze degli individui. Per Massey lo spazio è invece un’entità in cambiamento continuo dove “nuove e diverse relazioni si costituiscono tra significanti, significati e oggetti del mondo reale” (Lazzerini, 2020). Spazio e luogo dunque diventano, nella dimensione del contemporaneo, entità dinamiche che possono “migrare di continuo l’uno nell’altro” (Licari a pag.96); un luogo torna ad essere spazio quando si spezzano i legami che lo legano agli abitanti. Se il concetto di luogo assume maggior connotazione nella città storica, una tale dinamica relazionale divente invece esplicita nella città diffusa. Daniela Poli citando la descrizione di Calvino (1972) della città di Pentesilea, parla di “zuppa di città” in riferimento ai territori periurbani che aspirano all’idea di città. stefano follesa


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I non-luoghi di Augè (1992) sono spazi rispetto ai quali sono venuti a cessare quei presupposti di relazione e identificazione che ne determinavano la qualità di luogo. Se è vero che il luogo non implica una dimensione (e quindi una scala univoca degli interventi trasformativi), né una esclusività disciplinare, è altrettanto vero che nel sentire comune del progettista il luogo rimanda alla scala del progetto architettonico nella sua connotazione tipologica e alla scala del progetto urbano e territoriale in una connotazione identitaria che trae senso non solo dai suoi elementi e dalle loro relazioni ma anche dai significati che individui e gruppi gli attribuiscono attraverso la percezione. Il luogo è sempre più luogo delle trasformazioni progressive che ne definiscono o ne rinnovano il senso, è luogo di una ibridazione continua con le tecnologie che sempre più determinano il nostro abitare e i nostri movimenti nello spazio. L’esperienza dello spazio urbano si definisce oggi in una dimensione fisica di elementi narranti materiali e immateriali e in una dimensione virtuale di immaginari e flussi di informazioni che anticipano e guidano la nostra esperienza nello spazio. Le tecnologie digitali svolgono un ruolo primario nel plasmare l’identità degli spazi e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) ne ampliano la dimensione della percezione. Ma il digitale è divenuto anch’esso ambiente da abitare, una estensione nella quale abbiamo proiettato la nostra vita pubblica, un mondo “altro” che si “intreccia con il mondo reale e che determina vere e proprie ristrutturazioni cognitive, emotive e sociali dell’esperienza, capace di rideterminare la costruzione dell’identità e delle relazioni, nonché il vissuto dell’esperire” (Cantelmi T. 2009). Sempre più lo spazio pubblico appare come una questione di progetto senza confini, scala e disciplina. La dimensione tecnologica che consente di attivare connessioni tra fisico e virtuale, in una dinamica di scrittura “aumentata” e personalizzabile dello spazio urbano, amplia gli ambiti di competenza dei processi trasformativi dello spazio. Il modello della Smart city si sovrappone a quello fisico definisce una città non più fatta di soli spazi, ma di molteplici relazioni, che per essere riportate al progetto richiedono un approccio interdisciplinare, un dialogo tra competenze progettuali, tecniche e sociologiche. Un approccio sistemico che vede il designer come figura centrale di “connettore” tra saperi. Il design implementa oggi strategie volte alla trasformazione o alla comprensione degli spazi con una capacità di connettere conoscenze e tecnologie che appartengono al suo DNA. Ed è nella dimensione dell’intervento sulla piccola scala, quella che, come vedremo nei contributi che seguono, viene chiamata oggi “agopuntura urbana”, che si definisce maggiormente il ruolo della disciplina. Se


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fino agli anni Settanta del Novecento la competenza sulla progettazione degli spazi della città era di stretta pertinenza degli architetti e degli urbanisti, dalla fine del secolo scorso i designer hanno iniziato a confrontarsi con lo spazio pubblico opponendo un approccio olistico a una visione top-down. Al design appartiene una dimensione processuale delle trasformazioni che incide dapprima sul sitema degli oggetti e, attraverso essi, sullo spazio. Victor Papanek (1971) descriveva il design come una disciplina che opera per la trasformazione del mondo abitato dall’uomo, modificando l’ambiente naturale e le infrastrutture sociali. Norman Potter (1969), quasi negli stessi anni, considerava il luogo come una delle tre componenti costitutive dell’attività del designer: “oggetti, luoghi e messaggi costituiscono ciò che caratterizza la nostra disciplina”. Potter parlava di design dell’ambiente (Environmental Design) come di un settore specifico del design che si occupa dei luoghi (Places). Il luogo, in quanto spazio delle relazioni, è sempre stato dunque, e oggi lo è ancor di più, ambito applicativo delle idee e delle competenze dei designer. Vi sono poi alcune vocazioni del luogo che rafforzano tali competenze diventando oggetto ricorrente delle attenzioni e delle proposte della ricerca disciplinare e restituendo una dimensione specifica al ruolo del designer nella città. Il luogo delle persone Uno spazio è luogo quando è contenitore di una identità culturale che si è sviluppata nel tempo e nel tempo ha affinato elementi di diversità rispetto ad altri luoghi. Il senso di appartenenza ad un’identità si forma quando un individuo si sente partecipe dei valori culturali di una comunità, ne condivide le pratiche (lavorative, elaborative, tradizioni) e gli elementi di riferimento (materiali e immateriali). Poiché ogni comunità “ha luogo”, si costruisce cioè entro confini geografici, possiamo per traslazione parlare di identità locale o territoriale, “una parte unica dell’identità di sé che rimanda a quelle dimensioni del Sé che definiscono l’identità personale dell’individuo in relazione all’ambiente fisico attraverso un complesso sistema di idee, credenze, preferenze, sentimenti, valori, e mete consapevoli e inconsapevoli, unite alle tendenze comportamentali e alle abilità rilevanti per tale ambiente” (Proshansky, 1978, pp. 147–169). Il concetto di identità di luogo per la psicologia ambientale prende il nome di place identity, ed è volto a indicare tutti gli aspetti di congruenza tra l’immagine di sé e i significati e i valori associati a un ambiente fisico. Il luogo dunque non si può definire se non in una dimensione sociale di interazione e di scambio tra gli abitanti che si sviluppa ognivolta in maniera differente.

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Il legame che si viene a creare tra le persone che vivono in un determinato luogo e tra le persone e i luoghi viene definito da Altman Low con il termine place attachment. Il place attachment è il rapporto che si instaura tra un individuo o un gruppo di individui ed un territorio, che può variare a seconda delle caratteristiche fisiche o sociali del territorio e che si manifesta attraverso processi di conoscenza, affettivi e comportamentali. Si definisce nel riconoscersi in un insieme di peculiarità culturali che consente agli individui di identificarsi come membri di una comunità. L’identità di luogo è il riconoscersi in una molteplicità di invarianti tangibili (tecniche, usi, materiali, tipologie, colori, simbologie, decori) e intangibili (suoni, odori, rituali, usanze) che, con equilibri differenti, si sono sviluppati, nel tempo, nei differenti ambiti di applicazione (oggetti, paesaggio, architetture, abiti, enogastronomia, letteratura, musica, tradizioni) determinandone una specifica diversità rispetto ad altri luoghi. Ma è anche il riconoscersi in una identità che travalica la dimensione fisica per proiettarsi nell’immaginario, l’identità dei tanti libri, film, musiche che narrano di città e territorie che consentono una adesione sentimentale anche in assenza di un rapporto fisico col luogo. Identità e diversità culturale rappresentano le due facce di una stessa medaglia e hanno nella dimensione del contemporaneo una valenza culturale ma anche, sempre più, una valenza economica. È la diversità che alimenta i flussi turistici decretando talvolta le fortune di un luogo e dei suoi abitanti. Il design lavora oggi nella difesa e nello sviluppo di una diversità culturale che ancora appartiene a molti luoghi e intorno alla quale è possibile costruire pratiche virtuose nello spazio fisico e nello spazio virtualeIl luogo delle cose Il luogo è anche luogo delle cose che definiscono e scandiscono i rituali di vita. Sono le cose a mediare il rapporto uomo-spazio (architettonico o naturale), consentendo l’interazione con quest’ultimo ai suoi vari livelli. È anche attraverso le cose che lo spazio diventa luogo e sono le cose a veicolare la memoria degli eventi. In un’ottica di trasformazione continua degli spazi sono gli oggetti ad assumere il ruolo preminente generando o guidando i processi mutativi. La loro stratificazione nella città qualifica i rapporti funzionali e percettivi che abbiamo con gli spazi. Nella visione delle discipline del progetto, gli oggetti assumono nello spazio differenti ruoli: un ruolo prettamente funzionale (consentono lo svolgimento delle operazioni che compiamo negli spazi), un ruolo estetico (comunicano il trascorrere del tempo at-


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traverso l’adesione ad un linguaggio o ad canone estetico), un ruolo simbolico/rappresentativo (gli oggetti che comunicano) ed infine un ruolo identitario (gli oggetti “testimoni” di storie e identità). Alcuni ruoli competono specificatamente la definizione progettuale, altri sono ruoli più intimi che incrociano le storie personali e definiscono l’adattamento dell’abitante allo spazio, il suo “prenderne possesso”. Ogni ruolo che l’oggetto riveste tende a sviluppare relazioni. Gli oggetti sono generatori di relazioni e spazi, sono mediatori tra noi e il mondo (Barthes, 2002). Qualsiasi oggetto può assumere, in funzione della sua disposizione nello spazio e delle sue componenti specifiche (forma geometrica, dimensioni, motivi decorativi, materie, etc.), un vero e proprio ruolo di soggetto; in effetti qualunque oggetto, se non altro per la sua forma, ridisegna in qualche modo lo spazio in cui si situa: in altre parole gli “dà forma” e lo “trasforma”, cambiandone i significati che gli appartengono”(Grignani G., Landowski E 2002). Gli oggetti organizzano lo spazio e determinano le modalità con cui lo percepiamo, lo percorriamo, lo utilizziamo. Il luogo delle percezioni Se la percezione visiva ha un ruolo primario nel rapporto fisico ed estetico con lo spazio e nei processi di orientamento, le percezioni legate al gusto, agli odori e ai suoni lavorano sugli elementi associativi generando fenomeni di identificazione che sottendono al definirsi di un luogo. Ognuno di noi ha memorie di luoghi legate alla percezione di determinati odori (il mercato cittadino, il panificio di una determinata via, il refettorio della scuola, il negozio del barbiere etc). Il gusto e l’olfatto sono altresì cause scatenanti dei fenomeni di nostalgia; alcuni odori, ad esempio, ci rimandano al nostro abitare familiare quando ne siamo lontani: la memoria olfattiva diventa memoria dello spazio. La percezione dello spazio non è il frutto di una acquisizione passiva ma il risultato di un dialogo interno tra le informazioni che lo spazio ci restituisce e le informazioni che vengono prodotte dalla nostra memoria. Ciò che è già stato visto guida la percezione di ciò che stiamo per vedere. La conoscenza della realtà avviene attraverso i nostri recettori sensoriali che, oltre ad essere caratterizzati dalla soggettività individuale, sono condizionati dalla sfera culturale. Le informazioni che riceviamo attraverso il nostro apparato sensoriale guidano la lettura dello spazio condizionate dal bagaglio esperienziale. Questo incide sulla percezione e consente talvolta a persone diverse di avere una diversa esperienza dello stesso spazio. Storicamente gli ambiti percettivi, nella dimensione del progetto architettonico, hanno interessato gli aspetti concernenti il benessere abitativo e quindi le dinamiche caldo/freddo, luce/buio, silenzio/rumore, con aspetti tecnici in

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parte misurabili e verificabili; oggi tali aspetti, supportati da una letteratura scientifica transdisciplinare, si ampliano ad un rapporto con la dimensione emozionale che guarda allo spazio olfattivo, allo spazio dei suoni, allo spazio simbolico, allo spazio tattile, come elementi di interazione grazie ai quali si sviluppa il nostro rapporto personale con l’abitare sia negli spazi interni che negli spazi urbani. È un approccio che coinvolge in pieno la disciplina design che oggi guarda sia alle tecnologie che favoriscono tali percezioni sia alle modalità con cui il progetto può restituire tali elementi emozionali. La nostra concezione di spazio si amplifica al coinvolgimento di tutti i sensi: un approccio “sensibile” all’abitare che indaga quegli aspetti emotivi (spesso determinati dal vissuto personale), che possano essere esplicitati nel definirne le trasformazioni. Secondo il geografo cinese Yi-Fu Tuan (1977), è necessario indagare l’abitare dell’uomo nell’insieme dell’esperienza, attraverso sentimenti, sensazioni e percezioni nei confronti di spazi e luoghi. La topophilia di Tuan è la combinazione tra sentimento e luogo, la capacità dei luoghi di essere depositari e comunicatori dei valori, dei significati, delle aspirazioni che l’uomo manifesta, Aspetti che competono le connessioni tra spazio fisico e spazio mentale e quindi il cognitivismo o psicologia cognitiva, disciplina che in molti paesi sta entrando di diritto negli insegnamenti delle scuole di Design e Architettura. Il luogo delle narrazioni “Il luogo è qualcosa che ha a che fare con la memoria, con le emozioni e con il desiderio. Come la città calviniana di Ersilia, i luoghi sono una trama intessuta di rapporti. I luoghi stanno alla storia vissuta, come lo spazio sta al tempo cronometrato. Perciò, mentre i luoghi si riconoscono - si odiano e si amano -, gli spazi semplicemente si misurano. Ne consegue che i luoghi siano, in prevalenza, figure della differenza e della qualità, gli spazi dell’uniformità e della quantità. Nel luogo domina il significato originario del raccogliere e del riunire, nello spazio quello dell’intervallo e, quindi, della separazione, del confine e del conflitto. Ma se anche, per legge, posso farti spazio o negartelo, è solo nel luogo che ti posso accogliere. È solo qui, dunque, che l’ospitalità può aver luogo” (Tagliapietra, 2005). Personaggi ed eventi hanno la capacità di trasformare uno spazio in luogo restituendo al tempo a seguire la possibilità di creare interazioni con le persone attraverso oggetti e messaggi. L’adesione affettiva ai luoghi passa anche attraverso il desiderio dei visitatori di ripercorrere le tracce di coloro che li hanno vissuti rileggendone le storie nel rapporto con gli spazi. Vi è nell’immagine culturale della città e nei desideri e nei so-


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gni che essa alimenta un rapporto diretto e fisico col luogo, ma al contempo un rapporto con l’immaginario dei libri, dei film e delle immagini che lo precedono. Negli ambiti di applicazione di una dimensione narrativa della disciplina design vi è il tema ampio della ricucitura e ridefinizione dei rapporti tra i cittadini e gli spazi urbani e della costruzione o ricostruzione di processi di interazione con lo spazio. Si tratta non tanto di reinventare elementi di affinità con i luoghi, ma di leggerne con gli occhi della contemporaneità la biografia: piazze, vie, strade, possono narrare le tante storie di coloro che le hanno abitate, i luoghi sono parte essenziale del nostro patrimonio e del nostro mondo emotivo, sono “luoghi di sogni e di immaginazione” (Croce, 1913). Attraverso le architetture, i luoghi storici, i monumenti, le piazze, la città racconta molteplici storie ai propri abitanti e ai viaggiatori. Ed è la narrazione che alimenta il viaggio. Al narrare riconosciamo la capacità di comprendere e interpretare e di rappresentare dando forma di realtà a mondi veri o frutto della fantasia. Storicamente ciò è sempre avvenuto nelle città: targhe, monumenti, tabernaccoli, affreschi, toponimi, ci raccontano le tante vicende accadute nel tempo. L’entrare in contatto con una storia narrata può modificare il nostro rapporto con lo spazio trasformandolo in luogo e attivando i terminali percettivi nella costruzione di una interazione che si ripete nel tempo. Il luogo dell’ibridazione Il luogo si definisce dunque in un rapporto tangibile tra gli oggetti, le persone e lo spazio fisico, ma sempre più, nella contemporaneità, in un rapporto intangibile tra gli stessi e lo spazio virtuale. Un design che abbraccia lo spazio come terminale delle trasformazioni (l’allestimento è lo strumento applicativo del design nello spazio) guarda oggi al luogo come scena dell’ibridazione tra messaggi, oggetti e tecnologie. L’interazione tra fisico e virtuale genera gli spazi ibridi della città contemporanea che impongono un totale ripensamento delle modalità con cui sin qui ci siamo rapportati allo spazio. Parliamo di ‘spazi ibridi’ cosi come definiti da Elizabeth Sikiaridi e Frans Vogelaar nel loro laboratorio di Berlino: “Hybrid Space stands for the combinations and fusions of media and physical space. HyBrid spaces are the products of the alliances between physical objects and digital information-communication networks, of architectural urban and media space” (Hybrid Space Lab). Percepiamo il mondo da luoghi dove non siamo mai stati, da punti di vista nei quali non siamo fisicamente presenti e in questa relazione tra spazio fisico e cyberspazio si modifica ugualmente l’aspetto dello spazio urbano e la percezione che abbiamo della città. Il mon-

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do dei media tecnologici diviene rappresentazione del mondo reale. La percezione della città non deriva più da un rapporto diretto tra visione e memoria, ma piuttosto da un sistema di informazioni e stimoli tecnologicamente trasmessi; i dispositivi digitali stanno rimodellando le relazioni tra identità personali e locali, e modificando la percezione dei luoghi. Adriana de Souza e Silva parla di spazi ibridi riferendosi a quegli spazi nei quali, attraverso dispositivi onnipresenti, la rete digitale delle informazioni si integra col mondo fisico delle cose e degli ambienti di vita. Gli spazi ibridi sono creati dal movimento costante degli utenti veicolato da dispositivi portatili in costante connessione con la rete. Il design si pone come disciplina di connessione tra fisico e virtuale grazie alla sua capacità di intervenire sui processi di costruzione delle interazioni virtuali e di progettare i terminali informativi che esplicitano tali interazioni nello spazio. La tecnologia digitale si integra nell’infrastruttura urbana estendendo lo spazio virtuale nello spazio fisico. E sono anche questi processi trasformativi che contribuiscono a restituire allo spazio il valore di luogo. Conclusioni Le riflessioni di queste pagine indagano alcuni dei temi applicativi del design nella dimensione urbana ma sopratutto il ruolo forte della disciplina nel restituire allo spazio la dignità di luogo. Sebbene norme e pratiche tendono ad escludere il designer dai processi decisionali relativi allo spazio urbano emerge con chiarezza quanto, in alcuni ambiti, le competenze e le capacità di connessione delle conoscenze, che è nelle corde di questa figura professionale, possano rappresentare un contributo, utile e necessario, alla definizione di una nuova idea di città.


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Bibliografia Barthes R. (2002) Elementi di semiologia, Torino, Giulio Einaudi editore. De Nardi A. (2012). Paesaggio, Identità e senso di appartenenza al luogo: un’indagine tra gli adolescenti italiani e stranieri. Rivista Geografica Italiana n.119 pp. 33-57 Fenoglio M.T.(2007). Andar per luoghi. Natura e vicende del legame con i luoghi. Torino: Ananke Grignani G., Landowski E., L’arredamento di uno spazio abitabile in Landowski E., Marrone G. (2002) La società degli oggetti. Problemi di interoggettività, Roma, Meltemi Ed. Yi-Fu Tuan (1974). Topophilia: a study of environmental perception, attitudes and values. Prentice Hall: Englewood Cliffs. Yi Fu Tuan (1977). Space and place, The perspective of experience. Minneapolis: University of Minnesota Press Kronenburg R. (2007). Flexible: Architecture that Responds to Change, Londra, Laurence King Publishing Lazzerini L. (2020), Alcune considerazioni sull’utilità del camminare nell’insegnamento dell’urbanistica in Lazzarini L., Marchionni S.(2020) Spazi e corpi in movimento, Fare urbanistica in cammino, Firenze, SdT Edizioni. Lefebvre H. (1978). La produzione dello spazio. Milano: Moizzi Liotta E.(2005). Su anima e terra. Il valore psichico del luogo. Roma: Magi Edizioni Massey D. (2005), For space, Sage, London. Massey D, Jess P (a cura di 2005). Luoghi, culture e globalizzazione. Torino: UTET Poli D. (2014) Per una ridefinizione dello spazio pubblico nel territorio intermedio della bioregione urbana in Regola e il progetto : un approccio bioregionalista alla pianificazione territoriale. Firenze - Firenze University Press Relph E.C.(1976). Place and placeness. London: Pion Rose G.(2001). Luogo e identità: un senso del luogo, in D. Massey, P. Jess ( a cura di), Luoghi, culture e globalizzazione. Torino: UTET Tagliapietra A., Abitare la casa, abitare la città, in XÁOS. Giornale di confine" http://www. giornalediconfine.net/xaos/archivio/Lo spazio e il luogo andrea tagliapietra.htm Tagliapietra A.,(2005). Lo spazio e il luogo. La memoria ospitale, dal Convegno “Spazi del contemporaneo. Alghero, 29 settembre – 2 ottobre 2005 Note Alcune parti del testo sono state tratte e rielaborateda un precedente scritto: Oggetti, spazi e messaggi in Follesa S.(2022) L’interior viosto dal Design, Firenze, DidaPress.

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la giusta azione che trasforma lo spazio in un luogo: il design Francesco Armato

Architetto, PhD, Ricercatore e Docente Direttore del Lab. Mediterranean Inclusive Design - MID - Lab Università Mediterranea di Reggio Calabria - ITALIA

La Peschiera, Villa Adriana - Tivoli Roma, sketch Paolo Galli.

“Ormai era buio. I lampioni brillavano vivaci agli angoli delle strade, gettando pallidi circoli di luce sull’asfalto sotto gli alberi. Era quel breve momento sospeso tra le sei e le sette di una sera di novembre, quando i negozi sono già chiusi per il fine settimana, quando lungo Main street non sono ancora cominciate le scorribande in auto dei ragazzi delle superiori, quando persino la Holt Tavern è tranquilla prima della folla del sabato sera” (Haruf K. 2020, p.14).

I lampioni che brillano vivaci lungo la strada principale di Holt, nel racconto di Kent Haruf, è quella giusta azione che trasforma lo spazio in luogo e di conseguenza le cose assumono una fisicità da ricordare e da raccontare. I lampioni illuminano l’asfalto attraverso pallidi circoli di luce e trasformano lo spazio strada in un luogo con una forte identità: Main Street, un luogo dove le persone possono ritrovarsi per trascorrere delle ore di spensieratezza. Una quantità fisica circoscritta in una cornice narrante ricca di un’atmosfera particolarmente suggestiva. La differenza tra lo spazio e il luogo è molto chiara, lo spazio è un’entità geografica, spesso non definita, mentre il luogo è un’entità fisico ben definita, circoscritta e con un forte apporto socio-culturale. In ogni momento della nostra esistenza noi ci immergiamo nello spazio così come fa la gente di Holt sulla Main Street per incontrarsi e divertirsi con le loro auto compreso la folla di persone che il sabato sera si recano a Holt Tavern. Questi fenomeni di aggregazione sociale, trasformano porzioni geografiche in luoghi, e le quinte delle case diventano scenografie attive e stimolanti, dove le persone possano esprimere il loro modo di essere in modo organico con il contesto, stabilendo con i propri corpi nuove relazioni con le fisicità poste intorno a loro. La traslazione dallo spazio al luogo non sempre è cosi diretta come quella narrata da Haruf, perché nel ventunesimo secolo i luoghi urbani, soprattutto nelle grandi città, sono stati colmi di elementi inorganici, strutture e messaggi che si sovrappongono tra reale e virtuale, la francesco armato


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gente è immersa da una fluidità imperativa di cose che appaiono incomprensibili e difficile da decodificare. Per Despoetes, è “La mancanza di riferimenti spaziali nell’urbanizzazione contemporanea è a volte imputata alla complessità formale delle realizzazioni: il cittadino si perderebbe nelle grandi operazioni perché non potrebbe ritrovarsi nei sistemi di piattaforme, circolazioni, sovrapponibili di livelli immaginati dagli urbanisti. Lo spazio urbano tradizionale non indurrebbe al contrario disorientamento offrirebbe numerosi riferimenti perché sarebbe semplice e facilmente rappresentabile. […] Mentre prestiamo allo spazio urbano tradizionale una semplicità che ne permetterebbe una rappresentazione facile, confondiamo il senso simbolico - orientarsi nello spazio - e il senso obiettivo: poter costituire l’oggetto di una rappresentazione o presentare una buona “immaginabilità”, per riprendere la termonologias di Lynch”. (Despoets, 2008, p. 276) Non ricordare e non poter circoscrivere i momenti vissuti nello spazio e nel tempo le cose ascoltate e osservate crea una sensazione di grande caos, le cose si mescolano tra di loro provocando disorientamento e tensione percettiva, quando invece ricordare con chiarezza una esperienza vissuta in un luogo significherebbe dare linfa alla crescita personale, collettiva e sociale. Realtà di contatto Oggi le società si basano su concetti liquidi (Bauman, 2019), aggiungerei anche sfuggevoli, nei rapporti sociali nulla è più solido, non sono più le consistenze materiche a creare il contorno e l’identità fisica, i luoghi stanno perdendo la loro funzione aggregativa, passando dalle strade con le loro strutture commerciali e ricreative, negozi, bar, ristoranti, …, ai The Mall, contenitori, scatole architettoniche per poi raggiungere negli ultimi anni i luoghi immateriali e virtuali come l’Ecommerce, essere con gli altri ovunque stando a casa propria. Negli ultimi decenni la gente ha perso il contatto con le cose reali avvicinandosi sempre di più al virtuale, e i luoghi di contatto sono stati sostituiti da quelli virtuali. Il WEB è diventato il “luogo” per creare situazioni fisico-percettive, oggi sono di più le azioni fantastiche che quelle reali, non solo per acquisti online, ma anche per incontrare gli altri utilizzando gli innumerevoli Social Network che il mercato offre. Azioni che vengono considerate e praticate per raggiungere uno stato di benessere, ma che spesso risultano fittizi creando un senso di insoddisfazione e di disagio; potremmo definirla una evoluzione trasformativa surreale e non adatta ai sentimenti umani. Cambiare lo spazio in luogo, dare identità e personalità alle cose che ci circondano è


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una condizione intrinseca nell’uomo, spostiamo le cose, le aggiungiamo o le eliminiamo per creare conformazioni fisiche che siano sempre più adatte alle nostre esigenze sia funzionali che ludiche. Lo spazio si trasforma sia per fenomeni endogeni che esogeni e l’uomo lo percepisce come una mutazione costituita da relazioni che si susseguono nel tempo (Marrocco, 2014). È interessante notare quando la superficie-area prende forma dall’impulso energetico degli abitanti stessi, dal designer diffuso (Manzini, 2015), capillare a chilometro zero [1], reale e tangibile, le persone si ritrovano per decidere come allestire e modificare lo spazio che successivamente diventerà il loro luogo dello stare insieme. Il designer esperto (Manzini, 2015) è osservatore di azioni prodotte dalla gente, interpretando le nuove strutture che saranno idonee per sostare e vivere lo spazio pubblico. Azioni che soddisfano le esigenze e le pratiche sociali che si svolgono quotidianamente. Attivare azioni partecipative, Bottom Up, che trasformano lo spazio in luogo e che porta ad avere un equilibrio di valori che appartengono a tutti, risultato: giustizia sociale. Anirban Pal, afferma che non si possono raggiungere equilibri/accordi sociali solo con la responsabilità degli enti locali. La pianificazione deve essere fluida e deve comprendere tutti gli Stockholders. “Il governo nazionale ha un ruolo da svolgere nella definizione dell’agenda politica e dei valori generali come la giustizia sociale, il processo decisionale partecipativo comprese le voci delle donne della popolazione marginale, ecc. Deve creare condizioni che spingono a una maggiore trasparenza nel processo di pianificazione. Sebbene la legislazione a livello nazionale e statale da sola non può garantire l’adozione efficace di approcci alla pianificazione dal basso verso l’alto, potrebbe creare la base giuridica per l’azione di altri attori. “National government has a role to play in setting the political agenda and general values such as social justice, participatory decision making, including the voices of woman and of marginalized populations, etc. It needs to create conditions that push for greater transparency in the planning process.Although legislation at the national and the state level alone cannot ensure the effective adoption of bottom-up approaches to planning, it can create the legal basis for action by others actors.” (Pal A, 2008, p. 99) Ho un ricordo che spesso affiora nella mia mente, è il momento che ho percepito un cambiamento, una trasformazione da spazio a luogo. Un gruppo ristretto di persone parlavano e si mettevano d’accordo come e quali modifiche apportare in un piccolo slargo del paese per la festa patronale. La struttura spaziale di quel piccolo spazio stava cambiando la sua fisicità, tattile e visiva, assumendo una nuova connotazione, non più uno spazio anonimo, ma un luogo da ricordare, dove incontrasi e vivere momenti di spensieratezza per festeggiare tutti insieme.

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Per la gente che vive in un determinato luogo non è un semplice passante è semplice e diretto conoscere i margini e i confini dell’area che frequentano quotidianamente ed è più facile individuare quali funzioni aggregative sono mancanti o che potrebbero essere migliorate. Trasformare significa comprendere il campo di azione di un’area per il nuovo cambiamento, che non potrà mai essere di vasta scala perché è più difficile circoscriverla in quanto non è misurabile con lo sguardo e con le percezioni fisiche-psichiche di chi si accinge a farlo, non può investire tutta la città, ma saranno piccole regioni circoscritte, spazi scelti per intervenire e definire nuove e minute forme di abitare attraverso performance o allestimenti permanenti o temporanei. “La forma quindi presuppone l’esistenza di un confine: una linea, un intervallo più o meno evidente e complesso che rende riconoscibile la differenza tra interno e esterno, tra architettura e città, tra un sistema locale di elementi che la forma comprende e un sistema più grande, globale, entro cui è compresa, tra ragioni interne attraverso le quali la forma si sviluppa e ragioni esterne che la inviluppano.” (Mocchi, 2004, p. 239). L’azione derivata dall’impulso sociale porta di conseguenza ad una trasformazione che circoscriverà nuove relazioni, una nuova struttura spaziale che verrà percepita come cambiamento, che porteranno a nuove pratiche sociali e nuovi equilibri relazionali fra le parti che concorreranno a definire la scena fisica finale. Relazioni tra le cose, lo spazio e il luogo Trasformazioni che possono essere di tipo fantastiche-virtuali, non tangibili o materialmente fisiche-materiche, esse potrebbero condividere lo stesso luogo con tempi visivi percettibili diversi, ma si svilupperanno in lassi di tempo molto vicini tra loro. No è solamente l’uomo o la società a disegnare cambiamenti sullo spazio, ma è lo stesso luogo modificato che muterà le percezioni e le abitudini della gente.”[…] i fenomeni agiscono sullo spazio in un determinato spazio di tempo e le relative trasformazioni indotte si verificano nello stesso spazio di tempo all’interno del quale agiscono i fenomeni, la percezione dello spazio, per così dire: trasformato, da parte dell’uomo, pur avvenendo in quello stesso spazio di tempo durante il quale lo spazio si trasforma, tende a rimanere, a fissarsi nella memoria, fino a modificare definitivamente lo spazio.” (Marrocco R. 2014, p. 909) Kevin Lynch (2006) riferendosi al paesaggio urbano e agli eventi che lo trasformano rifletteva sul fatto che, sia l’utente che i mezzi in movimento sostituiscono e mutano continuamente la visione dello spazio.


la giusta azione che trasforma lo spazio in un luogo: il design • francesco armato

La percezione di una spazialità è in continua evoluzione ed è dovuta alle diverse relazioni che si instaurano tra corpi mobili, persone, auto, …, e il mondo che li ospita, insieme compongono la cornice tra significanti e significati, figure materiali e immateriali, tessere che appartengono allo stesso mosaico. “Tali relazioni non vengono date per scontate ma esse stesse divengono oggetto di analisi. Attraverso le relazioni dinamiche, lo spazio si mostra nelle sue dimensioni molteplici, date dalla combinazione di forze, particelle, connessioni, affetti e movimenti diversi. Partendo dalla consapevolezza che per comprendere un oggetto sia necessario studiare sistemi di conoscenza che lo hanno prodotto (Nuvolati, 2013), l’approccio relazionale di cui parla Massey produce il superamento della dicotomia tra le nozioni di luogo, quale dominio esclusivo del vissuto, concreto e sensibile, e spazio, quale dimensione astratta, lontana e separata dalle istanze degli individui (Sergot, Saives, 2016) […]” (Lazzarini, Marchionni, 2020, p. 30). La nostra presenza nello spazio, nel momento in cui passa da una stanza a un’altra, plasma la cornice dell’area che è stata circoscritta per realizzare i confini che definiscono lo spazio. Il nostro corpo muovendosi, da un punto ad un altro, all’interno della geometria spaziale cambia la configurazione fisica-visiva dei volumi in ogni singolo momento; accade sempre in modo diverso, ma con la stessa intensità. Succede la stessa identica cosa, ma in modo fantastico quando progettiamo, ci muoviamo in una quantità di spazi e volumi che si alternano nella nostra mente, dimensioni e proporzioni, che si relazionano tra di loro, immaginando infinite soluzioni con l’ausilio di una serie di schizzi o di appunti. Cosa differente, ma altrettanto similare è quando disponiamo degli oggetti su una mensola o su un tavolo, circoscriviamo con la nuova organizzazione spaziale una dimensione che racconta un vissuto, una memoria che acquista nuove configurazioni, una nuova identità d’uso. Modificare è un’azione sull’esistente attraverso un’energia che porta lo stato originario ad un cambiamento che può avvenire tramite la sostituzione, la somma o la sottrazione di elementi che occupavano una quantità di spazio che era presente prima e che ha prodotto una nuova visione dopo. Potremmo affermare che attraverso una nuova distribuzione, di vasi, di piatti, di bottiglie …, modelliamo il nuovo spazio per creare nuovi equilibri proporzionali che daranno all’utente nuove emozioni, nuove sensazioni che nascono dalla dislocazione degli oggetti stessi, è una logica compositiva prettamente personale, ma l’intenzione è quella di creare armonia e senso di appartenenza ad un luogo. “Più che il movimento nello spazio, le azioni dei conduttori sono una variazione di stati temporali interni che trovano nella manifestazione esterna di un movimento di rapporto una lo-

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ro manifestazione visibile. Potremmo definire questa situazione con un termine preso dalla fisica relazioni di stati di moto. “ (Tortolini M e Stasi A. G., 2009, p. 62). Per Paolo Galli (2005) il movimento e l’azione sono gli unici indici concreti del nostro essere lì in un determinato momento, una frazione di tempo, dove il nostro corpo modifica i rapporti spaziali attraverso la nostra stessa presenza. Le logiche adottate possono essere infinite perché infiniti sono i nostri sentimenti emotivi, che nascono dalla nostra cultura, dal nostro sapere e dagli innumerevoli fattori ambientali. Un giorno entrando a casa di un amico mi accorsi che gli arredi che aveva disposto a casa sua, a mio parere, sembravano senza una logica. Gli oggetti: sedie, tavolo, divano, credenza,... erano stati dislocati senza curare minimamente l’equilibrio delle forme (spazio e oggetti), dei colori e dei “pesi” geometrici, era come se tutto fosse stato poggiato o abbandonato in modo casuale. Ho osservato attentamente il tutto, ma non riuscivo a capire il nesso o il filo logico fra le cose che guardavo. Incuriosito ho chiesto come mai tutto quel disordine, il mio amico, candidamente, mi rispose che quello non era affatto un disordine, ma era il suo modo di mettere insieme le cose, il suo modo di comporre e rapportarsi con lo spazio. Gli oggetti erano stati posizionati rispettando i tempi di acquisto e quindi di arrivo all’interno dell’appartamento, di conseguenza il primo oggetto aveva trovato una posizione privilegiata rispetto agli altri, avendo avuto a disposizione l’intero spazio, gli altri oggetti man mano che arrivavano venivano collocati nei rimanenti spazi vuoti, uno accanto all’altro. Di fatto non c’era armonia, ma la logica adottata da chi abitava quel luogo era stata dettata da una gerarchia di ingresso dei suoi oggetti, nella sua casa quello che vedevo io era disordine, caos, mentre lui vedeva solo oggetti che sviluppano delle funzioni consone alle sue abitudini. La gerarchia d’ingresso accade in natura, è la conseguenza dei fattori: c’è, ci sarà sempre un prima e un dopo, questo processo se non è controllato dalla programmazione, dalla sensibilità e dall’estetica, può solamente causare caos agli occhi dei visitatori. Disporre gli oggetti nello spazio, sia che esso è un interno o un esterno, è sempre stata una peculiarità dell’essere umano, in quanto utili per soddisfare le proprie esigenze e dare identità al luogo dove abitare. Equilibri fisico-spaziale I luoghi dove noi ci muoviamo e trascorriamo parte della nostra esistenza parlano e raccontano la personalità di chi li abita è come se fosse una stratificazione del nostro mo-


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do di essere nello spazio fisico. “Lo spazio prende forma attraverso l’ausilio degli oggetti che vengono disposti all’interno di esso per creare nuove relazioni, quantità misurabili, rapporti metrici che prendono luogo per creare nuovi equilibri funzionali e sensoriali. Relazioni di lontananza, di vicinanza, di aderenza, …, che si creano tra le cose e le persone” (Armato F., Follesa S., 2020, p. 11). Anche il territorio ha una composizione casuale, ma la casualità è dettata dalle “leggi” che governano la stessa natura, e con il passare del tempo il territorio si plasma, crea equilibri e rapporti di fisicità: bellezza e chiarezza compositiva. Il territorio con le sue emergenze, le sue fisicità e i suoi segni identificano lo spazio; la posizione esatta dell’utente nel territorio, in questo modo si stabiliscono i vari rapporti di vicinanza o di lontananza, di inclusione e di esclusione, di frammentazione o di compattezza creando un equilibrio percettivo-sensoriale tra fruitore e paesaggio. Il cambiamento è una curiosità interattiva, spingersi oltre il percepito, è un bisogno dell’uomo, misurarsi quotidianamente con tutto quello che vive, per estendere la propria conoscenza e fare in modo che l’azione sullo spazio possa generare il luogo. “ Per riscoprire il mondo dobbiamo ritornare “alle cose” perché il mondo è conoscibile attraverso il radunare delle cose. Il ritorno alle cose richiede l’approccio fenomenologico, oggi questo ruolo appartiene alla scienza. La scienza, però “non è un accadimento originale della verità, ma coltiva un campo di verità già aperta”, come dice Heidegger, L. Khan Idea e Immagine (Schulz, 1980, p. 29). Qualsiasi elemento che vive o prende una determinata posizione sulla terra si trasforma o viene trasformato; il cambiamento è un adattamento lento e continuo. Pensiamo alle cellule che sono il livello più basso dell’organizzazione biologica, dotate di vita propria e che riescono a riprodursi e a modificare la loro struttura se hanno un ambiente idoneo per farlo, si trasformano se hanno quella giusta azione energetica, soprattutto quelle staminali che si trasformano e si specializzano all’interno delle ossa piatte per generare la vita. Modellare e trasformare lo spazio intorno a noi è un modo per sentirsi attivi e partecipi alla realizzazione del nuovo, e farlo con gli altri è un atto di grande condivisione, concorrere a trovare la giusta forma e il giusto equilibrio sia percettivo che fisico-spaziale, essere lì in quel preciso momento quando le cose accadono e lo spazio assume la sua identità di luogo. Così come l’ambiente naturale, che attraverso le azioni delle stagione, si trasforma per trovare la giusta armonia fra le parti che lo compongono. Lo stesso paesaggio cambia le sue connotazioni visive ed espressive dall’estate all’inverno, cornici, ritagli di spazio che si alternano, passando dal verde intenso della primavera al giallo rossastro dell’autunno.

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È una trasformazione che si ripete rispettando tempi e contesti, e nel ripetersi fa sì che la creatività, possa apportare un cambiamento continuo, un’immagine in evoluzione che condiziona positivamente le nostre emozioni, il nostro sentire in un determinato luogo. Il design facilita la scelta di una determinata azione e aiuta le persone nella fase di trasformazione a migliorare la loro esperienza nell’ambiente sia fisico che fantastico, trasformando gli spazi in luoghi; luoghi che abbiano la capacità di attivare funzioni che possano restituire un senso di benessere sociale, collettivo e individuale.


la giusta azione che trasforma lo spazio in un luogo: il design • francesco armato

Bibliografia Armato, F. (2007). Ascoltare i luoghi. Firenze: Alinea editrice. Armato, F., Follesa, S. (2020). Design degli interni, spazi di relazioni. Firenze: DidaPress, University of Florence. Desportes, M. (2008). Paesaggi in movimento, Trasporti e percezione dello spazio, tra XVIII e XX secolo, (trad. Bonini M. E Giordano I.). Milano: Libri Scheiwiller edizione.Galli, P. (1994). Parentele, fra le cose, il corpo e il pensiero. Firenze: Dipartimento di Prog. Architettonica, Università di Firenze. Haruf, K. (2020). La strada di casa. Milano: NN editore. Kahn, L. (1980). Lo spazio e le ispirazioni, in C. Norberg Schulz (a cura di), Louis Kahn, Idea e Immagine. Roma: Officina edizione. Lazzarini, L. Marchionni, S. (2020). Spazi e corpi in movimento. Firenze: SdT edizioni. Mocchi, M. (2004) ‘Dallo spazio al luogo: nodi, margini, reti’, Territorio, 55(4), pp. 239-248. Milano: Franco Angeli. Marrocco, R. (2014). Rilevare nel tempo. Rilevare le trasformazioni. Dal rilievo dello spazio fisico al rilievo dello spazio percepito, Italian Survey & International Experience. 36° Convegno Internazionale dei docenti della rappresentazione / XI Congresso UID, pp. 907-918. Roma: Gangemi editore. Pal, A. (2008). Planning from the bottom up, Democratic decentralization in action. Amsterdam: Delft University Press. Tortolini, M. & Stasi, A. G. (2009). Il laboratorio Di Immagini e scrittura creativa, Prassi e teoria, una ricerca sul pensiero rappresentativo. Empoli Firenze: Ibiskos Editric. Note [1] Km 0, la prima vota che è stato enunciato è stato durante una manifestazione locale, per promuovere, tramite un volantino, di grande gusto, piacere e benessere, un invito a consumare prodotti locali (La Repubblica, Emilia Romagna, 6 agosto 2005)

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design del fuori luogo Gianpiero Alfarano

Professore Associato di Design Architetto, Designer Direttore Scientifico Laboratorio Modelli per il Design - LMD Direttore Scientifico Smart Lighting Design Lab

Spazio messo in angolo dal “fuori luogo”. Foto di Silvia Vimini su ph. Chema Madoz.

Lo spazio lo percepiamo standoci dentro, il luogo lo portiamo dentro. Lo spazio ha bisogno di parametri fisici, tangibili. Il luogo è nella mente di chi guarda. Possono essere questi spiccioli accenni a permetterci di tracciare alcune caratteristiche che portino distinzione tra spazio e luogo? Più che rincorrere un’astratta distinzione tra ciò che possiamo definire spazio o ciò che intendiamo come luogo, nella pratica del vivere quel che conta di più è sicuramente la compenetrazione che sappiamo ricavarne dai due concetti. Quanto cioè riusciamo a travasare dell’uno nell’altro mentre frequentiamo la quotidianità. Nella fruibilità abituale esiste una certa dissolvenza nel considerare uno spazio un luogo e viceversa, talvolta da confondere l’uno nelle specificità che pensavamo definibili solo per l’altro. Un distinguo tra i due possiamo forse osarlo se consideriamo lo spazio come qualcosa che contiene e quindi lo classifichiamo come contenitore mentre al luogo attribuiamo il ruolo di codificatore di significati, quindi il depositario di contenuti. C’è comunque oggi qualcosa che sovrasta ogni cimento di distinzione o di classificazione ed è il sentirci fuori luogo rispetto ad una realtà che ci prevarica più che a farci fruitori consapevoli. L’accrescimento della complessità ci rende il mondo illeggibile, difficile da decodificare nella sua pienezza. Facile è invece essere fuori luogo, inappropriati, inadatti a capire e conoscere il mondo e forse anche a frequentarlo con partecipazione attiva. È come ad essere sollecitati da un’entropia psicologica dell’assenza, che riportata da canoni esistenziali a fattori fisici, possiamo definire percezione del vuoto. Qualcosa da colmare, o qualcosa da valorizzare? Si tratta di un retaggio culturale che viene da lontano. Ancora si aggira come antica disputa tra Aristotele e Pitagora. gianpiero alfarano


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Aristotele che negava l’esistenza del vuoto, Pitagora che lo riteneva necessario. Per Aristotele la natura “rifugge il vuoto. Lo riempie continuamente”. Pitagora non si limitava a darne considerazione dell’esistenza, ma lo riteneva necessario ad ogni possibile fenomeno di dinamicità. Scriveva che “se non ci fosse non avremmo il movimento”. Le posizioni aristoteliche furono imperanti per molti e per molto tempo. La filosofia scolastica addirittura ne rafforzò il concetto con il noto adagio “Natura abhorret a vacuo”. Neanche le evidenze di Torricelli del 1644, e di Pascal nel 1648, pur smentendo sperimentalmente l’Horror Vacui, riuscirono a conciliare la disputa con la riconoscibilità scientifica e dirimerne definitivamente la discussione. Cartesio non avrà il tempo per ravvedere le sue considerazioni e ne continuerà a negarne l’esistenza addirittura identificando il vuoto come sostanza corporea. Riteneva, infatti, sull’insegnamento di Parmenide, che l’attributo fondamentale della materia fosse l’estensione. Nessun ente fisico può esistere se non in quanto occupa uno spazio; dunque, tutto ciò che esiste in termini di materia ha una dimensione spaziale, è, cioè, “sostanza estesa”. In tal senso, il vuoto, cioè uno “spazio vuoto”, è assolutamente impossibile: Proprio tale “materia sottile” è, secondo Cartesio, ciò che noi, equivocando, scambiamo con il concetto di vuoto. Mentre Torricelli predisponeva le sue attrezzature per compiere il grande passo della “prova provata” sull’esistenza del vuoto, Cartesio provava con dei disegni a dare “corpo” ai suoi principi sulla concretezza del mondo rappresentandolo, con i suoi cosiddetti Vortici, la saturazione di ogni spazio. Sorprende ritrovare, nei disegni fatti a mano del 1644 dei Vortici cartesiani, corrispondenze con le esercitazioni digitali prodotte dal design generativo degli attuali algoritmi, ma ciò che il calcolo computazionale propone adesso, quasi come qualcosa di illimitata potenzialità espressiva dello spazio, nulla ha a che vedere con la ricerca visiva che Cartesio si proponeva di evidenziare. In tempi a noi più vicini, se lo storico dell’architettura Geoffrey Scott sente la necessità di ribadire implicitamente il ragionamento cartesiano, forse a persistere è ancora il concetto di trascuratezza nei confronti dello spazio vuoto, più che la rappresentazione dello spazio, come idea in sé o come presenza rilevante tra gli elementi. Egli scimmiottando la logica cartesiana ritiene che se il vuoto è lo spazio che ospita le forme e le forme sono materia solida, “lo spazio è la negazione di tutto ciò che è solido. Lo spazio è un niente e per questo noi non lo badiamo.”


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Emerge così evidente che questo antico dibattito, partito dalle teorie aristoteliche e posto in archivio in termini scientifici da Torricelli, si sposta dalla smania di riconoscibilità ad una focalizzazione sull’inadeguatezza. Le strutture con cui si realizza il mondo sono così notevolmente estranianti che le nostre strutture concettuali fanno fatica a stare al passo, neanche facendo gli straordinari. C’è una notevole discrepanza tra la nostra esperienza vissuta del mondo e la nostra capacità di concettualizzarlo e comprenderlo. E non è solo un problema di velocità, di riuscire a stare al ritmo, al tempo accelerato delle innovazioni, ma soprattutto di adeguatezza nel trovare equilibri tra le implicazioni che disintegrano gli ecosistemi e la coesione sociale per affrontarli. In questo il design si pone come interlocutore tra i vari spiazzamenti che in questi ultimi periodi la causa pandemica dell’isolamento e distanziamento ha acutizzato. Il design fin qui ha assunto una duplice posizione nei confronti del progetto dello spazio vuoto o residuale. Una che proviene dalla cultura dell’antica classicità greca che è arrivata a contare ampio consenso anche durante il Movimento Moderno. Ossia quella che ha sostenuto e sollecitato un’impostazione di adeguatezza basata sul controllo totalizzante dello spazio vuoto attraverso il progetto di ogni percezione di esso. Un’altra che, trascorsa in parallelo, ma con picchi di emergenza in tempi diversi, ha gestito il progetto, nei confronti dello spazio vuoto, mediante l’esigenza di dedicarsi ad ogni dettaglio per specificarne la presenza e non l’assenza. Questo ruolo il design lo ha assunto man mano nel corso degli ultimi decenni dedicandosi a riempire ogni interstizio trascurato dal progetto architettonico. Come avvenuto nelle miniature e negli arabeschi, nell’arte gotica o nel barocco fino alle ultime espressioni nel postmoderno, il pieno ha prevalso su ogni stilema proprio per celebrare la capacità di dominazione. Sia che si trattasse di controllo totalizzante sia di demarcazione della presenza, nei due aspetti si coglie evidente il senso smanioso del controllo, del voler governare qualsiasi incertezza che lo spazio vuoto potesse provocare. Ma è altrettanto evidente quanto con l’accrescimento delle istanze sociali e dei nuovi comportamenti antropici si sia avuta una scarsa corrispondenza e un inappropriato contributo della cultura del progetto architettonico o di design nell’offrire disponibilità e coerenza alla fruizione. Sentiamo oggi, più che in qualsiasi altro tempo, rinnovato il bisogno di riappropriarci di spazi, degli interstizi vuoti voluti o lasciati dal progetto e di riattribuirne nuovi significati con più appropriatezza all’idea di vuoto che corrispondesse alle nuove relazioni interpersonali e sociali. Per ottenere questo gli spazi vuoti devono smettere di essere considerati da riempire. Smettono di essere dimensioni fisiche di contenitori per passare ad essere più che altro depositi di memoria, laboratori di percezione dove l’esistenzialità personale incontra quella collettiva. Lo spazio si trasferisce nelle potenzialità del luogo che essendo concettuali sono molto più vaste delle delimitate dimensioni

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fisiche che ogni spazio assume per poter essere geograficamente identificato. Lo spazio è quel che è, il luogo è multiplo, sovrapponibile a sé stesso perché è attribuibile e non percettibile. Questa esperienza di spazio vuoto che si trasforma in luogo la viviamo facilmente ammirando un panorama. Definiamo panorama una vista che ha vastità di spazio. Tanto vuoto tra noi e quello che ci circonda. Lo definiamo così perché ce ne sentiamo partecipi, ci sentiamo di poter corrispondere a quella parte dilatata tanto da sentirci noi parte di quello che vediamo. Stando in un viottolo oppure in un angolo di cortile, in una strada di città o in metropolitana non diremo mai che bel panorama perché il senso della spazialità che percepiamo ci dà la possibilità di interagire con essa, di poter condizionarne fisicamente le componenti. Quindi è in quella situazione di dimensione ridotta che si insinua l’idea ovvia di progetto. L’idea che in fondo lo spazio delimitato possa essere di facile acquisizione, controllo, se non addirittura soggetto ad essere modificato. Di fronte ad un panorama tutto questo è difficile se non già impossibile nella sua ovvietà. Poter cambiare un panorama, intervenire su un tramonto visto dalla riva del mare o spegnere il rumore di una cascata diventa, oltre che velleità, un’operazione che anche cognitivamente ci esoneriamo da considerare. Essere partecipi dell’immensità di quello spazio, oltre che percepirlo, prestargli attenzione, ascolto, ci rende un invito ad essere presenti come a farne parte in modo esclusivo. Per far questo, per partecipare di ciò che stiamo osservando, occorre immergersi e fermarsi. Il panorama ci chiede di smettere di muoverci, di viaggiare, di viaggiare anche con la fantasia se non vogliamo perdere ogni dettaglio del suo godimento. Si dice, mi sto godendo il panorama ed è un fermo immagine immersivo. È quella una delle poche condizioni che non sentiamo più voglia di spostarci, ma di stare. Di stare a partecipare di ciò che succede. Cerchiamo confidenza con quel posto. Nella sostanza lo stiamo abitando. Siamo in una situazione in cui il nostro racconto su ciò che vediamo si annulla, ne perdiamo il filo della continuità del nostro raccontarci di esso per lasciare che siano quelle sensazioni che solo in quel momento e da quello spazio ci arrivino. L’orizzonte, che Leopardi oltre la siepe descriveva, era spazio reale esistente e scontato, percepibile e tangibile anche se non visibile, ma era il suo sentirsi fuori luogo e la consapevolezza di vivere oltre il visibile che sostanzialmente testimoniava. Gli spazi si abitano, i luoghi si vivono. Da Leopardi possiamo aver appreso il precetto per tenere fisso l’ago della bussola, ma dove siamo in questo momento storico di distanziamento e di restrizioni delle attività collettive? Sentiamo rinnovato il bisogno di riappropriarci di spazi e di riconoscere nuovi significati ai luoghi, ma non abbiamo più lo stesso slancio avuto fin qui nel determinare legittimità di distinguibilità. Quel che per Aristotele risultava inesistente, per noi oggi è forse persistente. Un senso di smarri-


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mento, di irraggiungimento non solo nel rapporto con la distanza, ma nel modo con cui il vuoto determina incapacità di esserci. Pascal riteneva che noi esseri umani siamo stanziali tra “il nulla e il tutto”. Siamo solo un lampo nell’immenso vuoto che c’è e questo ci rende infelici nella nostra condizione di mortale debolezza. Ciò che nel 1660 Pascal deduce dalle sue speculazioni analitiche, noi oggi lo abbiamo vissuto realmente. Un Pascal che anzi tempo aveva già individuato le ragioni del disagio di cui noi oggi siamo carichi più che ogni generazione precedente alla nostra. Egli scrive: “ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera.” Non era solo l’impossibilità di uscire di casa che lamentava così come tutti noi oggi abbiamo sperimentato in tempi di pandemia, ma l’impossibilità di dominare quel vuoto cosmico che ci assale da sempre. Se per molti, fino a poco tempo fa, era rilevante colmare il vuoto, riempire gli spazi, possedere e delimitare, oggi a prevalere è il dominio che addirittura prevarica il senso stesso di possesso. Oltre al possedere, dogma della modernità, si insegue un certo dare identità a ciò che pensiamo di essere in grado di avere con in più sapendo di accedervi facilmente. Non a caso di dominio si tratta quando cerchiamo qualcosa in Rete. Nell’ “Era dell’Accesso” come ha ben evidenziato Rifkin, conta più di qualsiasi altra cosa, la possibilità di accedervi, di poter entrare e farne parte di scambi e relazioni molto spesso casuali più che volute e consapevoli. Lo spazio che la Rete definisce si dispone ad essere luogo comune, ma non nel senso dell’appartenenza che chiunque può avere, ma nella generalizzazione dei significati tanto da ridurli a mere raccolte di dati di ciò che ha solo nel “diffuso” la consistenza valoriale del fenomeno: big data production system. All’ horror vacui, esistenziale si sostituisce oggi lo spazio aperto, illimitato della Rete sempre più frequentato. Sempre più accessibile e sempre più luogo di connessioni di offerte e richieste tanto da essere diventato un espanso centro commerciale in cui la percezione della realtà è subordinata alle possibilità di velocizzare il processo di scambi economici. Se essere su internet significa essere in luoghi in cui le merci si promuovono e si presentano, significa essere all’interno di spazi aziendali privati senza tuttavia percepire soluzione di continuità. C’è da chiedersi: e lo spazio pubblico? Che cosa ce lo fa distinguere ancora dai luoghi comuni digitali? Forse è da quest’ultimi che dobbiamo prendere le distanze e sentirci fuori luogo.

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Bibliografia Armato, F. (2017) Abitare gli spazi singoli, in Follesa S.(a cura di) Sull’Abitare. Milano: Franco Angeli. Armato, F. (2017) Abitare l’intervallo, in Follesa S.(a cura di) Sull’Abitare. Milano: Franco Angeli. Berti, E. (2013) Aristotele. Brescia: La Scuola. Capparelli, V. (1988) La sapienza di Pitagora, vol 2. Roma: Mediterranee. Follesa, S. (2014) Design&Identità. Progettare per i luoghi. Milano: Franco Angeli. Gianfrate, V. & Longo, D. (2017) Urban micro-design. Milano: Franco Angeli. Himmelblau, C., Gossel, P. & Monninger, M. (2010) Coop Himmelb(l)au Complete Works 1968-2010. Cologne: Taschen. Lollini, M. (2001) Il vuoto della forma. Torino: Marietti. Orelli, L. (1996) La pienezza del vuoto. Bari: Levante. Pascal, B., Sellier P. & Papasogli B. (2003) Pensieri. Roma: Città Nuova. Penkiunas, D. J. (1984) Geoffrey Scott’s “fallacies” in the Architecture of Humanism. Virginia: University of Virginia Press. Prete, A. (1998) Finitudine e infinito su Leopardi. Milano: Feltrinelli. Rifkin, J. (2001) The Age of Access: The New Culture of Hypercapitalism. Londra: Penguin Publishing Group.



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l’arte dello spazio pubblico: murale ed intervento pittorico Marilaine Pozzatti Amadori

Designer, PhD, Ricercatrice e docente, Laboratorio di Superfici Design - LabSuper, Dipartimento di Design Industriale, Università Federale di Santa Maria - BRASILE

Parco Itaimbé, centro della città di Santa Maria, Sud del Brasile.

“L’arte cambia la vita delle città”. Kobra

Lo Spazio Pubblico. L’esistenza di spazi pubblici aperti in cittá che integrano lo spazio naturale e quello costruito, consente l’interazione fra le persone diventando in tal modo spazio di relazione. Questi luoghi di incontro e socializzazione dimostrano la diversitá socio-spazio-culturale della città. L’ambiente pubblico è costituito da spazi diversi tra loro: vie, piazze, parchi, ecc., spazi in cui le persone passano velocemente, o spazi in cui si fermano, sia per il tempo libero che per lavoro. Si può affermare che questi sono i veri spazi pubblici, i più democratici, che consentono l’accesso libero a chiunque. In questo senso, il campo dell’Arte pubblica, incorpora sculture, murales, installazioni, proiezioni, con “sempre maggiore interesse delle istituzioni, che alimenta le sovrapposizioni tra Street Art e Arte Pubblica o Arte Commissionata – concretizzatesi nella grande diffusione internazionale del muralismo urbano” (Enciclopedia Treccani). Attualmente queste espressioni portano il discorso su un piano differente rispetto a quello a cui l’origine dell’espressione Street Art o Arte Stradale faceva riferimento. Anche stencil, graffiti, adesivi sono oggi espressione di Arte Urbana. La parola murales è riferita a muro, con origine etimologica nel latino murālis. È il termine utilizzato anche per designare un dipinto che viene eseguito su una parete. Secondo il dizionario Infopédia si tratta di “un dipinto, generalmente di grandi dimensioni, realizzato direttamente su una parete o su un muro”. Per il dizionario Michaelis un murales è, più specificamente, “Qualsiasi opera d’arte, solitamente di grandi dimensioni, utilizzata per ricoprire o decorare una parete o parte di essa. (...) Una serie di scene continue che forniscono una panoramica di un determinato soggetto.”(2016). Con ciò si può dedurre che il murales marilaine pozzatti amadori


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è uno spazio visivo che trasmette un messaggio, su un tema che può essere artistico o di protesta e riflette un panorama o un insieme di immagini, grafici, simboli, per comunicare il tema, il concetto e la rappresentazione visiva di un argomento. I murales possono stare in spazi interni o esterni, hanno la funzione di attirare l’attenzione, oltre che di ambientare il luogo. I murales sono considerati veicoli visivi in ​​quanto possono essere letti o visti da lontano. Arte Murale si dice di una opera pittorica, quasi sempre di grandi proporzioni, tenuto a muro o a parete. L’arte murale presenta, nella sua concezione, una potente composizione di libertà artistica, che sfugge alle rigidità accademiche, trovando così grandi potenzialità espressive. I murales, fin dai tempi più antichi, hanno presentato varie forme come pittura, mosaico, ecc. Nel Medioevo, hanno raggiunto un grande sviluppo, in particolare, in Italia, con gli affreschi. Il Muralismo era coltivato anche nelle diverse civiltà. Diego Rivera pittore e muralista messicano. Il Graffitismo nasce proprio dagli scritti sui muri nella metà del secolo XX, come un’espressione dei ragazzi in via, hanno sviluppato stile diversi di scrittura e composizione con lettere quasi non leggibili. Nato marginale, realizzato o con il pennarello o con lo spray, questo tipo di arte si è evoluto da semplici scritti a vere composizioni che includevano anche disegni ed un accurato lavoro di colore. Gli artisti dei Graffiti si sono evoluti iniziando a farsi riconoscere dai propri stili di rappresentazione visiva. Il Graffitismo si è approssimato al murale arrivando al punto di essere difficile distinguere il confine fra uno e l’altro. I graffiti e la Street Art non sono la stessa cosa. Nella prima, l’artista non intende necessariamente che altri comprendano il suo lavoro. Ciò che è stato scritto sul muro è qualcosa per soddisfare se stessi o altri scrittori di strada. Mentre nell’altra forma artistica, il messaggio è passato alle questioni pubbliche. Inoltre, non esiste un materiale standardizzato da utilizzare, come nel caso dello spray per graffiti. Le somiglianze sono solo nell’uso dello spazio pubblico. Si riconoscono illustri muralisti e artisti dei graffiti, che sono diventati famosi per il loro lavoro e il loro stile. Questi, tuttavia, elevarono la Street Art al livello di arte, riconosciuta come un tipo di arte contemporanea. Per Intervento Pittorico si comprende la pittura di qualsiasi natura in qualunque tipo di supporto. Possono essere grandi superfici localizzate di piccoli o grandi dimensioni, da piccole piazze a grandi spazi delle città. Alcuni artisti e designers scelgono questa forma di arte perché la considerano più democratica. Infatti un murale è lì alla vista di tutti quelli che passano in quel posto. È una forma di arte pubblica, è democratica, ed è un intervento pubblico. Il focus di questa


l’arte dello spazio pubblico: murale ed intervento pittorico • marilaine pozzatti amadori

riflessione, in particolare, è sugli interventi pubblici che coinvolgono o sono realizzati da artisti, sugli spazi a disposizione per incontri e vita comunitaria. Spazi di relazione: luoghi d’incontri Spazi dove le persone possono incontrarsi, passeggiare o visitare. A Parigi, l’artista Dface ha dipinto un murale in cui l’atmosfera di Andy Warhol con personaggi che sembrano sempre aggirare il pericolo, fa compagnia alle persone che parlano sedute sulle panchine e i ragazzi giocano sulla sabbia della piazza sottostante. Nel Parc de Belleville, a Parigi i pilastri della hall sono dipinti, impreziosendo l’ingresso. Per le strade di San Paolo un punto tradizionale del movimento artistico urbano, la Rua Gonçalo Afonso, conosciuta come “Beco do Batman”, è diventata una galleria a cielo aperto, che riceve migliaia di turisti durante tutto l’anno. I murales nelle città: contesto spaziale Adeguatezza allo spazio bidimensionale. Sono i murales progettati per i muri o facciate degli edifici. Basta adeguare al supporto orizzontale o più verticale, però senza trascurare l’insieme degli edifici attorno che compongono il paesaggio urbanistico. Nel caso dell’adeguatezza allo spazio irregolare, esistono murali che si adeguano agli spazi o alle imperfezioni di essi. Progetto in cui il disegno e la composizione dialoga con la specificità degli spazi. A Parigi questi murali sono trovati appena ad ovest della stazione della metropolitana nazionale sotto entrambi i lati dei binari. Occupano lo spazio dentro una mezza luna. Anche Yseult Digan, conosciuto come artista di poster, ha dipinto una composizione floreale, semplice e monocromatica, “Ornament” mostra caratteristiche che compongono con gli arabeschi dei balconi attorno. I Murales che circondano gli edifici, in questi casi gli interventi circondano gli edifici cubici che per vedere il tutto si deve camminare attorno ad essi e allo stesso tempo, ogni facciata è indipendente e fa parte della stessa opera. Ad esempio l’artista Makarra, “Projeto cores do mundo” dipinge il murale Indigo in Argentina. Gli interventi sulle scale sono diversi attorno il mondo. Lo spazio e le caratteristiche dell’artista diventano un tappeto visto nel percorso di salita. L’Avenue Tiled Steps a San Francisco, la scala con un bel mosaico ceramico. A San Paolo Kobra ha dipinto la “Escadaria das Bailarinas” dove ha disegnato cinque ballerine sui gradini della scala e sui muri dello spazio, a Pinheiros, a ovest della città. Kobra: dal graffiti al murales L’artista brasiliano Carlos Eduardo Fernandes, noto anche come Kobra, è uno dei muralisti più riconosciuti al mondo. Le sue opere sono presenti in più di 17 paesi. Kobra colora le

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città di tutto il mondo con i suoi inconfondibili graffiti. È stato influenzato da muralisti come il messicano Diego Rivera (1886-1957) e il brasiliano Di Cavalcanti (1897-1976), due esponenti dell’arte murale del XX secolo, oltre all’americano Jean-Michel Basquiat (1960-1988) e Kurt Wenner. Nel 2005, ha creato il progetto “Muros da Memória”, influenzato da una visita ad una mostra di fotografie degli anni ‘20, nella città di San Paolo, che mostrava palazzi e alberi sull’Avenida Paulista. Per lui il tema della memoria promuove il salvataggio della storia delle città, dove trova differenze in relazione a quel luogo. Uno degli obiettivi è ricostruire artisticamente qualcosa che la città non ha conservato e di cui i più giovani non sono a conoscenza. “L’idea è quella di sensibilizzare sull’importanza di preservare il patrimonio storico della città. È una delle parti del lavoro, quando ricostruiamo artisticamente, spesso finiamo per ricostruire questo patrimonio, che spesso non è stato preservato...” (Kobra, 2015, p. 195). Per lui quando queste immagini sono dipinte sul muro, è reso disponibile l’accesso a milioni di persone e giovani che spesso non avevano conoscenza su quel tema. Kobra è arrivato a sviluppare murales di grandissime dimensioni. Kobra utilizza il realismo pieno di colori come marchio personale. Le immagini di personaggi storici sono diventate una delle caratteristiche più sorprendenti delle sue opere. Kobra ha immortalato personaggi famosi della storia e della cultura pop come Frida Kahlo e Diego Rivera, Ziggy Stardust, Gandhi e Madre Teresa. Il trio Darcy Ribeiro, Clarice Lispector e Paulo Freire, stilizzato in un murale sulla parete di Lajeado Omar Freitas. “Mi piace che i murali abbiano questo problema non solo estetico, ma mandino anche un messaggio. Questa, oggi, per me, è la sfida più grande. È più avanti del dipinto stesso. Ci sono posti nel mondo di cui non so nulla. Quindi vado in biblioteche, musei, faccio ricerche per creare un pannello rappresentativo del luogo” (Piffero, 2020). Il murale di Kobra “Etnias”, a Rio de Janeiro, è alto ben 15 metri e totalizza 3 mila m² ed è nel Guinness Book dal 2016, per essere il più grande murale al mondo. Poi l’opera “Cacau”, un omaggio al cioccolato, nel 2017, occupa una parete di 5.742 m². Le loro opere hanno lo scopo di educare e salvare il patrimonio attirando l’attenzione con volti storici e la memoria della città. Collettivo muda: modulo ceramico I designer Bruna Vieira e João Tolentino e gli architetti Diego Uribbe, Duke Capellão e Rodrigo Kalache dal 2010 compongono il Collettivo MUDA. I loro interventi tentano di trasformare gli ambienti urbani ostili attraverso i loro murali colorati e astratti a Rio de Janeiro. Partiti da un forte legame con i graffiti e la città, il gruppo ha iniziato i loro


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esperimenti sulle interferenze nello spazio pubblico, che subito sono diventati installazioni complesse e pragmatiche. I mosaici realizzati con le piastrelle e le città trovano una perfetta simbiosi nella sfera della modernità del paese, sono ispirati da Athos Bulcão e Paulo Werneck. Ogni intervento è specifico, cioè progettato esclusivamente per il luogo in cui verrà installato, e i suoi moduli studiati per garantire la caratterizzazione della composizione. In questo modo, il gruppo cerca di interferire nella vita quotidiana della città e dei suoi passanti, cercando di mettere in risalto gli spazi invisibili, rendendoli più rilevanti. Sono interventi bidimensionali, murali, pannelli con le piastrelle incollate sulle facciate di edifici, supporto di viadotti, pareti per piscine o pannelli in piazze in dimensione che variano da piccole a grandissime. Gli interventi tridimensionali come ad esempio una installazione: l’oggetto cerchio lame con un segmento di moduli geometrici, distribuiti nello spazio in modo perpendicolare, hanno una porta che raffigura l’entrata delle persone, coinvolgendo lo spettatore all’interno del paesaggio. Tutto questo permette un’esperienza sensoriale e spaziale, dentro e fuori dalla visione percepita. Il Parco Itaimbé L’Arte Pubblica del Parco Itaimbé a Santa Maria, sud del Brasile. Ci sono stati dei bandi per promuovere degli interventi negli spazi distinti del parco, sia prima della pandemia che durante per aiutare gli artisti che erano rimasti senza lavoro. La Legge Aldir Blanc è una Legge Federale n.14.017, del 29 giugno 2020, che prevede interventi di emergenza rivolti al settore culturale da adottare durante lo stato di pubblica calamità. Un bell’esempio locale di incentivo alla cultura. Un grande spazio pubblico, luogo d’incontro fra persone ed animali, con un’area approssimativa 63.500 m². Sul lungo parco, la strada per camminare è attraversata da vari ponti sotto i quali ci sono stati interventi pittorici sia graffiti sui muri che murali nelle facciate dei grandi quadranti interattivi di concreto nella piazza. Il parco accoglie una diversità di temi, tecniche e stili di rappresentazioni. Lungo il parco le persone usufruiscono dello spazio di relazione in mezzo alla natura buono anche per respirare l’aria fresca. Lo Spazio Pubblico come lo spazio orizzontale e verticale dell’ambiente costruito diventa un paesaggio aggiunto con l’insieme degli elementi disposti e esposti nelle facciate e negli inserti visti da vari punti di vista dipendendo da dove l’osservatore si trova. In questa prospettiva lo spazio dovrà essere pensato in termini di forme, dimensioni e composizione dello spazio stesso della città. La relazione fra tridimensionale e bidimensionale. Ma anche l’equilibrio fra tutti gli elementi affinché la composizione diviene più armonica che caotica. Pensare gli interventi rispetto allo spazio è fondamentale per giungere per rendere qualità estetica all’ambiente pubblico urbano.

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Bibliografia CGTN America (2021). Eduardo Kobra: Expressing His Feelings Through Art [Video]. YouTube. Available at: https://www.youtube.com/watch?v=mk9IgUCfRwg Infopédia Dicionário Porto Editora.(n.d.), Mural [Online]. Available at: https://www.infopedia.pt/dicionarios/lingua-portuguesa/mural Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani S.p.A. (n.d.), Street Art, TRECCANI [Online]. Available at: https://www.treccani.it/enciclopedia/street-art/ Itaú Cultural(2021). Muralismo, Enciclopédia Itaú Cultural de Arte e Cultura Brasileiras [Online]. Available at: http://enciclopedia.itaucultural.org.br/termo3190/muralismo Marthe, M. (2020). A arte de rua virou a melhor tradução cultural da pandemia pelo mundo, veja [Online]. Available at: https://veja.abril.com.br/cultura/murais-urbanos-preenchem-o-vazio-das-cidades-com-mensagens-de-esperanca/ Mendonça, C. (2019). Arte Urbana, EDUCA+BRASIL [Online]. Available at: https://www. educamaisbrasil.com.br/enem/artes/arte-urbana Piffero, L. (2020). ‘A arte muda a vida das cidades’, diz Kobra, que pintou muro com Clarice Lispector, Darcy Ribeiro e Paulo Freire, Cultura e Lazer, GZH, GrupoRBS. Available at: https://clicrbs.com.br Uberti, M.T. (2015). ‘O mural de Eduardo Kobra em Santa Maria: diálogo ou imposição no espaço urbano’, Revista Digital do LAV, 8(2), pp. 190 - 213. Available at: http://dx.doi. org/10.5902/1983734819872 Webuzzadmin (2014). Il nostro articolo più popolare – 17 delle più belle scale in tutto il mondo [Online]. Available at: https://www.spazidilusso.it/17-delle-piu-belle-scale-in-tutto-il-mondo/ Sitografia Coletivo MUDA, disponibile in https://www.coletivomuda.com.br



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the image-thinker kangaroo Giovanna Caimmi

Artista, Accademia di Belle Arti Bologna - ITALIA

La casa buia, foto di Giovanna Caimmi, Bologna, 2020.

Un bel giorno (ma era proprio un giorno bello?) le case cominciarono ad ammalarsi. Ce n’era una, in particolare, davanti cui passavo ogni giorno per andare al lavoro, che cominciò ad attrarre la mia attenzione: era la casa buia. Com’era accaduto che diventasse sempre più scura e cupa? Tutte quelle attorno a lei sfoggiavano colori sfolgoranti. Lei, l’unica - la sola scura. Quell’oscurità le si era avvinghiata addosso, le scritte e le pitture che ne percorrevano le pareti parevano foglie di rampicante in putrefazione. Aveva cominciato ad ansimare. Gli occhi palpebre semiabbassate di un volto senza ciglia. Ricordava vagamente la bocca spalancata in cui era entrata una bambina, tanti anni prima, nella grotta di Bomarzo, che pareva non uscirne più, il padre rimaneva fuori sbigottito e non sapeva cosa fare. Passata la paura, in abitazioni come queste si può pure entrare, ma ci si accorge che sono andate fuori asse, putrefacendosi i pavimenti al piano superiore tendono a inclinarsi, le lettere gocciolano dagli stipiti verso i battiscopa. Entrando si rischia un pò di mal di stomaco. Per simpatia, dopo un po’, la porta sceglie le vie definitive e finisce per ricordare la bocca spalancata della casa dipinta da Brueghel, o l’entrata per le terga nella casa di Bosch, quindi alla fine si torna sempre al principio, per fortuna. La casa buia si ostinava a dire la verità del nero, quasi si fosse dimenticata delle rassicuranti intenzioni che il Comune regalava ai ragazzi del centro sociale insieme alle bombolette spray per street-art, “Dategli un muro, che si sfoghino”; quei bei ragazzi puliti, in pantaloncini e maglietta candida, che alla sera tornavano nelle loro case pulite, e a cui la mamma aveva visto bene di arredare la stanza da letto con una carta da parati street - art che poi magari quando crescono si può togliere e non sporca. Da lei invece si dormiva sulla porta d’ingresso sotto la pensilina in eternit, dove sventolavano le bandiere di una qualche patria, dentro a un sacco a pelo con i colori del Milan. Io ci facevo un giro attorno per vedere di non disturbare il dormiente, quella era una casa quadro, secerneva liquidi putridi di pittura e forse erano quelli che facevano addormentare le persone, giovanna caimmi


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infatti uno era passato di lì per arrivare alla casa di fianco e poi era stramazzato a dormire nel sole riverso sui gradini. Era una grafica ammalata, di lì a poco sarebbe arrivata a divenire pittura, me lo sentivo, stanca di stencil che in quindici minuti risolvono i problemi alle copertine dei quindicinali. Qui catenacci e verità, e gli alberi spelacchiati che evitano di mettersi in posa per la foto. Le autorità prudentemente la incatenarono. Nata scura, aveva preso sempre più pondus, era invecchiata e diceva la pittura, pregna di colore come una antico affresco, i graffiti divennero sinopia, i bruni e gli ocra si riconsacravano. I grovigli delle parole e gli intrecci delle piante che si arrampicavano sulla cancellata erano ormai in piena simbiosi. In quel quartiere tutti erano faceless, mentre io giravo con la mia faccia esposta e sentivo il solito problema con il circostante: “Il mio problema è la circonferenza - Un’ignoranza non d’abitudini, ma quando l’Alba mi raggiunge - e il Tramonto mi vede - Io, l’unico Canguro in tanta bellezza, Signore, se non le dispiace, ne soffro, e ho pensato che i suoi consigli me ne avrebbero liberato” (Dickinson, 2006, p. 80). Nelle parole della Dickinson, si rifletteva tutta la mia vita. Io ero face to face alla casa e mi sentivo non meno capace di salti di quel macropodide. Come si sarà inteso, erano salti da immagine a immagine, era quel pensare attraverso di esse che mi trasportava soprattutto in momenti di abaissement du niveau mental, e ora stavo Baconizzando la casa buia, la stavo rendendo eroica, come se il tempo avesse provveduto ad addensare di strati di colore dove in verità era stato data una sola mano di smalto really cheap. Nella mia mente era diventata sempre più simile a un dipinto. In quel periodo faceless accadeva che tutti si stesse nelle proprie abitazioni, che una volta erano piene di quadri, ma ora i dipinti erano tutti fuori e in casa niente. Quindi se volevi vederne ti toccava trascinarti fuori, e quella era quasi la sola ragione per farlo dato che tutto il resto si poteva fare comodamente da casa. Mentre ci trascinavamo fuori in tanti, noi stessi diventavamo dipinti ripresi dalle camere di sorveglianza, ma non ce ne accorgevamo, eravamo cibo-immagine per i sorveglianti addetti, senza averne coscienza. Comunque non potevamo farci nulla, il desiderio di vedere dipinti si trasformava in una ronzante nostalgia, anche se sapevamo che i dipinti erano tanto cambiati. Prima, per esempio I dipinti avevano sempre scelto la parete e i vicini a cui affiancarsi, ma ora accettavano quel che gli capitava. Prima controllavano lo spazio, ora, apparentemente, avevano cessato di essere presuntuosi, mentre prima lo erano assai. Mi raccontò il mio amico Roberto che una volta a Milano fecero la ricostruzione di una mostra di Rothko, uno spazio ristretto, un cubo di quattro metri per quattro, e i quadri


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erano tre metri e novanta per tre e novanta. Potevano entrare solo due persone alla volta. Casiraghi si mise in fila e capitò affiancato a una signora con un tailleur verde mela elegante. La cosa lo metteva un pò in ambasce, temeva che quello sfolgorio verde gli impedisse di vedere i quadri perchè se si è in due in una stanza quadrata grande quanto i quadri il compagno di stanza entra dentro alla visione. Invece accadde una cosa incredibile: la signora si piazzò davanti a un quadro viola di Rotchko e..puff! scomparve. Fagocitata dall’opera di quel grande, nonostante il viola che avrebbe dovuto entrare in risonanza, esaltare quell’abito... puff, il quadro se l’era mangiata, era sparita. Forse questo era dovuto, pensai, al fatto che quel grande suicida dipingeva come Cranach, che per meno di un centinaio di velature non dava finito il fondo nero brunastro dietro ad Adamo ed Eva. Quei pittori se lo godevano il colore, era questione di sesso. Come diceva Bacon guardando Tintoretto: quello sì che la sa fottere, la tela! E mentre davano quelle centinaia di velature di colore i pittori diventavano cattivi, assoluti, rifulgenti, mentre odiavano la cattiva pittura e presuntuosamente decidevano di controllare lo spazio visivo. Ma era un viaggio religioso al termine della luce, ed era destino che le cose cambiassero. Nomi, nomi, da povero canguro solitario non facevo che saltare da un nome all’altro mentre mi allontanavo dalla casa buia per andare in zone più luminose della città. Per arrivare nella zona più polite della città mi trovai a rasentare muri in cui mugghiavano e rotolavano serie di lettere scapigliate, camminavo toccandole per non perdermi come fanno i bambini e i ciechi, era un filo d’Arianna. Le lettere pedalavano in salita, sbuffavano, soffrivano come gli umani, si scioglievano in una discesa gioiosa in cui la lingua faticava a stare loro dietro, a compitare. Se nel farsi da sole le lettere avevano presentato difficoltà, proprio non lo sapevo, ma alla fine erano violente e rutilanti, pareva che non avessero avuto bisogno di un pensiero per uscire, che non fosse stato loro necessario. Le lettere ballavano, semplicemente. A un certo punto venni affiancata da un treno in corsa e dovetti ritirare la mano. Per fortuna stava rallentando e mi venne da pensare che si stava costruendo un film carico di lettere in movimento, non sapevo se un lungometraggio o un cortometraggio, e che in ogni caso non si trattava di un problema di ordine pratico, ma temporale. Si trattava di scegliere quale inspirazione gli spettatori dovessero accettare, come fossero dei funamboli del respiro. Mi chiedevo che diritto avessero nel farlo, ma il mio respiro si gonfiava ormai dentro alla pellicola stessa, era quella una femminile parvenza di treno ad allargarsi o stringersi disturbando o rendendo veloce il percorso nei binari circolari da macchina di proiezione. Non c’era dirittura temporale, sembrava che le parole decidessero da sole quanto sostare sullo schermo, e sparivano in fretta lasciando dietro di sé solo un alone.

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Ormai ero immersa in un sogno che raccontava in maniera viva e partigiana l’idea che l’opera ha da farsi autonomamente. Mi sentivo come una cartina al tornasole, immersa in una sostanza spaziale di cui non sapevo se consigliare o sconsigliare ad altri l’uso minerale. Non so quanto tempo ci fosse voluto, ma finalmente riuscii a spostarmi nella zona luminosa della città. Quando i quadri erano spariti dalle case e la gente si era stancata di leggere libri, era accaduto un fatto singolare: quasi per simpatia le case si erano incaricate della bisogna trasformandosi in libri di cemento illustrato. Nella zona buona, nitida e ben frequentata, un illustratore molto bravo aveva fatto di tutto per contraddire la legge di Adolf Loos, “Ornamento è delitto”, ornando, orpellando e delinquendo senza fine. Era una delinquenza ornamentale garbata, accattivante, altro che edifici forma-funzione, altro che razionalismo e cubotti bucanati in forme regolari che sembravano dei cimiteri, queste mega illustrazioni urlavano vendetta contro gli assassini dello stil nouveau, quelli che avevano seppellito Gustav Klimt con tutte le tessere che gli erano avanzate nel finire i mosaici di Palazzo Stoclet. Certo, l’autore di una di quelle case-libro aveva rinunciato all’allure dei camicioni e dei paludamenti del famoso pittore austriaco, si presentava sempre in barba lunga e braghette, che sono caratteristico segno dei tempi. Mentre camminavo per la città sfogliavo le pareti una ad una entrando in piena regressione, erano mondi felici, lontani dalla casa buia, fiorelloni, pennuti e colori caldi, tornavo un piccolo canguro dentro al marsupio della mamma, come se ogni complicazione dell’arte precedente, esausta di sé, si fosse alla fine allontanata. Stavo dimenticando i libri impegnativi su cui avevo compiuti i primi salti, tornavo a prima dell’abecedario, risentivo l’odore di minestrone e riso che all’asilo mi consolava della distanza materna. Quelle pareti illustrate risvegliavano in me tale sinestesia olfattiva, simili alla piastrella sconnessa della casa dei Guermantes per il piccolo Marcel che tendeva la mano verso le maideleines da intingere nel té; e devo dire che alla fine un pò mi ottundevano. In una bolla di sapore di minestrone mi tornarono alla coscienza le parole del povero Florenskij, quello che è stato ucciso in un Gulag solo perchè era troppo geniale. Quasi un centinaio di anni prima aveva definito la legge di attrazione tra il supporto e lo strumento della pittura, dicendo in soldoni che se gli artisti fanno per generazioni la stessa cosa sempre nello stesso modo una ragione ci dev’essere. Così per esempio Tiziano aveva usato i colori a olio, succulenti e grassi, su un supporto molle, cedevole, che faceva da antagonista attivo al pennello. Nello stesso periodo An-


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drej Rublev, in un’altra zona dell’Europa, dopo aver digiunato e pregato stendeva pittura a tempera all’uovo su una superficie sette volte preparata fino a farla diventare la quintessenza di un muro duro e atono al tocco del pennello. Di questi movimenti e scelte protratti per secoli c’era ragione nella natura sensuale o cogente dei due differenti modi in cui l’intelligenza delle mani si prodiga su un supporto, rivelandone la natura che prima giaceva come sopita. “L’essenza della superficie è assopita finchè è allo scoperto; una volta stesi i colori, essi la destano... Dura o molle, elastica o rigida, liscia o scabra, tutti questi e simili caratteri della superficie dell’opera, come l’estensione, la fermezza, si comunicano alla fattura dell’opera e creano i loro equivalenti dinamici, cioè da latenti, passivi, immobili, si trasformano in sorgenti di forza e penetrano nell’ambiente circostante. Acuta è la mente che risiede nelle dita e nella mano dell’artista, questa mente acuta capisce, senza bisogno dell’intelligenza di testa l’essenza metafisica di tutti questi rapporti di forza, riconoscendo una particolare struttura spirituale” (Florenskij, 1995, p. 110).

Mi misi a osservare da vicino la pittura di queste case illustrate e mi vennero spontanee alcune domande: si trattava di uno smalto dato molto velocemente, in una sola mano, coprente, su un muro non preparato, non pronto psicologicamente ad ospitare: di quale struttura spirituale avrebbe potuto parlare in questo caso Florenskij? Capivo che la domanda era un pò difficile, soprattutto per un canguro in stato di ottenebramento, ma non riuscivo a smettere di pormela. Avrebbe definito il muro dipinto sensuale o cogente, sensuale o cogente, o invece che altro? Né l’uno né l’altro, ahimè, quindi cos’altro? e soprattutto cosa accadeva alle case che erano divenute libro carico di ipertesto, perchè si doveva chiedere loro di farsi carico di tutte quelle immagini e non le si lasciava in pace a svolgere la loro normale vita architettonica? Alla mia destra una scuola pareva appena aver preso fuoco, dalle finestre il fumo delle ustioni di quel povero corpo-casa sofferente scivolava verso l’alto, accurato nella descrizione degli effetti speciali dei colombi spaventati in tromp- l’oeil. Niente da fare, non capivo. Non capivo gli stencil e i palloncini battuti alle case d’asta per un milione di dollari, che poi si disintegrano con un congegno elettronico azionato dall’artista stesso posto dietro una tenda di velluto per farlo diventare, allo stesso prezzo, arte nel cestino; non capivo perchè il buonismo e la retorica dovessero costare così tanto, una volta i preti te li davano gratis, accompagnati da una amorevole pacca sulle spalle. Stavo per girare le terga e tornare a dormire alla casa buia quando avvertii un lieve fruscio proveniente da un libro appoggiato su un muretto. Era un libro che conteneva case e non parole. Lì dentro c’era tutto; la fatica di stare appesi e uno sguardo grande che abbraccia le rovine sbriciolate del Cairo. “Se uno vuole vedere la luce del sole, deve pulirsi gli occhi” [1], urlava

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l’artista appeso a un gancio, sporco di sudore, il sudore consueto agli artisti da sempre. In quelle pagine riuscivo ad esistere. Mi ci tuffai dentro, esaminai le crepe dei cinquanta palazzi, ogni rottura sembrava ricucirsi grazie al dipinto, ogni muro diroccato era amato fino a renderlo necessario, erano arabeschi, simboli e criptogrammi. Era un grande cerchio come un occhio divino, riconobbi l’ideazione, il pensiero e l’astrazione, “stiamo andando da un luogo a un concetto di spazio”, mi dissi. Lì vicino c’era un bambino con una cartina aperta, mi misi alle sue spalle, capii che per ammirare davvero quel lavoro sarei dovuto salire fino alla cima del monte Muqattam, ma non mi importava, non lo sentivo faticoso, noi canguri magari non abbiamo le spalle larghe che vorremmo, ma siamo dotati di buone gambe. Mi pulii gli occhi, come richiesto; ogni traccia di sonno era scomparsa. Ero pronto a partire.


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Bibliografia Dickinson, E. (2006) Lettere: 1845- 1886. Torino: Einaudi, p. 80. Florenskij, P. A. (1995) Le porte regali. Milano: Adelphi, p. 110. Note [1] Ci si riferisce alle parole e al murale “Perception”, di eL Seed, in Manshiyat Nasr, Cairo.

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costructive biology. from urban acupunture to biourbanism Marco Casagrande

Ruin Academy, Casagrande Laboratory, Bergen School of Architecture, and International Society of Biourbanism - FINLAND

Taipei Organic Acupuncture di Marco Casagrande.

The crisis of urbanism is analyzed as a vital phenomenon that prepares the Third Generation City—its connection with nature and its flesh. The industrial city is, on the contrary, fictitious. The example of the settlement of Treasure Hill, near Taipei, is given. As an organic ruin of the industrial city, Treasure Hill is a bio-urban site of resistance and an acupuncture point of Taipei, with its own design methodology based on Local Knowledge. This ruin is the matter from which parasite urbanism composts the modern city. Urban acupuncture, the Third Generation City, and the conceptual model of Paracity speak to the community that rests in the hands of its own people. Third Genereation City is the organic ruin of the industrial city, an organic machine and open form of the mechanical urbanism which has learned to become biological. Ruin is when man-made has become part of nature. The industrial control has been opened up in order for the nature to step in. The seeds of the third generation city are coexisting together with the current industrial urbanism – for example the illegal collective urban farms and settlements of Taipei. Nature has only one rule: existence maximum. It wants the city to be part of the life-providing process. Now our cities are anti-acupuncture needles in the life-providing tissue. Urban Acupuncture is a biourban theory, which combines sociology and urban design with the traditional Chinese medical theory of acupuncture. As a design methodology, it is focused on tactical, small-scale interventions on the urban fabric, aiming in ripple effects and transformation on the larger urban organism. Through the acupuncture points, Urban Acupuncture seeks to be in contact with the site-specific Local Knowledge. By its nature, Urban Acupuncture is pliant, organic, and relieves stress and industrial tension in the urban environment, thus directing the city towards the organic—urban nature as part of nature. Urban Acupuncture produces small-scale, but ecologically and socially catalytic development on the built human environment. marco casagrande


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The Third Generation City is a city of cracks. The thin mechanical surface of the industrial city is shattered, and from these cracks the new biourban growth emerges, which will ruin the second generation city. In the Third Generation City, we aim at designing ruins. The Third Generation City is true when the city recognizes its local knowledge and allows itself to be part of nature. The way towards the Third Generation City is a process of becoming a collective learning and healing organism and of reconnecting the urbanized collective consciousness with nature. Citizens on their behalf are ready and are already breaking the industrial city apart by themselves. Local knowledge is operating independently from the official city and is providing punctual third generation surroundings within the industrial city: urban acupuncture for the stiff official mechanism. The weak signals of the unofficial collective consciousness should be recognized as the futures’ emerging issues; futures that are already present. The city is a manifest of human-centered systems—economical, industrial, philosophical, political, and religious power structures. Biourbanism is an animist community structural system regulated by nature. Human nature as part of nature, also within the urban conditions. The era of pollution is the era of industrial urbanism – the second generation city. The next era has always been surviving within the industrial city, like a positive cancer. The first-generation city never died, it went underground, but the bio-urban processes are still surviving. The seeds of the Third Generation City are present. Architecture is not an art of human control; it is an art of reality - there is no other reality than nature. Keywords: urban acupuncture; biourbanism; Third Generation City; ruins; parasite urbanism; Paracity; Local Knowledge; constructive biology; Open Form Constructive biology Hardness and strength are dearth’s companions. Pliancy and weakness are expressions of the freshness of being. Because what has hardened will never win. (Tarkovsky: Stalker) Architecture is never alone. It needs to communicate with engineers, site-specific conditions, users, construction workers, physical and cultural structures, interior- and landscape designers and various authorities. Other disciplines of art and science are closely linked with architecture and urbanism, including spatial arts, installation art, environmental art, scenography, humanistic sciences, civil engineering, and statistics. In ecologically sustainable architecture the present focus is on the energy efficiency of


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the buildings, use of renewable materials and circular economy. In ecologically sustainable urbanism, including urban ecological restoration, the main issues are dealing with the reduction of urban pollution, energy efficiency, material circulation and densification. The development of the built human environment is mainly dictated by economic speculations and industrial standardization of urban planning and construction methodologies. Ecological sustainability plays a secondary role in the development and is often marginalized into academic discussion or as a marketing or branding tool. Constructive Biology views the current and emerging cities as environmentally highly destructive urban mechanisms, and architectural development in general alienated from natural life providing solutions - nature. The human-centred urban and architectural development, as described, disconnects human nature from the other forms of organic circulation. Constructive Biology is an architectonic natural science that studies life providing structures and living organism, including their physical structure, chemical processes, molecular interactions, physiological mechanism, development, and evolution. It recognizes architecture and urbanism as open systems that survive by transforming energy and decreasing their local entropy to maintain a stable and vital condition defined as tectonic homeostasis. Theoretical Constructive Biology uses mathematical methods to formulate quantitative models while experimental Constructive Biology performs empiric experiments to test the validity of proposed theories and understand the mechanism underlying life and how it appears in architecture and urbanism. The term Constructive Biology is being used within different fields of biological research, for example on bioengineering related to synthetic biology (Prof. J. Keasling, Berkeley, 2009). It is also used as a term in cybernetics as biology motivated by the desire to understand how biological systems actually are constructed by nature and develop over time rather than just to obtain a descriptive understanding. (C. Nehaniv, K. Dautenhahn, M. Loomes, MIT, 1999). Literature research will provide more connections to relevant research of different scientific disciplines. However, Constructive Biology as combining the research and findings of biology with the development of the built human environment is a new academic process of architectural knowledge building. We are thinking of a new discipline of built human environment which moves in-between architecture, urbanism, and biology. Additionally, humanistic sciences (anthropology, sociology, cultural sciences, linguistics) are providing tools and knowledge in understanding the human behaviour in the built human environment, in more natural conditions and in-between conditions (for example nomads and un-official settlements).

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Urban acupuncture There is no Urban Acupuncture without the organic. The scientific dialog in trying to understand the organic is biology. Urban Acupuncture is not trying to understand the organic, but instead it must be weak enough to feel it. And the organic feels the weak. Either it will let it grow, or it will consume it. The official city is a burdon. It is hard, heavy, dead, whipped by fictions. Not much more than an extended parking lot. The organic is boiling under the thin layers of asphalt and concrete. Organic matter and organic knowledge. There is pressure under too. When a crack emerges or when we drill a hole, the organic is present. We call this Local Knowledge, but it is actually a key to communicate with the life-providing systems. We feel the city, we feel urbanism and we feel collectivity as we feel something living. We feel emphaty for the city, because it is full of cracks. We feel empathy and shame on ourselves. Small cracks on the concrete wall surfaces growing moss, dandelion pushing through the asphalt, algae in the air-conditioning machine, grandmothers occupying and farming an idle construction site. Accident is great. Open Form is a platform of constructive accidents, constructive anarchy. Communicative action through collective construction. Construction as a language. Construction site as the Public Sphere (Habarmas). This is not official, if official means centrally controlled hierarchies. This is common, un-official, more organic. Un-official collective farm in the official city is urban acupuncture. This is not place-making or tactical urbanism, but real. Subtle it emergeges (Sun Tzu) beyond the control of the official. The collective garden of the anarchist grandmothers is open form. Treasure Hill was open form. It was a self-build organic community rising from the flood-banks of the Xindian River up to a hill as a terraced community. The foundations of the houses were based on abandoned anti-aircraft bunkers of the Japanese army. Retired Kuomingtang veterans started to live on the hill and to farm on the flood-banks and to harvest waste material from the surrounding city. The houses were in constant dialog with each other and with nature, including the voices of the flooding river, constant typhoons and earthquakes and jungle. The were built with local knowledge and could cope with the natural elements. They were weak architecture, which could resist, because they were glued to the site with organic knowledge. There was no road wide enough for a car in Treasure Hill, inhabited by approximately 400 households. Treasure Hill lived in a very intime connection with the river, while the surrounding city regarded the flooding rivers as something hostile and build a 12 meters high concrete wall to separate the mechanical man for the organic, absolutely no connection.


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And so nature became a fiction to the modern man. In 2003 the Taipei City Government was destroying Treasure Hill, which did not appear on the official maps, but was zoned as a park. If you map the un-official it becomes official. The firt three layers of houses of the terraced community had already been wiped off when we stepped in the stopped the destruction. The city had also bulldozed away the collective farms and destroyed all the connections between the remaining houses, like small steps and brideges, which were the nervous network of this urban organism. Without this network the remaining houses had become isolated object instead of being part of a living organism and were left for a slow death. We restarted the farms and reconstructed the steps and bridges until Treasure Hill was again a living organism, which could start fighting back. Altogether 200 students volunteered from the local universities and construction workers started to donate construction material. Soon the rumours were circulating around the city from the punctural intervention of Treasure Hill and the work started to gain momentum. Local media started to repost and even New York Times flew in and wrote an article, that this is a “must-see destination in Taiwan”. These rumors in the city were somekind of humane energy transmitted from the urban acupuncture point of Treasure Hill. Because of urban acupuncture the same city government, which three weeks before was destroying Treasure Hill, suddenly turned their coats and the commissioners started to resite poems on the hill. Treasure Hill got legalized and celebrated as the Taipei Artist Village. The official city was very shallow and broke very fast with rumours. The rumours were connected to Real Reality (Aristoteles), something which cannot be spectulated, while as the official city is based on speculations. Treasure Hill was showing a way to towards the Third Generation City, the organic ruin of the official city – biourbanism as part of nature. Paracity is a primary structure for a biourban urganism, which is learning from Treasure Hill. It may be a high-tech slum, because it is using cross-laminated timber, engineered wood, as the main material for the primary structure. It may also have environmental technology as its inner organs. But the structure is empty, unless people will occupy it. If offers a three dimensional spatial grid for occupation, following the methodology of open form: constructive actions in dialog with each other and building up collectivity through communicative construction. Paracity (Parallel City or Parasite City) is organic and flexible, it can grow and parts of it can die. It can cannibalize itself and it can harvest material and energy from the surrounding host-city. It is a biourban compost. Official city is a souce of pollution. Paracity is a biourban healing organism and mediator between the official city and nature. It is a constructed crack in the city, through which local

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knowledge can erupt to the urban surface and fertilize the official thin layers of concrete and asphalt. It is a platform of accidents. Paracity if fuelled by constructive biology. The research grows from a long line of theoretical, academic and practice works moving in-between architecture, environmental art, landscape architecture, biology, and urbanism. Much of the previous and ongoing research has been demonstrated in 1:1 scale architectural installations and experiments, and they have been presented in dozens of international conferences and exhibitions, including 5 times in the Venice Architecture Biennale. The body of work has been awarded by the UNESCO Global Award for Sustainable Architecture and European Prize for Architecture among other prizes and awards. Most notable theoretical work revolves around the thinking of the Third Generation City and Urban Acupuncture. The author is currently Professor of Architecture at the Bergen School of Architecture in Norway, Vice-President of the International Society of Biourbanism, founder and principal of the Ruin Academy in Taiwan and Casagrande Laboratory in Finland.


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interspaces without the installations ‘incidentally insights’ & ‘round a roundabout’ Patrick Ceyssens

PhD, Artist, Researcher and Docent at the PXL-MAD School of Arts and University Hasselt - BELGIUM

© Patrick Ceyssens, ‘Round a roundabout#2’.

Incidentally Insights Through these installations, I have attempted to respond to one of the topics of the conference: ‘Targeted interventions activate the right energy to give new life to spaces dedicated to outdoor encounters’. In my artistic work, and in my research, I continuously try to penetrate border areas, interspaces, interruptions,... and other tracks in images. The installation ‘Incidentally Insights’ is a Corten steel grid image (4.5 by 2.2 meters in dimension) and weighs over 1.500 kg. The objective is to amalgamate memories of a landscape with the natural beauty present. Here we see references to a prehistoric settlement, to the stream that gave the town of Spiere, the place where the installation is permanently located, its name, as well as references to findings from different periods. This hybrid, transparent image is always moving, fluctuates between seasons, day and night, and time and memory. Incoming impressions are depicted by our consciousness into other mental pictures and concepts. How remote is the visible from the conceivable? Distance, meaning and perspective fuse with the remembrance of one’s image. This installation is also an artistic answer to our limited views. You look forward, but there is always something behind oneself, something above, and something in between that disappears behind your back. A different area. When you look around in this artwork, you are immediately invited to stare at another extra layer, through the image, between the images... a second glance. Another action experienced here is our moving memory as a unique place. The conclusion is that any remembrance concerning an image right away becomes ‘our own remembrance’. We improve and rethink in a new ‘interspace’. Moreover, memories are flight lines of reality as they serve to submerge you into another time frame, and pull a veil of history over things. Every day we move through spaces that have been constructed to be significant. We notice and react —consciously or unconsciously— to this connotation. Our memory is in constant consultation with these significances. patrick ceyssens


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The image invites us into the crossbreeding between time and space. Or how the sharpness/depth zone can summon an alternative feeling of time. Time often relates to organizing and categorizing, but as a field it does not recognize any norms, any anchor points and as such we cannot measure it. It is indeterminate, vague and thus uncertain. Because we are unable to experience any distance in this image, we tend to imagine our own (intermediate) space. As reality slowly slips away and fades out of focus, a private temporal frame emerges. It looks like a pause meant to be spurred on to action soon. The vagueness also creates a resting point because we need to take our time to understand this space. Furthermore, in the mixed image of the landscape and the grid, 2 horizons will conflict. When we look at these horizons we see a place, a line, a limit or an end. But we probably think of an illusion, inaccessibility, or something forever fading that will never be there. The unknown becomes an objective. This feat, born out of personal virtuous ethics, demands constant creation. We never arrive at the last stop. And in this way people will seek a personal and original journal within their own mind-speak between language and image, between language and body, and between language and thought. So, from line, to orientation, to movement, to meaning, to … Each image, each installation is a plane full of lines, movements, orientations, a space full of developing moments and trajectories. The goal is to develop installations that are able to manage and stimulate the complexity of one’s (inter) active visual thinking: ‘in’ sight as an inspiration for the most individual interpretation and creation possible: ‘everybody an artist’. Frame: research group. FRAME (frame-research.be) I invent these installations in the context of the Frame research group. FRAME is an interdisciplinary research group, consisting of researchers from both the arts (PXL- MAD Research) and (interior) architecture (UHasselt – ArcK) disciplines. FRAME cherishes the value and necessity of the fragile connection between discipline and discourse: hitherto a largely uncharted territory. FRAME explores unconventional forms of knowledge that create new conceptual frames for images from within the artistic practice. The group regards this practice by itself as a substantial part of the research, because the act of making sets forth a way of thinking in, and through, images and spaces. This thinking needs a language that is ‘in tune’ with the praxis, but does not collide with it. Here images should be understood in the broadest sense of the word. FRAME does not only attentively create and interpret images that can literally be ‘framed’, like paintings,


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drawings and pictures, but also sculptures, installations, interiors, buildings, landscapes, literary texts, and even metaphors and philosophical concepts. What I personally undoubtedly share with my friends/colleagues is that artistic research is always a quest for the exact modus to confront reality with, be it by means of verbal, conceptual, visual or spatial forms of expression. Something that I absolutely endorse is the idea that we cannot trust any pre-established certainty, because any knowledge needs to be faced with a certain ignorance coming from a specific practice, something like an uncertain connection with a certain way of life. What psychological research is exploring today, is what Marcel Duchamp announced more than half a century ago: “What art is in reality is this missing link, not the links which exist. It’s not what you see that is art, art is the gap.” (Schwarz, The Complete Works of Marcel Duchamp, 1969). Round a Roundabout (http://www.patrickceyssens.com/installations/recent/round-a-roundabout-2) The investigation of perception, mental space and the subcutaneous working of images come into full play in the installation ‘Round a Roundabout’. It is a multimedia installation, 6 meters in diameter and 250 centimeters high, and is filmed in a 360° modus. The film is projected on a circular retro screen that creates an inside- and outside experience. The viewer is not positioned in front of the image, but in the middle, which enhances the immersive experience. Round a Roundabout: represents the awareness of the fact that you can never see the whole image in one view. When you carefully watch what is being shown, you know that you are missing on something else. Classic film provides the viewer with a straightforward view, an ideal viewing position connected to an ideal viewing experience. The newest image technologies do not only provide the possibility of a different position of the maker, but also (and this is revolutionary) for the viewer. This shift is comparable to what happened to narrative film footage, due to the possibilities portable cameras offered. Suddenly a whole different array of images and angles became possible. Now, with technologies such as 360° camera’s and projections, the viewer has the possibility to choose his own point of view. Thus, there is no single narrative. Each viewer has to actively participate, and rebuild the story from scratch, over and over again. ‘Round a Roundabout #2’ does the opposite, but with a similar purpose. By providing an overload, in the shape of an array of choices and movements, it forces the viewer to actively take a position and connect and merge perceived details into a meaningful whole.

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New media are only experienced as ‘new’ if they reflect on our real, contemporary, experience of the world. New media means new spaces and thus new codes. Our viewing habits, desires, insights and norms owe their core, their essence, to a previous situation, but all these are subject to evolution. This movement is unstoppable. One of the techniques I have used in this installation, to question the factor space, is a moving camera. In certain scenes we placed the camera on a rotating platform that moves along at the same speed as the actors walking, which results in that the landscape is moving surreal towards the subject in the images. - Round a Roundabout is also an artistic answer to Visual Thinking as a holistic and ontological way of thinking. Our entire surroundings enter the game, as do our past and present sensations. Images offer many opportunities for language and fresh insights. The process that starts with visual thinking, and which leads to conceptual visions, is a never-ending one. Images encourage thinking and boost innovative imagining. Conclusion The artistic practice itself certainly generates knowledge. But in order to be able to give this research an extra layer, we also need to look for alternative forms of expression, without forgetting that knowledge is always temporary, incomplete and constantly open and in flux. My conclusion, with regard to this entire investigation, is that these installations are a truly gigantic invitation, and an enthused conviction concerning visually minded opportunities at the same time. This study has attempted to convince the reader of one’s own mental virtue, which builds on visual thinking, proposes virtue ethics as a multi-colored circus propelled by connections between your body and your mind, between imaginative thinking and thoughtful images. Visual thinking stimulates alternative ways of thinking, that everyone starts attempting themselves and that succeeds thanks to their own efforts to ‘imaginate and relate’. New knowledge means another flavor of happiness. These installations are an invitation, a ticket to think visually but are more and more outside our present rational frame. To go looking for the unknown will yield more when one can make former frames of reference disappear. It is about your attention and your mental space.


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Sitography http://www.frame-research.be http://www.patrickceyssens.com/installations/recent/round-a-roundabout-2

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some offbeat talk about urban spaces Jean-Pierre Charbonneau

Urban planner, Consultant - FRANCE

“Lione, the left bank of the river Rhône” Commitment: The Great Lione. Landscape architect: In situ.

Oltre alle idee entusiasmanti che il simposio ha discusso, esempi di grande creatività che è stato in grado di mostrare, tre complementi meritano di essere aggiunti che non sarebbe inutile prendere in considerazione. Non che contraddicano le dichiarazioni, ma perché, se non sono integrati, c’è il grande rischio che i risultati sugli spazi pubblici si rivelino rapidamente in contraddizione con l’obiettivo previsto. Non mettono in discussione in alcun modo l’inventiva necessaria che deve essere dimostrata e che si riflette in molti dei progetti dimostrati. Siamo nel XXI secolo, negli stili di vita urbani, in una società che si è evoluta, in un’estetica, una cultura che non è più quella del XX secolo, per non parlare di quella del XIX secolo. Lo scopo di queste aggiunte è quello di raccomandare di approfondire il significato di ciò che viene prodotto e le condizioni della sua attuazione, e quindi di partecipare a rendere più intenso, più vicino e più giusto il rapporto tra le creazioni e la realtà degli spazi pubblici. Alcune spiegazioni che danno meno di un punto di vista su ciò che è stato mostrato rispetto al discorso introduttivo al colloquio. Lo scopo non è anche quello di mettere in discussione la qualità dell’evento e il suo successo, ciò che è stato dimostrato lì hanno dimostrato la sua efficacia. Solo per fare un po’ di luce sulla cura che deve essere data agli spazi urbani in generale. La prima osservazione può essere un dubbio. Si potrebbe affermare di agire con la convinzione che, grazie al design, all’arte o al progetto in generale, si porterebbero in un luogo, un territorio, una città, gli elementi che mancano. Lo scopo è (scegliere), che sono belle, che fanno società, che sono contemporanee, che sono vivibili, che perseguono una cultura già fortemente presente (e di cui Firenze potrebbe essere l’emblema)... Detto diversamente, saremmo in grado di portare loro una sorta di verità o status ultimo trasformandoli definitivamente attraverso gli elementi che si aggiungerebbero a loro con l’obiettivo stimabile che raggiungano un alto livello di qualità e per sempre. Un’osservazione contro questa convinzione. Lavorare a lungo sullo sviluppo urbano permette di vedere che gli atti sono in definitiva piuttosto temporali: stiamo solo attraversando la trasformazione delle città o nella vita di uno spazio pubblico. Hanno avuto una storia prima di noi e ne avranno un’altra dopo che ce ne sarejean-pierre charbonneau


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mo andati. Questa osservazione porta ad assumere un atteggiamento di una certa modestia e a proporre risposte che non necessariamente congelano un posto in marmo (anche se il riferimento a Firenze potrebbe dire il contrario, ma Firenze è una delle eccezioni). Pertanto, una risposta adeguata potrebbe essere quella di dare a un luogo ciò di cui ha bisogno, in questo momento, in questa epoca e non immaginare di segnarlo per l’eternità. Questa posizione non contraddice affatto la necessità di ritardo e di invenzione che l’intervento creativo comporta. Inoltre non impedisce l’ambizione, ma la situa nel tempo. Evita che gli spazi siano a volte appesantiti dal frutto delle buone intenzioni di un’epoca e che, nel tempo, perdano interesse e significato. Come tradurre concretamente questa prima osservazione? Già non riempiendo un luogo, non congelandolo ma dandogli la possibilità di evolvere verso altri usi, altre funzioni, verso un futuro che non conosciamo ma che sappiamo verrà. Ciò presuppone l’accettazione di una certa dose di ignoto e milita per interventi il cui scopo è quello di essere qui e per ora, che è già molto ambito. Il secondo punto deriva proprio dal fatto che siamo interessati a un luogo in un momento della sua vita e della sua evoluzione. Spesso possiede già una personalità, qualità che però non si adattano più al presente o, ciò che è più comune, sono state dimenticate, nascoste, ammaccate secondo il tempo, le mode, l’evoluzione urbana, funzionale o anche culturale. E durante i 40 anni in cui ho lavorato come urbanista coinvolto nel miglioramento degli spazi pubblici, ho potuto vedere che è questa situazione che è la più comune, che ha mobilitato più energia, conoscenza, tempo e denaro. Come riparare i luoghi danneggiati? Un esempio è quello delle rive dei fiumi, gradualmente riappropriate della vita pubblica dopo essere state il luogo di insediamento industriale. Una delle prime risposte è riportare le qualità dimenticate, non tanto da aggiungere quanto da togliere ciò che ha coperto o nascosto... Non si tratta tanto di unire effetti o sforzi per “fare nuove” quanto di recuperare le qualità proprie, i valori iniziali dei luoghi: qualità del paesaggio, usi, atmosfera, sole, materiali, disegno, funzionalità. Ruedi Baur, designer franco-svizzero, definisce questo approccio “subtraction design”. La prima parte di un approccio progettuale sarebbe quindi, prima di aggiungere, rimuovere ciò che è in eccesso, che ostacola, nega, ostacola, sfigura... Si è spesso sorpresi di riscoprire un luogo dopo aver rimosso il disordine e prima di venire a portare ad esso ciò che il progetto dovrebbe portare. Il ruolo di chi agisce sullo spazio non sarebbe quindi tanto quello di sovrapporre segni, di appesantire una giustapposizione di oggetti o di atti, ma di far riapparire ciò che preesiste, che forma la personalità, l’identità per usare le parole del convegno. Rendere leggibile, collegare, far vivere già ciò che è stato nascosto da aggiunte successive, facendo poca attenzione ai valori già lì, in un atteggiamento urbano e culturale casuale e irrispettoso.


some offbeat talk about urban spaces • jean-pierre charbonneau

Avremmo paura di sottrarre perché creerebbe un vuoto? Il vuoto è una qualità. Rimuovere un segno, qualunque sia la sua qualità grafica, per trovare prospettive verso il paesaggio è un atto di creazione, di valorizzazione. Il vuoto sarebbe la base, l’impasto da cui, come per le pizze, verrebbero portati gli ingredienti complementari necessari? Ci sono poi molti modi per portare un approccio creativo, per mobilitare i talenti, la cultura della comunità, la sua identità. Ma già dobbiamo tornare alla pasta originale. La stratificazione discussa nella conferenza si riferisce all’aggiunta di strati contemporanei a strati esistenti, ma suppone che non siano negati o ignorati. Ed è dall’uso del termine “labirinto fatto di spazi vuoti” che la terza osservazione trova il suo posto. Gli spazi pubblici nelle città non sono spazi vuoti. Non sono certo sempre pieni ed è una buona cosa perché ci sono anche spazi per respirare, per la calma : “In città ogni giorno non è una festa!” Ma tutti svolgono ruoli diversi. Una strada non è un luogo. Un tale viale è il passaggio obbligatorio con cui gli abitanti vanno allo stadio. Da tale strada si prende i suoi figli a scuola. Un posto del genere svolge un ruolo importante la sera, ma è vuoto il resto della giornata... Il vuoto è un valore che va preservato ma non privo di significato. Uno spazio ha una storia, pratiche non sempre visibili ma presenti. Un’illustrazione caricaturale di questo è data da Rue Saint-Denis, a Parigi, che è stata la strada delle prostitute per nove secoli! Una strada è composta da funzioni (negozi vengono consegnati, autobus si muovono lì o biciclette, auto, ecc). Ma è anche fatta di usi, anche conflittuali, con cui la società urbana vive, a volte in armonia, spesso in conflitto. Possiamo quindi esprimere dubbi sulla moltiplicazione dei segni nello spazio urbano per guidare l’abitante della città, soprattutto quando vediamo la foresta di segni direzionali o pubblicità che nascondono il paesaggio nella sua complessità e nei suoi valori. Non sarebbe meglio lasciare al cittadino la libertà di vedere la realtà di ciò che è -una facciata, un marciapiede, una fontana, ecc, piuttosto che prenderla per mano e volerla guidare? Su questo punto vorrei fare la mia terza osservazione. Andy Warhol è un grande artista ma devo dire che sono totalmente in disaccordo con le sue motivazioni come riportato nel preambolo della conferenza. L’obiettivo degli atti creativi negli spazi urbani non mi sembra essere “educare un pubblico presumibilmente ignorante poiché non vanno al museo o all’auditorium”. Questo implica che ci sarebbero i professionisti della cultura, noi, che coltiverebbero la maggior parte delle persone che non lo farebbero. Al di là delle questioni politiche e sociali sollevate da tale dichiarazione, non dovremmo essere più modesti? Da un lato, non è molto complicato notare che il deterioramento urbano che è stato fatto per decenni è stato fatto da professionisti. D’altra parte, non c’è soggetto meno consensuale della cultura: non c’è un solo punto di vista culturale ma multiplo. E questo è bene. Perché è importante insi-

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stere su questo argomento? Perché lo sfiguramento degli spazi delle città continua ma in modo diverso. Sia a causa di approcci funzionali che continuano ciò che è stato fatto per decenni. O con scopi pedagogici, gli stessi pallet per esempio sono usati in tutte le città, i fiori giganti che sono dipinti su tutti i piani, la banalità che prende il posto di cura, attenzione, sottigliezza, invenzione, creatività, rispetto per posti e per la gente. Il nostro ruolo non può essere né nell’amnesia urbana né nel travestimento urbano.



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the research of correlation between soundspace and soundmark is analyzed from acoustic Mingqiu Du

Tongji University acoustic research institute MCTU Architect & acoustic design company, Shanghai CHINA

Sound of volcanoes and waves. Taormina theatre, Sicily, Italy.

Soundscape studies the interrelationship between people,hearing, acoustic environment and society is different from traditional noise control. Soundscapes value perception, not just physical quantities; Consider positive and harmonious sounds, not just noise; Think of the sound environment as a resource. Soundscape is a study of auditory ecology and one of the important factors in creating a healthy living environment. Soundscape research integrates physics, engineering, society, psychology, medicine, art and other disciplines, while the scholars who study soundscape are distributed in various fields such as acoustics, architecture, urban and rural planning, landscape architecture, ecology, informatics, communication, human geography, law, linguistics, literature, philosophy, education, psychology, anthropology, political science, sociology, ethnology, religion, medicine, aesthetics, design, musicology, media art and so on. Since the 1960s and 1970s, he has embarked on the theory and practice of “soundscape” and “acoustic ecology”, caring about the structure and changes of sound culture itself, rather than music in the narrow sense, opening up discursive territory and paying attention to auditory problems for the study of auditory culture that gradually took shape later. Research motivation is the historical investigation of the effects of the ever-changing “landscape of sound” on human behavior—which can be seen as the overall motivation for the study of auditory culture. “What is the relationship between man and the sound in his environment? What happens when these sounds change? “The homeland of sound landscape research” is located at the intersection of “science, society and art”. It is to attach the invisible and untouchable sound to the specific natural, technological, and cultural space in which it “inhabits”, so as to conduct a cultural analysis of the composition, form, and history of the sound. The spatiality of “soundscape” has three levels. One is the “Keynote sound.” This comes from a musical term, a simulation of the “base tone” in a musical work that embodies its “tonality”, which in this case is extended to the most basic sound in a particular “soundscape”, mingqiu du


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which is the pillar of the entire sound contour. The second is the “sound signal” (sound signal “,which is in the “foreground” of the sound contour, which can be easily noticed by the ear and clearly identified and gain auditory attention, such as alarms, whistles, whistles, etc. The third is the “sound mark”, which is derived from the word landmark, which is the most unique mark that dominates a “soundscape” feature in the sound signal. Acoustic ecology not only combats noise pollution, but also plans for a healthy, inviting sound environment. Its mission also includes keeping the ears sensitive, planning small cities, legislating, designing acoustic parks and green spaces, and creatively preserving sounds that were and are valuable in the past. “Through the special acoustic personality distributed in different scenic spots around the world, with the dual correlation between landscape and landmark, 15 case experiments were selected by sampling, and the acoustic landscape and landmark characteristics of the rose chart were expressed by combining the subjective and objective parameters of humanities, ecology, science-physicality, art, history, region, nature, energy, subjective parameters, objective parameters, environmental protection, culture, and urban and rural areas. The subjective parameters of the sound landscape are more, focusing on the factors of the humanities and historical senses; acoustic landmarks pay more attention to the objective parameters of scientific physics, and the correlation between the two can express quantitative measurement methods in a graphical qualitative way in the comprehensive consideration of acoustics, and also preliminarily indicate the characteristics and properties of the two, which can be used as other similar assessments to evaluate whether there is a self-evident nature of the identity of the acoustic landscape and acoustic landmarks. The statue to sculpt and recover environmental noise. For example, to cover up the traffic noise of stealing the bell, the cortical organ is made of 95 transparent, vertical acrylic cylinders, each 20 cm in diameter and up to 4 meters in height. The name comes from the sound sensing part in the cochlea of the inner ear. This statue is very much like a giant plastic toy for children. The transparent cylinder is like a forest. Anyone who passes through the forest will twist his body. Wave organ @Blackpool UK The organ of Heichi interprets the tide in an auditory way. According to the illustration board on the side of the statue, it is a kind of “musical expression of the ocean”, so I stay there and wait to see what happens when the tide goes down. About half an hour later,


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the water retreated, and the water in the plastic pipe moved even more. The organ pipe with higher note frequency starts to sound. Now the overall effect is like a lazy symphony orchestra composed of train sirens or a horror flute teaching replayed in slow motion. A system for generating urban noise map The urban noise map generation system collects the urban noise pressure level data, which involves the urban noise map generation, specifically a kind of urban noise map generation system. The maps show the noise levels of businesses, airports, roads and railways in these areas in different colours. For example, areas with noise levels above 75 decibels are placed at the highest level, marked in deep red. These areas tend to be located within a few kilometers of highways, airports, railways, or heavy industrial enterprises. Adobe Audition is a professional audio editing tool that provides audio mixing, editing, control, and effects processing. It supports 128 audio tracks, multiple audio effects, and multiple audio formats, making it easy to modify and merge audio files. Organ of corti @London UK The statue to sculpt and recover environmental noise. For example, to cover up the traffic noise of stealing the bell, the cortical organ is made of 95 transparent, vertical acrylic cylinders, each 20 cm in diameter and up to 4 meters in height. The name comes from the sound sensing part in the cochlea of the inner ear. This statue is very much like a giant plastic toy for children. The transparent cylinder is like a forest. Anyone who passes through the forest will twist his body. Echo wall, Temple of Heaven, Beijing, China The wavelength of people’s voice is only 10 to 300 cm, which is far less than the radius of the echo wall. The sound moves in a straight line like light. The shape of the echo wall and the sound transmission at a certain distance will encounter obstacles and reflect. The wall is very smooth and has little absorption of the sound. When the sound is reflected repeatedly into the human ear, it can still maintain a very clear state. Therefore, the magic phenomenon caused by echo wall is due to echo. The three-tone Stone /the Temple of Heaven @Beijing, China The distance between sanyinshi and the wall is 32.5 meters. The interval between sound and echo will be 1 / 5 second, so clear echo can be heard.

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Temple of Heaven Garden Hill @Beijing, China According to the test of acoustic experts, the time from pronunciation to sound wave and back to the pebble is only 0.07 seconds. The speaker can’t tell whether it is the original sound or the echo at all, so he has the feeling of echo. Bells of passenger ships from Hanshan Temple @Suzhou, China According to the test of acoustic experts, the time from pronunciation to sound wave and back to the pebble is only 0.07 seconds. The speaker can’t tell whether it is the original sound or the echo at all, so he has the feeling of echo. Japanese Garden Soundscape Water Piano Grotto A long handle ladle is used to scoop out the hand washing water in a stone water bowl. Then the water is poured on the small stones around the bowl, and a cool sound is heard It is based on this principle that the shuiqin Grottoes form echoes through the cavities, thus producing clear and crisp timbre. Depending on the amount of water and the size of the void, the sound will vary. Sound of ocean waves @Taiwan’s Penghu cabinet The columnar joints of basalt are well-developed. Because of long-term wave erosion, a long and narrow sea erosion gully landscape is formed. The bottom end of the sea erosion gully is eroded into a sea erosion cave. The sea erosion cave leads to the ground along the crack of basalt columnar joints. When the south wind and high tide are encountered, the waves flow into the sea erosion gully. The air in the sea erosion cave is squeezed, and the sound of “hollowing up, hollowing up” is generated, The sea water will also gush out along the crevices, forming the natural wonders of tidal spray and sound absorption. Singing sand@Dunhuang, Crescent Springs, China In fact, the formation principle of “Singing sand” is a new way of sound production, which is caused by an elastic wave generated by the friction between the moving sand particles in the upper layer and the fixed sand layer in the lower layer. In the world, there are more than 30 places where sand dunes sing. Mayan pyramidal birds song @Mexico The builders of Castillo’s pyramid must have known that this echo was produced by the air chamber at the top of the pyramid.But Castillo pyramid will emit bird calls, obviously


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is not accidental, but intentionally designed. Acoustic and bird experts believe that the echo of Castillo pyramid is similar to the call of Quetzal, which mainly lives in the mountain rain forest of Central America and is regarded as “God of the air” by the Mayans. Echo of cave@Orecchio di Dionisio,sicily Italy Dionysius’ ear was probably formed by an old limestone quarry. It is 23 meters high and extends 65 meters inside the cliff. It is S-shaped in transverse direction and tapered at the top in vertical direction, like a teardrop. Because of the shape of its ears, it has a very good sound effect, even a small sound can resonate throughout the cave. Sound of volcanoes and waves@Taormina theatre, Sicily, Italy It wasn’t until 2007 that the acoustic mystery of the theater was solved, when researchers discovered that the limestone material of the theater seats had a ‘Lubo’ effect, which suppressed low frequency sounds and minimized background noise, so the 15,000-seat theatre is the equivalent of a sound trap. Waterfall sound@Niagara Falls USA Every waterfall has its own voice. If the bubble of the waterfall is large, it will give a loud noise to the bass. The smaller bubbles are easier to hissing. Sound of Melting Sea ice@Arctic Huge pieces of ice (some as big as houses) breaking out of the glacier and falling on the still frozen sea. When the ice breaks, it makes a crackling sound, like the bang of a pistol. Ice also rubs and scrapes against each other, creating a loud rattle... Like electronic music in the 1950s or early 1960s. “. On the ground, most of the ice is quiet and seems to be motionless, but hydrophone reveals how active the ice is under the ice. When it was about to turn into sea water, the slush like ice produced the sound of grinding and crushing. The loudest Birdsong@Tropical rainforests The loudest sounds of birds (Rupicola peruvianus) in the Amazon rainforest are umbrella birds that can chirp up to 125 decibels. The cultural problem of hearing is not purely a matter of the ear, but must also be considered holistically along with other symbolic methods such as vision and writing. This is because hearing serves the overall cultural thinking in the mind; when one hears a voice, one subconsciously seeks out the speaker, the purpose of the sound, and discerns the meaning. These

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activities in the mind invoke cultural associations and symbolic connections with visual, literal experiences. That is to say, man is an animal of culture, an animal of symbols. The auditory space of man is different from that of animals and can only be part of the cultural space. The listener projects himself into imaginary cultural space in his own brain. Through the special acoustic personality distributed in different scenic spots around the world, with the dual correlation between landscape and landmark, 15 case experiments were selected by sampling, and the acoustic landscape and landmark characteristics of the rose chart were expressed by combining the subjective and objective parameters of humanities, ecology, science-physicality, art, history, region, nature, energy, subjective parameters, objective parameters, environmental protection, culture, and urban and rural areas. The subjective parameters of the sound landscape are more, focusing on the factors of the humanities and historical senses; acoustic landmarks pay more attention to the objective parameters of scientific physics, and the correlation between the two can express quantitative measurement methods in a graphical qualitative way in the comprehensive consideration of acoustics, and also preliminarily indicate the characteristics and properties of the two, whichcan be used as other similar assessments to evaluate whether there is a self-evident nature of the identity of the acoustic landscape and acoustic landmarks.




una voce di pietre e mattoni. un’etnografia di emplacement e marginalizzazione rurale Michele Filippo Fontefrancesco

Antropologo, Università di Durham Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo - ITALIA

Dettaglio architettonico. Foto di M.F. Fontefrancesco, 2020.

1. La distinzione tra spazio e luogo affonda le sue radici nel contributo offerto alle scienze sociali da Tuan (1977). Il luogo sorge dalla fruizione dello spazio e dal processo umano di significazione di questo. Per comprendere un luogo, quindi, come suggerito da Olwig (2011), si deve abbandonare una visione aerea del mondo, una astrazione ordinatrice basata primariamente su una ricostruzione visuale volta a definire forme e distanze oggettive, ed indagare un’altra dimensione, quella delle relazioni che un oggetto, un luogo va creando e sostenendo. È in questa prospettiva non rappresentativa (Thrift, 2007) che si può ripensare al processo stesso di creazione del luogo, l’emplacement, che passa dalla dimensione del quotidiano, dell’interazione attiva e passiva di uno spazio (Certeau, 1984), della sua narrazione che si lega alle pietre ed ai mattoni, ai materiali, agli oggetti e alle forme che compongono lo spazio umano (Miller, 2008). Capire un luogo, quindi, è saper trovare e saper ascoltare questa voce di mattoni e pietre, comprenderne il clamore od i silenzi. 2. Questo contributo muove da questo presupposto teorico volgendo l’attenzione al farsi del silenzio. Qui non mi riferisco al cessar del rumore dell’attività umana, quanto al diradarsi delle narrazioni che vivono e fanno vivere un luogo. Guardo al mondo rurale del nostro Paese, spazio della periferia europea (European Commission, 2017), divisa dalla realtà dai centri urbani dal dispiegarsi di campi e boschi, dal rarefarsi di infrastrutture e presenze. In questi spazi viveva oltre il 70% della popolazione italiana al farsi dello Stato unitario. Poi, una storia di migrazioni interne ed internazionali ha iniziato a erodere le comunità contadine dando forza alla realtà dei centri urbani. Come ricorda Teti (2004), i paesi si spopolavano aprendo domande sulla sorte di chi partiva, ma soprattutto di quelli che sceglievano di restare, soggetti di un fenomeno di crescente marginalità che prendeva forma nell’invecchiamento, nello spopolamento, nell’impoverimento. Il mondo contadino è così tramontato, suggerisce michele filippo fontefrancesco


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Bravo (2013). Dalla sua cenere è sorta una nuova geografia di mondi urbani che inglobano i paesi più vicini trasformandoli in realtà residenziali o mete turistiche e sembrano dimenticare i luoghi più distanti, più scomodi (De Rossi, 2018). 3. Questo contributo nasce dal lavoro portato avanti nel Nord del Paese, tra Alto e Basso Monferrato: un’ampia regione collinare che si estende nel triangolo fluviale di Tanaro, Bormida e Po: una regione forte in passato per la sua viticultura e che oggi cerca un nuovo futuro tra nocciole (Fontefrancesco &Balduzzi, 2018) e turismo enogastronomico (Fontefrancesco, 2018). Guardo, qui, ad un paese in particolare, scelto come caso studio (Yin, 2018) di questo e altri miei lavori (Fontefrancesco, 2020): Sant’Ambrogio. 4. Sant’Ambrogio è uno pseudonimo che racchiude una comunità di circa mille abitanti posta ad un’oretta da Alessandria, sul confine tra Piemonte e Liguria, affacciato sul fluire su uno torrentaccio affluente del Tanaro. Il paese si trova a valle, circondato dalle brulle montagne che dividono le regioni. La sua storia racconta di un passato agricolo ed una veloce industrializzazione ad inizio del Novecento, permessa dalla presenza di elettricità e dalla connessione ferroviaria. Nell’arco dell’ultimo trentennio, però, una ad una, le aziende presenti sul territorio hanno chiuso, delocalizzando la propria produzione altrove, e lasciando dietro di loro una area industriale per lo più deserta la cui voce si fa fioca, con il venir meno degli ultimi operai. “Mi ricordo quando ogni mattina in stazione arrivavano decine di persone. Scendevano dal treno alle 7. Andavano alla fabbrica a lavorare. Qui era un via vai continuo. Lì,” Gioanin, un ex operaio ormai ultraottantenne che vive in una casetta al limitare dell’area industriale racconta, puntando il suo dito verso una casupola diroccata a una cinquantina di metri dall’ampio caseggiato dell’ex-fabbrica in cui lavorava. “lì c’era un’osteria. Dopo il turno andavamo a berci un bicchiere… o forse due… E lì c’era un meccanico. E lì c’era il giornalaio. E lì… Per apposizione si ricostruisce un luogo oggi fatto di spazio silenzioso. La stazione è ancora lì. Si mantengono ancora sei o sette corse al giorno grazie alla sua posizione strategica sulla linea che unisce il sud del Piemonte al ponente ligure, ma son corse che passano per lo più senza che alcun salga o scenda da Sant’Ambrogio. “La gente si è fatta veja (vecchia) qui e i giovani vanno ma mica tornano,” racconta Mario, un contadino di ottantacinque anni. “Sempre fatto il contadino. Gli altri andavano


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Localizzazione di Sant’Ambrogio.

in fabbrica. Io no. Io avevo le bestie (le vacche) a cui pensare. Abbiamo comprato della terra, il trattore. Siamo andati bene per anni. Poi anche mio figlio ha deciso d’andare in città. Vent’anni fa ho detto al diavolo! e ho chiuso la stalla. Continuo a far della meliga (mais) ma è un passatempo ormai per quel che ti danno. Sono l’ultimo qui alla Riva (l’ampia regione agricola sulle rive del fiume). Di cascine non ce ne sono più. La Mariuccia era l’ultima, ne!?! Ha chiuso ed è andata via dal figlio a Torino. Prima era tutto un muggire e le macchine e i bambini. Qui d’estate ci sono i grilli ora. D’inverno la paura d’essere soli.” Negli ultimi cinquant’anni, il villaggio ha perso quasi due terzi della sua popolazione. Come in altri villaggi vicini, i giovani sono migrati verso le principali città del Nord, allontanandosi dal villaggio e lasciando case vuote alle spalle. Così, Sant’Ambrogio ha vissuto il suo abbandono: prima si son chiuse le cascine, come quelle di Mario, e al chiudersi delle fabbriche in paese e nella valle si son chiuse anche case in paese. Nel cuore del borgo, a due passi dall’unico bar dove ancora prima della pandemia ogni giorno si trovavano una trentina di persone per giocare a bigliardo o a carte, si vedono case chiuse e diroccate. “Su dal castello (la parte più alta del borgo), quest’inverno è crollata un’altra casa. Questa volta nessuno sapeva più di chi era,” spiega il sindaco. “Dicono che era abbandonata ormai

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da quaranta o cinquant’anni. In comune diventiamo pazzi perché tra mille frazionamenti non si capisce più chi è l’erede. In paese nessuno si ricorda più di chi era.” A dar senso allo spazio è la permanenza dei nomi delle strade, l’incidenza dei numeri civici, la memoria di chi ha visto e ha conosciuto; anche quella, però, va a farsi leggera e silenziosa. Il lavoro, il vivere aveva fatto dello spazio un luogo; l’abbandono riporta il luogo ad essere spazio informe. I palazzi vuoti assumono il ruolo di rovine che testarde con la loro nuda presenza raccontano del senso del passato, di diafani imperi e perdute genti (Stoler, 2008). Anche le rovine però si cancellano lasciando vuote volumetrie; spazi di abbandono e silenzio. “Sant’Ambrogio sta scomparendo,” dice Mauro, negoziante locale. “Non lo dico mica perché mi piace. Ogni giorno qualcuno muore e i giovani se ne vanno. Ci restano i mattoni e manco quelli se crollano giù. Anche la piazza ormai tace.” La piazza è il luogo del mercato; appena al fondo dello stradone principale del paese. Qui c’è il municipio e vicino il campo sportivo e la scuola. È il luogo dove per anni si sono tenute le varie manifestazioni culturali e turistiche d’estate, facendo vivere Sant’Ambrogio della vitalità dell’accoglienza. “La pandemia ha spento anche quello. La gente sta a casa in paese e da fuori non viene nessuno,” conclude Mauro. “Stiamo sparendo. Questo è il dato di fatto. Che possiamo farci?” La pandemia non ha colpito Sant’Ambrogio in modo pesante. Sono stati pochi i casi e nessuna le vittime. Non per questo le norme di salute pubblica non sono state esercitate in paese, e hanno chiamato tutti alla seclusione, all’abbandono dello spazio pubblico per concentrare la propria vita nel privato della propria abitazione. La piazza durante la primavera del 2020, quindi nell’autunno dello stesso anno si è fatta silente. Il mercato settimanale non è stato celebrato durante i giorni di zona rossa. Tutti gli eventi, piccoli o grandi, momento di aggregazione sono stati sospesi. I pochi irriducibili, non più di una decina di persone ultrasessantenni, si trovano nelle ore migliori del giorno davanti al bar “per fare due parole”. Questo è lo spazio a cui è stata costretta il sapere orale di comunità; il rinnovarsi della voce dei mattoni e delle pietre. 5. Là dove l’enciclopedia orale della comunità sparisce, la comunità perde coesione, si rarefà, perde la capacità di dare nome e voce al paesaggio che si circonda. Fa e si fa silenzio. A fronte di ciò, le parole degli altri abitanti di Sant’Ambrogio portano alla riflessione e aprono alla sfida. Una sfida che guarda al rilancio del locale ma che non può limitarsi


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al vivere in un posto. È una domanda su come abitare oggi in questi luoghi; abitare inteso come atto performativo e trasformativo che chiama all’interazione con gli altri e con l’ambiente che circonda al fine del soddisfacimento dei bisogni umani (Ingold, 2000). L’abitare è riempire il silenzio con nuovo brusio; un rumore diffuso e vitale che anni di arretramento economico, quindi la pandemia, han assordato. L’abitare è al tempo stesso riprendere i fili sfilacciati della storia e continuarne a tessere la storia orale. Da qui il duplice movimento che deve muovere il telaio della ricostruzione: aggiungere, avvicinare e ricongiungere. Ormai da anni si guarda al mantenere l’immateriale del locale; un processo fatto di riappropriazione e riattivazione di ritualità sommerse (Bravo, 1995; Grimaldi, 1996; Grimaldi & Nattino, 2007). L’immateriale salvato non salva la comunità, però. Da qui la necessità di andare oltre, di sfidare geometrie stratificate di spazi abbracciando la volontà di riplasmare anche la materialità del paesaggio per riattivare sapendo scrivere nuove, instabili geografie che portino al movimento della comunità ridestandola dal silenzio entropico a cui sembra condannata. Da qui la domanda di una nuova progettazione di servizi e di spazi. Se i nostri borghi rurali possono rappresentare il laboratorio per sperimentare nuove strategie urbane (D’Alessandro, Salvatore & Bortoletto, 2020), queste hanno al centro l’orizzonte della socialità; una socialità che non può prescindere l’incontro ed il ritrovo. All’urbanista, al designer la sfida di tracciare la direzione di questo ripensamento, all’antropologo quello di accompagnarlo nella ricerca della migliore funzionalità. La realtà di Sant’Ambrogio e nel suo spegnersi vuole essere un appello a tutti voi ad ascoltare una voce che si sta facendo fioca, chiamarvi in campo per trovar la via migliore per rafforzarla, per propagarla sapendo leggere le specificità locali, tanto del territorio quanto delle sue genti. In questo modo e solo in questo sarà possibile ribellarci all’entropia facendo brillare tante nuove stelle danzanti andando oltre al destino apparentemente già scritto di marginalità e silenzio.

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spazi, luoghi Vincenzo Alessandro Legnante

Architetto, Università degli Studi di Firenze - ITALIA

Piazza Ducale, Vigevano (Pavia).

Nel testo letterario si privilegia il metodo della descrizione dei luoghi rispetto alla narrazione degli spazi perché i luoghi possono essere letterariamente riconosciuti come spazi emotivamente vissuti. Per essi l’elemento soggettivo prevale sull’oggettività dei valori puramente fisici. Il luogo acquista, rispetto allo spazio, un surplus di significato per le emozioni, i sentimenti, i ricordi e le suggestioni che trasmette al singolo individuo. Si tratta di una modalità letteraria che attribuisce un surplus di significato a un determinato spazio-scenario di una determinata narrazione. In questo processo di trasformazione significante lo spazio acquista il fattore emozionale che lo caratterizza e ne assume il reale fattore distintivo. Tra le parole spazio e luogo che descrivono la stessa realtà ciascuno opera una personale attribuzione di ulteriori significati alle pure variabili fisiche e prevalentemente dimensionali. Questo genera un sistema aperto di scale parametriche, non più solo dimensionali, di tipo descrittivo o interpretativo, evocativo o analogico, figurativo o verbale, poetico o sensoriale, al fine di attribuire a quell’entità fisica il significato, che distingue un luogo da uno spazio. Una bella frase letteraria di Silvia Avallone ne chiarisce perfettamente la distinzione: “il fatto è che niente muore davvero, nei luoghi” (Avallone, 2020, p. 367). Ciascuno li recepisce attraverso modalità del tutto personali, anche mutevoli nel tempo. Il fatto di ancorarvi ricordi, sentimenti, stati d’animo ed emozioni ne enfatizza i fattori di senso che distinguono i luoghi dagli spazi. Con questo carico semantico i due termini nell’uso si differenziano ulteriormente, uno per la sua natura prevalentemente geometrica e l’altro per il portato di significati di cui si fa vettore. Di questa ambivalenza, talvolta marcata fino a crearne differenze incolmabili e altre volte praticamente sovrapponibile nel contesto descrittivo, vorremo dialogare sul tema di questo incontro e sottoporre queste brevi riflessioni sugli spazi urbani. Lo spazio urbano non è lo spazio che rimane dopo aver costruito gli edifici né un vuoto da riempire. È spazio progettato. E non è spazio privato che ogni famiglia o individuo difende con muri. È invece il luogo dell’incontro degli interessi individuali che volontariamente vincenzo alessandro legnante


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decidono di stare o usare quel luogo. In tutte le città del mondo lo spazio urbano è luogo della comunità e dell’incontro. Uno spazio urbano amichevole, funzionale e bello rende bella la città e rappresenta l’orgoglio dei suoi cittadini. Gli spazi urbani a misura d’uomo sono spazi della città che le persone possono usare e vivere. Più esattamente spazi urbani alla scala dell’uomo. Cioè nel suo campo visivo, alla portata della sua voce e della capacità di ascolto. Gli spazi che la persona, come sistema intellettivo, fisico, sensoriale, percettivo e culturale può usare e vivere. In questa piccola scala possono essere utili cinque concetti chiave per i nuovi progetti, cinque capisaldi per intraprendere gli interventi di riqualificazione verso una città migliore per una vita migliore. Continuità nel tempo: ogni luogo ha/è la sua storia La stratificazione degli eventi in quel luogo e la sua storia nel tempo sono gli elementi fondativi della identità di luogo. Nella cultura dell’antica Roma in ogni luogo è presente uno spirito divino, il Genius Loci, il genio del luogo, un’entità naturale e contestualmente soprannaturale. È la divinità di quel luogo e con lui bisogna fare i conti e dialogare per farne un buon uso. Con questo significato in ogni spazio sul quale interveniamo con i nostri progetti, i nostri disegni e con le nostre decisioni il genius loci suggerisce il modo di intervenire. Per occupare lo spazio dobbiamo ascoltare i luoghi e capire i suggerimenti che lo spirito del luogo ci comunica attraverso la nostra sensibilità. Ogni luogo ha un suo genio e ciascuno ha una identità propria, con la quale possiamo dialogare. Singolarità Singolarità vuol dire unicità delle porzioni di spazio sulla terra che noi usiamo per costruire gli spazi urbani. Due spazi sulla terra non sono mai uguali l’uno all’altro, neanche se li ritagliamo sulla superficie tutta uguale di un deserto. La sabbia di ciascuna parte sarà diversa dall’altra, anche se soltanto per qualche piccolissimo granello. Se siamo nell’ambiente naturale queste differenze saranno molto più esplicite: quando sono presenti alberi e piante, acque e cose, pietre e sabbia, terra, piccoli insetti, le differenze saranno molte di più e ben visibili. Un solo albero di tiglio non mai è uguale a un altro albero di tiglio. Variano le forme del tronco, della chioma e del portamento, delle foglie, delle radici, i colori delle singole foglie, delle bacche, dei fiori. Questa singolarità indica che ogni luogo è una individualità e quindi richiede attenzione individuale per ogni progetto. Ci ricorda che non possono essere replicate le stesse soluzioni per due situazioni simili. Ogni progetto è unico perché non è la copia di un altro.


spazi, luoghi • vincenzo alessandro legnante

Al centro delle intersezioni Uno spazio urbano di qualunque tipo, una piazza, un giardino, un marciapiede o una strada,.. è parte di un sistema più vasto che relaziona le diverse parti di una città in una rete connessa e vitale. Percorsi, soste, giardini, slarghi sono spazi dedicati alle diverse funzioni e fanno parte di un ordine più grande che li tiene insieme. Questa è la logica della città. Un reticolo di situazioni fatte di spazi urbani minori che fanno parte di un organismo più grande. Sono parte di un sistema più complesso e comunque in relazione con altri spazi pubblici situati in luoghi differenti. Ciascuno è singolare e identitario. Per cui il singolo spazio urbano è il centro di intersezioni dei vettori urbani quali i flussi di persone, di veicoli, di direzioni visuali, di scorci paesaggistici per il singolo cittadino/utente che in quel momento è in quel luogo. Queste persone in quel luogo sono ciascuna il centro di un mondo relazionato ad altri mondi paralleli. Significante per ciascuno Essere in uno spazio urbano cambia secondo l’ora del giorno, la pioggia o il sole, lo stato d’animo, la disponibilità di tempo. Cambia anche per il nostro umore. Questo determina che lo spazio disegnato e costruito non è mai soltanto un oggettivo sistema geometrico, misurabile e fisico, una realtà definitiva. Significa che una singola piazza o un solo tratto di marciapiede assume tanti significati per quante sono le persone che lo usano e il tempo in cui lo vivono. In pratica è relativo ad ogni utente. Quando gli scrittori o i giornalisti descrivono uno spazio, reale o di fantasia, scelgono le parole, e soprattutto gli aggettivi, per dargli significato. Anche le stesse parole disposte secondo un ordine diverso determinano impercettibili ma importantissime variazioni di significato. Il disegno di uno spazio urbano è la promessa di attenzione verso tutti quelli che ne avranno uso, uno per uno, individualmente. Appartenenza e rappresentazione del gruppo sociale Lo spazio pubblico, a differenza dello spazio privato, ha la qualità di essere un riferimento collettivo per una comunità di persone. Il gruppo sociale che vi si rappresenta lo sente come proprio. Nella storia della città sono sempre riconoscibili le sfumature tra pubblico e privato nella graduazione delle caratteristiche degli spazi. Lo spazio davanti alla porta di casa, anche se è spazio pubblico, è sentito più intensamente rispetto alla piazza più grande che rappresenta il gruppo sociale più ampio degli abitanti. Nella città sono sempre chiare le unità spaziali di base: il vicinato, le case, il quartiere, le strade e i percorsi, le piazze, i luoghi del mercato e del culto. Con molta chiarezza l’animale-uomo sente l’appartenenza ai luoghi e su questa base sceglie i suoi comportamenti. Non accetta di essere ingannato dalla

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confusione di queste gerarchie. Sentirà di appartenere a una comunità sociale solo se il disegno degli spazi entra in sintonia con questa naturale esigenza. Non accetterà mai volentieri di non riconoscere la sua casa tra tante case uguali, o di avere lo stesso disegno dello spazio esterno di quello di un quartiere vicino. Il concetto di luogo di appartenenza è antropologico e non solo urbanistico, e tocca le corde più profonde del nostro stare sulla terra.


spazi, luoghi • vincenzo alessandro legnante

Bibliografia Armato, F. (2018). Pocket Park. Una stanza a cielo aperto. Palermo: Navarra Editore. Avallone, S. (2020). Un’amicizia. Milano: Rizzoli. Aa.Vv. (2017). Spazi urbani di rigenerazione. Firenze: ANCI Toscana edizione. Comi, G. (2020). ‘Progettare l’inabitabile, riflessione sullo spazio delle relazioni’, FAMagazine, N. 52-53. pp.81-86 [online]. Available at: https://www.famagazine.it/index.php/famagazine/article/view/529/1292 Cremonini, L. (1995). L’interno urbano. Firenze: Alinea. Lynch, K. (1969). L’immagine della città. Padova: Marsilio Editore. Nardi, G. (1986). Le nuove radici antiche. Milano: Franco Angeli. Norberg-Schulz, C. (1979). Genius Loci: paesaggio ambiente architettura. Milano: Electa. Pignatelli, P. C. (1985). I luoghi dell’abitare. Note di progettazione. Roma: Officina. Rossi, M. (2017). Gli spazi intermedi nella città contemporanea. Firenze: FUP.

Sitografia https://greenreport.it/news/comunicazione/lo-spazio-e-il-luogo-relazioni-urbane-e-sociali-dalla-citta-allecovillaggio/ 2015 https://ilmanifesto.it/spazi-di-relazione-dentro-le-citta/ 2019 http://www.biennalespaziopubblico.it/chi-siamo-la-nostra-storia/

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una riflessione psico-antropologica sullo spazio e sui luoghi dell’abitare Giuseppe Licari

Psicologo, Centro Studi e Ricerche Koisema Direttore della rivista Narrare i Gruppi, Cremona - ITALIA

Ragazzi che giocano a calcio in un vicolo di Istanbul. Foto di Batin Ozen.

Premessa Riflettere sullo spazio fisico e sui luoghi dell’abitare attraverso un approccio psico-antropologico ci invita, in prima battuta, a darne alcune definizioni. Partiamo, allora, dal termine psicologico che in questa riflessione sarà quello più direttamente chiamato in causa. Psicologico è un aggettivo che riguarda l’esperienza interiore dell’individuo, che proviene dalla parola psicologia la quale è composta da PSICHE e LOGIA e significa studio della psiche. La parola PSICHE proviene anch’essa dalla lingua greca e significa soffio vitale, anima, spiritualità. Anche LOGIA proviene dalla lingua greca e precisamente da LOGOS e significa discorso e studio. Possiamo dire, quindi, che la parola psicologia significa studio della realtà interiore delle persone e, per estensione, studio del pensiero, studio del comportamento e studio dello spazio relazionale (Feldman, 2015). Così, lo spazio fisico di una casa, di una strada, di una piazza, attraverso lo studio della realtà interiore delle persone che lo esperiscono, diventa spazio psicologico (Koffka, 1935; Kanizsa, 1980). Allora è il suo essere praticato con delle azioni che lo trasforma in spazio psicologico e di conseguenza in uno spazio che acquisisce una sua identità, anche solo momentanea, ma riconoscibile e memorizzabile che lo fa divenire un luogo specifico? Il luogo è dunque uno spazio praticato e nominabile? Risponderemo a queste domande continuando a riflettere sul significato dei termini presenti nel nostro titolo. Partiremo, innanzitutto, dalla parola spazio e poi ci occuperemo delle ulteriori qualificazioni quali: fisico, piscologico, antropologico per poi soffermarci su come uno spazio diviene un luogo. Che cos’è lo spazio? Per il senso comune lo spazio è generalmente un contesto fisico che si divide, in prima battuta, in spazio privato e spazio pubblico. In seconda battuta, in spazio abitabile o non abitabile. In terza battuta, sarà adeguato o non adeguato alle esigenze personali, e via di giuseppe licari


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questo passo, pulito o sporco, modificabile o immutabile, naturale o artificiale, eccetera (Bachelard, 1957). Direi che la caratteristica generale espressa dal senso comune è quella di considerare lo spazio secondo l’appartenenza e lo stato in cu si trova, quindi se è di proprietà o meno e la condizione in cui si trova. Possiamo dire che queste letture sono le cose che tutti noi facciamo per abitudine, per senso di appartenenza sociale e, non ultimo, per appartenenza culturale. Sul senso di appartenenza e di proprietà di uno spazio bisogna tenere presente che vi sono culture, ad esempio, che non hanno la nostra stessa idea di proprietà (Shipton, 2002). Dal senso comune passiamo ora a coloro che leggono e praticano questi aspetti dello spazio attraverso le loro conoscenze professionali. Così, in breve, se facciamo riferimento ai diversi punti di osservazione dello spazio a partire da chi lo studia abbiamo, gli studi sullo spazio fisico, quelli sullo spazio psicologico, quelli di natura antropologica, gli studi di natura architettonica, eccetera. Chiaramente esistono tanti altri aspetti dello spazio, direi tante quante sono le discipline che conosciamo, ma noi qui, per l’economia delle cose che ci interessano, ci soffermiamo solo su alcuni di queste qualificazioni che sono: fisiche, psicologiche, antropologiche, urbanistiche e architettoniche. Lo spazio fisico Una prima definizione può essere quella che lo definisce un contesto fisico delimitato da confini. Oppure un’area definita da confini. O, ancora, una porzione di terra misurabile. Quest’ultima definizione corrisponde al significato della parola geometria, ovvero misurazione della terra. Il geometra, quindi, è colui che misura la terra? E da qui lo spazio fisico, ad esempio all’interno delle abitazioni o all’aperto in piazze e territori di varia natura? Senz’altro, ma chiaramente, come sappiamo, non è il solo in grado di misurare uno spazio fisico. Dentro questo contenitore ci saranno di sicuro le scienze ingegneristiche, architettoniche e anche agrarie solo per citarne alcune. Se sono sufficienti questi esempi, come credo, passerei ora alla prossima specificazione. Lo spazio psicologico Come abbiamo accennato, considerando che psicologia significa discorso logico sulla psiche. Che psiche si riferisce al mondo interno delle persone e che significa anche soffio vitale, il quale, come appare evidente, è legato al respiro, alle percezioni che rice-


una riflessione psico-antropologica sullo spazio e sui luoghi dell'abitare • giuseppe licari

Triangolo di Kanizsa –legge della chiusura

viamo attraverso gli organi di senso, alle emozioni che nascono nell’interazione con le cose e con le persone, il termine psicologico ci chiama a considerare l’idea che noi ci siamo fatti di una nostra esperienza vissuta in uno spazio fisico. Detto questo, una prima definizione di spazio psicologico potrebbe essere la seguente: uno spazio fisico che abbiamo introiettato, interiorizzato, dove abbiamo vissuto delle pratiche, dove abbiamo fatto delle cose, incontrato delle regole di convivenza privata e sociale e dove abbiamo sperimentato delle interazioni mediate dalle nostre percezioni: visive, acustiche, olfattive, tattili e gustative. Per il ruolo che gli studi sulla percezione possono avere come stimolo e supporto, ad esempio, delle discipline del Design, e quindi sulla progettazione di spazi di relazione, sugli spazi per l’abitare, sulla progettazione di immagini, sulla progettazione di siti web, oppure sulla progettazione di nuove realtà urbane con annesse strade, case e giardini o, più in specifico, luoghi d’incontro all’aperto come i pocket-park (Armato, 2020), si rimanda agli studi di Gaetano Kanizsa (1980, 1991), del quale riportiamo qui solo l’esempio della sua famosa figura del triangolo. In merito a come si esplicano le nostre percezioni, in questo caso quelle visive, riportiamo il triangolo di Kanizsa, uno dei sette principi proposti dalla psicologia della Gestalt, che è la legge della chiusura la quale ci permette di capire come questa figura si stabilizzi attraverso la percezione illusoria di un triangolo bianco inesistente che opera appunto come chiusura di sei elementi staccati fra di loro. Nell’immagine riportata in alto è di fondamentale importanza notare che il triangolo bianco non esiste nella realtà delle cose, mai noi lo vediamo come se ci fosse. Detta in altre parole, questa figura ci aiuta a capire come sulle nostre percezioni visive, e non solo, agiscano delle leggi che orientano le nostre percezioni e delle quali un occhio in-

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genuo potrebbe ignorane l’esistenza. Le nostre percezioni sono quindi il risultato della nostra necessità percettiva di creare forme, frutto dell’elaborazione che il nostro cervello opera sugli stimoli che lo raggiungono attraverso gli organi di senso (Lotto, 2017). E da qui, per estensione sulla percezione di spazi e luoghi, come è facile intuire un determinato luogo può generare in noi percezioni personali, vissuti, sensazioni soggettive che, tra le altre cose, hanno l’oneroso compito di mettere in relazione il nostro mondo interno con gli spazi e i luoghi delle nostre esperienze, nonché di generare in noi dialoghi interni, anche in assenza degli stimoli originari. Ed è proprio questo dialogo interno che determina il passaggio da ciò che definiamo spazio fisico in quello che chiamiamo spazio psicologico. Come possiamo capire appare evidente anche il ruolo che hanno le nostre esperienze passate sulla percezione del momento, quindi come uno spazio sia influenzato dalla nostra appartenenza culturale e dalle regole sociali alle quali aderiamo. Dunque, come possiamo definire ancora uno spazio psicologico? Direi, ancora, la nostra percezione di uno spazio interno, ad esempio il nostro dialogo interno abitato da persone e cose, una esperienza recepita sotto forma di relazioni attraverso i nostri organi di senso e arricchita dalla nostra esperienza passata. L’idea che noi ci siamo fatti di uno spazio che, oltre ad esistere all’esterno, come spazio fisico autonomo esiste anche dentro di noi come spazio interiore. Una piazza è uno spazio autonomo, una casa è uno spazio autonomo; tuttavia, oltre a questa autonomia hanno anche per me un valore soggettivo, quello che io percepisco di quella piazza, quello che io vedo, sento con tutti i sensi, e questo è ciò che chiamiamo spazio soggettivo o spazio interiore. Questo lavoro soggettivo spinge uno spazio fisico a divenire uno spazio psicologico, uno spazio sottoposto a tutte le mie analisi e riflessioni sia quando lo vivo in prima persona, sia quando ne sono fisicamente distante e lo rievoco mentalmente nei miei dialoghi interni e nelle mie rêverie, nei miei sogni ad occhi aperti (Bachelard, 1957, 1960). Dopo questa breve riflessione sullo spazio psicologico vediamo di capire ora come possiamo definire uno spazio antropologico, Lo spazio antropologico Uno sguardo antropologico è uno sguardo sull’uomo, un discorso logico sull’uomo nella sua complessità e interezza, per questo l’antropologo occupandosi dell’uomo lo incontrerà nelle sue diverse pratiche e nelle sue diverse regole, credenze e valori. Uno spazio antropologico è quindi uno spazio dove sono presenti valori e credenze che strutturano i modi di essere e di apparire dei singoli e dei gruppi che abitano quei deter-


una riflessione psico-antropologica sullo spazio e sui luoghi dell'abitare • giuseppe licari

minati luoghi. Il focus è quindi legato ai valori, alle abitudini, ai costumi e alle credenze, in altre parole a quello che noi chiamiamo cultura (Clifford & Marcus, 1986). Lo spazio antropologico può sconfinare facilmente in quello sociologico, ma una possibile differenziazione è possibile osservando la scala di lettura dei fenomeni. I sociologi sono più interessati alle macro-letture, mentre gli antropologi sarebbero più inclini a considerare una scala di lettura più contenuta. I sociologi appaiono più interessati ad una lettura quantitativa dei fenomeni, mentre gli antropologici sembrano essere più interessai alle letture qualitative (Licari, 2006). Ma quando, ad esempio, parliamo di sociologia qualitativa, o micro-sociologia le cose ridiventano più complesse (Goffman, 1969). Lo sguardo antropologico può essere considerato un posizionamento che vuole capire come le persone costruiscono i valori con i quali costruiscono la loro cultura e le loro regole di convivenza in gruppi ristretti. O almeno dovremmo dire che normalmente gli antropologi non si avventurano con facilità su quanto potremmo definire antropologia della città (Hannerz, 1980), piuttosto preferiscono parlare di antropologia nella città, volendo mettere l’accento più sull’osservazione di realtà circoscritte, come possono essere, ad esempio, una piazza, un rione, una porzione di quartiere, dove vigono regole e valori che piccoli gruppi etnici condividono, invece di avventurarsi sull’intera città considerandola come un tutto organico. Lo spazio urbano Tenendo a mente quanto detto nelle definizioni precedenti sullo spazio fisico, psicologico e antropologico, vediamo adesso di capire come definire sinteticamente uno spazio urbano. Ad esempio, potremmo parlare di una porzione di spazio fisico, presente all’interno di una realtà organizzata e governata, che comunemente chiamiamo città e che in latino diventa Urbis da cui deriva urbano. In estrema sintesi, lo spazio urbano contiene, nello stesso tempo, esperienze fisiche, psicologiche e antropologiche; quindi, possiamo definire lo spazio urbano il contenitore delle diverse realtà che abbiamo toccato nelle diverse definizioni di spazio. Potremmo anche dire che uno spazio urbano è comunemente individuato come un luogo, in quando ha una sua peculiarità, che è, innanzitutto, l’avere un nome che ne permette l’individuazione della sua funzionalità. Ad esempio, luogo di nascita, luogo di residenza. Il luogo rispetto ad uno spazio è nominato, ha una sua identità, è riconoscibile. Mentre uno spazio può essere neutro, in attesa, appunto, di acquisire una sua funzione d’uso. Facciamo un esempio molto semplice. Un appartamento, quindi un luogo dell’abitare, che cambia destinazione d’uso e diventa la sede degli uffici di una organizzazione. Una

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nuova destinazione d’uso di uno spazio permette di acquisire nuove funzioni e un nuovo nome; e noi attraverso quel nome ci aspettiamo di trovare all’interno alcune funzionalità e non altre: non cercheremo la cucina e la camera da letto, cosa che invece cercheremo nell’appartamento uso abitazione. Di seguito riprenderò queste riflessioni appena fatte presentandole attraverso uno schema, in modo da riprendere i nostri ragionamenti e ancor più per facilitarne la comprensione. La domanda ora è come si passa da uno spazio ad un luogo? Luogo dell’abitare, luogo urbano, eccetera. Lo schema che vedremo permette di ragionare e capire come si forma un luogo, ma ancor più come i luoghi siano il prodotto di vissuti e di pratiche psicologiche che si sviluppano in un determinato contesto o spazio fisico. Detto questo, possiamo anche aggiungere che spazi e luoghi sono sempre dinamici e possono migrare di continuo l’uno nell’altro, anche se apparentemente alcuni luoghi e alcuni spazi ci appaiono percettivamente stabili se non addirittura fermi. Ad esempio, a volte sentiamo dire Roma città eterna. E ci pare di sentire qualcosa di sensato e ancor più di stabile. Ma dopo la nostra riflessione non abbiamo difficoltà a capire che sarà eterna proprio per il suo continuo cambiamento, spesso impercettibile. Riflessione conclusiva Queste riflessioni sullo spazio fisico attraverso un approccio psico-antropologico vogliono essere uno stimolo a considerare lo spazio urbano una realtà complessa dove tutte le qualificazioni che abbiamo visto sullo spazio vivono contemporaneamente. Sarà quindi lo sguardo di chi osserva quello spazio a farne emergere le potenzialità il quel momento e nominandone le caratteristiche emerse lo farà divenire un luogo con una sua identità. Per spostarci su un piano più antropologico, consideriamo il pensiero di Marc Augè che ha definito il luogo come il principio di senso per coloro che lo abitano. E nella sua opera ormai famosa dal titolo Non-luoghi descrive i tre caratteri comuni ai luoghi in quanto tali: identitari, relazionali e storici. Nascere significa nascere in un luogo, essere assegnato ad una residenza. In questo senso il luogo di nascita è costitutivo dell’identità individuale. Il luogo è l’ordine in base al quale gli elementi sono distribuiti in rapporti di coesistenza, quindi relazioni. La mappa della casa, le regole di residenza, i quartieri del villaggio, gli altari, i posti pubblici, la divisione del territorio corrispondono per ciascuno ad un insieme di possibilità, di prescrizioni e di interdetti il cui contenuto è, allo stesso tempo, relazionale, identitario e storico.


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Spazi e Luoghi – quali differenze e quali relazioni?

Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi come identitario, né relazionale, né storico definirà un non-luogo. Augé sostiene che la surmodernità (l’eccesso di tempo e spazio nella modernità) produce non-luoghi, che non integrano in sé i luoghi della memoria e della storia. In questo modo, Augé considera il luogo come uno spazio praticato, un incrocio di mobilità relazionale e storiche. Già Merleau-Ponty, nella sua “Fenomenologia della percezione”, aveva distinto uno spazio geometrico da uno spazio antropologico, quindi un luogo praticato, intendendo come spazio esistenziale il luogo di un’esperienza di relazione con il mondo da parte di un essere essenzialmente situato in rapporto ad un ambiente. Lo spazio sarebbe per il luogo ciò che diventa la parola quando è parlata. Così il racconto di e su quello spazio diventa il lavoro che, incessantemente, trasforma spazi in luoghi. Parafrasando ancora Merleau-Ponty, lo spazio di una strada che momentaneamente i ragazzini trasformano in campo di calcio diviene il luogo dove si è svolta la partita. E tornerà ad essere luogo del traffico non appena i ragazzini terminano la loro partita di calcio. Sono

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quindi coloro che si muovono a trasformare un luogo, la strada geometricamente definita come luogo del traffico, in un altro luogo, il campo di calcio. Allo stesso tempo, uno spazio divenuto luogo può divenire anche luoghi diversi in momenti diversi, un esempio per tutti: diverse istallazioni all’interno di una piazza in momenti diversi definiscono i diversi luoghi che può ospitare lo spazio della piazza: mercato settimanale, concerto musicale, manifestazione politica, spazio ludico per bambini eccetera, eccetera.


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hybrid proximity Giuseppe Lotti

Architetto, Presidente del Corso di Laurea in Disegno Industriale Università degli Studi di Firenze - ITALIA.

Immagine fornità dall’autore

In March 2020 the world has changed. The approach of those who interpret the pandemic as a consequence of our mistaken relationship with nature is correct; thus Pope Francis: “I don’t know if this crisis is nature’s revenge, but it certainly is its answer.” (Pope Francis, in Cozzolino, 2020) For Jeremy Rifkin: “…the error (…) is called climate change. Extreme events (…) always involve the escape and disordered migration of men, animals and viruses...” (Rifkin, in Various Authors, 2020) Everything is interconnected. The Goals of the 2030 Agenda for Sustainable Development of the United Nations are there to remind us: the objectives include the world’s health, yet all points are closely interconnected and cannot be addressed individually. For this reason, I think it is important to try to understand if (and how) the concept of proximity has changed in the pandemic era. We are living in a paradox: we must keep our distance but, at the same time, proximity is increasingly important. It is important to reflect on the importance of shops in neighbourhoods especially from fragile users’ point of view as well as on “shared of spending” concept that starting from the neighbourhoods has helped families in economic difficulties, and above all to Healthcare: in the territories where the local service has been dismantled, the pandemic has hit harder. Today we can say that proximity is increasingly hybrid. It’s in fact physical proximity, with respect for protocols that have redesigned a new proxemic of distance: we are separated by closures, screens, masks, not to mention journeys, which are increasingly difficult and rare. A distance that is perhaps open, as in, Here comes the sun by Paul Cocksedge, but always present. And, in part, we have recovered the importance of proximity. It is sufficient to think of the many initiatives that, thanks to proximity, have tried to overcome many problems generated by the pandemic. The project Neighbours helping neighbours of Terrritorial empathy comes to mind, with an English and Spanish communication system placed outside the door. In this case, people can download and print the comgiuseppe lotti


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munication to advice neighbours that they are available to help them with their daily chores during the lockdown. But proximity means also virtual proximity, starting from home working. All with obvious advantages – just think of the theme of reduced transport, cost reduction, possibility of reaching places and people faraway... – as well as risks that we know well - the danger of everything to/from home, the loosening of relationships, less empathy and, sometimes, a nasty relationship and, more generally, the risks of surveillance capitalism. (Zuboff, 2019) “A continuously connected life erodes our ability to feel empathy.” (Aime, 2019, pp. 68-69). We live the relationship with friends in a shallow way, we practice bonds without consequences. Regarding digital proximity, Giorgia Lupi’s Dear New York project comes to mind “as born out of my desire to find a way to memorialize the city’s identity before Covid-19, and create a type of vessel for hopes about its future.” (Lupi, www.giorgialupi.com) It’s proximity towards the Other, also because, in recent months, We have become the Other. Thus, for example, it was for the Italians in last spring, in which, for the first time, we appeared as “plague spreaders” in the eyes of others. And, at the same time, because of the pandemic, we are all more similar - near and far, poor and rich, young and old. Thus Federica Fragapane’s project The Stories Behind a Line: the story of six migrant through data, an example of “data visualization as a tool not only to communicate to people but also to give voice to those who do not have the tools to do so.” (Fragapane) And again, it’s a proximity that also goes beyond the human, in the name of overcoming anthropocentrism that through the ages has created numerous problems…-, in the name of a new accord, in harmony with nature as a whole. “Until today, most of the design was a powerful tool of the Anthropocene, with the human species solidly placed at its center and human interests at the core of its objectives (...) Design should be centred not only on humans but also on the future of the biosphere.” (Antonelli, in Antonelli, Tannir, eds., 2019, pp.19-38) From the point of view of the projects undertaken, it is worth mentioning Francesco Faccin’s Honey Factory, a structure for producing honey in the city, with the “bees” that are “sentinels who keep watch over the health of the planet, since their presence guarantees environmental well-being.” (Dardi, 2015) And in this hybrid nature of proximity, design, traditionally mediator of different dialectics that characterize contemporaneity, by vocation, training, methods, can play an important role, as long as it knows how to recognize and manage the complexity of reality, with a medium-long term vision, ready to change strategy, without losing the goal, “like sailing (...) with a sailboat (...) as result of a co-generation: made by us, by the boat, by the wind and currents... “ (Manzini, 2021, p.146)


hybrid proximity • giuseppe lotti

Bibliography AA.VV. (2020). Il mondo che sarà. Il futuro dopo il virus. Rome : Gedi - Gruppo editoriale. Aime M., Favole A., Remotti F. (2020). Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione. Milan: Utet Antonelli P., Tannir A., eds., (2019). Broken nature. 22a Triennale di Milano. Milan: Electa Cozzolino A. (2020). Papa Francesco e il coronavirus: “Dio perdona sempre, la natura mai”, www.corriere.it, 17/04/2020 Dardi D. (2015). Honey Factory. Milano: Francesco Faccin, www.klatmagazine.com Fragapane F., http://wudrome.it/2019/federica-fragapane-the-stories-behind-a-line/index. html) Manzini E. (2021). Abitare la prossimità. Idee per la città dei 15 minuti. Milan: Egea Petroni M. (2020). Il progetto del reale. Il design che torna alla normalità. Milano: Postmediabooks www.giorgialupi.com

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il dolore dell’antropocentrismo Edoardo Malagigi

Artista, Designer, già docente Accademia di Belle Arti Firenze - ITALIA

Riproduzione al vero di un capodoglio del Parco Pelagos, alto Tirreno. Prima esposizione al Giardino Botanico dell’Università di Firenze, settembre 2019.

Quella che si vede è un’immagine che ci arriva dal Parco Pelagos, il parco marino dell’alto tirreno, dove si muove volteggiando fra le acque dolci uno dei nostri capodogli più belli, un individuo meraviglioso e protetto, è un’immagine tanto metaforica quanto utile per il ragionamento che vorrei portare all’attenzione di tutti i presenti. Lo spazio marino di questo grande mammifero è anche la sua casa, dove non mancano protezione e cibo, sintomatico di come si può vivere in natura. Non è così per gli umani che godono nel vivere fra cose artificiali modellate dal tempo e dai saperi adatti alla loro sopravvivenza, questa l’hanno chiamata cultura. Sappiamo che anche in Italia come altri paesi sembra sia stato conveniente separare le aree del Design e dell’Arte, così nel mondo pullulano istituti e università che amano definirsi di Arte e Design. Nel mondo capitalista (quasi tutto) i prodotti di consumo si definiscono di design, e in effetti non è concepibile che ci siano prodotti non progettati, ed è così che la cultura del progetto e materiale ci offre la qualità della vita. Mentre le espressioni di denuncia della mancanza di una qualità della vita dignitosa oggi si chiamano di Arte, questa è sinonimo di provocazione e dissenso. Queste due aree, una del Design e una dell’Arte, non possono mancare in nessun paese, si usa spesso dire che l’arte interroga e il design risponde. Anche le didattiche dei mestieri creativi non hanno potuto che allinearsi, si impara a rispondere ai bisogni della gente e si impara a suscitare questioni, si impara a fare oggetti e architetture funzionali e si impara a fare provocazioni, e si gode delle passioni conseguenti da ambo le parti. Userò un po del tempo concesso per illustrare delle opere, che si possono annoverare certamente nell’area delle Arti, vogliono quindi provocare una particolare attenzione al mondo degli scarti industriali e più in generale ai rifiuti e agli sprechi. edoardo malagigi


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Mentre non parlerò del tema, altrettanto interessante, di come i rifiuti o gli scarti possono diventare oggetti di Design, nel passato me ne sono occupato, per i motivi più diversi ho speso venti anni della mia vita ad occuparmi di design dell’infanzia e oggetti riabilitativi. Il capodoglio che abbiamo visto fino ad ora muoversi dolcemente nel suo ambiente vive fra Piombino e il Golfo di Genova che è definito anche il santuario dei cetacei, questo individuo prende il nome da colui che lo ha monitorato per primo, appunto Giovanni, un ricercatore dell’Istituto Tethis che opera a Sanremo. La direttrice dello stesso Istituto Sabina Airoldi ci ha fornito tutte le notizie scientifiche per realizzare “Capodoglio Giovanni”, un’idea di scultura che come altre che seguono sono costruzioni che si muovono sempre nell’area pubblica della comunicazione, mai intimistica o nostalgica. E questa architettura in movimento, per quanto è grande, mi ha suggerito il desiderio di farne una interpretazione artificiale, cioè una costruzione di riusi e recuperi di rifiuti domestici, potremmo anche definirla una enorme scultura della lunghezza di 14 metri. Devo l’aiuto alla realizzazione di questo progetto a 15 volontari, arrivati da USA, Svezia, Belgio e Germania, artisti e studenti che per un mese hanno lavorato alternandosi a Pisa in un capannone industriale messo a disposizione da Herambiente, tutti molto sensibili alle problematiche ambientali, doveva raccontare al mondo il grande problema delle plastiche nei mari. Un modellino in scala 1/10 e i disegni appropriati ha permesso al fabbro di approntare lo scheletro in tondino di ferro dove poi è stata adagiata la rete. Delle canne tubolari in metallo, all’interno di ognuna delle otto sezioni della struttura interna, avrebbero permesso facilmente montaggio e smontaggio. Sulla rete esterna è stata adagiata la pelle del capodoglio, devo dire che non è stato facile dare l’effetto di una superficie continua sovrapponendo scaglie che apparirebbero più adatte a simulare le squame che la pelle. Prove su prove e si è trovato un giusto equilibrio di forme e curve, giorni e giorni a riaprire i cartoni di poliaccoppiato (non si può dire tetrapak) e tagliare migliaia di piccole ondine. Quindi la superficie interna dei cartoni che contengono latte, yogurt o altri liquidi è diventata quella esterna della mega scultura, la brillantezza specchiante dei fogli di alluminio hanno dato una sorprendente immagine marina del mammifero. Guardando il capodoglio ad una certa distanza, oltre i dieci metri, l’occhio vede una pelle continua e da vicino vede un rifiuto. Così come con le lastre di pietra si facevano i tetti delle case noi abbiamo fatto con le piccole onde (ottenute dal taglio del tetrapak), dalla pancia in basso a salire e fino alla schiena per favorire il movimento della pioggia nella previsione di installazioni all’aperto.


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I bambini avrebbero osservato l’interno del mammifero dagli occhi del capodoglio che sarebbero stati dei fori, precisamente alla loro altezza, e reso così visibile la vera natura della pelle (la parte esterna del tetrapak). Abbiamo anche collocato all’interno, a citare il nostro primo gadget della storia unita, un piccolo pinocchio seduto. Si è reso, inoltre, evidente lo sfiato asimmetrico sul fronte della testa. L’università di Firenze nel 2019 ha voluto collaborare proponendo una prima presentazione al Parco Botanico della città, le altre presentazioni sono state cancellate grazie al covid subito dopo la seconda ad Ecomondo di Rimini. Erano in programma presenze in siti della costa tirrenica a implementare interesse turistico verso l’osservazione al vero dei capodogli. Il valore educativo e didattico del modellino è stato sperimentato nell’occasione di incontri pubblici con gruppi di giovani volontari ambientalisti tanto da fomentare l’interesse di porre attenzioni ad altri mammiferi in estinzione come la foca monaca da parte di Earth Gardeners, che è un progetto in corso in questo momento in alcune città della Sardegna. Sembra la verifica che l’arte sia un dispositivo per produrre riflessioni e credo che la morte per plastica dei cetacei sia un grande tema di cui si parla anche poco.Gli scarti di lavorazione possono essere un tema su cui porre l’attenzione, come la realtà degli imprenditori e artigiani che sul Lago d’Orta realizzano da più di cento anni i piccoli pinocchi di legno, è con i loro rifiuti e scarti di lavorazione industriali e artigianali del legno che ho realizzato un Pinocchio alto quasi quasi sei metri, il quale è visibile, come per il Capodoglio Giovanni a due osservazioni differenti. A distanza si vede sicuramente la sagoma del burattino collodiano ma da vicino si vede un agglomerato di pezzetti di legno colorati, sbrecciati e rotti. La forma del burattino è data dalla tecnica della tornitura che era una tecnologia che veniva usata dagli artigiani anche per realizzare elementi di arredamento e anche i gadget dei pinocchi nasce da questa tecnologia. Questo pinocchio è stato presentato per la prima volta a Genova il 5 giugno 2010 per la giornata internazionale dell’ambiente. Altri scarti o rifiuti di lavorazione delle monete di cioccolato, con immagine dorata e argentata sono stati usati a funzione didattica alla Fiera di Genova nel 2011 con la superficie ancora tornita di un altro pinocchio. Una attività che si stà sviluppando da venti anni con Angela Nocentini negli spazi a Santa Croce sull’Arno che Herambiente mette a disposizione, sono laboratori aperti a studenti di Accademie e Università. Attività pratiche e cognitive dove i rifiuti diventano sempre qualche cosa di innovativo, sia pratico oppure anche solo di comunicazione, il mondo della manualità creativa nel caso dei vestiti nel circuito della moda o nel design per l’arredamento ne sono esempi.

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Oppure solo nell’Arte come quando i rifiuti di uno stoccaggio diventano corpi di uomini o donne d’affari che portano pesantemente cinture di sicurezza o spugne domestiche, frammenti di legno o tappi delle siringhe, materiali di scarto che diventano magici quando raccolgono i sogni di stereotipi umani dediti solo alla ricchezza del proprio stato sociale. A volte i rifiuti diventano un viatico per raccontare non solo l’ambiente ma anche specie di individui non umani ma molto amati dalla popolazione. A Okinawa in Giappone dove con tante classi di bambini abbiamo lavorato sui mammiferi in estinzione, uno di questi è stato il Dugongo un mammifero che vive negli oceani e che si spinge verso il nord incontrando le isole a sud del Giappone. Con la tecnica degli origami i rifiuti raccolti nelle acque del porto di Naha sono diventati la pelle del Dugongo e adagiati alla struttura dell’individuo fatta di canne di bambù. Il forte interesse verso questo mammifero e la sua popolarità è dato anche dal fatto che le basi militari americane che si estendono nei fondali bassi occupando aree erodono le aree dove i dugonghi vanno a cibarsi. Al Museo d’Arte Contemporanea di Okinawa hanno lavorato manualmente per terminare il progetto un gruppo variegato di persone, è stata una meraviglia vedere novantenni e bambini di pochi anni insieme. Questi percorsi di attività pubblica sono stati anche definiti di arte partecipativa specialmente quando si rivolge a bambini. È il caso di un’attività per l’amministrazione pubblica a Pula in Sardegna, dove ho cercato di migliorare la partecipazione della gente alla raccolta differenziata dei rifiuti attraverso la realizzazione di un grande Muggine, un pesce dal quale si estrae la bottarga, molto popolare in Sardegna. Per la lunghezza di nove metri è stata fatta una struttura di tondino con sopra rete metallica, grande cinque volte un vero muggine. Questa carcassa è stata portata in uno spazio apposito dove è stata fatta la separazione dei rifiuti che sono stati raccolti precedentemente sulla spiaggia da volontari, bambini, adulti, turisti, studenti e chiunque da volontario volesse partecipare. Per alcune settimane molta popolazione variegata, pescatori, vigili, insegnanti hanno collocato con la tecnica della lenza i rifiuti sopra la rete seguendo le linee di un disegno, così da ottenere alla fine un pesce con le sembianze perfette di un vero muggine se guardato a forte distanza. Gli occhi sono neri perché fatti con i boccali neri, anche la schiena è nera di scarpe scure. Se guardato da vicino, come per i pinocchi di legno, è un agglomerato di rifiuti, dal più piccolo al più grande, dalle monete alle scarpe, dalle croci di metallo alle ciabatte


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infradito, i rifiuti collocati dovevano rispettare anche le striature e i colori del pesce. Per la popolazione è diventata una grande festa, il pesce è stato chiamato “schillelè”, nome molto caro ai bambini, è stato posto in un luogo da tutti visitabile, col tempo è diventato una icona per Pula, ha sviluppato molta affettività (non da me prevista) viene fatta addirittura periodicamente manutenzione. Vi è stata una formidabile ricaduta educativa per la raccolta separata dei rifiuti, come diceva Bruno Munari è facendo che si impara. Si possono anche istruire fabbri e falegnami nella realizzazione di opere fatte con i rifiuti, addirittura usando rendering in movimento dove mostrare in che modo saldare i rifiuti e scarti di alluminio come pentole, macchine da caffè, coperchi, barre, pezzi industriali, scarti di lavorazione. Per questo ultimo lavoro non ancora terminato, i pezzi saranno tutti adagiati su differenti controforme per facilitarne la saldatura, è già stato verificato sia in Cina che in Italia che si possono attivare tecnologie dolci come la saldatura dell’alluminio per realizzare grandi strutture come in questo caso, si parla del progetto di un pinocchio alto cinque metri, chiunque può scalarlo e camminarci sopra.

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altrove. estetica di un’idea Andrea Mecacci

Estetologo, Università degli Studi di Firenze - ITALIA

Iben Nagel Rasmussen (Odin Teatret), Sarule, Sardegna 1975. Foto di Tony D’Urso, ©Tony D’Urso 1990.

Cosa significa la parola “estetica” rispetto a un luogo? È possibile progettare l’estetica di un luogo? Oppure il processo che trasforma uno spazio in un luogo è qualcosa che eccede ogni forma di pianificazione? Assumeremo attraverso la parola “altrove”, il luogo altro, una prospettiva che possa consentire la verifica di uno spazio di ricerca individuale e condiviso che confligga con l’idea di uno spazio estetizzato e commerciabile. L’altrove che qui viene interpretato è una condizione a metà strada tra l’utopia e l’eterotopia di foucaultiana memoria. È in primo luogo uno spazio di opposizione e reazione al reale: è un progetto poetico. È quindi nella poesia che dobbiamo ricercare questo altrove e nello specifico nell’opera del poeta che più di altri ha immaginato, creduto e poi, infine, dismesso questo altrove: Arthur Rimbaud. L’insistenza a ricercare questa alterità, spaziale e geografica, diventa in Rimbaud il progetto stesso della configurazione del moderno, espresso in formule celebri, divenuti slogan quali “Bisogna essere assolutamente moderni” o “IO è un altro” che saranno accolti come dogmi indiscussi dalle avanguardie novecentesche, surrealismo in primis. Così alla constatazione etica di Une Saison en enfer, “A ogni essere, parecchie altre vite mi sembravano dovute”, risponde la grande sintesi di ogni altrove possibile del verso finale di “Vagabonds” nelle Illuminations: “io nell’urgenza di trovare il luogo e la formula” (Rimbaud, 1996, p. 251, p. 317.). Questa urgenza si attiva rispetto a cosa? A cosa si oppone? Se collocato in una prospettiva che si sarebbe tentati di definire di filosofia della storia, l’altrove rimbaudiano trova un suo bersaglio preciso, un simbolo primigenio nel quale il rapporto tra città ed estetica si è definito: il Partenone. Nell’Acropoli la cultura occidentale ha opposto la durata del monumento alla transitorietà del performativo, assegnando alla prima opzione ogni primato, simbolico e politico. E anche chi ha voluto con snobismo sottrarsi a questa ingiunzione ha fallito come prova un aneddoto non così noto come dovrebbe. Lo scrittore inglese William Golding quando visitò l’Acropoli agli inizi degli anni Sessanta (Beard, 2004, p. 11) scelse un modo alquanto insolito per ammirarlo. Si girò e voltò le spalle al tempio preferendo guardare il caotico labirinto della metropoli greca in direzione del Pireo. Eppure andrea mecacci


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in questo atto, una vera e proprio performance di idiosincrasia estetica, anche Golding non poté – sebbene questa sia una nostra ipotesi, una licenza un po’ forzata, ma sperabilmente plausibile – cancellare del tutto il Partenone: l’ombra del tempio lo sommerse quasi allungandosi su tutto l’orizzonte della città. Simbolo della monumentalità che perimetra lo spazio, il Partenone ne struttura l’ontologia mutando la dimensione della ricerca e della domanda (space) nel paradigma dell’occupabilità (room). Si delinea l’idea che l’estetico, in tutte le sue varianti simboliche (si tratta non a caso di un tempio), debba svolgere un ruolo ideologico in senso lato all’interno della città intesa come contenitore. Superare questa dimensione è un compito che almeno una parte della modernità ha cercato di attuare. Baudelaire, l’autore in cui per la prima volta lo spazio della città è interpretato come luogo estetico, che poi coincide con quel termine fatale che è modernità, ha posto l’accento su questa possibile trasformazione dal monumentale al performativo, dal reale al possibile. L’altrove si delinea come prassi, azione forse mai compiuta, ma proprio per questo sempre riproponibile. Una provvisorietà solo in apparenza prossima all’utopia, poiché in Baudelaire il moderno non è altro che il presente colto nella topografia parigina ed è in questa prospettiva che la grande definizione della modernità che Baudelaire offre in Il pittore della vita moderna, “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente” (Baudelaire, 1994, p. 288), è di fatto comprensibile solo se collocata nello spazio metropolitano. Questa ubiquità spaziale, inafferrabile e perennemente in divenire, confligge con l’altro grande ritratto cittadino che Baudelaire formula nel suo libro incompiuto sul Belgio (Baudelaire, 2002) [1]. In Bruxelles il moderno trova una sua identità inautentica che tende a rimuovere il carattere di transitorietà a favore di una cosmesi monumentale ibrida: all’arte applicata alla vita, la transitorietà moderna, si oppone lo “stile giocattolo”, questa la formula baudelairiana che riduce una città, in una chiara ideologia del primato visivo, a una dimensione che ridicolizza la propria monumentalità, mutandola nel souvenir di se stessa: “Un vaso da fiori e un cavaliere su un tetto sono le prove più evidenti del gusto stravagante in architettura. Un cavallo su un tetto! Un vaso da fiori su un frontone. Ciò è in rapporto con quello che io chiamo lo stile giocattolo” (Baudelaire, 2002, p. 120). Rimuovere il primato del visivo, l’ideologia della monumentalità, ritrova nell’avanguardia novecentesca un vecchio feticcio da abbattere: il Partenone. Queste le affermazioni di Picasso in una conversazione avuta con Christian Zervos: “Le bellezze del Partenone, Veneri, Ninfe, Narcisi: tutte bugie. L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e il cervello possono concepire indipendentemente da ogni canone” (Picasso, 1998, p. 31). E ancora Julian Beck, il fondatore del Living Theatre: “Il Parte-


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none? La sua geometria? Il suo splendore? Bellezza e filosofia non sono abbastanza” (Beck, 1975, p. 140). Decostruire il canone della polis greca: il Partenone è il simbolo di ciò che non può mai essere sufficiente. Lo spazio della monumentalità conduce a un esplicito processo di museificazione dei luoghi e, conseguentemente, dell’esperienza estetica che se ne fa. Questa museificazione dell’estetico, che nasce problematicamente dal suo ristringimento alla dimensione contemplativa del bello per molti addebitabile a Kant, pone l’esperienza del museo, e quindi della città come sua proiezione amplificata, come esperienza di non libertà, di negazione dell’altrove. Julian Beck ha colto questo movimento repressivo della città nella dialettica tra museificazione e città assoluta. Da una parte il museo: “Il museo uccide l’arte come esperienza a causa della forma e del comportamento richiesti al visitatore. Sii tranquillo, represso, inespressivo, ben educato, parla a bassa voce, […] trattieniti, non ridere, tieniti tutto dentro, uccidi ciò che è dentro di te” (Beck, 1975, p. 75) [2]. Dall’altra la città assoluta, in cui l’aggettivo assoluto è interpretato nella piena letteralità etimologica, ab-solutum, ossia libero, sciolto da ogni vincolo: “È stato lì, sulle porte dei Teatri, che abbiamo saputo che era nella strada che dovevamo andare. […] concepire la Città Assoluta, una forma da rappresentare nelle strade” (Beck, 1975, pp. 254-255). Questa dialettica, tipica della controcultura, riportava alla ribalta l’idea delle avanguardie, momentaneamente congelata dall’affermazione della cultura di massa, di intensificare il rapporto tra arte e vita, quasi annullandone i confini. Il mimetico non doveva essere una rappresentazione simbolica, ma una dimensione performativa. Non una nuova Acropoli come il Mall di Washington aveva realizzato rimarcando questo legame nell’adozione stilistica del neoclassicismo e nel dominio cromatico del bianco - a eccezione del monumento ai caduti del Vietnam (Danto, 1987, p. 113) [3] - ma una città che va al di là dei propri vincoli monumentali, oltre i propri conformismi architettonici. Si trattava quindi di riformulare lo spazio dell’estetico all’interno del luogo città. Con questa premessa l’Odin Teatret di Eugenio Barba nella definizione di un “terzo teatro” concepì l’altrove come alterità antropologica o baratto culturale. A metà degli anni Settanta la compagnia nord europea allestì degli spettacoli in alcuni paesi dell’Italia meridionale (nel Salento nel ‘74 e in Barbagia l’anno seguente): il teatro dell’Odin invase le strade e le piazzette di queste piccole cittadine creando un’opposizione evidente. Il pregiudizio dell’assenza di pregiudizio, come commentò sottilmente lo stesso Barba, dei giovani attori nordici incontrava o si scontrava con luoghi, rurali e a tratti arcaici, in cui l’estetico viveva solo all’interno del folklore e quindi in una dimensione di tradizione autoriferita. L’incomprensione della curiosità e il suo doppio, la curiosità dell’incomprensione, si rivelarono modelli di una rivisitazione triplice della nozione di cultura. La transitorietà baudelairiana, cuore dello spazio moderno

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e apparentemente così remota rispetto alle finalità del terzo teatro, si declinava adesso, quasi un secolo dopo, in transizione culturale: “La transizione è una cultura. Vi sono tre aspetti che ogni cultura deve avere: la produzione materiale, la riproduzione, cioè la capacità di avere una continuazione nel tempo, e la produzione di significati” (Barba, 1999, pp. 54-55). Questa tensione fu portata all’estremo nel maggio del 1976 quando l’incomprensione sembrò toccare l’incomprensibilità: l’incontro tra l’Odin Teatret e gli Indios Yanomani del Venezuela. Nel villaggio amazzonico il reciproco processo di alterità si estremizza nella performance di Tage Larsen al violino – riproponendo non casualmente un frammento dello spettacolo del’76 dell’Odin, Come! And the day will be ours, dedicato al genocidio dei nativi del Nord America – e in quella di uno dei membri del villaggio, probabilmente un rito iniziatico: “la ricerca delle opposizioni, delle differenze, deve paradossalmente essere l’altra faccia della ricerca dell’unità e dell’interezza” (Barba, 1990, p. 122). Nello spazio altro assoluto rispetto all’Acropoli, la foresta amazzonica, l’alterità ribadisce la propria estraneità davanti ai processi di assimilazione, occidentali e quindi univoci, che l’estetizzazione contemporanea fa propria. Nonostante gli sforzi di alcuni studiosi[4], almeno negli ultimi venticinque anni, di catturare criticamente gli sviluppi rimane la sensazione di una insidiosa prossimità tra la concezione di uno spazio interpretato come luogo di immediata fruizione estetica e la sua controparte consumabile che trova nel turismo massificato la sua verifica tangibile. La turistificazione dei luoghi, un tema che tra l’altro fu pioneristicamente indagato dal filosofo Ludwig Giesz nel 1968 quando Gillo Dorfles gli commissionò un saggio per il volume, Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto[5]. Giesz descrive il turismo come un’esperienza che si nutre dell’esotismo spaziale della natura e dell’esotico (in senso letterale) nel quale ogni elemento estraneo o straniero diventa familiare, riconoscibile. A metà strada, e quindi traducendo al massimo grado la dimensione ibrida del kitsch, tra noia e avventura, tra “l’eccessivamente familiare” e “l’assolutamente ignoto”, il turismo anestetizza ogni esperienza, la rende gestibile, in primo luogo la natura: tutto ciò che è ostile, misterioso, irriducibile è rimosso. Anche il tempo subisce un processo simile. L’esotismo del tempo, in cui l’ancestrale si ricodifica nel fiabesco (“C’era una volta…”), vive di aspettative che risultano modellate su stereotipi tra loro convergenti e complementari (“esotizzazione del familiare” e “familiarizzazione dell’esotico”). Le principali esperienze di questo esotismo spazio-temporale si concretizzano in due feticci del passato: il souvenir (“feticcio del ricordo”) e le rovine (il kitsch storico) documentano la strutturazione di una inequivocabile industria della memoria. Le osservazioni sul kitsch turistico di


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Giesz annunciano, in modo embrionale, l’età contemporanea della “turistificazione” in cui l’estetizzazione registra il suo massimo grado di operatività e in cui la ricerca dell’edonismo, esprime il primato di un’inquietudine vera e fittizia allo stesso tempo. A questa dimensione di programmata consumabilità, di una monumentalità feticizzata, risponde un’estemporaneità appunto non programmabile che va nella direzione di un’arte partecipata, una reazione condivisa che trasforma il luogo e che unisce i soggetti sociali. Soltanto tre esempi di un altrove che diventa luogo. Il primo: Plaza de Mayo a Buenos Aires. Nella pavimentazione della piazza appaiono dei fazzoletti bianchi, i pañuelos delle Madres de Plaza de Mayo. Resistono, sebbene siano tra le testimonianze più oltraggiate al mondo: costantemente vandalizzati e imbrattati con parolacce, svastiche e riferimenti alla dittatura argentina, i fazzoletti vengono ripuliti per fare da sfondo al corteo che le Madri organizzano ogni giovedì alle ore 15. A pochi metri su un pilastro della piazza che ha come fondale la Casa Rosada, l’indomani della morte di Maradona è apparsa una scritta, bianca e celeste come i colori della bandiera argentina. DIEGO = PUEBLO. Un sentimento istantaneo, e siamo al secondo esempio, simile alla reazione emotiva avvenuta negli Stati Uniti alla morte di Aretha Franklin, il 16 agosto del 2018. Nella stazione della metropolitana Franklin Street a Manhattan in una insegna accanto ai binari è comparsa una scritta a mano Aretha. Nella stazione di Franklin Avenue a Brooklyn la MTA (Metropolitan Transportation Authority) subito dopo la morte dell’artista aveva apposto una scritta “Respect”, in riferimento al brano manifesto della cantante del 1967. La scritta, che doveva essere temporanea (sei mesi), è divenuta permanente. Lo stesso è avvenuto con la stazione di Manhattan dove è stata aggiunta la scritta “R-E-S-P-E-C-T”, che ricalca il celeberrimo spelling del cantato della canzone. Terzo e ultimo esempio: Plaza de la Romita a Città del Messico. In questa piccola piazza del quartiere Roma Luis Buñuel girò nel 1950 alcune scene del film Los Olvidados (in Italia uscito come I figli della violenza). Questa storia di disagio giovanile, violenza e nichilismo, che ormai trova memoria soltanto nei cinefili più accaniti, trova una sua particolare redenzione su un muro che cinge un lato della piazzetta: su un murales sono ritratti i protagonisti del film. In questa città mostruosa, alla quale Buñuel ha dedicato uno dei più grandi aforismi sull’altrove. “Se dovessi sparire, cercatemi in tutto il mondo, ma non lì” (Buñuel, 2015, p. 209), convivono così due luoghi la piazzetta rimossa dall’immaginario turistico, nella quale rivive inaspettatamente (ma poi così inaspettatamente?) la tradizione del muralismo di Rivera, Orozco e Siqueiros, e l’attrazione turistica della città, tappa ormai obbligata del voyeurismo globalizzato, la casa di Frida Kahlo. L’altrove pare apparire proprio quando non c’è nessun Partenone, se vogliamo insistere su questo simbolo, da fotografare, ma probabilmente solo un’esperienza, solitamente di dolore,

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su cui riflettere. È ovvio che non c’è ormai luogo che possa sottrarsi all’estetizzazione, ma ci sono momenti che possono farlo. Momenti che a loro volta si riconoscono in delle frasi, luoghi e formule che ci ricordano che la vita, come una città, non può essere programmata. Del resto quando possiamo “programmare” la prossima volta che proveremo dolore? Ci congediamo allora con tre frasi che, una volta fatte nostre, possono rappresentare un antidoto a quel vento idiota che, come cantava Dylan nell’ormai lontano 1975, imperversa su ogni luogo. L’inquietudine dell’utopia, la testimonianza del dolore, la speranza faticosa, ma mai sconfessata dell’altrove: “Vivere e cessare di vivere sono soluzioni immaginarie. L’esistenza è altrove”; “Tutti i luoghi in cui sono vissuto non possono essere che per me luoghi transitori, fornivano impressioni essenzialmente fugaci, che scomparivano rapidamente dalla vista, e quando esamino ciò che ora potrebbe essere estratto da essi per fornire un punto fisso nella topografia della mia vita, finisco solo di volta in volta con ciò che è evanescente, tutte queste città diventano punti ciechi, e un solo luogo, al quale ero destinato e al quale sono scampato, dove ho passato solo un giorno, rimane”; “Il desiderio dei nostri cuori, la richiesta delle nostre labbra, il valore delle nostre mani. […] La determinazione di andare in un posto diverso da dove sono” [6].

Bibliografia Barba, E. (1990). Viaggi con l’Odin, con fotografie di T. D’Urso. Brindisi: Alfeo. Barba, E. (1999). Il prossimo spettacolo, a cura di M. Schino. L’Aquila: Textus. Baudelaire, C. (1994). Il pittore della vita moderna, in Id., Scritti sull’arte. Torino: Einaudi. Baudelaire, C. (2002). La Capitale delle Scimmie (1864-1866). Milano: Mondadori. Beard, M. (2004). Il Partenone. Roma-Bari: Laterza. Beck, J. (1975). La vita del teatro. Torino: Einaudi. Böhme, G. (2010). Atmosfere, estasi, messe in scena. Milano: Marinotti (ed. orig. 2001). Breton, A. (2003). Manifesto del Surrealismo (1924), in Id., Manifesti del Surrealismo. Torino: Einaudi. Buñuel, L. (2015). Dei miei sospiri estremi. Milano: SE, p. 209. Danto, A. (1987). The Vietnam Veterans Memorial, in Id., The State of Art. New York: Prentice Hall Press.


altrove. estetica di un’idea • andrea mecacci

Giesz, L. (1990). L’uomo-kitsch come turista, in Dorfles G. (a cura di), Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto. Milano: Mazzotta, pp. 159-173. Michaud, Y. (2007). L’arte allo stato gassoso. Roma: Edizioni Idea (ed. orig. 2003). Picasso, P. (1998). Scritti. Milano: SE. Rimbaud, A. (1996). Opere, a cura di D. Grange Fiori. Milano: Mondadori. Saito, Y. (2007). Everyday Aesthetics. Oxford: Oxford University Press. Weiss, P. (1968). Meine Ortschaft, in Id., Rapporte. Franfurt a.M.: Suhrkamp. Welsch, W. (1996). Grenzgänge der Ästhetik. Stuttgart: Reclam.

Note [1] La Capitale delle Scimmie è solo uno dei vari titoli che Baudelaire aveva ipotizzato per il suo scritto sul Belgio: Pauvre Belgique!, La grotesque Belgique, La Belgique toute nue, La Belgique déshabillée, Une Capitale pour rire, La Capitale des Singes, Une Capitale de Singes. [2] Traduzione leggermente modificata. [3] “il paio di pareti delicatamente flesse, di un color nero lucido, è come il retro della caverna di Platone, una superficie riflettente, uno specchio scuro” (A. Danto, The Vietnam Veterans Memorial, in Id., The State of Art, Prentice Hall Press, New York 1987, p. 113). [4] Basti pensare, in una significativa pluralità di approcci, a W. Welsch, Grenzgänge der Ästhetik, Reclam, Stuttgart 1996; Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso, Edizioni Idea, Roma 2007 (ed. orig. 2003); G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, Marinotti, Milano 2010 (ed. orig. 2001); Y. Saito, Everyday Aesthetics, Oxford University Press, Oxford 2007. [5] Giesz, L. (1990) L’uomo-kitsch come turista, in G. Dorfles (a cura di), Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, Milano: Mazzotta, pp. 159-173. [6] Le citazioni sono rispettivamente tratte da: A. Breton, Manifesto del Surrealismo (1924), in Id., Manifesti del Surrealismo, Einaudi, Torino 2003, p. 49; P. Weiss, Meine Ortschaft, in Id., Rapporte, Suhrkamp, Franfkurt a.M. 1968, p. 113. Il luogo a cui fa riferimento Weiss è Auschwitz. La traduzione ha tagliato alcuni periodi; J. Beck, La vita del teatro, cit., p. 271 e p. 133.

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la musica nello spazio urbano Nino Mezzapelle

Contrabbassista compositore, Fondazione Teatro Massimo di Palermo Antonella Maurer Cantante jazz Palermo - ITALIA

Contrabasso per due, Antonella Maurer & Nino Mezzapelle.

Buongiorno, innanzi tutto ringraziamo l’Università di Firenze, Facoltà di Architettura (nella persona dell’Architetto Armato), per averci invitato in questo spazio dedicato all’arte e al suo inserimento nello spazio urbano. Ci presentiamo: Antonella Maurer e Nino Mezzapelle, cantante io, contrabbassista e compositore lui, marito e moglie nella vita, veniamo da due esperienze musicali diverse, ma per fortuna abbiamo una sensibilità musicale molto simile. Io sono romana, cantante jazz per passione (ma per hobby), con uno studio jazz e classico alle spalle, Nino è siciliano ed è stato contrabbassista nell’orchestra lirico-sinfonica della Fondazione del Teatro Massimo di Palermo per 42 anni. È inoltre pittore, mosaicista e compositore. Le sue opere e in particolare la sua musica esprime uno stile molto personale, che restituisce colori e suoni della sua terra, misti a sapori classici rielaborati in uno stile che da alcuni è stato definito “globale”, in quanto connota suoni jazz, classici ed etnici, non appartenendo ad una specifica etichetta che risulterebbe limitativa. Il nostro progetto “Dreamin’ “ ne è la reale esemplificazione. Brani musicalmente in apparenza molto diversi tra loro, ma uniti da un comune denominatore di stile, a cui ho apportato un contributo quale scrittrice dei testi di alcuni pezzi. Sebbene l’arte e la cultura dovrebbero essere sempre incentivate in ogni modo e in ogni dove, in questo momento così difficile per il settore artistico a causa della pandemia mondiale, è ancora più importante occuparsene e di buon auspicio pensare all’arte e in particolare per quanto ci riguarda, alla musica, come un bene imprescindibile, che debba essere messo a disposizione di tutti, perché ci permette di guardare oltre il presente e trovare nuova fiducia nel futuro che ci attende. La musica, come altre espressioni artistiche, è un linguaggio che si basa sull’empatia, la trasmissione di emozioni oltre che di suoni, che coinvolge chi la esegue e chi la ascolta e, quando eseguita dal vivo, consente di instaurare una connessione che va al di là dell’intellegibile, è fatta di percezione e sensazioni che viaggiano su una scia parallela al suono in nino mezzapelle


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sé. Eseguire musica dal vivo, che sia classica, jazz rock o di qualsiasi altro tipo consente all’esecutore e allo spettatore di creare un contatto e comprendersi, al di là della lingua parlata. A maggior ragione se poi chi esegue la musica ne è anche l’autore. In questo momento storico il maggior veicolo di diffusione di qualsiasi genere artistico è diventato internet; tutto e di tutto passa attraverso la rete, che diventa oggi uno dei canali privilegiati per raggiungere specialmente il pubblico più giovane. Sebbene questo canale in parte possa aiutare la diffusione della propria musica e della propria espressività, rimane comunque qualcosa di puramente “virtuale” che può essere un punto di partenza, e di supporto nella diffusione del prodotto musicale, ma nella nostra opinione non dovrebbe essere ritenuto un punto di arrivo. E questo è molto evidente ora, che i teatri e i musei sono chiusi; si può avere accesso alla musica e alle opere virtualmente, ma manca la vera esperienza fisica ed emozionale di ritrovarsi parte di un’opera d’arte o di un evento musicale o teatrale. Abbiamo avuto negli ultimi tempi la sensazione che specie in Italia gli spazi reali in cui poter fare musica, in particolar modo per gli artisti “di nicchia” come talvolta siamo stati definiti, non siano poi molti e siano occupati più o meno dalle stesse proposte rivolte al grande pubblico, penalizzando molte espressioni artistiche valide. Ci sono e vengono in parte messi a disposizione i grandi spazi, come gli stadi in cui si esibiscono i cantanti e musicisti pop o rock, e i teatri o gli auditorium per la musica classica o contemporanea, i club dove si può ascoltare jazz, ma come dicevamo poc’anzi, specie in questo periodo, gli spazi dove esibirsi non sono poi moltissimi. Ciò premesso, avendo a disposizione in un paese come il nostro, nelle grandi città, ma anche nelle cittadine più piccole, piazze e strade che sono veri e propri musei a cielo aperto, sarebbe molto interessante dedicare degli spazi appositi dove i musicisti e gli artisti tutti possano esibirsi ed entrare in contatto con quanto ci circonda, permeandolo di musica e spettacolo. In questo modo la cornice “naturale” formata dalla città e dal paesaggio circostante diventerebbe essa stessa un palcoscenico in cui l’opera rappresentata diventerebbe parte di un tutto amplificando il suo significato. Questo avviene in particolare d’estate quando antichi teatri come l’anfiteatro di Taormina o le Terme di Caracalla a Roma diventano scenario di concerti, spettacoli e opere liriche. Sebbene sia auspicabile, tuttavia questa non è una strada sufficientemente perseguita nel “piccolo”, ma più propriamente messa a disposizione dei grandi eventi e risulta più complicato metter su uno spettacolo all’interno di uno spazio urbano esterno, al di fuori dei grandi circuiti. Una delle difficoltà può derivare dal fatto che esibirsi dal vivo per i musicisti che non suonano solo in acustico o gruppi che constano di parecchi elementi


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debbano poter disporre di un impianto di amplificazione o di uno spazio dove poter disporre gli strumenti. Sarebbe pertanto importante poter disporre di spazi interamente dedicati e attrezzati, facilmente accessibili e fruibili da chiunque, dove anche la parte burocratica venga alleggerita e sia data all’artista la possibilità di organizzare la propria performance in maniera snella e nel più breve tempo possibile. Questo vale chiaramente per i musicisti, così come per spettacoli di danza o teatro, rimanendo in parte più facilmente realizzabili per quanto riguarda piccole mostre di pittura o scultura. Quindi, in questo modo lo spazio urbano potrebbe essere fruito non solo da parte di musicisti di strada occasionali, ma anche da artisti di professione che potrebbero eseguire e promuovere la propria musica a beneficio di tutti e in maniera continuativa, favorendo un ricambio culturale che al momento a nostro avviso è abbastanza statico. A Roma come a Palermo, nelle vie e nelle piazze del centro, si vedono spesso musicisti e cantanti o ballerini di strada occasionali o abitudinali, alcuni più bravi, altri meno, che sebbene apprezzati dal pubblico che si ferma ad ascoltarli, sembra diano quasi “fastidio” ad altri. Si ha l’impressione per cui siano lì ad usurpare il suolo pubblico e talvolta vengono trattati dalle autorità come i venditori di borse contraffatte. Sebbene molti Comuni abbiano cominciato a rilasciare permessi per esercitare la vera e propria professione di artista di strada e a dare la possibilità a queste persone di esprimersi nelle vie e nelle piazze, non c’è evidentemente una “cultura” dell’artista di strada sufficiente ad apprezzare questo tipo di esibizione. Inoltre, come dicevamo poc’anzi risulta estremamente difficile organizzare una performance, anche gratuita, di semplice promozione della propria musica all’interno di uno spazio urbano. È vero anche d’altra parte che rispetto a qualche tempo fa, in particolare d’estate (parlando logicamente di periodo pre-covid) le piazze e le strade si animano di concerti di qualsiasi tipo, classici, etnici, jazz, perfino bandistici, e questo è sicuramente un bene. Ci si augura che, passato questo periodo di difficoltà dovuto alla pandemia, si possa riprendere lo svolgimento di spettacoli, a maggior ragione all’aperto, che vengano incentivati e come dicevamo prima facilitati nell’organizzazione da parte delle autorità competenti. Le piazze vengono utilizzate come palcoscenici, in particolare per concerti di musica classica o bandistica. I parchi, sempre in estate, accolgono parecchie manifestazioni musicali che però rimangono circoscritte allo spazio temporale prettamente estivo. Molti di questi concerti vengono sponsorizzati dai Comuni e sono in larga parte gratuiti. Una iniziativa interessante, un po’ fuori dal solito circuito, che mi ha molto colpito, è stata portata avanti due estati fa, dal Comune di Roma, in Piazza di Pietra, in pieno centro. In Piazza di Pietra, nella facciata della Camera di Commercio è inglobato ciò che resta del Tempio di Adriano ed è

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stata proiettata con un gioco di luci accompagnato da musica classica la storia dell’edificio, dal tempo dei Romani ai giorni nostri. Un bell’esempio di comunicazione artistica all’interno dello spazio urbano. Ogni giorno alla stessa ora, veniva seguita da tantissime persone, che fossero turisti di passaggio o che lavorassero negli uffici e nelle attività commerciali limitrofe. Qualsiasi spazio urbano, anche se non inserito in un centro storico, può diventare punto di incontro tra artisti e pubblico. Questo è ancor più vero nelle periferie, dove creare degli spazi urbani in cui le persone che abitano il quartiere si possano esprimere, faciliterebbe la divulgazione culturale nonché un senso di aggregazione che migliorerebbe la consapevolezza del vivere insieme, anche e a maggior ragione in quartieri cosiddetti “difficili”. Si potrebbero creare dei laboratori musicali che funzionerebbero da catalizzatore di interesse specie nei più giovani che potrebbero così presentare le loro performance nella piazza del quartiere. In alcuni quartieri già avviene, ma in maggior parte su base volontaria dei comitati. Lo spazio urbano può assumere anche una funzione di didattica ed essere utilizzato dagli studenti di pittura o di musica come spazio in cui studiare. Ci è capitato spesso per le vie di Roma o di Palermo di vedere studenti che ritraevano i monumenti e ascoltare ragazzi che studiavano musica per le vie del centro. Tempo addietro ho ascoltato vicino al Conservatorio di S. Cecilia dei gruppi di ragazzi dell’est che suonavano musica moderna ma con strumenti classici amplificati; erano veramente molto bravi e innovativi. Stavano frequentando dei corsi al Conservatorio e passavano i pomeriggi in questo modo, studiando in maniera alternativa. Anche Nino mi ha raccontato come quando era ancora studente di conservatorio a Palermo, invece di stare tra quattro mura, scendeva in strada con il contrabbasso e si metteva a suonare Qualsiasi spazio urbano può diventare quindi uno spazio fruibile all’espressione artistica. Nino mi ha parlato di un concerto in un posto a dir poco “insolito” dove gli è capitato di eseguire un concerto, il Cimitero dei Rotoli di Palermo. Sebbene lo spazio dedicato a questo concerto fosse effettivamente inusuale, è stato comunque possibile metter su un concerto di particolare gradimento. Una notevole iniziativa che è stata portata avanti da diversi Teatri di Musica lirica, è la cosiddetta Opera Caravan; in pratica su un “camion” attrezzato come un palcoscenico si esibiscono vari cantanti e musicisti d’opera, nelle varie piazze della città, cercando di accostare anche il pubblico che non segue di prassi l’Opera, alla musica lirica. Gli spettacoli vengono riadattati e le opere riproposte nei tratti più salienti diventando una sorta di “teatro all’aperto” che ricorda gli spettacoli itineranti di molto tempo orsono. In


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questo modo possono essere portati dovunque all’interno della città e offrire al pubblico di ogni estrazione l’occasione di prendere contatto con l’Opera lirica. A proposito di Opera ci viene in mente quando un contrastato Decreto di un passato Governo voleva tagliare i fondi del FUS (Fondo Unico dello Spettacolo) e i lavoratori del Teatro Massimo, per protesta hanno fatto saltare alcune rappresentazioni; per dare maggior risalto alla loro protesta e per essere comunque vicino al pubblico è stato improvvisato un concerto dell’Orchestra sulla scalinata del Teatro, diretta dal Direttore che doveva dirigere gli spettacoli e con la partecipazione di alcuni ballerini del Corpo di Ballo del Teatro. Questa esibizione nello spazio esterno al Teatro, che è stata molto divertente e coinvolgente, ha trasformato in positivo una protesta rendendo fruibile al pubblico la musica e portando avanti i proprio diritti in maniera incisiva. Per fortuna alla fine è andato tutto bene e il FUS è stato ripristinato. Traendo una conclusione da quanto sopra detto, possiamo senza dubbio dichiarare che gli spazi urbani non sono a sé stanti ma possono veramente diventare un tutt’uno con la comunità che li frequenta giornalmente, a volte quasi ignorandoli, mettendoli a disposizione degli artisti che tramite l’espressione della loro arte, danno la possibilità al passante di soffermarsi ad assaporare e sentirsi immerso in qualcosa che ci rende parte dello spazio che circonda. Infine, ringraziamo l’Università che ci ha invitato e chi ci ha seguito fin qui per l’attenzione e vogliamo condividere con voi un brano dal nostro progetto “Dreamin’ “a conclusione di questo nostro intervento. Il pezzo si intitola “L’Organetto di Bach Senior”; speriamo che sia di vostro gradimento e di poterlo in un prossimo futuro eseguire in una meravigliosa piazza di questo nostro museo a cielo aperto che è l’Italia.

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la percezione dello spazio è un’esperienza multisensoriale Paolo Pecile

Sociologo, Università degli Studi di Firenze LABA - Libera Accademia di Belle Arti - ITALIA

La città pentagonale, 2021, Massimo Gennari.

Ciò che noi chiamiamo la crisi dello spazio pubblico è di fatto la crisi della città intesa come luogo con il quale identificarsi, nel quale sentirsi comunità, dove sviluppare attività di condivisione, di cooperazione e anche di confronto e di risoluzione dei conflitti. Non possiamo pensare che i grandi mutamenti che hanno caratterizzato la società italiana dal punto di vista economico, politico, sociale e culturale nella seconda metà del 900, tutti improntati ad una visione decisamente individualistica della vita, non potessero non avere un effetto stravolgente sulla geografia italiana ed in particolare sul territorio e sulle città che erano l’esito di processi affatto diversi. Tutto ciò è avvenuto non solo a causa di un’insufficiente consapevolezza del problema ma in assenza di politiche organiche di contrasto e senza un’attenta valutazione del divario che esiste tra la complessità e l’inefficienza funzionale delle nostre città e gli strumenti culturali, politici e tecnici con i quali ci siamo proposti di affrontarle. La crisi delle istituzioni si è manifestata a tutti i livelli coinvolgendo anche quelle locali, nonostante il rapporto più stretto che queste hanno con i propri amministrati e pur a fronte dello sviluppo di innovativi processi di partecipazione che, in diverse parti d’Italia, hanno portato a risultati importanti. Va tuttavia detto che le esperienze più significative sono spesso avvenute su singole tematiche senza poi configurare nuove e stabili forme di partecipazione alla vita politica delle città. Ma venendo al tema che abbiamo posto al centro della nostra pubblicazione e cioè il miglioramento e l’invenzione dei luoghi che abitiamo e abiteremo non possiamo non porci il problema di come farlo e di coloro che saranno chiamati a farlo. Elena Granata, docente di urbanistica al Politecnico di Milano, nel suo ultimo libro Placemaker (Granata, 2021) pone la questione con molta chiarezza sia dal punto di vista teorico che pratico e porta a sostegno una serie di esperienze, alcune note ed altre meno, esaminandole con attenzione ed anche creatività. Granata sostiene che l’inventore delle città che abiteremo è il designer dei luoghi usando il termine design nel significato inglese e cioè di progetto e non di disegno e quindi non rinvia a specifiche professionalità e quando lo fa a proposito degli architetti e degli urbanisti prefigura nuove modalità formative e oserei dire anche una vera e propria rivoluzione paolo pecile


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delle discipline. Chi come chi scrive è vissuto, da sociologo, per oltre 30 anni in una facoltà di architettura si è reso ben conto che da tempo, in particolare per l’urbanistica, proponevamo progetti formativi che non tenevano conto a sufficienza delle trasformazioni che le città italiane stavano subendo ma soprattutto dei bisogni emersi da nuovi modi di vivere la città e da nuovi attori che si erano presentati sulla scena urbana. La costruzione e la trasformazione delle città sono l’esito di processi collettivi che non possono essere affrontati con pratiche e norme raramente sottoposte a verifica e ad aggiornamenti. Spesso l’urbanista si è comportato come un medico che dopo aver fatto una diagnosi e prescritto delle terapie non si preoccupa di verificarne l’esito sulle condizioni del paziente. La politica, d’altro canto, nella cura spesso solo formale di tutelare i diritti e gli interessi dei partecipanti a quel gioco del Monopoli che sono stati i piani regolatori, non è riuscita a garantire quello che Henri Lefevre ha chiamato il diritto alla città. Va aggiunto che anche coloro che si schieravano sul fronte riformista ritenevano che prevedere una consistente quota di aree destinate ai servizi pubblici, l’applicazione dei cosiddetti standards, fosse sufficiente per garantire qualità all’espansione delle città. Il dibattito attuale sui progetti di rigenerazione urbana e sull’uso delle nuove tecnologie che spesso va sotto i nome di smart cities rischia di farci commettere gli stessi errori anche se le proposte vengono confezionate e soprattutto comunicate in modo più seduttivo. Ma davvero crediamo che tutto ciò che va sotto il nome di smart cities possa garantire una maggior vivibilità delle nostre città, intendendo con questo termine salubrità, sicurezza, confort, bellezza e spazi capaci di avere un effetto ristorativo (healing spaces) rispetto agli stress ai quali il vivere contemporaneo ci sottopone? Ed inoltre pensiamo che l’uso massiccio di nuove tecnologie possa da solo andare oltre il rendere efficienti alcune infrastrutture, pur fondamentali, della “città macchina”? Non c’è città italiana in cui non si discuta delle trasformazioni o del degrado del centro e gli argomenti sono i più disparati ma uno dei più frequenti è appunto l’invasività delle attività commerciali di nuova generazione, del turismo e del tempo libero e della dilagante ristorazione. C’è del vero in queste argomentazioni ma si tende ad individuare una specifica causa trascurando di valutare la concorrenza di più fattori, semplici e complessi allo stesso tempo. L’immagine dei centri delle città può mutare non solo a seguito di consistenti processi di trasformazione come demolizione di edifici e loro ricostruzione con tipologie, materiali e linguaggi architettonici incongrui o con il cambiamento radicale delle destinazioni d’uso ma anche attraverso la sommatoria di azioni di per sé insignificanti o di scarsa entità. Ad esempio la realizzazione di insegne con materiali prima sconosciuti o non usati a questo scopo: plastica, acciaio inossidabile, vetri di


la percezione dello spazio è un’esperienza multisensoriale • paolo pecile

grande dimensione, insegne luminose a bandiera. Altri fenomeni, spesso non soggetti ad alcuna forma di controllo e da considerare fisiologici nei processi di crescita e trasformazione della città, possono insieme indurre cambiamenti nella funzione, nella natura e nell’immagine di intere parti della città, ci riferiamo alla sostituzione di piccole attività commerciali o artigianali a carattere locale, alla scomparsa degli artigiani di quartiere e dei piccoli negozi di generi alimentari sostituiti da negozi di abbigliamento o gelaterie, internet centers, cambio valute, banche, fast food e negozi di souvenirs. Lo stesso aumento dell’occupazione del suolo pubblico da parte di bar, ristoranti e attrezzature tecnologiche dei servizi, dall’igiene urbana alla telefonia, dalle biciclette ai monopattini in affitto, al proliferare della segnaletica stradale e della pubblicità con striscioni, stendardi, tableau digitali e cavalletti trasformano l’immagine della città rendendola frammentaria e disordinata. Tutto ciò contribuisce ad aumentare le occasioni di vandalismo i cui esiti, se non sono prontamente rimossi, innescano una diffusa percezione d’inefficienza e di assenza di controllo. Non si tratta di imbalsamare la città storica ma di procedere a trasformazioni leggere secondo una visione complessiva e responsabile governata da progetti organici in un continuo processo di adattamento alle nuove necessità. I processi di trasformazione che hanno investito anche i centri commerciali naturali hanno effetti sull’immagine delle strade e della città. Le tecniche di vendita che puntano a stimolare il consumatore proponendo stili di vita e pratiche di consumo orientate all’edonismo e a un’estetica superficiale trasformano il negozio fin dal fronte strada, la vetrina diventa non più grande e fornita ma si apre all’intero negozio trasformandolo in un palcoscenico sul quale il cliente può agire liberamente, ogni rituale di accesso scompare. Ormai è tutto il negozio che si trasforma in vetrina e nello stesso tempo in un palcoscenico: le porte sono automatiche o non ci sono, particolari soluzioni tecniche garantiscono la climatizzazione estate e inverno, il prodotto è messo in massimo risalto, tutto si può toccare, si vuole che il cliente entri in contatto con esso senza l’intermediazione del commesso: strategia di vendita e riduzione dei costi allo stesso tempo. I negozi non sono più chiusi all’interno degli edifici, in vari modi si proiettano e si impongono all’esterno, talvolta coinvolgendo i piani superiori, trasformando le finestre in vetrine o in insegne e contribuendo così a modificare l’immagine della città e ad alterare quel delicato rapporto che si era stabilito tra spazio pubblico e spazio privato. La geografia degli acquisti contribuisce non solo a cambiare la fisionomia delle strade ma anche la loro organizzazione temporale. La città che fino a qualche decennio fa ha teso a metabolizzare ogni novità ed esigenza ormai non riesce più a farlo e quando lo fa rischia di compromettere il suo volto ed i suoi equilibri. Per questo deve espellere all’esterno alcune funzioni ma così facendo rischia anche di perdere in vitalità e varietà.

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Vengono esportati all’esterno simulacri e brandelli della città storica come ha dimostrato la realizzazione dei centri commerciali, delle multisale cinematografiche, dei centri benessere ed ancor più quella particolare formula denominata outlet villages. I nuovi mezzi del consumo che si collocano lungo importanti vie di comunicazione ed ai margini di significative aree urbane, talvolta sono un fenomeno aggiuntivo rispetto alla distribuzione tradizionale ma spesso sono l’esito di una sua ristrutturazione che risponde a diverse ragioni di competitività, di comportamento dei consumatori e di cambiamento negli stili di vita e nella destinazione del reddito. La ristrutturazione della vendita al dettaglio, che nel nostro paese ha a lungo mantenuto tipologie tradizionali, non si limita a proporre nuovi linguaggi architettonici e nuove tipologie edilizie ma ha effetti anche sui centri commerciali naturali mettendone in discussione ruolo e consistenza. Gli effetti di cui stiamo parlando non sono sempre percepibili con immediatezza ma riguardano la catena del valore, il ruolo degli operatori, le qualifiche professionali e le retribuzioni, la soppressione di rendite consolidate e la formazione di nuove, le strategie di vendita, la forza di persuasione nei confronti dei consumatori ed il discorso potrebbe continuare. L’espansione della città che ha caratterizzato il dopoguerra si è sviluppata non solo senza un’adeguata dotazione di servizi ma all’insegna della specializzazione, il cosiddetto zoning, e in assenza di quel mix di funzioni che è alla base di ciò che eravamo abituati a chiamare città. La stessa recente attenzione alle tematiche ambientali e all’allargamento degli spazi verdi nelle aree urbane ed alla piantumazione di alberi dove possibile non sempre sono sostenute da progetti originali mirati a coinvolgere gli utenti per trasformarli in attori del processo creativo e in seguito spingerli a prendersi in qualche modo cura di quegli spazi. La progettazione e poi la realizzazione degli spazi pubblici dovrebbero soprattutto occuparsi di curare le ferite provocate al tessuto urbano consolidato e a quelle aree di frangia, già agricole, che sono state abbandonate dalle comunità che le abitavano e le curavano e che Fausto Carmelo Negrelli chiama i paesaggi scartati (Negrelli, 2020). Le stesse argomentazioni valgono per ciò che il grande Gilles Clément chiama il terzo paesaggio (Clément, 2016) [1] cioè tutti quegli interstizi e quei ritagli che sono l’esito di una scadente progettazione delle infrastrutture e di una progettazione urbanistica non supportata da un attento disegno urbano e più in generale indica tutti i luoghi abbandonati dall’uomo perché non in sintonia con le cosiddette catene del valore. Sono questi spazi, piccoli e grandi, sui quali bisogna concentrare la nostra attenzione, sono quelli più legati alla nostra vita quotidiana e sono anche quelli ai quali non possono sottrarsi i gruppi sociali più svantaggiati, che non conoscono week end, non conoscono vacanza e che difficilmente possono frequen-


la percezione dello spazio è un’esperienza multisensoriale • paolo pecile

tare un parco monumentale o possono cogliere quelle dosi di bellezza che sono fondamentali per una vita civile. Crediamo davvero che la costruzione di habitat sostenibili e degni di essere vissuti si risolvano con i boschi verticali, con la costruzione di tetti verdi o con l’impegno a piantare un certo numero di alberi senza un progetto organico di riorganizzazione del verde urbano e di una sua equa distribuzione sul tessuto urbano sia dal punto di vista sociale che fisico? Le dimensioni raggiunte dalle maggiori aree metropolitane sono tali da rendere difficile non solo qualunque forma di orientamento ma superano ogni nostra capacità di dare un senso, se non funzionale, a ciò che ci troviamo difronte. Non solo le grandi aree urbane ma anche le attrezzature specializzate come un aeroporto o un centro commerciale ci sovrastano, senza GPS o un sistema di segnaletica non siamo in grado di orientarci. Le analisi ed i criteri proposti negli anni ‘60 da Kevin Lynch non sono più validi. La necessità di ricorrere a specifiche tecnologie altera tutto ciò che homo sapiens ha sviluppato nel corso della sua evoluzione per costruire un rapporto equilibrato tra il proprio corpo e lo spazio che lo circonda con la possibilità di poter attribuire ad esso un senso. Lo spazio urbano che stiamo ancora producendo non è sostenibile per il pianeta e non lo è nemmeno per l’uomo sia sotto l’aspetto fisiologico che emotivo e cognitivo. Bisogna purtroppo aggiungere che la stessa abitazione che dovrebbe essere il luogo dell’intimità e della rigenerazione delle energie fisiche, psicologiche ed emotive si rivela a sua volta sempre meno idonea se non per un ristretto numero di persone. Ma non solo ciò che abbiamo costruito, particolarmente dopo la seconda guerra mondiale, non ci soddisfa ma nessuno sembra in grado di proporre dei modelli per il futuro, non ci sono progetti e nemmeno sogni o utopie come spesso è avvenuto in passato. Rem Koolhaas in una sua raccolta di riflessioni sulla non più città afferma che: “la città non esiste più poiché l’idea di città è stata stravolta e ampliata come mai nel passato, ogni tipo di insistenza su una sua condizione primigenia – in termini visivi, normativi, costruttivi – ha come esito inevitabile, complice la nostalgia, quello dell’irrilevanza” (Koolhaas, 2021). Particolarmente in Europa, infatti, non si riesce in modo esplicito o implicito a non considerare la città storica come un modello dimenticando che essa stessa è stata stravolta anche quando l’aspetto esteriore sembra essere rimasto lo stesso. Bisogna guardare con attenzione a molte delle esperienze che sono in corso in molti dei paesi detti in via di sviluppo che dopo aver seguito modelli occidentali cominciano a cercare risposte legate alle specificità locali sia per quanto riguarda i materiali e le tecniche costruttive sia per quanto riguarda la cultura e le tradizioni. Le possibilità offerte dalle tecnologie vengono utilizzate per risolvere i problemi ma non per stupire l’osservatore; per dirla con le parole di Francis Kéré, vincitore del Pritzer Price 2022, “ciò che conta non è l’oggetto ma l’obiettivo, non è il prodotto ma il processo”[2]. L’approccio

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non può che essere transdisciplinare con particolare attenzione a individuare le finalità delle politiche ponendo al centro il cittadino come portatore di specifici bisogni che trascendono quelli del mero consumatore. L’organizzazione del consumo contribuisce a cambiare la natura del rapporto tra il cittadino e la città anche quando continua a fruirne. Infatti il temine city user può essere esteso anche ai residenti delle città in quanto il loro rapporto con lo spazio che abitano spesso non è di appartenenza e condivisione ma si limita a un rapporto funzionale di richiesta di servizi quando addirittura di partecipazione allo sfruttamento di beni pubblici a proprio vantaggio, come avviene nelle città turistiche. In Francia questo fenomeno viene definito, con un certo comprensibile sarcasmo, ville à la carte[3]. La città, se vogliamo continuare ad usare questo termine, costituisce la macchina più complessa che l’uomo abbia mai costruito ma paradossalmente è anche quella dove c’è un uso insufficiente e inadeguato delle conoscenze e delle tecnologie disponibili. Nessuna disciplina e nessuna professione può da sola affrontare e migliorare lo spazio urbano nelle sue diverse componenti, ci vuole una visione olistica all’interno della quale ognuno deve posizionarsi responsabilmente e con grande predisposizione etico-morale che naturalmente non può che partire da chi è chiamato a governare questi processi. L’uso corretto del termine design rinvia, come ho già ricordato al concetto più esteso e complesso di progetto che implica una visione strategica che non può non fondarsi sul contributo di diverse competenze. Lo spazio costruito nel quale oggi siamo costretti a vivere è l’esito di progetti settoriali che agiscono secondo proprie finalità mentre l’ente regolatore, lo Stato nelle sue diverse articolazioni, non riesce a mettere ordine perché debole, privo di risorse adeguate e costretto a intervenire a posteriori sotto la pressione di interessi in competizione tra loro. In questo momento di forte accelerazione delle innovazioni tecnologiche molti si affrettano a proporre alcune tecnologie come salvifiche nei processi di rigenerazione urbana. Bisogna stare molto attenti perché, senza negarne l’importanza, per governare un sistema complesso come l’ambiente costruito non basta intervenire sulle infrastrutture e sull’erogazione dei servizi perché la città non può essere soltanto settorialmente efficiente ma deve essere riconosciuta dagli abitanti come un luogo nel quale ha senso vivere. Gli spazi che costruiamo non sono soltanto un effetto ma sono da noi inscindibili in quanto a loro volta agiscono su di noi. Lo spazio con tutto ciò che contiene di naturale, artificiale, visibile e invisibile determina ciò che noi siamo. Non c’è un prima ed un dopo siamo noi che abbiamo la necessità di dare un senso a ciò che facciamo. Gli oggetti che ci circondano, dai più semplici ai più complessi, ci comunicano messaggi che pos-


la percezione dello spazio è un’esperienza multisensoriale • paolo pecile

sono variare da persona a persona e addirittura a noi stessi in diversi momenti fino addirittura a perdere di significato. Ma a questo proposito non posso non ricordare con Juani Pallasmaa (Pallasmaa, 2012) che la nostra esperienza dello spazio è un’esperienza multisensoriale e senza naturalmente sottovalutare quella che noi chiamiamo esperienza culturale, anche emotiva. L’attuale società è caratterizzata da un’invasiva presenza di dispositivi di comunicazione con un pressante orientamento verso le immagini con l’obbiettivo di estetizzare qualunque esperienza fino a determinare le stesse modalità di progettazione e di esecuzione dello spazio architettonico, a tutte le scale e nelle più diverse destinazioni. Pallasmaa afferma: “Lo scopo dei nostri edifici troppo spesso viene inteso unicamente in termini di prestazioni funzionali, comfort fisico, economia, rappresentazione simbolica e valori estetici. Il compito dell’architettura però si estende oltre le sue proprietà materiali, funzionali e misurabili – e ben oltre quelle estetiche – fino alla sfera mentale ed esistenziale della vita. Gli edifici non solo garantiscono un riparo fisico o favoriscono diverse attività, ma, oltre a ospitare i nostri fragili corpi e le nostre azioni, devono anche dare albergo alle nostre menti, alle nostre memorie, ai nostri sogni e desideri. Gli edifici mediano fra il mondo e la nostra coscienza attraverso l’internalizzazione del mondo e l’esternalizzazione della mente. Strutturando e articolando lo spazio esistenziale vissuto e le situazioni di vita, l’architettura costituisce il nostro più importante sistema di ordine, gerarchia e memoria esternalizzati” (Pallasmaa, 2012). Pallasmaa sostiene che molta architettura contemporanea, compresa quella molto apprezzata dalla critica, si rivolge prevalentemente alla vista e si propone come brand più che come bene d’uso ed impiega le più raffinate tecnologie non per dare risposte ai bisogni ed ai desideri degli utilizzatori quanto per stupirli. Gli edifici sono spesso considerati oggetti stravaganti piuttosto che elementi cui i nostri corpi e i nostri sistemi neurologici sono inestricabilmente connessi. L’architettura in tutte le sue declinazioni non è un’astrazione ma una pratica incarnata e lo spazio architettonico si costituisce primariamente attraverso un’esperienza emotiva e multisensoriale. Molti hanno giustamente affermato che la città può essere intesa anche come un testo che può essere letto ed interpretato sia individualmente che collettivamente e può anche essere modificato, ma va da sé che gli esiti saranno diversi a seconda della qualità del testo, di chi lo ha scritto, di chi lo legge e di chi vorrà intervenire su di esso. Voglio ricordare che, per quanto mi riguarda, e sono in buona compagnia, coloro che più mi hanno aiutato a capire e ad apprezzare la città, intesa come teatro di vita, sono stati gli scrittori, i poeti, i registi, i fotografi ed i pittori più che i cosiddetti esperti. Lo psicologo sociale Paolo Inghilleri (Inghilleri, 2021) riferendosi alle ricerche di Rachel e

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Stephen Kaplan sostiene che un ambiente ci tramette emozioni positive e ci piace quando ha almeno quattro caratteristiche: coerenza, leggibilità, complessità e mistero. Deve assomigliare a ciò che già si conosce, deve contenere informazioni che ne facilitino la comprensione, deve essere ricco di stimoli sia percettivi che simbolici tali da generare una sensazione di piacevolezza ambientale che ci induca a ritenere di essere difronte a qualcosa di nuovo. I Kaplan si riferivano prevalentemente all’ambiente naturale tuttavia lo sviluppo delle ricerche sullo spazio architettonico hanno preso in considerazione i risultati delle ricerche dei Kaplan. La città e le sue parti devono fornire stimoli a chi ci vive, l’abitante deve poterne ricavare cibo per il pensiero, come lo chiama lo psicanalista americano Christopher Bollas nel suo saggio l’Architettura e l’Inconscio (Bollas, 2009). “Come la vita inconscia di qualunque Sé l’intelligenza della città che si forma e si trasforma non deriva da uno stimolo singolo ma sempre da una matrice dinamica di molte influenze che nel tempo sembra creare la sua mentalità, una visione collettanea che costituisce un particolarissimo inconscio sistemico che genera i significati complessi della città e dei suoi abitanti…. La pura esistenza di edifici e di agglomerati urbani non significa che essi abbiano una mentalità….Se la città non si configura come un corpus di forme intelligenti non nascono miti, leggende, ricordi, sogni, contemplazioni o visioni in grado di generare nuove forme di vita”.


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Bibliografia Bollas, Ch. (2009). Il mondo dell’oggetto evocativo. Roma: Astrolabio. Clément, G. (2016). Manifesto del terzo paesaggio. Macerata: Quodlibet. Granata, E. (2021). Placemaker. Torino: Einaudi. Inghilleri, P. (2021). I luoghi che curano. Milano: Raffaello Cortina. Ingold, T. (2019). Making. Milano: Raffaello Cortina. Kaplan, R., Kaplan, S. (2017). Humanscape: environments for people. Ann Arbor, MI: Michigan Publishing. Koolhaas, R. (2021). Testi sulla non più città. Macerata: Quodlibet. Mallgrave, H.F. (2015). L’empatia degli spazi. Milano: Raffaello Cortina. Negrelli, F.C. (a cura di) (2020). Paesaggi scartati. Roma: Manifesto Libri. Pallasmaa, J. (2012). Frammenti a cura di Zambelli M. Pordenone: Giavedoni. Wilson, E. (2021). Biofilia: il nostro legame con la natura. Prato: PianoB.

Note [1] Clément, G., (2016), “Manifesto del Terzo paesaggio”, Quodlibet- Macerata. Gilles Clément (1943), paesaggista, ingegnere, agronomo, botanico, entomologo, e scrittore ha influenzato con le proprie teorie e con le proprie realizzazioni un’intera generazione di paesaggisti europei. [2] Consiglio di ricercare su youtube alcuni interventi ed una conferenza fatta in Francia nei quali Kéré illustra i suoi progetti e espone il suo modo di operare. [3] Temine che possiamo tradurre città menu cioè una città dalla quale possiamo prendere volta a volta ciò che ci serve senza che ci leghi un particolare sentimento di appartenenza.

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the function of art in urban spaces, stretts, etc Katy Piccione

Artista, Santa Fe - USA

La Casa Grande Restaurant exterior wall Beloit,WI.

My name is Kathy Piccione. I am a portrait artist living in the United States, currently in the Southwest. I am primarily self- taught as a painter and my main medium of choice is oil. Over the course of my 30year art career I have done pencil portraits, painted on clothing, remodeled houses to flip, created and designed iron furniture, done interior design, created murals, faux finishes, and trompe l’ oeil art for commercial and residential applications, and finally fine art oil paintings which is my passion and focus at this point in my life. This variety of art careers evolved not so much out of choice but by necessity to make a living. The great thing about that is it forced me to step outside my comfort zone and try new mediums and forms of expression in order to survive. So today I’ll be talking about art and how it affects urban spaces. As I pondered about the subject, I drew upon all my experiences but mostly my work as a muralist and trompe l’ oeil painter. For those of you that are not familiar with the term Trompe l’ oeil it is a French word that literally means “to trick the eye”. Italian architect and painter Donato Bramante is considered the inventor of the trompe l’ oeil style of painting. He was commissioned to create an illusion of space in a church and make it appear to be three or four times more than it was in reality. This style of painting has been used for centuries for that very purpose. In outdoor applications or Urban settings, it has the ability to take an ordinary side of a building or even a sidewalk and make them seem three dimensional in nature. It can transport the observer to another time or place. I find this technique especially effective in big cities where we are surrounded by large buildings, too much concrete, and very little, if not any, green- space. Art has the ability to bring spirit and life to something that is static or seemingly nonliving. It then allows the viewer to be emotionally connected to a space or place just by its content. Large scale murals also revitalize communities that have become run down due to age or social economic decay. Throughout my life, living in the United States where there is so much diversity in every community, I have discovered that art has a way of uniting people. Using human images as the subject, a largescale mural on a building of a beloved hero, katy piccione


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a memorial to someone who has been killed, or an activist for a particular cause can give people a sense of unity or pride or hope. It often times can teach us about history in a way a book could never do. Last year I was involved in a large restoration project on the side of a 100 plus year old building in my home town in Wisconsin. Years ago one of the prime means of advertising was painting ads on the side of buildings and I’m sure it was a way of creating revenue for the owner of the building. I restored 2 existing ads/ one was a coca cola ad, the other was a huge Galvanic soap ad 60 foot long to be exact, and I finished it off with an ad for the restaurant that currently resides in the building but painting it in a way that gave it a vintage feel so it tied in with the other two. The murals had been hidden by another building that was attached to the existing structure and were not discovered until the building was torn down. The owner left the murals alone liking the distressed nature of them but he soon discovered that the exposure to the elements was deteriorating the murals at a rapid rate. Within 10 years they were practically gone. Portions of the brick building had decayed and had been patched which further damaged the already fragile paintings. As I took on this large project and began bringing the old paintings back to life, I soon discovered that my work was being followed closely by the residents of my small town. I would have daily visitors come and sit in the parking lot, eat their lunch and watch me on my big boom lift as I carefully restored what someone had painted over 110 years ago. I realized at that moment this was more than just ads painted on the side of a building. This was history, this was a connection to a simpler time and place. It meant something to the residents. I realized that continuing to appreciate our ancestors in some small way by preserving the art that was created on that building rather than just going over it with something new, was truly a way to honor them and a bit of my town’s history. My grandfather and grandmother came from Sicily and were present at the time that original artwork was being created. So, this project, this restoration of some simple advertisements suddenly became much bigger for me and took on new meaning because of my own family history. Art, especially in urban settings like this, has the power to connect generations in that way. Sculpture is also a great medium to convey this same idea. A dear friend of mine from Utah has been creating monumental sized sculptures for 60 years. I worked with him for a brief time and I found sculpting to be quite fun but also very expensive so I never pursued the medium. Watching him create and bring to life people from history was truly amazing to me especially because the people he was sculpting were long gone and he was trying to create a 3- dimensional sculpture from a photograph. His monuments have been used outside universities, hospitals, gated communities, and buildings of all nature. They added another layer of history, another


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element of creativity and beauty to the grounds they were placed on. His art will probably still be standing hundreds of years from now and will help teach future generations about the people that once lived there. When I look at my roots and where my family came from, which is primarily Europe, I realize that we Americans have a very limited history. Art again serves as a bridge to other cultures and backgrounds. Often times in my work I had to create art that reflected maybe a certain region of Italy, Mexico, Ireland or Morocco or whatever the job required. Again, I was taking a simple building that basically had no interesting features, and I used my paintings to transform it. I would study closely the region I was to paint about and try to depict it in such detail that the person viewing it would be visually transported to that place. Employing Trompe l’oiel in these instances helped solidify the statement being made. I once painted a street from Sicily on the wall of a building. I was told later that people would walk up and try to open the door painted on the wall it looked so real so 3 dimensional. I knew my attempt at trompe l’ oeil was successful when I heard that. When people see my original work, mostly my oil paintings, they see my deep connection to the Native Americans. I have studied them my whole life. I also have some Chippewa ancestry, and I have had close ties to the Cheyenne nation for many years (they are from the Dakotas). I learned about their culture in depth during that time and still learn today about various other tribes. If we want to look at it this way, they could be considered the first urban artists in America. Despite the fact that there were no real buildings at that time, each tribe created their own forms of housing and they lived in communities within each clan. Natives created petroglyph art on the rocks that surrounded their encampments hundreds of years ago. They adorned their teepees with paintings. These paintings told stories of their daily lives, of their hunts, of sacred things that pertained to ceremony and their Creator. Navajos used sand to create paintings with great detail inside and outside of their homes. Horses were painted for battle and adorned with beadwork for show. Everything had meaning. Buffalo hides were used to depict war battles and hung for show around the teepee or worn by tribal members. Art was an integral part of everyday life. One of the most recognizable forms of art by native people that was used in a communal setting would be the totem pole. These monumental carvings were created by our First nations people of the Pacific Northwest to represent and commemorate ancestry, histories, people or events. Totem poles are typically created out of red cedar, a very malleable wood relatively abundant in the Pacific Northwest and would be erected to be visible within a community. Most totems would display beings or crest animals marking a family’s lineage and validating the powerful rights and privileges that the family held. Each section of the totem told a story.

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In the past 20 years I’ve noticed the United States has finally begun to acknowledge and pay homage to the native people in this country by adorning urban structures with native symbols and designs such as bridge overpasses and retaining walls along the highways. It not only adds interest to what would be boring concrete, but it also serves as a teaching tool and a statement of the people who were the first and true inhabitants of this land. I believe this tradition of using art to tell stories of life, culture, of religion, of family and hierarchy amongst members of a community has hugely influenced the need for humans to continue to adorn their buildings and green spaces in urban settings and depict subjects that are common yet meaningful to those around them. Sometimes, however, art in urban spaces is just something to simply add beauty and interest or be used as a way to complete a statement for a particular architectural style. Exterior Art, either on a building or on the surrounding grounds, can be just as important as interior design is to the inside of the structure in my experience. It’s a way to develop cohesiveness and symmetry with the interior as well as provide color and excitement. This is especially true when we think of restaurants that we would like to dine at. When I am designing a restaurant I often suggest incorporating art and color on the exterior as a means of getting people’s attention and creating interest in a particular place. Color has a huge impact on appetite. Color can also make a place feel clean or dirty. It definitely impacts people’s choices. The more inviting the exterior feels the better chance a restaurant has at drawing new customers in the door. A lot of my design work over the years has been with restaurants and bars so exterior art and even signage can be another expression of the atmosphere they wish to convey inside or the type of cuisine they are serving. I love creating inviting exterior dining spaces as well. I completed a large outdoor dining courtyard for a Mexican restaurant last year. We created a façade on the building that resembled an old hacienda complete with shutters and bricks we exposed underneath the plaster to make it feel very old. I then painted extra- large Mexican drink murals and colorful paintings of cactus flowers in faux windows which livened up an otherwise boring patio. We tied the whole design together with landscaping using succulent plants and colorful flowers as well as planting flowers in giant pots. I feel landscaping is important and one of the easiest ways to transform exterior spaces and requires just as much attention to composition, color, and design as any other art form. What I discovered at the end of the project was that the exterior design became every bit as interesting and essential to the restaurant’s success as the interior design which developed the cohesiveness I spoke of earlier and created additional revenue in a space that would have otherwise been ignored.


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I have recently been commissioned to do a large- scale mural on the back side of a hotel. The back faces a park like setting right in a downtown area. The message or theme that the hotel owners wish to convey through this mural is “unity”. In a time of such unrest in our country due to intolerance and prejudice in every community, art in urban spaces such as this can be a vehicle to unite, invoke thought or action, create emotion, and possibly even change minds. Art has power just as words have power. Creating a message in a painting that has hateful undertones or negativity has the ability to invoke that type of emotion even insight riots. The same can be said of a positive message or beautiful image created to make people stop and hopefully pause long enough to think about what the artist was trying to convey. It’s no small task to develop a painting that can do what they are asking of me. This is a work in progress for me but I have some interesting and hopefully thought- provoking ideas for this project. I enjoy creating art that makes people ask questions and think. I also realize the enormous responsibility that I have as an artist to use my talents for the greater good to improve urban spaces like this. Though my work tends to fall more into the realm of realism and trompe l’oiel the more contemporary urban artists such as graffiti artists also can play an important role in uniting or influencing a younger generation. This brings me to a story about all of the riots we were experiencing in the U.S. last year due to the unjust killing of an African American man by a police officer. One of the unique things I saw was how graffiti art helped protect the local businesses that were being systematically destroyed by the rioting mobs. It was particularly disturbing to see people going out night after night burning and looting local businesses near the capital in my home state. The businesses had to board up all their windows and doors and they were still under attack until some bright young artists began creating graffiti art on the boarded - up buildings. Once the artwork was created the mobs began to leave the buildings alone. It was as if it had created some sort of barrier or protection or maybe they felt it to be sacrilegious to destroy any of it. They recognized and appreciated the beauty and the message the art conveyed and it stopped them from damaging the businesses further. For a brief moment there was a sense of peace brought about simply by art. I believe art in urban spaces has the ability to change people’s perspectives. It can improve and uplift communities that are economically challenged. It can invoke positivity, enlighten minds, and bring peace. It’s a tool for teaching history and a way to inspire future endeavors. Its universal because there are no language barriers. It can influence people to love or hate. Art has been with us since the dawn of time and will continue to be a constant in our lives. Art, by its very nature, improves our urban spaces and brings beauty to our lives.

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proyectos Antonio Castañeda Saldaña

Università Nazionale, Bogotà - COLOMBIA

Sutatensa Boyacá Vereda Guayabal.

In situ mnemocine Es la Unión de dos colectivos artísticos con el objetivo de encontrar una solución a la falta de sentido de pertenencia y memoria ancestral en los espacios públicos, por medio de construcción de laboratorios teniendo en cuenta la concientización y creación ambiental donde la comunidad participa con los artistas, con el fin de divulgar el conocimiento ancestral para las futuras generaciones. Símbolo y pertenencia Las personas en general ayudan más a su comunidad cuando se sienten apoyadas, identificadas y pertenecientes a la misma, por ello se busca intervenir lugares y elementos de la cultura colombiana, como los son parques, casas, colegios y elementos como automóviles, un ejemplo es el popular vehículo de las familias colombianas Renault 4 se transformó en una escultura ambiental traído y pintado con ayuda de la comunidad despertando el sentido de pertenencia a través del diálogo entre arte y comunidad, contribuyendo a la transformación del ecosistema urbano en un museo del pueblo, generando con él un sentido de pertenencia siendo un símbolo de la zona y de recuperación de espacios. Las artes mixtas buscan fomentar también el turismo mostrando zonas y mundos invisibles a las personas de la zona y visitantes. Los parques son símbolos de lo natural en las urbes y se han transformado en pulmones verdes y galerías abiertas, valores ornamentales, esculturas y jardines ecológicos, calles con juegos lúdicos, colegios con corredores artísticos a cielo abierto de nuestra ciudad haciendo un tejido social de vínculos familiares con actividades cívicas comunitarias, para crear frentes de seguridad, por su importancia psicológica en todos sus usuarios y como valor urbanístico y medioambiental.

antonio castañeda saldaña


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El rotulo Nuestro barrio crea identidad, dando una muestra de aprecio por el cuidado a lo público, ya que nuestra comunidad le falta aprecio de lo común y mantener la dignidad aquello que ya tenemos. “ Crear es más originario que saber, más abismal que comprender, más definitivo que actuar”, dice Hugo Mujica. Para abordar una reflexión trascendental de las artes: Nuestra acción es pensar la creación de ambientes artísticos naturales no solo como el resultado de la intuición, sino como una profesión. Así, los vecinos cultivan la creatividad, y el cuidado a lo público, deben participar de la creación de las obras completado por los niños y vecinos. Las obras y recuperaciones ambientales que hemos hecho pueden considerarse como piezas artísticas, el arte y la ecología urbana y cambiaran el mundo cuando sean parte de la vida cotidiana. Como la vida, el hecho de que gente tome decisiones en sus ambientes ya es un gran paso mediante la participación de los propios vecinos que convivieron durante unos días entorno a un objetivo común, cuando se sienten participantes se rotulan como parte de la obra. Lo interesante es no sólo la regeneración del espacio, sino lo que se provoca en las personas, genera conciencia y pertenencia, por lo público que se integran en los espacios en los que intervienen de una forma más duradera, Es decir les dieron las herramientas para que ellas pudieran desarrollarse. La experiencia artística en este caso pasa por la formación y la creación en comunidad de donde se realizan las intervenciones en parques y recuperación de espacios que ha contribuido notablemente a la recuperación del barrio y al aumento del bienestar de sus habitantes. El cuidar y administrar lo asumimos todos, Porque se ha ejecutado con el dinero de la comunidad y le pertenece a la ciudadanía. Gobiernos de diferentes partidos políticos se incurren con facilidad en la falta de cuidado y de atención a esos bienes comunes como si con ello quisieran deteriorar la imagen de lo hecho. Pero lo que están dejando claro es su falta de aprecio por aquello de lo que son responsables y que han asumido, aunque en muchas ocasiones no parecen conscientes de ello, la gestión de determinadas infraestructuras, locales, provinciales, regionales o nacionales algunas presentan ausencia de cuidado. El graffiti Otra de las intervenciones son el grafiti en lugares públicos, como instituciones privadas, publicas ya que los lenguajes de las artes mixtas contemporáneas permiten visualizar


proyectos • antonio castañeda saldaña

mundos invisibles de las problemáticas sociales en que vivimos, en la búsqueda de nuevas plataformas de espacios públicos y centros pedagógicos, las intervenciones de nuestras esculturas y piezas bidimensionales graffitis nos abren la posibilidad de unir la escultura con el graffiti, y de hacer espacios públicos galerías a cielo abierto, con el fin crear lo visible de lo invisible y permitir el desarrollo de las artes comunitarias. El arte puede contribuir a efectuar cambios sociales, culturales e incluso urbanísticos al generar “sentimiento de permanencia y autoestima colectiva, satisfacción de ser y sentir del entorno en el que el reside, genera adhesión y promoción”. El proyecto In Situ Mnemosine se desarrolla en el mismo año, un trabajo de investigación y acción del cuidado a lo público y al medio ambiente con laboratorios de creación Graffity de memoria barrial con la participación de personas con discapacidad, adultos mayores, primera infancia, artistas de las artes mixtas y jóvenes de la universidad Distrital que realizan sus pasantías, en el polideportivo de Kennedy y parque la amistad han logrado hacer un tejido de memoria colectiva con los niños y los abuelos. Como producto una huerta urbana, en los muros. Pintando memorias Este proyecto invita al artista a entender la creación como una investigación y apropiación” contextual colectiva logrando así que su trabajo se convierta en acciones y relaciones que amplían su campo de producción y conocimiento más allá de la obra como resultado final, ya que se involucra de forma consciente con la obra y el testimonio de cada interprete a retratar, desde su historia sus memorias, sus necesidades, y su contexto actual, integrando así su participación y eliminando simbólica y temporalmente las paredes que existen en una sociedad altamente individualista, potenciando los necesarios. Todo inicia del concepto del campesinado sufren cambios estructurales en tiempos de intercambio global. Estos ejes serán los que conviertan a los distintos municipios y ciudades en un museo a cielo abierto para así acrecentar el turismo, crear consciencia ecológica a través de iniciativas para despertar el sentido de pertenencia dentro de las mismas personas que habitan el entorno y apoyar a los campesinos jóvenes y adulto mayor, emergen como pilares que sostienen una misma estructura invisible, sin un contacto y corpus aparente. A través de la pedagogía, talleres de consciencia ambiental enlazadas con las artes mixtas, fotografía, muralismo, escultura, danza y música serán las actividades a realizar integrando a artesanos, agricultores, jóvenes y entes del municipio; con esto lograremos disminuir el porcentaje de desplazamiento del campesinado a las grandes urbes.”

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El proyecto apela a la integración y encuentro del arte contemporáneo en el espacio público, “en un territorio de intensificación y diálogo horizontal. La iniciativa busca crear espacios de encuentro y comunicación vecinales a través del diálogo y la pedagogía para formar nuevos semilleros, en los que se tendrán presentes como pilar principal la reforestación de los ecosistemas, el cuidado hacia la flora la fauna los recursos hídricos y demás, y así hacer visibles los trazos que conectan simbólicamente los espacios patrimoniales, tanto materiales como inmateriales, proyectándolos tanto en nuestro presente como en nuestro futuro.”Mediante esta práctica la operación de cambiar perspectivas se da en la reutilización de”espacios en des-uso, tanto físico conceptual y mental. Las obras y acciones performáticas convocadas son invitadas a tomarse los diversos espacios, generando en el visitante la construcción de una identidad encausada en estas instalaciones/obras donde se integra el intercambio de saberes de la memoria ancestral.” “la flora y la fauna que habitan en estos ecosistemas y sus contextos sociales actuales, logrando así una mezcla de las artes mixtas entre artistas locales y visitantes, para esto se realizará un trabajo de campo directo con la comunidad a través del diálogo y el intercambio de saberes y la pedagogía. Crearemos nuevos circuitos provocando el encuentro espontáneo y versátil la comunidad rural y obras de arte basadas en su historia, y así unificaremos las culturas del campo y la ciudad para fomentar el turismo y el cuidado ambiental.” “exposición de sensibilización con los y las integrantes del municipio o ciudad, para así vincularlos con este proceso y que sigan siendo parte del cambio preserven y multipliquen estas acciones de consciencia ambiental. Adicional se realizarán ferias en donde se tendrán en cuenta los diferentes emprendimientos con ventas de los productos autóctonos, haremos un proceso de difusión nacional e internacional desde la investigación de campo y la diversificación de estrategias a través de medios masivos de comunicación.” Invisibles Este proyecto se diseñó con el fin de involucrar a las personas con discapacidad física y mental en actividades artísticas y Psicofuncionales, para motivar y descubrir sus capacidades y así mismo desarrollarlas en un medio social y cultural adecuado. Las actividades inician desde identificar sus capacidades, ya sea desde las diferentes dimensiones del ser humano, la física, social, espiritual, cognitiva, comunicativa, estética, emocional, ética después de ello se motiva a la persona a participar en actividades donde pueden proyectarlas y trabajarlas, para fomentar su motivación y crecimiento en la misma.


proyectos • antonio castañeda saldaña

Usamos el arte terapia medio para entender y reinterpretar las emociones, generando: • Expresión de los sentimientos que son difíciles de verbalizar. • Desarrollo de habilidades de afrontamiento saludables. • Exploración de la imaginación y la creatividad. • Mejorar la autoestima y la confianza. • Identificación y aclaración de las preocupaciones. • Aumento de la capacidad de comunicación Otros puntos a trabajar son sobre lo cuidadores de las personas con discapacidad donde se motivan y trabajando y ayuda para posible rehabilitación de las personas a su cargo Tanto como discapacitados y cuidadores se y trabaja su aspecto emocional promoviendo la resiliencia y generando en ello la confianza ante un mundo que cada día es más exigente, las mismas personas son parte de la creación de los espacios artístico dejando su huella y mostrando al mundo que ya no son invisibles si no personas que ayudan al mundo a mejorar a pesar de sus limitaciones.

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the history and future of urban furniture. the transformation of urban public space to “smile place” Shude Song

Ph.D, Lecturer, Shanghai Polytechnic University - CHINA

The sights of Paris around 1870.

If the city is compared to “home”, the urban public space is the living room of the city, while urban furniture i.e. all kinds of furniture-street lamps, seats, garbage bins, bus shelters, road signs, public works of art, etc. (Bao, Song, Wang, & Yang, 2019), is a general term for all kinds of facilities that are set in urban public spaces such as streets, squares and green spaces to provide services for people. The history of urban furniture exists with the development of the city, and the types and functions of urban furniture also change with the development of urban public space. The development history of urban furniture is also that of urban public space. The change of its service object and function reflects the change of urban development concept. Urban furniture has gradually developed from monomer to system, which has become an indispensable component and element in urban areas.

Urban furniture in ancient cities Through the excavation of Pompeii site, people found that the ancient city of Pompeii almost had the most complete urban elements at that time: market, temple, theater, park, library, commercial street, school, villa and so on, which undoubtedly showed the diversity and richness of Pompeii as a classical city (Banks, 2019). From the above remains, we can know that Pompeii people loved public life, which promoted the appearance of primitive forms of urban infrastructure such as public toilets, parks, public baths and so on. Drinking water facilities, roadblock, signs, sculptures and other classical urban furniture were widely used in Pompeii to meet the living needs of Pompeii citizens. Although ancient cities made great achievements and built a large number of urban facilities, they did not formed a modern urban system in the true sense. Most of them were unitary or pluralistic urban forms such as administrative centers, religious centers, military centers, handicraft centers, etc., which led to the fact that cities were places serving the rul-


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ing class, and the urban space was limited. Most of the facilities in urban furniture served the political and commercial life at that time, such as gatehouses, urban sculptures and fountains in the west, archways and horse pegs in the east, etc. That didn’t change until the Renaissance. Renaissance urban planning emphasized people’s subjective initiative and pursued the “ideal form” of the city. In the 17th century, France under Louis XIV carried out the “urban renewal” of Paris. He rebuilt neighborhoods, ancient buildings, bridges, squares and numerous city sculptures. He ordered the removal of the fortifications protecting Paris and the construction of “boulevards” with sidewalks. On a day in late 1667, the first oil lamp was lit on the dark streets of Paris. Then, some 3,000 lights lit up the Paris night. From then on, the night was filled with songs and laughter, something like a bonfire in a Stone Age woodland, and the Paris street lamp banished the darkness (DeJean, 2017). Nobles from all over Europe competed to visit and made consumption in Paris, bringing the urban flavor of Paris to all parts of Europe. With the rise of urban public life in Europe, urban public space was revitalized and reconstructed. Urban furniture in modern cities Before World War II In the 1760s, the Industrial Revolution arose in Britain. With the rapid development of economy, modern cities arose. Along with the Industrial Revolution, the form of cities changed greatly with the establishment of many factories and the rapid gathering of urban residents, which led to a huge change in the industry and function of cities. The urbanization rate in Europe developed rapidly during this period. The role and demand for urban public space were more urgent. Cities had been more artificially and functionally planned, more and more streets, parks, squares and a series of urban spaces have been established, the rapid expansion of the city. After the rise of modern cities, urban furniture in the modern sense was gradually popularized. Street lamps, public seats, newsstands, traffic lights, postal facilities, public transport-related facilities and other urban furniture gradually appeared and formed a system. From 1853 to 1871, Baron Haussmann carried out a great renovation on the city and streets of Paris. He demolished 60% of the old medieval buildings, built straight, neat and spacious streets, and numerous sculptures, monuments, green spaces, parks and squares, standardized the architectural form, and planted trees on both sides of the avenue to become the boulevards. It can be said that, under the leadership of Haussmann, the urban public facilities system was gradually established, and the citizens’ multiple


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needs for leisure, entertainment, memorial and landscape from private space to public space were met. The city was redefined. Haussmann also paid attention to microcosm and details, and commissioned well-known designers to build a systematic urban furniture system including street lamps, poster kiosks, chairs, drinking fountains, public toilets and even manhole covers. The success of the great transformation of Paris attracted the attention of the world, and triggered the worldwide reference and imitation of Paris’s urban construction achievements. Urban furniture was nurtured and developed rapidly in this period. After World War II After World War II, a large number of cities in countries participating in the war were destroyed, and post-war reconstruction became an important historical proposition. With the rapid development of science and technology after the war, the productivity was greatly improved, the economy was rapidly restored and developed, and urban construction developed rapidly. The concept of urban furniture rose and developed in the process of urban renewal and revitalization. The term “Street furniture” appeared in Britain in the 1960s. After the 1970s, humanism thought rose again, and people gradually realized that urban open space should adapt to the humanized development of human behavior and emotion. With the rise of commercial pedestrian streets in cities, the functions of urban public space were redefined, deriving more diversified functions such as rest, sports and social public activities. As people gradually realized the important role of urban public space, urban infrastructure developed accordingly. This also promoted the modern development of urban furniture. Professional urban furniture enterprises began to emerge one after another, providing design, construction and operation services in connection with professional urban furniture for the city. With the rapid urbanization, urban disease followed. People began to seek solutions to urban diseases, one of which was urban furniture. Western developed countries began to upgrade urban furniture in the 1980s, and the urban furniture system was gradually improved and developed. With a large number of new town, new district construction and urban renewal actions, systematic urban furniture construction appeared all over the world. Urban furniture in the 21st century With the revolution of information technology and the rapid development of Internet and Internet of Things, social productivity has been greatly improved, economic structure and industrial system have been greatly changed, and many new industries and concepts have emerged. Cities are facing new transformation. What kind of city do people need? What

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kind of urban public living environment and urban services are needed? How to realize the fair and healthy development of cities? Such as Smart city, green city and resilient city, a series of problems have become important urban issues. The rise of urban public space research has promoted the systematic development of urban furniture. At the beginning of the 21st century, Danish architect Jan Gehl put forward how people use public spaces such as streets, squares and parks, and discussed how to support social communication and public life. He put forward three types of outdoor necessary activities, autonomous activities and social activities, and proposed following the law on people’s activities, building slow traffic, comprehensive and multi-dimensional space functions, and dividing spatial scale levels. Many cities have carried out systematic research on the environmental function, constituent elements, economic development and sustainability, and environmental beauty of public spaces from the perspective of integrity. Urban public space and public life have become important components of urban value, and systematic research and construction on urban furniture has become popular.

SMILE PLACE Source: Created by the Author

The rise of urban street design guidelines has standardized the development of urban furniture system. In 2004, Ken Livingstone, the then mayor of London, made “Towards a Better City for People” the core part of his campaign for the second term. This research influenced the way planners, politicians and citizens think and talk about London as a place where people live. With this as a guide, a series of strategies such as “STREETSCAPE GUIDANCE” and “Improving Walkability” were promoted. Many major cities in the United States have also compiled their own guidelines for urban street design, such as Seattle (2005), New York (2009) and Los Angeles (2008 and 2011). The American Urban Transportation Association published the Urban Street Design Guide in 2013. Many world-class cities have issued a series of standards, such as their own street design guidelines, to change the cities with systematic ideas. The rise of design guidelines has regulated the development of urban furniture, and at the same time stipulated the contents covered by urban furniture system. Each guideline has basic requirements for the location, types and functions of all kinds of urban furniture, and some guidelines have requirements for the intensive and modular setting of urban furniture. The quality


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requirements of urban furniture are increasingly demanding with the improvement of street design quality. Smart city promotes the innovation and development of urban furniture system Urban operation plays a dominant role in the development of human civilization, and cities are regarded as organic living bodies because of their internal operation(National Pulse Research Institute,2017). With the deep development of Internet and Internet of Things, artificial intelligence, big data and blockchain technology have been widely used, which has promoted the evolution and progress of urban life, and “smart city” came into being. Intensification, combination and informatization have become important issues in urban furniture. Urban furniture is no longer just the carrier of the function, culture and art of the entity. Through network twinning, big data processing, platform construction or integration, urban furniture system has been injected with “thoughts and wisdom” and has become an important infrastructure and service port in the construction of smart cities. SMILE PLACE The urban development should perfectly grasp the two elements of power and harmony, successfully balance the social participants and social components such as history and modernity, young people and old people, scholars and craftsmen, economic and technological research, technology and art, and balance urban space and human space. Let people enjoy life in urban space, thereby making the urban space into “SMILE PLACE”.

“SMILE PLACE” consists of five words: Subtle, Maintained, Integrated, Lively and Enjoyable. There are three main meanings: 1. People-oriented in value orientation; 2. Emphasize

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inclusiveness in functional positioning; 3. In terms of design methods, pay attention to systematic design, diversified design, elaborate design and ecological- & sustainable design. SMILE PLACE may be an important way to meet people’s demand for public spaces, in which urban furniture is an important part. Throughout the development history of urban furniture in the world, the emergence and development of urban furniture involves the following four thoughts: 1) Organic composition of urban homes; 2) More diversified functional requirements; 3) Higher quality aesthetic requirements; 4) The sense of belonging and affinity with urban culture.


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References Bao, S., Song, S., Wang, Y. & Yang, M. (2019). Guidelines for Urban Furniture Construction. Beijing: China Architecture Publishing & Media Co., ltd. Banks, S., translated by Li, G. (2020). Lost Cities (Chinese Edition). Beijing: China Pictorial Publishing House. DeJean, J., translated by Zhao, J. (2017). How Paris Became Paris: The Invention of the Modern City (Chinese Edition). Beijing: Yilin Publishing House. Organized by National Pulse Research Institute. (2017). Smart City: People-oriented Urban Planning and Design. Beijing: China Machine Press. Sitography Jan Gale Architects. Towards people’s beautiful city [OL]. Jan Gail architectural firm website. https://gehlpeople.com/story/.

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Laboratorio di Design degli Spazi di Relazione Contributi di ricerca



luoghi inquieti. l’immaginario e lo spazio. Stefano Follesa

Ricercatore Università degli Studi di Firenze - ITALIA Direttore Scientifico del Laboratorio DSR Design degli Spazi di Relazione

P. Tacca Fontana del Tritone Firenze. Foto di Stefano Follesa.

“Tu che entri qui rifletti attentamente e poi dimmi se tutte queste meraviglie siano fatte per sbalordire oppure per arte” Da una iscrizione nel giardino di Bomarzo

Tra i ricordi più belli che ho di Adolfo Natalini ci sono i racconti nelle occasioni di condivisione e convivio col gruppo dei suoi assistenti in alcune trattorie fiorentine. Una di queste narrazioni, che mi ha accompagnato negli anni, era la descrizione delle sue notti insonni (quando ancora aveva lo studio in via San Gallo) trascorse a camminare per la via Martelli e la via Cavour dialogando con i mostri e gli animali fantastici che popolano quelle e molte altre strade del centro di Firenze. Firenze è una città di mostri; di scimmie, draghi, tritoni, caproni, leoni, satiri, scorpioni, diavoletti e animali marini oppure di grottesche quali chimere, mascheroni e conchiglie, che ti accompagnano nel cammino e raccontano delle tante stagioni del tempo e degli sguardi turbati che si sono incrociati con tali inquietanti presenze nel fluire degli anni. I ‘mirabili inganni’, rappresentazioni pietrificate del mostruoso, sono presenze inquietanti nelle quali coesistono natura e artificio, realtà e apparenza, regola e la trasgressione. È una dimensione della città che accende il nostro immaginario, la nostra capacità di costruire storie lì dove gli elementi presenti nello spazio guidano il nostro pensare e la nostra fantasia. L’immaginario è lo spazio dell’immaginazione, dove anche ciò che non si manifesta fisicamente prende forma nella mente, facendoci vivere non solo la nostra vita, ma tutte le vite che riusciamo a immaginare o ambientare in uno spazio. La dimensione del bizzarro, che prende avvio nel tardo rinascimento e accompagna la cultura manierista, ricorreva a figure simboliche che si intrecciavano con l’invenzione dando vita ad associazioni paradossali la cui interpretazione alimenta l’immaginario e misura la curiosità, la cultura e la conoscenza di chi le osserva. Firenze è stata uno dei grandi laboratori del Manierismo; in una delle più straordinarie stagioni della città, sotto l’influenza di

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Cosimo I de’ Medici e di un’idea di arte come strumento per accrescere il prestigio della città, lavorarono artisti quali Vasari, Bronzino, Salviati, Cellini, Montorsoli, Bandinelli, Giambologna, Danti, Ammannati, Buontalenti, Tribolo e Tiacca. La metamorfosi, tra vegetale, animale e antropomorfo, è il processo che guida le decorazioni parietali o le piccole sculture che adornano gli ingressi dei palazzi e le finestre inginocchiate disseminate sulle vie. Il Manierismo mira a sorprendere, a stupire con invenzioni, all’insegna dell’inusitato e del capriccioso, che prendono ispirazione dal mondo della natura e virtuosismi che preludono agli artifici del Barocco. I simbolismi, talvolta espliciti, talvolta reconditi, aggiungono alla rappresentazione una dimensione legata al mistero, talvolta al tragico, che implica una decodificazione e alimenta i nostri pensieri e la nostra percezione dello spazio. La Firenze dei mostri è uno dei tanti percorsi narrativi che la città, se attraversata con occhio attento, può offrire al visitatore. Ogni città è una stratificazione di segni e memorie che attendono solo di essere svelate; le vie, le piazze, i portici conservano le tracce dell’operato degli uomini nel tempo. Storicamente le città hanno sempre narrato piccole o grandi storie: statue, lapidi, edicole, affreschi, ci rimandano, nello spazio urbano, a personaggi e accadimenti. “Gli spazi sono stratificazioni di memorie orientate, sono nodi di relazioni, sono (o dovrebbero essere) scenari di vita civile” (Natalini, 2011, 36). E tali storie alimentano l’immaginario che si trasferisce nelle opere dei creativi; al narrare riconosciamo la capacità di comprendere, interpretare e di rappresentare dando forma di realtà a mondi veri o frutto della fantasia. Ma la stessa narrazione alimenta il rapporto con lo spazio urbano; viviamo le città attraverso le emozioni che gli spazi ci sanno comunicare, “viaggiamo, alcuni di noi per sempre, per cercare altri luoghi, altre vite, altre anime” (Anaïs Nin, Diary vol.7, 1974). Ricostruire una interazione con gli spazi, rafforzandone e comunicandone l’identità, può diventare uno degli obiettivi della disciplina Design, un contributo alla riconquista della città lì dove il nostro rapporto con lo spazio urbano si è progressivamente smarrito, offuscato dalle incalzanti tecnologie. Il Design di Narrazione è uno dei percorsi più affascinanti del multiforme design contemporaneo che agisce su quelli che sono gli elementi di diversità, attorno ai quali si costruiscono gli scenari del progetto e della comunicazione. L’obiettivo, quando applicato alla città, è quello di ricreare forme di interazione tra cittadini e spazi urbani che vadano al di là dei rituali collettivi della contemporaneità (ne parla La Pietra nella sua introduzione al libro) nei quali troppo spesso lo spazio si determina esclusivamente per le sue funzioni.


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In una dimensione ibrida che definisce la città contemporanea, la connessione tra spazio fisico e tecnologie ICT può rappresentare lo strumento di una nuova narrazione della città contemporanea, fatta di “oggetti intelligenti” che raccontano storie e di storie ed emozioni che ci riconnettono ai luoghi. Si tratta di mettere insieme il mondo fisico e il mondo digitale, secondo l’idea dell’ubiquitous computing e costruire reti di relazioni attorno alle tensioni evocate dalla narrazione. È il lato “human” delle Smart Cities che ci aiuterà a modificare il rapporto con gli spazi urbani in un nuovo e continuo percorso evolutivo. La dimensione narrativa La narrazione è una delle modalità con cui esplicitiamo la nostra conoscenza del mondo e strutturiamo le nostre esperienze (Bruner J., 2016). Ogni processo narrativo si nutre di immaginario, cioè di quell’insieme di elementi mentali, desideri, speranze, sogni, fantasie, con cui gli individui interpretano e intervengono nella realtà su un piano distinto dalla conoscenza razionale. La comunicazione narrativa, che si affianca alla spiegazione di tipo causale, ha delle sue specificità intrinseche quali la pluralità interpretativa dei messaggi e la loro appartenenza alla categoria del possibile più che a quella del certo; la variabilità interpretativa è la scintilla del processo interattivo. Il pensiero narrativo pervade molteplici ambiti del sapere ed è progressivamente diventato una delle più efficaci metodologie di interazione. Il ricorso allo storytelling si è diffuso in ambito didattico e pedagogico, nella pubblicità, nella comunicazione aziendale e politica, negli studi sulla creatività e, sempre più, nelle discipline progettuali. La narrazione costituisce un punto di vista particolare, dal quale leggere le dinamiche di molti processi conoscitivi e può quindi essere utilizzata nei processi interattivi che sovrintendono il rapporto con gli oggetti li dove le dinamiche contemporanee e i fenomeni di obsolescenza estetica e tecnologica hanno progressivamente cancellato il possesso privilegiando l’utilizzo. Anche il design può dunque essere sviluppato in forma di storytelling lì dove gli oggetti e gli spazi tornano ad essere portatori di significati simbolici. Il design, come disciplina, ha una valenza tecnica e scientifica e una sociologica e umanistica; è connessione tra ingegneria e arte, tra invenzione e stile, tra produzione e mercato. Ogni progetto, nella sua connotazione sociologica, può costituire una narrazione che si sviluppa e prende forma nel corso della sua stessa definizione; del resto la stessa costruzione di un racconto è di per sè un processo progettuale. Tra il processo narrativo e il processo progettuale esiste una stretta analogia: in entrambi si ha un procedimento di trasformazione che rappresenta una rielaborazione e una rivalorizzazione di condizioni già esistenti in altre forme e altri valori.

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Una nuova fase della disciplina pone il design in una dinamica espansiva, sia rispetto alle problematiche di cui si è storicamente occupato, sia rispetto alle metodologie che ha sinora utilizzato per affrontarle. Lo sviluppo delle forme e dei programmi di intelligenza artificiale mette sempre più in crisi il ruolo tecnico-scientifico della disciplina e i nuovi applicativi A.I. costituiscono l’avanguardia di un futuro nel quale le macchine potrebbero sostituire l’uomo nella elaborazione scientifico-tecnica del progetto relegando l’attività umana al ruolo di immissione e controllo dei dati. Tra le risposte che il design può dare rispetto ai mutati scenari vi è quella di uno sviluppo degli strumenti e delle pratiche che agiscono sui processi percettivi e di interazione tra oggetti, spazi e persone. Queste aprono nuove direzioni alla disciplina implicando lo sviluppo di competenze che non possono appartenere alle macchine, quali la creatività, la sensibilità e l’immaginazione. Tra gli ambiti applicativi di tale nuova visione della disciplina rientra lo sviluppo di processi narrativi e nello specifico quelli che interessano lo spazio urbano. Per descrivere queste nuove forme di narrazione, viene usato il termine Design Fiction, che denota l’adozione di meccanismi di relazione tra immaginazione e immaginari; si progettano artefatti come elementi di un racconto in divenire. L’accostamento del design alla narrazione diventa possibile in tutti quei casi in cui la natura dell’intervento progettuale sia fortemente caratterizzata da una dimensione informativa e relazionale che determina processi di interazione. Il progetto può essere in tal caso definito come una forma di scrittura; l’artefatto stesso risulta uno strumento narrante, capace di raccontare e creare connessioni. Il design d’altronde ha sempre avuto il compito di creare cornici di senso, già Klaus Krippendorff nel 1989 aveva analizzato questa particolare dimensione della disciplina osservando che l’etimologia della parola deriva dal latino “de-signare” cioè distinguere una cosa dalle altre attraverso un segno. In altre parole dare senso alle cose. In tale ottica il design è destinato a sviluppare una “cultura del dialogo”, dove i progettisti rivestono il ruolo di intellettuali e partecipano all’attribuzione di significati agli spazi e agli oggetti. Krippendorff colloca il designer all’interno di un semantic turn, nel quale si modificano sia l’oggetto sia i modi della progettazione, riportando l’attenzione dalla dimensione funzionale alla dimensione simbolica. Benchè quello che viene definito Narrative Design abbia assunto inizialmente una connotazione che lo identificava con l’utilizzo delle pratiche dello storytelling nella progettazione di prodotti multimediali, il design di narrazione assume oggi sempre più una denotazione originale legata allo sviluppo contemporaneo degli aspetti comunicativi e interattivi partendo da una storia. È un design che rivolge le proprie attenzioni non più


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alle tecnologie e ai linguaggi ma alle persone e agli eventi, ai molteplici aspetti del vivere che coinvolgono la nostra emotività e i nostri sentimenti (Penati 2009). L’aspetto narrativo agisce su quelli che sono gli elementi di diversità, attorno ai quali si costruiscono gli scenari del progetto e della comunicazione. È una pratica che mira al reimpossessamento dei valori simbolici e alla ridefinizione di relazioni tra l’uomo, gli oggetti e gli spazi. La narrazione diventa progetto, un progetto che si ritrova nelle piazze e nelle strade con l’obiettivo di “raccontar storie”, di ricordare eventi accaduti e, più in generale, di aprire un dialogo tra la dimensione interiore del viaggiatore o del passante e la dimensione fisica dello spazio. C’è un linguaggio latente delle “cose mute”: i messaggi ermetici inviati dalle strade che percorriamo, dalle case che abitiamo (Mazzoleni, 1985). Il ruolo dell’immaginario L’immaginario deriva dall’immaginazione, che è facoltà del possibile (Jedlowski P. 2008, 238), cioè possibilità di emanciparsi parzialmente dai vincoli dell’esistente perché il concetto di immaginario “rimanda al fatto che, immaginando, noi moltiplichiamo la vita: riconosce che sul possibile noi ci sporgiamo”. L’immaginazione è una facoltà prettamente mentale, che si manifesta in maniera astratta e funge da attivatrice dei processi creativi, contraddistinti dalla necessità di qualcosa di nuovo, non visto prima. Immaginando si può essere innovativi, l’immaginazione è in grado di stimolare processi di innovazione e di cambiamento radicale. Nelle parole di Rita J. King, autrice e futurologa, che ha usato per prima il termine Imagination Age per indicare il periodo di transizione che stiamo vivendo tra l’era industriale e quella dell’intelligenza artificiale: “L’immaginazione applicata (e applicare immaginazione) richiede un cambiamento culturale. Richiede di fermarci, fare un respiro e pensare a dove siamo diretti”. Il ruolo dell’immaginazione si amplifica e assume maggior significato lì dove l’AI assumerà sempre più un ruolo attivo nei processi elaborativi divenendo uno degli elementi di discrimine tra il pensiero umano e l’elaborazione delle macchine. Immaginare è un processo e l’immaginazione, è quindi un’abilità. È un processo lineare che ha un’origine, rappresentata dalla memoria (individuale o collettiva), dalle esperienze vissute, dalle percezioni (puramente sensoriali o alterate) e ha una “fine”, nell’empatia, nel coinvolgimento e nella creatività (Ianniello 2022). Li dove l’immaginazione avrà un ruolo primario nello sviluppo dell’innovazione ci sarà sempre un’abilità che non puo appartenere alle macchine e un ruolo definito e necessario per le professioni progettuali. Gli oggetti, d’altronde, sono strutture immaginarie sia perché producono significati simbolici sia perché

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l’immaginario è insito nella ideazione e nella definizione degli stessi. La componente immaginifica è parte costitutiva del processo di progettazione e quindi strumento della disciplina design nella sua dimensione creativa. Si potrebbe dire che l’immaginario sviluppa oggetti e che gli oggetti sviluppano a loro volta immaginario e il design fa di questa circolarità una sua caratteristica peculiare: dare forma agli artefatti e, attraverso tale forma, dar vita a immaginari. L’immaginario è fra i connotati salienti di tutte le pratiche progettuali che fanno di questa professione uno dei perni dell’innovazione materiale e sociale nel mondo contemporaneo (Proverbio, Riccini, 2018). La complessità che contraddistingue il termine immaginario si riflette in una potenzialità narrativa che i diversi ambiti disciplinari mettono in campo secondo le proprie specificità. Negli obiettivi di questo testo vi è la definizione di un ruolo dell’immaginario nella narrazione dello spazio urbano, l’idea di una città con cui interagire e i cui spazi possano accendere la fantasia dei passanti. Immaginari e narrazione nello spazio urbano “Una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola. Basta ascoltarla, perchè la città è il riflesso di tante storie” Renzo Piano

Ogni città possiede la propria arte, la propria architettura, la propria storia e ognuno di questi frammenti di diversità contribuisce alla costruzione della propria identità. I luoghi sono parte essenziale del nostro mondo emotivo, sono luoghi di sogni e di immaginazione (Croce) nei quali si sviluppa il nostro percorso di vita e dai quali parte il percorso di costruzione della nostra identità personale. Maggiore è la conoscenza che abbiamo dei luoghi e maggiore è nel nostro immaginario l’identità che ad essi attribuiamo. Vi sono luoghi con una forte identità, sviluppata e rafforzata nel tempo, ma vi sono anche luoghi la cui identità debole necessita una maggiore attenzione da parte del mondo del progetto. L’identità di una città è un valore da tutelare e amministrare che comporta una continua progettualità per rafforzare e sviluppare le sue componenti. Attraverso le trasformazioni e i segni operati dall’uomo ogni città racconta molteplici storie ai propri abitanti e ai viaggiatori; la città, come scrive Piano, è il riflesso di tante storie Ogni città è un continuo generarsi di narrazioni; si tratta di leggerne con gli occhi della contemporaneità la biografia e le piazze, le vie, le strade possono sviluppare attraverso artefatti e tecnologie un proprio specifico racconto. Ed è la narrazione che al contempo alimenta la dimensione del viaggio. Al narrare riconosciamo la capacità di comprendere


luoghi inquieti.l’immaginario e lo spazio. • stefano follesa

e interpretare e di rappresentare dando forma di realtà a mondi veri o frutto della fantasia. Nella città la narrazione diventa progetto, un progetto che ha l’obiettivo di ricordare eventi accaduti collegandoli ai luoghi in cui si sono svolti e, più in generale, di offrire conoscenze e sapere. Storicamente i monumenti, la toponomastica, le edicole votive, le lapidi murarie hanno sempre avuto una funzione narrativa, ma ad essi si è affiancata nella modernità una ruolo narrativo che appartiene al progetto stesso dello spazio. Alcuni luoghi urbani della contemporaneità mostrano, più di altri, un aspetto prettamente comunicativo. Faccio riferimento, ad esempio, alla piazza Satta a Nuoro in Sardegna dove Costantino Nivola ha saputo raccontare, con la sapienza narrativa dell’artista, la vita dello scrittore Sebastiano Satta nei luoghi nei quali essa si è svolta. O alla Piazza della Memoria di Palermo, progettata da Giovanna De Sanctis e Antonio Musarra per ricordare le figure dei giudici di Palermo e Trapani uccisi per la loro azione di contrasto a Cosa Nostra, e ancora alla piazza Faber a Tempio Pausania di Renzo Piano, Massimo Alvisi e Junko Kirimoto, dedicata alla figura di Fabrizio De Andrè nei luoghi che hanno ospitato una parte della sua vita o infine alla Piazza Guidi a Vinci dove Mimmo Paladino qualifica lo spazio attraverso una “riscrittura” dei segni Leonardeschi. Ma la narrazione nella città non è un tema di esclusiva competenza dei progettisti; anche l’arte contemporanea interviene talvolta sulle narrazioni urbane. Il lavoro dei writers (da Banksy a Kobra) costituisce certamente una forma di narrazione personale (volta ad interpretare eventi collegandoli agli spazi) che contribuisce a sviluppare una diversità dei luoghi. Relativamente all’utilizzo delle nuove tecnologie, Absosrbed by light progettata dall’artista britannico Gali May Lucas, con la collaborazione dello studio Design Bridge ed eseguita dalla scultrice berlinese Karoline Hinz nell’ambito del Amsterdamlight Festival, agisce nella stessa direzione. Si tratta di un’opera in cui i veri protagonisti siamo tutti noi, ripresi in una pausa di quotidianità. L’installazione riprende i volti illuminati di tre persone a grandezza naturale, seduti su di una panchina con la tipica posizione che assumiamo ogni giorno al bar: la testa china, lo sguardo fisso e il volto illuminato dal video del telefonino. Dalle superfici interattive dell’Urban Imprint progettate dallo Studio INI alle nuove forme di produzione dell’energia, dalle superfici stradali interattive di Starling Crossing di Umbrellium, agli incroci regolati da semafori intelligenti e con impianti di illuminazione in grado di riprodurre la luce del giorno, le città del domani saranno sempre più interattive e modificabili in tempo reale dagli abitanti. Nella dimensione ibrida dello spazio gli oggetti scambieranno informazioni tra di loro supportati da reti di connessione ultraveloci che renderanno immediate le informazioni. Le nuove tecnologie costituiranno strumenti di attuazione delle smart cities e ne amplieranno le possibiltà di interazione con gli abitanti.

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Ed è su tali nuove tecnologie che si va sviluppando una sperimentazione narrativa che investe le discipline progettuali e il design in primo luogo. L’accrescimento di piattaforme per la comunicazione, l’intercambio di informazioni e di servizi in città, determinato dalle politiche di sostegno alle smart cities, ha aumentato le aspettative di produrre nuove narrative, idee e sperimentazioni urbane. L’idea di città come spazio di sperimentazione, che ha espliciti riferimenti alle teorie dell’architettura radicale (Mostra Radical City, Torino 2012), si ritrova in alcune esperienze di Digital Storytelling che mostrano un utilizzo sperimentale delle tecniche digitali. A Torino gli artisti di Coniglio Viola hanno creato un “film diffuso” suddividendo la favola “Le notti di Tino di Bagdad” un’opera letteraria: della poetessa espressionista tedesca Else Lasker-Schüler, in episodi animabili grazie ad una particolare applicazione scaricabile dalla rete. Quest’ultima permetteva di inquadrare con la fotocamera del proprio smartphone i manifesti affissi sulle fermate degli autobus, davanti ai bar e sugli edifici, dando così vita alla storia. In questa esperienza la trama della narrazione non era “statica” come nelle favole tradizionali ma poteva trasformarsi a seconda dell’itinerario scelto, dando modo di creare così una propria storia personale. The Door (Interactive Spaces Urban Studio - Copenhagen) è un’installazione urbana interattiva (creata per il Comune di Helsingborg in Svezia come parte del festival della luce Drömljus) che agisce come strumento creativo per connettersi con altre persone e luoghi del mondo. L’installazione consiste in due porte rosse indipendenti e interattive. Quando si apre una porta compaiono sullo schermo le immagini prodotte dalla porta gemella installata nello spazio urbano di un’altra città. La porta diventa idealmente il passaggio in un altro mondo, una connessione in diretta alle persone dall’altra porta rossa. Durante il festival Drömljus nel 2020, una porta si trovava a Helsingborg e l’altra porta a Copenaghen dove si svolgeva in contemporanea il Festival della Luce, unendo in tal modo gli abitanti della città svedese a quelli della città danese. Vi è poi una precisa direzione di ricerca volta al convolgimento degli aspetti percettivi nella ricerca di una interazione con lo spazio. Lavora in tal senso l’artista narrativo Alan Nakagawa che a Los Angeles ha convogliato tutti gli elementi olfattivi della città in un’installazione alla fermata degli autobus che eroga tre posssibili fragranze ispirate al territorio. Questi esempi segnalano da un lato quanto l’utilizzo della narrazione sia funzionale ad una adesione alle città dall’altro quanto le nuove tecnologie possano alimentare e qualificare tale narrazione rivolta parimenti alla curiosità del viaggiatore e alle fantasie dell’abitante. I luoghi inquieti sono luoghi che spingono ad un approccio personale


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allo spazio, luoghi nei quali la città comunica attraverso i suoi molteplici aspetti. Luoghi della città notturna e silente quando gli elementi di distrazione scompaiono e il rapporto con lo spazio diventa diretto. Un rapporto che ha però necessità di essere alimentato dalla conoscenza e le nuove tecnologie possono alimentare tale aspetto. La contaminazione tra internet of things e tecnologie della condivisione può favorire forme di comunicazione diffusa che consentano a chiunque di personalizzare il proprio approccio alla città. Una comunicazione non imposta (l’eccesso di informazioni è un limite all’immaginario), ma accessibile ai diversi gradi di approfondimento sulla base della curiosità e della cultura dell’osservatore, Le molteplici chiavi di lettura, soprattutto nelle grandi città, favoriranno lo sviluppo di un approccio personale ai luoghi trasformando la quotidianità della permenanenza negli spazi in una fantastica avventura.

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Bibliografia Altman I and Low SM., (1992), Place Attachment. New York: Plenum. Bachelard, G.,(1964), The poetics of space. New York: Orion. (Ed. It: La poetica dello spazio, Bari, Edizioni Dedalo, 2006). Barthes R. (1964) Essais critiques. Éd. du Seuil, Paris, trad.it. Saggi critici, Einaudi, Torino 1966, 1985. Bertolotti E., Daam H., Piredda F., Tassinari V. (2016), The Pearl Diver. The Designer as Storyteller. DESIS Philosophy Talks - Dipartimento di Design, Politecnico di Milano. Bruner J.S., (2002), Making stories. Law, literature, life, Farrar, Straus and Giroux, New York (Ed. it. La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza, Bari-Roma, 2006) Buttimer, A., Seamon, D., (1980). The human experience of space and place. London: Croon Helm. Carmagnola F., Matera V. (a cura di). (2008) Genealogie dell’immaginario. Novara, Utet Università. Fracasso, L. (2013). I luoghi inquieti. Nuove tecnologie per l’arte e la città. Foggia: Accademia di Belle Arti di Foggia Hidalgo, M.C., & Hernandez, B. (2001). Place attachment: Conceptual and empirical questions. Journal of Environmental Psychology.. Lynch, K., Ceccarelli P. (a cura di 2001) L’immagine della città, Venezia, Marsilio Editori. Lo Piccolo F. (a cura di 1995), Identità urbana, Materiali per un dibattito, Gangemi Editore, Roma. Mazzoleni D.(a cura di 1985) La città e l’immaginario, Officina Edizioni, Roma. Murray J.H (1997) Hamlet on the Holodeck: The Future of Narrative in Cyberspace, Simon and Schuster, New York. Natalini A.,(2011), Costruire nella città storica. Architetture del ritrovamento in AAVV Tracce storiche e progetto contemporaneo, Gangemi Editore, Roma. Nora P. (1992), Les Lieux de mémoire, III, France, Gallimard, Paris, 1992, p. 20 Penati, A. (2009). E il Design una narrazione?. Milano: Mimesis edizioni Penati, A. (2009). Il design costruisce mondi. Milano: Mimesis edizioni Penati, A. (2009). Il design vive di oggetti-discorso. Milano: Mimesis edizioni Proshansky, H.M., Fabian, A.K., & Kaminoff,R., 1983. Place identity: Physical world socialization of the self. Journal of Environmental Psychology, 3. Rapoport, A.(1977). Human Aspects of Urban Form: Towards a Man-Environment Approach to Urban Form and Design, Urban and Regional Planning Series 15. Oxford: Pergamon Publishing. Relph, E.,(1976) Place and placelessness. Pion Limited, London.


luoghi inquieti.l’immaginario e lo spazio. • stefano follesa

Silva A G. (2021) ‘Thinkers And Innovators’: Rita J. King on how ‘The Imagination Age’ is necessary for humans to thrive, Forbes Magazine on line. https://www.forbes.com/ Tuan, Y. F. (1977), Space and Place: The Perspective of Experience. Edward Arnold, London.

Note Alcune parti di questo testo sono tratte e rielaborate da: Follesa, S.(2022). Progetto e Narrazione. Lo storytelling dello spazio pubblico in Narrare i Gruppi, Firenze, DidaPress.

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design dello spazio temporaneo Francesco Armato

Architetto, PhD, Ricercatore e Docente Direttore del Laboratorio Mediterranean Inclusive Design - MID - Lab Università Mediterranea di Reggio Calabria - ITALIA

Keith Haring’s mural “Tuttomondo”, Pisa, Italia foto Francesco Armato.

Gli spazi abitati e vissuti circoscrivono luoghi dove è possibile attivare pratiche utili per la gente che svolge funzioni sia lavorative che ricreative, attività necessarie per la vita quotidiana di tutti i giorni. Luoghi che attraverso la presenza delle persone animano la struttura di ogni città, come le strade, i marciapiedi, le piazze e tutti gli spazi dove è possibile lasciare una traccia, un segno che racconta quello che è stato e quello che è adesso. Ci sono spazi dove l’operato della comunità non ha generato luoghi, non sono riusciti a circoscrivere una “fisicità narrata” luoghi senza carattere e senza identità, vuoti urbani, un labirinto di spazi dove è difficile orientarsi e produrre fiducia e prospettive future tra la gente che vi abita, il contatto comunitario è assente, tutti si sentono estranei e chi non abita in questi luoghi non ha nessun motivo per andarci. Luoghi “spenti” che non comunicano e che non coinvolgono il passante, vuoti urbani con una assenza totale di partecipazione, luoghi che non raccontano e non trasmettono emozioni, spazi dove non si riesce a creare relazioni “Non luoghi” (Augé, 2003). Marc Augé, li paragonerebbe a dei grandi contenitori “centri commerciali, campi di profughi, bidonville …” o grandi spazi di comunicazione “autostrade, svincoli, aeroporti”, in quanto luoghi anonimi senza anima, luoghi che non trasferiscono all’utente nessuna emozione, spazi concepiti per sviluppare funzioni di passaggio, di attraversamento, spazi di contenimento temporaneo dove è impossibile creare interazione sociale. La città per essere fruibile e per svolgere una funzione sociale deve essere: “Un luogo che offre un’identità e una memoria culturale …” (Tomlinson, 1999, p.132), i “fari” dislocati nel tessuto urbano: la fontana posta all’angolo di un edificio, un monumento, una piazza ben articolata, sedute disposte e raccolte in un spazio misurato danno alla gente dei centri di riferimento identitari, dei luoghi dove conoscersi per aggregarsi per allontanare le solitudini, sentirsi partecipi alla vita del quartiere, frequentare l’altro.

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Stratificazione culturale L’identità di un luogo è la somma e la stratificazione culturale dell’agire della società su di un determinato territorio, “è infatti guidata dai valori socio-culturali che governano l’agire di una società, così come dai segni e simboli a cui questa conferisce senso; in tale ottica, può perciò essere considerato specchio delle interazioni fra una popolazione e territorio in cui vive, diventando espressioni della cultura locale e riferimento identitario per gli abitanti” (De Nardi, 2012, p. 33). I luoghi in cui viviamo influiscono sul nostro modo di essere e di vedere la vita intorno a noi, influenzano quello che sentiamo e come agiamo, sono spazi che si sono modellati insieme al nostro essere attivi e partecipi nello spazio fisico. I vuoti della città, lo spazio a cielo aperto e i contorni che lo delimitano e lo circoscrivono hanno un ruolo fondamentale nel realizzare la stratificazione culturale e l’identità di una comunità ed è importante preservarla per poter comunicare il vissuto di un determinato luogo. Per Giovanni Valtolina è la “Narrazione, i cui termini sono spaziali, visto che il dispositivo spaziale è allo stesso tempo ciò che esprime l’identità del gruppo “anche se le origini del gruppo sono spesso diverse, è l’identità del luogo che fonda il gruppo e lo unifica” e anche ciò che il gruppo deve difendere dalle minacce esterne e interne, perché il linguaggio dell’identità conservi un senso” (Valtolina, 2003, p. 161). É estremamente importante che il contesto, lo spazio fisico, la città siano dei contenitori ricchi di storia per sviluppare una buona crescita socio-culturale, il luogo come la trasformazione delle esperienze culturali. La società ha la necessità di abitare in luoghi dove l’identità del costruito sia presente, che possa raccontarsi ed essere accogliente per agevolare i rapporti con gli altri. É nei luoghi aperti pubblici che le persone si incontrano e vivono rapporti di grande vicinanza, spesso non si conoscono, sono estranei e permane il senso di sfiducia verso l’altro ed è per questo motivo che gli spazi di aggregazione devono favorire l’accoglienza, la solidarietà e annullare le differenze. Per Bauman “Gli spazi pubblici sono luoghi in cui si incontrano degli estranei, e che condensano e incapsulano le caratteristiche che definiscono la vita urbana. É nei luoghi pubblici che la vita urbana, in ciò che la distingue da altre forme di comunanza (togetherness) tra gli uomini, raggiunge la sua espressione più piena, con tutte le gioie e i dolori, le premonizioni e le speranze che la contraddistinguono” (Bauman, 2008, p. 56).


design dello spazio temporaneo • francesco armato

Outdoor Design/Art Molti sono i progetti che arricchiscono in senso identitario e di appartenenza dei nostri spazi urbani, sono interventi temporanei, spesso puntuali e di piccola scala che hanno la caratteristica di accogliere il passante ponendo un servizio, una funzione aggregativa come ad esempio, i Temporary Design, forme che esprimono solamente un’idea, un concetto, un “decoro urbano” … o come la Street Art che utilizza i muri, le facciate delle case e dei palazzi come delle vere tele fuori scala. Interventi di Urban Acupuncture fanno la differenza in quando fattibili per il basso costo soprattutto se paragonati ai progetti architettonici di grande scala. Piccoli interventi dove la comunità è partecipe e riporta la città alla scala umana. Le quinte che costeggiano i marciapiedi, le facciate dei palazzi e dei muri diventano espressione della vita tra gli spazi della città. Ribellione e quindi manifesto di un disagio, rabbia sociale o arte a scala urbana come i Writhing o i Graffiti Art che arricchiscono le periferie e i luoghi che possiedono una propria identità attraverso raffigurazioni iconografiche mutate dalla cultura popolare di massa, fumetti, segni... per ridare anima e vitalità a pezzi di città che l’hanno persa o che non l’hanno mai avuta. La facciata, il muro diventa il luogo del racconto urbano, elemento importante per chi vive quel luogo dove l’individuo assume il ruolo di attore-spettatore all’interno della scena urbana. Intervenire su di uno spazio o una parete è un modo di comunicare con tutti senza nessuna differenza sociale, lo spazio tra le fisicità che prima era assente assume la sua conformazione comunicativa trasformandosi in luogo attivo. Andy Warhol era pienamente convinto che la Street Art fosse un modo per far uscire l’arte fuori dai musei, dalle gallerie, portare l’opera in strada anche a colui che è distratto, indifferente e poco sensibile all’arte stessa, un modo colto per educare il grande pubblico. Basquiat nel 1978 dipinge e disegna gli spazi che delimitano le vie di New York, arte che arriva dalla strada e dalle emozioni vissute, Warhol continua la naturale popolare evoluzione della Pop Art. Con Basquiat i graffiti che utilizzavano la parete come supporto su cui dipingere, cambiano la struttura classica di espressione sociale. Negli anni ottanta, Warhol e Basquiat, insieme, realizzano diverse opere, si passa dalla strada alla galleria ma l’impulso energetico è la parete, una pittura fatta d’istinto, i segni primitivi si miscelano con la serigrafia, la voglia di pensare e di fare, esprimere il momento, l’attimo dello stato d’animo. Negli anni successivi a Basquiat si vedono i murales di Keith Haring in diversi paesi de-

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gli USA, i suoi lavori trasmettono messaggi attraverso segni grafici, un mix di simbolismo fra arte di strada e Cartoon, un linguaggio molto personale e molto potente che delinea il carattere e l’esplicità semplice e diretta di Haring. Comunicare e trasmettere agli altri, a tutti, il suo momento storico che stava vivendo nel bene e nel male, il bello e il brutto della società: amore, condivisione, disagio, rabbia, esclusione sociale… Haring aveva un sogno: l’arte come rinascita dei quartieri popolari degradati. Un murales che in quegli anni fa la storia è Crack Is Wack, un significato molto forte e preciso, il Crack (la cocaina che viene sciolta e fumata) Is Wack (nella forma gergale significa non è buona). Il murales è collocato su una parete di un campo da basket ad Harlem, New York, un quartiere afro-americano con grandi difficoltà sociali ed economiche. Per molte persone la Street Art è un atto orribile e un attacco sociale, è sporcare e rendere lo spazio urbano esteticamente disordinato. É importante capire la reazione degli abitanti che condividono nello stesso quartiere e nella stessa città interventi come la Street Art, i murales e i graffiti; una scrupolosa ricerca è stata condotta da Tyffany Renée Conklin nel 2012, ha intervistato la gente ed ha analizzato i luoghi dove l’arte di strada è più diffusa, le opinioni si basavano sul gusto personale e sul proprio senso di concepire l’arte, una differenza dettata da culture visive. L’arte di strada è un modo di “imbrattare” i muri e le facciate dei palazzi in modo strutturato e intelligente, chiaramente quando esiste un progetto, una pianificazione, dove e come intervenire. Un fenomeno che ha origine in America e che negli ultimi anni ha visto coinvolte moltissime città europee e non solo, importante è capire il concetto di rivitalizzare “quartieri spenti”, sia quando l’opera è in fase di realizzazione sia quando è finita. É significativo vedere l’energia che si attiva quando il murales è in Workprogress; la curiosità di come sarà dopo e la voglia di conoscere gli altri spinge abitanti e passanti a fermarsi e a partecipare attivamente, sia a livello emotivo sia aiutando gli artisti nel momento della realizzazione dell’opera. Progettare, disegnare sulle quinte che si affacciano su spazi abbandonati e sulle strade, sprigiona nella comunità una energia che porta la gente a creare gruppi operativi, a conoscersi, e spesso a dare consigli su come proseguire l’opera stessa. É la “Start-Up” di un grande momento storico, di condivisione in luoghi e spazi dove prima venivano solamente utilizzati per spostarsi da una parte all’altra della città, luoghi di transito, sentirsi partecipi li rende parte integrante dell’evento, essere a


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casa, vedono gli artisti che si occupano dei loro spazi per renderli più “vivaci”, per dare dignità, identità, arte e cultura in luoghi dove prima non c’era nulla, in alcuni casi il vuoto assoluto. Si formano gruppi spontanei di cittadini per progettare insieme agli altri e sperano che quel seme fatto di colori, di segni e di simboli, spalmati sulle superfici murarie possa essere un nuovo inizio per condividere i nuovi spazi del proprio quartiere e trascorrere un nuovo quotidiano. La Street Art così come i Temporary Design, Tatical Urbanism, Pop Up, … modificano la visione fisica del contesto abitato e l’aspetto economico immobiliare del luogo rivitalizzato, in modo veloce e a basso costo. Interventi che stimolano il mercato immobiliare, ma il valore aggiunto è che inizia un processo di benessere, accendere il “faro” nel quartiere, un segnale importante per la comunità, creare cittadinanza attiva dove condividere momenti di vita e forgiare nuove idee, dire la propria, esserci, così come il progetto Pinacci Nostri nel quartiere Pineta Sacchetti a Roma, è significativo che in uno dei tanti murales si ripete in sei lingue: “Muro pulito, popolo muto” (Nesti, 2017). Real Network Oggi il benessere dell’organismo urbano si ottiene con il pianificare insieme ai cittadini tanti piccoli progetti ubicati su tutto il territorio-città. Negli ultimi anni è interessante notare l’impegno di molte amministrazioni locali che insieme ai propri cittadini, designers e artisti si occupano di migliorare lo stato dei luoghi abbandonati o non utilizzati delle città. L’intendo è far crescere “un ciuffo d’erba” sperando che possa contaminare le aeree limitrofe per far crescere un “campo verde” dove trascorrere del tempo insieme agli altri, creare una Real Network. Nella stessa misura si pone l’architetto finlandese Marco Casagrande quando esprime la sua idea: “la pianificazione della città è concepita come un divenire di episodi e processi che messi insieme ne fanno l’evoluzione e la ricchezza” (Casagrande, 2018). Scambiarsi idee in spazi comuni, riappropiarsi della spazialità affettiva, per Christian Norberg-Shulz è importante per vivere in modo sano la quotidianità, riconoscere e riconoscersi nei luoghi dove si abita: “Per acquisire nel vivere un punto sicuro di appoggio, l’uomo deve essere capace di orientarsi, deve cioè conoscere dove egli è, ma deve essere anche capace di identificarsi con l’ambiente, il che significa sapere come è un certo luogo”. (Norberg-Schulz, 1979, p. 19).

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Gli interventi di Tactical Urbanism così come gli interventi di Street Art possono essere punti nodali, riferimenti all’interno del tessuto urbano, nodi, luoghi strategici dove l’osservatore si sente partecipe con il contesto. Le aree pensate, strutturate e progettate per piccoli punti, ma di grande respiro identitario per essere riconosciuti, una fontana, un Murales, la spazialità formata da una vegetazione articolata e dettagliata dalle diverse culture, fisicità, odori e colori hanno sempre realizzato un ottimo sistema di orientamento. Per Kevin Lynch “Una buona immagine ambientale dà al suo possessore un senso di profonda sicurezza emotiva. Gli consente di stabilire tra sé e il mondo circostante una relazione armoniosa. Questa costituisce un sentimento opposto allo smarrimento di chi ha perso l’orientamento” (Lynch, 2001, p. 26); per Gaston Bachelard il senso di benessere viene “innescato” da un luogo: la rêverie, un’atmosfera sognante o un paesaggio sognante. La città senza riferimenti fisici e attrazione sociale può creare smarrimento psicologico e disagio sociale, si perde il senso di appartenenza al territorio e alla comunità stessa. Rivitalizzare la città con interventi puntiformi, collocare piccoli nuclei di aggregazione nei punti nevralgici della struttura del territorio-città, significa abbattere quel senso comune che il centro cittadino è migliore dell’estrema periferia, questi interventi di Outdoor Design possono annullare la concezione del meglio riferito alla fisicità urbana, in modo che le due porzioni di città si presentino ai nostri occhi/sensi diverse senza che una parte prevalichi l’altra. Il recupero degli spazi urbani: ogni luogo deve avere una sua riconoscibilità per svolgere una funzione che possa essere utile per il quartiere, avere una sua identità fatta di spazi o una rappresentazione d’immagini che raccontano il quotidiano, una stratificazione di conoscenza che rende lo spazio unico. É giusto che qualsiasi spazio della città abbia una sua dignità di esistere, di essere accettato e di essere frequentato dalla comunità, ciò accade se uno spazio ha un ruolo, una funzione, uno spazio abbandonato a se stesso rischia di non essere più frequentato e di non esprimere nessuna funzione, mancando sicurezza la criminalità se ne può appropriare per svolgere le sue attività illecite. Gli spazi non utilizzati all’interno della città creano disagi sociali, si creano dei “buchi neri”, rendendo il quartiere un luogo meno sicuro, e mancando sicurezza la criminalità se ne può appropriare per svolgere le sue attività illecite; statisticamente si è visto che i residenti, soprattutto di sesso femminile, in alcune ore della giornata e per motivi di sicurezza fanno dei per-


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corsi più lunghi e più faticosi per tornare a casa, hanno timore di passare in prossimità dei luoghi abbandonati. Luoghi fisicamente accoglienti, organizzati con aree per la sosta come i Parklets accolgono la gente e diventano luoghi frequentati garantendo un controllo sociale, “l’occhio sulla strada” (Jacobs, 2009); la presenza degli abitanti, per Jane Jacobs assicura una sorveglianza spontanea e costante sullo spazio pubblico. Intervenire in uno spazio pubblico aperto in città significa creare un luogo, “una grande stanza a cielo aperto dove si può chiacchierare, bere un drink, leggere o prendersi cura di orti e alberi da frutta, godendo della presenza della fauna selvatica”(Armato, 2017); ogni quartiere deve avere il proprio angolo-incontro e la propria identità.

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Bibliografia De Nardi, A. (2012). Paesaggio, identità e senso di appartenenza ad un luogo: indagine tra gli adolescenti italiani e stranieri. AGEI, Rivista geografi italiani. Schulz, C. N. (1979). Genius Loci, ambiente paesaggio architettura. Milano: Electa Valtolina, G. G.(2003). Fuori dai margini, esclusione sociale e disagio psichico. Milano: Franco Angeli Jacobs, J. (2009). The Death And Life Of Great American Cities, Vintage Books, New York 1961, trad. it. Vita e morte nelle grandi città. Torino: Enaudi Tomlinson, J. (1999). Sentirsi a casa nel mondo. Milano: Feltrinelli Lynch, K. (2001). L’immagine della città. Milano: Marsilio Editori Conklin, T. R. (2012). Street Art Ideology And Public Space, Master of Urban Studies. Portland Oregon: Portland Stante University Bauman, Z. (2008). Vita liquida. Bari: Laterza editori Sitografia Nesti, C. (2017). Un murale ci salverà, "Pinacci Nostri Street Art dal basso", 13-09-2017, Roma, http://www.pinaccinostri.org/index.php?page=approfondimenti&id=1, (consultato il 02-04-2018) Armato, F. (2017). 100 pocket parks per Londra, in "Il giornale dell’architettura.com", 28-03-2017, Torino, http://ilgiornaledellarchitettura.com/web/2017/02/28/100-pocket-parks-per-londra/, consultato 28-03-2017 Casagrande, M. (2018). Needle e l’agopuntura urbana, "NeedleAdmin", 20-03-2018, Milano, http://needlecrowd.com/blog-agopuntura-urbana, consultato il 06-04-2018



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street art. il “senso di luogo” nello spazio urbano di firenze Peian Yao, Anqi Cheng

Gruppo di Ricerca Laboratorio di Design degli Spazi di Relazione Dipartimento Dida, Università degli Studi di Firenze - ITALIA

Poesia nella strada di Firenze.

Introduzione Uno spazio diventa luogo quando si associa ai valori emotivi delle persone, alle memorie, alle azioni e al senso di appartenenza È una forma di interazione che trascende l’esistenza oggettiva in un contesto specifico, trasportando nello spazio le esperienze sensoriali e le percezioni emotive delle persone. Come afferma il teorico norvegese Christian Norberg-Schulz “Il genius loci è una concezione romana: secondo una antica credenza ogni essere ‘indipendente’ ha il suo “genius”, il suo spirito guardiano. Questo spirito dà vita a popoli e luoghi, li accompagna dalla nascita alla morte e determina il loro carattere o l’essenza.” (Norberg-Schulz, 1979, p. 18). In una fase storica dominata dalla lotta col tempo, l’efficienza dei trasporti e la zonizzazione funzionale diventano obiettivi primari della pianificazione mentre si riducono le possibilità di interazione sociale e la dimensione pubblica della nostra vita viene costantemente spogliata. Allo stesso tempo, le trasformazioni urbane danno vita a nuovi centri commerciali, torri per uffici e student hotel, che invadono e comprimono lo spazio urbano, mentre le culture urbane locali e le memorie spaziali vengono di giorno in giorno cancellate, schiacciate dalla macchina edilizia e inghiottite dal paesaggio urbano. La perdita di carattere urbano, l’indebolimento del significato spaziale, e altri problemi contigui emergono, rendendo sempre più fragile la relazione tra lo spazio urbano e le persone. Lo spazio urbano, privato del senso di appartenenza, sta gradualmente cancellando il suo “spirito di luogo”. Di contro molte persone guardano ai patrimoni storici e culturali delle città quali possibili risposte al placemaking. “The medieval town square or Italian piazza cannot provide models of function to emulate, although they may offer important lessons in form, such as height-towidth ratio, sense of enclosure, and furnishing to enhance use” (Marcus & Francis, 1997, p. 1). È chiaro, tuttavia, che la sola presenza di emergenze storiche non è sufficiente per generare forme di interazione con lo spazio pur essendo oggi chiaro un rapporto di relazione tra vitalità spaziale e attratività culturale urbana. peian yao, anqi cheng


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La personalità e l’identità di una città sono inseparabili dall’arte di strada spesso radicata nella sua storia sociale e culturale ed elemento costituente dell’identità. Come ‘luogo in cui è nato il Rinascimento’, il fascino urbano di Firenze non si trova solo nelle opere d’arte presenti nei musei, ma una dimensione urbana del patrimonio culturale affianca e completa tali presenze nella definizione identitaria della città. Artisti che dipingono negli spazi attigui al Duomo, performance musicali nella Piazza della Repubblica, graffiti e poesie sui muri degli edifici e persino sugli sportelli dei contatori dell’acqua, così come varie forme digitali di arte pubblica, rivelano un’immagine vibrante della Firenze contemporanea. La gente per strada aspetta, saluta e passa, e l’arte di strada accompagna il loro respiro, e racconta generosamente la storia di una memoria cittadina che è unica. Ogni opera d’arte porta con sé una possibilità di emozione personale e di riflessione, apre una finestra in nome dell’arte, ispirando curiosità e partecipazione, promuovendo il dialogo con lo spazio ed empatia emotiva con le persone “É la Start-Up di un grande momento, di condivisione in luoghi e spazi dove prima venivano solamente utilizzati per spostarsi da una parte all’altra della città, luoghi di transito, sentirsi partecipi li rende parte integrante dell’evento, essere a casa, vedono gli artisti che si occupano dei loro spazi per renderli più ‘vivaci’, per dare dignità, identità, arte e cultura in luoghi dove prima non c’era nulla, in alcuni casi il vuoto assoluto”(Armato, 2020, p. 44). Le opere d’arte di strada sono come episodi d’arte incorporati nelle strade che si uniscono per attivare lo spirito del luogo. L’arte di strada nello spazio fisico Gli spazi urbani di Firenze sono ricchi di significati culturali. È un ambiente in cui gli aspetti visivi e tattili si sviluppano e collaborano alla definizione dell’immaginario dello spazio urbano. Le persone possono costruire un’idea della città partendo da uno qualsiasi di questi riferimenti culturali. Per esempio, dai nomi delle strade della città (Roberts, 2008); dalle pietre e dalle statue della città (McCarthy, 2006); dalle vetrine sulla facciata dell’edificio (Corsini & Giordano, 2021); interpretando la società storica attraverso la pittura (Baxandall, 1988); dall’evoluzione dei manufatti della città (Levey, 1998); persino dai testi dei film (Forster, 1955), e così via. Pittori contemporanei, poeti, designer, musicisti e personaggi letterari in questa città hanno collaborato per costruire una connessione tra lo spazio cittadino e le persone nelle strade attraverso la poesia, i graffiti, la performance e la pittura di strada, la segnaletica stradale e altri mezzi. L’arte di strada è una potente manifestazione della cultura contemporanea nello spazio urbano di Firenze, esprimendo la sensualità in modo divertente, stimolante e senza pretese.


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Poesie e testi La quantità di poesie affisse sui muri è uno spettacolo per le strade di Firenze, qualcosa che non si è mai visto altrove. I muri antichi erao cosparsi di parole - poesie meticolosamente composte. Avvicinatevi al foglio bianco affisso al muro: Rifugio lentamente ci chiudiamo come ricci e ci perdiamo nei ricordi, quelli che hanno lasciato il segno Questa poesia, scritta durante la recente pandemia, comunica uno stato d’animo diffuso e condiviso. In questo modo il poeta riesce a trasmettere l’atmosfera della città durante il periodo del cambiamento. Queste poesie sul muro sono state stampate e affisse da un’organizzazione chiamata MEP Movimento per l’Emancipazione della Poesia; il nome dell’organizzazione e il suo sito web si trovano solitamente in fondo al foglio bianco in cui sono stampati i versi. Il MEP, fondato a Firenze nel marzo 2010, è un movimento artistico dedicato alla diffusione della poesia. I poeti coivolti sono spesso anonimi, elevando in tal modo la poesia al di sopra del poeta. Spesso si tratta di brevi frasi affisse su un muro ai margini della vetrina di un negozio. Nel centro della città, vicino al Borgo degli Albizi, la vetrina di un negozio di abbigliamento recita questa frase: “ Vorrei fare con te cio’che la primavera fa con i ciliegi.” P.N. L’attenzione del pubblico è attirata dalle parole e rimanda al loro significato e determina una interazione con lo spazio filtrata dai sentimenti e dallo stato d’animo del singolo. Graffiti Durante una passeggiata in città le opere dei graffitisti si fondono con l’architettura storica in un dialogo tra passato e presente. Gli artisti contemporanei usano i graffiti per comunicare le loro riflessioni sulla società e le loro personali convinzioni sulla vita. Sulla strada per la città, c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire.

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A Firenze le opere di Exit/ Enter sono tra le più sorprendenti e intriganti. Exit/ Enter usa dei tratti neri, come di un carboncino, per declinare il tema di un omino in fuga appeso a un filo, e spesso incorpora accenti rossi, in particolare sotto forma di cuori o palloncini. La piccola figura sale una scala infinita verso il cielo o vola via appesa ai palloncini. I disegni interagiscono con le caratteristiche fisiche delle pareti su cui si collocano ed esprimono una dichiarazione, una riflessione su grandi temi quali il “senso della vita” che determina l’interazione con lo spazio. Per le strade della città è difficile non essere attratti dai disegni di personaggi famosi che indossano strani occhiali da sub. Firmate con il nome di Blub, si trovano spesso sulle porte metalliche dei contatori del gas o dell’elettricità. Sono dipinte in blu, con una combinazione di bianco e nero; rappresentano spesso figure famose tratte dai dipinti classici (per esempio, la Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci, la Venere di Botticelli o il ritratto di Salvador Dali). Le figure indossano maschere da sub e nuotano sott’acqua. Un articolo del sito IgersItalia intitolato Blub e L’arte sa nuotare su Instagram descrive questo misterioso artista. Il suo intento è infatti quello di rendere pubblica e accessibile l’arte, “farla scendere dai pedistalli” dei musei e avvicinarla quanto più possibile a tutti, perché l’opera doni qualcosa: emozione, un sorriso, ricordi o semplicemente un interessamento all’arte stessa”. Altri street artists quali Hopnn Yuri, Guerrilla Spam, Urban Solid, Carla Bru, Lediesis hanno opere nei muri e nelle strade della città. Segnali stradali e comunicazione visiva Segnali stradali modificati dalle azioni estetiche di un artista si trovano in tutto il centro storico della città: in un cartello un uomo sta tagliando le strisce bianche di un attraversamento “No Passing”, un altro cartello è stato parzialmente mangiato da un Pac-Man. L’artista, Clet Abraham, usa la segnaletica stradale come nuova forma di street art urbana. I temi del suo lavoro variano da quelli che esprimono una tensione etica, a quelli che operano in una dimensione ludica. Queste opere aggiungono nuovi significati al ruolo funzionale originale del cartello stradale pur mantenendone la sua praticità, ma arrichendolo di un interesse intellettuale, spirituale o semplicemente ludico. Clet ha creato una nuova forma di arte di strada. Oltre ai cartelli stradali, nel 2011 l’artista è l’autore di una scultura sul Ponte alle Grazie, L’uomo comune che salta dal ponte sull’Arno.


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Musicisti di strada e “madonnari I musicisti di strada contribuiscono significativamente all’impatto complessivo di Firenze sui viaggiatori e sui passanti. Passeggiando per le strade e piazze della città la cultura musicale è disseminata nei principali spazi: Piazza della Repubblica, Piazza della Ponte, Piazza Michelangelo, la Galleria degli Uffizi, Piazza della Signoria, piazza di Santa Trinita, piazza Santa Maria Novella e piazza di San Lorenzo. La maggior parte delle attività di strada attirano una grande folla. Gli spettacoli musicali cancellano qualsiasi senso di “estraneità” rispetto alla città, i viaggiatori ne vegono assorbiti quanto i residenti. Circondati da architetture ed espressioni d’arte tra le più significative al mondo, si è al contempo circondati dlla diversità dei suoni e delle lingue espresse da artisti delle diverse aree del mondo. Tutto questo culmina in un’esperienza coinvolgente e piacevole; una manifestazione di legame tra spazio e percezione. “When people are together in a place, they do not deprive others of space but rather they amplify their perception by providing a ‘sensory’ support” (Yao & Follesa, 2020, p. 421). L’arte di strada ha molte forme di espressione. Lungo la Via Calimala nel centro della città, gli artisti dipingono sulle lastre del pavimento. “Madonnari” è l’espressione usata per questo tipo di attività, che si può tradurre come “pittori di strada”. I madonnari usano principalmente pastelli e gessetti per dipingere le strade, i marciapiedi, il cemento, i sampietrini e altre superfici. Si ritiene che questa particolare “forma d’arte” abbia avuto origine in ambito mediterraneo; sia nata in Italia durante il XVI secolo e inizialmente impiegata come pittura devozionale fuori dalle chiese e sulle strade (riferimento a Wikipedia). Oggi, i madonnari di Via Calimala replicano dipinti di Botticelli, Caravaggio, Leonardo da Vinci e Michelangelo, tra gli altri. Queste performance artistiche attirano costantemente grandi folle. Street art digitale Negli ultimi anni, l’esplosione delle tecnologie dell’informazione (TIC) sta profondamente influenzando la vita quotidiana delle persone, i rituali sociali e l’interazione. La diminuzione di costo e la grande diffusione dei terminali ha permesso al digital placemaking di passare dalla sperimentazione scientifica alla realtà quotidiana delle persone. Le tecnologie digitali possono oggi aiutarci a condividere e scambiare informazioni su una scala e con una velocità senza precedenti; le funzioni e i valori degli elementi narrativi della città devono, in tal senso, essere ripensati e riesaminati. Il Placemaking mira a creare un’esperienza emotiva nello spazio, interconnettendo intenzioni e forma spaziale attraverso eventi e attività. Creare luoghi non significa creare artefatti

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fisici, e la street art digitale è una manifestazione artistica che non assume dimensione fisica ma è immateriale ed è più resiliente e sostenibile grazie al minimo intervento nello spazio fisico e al costo relativamente basso di rinnovo e sostituzione. Come forma di espressione artistica, dominata dalla percezione emotiva e dall’esperienza ambientale, l’arte urbana digitale è in grado di sfruttare una varietà di risorse locali, ispirazione e potenziale, mobilitando molteplici esperienze sensoriali e fornendo un territorio di intervento per l’iniziativa individuale e la creatività, l’accessibilità e la partecipazione. Il placemaking digitale è senza dubbio più consono soprattutto alla Generazione Z, attualmente la più attiva sui media social; il suo approccio dinamico e interattivo è in linea con la le aspettative di una generazione continuamente alla ricerca del nuovo. Allo stesso tempo, le opere d’arte combinate con AR (realtà aumentata) e altri mezzi multimediali hanno una dimensione sociale più forte e maggiori probabilità di incidere sulle emozioni personali e di essere diffuse tra la collettività. Lo sviluppo digitale non porta solo progressi tecnologici, ma anche cambiamenti nei nuovi modi di interagire con lo spazio. Offre nuove prospettive per dare significato allo spazio, e la digital street art dà energia allo spazio pubblico rafforzando la connessione tra le persone e lo spazio, arricchendo la memoria collettiva dei luoghi e promuovendo la coesione collettiva. L’emergere dell’arte digitale supportata dalle “smart technologies” sta rimodellando lo “spirito del luogo” in un modo completamente nuovo. Festa della luce digitale Giunto al suo ottavo anno dal 2015, il Firenze Light Festival F-LIGHT offre un esempio di successo di digital placemaking. Come suggerisce il nome, l’evento utilizza la tecnologia digitale multimediale per presentare giochi di luce e video mapping, installazioni luminose e proiezioni, combinate con una serie di visite guidate, laboratori e altre attività didattiche che portano i visitatori in un volo di immaginazione tra la piazza della città e il cielo, tra tecnologia moderna e cultura storica. Il tema del 2021 è stato “Riflessioni. Dove siamo, dove andremo”. l’iconico video mapping sul Ponte Vecchio è una proiezione sul tema delle “riflessioni”, le proiezioni sulla facciata del Museo Galileo e della Camera di Commercio presentano una visione della Divina Commedia come specchio della condizione umana, e l’installazione sul fianco della Basilica di San Lorenzo presenta un collage di stilemi che si snodano tra il passato mitico di Narciso e riflessioni legate alla contemporaneità. Le divertenti attività interattive basate sul tema della luce coinvolgono anche la più ampia comunità di bambini, permettendo loro di scoprire il valore e la ricchezza dei dettagli architettonici e storici che si


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nascondono all’interno. Le luci illuminano l’edificio e la piazza, e le tracce lasciate dal tempo sulla storia. Il festival F-LIGHT si apre in un modo nuovo, ridefinendo i siti storici nell’era della tecnologia, raccontando la cultura in un linguaggio narrativo digitale, fornendo un’esperienza immersiva di scene storiche negli spazi urbani e permettendo ai cittadini di godere di una performance di arte pubblica urbana che combina estetica visiva e tecnologia scientifica. È anche una risposta positiva da parte dell’arte per ripristinare la fragile connessione emotiva tra lo spazio e le persone sulla scia della pandemia. Digital graffiti In contrasto con i tradizionali graffiti di strada, i graffiti digitali stanno plasmando il “senso del luogo” della città in un modo digitale e sostenibile. “ Da secoli conserviamo capolavori: da oggi le scritte sui muri saranno subito rimosse, ma se ci lasciate il vostro messaggio digitale lo conserveremo per sempre”. È il messaggio che i visitatori troveranno all’ingresso della Cupola del Duomo. I visitatori sono stati invitati a creare graffiti digitali sul tablet, dove le persone potevano scegliere diversi sfondi (come pietra o mattoni) e diversi strumenti di scrittura (dalle penne alla vernice spray). Le testimonianze e le libere creazioni lasciate da questi visitatori saranno stampate e, insieme all’atto di nomina di Brunelleschi alla costruzione del Duomo di Firenze, verranno salvati per sempre nell’archivio storico dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Più di 18.000 graffiti digitali e l’apparente riduzione del vandalismo sui muri della torre del XIII secolo provano senza dubbio che i graffiti digitali sono un pezzo di arte pubblica ben accetto e un modo creativo per fermare la distruzione di un patrimonio storico inestimabile. L’intervento dell’arte digitale connette persone e luoghi in un’altra dimensione, espandendo il modo in cui le persone sperimentano lo spazio fisico. I graffiti digitali, raccolti dall’archivio, danno ai visitatori l’illusione di viaggiare nel tempo e nello spazio, portandoli infinitamente più vicini emotivamente al contesto storico della cattedrale, permettendo a storie personali e fili storici di intrecciarsi e a un senso di identità e di appartenenza di emergere. Design e senso del luogo Nel contesto del design, il concetto di spazio urbano assume oggi nuovi significati. Gli elementi culturali della città costruiscono atti significanti, modellano relazioni e raccontano la storia dei luoghi e delle società. Hanno un ruolo importante nel formare le nostre percezioni e influenzare le azioni delle persone nello spazio. “Places are an essential part of our heritage and of our emotional world”(Follesa, 2019, p. 37). I progettisti dovrebbero considerare il significato insito nei testi apparentemente caotici dello spazio urbano e la loro connessione al

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progetto. Veicolano una visione interattiva che può essere guida per il design degli spazi. I testi culturali e gli elementi percettivi negli spazi urbani sono importanti indicatori per le attività di progettazione negli spazi urbani. La relazione tra gli elementi umanistici e percettivi nello spazio urbano e il senso del luogo nella città è positiva.

La relazione tra elementi di design e senso del luogo

Lo spazio urbano serve una moltitudine di funzioni, serve anche come mezzo per raccontare, esprimere e trasferire prospettive e informazioni. Pensare strategicamente al design in questa dimensione permette la trasmissione e la sostenibilità della diversità culturale nella città, contribuendo alla prosperità culturale e alla coesione sociale. Quando è combinato con l’uso delle moderne tecnologie di comunicazione (ICT), il design può contribuire a ristabilire un rapporto perduto con il luogo. La connessione tra ICT e Internet of Things ha il potenziale per diventare un nuovo strumento narrativo per la città contemporanea, che ci connette al luogo attraverso l’interazione dinamica con le persone. Connette il mondo fisico e quello digitale e ci permette di evolvere la nostra interazione con l’ambiente urbano in un modo nuovo e continuo. Conclusione Il sito web www.firenzeestretart.com è stato ideato per mostrare e promuovere i luoghi creativi e produttivi dell’arte di strada a Firenze, incorporando e ampliando un


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precedente lavoro del comune che esaminava l’arte sotterranea di Firenze. Espressioni alternative di comunicazione, come la street art, i digital graffiti, la musica nelle strade o la poesia di strada, promosse dai nuovi movimenti culturali fiorentini, dimostrano quanto abbiamo bisogno di raccontare e coinvolgere gli utenti in un rapporto rivitalizzato con lo spazio urbano. Queste epressioni culturali funzionano come finestre che rivelano i segreti di una città; finestre che coinvolgono e modificano le percezioni e la sensibilità degli utenti verso lo spazio urbano.

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Bibliografia Armato, F. (2020) Gli spazi della gente in città in Narrare i Gruppi, 15(1), pp. 29-47. Baxandall, M. (1988). Painting and experience in fifteenth century Italy: a primer in the social history of pictorial style. Oxford: Oxford Paperbacks. Borries, F. V. (2016). Project the World. Towards a Political Theory of Design. Berlin: Suhrkamp Verlag. Borsheim, K. (2011). My Life as a Street Painter in Florence Italy. California: CreateSpace Independent Publishing Platform Corsini, D. & Giordano, L. (2021). WINE WINDOWS in Florence and Tuscany. Firenze: Edizioni BDV. Ferrati, R. (2014).’Exit/Enter, lo street artist fiorentino! in TOC TOC FIRENZE, 11 Settembre [online]. Available at: https://www.toctocfirenze.it/exit-enter-lo-street-artist-fiorentino/ Follesa, S. (2019). Telling stories. New technologies and city narrative, in Bisson, M(ed.) 3rd International Conference on Environmental Design - Conference proceedings. Marsala: Palermo University Press, pp. 35-41. Forster, E. M. (1955). A room with a view. Harmondsworth: Penguin. Gehl, J. (1987). Life between buildings. New York: Van Nostrand Reinhold. Levey, M. (1998). Florence: a portrait. Cambridge: Harvard University Press. Marcus, C. C. & Francis, C. (Eds.) (1997). People places: design guidlines for urban open space. Canada: John Wiley & Sons. McCarthy, M. (2006). The Stones of Florence and Venice Observed. London: Penguin UK. Meledandri, S. (2014). ‘Blub e “L’arte sa nuotare” su Instagram’. IgersItalia, 5 Agosto [online]. Available at: https://www.igersitalia.it/street-artist-blub-progetto-arte-sa-nuotare-su-instagram/ Norberg-Schulz, C. (1980). Genius loci: towards a phenomenology of architecture. New York: Rizzoli. Paquin, A. G. (2019). ‘Public data art’s potential for digital placemaking’. Tourism and Heritage Journal, 1, pp. 32-48. Roberts, M. (2008). Street Names of Florence. Firenze: Coppini tipografia. Solis, N. A. (2017). ‘Street Art in Israel and Palestine: The Significance of Art on the Streets of Jerusalem, Tel Aviv, and Bethlehem’. Rothberg International School, Hebrew University of Jerusalem, 19 June.


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Waclawek, A. (2011). Graffiti and Street Art. New York: Thames & Hudson Ltd. Yao, P., Follesa, S. (2020). The soul of the space in Perriccioli, M., Rigillo, M., Ermolli, S. R., Tucci, F. (ed.alt) Design in the Digital Age. Technology, Nature, Culture. Rimini: Maggioli Editore, pp. 420-423. Sitografia https://mep.netsons.org/statuto/ https://thekeypoint.org/2015/06/30/my-life-as-a-street-painter-in-florence-italy/

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la biomimetica come rimedio alla transizione spaziale Martina Corti, Paria Bagheri Moghaddam

Gruppo di Ricerca Laboratorio di Design degli Spazi di Relazione Dipartimento Dida, Università degli Studi di Firenze - ITALIA

Silkworm pavillion, Neri Oxman, MoMa.

Per numerosi secoli, la transizione urbana ha assunto un ruolo fondamentale rappresentando uno dei requisiti primari per il miglioramento qualitativo della vita umana. Attraverso immaginazioni creative e senza precedenti, l’umanità ha da sempre creato nuove economie basate sul cibo e sull’acqua, con conseguenti insediamenti e sistemi amministrativi. Con il sopraggiungere della globalizzazione, attraverso nuovi fenomeni globali emergenti - come il cambiamento climatico, il riscaldamento globale e la migrazione di massa - le città sono così divenute il luogo prioritario di residenza. Tra metà della popolazione mondiale che vive ormai in aree urbane e fattori specifici a cavallo tra la transizione rurale ed urbana, le città sono diventate la base di quello che può rappresentare una speranza per una futura trasformazione dei fenomeni globali, il tutto al fine di maggiori opportunità di crescita. Tuttavia questa transizione, anche se divenuta fattore oramai d’emergenza, non viene però affrontata come una concreta modalità di forza maggiore. Difatti, attraverso un’attenta analisi basata su oltre 200 città ed indagando il rapporto tra le strategie - atte ad affrontare il cambiamento climatico a livello urbano - e tra le politiche nazionali ed europee, Heindrich ed altri autori (2016) hanno constatato che solo il 23% ca. delle città mondiali ha applicato strategie di adattamento. La transizione urbana, intesa come catalizzatore del cambiamento, ha bisogno così di un ulteriore processo di sviluppo e trasformazione. La specificità di maggiore interesse può essere comunque riscontrata nel fatto che, ad oggi, quasi tutti i designer sono convinti di poter cambiare il mondo; tuttavia, se i designer su scala di massa decidessero di cambiare il mondo, questo processo richiederebbe un’unificazione del sistema globale. A questo scopo, occorre valutare nuove metodologie tenendo conto dei cosiddetti sistemi naturali per affrontare le future problematicità. Nel presente lavoro verranno indagate quelle metodologie di trasformazione spaziale che finora hanno dimostrato non solo la loro fattibilità economica, ma anche la loro capacità di essere reputate strumenti efficaci al fine di un miglioramento qualitativo di vita in un determinato contesto socio-ecologico. Nell’era dell’Industria 5.0, partendo dall’Agopuntura e dalla m. corti, p. bagheri moghaddam


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Bio-agopuntura Urbana, spaziando dall’adattamento biofilico e definendo la transizione biomimetica, definiremo così l’adattamento della progettazione urbana biomimetica e gli strumenti di trasformazione urbana come operazioni non solo inevitabili, ma come fattori specifici e determinanti di uno stato integrativo urgente. Il Design biofilico: un approccio progettuale Il Covid-19 ha costretto le persone a vivere in spazi abitativi limitati per lunghi periodi di tempo e ciò ha accresciuto quelle che ormai rappresentano vere e proprie barriere psicologiche riscontrabili in nervosismo, ansia e/o depressione. Durante la pandemia, una delle osservazioni scaturite maggiormente è stata inerente ad un possibile approccio a tutte quelle soluzioni verdi in grado di determinare nuovi processi di progettazione. Difatti, attraverso il Design biofilico si è in grado di determinare un notevole miglioramento dello stile di vita delle persone, partendo dall’analisi dei luoghi, creando ambienti costruiti più vivibili e pieni di elementi che rimandano alla natura umana; si afferma così l’ipotesi biofilica per eccellenza: l’affiliazione dell’uomo agli elementi naturali. Come Soga e Gaston (2016, pp. 95-96) menzionano nel loro libro ‘Extinction of experience: the loss of human–nature interactions’: “we still show inherited earlier adaptations that make us likely to function well when we are exposed to natural environments”. Tuttavia, le residenze, soprattutto nelle aree urbane, non vengono definite in modo tale da darci possibilità d’interazione con il mondo naturale esterno. Kellert afferma che, una volta che si è al coperto, è abbastanza difficile uscirne; ciò viene dichiarato apertamente facendo riferimento ad un’adeguata metafora relativa agli spazi con cui interagiamo: questi spazi, riferiti alle condizioni di lavoro ed intesi come gli spazi di vita privi di elementi sensoriali, non sono altro che paragonabili ad una gabbia umana all’interno di uno zoo (Kellert & Calabrese, 2015). Durante l’epidemia da Covid-19, come mai prima in questo secolo, abbiamo infatti percepito gli spazi abitativi come vere e proprie gabbie create per noi stessi. Le nostre case, fatte solo per darci rifugio, dovrebbero però d’altro canto darci la possibilità di sentirci al sicuro ed al riparo. Pertanto, riguardo alle nostre relazioni con lo spazio circostante, numerosi studi hanno indicato che i metodi di progettazione biofilica possono rappresentare e portare ad un maggior impatto e benessere sociale. L’ipotesi biofilica venne introdotta per la prima volta dal biologo premio Nobel Edward O. Wilson nel 1984, dimostrando come gli esseri umani potessero essere affiliati alle forme di vita ed ai processi simili alla vita naturale. Successivamente, Kellert e Calabrese (2015, p. 3) continuarono: “Most of what we regard as normal today is of relatively recent


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origin — raising food on a large-scale just in the last 12,000 years; the invention of the city, 6000 years old; the mass production of goods and services, beginning 400 years ago; and electronic technology, only since the 19th century. The human body, mind, and senses evolved in a biocentric not human engineered or invented world”. Numerosi studi dimostrano come l’esposizione alla natura possa aiutare l’uomo al superamento di alcuni sintomi, portando ad una riduzione del dolore e dell’ansia, oltre che a suscitare sensazioni positive laddove i pazienti ospedalieri sono esposti alla natura (Park & Mattson, 2008). Uno studio del Michigan ha inoltre rilevato una diminuzione del 24% di visite sanitarie e specialistiche per i detenuti carcerari con possibilità di contatto con il verde e/o lo spazio esterno. Gli studi di Guéguen e Stefan hanno osservato che brevi contatti con la natura circostante hanno la capacità di migliorare positivamente l’umore ed incrementare il desiderio di aiutare gli altri (Söderlund & Newman, 2017, pp. 750-772). L’inserimento del verde in quartieri residenziali ridurrebbe così drasticamente fattori ed episodi di violenza, aggressione e criminalità, e porterebbe un concreto miglioramento delle relazioni interpersonali tra individui. Pertanto, quelli che vengono definiti metodi biofilici dimostrano ripetutamente comportamenti propositivi e diversi benefici per la società postmoderna. Questi profitti possono essere riscontrati nella riduzione del rischio di problemi di salute psico-fisica, ma possono essere riscontrati anche nella contribuzione alla riduzione delle emissioni di CO2 e, quindi, alla riduzione dei rischi relativi al cambiamento climatico. Africa (2019) afferma che il Design Biofilico ed il cambiamento climatico vengono riconosciuti come parametri prestazionali per la salute umana: è scientificamente provato che il design biofilico possa influenzare il benessere psico-fisico degli esseri umani e della società. Il Design Biofilico contribuisce così alla salute mentale, emotiva e sociale: “Exposure to natural environments benefits emotional, physical, cognitive, and social development in children and adults at a time when communities need enhanced support to manage environmental stressors related to climate change” (Africa et al., 2019, p.4). Tutto ciò ha portato la ricerca ed il pensiero critico ad interrogarsi su come i futuri progettisti possano beneficiare di questi dati, mantenendo il riscaldamento globale al di sotto del limite di 1,5 ºC, assolvendo le future generazioni dal vivere in uno stato di emergenza. Bio-urban Acupuncture “I believe that some medicinal ‘magic’ can and should be applied to cities, as many are sick and some nearly terminal. As with the medicine needed in the interaction between doctor and patient, in urban planning it is also necessary to make the city react; to poke an area in such a way

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that it is able to help heal, improve, and create positive chain reactions. It is indispensable in revitalizing interventions to make the organism work in a different way”. (Urban Planner Jaime Lerner, Curitiba, Brasile)

L’Agopuntura Urbana è una teoria socio-ambientale che combina il design urbano contemporaneo con l’agopuntura tradizionale cinese attraverso interventi su piccola scala, al fine di ampliare il contesto socio-urbano. Gli spazi urbani vengono così selezionati ed analizzati attraverso alcuni fattori sociali, economici ed ecologici e, successivamente, progettati grazie ad un attento dialogo tra designers e comunità. Proprio come l’agopuntura allevia lo stress del corpo umano, l’agopuntura urbana mira ad alleviare lo stress dei cittadini dell’ambiente costruito. Coniato dall’architetto ed urbanista catalano Manuel de Solà-Morales, il termine ‘Agopuntura Urbana’ è stato recentemente ed ulteriormente sviluppato dall’architetto e teorico sociale finlandese Marco Casagrande, il quale ha affermato la possibilità di un’autonoma bio-crescita urbana grazie a tecnologie ambientali modulari in grado di fornire i necessari ‘organi interni’ per le comunità create. Casagrande vede le città come complessi organismi energetici in cui diversi flussi determinano le azioni dei cittadini e, conseguentemente, lo sviluppo della città stesse. Ponendo il focus sull’ambientalismo e sulla progettazione urbana, Casagrande sviluppa così metodi di gestione tempestiva dei flussi energetici urbani, al fine di creare uno sviluppo ecologicamente sostenibile in direzione della cosiddetta ‘terza generazione della città’ (era post-industriale), definendo l’Agopuntura Urbana come un vero e proprio strumento di progettazione per lo sviluppo sostenibile. Questa scuola di pensiero evita quelli che determinano massicci progetti di rinnovamento urbano a favore di un approccio più localizzato e basato sulla comunità che, in un’epoca di budget ridotto e risorse limitate, potrebbe offrire una tregua democratica ed economica ai fruitori delle città. Ecco perché, oggi, diviene fondamentale incrementare l’uso di questa disciplina, sviluppando interventi volti a migliorare la qualità della vita della comunità, oltre che il valore sociale e culturale dell’area urbana specifica presa in esame. Casagrande, attraverso il concetto d’agopuntura, incentra così la sua ricerca e pratica su esempi positivi di ‘Città di Terza Generazione’, classificando per la trasformazione urbana tre generazioni di città costruite. Prendendo come esempio l’insediamento di Taipei (moderna metropoli giapponese, capitale di Taiwan), Casagrande analizza la città secondo tre categorie ed attraverso un attento approccio tecnologico, in relazione alla stabilità sociale ed economica ed al benessere umano e naturale. Le tre generazioni di città vengono, dunque, definite secondo quanto segue:


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La ‘Città di Prima Generazione’ rappresenta un insediamento umano in diretta connessione e/o dipendente dalla natura. Difatti, il fertile e ricco bacino di Taipei fornì un ambiente fruttuoso per tale insediamento: i fiumi erano pieni di pesci e praticabili per il trasporto, mentre le montagne proteggevano le pianure coltivate dalle frequenti intemperie. La ‘Città di Seconda Generazione’ è rappresentata dalla città industriale. Nella città di seconda generazione, la natura era vista, così, come qualcosa di inutile e/o come qualcosa di ostile, oltre che essere murata lontano dalla realtà meccanica. Difatti, l’industrializzazione ha garantito ai cittadini di Taipei un’indipendenza costruita, un ambiente meccanico in grado di fornire tutto il necessario per gli esseri umani. La ‘Città di Terza Generazione’, d’altro canto, rappresenta la rovina organica della città industriale. Difatti, i giardini comunitari di Taipei possono essere letti come esempi di un’urbanistica di terza generazione, coesistendo con l’ambiente industriale. La conoscenza locale è presente in città ed è qui che la Ruin Academy (il centro di ricerca architettonica trasversale indipendente della città di Taipei) concentra la sua analisi, definendo la Città di Terza Generazione è vera quando la città riconosce la sua conoscenza locale e si lascia coinvolgere dalla natura. È stata tradotta così da Casagrande la Bio-Agopuntura, intesa come fonte di ispirazione dalla natura stessa e come praticata su larga scala. Attraverso i principi della ‘Open form’, nonché dei capolavori dell’Agopuntura Bio-urbana, rimane l’intervento della Paracity su Treasure Hill di Taipei (Casagrande, 2012). Difatti, in ‘Biourban acupuncture. Treasure hill of Taipei to Artena’ (2012), Casagrande sottolinea come il progetto ‘Paracity’ rappresenti un organismo bio-urbano in grado di crescere sui principi della ‘Open Form’: azioni individuali progettate che generano reazioni comunicative spontanee sull’ambiente umano costruito circostante. Questo dialogo costruttivo ed organico porta a strutturare così comunità auto-organizzate, oltre che ad uno sviluppo sostenibile ed alla costruzione della conoscenza. Insediamenti micro-urbani accrescono la conoscenza locale, una volta che lo sviluppo della comunità è nelle mani dei cittadini (Casagrande, 2012). La Biomimetica come fattore di trasformazione “It has become part of the accepted wisdom to say that the twentieth century was the century of physics and the twenty-first century will be the century of biology. Two facts about the coming century are agreed on by almost everyone. Biology is now bigger than physics, as measured by the size of budgets, by the size of the workforce, or by the output of major discoveries; and biology is likely to remain the biggest part of science through the twenty-first century”. (Dyson, Our biotech future, 2007)

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La Biomimetica, intesa come nuovo strumento rivoluzionario di problem solving, emerge per la prima volta come approccio interdisciplinare tra le scienze della vita e l’ingegneria. Difatti, la Biomimetica viene definita dall’ISO come una cooperazione interdisciplinare tra biologia e tecnologia. Il termine, già coniato negli anni ‘60 per il trasferimento della conoscenza dalla biologia al campo dell’elettronica allora emergente, negli ultimi decenni è stato accostato sempre di più all’industria, ricercando soluzioni innovative vicine al mondo naturale. Come Emily Barbara Kennedy menziona in ‘Biomimicry: design by analogy to biology’ (2017), le migliori idee sono prese in prestito e la “Biomimicry has a deep history. Italian Renaissance man Leonardo da Vinci (1452–1519) created elaborate sketches of bird- and bat-inspired flying machines. French engineer Sir Marc Brunel (1769–1849) invented the caisson, a structure that enables underwater construction, after observing the naval shipworm, a saltwater clam whose valves allow it to bore through wooden ships without being crushed when newly exposed layers of wood absorb ambient water and swell. While on a walk in the woods, Swiss engineer George de Mestral (1907–1990) noticed burrs sticking to his jacket. He looked at one of the burrs under a microscope and saw that the seed vessel had hook-like extremities that gripped the looped fibers of his outerwear. His discovery led to patenting of a novel hook-and-loop fastening system, the now ubiquitous VELCRO” (Kennedy, 2017, pp. 51-56). La Biomimetica è diventata, oramai da decenni, una fonte di ispirazione per il settore del design industriale. A partire dagli anni ‘70, infatti, seguendo il lavoro di personaggi di spicco come Frei Otto e molti altri, la Biomimetica ha assunto un ruolo primario nel campo dell’architettura e del design urbano e/o industriale. Poiché questo settore biomimetico non è ancora abbastanza ampiamente applicato e studiato, c’è un disperato bisogno di indagare ulteriormente questo campo, al fine di affrontare non solo le questioni climatiche ed ambientali, ma anche per garantire un benessere sociale fluido per le città migranti del futuro. La Biomimetica per la progettazione urbana si è progressivamente ampliata negli ultimi anni, ma è sempre stata applicata al design, all’architettura e, conseguentemente, alle aree urbane sulla scala del metro o del chilometro. La differenza tra l’approccio tradizionale alle disposizioni spaziali, all’interno del contesto urbano, ed i recenti strumenti biomimetici, si riscontra in parte riferendosi alla capacità rigenerativa identificabile all’interno del sistema spaziale. Come menziona Doughty, le città moderne rappresentano siti per l’espressione culturale e la facilitazione nei commerci, piuttosto che hub per la produzione di risorse fisiche o la generazione di servizi che producono la salute fisica tangibile, sia di ecosistemi che di esseri


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umani (Doughty and Hammond, 2004); le città stanno mutando sempre più verso centri di consumo socio-ambientale, piuttosto che di rigenerazione. “If the goal of architecture and urban design is to create or retrofit cities so that they support the wellbeing of people and society, the support and regeneration of urban ecosystem services must be integrated into design decisions and interventions” (Pedersen Zari, 2020). Una delle soluzioni proposte per affrontare questa trasformazione è riscontrabile nell’implementazione dei servizi ecosistemici. Pederson Zari (2020) affronta questi temi attraverso servizi ecosistemici, sottolineando come questi possano introdurre nuovi orizzonti nell’affrontare la realtà sociale ed ecologica del pianeta attraverso una profonda comprensione ed implementazione dei servizi all’interno delle nostre società. Come in molti casi, queste metodologie contemporanee di architettura biomimetica sono ancora in continua fase di ricerca, ma rappresentano comunque diversi potenziali. Come afferma Full (2011), uno dei principali ricercatori in campo di biomimetica, possiamo trarre dalla natura i seguenti insegnamenti: 1. Lavorare con dinamiche naturali - Gestire il flusso di energia. 2. Utilizzare materiali multifunzionali - integrati e programmabili. 3. Attuare sistemi robusti e sostenibili - ‘Fault tolerant’, ‘Fail-safe’, Auto-riparazione ed Adattamento. 4. Cercare un’interazione efficace con l’ambiente - l’organismo e l’ambiente sono una cosa sola. In diversi progetti, diversi metodi possono essere implementati al fine di affrontare le questioni socio-ambientali attraverso approcci di progettazione biomimetica. Ad esempio, nel caso del progetto Addis Abeba (capitale dell’Etiopia), sono stati attuati approcci biomimetici per l’ambiente costruito, includendo: • Biodiversità: fauna selvatica integrata in strutture costruite, soprattutto in ambienti urbani. • Raccolta delle risorse locali: crescita locale, uso dell’acqua piovana. • Raccolta di energia locale, utilizzando energia libera, solare ed eolica. • Sistemi a circuito chiuso: riciclo delle acque piovane e reflue, riciclaggio dei rifiuti. • Adattamento dell’architettura a cambiamenti ambientali. • Uso di interdipendenze di sistemi simbiotici • Multifunzionalità e multi tasking (Gruber, 2013). Conclusioni Per concludere, quando si fa riferimento ad un adattamento biomimetico, possiamo trarre ispirazione e fare nostre molteplici metodologie ed approcci che si muovono su campi tra-

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dizionali, ma allo stesso tempo innovativi. Ognuno di questi nuovi approcci è adattato al proprio specifico ambiente di ricerca. La standardizzazione degli approcci urbani ed architettonici, sarebbe potuta essere stata una delle soluzioni d’avanguardia negli anni ‘20; tuttavia, nel settore dell’industria 5.0, l’adattamento personalizzato derivato da soluzioni biomimetiche non è niente di meno che redditizio. Difatti, nel libro ‘Il Progetto della natura. Gli strumenti della biomimesi per il design’ (2019), Salvia, Rognoli e Levi affermano che la ragione per cui le risposte della natura potrebbero meritare più attenzione di altri riscontri è che la natura è economia. Dunque, quando si pondera sul trarre ispirazione dalla natura utilizzando come riferimento milioni di anni di evoluzione, si giunge alla conclusione che la natura si sia evoluta nel modo più efficiente e ‘minimo’, consentendo al tempo stesso la massima durata e resistenza all’ambiente naturale costruito. Questi elementi, sembrano rappresentare quello che stiamo cercando di raggiungere nella società circolare odierna, in cui l’economia dovrebbe essere al servizio degli esseri umani e del loro ambiente naturale, affrontando la più grande sfida globale: il riscaldamento globale.


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Bibliografia Africa, J., Heerwagen, J., Loftness, V., Ryan Balagtas, C. (2019), Biophilic design and climate change: performance parameters for health in Frontiers in Built Environment, 5, 28. Casagrande, M. (2012), Biourban acupuncture. Treasure hill of Taipei to Artena, International Society of Biourbanism. Doughty, M. R. C., Hammond, G. P. (2004), Sustainability and the built environment at and beyond the city scale in Building and environment, 39.10: 1223-1233. Full, R. (2011) Biological Inspiration-How We Learn from Nature to Design, Robots, Exoskeletons and Adhesives, Lecture, Biomimetics in International Industrial Convention, Berlin. Gruber, P., Benti. D. (2013) Biomimetic strategies for innovation and sustainable development in Democratic Transition and Sustainable Communities 578. Heidrich, O., Reckien, D., Olazabal, M., Foley, A., Salvia, M., De Gregorio Hurtado, S., … Dawson, R. J. (2016), National climate policies across Europe and their impacts on cities strategies in Journal of Environmental Management, 168, 36–45. Kellert, S. R., Calabrese, E. (2015), The practice of biophilic design in London: Terrapin Bright LLC. Kennedy, E. B. (2017), Biomimicry: Design by analogy to biology in Research-Technology Management, 60.6, pp. 51-56. Park, S. H., Mattson, R. H. (2008), Effects of flowering and foliage plants in hospital rooms on patients recovering from abdominal surgery in HortTechnology, 18(4), pp. 563-568. Pedersen Zari, M. (2020) Biomimetic Urban and Architectural Design: Illustrating and Leveraging Relationships between Ecosystem Services in Biomimetics, 6.1 : 2. Söderlund, J., Newman P. (2017), Improving mental health in prisons through biophilic design in The Prison Journal, 97.6, pp. 750-772. Soga, M. and Gaston, K. J. (2016), Extinction of experience – The loss of human-nature interactions, in Frontiers in Ecology and the Environment, vol. 14, issue 2, pp. 94-101.

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abitanti, luoghi e azioni nella città (con) temporanea Lucetta Petrini

Gruppo di Ricerca Laboratorio di Design degli Spazi di Relazione Dipartimento Dida, Università degli Studi di Firenze - ITALIA

Place Du Géant, Collectif Parenthèse, SaintÉtienne. Foto di Collectif Parenthèse.

Introduzione Come un testo pieno di post-it, la città contemporanea è temporaneamente occupata da com-portamenti che non lasciano traccia - proprio come i post-it non lasciano traccia nei libri -, che appaiono e scompaiono ricorrentemente, che hanno le loro forme di comunicazione e attrazione, ma che sono sempre più difficili da ignorare. Camminando lungo una strada, passando per un interstizio, per l’argine di un fiume o attraversando un parco, può capitare di imbattersi in oggetti di origine varia, disposti senza un ordine apparente. Ad uno sguardo più attento, tali oggetti possono rivelare un modo diverso di vivere e usare lo spazio. Nonostante appaiano precari, instabili, di incerta durata, marginali e, a volte, anomali, sono oggetti vernacolari, espressione di una natura domestica, quotidiana e non istituzionale, che tiene conto del desiderio della persona che li crea come fossero architetture non programmate (Pasquali, 2008). La città contemporanea ha costruito i suoi spazi edificati attraverso l’elaborazione di nuove tipologie e nuovi tessuti - modelli infiniti di case unifamiliari, città di capannoni industriali, parchi a tema … - ma non ha avuto la stessa creatività o lo stesso approccio sfrenato allo spazio pubblico. Così, in modo sempre più evidente, vengono lanciati segnali di malcontento da parte della cittadinanza, a causa della mancanza di cura e attenzioni verso il lato umano, il senso di appartenenza e la percezione dei luoghi, sempre troppo definiti, scelti, imposti dall’assetto urbano, codificati da tacite regole comportamentali. Per gli abitanti della scena urbana, è più rilevante avere “luoghi” per incontrare persone (Whyte, 1980), piuttosto che spazi urbani “progettati” privi di contenuto sociale. Recentemente, si osservano chiari segnali di dissenso nell’utilizzo dello spazio urbano, dovuti alla condivisione e al desiderio di appropriazione anche di quegli spazi considerati come scarti o inutilizzati nel tessuto della città. Un fermento sociale, che si manifesta attraverso azioni spontanee, temporanee e a volte non autorizzate, che conferiscono agli urban lucetta petrini


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interiors un valore latente e li fanno diventare parte integrante della vita quotidiana dei residenti. Tali azioni, caratterizzate da una forte intensità emotiva, sono il risultato di un desiderio di riappropriazione degli spazi urbani da parte della comunità. Percorrendo le strade della città contemporanea, oggi, è possibile imbattersi in oggetti e iniziative frutto di una creatività informale, nata per esigenze di sopravvivenza, che conferiscono nuovi significati allo spazio urbano – che diventa palinsesto di una continua sperimentazione di modi e dimensioni del vivere e del relazionarsi in pubblico –, dando vita a luoghi con una propria “intimità territoriale”. Episodi urbani, disseminati per la città, che, con approcci differenti, affrontano la questione della riconfigurazione dello spazio pubblico, evidenziando come la condivisione e l’interazione tra individui e collettività siano aspetti centrali e fondamentali nella progettazione di tali spazi. Temporary City | Temporary Use Il concetto di una “città temporanea” (Bishop & William, 2012) associata all’uso temporaneo (Haydn & Temel, 2006) di spazi urbani è, allo stesso tempo, rivoluzionario e affascinante. Per molti anni, gli architetti e gli urbanisti hanno proposto modelli assoluti per la “città del futuro”, suggerendo visioni di sviluppo uniche come la “Ville Radieuse”, la “Broadacre City”, la “Garden City” e le contemporanee “Smart City”. Questi modelli rappresentano una visione unica e assoluta della città. Al contrario, la città temporanea flessibile non cerca di proporre un modello unico, ma si basa su una logica adattiva, che prende in considerazione le condizioni esistenti e non ha certezze. La città temporanea flessibile non si basa sul risultato finale e su strutture urbane ben definite, ma piuttosto sul processo decisionale. La temporaneità d’uso richiede flessibilità, reversibilità e adattabilità alle mutevoli esigenze. La città flessibile e pronta ad adattarsi ai cambiamenti e alle esigenze temporanee sembra essere una risposta efficace ai problemi causati dalle grandi trasformazioni urbane della città moderna e contemporanea, come il consumo di suolo dovuto all’espansione speculativa, l’abbandono delle aree urbane e la riduzione delle periferie dovuta ai processi di deindustrializzazione e spopola-mento. In questo contesto, lo spazio pubblico assume un ruolo cruciale nell’ospitare usi temporanei legati ad eventi e attività occasionali, come eventi culturali, concerti, esposizioni universali…, che trasformano le città per brevi periodi, attirando un pubblico insolitamente numeroso rispetto alla normale affluenza.


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Tra le caratteristiche principali della temporaneità d’uso degli spazi urbani c’è la sua stretta relazione con le azioni dal basso, che spesso coinvolgono gruppi di cittadini in movimenti spontanei e talvolta improvvisati, rendendoli protagonisti delle trasformazioni urbane. Negli ultimi anni abbiamo assistito – e assistiamo tutt’oggi – ad alcuni fenomeni di questo tipo sulla scena urbana, come l’attivismo del guerrilla gardening, per esempio, o i movimenti artistici nello spazio pubblico o la rigenerazione di specifiche aree pubbliche da parte di collettivi urbani e gruppi di cittadinanza attiva. La città temporanea, intesa come azione reversibile sullo spazio pubblico promossa dal basso, rappresenta un modello sostenibile per la città. L’idea di prevedere qualcosa di non definitivo e permanente nell’ambito urbano, che possa evolversi e trasformarsi, sembra essere un rimedio necessario per le trasformazioni urbane, che in passato sono state a volte troppo invasive e dannose, lasciando un’impronta irreversibile sul territorio. La città temporanea e informale si basa su interventi a basso costo su piccola scala e su azioni cooperative e condivise, che cercano di offrire risposte adattive alle problematiche locali, promuovendo temi più generali legati alla vita sostenibile nella città contemporanea, come la riattivazione degli spazi degradati, la creazione di aree verdi in città, la mobilità pedonale e ciclabile urbana, e molto altro. Usi temporanei e tatticismi Nel 2005 una collettivo di artisti e designer ha pagato per due ore un parchimetro e ha installato erba, sedie e un albero in vaso. Ispirato dalle incursioni furtive di artisti come Banksy e i Situazionisti, l’installazione dello spazio del parcheggio realizzata dal gruppo di San Francisco Rebar ha posto una critica ai valori culturali insiti nell’uso dello spazio urbano. L’idea di elementi naturali e umani che invadono uno spazio destinato al deposito delle auto, e di visitatori che trovano una piacevole pausa in un parcheggio, è diventata iconica e le immagini sono diventate subito virali. Due anni dopo, questo détournement spaziale si è trasformato in un evento internazionale: Il Park(ing) Day è diventato un’opportunità per i giovani designer di esprimere la propria creatività e affermare il proprio diritto di rivendicare lo spazio pubblico, anche solo per un pomeriggio. L’immediato successo globale di Rebar è spesso citato come l’inizio del movimento oggi chiamato “Tactical Urbanism” (Lydon & Garcia, 2012). Impiegando interventi su piccola scala e a breve termine per restituire vitalità alla vita urbana e “seminare cambiamenti ambientali strutturali”, l’urbanistica tattica ha sfruttato l’allontanamento del cittadino comune dall’avere un ruolo nel plasmare le città (Merker, 2010). Sebbene le varie iterazioni abbiano mantenuto una certa serietà d’intenti, con l’obiettivo di affrontare questioni critiche, ambientali e sociali, il Park(ing) Day, un

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tempo sovversivo, è ora un punto fermo annuale della celebrazione del “design urbano divertente”. In quanto punta di diamante del movimento urbanistico tattico, il Park(ing) Day ha generato una cascata di interventi inediti e coinvolgenti realizzati e apprezzati dai membri della giovane classe creativa e non: mercati e birrerie all’aperto, bombardamenti di sedie, tattiche di orientamento “fai-da-te”, azioni di pavimentazione, spiagge nel centro della città, piste ciclabili non autorizzate… Ognuno di questi atti può sembrare piccolo e insignificante. Ma, proprio perché non richiedono investimenti o infrastrutture onerose, consentono a singoli individui e spesso a piccoli gruppi di operare cambiamenti in paesaggi urbani altrimenti egemoni. Tutte queste azioni di appropriazione del tessuto urbano richiamano il concetto tradizionale di luogo pubblico, la cui forma attuale è costituita principalmente da una vasta rete di nuovi eventi e spazi di relazione all’interno della città, diventando quasi una forma di resistenza alle norme comportamentali codificate che la società contemporanea ha generato e imposto in modo inconsapevole. Sono proprio queste pratiche autogestite, personali e di solito non autorizzate che hanno permesso di ridefinire il ruolo urbano e sociale di spazi trascurati e dimenticati della città, al punto da far pensare che l’abusivismo, ma anche l’abbandono, possano diventare strategie in grado di far emergere le caratteristiche principali di una risorsa locale e consentire all’uomo di “rivendicare il proprio diritto ad esistere” (Pasquali, 2008, p.11). Le reazioni degli abitanti ai fenomeni urbani contemporanei iniziano ad avere voce in capitolo dal momento in cui il dissenso, i desideri e le aspettative trovano terreno fertile nella condivisione, anello che rafforza le reti di rapporti sociali, legittimando nuovi usi e pratiche di rivendicazione o appropriazione della città in genere, ma in particolare in luoghi poco rappresentativi o dove permane ancora libertà di azione. Dare forma ad un luogo che possa accogliere le molteplici esperienze dell’abitare può avvenire in diversi modi. Questo processo può essere avviato lasciando spazio e tempo all’inatteso. Aprirsi a ciò che non è stato pianificato non significa ignorare la natura generativa del progetto, ma piuttosto creare luoghi in grado di adattarsi ai movimenti delle persone che li abitano, sperimentando sistemi aperti come preludio a nuove forme di urbanità. Il fenomeno dell’informalità e dell’illegalità può assumere diverse sfaccettature, legate agli aspetti economici, politici, urbanistici e culturali. Si tratta di un processo dinamico che coinvolge l’adatta-bilità dei luoghi: le strade, ad esempio, sono da sempre teatro in cui si svolgono molte attività, capaci di generare strategie urbane auto-evolutive basate sul parassitismo e sulla riconquista dello spazio. Ciò che rende interessante questo


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fenomeno è che queste azioni, in modo critico e analitico, riescono a comunicare e/o rappresentare i fenomeni sociali contemporanei. La creatività diventa così uno strumento per sabotare la massificazione diffusa, per inventare nuovi usi dello spazio urbano, per testimoniare il disagio e l’incertezza della società, il tutto senza filtri. A volte si evocano soluzioni alternative, altre volte si producono immagini utopiche, ma sempre con l’intento di rivelare nuove idee e strategie. Da spazio a luogo. Placemaking e self-construction È interessante notare come, nonostante la società telematica sia immateriale e tecnologica, si re-gistri sempre più una crescente attenzione verso la vita materiale e la cura dei luoghi. Nonostante la percezione di una dissociazione tra l’essere umano e l’ambiente circostante, si sta verificando un ritorno della volontà di ricercare luoghi eticamente e socialmente più umani, dove l’innovazione e la sperimentazione di nuove possibilità diventano il fondamento di un’azione concreta. Il prendersi cura di qualcosa è un sentimento istintivo che solitamente emerge quando si pensa a persone e cose a cui si tiene. Se consideriamo che lo spazio pubblico è di tutti e tutti ne usu-fruiamo, dovrebbe essere automatico avere questo atteggiamento. La tutela di un bene comune migliora la qualità della vita di ogni comunità e, come sostiene Arena (2020) i beni comuni sono quelli che arricchiscono tutti se vengono curati e impoveriscono tutti se vengono trascurati. L’interesse per il bene comune non dovrebbe essere solo oggetto di discorsi teorici, ma piuttosto una proposta concreta su cui agire direttamente. Prendersi cura di un bene comune ha un potere positivo a livello sociale, poiché la collaborazione ha un linguaggio universale e permette di superare le differenze. Lavorare insieme verso obiettivi comuni crea legami e può aiutare a risolvere situazioni di conflitto o difficoltà. Espacios de Paz è un progetto di Design Partecipativo che mira a trasformare le aree conflittuali della città di Caracas (Venezuela) in spazi pubblici sicuri e accoglienti, dove le comunità possono interagire e creare dinamiche sociali positive. La strategia si basa su interventi mirati su specifici territori che sono sottoutilizzati, come spazi waste o discariche spontanee, che sono però punti chiave delle dinamiche urbane. Questi interventi di “agopuntura urbana” mirano a trasformare le “zone di pericolo” in “zone di pace”, dove i cittadini possono sentirsi al sicuro e partecipare atti-vamente alla costruzione del loro spazio pubblico. La partecipazione dei cittadini è un elemento fondamentale di questo progetto, che si basa sull’autogestione e sull’empowerment collettivo attraverso le istituzioni di governo. I cittadini sono coinvolti nella costruzione del loro spazio pubblico attraverso un processo di apprendimento che rafforza la coesione del quartiere e promuove la partecipazione attiva nella

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vita della comunità. In questo modo, Espacios de Paz non solo trasforma fisicamente gli spazi pubblici, ma promuove anche il benessere sociale e la coesione comunitaria. Platform Kanal, invece, è un’iniziativa senza scopo di lucro che si dedica a incoraggiare la rifles-sione sulle sfide e le opportunità della trasformazione urbana. Nel 2008, a Bruxelles in Belgio, Plat-form Kanal ha avviato un progetto per collegare due quartieri disuguali attraverso un ponte effi-mero realizzato con i componenti standard di una gru da cantiere. Questo progetto ha portato al-la creazione del Festival Kanal, un evento biennale che si tiene in estate e che mira a riempire l’a-rea di attività temporanee. Il ponte è stato un modo per superare la barriera socio-spaziale rappresentata dal canale e per connettere due quartieri molto diversi tra loro. Da un lato, c’è la sponda sud-orientale, ricca di at-trazioni turistiche, monumenti e zone pedonali. Dall’altro lato, c’è la sponda opposta, che com-prende una serie di quartieri poveri e stigmatizzati. Il Festival Kanal è un’occasione per creare attività temporanee e per coinvolgere la comunità loca-le nella trasformazione urbana. Al termine dell’evento, il ponte è stato rimosso senza lasciare tracce, dimostrando che la trasformazione urbana può essere realizzata in modo sostenibile e senza lasciare un impatto negativo sull’ambiente. Ancora oggi, la piattaforma Platform Kanal con-tinua a svolgere un ruolo importante nella promozione della riflessione sulla trasformazione urbana e nell’organizzazione di eventi che coinvolgono la comunità locale. Negli ultimi anni, le organizzazioni culturali senza scopo di lucro, i movimenti per la cittadinanza at-tiva e le organizzazioni non governative che si occupano di cultura hanno visto un aumento sem-pre più significativo. Sempre più spesso, la partecipazione viene proposta dal basso invece di essere offerta dall’alto e diverse esperienze di autocostruzione dello spazio pubblico, come Place au Changement a Saint Etienne (2011) – un vuoto urbano trasformato in uno spazio vivente grazie all’aiuto degli abitanti – del collettivo urbano Collectif Etc., sono diventate modelli da seguire. Interessante è anche l’iniziativa intrapresa, da settembre 2011 a settembre 2012, sempre dai giovani architetti e designer del Collectif Etc che, ispirandosi ai Compagnons du Devoir, hanno percorso in bicicletta le strade della Francia per incontrare e lavorare con i vari attori individuati in maniera non esaustiva come partecipanti ad una sorta di “fabbrica cittadina della città”, creando opere effimere, autocostruite e a basso costo nelle principali città francesi, passando anche per Bruxelles e Barcellona. Il loro metodo di lavoro non è diverso da quello di molti altri movimenti si-mili: collaborano con le amministrazioni pubbliche, altre associazioni e gruppi locali, promuovono dibattiti e coinvolgono intellettuali, creativi e cittadini nelle loro opere. Ciò che rende questi pro-getti


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interessanti è la loro dimensione temporanea, flessibile e reversibile e il segno che lascia: a Saint Etienne, i cittadini hanno continuato a trasformare il luogo negli anni successivi, interagendo con i designer del Collectif Etc. e altri gruppi di artisti, dando al luogo nuovi significati e caratteriz-zazioni. Lo spazio urbano gestito dai cittadini diventa un micro piano irregolare, atto a rivelare nuove cul-ture della democrazia e diverse modalità di intendere la dimensione collettiva, dove l’’innovazione non è solo l’applicazione e l’uso di nuovi dispositivi, ma anche un nuovo approccio capace di ge-stire le sfide sociali delle città contemporanee. Conclusioni Le aree urbane si configurano come piattaforme di attività (Baima & Hetman, 2015), pratiche, flussi ed eventi, in cui diversi luoghi si alternano sulla stessa superficie in tempi diversi. Attori mol-teplici svolgono attività diverse, in temporalità differenti, dando luogo a combinazioni reiterate di tempi e usi. Le superfici pubbliche della città sono compartimentate (Mela, 2014), ma allo stesso tempo rappresentano piattaforme aspecifiche in cui si riversano attori occasionali. L’intervento progettuale su queste superfici deve essere in grado di rispondere alla molteplicità e mutevolez-za delle esigenze compresenti, e, all’occorrenza, stimolare nuove ed impreviste necessità (Baima & Hetman, 2015). La fluidità delle pratiche urbane si scontra con la materialità e l’inerzia al cam-biamento della città, rendendo cruciale la capacità dei diversi spazi di ospitare e, eventualmente, modificarsi in base a cambiamenti degli usi (Di Giacomo, 2010). Nel contesto contemporaneo, lo spazio pubblico è chiamato, pertanto, a rispondere alle sfide po-ste dalla crescente complessità sociale – che richiede una riflessione sulla configurazione dello spazio pubblico, in grado di mediare tra l’individualismo e il senso di appartenenza collettiva at-traverso meccanismi di condivisione e relazione tra persone e cose – e dalle esigenze di coesione delle comunità. Come osserva Di Giacomo, “Si avverte la necessità di centrare la riflessione e le pratiche sul progetto di spazi comuni, di quegli spazi ordinari in cui è possibile l’attivazione in for-me molteplici di relazioni sociali finalizzate e non, che possono avvenire in forma aperta, libera, di-sponibile a definizioni progressive e provvisorie, e a ridefinizioni successive. Spazi plurali, rispetto al significato che possono assumere e alle pratiche che sono in grado di ospitare” (Di Giacomo, 2010, citato in Baima & Hetman, 2015, p. 59) Il progetto è oggi chiamato a ridisegnare l’esistente (Clemente, 2017), intervenendo con una mano leggera, che interpreta i luoghi, corroborando i contenuti formali con quelli delle relazioni sociali.

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La prosperità e la vitalità di una città dipendono dalle interazioni e dalle attività che si svolgono all’interno e intorno ad essa. Per creare un luogo pubblico autentico, è necessario che sia fre-quentato da individui attivi che si sentano responsabili del luogo e che vi si identifichino. Sono le comunità cittadine che danno forma all’identità dei luoghi, conferendo loro unicità ed eccezionalità.


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Bibliografia Arena, G. (2020). I custodi della bellezza. Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e le istituzioni. Touring Editore. Baima, L. & Hetman, J. (2015). Spazio pubblico tra intensità e condivisione: strategie di progetto / Public space between intensity and sharing: design strategies. URBANISTICATRE [1973-9702], vol:I Quaderni di Urbanistica Tre iss:7. pp. 57-63. Bishop, P., Williams, L. (2012). The Temporary City. London: Routledge. Clemente, M. (2017). Re-design dello spazio pubblico. Milano: FrancoAngeli. Di Giovanni, A. (2010). Spazi comuni. Progetto urbanistico e vita in pubblico nella città contempo-ranea. Roma: Carocci. Haydn, F., Temel, R. (2006). Temporary Urban Spaces: Concepts for the Use of the City Spaces. Basel: Birkhauser. Lydon, M., Garcia, A. (2012). Tactical Urbanism 2: Short Term Action, Long Term Change. Wash-ington: Island Press. Mela, A. (2014). La città con-divisa. Lo spazio pubblico a Torino. Milano: FrancoAngeli Merker, B. (2010). “Taking Place: Rebar’s absurd tactics in generous urbanism,” Insurgent Pub-lic Space: Guerrilla Urbanism and the Remaking of Contemporary Cities. ed. Jeffrey Hou, New York: Routledge, pp. 42-51. Pasquali, M. (2008). I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens. Torino: Bollati Boringhieri. Whyte, W.H. (1980). The social life of small urban places. Project for Public Spaces.

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il pensiero laterale nel progetto di nuovi scenari per il design Jurji Filieri

Uno dei piatti del Lyst restaurant, sviluppato nell’ambito del workshop multi-disciplinare coordinato da Morten Kirk Johansen, con la partecipazione dello chef Daniel McBurnie, dell’artista Olafur Eliasson e dello studio SOS (Studio Other Spaces).

Architetto, PhD, Ricercatore in Design, Docente Università degli Studi della Tuscia - ITALIA

Il termine pensiero laterale è stato coniato dallo psicologo maltese Edward De Bono, con riferimento a modalità di risoluzione di problemi logici (problem-solving) attraverso un approccio non prevalente né strutturato, basato sull’osservazione del problema da angolazioni diverse, secondo una modalità contrapposta alla tradizionale, che prescrive piuttosto la concentrazione canalizzata su una soluzione diretta del problema. Se nella soluzione induttiva, dunque, si attribuisce un ruolo prioritario ai processi logico-sequenziali, a partire spesso da un patrimonio consolidato di conoscenze settorialmente più ovvie, il pensiero laterale se ne discosta e cerca punti di vista alternativi nel tracciare soluzioni meno immediate del problema e non-convenzionali nel progetto. Al pensiero laterale si contrappone il pensiero logico (o verticale), paradigma cognitivo basato su stadi sequenziali di informazione, in cui ciascuna tappa del processo mentale segue la validazione prescrittiva della precedente. Questo modello mentale, detto anche selettivo, tende ad escludere (selezionare appunto) in modo permanente quelle informazioni "errate" o non verificate dal quadro dei fattori rilevanti e per questo determina una generosa razionalizzazione del campo di indagine e una semplificazione del modello, che talvolta tuttavia aberra la realtà. L’efficacia di un siffatto modello verticale (ampiamente utilizzato ad esempio in campo matematico) infatti garantisce la validità dei singoli passaggi procedurali, ma non la correttezza del risultato finale, affetto inevitabilmente da una serie di contaminazioni percettive, che possono condizionarne l’esito o almeno l’efficacia. Il pensiero laterale, dunque, non è un surrogato del pensiero verticale: entrambi sono piuttosto strutture complementari, che se integrate in forma non oppositiva, sono capaci di coniugare una dimensione più genuinamente costruttiva con quella selettiva, e di corrispondere alla complessità crescente del contemporaneo, in particolare in quei settori, come il design, chiamati ad interpretare la molteplicità e tradurla in soluzioni flessibili, inclusive, efficaci. Nel testo Sei cappelli per pensare (De Bono, 2013) lo psicologo descrive almeno sei posizioni di pensiero alternative e differenti da cui poter inquadrare una stessa problematica, evidenziando quanto ampia e trasversale possa essere l’analisi di una stessa fattispecie. Questa


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variabilità interpretativa preliminare influenza certamente scelte e decisioni nell’ambito di un processo decisionale diretto, quale ad esempio il progetto, ma ancora più efficacemente determina condizioni "aumentate" per la rielaborazione intuitiva dell’informazione disponibile, vale a dire un contesto ottimale per lo sviluppo e la crescita della conoscenza. Il pensiero laterale è un processo intenzionale, determinato quanto il pensiero logico, intimamente legato alla creatività, di cui esemplifica uno dei più efficaci processi produttivi. Se "la creatività è infatti troppo spesso solo la descrizione di un risultato, il pensiero laterale è la descrizione di un procedimento" (De Bono, 2001), disponibile per l’apprendimento, l’esercizio e l’uso strumentale in quei settori della ricerca, dell’innovazione e del progetto che più hanno a che fare con il progresso. Il processo di risoluzione di un problema laterale, secondo De Bono, prevede quattro tappe, che vanno dall’assimilazione di tutti i dati forniti nel tentativo di isolare le idee dominanti, alla valutazione alternativa di interpretazioni differenti della realtà descritta; dal superamento di tutto ciò che appartiene al pensiero verticale, alla formulazione di ipotesi. A ben guardare, tutto ciò riflette un’attitudine complessiva che era già caratteristica del design, anche se spesso, nei contesti integrati di azienda o nel confronto dialettico interdisciplinare, la tendenza eminentemente selettiva di altri settori (marketing, finanza, statistica, ecc.) hanno spesso finito per far prevalere un comportamento decisionale più timido e conservatorio. Il design thinking infondo incorpora già parte della struttura decisionale del pensiero laterale, nella misura in cui da un lato abilita una validazione a monte dell’atto creativo, dall’altro, stimola la formazione di idee alternative in numero variabile, con l’obiettivo di scardinare i limiti disciplinari e i vincoli culturali nel progetto di un prodotto o di un servizio. Nella versione sostenuta e proposta dall’agenzia IDEO, società internazionale di design, che negli ultimi anni ha fatto da evangelist del design thinking al di fuori del perimetro accademico, quella della produzione orizzontale di idee è tappa centrale dell’intero processo, seguita soltanto dalla fase di prototipazione, test e verifica dei risultati. Allo stesso modo il modello operativo Double Diamond, elaborato dal British Design Council, sfrutta insights molteplici, come fattori di analisi e comprensione del contesto, per sviluppare e consegnare alla verifica finale più soluzioni alternative. Il ruolo del design, in questo modo, si spinge oltre i limiti tradizionali del progetto, dell’estetica, dei linguaggi, della funzione e del problem-solving, per guadagnare una più vivace e proficua azione produttiva, interprete della realtà.


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Questa mutazione di paradigma si inserisce in un quadro di crescente complessità contestuale, rilevata consapevolmente e anzi valorizzata anche nei diversi ambiti del progetto di design. Al netto di una constatazione coerente con i principi della scienza termo-dinamica, che ravvedono nell’evoluzione naturale dei sistemi anche il tendenziale aumento dell’entropia, quand’anche assumessimo una condizione stabile di articolazione dei fattori in gioco, cambia oggi il modo di relazionarsi con essi, al punto che anziché tendere esclusivamente alla semplificazione di uno scenario, si cerca invece di implementare la lettura di quel pattern, abbracciando la complessità proprio attraverso un apparato metodologico e strumentale aggiornato. In questo quadro il pensiero laterale è uno strumento essenziale di contaminazione disciplinare in grado di allentare la rigidità del metodo scientifico e stimolare la produzione alternativa di idee e concept prototipali di verifica. L’abbraccio della complessità come incubatore contestuale del progetto, anche attraverso il pensiero laterale, sposta l’asse del design in una direzione che è meno strutturata, verso una zona "di confine", prossima ad altri ambiti disciplinari come quello delle arti plastiche, visive, espressive. Ne consegue il progressivo "sfumarsi" dei confini disciplinari e la nascita di spazi ibridi di confronto (dai musei, alle fiere, agli happenings, al mercato) in cui e per mezzo dei quali hanno luogo interessanti trasformazioni. Dentro questo spazio-limite (pubblico e privato) si muovono con disinvoltura giovani creativi e fioriscono micro-sperimentazioni contaminali, frutto di un approccio sistematicamente "a-pragmatico", svincolato dai condizionamenti contestuali. Andrés Jaque, architetto e designer spagnolo, usa abilmente l’approccio laterale nello studio preliminare delle condizioni di un luogo, in cui rileva, attraverso il filtro dell’analisi politica, vettori di ispirazione per il progetto. Gli Escaravox sono due ombreggianti mobili lunghi di 40 metri, installati nel 2012 nella piazza pubblica dell’ex mattatoio centrale di Madrid. Due infrastrutture alari dotate di sistemi di amplificazione del suono, illuminazione scenica e apparecchiature di proiezione audiovisiva, progettate per un’accessibilità orizzontale e democratica, da parte di un pubblico indistinto di utenti, editori e produttori. Attraverso un sistema libero di prenotazione on-line, chiunque può disporre della piazza e riorganizzare lo spazio pubblico mediante l’articolazione delle due strutture e la messa in scena di spettacoli, manifestazioni e incontri pubblici spontanei. Tutto il progetto si basa sull’assemblaggio di materiali ed elementi economici prodotti in serie, come sistemi di irrigazione, tessuti per serre e sedie di plastica. Un atteggiamento, quello di Jaque, metodologicamente eversivo, da cui scaturiscono sempre soluzioni spaziali innovative (dall’oggetto, alla casa, alla città, al bene pubblico) grazie alla costante rielaborazione non strutturata delle informazioni rilevate.

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L’arte da sempre mostra una disinvoltura interpretativa altrettanto spiccata, frutto non solo della dissociazione pratico-funzionale degli artefatti, ma di una capacità inclusiva delle idee che genera molte più informazioni di base per lo sviluppo del progetto. La permanenza quasi unica di una funzionalità culturale latente, che viene attentamente controllata e gestita dall’autore e l’emancipazione del prodotto dai vincoli utilitaristici, tuttavia, da soli non bastano a spiegare qualità pioneristiche e visionarie di certe produzioni e certamente non esautorano la questione metodologica. Sconfinamenti di campo, sperimentazioni, libertà linguistica ed espressiva generano condizioni favorevoli di apertura contemplativa delle alternative, rispetto alle quali solo poche questioni essenziali (come il messaggio) rimangono dirimenti e selettive. L’atteggiamento possibilista e svincolato dell’artista in questo modo si riverbera in una produzione variegata tuttavia coerente, che talvolta solo in una fase matura acquisisce anche una riconoscibilità formale e linguistica. Nel quadro appena descritto può essere utile soffermarsi su quelle esperienze progettuali che più efficacemente hanno mostrato caratteri di trasversalità di pensiero o hanno promosso la valorizzazione plausibile di soluzioni non induttive e sperimentali. Segue dunque una selezione esemplificativa, tutt’altro che esaustiva, di esempi pratici, ciascuno dei quali espressione di una diversa dimensione strumentale del pensiero, scaturiti tutti in un’area periferica del campo disciplinare del progetto, spesso al confine con quello dell’arte. Obiettivo principale è quello di mostrare da un lato il valore pratico-funzionale di un processo orizzontale applicato al prodotto o allo spazio, dall’altro la multidimensionalità di certi nuovi approcci metodologici, capaci di esprimersi in direzioni diverse: dalla ricerca tipologica, al design speculativo, al progetto industriale applicato. Il primo caso è quello di Jerszy Seymour, alle prese nel 2019 con il progetto Sacred Mountain, realizzato e allestito alla Galleria Etage Project di Copenhagen. L’opera principale, che dà il titolo alla mostra, è una cucina perfettamente funzionante, articolata secondo uno sviluppo verticale, in cui l’oggetto, in forma di totem scalabile, diventa spazio esso stesso, riflesso dell’esistenza fisica, mentale e spirituale di ciascuno. Composta da una pila razionale e libera di elementi modulari minimi tipici di una cucina, Seymour ruota l’asse di sviluppo del sistema di arredo e sovverte le direttrici di mobilità d’uso attorno alle funzioni della cucina, dal piano orizzontale all’asse verticale; le superfici d’acciaio sono dipinte in un libidinoso atto istintuale che introduce a una forma nuova di armonia schizofrenica, tra successo e fallimento, dove altre forme del vivere sono ancora possibili. Accanto al nucleo principale di allestimento, una serie di oggetti primordiali,


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come proto-tools in policaprolattone (PCL) modellato a mano, qualifica lo spazio neutro della white-box, mettendo in scena vari stadi di funzione e pre-funzione oggettuale, che trasferiscono l’osservatore in una posizione primitiva, in cui il confine tra utente e spettatore, sacro e profano, dominio ed emancipazione viene abbattuto e da cui si può guadagnare una nuova prospettiva tipologica e funzionale non mediata sui luoghi del vivere. Seymour ribadisce con questo progetto una personale attitudine "laterale", praticata in molti dei suoi progetti (tra gli altri si ricordino gli Amateur’s Workshop o azioni performative come quella messa in atto nel 2014 per Kvadrat, nel progetto The Council for the Progenesis of the Archaic Festival), in cui proprio azioni non prevedibili introdotte nel corso del processo ideativo, conducono a risultati di innovazione formale. Una vocazione ancora una volta eversiva del pensiero, come ribadisce l’autore affermando che "se c’è un progetto che ha valore per il design, questo è la rivoluzione [… ovvero] la valutazione delle utopie possibili, la creazione di un’infrastruttura universale basata sull’eguaglianza e la libertà" (Seymour, 2018). Il secondo caso è quello del ristorante Lyst, realizzato a Vejle in Danimarca, su progetto dell’artista Olafur Eliasson e dell’architetto Sebastian Behmann (SOS, Studio Other Spaces). Qui l’edificio, gli interni, gli arredi e le numerose opere d’arte distribuite all’interno dei locali sono concepiti per interagire tra di loro come in un brano sinfonico e proiettare l’ospite/visitatore in una dimensione esperenziale immersiva. L’edificio sorge direttamente sull’acqua e si sviluppa in forme organiche, strettamente legate alle condizioni del luogo: acqua, vento, luce penetrano la geometria delle forme e degli spazi, trovando con essi un legame territoriale e culturale di rara efficacia. All’interno tutto si genera e si integra grazie ad un processo di progettazione partecipata, allargato strategicamente al personale del locale e agli chef in servizio; attraverso workshop interdisciplinari coordinati da Morten Kirk Johansen, lo chef Daniel McBurnie con il suo team di cucina e lo studio SOS hanno formulato un linguaggio di design basato su materiali e metodi di produzione di base e sul modo in cui la cucina con ingredienti semplici può raggiungere risultati unici. In questa fase il rapporto di reciproca inferenza settoriale, designer dello spazio da un lato e designer del cibo dall’altro, ha facilitato l’estensione del processo creativo e ampliato il perimetro delle soluzioni ammissibili alla validazione esecutiva del progetto. In ultima analisi l’artista ha contribuito in modo determinante alla formazione di una piattaforma concettuale sulla quale e dalla quale il ristorante pensa la gastronomia. Un progetto, anche questo, alimentato fuori dell’ambito specifico della preparazione culinaria, in cui la sensibilità filosofica ed estetica di Eliasson spinge verso direttrici inusuali di sperimentazione con il cibo e ciò che lo circonda. L’ultimo esempio analizzato si riferisce a un ambizioso progetto di ricerca del 2009, sulla produzione di valore attorno al prodotto nell’era contemporanea, ad opera del britannico

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Thomas Thwaites, dal titolo The Toaster Project. L’autore si chiede cosa si nasconda dietro i tasti lisci di un telefono cellulare o sotto le suole ammortizzate di un paio di scarpe da ginnastica. Cosa comporta l’estrazione e la lavorazione dei materiali da cui originano prodotti scontati per il consumatore contemporaneo? E ancora, quanta parte del valore economico e commerciale riconosciuto ai prodotti, corrisponde realmente a fattori fisico-materiali misurabili? Per rispondere a queste domande, Thwaites sceglie di concentrare l’attenzione su uno degli elettrodomestici più comuni e a basso costo del mercato globale, il tostapane, avviando un processo di analisi e di studio del prodotto di tipo fortemente speculativo, deliberatamente svincolato dai fattori contestuali di disponibilità tecnologica e dei materiali. Sceglie dunque di smontare il prodotto guidando l’attenzione su ogni singola parte, in questo modo razionalizzando il processo di analisi e sottraendolo ai condizionamenti culturali e formali della percezione dominante del tempo. A quel punto inizia un arduo percorso di auto-produzione di quei componenti e quei materiali essenziali almeno alla funzione pratica (resistenza, isolatori termici, cavi, carter; rame, ferro, mica, polimeri e nickel), fino ad assemblare una primitiva versione funzionante del prodotto, sintesi estrema della componente valoriale legata al lavoro e ai materiali. Alla fine, saranno serviti nove mesi di ricerca e di lavoro, e il costo finale risulterà 250 volte superiore a quello del prodotto campione, originariamente acquistato in negozio. La cosa più interessante non è l’esito finale dell’auto-manifattura, ma la lezione appresa, attraverso una semplice premessa condizionale, ancora una volta eversiva: se l’uomo contemporaneo fosse proiettato indietro nel passato, lontano dalla facile reperibilità tecnologica ed energetica dei nostri giorni, sarebbe ancora possibile riprodurre artefatti in grado di soddisfare una semplice funzionalità pratica come quella di “preparare un toast”? The Toaster Project aiuta a riflettere sui costi e sui pericoli della cultura consumistica a basso costo e sull’auspicabile superamento di politiche produttive e commerciali tese alla svalutazione semantica di prodotti di massa, da cui deriva la sovra-produzione illimitata a spese dell’ambiente: se i prodotti fossero progettati in modo più efficiente, sembra affermare Thwaites, con un minor numero di parti più facili da riciclare, avremmo oggetti che durano più a lungo e meno rifiuti. Quello che accomuna i casi studio qui raccolti, al di là dell’ambito disciplinare e della scala oggettuale, è l’adozione di un atteggiamento operativo (rispettivamente progettuale, strategico e valutativo) aperto e trasversale, capace di recuperare anche eventualità remote del processo, non validate nei precedenti passaggi del pensiero (ad esempio l’op-


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zione apparentemente assurda di autoprodurre componenti elettrici di un elettrodomestico). Si tratta di un atteggiamento del pensiero che, se allenato, si traduce in attitudine, e da cui derivano esiti progettuali innovativi, non convenzionali, diversamente efficaci sul piano della costruzione di senso. Questa selezione, per quanto discrezionale e limitata, mostra risultati più o meno definiti sul piano formale; si tratta di testimonianze situate in un campo ibrido della produzione, che ancora sfuggono a una classificazione tradizionale dei prodotti, ma che proprio per questo rappresentano ancora un interessante vettore di forte innovazione sistemica e formale nei processi del design e della formazione applicata al progetto.

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Bibliografia Aa.Vv. (2007). AC I DC Art Contemporain, Design Contemporain. Zurigo: JRP Ringier, ISBN 978-3-03764-013-5. De Bono, E. (2013). Sei cappelli per pensare. Milano: Rizzoli, Bur (Biblioteca Universale Rizzoli), ISBN 978-8817070492. De Bono, E. (2001). Creatività e pensiero laterale. Milano: Rizzoli, Bur (Biblioteca Universale Rizzoli), ISBN 978-8817126861. Dunne, A., Raby, F. (2013). Speculative everything. Design, fiction and social dreaming. New York : MIT Press, ISBN 978-0-262-01984-2. García-Antón, K., King, E., Brändle, C. (2007). Wouldn’t it be nice… wishfull thinking in art and design. Ginevra: Centre d’Art Contemporain Genève, ISBN 978-3-905829-24-2. Morin, E. (2017). La sfida della modernità, Firenze: Editrice Le Lettere, ISBN 978-88-9366023-5. Rawsthorn, A. (2018). Design as an attitude. Ringier & Les presses du Reel. (editore Jrp Ringier Kunstverlag Ag da internet), ISBN 978-3037645215. Seymour, J. (2018). Revolution or bust!. In Domus, n. 1020, Dicembre 2018, Milano: Editoriale Domus. Thwaites, T. (2011). The Toaster Project: or a heroic attempt to build a simple electric appliance from scratch. Princeton Architectural Press, ISBN 978-1568989976.



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conclusioni: il senso di un libro Stefano Follesa

Università degli Studi di Firenze - ITALIA

Il percorso di questo libro nasce e si sviluppa ai margini del convegno internazionale “From Spaces to Places” tenutosi presso il dipartimento DIDA dell’Università di Firenze nel Maggio del 2021. Attorno ai temi del convegno il libro raccoglie le riflessioni di ricercatori, designer, sociologi, musicisti, architetti e artisti; una piccola comunità di pensatori che indagano in maniera apparentemente disordinata e casuale i rapporti che intercorrono tra oggetti, spazi e persone nella dimensione urbana. I temi emersi durante quel convegno, nei mesi che lo hanno seguito, sono diventati il materiale di riferimento per una ricerca inversa, uno scambio di idee e risultati che si conclude con l’uscita del libro ma che costituirà la base per gli approfondimenti futuri. I contributi presentati al convegno sono stati dunque successivamente rielaborati, per questa pubbklicazione e ad essi si sono aggiunti quelli dei ricercatori del Laboratorio Design degli Spazi di Relazione dell’Università di Firenze che opera, nella didattica e nella ricerca, nell’ambito delle connessioni tra persone, oggetti e luoghi, analizzando il ruolo degli oggetti e delle tecnologie nella comprensione, percezione e trasformazione degli spazi, attraverso gli strumenti e le pratiche del Design. È una delle prerogative del design la capacità di ascoltare; la capacità di allargare gli scenari ampliandoli ai contributi delle altre discipline per poi far sintesi delle conoscenze attraverso gli strumenti del progetto. Pur muovendoci all’interno di una disciplina che si nutre di una continua e ossessiva innovazione ed è quindi costretta a rincorrere, nella ricerca e nel progetto, i ritmi incalzanti dell’obsolescenza, delle idee, degli artefatti e delle tecniche, abbiamo voluto ricorrere per questo lavoro ai tempi lunghi della riflessione (sono passati più di due anni sal convegno alla pubblicazione del libro) con l’obiettivo di sviluppare una rielaborazione medidtata delle idee e dei temi emersi e una fecondazione incrociata tra le analisi svolte e gli ambiti disciplinari coinvolti. Il risultato è una ricca raccolta di spunti e riflessioni “mature” che possono certamente contribuire ad alimentare la ricerca sullo spazio urbano. Alcuni temi che attraversano in maniera trasversale i contributi dei diversi autori meritano di essere adeguatamente evidenziati.


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Ciò che emerge in prima istanza in molti dei testi è che lo spazio pubblico non ha più una specifica attribuzione disciplinare in quanto, sempre più, territorio del confronto e della contaminazione tra le conoscenze. Compare nelle parole degli autori la necessità di abbattere le barriere che hanno storicamente diviso gli ambiti disciplinari per guardare alla città in una visione olistica che sappia far emergere la specificità dei differenti contributi ma anche sviluppare risposte nella contaminazione. Sempre più lo spazio urbano necessita di un progetto senza confini, scala e disciplina. Il singolo oggetto e, il singolo artefatto, la singola funzione, comunicativo assumono importanza per l’individuo quanto la trasformazione urbanistica che ha generato o ri-generato lo spazio. Il modello della Smart city si sovrappone a quello della città fisica; una città non più fatta di spazi, ma di molteplici relazioni, che per essere rielaborate nella dimensione progettuale, richiedono inevitabilmente un approccio interdisciplinare. Se pure le trasformazioni sullo spazio urbano derivino da una progettualità politico/ tecnica che coinvolge in primis gli urbanisti e gli architetti (e i due autori del libro, pur appartenendo agli ambiti disciplinari del design, sono per formazione entrambi architetti con esperienze di progettazione urbana), tuttavia la vocazione di uno spazio e la sua capacità di assumere la connotazione di luogo derivano da fattori che spesso trascendono gli ambiti decisionali e progettuali; la presenza di un buon bistrot è spesso in grado di rendere vivo uno spazio più delle sue componenti estetiche e funzionali e la musica in una piazza può guidare o modificare il nostro rapporto con lo spazio indipendentemente dalla sua costituzione. Sono le persone che restituiscono a uno spazio la dignità di luogo o forse, a dir meglio, sono le interazioni che si creano tra le persone e gli stessi spazi. E quindi la città va analizzata, nelle sue trasformazioni, in una visione congiunta che va dall’oggetto al macrospazio, dalle esigenze del singolo all’analisi sociale, dalle emozioni percettive alle funzioni, sino al ruolo dei terminali tecnologici che sempre più sostituiscono il ragionamento dell’utente nella perlustrazione degli spazi. È nelle pratiche performative che si disvelano nuove modalità di approccio allo spazio urbano; dal Tactical Urbanism agli allestimenti multimediali, dall’agopuntura urbana agli spazi sonori, prende corpo l’idea di “città temporanea”; la città come scena di trasformazioni continue che si susseguono e si avvicendano guidate dalle mutazioni sociali, dagli scenari economici, dall’avvicendarsi del linguaggi e delle innovazioni tecnologiche. Al contempo appare in molti testi l’idea di spazio urbano quale luogo deputato delle comunicazioni; una esaltazione della città che sa raccontare la sua diversità e che utilizza tale diversità come base per costruire forme di interazione con la comunità che la abita


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o la attraversa. È la citta della street art, del design narrativo, dei murales, delle poesie affisse sui muri, della volontà dei suoi abitanti di comunicare e raccontare i propri sentimenti, le proprie analisi del mondo, i propri stati d’animo. Ma è anche la città di un patrimonio culturale, diffuso nello spazio urbano, che è memoria della sua storia, degli accadimenti, delle persone e dei mutamenti e collettore di interazioni tra gli abitanti e gli spazi. Quello della narrazione del patrimonio culturale urbano è un tema primario che investe la disciplina sia per gli aspetti legati agli strumenti tecnologioci sia per quanto attiene la comunicazione visiva e il way finding nello spazio urbano. Nel volume il connotato di “luogo” viene quasi sempre relazionato allo spazio in cui ci si ferma, nel quale si ha “il tempo per capire lo spazio”, con una estensione al camminare lento e meditato della perlustrazione. Il camminare lento è interazione con lo spazio. Luca Lazzarini rilegge in tal senso la corrispondenza che De Certau fa tra il pedone e lo scrittore “il sussistere di un’omologia tra figure verbali e percorsi pedonali: il camminare diventa una forma di enunciazione (De Certau, 2001), una narrazione verbo-spaziale del luogo che avviene nei percorsi pedonali, i quali rappresentano veri e propri supporti alle forme verbali di espressione. Così come il pedone si appropria del sistema topografico, così il locutore si appropria della lingua assumendola come tale” (Lazzarini, 2020). E il geografo Yi-Fu Tuan (1977), più volte citato in questo libro, esprime il luogo come “pausa”: “ Furthermore, if we think of space as that which allows movement, then place is pause; each pause in movement makes it possible for location to be transformed into place”. La distinzione tra camminare e sosta e l’attraversamento degki spazi funzionale agli spostamenti è una distinzione fondamentale. La mancanza di interazione è elemento caratterizzante degli spazi fugaci della città contemporanea, gli spazi che attraversiamo nella ricerca frenetica del percorso più veloce che possa unire due punti. In tale percorso la città quasi non compare, la città diventa disturbo nella dimensione ossessiva del tempo. Altro tema che attraversa i testi è l’idea di luogo quale spazio delle interconnessioni. Non solo le interazioni che appartengono ai rituali sociali di cui parla La Pietra nel suo testo introduttivo, quel rapporto tra le persone determinato dalle funzioni svolte nello spazio, ma anche, e soprattutto, l’interazione come reciprocità tra le persone e gli spazi; un’idea di città che dialoga con i suoi abitanti attraverso terminali fisici e tecnologici che appartengono alla dimensione ibrida della città contemporanea. Sono molteplici le modalità con cui la città genera interazioni; alcune appartengono alla sedimentazione storica degli spazi ed esplicitano il fascino che la città esercita sui suoi visitatori e sui suoi abitanti, altre appartengono ai nuovi strumenti della città “connessa” e sono le installazioni temporanee nello spazio urbano e i terminali tecnologici della Hybrid City.

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L’ibridazione è uno dei temi centrali del dibattito pluridisciplinare sullo spazio urbano. L’impiego di tecnologie informatiche basate sulla localizzazione, i Real-Time Location Systems (RTLS) ha costituito la base per lo sviluppo di più recenti applicazioni che sviluppano nuove modalità di interazione con uno spazio che viene liberato dai suoi limiti fisici. “L’immagine della città, e i modi di immaginare l’esistenza entro i suoi limiti, si vanno modificando. La funzione del muro come punto fermo architettonico è sempre più messa in discussione, così lo sono lo spazio privato della casa e lo spazio pubblico della strada. La casa si definisce come senso di appartenenza e rifugio oltre ad essere uno spazio fisico. E ciò vale anche per lo spazio urbano, dove il mondo fisico e quello virtuale non sono alternativi, ma devono essere integrati. Lo spazio urbano dipende dal contesto narrativo che si riferisce al contesto culturale, all’identità urbana e al senso dei luoghi. Queste caratteristiche motivano la nozione di spazio”. (Scott McQuire. 2008. P11). La contaminazione tra arredi intelligenti (IOT) e Information and Communication Technologies (ICT) promuove forme alternative di approccio agli spazi che permettono sempre più di personalizzare il proprio rapporto con la città. In una migrazione dal concetto di Smart City a quello di Senseable City, sono i dati che permettono oggi di leggere e interpretare, anche in tempo reale, le scelte dei cittadini nello spazio e sviluppare nuovi scenari personalizzati per la città con un approccio che metta le persone al centro e la tecnologia come servizio. L’ultimo tra i temi portanti del libro è il tema della percezione e dell’esperienza dello spazio. Una percezione non più limitata alla esclusiva esperienza visiva che ha dominato le scelte estetiche sullo spazio urbano ma una percezione che si amplia agli odori, alle musiche, ai suoni, alle luci, che accompagnano e definiscono la nostra esperienza nello spazio. Se la percezione visiva, insieme a quella tattile, ha un ruolo primario nel rapporto fisico con lo spazio, le percezioni legate al gusto, agli odori e ai suoni lavorano sugli elementi associativi generando memorie che guidano l’identificazione e promuovono il ritorno. Scriveva Victor Hugo: “Nulla sveglia un ricordo quanto un odore” (I Miserabili). Elementi intangibili che sembrano sfuggire alle logiche di delimitazioni dello spazio disegnandone nuove configurazioni; la loro trasmissibilità, il loro permeare lo spazio a dispetto delle barriere fisiche li rendono nuovi strumenti di definizione dell’abitare. E talvolta la realtà degli accadimenti avvalora e conferma la dimensione elaborativa. Si pensi a come la recente pandemia abbia amplificato la percezone dello spazio domestico restituendo un ruolo ad alcuni rituali che sviluppano elementi percettivi: i rituali del cibo, la musica nelle terrazze, la riscoperta del silenzio. E così gli spazi sonori, gli spazi


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olfattivi, gli spazi tattili, assumono oggi un ruolo decisivo nella fluttuazione continua dello spazio urbano da spazio a luogo. Il senso del libro sta dunque nel raccogliere l’attimo delle trasformazioni attive nello spazio urbano in una fase complessa tra il post-covid e l’affacciarsi dei cambiamenti che l’intelligenza artificiale decreterà sulle nostre vite. Alla base di queste considerazioni il libro vuole essere un momento di sospensione in un dibattito in continuo divenire che, nella dimensione della contemporaneità, tende spesso a produrre concetti effimeri lì dove la città richiede invece soluzioni determinanti. Una raccolta ordinata e paziente di indizi che possono essere collegati per aspirare a soluzioni. Ci auguriamo, sperando che ciò possa non essere considerato una presunzione, che alcuni dei concetti espressi possano rappresentare degli ambiti di elaborazione sui quali innestare nuovi percorsi di indagine e nuovi elementi di progettualità. References De Certau M. (2001), L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma. Lazzerini L. (2020), Alcune considerazioni sull’utilità del camminare nell’insegnamento dell’urbanistica in Lazzarini L., Marchionni S.(2020) Spazi e corpi in movimento, Fare urbanistica in cammino, Firenze, SdT Edizioni. Scott McQuire (2008) The Media City: Media, Architecture and Urban Space. London: Sage Publications. Tuan Yi Fu (1977). Space and place, The perspective of experience. Minneapolis: University of Minnesota Press

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didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Maggio 2023





I contenuti di questo volume prendono forma e si sviluppano ai margini del convegno internazionale, From Spaces To Places, contributi di ricercatori, antropologi, artisti, architetti, designers, estetologi, sociologi e musicisti, i quali riflettono e si confrontano su come uno spazio diventa luogo. Il libro, successivamente, si arricchisce delle. ricerche effettuate all’interno dei laboratori Design degli spazi di relazione, Dipartimento DIDA, Università di Firenze e Mediterranean Inclusive Design, dipartimento PAU, Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ricerche svolte per attivare sinergie aggregative attraverso interventi puntiformi e semplici pratiche che vengono svolte quotidianamente nelle città per trasformare gli spazi in luoghi di incontro Francesco Armato, architetto-designer, Ph.D., ricercatore e docente presso il Corso di Laurea in Design e direttore del “Mediterranean Inclusive Design LAB”, sezione Spatial Design, Dipartimento PAU - Scuola di Architettura, Università Mediterranea, Reggio Calabria. Visiting professor, Suzhou Art And Design Institute e Jiangsu College of Engineering and Tecnology, Nantong University, Cina. Stefano Follesa, ricercatore e docente presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, è responsabile scientifico del DSR Lab (Laboratorio di Design per gli Spazi di Relazione). Ambasciatore per il Design Italiano nel Mondo, è visiting professor in alcune università internazionali. La sua ricerca indaga i rapporti tra oggetti e spazi con una attenzione specifica ai temi identitari e ai processi narrativi.

ISBN 978-88-3338-187-9

€ 25,00


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