Relazioni tra potere, corpo e natura dal medioevo all'età moderna e contemporanea

Page 1

RELAZIONI TRA POTERE, CORPO E NATURA DAL MEDIOEVO ALL'ETA' MODERNA E CONTEMPORANEA

Percorsi tematici per una didattica delle strutture di potere Saggio di Edoardo Ricci INDICE Introduzione

pag. 2

1. La struttura e le forme del potere

pag. 4

1.1 Le forme di potere medioevali

pag. 4

1.2 Le immagini letterarie del potere nel medioevo

pag. 9

1.3 La rappresentazione medioevale del corpo e della natura

pag. 11

1.3.1 L’ambivalenza simbolica del corpo medioevale

pag. 11

1.3.2 La visione della natura nel medioevo e la sua antropizzazione in paesaggi urbani e rurali

pag. 20

2. La rappresentazione del potere nell’età moderna

pag. 27

2.1 Le forme di potere dell’età moderna

pag. 27

2.2 La microfisica del potere nei rapporti gerarchici della società moderna

pag. 35

2.3 La disciplina dei corpi nell’età moderna

pag. 39

2.4 La natura dominata

pag. 52

3.1 Cenni sulle strutture di potere e di distruzione dell’età contemporanea

pag. 55

Seconda parte: progettazione del percorso tematico

pag. 58

2.1 Premessa metodologico-didattica

pag. 58

2.2 Un percorso, più percorsi tematici lunghi un triennio

pag. 61

2.3 Il percorso tematico come progetto didattico

pag. 65

Appendice con i testi del percorso tematico

pag. 71

Bibliografia

pag. 120

1


INTRODUZIONE Il lavoro che impugnate tra le mani è un tentativo, forse ambizioso, di tradurre in attività didattica una riflessione interdisciplinare sulle strutture di potere. E’ la complessità stessa della società contemporanea a richiedere oggi un approccio interpretativo di questo fenomeno, vero e proprio sostrato su cui poggiano le gerarchie e i rapporti sociali. Sebbene il tema di una simile riflessione possa sembrare apparentemente difficile, è in primo luogo la scuola, in quanto cantiere partecipativo di costruzione del cittadino, ad essere chiamata in causa da questa stringente esigenza.

Si tratta, cioè, di assolvere

pienamente alla missione di formazione della coscienza civica, al fine di creare cittadini consapevoli dei meccanismi che governano le relazioni di potere all’interno della società. Una scommessa del genere impone l’adozione di un forte approccio cooperativo tra le varie discipline di studio e, all’interno di esse, di un ruolo essenziale da parte di quelle umanistiche, in quanto capaci di fornire agli adolescenti di oggi quegli strumenti ermeneutici essenziali per comprendere le relazioni tra il sé e la realtà sociale. La scelta didattica del percorso tematico rappresenta, a nostro avviso, il mezzo ideale per comprendere a pieno la complessità delle relazioni sociali, poiché capace di veicolare una pluralità di significati e di interpretazioni ruotanti attorno ad una tematica unificante, quella delle strategie di dominio attuate dal potere sui corpi e sulla natura. Alla base di questo tentativo didattico agisce un’epistemologia olistica e interdisciplinare, che propone una visione conoscitiva complessa della realtà, fondata sui metodi dell’integrazione dei saperi e delle discipline, con la finalità di sollecitare gli allievi ad una costruzione critica e problematica delle dinamiche sociali di affermazione delle identità. Il ruolo dell’insegnante di materie letterarie assume, in questo processo, una valenza preziosa e imprescindibile, quella di mediare cioè tra un corpo di conoscenze complesse e l’insieme delle conoscenze pregresse ed esperienziali degli allievi. Il docente di letteratura e di storia dovrà, in altre parole, avvicinare gli studenti alla tematica proposta tramite un’azione di motivazione e coinvolgimento, ottenibile solo calando l’argomento al livello dell’esperienza e dell’opinione personale del ragazzo, ma soprattutto applicando un metodo induttivo di scoperta progressiva e condivisa a partire da testi o fonti, senza avere la pretesa di calare dall’alto un sapere preconfezionato e indiscutibile. Il segreto metodologico, che renderà dunque possibile proporre un percorso tematico sulle strutture di potere in una classe del triennio, consisterà nel trasformare la classe in una comunità ermeneutica. I protagonisti dei processi di apprendimento e della costruzione di significati saranno quindi gli alunni stessi, i quali parteciperanno e coopereranno ad un’attività di interpretazione dei documenti proposti, per poi essere guidati induttivamente dall’insegnante verso l’elaborazione dei concetti fondamentali e delle dinamiche costitutive del 2


fenomeno studiato. Riteniamo, infatti, che il senso di noia e di monotonia che contagia molti alunni, e anche diversi insegnanti, nel loro approccio all’attività scolastica dipenda in larga misura dal ruolo a cui sono relegati: quello di uditori e contenitori passivi di nozioni molto spesso sganciate dalla sfera dell’esperienza e delle opinioni personali. Il presente lavoro cercherà, dunque, di fornire risposte ad alcune delle questioni sollevate sinora, proponendo un approccio didattico il più possibile centrato sulla partecipazione attiva dello studente, consapevoli del fatto che alla base di ogni apprendimento c’è il sostrato imprescindibile della motivazione, senza il quale insegnare diventa come seminare in un terreno arido e non arato. La trattazione si suddivide in tre parti distinte: nella prima troverete una ricca tematizzazione teorica del percorso, rivolta esclusivamente all’insegnante, con la funzione di fornire il retroterra argomentativo su cui fondare l’attività didattica; nella seconda parte verranno fornite le indicazioni didattiche per progettare, organizzare e attuare il percorso; nella terza, l’appendice, saranno raggruppati i testi e le fonti proposte ed analizzate nella prima parte. Occorre, infine, prima di iniziare il viaggio di esplorazione delle strutture di potere, ricordare il contesto in cui questo lavoro è nato, un contesto del tutto formativo e operativo, ossia quello del Tirocinio Formativo Attivo (TFA), il percorso di abilitazione all’insegnamento che ha rimpiazzato le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS) a partire dal 2012. E’ nell’ambito di questo tragitto di formazione teoretica ed empirica, comprensivo dell’esperienza imprescindibile del tirocinio in classe, che è stato possibile progettare e proporre questo percorso tematico nelle classi del triennio di un Istituto Tecnico per il turismo di Conegliano. Tale progetto, dunque, risulta debitore non solo dell’esperienza maturata dall’autore in vari anni di insegnamento e durante il suddetto corso di TFA, ma soprattutto dei consigli dei docenti dell’Università degli studi di Padova e degli insegnanti tutor che hanno seguito il suo sviluppo in itinere. Un ringraziamento speciale, dunque, va alla prof.ssa Cisotto e ai docenti di Scienze della formazione, al prof. Viggiano e alla prof.ssa Bravin, nonché alla prof.ssa Perin, tutor e insegnante di Lettere delle classi succitate.

3


1. LA STRUTTURA E LE FORME DEL POTERE Proporre un'analitica del potere significa adottare un metodo archeologico, capace cioè di scavare e penetrare negli strati della sedimentazione culturale per dissotterrare le condizioni costitutive e originarie del fenomeno in questione. Per svolgere questa operazione ci avvarremo dell’ausilio di alcuni grandi indagatori delle strutture di potere, di testi letterari, di interpretazioni storiografiche e di documenti storici. Si tratterà, dunque, di un percorso nel senso letterale del termine, di una sorta di viaggio temporale attraverso le varie rappresentazioni culturali del potere e delle sue strategie di affermazione. Il potere, come scopriremo, ha una natura onnipervasiva nei rapporti umani, tanto da costruirli attraverso la codificazione di ruoli e funzioni. Non solo, esso ha come oggetti di dominio il corpo1 e la natura, che vengono assoggettati e reificati tramite i dispositivi del sapere tecno-scientifico, avvalendosi in ciò di strumenti quali la legge e la disciplina, al fine di conseguire il controllo sulla società e l’utilità economica necessaria alla sua preservazione. La struttura del potere conosce poi una varietà di manifestazioni storiche e di rappresentazioni simboliche a seconda delle culture e del tempo, assumendo perciò diverse forme di attestazione e sviluppando valori adeguati al contesto storico, nonché teorie capaci di giustificare l'applicazione di determinate strategie coercitive di controllo. Struttureremo la nostra indagine, perciò, su una tripartizione del fenomeno, trattando le forme del potere, le rappresentazioni del corpo e le concezioni della natura elaborate dal Medioevo all’età moderna, attraverso le testimonianze letterarie e storiche fornite dagli uomini del tempo. 1.1 Le forme di potere medioevali Per tracciare una storia del potere lungo il nostro percorso tematico, occorre fornire inizialmente alcune indicazioni sulle forme storiche che esso ha assunto. Se il potere teocratico del faraone e dei re delle antiche civiltà era opera di una divinizzazione e di una incarnazione della potenza ieratica nel corpo di un monarca semidio, la fenomenologia del potere medioevale innesta su questo meccanismo di sacralizzazione del sovrano, analizzato da Marc Bloch e Ernst Kantorowicz, una struttura politica frammentata e disgregata. Per quanto concerne il periodo dell'Alto Medioevo si può sottolineare la dialettica tra il potere universale, concepito come cesaropapismo ed egemonia carolingia e cristiana, e i poteri locali. Dopo la fine del tentativo di Carlo Magno di organizzare i territori imperiali secondo una 1

Cfr. Foucault Michel, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, pag. 10: “il corpo è direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l’obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni. Questo investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e reciproche, alla sua utilizzazione economica. E’ in gran parte come forza di produzione che il corpo viene investito da rapporti di potere e di dominio, ma, in cambio, il suo costituirsi come forza di lavoro è possibile solo se esso viene preso in un sistema di assoggettamento: il corpo diviene forza utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato […]. Questo sapere e questa signoria costituiscono […] la tecnologia politica del corpo”.

4


struttura amministrativa comitale incentrata su un forte dirigismo centrale, si assiste quindi alla frammentazione del potere, a tendenze centrifughe, a lotte ereditarie e all'esplosione di una moltitudine di conflitti interfeudali per l'ottenimento di titoli, benefici e immunità. E' quella che, con una semplificazione storiografica, è stata definita come anarchia politica del feudalesimo, ma che Gabriella Piccinni rilegge così: “più che una dissoluzione delle strutture di potere, gran parte d'Europa assistette a una nuova e diversa dislocazione dei poteri. Non si trattò propriamente di anarchia, di caos dovuto alla mancanza di un capo, quanto della ridistribuzione del potere: in Francia, nelle mani della grande aristocrazia a scapito del re; in Italia, in parte in mano delle grandi casate aristocratiche a livello del territorio, in parte forse anche maggiore in quelle dei vescovi rappresentanti delle città2”. La conclusione cui giunge la storica è che, per quanto riguarda il contesto “italiano”, sarebbe preferibile soppiantare il concetto di anarchia feudale con quello di particolarismo politico3. Con il capitolare di Quierzy, emanato da Carlo il Calvo nell'877, e con la successiva Constitutio de Feudis del 1037, il problema dell'ereditarietà dei feudi minori e maggiori appare risolto, ma i meccanismi di guerra e di difesa continuano ad essere i mezzi di assoggettamento di popoli e territori. Ne è prova la nuova forma di esercizio del potere che si sviluppa con le nuove invasioni di ungari, normanni e saraceni. L'incastellamento permise il radicamento sul territorio di alcuni signori e la costruzione di un potere di controllo e di sfruttamento che finì per sistematizzarsi nel cosiddetto potere di banno esercitato dalla signoria rurale4. Il vuoto creato dall'assenza del potere pubblico e centrale viene così riempito da ricchi proprietari terrieri che circondano i villaggi con mura, erigono fortificazioni a protezione della popolazione locale e assumono quei diritti di banno che erano stati precedentemente di esclusiva prerogativa regia. In questo modello si compie un'ibridazione, una vera e propria identificazione tra il potere militare di difesa, esercitato tramite il castello, il potere territoriale di comandare e costringere (signoria territoriale), il diritto di proprietà e sfruttamento della terra (signoria fondiaria), il potere economico e l'autorità giudiziaria (signoria bannale) 5. In questo 2 Piccinni Gabriella, Il Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2004. 3 Piccinni distingue, infatti, tra i casi dei vasti principati territoriali che si formarono in molte zone dell'Europa continentale (Aquitania, Bretagna, Provenza, Normandia, Tolosa, Catalogna, Champagne, Anjou, Fiandra, Lotaringia, Sassonia, Franconia, Svevia e Baviera) e la tendenza all'articolazione di poteri locali nel Regno d'Italia. 4 Importante è la distinzione operata da Marc Bloch, nell'opera La società feudale, tra i legami di vassallaggio e la signoria fondiaria. 5 Cfr. Piccinni, op. cit., pag. 73: “la signoria rurale fu un sistema di sfruttamento della terra e, progressivamente, divenne anche un sistema di comando di un territorio; un complesso di diritti su uomini e terre, dominato da un interesse economico, e un complesso di poteri di natura militare e giudiziaria, dominato da un interesse di prevalenza politica locale. Infatti il signore […] era il capo di un'organizzazione economica e, insieme, di un'istituzione politica”. Piccinni opera, inoltre, una distinzione tra: a) poteri costruiti dall'alto, da parte di alcuni conti che, grazie ai vincoli di parentela, ai legami vassallatici e ai possessi fondiari, riuscirono ad estendere il proprio dominio e a creare vasti principati territoriali “che riconoscevano al re solo un omaggio feudale”; b) poteri costruiti dal basso, ossia forme di organizzazione diverse dei poteri locali (conti e marchesi che da amministratori diventano signori

5


sistema di dominio, il potere esercitato dai signori si manifesta, come vedremo in seguito, tramite il controllo sui corpi dei servi e su uno spazio naturale confinato, recintato e trasformato in territorio fortificato, sul quale vengono esercitati perfino diritti sull'uso delle acque. Dopo la rinascita urbana dovuta all'incremento demografico, si compie la trasformazione di alcuni poteri locali in poteri cittadini e, in Fiandra, Provenza e Italia settentrionale, comunali. Il comune si configura come un'organizzazione di autogoverno costruita inizialmente da un'oligarchia aristocratica urbanizzata, che delegava a volte l'amministrazione a figure “tecniche” quali i podestà, successivamente rimpiazzata da una borghesia mercantile detta Popolo che provò ad organizzare il potere in senso corporativo e antimagnatizio (Firenze e Bologna). In alcuni casi, poi, si arrivò ad un accentramento del potere comunale nelle mani di un'unica persona e, con la sua trasmissione ereditaria, allo sviluppo della Signoria 6. Il potere urbano si riappropria della costruzione dei saperi e fonda sulle scuole pubbliche laiche e sulle università la selezione e la formazione della propria classe dirigente, ossia la perpetuazione delle sue strutture di dominio intellettualmente sublimate. Il comune comincia, inoltre, ad organizzare forme di controllo fiscale e di riscossione raffinate (l'estimo), di rendicontazione, di registrazione dei rapporti di proprietà e di documentazione amministrativo-giuridica, a lottizzare terreni e regolare piani di sviluppo edilizio. Il comune misura e controlla il suo spazio urbano, costruisce una seconda natura addomesticata, sicura e produttiva, crea i meccanismi di conservazione della sua struttura economica e politica tramite un'identificazione di ruoli e funzioni della sua popolazione. Il passaggio successivo diventa l'allargamento del suo potere oltre le mura, l'invasione e la conquista del contado, la sottomissione di piccole città circostanti, fino alla creazione di città stato e di distretti che si scontreranno con le signorie rurali di castello esercitate dalle grandi famiglie nobili. Fatto sta che ora i cittadini si scoprono proprietari terrieri, acquistano appezzamenti, inglobano le piccole proprietà contadine, fino a sviluppare forme di economia mezzadrile e padronale. Il potere comunale fu comunque un'altra forma che si andò ad aggiungere e a sovrapporre ad altre tipologie di poteri esercitati sui territori: spesso, infatti, il comune si trovava all'interno di regni o dell'impero e coincideva con la diocesi vescovile. Il territoriali su base eredeitaria; feudatari che divennero proprietari e signori di terre ricevute come compenso per il servizio armato prestato; signorie rurali che sfruttarono la necessità di difesa e di organizzazione delle popolazioni per costruire un sistema di comando sul territorio). 6 Non è possibile tracciare la linea evolutiva e semplificatrice di una certa storiografia manualistica che vede una continuità tra comune podestarile, popolare e signorile. Cfr. Piccinni, op. cit., pag. 187: “si dice spesso, per semplificare, che il comune podestarile fu seguito dal comune di Popolo e che la crisi di quest'ultimo determinò l'avvento della signoria di una famiglia eminente nel governo della città. Nella realtà le cose furono un po' più complesse. Così come i regimi popolari nacquero dall'interno stesso di quelli podestarili e così come anche nel Popolo erano presenti alcune famiglie di estrazione aristocratica, anche le signorie familiari sulle città nacquero dalla crisi dei comuni, ma sempre dentro i comuni. Si ebbero signorie cittadine, cioè, quando alcuni poteri particolari del comune vennero affidati, per un certo periodo, a un solo personaggio di prestigio che, con il tempo, cominciò a tenerli per sé e a passarli ai suoi figli ed eredi. In qualche caso, addirittura, la signoria nacque dal fatto che un alto magistrato della città trasformò il suo incarico a tempo determinato in un ufficio a vita”.

6


potere comunale, quindi, finì per convivere e a volte per scontrarsi con i due poteri universali del medioevo, quello imperiale e quello papale. Lo scontro tra papato e impero vide confrontarsi, infatti, due forme di dominio confuse e complementari nelle loro funzioni e spesso sovrapponibili nei loro estremi: da un lato la velleità teocratica, elaborata da Gregorio VII e coronata da Innocenzo III, consistente in un'egemonia temporale di una Chiesa monarchica governata da un papa-re; dall'altro il progetto svevo di un cesaropapismo esercitato da un re-papa di un impero universale e cristiano. Entrambi i poteri, nella loro pretesa di universalità, si fondano su giustificazioni teoriche, su saperi storicofilosofici e teologici: Ottone di Frisinga elabora la teoria del dominium mundi e della traslazione dell'impero romano in quello germanico; Gregorio VII afferma nel Dictatus papae il primato assoluto del papa su qualunque autorità secolare. L'impero si avvale del braccio della legge 7 e della sistematizzazione del diritto del potere regio (iura regalia) elaborata dai giuristi dell'Università di Bologna; la Chiesa risponde con lo sviluppo del diritto canonico ordinato dal monaco Graziano nel Decretum Gratiani. Ancora una volta, dunque, il conflitto tra poteri politici si nutre e si alimenta attraverso il confronto tra saperi, cui viene affidato non solo il compito di avvalorarne e giustificarne le pretese egemoniche, ma soprattutto quelli di formare l'apparato dirigente e di esercitare forme di comprensione e giurisdizione della realtà sociale. Innocenzo III promuove il papa a vicario di Cristo, lo proietta nel simbolo del sole, ne fa anima di un impero ridotto a immagine del corpo e della luna. E' proprio in questa rappresentazione archetipica del dualismo tra anima e corpo e tra simbologie del giorno e della notte che si consuma la pretesa di dominio di un potere fattosi astratto sulla realtà materiale del territorio e dei corpi dei sudditi. Il simbolo solare fonda la mitologia del potere e l'assolutezza del monarca divinizzato da Akhenaton a Luigi XIV, senza soluzione di continuità. La stessa immagine uranica viene ripresa qualche anno dopo nel Liber Augustalis (Costituzioni di Melfi), in cui Pier delle Vigne elabora a vantaggio di Federico II la teoria del principe come centro di tutte le attività umane, fonte unica del diritto e depositario della giustizia, la cui funzione di governo è un dovere ispirato dalla provvidenza divina8. Un

7

8

Cfr. Foucault Michel, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, pag. 94: “Un principio generale, per quel che concerne i rapporti tra diritto e potere: mi sembra che, nelle società occidentali e sin dal Medioevo, l’elaborazione del pensiero giuridico si è fatta essenzialmente intorno al potere reale. E’ su domanda del potere reale, a suo profitto e per servirgli da strumento o da giustificazione che si è elaborato l’edificio giuridico delle nostre società. Il diritto in Occidente è un diritto comandato dal re”. Cfr. Vagnoni Mirko, Lex animata in terris, rivista Mediaevalsophia di gennaio-giugno 2009, pag. 108: “in questo periodo, grazie al riavviato studio del diritto romano giustinianeo diffusosi tra i giuristi dell’università di Bologna su iniziativa di Federico I Barbarossa, si dischiude all’impero una nuova fonte di dignità sacra completamente svincolata da qualsiasi ingerenza della Chiesa. In altre parole la solennità dell’antico diritto romano viene ad irradiare di sé tutto l’ambito imperiale, dalla persona dell’imperatore alle sue leggi, divenendo il nuovo contrassegno dell’immediata derivazione da Dio del potere temporale. In questo modo l’impero diviene di per se stesso sacro […] e dal 1231 Federico II si fa addirittura raffigurare negli abiti di un antico imperatore

7


poeta anonimo della corte federiciana scriverà poi alla sua morte “cecidit sol mundi, qui lucebat in gentibus; cecidit sol iustitiae; cecidit amor pacis”. La lotta triadica tra poteri imperiale, papale e comunale si risolve con l’alleanza tra questi ultimi due e la vittoria del guelfismo, che a sua volta finirà per suddividersi in due fazioni contrapposte come accadde a Firenze. La guerra si conferma essenza del potere politico stesso, suo strumento di conquista e di consolidamento, mezzo di affermazione della sua identità in contrapposizione ad una diversità. Torneremo a parlare della funzione della guerra nell’età moderna, quando servirà alla costruzione degli stati nazionali, fino a subire una statalizzazione essa stessa. Chiuderei questa trattazione del potere medioevale con un breve approfondimento sulla fenomenologia della potenza corporea del re. March Bloch ci consegna in uno dei suoi capolavori un’analisi puntuale delle figure dei re taumaturghi francesi e inglesi: tra il XII e il XIII secolo, infatti, la propaganda reale circonda l’immagine del monarca di un’aura soprannaturale, diffondendo la credenza miracolosa che il re, ritenuto “unto dal Signore”, abbia la facoltà di curare le scrofole con il tocco delle sue mani e con la formula “il re ti tocca, Dio ti guarisca”. La lotta per le investiture viene risolta in Francia da un’alleanza tra trono e altare, tra scettro e pastorale, che condurrà alla formalizzazione del diritto sacro del re di governare una nazione cristiana. I suoi poteri di guarigione miracolosa diventano, allora, emanazioni della volontà divina, della benevolenza di Dio nei confronti del sovrano, consolidandone l’autorità e il controllo sui sudditi. Bloch dimostra, inoltre, come la pubblicistica medica e scientifica, specie sotto il regno di Filippo il Bello, cominci a trattare del “male del re” e del miracolo del tocco. Il re Carlo V il Saggio proseguirà l’opera apologetica ispirando il trattato del carmelitano Jean Golein sulla consacrazione dei re e sulla loro capacità sovrannaturale di guarigione. Il merito di Bloch è sicuramente quello di aver indagato la dialettica tra corpi dominatori e corpi dominati, dimostrando come il corpo del re possa divenire esso stesso veicolo del potere di curare altri corpi malati e, in ultima istanza, di assoggettamento di questi9. Il corpo stesso del sovrano riceve l’unzione sul capo, sulle braccia, sulla spalla o sulla mano, viene marchiato fin da fanciullo, secondo le tradizioni folkloriche, dal naevus, una macchia di sangue a forma di croce che ne garantisce la successione al trono, segno della stirpe reale. Kantorowicz nella sua analisi sui due corpi del re, individua come propria del medioevo una regalità politocentrica, che pone al centro la relazione tra uno e molti, cioè tra monarca e comunità, basata sul corpus mysticum e romano. Ma un ulteriore particolare iconografico rivela chiaramente su quale ideologia politica il nostro imperatore fa leva per sacralizzare il suo potere: l’adozione […] del tema del sovrano come fonte del diritto e lex animata in terris che si diffonde alla base del complesso scultoreo della porta di Capua e della perduta raffigurazione del palazzo di Napoli”. 9 Bloch tratta anche di altri riti miracolistici celebrati dai re e li considera alla stregua di instrumentum regni. Tra di essi va ricordato il rito degli anelli con i cramp-rings (anelli contro il crampo) che, una volta consacrati dal re, avrebbero alleviato dolori e spasmi muscolari; lo stesso rito dell’unzione regale.

8


sull’identificazione analogica tra corpo cristico, eucarestia e comunità di credenti 10. Nel XIII secolo si compirebbe, secondo l’autore, una politicizzazione del corpo mistico, una trasposizione cioè della sua simbologia dalla comunità ecclesiale a quella politica, per poi evolvere in Inghilterra nella dottrina dei due corpi sotto l’età dei Tudor. Da entrambi gli studi citati, dunque, emerge la stretta relazione tra le strutture di potere medioevali, l’uso dei corpi e della natura con finalità di dominio, la validazione operata dai saperi “scientifici” nei confronti delle rappresentazioni dell’autorità, l’essenzialità dello strumento bellico per il controllo del territorio. Questi elementi saranno, dunque, i cardini del nostro percorso tematico interdisciplinare. Dopo aver delineato l’impianto teorico, resterà da affrontare volta per volta la trasposizione didattica dei contenuti. Di questa vasta e complessa trattazione converrà proporre alla classe una sintesi delle varie tipologie di potere (feudale, di banno, comunale, imperiale/regale, papale), facendo riflettere i ragazzi sulle loro caratteristiche e le differenze che le contraddistinguono. Potrebbe seguire un’analisi sulla corporeità del re a partire dall’analisi di alcune fonti storiche tratte dai libri di Bloch e Kantorowicz. Dopo la lettura dei documenti, gli allievi saranno coinvolti nell’interpretazione dei significati proposti dai testi, cercando di guidarli verso la concettualizzazione di alcuni nessi teorici fondamentali. 1.2 Le immagini letterarie del potere nel medioevo L'aquila imperiale come simbolo del potere affonda i suoi artigli nell'immaginario dell'Impero romano, conoscendo però una longevità anche nel Medioevo: il Sacro Romano Impero, infatti, riprende l'immagine del rapace nella volontà di imitare lo splendore e la cultura dell'antica Roma. Dante suffraga questa linea di continuità nel canto VI del Paradiso dove celebra Giustiniano con un lungo monologo che ha per incipit i celebri versi “Poscia che Costantin l'aquila volse contr'al corso del ciel” e traccia una storia dell' “uccel di Dio” come simbolo di un disegno provvidenziale che prepara la venuta di Cristo e, sotto Tiberio, permette attraverso il suo sacrificio la redenzione dell'umanità. Ne emerge una visione provvidenziale del potere imperiale, esaltato dal poeta come valore assoluto e incarnazione della giustizia divina, una sorta di utopia ideale dalla quale criticare la degenerazione del potere conflittuale e disgregato delle lotte comunali. Da qui l'invocazione di Dante ad Arrigo VII per un intervento in Italia capace di 10

Kantorowicz cita nel suo libro due interventi che rendono bene l’idea dell’analogia simbolica tra il corpo mistico ecclesiastico e quello politico: uno religioso di papa Bonifacio VIII che, nella bolla Unam Sanctam, afferma “sollecitati dalla fede, siamo indotti a credere in una santa Chiesa, cattolica e apostolica […], senza cui non vi è salvezza, né remissione dei peccati […], e che rappresenta un corpo mistico, il cui capo è Cristo, e capo di Cristo è Dio”; uno secolare del giurista Luca da Penne (1325-1390): “è contratto un matrimonio morale e politico tra il principe e la res publica. Inoltre, allo stesso modo in cui è contratto un matrimonio divino e spirituale tra il vescovo e la Chiesa, così tra il principe e lo stato si conclude un matrimonio temporale e terreno. E come la Chiesa è nel prelato e il prelato nella Chiesa, così è il principe nello Stato e lo Stato nel principe”.

9


ricondurre la frammentazione politica sotto l'aquila del potere centrale imperiale. L'essenza conflittuale del potere medievale trova conferma su grande scala con lo scontro tra Papato e Impero, tra sfera spirituale e sfera temporale, e Dante la risolve con la metafora dei due soli che ne rappresenta la distinzione funzionale rispetto alla duplice natura umana (materiale e spirituale): al papa spetta condurre le anime verso la beatitudine eterna, mentre all'imperatore tocca, attraverso il governo del mondo, assicurare la felicità terrena. Nel canto XVI del Purgatorio è Marco Lombardo ad esporre l'immagine dei due soli: “Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, due soli aver, che l'una e l'altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo” (vv.106-108). L'insegnamento della tradizione romana viene però trasgredito dal progetto teocratico della Chiesa, tanto che “l'un l'altro ha spento/ ed è giunta la spada/ col pasturale, e l'un con l'altro insieme/ per viva forza mal convien che vada;/ però che, giunti, l'un l'altro non teme” (vv- 109112). I due poteri vengono rappresentati nell'identificazione dei rispettivi simboli, la spada imperiale e il bastone pastorale vescovile. L'importanza di non confondere i due poteri, di mantenerli distinti in una reciprocità di funzioni era già stata teorizzata dal poeta fiorentino nel De Monarchia, dove viene affermata la necessità di una coordinazione tra due forme di potere derivanti entrambi da Dio: “L'ineffabile Provvidenza ha dunque posto davanti all'uomo due fini cui tendere: cioè la felicità di questa vita […] e la felicità della vita eterna [....]. A queste felicità, come a diverse conclusioni, occorre giungere con diversi mezzi. Infatti giungiamo alla prima per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li seguiamo operando secondo le virtù morali e intellettuali; e alla seconda per mezzo degli insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologali, cioè la fede la speranza e la carità […]. E perciò fu necessario all'uomo una duplice guida corrispondente al duplice fine: cioè il sommo Pontefice che, a norma delle verità rivelate, guidasse il genere umano alla vita eterna; e l'Imperatore che, a norma degli insegnamenti filosofici, indirizzasse il genere umano alla felicità temporale” (De Monarchia, III, 16). E' importante notare, ai fini del nostro percorso che traccia la relazione consustanziale tra potere e sapere, come alla distinzione tra le funzioni dei due poteri medievali corrisponda in Dante la differenza tra i principali saperi dell'epoca: quello filosofico è il mezzo della felicità terrena, mentre quello teologico è il veicolo della salvezza spirituale. La condizione umana terrena e quella di beatitudine spirituale vengono perciò definite, circoscritte ed oggettivate tramite le conoscenze scientifiche dell'epoca e i loro modelli, Aristotele e Tommaso d'Aquino. La riscoperta della Politica dello Stagirita, infatti, dalla seconda metà del Duecento in poi, genera un 10


rinnovamento del pensiero politico medioevale: l’uomo si scopre animale politico, “per natura un essere socievole e lo Stato è un prodotto naturale11”, una forma di organizzazione essenziale per raggiungere la felicità, fine ultimo di tutte le cose. La concezione medioevale della politica, dunque, fondata su una visione trascendente che affida all’individuo una destinazione ultraterrena (la città di Dio) e lo allontana dal mondo e dalla società12, viene poi confutata da Marsilio da Padova nel Defensor pacis, nel quale viene avanzato un modello di stato laico, in cui il potere non ha più una natura teologica, ma trae origine dalla volontà di tutti i cittadini. Il sovrano, perciò, non riceve l’autorità né direttamente da Dio, né dall’investitura del papa, bensì unicamente dai cittadini, cui spetta il potere di legiferare tramite assemblee generali: “l’autorità umana di legiferare spetta solo al corpo sociale nella sua totalità o alla sua parte più significativa”, il quale deve farsi “valere a causa della sua elezione con la volontà politica espressa con regolari decisioni nell’assemblea generale dei cittadini13”. Marsilio, dunque, contrappone al modello dantesco della complementarità dei due poteri universali una visione comunale del potere, in cui il popolo, una minoranza selezionata con criterio censitario, si autogoverna con forme di rappresentanza parlamentari14. 1.3 LA RAPPRESENTAZIONE MEDIEVALE DEL CORPO E DELLA NATURA 1.3.1 L’ambivalenza simbolica del corpo medioevale Il Medioevo elabora una visione svalutativa del corpo, raccogliendo il dualismo platonico che ne fa la tomba dell’anima, e sovrapponendovi la teoria cristiana dell’immortalità di quest’ultima. Il corpo diventa allora veicolo del peccato, come predica la dottrina paolina15, materia da mortificare al fine di raggiungere la purificazione dagli istinti e dalle tentazioni della carne, simbolo della caducità e della finitudine umana16. Con il prevalere dell’ideale ascetico la Aristotele, Politica, Libro I, 1253a, 3-4. Cfr. Sant’Agostino, De civitate dei, Libro II, § 21, tr. it. La città di Dio, Rusconi, Milano 1984, pag. 157: “la vera giustizia è solo in quello Stato, se pure si può chiamare così, fondato e retto da Cristo, giacché è innegabile che esso sia cosa del popolo […] la vera giustizia è in quella citta della quale la Sacra Scrittura proclama: Di te si dicono cose stupende, Città di Dio”. 13 Marsilio da Padova, Defensor pacis, a cura di G. Garofalo, Minerva italica, Bergamo 1976. 14 La struttura di potere comunale, chiaramente, non corrisponde nella realtà alla teoria aristotelica rielaborata e proposta da Marsilio, poiché all’arengo o al parlamento partecipò sempre una ristretta oligarchia. Per godere della cittadinanza e partecipare al governo comunale, inoltre, bisognava essere maggiorenni, maschi, cristiani, pagare una tassa di ammissione e, molto spesso, possedere una casa. 15 San Paolo, Prima lettera ai Corinti, 1, 29: “nessuna carne si glorifichi dinanzi a Dio”. E ancora dopo (15, 4344,50): “si semina un corpo naturale e risorge un corpo spirituale […]. Vi dico, infatti, fratelli, che la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità”. 16 Cfr. Le Goff Jacques, Il corpo nel medioevo, Laterza editore, Bari, pag. 5: “il corpo è disprezzato condannato, umiliato. La salvezza, nel mondo cristiano, passa attraverso la penitenza corporale. Agli albori del Medioevo, papa Gregorio Magno definisce il corpo «abominevole rivestimento dell'anima». Il modello umano della società dell'alto Medioevo, il monaco, mortifica il proprio corpo. Portare il cilicio sulle carni è segno di alta spiritualità. Astinenza e continenza sono tra le virtù primarie. Gola e lussuria sono tra i più grandi peccati capitali. Il peccato originale, fonte dell'umana disgrazia, che nella Genesi è presentato come un peccato di orgoglio e una sfida lanciata dall'uomo a Dio, diviene nel Medioevo un peccato sessuale”. 11 12

11


passione amorosa diventa pericolosa fonte di rimorso e può essere o sublimata, come accade nella lirica provenzale e siciliana con la figura della donna-angelo, creatura dai contorni astratti e sfuggenti, immagine priva di corporeità, o addirittura spiritualizzata in senso religioso, come la Beatrice dantesca, connotata con tratti teologici come medium tra mondo terreno e verità divina. La passione amorosa può coinvolgere ad un punto tale i sensi da diventare distruttiva e la donna salvifica può così trasformarsi in essere crudele che con un saluto trafigge il cuore attraverso gli occhi, come accade nella poesia Voi che per li occhi mi passaste ‘l core di Guido Cavalcanti. A differenza della strategia dantesca di sublimazione della sensualità, Cavalcanti vive fino agli estremi la contraddizione fra amore terreno, che non può non essere passione o piacere sensuale, e razionalità. Al di qua di questa tendenza dualistica che demonizza la sfera sensoriale, prolifera invece un filone culturale che riscatta la corporeità. Come nota bene Le Goff, infatti, la rappresentazione medioevale del corpo dimostra una certa ambivalenza di fondo: alla stigmatizzazione del corpo si contrappone la sua esaltazione. Gli estremi parossistici di questa oscillazione sono ben rappresentati dal re di Francia Luigi IX il Santo e da San Francesco d’Assisi, il giullare di Dio17 o dal combattimento tra Quaresima e Carnevale dipinto da Bruegel18. Un esempio letterario di questa antinomia si può riscontrare in ambiente toscano, dove fa da contraltare alla raffinatezza dello stilnovismo quella linea di poesia comica che rappresenta la materialità dell’amore attraverso figure di donne fin troppo concrete, avide, lussuriose e traditrici, che si affermano attraverso sentimenti di malizia e istinti di sopraffazione, come la protagonista del sonetto Becchin amor! di Cecco Angiolieri. Il conflitto tra la dottrina cattolica dell’astensione dalla sessualità e la forza pulsionale della libido esplode, poi, nell’opera di Boccaccio, in cui avviene una rivalutazione della corporeità, una celebrazione delle forze della natura e della felicità dei sensi. L’uomo boccacciano vive e agisce in una dimensione mondana, è dominato da pulsioni e dalla forza incoercibile delle passioni naturali e dell’istinto amoroso. Alla Cfr. Le Goff Jacques, op. cit., pag. 6: “D'altro canto, nel cristianesimo medievale si assiste a una glorificazione del corpo. L'evento capitale della storia - l’Incarnazione di Gesù Cristo – è stato il riscatto dell'umanità attraverso il gesto salvifico di Dio, del figlio di Dio, che ha assunto un corpo di uomo. E Gesù, Dio fatto carne, ha vinto la morte: la resurrezione di Cristo fonda il domma cristiano della resurrezione dei corpi, credenza inaudita nel mondo delle religioni. Nell'aldilà, uomini e donne ritroveranno un corpo, per soffrire all'inferno, per gioire legittimamente grazie ad un corpo glorioso in paradiso, ove i cinque sensi saranno appagati al massimo grado […]. Nel «bel Duecento» […] due personaggi emblematici incarnano l'atteggiamento parossistico dei cristiani nei confronti del corpo. Il primo è il re di Francia Luigi IX (san Luigi), che umilia il proprio corpo in un estremo sforzo devozionale per meritare la salvezza eterna. Il secondo è il grande san Francesco d'Assisi, suo modello, che ha vissuto nel modo più significativo sul proprio corpo la tensione che percorre l'Occidente medievale. Asceta, ha domato il corpo nella mortificazione. Ma giullare di Dio, predicando la gioia e il riso, ha venerato «frate corpo» e nel corpo è stato ricompensato ricevendo le stigmate, segno dell'identificazione con il Cristo sofferente nella propria carne. Il corpo cristiano medievale è attraversato da parte a parte da questa tensione, questo altalenare questa oscillazione tra rimozione ed esaltazione, umiliazione e venerazione”. 18 Cfr. Le Goff, op. cit., pag. 20: “La vita quotidiana degli uomini del Medioevo oscilla tra Quaresima e Carnevale, in una lotta immortalata da Pieter Bruegel nel famoso dipinto del 1559, Il combattimento tra il Carnevale e la Quaresima. Da una parte il magro, dall'altra il grasso. Da una parte il digiuno e l'astinenza, dall'altra bagordi e crapule”. 17

12


donna-angelo viene contrapposta la donna terrena, il corpo femminile denudato e desiderato (V,1). Si tratta di una vera rivoluzione culturale in cui il corpo viene rivalutato come fondamento biologico dell’essere, considerato nella sua fisicità e nei suoi bisogni, proiettato verso il raggiungimento della felicità mediante il soddisfacimento delle “forze della natura”. Nel Decameron la tematica erotica è diffusa, ma una delle novelle che meglio può adattarsi al nostro discorso è sicuramente la seconda della IX giornata. Qui si intrecciano i motivi della natura pulsionale del corpo e del potere etico che cerca di reprimerla e censurarla. Da una parte Isabetta, una giovane suora che viene scoperta con un amante e denunciata dalle consorelle, dall’altra il potere morale e gerarchico incarnato dalla badessa, che stabilisce una legge di dominio degli istinti valida per gli altri, ma non per se stessa. Il meccanismo ironico e antifrastico adottato da Boccaccio, che si avvale della demistificazione operata dalla scoperta di un oggetto del peccato indossato come copricapo dalla badessa al posto del salterio, permette di rovesciare i rapporti di potere, di giustizia e di verità. Il contesto scelto è proprio quello classico in cui l’autorità celebra la sua potenza, ossia il processo nel quale l’imputata, rea di aver ceduto alla passione corporea, viene giudicata al cospetto del capitolo delle suore. Di fronte alla scoperta del peccato commesso dal potere stesso, ecco che la badessa finisce non solo per prodigarsi in un’apologia degli stimoli della carne, ma addirittura per liceizzare la stessa pratica condannata. Il potere sorpreso nella violazione della legge, dunque, modifica la legge stessa, depenalizzando il reato, per tornare ad esercitare il suo dominio: viene generalizzato il privilegio di cui esso stesso godeva, estendendo a tutto il monastero la possibilità di obbedire alle leggi della natura. Si compie così una parodia del potere moralista della badessa ed una celebrazione della vita19. Se questo scontro comico ha un finale lieto, nel Decameron troviamo un altro conflitto esemplare tra eros e ragione del potere, la cui conclusione tragica non lascia questa volta scampo alla protagonista: si tratta della prima novella della giornata IV. A perorare la rivendicazione della necessità di rispettare la sfera naturale degli istinti è Ghismunda, donna coraggiosa e orgogliosa del suo amore per il valletto Guiscardo, al cospetto del principe Tancredi, immagine del potere paterno prima ancora che politico. Tant’è vero che Boccaccio afferma che il principe di Salerno fu “signore assai umano e di benigno ingegno”. E allora come spiegare la crudeltà con la quale, una volta scoperta la segreta relazione carnale della figlia, le fa trovare il cuore dell’amato in una coppa? La critica psicanalitica ha proposto la giustificazione dell’incesto, secondo cui Tancredi, rimasto vedovo, avrebbe sviluppato una passione nei confronti della figlia e perciò ucciso il suo

19

Giuseppe Petronio, riguardo alla novella della badessa, afferma: “si diverte il Boccaccio e si gode e ricanta così lietamente quell’allegra avventura perché in lui non vi sono più pregiudiziali moralistiche o mistiche, e nemmeno disdegni boriosi per questa materia di commedia, ma vi è sola, anzi, la gioia di contemplare la vita, tutta quanta la vita, e di goderla così, anche in questi aspetti comici”. Cfr. Boccaccio G., Decameron, a cura di G. Petronio, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 738-739.

13


pretendente. A noi piacerebbe adottare un’altra ottica ermeneutica. La lucidità con cui l’eroina Ghismunda argomenta la teoria boccacciana del “concupiscibile desiderio”, che reclama inesorabilmente il soddisfacimento dei sensi, e adduce corollari quali la coincidenza di amore e gentilezza nella coppia di innamorati e la nobiltà d’animo, malgrado l’umile origine, di Guiscardo, non impietosisce il padre20. Malgrado Ghismunda gli preannunci la volontà di suicidarsi21, il principe sacrifica Guiscardo, salvo poi pentirsi una volta giunto al capezzale della figlia avvelenatasi con la stessa coppa colma di veleno. E’ solo dopo aver assistito alla morte di Ghismunda e aver udito il suo ultimo desiderio di vedersi seppellita con il suo uomo22, che Tancredi cede ed esegue la sua volontà. I corpi dei due amanti hanno sfidato, dunque, il potere paterno, lo hanno ingannato, cercando di sfuggire al suo controllo. La risposta di Tancredi si risolve nell’uso della forza per difendere la sua autorità minacciata dai corpi ribelli dei due amanti, disinibiti nella pratica di quella sessualità di cui è privato il padre vedovo. La sua vendetta è, dunque, lo strumento necessario che il potere paterno ha per conservarsi integro: venuto meno il controllo sul corpo della figlia, l’unico mezzo risulta quello di annientare il corpo di Guiscardo, presentandone all’amata solo l’organo simbolico del loro rapporto amoroso. Contro questa pena che sa di contrappasso analogico, Ghismunda reagisce con un autoannullamento che assomiglia ad un rito antropofagico: nel bere il veleno dalla coppa contenente il cuore dell’amato, pare volerne introiettare simbolicamente l’essenza. In ultimo, sul letto di morte, “compose il corpo suo sopra quello e al suo cuore accostò quello del morto amante”. Il principe Tancredi, sconfitto per aver abusato del suo potere di padre distruttivo e spietato, concede alfine l’unione perpetua dei due corpi nella sepoltura, dopo averla negata da vivi, poiché ha ripristinato su di loro il controllo e l’autorità che gli spettava. Il suo pentimento finale dimostra la personalità plurale di un uomo non riducibile al soggetto che incarna quel ruolo crudele costruito dalle necessità di autoconservazione delle relazioni di potere. In Boccaccio si può riscontrare, tuttavia, anche la presenza del corpo malato, che determina l’<<orrido cominciamento>> dell’opera con la descrizione della peste a Firenze e della sua sintomatologia medievale: “nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti Ghismunda sottolinea l’aspetto materiale dell’uomo e rivendica i diritti del corpo per legittimare il proprio desiderio di amore e di felicità: “Esser ti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro”. 21 “per ciò che io t’acerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno”. 22 “per ultimo don mi concedi che, poi a grado non ti fu che io tacitamente e di nascosto con Guiscardo vivessi, che ‘l mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittare, morto palese stea”. 20

14


del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno23”. L’autore denuncia l’inefficacia della conoscenza medica dell’epoca contro la peste, parlando di una vera e propria “ignoranza de’ medicanti”, e cerca di soppiantarli in una descrizione accurata delle dinamiche di contagio, attraverso cui il morbo passa da uomini a uomini, da animali a uomini e viceversa. Dal terrore di morte disseminato da questi corpi infetti, Boccaccio tratteggia un’antropologia dei costumi apotropaici: tra gli estremi di chi si raccoglie e si isola in brigate amanti del buon cibo24, per fuggire luoghi infetti ed infermi appestati, e di chi invece cede ai peccati di gola e agli appetiti carnali25, per esorcizzare il male pestifero, c’è chi segue una “mezzana via” di sobrietà26, mentre i più crudeli finiscono per abbandonare la città e trasferirsi nel contado, convinti che l’ira di Dio colpisca solo entro le mura. La trasfigurazione del corpo, dunque, si trasmette all’anima e recide perfino i vincoli parentali27: nulla regge di fronte all’orrore di una morte somatizzata, resa visibile e al contempo invisibile nel suo contagio. Il potere della scienza, in questo caso, non può far nulla, resta solo il rito funebre a dare senso all’inspiegabile, a giustificare simbolicamente il trionfo della morte. Di fronte all’ineluttabilità del morbo, Boccaccio trova l’unica soluzione possibile nella proposta di autoconservazione della

Boccaccio, Decameron, introduzione alla prima giornata, Grande biblioteca della letteratura italiana Thèsis, Zanichelli, edizione e-book, pag. 13. 24 Boccaccio, op. cit., pag. 14: “E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano”. 25 Cfr. Boccaccio, op. cit., pag. 14: “Altri, in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere”. 26 Cfr. Boccaccio, op. cit., pag. 15: “Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente”. 27 Cfr. Boccaccio, op. cit., pag. 15: “E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”. 23

15


specie avanzata da Pampinea28 al resto della compagnia nella chiesa di Santa Maria Novella. Ecco, dunque, prevalere l’istinto di conservazione del corpo e della vita nella scelta del ritiro e dell’evasione nel locus amoenus senza, tuttavia, che ciò significhi fuga dalla realtà: l’unico modo per sfuggire allo squallore, all’inciviltà e alla violenza che regna in città, diventa quello di ricreare artificialmente un ambiente di vita agreste, vera e propria rappresentazione dell’utopia sociale boccacciana. Tale situazione di vacanza dalla realtà orrorosa della peste, infatti, crea una situazione carnevalesca, in cui il corpo riemerge come veicolo delle forze della natura, come tempio di una sessualità che è risposta materiale alla morte del corpo pestilenziale, senza però mai “trapassare in alcun atto il segno della ragione”, nel mantenimento cioè di quella onestà e di quella gentilezza che rappresentano le virtù grazie alle quali l’uomo può conciliare natura e civiltà. Le riflessioni compiute sulla rappresentazione boccacciana della corporeità aprono lo spazio ad una breve trattazione di un’altra ambivalenza rituale con cui questa veniva vissuta nel Medioevo: da una parte la mortificazione della flagellazione, dall’altra l’esaltazione del mondo carnascialesco. Rito penitenziale per eccellenza, la flagellazione consisteva in una pratica di purificazione del corpo tramite la sofferenza e il dolore, che avrebbe dovuto condurre, secondo le credenze dell’epoca, all’espiazione dei peccati commessi. L’avversione della Chiesa nei confronti di questa usanza si spiega con il suo carattere millenaristico e con la partecipazione ad essa di numerosi seguaci di Gioacchino da Fiore. La peste nera intensifica il fenomeno e porta alla creazione di compagnie di flagellanti29 che si abbandonano a vere e proprie martirizzazioni dei propri corpi, nonché a “gravi atti di violenza, spesso di carattere anticlericale e antisemita30”, finché papa Clemente VI non ne decretò la fine con la sua solenne condanna. La peste, dunque, marchia il corpo, lo rende manifestazione esplicita della morte, lo concretizza in cadavere 31 e comporta una reazione vitale di autoflagellazione e punizione, che agisce per reazione “omeopatica” e analogica, per istinto sadomasochistico di punizione del medium carnale del peccato. In questa reazione sembrano sospendersi le relazioni di dominio del potere a vantaggio Cfr. Boccaccio, op. cit., pag. 19: “Donne mie care, voi potete, così come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascuno che ci nasce, la sua vita quanto può aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo tanto, che alcuna volta è già addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedii che noi possiamo?”. 29 Cfr. Piccinni, op. cit., pag. 215: “nacquero folti gruppi di flagellanti, uomini incappucciati che entravano nelle città e attiravano le folle, che si punivano dei peccati spogliandosi e frustandosi in pubblico con violenza. Le donne potevano solo assistere, strapparsi i capelli, gettarsi a terra, urlare. I flagellanti, con questo contorno di isteria, attraversarono cantando l’Europa da oriente a occidente e in molti casi incitarono le popolazioni al linciaggio dei non cristiani, ritenuti responsabili della malattia”. 30 Le Goff, op. cit., pag. 34. 31 Per quanto riguarda il corpo-cadavere risulta interessante la trattazione di Le Goff nell’opera citata da pag. 73 a 78. 28

16


di un tempo sacro e rituale di rigenerazione: in realtà la punizione corporale rappresenta il modo in cui nelle relazioni sociali si cerca di riaffermare il dominio della vita sulla morte, dell’ordine sul caos, del potere sull’anarchia della dissoluzione, cercando di salvaguardare, in ultima istanza, i rapporti gerarchici che rischiano di essere azzerati dalla prospettiva di un’uguaglianza cadaverica32. Flagellando se stesso il flagellante fustiga e punisce il corpo sociale stesso, in cerca di una purificazione che restauri l’ordine del potere e del dominio dell’anima sul corpo. Il rito carnascialesco, invece, rappresenta una risposta vitalistica di rovesciamento e sovvertimento dell’ordine costituito, un momento di sospensione delle regole e dei rapporti di dominio quotidiani, che vede agire il corpo come protagonista di una liberazione delle energie pulsionali. Nel Carnevale il popolo celebra la vita33, vive con follia34 e indossa la maschera35 per negare l’univocità razionale dell’identità, dei significati e della legge, ridicolizza il potere con atti simbolici di scherno e di ingiuria contro il re buffone36. Le teorizzazioni di Bachtin sul dileggio del re buffone e le tradizioni popolari che ci consegnano i rituali del processo e della morte per combustione del fantoccio del re Carnevale suffragano la nostra visione per cui il tentativo di rovesciamento caotico dell’alto con il basso, di riscatto del corpo sull’anima, del popolo sul re rappresentano un tentativo di sacrificio della morte per attestare la vita. Il potere viene messo a morte per rigenerare il ciclo di vita, morte e rinascita. Ecco, allora, che le strutture Le Goff, op. cit., pag. 77: “l'ossessione del cadavere in decomposizione è onnipresente, quasi a ricordare quell'eguaglianza nella morte accomunante gli uomini di una società che è invece fortemente gerarchizzata”. E’ interessante anche quanto afferma Umberto Galimberti a proposito: “con la morte i corpi cambiano nome e diventano salme, cadaveri […]. Il cadavere per definizione c’è e il fatto di esserci sottolinea proprio il nonesserci più di un corpo in situazione […]. L’esposizione del cadavere, che risulta persino così difficile da nominare (la “salma”, le “spoglie”, i “resti”), tiene a coloro che gli sono intorno un discorso senza soggetto e senza contenuto che, simile al discorso dell’altra parte di noi stessi, rinvia selvaggiamente ciascuno a quell’originaria individualità che la morte scompone. Sotto la pelle, infatti, incomincia quella sorta di uguaglianza fisiologica per cui l’osso dell’uno assomiglia all’osso dell’altro, la carne dell’uno a quella dell’altro, in quella contrazione dello spazio, per cui i cadaveri si possono accostare o addossare senza che l’uno con l’altro si disturbino”. Cfr. Galimberti Umberto, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2007, pag. 259. 33 Bachtin Michail, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, pag. 10: “durante il carnevale è la vita stessa che recita e, per un certo tempo, la recita si trasforma in vita autentica. In ciò consiste la natura specifica del carnevale, il suo particolare modo di esistere. Il carnevale è la seconda vita del popolo, organizzata sul principio del riso. E’ la sua vita di festa”, 34 Cfr. Bachtin, op. cit., pag. 46: “il motivo della follia, per esempio, è molto caratteristico per tutto il grottesco perché permette di guardare il mondo con occhi diversi, non offuscati dal punto di vista normale, cioè dalle idee, dalle sensazioni e dai giudizi comuni. Nel grottesco popolare la follia è una parodia gioiosa dello spirito ufficiale, della serietà unilaterale, della verità ufficiale. E’ la follia della festa”. 35 Cfr. Bachtin, op. cit., pag. 47: “La maschera è legata alla gioia degli avvicendamenti e delle reincarnazioni, alla relatività gaia, alla negazione gioiosa dell’identità e del significato unico, alla negazione della stupida coincidenza con se stessi; la maschera è legata agli spostamenti, alle metamorfosi […] in essa è il principio giocoso della vita”. 36 Cfr. Bachtin, op. cit., pag. 216: “c’è un piano sul quale le busse e le ingiurie […] sono atti simbolici diretti contro l’autorità suprema, contro il re. Questo piano è il sistema di immagini della festa popolare, chiaramente rappresentato dal carnevale. […] In questo sistema di immagini il re è il buffone. E’ eletto pubblicamente ma poi pubblicamente deriso, ingiuriato e bastonato quando scade il termine del suo regno così come anche oggi è deriso, battuto, smembrato, bruciato o affogato il fantoccio di carnevale che incarna l’inverno che se ne va o l’anno vecchio […]. L’ingiuria e le busse sconsacrano il sovrano. L’ingiuria è la morte, è la giovinezza trascorsa che è diventata vecchiaia, il corpo vivo diventato adesso cadavere […]. Ma in tale sistema di immagini alla morte seguono la resurrezione, l’anno nuovo, la nuova giovinezza, la nuova primavera”. 32

17


di potere si legano alle strutture cicliche dell’immaginario e ai suoi archetipi di rigenerazione, riconducibili alla dialettica essenziale tra morte e vita37. La morte del re equivale simbolicamente al sacrificio di Cristo, a quello di Osiride, di Orfeo, di Adone e di altri personaggi mitologici e promuove l’instaurazione di un ordine nuovo, un ordine al tempo stesso cosmico, temporale, sociale e politico. Le simbologie della rigenerazione ci conducono a soffermarci, in ultimo, sull’uso politico del corpo come metafora. Ad inaugurare questa pratica immaginativa è la Chiesa che, in quanto comunità di fedeli, viene definita da Ildegarda di Bingen 38 come corpo mistico di cui Cristo rappresenta la testa; successivamente il potere politico adotterà immagini corporee simili per autodefinirsi tramite un sincretismo simbolico tra mondanità e trascendenza39: l’impero carolingio, ad esempio, si raffigura come incarnazione della Chiesa in un corpo cristocefalo, che governa grazie all’intermediazione della persona sacerdotale e di quella regia. Si assiste progressivamente ad una politicizzazione delle metafore organiciste, come accade nel Policraticus di Giovanni di Salisbury (1159), il quale scrive: “lo Stato (Respublica) è un corpo. Il principe occupa nello Stato il posto della testa, è sottomesso al Dio unico e a coloro che sono i suoi vicari in terra, perché nel corpo umano anche la testa è retta dall'anima. Il senato occupa il posto del cuore che dona impulsi alle buone e alle cattive azioni. Le funzioni degli occhi, delle orecchie e della lingua sono svolte dai giudici e dai governatori delle province40”. Il corpo, dunque, finisce per incarnare la gerarchia sociale immutabile del Medioevo, diventa simulacro dell’ordine e dei rapporti di forza imposti dal potere politico, cui spetta la zona alta dell’organismo (la testa) o quella vitale (il cuore per il Senato), mentre le classi subalterne dei laboratores occupano le zone basse o meno nobili (le mani per i guerrieri e i piedi per i Può essere interessante riflettere sulla struttura e sul simbolismo dell’antichissimo Carnevale babilonese, come fa Cattabiani: “nelle settimane che precedevano l’equinozio di primavera (capodanno per quei popoli), si trasportava il simulacro del dio Luna o di un cosiddetto “carro navale”, che era una nave munita di ruote. Quella processione simboleggiava il rinnovamento dell’anno mentre il viaggio verso il santuario alludeva al periodo di passaggio, di transizione e di caos festeggiato con una serie di comportamenti orgiastici, di finte battaglie, allegorie dello scontro tra forze positive e negative del cosmo, e di maschere che altro non erano se non le immagini dei morti, degli esseri degli inferi, che scendevano tra i vivi figurando il rimescolamento cosmico di vita e morte, preludio alla nuova rifondazione temporale del manifestato”. Cfr. Cattabiani Alfredo, Lunario, Arnoldo Mondadori, Milano 2002, pag. 56. 38 La mistica Ildegarda propone anche la simbologia dell’uomo microcosmo in rapporto con il macrocosmo. 39 Le Goff riscontra, a riguardo, un’eredità dell’usanza metaforica dal mondo greco-romano, portando ad esempio l’apologo di Menenio Agrippa in occasione della secessione della plebe sul Monte sacro nel 494 a.C. Preferiamo pensare, invece, che non si tratti di un fenomeno di diffusione culturale, quanto più di una forma archetipica di immaginazione della collettività. 40 Citato in Le Goff, op. cit., pag. 101, dove continua la descrizione del corpo-stato: “Gli «ufficiali» e i «soldati» (officiales; milites) possono essere paragonati alle mani. I consiglieri del principe sono i fianchi. I questori e i cancellieri - non parlo dei responsabili delle prigioni ma dei «conti» del tesoro privato - ricordano l'immagine del ventre e degli intestini che, se rimpinzati per eccessiva avidità e se trattengono ostinatamente il loro contenuto, generano innumerevoli e incurabili malattie e attraverso le loro pecche possono produrre la rovina dell'intero corpo. I piedi, costantemente aderenti al terreno, sono i contadini. Il governo della testa è ad essi tanto più necessario in quanto soggetti a molte peregrinazioni sulla terra al servizio del corpo ed hanno bisogno di più valido appoggio per far stare in piedi, sorreggere e muovere la massa dell'intero corpo”. 37

18


contadini). Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, durante lo scontro tra Filippo il Bello e papa Bonifacio VIII, il conflitto tra potere temporale e spirituale viene rappresentato tramite nuove metafore corporee: eccezionalmente il cuore, allegoria del principe, prevale ora sulla testa, immagine del papa41. Possiamo giungere ad alcune conclusioni provvisorie, prima di introdurre la questione dell’antropizzazione medievale della natura promossa dalle strutture di potere sul territorio. Le considerazioni fatte sinora ci inducono ad avanzare una tesi che cercheremo di confermare nel corso della trattazione: le relazioni di potere medioevali presentano una natura prescientifica e prerazionalistica, in virtù della quale non è possibile scindere quegli aspetti che, a partire dall’affermarsi della rivoluzione scientifica secentesca e dello spirito illuministico della modernità, si separeranno in una sfera laica ed una religiosa. In altre parole, il potere medievale è un amalgama inscindibile di poteri religiosi e politici e questo perché si manifesta attraverso la teologia dell’immortalità dell’anima e del suo dominio sul corpo corruttibile e peccaminoso. Possiamo così assistere ad un potere imperiale e regio connotato dall’unzione e dai rituali taumaturigici, ad un potere teocratico dal volto temporale, ad una scienza medica, impotente di fronte alla peste42, che raccoglie la teoria astratta degli umori e degli spiriti43, ad un’etica pubblica governata da principi eminentemente religiosi, a rapporti di proprietà e a statuti giuridici quantomeno ambigui. Questo sincretismo di potere temporale e spirituale si infrangerà sul principio di individuazione della ragione scientifica, che pretenderà dal Rinascimento in poi di identificare le leggi universali della natura e di stabilire i principi dell’agire politico e i bisogni imprescindibili dei corpi, sostenendo le relazioni gerarchiche di Cfr. Le Goff, op. cit., pag. 102: “In un trattato anonimo, Rex Pacificus, compilato nel 1302 da un sostenitore del re, la metafora dell'«uomo-microcosmo» venne utilizzata in modo particolarmente interessante. Secondo il trattato, l'uomo, microcosmo della società, possiede due organi principali: la testa e il cuore. Il papa è la testa che dona alle membra, cioè ai fedeli, la vera dottrina e li impegna a compiere azioni meritevoli. Dalla testa partono i nervi, che rappresentano la gerarchia ecclesiastica che unisce le membra tra di loro e al loro capo, Cristo, di cui il Papa è vicario, oltre a garantire l'unità della fede. Il principe è il cuore da cui partono le vene che distribuiscono il sangue. Sempre dal re emanano gli editti, le leggi, le legittime consuetudini che trasportano la sostanza nutritiva, cioè la giustizia, in tutte le parti dell'organismo sociale. Essendo il sangue l'elemento vitale per eccellenza, il più importante dell'intero corpo umano, ne risulta che le vene sono più preziose dei nervi e che il cuore prevale sulla testa. Il re è quindi superiore al papa”. 42 Cfr. Le Goff, op. cit., pag. 64: “Malgrado le raccomandazioni, la «peste nera» segna i limiti, se non «il fallimento della medicina scolastica», impotente ad arginare il flagello, precipitando in una crisi profonda la professione esercitata dai medici, la cui corporazione entra ora in concorrenza con quella dei cerusici e barbieri, sino a quel momento relegati in una condizione di relativa secondarietà”. 43 Cfr. Le Goff, op. cit., pag. 66: “Il corpo dell'uomo racchiude sangue, flemma, bile e atrabile […]. Questo è quanto costituisce la natura del corpo ed è causa della malattia o della salute. Date tali condizioni, vi è perfetta salute quando gli umori sono nella giusta proporzione tra loro sia per qualità che per quantità e quando la loro mescolanza è perfetta. Vi è malattia quando uno di questi umori, in troppo piccola o troppo grande quantità, si isola e si discosta”. Gli spiriti, invece, governerebbero le funzioni vitali dell’organismo. Si può affermare come la causa prima del corpo malato sia, comunque, di natura etico-religiosa, come ne è esempio il caso del lebbroso, contagiato a causa del peccato. La medicina, in definitiva, non ancora assume uno statuto scientifico separato dalla filosofia e dalla teologia, anzi spesso funziona al servizio del potere religioso e ne corrobora le credenze. 41

19


potere con nuove teorie, categorizzazioni e diagnosi oggettive. Nell’età moderna la religione diventerà piuttosto il pretesto utilizzato dai poteri per scatenare il loro strumento politico preferito, la guerra, ma non ricoprirà più il suo ruolo egemone nella rappresentazione del mondo, della natura e dei corpi; ruolo che verrà assunto sempre più dai saperi scientifici e tecnici, nuovi bracci destri del potere, abili nel proporre una weltanschauung meccanicistica ed oggettivante del mondo. 1.3.2 La visione della natura nel medioevo e la sua antropizzazione in paesaggi urbani e rurali. Cercheremo ora di affrontare l’argomento natura sotto due punti di vista paralleli, per cercarne poi, eventualmente, aspetti in comune. Da un lato, dunque, la rappresentazione mentale e simbolica della natura nella letteratura e nella cultura medioevale, dall’altro il rapporto materiale tra uomo, società e natura. Prima dell’affermarsi della visione scientifica e deterministica propria della modernità, il Medioevo rappresenta la natura da un’ottica religiosa, come il creato di Dio: concependola come creatura di Dio44, la religione biblica legge la natura come effetto di una volontà, della volontà di Dio che l’ha creata e dell’uomo a cui è stata consegnata. Dalla natura-cosmo della concezione greca45 si passa, perciò, ad una rappresentazione antropoteologica46 che riduce la natura a materia da dominare: “all’ordine cosmologico, immutabile e astorico, quale era stato concepito dalla cultura greca, la cultura giudaico-cristiana sostituisce un ordine antropocentrico, in cui la natura è risolta in puro materiale da utilizzare al di fuori di qualsiasi considerazione etica47”. Si passa perciò dal dominio della necessità cosmica a quello della volontà antropica, ponendo le basi per quello che sarà poi lo studio scientifico e lo sfruttamento tecnico della natura. Tale mutamento determina, secondo Galimberti, anche il capovolgimento del rapporto tra natura, storia e politica: “i filosofi greci pensano l’ordine storico-politico in funzione dell’ordine cosmico universale, e in questo senso sono cosmopolitici, perché l’ordine della natura è il paradigma per l’ordine della città (polis) […] i filosofi cristiani e post-cristiani, invece, capovolgendo il rapporto cosmo-politico, subordinano il primo al secondo e quindi la natura alla storia. […] Non è più l’ordine del cosmo a dettare legge alla polis, ma è la polis, come comunità dell’umano, a definire di volta in volta il cosmo48”. Prima di

Cfr. Genesi, 1, 1-5: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Cfr. Eraclito, DK, fr. B 30: “questo cosmo, che è di fronte a noi e che è lo stesso per tutti, non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure”. 46 Cfr. Galimberti Umberto, Psiche e Techne, l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2007, pag. 286: “Il cosmo diventa mondo da dominare, da assoggettare. Non appartiene a se stesso, ma a Dio che l’ha evocato e all’uomo a cui è stato affidato. Il suo significato non è cosmologico (ciò che dischiudendosi, autorevolmente si annuncia), ma antropo-teologico, subordinato cioè all’uomo che è immagine e somiglianza di Dio”. 47 Cfr. Galimberti, op. cit., pag. 477. 48 Cfr. Galimberti, op. cit., pp. 287-288. 44 45

20


approfondire gli aspetti materiali di queste strategie di dominio sviluppate dalla cultura medioevale e giustificate da tale visione antropocentrica della natura, converrà fare una breve ricognizione sulla rappresentazione letteraria del mondo naturale. La prima testimonianza poetica in lingua volgare è proprio una lauda di celebrazione della presenza divina nella natura: nel Cantico di frate Sole viene affermato un rapporto armonioso dell’uomo con l’universo e con Dio, che sembra contrapporsi alle tendenze ascetiche e confermare la visione antropo-teologica. Francesco d’Assisi intende mostrare l’aspetto sereno del creato, permeato dal potere divino, e giunge persino a lodare la “sora morte corporale” come condizione da accettare e come opportunità per l’uomo di dimostrarsi meritevole a Dio. Francesco, dunque, valorizza la bellezza fisica e naturale della terra, riscattandola dalla visione ascetica che l’aveva spesso relegata, in quanto realtà materiale, a fonte di tentazione diabolica e peccaminosa. La lode delle creature è l’unico modo possibile per nominare indirettamente Dio: si crea perciò quel legame cosmoteandrico per cui ogni elemento naturale viene antropomorfizzato (frate sole, sora luna, frate vento, sor’acqua, frate focu, madre terra) e rimanda, in ultima istanza, all’origine cosmogonica resa possibile dal Dio creatore. Lodare gli elementi naturali e l’uomo significa, dunque, lodare Dio stesso. Dietro questa visione di compenetrazione armonica tra creato, creature e creatore, tuttavia, viene affermata una rigida gerarchia che raffigura Dio in posizione di assoluta superiorità e le creature come ad esso subordinate: non si tratta cioè di un panteismo49, ma di un ordine basato su una relazione di dominio. La natura e Dio, in altre parole, non sono la stessa sostanza, ma la prima si pone come realtà creata e subordinata alla volontà del creatore. Nelle Laudes creaturarum l’uomo, invece, non attesta ancora la sua superiorità sulla natura, bensì risulta accomunato ad essa da un rapporto di fratellanza, in cui gli elementi naturali finiscono per assumere tratti antropomorfici in un gioco di scambi e proiezioni simboliche. Al pari del sole, della luna, del vento, del fuoco, dell’acqua e della terra, infatti, anche la lode rivolta all’uomo funge da mezzo per lodare Dio stesso50. Non siamo nel campo dell’analogia, ma della dipendenza del tutto dal sommo potere di Dio. Si può, tuttavia, riscontrare nella poesia di Francesco d’Assisi una riconciliazione del corpo con l’anima, ottenuta attraverso la rivalutazione della bellezza fisica delle creature che portano “significazione” di Dio nella loro concreta esistenza. A questa visione idillica del rapporto tra uomo e natura, accosterei una visione antitetica proposta da Dante in due diversi canti della Divina Commedia: una natura deformata, spoglia e peccaminosa in cui l’uomo suicida è trasformato (canto XIII dell’Inferno) e una natura originaria, edenica che si accompagna alle sembianze femminili di Matelda (canto XXVIII del

Come sarà poi in Spinoza, nel quale ogni aspetto della realtà è divino allo stesso titolo e Dio non sta all’origine dell’essere, né ne rimane separato: Dio è l’insieme di tutto cio che è. 50 “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore/ et sostengo infirmitate e tribulatione”. 49

21


Purgatorio). Il secondo girone del settimo cerchio della voragine infernale presenta un bosco che da “neun sentiero era segnato”, fitto di arbusti nodosi, di sterpeti aspri e dotati di spunzoni velenosi, popolato dai lamenti delle mostruose Arpie, che depongono le loro uova “in su li alberi strani”. E’ una natura rovesciata, definibile solo per negazione anaforica51, deformata espressivamente in un paesaggio che rappresenta per mimesi la condizione orribile di chi si è macchiato del peccato di violenza contro se stesso. E’ il bosco dei suicidi, dove la natura e la natura umana del suicida coincidono nella rappresentazione macabra e mostruosa che ne fa Dante. Il paesaggio della selva dei suicidi, dunque, è concepito come lo stravolgimento della natura terrena che esprime l’ordine e l’armonia impressa al mondo da Dio. Siamo di fronte ad un contro-modello di quello francescano. Ogni elemento presente nel bosco, infatti, rappresenta un’antifrasi di quello reale, popola un mondo infernale capovolto, dove la pena scontata dalle anime si incarna nella desolazione del paesaggio stesso: “la selva è una perfetta traduzione dello stato in cui si trovano le anime […], non è solo scenario della loro pena, ma la loro pena stessa. Il suicidio rappresenta infatti, nella morale cristiana, uno stravolgimento del volere di Dio (che ha dato la vita e che solo può toglierla) e un inaridimento e una negazione della natura umana 52”. Il peccatore suicida, dunque, stravolgendo la natura umana e la legge divina si trasmuta per contrappasso in elemento di una natura rovesciata. Pier delle Vigne viene rappresentato come un “gran pruno” che getta parole e sangue dai rami spezzati dal poeta53, cosciente della sua metamorfosi54, che terrorizza invece Dante55, identificato nel suo ruolo di funzionario statale, malgrado l’aspetto degradato e macabro, che difende il suo onore e la sua fedeltà nei confronti dell’imperatore Federico II56. Dante s’impietosisce di fronte alla retorica del suicidio esposta dal cancelliere capuano57, che si produce in un “inestricabile sofisma morale del suicidio”, nel quale “si tradisce il carattere altezzoso, vendicativo, subdolamente teatrale di un omicidio, che il colpevole pretende di legittimare nell’atto di compierlo, rinfacciandolo all’iniquità del mondo58”. Il gesto di Pier delle Vigne è segno di disdegnoso disgusto, cioè di fierezza e di intransigenza morale, che viene Cfr. vv. 4-6: “non fronda verde, ma di color fosco/ non rami schietti, ma nodosi e’nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco”. La vegetazione orrida viene definita in negativo con la figura dell’anafora, tant’è disgustosa e difficile da rappresentare. 52 Cfr. Luperini, Cataldi, La scrittura e l’interpretazione, vol. 1, Palumbo editore, Milano 2002, pag. 181. 53 Cfr. vv. 40-44: “come d’uno stizzo verde ch’arso sia/ da l’un dei capi, che da l’altro geme/ e cigola per vento che va via,/ sì della scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue”. 54 Cfr. verso 77: “uomini fummo, e or siam fatti sterpi”. 55 Cfr. vv. 44-45: “ond’io lasciai la cima/ cadere, e stetti come l’uom che teme”. 56 Cfr. vv. 73-75: “per le nove radici d’esto legno/ vi giuro che già mai non ruppi fede/ al mio segnor, che fu d’onor sì degno”. 57 Cfr. vv. 70-72: “l’animo mio, per disdegnoso gusto,/ credendo col morir fuggir disdegno,/ ingiusto fece me contra me giusto”. 58 Cfr. Sermonti Vittorio, nel suo commento alla Divina Commedia, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2008, pag. 173. 51

22


rivolta non solo su di sé, ma anche sul mondo esterno: “vittima di accuse ingiuste, Piero diventa ingiusto con se stesso […] riproduce il male da cui è stato colpito, ma, rifiutandosi di esercitarlo sugli altri, finisce di rivolgerlo contro la propria persona59”. Pier delle Vigne pagherà, infine, la violazione della natura umana e l’autodistruzione del proprio corpo con il duro contrappasso di dover contemplare penzolare per l’eternità, davanti alla sua anima imprunita, al compimento del giudizio universale, lo stesso corpo di cui si è privato, in un’agghiacciante impiccagione escatologica60. A questa immagine di natura lugubre e trasfigurata fa da contraltare la natura del Paradiso terrestre descritta nel canto XXVIII del Purgatorio. Dante, Virgilio e Stazio, giunti in cima all’altopiano del Purgatorio, s’addentrano nella “divina foresta spessa e viva” dell’Eden, modello antitetico della “selva selvaggia e aspra e forte”. Il poeta s’immerge con desiderio nei profumi di questo luogo, facendosi accarezzare la fronte da “un’aura dolce” ma immobile, come il tempo edenico che è “variazione perpetua dell’eternità61”. Gli uccellini che verseggiano nel discreto tremolio delle fronde gli ricordano la pineta di Classe nell’alito dello scirocco. Dante sembra perdere l’orientamento, si smarrisce, ma non per l’offuscamento del peccato come nella selva infernale, bensì per l’esperienza panica che gli procura beatitudine, finché non trova un fiumicello limpido al punto che “tutte l’acque che son di qua più monde,/ parrieno avere in sé mistura alcuna/ verso di quella, che nulla nasconde”. Sull’altra sponda del ruscello, immersa tra rami gemmati, ecco manifestarsi la figura di una “donna soletta che si gia/ e cantando e scegliendo fior da fiore”, ossia Matelda, il cui fascino viene paragonato a due dee quali Proserpina e Venere. Il suo canto e il suo sguardo esaudiscono il desiderio del poeta di intenderla meglio, le sue spiegazioni sulla natura astrale della brezza e sulla fonte divina del corso d’acqua62, invece, soddisfano la sua curiosità. I fiumi, in realtà, sono due: il Letè, che dona l’oblio dei peccati commessi, e l’Eunoè che ravviva la memoria del bene compiuto. Matelda conclude confrontando il Paradiso terrestre dove “fu innocente l’umana radice”, ossia l’umanità adamita delle origini, con il Parnaso delle Muse, sede della felicità dell’età dell’oro. Che sia Matilde di Canossa o Mathilde von Hackenborn, la sua gentile figura diventa allegoria della felicità originaria dell’uomo primordiale, della sua armonia con il cosmo e con la divinità. Questo quadretto idillico di Dante propone dunque una natura edenica e originaria, dove aleggia la nostalgia per la perfezione delle origini, dove l’uomo viveva in condizione di libertà dal peccato, come creatura universale capace di rispecchiarsi nella natura come microcosmo nel Cfr. Luperini, Cataldi, op. cit., pag. 181. Cfr. vv. 106-108: “e per la mesta/ selva saranno i nostri corpi appesi,/ ciascuno al prun de l’ombra sua molesta”. 61 Sermonti, op. cit., pag. 417. 62 Cfr. vv. 121-126: “L’acqua che vedi non surge di vena/ […] ma esce di fontana salda e certa,/ che tanto dal voler di Dio riprende,/ quant’ella versa da due parti aperta”. 59 60

23


macrocosmo. Se San Francesco e Dante propongono una visione universale e mitica della natura primordiale, inquadrata dalle leggi divine e ad esse obbediente, Petrarca è il primo a liricizzarla, a soggettivizzarla e piegarla ai suoi fini, creando quel paesaggio-stato d’animo nel quale il poeta può proiettare i propri sentimenti di nostalgia per l’amata Laura. In Chiare, fresche et dolci acque il paesaggio del fiume Sorga, in Valchiusa, porta i segni del passaggio di Laura, viene trasfigurato dal poeta nella prospettiva del ricordo, adeguato al proprio mondo interiore e al proprio desiderio di trovarvi la morte. Il locus amoenus di Petrarca è, a differenza di quello dantesco, mondanizzato, privo della presenza divina, ma caricato dell’idealizzazione del poeta stesso: esso diventa luogo del ricordo, equivalente naturale della sua condizione interiore di malinconia dovuta all’assenza di Laura, popolato da elementi che la rievocano in virtù di un’identificazione tra la donna e la natura stessa. Se Matelda è una donna sacralizzata, Laura, invece, esprime una bellezza terrena e sensuale, che provoca il turbamento del poeta e gli fa desiderare come vendetta una sepoltura in quel luogo dove l’amata andrà a piangerlo afflitta dai sensi di colpa. Per ricondurre gli esempi visti al nostro discorso centrale, possiamo dire che se la natura edenica dantesca si presenta come luogo originario e puro, incontaminato e ignaro della volontà di potenza dell’uomo, la natura petrarchesca reca il segno di un’impronta umana, di un suo tentativo di trasfigurarne l’aspetto in senso soggettivo e lirico e, in definitiva, di un uso strumentale ai bisogni di un io non più ingenuo ed originario, ma cosciente della propria superiorità. Dopo aver delineato, dunque, dei modelli di rappresentazione medievali della natura, cercheremo ora di capire quali relazioni questi abbiano intrattenuto con le dinamiche materiali che hanno condotto, dopo l’anno Mille, alla ripresa demografica, economica e urbana della società. L’incremento demografico si accompagnò, infatti, ad un’espansione della superficie coltivata, in una relazione di concausalità reciproca resa possibile anche dalla scomparsa delle grandi epidemie e da un probabile addolcimento del clima, che avrebbe prodotto un’età tiepida e quindi un ciclo alimentare favorevole. In questo quadro di crescita si sviluppano i processi di dissodamento, disboscamento e bonifica che soddisfecero la richiesta di nuova terra da mettere a coltura. La conquista di terreni strappati al bosco e alle paludi rappresenta un processo di trasformazione della natura in paesaggio agricolo e lascia il segno persino sulla sua toponomastica. I cosiddetti borghi franchi, ad esempio, costituirono un nuovo modo di popolamento rurale e di radicamento sul territorio guidato dai poteri locali: tra l’XI e il XIII secolo conti, castellani, feudatari, signori, monasteri promossero attraverso incentivi, franchigie (da cui il toponimo franco di Francavilla o Borgofranco), esenzioni fiscali e protezioni militari, la colonizzazione di terreni e la costruzione di villaggi a partire da zone boscose, paludose, 24


marittime63. Gli interessi economici di un potere centrifugo e localistico, radicato sempre più su territori dai quali trae sostentamento, identità e funzione, finiscono per collimare con la domanda di incremento di prodotti agricoli correlata all’aumento demografico. Questo processo di conquista delle terre modifica profondamente l’ambiente naturale, mediante i segni di un’antropizzazione che si fa sempre più decisa e marcata64, come nel caso dei polders in Fiandra, dove l’intervento ingegneristico dell’uomo, tramite un sistema di dighe e di desalinizzazione, consente di strappare al mare questi nuovi terreni coltivabili. Anche nel settentrione della penisola italiana iniziarono i lavori di contenimento delle inondazioni del bacino idrografico del Po, avviando così quel sistema dei canali artificiali di navigazione ed irrigazione che contraddistingue tuttora la Pianura Padana. Si può scorgere, dunque, in questa nuova predisposizione colonizzatrice dei poteri locali l’adozione di tecniche finalizzate al rafforzamento economico del dominio territoriale. Questa tendenza comincia ad adottare sistemi tecnologici di assoggettamento e sfruttamento dell’ambiente ancora rudimentali, ma che già oltrepassano il sistema chiuso e autarchico della curtis, per proiettarsi verso una forma di economia mercantilista e precapitalistica, prodotta da quella che molti storici definiscono rivoluzione commerciale. La cosiddetta rivoluzione delle tecniche agricole, infatti, si affianca all’estensione delle superfici coltivabili nel produrre un incremento della resa cerealicola, determinando così un surplus esportabile dal contado verso quelle città che stanno rinascendo proprio in questo periodo. L’inurbamento di derrate, contadini e aristocratici terrieri si compie in quel clima di maggior sicurezza che segue le invasioni del IX-X secolo, ripopolando centri antichi o fondandone di nuovi65. La città diventa nell’immaginario del Medioevo il luogo della fortuna e della speranza di lavoro per i figli delle numerose famiglie contadine, il baluardo della libertà per i contadini servi che si affrancano dai loro padroni, il fulcro dell’artigianato e del commercio organizzato in arti e corporazioni, l’orizzonte per gli sbocchi professionali e politici delle famiglie aristocratiche, l’epicentro della nascita dei borghi e del suo abitante, il borghese. La città straripa al di fuori delle mura, costruisce le propaggini e le periferie del borgo, allarga la Cfr. Piccinni, op. cit., pag. 90: “per spingersi nella profondità delle grandi foreste, per dissodare regioni del tutto vergini, fu necessario che gruppi di contadini lasciassero le proprie case e si spostassero lontano, costruendo nuovi villaggi nel cuore delle macchie incolte […]”. 64 Cfr. Piccinni, op. cit., pag. 90: “Sia i nuovi villaggi di colonizzatori sia i campi circostanti a essi assunsero spesso una forma regolare. Una tecnica usata per disegnarli era, infatti, questa: con un sentiero si tagliava il bosco, ai due lati del suo tracciato si costruivano le case e da lì ogni famiglia attaccava l’incolto arando una striscia di terreno che penetrava sempre più in profondità. Così, la vegetazione arretrava ai due lati del nuovo villaggio e, da quella breccia aperta nel bosco, gli abitanti vigilavano contro il rimboschimento naturale, sempre in agguato. In altri casi le strisce di aratura si disponevano intorno al centro del villaggio, come i raggi di una ruota, oppure parallele le une alle altre a partire da un corso d’acqua”. 65 La questione della rinascita delle città e delle sue cause ha segnato a lungo il dibattito storiografico, soprattutto a partire dal famoso libro di Henri Pirenne, intitolato Le città del Medioevo, nel quale lo storico individua nello sviluppo commerciale e nella presenza dei mercanti l’embrione di questo sviluppo urbano. Oggi la maggior parte degli storici sconfessa questa interpretazione, spiegando il fenomeno della rinascita urbana tramite i flussi di immigrazione provenienti dalle campagne. 63

25


cinta per comprenderle, finisce per regolare gli ingressi e ricorrere alle espulsioni di mendicanti, vagabondi e prostitute, finché non invade il contado, lo assoggetta e lo ingloba nei meccanismi di scambi commerciali delle città-stato. La sua stessa forma riflette la sua origine66 e l’intervento regolatore ed edilizio dell’uomo-architetto, artefice di una seconda natura, quella urbana, che esalta e rende manifeste le relazioni gerarchiche di potere entro uno spazio limitato da amministrare e da spartirsi. I poteri comunali ed ecclesiastici si contendono le piazze: in quella pubblica sorge il palazzo del podestà e si svolge il mercato cittadino, mentre il Duomo domina solitamente un’altra piazza, nella quale spesso si svolgono le funzioni religiose all’aperto. L’esigenza di ottimizzare gli spazi vitali, nei periodi di espansione demografica, e la volontà di ostentare il prestigio e l’autorità della casata spingono alcune famiglie nobili ad edificare torri e a sviluppare palazzi in altezza. La città, dunque, diventa il piccolo epicentro di lotte di potere, di conflitti intestini, di lotte tra fazioni e poteri rivali (guelfi e ghibellini), di manifestazioni di opulenza, di competizioni tra nobiltà e popolo. Se nel contesto rurale e curtense le relazioni di potere risultavano ben definite e immobili, frutto di contratti agrari e di legami vassallatici, nella città, invece, tali rapporti risulteranno più sensibili a mutamenti politici e sociali, dovuti allo stretto intreccio tra l’azione di fattori interni (lotte tra fazioni) e l’ingerenza di poteri esterni (Impero e Chiesa). Possiamo azzardare, in chiusura di questo paragrafo, una risposta all’ipotesi avanzata in apertura: esiste dunque una relazione tra le forme di rappresentazione della natura elaborate dall’immaginario medioevale e le strategie materiali di intervento su di essa? La fine della concezione della natura come cosmo originario e luogo primordiale dell’età dell’oro, elaborata dalla civiltà greca e trasposta da Dante nella rappresentazione dell’Eden, determina l’affermarsi di una visione antropocentrica, tale per cui la comunità umana e le sue forme politico-civili non seguono più un ordine cosmologico, con le sue leggi e la sua temporalità ciclica, bensì elaborano forme di controllo tecnico ed economico della natura stessa, fino a trasformarla in paesaggio agricolo e urbano, in territorio assoggettato e regolamentato da leggi umane, governato sempre più dal tempo lineare della produzione e della trasformazione della materia prima. La natura creata da Dio viene da questi affidata all’uomo e al suo disegno di

66

Cfr. Piccinni, op. cit., pag. 102: “L’origine, la funzione, la storia di ogni città si riflettono nella sua forma. […] Per esempio molte città italiane e alcune delle più importanti europee (Parigi, Londra, Vienna, Colonia) sorsero su città romane e conservano, nel nucleo più interno, una forma quadrangolare, prodotta dall’impronta della griglia del decumano e del cardo, i due assi ortogonali, cioè, di quel reticolato che si formava quando si incrociavano ortogonalmente le strade in base alle quali i romani avevano disegnato le loro città. Più facili da distinguere sono quelle città che da secoli erano sede del vescovo, identificabili attraverso alcuni edifici monumentali, come la chiesa cattedrale e il palazzo episcopale. Gli storici dell’urbanistica […] hanno provato a classificarle in base alla forma […] identificando città lineari, distese lungo una strada (a fuso); città nucleari, sviluppate intorno a un elemento, il castello, la cattedrale o l’abbazia; città ortogonali, più regolari, in genere quelle di nuova fondazione; città circolari, dove tutte le linee convergono verso un centro”.

26


controllo e di assoggettamento, in un duplice processo di colonizzazione dell’immaginario e dell’ambiente che conosce influenze reciproche e la definizione di una vera e propria alleanza nella costruzione di valori e di procedure, di giustificazioni, di saperi e di tecniche atte a manifestare la volontà di potenza dell’uomo sul mondo. 2. LA RAPPRESENTAZIONE DEL POTERE NELL’ETÀ MODERNA 2.1 Le forme di potere dell’età moderna Intraprendiamo quest’esplorazione delle strutture di potere nell’età moderna partendo da una ricognizione sulle forme storiche assunte da quest’ultimo tra il Cinquecento e il Settecento, per addentrarci poi nei meccanismi grazie ai quali tali forme hanno potuto prosperare, controllare e assoggettare il corpo sociale e naturale. Il XVI secolo viene unanimemente definito dagli storici come il secolo della nascita dello Stato moderno e ciò deriverebbe, secondo Otto Hinze, dalla pressione militare esterna che avrebbe provocato un accentramento monarchico del potere, esaltato il ruolo difensivo del sovrano e poste le basi per la creazione di un’efficiente burocrazia capace di assolvere ai compiti di esazione dei tributi e di controllo del territorio 67. Perry Anderson aggiunge al fattore della minaccia bellica, che avrebbe spinto la nobiltà dell’epoca a cedere parte del suo potere al re in cambio di una difesa militare efficace, il bisogno di tutelare le proprietà dalle rivolte dei contadini e dalla loro richiesta di maggiore libertà. Questo modello statualistico, valido sicuramente per alcune realtà come Francia e Spagna, va integrato con il modello di monarchia composita68 che designa la complessità di quei regni in cui sopravviveva una pluralità nell’articolazione dei poteri e nelle giurisdizioni, spesso sovrapposti e intrecciati tra loro. Se in Italia, infatti, era possibile identificare un modello statuale e assolutistico nella Chiesa della Controriforma, il resto della penisola conosceva la frammentazione giurisdizionale e viveva, in alcuni casi, una vera e propria rifeudalizzazione. In certe realtà, dunque, proseguiva la frammentazione del potere medioevale, basato sul diritto consuetudinario e sulla pluralità di ordinamenti particolari, coesistenti e gestiti da signorie territoriali aventi il compito di mediare le situazioni di conflitti giuridici69. La formazione di Stati nazionali unitari e di sistemi

Cfr. Caravale Mario, La nascita dello Stato moderno, in Aa.vv., Storia Moderna, Donzelli editore, Roma 2001, pag. 79:”Per Hinze – riprendendo l’idea diffusa nella storiografia tedesca a partire da Leopold von Ranke, secondo la quale le lotte apertesi tra gli Stati a partire dagli inizi del secolo XVI avrebbero sollecitato all’interno di ciascuno l’emergere di un apparato di potere capace di condurre la guerra e le trattative diplomatiche sotto la guida unitaria del sovrano – il motore primo della trasformazione sarebbe stato il pericolo di aggressione da parte delle potenze vicine”. 68 La teoria della monarchia composita è stata proposta dallo storico J. H. Elliott. 69 Cfr. Caravale, op. cit., pag. 83: “Nel Medioevo fonte primaria del diritto era la consuetudine, cioè l’uso protratto nel tempo di comportamenti che erano giudicati da quanti li seguivano degni di tutela e, quindi, vincolanti […] e dalla consuetudine erano nati nell’alto medioevo vari ordinamenti giuridici, ognuno rispondente a necessità concrete delle comunità: l’ordinamento giuridico che riguardava gli uomini liberi; quello delle singole comunità locali […]; quello della signoria fondiaria […]; l’ordinamento feudale […]; l’ordinamento della Chiesa […]. 67

27


amministrativi centralizzati conosce un primo passaggio fondamentale nella fondazione dei regni normanni di Inghilterra (1066) e di Sicilia (1130), dove l’autorità regia si avvale di una struttura amministrativa complessa e si presenta sotto il duplice aspetto di titolare di patrimoni specifici, al pari di altri signorie fondiarie, e di potestà unitaria del regno, gestita tramite il possesso dei diritti demaniali, di garante della giustizia e della pace interna, di guida militare. Quest’ambiguità, che poggia ancora sulla concezione patrimoniale del regno e sulla visione del re come primus inter pares, conosce un’ulteriore evoluzione nel XVI-XVII secolo, allorché si affermano un rafforzamento del potere monarchico, una tendenziale divisione tra la titolarità del sovrano e l’esercizio del potere amministrativo, una progressiva ma difficile distinzione tra diritto pubblico e privato. Altri fattori concorrono al rafforzamento degli stati moderni di Francia, Spagna e Inghilterra: la tendenza all’unificazione del territorio e la delimitazione dei suoi confini; la sua protezione all’interno e all’esterno da parte del sovrano; l’unificazione legislativa, giudiziaria e fiscale; l’affermarsi del principio di legittimazione dinastica e la presenza di dinastie carismatiche e durature; la capacità della monarchia di trasformare i ceti nobili da potenze centrifughe e antagoniste a poteri a essa sottomessi e inquadrati spesso in cariche pubbliche70. I principi che distinguono gli Stati moderni dalle forme di potere medievale, dunque, sono molteplici, ma quelli che rivestono forse più importanza sono proprio l’unificazione dei codici legislativi su un unico territorio e la concentrazione dei poteri, specie di quello giudiziario, nelle mani del re. Il radicamento del potere regio sul territorio, e il suo esercizio poi, passa dalla progressiva costruzione della struttura burocratica, composta da una pletora di funzionari e consiglieri aventi il compito di controllare e disciplinare l’amministrazione fiscale, giudiziaria e militare delle province e dei principati71. Kantorowicz individua nel passaggio dalla regalità politocentrica medievale alla regalità fondata sui due corpi del re uno dei momenti fondamentali del rafforzamento del potere monarchico. La dottrina dei due corpi viene elaborata in Inghilterra dal XV secolo in poi. Nel 1542 il re Enrico VIII afferma, rivolgendosi al suo consiglio: “dai nostri giudici sappiamo che mai nella nostra regale condizione noi siamo posti così in alto come durante i lavori del Parlamento, ove noi come capo e voi come membra siamo congiunti e uniti in un solo corpo politico”. Se la

70

71

Detti ordinamenti non si escludevano tra loro ma, al contrario, coesistevano, affiancandosi l’uno all’altro e traendo legittimità dalla consuetudine”. Cfr. Musi Aurelio, La formazione dello Stato moderno, in Aa.vv., L’età moderna e contemporanea, a cura di Umberto Eco, vol. 1, Gruppo editoriale L’Espresso 2012, pag. 79: “se nel Medioevo la nobiltà è una potenza semisovrana, spesso antagonista della monarchia, il processo di formazione dello Stato moderno è caratterizzato dalla variabile capacità dei sovrani di imporsi come unica fonte del potere politico, di farsi riconoscere come tale, di acquisire progressivamente il monopolio della forza legittima, attraverso una rivoluzione di nobiltà e aristocrazia a poteri egemoni dell’economia e della società”. Tra il Cinquecento e il Seicento i sovrani si avvalgono di figure di funzionari che amministrano la giustizia sui territori, quali i corregidor spagnoli istituiti da Carlo V, gli intendenti francesi voluti dal cardinale Richelieu e rafforzati poi da Luigi XIV.

28


metafora del corpo nella simbologia medievale veniva utilizzata per rappresentare la riduzione del molteplice (i sudditi) all’uno (il sovrano-comunità), si assiste ora ad uno sviluppo ulteriore. La teoria dei due corpi scaturisce, secondo Kantorowicz, dalle condizioni specifiche dei regni dei figli di Enrico VIII e avrebbe consentito di risolvere l’antinomia, che permaneva nella concezione politocentrica, tra un corpo mistico eterno e sovraordinato, rappresentante la comunità politica, e la figura del re intesa come individuo mortale. Mentre sotto il regno di Edoardo VI la dottrina dei due corpi contribuisce a superare l’inadeguatezza anagrafica del re, sotto Elisabetta I compenserà la tara di genere, difendendo l’autorità della regina dalle accuse misogine. Il modello di riferimento è la duplice natura di Cristo, umana e divina assieme; la fonte filosofica, invece, è quella neoplatonica, che elabora una proiezione ideale della regalità, volta a trascendere l’imperfezione del reale. In altre parole, la teoria dei due re conferisce alla concezione della regalità il beneficio dell’astrattezza e dell’indipendenza dalla persona fisica che la incarna. Così facendo il corpo politico del re si abbina al corpo naturale e fisico 72 ma, rispetto a quest’ultimo, assicura un’immortalità alla funzione regia, una continuità della regalità che risolve così i problemi di interregno e di vacanza del trono. Le prime riflessioni sulle forme politiche di potere moderne ci vengono offerte, tuttavia, da Niccolò Machiavelli, Jean Bodin e Tommaso Moro. Si tratta di vere e proprie teorie politologiche che elaborano rispettivamente i modelli di principato e di repubblica, il modello della sovranità assoluta e il modello di utopia sociale. Machiavelli è il primo pensatore moderno ad affermare l’importanza di basare la riflessione teorica relativa alle forme di governo non solo sull’esempio degli antichi, ma soprattutto sulla “verità effettuale della cosa”. Uno dei suo obiettivi è quello di demistificare la visione del potere delle corti italiane basata sul mito dell’ottimo principe, depositario delle virtù morali e promotore del mecenatismo culturale, avanzata dagli artisti rinascimentali e da Baldassar Castiglione nel Cortegiano. Il potere per Machiavelli risiede nella forza, non nella cultura, e il suo modello di principe diventa il duca Valentino, alias Cesare Borgia, esempio di virtù politica da seguire per chi voglia fondare un nuovo Stato. Dopo aver esaminato i vari tipi di principato (ereditario, misto, nuovo, civile, ecclesiastico), Machiavelli si sofferma sul caso del principato conquistato con armi altrui e per fortuna. Il duca Valentino, che “acquistò lo stato con fortuna del padre, e con quella lo perdé; nonostante che per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare”, non sfugge alla regola generale della rovina,

72

Cfr. Kantorowicz, I due corpi del re, pag. 12, dove riporta il testo del verbale legale di un caso del XVI secolo: “il re ha due capacità, perché ha due corpi, uno dei quali è un corpo naturale, fatto di membra naturali come quelle di qualsiasi altro uomo, e per questo lato egli è soggetto alle passioni e alla morte come lo sono gli uomini; l’altro è un corpo politico e le sue membra sono i suoi sudditi, ed egli e i suoi sudditi formano insieme la corporation”.

29


benché “se gli ordini suoi non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna73”. Il duca, infatti, concentra tutte le virtù necessarie al principe, infatti è “prudente e virtuoso” perché “sa usare la bestia e l’uomo74”, ha la forza del leone e l’astuzia della volpe, ha dato prova di saper usare la forza75 e di saper essere dissimulatore se necessario: “la virtù del principe nei suoi diversi aspetti è dunque una virtù strumentale in cui tutto rientra (la pietà e la crudeltà, la lealtà e la dissimulazione, la forza e l’inganno) ed è misurabile solamente in rapporto al rischio della perdita dello Stato. Unico criterio guida: “non partirsi dal bene potendo, ma sapere entrare nel male se necessitato 76”. Con una buona dose di realismo, infatti, Machiavelli analizza i meccanismi di potere necessari ad instaurare e perpetuare l’autorità, nonché le qualità e le strategie che il principe deve dimostrare per realizzare questo obiettivo77. Ne emerge un potere completamente laico, privo di giustificazioni teologiche e morali, legato alla realtà materiale dei rapporti di forza: “il potere giustifica se stesso nella creazione di uno Stato forte, […] capace di garantire la stabilità e l’utilità comune”. Machiavelli, dunque, guarda senza infingimenti la realtà fattuale del potere, ne svela le mistificazioni e apre la riflessione sulla Ragion di Stato, la nuova forma politica che nel Seicento assume il potere assoluto allorché il principe diventa la fonte stessa del diritto su cui si fonda la legge78. A teorizzare la necessità di un potere monarchico forte sarà, di lì a poco, Jean Bodin con i Six livres de la République (1576), scritti nel periodo travagliato delle guerre di religione, quando cioè il sovrano era indebolito da dure contestazioni. La definizione fornita di sovranità come “potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato 79” serve a sostenere il principio di unità, indivisibilità e perpetuità della sovranità statale stessa, minacciata dalla violenza dei conflitti in corso. Bodin afferma la superiorità del monarca sugli Stati generali e gli

Cfr. Machiavelli Niccolò, Il principe, Letteratura italiana Einaudi, Torino 1995, cap. VII, pag. 53. Cfr. Machiavelli, op. cit., cap. XVIII, pag. 150. 75 Cesare Borgia, infatti, era riuscito ad eliminare con l’inganno i capi Orsini a Senigallia, aveva fatto uccidere il proprio luogotenente Ramiro de Lorqua e, dopo la morte del padre Alessandro VI, aveva cercato di eliminare i consanguinei dei principi sconfitti, di guadagnare i favori dei nobili romani che influenzavano il papa, di controllare il collegio dei cardinali. Non riuscì, tuttavia, ad ostacolare l’elezione a papa di Giulio II, acerrimo nemico dei Borgia, “cagione dell’ultima ruina sua”. 76 Cfr. Luperini, Cataldi, op. cit., vol. 1 tomo II, pag. 196. 77 Cfr. Machiavelli, op. cit., pag. 153-154: “a uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole e osservandole sempre, sono dannose; e parendole di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. E hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione […] e non partirsi dal bene, ma sapere intrare nel male, necessitato”. 78 Secondo Foucault “in Machiavelli il rapporto di forza è descritto essenzialmente in termini di tecnica politica da consegnare tra le mani del sovrano […] La storia, per Machiavelli, non fa mai altro che registrare dei rapporti di forza dei calcoli a cui questi rapporti di potere hanno dato luogo”. Cfr. Foucault Michel, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 144, 148-149. 79 Bodin Jean, Six livres de la République, I, 8. 73 74

30


affida il potere legislativo nella sua interezza, insieme agli altri poteri che ne derivano (giudiziario e militare) e a possibili misure straordinarie di emergenza. Dall’analisi dei tre regimi politici, (democratico, aristocratico e monarchico) ne consegue la conclusione per cui “il punto principale dello Stato, che è il diritto di sovranità, non può essere né sussistere […] se non nella monarchia80”. Bisogna pur dire che Bodin teorizzava la superiorità di una monarchie royale, in cui se è vero che il re non era condizionato da altri poteri né tenuto a rispettare patti e leggi varate dai suoi predecessori, è altrettanto vero che risultava vincolato dalla legge divina, da quella di natura, dalle leggi fondamentali del regno, nonché tenuto a convocare gli Stati generali per stabilire nuove imposte (fatta eccezione per i casi di emergenza). La teorizzazione dell’assolutismo, infatti, si afferma solo molto dopo, nel testamento politico di Richielieu e soprattutto nel trattato di Jacques-Bénigne Bossuet81, che attribuiva al re il ruolo di padre del suo popolo, una maestà di origine divina e la possibilità di non rispettare la legge. Nel frattempo c’era stato il tentativo di rafforzare l’alleanza tra trono e altare compiuto da Giovanni Botero tramite la teorizzazione della Ragion di stato82 come estrema giustificazione dell’azione politica avente come scopo il bene comune. Da allora in poi il potere riterrà possibile sacrificare ogni vincolo morale sull’altare della ragion di stato, grazie all’invocazione di supremi interessi collettivi da salvaguardare, dietro cui celare il proprio istinto di conservazione dei privilegi. Si tratta di un’opera controriformista volta a sostenere la necessità di un accordo tra autorità politica e religiosa, tra il potere statale e quel potere ecclesiastico incarnato dai gesuiti, tratteggiati come consiglieri ideali dei sovrani. L’ultimo modello cinquecentesco del potere ha un sapore particolare, quello dell’utopia, parola che discende dal trattato stesso di Thomas More e che può assumere la duplice accezione di nonluogo e di luogo felice83. Il racconto fatto dal protagonista al viaggiatore portoghese Raffaele Itlodeo tratta delle istituzioni egualitarie dell’isola Utopia, fondate sul rispetto del valore della vita, sul rifiuto della proprietà privata e l’attuazione della comunione dei beni, sulla tolleranza religiosa, su condizioni ed orari di lavoro umani e su una sobrietà nell’uso dei beni terreni e corporali. Nella prima parte del romanzo-saggio Moro sferra attacchi vibranti al dispotismo della società monarchico-aristocratica, definita come iniqua e ingrata, che si ritiene “superiore ad ogni legge” e padrona di beni e di uomini, finalizzata solo all’accumulazione di denaro tramite guerre di conquista. La critica viene poi rivolta anche allo sfruttamento del lavoro da parte di un’aristocrazia oziosa, definendola come “cospirazione dei ricchi” che depredano i poveri Bodin Jean, op. cit., VI, 5. Bossuet Jacques-Bénigne, La politique tirée de l’Ecriture sainte (1709). 82 Botero Giovanni, Della Ragion di stato (1589). 83 Si può infatti rintracciare una doppia etimologia greca del termine: da “ou” (non) e “topos” (luogo) oppure da “eu” (bello, migliore) e “topos” (luogo). 80 81

31


tramite la legge. La riflessione dell’autore si concentra, perciò, sulle conseguenze economiche e sociali del potere, fornendo un’analisi realistica delle cause della degenerazione della società e della monarchia inglese, in cui dominano la nobiltà e la nascente borghesia capitalistica, fautrici di quel sistema di recinzioni e di privatizzazioni delle terre che sta riducendo alla povertà e alla disoccupazione numerose famiglie contadine. Il modello politico di Utopia, invece, è già una sorta di sistema pre-democratico84, in cui vi è a capo un principe eletto a vita, ma revocabile al primo sospetto di tirannia, e in cui “è delitto capitale decidere di cose pubbliche fuori del senato o dei comizi del popolo”. Quel che più ci interessa, però, ai fini del nostro discorso principale, è la rivalutazione, compiuta da Moro, del diritto dei cittadini ad un orario di lavoro ridotto ed equivalente al tempo trascorso nell’ozio letterario e negli studi85. Ecco agire, dunque, un contromodello rispetto a quello egemonico fondato sullo sfruttamento aristocratico dei corpi schiavizzati dei lavoratori: la fatica lavorativa viene limitata infatti a sei ore ed integrata con un modello di vita dedito alla crescita culturale di ogni persona. Il modello utopico di More inaugura, dunque, il solco di un rovesciamento dei modelli di potere visti in precedenza: al modello realistico-demistificatorio di Machiavelli, finalizzato a smascherare i volti cinici del potere, a quello pre-assolutistico di Bodin, che celebra la superiorità della forma monarchica, a quello controriformistico di Botero, l’utopia di Moro contrappone una rappresentazione della società che, abolendo i rapporti gerarchici e quelli di proprietà, rivalutando il diritto del corpo al piacere e all’ozio, mina alle fondamenta stesse l’essenza di quelle strutture di potere basate sui rapporti di forza, di dominio e di sfruttamento e, nel contempo, apre a un disegno alternativo di società che mira al cambiamento del presente e che sarà fecondo di suggestioni nel futuro. Su questo solco si inseriranno, infatti, illustri pensatori come Tommaso Campanella e Francis Bacon, per citarne solo due. Se il primo elabora un sincretismo tra il modello laico di Utopia e una Città del sole organizzata secondo i criteri religiosi di un Cristianesimo evangelico e Cfr. Colombo Arrigo, Utopie letterarie e storiche, in L’età moderna e contemporanea: “More pensa a qualcosa come una confederazione di città-stato, come le città dell’antica Grecia. In ognuna v’è una magistratura di quartiere (ogni trenta famiglie si elegge annualmente un filarco) e un organo centrale di governo, un senato (di venti protofilarchi, eletti annualmente dalle famiglie coi filarchi), presieduto da un principe (eletto a vita – punto di riflusso monarchico – dai filarchi su designazione dei quartieri; che ne indicano quattro. Il senato si riunisce ogni tre giorni. Ha probabilmente la prerogativa della legge e del decreto, ma funge anche da tribunale; e però qui le leggi sono pochissime e pochissime le liti e i crimini, in quanto prevale la virtù. […]. Problemi di maggiore gravità vengono discussi da comizi di filarchi con le famiglie, portati poi in senato; e talora da un consiglio dell’isola intera”. 85 Cfr. Moro Tommaso, L’utopia, Laterza editore, Bari 2000: “Qui dividono il giorno in 24 ore eguali, compresavi la notte, e non danno più che 6 ore al lavoro, 3 prima di mezzodì, dopo le quali vanno a colazione, e quando, dopo tavola, han riposato 2 ore pomeridiane, ne danno ancora 3 altre al lavoro, chiudendo col pasto principale. Segnando l’una da mezzogiorno, vanno a letto verso le otto e il sonno richiede 8 ore; tutto il tempo che passa fra il lavoro e il sonno o i pasti è lasciato al piacere di ognuno […]. Questi intervalli i più li impiegano in studi letterari; c’è l’uso infatti di tenere ogni giorno lezioni pubbliche prima di far giorno, cui sono costretti a intervenire soltanto quelli espressamente prescelti per gli studi; ma vi affluiscono uomini e insieme donne di ogni condizione, in gran folla, a udire questa e quella lezione, secondo le loro inclinazioni”. 84

32


naturalistico, il secondo, con la Nuova Atlantide, getta le basi, come vedremo nei prossimi paragrafi, del metodo scientifico finalizzato al dominio della natura. Non possiamo che concludere questo paragrafo con l’analisi dell’ultimo modello di potere elaborato nell’età moderna, quello di natura contrattualistica. Confronteremo, perciò, due interpretazioni opposte del patto sociale, quella attuata nello Stato Leviatano di Hobbes e quella del contratto sociale fornita da Rousseau. L’origine del contrattualismo va rintracciata, tuttavia, nel pensiero di Ugo Grozio, fondatore del diritto internazionale e fautore del giusnaturalismo. L’operazione svolta da Grozio è illuminante per capire il processo di naturalizzazione della ragione umana e della legge: il giurista olandese teorizza, infatti, una natura umana razionale, universale e immodificabile, a partire dalla quale deduce l’esistenza di un diritto naturale che dovrebbe essere il fondamento di qualunque forma di contratto sociale e di legislazione statale. Grozio ricerca dunque nello stato di natura la giustificazione dei diritti dell’uomo e, così facendo, identifica il piano della legge e quello della ragione, trasportando entrambi nel regno della natura e, perciò, dell’origine universale. Il passo fondamentale compiuto dal giusnaturalismo consiste nella laicizzazione del potere ottenuta tramite la valorizzazione di una forma di diritto innata nell’uomo e perciò naturale86, sulla base della quale fondare un patto statale che garantisca questi stessi diritti. In contrapposizione alla visione groziana, Hobbes elabora il suo modello di potere fondato su di uno stato di natura di bellum omnium contra omnes, che richiederebbe la fondazione di uno Stato capace di garantire la sicurezza della vita dei sudditi. Lo Stato viene raffigurato con l’immagine del mostro satanico Leviathan in virtù della sua potenza assoluta e illimitata, la sua presenza risponde ad una necessità naturale. Gli uomini abbandonano lo stato di guerra, che è un effetto necessario delle passioni naturali, solo trasferendo tutto il loro potere e la loro forza ad un sovrano assoluto, in nessun modo contestabile o giudicabile nell’esercizio della sua autorità illimitata. Il contratto sociale si pone allora come unica forma possibile per disciplinare gli istinti egoistici e violenti degli uomini e poggia sulla loro rinuncia ai diritti di libertà in funzione di uno strumento di sicurezza che garantisca l’ordine civile attraverso il monopolio della coercizione87. Il sovrano assoluto accentra

86

87

Cfr. Morfino Vittorio, Il giusnaturalismo seicentesco, in L’età moderna e contemporanea, vol.6, pag. 246: “la differenza principale [del giusnaturalismo, n.d.a.] rispetto alla tradizione del diritto naturale antica e medievale consiste nel fatto che mentre questa fa coincidere la legge naturale con lo stesso ordine razionale del cosmo (nello stoicismo) oppure con un’emanazione della lex divina (Tommaso), nel giusnaturalismo moderno […] il diritto naturale, pensato in termini strettamente individualistici, si fonda sulla ragione umana che proclama la sua autosufficienza rispetto alla teologia […]. Lo schema fondamentale della teoria giusnaturalistica prevede, a partire da un modello di natura umana proposto sotto forma di descrizione di uno stato di natura , di proporre la teoria di uno Stato che, sorto da un patto o da un contratto, garantisca agli individui alcuni diritti, appunto naturali”. Cfr. Hobbes Thomas, Leviatano, trad. it. di M. Vinciguerra, a cura di A. Pacchi, Laterza, Bari, 1974, pp. 151: “il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli, e perciò ad assicurarli in tal maniera, che, con la propria industria e coi frutti delle

33


nelle sue mani tutti i poteri, ma è soprattutto giudice nelle controversie e guida militare, poiché gode del diritto di fare guerra o pace. L’unico limite al suo potere coercitivo risiede nelle leggi naturali emanate da Dio, anche se il suddito può usufruire della libertà di difendere il proprio corpo. Questo diritto è frutto di un sillogismo teorico88 che non troverà applicazione reale in un modello di Stato assoluto dove è vietata qualsiasi resistenza o ribellione e il conflitto sociale è considerato come una forma di guerra civile. E’ possibile interpretare il bisogno di un Leviatano che assicuri la pace come “un artificio costruito scientificamente per la correzione della natura umana89” e cioè, in definitiva, come tecnica dell’ordine ottenuto tramite un controllo scientifico dei rapporti sociali, calcolabili entro un sistema regolato in modo corretto90. Come vedremo nei prossimi paragrafi, infatti, l’influenza della rivoluzione scientifica, del suo linguaggio matematico e della sua rappresentazione meccanicistica del mondo-orologio, comporteranno lo sviluppo di una tecnocrazia capace di controllare i corpi, di manipolare la natura per i suoi fini di progresso e di operare la definitiva separazione tra etica e politica. Concludiamo con un breve accenno alle forme di potere contrattuale illuministiche: quella democratica di Rousseau e quella costituzionale di Montesquieu. Criticando le teorizzazioni di Hobbes e Locke, Rousseau rappresenta uno stato di natura in cui l’uomo originario è un animale semplice, con bisogni limitati e passioni elementari, privo di capacità immaginative e riflessive. Tale situazione di uguaglianza primordiale viene alterata dall’istituzione della proprietà terriera e dall’accumulazione delle ricchezze che ne derivano: ciò avrebbe reso indispensabile la nascita delle istituzioni per formalizzare le disuguaglianze e il dominio dei ricchi. Il contratto sociale diventa, dunque, l’unica soluzione per “trarre dallo stesso male il rimedio che deve guarirlo” e per proporre un modello di società giusta. Nel patto di Rousseau, a differenza di quello elaborato da Hobbes, non c’è una cessione di sovranità dei cittadini contraenti ad altri (il sovrano assoluto), bensì nei confronti della comunità e cioè di se stessi. A garanzia dell’autonomia della comunità fondata dal contratto sociale c’è la volontà generale, che è finalizzata al bene comune e alla proprie terre, possano nutrirsi e vivere in pace, è di conferire tutto il proprio potere e la propria forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri, con la pluralità di voti, ad un volere solo. […] Ciò fatto, la moltitudine così unita in una persona è detta uno stato, in latino civitas”. 88 Come nota bene Morfino:“essendo infatti la paura della morte violenta la ragione dell’istituzione dello Stato, se viene meno la sicurezza della vita, viene meno allo stesso tempo la ragione di tale istituzione”. 89 Cfr. Galimberti, Psiche e techne, pag. 443: “in questo modo la politica si separa dall’etica per divenire ingegneria, quindi tecnica che guarda all’ordine […] La natura umana, che per Aristotele e Tommaso d’Aquino era naturalmente politica, appare quel male radicale che Hobbes ritrae nella condizione dell’homo homini lupus, per salvarsi dalla quale occorre costruire una politica capace di correggere la condizione naturale, che di per sé porterebbe al bellum omnium contra omnes, trasferendo tutti i diritti naturali degli individui (fatta eccezione del diritto alla conservartio vitae) nelle mani del sovrano assoluto. A questo punto la politica non è più espressione della natura umana, ma artificio costruito scientificamente per la correzione della natura umana” 90 Cfr. Galimberti, op. cit., pag. 445: “a questo punto la politica diventa pura legalità che trova espressione nell’insieme delle norme che gli individui si danno attraverso il contratto, e la giustizia si risolve esclusivamente nel rispetto di queste norme, per cui […] Hobbes può scrivere - la giustizia consiste in ogni caso nel non violare le leggi -”.

34


tutela della libertà degli individui e della collettività. Ne deriva il primo modello di sovranità popolare e di potere comunitario, fondato sulla limitazione degli egoismi naturali e delle volontà individuali a vantaggio dell’interesse generale e del bene collettivo91. L’ultimo modello che ci resta da analizzare è quello della sovranità costituzionale elaborato da Montesquieu sulla base della separazione dei poteri: la limitazione del potere assoluto del monarca, che incarna nella sua persona tutti e tre i poteri fondamentali dello stato, può avvenire solo tramite la redistribuzione di questi a tre organi differenti. Seguendo il modello della monarchia inglese, il pensatore illuminista propone la divisione del potere legislativo da quello esecutivo e da quello giudiziario e la necessità che vengano esercitati da soggetti differenti nel loro equilibrio reciproco, senza che vi sia confusione tra le prerogative di ognuno, a garanzia di un controllo vicendevole; da ciò deriva la certezza della libertà dei cittadini ed un limite alla degenerazione di qualunque forma di governo verso il dispotismo. 2.2 La microfisica del potere nei rapporti gerarchici della società moderna. Dopo aver fornito una visione dei modelli di sovranità elaborati nell’età moderna, è necessario rimodulare il discorso secondo un metodo di analisi strutturale del potere, seguendo i consigli epistemologici forniti da Foucault e la sua interpretazione del potere come insieme di dispositivi e strategie di dominio: “non bisogna prendere il potere come un fenomeno di dominazione massiccio ed omogeneo d’un individuo sugli altri, d’un gruppo sugli altri, d’una classe sulle altre; ma aver ben presente che il potere […] non è qualcosa che si divide tra coloro che lo posseggono e lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno e lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o piuttosto come qualcosa che non funziona che a catena. Non è mai localizzato qui o là, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare […] In altri termini, il potere transita attraverso, non si applica agl’individui92”. Per affrontare questa microfisica del potere, questo coacervo di relazioni e di strategie di dominio, Foucault predispone un’analisi ascendente del potere, che consenta di “partire dai meccanismi infinitesimali, che hanno la loro storia, il loro tragitto, la loro tecnica e tattica, e poi vedere come questi meccanismi di potere sono stati e sono ancora investiti, colonizzati, utilizzati, piegati, trasformati, spostati, estesi da meccanismi sempre più generali e

Cfr. Pasta Renato, L’Illuminismo, in Storia moderna, Donzelli, pag. 505: “Nel Contratto sociale Rousseau tratteggia l’ideale di una comunità libera e sovrana, in cui l’egoismo naturale ha ceduto il posto al consenso attorno a nuove regole di convivenza e dove l’individuo, rinato alla vita morale tramite l’alienazione di tutto se stesso alla comunità, si pone ormai nella duplice veste di cittadino (in quanto contitolare della sovranità) e suddito (in quanto obbediente alle leggi della comunità)”. 92 Cfr. Foucault Michel, Microfisica del potere, pag. 184. 91

35


da forme di dominazione globale93”. Tra le procedure utilizzate in età moderna, Foucault si sofferma sulla tecnica e la procedura dell’esclusione adottata dal sistema borghese: “sono i meccanismi di esclusione, gli apparati di sorveglianza, la medicalizzazione della sessualità, della follia, della delinquenza, è tutta questa micromeccanica del potere che ha rappresentato, a partire da un certo momento, un interesse per la borghesia”. Il meccanismo dell’esclusione delle diversità, fondato sulla segregazione, sull’internamento e sulla sorveglianza dei corpi comincia nel XVII secolo, ma comporta poi un profitto economico e un’utilità politica che finiscono per sollecitare l’intervento del potere globale, del sistema Stato, a partire dal XIX secolo, con l’intento di solidificare il sistema stesso e il suo funzionamento. La microfisica del potere 94 si può perciò configurare come una storia stratificata delle relazioni e delle dinamiche di assoggettamento, che utilizza ruoli e funzioni ad un livello di strutture interpersonali, strategie e dispositivi complessi ad un livello di rapporti tra sistemi e forze globali. Prima di analizzare perciò le strategie generali di potere nell’età moderna, converrà focalizzare la nostra attenzione sulle gerarchie sociali. Nei secoli dell’antico regime si assiste ad una costituzione di territori coperti da una rete di relazioni giuridiche e di potere, che “limitano coercitivamente e monopolizzano l’uso della violenza nelle interrelazioni tra i soggetti individuali e collettivi95”. Questa pacificazione degli spazi sociali determina una sorta di sublimazione dei rapporti di forza, in quanto le gerarchie sociali non si esprimono più tramite l’uso rituale della violenza, si assiste cioè ad un disciplinamento che si avvale ora di norme giuridiche “che fanno capo a saperi in grado di elaborarle e a poteri in condizione di applicarle nei territori di loro pertinenza”. Il tentativo più coerente di disciplinamento delle gerarchie sociali da parte del potere globale viene compiuto da Pietro il Grande con la Tavola dei ranghi (1722), esempio di una stratificazione sociale, che va dalle condizioni servili a quelle nobiliari, ottenuta tramite un intervento demiurgico della legge96. Ecco che con il rafforzamento della monarchia assoluta e la trasposizione della guerra al di fuori dei confini nazionali, le strutture di potere attuano un’operazione di ingegneria sociale la cui Cfr. Foucault Michel, op. cit., pag. 185, dove continua così: “non è la dominazione globale che si pluralizza e si ripercuote fino in basso; credo che vada mostrato, certo, come queste procedure si spostano, si estendono, si modificano, ma soprattutto come sono investite ed annesse da fenomeni più globali e come poteri più generali o profitti economici possano inserirsi nel gioco di queste tecnologie ad un tempo relativamente autonome ed infinitesimali di potere” 94 Cfr. Foucault Michel, Sorvegliare e punire, pag. 10: “lo studio di questa microfisica suppone che il potere che vi si esercita non sia concepito come una proprietà, ma come una strategia, che i suoi effetti di dominazione non siano attribuiti ad una appropriazione, ma a disposizioni, manovre, tattiche, tecniche, funzionamenti […]. Bisogna insomma ammettere che questo potere lo si eserciti piuttosto che non lo si possieda, che non sia privilegio acquisito o conservato dalla classe dominante, ma effetto d’insieme delle sue posizioni strategiche”. 95 Salvemini Biagio, Potere e gerarchie sociali, in Storia moderna, Donzelli editore, pag. 399. 96 Cfr. Salvemini, op. cit., pag. 401: “siamo in presenza di un mutamento sociale per mezzo della legge, che fonda privilegi e preminenze, e definisce profilo e caratteri della stratificazione sociale su un solo tipo di norme giuridiche, quelle emanate direttamente dal vertice politico”. 93

36


esigenza parte dalle relazioni microfisiche, per trovare poi la legittimazione ab alto del sovrano. Per dirlo con le parole di Foucault “con la crescita e lo sviluppo degli stati […] le pratiche e le istituzioni di guerra hanno subito un’evoluzione assai marcata e ben visibile: le pratiche e le istituzioni di guerra, all’inizio, si sono sempre più concentrate tra le mani del potere centrale e a poco a poco è accaduto che, di fatto e di diritto, solo i poteri statali hanno potuto intraprendere le guerre e controllare gli strumenti della guerra. Ne è conseguita la statalizzazione della guerra. Nello stesso tempo, a causa di questa statalizzazione, è stato cancellato dal corpo sociale, dal rapporto tra uomo e uomo, tra gruppo e gruppo, ciò che si potrebbe chiamare la guerra quotidiana e che veniva giustappunto chiamata la guerra privata. Le guerre, le pratiche di guerra, le istituzioni di guerra tendono sempre di più a esistere in qualche modo solo alle frontiere, solo ai limiti estremi delle grandi unità statali, come rapporto di violenza effettiva o solo di minaccia tra stati. Ma il corpo sociale nel suo insieme è stato via via mondato dai rapporti bellicosi che lo attraversavano integralmente durante il periodo medievale97”. Se da un lato, dunque, questa pacificazione all’interno della società invoca l’intervento del sistema legislativo per ristabilire le gerarchie, dall’altro la statalizzazione della guerra provoca la nascita dell’esercito come vera e propria istituzione gestita da un apparato militare accuratamente definito e controllato. Ci troviamo cioè all’interno di quel meccanismo di potere che Foucault ha definito come legale/giuridico, che si afferma a partire dalla fine dal basso Medioevo ma che giunge a compimento nel XVII-XVIII secolo. Il sistema legale e giuridico disciplina le relazioni gerarchiche sulla base dell’opposizione binaria tra permesso e divieto, prevedendo l’adozione di un dispositivo penale finalizzato al rispetto della legge. L’affermazione di quei processi di definizione dello Stato moderno, che “disciplinano la violenza magnatizia, delegittimano la faida e la vendetta, riducono progressivamente il ruolo autonomo dell’apparato militare nobiliare, includono corpi e comunità entro spazi a sovranità definita98”, non annullano la moltitudine di poteri feudali, bensì finiscono per disporli in una struttura federativa. Questo sistema di relazioni di potere necessita, quindi, della creazione di nuovi modelli culturali ad opera del sapere giuridico, poiché “i criteri di selezione e distinzione su cui poggiano risultano poco coerenti”, né esiste una sovranità “detentrice del monopolio del potere simbolico e normativo capace di ricombinarli in forme univoche99”. La distinzione sociale non viene promossa esclusivamente tramite l’azione legislativa di alcuni principi. Un ruolo fondamentale, infatti, è svolto anche dalla trattatistica, specie da quella cinquecentesca, che esalta e istituzionalizza nella cultura dell’epoca il valore delle virtù

Cfr. Foucault Michel, Bisogna difendere la società, pag. 47. Cfr. Salvemini, op. cit., pag. 402. 99 Salvemini, op. cit., pag. 402. 97 98

37


cortigiane. Baldassar Castiglione, Giovanni Della Casa, Girolamo Muzio, Stefano Guazzo e altri gettano le basi dell’etica aristocratica, legittimando tramite una precettistica del comportamento i principi di distinzione sociale e dispensando una pratica del convivere “entro i luoghi del potere e tra i potenti che circondano il principe100”. Manifesto antropologico della società di corte dell’età moderna fino alle soglie della Rivoluzione francese, il Cortegiano di Castiglione consacra i valori della grazia, dell’eleganza, dell’armonia, proponendo un manuale dell’apparire101 che ha come cifra la sprezzatura, “regula universalissima” che consiste nel far sembrare spontanea e immediata ogni azione del vivere sociale che sia in realtà frutto di controllo e di riflessione. Castiglione, mediante la voce del conte Lodovico di Canossa, che partecipa ad un dialogo ambientato alla corte di Urbino nel 1506, individua nella grazia la qualità principale del cortigiano, da dimostrare però rifuggendo da qualsiasi affettazione tramite la sprezzatura, una forma di disinvoltura che “nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi102”. La sprezzatura, dunque, si configura non solo come opposto dell’affettazione, ma addirittura come fonte stessa della grazia, capace di conferire prestigio a chi la pratica e di renderlo degno di stima agli occhi degli altri membri della corte103. Nel quarto libro Castiglione affronta il discorso politico della relazione con principe: il cortigiano deve dimostrare qualità morali tali da poter consigliare il principe, influenzando e condizionando la sua attività di governo e correggendolo in caso di errore. Il ruolo del cortigiano, insomma, diventa quello di un educatore del principe, avente il compito di indirizzarlo verso la virtù, la giustizia e la liberalità104. Non si può non notare, tuttavia, come dietro questo modello di gentiluomo rinascimentale si celi un processo di negazione della sfera istintuale e passionale della natura umana, l’ennesima repressione del corpo che assicura la teatralità artificiosa del gioco di corte, impostata sull’alternanza dei meccanismi di dissimulazione e simulazione, del nascondere e dell’apparire. Questa nuova precettistica, estetica ed etica ad un tempo, fonda le regole consuetudinarie della vita aristocratica, l’etichetta della distinzione e della superiorità sociale, sublimando i meccanismi bellici del potere medievale in un codice comportamentale di Salvemini, op. cit., pag. 402. Cfr. Contarini Silvia, Trattatistica e dialogo, in L’età moderna e contemporanea, vol. 3, secondo la quale il Cortegiano propone “una sapienza comportamentale che coincide con la qualità stessa dell’apparire, affidata a una retorica sospesa tra dono di natura e autocontrollo, dove la naturalezza coincide con il massimo dell’artificio, e la mediocrità va intesa come giusto mezzo, distanza dagli eccessi ed equilibrio insieme etico ed estetico”. 102 Cfr. Castiglione Baldassar, Il libro del Cortegiano, Libro primo, cap. XXVI. 103 Cfr. Castiglione, op. cit., Libro primo, cap. XXVIII: “questa virtù adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora chiamiamo sprezzatura, oltra che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro ornamento, il quale accompagnando qualsivoglia azione umana, per minima che ella sia, non solamente sùbito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che è in effetto; perché negli animi delli circunstanti imprime opinione, che chi così facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa, e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio”. 104 Come nota bene Luperini “all’opposto di Machiavelli […] Castiglione prospetta non solo una collaborazione tra principe e intellettuale, ma addirittura il primato della cultura sulla politica”. Cfr. Luperini, Cataldi, op. cit., vol. 1 tomo II, pag. 55. 100 101

38


ceti nobiliari sempre più permeati dal potere dell’apparire, secondo un rituale che vivrà la sua apoteosi nella vita di corte a Versailles sotto il Re Sole. La microfisica del potere, però, trova nei meccanismi di esclusione e segregazione il veicolo per affermare quella normalizzazione della società che rende possibile l’instaurarsi di un ordine gerarchico fondato sul modello culturale della disciplina. Questo processo di misconoscimento della plebe da parte della società normale avviene tramite la pratica dell’internamento nelle grandi strutture ospedaliere costruite per folli, malati e marginali105. Solo così facendo la società può occultare alla propria stessa coscienza la presenza di una categoria sociale che non riesce ad includere nella propria rappresentazione della società. Sia le forme di esclusione che quelle di reclusione e di disciplina passano attraverso l’esercizio del potere coercitivo sul corpo. 2.3 La disciplina dei corpi nell’età moderna Se nel Medioevo il corpo veniva rappresentato secondo l’ambivalenza tipica di una visione simbolica, demonizzato certo dal dualismo paolino e dall’identificazione con il peccato, riscattato tuttavia da una sorta di compensazione inconscia nel suo riemergere in rituali mondani di liberazione pulsionale, nell’età moderna esso subisce, al pari della natura, il processo scientifico di oggettivazione106. Il corpo umano, dal Rinascimento in poi, diventa cioè oggetto di studio, di dissezione anatomica, di misurazione geometrica e di analisi funzionale: “in questo modo il nostro corpo non è più il nostro punto di vista sul mondo, ma un oggetto di questo mondo. I suoi sensi non sono la sua apertura sul mondo, la sua possibilità di abitarlo, ma scientificamente organi e funzioni107”. La pratica dell’autopsia, sviluppatasi nei teatri anatomici dell’età moderna, consente alla scienza medica di raggiungere certe scoperte, quali la circolazione sanguigna ad opera di Harvey, ma d’altra parte riduce il corpo a cadavere o ad aggregato di parti: “ma il cadavere sezionato, svuotato, disgregato non è il corpo, ma un modello di simulazione che solo un sapere che si misura sull’equivalente generale della morte può far passare per vera realtà del corpo. […] Se infatti l’anatomia è lo studio degli organi corporei nella loro esteriorità, se la fisiologia è la ricostruzione sintetica del vivente a partire da questa esteriorità, anatomia e fisiologia sono condannate in partenza a non capire niente del corpo,

Cfr. Salvemini, op. cit., pag. 421: “l’atteggiamento che prevale è quello dell’esclusione della plebe dal mondo delle classificazioni incerte e complicate della società normale e la sua inclusione coatta nelle classificazioni autoritarie delle istituzioni totali di assistenza. La costruzione delle grandi strutture ospedaliere per marginali, folli, malati è una delle forme più vistose e discusse della presenza dello Stato assoluto. E, dal punto di vista della riduzione e del controllo del mondo degli inclassificabili, della cancellazione della loro presenza dalla scena barocca ufficiale, una delle espressioni più evidenti dei suoi fallimenti”. 106 Cfr. Foucault, Sorvegliare e punire, pag. 46: “ci fu, nel corso dell’età classica, tutta una scoperta del corpo come oggetto e bersaglio del potere”. 107 Cfr. Galimberti Umberto, Il corpo, pag. 79. 105

39


perché lo concepiscono semplicemente come una modalità particolare della morte108”. Si assiste cioè ad una rivalutazione del cadavere, simbolo di morte rigettato nel Medioevo, che diventa oggetto di studio per la costruzione del sapere medico, cosicché, per citare Foucault, il cadavere vive una bella trasmutazione: “un cupo rispetto lo condannava alla putrefazione, al lavoro nero della distruzione; nell’arditezza del gesto che non viola che per mettere in luce, il cadavere diviene il più chiaro momento nelle figure della verità. Il sapere fila ove si forma la larva109”. L’oggettività organica, che nasce dal corpo cadavere per combattere la morte stessa e prolungare la vita110, risponde così alla convenzione di un intelletto che riduce la complessità corporea, il suo simbolismo e la sua esperienza soggettiva ed esistenziale, ad un organismo visto come sommatoria di organi e funzioni vitali, il tutto attraverso un sapere astratto che prescinde dal mondo percettivo e intuitivo che il corpo dischiude111. Da questa operazione di oggettivazione del corpo e di diagnosi delle sue malattie derivano alcune conseguenze sociali, come l’isolamento e l’esclusione dei corpi malati: “ridotto a organismo, il corpo del malato non ha più posto nella società e perciò viene trasferito in quell’ambiente tecnico, l’ospedale, dove le comunità che si creano sono quelle imposte dagli organi da guarire. Deportato in uno spaziotempo dove tutto funzione sotto la minaccia della morte, il paziente si percepisce, rispetto alla sua malattia, come un fatto esteriore112”. Ecco, allora, che il sapere scientifico viene in soccorso al potere nella realizzazione di quella normalizzazione della società che si avvale dell’internamento, dell’emarginazione e dell’esclusione dei corpi infetti, malati e pericolosi in genere per la preservazione delle strutture gerarchiche della società stessa. Sia il meccanismo giudiziario-legale, sia quello disciplinare, si avvalgono cioè di un potere coercitivo, che osserva e applica tecniche con cui si costituiscono i corpi stessi, fissandone le caratteristiche scientifiche, suscitandone i bisogni, incanalandone i desideri e sfruttandone le forze. Foucault rintraccia

Cfr. Galimberti, op. cit., pag. 80. Foucalt Michel, Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, Einaudi, Torino 1969, pag. 223. 110 Cfr. Galimberti, op. cit., pag. 91: “sotto la giurisdizione della scienza, il corpo biologico ha diritto alla vita, intesa non come esistenza, ma come prolungamento quantitativo, su cui sorveglia vigile la tecnica bio-medica nell’intento di garantire a ciascuno di giungere fino al termine del suo capitale biologico. Ciascuno è così espropriato della propria morte, non può morire come vuole, e quindi neppure vivere consumando come vuole la propria vita, perché il diritto a una morte naturale diventa anche il suo dovere”. 111 Cfr. Galimberti, op. cit., pag. 85: “il mondo-della-vita è soggettivo e corporeo, il mondo-della-scienza è oggettivo e astratto, e la sua costruzione è possibile solo prescindendo da quell’universo di intuizioni in cui si articola il mondo-della-vita. L’indipendenza da questo mondo è condizione preliminare per quella costruzione logicoideale in cui la scienza si esprime. La nascita della scienza e il seguito della sua storia ci dicono infatti che i risultati scientifici non sono il prodotto di un intelletto che abita un corpo, ma di un intelletto puro che, solo prescindendo dall’individuazione corporea, è in grado di produrre quelle costruzioni logico-ideali in cui la scienza si riconosce”. E ancora a pp. 82-83: “ma allora ciò che la scienza ci descrive non è la realtà, ma l’iperrealtà delle sue convenzioni adeguatamente mascherate dal simulacro dell’oggettività […] La scienza s’è riconosciuta tale il giorno in cui, trascurando la struttura corporea del mondo, ha limitato la sua indagine alla pura forma astratta, al corpo in idea”. 112 Cfr. Galimberti, op. cit., pag. 96. 108 109

40


l’origine delle strutture di internamento nel Medioevo, allorché i lebbrosi vengono ritirati dal mondo e collocati in lebbrosari appositamente costruiti. Alla fine dell’età medievale, “sparita la lebbra, cancellato o quasi il lebbroso dalle memorie, resteranno queste strutture113”. Essa viene rimpiazzata dalle malattie veneree, tanto che dapprima Carlo VIII e poi Francesco I tentano di sistemarle negli ospedali parrocchiali di Saint-Eustache e di Saint-Nicolas, finché non si decide di costruire nuovi edifici. Accanto a tali malattie, però, finirà per affermarsi quale nuova patologia della modernità la follia, rappresentata iconograficamente e poeticamente già a partire dal Rinascimento con l’immagine della Nave dei folli114, un’imbarcazione carica di pazzi spinta alla deriva lungo i fiumi dell’Europa del nord. Tra Quattrocento e Cinquecento, dunque, i folli vivono ancora un’esistenza vagabonda, si spostano di città in città, dove vengono accolti in dormitori, alloggiati in prigioni o cacciati. Già a partire dal XVII secolo, però, la follia comincia ad essere internata, perde il suo potere di fascinazione rinascimentale, “cessa d’essere un simbolo escatologico ai confini del mondo, dell’uomo e della morte”, e viene relegata da Cartesio tra le forme di errore, al pari del sogno115. Ecco che il Seicento si scopre atterrito da questa forma di sragione ed erige grandi case di internamento per difendersene: in pochi mesi più di un parigino su cento vi si trova rinchiuso. La data che può essere presa come punto di riferimento è il 1656, anno in cui viene emanato l’editto regio di fondazione dell’Hopital général a Parigi, nato per accogliere sulla carta i bisognosi e i poveri e gestito da direttori nominati a vita, i quali esercitano un ampio potere sull’intera città. La struttura, tuttavia, viene da subito configurata come una sorta di entità amministrativa, che esercita perfino un potere giudiziario di decidere, giudicare ed eseguire: “sovranità quasi assoluta, giurisdizione senza appello, diritto esecutivo contro il quale niente può prevalere, l’Hopital géneral è uno strano potere che il re crea tra la polizia e la

Cfr. Foucault Michel, Storia della follia nell’età classica, BUR Rizzoli, pag. 6. A pag. 30 Foucault afferma: “il classicismo ha inventato l’internamento, un po’ come il Medioevo la segregazione dei lebbrosi; il posto lasciato vuoto da costoro è stato occupato da personaggi nuovi nel mondo europeo: cioè dagli internati”. 114 La nave dei folli è un’invenzione del poeta tedesco Sebastian Brant che, nel poemetto Das Narrenschiff (1494), rappresenta ogni vizio sociale come incarnato dalla figura di un folle. Seguiranno poi le rappresentazioni pittoriche, tra cui va ricordata quella di Hieronymus Bosch, e l’opera di Erasmo da Rotterdam, L’elogio della follia (1509). 115 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 27: “La problematica della follia è con ciò stesso modificata. In modo quasi impercettibile, indubbiamente, ma decisivo. Eccola posta in una regione di esclusione […] La Non-Ragione del sedicesimo secolo formava una sorta di rischio aperto, le cui minacce potevano sempre, almeno di diritto, compromettere i rapporti della soggettività e della verità. Il procedere del dubbio cartesiano sembra testimoniare che nel diciassettesimo secolo il pericolo si trova scongiurato e che la follia viene posta fuori dal dominio di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti alla verità: quel dominio che per il pensiero classico era la ragione stessa. Ormai la follia è esiliata. Se l'"uomo" può sempre essere folle, il "pensiero", come esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato. Viene tracciata una linea di separazione che renderà ben presto impossibile l'esperienza, così familiare alla "Renaissance", di una Ragione sragionevole e di una ragionevole Sragione. Fra Montaigne e Descartes si è prodotto un avvenimento: qualcosa che riguarda l'avvento di una "ratio". Ma la storia di una "ratio" come quella del mondo occidentale è ben lontana dall'esaurirsi nel progresso di un “razionalismo”; essa è costituita, in parte altrettanto grande, anche se più segreta, dal movimento con cui la Sragione è sprofondata nel nostro suolo, per sparirvi senza dubbio, ma per prendervi radice”. 113

41


giustizia, ai limiti della legge, il terzo stato della repressione. […] Nel suo funzionamento, o nel suo intendimento, non è legato a nessuna idea medica. Esso è un’istanza dell’ordine, dell’ordine monarchico e borghese che si organizza in Francia in questa stessa epoca 116”. Così l’Hopital dipenderà direttamente dal potere reale e da Parigi estenderà la sua struttura in tutto il Paese, replicando questo potere di internamento117. La creazione di questi ospizi è un fenomeno in realtà europeo e concomitante118, ma nessun’altra istituzione del genere avrà le stesse peculiarità del modello francese. Nato con il compito di impedire la mendicità e l’ozio come fonti di disordine, l’Hopital finisce per raccattare quell’eterogenea folla di disperati che è il portato di quarant’anni di guerre di religione prima e della crisi economica ingenerata dalla partecipazione francese alla Guerra dei Trent’anni poi, una massa indistinta, “popolazione senza risorse, senza legami sociali”, disoccupati, vagabondi, straccioni. In tutta Europa, almeno inizialmente, l’internamento assume questo identico aspetto, tanto da configurarsi come “una delle risposte che vengono date dal XVII secolo a una crisi economica che interessa tutto il mondo occidentale119”. Progressivamente l’internamento assume un’altra utilità, quella di far lavorare gli internati, in modo da sfruttare manodopera a basso costo, riassorbire gli oziosi e, al contempo, proteggere la società da agitazioni e sommosse120. Il ministro Colbert trasforma così la funzione dell’Hopital, che da struttura esclusivamente soppressiva della mendicità si apre all’occupazione degli internati, contribuendo al disegno mercantilista dello sviluppo delle manifatture interne. Come afferma Foucault, del resto, “proprio in questo contesto l’obbligo del lavoro acquista il suo significato: a un tempo esercizio etico e garanzia morale. Esso servirà come ascesi, come punizione […] E’ un fenomeno importante questa invenzione di un luogo di coercizione dove la morale infierisce per via d’assegnazione amministrativa, dove si compie una stupefacente sintesi tra obbligo morale e legge civile121”. Questa popolazione che inizialmente viene concepita come indistinta, sarà la stessa che più tardi verrà etichettata come affetta da malattie mentali 122. Per Cfr. Foucault, op. cit., pag. 28. Un editto del re Luigi XVI, datato 16 giugno 1676, prescrive l’istituzione di un “Hopital général in ogni città del regno”. Cfr. Foucault, op. cit., pag. 29. 118 Nel Sacro romano impero germanico si diffondono le case di correzione, mentre in Inghilterra, già dal 1575, in seguito ad un atto di Elisabetta I, cominciano ad essere costruite le houses of correction per la punizione dei vagabondi e il sollievo dei poveri. 119 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 36. 120 Non a caso in Inghilterra le prime case d’internamento sorgono nei centri industrializzati di Worcester, Norwich e Bristol. Cfr. Foucault, op. cit. pag. 37: “tutti gli internati devono lavorare. Si tiene conto esattamente del valore della loro opera e si dà loro il quarto di esso”. 121 Cfr. Foucault, op. cit., pp. 40-41. 122 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 44: “la popolazione è altrettanto varia a Bicetre, tanto che nel 1737 viene tentata una ripartizione razionale in cinque settori: nel primo troviamo le case di correzione, le prigioni, le segrete, e le celle per coloro che vengono imprigionati direttamente su ordine del re; il secondo e il terzo sono riservati ai buoni poveri, come ai grandi e piccoli paralitici; gli alienati e i folli sono rinchiusi nel quarto; nel quinto troviamo sifilitici, convalescenti e ragazzi corrigendi.[…] Non esiste alcun indice di differenza tra tutti costoro: lo stesso astratto disonore. Nascerà più tardi lo stupore di aver imprigionato dei malati, di aver confuso dei folli con dei criminali. [… ]Perché‚ l'internamento non ha avuto solo una parte negativa di esclusione, ma anche una parte 116 117

42


centocinquant’anni, tuttavia, i sifilitici verranno affiancati agli insensati, gli omosessuali e i sodomiti saranno accomunati da una stessa forma di condanna, come del resto i libertini, anch’essi passati dalla parte della sragione: “strana base ed estensione delle misure d’internamento. Sifilitici, dissoluti, omosessuali, bestemmiatori, alchimisti, libertini: tutta una popolazione variopinta si trova d’un tratto, nella seconda metà del XVII secolo, rigettata al di là di una linea di separazione e rinchiusa in asili che erano destinati a diventare, dopo un secolo o due, i campi chiusi della follia”. Eppure circa un decimo degli arresti operati a Parigi per l’Hopital général riguarda persone alienate o con disagi psichici che, tuttavia, vengono omologate ai trattamenti riservati agli altri correzionari123. A partire dal secolo dei lumi, però, “sotto la pressione del concetto di diritto e nella necessità di delimitare con precisione la personalità giuridica, l’analisi dell’alienazione non cessa di raffinarsi”, nel tentativo di adattare alla nozione di soggetto di diritto l’esperienza dell’uomo sociale. Da queste riflessioni scaturisce l’elaborazione del concetto di follia e l’organizzazione delle pratiche che la riguardano, finché nel XIX secolo la medicina positivista finirà per formulare l’identificazione tra l’alienazione del soggetto di diritto e la follia dell’uomo sociale: “la malattia mentale, che la medicina si porrà come oggetto, sarà lentamente costituita come l’unità mitica del soggetto giuridicamente incapace e dell’uomo riconosciuto come perturbatore del gruppo”. Alla base di questo risultato Foucault individua, perciò, l’azione del pensiero politico e morale dell’Illuminismo, riscontrabile già nel decreto del 1784 con cui il ministro francese Breteuil intende far precedere l’internamento dei folli da una procedura giudiziaria che determini l’interdizione e la capacità del soggetto come persona giuridica. Siamo alle porte della nascita della psichiatria con gli studi di Pinel e alla definizione sociale della follia come incapacità del soggetto giuridico. Ecco dunque compiersi la sovrapposizione tra le due forme di alienazione con cui l’esperienza della follia è stata vissuta nell’età moderna: da un lato come limitazione della soggettività dovuta all’interdizione, dall’altro come colpevolezza morale124. Non c’è distinzione, quindi, tra follia e colpa, tra pazzia e delitto, “il soggetto può essere un po’ più folle o un po’ più criminale, la più estrema follia sarà fino in fondo inquinata di malvagità”. Mediante questa identificazione, cioè,

123

124

positiva di organizzazione. Le sue usanze e le sue regole hanno costituito un dominio di esperienza che ha avuto la sua unità, la sua coerenza e la sua funzione. Esso ha riavvicinato, in un campo unitario, personaggi e valori tra i quali le culture precedenti non avevano percepito nessuna somiglianza; li ha impercettibilmente dirottati verso la follia, preparando un'esperienza - la nostra - nella quale essi si mostreranno già integrati al dominio d'appartenenza dell'alienazione mentale”. Cfr. Foucault, op. cit., pag. 61: “non c’è da stupirsi che le case di internamento abbiano l’aspetto di prigioni, e che spesso le due istituzioni siano state perfino confuse, tanto che i folli venivano abbastanza indifferentemente ripartiti nelle une o nelle altre”. Cfr. Foucault, op. cit., pag. 70: “il concetto così strano di alienazione psicologica […] non è in fondo che la confusione antropologica di quelle due esperienze dell’alienazione, la prima che riguarda l’essere caduto in potere dell’Altro e incatenato alla sua libertà, la seconda che riguarda l’individuo diventato Altro, estraneo alla somiglianza fraterna degli uomini tra di loro. La prima si avvicina al determinismo della malattia, la seconda prende piuttosto l’aspetto di una condanna morale”.

43


la società giustifica dal punto di vista etico la pratica dell’internamento dei corpi malati, ai quali viene applicata ogni forma di violenza e di soperchieria secondo una logica mimetica che vede nel folle, specie in quello più agitato, l’emblema della bestialità: “una specie di immagine dell’animalità ossessiona a questo punto gli ospizi. La follia prende in prestito il suo volto dalla maschera della bestia. Gli incatenati ai muri delle celle non sono tanto degli uomini dalla ragione sconvolta, quanto delle bestie in preda a una rabbia naturale: come se, nel suo punto estremo, la follia, liberata dalla sragione morale in cui si sono rinchiuse le sue forme più attenuate, raggiungesse con un colpo di forza la violenza immediata dell’animalità125”. Dietro questa visione del folle-animale c’è la rappresentazione di un corpo legalizzato, piegato alle regole del diritto, emarginato e confinato nelle strutture di esclusione, vittima di un meccanismo sociale di affermazione della normalità e della soggettività giuridica, ma anche “la finalità sociale che permette al gruppo di eliminare gli elementi che gli sono eterogenei o nocivi 126”. Nella realizzazione del progetto concentrazionario, le strutture di potere si avvalgono quindi sia dell’ausilio del diritto, che stabilisce la capacità giuridica del soggetto e ne decreta l’eventuale interdizione, sia della scienza medica, la quale, attraverso la fisiognomica, ne diagnostica i sintomi a partire dai tratti somatici e dalle reazioni corporee. Una testimonianza del disagio psichico e della reclusione ad esso connessa ci viene consegnata da Torquato Tasso, il quale trascorse sette anni di prigionia in una cella dell’ospedale ferrarese di Sant’Anna per volontà del duce Alfonso II d’Este, vittima di un’aggressione verbale del poeta in occasione del suo terzo matrimonio. Tasso venne rinchiuso proprio nella parte dedicata ai malati di mente, inaugurata solo qualche anno prima. Siamo in piena età controriformistica, quando cioè il potere inquisitorio della censura, il senso dell’autorità e del controllo morale che suscitano il senso di colpa producono repressione ed esclusione. La tradizionale malinconia dell’artista si trasforma in Tasso nella malattia dell’anima, diventa alienazione mentale: “io sono tanto malinconico, che son riputato matto da gli altri e da me stesso, quando non potendo tener celati tanti pensieri noiosi e tante inquietudini […] d’animo infermo e perturbato, io prorompo in lunghissimi soliloqui”. La sua prigionia diventa allora non più mera reclusione fisica, ma viene ad essere abitata da voci e fantasmi, da ombre e incubi tormentosi, descritti dal poeta nel suo epistolario e nelle Rime. Nella lettera a Girolamo Mercuriale, famoso medico patavino, Tasso delinea una diagnosi accurata della propria malattia e ne elenca sia i sintomi fisici che quelli patologici: “sempre dopo il mangiare la testa mi fuma fuor di modo, e si riscalda grandemente; ed in tutto ciò ch’io odo, vo, per così dire, fingendo con la fantasia alcuna voce umana, di

Cfr. Foucault, op. cit., pag. 78: “questo modello dell’animalità si impone negli asili e dà loro l’aspetto caratteristico di gabbia e di serraglio”. 126 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 43. 125

44


maniera che mi pare assai spesso che parlino le cose inanimate”. Il poeta dimostra di avere coscienza della sua infermità, la cui origine però gli resta inconoscibile, tanto da essere ricondotta ad una magia diabolica. Di fronte a questo male terribile a Tasso non resta che invocare l’aiuto della fede e quello delle medicine. La descrizione fisica dei sintomi fornita dal poeta rende questa lettera una testimonianza unica della rappresentazione moderna di un corpo in preda ad una somatizzazione psichica, i cui effetti sono “rodimento d’intestino, con un poco di flusso di sangue: tintinni ne gli orecchi e ne la testa”. Il corpo tassesco incarna una visione fisiognomica della malattia mentale, già diffusa a partire dal Rinascimento, che decreta nei segni fisici il ritratto degli stati dell’anima. Il corpo del folle conferma allora quella sintomatologia terrificante della bestialità, quell’aspetto non più umano che provoca deliri di immaginazione. Il corpo dell’età moderna subisce, inoltre, l’onta della punizione fisica, della tortura e della pena capitale, sia nei luoghi appartati che nelle pubbliche cerimonie del supplizio, dove il popolo stesso viene chiamato ad assistere allo spettacolo del potere che si scatena sul corpo del colpevole. Questa pedagogia del supplizio diviene il deterrente che educa il popolo stesso a non aderire a qualunque progetto sovversivo del potere costituito. E’ l’affermazione spettacolare del potere stesso che imprime sul corpo i marchi della sua autorità imprescindibile e incontestabile. In Francia l’ordinanza del 1670 stabilisce le forme generali dei castighi penali in rapporto alla natura dei delitti e allo status dei condannati: “il supplizio mette in correlazione il tipo di danno corporale, la qualità, l’intensità, la lunghezza delle sofferenze con la gravità del crimine, la persona criminale, il rango delle vittime127”. La liturgia punitiva, secondo Foucault, deve rispondere a due esigenze: da un lato deve marchiare la vittima, lasciare su di essa la cicatrice dell’infamia, dall’altro deve celebrare il trionfo della giustizia tramite il rituale della violenza128. Perciò quello che si consuma attraverso la punizione è “un rituale organizzato per il marchio delle vittime e la manifestazione di potere di chi punisce; non è per nulla la esasperazione di una giustizia che, dimentica dei suoi principi, perda ogni ritegno. Negli «eccessi» dei supplizi, è investita tutta una economia del potere129”. La verità del crimine si inscrive sul corpo stesso del suppliziato, mentre l’intera procedura penale gli resta sconosciuta: il processo si svolgeva, infatti, senza l’imputato e il sapere era privilegio assoluto dell’accusa. L’attestazione della verità del Cfr. Foucault Michel, Sorvegliare e punire, pag. 12, dove continua così: “esiste un codice del dolore; la pena, quando è suppliziante, non si abbatte a caso o in blocco sul corpo; è calcolata secondo regole dettagliate: numero dei colpi di frusta, posto del ferro rovente, lunghezza dell'agonia sul rogo o sulla ruota (il tribunale decide se ci sia luogo a strangolare subito il paziente invece di lasciarlo morire, e dopo quanto tempo debba intervenire questo gesto di pietà), tipo di mutilazione da imporre (mano tagliata, labbra o lingua bucate)”. 128 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 13: “l’eccesso stesso delle violenze esercitate è uno degli elementi della sua gloria: che il colpevole gema e urli sotto i colpi, non è un corollario vergognoso, è il cerimoniale della giustizia che si manifesta in tutta la sua forza. Di qui, senza dubbio, quei supplizi che si prolungano oltre la morte: cadaveri bruciati, ceneri gettate al vento, corpi trascinati sui graticci, esposti ai bordi delle strade. La giustizia perseguita il corpo al di là di ogni sofferenza possibile”. 129 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 13. 127

45


crimine rientrava dunque nella facoltà esclusiva del potere giudiziario, diritto assoluto dei giudici e del sovrano130. Tale sistema conduce di per sé alla confessione del soggetto criminale, estorta dal potere tramite il duplice mezzo del giuramento e della tortura. L’uso della violenza fisica per strappare la verità ha origini medievali, ma continua a persistere fino alla denuncia degli illuministi. Dietro la tortura agisce un meccanismo di competizione131, ma soprattutto un esercizio di potenza su di un corpo interrogato, che diventa luogo di applicazione del castigo e di estorsione della verità. Fornita la prova, emessa la sentenza, il ciclo si chiude con l’esecuzione della pena: “dalla quaestio all’esecuzione, il corpo ha prodotto e riproduce la verità del crimine […] il supplizio giudiziario deve essere inteso anche come rituale politico. Fa parte, sia pure in modo minore, delle cerimonie con cui il potere si manifesta132”. In altre parole, il supplizio manifesta il potere della sovranità assoluta in tutto il suo splendore, ne restaura l’integrità, attesta ed ostenta la forza invincibile del monarca che dispone delle vite dei sudditi, istruisce i processi tramite il braccio della sua legge, estorce confessioni ed emana sentenze, spettacolarizza la morte e la sofferenza esponendola sul patibolo alla visione del suo popolo. La protesta contro un simile abuso del potere coercitivo e punitivo si solleva a partire dal XVIII secolo con i filosofi e i teorici del diritto illuministi, trova voce nei cahiers de doléance e nelle proteste dei parlamentari. Viene posta cioè la necessità di arginare la violenza sistemica del potere, affermando la possibilità di castigare senza supplizio: “l’umanità delle pene è la regola che vien data ad un regime di punizioni che deve fissare i rispettivi limiti. L’uomo che si vuole far rispettare nella pena, è la forma giuridica e morale data a questa duplice delimitazione133”. Protagonisti di questo dibattito e di questa opposizione ai rituali del supplizio sono alcuni illuministi milanesi, soprattutto due: Pietro Verri e Cesare Beccaria. Nelle Osservazioni sulla tortura, Verri ricostruisce le vicende di un processo intentato contro presunti untori, ritenuti colpevoli di aver diffuso la peste nel 1630 a Milano, smontando gli indizi a loro carico, demistificando le procedure giudiziarie che conducono alla condanna degli imputati ed evidenziando le ingiustizie commesse dai giudici134. Per quanto concerne la tortura, in quanto metodo per “iscoprire la verità Cfr. Foucault, op. cit,, pag. 14: “scritta, segreta, sottoposta, per costruire le sue prove, a regole rigorose, l’istruttoria penale è una macchina che può produrre la verità in assenza dell’accusato”. 131 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 15: “Sotto l'apparente ricerca accanita di una verità non maturata poco a poco, ritroviamo nella tortura classica il meccanismo ben regolato di una competizione: una sfida fisica che deve decidere della verità; se il paziente è colpevole, le sofferenze che essa impone sono ingiuste; ma essa è anche segno di discolpa se egli è innocente”. 132 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 17. 133 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 30. 134 Cfr. Segre, Martignoni, Leggere il mondo, Bruno Mondadori, 2010, pp. 295-296: “dai documenti relativi alla grande pestilenza del 1630-31 risultava che l’origine dell’epidemia non era allora riconosciuta nel solo contagio, ma soprattutto nello spargimento di unguenti infetti, da parte di sicari al soldo di potenze straniere o addirittura inviati espressamente dal demonio. La credenza era condivisa da popolo e magistrati, così che pochi trovarono la forza di opporsi all’opinione dominante. A fare le spese di quella terribile accusa furono due modesti cittadini, il commissario della sanità Guglielmo Piazza e il barbiere Giangiacomo Mora, condotti in tribunale, sottoposti a 130

46


dei delitti”, Verri la ritiene “intrinsecamente ingiusta” e procede con una dimostrazione serrata delle argomentazioni a favore di tale tesi. La tortura è sempre un mezzo crudele, sia in caso di colpevolezza certa dell’imputato, poiché “se è certo il delitto, i tormenti sono inutili e la tortura è superfluamente data”, sia in caso di colpevolezza probabile, in quanto “è evidente che sarà possibile che il probabilmente reo in fatti sia innocente; allora è somma ingiustizia l'esporre un sicuro scempio e ad un crudelissimo tormento un uomo, che forse è innocente”. Ne consegue una dura condanna nei confronti di un potere giudiziario corrotto che, invece di usare i propri mezzi per difendere gli innocenti, finisce per adoperare la forza pubblica per punirlo ingiustamente. La tortura, infine, è inaccettabile dal punto di vista etico, poiché costringe gli imputati, con la forza e la sofferenza inflitta loro, a rinunciare all’istintiva difesa di sé, rendendosi così traditori e accusatori di se stessi: “la natura ha inserito nel cuore di ciascuno la legge primitiva della difesa di sé medesimo: e l'offendere se stesso, e l'accusare se stesso criminalmente egli è un eroismo, se è fatto spontaneamente in alcuni casi, ovvero una tirannia ingiustissima se per forza di spasimi si voglia costringervi un uomo”. Il risultato finale che il potere coercitivo della giustizia ottiene è la perdita di se stesso da parte dell’accusato, che finisce per smarrire la propria identità e sentirsi colpevole a prescindere dalla realtà dei fatti: “Ora la tortura tende co' spasimi a ridurre l'uomo a tradirsi, a rinunziare alla difesa propria, ad offendere, a perdere se stesso”. Le tesi di Verri, con rigore logico, svelano i limiti di una concezione del diritto arbitraria e confutano la pratica della tortura, interpretandola come una barbarie di una società fondata sul pregiudizio e indicando un progetto innovativo di civiltà. A questo disegno innovativo contribuisce anche l’opera più famosa dell’Illuminismo italiano, il trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Con quest’opera l’autore punta ad una riforma del sistema penale, volta a sottrarre il diritto di vita e di morte su ogni persona all’arbitrio individuale dei giudici. Alla base di questa richiesta sta la confutazione del diritto sacro del potere regio di disporre della vita dei sudditi e l’affermazione del contratto sociale: i cittadini, infatti, avendo ceduto una parte della loro libertà allo stato a tutela dell’aggregazione sociale, hanno il diritto alla presunzione di innocenza, cioè ad essere considerati innocenti finché non venga dimostrato con prove inconfutabili il loro reato. Nel sistema giuridico di Beccaria non trovano posto né la tortura, né la pena di morte, in quanto entrambe contrarie al contratto sociale e alla sicurezza dei cittadini. Lo stile geometrico delle argomentazioni avanzate nel capitolo XXVIII viene usato per fornire una dimostrazione scientifica alle tesi proposte ed esordisce con una serie di domande incalzanti. Beccaria propone un esame sull’utilità della morte in un governo ben organizzato e si ripropone di dimostrare che “non è la pena di morte un diritto”, poiché “non è utile né necessaria”, se non nei due casi tortura – alla quale finirono col cedere -, e ritenuti quindi rei confessi. Gli untori vennero condannati a una morte atroce e infamante”.

47


estremi in cui un cittadino possa provocare un pericolo per la sicurezza della nazione o scatenare una rivoluzione “pericolosa nella forma di governo stabilita”. Beccaria confuta la possibile antitesi secondo cui la pena di morte, e la sua esecuzione pubblica, servirebbe da deterrente per le azioni criminali: “non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti”. Non è dunque la spettacolarizzazione del supplizio o dell’esecuzione capitale a dissuadere il criminale da compiere i suoi misfatti, bensì la privazione della libertà tramite la detenzione, unico mezzo civile per punire i reati e per scongiurarli: “ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto”. La pena peggiore dovrà consistere allora nel lavoro forzato dei condannati, nella schiavitù a vita: “chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più”. L’altra argomentazione portata a sostegno della tesi riguarda l’esempio etico che lo Stato deve fornire ai propri cittadini. La pena di morte non solo fornisce un esempio di atrocità, ma soprattutto consiste in un omicidio legalizzato, commesso da quello stesso Stato che dovrebbe punire un simile reato: “parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Originale è l’interpretazione che Beccaria fornisce del pensiero del cittadino di fronte al potere mortifero dello stato e dei giudici135, definiti come sacerdoti della giustizia e cioè, in ultima istanza, depositari di una verità giudiziaria inopinabile. Da qui allora l’esigenza di leggi giuste che aboliscano la pena di morte e la richiesta ai “monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtù”. L’invito non mancherà di essere raccolto proprio nel principato dove viene stampato in forma anonima il trattato di Beccaria: sono passati poco più di vent’anni (1786) quando il granduca di Toscana Pietro Leopoldo provvede all’abolizione della pena capitale, primo in Europa. Due anni prima suo fratello, l’imperatore Giuseppe II aveva abolito la pratica della tortura. L’Illuminismo ottiene, dunque, questo successo che, secondo Foucault, fa comodo anche ai sovrani, in quanto la ferocia dell’esecuzione sortiva a volte l’effetto contrario, per cui il popolo, attirato a uno spettacolo fatto per terrorizzarlo, poteva coagulare il suo rifiuto del potere punitivo e talvolta la 135

Cfr. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII: “Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso!”.

48


sua rivolta: “lo spavento dei supplizi accendeva focolai di illegalità: nei giorni delle esecuzioni, il lavoro si interrompeva, le osterie si riempivano, si insultavano le autorità, si lanciavano ingiurie o pietre al boia, agli ufficiali di polizia, ai soldati; si cercava di impadronirsi del condannato, sia per salvarlo sia per ucciderlo meglio; ci si picchiava, e i ladri non avevano migliori occasioni dei parapiglia e della curiosità intorno al patibolo. Ma soprattutto - ed è qui che gli inconvenienti divenivano un pericolo politico – mai quanto in questi rituali che avrebbero dovuto mostrare abominevole il crimine e invincibile il potere, il popolo si sentiva vicino a quelli che subivano la pena, mai esso si sentiva, quanto loro, minacciato da una violenza legale che era senza equilibrio né misura136”. Il sentimento di ingiustizia rappresentato da Beccaria nel pensiero dei cittadini si traduce in realtà sovversiva, in minaccia rivoluzionaria per il potere stesso, il quale è ora chiamato ad escogitare nuove forme di controllo sui corpi, meno violente per loro e, di conseguenza, meno minacciose per la sua stessa sopravvivenza. Il popolo, cioè, non legge più nel corpo marchiato le iscrizioni del potere, anzi “abituato a vedere sgorgare il sangue” impara che “non poteva vendicarsi che col sangue137”. Da ciò consegue la necessità di attuare un castigo senza supplizio, che consentisse al potere di rafforzarsi, dando addirittura uno spettacolo d’umanità. Come afferma bene Galimberti “il corpo fisico (korper) cessa a questo punto di essere il bersaglio della giustizia, e al suo posto è colpito il corpo vivente (leib), cioè le relazioni che il corpo possiede col mondo. Nasce la prigione come luogo di solitudine e di isolamento; sul corpo non si iscrivono più i marchi della tortura, ma i segni di una rappresentazione della pena che, opportunamente pubblicizzata, finisce con l’essere più efficace di quanto non lo sia la sua realtà corporale138”. Ecco allora che il potere fa di necessità virtù e accoglie le istanze illuministe, compresa quella del contratto sociale, operando così una traslazione del senso della punizione stessa, che da forma di vendetta del potere del sovrano diventa mezzo di difesa della società. Sentendosi minacciata nella sua integrità, questa non solidarizzerà più con il criminale e accetterà il castigo inflittogli come condizione della sua sopravvivenza. “A questo punto – afferma Galimberti – sul corpo del colpevole non si scorgono più i marchi della tortura, ma i segni di una rappresentazione sociale, grazie alla quale il potere, prima concentrato nella sola persona del sovrano, ora può diffondersi in tutti gli individui, i quali, sentendosi direttamente colpiti dal crimine, si ergono a controllori. Così generalizzato, il controllo diventa più terribile, e l’esercizio del potere decisamente più efficace, perché si serve di tutti coloro a cui, un giorno o l’altro, può applicarsi139”. L’epistemologia di queste nuove tecniche di reclusione poggia, ancora

Cfr. Foucault, Sorvegliare e punire, pag. 68. Cfr. Foucault, op. cit., pag. 80. 138 Cfr. Galimberti, Il corpo, pag. 443. 139 Cfr. Galimberti, op. cit., pag. 444. 136 137

49


una volta, su teorie scientifiche, che oggettivano140 l’atto del crimine e la figura del criminale, pretendendo di farne una tassonomia simile a quella elaborata da Buffon nelle scienze naturali, aderendo al “progetto politico di classificare esattamente gli illegalismi, di generalizzare la funzione punitiva e delimitare, per controllarlo, il potere di punire141”. Il criminale diventa allora un selvaggio, qualificato come mostro, forse pazzo, malato ed infine anormale, essere ricondotto al mondo naturale dell’istinto, per il quale viene studiata una nuova anatomia politica che tenderà ad imprigionare il corpo in forme di controllo totalizzanti ma non violente, più sottili e pervasive, secondo una nuova “semio-tecnica delle punizioni”. Foucault nota come tra la seconda metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento si vada diffondendo la pratica della carcerazione in sostituzione della pena capitale: nel Codice penale napoleonico del 1810 la detenzione è già divenuta la forma prevalente di castigo. Perfino Caterina II di Russia, negli anni seguenti al trattato di Beccaria, fa redigere un nuovo codice di leggi improntato proprio sulla lezione dell’illuminista milanese che commisura il tipo di pena alla natura particolare di ciascun delitto. Il suo disegno di una prigione perpetua in luogo della pena di morte si realizza nella diffusione della carcerazione punitiva. Vengono elaborati quindi modelli di vita carceraria basati sul principio del lavoro e un sistema di regole ben definito, ma variabile da stato a stato142. La penalità correttiva ora agisce come intervento sul corpo e sull’anima, organizzando il tempo, i gesti e le attività quotidiane, manipolandone le rappresentazioni attraverso i principi di comportamento e strumenti quali orari, movimenti obbligatori, attività regolari, lavoro in comune, silenzio applicazione, rispetto e buone abitudini. Il corpo diventa, allora, docile oggetto di controllo: “si tratta […] di esercitare su di esso una coercizione a lungo mantenuta, di assicurare delle prese al livello stesso della meccanica movimenti, gesti, attitudini, rapidità: potere infinitesimale sul corpo attivo. E poi, di farne l'oggetto, del controllo: l'economia, l'efficacia dei movimenti, la loro organizzazione interna. La costrizione verte sulle forze piuttosto che sui segni; la sola cerimonia veramente importante, è quella dell'esercizio. Infine, la modalità: essa implica una coercizione ininterrotta, costante, che veglia sui processi dell'attività piuttosto che sul suo risultato e si esercita secondo una codificazione che suddivide in rigidi settori il tempo, lo spazio, i movimenti. Metodi che permettono il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicurano l'assoggettamento Cfr. Foucault, op. cit., pag. 35: “i processi di oggettivazione nascono nelle tattiche stesse del potere e nell’ordinamento del suo esercizio”. 141 Cfr. Foucault, op. cit., pag. 35. 142 Foucault cita alcuni diversi modelli carcerari: quello del Raspuhis ad Amsterdam, dove il lavoro era obbligatorio e si faceva in comune; quello della casa di forza di Gand, che obbligava al lavoro, ma retribuiva il detenuto per assicurargli un miglioramento della sua condizione durante e dopo la prigionia; il modello inglese del carcere di Gloucester, che prevedeva l’isolamento per i criminali più pericolosi, mentre gli altri lavoravano in comune di giorno e si separavano di notte; il modello di Filadelfia che obbligava i carcerati al lavoro in laboratori e assicurava loro una retribuzione finalizzata al reinserimento morale e materiale nel mondo dell’economia. 140

50


costante delle sue forze ed impongono loro un rapporto di docilità-utilità: è questo ciò che possiamo chiamare «le discipline»143”. Dall’esigenza di disciplinare i corpi e di sottoporli ad un controllo pressoché costante, nasce la figura architettonica del Panopticon, elaborata da Bentham. Le celle dei carcerati vengono disposte lungo una costruzione ad anello, mentre al centro viene posta una torre con larghe finestre che si affacciano sull’intera circonferenza; ciò consente ad un unico sorvegliante posto nella torre di controllare l’intera platea dei detenuti. Nella struttura panottica “ciascuno, al suo posto, rinchiuso in cella, è visto di faccia dal sorvegliante; ma i muri laterali gli impediscono di entrare in contatto coi compagni. E’ visto, ma non vede; oggetto di una informazione, mai soggetto di una comunicazione144”. Da questa macchina panottica l’occhio del sorvegliante assicura il controllo sui corpi e induce nel detenuto “uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere”. C’è di più: Bentham aveva previsto che la torre centrale avesse delle persiane che ne rendessero invisibile l’interno, sicché il detenuto non poteva sapere di essere guardato, ma finiva per essere sicuro di poterlo essere continuamente. Il Panopticon, afferma Foucault, “è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti”. Il potere si spersonalizza e finisce per automatizzarsi, per diventare dispositivo imperscrutabile e impersonale, presenza psicologica ancora prima che fisica, un principio che si proietta nella mente stessa del detenuto e che ne spia il corpo, disciplina che lo assoggetta tramite un’azione totalizzante di ingegneria e di pianificazione della vita. La società disciplinare, allora, si avvale di meccanismi meno costosi e più estesi per regolamentare le molteplicità umane, mediante quelle discipline che costituiscono il “sottosuolo delle libertà formali e giuridiche” affermate dagli illuministi e che forniscono la garanzia di sottomissione dei corpi con sistemi di micropotere inegualitari. Perciò Foucault può dire che gli stessi Lumi “che hanno scoperto le libertà, hanno anche inventato le discipline”. Questi metodi disciplinari, infine, si avvalgono della creazione di saperi tecnico-scientifici che moltiplicano gli effetti del potere “grazie alla formazione e al cumulo di nuove conoscenze”. Non ci resta ora che esaminare, dunque, la traduzione scientifica della natura in formule

143 144

Cfr. Foucault, op. cit., pag. 46. Cfr. Foucault, op. cit., pag. 69, dove continua così: “La disposizione della sua cella, di fronte alla torre centrale, gli impone una visibilità assiale, ma le divisioni dell'anello, quelle celle ben separate, implicano una invisibilità laterale, che è garanzia di ordine. Se i detenuti sono dei condannati, nessun pericolo di complotto, o tentativo di evasione collettiva, o progetti di nuovi crimini per l'avvenire, o perniciose influenze reciproche; se si tratta di ammalati, nessun pericolo di contagio; di pazzi, nessun rischio di violenze reciproche; di bambini, nessuna copiatura durante gli esami, nessun rumore, niente chiacchiere, niente dissipazione. Se si tratta di operai, niente risse, furti, coalizioni, nessuna di quelle distrazioni che ritardano il lavoro, rendendolo meno perfetto o provocando incidenti. La folla, massa compatta, luogo di molteplici scambi, individualità che si fondono, effetto collettivo, è abolita in favore di una collezione di individualità separate. Dal punto di vista del guardiano, essa viene sostituita da una molteplicità numerabile e controllabile; dal punto di vista dei detenuti, da una solitudine sequestrata e scrutata”.

51


numeriche, ultima forma sofisticata di assoggettamento e di manipolazione che garantirà poi all’homo oeconomicus il diritto allo sfruttamento incontrollato dell’esistente. 2.4 La natura dominata Il processo di antropizzazione simbolica e materiale della natura, avviato nel Medioevo, evolve le proprie forme di rappresentazione e di dominio in senso scientifico e antidogmatico, elaborando saperi fondati sull’osservazione diretta, empirica e sperimentale del creato, risolvendolo in leggi matematiche che finiscono per piegarlo agli schemi astratti della coscienza umana. Il metodo induttivo e l’equazione scientia est potentia affermati da Francis Bacon regolamentano la natura secondo le convenzioni anticipatrici del linguaggio matematico, “perché la matematica garantisce quel sapere che è potere in grado di ridurre tutte le cose a misura del controllo umano145”. Così facendo la scienza genuflette la natura al suo dominio e l’uomo finisce per sostituirsi a Dio nell’elaborazione delle leggi del suo funzionamento, di quelle regole che trovano la loro essenza nella possibilità di dominio e di manipolazione dell’ambiente dispiegata dalla sua meccanizzazione: “le trasposizioni meccaniche, infatti, non richiedono altra attitudine se non quella di numerare, pesare, spostare, trasferire in uno spazio matematicamente precalcolato. La concezione meccanicistica della natura, la traduzione dell’ordine qualitativo nell’ordine quantitativo, l’abbandono delle cause prime per la cura delle cause seconde empiricamente verificabili, la misurazione del tempo e la determinazione dello spazio si presentano come condizioni pregiudiziali per l’instaurazione del regnum hominis, perché solo un mondo che si lascia risolvere in rapporti meccanici e misurabili può rientrare nel pieno dominio della mente umana146”. La rivoluzione scientifica, dunque, elabora la metafora del mondo-orologio, della natura meccanica, relegando e declassando il potere divino all’immagine del Dio-architetto o del Dioorologiaio. Il primo a fornire un’immagine simile è Johann Kepler, teorico delle leggi dei moti orbitali dei pianeti e fautore di un tentativo di conciliazione tra verità di scienza e verità di fede tramite la concezione dell’armonia del cosmo nella Trinità. Keplero concepisce la macchina dell’universo come costituita sul modello di un orologio, il cui movimento è dovuto ad una forza fisica e non più ad un’intelligenza angelica, com’era nella visione aristotelica e nella cosmologia dantesca del Primo mobile. La natura si despiritualizza, diventa quindi un campo di forze corporee, una macchina di cui è possibile scoprire il funzionamento tramite leggi universali elaborate nel linguaggio matematico. Su questo solco tracciato da Keplero s’instrada il sodalizio tra scienza e tecnica promosso da Galileo Galilei, attraverso il quale ha inizio la tecnocrazia: da 145 146

Cfr. Galimberti, Psiche e Techne, pag. 301. Cfr. Galimberti, op. cit., pp. 300-301.

52


allora in poi, e sempre di più nei secoli successivi, la scienza verrà applicata alla costruzione degli strumenti tecnici e la tecnologia, in quanto scienza applicata, costituirà il braccio materiale del progresso scientifico, la condizione stessa del suo sviluppo147. La costruzione della verità scientifica da Galileo in poi avverrà trasportando la natura in laboratorio e adottando il metodo induttivo basato su tre momenti: l’osservazione diretta della natura, la formulazione delle ipotesi matematiche, la sperimentazione e la verifica empirica di queste ultime. La legge ottenuta dovrà poi essere generale, quantificabile, ripetibile, in ultimo falsificabile, in quanto la scienza non deve e non può conoscere limiti. Sperimentare per Galileo significa isolare dei fenomeni specifici, ricostruibili in laboratorio, per estrarre da essi le leggi matematiche fondamentali della materia. La visione matematica del libro della natura emerge da un passo del Saggiatore, in cui lo scienziato pisano risponde all’astronomo gesuita Orazio Grassi, detto il Sarsi, in merito alla disputa sull’origine materiale o meno delle comete. Qui afferma che la scienza è scritta in un libro diversa da quello poetico scritto dall’immaginazione, poiché esso “non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto”. Questa lingua è chiaramente quella matematica: “egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Siamo di fronte, dunque, ad un progetto di rifondazione ontologica del cosmo stesso e della sua conoscibilità, ottenibile tramite la sua oggettivazione in leggi universali: “nel momento in cui la natura cessa di essere riconosciuta come potenza per sé per divenire puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità da impiegare secondo le finalità anticipate dalla progettualità umana, allora anche la conoscenza muta volto e, da rispecchiamento della natura, diventa costruzione di un mondo anticipato dalle ipotesi e verificato dagli esperimenti”. La natura cosmica, della quale l’uomo faceva parte integrante rispettandone le leggi cicliche della rigenerazione, dopo essere diventata il regno del creato di un Dio legislatore e trascendente, si trasforma ora in natura antropocentrica, misurata geometricamente e immaginata come macchina su cui l’uomo proietta il suo disegno di dominio. Protagonista di questo progetto egemonico della scienza è Francis Bacon, che nella sua Nuova Atlantide elabora l’immagine utopica di una città tecnoscientifica, dove si praticano esperimenti che, in un certo senso, anticipano le moderne biotecnologie. Così, nella spiegazione che il Padre della casa di Salomone fornisce ad un rappresentante della nave europea naufragata sull’isola 147

Cfr. Galimberti, op. cit., pp. 316-317: “la natura esce dall’orizzonte conoscitivo e pratico dell’uomo, perché ciò che importa sono le risposte che la natura dà all’interesse conoscitivo e pratico dell’uomo […]. Ciò vuol dire che l’orizzonte della natura si restringe all’orizzonte del dominio conoscitivo della natura, e siccome questa conoscenza cresce grazie alla potenza delle tecniche disponibili per l’esperimento, l’espressione baconiana scientia est potentia significa non solo che la potenza tecnica è il risultato, la conseguenza, l’esito della scienza, ma anche e soprattutto che la potenza tecnica è condizione per conseguire scienza. Ma dire questo significa dire che la verità non è data, ma costruita dalle ipotesi scientifiche che producono l’oggettività della natura e dalle disponibilità tecniche che condizionano e verificano dette ipotesi, per cui è la tecnica a fare la verità”.

53


della Nuova Atlantide, si può rintracciare traccia della potenza dell’immaginario scientifico e del suo tentativo di manipolazione della natura: “e artificialmente facciamo in modo che, in questi stessi frutteti e orti, gli alberi e i fiori vengano prima o dopo rispetto alla loro stagione, e che crescano e diano frutto più speditamente di quanto non facciano secondo il loro processo naturale. Artificialmente li rendiamo anche più grandi di quanto non siano in natura, e i loro frutti più grossi e più gustosi, e di sapore, di odore, di colore e di forma diversi dalla loro natura”. Ci troviamo di fronte a organismi geneticamente modificati ante litteram. Come se non bastasse, la fantasia baconiana si riversa anche sugli esseri animati, per cui “sperimentiamo anche su di essi ogni sorta di veleni e di farmaci, sia nella chirurgia sia nella medicina. Ancora li rendiamo artificialmente più grandi o più alti della loro specie, o per contro li rimpiccioliamo e arrestiamo la loro crescita; li rendiamo più fecondi e produttivi di quanto non lo sia la loro specie, e per contro sterili e improduttivi. Li facciamo anche mutare colore, forma e attività in molti modi”. Non può mancare in questa galleria della manipolazione “genetica”, anche un assaggio di tecnica bellica e di costruzione di macchine: “abbiamo ancora fabbriche di macchine, nelle quali vengono costruite macchine e strumenti adatti a qualsiasi genere di movimento […]. Fabbrichiamo anche materiale bellico e strumenti di guerra e macchine d'ogni sorta; e anche nuove miscele e combinazioni di polvere da sparo, fuoco greco che arde nell'acqua ed è inestinguibile, e ancora fuochi d'artificio di ogni varietà, sia per divertimento, sia per utilità”. Ciò di cui non appare traccia, invece, in questo elenco fantastico di innovazioni biotecnologiche, è la morale: nessun vincolo etico pare frenare o arginare l’immaginazione e il desiderio di dominio dell’uomo-Dio sul creato. Ecco che la scienza per Bacone non può limitarsi solamente alla scoperta di leggi universali e matematiche, bensì deve assurgere al ruolo di creatrice di prodotti nuovi tramite l’aiuto della tecnica e la fondazione di un sapere sistematico ed empirico. Nell’immaginario dell’uomo moderno la scienza e la tecnica si compenetrano in un’alleanza capace di assicurare non solo l’oggettivazione del corpo e della natura, non solo la loro conoscenza e misurazione, ma soprattutto una strategia organica di dominazione e manipolazione, della quale diventa protagonista assoluto il potere esteso in tutte le sue forme di controllo della realtà sociale. Si gettano in quest’epoca le basi, cioè, per le strutture astratte di potere che finiranno per plasmare un nuovo modello di società della sicurezza, fondata sul concetto di governamentalità. A partire dal Settecento, grazie all’affermarsi delle teorie fisiocratiche, si passa, dunque, da uno Stato amministrativo, basato su una territorialità di frontiera e su di un modello di società disciplinare, ad uno Stato di governo148, in cui il controllo

148

Cfr. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano, pag. 89: “questo stato di governo, che gravita essenzialmente sulla popolazione e che impiega lo strumento del sapere economico, corrisponderebbe a una società controllata dai dispositivi di sicurezza”.

54


sul nuovo soggetto-popolazione149 avviene tramite il sapere economico e statistico, all’interno di una società che viene regolamentata dai dispositivi di sicurezza. Da qui al passaggio verso una scienza della politica economica il passo è breve: il sapere scientifico-matematico, fattosi sempre più astratto, verrà applicato cioè al governo economico dei corpi e dei bisogni, calcolando le relazioni sociali in base a criteri di produttività, consumo e risparmio, valutando la natura come fonte di risorse sfruttabili e monetizzabili150. A partire dal XIX secolo la nuova tecnica politica di controllo dei corpi e della natura si costituisce come bio-potere, inteso come “tecnologia del potere sulla popolazione in quanto tale, e sull’uomo in quanto essere vivente, un potere continuo, scientifico: il potere di far vivere151”. Da allora in poi, e fino ai giorni nostri, il bio-potere investirà il corpo umano e la natura nella loro totalità, occupando tutta la superficie che si estende dall’organico al biologico, dal corpo alla popolazione, attraverso il duplice gioco delle tecnologie della disciplina da una lato e delle tecnologie della regolazione dall’altro. 3.1. Cenni sulle forme di potere e di distruzione dell’età contemporanea Presentando le forme di potere della contemporaneità si può da subito fornire qualche tendenza di sviluppo: tra Ottocento e Novecento, infatti, i poteri si estendono sempre più nello spazio, diventando globali e internazionali; vengono costituiti, rafforzati o spazzati via da dinamiche di conflitto sempre più distruttive; elaborano forme di controllo della realtà sociale e dell’ambiente naturale sempre più raffinate, utilizzando leggi economiche e dispositivi di comunicazione che trovano applicazione sia nella sfera psicologica che in quella materiale. Converrà partire dalle forme di potere ottocentesche, presentando dapprima il potere nazionalistico, quindi la sua fuoriuscita dai confini statali con quel processo di estensione globale che dà vita al potere coloniale, fino alla trasformazione progressiva della politica di potenza nel potere politicoeconomico di sfruttamento illimitato delle risorse umane e naturali. Il potere nazionalistico si lega allo sviluppo economico e tecnologico ottocentesco e rappresenta la risposta al cosmopolitismo illuminista: la nazione, composta da un popolo che parla la stessa lingua e condivide le medesime tradizioni, ha diritto non solo ad affermare la propria totale indipendenza, ma soprattutto a dimostrare la propria potenza militare.152 La figura storica che eredita e rivisita Cfr. Foucault, op. cit., pag. 66: “la popolazione è quell’insieme che si estende dal radicamento biologico della specie fino alla superficie di presa offerta dal pubblico”. 150 L’apparente riscatto della natura operato dal Romanticismo nel XIX secolo consisterà in un vano tentativo letterario-filosofico di risimbolizzazione mitica del creato, lontano dalla cultura tecnocratica ed economica ormai dominante, che non potrà non concludersi con la sconfitta degli intellettuali e con la perdita dell’aureola da parte dei poeti, ormai alienati dalla società del profitto. 151 Cfr. Foucault, Bisogna difendere la società, pag. 213. 152 Von Clausewitz propugna, a riguardo, nel suo trattato sulla guerra, l’importanza della coesione del triedro composto da popolo, governo e condottiero. 149

55


queste teorie che al tempo guidavano le lotte indipendentiste di alcuni popoli europei senza stato (greci, italiani, belgi, tedeschi) è Otto von Bismarck, che traduce i temi del discorso di Fichte nella strategia della machtpolitik, fondata sullo sviluppo degli eserciti permanenti e degli armamenti. Contestualmente si arriva a ideare la missione del potere coloniale, che consiste, secondo Kipling, nel cosiddetto fardello dell’uomo bianco, nel dovere cioè di esportare i segni culturali di una civiltà superiore nel mondo primitivo afroasiatico. Il potere industriale, inaugurato dalle due rivoluzioni industriali del tardo Settecento e del pieno Ottocento, richiede nuovi spazi, nuove materie prime e nuova manodopera da sfruttare a basso costo, cerca nuovi mercati per indirizzare quel surplus di merci che resta invenduto a causa della depressione economica di fine secolo. Il colonialismo usa la guerra come mezzo principale di affermazione del dominio mondiale occidentale, ma ben presto lo strumento bellico finisce per diventare un fattore endemico all’Europa stessa, scatenando il primo grande conflitto mondiale. La machtpolitik del kaiser Guglielmo II subisce nel secolo breve una rivisitazione ideologica, ponendo le basi per quel disegno di ingegneria sociale che sarà attuato dal potere totalitario, forma estrema di controllo delle menti e dei corpi dei cittadini. Stalinismo, nazismo e fascismo condividono l’esercizio di un potere che diventa sempre più pervasivo, elaborando mezzi sofisticati di propaganda, apparati simbolici e raduni di massa, rituali di adorazione del capo, ideando una vera e propria rifondazione antropologica capace di creare una società di uomini nuovi, indottrinati secondo i dettami dell’ideologia totalitaria e privati di ogni libertà civile e politica. Nascono tutti, però, come movimenti in qualche modo rivoluzionari, fautori di un ordine nuovo, per poi adottare, una volta costituitisi come potere dominante, meccanismi di repressione di ogni forma di potenza sovversiva e alternativa, nella negazione assoluta della dialettica democratica tra varie identità politiche. Nel testo di Salvatore Lupo, che verrà proposto nel percorso, si pone l’attenzione proprio su questa correlazione tra i totalitarismi e i loro ideali rivoluzionari di partenza, che miravano ad una sorta di palingenesi e di rifondazione della società. Nel secondo dopoguerra, dopo la sconfitta del nazifascismo, il mondo bipolare pone di fronte due forme di potere globale che propugnano ideali e modelli economici antitetici, che producono culture politiche opposte in vari paesi. L’Italia, che gode di una posizione strategica nell’Europa divisa in due dalla cortina di ferro e dal Muro di Berlino, diventa terreno di scontro tra le forze moderate e conservatrici da un lato e quelle social-comuniste dall’altro. Dal Sessantotto in poi, dopo la contestazione giovanile contro un modello di società ancora patriarcale e fondato su meccanismi di selezione ed emarginazione, si scatenano forme di terrorismo di matrice ideologica che si pongono come potenze sovversive in aperta lotta armata contro il potere istituzionale e costituito, scatenando una serie di attentati volti a destabilizzare l’ordine dello Stato democratico. La fine della Guerra fredda apre il mondo al trionfo dell’unico 56


potere globale rimasto, quello del capitalismo americano che si estende ora nello spazio-tempo mondiale con forme di comunicazione che riducono le distanze e proiettano le società nell’era della globalizzazione. Alla base del potere contemporaneo sui corpi ci sono le strategie economiche di induzione dei bisogni e di programmazione della produzione e della durata dei beni volti a soddisfarli. La capacità dell’economia di governare le vite dei consumatori trova nell’ordine tecnologico della produzione meccanizzata di massa la sua condizione costitutiva, provocando l’alienazione e la reificazione dell’individuo ridotto sempre più a funzione, a ruolo, a ingranaggio sostituibile del sistema industriale. Sarà interessante, da questo punto di vista, analizzare con gli allievi il rapporto tra uomo e macchina tramite l’analisi della fabbrica fordista proposta in chiave storiografica da Alida Clemente e in chiave letteraria da Paolo Volponi, per poi godersi la lettura di un brano di Pirandello estratto dai Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Si potrà quindi passare all’analisi del potere globale, che si rende impersonale e transnazionale, governa le abitudini di popoli di consumatori con meccanismi psicologici, si astrae sempre più dalla produzione materiale stessa tramite i giochi finanziari e matematici di moltiplicazione dei capitali. Di fronte alle strategie di dominio finanziarie, i tradizionali poteri politici, collocati e relegati nei confini statali, bisognosi di approvvigionarsi dal mercato dei prestiti, finiscono per conclamare la loro impotenza legislativa. Il portato culturale di questi nuovi dispositivi di potere è l’omologazione, denunciata da Pasolini, dei gusti, dei bisogni e delle identità, che condannano il cittadino globale, per dirla con Bauman, ad un’inesorabile solitudine. A questa forma di controllo globale, che utilizza, oltre ai vecchi mezzi bellici, leggi economiche e strumenti tecnologici avanzatissimi, corrisponde la distruzione progressiva dell’ambiente, inquinato, cementificato, disboscato e alterato forse irrimediabilmente153. La natura viene manipolata dalle biotecnologie genetiche e concepita, in definitiva, solo come patrimonio infinito di risorse sfruttabili154, nella logica di uno sviluppo economico illimitato che viene diretto dall’apparato tecnico impersonale di una pluralità di poteri privatistici155.

153

154

155

A partire dal XIX secolo la nuova tecnica politica di controllo dei corpi e della natura si costituisce come biopotere, inteso da Foucault come “tecnologia del potere sulla popolazione in quanto tale, e sull’uomo in quanto essere vivente, un potere continuo, scientifico: il potere di far vivere ”. Da allora in poi il biopotere investirà il corpo umano e la natura nella loro totalità, occupando tutta la superficie che si estende dall’organico al biologico, dal corpo alla popolazione. Secondo il sociologo italo-argentino Gino Germani i caratteri peculiari della società industriale e moderna sono costituiti da “una conoscenza scientifica, da una tecnologia e da una struttura economica capaci di assicurare in misura sempre maggiore il dominio dell’uomo sulla natura, di portare all’impiego sempre crescente, per quantità e varietà, di forme di energia ad alto potenziale, e di massimizzare l’efficienza nella produzione di beni e servizi, cioè la produttività del lavoro umano”. Cfr. Germani Gino, Sociologia della modernizzazione, Bari 1971. Cfr. Galimberti Umberto, Psiche e techne, pag. 387: “se nelle epoche pre-tecnologiche l’uomo dominava la natura tramite la strumentazione tecnica, nell’epoca tecnologica a dominare è l’apparato tecnico che subordina a sé uomo e natura. La natura, infatti, tecnicamente compresa e dominata, fa la sua comparsa nell’apparato tecnico di produzione e distruzione, assoggettandosi al quale solamente, l’uomo reperisce le condizioni d’esistenza”.

57


SECONDA PARTE: PROGETTAZIONE DEL PERCORSO TEMATICO 2.1 Premessa culturale e didattico-metodologica Il nostro progetto didattico si configura come un percorso tematico capace di integrare il modulo didattico tradizionale, impostato su una trattazione cronologica degli eventi e degli autori, attraverso un’operazione di raggruppamento di testi, avvenimenti e correnti intorno ad una tematica comune. Si realizza così un taglio trasversale che consente di attraversare i secoli a partire dalle problematiche universali dell’antropologia: “la nascita, la malattia, l’amore, la morte, il tempo, lo spazio, il viaggio, il contrasto padre-figlio, la contraddizione maschilefemminile”, il potere, la natura, l’educazione, “sono temi di tutte le letterature, di tutti i tempi e di tutti i paesi156”, afferma Romano Luperini. Il percorso tematico rappresenta soprattutto un’opportunità per gettare ponti interdisciplinari con altre materie d’insegnamento e per instaurare un approccio comparativista e multiculturale, fondato sul confronto tra come le diverse culture hanno sviluppato rappresentazioni del mondo differenti su tematiche comuni. Nella complessità della società contemporanea, dove domina l’iperspecializzazione dei saperi e delle pratiche, diventa essenziale ricostruire una conoscenza pluridisciplinare, capace di affrontare le sfide del presente e le richieste di senso che provengono dal contesto socioculturale. Tale esigenza si riverbera sulla necessità di formare alunni dotati di una capacità critica e di strumenti interpretativi della realtà sociale, ripartendo dunque da una visione olistica e integrativa dei saperi, che sappia riunire i fili dei discorsi umanistici e scientifici ed accogliere, così, i contributi provenienti da più soggetti. Il percorso tematico apre, dunque, la possibilità di una formazione interdisciplinare o pluridisciplinare e, al contempo, più vicina sia alle esigenze conoscitive dell’allievo, che alle competenze richieste dal mondo globale e interculturale. Esso permette, inoltre, di “congiungere autori del passato e del presente, favorire confronti, contribuire ad articolare differenze e somiglianze fra opere dei secoli scorsi e le manifestazioni letterarie, artistiche e culturali dei nostri giorni157”. Il percorso tematico, infatti, dispiega l’importante possibilità di attualizzare qualunque universale antropologico o storico, sia esso un archetipo dell’immaginario, una pratica rituale, una tecnica, un’ideologia o altro.

Ciò

favorisce la partecipazione degli allievi, in quanto chiamati in causa da un presente che dialoga con valori e rappresentazioni del passato: essi potranno, così, esprimere giudizi o opinioni senza sentirsi vincolati dal risultato della prestazione o dal principio di verità. Esplicitando, anzi, le proprie preconoscenze, essi saranno in grado di ancorare e introiettare meglio le nuove conoscenze da apprendere durante il percorso. Luperini sottolinea, infatti, l'importanza della tecnica dell'attualizzazione delle tematiche letterarie, ossia del confronto tra come i grandi motivi 156 157

Cfr. Luperini Romano, Insegnare la letteratura oggi, Piero Manni editore, Lecce 2000, cit., pag. 19. Ivi, pag. 20.

58


esistenziali, le questioni sociali e gli archetipi dell'immaginario collettivo siano stati affrontati nel passato e come vengano trattati oggi. La scelta della prospettiva tematica, tuttavia, secondo Bianchi e Crivellari, “va differenziata in modo graduale a seconda della quantità e della qualità delle conoscenze che si vogliono veicolare, procedendo per nuclei di saperi progressivi che tengano conto della gradualità dei processi di apprendimento e dei loro differenti tempi e modalità di realizzazione158”. Occorre perciò prevedere una trattazione progressiva dei contenuti159, che alleni gli allievi all’ “acquisizione progressiva di sempre maggiori abilità strumentali”. Lo sviluppo graduale dei contenuti e l’interiorizzazione di abilità e di metodi di apprendimento da parte degli studenti consentirà, alfine, “la trasposizione di un numero maggiore di nuovi dati informativi e il loro collegamento/inserimento nel sistema cognitivo già costituito”. Per quanto concerne la metodologia, il nostro percorso tematico è pensato per essere svolto in forma laboratoriale. L’obiettivo consiste nel trasformare la classe-uditorio, abituata a funzionare da contenitore passivo di nozioni interiorizzate tramite lezioni frontali, in comunità ermeneutiche e di discorso. Ogni testo letterario e storiografico sarà così brevemente introdotto da una presentazione del contesto culturale, dell’occasione e dell’autore, quindi una volta letto ne sarà fornito un commento, ma toccherà poi agli allievi proporre interpretazioni sui significati, i messaggi e i concetti veicolati. Il laboratorio di analisi dei testi sarà dunque articolato come una comunità di discussione, come un circolo ermeneutico entro il quale si confronteranno una pluralità di visioni e di interpretazioni, senza che nessuna di essa possa ergersi a depositaria di una verità univoca ed esclusiva. Il testo stesso, dunque, non viene più considerato in maniera trasmissiva, alla stregua di un oggetto morto, i cui significati sono stati cristallizzati in “giuste” interpretazioni da critici depositari di una verità assoluta, bensì come fonte di una pluralità di significati e di una plurivocità di riferimenti, modelli, fonti e informazioni sulla visione del mondo. Questo nuovo circolo ermeneutico, in cui i protagonisti saranno gli alunni interpreti, il testo interrogato e problematizzato e l'insegnante-veicolo e mediatore di significati, comporta un lavoro di confronto, affinamento e condivisione e una serie di conseguenze: a) confuta e rovescia la rappresentazione di una tradizione culturale e letteraria vetusta e poco significativa per il presente, concezione che molti studenti nutrono nei confronti della disciplina, sviluppando metodologie laboratoriali di analisi, commento e interpretazioni dei testi volte a problematizzare passato e presente, ponendoli in rapporto tra loro e stimolando le capacità 158

159

Cfr. Bianchi, Crivellari, Nessun tempo è mai passato. La mediazione didattica tra storia esperta e storia insegnata, Armando editore, Bari 2003, cit., pag. 176. Cfr. Bianchi, Crivellari, op. cit., pag. 176: “le conoscenze fornite lungo il percorso curricolare, che la programmazione traduce in termini di modellizzazione tematica, procedono da “conoscenze piccole” e semplici a conoscenze più grandi e complesse. Per conoscenze piccole si intendono nuclei di sapere che saranno: a) molto generali; b) non numerosi; c) retti da modelli semplici; d) espressi in linguaggi accessibili.

59


immaginative e cognitive degli alunni; b) valorizza il punto di vista degli alunni e li rende protagonisti attivi dell'atto interpretativo, della mediazione e della co-costruzione dei significati tramite il confronto dialettico160; c) trasforma la funzione dell'insegnante da “logotecnocrate” a mediatore didattico che “disegna e delimita il campo interpretativo e definisce, raccogliendo anche i diversi contributi degli studenti, il ventaglio dei diversi significati possibili di un testo, il suo valore, la sua eventuale attualità”. Il docente di letteratura e di storia diventa promotore, perciò, della costruzione laboratoriale dei significati tramite le pratiche didattiche di discussione; d) rinnova pratiche e tecniche didattiche, limitando il ricorso al metodo espositivo-trasmissivo della lezione frontale, superandone limiti quali la rigidità unidirezionale e la tendenza logorroica e soporifera del docente, per indicare un percorso di rinnovamento nell'approccio al testo e alla sua interpretazione, un modello di lezione socratica e dialogica. Il laboratorio di analisi e interpretazione dei testi dovrà sicuramente partire dalla motivazione degli allievi e da un loro coinvolgimento tramite le tecniche partecipative del problem solving e del brain storming. Ciò vuol dire che occorre presentare un percorso tematico di letteratura o di storia proponendo la questione principale che sarà affrontata nei testi, la quale verrà portata all'attenzione degli allievi tramite la strategia di una problematica da risolvere. In altre parole, i ragazzi saranno sollecitati a riflettere su un problema e ad avanzare ipotesi iniziali, per poi elaborare proposte risolutive durante l'analisi dei testi e al termine del laboratorio stesso. Dopo questa prima fase introduttiva, sarà fondamentale sondare le conoscenze pregresse e l’immaginario degli allievi intorno alla tematica proposta attraverso la pratica del brain storming: si chiederà loro di esporre la propria rappresentazione immaginaria del soggetto scelto tramite parole, simboli o metafore, in modo da sviluppare libere associazioni di idee sul problema. Dopo queste essenziali attività preliminari, la comunità ermeneutica potrà affrontare i testi in un unico gruppo-classe o dividendosi in più gruppi. Sarà possibile, cioè, suddividere la trattazione dei testi tra più gruppi a seconda dei vari aspetti del problema o si potrà scegliere di trattare collettivamente ogni singolo testo. La procedura sarà, comunque, la stessa: dopo una breve introduzione dell'insegnante, volta a mettere in luce in nodi concettuali affrontati dal testo, si passerà ad una prima lettura e ad un commento parafrastico da parte dell'insegnante stesso, 160

Cfr. Luperini Romano, cit., pag. 13: “un insegnamento della letteratura finalizzato all’interpretazione dei testi – e cioè alla rivelazione del loro significato per noi – può contribuire in modo decisivo a fornire ai giovani la capacità di un uso più maturo, culturale e problematico del linguaggio scritto e parlato e così potenziare la loro disponibilità al confronto democratico, alla vita civile e agli impegni lavorativi. Agli studenti del triennio si chiederà l’accesso non tanto al linguaggio specialistico della filologia e della critica (anche se, nei tipi di scuola a carattere umanistico, esso dovrà, in qualche misura, essere assimilato), quanto a quello dell’argomentazione logica e della problematizzazione culturale”.

60


quindi ad una seconda lettura mentale da parte di ogni allievo, per giungere poi alla discussione ermeneutica sul testo. L'interpretazione, dunque, avverrà dopo un primo commento del testo volto a contestualizzarlo, e si fonderà sul confronto tra i vari punti di vista degli allievi in merito ai messaggi veicolati dal testo stesso e alle intenzioni dell'autore, cercando di incentrare il dibattito intorno alla questione di partenza sollevata dal problem solving. La comunità ermeneutica sarà così protagonista di una discussione e di una negoziazione tra teorie, idee, interpretazioni e visioni diverse e, attraverso l'azione di mediazione del docente, potrà costruire una pluralità di significati, senza che prevalga una visione univoca e riduttiva della questione proposta. Così facendo le didattiche della letteratura e della storia possono riscattare le proprie funzioni sociali, civiche e pedagogiche, promuovendo al contempo i valori di cittadinanza: “la classe prefigura comunità democratiche più ampie […] e si allena alla democrazia attraverso il conflitto delle interpretazioni. Leggendo il testo, ogni alunno impara che le interpretazioni possono essere infinite. Solo il testo letterario offre l'esperienza dello spessore e della pluralità dei significati, e insegna così che la verità è relativa, storica, processuale: un percorso interdialogico che avviene attraverso il contributo di tutti. Lo studente può così apprendere a rispettare le opinioni altrui e a difendere la propria, nella consapevolezza del carattere comunque parziale e relativo della propria interpretazione, ma anche della sua responsabilità etico-civile, e dunque della sua dignità e necessità161”. 2.2 Un percorso, più percorsi tematici lunghi un triennio La duttilità del percorso tematico ideato fa sì che esso possa essere proposto in più versioni differenti, nel tentativo di sviluppare un’attività didattica il più possibile aderente e adeguata ai bisogni formativi dei soggetti che vi saranno coinvolti. Se si decide di sviluppare il percorso tematico complessivo, esso potrà essere distribuito nel modo seguente: a) la prima parte, riguardante le relazioni tra potere, corpo e natura nel medioevo, sarà trattata nel terzo anno di corso, iniziando nel primo trimestre con le forme del potere e continuando nel pentamestre con le strategie di dominio del potere medievale sul corpo e sulla natura. Il percorso procederà in parallelo con gli argomenti di storia e letteratura medievale del programma di terza, talvolta anticipandoli, ma fornendo in compenso una visione verticale e sistemica della cultura politica e sociale del tempo; b) la seconda parte, riguardante le relazioni tra potere, corpo e natura durante l’età moderna, potrà essere sviluppata nel quarto anno, dedicando il primo trimestre allo svolgimento delle forme di potere dell’età moderna e il secondo pentamestre alle forme di dominio

161

Ivi, pag. 56.

61


tecnoscientifico attuate per controllare i corpi e la natura in generale; c) la terza parte sulle forme di potere contemporanee verrà trattata in quinta, quando i ragazzi possiederanno già le conoscenze disciplinari e le categorie analitiche per interpretare i meccanismi e i fenomeni più complessi della struttura sociale. Il percorso potrà essere affrontato interamente nel secondo pentamestre, quando cioè gli allievi staranno trattando i moduli relativi alla storia e alla letteratura novecentesca. Nel caso non si voglia proporre una trattazione integrale delle connessioni tra potere, corpo e natura, si potrà scegliere anche uno solo degli aspetti e svilupparlo lungo i tre anni scolastici, mantenendo così la suddivisione cronologica. Un’altra opportunità consiste nel suddividere il percorso tematico per disciplina, decidendo così di trattare solamente la parte storica con l’analisi dei testi storiografici e delle fonti oppure optare per la parte letteraria. E’ evidente, dunque, la flessibilità che il percorso tematico offre all’insegnante, il quale potrà operare una scelta didattica sulla base degli interessi, delle caratteristiche e degli stili di apprendimento della propria classe162.

162

E’ evidente, però, che il percorso stesso risulta impostato secondo un criterio gerarchico dei contenuti. Il tema essenziale e principale del percorso, infatti, è il potere e ciò implica che una scelta di tematizzazione che si concentri sulla rappresentazione del corpo e della natura dovrà presentare comunque un’introduzione sulle strutture e sulle dinamiche del potere o, in alternativa, essere ripensata in maniera autonoma e integrata da altri testi specifici.

62


PERCORSO TEMATICO SULLE RELAZIONI TRA POTERE, CORPO E NATURA PARTE PRIMA: POTERE, CORPO E NATURA NEL MEDIOEVO a) LE FORME DI POTERE TESTI STORIOGRAFICI: 1) estratto da “I re taumaturghi” di Marc Bloch; 2) estratto da “I due corpi del re” di Ernst Kantorowicz; TESTI LETTERARI: 1) Canto VI del Paradiso di Dante Alighieri (vv. 1-99); 2) Canto XVI del Purgatorio di Dante (vv. 91-114); 3) De Monarchia, (III, 15) di Dante; 4) estratto dal “Defensor pacis” di Marsilio da Padova. b) LA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO TESTI STORIOGRAFICI: 1) due estratti da “Il corpo nel medioevo” di Jacques Le Goff; TESTI LETTERARI: 1) “Voi che per li occhi mi passaste ‘l core” di Cavalcanti 2) Novella seconda della nona giornata del “Decameron” di Boccaccio (“La badessa e le brache”) 3) Novella prima della quarta giornata del “Decameron” di Boccaccio (“Tancredi e Ghismunda”) 4) La descrizione della peste nella cornice del Decameron. c) LA VISIONE DELLA NATURA NEL MEDIOEVO E LA SUA ANTROPIZZAZIONE TESTI STORIOGRAFICI: 1) Le città del Medioevo di Henri Pirenne. TESTI LETTERARI: 1) “Cantico di frate Sole” di Francesco d’Assisi; 2) canto XIII dell’Inferno (vv. 1-108) di Dante Alighieri; 3) canto XXVIII del Purgatorio (vv. 1-69) di Dante; 4) “Chiare, fresche et dolci acque” di Petrarca. PARTE SECONDA: POTERE, CORPO E NATURA NELL’ETA’ MODERNA d) LE FORME DI POTERE TESTI STORIOGRAFICI E FONTI: 1) testamento politico del Cardinale Richelieu; 2) “Potere e gerarchie sociali” di Biagio Salvemini; 3) “La guerra e la sua evoluzione tecnica” di Piero Del Negro; 4) estratto da “I due corpi del re” di Ernst Kantorowicz. TESTI LETTERARI: 1) il capitolo XVIII del “Principe” di Niccolò Machiavelli; 2) estratto dall’ “Utopia” di Thomas More; 3) Castiglione, “Il Cortegiano” (Libro primo, cap. XXVI e XXVIII). e) LA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO: TESTI STORIOGRAFICI E FONTI: 1) “Miserabili e vagabondi” di Vittorio Beonio Brocchieri; 2) “Storia dell’Hopital Général” (opuscolo anonimo del 1676); 3) estratto da “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault. TESTI LETTERARI: 1) Lettera di Tasso a Girolamo Mercuriale 2) Cesare Beccaria, capitolo XXVIII di “Dei delitti e delle pene” 3) “Osservazioni sulla tortura”, capitolo XI, di Pietro Verri.

63


f)

LA CONCEZIONE DELLA NATURA: TESTI STORIOGRAFICI: 1) “La storia delle scienze” di Pietro Corsi; TESTI LETTERARI: 1) “Il mondo come orologio” di Keplero; 2) estratto dalla “Nuova Atlantide” di Francis Bacon; 3) estratto dal “Saggiatore” di Galileo Galilei

PARTE TERZA: POTERE, CORPO E NATURA NELL’ETA’ CONTEMPORANEA g) LE FORME DI POTERE TESTI STORIOGRAFICI: 1) “Il nazionalismo” di Rinaldo Falcioni; 2) “Totalitarismi e frutti della rivoluzione” di Salvatore Lupo; 3) “La strategia della tensione” e “Le origini del terrorismo rosso” da “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi” di Paul Ginsborg. TESTI LETTERARI: 1) “Discorsi alla nazione tedesca” di Johann Gottlieb Fichte 2) “Il fardello dell’uomo bianco” di Rudyard Kipling; 3) “Per ordine del podestà sono proibiti tutti i ragionamenti” da “Fontamara” di Ignazio Silone; 4) “Sfida ai dirigenti della televisione” dagli “Scritti corsari” di Pier Paolo Pasolini; 5) “La solitudine del cittadino globale” di Zygmunt Bauman. h) LA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO TESTI STORIOGRAFICI E FONTI 1) “La fabbrica fordista” di Alida Clemente; 2) “La cura del corpo” di Silvana Musella; TESTI LETTERARI: 1) “La roba” di Giovanni Verga; 2) “Serafino Gubbio, le macchine e la modernità” di Luigi Pirandello. 3) “Il lavoro in fabbrica” da “Memoriale” di Paolo Volponi. i)

LA CONCEZIONE DELLA NATURA TESTI STORIOGRAFICI: 1) “L’età dell’oro dell’economia, lo sviluppo ineguale e il degrado ambientale” di Maurizio Franzini; 2) “L’ambiente nel secolo planetario” di Stefania Barca; 3) “Lo sviluppo e i suoi limiti” di Piero Bevilacqua; 4) “Il manifesto del doposviluppo” di Serge Latouche. TESTI LETTERARI: 1) “La città di Leonia” da “Le città invisibili” di Italo Calvino; 2) “L’apocalisse rimandata” di Dario Fo.

64


2.3 Il percorso tematico come progetto didattico Il percorso testé presentato è pensato per essere organizzato sulla base di un progetto didattico e cioè, come afferma Castoldi, di un “percorso di insegnamento/apprendimento finalizzato allo sviluppo di competenze nel soggetto e incentrato su una situazione-problema da affrontare, la quale rappresenta la cornice di senso entro cui collocare le diverse azioni previste dal progetto stesso163”. La situazione-problema va concepita come un problema da risolvere in un dato contesto operativo a partire dalle risorse a disposizione e dai vincoli posti dalla situazione, inerente ad una tematica il più possibile di carattere extracurricolare, dotata cioè di un’apertura al mondo e attinta dalla sfera dell’esperienza. Una progettazione simile, allora, trascende i limiti della progettazione per obiettivi e della sua organizzazione per moduli didattici preordinati, fondata su un’organizzazione teorica e deduttiva dei contenuti e dei saperi disciplinari, per proiettarsi verso una strategia induttiva, molare164 ed esplorativa del sapere, verso la sfera della competenza come saper agire in contesti reali per affrontare e risolvere situazioni-problema attraverso prestazioni complesse. L’insegnante così assume il ruolo di “catalizzatore delle risorse del gruppo”, mentre lo studente si fa carico della “realizzazione del progetto, fornendo il proprio contributo all’interno di un disegno collettivo”, il che comporta un suo cambio di ruolo e “l’assunzione di responsabilità in rapporto agli impegni assunti”, nonché “un rinforzo dell’autonomia nel gestire il proprio apporto al progetto complessivo165”. Proponiamo, perciò, qui di seguito la progettazione del percorso tematico come progetto didattico teso a rilevare le competenze degli allievi e il loro saper agire in situazioni di apprendimento e di prestazioni complesse, strutturata secondo il format seguente: 

caratteristiche del contesto classe;

rubrica valutativa della competenza da sviluppare;

situazione-problema, compito autentico da affrontare;

rubrica valutativa del compito autentico;

finalità educative;

traguardi di apprendimento riferiti ai saperi disciplinari;

scansione operativa del percorso;

modalità di valutazione (in itinere e conclusive).

Cfr. Castoldi, Progettare per competenze, cit., pag. 142. Baldacci, citato da Castoldi a pag. 140, definisce il progetto didattico come “un percorso di insegnamento-apprendimento (dotato di obiettivi, procedure didattiche, modi di valutazione), centrato su una tematica di una certa ampiezza, per lo più di carattere extracurricolare (attinta dal mondo, dall’esperienza) e che, per la sua intrinseca complessità, richiede una trattazione curricolare”. 164 Cfr. Castoldi, ibidem: “esso (il progetto didattico, n.d.a.) si pone quindi al punto di intersezione tra una strategia induttiva, basata su un approccio euristico ed esplorativo del sapere, e una struttura molare, che mira a rappresentare il percorso didattico nella sua complessità”. 165 Ivi, pag. 145. 163

65


IL CONTESTO CLASSE Il percorso tematico potrà essere proposto ad ognuna delle classi del triennio. Nella progettazione che proporremo in questa sede adotteremo il caso della classe IV B, nella quale è stata proposta la parte del percorso relativa alla rappresentazione della natura nella letteratura moderna. La classe IV B è composta da 29 alunni, di cui 22 femmine e 7 maschi. Ci sono 5 ripetenti, alcuni ragazzi stranieri ma già alfabetizzati e non vi sono alunni certificati. La classe risulta eterogenea per conoscenze, abilità e competenze. Un gruppo dimostra conoscenze e abilità sufficienti/ più che sufficienti; alcuni sono ad un livello discreto, mentre diversi alunni evidenziano competenze insufficienti. La maggioranza degli allievi risulta, comunque sia, autonoma nel lavoro e abituata a strategie metacognitive di trattazione e rielaborazione dei contenuti. Gli allievi risultano abituati ad una didattica frontale e perciò poco avvezzi ai metodi operativi e partecipativi, finendo per apparire spesso come semplici ascoltatori o esecutori passivi.

Rubrica valutativa del compito autentico Competenza: comprendere ed interpretare testi scritti

Livelli di padronanza

Dimensioni

Criteri

Indicatori

Parziale (5-6)

Adeguato (7-8)

Pieno (9-10)

Capacità di comprendere il testo

Comprensione globale del significato del brano

Coglie il significato del brano

Comprende il significato di quanto letto con l’aiuto dell’insegnant e

Comprende il significato di quanto letto

Comprende in modo autonomo e immediato il significato di quanto letto

Capacità di individuare natura, funzione e scopi comunicativi del testo

Individuazione dei concetti chiave, dell’intenzione comunicativa ed espressiva dell’autore

Sa riconoscere i concetti chiave, lo stile e gli scopi del testo

Individua i concetti fondamentali e le intenzioni comunicative solo se orientato dall’insegnant e

Individua i principali concetti, gli scopi e le caratteristiche stilistiche ed espressive del testo

Individua in modo autonomo e puntuale i concetti chiave, le tematiche, gli scopi e le caratteristiche stilistiche ed espressive del testo

Capacità di interpretare il testo

Interpretazione critica dei messaggi semantici del testo, valorizzazione ed attualizzazione

Sa interpretare criticamente i molteplici significati di un testo, valorizzandone ed attualizzandone la portata

Interpreta in modo poco critico e personale i messaggi semantici del testo.

Interpreta in modo critico e personale i significati veicolati dal testo, senza però attualizzarli.

Interpreta in modo critico, personale e originale i messaggi semantici, attualizzandoli e valorizzandoli attraverso riferimenti alla propria esperienza o al punto di vista.

66


COMPITO AUTENTICO: INTERPRETARE E ARGOMENTARE PER RISOLVERE PROBLEMI ERMENEUTICI Situazione problematica L’attività laboratoriale sui testi verrà introdotta da un problem solving generale, che assolverà alla funzione di guidare l’interpretazione del senso globale del percorso tematico, e da una questione relativa ad ogni periodo storico. Questione problematica generale: Quali sono stati i meccanismi e le strategie utilizzate dal potere per stabilire il proprio dominio sui corpi e sulla natura?  Nella prima parte, sulle strutture di potere medievali, verrà proposta la seguente questione problematica: In che modo e con quali immagini letterarie il potere è stato rappresentato nel Medioevo?  La seconda parte, riguardante le strutture di potere dell’età moderna, sarà introdotta dalla seguente domanda guida: In che modo e con quali immagini letterarie il potere è stato rappresentato nell’età moderna?  La terza parte, relativa alle strutture di potere contemporanee, verrà problematizzata sulla base della seguente questione: Come si sono evoluti i dispositivi di controllo utilizzati dal potere per assoggettare i corpi e la natura nell’età contemporanea? Gli allievi saranno chiamati, a partire dai testi letti e dalla discussione ermeneutica che li ha accompagnati, ad argomentare in merito alla questione problematica e ad avanzare proprie ipotesi risolutive.

Rubrica valutativa del compito autentico Competenza: interpretare e argomentare per risolvere problemi Dimensioni Criteri Indicatori Parziale (5-6)

Livelli di padronanza Adeguato (7-8) Pieno (9-10)

Capacità di interpretare il testo

Interpretazione critica dei messaggi semantici del testo, valorizzazione ed attualizzazione

Sa interpretare criticamente i molteplici significati di un testo, valorizzandone ed attualizzandone la portata

Interpreta in modo poco critico e personale i messaggi semantici del testo.

Interpreta in modo critico e personale i significati veicolati dal testo, senza però attualizzarli.

Interpreta in modo critico, personale e originale i messaggi semantici, attualizzandoli e valorizzandoli attraverso riferimenti alla propria esperienza o al punto di vista.

Capacità di argomentare le proprie idee

Padroneggiare gli strumenti argomentativi per scambiare opinioni e sostenere le proprie idee

Sa utilizzare gli strumenti argomentativi per sostenere le proprie idee

Sa argomentare su questioni semplici e con la guida dell’insegnante

Sa argomentare il proprio punto di vista sulle principali questioni disciplinari

Sa utilizzare in maniera efficace e persuasiva gli strumenti argomentativi necessari a sostenere le proprie idee.

Capacità di risolvere problemi

Affrontare situazioni problematiche costruendo e verificando ipotesi risolutive

Sa affrontare situazioni problematiche proponendo e verificando ipotesi risolutive

Sa approcciare situazioni problematiche ed avanzare ipotesi risolutive solo se aiutato dall’insegnante

Sa affrontare situazioni problematiche autonomamente, avanzando e verificando ipotesi risolutive

Sa affrontare consapevolmente le situazioni problematiche, costruendo e verificando ipotesi risolutive attraverso l’uso dei metodi propri della disciplina

67


TRAGUARDI DI APPRENDIMENTO (OBIETTIVI DIDATTICI) CONOSCENZE ABILITA’/CAPACITA’  Conoscere il funzionamento delle strutture di  Individuare natura, funzione, scopi comunicativi ed potere e le strategie di dominio esercitate sui espressivi dei testi forniti; corpi e sulla natura;  Saper analizzare, distinguere e rielaborare i concetti  Sapere le forme storiche e letterarie con cui fondamentali emersi dalla lettura dei testi e delle vengono rappresentate le relazioni tra potere, fonti; corpo e natura nelle diverse epoche;  Saper affrontare una situazione comunicativa,  Conoscere le diverse tipologie di testi, fonti e scambiando informazioni ed idee per esprimere una documenti proposti; propria interpretazione o un proprio punto di vista sulle questioni trattate; FINALITA’ EDUCATIVE  Tradurre le conoscenze ottenute per sviluppare una coscienza civica di cittadino consapevole del funzionamento delle strutture politiche;  utilizzare le informazioni e i significati ricavati dai testi per attualizzarne la valenza e la portata nei contesti culturali e nelle problematiche della società attuale

68


Scansione operativa del percorso PRIMA FASE: ESPLORARE (PROBLEMATIZZAZIONE E COSTRUZIONE DI SENSO) Individuare il problema da affrontare insieme  Presentare l’attività suscitando l’interesse e la motivazione degli allievi  Illustrare il percorso, i contenuti essenziali, gli obiettivi e i metodi  Proporre il problem solving dell’attività didattica Tempo: 20-30 minuti, da ripetere all’inizio di ogni parte del percorso

SECONDA FASE: SONDARE LE PRECONOSCENZE Effettuare un sondaggio delle preconoscenze e dell’immaginario riguardo al tema scelto 

Sviluppare un brain storming attraverso una mappa radiale che permetta l’esternazione da parte degli allievi delle conoscenze pregresse, delle esperienze e delle rappresentazioni concettuali e simboliche sull’argomento (potere, corpo, natura)166 Tempo: 20 minuti, da ripetere all’inizio di ogni parte del percorso

TERZA FASE: ACQUISIRE E ANALIZZARE Acquisire le conoscenze essenziali per poi leggere ed analizzare i testi  Spiegazione dei nuclei concettuali relativi ai vari argomenti del percorso  Contestualizzazione storica e letteraria del testo da leggere  Commentare, analizzare e interpretare i testi letterari e storiografici letti Tempo: 5 ore per ogni singola parte del percorso. Si punterà a ridurre progressivamente l’intervento dell’insegnante, lasciando sempre più agli allievi il ruolo di guidare lo sviluppo critico e interpretativo delle tematiche.

QUARTA FASE: DISCUTERE E RISOLVERE Discutere e confrontare le opinioni e i punti di vista inerenti la questione problematica di partenza 

Chiedere ad ogni allievo di avanzare la propria risposta alle questioni poste, invitandolo ad

166

A partire dalla parola scritta verrà chiesto agli alunni di sviluppare altre parole-concetto in associazione più o meno libera. Ogni parola proposta dovrà poi essere motivata nella sua relazione con la parola chiave, sia a livello di immaginario che di esperienza personale. Le tre parole chiave che verranno proposte saranno “potere”, “corpo”, “natura”. Si cercherà, per quanto possibile, di creare una relazione tra queste tre parole o di stimolare i ragazzi a collegarle con proprie associazioni. Si potrebbero anche sviluppare i tre schemi in parallelo su un’unica lavagna, al fine di cercare connessioni tra le parti. Gli schemi ottenuti verranno poi riesaminati alla fine del percorso, quando di potrà ripetere l’esperimento didattico per valutare eventuali cambiamenti nelle visioni personali degli allievi sulle questioni trattate.

69


argomentarne motivazioni e giustificazioni.  Aprire una discussione comparativa tra le varie ipotesi risolutive  Mediare il confronto tra i vari punti di vista e cercare una o più risoluzioni condivisibili da un certo numero di allievi Tempo: 1 ora per ogni parte del percorso

QUINTA FASE: VALUTAZIONE, ETEROVALUTAZIONE E AUTOVALUTAZIONE Proporre una valutazione condivisa del percorso 

Discutere e condividere la rubrica di valutazione dell’attività didattica e la griglia per le osservazioni sistematiche167 da svolgere in itinere (valutazione dell’apprendimento)  Promuovere l’autovalutazione di ogni allievo attraverso una scheda preparata dagli studenti stessi (autovalutazione dell’apprendimento)  Far compilare agli allievi un questionario di gradimento e di valutazione dell’attività (eterovalutazione dell’insegnamento)  Compiere l’attività di riflessione e di autovalutazione dell’insegnante (autovalutazione dell’insegnamento) Nella valutazione finale dell’attività sarà poi il docente a concordare con gli alunni il peso da attribuire a ciascuno dei momenti valutativi secondo la gerarchia degli obiettivi da raggiungere. Tempo: 2 ore per ogni parte del percorso

167

Cfr. allegati pag.

70


APPENDICE I TESTI DEL PERCORSO TEMATICO PARTE PRIMA: POTERE, CORPO E NATURA NEL MEDIOEVO LE FORME DI POTERE TESTI STORIOGRAFICI T1 BLOCH MARCH – Il tocco delle scrofole e la sua popolarità fino alla fine del secolo XV. I riti guaritori erano nati da vecchie concezioni sul carattere sovrannaturale dei re. Se queste credenze fossero scomparse poco dopo la nascita dei riti, anche questi probabilmente non avrebbero potuto sopravvivere o quanto meno non avrebbero conservato grande popolarità. Ma anziché estinguersi, esse resistettero saldamente e su certi punti si ampliarono complicandosi con nuove superstizioni. Spiegare il successo persistente del tocco o la trasformazione dell’antica ricetta magica degli anelli in una cerimonia veramente reale, significa innanzitutto ricollocare l’una e l’altra pratica in quell’atmosfera di venerazione religiosa, in quell’ambiente saturo di meraviglioso in cui le popolazioni, durante gli ultimi quattro o cinque secoli del medioevo collocarono i loro principi. Nella società cattolica, la familiarità con il sovrannaturale è riservata, di norma, a una classe di fedeli rigidamente delimitata: i preti, ministri regolarmente consacrati al servizio di Dio, o per lo meno i chierici ordinati. Di fronte a questi intermediari tra il mondo terreno e l’aldilà, i re taumaturghi, semplici laici, non rischiavano forse di figurare come usurpatori? Proprio così li considerarono i gregoriani e i loro epigoni, ma non la maggioranza dei contemporanei, perché, agli occhi dell’opinione comune, i re non erano puri laici. La dignità stessa di cui erano rivestiti li fregiava, così si credeva generalmente, di un carattere quasi sacerdotale. Bisogna dire: quasi sacerdotale. L’assimilazione non fu mani completa: non poteva esserlo. Per un cattolico, il sacerdozio comporta privilegi d’ordine ultraterreno perfettamente definiti e conferiti soltanto dall’ordinazione. Nel medioevo, nessun monarca, per quanto potente o orgoglioso, si credette capace di celerare il santo sacrificio della messa e, consacrando il pane e il vino, di far discendere Dio stesso sull’altare; Gregorio VII aveva duramente ricordato agli imperatori che, non sapendo essi scacciare il demonio, dovevano considerarsi di gran lunga inferiori agli esorcisti. Altre civiltà, l’antichissima Germania, la Grecia dei tempi omerici, avevano potuto conoscere dei re-sacerdoti nel senso pieno del termine; nella cristianità medievale, l’esistenza di questa dignità ibrida era inconcepibile. Questo videro chiaramente i gregoriani. Uno dei più penetranti scrittori di questo gruppo, l’autore misterioso che noi, ignorandone la vera patria, dobbiamo chiamare col nome latino, Honorius Augustodunensis, denunciava nelle pretese dei sovrani contemporanei, a quel proposito, non solo un sacrilegio, ma benanco una confusione di idee. Un uomo, egli diceva in sostanza in un trattato composto poco dopo il 1123. Può essere soltanto o chierico o laico o monaco. […] I re sapevano benissimo di non essere sacerdoti; ma non si stimavano neppure del tutto laici; nel loro seguito molti fedeli condividevano quel sentimento. D’altronde da molto tempo quella vecchia idea, quasi pagana, fioriva in epoca cristiana. L’abbiamo segnalata, sotto i primi Merovingi, nei versi di Fortunato, sebbene appaia semicelata da un’allegoria biblica. Abbiamo visto soprattutto quale rilancio, a partire dall’età carolingia, gli avesse dato l’unzione reale e come l’opinione lealista, con grande scandalo di Icmaro di Reims e del suo partito, interpretò bene presto in un senso estremamente favorevole alla monarchia quel rito comune ai re e ai sacerdoti. Ora, dopo Pipino, le cerimonie della consacrazione non avevano affatto cessato di crescere in ampiezza e in splendore […]. Soprattutto verso il 1100 si precisa la tesi dei fedeli della monarchia: la grande controversia gregoriana aveva costretto i partiti a prendere posizione, senza equivoci. […] Ecco per esempio Guido d’Osnabruck, che scrive nel 1084 o nel 1085 un trattato De controversia inter 71


Hildebrandum et Heinricum imperatorem – si tratta beninteso di Enrico IV: “il re – dice – deve essere messo al di fuori della folla dei laici; perché, unto con l’olio consacrato, partecipa del ministero sacerdotale”. E un po’ più tardi, in Inghilterra, l’anonimo di York: “il re, cristo del Signore, non può essere detto laico”. […] L’unzione era l’atto regale per eccellenza, così perfettamente legato, in Francia, al titolo stesso di re che i grandi feudatari, che talvolta cercavano di imitare gli altri episodi della consacrazione, non osarono mai appropriarsi di quello: un duca di Normandia, un duca d’Aquitania potevano farsi consegnare, nel corso di una cerimonia religiosa a Rouen o a Limoges, la spada o l’anello, il gonfalone o la corona ducale, ma l’uso dell’olio santo rimase loro sempre interdetto. […] I re erano unti su differenti parti del corpo: tra le altre, secondo l’antica usanza, attestata dai primi rituali, sul capo. Non era infatti sul capo di Saul che Samuele aveva versato il contenuto dell’ampolla di cui parla la Bibbia? La medesima pratica era osservata nella consacrazione dei vescovi; ma i preti, nella lro ordinazione, avevano diritto all’unzione soltanto sulle mani. Un giorno i liturgisti si accorsero che queste usanze stabilivano un’insopportabile parità tra la monarchia e l’episcopato; deliberarono che in avvenire i re sarebbero stati unti soltanto sulle braccia, o più precisamente, sulla spalla o sulla mano […]. Si volle costringere i re a usare l’olio semplice: a ciò si dedicarono Innocenzo III e la curia dopo di lui; questa fu la teoria di Guillame Durand. Nonostante ciò, i re di Francia e d’Inghilterra conservarono il privilegio del crisma […]. Di dove, dunque, agli occhi dei loro sudditi, i re traevano quel carattere sacro che li poneva quasi al rango dei sacerdoti? [..] Come abbiamo già visto, era nella natura stessa dell’unzione regia si servire come arma, di volta in volta, a partiti opposti: ai monarchici, perché, con essa, i re si trovavano segnati da un’impronta divina; ai difensori dello spirituale, perché, sempre con essa, i re sembravano accettare la loro autorità dalla mano dei sacerdoti. Questo duplice aspetto dell’unzione non cessò mai di essere sfruttato. (tratto da Marc Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 2012, pp. 141-166) T2 KANTOROWICZ ERNST – La regalità politocentrica: corpus mysticum Le infinite interrelazioni attive tra Chiesa e Stato in ogni secolo del Medioevo diedero luogo a ibridi in ambedue i campi. Derivazioni e scambi reciproci di insegne, simboli politici, prerogative e diritti onorari continuarono senza sosta a intercorrere tra la guida spirituale e quella laica della società cristiana. Il papa adornava la propria tiara d’una collana dorata, indossava la porpora imperiale e si faceva precedere dalle insegne imperiali cavalcando durante le processioni solenni per le strade di Roma. L’imperatore portava sotto la corona una mitra, indossava i calzari pontificali e altri paramenti sacerdotali e riceveva, come un vescovo, l’anello al momento dell’incoronazione. Questi prestiti avevano interessato, nell’alto Medioevo, principalmente i singoli sovrani, sia spirituali che laici, sinché il sacerdotium finì per acquisire un aspetto imperiale e il regnum un carattere sacerdotale […] Mentre l’alta idea della Chiesa come corpus mysticum cuius caput Christus veniva riempiendosi di contenuti secolari di carattere corporativogiuridico, lo Stato laico – partendo, per così dire dalla sponda opposta – lavorava per la propria esaltazione e semireligiosa glorificazione. La nobile concezione del corpus mysticum, dopo aver perso gran parte del suo significato trascendente ed essere stata politicizzata e, per molti versi, secolarizzata dalla stessa Chiesa, divenne facile preda del mondo intellettuale dei politici, dei giuristi e degli studiosi in procinto di sviluppare nuove ideologie per i nascenti Stati territoriali e laici. Il Barbarossa, lo ricordiamo, aveva santificato il proprio impero con il glorioso titolo di sacrum imperium […]. Gli sforzi per attribuire alle istituzioni statali una qualche aureola religiosa, tuttavia, congiunti all’adattabilità e la generale utilità del pensiero e del linguaggio ecclesiastico, indussero ben presto i teorici dello Stato laico ad una non superficiale appropriazione della terminologia non solo del diritto romano, ma anche di quello canonico e della teologia in genere. Il nuovo Stato territoriale e quasi nazionale rivendicante la propria autosufficienza e indipendenza dalla Chiesa e dal papato, fece man bassa delle ricchezze delle 72


dottrine ecclesiastiche, giungendo infine ad imporsi collocando sul medesimo piano il proprio carattere temporale e l’eternità della Chiesa militante. In questo processo la nozione di corpus mysticum giocò, assieme ad altre dottrine attinenti i corpi giuridici sviluppate dalla Chiesa, un ruolo fondamentale. […] Per Luca da Penne, il principe è semplicemente il maritus republicae e il suo matrimonio con lo Stato è matrimonium morale et politicum. […] Rileviamo come il giurista si sia avvalso dell’antichissima metafora del matrimonio mistico tra il vescovo e la sua diocesi per dare un’interpretazione delle nuove relazioni tra il principe e lo Stato. […] La venerabile immagine dello sponsus e della sponsa, di Cristo e della sua Chiesa, venne così trasferita dall’ambito spirituale a quello secolare ed adattato all’esigenza del giurista di definire le relazioni tra principe e Stato – uno Stato che, come corpo mistico o politico, era un’entità autonoma, indipendente dal re e dotata di proprietà che non si identificavano con quelle a lui appartenenti. Ciò cui Luca da Penne mirava soffermandosi sul matrimonium morale et politicum del principe, era spiegare il contenuto di una legge fondamentale: quella dell’inalienabilità delle proprietà fiscali. In modo assai calzante, quindi egli vedeva nel fisco la dote della sposa respublica spiegando come il marito avesse diritto solo ad usare la proprietà della moglie ma non ad alienarla. Egli inoltre paragonava i voti che gli sposi si scambiano al momento delle nozze con il giuramento di investitura del re e del vescovo, con cui entrambi i dignitari si impegnavano a non alienare le proprietà rispettivamente appartenenti al fisco e alla Chiesa. […] Per quanto strano ci possa apparire questo genere di teologia politica, esso non è il prodotto di un capriccio personale di Luca da Penne. L’analogia del corpus mysticum serviva a chiarire il rapporto tra le proprietà appartenenti al corpo politico e il re, mentre la metafora del matrimonio era volta ad esprimere la particolare natura del fisco. (tratto da I due corpi del re, Einaudi editore, Torino 1989, pp. 166-187) TESTI LETTERARI T3 DANTE ALIGHIERI – Divina Commedia, Canto VI del Paradiso (vv. 1-99) “Poscia che Costantin l’aquila volse contr’al corso del ciel, ch’ella seguio dietro a l’antico che Lavina tolse, cento e cent’anni e più l’uccel di Dio ne lo stremo d’Europa si ritenne, vicino a’ monti de’ quai prima uscìo; e sotto l’ombra de le sacre penne governò ’l mondo lì di mano in mano, e, sì cangiando, in su la mia pervenne. Cesare fui e son Iustinïano, che, per voler del primo amor ch’i’ sento, d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano. E prima ch’io a l’ovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non piùe, credea, e di tal fede era contento;

ma ’l benedetto Agapito, che fue 73


sommo pastore, a la fede sincera mi dirizzò con le parole sue. Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era, vegg’io or chiaro sì, come tu vedi ogni contradizione e falsa e vera. Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi; e al mio Belisar commendai l’armi, cui la destra del ciel fu sì congiunta, che segno fu ch’i’ dovessi posarmi. Or qui a la question prima s’appunta la mia risposta; ma sua condizione mi stringe a seguitare alcuna giunta, perché tu veggi con quanta ragione si move contr’al sacrosanto segno e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone. Vedi quanta virtù l’ha fatto degno di reverenza; e cominciò da l’ora che Pallante morì per darli regno. Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora per trecento anni e oltre, infino al fine che i tre a’ tre pugnar per lui ancora. E sai ch’el fé dal mal de le Sabine al dolor di Lucrezia in sette regi, vincendo intorno le genti vicine. Sai quel ch’el fé portato da li egregi Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, incontro a li altri principi e collegi; onde Torquato e Quinzio, che dal cirro negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi ebber la fama che volontier mirro. Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi che di retro ad Annibale passaro l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. Sott’esso giovanetti trïunfaro Scïpione e Pompeo; e a quel colle sotto ’l qual tu nascesti parve amaro. Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle 74


redur lo mondo a suo modo sereno, Cesare per voler di Roma il tolle. E quel che fé da Varo infino a Reno, Isara vide ed Era e vide Senna 60 e ogne valle onde Rodano è pieno. Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna e saltò Rubicon, fu di tal volo, che nol seguiteria lingua né penna. Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo, poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo. Antandro e Simeonta, onde si mosse, rivide e là dov’Ettore si cuba; e mal per Tolomeo poscia si scosse. Da indi scese folgorando a Iuba; onde si volse nel vostro occidente, ove sentia la pompeana tuba. Di quel che fé col baiulo seguente, Bruto con Cassio ne l’inferno latra, e Modena e Perugia fu dolente. Piangene ancor la trista Cleopatra, che, fuggendoli innanzi, dal colubro la morte prese subitana e atra. Con costui corse infino al lito rubro; con costui puose il mondo in tanta pace, che fu serrato a Giano il suo delubro. Ma ciò che ’l segno che parlar mi face fatto avea prima e poi era fatturo per lo regno mortal ch’a lui soggiace, diventa in apparenza poco e scuro, se in mano al terzo Cesare si mira con occhio chiaro e con affetto puro; ché la viva giustizia che mi spira, li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, gloria di far vendetta a la sua ira. Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco: poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico. E quando il dente longobardo morse 75


la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse. Omai puoi giudicar di quei cotali ch’io accusai di sopra e di lor falli, che son cagion di tutti vostri mali. T4 DANTE ALIGHIERI – Divina Commedia, Canto XVI del Purgatorio (vv. 91-114). Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore. Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver, che discernesse de la vera cittade almen la torre. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, però che ’l pastor che procede, rugumar può, ma non ha l’unghie fesse; 100 per che la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta, di quel si pasce, e più oltre non chiede. Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che ’l mondo ha fatto reo, e non natura che ’n voi sia corrotta. Soleva Roma, che ’l buon mondo feo, due soli aver, che l’una e l’altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo. L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale, e l’un con l’altro insieme per viva forza mal convien che vada; però che, giunti, l’un l’altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch’ogn’erba si conosce per lo seme. T5 DANTE ALIGHIERI – De Monarchia, III, 15 L'ineffabile Provvidenza ha posto dunque innanzi al l'uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, che consiste nell'esplicazione della propria specifica facoltà, ed è simboleggiata nel paradiso terrestre, e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio, e costituisce il paradiso celeste; ad essa quella facoltà specifica dell'uomo non può elevarsi senza il soccorso della luce divina. A queste [due] beatitudini, come a [due] fini diversi, occorre giungere con mezzi diversi. Alla prima infatti perveniamo per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li mettiamo in pratica operando secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda invece perveniamo per mezzo degli insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li 76


seguiamo operando secondo le virtù teologiche della fede, speranza e carità. Sebbene quel fine e quei mezzi [naturali] ci siano stati additati dalla ragione umana, quale si è manifestata a noi compiutamente attraverso i filosofi, e sebbene quel fine e quei mezzi [soprannaturali] ci siano stati indicati dallo Spirito Santo, che ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria attraverso i profeti, gli scrittori ispirati, Gesù Cristo, figlio di Dio a lui coeterno, ed i suoi discepoli, tuttavia la cupidigia umana indurrebbe a dimenticarli, se gli uomini, come cavalli spinti dalla loro bestialità a percorrere vie traverse, non fossero trattenuti sulla retta strada «con la briglia e con il freno». Per questo l'uomo ebbe bisogno di una duplice guida, in corrispondenza del duplice fine, cioè del Sommo Pontefice, per condurre il genere umano alla vita eterna mediante la dottrina rivelata, e dell'Imperatore, per dirigere il genere umano alla felicità terrena attraverso gli insegnamenti della filosofia. E siccome a questo porto della felicità terrena nessuno o pochi, ed anche questi con eccessiva difficoltà, potrebbero approdare, se il genere umano — sedati i flutti della cupidigia esposta ad ogni seduzione — non riposasse libero nella tranquillità della pace, il governatore del mondo, detto Principe Romano, deve tendere con tutte le sue forze a questo scopo, cioè a far sì che in questa aiuola umana si possa vivere nella libertà e nella pace. E siccome la disposizione di questo mondo è conseguenza della disposizione propria dei moti celesti, affinché le utili iniziative [imperiali] di libertà e di pace possano trovare applicazione adatta ai luoghi e ai tempi, è necessario che quel governatore del mondo sia stabilito da chi ha una visione complessiva ed immediata della disposizione globale dei cieli. Ora questi è soltanto Colui che ha preordinato tale disposizione come mezzo per poter subordinare provvidenzialmente tutte le cose ai suoi piani. Ma se è così, solo Dio elegge, egli solo conferma, non avendo altri superiori a sé. Dal che si può ricavare questa ulteriore conseguenza, che né gli elettori attuali, né quelli che, in qualunque modo, sono stati detti «elettori» si possono chiamare con tale titolo, ma piuttosto vanno considerati come «annunciatori della scelta provvidenziale di Dio». Onde avviene che talvolta coloro, cui è stata conferita questa carica di annunciatori, sono travagliati da discordie, dovute al fatto che tutti o alcuni di essi, ottenebrati dalla nebbia della cupidigia, non riescono ad individuare chiaramente l'elezione fatta da Dio. Così dunque risulta evidente che l'autorità del monarca temporale gli deriva, senza intermediario alcuno, dalla fonte stessa di ogni autorità, fonte che, pur essendo tutta raccolta nella roccaforte della sua semplicità, si espande in molteplici ruscelli per la sovrabbondanza della sua bontà. Mi pare ormai di aver raggiunto la meta che mi ero proposto. Difatti è stata dimostrata la vera soluzione della questione se al buon ordinamento del mondo sia necessario l'ufficio del Monarca, dell'altra questione se il popolo romano si sia appropriato di diritto dell'Impero, ed infine dell'ultima questione se l'autorità del monarca dipenda immediatamente da Dio o da qualcun altro. La soluzione data all'ultima questione non va però intesa in senso così stretto, da escludere che il Principe romano non sottostia in qualcosa al romano Pontefice, poiché la felicità di questa vita mortale è ordinata, in qualche modo, alla felicità immortale. Cesare pertanto usi verso Pietro di quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre, affinché, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa illuminare con maggior efficacia la terra, al cui governo è stato preposto solo da Colui che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali. (Edizione di riferimento: Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, UTET, Torino 1986. Traduzione di Pio Gaja).

T6 MARSILIO DA PADOVA – Defensor pacis, “Spetta ai cittadini fare le leggi”. A tale proposito diremo secondo quella che è la verità e il consiglio di Aristotele nel libro 3 della sua Politica che il legislatore […] è il popolo stesso o, che è lo stesso, la totalità dei cittadini o la loro parte più significativa, che si faccia valere a causa della sua elezione con la volontà politica espressa con regolari decisioni nell’assemblea generale dei cittadini, e intesa a prescrivere o a determinare gli atti civili leciti e illeciti con relative sanzioni e punizioni temporali. […] Considero “cittadino”, seguendo Aristotele nella sua Politica, libro III, capp. 1, 3, 7, colui il 77


quale partecipa secondo le sue capacità alla vita della comunità civile, al governo di essa nelle sue funzioni consolari o giudiziarie. […] Chiarito così il concetto di cittadino e della parte più significativa di tutti i cittadini, ritorniamo ora al nostro primitivo proposito, che è quello di dimostrare che l’autorità umana di legiferare spetta solo al corpo sociale nella sua totalità o alla sua parte più significativa. LA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO TESTI STORIOGRAFICI T7 LE GOFF JACQUES – Il corpo nel medioevo. La testa capovolta e la testa al suo posto. Il più interessante episodio relativo all'utilizzazione politica delle metafore corporee si svolge negli anni a cavallo tra XIII e XIV secolo, nell'ambito del violento conflitto che oppose il re di Francia Filippo IV il Bello al papa Bonifacio VIII. Come al tempo dei Libelli de lite, gli opuscoli che accompagnarono la lotta per le investiture nei secoli XI e XII, la polemica, in forma più moderna (in quanto vi fu coinvolta l'intera opinione pubblica, ben oltre i soli dignitari laici ed ecclesiastici), scatenò un'ondata di trattati, libelli e pamphlet. In un trattato anonimo, Rex Pacificus, compilato nel 1302 da un sostenitore del re, la metafora dell'«uomo-microcosmo» venne utilizzata in modo particolarmente interessante. Secondo il trattato, l'uomo, microcosmo della società, possiede due organi principali: la testa e il cuore. Il papa è la testa che dona alle membra, cioè ai fedeli, la vera dottrina e li impegna a compiere azioni meritevoli. Dalla testa partono i nervi, che rappresentano la gerarchia ecclesiastica che unisce le membra tra di loro e al loro capo, Cristo, di cui il Papa è vicario, oltre a garantire l'unità della fede. Il principe è il cuore da cui partono le vene che distribuiscono il sangue. Sempre dal re emanano gli editti, le leggi, le legittime consuetudini che trasportano la sostanza nutritiva, cioè la giustizia, in tutte le parti dell'organismo sociale. Essendo il sangue l'elemento vitale per eccellenza, il più importante dell'intero corpo umano, ne risulta che le vene sono più preziose dei nervi e che il cuore prevale sulla testa. Il re è quindi superiore al papa. Altri tre argomenti completano la dimostrazione. Il primo è desunto dall'embriologia e prolunga la simbologia corporea. Nel feto, il cuore appare prima della testa: la regalità precede dunque il sacerdozio. D'altra parte, la superiorità del cuore sulla testa è confermata da autorevoli voci. E l'autore del trattato si appella ad Aristotele, sant'Agostino, san Girolamo e Isidoro di Siviglia. Infine, un'ulteriore prova è data dall'etimologia, che segue una logica diversa da quella della linguistica moderna. Re in greco si dice basileus, che deriverebbe da basis. Di conseguenza, il re è la base che sorregge la società. L'autore del Rex pacificus sembra perfettamente a proprio agio in questo gioco di prestigio che fa passare il principe dalla testa al cuore e dal cuore alla base. Ovunque vi è potere, vi è prioritariamente il principe o lo Stato. La conclusione è tuttavia un compromesso. La gerarchia tra cuore e testa svanisce a vantaggio di una convivenza nell'autonomia: «Da tutto ciò risulta in modo evidente che come nel corpo umano vi sono due parti principali, aventi funzioni distinte, la testa e il cuore, senza che l'una usurpi le prerogative dell'altra, così pure nell'universo esistono due distinte giurisdizioni, la spirituale e la temporale, aventi attribuzioni ben differenziate». Di conseguenza, principi e papi devono gli uni e gli altri restare al loro posto. L'unità del corpo umano è sacrificata sull'altare della separazione tra spirituale e temporale. La metafora organicista si smorza. Il principio del doppio circuito presente all'interno del corpo umano, quello dei nervi che parte dalla testa e quello delle vene e delle arterie che partono dal cuore, concezione che autorizza l'uso metaforico di queste due parti del corpo per spiegare la struttura e il funzionamento del corpo sociale, concorda con la scienza fisiologica del Medioevo, trasmessa da Isidoro di Siviglia e rafforzata dalla crescente rappresentatività simbolica e metaforica del cuore nel Medioevo. A proposito della testa, Isidoro scrive: «La prima parte del corpo è la testa, ed essa ha ricevuto questo nome, caput, perché tutti i sensi e i nervi (sensus omnes et nervi) vi hanno la loro origine (initium capiunt) e da essa deriva ogni fonte di forza». E a proposito del 78


cuore: «Il cuore (cor) deriva da una denominazione greca (kardian), o da cura. In esso infatti risiede ogni sollecitudine e la causa della scienza. Se ne diramano due arterie di cui quella di sinistra contiene più sangue, e quella di destra più spirito, per questo motivo sentiamo il polso sul braccio destro". La testa al suo posto. Negli scritti di Henri de Mondeville, chirurgo di Filippo il Bello, all'incirca contemporaneo dell'anonimo autore del trattato Rex pacificus e anch'egli autore di un trattato di chirurgia, composto tra il 1306 e il 1320, cui Mariechristine Pouchelle ha dedicato un bel libro già citato, il cuore assume un'importanza primaria, in quanto è divenuto il centro metaforico del corpo politico. La centralità attribuita al cuore è espressione dell'evoluzione dello Stato monarchico, dove ciò che maggiormente interessa non è tanto la gerarchia verticale espressa dalla testa, ancor meno l'ideale di unità, di unione tra spirituale e temporale caratteristica di una cristianità ormai superata dagli eventi e ridotta in frantumi, quanto, la centralità che si realizza attorno al principe Henri de Mondeville porta a sostegno della sua nuova fisiologia politica una scienza del corpo umano che prolunga quella di Isidoro ma deviandola a favore del cuore, in virtù del quale è possibile concepire in chiave metaforica lo Stato nascente «Il cuore è l'organo principale per eccellenza che dona a tutte le altre membra dell'intero corpo il sangue vitale, il calore e lo spirito. Si ritrova nel mezzo del petto di ognuno, come il suo ruolo richiede, come il re è al centro del suo regno». Chi è il sovrano del corpo? chiede Marie-christine Pouchelle all'opera di Henri de Mondeville. La risposta non lascia adito a dubbi: il cuore, cioè il re. Ma in linea generale la testa resta o ritorna ad essere il capo del corpo politico. Agli inizi del Quattrocento un giurista di Nimes, Jean de Terrevermeille, teorico della monarchia, nei suoi tre Tractatus scritti nel 14181419 per appoggiare la legittimità del delfino Carlo (il futuro Carlo VII), e che alla fine del Cinquecento torneranno utili alla causa di Enrico di Navarra (il futuro Enrico IV), sostiene che «il corpo mistico o politico del regno» deve ubbidire alla testa, che rappresenta il principio essenziale di unità e garantisce l'ordine nella società e nello Stato. Essa è l'organo principale, cui gli altri devono obbedire. T8 LE GOFF JACQUES – Il corpo nel medioevo, Quaresima e Carnevale: una dinamica dell'Occidente Durante il Medioevo, va detto ancora una volta, il corpo è il luogo di un paradosso. Da un lato, il cristianesimo insiste nel mortificarlo. «Il corpo è l'abominevole involucro dell'anima», dice Gregorio Magno. Dall'altro, è esaltato, soprattutto attraverso il corpo martoriato di Cristo, sacralizzato nella Chiesa, che è il corpo mistico di Gesù Cristo. Il corpo è il tabernacolo dello Spirito Santo», dice san Paolo. L'umanità cristiana si fonda in ugual misura sul peccato originale trasformato nel Medioevo in peccato sessuale – e sull'incarnazione: Cristo fattosi uomo per salvarla dai suoi peccati. Nelle pratiche popolari, il corpo è frenato dall'ideologia anticorporale del cristianesimo istituzionalizzato, ma resiste alla rimozione. La vita quotidiana degli uomini del Medioevo oscilla tra Quaresima e Carnevale, in una lotta immortalata da Pieter Bruegel nel famoso dipinto del 1559, Il combattimento tra il Carnevale e la Quaresima. Da una parte il magro, dall'altra il grasso. Da una parte il digiuno e l'astinenza, dall'altra bagordi e crapule. Un'oscillazione senz'altro correlata al ruolo centrale occupato dai corpo nell'immaginario e nella realtà del Medioevo. Gli ordini di cui si compone la tripartita società medievale, oratores (gente di preghiera), bellatores (gente d'armi) e laboratores (gente che lavora) sono in parte definiti attraverso il loro rapporto con il corpo. Corpi sani dei sacerdoti che non devono essere né mutilati né storpi; corpi dei guerrieri nobilitati dalle loro imprese belliche; corpi dei lavoratori schiacciati dalla fatica. I rapporti tra anima e corpo sono a loro volta dialettici, dinamici, e non antagonistici. E' opportuno ricordarlo: a separare in maniera radicale l'anima dal corpo non è stato il Medioevo, ma piuttosto la razionalità classicista del Seicento. Nutrito dei princìpi di 79


Platone, secondo i quali l'anima preesiste al corpo - una filosofia che alimenterà il «disprezzo del corpo» degli asceti cristiani quali Origene (185 ca.-252 ca.) - ma anche permeato delle tesi di Aristotele secondo cui «l'anima è la forma del corpo», il Medioevo ritiene «ogni uomo composto di un corpo, materiale, creato e mortale, e di un anima, immateriale, creata e immortale». Corpo e anima sono indissociabili. «L'uno è l'esterno (foris) l'altra l'interno (intus) che comunica attraverso tutta una rete d'influssi e di segni», conclude Jean-Claude Schmitt. Veicolo di vizi e del peccato originale, il corpo è anche strumento di salvezza: «Il Verbo si è fatto carne», dice la Bibbia. Da uomo, Gesù ha sofferto. Ma il periodo che per convenzione viene definito Medioevo è stato in primo luogo l'epoca della grande rinuncia al corpo. La grande rinuncia Le espressioni più manifeste della socialità, al pari dei godimenti più intimi del corpo, sono largamente repressi. E' durante il Medioevo che scompaiono le terme, lo sport, il teatro, eredità dei Romani e dai Greci; gli stessi anfiteatri, il cui nome passerà dai giochi dello stadio ai certami teologiciche si svolgevano all'interno delle università. La donna demonizzata; la sessualità controllata; il lavoro manuale svilito; l'omosessualità prima condannata, poi tollerata e infine messa al bando; il riso e il gestire riprovati; maschere, trucco e travestimenti condannati; lussuria e gola accomunati... Il corpo è considerato il carcere e il veleno dell'anima. A prima vista, quindi, al culto del corpo del mondo antico si sostituisce nel Medioevo uno svilimento del corpo nella vita sociale. Sono i Padri della Chiesa a introdurre e fomentare questo grande ribaltamento concettuale con l'instaurazione del monachesimo. L'«ideale ascetico» conquista il cristianesimo attraverso l'influenza della Chiesa e diviene il piedistallo della società monastica che, durante l'alto Medioevo, cercherà di imporsi come modello ideale di vita cristiana. I benedettini concepiscono l'ascesi come «strumento di ripristino della libertà spirituale e di ritorno a Dio»: «E' la liberazione dell'anima dal gravame e dalla tirannia del corpo». Due gli aspetti fondamentali: «la rinuncia al piacere e la lotta contro le tentazioni». L'ascetismo benedettino, di matrice orientale, derivante dall'esperienza dei Padri del deserto, attenua il rigore nei confronti del corpo. Vi si ritrova la parola d'ordine discretio, cioè moderazione. Di fronte all'instaurarsi del feudalesimo, la riforma monastica del secolo XI e degli inizi del XII, soprattutto in Italia, accentua la repressione del piacere, principalmente del piacere corporeo. Il disprezzo del mondo parola d'ordine della spiritualità monastica - è in primis un disprezzo del corpo. La riforma pone in primo piano la privazione e la rinuncia in campo alimentare (digiuni e divieto di alcuni alimenti) e l'imposizione di sofferenze volontarie. I laici di grande religiosità (è il caso di san Luigi, re di Francia nel XIII secolo) possono assoggettarsi a mortificazioni corporee simili a quelle che si infliggono gli asceti: cilicio, flagellazioni, veglie, dormire sulla nuda terra... A partire dal XII secolo, l'affermarsi dell'imitazione di Cristo nella devozione introduce tra i laici pratiche che ricordano la passione di Cristo. Devoto di un Dio sofferente, san Luigi sarà un ReCristo, un re sofferente. Tali pratiche si manifestano spesso per iniziativa di laici, in particolare di confraternite di penitenti. E' quanto accade a Perugia nel 1260, dove i laici organizzano una processione espiatoria durante la quale i partecipanti si flagellano pubblicamente. La manifestazione incontra grande successo e si diffonde nell'Italia centrale e settentrionale. La Chiesa mantiene il proprio controllo prolungando i periodi in cui l'alimentazione dei fedeli è soggetta a restrizioni. A partire dal Duecento, il calendario alimentare comprende l'astinenza dalla carne tre volte a settimana, il digiuno della Quaresima, dell'avvento, dei quattro Tempora, delle vigilie delle feste e dei venerdì. Attraverso il controllo dei gesti, la Chiesa impone al corpo una disciplina nello spazio; attraverso il calendario dei divieti, gli impone una disciplina nel tempo.

80


TESTI LETTERARI T9 GUIDO CAVALCANTI – Voi che per li occhi mi passaste ’l core Voi che per li occhi mi passaste ’l core e destaste la mente che dormia, guardate a l’angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore. E’ vèn tagliando di sì gran valore, che deboletti spiriti van via: riman figura sol en segnoria e voce alquanta, che parla dolore. Questa vertù d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’occhi gentil presta si mosse: un dardo mi gittò dentro dal fianco. Sì giunse ritto ‘l colpo al primo tratto, che l’anima tremando si riscosse veggendo morto ‘l cor nel lato manco. T10 GIOVANNI BOCCACCIO – Decameron, IX, 2 Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; e essendo con lei un prete, credendosi il saltero de’ veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l’accusata, e fattalane accorgere, fu diliberata e ebbe agio di starsi col suo amante. Già si tacea Filomena, e il senno della donna a torsi da dosso coloro li quali amar non volea da tutti era stato commendato; e così in contrario non amor ma pazzia era stata tenuta da tutti l’ardita presunzion degli amanti, quando la reina a Elissa vezzosamente disse: – Elissa, segui -; la qual prestamente incominciò: – Carissime donne, saviamente si seppe madonna Francesca, come detto è, liberar dalla noia sua; ma una giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un soprastante pericolo leggiadramente parlando diliberò. E come voi sapete, assai sono li quali, essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e gastigatori, li quali, sì come voi potrete comprendere per la mia novella, la fortuna alcuna volta e meritamente vitupera: e ciò addivenne alla badessa sotto la cui obedienzia era la monaca della quale debbo dire. Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione, nel quale, tra l’altre donne monache che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì a un suo parente alla grata venuta, d’un bel giovane che con lui era s’innamorò; e esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto, similmente di lei s’accese: e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto sostennero. Ultimamente, essendone ciascuno sollecito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma, molte con gran piacer di ciascuno la visitò. Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di là entro fu veduto, senza avvedersene e egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con alquante altre comunicò; e prima ebber consiglio d’accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo, di volerla far cogliere col giovane alla 81


badessa; e così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono per incoglier costei. Or, non guardandosi l’Isabetta da questo né alcuna cosa sappiendone avvenne che ella una notte vel fece venire, il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano; le quali, quando a lor parve tempo, essendo già buona pezza di notte, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia dell’uscio della cella dell’Isabetta e un’altra n’andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l’uscio, a lei che già rispondeva dissero: “Sù, madonna, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che l’Isabetta ha un giovane nella cella.” Era quella notte la badessa accompagnata d’un prete il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose tanto l’uscio sospignessero, che egli s’aprisse, spacciatamente si levò suso e come il meglio seppe si vesti al buio; e credendosi torre certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamangli il saltero, le venner tolte le brache del prete; e tanta fu la fretta, che senza avvedersene in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori e prestamente l’uscio si riserrò dietro dicendo: “Dove è questa maladetta da Dio?” E con l’altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s’avvedieno, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra: e entrate dentro nel letto trovarono i due amanti abbracciati. Li quali, da così subito sopraprendimento storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La giovane fu incontanente dall’altre monache presa e per comandamento della badessa menata in capitolo. Il giovane s’era rimaso; e vestitosi aspettava di veder che fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco. La badessa, postasi a sedere in capitolo in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l’onestà, la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea: e dietro alla villania aggiugnea gravissime minacce. La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole non sapeva che si rispondere, ma tacendo di sé metteva compassion nell’altre: e, multiplicando pur la badessa in novelle, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo e gli usulieri che di qua e di là pendevano: di che ella, avvisando ciò che era, tutta rassicurata disse: “Madonna, se Dio v’aiuti, annodatevi la cuffia e poscia mi dite ciò che voi volete.” La badessa, che non la ‘ntendeva, disse: “Che cuffia, rea femina? ora hai tu viso da motteggiare? parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo?” Allora la giovane un’altra volta disse: “Madonna, io vi priego che voi v’annodiate la cuffia; poi dite a me ciò che vi piace”; laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa e, ella similmente ponendovisi le mani, s’accorsero perché l’Isabetta così diceva. Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone e in tutta altra guisa che fatto non aveva cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse; e liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante. Il qual poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fé venire; l’altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura. – T11 BOCCACCIO GIOVANNI – Decameron, IV, 1. Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore. – Fiera materia di ragionare n’ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontar l’altrui lagrime, le quali dir non si possono che chi le dice e chi l’ode non abbia compassione. Forse per temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati l’ha fatto: ma che che se l’abbia mosso, poi che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime, racconterò. Tancredi, prencipe di 82


Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai: e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava: poi alla fine a un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e’ costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese, ognora più lodando i modi suoi. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né vogliendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciuolo di canna, sollazzando la diede a Guiscardo e dicendo: “Fara’ne questa sera un soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco.” Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa: e guardando la canna e quella vedendo fessa, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse già mai e diedesi a dare opera di dovere a lei andare secondo il modo da lei dimostratogli. Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da uno fortissimo uscio serrata fosse. E era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava: ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata alla innamorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse d’aprir quello uscio: il quale aperto e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venir s’ingegnasse, avendogli disegnata l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa e sé vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire a alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato bene l’uno de’ capi della fune a un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quella si collò nella grotta e attese la donna. La quale il seguente dì, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio nella grotta discese, dove, trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e dato discreto ordine alli loro amori acciò che segreti fosse ro, tornatosi nella grotta Guiscardo, e ella, serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi la notte vegnente, sù per la sua fune sagliendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscì fuori e tornossi a casa; e avendo questo cammino appreso più volte poi in processo di tempo vi ritornò. Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia de’ due amanti rivolse in tristo pianto. Era usato Tancredi di venirsene 83


alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto e poi partirsi. Il quale un giorno dietro mangiare là giù venutone, essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella senza essere stato da alcuno veduto o sentito entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina, quasi come se studiosamente si fosse nascoso, quivi s’adormentò. E così dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se ne entrò nella camera: e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su il letto, sì come usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano. E dolente di ciò oltremodo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, s’egli potesse, per potere più cautamente fare e con minor sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta e ella s’uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino e senza essere da alcun veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò. E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in sul primo sonno Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due e segretamente a Tancredi menato; il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: “Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei.” Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: “Amor può troppo più che né voi né io possiamo.” Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse; e così fu fatto. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate, appresso mangiare secondo la sua usanza nella camera n’andò della figliuola: dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piangendo le cominciò a dire: “Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io, in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba, sempre sarò dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta disonestà conducer ti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come per Dio da piccol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che farne; ma di te sallo Idio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae l’amore il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca: ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire”. E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto. Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì e a mostrarlo con romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo. Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato così al padre disse: “Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e ‘l tuo amore: ma, il vero confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire 84


la grandezza dell’animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo: ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza: e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi essercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozii e le dilicatezze possano ne’ vecchi non che ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in questo opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva: e questo, chi che ti se l’abbia mostrato o come che tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro e con avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre all’amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare opinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo, quasi turbato esser non ti dovessi se io nobile uomo avessi a questo eletto, che io con uomo di bassa condizion mi son posta: in che non t’accorgi che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni a alto leva, abbasso lasciando i degnissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principii delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno medesimo creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze, con iguali vertù create. La vertù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da’ buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera, apertamente sé mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama commette difetto. Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini e essamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valor di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto quanto tu commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato? E certo non a torto: ché, se’ miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non poteano esprimere, non vedessi: e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizion mi sia posta? Tu non dirai il vero: ma per avventura se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, ché così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertà non toglie gentilezza a alcuno ma sì avere. Molti re, molti gran prencipi furon già poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccia del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè a incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale a alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t’acerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le lagrime, e incrudelendo, con un medesimo colpo, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi.” Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva; per che, da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella 85


persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono; e trattogli il cuore a lui il recassero. Li quali, così come loro era stato comandato, così operarono. Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che quando gliele desse dicesse: “Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava.” Ghismunda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua redusse, per presta averla se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presento e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese; e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliar, disse: “Non si convenia sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente questo è: discretamente in ciò ha il mio padre adoperato.” E così detto, appressatoselo alla bocca, il basciò, e poi disse: “In ogni cosa sempre e infino a questo stremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che già mai; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo già mai, di così gran presento, da mia parte gli renderai.” Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: “Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltà di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se’ spacciato: venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre: lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava a aver compiute essequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Idio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi; e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già tanto cara guardasti. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio sicura a’ luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei e, come colei che ancora son certa che m’ama, aspetta la mia dalla quale sommamente è amata.” E così detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che da torno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dir le parole di lei non intendevano, ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano e molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla. La qual poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttisi gli occhi, disse: “O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia.” E questo detto, si fé dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dì davanti aveva fatta, la quale mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato; e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve e bevutala con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello e al suo cuore accostò quello del morto amante: e senza dire alcuna cosa aspettava la morte. Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandato a dire; il qual, temendo di quello che sopravenne, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo ne’ termini ne’ quali era, cominciò dolorosamente a piagnere. Al quale la donna disse: “Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi che, poi a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ‘l mio corpo col suo, 86


dove che tu te l’abbi fatto gittare, morto palese stea.” L’angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze; laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi, strignendosi al petto il morto cuore, disse: “Rimanete con Dio, ché io mi parto.” E velati gli occhi e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì. Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete: li quali Tancredi dopo molto pianto e tardi pentuto della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente ammenduni in un medesimo sepolcro gli fé sepellire.– T12 BOCCACCIO GIOVANNI, Decameron, La descrizione della peste Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da officiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare. Maravigliosa cosa è a udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella 87


via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. Altri, in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere. E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abandono: di che le più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che a esse s’avvenisse, come l’avrebbe il propio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda auttorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e essecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomi ni, erano tutti o morti o infermi o sì di famiglie rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pistilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pistolenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro subsidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quegli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi 88


adomandate o di riguardare quando morieno; e servendo in tal servigio sé molte volte col guadagno perdeano. E da questo essere abbandonati gl’infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altramenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che in quelle che ne guerirono fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli oportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pistolenza, era tanta nella città la moltitudine di quegli che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi. Era usanza, sì come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e d’altra parte dinanzi la casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato; e egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pistolenza, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’eran di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano: e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte postposta la donnesca pietà, per salute di loro avevano ottimamente appresa. E erano radi coloro i corpi de’ quali fosser più che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa acompagnato; de’ quali non gli orrevoli e cari cittadini ma una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente (che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva) sotto entravano alla bara; e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quatro o a sei cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno; li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo oficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il raguardamento di molto maggior miseria pieno: per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né serviti né atati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n’erano che nella strada publica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de’ lor corpi corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire sé esser morti: e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il più da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per se medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, e tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna tavola, ne ponieno. Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e ‘l marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n’avevano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati, anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre: per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a’ savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de’ mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti. Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che a ogni 89


chiesa ogni dì e quasi ogn’ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che della fossa al sommo si pervenia E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d’alcuna cosa risparmiò il circustante contado. Nel quale, lasciando star le castella, che simili erano nella loro piccolezza alla città, per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno; per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano: anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere non che raccolte ma pur segate, come meglio piaceva loro se n’andavano; e molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli. Che più si può dire, lasciando stare il contado e alla città ritornando, se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra ‘l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati! LA VISIONE DELLA NATURA NEL MEDIOEVO E LA SUA ANTROPIZZAZIONE TESTI STORIOGRAFICI: T13 PIRENNE HENRI - La città del Medioevo, la città e i mercanti Questa superiorità dei vescovi conferì naturalmente alle loro residenze, cioè alle antiche città romane, una singolare importanza che le salvò dalla rovina. Infatti nell'economia del Nono secolo le città non avevano più ragione di esistere. Cessando di essere centri commerciali avevano perduto, con ogni evidenza, la maggior parte della popolazione. Con i mercanti, persero il carattere urbano che avevano ancora conservato nell'epoca merovingia. Alla società laica le città non servivano più. Attorno ad esse, i grandi possedimenti terrieri vivevano di vita propria, e non v'era ragione che lo Stato, fondato anch'esso su basi puramente agricole, si dovesse interessare alla loro sorte. E' molto caratteristico il fatto che i palazzi ("palatia") dei prìncipi carolingi non si trovano più nelle città. Sono tutti, senza eccezione, in campagna, sulle terre della dinastia (..). La fama di Aquisgrana non deve illuderci sul carattere di questa località. Lo splendore che momentaneamente ebbe sotto Carlo Magno è dovuto alla sua qualità di residenza favorita dell'imperatore. Alla fine del regno di Ludovico il Pio perde di nuovo ogni importanza e diverrà una città solo quattro secoli più tardi. L'amministrazione non poteva contribuire in alcun 90


modo alla sopravvivenza delle città romane. Le contee che formavano le province dell'Impero franco erano sprovviste di capoluoghi come l'Impero di capitale. I conti che le dirigevano non avevano una residenza fissa. Essi percorrevano continuamente la circoscrizione per presiedere alle assemblee giudiziarie, percepire le imposte, arruolare truppe. Il centro dell'amministrazione non era la loro residenza ma la loro persona, e dunque non importava molto che avessero o non avessero il loro domicilio in una città. Del resto, scelti tra i grandi proprietari della regione essi abitavano di solito nelle loro terre. Di norma i loro castelli, come i palazzi dell'imperatore, si trovavano in campagna. Al contrario, la sedentarietà che la disciplina ecclesiastica imponeva ai vescovi, li legava in maniera definitiva alla città nella quale era la sede della diocesi. Di venute inutili per l'amministrazione civile, le città non persero la loro qualità di centri dell'amministrazione religiosa. Ogni diocesi restò raccolta attorno alla città che accoglieva la cattedrale. Il nuovo significato assunto dalla parola "civitas" nel secolo Nono testimonia chiaramente questo fatto. Essa diviene sinonimo di vescovato e di città episcopale. Si dice "civitas parisiensis" per indicare la diocesi d i Parigi e la città d i Parigi dove risiedeva il vescovo . E in questa duplice accezione si conserva il ricordo dell'antico sistema municipale adottato dalla Chiesa ai suoi fini particolari (..) Come si vede l'aumento della popolazione e la ripresa delle attività, di cui essa è insieme causa ed effetto, si è volta a vantaggio dell'economia agricola. Ma essa doveva influire anche sul commercio, che entrò già prima dell'Undicesimo secolo in un periodo di rinascita, grazie all'azione di due centri, uno al Sud, l'altro al Nord dell'Europa: Venezia e l'Italia meridionale da una parte, la costa fiamminga dall'altra. Questo vuol dire che si tratta del risultato di uno stimolo esterno: grazie al contatto che ebbe in questi due luoghi con il commercio estero fu possibile che questa ripresa si manifestasse e si diffondesse . Certo, poteva anche andare diversamente. L'attività commerciale si sarebbe potuta rianimare in virtù del funzionamento della vita economica generale. Ma il fatto è che non andò così: il commercio occidentale, che era scomparso quando i suoi sbocchi con l'esterno furono chiusi, si risvegliò quando essi si riaprirono. Venezia, che per prima fece sentire su di esso la sua azione, occupa, come è noto, un posto singolare nella storia economica dell'Europa. Come Tiro, Venezia presenta un carattere esclusivamente commerciale. I suoi primi abitanti, fuggendo all'avvicinarsi degli Unni, dei Goti e dei Longobardi erano venuti a rifugiarsi sugli isolotti incolti della laguna (Quinto e Sesto secolo) a Rialto, a Olivolo, a Spinalunga, a Dorsoduro. Per vivere dovettero ingegnarsi a lottare contro la natura. Mancava tutto; anche l'acqua potabile era scarsa. Ma il mare è sufficiente per coloro che sanno fare. La pesca e la preparazione del sale assicurarono subito la sussistenza dei Veneziani mettendoli in condizione di procurarsi il grano scambiando i loro prodotti con gli abitanti della costa vicina (..) Soltanto nel Dodicesimo secolo, avanzando a poco a poco il commercio marittimo t r a s forma definitivamente l 'Europa occidentale e la scuote dall'immobilità tradizionale alla quale la condannava un'organizzazione sociale che dipendeva unicamente dai rapporti dell'uomo con la terra. Il commercio e l'industria non si fanno soltanto posto accanto all'agricoltura ma agiscono su di essa. I suoi prodotti non servono più al solo consumo dei proprietari e dei lavoratori del suolo: ma sono trascinati nel movimento commerciale come oggetti di scambio o materie prime. I confini del sistema terriero, che fino allora avevano racchiuso l'attività economica, si spezzano, e la società intera assume un carattere più flessibile, più attivo, più vario. Di nuovo come nell'antichità la campagna s'orienta verso la città. Sotto l'influenza del commercio, le antiche città romane si rianimano e si ripopolano; agglomerati commerciali si raggruppano ai piedi dei borghi e si stabiliscono lungo le coste del mare, dei fiumi, alla confluenza dei corsi d'acqua, agli incroci delle vie naturali di comunicazione. Ognuna di esse costituisce un mercato la cui attrazione, proporzionata all'importanza, si esercita sulla campagna circostante o si fa sentire in lontananza. Grandi e piccole, sono sparse ovunque, in media una ogni cinque leghe quadrate: in effetti esse sono divenute indispensabili alla società. Vi hanno introdotto una divisione del lavoro di cui non potrebbe più fare a meno. Tra le città e la campagna si stabilisce uno scambio reciproco di servizi: una solidarietà sempre più stretta le collega, la campagna sovvenziona il vettovagliamento della città e le città le forniscono in 91


cambio prodotti commerciali e manufatti. La vita fisica del borghese dipende dal contadino, ma la vita sociale del contadino dipende a sua volta dal borghese, poiché il borghese gli rivela un genere di vita più confortevole, più raffinato e che, eccitando i suoi desideri, moltiplica i suoi bisogni e innalza il suo "standard of life". L'apparizione delle città suscitò potentemente il progresso sociale anche per altre vie, contribuendo a diffondere nel mondo una nuova concezione del lavoro. Prima esso era servile, dopo diviene libero, e le conseguenze di questo avvenimento furono incalcolabili. Aggiungiamo infine che la rinascita economica realizzata appieno nel Dodicesimo secolo, rivelò la potenza del capitale ed è sufficiente per mostrare come poche altre epoche abbiano influito più profondamente sulla società. (tratto da La città e i mercanti, da La città del Medioevo, Laterza)

TESTI LETTERARI: T14 FRANCESCO D’ASSISI – Laudes creaturarum (Cantico di frate Sole) Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se confano, et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual’è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle. Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento. Laudato si, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli che ‘l sosterrano in pace, ka da te, Altissimo, sirano incoronati. 92


Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a ‘cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli che trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ca la morte secunda no ’l farrà male. Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate. T15 DANTE ALIGHIERI – Divina Commedia, Canto XIII dell’Inferno (vv. 1-108). Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco: Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che ’n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. E ’l buon maestro “Prima che più entre, sappi che se’ nel secondo girone”, mi cominciò a dire, “e sarai mentre che tu verrai ne l’orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone”. Io sentia d’ogne parte trarre guai, e non vedea persona che ’l facesse; per ch’io tutto smarrito m’arrestai. Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse. Però disse ’l maestro: “Se tu tronchi qualche fraschetta d’una d’este piante, 93


li pensier c’hai si faran tutti monchi”. Allor porsi la mano un poco avante, e colsi un ramicel da un gran pruno; e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”. Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: “Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb’esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi”. Come d’un stizzo verde ch’arso sia da l’un de’capi, che da l’altro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond’io lasciai la cima cadere, e stetti come l’uom che teme. “S’elli avesse potuto creder prima”, rispuose ’l savio mio, “anima lesa, ciò c’ha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece”. E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi, ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi. Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi: fede portai al glorïoso offizio, tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. La meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti; e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, 94


che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. Per le nove radici d’esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d’onor sì degno. E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che ’nvidia le diede”. Un poco attese, e poi “Da ch’el si tace”, disse ’l poeta a me, “non perder l’ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace”. Ond’ïo a lui: “Domandal tu ancora di quel che credi ch’a me satisfaccia; ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora”. Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia liberamente ciò che ’l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia di dirne come l’anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s’alcuna mai di tai membra si spiega”. Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: “Brievemente sarà risposto a voi. Quando si parte l’anima feroce dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, Minòs la manda a la settima foce. Cade in la selva, e non l’è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. Surge in vermena e in pianta silvestra: l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, 95


ciascuno al prun de l’ombra sua molesta”. T16 DANTE ALIGHIERI – Divina Commedia, Canto XXVIII del Purgatorio (vv. 1-69) Vago già di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva, ch’a li occhi temperava il novo giorno, sanza più aspettar, lasciai la riva, prendendo la campagna lento lento su per lo suol che d’ogne parte auliva. Un’aura dolce, sanza mutamento avere in sé, mi feria per la fronte non di più colpo che soave vento; per cui le fronde, tremolando, pronte tutte quante piegavano a la parte u’ la prim’ombra gitta il santo monte; non però dal loro esser dritto sparte tanto, che li augelletti per le cime lasciasser d’operare ogne lor arte; ma con piena letizia l’ore prime, cantando, ricevieno intra le foglie, che tenevan bordone a le sue rime, tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su ’l lito di Chiassi, quand’Eolo scilocco fuor discioglie. Già m’avean trasportato i lenti passi dentro a la selva antica tanto, ch’io non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi; ed ecco più andar mi tolse un rio, che ’nver’ sinistra con sue picciole onde piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo. Tutte l’acque che son di qua più monde, parrieno avere in sé mistura alcuna verso di quella, che nulla nasconde, avvegna che si mova bruna bruna sotto l’ombra perpetüa, che mai raggiar non lascia sole ivi né luna.

Coi piè ristetti e con li occhi passai di là dal fiumicello, per mirare 96


la gran varïazion d’i freschi mai; e là m’apparve, sì com’elli appare subitamente cosa che disvia per maraviglia tutto altro pensare, una donna soletta che si gia e cantando e scegliendo fior da fiore ond’era pinta tutta la sua via. “Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti che soglion esser testimon del core, vegnati in voglia di trarreti avanti”, diss’io a lei, “verso questa rivera, tanto ch’io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera”. Come si volge, con le piante strette a terra e intra sé, donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette, volsesi in su i vermigli e in su i gialli fioretti verso me, non altrimenti che vergine che li occhi onesti avvalli; e fece i prieghi miei esser contenti, sì appressando sé, che ’l dolce suono veniva a me co’ suoi intendimenti. Tosto che fu là dove l’erbe sono bagnate già da l’onde del bel fiume, di levar li occhi suoi mi fece dono. Non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta dal figlio fuor di tutto suo costume. Ella ridea da l’altra riva dritta, trattando più color con le sue mani, che l’alta terra sanza seme gitta.

T17 PETRARCA FRANCESCO – Canzoniere, CXXVI Chiare, fresche et dolci acque 97


Chiare, fresche et dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna; gentil ramo ove piacque (con sospir’ mi rimembra) a lei di fare al bel fiancho colonna; herba et fior’ che la gonna leggiadra ricoverse co l’angelico seno; aere sacro, sereno, ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse: date udïenza insieme a le dolenti mie parole extreme. S’egli è pur mio destino e ’l cielo in ciò s’adopra, ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda, qualche gratia il meschino corpo fra voi ricopra, et torni l’alma al proprio albergo ignuda. La morte fia men cruda se questa spene porto a quel dubbioso passo: ché lo spirito lasso non poria mai in più riposato porto né in più tranquilla fossa fuggir la carne travagliata et l’ossa. Tempo verrà anchor forse ch’a l’usato soggiorno torni la fera bella et mansüeta, et là ’v’ella mi scorse nel benedetto giorno, volga la vista disïosa et lieta, cercandomi; et, o pietà!, già terra in fra le pietre vedendo, Amor l’inspiri in guisa che sospiri sì dolcemente che mercé m’impetre, et faccia forza al cielo, asciugandosi gli occhi col bel velo. Da’ be’ rami scendea (dolce ne la memoria) una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo; et ella si sedea humile in tanta gloria, coverta già de l’amoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch’oro forbito et perle eran quel dì a vederle; 98


qual si posava in terra, et qual su l’onde; qual con un vago errore girando parea dir: – Qui regna Amore. – Quante volte diss’io allor pien di spavento: Costei per fermo nacque in paradiso. Così carco d’oblio il divin portamento e ’l volto e le parole e ’l dolce riso m’aveano, et sì diviso da l’imagine vera, ch’i’ dicea sospirando: Qui come venn’io, o quando?; credendo d’esser in ciel, non là dov’era. Da indi in qua mi piace questa herba sì, ch’altrove non ò pace. Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, poresti arditamente uscir del boscho, et gir in fra la gente. PARTE SECONDA: POTERE, CORPO E NATURA NELL’ETA’ MODERNA LE FORME DI POTERE TESTI STORIOGRAFICI E FONTI: T18 ARMAND-JEAN DU PLESSIS DE RICHELIEU - Testamento politico Dopo aver esaminato e riconosciuto le qualità necessarie a coloro che debbono essere impiegati come ministro dello Stato, non posso fare a meno di sottolineare che, come la pluralità dei medici causa talvolta la morte del malato invece di favorirne la guarigione, così lo Stato ricaverà piuttosto danno che vantaggi se il numero dei Consiglieri è alto. Aggiungo che non può con buon frutto averne più di quattro, e inoltre bisogna che tra loro ve ne sia uno che abbia l’autorità principale e che questi sia come il primo mobile che muove tutti gli altri luoghi senza essere mosso che dalla sua intelligenza. […] Esperienze diverse mi hanno reso così saggio su tale materia che mi riterrei responsabile davanti a Dio se questo testamento non recasse l’esplicita affermazione che non c’è niente di più pericoloso in uno Stato di diverse autorità uguali nell’amministrazione degli affari. Ciò che è intrapreso dall’uno è intralciato dall’altro e, se l’uomo più dabbene non è anche il più abile, quand’anche le sue proposte fossero le migliori, sarebbero eluse da colui che ha lo spirito più acuto. Ciascuno avrà i suoi seguaci che formeranno diversi partiti nello Stato e ne divideranno le forze invece di riunirle insieme. Come le malattie e la morte degli uomini derivano solo dal cattivo accordo degli elementi di cui essi sono composti, così è certo che il contrasto e la scarsa unione che si trova sempre tra potenze uguali altererà la tranquillità degli Stati di cui esser avranno la guida e produrranno diversi incidenti, che alla fine potranno distruggerla. Se è vero che il governo monarchico imita meglio di qualunque altro quello di Dio, se tutti i politici sacri e profani insegnano che questo genere di regime supera tutti quelli che sono stati messi in pratica da sempre, si può tranquillamente affermare che, se il sovrano non può o non vuole lui stesso avere continuamente l’occhio sulla carta o sulla bussola, 99


ragion vuole che ne dia incarico particolare a qualcuno al di sopra di tutti. Come diversi piloti non mettono mai mano tutti insieme al timone, così ce ne vuole uno solo che tenga quello dello Stato. Egli può, naturalmente, accettare i pareri degli altri, talvolta deve addirittura farne ricerca. Ma tocca a lui esaminarne la bontà e muovere la mano da un lato o dall’altro, a seconda di quel che stima più adatto per evitare la tempesta e seguire la sua rotta. Tutto sta nel fare buona scelta in questa occasione e nel non sbagliare […]. Ma, a dire il vero, come il ministro di cui parliamo deve essere al di sopra degli altri, così bisogna che abbia tutte le qualità in grado eminente e, di conseguenza, bisogna fare un esame accurato prima di deciderne la scelta. Il Principe deve conoscere di persona colui che incaricherà di una carica così importante e, sebbene questa persona debba essere eletta solo da lui, la scelta che egli farà deve possibilmente essere accompagnata da una approvazione pubblica; poiché, se ha i consensi di tutti, sarà maggiormente capace di ben fare. Come quelli che sono più bravi nei calcoli astronomici non potrebbero sbagliarsi di un solo minuto senza che i giudizi che ne traggono non siano soggetti ad ogni genere di errori, così è pur vero che, se le qualità di colui che deve governare gli altri sono buone solo apparentemente, la sua condotta sarà pessima e che, se tali qualità sono mediocri, il suo governo non sarà eccellente. E’ facile dipingere le qualità che deve avere questo primo ministro; ma è difficile trovarle riunite in un soggetto. Tuttavia è vero che la felicità o l’infelicità degli Stati dipende dall’elezione che di tale ministro sarà fatta. Il che obbliga strettamente i sovrani o a prendersi personalmente cura dei loro stati oppure a scegliere così bene colui sul quale vogliono scaricarla che la loro azione sia approvata dal cielo e dalla terra. (tratto da La storia moderna attraverso i documenti, a cura di A. Prosperi, Bologna, Zanichelli, 1974, pag. 87-88) T19 SALVEMINI BIAGIO - Potere e gerarchie sociali Nella configurazione sociale della società di antico regime, la deriva della classificazione sociale verso la pura elencazione non è un’anomalia che può insorgere in un mondo ordinato e rigorosamente tipizzato, ma una possibilità incombente. La forma dello spazio sociale e le regole che permettono di collocarvi chi lo abita rimangono un problema aperto, che richiama discussioni lunghe e non conclusive. D’altro canto lo smarrirsi dei principi ordinatori delle percezioni sociali è avvertito come anomia, incompletezza, rischio: un punto fra i non molti sui quali il consenso è elevato è l’immagine della buona società come società con una scala gerarchica solida e ripida, ben capace di esprimersi nel linguaggio dello spazio verticale che colloca ciascuno più giù o più su di qualche altro. Cromwell aveva su questo punto idee non molto distanti da quelle dei suoi nemici papisti. Di conseguenza la competizione e il conflitto tra gruppi non riguarda solo la posizione da assumere nello spazio sociale, ma anche la definizione di criteri che permettano di giudicare quella posizione, e di un’idea di giustizia che consenta di valutare come legittimi i modi in cui essa è stata conquistata. Nella Francia sei-settecentesca, forse più che altrove, data la presenza particolarmente ingombrante degli apparati dell’assolutismo, la deriva della classificazione verso l’elencazione viene attivamente promossa dallo Stato. La volontà di conoscenza delle risorse nella disponibilità pubblica, che si sviluppa dentro e attorno ad alcuni settori dello Stato, dà origine ad apparati nuovi, a inchieste, raccolte di dati, individuazione di metodi e di elaborazione ed esposizione di quegli stessi dati; e tende a conferire sistematicità e nuova legittimità alla banalizzazione dell’elenco dei tipi sociali. Aspetti formali, strumentazione per l’esposizione dei risultati, metodi di indagine, una volta ripresi e sviluppati dalla statistica pubblica ottocentesca e sostenuti dallo Stato napoleonico, avranno un impatto sulle identità sociali e le classificazioni diffuse incomparabilmente maggiore. Ma i significati di queste operazioni appaiono già trasparenti a occhi esercitati o interessati. Le inchieste pubbliche e gli elenchi ormai quantitativi di luoghi e tipi sociali che cominciano a circolare, ad essere pubblicati, ad essere utilizzati nelle opere sistematiche ed enciclopediche, fanno riferimento al sovrano come promotore della felicità di una nazione di sudditi. E’ soprattutto nella parte altra degli elenchi di tipi sociali che si annidano i problemi più rilevanti. 100


Una nobiltà che si distingue solo per la nascita e i segni d’onore non può essere giustificata né col linguaggio delle funzioni reciproche fra le partizioni sociali, né con quello della capacità dell’agire politico. La certificazione giuridica del loro status può essere un argine fragile allo spettacolo offerto dai piccoli feudatari affamati della provincia e dai duchi che cercano distinzioni contando il numero e la larghezza degli sguardi che il re rivolge loro. E i segni d’onore troppo esibiti possono far risaltare l’assenza di un elemento di valutazione della condizione nobile che nessun decreto e nessun trattato giuridico era stato in grado di abrogare: quello della virtù. […] Collocando questa nobiltà in cima ai loro elenchi di tipi sociali, gli autori di questo genere di scritture si condannano a rinunziare ai tradizionali principi di organicità, coordinamento e gerarchizzazione fra le componenti autonome del corpo sociale. Questi scritti continuano a essere pubblicati in gran numero, ma smarriscono il loro senso. Le inchieste regie sembrano destinate a tenere il campo. Ma alcune novità importanti si fanno largo fra i nostri elenchi. Il Droit public di Jean Domat (1697) ne presenta uno assai complesso, in qualche misura contraddittorio. Un elemento che appare di grande imporatanza viene comunque fuori con chiarezza: l’ordine espositivo della divisione triadica, che prima individua insiemi sociali e poi attribuisce a ciascuno di essi una funzione, appare rovesciato. Qui il punto di partenza è l’individuazione dei bisogni del corpo sociale (la pace, l’ordine, la giustizia, le comunicazioni, le finanze); gli ordini sono costituiti da coloro che sono in grado di soddisfare i bisogni. Il numero degli ordini, le loro caratteristiche, i requisiti richiesti agli individui che vogliano farne parte dipendono dai bisogni da soddisfare. Per realizzare il bisogno della pace occorrono uomini capaci nella professione delle armi, non i nobili in quanto tali; costoro non costituiscono un ordine, ma un gruppo privo di rilevanza per il corpo sociale e quindi privo di collocazione nella stratificazione. Possono conquistarne una acquisendo competenze e distribuendosi fra gli ordini corrispondenti alle competenze acquisite. Il contesto ideologico che ci permette di cogliere la portata della proposta di Domat è l’ormai secolare tradizione giusnaturalistica, che contrappone i diritti naturali, posseduti da tutti e connessi agli attributi universali della ragione e del libero arbitrio, ai diritti civili, che limitano, condizionano, indirizzano i diritti naturali, e , così facendo, costituiscono ambiti di privilegio, di particolarismo, di eccezione. Ovunque tace il diritto civile, vige il diritto naturale. Il problema delle differenze sociali si pone esclusivamente nell’ambito del diritto civile, il quale – scrive Henry-Francois d’Aguesseau, il futuro cancelliere, in uno scritto giovanile pure di fine Seicento – aggiunge alle qualità fisiche degli individui “distinzioni puramente civili ed arbitrarie unicamente fondate sui costumi di ciascun popolo o sulla volontà assoluta del legislatore. Dunque le distinzioni esistenti hanno fondamento negli accidenti della storia, e in quell’ambito devono trovare giustificazione. I fondamenti naturali delle distinzioni non esistono. Proiettandosi nell’ordine razionale da costruire sulla base di premesse di questo tipo, gli elenchi di Domat reincontrano il principio della funzione come unica giustificazione della distinzione; una funzione non fissata divinamente, espressa dai modi concreti di organizzarsi della vita sociale, ma vigorosamente identificata in quel concetto di lavoro che nell’ideologia nobiliare si connette immediatamente alle condizioni inferiori. Qui il giansenista Domat incontra il linguaggio adoperato da alcuni puritani inglesi; “non c’è condizione, senza eccezione neanche per le più elevate, che non abbia per suo carattere essenziale e suo dovere capitale ed indispensabile il lavoro per il quale essa è costituita. Colui che pretende di non avere lavoro ignora la sua natura e l’uso del suo spirito e del suo corpo; egli rovescia il fondamento dell’ordine del mondo, viola la legge naturale e divina, ed è un mostro nella natura più di colui che essendo privo di capacità o di qualche membro, si trova nell’impossibilità di lavorare”. Al di là delle differenze evidenti di accento, elenchi e scritti propongono un linguaggio della stratificazione che ha pretese di sistemare l’intero corpo sociale; e, al tempo stesso, l’effetto più limitato di cancellare ogni ruolo per la nobiltà costruitasi nella Francia dei primi due secoli dell’età moderna, e di assegnare un posto di primo piano agli operatori del diritto che in vario modo interloquiscono con i poteri. La polemica fra spada e robe si fa violenta, e prende varie 101


forme; fra le altre quella della contrapposizione fra quanti legittimano la nobiltà attribuendone le origini alla conquista dei Franchi (i germanisti), e quanti la delegittimano individuandone la nascita in un atto di ribellione di conti e duchi, funzionari di un potere franco profondamente imbevuto di civiltà romana, contro il legittimo potere del sovrano (i romanisti). Ma c’è anche una polemica fra robe e sovrano, che cova ed è destinata ad esplodere. Il lavoro che fonda la preminenza della robe ha poco a che fare con il servizio del dispotismo, C’è un difetto di origine nei rapporti fra robe e principe: quello della venalità degli uffici. Dal suo punto di vista di seguace di Jean Bodin, Loyseau aveva per tempo sottolineato come lo spogliare il principe di pezzi di sovranità e metterli sul mercato come beni patrimoniali fosse “una specie di pazzia”. Ma anche entro gli spazi aperti da quella pazzia, entro la pratica ambigua di un ufficio che rimane in bilico fra onore, potere e mercato, e quindi assai poco integrato entro la macchina assolutistica, era cresciuta una visione delle cose che incontra la tradizione delle autonomie sociali e che, anche dopo la Fronda e il consolidarsi dello Stato assoluto, si riproduce e viene proposta all’intero corpo sociale. Nel discorso sull’Indipendenza dell’avvocato (1963) del già citato d’Aguesseau le parole d’ordine di questo conflitto sono tutte ben in vista: il profilo dell’uomo di legge si fonda sull’indipendenza, sulla libertà, sul merito e la virtù quale segni di una distinzione che non ha bisogno di essere certificata dallo Stato, sul riferimento al pubblico come garante di quella distinzione. Insieme al terreno del contendere, il documento suggerisce il profilo di un soggetto sociale e politico collettivo che nel Settecento avrà ruoli non secondari, e che gli storici oggi vedono ben delineato anche sul piano degli scambi matrimoniali e delle identità: quello degli operatori del diritto a cavallo tra parlamenti, amministrazione e avvocatura indipendente, che ne fa personaggi del tutto diversi dai “ministeriali”, da quegli uomini del principe che vogliono promuovere la pubblica felicità ma rischiano di realizzare solo il dispotismo. Al centro dell’immagine di società che essi producono c’è la difesa di quelle autonomie, resistenze, articolazioni che non possono ordinarsi attorno all’ideologia ed alla prassi di una nobiltà senza funzione. La vera nobiltà è quella che riesce a trattenere presso di sé una parte della potestas, di quel potere diffuso che si era andato concentrando nelle mani del principe: un vecchio attrezzo della memoria culturale dell’Europa occidentale viene riproposto come garanzia più sicura di preminenza sociale e di resistenza contro la deriva dispotica della sovranità. Il conflitto con la monarchia sul ruolo dei parlamenti negli anni settanta del Settecento fa emergere la vitalità di queste visioni di società e di queste pretese di preminenza. Il re sa leggerle con chiarezza: la magistratura non può ergersi a corpo separato al di là dei tre ordini del regno, egli affermerà nel “discorso della flagellazione”. La vittoria per ora è sua, ma neanche le visioni di società che lui stesso promuove costituiscono una cultura, un linguaggio in cui il corpo sociale si riconosce e dentro il quale situa le sue strategie. L’Europa di antico regime non è un universo totalitario. Gruppi e individui convivono con le forme particolari di disordine del loro mondo, e per far questo si impegnano in una continua attività di interpretazione e manipolazione del contesto normativo e culturale, producono tentativi molteplici di metterlo in forma che si intrecciano con le loro strategie vitali e diventano una delle poste in gioco dei conflitti che li coinvolgono. (tratto da Storia Moderna, Donzelli editore, pag. 421-425) T20 KANTOROWICZ ERNST - I due corpi del re. Rex instrumentum dignitatis. Era stato abbastanza difficile distinguere tra l’uomo e la sua dignitas e separare l’uno dall’altra. Non meno difficile risultò rimettere insieme i due elementi e definire una teoria che rendesse plausibile il fatto che “una persona tiene il luogo di due persone, una reale e l’altra fittizia”, o che un re ha due corpi anche se solo una persona. Ancora una volta fu la teologia e il diritto canonico a produrre le similitudini sulla cui base i giuristi poterono cimentarsi a spiegare l’unità dei due corpi – di quello mortale nell’immortale e di questo in quello. Che il re come Re fosse “incorporato con i propri sudditi ed essi con lui” era affermazione cui, nonostante la presenza 102


dell’ominoso termine “incorporato”, i giuristi potevano facilmente giungere partendo dal relativamente sicuro terreno delle concezioni organologiche o della dottrina del corpus mysticum nella sua forma secolarizzata; si intendeva con ciò che il re come capo e i sudditi come membra formavano insieme il corpo politico del reame. I termini della questione si fecero tuttavia un po’ diversi quando questo “insieme” riferito a un corpo composito – plausibile entro i limiti della metafora – fu trasferito dal “capo e le membra” al solo capo, e quando tale composita natura venne restringendosi al solo re, vale a dire, ai suoi “due corpi”. Nel caso del ducato di Lancaster, i giuristi sostennero che il corpo naturale del re non era “né di per sé diviso, né distinto dal suo ufficio e regale dignità”, ma esso consisteva d’un corpo naturale e d’un corpo politico indivisibilmente uniti; e che questi due corpi sono incorporati in una persona e formano un solo corpo e non più corpi, il corpo corporato nel corpo naturale e il corpo naturale nel corpo corporato.

Una volta coniata questa formula, per così dire, monistica, implicante né più né meno che l’incorporazione del re con se stesso, con la propria Dignitas e corpo politico, era naturale che essa fosse citata anche da altri – ad esempio, da Francesco Bacone: Nel re non vi è solo un corpo naturale, né solo un corpo politico, ma un corpo naturale e un corpo politico insieme: corpus corporatum in corpore naturali, et corpus naturale in corpore corporato.

E’ facile vedere come si giungesse alla nuova formula: i “sudditi più il re”, incorporati l’uno con l’altro e insieme formanti il corpo politico del regno, furono sostituiti dal “corpo politico del Re” che era ora incorporato con il “corpo naturale del re”. (tratto da I corpi del re, pp. 375-376).

T21 MACHIAVELLI NICCOLO’ – Principe, capitolo XVIII Quomodo fides a principibus sit servanda. Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete, adunque, sapere come sono dua generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto, a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dagli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile. Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, pertanto, uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbono a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorire la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante paci, quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa 103


natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrà sempre chi si lascerà ingannare. Io non voglio, degli esempli freschi, tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro, che a ingannare uomini: e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno: nondimeno sempre li succederono gli inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo. A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole e osservandole sempre sono dannose, e parendo di averle, sono utili, come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. E hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non gli esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E gli uomini, in universali, iudicano più agli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li defenda; e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati; perché il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo, e li pochi non ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato. T22 TOMMASO MORO, Utopia, Un modello per il presente. Ogni 30 famiglie si eleggono ogni anno un magistrato che chiamano, secondo la loro lingua antica, sigofranto, con la moderna filarco; a ogni 10 sigofranti con le loro famiglie si mette a capo uno, detto una volta traniboro e ora protofilarco. Tutti i sigofranti poi, in numero di 200, dopo aver giurato di eleggere chi giudicano più utile, scelgono con voto segreto un principe, e propriamente uno dei 4 candidati che il popolo designa loro: infatti ogni quarta parte della città ne presceglie uno che poi raccomandano al senato. La carica di principe dura ininterrottamente tutta la vita, a meno che non sorga sospetto che aspiri a farsi tiranno. I tranibori vengono scelti anno per anno, perciò sono mutati senza buon motivo, e tutte le altre magistrature sono annuali. Ogni tre giorni i tranibori e talora, se il caso lo richiede, più spesso, si riuniscono nel consiglio del re, per deliberare di faccende pubbliche e, se vi sono, ché ve ne sono proprio poche, risolvono rapidamente quistioni private. Accolgono sempre in senato due tranibori, ma non gli stessi ogni volta, ed è buon provvedimento che nulla si decide, riguardo lo Stato, di cui non si sia discusso in senato tre giorni prima di ogni deliberazione. E’ delitto capitale decidere di cose pubbliche fuori del senato o dei comizi del popolo, e ciò fu stabilito, è tradizione, acciocché non riuscisse facile a una congiura di prìncipi e tranibori di mutare la forma di governo, oprimendo il popolo con la tirannia. […] C’è un’occupazione comune a tutti indistintamente, uomini e donne, l’agricoltura, e nessuno n’è eccettuato. In questa sono ammaestrati tutti dalla fanciullezza, un po’ imparandone le regole a 104


scuola, un po’ condotti come per isvago nelle campagne più vicine alle città, dove non stanno a guardare soltanto, ma vi metton mano, ad ogni occasione di esercitare i muscoli. Ma oltre all’agricoltura che, come ho detto, è comune a tutti, ognuno apprende un mestiere, un’arte qualsiasi, come sua particolare: in genere o la lavorazione della lana, o si occupano a tessere il lino, o l’arte di muratore, di fabbro, di falegname; non vi sono lì altri lavori che occupino un numero di uomini notevole. Poiché le vesti, la cui forma è unica per tutta l’isola, salvo che si distingue alla foggia il sesso come anche un celibe da un ammogliato, ed è identica sempre per tutta la vita, ma non manca di grazia a vedersi e segue bene i movimenti del corpo ed è adatta per l’estate e per l’inverno; le vesti, dico, ogni famiglia se le fa da sé. Ma delle altre arti anzidette ognuno ne apprende qualcuna, e non solo gli uomini, ma anche le donne: queste del resto, come più deboli, fanno cose più leggere, lavorano in genere la lana e il lino; agli uomini sono affidati gli altri mestieri più pesanti. Nella maggior parte dei casi ognuno è educato nell’arte paterna, cui i più sono naturalmente inclinati; ma se qualcuno per temperamento è portato ad altro, passa per adozione in una famiglia che fa il mestiere per cui egli ha passione, e non solo il padre, ma anche i magistrati s’adoprano acciocché entri in servizio di un padre di famiglia serio e galantuomo. Anzi, se qualcuno, già padrone di un mestiere, ne vuole apprendere in seguito un altro, gli è concesso allo stesso modo: quando avrà conseguito l’uno e l’altro, eserciterà quello che più gli piace, a meno che la città non abbia bisogno di uno dei due. La principale e quasi unica occupazione dei sigofranti è di aver cura e badare che nessuno se ne stia senza far nulla, in braccio alla pigrizia, ma attenda ognuno al suo mestiere con sollecitudine, senza però stancarsi, come una bestia da soma, a lavorare ininterrottamente dalla mattina per tempo fino a sera tardi, ché sarebbe una pena che nemmeno uno schiavo. Tale però più o meno è la vita degli operai in ogni paese, tranne che in Utopia! Qui dividono il giorno in 24 ore uguali, compresavi la notte, e non danno più che 6 ore al lavoro, 3 prima di mezzodì, dopo le quali vanno a colazione, e quando, dopo tavola, han riposato 2 ore pomeridiane, ne danno ancora 3 altre al lavoro, chiudendo col pasto principale. Segnando l’una da mezzogiorno, vanno a letto verso le otto e il sonno richiede 8 ore: tutto il tempo che passa fra il lavoro e il sonno o i pasti è lasciato al piacere di ognuno, non già perché lo sciupi in lascivie o nell’infingardaggine, ma perché quanto è libero da lavoro manuale lo speda bene, secondo i suoi gusti, in qualche occupazione prediletta. Questi intervalli i più li impiegano in studi letterari; c’è l’uso infatti di tenere ogni giorno lezioni pubbliche, prima di far giorno, cui sono costretti a intervenire soltanto quelli espressamente prescelti per gli studi; ma vi affluiscono uomini e insieme donne di ogni condizione, in gran folla, ad udire questa e quella lezione, secondo le loro inclinazioni. Tuttavia uno, se preferisce consumare perfino questo tempo nel suo mestiere, come avviene comunemente di molti, il cui animo non si solleva ad alcuna speculazione scientifica, nulla glielo vieta, anzi viene anche lodato, come utile allo stato. […] Ma a questo punto bisogna esaminar più precisamente una quistione, perché non cadiate in errore. Potreste infatti immaginare, pel fatto che stanno al lavoro 6 ore al giorno solamente, che ne debba seguire qualche scarsezza delle cose necessarie. Ben lungi da ciò, anzi queste 6 ore sono non solo sufficienti, ma anche di troppo per produrre in abbondanza tutto ciò che si richiede, sia pei bisogni che per i comodi dell’esistenza; e anche voi lo comprenderete, riflettendo fra di voi quale gran quantità di gente viva senza far nulla presso gli altri popoli.

105


T23 CASTIGLIONE BALDASSAR - Il Cortegiano (Libro primo, cap. XXVI e XXVIII) Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato […] Questa virtù adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora chiamiamo sprezzatura, oltra che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro ornamento, il quale accompagnando qualsivoglia azione umana, per minima che ella sia, non solamente sùbito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che è in effetto; perché negli animi delli circunstanti imprime opinione, che chi così facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa, e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio. E per replicare i medesimi esempi, eccovi che un uom che maneggi l’arme, se per lanzar un dardo, o ver tenendo la spada in mano o altr’arma, si pon senza pensar scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilità che paia che il corpo e tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica alcuna, ancora che non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo in quello esercizio. Medesimamente nel danzare un passo solo, un sol movimento della persona grazioso e non sforzato, sùbito manifesta il sapere de chi danza. Un musico, se nel cantar pronunzia una sola voce terminata con suave accento in un groppetto duplicato, con tal facilità che paia che così gli venga fatto a caso, con quel punto solo fa conoscere che sa molto più di quello che fa. Spesso ancor nella pittura una linea sola non stentata, un sol colpo di penello tirato facilmente, di modo che paia che la mano, senza esser guidata da studio o arte alcuna, vada per se stessa al suo termine secondo la intenzion del pittore, scopre chiaramente la eccellenzia dell’artifice, circa la opinion della quale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio; e ‘l medesimo interviene quasi d’ogni altra cosa. Sarà adunque il nostro cortegiano stimato eccellente ed in ogni cosa averà grazia, massimamente nel parlare, se fuggirà l’affettazione”. LA RAPPRESENTAZIONE E IL DOMINIO DEI CORPI TESTI STORIOGRAFICI T24 BROCCHIERI VITTORIO BEONIO – Miserabili e vagabondi Secondo le stime di Gregory King (1648 -1712), uno dei fondatori della scienza statistica, alla fine del Seicento quasi un quarto della popolazione inglese vive sotto la soglia della povertà, e fra questi vi sono 30 mila vagabondi. King ritiene inoltre che un altro quarto della popolazione, (corrispondente grosso modo alla massa dei lavoratori salariati) sia assai prossimo a questa soglia e quindi pericolosamente esposto alle fluttuazioni della congiuntura economica. Più o meno negli stessi anni, Sébastien le Peestre de Vauban (1633 -1707) giunge a conclusioni simili: un terzo della popolazione francese si trova sullo spartiacque della miseria. Questi dati mostrano immediatamente quale incidenza abbia nelle società europee del Seicento il problema della povertà. Nel corso della propria vita, gran parte della popolazione sperimenta la miseria, e la quasi totalità ne viene sfiorata. Poveri, mendicanti e vagabondi sono onnipresenti sia nelle città, sia nelle campagne. Sembrano, anzi, essere sempre più numerosi. […] E’ naturale mettere 106


innanzitutto in relazione questa tendenza con la cosiddetta “crisi del Seicento”. Non c’è dubbio che le difficoltà economiche sperimentate in questo secolo da molte regioni europee abbiano un peso rilevante, sia che si tratti del declino strutturale di alcune zone, come l’Italia o la Spagna, sia che ci si trovi davanti a crisi congiunturali dovute, ad esempio, a una serie di cattive annate agricole o alla guerra. Se una parte della popolazione rurale e urbana vive poco al di sopra del livello di sussistenza, un rialzo del prezzo del grano o un crollo della domanda di prodotti artigianali hanno inevitabilmente conseguenze catastrofiche. I tre cavalieri dell’Apocalisse dell’Europa preindustriale – la carestia, l’epidemia e la guerra – agendo spesso di concerto, hanno certamente contribuito a ingrossare le turbe dei miserabili e dei vagabondi […]La miseria e il pauperismo sono anche il risultato delle profonde modifiche che intervengono nell’economia e della destrutturazione, sia in città che in campagna, delle forme di vita e di solidarietà tradizionali. Nei Paesi all’avanguardia (le Province Unite e l’Inghilterra) l’agricoltura si modifica sotto la spinta del mercato e della diffusione di forme di conduzione capitalistica. La razionalizzazione che ne consegue si traduce nell’indebolimento della comunità di villaggio e nella crisi delle solidarietà di vicinato e di parentela. […] Sui contadini espulsi la città esercita un grande potere d’attrazione per molteplici motivi. Durante la guerra le mura della città offrono un riparo e durante le carestie, anche in virtù dei loro privilegi annonari, le città sono comunque favorite e sono sede dei principali organismi caritativi e assistenziali. La città, inoltre, sembra offrire maggiori possibilità di lavoro […]. Nella società europea del Seicento, l’idea di povertà è in stretto rapporto con la posizione sociale di un individuo. E’ povero colui che non è in grado di mantenere un tenore di vita confacente al suo status sociale. La povertà non dipende però solo da un peggioramento delle condizioni economiche. La miseria è un fatto sociale più che un problema di rapporto tra popolazione e risorse: il pauperismo e i fenomeni del vagabondaggio e di certe forme di criminalità ad esso connessi, sono innanzitutto un fatto di declassamento e di esclusione sociale. Un contadino, un artigiano, un borghese e persino un nobile, possono essere tutti poveri, ma il significato di questo termine muta a seconda del ceto di appartenenza. Uno dei fenomeni più caratteristici dell’Età moderna è infatti quello dei cosiddetti “poveri vergognosi”, cioè dei nobili, o comunque dei membri dell’élite sociale, che per traversie economiche non sono più in grado di vivere come si converrebbe alla loro condizione e che sono oggetto di particolare e discreta attenzione da parte degli organismi caritativi. Nelle società di Antico Regime il denaro, o più in generale la disponibilità di risorse economiche, non è l’unico e neppure il principale parametro di classificazione sociale. Per questo lo scarto fra il prestigio associato allo status privilegiato e una condizione di difficoltà economica viene avvertito come particolare disagio. Il povero vergognoso è meritevole di assistenza non solo perché vive con particolare sofferenza, a causa della memoria di una passata grandezza familiare, lo stato di miseria in cui si trova, ma anche la povertà di appartenente all’élite sociale mette in discussione, e in un certo senso delegittima, tutto l’ordinamento sociale. Per questa ragione il povero vergognoso deve essere assistito ma con discrezione, per non ferire la sua sensibilità, ma anche per non diventare motivo di scandalo sociale. […] Dal punto di vista delle forme di assistenza la svolta fondamentale si era avuta nei primi decenni del secolo precedente con le riforme adottate in molte città europee. Punti fondamentali erano l’eliminazione della mendicità e la centralizzazione e la razionalizzazione dell’assistenza. All’origine delle politiche di repressione della mendicità e del vagabondaggio nel Seicento vi sono scopi e preoccupazioni differenti. Oltre al fine di rendere più efficace e razionale l’opera di assitenza, vi è anche quello di meglio controllare un universo umano inquietante e potenzialmente pericoloso. […] A partire dal tardo Medioevo e nell’Età moderna la povertà non è più una virtù ma una colpa e una minaccia. I due elementi che caratterizzano l’atteggiamento verso i miserabili e le altre categorie di marginali nell’Europa secentesca diventano allora la reclusione e il lavoro. La reclusione dei poveri ha un carattere ambivalente: mezzo di assistenza per i bisognosi ma anche di correzione per i malvagi. Ambivalente è anche il richiamo al lavoro. Il lavoro è il mezzo per assicurare il mantenimento del povero ed è quindi espressione di una 107


esigenza di razionalità, ma è anche uno strumento di punizione. Nell’età moderna infatti il povero non è più considerato costitutivo della società né funzionale all’esercizio della virtù della carità. I tentativi di razionalizzazione dell’assistenza e della carità coincidono con una laicizzazione dell’idea di povertà. L’assistenza non è allora più semplicemente manifestazione della carità cristiana, ma diventa al contempo strumento di correzione e di punizione. […] Nel 1656 viene fondato l’Ospedale Maggiore di Parigi, che può essere considerato l’esempio più compiuto di questa filosofia di controllo sociale della mendicità. Alla fine del secolo la popolazione complessiva dell’arcipelago ospedaliero-assistenziale-penitenziario parigino, formato da diverse istituzioni specializzate (la Pitié, la Salpetrière, la Bicetre), raggiunge le 10 mila persone. (tratto da A.a.v.v., L’età moderna e contemporanea) T25 ANONIMO - Storia dell’Hopital Général (opuscolo anonimo del 1676) Nonostante numerosi provvedimenti, tutto il resto dei mendicanti continuò a vivere in piena libertà in tutta la città e nei sobborghi di Parigi; vi giungevano da ogni provincia del regno, e da tutti gli stati d'Europa, il loro numero cresceva di giorno in giorno fino a costituirsi come un popolo indipendente che non conosceva né legge né religione, né autorità, né polizia; l'empietà, la bassezza, il libertinaggio era tutto quel che regnava fra loro; la maggior parte degli assassinii, dei furti e delle violenze, di giorno e di notte, era opera delle loro mani e queste persone, che la condizione di poveri rendeva oggetto della compassione dei fedeli, erano, per i loro costumi corrotti, per le bestemmie e i discorsi insolenti, le più indegne della pubblica assistenza. Tutti questi grandi disordini proseguirono sino all'anno 1640, senza dar luogo a molte riflessioni. Ma in quel tempo alcune persone di alta virtù furono toccate dal deplorevole stato in cui si trova vano le anime di quei poveri infelici cristiani. Giacché i loro corpi, per quanto afflitti potessero apparire, non erano autentici oggetti di compassione; nelle elemosine della gente trovavano infatti più di quanto fosse necessario per soddisfare i loro bisogni, e financo i loro vizi; ma le anime sprofondate nell'ignoranza totale dei nostri sacri misteri e nell'estrema corruzione dei costumi erano causa di profondo dolore per le persone animate da zelo per la salvezza di quei miserabili (pag. 2). I primi tentativi e i successi iniziali (gli ospizi di carità fondati nel 1651) fecero credere che non era impossibile trovare i fondi necessari per rinchiudere e contenere nel dovere un popolo libertino e fannullone che non aveva mai ricevuto delle regole (pag. 3). Si comunicò ufficialmente in tutte le parrocchie di Parigi che l'Hopital général sarebbe stato aperto il 7 maggio 1657 per tutti i poveri che avessero voluto entrarvi spontaneamente, e i magistrati proibirono con grida ai mendicanti di chiedere l'elemosina in Parigi; mai ordine fu così bene eseguito. Il 13 una messa solenne dello Spirito Santo fu cantata nella chiesa della Pitié e il giorno 14 la reclusione dei Poveri fu condotta a termine senza nessun turbamento. In quel giorno tutta Parigi cambiò volto, la maggior parte dei mendicanti si ritirò nelle province, i più saggi pensarono a trovare sostentamento con le proprie forze. Vi fu indubbiamente un atto della protezione divina su questa grande iniziativa, perché non si sarebbe mai potuto credere che arrivare tanto felicemente al risultato costasse così poca fatica. La lungimiranza dei preposti era stata talmente illuminata e la loro previsione così giusta che il numero dei rinchiusi venne ad essere quasi uguale a quello del progetto da loro steso, essendosi i 40 mila mendicanti ridotti a quei 4 o 5 mila che consideravano una grande fortuna trovare ospizio nell'Hopital; ma da allora il numero è aumentato; ha spesso oltrepassato i 6 mila e oggi è di oltre 10 mila; ciò ha costretto ad aumentare gli edifici, per evitare gli estremi inconvenienti che capitano ai poveri quando sono troppo strettamente ammassati nelle loro camere e nei loro letti (pag. 5). "Editto reale per la fondazione dell'Hopital général per la reclusione dei poveri mendicanti della città e dei sobborghi di Parigi" dato in Parigi il mese di aprile 1657, ratificato in Parlamento il primo settembre successivo. Parigi, Stamperia reale, 1661. 108


Luigi, per grazia di Dio re di Francia e di Navarra, a tutti nel presente e nel futuro, salute. I re nostri predecessori nel corso dell'ultimo secolo hanno emesso numerose ordinanze di Polizia relative ai Poveri nella nostra buona città di Parigi e operato, sia col loro zelo sia con la loro autorità, per impedire la mendicità e l'ozio, sorgente di tutti i disordini. E per quanto i nostri sovrani organismi abbiano appoggiato con le loro cure l'esecuzione di quelle ordinanze, queste tuttavia si sono col tempo rivelate infruttuose e senza effetto, sia per la mancanza dei fondi necessari al sostegno di una così grande impresa, sia per l'allontanamento da una direzione ben stabilita e conforme alla qualità dell'opera. Dimodoché, durante gli ultimi tempi e sotto il regno del defunto re, nostro onoratissimo Signore e Padre, di felice memoria, essendosi il male ulteriormente accresciuto per la pubblica licenza e lo scardinamento dei costumi, si riconobbe che la principale manchevolezza nella esecuzione di questa azione di Polizia derivava dal fatto che i mendicanti avessero la libertà di muoversi dappertutto, e che i sollievi che venivano introdotti non impedivano la mendicità nascosta e non facevano per nulla cessare la loro oziosità. Su questa base fu ideato ed eseguito il lodevole progetto di rinchiuderli nella Maison de la Pitié e nei luoghi annessi, e lettere patenti furono accordate a questo fine nel 1612, registrate nella nostra corte del Parlamento di Parigi, in forza delle quali i Poveri furono rinchiusi; la direzione affidata a buoni e notabili Borghesi, che, succedutisi nel tempo, hanno dato ogni loro cura e buona attività per la riuscita di questo progetto. Ma, per quanti sforzi essi abbiano potuto compiere, il progetto non ha sortito effetti se non per cinque o sei anni, e per di più in modo molto imperfetto, sia per il mancato impiego dei Poveri nelle Opere pubbliche e nelle manifatture, sia perché i preposti non furono per nulla appoggiati dai Poteri e dall'autorità necessaria all'importanza dell'impresa, e sia perché il seguito delle disgrazie e dei disordini della guerra ha fatto aumentare il numero dei Poveri oltre la comune e ordinaria opinione, per cui il male è diventato maggiore del rimedio. Dimodoché il libertinaggio dei mendicanti è giunto all'eccesso a causa di uno sciagurato abbandono a tutti quei tipi di crimini che attirano la maledizione di Dio sugli Stati quando restano impuniti. Infatti l'esperienza ha fatto conoscere alle persone le quali si sono occupate di questa attività caritatevole che molti di costoro dell'uno e dell'altro sesso, e molti dei loro fanciulli, sono senza Battesimo, e che vivono quasi tutti nell'ignoranza della religione, nel disprezzo dei Sacramenti e nell'abitudine continua a ogni sorta di vizi. E per questo fatto, che noi siamo debitori alla misericordia divina di tante grazie, e di una visibile protezione che essa fece delle nostre armi e la fortuna delle nostre vittorie, noi crediamo di essere ancor più obbligati a testimoniare la nostra riconoscenza mediante una regale e cristiana applicazione alle cose che riguardano il suo onore e il suo servizio: consideriamo questi Poveri mendicanti come membri viventi di Gesù Cristo e non già come membri inutili dello Stato, agendo nel compimento di sì grande opera non per un motivo di Polizia, ma per sola ispirazione di Carità. 1) Vogliamo e ordiniamo che i Poveri mendicanti, validi e invalidi, di ambo i sessi, siano messi in un ospizio per essere impiegati nelle opere, manifatture e altri lavori, secondo le loro capacità, e nel modo che è ampiamente contenuto nel Regolamento firmato di nostra mano, allegato al Controsigillo di questo editto, e che noi vogliamo sia eseguito secondo la sua forma e la sua sostanza. 4) E per rinchiudere i Poveri che si troveranno nella condizione di essere rinchiusi, a norma di regolamento, noi abbiamo donato e doniamo con questi atti la Maison e Hopital, sia quello della Grande Pitié sia quello della Petite Pitié, sia quello del Refuge, situato nel sobborgo di SaintVictor, inoltre la Maison e Hopital de Scipion, e la Maison de la Savonnerie con tutti i luoghi, le piazze, i giardini, le case e gli edifici che insieme ne dipendono, le Maisons e padiglioni di Bicetre... 6) Intendiamo essere conservatore e protettore di questo Hopital général e dei luoghi che ne dipendono in quanto nostra fondazione reale; e intendiamo tuttavia che essi non dipendano in nulla dal nostro grande Elemosiniere né da alcuno dei nostri funzionari; ma che siano totalmente liberi dal controllo, ispezione e giurisdizione dei funzionari della Réformation générale, come pure della grande Elemosineria e di tutti gli altri, a cui noi proibiamo ogni esame e giurisdizione 109


in qualunque guisa e maniera possa essere. 9) Facciamo chiarissimo divieto e proibizione a tutte le persone di ogni sesso, luogo ed età, di qualunque origine e nascita, e in qualsiasi stato possano essere, validi o invalidi, malati o convalescenti, curabili o incurabili, di mendicare nella città e nei sobborghi di Parigi, sia nelle chiese sia alle loro porte, come pure alle porte delle case e per le strade, né in nessun altro luogo pubblicamente o in segreto, di giorno o di notte, senza alcuna eccezione di feste solenni, patronali, giubilei, né di riunioni, fiere o mercati, né per qualunque altra causa o pretesto, sotto pena della fustigazione per coloro che contravvengono la prima volta, e di condanna ai remi per i recidivi, uomini e ragazzi, e di bando per le donne e le fanciulle. 17) Facciamo divieto e proibizione a tutte le persone di qualunque posizione o qualità siano di dare l'elemosina di propria mano ai mendicanti per le strade e i luoghi sopra menzionati, quale che sia il motivo di compassione, stringente necessità o qualunque altro pretesto, sotto pena di quattro parisis [moneta dell'epoca] di ammenda da devolversi a profitto dell'Hopital. 23) Poiché noi prendiamo cura della salvezza dei Poveri che devono essere rinchiusi, così come della loro sussistenza e sostentamento, avendo da tempo riconosciuto la benedizione che Dio ha dato al lavoro dei preti missionari di Saint-Lazare, i grandi frutti da essi prodotti sino a ora per il soccorso dei Poveri, e in base alla speranza che noi nutriamo che questi frutti continueranno e aumenteranno nel futuro, vogliamo che essi abbiano le cure e l'istruzione dello spirito per l'assistenza e la consolazione dei Poveri dell'Hopital général, e dei luoghi che ne dipendono, e che essi abbiano Arcivescovo di Parigi. 53)Permettiamo e diamo potere ai preposti di fare e fabbricare, entro i limiti del detto H“pital e dei luoghi che ne dipendono, ogni specie di costruzioni e di venderle e ipotecarle a profitto dei Poveri dell'Hopital stesso. "Regolamento che il Re vuole sia osservato per l'Hopital général di Parigi" Diciannovesimo. - Per stimolare i Poveri rinchiusi a lavorare nelle manifatture con maggiore assiduità e solerzia, coloro che avranno raggiunto l'età di 16 anni, dell'uno e dell'altro sesso, avranno il terzo del profitto del loro lavoro, senza che nulla sia loro tolto. Ventiduesimo. Potranno i Preposti ordinare tutti i castighi e le pene, sia in pubblico sia in privato, nel detto Hopital général e nei luoghi che ne dipendono, contro i poveri, in caso di contravvenzione all'ordine che sarà loro dato o alle cose che saranno state loro affidate, anche in caso di disobbedienza, insolenza o altri comportamenti scandalosi, e potranno scacciarli con proibizione di mendicare. "Dichiarazione del Re, per l'istituzione di un Hopital général in tutte le città e borghi del Regno secondo le ordinanze dei re Carlo Nono ed Enrico Terzo." ...Il grande desiderio che abbiamo sempre avuto di sovvenire alle necessità dei mendicanti come i più abbandonati, di procurare la loro salvezza mediante l'istruzione cristiana, e di abolire la mendicità e l'ignavia insegnando ai loro figli i mestieri a loro adatti ci aveva fatto istituire l'Hopital général nella nostra buona città di Parigi... Tuttavia il soprannumero dei mendicanti giunti da diverse province del nostro Regno è salito a tal punto che per quanto i suddetti Preposti non possiedano se non la metà delle rendite necessarie al mantenimento ordinario da 4 a 5 mila poveri, essi in più debbono fornire il vitto in sei posti della città ad altri 3 mila poveri sposati. Oltre i quali si vede ancora un gran numero di mendicanti nella suddetta città... Ordiniamo, vogliamo e a noi piace che in tutte le città e borghi del nostro Regno dove non esista ancora un Hopital général, si proceda senza indugio alla istituzione di un Hopital e del suo Regolamento, per alloggiarvi, rinchiudere e nutrire i poveri mendicanti invalidi, nativi nel luogo o nati da genitori mendicanti. Tutti questi mendicanti saranno istruiti alla pietà e alla religione cristiana e ai mestieri di cui saranno capaci... Dato a Saint-Germain-en-Laye, il mese di giugno 1662. (tratto da Foucault Michel, Storia della follia) 110


T26 FOUCAULT MICHEL – Sorvegliare e punire: il supplizio di Damiens. Damiens era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a «fare confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi», dove doveva essere «condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla piazza di Grêve, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento» (1). «Alla fine venne squartato, - racconta la 'Gazzetta di Amsterdam'. - Quest'ultima operazione fu molto lunga, perché i cavalli di cui ci si serviva non erano abituati a tirare; di modo che al posto di quattro, bisognò metterne sei; e ciò non bastando ancora, si fu obbligati, per smembrare le cosce del disgraziato a tagliargli i nervi e a troncargli le giunture con la scure... Si assicura che, benché fosse stato sempre un grande bestemmiatore, non gli sfuggì alcuna bestemmia; solamente i dolori eccessivi gli facevano lanciare grida orribili, e spesso egli ripeté: 'Mio Dio. abbi pietà di me; Gesù soccorrimi. Gli spettatori furono tutti edificati dalla sollecitudine del curato di San Paolo che, malgrado la sua tarda età, non lasciava un momento di consolare il paziente». E il sottufficiale di cavalleria Bouton: «Venne acceso lo zolfo, ma il fuoco era così debole, che la pelle, del disopra delle mani solamente, non fu che assai poco danneggiata. Poi, un aiutante del boia, le maniche rimboccate fino al di sopra del gomito, prese delle tenaglie d'acciaio fatte apposta, di circa un piede e mezzo di lunghezza, lo tanagliò prima al grasso della gamba destra, poi alla coscia, poi alle due parti del grasso del braccio destro; in seguito alle mammelle. Questo aiutante, benché forte e robusto, fece molta fatica a strappare i pezzi di carne, che prendeva con le sue tenaglie due o tre volte nello stesso posto, torcendo, e quello che egli toglieva formava ogni volta una piaga della grandezza di uno scudo da sei lire. Dopo questi tanagliamenti, Damiens, che urlava forte senza tuttavia bestemmiare, alzava la testa e si guardava; lo stesso tanagliatore prese poi con un cucchiaio di ferro, dalla marmitta, un po' di quella droga bollentissima e la gettò a profusione su ciascuna piaga. Poi vennero annodate con delle corde sottili le corde destinate ad attaccare i cavalli, poi i cavalli furono attaccati ad ognuna delle membra, lungo le cosce, gambe e braccia. Il sieur Le Breton, cancelliere, si avvicinò diverse volte al paziente per chiedergli se avesse qualche cosa da dire. Disse di no; egli gridava come si dipingono i dannati, manco a dirlo, ad ogni tormento: «Perdono, mio Dio! Perdono Signore'. Malgrado tutte le sofferenze sopra dette, egli alzava di tanto in tanto la testa e si guardava coraggiosamente. Le corde, strette tanto forte dagli uomini che ne tiravano i capi, gli facevano soffrire mali inesprimibili. Il sieur si avvicinò di nuovo a lui e gli chiese se non volesse dire qualche cosa; disse di no. I confessori si avvicinarono più volte e gli parlarono a lungo; egli baciava di buon grado il crocifisso ch'essi gli presentavano; allungava le labbra e diceva sempre: 'Perdono, Signore'. I cavalli diedero uno strappo, tirando ciascuno una delle membra per diritto, ogni cavallo tenuto da un aiutante. Dopo un quarto d'ora, stessa cerimonia, e infine dopo numerosi tentativi si fu obbligati a far tirare i cavalli: ossia quelli del braccio destro verso la testa, quelli delle cosce girando indietro dalla parte delle braccia, il che gli ruppe le braccia alle giunture. Questi tiramenti furono ripetuti diverse volte senza riuscita. Egli alzava la testa e si guardava. Si fu obbligati a mettere altri due cavalli, davanti a quelli attaccati alle cosce, il che faceva sei cavalli. Nessuna riuscita. Alla fine il boia Samson andò a dire al sieur Le Breton, che non c'era mezzo né speranza di venirne a capo, e gli disse di chiedere ai Signori se volevano che lo facesse tagliare a pezzi. Il sieur Le Breton, tornato dalla città, diede ordine di fare nuovi sforzi, il che fu fatto; ma i cavalli scartarono e uno di quelli attaccati alle cosce cadde sul selciato. I confessori, ritornati, gli parlarono ancora. Egli diceva loro (l'ho sentito io): 'Baciatemi, Signori'. Il signor curato di San Paolo non avendo osato, il sieur di Marsilly passò sotto la corda del 111


braccio sinistro e andò a baciarlo sulla fronte. Gli aiutanti si riunirono fra loro e Damiens diceva loro di non bestemmiare, di fare il loro mestiere, che egli non ne voleva loro; li pregava di pregare Dio per lui e raccomandava al curato di San Paolo di pregare per lui alla prima messa. Dopo due o tre tentativi, il boia Samson e quello che lo aveva tanagliato tirarono ciascuno un coltello dalla tasca e tagliarono le cosce dal tronco del corpo; i quattro cavalli essendo al tiro, portarono via le due cosce, ossia: quella del lato destro per la prima, poi l'altra; in seguito si fece lo stesso alle braccia e alle spalle e ascelle e alle quattro parti; bisognò tagliare le carni fin quasi all'osso; i cavalli tirando a tutta forza staccarono il braccio destro per primo e poi l'altro. Staccate queste quattro parti, i confessori scesero per parlargli, ma l'aiutante del boia disse che era morto, ma la verità è che io vedevo l'uomo agitarsi e la mascella inferiore andare avanti e indietro come se parlasse. Uno degli aiutanti disse perfino poco dopo che, quando avevano preso il corpo per gettarlo sul rogo, era ancora vivo. Le quattro membra staccate dai cordami dei cavalli sono state gettate su un rogo preparato dentro la cinta in linea diritta coi patibolo, poi il tronco e il tutto sono stati ricoperti in seguito di ceppi e di fascine e il fuoco messo alla paglia mescolata a questo legno. ... In esecuzione del decreto, il tutto è stato ridotto in cenere. L'ultimo pezzo trovato nella brace non finì di essere consumato che alle dieci e mezzo e più della sera. I pezzi di carne e il tronco hanno messo circa quattro ore a bruciare. TESTI LETTERARI T27 TASSO TORQUATO – Lettere. Una testimonianza del turbamento psichico. A Girolamo Mercuriale. – Padova. Sono alcuni anni ch’io sono infermo, e l’infermità mia non è conosciuta da me: nondimeno io ho certa opinione di essere stato ammaliato. Ma qualunque sia stata la cagione del mio male, gli effetti sono questi: rodimento d’intestino, con un poco di flusso di sangue: tintinni ne gli orecchi e ne la testa, alcuna volta sì forti che mi pare di averci un di questi orioli da corsa: imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli; la qual mi perturba in modo, ch’io non posso applicar la mente a gli studi per sestodecimo d’ora; e quanto più mi sforzo di tenervela intenta, tanto più sono distratto da varie imaginazioni, e qualche volta da sdegni grandissimi, i quali si muovono in me secondo le varie fantasie che mi nascono. Oltra di ciò, sempre dopo il mangiare la testa mi fuma fuor di modo, e si riscalda grandemente; ed in tutto ciò ch’io odo, vo, per così dire, fingendo con la fantasia alcuna voce umana, di maniera che mi pare assai spesso che parlino le cose inanimate; e a notte sono perturbato da vari sogni; e talora sono stato rapito da l’imaginazione in modo, che mi pare d’aver udito (se pur non voglio dire d’aver udito certo) alcune cose, le quali io ho conferite co ‘l padre fra Marco cappuccino apportator de la presente, e con altri padri e laici con i quali ho parlato del mio male: il quale essendo non solo grande, ma spiacevole sovra ciasun altro, ha bisogno di possente rimedio. E benché niun miglior rimedio si possa aspettar di quel che ci viene da la grazia d’Iddio, il quale non abbandona mai chi fermamente crede in lui; nondimeno perché la sua divina misericordia ci concede che noi, i quali uomini siamo, possiamo ricercare ancora i rimedi umani, io ricorro a Vostra Signoria eccellentissima per consiglio e per aiuto: e la prego che non potendo mandare i medicamenti istessi, come io vorrei, mi scriva almeno il suo parere; del quale io feci sempre grandissima stima, ed ora più volentieri mi ci atterrei che quel di molti altri. Signor mio, quanto il bisogno è maggiore maggior l’infelicità, tanto sarà maggior l’obbligo ch’io le avrò, s’io ricuperarò la sanità per opera sua. E quantunque ora non solo per rispetto de l’infermità, a per gli altri tutti, io possa dire d’essere in pessimo stato; tuttavia, per grazia di Nostro Signore, m’è rimaso tanto del mio solito ingegno, ch’io non sono ancora inetto al comporre.

112


T28 VERRI PIETRO – Osservazioni sulla tortura. E’ lecita la tortura? XI. Se la tortura sia un mezzo lecito per iscoprire la verità Mi rimane finalmente da provare, che quand'anche la tortura fosse un mezzo per iscoprire la verità dei delitti, sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto. Credo assai facile il dimostrarlo. Comincerò col dire che le parole di “sospetti, indizi, semi-prove, semi-plene, quasi-prove ecc.”, e simili barbare distinzioni e sottigliezze, non possono giammai mutare la natura delle cose. Possono elleno bensì spargere delle tenebre ed offuscare le menti incaute; ma debbesi sempre ridurne la questione a questo punto, il delitto è certo, ovvero solamente probabile. Se è certo il delitto, i tormenti sono inutili, e la tortura è superfluamente data, quando anche fosse un mezzo per rintracciare la verità, giacché presso di noi un reo si condanna, benché negativo. La tortura dunque in questo caso sarebbe ingiusta, perché non è giusta cosa il fare un male, e un male gravissimo ad un uomo superfluamente. Se il delitto poi è solamente probabile, qualunque sia il vocabolo col quale i dottori distinguano il grado di probabilità difficile assai a misurarsi, egli è evidente che sarà possibile che il probabilmente reo in fatti sia innocente; allora è somma ingiustizia l'esporre un sicuro scempio e ad un crudelissimo tormento un uomo, che forse è innocente; e il porre un uomo innocente fra que' strazi e miserie tanto è più ingiusto quanto che fassi colla forza pubblica istessa confidata ai giudici per difendere l'innocente dagli oltraggi. La forza di quest'antichissimo ragionamento hanno cercato i partigiani della tortura di eluderla con varie cavillose distinzioni le quali tutte si riducono a un sofisma, poiché fra l'essere e il non essere non vi è punto di mezzo, e laddove il delitto cessa di essere certo, ivi precisamente comincia la possibilità della innocenza. Adunque l'uso della tortura è intrinsecamente ingiusto, e non potrebbe adoprarsi, quand'anche fosse egli un mezzo per rinvenire la verità. Che si è detto mai delle leggi della Inquisizione, le quali permettevano che il padre potesse servire di accusatore contro il figlio, il marito contro la moglie! L'umanità fremeva a tali oggetti, la natura riclamava i suoi sacri diritti; persone tanto vicine per i più augusti vincoli, distruggersi vicendevolmente! La legge civile abborrisce siffatti accusatori, e gli esclude. Mi sia ora lecito il chiedere se un uomo sia meno strettamente legato con se medesimo, di quello che lo è col padre e colla moglie. Se è cosa ingiusta che un fratello accusi criminalmente l'altro, a più forte ragione sarà cosa ingiusta e contraria alla voce della natura che un uomo diventi accusatore di se stesso, e le due persone dell'accusatore e dell'accusato si confondano. La natura ha inserito nel cuore di ciascuno la legge primitiva della difesa di sé medesimo: e l'offendere se stesso, e l'accusare se stesso criminalmente egli è un eroismo, se è fatto spontanearnente in alcuni casi, ovvero una tirannia ingiustissima se per forza di spasimi si voglia costringervi un uomo. L'evidenza di queste ragioni anche più si conoscerà riflettendo, che iniquissima e obbrobriosissima sarebbe la legge, che ordinasse agli avvocati criminali di tradire i loro clienti. Nessun tiranno, che io ne sappia, ne pubblicò mai una simile; una tal legge romperebbe con vera infamia tutti i più sacri vincoli di natura. Ciò posto chiederemo noi se l'avvocato sia più intimamente unito al cliente, di quello che lo è il cliente con se medesimo? Ora la tortura tende co' spasimi a ridurre l'uomo a tradirsi, a rinunziare alla difesa propria, ad offendere, a perdere se stesso. Questo solo basta per far sentire, senza altre riflessioni, che la tortura è intrinsecamente un mezzo ingiusto per cercare la verità, e che non sarebbe lecito usarlo quand'anche per lui si trovasse la verità.

113


T29 BECCARIA CESARE - Dei delitti e delle pene, capitolo XXVIII Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte nè utile nè necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità. La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte. Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione. Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perchè la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perchè spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza. La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti. La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più l’animo degli spettatori che non il 114


salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio più fatto per essi che per il reo. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di più: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma nè il fanatismo nè la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L’animo nostro resiste più alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante noia; perchè egli può per dir così condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perchè questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre; perchè il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice. Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perchè un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia. Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai più forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce più che non lo 115


corregge. Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le più utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel più secreto dei loro animi, parte che più d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo. Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a’ delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può più che la religione medesima. Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al più gran numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle. La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell’intimo de’ loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un monarca mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei Traiani. Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtù, delle scienze, delle arti, padri de’ loro popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi perché toglie quell’intermediario dispotismo più crudele, perchè men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli 116


errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità. LA NATURA DOMINATA TESTI STORIOGRAFICI T30 CORSI PIETRO – La storia delle scienze Nel Settecento le interpretazioni della cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo fanno della storia della scienza, intesa quasi esclusivamente come storia delle discipline fisicomatematiche, l’illustrazione più compiuta del progresso del pensiero umano. Per complesse ragioni di ordine sociale e culturale ben illustrate da una lunga tradizione di studi di storia della filosofia, della scienza e della cultura moderna, la stagione aperta dalle novietà celesti annunciate dal Galileo e culminata con la pubblicazione dei Principia di Newton viene vista come un momento di svotla per la storia occidentale, quando a dispetto delle persecuzioni e delle censure viegono poste le basi per un rinnovamento del sapere in generale e della filosofia in particolare. Ai risultati delle scienze fisico-matematiche, secondo questa interpretazione, spetta il titolo di verità universali e necessarie contro l’arbitrarietà delle concezioni metafisiche e teologiche tradizionali. Alla riflessione filosofica è assegnato il compito di enunciare i principi generali di ordine gnoseologico che hanno reso possibile il processo di accumulazione delle conoscenze, alla storia della scienza quello di illustrare le tappe più significative di questo processo. Un progetto organico di storia filosofica della scienza viene formulato per la prima volta nei circoli illuministici francesi intorno alla metà del XVIII secolo. Ispirandosi a Etienne Bonnot de Condillac e a John Locke, Anne-Robert-Jacques Turgot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert cercano di ricostruire la storia naturale dello sviluppo della mente umana, stabilendo a priori le tappe della “generazione metafisica di tutte le nostre conoscenze”: le tre tappe fondamentali della marcia dello spirito umano sono rispettivamente caratterizzate dal predominio della memoria, poi dell’immaginazione e infine della ragione. E’ duqneu grazie a un rigoroso controllo delle ipotesi, aun linguaggio ispirato agli insegnamenti di Condillac e alla sperimentazione, che la ragione umana mostra tutte le sue potenzialità di conoscenza e di dominio della natura. Lo sviluppo storico delle conoscenze non segue tuttavia l’ordine logico, in quanto l’attività umana subisce i condizionamenti dei bisogni momentanei e deve superare le resistenze delle superstizioni e della metafisica: ciò comporta la necessità del ricorso alla storia, per verificare i modi e i tempi con cui l’ordine logico si è esplicitato. L’attenzione dello storico-filosofo si concentra soprattutto sulle scienze fisico-atematich: la geometria, l’astronomia e la meccanica, nel loro svilupp storico, illustrano meglio di ogni altra impresa conoscitiva il progressivo maturare delle facoltà umane. In effetti sia Turgot sia d’Alembert sono convinti che solo queste scienze siano capaci di progressi illimitati. (tratto da A.a.v.v., L’età moderna e contemporanea)

TESTI LETTERARI T31 KEPLERO: “Il mondo come un orologio” Il mio scopo è di dichiarare che la macchina dell’universo non è costituita sul modello di un divino animale, ma sul modello di un orologio (colui che ritiene che l’orologio sia animato attribuisce all’opera l’onore proprio del costruttore) e in essa tutti i diversi movimenti si debbono a una semplice forza attrattiva materiale, allo stesso modo che tutti i movimenti dell’orologio sono dovuti a un semplice pendolo. […] Al termine “anima” sostituisci il termine “forza” […]. Un tempo, infatti, ho creduto anch’io che la causa motrice dei pianeti non potesse essere altro che un’anima, imbevuto com’ero delle dottrine di Giovanni Cesare Scaligero sulle intelligenze motrici. Ma constatai poi che ad una tale 117


causa motrice veniva meno la forza man mano che si allontanava dal Sole, da ciò fui tratto a concludere che questa forza era un qualcosa di corporeo, o almeno di analogo al corporeo. (tratto da A. Koirè, La rivoluzione astronomica, Feltrinelli, Milano 1966, pag. 243).

T32 GALILEO, “La natura, un libro scritto in lingua matematica” Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo ), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Ma posto pur anco, come al Sarsi pare, che l’intelletto nostro debba farsi mancipio dell’intelletto d’un altr’uomo (lascio stare ch’egli, facendo così tutti, e se stesso ancora, copiatori, loderà in sé quello che ha biasimato nel Signor Mario ), e che nelle contemplazioni de’moti celesti si debba aderire ad alcuno, io non veggo per qual ragione ei s’elegga Ticone, anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico, de’ quali due abbiamo i sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e condotti al fine; cosa ch’io non veggo che Ticone abbia fatta, se già al Sarsi non basta l’aver negati gli altri due e promessone un altro, se ben poi non esseguito. [Il Saggiatore] T33 BACONE, La nuova Atlantide Dice il Padre della Casa di Salomone a un rappresentante della nave europea capitata presso la sua isola, nella «Nuova Atlantide» di Francesco Bacone: «Abbiamo vasti e diversi frutteti e orti, nei quali non badiamo tanto alla bellezza, quanto alla varietà del terreno e del concime, adatto alle diverse piante ed erbe, e alcuni assai spaziosi, nei quali sono piantati alberi e bacche da cui ricaviamo varie specie di bevande, oltre che dalle vigne. In esse pratichiamo anche ogni genere di innesto e di inoculazione, tanto di alberi selvatici quanto di alberi da frutto, e questo dà molti risultati. E artificialmente facciamo in modo che, in questi stessi frutteti e orti, gli alberi e i fiori vengano prima o dopo rispetto alla loro stagione, e che crescano e diano frutto più speditamente di quanto non facciano secondo il loro processo naturale. Artificialmente li rendiamo anche più grandi di quanto non siano in natura, e i loro frutti più grossi e più gustosi, e di sapore, di odore, di colore e di forma diversi dalla loro natura. E molti d'essi li modifichiamo in modo tale che diventano di uso medicinale [...] Abbiamo anche mezzi per far crescere diverse piante mescolando terreni diversi senza semi, e parimente di produrre diverse piante nuove, differenti da quelle comuni, e di trasformare un albero o una pianta in un'altra. Abbiamo ancora parchi e recinti con ogni sorta di animali e di uccelli, dei quali non ci serviamo soltanto per mostra di rarità, ma anche per dissezioni ed esperimenti, e con ciò siamo in grado di trarre lumi su ciò che si può operare sul corpo dell'uomo. E in questo riscontriamo molti singolari fenomeni: per esempio la continuazione della vita in quegli animali, anche se diverse parti che voi considerate vitali sono morte e asportate; la risuscitazione di altri che in apparenza sembrano morti, e simili. Sperimentiamo anche su di essi ogni sorta di veleni e di farmaci, sia nella chirurgia sia nella medicina. Ancora li rendiamo artificialmente li rendiamo più grandi o più alti della loro specie, o per contro li rimpiccioliamo e arrestiamo la loro crescita; li rendiamo più fecondi e produttivi di quanto non lo sia la loro specie, e per contro sterili e improduttivi. Li facciamo anche mutare colore, forma e attività in molti modi. Abbiamo trovato il modo di fare incroci e accoppiamenti fra specie diverse, e queste hanno prodotto molte nuove specie non sterili come generalmente si pensa. Produciamo un gran numero di serpenti, di vermi di mosche, di pesci, per mezzo della putrefazione, delle quali poi alcune sono fatte progredire 118


sino a essere creature perfette, come animali e uccelli, e hanno sesso e si moltiplicano E non facciamo questo a caso, ma sappiamo in precedenza da quale materia e composizione usciranno questa o quella specie di creature. Abbiamo anche piscine speciali nelle quali facciamo esperimenti sui pesci, come abbiamo detto prima per gli animali e per gli uccelli.[…]Abbiamo ancora fabbriche di macchine, nelle quali vengono costruite macchine e strumenti adatti a qualsiasi genere di movimento. Ivi conduciamo esperienze per imitare movimenti più veloci di quanto non possiate fare voi sia con i vostri moschetti sia con qualsiasi altra macchina che possederete; e ottenerli e moltiplicarli più facilmente e con poca energia, con ingranaggi e altri mezzi, e renderli più forti e più violenti di quanto non siano i vostri, superando i vostri più grandi cannoni e basilischi. Fabbrichiamo anche materiale bellico e strumenti di guerra e macchine d'ogni sorta; e anche nuove miscele e combinazioni di polvere da sparo, fuoco greco che arde nell'acqua ed è inestinguibile, e ancora fuochi d'artificio di ogni varietà, sia per divertimento, sia per utilità. Imitiamo ancora il volo degli uccelli, e abbiamo qualche possibilità di volare nell'aria. Abbiamo navi e imbarcazioni per andare sott'acqua e per sfruttare i mari, e ancora cinture e sostegni per nuotare. Abbiamo diversi orologi singolari, e altri simili meccanismi di reazione, e anche moti perpetui. Riproduciamo anche i movimenti delle creature vive con modelli di uomini, animali, uccelli, pesci e serpenti; abbiamo ancora un grande numero di altri vari movimenti, singolari per regolarità, precisione e minuzia». (in: Bacone, «Saggi, ecc.», traduzione a cura di Claudio Ascari, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1966, pp. 518-19, 523)

119


BIBLIOGRAFIA A.a.v.v. L’età moderna e contemporanea, a cura di Umberto Eco, Gruppo editoriale L’Espresso 2012 A.a.v.v. Atlante de La Repubblica. I giorni di Moro, Gruppo editoriale L’Espresso 2008 Alighieri Dante, De Monarchia Alighieri Dante, Divina Commedia, commento di Sermonti Vittorio, Bruno Mondadori, Milano 2008 Aristotele, Politica, Libro I, 1253a, 3-4 Bachtin Michail, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979 Bacone Francesco, La nuova Atlantide Balboni Paolo, Fare educazione linguistica. Attività didattiche per italiano L1 e L2, Utet, Novara 2008 Barilli, Fenoglio, Piazza Fontana, Becco giallo, Padova 2009 Beccaria, Dei delitti e delle pene Bevilacqua Piero, Lo sviluppo e i suoi limiti, in A.a.v.v., Storia contemporanea, Donzelli, 2009 Bianchi, Crivellari, Nessun tempo è mai passato, Armando editore, Roma 2003 Bloch Marc, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 2012 Boccaccio, Decameron, Grande biblioteca della letteratura italiana Thèsis, Zanichelli, edizione e-book Caravale Mario, La nascita dello Stato moderno, in Aa.vv., Storia Moderna, Donzelli editore, Roma 2010 Castiglione Baldassar, Il libro del Cortegiano Castoldi Mario, Progettare per competenze. Percorsi e strumenti, Carocci editore, Roma 2012 Castoldi Mario, Valutare le competenze. Percorsi e strumenti, Carocci editore, Roma 2012 Cattabiani Alfredo, Lunario, Arnoldo Mondadori, Milano 2002 Cisotto Lerida, Psicopedagogia e didattica. Processi di insegnamento e di apprendimento, Carocci editore, Roma, 2011 Flores Marcello, Il secolo-mondo. Storia del Novecento, Il Mulino, Bologna 2002. Foucalt Michel, Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, Einaudi, Torino 1969 Foucault Michel, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2010 Foucault Michel, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2011 Foucault Michel, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977 Foucault Michel, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005 Foucault Michel, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano Foucault Michel, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, Foucault Michel, Storia della follia nell’età classica, BUR Rizzoli Frabboni Franco, Manuale di didattica generale, Laterza, Bari 2007 Franzini Maurizio, L’età dell’oro dell’economia, in A.a.v.v., Storia contemporanea, Donzelli, Roma 2009 Galilei Galileo, Saggiatore Galimberti Umberto, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2007 Galimberti Umberto, Psiche e Techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2007 Ginsborg Paul, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino 2006 Kantorowicz Ernst, I due corpi del re, Einaudi editore, Torino 1989 Lanaro Silvio, L’idea di contemporaneo, in A.a.v.v., Storia contemporanea, Donzelli, Roma 2009 Le Goff Jacques, Il corpo nel medioevo, Laterza editore, Bari Ligorio Beatrice, Come si insegna, come si apprende, Carocci editore, Roma 2005 Luperini Romano, Insegnare la letteratura oggi, Piero Manni editore, Lecce 2000 Luperini, Cataldi, La scrittura e l’interpretazione, Palumbo editore, Milano 2002 Lupo Salvatore, Modernità e progresso, in A.a.v.v., Storia contemporanea, Donzelli editore 2009 Machiavelli Niccolò, Il principe, Letteratura italiana Einaudi, Torino 1995 Mammarella Giuseppe, L’Italia contemporanea 1943-2011, Il Mulino, Bologna 2012

120


Marsilio da Padova, Defensor pacis, a cura di G. Garofalo, Minerva italica, Bergamo 1976. Moro Tommaso, L’utopia, Laterza editore, Bari 2000 Petrarca Francesco, Canzoniere Piccinni Gabriella, Il Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2004 Pirenne Henri, La città del Medioevo, Laterza Sabbatucci, Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Laterza, Bari 2009 Salvemini Biagio, Potere e gerarchie sociali, in A.a.v.v., Storia moderna, Donzelli editore, Roma 2010 Sant’Agostino, De civitate dei, Libro II, § 21, tr. it. La città di Dio, Rusconi, Milano 1984 Segre, Martignoni, Leggere il mondo, Bruno Mondadori, 2010 Verri Pietro, Osservazioni sulla tortura Zavoli Sergio, La notte della repubblica, Mondadori, 2008

121


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.