Erodoto108 n°8

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ERODOTO108 8 • AUTUNNO 2014

ELOGIO DEL CIBO


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SOMMARIO 4

EDITORIALE Andrea Semplici

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IL RACCONTO ORSO PRENDE ME di Matthew Licht Illustrazioni di Francesco Chiacchio

IL CIBO 16

...E SE VI DICESSIMO CHE I ‘PIATTI TIPICI’ NON ESISTONO? Testo di Marco Aime

ELOGIO DEL CIBO 20 23 In copertina Gli ebrei sono certi che i chicchi, rossi e dolci, di ogni melograno siano 613 come i precetti dalla Torah. Le mani di Smajo non lo sanno. Contadino di Podgorani, paese alle porte di Mostar, capoluogo dell’Erzegovina. Il vecchio aspetta l’autunno per raccogliere i melograni e ottenerne il succo più dolce del mondo. Foto di Mario Boccia

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ITALIA Firenze l’attimo fuggente del lampredotto di Matthew Licht Palermo Bisogna sporcarsi le mani con il pani ca’meusa di Francesco Faraci Friuli Brovada, la quarta nostalgia del Friuli di Cesare Sartori EUROPA Europa Il merluzzo, il pesce che ha cambiato il mondo di Ermanno Laurenti Catalogna L’eleganza dei cipollotti di Luigi Cojazzi Bosnia Erzegovina, metti il formaggio nel sacco di Francesco Alberi AFRICHE Etiopia Elogio dell’njera di Lorenzo Fontana Burkina Faso Tò, polenta d’Africa di Isabella Mancini Sudafrica Food sharing nel bush di Laura Mezzanotte AMERICHE LATINE Brasile Polenta da un capo all’altro delle americhe di Paolo Brovelli Argentina L’asado e la sovranità nazionale di Lucio Yudicello Messico I chiles en nogada, la certezza della vita di Enrique Lòpez Aguilar MEDIORIENTE Medioriente La pazienza del felafel di Isabella Mancini Palestina Make hummus not war di Serena Montemagni Iran Un giardino nel piatto di Felicetta Ferraro ASIA Indonesia Trites, Il buon sapore della merda di vacca di Giancarlo Cittolin Cina Yan mei, tutta la memoria in un frutto di Luisa Zhang Uzbekistan Arrosto di strada a Taškent di Giorgio Federighi Elogio della birra Sembra di bere la luna di Francesca Cappelli


8 AUTUNNO 2014 Elogio del vino E Noè piantò una vigna di Antonio Salti 58 STORIE DI LIBRI E Babette cucino... testo di Valentina Cabiale BOSNIA I LAMPONI CHE CAMBIERANNO IL MONDO testo di Rocco Romeo foto di Mario Boccia GRECIA. CIBO DI SOCCORSO testo e foto di Anna Daverio UNA FOTO UNA STORIA Felicità è un hummus di Andrea Semplici STORIE DI TEATRO La soddisfazione della carota (e dei tortellini) testo di Tommaso Chimenti VOLTERRA, CARCERE. CENE GALEOTTE testo di Isabella Mncini, foto di Massimo D’Amato I CUOCHI ALTRI. FILOMENA, CUCINA CON QUEL CHE ARRIVA testo e foto di Andrea Semplici

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S T O R I E I TA L I A N E FERRARA È UNA MATRIOSKA testo di Sandro Abruzzese STORIE DI RITRATTI LA DOLCE RESISTENZA DI CARLO FRUTTERO foto ritratto di Alberto Conti, testo di Valentina Cabiale REPORTAGE SOTTO I CIELI DELLA LUCANIA testo e foto di Franco Zuccaro STORIE DI CIMITERI L’isola dei morti testo di Lucia Zambelli

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RACCONTO PER IMMAGINI “CUCITO ADDOSSO” VERGINI GIURATE ALBANESI 106 testo e foto di Paola Favoino

ACQUE D’AFRICA

Oroscopo. Cibo del mese Letizia Sgalambro 138 www.erodoto108.com

Fondatore: Marco Turini • Direttore responsabile: Andrea Semplici • Redazione: Giovanni Breschi, Valentina Cabiale, Massimo D’Amato, Francesca Cappelli, Alessandro Lanzetta, Sergio Leone, Sara Lozzi, Isabella Mancini, Yuri Materassi, Andrea Semplici, Letizia Sgalambro, Marco Turini • Web designer: Allegra Adani • Progetto grafico:Giovanni Breschi /Casalta ERODOTO108 registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009

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‘NO, GRAZIE, AFFOGO DA SOLA testo e foto di Carla Reschia 118 LA REGINA DEL LAGO testo di Fabio Bertino e Roberta 122 Malchiorre, foto di Bruno Zanzottera IL NILO È UN REBUS PER BIANCHI 130 testo di Anna Costanzo, foto di Aldo Pavan


EDITORIALE LE VERGINI GIURATE. IL CIBO. E LA FATICA DI ERODOTO Un dono. Un regalo prezioso. Paola Favoino è una fotografa lucano-calabrese. Un pomeriggio di primavera era a fotografare una festa arborea ad Alessandria del Carretto. Paese di montagna. Estremo nord della Calabria. Pollino orientale. Dà lì si guarda all’Jonio. E ci si smarrisce fra feste straordinarie e una solitudine invernale. Come non accorgersi di Paola? fotografava in pellicola. E ogni suo scatto, si vedeva, cercava un racconto, una storia, una perfezione testarda e forse impossibile. Alla fine, una conversazione. Breve. E lei che racconta di altre montagne. Paola, da quattro anni, va nel Nord dell’Albania, altra sponda dell’Adriatico. E’ affascinata da una storia che ha ascoltato quasi senza crederci, la storia delle Vergini Giurate, la storia delle donne che, per sfuggire alle leggi tradizionali di quelle terre, hanno deciso di non essere donne. E si sono cucite addosso una identità da uomini. Sono diventate uomini. E hanno vissuto tutta la loro vita come uomini. Paola, ora, ci ha donato foto bellissime che narrano di queste donne. E il suo racconto per immagini dà qualità e dignità a un numero di Erodoto che ci è costato fatica. Forse troppa fatica. Contate i collaboratori di questo numero, sono alcune decine (siamo così stanchi che non abbiamo nemmeno voglia di fare questo conteggio) e tenerli tutti assieme è stato uno sforzo eccessivo. Abbiamo cercato di fare il giro del mondo attraverso il cibo. Non siamo certi di esserci riusciti. Abbiamo viaggiato dall’Argentina all’Uzbekistan. Dall’Indonesia alla Catalogna. Abbiamo chiesto a giornalisti, fotografi, amici, artisti di darci una mano. Di raccontarci i cibi-sim-

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Foto di Mirella Caldarone

bolo dei paesi che conoscono, dove vivono, dove passano il loro tempo. Strane cose: chi si è occupato di Brasile ha scelto la pamonha e non la feijoada. Chi ci ha scritto da Barcellona ha deciso che preferiva cipollotti alla brace, i colçots, alla paella. A un certo punto pensavamo di mettere qualcosa su Parigi e avevamo in mente la baguette. Ci hanno risposto che questo pane non è il simbolo della capitale francese: e la controproposta è stato il pastis. Non siamo riusciti a trovare spazio a un bicchiere di questa delizia. Alla fine, abbiamo lasciato libertà assoluta ai nostri


collaboratori: qualcuno ci ha mandato una semplice ricetta, altri hanno fatto duemila battute di sociologia, altri ancora un racconto. Spesso troppo lungo. Perdonateci: sul blog pubblicheremo la versione integrale. Alcuni pezzetti sono buoni, altri meno. Ma il cibo ha scatenato, come è giusto che sia, passioni e amori. E allora ne siamo contenti. Abbiamo fatto una rivista ‘democratica’. E per niente snob. I cibi scelti hanno la bellezza della bontà e della strada. A Firenze ci siamo

Foto di Antonio Sansone.

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fermati davanti ai baracchetti dei trippai (siamo stati sfrontati: abbiamo affidato a un inglese il compito di assaggiare il nostro lampredotto), a Palermo ci siamo sporcati le mani con il pane con la milza, ‘u pani câ meusa, in Palestina e in Israele siamo andati per botteghe di falafel e di hummus. In Indonesia abbiamo avuto il coraggio di assaggiare il bolo digerito delle vacche. Poi ci siamo concessi eleganze popolari: i chiles en nogada nel miglior ristorante di Puebla o l’asado fra i gauchos delle Ande argentine (e che desiderio di camminare, alla domenica, con il giovane poeta Evaristo Carriego per le strade di Buenos Aires inseguendo i profumi delle grigliate). E poi il filo rosso del grano, del granoturco, dei cereali e delle loro farine. Questa è una storia di polenta e polentine: dal Burkina Faso al Sudafrica, dal Veneto al Brasile e al Messico. Fino alla enjera etiopica. Il mondo sembra essere una farinata, una focaccia, una polenta. Pensate: gli afrikaners boeri hanno portato in fondo all’Africa le loro salsicce e hanno scoperto che stavano a meraviglia con le polentine dei popoli neri. Se avessero mangiato assieme invece che farsi guerre feroci! E se israeliani e palestinesi si sedessero assieme di fronte a un piatto di hummus forse potrebbe trovare una tavola comune attorno alla quale convivere. Il cibo può affratellare. Almeno vorremmo che così fosse.

Insomma, sì, è stato un bel viaggio. Ne siamo usciti affamati e ingolositi. Ma pronti a leggere e ascoltare Marco Aime, uno dei più acuti antropologi italiani, che ci spiega come il cibo ‘tipico’ non esista. Tutto il nostro mangiare è figlio di meticciato fecondo. In fondo ha ragione Erri De Luca quando avverte con il suo sorriso di malinconia: ‘Sono successi buoni incontri a forza di andare oltre mare. La patata d’America ha trovato l’olio delle olive e il pomodoro è finito sul grano’. Già, il pomodoro a quale tradizione appartiene? A nessun paese, ma a quella degli uo-


mini e delle donne della Terra. Come i ceci, il mais, il riso, il merluzzo….. pensate al baccalà, cibo mediterraneo e figlio di un pesce dei mari freddi. E il merluzzo, come la patata, ha davvero salvato generazioni e generazioni. Nel nostro viaggio siamo stati accompagnati (e salvati) da una straordinaria pattuglia di disegnatori: Giuseppe Palumbo, celebre fumettista materano, ha riunito amici, allievi, colleghi (Pino Creanza, Roberto Ditaranto, Giovanni Forleo, Danilo Barbarinaldi, Angelo Palumbo) e ha chiesto loro di illustrare le parole che raccontavano il cibo. Gabriele Genini ha interrotto, per un giorno, la sua esplorazione dei fari dell’isola d’Elba, per viaggiare per noi in Messico e donarci la raffigurazione del più intrigante piatto di quel paese, i chiles en nogada. Mario Boccia, fotografo romano, ci ha accompagnato dalle donne della cooperativa Insieme di Brutanac, nella Bosnia ferita a morte dalla guerra di venti anni fa. Il cibo, qui, è diventato una speranza, un futuro, un cammino assieme. La cooperativa Insieme produce marmellate e succhi di piccoli frutti che oggi si trovano anche nelle Coop del Nord Italia. I lamponi stanno provando a cambiare il mondo in un angolo dei Balcani. In Grecia, Anna Daverio, ci racconta delle devastazioni delle politiche di austerità. Mangiare è un soccorso, in un paese a un passo da noi e dove noi italiani passiamo le vacanze. E il cibo innesca solidarietà primarie. Riunisce, anche nella disperazione, attorno a una resistenza. E, in una valle dell’Emilia, diventa teatro grazie alle tagliatelle e i tortelli delle Ariette. Ce ne racconta Tommaso Chimenti con addosso ancora il sapore di una splendida cena comunitaria. A Volterra, Isabella Mancini e Massimo D’Amato varcano i portoni del carcere-fortezza per andare a mangiare cibi cucinati dai prigionieri. Oltre le pagine sul cibo, altri giornalisti e fotografi ci hanno donato il loro lavoro. Bellissimo il ritratto di Carlo Fruttero del fotografo fiorentino Alberto Conti. Irreale il racconto di Metthew Licht. Sandro Abruzzese ci fa conoscere un’altra Ferrara proprio nei giorni in cui la città diventa il palcoscenico del festival di Internazionale (applausi a scena aperta alla più bella rivista italiana). Francesco Zuccaro vola per noi (che invidia) nei cieli della Lucania e ci mostra, con nostalgia, le geometrie della tua terra. Infine, le acque africane. Dalle sorgenti del Nilo alle apprensioni di chi attraversa il fiume Gambia e all’avventura di chi si imbarca sul più vecchio traghetto al mondo, il Liemba, nave regina del lago Tanganika.

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Ora capite perché questo numero è stato fatica pura. Qui, in queste prime pagine, vedete due foto di una tavola: l’ordine, quasi giapponese, di chi si sta preparando a impastare farine e il disordine rosso di chi sta facendo la salsa di pomodoro. Foto scattate in Puglia e in Lucania. Sud d’Italia. Foto lontane da ogni stereotipo. Come ci piace mischiare questi mondi e questi metodi: la meticolosità di una grande cucina e il sapere/sapore di chi ha raccolto i pomodori e lavora tutta la notte per donarci un salsa di eccezionale bontà. Non sappiamo cosa vogliamo dire, né sappiamo cosa abbiamo fatto con questo numero. Ci sediamo a due tavole, ci beiamo dei cibi e la fatica, per un attimo, solo per un attimo, scompare. Buona lettura. E, soprattutto, buon appetito. Andrea Semplici


ORSO PRENDE ME Un mondo senza orsi sarebbe noioso Un esperto di radar. Una base militare segreta. Un viaggio notturno fra le foreste delle Yukon. E, all’improvviso, nello specchietto retrovisore, appare…. Racconto di Matthew Licht

Si chiese perché Strategic Air Command non lo mandava mai alle Hawaii. Era ovvio: i missili erano mirati nella direzione opposta. Quindi guidava verso una località non ufficialmente segnalata dalle parti di Barrow, cioè nell’estremo nord del congelatore degli Stati Uniti, alle tre del pomeriggio, secondo il suo orologio interno. L’orologio montato sul cruscotto e l’annunciatore alla radio concordavano, ma l’oscurità grigia-antracite smentiva. Veniva notte. Anzi, la notte era già arrivata, ed era oscenamente fredda. Il voluminoso parka grigioverde che aveva trovato nitidamente piegato accanto al suo posto sull’aereo ora stava in disordine sul sedile posteriore. La pelliccia di coyote attorno al cappuccio veniva smossa dalle correnti del riscaldamento. Questo minimo movimento gli tirò l’occhio allo specchio retrovisore. Senza voltarsi, cercò di spingere ancora più giù il cappottone. Non voleva una presenza spettrale e vagamente a forma d’uomo dietro di sé. Alzò il volume della radio. La lontana civilizzazione trasmetteva deboli segnali musicali. ‘Dovresti cercare di vedere le qualità grandiose e maestose di questo paesaggio uggioso,’ pensò. ‘Considera che ti trovi in cima al mondo. Forse ti riporteranno a fare un volo su un aereo di spionaggio, mentre fingono di registrare precise planimetrie delle montagne del Brooks Range.’ Gli ufficiali delle basi militari nei posti più sperduti avevano un discreto senso dell’umorismo in riguardo allo sperpero dei soldi dei contribuenti in escursioni senza senso, addirittura ridicole, ma che suonavano importanti e utili sui rapporti ufficiali, nel caso che tali rapporti venissero richiesti e/o messi sotto scrutinio, ma non capitava quasi mai. I militari schernivano i contribuenti, benché fossero tenuti anche loro a dichiarare i redditi. Gli spazi grigi sbiancati dai fari erano punteggiati da alberi solenni, dritti, neri. Garson voleva vedere la foresta dalla punta di vista di un dio. La parte migliore dei lavori per la SAC erano voli a velocità inverosimili in velivoli spaziali iper-segreti pagati dai contribuenti, che non avevano nemmeno il diritto di vederli. Una foresta sulla terra era come la pelliccia di un vasto animale. Non mancavano alberi, in Alaska, ma il complesso militare-industriale si sarebbe sicuramente occupato di tale sregolata abbondanza. Sotto tutta quell’immonda neve

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arson Thayer non amava guidare di notte, ma visto che il suo orologio interno—un costoso oggetto svizzero—trasmetteva segnali che ufficialmente non era ancora notte, proseguì. Era diretto a fare un lavoro per lo Strategic Air Command. Ci lavorava abbastanza spesso, e non riusciva a capire perché pagavano cifre stratosferiche per consultazioni ma rifiutavano di fornire autisti. L’esercito degli Stati Uniti disponeva di una infinita servitù in divisa, provvista di valide patenti di guida militari. Avrebbe potuto impiegare meglio il costoso tempo di viaggio studiando diagrammi di macchinari e dispositivi topsecret.

IL RACCONTO

Illustrazioni di Francesco Chiacchio


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giacevano oceani di petrolio grezzo. La radio ammutolì. Inutile manipolare i tasti; non c’era più segnale. Era assurdo: la gestione della base aerea cammuffava veicoli da mezzi civili per permettere a consulenti non-militari di autotrasportarsi, ma non installavano ricetrasmettitori militari. Circa 200 desolate miglia lo separavano dal vuoto siderale di Barrow, che forse era un porto per baleniere eschimesi, oppure un parco giochi per orsi polari, o una colonia estiva per i pinguini. Garson non c’era mai stato, e probabilmente non avrebbe occasione di visitarla. S’immaginò un bordello eschimese, dentro un iglù. Nel casinò attiguo, giocatori imparkettati rischiavano fiches a forma di fiocchi di neve mentre ragazze Inuit in bikini di pelliccia di foca servivano cocktail ghiacciati. Un gruppo rock eschimese suonava vecchie canzoni dei Rolling Stones, Cream, Jimi Hendrix. Fantasticherie da cerchio artico fiorivano, mentre bosco e cielo scomparivano nel buio. L’indiscutibile bellezza dell’Alaska comprendeva l’immenso silenzio generato dal freddo. Garson rallentò. Forse la macchina poteva sostenere 100 miglia all’ora, ma era meglio non rischiare un guasto al motore in mezzo al nulla congelato. Forse i limiti della velocità seguono gli stessi princìpi fisici degli orologi interni. Qualcosa si mosse di nuovo nello specchietto retrovisore. Garson pensò che il parka si fosse riempito d’aria calda per sorgere come una mongolfiera. Allungò il braccio dietro di sé per rischiacciarlo, ma non sentì nulla. Il parka era cascato sul fondo della macchina. Ricontrollò lo specchietto e vide una forma scura in movimento. Non si trattava di un’altra macchina. Le macchine moventi mantengono la loro forma. Le ruote girano, la carrozzeria si alza e si abbassa in conformità con la strada. Gli organismi animali subiscono metamorfosi secondo una legge dinamica: o ti muovi, o muori. Lo specchietto divenne un affascinante schermo cinematografico. Che cos’è, questo ombroso bolide dietro di me? Garson rallentò ancora, anziché girarsi per vedere meglio. I suoi occhi scattarono avanti e ai lati, per controllare la strada. Nuvolette di vapore scaturivano da un muso leggermente meno scuro del pelo che lo circondava. Una bocca spalancata per inghiottire aria e lanciare vapore, con zanne gialle indecentemente grosse. Un orso che galloppava come un cavallo. Senza pensare, per nessuna ragione, Garson Thayer palpeggiò il cruscotto e spense il riscaldamento, che emetteva un lieve ronzio. Non voleva distrazioni. Voleva sentire il tamburellare delle zampe dell’orso sull’asfalto, e l’ansimare dell’animale che correva con sorprendente grazia, velocità e potenza lungo la striscia nera che svaniva tra le linee verticali della foresta. Un orso in movimento è praticamente tondo, una rotolante palla di sventramento. L’istinto diceva: accelera, cazzo. Toglici da qui. Gli orsi mica scherzano, e siamo sul loro territorio. Invece Garson mise minima pressione sull’acceleratore. Voleva vedere l’orso ingrandirsi nello specchietto retrovisore, cangiato in schermo tivù. Voleva vedere che faccia aveva. Piccoli micidiali buchi neri sopra un baratro di coltelli gialli. C’era un paesino sperduto dell’Alaska di nome Yellow Knife, o forse in Canada. Forse nei paraggi di Yellow Knife qualche automobilista veniva braccato da un altro orso. Qui nello Yukon sono storie di tutti i giorni, straniero. Gli occhi dell’orso raccontavano di tempi duri, di fame, e di qualcos’altro, più scuro e profondo. Garson guardò l’indicatore luminoso del carburante. Lancette rassicuranti indicavano che il serbatoio era a tre quarti,


e che mancavano circa 180 miglia alla base aerea: neanche un micro-quadretto sullo schermo radar dell’Alaska. Un ghiacciaio grande quanto un continente, coperto da foreste congelate, con sotto infinito petrolio grezzo, s’illuminava fosforescente su strumenti di precisione simili a oscilloscopi in un teatro di guerra sotto alla tundra. Veramente non c’era alcun pericolo. ‘E poi cosa farebbe questo stupido orso, anche se riuscisse a prendermi?’ pensò Garson. ‘Fa scoccare un artiglio come un coltello a scatto per usarlo come apriscatole su acciaio di Detroit?’ Rallentò a quaranta miglia all’ora. Voleva calcolare quale velocità poteva sostenere un orso grizzly adulto intento a macellare e cenare. Era quasi sicuro che l’orso fosse maschio. D’inverno le femmine allattano i cuccioli, gli raccontano fiabe orsine della buonanotte. Vedeva in testa film documentari, al rallentatore. Mammiferi colossali, quasi preistorici, prendevano a schiaffoni salmoni intenti a salire le cascate, schiavizzati da imperativi biologici di suicidio. Un orso saltò addosso a un alce dagli occhi terrorizzati. Un orso immischiato in una lotta di vita o di morte con un puma indignato. Garson riguardò nello


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specchietto retrovisore. Evidentemente tutto ciò che credeva di sapere sugli orsi erano balle hollywoodiane. Non era logico che un orso inseguisse un’automobile per cibarsi. Secondo l’indicatore, l’orso viaggiava a 38 miglia all’ora costanti. Per quanto ne sapeva Garson, nemmeno i cavalli del Kentucky Derby galloppavano così veloci. La sua curiosità di ingegnere ebbe la meglio. Per quanto tempo sarebbe riuscito l’orso a mantenere questo passo pazzesco? Quanto poteva pesare? Il suo modo di correre era più adeguato alle grandi praterie che all’asfalto. Quegli artigli afferravano la terra come le scarpette chiodate degli sprinter. Se alci, salmoni e stambecchi imparassero a guidare, i loro numeri aumenterebbero, e gli orsi morirebbero di fame. Un mondo senza orsi sarebbe noioso, pensò. Niente conigliette Playboy allungate nude, rosee e sculettanti su pelliccie d’orsi ringhianti silenzio. Niente guardie inglesi snob dai ridicoli colbacchi torreggianti. Vide lo sciamano di una tribù indiana del nordovest che danzava alla prua di una piroga da guerra grande quanto una portaerei. Era travestito da orso, con occhioni pagliacciosi e assurdi artigli di legno. Garson poteva praticamente sentire il coro ruggente della Danza dell’orso. Il veicolo per consulenti non-militari non disponeva di strumenti per misurare la temperatura esterna. C’era un freddo becco, comunque. L’abitacolo della macchina non era proprio una cella frigorifera, ma questo si poteva rimediare. Seguendo sempre l’impulso, tenendo lo sterzo con le ginocchia, raccattò da dietro il goffo parka verde. Sull’enorme C-5A c’era un parka accanto a ogni posto, ma niente hostess carine e chiacchierine a distribuire bottigliette di alcol. Pochi passeggeri, dall’aria stravolta, che studiavano documenti multicolori, oppure dormivano; sotto, sfilava un oceano bianco. Fattorie innevate cedevano il posto a una vasta prateria bianca, inadatta all’agricoltura, poi una catena di spigolose montagne. Quasi danzando, riuscì a infilare il brutto cappotto. Abbassò i finestrini. I peli nel naso gli si ghiacciarono all’istante. Un freddo oleoso e nero invase l’abitacolo. Guardò lo specchietto; vide un covone verdognolo con un sopracciglio di pelliccia grigia, gli altri tratti oscurati. Frugò nelle tasche del parka: niente guanti di pelliccia di foca, niente occhiali da ghiacciaio. Dopo poco, Garson non sentiva più le dita né i piedi. Gli stivaletti da moto erano belli e non scivolavano su pavimenti unti, ma non erano per nulla termici. Rialzare i finestrini equivaleva barare. L’orso, correndo, si scaldava. Sangue bollente di orso gli scorreva a tutta birra nelle vene e arterie. Sangue alla ricerca del carburante sanguinolento necessa-


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rio per la battaglia della vita, sangue frutto della morte. Finestrini spalancati e un piede ghiacciato sull’acceleratore sembrava leale, mentre fermare il veicolo, scendere e darsela a gambe sarebbe stato ingiusto nei propri confronti. Diamo all’orso una possibilità, pensò. Sperava solo che il motore non si surriscaldasse, o che scoppiasse una ruota. Ehm, mi scusi, Sig. Orso, ma le spiacerebbe aspettare mentre cambio pneumatico? Mi darebbe una grinfia a togliere questi bulloni irrigiditi dal freddo? Poi potremmo continuare l’inseguimento a piè pari. Forare sarebbe un bel guaio. Sicuramente alzerei i finestrini, allora. Forse riaccenderei il riscaldamento. Sono a posto finché dura la benzina. Ma perché lo strafottuto governo degli Stati Uniti non mette nemmeno un walkie-talkie nelle loro stupide bagnarole per consulenti non-militari? E perché i parka di ordinanza non hanno in tasca almeno una .45 automatica? Garson Thayer aveva manualità sufficiente per trasformare la radiolina della macchina in un basilare strumento di communicazione, anche con gli occhi bendati e una mano legata dietro la schiena. Ma questi trucchetti da ingegnere riuscirebbero difficili con le mani ghiacciate, e senza un ferro per saldare. L’accendino del cruscotto mancava. Qualcuno l’aveva intascato come souvenir; forse sfoggiava insegne reggimentali, o strafighe aquile urlanti. “Aiuto,” disse, come se ci fosse qualcuno a sentirlo. “Aiuto. Un orso mi sta dando la caccia.” Sembrava una barzelletta. Gli sembrava di ricordarne una, particolarmente sconcia...un orso che incula il cacciatore incompetente che gli ha sparato via l’orecchio sinistro. La faccia dell’orso era ridotta a uno scintillìo di vitrei occhi neri, piccole biglie malevole che riflettevano il lucore lunatico della luna. Non era fisicamente possibile che un orso corra così veloce, così a lungo. Non un orso umano. Cioè, non un regolare super-predatore mammifero appartenente al pianeta Terra. ‘Forse ho le visioni.’ Anche gli apparecchi radar della base aerea sembravano avere le traveggole. Strane forme luminose si avvicinavano troppo ai silos dei missili, ma poi risultavano invisibili a occhio o coi binocoli di ordinanza. I misteriosi blip palesemente non stavano dove gli strumenti radar di stragrande precisione pagati dai contribuenti li rilevavano. È risaputo che i fornitori di materiale bellico spesso consegnano prodotti iper-segreti di bassissima qualità, a prezzi ultra-inflazionari. Ciò giustifica un budget separato per consulenti non-militari liberi da conflitti d’interesse. Niente radar, nella macchina.


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Niente blip su niente radar poteva essere la prova che l’orso era inesistente e che lui, Garson Thayer, era impazzito e/o accecato dalla neve. Rallenta ancora un po’ e scoprirai quant’è vero questo grizzly. Gli orsi tendono a sgranocchiare per prima le facce delle loro vittime. Sentì l’ansimare/ringhiare quasi subsonico dell’orso. Accelerò per mantenere la distanza. Controllò lo specchietto. ‘Per me, è reale abbastanza.’ I cani abbaiono, i lupi ululano, gli elefanti barriscono, i leoni ruggiscono. Forse anche gli orsi ruggiscono. Cercò di ricordare se avesse mai sentito registrazioni di orsi, come quelle di balene, di uccelli. Gli orsi emettevano suoni simili a quelli dei maiali. Cercò di fargli il verso. Diventò, nel parka peloso, uno scarso imitatore d’orsi. Non resistette alla tentazione di guardarsi nello specchietto. Alzò la mano destra dallo sterzo per aggiustarlo e tenere d’occhio l’orso che gli correva instancabilmente dietro. “Wwwoooorg!” ruggì. “Rawwww!” Non percepì alcun segno di riconoscimento nel volto omicida, peloso e imperscrutabile là fuori, e nemmeno in quello meno peloso riflesso nello specchietto. Garson era una schiappa a incorporare lo spirito degli orsi. Non era la reincarnazione dello sciamano Haida che danzava eternamente nel filmato informativo al Museo di Storia Naturale. Forse il problema era lo specchietto. Non si stava confrontando col mostro nel modo giusto. Riusciva a guardare solo la riflessione dell’orrore. Era un vigliacco, e stava mostrando di avere paura. Gravissimo errore, nel regno animale. Ci volle una prodezza d’equilibrio per tenere pigiato l’acceleratore mentre sterzava con la natica sinistra. Garson si sporse dal finestrino più che poteva, urlò incantesimi orsini, agitò le braccia. L’orso colse l’invito. Mise a nudo le zanne e barrì come un tirannosauro. Le onde sonore fecero quasi precipitare Garson. L’orso disse, non fare il furbo. Quando ti acchiappo, ti dilanierò e poi ti mangerò. Ti strapperò mani e piedi, dopo averti divorato quella faccia di cazzo. Così non ti dissangui troppo in fretta. Ti voglio vivo quando ti sbudello per mangiarti il fegato saturo di vitamine. Garson fu scosso. Aveva letto nel pensiero dell’orso in preda a raptus omicida. L’animale più forte voleva cibo per mantenersi forte. L’animale più debole era più debole, ed era lì. ‘Devo solo mollare questo stupido gioco,’ pensò. ‘Scordarmi le idiote regole che mi sono inventato, accelerare questo bestione V8 alle 65 miglia all’ora consentite dalla legge. Cosa ci guadagno ad assecondare carnivori assetati di sangue?’ Vide in testa una macchina che scompariva nel buio verso nord, la sentì sgommare, ruggire. Il predatore sconfitto mugugna, rallenta, si accoscia per leccarsi i piedi sanguinanti e, per consolarsi, i genitali. L’orso onirico abbandona l’asfalto poco adatto alle sue zampe, barcolla verso il bosco e dematerializza, da bravo fantomatico spirito animale. Gli orsi in carne e ossa, rassegnati alla perdita di una cruenta cena ricca di proteine e vitamina A, si nutrono di mirtilli rinsecchiti, leccati dalle piante congelate sotto la crosta di neve. ‘Oppure,’ pensò Garson, ‘accelero di brutto, faccio inversione e carico l’orso. Vediamo se gli piace, essere rincorso.’ Fece rapidi calcoli mentali da ingegnere per capire come si sarebbe svolta la vicenda del rovescio. Diverse tonnellate di acciaio temprato, a 65 miglia all’ora, schiantano contro una tonnellata scarsa di carne ed ossa avvolta in pelliccia a 38 all’ora equivale a essere umano morto o comunque gravemente ferito quando la cassa toracica urta contro la colonna dello sterzo, ingenti danni al veicolo di proprietà del governo degli Stati Uniti, e forse un orso morto, se il mostro è veramente mortale.


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Gli orsi mangiano le carogne. Questo orso leccherebbe sangue, materia cerebrale e midollo osseo dal rottame. Invertire la marcia non era una buona idea. ‘L’orso ha raggiunto la sua velocità terminale,’ pensò Garson. ‘Sembra incapace di andare più forte. Io invece posso, e quando voglio. Il rischio di finire il carburante, fondere il motore o forare è minimo. La strada è mantenuta bene. È stata costruita apposta per condurre alla base aerea iper-segreta, quindi non posso perdermi. Devo solo stare sulla strada.’ Stai sulla strada. Non perdere la testa per via di allucinazioni causate dalla percezione di un pericolo. Non sbandare, non schiantare contro alberi e macigni lasciati dai ghiacciai in ritirata. Ansimando, sbuffando vapore, l’orso si avvicina per investigare lo spaventoso incidente. Gemiti d’agonia gorgheggiano dall’abitacolo in frantumi. Denti rotti, una bocca straboccante sangue. Altro sangue cola da una profonda ferita al cuoio capelluto, riempie le orbite degli occhi per tingere di rosso una scena del martirio simile al rosone di una cattedrale gotica. ‘Vai. Mantieni questo passo. Magari accelera un pochettino.’ Accese gli abbaglianti. Gli sembrò di percepire un bagliore marrone nel cielo avanti. Si chiese se avessero costruito la base aerea in una radura esistente, o se avessero sradicato una foresta plurisecolare per costruirla. Agenti chimici defoglianti, napalm, ruspe atomiche...il governo degli Stati Uniti sapeva essere invadente in modo disumano anche in ambienti estremi. La macchina fu trafitta e riempita da una luce intensa. Abbacinato, Garson lottò contro l’istinto di sterzare, evadere. La luce cancellò la sua visione della strada, dello specchietto retrovisore e della pelosa macchina di morte che lo inseguiva. Buio e sicurezza stavano a dritta e a manca, anche se in quelle direzioni non c’era strada. Niente strada vuol dire che ti arrangi, anche a una velocità moderata. La luce soffuse l’ingombrante parka, facendolo sudare freddo. Illuminò una marea di gente: sembravano bagnati dalla luce. Era la luce che significa che stai per morire. Le leggende erano la verità. Tra gli angeli di luce c’era Rebecca Raven, una ragazza che gli piaceva al liceo. La leucemia l’aveva portata via giovane, scuorantemente bella e forse ancora vergine. Tanti altri bellissimi volti scintillanti che non riconosceva, gente nella luce, come lui. Erano felici, ed erano morti. Guardavano il sole, anche se tutti sanno che non bisogna guardarlo direttamente. Allora non è vero che non bisogna guardarlo. Le regole non valgono, bisogna ricordarlo. Ricordati di dimenticare tutte le regole. La regola del sole è: non esistono altre regole. La regola sono io, e anche la via che porta alla luce. Il sole accecante aveva una voce assordante. “Attenzione! Alt! Fermare il veicolo! Farsi riconoscere immediatamente!” “Veicolo,” disse Garson, o magari pensò di dirlo. “Non posso fermare il veicolo. Se fermo il veicolo, l’orso mi prende, mi spolpa e mi divora.” “Ripeto!” disse forte la voce della luce. “Ferma il veicolo! Devi farti riconoscere! Se non ti fermi immediatamente, apriremo il fuoco. Lampeggia i fari se per un guasto meccanico non puoi fermare il veicolo. Spareremo alle gomme.” La voce aveva molto da dire. Se solo la smettesse di latrare in modo così metallico. È più facile obbedire a ordini comunicati dolcemente. Il sole parlava col silenzio, radiava il suo messaggio di amore universale. Rebecca Raven sembrava così graziosa e non-morta, nel paradiso solare. Il parabrezza esplose in una ragnatela a forma di galassia, ma senza rumore. Lo sparo risuonò un attimo dopo. Frantumò i timpani, la notte, la luce. “Oh cazzo!” Garson si rese conto della situazione. Una base aerea militare del governo, missili, bombardieri strategici, maniaci dalle teste rapate, armati di mitra, annoiati a morte e vogliosi di sparare contro qualcosa nella loro soli-


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taria ibernazione forzata. Inchiodò per fermare il veicolo, obbedendo agli ordini. Stridando, il veicolo svirgolò a pesce sulla strada artica. Eventualmente, obbedì alla voce anche lui e si fermò. Ma...l’orso. In preda al panico, Garson cercò di rialzare i finestrini da ambo i lati, mulinando spasticamente le braccia. “Prego lascia i finestrini abbassati, signore. E tieni le mani dove le possiamo vedere.” Vide l’orso che gli staccava a morsi le mani. Vide spruzzare fiotti di sangue. Intrappolato nel veicolo, poteva solo schiaffeggiargli il muso coi monconi schizzanti. Paura e orrore gli rubarono la voce. Mormorò per favore non mangiarmi mentre moriva. Le guardie militari videro un parka tremolante che mugugnava, “...No mangiarmi. No mangiare...” Tennero i mitra puntati verso la bizzarra sagoma. “Per caso hai bevuto, signore?” L’alcol avrebbe conferito una logica alla strana scena. La vastità silenziosa e vacua dell’Alaska incuteva voglia di bere, in certe anime indisciplinate. Garson Thayer voleva bere infatti, e tanto. Acqua, del tipo liquido. Fu invaso dalla sensazione di averla scampata bella, anche se uomini in divisa gli puntavano addosso fucili automatici micidiali quanto un grizzly, ma che perlomeno conferivano una morte rapida. “Orso orribile dato caccia,” disse. “Ma la parte strana è che gli ho lasciato fare. Volevo sapere di cos’era capace, capite? Vedere se avrebbe mollato. Ma non mollava mai.” “È vero che in questo settore sono stati avvistati degli orsi, signore. Sono come i coyotes negli Stati più a sud. O come cani che danno la caccia alle automobili ma se le acchiappano, non sanno che farsene. Non è sempre così?” Ma non abbassò il mitra. L’altra guardia disse, “Dobbiamo controllarti documenti e ordini, per favore, signore. Trova e consegnaceli, ma piano.” Garson tornò nel mondo, perlomeno nella sua rarefatta dimensione militare, ed eseguì. “Non ho bevuto, tra l’altro. L’orso c’era.” La guardia abbassò il mitra e gli prese la busta gialla e la tessera di consulente non-militare. Garson si era lasciato crescere parecchio i capelli da quando era stata scattata la foto. Forse sarebbe stato un problema. Non ci aveva pensato, prima. “Prego abbassa il cappuccio...signore. Con calma, ecco.” Garson si lasciò riconoscere. Una delle guardie rientrò nella cabina del picchetto e spuntò il suo nome e numero di codice da una lista sulla tavolozza d’alluminio, nella luce verdognola della base aerea. L’altra guardia abbassò il mitra, si raddrizzò e salutò in modo non proprio rispettoso. “Bisogna stare attenti da queste parti, signore. Non si è mai più distanti di, ehm...200 miglia da un orso, in Alaska.” Alzo le mani come zampe piene di artigli, mostrò i denti e ruggì. “Ma siamo qui apposta, signore. Facendo del mondo un posto più sicuro per la democrazia.” Garson resistette all’impulso di mandarlo affanculo e lo salutò militarmente. Il mondo era un posto dove tutti hanno un lavoro da fare. La guardia stava solo facendo il suo lavoro. Il lavoro di Garson comprendeva revisionare apparecchi radar iper-segreti che indicavano oggetti che si muovevano attraverso lo spazio aereo proibito e che ovviamente non esistevano. Mentre era diretto al lavoro, un orso gli aveva dato la caccia. Guardie militari armate gli avevano sparato al parabrezza. Così ora doveva mettere la testa fuori dal finestrino per guidare la macchina non sua verso il dormitorio per il personale non-militare della base, indicato da frecce gialle e nere catarifrangenti. Guardò nello specchietto al lato e vide il grosso cancello metallico che si chiudeva. Racconto di Matthew Licht © 2011 matthewlicht87@gmail.com Matthew Licht, 53 anni, incontrò una volta un orso nel Michigan, che non lo degnò di uno sguardo. offesissimo, molti anni dopo ha scritto questo racconto. Scrive in inglese e italiano. In inglese, ha già pubblicato The Moose Show, Salt Pubs., Justine, Joe & the Zen Garbageman, Salt Pubs entrambi candidati al premio Frank o’Connor; Westways, JrP ringier; The Niglu, Stanza 251, con foto di Carlo Fei; di prossima pubblicazione il romanzo The Withering Fire, Spider & Fish. In italiano ha già pubblicato Sognilandia, otto Luogo dell’arte; Blues x adulti e Blue Jazz, Blue Joint; e Lo Niglu, Stanza 251; di prossima pubblicazione: il racconto Occhio cuore satana, Stanza 251, con foto di Baldomero Fernandez.

francesco chiacchio, 34 anni vive e lavora a Firenze. Il suo lavoro spazia dal disegno al collage. Ha illustrato libri, dischi e disegnato brevi storie a fumetti. dal 2010 al 2012 ha illustrato le pagine culturali de La repubblica di Firenze. Nel 2009 ha realizzato le immagini per il progetto multimediale X (Suite for Malcolm), composta dal sassofonista Francesco Bearzatti per il suo tinissima Quartet, presentato in europa e negli Stati Uniti.


‘Giungevano a mano a mano vassoi trionfanti emananti un odore di aromi e di alloro; gli intestini fritti e arrotolati come tanti rocchetti, tra il tenerume del cuore e del fegato, costole con la crostina sopra per la gioia dello stridore sotto i denti, fette di carne fra frittoline di lardo e fronde di lauro….’ Corrado Alvaro “Il paese”

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Testo di Marco Aime

...E SE VI DICESSIMO CHE I ‘PIATTI TIPICI’ NON

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Il cibo è sempre stato un grande viaggiatore Solo nel ‘700, i contadini europei hanno piantato la patata. E il riso in Senegal è arrivato con i colonialisti francesi. Le migrazioni della pizza, degli spaghetti e della polenta. L’invenzione della tradizione. E capita che i ricchi oggi mangino, a caro prezzo, il cibo dei poveri. Come è buono il couscous con i tortellini….

e negli ultimi decenni le retoriche politico-mediatiche sono stare infarcite di discorsi sull’identità, intesa come identità locale per non dire tribale, anche il discorso sul cibo e sulla cucina si è arricchito sempre di più di immagini e narrazioni sul ‘piatto tipico’, ‘tradizionale’, ‘autentico’. In realtà, quei piatti o quei cibi molto spesso non sono autoctoni. Autoctona è l’abitudine di consumarli.

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Il piatto tipico dei senegalesi, quello più consumato è il thiéboudiene, una ricetta a base di riso e pesce. Di riso in Senegal non ce n’è mai stato e la ragione della sua diffusione nel paese va cercata in epoca coloniale, quando i francesi, trasformarono il Senegal in un’enorme piantagione di arachidi. Già negli anni Trenta oltre metà delle terre senegalesi coltivabili erano destinate alla coltivazione dell’arachide a scapito dei prodotti di sussistenza come il miglio e il sorgo. I francesi compensarono tale carenza, inviando in Senegal eccedenze di riso provenienti dai loro possedimenti in Indocina. Così il riso indocinese divenne il cibo nazionale del Senegal, anche perché veniva importato a prezzi stracciati e un chilo di arachidi da sgusciare valeva più di un chilo di riso. Così i contadini abbandonarono via via le coltivazioni tradizionali in favore dell’arachide e iniziarono a mangiare riso. Questo esempio è solo uno dei molti legati a un cibo


straniero, pensato come proprio. I commerci, le scoperte, le esplorazioni hanno sempre portato cose nuove sulle tavole della gente. Il cibo è sempre stato un grande viaggiatore. Pensiamo a come si è modificato il nostro panorama alimentare dopo l’arrivo di Colombo nelle Americhe. Alimenti ormai di routine come la patata o il pomodoro erano sconosciuti in Europa. La patata, peraltro, suscitò grande diffidenza tra i contadini europei e sebbene fosse già presente da oltre due secoli, solo verso la fine del Settecento ci si decise a provare a piantarla.

ESISTONO?

Polentoni è uno degli appellativi scherzosi e anche un po’ denigratori con cui vengono definiti gli abitanti del norditalia. Un piatto che diventa un marchio identitario, eppure prima di Colombo il mais non esisteva in quelle vallate alpine, dove la polenta viene oggi considerata il più autentico dei piatti, tanto da far pensare che sia sempre esistita. La polenta è «tradizionale» non perché autoctona o perché storicamente legata a un territorio; lo è perché viene pensata così. La tradizione è spesso il prodotto di una proiezione del presente sul passato, piuttosto che

dISegNo dI

gIovANNI ForLeo


il prodotto di una continuità storica profonda. Pensiamo ai due piatti «tipici» che ci identificano nel mondo e con cui ci identifichiamo noi stessi: la pizza e gli spaghetti. La prima è l’evoluzione di un alimento originario del mondo arabo, i secondi sono arrivati sulle nostre tavole dalla Cina ed entrambi si accompagnano al pomodoro proveniente dalle Americhe. La riscoperta dei piatti della “tradizione” ha trasformato il momento perlopiù conviviale del pranzo, in un’esperienza storico-sociologica. Mangiare, anzi gustare, un piatto tipico non è solo un fatto di nutrimento, né di piacere gustativo, diventa un momento di condivisione della storia e della tradizione di un territorio, di una comunità. Su un piano simbolico si manifesta una certa nostalgia del mondo passato, pensato come immune dalle contaminazioni della modernità, un mondo contadino più vicino alla natura, legato alle sue tradizioni che rimanda a una dimensione di purezza, oggi perduta. Il tutto si rifà all’origine, al punto zero di un cibo o di una ricetta e attorno a questo si costruisce una storia. Ci si trova di fronte a meccanismi di costruzione di un’immagine, in cui il richiamo evocativo alla tradizione supera spesso la realtà storica. Niente di più “tradizionale” della fontina eppure nel XVII-XVIII secolo il termine utilizzato in Valle d’Aosta era gruyère, termine ancora oggi usato da anziano, che rivela come la tecnica di produzione casearia di quel formaggio fosse stata importata dalla Svizzera. Ancora alla metà dell’Ottocento il termine fontina appare poco e spesso affiancato a quello di gruyère (gruyère du pays dit fontine), ma soprattutto non si fa cenno alcuno al legame con un territorio o con un’identità. Sarà con l’avvento del mercato che la fontina, messa in concorrenza con altri formaggi, assumerà via via una connotazione locale, grazie ad accese battaglie legali e politiche e a pretese ricostruzioni storiche tese alla ricerca dell’origine locale del prodotto. L’idea di tipicità rimanda prevalentemente due aspetti del prodotto in questione: il territorio e la tradizione, ma come si è visto, in molti casi, si assiste a una costruzione, se non a una vera invenzione delle tradizioni, finalizzata a identifidISegNo care il prodotto con una storoBerto dItArANto


ria e con una comunità. Ciò che caratterizza questa costruzione è però una sorta di ossimoro, in quanto la località di un prodotto si realizza proprio in un contesto di processi globali e globalizzanti. Il prodotto tipico ha un’immagine ambigua e sfuggente, perché da un lato è impregnato dell’identità di chi lo produce, ma allo stesso tempo è destinato a essere venduto. Grazie a questo suo essere bifronte, riesce a stabilire una sorta di legame speciale tra produttore e prodotto, ma anche, su un piano simbolico, a legare il consumatore a essi. In questo modo si trasforma il consumo alimentare da soddisfazione di necessità o da pratica «ludica» in esperienza culturale che prevede un viaggio nella tradizione e nel sapere di una comunità.

Marco aiMe, 58 anni, torinese. Ha condotto ricerche nelle Alpi e in Africa occidentale e insegna antropologia culturale presso l'Università di genova

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A volte la ricerca del cibo tradizionale porta ad altri paradossi. Infatti, alcuni cibi considerati poveri, grazie alla loro riabilitazione in chiave di tipicità e di tradizionalità, vengono venduti a prezzi elevati. Accade così che le classi più agiate mangino cibi un tempo poveri, pagandoli oggi a caro prezzo. Il cibo è un’ottima metafora della cultura, che come il cibo è il prodotto di una lunghissima serie di scambi, mescolamenti e rielaborazioni, nonostante c’è chi si affanna a ricercarne i confini netti e la “purezza”. A tale proposito vorrei riportare un aneddoto narratomi da don Piero Gallo, parroco di San Salvario, quartiere di Torino segnato da una forte presenza di immigrati. In una scuola materna del quartiere, frequentata da molti bambini maghrebini, le maestre hanno deciso un giorno di preparare il couscous. Hanno cercato la ricetta ‘originale’ per cucinarlo secondo la tradizione. I bambini erano contenti. Poi una maestra ha chiesto a un piccolo marocchino: «Ti piace?» «Sì». «È come quello che fa tua mamma?» «Quello di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…» Negli anni Venti, Robert Lowie, celebre antropologo americano, sosteneva che la cultura era un’insieme di «toppe e stracci»: oggi quel bambino di San Salvario ha forse disegnato con le sue parole un’altra bellissima metafora della cultura.


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Il lampredotto fiorentino e la polenta e salsicce dei sudafricani. Un frutto antico in Cina e l’asado degli argentini. Cipollotti alla brace a Barcellona e il panino alla milza a Palermo. Farsi stordire con l’hummus ad Haifa e con il falafel a Nablus. Viaggio attraverso il mondo alla ricerca dei cibi che provano a rendere più felice la vita degli uomini e delle donne.

ITALIA/FIRENZE L’attimo fuggente del lampredotto La parola giusta è ‘vaporose viscere’. E si mangiano solo a Firenze. Per strada, in mattine grige di inverno. Macchiandosi la camicia e sporcandosi le mani. Bisogna stare scomodi e in silenzio. Bevendo vino aspro. E questo panino vi farà stare bene al mondo. Testo di Matthew Licht Foto di Giovanni Breschi

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on esiste cibo più fiorentino di un panino col lampredotto. Bisogna stare scomodi per gustarlo a modo. Non ci va un vino pregiato, né una tovaglia di lino. Meglio consumare il panino all’aperto, in un generale grigiore piovigginoso. Meglio se c’è casino attorno, pigia pigia, se prendi qualche gomitata alle costole mentre chiedi i condimenti desiderati al trippaio. Ti devi macchiare i vestiti. Un bel pataccone arancione, felice ricordo di un pranzo oltremodo appagante. Chi mangerebbe un panino col lampredotto a cena? Nessuno. I trippai chiudono presto e si devono alzare presto. Mario, il Trippaio di Porta Romana, è considerato Il Migliore da intenditori ultra-fe-


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Mario mentre sta preparando il panino con il lampredotto

deli. Ha cominciato a lavorare ai macelli comunali a tredici anni. E’ di origini emiliane,ma fiorentino d’adozione. Sua madre, cuoca, lo iniziò ai segreti culinari. Poi Mario si comprò una Apecar e l’attrezzò a tripperia. I suoi segreti? ‘Zero’, sorride. Non congela mai nulla, Mario. Il brodo lo fa fresco. Tutte le mattine ricomincia da zero.

Mentre lavora, mentre sminuzza il lampredotto, è concentrato, taciturno, quasi burbero. Sua moglie lavora a fianco. Lui si occupa esclusivamente del classico panino, e dei bolliti. Niccolò Vivarelli, scrittore fiorentino, cresciuto nella stessa casa dove abitava Mario, in suo libro giallo descrive un panino mangiato sulle panchine verdi del Bobolino: i due protagonisti se ne stanno in silenzio ‘presi ad addentare il pane croccante bagnato nel brodo pepato di quelle vaporose viscere’. Vaporosa è la parola giusta. E ci azzecca pure il silenzio. Prova a parlare, mentre il panino ti si fredda nelle mani. Come un buon taco, un buon pezzo di sushi, il panino col lampredotto peggiora ogni secondo che passa. Il delizioso attimo è fuggente. Aggiungerei una nota personale. Mettiamo che una sera abbia bevuto un po’ troppo, e la mattina dopo non mi senta in grandissima forma. Che faccio? Monto in bicicletta e filo dritto dal trippaio. “Poco sale, pepe, salsa verde, piccante, e bagnato, per favore.” “Un vino?” “Massì.” Il vino sfuso che mesce Mario non sarà pregiato, ma è rassicurante, familiare, ciò che viene denominato il vino del contadino. L’attesa è una strana libidine. Ancora dolente e sbigottito, inalando profumi e guardando all’opera un maestro, so che tra poco starò meglio.


ITALIA/PALERMO Bisogna sporcarsi le mani con il pani ca’meusa Testo e foto di Francesco Faraci

E’

un dato di fatto. Il pane con la milza, regina del cibo di strada palermitano, fatto in casa non avrà mai lo stesso sapore di quando lo si mangia seduti sulla scalinata di una chiesa. Il perché è secolare oggetto d’improbabili dispute nei bar e nelle taverne di mezza città. Amicizie d’infanzia si sono disgregate in suo onore. Chi detiene il segreto ascolta con attenzione tutte le ipotesi, ridendosela sotto un baffo eventuale. Lei,

però, non si è mai scomposta. Lì, sul trono, attende i sudditi prontissimi a prostrarsi ai suoi piedi. Come ogni regina, o la si odia o la si ama. Sempre e comunque in maniera smodata. Non c’è giorno o notte che tenga, né stagione. E’ sempre molto difficile resistere alla tentazione dei “Pani ca’ meusa” accompagnati da una birra ghiacciata. Cuoce, a fiamma alta, in un grande calderone di rame, ricoperto dallo strutto, grasso di maiale, che prende il nome di sugna. Coccolata dalle sapienti mani del meusaro, padrone indiscusso del suo banco, spesso ereditato dal padre o dal nonno, indossa un grembiule bianco sulla pancia prominente, perennemente macchiato. Con un cucchiaio tira su la milza ben cotta, la scola e l’accomoda nella pagnotta precedentemente inzuppata nel grasso di cui sopra. Arriva quindi la fatidica domanda: ‘Schitta o Maritata?’. Certo, potrebbe sembrare che


ITALIA/FRIULI Brovada, la quarta nostalgia del Friuli

una donna avvenente stia sondando il terreno per un eventuale approccio, così non è. Il pane con la milza ‘maritato’ è condito con formaggio abbondante o con ricotta, quello schietto invece servito appena con una spruzzata di limone. Legge impone che per mangiarlo bisogna sporcarsi le mani pena le occhiate storte degli esperti e sempre presenti mangiatori di milza. Se fai di tutto per evitare le macchie non sei palermitano, spesso non si è nemmeno un essere umano. D’altronde, per il

Testo di Cesare Sartori

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palermitano DOC, mangiarlo, non fa la differenza sul senso di sazietà. E’ una merenda, una colazione, un dopo cena. Quasi sconosciute le origini, qualcuno le fa risalire al tempo degli Ebrei in Sicilia, agli Arabi, altri invece dicono che non importa, chiunque abbia inventato cotanta meraviglia è indiscutibilmente un genio. Un santo, quasi. E’ un cibo che non conosce differenze di ceto sociale, razza o credo religioso. Come tutto lo street-food, in Sicilia e non solo, forse potrebbe addirittura salvare il mondo se è vero che in tavola e davanti al cibo non esistono discussioni o differenze e ogni problema magicamente si scopre risolvibile.Approfittate dei modici prezzi di una di queste pagnottelle, scendete in strada, mischiatevi e, se potete, lasciatevi trasportare dall’inconfondibile profumo del pane con la milza. Rimandate la dieta di un giorno, ne vale la pena.

friulani della diaspora hanno tante nostalgie. La marilènghe, la lingua-madre, prima di tutto: non poterla ascoltare e parlare è un persistente rammarico di sottofondo. Mancano, poi, i luoghi dell’infanzia. In certi momenti, la nostalgia è così acuta che partiresti subito per il Friuli. Al terzo posto i vini e al quarto i cibi e tra questi ultimi c’è un piatto invernale che si prepara e si mangia soltanto in Friuli: la brovade o broàde (brovada). Presente nel più antico ricettario italiano – il De re coquinaria di Marco Gavio Apicio (25 a.C. circa-37 d. C.) – e, fra il 1372 e il 1463, nei registri di spesa di alcuni conventi friulani, la brovada, dopo di allora, non viene più menzionata in nessun altro testo di cucina. Il termine brovada deriva dalla parola longobarda breowan, cioè bollire. Solo in Friuli ha mantenuto il suo significato originale. Ingrediente di base sono le rape bianche dal collo violaceo (râs). Dopo averle ripulite, levando radici e foglie, vanno messe in un tino di legno a strati alternati con vinacce da uve rosse (trape) precedentemente esposte all’aria e che abbiano quindi iniziato la fermentazione acetosa. A distanza di qualche giorno va versata a poco a poco dell’acqua per accentuare la fermentazione fino a quando rape e vinacce rimangono sommerse. A questo


punto si chiude il tino con un coperchio di legno. Dopo uno o due mesi (più restano nel tino e più diventano acide), le rape hanno assunto un colore rosa carico e sono pronte all’uso. Si riducono, quindi, in filamenti con un’apposita grattugia di legno con lame metalliche (grati).

Così preparate le rape si cuociono in tegame (di terracotta o di ghisa) con un pesto (pestât) di lardo, cipolla, aglio (poco), prezzemolo, salvia, due foglie di alloro e sale.

La brovada deve cuocere lentamente e a lungo (4-5 ore) finché non assume un colore tra il marrone e il nero. durante la lunga cottura va tenuta morbida versandovi a più riprese brodo di carne di maiale (ma, in mancanza, anche soltanto acqua). Per gustarla al meglio, va scaldata e ri-

scaldata più volte e messa nel piatto solo dopo il secondo o terzo giorno dalla prima cottura. La brovada non va mangiata da sola: il suo ‘compagno’ per eccellenza è il musét (cotechino), insaccato fatto macinando insieme la carne del muso e la cotica del lardo di maiale più sale e pepe. Ma attenzione! c’è musét e musét. L’unico che passa l’esame in Friuli è il musét cal tache (il cotechino che ‘attacca’, che si appiccica al palato).

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dISegNo dI dANILo BArBArINALdI


ELO GIO DEL EURCIBO OPA

Il merluzzo, il pesce che ha cambiato ‘Pesce Veloce del Baltico’ il menù, che contorno ha? il mondo dice ’Torta di mais’ e poi servono

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hissà se Giuseppe, friggitore italiano a Londra dal 1962, lo sa. Lui, assicura, che per dare un sapore speciale al fish and chips bisogna usare solo grasso di manzo. Il cibo nazionale inglese, fritto da un italiano nel cuore della City, ha un’origine ebraica: furono i sefarditi, in fuga dalla Spagna e del Portogallo, a portare, nel XVI secolo, in questa isola l’arte di friggere il pescado. Fu una conquista lenta di una terra diffidente: solo nel 1860, un ebreo intraprendente, Joseph Malin, aprì la prima friggitoria londinese. Le navi che battevano i mari artici tornavano con le stive colme di merluzzo. Questo cibo di strada, complici anche i razionamenti imposti dalla seconda guerra mondiale, divenne il piatto quotidiano degli operai inglesi. ‘E’ sorprendente – assicura un esperto di sanità inglese – siamo circondati dal mare, ma i miei compatrioti non mangiano pesce. Hanno il tabù degli animali con la testa. Ho il sospetto che il merluzzo non sia considerato un pesce, ma una sorta di bastoncino’. E’ straordinaria la storia del merluzzo. Allaccia, in una cucina popolare strappa-felicità, tutta l’Europa: andate a Mammola, in Calabria, in Aspromonte, e vi troverete artigiani che lavorano lo stocco (piatto tradizionale dell’estremo sud dell’Italia). Risalite tutto il continente fino ad Alesund, in Norvegia, ottocento chilometri da Oslo, e troverete altri, celebri stabilimenti capaci di produrre baccalà e stocco. La sorpresa è che in questa città delIl fish and chips di Giuseppe a Londra,

polenta e baccalà cucina povera e umile fatta d'ingenuità caduta nel gorgo perfido della celebrità’

(Paolo Conte, Pesce veloce del Baltico)

Testo di Ermanno Laurenti Foto di Laurence Underhill


Il baccalà (salato) e lo stoccafisso (essiccato) divennero il cibo-salvezza dell’Europa più povera. Fino a trasformarsi, nel paradosso delle cucine, in piatto da gourmet nei ristoranti di Lisbona o della costa basca. Divenne leccornia irresistibile dei cicchetti veneti e cibo amato, con salsa di

mari freddi, pesce dell’Atlantico del Nord, è un miracolo. Al pari della patata, ha salvato dalla fame generazioni di europei. Perché stupirsi che gli inglesi abbiano deciso di friggere assieme le patate e il merluzzo? Ogni anno, giurano a Londra, undicimila fish and chips friggono almeno 250milioni di piatti. Dobbiamo ringraziare i cacciatori di balene baschi: nel XV secolo, nei mesi delle loro caccie nei mari del Nord, si imbattevano in immensi branchi di merluzzo, impararono a essiccare e salare questo pesce, scoprirono che si poteva conservare per mesi e mesi. Lo riportarono nei loro porti.

pomodoro e spezie, dai marinai livornesi. A Venezia raccontano che nel 1432 un capitano della Serenissima, Pietro Quarini, naufragò in un gelido arcipelago non lontano dalle isole Lofoten: il suo equipaggio sopravvisse in quelle solitudine grazie al merluzzo essiccato. Lo stoccafisso era destinato a diventare cibo tradizionale del Veneto. (a.s.)

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l’estremo Nord europeo, dalle case in pietra costruite in stile liberty, questo pesce venga cucinato con spezie mediterranee. Cuochi norvegesi offrono baccalà alla francese, alla portoghese, alla veneta. In Norvegia, il baccalà ha un giro di affari pari al petrolio. Il merluzzo, pesce dei

(grazie a Laurence Underhill da Londra e Letizia Sgalambro da Alesund) Il giornalista statunitense Mark Kurlanski ha scritto l’epopea del merluzzo: ‘Il merluzzo, una storia del pesce che ha cambiato il mondo’ (ed. Mondadori)


EUROPA/CATALOGNA L’eleganza dei cipollotti Testo di Luigi Cojazzi

Cotti sulla brace viva, allacciati come se fossero una collana, i calçots vanno afferrati dalla griglia, ripuliti della pelle bruciacchiata e mangiati tenendoli con due dita e rovesciando la testa all’indietro. Una delizia…

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uando devo parlare della cucina catalana, sono sempre in imbarazzo. È come se dentro di me – e sospetto che capiti a molti italiani – viva un piccolo gastronomo snob che, quando sente descrivere il pa amb tomaquets come un ‘originale piatto tipico catalano’, comincia a spanciarsi a terra dalle risate. Andiamo, ragazzi… stiamo parlando di pane con il pomodoro! Siamo seri. Eppure c’è qualcosa di autentico e affascinante in questo aspetto rurale della tradizione culinaria catalana, ed è ancora più affascinante che si sia conservato in una città che vorrebbe darsi delle arie vagamente posh come Barcellona.

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Le foto sono state tratte da www.restaurantcarmen.com

È per questo che quando devo scegliere un piatto regionale (per carità, volevo dire nazionale) rappresentativo della Catalogna, finisco sempre per parlare del calçot: una sorta di cipollotto fresco, dalla forma allungata che ricorda quella di un porro, originario del Tarragonese e protagonista di una delle più tipiche feste gastronomi-


teglia di portata, ripulito con ruvidezza dalla pelle bruciacchiata e terrosa, fino ad annerirsi completamente le mani, quindi va inzuppato in una ciotola comunitaria di salsa romesco (una salsa a base di pomodoro, mandorle tostate e peperoncini rossi secchi) e infine mangiato, tenendolo con due dita e rovesciando la testa all’indietro. Un po’ come facevano gli antichi romani

che catalane: la calçotada. L’abbuffata di calçots va preparata rigorosamente all’aperto, secondo un rituale in cui risiede buona parte dello charme della tradizione. I cipollotti vanno infilzati su di un fil di ferro, in modo da creare delle specie di collanone piuttosto sconsigliabili da indossare, e quindi cotti sulla brace viva, senza previamente mondarli né pulirli dalla terra. Una volta pronti, vanno avvolti in carta da giornale, per mantenerli al caldo e farli ammorbidire.

Il calçot va afferrato bruscamente dalla

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sul triclinio quando mangiavano l’uva, tanto per capirsi. Il periodo perfetto per la calçotada va da fine gennaio ai primi di aprile. Se siete a Barcellona in quel periodo, non lasciatevi scappare l’occasione.

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La cosa più interessante dei calçots è che non vanno mangiati con eleganza. Tutt’altro. La calçotada è la cerimonia delle maniere rudi e campestri, ovvero la sacra liturgia della macchia. Diciamocelo: le vostre possibilità di finire una calçotada con gli ambiti immacolati sono pressoché nulle. E d’altronde non c’è miglior epitome del carattere realmente popolare, campagnolo e ludico di questa tradizione.


‘Vendeva i formaggi in un modo mai visto e aveva inventato qualcosa che nei formaggi non c’era, o forse c’era, solo che nessuno lo aveva capito prima di allora. Forse anche il formaggio non è semplicemente formaggio, meditò il vecchio’ (Miljenko Jergovic)

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state balcanica, giorni di mungitura sul monte Visocice. Nebbia, venti del Nord, cieli che si ingrigiscono di colpo per tornare di cristallo nel giro di pochi minuti. E’ il tempo imprevedibile delle Alpi dell’Erzegovina. Asim, pastore transumante, si è alzato prima dell’alba. Le sue pecore sono impazienti. Ma lui, prima delle ore del pascolo, si è infilato in una capanna e ne è riemerso con in mano due grandi e buffi cilindri di pelle. Sono due ‘sacchi’ di pelli di pecora gonfiati come un palloncino. Ora devono essere essiccati. Asim, oggi, farà cagliare il latte e ha bisogno dei ‘sacchi’ per conservare il formaggio che maturerà e stagionerà dentro di loro. Il formaggio del sacco, il sir iz mijeh, è il più antico dei Balcani.

EUROPA/BOSNIA Erzegovina, metti il formaggio nel sacco Testo di Francesco Alberi

Libano usano lo stesso metodo di conservazione del formaggio, ma è probabile, senza averne prova, che i primi a insaccare i formaggi (di pecora, di vacca) in questi sorprendenti contenitori di pelle siano stati proprio i pastori illirici delle Alpi Dinariche. Era un geniale sistema, unico al mondo, per conservare e trasportare il formaggio, cibo irrinunciabile per quelle popolazioni. Nel 1330, questo è certo, alla fine di ogni estate, i cittadini di Dubrovnik aspettavano con impazienza i pastori-mercanti dell’Erzegovina: venivano a vendere carne e formaggio nel sacco dal sapore forte, salato, quasi picNessuno ne conosce le origini: pastori cante. ‘Deve avere l’odore e il gusto del padella Turchia interna e delle montagne del scolo’, dice Asim. Oggi sono le donne dei


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pastori di Nevesinje, di Konijc, di Prozor- zione. Devono passare almeno due mesi Rama, di Kupres a insaccare i formaggi. prima di poter riaprire le pelle e assaggiare questo formaggio delle montagne di Con le mani, Asim taglia il caglio in Erzegovina. grandi dadi. Deve aspettare che vada via tutto il siero. Poi bisognerà salare. Solo Con un avvertimento no-global: ai merdopo alcuni giorni, sua moglie riempirà il cati, i ‘sacchi’ sono aperti e vi troverete sacco con i pezzi della cagliata. Presserà davanti a colori diversi (il formaggio con attenzione: non devono rimanere sfuma dal bianco perfetto al giallo in‘vuoti’, non deve circolare aria in questa tenso) e a differenti consistenze (da grastrana otre. Si sala ancora. Poi si sistema nuloso a compatto). E sapori mai simili il sacco, gonfio come una mongolfiera, su fra loro: non assaggerete mai un sir iz miuno scaffale di legno di abete. Può pesare jeha uguale all’altro. fino a 80 chili, un bel sacco pieno. Andrà A.S. girato spesso durante i mesi della matura-


ELO GIO DEL AFRCIBO ICH E

AFRICHE/ETIOPIA Elogio dell’ njera Lorenzo Fontana Il teff non esiste da nessun’altra parte del mondo. Il seme minuscolo di un cereale che cresce solo in questa terra. Nessun etiope può vivere senza l’ njera. La focaccia del più vasto altopiano d’Africa. enjera è ciò che distingue l’Etiopia L’ e l’Eritrea dal resto dell’Africa. Anche altre culture africane mangiano queste piadine. I somali la chiamano con lo stesso nome, ma la sostanza è molto diversa: per farla, in Africa, soprattutto a Occidente, si utilizza il sorgo, il miglio o il frumento; qualcun altro impiega il

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mais o la semola di grano duro, in Etiopia si usa solo un seme. Il seme del teff. Il teff è un cereale che non esiste in nessun altro posto al mondo. Il suo seme, piccolissimo, richiede molto lavoro per essere raccolto e separato da paglia e pula. E’ un lavoro di squadra, gli uomini impugnano due bastoni per uno e, nella battitura, è necessario un perfetto tempismo. Il fusto della pianta, alto circa sessanta centimetri quando la pianta è matura, è di un verde chiaro che rende inconfondibile il paesaggio delle campagne d’Etiopia. Si semina sparpagliando i semi, lanciandoli sul campo in modo uniforme in solchi poco profondi. A volte non è necessaria nemmeno l’aratura. Il teff si usa solo per preparare l’enjera. Non ha nessun altro utilizzo, anche se la sua paglia, a volte, è utilizzata per fare tetti o simili.


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• I semi di teff devono essere seccati, pestati e macinati per ottenere una farina bianca poco coesiva. Quanto è necessario per coltivare un intero campo può stare in una bisaccia. Il teff si conserva senza problemi per più di un anno. • Farina e acqua sono mescolate e lasciati macerare per alcuni giorni in un conteINGREDIENTI: nitore chiuso posto in luogo fresco ed ombreggiato. SOLO TEFF E ACQUA. • La pasta fermentata viene diluita con acqua fino a quando la sua consistenza LA PREPARAZIONE non diventa uniforme, simile alla pastella per preparare le crepes. Dalla qualità del È UN RITO IMMUTABILE teff dipende il colore dell’impasto. Quello bianco è il più pregiato. • Da un contenitore con beccuccio, con un movimento a spirale si versa la pastella su una teglia di terracotta riscaldata su fiamma viva. Ogni etiope ricorda la madre mentre compie questo gesto circolare, con attenzione e perizia, per ottenere uno spessore costante e niente irregolarità. • L’ enjera cuoce in circa due minuti. Rimane liscia sulla parte superiore e a bolle sulla faccia inferiore. Deve essere conservata in un sacchetto o avvolta nella carta perché non secchi in fretta. In ogni caso deve essere consumata molto fresca. In poche ore diventa acida. • Non viene mai mangiata da sola. Carne, verdura, pesce o altro si servono su un piatto di enjera.


Sotto un grande albero di Ougadougou, Pascaline mischia acqua e farina . Già pregusta una salsa piccante. Ecco, il piatto base della cucina burkinabè

AFRICHE/BURKINA FASO Tò, polenta d’Africa erodoto108 • 8

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Testo e foto di Isabella Mancini

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a casa di Pascaline è all’ombra di un grande albero. Quartiere Pètit Paris a Ouagadogou, capitale del BurkinaFaso. L’afa è intollerabile. Ma la donna accende il fornelletto a gas, mette una pentola d’acqua sul fuoco e sistema della farina bianca in due mezze tazzezucca. ‘Per preparare il tò, si può usare la farina di mais bianco, quella di miglio o quella di sorgo. Oppure una miscela

delle tre. Dipende dai gusti’. L'acqua comincia a scaldarsi, Pascaline versa la farina e, con un mestolo di legno, comincia a girare. E’ un gesto semplice, ma ha un che di tramandato. Viene da lontano. Dalle campagne. Fa un rumore come di gocce d’acqua che si cristallizzano nell'aria. E’ una vibrazione, sembra una preghiera antica. ‘Non bisogna fermarsi nell'agitare e mescolare la crema, altrimenti si formano


piccantissima! Oppure la salsa di okra, il gombo, che è facilissima da preparare: basta far cuocere, in umido, l'okra, fino a che non si è completamente sfatta e aggiungere, a fuoco spento, un po' di aceto e passare tutto con il frullatore’. Il tò è pronto, Pascaline lo serve dentro a dei piatti di terracotta. Mangiamo con dei cucchiai fatti con una zucca svuotata. Mentre aspettiamo che si raffreddi, beviamo della zoom-koom gelata, la bevanda del benvenuto, fatta con acqua, miglio e ginger, piccante e profumata, e di bissap, il succo color rosso dell’ibisco. Dopo un bicchiere, anche l'aria sembra meno densa.

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dei grumi. Adesso è quasi pronto. Ci vuole poco a prepararlo, è un piatto da donne in carriera’, dice ridendo. Il tò è una polenta, il sapore è leggero. Come un semolino. Può avere diverse consistenze. Quella di una minestra, se si è a casa e magari siamo a sera, per un pasto più facilmente digeribile; quella di un panetto glutinoso se si deve andare a lavorare nei campi e si ha bisogno di non sentire i morsi della fame per diverse ore. ‘A casa lo mangiamo abbastanza sodo, ma sempre tipo minestra, e lo accompagniamo con salse saporite. La più comune è di pomodoro che facciamo


STORIE DI ARTE ’ certamente il piatto più diffuso AFRICHE della cucina sudafricana. Pap and E boerewors è una specie di ‘power shaSUDAFRICA ring’ culinario. Arrivato ben prima della politica, avrebbe potuto unire bianchi Food sharing afrikaners e neri. Partiamo dai fondamentali. Pap and nel bush boerewors, una volta visto, annusato e

Testo di Laura Mezzanotte

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Gli afrikaners risalirono il Grande Trek con le loro salsicce a spirale. I neri avevano già la polenta di sorgo o di miglio. Un piatto di sugo, carne e cavolo, il pap and boerewors, avrebbe potuto mettere d’accordo bianchi e africani. E dopo averlo mangiato con felicità assaggiate anche i vermi del Mopane. Fritti, sono eccellenti.

foto da : www.itinerantfoodies.word.press.com

tradotto non è altro che una ben meno esotica polenta e salsicce. Pap, da sempre, nelle cucine dell’Africa australe è una polentina morbida. Che per secoli è stata fatta col sorgo o il miglio, cereali poi spazzati via dalla colonizzazione del mais. Era ed è un cibo base per molte popolazioni dell’Africa australe e orientale. A cui si aggiunge la carne con sugo di pomodoro e spesso il

cavolo arrostito o altre verdure stufate. Boerewors invece potrebbe stare nella bandiera sudafricana come simbolo immanente della popolazione bianca afrikaner. Sono le salsicce del contadino (letteralmente, dall’olandese), di manzo, montone o agnello, con a volte un tocco di maiale. Lunghi budelli di carne macinata arrotolati a spirale. Sono le sal-


sicce dei pionieri che hanno risalito l’Africa dal Capo di Buona Speranza nei carri. Boerewors, bibbia e fucile erano la loro religione. Si fanno molto spesso sul barbecue. Il braai delladomenica, con tutta la famiglia riunita, ha lo stesso valore identitario di una bandiera. Alla carne grigliata si aggiunge il sugo. Ed ecco che serve la pap. I due mondi che per molto tempo si sono guardati da lontano pensando di esserenemici, i bianchi afrikaners e i neri, in realtà hanno semprecondiviso moltissime abitudini quotidiane, abitudini contadine. Pap and boerewors è in questo senso il piatto che sussume la storia del paese negli ultimi secoli.Il Sudafrica profondo continua a mangiare pap and boerewors. Il resto del paese invece fa festa su una tavolozza culinaria che meriterebbe maggiore interesse gastronomico. Le culture sudafricane sono ben più (e meglio) di polenta e salsicce: le influenze indiane, quelle dei cuochi malesi importati dagli inglesi nella zona del capo e tutto il resto. Persone che hanno portato il curry e le spezie dell’estremo oriente, mescolate poi alla grande varietà di ingredienti che offre il Sudafrica: dalla frutta “europea” alla selvaggina del bush, dal coccodrillo alla banana, per non parlare delle delicatezze made in Africa come i vermi del Mopane, le larve che nascono dalle uova che una bella falena deposita nella corteccia del più celebre albero sudafricano. Fritti, sono eccellenti.

dISegNo dI roBerto dItArANto


ELO GIO AM DELC ERI IBO CHE LAT INE

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ei villaggi e nelle città del sertão, la savana delle regioni interne del Brasile, può capitare, se si viaggia in giugno, di assaggiare la pamonha. Ricordo lo stupore della mia prima volta, in un patio secco, sotto le acacie, mentre intorno si ballava al ritmo di un complessino folk. Era una sorta di polenta, un saccottino di mais soffice e caldo, involto in una foglia di pannocchia, molliccia per il lungo bollire. C’era anche un tocchettino di salsiccia, a darle un significato più intenso. Ne mangiavano tutti, guarnita di manzo, di maiale, dolce, salata, al formaggio. Un tripudio di sapori per un piatto semplice e povero. Le festas juninas, feste di giugno, appunto, quelle di San Giovanni, Sant’Antonio e San Pietro e Paolo, sono il periodo tradizionale per assaggiare la pamonha, ma negli stati centrali del gigante sudamericano se ne può trovare tutto l’anno, anche se ora meno d’un tempo. Importata, si crede, dagli esploratori e dai coloni che partivano da San Paolo nel XVIII e XIX sec., è negli stati brasiliani del Goiás e del Minas Gerais che ha attecchito di più. Probabile elaborazione portoghese del mais, si può dire che rappresenti uno dei paralleli gastronomici naturali dell’incontro tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, quello che creò anche la

BRASILE Polenta da un capo all’altro delle Americhe Testo di Paolo Brovelli Foto di Josè Araripe de Souza

Il mais attraverso il continente: dal tamal in Messico alla pamonha brasiliana. Dodici foglie della pannocchia per avvolgere il milho verde bollito. E’ il cibo delle grandi feste di giugno nelle savane del sertão.


pance anche di peruviani, messicani, guatemaltechi e molte altre popolazioni latinoamericane, che del mais son figlie. Ma, come anche in Italia, pietanze simili si sono diffuse così tanto che ormai arricchiscono il desco di tutto il mondo. Spesso ne sono l’essenza.

Ricetta della pamonha con salsiccia:

ingredienti: 10 pannocchie di mais dolce (milho verde) 200 gr di burro e sale q. b. ½ kg di salsiccia di maiale 12 foglie di pannocchia piuttosto larghe

Preparazione: Sbucciare e sgranare le pannocchie. Mettere da parte dodici foglie da utilizzare più tardi. Macinare i grani, quindi sciogliere in un pentolino il burro con il sale. Unire la farina con la mistura di burro fuso e mescolare bene. Nel frattempo friggere la salsiccia e poi tagliarne fette spesse. In una pentola, mettere a bollire cinque litri d’acqua. Prendere le foglie e piegarle una a una in modo da formare sacchettini. riempirli poi con la mistura di farina e burro 39 fuso, aggiungervi la salsiccia e chiuderli bene con una cordicella; quindi immergerli nell’acqua bollente. Far cuocere per quarantacinque minuti. Scolare e disporre i sacchettini su un piatto. Servire caldi.

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base della popolazione brasiliana che conosciamo, misto d’Europa e d’America. Senza dimenticare l’Africa, di certo artefice di qualche varietà di Salvador da Bahia. Con il nome di tamal, diverse varietà di pamonha (dalla parola dell’antico tupi pa'muña, appiccicoso) riempiono le


AMERICHE LATINE/ARGENTINA L’asado e la sovranità nazionale Testo di Lucio Yudicello

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rrostire la carne é uno dei metodi più antichi per cucinarla. E noi argentini ce ne siamo appropriati per trasformarlo in un’istituzione nazionale. Il classico arrosto dell’Argentina é di tagli vaccini: il matambre, le costolette, vacio o tapa de cuadril (la copertura

della scamone), ai quali si aggiunge chorizo, morcillas y salchichas parrilleras, oltre a frattaglie/interiora come i chinchulines (l’intestino tenue), la tripa gorda o mollejas (l’animella). Tutto questo si griglia sopra un fuoco. E qui cominciano i problemi. Di quanto


sclusione e alla emarginazione sociale. L’asador è un uomo che si sacrifica, si fa in quattro per gli altri, si lascia abbracciare dal fuoco nelle torride giornate estive o affronta spietate tormente di vento e di sabbia che arrossano i suoi occhi. A volte la legna o il carbone sono di pessima qualità, si consumano senza fare la brace e allora l’asador, infangato come una creatura dell’inferno, corre a cercare nuova materia. L’asador offre sempre la parte migliore delle carni alla sua sposa, all’amante, al figlio, all’amico. E’ generoso. E’ instancabile, non si riposa mai, preferisce di gran lunga l’infarto all’ozio, corre senza riposo dalla griglia ai commensali e da questi alla griglia. Non esiste grigliata senza un applauso per l’asador.

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fuoco c’é bisogno, a esempio? E’ meglio accumulare la brace o disperderla? Troppe domande. A questi interrogativi (che scatenano veementi discussioni) se ne aggiungono altri: la carne deve essere messa sul lato dell’osso o del grasso? E’ meglio girarla spesso o solo una volta? Ma l’importante di una grigliata è la persona che la fa. E’ l’asador. E in tutte le famiglie argentine c’é un asador. E’ onnipotente quando si tratta di arrostire la carne. E’ un sovrano, un capobranco. Un asador è vanitoso, teatrale, machista, possesssivo, ma anche generoso, attento, instancabile e stoico. La domenica, attorno a mezzogiorno, l’uomo si dirige verso la griglia, accende il fuoco e impugna i suoi strumenti. Qui si trasforma: diventa un asador. Cioè, un artista. Con cui non si discute: ‘Una grigliata si fa così e basta’. Un asador è un grande solista. Ed è machista: l’asado è storia di uomini. Con astuzia l’asador sostiene: ‘La domenica cucino io, mia moglie si riposa’. E’ possessivo: non accetta intromissioni nei suoi affari. Discrimina: essere vegetariano in Argentina conduce all’autoe-

Non abbiamo trovato alcuna parola che ci facesse felici per tradurre ‘asado’ e ‘asador’: grigliata e grigliere, ci sembrava inadatti. L’asado è l’asado. traduzione di Alessandro Lanzetta


AMERICHE LATINE/MESSICO I chiles en nogada, la certezza della vita Testo di Enrique Lòpez Aguilar

‘Poi chiles en nogada, che erano peperoncini rossobruni, un po’ rugosi, nuotanti in una salsa di noci la cui asprezza pungente e il fondo amaro si perdevano in un’arrendevolezza cremosa e dolcigna’

(Italo Calvino)

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i sono leggende la cui origine è molto difficile da ricostruire. E’ il caso dei chiles en nogada. Raccontano che alcune suore dell’ordine di Santa Clara inventarono una pietanza per onorare l’ingresso a Puebla di Agustine de Iturbide, primo imperatore del Messico indipendente. Era il 28 di agosto, giorno del suo onomastico, e le suore vollero creare un piatto con i tre colori della nuova bandiera della libertà: i chiles poblanos erano il verde; la salsa di noci, il bianco e poi vi era il rosso del melograno. La bandiera messicana, cucita dal sarto Josè Magdaleno Ocampo, era stata istituita solo pochi mesi prima. Difficile che le suore poblane siano state capaci di inventarsi, in poco tempo, un piatto così complicato. E’ più verosimile supporre che usarono una precedente ricetta, creata per celebrare l’arrivo, nel 1640, del vescovo Juan de Palafox y Mendoza. Gli ingredienti dei chiles en nogada e la sua complicata elaborazione dimostravano una sensibilità più barocca e meticcia che neoclassica; i colori implicati nel piatto già si trovavano suggeriti sopra le ali del putto che sorregge la Madonna di Guadalupe. Negli anni ’80 del secolo scorso, questo piatto uscì dai conventi e dalle nobili casate poblanas per far parte del gusto borghese; quella che era una pietanza rara e privilegiata diventò d’uso ordinario e ogni famiglia ha comin-


ciato a pretendere di essere in possesso della receta (non di una ricetta, né di un variante prodigiosa della stessa, ma de “la receta”). Il mistero soprannaturale della sua preparazione si basa nel ripieno che richiama sapori dolce-salato per la combinazione della carne trita, la frutta fresca e secca, il melograno, le mandorle e le spezie. Da non dimenticare: la salsa si fa con noci di Castilla

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macinate, mandorle, latte e marsala… Ma chi possiede la receta, pur consapevole del necessario rigore, non è un semplice ripetitore. Sono possibili varianti dei chiles en nogada. Ma non tutte sono buone: sono indigesti i quelli capeados, fritti nell’uovo. Pacchianamente romantici, quelli che con una salsa rosa, risultato del macinare i chicchi di melograno con la salsa di noci. Contro natura, quelli che sostituiscono l’autentica e laboriosa salsa di noci con crema chantilly e noci tritate spolverate sopra. Di fronte a questi eccessi, si può comprendere la necessità di divulgare una ricetta canonica, ma felice è colui che, senza conoscere l’archetipo dei chiles en nogada, prova una variante e assapora nella sua bocca la certezza della vita. dISegNo dI gABrIeLe geNINI

traduzione di Adriana Altamirano Foto da www.themijachronicles.com


ELO GIO ME DELC DIO IBO RIE NTE

La pazienza del felafel Testo di Isabella Mancini

Ha studiato in Italia per otto anni ora è tornata a Ramallah ma racconta, in italiano, il suo mondo tra i fornelli

È

un piatto tipico del Medioriente. Base: ceci e/o fave. Misteriose polpettine, saporite e profumate, ricche di cumino e prezzemolo, richieste e amate se preparate in casa, senza i composti in bustina che si trovano al supermercato. Così le racconta una chef palestinese, Fidaa, una giovane donna che vive a Ramallah. Fidaa ha trascorso in Italia otto anni per specializzarsi, dopo gli studi a Gerusalemme, nell'arte culinaria. La pazienza è l'ingrediente principale di queste polpette: pazienza per l'attesa dei ceci che devono stare a mollo almeno un giorno, un giorno e mezzo), pazienza perché l'impasto incorpori gli aromi del cumino e dell'aglio, pazienza per fare le polpettine senza che si sbriciolino come castelli di sabbia.

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Una volta scolati, i ceci vanno asciugati, poi disposti in un tritatutto e passati aggiungendoci cipolla, aglio, prezzemolo, sale e cumino. Se l'impasto risulta un po' morbido aggiungete un paio di di cucchiai di farina, o fecola di mais. Avvolgete il composto con pellicola trasparente e lasciatelo riposare … per un'intera giornata (dalla mattina alla sera, se li volete mangiare come antipasto per cena). E poi si frigge: olio caldo caldo e polpette da girare solo quando sono belle colorite. Il falafel si può fare anche con le fave: secche, da lasciare in ammollo, da tritare con tutti gli aromi a cui si può aggiungere, a gusto e piacere, il cadamomo e un pizzico di bicarbonato ma c'è chi ci mette anche un po di aneto e semi di sesamo. Se volete potete accompagnarli con il labaneh, uno yogurt spalmabile che compare nelle colazioni della mezzaluna fertile. Per farlo serve uno strofinaccio di tela grezza (ci sono anche di tipo alimentare per filtrare), uno scolapasta, sale e yogurt. Lo strofinaccio va appoggiato sullo scolapasta e insieme vano sulla bacinella. Si mescola, a parte, lo yogurt con il sale e si versa poi il composto nello scolapasta e si lascia riposare in frigo per tutta una notte. La mattina il labneh è pronto: toglietelo dallo strofinaccio, mettetelo in un contenitore e conditelo con dell'olio d'oliva. Come aromi si possono usare: olive, timo, peperoncino, menta e za'tar. Ma ci stanno bene anche verdure fresche, sotto aceti e lo tzaziki.


Fidaa è una giovane donna palestinese di Hebron. Oggi vive a Ramallah, ma ha trascorso in Italia otto anni per specializzarsi, dopo gli studi a Gerusalemme, nell'arte culinaria. Oggi ha un blog dove parla di cucina palestinese, dove racconta le delizie di una cucina mediterranea dell'entroterra fatta di olio e zatara. Il suo blog si chiama come il piatto più famoso della Palestina Maqlouba. Fidaa ha un blog dove racconta della cucina palestinese e delle delizie mediterranee. www.maqlouba.com

Compilation per la preparazione: ( tratto da E morì con un falafel in mano, 2001, film di Richard Lowenstein) Golden Brown, Buy me a pony, Muriels wedding, Run On, Ya Ya Ringe Rja, Always on my mind, La dolce vita, The police Sammy, I have something to declare, man Overboard, Drive e Miss Sarajevo.

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ricetta: • 1 cipolla, • 2 spicchi d'aglio, • pepe e cumino, sale qb • ceci, 300 gr • farina, 200 gr o fecola di patate • olio di semi


MEDIORIENTE/ PALESTINA Make hummus not war

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icordo il sapore dell’aglio e del succo di limone. La bottega di Abu Said è introvabile fra i condomini scortecciati di Taybeh, sgangherato villaggio palestinese in una terra che oggi è Israele. Abu Said è un artigiano dell’hummus: la sua crema di ceci è una delizia, il suo fast-food di Palestina è un palcoscenico povero, scalcinato e bellissimo. L’hummus è una meraviglia. Una religione laica nel Medioriente dilaniato dal fanatismo. Ho conosciuto uomini e donne che si sono amati strusciando le dita in questa crema. Una volta ho ascoltato una cuoca riflettere sull’hummus e il sesso. Non sapeva decidersi a scegliere cosa preferirebbe all’istante. ‘Entrambi, assieme’, disse con un sorriso di piacere. E quindi: make hummus not war. Che felicità, ad Haifa, vedere palestinesi e israeliani mangiare gomito a gomito. A Gaza, l’hummus ha influssi egiziani. In Palestina, davvero, si ama l’aglio e i gusti più decisi. Gli israeliani abbondano con la tahina. In Libano l’hummus è piatto essenziale della distesa dei mezzè che colonizzano il tavolo di ogni buon pranzo. Di chi è l’hummus? Gli storici della cucina mediorientale stanno sul vago. I crociati già si sfamarono, nei loro assedi, con l’hummus. Creolizzazione di un cibo. Il sultano Saladino ne era un cultore goloso. La prima ricetta scritta risale al XIII secolo. I biblisti tirano fuori erudite citazione da libro sacro. L’hummus è stato il cibo di chiunque vivesse fra Damasco e il mar Rosso. Come vorrei che Abu Said intontisse con la sua prelibatezza gli uomini che, in questa terra, niente altro hanno in testa che la guerra.

Testo di Serena Montemagni


I ceci devono essere pestati (ma se non avete pazienza, si possono, naturalmente, frullare a bassa velocità) con gli spicchi d’aglio, il succo di limone e la tahinah. Aggiungete un pizzico di sale e l’acqua di cottura, se è necessario. L’impasto deve trasformarsi in una crema densa e senza grumi.

Una volta versata sul piatto, bisogna aggiungere il peperoncino e il prezzemolo tritato. Siate generosi con l’olio d’oliva. Non mangiatelo con la forchetta, utilizzate il pane. Se non avete la possibilità di procurarvi del pane arabo, tostate il pane casalingo.

• 250 g. di ceci lessati. • 2 spicchi di aglio. 2 limoni. • 3 cucchiaini di tahinah (crema di semi di sesamo tostati), • un mazzetto di prezzemolo, • un pizzico di peperoncino, • olio d’oliva, sale

Cibo e ironia, la sola disperata, vana e irridente difesa. Non servirà, non fermerà le pallottole, ma la gioia di quando ti porti alla bocca (con il dito, con un pezzo di pane, con la pita araba. La forchetta è proibita) la crema dell’hummus è più forte di ogni malinconia. Trevor Graham, regista australiano, ha girato un film goloso: ‘Make hummus not war’, appunto. Trovatelo e poi invitata a cena i vostri amici ebrei e musulmani e godetevelo. www.hummusnotwar.com

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ricetta I ceci devono essere fatti bollire fino a quando non diventano teneri. Il sale va aggiunto solo a fine cottura. Scolateli, ma conservate una parte dell’acqua di cottura.

foto di Mario Boccia


MEDIORIENTE/IRAN Un giardino nel piatto Testo di Felicetta Ferraro

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aghestan, il ‘luogo del giardino’, un nome improbabile per un villaggio ai bordi del Dasht-e Kavir, il deserto di sabbia e sterminate distese di cristalli di sale che occupa il centro dell'altopiano iranico. La Via della Seta un tempo passava non molto lontano da qui, oggi a Baghestan si fermano le carovane di turisti dirette a Gonabad, centro spirituale dei dervishi nematollahi, o verso Mashad, la città santa che ospita le spoglie dell'Imam Reza. Ad accoglierli, un ruscello di acqua freschissima e una vallata punteggiata di mandorli e melograni racchiusi in piccoli recinti di mattoni cotti al sole. A Baghestan, un'amica, che come molti iraniani ha studiato architettura in Italia, ha deciso di costruire alcuni anni fa una casa nel rispetto delle tecniche e dei materiali del luogo: paglia, fango, legno, mattoni crudi, per la costruzione; lana per le tende alle finestre, per i tappeti, per le coloratissime trapunte imbottite; argilla impastata con il bianco d'uovo per i piatti e le tazze decorate con l'ovale tondo e gli occhi allungati di Khorshid Khanom, la 'signora Sole' e rami fioriti carichi di melograni vermigli. L'intenzione era quella di accogliere i turisti che decidevano di fermarsi un po' di più di una breve sosta per il tè, incantati dal fascino di una Persia sognata e amata attraverso versi immortali e miniature delicate come trine.

Una storia breve – il flusso del turismo in Iran avanza e si ritira seguendo capricci mediatici internazionali incomprensibili sotto il cielo terso di Baghestan – ma Sakine, la cuoca che stupiva gli ospiti con una marmellata di bucce di pistacchi introvabile altrove, è riuscita a far conoscere finalmente al di fuori del villaggio la versione locale del più sontuoso dei piatti della cucina iraniana, il fesenjun, un sugo a base di noci e mandorle tritate, cipolle, anitra, curcuma e una salsa di melograno densa, profumata e violacea come la sabbia del deserto al tramonto.


La deLizia deL fesenjun di Baghestan

Il fesenjun è un piatto originario delle foreste umide del gilan. Là si prepara con noci tritate. Le mandorle sono una caratteristica di questo villaggio. e’ un cibo di ‘rappresentanza’, si prepara quando si vuole fare una bella figura con gli ospiti.

•  500 gr. di anatra (o pollo) a pezzi, •  1 cipolla, 1 tazze di noci e 1 tazza di mandorle tritate, 1 tazza di salsa di melograno, 4 tazze di acqua, •  1 cucchiaio piccolo di concentrato di pomodoro, •  1 cucchiaino di curcuma, •  2-3 cc olio, sale, pepe.

dorare le cipolle in un tegame e aggiungere la curcuma. dopo un paio di minuti aggiungere la carne e rosolarla. Salare e pepare qb. Unire il concentrato di pomodoro e un po' d'acqua e far cuocere.

dISegNo dI PINo CreANzA

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Nel frattempo far tostare in una padella antiaderente le noci e le mandorle tritate, rigirando in continuazione per non farle bruciare. Unirvi quindi una quantità doppia di acqua e far cuocere, mescolando spesso. Quando si vedrà affiorare l'olio, versare il tutto nella carne. Far cuocere insieme per un po' e poi aggiungere la salsa di melograno. Far restringere e servire con il riso cotto al vapore.


ELO GIO DEL CIB ASI O A

ASIA/INDONESIA Trites, il buon sapore della merda di vacca Testo e foto di Giancarlo Cittolin

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ndiamo a un matrimonio a Sumatra. Invito da un clan Karo, popolo Batak. La coppia, in realtà, è già sposata. Ha due figli. Ma solo, dopo aver messo assieme il denaro sufficiente, è possibile fare la cerimonia che ufficialmente unirà marito e moglie, ne stabilirà la posizione sociale. Ai piedi degli sposi sono posti recipienti colmi di riso e di betel, o siri pinang, simboli di abbondanza e fertilità. Gli invitati sono seduti a terra, le donne offrono ciotole con riso bollito e trites, il piatto tradizionale Karo a base di verdure semidigerite da un bufalo, mescolate al frutto di ginger rosso. Il trites è una zuppa di verdure, annegate in una densa salsa marrone dal sapore pungente di spezie. Il suo ingrediente principale è un bolo di erbe quasi già digerito da un bufalo. A questo animale si toglie, letteralmente, il cibo di bocca. Il bufalo ha ruminato le erbe dei campi fertili dell’altipiano Karo, gli enzimi di-

mon grass, •  peperoncini a piacere, •  sei spicchi d’aglio e sei di scalo•  due kg di bolo di bufalo (o gno, una grossa radice di curcuma, manzo), •  •  mezzo kg di trippe tritate di bufalo 15 baccelli maturi di patikala (il frutto del ginger rosa), (o manzo), •  •  il latte chiaro di due noci di cocco, sale quanto basta. •  5 foglie di limone, tre gambi di leingredienti Per 6 Persone:


Schiumare accuratamente. Non appena la carne è tenera, unire il patikala pestato, aglio, scalogno e curcuma precedentemente affettati. Appena ripreso il bollore aggiungere il latte di cocco, che diluirà la zuppa. Lasciare sobbollire per almeno tre ore, riaggiustando di sale. Servire con riso bollito.

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Immergere il bolo erbaceo in acqua, scolare e ripetere due volte conservando tutto il liquido. Filtrarlo e usarlo per cucinare il bolo dentro un’ampia pentola di terracotta, a fuoco dolce. Aggiungere la trippa e le spezie. Aggiustare di sale.

gestivi del primo dei suoi pre-stomaci hanno già cominciato la loro opera. Il bolo viene prelevato al momento della macellazione dell’animale. Una lunga cottura in enormi calderoni di terracotta, a contatto con spezie e condimenti, attenua il gusto amaro (trites, in lingua Batak, significa appunto amaro) e contribuisce al suo aroma gustoso. Il trites è un emblema di una società basata sul bufalo d’acqua, onnipresente nelle risaie e nelle cerimonie sacrificali. Gli invasori olandesi liquidarono il trites come merda di vacca. In realtà è il piatto delle occasioni speciali, servito ai matrimoni, alle feste di fine raccolto o quando si inaugura una nuova casa. Ibu Angelina, lontana cugina della sposa, accovacciata vicino a me, mi sussurra: ‘Prendine ancora, calma anche i bruciori di stomaco’.


ASIA/CINA Yan mei, tutta la memoria in un frutto Testo di Luisa Zhang

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a quando ha memoria, mio nonno ha sempre conservato gli yan mei sotto spirito. Come i corbezzoli in Italia, gli alberi di questo frutto crescono selvatici. I frutti freschi sono dolci, con una punta di aspro, se la maturazione non è arrivata al punto giusto. Quando SanQe, il villaggio di mio nonno esisteva ancora, lui, tra giugno e luglio, si arrampicava sulle colline ap-

Queste piccole bacche rosse sono un simbolo nazionale. Conservate sotto spirito, cercano di allacciare generazione a generazioni. Ma se volete assaggiarlo fresco dovete andare sulla collina di mio nonno.

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pena dietro il cortile di casa. Il paese era piccolo, duecento persone, non di più, un gruppo di case a un solo piano adagiate sulle rive di alcuni canali che confluivano in un grande fiume. Terra solitaria nel sud-est della provincia di Zhejiang. Qualche anno fa, il progresso è arrivato anche in questo angolo remoto della Cina: bisognava costruire strade per raggiungere le città e il cemento aveva bisogno di spazio. Per questo il villaggio fu spianato. Decisione improvvisa: sparì il fiume, scomaparvero i torrenti, non c'era più il ponte dove a fine raccolto il riso veniva lasciato ad

asciugare, non cento anni fa, ma fino a che il progresso non aveva deciso che era ora di cambiare secolo. In cambio della vecchia casa, a ogni abitante è stata data una nuova abitazione: un solo grattacielo enorme, alto e senza fiume, si è inglobato tutti gli abitanti di SanQe. Poche centinaia di persone stipate in un birillo di vetro e ferro: dalle finestre si vedono le colline, ma non si sente più l'odore della terra. I nonni hanno accettato l'appartamento di risarcimento, ma non si sono trasferiti: preferiscono lavarsi con l'acqua fredda della fabbrica dove hanno lavorato tutta una vita che vivere nel grattacielo. La fabbrica è rimasta in piedi, serenamente placida, tra i campi di grano e la strada sterrata che porta al paese che non c'è più. Si può ancora salire sulla collina. Dove gli alberi di yan mei tornano a offrire i propri frutti anche a quel mondo che li mette in scatole sotto vuoto. Il nonno non affrontava l’inverno senza questi frutti. Una volta gli ho chiesto se aveva una ricetta particolare per conservarli. Mi ha guardato facendo gli occhi tondi dello stupore:‘Che ricetta? Si lavano, si asciugano e si mettono in un barattolo di vetro pieno di alcool!’. Ecco qua. In Europa gli yan mei arrivano con piccole spedizioni. Negli Stati Uniti la loro importazione è proibita. Il succo, invece, si trova in molti mercati di prodotti orientali. Il frutto essiccato viene usato come snack. Per la nostra famiglia, gli yan mei ricordano il passaggio di consegne tra generazioni, tra stagioni, tra epoche che furono e oggi durano fatica a convivere.


dISegNo dI ANgeLo PALUMBo


ASIA/UZBEKISTAN Arrosto di strada a Taškent Testo di Giorgio Federighi

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l cielo è fermo, l'aria non scende oltre un'invisibile rete di calura da cui non passa filo di vento. Mi muovo piano, ascolto i suoni del mercato. Urla, chiacchericci sommessi, parole volanti. Taškent, capitale dell'Uzbekistan, Asia Centrale: non mi aspettavo questo caldo! Cosa mangiare in un paese che ha come piatti principali stufati e zuppe? Ecco perché il mercato, il suo rumore, il suo caos e i suoi cibi da strada. L'ammiraglia della cucina uzbeka è il palov: carne fritta e bollita, cipolle e carote e poi tanto riso. Uva passa o ceci vengono aggiunti come variante. Ma con questo caldo è più facile mangiarsi un … arrosticino! Uno dei piatti più comune da trovare nei mercati, o ai bordi delle strade, è lo shashlyk: montone a pezzettini cucinato allo spiedo, appunto, sulla brace e servito con pane azzimo e cipolla. Facilissimi da trovare le tortine di carne, i samsa, sfoglie ripiene di carne e verdure cotta nel tandyr. Il tandyr è un forno tradizionale, costruito in argilla, di forma cilindrica, riscaldato con il carbone. Sulle sue pareti cuociono i piccoli samsa. L'abilità nell'attaccare, alle pareti interne del tandyr, il cibo per farlo cuocere, è un'arte unica. Shurpa e lagman, due zuppe, la prima di carne e verdure, la seconda di tagliolini e fette di carne fritta, sono piatti più per il freddo inverno ma si vendono anche per

‘I profumi si accavallano con le bancarella e gli abiti delle donne che stanno a servire, cotte dal sole, i loro mille prodotti’


strada, ciotola alla mano e panchetto per sedersi. L'Asia centrale ha una tradizione di latticini fermentati. Il katyk, yogurt fatto con latte acido, e il suzma, simile alla ricotta: entrambi si servono in insalate ma anche minestre. Ma per strada, sulle bancarelle dei mercati si trovano “confezionate” in piccole, medie, o grandi palle. Quelle della foto non sono caramelle o variegate forme di pane ma palline dure, di ricotta, molto salata, molto stagionata, dall'odore di pecorino, usate come stuzzichini. Poco più in là due donne stanno sporzionando dei piccoli bocconi di pollo dipinti di rosso: una salsa di peperoncino da lasciare stecchito anche il calabrese più incallito. I profumi si accavallano come le bancarelle e gli abiti delle donne che stanno a servire, cotte dal sole, i loro mille prodotti. Il mercato più famoso della capitale uzbeka è il Chorsu, situato nello stesso posto da secoli e secoli anche se gli edifici principali sono stati restaurati. Frutta secca e fresca dipingono un caleidoscopio di geometrie e forme, assieme a noci e mandorle, ma anche spezie di varia natura dal ginger allo zafferano al pepe nero. Vecchio di 150 anni è invece il Bazaar Alaskee, o Oloy Bozori: sulla via di Amir Timur è il re dei mercati che vendono frutta secca e mandorle. Ma i questa città sono ben 20 i mercati pronti a soddisfare la richieste degli uzbeki, prevalentemente, perché di turisti, qui, e ne vedono pochi.

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elo gio BIRdella RA

‘SEMBRA DI BERE LA LUNA’

VISITA ALLA BIRRERIA PEDAVENA IItalo Dalla Corte, birraio in Veneto, ci accompagna in una delle più celebri birrerie italiane. Ne assaggi un bicchiere e il palato diventa un campo di cereali Testo e foto di Francesca Cappelli

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vevo un compito, più che giornalistico, morale: capire la Birra. Ambra liquida, bevanda da re. Eppure povera. Punteggia le giornate di tutti. Una birra, per raccogliere le idee, per concentrarsi. Una meta: nel tardo pomeriggio ti concedi il ‘riposo in bicchiere’. A sera, un invito, che suona quasi supplica, a un amico. Usciamo a prendere una birra insieme? Chi sono quegli illuminati che mi regalano questo piacere quotidiano? Tanta è la sete –di sapere, s’intende- che vado a cercare Italo, un saggio in birrologia. Vive ai piedi delle Dolomiti bellunesi. Italo Dalla Corte è un ex operaio della fabbrica di birra Pedavena. Ora è in pensione. Un esperto, con ancora addosso, dopo quarant’anni, la passione. Si definisce il Pr povero della birra italiana. Italo ha bevuto più birra che acqua nella sua vita, ma con la testa. Non con lo stomaco. Mi dice subito che bisogna educare gli italiani al consumo, perché altrimenti finisce che l’alcool diventa un demonio. E niente è più falso: ‘La birra fa bene! Due litri al giorno e si campa cent’anni.’ Dopo uno sforzo fisico, reintegra i sali minerali. Dis-

seta, fa lavorare le reni e aiuta la diuresi. Per Italo il primo sorso di birra è uno dei grandi piaceri della vita. Il primo, quello libero e d’istinto. Gli occhi si rinfrancano di luminosità opalescente: ’Sembra di bere la luna’, mi dice. Il palato diventa un campo di cereali, il naso va in fermento. Ne chiedo gli ingredienti: ‘Malto, luppolo, lievito, acqua… e compagnia. L’ingrediente segreto è sicuramente la compagnia’. Una giornata con Italo mi ha reso edotta, potrei quasi ereditare il suo mestiere. Ho anche imparato come non farmi fregare, come smascherare i truffatori di birra. Per prima cosa, in qualsiasi birrificio, dal più piccolo all’immensa multinazionale, è necessario assaggiare la loro birra più semplice. ‘Loro proveranno a riempirti la testa di sperimentazioni. Solo con la birra chiara, la più leggera, è impossibile imbrogliare. E’ l’unica sincera. Non c’è colorante, non c’è tanto zucchero, né troppo alcool a coprirne i difetti.’ Italo ha un radar per gli errori. Ma il lavoro di trovare pregi e difetti, lo lascia volentieri ai sommeliers. ‘Alcuni sono bravi, senza dubbio. Ma ora va di moda ricamare tutte le cose. Italo dalla Corte


Antiche botti di rame, in una sala cottura decorata di mosaici laccati in oro, convivono con l'acciaio della meccanica moderna.

Pedavena. L’unico posto per capire veramente la birra. Ne spilla due bicchieri da una botte sospesa. E’ Birra Centenaria. Una birra particolare, in cui il lievito è fresco. La schiuma, da sola, fa già gola. Un brindisi e una sorsata. Nel bicchiere rimane ancora schiuma, un cerchio dall’interno segna tutte le sorsate che facciamo. E’ segno di grande qualità e pulizia del vetro. Birra fresca, non fredda. Consiglio di Italo: non bere mai birra fredda. E mai calda. Nelle pubblicità delle multinazionali la birra è gelata, ma è uno sotterfugio: il freddo anestetizza le papille gustative, e rende buona una birra che tale non è. Ho appena bevuto una delle cinque birre più buone al mondo. Scende giù, da sola. ‘La birra è viva, lo senti?’.

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Vorrei che mi spiegassero come fanno a sentire in un sorso di birra l’odore della liquirizia?. Italo ha ragione, ora la birra è diventata una moda. E’ contento che ci sia più attenzione verso questo mondo, ma in Italia non ne abbiamo cultura. Né nel berla, e sono soprattutto giovani, né per produrla. Da qualche anno a questa parte abbiamo assistito al boom di tante microbirrerie. Italo scuote la testa. Con scetticismo mi spiega che in Italia ci sono circa 720 birrerie artigianali. Tra queste, venti sono in mano a esperti, settecento, invece, a spacciatori. A subirne i danni non è il mondo della birra, ma gli stessi neo birrai. I più vengono imbrogliati dai commercianti di macchinari. Che succede quando, poi, viene fuori birra che fa schifo e va a male presto? Fare la birra, in fondo, è semplice. Non bisogna essere geni. Ma è necessario conoscere bene le macchine, gli ingredienti, le loro combinazioni, le temperature e i tempi giusti. ‘La birra è onesta. Non farle torti’. Ho capito, fare la birra è un’arte. Sono entrata in un mondo infinito. Italo mi spiega la storia della sua birra, la Castello. Mi mostra la fabbrica. Poi mi porta nella cantina della


elo gio del VIN O

E NOÈ PIANTÒ UNA VIGNA…

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Il Chianti è stato il primo vino italiano a ottenere la Denominazione d’Origine. Da Gilgamesh al barone Ricasoli. Il lungo viaggio dell’uva dalle solitudini dell’Anatolia e del Caucaso fino alle colline della Toscana.

ilgamesh, semidio dell’antichità più lontana e re sumerico, si illuse di trovare nella vite il segreto dell’immortalità. Noè, dopo gli esili a bordo dell’arca, non aspettò un solo giorno: appena sbarcato su una terra riemersa dalle acque del Diluvio Universale, piantò una vigna. Gli esploratori inviati in avanscoperta da Mosè tornarono da Canaan Testo e foto di Antonio Salti con melograni, fichi e un bellissimo grap-

Uva di timorasso, val Borbera, Piemonte

vinattiere di Alessandria del Carretto, Pollino, Calabria

polo d’uva: ottima ragione per convincere il condottiero biblico a proseguire la marcia verso la Terra Promessa. Niente male per un pianta dalle origini avvolte in misteri orientali: gli uomini dei monti Zagros, nella Persia occidentale, i contadini protostorici del Caucaso e dell’Anatolia centrale erano riusciti ad addomesticare l’arcigna vitis silvestris per trasformarla in vitis vinifera. Storia lontanissima: non sono poi molte le parole

che possono vantare un’antichità così smarrita nel tempo come il vino, la radice hittita (wiyana) è arrivata fino all’arabo (wayn) e al greco (woinos). E, mistero per mistero, impronte fossili di foglie di vite (e sono esemplari di vitis vinifera) sono state trovate dai geologi nei travertini toscani di San Vivaldo, di Poggio a Montone e delle Galleraie. Certezze da storici e da archeologi: in un saggio di etruscologia, Werner Keller scrive: ‘Semi


rinvenuti nell’area del Chianti dimostrano che furono gli Etruschi a introdurre la vite in Toscana dall’Oriente e ad acclimatarvela. Da qui i romani settecentocinquant’anni dopo la esportarono in Gallia e Germania’. ‘Ha ragione – mi disse, anni addietro, Giacomo Tachis, il più celebre fra gli enologi della seconda parte del ‘900 – gli Etruschi fecero della coltivazione della vite un’agricoltura importante’. Erano imponenti e selvaggi i vitigni dell’Etruria: crescevano come alberi, producevano tanta uva che i mercanti etruschi erano capaci di venderla, fin da allora, sui mercati oltre il mare. In fondo, i Greci conoscevano queste regioni dell’Italia centrale come Enotria, la ‘terra del vino’. ‘E’ vero – mi raccontò ancora Tachis – le vigne della Toscana furono impiantate sul mare. I territori del vino dell’antichità erano Maremma e le regioni costiere a sud di Livorno. I vini erano pigiati nei palmenti, i vitigni venivano piantati nell’agro di Cosa, a Sud dell’Argentario. Furono i mercanti senesi, nel più profondo medioevo, a cominciare a piantare vigne nell’entroterra’. Ben si capisce: il vino, dopo il pane, era l’alimento più richie-

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vigne del tignanello, San Casciano in val di Pesa, toscana

sto. Oltre l’acqua, non esistevano altre bevande. E il cristianesimo, complice i Vangeli, ne fece un pilastro della sua ritualità più sacra: vescovi, abati, monaci, curati di campagna e di città cominciarono a impiantare vigne attorno alle mura delle chiese, dei conventi, dei monasteri. I consumi di vino erano imponenti: nel XIV° secolo i fiorentini maschi ne bevevano 293 litri a testa. Niente in confronto ai senesi che, in quei secoli medioevali, affollavano le osterie: 419 litri a testa (pensate oggi, in Italia, se ne consumano meno di 40 litri). Fra Medioevo e Rinascimento le vigne della Toscana producono un Vermiglio rosso, forte, molto apprezzato. Nel 1280 fa la sua comparsa, portata dalla Grecia, anche la Vernaccia che comincia ad accerchiare le torri e le mura di San Gimignano. Nel 1348, un frate francescano cerca di lenire l’agonia degli ammalati di peste con del vino dolce: per la gente diventa subito ‘il vino santo’. I dati dei primi catasti toscani, introdotti nel 1427, sono chiarissimi: la Toscana produce già allora 140mila ettolitri di vino. E nei libri contabili di una società fiorentina, la Datini, appare una notazione destinata a passare alla storia: per un fiorino e mezzo è stato venduto un ettolitro di vino della zona del Chianti. Basti solo sapere che era vino bianco. Il rosso continuava a chiamarsi Vermiglio. Nel 1710, il primo fiasco di vino toscano varcò i confini del Granducato. Fu un successo. Un secolo e mezzo più tardi, nel 1868, Bettino Ricasoli scelse quel fantastico triangolo di terre fra Greve, Radda, Castellina e Gaiole come colline perfette per produrre i grandi rossi della Toscana. Solo sessanata anni più tardi, nel 1931, verranno fissati confini delle vigne di Chianti. Nel 1968, anno travolgente, il Chianti è il primo vino italiano a ottenere la Denominazione d’Origine.


PER L’ELOGIO DEL CIBO

Matthew Licht, 53 anni, ha più o meno mollato la montagna a favore della bicicletta. Scrive schizofrenicamente in inglese e in italiano, e spazia largamente tra racconti estremi e racconti per ragazzi. In inglese, ha già pubblicato The Moose Show, Salt Pubs.,candidato al premio Frank o’Connor; Westways, JrP ringier; The Niglu, Stanza 251, con foto di Carlo Fei; di prossima pubblicazione il romanzo The Withering Fire, Spider & Fish; e la raccolta di racconti Justine, Joe & the Zen Garbageman, Salt Pubs. In italiano ha già pubblicato Sognilandia, otto Luogo dell’arte; Blues x adulti, Blue Joint; e Lo Niglu, Stanza 251; di prossima pubblicazione il racconto Occhio cuore satana, Stanza 251, con foto di Baldomero Fernandez; e il romanzo Cottomale.

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LUCIO YUDICELLO, 62 anni, cordobese. Scrittore argentino. Ha pubblicato i racconti El derrumbe, 1985, Las voces, 1992, El sangrador, 2006, y Judas no siempre se ahorca, 2011. e i libri: La guerra invisible, 1994; Los nombres de la furia, 1994; Un camino sin rumbo y con destino, 1997; Las partidas del juez Belisario Guzmán, 2002; y Barrio Plateado, 2009. Suoi sono i saggi su: Ernesto Sábato, el revés de la utopía,1999, e su Brochero, el hombre,2012. Ha ricevuto numerosi premi letterari. Ha cinque figli e vive nelle colline chicas di Cordoba.

Lorenzo fontana, 34 anni, architetto genovese. da dieci anni vive e lavora in etiopia. Ha svolto attività di cooperante per diverse ong italiane, tra cui PS76, Progetto Continenti e il Centro Italiano Aiuto all'Infanzia. Lavora perlopiù in contesti rurali, dove cerca di stimolare attività generatrici di reddito di contadini, piccoli gruppi di enrique LòPez aguiLar, giovani e cooperative di donne. 59 anni, nato a Città del Messico. Narratore, poeta e saggiatore. dal isaBeLLa Mancini, 36 anni 1980, insegna al dipartimento di fiorentina. Blogger di vocazione. A Scienze Umanistiche della 18 anni comincia a collaborare con Universidad Autónoma de México. giornali locali. Professionista dal Ha scritto: Amor eterno, Los rostros 2006. Curiosa, appassionata, auto- de Urania, La espada entre los ironica, ama gli esseri viventi e labios, La fiesta es en casa. dal l'arte, la fotografia e l'etnobotanica. 2000 collabora alla colonna A lápiz nella La Jornada Semanal, Laura Mezzanotte, 53 anni, supplemento culturale del giornalista trentina. da vent’anni è quotidiano La Jornada. appassionata della politica africana e di tutto quel che accade sotto il feLicetta ferraro, 59 anni, Sahara da vent'anni. Ama, in modo ha insegnato storia dell’Iran presso particolare, il Sudafrica. l'Iuo di Napoli ed è stata addetto francesco faraci, 30 anni, culturale in Iran. dirige scrittore e fotografo siciliano, vive e Nel ultimi tempi si dedica ai viaggi immobili e alla scoperta di l'Associazione “Ponte 33”, dedicata lavora a Palermo, realtà che micromondi. ai rapporti culturali tra Italia e Iran. quotidianamente ritrae fuori dagli Insieme a Shiraz travel tour ha itinerari turistici per evidenziarne PaoLo BroveLLi, 48 anni, avviato il programma dalla Persia contrasti e contraddizioni. milanese. In viaggio da trent’anni, all'Iran: viaggio attraverso un paese Studioso di etnografia e inseguendo le geografie, le storie, che sta cambiando. Per saperne di antropologia documenta riti e le arti, l'uomo. Ha di recente più:http://shiraztravel.com/ tradizioni della sua terra e del pubblicato il suo secondo libro, In Mediterraneo con un occhio viaggio con l'infame (Corbaccio, giancarLo cittoLin, 59 ann, particolare alle minoranze. 2014). Accompagna gruppi di biologo nomade, vive a Bali molti mesi all'anno. S’interessa di fauna e cesare sartori, 65 anni, nato viaggiatori in avventure culturali in flora tropicali, antropologia delle a Udine, laurea in filosofia a trieste, quattro continenti. vive tra il Messico, Milano e il resto del genti Indonesiane. viaggia con per trent’anni redattore della mondo. Perché viaggiare allunga la moderazione attraverso le isole del Nazione di Firenze. Ha tre figli e vita. grande Arcipelago. Ama leggere e vive a Pistoia. Ama i buoni cibi e il s’illude di scrivere in uno dei suoi buon vino, i libri, la montagna, il blog. silenzio (non necessariamente in quest'ordine). Fuma il sigaro toscano e preferisce le amicizie femminili a quelle maschili.

HANNO SCRITTO PER NOI

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Luigi cojazzi, 38 anni, vive a Barcellona. Ha pubblicato il romanzo Alluminio (Hacca, 2007, vincitore della X edizione del Premio Città di Cuneo) e la guida narrativa 101 cose da fare a Barcellona almeno una volta nella vita (Newton Compton, 2012).


giorgio federighi, viaggiatore incallito, in cerca di un primo volo per, qualunque posto, è stato in Uzbekistan nel maggio giugno 2014. Insegnante di italiano a Mosca ha deciso di affrontare la carenza di sole della capitale russa spostandosi nei paesi limitrofi in cerca di storie e sapori nuovi. francesca caPPeLLi 22 anni studentessa in Lettere Moderne, crede che un giorno farà la giornalista, che sarà una viaggiatrice e crede nelle coincidenze.

HANNO FOTOGRAFATO PER NOI

giovanni Breschi, 62 anni, grafico poi anche fotografo. ogni viaggio, anche piccolo diventa un motivo per trovare una storia. Poi la racconta con la grafica o la fotografia, anche mescolandole.

Laurence underhiLL Laurence Underhill, 33 anni, fotografo, nato a Brighton, nel Sud dell’Inghilterra. Ha studiato storia antica a Bologna. e’ filosofo della storia e ha fatto il pizzaiolo in Sardegna. e’ stato fotografo dell’express and echo, giornale di exeter. Ha vissuto al Cairo la breve stagione della Primavera Araba. ora vive a Londra. Il suo lavoro è su http://underhillimages.photoshelter.com josè arariPe de souza, 68 anni, giornalista di São José dos Campos, nello stato di San Paolo

HANNO DISEGNATO PER NOI

daniLo f. BarBarinaLdi, 32 anni di Matera. Cresce tra cartoni animati e giochi con la plastilina, finché ragazzo s’innamora del fumetto che non abbandona mai, neanche durante un flirt con la pittura; o nelle sue ultime esperienze con il digitale e la cartapesta.

giovanni forLeo, 27 anni, nato a taranto. e’ conosciuto come giove. Nel 2007 conclude studi umanistici e musicali. Collabora con riviste e magazine di fumetto nell'ambito dell'autoproduzione musicale ed editoriale. Studia grafica delle immagini presso L'Istituto Superiore Industrie Artistiche (ISIA) di Urbino. roBerto ditaranto, 17 anni, materano, studente del liceo artistico. e’ allievo della scuola del fumetto redhouse Lab

Pino creanza, 56 anni, nato ad Altamura, vive a Conversano, in Puglia. Ingegnere, lavora in un’agenzia della regione Puglia. Coltiva la passione per i fumetti. Ha pubblicato ‘Cairo Blues’, libro a fumetti sulla capitale egiziana. Collabora con east, rivista di geopolitica. Ama viaggiare, fotografare, disegnare, leggere e raccontare storie.

angeLo PaLuMBo, 52 anni, materano. Insegna Storia dell’Arte. Per vent’anni restauratore di opere d’arte. Ha collaborato alla rivista ‘Frigidaire’. Ha pubblicato testi di grafica ispirati ai poeti del ‘900. Ha lavorato la cartapesta per il Consorzio di artigianato artistico ‘Altobello Persio’. Le ultime opere si ispirano al sociale. Ha partecipato alla sezione lucana del Padiglione Italia alla 54° Biennale di venezia.

GABRIELE GENINI 33 anni artista viaggiatore, nato in Svizzera, vive e lavora tra il suo piccolo atelier nel centro storico di Firenze e la sua casa a Pracchia, immersa nei boschi dell’Appennino pistoiese. diplomatosi alla Scuola del Fumetto di Milano nel 2000 e laureatosi all'Accademia di Belle Arti di Firenze nel 2006, cerca di sopravvivere con ciò che ama fare. www.geninni.ch www.quarantasetterosso.blogspot.it

HANNO TRADOTTO PER NOI

adriana aLtaMirano, 55 anni, è figlia del Nord ovest del Messico. È nata a Ciudad Mante, nello stato di tamaulipas. Negli anni ’70 e ’80 ha viaggiato per il mondo. Si fermò a Firenze, si sposò e adesso vive in questa città. Sorprese gli invitati al suo matrimonio cucinando pollo alle mandorle e peperoni e riso al vapore. da alcuni anni, è una blogger: appassionata di cibo, di cucina e di storia del pensiero umano, ne racconta le avventure in saporisaperi.blogspot.it. aLessandro Lanzetta, Fiorentino, 33 anni.Cooperante umanitario per lavoro, contadino per passione, fotografo per vocazione, curioso per natura. Per il resto non vuole scrivere.

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Luisa zhang, 33 anni, nasce in un villaggio dello zejiang, non lontano da Wenzhou. A dieci anni arriva in Italia. Indossa un grande fiocco rosa di tulle legato tra i capelli. diploma di ragioniera in Italia, ma studi superiori anche in Cina. Ha lavorato in un pronto moda pratese. Poi ha ne ha aperto uno proprio. e’ tornata in Cina da un anno. In cerca di una nuova fortuna.


STORIE DI LIBRI Una donna in fuga trova rifugio in un fiordo norvegese. Accolta da una frugale comunità luterana. Un giorno decide di preparare un grande pranzo. Fuori nevica. E così si rivela il potere alchemico e inspiegabile del cibo. Testo di Valentina Cabiale

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abette, Babette, Babette… Il nome sembra evocare una fanciulla sedotta e abbandonata nel XVIII secolo, che innacqua di lacrime le lettere che scrive da una canonica in campagna. Un vitino snello da piccola ape. No. (A chi scrive, poi?) No. Babette è una comunarda in fuga dalla Parigi del 1871 con l’accusa di essere una ’petroleuse’, ovvero di incendiare le case dei nobili con la paraffina. Una donna, al suo apparire nel paesino norvegese di Berlevaag, ‘tarchiata, bruna, mortalmente pallida’. Viene accolta come domestica dalle sorelle Martine e Philippa. Col tempo acquisisce serenità e sicurezza. E, soprattutto, sa cucinare. Con la pubblicazione nel 1950 di “Babette’s Feast” Karen Blixen accolse la richiesta di un amico inglese, Geoffrey Gorer, di scrivere qualcosa sul cibo. Blixen ambienta il racconto in un fiabesco fiordo norvegese dove il cibo è solo sopravvivenza.

Il piccolo capolavoro di Karen Blixen

E Babette cucinò… Brodo di tartaruga Blinis Dermidoff (grano saraceno con caviale e panna acida) Cailles en sarcophage (Quaglie in crosta con salsa Périgourdine: foie gras e salsa al tartufo) Insalata mista (Radicchio belga e noci in vinaigrette) Formaggi francesi Savarin al rum (Savarin al rum con frutta glassata) Frutta mista (uva, pesche, papaia, ananas e melegrane) Caffè Friandises (piccola pasticceria): pinolate, frollini, amaretti Vini: Amontillado Clos de Vougeot 1845 Champagne Veuve Clicquot 1860

Martine e Philippa sono le figlie di un pastore luterano fondatore di una setta dedita a un’esistenza dimessa, apparentemente armoniosa. Cercano di portare avanti l’opera del padre, morto da tempo, e il pensiero, quest’ultimo condensabile nel disinteresse completo per i piaceri terrestri (cibo, sesso, arte, seduzione, musica, desiderio, …), considerati illusori. È una piccola comunità dove tutti si considerano fratello

e sorella e per comunicare si limitano a un sì o un no. Martine e Philippa hanno una certa età. Sono alte, flessuose, vestite in grigio e nero. Vivono in stanze spoglie, con tavole non imbandite, mangiano stoccafisso e pane e birra. Martine non sospetta neppure che i vini possano avere un nome. Qualche rossore c’è stato, nella loro giovinezza. Babette arriva a Berlevaag raccomandata da


Achille Papin, un famoso cantante lirico che in gioventù si era innamorato di Philippa e della sua voce: un giorno la baciò e lei sospese le lezioni di canto. Altro sogno infranto, quello del giovane ufficiale Loewenhielm, invaghito di Martine ma incapace persino di trovare le parole per dichiararsi. Su Berlevaag grava un incantesimo di afasia e silenzio.

Le immagini sono tratte dal film ‘Il pranzo di Babette’, regia di gabriel Axel (www.centroculturaledimilano.it)

Ma un giorno Babette vince un’ingente somma alla lotteria e decide di impiegarla interamente per preparare un grande pranzo celebrativo per il centesimo compleanno del decano. Un vero pranzo francese. Le due sorelle storcono il naso ma poi, perché negarle l’unica richiesta che abbia formulato in tutti quegli anni? può essere riferito in modo preciso. I piccoli disaccordi e i dissapori depositati tra le pecore del gregge si risolvono ma in fondo queste sono banalità. Il cibo provoca un ridimensionamento dei rancori e una rivoluzione dei sensi. Eppure gli invitati rimangono quasi travolti dal mangiare e bere. Non è ubriachezza o ottundimento dei sensi: è esattamente il contrario, una percezione pura del cibo. E’ come improvvisamente ritrovare l’innocenza. Gli invitati sono ritornati a casa inciampando nella neve alta, si sono buttati sul letto e il mattino dopo non sono riusciti ad aprire la porta tanta neve era venuta. Magari non se ne sono neppure resi conto, del potere alchemico (e inspiegabile) del cibo di rendere più intime, più sensuali, la

conoscenza e la comprensione dell’altro. Lo si può solo sperimentare, in quel fiordo di Norvegia. Forse anche altrove. Le citazioni sono tratte da: K. Blixen, Babette’s Feast, con traduzione danese di K. Blixen, it. di P. ojetti (Scrittori tradotti da scrittori. Serie trilingue, einaudi, torino 1997). Il racconto fu scritto in inglese, in seguito tradotto in danese dall’autrice stessa. La trasposizione cinematografica del 1987 (regia di gabriel Axel, oscar come miglior film straniero del 1988) è molto fedele al testo originale, se non fosse per la mancanza (inspiegabile anch’essa) della neve.

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Il giorno dell’anniversario arriva insieme a una grande nevicata, biancheria e argenteria pulite, caraffe e bicchieri nuovi e una fila di candele al centro del tavolo. Gli invitati, fedeli al credo che è bene che niente dia più di tanto piacere, si promettono l’un l’altro di non commentare il cibo, di non sentire neppure i gusti. Per fortuna il vecchio Loewenhielm, capitato quasi per caso, non ha promesso nulla del genere e in preda a stupore ed estasi nomina uno per uno i vini e i piatti raffinatissimi preparati da Babette che tanto gli ricordano quelli gustati anni prima al Café Anglais (non a caso, perché Babette, lo rivelerà lei stessa, è stata per anni lo chef di quel rinomato ristorante parigino). Niente di ciò che accadde durante quel pranzo, ci dice Blixen,

Il pranzo di Babette, in Italia è pubblicato da Feltrinelli

STORIE DI LIBRI


UNA STORIA DALLA BOSNIA

I LAMPONI CHE CAMBIERANNO IL MONDO

Alla fine della guerra dei Balcani una donna decide di andare a vivere ‘nel cuore del mostro’. A Bratunac, pochi chilometri da Srebrenica. Là dove ogni famiglia aveva un dolore. Dieci donne crearono una cooperativa di produttrici di mirtilli, more e lamponi. E le donne sono state capaci di far rinascere una speranza in questa terra.

G Testo di Rocco Romeo Foto di Mario Boccia

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uardo la carta della Bosnia Erzegovina, disegnata dopo l’ultima, assurda e feroce guerra del ‘900. Una guerra combattuta in Europa. So dov’è Bratunac: è un confine, una cittadina di frontiera sulla sponda occidentale del fiume Drina. Sta nell’Est estremo del paese. Di là dal fiume è Serbia. So che questa è terra è chiamata Republika Srpska, l’ ‘entità’ serba (non sono stati capaci nemmeno di definirla con parole chiare) della Bosnia. E so che qui, undici anni fa, è voluta andare a vivere Rada.

Ho conosciuto Radmilla Rada Zarkovic un anno e mezzo fa a Torino. Una donna elegante, solare, balcanica. Sapevo qualcosa del suo passato: nata a Mostar, splendida città dell’Erzegovina, donna in nero contro la guerra a Belgrado negli anni delle bombe, profuga negli orrori dei primi anni ’90. Donna testarda: quando, dopo la fine del conflitto, dovette scegliere dove abitare e lavo-


marmellate e dei succhi di frutta. Conobbi Rada a Torino perché lei era nello stand della Coop, nella grande fiera biennale di TerraMadre, festa internazionale di SlowFood, ad annunciare che i prodotti della sua Cooperativa Insieme sarebbero, finalmente, apparsi sugli scaffali dei grandi negozi della Coop del NordEst. Un piccolo, grande successo per una storia cominciata nel 2003. Quando, appunto, Rada arrivò a Bratunac. Questa cittadina, prima della guerra, era a maggioranza musulmana. 35mila abitanti. Oggi ne conta, poco meno di ventimila. In gran parte serbi ortodossi. Mi dicono che il 60% degli abitanti sono donne. In più di mille sono capofami-

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rare arrivò proprio a Bratunac, dieci chilometri da Srebrenica, la città del più osceno massacro mai compiuto dopo la seconda guerra mondiale. Rada andò nel cuore del mostro.Là dove l’81% delle case era stato distrutto, là dove ogni donna aveva una ferita aperta nel cuore e nella pelle. A Potocari, a metà strada fra Srberenica e Bratunac, è sorto un campi di lapidi dove prima si coltivava grano. Da qui, da queste campagne insanguinate (censiti 8372 uccisi – seimilasessantasei sono stati ritrovati, identificati e sepolti - dalle milizie serbobosniache di Radko Mladic, con le Nazioni Unite che non alzarono un solo dito per impedire l’eccidio) bisognava ricominciare. E, non ci crederete, ma questa è una storia che ha la dolcezza delle


glia. I loro uomini, mariti, figli, fratelli, sono stati uccisi venti anni fa. Rada voleva che una speranza rinascesse nei Balcani e intuì che il primo passo doveva avvenire proprio nella regione di Srebrenica, dove il mondo era andato a pezzi. Questa donna ci diceva di avere coraggio: era necessario guardare in faccia l’indicibile e quanto non si poteva nemmeno raccontare.

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Un grande capannone dal color verde-pisello. Il rumore dei motori degli impianti di surgelazione. Una piccola pattuglia di donne al lavoro. Cassette di lamponi, di more, di mirtilli, di ribes. Qualche camioncino in movimento. Donne con le tute da operaie di un’industria alimentare. Aria indaffarata e sorridente. Questa, oggi, è la Cooperativa Insieme. Rada, nel 2003, riuscì a radunare dieci donne e quando dovettero scegliere un nome, ne decisero uno italiano. ‘Per evitare qualsiasi riferimento a un nazionalismo balcanico’, spiegarono. ‘Senza lavoro, senza economia, senza dignità non poteva esserci nessuna resurrezione, nessun riscatto’, raccontano oggi a Bratunac. Rada si guardò attorno: le sponde della Drina sono terra fertile, queste campagne, nella Jugo-


tono vittime, non vogliono risarcimenti. Vogliono lavorare. Si piantano così i primi germogli dei lamponi. ‘Se lavori assieme sei costretto a parlare, ad ascoltare, a conoscerti’, dice Rada. ‘Per dare una speranza alla pace non basta ricostruire mura e tetti sotto i quali abitare, né chiese e moschee dove pregare – mi racconta Mario Boccia, fotoreporter italiano che ha seguito passo dopo passo la storia della Cooperativa Insieme – Bisogna che ci siano le condizioni minime della vita: il lavoro, una comunità nella quale riconoscersi. Che l’altro non sia più il nemico. Bisogna uscire dal rancore per ricominciare’. Questa storia non è una favola. Dieci anni fa, la sfida di Rada e delle donne di Bratunac faceva tremare i polsi. Sono stati anni difficili. Più volte, si è rischiato il fallimento. Vi sono stati settimane e mesi lunghissimi di scoramento. Burocrazie da affrontare. Isolamento e diffidenza da spezzare. I soldi che non bastavano mai. Questa è una storia di tenacia, di orgoglio, di desiderio, di resistenza, di piccole felicità. Quasi non ci credo quando mi dicono che i soci di Insieme, oggi, sono più di cinquecento. A loro la Cooperativa vende, con meccanismi di microcredito, le piantine di cinque tipi di lamponi. Ogni anno le donne ne fanno crescere, in un vivaio di quattrocento metri quadrati, almeno 150mila. In un anno possono esservi anche due raccolti. E una piantina produce frutti per dodici anni. ‘E’ un investimento sul futuro – sorride Rada – Chi incomincia a produrre lamponi è tornato in questa terra per restare’. I contadini consegnano i loro raccolti alla Cooperativa. Ogni anno quasi 500 tonnellate. I piccoli frutti diventano marmellate e succhi di frutta. Il 90% della produzione di Bratunac è destinata all’esportazione. Solo un terzo dei musulmani che abitava nelle campagne di Bratunac prima della guerra è tornato a viverci. Non stupitevi, non è poco: è la più alta percentuale di ritorni nelle regioni della Bosnia orientale, in terre oggi a maggioranza serba.

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slavia, erano celebri per la loro particolare agricoltura. Qui si coltivavano i ‘piccoli frutti’. I lamponi e le more, le fragole e i mirtili. Era il 90% dell’economia di questa regione. Un mondo rurale. I contadini possedevano piccoli appezzamenti. Un ettaro. Qualcuno riusciva a coltivare fino a cinque ettari. In più, qualche vacca e qualche pecora. Ma la terra è davvero un ponte dal quale si può ripartire. Rada e le sue amiche discutono, parlano, incontrano associazioni e organizzazioni italiane, approntano progetti di cooperazione. Nasce la cooperativa. Maggioranza di donne come soci. Donne serbe e bosgnacche. Ortodosse e musulmane. Vogliono trovare una lingua comune. Fare marmellate (che sempre hanno fatto) ed elaborare un lutto. Cacciare il proprio dolore e capire il dolore delle altre. Non si sen-


Nessun musulmano, nel 1995, dopo il massacro di Srebrenica, era rimasto a Bratunac. La Cooperativa Insieme ha dato una possibilità a chi voleva tornare. Confesso di avere avuto voglia di chiedere a Rada cosa sia. Serba? Croata? Bosgnacca? Musulmana? Cristiana? Non lo so. Non ho chiesto. Non indago sul suo cognome. So che farei un torto a Rada se facessi una simile domanda. So che si arrabbia se diciamo ex-Jugoslavia. Lei è ancora jugoslava, slava del Sud. Adesso, se andate nelle Coop del Nord-est, tro-

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verete (spero) le marmellate e i succhi di frutta della Cooperativa Insieme. E’ stato un lungo percorso. Una trattativa ostinata. Questa è la storia di una resurrezione, ma è anche la cronaca di ostacoli continui. Di fatiche quotidiane. Il mercato non è amico delle donne dei lamponi. Mi spiegano che le marmellate dei produttori polacchi hanno sostegni comunitari. Soldi che non possono avere le donne bosniache. Le banche sono indifferenti alla speranza e alla voglia di rinascere. Hanno occhi solo per i conti della coo-

perativa. Che non sono floridi. Ascolto queste preoccupazioni. Poi, con un piccolo cucchiaio, assaggio le marmellate. Prima quella di more. Poi quella di lampone. Sono una delizia. E mi convinco che anche il mercato sarà benigno verso questa storia. Rada mi guarda mentre compro un vasetto della sua marmellata: ‘Forse lo hai fatto perché vuoi darci un mano. Grazie. Vorrei che tu comprassi il prossimo vasetto perché ti è piaciuta la nostra marmellata’.

Per ordinare i prodotti della cooperativa insieme e per saperne di più:

Indirizzo postale: zz “Insieme” Svetog Save bb Bratunac, 75 420 Bosnia-erzegovina

info@coop-insieme.com www.coop-insieme.com

tel. (english) +387 (0) 63 991 156 tel. (Italiano) +387 (0) 63 991 165 Fax : +387 (0) 56 410 013

Mario Boccia, 58 anni, romano (e romanista), è uno dei migliori fotoreporter italiani. I Balcani sono la sua vita. ricorda che vi andò per la prima volta a sette anni. La guerra ha lasciato dentro di lui storie che mai dimenticherà.


l più grande successo dell’euro’. Un gruppo di ragazzi voleva raccontare, qualche mese fa, quanto stava davvero accadendo in Grecia dopo il fallimento del paese e le misure d'austerità decise dall’Europa. Appena arrivati ad Atene ci siamo incontrati e io mi sono unita a loro. Parlavamo di politica ed economia. Raccontavamo del collasso della sanità, della disoccupazione, della povertà. E, poi, ci siamo imbattuti nel cibo. Peggio: nella mancanza del cibo. Gran parte dei greci ha fame. Non riescono a comprare cibo a sufficienza per la loro famiglia. Io, fotografa italiana, ho provato a documen-

‘I Testo e foto di Anna Daverio

IL 60% DEI GRECI, QUASI OGNI, GIORNO MANGIA ALLE MENSE DEI POVERI. NEI QUARTIERI DELLE CITTÀ NASCE UNA NUOVA SOLIDARIETÀ. LA CONDIVISIONE AIUTA A SOPRAVVIVERE IN UN PAESE MORENTE

tare, con le immagini, questa storia drammatica. Il cibo di strada, lo street food, è un mangiare popolare, storia e cultura di un paese, di una città. In Grecia, in questi ultimi anni, è diventato cibo di soccorso. Il 60% dei greci e il 40% degli immigrati mangia, quasi ogni giorno, nelle mense popolari. ‘A Patrasso, mille e duecentosettanta studenti vivono ormai in condizioni di insicurezza alimentare - avverte il blog Atene Calling - Secondo i dati ufficiali, in questa città e in altre regioni della Grecia, si stanno manifestando fenomeni di difficoltà a procurarsi cibo. Fino a

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CIBO DI SOCCORSO


poco tempo questo accadeva solo nei paesi in via di sviluppo. La fame, media o intensa che sia, influisce direttamente sulla salute e sullo sviluppo della popolazione infantile della regione.” Per fronteggiare queste gravi situazioni sono nate molte strutture che forniscono assistenza medica, cibo, vestiti. Sono organizzazioni finanziate da partiti politici o gestite da volontari. Disoccupati e lavoratori danni una mano, assieme a persone esperte. Sono nate molte mense, di cui la maggior parte è gestita dalla Chiesa Ortodossa. In alcuni casi il mondo del volontariato ha lasciato le proprie sedi ed è uscito per strada. Un esempio è la cucina sociale O allos anthoropos, ‘L'altro uomo’. I suoi volontari spiegano che questa idea è nata dopo aver notato l'aumento del numero di per-

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sone che, dopo la chiusura dei mercati, ad Atene, si metteva a frugare tra gli scarti e i rifiuti pur di trovare qualcosa da mangiare poiché non potevano permettersi di comprarlo. L'associazione ha cercato di agire su più fronti: grazie a venditori e produttori ha offerto cibo e ha invitato a consumare i pasti tutti insieme, cercando di eliminare quel disagio, quel senso di inadeguatezza che la povertà provoca.

La cosa che più mi ha colpita dei greci è stata questa volontà di aggregarsi, aiutarsi, condividere. Certo, non tutto il paese è stato solidale, ma molte persone si sono mosse e questo ha, almeno, permesso a molte altre di sopravvivere. Il giorno che incontrammo i volontari di O allos anthropos eravamo in un quartiere centrale e malandato di Atene. A un certo punto si avvicina ai tavoli una giovane donna bionda con un bam-


anna daverio, 25 anni, pavese, erasmus a Lisbona, diploma alla Nuova Accademia di Belle Arti a Milano con la tesi su ‘Camera oscura: discussioni sul reale’. Nel 2013, grazie a un bando europeo, vive sei mesi ad Atene per lavorare al suo primo reportage.

Per saperne di più: www.greece.greekreporter.com /2013/11/04/thousands-of-homeless-in-greece/

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bino per mano. Non aveva più di trentacinque anni. Prende il cibo, si sposta per mangiarlo. I suoi gesti erano di dignità, ma io ho provato una vergogna incredibile: Per me stessa. Quello che mi ha insegnato quella donna, solo guardandola, quello che può insegnare a tutti noi è che, a volte, privarsi degli eccessi e condividere con gli altri è il miglior modo per aiutare.

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UNA FOTO UNA STORIA

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questa immagine raffigura la più pura delle felicità. il cibo, a volte, è come l’amore: è beatitudine, quasi un’estasi. il ragazzo palestinese ha appena messo in bocca un pezzo di pita intinto nell’hummus. cosa può dare più gioia? i suoi occhi, il suo volto, la sua mano, la sua guancia gonfia del boccone ne sono la prova: per questo si vive, per momenti come questi. La delizia che entra dentro di te e si irradia, con un brivido, per tutto il corpo.


LA FELICITÀ È UN HUMMUS DI ANDREA SEMPLICI

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o imbarazzo a scrivere di questa foto. era da molto tempo che desideravo che uscisse dal mio computer per conoscere una sua vita anche se limitata allo strano e, per me incomprensibile, mondo del web. Perché questa immagine appartiene al piccolo gruppo di foto che, per strane alchimie, si scattano da sole: è la macchina fotografica a tirarti le braccia, a costringerti a dare attenzione, a premere, per te, il pulsante di scatto. questa immagine raffigura la più pura delle felicità. il cibo, a volte, è come l’amore: è beatitudine, quasi un’estasi. il ragazzo palestinese ha appena messo in bocca un pezzo di pita intinto nell’hummus. cosa può dare più gioia? i suoi occhi, il suo volto, la sua mano, la sua guancia gonfia del boccone ne sono la prova: per questo si vive, per momenti come questi. La delizia che entra dentro di te e si irradia, con un brivido, per tutto il corpo. Però sto scrivendo della soddisfazione di un ragazzo palestinese, nei giorni (luglio di quest’anno) in cui altre decine di ragazzi stanno morendo a gaza sotto le bombe di israele. vorrei mettere a fianco le immagini della disperazione di padri e

madri, dagli abiti insanguinati, a quella di questo ragazzo felice del suo cibo. non lo faccio. Lo scrivo. Perché, ma è così facile dirlo a duemila chilometri da quella prigione che è gaza, sui piatti di una bilancia la vita deve pesare sempre più della morte. Perché bisogna ostinarci a credere che ci sia un futuro in una terra che non ha niente di santo. L’hummus non fermerà la violenza.

questa foto mi è sempre rimasta impressa. riappare ogni tanto nella mia memoria. non è nemmeno mai pensato a tramutarla in bianco e nero. racconta l’istante. e’ vero: si scattò da sola. ero seduto ai tavoli della bottega di abu shaker. tavoli sul marciapiede. quartiere arabo di wadi nisnas. ad haifa, città del nord di israele. in quei tempi, il locale, soprattutto all’ora di pranzo, era affollatissimo. qui saltavano le differenze, vi era una creolizzazione apparente, volevo credere alla possibilità di una convivenza: ragazzi palestinesi sedevano gomito a gomito con giovani ebrei. intingevano il pane nella crema di ceci con lo stesso gusto. non sapevi nemmeno distinguerli. scattavo delle foto, con le dita ben sporche di hummus, perché avrei voluto metterle in fila e poi chiedere a chi le avesse viste: rico-


a quell’epoca non rispettavo la regola che oggi ti senti in dovere di osservare. sì, conoscevo bene le parole di robert capa: ‘se le vostre foto non sono buone, non siete abbastanza vicino’. oggi vado più vicino di quando andassi allora. e’ vero: anche allora usavo per lo più grandangoli. Mi portavo dietro l’inutile peso di una lunga focale, ma era una fatica irragionevole, non lo adoperavo quasi mai. Mi piace andar vicino. La fotografia è una relazione, non un gioco a nascondino. Però, devo confessarlo, quel giorno, seduto a quel tavolo, ero in pace con me stesso. non avevo voglia di muovermi. abu shaker, senza nemmeno che ordinassi, era arrivato con piattini di cipolle in aceto, piccoli peperoni, tre falafel e qualche cavolfiore tinto di rosso: stuzzichini per preparare il palato alla prelibatezza dell’hummus. Mi piaceva l’aria serena di questo posto. c’era anche una brezza di mare. Montai il 70-200 sulla macchina e la poggiai fra i piattini. troppo ingombrante, quell’attrezzatura. Presi in mano quel peso e feci girare l’occhio fra i tavoli. i volti, mi piacevano. c’era gioventù, bellezza,

piacevolezza, futuro. in israele capita raramente di sentirsi tranquillo. nei locali vieni sempre perquisito all’ingresso, spesso il tuo vicino di tavolo è armato come rambo, fai l’abitudine ai fucili e alla paura. da abu shaker non era così. si stava bene su quel marciapiede di haifa. era il mondo come doveva essere, almeno per il tempo di un hummus. fotografai una ragazza alla quale avrei giurato eterno amore, se solo avessi avuto coraggio (stolto, perché non l’ho fatto). facevo un solo scatto. non mi nascondevo, ma credo che nessuno si accorse di me, distratti com’erano dai piatti. e tanto meno non mi degnò di attenzione quel ragazzo palestinese. un ragazzino, in realtà. stava all’angolo di un tavolo e se la godeva. il mio obiettivo non ha indugiato su di lui. La foto si è davvero scattata da sola, nel momento perfetto di un piacere sconfinato.

e io vorrei che questa fosse l’immagine della possibilità della Palestina. andrea seMPLici, 61 anni, giornalista fiorentino. Cerca di vivere più a Sud. Coordina la nonredazione di erodoto108. e continua a chiedersi le ragioni di questa fatica. Non ha risposte, continua a farlo. L’Amazzonia è stata parte della sua vita. Nel 1992 era al grande incontro di indios e ambientalisti ad Altamira sul rio Xingù. vi è tornato altre volte. e il grande Fiume non lascia in pace. Bisogna tornare in quelle acque, starne al centro, là dove non si vedono le sue sponde.

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noscete chi è ebreo e chi è palestinese?


STORIE DI TEATRO DA MANGIARE Attori, contadini, il 1989, un podere in una valle dell’appennino emiliano: attorno a Stefano e Paola si ritrovano teatranti, commensali, amici, spettatori, galline e cani. E la farina, l’acqua, il sugo diventano racconto, emozione, bellezza.

Bologna

La grande, piccola avventura delle Ariette

LA SODDISFAZIONE DELLA CAROTA (E DEI TORTELLINI)

Testo di Tommaso Chimenti e spirituale. Non volevano rimanere schiacciati fra lamentele quotidiane e telefonate ad assessori disattenti. Paola e Stefano presero in mano la loro vita. Non avevano soldi, ma le idee non si possono fermare perché manca qualche lira in tasca. C’è un podere dimenticato, disperso tra colline e bosco. Fra Bologna e Modena. Una valle umida, verde, scura, dove puoi ritrovarti, sentire il silenzio, veIl 1989 è l’anno attorno al quale ruota dere il buio. la storia di Paola Berselli, 56 anni, e Stefano Pasquini, 54 anni. Non fu un Il podere si chiama Le Ariette. Forse anno casuale. Finivano le ideologie e per il vento che vi soffia di continuo. loro, coppia sulla scena e nella vita, Stefano e Paola cominciano a lavorare decisero di lasciare Bologna. Non si la terra, ad accudire animali, a fare il ritrovano più nella loro città. Se ne formaggio, a mangiare i prodotti suandarono. Un breve viaggio, politico dati, coltivati, amati. Gli attori di Bo-

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e pentole in fondo alla sala stanno gorgogliando. Sbuffano nuvole dense di vapore. Questa non è una trattoria di campagna, forse vorrebbe esserlo. E’ un teatro. Senza poltroncine e palco. Sì, ci sarà qualcuno che racconterà, un teatro d'orazione, e ci sarà chi, seduto attorno a una grande tavola imbandita, ascolterà senza filtri o barriere. E’ il Teatro delle Ariette.

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logna, alle Ariette, diventarono contadini. E si chiesero: perché non unire i due mondi? Perché non raccontare il piccolo che accade nella valle, le giornate nella terra, gli attimi quotidiani, il passaggio delle stagioni, e, soprattutto, il cibo? Perché non portare in scena l'arte di crescere il grano, di farne farina e poi cucinare per chi, come pubblico, si siede attorno a una tavola. Un pubblico che non è platea distante, ma diventa comunità, amicizie, famiglia. Nel Deposito degli Attrezzi del vecchio podere, ex rimessa per gli attrezzi diventata teatro, scatta ‘qualcosa’. Ascolti le Ariette che si mettono a nudo, trovi lampi e brividi nelle loro parole. E la cucina può e fa molto. La condivisione della tavola elimina le differenze di esperienze ed età. Una tavolata imbandita, Stefano e Paola cucinano per noi e ci raccontano


Le Ariette sono uomini e donne dai volti quieti, infondono fiducia, ma guai a farne un ritratto ingenuo, di fuga dalla città. Nella valle si è lontano da bisogni frivoli. Non c'è connessione, funziona solo il telefono fisso. Ma c’è la coda per venire a sentire/vedere, e mangiare con Le Ariette.

Paola legge i suoi diari, Stefano fa i riccioli alla pasta e li chiude ad arte sentendo la grana della sfoglia. I tortellini stesi e distesi come tanti bagnanti sulla spiaggia. Aspettano i vapori del brodo. C’è l'insalata da

Alla fine ci si saluta. E dove mai capita in un teatro? E due parole vengono ripetute: ‘emozione’, e poi ‘grazie’. Alle Ariette si è ben accolti, non si sta solo ascoltando o mangiando. E' la semplicità che impressiona e lascia

segni indelebili. Non è teatro, ma una vera e propria esperienza. Dalla quale ricavare linfa vitale. Consapevolezza dell'infinito. Poesia. L'aria e il cibo sono buoni in questa valle. toMMaso chiMenti, 41 anni, fiorentino, critico e autore teatrale. Collabora al ‘Fatto Quotidiano’. Ha lavorato per il ‘Metropoli’ e per il ‘Corriere di Firenze’. Scrive per i mensili ‘Lungarno’ e ‘Ambasciata teatrale’. Fa parte della giuria del Premio ‘rete Critica’. Ha curato il volume Mare, Marmo, Memoria sull’attrice-autrice elisabetta Salvatori (edizioni titivillus).

STORIE DI TEATRO

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preparare, il dolce. Il forno da controllare. Ci sono le lacrime vere per le perdite e i morti. Ci appassioniamo per la volpe che uccide le galline per dare da mangiare ai propri cuccioli. I contadini vogliono difendere le galline, ma non vogliono far del male a quel piccolo animale dalla coda fulva.

della loro vita. Le Ariette ci fanno entrare nel bosco del loro mondo. Attenzione, questa non è una terra di favole, la valle non è Alice nel Paese delle Meraviglie. Qui fa freddo, le mani si screpolano. C'è da lavorare a schiena curva e la terra è sempre bassa. Ma c’è la soddisfazione della carota che spunta a fare capolino e vederla lì sul piatto mentre l'attorefattore-contadino miscela la propria esistenza con Camus o Pasolini, è una sorta di esaltazione. Accade qualcosa di sublime alle Ariette, visibile e tangibile come le nuvole, da acchiappare con lo sguardo, con l'impasto dei cinque sensi.


VOLTERRA, CARCERE

CENE GALEOTTE

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Testo di Isabella Mancini Foto di Massimo D’Amato


dalle torri si vede il correre delle colline giù tra i calanchi, verso i pinnacoli di fumo di Larderello, da un lato, o verso il mare, dall'altro. Lo sguardo si ferma sui dettagli del cammino di ronda. Poi tra gli alberi spunta l'altra istituzione di volterra: l'ospedale psichiatrico, abbandonato nel 1978, dopo quasi cento anni di attività.

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i fornelli Nicola Schioppo, chef dell'Osteria Cipolla Rossa che affila i coltelli sotto le cupole delle Cappelle Medicee in San Lorenzo, a Firenze. I suoi aiuti cuochi sono sette: tra loro Massimo, Vincenzo, Gennaro, Pierluigi e Vito. Insieme stanno preparando il patè per i crostini alla toscana, sfornando la schiacciata, lasciando intiepidire il tortino di piselli in fonduta di parmigiano. Non siamo però in un grande ristorante stellato ma in una Fortezza Medicea: la Fortezza di Volterra che ospita la Casa di reclusione penitenziaria della città.


La Pizza può essere con o senza pomodoro. Bianca come questa, da poco sfornata.

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Cinque romaioli, tre forchettoni, una, due e tre schiumarole. Si perde il conto. Numero una frusta, una spazzola di ferro, nove palette di plastica, sette schiumarole, quattro forchettoni e undici mestoli: sono tutti annotati su un blocco, niente deve andar perduto. Dal sito web del Ministero di Grazia e Giustizia si può leggere cosa può entrare da mangiare in carcere, durante le visite familiari. Pesce cotto sì, crostacei no. Pane tagliato a fette sì, con semi sulla crosta no. Mozzarella solo se a fette e scolata del siero. I dolci di produzione solo industriale, imbustati. Ma per tre giorni al mese nella cucina del carcere si preparano


tortino di piselli alla fiorentina in fonduta di parmigiano: il confine tra dolce e salato.

L'olio olio ma solo extravergine d'oliva fa risaltare il profumo della carne. Ma anche delle verdure, del pane, etc …

menù di alto livello. Questo grazie alle “Cene Galeotte” vincente iniziativa di Unicoop Firenze, che fornisce le materie prime e assume i detenuti-cuochi, e che da anni sta facendo entrare dentro al carcere decine di cittadini. Si investono così 35 euro per la cena che vanno a sostegno dei progetti Un cuore si scioglie ovvero le attività di cooperazione internazionale della grande catena di distribuzione fiorentina. Il primo appuntamento della nuova edizione del 2014 c'è già stato, a settembre con la collaborazione di Gionata d'Alessi dell'Osteria Magona di

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Borlgheri. Prossima data il 24 ottobre con Claudio Vincenzo della Limonaia di Villa Rospigliosi di Prato, mentre il 21 novembre sarà la volta di Pasquale Torrente, di Cetara (Al Covento), e il 19 dicembre da Firenze arriva Alessandro Zanieri del frescobaldi Wine Bar: sul sito www.cenegaleotte.it tutte le indicazioni su come fare a prenotarsi. Un'esperienza intensa, come altre che si fanno tra queste mura, pensando al teatro della Compagnia della Fortezza guidato da Armando Punzo, che non può lasciare indifferenti e che offre l'occasione di poter vedere le cose sotto un altro punto di vista.


da “Il maschio di volterra”, canto che racconta le vicessitudini di Cesare Batacchi, anarchico, accusato di aver lanciato una bomba in via Nazionale a Firenze.

MassiMo d’aMato 59 anni, fotografo impegnato nel sociale. con Biancalisa conti, fotomorgana e Letizia sgalambro ha costituito l’associazione azzerokm per raccontare storie individuali e collettive.

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in queste quattro mura sì malidette la meglio gioventù io l'ho qui passata si portano l'offese a noi dirette nel pronunciarci la galera a vita mondo crudele che hai dato luce a me son vittima di agenti di rinnegata fe'.


I CUOCHI ALTRI

Mensa della Caritas di Matera: oggi pastasciutta e domani minestra con i carciofi. Un ragazzo lascia una focaccia e un contadino le sue verdure. Regola d’ora: ‘A far bene le cose si vuole lo stesso tempo che a farle male’.

FILOMENA, CUCINARE CON QUEL CHE ARRIVA

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‘Ho voglia di demagogia. A Ibiza, al ristorante di Paco Roncero, l’allievo prediletto del cuoco-star Ferran Adrià, si mangia hi-tech. Ha aperto il primo giugno di quest’anno: 1650 euro a testa per venti portate. Scrivono che, nel piatto, le pietanze sembrano una cosa, ma, in realtà, sono un’altra. Conosco il volto da joker di Paco. Ho in mente il viso beffardo di Vissani. E l’eleganza snob di Adrià. Confesso mi piacerebbe vederli all’opera alla mensa della Caritas a Piccianello, quartiere di Matera. Mi piacerebbe vederli all’opera nelle cucine delle caserme, degli ospedali, delle carceri, dei traghetti, delle Feste dell’Unità. Sono certo che riuscirebbero a cavarsela. Noi vorremmo conoscere anche i volti e le abilità di chi ogni giorno cucina in questi luoghi. Affidategli una rubrica in Tv e invitateli alla festa di SlowFood.’

Testo e foto Andrea Semplici

A

l lunedì, Filomena dice che se la cava. E’ il pranzo del primo giorno della settimana. ‘Non c’è un granché. Cuciniamo con quello che abbiamo’. Giorno di pastasciutta, allora. E salsicce. In più, formaggio asiago. ‘So che qualcosa accadrà – è certa Filomena - Stamattina non avevo nemmeno una foglia d’insalata, è passato un ortolano e me ne ha lasciata a sufficienza’. Sorride Filomena mentre rigira il sugo per la pasta. E’ avvolta in una piccola nuvola di vapore. Ha 66 anni. E da dodici è cuoca nella mensa Caritas di Matera.

Quartiere di Piccianello. Quasi periferia orientale della città. Case popolari, palazzine a più piani, piccoli balconi dai quali pendono i panni. La mensa è due passi dalla Chiesa della Santissima Annunziata. E’ una sala rettangolare dalla volta cilindrica. In tarda mattina qualcuno già

aspetta di fronte alla chiesa. Si mangia a un quarto a mezzogiorno. Arrivano immigrati (qualche ragazzo africano, poi slavi, moldavi, bulgari, qualche arabo). Pochi materani. A volte hanno imbarazzo, vengono al-


Numerosi gli ospiti abituali. Ci sono i vecchi alle prese con la loro solitudine. Tutti sanno che qui si mangia bene. ‘Arrivano e hanno fame. Molti sono digiuni dal giorno prima’. Eleganza dei tavoli: tovaglie bianche, c’è un pezzo di Colomba, ci sono le

Dodici anni fa, Filomena rimase vedova. Sapeva cucinare, dieci persone ogni giorno a tavola. ‘A volte preparavo pranzi per trenta persone’. Sapeva fare il pane, Filomena. La pasta fatta in casa. Don Giovanni Mele era il prete di Piccianello da mezzo secolo.

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l’ingresso posteriore con un contenitore di plastica. Per non farsi vedere troppo. Ci sono alcune donne. ‘Qualche tempo fa erano molte di più. Facevano le badanti. Ora vengono per lo più uomini. Molti sono giovani’.

arance. A dare una mano a Filomena, Giulia e i suoi 84 anni, e una piccola pattuglia di donne. Vanno detti i loro nomi: Paola, Mariangela, Bruna, Giovanna…e poi, ogni giorno, qualcuno viene a dare mano ai tavoli.

La gente del quartiere lo adorava. Fu lui a volere la mensa, Giulia è sua sorella. Il prete aveva bisogna di una cuoca e Filomena aveva bisogno di un’altra vita. ‘Dovevo uscire di casa, avere qualcosa da fare’. Da allora, ogni


giorno, alle sette e trenta, comincia a spentolare nella piccola cucina di Piccianello. Con un principio: ‘A far le cose bene, ci vuole lo stesso tempo che a farle male’. ‘Qualcosa arriva ogni giorno’, dice Filomena. Ed è vero: alla porta si affaccia un ragazzo con una grande focaccia avanzata da una festa di compleanno del giorno prima. Un bar, ogni sera, porta le paste invendute. La Iper-

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Coop regala alla mensa i prodotti vicini alla scadenza. Un contadino, dopo essere passato dal mercato, lascia patate e cipolle. ‘E nemmeno lo conosciamo’. Ogni giorno, il fruttivendolo di Piccianello arriva con cinque, sei cassette di insalata. ‘Scattiviamo le verdure: nel brutto c’è il buono. Non faccio niente di meno di quello che farei a casa mia’. Il formaggio Asiago è arrivato dal Banco Alimentare. ‘Compriamo solo il sale, l’olio,

menica, immancabile, è la pasta al forno, piatto della festa a Matera. Piatti, bicchieri, posate e cucchiai di plastica. ‘Non c’è altro modo – dicono – Regola di igiene’. Peccato, per le mie idee anti-plastica. Niente vino in tavola. ‘Troppo rischioso, molta gente ha problemi con l’alcool’. Sono ottanta oggi nella sala della mensa. ‘Non c’è problema, abbiamo pasta a sufficienza’. Ha imparato l’arte della pazienza, Filomena. Non si scoraggia, non

la farina. A volte la pasta’, spiega si lamenta. Scopro le doti di una cuoca di frontiera. ‘Ci vuole Giulia. anche l’età – dice – Se sei troppo Alle otto, Filomena comincia a giovane, alla fine non reggi quepreparare il sugo. Arriva un dono sto ritmo, la fatica di ogni giorno. di carciofi e piselli. E allora lei E’ la volontà che ti tiene in già pensa alla minestra per il piedi’. giorno dopo. Ha in mente il ritmo settimanale del menu: la Alle una, rimesso a posto la cupastasciutta tre volte a settimane. cina, Filomena va a casa. A Al martedì, pasta con le lentic- piedi. Nel pomeriggio c’è da cuchie. Riso al venerdì. E alla do- cinare per la famiglia.


‘Alzò un coperchio e tolse una pentola dai fornelli. Versò del sugo rosso in una scodella e la mise in tavola. Tolse i coperchi dalle altre pentole e controllò che tutto fosse a puntino. In tavola c’erano prosciutto al forno, patate dolci, purè di patate, fagiolini, pannocchie, insalata. Il pane di Fran faceva bella mostra di sé accanto al prosciutto’. Raymond Carver Cattedrale

O T I N I F

È O B I C IL

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S T O R I E I TA L I A N E / R E P O R TA G E erodoto108 • 8

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FERRARA È UNA Passeggiata lenta, a suon di jazz La città è segreta: si nasconde dentro se stessa come una bambola russa. Percorsa da biciclette e abitata da studenti erasmus e del Sud. Da Ariosto a Bassani, dai buskers al sorprendente festival di Internazionale. I vecchi soli del centro. L’illusione di non avere rimpianti. La nube del petrolchimico una delle più belle cattedrali italiane. Testo di Sandro Abruzzese Nella foto: Piazza trieste e trento, a Ferrara. Foto di Sandro Abruzzese

“B

envenuti a Ferrara”, recita un enorme cartellone situato sul retro della stazione ferroviaria, città patrimonio dell’umanità. Nel tragitto, dalla stazione verso il centro, un gitano suona la sua fisarmonica scassata, poco dopo una palestra di boxe, ambulanti vicino allo stadio, un centro massaggi che promette molto di più. Sono in via Cassoli. Ancora, agenzie im-


MATRIOSKA

mobiliari, i bar degli asiatici e gli shop a orario continuato in via Garibaldi. Eccomi finalmente nel ventre. Ne riconosco il suono fatto di buste della spesa e tacchi alti, delle pedalate degli universitari dalle barbe incolte sulle biciclette rubate. Ascolto il suono della città e tento di seguirne il ritmo. Il passo d’uomo e quello delle bici. Già! La città delle biciclette. Capace di avvol-

gerti e cullarti nel suo mondo, un andamento inconfondibile, non veloce, ma mai del tutto lento. L’atmosfera sembra immobile nel tempo, spesso colpisce chi la scopre, a volte conquista. Per scriverne incontro Paolo Zappaterra, un fotografo che ha raccontato Ferrara con rara efficacia. Davanti a un aperitivo, in uno dei bar di via Mazzini, cuore del ghetto ebraico, mi parla della città che stregò De Chirico e Carrà per “la


Già! La città delle biciclette. Capace di avvolgerti e cullarti nel suo mondo, un andamento inconfondibile, non veloce, ma mai del tutto lento. L’atmosfera sembra immobile nel tempo, spesso colpisce chi la scopre, a volte conquista.

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sua atmosfera ferma e chiusa, stimolo per l’elaborazione del fantastico dai tempi dell’Orlando furioso”. In giro per il centro è impossibile non notare le particolari prospettive sfalsate di alcuni luoghi, dovute principalmente al cedimento del terreno mutevole della bassa, capace così di generare geometrie inedite, di donare prospettive uniche. “Ferrara abbandonata dagli Estensi è rimasta quella che era, questo uno dei suoi segreti”, sostiene Paolo. “Nessuno, nemmeno autori cinematografici come Antonioni e Visconti, sono riusciti a coglierla completamente”. Basta uscire dalla cinta muraria verso il delta del Po per capire cosa intenda Zappaterra con le parole che seguono: “l’orizzonte infinito del delta produce benessere, amplia e libera la mente, il contrasto tra ciò che esiste fuori dalle mura e quello che avviene dentro rappresenta in parte la dimensione metafisica di Ferrara”. Mentre ho ancora in testa le parole e le foto di Zappaterra, continuo a vagare nei posti che più amo della città. Sono nell’Addizione Erculea, la parte costruita con princìpi razionali da Biagio Rossetti alla fine del ‘400 su commissione del duca Ercole I, da cui prende il nome. Un allargamento che valse a Ferrara la fama di prima città moderna d’Europa. Una città rinascimentale unita alla preesistente zona medioevale attraverso la copertura del fossato della Giovecca, con strade larghe e ordinate, mura fortificate e

La tomba di Bassani, opera di A. Pomodoro. Foto di Sandro Abruzzese

larga parte del territorio dedicato a orti e botanica. Dal corso Giovecca, all’altezza del castello, osservo la prospettiva di via Ercole I d’Este che arriva fino alla porta degli Angeli. A poche centinaia di metri il bugnato bianco del palazzo dei Diamanti, il suo cortile e all’interno della pinacoteca, tra gli altri, i quadri di Cosmè Tura e Francesco Del Cossa. Poco distanti, l’ombra degli alberi secolari del Parco Massari. I parchi, i cortili e gli orti di Ferrara. Una città nella città che si svela solo dall’alto. Lo scrittore Roberto Pazzi a riguardo sostiene che “come in una bambola russa si nasconde in Ferrara un’altra Ferrara: gelosa, segreta, ferocemente individualista e restia a concedersi a sguardi che non siano quelli dei suoi antichi padroni.”


Cammino ancora, stavolta verso le volte all’angolo tra via del Fossato e piazza Ariostea. In un’auto parcheggiata due giovani fidanzati si tengono la mano. Dall’altra parte della strada un vecchio cammina curvo sulla schiena come se portasse sul dorso il peso della sua lunga storia, si appoggia al bastone e nasconde il viso, con le rughe, nei suoi occhiali da sole. Scorgo via delle Vigne. L’ingresso del cimitero ebraico è inconfondibile e mi porta dritto all’incipit de Il Giardino dei Finzi-Contini. Nel libro

Il duomo di Ferrara Foto di Andrea Semplici

di Bassani l’io narrante si trova alla necropoli etrusca di Cerveteri e pensa di rimando al luogo sacro e dolente che ho davanti. Un flash-back e una profonda analogia. Ancora sgomento rispetto alla catastrofe che rammenta, scatto una foto per non pensare. La porta del cimitero però

scava dentro, ricorda di continuo. Monumento di cemento a perenne ricordo del nostro fallimento: monito sordo e angoscioso, di fronte a via Montebello, in via delle Vigne. Ferrara bifronte: l’anima cattolica e quella ebraica. Meglio cambiare strada e raggiungere i rampari di Belfiore. Ecco il Torrione di San Giovanni, sulle mura alberate ci si tiene in forma, molte persone corrono apparentemente senza una meta. Il Torrione è il tempio del jazz cittadino. All’interno si diffonde sempre una bella luce. Rivedo la sua suggestiva

sala circolare, le travi di legno reggono il cielo di un piccolo pantheon in cui regna una musica fatta di sterminate varianti, improvvisazioni, mescolanza. “A Ferrara siamo mangiapreti”, mi disse una sera il batterista Ellade Bandini, pezzo di storia della musica italiana, a proposito del suo nome e di quello di molti suoi coetanei. Sapevo che non sarebbe stato agevole parlare di questa


“come in una bambola russa si nasconde in Ferrara un’altra Ferrara: gelosa, segreta, ferocemente individualista e restia a concedersi a sguardi che non siano quelli dei suoi antichi padroni.”

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città. Manca l’anima un po’ diffidente dei suoi abitanti, così poco emiliani, e altrettanto lontani dalla vicina Romagna. Manca la città del Risorgimento e quella della Resistenza, ma le numerose lapidi lungo le strade fanno il possibile per ricordarla. Manca la darsena del Po di Volano, i suoi argini lasciati all’incuria cingono una importante parte della città e nessuno sembra averne attenzione. Inoltre sfioriamo l’ingombrante tradizione letteraria, da Boiardo, Ariosto e Tasso, fino al contemporaneo e mai dimenticato Giorgio Bassani. La Ferrara di oggi rimane uno dei posti più vivaci del nord dell’Italia. L’espansione dell’università ha finito col riempire il centro storico di studenti “erasmus” e degli occhi, dei colori del meridione d’Italia. Da tempo la città è palcoscenico di eventi consolidati quali l’accolita dei Buskers, artisti di strada che si ritrovano negli ultimi giorni di agosto. Oppure il festival della rivista ‘Internazionale’, capace di portare ogni anno oltre sessantamila giovani per le strade della città a discutere di politica, cultura, attualità. Torno ai miei passi. Da qualche parte qualcuno ha scritto su un muro che “Ferrara cinquecento anni fa era New York”. Comunque io cinquecento anni fa non c’ero, e invece oggi avverto al-

cune forti contraddizioni. Alle finestre di facciate logore vedo vecchi soli, e so che quando muoiono lasciano i soldi ai figli e il posto letto agli universitari. Quindi una sensazione opposta mi scalda le ossa: il microcosmo di via Saraceno, dove mi sento accolto: la pizza da Orsucci e il calzolaio Vittorio; le piccole librerie; i mercatini dell’usato, le botteghe. Su tutti, i fruttivendoli pa-

chistani e i loro bimbi dagli occhi vivi, neri, che se ne stanno tutto il tempo nei negozi, cresciuti dalle loro mamme bambine in strada, come si faceva una volta, mentre intorno tanti altri uomini e donne meglio vestiti preferiscono attardarsi nel ruolo di figli. E questo posto illude che si possa vivere a lungo senza rimpianti. Guardo in aria, all’orizzonte la nube inconfondibile del petrolchimico accende un tramonto che non arriva. Un’altra contraddizione: lo sviluppo incontrollato della zona industriale, il pas-


zantino, alla mia destra il cortile ad archi del palazzo di Ludovico il Moro. Cerco la quiete di Sant’Antonio in Polesine, e grazie a Girolamo Melchiorri trovo le parole per definire l’anima dell’architettura ferrarese: “La nostra cattedrale antica era forse la più bella di quante sorsero in Italia nel Medio Evo”, scrive lo studioso in merito al Duomo di San Giorgio, “il maniero medioevale più grandioso e più splendido d’Italia, (…) una dimora di grandezza e di terrore dei tempi feudali”, riguardo al castello estense. Que-

sta una parte del passato e del presente di Ferrara. Per il futuro non resta che attendere, osservare. Magari con in mente il ritornello di una celebre canzone degli Afterhours, anch’essa a suo modo spinge a vivere, ricorda che “non c’è niente che sia per sempre”. Saluti da Ferrara.

Corso ecole d’este Foto di Paolo Zappaterra sandro aBruzzese, 36 anni, irpino. Laurea in lettere moderne a Napoli. Insegnante d’italiano e storia nelle scuole superiori nel veronese. ora a Ferrara. Blogger per necessità: cura il progetto raccontiviandanti e scrive per colmare la distanza, il vuoto vuoto, lo spazio che –sostiene – lo separa dalle cose e dalle persone.

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saggio dalla Ferrara rurale a quella industriale brucia ogni giorno, il vapore disegna forme ormai consuete nell’aria greve. Siamo alla fine. Punto sul palazzo Schifanoia, dove resistono gli affreschi del Salone dei Mesi di Del Cossa e De’ Roberti. Nel cortile il caffè del pittore Simone Bavia è un piccolo museo nel museo. Infine, attraverso il vecchio castrum bi-


STORIE DI RITRATTI testo di vaLentina caBiaLe

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LA DOLCE RESISTENZA DI


foto ritratto di CARLO RITRATTO FRUTTERO DA ALBERTO CONTI ALBERTO CONTI

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L’arMonia deL ritratto

Il ritratto è mettersi davanti alla vita di qualcuno. E’ condividere con lui un momento. In pochi minuti devo trovare un’armonia fra me stesso, la persona che ho di fronte, la luce e i luoghi. Non c’è mai tempo. Nei primi tempi volevo conoscere tutto della persona che dovevo fotografare. E rimanevo deluso: quando lo incontravo, non era mai come me lo ero immaginato. Mi è capitato di amare chi fotografavo, a volte di odiarlo. Alla fina la mia sola bussola è la curiosità. Ho fotografato Carlo Fruttero per Vanity Fair. Ci siamo incontrati, in una grigia giornata di settembre, a Roccamare, marina di Castiglione della Pescaia, vicino a Grosseto. Sono passati dodici anni da allora. E’ stato bello sentirlo parlare. Era dolce la sua gentilezza, il suo modo di raccontare. Mi piaceva la sua fisicità e il suo italiano colto. Alla fine ho cercato di contraccambiare la sua gentilezza: siamo andati a fare un giro sulla spiaggia e conservo un ricordo sorridente del tempo passato con lui.

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Alberto Conti

aLBerto conti Alberto Conti, 54 anni, comincia a fotografare negli anni ’80. Collabora con agenzie delle Nazioni Unite e, allo stesse tempo, documenta il patrimonio artistico di Firenze. dal 1993 al 1997 lavora al rilievo degli affreschi di vasari e zuccari nella cupola del Brunelleschi a Firenze. Ha fotografato per le case discografiche virgin, emi, Sony, Wea e Universal. Negli ultimi si è dedicato al ritratto. Ha collaborato con time, Stern, vanity Fair, L’espresso, Panorama, Sette, Sprtweek, Amica, Io donna, el Pais, Sunday times, Capital

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uando la Mole di torino si alzerà verso lo spazio, saranno finiti i tempi delle invasioni. Lo scrittore potrà passeggiare, in inverno, sulla spiaggia di castiglione della Pescaia. appoggiandosi al più bel basto del mondo

in gioventù carlo fruttero visse in via villa della regina, in precollina, poco oltre il fiume. abitò poi in molte altre case a torino, una all’ultimo piano in corso cairoli, negli anni in cui, quasi ogni giorno, passeggiava insieme a Lucentini, per discutere dei romanzi che stavano scrivendo insieme. almeno dalle finestre di questa casa, se non anche da tutte le altre, avrà potuto vedere, gigantesca, la Mole ritta e metallica. un edificio che non è umano, non è neppure bello, è stato costruito per fantasticare invasioni su paesi alieni, immaginare di tagliare galassie e disperderle. La Mole, prima o poi, si alzerà, la punta aprirà il cielo e le nuvole. rimarrà a terra l’alto podio colonnato, su cui il comune, qualche anno dopo, aprirà un grande terrazzo, da cui far guardare la città a una quota più bassa, e finiranno le invasioni. allora, forse con un po’ di


La fotografia lo ritrae su una spiaggia maremmana, dove lo scrittore aveva una casa, una decina d’anni prima della morte. e’ un’immagine inconsueta per chi, come me, l’ha visto solo da vecchio, in qualche intervista televisiva, seduto in una stanza occupata dai libri, e ne ricorda l’ironia deliziosa e leggera. questa foto, quarta di copertina della raccolta di testi autobiografici Mutandine di chiffon, venne esposta nella camera ardente per l’ultimo saluto allo scrittore. era una sala della biblioteca di castiglione della Pescaia. fruttero è sepolto nel cimitero di questa cittadina toscana accanto all’amico italo calvino.

in piedi, di profilo, fruttero guarda il mare. è autunno, la spiaggia è vuota

ma con tracce di presenze passate (le impronte di piedi, i capanni vuoti alle spalle). Lui è al centro, tra due terzi di spiaggia e un terzo di mare. un’immagine di solidità. di gentilezza. no, anzi, di precisa e limpida dolcezza. Perso forse in un mondo di fantasmi e di congiuntivi, come di lui ha scritto citati. Ma in quegli occhi (dove, è vero, potrebbe esserci di tutto, opacizzato dal bianco e nero, persino furore. Lo so, che sto raccontando una visione tutta mia, intima fantascienza) vedo soprattutto la consapevolezza che le cose reali, che contano, sono le piccole e minime. Le piccole cose di gusto squisito, parafrasando e ribaltando un verso di gozzano. il bastone da passeggio, ad esempio. un bellissimo bastone per nulla lucido né rifinito, non uno di quelli che si comprano, o così pare, che è lo stesso. Le piccole cose che permettono di resistere alle invasioni che subiamo e persino a quelle che facciamo. resistere, con dolcezza. 97

vaLentina caBiaLe, archeologa, 32 anni. Laureata in Lettere a torino, specializzata in archeologia medievale a Firenze. Ama viaggiare ma soprattutto leggere, non le biografie (proprie e altrui).

STORIE DI RITRATTI

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sollievo, chi la guarda ridimensionerà i propri sogni pirateschi. fruttero rappresenta benissimo la sobrietà bizzarra, e nel migliore dei casi folle, di torino. esperto anglista, dopo un soggiorno a Parigi durante il quale sperimentò svariati lavori, lavorò all'einaudi soprattutto come traduttore, per poi passare a Mondadori a dirigere la collana di fantascienza urania insieme a franco Lucentini (anche lui vedeva la Mole dalla finestra, del numero uno di Piazza vittorio), con il quale cominciò poi a scrivere romanzi a quattro mani a partire dal fortunatissimo La donna della domenica, pubblicato nel 1972.


S T O R I E I TA L I A N E / R E P O R TA G E

SOTTO I CIELI DELLA Testo e foto di Franco Zuccaro

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Il ritorno nella propria terra. Volare per riappropriarsene. Fotografare per tenere bene impresso nella mente e per far capire. Gli olivi che sono ciambelle, i segni della mietitura che tracciano geometrie e le querce diventano saudade. Le campagne, l’abbandono, una possibile resurrezione.


LUCANIA


“Sono stato diciotto anni lontano dalla mia terra. Ho studiato medicina a Siena. Ho lavorato al Nord, in Sicilia. A Brescia, a Verona a Catania. Ho anche pensato che non sarei mai tornato a Matera. A volte mi chiedo perché non sono andato a fare il medico in Africa. Ma sono lucano e qui la terra ha un senso. O, almeno per me, ha un senso. Sono partito a diciotto anni e sono ritornato che ne avevo trentasei. E ho cercato subito di andare a vivere nei Sassi. Nei luoghi simbolo della mia città. Non solo: al due luglio, qui, è festa grande. Una festa che non si può raccontare. Non lo avevo mai fatto, ma al primo anno che sono tornato sono andato in piazza. Ad assalire il carro trionfale. Chi è di Matera può capire. Per me era come annunciare il mio ritorno. L’ho fatto solo quella volta. Dovevo farlo.

Faccio l’anestesista. Lavoro in emergenza. In Rianimazione. Vado sugli elicotteri-ambulanza. E il cielo mi ha fatto erodoto108 • 8

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davvero sentire a casa. Sapevo di essere diverso da quando ero partito. Dovevo convincermi di essere tornato. I cieli della Lucania mi hanno aiutato. Ho guardato dall’alto la storia alla quale appartenevo. E l’ho subito riconosciuta. Dal cielo si abbraccia un infinito, abbracci il mondo. Questa era la terra dei racconti di mio padre. Era la storia dei contadini, della riforma agraria degli anni ‘50. Mio padre era di Pomarico, un paese circondato dai campi. Ora li vedevo. Non erano soltanto le forme e le geometrie a sorprendermi, capivo il senso e le

ragioni della fatica dei contadini. Mi stavo riappropriando della mia terra. Io sono cresciuto a Matera e dal cielo, finalmente, capii che lì stavano le mie radici e il senso della mia vita.

Gli elicotteri seguono linee rette. E noi, fra Matera e Potenza, voliamo sopra le tracce degli olivi e le diagonali dei campi di grano. Dalla valle del Basento alle piane di Foggia, nelle Murge lucane e pugliesi, il grano è la geografia del paesaggio. Le gravine sono spaccature-confine. Ogni stagione ha un suo colore da meraviglia. Dal cielo afferri il ritmo del tempo. Gli olivi, visti dall’alto, sono come ciambelle: vengono potati e il loro centro è vuoto. Seguo con gli occhi le curve disegnate dalle mietitrebbie. Dal cielo si capisce cosa è fare la campagna.

Dall’alto vedo i casolari, i casali, le masserie. La loro costruzione, negli anni del dopoguerra, aveva la sua logica. Si voleva che la campagna fosse ricchezza per chi, fino ad allora, era stato solo un bracciante. La casa, il campo, la strada: avevano armonia con la campagna. Oggi vedo tetti sfondati e granai pericolanti. Ma le mura delle masserie mi appaiono ancora solide. Sono belle case. Furono ben costruite. E mi chiedo: ma perché ci hanno convinto che la terra fosse solo miseria? Perché ci hanno detto che la campagna era fatica, ignoranza e sporcizia? Perché hanno condannato i contadini alla vergogna sociale? Non era così. Non è così.



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In volo seguiamo l’asse della Bradanica: è una delle più belle strade d’Italia. E’ sempre deserta. Collega Matera all’Irpinia. Terre interne dell’Italia. Terre solitarie. Dall’alto i villaggi della riforma, Taccone e Boreano, appaiono come gioielli. Come è stato possibile mandare in malora questa ricchezza? Ci hanno dato la chimica al posto della terra ed è stato solo veleno. Sono arrivate le trivelle del petrolio e ci fanno credere che questo sia il benessere.

Dall’alto vedo le grandi querce. Sono magnifiche. Si alzano là dove si incrociano i sentieri. Sono punti fermi nelle geometrie, si fermano le rette di fronte a questi alberi. Oggi le tagliano perché tolgono spazio, dicono che sono un ingombro. Nelle piane foggiane già non ci sono più. Nelle colline lucane sono ancora lì. Le querce erano ombra, riposo per i contadini. Erano il fiasco di vino, il formaggio e il pane, il coltello che tagliava il pane appoggiato al costato, le poche parole, i silenzi immobili. Dal cielo le saluto una per una: è la mia affezione, la mia memoria. Peccato che in italiano non ci sia la parola saudade. Magari c’è nel dialetto. Le querce sono quello che rimane”.

franco zuccaro, 48 anni, materano, medico, anestesistarianimatore. vive nei Sassi. Socio fondatore dell’associazione Loe: da venti anni partecipa alle attività di Commercio equo e Solidale e Consumo Critico. Ama i CCCp, i Litfiba e Patti Smith. Anche alla loro musica deve il desiderio di diventare una persona e non un numero.

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STORIE DI CIMITERI

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ulia fa l'eremita. Su un'isola. Un'isola in mezzo alle auto. L'isola dei morti è assediata dal traffico che scuote i viali di Firenze. Julia è la custode e vestale del cimitero ‘degli inglesi’ di piazza Donatello, ai confini del centro della città. Si scopre subito che questo luogo non è davvero ‘degli inglesi’, ma degli svizzeri. Della Chiesa evangelica riformata svizzera, per l’esattezza. Nel 1827 i protestanti elvetici acquistarono questo terreno (allora era fuori dalle mura fiorentine, davanti alla porta a Pinti) per farci un cimitero internazionale ed ecumenico. Le tombe, infatti, sono di sedici nazionalità diverse: inglesi soprattutto (oltre la metà, 760 su 1.409), ma anche svizzeri, russi, greci, francesi, tedeschi, danesi, italiani... Quando, nella seconda metà dell’800, Giuseppe Poggi, architetto di Firenze capitale d’Italia, demolì le mura e creò i viali di circonvallazione, modificò anche la forma dell'isola cimiteriale: da poligonale a ovale, una geometria che assecondava meglio il fluire dei viali. Il cimitero non era più fuori dalle mura: l'isola, quindi, non poteva più accogliere morti. Ed è stato cosi almeno fino alla fine del ‘900, quando fu deciso di riaprire le sue porte. Qui vi è spazio per le ceneri di nuovi morti. Senza più 104 curarsi della loro religione. Il ‘cimitero degli inglesi’ era, nell’800, riservato a chi non era cattolico. Sì, a guardarla bene, questa collina di città sembra proprio un'isola, sbucata con prepotenza dall'asfalto con i suoi marmi e i suoi cipressi. I fiorentini alle prese con il traffico quasi non si accorgono più di questo cimitero. Non ci fanno più caso, a meno che, passandovi vicino in

Dormono, dormono sulla collina….

L’ISOLA DEI MORTI In mezzo al traffico dei viali di Firenze, vi è una

sorprendente oasi di pace: il ‘cimitero degli inglesi’. Le sue statue, i suoi marmi, i suoi fiori. Una schiava nubiana e grandi pittori. E, da quattordici anni, un’eremita… Testo di Lucia Zambelli un pomeriggio di aprile, la nuvola viola degli iris non ti si riveli all'improvviso come una visione irreale. E allora, tutto a un tratto, decidi di andare a camminare fra le sue tombe. L'isola. L'isola dei morti. Il pittore Arnold Bocklin si ispirò a questo

bianca. Nell’800, Bocklin, pittore simbolista, di nazionalità svizzera, viveva a Firenze e il cimitero era vicino al suo studio. Qui venne sepolta Maria, una dei suoi quattordici figli, morta bambina. Dormono, dormono sulla collina. Elizabeth e Nadezhda, Eugene e

cimitero per il suo capolavoro. ‘L’isola dei morti’ è un quadro replicato così tante volte da diventare una vera ossessione per Freud, Lenin, e anche per Hitler, che ne volle una copia (ora a Berlino). Certo, come non averci pensato prima? Un'isola cupa di rocce e cipressi, che emerge dall'acqua scura solcata da una barchetta con a bordo due persone e una bara

Giovan Pietro. E poi Beatrice, Edward Claude, Walter... Dormono, dormono sulla collina, clacson e motori non disturbano il loro sonno. A proteggerli, a primavera, un manto viola di iris. E cipressi, edera, alloro, margherite gialle, erbe di campo, piccole fragole. Elizabeth è Elizabeth Barrett Browning, la poetessa romantica


rato, editore, fondatore del celebre Gabinetto Letterario. Beatrice ed Edward Claude sono gli ultimi discendenti di William Shakespeare. Walter Savage Landor è uno scrittore e poeta inglese: amava i giardini di Firenze. Julia, invece, è viva. Ed è un’eremita. Abita nella casa del custode. E’ lei a prendersi cura dei morti e anche dei vivi. E' lei a definirsi così: un'eremita, prima che una suora. Perché Julia Bolton Holloway è una suora, veste azzurra, fazzoletto bianco in testa. Nata a Londra, ha vissuto e insegnato negli Stati Uniti, poi è arrivata in Italia. Era protestante, ora è cattolica. Dal 2000 vive nella casa all'ingresso del cimitero, con le pareti tappezzate di libri. Accoglie i visitatori, è prodiga di informazioni, ma dice che è davvero felice solo quando il cancello si chiude e lei può dedicarsi ai suoi libri. E in-

torno ai libri c'è una bella storia. Julia insegna l'italiano ai Rom, che in cambio l'aiutano a curare il giardino, hanno costruito le sue librerie e fanno carta marmorizzata per le copertine dei libri. Chiunque può diventare socio della biblioteca del cimitero, la quota annuale è un libro da donare. Qualsiasi genere, tranne romanzi. E se i libri sono vecchi e malandati, Julia e suoi amici Rom li restaureranno. Lucia zaMBeLLi, 62 anni, fiorentina, segno della Bilancia. Ha sempre vissuto a Firenze tranne una breve parentesi romana. giornalista, si occupa da molti anni di salute e sanità. Non ha quasi mai scritto di viaggi, ma ama molto viaggiare, e considera il viaggio, la strada, l'essere in cammino, la dimensione che le è più congeniale. La sua qualità più spiccata, la resilienza, che l'ha salvata in molti frangenti.

STORIE DI CIMITERI

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che visse per molti anni a Firenze, in piazza San Felice, e vi morì nel 1861. All'ingresso del cimitero, un verso di un suo sonetto, scritto nel 1849, per la morte di Lily Cottrell, vissuta un anno appena: "And here among the English tombs / in Tuscan ground we lay her, / while the blue Tuscan sky endomes / our English words of prayer". Nadezhda, invece, era una schiava nera. Nel 1829, gli archeologi Jean Francois Champollion e Ippolito Rosellini, di ritorno da una spedizione in Egitto, portarono con loro questa ragazzina nubiana. Allora aveva appena quattrodici anni. La sua storia è scolpita, in cirillico, nel marmo bianco sotto una croce ortodossa. Morta libera, fu sepolta qui nell'agosto 1851. Eugene è Polyakov, assistente di Nureyev al Paris Opera Ballet e direttore del corpo di ballo del Comunale di Firenze, morto a Parigi nel '96. Giovan Pietro è Vieusseux, lette-


RACCONTO PER IMMAGINI

“CUCITO ADDOSSO” Testo e foto di Paola Favoino erodoto108 • 8

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R E P O R TA G E

i sono voluti 3 anni per fare poche centinaia di chilometri. dalla laguna di Patok alle montagne del Kelmend il passo non è breve (come sembra). e mentre la pianura è luogo di scambi, polvere e asfalto, man mano che si va verso nord il tempo rallenta, l'aria diventa fresca e secca e le distanze con tutto il resto aumentano. Le montagne isolano geograficamente e niente va dato per scontato: né la luce nelle case, né l'asfalto lungo le strade. il kanun è il contenitore delle regole morali e sociali di tutti. ed è qui che le donne si salutano dicendosi “a je burrneshe?” che significa: “come stai “maschia”?” ovvero più comunemente: “sei forte quanto un uomo?”.

nelle mie fotografie ho raccolto storie di donne che vivono come uomini. Ma non sono uomini. vengono chiamate burrneshe, una parola femminile legata al suo contrario: burr=uomo. tutte avevano ormai da tempo rinunciato al loro destino di donne ed erano diventate altro. un "altro" da queste parti riconosciuto e accettato, con le sue regole, le sue consuetudini.

VERGINI GIURATE ALBANESI chi adolescente chi già adulta, hanno messo i pantaloni, hanno tagliato i capelli, hanno giurato verginità. Per sempre. in alcuni casi mi ha attratto in loro la maschera, tanto pesante che ad uno sguardo attento quasi non reggeva, in altri casi la cura con cui il tempo aveva fatto coincidere la persona con il personaggio. attualmente, grazie a g. che è la mia guida e mi ospita, sto imparando a raccontare la vita di una burrneshe per com’è, senza filtri o sconfinamenti nel mito. da semplice raccolta di biografie, oggi lo stesso lavoro si è allargato al contesto, ai rapporti uomo-donna per risalire in qualche modo alle origini del fenomeno e alle ragioni della sua persistenza nella società albanese di oggi. Ma più vado avanti e osservo e più mi chiedo: sarà propria dell'essere umano la tendenza ad infilarsi in vestiti cuciti addosso dagli altri? quanti legami invisibili e sottili ci fanno essere quello che siamo, fare quello che facciamo … Ma chi siamo?


M. 50 anni, ultima di 6 sorelle, ha deciso da piccola che sarebbe cresciuta come un uomo. dopo qualche anno la madre partorisce un maschio ma questo non cambia la sua decisione. abbandona giovanissima il tetto familiare e lavora in diverse città dell'albania mantenendo quasi

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sempre nascosta la sua vera identità. M. è stata metalmeccanico durante il periodo della dittatura. in fabbrica ha perso 3 dita della mano destra. oggi vive sola con i suoi gatti e ha uno spaccio sulla veranda di casa. distretto di Lezhe. albania 2011



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g. e' diventata burrneshe all'etĂ di 22 anni per non scatenare una faida tra la sua e la famiglia del fidanzato respinto. oggi ha 84 anni e non rinnega la sua scelta. vive nel distretto di Lezhe con i nipoti. e' ancora il capofamiglia visto che gli altri uomini di casa sono in italia per lavorare. albania 2011




f. 56 anni. diventa burrneshe dopo la morte del fratello e contro il volere della madre. e' fiera della sua scelta e rivendica la superiorità degli uomini rispetto alle donne. albania 2014le passando dall'unica strada percorribile anche per le auto. Laç, albania 2011


verso sera i pastori riportano il pascolo all'ovile passando dall'unica strada percorribile anche per le auto. Laç, albania 2011

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M. 45 anni. si è sempre sentita un maschio e compatisce le donne che sposandosi mettono fine alla loro libertà . Lavora come cuoca e nel tempo libero va al bar a seguire le partite e giocare a biliardo. distretto di Lezhe, albania 2014


g. 48 anni, non si è mai sposata per aiutare la madre rimasta vedova e badare ai fratelli più piccoli. nel suo villaggio, a 4 ore di furgone dalla città più vicina, vivono circa 10 famiglie. d'inverno la neve blocca le strade e si può rimanere chiusi in casa per settimane. scutari, albania 2013

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durante la sua dittatura, enver hoxha, fece costruire milioni di bunker in tutta l'albania sostenendo la necessitĂ di proteggere il suo popolo da un imminente attacco nemico. ancora oggi lungo le coste, e non solo, se ne trovano molti, sparsi e spesso nascosti dalla vegetazione. alcuni vengono riadattati a magazzini o locali bar per l'estate. Patok, albania 2012

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accessori toilette sul comodino camera di distretto d Lezhe. alb 2011


della M. di bania

PaoLa favoino, 37 anni, fotografa calabro-lucana. vive a roma. Ha frequentato i corsi di ritratto in studio, reportage, postproduzione digitale e stampa in camera oscura della Scuola romana di Fotografia. Lavora alla storia delle burrneshe albanesi dal 2010. Una parte dei suoi lavori è visibile sul sito: www.paolafavoino.com

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per la

diana 58 anni. e' un militare in pensione. cappotto nero con collo di pelliccia bianca, basco, occhiali e sigaretta, due anelli d’oro all'indice della mano destra, ha un modo di fare sicuro. gli ex-colleghi di lavoro la chiamano “lupo di mare” da quando nel 1997, da militare scampò, a colpi di kalashnikov, l’assalto di una nave italiana da parte di 700 albanesi. durazzo, albania 2012


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africa occidentaLe senegaL e gaMBia

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ATTRAVERSA LA FRONTIERA D’ACQUA FRA SENEGAL E GAMBIA

‘NO, GRAZIE, AFFOGO DA SOLA’

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ev’essere così. Dev’essere così che si sentono, loro, i clandestini, i migranti, quando si affidano al mare. La barca è alta, stretta e profonda e in fondo dove si restringe, per quanto si svuoti, resta sempre un po’ d’acqua. Si riforma, cresce, non bisogna guardarla perché mette paura. E nemmeno badare alla barca che trema, traballa e appena qualcuno accenna un movimento, fosse anche minimo, solo per sistemarsi meglio sul sedile, fa un guizzo come se stesse per capovolgersi e buttarci tutti in acqua. E’ un equilibrio instabile, precario, improvvisato come questa imbarcazione di legno

vecchio, puzzolente di pesce, rimediata. Difficile bilanciarla. Ci si siede un po’ di qua e un po’ di là, sui bordi e sui sedili, a caso, a stima, ma il peso fa la differenza, anche se nessuno sembra capirlo, o badarci. Quanto odi il tizio corpulento che si sistema spensierato dalla parte dove c’è già più gente e sorride appena, imbarazzato quando la barca sobbalza e si scuote tutta come un cane bagnato. E tu pensi che sta per ribaltarsi, certo, è così. Finirai in acqua, in questo porto africano schifoso, limaccioso, pieno di orrendi residui di fogna e di budella di pesci e di chissà cos’altro.


Il fiume e l’oceano osservano la

barca che si riempie d’acqua. ‘Affonderemo, ne sono certa’, ma niente giubbotto di salvataggio. Onde alte e vento freddo. Il fango e l’odore del pesce marcio, la fogna e il profumo di fiori. Infine, la salvezza, l’altra sponda, la terra. E pensi agli uomini e alle donne che attraversano il Mediterraneo…

CHE GIÀ SALIRE A BORDO È STATA UN’IMPRESA: buttarsi giù da un molo ondeggiante su quel legno precario, sperando di non fare passi falsi, confidando in un’agilità non così sicura, da tempo non sperimentata. E appena atterrato, subito dopo aver cercato un posto tranquillo, neutro, ti scopri a guardare, a spiare gli altri, i tuoi estemporanei compagni di viaggio. Le loro facce, le espressioni, il modo in cui siedono appollaiati sul sedile ostentando indifferenza. O abitudine. Il ragazzo, uno studente, con lo zainetto dei libri che ti ha chiesto l’email, la ragazza elegante

con tacchi alti del tutto inadatti alla situazione, il signore pensieroso, l’uomo corrucciato, chissà se per carattere o se per qualche pensiero molesto. IL MOTORE GIRA AL MINIMO, LE ONDE SONO ALTE, ANCHE COSÌ VICINO A RIVA. Più in là il mare è pieno di creste di spuma ed è di un colore torbido, cupo, come se assorbisse la luce del sole. Prima di partire distribuiscono giubbotti di salvataggio pescandoli da qualche anfratto, sotto i sedili. Lo fanno con un sorriso cinico, quasi di scherno. Sono miseri, consunti, vecchi giubbotti arancioni senza grazia. Dovessi affogare davvero – cerco di scacciare il pensiero – ti ostacolerebbero più che aiutarti a stare a galla, con il loro legnoso apparato, inutile a tutto. Non è un vero salvagente, elastico, gonfio, rassicurante, è soltanto un corpetto rigido, troppo corto, stretto, largo. Puzza. Di certo non è della tua taglia. Ti immagini in balia delle onde con quella cosa addosso che ti taglia le ascelle e ti tira giù. Ringrazi con un sorriso, scuoti la testa. Affogo da sola, grazie. Poi, comincia il viaggio. Il motore ha un’accelerazione nervosa, le onde battono più forte contro la barca. Che sbanda, imbarca ancora acqua, si piega. Nessuno pare preoccupato. Il bordo è alto, non si vede quasi nulla, solo la linea dell’acqua torbida. Bisogna alzarsi, in mezzo agli spruzzi per vedere. Ed ecco, l’altra sponda è lì, sarà mezz’ora. Si distingue con chiarezza, anche se è un po’ lontana, anche se è un tantino offuscata. Che ci vuole. Non è di certo come se dovessi attraversare il Mediterraneo, certo. Questo è oceano, è vero, ma è appena un braccio di mare. Dal Senegal al Gambia, attraverso il fiume omonimo che all’estuario, immenso, mischia fiume e oceano e diventa selvatico e ondoso. Un tragitto ordinario, quotidiano per tanti. C’era, c’è forse un traghetto, così ci avevano detto, ma gli orari sono africani, ondivaghi, inaffidabili. E noi abbiamo poco tempo, al solito, il tempo è denaro, è un tour, un assaggio, un piccolo

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Testo e foto di Carla Reschia


morso di esotismo. Così, dopo molti andirivieni, dopo consultazioni serissime con vari personaggi apparsi da nulla all’approdo, una vasta, cenciosa terra di nessuno colma di conchiglie e di rifiuti, noi turisti, noi stranieri, noi bianchi, noi avventurosi del tutto compreso, ci siamo affidati, con qualche esitazione, a un barcone. Come i locali più impazienti e danarosi abbiamo scelto la velocità, perché il traghetto è lento, sì, molto lento, ci dicono, e non si sa né quando parte né quando arriva. Certo, costa meno di questo mezzo privato condotto da un gigante vestito di azzurro e da un paio di ragazzetti che non faranno vent’anni in due. Ma noi i soldi li abbiamo.

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NON HO PAURA, TI DICI. E’ assurdo avere paura per così poco, una traversata in barca di mezz’ora, o poco più. Però, ogni tanto affondano queste barche, probabilmente anche qui in Africa, e noi in Europa non ne sentiremo mai parlare, perché non è una “notizia”. Come nulla sappiamo dei morti nel tentativo di attraversare il Sahara a piedi per arrivare alla costa da dove tentare l’avventura verso l’Europa. Ogni tanto, qualcuno tira fuori un filmato, degli stracci tra le dune che erano esseri umani e che altri, a casa, piangeranno, chiedendosi dove sono finiti, perché non si

fanno sentire, sperando forse, persino, che si siano semplicemente dimenticati di loro, assorbiti dalla nuova vita, desiderosi di lasciarsi il passato alle spalle. Fa impressione vedere quelle immagini, sì, ma ci si dimentica in fretta e c’è anche chi dice gli sta bene, devono stare a casa loro. Meglio così che vederli arrivare, dicono: nuovi profughi, nuovi invasori convinti di trovare l’Eldorado e destinati allo spaccio, alla prostituzione, alla delinquenza. Che altro. CERTO, SE QUESTA BARCA AFFONDASSE, SE NE PARLEREBBE, UN PO’. Siamo occidentali, merce più pregiata, e diventeremmo occasione per almeno qualche servizio deprecatorio sui turisti che corrono rischi inutili, che cercano chissà cosa e si comportano in modo folle, avventato invece di andarsene in spiaggia e chissà chi si credono di essere. In Italia la vita si misura così: “non ci sono vittime italiane” oppure “purtroppo tra le vittime ci sono anche degli italiani”. Lì, sta la differenza tra la tragedia e la cronaca. LA BARCA PROCEDE A STRATTONI, prendendo le onde di taglio, dritta verso la meta. Verso la costa che però non vedo, la barca è affollata, la sponda alta taglia ogni orizzonte. Ci


ALLA FINE SI ARRIVA, NATURALMENTE. La costa si fa più vicina, il vento cessa, le onde si placano. Ora appaiono le case, gli alberi, la spiaggia affollata di pescatori e l’aria si colma di odori noti: fango, pesce, fogna, profumo di fiori, l’aroma familiare della terra che vince su quello salmastro ed estraneo

dell’oceano. A una ventina di metri dalla riva la barca si ferma. Si fanno incontro ragazzi alti e robusti, bellissimi, che tra di loro si chiamano “bro” come in un film di Spike Lee: offrono le loro braccia e le loro spalle a chi vuole andare a riva senza bagnarsi i piedi. A pagamento, ovviamente, è un servizio per turisti. I locali, anche la ragazza sui tacchi, si tolgono le scarpe, si rimboccano i pantaloni e saltano giù. L’Africa conosce l’arte d’inventarsi mestieri estemporanei, sa cogliere l’attimo. Scosto le mani, rifiuto l’aiuto con un sorriso sprezzante. Mi arrampico sul bordo, scivolo giù, sguazzo nell’acqua fetida, cammino sul fondo spugnoso. Un piccolo gesto di orgoglio. Mi basta per pensare che non sono, del tutto, una turista.

carLa reschia. Sostiene di avere fra i 15 e i 105 anni. giornalista della Stampa. Si occupa di esteri, cultura e diritti umani. viaggia ogni volta che può. Legge molto. Adora dormire, le 'relazioni complicate', i bassotti, il cibo indiano e il sushi. Con Stefanella Campana, ha scritto Quando l'orrore è donna. Torturatrici e kamikaze. Vittime o nuove emancipate? (editori riuniti).

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stiamo mettendo forse un po’ troppo? Guardo la facce, per vedere se sono preoccupate. Sguardi neutri, qualche sorriso di circostanza. Chissà, mi viene di pensare, loro sono abituati. Ma abituati a cosa? A non sapere se arriveranno dall’altra parte? Chi e perché vorrebbe dovrebbe abituarsi a una cosa del genere. La ragazza con i tacchi sorride e parla con i vicini, pare tanquilla. Vuol dire che non c’è da preoccuparsi, forse. Alla fine intravedo un pezzetto della riva, sembra lontana come prima e le onde, in mezzo al canale, sono più alte e più cattive. Tira vento, freddo, malgrado il clima sia così mite. Chissà come fanno quelli che ci devono passare delle ore, o dei giorni così. Bè, è come andare in barca a vela, mi dico, immaginiamo una traversata atlantica. Ma so che non è vero. Su una barca a vela intanto hai le cabine e poi hai, più o meno, il controllo, una rotta, degli strumenti.


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La motonave Liemba ha compiuto 101 anni e ancora naviga nelle acque del Tanganyka

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LA REGINA DEL LAGO


Costruita in Germania nel 1913, affondata nel 1916, riemerse dalle acque otto anni dopo. Sopravvissuta alle guerre, ancor oggi, ogni due settimane, naviga fra la Tanzania e lo Zambia. Erodoto è salito a bordo della piÚ bella nave africana. Testo di Fabio Bertino e Roberta Melchiorre foto di Bruno Zanzottera

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È

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notte fonda quando la nave getta l’ancora al largo del villaggio. Con un tramonto infuocato il buio ha inghiottito, all’orizzonte, le montagne del Congo. Anche i dhow dei pescatori che hanno accompagnato il nostro viaggio durante il giorno sono scomparsi. La notte è senza luna, e oltre il parapetto l’oscurità è un muro impenetrabile. Il nero dell’acqua si fonde con quello del cielo. Spenti i motori, l’unico rumore è lo sciabordio delle onde sulle fiancate. Rimaniamo così, in attesa, per una decina di minuti. Poi la sirena lancia un lungo ululato. Due, tre, cinque luci compaiono lontano nel buio e cominciano ad avvicinarsi lentamente. Alcuni minuti dopo riusciamo a sentire il rumore dei fuoribordo. La Liemba accende i riflettori che illuminano le onde nere per qualche metro intorno. Una dopo l’altra le vecchie barche provenienti dal villaggio entrano nel cono di luce. Traboccano di merci e di persone. Hanno nomi come Nakuwa family, Nkuba fa-

mily o Rugwe brothers e ballano violentemente sulle onde. Su ciascun lato della nave viene aperto un portellone, almeno tre metri al di sopra della linea di galleggiamento. E' il segnale per il caos frenetico che si scatena nel quarto d’ora successivo. Un vero e proprio abbordaggio, drammatico e concitato. Le lance a motore si avvicinano per prime, poi arrivano quelle a remi. Da sotto vengono lanciate grosse gomene che qualcuno dei passeggeri affacciati al ponte superiore afferra al volo e avvolge rapidamente al parapetto. Per limitare le forti oscillazioni alcuni dei barcaioli si sforzano di tener tese le corde a forza di braccia, puntando i piedi sulle fiancate delle fragili imbarcazioni. Alcuni di loro, con i secchi, svuotano l’acqua dal fondo, altri si danno da fare per aiutare chi deve salire o scendere. Dal basso persone e merci vengono letteralmente issate a bordo, aiutate dagli altri viaggiatori che le afferrano dall’interno della nave, mentre dall’alto si calano i passeggeri arrivati a



foto di fabio Bertino


Queste scene convulse accadono sul lago Tanganyka ormai da un secolo. Nel 2013 la Liemba ha infatti compiuto cent’anni di vita. Costruita in Germania nel 1913, venne battezzata “Graf von Gotzen” dal nome del primo Governatore dell’Africa Orientale tedesca, che comprendeva gli attuali Tanzania, Rwanda e Burundi. Nel 1914 fu smontata e inviata in casse, attraverso il Mediterraneo e il canale di Suez, a Dar es Salaam e da qui trasportata per più di mille chilometri verso l’interno. Viaggiò in treno e sulle spalle di animali e portatori per arrivare a Kigoma, sul lago Tanganica, dove fu rimontatata e varata nel 1915 per servire come nave da trasporto. Durante la Prima Guerra Mondiale, equipaggiata con un cannone, divenne perfino nave da guerra. Si battè contro le truppe Alleate, belghe ed inglesi. Nel 1916, prima di abbandonare Kigoma, per evitare che cadesse in mani nemiche, il comandante tedesco diede ordine di affondarla. Dell’operazione furono incaricati i tre ingegneri che, due anni prima, avevano provveduto a trasportarla fino al lago e che, prima di eseguire l’ordine, la caricarono di sabbia e coprirono i motori con uno spesso strato di grasso. La Gotzen rimase sul fondo fino al 1924 quando

gli Inglesi, che controllavano ora il Protettorato del Tanganyka, la recuperarono e scoprirono che motori e chiglia erano in buone condizioni. Così, nel 1927 il battello riprese il suo andirivieni sul lago con il nuovo nome di Liemba (a leggere David Livingstone, Liemba era una parola probabilmente della lingua Fifa, popolazione della regione, e stava a indicare la parte sud del lago). Nel 1961, con l’indipendenza della Tanzania, la gestione della nave passò prima alla Tanzania Railways Corporation e quindi alla Marine Service Company Limited, assicurando un collegamento continuo, via terra e via lago, da Dar es Salaam agli altri paesi dell’Africa del Sud-Est. Tra il novembre 1996 e il maggio 1997, la Prima Guerra del Congo spinse migliaia di profughi a riversarsi nei paesi vicini e, al termine del conflitto, la Liemba fu utilizzata dalle Nazioni Unite per riportare ai loro villaggi parte degli oltre 75.000 rifugiati. Da allora ha continuato a collegare Kigoma, in Tanzania, con Mpulungu, in Zambia, prima con frequenza settimanale e, dal 2010, ogni due settimane. Oggi l’incontro dei passeggeri con la Liemba passa attraverso Fortunata. Tra le nove e mezzogiorno dei giorni prima della partenza, quando non chiude “per colazione”, Fortunata presidia la biglietteria del piccolo porto di Kigoma. Un gabbiotto di lamiera che lei riempie completamente con la sua mole imponente e una risata squillante. Ci vede da lontano e, senza chiedere nulla, comincia a preparare i biglietti per una cabina doppia di prima classe. Sul ponte superiore, cento dollari a testa per due giorni di navigazione. Le cabine doppie sono nove in tutto, e finiscono regolarmente ai pochi turisti in cerca di un brivido d’Africa. Per gli altri ci sono le anguste cabine sottocoperta o, per qualche scellino, un passaggio ponte all’aperto. Due giorni dopo verso le tre del pomeriggio, quando viene aperta la cancellata che conduce al molo e la folla in attesa si riversa verso la nave, la ban-

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destinazione. Sembra impossibile che tutto avvenga senza che nessuno si faccia male. I barconi ammassati sui lati della Liemba si scontrano tra loro, traballano, sbattono contro il battello. Bisogna trovare il tempo giusto nei sobbalzi sull’acqua per gettarsi verso l’apertura che porta sottocoperta, arrampicandosi sulla fiancata, prima che una nuova onda allontani la lancia dalla nave. I bambini vengono praticamente lanciati ed afferrati al volo, le persone anziane alzate e scaricate di peso. Si accavallano urla, richiami, imprecazioni, grida di incitamento e di paura. Bisogna sbrigarsi in pochi minuti, prima che la sirena annunci che la motonave sta per ripartire. E cadere in acqua vuol dire rimanere schiacciati fra la Liemba e i barconi.


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china si trasforma in una passerella vociante di khanga, i teli multicolori utilizzati come abiti. Le donne sono infatti in netta maggioranza, cariche di involucri due volte più pesanti di loro. Valigquattre, ceste, sacchi e sacchetti, borse, pacchi e contenitori di ogni genere. Alla fine, come ci dice il vicecomandante Yusuf, i passeg-

loro mondo. Sono al terzo viaggio sulla nave in due mesi, e prima ancora della partenza sembrano già impegnatissime in riprese e interviste a passeggeri ed equipaggio. Girano un documentario autoprodotto proprio sui cento anni della nave e sulla sua storia. Ma il loro film sarà in realtà solo l’ultimo di una lunga serie. Già nel film del 1951,

geri sono circa quattrocento. Compresi sei muzungu. Poco dopo di noi, salgono Dave e Katherine, una coppia di Liverpool. Lui è un ingegnere informatico, in Tanzania per un paio di mesi per lavoro, e la moglie ha deciso di accompagnarlo. Spiccano da lontano in mezzo alla folla, impeccabili in pantaloni di lino e camicia bianca perfettamente pulita e stirata. Una terza cabina è invece destinata a due biondissime sorelle francesi munite di una grossa telecamera e di attrezzatura fotografica varia. Sono cresciute in Gabon, e anche se vivono ormai da qualche anno in Europa, l’Africa è rimasta il centro del

la Liemba apparve in The African Queen, interpretato da Humphrey Bogart e Katharine Hepburn. Allora il vecchio traghetto si camuffò nella nave da guerra tedesca Luisa. Humphrey e Katharine cercavano di affondarla. Nel documentario Pole to Pole, realizzato dalla BBC negli anni ‘90, l’attore e presentatore inglese Michael Palin, in viaggio dalla Scandinavia al Sud Africa, utilizza proprio questo traghetto per spostarsi dalla Tanzania allo Zambia. Ed è di pochi anni fa la produzione statunitense Liemba, a documentary film, con voce narrante della cantante dello Zimbabwe Chiwoniso Maraire.


Per i turisti occidentali, il vecchio battello ha il fascino di una star, ma per la gente di qui questo è l’unico mezzo di trasporto ancora in attività sul Tanganyka. E infatti porta veramente di tutto. E’ un mercato galleggiante destinato a rifornire i villaggi sparsi qua e là sulle rive del lago. Mucchi di ananas, caschi di banane, sacchi di farina, di sale e di cemento, pesce essiccato, detersivi, materassi, taniche, ventilatori, vestiti. Ci sono anche due grandi divani, alcuni motori fuori bordo e un paio di moto. Gran parte dei passeggeri, non potendosi permettere una cabina, si sistemano in equilibrio precario in mezzo alla montagna di merci che sommerge letteralmente il ponte principale. Mentre attendiamo che terminino le operazioni di carico scambiamo due chiacchiere con François, un allampanato ragazzo congolese che si esprime in un miscuglio di francese, inglese e swahili. Si definisce un ‘businessman’, ma non è per niente chiaro di cosa si occupi realmente. Accanto a lui, a cavalcioni sul suo grande sacco di pesce secco, c’è Johnson, poco più che un bambino, e più in là una signora minuta che sistema con cura la poca frutta che, se sarà fortunata, riuscirà a vendere durante i due giorni di viaggio. Più tardi si aggiunge a noi Allan, un osservatore sudafricano di ritorno dal Burundi. Sta rientrando a casa, e da Mpulungu proseguirà in bus, attraverso Zambia e Botswana, fino a Johannesburg. Ci racconta a lungo, con emozione, la drammatica situazione in cui si trovano le regioni a nord del lago. La guerra dimenticata che da anni dilania

il Kivu, a pochi chilometri da qui sull’altra sponda, la tragedia dei campi profughi, le tensioni che continuano a segnare il Burundi. Poi, all’improvviso, il potente urlo della sirena annuncia la partenza. Ancora una volta, dopo un secolo, la regina del Tanganyka è pronta a prendere il largo.

roBerta MeLchiorre,45 anni piemontese, vive in Monferrato. Laurea in Lingue e letterature straniere con indirizzo slavistico. Ha vissuto a Mosca e a San Pietroburgo. Incontra Fabio, vivono e viaggiano assieme. Si occupa di progetti internazionali al Politecnico di torino. Insegna italiano per stranieri ad Alessandria. faBio Bertino, 46 anni torinese. Lavora come impiegato, laurea in economia e commercio a cui cerca di rimediare con quella in Antropologia culturale. dopo alcuni viaggi in solitaria, incontra roberta e cominciano il loro personale giro del mondo.

Bruno zanzottera, 56 anni. Nel 1979, compie il suo primo viaggio africano a bordo di una vetusta Peugeot 404 che lo porterà, attraverso il Sahara, sulle sponde dell’oceano Atlantico. Comicia così la sua avventura di fotoreporter. Nel 2008 ha creato, con Alessandro gandolfi, davide Scagliola e Sergio ramazzoti, l’agenzia fotografica Parallelozero. Nel 2014 realizza il suo primo documentario Il gioco delle perle di vetro, sull’uso africano delle perle di vetro veneziano. Collabora con le testate: geo France, geo Int., National geographic Italia, vSd, Figaro mag, La vie, Focus, elle, gioia, oggI, Itinerari e Luoghi, Jesus, Africa

Assieme hanno scritto ‘World zapping’, raccolto dei racconti dai loro viaggi. In e-book edito da goWare, di Firenze.

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UGANDA AFRICA CENTRO ORIENTALE

A C Q U E D ’ A F R I C A / R E P O R TA G E

GEOGRAFIA COMPLESSA DELLE ACQUE AFRICANE

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Una barca si ferma di fronte al fragore delle Murchison Falls. Un coccodrillo si incuriosisce e si ricorda del passaggio di strani esploratori. Nilo delle Gazzelle, Nilo delle Montagne… Un piccolo aereo in volo per risolvere un semplice mistero: le sorgenti del più lungo fiume d’Africa non esistono. Testo di Anna Costanzo Foto di Aldo Pavan

Il Nilo è un rebus per bianchi

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N

on ci fu nessun segnale premonitore. Con un rantolo leggero, il motore, semplicemente, si spense. E la barca cominciò una sua deriva resa incerta dal gioco di correnti contrapposte. Il pilota non si stupì più di tanto: ‘Problem’, disse a bassa voce. E si mise a trafficare con un carburatore. I passeggeri si guardarono l’un con l’altro con inquietudine. Ai nostri occhi, d’improvviso, sembrò che i coccodrilli, fino ad allora immobili sulle sponde del Grande Fiume, ci guardassero con maggior interesse. I bufali, invece, non ci degnarono di attenzione e continuarono a brucare. Un ippopotamo barrì tirando fuori la testa dall’acqua. I piccoli aironi bianchi rimasero indifferenti e proseguirono a becchettare insetti fra le zampe di un elefante. Africa immobile, Africa bellissima: il torrente d’acqua delle cascate Murchison, meraviglia del Nord Uganda, era una scenografia grandiosa e sospesa.

Samuel e Florence Baker, esploratori inglesi, nel 1862, erano rimasti abbagliati da quell’imponente salto d’acqua. Scrissero: ‘Sono un’esplosione’. E, da figli di un impero coloniale, le chiamarono con il nome del presidente della Royal Geographical Society. I due Baker, come noi, ben prima di noi, erano arrivati in uno dei cuori pulsanti del Nilo: le Murchison sono come un impossibile imbuto, incapace di trattenere la potenza del Grande Fiume. Sono una caldera di schiuma, un balzo di pochi metri, ma di forza immensa. Il Nilo, qui, è impaziente: cerca un passaggio per proseguire un viaggio interminabile. I Baker, approdando al lago Alberto e alle rocce delle Murchison Falls, avevano dimostrato ai geografi coloniali che non vi era una sola sorgente del Grande Fiume, che il Nilo era figlio di un reticolo di corsi d’acqua, di un network di laghi e ghiacciai equatoriali. Il mistero dei misteri delle esplorazioni ottocentesche rimaneva un rompicapo. Il pilota della nostra barca, dopo un’ora di in-


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certezze, provò a tirare una piccola leva unta d’olio: il motore sobbalzò, l’ippopotamo riaffondò la sua testa nella melma, il coccodrillo si intristì. Le cascate continuarono a essere un fragore che scuoteva la savana. Nello stesso anno del viaggio dei Baker, un altro esploratore, destinato a una grande fama e a una

morte inverosimile, aveva visto, quasi cinquecento chilometri più a valle, quelle stesse acque, che sarebbero poi arrivate alle Murchison, staccarsi da un lago immenso. Era il secondo viaggio africano di John Hanning Speke, un ex-ufficiale dell’esercito britannico delle Indie: quattro anni prima, nel 1858, aveva già ‘scoperto’ il lago Vittoria, l’infinita riserva d’acqua

del Nilo. Il 28 luglio del 1862, Speke, con una calma che lo sorprese, guardò un fiume aprirsi un varco nelle rive del lago e cominciare il suo viaggio verso Nord. Era la prova che cercava. Poteva tornare a casa. Da Alessandria d’Egitto avrebbe telegrafato a Londra: ‘The Nile is settled’, ‘il problema del Nilo era stato risolto’. La vanità, spesso, illude.


Le acque stanchissime del lago Vittoria, in un’ansa profonda della sua costa settentrionale, sembrano animarsi: aggirano scogli rocciosi, prendono velocità, si increspano in rapide via via più impetuose. Un grande giornalista italiano, Orio Vergani, scrisse: ‘Qui il lago muore. A quella riga di spume, il Nilo nasce. Qui termina un mondo e ne comincia un altro’. Una

scende dalle colline, spazzate dal vento, del Burundi: solo qui il viaggio potrebbe davvero finire. Almeno a credere ai geografi e alla parola di un esploratore tedesco meno conosciuto di Speke. Burkhart Waldecker, nel 1937, risalì il Kagera e lo vide sgorgare da una terra fertile. Quelle acque ancora non sapevano di essere le sorgenti più lontane del Nilo. Caput Nili, so-

piccola lapide avverte gli increduli: ‘This spot marks the place from were the Nile starts its long journey…..’. Sfida di targhe: se trovate tempo, bisognerebbe costeggiare le sponde occidentali del lago Vittoria. Andare oltre Entebbe, più lontano di Masaka. Fino alla foce lacustre di un altro fiume, il Kagera, il più importante degli immissari del lago. Attraversa la Tanzania, di-

stiene una placca metallica appesa a una piramide di pietra. Fra questo luogo remoto e il delta egiziano ci sono 6671 chilometri, il più lungo fiume dell’Africa, rivale del Rio delle Amazzoni in questo primato geografico. Il bacino idrografico del Nilo è vasto tre milioni di chilometri quadrati, allaccia i territori di dieci stati e decide il destino di 300 milioni di persone.

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Il piccolo Cessna da nove posti appartiene a una particolare compagnia aerea: la Mission Aviation Fellowship. Allaccia Kampala, la capitale dell’Uganda, alle terre di missione più remote. Dall’alto, il puzzle del Nilo non si semplifica: figlio di mille rivoli d’acqua, il fiume è un magnifico rebus geografico. Ognuno si scelga la sua sorgente preferita. Ma come avrà fatto il geografo Tolomeo, nel remoto II° secolo dopo Cristo, a disegnare una mappa perfetta del Nilo? Aveva descritto montagne altissime, innevate nel luogo più torrido del pianeta. Erano vette immense, confine di uno dei mondi terrestri: erano le Montagne della

Luna. Ai loro piedi si scorgono i cerchi concentrici del lago Eduardo e del lago Giorgio, il fiume Semliki si impossessa delle loro acque e le trascina verso Nord. Il fiume, ramo-bambino del Nilo, scorre lungo i confini fra Uganda e Congo, fino al lago Alberto. Il Nilo, qui, è imperioso: attraversa questo nuovo mare interno dell’Africa e attende la forza del fiume-fratello che proviene dal lago Vittoria. Finalmente, il suo cammino si fa unico, la sua rabbia si placa negli acquitrini sudanesi. Diventa prima il Nilo delle Montagne. Poi il Nilo delle Gazzelle. Al capo opposto dell’Africa, in Egitto, cinquemila anni fa, i Faraoni costruiranno piramidi di pietra,

quasi uno specchio dei picchi aguzzi del Ruwenzori. Fiume della storia, fiume di mille Afriche. Una volta nella vita, vorrei poter dormire lassù. Dove i ghiacci sanno che diventeranno Nilo. Lassù dove le Montagne della Luna sfiorano il cielo. aLdo Pavan, 60 anni, trevigiano. giornalista, fotografo, documentarista. da trent’anni viaggia per il mondo: i suoi reportage sono apparsi sulle principali riviste italiane. Ha scritto, per Calderini, ‘danubio’ e per Feltrinelli, ‘Birmania, su sentieri dell’oppio’. Ha risalito il Nilo, il gange e il Fiume giallo per ricavare tre splendidi libri per l’editore Magnus. Per la rai ha appena ultimato una serie di reportages sul rapporto fra uomini e animali.

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Una città è sorta alle ‘sorgenti’ ugandesi del Nilo. Ville coloniali, consumate dalla forza dell’Equatore, si specchiano nei primi passi del Grande Fiume. Jinja, con i suoi viali dai portici color pastello, è la città più bella dell’Uganda. Porto lacustre, terra di pescatori che mostrano, senza eccitazione, enormi Nile perch, il persico del Nilo, appena catturati. E’ una spiaggia-approdo per i battelli-traghetto diretti ai villaggi costruiti sulle isole dei microscopici arcipelagi del lago Vittoria. Nessun pontile: i marinai si trasformano, allora, in portantini e i passeggeri vengono caricati in spalla per raggiungere la barca ancorata oltre la barra di sabbia. I battelli si riempiono di caschi di banane verdi, di biciclette, di casse di birra, di sacchi di carbone. E di uomini e donne dalle vesti sgargianti. Più lontano, un gesto rapido fa muovere il paesaggio lacustre: pescatori lanciano a mezz’aria la loro rete che, in volo, si trasforma in una farfalla aerea prima di affondare sul branco di pesci che si era avvicinato alla costa. Vita quotidiana dell’Africa.


Cibo delle stelle Il cibo è filo conduttore di questo numero di Erodoto108. L’oroscopo va in cerca di piatti e felicità in un percorso zodiacale. Una ricetta è l’avvio di questo viaggio, un cibo che consigliamo a tutti, senza tener conti dei segni ai quali appartenete. E poi suggerimenti di film come consigli gastronomici di stagione. A voi trovare le riflessioni utili per i prossimi mesi. Buona visione e… buon appetito! Piatto di stagione: Timballo di soddisfazione Ingredienti: creatività, coraggio, magnetismo, buona salute. Procedura: in una terrina amalgamate a lungo creatività e coraggio fino a ottenere la consistenza desiderata. Fate attenzione che non si formino piccoli grumi di prepotenza, che potrebbero rendere un po’ acidulo il gusto. Aggiungete a poco a poco il magnetismo e mescolate finché non sentite che raggiunge la giusta consistenza. Ponete in forno preriscaldato e, una volta cotto, aggiungete la buona salute filtrandola con il colino. Il risultato sarà una stagione ricca d’intuizioni creative che, se ben cucinate, porteranno a grandi soddisfazioni.

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Ariete 21 M -19 A

ARZO PRILE Il rapporto con il cibo si fonda con tutti i sensi: la vista, l’olfatto, il tatto, l’udito, e infine il gusto. Per voi, abituati a prediligere alcuni sensi a scapito di altri, è arrivato il momento di affinare le percezioni allargando la capacità di raccogliere i frutti che il mondo vi offre. Sarete sorpresi di scoprire che i suoni contengono anche i colori, i profumi possono essere tangibili, e il gusto di un cibo non si assapora solo con il palato. Consiglio di stagione: Chocolat

Toro -20 20

MAGGIO APRILE L’Artusi è stato il primo a scrivere una raccolta di ricette regionali e pubblicarle come libro nazionale, ma non sarebbe diventato così famoso se non avesse avuto a suo fianco Marietta, la sua cuoca che sperimentava tutte le ricette. Il successo non arriva mai da solo, c’è sempre qualcuno che ci deve lavorare dietro, ed è ora di riconoscere e gratificare le vostre parti più nascoste che si impegnano per farvi arrivare. Il successo è dietro l’angolo, iniziate a fare la lista degli invitati con cui festeggiare! Consiglio di stagione: Il pranzo della domenica

Gemelli -20 G 21 M

IUGNO AGGIO Petronilla, durante la guerra, era la firma di una rubrica di cucina sul Corriere della Sera in cui suggeriva alle donne come cucinare con quel poco che riuscivano a trovare. Era chiamata la cucina dei “senza”. Quante cose potete realizzare anche voi Gemelli, pur non avendo tutti gli ingredienti necessari? Attivate la vostra fantasia e creatività che è arrivato il momento giusto per preparare degli ottimi manicaretti in tutti gli aspetti della vostra vita. E vi accorgerete che i senza non sono poi così limitanti. Consiglio di stagione Mangia Prega Ama

Cancro – 22 L 21 G

UGLIO IUGNO Anche i grandi cuochi o le persone raffinate abituate a cibi sofisticati, quando hanno veramente fame, ricercano i piatti di base, le ricette della mamma o della nonna perché sono queste che soddisfano il bisogno di pienezza. E’ arrivato anche per voi il momento di capire cosa davvero soddisfa i vostri bisogni, ricercando una semplicità che avete lasciato un po’ da parte, rincorrendo la complessità. Consiglio di stagione: Piovono polpett

Leone - 22 A 23 L

GOSTO UGLIO Quanti di voi hanno mai assaggiato il maritozzo con la panna? La sua caratteristica è quella di avere un lungo tempo di lievitatura e uno brevissimo di cottura, perché devono gonfiare molto velocemente. Ecco giunto il momento della cottura veloce; avete passato mesi a far lievitare i vostri sogni, adesso non c’è più tempo da perdere: siate pronti a realizzarli in tempi brevi e a farli gonfiare magnificamente. Cosa ci metterete come farcitura? Consiglio di stagione: Indovina chi viene a cena?


GOSTO ETTEMBRE Gli ingredienti base della pizza sono pochi: acqua, farina, lievito e salsa di pomodoro, ma aggiungendoci cose nuove si possono ottenere sapori molto diversi fra loro. E’ ciò che vi capiterà in questo periodo: un’aggiunta di nuovi ingredienti che modificheranno la vostra abituale quotidianità. Forse non sempre il gusto sarà di vostro gradimento, ma sicuramente avrete la possibilità di sperimentare nuove modalità di percepire il mondo Consiglio di stagione: C’eravamo tanto amati

Bilancia 23 - 22

SETTEMBRE OTTOBRE Nutrire significa prendersi cura, avere a cuore qualcuno. Chi, ma soprattutto cosa vuoi nutrire nella tua vita in questo momento? Gli ingredienti sono tutti davanti a te, si tratta di prendere il tempo di trasformarli in un pasto equilibrato e gustoso. Sei stato a dieta troppo a lungo, adesso è giusto che tu fornisca il giusto nutrimento a quegli aspetti del tuo carattere che hai tralasciato perché abbiano l’energia giusta per ripartire. Consiglio di stagione: The ramen girl

Scorpione 23 - 21

OTTOBRE NOVEMBRE La cucina per molto tempo è stata abbinata al dovere, non era un atto di creatività, ma di necessità. Con la pubblicazione del Talismano della Felicità, Ada Boni trasforma questo concetto: la cucina può essere piacere e si associa alla parola felicità. Anche per voi Scorpioni questo Autunno porterà un grande mutamento: ciò che fin’ora per voi è stato un peso si trasformerà in una passione che vi farà raggiungere splendidi risultati. Consiglio di stagione: La cena per farli conoscere

Sagittario 22 – 21

NOVEMBRE DICEMBRE Un piatto preparato con amore è indubbiamente più buono di uno cucinato in maniera veloce e sciatta. Gli ingredienti e le dosi sono sempre gli stessi, ma viene aggiunto un tocco magico che tutto trasforma. Nei prossimi mesi potrai sperimentare la differenza incontrando l’amore, che ti farà apprezzare anche le cose più spiacevoli, e che ti fornirà quell’ingrediente segreto che fornisce sapore anche al piato più insipido. Consiglio di stagione: Julie and Julia

Capricorno 22 D -19 G

ICEMBRE ENNAIO Tra le tante diete salutari c’è anche quella crudista, considerata come l’arte della massima salute e longevità, ma diventare crudisti significa rimettere in circolo tutte le tossine accumulate per anni nel nostro organismo, e quindi è un processo che deve essere graduale, altrimenti potremmo subire una lunga serie di danni collaterali. Nei prossimi mesi sarete tentati di abbandonare molte delle vostre sovrastrutture, ma non fatelo in maniera affannata: prendetevi il tempo necessario e godrete di splendidi risultati. Consiglio di stagione: Super size me

Acquario 20 - 18

GENNAIO FEBBRAIO Una delle marche più famose americane di cibo prelavorato è Betty Crocker. L’immagine della donna sulla scatola è negli anni molto cambiata e si è evoluta seguendo la moda, mantenendo comunque sempre l’idea rassicurante della casalinga perfetta. Qual è l’aspetto della tua vita che ti stai continuando a portare dietro negli anni, che modifichi in parte ma che non cambi del tutto? Non è forse arrivata l’ora di lasciarlo andare? Consiglio di stagione: La cuoca del presidente

Pesci 19 - 20

FEBBRAIO MARZO Ognuno di noi ha almeno un cibo che non ama, e spesso ci portiamo dietro quest’odio da quando eravamo bambini, vuoi perché ci obbligavano a mangiarlo con la forza, vuoi perché ci ha fatto male perché ne abbiamo mangiato troppo. Quei cibi sono diventati il nostro tabù e non ne sopportiamo neanche l’odore. Sarebbe quindi una sorpresa scoprire che invece, a distanza di anni possono diventare il nostro piatto preferito, se solo abbandoniamo il punto di vista infantile. A quale aspetto della tua vita 139 potresti abbinare questa riflessione? E’ il momento di cambiare occhiali! Consiglio di stagione: La cena dei cretini

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Vergine 23 A - 22 S

Letizia sgaLaMBro 52 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi. crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questa vita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno. L'oroscopo? uno strumento come altri per illuminare la strada.


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