Storie dello stagno

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Storie dello Stagno FRANCESCO SMELZO


L’autore Sì è vero: prima o poi a tutti viene la tentazione di scrivere qualcosa, tanto per dire: “a questo mondo ci sono stato anch’io”. E così è stato a 52 anni anche per me. Non sono uno scrittore, o almeno per adesso non la vedo come un’attività che mi possa consentire di campare. Mi piace la visione dello scrivere degli antichi romani: Ozio non Negozio e come Ozio – ovvero Diletto – più importante di quello che dà da campare (avendo ovviamente qualcosa che dà da campare). Quindi mi potete definire tranquillamente dilettante, non mi offendo. Per tornare al punto (non fate mai dilungare uno scrittore) come prima opera ho scelto una bella gatta da pelare: la forma di favola. All’inizio si è tentati – vi assicuro – di scrivere un bel romanzo di trecento pagine dove raccontiamo la nostra vita. “Beh” – ho pensato – “forse questo interessa me, se va bene a qualche amico di infanzia, se pago, anche a qualche stampatore, ma pochi più”. Quindi ho deciso di dire quello che avevo da dire in una forma più difficile da scrivere perché più semplice da leggere: la forma di favola appunto. L’obiettivo delle Storie è poterle raccontare ai nostri bambini o ragazzi e al tempo stesso rifletterci un po’ su, magari ritrovando qualcosa di noi che nel frattempo si era un po’ perso. Se ci sono riuscito giudicherete voi. Ah, a proposito… se a qualcuno interessa - penso a pochi - io mi chiamo Francesco Smelzo e la pagina Facebook delle Storie, sempre che a qualcuno interessi - spero a molti - è su www.facebook.com/storiedellostagno . Se proprio volete “esagerare” e contattarmi, “esagerate” pure scrivendomi a francesco@smelzo.it .

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Prefazione Le storie che diventano favole, amici miei, non son cose da adulti. Sono cose da Grandi. Si diventa adulti dopo un po’ che si è iniziato a vivere. L’esser Grandi, invece, non lo stabilisce il tempo che hai passato sulla Terra ma “come” quel tempo lo hai utilizzato per vivere. Le storie che diventano favole, spesso, provano ad insegnarci il modo migliore per diventare GRANDI E anche gli Stagni sono importanti perché, come ogni superficie acquatica, possono diventare specchi (quando la luce li colpisce con la giusta inclinazione). Gli specchi ci riflettono restituendoci il nostro stesso sguardo. Servono a raccontarci quelle verità che ci riguardano e che – non sempre – vorremmo conoscere. Anche questo è Crescere, provare a staccarsi dallo spazio ristretto dell’abitudine a noi stessi e andare a cercare lo stagno là dove si trova: oltre la finestra, oltre il profilo della città, un po’ più in là di dove immaginiamo esista un confine, più distante di quanto possa portarci un’auto o un aereo. Perché non si è mai troppo adulti per cominciare a diventare Grandi. Non si è mai troppo poco adulti per non sentire, impellente, il desiderio di crescere. Lo stagno, amici miei, è proprio qui, dietro questa pagina. Vi aspetto alla fine del sentiero che lo attraverserà per riconoscermi in quello che avrete visto riflesso. Continua alla fine dei racconti...

Laura Occhini Docente di Psicologia dello Sviluppo
 Università di Siena

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La rana felice

Era un agosto caldo e afoso nello stagno. Sotto il sole che scotta gli abitanti di quel piccolo specchio d’acqua sembravano spariti. Non si vedeva l’ombra della pinna del luccio Lucio che, armato di denti terribili, incuteva terrore persino alle papere. 3


Non si vedeva nemmeno la famiglia Rospetti, che era solita sguazzare nel fango vicino alla riva a caccia di insetti. I pesci che solitamente saltavano allegri qua e là sembravano aver fatto le valige. Insomma. Non volava una mosca… o meglio, una mosca per la verità volava e ronzava, frullando senza riposo le alette lucide. La mosca Fosca girava e girava incurante dell’afa. Si posava ora su una foglia di loto che galleggiava sull’acqua, ora su un ramo di uno dei salici che costeggiavano lo stagno. «Perché tanta frenesia?» - domandò la rana Giuliana, riparata all’ombra di una grossa foglia di una pianta. «Come? Non senti che sta per arrivare l’inverno? Devo fare provviste di moscerini finché se ne trovano!» - rispose Fosca. «Mah… veramente l’inverno mi sembra lontano. Senti che caldo fa ancora? E poi scusa, voi mosche di inverno morite; che te ne fai delle provviste?» Fosca, indaffarata a cacciare moscerini, non era certo in vena di chiacchiere con quella stupida rana e rispose stizzita: «Uffa, rana chiacchierona, mi fai perdere tempo prezioso, lo sai che la vita di noi mosche è breve?» «Faccio provviste per nutrire le mie larve che d’inverno staranno rintanate sotto la calda terra e la prossima primavera si trasformeranno in altrettante mosche.» 4


«A loro volta, se anche loro faranno come me, in capo a quattro o cinque primavere noi mosche saremo tanto numerose che tutto lo stagno sarà nostro! E ora lasciami al mio lavoro!» E la mosca riprese a girare girare… ronzare ronzare… con le alette lucide, a caccia di moscerini, posandosi solo qualche momento ora su una foglia di loto che galleggiava sull’acqua, ora su un ramo di uno dei salici che costeggiavano lo stagno. «Bella pretesa» - continuò ancora la rana Giuliana - «conquistare addirittura lo stagno!» «Ahahah» - fece, gracidando, la rana - «e anche se fosse? Tu saresti ormai morta da un pezzo! Quale sarebbe il premio di tanta fatica?» Infastidita di tanta insolenza, ronzando ronzando e continuando a cacciare moscerini Fosca le rispose : «Il premio? Il premio è quello di sapere che un giorno noi mosche saremo padrone dello stagno e che non avremo paura più di nessuno, nemmeno del luccio Lucio! Saremo talmente tante che nessuno ci potrà più far paura. Stupida rana!» Al che la rana Giuliana si stirò le zampe, emise un sonoro Graaaa, che sarebbe poi il modo che hanno le rane di sbadigliare, e guardando la mosca Fosca con gli occhietti roteanti e disse : «Bah … valle a capire le mosche! Ma comunque ti voglio aiutare.»

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Incuriosita da questa proposta la mosca, ronzando e girando sopra la rana, le chiese: «Aiutarmi, e come vorresti aiutarmi?» «Ebbene» - rispose la rana - «qui sotto questa foglia che sta sopra la mia testa e mi fa ombra, al riparo perché tu non possa vederli, c’è un bel gruppo di moscerini grassi. Posati senza far rumore e farai una buona caccia!» Presa dalla frenesia di fare una bella scorpacciata di moscerini la mosca Fosca si posò allora proprio sulla foglia sotto cui stava la rana. E… in men che non si dica… la rana tirando fuori la lunga lingua appiccicosa acchiappò la mosca e ne fece un sol boccone. Lieta di un pasto così facile e succulento, la rana si stirò le zampe, emise un sonoro Graaaa, che sarebbe poi il modo che hanno le rane di sbadigliare ed esclamò - «Bene, almeno oggi qualcuno è stato felice!» E tornò a sonnecchiare all’ombra della foglia ai bordi dello stagno.

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La tartaruga saggia

Grande fermento quel giorno nello stagno! Era arrivato dal Nord un grosso gabbiano che si faceva chiamare Sebastiano. Tutti gli abitanti dello stagno si erano radunati, incuriositi da questo nuovo venuto. Persino le talpe, con i loro occhietti quasi 7


ciechi, avevano messo fuori il capino dalle loro tane, attirate da tanto baccano. E Sebastiano il gabbiano non si sottraeva certo a queste attenzioni. Anzi! Si era messo in bella vista sopra un ramo della vecchia quercia, aprendo e chiudendo le sue ampie ali e mostrando il becco giallo appuntito. Ad un certo punto, quando l’attenzione degli altri animali era massima, prese ad iniziare il suo discorso: «Amici miei, fratelli cari. Ne ho visto di mondo io! Ho sorvolato i freddi mari del Nord a caccia dei bianchi merluzzi. Ho seguito le navi da pesca sugli oceani in tempesta. Ho dimorato sulle fredde scogliere, dove ho saputo cose che voi, abitanti di questa piccola pozza d’acqua, non sapete e non potreste neanche capire.» «Dicci, dicci ti prego!» - fece allora la papera Nerina, la più intraprendente del gruppo degli animali. «Sì Sebastiano, fai conoscere anche a noi le cose che sai» aggiunse l’oca Albina che si era accorta come Nerina guardava il gabbiano e non voleva esserle da meno. «Ebbene, sulle scogliere di Scozia, conobbi una vecchia foca.»

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Continuò allora il gabbiano Sebastiano «Aveva sulle spalle molte lune e giaceva su un sasso ai bordi del mare spumoso, passando, ai deboli raggi del sole del Nord, gli ultimi giorni della sua vita. Troppo stanca ormai per cacciare.» «Mi rivelò che tutto il mondo che i nostri occhi possono vedere fu creato mille e mille lune fa dalla Grande Foca. E che lei, la Grande Foca, ha stabilito la Legge per gli animali. E solo gli animali che seguono la Legge, quando muoiono, volano in cielo con il loro spirito per vivere per sempre felici.» «Mentre gli altri, quelli che non seguono la Legge, vedranno il loro spirito disperso nelle fredde acque dell’Oceano.» Gli animali che stavano a sentire il gabbiano domandarono: «cosa dice questa Legge? Cos’è che dobbiamo fare affinché il nostro spirito non si disperda nell’Oceano?» Sebastiano, dopo una lunga pausa, guardando uno per uno gli animali radunati intorno a lui rispose: «non tutti possono conoscere la Legge, solo alcuni animali, come me, possono avvicinarsi allo spirito della Grande Foca per conoscere la Legge e dire agli altri solo quello che possono capire.» «Io infatti sono stato investito di questo potere dalla vecchia foca morente, e ascolto ogni notte in cui la Luna è rotonda nel cielo, direttamente dallo spirito della Grande Foca, le parole della Legge, e so quelle che devono essere dette agli altri animali per salvare il loro spirito.» 9


«Ebbene allora parla, dì anche a noi quello che dobbiamo fare secondo la Legge» - dissero gli altri animali. Sebastiano il gabbiano, ancora guardandoli uno per uno e dopo un’altra lunga pausa disse: «È ancora presto perché possiate conoscere tutta la Legge ma, per iniziare, vi posso dire che la Grande Foca desidera che i suoi prediletti tra gli animali, quelli che possono parlare con lui, come me, debbano essere rispettati e serviti. Loro non possono perdersi in occupazioni inutili come cacciare o costruirsi nidi perché devono preoccuparsi soltanto di parlare con lo spirito della Grande Foca e meditare sulle cose importanti per il bene degli altri animali.» Da quel giorno la vita era cambiata nello stagno. Tutti gli animali si preoccupavano di fare qualcosa per far piacere a Sebastiano. Chi gli portava pesci per nutrirlo, chi raccoglieva fango e rami secchi per costruirgli un comodo nido. La papera Nerina e l’oca Albina facevano addirittura a gara a strapparsi le morbide piume della coda per rendere caldo e confortevole il nido del gabbiano. Tutti … tranne Uga la tartaruga. Lei continuava a brucare la fresca erba ai bordi dello stagno, non curandosi dell’agitazione degli altri animali. Sebastiano, indispettito da questo comportamento, un bel giorno le domandò: «Tartaruga, pensi di essere un animale speciale? 10


Perché non collabori con gli altri animali nel seguire la Legge? Vuoi forse che, una volta morta, il tuo spirito si disperda nel freddo Oceano?» Uga la tartaruga continuò per un bel pezzo a masticare la foglia che aveva in bocca, poi allungò il capo fuori dal guscio, guardò il gabbiano domandando: «Vicino a questo stagno vedi qualche Oceano?» «Oh bella! Certo che no!» - rispose Sebastiano il gabbiano, scoppiando in una risata - «per raggiungere l’Oceano occorre volare per molti giorni con ali potenti, come le mie.» «Vedi forse su di me delle ali potenti?» - domandò ancora la tartaruga. «Ali? Una tartaruga con le ali! Certo che no!» - rispose ridendo ancor più sonoramente il gabbiano. «E allora? Perché dovrei preoccuparmi che il mio spirito si disperda nell’Oceano?» - rispose Uga la tartaruga, ritirando il capo dentro il suo guscio. Gli animali che assistevano alla scena, all’improvviso, guardandosi l’un l’altro, capirono di essere stati giocati dal gabbiano e, di lì a pochi giorni, nessuno più portò pesci per nutrire Sebastiano, né raccolse rami secchi e fango per il suo nido.

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Solo per qualche tempo ancora la papera Nerina e l’oca Albina continuarono a strapparsi le piume della coda, ma poi anch’esse smisero, visto che nessuno più costruiva il nido per il gabbiano. Quel giorno allora Sebastiano, spiccò il volo da un ramo della vecchia quercia, senza neppure degnarsi di ringraziare, diretto a Sud, per cercare un altro stagno.

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Il piĂš veloce dei conigli

Vicino allo stagno, tra gli animali, c’erano due specie conosciute per la loro velocità : i conigli e le lepri. Le lepri dalle lunghe zampe erano tuttavia ben piÚ veloci dei conigli, tanto che tra loro si usava dire, per prendere in giro un

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proprio simile particolarmente “pigro”, “sei lento come un coniglio!” Lepri e conigli vivevano in due gruppi diversi, le lepri nel prato a nord dello stagno, mentre i conigli in quello a sud. Tra loro evitavano di incontrarsi. Come abbiamo visto le lepri si sentivano più forti nella corsa e vedevano i conigli come una sorta di “lepri poco dotate”. Dal canto loro anche i conigli sopportavano poco le lepri, che giudicavano decisamente “antipatiche”. Tra i conigli però ve n’era uno, il coniglio Pino, che, per la sua razza, era straordinariamente dotato nella corsa. Sia lepri che conigli venivano spesso presi di mira dal falco; il rapace predatore che calava dal cielo portandosi via le vittime tra gli artigli appuntiti. Un giorno il falco decise di fare un buon pasto a spese dei conigli che, più lenti, rappresentavano un bersaglio più facile. Volteggiando sopra il prato a sud dello stagno, con il suo occhio acuto, vide il coniglio Pino che brucava tranquillamente l’erba lontano dalla tana. “Che facile boccone” pensò, mentre già si precipitava in picchiata. Gli altri conigli, al sicuro vicino alle loro tane, altro non poterono fare se non gridare: «Attento Pino, attento al falco! Corri, corri…» 14


Pino il coniglio allora, con uno scatto fulmineo, percorse in un baleno tutto il prato fino a rifugiarsi in una tana sicura. Figuratevi il falco! Già lanciato per ghermire la sua preda, sicuro di averla tra i suoi artigli, ruzzolò invece sul prato, con un grande strepito e svolazzo di piume. Che magra figura di fronte ai lenti conigli che adesso sghignazzavano prendendolo in giro facendo capolino dalle tane! Si scrollò di dosso la polvere e, con lo sguardo sdegnato e la pancia vuota, si alzò in volo e sparì. Quando il falco si fu allontanato tutti i conigli si fecero intorno a Pino: «Bravo! Gliel’hai fatta vedere al pennuto! Tu sì che sei un corridore nato…» - e così via con lodi e complimenti alla sua abilità. Era ormai diventato l’eroe di tutti i conigli, specialmente delle conigliette che gli facevano chiaramente intendere che avrebbero volentieri messo su famiglia con lui per avere figli con quelle doti di corridori. E Pino… beh, di fronte a tutti questi complimenti si era effettivamente messo in testa di essere un po’ “speciale”.

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Il caso volle che ad assistere alla scena, vi fosse anche una lepre. E non una lepre qualsiasi, ma addirittura il capo delle lepri, Achille. Quel giorno infatti Achille aveva deciso di esplorare nuovi pascoli e, costeggiando lo stagno, era arrivato al prato dei conigli. Quando il falco stava attaccando Pino, si trovava ben nascosto dentro un cespuglio, avendo percepito subito il pericolo. Fu così che, volato via il rapace, uscì dal cespuglio e, senza degnare nemmeno di uno sguardo gli altri conigli, si avvicinò a Pino dicendogli: «Bravo, coniglio! Sei un corridore veramente notevole… peccato che tu sia sprecato in questo gruppo di lenti animali. Perché non vieni con me e ti unisci a noi lepri? Con noi sì che le tue doti potrebbero risaltare!» Pino il coniglio, che un po’, diciamolo francamente, si era convinto di avere qualcosa di speciale, con grande tristezza degli altri conigli, decise di seguire Achille. I primi giorni furono felici. Pino gareggiava con le altre lepri, a volte arrivando primo, altre no. Ma si trattava pur sempre di lepri, non dei suoi più lenti compagni conigli, quindi in ogni caso era contento di poter mettere in evidenza le sue abilità tra chi ne possedeva di simili. Il falco però, sempre con la pancia vuota e l’onore offeso, aveva deciso di tendere ora un agguato nel prato delle lepri. 16


Sapeva bene di aver a che fare con animali ben più veloci, quindi adottò una strategia ben più astuta. Dal cielo atterrò quindi sui rami più alti della vecchia quercia, nascosto alla vista delle lepri. E da lì non visto, poteva tenere d’occhio il prato. Le lepri tuttavia avevano un buon odorato e il vento portò, alle loro fini narici, la presenza del falco. Così corsero a rintanarsi senza avvertire il povero Pino che stava al centro del prato, non pensando nemmeno che lui non avesse lo stesso odorato e poi … “si tratta pur sempre di un coniglio, mica di una lepre” pensarono. Il falco, dal ramo della quercia, riconosciuto Pino, per la fame e per il ricordo dell’offesa subita pochi giorni prima, piombò sopra il povero coniglio, questa volta ghermendolo con i propri artigli. Lo sventurato già vedeva finire i suoi giorni nella pancia del rapace, penzolando mentre egli lo portava verso il nido poco distante. Solo il caso volle che un’aquila, scesa dall’alta montagna, si accorse del falco e della sua preda e, pensando di fare un pasto senza fatica, decise di attaccarlo per rubargli il coniglio. Ne seguì una tremenda zuffa per aria, tra i due temibili uccelli. E il falco, per difendersi dall’aquila fu costretto a lasciare la presa, facendo precipitare Pino in una macchia di rovi.

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Fu così che tutto acciaccato il coniglio riuscì comunque a salvare la pelle e, dopo che si fu rimesso dalle ferite, tornò tra i suoi simili. Si sentiva un po’ in colpa per aver lasciato il gruppo dei conigli, ma questi non glielo fecero pesare. Anzi, fu organizzata una festa a base di teneri germogli e Pino venne proclamato capo del gruppo. E fu così che Pino visse contento di essere il più veloce dei conigli.

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Martino il porcospino

Martino il porcospino era davvero uno strano personaggio tra gli abitanti dello stagno. Viveva continuamente preoccupato che gli potesse succedere una qualche disgrazia.

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Nelle giornate di sole, in cui spirava il dolce vento dell’Est, scoiattoli, conigli, lepri e perfino i pigri ghiri danzavano felici sui prati macchiati di rosso dei papaveri e di giallo dei tarassachi. Ma Martino il porcospino scrollava la testa e tornava nella sua tana sicura borbottando tra sé e sé - “troppo pericoloso, troppo pericoloso… Ah! A rompersi una gamba con queste danze ci vuole un attimo… e poi? Che ne sarebbe di un porcospino con una gamba rotta? Meglio stare qui nella tana, al sicuro.” Quando proprio doveva uscire, in cerca di cibo, Martino il porcospino cercava di star fuori dalla sua tana il minimo indispensabile e di non dare confidenza a nessuno. Un giorno un piccolo cane bianco, che abitava in chissà quale casolare lì intorno, gli si avvicinò festoso agitando la coda. «Che strano animale che sei…» - gli fece, sempre saltellandogli intorno. «Se non sparisci subito vedrai che ti succede!» - gli fece tra l’impaurito e il minaccioso Martino. Ma il cane non lo abbandonava, sempre saltellando e muovendo la coda intorno al porcospino. Martino, pensò : “e se fosse tutto un trucco per mangiarmi? Gli animali con forti denti non sono affidabili, alla prima distrazione sono pronti a divorarti”.

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Alla fine il porcospino rizzò sulla schiena i suoi aculei e ne sparò uno dritto sul naso del povero cane che, guaendo di dolore, scappò di filato. “Ben ti sta!” - pensò Martino, tutto fiero di aver messo in fuga il fastidioso animale -“non si può essere sicuri di nessuno in questo stagno. Si fa presto a finire in pancia a qualcuno se non si sta in guardia!” In verità Martino aveva proprio il vizio di sparare i suoi aculei a destra e a manca. Molti animali dello stagno ne avevano fatto le spese. Il caratteraccio del porcospino era ormai sulla bocca di tutti. «L’altro giorno mi sono beccata un dardo proprio sulle morbide piume della coda» - diceva l’oca Albina. «Non me ne parlare! Anche a me. Proprio qui nel petto… e solo perché volevo augurargli buongiorno» - gli faceva eco Gino il tacchino - «…che caratteraccio quel porcospino!» Fu così che, in capo a qualche tempo, tutti evitavano Martino. Il quale però non se ne dava pensiero e continuava la sua vita prudente, mettendo il capo fuori dalla sua tana il minimo indispensabile e sparando i suoi aculei su chi pensava lo minacciasse. E passò anche la calda estate allo stagno, lasciando il passo alle fresche giornate d’autunno che colora di rosso le foglie. 21


Martino, come tutti i porcospini, aveva un punto debole: era ghiotto dei dolci grappoli d’uva e in quel mese di ottobre, la vite selvatica che abbracciava la vecchia quercia aveva proprio superato sé stessa, producendo bei grappoloni neri e lucenti, con chicchi che parevano olive in salamoia. Attirato dall’inconfondibile odore dell’uva matura Martino si fece coraggio e andò alla vecchia quercia per sbocconcellare i grappoli maturi. Il problema era che la vite selvatica produceva i grappoli più succosi nei suoi rami più alti, quelli che per primi la mattina venivano baciati dal Sole. E così il porcospino, sempre meno prudente, attirato dall’uva più bella, si arrampicava sempre più in alto. “Guarda che bel grappolo là” - pensava mentre ne stava mangiando un altro e, per raggiungerlo saliva sempre di più. E così via, finché non raggiunse la cima dell’albero. Il caso volle che quella mattina anche il contadino del casolare vicino allo stagno avesse avuto l’idea di far provvista d’uva della vite selvatica. E, sistemata una rete sotto l’albero, si diede a scrollarlo con forza. I grappoli maturi caddero così nella rete e così… anche Martino! Il contadino non si accorse di niente, riversò il contenuto della rete, grappoli e… porcospino, in un grosso secchio, lo mise sul carro e ripartì per il casolare. 22


“Povero me” - rifletteva Martino - “ecco cosa ci si guadagna ad abbandonare la prudenza!” “Adesso chissà quale destino mi aspetta, sicuramente finirò nella padella di questo contadino! Ohi Ohi…” Ma, per fortuna non andò così. Il contadino, che non era un uomo cattivo, quando si accorse che un porcospino era finito nel suo secchio, lo raccolse con una pala e lo lasciò libero. Martino era però ben lontano dalla sua tana e il Sole stava già cominciando a calare. “Sono stato fortunato” - disse tra sé il porcospino - “ma la mia fortuna durerà poco. Come farò, di notte a raggiungere la mia tana? So che la notte si aggirano animali spaventosi, pronti a sbranare chiunque si trovi fuori di casa”. Proprio mentre pensava questo, gli si fece incontro una vecchia conoscenza: il piccolo cane bianco che, tempo addietro, aveva trafitto con un aculeo. Il cane, di buon carattere, sembrava aver già dimenticato l’incidente e disse : «Ehilà chi si rivede, il lanciatore di frecce! Come mai da queste parti?» «Mi sono perso» - ammise timidamente Martino - «ed ho paura a percorrere la strada verso lo stagno di notte» Il buon cane gli fece: «Se vuoi, per stanotte puoi dormire nella stalla con me. C’è della buona paglia e un riparo dal freddo.» 23


Martino si fermò nella stalla quella notte e con il cane divennero presto grandi amici, così che si fermò ancora la notte dopo e quella dopo ancora e… insomma, andò a vivere anche lui nella stalla. Da allora Martino il porcospino non ebbe più paura e visse contento di aver trovato un amico.

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Lo scoiattolo Rodolfo

Le giornate scorrono tranquille in riva allo stagno. Le libellule variopinte ronzano tra le canne sotto il sole estivo. I pesci saltano qua e là tentando di acchiappare quale insetto imprudente che vola a pelo dell’acqua.

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Ma quel giorno lo scoiattolo Rodolfo non era per niente tranquillo. Come tutti i suoi simili, nella bella stagione, faceva incetta di ghiande e nocciole che riponeva nel nido, ricavato da un buco nel tronco della vecchia quercia. Questa scorta doveva servirgli quando sarebbe arrivato l’inverno e in giro non si sarebbe più trovato del cibo. Ma quel giorno, dopo aver raccolto un bel po’ di ghiande polpose ai piedi della quercia ed essere salito a portarle nel nido, poco prima di entrare, nella penombra della cavità, si accorse di un occhio… sì un occhio, a forma di fessura che lo guardava. “Un serpente!” - pensò subito Rodolfo che di queste cose se ne intendeva - “Un serpente nel mio nido! Come farò adesso? Non posso cambiare nido a fine estate; è li che ho accumulato tutta la mia scorta per l’inverno, morirei di fame.” Ma lo scoiattolo Rodolfo non si perse d’animo, prese un respiro e gridò, rivolto all’interno del nido: «Ehilà serpente! Dico a te… devi essere ben piccolo per entrare in questo buco!» Il serpente, aprendo anche l’altro occhio e fiutando l’odore della preda rispose sibilando: «SSSono grande abbassstanza per ingoiarti tutto intero!» 26


E piano piano uscì dal nido mostrando la sua notevole lunghezza ed il corpo coperto di scaglie lucenti. Ma Rodolfo, tenendosi sempre a distanza, continuò: «Beh sì… sei abbastanza lungo. Ma non sarai certo capace di prendermi su questo ramo» - e si spostò su un ramo più alto della quercia. Il serpente allora strisciò anche lui sul ramo più alto, ma l’agile scoiattolo era già salito più in alto dicendogli: «Sei un animale veramente bello e temibile, ma non così agile da seguirmi in cima alla chioma di questo albero.» Il serpente, un po’ lusingato degli apprezzamenti di Rodolfo e un po’ irritato che le sue doti di scalatore fossero messe in dubbio, rispose: «A sssì? Vedremo ssse non riesco a sssalire…» - e attorcigliando il corpo flessibile intorno ai rami seguiva lo scoiattolo che ascendeva la chioma. Il furbo Rodolfo sapeva che lassù nel cielo sopra la quercia volteggiava sempre il falco affamato in cerca di prede. Così, arrivato in cima, prese a muoversi vorticosamente tra i rami inseguito sempre più da vicino dal serpente che ormai vedeva il pasto assicurato. Tale movimento non poteva sfuggire all’occhio vigile del falco che si precipitò in picchiata verso Rodolfo… ma… arrivato 27


ormai vicino a ghermirlo si accorse del ben più succulento serpente che stava con la testa alta, ormai prossimo a mordere lo scoiattolo. Il serpente, da parte sua, non si accorse di niente, tutto concentrato a serrare le spire per sferrare l’attacco. E in quel mentre si sentì afferrare per la testa dai potenti artigli del rapace che lo trascinò via dall’albero. E mentre discendeva lieto al suo nido, pieno di ghiande e di nocciole, Rodolfo lo scoiattolo pensò a quanto fosse pericoloso credersi sicuri di sé.

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Teodoro il castoro

Se c’era un tipo veramente allegro e contento in tutto lo stagno, quello era Teodoro il castoro. Ogni mattina si alzava fischiettando, faceva colazione con un pezzo di corteccia e trotterellava tutto felice fino alla Diga.

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La Diga era lo sbarramento che tutti i castori stavano costruendo sul fiumiciattolo che alimentava lo stagno. Un po’ tutti gli animali si chiedevano perché i castori costruissero quella Diga, molti pensavano lo facessero per creare un laghetto dove si sarebbero radunati i pesci ma, se lo chiedevi a uno di loro rispondeva semplicemente : «perché ci piace farlo.» E a Teodoro piaceva particolarmente costruire la Diga, tanto che era stato nominato “capomastro“, che per i castori è un’alta onorificenza. Era lui che si occupava di scegliere gli alberi migliori che, una volta abbattuti dai forti denti dei castori, avrebbero costituito la struttura portante della Diga. Ogni giorno guardava con soddisfazione la Diga che cresceva e pensava che fosse proprio bello partecipare ad un’opera così imponente. Solo quando il sole era alto nel cielo e le ombre erano corte, Teodoro si fermava un po’ di tempo, interrompendo il lavoro per mangiare un altro po’ di corteccia, prima di riprendere la costruzione. Fu in uno di quei momenti che accanto a lui atterrò una gazza dalle nere penne lucenti. L’uccello gli si fece vicino e disse: «Fate una vita ben triste voi castori! Tutto il giorno a lavorare e poi per cosa? Per costruire una Diga che non serve a niente!» 30


«E perché? Cosa c’è di meglio nella vita?» - le chiese Teodoro «Ah… molte cose» - disse la gazza - «ma tra tutte la più bella è trovare i sassi lucenti vicino al fiume, come questo che ho nel becco». E fece vedere al castoro la pietra trasparente dai riflessi di Sole che aveva appena trovato. «Certo che è veramente bella…» - fece ammirato Teodoro - «e… come si trovano?» La gazza allora insegnò al castoro dove cercare nel greto del fiume per trovare le pietre lucenti. Da quel giorno Teodoro il castoro si occupò sempre meno della Diga per cercare i sassi dai riflessi di Sole. Quando li trovava, li portava nel suo nido e li accumulava uno sull’altro fermandosi affascinato a guardarli. Il lavoro di “capomastro” alla Diga veniva ormai svolto da un altro castoro che, meno esperto di Teodoro, sceglieva alberi troppo esili per costruire la struttura portante della Diga. Questo perché, in questo modo, era più semplice abbatterli e si faticava di meno. In un pomeriggio alla fine dell’estate il cielo si coprì di nuvoloni neri provenienti dal Nord e presto si videro lampi tremendi che si scaricavano a terra, seguiti dal possente rombo del tuono. E presto giunse la pioggia rabbiosa che si riversava copiosa e incessante sullo stagno. 31


Il fiumiciattolo dove i castori stavano costruendo la Diga diventò presto un torrente impetuoso che tutto trascinava via. Teodoro, quando stava arrivando il temporale, era, come spesso capitava negli ultimi tempi, nella sua tana, intento a rimirare le pietre trasparenti dai riflessi di Sole. Il rombo dei tuoni lo scosse e capì subito che qualcosa non andava. Si precipitò fuori, con la pioggia scrosciante e, in preda ad un presentimento corse verso la Diga. La parte di Diga costruita da Teodoro, quando ancora vi si dedicava, aveva resistito perché gli alberi erano forti e grandi, ma quella proseguita dall’altro castoro, fatta con alberi giovani ed esili, era crollata, disperdendo i rami accumulati con gran fatica nella corrente del fiume. Teodoro si fermò a vedere l’orrendo spettacolo con le lagrime agli occhi. La sua Diga miseramente si disfaceva disperdendosi nel fiume. E comprese. Tornò alla tana e si liberò degli inutili sassi che lui aveva solo trovato, non costruito. È così che ancora oggi, se vi capita di passare intorno allo stagno, quando il Sole sorge nel cielo, potreste vedere un castoro allegro

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e contento che trotterella felice per andare a costruire la sua Diga.

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Il topo viaggiatore

A topo Gianni la vita dello stagno, come diceva lui, “andava stretta”. Fin da cucciolo era il più impavido esploratore tra i topini tanto che in diverse situazioni ci mancò poco che finisse in guai davvero seri. 34


Una volta cresciuto la sua indole non cambiò e a tutti andava dicendo che un bel giorno sarebbe partito per girare il mondo. Lo ripeteva continuamente anche al vecchio nonno topo quando andava a trovarlo nella sua tana vicino al grande Olmo in riva allo stagno. «Nonno mio, sono inquieto, devo trovare un posto migliore di questo stagno dove vivere» - diceva. Il vecchio nonno si limitava a sorridere, scrollando la testa, senza dire niente. Un bel giorno topo Gianni prese un po’ di provviste dalla dispensa di famiglia e sparì. I genitori e i fratelli lo cercarono in lungo e in largo, intorno allo stagno e anche oltre, ma di lui nessuna traccia. Presto tutti nella sua famiglia si rassegnarono a pensare a una disgrazia. Tutti tranne il vecchio nonno topo che si limitava a sorridere scrollando la testa. Ma lui, si sa, era considerato un po’ pazzo. Passarono così i giorni, e i giorni diventarono mesi, e i mesi anni, di topo Gianni si era perso ormai quasi anche il ricordo. Quando, dalla strada che portava allo stagno, dei topi che stavano cercando dei grilli per cena videro un topo tutto impolverato, zoppicante e con il pelo arruffato.

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Tra i topi cacciatori c’era uno dei fratelli di Gianni che, riconosciutolo, gli si fece incontro facendogli grandi feste e conducendolo dai vecchi genitori. Tutti in famiglia lo abbracciarono chiedendogli dove fosse stato per tutto quel tempo, ma Gianni si limitava a sorridere scuotendo la testa. Si rifocillò, si lavò e poi, sempre incurante delle domande che tutti gli facevano domandò: «è sempre vivo il nonno?» Gli risposero di sì e lui, senza dire niente, si alzò e si incamminò verso il grande Olmo. Arrivato alla tana del nonno lo trovò seduto all’ingresso a guardare il Sole che tramontava sullo stagno. Accortosi di lui il nonno gli disse : «Ehilà Gianni, hai girato il mondo?» «Sì nonno» - cominciò a raccontare topo Gianni - «prima sono stato in una grande città, piena di cibo e lucente, di notte, di mille luci.» «E ti sei trovato bene?» «No, troppo fumo che avvelena il respiro, rumore e animali di ferro rombante che rischiano continuamente di schiacciarti.» «Poi, in cerca di solitudine, ho attraversato il deserto rovente nascosto nei sacchi di mercanzie delle carovane.» «E ti sei trovato bene?» 36


«No, il caldo era insopportabile e la sete tagliava la gola.» «Poi, nella stiva di navi, ho solcato gli oceani insieme ai pescatori del Nord.» «E ti sei trovato bene?» «No, le onde nere ed alte erano una minaccia continua alla fragile nave, in ogni momento si rischiava di finire nelle fredde acque» «Anche l’aria ho percorso, volando su uccelli di metallo che quasi raggiungono il Sole, più in alto delle grandi aquile, arrivando in paesi lontani» «E ti sei trovato bene in questi paesi?» «In ogni luogo ho visto cose belle e cose brutte» - proseguì - «ho visto la ricchezza e la miseria, la bontà e la cattiveria, la vita e la morte. Ma no, non ho trovato un posto migliore di questo stagno.» Il nonno allora gli domandò: «Allora, ora che hai girato il mondo, dove cercherai un posto migliore?» «In me stesso» - rispose topo Gianni. E il nonno sorrise, questa volta senza scrollare la testa, e insieme si sedettero in silenzio guardando il Sole che tramontava sullo stagno.

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La papera pazza

Tra gli animali dello stagno, si sa, le papere sono le piĂš chiacchierone. Non perdono mai occasione, riunite in gruppo tra le canne, di parlare male di qualcuno. Soprattutto se si tratta di un loro simile. 38


Bisogna sapere, per prima cosa, che le papere non danno troppa confidenza agli altri animali, anzi li trattano con sufficienza, spesso schernendoli. «Avete visto i castori che coda buffa che hanno? ... E quei corvi? Sembrano beccamorti parati a festa… ah ah ah…» - e così via, sparlando di questo o di quello. Ma, tra le papere ce n’era una, la papera Gina, che non la pensava così. Anzi era sempre gentile e cortese quando incontrava un altro animale, anche se non era della sua specie. Salutava tutti e spesso si fermava anche per ascoltarli quando volevano attaccar discorso. Già questo metteva in cattiva luce Gina nei confronti delle altre papere. «Oh ma chi si crede si essere! Dare così confidenza al primo venuto! E ad animali francamente ridicoli poi! Va bene l’elegante cicogna, ma pure coi luridi topi si ferma a parlare quella là» - dicevano alle sue spalle. Il colmo fu quando allo stagno giunse un vecchio lupo. Figurarsi l’agitazione degli altri animali all’arrivo di un simile predatore! Il lupo, cacciato ormai dal suo branco da un concorrente più giovane era pieno di morsi e di ferite in tutto il corpo. Ormai stanco della vita si stese sulla riva dello stagno ad aspettare la fine che ormai riteneva prossima.

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Gina la papera, che passava in quel mentre, si accorse del vecchio lupo e, invece di scappare come gli altri animali, gli si fece incontro. Il lupo, anziché azzannarla come ci si sarebbe aspettato, la guardò a lungo con i suoi occhi neri e poi abbassò di nuovo il capo, rassegnato alla sua prossima fine. La papera non si perse d’animo e raccolse alcune erbe che crescevano in prossimità dello stagno, le masticò e, con il becco le applicò sulle ferite del lupo. Il tempo passò e il lupo, anziché morire, si rimise in forze e strinse con la papera Gina un’insolita amicizia. A questo punto le altre papere, che avevano sempre guardato con sospetto la strana Gina, abbandonarono ogni indugio dichiarandola del tutto pazza. «Salvare un lupo! Sciagurata.» - dicevano alle spalle di Gina - « uno di questi giorni prende e se la mangia con tutte le piume!» «Senza contare che con un lupo nei paraggi adesso nessuno di noi è più al sicuro» - continuavano - « e tutto per colpa di quella sventata!» E così le altre papere tolsero del tutto il saluto a Gina e, quando passava, si giravano sdegnose dall’altra parte.

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Gina non se ne dava pensiero, tutta contenta accanto al vecchio lupo con cui parlava e a volte si divertiva persino a scherzare, tirandogli col becco i baffi grigi. Solo la notte rientrava nel canneto, dove le papere hanno i loro nidi e dormono protette dai rapaci notturni. Ma una brutta notte Gina si svegliò, sentendo un fruscio strano tra le canne, alla flebile luce della Luna intravide così quattro o cinque corpi sinuosi che si muovevano cercando di fare il minimo rumore. Era un gruppo di faine, animali sanguinari sempre a caccia di vittime per mangiare ma, a volte, anche solo per il gusto di uccidere. Quando Gina dette l’allarme - «Le faine! Le faine! Scappate» - le altre papere si girarono dall’altra parte borbottando : - «Ecco la pazza! Ora comincia a vaneggiare anche di notte…» Visto che tutti la ignoravano Gina si alzò in volo andando sulla riva dello stagno dove dormiva il lupo. Quando tornarono nel canneto, lei in groppa al vecchio lupo, la tragedia era iniziata e alcune papere giacevano già con il collo squarciato dai perfidi denti delle faine. In poco tempo però il lupo, con potenti morsi, uccise due faine e mise in fuga le altre, salvando così le papere superstiti.

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E fu cosĂŹ, cosa piuttosto insolita a vedersi, che, da quel giorno, il vecchio lupo visse nel canneto insieme alle papere.

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L’oca vanitosa

Le oche non hanno l’aria di animali particolarmente intelligenti e, men che meno, ce l’aveva l’oca Fernanda, che abitava nella fattoria vicino allo stagno.

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Ogni giorno, insieme alle altre oche, percorreva il sentiero che, dall’aia, portava allo specchio d’acqua per andare in cerca di erbe e bacche di cui erano ghiotte. Una volta Fernanda, in coda al gruppo, trovò un cespuglio di rovi con delle grosse more nere e, essendone golosa, si fermò a mangiarne fino a riempirsi la pancia. Solo allora si accorse che le altre oche erano ormai ben lontane e che era rimasta sola. E se ne accorse anche la volpe Rubina che pensò di divertirsi alle spalle della stupida oca. «Buongiorno oca» - disse la volpe - «devo dire di non aver mai visto da queste parti un animale più leggiadro ed elegante di te.» «Grazie» - fece timidamente l’oca Fernanda «Solo una volta, veramente, incontrai un animale più bello. Molto più a nord. Era anch’essa un’oca come te, solo che aveva le penne nere come quelle di un corvo» - continuò la volpe. «Un’oca dalle piume nere? E com’è possibile? Tutte le oche sono bianche.» - rispose l’oca. «Ah, anche questa era nata bianca come te, solo che aveva incontrato una vecchia gazza che le aveva rivelato un metodo segreto per avere le penne nere.»

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«E qual è questo segreto?» - chiese curiosa l’oca Fernanda «voglio anch’io avere le penne nere per far morire d’invidia le altre oche.» «Beh» - proseguì la volpe - «visto che sei così bella, e che mi pari anche molto intelligente, te lo rivelerò.» «Di solito, nelle fattorie, dietro la stalla, il contadino ripone grossi mucchi di fanghi speciali, per venderli poi a caro prezzo come cura di bellezza.» «Sì, sì» - fece l’oca, tutta contenta - «ce n’è uno anche dietro la stalla della nostra fattoria… ecco quindi cos’era!» «Ebbene, il segreto per avere le penne nere consiste nel rotolarsi a lungo in questi fanghi» - disse la volpe Rubina. Ringraziando la volpe per il prezioso consiglio, l’oca Fernanda, invece di raggiungere le compagne allo stagno, tornò allora indietro, alla fattoria. Andò dietro la stalla, dove c’era il letamaio e… ci si tuffò dentro sguazzandoci ben bene. “Guarda che piume nere!” – pensava – “proprio come diceva quella volpe gentile. Stasera quando torneranno le mie compagne le farò morire d’invidia!” Giunse la sera e le oche tornarono dallo stagno.

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Fernanda si fece loro incontro, tutta spavalda e altezzosa, sfoggiando il suo nuovo piumaggio nero e aspettando i loro commenti di ammirazione. E i commenti ci furono. Eccome! «Che puzzo!» - esclamarono in coro le oche - «ma come ti sei combinata?» «Stupide» - disse Fernanda - «non vedete che piumaggio scuro e lucente? Non sapete che al Nord tutte le oche hanno le penne nere e per questo sono considerate i più belli tra gli animali?» «Ah sì? Al Nord sono tutte nere?» - chiesero dubbiose le compagne - «e per questo sono considerate più belle?» «Certo.» - proseguì Fernanda - «Me l’ha detto una volpe saggia, che ha viaggiato molto.» A quel punto anche le altre oche rimasero un po’ perplesse… Certo l’odore… ma se l’aveva detto la volpe… se al Nord lo facevano. Quindi, rompendo gli indugi, chiesero tutte a Fernanda come aveva fatto a cambiare colore alle penne. Fernanda, sulle prime, esitava a rivelare il suo segreto perché voleva essere la sola ad avere quel piumaggio. Poi, orgogliosa di conoscere qualcosa che le altre non sapevano e lusingata dalle insistenti richieste acconsentì a rivelare anche alle altre il “trattamento di bellezza”. 46


E presto tutte le oche si precipitarono al letamaio rotolandoci dentro come maiali. Potete immaginare quale odore si spargesse per tutta la fattoria! Il cane, venuto a controllare cosa stava succedendo, viste le oche piene di letame scoppiò in una sonora risata. E così risero della stupidità delle oche anche le galline, il cavallo, le capre e tutti gli animali della fattoria, e non solo… anche la volpe Rubina, nascosta al limitare del bosco, se la rideva a crepapelle. Solo i maiali, a dir la verità, trovavano tutto questo normale.

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Il corvo e il cervo

Allo stagno andavano ad abbeverarsi, alla sera, animali di ogni genere che provenivano dai boschi lĂŹ intorno. Tra questi, il piĂš bello e imponente era il grosso cervo Fulvio, dotato di un largo palco di corna e di muscoli possenti.

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Quando scendeva a bere lo faceva sempre con grande strepito, piombando nello stagno incurante di chi, in quel momento vi si trovasse. Una volta poco mancò che non sterminasse, travolgendola nella sua corsa sfrenata, un’intera famiglia di paperi, paperottoli compresi, che stava cibandosi vicino al canneto. Tuttavia tutti avevano timore e rispetto del cervo Fulvio, vuoi perché capace di terribili sfuriate con chi lo faceva arrabbiare, vuoi perché tutti ammiravano la sua bellezza e potenza. Quando quindi arrivava come un ciclone tutti si allontanavano alla svelta senza dire niente. Non fu così quella sera per il corvo Armando. Se ne stava bello appollaiato su un ramo basso della vecchia quercia che quasi rasentava l’acqua, in attesa di acchiappare qualche pesciolino che risaliva a cacciare insetti. Aveva adocchiato una bella lasca che stava per venire in superfice e, proprio quando stava per prenderla col becco, ecco che arriva il cervo con il solito trambusto di zoccoli a far scappare tutti i pesci. «Ehi, ma che modi sono?» - sbottò il corvo Armando scrollandosi per l’acqua che il cervo gli aveva schizzato addosso - «non puoi comportarti in modo più educato? C’è bisogno di scendere in quel modo nello stagno?» «Chi è che mi parla in questo modo?» - esclamò il cervo Fulvio, già pronto ad incornare l’insolente che aveva osato protestare. 49


Poi, quando si accorse che si trattava solo di un misero corvo, scrollando il capo, scoppiò in una grossa risata: «Ah saresti tu quello che viene a darmi lezioni di educazione!» disse sprezzante - «ma che denti aguzzi che hai… che artigli affilati… per venire a farmi la morale!» «Ebbene sappi che, essendo l’animale più forte e bello » continuò Fulvio - « tutti mi debbono obbedienza e rispetto, tu per primo se non vuoi finire infilzato dalle mie corna.» Il corvo Armando, di fronte a tanta superbia non si scompose e rispose: «Non ho né denti aguzzi né artigli affilati, ma ti dico che un giorno sarai tu a servire me!». Il cervo, a quel punto, non sapeva se ridere di quel corvo matto o se infilzarlo direttamente. Scalciò violentemente sull’acqua con le zampe potenti provocando un’onda d’acqua che investì il povero Armando che, scrollandosi le penne, volò via. Ma prima disse ancora al cervo: «Ti dico che un giorno sarai tu a servire me!» Dopo un po’ tempo allo stagno arrivò il freddo inverno, con il gelo che chiude nella sua morsa le acque e copre di brina tutte le piante. E con il freddo arrivarono le nubi dal Nord che portano neve e vento.

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Presto tutti i prati si ricoprirono di ghiaccio e, sopra il ghiaccio, cadde copiosa la neve che tutto nascondeva. Tutti gli animali in quei giorni soffrivano la fame. Chi mangiava pesci non poteva pescare a causa del ghiaccio che ricopriva lo stagno, chi mangiava erba non poteva trovarla perché sepolta sotto strati e strati di neve. Tutti soffrivano la fame, ma più di tutti il cervo Fulvio che, con il suo grande corpo possente aveva bisogno di più cibo degli altri. Ma l’inverno quell’anno non voleva lasciare tregua e il freddo e la neve continuarono ancora a lungo a tormentare lo stagno e i suoi abitanti. E alla fine accadde l’inevitabile. Il cervo, stremato dalla fame e dal freddo, cercando inutilmente di grattare la neve con gli zoccoli per raggiungere l’erba, si accasciò sul bianco manto che copriva il terreno e morì. Ed ecco dal ramo della quercia, da dove aveva visto la scena, che calò il corvo che, con il forte becco aprì un varco nella dura pelle del cervo e si cibò a sazietà delle sue carni. Abbandonando quel banchetto, che gli sarebbe servito ancora per molto a placare la fame, il corvo allora esclamò: «Che ti avevo detto? Un giorno saresti stato tu a servire me.»

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Il miglior Tasso

Presso lo stagno vi erano due gruppi di tassi. Quello dei tassi “dal Collare” viveva nei pressi del grande Olmo, chiamato così perché un collare di peli bianchi adornava il loro petto.

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L’altro, quello dei tassi “Naso rosa”, abitava la sponda Sud vicino al salice e avevano appunto il naso di colore rosa anziché nero. Prima dell’inverno, quando le giornate diventano più corte, i due gruppi organizzavano un grande incontro nel prato vicino allo stagno per disputare delle gare di abilità che avrebbero incoronato il “miglior Tasso”. Questo titolo era molto ambito perché il vincitore veniva onorato e rispettato per tutto l’anno: poteva pescare dove a lui piaceva, anche nel territorio di altri tassi, senza che questi potessero protestare; veniva salutato per primo con ben due scrollate di testa quando incrociava un altro tasso anche se più anziano di lui (la scrollata di testa era segno di omaggio tra i tassi) e poteva scegliere il nido che a lui piaceva anche se questo apparteneva a un altro tasso. La tradizione dei giochi del “miglior tasso” (così li chiamavano) era cominciata molti e molti anni fa. Nessuno dei tassi viventi si ricordava perché. Li facevano semplicemente perché li avevano fatti i loro genitori e i loro nonni e così sarebbe continuato. I tassi più giovani gareggiavano nella speranza di arrivare primi, ma, prima ancora di vincere loro, ognuno voleva che non vincessero gli altri, in particolare quelli del gruppo a cui non appartenevano. Per questo ogni gruppo aveva dei “campioni” che venivano preparati e curati per tutto l’anno in vista dell’epico incontro. 53


Quell’anno i campioni dei due gruppi erano: da una parte Rolando, per i tassi dal Collare e, dall’altra, Orlando per i “Naso rosa”. Entrambi avrebbero dato qualunque cosa per vincere e detestavano l’avversario con tutto il cuore. Le gare a cui dovevano partecipare i concorrenti erano tre. C’era la corsa col pesce in bocca, dove i partecipanti dovevano fare tre giri di corsa del prato stringendo tra i denti un pesce, pena la squalifica. C’era poi la gara di “scavo della buca”, che consisteva nello scavare una buca più profonda possibile nel tempo in cui il tasso arbitro riusciva a sgranocchiare completamente una radice amara. E infine la lotta, la gara a cui partecipavano i primi due vincitori delle altre, che non aveva regole : vinceva chi faceva arrendere o scappare l’avversario. La mattina del giorno dell’incontro il tempo non prometteva nulla di buono, soffiava un vento freddo da Nord che portava con sé dei nuvoloni neri poco promettenti. Tuttavia le tifoserie dei “Collari” e dei “Nasi rosa” erano così accese che, dopo essersi riuniti, gli anziani decisero di non rimandare l’incontro.

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I partecipanti alla gara di corsa col pesce si allinearono quindi alla partenza, incitati dai rispettivi gruppi di tifosi. Rolando, dei “Collari”, sapeva che Orlando il “Naso rosa” in quella gara era più forte di lui, l’aveva spiato nelle settimane prima, quando sfrecciava ad una velocità incredibile con in bocca una grossa carpa, figuriamoci adesso quando, per regolamento, il pesce sarebbe stato una più leggera tinca. Fu così che pensò di giocare a Orlando un brutto tiro: la sera prima aveva convinto l’addetto all’organizzazione della gara, un “Collare” anche lui, a mettere nella postazione di Orlando una tinca mezza andata a male. Quando Orlando se ne accorse era ormai troppo tardi, l’arbitro stava già per dare l’urlo di inizio - tra i tassi si usa così - e quindi dovette far buon viso a cattiva sorte mettendosi in bocca il pesce mezzo fradicio. Per i primi due giri di corsa il povero Orlando resistette eroicamente, ma il puzzo del pesce era talmente forte che, all’inizio del terzo giro, fu costretto a lasciarlo cadere venendo quindi squalificato. Senza concorrenti alla sua altezza Rolando vinse quindi la gara facilmente. Fu poi la volta dello scavo della buca, in questo Rolando era ben sicuro di sé, ben sapendo che era il più forte scavatore tra i tassi dello stagno. 55


Ma questo lo sapeva anche Orlando, che a sua volta aveva visto Rolando allenarsi e lo sapeva in grado di scavare buche fonde come pozzi. Qui fu Orlando ad escogitare un trucco; già da settimane prima della gara aveva scavato una buca nel prato e vi aveva deposto una grossa pietra, ricoprendo poi tutto con la terra. In questo punto era poi ricresciuta l’erba e nulla faceva apparentemente riconoscere lo scavo. Fu Orlando questa volta a mettersi d’accordo con l’arbitro della gara, manco a dirlo un “Naso rosa”, affinché a Rolando fosse assegnato proprio quel posto. Il tasso arbitro dette l’urlo di inizio e cominciò a sgranocchiare la radice amara. Dopo poche zampate Rolando si trovò davanti alla pietra e, per quanto scavasse, spezzandosi gli unghioni, non riuscì a scalfirla. Al termine della gara quindi Orlando, che dopo Rolando era il più abile scavatore, risultò ovviamente vincitore. I due campioni allora si trovarono davanti nella terza gara, quella di lotta. L’odio con cui si scrutavano faceva capire che quella volta uno dei due non si sarebbe più rialzato. E la lotta cominciò, violenta e piena di colpi bassi. Morsi sulla pancia e unghiate nel naso. 56


Ma si accese anche tra i due gruppi di tifosi, i Collari insultarono pesantemente i Nasi chiamandoli “scoloriti” e questi ricambiarono definendoli “ciambelloni” per via del collare bianco. Dagli insulti i due gruppi passarono in breve alla rissa e ormai nessuno faceva più caso alla lotta di Orlando e Rolando, essendo ognuno impegnato nella sua lotta contro gli avversari. Ma nessuno fece neanche caso al tempo, che nel frattempo era cambiato. I nuvoloni, portati dal vento del Nord, avevano cominciato a scaricare acqua a catinelle e il fiume che portava acqua allo stagno era fuoriuscito dagli argini allagando il prato. I fulmini avevano colpito alcuni alberi intorno al prato che si abbatterono sui tassi impedendogli di scappare dalle acque che salivano e rischiando di farli morire affogati. Fu allora che Rolando e Orlando si guardarono negli occhi, questa volta senza odio e capirono. I due campioni cercarono allora ognuno di strappare alla morte i propri simili. Rolando, lo scavatore, scavando sotto gli alberi per aiutare i tassi intrappolati e Orlando, il corridore, portando in bocca, tenendoli per la collottola, al sicuro i cuccioli che vagavano per il prato allagato. 57


Non tutti i tassi purtroppo si salvarono, ma i sopravvissuti concordarono che quell’anno sarebbero stati proclamati due campioni. E da allora tra i Collari e i Nasi rosa non ci furono più rivalità e l’incontro annuale fu trasformato in un gran pranzo a base di radici amare, di cui i tassi sono notoriamente ghiotti.

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Il riccio Riccardo

Allo stagno, dentro un nido ricavato sulla vecchia quercia, viveva un vecchio gufo. Nessuno degli altri animali avrebbe saputo dire con certezza quanti anni avesse, perchĂŠ tutti erano nati dopo di lui.

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Il gufo Pompeo – questo era il suo nome – era considerato l’animale più saggio dello stagno. Aveva una risposta pronta per tutto. «Pompeo, sarà un inverno freddo?» - «Pompeo, secondo te dov’è meglio costruire il nido per evitare che venga spazzato via dalla piena del fiume?» - «Pompeo guarirà mio marito dalla malattia?», queste e molte altre erano le domande che gli facevano continuamente gli animali. Pompeo un po’ stava a rispondere, appollaiato sul ramo davanti al suo nido, poi, infastidito dalle troppe domande rientrava nel suo buco scuotendo le piume e brontolando : «non si può stare in pace neanche un minuto per prendere una boccata d’aria!» Si dice – ma queste sono voci non confermate, tramandate da generazioni - che il nido di Pompeo, con quell’entrata così angusta, all’interno fosse molto spazioso e contenesse molti libri. Pare – sempre secondo le voci – che in gioventù il gufo fosse stato allevato dagli umani, in una villa vicina alla città ed avesse imparato a leggere. Come si fosse procurato i libri è un mistero, c’è chi dice – ma sono sempre voci – che una notte un carro pieno di libri diretto in città passasse vicino allo stagno e a questo carro si fosse rotta una ruota, facendo rovinare parte del carico sul ciglio della strada.

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Dice che allora Pompeo, che allora era un giovane gufo, avesse portato i libri abbandonati lì dagli uomini, andati a cercare aiuto, uno ad uno al nido e che poi si fosse chiuso a leggerli per anni. In qualunque modo stessero le cose Pompeo aveva una risposta pronta su tutto, bastava non insolentirlo con troppe domande. Alla prima domanda alzava un’ala grattandosela con la zampa, alla seconda domanda alzava le penne della testa come avesse avuto una cresta, alla terza domanda strizzava i grandi occhi gialli e alla quarta… bè alla quarta reagiva come abbiamo detto prima: rientrava nel suo buco scuotendo le piume e brontolando. Gli animali dello stagno quindi sapevano che avevamo al massimo tre domande quando dovevano chiedere qualcosa al gufo. Era diventato anche un modo di dire. Quando qualche animale poneva ad un altro una domanda difficile spesso questi rispondeva : «… e che ne so io! Chiedilo al gufo!». «Chiedilo al gufo» disse infatti quel giorno mamma Riccia a suo figlio, Riccardo. Il riccio Riccardo era il più piccolo della nidiata di mamma Riccia, contrariamente ai suoi fratelli, che andavano sempre nel bosco in cerca di lombrichi, Riccardo stava sempre alle costole di sua madre tempestandola di domande. Quel giorno le fece una domanda veramente strana : «mamma, mamma dove va il sole quando tramonta?». 61


«Oh diamine Riccardo… ma com’è che ti vengono in mente queste cose? Che vuoi che ne sappia io dove va il sole… andrà per i fatti suoi. Vai nel bosco a cercar lombrichi con i tuoi fratelli!» «Ma mamma, io sarei veramente molto curioso di sapere dove va il sole di notte, chi è che me lo può dire?» La mamma Riccia, presa dallo sconforto esclamò allora - «e chiedilo al gufo! E adesso vai dai tuoi fratelli che ho da fare» Il riccio Riccardo prese alla lettera l’esortazione della mamma e fu così che partì in cerca del gufo. Chiedendo agli animali che incontrava arrivò quindi sotto la vecchia quercia, trovando il gufo Pompeo appollaiato davanti al nido che si godeva una boccata d’aria fresca. Nessuno però aveva detto a Riccardo della faccenda delle tre domande e del brutto carattere del gufo, quindi si mise a gridare spavaldamente : «gufo, GUUUUFO!!!» Questi, infastidito da quello strepito, rispose : «cosa diavolo vuoi piccolo puntaspilli!» «Tu lo sai dove va il sole quando tramonta?» - gli chiese subito il riccio. Il gufo alzò l’ala, se la grattò con la zampa e rispose: «Il sole non è altro che una delle tante stelle, solo un po’ più vicina a noi, non è lui che va via, è la terra che ruotando su sé 62


stessa gli volta la faccia esponendo al sole un altro lato e lasciando al buio quello dove abitiamo noi» Al riccio Riccardo, a questa risposta, vennero in mente un milione di cose da chiedere al gufo, alla fine ne scelse una: «Gufo sapiente, ma il sole e le stelle e l’universo intero quanto sono grandi?» Il gufo alzò le penne della testa come avesse avuto una cresta e rispose: «Se l’intero stagno fosse tutto l’universo, un granellino della sabbia che hai sotto i piedi sarebbe tutto il mondo che puoi vedere e conoscere con i più potenti strumenti che abbiamo.» Il riccio si soffermò un bel po’ sulla risposta del gufo, rimanendo in silenzio per parecchio tempo, poi disse al gufo: «Se noi siamo solo un granellino di sabbia in confronto a tutto lo stagno non potremo mai arrivare a conoscere tutto, vedremo al massimo i granellini che stanno a noi vicini, ma non quello che sta sull’altra riva!» Il gufo questa volta non strizzò i grandi occhi gialli e rimase lui, adesso, in silenzio per parecchio tempo guardando il piccolo riccio. Infine gli disse: «Grazie ragazzo, oggi sei tu che hai insegnato a me una cosa molto importante.» «Cosa?» - rispose Riccardo. 63


«Che per quanto mi possa sforzare non arriverò mai a sapere tutto.» «Ma l’importante è… provarci vero?» - disse il riccio Contrariamente alle proprie abitudini alla quarta domanda il gufo non se ne tornò nel suo nido scuotendo le piume e brontolando, ma disse: «Sì, piccolo riccio, l’importante è provarci.» E da quel giorno, il riccio e il gufo divennero grandi amici. Li potevate trovare quasi tutte le sere, prima del tramonto, alla vecchia quercia vicino allo stagno, a parlare per ore, talvolta fermandosi in silenzio a fissare l’orizzonte come se cercassero di vedere almeno qualche granellino di sabbia più in là.

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Il luccio feroce

Nello stagno viveva un grosso e feroce luccio, il terrore dei pesci e degli altri animali acquatici. Il luccio non si vedeva spesso. Se ne stava in agguato, nascosto sotto il canneto, quasi tutto il tempo. 65


Alcune volte però l’acqua esplodeva all’improvviso, segno di un suo attacco ai danni di qualche malcapitata carpa o di qualche papera. In queste occasioni tutto lo stagno si ricordava improvvisamente dell’esistenza del luccio e gli animali scappavano da tutte le parti come impazziti. Poi, dopo il momento iniziale di paura, tutti gli animali, a poco a poco, si calmavano. Dapprima ognuno dedicava un pensiero alla vittima : “era una papera tanto educata…”, “povera carpa, morire così giovane…”. Poi alcuni pensavano: “e dire che poteva toccare a me! Se solo fossi passato di lì…”. Infine, sempre a poco a poco, lo spavento passava; ognuno tornava alle sue faccende e tutti si dimenticavano nuovamente del luccio. Luccio che intanto, dopo il pasto tanto atteso, si ritirava lentamente nel canneto, in fondo allo stagno, per fare un pisolino. Finché non avrebbe sentito nuovamente i morsi della fame e si sarebbe messo ancora in agguato, attendendo la prossima preda. Non lontano dallo stagno c’era una fattoria degli uomini. Questi vivevano coltivando grano sulle colline. Allo stagno si vedevano di rado, a volte passavano di lì vicino con il carro per prendere 66


qualche grappolo d’uva selvatica, ma per la maggior parte nel tempo se ne stavano a lavorare nei loro campi. Quell’anno però il raccolto fu molto scarso per le forti grandinate che avevano fatto strage delle spighe. Molti uccelli ne erano contenti perché trovavano per terra il loro pasto bell’e pronto, ma gli uomini della fattoria parevano non essere dello stesso avviso. Un tasso che era passato di là raccontava che la femmina degli uomini, piangendo, diceva che non avrebbe avuto cibo per sfamare i suoi piccoli e che avrebbero dovuto andare in città in cerca di lavoro se non avessero trovato un modo di sbarcare il lunario. Poco più tardi anche una volpe, che ogni tanto faceva un giretto per tenere d’occhio le galline della fattoria, riferì che gli uomini stavano preparando strani bastoni con un filo attaccato. Il giorno dopo queste voci trovarono conferma, quando gli animali videro arrivare un contadino allo stagno con questi strani bastoni. L’uomo si mise seduto all’ombra della vecchia quercia, prese uno di questi bastoni dalla cui estremità pendeva un filo che quasi non si vedeva, attaccò al filo un pezzo di ferro ricurvo e vi infilò un pezzo di carne di maiale. Quindi gettò il filo nello stagno e si mise pazientemente ad aspettare. Il contadino pareva non avesse attenzione che per quel suo bastone che fissava continuamente. Gli animali dello stagno 67


invece osservavano lui, al sicuro nei loro nascondigli, cercando di capire che intenzioni avesse perché, come si sa, degli uomini non c’è mai da fidarsi. Sotto lo stagno invece la vita continuava come sempre. Branchi di piccole alborelle guizzavano qua e là inseguite dai persici. Le carpe e le tinche brucavano pigramente il fondo in cerca di cibo. Quello era un periodo magro per il luccio. Il giorno prima aveva tentato due attacchi: uno a danno di una grossa carpa che però era troppo vecchia e furba per non accorgersi del movimento delle canne e si era dileguata in un lampo; l’altro a una papera che stava nuotando vicino alle canne che si era levata in volo poco prima che il luccio riuscisse a ghermirla. Il luccio sentiva il suo stomaco brontolare - “bisogna trovare al più presto qualcosa da mettere sotto i denti” – pensava, quando, all’improvviso, le sue fini narici percepirono un odorino delizioso. Si mosse quindi verso la sorgente di tale profumo, guidato dal suo naso e si trovò davanti un bel pezzo di carne che penzolava a mezz’acqua. Con la fame che si ritrovava non stette a farsi troppe domande sul perché e il percome un pezzo di maiale era finito proprio lì e, con un colpo di coda, si avventò sull’esca del contadino. Gli animali videro allora una scena insolita: il contadino attaccato al suo bastone tutto piegato che sembrava animato improvvisamente di vita propria. 68


Alla fine però la faccenda fu chiara, quando scoprirono che, attaccato al ferro ricurvo all’estremità del filo c’era proprio il feroce luccio che stava cercando di scappare tornando nel suo canneto. Ma l’uomo era più forte di lui, dopo una lunga lotta riuscì a trarlo fuori dallo stagno e adesso il feroce luccio giaceva sulla sponda boccheggiante. Il contadino, tutto felice e contento, prese il luccio, lo caricò sul carro, insieme ai sui bastoni, e si rimise in cammino verso la fattoria. Quando fu andato via tutti gli animali uscirono dalle loro tane. Non potevano credere ai loro occhi: il feroce luccio non c’era più. Finalmente erano liberi. L’intero stagno pareva in festa. I pesci facevano salti gioiosi fuori dall’acqua, le papere si divertivano a passare vicino al canneto gridando - «Luccio feroce ora sei tu che dovrai finire nella pancia di qualcun altro!» Poi. Lentamente, come sempre, la vita allo stagno tornò alla tranquilla normalità, ognuno tornò alle sue faccende e tutti si dimenticarono del luccio. Passarono però alcuni giorni quando, all’improvviso l’acqua dello stagno esplose all’improvviso e una papera che stava nuotando vicino al canneto sparì nel nulla.

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Gli animali scapparono da tutte le parti in preda al panico, poi, a poco a poco, si calmarono. Dapprima ognuno dedicò un pensiero alla vittima : “era una papera tanto gentile…”. Poi alcuni pensarono: “e dire che poteva toccare a me!”. Infine, ognuno tornò alle sue faccende e tutti si dimenticarono che nello stagno c’era un nuovo luccio.

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La libellula che voleva cantare

Allo stagno, le libellule erano ammirate come gli animali piÚ belli. Si potevano vedere librarsi nel primo sole del mattino che, con i suoi raggi ancora deboli, illuminava di arcobaleno i loro corpi mentre planavano leggere sull’acqua. 71


Parevano danzare, coperte di veli iridescenti, al suono di una musica che solo loro sentivano. Gli altri animali non potevano che ammirarne la naturale eleganza, sia in volo che quando, a volte, si fermavano sui bianchi fiori di ninfea. Parevano essere state create per essere ammirate. E loro lo sapevano. Infatti le libellule erano note per essere un po’ compiaciute della propria grazia e c’è chi dice, tra gli animali che le avevano osservate attentamente, che talora si fermassero in volo a mezz’aria sopra lo stagno per rimirare la propria figura riflessa nell’acqua. Tra loro però ve n’era una che non era felice. Si chiamava Lilli. Ma Lilli non era stata sempre infelice. Tempo addietro era come tutte le altre sue compagne: ammirata dagli altri e contenta delle doti che la natura le aveva donato. Poi, una mattina d’estate, mentre si librava a mezz’aria specchiandosi sull’acqua, all’improvviso udì un dolce canto. Era una melodia cristallina che sembrava disegnare nell’aria figure di filigrana d’oro e d’argento.

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Lilli si chiese da dove venisse tale meraviglia, volse in alto lo sguardo e vide un piccolo uccello sopra un ramo del salice che si protendeva sopra lo stagno. «Chi sei tu che hai una voce tanto soave e perché non ti ho mai sentito prima cantare?» - chiese all’uccello. «Sono un usignolo e mi chiamo Lorenzo, mi sono fermato in questo stagno per riposare prima di ripartire per il mio viaggio verso il sud, mia bella libellula.» «Quindi presto ripartirai e non sentirò più il tuo canto?» - disse Lilli. «Sì, riprenderò presto il mio viaggio. Oggi stesso. Ma prima voglio cantare ancora per te.» E l’usignolo intonò allora un canto struggente e delicato, mentre la libellula, che si era posata su un bianco fiore di ninfea, ascoltava incantata. Quando ebbe finito l’usignolo disse: «Adesso è tempo che mi rimetta in volo verso il sud, dove mi aspettano i miei simili, ma tornerò ancora a sostare presso questo stagno, agli inizi dell’estate, quando noi usignoli ci spostiamo verso il nord, dove il giorno è lungo e breve la notte.» «E anche allora ti fermerai per il tempo di un canto?» - gli chiese triste la libellula.

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«Sì, è questo il destino di noi usignoli: quello di viaggiare e di non fermarsi. E ognuno deve seguire il proprio destino, è stato bello incontrarti. » Lorenzo l’usignolo, dopo aver detto queste parole, spiccò il volo verso il sud. “Ognuno deve seguire il proprio destino” – pensò Lilli – “ma qual è il mio destino?” All’improvviso non era più contenta, né compiaciuta di ammirare il suo corpo illuminato di arcobaleno ai deboli raggi del sole del mattino. All’improvviso avrebbe voluto anche lei poter cantare come Lorenzo e saper produrre quei dolci suoni. All’inizio, per la verità, ci si provò, ma tra le doti che la natura aveva donato alle libellule non c’era purtroppo quella di una bella voce. Nel frattempo le giornate diventavano più corte e si approssimava l’inverno e Lilli, che pensava sempre al canto che a lei era negato, non si curava dell’arrivo dei primi freddi e non cercava riparo, come le sue compagne, tra i rami degli alberi. Una mattina, mentre la libellula era ferma su una canna a fissare tristemente lo stagno ghiacciato, venne scossa da un brivido di freddo.

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Il brivido le fece muovere involontariamente le ali che produssero un suono, un breve suono, come una nota di viola. Lilli ripeté il movimento più volte, questa volta intenzionalmente, e, come per magia, ogni volta il suono si ripeteva. Esercitandosi capì anche come modulare questo suono, ora più acuto ora più grave, a seconda se stringesse o allargasse i muscoli delle spalle. Presa dall’entusiasmo per la scoperta di questa qualità che non sapeva di avere dedicò giorni e giorni a raffinare quella tecnica finché fu in grado, con il battito delle ali, di riprodurre la melodia che aveva sentito cantare a Lorenzo. Le altre libellule non capivano il perché di tutto questo sforzo e le dicevano: «Noi libellule siamo state create per allietare la vista, non l’udito. Lascia che a questo pensino altri animali.» Ma lei non se ne curava, sentiva che riuscire a produrre quei suoni di viola, a cantare con le sue ali, era il destino che si era scelta. E divenne brava, molto brava. Gli animali dello stagno non si fermavano ora solo per ammirare il suo corpo illuminato di arcobaleno ai deboli raggi del sole del mattino, ma anche per ascoltare quel canto che proveniva dalle sue ali. 75


L’inverno passò e le giornate cominciarono a farsi più calde. Sullo stagno tornarono le ninfee su cui si posavano le libellule. Un giorno, mentre Lilli si stava scaldando ai primi raggi del sole su un bianco fiore di ninfea, si sentì di nuovo un canto. Lilli, questa volta sapeva di chi era. Volse in alto lo sguardo e vide Lorenzo cantare sopra un ramo del salice che si protendeva sopra lo stagno. Prese allora anch’essa ad accompagnare la melodia con il contrappunto di note di viola che proveniva dalle sue ali. L’intero stagno si fermò incantato ad ascoltare Lorenzo e Lilli che eseguivano quella musica finché, terminata l’esecuzione, la libellula domandò all’usignolo: «Ripartirai presto?» «No. Questa volta mi fermerò qui.» - rispose lui. «E il tuo destino?» - chiese lei. «Grazie a te il mio destino è cambiato.» - disse. Da quel giorno Lilli, la libellula che voleva cantare, si posava ogni mattina, con il suo corpo illuminato di arcobaleno ai deboli raggi del sole, sul ramo del salice che si protendeva sopra lo stagno finché non giungeva Lorenzo e insieme intonavano un canto che allietava il cuore di tutti gli animali.

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Betta la civetta

Di notte allo stagno non tutti gli animali riposano nelle loro tane. I toporagni, proprio quando spunta la Luna, nelle notti d’estate, escono per cacciare gli insetti di cui si nutrono, ed è proprio allora che si mettono in caccia anche i rapaci notturni per far delle belle scorpacciate di questi animaletti. 77


Prima di iniziare la caccia ai toporagni, il gufo Pompeo, Rocco l’allocco, Nanni il barbagianni e Betta la civetta avevano l’abitudine di riunirsi a chiacchierare un po’ su un ramo del vecchio Olmo In queste riunioni, di solito, uno di loro, spesso il gufo, rispettato da tutti per l’età e la saggezza, introduceva l’argomento del dibattito. Quella volta, il gufo Pompeo disse agli altri: «cari amici e illustrissimi colleghi, questa sera sottopongo alla vostra attenzione e discussione un argomento assai importante, parliamo del modo migliore per cacciare i toporagni.» Non aveva ancora finito di annunciare il tema che iniziò l’allocco con fare pomposo: «Onorevolissimi colleghi, dopo lunghi anni di attento esame delle varie tecniche, la mia esperienza mi porta ad affermare che per cacciare i toporagni il modo migliore sia senz’altro l’agguato, al riparo dei rami, aspettando che la preda passi sotto l’albero per piombare su di essa da breve distanza.» «Spiace contraddire un così illustre collega» - rispose nello stesso tono il barbagianni - «tuttavia, la mia non piccola attività venatoria mi porta a sostenere ineffabilmente che sia senz’altro da preferire l’attacco in planata dopo un volo di ricognizione.» «Il signor barbagianni, per quanto rispettabilissimo» - ribatté piccato l’allocco - «espone una tesi ormai superata, tutti noi 78


possiamo constatare come i toporagni di questo stagno si siano fatti ormai troppo furbi per recarsi in spazi scoperti e cadere vittima di attacchi in planata» «Ah beh… spiace dirlo» - rispose il barbagianni - «ma l’illustrissimo allocco questa sera sembra un poco azzardato nei suoi giudizi. Nessuno, sano di mente può mettere in dubbio la validità di una buona planata!» Nel frattempo Betta la civetta si allontanava tornando sul ramo poco tempo dopo, senza che nessuno notasse la sua breve assenza. Appena in tempo perché, vedendo che gli animi si scaldavano intervenne il Gufo a moderare la discussione dicendo: «Calma, calma cari colleghi. Sentiamo cos’ha da dire anche la civetta.» Betta rispose: «Mmmh… niente, sono ammirata della sapienza di voi colleghi e vorrei ancora sentire i vostri argomenti.» L’allocco e il barbagianni ripresero quindi il battibecco, con toni sempre più accesi. «Caro barbagianni dei miei stivali» - cominciò l’allocco con modi già più rudi - «lo so che l’acume non è una delle migliori qualità della vostra razza, però anche con le tue limitate risorse dovresti aver notato che non si vede un toporagno all’aperto da mesi.» 79


Il barbagianni, a questo “colpo basso” gonfiò tutte le piume, irritato e controbatté: «Eh già, adesso è venuto il tempo in cui gli allocchi si fanno professori nell’arte della caccia!» Nel frattempo, Betta la civetta era di nuovo sparita e tornata, senza che gli altri tre, impegnati nella discussione, se ne accorgessero. Il dibattito intanto aveva assunto toni sempre più aspri tra l’allocco e il barbagianni, tanto che il gufo ancora intervenne: «Amici, amici, non è il caso di scaldarsi così. Vi prego di mantenere la discussione in toni più pacati. Ma sentiamo ora cos’ha da dire la civetta.» «Mah… ancora niente» - disse Betta - «sono curiosa degli argomenti che stanno così profondamente sviluppando i miei colleghi, è ancora presto per intervenire, ascolto.» I suoi colleghi a lei neanche badavano. «Asino di un asino!» - stava dicendo Rocco l’allocco a Nanni il barbagianni – «anche un pulcino capirebbe che volteggiando sopra il prato i toporagni, ormai scaltri, sparirebbero in un baleno e planando ti troveresti tra le zampe solo un bel ciuffo d’erba del prato!» «Caprone di un allocco» - rispondeva l’altro - «te ne staresti dunque tutta la notte appollaiato ad aspettare un toporagno 80


distratto quando, volando, puoi spaziare su tutto lo stagno e tenerne d’occhio centinaia per individuare la preda da ghermire?» Betta la civetta, intanto, era ancora scomparsa e ritornata al ramo, senza che nessuno facesse caso a lei. Sul ramo adesso, a poco a poco, l’argomento di discussione era passato in secondo piano e l’allocco e il barbagianni stavano scendendo sempre più sul piano dell’insulto vero e proprio. «Sciocco planatore di un barbagianni! Ignorante delle regole più elementari di caccia!» «Stupido allocco! Da quando in qua un allocco ha da insegnare qualcosa a un barbagianni?» La disputa continuò così ancora per un bel pezzo. «Mmmh…» - fece la civetta che intanto era appena rientrata da un altro dei suoi “giri” misteriosi. A questo punto i due litiganti e il gufo, che stava cercando di calmarli, si ammutolirono guardando incuriositi la civetta, che ancora non si era mai pronunciata. «Mmmh…» - ripeté ancora la civetta. «Cara Betta, vuoi dire qualcosa? Ti sei fatta finalmente anche tu un’opinione sul modo migliore per cacciare i toporagni?» - disse allora il gufo. Betta la civetta allora parlò: 81


«Carissimi, delle tecniche di caccia che avete illustrato con così profonda dovizia di particolari non saprei dire qual è la migliore, se l’agguato o il volo planato. » «Tuttavia vi vorrei far notare che mentre eravate impegnati nella discussione così animata i toporagni scorrazzavano tranquillamente sotto di noi a centinaia.» «Adesso, come potete vedere, già comincia a sorgere il sole sullo stagno e i toporagni sono già rientrati nelle loro tane e le vostre pance sono vuote.» Gli altri si guardarono intorno e si accorsero che era vero: i primi raggi dell’alba già illuminavano lo stagno e loro, impegnati a litigare, erano rimasti a bocca asciutta e il loro stomaco già cominciava a protestare. «Per parte mia» - continuò la civetta - «mentre discutevate con tale dottrina e fervore, di tanto in tanto, ho catturato qualche toporagno, tendendo agguati o planando non importa, il fatto è che adesso io non ho più fame, mentre voi sì.»

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Il Ragno Giocondo

Tra gli insetti dello stagno i piÚ abili erano senz’altro i ragni. Con le loro zampette tessevano, tra i rami degli alberi, argentee ragnatele che avevano le forme piÚ belle che si potessero ammirare tra le opere degli animali.

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Al mattino poi, nelle giornate più fresche, la rugiada faceva splendere quei ricami, facendo quasi dimenticare la loro natura di strumenti di morte. Non se lo dimenticavano però gli altri insetti: mosche, api e farfalle che giravano al largo dalle fronde degli alberi per non incappare in queste trappole. Anche se, naturalmente, di tanto in tanto, un’ape in ritardo con la consegna del nettare in cerca di una scorciatoia per l’alveare o una mosca accecata dal sole o ancora una farfalla distratta, incappava in queste trappole e diventava premio per la pazienza del ragno che tanto aveva aspettato il suo pasto. Così almeno si svolgeva l’esistenza della maggior parte dei ragni. Ma ce n’era uno, il ragno Giocondo, che non era capace di tesser tele. Beh, dobbiamo dire che d’impegno ce ne metteva tanto! Ogni mattina, sperando fosse la volta buona, si attaccava a un ramo e cominciava a filare la seta. Quello che ne veniva fuori però era un groviglio informe, il più delle volte con lui stesso in mezzo che si dibatteva furiosamente per venirne fuori. Ben presto ragno Giocondo era diventato l’involontaria attrazione degli altri insetti, che si divertivano un mondo a vederlo penzolare dal suo ramo preda della sua stessa rete. 84


Le più fastidiose spettatrici di Giocondo erano le belle farfalle multicolori che si prendevano gioco di lui dicendo alle loro compagne : «Venite, venite pure! Su questo ramo che non c’è pericolo, qui c’è il ragno Giocondo, al massimo rischierete di morire dal ridere!» Gli altri ragni non vedevano di buon occhio quel pasticcione, raramente gli rivolgevano la parola e, quando lo facevano era per rimproverarlo: «sei la vergogna della nostra razza! Se continui così tutti noi diverremo a causa tua lo zimbello dello stagno!» Il povero Giocondo cosa poteva farci? Non era nato per fare l’architetto di ragnatele e ben se ne accorgeva dal rumore della sua pancia perennemente vuota. Se non fosse perché ogni tanto trovava qualche insetto morto di vecchiaia sarebbe stato bello che stecchito. Ma purtroppo gli insetti raramente morivano di vecchiaia, e quelli che lo facevano, avevano ancor più raramente il buon gusto di farlo in luoghi dove Giocondo potesse trovarli. Un giorno in cui Giocondo, come al solito, penzolava dal ramo aggrovigliato nella sua stessa tela accadde però un fatto strano. Attorno a lui, c’era il solito gruppo di farfalle che lo schernivano quando… Zac! Sparisce una farfalla dopo l’altra. Stupito, Giocondo, riuscito nel frattempo a trarsi fuori dal groviglio, capì la causa di queste misteriose sparizioni. 85


Una rondine, avendo avvistato quel bel gruppo di farfalle vi si era precipitata in mezzo facendone strage. «Ehi amica!» - disse il ragno alla rondine - «Se oggi hai trovato un pasto così abbondante è merito mio eh? Quelle farfalle erano lì grazie a me.» «Quel che è giusto è giusto» - esclamò la rondine e lasciò cadere vicino a Giocondo tre farfalle morte. Il ragno poté finalmente sfamarsi dopo tanta carestia. Non si mangiò però tutte le farfalle: pensando che presto la fame sarebbe tornata, ne nascose due in un buco del tronco dell’albero. La storia si ripeté il giorno dopo. Anche allora le farfalle si erano riunite intorno al ragno penzolante dal ramo nella sua buffa posizione e anche allora la rondine, che nel frattempo aveva chiamato anche una sua amica, fece incetta di farfalle lasciando, lei e la sua amica, questa volta sei farfalle al ragno. E fu così anche per ogni giorno successivo. Tutti i giorni Giocondo metteva in scena il suo circo e tutti i giorni venivano sempre più farfalle e sempre più rondini. Il ragno a questo punto aveva accumulato un bel numero di farfalle nel buco del tronco. Gli altri ragni tuttavia lo guardavano ancora con disappunto: “bel modo era quello di guadagnarsi il pasto!” 86


Una notte però sullo stagno si abbatté una violenta tempesta, con grandine e acqua a catinelle. Le tele dei ragni, tese tra i rami furono tutte distrutte da pioggia e vento. Grande disperazione si diffuse tra i ragni: per ricostruire le ragnatele ci sarebbero voluti molti giorni e nel frattempo come si sarebbero procurati il cibo? Fu allora che tra i ragni, riuniti in consiglio, qualcuno si ricordò di Giocondo e del suo buco pieno di farfalle. Senza stare a farsi troppe domande sulla provenienza di quel cibo una delegazione si presentò allora da Giocondo. «Carissimo amico!» - esordì il capo della delegazione dei ragni «Solo la tua generosità potrà salvare la nostra comunità in questo triste frangente.» “Carissimo?” – pensava Giocondo – “Generosità?” «Siamo sicuri che vorrai condividere con noi, colpiti da tale disgrazia, qualche briciola del tuo cibo.» - continuò il capo. “Condividere? …qualche briciola? …per loro?” «Non per noi, ma per i piccoli ragnetti» - disse quasi piagnucolando il capo. “Ah… se è per i ragnetti…”

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Per farla breve in quattro e quattr’otto schiere di ragni formarono una catena per andare ad approvvigionarsi al buco di Giocondo e di farfalle dopo poco non ne rimase neanche una. Dopo qualche giorno le ragnatele furono ricostruite, i ragni poterono ricominciare a cacciare e a mangiare, e Giocondo… beh, Giocondo per tutti loro era tornato ad essere “quel buffone” che disonorava la categoria. “Mah! Per fortuna le farfalle hanno vita breve” – pensava il ragno Giocondo mentre costruiva nuovamente la sua goffa tela procurando di avvilupparsi ben bene con il filo per parere più buffo – “in questo modo ci saranno sempre nuove farfalle che verranno a vedere lo spettacolo e le rondini le cacceranno lasciando il loro obolo.” E così, pensando alla breve vita delle farfalle e a quella della gratitudine si rimise a penzolare dal ramo aspettando altre farfalle e altre rondini.

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Filippo la Gazza

C’era, presso lo stagno, un bel maschio di gazza dalle penne nere e lucenti di nome Filippo. In previsione di trovar moglie e metter su una bella nidiata Filippo pensò di fare il nido sui rami di un vecchio rovere.

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Aveva iniziato raccogliendo i rametti secchi dal prato e impastarli con il fango del torrente. Rametto dopo rametto aveva costruito un bel nido, grande come un cesto da frutta. «Hai finito quel nido?» - gli chiedevano i conigli quando planava sul prato a prendere qualche stecco. «Ancora no… quasi.» - rispondeva lui. «Quanto ti manca a finire il nido?» - gli chiedevano anche le papere, quando si recava a raccogliere un po’ di fango dalla riva. «Ancora un po’… è quasi finito, ma vorrei farlo ancora più grande» - diceva Filippo. Ma questi viaggi non finivano mai. Filippo non era contento del nido, gli pareva sempre troppo piccolo o troppo basso o troppo… o poco… sì insomma, c’era sempre qualcosa da migliorare. Ad un certo punto il nido era divenuto talmente grande da occupare buona parte della chioma del vecchio rovere. La gazza decise allora che sì… poteva andare. Si mise quindi a percorrere il nido in lungo e in largo pensando: “con una dimora come questa non mi mancheranno certo le pretendenti! Ci potrebbero stare comodamente venti nidiate!” Però ad un tratto si fermò a riflettere - “certo che… il pavimento così ruvido… con questi rametti sporgenti… i piedi dei pulcini si potrebbero ferire.”

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Fu così che pensò di ricoprire il pavimento del nido con quei sassi piatti e lisci che si trovano sul greto del fiume, vicino allo stagno. E ricominciarono i viaggi dal nido al fiume e dal fiume al nido. «Hai finito con quel nido?» - gli chiedevano i tassi che alla sera andavano a fare il bagno nel fiume. «Ancora no… quasi.» - rispondeva lui. «Quanto ti manca a finire il nido?» - gli chiedevano anche i castori che costruivano la diga. «Ancora un po’… è quasi finito, ma vorrei farlo ancora più accogliente» - diceva Filippo. Finalmente, molti e molti viaggi dopo, il pavimento del nido era tutto coperto di sassi piatti e levigati, incastrati così bene l’uno con l’altro che sembravano un mosaico. Filippo, tutto contento, percorreva avanti e indietro il suo magnifico nido, soddisfatto della sua opera. Camminando pensava: “Un nido così non si è mai visto a memoria di gazza! Le femmine faranno la fila per venire a stabilirsi qui. Non è escluso che possa prendere in moglie la più bella gazza dello stagno.” Però ad un tratto si fermò a riflettere – “certo che… le pareti del nido sono proprio brutte così, spoglie e disadorne… alle femmine non piaceranno per niente.”

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E allora si disse che c’era una sola cosa da fare: ricoprire le pareti del nido con il gesso bianco che si trovava alla collina. Questa volta i viaggi furono ancor più lunghi visto che la collina si trovava parecchio lontano dallo stagno. Per di più il viaggio non era privo di rischi: nel bosco vicino alla collina viveva infatti un gruppo di volpi che non aspettava altro che una bella gazza per pranzo. Ed infatti, un paio di volte Filippo andò vicino a finire in pancia a una volpe. A salvarlo fu solo il fatto che il pelo rosso delle volpi spiccava con evidenza sul bianco del gesso e quindi, all’ultimo momento, con la coda dell’occhio poteva scorgere il pericolo e levarsi in volo. Nel frattempo la primavera, appena iniziata quando Filippo aveva cominciato a costruire il suo nido, era ormai in pieno fulgore e già le giornate cominciavano a farsi più calde. I ciliegi e i mandorli erano pieni di fiori e c’era un gran fermento tra tutti gli uccelli dello stagno che formavano le coppie che avrebbero dato vita alle nuove nidiate. Dovunque si potevano udire i canti e ammirare i balli dei corteggiamenti delle tante specie di volatili. E così era anche tra le gazze; i maschi avevano già da un pezzo terminato i loro nidi e sui rami fioriti ingaggiavano gare per mostrare alle femmine le loro doti. 92


Piano piano ogni maschio di gazza trovava la sua compagna alla quale orgoglioso mostrava il nido che presto si riempiva delle grida stridule dei pulcini che reclamavano il pasto. Filippo neanche si accorse di quanto accadeva, dopo tanti viaggi finalmente era riuscito a ricoprire col gesso tutte le pareti del nido ed ora poteva ammirare la sua opera in tutto il suo splendore. Nondimeno continuò ancora per parecchio tempo a completare il nido con decorazioni che lui riteneva essenziali. Alla fine, esausto per quell’opera, ritenne che finalmente si poteva considerare terminata. “Bene” – pensò Filippo – “ a questo punto cosa rimane da fare? Ah, certo! Quasi dimenticavo… trovare una compagna, naturalmente!” Si lisciò allora le sue penne lucenti, si mise davanti al suo bellissimo nido ed iniziò il canto per richiamare le femmine. Cantava cantava, ma nessuna femmina dava segno di vita. Passò così alcuni giorni a cantare sul ramo, ma sempre senza successo. Gli animali che avevano nidi e tane intorno al vecchio rovere non ne potevano più di tale baccano, tanto più che la primavera era ormai passata da un pezzo ed era rimasta solo quella gazza a starnazzare impedendo i pisolini pomeridiani. 93


In una riunione per decidere il da farsi fu scelto allora il gufo come rappresentante di tutti per andare a far smettere quella gazza. Il gufo andò da Filippo e gli disse: «Si può sapere cos’hai da cantare tutto il santo giorno?» «Oh bella! Come cos’ho? Non hai mai sentito il canto di corteggiamento di una gazza?» - rispose lui. «Certo che l’ho sentito! Ma non in piena estate! Non c’è femmina di gazza che non abbia ormai da un pezzo trovato il suo compagno e non abbia la sua bella nidiata!» A queste parole Filippo ammutolì... ...con grande sollievo per i suoi vicini!

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L’inverno nello stagno

“Era venuto l’inverno nello stagno. Una lastra di ghiaccio si era formata sulla superficie dell’acqua mentre la neve scendeva lieve ricoprendo, a poco a poco, gli alberi e i prati.” “C’era silenzio.”

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“Anche il ticchettio del picchio che scavava col becco il tronco della vecchia quercia era adesso come il suono di un pianoforte in sordina.” “Tutti gli animali stavano al riparo dal freddo nelle loro tane.” – pensava Giacomo - e, mentre pensava, guardava scendere, sulle case grigie della città grigia, la stessa neve che scendeva sullo stagno. Seduto vicino alla finestra della sua camera aveva sulle ginocchia un vecchio libro, con figure ormai sbiadite dal tempo. La mamma gli aveva detto che quel libro le era stato donato da suo padre quando lei era ancora bambina. Se lo ricordava ancora, il nonno, con i grossi baffi bianchi e la pipa in bocca, quando la domenica lo portava a fare le passeggiate vicino al fiume e gli parlava degli animali. La mamma gli raccontò che una sera di tanto tempo fa il nonno era tornato, dopo molti anni, da un paese lontano, su al Nord, dove faceva sempre freddo, la strinse in un forte abbraccio e le donò questo libro trovato in un vecchio mercato. Nel libro c’erano poche parole, del resto Giacomo non le capiva perché erano scritte in una lingua straniera, ma non importava, quello che a lui interessava erano le figure: pagine e pagine di figure degli animali dello stagno. Erano animali che Giacomo non aveva mai visto. 96


Dalla sua camera, affacciandosi alla finestra vedeva solo case, case grigie nella città grigia. Solo qualche volta, quando pioveva forte, qualche piccione si riparava sul suo davanzale. Lui stava tutto il tempo a guardarlo, al dì là della finestra chiusa e appannata, mentre quello stava là fuori, libero di volare, di andare, se voleva, a cercare uno stagno. Ma il piccione non se ne andava, stava lì come una statuetta di ceramica, finché non smetteva di piovere. Solo allora il piccione si dava una scrollatina alle piume inzuppate d’acqua e volicchiava fino al lampione, si accertava che non passasse nessuno e scendeva sul marciapiede, vicino alla fermata dell’autobus, a beccare qualche briciola di pane. I piccioni fanno sempre così; possono volare, ma in realtà sembra che non abbiano molta voglia di farlo. Proprio quando qualche macchina è lì lì per investirli allora, quasi con fastidio, fanno un voletto per togliersi dalla strada, ma è solo per andare qualche metro più in là, sul marciapiede o sul lampione. Mai che Giacomo avesse visto un piccione che volava alto, sopra le case grigie, sopra la città grigia, per cercare uno stagno. Altre volte, dalla finestra della sua camera, aveva visto dei gatti dal pelo sporco e arruffato. Stavano vicino al bidone dell’immondizia, accanto al ristorante in fondo alla strada. 97


Quando uno sguattero buttava via gli avanzi saltavano fuori a litigarsi, a furia di morsi e graffi, una testa di pesce o degli ossi di pollo. I gatti avrebbero potuto correre o anche semplicemente camminare, lontano, via dalle case grigie, dalla città grigia, a cercare uno stagno; mai che Giacomo, tuttavia, avesse visto un gatto salire sui tetti e da lì, di tetto in tetto, fuggire lontano. Gli animali che conosceva erano quelli: piccioni e gatti, anch’essi grigi come le case e come la città. Però aveva il libro, il libro di suo nonno, pieno di figure di animali. Aveva dato loro un nome, e aveva dato loro un mondo: lo stagno. Nelle figure parevano seri e compunti, che ti guardavano quasi seccati che tu li avessi disturbati nella loro posa, ma Giacomo li immaginava vivi nella loro vita di tutti i giorni: il castoro con la sua diga; i tassi, i conigli e lepri sui prati; il riccio curioso che conversava col gufo e la civetta che cacciava i toporagni; la libellula che cantava con l’usignolo e il corvo, la gazza, le papere e i tanti altri che animali dello stagno. Affacciato alla finestra Giacomo vedeva le automobili che passavano sulle strade della città grigia. Un po’ gli assomigliavano: anche loro avevano le ruote. Beh… non è che lui avesse proprio le ruote… ci stava seduto sopra. 98


A differenza sua però le automobili potevano correre, scappare dalla città grigia, dalle case grigie per andare a cercare uno stagno, ma - come i piccioni e i gatti – anche loro non lo facevano mai: vedeva sempre le stesse automobili, la mattina andare in una direzione, la sera in quella opposta. Però aveva un libro, il libro di suo nonno, pieno di figure di animali. Non poteva volare come i piccioni, non poteva saltare sui tetti come i gatti e neanche sfrecciare con le ruote sulle strade come le automobili. Ma poteva guardare il cielo. Il cielo è lo stesso cielo sopra la città e sopra lo stagno, quindi guardando il cielo poteva pensare allo stagno. Sfogliando in libro che gli aveva dato la mamma, che l’aveva avuto in dono dal nonno, creava il suo stagno, dove vivono buffi animali che parlano. Ma ora era inverno sulla città grigia e scendeva la neve sulle case grigie. Era freddo e stava arrivando la notte. Era tempo di chiudere il libro e andare a dormire, tanto anche allo stagno era venuto l’inverno; una lastra di ghiaccio si era formata sull’acqua e gli animali stavano al riparo dal freddo nelle loro tane. Non ci sarebbe stato niente da raccontare, nessun mondo da creare. Fino a domani. Giacomo ripose il libro sul comodino e portò la carrozzina vicino al letto, ci si infilò e si ricoprì ben bene con le coperte, la mamma sarebbe rientrata più tardi dal lavoro, come ogni sera e, come 99


ogni sera, si sarebbe affacciata sulla porta della sua camera, credendo che dormisse, e gli avrebbe dato un bacio leggero. Poi‌ poi si sarebbe addormentato e domani avrebbe nuovamente creato un mondo‌ nel suo mondo.

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...prosegue dalla prefazione

Hai voglia a crescere, maturare e invecchiare: le storie che somigliano a favole, quando le incontri, ti costringono a fermarti e ti vibrano dentro come fossero antichi richiami. Qualunque sia l'età che hai, quella che dimostri, quella che hai deciso di recitare o di inventarti, le favole ti trasportano indietro nel tempo e ti costringono a guardare il mondo con occhi nuovi. È successo anche a voi, leggendo le Storie dello Stagno, di entrare in uno spazio in cui il tempo ha perso cadenza, ritmo e significato? Eppure il Tempo era lì, presente, assolutamente tangibile. E mentre leggevamo le storie di Fosca, di Giuliana, di Ugo e Sebastiano ci è stato impossibile non riconoscere in loro i vezzi, le cadute e la bellezza di cui l’uomo è capace. E tutto questo al di là e al di sopra del Tempo e dello spazio Abbiamo incontrato Fosca, la mosca il cui irriducibile desiderio era quello di vedere la sua specie prendere il potere dello Stagno; e Sebastiano, il Gabbiano predicatore, col bisogno di esercitare un potere personale attraverso la superstizione, la paura e la sottomissione; e il Luccio la cui violenza lo degrada al punto da non meritare un nome (proprio come il serpente che sottovaluta la voglia di vivere di Rodolfo lo scoiattolo). Li abbiamo incontrati vicino allo Stagno e non ci sono piaciuti! Perché li conoscevamo già. Perché qualcuno di loro – con sembianze diverse e umane – nella nostra vita ci è entrato di prepotenza. Li abbiamo visti, magari travestiti da uomini, inventarsi falsi dei e false mitologie per farsi adorare e obbedire, o li abbiamo visti riunirsi in gruppo e pretendere (proprio come le mosche delle Stagno) di essere migliori in virtù della loro nascita, o del colore della loro pelle, o della loro lingua, del loro “appartenere a…”. No, non ci sono piaciuti. Ma dentro una favola siamo stati capaci di pensarli sconfitti e di immaginare di poterli neutralizzare. Lì, in quel tempo sospeso e in quello spazio ideale, possiamo guardare attraverso lo specchio la persona che vorremmo essere, il Grande che vorremmo veder crescere. Possiamo scavare un solco che divida il bene dal male, ciò che è giusto da quello che è sbagliato. A questo serve una storia che diventa favola. A farci essere migliori quando soffriamo con Pino, che non si rassegna ad essere coniglio e sfida se stesso per assomigliare ad un leprotto; ma incontra la cattiveria di chi non sa cosa significa “sognare”. Ci intenerisce Martino il porcospino e la sua paura di essere ferito e non lo troviamo troppo “fifone” ripensando a noi stessi e a quando la paura ci si è rivoltata contro facendoci del male. E siamo fieri di Betta, la saggia civetta che riscatta il mondo femminile dalla barbosa tracotanza dei “saggi”; anche della Libellula Lilli che impara a cantare per amore della

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musica anche se la natura non lo ha previsto. Ci piace l’allegra consapevolezza del ragno Giocondo che sorride a dispetto dell’ingratitudine e del superficiale egoismo. Ci siamo persi in questo Stagno che è diventato lo specchio per riconoscere e riconoscersi. E li abbiamo riconosciuti tutti quanti gli animali che lo hanno popolato. Ci siamo persi per ritrovarci in loro. Ed è stato bello! Quello che non sapevamo, e che solo all’ultimo ci è stato rivelato, è che avremmo viaggiato dentro il sogno di un altro. Dentro la pura immaginazione di chi vorrebbe camminare, correre, volare, incontrare… ma non lo può fare, e insegna a noi a vivere oltre i confini del conosciuto.

Laura Occhini Docente di Psicologia dello Sviluppo
 Università di Siena

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Crediti Le immagini degli animali sono tutte tratte da vecchie stampe dell’800 riprese da siti web che le hanno pubblicate con Public Domain Rights, tra cui cito e ringrazio: • thegraphicsfairy.com • vintageprintable.swivelchairmedia.com • commons.wikimedia.org L’ultima immagine è stata realizzata da Athos Boncompagni www.athosboncompagni.com Ringrazio anche Laura Occhini per la bella pre/postfazione e tanti altri amici che, sia su Facebook che fuori, hanno contribuito con osservazioni e suggerimenti a migliorare questo lavoro.

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Ringraziamenti Beh, prima di tutto ringrazio te, lettore, per la pazienza che hai avuto ad arrivare fino a qui. Spero non ti sia annoiato troppo e abbia trovato magari anche qualche spunto interessante nelle Storie. Poi devo ringraziare la carissima Laura Occhini per la (non) prefazione e la conclusione - quando l’ho letta mi son detto: ma davvero le ho scritte io queste storie? L’ultima storia, come avete visto. è un po’ particolare, sono stato molto incerto sul pubblicarla o meno, le perplessità erano più che fondate razionalmente. Qui voglio ringraziare particolarmente mia sorella Ilaria, la suddetta Laura Occhini e l’amico Fabio Vannoni che mi hanno fatto capire come leggerla con gli occhi “del bambino che è in noi”. Ringrazio poi tutti gli amici che su Facebook (qualche volta serve anche lui) hanno sostenuto questo lavoro. E anche a chi ha contribuito con le sue osservazioni a farmi riflettere.

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Un bacio infine a mia moglie Loretta e a mia figlia Martina alla quale sono in parte debitore della vena “favolistica� che risale ai tempi della sua infanzia. Francesco Smelzo

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